The wonders still awaiting

di Abby_da_Edoras
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1: The wonders still awaiting ***
Capitolo 2: *** Cap. 2: With the hurt ***
Capitolo 3: *** Cap. 3: In the dark ***
Capitolo 4: *** Cap.4: Take me away ***
Capitolo 5: *** Cap. 5: Worlds apart ***
Capitolo 6: *** Cap. 6: Blurry ***
Capitolo 7: *** Cap. 7: Moth to a flame ***
Capitolo 8: *** Cap. 8: I am free ***
Capitolo 9: *** Cap. 9: Darkest days ***
Capitolo 10: *** Cap. 10: Trustfall ***
Capitolo 11: *** Cap. 11: Hello heartache ***
Capitolo 12: *** Cap. 12: Hate me ***
Capitolo 13: *** Cap. 13: Adrenaline ***
Capitolo 14: *** Cap. 14: Scent of dye ***
Capitolo 15: *** Cap. 15: Watergun ***
Capitolo 16: *** Cap. 16: Don't walk away ***
Capitolo 17: *** Cap. 17: Vertigo ***
Capitolo 18: *** Cap. 18: Too much water ***
Capitolo 19: *** Cap. 19: A thousand letters ***
Capitolo 20: *** Cap. 20: My curse is my redemption ***
Capitolo 21: *** Cap. 21: Luna my darling ***
Capitolo 22: *** Cap. 22:I can break my heart myself ***
Capitolo 23: *** Cap. 23: Bridges ***
Capitolo 24: *** Cap. 24: The truth ***
Capitolo 25: *** Cap. 25: Soldier ***
Capitolo 26: *** Cap. 26: Whatever it takes ***



Capitolo 1
*** Cap. 1: The wonders still awaiting ***


THE WONDERS STILL AWAITING

Cap. 1: The wonders still awaiting

 

You will guide my way back from here
Where I lost my old dream
Come, you whisper silently into my ears
To Neverworld again

Fly far away
Goodbye, until your last day
See the stars, hear the melodies play
The notes that show us the way

Once we were traveling places
Now we'll discover some new lands

Hold me, embrace me, come take me away with you
Lead me and show me the wonders beyond…

(“The wonders still awaiting” – Xandria)

 

I soldati della Compagnia Charlie, Secondo Battaglione dei Rangers, guidati dal loro capitano, John Miller, erano riusciti a trovare il soldato James e a portarlo al sicuro a Granville, dove era stato trasferito il quartier generale delle forze Alleate e, durante questa missione disperata, avevano perduto solo uno dei loro compagni, il soldato Adrian Caparzo, che era rimasto ucciso tentando di mettere in salvo una bambina in un villaggio francese. Ryan, tuttavia, aveva rifiutato di tornare a casa anche dopo aver saputo della morte di tutti i suoi fratelli in battaglia: aveva insistito per combattere con la sua unità a Ramelle e, così, anche Miller e i suoi si erano uniti a ciò che restava della Compagnia del giovane e avevano difeso strenuamente il ponte dall’offensiva tedesca, finché non erano arrivati i rinforzi sotto forma di cacciabombardieri P-51 Mustang, carri armati Sherman e un buon numero di soldati e i pochi tedeschi sopravvissuti erano stati fatti prigionieri. I comandanti avevano ringraziato Miller e i suoi per aver compiuto la missione e avevano insistito perché Ryan, a quel punto, facesse i bagagli per tornare a casa, ma ancora una volta il ragazzo li aveva stupiti.

“Io non torno a casa, con tutto il rispetto, signore” aveva detto in tono deciso. “La guerra è ancora lunga e tanti soldati sono morti, non ho nessuna prerogativa speciale rispetto agli altri. Se proprio insistete, partirò, ma solo e soltanto se anche questi uomini avranno il permesso di tonare alle loro case. Hanno rischiato la vita per venire a cercarmi e quindi meritano questo privilegio più di me.”

Così dicendo, Ryan aveva indicato con un gesto eloquente Miller, Horvath, Reiben e tutto il gruppetto della Compagnia Charlie.

Che potevano fare, dunque? Gli ordini del Generale Marshall erano chiari, ma lui non aveva parlato con Ryan e non aveva visto la sue determinazione. Il ragazzo non sarebbe partito senza i suoi nuovi compagni ma, del resto, era già difficile trovare il modo per rimpatriare lui con la guerra che continuava su altri fronti e la scarsità di mezzi e rifornimenti, trovare il modo di mandare a casa altri sei Rangers, tra cui un capitano esperto e saggio come John Miller, era una follia.

Alla fine era stato stabilito un compromesso: Ryan e gli altri sarebbero tornati a casa se e quando gli Alleati avessero avuto un controllo maggiore di quella parte d’Europa e un vantaggio più rilevante sull’esercito tedesco. Nel frattempo, sarebbero stati trasferiti a Granville dove avrebbero fatto parte dello schieramento militare dello SHAEF (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force) con compiti organizzativi e senza una partecipazione diretta a missioni e combattimenti. Era per questo che, in quella fine di settembre del 1944, Miller e i suoi uomini si trovavano in una specie di limbo, ma questo non sembrava dispiacere a nessuno di loro. Il capitano Miller era contento di non doversi più trovare in situazioni in cui sarebbe stato costretto a uccidere, aveva già visto abbastanza atrocità da sentirsi fin troppo diverso dall’uomo che voleva tornare a casa a riabbracciare moglie e figli; Horvath, anche lui disilluso da quella guerra, riteneva che aver salvato Ryan gli avesse veramente guadagnato il privilegio di finirla lì; Wade e Upham avevano trovato lì la loro dimensione, l’uno curando i feriti che venivano portati all’accampamento e l’altro riprendendo i suoi compiti di Intelligence militare, intercettando e traducendo eventuali messaggi nemici, lavorando sulle mappe ecc… Reiben e Jackson erano quelli che si trovavano più spiazzati in quella nuova situazione, come se il riposo forzato, dopo i primi giorni, li facesse sentire sminuiti, perciò a volte avevano il permesso di partecipare a qualche breve missione nei dintorni, in particolare se c’era bisogno di un buon cecchino. *

E Mellish? Beh, lui si trovava in una situazione del tutto particolare! Si era preso una responsabilità non indifferente nei confronti del soldato tedesco Josef Saltzmann che, a quel punto, non sarebbe più stato un prigioniero di guerra ma avrebbe avuto la possibilità di richiedere asilo politico negli USA. Chi era Josef Saltzmann? Era il tedesco che Upham aveva voluto salvare a tutti i costi e che il capitano Miller aveva deciso di lasciare libero. Come si era guadagnato questo privilegio? Era proprio a questo che Mellish stava ripensando in quel momento, rivivendo l’episodio accaduto circa un mese prima a Ramelle e del quale appunto lui e Saltzmann erano stati protagonisti.

Mellish si trovava al piano superiore di una casa mezza distrutta dai bombardamenti ed era impegnato in un furioso corpo a corpo con un soldato delle SS. L’americano era riuscito a disarmare il nemico, ma anche lui si trovava senza più il fucile e urlava chiamando disperatamente Upham perché venisse ad aiutarlo e a portare nuove munizioni. Upham, però, bloccato da una sorta di attacco di panico, non riusciva a scollare i piedi dalle scale nonostante le grida del compagno. Ad un certo punto, poi, il caporale aveva visto arrivare un altro piccolo gruppo di soldati tedeschi che si era diviso per andare a perlustrare le case circostanti. A quel punto si era sentito perduto finché, piangente e tremante, non aveva riconosciuto nel soldato che si dirigeva verso quella casa proprio quello che lui aveva insistito per salvare, quando era stato catturato al nido di mitragliatrici dopo che lui, o uno dei suoi compagni, aveva colpito Wade. E ora era lì. Upham non sapeva se sentirsi meglio o peggio… ma l’uomo lo guardò, lo riconobbe e gli rivolse un breve sorriso.

“Upham?” disse. Poi, sentendo le urla e i rumori al piano di sopra, si affrettò a salire le scale e ancora una volta Upham si sentì morire. Forse il tedesco avrebbe pure risparmiato lui, in segno di gratitudine per averlo salvato, ma lassù avrebbe sicuramente dato manforte al suo compagno: Mellish non aveva scampo… e lui non riusciva neanche a muovere un passo!

Eppure non accadde questo, al contrario. Il soldato vide il compagno delle SS che aveva bloccato Mellish a terra e che stava cercando di trafiggerlo con una baionetta e, contro ogni previsione, gli sparò due colpi secchi alla schiena fulminandolo sul posto, poi corse verso il giovane americano per liberarlo dal cadavere del soldato che gli era rovinato addosso e verificare come stesse.

“Tu bene? Ferito?” gli domandò, con grande stupore di Mellish.

“No, non credo, io…” Mellish era ancora stralunato e non capiva bene cosa fosse successo e cosa stesse tuttora accadendo. Si controllò il petto che la baionetta aveva appena scalfito (per fortuna aveva dovuto attraversare prima il giubbotto, la pesante giacca dell’uniforme e la maglietta) e vide che c’era solo poco più di un graffio. Se lo tamponò con un fazzoletto, cercando di non pensare a come sarebbe potuta andare a finire… **

“Sì, sto bene, a quanto pare mi hai salvato, ma tu che diavolo ci fai qui e perché…” iniziò a dire, senza rendersi conto che quel poveretto con ogni probabilità non capiva neanche la metà di quello che gli stava dicendo. Per fortuna Upham era finalmente riuscito a spiccicarsi da quelle scale e, sentendo un improvviso silenzio e non vedendo ritornare nessuno, aveva pensato che non ci fosse pericolo ad andare a vedere che stava succedendo. Entrò lentamente nella stanza e fissò il tedesco e Mellish, anche lui sbigottito.

“Il tuo amico sta bene, sono arrivato appena in tempo” disse il soldato, rivolgendosi a lui in tedesco.

“Hai sparato al tuo compagno per salvare il mio?” si meravigliò il caporale. Era commosso: a quanto pareva il suo gesto generoso nei confronti del soldato nemico si stava ripercuotendo positivamente su di loro: se Mellish era salvo era solo merito del tedesco.

“Non avrei voluto ucciderlo, ma non potevo fare diversamente, altrimenti il tuo amico sarebbe morto” spiegò il soldato, con una luce malinconica negli occhi chiari.

Mellish, ovviamente, non capiva un accidenti di quello che i due si stavano dicendo e guardava ora l’uno ora l’altro mentre si rialzava lentamente.

“Io tornerò dai miei compagni e dirò che ho perlustrato questa casa senza trovare nessuno, poi li indirizzerò da un’altra parte della cittadina. Upham, tu e il tuo amico aspettate a scendere finché tutti i soldati tedeschi non saranno passati e poi potrete tornare dai vostri compagni sani e salvi” raccomandò l’uomo al caporale, poi fece per andarsene ma, proprio in quel momento, fu fermato da Mellish che scelse forse il momento più assurdo per fargli la domanda più assurda…

“Perché?” domandò, senza tanti complimenti. Sapeva che qualche parola il tedesco la capiva (si era dato ben da fare al nido di mitragliatrici per spiegare che lui non era un vero nemico, che gli piaceva l’America…) e quella in particolare servì a fermarlo e a farlo voltare verso di lui. “Perché mi hai salvato? Perché hai ucciso il tuo compagno per salvare me? Io non l’avrei fatto per te e tu lo sai benissimo, io ero uno di quelli che ti voleva fucilare!”

Ovviamente il tedesco non aveva capito proprio tutto, così fu Upham, ancora una volta, a tradurre, lanciando un’occhiataccia a Mellish: che razza di domande erano quelle? Voleva forse che il soldato ci ripensasse e li fucilasse sul posto tutti e due?

Ma non andò così. Il soldato ascoltò la traduzione di Upham, ma poi si sforzò di rispondere direttamente a Mellish in inglese, per quanto poteva, perché voleva che fosse lui a capire le sue motivazioni.

“Io stanco di guerra, stanco di morte e voi… voi due ragazzi” rispose, gli occhi fissi su Mellish. “Basta guerra.”

Upham si rese conto che quel soldato tedesco era davvero cambiato rispetto a quando lo avevano catturato e poi liberato, sembrava proprio disilluso e stremato come diceva. E lo capiva, anche lui era sfinito e distrutto per tutte le cose orribili che aveva dovuto vedere…

“Auf Wiedersehen, Upham e… tuo nome?” chiese a Mellish, con grande sorpresa del giovane.

“Mellish” rispose lui, preso alla sprovvista, poi precisò. “Stanley Mellish.”

“Stan?” provò a ripetere il tedesco, questa volta con un lieve sorriso.

“Eh… sì, va bene anche così” disse Mellish, a cui la faccenda sembrava sempre più surreale. Era perfino buffo sentire il suo nome pronunciato con l’accento tedesco!

“Mio nome Josef Saltzmann” si presentò il soldato, che gli uomini della Compagnia Charlie fino a quel momento avevano ribattezzato Steamboat Willie perché nel cercare di salvarsi dalla fucilazione aveva cercato di appellarsi al suo interesse per i film e i cartoni americani.

“Dovrò chiederti di scrivermelo, allora” commentò Mellish, che stava iniziando a riprendere la sua vena vivace e ironica. Ovviamente Saltzmann non capì e si voltò verso Upham per la traduzione, ma Mellish li stoppò. “No, no, lasciate perdere, è stata una battuta scema. Va bene, allora, ecco, insomma… grazie e buona fortuna.”

Dunque Upham e, soprattutto, Mellish erano sopravvissuti al massacro di Ramelle anche grazie al soldato tedesco che proprio Upham aveva voluto salvare. Dopo quell’episodio nessuno dei due avrebbe mai pensato di rivederlo una terza volta, invece era proprio così che era andata: Saltzmann era uno dei soldati presi prigionieri dopo che le truppe americane di rinforzo erano arrivate a conquistare Ramelle e a sbaragliare l’esercito tedesco. Quando lo avevano visto in mezzo agli altri, Upham e Mellish si erano sentiti in dovere di avvertire il capitano Miller, di raccontare com’era andata tutta la faccenda e chiedergli se si poteva fare qualcosa per evitare che venisse messo con gli altri prigionieri. Entrambi sapevano che i prigionieri di guerra venivano trasferiti in campi di lavoro dove le condizioni di vita non erano così male, tuttavia pensavano che lui in particolare meritasse un trattamento migliore. ***

“Capitano, lei stesso ha liberato Saltzmann su mia richiesta” gli ricordò Upham, “e adesso non vuole fare un passo ulteriore e concedergli la libertà? Non cercherà di scappare, non ne avrebbe motivo, adesso lui è più al sicuro con noi che con i suoi compagni, pensi se venissero a sapere cosa ha fatto per me e Mellish.”

“Oh, adesso il tedesco ha pure un nome?” ironizzò Miller. “Comunque sì, hai ragione, se gli altri prigionieri scoprissero che ha ucciso un soldato delle SS e che ha mentito per salvare la vita a te e a Mellish cercherebbero di farlo fuori. Ma che cosa possiamo fare noi?”

“Noi niente, ma lei magari sì, capitano” insisté Mellish. “Parli con qualche superiore e gli spieghi come è andata, magari saranno comprensivi. In fondo ai piani alti sono in debito con noi per avergli riportato il loro prezioso Ryan…”

“Va bene, vedrò quello che posso fare” acconsentì Miller, che già una volta aveva salvato quell’uomo e adesso era soddisfatto di constatare che la sua scelta era stata quella giusta. “Credo che non ci saranno problemi, soprattutto perché il soldato vi ha salvato e ha quindi tradito il suo Paese. Potrebbe addirittura avere la possibilità di richiedere asilo politico negli USA quando questa guerra sarà finita, però… beh, voi due siete disposti a prendervi la responsabilità di sorvegliarlo e di tenerlo con voi, insegnargli la lingua e tutte queste cose pratiche?”

“Ma sì, certo!” acconsentì entusiasta Upham.

“Sì, lo faremo, però per insegnare l’inglese sarà Upham quello più adatto, è lui a parlare tedesco, no?” replicò Mellish, meno entusiasta. Certo, era disposto a aiutare il soldato che lo aveva salvato da una morte orribile, ma insomma, senza esagerare, era solo per ripagare il debito di gratitudine che aveva nei suoi confronti!

E così era andata, appunto. I superiori di Miller avevano accordato alla Compagnia Charlie il permesso di tenere il tedesco con loro, ma ovviamente tutta la responsabilità era ricaduta su Mellish e Upham che praticamente dovevano stare con lui ventiquattr’ore su ventiquattro (e sopportare le battutine di Jackson e, soprattutto, di Reiben al riguardo).

Fine capitolo primo

 

 

* Mi sono inventata praticamente tutta questa parte perché è quello che avrei voluto succedesse e mi serviva per la storia che intendo scrivere. Non ho idea se veramente quello che ho deciso per Ryan e gli altri sarebbe stato possibile, però è vero che lo SHAEF a fine settembre si trovava a Granville (e poi sarebbe stato trasferito a Versailles). Tutto il resto, soprattutto errori e assurdità storiche, sono da imputare solo a me.

** Come ho anticipato, nella mia storia i soldati della Compagnia Charlie si salvano quasi tutti, quindi anche Wade viene ferito ma non a morte. Mi sembrava bello anche che il salvataggio del soldato tedesco fosse ricompensato, invece che diventare una fonte di guai come accade nel film. A me piacciono le storie a lieto fine! E il nome del soldato tedesco me lo sono inventato io… lì viene chiamato solo Steamboat Willie.

*** Era vero che i prigionieri di guerra tedeschi in USA furono tenuti in campi di lavoro come detenuti comuni e che dovettero lavorare, ma non si trattava certo dei Lager che invece i nazisti organizzarono per i loro prigionieri. Comunque non era sicuramente un futuro auspicabile per nessuno…

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Capitolo 2
*** Cap. 2: With the hurt ***


Cap. 2: With the hurt

 

Mother, I keep letting you down
Tell me why it's never enough
I end up with nothing at all
Father, you would not let me fall
But why are you afraid to look down?
Afraid we'll end up with the hurt
Mother, why do we act so cold?

The difference it would have made
To realise we were the same
And all the good we could have done
If we had felt like we were one

You're my palm reader, wanna know all my secrets
I could stop trying to change you, can you take me for who I am?

(“With the hurt” – Elisa)

 

Le riflessioni e i ricordi di Mellish furono bruscamente interrotti dalla voce di Reiben che lo chiamava.

“Ehi, Mellish, non hai niente da fare stamani?” chiese, beffardo. “Oggi non devi fare compagnia al tuo amico tedesco? Si sentirà solo senza di te…”

Mellish sbuffò.

“Non sono mica la sua balia” ribatté. “Adesso è con Upham che gli fa lezione di inglese, ha più bisogno di quello se vuole trovarsi bene in America. Comunque ora puoi anche smetterla di chiamarlo il tedesco, visto che conosciamo il suo nome, e non è amico mio, semmai è amico di Upham. Mi ha salvato la vita e io gli restituisco il favore, tutto qua.”

“Sì, come no, io credo proprio che lui preferisca stare con te piuttosto che con Upham” insinuò Reiben con una risatina. “Insomma, se non hai niente da fare che ne dici di venire con noi?”

“Andiamo con altri soldati a perlustrare le case in rovina e le strade di Granville per trovare e smantellare eventuali mine o bombe inesplose che ci fossero rimaste, così quando gli abitanti torneranno in città potranno ricostruire le loro case in sicurezza” spiegò Jackson, anche lui parte della spedizione. “Ci saremo io, Reiben e Ryan. Allora, sei dei nostri?”

“Sì, certo, arrivo subito” acconsentì il giovane, unendosi agli amici. Gli faceva piacere pensare che, dopo aver assistito e partecipato a tanta distruzione, la loro missione fosse finalmente quella di mettere in sicurezza le case e iniziare una prima ricostruzione. Certo, la guerra continuava e chissà quando sarebbe finita, ma la Francia era stata liberata e, almeno là, le persone sarebbero potute tornare a vivere nelle loro case e nelle loro città. Mellish era felice di poter partecipare alle opere di ricostruzione e, a dirla tutta, preferiva non avere troppe occasioni di pensare a quello che gli era successo (o meglio, a quello che sarebbe potuto succedergli) in quella stanza al secondo piano della casa bombardata a Ramelle. Non aveva detto a nessuno in che modo il soldato delle SS aveva cercato di trafiggergli lentamente il cuore con una baionetta, gli altri compagni e perfino il capitano Miller sapevano solo che era stato aggredito da un soldato tedesco e che Saltzmann aveva sparato al suo camerata per salvarlo: Mellish non aveva raccontato a nessuno i particolari, l’angoscia e il terrore che aveva provato, il dolore quando la punta della baionetta aveva iniziato a scalfirgli il petto… Non voleva più pensarci, avrebbe voluto dimenticare tutto e durante la giornata cercava di stancarsi fisicamente sperando di poter dormire la notte senza sognare quei momenti spaventosi durante i quali si era sentito perduto e aveva avuto tutto il tempo di rendersi conto che sarebbe morto e che avrebbe provato un dolore atroce prima della fine. *

I gruppi di soldati, dunque, trascorsero quella giornata impegnati a recuperare mine e bombe inesplose da case e strade per mettere in sicurezza più zone possibili della città; all’ora di pranzo si fermarono per mangiare panini, fumare e scambiare due chiacchiere, visto che diversi tra loro si conoscevano appena e iniziavano a fare amicizia. Infine, dopo una lunga e fruttuosa giornata di lavoro, i giovani tornarono al campo per lavarsi, cambiarsi e prepararsi per la cena nel refettorio che era stato allestito sotto un grande tendone.

Mellish si sentiva bene: aveva trascorso una giornata piena insieme agli amici e ad altri nuovi compagni e, dopo una bella doccia e con addosso un’uniforme pulita, provava una sensazione di benessere e serenità che lo riportava ai primi tempi dell’addestramento, quando arrivava a sera stanco ma felice, credendo davvero che lui e gli altri ragazzi che sarebbero stati mandati in battaglia avrebbero potuto fare la differenza. Ora non ci credeva più, già lo sbarco in Normandia con i suoi orrori gli aveva aperto gli occhi, ma principalmente la missione per salvare Ryan… con tutto ciò che aveva comportato. Ora, per fortuna, era tutto finito per lui, per Ryan e per il piccolo gruppo che lo aveva salvato, ma il ragazzo non poteva non pensare al suo grande amico Adrian Caparzo, morto proprio all’inizio di quella missione suicida e che non avrebbe goduto del privilegio di ritornare a casa.

“Stan?” ancora una volta una voce riscosse Mellish dai suoi pensieri, ma questa volta era il tedesco, Josef Saltzmann, che lo aveva chiamato e che ora aspettava la sua attenzione con un sorrisetto.

“Ah, sei tu” Mellish aveva sempre un atteggiamento duplice nei confronti di quell’uomo che sì, gli aveva salvato la vita, ma lo metteva a disagio per un sacco di altri motivi, non ultimo il senso di colpa, perché lui era uno di quelli che lo avrebbe fucilato su due piedi e il soldato, poi, lo aveva salvato. “Credevo che fossi con Upham, non deve insegnarti l’inglese e tante altre cose?”

Saltzmann era un tipo piuttosto alla mano e, probabilmente, non aveva mentito solo per farsi liberare da Miller al nido delle mitragliatrici, quando aveva detto e ripetuto di amare l’America, Hollywood, i film e cartoni americani… del resto non avrebbe neanche potuto conoscere tutte quelle cose se non fosse veramente stato interessato, a quei tempi di certo non c’erano Internet, Google e Wikipedia e neanche la televisione: per conoscere gli attori americani, Steamboat Willie e Betty Boop doveva pur averli visti al cinema. Non era un mostro ma solo un uomo comune che all’età del capitano Miller era rimasto un soldato semplice, perciò con ogni probabilità nella vita normale faceva un lavoro umile e, magari, era stato arruolato a forza, visto che non era più un ragazzo che potesse farsi affascinare e travolgere dalla propaganda hitleriana.

“Tutta giornata con Upham per imparare, ma a me piace stare con te, Stan” replicò tranquillamente il tedesco.

“Ti piace stare…? Okay, a quanto pare con l’inglese hai ancora parecchio da lavorare” tagliò corto il giovane soldato. “Non è uno scherzo, qui non si tratta solo di conoscere qualche attrice americana, spero che Upham ti faccia studiare sul serio.”

“Io capire poco di quello che dici” ammise Saltzmann, ridacchiando. “Upham dice che parlare per imparare inglese, no solo studiare libro. E a me piace parlare con te e con Upham chiedo di te.”

“Che?” Mellish era allibito. “Sì, va bene che per imparare bene l’inglese è forse più utile parlare che studiare la grammatica o che so io, però perché accidenti dovete parlare proprio di me? Non lo trovate un argomento un tantino più interessante? Non è che ci sia poi così tanto da dire di me, non ho avuto una vita tanto interessante, sono un normale ragazzo ebreo americano di ventun anni!”

Saltzmann fece due passi verso di lui e da come lo guardava sembrava che, invece, per lui Mellish non fosse affatto comune e, al contrario, che gli interessasse e anche parecchio.

“Ventuno… tu tanto giovane” disse, intenerito. “A me piace sapere di te, conoscere te…”

Mellish si sentiva sempre più a disagio.

“Non c’è niente di speciale da sapere e non sono un argomento interessante” ribadì, imbronciato. “Con Upham potete parlare di qualsiasi altra cosa per esercitarti nell’inglese: parlate di Betty Boop, dei film americani, di King Kong, parlate del Mito di Cthulhu, delle Regole di Yog-Sothoth o dei Grandi Antichi o di quello che vi pare, ma non di me, chiaro?” **

Mellish non se ne rendeva conto, ma più faceva così e più piaceva a Saltzmann che lo vedeva ancora più ragazzino e buffo…

“Io non capire cose che dici, Yog… cosa? King Kong? Non sapere, ma tu insegna me, a me piace parlare con te, stare con te, Stan, racconta tu cose” insisté.

Mellish alzò gli occhi al cielo, esasperato. Quell’uomo era disarmante, non poteva proprio mandarlo via, però quei discorsi sul fatto che volesse parlare con lui e stare con lui non gli piacevano, lo facevano sentire strano e imbarazzato, era meglio cambiare davvero argomento.

“E va bene: allora, King Kong è una scimmia enorme, gigantesca, che viene catturata nella sua isola e portata a New York dove, però, ovviamente combina un sacco di casini, insomma, è un film entusiasmante, visto che hai detto che ti piacciono i film americani…” ***

“A me piace film americano, ma non conosco film di scimmia” rispose Saltzmann, che forse aveva capito il tentativo di depistaggio di Mellish e stava tranquillamente per bloccarlo. “Tu fai vedere me film di scimmia in America? Insieme? Io voglio fare cose insieme con te.”

Fare cose insieme con te? Ma che vuole questo? Magari voleva dire un’altra cosa, comunque non mi piace la piega che sta prendendo il discorso, pensò il giovane soldato per poi riprendere a parlare.

“Senti, io credo proprio che non ci siamo capiti, magari è colpa mia, non so che idea tu ti sia fatto di andare in America, però…”

“Andare in America insieme, a me piace stare con te, a me piaci tu, Stan, io voglio vivere con te” chiarì il tedesco, che evidentemente aveva imparato dell’inglese quello che gli bastava per farsi comprendere.

“Eh, ma non funziona mica così!” trasecolò Mellish, fingendo volutamente di non capire gli evidentissimi sottintesi delle frasi di Saltzmann. “Non è così semplice. Dunque, io non so spiegartelo bene e magari poi chiederò a Upham di ripetertelo più dettagliatamente nella tua lingua, però le cose stanno così: appena la situazione si sarà calmata qui, noi della Compagnia Charlie ripartiremo per l’America con Ryan e tu potrai venire con noi, chiedendo asilo politico perché adesso per i tuoi compatrioti sei un traditore. Io e Upham garantiremo per te e penso che anche il capitano lo farà, se ce ne sarà bisogno. Quindi tu all’inizio potrai stare in America grazie all’asilo politico, ma poi, se vuoi rimanerci per sempre, dovrai trovarti un lavoro, una casa, e ottenere la cittadinanza americana e per quello ci vuole tanto tempo. Ma sicuramente dovrai sapere bene l’inglese e conoscere le leggi e la Costituzione Americana, quindi è questo che devi farti insegnare da Upham, non i cartoni animati o King Kong. È più chiaro ora?”

Non era dato sapere se Saltzmann avesse capito o no tutto quello che Mellish aveva spiegato, forse no, ma in ogni caso non era tanto quello che gli interessava, lui continuava ad avere il suo chiodo fisso e insisteva su quello.

“Upham poi spiega, ma io voglio vivere con te, a me piaci tu, Stan, a me piace stare con te, insieme con te in America” ripeté il tedesco, cui certo non mancava la perseveranza!

Il giovane soldato americano era esasperato.

“Va bene, parlerò con Upham e dirò a lui di spiegarti meglio come stanno davvero le cose, tu la fai troppo facile” tagliò corto. “È ora di cena e vado alla mensa, tu fai quello che vuoi.”

“Io venire con te, a me piace stare con te, Stan” disse di nuovo Saltzmann, tutto contento.

Mellish sospirò e scosse il capo: non ce la poteva fare! Sperava che almeno Upham riuscisse a farlo ragionare!

Fine capitolo secondo

 

 

 

 

* Ovviamente al tempo non si parlava del DPTS (Disturbo post-traumatico da stress) che colpiva principalmente i soldati, ma io mi sono immaginata che, se Mellish fosse davvero sopravvissuto, ne avrebbe sofferto perché la scena della sua aggressione è stata particolarmente angosciante per chi l’ha vista, figurarsi per lui che l’ha vissuta, anche se nella mia storia finisce bene!

** Qui Mellish prende in giro il tedesco, nominandogli cose che sicuramente non può conoscere per sviare il discorso, però io mi sono fatta l’idea che, essendo un ragazzo americano cresciuto negli anni Trenta, Mellish possa essersi divertito a leggere i racconti di H.P. Lovecraft, che allora erano pubblicati su riviste e di certo attiravano l’attenzione dei ragazzini come accade oggi con i libri di Stephen King o cose del genere (e diciamo che metto un po’ di me nel personaggio di Mellish, perché a me piacciono un sacco le storie di paura! XD).

*** Il primo film di King Kong esce in USA nel 1933, quindi è altamente probabile che Mellish ragazzino lo abbia visto e che gli sia piaciuto parecchio!

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Capitolo 3
*** Cap. 3: In the dark ***


Cap. 3: In the dark

 

Colder is blowing the wind from afar
Over the wings of a bright shooting star
Now that the sun has collapsed
And my eyes are still blind
In the darkest night
Once again I won't lose this fight
The shivers and the thrills down my spine
We're losing might again
As the hours pass and make us sigh
Through the echoes of time
I hear you whispers in the dark
Every time I close my eyes
Don't dare to trick my mind and my heart
Not this time
!

(“In the dark” – Frozen Crown)

 

I giorni trascorrevano in quella strana atmosfera, che non era più di guerra vera e propria, ma non era ancora neanche di pace e ritorno a casa per il soldato Ryan e i suoi nuovi amici. Il Quartier Generale dello SCHAEF si era trasferito a Versailles, ma gli accampamenti per i soldati erano rimasti per la maggior parte a Granville. A Versailles erano stati trasferiti principalmente gli ufficiali, i comandanti, insomma, i piani alti che stavano organizzando la liberazione del Belgio e dell’Olanda e anche le divisioni impegnate in quella difficile spedizione erano già partite e stavano attraversando le Ardenne; a Granville erano rimaste le truppe di riserva che sarebbero partite in un secondo momento, i feriti e quelli che, come il capitano Miller e i suoi uomini, sarebbero tornati a casa. La loro partenza era stata posticipata perché i comandanti volevano prima liberare il Belgio e l’Olanda e ritenevano, dopo un inizio travolgente ai primi di settembre, che ciò sarebbe avvenuto in fretta. In realtà, poi, tra settembre e ottobre le armate statunitensi si erano accampate nel bosco delle Ardenne e non erano più riuscite ad avanzare, mancavano mezzi e rifornimenti e si temeva un attacco da parte dei tedeschi da un momento all’altro. Non era proprio il periodo giusto per organizzare il ritorno a casa del soldato Ryan e della squadra che lo aveva salvato, perdere tutti loro proprio quando stavano per far ritorno alla loro vita normale sarebbe stata una beffa colossale. *

L’attesa, tuttavia, aveva creato qualche problema soprattutto a Mellish, che non riusciva a smettere di pensare a come aveva rischiato di morire e, al tempo stesso, si sentiva in colpa perché a lui e alla sua squadra era stato concesso, appena possibile, di ritornare a casa. Quel pomeriggio girovagava fuori dall’accampamento guardando le case in rovina e ripensando, in particolare, al giorno in cui era morto il suo grande amico Caparzo… Ecco, era proprio per lui che si sentiva in colpa.

Forse dovrei andare dal capitano Miller e dirgli che io non torno a casa, non adesso perlomeno. Non lo so, non mi sembra giusto. Caparzo non ha avuto questa possibilità e lui se la meritava più di noi, lui ha partecipato alla missione per salvare Ryan proprio come noi, però non potrà godere del privilegio di tornare a casa prima perché lo hanno ucciso, lo hanno ucciso mentre cercava di aiutare una bambina francese. Lui, a casa, non ci tornerà mai più e questo non è giusto e allora non devo tornarci nemmeno io…

Questi, più o meno, erano i pensieri confusi di Mellish sulla questione e quindi non si accorse che il solito Josef Saltzmann lo aveva seguito e aveva aspettato il momento migliore per parlargli, lasciando prima che rimuginasse su ciò che lo tormentava. Il tedesco capiva meglio di altri cosa potesse logorare Mellish, lui era il solo presente quando il soldato delle SS aveva iniziato a trafiggerlo con la baionetta, lui solo aveva visto il terrore agghiacciante negli occhi del ragazzo, perché Mellish poi non aveva mai raccontato niente a nessuno.

“Stan? Tutto bene?” gli chiese, quando vide che il giovane americano si accingeva a far ritorno all’accampamento.

“Ah, sei ancora tu” replicò Mellish. Cominciava a sentirsi vagamente perseguitato da quell’uomo, se fossimo stati al giorno d’oggi lo avrebbe definito uno stalker! Ma, chiaramente, le intenzioni di Saltzmann erano buone. “Ho solo fatto un giro, mi annoiavo e mi sono messo a pensare, stavo giusto per tornare dagli altri. Tu non dovresti essere a studiare con Upham?”

“Upham è a fare altro, ora, e poi io basta sempre studiare” rispose l’uomo. “A me piace stare con te, Stan, parlare con te per imparare inglese.”

“Sì, beh, allora forse dovrai trovarti qualcun altro con cui parlare perché io non sono più tanto sicuro di tornare in America prima della fine della guerra” buttò là Mellish. Di certo non era sua intenzione confidarsi con Saltzmann, ma quell’uomo aveva il potere di metterlo sempre in uno stato di ansia, disagio e chissà cos’altro che lo portava a dire le cose più inaspettate.

Questa volta, però, le parole del ragazzo colpirono veramente il tedesco peggio di una sventagliata di mitragliatrice.

“Forse io capire male tue parole, Stan. Dici tu non voler tornare in America?” domandò Saltzmann, per la prima volta davvero disorientato. “Perché no? Tuoi amici tornare e… e io? Cosa fare in America senza di te?”

“Ci sarà Upham e ti sarà molto più utile di quanto potrei esserti io per tutto ciò che dovrai fare” tagliò corto Mellish. “E comunque non ho ancora deciso, ci sto pensando e, in caso, ne parlerò con il capitano.”

“Ma… ma… tu detto che non vuoi più guerra, non vuoi più combattere” il tedesco era completamente sbalordito e confuso e a Mellish ricordò molto quando lo avevano incontrato per la prima volta e lui aveva detto tutto quello che gli passava per la testa pur di non farsi ammazzare…

“Non voglio combattere, infatti. Se decidessi di restare, non parteciperei alle spedizioni delle armate in Belgio, Olanda e poi in Germania” il giovane americano era consapevole che, dopo lo shock subito, non sarebbe stato in grado di affrontare un nemico armato. “Rimarrei qui e aiuterei la gente a ricostruire le loro case, credo che altri soldati lo faranno, magari quelli feriti e non più in grado di andare in battaglia. Tornerò a casa, certo, ma solo quando la guerra sarà finita, come è giusto che sia, insieme ai tanti soldati americani che stanno ancora combattendo.”

“Perché, Stan?” domandò ancora Saltzmann, a cui stava evidentemente franando il terreno sotto i piedi.

Per la prima volta Mellish si voltò verso di lui e il tedesco vide un dolore immenso nei suoi occhi.

“Perché non sarebbe giusto, ecco perché” esclamò, con una punta di esasperazione. “Io avevo un amico, un amico carissimo che è stato sempre con me fin dall’inizio dell’addestramento e si chiamava Adrian Caparzo. Lui… lui era davvero il mio migliore amico. Anche lui ha partecipato alla missione per salvare Ryan e quindi adesso dovrebbe essere qui e avere il diritto di tornare a casa, come tutti noi, e invece… invece Caparzo non è qui perché è morto in una cittadina francese, ucciso per aver cercato di salvare una bambina. E a casa non ci tornerà mai più, mai più. Con che coraggio posso tornare a casa mia e riprendere la mia vita di sempre quando so che Caparzo a casa sua non ci tornerà mai più? Perché io sì e lui no?”

Saltzmann sapeva che Mellish stava male per tanti motivi, non ultimo il terrore provato poco prima che lui gli salvasse la vita, ma quella era la prima volta in cui il ragazzo si confidava davvero con lui. Beh, forse non voleva davvero farlo e quella valanga di sentimenti gli era uscita fuori tutta insieme col primo che era stato ad ascoltarlo, tuttavia era qualcosa di molto intimo e personale che stava condividendo con lui. Il tedesco lo prese gentilmente per un braccio e lo fece sedere accanto a sé su un muretto, poi prese qualcosa dalla tasca della sua giacca.

“Quando tuo capitano liberato me, io trovato gruppo di miei compagni” iniziò a raccontare. “Mio capitano aveva lettera per me, lettera di marito di mia sorella. E lettera diceva che nostra città, Köln, distrutta da bombe di aerei inglesi, casa distrutta, tutti morti: miei genitori, mia sorella Birgit con sue bambine Dora e Hilda e… e mia moglie Ilse.” **

Mentre raccontava in un tono pacato e con un dolore composto, Saltzmann mostrava a Mellish le foto che aveva sempre tenuto con sé nella tasca interna della sua giacca, vicino al cuore. C’era una coppia anziana con lo sguardo fiero, in un’altra foto due bambine bionde e sorridenti, poi ancora le due bambine, più piccole, strette a una donna sorridente, infine la foto di una ragazza con un dolcissimo sorriso e capelli pettinati in morbide onde, forse castani, seduta su un prato. Il ragazzo fissava le foto attonito e senza trovare niente da dire: per la prima volta in tutta quella faccenda si rendeva conto di quanto lui e i soldati nemici, alla fine, fossero simili, anche loro con persone care, famiglie che li aspettavano, paure, dolore…

“Io e Ilse sposati un mese prima di mia partenza per guerra” riprese il tedesco, piano. “Portavo lei a vedere film americani in cinema, anche a lei piacere molto. E portavo Dora e Hilda a vedere Betty Boop e Steamboat Willie. A tutti noi piacere cinema americano.”

Quindi almeno quello che aveva detto Saltzmann per non farsi sparare era vero…

“La tua famiglia” mormorò Mellish, gli occhi fissi sulle foto, le unghie affondate nei palmi delle mani per non piangere. “Allora perché mi hai salvato? Perché non ci odi tutti, perché non hai lasciato che quel soldato mi uccidesse? Io… io ero tra quelli che voleva fucilarti, lo sai!”

Il tedesco riprese le foto e se le rimise nella tasca interna, poi accarezzò con dolcezza le mani di Mellish.

“Perché tu e tuoi amici ragazzi giovani e non voluto voi guerra. Non voi tirato bombe su mia casa. Colpa di guerra e io penso che non voglio più guerra, non più morte” cercò di spiegarsi. “Mie nipoti, Dora e Hilda, avere dieci e dodici anni quando io partito… e ora…”

“Ora avrebbero quindici e diciassette anni, sarebbero poco più giovani di me e dei miei compagni” concluse l’americano, profondamente turbato. “Hai salvato me perché non volevi più che giovani vite fossero spezzate, anche se erano le vite dei tuoi nemici, è così?”

Saltzmann fino a quel momento aveva evitato di avvicinarsi troppo a Mellish, pensando che lo avrebbe spaventato o spinto a respingerlo, invece in quel momento che pareva quasi fuori dal tempo e dallo spazio gli passò un braccio attorno alle spalle e lo attirò verso di sé.

“Per me basta guerra e basta morte” ribadì. “E dici bene, non è giusto per tuo amico Caparzo, non è giusto lui non tornare a casa, ma guerra mai giusta. Non è giusto mia famiglia morta, non è giusto mia casa distrutta, non volevo io guerra. Ma punire noi non porta indietro tuo amico, non porta indietro miei genitori, mia moglie, mia sorella, mie nipoti. E tu meriti tornare a casa… più di altri.”

Mellish sapeva che il tedesco si stava riferendo a quel segreto che condividevano solo loro due, al suo orrore, allo shock provato quando il soldato delle SS aveva iniziato a conficcargli la baionetta nel petto… E pensò anche che forse aveva ragione, Caparzo non sarebbe tornato comunque, purtroppo.

Era assurdo, però, che dovesse avere un segreto in comune proprio con quel soldato, che solo lui potesse capire le sue angosce e le sue paure e che fosse stato lui a fargli comprendere l’assurdità dell’idea di restare in Francia a ricostruire Granville e dintorni mentre i suoi amici, Ryan, il suo capitano e perfino Saltzmann andavano in America!

“Hai ragione tu” dovette ammettere, vagamente imbronciato. “E… per quanto può valere, mi dispiace davvero tanto per la tua famiglia, io non lo sapevo, non ci pensavo nemmeno, io…”

“Tu credevi tedeschi tutti pazzi e bastardi assassini, dico vero?” scherzò l’uomo, e Mellish, suo malgrado, si trovò a ridere come non gli capitava da un pezzo.

“Beh, sì, ammetto di sì, ammetto che in genere non ho mai pensato a voi come a esseri umani normali, suppongo che così sia più facile… insomma, combattere” replicò. Poi si rabbuiò di nuovo. “Ma ora so che non è così, forse mi faceva comodo pensarlo, e magari i vostri capi sono davvero solo dei bastardi figli di puttana, ma voi soldati siete… ecco, persone normali, come noi, con le vostre famiglie, le vostre vite e tutto il resto andato a farsi fottere per l’ossessione di un folle! Sono veramente tanto dispiaciuto per la tua famiglia, se l’avessi saputo forse… forse non sarei stato tanto stronzo quando insistevo per fucilarti.”

Il tedesco aveva capito forse la metà delle parole di Mellish, ma il concetto era chiaro e l’espressione addolorata e pentita negli occhi del ragazzo lo era anche di più.

“Non potevi sapere. Nemmeno io sapevo, allora. Non hai colpa, tu sei buono, Stan, sei bravo ragazzo e a me piaci tu, tanto” disse ancora una volta Saltzmann.

L’atmosfera era imbarazzante, ma anche stranamente piacevole e confortante; Mellish non riusciva più a mostrarsi caustico come al solito perché in fondo si sentiva tranquillizzato e protetto nella stretta affettuosa dell’uomo.

“Non sono buono come pensi” cercò comunque di minimizzare, “anzi sono proprio uno stronzo, io, si vede che non mi conosci per niente…”

“Tu buono e gentile, invece” ripeté il tedesco, stringendolo e accarezzandogli i capelli. “Io sento te piangere di notte, tu brutti sogni?”

Era vero. Saltzmann condivideva una piccola tenda con Upham e Mellish, visto che era un prigioniero sotto la loro responsabilità, mentre i compagni dormivano in un tendone con altri soldati, e la sua branda era proprio vicina a quella di Mellish, perciò spesso la notte lo sentiva svegliarsi di soprassalto e poi soffocare i singhiozzi contro il cuscino.

“Sento te piangere e voglio venire a consolare, abbracciare, perché tu ora salvo, sicuro” continuò l’uomo, abbracciandolo più stretto, “ma non so se posso fare. Posso venire da te se tu paura di notte?”

Mellish non sapeva come rispondere e neanche come reagire, a dirla tutta non ricordava neanche come si facesse a respirare, si sentiva stranissimo, turbato ma anche rasserenato e con un dolce calore nel cuore.

“Tu mai più solo, io sono con te, io sempre con te, ho salvato te, proteggo te sempre, nessuno fa del male a te, ci sono io” ripeté il tedesco. “A me piaci tanto, Stan, piaci tanto tanto…”

Poi, a sorpresa, si chinò sul giovane americano e lo baciò, dapprima lievemente, quasi sfiorandolo, ma poi si accorse che Mellish non lo respingeva e, anzi, si abbandonava a lui e lo lasciava fare, così il bacio divenne più intenso e tenero e si prolungò. Il soldato americano si era aggrappato a Saltzmann, un po’ sperduto e un po’ rassicurato sentendosi contenuto e protetto come mai prima di allora, e poi quel bacio gli aveva fatto schizzare il cuore in gola, accelerare i battiti, tremare i polsi e sentiva anche una sorta di strano calore pulsante nella parte bassa della pancia…

Fu Mellish a staccarsi per primo, ma non bruscamente, anzi sembrava ancora come incantato, disorientato e sconnesso dal resto del mondo.

Ma cosa ho fatto? Perché mi sono lasciato baciare così come se non ci fosse un domani? Che mi prende, sono impazzito?, pensava, mentre continuava a sentirsi stordito, col cuore che gli batteva a mille e le gambe tremanti.

“Ecco, io… penso che ora devo tornare all’accampamento” disse, mentre il tedesco gli sorrideva intenerito. “Tu… beh, se mi senti piangere la notte, se vuoi puoi venire a… a vedere se sto bene.”

Non sapeva neanche lui quello che diceva. Era stravolto, ma anche emozionato, confuso da mille sentimenti, tra cui c’era anche il senso di colpa per come aveva sempre trattato male Saltzmann e ora aveva scoperto che aveva subito dei lutti terribili e che riusciva tuttavia a essere così premuroso con lui e poi… e poi forse anche lui doveva mostrarsi più gentile, pensare a un gesto affettuoso da fare per lui e… sì, ci avrebbe pensato, magari al campo avrebbe trovato qualcosa per fargli un regalo.

“Ci si vede… in giro, allora” tagliò corto, con ben poca coerenza, dopo di che scappò come il vento, lasciando il tedesco sul muretto che ancora sorrideva, sia perché era contento di averlo finalmente baciato sia perché quella sua reazione buffa e assurda da ragazzino gli faceva tanta tenerezza.

Chissà che forse, nel buio della guerra e dell’odio, due persone tanto diverse e lontane tra loro, un soldato tedesco e un giovane ebreo americano, avessero trovato il modo di accendere una luce di speranza e di dolcezza che, alla fine, avrebbe sconfitto le intolleranze e le guerre e dimostrato che tutti possono essere uguali, che tutti meritano una seconda occasione se solo sono capaci di amare?

Fine capitolo terzo

 

 

 

 

 

* In effetti la battaglia delle Ardenne del dicembre 1944 sarà l’ultima grande offensiva strategica tedesca sul fronte occidentale, con la quale Hitler era convinto di riconquistare i territori perduti dopo lo sbarco alleato in Normandia.

** Il bombardamento a tappeto di Colonia (Köln in tedesco) avvenne in più attacchi, tra il 16 giugno e il 6 luglio 1944: è pertanto verosimile che sia avvenuto proprio durante la missione dei soldati della Compagnia Charlie e nel periodo dell’incontro/scontro con il soldato tedesco che io ho chiamato Josef Saltzmann (che immagino sia accaduto intorno a fine giugno, contando che la Compagnia Charlie si fece a piedi tutta la strada da Omaha Beach a Ramelle per cercare

Ryan, dovendo anche evitare o affrontare contingenti nemici!).

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Capitolo 4
*** Cap.4: Take me away ***


Cap. 4: Take me away

 

I feel like I am all alone
All by myself I need to get around this
My words are cold, I don't want them to hurt you
If I show you, I don't think you'd understand
'Cause no one understands

All the pain I thought I knew
All the thoughts lead back to you
Back to what was never said
Back and forth inside my head
I can't handle this confusion
I'm unable, come and take me away

I'm going nowhere (on and on and)
I'm getting nowhere (on and on and on)…

(“Take me away” – Avril Lavigne)

 

Mellish aveva davvero pensato ad un piccolo regalo per Saltzmann, non era stata solo una scusa per liberarsi di una conversazione che si stava facendo troppo imbarazzante e per dimenticarsi del fatto che lui l’avesse baciato… e che il ragazzo ci fosse pure stato! Qualche giorno prima, mentre con dei compagni ripuliva e metteva in sicurezza una casa di Granville aveva trovato un oggetto che lì per lì aveva preso, pensando di tenerlo per sé, ma dopo aver ascoltato la triste storia della famiglia del tedesco aveva pensato di regalarlo a lui.

Si trattava di una piccola scatola di latta che doveva aver contenuto dei biscotti e che, miracolosamente, non si era rovinata troppo durante i bombardamenti, forse si trovava in un posto più riparato. Così, quel pomeriggio, il giovane americano si trovava seduto sul portico di una casa mezza distrutta dalle bombe e si impegnava a ripulire e lucidare, per quanto poteva, quella scatola che riacquistava sempre di più il suo aspetto originale, immagini di fiori e di due fanciulle dai grandi cappelli, un po’ sullo stile di Renoir, insomma qualcosa che suggeriva pace e serenità. Mentre era impegnato in quel lavoro tanto da non accorgersi quasi di quello che gli accadeva intorno, perduto nei suoi pensieri, gli si avvicinò, inaspettatamente, James Ryan e si sedette accanto a lui.

“Ciao” gli disse. “Volevo fare due chiacchiere con te, ma se preferisci restare solo…”

“No, no, resta pure” rispose Mellish, sorpreso. Lui e Ryan non erano propriamente amici, anzi, si erano parlati ben poco anche in quei due mesi di attesa nell’accampamento di Granville, però non gli dispiaceva scambiare due parole con lui. “Cosa volevi dirmi?”

“Beh, ci sono un sacco di cose di cui avrei bisogno di parlare e… insomma, non ho molti amici qui. I miei compagni sono partiti per il Belgio, il vostro dottore Wade è sempre impegnato con i feriti e di certo non posso disturbare il capitano Miller per le mie preoccupazioni e i miei dubbi. Nonostante il nostro primo incontro non sia stato proprio amichevole, tu mi sei sembrato un ragazzo cordiale con cui è facile fare amicizia” riprese Ryan, un po’ imbarazzato.

Mellish ridacchiò.

“Beh, all’inizio ti avevamo preso tutti per uno stronzo cazzone e ci auguravamo che tu fossi morto, però adesso dobbiamo solo esserti grati per aver insistito con il Comando e farci tornare tutti a casa prima insieme a te” replicò. "Però è vero, credo che Reiben e Jackson siano ancora piuttosto prevenuti nei tuoi riguardi.”

“Quando ci siamo incontrati per la prima volta, in effetti, ho fatto davvero la figura dello stronzo cazzone” rise anche Ryan. “Voi avevate fatto tanta strada, e perfino perso un compagno, per venire a recuperare me e io mi sono mostrato irritato e ho rifiutato di venire con voi, come se fosse colpa vostra. Capisco che qualcuno di voi ce l’abbia ancora con me.”

“Ma dai, è una puttanata, non c’è motivo di avercela con te, anzi. Era di questo che volevi parlarmi?” chiese Mellish.

“Anche di questo, ma non solo. Insomma, è vero che sono stato scontroso e pure stronzo quando siete arrivati, ma era tutto così assurdo: il vostro capitano che mi diceva che i miei fratelli erano tutti morti in battaglia e che per questo eravate stati mandati voi per riportarmi a casa… insomma, anche quella era una puttanata, no? Secondo te sarò l’unico al mondo che in guerra ha perso dei fratelli?”

“No di certo, però tu li hai persi proprio tutti in battaglia, una bella sfiga… cioè, insomma, no, volevo dire…” Mellish si era un po’ incartato! “Comunque sappiamo tutti che si trattava di una manovra politica, no? Ai comandanti non importava niente di te e dei tuoi fratelli, volevano solo fare bella figura. Comunque, meglio per te e ora anche per noi, no?”

“Lo so che si tratta di una manovra politica, noi soldati non contiamo niente, siamo pedine. Però non è questo il problema” riprese Ryan, “quello che mi fa stare davvero male è pensare ai compagni che tradisco andandomene, al fatto che non so nemmeno se riuscirò a ritornare alla vita di prima e se farò mai nulla di buono. Chissà quanti migliori di me meriterebbero di tornare a casa e invece moriranno in questa guerra!”

“Benvenuto nel club” mormorò Mellish, adesso con lo sguardo rabbuiato. “Io penso esattamente le stesse cose. Riuscirò a riabituarmi alla vita a Yonkers, con la mia famiglia che non ha visto niente di questi orrori? E perché io merito di tornare a casa e invece il mio amico Caparzo è morto e non tornerà più dai suoi cari?”

“Ecco, è proprio questo che volevo dire!” esclamò Ryan, contento di aver finalmente trovato qualcuno che lo capiva. “I miei fratelli sono morti, il tuo compagno Caparzo è morto e so che voi eravate davvero molto amici, quasi fratelli… e tutto questo perché io torni a casa? Maledizione, mi sento investito di una specie di missione che non so se potrò mai compiere, come se fossi destinato a trovare una cura contro il cancro, o un farmaco per l’immortalità, o un razzo che vada sulla Luna o che so io, quando invece io non so nemmeno se ce la farò a vivere la vita di tutti i giorni, a occuparmi di mia madre e della nostra fattoria ora che non ci sono più i miei fratelli!”

Per la prima volta Mellish vedeva le cose dal punto di vista del giovane soldato che erano venuti a salvare ed era strano, perché lo sentiva molto vicino a sé, nonostante non avessero mai scambiato più di due parole. A quanto pareva era vero che ci si sente più disposti a confidarsi con degli estranei che con le persone che conosciamo meglio. E, in qualche modo, sentì che, se fosse riuscito a tranquillizzare Ryan, si sarebbe sentito meglio anche lui.

“Lo sai che anche noi, all’inizio, pensavamo la stessa cosa? Ci dicevamo che, per venire a salvare proprio te, rischiando la vita, tu avresti dovuto essere una persona speciale e meritartelo, fare grandi cose e salvare il mondo, che so, essere una specie di supereroe” ammise il ragazzo, “però sai che è successo, almeno per me, stando qui? Mi sono reso conto che non è necessario che tu faccia niente di grandioso. Sinceramente hai già fatto tanto ad ottenere anche per noi il privilegio di tornare a casa prima, ma questo è soprattutto un fatto di politica e opinione pubblica e non ci riguarda, la cosa importante è un’altra.”

Qui Mellish si interruppe, cercando di riordinare il discorso e di trovare le parole giuste da dire, mentre Ryan lo ascoltava attento.

“Forse nella tua vita farai cose grandi o forse no, Ryan, questo non lo so e non lo sa nessuno di noi, per quel che ne sappiamo potremmo anche essere impazziti tutti a causa della guerra, tornare a casa e fare una strage. L’unico che veramente merita di tornare a casa e che sicuramente farà grandi cose nella sua vita sarà il capitano Miller, e sai perché? Perché lui ha una moglie e dei figli e fa il professore e anche l’allenatore di baseball della squadra della scuola, è una persona che tutti amano e rispettano nella cittadina della Pennsylvania da cui viene” continuò. “Neanche il capitano scoprirà la cura contro il cancro o il modo di far finire le guerre di tutto il mondo, ma ogni giorno della sua vita sarà speciale perché crescerà i suoi figli, educherà i ragazzi della sua scuola e della sua squadra come fa con noi e quindi… e quindi penso proprio che farà la differenza, perché quei ragazzi un giorno saranno uomini migliori per averlo conosciuto.”

Ryan pareva ammirato sia dalla parole di Mellish sia dalla figura del capitano Miller che veniva fuori da quel ritratto. Si vedeva che il giovane soldato era davvero orgoglioso del suo capitano e anche Ryan cominciava a capire che era veramente una persona speciale senza bisogno di essere un supereroe o un genio.

“Per cui sì, io penso che tu riuscirai a meritare di essere tornato a casa, vivendo la tua vita giorno per giorno, aiutando tua mamma che è rimasta sola, lavorando nella fattoria e sforzandoti di essere gentile, di fare il meglio che puoi. E magari ti sposerai e avrai dei bambini e poi dei nipoti e insegnerai loro che la guerra è sempre sbagliata e che dobbiamo sforzarci di imparare dagli errori del passato. E forse, chissà, saranno questi ragazzi a creare un mondo migliore e sarà anche merito tuo” * Mellish si fermò un attimo a riflettere e scoppiò a ridere. “Ma tu guarda se dovevo diventare pure filosofo! Comunque quello che ti ho detto lo penso davvero, riflettici anche tu… James.”

Ryan sembrava davvero sollevato, sorrise e strinse con forza la mano al suo nuovo amico.

“Hai ragione, mi sento davvero meglio e cercherò di fare quello che hai detto tu, ma… questo vale anche per te, anche tu puoi rendere il mondo un posto migliore” disse, poi gettò l’occhio sulla piccola scatola di latta che Mellish teneva ancora in una mano e il sorriso divenne malizioso. “Quella scatola è un regalo per il tuo nuovo amico tedesco, vero?”

Mellish trasalì.

“Eh? Io… ma come lo sai?”

“So che lui ti ha salvato la vita e che tu e Upham vi siete presi la responsabilità di portarlo in America per fargli avere asilo politico. Vi vedo spesso insieme e ho pensato che quella potesse essere un regalo per lui, in fondo ti ha salvato la vita ed è un gesto gentile, come dicevi tu prima” spiegò Ryan. “E non è poco, sai? Voi due siete le persone teoricamente più lontane al mondo: tu americano e lui tedesco, tu ebreo e lui di un Paese che quelli come te li arresta, li rinchiude nei ghetti e li ammazza per strada…** Dovreste odiarvi e invece vi siete salvati a vicenda. Se tutto il mondo facesse come voi, non ci sarebbero mai più guerre.”

I due si salutarono, contenti di questa nuova amicizia e consapevoli del fatto che si erano aiutati a vicenda. E così quella sera, dopo cena, Mellish chiese a Saltzmann di raggiungerlo nella loro tenda prima del solito perché aveva una cosa da dargli e si sentiva tutto compreso, come se stesse compiendo una missione importante, creando un ponte tra i popoli o qualcosa del genere. Si era anche preparato un bel discorsetto edificante da fare, che probabilmente il tedesco avrebbe capito per metà ma tanto valeva, quella metà sarebbe bastata!

I due si sedettero sulla branda di Mellish e il ragazzo mostrò a Saltzmann la scatola, che tutta pulita e lucidata era venuta proprio bene, non come nuova ma quasi.

“È… regalo per me?” domandò l’uomo, con gli occhi che gli brillavano e un sorriso incredulo.

“Sì” rispose il giovane americano. “Lo so che è una sciocchezza, ma l’ho trovata e ho pensato che avresti potuto usarla per tenerci le foto della tua famiglia, i tuoi ricordi, le cose a cui tieni di più, ecco. Mi è sembrato un gesto gentile, visto che tu mi hai salvato la vita e io finora sono sempre stato scostante con te, e invece è importante che noi siamo gentili l’uno con l’altro perché siamo due popoli proprio diversi che al momento si uccidono e si combattono e noi possiamo invece dimostrare che è possibile vivere insieme, in pace, e creare un mondo migliore…”

Non è dato sapere quanto Saltzmann avesse compreso delle parole di Mellish, ma il discorso edificante gli interessava fino a un certo punto, lui era felice perché il ragazzo gli aveva fatto un regalo, aveva pensato a lui, e non lo mandò a dire. Pose la scatoletta sul piccolo comodino, come se fosse una reliquia o qualcosa del genere, poi strinse a sé Mellish, accarezzandogli i capelli e distendendosi con lui sopra il letto.

“Tu hai fatto regalo a me, tu sei gentile e buono e a me piaci tanto, a me piace stare sempre con te, io ti amo!” mormorò, dimostrando di aver imparato qualcos’altro in inglese, peccato che non fosse quello che Mellish si aspettava! Comunque, quando l’uomo iniziò a baciarlo profondamente, delicatamente e languidamente, a lungo e sempre accarezzandolo, anche il giovane americano si sentì strano, come se la testa gli volasse via, il corpo non gli rispondesse più, il cuore gli scoppiasse e qualcosa di sempre più pesante e bollente gli spingesse dentro la pancia. Si sentiva andare via e non sapeva perché, poteva solo aggrapparsi a Saltzmann e lasciargli fare tutto quello che voleva, rapito da qualcosa di mai provato prima che era insieme una magica pace e una tensione elettrica, gelida e bollente, sconosciuta, misteriosa e magnifica insieme. Lasciò che il tedesco continuasse a baciarlo, disteso su di lui, mentre con un braccio lo stringeva e con l’altra mano iniziava ad accarezzarlo sotto la maglietta… e poi riacquistò un minimo di lucidità mentale e di consapevolezza di sé e del mondo attorno quando sentì che Saltzmann cercava di slacciargli i pantaloni. Allora si staccò da lui, ma ancora una volta senza mostrarsi brusco, era piuttosto confuso, affannato e… non lo sapeva neanche lui!

“No, ora… ora basta, qui… potrebbe arrivare Upham o qualcuno degli altri” mormorò.

Il tedesco sorrise intenerito, lo baciò dolcemente ancora una volta e poi si tirò su e aiutò anche Mellish a tirarsi su, perché era talmente stordito e stravolto da non avere le forze per muoversi!

“Vero, qualcuno può entrare” concordò, “ma a me piace tanto tuo regalo, piace che tu pensi a me, e piaci tu. Io e te sempre insieme, io fare felice te, io ti amo.”

“Sì, ho capito, ma mi sembra che non ci siamo proprio con i progressi nell’inglese. Cosa cavolo ti insegna Upham?” fece Mellish, ritrovando un po’ del suo tono caustico e petulante.

“Mi insegna cose che voglio sapere!” rispose trionfante Saltzmann che, chiaramente, aveva espressamente domandato al caporale di insegnargli a dire ti amo in inglese…

“E invece deve insegnarti bene l’inglese e tu devi imparare un sacco di cose utili, le leggi e la Costituzione americana se vuoi davvero venire in America e restarci” ribatté Mellish.

“Io sempre in America con te, trovare casa insieme, vivere insieme!” dichiarò compiaciuto il tedesco.

“E questo l’hanno capito pure i sassi, sei tu che non hai capito che non sarà così facile e che devi studiare, io lo dico per il tuo bene e…”

Non poté continuare perché Saltzmann lo baciò un’altra volta, anche se non con l’intensità di poco prima.

“Mio bene sei tu, Stan, è stare con te, così io studio bene per imparare e stare in America con te” disse poi il tedesco.

“Ecco, forse almeno su questo ci siamo capiti” sospirò Mellish, rassegnato.

Ma era anche molto turbato: perché mai si era lasciato baciare e accarezzare da lui in quel modo e lo aveva fermato solo per paura che qualcuno entrasse nella tenda e li sorprendesse? Che accidenti gli stava succedendo? Forse la guerra lo aveva davvero fatto andare fuori di testa?

Fine capitolo quarto

 

 

* Queste parole di Mellish sono un chiaro accenno al finale del film, in cui Ryan è davvero anziano e visita la tomba di Miller con i suoi figli e nipoti chiedendosi se ha meritato di essere salvato. Al tempo quel finale mi deluse ma adesso, forse invecchiando, mi rendo conto che veramente Ryan ha meritato di salvarsi perché ha creato una bella famiglia e ha vissuto una vita da uomo giusto e leale.

** So che i soldati nel 1944 non sapevano dei Lager e non potevano immaginare quanti milioni di morti avesse causato il Nazismo, però Hitler e i suoi avevano iniziato a perseguitare gli ebrei già negli anni Trenta e qualche notizia di certo si sapeva anche negli altri Paesi.

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Capitolo 5
*** Cap. 5: Worlds apart ***


Cap. 5: Worlds apart

 

Can't you see can't you feel I'm right by your side I'm alive I am real I don't want you to hide So close but far away I can travel night and day I can search for a lifetime Without finding you Worlds apart No matter how close we are No matter how hard we try We are worlds apart!

(“Worlds apart” – Allen/Olzon)

 

Mellish era rimasto piuttosto sconvolto da come Saltzmann avesse interpretato il suo regalo, che nelle sue intenzioni era un gesto gentile e amichevole ma che, evidentemente, il tedesco aveva preso come un pegno d’amore o altre bestialità simili. E il peggio era che il giovane americano si era lasciato baciare e accarezzare e non sapeva neanche lui fino a dove avrebbe concesso all’uomo di spingersi se non avesse avuto paura che qualcuno entrasse nella tenda. Non era molto ansioso di scoprire quel suo lato oscuro e quindi, il giorno dopo, ritenne fosse preferibile chiarire direttamente con Saltzmann.

Per tutta la mattina il tedesco era stato impegnato con Upham nello studio dell’inglese (e, sperava Mellish, di quello che gli sarebbe servito davvero in America piuttosto che di cose ridicole come ti amo o simili!), perciò il ragazzo ebbe occasione di parlare con lui in privato solo nel pomeriggio, ancora una volta nella loro tenda e seduti sul letto di Mellish perché quel giorno fuori pioveva.

“Senti, io non so cosa tu abbia pensato del mio regalo, ma per me è stato un gesto di amicizia, una cosa che avrei fatto per un caro amico, tu hai un po’… beh, esagerato, mi pare” disse, imbarazzato.

Saltzmann rimase male. In effetti, dopo quello che era accaduto la sera prima, credeva veramente di aver costruito con il giovane americano un rapporto serio che sarebbe continuato in America e restò piuttosto deluso.

“Perché tu dire questo? Noi adesso insieme, noi poter essere felici come compagni in America” ribatté.

“Ma insomma, tu la fai tanto facile, vero? Non ti rendi proprio conto della realtà delle cose?” sbottò allora Mellish. “Non c’è niente di facile o di scontato in una cosa del genere. Secondo te come la prenderebbe la mia famiglia, eh? Dovrei andare da loro e dirgli Cari mamma e papà, d’ora in poi vivrò con quest’uomo che ho conosciuto in Francia, lo so che è tedesco ma mi ha salvato la vita e ora staremo sempre insieme? Sul serio? Probabilmente mio padre mi butterebbe fuori di casa anche se gli dicessi che ho trovato un compagno di vita tra i miei amici dell’esercito, ma ti immagini cosa mi farebbe sapendo oltre tutto che sei del Paese che sta facendo tanto male alle persone come noi?”

Lo sguardo di Saltzmann si rabbuiò e, per la prima volta, si fece più freddo.

“Questo è dire che tutti tedeschi per te e per tua famiglia sono assassini e mostri? Tutti tedeschi uccidere ebrei? Questo pensare tu e tua famiglia?” domandò, lapidario.

“Io non ho detto questo e tu non mettermi in bocca quello che non penso e che non dico!” protestò il ragazzo. “Voglio solo farti capire che i miei genitori sono molto chiusi e all’antica e che di certo non si mostreranno più disponibili con un uomo che proviene dal Paese che caccia e perseguita gli ebrei. Ma scusa, prova un po’ a metterti nei miei panni. Che succederebbe a parti invertite, se tu ti presentassi alla tua famiglia dicendo che vuoi stare con un ragazzo ebreo?”

“Mio Paese non libero come America, per questo adesso guerra” tagliò corto il tedesco, che sembrava davvero arrabbiato, anche se Mellish non capiva bene perché.

“Va bene, ma poniamo che a casa tua tu possa essere libero. La tua famiglia sarebbe contenta di trovarsi un ebreo per casa?” insisté il giovane.

“Mia famiglia morta sotto bombe di inglesi!” replicò bruscamente Saltzmann. “Ma prima di arrivo Hitler, vicini di casa nostra erano ebrei e noi amici. Dora e Hilda andare a scuola con amici ebrei e loro piangere quando ebrei cacciati da scuola e da casa. Mia madre provato aiutare loro, ma poi SS portare via in ghetto e non vedere più loro, non sapere… E tu pensi che mia famiglia meritato morire sotto bombe come tutti tedeschi assassini e mostri?”

“Ma neanche per sogno, non lo penso assolutamente, come puoi dirmi una cosa del genere?” esclamò Mellish, allibito.

“Tu detto adesso” fece laconico il tedesco. Aveva un’espressione insieme amareggiata e insoddisfatta. Dallo zaino che teneva accanto alla sua branda prese la scatoletta di latta che Mellish gli aveva regalato la sera prima, l’aprì e la svuotò da ciò che ci aveva messo, quindi la tirò sul letto del giovane americano con un certo disprezzo. “Non volere regalo da chi pensa così di mia famiglia.”

Il giovane americano era sempre più incredulo e sconvolto: come poteva aver provocato una reazione tanto gelida semplicemente spiegando la sua situazione personale? Guardò alternativamente il tedesco e la scatola sul letto come se non credesse a ciò che vedeva.

“Forse meglio se io non salvavo te” mormorò Saltzmann, mentre si allontanava e poi usciva dalla tenda, scuotendo lentamente il capo.

Questa frase era probabilmente sfuggita al tedesco per il dolore e la frustrazione che lui stesso provava, ma fu quella che devastò maggiormente Mellish: Saltzmann era l’unico che sapesse cosa aveva significato per lui l’aggressione del soldato delle Waffen- SS che stava per trafiggergli il cuore con la baionetta, aveva visto il suo terrore, la sua angoscia, conosceva i suoi incubi… e ora diceva che avrebbe preferito lasciarlo morire in quel modo? Avrebbe voluto che quel soldato gli facesse tanto male e gli desse una morte atroce e spaventosa? Per un attimo fu come se il ragazzo sentisse ancora il dolore lancinante della punta della baionetta nel petto, il corpo del soldato che lo bloccava, le sue parole pacate che lo invitavano a non lottare per soffrire meno… * Un incubo a occhi aperti del quale non si sarebbe mai liberato, mai. Tremava e sentiva dolore dappertutto. Si rannicchiò sul letto, stringendo a sé la scatola di latta. Dimenticò tutto, la cena al refettorio con i compagni, la serata di chiacchiere e sigarette, e rimase lì a piangere silenziosamente, rivivendo quei momenti terribili come se lo avessero imprigionato in un’eterna spirale d’inferno. Alla fine, dopo molto tempo, sfinito e distrutto, cadde in un sonno tormentato da incubi che non lo aiutò affatto a sentirsi meglio.

La mattina dopo il povero Mellish era una specie di zombie, ma si rese conto che doveva iniziare a fare qualcosa di concreto e reagire se non voleva davvero impazzire, chiuso nella prigione dei suoi ricordi e della sua paura. Decise di cominciare dalla scatola di latta. Lui l’aveva presa per Saltzmann pensando di fare un gesto gentile per un amico ed era stato ripagato così: molto bene, avrebbe donato quella scatola a un altro amico, o meglio, alla sua famiglia. Aveva con sé un paio di foto che lui e Caparzo si erano scattati con altri compagni durante l’addestramento, inoltre aveva conservato lettere, foto e ricordi che Caparzo teneva con sé, li aveva recuperati dal suo zaino e dalla sua giacca dopo la sua morte. Sicuramente ai genitori dell’amico avrebbe fatto piacere averli. Mise tutto nella scatola di latta, poi prese anche lui un foglio di carta e una penna e scrisse una breve lettera indirizzata ai genitori di Caparzo:

Cari signore e signora Caparzo,

so che ormai da tempo avete ricevuto il terribile telegramma che vi annunciava la morte di vostro figlio Adrian, ma ho voluto scrivervi anch’io due righe per farvi sapere che lui era veramente un ragazzo buono, coraggioso e generoso. Io ho avuto il privilegio di conoscerlo ed essere suo amico per tutto il tempo dell’addestramento e nella prima parte della nostra missione e posso assicurarvi che Adrian era amato da tutti e stimato dal nostro capitano. Sul telegramma c’era scritto sicuramente che vostro figlio è morto da eroe, ma quella è una frase fatta che scrivono per tutti. Io però c’ero e vi confermo che Adrian è morto davvero da eroe: non è stato colpito per sbaglio o in un’azione inutile, è morto perché cercava di salvare una bambina e non si è accorto che un cecchino lo teneva sotto tiro. È morto perché aveva un cuore grande e generoso, non indurito dalla guerra, e io avrei voluto avere il suo coraggio ed essere accanto a lui in quel momento perché magari così lo avrei salvato, oppure sarei morto con lui.

Adrian era una persona speciale e, come voi, nessuno di noi potrà mai dimenticarlo.

So che questo non potrà guarire il dolore che provate, ma spero che almeno riuscirete a sentirlo più vicino. Vi porgo le mie più sincere condoglianze, per sempre vostro

Stanley Mellish

Dopo aver scritto la lettera e averla legata alla scatola con due giri di spago, Mellish iniziò a sentirsi meglio, almeno interiormente. La sera prima non aveva mangiato, ma aveva la nausea e non aveva voglia di fare colazione, così decise di andare a cercare subito il capitano Miller per consegnargli il tutto e chiedergli se poteva fargli il favore di impacchettarlo e spedirlo alla famiglia di Caparzo.

Quando se lo trovò davanti, Miller lo guardò bene in faccia.

“Certo, posso fare in modo che venga fatto un pacchetto e inviato al più presto alla famiglia di Caparzo, mi fa piacere che tu me lo abbia ricordato e di sicuro avere le foto e i ricordi sarà di conforto ai suoi genitori, è davvero un bel gesto, Mellish. Anzi, dovresti passare da Wade, aveva copiato lui la lettera che Caparzo aveva scritto e dovrebbe averla ancora, così mandiamo tutto insieme” disse l’uomo. Ma, prima che il suo giovane soldato lo ringraziasse e lo salutasse, riprese: “Tu stai bene, Mellish? Non eri a mensa ieri sera e i tuoi amici si sono preoccupati.”

“Certo che sto bene, signore, grazie, ero solo… stanco. Non dormo bene ultimamente ed è assurdo perché adesso dovremmo essere più tranquilli, non è vero? E invece… ma passerà, ne sono sicuro” rispose il ragazzo, cercando di apparire disinvolto.

Miller, però, aveva imparato a conoscere bene i suoi ragazzi e Mellish non gli diceva la verità: il suo volto pallidissimo e gli occhi arrossati, cerchiati di nero, raccontavano una storia ben diversa, era ridotto addirittura peggio di quando si trovavano ancora in missione!

“Hai ragione, capita anche a me, forse proprio perché siamo tranquilli e abbiamo troppo tempo per pensare” ribatté il capitano. “Comunque, quando passi da Wade, chiedigli di darti un’occhiata professionale, così, tanto per stare sul sicuro.”

“Va bene, signore, la ringrazio” disse Mellish.

Lasciò la scatola e la lettera a Miller e si avviò verso il tendone da campo che fungeva da infermeria dove Wade curava i soldati feriti.

“Ciao, Wade. Scusa se ti disturbo, so che hai molto da fare con i feriti, ma volevo chiederti se potevi darmi la lettera che hai copiato per la famiglia di Caparzo” gli disse, cercando di mostrarsi spigliato come al solito. “Sai, ho messo tutte le sue foto, le lettere e i ricordi in una scatola di latta e il capitano Miller farà in modo di spedirla presto, così i suoi genitori avranno almeno questo di lui oltre a quel telegramma freddo e uguale per tutti. Possiamo metterci insieme anche la sua… la sua ultima lettera.”

“Sì, hai ragione, è una bella idea” si frugò nella tasca interna della giacca, sotto il camice, dove aveva sempre tenuto la copia con sé, forse anche lui per sentirsi più vicino al compagno scomparso. “Eccola. Non sarà una grande consolazione per quella povera famiglia ma è sempre meglio di niente. Piuttosto… tu stai bene, Mellish? Mi sembri troppo pallido e hai degli aloni scuri sotto gli occhi.”

Il ragazzo non aveva mai parlato davvero apertamente dei suoi incubi e del suo terrore, ma adesso sentiva di potersi confidare con il caporale medico.

“No, non sto bene, Wade, non sto bene per niente. Ho sempre incubi spaventosi, rivivo il momento in cui stavo per essere ucciso e tu… tu non sai com’è, nessuno lo sa, non l’ho mai detto a nessuno, ma non ce la faccio più, ho bisogno di dormire normalmente e tu puoi darmi qualcosa? Che so, qualche pillola… sei il nostro dottore, in fondo.”

Wade si morse il labbro inferiore, a disagio.

“In effetti ci sono dei sedativi che potrei prescriverti, Mellish, ma… insomma, sono barbiturici, sedativi ipnotici piuttosto forti e anche pericolosi, possono darti dipendenza e…”

“Non m’importa, Wade, io se vado avanti così impazzisco. Mi farei sparare la morfina in vena se servisse. Ho bisogno assoluto di dormire e di non pensare più a niente” replicò il giovane, disperato.

“Non posso più rivivere quei momenti, mi stanno distruggendo!”

Wade annuì. Vedeva tutti i giorni soldati in quelle condizioni, poveri ragazzi sopravvissuti a esplosioni, bombardamenti, attacchi di mitragliatrici, che avevano visto morire i loro compagni e che di notte gridavano e piangevano.

“So cosa vuol dire avere paura, lo vedo qui tutti i giorni e io stesso l’ho provato quando sono stato ferito durante l’attacco al nido della mitragliatrice” disse poi, piano. “Ero sicuro che sarei morto, ma sono stato fortunato perché c’eravate voi e mi avete salvato, siete riusciti a fare tutto quello che vi ho detto per ricucirmi… Tu, invece, eri da solo, vero?”

E per la prima volta Mellish aprì il suo cuore e raccontò a Wade tutto quello che era accaduto in quella stanza mezza sventrata dalle bombe, il suo corpo a corpo con il soldato delle Waffen- SS, il momento in cui lo aveva bloccato e gli aveva puntato la baionetta al petto, il dolore atroce, il terrore gelido… A lui poteva dirlo, sì, poteva dire tutto, perché Wade lo aveva vissuto e ci conviveva ogni giorno in mezzo ai suoi pazienti.

“Va bene, capisco, è stata un’esperienza devastante anche più di quanto credessi” ammise il caporale medico. “Per adesso posso prescriverti dei sedativi, i più leggeri che ho, ma sono sempre fin troppo pesanti, ricordalo. Non abusarne mai, prendi una pillola, una sola, la sera prima di andare a dormire, e, appena starai meglio, cerca di farne a meno. E comunque, quando torneremo a casa, dovrai vedere qualcuno che ti aiuti a superare lo shock che hai subito… come molti altri, temo.”

“Lo farò, te lo prometto, amico mio, ma se non mi aiuti adesso non ci arriverò neanche, a casa” rispose Mellish, e Wade dovette convenire che il compagno era messo davvero male. Gli diede la scatola dei sedativi, sperando con tutto il cuore di non aver commesso un errore.

Poco più tardi Mellish era di nuovo da Miller per consegnargli la lettera di Caparzo.

“La ringrazio ancora, capitano, e… grazie anche per il consiglio di andare dal dottore” cercò di scherzare, senza tuttavia ingannare il suo capitano.

All’ora di pranzo, Mellish non aveva voglia di andare alla mensa e di trovarsi in mezzo al rumore e alle chiacchiere, aveva tanto mal di testa e si sentiva stordito. Decise di prendersi un panino e una bottiglietta d’acqua e tornare a mangiare nella sua tenda, dove sapeva che sarebbe stato da solo. Dopo mangiato, guardò a lungo la scatola dei sedativi che gli aveva dato Wade. Sì, lo sapeva, gli aveva promesso di prendere una sola pillola al giorno, ma erano solo le tre del pomeriggio e come avrebbe fatto una sola pillola a farlo dormire a sufficienza? Decise così, solo per quella volta, di prenderne due, ingoiandole con l’ultimo sorso d’acqua, poi si spogliò restando in maglietta e boxer e si mise sotto le lenzuola, affondando il volto nel cuscino.

Si addormentò in pochi minuti, vinto dalla stanchezza e dalle pillole, e questa volta fu un sonno lunghissimo, senza sogni, ipnotico e quasi comatoso che però era proprio ciò che il giovane americano desiderava. E sarebbe stato davvero tentato di restare in quel modo per sempre…

Fine capitolo quinto

 

 
* Esiste una traduzione precisa delle frasi che il soldato SS dice a Mellish mentre lo uccide e non sono minacce o insulti come pensavo io, letteralmente dice: “Smettila, non hai possibilità. Facciamola finita. Così è più facile per te, molto più facile. Vedrai che sarà tutto finito in un attimo”. Non so perché, ma a me così sembra anche più agghiacciante!

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Capitolo 6
*** Cap. 6: Blurry ***


Cap. 6: Blurry

 

I can feel the stares across the side of the room, but
I'm trying not to imagine what is happening with you
Oh-woah, I don't wanna know

Why does everything seem so blurry?
I got lost in a silence out of my head
All the kids shout, "Hey, don't worry"
But what's the point of a love when it comes to an end?

I don't wanna play, I don't wanna play this
I don't wanna play the game, oh-oh-oh
Why does everything seem so blurry?
I got lost in a silence out of my head!

(“Blurry” – Alice Merton)

 

Il Quartier Generale dello SHAEF si era trasferito già da metà settembre al Trianon Palace Hotel, proprio nel luogo in cui, durante l’occupazione tedesca in Francia, Hermann Goering aveva stabilito lo staff della Luftwaffe. Si trattava di un hotel di lusso che affacciava proprio sui Giardini di Versailles anche se, con ogni probabilità, i Generali Eisenhower, Patton, Montgomery e gli altri non lo avevano scelto per ammirare il panorama o passeggiare nei giardini cari alla Regina decapitata Maria Antonietta! Comunque, in un primo tempo era stato deciso che gli accampamenti dei soldati, che fossero truppe di riserva o feriti in attesa di essere rimandati a casa (e tra loro c’era anche la Compagnia Charlie, come ormai ben sappiamo), restassero a Granville, che era stata anche la prima cittadina francese a ospitare il Quartier Generale dello SHAEF. Questo era avvenuto perché proprio da metà settembre gli Alleati avevano intrapreso una nuova offensiva contro l’esercito tedesco, erano entrati in Belgio e avevano occupato i boschi delle Ardenne e l’idea era quella di sconfiggere le truppe hitleriane e penetrare in Germania prima dell’inizio del vero e proprio inverno: visto che le cose, almeno all’inizio, erano andate bene, i Generali Alleati erano convinti che le armate sarebbero potute entrare in Germania in un mese o poco più. Invece l’autunno aveva portato cattive notizie: le forze armate statunitensi che si erano stanziate nei boschi delle Ardenne non riuscivano ad avanzare, anzi si trovavano in sempre maggiori difficoltà, sia a causa della scarsità dei rifornimenti di uomini e mezzi e dei grandi problemi logistici, sia a causa delle incursioni di piccoli commando tedeschi che seminavano panico e morte tra i soldati. Appariva ormai chiaro che la situazione era in stallo e che occorreva pensare a qualche piano alternativo per evitare una possibile offensiva delle armate tedesche e alla perdita di quanto ottenuto fino ad allora. In un simile clima di tensione e insicurezza il ritorno in patria del soldato Ryan e della Compagnia che lo aveva salvato non era più una priorità, anche perché un eventuale attacco tedesco avrebbe potuto perfino vanificare gli sforzi fatti per la salvezza del giovane. Gli accampamenti a Granville, che dovevano rappresentare solo una base temporanea per una breve attesa prima del rimpatrio, sembravano ora una sede forzata in cui i soldati sarebbero rimasti bloccati per mesi, in condizioni sempre più scomode e mettendo in difficoltà anche la ricostruzione della cittadina e il rientro degli sfollati. Per tutti questi motivi, tra la fine di settembre e i primi di ottobre gli accampamenti di Granville vennero smantellati e la cittadina restituita ai suoi abitanti; il Trianon Palace Hotel di Versailles divenne così anche la nuova base dei soldati americani. Ovviamente le stanze lussuose e i grandi saloni erano riservati ai Generali e alle riunioni dei piani alti, tuttavia un’intera ala del palazzo, meno rinomata, venne riservata per i soldati e vi furono allestite un’infermeria per i feriti, una sala mensa e le camerate per gli uomini. *

Wade era contento semplicemente del fatto che la nuova infermeria era dotata di maggiori comodità e disponibilità di medicinali per i feriti di cui si occupava, ma per Mellish, Jackson, Ryan e gli altri ragazzi trovarsi in quella specie di reggia fu qualcosa di straordinario. Nessuno di loro veniva da una famiglia ricca e, anzi, la maggior parte di quei ragazzi aveva vissuto in vecchie fattorie in mezzo alle pianure dell’Iowa o del Tennessee, come Ryan e Jackson, e per loro fu come essere trasferiti nel palazzo reale!

“Ragazzi, se anche decidessero di non rimpatriarci, a me non importa più un bel niente, sappiatelo” disse subito Reiben non appena entrò nella nuova camerata che condivideva con altri undici soldati. “Basta che mi lascino abitare qui per il resto dei miei giorni!”

Sì, è vero che si trovava comunque in stanza con altri soldati, ma lì almeno ognuno aveva un comodo letto al posto delle solite brande e c’era addirittura un vero bagno che, sebbene fosse in comune con gli altri compagni, per chi era abituato a fare la doccia e tutto il resto sotto una tenda umida e fredda era un lusso mai neanche immaginato.

Era stata prevista una sistemazione diversa, invece, per Upham e Mellish che, come già era avvenuto negli accampamenti di Granville, avrebbero avuto una stanza tutta loro da condividere con il prigioniero tedesco che avevano in custodia.

“Immagino che tutto ciò significhi che non torneremo in America così presto come pensavamo” commentò Upham, entrando nella sua nuova camera e guardandosi intorno. “A questo punto probabilmente non ci faranno partire fino alla prossima primavera. Comunque guardiamo il lato positivo: qui staremo sicuramente bene e, oltre tutto, avrò più tempo per insegnare l’inglese a Josef.”

“Direi proprio di sì e, visto che non sta facendo grandi progressi, penso anche che sarà un bene” replicò laconico Mellish. Dopo la discussione che aveva avuto col tedesco una decina di giorni prima, sembrava aver cancellato dalla mente tutto quello che c’era stato tra di loro e adesso si comportava come se Josef Saltzmann fosse una responsabilità che gli toccava giocoforza.

Saltzmann, dal canto suo, non aveva aperto bocca e pareva incantato dalla bellezza di tutto ciò che lo circondava. Chissà, forse gli sembrava davvero di vivere nella villa di un divo di Hollywood o chissà quale altra fantasia si era fatto sull’America… di certo era chiaro che anche lui non veniva dai quartieri alti! A differenza di quanto ostentato da Mellish, tuttavia, per lui la discussione con il giovane era una fonte di disagio e sofferenza e avrebbe voluto riconciliarsi, anche se non sapeva bene come poiché il divario linguistico non aiutava. Magari, però, vivere in un luogo così bello gli avrebbe anche permesso di trovare un modo per chiarirsi con Stan, forse passeggiando lungo quei bei giardini che si vedevano fuori o qualcosa del genere…

“In effetti è vero, penso anch’io che dovresti impegnarti di più e sfruttare bene questo tempo che ci è concesso” disse Upham a Saltzmann, parlandogli in tedesco. “Ti fai capire bene, questo sì, ma per trovare lavoro in America dovrai conoscere molti più termini e parlare con maggior disinvoltura e, se poi pensi davvero di chiedere la cittadinanza americana, avrai ancora più cose da studiare e molte di esse useranno termini tecnici e complessi.”

“Prometto che mi impegnerò di più, io voglio veramente costruire una nuova vita in America, ma tu devi aiutarmi anche a riconciliarmi con Stan” rispose l’uomo. “Ormai sono giorni che praticamente non ci parliamo neanche…”

Mellish li fissò, prima l’uno e poi l’altro, infine li apostrofò entrambi con fare irritato.

“Lo sapete che è molto maleducato parlare in un’altra lingua quando io non posso capirvi? Potreste almeno avere la decenza di chiacchierare dei fatti vostri mentre io non sono presente, no?” disse.

“Hai perfettamente ragione” sorrise Upham, alzandosi dal letto sul quale era seduto e avviandosi verso la porta. “È molto meglio che voi due restiate qui da soli a spiegarvi per potervi riappacificare, questa storia è andata avanti anche troppo e io, comunque, devo dare un’occhiata alla stanza dove mi troverò a lavorare con gli altri interpreti e cartografi nei prossimi giorni.”

Soddisfatto, Upham uscì dalla stanza, lasciando Saltzmann felice di poter finalmente parlare a tu per tu con Stan e Mellish, al contrario, molto a disagio. Spontaneo e semplice come sempre, il tedesco si sedette sul letto accanto al ragazzo.

“Upham dire bene, noi parlare e spiegare” disse.

“Non mi sembra ci sia molto da spiegare” replicò brusco Mellish. “Io ti avevo semplicemente parlato di come la mia famiglia potrebbe anche accoglierti con ostilità e tu sei partito come se avessi offeso i tuoi antenati fino alla quinta generazione! Non mi hai lasciato chiarire meglio e alla fine mi hai anche detto una cosa orribile… che non avresti dovuto salvarmi… eppure sai cosa significhi per me quel ricordo. Ho avuto incubi orrendi e ora devo farmi prescrivere dei sedativi da Wade per riuscire a riposare. Cos’altro c’è da spiegare?”

Saltzmann era rimasto molto male nel sentire queste cose da parte del giovane americano. Certo, aveva notato che era triste, che non gli voleva più parlare e che sembrava riprendersi solo quando aveva a che fare con gli altri suoi compagni, ma le altre cose… incubi? Sedativi per dormire? Stan rischiava forse di farsi del male alla salute?

“Tu prendi medicine per dormire? Non è bene, tu solo ventuno anni…” iniziò a dire.

“Non venirmi a fare la predica proprio tu, sai?” reagì il ragazzo. “Adesso non posso farne a meno, per questo Wade ha accettato di prescrivermeli, così almeno la notte dormo e il giorno dopo non sono uno zombie. Devo tirare avanti così finché non andremo in America e poi, come ho promesso anche al nostro dottore, magari mi farò curare, ma qui di sicuro non ci sono terapeuti. Vuoi fare lo strizzacervelli tu, per caso?”

Naturalmente il pover’uomo non aveva capito molto delle parole di Mellish, però il fatto che Wade lo seguisse era tranquillizzante e poi in America si sarebbe fatto… curare? Sembrava che l’idea fosse quella.

“Io preoccupo per tua salute, io amo te, Stan, voglio stare con te e…”

“Ah, ricominci con questa storia? Non credo tu sia tanto preoccupato per la mia salute visto che hai detto che avresti preferito non salvarmi, che avresti voluto che fossi morto!” esclamò Mellish.

“Io mai detto questo, mai voglio te morto, io voglio fare te felice!” replicò inorridito Saltzmann. “Detto brutte parole perché… io arrabbiato, ma non penso quello.”

“Sì, sì, è il solito discorso, ci si difende dicendo che da arrabbiati non si dice quello che si pensa veramente, ma chissà, invece a volte è proprio quando siamo infuriati che ci scappa detto quello che pensiamo davvero” commentò il giovane americano, “ma alla fine non mi importa.”

“A me importa, a me piace stare con te, a me piaci tu e voglio fare pace con te, chiedo scusa, non basta?” insisté il tedesco.

“Okay, mi hai chiesto scusa, non pensavi quello che hai detto, facciamo che ti ho scusato e finiamola” tagliò corto Mellish. In effetti non era più veramente arrabbiato con Saltzmann e poteva anche credere che gli avesse detto quelle parole senza pensarci, ciò di cui si rendeva conto era che aveva rovinato tutto. Loro due si erano avvicinati molto (forse anche troppo, pensava a volte il ragazzo…) e quella discussione assurda li aveva riportati a una distanza siderale che, a questo punto, Mellish non intendeva più colmare, non voleva più essere deluso.

Al contrario, quello che il tedesco voleva era proprio colmare quella distanza e, possibilmente, avvicinarsi ancora di più a Mellish, baciarlo di nuovo, arrivare ad essere una sorta di coppia con lui, per quanto la cosa dovesse rimanere nascosta ai più. Ma a lui non interessava farsi pubblicità, lui voleva stare con Stan, anche fingendo di essere solo amici!

“Ma noi stare insieme lo stesso? A me piaci tu, io ti amo, Stan, voglio stare insieme con te qui e in America” chiarì Saltzmann, come se non si fosse capito.

“Beh, io non so più cosa voglio” lo gelò il giovane americano. “Ho ventun anni, non so cosa farò della mia vita quando tornerò a casa. Alcuni, come Wade o Upham, sanno già cosa vogliono dalla vita, Wade farà il medico, magari si specializzerà, Upham vuole fare lo scrittore ma io… io non lo so. E di certo per me è troppo tardi per andare al college, posto che volessi andarci. Insomma, non so cosa farò e devo pensarci, non posso mettermi anche a risolvere i tuoi, di problemi.”

“Va bene per me, tu decidi tua vita, solo che io sono con te, resto accanto a te. Trovo lavoro che capita, non importa, basta che sto con te” ripeté Saltzmann. “Quando io a casa, io ero… mechanischer Arbeiter, come dire voi, operaio meccanico? Io posso fare in America e lavoro per te.”

Mellish scrollava il capo sospirando: quell’uomo proprio non voleva capire, e lì non c’entrava la diversità della lingua!

“Bene, almeno sai già che lavoro potrai cercare in America” replicò, laconico, mentre Saltzmann pareva entusiasta di aver trovato qualcosa che gli avrebbe permesso di mantenersi in America e di vivere con il suo Stan!

“A me va bene lavoro per mantenere me e te, non importa tanti soldi” disse soddisfatto il tedesco. “Come in mio Paese, io lavoro normale e poi vita normale, per me questo bene. Poi… poi dovuto andare a guerra e perso tutto…”

Le ultime parole erano state pronunciate in un tono più amaro che colpì Mellish, fino a quel momento piuttosto indifferente a ciò che Saltzmann diceva; si fece più attento e guardò l’uomo dritto negli occhi.

“Stai dicendo che tu non volevi andare in guerra?” domandò, stupito. Per lui era qualcosa di assurdo, innanzitutto perché credeva veramente che tutti i tedeschi o quasi fossero ben felici di combattere per Hitler e poi per esperienza personale, perché lui e i suoi compagni e tutti i soldati che conosceva si erano arruolati volontari.

Nein” rispose il tedesco, tanto per ribadire il concetto anche nella sua lingua madre. “Avevo già trentadue anni, io no ragazzo, avevo lavoro e sposato da poco Ilse, volevo vita normale e famiglia, no guerra. Io costretto a partire, o guerra o prigione, così è in mio Paese.”

Il giovane americano si sentì franare la terra sotto i piedi e, tutto ad un tratto, si vergognò moltissimo. Saltzmann aveva avuto ragione ad arrabbiarsi con lui, aveva davvero dei pregiudizi, pensava veramente che tutti i tedeschi fossero dei fanatici pazzi e guerrafondai, non aveva mai preso in considerazione neanche alla lontana il fatto che, magari, qualcuno di loro come Josef Saltzmann potesse essere stato mandato in guerra per forza, contro la sua volontà.

“Ho fatto mio dovere di soldato perché speravo che finire tutto presto e io tornare a casa, ma ora… mia casa non essere più e io non più dovere di soldato. Per me guerra finita. Io venire in America con te, Stan” ribadì l’uomo.

Mellish si sentiva il più schifoso verme sulla faccia della terra. Timidamente, posò una mano sul braccio di Saltzmann.

“Senti, io… mi dispiace, mi dispiace tanto, sul serio” mormorò, volendo sprofondare. “Avevi ragione tu ad arrabbiarti, io ho avuto davvero pregiudizi su voi tedeschi, non avrei mai pensato che tu non volessi arruolarti, che fossi stato costretto e addirittura minacciato di arresto, da noi non è così… ** ma non è una scusante, sono stato un vero stronzo e pure razzista, figurati, razzista io!”

L’uomo gli passò un braccio attorno alle spalle e lo strinse a sé.

“Tu no preoccupare di questo, ora per me finito, e io non arrabbiato con te, tu bravo ragazzo, io lo so” gli disse con dolcezza.

“No, no, non sono bravo affatto, sono proprio uno stronzo, mi dispiace davvero…”

“Tu bravo ragazzo, Stan, buono e gentile. A me piaci tanto, io ti amo, non arrabbiato con te, io stare sempre con te” mormorò ancora Saltzmann, poi si distese sul letto stringendo Mellish tra le braccia e lo baciò teneramente e lungamente… gli era tanto mancato baciarlo! Lo baciò dapprima quasi timidamente, forse temendo che il ragazzo potesse respingerlo, poi sempre più profondamente, cingendolo con un braccio e affondando l’altra mano tra i suoi capelli. Una mano era premuta sulla sua nuca per spingerlo sempre più contro di lui, respirando il suo respiro, mentre con l’altra mano accarezzava il suo corpo liscio e morbido sotto la maglietta e lo sfiorava dappertutto, per non perdersi nemmeno un centimetro della sua pelle di cui aveva sentito così tanto la mancanza. E Mellish? Il giovane americano si rendeva conto solo in quel momento che dentro di sé aveva atteso per giorni qualcosa del genere, che anche a lui erano mancati quei baci e quegli abbracci insieme teneri e appassionati ed ora era totalmente in balìa del tedesco, ma non gli importava più di mostrarsi debole e indifeso, ciò che aveva scoperto su Saltzmann lo aveva colpito davvero al cuore e si sentiva vicino a lui come mai prima di allora. Era come se, in un certo senso, pensasse di ripagarlo in questo modo per i pensieri cattivi che aveva avuto su di lui e così lasciò andare qualunque tentativo di controllo e si perse totalmente nel suo bacio e nelle sue carezze, desiderando che non finisse mai e chiedendosi allo stesso tempo come fosse possibile che lui, proprio lui, provasse simili desideri! Ad un certo punto, però, si rese conto di dov’erano e di come sarebbe potuta finire quella faccenda e così cercò di concludere quel momento che avrebbe potuto portarli chissà dove.

“Aspetta… siamo in camera… Upham potrebbe rientrare all’improvviso, o qualcun altro dei miei compagni” mormorò.

“Questo è cosa vera” concordò Saltzmann, rialzandosi dal letto e tirando su anche Mellish per tenerlo ancora un po’ tra le braccia. Si avvertiva distintamente la violenza che l’uomo aveva fatto a se stesso per imporsi di staccarsi da lui, dalla sua bocca tenera e da quel corpo così tiepido e morbido.

“Posso io venire in tuo letto stanotte? Dormire con te? Io proteggo te da incubi, meglio di medicine di tuo dottore. Posso?” gli chiese, sempre tenendolo abbracciato.

Mellish si rese conto benissimo del fatto che, se Saltzmann avesse dormito con lui quella notte e anche altre, non si sarebbe certo fermato a rassicurarlo dagli incubi… soprattutto perché lui stesso, assurdamente, non intendeva fermarlo e sembrava che si sarebbe lasciato fare qualsiasi cosa, oltre tutto mezzo stordito dal sedativo.

“Può darsi, ora non lo so, chiedimelo ancora stanotte e magari ci penso” rispose, profondamente turbato ma anche pieno di un calore che gli scorreva nelle vene e gli riempiva la pancia. “Se Upham se ne accorgesse chissà cosa potrebbe pensare?”

“Non preoccupare di Upham. Lui già sa tutto” replicò tranquillo il tedesco.

Mellish trasecolò. Che voleva dire con quella frase? Per caso Saltzmann aveva detto a Upham di voler andare a letto con Stan e Upham era stato d’accordo? Avevano forse parlato tra loro di cose del genere invece di studiare l’inglese?

Poi pensò che, in realtà, non voleva affatto saperlo

Fine capitolo sesto

 

 

* La vicenda dello spostamento del Quartier Generale dello SHAEF da Granville a Versailles è vera e anche l’offensiva nelle Ardenne che prima sembrò andare liscia e poi si bloccò; ovviamente io ci ho aggiunto anche tutta la parte degli accampamenti dei soldati che in realtà non c’erano, perché appunto nella mia storia ci sono anche tutti quelli a cui è stato promesso il rimpatrio.

** In Germania ci fu il reclutamento obbligatorio fin dal 1935 e gli obiettori di coscienza finivano nei campi di concentramento proprio come i nemici politici, gli ebrei, gli omosessuali, i disabili ecc…; negli USA vigeva il reclutamento volontario, anche se dal 1940 al 1947 esso fu affiancato da una coscrizione obbligatoria per la sempre maggiore necessità di soldati. L’esperienza di Mellish e dei suoi compagni è comunque quella di volontari e nella maggior parte dei casi era così.

 

 

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Capitolo 7
*** Cap. 7: Moth to a flame ***


Cap. 7: Moth to a flame

 

How can I free myself from hiding behind blurry eyes
It’s like a circle, you’re the reason I’m spinning so blind

I’m bound to catch fire on my way to transcend
Let this be the end of my cries

You’re the cure for this lonely heart
 Lying underneath, you keep on hiding
And like a moth to a candle
I run within the flames of your dangerous mind,

 burning bright!

(“Moth to a flame” – Delain)

 

Il giorno seguente era una luminosa giornata di inizio ottobre, fredda ma bella e soleggiata e ad Upham venne in mente di portare Saltzmann a fare lezione di inglese in giardino. Il bel sole e l’aria frizzante, insieme alla meraviglia dei fiori e dei cespugli lussureggianti, resero meno tediosa la lezione che, quel giorno, Upham aveva dedicato allo studio dei primi articoli della Costituzione Americana, con le conseguenti difficoltà causate dai termini tecnici e legali, più complessi da imparare per il tedesco. Tuttavia, siccome quel giorno l’uomo si era mostrato particolarmente diligente e attento, Upham decise che, alla fine, avrebbero potuto fare esercizio di inglese facendo conversazione e parlando di argomenti che interessavano Saltzmann.

Devo proprio dirlo? Naturalmente Saltzmann volle parlare di Mellish, del fatto che si erano riconciliati e che ora lui sperava davvero di poter vivere per sempre con lui.

“Io lavorare come operaio meccanico in America e avere casa con Stan” annunciò tutto soddisfatto. “Io so che non potere dire di noi come coppia, ma non dire, per mondo noi essere solo amici. Questo capita in tante parti, sì?”

“Certo, ci sono delle persone che hanno questo tipo di relazione, non c’è niente di male almeno per me, ma si sa com’è la gente, in America c’è più libertà, ma alla fine i pregiudizi rimangono” rispose Upham, con un sorriso incoraggiante. “Il fatto che siate un tedesco e un ebreo non aiuta, anche se per me rende ancora più prezioso il vostro legame. Ma allora Mellish è d’accordo con te? Vi siete riconciliati fino a questo punto e anche lui vuole vivere con te?”

“Stan tanto giovane, lui non deciso ancora, ma io sto con lui, proteggo lui, faccio felice lui e penso che alla fine lui mi può volere bene” rispose Saltzmann, molto determinato. “Penso che una notte anche posso andare in letto di Stan, lui dice ci pensa…”

Se il povero Mellish avesse saputo…!

“Ah, va bene, non preoccupatevi per me, io farò finta di non esserci neanche e di non sapere niente, anzi, magari chiederò a Wade dei tappi di cera per le orecchie per non sentirvi nemmeno!” disse il giovane caporale, ridendo. Da una parte scherzava, ma dall’altra era contento che il suo nuovo amico tedesco si stesse davvero integrando, che si potesse costruire una nuova vita in America e che potesse rendere felice Mellish. Upham si sentiva ancora in colpa, a volte, per non aver avuto il coraggio di salire a salvare il suo compagno e, quando ci pensava, si rasserenava solo ricordando che era stato Saltzmann, poi, a aiutare Mellish, che il giovane soldato stava bene grazie a lui e che, anzi, adesso il tedesco si sarebbe preso cura di lui per tutta la vita. Erano due persone alle quali si era affezionato molto e saperle insieme per lui era una bella soddisfazione.

Magari il problema era che Mellish non pensava ancora di stare insieme al tedesco in quel senso, ma tant’è…

“Anzi, sai che ti dico? Chiederò a Wade di poter restare con lui in infermeria, questa notte e magari anche qualcuna delle prossime, per aiutarlo con i feriti” si offrì Upham, “così tu e Mellish potrete stare in pace senza che nessuno vi disturbi.”

“Io ringrazio tanto te, Upham, grazie davvero!” esclamò Saltzmann con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, entusiasta come un bambino davanti a un albero di Natale pieno di regali.

E così quella sera, dopo cena, Mellish si ritrovò in camera da solo con Saltzmann!

“Upham stanotte con Wade, aiuta lui con feriti, noi nessuno disturba” disse soddisfatto il tedesco, mentre Mellish si guardava attorno piuttosto perplesso.

“Ma non ci eravamo già chiariti? Mi pareva che avessimo fatto pace e anch’io mi ero scusato con te, non c’era bisogno che Upham dormisse altrove” obiettò.

“Questo vero, ma così nessuno disturba o interrompe noi” spiegò contento Saltzmann.

Disturba o interrompe dal fare che cosa?, si domandò il giovane americano, poi decise che forse, in realtà, era meglio non saperne troppo.

Il tedesco sedette sul letto accanto a Mellish.

“A me dispiace io ridato scatola che tu regalato a me, io arrabbiato, brutto mio gesto e io non scusato con te” disse l’uomo. “Ora io chiedo scusa a te e chiedo ridare me tuo regalo, a me piace scatola, a me piace regalo da te. Vuoi ridare?”

Mellish fece spallucce.

“Ah, quella scatola, dicevi? Beh, io pensavo che a te non interessasse e allora l’ho spedita alla famiglia di Caparzo, il mio amico morto in missione. Ci ho messo dentro foto, ricordi e lettere che lui aveva lasciato e l’ho fatta spedire ai suoi genitori dal capitano Miller. La scatola è in viaggio per l’America, adesso. Figurati, non ci pensavo neanche più” tagliò corto.

Saltzmann sulle prime rimase allibito sia per la risposta sbrigativa di Mellish sia per la repentina partenza della scatola che, in teoria, sarebbe stata destinata a lui, poi però guardò bene in volto il ragazzo, che aveva l’aria di chi lo ha fatto proprio apposta per fare un dispetto e togliersi un sassolino dalla scarpa… e così si mise a ridere di gusto.

“Tu proprio buffo, Stan!” esclamò, divertito e intenerito. “Tu bella mossa, io meritato, a me piace tanto tuo carattere, tuo modo di fare. A me piaci tu come sei, proprio come sei, Stan, piaci tanto!”

E, tanto per dimostrarlo concretamente, prese tra le braccia il giovane americano e iniziò a baciarlo prima delicatamente e teneramente, poi sempre più intensamente, accarezzandogli le guance e i capelli, scivolando sul letto con lui, sotto le coperte (tanto questa volta sapeva che nessuno li avrebbe interrotti!). Si sistemò su di lui e fece scivolare via la sua maglietta e i pantaloni, badando a fare tutto lentamente e delicatamente per non fargli male e non spaventarlo; qualsiasi minima esitazione o protesta da parte di Mellish lo avrebbe fermato, nonostante il desiderio fosse diventato ormai urgente… ma non ci furono proteste, il ragazzo era completamente travolto da quella nuova situazione e riusciva a malapena a ricordare come si facesse a respirare. I loro corpi si adattarono l’uno all’altro quasi con naturalezza, pelle contro pelle, i respiri diventati uno mentre Saltzmann iniziava, lentamente, a farsi strada dentro di lui, pronto a fermarsi se solo a Mellish fosse sfuggito il più lieve lamento di dolore, continuando a baciarlo profondamente, senza riuscire a staccarsi dal suo sapore, dal calore e dalla tenerezza delle sue labbra morbide. Desiderava godersi ogni istante di quell’atto tanto sognato, ogni minimo contatto con il ragazzo che amava, avrebbe voluto farlo durare un’eternità. Si mosse lentamente, sempre con la massima delicatezza, lasciando che il giovane imparasse ad accoglierlo e ad assecondarlo. I sospiri e i gemiti increduli e sperduti di Mellish lo eccitavano ancora di più e lo portarono a spingersi in lui più profondamente, ma con lentezza e dolcezza e senza smettere di baciarlo e accarezzarlo. E Mellish? Lui era totalmente fuori dal mondo e dal raziocinio, sentiva solo che voleva che l’uomo continuasse, che non smettesse mai, che non lo lasciasse andare mai più, come se fosse integro e completo soltanto unito a lui e tutto il resto rischiasse di distruggerlo. Incollato in quel modo a Saltzmann non esistevano più incubi, angosce, preoccupazioni, brutti ricordi, c’era solo il sangue che gli si incendiava nelle vene e il calore e la tempesta che imperversavano nel suo ventre e che pian piano si scioglievano in un languore meraviglioso e spaventoso insieme, incredibile e immenso, che non aveva mai lontanamente immaginato. Sembrava tutto perfetto come se fossero da sempre destinati a quello, a essere l’uno la parte mancante dell’altro, a completarsi a vicenda. Quando entrambi giunsero a esplodere insieme nell’apice dell’estasi, il giovane americano si sentì quasi defraudato di qualcosa, come se avesse voluto che la cosa non finisse così, che non finisse più, che non ci fosse un domani, e rimase languido e stremato nell’abbraccio protettivo e affettuoso di Saltzmann.

“Ora tu mio Stan” mormorò teneramente il tedesco, e in effetti non faceva una grinza, in poche parole aveva riassunto perfettamente il quadro della situazione!

A Mellish ci volle un po’ per tornare a un livello di coscienza più o meno normale e solo a quel punto si rese conto davvero di cosa fosse successo e di quanto si fosse lasciato travolgere e dominare in tutto e per tutto da quell’uomo! Non che fosse pentito, pure nel suo obnubilamento si era reso conto di averlo voluto quanto Saltzmann, però ora riusciva a pensare un po’ più razionalmente e ritenne di dover dire qualcosa, qualsiasi cosa, per dimostrare un minimo di ritegno e decenza.

“Senti” esordì, prendendo un grosso respiro e cercando di darsi una sorta di contegno, “ora che siamo più… beh, ecco… insomma… in confidenza, ecco, mi vuoi togliere una curiosità? Non c’è niente di male o di polemico, solo ci tengo a saperlo, non per darti la colpa o cose del genere. Quando ci siamo incontrati la prima volta e noi abbiamo distrutto il nido di mitragliatrice e ti abbiamo catturato, eri stato tu a colpire Wade, sì o no? Adesso me lo puoi dire, non credi?”

Il tedesco trasecolò. Ma come? Aveva appena fatto l’amore con il suo Stan come desiderava da tantissimo tempo, era stata una cosa bella per entrambi (sì, lui si era accorto che anche a Mellish era piaciuto e non poco…), erano finalmente una coppia e tutto quello che il giovane americano voleva era rivangare quel fatto di tre mesi prima, quello per il quale per poco non lo avevano fucilato? Ma perché?

“Io non capire” mormorò deluso Saltzmann, “io non sapere perché tu ora, proprio ora, chiedi questo a me. Quello brutto momento, noi nemici, ma ora tutto diverso e poi tuo amico salvo, sta bene. Perché chiedi questo ora?”

“Ma niente, te l’ho detto, non voglio incolparti di niente e lo so che è finito tutto bene, ma proprio perché è andato tutto bene adesso voglio la verità. Me la puoi dire o no?” insisté Mellish.

A dirla tutta, non era proprio quella la ragione per cui il ragazzo la faceva tanto lunga, anche per lui in realtà l’episodio era lontano e, per fortuna, era finito bene. Ma voleva a tutti i costi cambiare argomento e non pensare più a quanto si era sentito bene tra le braccia di quell’uomo, a quanto era stato travolto da lui totalmente fino a smarrirsi, a quanto era stato meraviglioso sentirsi finalmente protetto, accolto, amato e sicuro…

“Stan, io non posso dire perché io non so” rispose Saltzmann, tristemente. “Tu vedere quel posto allora, era nido per mitragliatrici, io con altri soldati fare attacchi a americani. Non so se io sparare a tuo amico oppure no, io sparato, certo, sparato contro voi e ora penso a quanto fortunato che non colpire te. Ma non avere bersagli, sparare contro soldati, non sapere davvero se tuo amico dottore colpito da me o da altro mio compagno. Io non sapere, non posso dire, mi dispiace se tu… se tu ancora pensare questo e non fidare di me…”

E, ancora una volta, Mellish si sentì davvero uno schifo, un qualcosa di disgustoso appiccicato allo stivale: Saltzmann era stato così buono con lui, così tenero, affettuoso e premuroso e lo aveva fatto sentire bene e lui… lui era stato solo capace di ferirlo di nuovo!

“No, no, dispiace a me, io… sì, volevo sapere, proprio perché adesso siamo più… insomma, legati, ecco, e quindi sono contento che non sei stato tu, che non hai colpito tu Wade o che, se per caso sei stato tu, nella confusione non ti sei accorto di aver ferito proprio un ufficiale medico” disse in fretta, afferrando l’uomo per le braccia come se avesse paura che si offendesse e andasse via. “Io ti credo, ora, so che non mi mentiresti mai e sono contento che ci sia questa… beh, fiducia tra noi. E anzi ti chiedo scusa, perché allora ero uno dei più stronzi e cercavo un pretesto per ammazzarti e ora mi rendo conto che sbagliavo, che tu avevi fatto solo quello che ti era stato ordinato, così come avevamo fatto noi. Mi dispiace, volevo solo chiarire una volta per tutte questa storia e finirla qui. Scusa se… se ti ho ferito.”

Mellish era davvero pentito e mortificato, aveva uno sguardo talmente triste e sperduto che Saltzmann si sentì ancora più intenerito e attratto da lui, ogni amarezza improvvisamente scomparsa dal suo cuore. Lo strinse forte tra le braccia e lo baciò con tutta la dolcezza e la lentezza del mondo e solo alla fine si staccò da lui, accarezzandogli i capelli e guardandolo con un sorriso.

“No, va bene questo, tu giusto sapere, ma non sapere nemmeno io. Ora noi insieme per sempre, tu mio Stan e va bene che non avere segreti” disse. “Io ti amo, Stan, sto sempre con te, proteggo te, difendo te da tutto male e faccio tutto per fare te felice. Ti amo, mio Stan.”

Lo abbracciò e baciò di nuovo e poi lo strinse al petto per farlo addormentare tra le sue braccia, per farlo sentire sicuro, amato e tranquillo. Per lui qualsiasi problema o dissidio era già dimenticato, l’unica cosa che contava era avere Mellish con sé per tutta la vita e occuparsi di lui, non voleva altro.

Intimidito e confuso, visto che tra l’altro aveva anche preso il sedativo e quindi iniziava ad addormentarsi, il giovane americano si affidò totalmente a Saltzmann proprio come aveva fatto prima e lasciò che il sonno portasse via tutti i suoi dubbi e le sue preoccupazioni.

Già, perché Saltzmann la faceva facile, ma lui sapeva benissimo che la sua famiglia, e soprattutto suo padre, non avrebbero mai accettato neanche il pensiero che lui potesse aiutare un tedesco, anche se questo gli aveva salvato la vita. Figuriamoci se poi quello si fosse lasciato scappare qualche parola di troppo e, peggio di tutto, quell’espressione mio Stan che pareva piacergli tanto. Mai più e mai poi, sarebbe stata una tragedia!

Ma a tutto questo ci avrebbe pensato una volta in America…

Fine capitolo settimo

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Cap. 8: I am free ***


Cap. 8: I am free

 

I was riding on the horse of fear
The laughter of the trees
With the night wrapped around me
I went on my way
The tops of the trees dancing in the wind

The forest seems untouched and I am free
I am free, free
I am free, free
Only when the last star stopped shining
And the last snow fell
Only when will my hope die

 (“I am free – Moonsun)

 

Mellish si sentiva parecchio scombussolato dopo aver trascorso la prima notte d’amore con Saltzmann… o meglio, dopo aver lasciato che lui gli facesse quello che voleva ed essersi abbandonato come se non ci fosse un domani! Quella notte, anche per via del solito sedativo, era piombato in un sonno profondo e aveva dormito fino a tardi il mattino seguente, quando proprio il tedesco lo aveva svegliato con tenerezza, come se ormai lo considerasse una specie di suo compagno o chissà che altro.

“Tardi stamani” gli aveva detto, “io lezione con Upham subito. Penso lui capire, ma io ora andare. Passa buona giornata, mio Stan.”

Il giovane americano era ancora mezzo addormentato quando Saltzmann lo aveva baciato dolcemente e salutato prima di prepararsi per la lezione e poi uscire dalla stanza; tuttavia, rimasto da solo, aveva avuto modo di pensare a quello che era successo quella notte e la cosa lo aveva sconvolto, non tanto per il rapporto in sé (che gli era piaciuto più di quanto volesse ammettere anche con se stesso…), quanto per ciò che, a quanto pare, quell’avvicinamento aveva significato per Saltzmann. Era come se adesso l’uomo si ritenesse sposato con lui, come se avesse già pianificato il loro futuro insieme, e questa cosa a Mellish non andava bene per niente.

Mio Stan un corno, insomma” si disse, mentre anche lui si preparava per uscire. “Va bene, siamo stati insieme stanotte ed è stato bello, ma cosa significa? Io ho ventun anni, non mi voglio certo prendere un impegno per la vita adesso e soprattutto in questa situazione! Sarà bene che Saltzmann se lo metta in testa, magari dovrei farglielo spiegare nella sua lingua da Upham, tra una lezione di inglese e l’altra.”

E così fece. Prima ancora di passare a prendersi un caffè, corse a cercare Upham e gli chiese se, per favore, aveva cinque minuti da dedicargli. Il caporale disse a Saltzmann che potevano fare una piccola pausa e di andare a fare due passi o qualsiasi altra cosa volesse, perché aveva capito che Mellish voleva parlargli a tu per tu e probabilmente la cosa riguardava proprio il tedesco: si sentiva in colpa, era stato lui la sera prima a lasciarli da soli in camera e chissà, magari era accaduto qualcosa che Mellish non voleva e adesso era lì per lamentarsi. Era meglio che Saltzmann non fosse nei paraggi.

“Tu sapevi tutto, vero? Altro che aiutare Wade in infermeria, tu eri d’accordo con Saltzmann per lasciarci soli ieri sera” esordì infatti subito il ragazzo.

“Beh, sì… Senti, se è successo qualcosa che non volevi mi dispiace tanto” rispose Upham. “Io mi sono fidato di Josef, non pensavo che potesse fare qualcosa che ti mettesse a disagio, ma forse avrei dovuto parlarne anche con te…”

“Questo di sicuro” tagliò corto Mellish, “comunque non ti preoccupare, non c’è stato niente di male e anzi… beh, posso anche ammetterlo, siamo stati bene insieme. Però non è questo il punto. Il vero problema è come Saltzmann abbia vissuto la cosa. Per lui il fatto che siamo stati insieme una notte è qualcosa di definitivo, un po’ come se ci fossimo praticamente sposati! Lui immagina che ora sarà così tutte le notti e non solo qui, anche in America, che ormai sono suo e che vivremo insieme e tutte quelle cose che dice sempre. Io ho cercato di spiegargli che non è così automatico, ma lui non capisce, o finge di non capire, perché a me sembra che l’inglese lo sappia solo quando gli fa comodo. Ma tu glielo devi dire chiaramente in tedesco, così non potrà fingere di non capire.”

Upham era confuso.

“Mellish, a dirti la verità non ci ho capito niente nemmeno io” disse. “Hai detto di essere stato bene con lui, e allora cosa c’è che non va?”

“Cosa c’è che non va? C’è che io ho ventun anni e non mi voglio certo sentire legato fin d’ora con uno che conosco appena!” esclamò il giovane, esasperato. Possibile che nessuno riuscisse a comprendere come si sentiva in trappola? “Non so cosa farò della mia vita, non so cosa farò quando torneremo a casa, quindi non ho nessuna intenzione di prendermi un impegno così serio con Saltzmann né con chiunque altro al mondo, se è per questo. Certo, continuerò a aiutarlo a integrarsi in America, sarò suo amico, magari chissà, potremo anche continuare a stare insieme, ma solo perché lo voglio anch’io, non perché ormai sono suo o cose del genere. Glielo devi spiegare bene in tedesco così che non ci siano equivoci, ci siamo capiti adesso?”

“Sì, ma… va bene, cercherò di dirgli tutte queste cose, però è chiaro che Saltzmann ci rimarrà male e mi dispiace” ribatté Upham.

“Beh, spiegagli che non c’è niente di personale, è solo che io sono ancora un ragazzo, non è colpa mia se lui ha l’età del nostro capitano, più o meno! Voglio dire, se uno come Reiben, per esempio, conoscesse una bella ragazza francese e si piacessero e finissero a letto insieme per un po’, mica per forza poi dovrebbe sposarla e portarsela in America, no? E questa è la stessa cosa: siamo stati bene insieme, ma non è detto che debba essere per sempre!”

“Ho capito, ma Josef ha già avuto una moglie e l’ha perduta, ora immagino che stia cercando di rifarsi una vita e si è innamorato di te, si è innamorato veramente, rimarrà davvero molto deluso” cercò di obiettare il caporale.

“Meglio che se ne faccia una ragione subito piuttosto che rimanerci anche peggio più avanti” replicò Mellish, lapidario. “E poi non è mica detto che io non voglia stare con lui, è solo che ci devo pensare, che non voglio decidere ora e che, soprattutto, non voglio sentirmi obbligato e intrappolato.”

“Lui però ti ama veramente tanto e…”

“Senti, non mi importa come glielo dirai, quello che conta è che tu gli spieghi bene tutto quello che ti ho detto. E fallo subito, prima di riprendere la lezione con lui. Siamo d’accordo, caporale?” Mellish lo fissava imbronciato.

“Va bene, va bene, farò come dici tu” si arrese Upham.

“Okay, allora è tutto a posto. Grazie, ci vediamo” concluse il giovane, congedandosi in fretta. Non aveva nessuna voglia di imbattersi in Saltzmann proprio in quel momento…

Passò dalla mensa per prendersi un caffè e lì incontrò Ryan, Reiben e Jackson. Reiben sembrava particolarmente di cattivo umore.

“Ehi, ciao, Mellish” lo salutò Ryan. “Sono contento di vederti, così magari puoi unirti a noi. Il direttore dell’albergo ci ha chiesto, già che siamo qui, se vogliamo renderci utili in qualche modo e, siccome le aiuole e i giardini sono stati rovinati nel periodo in cui questo hotel era stato requisito come sede della Luftwaffe, il nostro incarico sarebbe quello di potare le siepi, pulire e rastrellare le foglie dai prati e dalle aiuole, insomma, ridare nuova vita a questi giardini.”

“Io mi sono arruolato per fare il soldato, non il giardiniere!” brontolò Reiben. Ora si capiva la ragione del suo cattivo umore!

“Va bene, tanto mi stavo annoiando e mi fa piacere avere qualcosa da fare” acconsentì Mellish con un sorriso. “Tra l’altro, anche a casa mia abbiamo un grande giardino e spesso mio padre mi chiedeva di tagliare l’erba o cose del genere. Sarà un po’ come essere a casa!”

“Vero? Lo pensavo anch’io, anche se il mio lavoro alla fattoria era ben più faticoso” replicò felice Ryan. “Allora, andiamo?”

“Dare una mano a rimettere a posto i giardini mi va bene” disse Jackson, cupo, “ma se poi il direttore dell’hotel ci chiede di servire a tavola o rifare i letti lo mando a quel paese. Siamo Rangers in attesa di essere rimandati a casa, non i suoi servitori!”

I giovani si incamminarono verso i giardini con tutti gli attrezzi necessari: guanti, rastrelli, vanga, cesoie e altri utensili. Ryan e Mellish camminavano davanti e sembravano soddisfatti dell’incarico, mentre Jackson e Reiben li seguivano controvoglia. Reiben in particolare sembrava un condannato al patibolo! Poco dopo, mentre rastrellavano e ripulivano le aiuole, Mellish lanciò una battuta al compagno, divertito nel vederlo così oltraggiato nel suo onore di soldato scelto!

“Ehi, Reiben, vedila così: anche questo è un modo di combattere i tedeschi. Noi stiamo rimettendo in ordine quello che i nazisti hanno rovinato e distrutto mentre erano qui, non ti pare? Facciamo la guerra con i rastrelli invece che con i fucili!” scherzò.

“Io preferisco sempre il mio fucile di precisione, comunque quello che dici è vero” commentò Jackson, che lavorava poco distante e aveva sentito le parole di Mellish. “Quelli sanno solo distruggere, noi adesso riportiamo ordine e normalità come i nostri compagni stanno facendo in battaglia.”

“Strano che proprio tu parli male dei tedeschi, Mellish, visto quanto ti sei legato a Saltzmann” fece Reiben, ancora astioso per il lavoro che era costretto a fare.

“Ti ricordo che lui mi ha salvato la vita e che non combatte più con i nazisti, e comunque anche prima è stato arruolato a forza. In Germania è così che funziona, sai? O vai in guerra o ti spediscono in qualche prigione abbandonata o che so io” replicò il ragazzo. Quello era un argomento che non voleva toccare, specialmente quel giorno!

“Oh, ma quante cose sai del tuo amico tedesco, e lo difendi pure. Si vede che siete diventati molto intimi…” cercò ancora di provocarlo Reiben.

“Mellish ha ragione: in Germania ti arruolano a forza e ho sentito che prendono anche ragazzini di quattordici o quindici anni” intervenne Ryan, sperando di cambiare argomento. Si era accorto che Mellish era imbarazzato e Reiben non lo avrebbe lasciato in pace tanto facilmente. “Noi qui ripariamo almeno ad una parte dei danni che hanno causato e, quando avremo vinto la guerra, faremo in modo che tutto il mondo sia rimesso in ordine e ricostruito dopo le distruzioni causate da Hitler e dai suoi.”

“Ragazzini? Sono proprio delle bestie…” mormorò Jackson continuando a rastrellare con più impeto, forse pensando di sbattere il rastrello in faccia a Hitler e a tutti i suoi accoliti.

Per fortuna Ryan era riuscito a dirottare il discorso, altrimenti Mellish non avrebbe resistito ancora a lungo. Per distrarsi, si sforzò di concentrarsi meglio sul lavoro che stava facendo e sul significato che poteva avere: riportare ordine e bellezza in quei giardini poteva essere davvero una soddisfazione per lui e per i suoi amici (a parte Reiben, a quanto sembrava!) e, in effetti, era anche una metafora della ragione per la quale lui, e altri come lui, si erano arruolati. Era contento che Ryan la pensasse come lui ed era anche convinto che il capitano Miller l’avrebbe pensata allo stesso modo e sarebbe stato orgoglioso dei suoi soldati quando avesse visto che bel lavoro avevano fatto.

Trascorsero lì quasi l’intera giornata, fermandosi solo per un panino all’ora di pranzo. Volevano portare avanti il lavoro il più possibile finché era ancora giorno e poi, verso le cinque, riordinarono gli attrezzi e si guardarono attorno. Erano stati bravi, anche grazie a Ryan e Jackson che erano cresciuti in una fattoria e quindi esperti di quel genere di cose: ora i giardini avevano un aspetto del tutto diverso e anche Reiben, suo malgrado, dovette ammettere di essere fiero del bel lavoro che avevano fatto. Restava ancora qualcosa da aggiustare e sistemare, ma ci avrebbero potuto pensare la mattina dopo. Complimentandosi l’uno con l’altro, il gruppo dei giovani soldati si preparò a rientrare in albergo per farsi la doccia e cambiarsi per la cena.

Era tutta un’altra storia potersi fare una bella doccia calda in un vero bagno e non sotto le tende umidicce e fredde degli accampamenti. Mellish, poi, avrebbe avuto il bagno a sua completa disposizione, visto che Upham e Saltzmann non erano ancora tornati in camera. Un vero lusso per lui, che non si sarebbe potuto permettere neanche a casa sua dove viveva con i genitori e un fratello e una sorella adolescenti e tre bagni a disposizione (che, per quel tempo, erano già molti… ma la famiglia di Mellish era abbastanza ricca). Il giovane si prese tutto il tempo per godersi quel privilegio e si sentì sempre più soddisfatto: aveva passato una bella giornata produttiva, era fiero del suo lavoro e adesso si poteva rilassare in una vasca di acqua calda. Le preoccupazioni e i dubbi di quella mattina sembravano dissolti e, del resto, lui era convinto che Upham avrebbe spiegato tutto dettagliatamente a Saltzmann e che non ci sarebbero stati più fraintendimenti e problemi.

La cosa iniziò a sembrargli meno semplice del previsto quando, giunta l’ora di cena, non si erano visti né Upham né Saltzmann. Possibile che avessero fatto lezione fino a quell’ora? O magari c’era voluto così tanto tempo perché il tedesco non aveva voluto accettare le spiegazioni di Upham? Ad ogni modo, era appunto ora di cena e il giovane americano scese alla mensa dove si trovavano i suoi compagni e là c’erano anche Upham e Saltzmann, ma si erano seduti in fondo alla tavolata e continuavano a parlare tra loro.

Mellish si strinse nelle spalle e lasciò perdere. Era comunque contento che Upham lo avesse ascoltato e avesse deciso di aiutarlo a spiegare la situazione al tedesco.

Dopo cena e dopo qualche chiacchiera e sigaretta con gli amici, il ragazzo tornò in camera e fu proprio lì che trovò Saltzmann che lo aspettava, seduto sul suo letto, con uno sguardo triste e un’espressione delusa sul volto.

Eccoci all’acqua, pensò allora Mellish.

“Beh, mi sembra di capire che Upham ti ha parlato e ti ha spiegato quello che io non riuscivo a farti capire” disse subito, mettendo le mani avanti.

“Upham parlato con me, ma io non capire davvero” rispose l’uomo. “Noi insieme, ora tu mio Stan, io amo te. Perché tu allontanare me?”

“Io non ti sto allontanando!” esclamò il giovane, esasperato. “Upham ti avrà anche detto che sono stato bene con te e che non sono pentito. Ma quello che non voglio è sentirmi obbligato a decidere fin d’ora della mia vita futura, qui e in America. Ho ventun anni, sono libero e voglio rimanere così. Libero di essere solo tuo amico oppure libero di stare con te, ma perché sarò io a deciderlo. Possibile che tu non riesca a capirlo?”

“Capito questo, io non obbligo te a niente” disse Saltzmann, in tono pacato. Ora non sembrava più deluso, ma solo triste. Triste, però, non per se stesso. Guardò bene in volto Mellish, fissandolo negli occhi, come sfidandolo a sostenere il suo sguardo. “Ma tu rispondi a me ora: tu allontani me o allontani ricordi che non vuoi? Perché tu non dire a te stesso vero su cose successe in stanza a Ramelle quando io salvato te?”

A quelle parole Mellish impallidì e fu come se si sentisse tremare la terra sotto i piedi. Che voleva dire? Certo che sapeva cos’era successo e come lo aveva salvato: aveva sparato al soldato nazista e così lui era uscito da quella situazione terribile sano e salvo. Cos’altro c’era da sapere?

“Tu non dire a nessuno come io salvato te, tu non parlare di quella cosa con amici o tuo capitano” insisté il tedesco. “Io so perché ero lì con te, noi due soli sappiamo, vuoi allontanare me per questo?”

“Cosa sappiamo, ma cosa? Di che diavolo parli, si può sapere?” reagì il ragazzo, sempre più agitato. Qualcosa di oscuro cercava di affacciarsi alla sua mente, alla sua coscienza, ai suoi ricordi, e gli faceva paura, ma non capiva perché. Era gelido, doloroso, spaventoso…

“Tu non volere quei ricordi, ma quelli restare se non parlare di loro. Perché tu non dire mai niente a nessuno di tuoi amici o a tuo capitano?” domandò ancora l’uomo.

“Perché se ne parlo allora diventerà reale!” gridò Mellish, prima ancora di rendersi conto di quello che diceva. E la verità, quello che Saltzmann cercava di fargli ricordare e ammettere, gli piombò addosso in tutto il suo orrore.

Fine capitolo ottavo

  

 

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Capitolo 9
*** Cap. 9: Darkest days ***


Cap. 9: Darkest days

 

Lost within a dream
So clear yet so unreal
While memories surround me
I don't know what has been
To take you in your sleep
And make your eyes surrender
Answers won't come from inside
Neither from what I'm seeing
In the mirrors left behind
I tried not to sink
But shore was too far
And water blackened by your lies…

(“Darkest days” – Nocturna)

 

Saltzmann era addolorato nel vedere il suo povero Mellish che soffriva tanto nel rivivere quei momenti così terribili per lui, ma sapeva per esperienza personale che non serve a niente cercare di rimuovere i ricordi brutti, quelli restano comunque nel fondo del cuore e logorano e straziano.

“Quello è reale, Stan, è vero anche se tu non pensare. Così fa male a te. Tu ricordare, accettare ricordi, così puoi combattere loro e stare meglio” cercò di spiegargli.

Mellish reagì ancora una volta bruscamente, sulla difensiva.

“Ah, ora sei diventato anche il mio psichiatra? Non parli neanche bene la mia lingua e pensi di poter capire la psicologia? Tu nemmeno mi conosci veramente e ora vuoi fare lo strizzacervelli?”

Saltzmann scosse lentamente il capo.

“Io non capire questa parola, ma voglio aiutare te perché io amo te, Stan, voglio vedere te felice” replicò, con una calma e una dolcezza disarmanti. “So cosa dico perché per me stessa cosa. Quando io saputo di mia famiglia tutta morta, io non accettare, non volere. Io pensare che loro vivere bene a Köln e io non potere più tornare da loro perché fare guerra… ma non riuscire. Io non dormire di notte, io incubi, come te. Poi accettato dolore, perdita, morte, pensato che io magari morire in guerra e ritrovare loro in posto migliore. Questo aiutato me, poi io… trovato te e Upham e salvato voi e capito che io ancora potevo avere vita.”

“Che bella storia” borbottò il giovane americano. “Sai che mi dispiace molto per la tua famiglia, ma la tua vicenda non c’entra un bel niente con me, io non ho niente da ricordare, io lo so cos’è successo ed è già abbastanza brutto così!”

“No, non abbastanza” mormorò tristemente il tedesco, poi prese il ragazzo per le spalle, lo fece sedere accanto a sé sul letto e lo abbracciò. “Io visto tutto e so come andate le cose, se tu non accettare io racconto, tu devi combattere paura.”

“No, no, smettila, stai zitto, tu non sai niente…” protestò il giovane, stretto nell’abbraccio di Saltzmann. E non appena si rese conto di quello che aveva detto, di come aveva supplicato l’uomo di tacere proprio come aveva supplicato l’altro di risparmiarlo… allora tutto ritornò a riempire la sua mente, il vero ricordo si fece strada e gli esplose in testa come una bomba devastante.

Saltzmann era salito su per le scale dopo che aveva visto Upham in preda ad un attacco di panico e aver udito grida e rumori di lotta che provenivano dalla stanza al piano superiore. Aveva immaginato che ci fosse qualcuno dei compagni del caporale e che lui non avesse trovato il coraggio di andare a salvarli. Quando giunse sul pianerottolo e entrò nella stanza, però, vide che a terra giacevano già morti un soldato americano e uno delle SS, mentre un altro SS bloccava con il peso del suo corpo un americano e… e lo stava lentamente pugnalando al petto con una baionetta, mentre il povero ragazzo lo supplicava di fermarsi, gemeva e ansimava sempre più disperatamente mentre la lama, inesorabile, gli penetrava nella carne. Saltzmann si era immediatamente chiesto cosa dovesse fare: se avesse sparato alle spalle al soldato nazista, quello avrebbe potuto cadere addosso all’americano o fare comunque un movimento convulso e la baionetta avrebbe trafitto il cuore del giovane. Dagli spasmi e dagli ansiti stravolti del ragazzo comprese di non avere molto tempo ancora per pensare.

“Ehi!” gridò, rivolto al soldato. Il nazista, che non si aspettava di essere sorpreso alle spalle, lasciò perdere il tentativo di trapassare il cuore del soldato americano, immaginando forse che sarebbe morto lo stesso, mentre la voce dietro di lui rappresentava un pericolo più immediato. Sfilò la baionetta dal petto del giovane e si voltò, brandendola contro Saltzmann.

Non ebbe neanche il tempo di stupirsi del fatto di essere sotto tiro da parte di un commilitone (fuoco amico, si sarebbe potuto dire!) che Saltzmann approfittò del momento favorevole per sparargli e fulminarlo sul posto. Il cadavere del soldato SS crollò a terra, accanto al corpo dell’americano, e Saltzmann si affrettò ad andare dal ragazzo per soccorrerlo. Solo quando gli fu vicino e lo sorresse piano, aiutandolo ad appoggiarsi alla sua spalla, riconobbe uno dei compagni di Upham e si rallegrò ancora di più di averlo salvato… anche se ricordava che quel ragazzo era stato uno di quelli che voleva fucilarlo, ma in quel momento la cosa non aveva importanza, contava solo che non fosse ferito gravemente. Gli aprì il giubbotto e gli sollevò la maglietta per vedere quanto profonda fosse la ferita e, nel frattempo, cercava di parlargli per rassicurarlo.

“Stai bene? Tu ferito?” gli domandava, ma il ragazzo, Mellish appunto (ma Saltzmann non sapeva ancora il suo nome), non rispondeva, continuava solo ad ansimare e gemere come se avesse ancora la baionetta infilata nel petto e sempre più vicina al cuore… Il tedesco vide che la ferita, per fortuna, non era troppo profonda, altrimenti avrebbe già iniziato a scalfire il cuore, e non usciva troppo sangue. Prese un fazzoletto e ce lo premette sopra.

“Tuo dottore curerà ferita, tutto bene, non più pericolo, niente paura” gli disse, sperando di riuscire a scuoterlo in qualche modo. “Tu premere così ferita e sangue fermare.”

Mellish seguì l’indicazione di Saltzmann, ma i suoi occhi sembravano ancora perduti nell’orrore che aveva vissuto fino a qualche istante prima e a come sarebbe finita se l’uomo non fosse intervenuto. Probabilmente non aveva nemmeno riconosciuto il tedesco che avevano catturato e poi liberato. Ad un tratto scoppiò in un pianto dirotto e disperato, tra ansiti e singhiozzi, aggrappandosi alla giacca dell’uomo e nascondendo il volto nel suo petto.

“Non mi lasciare… non mi lasciare solo…” riusciva appena a dire tra un singhiozzo e l’altro. *

Saltzmann si sentì come se qualcuno spaccasse a lui il cuore con una lama affilata. Com’era possibile terrorizzare così un ragazzo, anche se si trattava di un soldato nemico? Perché, se proprio doveva, il soldato delle SS non gli aveva tagliato la gola con un colpo netto della baionetta? Quante atrocità avrebbe dovuto ancora vedere in quella maledetta guerra alla quale non voleva nemmeno partecipare e che gli aveva già fatto perdere tutto? **

“Tutto bene, ora, tutto bene, io proteggo, io salvo te” gli aveva mormorato, cercando di tranquillizzarlo. Poi, senza neanche rendersene conto, si era trovato a stringerlo più forte a sé e a baciarlo, un bacio che voleva dire tutto e niente, che sapeva di sale e di lacrime e di paura ma che gli riempì il cuore di una dolcezza infinita mai provata prima. Mellish sembrò accettare quel bacio, forse in quel momento non si rendeva bene conto oppure aveva bisogno di qualsiasi contatto umano, anche di quello più insolito, per esorcizzare il terrore provato. Saltzmann aveva fatto una violenza incredibile su se stesso per riuscire a staccarsi dal ragazzo quando aveva sentito dei passi sulle scale, poi gli aveva accarezzato il volto, asciugandogli le lacrime, e aveva visto Upham sulla soglia.

Era stato allora che gli aveva spiegato di aver salvato il suo compagno sparando al soldato delle SS, e poi che sarebbe tornato dalla sua squadra dicendo che la casa era vuota, che l’aveva già perlustrata tutta; loro sarebbero dovuti restare lì finché non avessero visto i tedeschi allontanarsi e poi raggiungere i loro compagni. Era stato allora che aveva chiesto a Mellish come si chiamasse e si era a sua volta presentato, e aveva spiegato che non voleva più saperne di quella guerra e di vedere ragazzi morti. Quindi aveva salutato i due americani ed era uscito dalla stanza per raggiungere i suoi… ma aveva portato con sé tante cose: il sapore di Mellish sulle labbra, il calore del suo corpo tremante e singhiozzante tra le sue braccia, e quel nome che lui pronunciava come Stan, che non avrebbe mai dimenticato.

Era stato lì, in quel momento, che aveva capito di essersi innamorato del giovane americano che aveva salvato, ma pensava anche che non lo avrebbe incontrato mai più e invece…

“Questo è accaduto, Stan, tu ricordare” insisté l’uomo. “Ricordare momenti brutti e poi combattere loro, distruggere. Ricordi brutti fare tanto male a te.”

Mellish, però, non voleva ricordare neanche per sogno, non poteva accettare di ripensare a quella lama gelida e tremenda che lo aveva penetrato lentamente, che solo per pochissimo non aveva iniziato a pungergli il cuore, che gli aveva spezzato il respiro e che chissà quanto male avrebbe potuto ancora fargli, qualcosa di inimmaginabile… no, no, no, non ci avrebbe mai ripensato. Piuttosto preferì soffermarsi su qualcosa che aveva rimosso come tutto il resto, ma che non era così atroce ricordare.

“Tu… tu mi hai baciato?” domandò, allibito.

“Non so perché ho fatto ma sì, ho baciato te, non so… beh, forse io sapere, forse io iniziare da lì a amare te” replicò Josef tranquillamente. “Ma questo non importante ora, io baciare te molte altre volte dopo. Tu devi ricordare che…”

“No, io non devo ricordare un bel niente! Non c’è niente da ricordare, non è successo niente, ti sbagli, la ferita non è mai stata così profonda!” protestò il ragazzo, ostinandosi a chiudere quella porta. “La devi smettere, lasciami in pace, non ci voglio più pensare a quella giornata, solo al fatto che tu mi hai salvato, nient’altro conta per me.”

Ma non era così e Saltzmann lo sapeva, lo vedeva nei suoi occhi sbarrati e pieni di angoscia e dolore, nel tremore delle sue mani, nella sua disperazione. Quel ricordo era lì, subdolo e nascosto nella sua mente, e ogni giorno gli avvelenava il sangue, non sarebbe mai sparito finché Mellish non avesse trovato la forza di guardarlo in faccia, affrontarlo e vincerlo. Però non poteva continuare a torturarlo così, non sarebbe servito ed era straziante per entrambi.

“Va bene, basta per ora” gli disse dolcemente, baciandolo in fronte e scompigliandogli i capelli. “Tu ricordare quando tu pronto a farlo. Ora riposa, dormi, io sono con te, io sto sempre con te e proteggo e difendo te da male, io ti amo, Stan.”

Josef aveva tutte le intenzioni di tenersi Mellish a letto con sé e possibilmente di fare ancora l’amore con lui; il ragazzo, invece, voleva prima spiegare bene come la pensava, visto che l’altro non sembrava voler capire la situazione…

“Sì, va bene, ma volevo chiarire meglio… insomma, non so se hai capito quello che ti ho detto prima e che anche Upham ti ha spiegato” gli disse, prima che il tedesco iniziasse a stringerlo e a baciarlo, perché Mellish aveva già capito che, in quei casi, poi andava via di testa, chissà come mai, e non riusciva più a connettere, figuriamoci a fare un discorso così complicato! “Io ci tengo a te e ti sono grato perché mi hai salvato e perché ti prendi cura di me, a questo punto ti considero davvero un mio amico come gli altri miei compagni e ti voglio bene. Farò quello che posso per aiutarti ad inserirti in America, a trovare un lavoro e tutto quello che ti serve, però… però io non sono innamorato di te, non come tu vorresti. Mi piaci e ti voglio bene, ma sono ancora troppo giovane, non so se vorrò stare con te per sempre, non voglio illuderti o ferirti. Lo capisci questo?”

Saltzmann sorrise, accarezzò ancora il volto e i capelli di Mellish e lo strinse a sé, distendendosi con lui nel letto. Non sembrava che il discorso del giovane americano lo avesse turbato più di tanto…

“Io capito quello che vuoi dire. Va bene se tu non ami me come io amo te. A me basta così ora. A me piace stare con te e venire con te in America, vivere con te, avere te come mio Stan” replicò con tenerezza. “Io ti amo e non chiedo niente a te, io sono con te sempre e forse poi anche tu riesci a amare me, Stan.”

Il ragionamento semplice di Saltzmann non faceva una piega e Mellish non poteva più sentirsi in colpa, al tedesco andava bene così, gli bastava stare con lui e amarlo, sperando che un giorno anche lui lo avrebbe ricambiato. Non c’era molto altro da spiegare e infatti Josef cominciò a baciare Mellish, a sfilargli la maglietta e i pantaloni, a stringerlo a sé accarezzandolo e rendendo il bacio sempre più languido e profondo… e a quel punto il ragazzo non fu davvero in grado di pensare, tanto meno di continuare con le sue spiegazioni! L’unica cosa che riuscì a fare fu aggrapparsi a Saltzmann, accogliendolo in tutto e donandosi docilmente a lui, mentre l’uomo lo baciava e desiderava un contatto più intimo possibile con lui, unendosi così profondamente al suo corpo da rinchiudere entrambi in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio, dove non esistessero più guerre, odio e contrasti tra i popoli. Il tedesco sapeva che, prima o poi, Mellish avrebbe dovuto rivivere fino in fondo l’orrore di quel giorno e che per lui sarebbe stato lacerante, ma non voleva pensarci adesso, voleva solo vivere intensamente e fino in fondo quella notte con il suo ragazzo speciale e unico. Fondendo il suo corpo con quello di Mellish, Josef perse ogni altra cognizione e null’altro rimase nella sua mente per tormentarlo, c’erano solo lui e il suo giovane amante, stretti e incatenati insieme quasi a difendersi dal mondo esterno. Perdendosi l’uno nell’altro, i due si sentirono dissolvere e poi ritornare, uniti, come polvere di stelle che diventava una sola essenza, un unico fremito di vita e passione.

E, sempre uniti e praticamente incollati insieme, Saltzmann e Mellish passarono dal languore dell’amore a un sonno profondo. L’uomo non si era fatto smontare dalle argomentazioni del giovane americano perché, proprio grazie alla sua maggiore età ed esperienza, aveva capito che Mellish si stava già innamorando di lui, nonostante tutto ciò che aveva detto, solo che non se ne rendeva conto, non poteva capirlo perché era un ragazzo e non lo aveva mai provato prima. Ma il modo in cui gli si donava e lo accoglieva in sé, la dolcezza con la quale si addormentava tra le sue braccia come in un porto sicuro, tutto questo era già amore… e prima o poi anche Mellish lo avrebbe capito!

Saltzmann non aveva fretta.

Fine capitolo nono

 

 

 

* Il fatto che un soldato, un Ranger addestrato alla guerra, scoppi a piangere potrebbe sembrare inverosimile, ma anche nel film Mellish, alla fine dello sbarco, una volta calata la tensione si mette a piangere e singhiozza davanti ai suoi compagni. Bisogna ricordare che non si tratta di un veterano di guerra, ma di un ragazzo di ventun anni che ha appena rischiato di morire in un modo atroce.

** Come vedete, questa versione del salvataggio di Mellish differisce in molti punti da quella che ho raccontato nel primo capitolo. Non è che sono diventata improvvisamente arteriosclerotica (o forse sì, ma non è questo il motivo XD): il racconto del primo capitolo è visto dal POV di Mellish, che ha addomesticato il ricordo di quanto gli è accaduto in modo da poterlo, in qualche modo, sopportare (anche se, come abbiamo visto, i ricordi rimossi lo tormentano ancora inconsciamente); questa versione è quella vera, vista dal POV di Saltzmann.

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Capitolo 10
*** Cap. 10: Trustfall ***


Cap. 10: Trustfall

 

Are we runnin' out of time?
Are we hidin' from the light?
Are we just too scared to fight
For what we want tonight?

Close your eyes and leave it all behind
Go where love is on our side
You and I and everyone, alive
We can run into the fire
It's a trust fall, baby
Yeah, it's a trust fall, baby!

What if we just fall?
I'm not goin' without you (And you're not goin' alone)
I fell so far 'til I found you (But you know what you know, when you know)
So I'm not goin' without you (And you're not goin' alone)…

(“Trustfall” – Pink)

 

Si era ormai ad oltre metà ottobre di quel 1944 e niente era cambiato. Gli eserciti Alleati nelle Ardenne non facevano progressi, anzi sembravano decisamente in difficoltà, mentre sulla Linea Sigfrido c’erano state importanti vittorie e le forze armate americane avevano occupato Aquisgrana, la prima grande città in suolo tedesco ad essere conquistata dagli Alleati. * Tuttavia la battaglia era stata molto dura, c’erano state ingenti perdite e ciò aveva compromesso la possibilità per i contingenti statunitensi e britannici di continuare ad avanzare verso Est, come avevano pianificato. Insomma, sembrava che la guerra non sarebbe finita tanto in fretta e, di conseguenza, era ancora pericoloso permettere a Ryan e agli altri della Compagnia Charlie di imbarcarsi per l’Inghilterra e poi attraversare l’Atlantico per tornare a casa. La possibilità che sottomarini o aerei tedeschi bombardassero quelle navi era ancora alta e i Generali non volevano rischiare la vita di quei soldati che ormai erano obbligati a rimpatriare. Sì, beh, sempre questione di propaganda e pubblicità, le cose non erano diverse allora da adesso!

Nel frattempo Mellish e i suoi compagni continuavano a prendersi cura dei giardini dell’hotel e, dopo aver sistemato le piante in modo da proteggerle dall’inverno ormai vicino, si erano occupati di aiutare nella ricostruzione delle case di Versailles che avevano subito danni e bombardamenti come la maggior parte delle abitazioni francesi.

Quel pomeriggio, mentre tornavano verso l’hotel dopo una produttiva giornata di lavoro, Reiben se ne uscì con una notizia inaspettata.

“Sapete, ragazzi? Penso proprio che torneremo alle nostre case prima del previsto” disse.

Gli altri soldati rimasero sorpresi.

“Cosa te lo fa pensare?” gli domandò Jackson. “Hai sentito qualcuno parlarne, o magari te lo ha detto il capitano?”

“No, il capitano non ha detto niente, ma ho sentito i soldati feriti che parlavano tra loro e dicevano che uno dei Generali aveva fatto loro visita e aveva promesso che ci avrebbero rimandati a casa molto presto, sicuramente verso novembre, per farci trascorrere il Ringraziamento e il Natale in famiglia” spiegò Reiben.

“Non so quanto possiamo credere alle promesse dei Generali” obiettò Ryan.

“In genere no, anch’io la penso così, ma in questo caso dicevano che la conquista di Aquisgrana è stata un grande passo verso la vittoria, le forze armate Alleate sono entrate in Germania e, dall’altra parte, l’esercito Russo ha sbaragliato i crucchi da Romania e Bulgaria e presto libererà anche la Polonia” replicò Reiben. “Sembra che i bastardi nazisti stiano perdendo pezzi da tutte le parti e quindi è probabile che entro un mese la guerra sia finita!”

“Beh, speriamo sia davvero così” commentò Mellish. “Ci siamo illusi tante di quelle volte… ma forse questa sarà quella buona.”

Le reazioni dei giovani soldati potevano apparire ciniche e disincantate, ma era vero che ne avevano abbastanza della guerra, delle vane promesse dei piani alti e di tutto il resto e non sapevano più a chi o a che cosa credere. Tuttavia l’idea di poter arrivare a casa in tempo per festeggiare il Giorno del Ringraziamento e il Natale (Hanukkah ** per Mellish…) con le proprie famiglie risvegliava i cuori e le aspettative di quei ragazzi. Quella sera, a cena, i soldati non parlavano d’altro e il sergente Horvath e il capitano Miller dovettero ammettere di aver udito anche loro quelle voci e di avere buone speranze di essere rimpatriati a breve.

Quando fu il momento di salire in camera per la notte, Mellish si rivolse a Upham.

“Senti, caporale, non c’è bisogno che tu debba fare le notti in infermeria” gli disse. “Questa è anche la tua camera e non mi sembra giusto che non ci possa dormire.”

“Non preoccuparti, Mellish, a me va bene così” si schermì il giovane, “non sto tutte le notti in infermeria, a volte sono andato nello studio dove lavoriamo noi interpreti e cartografi e là c’è un grande divano molto comodo e io…”

“No, no, è assurdo! Tu hai un letto tutto tuo e te lo sei guadagnato, hai il diritto di dormirci, basta con questa storia” insisté Mellish.

“Lo so, ma… io volevo che tu e Saltzmann vi riconciliaste” obiettò Upham.

“Abbiamo già fatto pace, non preoccuparti” replicò il ragazzo, “ora puoi tornare a dormire nel tuo letto.”

“Sì, ma…” il caporale era diventato rosso come un pomodoro… “ho pensato che preferiste… beh… restare da soli, ecco!”

“Upham gentile, a me piace stare solo con Stan…” si intromise il tedesco proprio nel momento meno opportuno.

“Non ci interessa la tua opinione” tagliò corto Mellish. “Ma no, in realtà ci siamo già chiariti e ora va tutto bene, non c’è bisogno che restiamo da soli.”

“Ma restare da solo con mio Stan vuol dire…” ritentò Saltzmann.

“Non vuol dire niente” fece lapidario il giovane americano. “Upham è stato molto generoso e adesso è giusto che possa tornare a dormire nel suo letto, perciò finiamola qui. Vieni, caporale, puoi salire con noi.”

Saltzmann sembrava piuttosto deluso, così Upham si avvicinò a lui e i due parlottarono per un po’ a bassa voce e in tedesco, con grande irritazione di Mellish.

“Va bene, hai ragione tu” disse infine il giovane caporale al compagno. “Da stanotte tornerò a dormire nella nostra camera e nel mio letto. Però, ecco… beh, stasera devo finire di tradurre un documento che il Generale Montgomery mi ha richiesto per domattina, perciò farò un po’ tardi. Voi, intanto, potete salire in camera e andare a dormire, non è necessario che mi aspettiate. Grazie per esserti preoccupato per me, Mellish, sei stato molto gentile. Buonanotte, ci vediamo domattina, allora.”

E, sotto gli occhioni neri e sgranati di Mellish e il sorrisetto soddisfatto di Saltzmann, Upham prese le scale e si eclissò.

Chiaramente lui e il tedesco avevano trovato un compromesso!

“Noi andare in camera allora, Stan?” domandò Saltzmann.

Il giovane americano sbuffò e alzò gli occhi al cielo.

“E dove, sennò? Tanto vi ho capiti, voi due, anche se parlate in tedesco perché io non conosco la lingua, pensate di essere parecchio furbi, vero?” e continuò a borbottare tra sé per tutto il tragitto fino in camera.

Arrivati nella loro stanza, tuttavia, non sembrava che il tedesco volesse subito fare cose con Mellish, perché si sedette sul letto e guardò il ragazzo con aria malinconica.

“Ora cosa c’è? Ti sei rattristato perché pareva che non volessi salire in camera con te? Dai, non è questo, lo sai, è solo che mi scoccia che tutti, qua, sembrano sapere quanto siamo legati e che facciano il tifo per noi, è imbarazzante, ecco” esclamò il giovane, che comunque non voleva che Saltzmann fosse triste. Si sedette accanto a lui sul letto e cercò di cambiare argomento. “Hai sentito quello che si dice in giro, piuttosto? Sembra che nei prossimi giorni ci faranno davvero tornare in America, i Generali vorrebbero che passassimo il Ringraziamento e il Natale con le nostre famiglie. Cioè, in casa mia il Natale non è che si festeggi proprio, però qualcosa ci inventeremo, magari con gli altri ragazzi, che te ne pare?”

“Stan, noi parlare, adesso” disse Saltzmann, nel vano tentativo di arginare il fiume in piena che era Mellish. Il ragazzo sembrava aver intuito che ciò di cui Josef voleva parlare non era di suo gradimento e quindi continuò dritto per la sua strada.

“Fare la traversata atlantica proprio nel periodo invernale non sarà il massimo, temo, però forse il maltempo impedirà ai sottomarini e agli aerei tedeschi di provare a bombardarci, se proprio volessero farlo. Ad ogni modo…”

“Stan, io oggi parlato con tuo amico dottore, Wade” lo interruppe Saltzmann.

Il giovane americano alzò gli occhi al cielo.

“Cos’è, ancora quella storia dei sonniferi? Senti, te l’ho già detto, adesso ne ho bisogno, ma appena saremo in America cercherò qualcuno che mi aiuti, uno psichiatra o che so io e smetterò con i sedativi” replicò. “L’ho promesso a Wade e ora lo prometto anche a te. Del resto, Wade ti avrà anche detto che mi crede, altrimenti non me li prescriverebbe più.”

“Non è per sonniferi, Stan, io parlato di altra cosa con Wade” disse il tedesco, pacato, fissando il ragazzo negli occhi. “Io chiesto a lui di tua ferita. So che lui medicato te dopo che io salvato, così io chiesto a lui quanto era grave, profonda, e lui…”

“Ma insomma, hai proprio l’ossessione per questa cosa? Quella ferita non era niente, tu mi hai salvato in tempo, era poco più che un graffio e non voglio più parlarne! La vuoi smettere, vuoi lasciarmi in pace?” reagì il giovane con rabbia disperata. Fece per alzarsi dal letto, ma Saltzmann lo prese per i polsi e lo obbligò a tornare accanto a lui, a guardarlo in volto.

“Non era graffio” dichiarò lapidario l’uomo. “Tuo dottore molto chiaro, ha detto a me che ferita profonda. Tu fortunato che io arrivato in tempo, ha detto che per pochi mill… millimetri non ha bucato tuo cuore…”

Mellish si sentì agghiacciare il sangue mentre, assurdamente, provava la stessa sensazione terribile e dolorosa della lama della baionetta che penetrava lentamente nella sua carne, evitava le costole, si spingeva dentro di lui per arrivare a trafiggergli il cuore…

“Non è vero, non è vero, non è stato così, tu hai sparato al soldato delle SS e lui non ha avuto il tempo…” iniziò a gridare il ragazzo. Saltzmann lo strinse a sé, lo abbracciò e lo sentì tremare e ansimare e aggrapparsi alla sua schiena proprio come quel giorno lontano.

“Io sparato a soldato dopo” continuò in tono pacato, quasi sussurrando. “Io temevo che se sparavo lui moriva con baionetta in tuo cuore, io chiamato lui per distrarlo e solo dopo ho sparato. Ma dottore Wade sorpreso che tu non abbia detto, che tu non ricordare, lui ha medicato tua ferita e ricucito, ferita profonda, non graffio. Anche Wade pensa che tu stai tanto male perché non vuoi ricordare. Se tu non vuoi credere a me noi poter parlare con lui domattina, noi andare da Wade e lui dire che…”

“NO!” urlò Mellish. “Non voglio più parlare di quello, voglio dimenticare tutto, è il passato, voglio solo andare avanti, andremo in America, passerà tutto, smettila con questa storia, smettila, smettila!”

L’uomo era straziato e si sentiva lacerare dentro vedendo il ragazzo che amava così stravolto, ma non poteva lasciar perdere, non lo avrebbe aiutato se si fosse arreso.

“Stan, non passa questa cosa. Non passa se tu cercare di dimenticare, passa se tu affronti e combatti, solo così mandi via tutto male che fa a te. Io aiuto te, io ti amo, Stan, voglio che stai bene” mormorò stringendolo tra le braccia come in un rifugio protetto, caldo e sicuro.

“No, no, no, non voglio, smettila, basta, basta…” singhiozzò Mellish, ancora una volta quasi ripetendo le parole che aveva detto al soldato delle SS e odiandosi per questo, faceva male, faceva paura, era il gelo, il ghiaccio, il dolore che spezzava il cuore.

Saltzmann si distese sul letto portando Mellish con sé, iniziando a togliergli i vestiti mentre lo accarezzava e cercava di calmarlo.

“Va bene, va bene, basta così se tu vuoi” gli sussurrò con dolcezza. “Io ora non insisto più, tu non pronto adesso, ma un giorno dover parlare di tutta questa cosa e combatterla, perché quella distrugge te, fa tanto male a te e io non volere. Io ti amo, ti amo, Stan…”

Furono insieme sotto le lenzuola e le coperte, l’uomo iniziò a baciare con trasporto Mellish, accarezzandolo, coccolandolo, stringendolo a sé, un bacio più intimo e profondo del solito, come se Saltzmann volesse allo stesso tempo proteggere e tranquillizzare il giovane e sentirlo totalmente suo, perdendosi nel suo sapore e tepore. Il ragazzo restò del tutto travolto dall’impeto e dall’urgenza che avvertiva nel desiderio di Josef, ma anche lui aveva bisogno di staccarsi dalla realtà e da ciò che lo circondava e fu ben felice di smarrirsi in lui. Lo accolse docilmente dentro il suo corpo, nascose il viso contro il petto di lui per soffocare i gemiti e gli ansiti di piacere, ancora vergognoso di mostrarsi troppo coinvolto ma incapace di trattenersi. Si lasciò trasportare da Saltzmann fino all’estasi più totale, sentendo tutto il suo essere dissolversi e fondersi con lui, finché l’Universo intero e ogni ricordo e dolore scomparvero e ci furono solo l’uno per l’altro. A Mellish parve di riprendere coscienza di sé, dello spazio e del tempo soltanto dopo secoli, stretto nell’abbraccio confortevole e avvolgente del tedesco, incollato al suo respiro e al suo corpo solido e forte ma anche capace di tanta dolcezza. E in quel momento, per la prima volta, cominciò a chiedersi se non stesse cominciando a innamorarsi davvero di lui, non solo per bisogno, non solo per sconfiggere paure e solitudine e guarire le ferite, ma proprio perché era lui, Josef Saltzmann, con il suo carattere calmo, paziente, pacato ma anche ostinato nel volerlo aiutare a tutti i costi. Poteva essere veramente così? Era quello l’amore? Il sentirsi al sicuro, il sentirsi a casa e in pace anche se era invece lontanissimo dal suo Paese e i loro popoli erano in guerra?

Il giovane americano si stava chiedendo ancora se ciò fosse possibile quando finì per scivolare in un sonno tranquillo e profondo nel caldo rifugio dell’abbraccio protettivo di Saltzmann.

Fine capitolo decimo

 

 

* La battaglia di Aquisgrana venne combattuta tra il 2 e il 21 ottobre 1944 e terminò con la presa della città da parte degli Alleati, ma comportò gravi perdite soprattutto tra i soldati americani.

** Festività ebraica che si svolge a dicembre, proprio nel nostro periodo natalizio. È chiamata anche Festa delle luci in quanto vengono accese candele rituali per celebrare il trionfo della luce sull’oscurità.

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Capitolo 11
*** Cap. 11: Hello heartache ***


Cap. 11: Hello heartache

 

You were perfect I was unpredictable
It was more than worth it
But not too sensible

Young and foolish seemed to be the way
I was stupid to think that I could stay…

Goodbye my friend hello heartache
It's not the end it's not the same
Wish it didn't have to be this way but
You will always mean the world to me, love
Goodbye my friend hello heartache

Do you know? Do you get?
It’s just goodbye, it’s not the end…

 (“Hello heartache” – Avril Lavigne)

 

Mellish stava correndo per le stanze di una casa sconosciuta, enorme e piena di corridoi lunghissimi e labirintici; scappava affannosamente sentendo che qualcuno era dietro di lui, sempre più vicino, qualcuno che lo inseguiva per fargli del male, per ucciderlo in modo orribile trafiggendogli nuovamente il cuore con dolorosa lentezza. Il ragazzo cercava di allontanarsi il più possibile, chiamava i suoi compagni perché lo aiutassero, ma i suoi compagni non c’erano e lui non capiva neanche dove si trovasse. Gli inseguitori, invece, erano ormai alle sue spalle, sentiva il forte rumore dei loro passi, il loro fiato sul collo, le mani che stavano per afferrarlo e…

Con uno sforzo terribile, Mellish riuscì a strapparsi da quel sogno spaventoso, gemendo, ansimando e singhiozzando con gli occhi sbarrati e perduti nel buio, il cuore che pareva scoppiargli nel petto. Era anche intontito dai sedativi presi per dormire e quindi faceva fatica a ritrovare un minimo di lucidità e a comprendere che era stato solo un incubo, che lui era al sicuro nella stanza che divideva con Saltzmann e Upham, che non correva nessun vero pericolo. L’agitazione e i gemiti del ragazzo svegliarono il tedesco che capì subito cosa stava accadendo e strinse Mellish forte a sé.

“Calma, Stan, va bene, è incubo, tu bene, io sono con te, nessuno fa male a te, ci sono io” gli sussurrò accarezzandolo e baciandolo con dolcezza, tenendolo stretto tra le braccia finché non sentì che il suo corpo smetteva pian piano di tremare. Lo baciò teneramente, poi sempre più a lungo e languidamente sentendo che Mellish ricambiava il bacio e si aggrappava a lui, chissà se perché davvero lo desiderava o perché aveva bisogno, in quel momento di terrore, di trovare calore umano e dolcezza, proprio com’era avvenuto nella stanza in cui Saltzmann lo aveva salvato, mesi prima a Ramelle. L’uomo rammentò il terrore, la disperazione che aveva visto allora negli occhi di quel povero ragazzo, ma anche la tenerezza che aveva subito provato per lui, e allora continuò a baciarlo profondamente, mentre le sue mani scorrevano lungo la sua schiena, i suoi fianchi, le sue gambe e poi perse quel poco di autocontrollo che gli rimaneva e scivolò lentissimamente dentro il suo corpo. Allora i gemiti e gli ansiti di Mellish non furono più di terrore e angoscia bensì di piacere, mentre tutto si faceva confuso in lui, non sapeva più nulla e non c’era più nulla se non Saltzmann che lo faceva sentire bene e sicuro e caldo. Niente importava più, non esistevano più la paura, il dolore e i brutti ricordi, il giovane americano si chiedeva se sarebbe andato a fuoco o se il mondo sarebbe esploso ma non gli interessava, bastava che ci fossero lui e Josef. I corpi danzarono insieme quella dolce danza d’amore mentre tutto il resto precipitava vorticando nell’oblio e la polvere di stelle parve illuminare la stanza e le loro anime e fu una luce accecante, l’estasi e l’eternità.

Dopo, Saltzmann continuò a stringere tra le braccia Mellish accarezzandogli i capelli, baciandogli dolcemente la fronte e le guance. Da un lato era felice perché quella era stata la volta in cui il ragazzo gli si era donato in modo più completo, in cui era stato davvero tutto suo (probabilmente perché era ancora stordito dai sonniferi e dall’incubo) e tutto era stato molto più bello; dall’altro lato, però, si rendeva conto che Mellish era straziato da ciò che non voleva ricordare e non sapeva come aiutarlo.

“Stan” gli sussurrò teneramente, “non stare bene così, tu non potere andare avanti. Io so che è brutto, ma tu dover ricordare, affrontare cose che fanno male a te. Forse parlare con Wade…”

“Ora non ci voglio pensare” tagliò corto il giovane americano. “Sono stanco, voglio dormire, ora penso che non avrò più incubi.”

“Io proteggo te, Stan” promise ancora Saltzmann. Lo guardò riaddormentarsi abbandonato a lui, sul suo petto e nel cerchio sicuro e caldo delle sue braccia, e pensò che doveva solo stargli vicino e incoraggiarlo, prima o poi il suo Stan sarebbe riuscito ad affrontare le sue abissali paure perché non avrebbe dovuto farlo da solo, ci sarebbe sempre stato lui al suo fianco. Lo amava così tanto…

La mattina dopo Upham si svegliò alla sua solita ora, si preparò per andare a lavorare con gli altri traduttori e disegnatori di mappe ma, prima, si avvicinò al letto dove Mellish ancora era profondamente addormentato, tra le braccia di Saltzmann che invece si era svegliato e guardava il caporale come se volesse parlargli.

“Stanotte ho sentito piangere Mellish” disse sottovoce Upham a Saltzmann in tedesco, “ha avuto un altro dei suoi incubi, non è vero?”

L’uomo strinse con più dolcezza a sé il ragazzo addormentato.

“Sì, purtroppo. Gli succede sempre più spesso ormai” rispose con uno sguardo triste e preoccupato.

“Ma… so che prende dei calmanti che gli ha prescritto Wade” obiettò Upham. “Non dovrebbero aiutarlo a stare meglio e dormire senza brutti sogni?”

“I calmanti non servono, io… io so qual è il problema, ma Stan non vuole neanche sentirne parlare. Lui non vuole ricordare quello che è veramente successo in quella stanza a Ramelle, quando io l’ho salvato, ma l’ombra di quel ricordo resta nella sua mente e gli fa avere gli incubi” spiegò Saltzmann.

Upham abbassò lo sguardo, mortificato.

“Mi dispiace così tanto” mormorò, guardando Mellish che in quel momento appariva ancora più giovane e indifeso. “Se non mi fossi lasciato prendere dal panico, se lo avessi raggiunto, non so, magari avrei distratto quel soldato delle SS e lui non avrebbe fatto del male a Mellish. Poi saresti arrivato tu e ci avresti salvati entrambi. Ma io sono stato un vigliacco e…”

“Non dire così, Upham. Non tutti siamo degli eroi e, comunque, in realtà restando fermo sulle scale tu hai salvato Mellish, perché io ti ho visto là e ho capito che c’era qualcosa che non andava, che eri in pericolo. Se fossi salito, non avrei potuto vederti e non avrei mai saputo che tu e Stan potevate morire. Non farti una colpa di questo.”

Upham si sentì lievemente sollevato: in effetti non l’aveva mai pensata sotto questo punto di vista e le parole di Saltzmann lo rincuorarono. Ciò non toglieva, comunque, che Mellish aveva subito un’esperienza atroce che lo aveva traumatizzato e che continuava a lacerarlo dentro.

“Grazie, Josef, sei gentile a dirmi questo, spero che sia vero, è difficile per me convivere con quello che non sono riuscito a fare quel giorno. Sai, penso che dovresti accompagnare Mellish da Wade, è un dottore e forse potrà aiutarlo, soprattutto visto che i sedativi non servono più a molto.”

“Era quello che volevo fare, ma Mellish si rifiuta… Però adesso basta, dopo stanotte non posso più lasciare che si distrugga da solo. Upham, sarebbe un problema se oggi non facessimo lezione?” domandò l’uomo.

“No, certo che no, abbiamo tanto tempo ancora per studiare e oggi è più importante che tu accompagni Mellish da Wade, anche se lui non vuole, è necessario che parli con un medico, non può continuare così” approvò il caporale. “Allora ci vediamo alla mensa più tardi, spero che Wade possa aiutarlo.”

Trascorse ancora più di un’ora prima che Mellish si svegliasse e Saltzmann restò a guardarlo dormire, tenendolo stretto a sé e accarezzandogli dolcemente i capelli. Era preoccupato per ciò che doveva dirgli riguardo alla visita da Wade, e allo stesso tempo era angosciato perché sapeva che il povero ragazzo si stava autodistruggendo e che quella situazione doveva risolversi il prima possibile.

“Buongiorno, Stan” gli disse, baciandolo con tenerezza quando lo vide sveglio. “Questa mattina io non andare a lezione da Upham, io portare te a parlare con tuo dottore Wade.”

“Cosa? E perché? Ti ho già detto che non voglio più parlare di quella storia!” reagì il giovane.

“Stanotte tu avere altro incubo, tuoi calmanti non fare più bene a te, tu dire questo a Wade” spiegò Saltzmann mentre sia lui che Mellish si alzavano dal letto e iniziavano a prepararsi.

“Credo che sia stato solo un caso, era da tempo che non avevo incubi” replicò Mellish, come se niente fosse. “Comunque sia, se dovessi vedere che i sedativi non mi fanno più effetto, posso sempre aumentare un po’ la dose…”

Il ragazzo si spaventò quasi quando, a quelle parole, Saltzmann lo afferrò per i polsi e lo obbligò a guardarlo in faccia: in genere l’uomo aveva un’espressione amichevole, cordiale, anche buffa, ma quando diventava così freddo faceva paura, sembrava un altro.

“Tu non dire questo neanche come scherzo!” gli intimò. “Già penso che è sbagliato che tu usare farmaci, ma questi farmaci sono pericolosi, vuoi uccidere te? Questo vuoi?”

“Io… io… no, certo, ma…” Mellish era rimasto così sbalordito e confuso da non trovare neanche le parole per rispondere. E una parte di lui sapeva benissimo che Josef aveva ragione…

“E allora noi andare da Wade e tu dire a lui di tuoi incubi, che sedativi fare meno effetto e lui dire a te cosa fare” tagliò corto il tedesco.

Non volendo, Saltzmann aveva trovato il modo per convincere Mellish a parlare con Wade! Il giovane americano aveva detto una sciocchezza con eccessiva leggerezza, lui si era preoccupato e gli si era rivolto più bruscamente di quanto avrebbe voluto, ma in questo modo Mellish non aveva potuto rifiutare di andare dal dottore. Così, circa mezz’ora dopo, i due si ritrovarono in infermeria a chiedere di parlare con l’ufficiale medico.

L’infermeria che era stata allestita nell’hotel era molto meglio attrezzata degli ospedali da campo, inoltre c’erano molte ragazze francesi che si erano offerte volontarie per fare da infermiere ai soldati feriti e anche qualche medico dei paesi limitrofi dava il suo tempo per loro, così il lavoro di Wade era facilitato e lui aveva più tempo libero. Poté dunque condurre Mellish e Saltzmann in una piccola stanza che lui aveva organizzato come suo studio personale affinché potessero parlare liberamente.

A dirla tutta, Wade si augurava di poter parlare con Mellish già dopo aver saputo da Josef che il ragazzo rifiutava di ricordare l’entità della ferita subita dal soldato SS, quella negazione lo preoccupava e sperava di poter convincere l’amico a superare quelle paure… ma Mellish iniziò subito parlando di un’altra cosa, seppur collegata.

“Wade, Saltzmann ha voluto che venissi qui da te oggi perché… beh, perché i sedativi che mi avevi prescritto sembrano non farmi più effetto e io volevo chiederti se potevi darmi qualcosa di più forte.”

Non era quello che voleva Saltzmann e neanche Wade, che scosse il capo, deluso e pensieroso.

“Mellish, ti avevo già detto tempo fa che quei sedativi erano già troppo e che avresti dovuto smettere di prenderli il prima possibile” rispose. “Ora non posso certo darti qualcosa di ancora più pesante, rischi di rovinarti la salute per sempre e hai solo ventun anni!”

“Lo so, ma hai sentito anche tu le voci che girano, no? Probabilmente torneremo a casa entro poche settimane e allora io andrò da un dottore, uno psichiatra magari, e pian piano smetterò di prendere farmaci. Mi servono solo per qualche periodo ancora, Wade, ti prego, ti ho già promesso che, una volta a casa, smetterò” lo supplicò il giovane.

“Mellish, ho parlato con Saltzmann e credo di sapere perché credi di aver bisogno di sedativi più pesanti” dichiarò l’ufficiale medico. “Io non sapevo che tu negassi di essere stato ferito profondamente dal soldato SS, credevo che…”

“No, senti, non sono qui per parlare di questo!” esclamò Mellish bruscamente, interrompendo l’amico. “Io non voglio parlare di quel giorno, è una cosa lontana, non c’entra niente, ti ho solo chiesto se puoi prescrivermi dei sedativi più forti oppure delle dosi più alte di questi, se non puoi fare questo allora farò da me!”

“Sei completamente impazzito, Mellish? Vuoi forse ucciderti? Io non ho nessuna intenzione di assecondare questa tua pazzia e anzi, come dottore, mi sento chiamato in causa. No, no, non pensare di andartene adesso perché non ti piace quello che ti dico, ora te ne stai qui e mi ascolti, ci siamo capiti?” Wade non si arrabbiava mai, ma quando perdeva la pazienza sapeva farsi rispettare, nonostante l’aspetto e il fisico fragile. Afferrò Mellish per le spalle e lo costrinse a restare seduto e ascoltarlo, mentre Josef lo guardava ammirato e pensava che aveva fatto proprio bene a portarlo là.

“Quando Upham ti accompagnò da me perché ti medicassi, a Ramelle, la ferita era profonda e solo per un miracolo non aveva danneggiato arterie o organi interni, sarebbero bastati solo pochi millimetri e ti avrebbe ferito il cuore” continuò poi il medico. “Io ti ho ripulito e medicato la lacerazione e poi ti ho ricucito e tu non hai fatto un lamento, sembravi completamente sotto shock e forse è per questo che adesso non lo ricordi, ma da quello che dice Saltzmann ci sono dei momenti che ricorderesti e a cui rifiuti di pensare.”

“Io non… non ricordo niente, ti sbagli” insisté Mellish, ma con meno foga di prima, a quanto pareva la figura di Wade comunque lo metteva in soggezione.

“Mellish, non mentire a te stesso, così ti fai solo del male e non risolvi niente, anzi. I sedativi che ora non ti aiutano non possono bastare, perché i ricordi che hai rimosso ti tormentano. Dici di voler andare da uno psichiatra quando torneremo a casa, ma cosa pensi che ti farà per farti guarire? Se è bravo, come spero, e non un ciarlatano, ti porterà a ricordare proprio quello che non vuoi e a sfogarti, a parlare di tutto quello che ti strazia, perché è così e solo così che potrai guarire.”

“Allora non guarirò mai e dovrò prendere per sempre dei calmanti, perché io non ricordo niente, che mi chiudano pure in un manicomio!” sbottò il giovane.

“Non dire sciocchezze, adesso!” reagì inaspettatamente Wade. “Tu non ti rendi neanche conto di quanto sei stato fortunato e, dicendo queste idiozie, manchi di rispetto a tanti giovani soldati che non lo sono stati. Cosa pensi che veda io tutti i giorni e tutte le notti qui in infermeria? Arrivano soldati in condizioni disperate, potrei dire che i più fortunati sono quelli che muoiono, perché altri sopravvivono ma io devo… devo amputare loro un braccio, o una gamba, alcuni addirittura le perdono entrambe, e la notte non fanno che urlare, sia per il dolore che per il ricordo continuo dei momenti in cui sono stati feriti e dei compagni che sono morti accanto a loro. Tu sei stato salvato, ora stai bene e vuoi distruggerti da solo perché hai paura di un ricordo? Dovresti vergognarti, lo sai?”

Gli occhi di Mellish si riempirono di lacrime e Saltzmann, accanto a lui, avrebbe voluto abbracciarlo e consolarlo, ma si rendeva conto che Wade stava dicendo le cose giuste, che doveva scuotere il ragazzo in qualche modo come lui non aveva avuto il coraggio di fare.

“E io posso capirti bene anche perché ci sono passato personalmente” riprese Wade. “Quando sono stato ferito durante l’attacco alla postazione della mitragliatrice ho riportato delle ferite gravi, non avevano colpito gli organi interni o sarei morto, ma erano profonde e io perdevo molto sangue. È stato faticoso riuscire a restare lucido per dare a voi le istruzioni per medicarmi e ricucirmi e, nel frattempo, continuavo a pensare che non volevo morire, che volevo tornare a casa, che avevo paura. Sì, pensavo proprio questo, ero terrorizzato all’idea di non farcela, a voi sembravo coraggioso ma dentro di me piangevo e ripetevo Non voglio morire, non voglio morire…” *

Un silenzio teso accolse le parole dell’ufficiale medico e anche lui sembrava tuttora turbato nel raccontare quei momenti, ma si sforzava, esattamente come avrebbe dovuto fare Mellish.

“E non passa come per magia, sai? Ancora adesso, a volte, mi sveglio la notte gridando che non voglio morire, perché sogno di essere ancora là a dissanguarmi, però non prendo sedativi, aspetto di calmarmi e poi mi riaddormento. So che ci dovrò convivere per tutta la vita e lo accetto, perché comunque sono vivo e sto bene” disse Wade, guardando l’amico fisso negli occhi.

“Io… io non lo sapevo, mi dispiace tanto, Wade, ma… ma come fai? Come ci riesci? Cosa ti dà la forza di combattere quella paura, di andare avanti nonostante tutto?” mormorò Mellish, straziato per se stesso e per ciò che aveva scoperto a proposito del suo amico dottore.

“La consapevolezza che sono stato fortunato e che devo usare questa mia fortuna per curare chi sta peggio di me” rispose tranquillamente Wade, che adesso appariva più sereno. Forse aveva fatto bene anche a lui parlare delle sue paure con qualcuno che poteva capirle e condividerle…

“Ma io non sono come te, io… io non ho motivazioni come le tue, io… non sto aiutando nessuno, anzi, penso che sarei dovuto morire io invece di Caparzo, che non riuscirò mai a riambientarmi a casa, che non troverò mai una mia strada e… e che tanto vale che prenda i sedativi e che vada al diavolo” esclamò Mellish. “Io non so cosa dovrò fare della mia vita e mi sembra che non ne valga la pena!”

Non si accorse neanche che lo sguardo di Josef si era fatto improvvisamente triste e deluso, ma lo vide Wade.

“Certo che ne vale la pena, Mellish” gli disse l’ufficiale medico, pazientemente e con una tenerezza quasi paterna, anche se aveva solo pochi anni più di lui. “Anche a me dispiace tanto per Caparzo, ma quando salvo un soldato, quando guarisco qualcuno, io penso sempre che l’ho fatto in sua memoria e che lui sarebbe felice di vedere altri soldati guariti… anche se allora non sono potuto andare a soccorrerlo. ** E tu puoi fare lo stesso: puoi venire ad aiutarmi, se vuoi, farmi da infermiere e renderti utile in memoria del nostro amico. Vedrai che questo ti farà stare meglio ogni volta che un soldato guarirà anche grazie al tuo aiuto. E comunque tu non sei solo… Saltzmann ti ha portato qui perché tiene molto a te, si preoccupa, ti vuole un mondo di bene e vuole andare in America con te. Mi sembra che tu ne abbia parecchie di ragioni per andare avanti, non credi?”

Mellish era confuso e imbarazzato e non rispose, allora fu Wade a concludere la conversazione.

“Bene, per adesso possiamo accordarci così: ti lascerò prendere i sedativi più leggeri che ti avevo già prescritto, ma Saltzmann controllerà che tu non ne abusi, e poi pian piano tu inizierai a parlare di quello che hai provato, di quello che ricordi di Ramelle, come ho fatto io con voi. E adesso devo andare, i pazienti mi aspettano. Mi raccomando, Mellish…”

“Va bene. Grazie, Wade. E… magari verrò davvero ad aiutarti, qualche giorno” disse il giovane, salutando l’amico.

Mentre Wade tornava in infermeria, Saltzmann e Mellish uscirono dall’hotel. Il tempo era freddo e grigio, ma il giovane americano si sentiva meglio, come se avesse un piccolo sole di speranza dentro di sé. Però c’era ancora una cosa…

“Senti, io… io devo ringraziare anche te per avermi costretto a parlare con Wade, non volevo ma mi ha fatto bene e… e mi dispiace di aver detto che non ho motivi per vivere, io… lo so che non è così, ero fuori di me…” il ragazzo era impacciato, a disagio, non riusciva a dire quello che sentiva. Ma Saltzmann aveva imparato a capirlo oltre le parole.

“Non preoccupare, io so. Io sempre con te, io aiuto te a stare bene, io ti amo, Stan” gli disse piano, stringendolo a sé. Approfittando del nascondiglio naturale che fornivano gli alberi, baciò Mellish e lo avvolse nel suo abbraccio; sentì il calore della sua bocca morbida, il tepore del suo corpo tra le braccia, i respiri che si confondevano e lo baciò a lungo, lentamente, godendo il suo sapore e la sua tenerezza ritrovata, perdendosi in lui. Gli accarezzò i capelli scompigliati, gli coprì la fronte, le guance e il viso di piccoli baci e poi riprese a baciarlo sulle labbra tiepide e dischiuse.

E in quel momento anche Mellish parve capire di avere molto, davvero molto, per cui vivere!

Fine capitolo undicesimo

 

* Nella mia versione Wade, appunto, si salva, ma nel film è veramente spaventato e continua a ripetere Non voglio morire fino alla fine… è molto triste e a me piace pensare che, invece, abbia superato quel brutto momento e che stia bene e sia tornato ai suoi compiti.

** Wade sarebbe voluto andare a soccorrere l’amico, ma il sergente Horvath lo trattiene perché sarebbe stato sulla linea di tiro del cecchino tedesco che aveva colpito Caparzo e quindi sarebbe rimasto ucciso anche lui.

 

 

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Capitolo 12
*** Cap. 12: Hate me ***


Cap. 12: Hate me

 

Victim, such a perfect victim
Living in this prison
Most, they would kill themselves
To be in here with me but you blame me
Don't you love to shame me
Everything you fucked up, failed at
Broke or lost and it's all my fault but I know it's not

So hate me, hate me
I'm the villain you made me, made me
I'm the monster, you need me, need me
Or it's all on you (oh no, here we go, welcome to the shit show)
Hate me, hate me
I'm the villain you made me, made me
I'm the monster, you need me, need me
Or it's all on you (oh no, here we go, light it up and let it go)

(“Hate me” – Pink)

 

Si era giunti ormai a novembre inoltrato e non c’erano state occasioni favorevoli per rimandare Ryan e i suoi nuovi amici a casa, come promesso; anzi, le cose si erano complicate perché le controffensive tedesche mettevano a dura prova le truppe degli Alleati nelle Ardenne e quasi ogni giorno arrivavano notizie di squadre americane uccise o, quando andava bene, una camionetta con un gruppetto di soldati feriti che Wade si affrettava a curare. I Generali cominciavano a pensare che, a quel punto, sarebbe stato preferibile attendere che la situazione migliorasse nei Paesi Bassi e che, comunque, i soldati che erano rimasti feriti, una volta guariti, sarebbero potuti ripartire per l’America insieme a Miller, alla sua Compagnia e a Ryan.

Questo, al momento presente, significava semplicemente che all’hotel usato come Quartier Generale dallo SHAEF c’erano più soldati, purtroppo molti di loro erano in condizioni molto gravi e restavano per tanto tempo in infermeria, altri ancora non sopravvivevano… ma alcuni riuscivano a guarire e, nonostante le ferite, pian piano si riprendevano e potevano unirsi al gruppo dei soldati di Miller. In certi casi era stata l’occasione per creare nuove amicizie, ma c’erano stati anche dei momenti di forte tensione causata, anche se involontariamente, dalla presenza di Josef Saltzmann.

Una sera, alla mensa, c’era un gruppetto di soldati i quali erano stati fino a pochi giorni prima in infermeria ma che adesso stavano meglio, erano sopravvissuti a un attacco a sorpresa nei boschi delle Ardenne e avevano visto morire molti dei loro compagni. Generalmente preferivano restare tra di loro e non unirsi agli altri, ma chissà perché quella sera in particolare avevano deciso di cenare alla mensa con la Compagnia Charlie.

Solo che era presente anche Josef Saltzmann, seduto con Mellish da una parte e Upham dall’altro (in un certo senso parevano volerlo proteggere, inconsciamente, dagli sguardi malevoli altrui). I ragazzi del capitano Miller chiacchieravano, ridevano e scherzavano e anche Miller e il sergente Horvath si erano uniti a loro, come se per una sera fossero tornati giovani reclute. Il gruppetto dei soldati reduci dall’infermeria, al contrario, se ne stava sulle sue, senza parlare con gli altri; bisbigliavano qualcosa tra di loro e ogni tanto lanciavano occhiate ostili verso la parte del tavolo occupata da Saltzmann e gli altri.

Ad un certo punto, però, uno di quei giovani, che si chiamava Sean, si alzò a fatica dal suo posto e si rivolse ai suoi compagni.

“Ragazzi, vogliamo davvero fingere che vada tutto bene? Vogliamo accettare di cenare nella stessa stanza con un tedesco, uno di quelli che hanno massacrato i nostri amici, accettare che uno come lui mangi alla tavola dei soldati americani e fraternizzi con loro? Perché io sono sinceramente disgustato e non posso più fare buon viso a cattivo gioco!” esclamò.

“Hai ragione, Sean” replicò uno dei suoi amici. “Nemmeno io voglio mangiare alla stessa tavola di un tedesco, ma non dovremmo essere noi ad andarcene, noi qui siamo tutti soldati americani. È quello là che non deve stare qui. È un tedesco, è un prigioniero, perché gode di questi privilegi? Perché non è stato mandato nei campi di lavoro con gli altri prigionieri come lui?”

Saltzmann sembrò capire solo in quel momento che stavano parlando di lui e che lo fissavano con odio. Stupito, si chinò a mormorare qualcosa in tedesco a Upham.

“Ehi, tu, crucco maledetto, non permetterti mai più di parlare in quella tua lingua di merda a questa tavola, mi hai capito o devo fartelo tradurre dal tuo amico? Non ci fidiamo di te e non ci va che tu complotti chissà cosa! Parla in modo da farti capire” lo apostrofò un altro di quei giovani soldati.

“Ecco… in realtà Saltzmann mi stava solo chiedendo di spiegargli cosa stavate dicendo e perché sembrate essere infuriati con lui” rispose timidamente Upham.

“Ma che è scemo o cosa?” riprese il soldato che si era rivolto al tedesco e che si chiamava Mark. “O forse siete scemi tutti e due. Siamo in guerra, bello, i crucchi come lui ammazzano gli americani come noi, o pensavate di essere venuti a Versailles per vedere la reggia?”

Gli amici di Mark e Sean si misero a ridere ma Sean non si unì ai suoi amici, continuava a fissare Josef con vero e proprio odio e disgusto.

“Senti, soldato, non so neanche come ti chiami” intervenne il sergente Horvath, accorgendosi che l’atmosfera si faceva sempre più pesante e tesa, “sappiamo bene di essere in guerra. Non so voi, ma io e la squadra di cui faccio parte, la Compagnia Charlie, abbiamo partecipato allo sbarco a Omaha Beach e non è stata una vacanza. Ho visto morire tanti ragazzi che conoscevo bene, quindi non cercare di fare il furbo con me. Sei stato ferito, mi dispiace, ma questo non ti autorizza a comportarti come se avessi l’esclusiva del dolore. Anche l’ufficiale medico che ti ha curato, Irwin Wade, fa parte della nostra Compagnia ed è stato ferito durante un’azione.”

“E allora non capisco proprio come possiate sopportare di dividere la tavola con un crucco! Sono tutti uguali, quelli là, dovrebbero ucciderli tutti, senza fare prigionieri, sono mostri che godono a fare del male!” reagì rabbioso Sean. “Sono dei folli come quel bastardo del loro leader, Hitler, altrimenti non lo avrebbero seguito così volentieri. Io e la Compagnia di cui facevo parte combattevano nelle Ardenne e questi vigliacchi ci hanno attaccato durante la notte, protetti dal buio, non hanno neanche avuto il coraggio di affrontarci faccia a faccia! Io ho riportato ferite al petto e alla gamba sinistra, il vostro amico dottore ha fatto miracoli per salvarla, credevo che avrebbe dovuto amputarla; Mark e Jonathan hanno rischiato di morire dissanguati; Stephen ha perduto il braccio destro e Adam rimarrà paralizzato per il resto della sua vita. Altri dodici non ce l’hanno fatta… e io dovrei accettare la presenza di uno di quei cani nazisti alla tavola dove mangio? Mai! Quelli come lui dovrebbero essere incatenati e costretti a mangiare gli avanzi raccolti da terra, come le bestie che sono!”

Mark e gli altri commilitoni di Sean avevano lo sguardo basso e annuirono restando in silenzio, ripensando ai loro compagni morti. Anche i soldati della Compagnia Charlie non trovarono nulla da ribattere, sul momento, perché sapevano fin troppo bene quanto fosse terribile perdere un amico o rimanere feriti in battaglia. Saltzmann, però, aveva compreso abbastanza di quello che aveva detto Sean. Restando anche lui in silenzio e a capo chino, si alzò lentamente da tavola e si allontanò dalla stanza.

“Mi dispiace un sacco per quello che è successo a te e ai tuoi compagni” disse Mellish, prima di alzarsi anche lui da tavola per seguire Josef. “So cosa significa, perché il mio migliore amico è stato ucciso da un cecchino tedesco e io stesso ho rischiato di morire per mano di un soldato SS. Ma Josef Saltzmann non ha colpa di tutto ciò, non è stato lui a uccidere il mio amico Caparzo e neanche i vostri commilitoni nelle Ardenne. Anzi, lui ha sparato al soldato che voleva uccidermi. E non è vero che i tedeschi sono tutti uguali e tutti fanatici di Hitler: Saltzmann non voleva neanche andarci, in guerra, ma lo hanno obbligato.”

“Tu sei anche un ebreo” disse meravigliato Jonathan, “e difendi quel crucco? Ma lo sai cosa fanno i nazisti a quelli come te?”

Lo sguardo di Mellish era tagliente come un rasoio.

“Saltzmann mi ha salvato, e la sua famiglia cercava di aiutare gli ebrei nella loro zona, prima che finissero tutti uccisi dai bombardamenti inglesi” replicò, gelido. “I tedeschi sono nostri nemici e noi cercheremo di vincere questa guerra, ma non sono tutti dei mostri come dici tu e come dice il tuo amico. Del resto, anche i soldati Alleati possono vergognarsi delle atrocità che hanno commesso alcuni di loro, ma questo non fa di tutti gli americani o gli inglesi o i francesi dei pazzi omicidi.” *

I compagni di Mellish annuirono in silenzio. Anche loro, in particolare Reiben e Jackson, all’inizio erano stati prontissimi a condannare il popolo tedesco in toto per le follie di Hitler e dei suoi seguaci, avevano cercato di fucilare Saltzmann… ma poi, trovandosi a vivere con lui, lo avevano conosciuto meglio, lo avevano visto finalmente come un uomo semplice costretto a combattere una guerra che non voleva, una persona capace di grande affetto, amore e premura verso il loro commilitone più giovane. Upham, poi, fin dall’inizio lo aveva difeso, andando oltre la sua uniforme e cercando di capire l’uomo che c’era dietro, e ora era felice che anche Mellish lo avesse capito e che cominciasse davvero ad amarlo (magari Mellish stesso non se ne rendeva conto, ma le sue parole appassionate in difesa di Saltzmann lo tradivano!), sebbene fosse anche addolorato nel vedere che la guerra aveva indurito il cuore di quei poveri soldati reduci dalle Ardenne.

Mellish stava per lasciare la sala, ma si trattenne ancora un po’ perché sentì il capitano Miller che prendeva la parola.

“Figliolo” disse, rivolgendosi al soldato che aveva parlato per ultimo, “scusami, non conosco il tuo nome…”

“Si chiama Jonathan” rispose Sean, in tono freddo.

“Sì, Jonathan, ma anche tu, Sean, e tutti voi” riprese Miller, “voglio prima di tutto esprimervi la mia partecipazione e il mio dispiacere per ciò che è accaduto a voi e ai vostri commilitoni che non ce l’hanno fatta. So cosa state passando, purtroppo, perché a me sono successe fin troppe cose simili e ho visto morire troppi ragazzi come voi sotto il mio comando, qui, ma anche in Nord Africa e in Italia, quindi non ho nessuna intenzione di minimizzare la vostra sofferenza. Tuttavia, proprio perché ho combattuto in tanti luoghi e ho perso tanti soldati, credo di potervi dare un consiglio: non generalizzate, non lasciate che l’odio e la spersonalizzazione della guerra abbiano la meglio sulla vostra umanità.”

Nella sala calò un silenzio profondo. Le parole di John Miller, evidentemente, avevano toccato il cuore di molti a quella tavola.

“Forse qualcuno di voi penserà che sono noioso e che parlo come un professore, ma del resto io sono un professore, è il lavoro che ho svolto per anni prima di arruolarmi e che spero di poter riprendere a svolgere quando torneremo a casa” continuò il capitano, con un sorrisetto. “No, non sono un militare di carriera e ne sono ben felice, quindi vi parlerò come faccio con i miei soldati e con i ragazzi che seguo a scuola. Sean, Jonathan e tutti voi che siete sopravvissuti agli attacchi nelle Ardenne, avete fatto il vostro dovere combattendo contro un nemico che tutti noi vogliamo sconfiggere, perché altrimenti il mondo come lo conosciamo non esisterà più, e questo nemico è Adolf Hitler. È Hitler con coloro che credono in lui e con le teorie folli che vuole mettere in pratica nella parte di mondo che è sotto il suo controllo.”

Nessuno parlò. O meglio, ci provò Reiben…

“Ma come?” disse a voce bassa agli amici che aveva accanto. “Noi abbiamo dovuto fare addirittura delle scommesse per scoprire chi fosse il capitano e che lavoro facesse e lui adesso lo dice senza problemi davanti a questi che conosciamo appena?”

Il suo tono era deluso e quasi offeso, ma Jackson lo zittì subito con una gomitata nel fianco ben assestata!

“Abbiamo combattuto e molti hanno sacrificato la vita per distruggere Hitler e difendere la libertà, ma né io né voi né nessuno dei miei uomini deve dimenticare una cosa fondamentale: Hitler e i suoi seguaci sono il nemico, non tutti i tedeschi. Non dobbiamo odiare una persona per la sua nazionalità, ci sono anche tanti tedeschi che hanno rifiutato la propaganda di Hitler e che sono stati uccisi per questo, altri che si sono piegati solo per non perdere il lavoro o la famiglia. Chi siamo noi per condannare queste persone? Cosa avremmo fatto se ci fossimo trovati al loro posto?”

Sembrava davvero una lezione, ma una lezione di vita. Mellish si era incantato ad ascoltarlo e non era più riuscito a muovere un passo; Ryan e gli altri della Compagnia Charlie erano ammirati, mentre Sean e i soldati che avevano insultato Saltzmann adesso non avevano più il coraggio di alzare lo sguardo.

“Josef Saltzmann è un prigioniero tedesco, è vero, ma non può stare con gli altri prigionieri perché per loro è un traditore: ha sparato a un soldato delle SS per salvare la vita di due dei miei uomini, Mellish e Upham. È per questo che si è guadagnato il privilegio di venire con noi negli Stati Uniti, chiedendo diritto di asilo e, chissà, magari un giorno anche la cittadinanza americana” spiegò Miller. “È per questo che vive con noi, con i soldati che ha salvato, sta imparando l’inglese e tutto quello che vuole è una nuova vita in America, perché, tra le altre cose, ha perduto la sua famiglia in Germania sotto i bombardamenti. Non è un seguace di Hitler e delle sue teorie, è stato arruolato a forza, è una persona semplice e gentile e credo che non sia stato facile per lui sparare a un connazionale, ma lo ha fatto perché non sopportava di veder uccidere a sangue freddo un ragazzo. Ecco, questo è l’uomo che voi avete offeso e insultato, che avete spinto a lasciare questa tavola, e non credo che sia stato giusto. Lo dico a voi come lo direi a chiunque dei miei ragazzi. Non generalizzate, non condannate una persona per la sua provenienza, altrimenti… altrimenti non sarete meglio di coloro che combattete, perché anche Hitler è convinto che ci siano razze superiori e razze inferiori. Voi non credete, vero, che la razza americana sia superiore a quella tedesca?”

“No, no, certo che no, è solo che…”

“Io non sapevo tutta la storia di questo soldato…”

“Non voglio neanche sentir parlare di razze, non siamo mica cani!” così replicarono i soldati al rimprovero pacato e paterno, seppure severo, di Miller.

“Bene, allora mi auguro che, da stasera in avanti, quando vi capiterà di incontrare Josef Saltzmann per qualsiasi motivo, vi comporterete con lui come fareste con uno qualsiasi di noi. Non dovete per forza diventare suoi amici, ma trattarlo come un essere umano, come una persona che sta vivendo la sua seconda possibilità, questo sì.”

I soldati promisero che lo avrebbero fatto, imbarazzati e pentiti, vergognandosi per quello che avevano detto a Saltzmann.

Miller si voltò verso Mellish che era rimasto in piedi ad ascoltarlo come in trance.

“Credo che Saltzmann abbia bisogno di una persona amica, adesso” gli disse.

“Sì, lo so, vado subito da lui. E… grazie, capitano” replicò il giovane americano.

Il capitano sorrise e annuì e poi lo seguì con lo sguardo mentre si affrettava a uscire dalla sala per raggiungere il tedesco. Si sentiva fiero e orgoglioso di lui, proprio del soldatino più giovane della sua Compagnia, quello che sulle prime non avrebbe scelto per le sue missioni. Mellish era sempre stato immaturo, spesso impulsivo, egoista, un ragazzo poco più che adolescente nel bene e nel male, ma le ultime esperienze lo avevano fatto crescere in fretta e adesso aveva capito molte cose, il suo atteggiamento era cambiato, tanto che non aveva esitato, poco prima, a difendere Saltzmann anche davanti ad altri soldati americani. Sì, poteva essere soddisfatto del suo giovane soldato.

Mellish raggiunse la camera che condivideva co Saltzmann e Upham e aprì la porta. Vedendo il tedesco seduto sul suo letto, al buio, si affrettò ad andargli accanto, accese la lampada sul tavolino e si sedette al suo fianco.

“Ehi, mi dispiace tanto per quello che hanno detto quei cretini” gli disse. “Volevo seguirti subito, ma poi mi sono fermato a dirne quattro a quello che si è mostrato più stronzo con te. Insomma, mi dispiace per lui e i suoi compagni, ma non sei mica stato tu ad attaccarli, non c’era bisogno che se la prendesse con te.”

Saltzmann non rispose e restò immobile, seduto a capo chino.

“E poi anche il capitano Miller è intervenuto per difenderti e sentissi che belle parole ha detto, si sente proprio che è un insegnante, li ha fatti vergognare, quelli là. Mi sarebbe piaciuto che tu fossi lì ad ascoltarlo, ha detto che…”

Solo allora il tedesco parlò, con un tono di voce dimesso, stanco, disilluso che dissolse tutto l’entusiasmo di Mellish e lasciò il giovane americano senza parole.

“Stan, io… io credo che loro avere ragione. Io non potere venire in America con voi. Ora io capisco tue paure e tuoi dubbi, tu scusare me, Stan” disse. “Ora capisco tutto. Persone di America non volere me, tua famiglia non volere me, per tutti loro io sono nemico, anche se non combatto più. Sono tedesco e quindi sono nemico di America. Non posso stare con te anche se io amo tanto te, Stan.”

Mellish si sentì come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco e dovette fermarsi a riprendere fiato, quello che Saltzmann aveva appena detto lo aveva colto totalmente alla sprovvista. Ma come? Dopo tanti discorsi e tutto quello che era successo voleva arrendersi così per le parole cattive di un gruppetto di soldati che neanche conosceva? Ma cosa stava succedendo?

Fine capitolo dodicesimo

 

 

* Come avviene purtroppo in tutte le guerre, anche nella Seconda Guerra Mondiale ci furono atrocità commesse da entrambe le parti e non solo dai tedeschi: militari russi, americani, francesi ecc… si lasciarono andare alle peggiori nefandezze stuprando e a volte uccidendo donne tedesche o italiane, persino anziane e bambine. È possibile che i soldati della Compagnia Charlie, avendo vissuto tutti quei mesi negli accampamenti, a contatto con militari di altre compagnie, abbiano sentito raccontare episodi del genere.

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Capitolo 13
*** Cap. 13: Adrenaline ***


Cap. 13: Adrenaline

 

I was so unprepared
Forgive me if I stop and stare
Like my first lung of air
I was here and you were there

You're hitting me harder than a million goodbyes
And this isn't a heart attack but I feel it inside

Like a shot straight through my heart
Adrenaline, adrenaline
Like a flashbang in the dark
Adrenaline, adrenaline

I take just one look at you
And I think I'm bulletproof
When you hold me in your arms
Adrenaline, adrenaline!

(“Adrenaline” – James Blunt)

 

A Mellish occorse qualche secondo per metabolizzare quello che Saltzmann aveva appena detto e per reagire alle sue parole, dovette riprendere fiato e poi reagì sbalordito.

“Ma che ti prende adesso? Ti sei davvero fatto condizionare dalle chiacchiere di quei soldati? Ora non vuoi più venire in America con noi, sul serio? Non vuoi più vivere insieme a me?” esclamò, esasperato e incredulo.

Saltzmann lo guardò con occhi pieni di dolore.

“Io voglio tanto venire con te, vivere con te, io amo te, Stan, ma… quei soldati fatto capire me che americani non volere me” rispose. “Ora capisco perché tu preoccupato di tua famiglia, loro non volere me. Io… io amo tanto te, Stan, non voglio tu stare male per colpa mia.”

Mellish era allibito. Era una cosa pazzesca. Aveva passato mesi a cercare di spiegargli che non sarebbe stato così facile vivere insieme, che lui era troppo ottimista, che ci sarebbero stati dei problemi soprattutto a causa della sua famiglia, che specialmente gli ebrei d’America non lo avrebbero accolto a braccia aperte… e ora erano bastate due frasi di un soldato sconosciuto e col dente avvelenato e Saltzmann all’improvviso voleva buttare tutto all’aria! Ma sul serio?

“Maledizione, Saltzmann!” imprecò il ragazzo. “Te li fai adesso questi problemi, dopo mesi in cui ho cercato in tutti i modi di farti capire che non sarebbe stata una passeggiata? Hai perfino accusato me e la mia famiglia di essere dei razzisti al contrario o che so io e adesso vuoi mollare tutto! Io non ti capisco proprio.”

“Tu ragione e io torto. Io non voglio tu stare male, non voglio tua famiglia arrabbiata con te per colpa mia. Noi non potere stare insieme, nessuno volere me in America e, se tu con me, gente americana arrabbiata anche con te. Non voglio questo, Stan, io amo te” cercò nuovamente di spiegare l’uomo.

Mellish si sentiva perso e il peggio era che non capiva neanche il perché. Va bene, Saltzmann avrebbe trovato un’altra sistemazione, avrebbe comunque avuto diritto di asilo in America e si sarebbe rifatto una vita, cosa importava se adesso preferiva non vivere con lui e lasciarlo in pace, a cercare di ricostruirsi con la sua famiglia e i suoi amici? Non era quello che lui stesso aveva sempre voluto? Gli stava restituendo la sua libertà e sarebbe dovuto esserne felice… e allora come mai si sentiva così male? Come mai gli sembrava che una morsa gelida gli stringesse la gola e gli impedisse di respirare?

Perché, all’improvviso, il pensiero di non vivere insieme a Josef Saltzmann lo terrorizzava più di qualsiasi incubo avesse mai avuto?

“Se davvero fossi innamorato di me come dici non ti arrenderesti tanto facilmente” si sentì dire. Eh, sì, quella era proprio la sua voce, ma era possibile che dicesse proprio quelle parole? Accidenti, sembrava la protagonista sedotta e abbandonata di uno stupido film d’amore!

“Proprio perché amo tanto te, Stan, io dovere rinunciare” ripeté Saltzmann. “Prima io non capire, tuoi compagni essere stati ostili con me all’inizio, ma poi pian piano imparato a convivere. Io creduto così anche per americani in tuo Paese, ma cose che ha detto quel soldato… cose nate da tanto odio. Americani odiare me perché io tedesco, non importa cosa io fare o come comportare, e io non accetto tu stare male per questo. Io trovare altro posto dove andare e vivere e lavorare, tu non coinvolto.”

Il giovane poteva capire perché Saltzmann si sentisse così sconsolato e deluso. Era vero che la prima volta che si erano scontrati loro avevano cercato di fucilarlo e che solo per l’intervento di Upham le cose erano finite diversamente, ma quello era un momento diverso, erano in piena guerra, Josef aveva sparato verso di loro e loro avevano sparato verso Josef e i suoi commilitoni, in guerra questa è la prassi. Poi, quando il tedesco era stato fatto prigioniero, non aveva avuto nemmeno il tempo di vivere come tale perché Mellish e Upham lo avevano subito fatto portare via, con l’aiuto del capitano, e tenuto ad abitare nel loro accampamento e nella loro tenda: lui quindi non era stato maltrattato, insultato o picchiato come era accaduto ad altri prigionieri. Non sapeva che, con i loro nemici, gli americani sapevano essere crudeli e brutali quanto i tedeschi.

In realtà, Saltzmann non sapeva neanche che la propaganda USA aveva sparato a zero sulla Germania tutta, non tanto diversamente da come avevano fatto Hitler e i suoi, e quindi per l’americano medio un tedesco era uno scarafaggio da distruggere il prima possibile, una minaccia da eliminare. Non aveva mai preso granché sul serio Mellish quando cercava di spiegargli che, comunque, anche in USA c’era gente razzista e pronta a condannare e che non sarebbe stato così idilliaco come pensava: lui conosceva l’America dei grandi film, di Hollywood, di attori e attrici, ed era convinto che quello fosse il Paese della libertà, dove chiunque può avere una seconda possibilità e diventare chi vuole, insomma credeva fermamente nel sogno americano. Trovarsi di fronte alla dura realtà di un gruppo di soldati sopravvissuti a imboscate dei tedeschi che lo trattavano con una rabbia e un odio viscerali che lui non aveva mai neanche pensato potessero esistere lo aveva sconvolto.

Mellish comprese tutto questo, comprese perché Josef fosse così turbato e avvilito e decise di fare quello che poteva perché adesso toccava a lui salvarlo, era lui che doveva fargli ritrovare la fiducia, la speranza e la determinazione che aveva perduto.

Si chiese vagamente perché dovesse sentirsi così vuoto e triste al pensiero di poter perdere Saltzmann, di non poter vivere con lui… ma ritenne che fosse meglio non soffermarsi su idee del genere e invece impegnarsi per aiutarlo a riprendersi, per il suo bene, naturalmente, per cosa, sennò? E così si sedette più vicino all’uomo, gli prese le mani e gliele strinse forte tra le sue. Saltzmann rimase sorpreso e si voltò a guardarlo: Mellish non era mai stato il primo a cercare un contatto fisico tra loro e adesso gli aveva preso le mani e gli stava vicinissimo…

“Ascoltami bene, adesso, Josef, e non interrompermi, okay?” esordì il ragazzo, e Saltzmann di nuovo trasalì perché Mellish non lo aveva mai neanche chiamato per nome, prima di quella sera… “I ragazzi che ti hanno trattato in quel modo indegno sono stati rimessi al loro posto dal nostro capitano e non ci riproveranno più, tuttavia loro hanno almeno una scusante, perché sono reduci da un’esperienza orribile e in te hanno visto probabilmente un capro espiatorio. Il vero problema, però, è che di persone come loro ce ne sono tante, ce ne sono qui e ci sono in America, ed è vero che non saranno gentili con te, che ti insulteranno ancora e che cercheranno di metterti nei guai perché sei un tedesco. Ho cercato di dirtelo in mille modi ma tu non sei mai voluto starmi a sentire, ora però te ne rendi conto anche tu.”

“Sì… è per questo che io pensare che noi due non potere vivere insieme come volevo” ora gli occhi chiari di Josef erano incatenati a quelli nerissimi di Mellish e l’uomo poteva leggervi tutta la determinazione nell’incoraggiarlo, nel ridargli fiducia e… e anche altri sentimenti ed emozioni che Mellish neanche immaginava!

“Io non ho mai detto che non sarebbe stato possibile, ho solo detto che non sarebbe stato facile, che non sarebbe andato sempre tutto bene, che ci sarebbero state delle difficoltà. Sinceramente credevo che neanch’io avrei avuto la forza e la voglia di affrontarle, ma quando quel soldato ha iniziato a offenderti ho capito che invece lo volevo, che non era giusto, che tu hai il diritto di avere la vita che vuoi in America, perché altrimenti noi non siamo migliori di quelli che vogliamo sconfiggere” riprese il ragazzo. Nel suo sguardo brillava una luce che fece chiaramente capire a Saltzmann che non era solo per motivi ideologici che voleva aiutarlo… “Quindi sì, dovremo faticare, tu per studiare l’inglese e ignorare chi non ti vuole in America, io per convincere la mia famiglia che ormai sono cresciuto e cambiato e che voglio abitare a New York con i miei amici e trovare la mia strada indipendentemente dai miei genitori.”

Saltzmann era insieme commosso, intenerito e eccitato dalla veemenza di Mellish, dal modo in cui cercava di infondergli coraggio e positività, confusionario, ingenuo e irruente com’era solito essere, un ragazzino che non aveva ancora capito che ogni parola che diceva era piena d’amore per lui.

“Io sono pronto a lottare per ottenere quello che voglio, per staccarmi dalla famiglia e andare a vivere a New York con te e Upham, Reiben, Wade e quelli che saranno d’accordo di restare uniti e abitare in appartamenti vicini, non importa se i miei genitori si arrabbieranno” continuò il giovane americano, “ma tra queste persone ci voglio anche te. E se la gente, in America, ci guarderà male perché non accetta che un tedesco e un ebreo possano essere amici peggio per loro, si volteranno dall’altra parte, e se ci offenderanno che vadano a impiccarsi, vuol dire che non hanno capito niente dei motivi per cui noi combattiamo Hitler! Io farò la mia parte, ma tu devi fare la tua, hai capito, Josef? Mi prometti che non ti lascerai più abbattere e che sarai pronto a lottare per difendere quello che vuoi? Me lo prometti? Perché io comunque non ci rinuncio a te, Josef, non ci rinuncio, non ci rinuncio!”

Appassionato, determinato e tenerissimo, Mellish aveva fatto la più strana, buffa e dolce dichiarazione d’amore della storia, aveva pronunciato il nome di Josef più volte in cinque minuti di quanto avesse mai fatto da quando lo conosceva e Saltzmann… Saltzmann sentiva il cuore battergli forte, un dolce calore nel petto e le offese e le parole cattive dei soldati americani erano ormai lontani sussurri senza significato. Cos’altro poteva contare se aveva il suo ragazzino, il suo Stan, che gli diceva che lo voleva accanto a sé e che, senza neanche capirlo, gli dichiarava il suo amore, grande, disordinato, intenso, spontaneo e irragionevole come dev’essere il primo amore adolescenziale (perché per Mellish questo era, a conti fatti)?

“Va bene, io prometto a te, Stan” disse l’uomo, sorridendo finalmente e stringendo Mellish tra le braccia. “Prometto a te di lottare per nostro amore, non importare cosa dire gente: io amo te, Stan, e voglio stare con te sempre. Prometto a te questo.”

Si distese sul letto con lui, iniziando a baciarlo e nel contempo a sfilargli la giacca e la maglietta e a slacciargli i pantaloni. Lo baciò sentendo il sangue scorrergli rapido e rovente nelle vene, drogandosi con il suo sapore e con la sensazione del suo corpo liscio e morbido, avvolgendolo con amore e calore tra le sue braccia e affondando lentamente in lui come annegando in un piacere e una dolcezza inconoscibili, impossibili da descrivere, diversi da tutte le altre volte. Le linee dei loro corpi si fusero, vicini fino all’incredibile, e anche Mellish sentì che quella volta era speciale, come la prima di tante altre in cui ogni confine sarebbe stato distrutto e la fusione tra loro sarebbe stata totale. C’era una nuova intimità tra loro e il giovane non capiva che era proprio grazie a quello che aveva detto a Saltzmann, a ciò che gli aveva fatto capire… anzi, a dirla tutta in quel momento Mellish non riusciva a capire proprio più niente, travolto dall’intensità dell’amore dell’uomo, era come se fosse finito nello spazio profondo, in un luogo in cui non esisteva più il tempo o le regole sociali o qualsiasi altra cosa. C’era solo Josef e lui si sentiva al sicuro, amato e protetto come non mai nell’intima fusione dei loro corpi. Il ragazzo aveva perduto anche la cognizione della sua stessa mente e voleva soltanto che quello che stavano facendo durasse per sempre, che non esistesse nient’altro al mondo; onde di ghiaccio e di calore si susseguirono, sciogliendosi e prendendo fuoco, la pelle di entrambi rovente per il desiderio. Una miriade di stelle e bagliori incandescenti esplose dietro le palpebre di Mellish, un calore meraviglioso inondò le vene di entrambi, un sapore simultaneo di morte e beatitudine che fece sentire il giovane americano stordito e sopraffatto nell’apice del piacere, finché entrambi non si infransero insieme, distrutti e allo stesso tempo risanati da quell’amore che faceva scordare ogni pena e preoccupazione e donava la forza di superare qualsiasi ostacolo si fosse presentato.

“Io amo te, Stan” mormorò Saltzmann alla fine, tenendolo ancora incollato al suo corpo, baciandolo lievemente sulla fronte e accarezzandogli i capelli, “io amo tanto tanto te, Stan, e io felice adesso perché sapere che anche tu riuscito ad amare me…”

Mellish sentì un’onda di calore avvampargli il volto. Quando, precisamente, aveva detto di amare Saltzmann? Va bene la difficoltà linguistica, ma lui era proprio convinto di non aver mai detto niente del genere!

“Io… ho detto che voglio vivere con te, che ti voglio come amico, insieme a tutti gli altri” cercò di protestare. Ma la sua voce suonò poco convinta perché anche lui era perplesso, confuso: era vero, aveva detto che voleva Saltzmann come amico, come se fosse stato un altro dei suoi compagni, ma… ma quell’uomo gli faceva provare cose incredibili che non si sarebbe mai sognato di sperimentare con i suoi commilitoni, nemmeno con Caparzo che era stato il suo migliore amico. Si era sentito terrorizzato, vuoto e spento quando il tedesco aveva detto di non sentirsela più di andare a vivere con lui, il senso di solitudine nel suo cuore era esploso come un abisso siderale e poi… poi, quando finalmente lo aveva convinto e Saltzmann lo aveva stretto, baciato e tutto il resto, lui aveva vissuto emozioni e sensazioni inspiegabili e incredibili, si era sentito scoppiare il cuore, incendiare il sangue, aveva visto fuochi artificiali, stelle e galassie incandescenti dietro le palpebre, scariche di adrenalina che neanche nei momenti peggiori dello sbarco in Normandia!

Era dunque questo, l’amore?

“Senti, non lo so cosa provo davvero per te, non mi era mai successo prima” tentò di spiegare Mellish, ancora stordito e confuso. “Ci tengo a te, ti voglio bene e mi sono sentito bruciare di rabbia quando quei soldati ti hanno offeso, ma… non so se vuol dire qualcosa, credo che farei così anche per tutti i miei amici. Non mi sono mai innamorato in vita mia, magari a scuola c’era qualche ragazza che mi piaceva e mi batteva forte il cuore se mi guardava o mi rivolgeva la parola, ma non sono mai andato oltre questo e quindi… non lo so.”

Saltzmann rimase ancora più intenerito sentendo queste parole. Lo baciò con dolcezza, pieno d’amore, grato di averlo con sé, tra le sue braccia, di quella stupenda seconda occasione di felicità che mai si sarebbe aspettato.

“Tu tanto giovane, Stan” sussurrò, emozionato e commosso, “io insegnare te cosa è amore, tu imparare, tu forse già imparato. Io amo te con tutto mio cuore, Stan, e tu imparare ad amare me.”

Chissà, forse Saltzmann aveva ragione? Mellish decise di non porsi più problemi e si abbandonò all’abbraccio caldo e sicuro dell’uomo, addormentandosi al sicuro sul suo petto. Alla fine non aveva bisogno di dare un nome a quello che provava per lui, l’importante era che sarebbero stati insieme, che uniti erano più forti, che con lui sarebbe riuscito anche ad affrontare la sua famiglia e la gente che non voleva capire.

Ci avrebbe pensato al momento opportuno.

Fine capitolo tredicesimo

 

 

 

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Capitolo 14
*** Cap. 14: Scent of dye ***


Cap. 14: Scent of dye

 

I woke up today with something in my mind:
disconnected sentences in front of me...
Respect your goal, forget your ego!
It has a scent of dye and they call it indigo
we're on our own to draw and paint this world
We’ve been wandering like demons

Emptiness inside my heart

Don’t be shy this is the reason
There’s no Heaven without Hell
don’t forget me, please forgive me!
There’s an angel inside of me

We’ve been wandering like demons
Yes, we walked by the moon

By the moon!

(“Scent of dye” – Temperance)

 

Non era proprio destino che Ryan e gli uomini della Compagnia Charlie potessero trascorrere le festività natalizie in famiglia, come ormai credevano. Anzi, proprio prima di Natale le cose al fronte peggiorarono e si cominciò addirittura a pensare che la guerra era ben lungi dall’essere finita, al contrario, Hitler sembrava poter riguadagnare i territori che aveva perduto dopo il successo dello sbarco Alleato in Normandia! Il mattino del 16 dicembre le forze tedesche attaccarono attraverso la foresta delle Ardenne in Belgio e in Lussemburgo, cogliendo totalmente di sorpresa i soldati statunitensi che, dopo qualche settimana in cui aveva regnato la calma, non avevano più mantenuto un dispositivo difensivo continuo: inizialmente circolò addirittura il panico e sembrò che i tedeschi sarebbero risultati ancora una volta vittoriosi. Nei giorni successivi, tuttavia, le armate tedesche non sfondarono come aveva predetto Hitler, i contingenti statunitensi si riorganizzarono e seppero resistere efficacemente anche in situazioni di inferiorità numerica e mancanza di rifornimenti.* Le notizie, tuttavia, erano giunte rapidamente anche allo SHAEF e ai soldati che si trovavano a Versailles e, per qualche giorno, avevano regnato incertezza e paura.

Purtroppo, come troppo spesso succede, la paura aveva generato odio e l’odio si era riversato sull’unica persona che poteva fungere da capro espiatorio in quella situazione: ancora una volta Josef Saltzmann, colpevole soltanto di essere nato in Germania. Era il 20 dicembre e la giornata fredda e buia aveva suggerito a Upham di rimanere con l’amico tedesco a studiare l’inglese nella sala adibita a biblioteca dove solitamente lavoravano gli interpreti e i cartografi, tra cui lo stesso caporale. Quel giorno non c’era nessuno e, sebbene fosse ormai pomeriggio inoltrato, Upham e Saltzmann rimasero a lungo a parlare e a lavorare sull’inglese: il caporale alternava momenti di conversazione spontanea (in cui, manco a dirlo, Josef parlava continuamente di Mellish!) a esercizi di grammatica e vere e proprie interrogazioni sui principi della Costituzione Americana.

“Santo cielo, è tardissimo, tra poco tutti si riuniranno per la cena e noi siamo ancora qui!” esclamò ad un certo punto Upham, guardando l’orologio. “Non mi ero proprio accorto che fosse così tardi, adesso andiamo in camera a rimettere a posto i libri e ci prepariamo per la cena. Scusami, non mi sono reso conto del tempo che passava. Sei stanco?”

“No, io non stanco, noi parlato anche di cose belle e non solo studiare. Però… cosa fare Stan? Lui mi manca” disse Saltzmann. “Chissà dove lui è adesso…”

“Beh, lo incontrerai sicuramente in camera nostra, probabilmente è là anche lui a prepararsi, altrimenti vi rivedrete a cena” rispose il caporale, mentre raccoglieva i libri che aveva usato con Josef per poi riportarli in camera. “Non temere, non lo hai perso di sicuro, dove vuoi che sia andato? Certo che ci tieni proprio tanto a lui, eh?”

“Io amo Stan, amo Stan tanto tanto” dichiarò tranquillamente Saltzmann, con la sua solita schiettezza e semplicità. Upham sorrise, era davvero molto contento che il suo amico tedesco si stesse ricostruendo una vita dopo i lutti che lo avevano colpito ed era felice anche per Mellish, che vedeva troppo spesso agitato e preoccupato, sperava che l’affetto sincero e immenso di Josef potesse aiutarlo.

Upham e Saltzmann si trovavano nel corridoio e si stavano dirigendo verso la loro stanza quando, improvvisamente, vennero aggrediti da un piccolo gruppo di soldati, quattro giovani americani che erano arrivati due settimane prima insieme alle truppe di rinforzo, sarebbero dovuti partire per il fronte per aiutare i commilitoni che si trovavano nei boschi delle Ardenne ma poi c’era stata l’offensiva tedesca e tutto era cambiato. I ragazzi, preoccupati per il loro futuro e temendo che ben presto si sarebbero ritrovati i nazisti pure in Francia, colpirono alle spalle i due con pugni e calci, insultandoli e urlando.

“Maledetto bastardo di un crucco, sarai contento che i tuoi amici ci stanno distruggendo nelle Ardenne, vero?” gridò uno.

“Magari sei stato proprio tu a mandare informazioni a Hitler e ai suoi, non è così? Confessa!” urlò un altro, prendendo a calci Josef.

“E tu? Schifoso traditore! Con questa finzione di insegnare l’inglese al crucco lo aiuti a mandare messaggi ai suoi compagni nazisti!” esclamò un altro, picchiando Upham.

“No, io non… io lasciato esercito tedesco, io volere andare in America” cercò di protestare Saltzmann, improvvisamente ripiombato nell’incubo di alcuni mesi prima, quando erano stati Reiben, Mellish e Jackson a picchiarlo e a volerlo fucilare!

Upham, completamente smarrito perché non era abituato a risse e percosse, tentava di rialzarsi e di far ragionare i quattro.

“Vi sbagliate, non è come dite, io… sto davvero aiutando Saltzmann a imparare l’inglese per poter chiedere asilo politico in America…” mormorò, mentre si affannava a raccogliere i libri che i soldati avevano fatto cadere e calciato qua e là.

“Ti aspetti che ti creda, traditore? O che creda a quel crucco?” urlò il più esagitato del gruppo. E sarebbe finita proprio male se le urla dei giovani non avessero attirato gli altri occupanti delle camere vicine. Ben presto Reiben, Jackson e Ryan uscirono dalle loro stanze e, vista la situazione, afferrarono tre dei soldati per impedire loro di picchiare ancora Upham e Saltzmann. Dalla loro stanza, intanto, era arrivato anche Mellish che, sconvolto, si era messo proprio in mezzo, come scudo umano per Josef e il caporale, e affrontava a brutto muso il soldato che ancora continuava a offendere.

“Non permettetevi neanche per scherzo di fare del male a Saltzmann e al caporale!” gridò a sua volta. “Non sapete neanche cosa dite: Saltzmann mi ha salvato la vita e Upham lo sta aiutando proprio perché ha tradito i tedeschi e deve chiedere asilo politico da noi. Non sapete niente, come osate accusare?”

Intanto Reiben, Jackson e Ryan avevano ridotto all’impotenza gli altri tre. Il soldato rimasto non aveva più tanta voglia di menare le mani ora che si trovava in inferiorità, tuttavia continuò a provocare almeno a parole.

“Ah, guarda chi c’è, un altro amico dei tedeschi” fece, caustico. “A quanto pare qualcuno vi premia rimandandovi a casa e voi lo ripagate tradendo i vostri commilitoni!”

“Tu sei completamente fuso di cervello” ribatté Mellish, per niente intimorito. “Se abbiamo meritato qualche privilegio è perché ci siamo fatti un culo così fin dall’inizio, prima con lo sbarco in Normandia, dove la maggior parte di noi ci ha lasciato la pelle, poi nella missione suicida e quasi impossibile di ritrovare Ryan, e anche lì abbiamo perso un compagno e per poco anche un altro. E alla fine, quando contro ogni aspettativa abbiamo trovato Ryan, ci siamo imbarcati in un’altra impresa praticamente impossibile, ossia cercare di resistere nella difesa di Ramelle per evitare che finisse in mano ai tedeschi mentre aspettavamo rinforzi. Lì sono morti quasi tutti i pochi compagni rimasti a Ryan e anche noi ci siamo andati vicino, parecchio vicino. E tu e i tuoi amici là? Dov’eravate quando noi sputavamo sangue in questo modo? Ancora all’addestramento, no? Vi siete arruolati dopo lo sbarco in Normandia perché pensavate che ormai avessimo vinto la guerra, non è così? E ora siete rimasti di merda perché invece vi toccherà andare al fronte, in Belgio, dove i nazisti sembrano aver rialzato la cresta, e perciò ve la prendete con chi non c’entra un accidente.”

Le parole di Mellish, decise e dirette, colpirono proprio dove dovevano. I soldati trattenuti da Reiben, Jackson e Ryan chinarono il capo e smisero di cercare di liberarsi, mentre quello che Mellish aveva aggredito verbalmente non riusciva a sostenere il suo sguardo.

“Comunque sia” si sforzò di dire, “qualcuno ha informato i crucchi sul fatto che le armate statunitensi avevano abbassato la guardia e, casualmente, qui abbiamo un altro crucco che viene trattato da principe e un interprete che è incaricato di tradurre messaggi e dispacci dal fronte.”

“Ripetilo un’altra volta e ti spacco la faccia qui e ora!” esclamò Mellish, spazientito. “Stai parlando dell’uomo che mi ha salvato la vita e del nostro caporale, che non avrebbe neanche mai dovuto vedere un campo di battaglia e che, quando ci si è trovato, ha lottato contro la paura e ha fatto il suo dovere meglio che ha potuto. Tu cos’hai fatto finora, invece? Hai il coraggio di dirlo?”

Intanto Upham e Saltzmann si erano rialzati e rassettati. Per fortuna i pugni e i calci dei soldati non avevano provocato gravi danni o ferite: Upham era dolorante, ma senza niente di rotto e se l’era cavata con un occhio nero; Saltzmann aveva un sopracciglio spaccato, ma se l’era vista peggio quando erano stati Reiben, Jackson e gli altri ad aggredirlo al nido di mitragliatrice e, in effetti, il sopracciglio spaccato e le ferite sul volto e sulla fronte erano quelle che gli avevano inflitto allora Reiben e gli altri e che adesso si erano riaperte! Comunque nessuno dei due si preoccupava delle ferite o del dolore che sentiva, entrambi erano incantati da come Mellish aveva preso le loro difese senza se e senza ma. Upham si rendeva conto una volta di più di quanto il suo compagno fosse incredibile: appariva spesso strafottente e a volte scostante, poi si rivelava fragile e bisognoso di appoggio, altre volte dimostrava di avere un cuore immenso e una grandissima capacità di amare senza vergognarsi di ammetterlo… e adesso era lì, determinato e infuocato, a prendere le sue difese e quelle di Saltzmann e pronto anche a battersi per loro. Josef, poi, avrebbe voluto poterlo stringere tra le braccia e baciarlo a lungo lì davanti a tutti (per fortuna ebbe l’illuminazione di non farlo…). Era così bello vedere il suo Stan infiammato e con gli occhi brillanti di rabbia che difendeva il suo amico Upham (che, a dirla tutta, non era stato altrettanto coraggioso nell’aiutare lui…) e lui stesso, e così facendo dimostrava, pur senza accorgersene e senza neanche rendersene conto, di amarlo veramente come e quanto lo amava lui. Nonostante il pestaggio, Saltzmann non si era mai sentito più felice!

Proprio in quel momento la tensione che gravava sul corridoio venne spezzata dalla voce del Capitano John Miller, che era uscito dalla sua stanza e aveva assistito all’ultima parte della scena.

“Soldati, questo non è il modo di risolvere le questioni” disse in tono di rimprovero. “Se avete qualcosa da riferire riguardo a Josef Saltzmann e al caporale Timothy Upham, allora dovrete muovere le vostre accuse direttamente davanti ai Generali Eisenhower e Montgomery che, come ben sapete, sono presenti in questo hotel con tutto il Quartier Generale dello SHAEF. È questo ciò che volete fare?”

La faccenda prese subito un’altra piega. Nel corridoio calò un’atmosfera di paura e vergogna e i soldati che avevano picchiato il tedesco e il caporale si scambiarono sguardi turbati. Fu quello che si era confrontato con Mellish a parlare, ancora una volta.

“No, signore, no, noi… noi non vogliamo affatto questo” disse, con la voce che tremava.

“Ne sei certo, soldato? Perché sappi che le accuse che hai mosso sono molto gravi e, se fossero solo calunnie, sarebbe ancora più grave. Forse tu e i tuoi compagni non sapete che è stato proprio il Generale Montgomery a concedere a Saltzmann la possibilità di essere separato dagli altri prigionieri tedeschi, affidato alla nostra custodia e di venire in America con noi per richiedere asilo politico. E questo perché lui ha ucciso un suo commilitone per salvare i miei uomini, dunque, in realtà, sono i tedeschi a considerarlo un traditore. Dubito fortemente che adesso Saltzmann voglia riprendere i contatti con le armate di Hitler” spiegò Miller, in tono pacato ma fermo. “In quanto al caporale Upham, è uno dei migliori traduttori e interpreti e il Generale Montgomery si affida sempre a lui per tradurre messaggi e dispacci provenienti dai vari comandi. Pertanto, se c’è qualcosa che non vi convince in questi uomini, o se volete discutere riguardo alle scelte e alle decisioni dei nostri superiori, è proprio con i Generali in persona che dovete parlare.”

Le parole lapidarie e terribili di Miller fecero impallidire ancora di più i soldati, che di sicuro non si sognavano neanche di fare una simile figura davanti ai grandi capi!

“No, no, signore, noi non vogliamo denunciare nessuno!”

“Non pensiamo veramente le cose che abbiamo detto!”

“Per favore, signore, ci perdoni.”

“Noi… eravamo solo spaventati” cercò di spiegare meglio quello che aveva parlato fin dall’inizio, e che a quanto pareva era il leader del gruppetto. “Nei prossimi giorni ci manderanno al fronte, nelle Ardenne, e noi… noi non sappiamo cosa ci troveremo, viste le notizie che arrivano degli attacchi tedeschi. Per questo ce la siamo presa con… con chi non c’entrava niente, per sfogarci, ecco!”

La spiegazione, tuttavia, sembrò innervosire ancora di più il Capitano.

“Questa vi sembra una giustificazione?” replicò. “Tutti noi abbiamo avuto paura. Anch’io ho avuto paura, e così tutti gli uomini che ho guidato. Nessuno di noi sapeva a cosa sarebbe andato incontro quando si è arruolato. Pensate forse che i miei soldati si aspettassero l’orrore che si sono trovati davanti a Omaha Beach o la missione suicida prima per trovare Ryan e poi per resistere a Ramelle? No, nessuno poteva sapere cosa lo aspettasse, ma nessuno si è comportato come voi. E adesso non chiedete perdono a me, non mi servono le vostre scuse. Chiedete piuttosto perdono a Josef Saltzmann e al caporale Upham, e chiudiamola una volta per tutte con questa faccenda indegna!”

Pieni di vergogna e rimorso, i quattro soldati chiesero scusa a Upham e Saltzmann, che non si fecero problemi a perdonarli visto che erano già passati sopra a quell’episodio e non ne erano rimasti turbati più di tanto, entrambi ne avevano viste e sopportate ben di peggio!

“Bene, ora, se siamo tutti d’accordo, direi di andare a cena, visto che siamo già in ritardo” concluse Miller, incamminandosi per il corridoio e ben presto raggiunto da Horvath, poi da Reiben, Jackson e Ryan e dai quattro soldati imbarazzati e pieni di vergogna come degli scolaretti rimbrottati dal maestro.

Nel corridoio rimasero solo Mellish, Saltzmann e Upham.

“Grazie, Mellish, sei stato davvero altruista e coraggioso ad affrontare quel soldato per difenderci” disse il caporale al compagno, notando che comunque il giovane era rimasto piuttosto cupo e pensieroso. “Tra l’altro hai detto delle cose molto belle anche su di me, quando invece non è del tutto vero che io mi sia comportato bene durante le battaglie…”

Upham si sentiva ancora più in colpa, adesso, ripensando a quando non aveva avuto il coraggio di salire le scale per andare ad aiutare Mellish contro il soldato delle SS, e meno male che ci aveva pensato Saltzmann!

Mellish, però, non pareva affatto turbato da questo, evidentemente erano altri i pensieri che lo tormentavano.

“Figurati, caporale, ho detto solo quello che pensavo” ribatté, distrattamente. “Tu avresti fatto lo stesso per me.”

Upham si chiedeva cosa potesse aver messo tanto a disagio il suo amico e pensò che la cosa migliore da fare fosse lasciarlo solo con Josef, magari lui lo avrebbe rassicurato.

“Bene, allora scendiamo anche noi a cena?” propose. “Io intanto vado, passerò prima dall’infermeria per farmi mettere da Wade del ghiaccio su quest’occhio, ci vediamo nel salone.”

E si allontanò. Adesso che erano soli, Saltzmann poteva finalmente prendere tra le braccia il suo ragazzo, stringerlo forte a sé come aveva tanto desiderato vedendolo così acceso e determinato nel prendere le sue difese.

“Io ammirato tanto te, Stan, tu tanto buono e coraggioso. Allora tu adesso amare me? Tu difendere me, quindi è amore vero, no?” gli disse, entusiasta.

“Ti sono affezionato e ti voglio bene, certo” replicò Mellish, lasciandosi abbracciare ma rimanendo pensoso e malinconico. “Però avrai notato che ho difeso anche Upham, non solo te.”

“Sì, ma io amo te, Stan, e sento che tu amare me anche se non sapere!” concluse Josef, senza lasciarsi smontare. Si chinò su Mellish e lo baciò, baci sempre più languidi e dolci mentre gli accarezzava dolcemente i capelli, e il giovane americano si perse in questa dolcezza intrisa di passione tanto da sentirsi mozzare il respiro, mentre il suo corpo era attraversato da fremiti e lui si sentiva indifeso e vulnerabile. Ancora una volta si chiese se non fosse vero, se non si stesse realmente innamorando di Saltzmann…

Quando si staccarono, tuttavia, Mellish cercò di darsi un contegno.

“È meglio che passi anche tu dall’infermeria a farti curare da Wade, i colpi ti hanno riaperto le ferite che ti avevamo fatto noi” gli disse. “Andiamo, ti accompagno io e poi andiamo a cena con gli altri.”

“Certo, Stan. Io venire dove vuoi tu, Stan, io sempre felice quando sto con te, Stan” rispose Josef, felice e soddisfatto.

Si incamminarono ma, nonostante tutto, Mellish continuava ad apparire pensieroso e preoccupato per qualcosa. Cosa poteva essere?

Fine capitolo quattordicesimo

 

 

 

 

* La battaglia delle Ardenne fu l’ultima grande offensiva strategica tedesca sul fronte occidentale, si svolse dal 16 dicembre 1944 al 28 gennaio 1945 e vide un iniziale successo delle armate tedesche e la vittoria strategica finale degli Alleati.

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Capitolo 15
*** Cap. 15: Watergun ***


Cap. 15: Watergun

 

When we were boys
We played pretend
Army tanks and army men
Hide and seek
Grow to be the kings we dream

Where did we go?
We're standin' on the frontline
Where did we go? We go?

I don't wanna be a soldier, soldier
I don't wanna have to play with real blood
We ain't playin' now
Can't turn and run
No water guns no, no

What we've become…
(“Watergun” – Remo Forrer)

 

Saltzmann non capiva perché Mellish fosse tanto turbato, in fondo era finito tutto bene, no? Il giovane era intervenuto per difendere lui e Upham e poi anche il Capitano Miller aveva rimproverato i soldati che si erano affrettati a scusarsi e a chinare il capo per non incorrere in qualche punizione esemplare. Tutto perfetto, non era così? Anzi, lui, Josef, si era sentito immensamente felice nel vedere che il suo Stan lo difendeva con tante belle parole e faceva così capire quanto lo amasse e tenesse a lui! Allora perché adesso il ragazzo era così abbattuto? Il tedesco aveva notato che non aveva parlato con nessuno a tavola, in realtà non aveva mangiato quasi niente, continuando a fissare il cibo nel piatto e a rigirarlo con la forchetta. Ma perché si comportava così? Cosa non andava?

La cena era più o meno a metà quando Mellish si alzò dal suo posto.

“Scusatemi, non ho molta fame stasera e mi sento stanco” disse, guardando i compagni e il Capitano. “Vado in camera a riposare. Buonanotte.”

Gli altri soldati e Miller avevano annuito, Upham era rimasto un po’ più sorpreso, ma poi aveva scambiato uno sguardo con Saltzmann.

“Io anche chiedo scusa” disse il tedesco, mentre Mellish già era uscito dalla sala. “Io andare con Stan, forse lui non stare bene.”

“Non sta bene? Perché? Forse uno di quei ragazzi lo ha colpito? Vuoi che venga con te?” si offrì subito Wade.

“Grazie, ma io andare da Stan e chiedere, se poi bisogno chiamo te, però non sapere… Insomma, forse lui solo bisogno parlare, ecco” rispose Josef, ancora piuttosto stupito per l’atteggiamento del giovane americano.

“Va bene, tanto mi trovate in infermeria se avete bisogno di me” assicurò Wade.

Ancora una volta uno sguardo d’intesa passò tra Saltzmann e Upham e il caporale si rasserenò rendendosi conto che, qualsiasi cosa avesse Mellish, Josef si sarebbe occupato di lui e lo avrebbe aiutato a superarla. Il tedesco diede la buonanotte a tutti e seguì il giovane, fingendo una sicurezza che non provava poiché non riusciva a comprendere perché fosse tanto turbato e mesto.

Mellish doveva aver praticamente corso lungo i corridoi, perché Saltzmann non riuscì a trovarlo fino a che non entrò nella camera che dividevano e lo vide seduto sul letto, nella penombra della stanza, con il capo tra le mani e gli occhi fissi nel vuoto.

Preoccupatissimo, corse subito da lui, gli prese le mani e cercò il suo sguardo.

“Stan? Cosa senti? Tu stare male? Parla a me, Stan” gli disse, cercando di tenere ferma la voce.

“No, non mi sento male, non è quello” mormorò il ragazzo, con un tono che smentiva quello che diceva. Beh, forse non stava male fisicamente, ma non si sentiva neanche bene, proprio per niente.

Saltzmann si sedette accanto a lui sul letto, gli circondò le spalle con un braccio e lo attirò a sé, facendogli appoggiare la testa sulla sua spalla.

“Tu stare male per cosa fatto soldati prima? Tu preoccupato per me e Upham?” domandò.

Mellish sembrò stupito che l’uomo avesse centrato subito il problema e questa sorpresa lo portò ad aprirsi prima di quanto avrebbe fatto in una situazione diversa.

“Io… sì. Insomma, lo so che è finito tutto bene, ma solo grazie al Capitano, io non sarei riuscito a difendervi” disse.

“No, non sentire in colpa tu per questo, Stan. Tu fatto cosa coraggiosa, detto cose molto belle di me e Upham e io sentito commosso” lo rassicurò Saltzmann. “È vero, Capitano dare grande aiuto e spaventare soldati, ma loro già finito di picchiare e insultare me e Upham perché tu fermato loro e anche tuoi amici fermato loro. Cosa non va, Stan? Tu pensare loro continuare altri giorni, quando Capitano non vede loro?”

“No, non è questo, sono sicuro che abbiano capito la lezione e non daranno più fastidio né a te né ad Upham, però…” il giovane americano sembrava tormentato da qualcosa che andava oltre l’episodio di quella sera. “Io ho pensato tante cose e tutte per niente belle, ecco. Ho pensato che quello che loro dicevano di te e anche di Upham magari lo penseranno anche altre persone in America. Voglio dire, la guerra non è finita, anzi, nelle Ardenne combattono ancora e sembra addirittura che i tedeschi potrebbero ribaltare la situazione, questa maledetta guerra potrebbe durare ancora chissà quanti anni! Però noi ne siamo fuori e, se la situazione si calmasse, tra pochi mesi potremmo essere in America.”

“E questa non è cosa bella?” chiese sorpreso Josef.

“Dovrebbe esserlo, ma… hai visto, no? Quei ragazzi di stasera sono dei soldati, sì, ma sono anche degli americani che saranno mandati al fronte e che se la sono presa con te e Upham perché hanno paura” replicò Mellish. “E io ho cominciato a chiedermi: come ci accoglieranno in America? Come accoglieranno dei soldati che sono stati mandati a casa prima della fine della guerra, mentre tanti altri ragazzi come noi stanno morendo al fronte? Per non parlare di un prigioniero tedesco… se la guerra non sarà finita, tu sarai ancora il nemico per gli americani, a loro non importerà che tu abbia tradito i tuoi compagni, magari neanche ci crederanno.”

In effetti questo era proprio ciò che aveva turbato tanto Saltzmann qualche giorno prima, la possibilità che in America non lo avrebbero mai accettato. Allora, però, era stato proprio Mellish a rassicurarlo, perché adesso invece appariva ancora più preoccupato e spaventato di lui?

“Vedi, in un certo senso è come se questa sera mi fossi reso conto di quanto la situazione sia drammatica” riprese il giovane, abbandonandosi all’abbraccio dell’uomo come se sentisse la necessità di un conforto proprio mentre pensieri tanto orribili lo laceravano. “Io e i miei compagni ne abbiamo viste tante, cominciando dallo Sbarco in Normandia che è stata davvero un’esperienza apocalittica… poi la missione per cercare Ryan, Caparzo che è stato ucciso, la resistenza disperata a Ramelle, e quello… quello che mi stava per succedere quando tu mi hai salvato. Da un certo punto di vista mi sembrava che fosse giusto così, che noi avevamo già dato abbastanza e che era arrivato il momento di tornare a casa. Anche mentre eravamo ancora a Granville e poi qui a Versailles mi pareva quasi che la guerra fosse finita, o stesse per finire, che presto saremmo tornati tutti a casa, magari noi solo un poco prima degli altri. Ma oggi… oggi ho capito che non è affatto così, la guerra è in pieno svolgimento, tanti americani come noi stanno morendo e noi non facciamo niente! Cosa potranno pensare i civili a casa, quando ci vedranno tornare tranquilli e beati mentre la guerra è ancora in corso? Non ci considereranno davvero dei vigliacchi, dei traditori che hanno abbandonato i loro commilitoni? E cosa penseranno di te?”

Saltzmann avvertì il profondo dolore del suo giovane compagno, lo sentì dentro di sé e fece male anche a lui, ma proprio per questo doveva combatterlo e non abbandonarvisi. Prese il volto di Mellish tra le mani e lo obbligò a guardarlo negli occhi mentre gli parlava.

“Americani pensare queste cose di te e di tuoi amici, oppure tu pensare questo? Forse tu credere di tradire tuo Paese e tuoi compagni perché ora voi non fare più guerra?” gli chiese.

Mellish restò allibito, ma non cercò di liberarsi dalla stretta e dallo sguardo dell’uomo. Non si era reso conto che ciò che lo turbava davvero, in fondo al suo cuore, non era la paura di come sarebbe stato accolto in patria ma, piuttosto, il senso di colpa perché lui e i suoi compagni non erano più costretti ad andare al fronte e a rischiare la vita, mentre altri ragazzi come loro morivano. Ancora una volta Saltzmann era riuscito a leggere la verità dentro il suo animo prima ancora che se ne rendesse consapevole lui stesso!

“E non è forse così? Ryan ha ragione, aveva ragione anche quando a Ramelle rifiutò di venire via con noi” disse in tono amaro. “Non siamo migliori degli altri soldati, non abbiamo fatto niente per cui ci meritiamo di tornare a casa in anticipo. Abbiamo vissuto esperienze terribili, certo, ma come tutti gli altri ragazzi che sono al fronte. Di sicuro quando ci siamo arruolati non pensavamo che fosse così atroce, la guerra ci pareva un’avventura, come nei libri, e poi abbiamo avuto un duro impatto con la realtà, ma lo stesso vale per i soldati che stanno morendo in Belgio e altrove e per i ragazzi che aspettano di essere inviati al fronte. In cosa siamo migliori di loro? In niente! Perciò non meritiamo di tornare a casa prima e se ci dovessero insultare e chiamare codardi e traditori avranno ragione!”

“No, questa cosa non è vera” lo interruppe Josef. “Tu e tuoi compagni non essere codardi e traditori, voi combattuto tanto e perso tanto, io so cosa è guerra, anche io soffrire e stare male e perso mia famiglia. Io penso che ora merito vita tranquilla e in pace.”

“Sì, magari tu sì” ribatté Mellish, che però temeva che diversa gente, in America, non avrebbe visto Saltzmann sotto questa luce positiva… “ma tu hai fatto una scelta precisa: hai lasciato i tuoi compagni, hai sparato a un commilitone per salvare me e Upham. Per i tedeschi sei un traditore, ma per gli Alleati hai compiuto un atto generoso ed eroico. Ma noi non abbiamo fatto niente di speciale, niente che non abbiano fatto, non facciano e non faranno migliaia di altri ragazzi come noi che però devono continuare a combattere!”

“Questo non vero, Stan” disse pacato Saltzmann, accarezzando il viso del giovane. “Tu e tuoi compagni fatto vostra parte in guerra, voi fatto Sbarco, so quanto quello è stato orribile, poi cercato Ryan, perso tuo amico Caparzo, e trovato Ryan e difeso Ramelle anche se pochi soldati e poche armi. Voi fatto cosa eroica a Ramelle e… e tu poi quasi morto là, soldato SS infilato baionetta e…”

“No, no, smettila, non è successo niente, tu mi hai salvato!” lo interruppe Mellish, veemente. Comunque fosse, non riusciva ancora ad accettare di sentir parlare di quei momenti e della vera entità della ferita ricevuta. “Però forse… forse è vero che a Ramelle abbiamo fatto una cosa importante, eravamo pochi e siamo riusciti a tenere la cittadina fino all’arrivo dei rinforzi, altrimenti i tedeschi l’avrebbero presa e forse, dico forse, avrebbero cambiato le sorti della guerra. Sì, forse è così, ma questo lo possono capire solo altri soldati. Chi mi assicura che la gente comune non ci accuserà di essere dei vigliacchi e dei disertori?”

“Perché tu ancora paura di ricordare fatto di Ramelle” mormorò Josef, avvicinando il viso a quello del ragazzo, “tu non riuscire a parlare di quello. Tu avuto grande paura e trauma e nessuno osare dire a te vigliacco, povero ragazzino…”

Lo strinse tra le braccia e lo baciò dolcemente, poi si staccò da lui e lo accarezzò di nuovo sul volto e sui capelli.

“Io so che andare tutto bene in America, tu e io stare bene, trovare posto per vivere e stare bene” riprese, parlandogli con tenerezza e in tono rassicurante. “Non importa gente che pensa male, importa essere insieme e con tuoi amici, persone che vogliono bene a te… e forse anche a me un po’.”

Mellish restava stretto al petto dell’uomo e si rendeva conto che quello che Josef stava dicendo era la stessa cosa che gli aveva detto lui alcune sere prima, dopo che altri soldati lo avevano insultato a tavola e Saltzmann si era scoraggiato e aveva pensato di non andare più in America. Il giovane lo aveva tranquillizzato assicurandogli che avrebbero potuto ignorare la gente che non capiva e che lo considerava un nemico, perché tanto avevano i loro amici e poi erano insieme loro due, il resto non contava… e adesso Josef gli stava ripetendo le stesse cose, ma lui non riusciva più a crederci perché l’uomo aveva ragione, era lui il primo a sentirsi un vigliacco e un disertore, a pensare di non meritare il privilegio di tornare a casa prima che la guerra fosse finita e quindi proiettava sugli altri quello che lui stesso pensava. Eppure, stranamente, nell’abbraccio caldo e protettivo di Saltzmann sembrava che tutto potesse davvero sistemarsi e che in America avrebbero costruito una nuova vita insieme e con gli amici più cari…

“Me lo prometti?” mormorò Mellish. “Mi prometti che tutto andrà davvero bene e che tu… che tu non mi lascerai mai da solo? Perché io non lo so, non credo più a niente!”

Saltzmann lo sentiva tremare nel suo abbraccio, pareva ancora più giovane e indifeso, proprio come il giorno in cui lo aveva salvato dal soldato delle SS e lo aveva stretto a sé, tremante, singhiozzante, terrorizzato.

“Sì, io prometto a te questo. Tutto andare bene in America, noi costruire nostra vita insieme e vivere felici” assicurò il tedesco. “E io non lascio mai te perché io amo tanto te, amo tantissimo te, io non potere vivere senza di te, Stan. Noi felici perché stare insieme in America, io amo te e tu impari ad amare me e questa è nostra felicità, tutto andare bene, io prometto.”

E, come per suggellare queste parole rassicuranti, gli regalò un nuovo bacio, un bacio lungo e appassionato mentre si distendeva sul letto con lui e continuava ad accarezzarlo e toglieva di mezzo i vestiti ormai divenuti inutili. Mellish dimenticò ogni preoccupazione, anzi, perse del tutto il senso del tempo e dello spazio, ritrovandosi chissà come sotto il corpo di Josef e iniziando a corrispondere timidamente al suo bacio, sospirando incredulo. L’uomo si insinuò in lui con delicatezza, paziente, come se temesse di rompere una fragile statuetta di cristallo, finché non si trovarono uniti, incuneati insieme come a completarsi a vicenda, un’unica essenza nel corpo e nel cuore. Ancora una volta fu fuoco e stelle, abbracci, baci, coccole e tenerezze nell’amore fino a giungere al culmine insieme, tra ansiti e gemiti, disfatti ma felici.

“Io amo te, Stan, tu mia felicità in America” gli disse dolcemente Saltzmann alla fine, continuando a stringerlo al suo petto e baciandolo con delicatezza.

In quel momento tutto sembrava possibile anche a Mellish. Chissà come i problemi e le ansie che si era fatto venire non esistevano più, dissolte dalla luce stellare dell’amore, e anche lui pensava che, se fosse stato sempre insieme a Josef, non sarebbe accaduto niente di male, tutto sarebbe stato bello e perfetto. Accanto a Saltzmann, anche lui sarebbe stato in grado di superare qualsiasi ostacolo e difficoltà avessero potuto trovare in America e tra le sue braccia sentiva nascere nel cuore il coraggio e la determinazione a cui non credeva più.

Mellish non poteva sapere che il giorno della partenza per l’America era più vicino di quanto pensasse ma che, prima di arrivare alla loro agognata meta, ci sarebbe stato davvero un ostacolo grande e doloroso che lui avrebbe dovuto trovare la forza di superare, per se stesso, per Josef e per la vita che sognavano di costruirsi nel Paese delle opportunità.

Fine capitolo quindicesimo



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Capitolo 16
*** Cap. 16: Don't walk away ***


Cap. 16: Don’t walk away

 

Raised in this madness, you're on your own
It made you fearless, nothing to lose
Dreams are a drug here, they get in your way
That's what you need to fight day by day

Oh Damn, the war is coming!
Oh Damn, you feel you want it!
Oh Damn, just bring it on today!

You can't live without the fire
It's the heat that makes you strong
'Cause you're born to live and fight it all the way
You can hide what lies inside you
It's the only thing you know
You're embracing that, never walk away
Don't walk away!

(“Iron” – Within Temptation)

 

L’offensiva delle Ardenne fu l’ultima, vera, grande battaglia in cui i tedeschi sembrarono prevalere, ma le truppe Alleate, nonostante alcuni dolorosi cedimenti e dure sconfitte iniziali, si ripresero bene dalla sorpresa e combatterono con coraggio e abnegazione anche in situazioni di inferiorità di uomini e mezzi, tanto da stupire i comandi tedeschi. Dopo circa un mese di violenti scontri, le forze Alleate ebbero la meglio e l’offensiva tedesca fallì miseramente, subendo anche gravi perdite e un grave indebolimento complessivo della Wehrmacht che, nei mesi successivi, non sarebbe stata più in grado di resistere validamente né, tanto meno, di sferrare nuovi attacchi. Anzi, il 12 gennaio ebbe inizio sul fronte orientale la gigantesca offensiva sovietica che permise alle corazzate dell’Armata Rossa di arrivare ben presto a pochi chilometri da Berlino, costringendo le truppe tedesche a ripiegare per cercare di proteggere il cuore del Paese. La Germania nazista era dunque schiacciata tra due fuochi e pareva proprio che la guerra stesse volgendo al termine.*

A Versailles, i Generali Montgomery ed Eisenhower cominciarono a pianificare la partenza di James Ryan e della Compagnia Charlie per gli Stati Uniti, già fin troppe volte rimandata. Ora che la Germania sembrava al collasso, si poteva ragionevolmente pensare che non ci sarebbero stati tentativi di bombardamenti da parte degli aerei o dei sommergibili tedeschi ad un transatlantico americano che riportasse in patria i soldati feriti e quelli che avevano meritato il congedo anticipato.

Erano i primi giorni di febbraio del 1945 e Mellish e i suoi compagni stavano parlando proprio di questo, godendosi il tepore di una giornata che sembrava già quasi primaverile e la bellezza dei giardini attorno al Trianon Palace Hotel.

“Ragazzi, ma l’avreste mai detto? Poco più di un mese fa sembrava proprio che Hitler e i suoi crucchi avessero rialzato la testa, che avrebbero vinto nelle Ardenne e magari anche riconquistato i Paesi che noi avevamo liberato e adesso… Bum! Quei bastardi devono difendere il loro, di Paese, dall’attacco degli angloamericani da occidente e dei sovietici da oriente!” esclamò Reiben, soddisfatto.

“Quel pazzo di Hitler non si arrenderà mai, piuttosto sacrificherà fino all’ultimo dei suoi soldati per difendersi. L’avevo detto, io, che sarebbe stato più veloce ed efficace darmi una linea di tiro su di lui e, grazie a me e al mio fucile di precisione, la guerra sarebbe finita da un pezzo” commentò Jackson, ricordando una battuta che aveva fatto uno dei primi giorni della missione per cercare Ryan… e che forse non era poi del tutto una battuta.

“Magari tra tanti soldati riusciranno a trovare un cecchino bravo come te che faccia fuori Hitler e metta fine a questo massacro” disse Upham. “Ora che la Germania è circondata da ogni lato è possibile che accada, no?”

“Che trovino un cecchino bravo come me o che Hitler sia tanto imprudente da mostrarsi in pubblico in una situazione come questa?” ribatté Jackson. “Quel vigliacco se ne sta rinchiuso in qualche bunker supersegreto e lascia che i suoi soldati muoiano per lui, te lo dico io.”

“In fondo è quello che fanno tutti i capi” sottolineò Ryan. “Anche i nostri Generali non vanno certo a combattere, si limitano a pianificare le strategie e… beh, anche le manovre di propaganda. Però non sono stati loro a iniziare la guerra, è stato Hitler e adesso lascia che i suoi uomini muoiano e che il suo Paese sia bombardato a tappeto. È una vera merda!”

“Nei bombardamenti moriranno anche tanti innocenti” mormorò Mellish, che per qualche strano motivo era diventato particolarmente sensibile a quell’argomento. Aveva notato che Saltzmann stava ascoltando e che i suoi occhi erano diventati molto tristi, sicuramente pensava alla sua famiglia morta sotto un bombardamento inglese. Gli prese la mano, sperando che nessuno se ne accorgesse ma, ovviamente, tutti se ne accorsero e cominciarono a ridacchiare. “Quel fottuto bastardo di Hitler fa morire i suoi soldati, ma anche donne, vecchi e bambini pur di non arrendersi, ma cosa spera? Tanto prima o poi lo prenderanno e creperà anche lui!”

“Hitler è rovina di Germania, io voglio lui morto” disse piano Saltzmann, stringendo affettuosamente la mano di Mellish. “Spero che lui ucciso prima possibile.”

“Lo speriamo tutti, amico, perché è un figlio di puttana e perché, finché non avranno fatto fuori lui, non potremo dire di aver vinto la guerra” commentò Reiben.

“Comunque i Generali stanno parlando di rimandarci a casa, questa volta sul serio, anche prima di riuscire a uccidere Hitler” intervenne Upham che, come traduttore ufficiale, aveva modo di sapere certe notizie prima degli altri. “I tedeschi hanno troppo da fare per difendere se stessi, non c’è più pericolo che possano attaccare delle navi americane di ritorno in patria, per cui è possibile che già nei prossimi giorni sia organizzata la partenza.”

“Questa è bella cosa” disse Saltzmann, ritrovando finalmente il sorriso. “Vero, Stan?”

Mellish aveva capito che l’uomo si riferiva a ciò che gli aveva detto più di un mese prima, quando temeva di essere considerato un vigliacco e un disertore se fosse ritornato a casa prima della fine della guerra. Adesso però la situazione era completamente ribaltata rispetto a fine dicembre ed era chiaro che loro sarebbero stati rimpatriati solo qualche mese prima di tutti gli altri soldati: la guerra stava davvero per concludersi.

“Sì, è una bella cosa” ammise. “Però tu non sei mica migliorato tanto con l’inglese! Devi studiare di più, altrimenti come pensi di fare per ottenere la cittadinanza americana? Insomma, ma cosa fate tu e Upham quando dovresti studiare?”

“Io parlo di te, Stan, io dico cose che voler fare quando noi in America, Upham aiuta me per cose pratiche tipo trovare casa per noi due e…”

“Va bene, va bene, ho capito, lasciamo perdere, non avrei mai dovuto chiederlo!” esclamò il giovane americano, interrompendo bruscamente la spiegazione di Saltzmann mentre tutti i compagni scoppiavano a ridere.

L’atmosfera era davvero più serena, nei cuori brillava la speranza e l’attesa di una nuova vita da ricostruire, delle persone care da riabbracciare, ed era molto più facile ridere e scherzare come un tempo.

Nei giorni seguenti la notizia divenne ufficiale e il Capitano Miller in persona informò i suoi soldati, tra i quali ormai includeva ufficiosamente anche Ryan e lo stesso Saltzmann, che potevano iniziare a preparare le loro cose, perché entro una decina di giorni al massimo si sarebbero imbarcati sulla nave che li avrebbe riportati a casa. La guerra stava per finire, anche se Hitler rifiutava di crederci e continuava a sacrificare soldati, anche giovanissimi, e gli stessi civili tedeschi sotto i bombardamenti pur di non accettare la resa. Nei giorni precedenti i tre Capi di Stato Roosevelt, Churchill e Stalin si erano incontrati a Yalta per stabilire la linea da seguire contro Hitler e i suoi e i tempi dell’offensiva finale**: la Germania si sarebbe dovuta arrendere senza condizioni, ma Hitler continuava a respingere qualsiasi ipotesi di resa, nonostante i bombardamenti Alleati sempre più devastanti ad occidente e l’Armata Rossa che stringeva a tenaglia da oriente.

“Allora questa volta è proprio vero, stiamo per tornare a casa, ragazzi!” esclamò Reiben, lasciando da parte una volta tanto il suo fare sarcastico e cinico, era davvero felice anche lui.

“Ora che è così vicino non ci credo quasi” commentò Mellish, strabiliato e confuso. “Ma voi ci avete pensato a cosa farete quando sarete di nuovo a casa? Perché io, che mi venga un colpo, non ne ho proprio idea!”

“Come, non te lo ricordi già più? Dovrai prenderti cura del tuo amico tedesco, fargli ottenere la cittadinanza americana e poi… beh, andrete a vivere insieme, no? Insomma, come sposati!” scherzò Reiben.

“Ci vuoi andare affanculo, Reiben, eh?” replicò Mellish, anche se sapeva benissimo che l’amico aveva ragione quasi in tutto...

“Ma sì, io andare in America con Stan, vivere con Stan come sposati, io amo Stan!” esclamò soddisfatto Saltzmann, come volevasi dimostrare.

Mellish avrebbe voluto ribattere anche all’entusiasmo di Josef, ma non poté perché il Capitano Miller era arrivato all’improvviso e aveva un’espressione piuttosto cupa in volto. Scherzi e prese in giro svanirono di colpo e restò nell’aria una tensione che si tagliava col coltello.

“Ragazzi, venite con me, ci sono delle cose che dovete vedere” disse l’uomo.

“Oh, merda, è saltato tutto un’altra volta, vero? Non partiamo più?” fece Reiben, subito pronto a pensare al peggio.

“Non è questo, Reiben, la partenza questa volta è fissata e non verrà più posticipata” rispose Miller, “però il Comando ha ricevuto dei filmati e dei documenti dall’esercito sovietico e… beh, io e Horvath li abbiamo già visti ma ritengo che anche voi dobbiate vederli, è qualcosa che dovete sapere.”

Preoccupati e scambiandosi occhiate interrogative, i soldati seguirono il Capitano che li conduceva lungo i corridoi dell’hotel, verso un salone spesso usato dai Generali per le riunioni e che adesso era stato preparato per proiettare i filmati di cui aveva parlato. Mentre camminavano, Miller continuava a spiegare come poteva la situazione ai suoi uomini.

“Credo che tutti siate a conoscenza del fatto che in questo periodo anche le forze Alleate, proprio come i tedeschi facevano prima, non si stanno facendo scrupoli a bombardare le città, uccidendo persone innocenti” disse. “È una cosa orribile e io non l’approvo, anzi, sono felice di non prendervi parte e che nessuno di voi si sia macchiato di atti così brutali e ingiusti, però probabilmente ve ne sarà comunque chiesto conto quando tornerete a casa e… e ciò che vedrete tra poco forse vi aiuterà a trovare una risposta, per quanto certe atrocità non abbiano vere giustificazioni.”

Mellish, Saltzmann e tutti gli altri erano entrati nella sala e prendevano posto sulle sedie già allestite per la visione dei filmati. Continuavano a non capire, eppure ascoltavano il loro Capitano, fiduciosi che alla fine lui avrebbe chiarificato tutto.

“Hitler doveva essere fermato a tutti i costi, anche con i metodi più terribili che io stesso condanno, ma ciò che ha fatto lui, e che avrebbe continuato a fare, non rientra neanche negli atti più efferati e barbari di una guerra” riprese Miller, prima di proiettare i video. “Quello che vedrete adesso sono scene che i soldati dell’Armata Rossa hanno filmato per mostrare al mondo gli orrori perpetrati dai nazisti. Mentre avanzavano per liberare i Paesi assoggettati dai tedeschi, i soldati sovietici si sono imbattuti in qualcosa che non avrebbero mai creduto possibile e, proprio perché tali orrori sembrano impossibili, hanno filmato alcune scene come testimonianza. Ecco… i nazisti hanno disseminato i territori occupati di campi di sterminio in cui hanno ucciso sistematicamente, secondo un piano prestabilito, coloro che Hitler riteneva inferiori: principalmente ebrei, che per i nazisti dovevano essere eliminati dal mondo per sempre in una soluzione finale, ma anche prigionieri di guerra, avversari politici, obiettori di coscienza, slavi, rom, omosessuali e altre categorie di persone indesiderate per il regime.”

“Cosa?” mormorò Mellish. Gli era sembrato di urlare quella parola, ma in realtà gli si era strozzata in gola e lui non riusciva quasi a respirare. Di che stava parlando Miller? Certo, lo sapeva anche lui che i nazisti ammazzavano gli ebrei, era uno dei motivi per cui si era voluto arruolare, sapeva che li cacciavano dalle loro case e posti di lavoro, li rinchiudevano in ghetti e prigioni e sparavano a chiunque si opponesse, ma questo… cosa significava campi di sterminio? Cos’era la soluzione finale?

“Questo primo filmato è stato girato lo scorso luglio, quando l’Armata Rossa entrò nel campo di Majdanek, presso Lublino in Polonia” spiegò il Capitano prima di proiettare scene che non avevano niente di umano. “I tedeschi sono stati presi alla sprovvista, sono scappati cercando di incendiare il campo, ma i soldati sovietici hanno trovato le camere a gas e… e fin troppe fosse comuni.”***

Il filmato mostrava l’esumazione dei corpi che i tedeschi avevano cercato di nascondere, file e file di teschi, scheletri, ossa e altre scene spaventose che fecero calare il gelo sul gruppo di soldati che fino a poco prima ridevano e scherzavano pensando al ritorno a casa.

“I soldati dell’Armata Rossa hanno trovato anche altri campi in Polonia, che però i tedeschi avevano fatto in tempo a smantellare” riprese Miller che, avendo già visto una volta quelle scene atroci, non aveva alzato gli occhi sul filmato, tenendo lo sguardo fisso sui volti scioccati dei suoi ragazzi. “Belzec, Sobibor, Treblinka. La Polonia stava diventando un’immensa fossa comune e sarebbe stato anche peggio, è per questo che Hitler andava fermato a qualsiasi costo. Lo scorso 27 gennaio i sovietici hanno liberato un altro campo di sterminio, Auschwitz, dove per fortuna hanno trovato anche dei prigionieri in vita, per quanto emaciati e sofferenti, e nei magazzini c’erano centinaia di migliaia di valigie, abiti maschili e femminili e anche… capelli umani. Ad Auschwitz c’erano anche molti bambini e nel filmato i soldati hanno ripreso la loro liberazione.”

Nelle scene successive si vedevano prigionieri scheletrici che venivano soccorsi dai soldati, ancora mucchi di cadaveri e per fortuna anche molti bambini portati in salvo, che mostravano il numero tatuato sul piccolo braccio… ma non si poteva fare a meno di pensare che, per ogni bambino sopravvissuto e liberato, ce n’erano stati chissà quanti uccisi in modi orribili, nelle camere a gas o, peggio ancora, in esperimenti assurdi tentati da medici folli i cui nomi sarebbero passati alla Storia…

Nel silenzio e nella penombra della stanza, mentre sullo schermo scorrevano le immagini più strazianti, si udì una sedia sbattuta a terra e un lamento soffocato. Mellish si era alzato in piedi di scatto e, con il volto contratto e gli occhi pieni di lacrime, fissava lo schermo.

“Porci, bastardi, maledetti tedeschi di merda! Io non ci torno a casa, io vi ammazzo, vi ammazzo tutti!” urlò poi, con la rabbia della disperazione. Prima che chiunque potesse fermarlo, si precipitò fuori dalla stanza singhiozzando.

Miller fermò le immagini e riaccese le luci.

“La mia intenzione non era sconvolgervi, anche se io stesso non sono riuscito a guardare queste scene una seconda volta. Era solo perché… perché sapeste il motivo per cui dobbiamo vincere questa maledetta guerra il prima possibile e a qualsiasi costo” mormorò. “Ora sarà meglio che vada a parlare con Mellish…”

“No, Capitano, andare io da Stan” si offrì Saltzmann.

“Bravo, certo, proprio tu, in questo momento sei la persona più adatta” sibilò Reiben, indignato e sconvolto per ciò che aveva appena visto. “Avevo ragione io a dire che voi tedeschi siete peggio delle bestie, tutti bastardi e figli di puttana!”

“Reiben, basta!” lo riprese subito Miller. “Questi orrori sono opera di Hitler e delle sue SS, certo, ma se tu generalizzi e condanni un popolo intero fai esattamente quello che hanno fatto loro. Il male è dappertutto, purtroppo, ma per fortuna c’è anche qualcosa di buono… come Saltzmann, che ha sparato a un suo commilitone per salvare due dei nostri. Sì, vai pure a cercare Mellish e, se proprio non riuscissi a calmarlo, torna qui e verrò con te.”

Il tedesco corse fuori dalla sala, seguito dagli sguardi stupiti, confusi o addirittura infuriati degli altri. Miller aveva tutte le ragioni di questo mondo, ma non era poi così facile accettare di mostrarsi amichevoli con un soldato tedesco dopo gli orrori a cui avevano assistito… e chissà come avrebbe reagito Mellish ritrovandosi davanti Saltzmann? Josef era rimasto scioccato quanto gli altri dalle immagini che aveva visto: pur avendo assistito a scene strazianti, famiglie ebree cacciate dalle loro case, picchiate e spesso fucilate sulla strada, non immaginava che la sua gente fosse giunta a tanto, che avessero creato addirittura dei luoghi appositi dove uccidere sistematicamente più ebrei possibile, oltre a tante altre persone sgradite a Hitler.

In quel momento lui stesso si vergognava di appartenere a quel popolo e non sapeva neanche cosa avrebbe detto a Mellish, sapeva solo che lo amava, che sentiva ancora di più il bisogno di stringerlo tra le braccia e… e di chiedergli perdono, anche se lui non aveva mai partecipato a simili barbarie e ne ignorava perfino l’esistenza. Sarebbero riusciti a superare una prova del genere o quella terribile scoperta avrebbe scavato un abisso infinito e insormontabile tra loro?

Fine capitolo sedicesimo

 

* La battaglia delle Ardenne ebbe termine il 28 gennaio 1945 e segnò l’inizio della fine per la Germania nazista e i sogni di Hitler.

** La Conferenza di Yalta si tenne dal 4 all’11 febbraio del 1945 e in essa fu stabilito che la Germania si sarebbe dovuta arrendere senza condizioni e che sarebbe stata divisa in tre zone di occupazione militare.

*** Nel luglio del 1944 i Sovietici liberarono il campo di sterminio di Majdanek. La Commissione di Inchiesta sui Crimini Nazisti, composta da Polacchi e da Sovietici, decise di documentare le atrocità commesse dai Nazisti durante l'occupazione tedesca della Polonia; essi ordinarono quindi l'esumazione dei cadaveri sepolti a Majdanek per dimostrare le uccisioni di massa compiute dai nazisti all'interno del campo. La commissione pubblicò poi a Mosca i risultati dell'indagine, il 16 settembre 1944, in polacco, russo, inglese e francese. Mi è sembrato verosimile che tali documenti e filmati potessero essere giunti al Quartier Generale dello SHAEF e quindi visionati da Miller e dai suoi uomini.

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Capitolo 17
*** Cap. 17: Vertigo ***


Cap. 17: Vertigo

 

And my head keeps pounding
My feet are still hurting
I think I lost sight of where I was going
And I don't really know where to go from here

'Cause all I can feel is vertigo
Oh-oh-oh-oh, oh-oh
All I can feel is vertigo
Gotta get outta my head
Do something that I'll regret
He's dancing now with someone he met
Losing my sanity get rid of my vanity
All I can feel is, feel is
All I can feel is vertigo!

(“Vertigo” – Alice Merton)

 

Mellish non era andato poi troppo lontano, si era lasciato cadere appena fuori dall’hotel, sull’erba del giardino di cui non poteva ammirare la bellezza perché la sua mente, il suo cuore, ogni fibra del suo essere erano pieni delle immagini strazianti e orrende che aveva visto. E, del resto, sapeva bene che per quanto potesse scappare e correre lontano quelle scene sarebbero rimaste impresse nei suoi occhi e nei suoi pensieri. Non sapeva neanche bene come reagire. Voleva urlare, piangere e sfogare tutto il suo orrore e la sua rabbia, voleva unirsi alla prima squadra in partenza per il fronte e fare a pezzi più tedeschi possibile, voleva tornare a casa e dimenticare tutto, voleva, voleva, voleva… non lo sapeva neanche lui cosa voleva.

Singhiozzava e ansimava cercando di riprendere fiato in quella serata frizzante di fine febbraio, quando lo trovò Saltzmann, non meno turbato e stravolto di lui. Il tedesco si sentiva come se lo avessero pugnalato in pieno petto e da qualche parte in fondo a lui albergava anche un lacerante senso di colpa, sebbene personalmente non avesse mai fatto del male a un ebreo e non avesse immaginato neanche lontanamente che razza di macchina di morte perfettamente efficiente avessero creato i suoi connazionali. Il suo dolore era tanto più forte quanto più era consapevole che il ragazzo che amava con tutto il suo cuore faceva parte proprio del popolo che i nazisti avevano perseguitato e cercato di spazzar via dalla faccia della terra. Che senso aveva tutto questo? E Stan… Stan avrebbe mai potuto perdonarlo, sarebbe mai riuscito a guardarlo ancora in faccia quando lui per primo non sapeva se sarebbe più stato in grado di guardarsi allo specchio? Già vederlo seduto per terra, rannicchiato e tremante, spezzò il cuore di Josef che gli si avvicinò lentamente e pazientemente.

“Stan? Io preoccupare per te, tuoi amici e Capitano preoccupare per te…” iniziò a dire, ma fu interrotto dalla reazione del ragazzo.

“Vattene anche te!” gli urlò contro, ma quella frase non era cattiva, caso mai pareva la risposta di un bambino che è caduto e si è fatto male, ma non vuole mostrare agli adulti che è impaurito e sofferente.

Saltzmann, intenerito e ancora più addolorato, gli si sedette accanto.

“Io capire te, sai? Ora io sentire me colpevole, io vergogna di mio Paese e di me stesso” mormorò.

Mellish parve spiazzato da quelle parole.

“Fai bene a vergognarti di quella merda del tuo Paese” replicò, “ma perché di te stesso? Non sei stato tu a costruire quei campi, non sei stato tu a inventare le camere a gas e le altre diavolerie…”

“No, io non sapere di quei posti, io visto brutte scene a famiglie di ebrei, cacciati di casa, presi a calci, qualche volta anche uccisi da soldati SS o da Gestapo, sapere di odio contro ebrei e altre persone, ma non immaginato mai… mai cosa del genere” disse Josef. “Questo è opera di mostri, di demoni, posti organizzati per uccidere, mai visto cosa simile, per questo vergogna di mio Paese e di essere tedesco.”

“Non è colpa tua, non si può scegliere dove si nasce” sentire Saltzmann tanto addolorato e mortificato sembrava avere in un certo senso calmato l’angoscia e il dolore di Mellish. “Non sono arrabbiato con te, non è per questo che sono scappato dalla stanza, è che non potevo più vedere quelle scene, quelle immagini e pensare… Ma ora è inutile che pianga o mi arrabbi, devo reagire e fare qualcosa di concreto, mi sono sfogato, ma ora devo agire.”

Per qualche ragione questo raggelò Saltzmann molto di più che vedere il giovane americano disperato e ansimante com’era prima, adesso vedeva una strana luce nei suoi occhi e gli faceva paura.

“Non tornerò in America con voi, devo tornare dentro e dirlo al Capitano, lui capirà” riprese Mellish, lo sguardo perso in qualcosa che sembrava vedere solo lui. “Mi farò mandare in Germania, ho il dovere di combattere quei maledetti Nazisti e quel porco di Hitler, di ammazzarne più che posso, è doppiamente un mio dovere, come americano e come ebreo, adesso ancora più di prima.”

“Stan, ma… ma noi detto andare in America insieme, vivere insieme, tu mio Stan, cosa fare io senza te?” domandò l’uomo, sentendo il mondo crollargli addosso e un dolore devastante che lo faceva a pezzi. “Io dover andare in America e tu dover aiutare me là.”

Mellish stranamente sembrava più calmo, adesso, come se il pensiero di offrire questo sacrificio in favore dei tanti ebrei torturati e uccisi nel lager lo avesse pacificato con se stesso e la sua coscienza. Riuscì perfino ad abbozzare un mezzo sorriso a Saltzmann.

“Non preoccuparti, tu andrai in America con gli altri e ad aiutarti ci saranno Upham e, soprattutto, il Capitano Miller. Del resto sono loro che possono davvero aiutarti con la lingua, con la ricerca di un lavoro e tutti i documenti necessari ad ottenere asilo politico e un domani la cittadinanza americana” replicò con una tranquillità che faceva ancora più paura del suo sfogo disperato di poco prima, in un certo senso era come se fosse stato ipnotizzato. “E poi anch’io tornerò, non ho mica detto che vado a farmi ammazzare. Non ho intenzione di compiere alcuna missione suicida, non preoccuparti, solo di partecipare alle azioni di guerra in Germania e, soprattutto, di unirmi alle squadre di soldati che andranno a liberare quella povera gente da quei mostruosi campi e ad aiutarli. Hitler non potrà resistere ancora a lungo e, quando la guerra sarà finita e tutti i prigionieri ancora in vita dei campi di sterminio saranno liberi, allora tornerò a casa.”

“Ma io… io amo te, Stan, io voglio vivere con te in America, insieme con te” ripeté Josef, sempre più incredulo, smarrito, lacerato dal dolore.

“E chi ha detto che non succederà? Soltanto, succederà un po’ più tardi rispetto a quello che pensavamo” disse Mellish, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. “Anzi, magari per quando sarò tornato tu avrai già trovato un appartamento e un lavoro e potremo abitare insieme.”

“Io non… non posso andare senza te, io amo te, Stan” cercò ancora di protestare Saltzmann, ma il giovane americano si era già alzato in piedi e sembrava volersi dirigere verso l’interno dell’hotel.

“Come ti ho già detto, staremo insieme al mio ritorno e, nel frattempo, ci saranno Upham e gli altri ad aiutarti per qualsiasi cosa” tagliò corto il ragazzo. “Bene, adesso vado dal Capitano per riferirgli la mia decisione, faccio comunque parte della sua squadra e dovrà essere lui a darmi il permesso di aggregarmi a un gruppo in partenza per il fronte. Ma non credo che farà difficoltà.”

Pieno di angoscia, Saltzmann lo seguì. Le sue parole non avevano sortito alcun effetto, ma sperava che almeno Miller riuscisse a farlo ragionare. Lui non voleva assolutamente che il suo Stan tornasse a combattere, ma non si rendeva conto di cosa significava? Non era solo perché non voleva separarsi da lui: Josef sapeva bene quanto Mellish fosse ancora traumatizzato dall’episodio della baionetta a Ramelle, tanto da averlo del tutto rimosso dalla sua memoria, e cosa sarebbe accaduto se si fosse trovato ancora una volta ad affrontare una lotta corpo a corpo con un nemico? No, no, Stan non poteva, non doveva tornare al fronte! Ormai Miller era la sua unica speranza…

Mellish trovò il Capitano nella sala dove si era svolta la proiezione di quei terribili filmati, mentre rimetteva in ordine le bobine e il proiettore. Erano soli, Reiben e gli altri dovevano essere tornati in camera o forse erano usciti a fumare, sperando così di cancellare gli orrori che avevano visto.

“Signore, mi scusi se la disturbo, ma avrei una richiesta da farle” gli disse.

Se Miller si stupì nel vedere il suo soldato più giovane e più coinvolto, quello che era scappato singhiozzando stravolto dalla sala per non vedere più quei filmati adesso del tutto calmo e controllato, non lo diede a vedere.

“Certo, Mellish, dimmi pure” rispose.

Intanto anche Saltzmann li aveva raggiunti e restava sulla soglia, timoroso di dare fastidio e preoccupato che anche solo la sua presenza lì avrebbe potuto mutare la decisione di Miller e quindi il destino di Mellish.

“Io… devo chiederle di farmi tornare al fronte” disse il giovane, tutto d’un fiato. “Voglio unirmi a una delle compagnie che saranno mandate in Germania a combattere i Nazisti. Dopo quello che ho visto, non posso tornarmene a casa come se niente fosse, non potrei neanche più guardare in faccia la mia famiglia e gli amici se me ne andassi ora che so… che so cosa sta succedendo agli ebrei in Europa. Certo, come tutti sapevo che erano perseguitati e spesso uccisi, ma non immaginavo… quelle mostruosità, quelle torture e uccisioni di massa… non potevo sapere…”

“Nessuno di noi lo poteva, Mellish” replicò Miller, anche lui straziato da quello che aveva saputo. “E posso capire come ti senti in questo momento, ma credi davvero che la tua presenza potrebbe fare la differenza? Ci sono già molte truppe Alleate e Hitler ha i giorni contati, altre squadre sono state organizzate per liberare tutti i campi che troveranno e assistere i prigionieri sopravvissuti. Purtroppo non possiamo riparare al male che è stato fatto finora, ma ci sono già molte persone che si danno da fare per salvare il salvabile e chiuderla una volta per tutte con i Nazisti.”

“Lo so, signore, che la mia presenza non sarebbe indispensabile, ma è una cosa che sento dentro, non sarei in pace con la mia coscienza se non facessi tutto ciò che posso per aiutare in qualche modo quelle povere persone” mormorò Mellish, chinando il capo forse per nascondere le lacrime che gli riempivano gli occhi.

Miller non rispose subito, guardò a lungo il suo soldato, il ragazzo più giovane della sua Compagnia, quello che spesso aveva rimproverato per l’imprudenza e la superficialità, ma che aveva affrontato un’esperienza devastante come lo Sbarco in Normandia, la perdita dell’amico Caparzo, la missione alla ricerca di Ryan e, infine, era stato quasi ucciso in uno scontro con un soldato SS, riportando dei traumi di cui tuttora non voleva parlare. Quel ragazzo, poco più che un adolescente in realtà, che aveva fatto un anno di addestramento ma che niente poteva preparare all’orrore che avrebbe vissuto, un orrore che aveva sconvolto anche un veterano come lui. E adesso proprio quel giovane soldato, il suo ragazzo più giovane, era disposto a rinunciare al privilegio di essere rimpatriato in anticipo pur di sentirsi in pace con se stesso e combattere gli ultimi Nazisti, cercare di aiutare gli ultimi ebrei rimasti in vita. Mellish era davvero cresciuto e maturato in quei mesi terribili e adesso dimostrava un coraggio e un altruismo ammirevoli, che scaldarono di orgoglio il cuore del Capitano e al tempo stesso glielo spezzarono. Sì, perché Mellish non si rendeva conto di aver meritato di tornare a casa insieme agli altri, di aver già vissuto abbastanza traumi e credeva di dover ancora dimostrare qualcosa, ma non era così, lui doveva solo cercare di ricostruire la sua vita insieme agli affetti più cari.

“Spero che non ci resterai troppo male, Mellish, ma non ho intenzione di darti il permesso di tornare al fronte” disse poi. “Ti sei guadagnato il diritto di ritornare a casa con qualche mese in anticipo, proprio come tutti noi, e quindi verrai con noi quando ci imbarcheremo.”

Mellish lo guardò, esterrefatto.

“Ma… con tutto il rispetto, signore, perché?” domandò. “Io sto bene, sono ancora in grado di combattere, e poi non ho intenzione di compiere missioni suicide o di fare l’eroe, anzi, cercherei di farmi assegnare ad una delle squadre addette alla liberazione dei campi.”

“Mellish, ho già dato la mia risposta e non la cambierò. Ho perso fin troppi uomini in questa maledetta guerra, tutti ragazzi come te, tutti giovani che avevo imparato a considerare figli miei… non lascerò che tu rischi di nuovo la vita proprio ora che ero convinto di avervi messi tutti al sicuro” ammise il Capitano. In quel momento era turbato e finiva per dire anche quello che avrebbe voluto mantenere segreto, proprio come quando aveva rivelato ai suoi uomini di essere un professore e di voler tornare al più presto alla sua vita normale per non rischiare di diventare uno sconosciuto alla sua stessa famiglia.

“Signore, non voglio sembrare irrispettoso, ma per me è davvero una questione di coscienza, io sento di non aver fatto niente per aiutare quelle persone e non posso tornare a casa proprio ora” insisté Mellish. Intanto Josef, silenziosamente, si era avvicinato di qualche passo, sentendosi sollevato davanti al rifiuto di Miller di inviare il suo adorato Stan al fronte. Miller incrociò per un istante lo sguardo del tedesco e questo parve aiutarlo a trovare le parole giuste per convincere il giovane a desistere dalla sua ostinazione.

“Mellish, qualsiasi soldato può fare quello che tu vorresti e, in effetti, già in molti lo stanno facendo. I Nazisti sono alle corde, accerchiati da Alleati e sovietici, e molti stanno aiutando le persone che hanno trovato ancora in vita in quei terrificanti campi… ma solo tu puoi svolgere la missione che, a quanto pare, il destino, Dio, o chi vuoi tu, ti ha assegnato” riprese il Capitano. “Tu sei stato salvato dalla morte da Josef Saltzmann, un tedesco, uno che avrebbe dovuto volerti morto e che, al contrario, ha ucciso un soldato SS per salvarti. Perciò tu hai deciso di ricompensare l’atto generoso di Saltzmann portandolo in America con noi e aiutandolo a ottenere asilo politico, un lavoro, una casa, la cittadinanza americana, insomma a ricostruirsi una vita. Tu hai promesso di stargli accanto e sostenerlo con la tua… beh, amicizia e insieme a Upham, agli altri tuoi amici e anche a me. Bene, questa è la tua missione, questa è la cosa veramente preziosa e importante che solo tu puoi fare: dimostrare al mondo intero che la guerra è una follia, un’assurdità e che invece i nostri popoli possono collaborare, aiutarsi e volersi bene.”

Mellish rimase strabiliato dalle parole del Capitano.

“Signore, io… ma… ma davvero crede che io possa essere così importante, che sia in grado di fare tutto quello che lei ha detto?” mormorò, sbalordito.

“Non lo credo, ne sono più che certo. Solo tu puoi farlo, e noi ti aiuteremo” lo rassicurò Miller. “Ma sarete tu e Saltzmann a far vedere al mondo intero che la guerra si vince con l’amicizia, la solidarietà e la fratellanza, anche quando sembra più difficile. È qualcosa di immenso e di meraviglioso e io sono fiero di te e felice di potervi partecipare.”

“Io… io… la ringrazio tanto, signore, non pensavo… insomma, sono commosso per quello che mi ha detto e per la fiducia che dimostra di avere in me. Grazie, io…”

“Adesso vai a riposare, Mellish. È stata una giornata molto dura per tutti noi e immagino per te in particolar modo. Buonanotte, figliolo” gli disse affettuosamente il Capitano.

“Buonanotte, signore, e… grazie ancora” rispose Mellish, tuttora stravolto, confuso, emozionato, esterrefatto e felice. Gli sembrava quasi di avere le vertigini e Saltzmann fu pronto a mettersi al suo fianco e a passargli un braccio attorno alla vita, stringendolo a sé per condurlo in camera. Prima di andare, però, anche il tedesco si voltò verso Miller e gli sorrise, ringraziandolo silenziosamente per ciò che aveva detto al giovane.

Quando i due si ritrovarono in camera da soli, Mellish era ancora parecchio destabilizzato.

“Non avrei mai creduto che il Capitano mi stimasse così tanto e che pensasse questo di me, chissà se sarò davvero in grado di compiere questa missione e di renderlo orgoglioso?”

“Anch’io sicuro che tu puoi fare questa cosa” gli disse Saltzmann, conducendolo verso il letto e distendendovisi con lui. “Noi potere fare insieme questo, perché io amo tanto te e tu impari ad amare me, mio dolce Stan.”

Lo strinse più forte tra le braccia accarezzandolo con tenerezza, con rispetto quasi, come se avesse tra le mani una statuetta di cristallo, lo circondò con un abbraccio caldo e intenso e lo baciò a lungo, assaporando la sua bocca morbida. Il bacio fu come la fusione dei loro respiri, come un cuore solo diviso in due corpi, come se volesse immergersi completamente in lui e dimenticare tutto il resto. Lo prese con tenera lentezza, languidamente, cercando la fusione più totale con Mellish e ancora una volta i due combaciarono sentendo che ogni parte di loro trovava il suo giusto incastro, che i loro corpi erano nati per quello, che le loro anime dovevano dissolversi per poi ricomporsi in una sola. Mellish, incredulo e ancora stravolto per tutto ciò che era accaduto, si donò a Saltzmann assecondandolo in tutto, accogliendolo in sé, seguendo istintivamente i suoi movimenti e al contempo lasciandogli prendere tutto di sé, tutto quello che poteva dargli. Il mondo scomparve e attorno c’era solo calore, luce, bellezza come in una meravigliosa volta celeste piena di costellazioni sconosciute, un capolavoro spettacolare di amore vero e intenso, fino all’onda calda che li fece esplodere insieme di sentimenti sconfinati che bruciarono dappertutto, incendiando ogni brutto pensiero, ogni dubbio e paura, ogni ferita.

Alla fine rimasero ancora avvinti, incatenati l’uno all’altro, respirando piano per riprendere contatto con la realtà e sentendosi entrambi al caldo e al sicuro, mentre la dolcezza e la tenerezza che li avvolgeva accarezzava e guariva tutte le ferite della loro anima e dei loro cuori. La guerra non era ancora finita, l’oscurità poteva ancora far loro del male ma, proprio come aveva detto poco prima Miller, ciò che loro due erano e rappresentavano stando insieme poteva cambiare il mondo e portare a tutti luce e amore.

Fine capitolo diciassettesimo

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Cap. 18: Too much water ***


Cap. 18: Too much water

 

You sing me songs with overtures
From strange exotic places
Words I've never known

Wait 'til the morning
Don't send me back
Don't send me back across the rainbow
No return to where I've been

You were reaching, I was taken
To the river in the light of dawn
Too much water, to cross over
All the bridges falling down

Falling down
Come lie beside me
Lie beside me now
Beneath the waves
Beauty surrounds us…

(“Too much water” – Belinda Carlisle)

 

Bisogna dire sinceramente che tutto, proprio tutto e il contrario di tutto si sarebbe aspettato il Capitano Miller, ma non quello che realmente accadde. A quanto pareva, Mellish non era stato l’unico a rimanere fortemente turbato dalle scene viste nei filmati girati nei campi di sterminio, anche se, in quanto ebreo, era stato quello più stravolto e aveva reagito con maggior veemenza. Ma quelle immagini erano entrate dagli occhi e si erano fissate nel cuore di tutti i giovani soldati che le avevano viste. E così, il giorno dopo, poco prima di pranzo, quando Miller era convinto che tutto si fosse risolto dopo aver tranquillizzato Mellish, si ritrovò di fronte la Compagnia Charlie al completo, compreso appunto Mellish (che ci doveva aver riflettuto su durante la notte) e Ryan, che ormai era un membro aggiunto della squadra del Capitano.

“Ragazzi, cosa fate qui tutti insieme? Cos’è, un ammutinamento?” domandò Miller, in un tono tra lo scherzoso e il preoccupato.

“No, signore, anche se per certi versi potrebbe sembrarlo” rispose Reiben, che era sempre il più sfacciato e ribelle del gruppo.

“Signore, abbiamo avuto tempo e modo di pensare a quello che abbiamo visto ieri, poi abbiamo anche parlato con Mellish stamattina, prima di venire qui, e lui ci ha detto del vostro colloquio di ieri sera” spiegò Jackson. “Signore, noi tutti pensiamo che Mellish abbia ragione e, dopo quello che abbiamo scoperto, non ce la sentiamo di restare a non fare niente qui a Versailles e, tanto meno, di tornare a casa prima della fine della guerra.”

Miller restò stupefatto. A quanto pareva, i suoi uomini riuscivano sempre a coglierlo alla sprovvista, o forse era lui che ancora li sottovalutava?

“Jackson, aspetta un attimo, fammi capire bene: voi, tutti quanti, mi state chiedendo di potervi unire a qualche altra squadra e tornare a combattere al fronte? Volete andare in Germania?” chiese il Capitano, tanto per chiarire le cose.

I giovani soldati si scambiarono qualche occhiata d’intesa, evidentemente si erano accordati su diversi punti prima di recarsi a parlare con il loro superiore.

“Su questo non eravamo tutti d’accordo” ammise Reiben. “Upham e Wade non volevano questo, io, Jackson e Ryan sì, Mellish era indeciso… Insomma, ne abbiamo parlato e abbiamo trovato una sorta di compromesso.”

“Sì, certo, avete fatto tutto alle mie spalle, però. Sono comunque io il vostro Capitano, anche se in questo momento non stiamo combattendo” replicò Miller. Voleva apparire arrabbiato, ma in realtà era incuriosito e, soprattutto, fiero di tutto quello che i suoi soldatini erano stati in grado di fare. Insomma, solo pochi mesi prima Reiben era un rompiballe che si lagnava di tutto, più volte aveva messo in dubbio le scelte dei superiori e aveva rischiato di farsi perfino sparare addosso da Horvath; Mellish, come anche Jackson, era uno di quelli che avrebbe preferito aggirare il nido di mitragliatrice dove avevano poi trovato Saltzmann, sorvolando sul fatto che, se loro non avessero provato a distruggere quel punto, altri soldati, dopo di loro, sarebbero stati colpiti dai cecchini tedeschi. Erano solo dei ragazzi spaventati che, dopo lo Sbarco in Normandia, avevano capito alla svelta che la guerra era uno schifo e una fregatura e, ormai che c’erano, volevano sbrigarsela con meno rischi possibile. E adesso, invece? Avevano la possibilità di tornare a casa prima di tanti loro commilitoni e non perché fossero rimasti feriti in modo tale da non poter più combattere, come purtroppo era accaduto a tanti altri ragazzi rimpatriati, sì, ma mutilati, sfigurati o impazziti… Anzi, il Generale Montgomery aveva fissato la loro partenza per il 15 marzo, appena una decina di giorni dopo, e ora erano tutti d’accordo nel rinunciare a quel privilegio che sentivano di non meritare per rimanere nelle zone calde della guerra e contribuire alla vittoria. Quanto erano cresciuti e maturati tutti quei ragazzi poco più che adolescenti? Ancora una volta il capitano sentì il cuore gonfio di orgoglio per loro, ma anche pieno di dolore per la paura di perderli.

“No, signore, nessuno di noi vuole mancarle di rispetto o scavalcarla” intervenne Wade. “Abbiamo parlato tra di noi per accordarci prima di chiedere il suo permesso per non farle perdere tempo in discussioni inutili, è ovvio che poi faremo quello che lei ci ordinerà, signore.”

“Ma io spero che non vorrà fermare questi ragazzi, signore, perché sono d’accordo con loro e mi unirò a quello che intendono fare” disse, inaspettatamente, il sergente Horvath. Fino a quel momento era rimasto sulla soglia della stanza e Miller non aveva fatto caso a lui, ma adesso sentiva che era arrivato il momento di dire la sua.

“Insomma, volete una buona volta spiegarmi…?” si innervosì Miller, rendendosi conto di aver perso completamente il controllo della situazione.

“Non vogliamo andare a combattere in Germania, signore” rispose Upham, “ma non vogliamo neanche tornare a casa prima degli altri. Sappiamo che le truppe Alleate stanno occupando la Renania e che ci sono degli accampamenti a Treviri:* noi vorremmo andare là per fornire supporto logistico ai soldati che andranno a combattere. Io posso aiutarli come traduttore e cartografo, Wade può occuparsi dei feriti e gli altri… beh, si occuperanno di difendere gli accampamenti da eventuali aggressori tedeschi, di rifornire di armi le compagnie, insomma, troveranno il modo di rendersi utili alla causa senza per questo dover andare in prima linea.”

Gli altri annuirono in silenzio: Upham aveva spiegato nel modo migliore il compromesso a cui erano giunti.

“Vogliamo aiutare, signore, non possiamo restare qui a non fare niente mentre tanti altri ragazzi come noi lottano e muoiono ogni giorno” disse Ryan. “Io… io credo che sia questo il modo migliore per onorare i miei fratelli, non tornare a casa come un privilegiato.”

“Saremo comunque al sicuro, non ci uniremo alle truppe in combattimento, diciamo che copriremo loro le spalle e daremo una mano a spostare armi e bagagli durante l’avanzata” soggiunse Jackson.

“Non c’è alcun posto sicuro in una zona di guerra” obiettò Miller, continuando a mostrarsi negativo ma, in fondo al cuore, sempre più fiero dei suoi soldatini. “Anche se non andrete in battaglia, gli accampamenti potrebbero essere bombardati, oppure potreste finire su una mina…”

“Ecco, anche sminare i ponti sul Reno potrebbe essere una delle nostre missioni” intervenne nuovamente Reiben.

“E… signore, è stato lei a dire che in guerra non possiamo mai sentirci davvero al sicuro, no?” fece Mellish, parlando per la prima volta.

Era proprio per questo che ero felice di potervi portare presto a casa sani e salvi, almeno voi che mi siete rimasti, pensò Miller, ricordando tutte le volte in cui aveva perso uno dei suoi ragazzi e aveva cercato di consolarsi ripetendosi che il suo sacrificio avrebbe permesso a tanti altri di vivere una vita libera e serena… ma era diventato sempre più difficile, quanto più aumentava il numero dei soldati morti. Si sentiva anche in colpa perché era stato lui a decidere di restare a Ramelle quando Ryan aveva rifiutato di partire con loro invece di costringerlo, e quella di Ramelle era stata una missione suicida in cui, per poco, Horvath, Jackson e Mellish non ci avevano rimesso la vita.**

Adesso, però, erano i suoi ragazzi, i suoi uomini, a chiedergli di poter contribuire alla battaglia finale invece di tornare a casa.

“Va bene, mettiamo il caso che io vi dia il permesso di raggiungere gli accampamenti Alleati a Treviri e di aiutare le truppe per i rifornimenti, le traduzioni e altre organizzazioni logistiche” replicò. “A parte che, in caso, dovrei prendermi io la responsabilità di andare contro gli ordini dei miei superiori e già questa non sarebbe una cosa semplice, ma qualcuno di voi ha pensato a cosa dovremmo fare di Saltzmann mentre voi sarete a rendervi utili a Treviri?”

Già, Saltzmann. Qualcuno ci aveva davvero pensato?

“Mellish, Upham, voi vi siete voluti prendere la responsabilità di liberarlo dal gruppo dei prigionieri tedeschi e di occuparvi di lui per fargli richiedere asilo politico in America” riprese il Capitano. “Che cosa dovrebbe fare quel poveretto adesso, secondo voi?”

“Io ho pensato che potrebbe benissimo restare qui con lei, signore” rispose Mellish, che a quanto pareva non si era posto più di tanto il problema. Quello che aveva visto sui campi di sterminio aveva chiaramente stravolto tutte le sue priorità, ma c’era da capirlo visto che le persone perseguitate e eliminate in modo agghiacciante e sistematico erano per la maggior parte ebrei come lui… “Quando la guerra sarà finita torneremo anche noi e, a quel punto, partiremo per l’America e faremo tutto quello che ci eravamo ripromessi di fare per Saltzmann.”

“E hai parlato anche con lui di questa novità, Mellish?” chiese Miller, fissando il suo soldatino negli occhi. Ma non fu Mellish a rispondere a quella domanda.

“No, Stan non parlare con me di questo” intervenne il tedesco che, a quanto pareva, aveva seguito il giovane e aveva assistito a tutta la discussione, sentendosi strappare via il cuore a morsi. “Ieri sera io sicuro che lui stare con me, come aveva detto Capitano, noi costruire nuovo mondo insieme, e ora sento che Stan vuole abbandonare me, lui non interessa cosa succede a me.”

Miller lanciò uno sguardo di rimprovero al suo giovane soldato, ma Mellish non se ne accorse neanche perché, a quel punto, la consapevolezza che Saltzmann avesse ascoltato tutto e avesse pensato che lui volesse abbandonarlo lo travolse tutta insieme e lo straziò nel profondo.

“Io… io… te lo avrei detto” disse, rivolgendosi all’uomo. “Era inutile farti preoccupare prima di sapere cosa ci avrebbe risposto il Capitano, per questo non te ne ho parlato subito, ma te lo avrei detto, nessuno ti vuole abbandonare.”

“Beh, Mellish, credo che dovrai rivedere la tua personale organizzazione perché se, e sottolineo se, decidessi di farvi partire per Treviri, verrei con voi. Ho la responsabilità di questa Compagnia, vi considero comunque e sempre i miei ragazzi e non vi lascerei di certo andare allo sbando” obiettò Miller.

“E comunque io non sto qui se Stan va in guerra e in pericolo, io insieme a Stan, sempre” dichiarò con decisione il tedesco, commovente nella sua fedeltà adamantina al ragazzo che forse un po’ troppo spesso si faceva prendere da altri entusiasmi e dimenticava il legame con lui. C’è da dire, però, che Mellish si pentì subito di aver deluso Josef per l’ennesima volta e si precipitò da lui, afferrandolo per le braccia.

“Ma che dici? Non pensarci neanche, tu non lo puoi fare!” esclamò, ora veramente impaurito. “Io non correrò alcun pericolo, non andrò a combattere e starò sempre con i miei compagni, ma tu… tu sei un tedesco, come pensi che ti accoglierebbero a Treviri? Nella migliore delle ipotesi gli Alleati ti considererebbero una spia e nella peggiore i tuoi ex-camerati ti potrebbero rintracciare e vendicarsi su di te. Sei tu che saresti in pericolo a Treviri, non io!”

“A me questo non importare. Io promesso che proteggo te, Stan, io amo te e voglio stare con te. Io andare dove vai tu e aiutare te, non esiste altro, io non resto qui” affermò ancora una volta Saltzmann che, quando voleva, sapeva veramente mostrarsi determinato e irremovibile. In quei momenti pareva quasi cambiare fisionomia e somigliava molto di più allo spietato cecchino in cui la guerra lo aveva trasformato piuttosto che all’uomo sensibile, buffo e cordiale che Mellish aveva imparato a conoscere.

“Bene, ho ascoltato le vostre ragioni e le vostre argomentazioni” disse Miller, per concludere quel dibattito che rischiava di prolungarsi fin troppo. “Adesso abbiamo da pensare anche al fatto che Saltzmann non vuole restare qui e, in ogni caso, non avrebbe nessuno che si occupa di lui; d’altra parte, per lui tornare in Germania in mezzo alle truppe Alleate potrebbe non essere l’idea più brillante del secolo. Non posso darvi una risposta subito, devo riflettere e organizzare le cose nel modo migliore per tutti, fermo restando che, comunque, i Generali Montgomery ed Eisenhower potrebbero sempre opporsi alle vostre iniziative e voi dovreste obbedire senza fiatare. Ne parlerò anche con loro e domani vi farò sapere.”

“Domani? Ma…” iniziò a protestare Reiben, ma Miller lo stoppò immediatamente.

“Domani, Reiben. Di certo la guerra non finirà stanotte. Magari fosse così!”

Con queste ultime parole del Capitano, il gruppetto si sciolse. Miller e Horvath rimasero nella stanza a confabulare tra loro di questa storia (il Capitano non pareva molto felice del fatto che il sergente avesse agito in combutta con gli uomini senza avvertirlo); Wade si recò in infermeria, Upham nel salone adibito a studio per i traduttori, gli interpreti e i cartografi; Reiben, Ryan e Jackson uscirono in corridoio parlottando e… e Mellish prese per un braccio Saltzmann e lo portò difilato in camera loro, lo spinse dentro e chiuse la porta.

“Ma dico, ti sei ammattito? Vuoi farti ammazzare dai tuoi compatrioti?” esclamò.

“Io posso fare stessa domanda a te” replicò l’uomo, con tono pacato ma sguardo duro, ferito. “Tu non parlare con me di questa cosa decisa con tuoi compagni, tu pensato cose senza di me, senza preoccuparti di me. Questo non è cosa bella, Stan. Io ora credo davvero che tu non importare di me, quindi niente di male se tedeschi uccidere me, no?”

“Ma non è vero, non è vero per niente!” protestò Mellish. Si sentiva in colpa perché era vero che non aveva pensato più di tanto a come ci sarebbe rimasto Josef e adesso gli faceva male rendersi conto di essersi comportato egoisticamente con lui. Anzi, a dirla tutta, ora era anche preoccupato e insieme addolorato perché Saltzmann si era giustamente offeso… Perché non rifletteva mai prima di buttarsi in un’impresa? Adesso non era più solo, non doveva pensare solo per sé. “Io ho pensato che il Capitano Miller si sarebbe occupato di te e che saresti stato al sicuro, non ti avrei mai abbandonato!”

“Tu davvero pensare che io rimasto qui con tuo Capitano mentre tu in guerra, di nuovo in pericolo? Tu non conosci me per niente allora, Stan” ribatté amaramente il tedesco.

Mellish si sentì sprofondare il cuore sotto gli stivali e all’improvviso ebbe una gran voglia di piangere.

“Io… è vero, mi dispiace, non ci ho pensato” ammise, il capo chino, lo sguardo sui propri piedi. “Ho immaginato che potevi restare con Miller e che tutto sarebbe andato bene, non… non ho tenuto conto dei tuoi sentimenti, non lo faccio mai, sono uno stronzo e non so come fai a sopportarmi!”

Il ragazzo era così goffo e impacciato nel suo pentimento che tutto il dolore e la rabbia di Saltzmann svanirono, lasciando il posto a una lieve risata divertita e ad un amore infinito che gli riempì il petto di calore. Si avvicinò a Mellish e lo abbracciò.

“Io sopporto te perché amo te come sei, anche stronzo” mormorò scherzando Josef. “Ma non cambio idea, se tu andare a Treviri io venire insieme a te. Io non lascio te, mai.”

Si chinò per baciarlo e Mellish si aggrappò alle sue spalle, pentito, straziato dai sensi di colpa e anche completamente sperduto e smarrito, perché mentre l’uomo lo baciava si rendeva conto che, a parte le chiacchiere, non c’era altro posto al mondo dove volesse stare se non tra le braccia di Josef, che fosse a Versailles, a Treviri, in America o a casa del Diavolo. Se ne dimenticava troppo spesso, ma quando era nella calda e forte stretta delle sue braccia, quando Saltzmann lo baciava e lo stringeva a sé, non c’era nient’altro che contasse per lui, la sua vita iniziava e finiva in quell’abbraccio e in quei baci. Josef lo baciò ancora e ancora, con lentezza e intensità per non perdere nemmeno un istante, incollandosi al giovane americano, respirando il suo respiro, mentre insieme perdevano ogni concezione spazio-temporale e l’amore che li avvolgeva li faceva sentire come se fossero gli unici abitanti dell’intero universo. La decisione ormai spettava a Miller, lui avrebbe scelto per il meglio, Saltzmann e Mellish erano pronti a tutto e adesso anche il ragazzo aveva finalmente compreso che l’unica cosa che davvero contava per lui era stare con il suo uomo. Non avrebbe rischiato ancora di perderlo o di ferirlo, era già successo fin troppe volte, ora non voleva pensare più a niente e solo abbandonarsi alla tenerezza e alla dolcezza dei suoi baci e delle sue carezze, perduto in un orizzonte di luce e calore meravigliosi.

Fine capitolo diciottesimo

 

 

* Il 2 marzo 1945 un gruppo di combattimento delle forze armate statunitensi aveva catturato un ponte sulla Mosella con un attacco a sorpresa ed era entrato a Treviri sbaragliando le difese tedesche. Da lì le truppe si sarebbero riorganizzate per sferrare gli attacchi che, nel mese di marzo, avrebbero consentito agli Alleati di attraversare il Reno e avanzare senza più ostacoli all’interno della Germania.

** Nel film effettivamente Horvath, Jackson e Mellish, e lo stesso Miller, muoiono per difendere il ponte di Ramelle fino all’arrivo dei rinforzi. Ovviamente io ho fatto in modo che tutti loro sopravvivessero: Mellish nella mia versione è stato salvato da Saltzmann e ho immaginato che anche Horvath e Jackson siano rimasti feriti e poi siano stati soccorsi dalle truppe arrivate come rinforzi, curati e medicati.

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Capitolo 19
*** Cap. 19: A thousand letters ***


Cap. 19: A thousand letters

 

A last embrace, last words to say
Before the war took their fate away
Before to kill became his forced task
And bleeding fields were covered with sins
His wounded heart is crying out for home

Away away my love to where all darkness will be gone
Away away to our land
Away away my love to where all darkness will be gone
Away away to our land
Where you will be forever in my arms again

Tell the wind I'll survive just to feel you again
I will fight 'till the end to lay my promised love
Forever in your hands!

(“A thousand letters” – Xandria)

 

La Compagnia Charlie, che adesso contava anche James Ryan, si preparava dunque alla partenza, ma non a quella che era stata decisa per loro dai superiori, non si sarebbero imbarcati per tornare a casa: il Capitano Miller, infatti, aveva parlato con i Generali e ottenuto da loro il permesso di tornare al fronte, in Germania, non più tanto per combattere, quanto per l’assistenza logistica ai soldati che stavano per vincere la guerra. A dirla tutta, i Generali non erano stati così entusiasti della richiesta del Capitano, visto che, dopo tutto quello che era stato fatto per cercare il soldato Ryan e riportarlo a casa, mandarlo al fronte pareva assurdo, anche se non andava per combattere un incidente poteva sempre capitare e allora… ti saluto alla bella figura di fronte alla povera madre che aveva già perso altri tre figli! Tuttavia Miller fece notare che Ryan, con la sua decisione di onorare il sacrificio dei fratelli restando accanto ai compagni fino alla vittoria, avrebbe dato molto più lustro all’esercito americano, perciò alla fine i Generali avevano concesso la loro benedizione alla nuova missione di Ryan e della Compagnia Charlie.

I soldati facevano quindi i bagagli, ma la destinazione era ben diversa da quella alla quale avevano pensato negli ultimi mesi; del resto, tuttavia, la decisione di tornare al fronte era stata la loro e Miller, nonostante la preoccupazione, era anche fiero del coraggio e dell’altruismo mostrato dai suoi soldati. Ancora una volta, com’era stato a Ramelle, si rendeva conto che erano proprio questi atti spontanei e generosi a rimediare all’odio, alla distruzione e all’orrore che la guerra portava con sé. Il Generale Montgomery aveva fissato la loro partenza per l’America per il 15 marzo, ma la Compagnia Charlie sarebbe partita invece il 10 per Treviri, dove si trovavano gli accampamenti Alleati pronti ad attraversare il Reno e a invadere la Germania.

C’era stato, però, un cambiamento rispetto a quello che Reiben e gli altri ragazzi avevano chiesto al Capitano…

Mellish, sulle prime, era stato uno dei più entusiasti all’idea di raggiungere le truppe Alleate a Treviri e dare loro sostegno e appoggio, soprattutto perché, dopo aver visto i filmati sui lager nazisti, non riusciva più a togliersi dalla testa le mostruosità compiute in quei luoghi ai danni di tanti innocenti e, soprattutto, degli Ebrei che Hitler voleva eliminare totalmente dalla faccia della Terra. Si era accordato con i compagni, avevano parlato al Capitano della loro idea e tutto quanto e… e solo dopo si era ricordato dell’impegno preso con Saltzmann e del fatto che lui non avrebbe potuto né restare da solo a Versailles, nel Quartier Generale dello SCHAEF, né andare in Germania con loro, con il rischio di essere riconosciuto come traditore e ucciso dai suoi compatrioti. Certo, è chiaro che al tempo non c’era Internet, non c’erano Facebook e Instagram e non è che le foto di Saltzmann circolassero tra le truppe tedesche con la scritta traditore, insomma, non era così matematico che potesse essere riconosciuto dai commilitoni che aveva rinnegato. Tuttavia il rischio esisteva comunque, anche solo perché qualche soldato tedesco avrebbe potuto vederlo, sentirlo parlare e fare due più due. Non era assolutamente il caso di mettere in pericolo l’uomo che aveva salvato Mellish e Upham e a cui era stato promesso asilo politico in USA.

Dal canto suo, tuttavia, Saltzmann aveva rifiutato decisamente di restare a Versailles senza il suo Stan e si era dichiarato prontissimo a rischiare, partendo con lui per la Germania. Non era stata presa una decisione vera e propria e, nei giorni successivi, del problema non si era più parlato, forse pensando che si sarebbe risolto da solo in qualche modo. E, in effetti, accadde proprio così.

Il 9 marzo, la sera della vigilia della partenza per Treviri, i soldati della Compagnia Charlie, Horvath e Miller, erano nelle loro stanze per preparare l’occorrente. Upham, delicato e sensibile come al solito, aveva deciso di preparare le sue cose nella stanza di Wade per lasciare soli Mellish e Saltzmann e dare loro un’ultima occasione di parlare chiaramente e di risolvere la faccenda nel modo migliore.

Josef, in realtà, non aveva fatto una piega. Aveva detto fin dal principio che non si sarebbe separato dal ragazzo che amava per nessuna ragione al mondo, pertanto in quel momento preparava i suoi bagagli esattamente come stavano facendo gli altri. Era come se avesse messo da parte tutti i suoi sogni e progetti di ricostruirsi una vita in America con Mellish: quello che contava per lui, in quel momento, era stare accanto al giovane americano, e i sogni e i progetti avrebbero aspettato che finisse la guerra.

Anche Mellish era nella stanza e avrebbe dovuto sistemare le sue cose per la partenza, ma in realtà non aveva fatto quasi niente e aveva trascorso la maggior parte del tempo a fissare Saltzmann con sguardo triste. Sentiva tante emozioni che si scontravano nel suo cuore e non riusciva a capire quale fosse la scelta giusta e nemmeno che cosa volesse fare lui. Non lo sapeva più. Da un lato voleva andare a Treviri, voleva dare il suo contributo per vincere la guerra contro quei maledetti nazisti che avevano sterminato in quel modo atroce la sua gente, voleva stare accanto ai suoi compagni che, ormai, considerava come la sua vera famiglia e non avrebbe mai sopportato di perdere ancora uno di loro, come era successo all’inizio con Caparzo. Eppure… dall’altro lato non voleva mettere a rischio la vita di Saltzmann, anche lui era diventato un suo punto di riferimento, una parte essenziale della sua vita, anche se in modo del tutto diverso rispetto ai suoi commilitoni. Come avrebbe mai potuto perdonarsi se fosse successo qualcosa a Josef, una volta in Germania? Come avrebbe mai potuto vivere senza di lui, a dirla tutta, anche se non se ne rendeva conto fino in fondo?

E, alla fine, si fece coraggio e prese una decisione definitiva. Andò verso Saltzmann, impegnato a sistemare magliette e biancheria nella sacca che avrebbe usato per partire, si schiarì la voce e gli parlò.

“Josef, senti… puoi anche smetterla di fare i bagagli” disse.

Il tedesco, sorpreso, si fermò e si voltò a guardare il ragazzo.

“Perché tu dire questo, Stan?”

“Perché… perché noi non andiamo a Treviri con la Compagnia Charlie” buttò fuori tutto d’un fiato. “Ci ho pensato e io non posso, non posso lasciarti qui da solo, e comunque tu non ci vuoi restare, e allo stesso tempo non posso neanche farti venire in Germania mettendo a repentaglio la tua vita. Non posso, ecco. Noi non partiamo.”

Per Saltzmann non era sempre facile capire quello che Mellish voleva dire, in parte perché il giovane americano era spesso confuso, contradditorio e incasinato e in parte anche per via delle difficoltà linguistiche che non gli permettevano di comprendere le sfumature… ma in quel caso, anche guardando il volto imbarazzato e intimidito del ragazzo, iniziò a provare una gioia incontenibile per quello che aveva detto e anche per quello che non aveva detto ma che traspariva dal suo evidente disagio. Mellish non voleva più andare a Treviri con i suoi compagni perché non voleva lasciarlo solo né metterlo in pericolo… quindi Mellish lo amava!

L’uomo prese le mani del giovane, poi gli accarezzò il viso e volle guardarlo dritto negli occhi.

“Tu vuoi dire che ami me, Stan, che ami me come io amo te e che tu non volere noi separati?” esclamò, pieno di entusiasmo e felicità.

Mellish cercò di sfuggire a tutto quell’entusiasmo, ma ormai aveva scoperchiato il vaso di Pandora e non era facile tornare indietro.

“Io… sì, è vero che non voglio che ci separiamo e non voglio neanche che ti succeda qualcosa, quindi non posso lasciarti qui e non posso portarti in Germania. Resterò qui con te, troverò il modo di rendermi utile lo stesso, ci sono tante cose che posso fare anche qui, quello che so è che non posso rischiare di perderti. Io… io… non ce la farei senza di te, non posso rinunciare a te e non posso starti lontano, non so perché ma è così!”

Josef era al colmo della gioia.

“Perché tu ami me, Stan, e io così felice! Io faccio tutto quello che tu volere, mio Stan, io aiuto te qui se tu chiedere a me, io amo tanto te e anche io non voglio separare mai me da te!” riprese il tedesco, stringendo Mellish tra le braccia e cercando di baciarlo, ma il giovane aveva ancora qualcosa da dire.

“Senti… aspetta, io volevo spiegarti… ecco, per me è difficile lasciar partire i miei compagni e non andare con loro, ho perso il mio amico Caparzo e ho tanta paura che possa succedere qualcosa di brutto anche a loro, però… però ho delle responsabilità anche verso di te e ti sono legato e non voglio che succeda niente neanche a te” cercò confusamente di chiarire, ottenendo l’effetto opposto. “La Compagnia Charlie non andrà a Treviri per combattere, ma per aiutare le truppe, curare i soldati feriti, occuparsi degli approvvigionamenti di cibo e armi, però qualcosa di brutto potrebbe sempre accadere, in fondo saranno vicini al fronte. E io sono in pena per loro, ma non posso portarti là, perché non sopporterei mai che ti succedesse qualcosa. Quello che fanno loro, io potrò farlo comunque da qui: mi occuperò dei soldati feriti che vengono rimandati dal fronte, aiuterò a organizzare le partenze delle camionette con i rifornimenti e tutto quello di cui ci sarà bisogno. Mi renderò utile e, allo stesso tempo, non metterò a rischio la tua vita.”

“Io posso aiutare te e tuoi compagni, posso aiutare quelli che tradurre messaggi in tedesco, come Upham, visto che lui parte. Io rendo utile per truppe americane insieme a te, Stan” si offrì Saltzmann. Era così emozionato e contento per ciò che il giovane gli aveva detto che, se avesse potuto, sarebbe andato direttamente a sparare in testa a Hitler! Sì, era decisamente meglio che non mettesse più piede in Germania, per i tedeschi in quel momento avrebbe vinto l’oro, l’argento e il bronzo alle Olimpiadi dei Traditori…

Mellish era ancora più confuso e imbarazzato dalla reazione dell’uomo.

“Sì, bene, allora… allora magari troverai anche tu il modo di renderti utile, così sarà come se fossimo anche noi a Treviri, ma senza mettere in pericolo la tua vita” riuscì a dire, prima che Saltzmann lo interrompesse stringendolo di nuovo a sé e baciandolo, sollevandolo da terra e distendendolo sul letto, in mezzo ai bagagli disfatti, a camicie e biancheria. Si mise sopra di lui, accarezzandolo e continuando a baciarlo, rubandogli il respiro e avvolgendolo in un bacio lento e pieno di passione; fece aderire completamente il corpo a quello morbido del giovane e strofinò l’erezione pulsante contro l’inguine di lui attraverso il tessuto dei pantaloni. Desiderando godere il più possibile quel giovane corpo tenero, iniziò a sollevargli la maglietta e a slacciargli la cintura dei pantaloni, mentre continuava a divorarlo lentamente e dolcemente con il bacio più intimo, intenso e prolungato possibile.

Mellish era completamente stravolto da quello che Josef gli stava facendo e anche da quello che lo aveva scatenato, dalle parole che lui stesso aveva detto e che avevano causato una reazione del genere! Tuttavia, in qualche modo, riuscì a riprendere un briciolo di dignità e a scostarsi per un attimo dall’uomo che pareva deciso a prenderlo lì e subito.

“Aspetta, senti, aspetta, Josef… io… ora dobbiamo andare dal Capitano Miller e dagli altri e spiegargli che noi non partiremo con loro domattina, gli spiegherò le motivazioni, sono sicuro che capirà” mormorò con voce spezzata. “Dobbiamo andare a dirglielo subito, adesso.”

A dirla tutta, Saltzmann avrebbe preferito fare tutt’altro in quel momento: era così felice perché Mellish aveva ammesso di amarlo, di non poter fare a meno di lui (anche se non aveva usato esattamente quelle parole, ma il concetto si capiva!) e desiderava stringerlo a sé, sentirlo e possederlo completamente e perdersi in lui. In quei giorni aveva avuto qualche dubbio, specialmente quando Mellish era sembrato dimenticarlo, preso dalla frenesia di partire con i suoi compagni, ma adesso era tutto diverso, adesso il suo Stan aveva scelto lui, aveva deciso di restare al Quartier Generale con lui e quindi lo amava, ormai non c’erano più dubbi. Tuttavia sapeva che era giusto avvertire subito il Capitano Miller e così, con uno sforzo enorme, si staccò da Mellish e lasciò che si alzasse dal letto.

“Va bene, noi andare a dire a tuo Capitano” concordò.

Poco più tardi, Mellish e Saltzmann si trovavano nella sala comune dove Miller, Horvath e gli altri soldati della Compagnia Charlie, terminato di fare i bagagli, si erano radunati per fare il punto della situazione e organizzare la partenza del giorno dopo. Miller aveva già capito quello che il suo giovane soldato gli avrebbe detto, lo leggeva nel suo viso imbarazzato e nel sorriso beato di Saltzmann accanto a lui… tuttavia lasciò che fosse il ragazzo a parlare.

“Signore, mi dispiace, ma io… io ho deciso di non partire con voi domattina” iniziò a dire Mellish. “Spero di non darle una delusione, signore, e le assicuro che non è per vigliaccheria, anzi sono molto addolorato di non poter essere con voi, però… però mi sono reso conto del fatto che ho assunto una responsabilità nei confronti di Josef Saltzmann e non posso quindi né lasciarlo qui da solo né portarlo in Germania, dove rischierebbe di essere riconosciuto e ucciso come traditore.”

Miller sorrise. In realtà non era affatto deluso da Mellish, al contrario, proprio la sua decisione di restare per non mettere in pericolo Saltzmann gli faceva capire che il ragazzo era cresciuto, era pronto a rispettare gli impegni presi e questo lo rendeva fiero di lui. Nei giorni precedenti, la situazione di Saltzmann era rimasta indefinita e lui non aveva fatto o detto niente per suggerire una soluzione a Mellish perché voleva metterlo alla prova, voleva capire fino a che punto il giovane tenesse al tedesco che lo aveva salvato e quanto fosse disposto a mettersi in gioco per lui. Adesso aveva la sua risposta e ne era soddisfatto.

“Non sono deluso, Mellish, anzi mi fa piacere che tu comprenda e riconosca l’impegno che ti sei assunto decidendo di aiutare Saltzmann e di portarlo in America quando ci torneremo” replicò dunque il Capitano. “Come ti avevo già detto, quello che faremo noi e gli altri soldati in Germania può farlo chiunque, ma solo tu puoi creare un legame con Saltzmann che mostri il mondo nuovo per il quale combattiamo: un mondo in cui non contano la nazionalità o la razza o che so io, ma che si fonda su affetto, amicizia e collaborazione.”

Mellish, ancora una volta, fu toccato e commosso dalle belle parole del suo Capitano… Reiben, invece, non pareva altrettanto soddisfatto.

“Insomma, Mellish, quante volte ancora vuoi cambiare idea? Prima volevi tornare a casa, poi volevi andare a combattere i nazisti, poi volevi aiutare le truppe al fronte, ora invece vuoi restare qui col tuo tedesco… Si può sapere quando prenderai una vera decisione?” brontolò, mentre gli altri soldati scoppiavano a ridere.

“Non è il mio tedesco!” protestò il giovane, arrossendo. “Però lui mi ha salvato e io mi sento in dovere, adesso, di ripagarlo; non posso abbandonarlo qui da solo o portarlo in Germania, dove potrebbe essere in pericolo di vita. Ti assicuro che non starò qui con le mani in mano, mi renderò utile come posso, magari aiutando a medicare i feriti, visto che Wade viene con voi, e contribuendo a organizzare i rifornimenti per i soldati al fronte.”

“Ma certo, potrai renderti utile anche qui e sarà come se fossi con noi” lo rassicurò Miller. “Tu, Reiben, per una volta, potresti evitare di lagnarti? La cosa inizia a diventare fastidiosa.”

Reiben mise il broncio mentre i compagni ridevano di lui, questa volta. Miller guardava la sua squadra e sperava davvero con tutto il cuore che sarebbe andata bene, sia per loro che sarebbero partiti per Treviri, sia per Mellish che avrebbe fatto il suo dovere al Quartier Generale e accanto a Saltzmann.

Fine capitolo diciannovesimo

 

 

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Capitolo 20
*** Cap. 20: My curse is my redemption ***


Cap. 20: My curse is my redemption

 

I'm on my way
The way from unforgiving hell, but still, it stays
My never ending farewell for thousand memories
I still can feel the reflection a thousand times
My curse is my redemption

Only a stranger (only a stranger)
In a world that is strange to me
Oh, I wish I'd understand
I try to run away from here
So I can rise above the blackened skies to forgotten lands

I'm on my way
The way from unforgiving hell, but still, it stays
My never ending farewell for thousand memories
I still can feel the reflection a thousand times
My curse is my redemption!

(“My curse is my redemption” – Xandria)

 

Mellish e Saltzmann ritornarono nella loro stanza ma, mentre il tedesco era euforico e sperava di riprendere dal punto in cui si era dovuto interrompere, il giovane americano continuava a sembrare combattuto e indeciso, anche adesso che una decisione l’aveva presa. A parte le battute, Reiben non aveva tutti i torti e lui aveva davvero difficoltà a fare una scelta precisa, per questo aveva cambiato idea così velocemente. A quel punto era chiaro che non sarebbe andato a Treviri e che sarebbe rimasto al Quartier Generale dello SCHAEF con Saltzmann, cercando di rendersi comunque utile come poteva. Non avrebbe cambiato idea per l’ennesima volta, però sentiva che sarebbe stata dura veder partire i suoi compagni… e non andare con loro. Il Capitano Miller era diventato più di un padre, per lui, e gli altri compagni erano la sua vera famiglia, quelli con cui aveva condiviso tutto nell’ultimo anno, l’addestramento e poi l’esperienza traumatica dello Sbarco in Normandia e la perdita di Caparzo e tanti altri episodi. Come avrebbe fatto a separarsi da loro? Come si sarebbe sentito senza Upham, Wade, Jackson, Reiben? In quei mesi devastanti e terribili erano stati sempre insieme e avevano affrontato tutto insieme. Adesso loro sarebbero andati in Germania, forse avrebbero rischiato la vita, e lui non sarebbe stato accanto ai suoi amici, i suoi fratelli, quelli che considerava più vicini dei suoi stessi familiari.

In camera, Mellish iniziò silenziosamente a riporre le borse e quello che aveva tirato fuori dai cassetti per preparare i bagagli. Non ne aveva più bisogno e non sapeva se esserne contento o no.

Saltzmann si accorse che il ragazzo stava nuovamente passando un brutto quarto d’ora, così aspettò che avesse finito di mettere a posto le sue cose e liberato il letto, poi si sedette con lui sul materasso, passandogli un braccio attorno alle spalle.

“Stan, io vedo che tu non felice. Cosa succede? Tu pentito di avere scelto di restare per me?” gli domandò, senza prendersela. Ormai sapeva che il giovane che amava era tormentato e combattuto e, anzi, lo amava anche per quello, gli faceva tenerezza quella sua indecisione da ragazzino.

“No, no, non devi pensare questo” rispose Mellish. “Davvero, non è per te, anzi, ti ho detto che non avrei potuto fare diversamente, che non posso rinunciare a te. Il problema è che… è che non riesco a rinunciare neanche ai miei compagni, ecco!”

“Quindi adesso tu volere partire con loro? Per me tutto va bene, Stan, per me basta essere insieme” gli disse dolcemente l’uomo, stringendolo a sé.

“No, no, ormai ho deciso, noi restiamo qui” ribadì Mellish. “Solo che non riesco a separarmi dai miei amici a cuor leggero e… beh, probabilmente nei prossimi giorni potrò essere anche più antipatico del solito, nervoso, brusco, ma sarà perché loro mi mancheranno e perché sarò preoccupato. Te lo dico fin d’ora, tu sei sempre buono e paziente con me, ma mi sa che io diventerò insopportabile.”

Saltzmann sorrise intenerito e si sentì ancora più felice: non era stato facile per Mellish scegliere lui invece dei suoi compagni, era stata una decisione difficile e sofferta e sicuramente il ragazzo ne avrebbe risentito nei giorni successivi, ma era anche un segno ancora più grande del suo amore per lui. Il tedesco non poteva capire fino in fondo il legame di Mellish con i suoi compagni perché tra lui e i commilitoni non c’era mai stato niente del genere: prima di tutto perché lui era stato costretto ad andare in guerra e quindi per molto tempo aveva fatto solo quello che gli ordinavano, senza mai scambiare una parola con gli altri soldati; poi perché i soldati che aveva conosciuto erano o fanatici nazisti, con i quali non voleva avere niente a che fare, o altri disgraziati come lui che facevano il loro dovere per forza e non avevano voglia di stringere amicizia. Tuttavia, sebbene non lo avesse sperimentato personalmente, comprendeva quanto il giovane americano si fosse invece affezionato ai suoi compagni e al suo Capitano, addirittura più che ai suoi familiari, e di conseguenza quanto soffrisse all’idea di lasciarli andare in Germania senza di lui, correndo comunque dei rischi. Perciò la sua scelta di restare con lui assumeva ancora più valore, Mellish non gli aveva mai detto ti amo, ma a quel punto non ce n’era bisogno, perché era chiaro che il sentimento che provava per lui era addirittura più profondo di quello che lo legava ai suoi amici.

E c’era anche un’altra ragione per la quale Saltzmann era felice che, alla fine, Mellish avesse deciso di restare al Quartier Generale. Sì, certo, lui lo avrebbe seguito dovunque, ma l’idea che il suo ragazzo si trovasse di nuovo al fronte lo spaventava, anche se il compito suo e della Compagnia Charlie non sarebbe stato quello di combattere ma di assistere le truppe e curare i feriti. Era tutto molto bello, ma era anche vero che in Germania c’era ancora la guerra e sarebbe potuto accadere qualcosa di terribile, magari qualche soldato tedesco poteva riuscire a infiltrarsi nelle linee Alleate e… e Josef non poteva dimenticare quello che aveva visto quando aveva salvato Mellish. Anzi, ancora peggio, se Mellish si fosse trovato a dover affrontare nuovamente un combattimento corpo a corpo con un nemico, allora sarebbe stato costretto a ricordare il dolore, l’orrore della baionetta che lo trafiggeva lentamente, e avrebbe potuto bloccarsi per lo shock. Senza contare che, molto probabilmente, la baionetta era riuscita a scalfire leggermente il suo cuore e avrebbe potuto causargli complicazioni, era comunque una piccola cicatrice sul cuore, mica scherzi!

Abbracciò più stretto il suo soldatino e gli accarezzò il viso e i capelli.

“Tu non preoccupare” gli sussurrò, “io capire tuo affetto per tuoi amici e tua paura per loro. Io felice di stare qui con te e anche accettare momenti che tu nervoso o arrabbiato, per me va bene, io contento di essere insieme e che tu al sicuro, niente pericoli.”

“Non avrei combattuto, comunque, il mio compito sarebbe stato organizzare i rifornimenti alle truppe e aiutare i feriti, come farò anche qui e come spero che faranno anche i miei compagni” obiettò il ragazzo. “Teoricamente non ci sarebbe stato pericolo…”

“Questa è cosa vera, ma per te… vedi, Stan, tu ora dovere essere attento a tua salute, tu non più come prima, più debole, infatti anche qui tu non dovere stancare troppo per tuoi impegni” non poté evitare di dire Saltzmann.

Mellish si staccò dal suo abbraccio e lo fissò con i profondi occhi scuri, l’aria improvvisamente seria.

“Di che parli? Io sto bene e posso fare tutto quello che fanno gli altri, sono sempre un soldato, un Ranger” replicò.

Il tedesco cercò di stringerlo di nuovo a sé. Sapeva quanto Mellish detestasse anche solo sfiorare l’argomento, ma prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo, non aveva scelta.

“Certo, Stan, ma io parlato con tuo amico dottore Wade e anche lui detto che baionetta lasciato cicatrice su tuo cuore, non troppo grave ma…”

“Smettila! Non è vero! Tu non sai niente e non lo sa neanche Wade, lui non era là! Tu hai sparato al soldato SS mentre mi stava accoltellando, è vero, ma la baionetta è entrata pochissimo nel mio petto, forse solo un centimetro o due, e di certo non è mai arrivata al cuore! Io sto bene e tu devi smetterla di dire queste cose!” gridò il giovane, preso all’improvviso dal panico e dall’angoscia. Ogni volta che qualcuno menzionava quel combattimento corpo a corpo e il momento in cui il tedesco aveva iniziato a trafiggerlo con la baionetta, Mellish ritornava lì, in quel luogo, in quell’istante, sentiva la voce del soldato che gli diceva di stare calmo e le sue suppliche disperate perché lo risparmiasse, gli ansiti, i respiri spezzati… e quel dolore acutissimo, straziante e devastante quando l’arma gli aveva raggiunto il cuore, scalfendolo con la punta. Cercò di allontanarsi da Saltzmann, ma il tedesco non glielo permise, anzi lo abbracciò più stretto facendogli sentire il calore protettivo del suo abbraccio e parlandogli con tenerezza.

“Va bene, va bene, Stan, ora tu non pronto a parlare di questa cosa. Io capisco, questo è momento difficile per te. Sappiamo tu dovere ricordare prima o poi, ma non adesso se tu non pronto e io sono con te sempre per questo” sussurrò, baciandogli la fronte e le guance morbide. “Calmo ora, io non insistere, parleremo quando tu pronto, ora tu tranquillo, mio Stan, liebling*, amo tanto te, voglio te felice…”

Lo baciò piano, con dolcezza, su tutto il volto e poi sulla bocca morbida, sentendo il calore pervadergli il sangue; lo distese sul letto ancora una volta in mezzo a bagagli disfatti e biancheria in disordine, baciandolo ancora e ancora, respirando l’odore della sua pelle, facendo scorrere le dita fra i suoi capelli, premendo il corpo contro quello di lui. Gli sollevò la maglietta, gli slacciò i pantaloni, si liberò dei propri abiti e finalmente poté sentire il contatto con il ragazzo, pelle contro pelle; iniziò ad accarezzarlo piano, insinuando le mani ovunque per godere di quel corpo tenero e giovane, di quella pelle liscia e morbida. Lo strinse di più a sé finché ogni centimetro del suo corpo fu premuto contro quello di lui e lo baciò più profondamente e languidamente, perdendosi nel suo sapore, nella sensazione che provava quando riusciva a raggiungere il massimo dell’intimità con il suo Stan. Infine si insinuò dentro di lui e ancora una volta vi si perse, totalmente e completamente. Sentì il giovane americano emettere suoni dolci e disperati dal profondo della gola e questo lo eccitò ancora di più, i baci divennero più profondi e il calore tra loro si fece più esplosivo, devastante, quasi selvaggio. Gli attimi divennero eternità mentre i loro corpi si avvolgevano insieme e diventavano una cosa sola, a lungo, più a lungo che mai, il tempo non aveva più significato e si dilatava all’infinito. Il bisogno e il desiderio erano così travolgenti da consumarli, l’amplesso si prolungò all’infinito e solo alla fine giunsero all’apice, con onde di amore, tenerezza, dolcezza, piacere e calore che li assalirono e li svuotarono di tutto il resto, mentre Mellish soffocava i singulti e gli ansiti contro il petto di Saltzmann. Inebriati e disfatti dal potere puro e sconvolgente delle loro emozioni e del loro amore, Josef e Mellish rimasero abbracciati anche dopo, stretti l’uno all’altro, incollati, anche perché Mellish gli era praticamente collassato tra le braccia e pareva incapace di muoversi. Erano abbracciati nel caldo appagamento dopo l’amore, nella pace e nella gioia, sentendosi infinitamente bene, completi, vicini, indivisibili.

Mellish aveva perso ogni appiglio con la realtà mentre faceva l’amore con Josef, e ora stava lentamente riprendendo coscienza del mondo attorno a sé. Nella poca lucidità riacquistata si rese però conto che tutto quello che lo straziava e che lo spaventava, la preoccupazione per i compagni che sarebbero andati in Germania e anche il dolore che gli trafiggeva il cuore ogni volta che tentava di ricordare quello che era successo con il soldato SS e la baionetta, tutto ciò che era negativo e doloroso scompariva quando era con Saltzmann. Tutto sembrava facile e possibile, persino riuscire, prima o poi, ad accettare quei ricordi terribili, affrontare l’orrore e finalmente superarlo. Era qualcosa che non aveva mai provato prima e che non credeva neanche potesse esistere, quindi… forse era vero? Forse anche lui amava quell’uomo, quel tedesco che lo aveva salvato e che lo faceva sempre sentire così bene?

“Josef, io…” iniziò a dire, con la voce ancora rotta e incerta, “sì, prima o poi credo che dovremo parlare anche di quella cosa, non sono ancora pronto ma sento che, con te, un giorno ci riuscirò. E credo… ecco, mi sembra che forse anch’io mi sto innamorando di te, sul serio.”

Il cuore di Saltzmann si riempì improvvisamente di una gioia profonda, meravigliosa e inesprimibile. Sì, lui aveva capito da tempo che Mellish, nonostante il suo carattere, la sua giovane età e le sue insicurezze, in fondo lo amava senza rendersene conto, ma adesso glielo aveva praticamente detto, gli aveva detto che lo amava, magari in un modo un po’ indiretto e strano, ma glielo aveva detto!

Gli prese il volto tra le mani, lo guardò per un attimo negli occhioni scuri e si perse in quella profondità, poi lo baciò ancora e ancora, si godette le sue labbra rosee e piene, la sensazione dell’unione delle loro bocche e dei loro respiri, ed era tutto perfetto e splendido.

“Mio Stan, mio Stan, io amo tanto te, e tu ami me, e questa è cosa bellissima” mormorò tra un bacio e l’altro. “Io e te insieme per sempre, io e te ci amiamo, io e te come coppia di sposi!”

L’entusiasmo di Josef era così veemente che tracimò, e i baci divennero più appassionati, il desiderio lo assalì di nuovo, ancora una volta si perse dentro Mellish e sperò di liquefarsi in lui, nella morbidezza del suo corpo, di dissolversi nel piacere dei loro corpi uniti, inebriato e travolto da onde di piacere e gentilezza e dolcezza infinite, sempre più eccitato dai gemiti sconvolti e teneri del giovane, fino a ritrovarsi entrambi al culmine dell’estasi, i corpi sempre incollati e appagati, il mondo reale dimenticato e disperso nelle profondità dell’oblio.

Sembrava proprio, insomma, che ormai Saltzmann e Mellish fossero diventati una coppia di innamorati a tutti gli effetti e che, insieme, avrebbero potuto superare qualsiasi problema e difficoltà con la forza del vero amore!

Fine capitolo ventesimo

 

 

 

* Espressione per dire “caro”, “tesoro mio” in tedesco.

 

 

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Capitolo 21
*** Cap. 21: Luna my darling ***


Cap. 21: Luna my darling

 

Burning fire like there never was
Sighing words of the falling stars
Already crying when we saw the light
Luna my darling
Under the spell we ride tonight
The stars are falling
Knowing the time is not enough
Our soul are asking for more
Come and take me closer, closer
The stars hide the lovers tonight
Once in my lifetime there's so much to give
So much to live in stolen moment
Asking now for another way not to feel pain
'Cause sorrow helps morning light guide the night away…

(“Luna my darling” - Amberian Dawn)

 

La Compagnia Charlie era partita già da più di una settimana per la Germania e la lontananza dai compagni si era subito dimostrata una prova molto dura per Mellish, forse anche più di quanto lui si fosse immaginato. Innanzitutto era continuamente in ansia per loro, sapeva che teoricamente non avrebbero combattuto ma non ci si poteva fidare di Jackson e Reiben, che in caso di bisogno avrebbero anche potuto unirsi alle truppe in battaglia. E poi in una zona di guerra poteva accadere qualsiasi cosa, un attentato, un lupo solitario deciso a vendicarsi e a portare con sé più Alleati possibile, una bomba, un proiettile vagante… e Mellish, ovviamente, le pensava tutte! Tra l’altro, il giovane non aveva fatto amicizie tra i soldati che si fermavano per qualche giorno al Quartier Generale di Versailles prima di partire per la Germania, innanzitutto perché non c’era neanche il tempo, questi ragazzi andavano e venivano continuamente e non avevano modo di approfondire i legami, ma la cosa più importante era che i soldati di passaggio guardavano Mellish in modo strano e a volte anche ostile per la sua evidente amicizia con Saltzmann. Certo, nessuno di loro conosceva tutta la storia e i retroscena, non sapevano che Saltzmann aveva salvato Mellish e che aveva tradito i suoi commilitoni, per loro era solo un prigioniero nemico e quindi non potevano capire perché fosse trattato come i soldati Alleati. Tuttavia Mellish era rimasto scottato dalle esperienze precedenti, quando altri soldati avevano insultato Josef e, addirittura, un gruppetto aveva aggredito lui e Upham accusandoli di tradimento. Così finiva per tenere a distanza i militari di passaggio anche più di quanto avrebbe fatto normalmente, si isolava sempre di più e dunque sentiva ancora più dolorosamente la mancanza dei suoi amici e i brutti pensieri sulla loro incolumità.

Per reagire al senso di solitudine, angoscia e nostalgia che provava, il ragazzo si era addossato molti più compiti di quanto potesse realmente sostenere: cominciava la mattina andando in infermeria per prendersi cura dei soldati feriti che, una volta guariti, sarebbero stati rimandati al fronte se abbastanza in forze, oppure rimpatriati se deboli e malati. Questo impegno, seppur faticoso, era quello che rendeva più felice Mellish perché così si sentiva utile e poi era anche capitato che in quell’infermeria arrivassero, con i soldati, alcuni dei prigionieri liberati dai lager nazisti, e così il giovane americano aveva avuto finalmente l’occasione per prendersi cura di quelle persone, per la maggior parte ebrei come lui, pur non essendo partito per la Germania con la Compagnia Charlie. Per il resto della giornata si occupava di tenere in ordine il salone dove i cartografi e i traduttori lavoravano e di organizzare e sistemare le spedizioni di armi e viveri per le truppe al fronte. Praticamente non si risparmiava e, dopo alcuni giorni di questa vita, vedendolo sempre stanco e stravolto, pallido e con cerchi neri sotto gli occhi, Saltzmann iniziò a preoccuparsi seriamente. Una sera, dopo la cena alla mensa, in cui Mellish aveva mangiato poco e in fretta come sempre per poi uscire a fumare sotto le stelle e una luna piena e luminosa nel suo splendore, il tedesco lo raggiunse, si accese anche lui una sigaretta e gli si sedette accanto su una delle panchine del giardino.

“Io dovere parlare con te, Stan” esordì l’uomo.

“Va bene, allora parla. Sono qui, no? Ti ascolto” rispose svagato Mellish. Si sentiva sfinito, la stanchezza gli toglieva anche l’appetito e, di conseguenza, era più debole, ma non lo avrebbe mai ammesso. Fare tutto quello che faceva gli impediva di pensare troppo alla lontananza dai suoi amici e, anzi, occupandosi dei soldati e dei rifornimenti per le truppe era come se, in qualche modo, riuscisse a sentirsi più vicino a loro.

“Io molto preoccupato” riprese Saltzmann. “Io vedere te sfinito, tu mangiare poco o niente, lavorare e basta, e poi di notte dormire, come svenuto, fino a mattina.” Sì, in effetti erano almeno sette o otto notti che Saltzmann e Mellish non facevano più l’amore, perché il ragazzo si addormentava non appena posava il capo sul cuscino e il tedesco non aveva cuore di togliergli anche quei momenti di riposo. Però sentiva la mancanza della loro intimità, e non solo fisica: praticamente non stavano mai insieme durante il giorno, si vedevano alla mensa per poco tempo, poi magari fumavano insieme un paio di sigarette e poi Mellish crollava e doveva andare a dormire! Era lì, ma era come se non ci fosse. Non parlavano più e non avevano più alcun tipo di rapporto fisico.

“Beh, adesso che i miei compagni sono partiti per la Germania con le altre truppe ci sono molte più cose da fare qui, cose che magari facevano Wade, Upham o Ryan” spiegò il giovane americano. “Chi altri può occuparsi di questo? Di certo non i soldati feriti o le truppe di passaggio per il fronte.”

“Ma tu così finire per stare male, io preoccupato, Stan! E poi… tu manchi me, noi non parlare più, non stare più insieme” disse Josef in tono accorato.

“Mi dispiace, ma non posso farci niente, ci sono davvero troppe cose da fare e io sono stanco e non ho tempo per nient’altro” tagliò corto Mellish.

E doveva davvero essere distrutto e sfinito, pensò Saltzmann, perché non si era accorto di aver detto qualcosa che contrastava con quello che aveva deciso scegliendo di rimanere al Quartier Generale: non era partito con i suoi compagni perché voleva stare insieme a lui, non voleva lasciarlo solo… ma, in realtà, tutti gli impegni che si prendeva lo allontanavano sempre di più e loro due non stavano più davvero insieme da molti giorni. Non si rendeva conto neanche di quanto Josef stesso fosse deluso e malinconico e questo dimostrava che era veramente a pezzi, l’uomo non poteva rimproverargli la sua poca delicatezza perché ne aveva ancora meno per se stesso e per la sua salute. Ciò che invece lo metteva in ansia era il fatto che Mellish si distruggesse da solo, cosa tanto più pericolosa contando che il suo cuore era certamente indebolito dopo la scalfittura della baionetta… ma in quel momento Saltzmann scelse di non affrontare ancora quell’argomento, sarebbe stato sufficiente che il suo prezioso ragazzino si prendesse maggior cura di sé e non abusasse della sua salute.

“Io avere idea per risolvere problema” disse allora pacatamente. “Perché tu non lasciare me aiutare?”

Mellish si voltò a guardarlo sorpreso, a guardarlo veramente in faccia per la prima volta dopo giorni, e si accorse della sua tristezza ma anche della preoccupazione e dell’amore che trasparivano dai suoi occhi. E in quel momento si rese conto di averlo trascurato e che, se doveva finire così, tanto valeva essere partito per la Germania e averlo lasciato lì da solo…

“Scusami, Josef” gli disse. Aveva finito la sigaretta e lasciò cadere il mozzicone a terra per afferrarlo per le braccia, avvicinandosi a lui. “Lo so che non era questo che ti avevo promesso quando ho scelto di restare qui con te invece di partire con i miei compagni. Lo so che passiamo giorni interi senza quasi vederci e parlarci, mi dispiace tanto ma…”

Anche Saltzmann lasciò perdere la sigaretta per stringere il giovane tra le braccia.

“No, no, mio Stan, tu non preoccupare per me, non è questo vero problema” lo interruppe affettuosamente. “Io in ansia per tua salute, tu non riposare o mangiare abbastanza e lavorare tanto e questo fa male a te, per questo io voglio aiutare te come posso.”

Mellish non se ne era reso conto, preso dalla fatica e dal vortice di impegni di quei giorni, ma gli era mancato Josef, i suoi abbracci caldi e rassicuranti, il suo affetto dolce e appassionato, per di più si sentiva solo senza i suoi amici e le braccia forti e salde di Saltzmann erano un rifugio e un balsamo per il suo cuore e il suo spirito. Gli salirono le lacrime agli occhi, non sapeva neanche se fosse per la commozione, la gioia di aver ritrovato il suo uomo, il senso di colpa per averlo trascurato, la nostalgia… non lo sapeva neanche lui!

“Invece devo dirtelo, mi dispiace davvero e ti chiedo scusa, Josef” riprese Mellish, contro il petto di lui. “Il fatto è che… è proprio come temevo e come ti avevo detto, sento tantissimo la mancanza dei miei compagni e del Capitano Miller, sono sempre in ansia per loro e mi riempio di cose da fare per non pensarci, per non stare tanto male! Però non è giusto, tu sei qui e io faccio stare male anche te, sono sempre il solito stronzo egoista e penso solo a me stesso…”

“Questo non vero, mio Stan, tu non egoista, tu preoccupato per tuoi amici e io capisco te, per questo voglio aiutare. Io potere fare cose con te per aiutare e tu poter parlare con me quando sentire solo, io sono qui per te sempre, mio Stan” disse dolcemente Saltzmann, felice di poter nuovamente tenere il suo giovane compagno tra le braccia, stringerlo, baciarlo sulla fronte, sulle guance piene, sulla bocca morbida.

“Sì, hai ragione, scusami” mormorò appena il ragazzo, travolto da sensazioni e emozioni che non riusciva neanche a capire. Perché non aveva pensato a confidarsi con Josef quando si sentiva solo e aveva nostalgia dei compagni? Perché non gli veniva spontaneo aprirsi con lui e in tutte le cose cercava sempre di cavarsela da solo? Perché sembrava sempre che, in fondo in fondo, volesse tenerlo lontano da sé? Se ci fosse stato Caparzo, al suo posto, si sarebbe sicuramente confidato e fatto aiutare, e Caparzo era un amico mentre Saltzmann… Saltzmann era molto di più, e allora come mai non si lasciava aiutare? Forse in qualche punto della sua mente non si fidava ancora di lui, forse il problema era che lo considerava ancora un tedesco… o forse era solo che non voleva trovarsi a dipendere da quell’uomo e a legarsi a lui troppo strettamente? Qualunque fosse la risposta, era sbagliato e non doveva succedere più, faceva male a entrambi.

“Io poter aiutare te a preparare casse con armi e cibo per soldati” si offrì il tedesco, lieto di rendersi utile al suo Stan e pensando che così non si sarebbe più stancato tanto e avrebbero potuto lavorare insieme e avere più tempo per ritrovarsi. “Posso fare anche altra cosa, quando tu riordini salone di cartografi e interpreti io poter aiutare loro, io tradurre tedesco e indicare su mappe zone di Germania che soldati poter attaccare.”

Un brivido gelido attraversò la schiena di Mellish, che si strinse di più al suo uomo.

“Josef, non lo dire così forte, questo sarebbe un tradimento per la tua patria, molto più di aver sparato a un commilitone per salvare me e Upham” disse, improvvisamente spaventato. “E se qualche tedesco ti sentisse?”

“Noi non in Germania, qui non tedeschi” replicò semplicemente Saltzmann, ancora più felice e emozionato vedendo che Mellish si preoccupava per lui! Ogni volta che gliene dava occasione quel buffo ragazzo finiva per dimostrargli che lo amava davvero sempre di più e neanche se ne rendeva conto! “Io contento di aiutare te, tedeschi non sapere e così io meritare asilo politico e cittadinanza in America.”

“Te la sei già meritata abbastanza” mormorò il giovane americano, in preda a un’emozione che sconvolgeva ogni fibra del suo essere. “E non è neanche vero che non ci sono tedeschi: a volte qui tengono prigionieri dei soldati che hanno catturato, prima di imbarcarli per i campi di lavoro americani. Di certo non potranno stare in giro e non ti potranno incontrare, ma io non voglio rischiare… io non voglio rischiare di perderti!”

“Mio Stan!” esclamò al colmo della gioia Saltzmann, prima di baciare il ragazzo avvolgendolo in un abbraccio caldo, protettivo e infinito. Lo baciò a lungo prima di staccarsi lentamente da lui e, sempre tenendolo abbracciato, rialzarsi dalla panchina. Guardò la luna nel cielo e la ammirò ancora più luminosa e magnifica negli occhi scuri del suo amore. “Qui molto bello con luna, è cosa romantica, ma io penso che meglio andare in camera per stare insieme.”

Mellish era trasognato e completamente in balia di Josef e così si lasciò condurre da lui fino alla loro stanza, fino al loro letto, dove si ritrovò disteso con l’uomo sopra di lui senza neanche capire come avesse fatto ad arrivarci, ma non gli importava, contava solo essere con Saltzmann. Non se ne era reso conto, ma anche a lui era mancato e adesso sentiva qualcosa di caldo e dolce che gli scorreva nel sangue… Così si donò e si concesse totalmente mentre Josef non riusciva più a trattenersi e lo baciava a lungo, avvertendo sempre di più l’urgenza e il bisogno di diventare una sola cosa con lui, entrava nell’intimità della sua carne e si muoveva piano in lui, con cautela, lentezza e pazienza, godendosi finalmente il tepore del suo giovane corpo morbido e giungendo infine con lui ad una totale fusione di amore, estasi e dolcezza.

Dopo l’amore, Saltzmann tenne ancora tra le braccia il suo ragazzo, guardandolo con affetto mentre si accoccolava al sicuro nel suo abbraccio protettivo.

“Allora tu d’accordo, mio Stan? Domani iniziare ad aiutare te, a lavorare insieme e tu meno stanco?” gli domandò.

“Sì, va bene” rispose il giovane, ancora sperduto e disorientato dopo le ondate di emozioni e sensazioni brucianti e dolcissime che lo avevano attraversato. “Verrai con me e ti spiegherò come puoi aiutarmi. E… grazie, Josef. Non te lo dico mai ma grazie, grazie perché ci sei, perché sei sempre con me, sei paziente e buono anche quando ti tratto male e…”

Saltzmann lo interruppe con un lungo bacio, strappandogli il respiro e le parole di bocca.

“Non ringraziare. Io ringraziare te perché tu mia gioia e mio amore e io amo te e voglio stare sempre con te, qui e in America” disse poi.

E non c’era altro da spiegare quando Saltzmann era così chiaro e deciso!

I due si addormentarono finalmente insieme, abbracciati, appagati e sereni, in attesa delle nuove sfide che la realtà gli avrebbe presentato, ma sicuri di affrontarle insieme e con la forza del loro amore.

Fine capitolo ventunesimo

 

 

 

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Capitolo 22
*** Cap. 22:I can break my heart myself ***


Cap. 22: I can break my heart myself

 

Today went really well
I didn't wake up in a panic spell
It was fine, even though I fell
Deeper and deeper into manic hell

Whoa, I'm living and I'm dreaming
Trying to stay even, oh
Whoa, I'm draining for no reason
Apologize, no feelings, oh

No, I don't need your help
To make me sick, to make me ill
I don't need anybody else
'Cause I can break my heart myself
I don't need your help
Getting off of this carousel
I don't need anybody else
'Cause I can break my heart myself!

 (“I can break my heart myself” – Bebe Rexha)

 

Mellish non lo avrebbe mai immaginato ma, dal momento in cui aveva deciso di affidarsi a Saltzmann, accettando il suo aiuto nei compiti quotidiani e il suo appoggio e sostegno nei momenti di nostalgia e tristezza, aveva iniziato a sentirsi realmente sollevato e più tranquillo. Certo, continuava a sentire disperatamente la mancanza dei suoi amici e a preoccuparsi per loro, ma già il fatto di potersi sfogare e confidare con Saltzmann ogni volta che si sentiva sopraffatto da questi sentimenti angoscianti lo aiutava moltissimo.

Del resto non si può biasimare l’angoscia di Mellish: era ormai la fine di marzo e, purtroppo, le previsioni fin troppo ottimistiche dei Generali e delle truppe Alleate non si stavano realizzando. Era vero che la Germania era ormai messa alle strette e circondata da ogni parte: i bombardamenti stavano devastando Berlino e le truppe sovietiche avevano occupato il territorio austriaco, eppure Hitler continuava a rifiutare una resa incondizionata e, piuttosto, preferiva che l’intera Germania, compresi i cittadini innocenti e le reclute giovanissime mandate in prima linea, bruciasse con lui.* Anche Mellish aveva sperato che la missione dei suoi compagni in Germania durasse pochi giorni, magari un paio di settimane al massimo, che vincessero la guerra e tornassero presto al Quartier Generale sani e salvi, invece le cose non stavano andando affatto così…

“Josef, è già il 30 di marzo e gli Alleati non hanno ancora vinto la guerra, la Germania è accerchiata ma Hitler non si arrende, questa cosa non finirà mai!” esclamò sconfortato un giorno il giovane americano. Quella mattina i due avevano collaborato, lavorando insieme in infermeria, e a Mellish era sembrato che i soldati feriti e i prigionieri liberati dai lager che arrivavano da loro continuassero ad aumentare esponenzialmente invece di diminuire e ciò lo aveva reso molto depresso. Lui e Saltzmann si erano concessi un panino e una sigaretta dopo una mattinata tanto faticosa e impegnativa e moralmente devastante e Mellish aveva sentito tanto bisogno di sfogarsi con il suo compagno.

“Sono tanto preoccupato, le cose non stanno migliorando e poi non ricevo lettere da Upham da più di una settimana” si lamentò il ragazzo. “Mi aveva promesso che avrebbe scritto ogni giorno per farmi sapere come se la cavavano lui e gli altri, lo sa quanto sto in pena, e se non ha più scritto forse… forse è successo qualcosa!”

Saltzmann lo abbracciò e gli accarezzò dolcemente i capelli. In quel momento erano soli e la loro privacy era assicurata dagli alti cespugli del giardino che celavano la panchina sulla quale si trovavano.

“Tu sapere che essere bombardamenti su città tedesche” gli spiegò in tono pacato e rassicurante, “e in momenti così lettere possono andare perdute. Io sicuro che Upham avere sempre scritto, ma forse lettera distrutta in bombardamento, altre lettere arrivare in prossimi giorni.”

“Davvero ne sei sicuro?” mormorò Mellish, puntando gli occhi neri sull’uomo con uno sguardo di fiducia e speranza, proprio come quello di un bambino che vuole essere rassicurato.

“Io sicuro sicuro per davvero” dichiarò Saltzmann. Poi strinse Mellish tra le braccia, lo accolse nel cerchio protettivo del suo abbraccio e si chinò a baciarlo, incollando le labbra a quelle del giovane e stringendolo appassionatamente tra le braccia. Gli schiuse la bocca con la sua, rubandogli il respiro e avvolgendolo in un bacio lento e pieno di dolcezza. Il corpo del tedesco aderiva completamente a quello morbido del ragazzo e l’uomo non poté trattenersi dal premere la sua erezione pulsante contro di lui attraverso il tessuto dei pantaloni. Anche lui era combattuto tra diverse emozioni: da una parte era felice che il suo Stan adesso si confidasse con lui e dimostrasse così il suo amore e il suo bisogno di averlo vicino; dall’altra, però, era anche lui preoccupato perché lo vedeva esausto e angosciato e temeva che, a lungo andare, la sua salute ne avrebbe risentito. Saltzmann sapeva bene, anche se quello non era certo il momento di parlarne, che il cuore di Mellish era stato scalfito dalla punta della baionetta e una cicatrice sul cuore non era cosa da prendere alla leggera, sebbene il giovane rifiutasse anche solo di ammettere l’accaduto. Affaticarsi e turbarsi tanto avrebbe potuto compromettere ancora di più il suo stato fisico. Lui, però, non poteva farci niente, poteva solo cercare di addossarsi i pesi di Mellish e alleviare le sue fatiche e le sue preoccupazioni e, come in quel momento, tenerlo il più possibile accanto a sé, stretto a sé, protetto e difeso da qualsiasi bruttura potesse colpirlo e godendosi il suo profumo, il suo sapore e quel giovane corpo tenero. Per adesso non c’era altro che potesse fare, se non sperare che le cose migliorassero al più presto e che la Compagnia Charlie e le truppe Alleate ritornassero vincitrici.

Tuttavia c’era un’ulteriore prova dolorosa che attendeva al varco il giovane Mellish…

Qualche sera dopo, i due si trovavano nella loro stanza da letto: Saltzmann era già coricato mentre Mellish si stava preparando per la notte, ma appariva nervoso, a disagio, come se qualcosa gli bruciasse dentro e non riuscisse a dirlo. Alla fine, con un sospiro, si mise anche lui a letto accanto al tedesco, lo prese per le spalle, gli piantò gli occhi scuri e seri in faccia e fece una dichiarazione che, sulle prime, sembrò molto strana.

“Josef, da domani e per qualche giorno ancora non mi potrai aiutare, né in infermeria, né nella sala degli interpreti, né da altre parti” disse, “e anzi, sarebbe preferibile che non scendessi neanche a mangiare alla mensa. La cosa migliore è che tu rimanga chiuso nella nostra camera tutto il tempo, penserò io a venire a portarti da mangiare, da bere e qualsiasi cosa ti serva, ma tu non dovrai uscire da qui per nessuna ragione finché… finché la situazione non si sarà risolta. Mi hai capito bene?”

A dire la verità, il povero Saltzmann non ci aveva capito proprio un bel niente!

“No, io non capire niente. Che situazione? Perché tu volere rinchiudere me, cosa ho fatto?” domandò, stupito.

Mellish gli si avvicinò ancora di più, i loro visi quasi si sfioravano.

“Niente, tu non hai fatto niente, anzi, devi fare quello che ti dico per la tua sicurezza” riprese, senza per questo risultare più chiaro. “Io ho paura che tu possa essere in pericolo nei prossimi giorni e per questo voglio che resti chiuso qui, voglio che nessuno possa vederti.”

“Tu preoccupato per me? Ma perché, Stan?”

“Perché… perché… beh, l’altro giorno avevi ragione e ultimamente ho ricevuto ben due lettere di Upham. Loro stanno tutti bene, per fortuna, sono in un accampamento fuori Berlino e non prendono parte ai combattimenti, fanno quello che facciamo noi qui: Wade cura i feriti e gli altri organizzano i rifornimenti di viveri e armi per i soldati al fronte. E le cose stanno andando bene, Hitler è accerchiato e sembra che perfino alcuni dei suoi stessi fedelissimi non gli obbediscano più e cerchino solo di salvarsi la vita”** cominciò allora a spiegare il giovane, parlando in fretta e stringendo le braccia di Saltzmann, come per assicurarsi che fosse lì con lui al sicuro. “Mi ha scritto che tanti soldati rifiutano di combattere e preferiscono arrendersi, si fanno prendere prigionieri dagli Alleati perché sanno che ormai la guerra è perduta. Quindi stanno arrivando molti prigionieri tedeschi anche qui, al Quartier Generale, e un gruppo di loro è giunto proprio stamattina. In attesa di essere imbarcati per l’America, dove finiranno in un campo di lavoro, sono stati sistemati in una grande stanza dell’hotel, qui, dove mangiano e dormono e non possono uscire, sono controllati a vista, ovviamente. Però non si sa mai… e io non voglio neanche pensare che possano vederti e, magari, venire a sapere quello che hai fatto per me.”

“Mio Stan” mormorò Josef, commosso, “tu davvero tanto preoccupato per me!”

Mellish era esasperato. Ma come? Lui stava spiegando a Saltzmann che doveva stare nella loro stanza per qualche giorno per evitare di mettersi in pericolo e quello si emozionava e pensava solo a quanto fosse bello che si preoccupasse per la sua sicurezza? Ma che aveva in testa?

“Non è questo il punto!” esclamò. “Tu devi stare al sicuro qui. I prigionieri non resteranno a lungo, li imbarcheranno entro pochi giorni, ma io non voglio che tu corra dei pericoli in ogni caso. Qualcuno potrebbe volersi rivalere su di te, magari per la rabbia di aver perso la guerra o di aver avuto la casa distrutta o che so io, quindi tu non devi uscire da qui finché loro saranno all’hotel. Mi hai capito adesso?”

“Sì, io capire che tu preoccupato per me, che tu amare me tanto quanto io amo te, mio Stan” disse ancora una volta Saltzmann, pieno di gioia ed entusiasmo. Mellish avrebbe voluto obiettare, protestare, ma non riuscì a dire più niente perché l’uomo lo distese nel letto e gli si mise sopra, baciandolo intensamente, gustando il suo sapore e perdendosi in esso. Il suo corpo si fuse con quello di Mellish e si mosse lentamente e profondamente in lui e con lui, mentre il ragazzo era rimasto stupefatto e disorientato, poteva solo aggrapparsi alle spalle di Josef, accogliendolo dentro di sé e soffocando i gemiti contro il suo petto. I movimenti si fecero sempre più frenetici finché, con un ultimo affondo, l’uomo giunse all’apice del piacere e subito dopo anche Mellish trasalì, sussultò e raggiunse l’estasi, cercando fino all’ultimo di nascondere gli ansiti e i sospiri mordendosi il labbro inferiore e schiacciando il volto contro il torace di Saltzmann. Sfiniti e ansanti, i due restarono comunque stretti l’uno all’altro, ancora perduti nell’intensità appassionata di ciò che avevano fatto. Saltzmann si riprese per primo e, con dolcezza, baciò di nuovo teneramente Mellish, tenendolo incollato al proprio corpo come se fosse diventato una parte di sé.

“Per me è bello che tu preoccupato per mia sicurezza, mio Stan” gli sussurrò con dolcezza, “ma io non potere lasciare a te tutti impegni, io aiutare. Prometto di non mettere me in pericolo e non incontrare prigionieri tedeschi. Io sicuro che non accadere niente di male, loro chiusi in stanza, non potere uscire, e poi disarmati, non potere fare male a me. Tu tranquillo, mio piccolo Stan.”

“Ma io… io non lo so, io non voglio rischiare, non posso perderti, Josef, non ce la farei…”

“Ora io so quanto tu amare me e non voglio te spaventato, io al sicuro, tu non perdere mai me. Noi due sempre insieme, qui e in America, mio Stan” lo interruppe ancora Saltzmann chiudendogli la bocca con un bacio, due, cento, mille, incantato dal suo dolce tepore. E alla fine tutto il resto venne cancellato e dimenticato, per lasciare spazio solo all’amore e alla felicità del ritrovarsi uniti e di potersi addormentare stretti l’uno all’altro.

Saltzmann, però, questa volta non era stato completamente sincero con Mellish. In fondo al cuore era convinto che i prigionieri tedeschi non gli avrebbero fatto alcun male e, anzi, desiderava poterli incontrare e parlare con loro. La mattina dopo, quindi, accompagnò il giovane americano a svolgere i consueti compiti in infermeria ma, prima di uscire in giardino per un panino e una sigaretta alla fine del lavoro, si rivolse a Mellish e gli parlò seriamente.

“Stan, non voglio te preoccupato, ma io devo andare a parlare con soldati tedeschi” gli disse.

Il ragazzo trasecolò.

“Ma allora non mi ascolti davvero quando parlo!” esclamò, esasperato. “Ti ho detto e ripetuto che può essere pericoloso per te, che potrebbero farti del male, ho accettato a fatica di lasciarti uscire dalla stanza e aiutarmi nei miei compiti e tu adesso vuoi andare proprio nella stanza di quei prigionieri? Sei forse impazzito del tutto? Io… io… tu mi avevi promesso…”

“Io non promesso niente, Stan, solo che tu non perdere mai me” mormorò teneramente l’uomo, passandogli un braccio attorno alla vita e attirandolo a sé. “Loro non fare male a me, io sicuro. Proprio tu dire che loro arresi, loro rifiutato Hitler e guerra, preferire prigionia. Io chiedere loro di cosa accadere in Germania, quanto isolato essere Hitler, loro non fare male e tu puoi stare con me, così tu tranquillo.”

A dirla tutta Josef aveva ragione, i prigionieri tedeschi non gli avrebbero fatto del male, erano stanchi, laceri, denutriti e, comunque, fuori dalla loro stanza restavano sempre di guardia tre soldati americani con i fucili puntati. Quando lui e Mellish entrarono, videro solo cinque giovani soldati dallo sguardo perso, ormai devastati e distrutti da tutto ciò che avevano visto e vissuto. Anche quando Saltzmann si presentò e spiegò a grandi linee che era anche lui un prigioniero degli Alleati, i soldati tedeschi non reagirono in alcun modo: due di loro sembravano addormentati, distesi scompostamente sulle loro brande, uno continuò a guardare nel vuoto, solo due si voltarono a guardarlo, dimostrando di averlo sentito.

“So che anche voi vi siete arresi agli americani, che avete preferito finire in un campo di lavoro piuttosto che continuare a combattere per Hitler, e io comprendo la vostra scelta, è la stessa che ho fatto io” continuò Saltzmann in tedesco. “La Germania è davvero messa così male?”

“La Germania è distrutta e non si riprenderà mai più” mormorò uno dei due soldati, con amarezza. “Il nostro bel Paese è stato devastato dai bombardamenti, ma è solo colpa di Hitler se tutto questo è accaduto, lui ha voluto la guerra, lui non accetta di arrendersi neanche adesso. Fa combattere i ragazzini, manda in prima linea soldati di dodici o tredici anni. È un essere schifoso ed è stato la disgrazia della nostra patria!”

“Io non volevo andare in guerra, avevo pensato di scappare con mia moglie e il nostro bambino appena nato” confessò un altro. “Ma poi… poi ho avuto paura che le SS se la prendessero con la mia famiglia e ho accettato di partire. Non so neanche se Britta e Hans siano ancora vivi…”

Mellish era sconcertato: non era così che si immaginava i prigionieri tedeschi! Non capiva quello che stavano dicendo a Saltzmann, ma era chiaro che odiavano la guerra e Hitler tanto quanto loro e che avevano perduto ogni speranza.

“Io ho perduto la mia famiglia” ammise Josef, cupo. “Sono morti sotto un bombardamento inglese mesi fa, eppure dentro di me so che il vero responsabile della loro morte è Hitler e non gli Inglesi. Non è stata l’Inghilterra a iniziare la guerra e neanche l’America, è stato Hitler con le sue folli manie di grandezza e per colpa sua noi abbiamo perduto tutto.”

“È vero” concordò uno dei due soldati. L’altro, invece, parve accorgersi in quel momento della presenza di Mellish nella stanza e cambiò atteggiamento.

Ja, Hitler voluto guerra, ma voi Americani non avete mani pulite da sangue” disse il giovane soldato, fissando Mellish con sguardo duro.

“Nessuno può essere del tutto innocente in una guerra e non faccio finta di non sapere che anche gli Alleati hanno commesso atrocità e ingiustizie” obiettò il ragazzo, che ormai che era lì voleva togliersi almeno un sassolino dallo stivale, “ma forse non abbiamo avuto scelta davanti agli orrori che Hitler ha perpetrato. Penso che voi sappiate dei lager e di quello che i Nazisti vi facevano. Le tante persone che sono state uccise là, donne, bambini, anziani, neanche loro volevano la guerra e la loro unica colpa era quella di esistere ed essere sgraditi al Reich. Mi dispiace che i nostri bombardieri abbiano raso al suolo le vostre città, ma non sarebbe successo se Hitler avesse accettato la resa.”

Il soldato lo fissò, poi scrollò la testa con un sorrisetto storto.

“Tu ebreo, eh? Capire perché tu dire questo, ma forse tu non sapere che anche tuo Paese, America, uccidere tanti bambini innocenti” disse.

“Certo che so che tanti bambini innocenti sono morti sotto i bombardamenti in Germania, però io non ne vado fiero, mentre il vostro Führer ha creato i campi di sterminio proprio per eliminare la mia gente e altri popoli che disprezzava e lo ha fatto consapevolmente e con freddezza!” reagì Mellish.

“Io non capire se tu stupido, ingenuo o proprio non sapere di cosa accaduto in Italia, in strage di Gorla” replicò il prigioniero tedesco.

A quelle parole né Mellish né Saltzmann seppero cosa ribattere. Non avevano mai sentito parlare di una cosa simile, nessuno di loro due era stato in Italia e non capivano dove il soldato volesse andare a parare. Saltzmann, però, notò lo sguardo severo e gelido del prigioniero e, istintivamente, capì che quello che stava per dire avrebbe fatto del male, avrebbe ferito soprattutto Mellish che era davvero ancora ingenuo e fiducioso. Per la prima volta si pentì di non aver ascoltato il suo giovane compagno e di aver voluto parlare con i prigionieri tedeschi, ma ormai era troppo tardi…

Fine capitolo ventiduesimo

 

                        

 

* Il 19 marzo 1945 Adolf Hitler aveva emesso un decreto, chiamato Decreto Nerone, per ordinare la distruzione delle infrastrutture tedesche, al fine di impedire il loro uso da parte delle forze alleate durante la loro avanzata in Germania.

** Una prova di questo fu proprio la non realizzazione del Decreto Nerone. La responsabilità per la sua realizzazione era ricaduta su Albert Speer, ministro degli armamenti e della produzione bellica di Hitler e Speer era inorridito dall'ordine: perse fiducia nel dittatore proprio per questo e quindi omise deliberatamente di eseguirlo. Dopo averlo ricevuto chiese di avere il potere esclusivo di attuare il piano usando, però, il suo potere per convincere i Generali a ignorare l'ordine.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** Cap. 23: Bridges ***


Cap. 23: Bridges

 

Now I see the road

Of leading lights

Showing me where I should go and what to leave behind

 

There is always time to get back on track

Tearing down the walls slowly every step

Now I see myself

Building up a world of bridges

 

You will find a way

To begin again no more time to waste

Or to play pretend

Now I see myself

Building up a world of bridges!

(“Bridges” – Alika)

 

Mellish e Saltzmann erano rimasti interdetti alle parole del prigioniero tedesco, non sapevano a cosa si stesse riferendo e, a dirla tutta, Josef era sempre più preoccupato che quell’uomo, nonostante la stanchezza, l’amarezza e la debolezza della prigionia, avesse colto il punto debole del suo giovane compagno e che adesso stesse per colpirlo con una cattiveria che lo avrebbe spezzato. Purtroppo, come Saltzmann sapeva bene, in guerra avvenivano fin troppi episodi vergognosi che poi venivano insabbiati e, probabilmente, questo era uno di quelli e ne erano stati protagonisti proprio i soldati americani. Si rendeva conto che Mellish, fiducioso e generoso com’era, non aveva piena consapevolezza degli orrori che una guerra si porta dietro, sapeva vagamente di stupri di gruppo, violenze e uccisioni gratuite compiute tanto da tedeschi quanto da italiani, sovietici, inglesi, francesi o americani, ma questo episodio doveva essere stato particolarmente tragico e il ragazzo avrebbe potuto reagire molto male.

Per un istante desiderò non aver mai deciso di incontrare i prigionieri tedeschi, ebbe la tentazione di afferrare Mellish e portarlo fuori da quella stanza perché non ascoltasse… ma poi il prigioniero parlò e fu troppo tardi.

“Io combattuto in Italia estate scorsa” disse l’uomo, “ero là quando vostri aerei distruggere scuola piena di bambini.”

Mellish impallidì così tanto che sembrava che stesse per svenire. Saltzmann lo strinse a sé, cercando di proteggerlo dalle parole che sarebbero state per lui più dolorose di una sventagliata di mitragliatrice al petto, e gli parlò con dolcezza all’orecchio.

“Non ascoltare lui, Stan, vuole solo fare male, non è niente vero quello che dice, è sua vendetta perché prigioniero” mormorò, ma poi si rivolse in tedesco al connazionale con una freddezza e una durezza che Mellish non gli aveva mai visto. “Non so che cosa stai per raccontare ma non farlo, questo ragazzo non ti ha fatto niente e non hai motivo per farlo soffrire.”

Il tedesco continuò come se Saltzmann non avesse parlato, i suoi occhi erano fissi su Mellish e su ogni reazione del suo volto e del suo corpo.

“Io e miei compagni essere a Milano in ottobre scorso, quando vostri bombardieri colpire città e paesi vicini” riprese. “Fare come con Germania, voler colpire fabbriche e stabilimenti per costringere Italia a resa.”

“Questo lo so, te l’ho già detto, non vado fiero di questo tipo di guerra che devasta le città e distrugge anche le case dei civili oltre alle infrastrutture e agli stabilimenti, anzi, sinceramente sono contento di essere un soldato semplice e non un aviatore, perché così mi sono trovato a sparare solo contro altri soldati armati e posso dormire la notte, sapendo di non aver mai ucciso un innocente” replicò Mellish. “Ma non capisco perché vuoi raccontare queste cose proprio a me. Io non sono mai salito su un aereo e non ho mai bombardato niente e nessuno, né in Italia, né in Francia, né in Germania. Prenditela con quelli dell’aviazione, se vuoi trovare dei colpevoli.”

Un sorriso cattivo si dipinse sulle labbra del tedesco.

“No, io dico a te perché tu ebreo” ribatté, e dal tono in cui lo disse si capiva che, per lui, i campi di sterminio non erano poi quel grande scandalo… “Tu credere che tedeschi tutti mostri perché uccidere quelli come te e anche donne e bambini ebrei, ma voi americani non essere meglio e strage di Gorla dimostra questo.”

Saltzmann era forse ancora più sconvolto di Mellish. Possibile? Aveva davanti un Nazista di quelli convinti, di quelli che odiavano davvero gli ebrei, e ci aveva portato il suo Stan? Come poteva essere stato così egoista, così sciocco? Stan aveva ragione, gli aveva detto di stare lontano dai prigionieri tedeschi, ma lui aveva voluto vederli e parlarci e ora… era solo colpa sua, era colpa sua se quell’uomo avrebbe straziato il suo sensibile ragazzo con le parole, visto che non poteva più farlo con le armi!

“Io sicuro che tu pieno di compassione per poveri bambini ebrei morti in campi di sterminio, ma ora tu pensare anche a poveri bambini italiani morti per bombardamento americano” sibilò il prigioniero. “Era 20 ottobre, venerdì, io e miei compagni essere a Milano e sentire bombardamenti in tanti posti di città, noi pensare a salvare noi stessi, poi però saputo cosa fatto americani. Vostri bombardieri partiti per colpire fabbriche di Milano, ma poi sbagliare direzione, virato destra invece che sinistra, errore può capitare, ma a quel punto aviatori americani avere bombe innescate, non poter tornare con arei carichi a base.”

“È stato un errore, allora, lo hai detto tu stesso” provò a dire il giovane, ma il prigioniero lo interruppe.

Ja, errore, prima, però poi scelta di aviatori americani” disse, col veleno nella voce. “Loro poter sganciare bombe in mare prima di tornare a base, e nessuno fare male, invece loro sganciare bombe su città sotto, più di trecento bombe sopra Gorla che essere quartiere di Milano. Tanti morti tra civili, ma una bomba cadere in vano scale di scuola e colpire in pieno bambini e maestre, più di duecento schiacciati da macerie, fatti in pezzi.* Ora tu pensare anche a questi bambini oltre che a bambini ebrei?”

“Io…” riuscì appena a mormorare Mellish. I suoi occhi erano pieni di lacrime e non riusciva a non vedersi davanti agli occhi le scene strazianti e orribili che il prigioniero tedesco aveva descritto, tremava in tutto il corpo e questa sua reazione fece veramente infuriare Saltzmann. Era in collera con se stesso perché si rendeva conto che era stato lui a voler andare a parlare con quegli uomini e a portarci Mellish, ma era anche pieno di rabbia verso quel prigioniero che, ora l’aveva capito, forse non aveva approvato la guerra di Hitler, ma in compenso ne condivideva gli obiettivi riguardo la soluzione finale. Spinse delicatamente il ragazzo fuori dalla stanza, lo abbracciò per un attimo sussurrandogli di stare calmo, che sarebbe andato tutto bene, poi lo lasciò insieme ai soldati che montavano di guardia per ritornare dentro e dirne quattro in tedesco al prigioniero.

“Sei veramente un vigliacco, lo sai? Ti sei fatto catturare dagli Americani per non dover più combattere per Hitler, ma poi sei bravissimo a traumatizzare un ragazzo che non ha mai fatto del male a un civile” gli disse a brutto muso. “Erano tutte menzogne, non è così? Tu odi gli Americani e non volevi arrenderti, tu sei dalla parte di Hitler, solo che hai avuto paura perché la Germania sta perdendo la guerra e tu non vuoi lasciarci la pelle. Mi fai schifo!”

Era veramente molto raro vedere Saltzmann così arrabbiato, ma la subdola malvagità del prigioniero verso il suo Stan lo aveva mandato fuori di testa.

“E dei tuoi compagni che mi dici? Siete tutti dei fanatici Nazisti che però hanno abbandonato la nave prima che affondasse?” continuò.

Il prigioniero lanciò una rapida occhiata verso gli altri tedeschi nella stanza, ma nessuno di loro pareva aver seguito la conversazione, erano tutti troppo deboli, abbattuti e depressi.

“Oh, no, loro no, loro sono davvero dei poveretti costretti a combattere e sono preoccupati solo per le loro famiglie ancora in Germania” rispose l’uomo, con sufficienza, come se disprezzasse anche i suoi stessi commilitoni. “E non ho mentito, nemmeno io volevo la guerra. Hitler è stato uno stupido e un presuntuoso. È solo colpa sua se la nostra Germania sarà distrutta, mentre sarebbe potuta diventare un Paese potente, il più potente d’Europa, ricco e libero da tutti quegli esseri inferiori che lo infestavano, gli ebrei, i rom e tutti quegli altri… Hitler aveva iniziato bene, aveva rimesso in piedi l’economia tedesca e rastrellato quegli esseri inferiori che contaminavano la Germania per spedirli nei campi di sterminio. Sarebbe andato tutto benissimo, nessuno si sarebbe interessato di quegli scarti, cosa credi? Anche gli Americani, gli Inglesi e i Francesi disprezzano gli ebrei, i rom e tutte quelle sporche razze inferiori, lo avrebbero lasciato fare, e così noi avremmo lasciato ai nostri figli una nazione forte, rispettata e pura. Invece quell’idiota ha voluto occupare la Polonia e poi la Cecoslovacchia, ha fatto di tutto perché scoppiasse questa guerra maledetta, lui e le sue ridicole ambizioni, credeva di diventare il padrone del mondo e adesso abbiamo perso tutto! Maledetto Hitler!”

Saltzmann era disgustato, quasi incredulo. Sapeva che tra i tedeschi c’erano molti che credevano davvero alle teorie razziste di Hitler, ma per sua fortuna non aveva mai incontrato uno di quei fanatici. Adesso si trovava davanti uno dei peggiori, uno che aveva sposato le follie di Hitler riguardo lo sterminio di popoli e persone sgraditi, ma che non aveva neanche le palle per combattere per le idiozie in cui credeva. Si sentiva nauseato alla sola idea di far parte della stessa nazione di quel mostro…

“Non credere di passarla liscia così facilmente” gli disse, prima di uscire da quella stanza che ormai considerava appestata. “Sono anch’io un prigioniero, è vero, ma ho ottenuto un po’ di fiducia da parte degli Americani perché ho accettato di collaborare con loro e… beh, quando sarai rinchiuso in un campo di lavoro in America non sarai trattato come gli altri. Farò in modo che si sappia che sei un fanatico Nazista e anche un vigliacco, così ti odieranno sia le guardie sia i tuoi stessi compagni. Non meriti altro.”

E con queste parole si sbatté la porta alle spalle. Non aveva mentito: sperava davvero di poter fare in modo che quel prigioniero avesse delle brutte esperienze nei campi di lavoro americani e che non potesse godere di nessuno dei privilegi riservati agli altri.**

Ma adesso non voleva più pensare a lui, quello che contava era rassicurare Mellish, fargli dimenticare le cose orribili che quell’uomo gli aveva detto e… non sarebbe stato facile. Il giovane americano era sensibile e generoso, nonostante i modi spesso bruschi, e il tedesco aveva fatto leva proprio su questo per colpirlo dove sapeva che gli avrebbe fatto male. Infatti, per tutto il resto della giornata, nonostante la presenza continua, affettuosa e sollecita di Josef, Mellish rimase taciturno e cupo, con lo sguardo spesso perduto nel vuoto e non riuscì a svolgere i suoi compiti come al solito. Non mangiò quasi niente e, la sera, invece di rimanere in giardino a rilassarsi fumando una sigaretta, si chiuse presto in camera e Saltzmann lo trovò lì, disteso sul letto, singhiozzando con la faccia affondata nel cuscino.

L’uomo si affrettò a raggiungerlo, a mettersi nel letto con lui e a stringerlo tra le braccia.

“Stan, non piangere, non piangere, mio Stan” gli disse dolcemente, accarezzandolo e baciandolo. “Lo so, è cosa bruttissima quella di scuola e bambini, ma tu non colpevole e neanche tuoi compagni. Persone cattive e senza morale sono in tutti i Paesi, ma questo non vuol dire tutti Americani cattivi, come non vuole dire tutti Tedeschi cattivi. Tu sai questo ormai, no?”

“Io… sì, lo so, ma… non è questione di chi è la colpa, io penso a quei bambini e mi sento male, è stata una cosa vergognosa e io… non riesco…” Mellish parlava a fatica tra ansiti e singhiozzi.

“Non potere fare nulla per aiutare loro, ma noi potere aiutare famiglie che stanno qui, e quando noi in America magari fare cose per aiutare bambini poveri e famiglie che hanno bisogno” propose Saltzmann, cercando in tutti i modi di consolare il suo sensibile ragazzo. “Noi fare questo insieme, va bene, Stan? Meglio così?”

Il giovane guardò in volto Saltzmann, vide i suoi occhi buoni, il suo sorriso gentile e ricordò quanto invece era riuscito a mostrarsi gelido e severo con quel prigioniero. Josef era un uomo buono e lo amava, avrebbero potuto fare tante cose buone insieme per la gente e lui… lui sentiva sempre di più che era stato fortunato a incontrarlo e che non avrebbe più potuto fare a meno del suo amore.

“Sì, è meglio. Grazie, Josef, tu sei sempre tanto buono con me e io… io… ti amo, ecco” mormorò, arrossendo e distogliendo lo sguardo.

“Mio Stan!” esclamò il tedesco, finalmente felice e soddisfatto dopo quella giornata terribile. Lo strinse più forte tra le braccia accarezzandolo con tenerezza, come se avesse tra le mani una statuetta di cristallo, lo circondò con un abbraccio caldo e intenso e lo baciò a lungo, assaporando la sua bocca morbida e il suo bacio fu come la fusione dei loro respiri, come un cuore solo diviso in due corpi. Lo prese con tenera lentezza, languidamente, cercando la fusione più totale con Mellish e i due combaciarono sentendo che ogni parte di loro trovava il suo giusto incastro, che i loro corpi erano nati per quello, che le loro anime dovevano dissolversi per poi ricomporsi in una sola. Il mondo si ridusse a null’altro che a loro, all’unione dei loro corpi, anime, bocche e respiri che si cercavano e si prendevano come se non avessero mai fatto altro per tutta la vita, e attorno c’era una meravigliosa volta celeste piena di costellazioni sconosciute, una melodia perfetta cantata dai loro corpi e dalle loro anime, un capolavoro spettacolare di amore vero e intenso, fino all’onda calda che li fece esplodere insieme, incendiando ogni bruttura, ogni cattiveria, ogni immagine spaventosa di guerra e massacro.

Alla fine di tutto, Saltzmann avvolse Mellish in un tenero abbraccio e gli fece posare la testa sulla sua spalla, accarezzandogli con dolcezza i capelli.

“Ora tu stanco e devi riposare, dormire e non pensare più a brutte cose” mormorò. “Io qui con te, io non lascio mai te, io amo tanto te, Stan. Dormi bene.”

E il giovane americano si abbandonò all’abbraccio caldo e protettivo di Josef e cercò di addormentarsi, di dimenticare le immagini orribili che quel prigioniero gli aveva messo in testa, di pensare solo al futuro sereno e bello che lui e Saltzmann avrebbero costruito insieme, facendo del bene agli altri perché quella era la strada migliore per distruggere ogni male e costruire ponti per unire i popoli.

Fine capitolo ventitreesimo

 

 

 

* La strage di Gorla, del venerdì 20 ottobre 1944, è una delle pagine più tragiche della Seconda Guerra Mondiale. Nella storia io faccio apparire il tedesco crudele, vendicativo, perché vuole colpire Mellish in quanto ebreo, ma è comunque un episodio in cui gli Americani fanno una figura vergognosa. I piloti scelsero consapevolmente di sganciare le bombe sopra centri abitati e non lasciarle cadere in mare, e l’esercito americano ha sempre taciuto su questo terribile episodio. Una bomba si infilò nella tromba delle scale della scuola elementare Francesco Crispi di Gorla e esplose, provocando il crollo dell’edificio, delle scale e del rifugio, facendo precipitare bambini e maestre nel cumulo di macerie. Anche molti genitori che erano accorsi a scuola per riprendere i figli dopo aver sentito l’allarme perirono nel crollo. Morirono 184 bambini, la direttrice, le maestre e i custodi. Questa tragedia è stata poco ricordata nel corso degli anni perché i colpevoli furono gli Americani, ma da quando ne sono venuta a conoscenza mi è sembrata così dolorosa e terribile che non si può più ignorare e così ho trovato il modo di citarla nella mia storia.

** I prigionieri tedeschi cominciarono ad arrivare negli Stati Uniti in gran numero nella tarda primavera del 1943, dopo le vittorie degli Alleati in Africa, pervenendo poi nel paese in un flusso costante dopo l'invasione della Francia. I prigionieri di guerra erano autorizzati a ricevere pacchi contenenti cibo e di alcuni altri articoli, poterono quindi ricevere tali pacchetti da parte dei membri delle loro famiglie o dalla Croce Rossa tedesca ed era loro consentito scrivere e ricevere lettere dai familiari. Furono impiegati in panifici, mense e lavanderie, nella costruzione di strade ed edifici e in lavori di pulizia generale oppure in lavori privati, per lo più in aziende agricole e alcuni di essi potevano anche andare a lavorare fuori dai campi. I detenuti godettero di piena libertà nell'esercizio della loro religione, inclusa la partecipazione ai servizi celebrativi di ciascuna fede, tenutasi all'interno dei campi. Per quanto possibile, furono incoraggiate attività intellettuali e manifestazioni sportive tra i prigionieri di guerra. Naturalmente, Saltzmann spera che tutto questo non sarà consentito al prigioniero che ha dimostrato tanto odio al suo Stan…  

 

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Capitolo 24
*** Cap. 24: The truth ***


Cap. 24: The truth

 

It's a long, lonely road
That I've walked on my own
Never thought I'd end up in this place (ooh-ooh)
I went fast, I went slow
Then I gave up all hope
'Cause I know, either way, it's the same (ooh-ooh)

And I'm not tryna find somebody
'Cause no one else but you will do (ooh-ooh)
Yeah, the real thing is gone
Now I wish I could hold you

I wasted all of these days and nights
Trying to chase all these empty highs
But I had to go through my worse so I know that I just needed you (oh-oh-oh-oh)
As I look out at the morning sun
There's no escape from the things I've done
And out of everything I've lost, now I know that I just needed you (oh-oh-oh-oh)
And darling, that's the truth (oh-oh-oh-oh)!

(“The truth” – James Blunt)

 

L’affetto e la tenerezza di Saltzmann erano state molto importanti per permettere a Mellish di superare il momento più duro dopo le parole del prigioniero tedesco, l’uomo era riuscito a non farlo sentire in colpa per il fatto di far parte di quell’esercito che per negligenza e insensibilità aveva distrutto una scuola e ucciso più di 180 bambini… tuttavia il pensiero di quella strage non aveva abbandonato il cuore e la mente del ragazzo e continuava a tormentarlo in un luogo profondo del suo essere, come una spina affondata nel corpo. Mellish cercava di non pensarci e, ancora una volta, si era tuffato nei suoi impegni al Quartier Generale per distrarsi da ciò che gli faceva più male. Però gli effetti di tutto ciò non tardarono troppo a farsi sentire: un mix pazzesco tra le immagini viste nei filmati dei sopravvissuti dei campi di sterminio e dei bimbi italiani morti sotto le bombe a Gorla, tra la nostalgia e la preoccupazione per i suoi amici in Germania e la stanchezza e la fatica delle sue giornate… e il giovane americano finì per crollare!

Una mattina, Saltzmann si accorse che il suo Stan non si svegliava alla solita ora e, sulle prime, non si preoccupò; al contrario, fu felice di lasciarlo dormire e riposare perché anche lui si era accorto di quanto si fosse sfinito negli ultimi giorni. Come faceva da tempo aveva cercato di collaborare con lui il più possibile per ridurre la sua fatica, ma si era accorto che Mellish si dedicava a più impegni volontariamente, proprio per non pensare a tutte le cose brutte che gli venivano in mente, e se lui lo aiutava in infermeria allora il ragazzo si caricava di maggior lavoro nell’organizzazione dei viveri e delle armi da inviare alle truppe al fronte. Insomma, non c’era nulla che potesse fare per tranquillizzarlo e, questa volta, non se la sentiva neanche di insistere perché era il primo a sentirsi in colpa: era stato lui a voler parlare con i prigionieri tedeschi, lui aveva portato Mellish da quel Nazista avvelenato di odio che gli aveva raccontato la tragedia dei bambini di Gorla proprio per straziarlo. Era colpa sua, non aveva protetto il suo Stan e ora come poteva aiutarlo veramente? Quindi, quella mattina, vedendolo dormire più del solito, lo lasciò stare e si limitò a stringerlo delicatamente tra le braccia, sperando che il sonno lenisse le sue angosce e gli facesse riprendere le forze. Quando il giovane americano si svegliò, tuttavia, non era affatto più riposato e tranquillo, al contrario sembrava confuso e smarrito.

“Tu dormire tanto, Stan, ma questo bene, tu dover riposare, lavorato troppo” gli disse con dolcezza Josef.

Mellish, però, lo guardò con aria stranita, come se non capisse dov’era.

“Io… sono tanto stanco, non riesco… non riesco ad alzarmi, mi gira la testa” mormorò.

“Mio Stan!” esclamò allora il tedesco, improvvisamente preoccupato. Gli posò delicatamente una mano sulla fronte e sentì che scottava. “Tu avere febbre alta! Tu dovere restare a letto, io pensare a te, pensare a tutto, tu non preoccupare.”

Saltzmann si alzò dal letto, poi sistemò meglio le coperte e i cuscini per Mellish, si affrettò a lavarsi e vestirsi e poi tornò da lui, sfiorandogli la fronte e le labbra morbide con un bacio.

“Tu restare qui e riposare, io pensare a tutto, portare colazione, io torno presto, tu non muovere” gli disse, affettuosamente.

“Dove vuoi che vada? Non ho… neanche le forze per alzarmi dal letto…” mormorò stancamente il ragazzo, sforzandosi di sorridere. Le premure di Saltzmann gli facevano nascere un calore nel cuore che non era certo dovuto alla febbre e, anzi, gli donavano un senso di rifugio, di casa. Non aveva fame e non era certo che sarebbe riuscito a mangiare ma non aveva importanza, quello che lo faceva sentire meglio era la presenza dolce e affettuosa di Josef e in quel momento era felice di averlo accanto, sapeva che si sarebbe preso cura di lui e non aveva più paura anche se, fisicamente, continuava a sentirsi male.

E così quello che non aveva potuto tutto il tempo trascorso insieme dall’agosto del 1944, da quando appunto Mellish aveva riconosciuto l’uomo che lo aveva salvato tra i prigionieri tedeschi e aveva chiesto al Capitano di poterlo prendere sotto la sua protezione e fargli avere asilo politico in USA, insomma, tutti i vari alti e bassi del loro rapporto, quell’amore che era esploso da subito nel cuore di Saltzmann ma che si faceva largo a fatica in Mellish… tutto questo fu spazzato e via e risolto da pochi giorni di malattia del giovane americano! La malattia non era niente di grave, una febbre dovuta all’eccessivo dispendio di energie e allo shock provato alla notizia della morte dei piccoli di Gorla, niente che qualche giorno di riposo a letto non avrebbe risolto. Ma Mellish si sentiva particolarmente fragile, debole e indifeso, aveva paura, la notte a volte tossiva e non riprendeva fiato, non riusciva a dormire bene, aveva mal di testa e in ogni parte del corpo… e Josef era sempre lì con lui, lo abbracciava e lo stringeva quando non dormiva la notte, gli portava il cibo e lo incoraggiava a mangiare anche se non aveva fame. Josef gli parlava con dolcezza, gli diceva che sarebbe guarito presto, controllava che prendesse le medicine e in particolare le vitamine che lo avrebbero rimesso in forze. Si comportava con lui come un padre, una madre, un fratello maggiore e un amante tutto in una sola persona. E, nonostante cercasse di passare più tempo possibile al capezzale del giovane americano, trovava anche il tempo di svolgere i compiti che sarebbero toccati a Mellish in modo che l’esercito americano non risentisse della malattia del ragazzo.

In realtà l’esercito americano non aveva poi tutto questo bisogno di Mellish o di Saltzmann, perché la guerra era veramente quasi finita e ben presto tutti sarebbero tornati a casa.

Mellish era costretto a letto da due giorni quando, una sera, dopo avergli portato la cena, Saltzmann ritornò da lui con un grande sorriso stampato sul volto e una lettera in mano. Si chinò sul letto del ragazzo e lo baciò a lungo, con dolcezza, accarezzandogli il volto.

“Mio Stan, io molto felice che tu avere meno febbre stasera e poi ho lettera per te con tante belle notizie” gli disse. “Io sicuro che tu guarire anche prima con queste notizie.”

Gli occhi del giovane si illuminarono.

“Una lettera? È di Upham, vero? Dai, leggimela, io sono troppo stanco per farlo da solo” reagì con tutto l’entusiasmo che poteva mostrare nella sua debolezza. “Buone notizie, dici? Ne ho davvero bisogno!”

“Spero tu capire me leggere lettera inglese” sorrise Saltzmann, sedendosi sul letto accanto a Mellish che se ne stava sprofondato nelle coperte. Era felice di poter fare qualcosa per rallegrare il suo ragazzo, lo aveva visto soffrire tanto per la nostalgia dei suoi amici e poi per le parole del prigioniero tedesco, lo aveva visto ammazzarsi di lavoro tanto da ammalarsi e… e lui non glielo aveva mai detto perché sapeva che non voleva parlarne, ma era preoccupato soprattutto che il suo cuore, già messo alla prova per la cicatrice della baionetta, potesse cedere per la fatica o per la febbre.

Inoltre era anche felice per le notizie stesse che la lettera riportava, visto che aveva sempre odiato quella maledetta guerra voluta da Hitler e, nonostante avesse compiuto il suo dovere di soldato finché era stato costretto, poi era stato ben lieto di consegnarsi come prigioniero agli Americani, ancora prima di sapere che proprio tra loro avrebbe ritrovato il suo Stan, il ragazzo a cui aveva salvato la vita e che aveva amato perdutamente fin da quel momento!

“Beh, leggere in inglese ti farà bene, visto che da un pezzo non fai più lezione con Upham” scherzò Mellish, e Josef sorrise ancora di più vedendo che si sentiva abbastanza bene da riprendere a fare le sue solite battute. “Dai, leggi, sono curioso!”

Naturalmente la lettera era breve, Upham sapeva di non poter fornire troppe informazioni con il rischio che cadessero nelle mani sbagliate, ma le cose che aveva scritto erano chiare e efficaci: dopo qualche saluto di circostanza, riferiva che l’esercito americano avanzava sempre di più verso le città della Germania meridionale, mentre l’Armata Rossa era in procinto di iniziare l’offensiva finale su Berlino. Le truppe americane avrebbero atteso sulla linea del fiume Elba di ricongiungersi con i soldati sovietici e così spezzare in due il territorio del Reich. In parole povere la guerra in Germania era finita e, infatti, Upham annunciava che lui e tutti gli altri della Compagnia Charlie sarebbero rientrati a Versailles a giorni visto che non c’era più bisogno di loro.*

“Ma allora è tutto vero? La Germania è stata sconfitta e i miei amici torneranno sani e salvi?” mormorò Mellish, quasi incredulo e con le lacrime agli occhi.

Saltzmann era commosso nel vedere la gioia del suo amato.

“Sì, mio Stan” rispose, mettendo la preziosa lettera di Upham sul comodino e entrando nel letto con il giovane americano. “Upham scritto queste cose proprio 10 aprile, cinque giorni fa, quindi essere possibile che Compagnia Charlie arriva qui domani o giorno dopo!

Mellish si sentiva talmente felice che credeva di sognare. Aveva desiderato così tanto arrivare a quel giorno, fin da quando si era arruolato due anni prima, si chiedeva come sarebbe stato sapere di aver sconfitto Hitler e i Nazisti, di aver fatto il proprio dovere e tornare a casa fieri e soddisfatti. Quanto ne avevano parlato insieme, lui e Caparzo! Ora, purtroppo, Caparzo non c’era più, ma gli altri compagni sì e ben presto li avrebbe rivisti, li avrebbe riabbracciati e finalmente sarebbero potuti veramente ritornare in America, non come dei privilegiati ma come chi aveva fatto il suo dovere fino alla caduta di Hitler.

“Sono tanto felice, Josef” disse piano. “La guerra è finita, i miei amici stanno per tornare, noi abbiamo vinto e torneremo presto a casa… insieme.”

Ja, insieme per sempre in America io e mio Stan e tuoi amici!” esclamò entusiasta il tedesco. “Insieme e felici per sempre!”

Si spogliò anche lui e prese tra le braccia Mellish, per festeggiare nel modo più dolce e appassionato la vittoria e la prospettiva di un futuro felice in America. Lo baciò lentamente, prendendosi tutto il tempo per assaporarlo con calma e a fondo, fino a stravolgere il giovane e a strappargli il respiro, perdendosi totalmente in lui. Senza smettere di baciarlo iniziò anche ad accarezzarlo su tutto il corpo morbido, con gesti calmi e flemmatici, e Mellish si sentì completamente suo con ogni briciola della sua anima, pervaso da scosse elettriche e da sensazioni che lo scuotevano come tempeste, ansimando sorpreso e confuso dal tremito dei suoi stessi sensi. Quando Josef si spinse dentro di lui, il ragazzo soffocò un mugolio, poi non ci fu più modo di pensare e restare lucidi: i loro corpi si unirono, i loro cuori si toccarono, si mischiarono e crearono una totale fusione di anima e corpo, senza più solitudini e angosce perché ognuno dei due era totalmente pieno dell’altro. Allacciati corpo, anima e cuore, Saltzmann e Mellish si amarono per lunghi momenti, mentre l’oscurità della guerra era sempre più lontana e tutto attorno a loro erano aurore brillanti e abissi lucenti. E quando insieme giunsero al culmine del piacere esplosero in ondate infinite, torride, immense e sensazionali, mentre Mellish si sentiva travolgere l’anima e il respiro ed era tutto sconvolgente, meraviglioso e bruciante.

E poi Saltzmann tenne stretto tra le braccia il suo ragazzo, accarezzandogli i capelli, il volto e le labbra piene, lasciando che si riprendesse e che si rilassasse perché aveva improvvisamente paura di averlo stancato troppo e che potesse rialzarglisi la febbre.

“Tu stare bene, mio Stan? Io forse non dovere… tu ammalato, forse sbagliato farti agitare” disse.

“Io… io… sto bene, Josef” rispose in un sussurro il giovane americano. Si vergognava, non era mai riuscito a dire tutto quello che provava e anche in quel momento tremava di un sentimento unico e senza limiti, ma non trovava le parole per esprimerlo. “Sto sempre bene quando sei con me, tu… tu… per me sei casa.”

E, anche se non aveva detto Ti amo neanche quella volta, Saltzmann lo capì dalle sue parole incerte e frastornate, dal suo tenero imbarazzo, da quella dolcissima ingenua dichiarazione e dai suoi occhi scuri e vellutati che parlavano chiaro e lo inondavano di un amore caldo e infinito.

“E tu sei casa per me, mio Stan!” esclamò felice, baciandolo ancora e ancora, tenendolo tra le braccia, stringendolo a sé e sentendo che gli apparteneva, che non si sarebbero mai perduti o separati perché una parte di ognuno viveva ormai nell’altro.

E presto avrebbero iniziato la loro nuova vita insieme in America, ed era tutto vero, tutto perfetto e luminoso e meraviglioso.

Fine capitolo ventiquattresimo

 

 

* Fu il Generale Eisenhower a decidere di rinunciare a una marcia diretta su Berlino e raggiungere invece la linea dell'Elba e la città di Lipsia per operare il congiungimento con i sovietici e frazionare in due parti il territorio del Terzo Reich, prevenendo anche la costituzione di un ipotizzato e temuto ultimo rifugio sulle Alpi per Hitler. Le truppe statunitensi raggiunsero il fiume Elba l’11 aprile, mentre il 16 iniziò l’offensiva finale dell’Armata Rossa su Berlino.

 

 

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Capitolo 25
*** Cap. 25: Soldier ***


Cap. 25: Soldier

 

Afraid of what they might lose
Might get scraped or they might get bruised.
You could beg and what's the use

That's why it's called the moment of truth
I'd get it if you need it,
I'll search if you don't see it,
You're thirsty, I'll be rain,
You get hurt, I'll take your pain.
I know you don't believe it,
But I said it and I still mean it,
When you heard what I told you,
When you get worried I'll be your soldier.

(“Soldier” – Gavin Degraw)

 

Eh, sì, finalmente i desideri di Mellish e dei suoi compagni stavano per realizzarsi, come nelle favole più belle tutto stava per finire bene dopo tante sofferenze e ostacoli, i cattivi venivano puniti, i buoni premiati e il finale era lieto come nei film… o perlomeno la parte che i soldatini potevano vedere e conoscere (loro non sapevano niente dei progetti sull’atomica, di Oppenheimer e di quello che sarebbe avvenuto a Hiroshima e Nagasaki, erano solo ragazzi che stavano per tornare a casa).

Il 18 aprile, mentre l’Armata Rossa proseguiva la sua avanzata nel cuore di Berlino, la Compagnia Charlie raggiunse Versailles e Mellish, ormai guarito sebbene ancora un po’ debole, poté finalmente riabbracciare i suoi amici e il suo Capitano.

“Saltzmann mi ha detto che sei stato malato e si vede, sei ancora pallido e hai dei cerchi scuri sotto gli occhi” disse Wade, scrutandolo con fare professionale.

“Ora sto bene, Wade, non preoccuparti, Josef si è occupato di me per tutto il tempo” rispose il giovane.

“Non ne dubito” replicò l’ufficiale medico con un sorrisetto, “ma per stare sul sicuro voglio che tu venga subito con me in infermeria e ti farò una visita completa. Ormai la data della partenza per l’America è veramente fissata e non vorrei proprio che dovessimo rimandare ancora perché tu ti sei ammalato!”

Wade, in realtà, era preoccupato per le conseguenze che quella malattia, seppure innocua e dovuta solo a stress e stanchezza, potesse aver avuto sul cuore del ragazzo, ma non poteva certo dirglielo, Mellish ancora non accettava di essere stato davvero ferito dalla baionetta. Chissà se, una volta tornato a casa, al sicuro, sarebbe riuscito ad affrontare quei suoi demoni?

La visita dimostrò che andava tutto bene, Mellish era solo indebolito a causa dei giorni di febbre e il cuore non ne aveva risentito più di tanto. Wade, tuttavia, sapeva che queste cose potevano rimanere silenti per anni e poi venire fuori all’improvviso e si ripromise di continuare a tenere l’amico sotto controllo, anche grazie alle premure di Saltzmann che gli sarebbe rimasto sempre accanto e si sarebbe occupato di lui.

In tanta frenesia, gioia ed emozione era arrivata però una notizia che aveva colpito i cuori dei soldati e dei loro superiori, oltre a preoccuparli per le conseguenze possibili: il Presidente americano Franklin Delano Roosevelt era morto il 12 aprile del 1945 all’improvviso, per un’emorragia cerebrale dovuta probabilmente alle sue precarie condizioni di salute e alla tensione di tre anni e mezzo di guerra. Era stato uno dei più importanti presidenti degli Stati Uniti, tanto da essere rieletto per quattro volte consecutive; aveva migliorato le condizioni economiche del Paese con leggi e riforme che avevano dato lavoro a tanta gente e sconfitto la Grande Depressione (il famoso New Deal) e, anche dopo che gli Stati Uniti erano entrati in guerra, aveva sempre dato prova di ottimismo, calma e capacità di giudizio, il suo ruolo era stato determinante per la conduzione politico-strategica della guerra e il consolidamento dell’alleanza con il Regno Unito di Churchill e l’Unione Sovietica di Stalin. La sua perdita lasciò un senso di vuoto nei soldati, anche se nessuno di loro lo aveva mai incontrato personalmente, ma in un certo senso fu come perdere un punto di riferimento importante.

“Il Presidente è morto prima di vedere la vittoria degli Alleati” mormorò tristemente Mellish, come al solito uno dei più sensibili, quando ricevette la notizia.

C’era però anche un altro motivo di preoccupazione per la Compagnia Charlie: il successore di Roosevelt era il suo vice, Harry Truman, un uomo dal carattere inflessibile e puntiglioso che non aveva niente in comune con i modi concilianti e aperti di Roosevelt* e qualcuno, tra cui anche lo stesso Capitano Miller, temeva che avrebbe potuto ordinare che i soldati venissero rimpatriati tutti insieme dopo la fine della guerra, senza alcuna considerazione per ciò che era stato deciso nei confronti di Ryan e della sua Compagnia. Miller non conosceva affatto il nuovo Presidente e d’istinto diffidava, tanto era in ansia per la sua squadra e desideroso di riportare finalmente a casa i suoi soldatini sani e salvi. In realtà era anche preoccupato per Saltzmann e si chiedeva se questo nuovo Presidente avrebbe accolto con la stessa disponibilità la richiesta di asilo di un prigioniero tedesco…

Per fortuna, comunque, Truman non volle contrastare una decisione che era stata presa mesi prima dallo stesso Roosevelt e lasciò che Ryan e gli altri della Compagnia Charlie potessero finalmente imbarcarsi per tornare in patria.

Il giorno tanto atteso per la partenza arrivò: il 28 aprile del 1945 James Ryan e i soldati della Compagnia Charlie, insieme al prigioniero (per modo di dire) Josef Saltzmann, vennero fatti imbarcare a Calais sulla nave che li avrebbe condotti al porto di Southampton. Il viaggio durò quattro giorni e, una volta a Southampton, il gruppo poté infine imbarcarsi sulla nave Queen Mary che lo avrebbe portato a New York.

Lo stato d’animo dei soldati, dei superiori e di Saltzmann era diverso e questo poteva anche stupire, ma in realtà il tanto atteso rimpatrio era anche l’occasione, per alcuni, di ripensamenti, dubbi e paure. Miller e Horvath non avevano preoccupazioni né timori ed erano semplicemente sollevati, sia perché stavano tornando a casa, lontani da quella guerra in cui avevano visto e fatto tante cose che non avrebbero voluto, sia perché adesso sapevano che i loro uomini sarebbero stati al sicuro, cosa che, per loro, era parte della missione. La guerra stava per finire, Berlino era stata invasa dalle truppe sovietiche, i tedeschi erano allo sbando e Hitler si era suicidato nel suo bunker il 30 aprile, proprio mentre Miller e i suoi stavano viaggiando verso Southampton (notizia che provocò brindisi e festeggiamenti tra i giovani soldati e anche una grande soddisfazione per Josef Saltzmann!); la Germania avrebbe firmato la resa incondizionata qualche giorno dopo e solo il Giappone continuava ancora a resistere, ma con pochi mezzi e uomini, le forze Alleate ce l’avrebbero fatta anche senza il loro contributo. Miller e Horvath avevano perduto fin troppi ragazzi e soffrivano per ognuno di loro, ma il pensiero che almeno Reiben, Upham, Wade, Jackson e Mellish (oltre, ovviamente, a Ryan) erano su quella nave e sarebbero tornati a casa risollevava il loro spirito. Wade aveva trovato il modo di rendersi utile anche durante la traversata e, infatti, trascorreva la maggior parte del suo tempo nell’infermeria della nave, assistendo e curando i soldati feriti che venivano rimpatriati perché non più in grado di combattere. Alcuni di loro, purtroppo, erano veramente in condizioni pietose e non sarebbero mai più tornati quelli di un tempo…

Durante il terzo giorno di navigazione sulla Queen Mary, Miller si trovò ad assistere ad una conversazione molto interessante tra i giovani che si erano radunati sul ponte e avevano iniziato a parlare di quello che avrebbero fatto una volta tornati a casa e dei loro progetti per il futuro.

“Io ho deciso di non tornare a San Diego” dichiarò Wade. “Ovviamente passerò da casa per salutare la mia famiglia, ma poi non resterò con loro. Voglio cercare di farmi accettare al Mount Sinai Hospital di New York, è un ospedale didattico all’avanguardia per almeno dodici specialità mediche ed è questo che voglio fare, essere un vero dottore, aiutare la gente.”

Evidentemente, le atrocità viste in guerra e le condizioni di tanti soldati rimasti mutilati o sfigurati avevano avuto il loro peso nella decisione del sensibile Wade e i suoi compagni, che lo conoscevano bene, annuirono in silenzio.

“Anch’io stavo pensando di non tornare a vivere con la mia famiglia” intervenne a sorpresa Upham. “Cioè, insomma, voglio dire… comunque sia, i primi tempi dovrò comunque rimanere a New York per aiutare Saltzmann a ottenere asilo politico e poi, se davvero voglio diventare uno scrittore, penso che sia più facile ottenere una certa visibilità vivendo a New York piuttosto che a Boston.”

“Penso che sia una buona idea, caporale. Anzi, sai cosa ti dico? Potremmo anche cercare un appartamento insieme, così ci divideremo le spese e ci aiuteremo. Che ne dici?” propose Wade.

Upham accettò con entusiasmo, al che Mellish iniziò a protestare.

“Ah, ecco, fate gli accordi tra di voi, e allora noialtri? Anche a me piacerebbe abitare a New York invece che con la mia famiglia, e stare vicino a voi. Ormai ne abbiamo passate tante insieme e non riesco a pensare di riprendere la vita che facevo prima… o di non rivedervi più.”

“Mellish, ma tu non hai di questi problemi. Non te ne vai forse a convivere con il tuo innamorato tedesco?” rise Reiben. “Potete trovare anche voi un nido d’amore a New York, magari accanto all’appartamento di Upham e Wade, visto che comunque il caporale deve occuparsi anche lui di Saltzmann!”

“Infatti, io e Stan convivere a New York, noi in nido d’amore insieme” esclamò tutto contento Josef. “E a me piace vivere accanto a Upham e amico dottore!”

“Hai visto? È già tutto sistemato!” riprese Reiben.

“Io non parlavo di queste scemenze, dicevo solo che sarebbe bello trovare il modo di continuare ad abitare vicini, visto che ormai siamo legati tra noi più che alle nostre stesse famiglie” tagliò corto Mellish, con un’occhiataccia al fin troppo entusiasta Saltzmann.

“Anche a me piacerebbe cambiare vita, ma sicuramente non potrò farlo almeno per qualche anno” intervenne Ryan. “Ora che i miei fratelli non ci sono più, a mia madre resto solo io e non posso e non voglio abbandonarla. Dovremo decidere insieme cosa fare della fattoria, che è ormai troppo grande per noi, ma non penso che lei sarà disposta a trasferirsi in una città come New York, è nata e cresciuta a Mansfield in Iowa e vorrà restare nei luoghi che le ricordano momenti più felici, dove sente vicini mio padre e i miei fratelli. In fondo… beh, anche per me è così. Venderemo la fattoria e ne acquisteremo una più piccola e poi, chissà? Magari incontrerò una brava ragazza e metterò su famiglia, la mamma sarebbe felice di avere dei nipotini.”

“Sei davvero un bravo ragazzo, Ryan” commento Reiben, in tono sarcastico, ma era il suo modo di ostentare cinismo perché, in realtà, aveva trovato molto saggia e generosa la decisione del commilitone. Era semplice, sì, ma non era il bifolco che aveva temuto di incontrare! “Mi sa proprio che, alla fine, la missione di salvarti e riportarti a casa è stata davvero la cosa migliore che potessimo fare in quella dannata guerra.”

Mellish e gli altri annuirono con convinzione, Jackson però volle dire la sua.

“Sì, Ryan ha preso la decisione giusta e farà certamente qualcosa di buono nella sua vita, fosse anche solo creare una famiglia e occuparsi della madre, della futura moglie e di una bella nidiata di bambini” disse. “Invece io non ho intenzione di seguire il suo esempio. Certo, come Wade, anch’io tornerò a    Hickory Valley, in Tennessee, per salutare la mia famiglia, ma io non sono destinato a vivere in una fattoria e la mia famiglia non ha bisogno di me, ho già altri due fratelli. La mia abilità come cecchino in guerra mi ha fatto capire che cosa davvero Dio vuole da me e perché mi ha donato questo talento e io non intendo sprecarlo: verrò anch’io a vivere a New York e cercherò di entrare nell’Accademia del New York Police Department.”

“Vuoi fare il poliziotto? Beh, devo dire che ti ci vedo bene” commentò Mellish. “E sicuramente sarai sempre il primo classificato al poligono di tiro!”

Tutti risero, ma Jackson era serio. Evidentemente aveva riflettuto molto sul suo futuro e, religioso com’era, aveva pensato che la sua bravura nello sparare fosse una capacità che Dio gli aveva dato affinché proteggesse la brava gente e catturasse i criminali.

“Quindi ci ritroveremo quasi tutti a vivere a New York” esclamò Mellish, felice. “Potremmo davvero aiutarci a vicenda e affittare un paio di appartamenti per stare insieme e dividere le spese. Ve l’ho detto, ormai siete voi la mia famiglia e io… io non avrei sopportato di separarmi da voi!”

A quel punto il Capitano Miller decise di intervenire.

“Non volevo origliare i vostri discorsi, ma ho sentito qualcosa e mi sono fermato ad ascoltarvi perché mi avete veramente commosso” ammise. “Vi ho conosciuti come ragazzini, poco più che adolescenti, a parte Wade, un po’ sbruffoni e superficiali, ma ora vi sento parlare da veri uomini che sanno fare le scelte giuste e indirizzare la loro vita per il bene di tutti. Sono molto orgoglioso di voi e proprio per questo voglio aiutarvi: resterò per qualche tempo insieme a voi a New York per appoggiarvi e consigliarvi e tornerò dalla mia famiglia solo quando sarò sicuro che tutti voi avete una casa e un lavoro. Il mio sostegno servirà sia a Saltzmann per ottenere presto asilo politico, sia per Jackson per essere ammesso all’Accademia di Polizia e, magari, un aiuto farà comodo anche a qualcun altro…”

Miller pensava principalmente alla famiglia di Mellish, che di sicuro non avrebbe visto di buon occhio il fatto che il ragazzo andasse a vivere a New York con gli amici e un tedesco, anche se era stato proprio quell’uomo a salvargli la vita! Avrebbe dovuto parlare lui con i suoi genitori e immaginava che non sarebbe stato affatto facile.

“Ma… signore, non è giusto, lei ha già fatto tanto per noi, la sua famiglia la aspetta” disse Upham.

“Ho scritto a mia moglie nei giorni scorsi e lei è d’accordo con me” rispose il Capitano. “La mia missione con voi non è ancora finita: vi sto riportando sani e salvi in America, ma voglio anche darvi le basi per un futuro pieno e felice. Siete comunque i miei ragazzi, lo sarete sempre.”

“Insomma non c’è proprio modo di liberarci di lei, eh, signore?” scherzò Reiben, ma aveva la voce strana e gli occhi lucidi.

Mellish era apertamente commosso.

“Grazie, signore, io… io ho sempre pensato che avrei voluto che mio padre fosse come lei e adesso… adesso…” gli si spezzò la voce e non riuscì a continuare. Saltzmann gli circondò le spalle con un braccio e lo strinse a sé, con uno sguardo di intesa e un sorriso di gratitudine verso Miller.

Il futuro sembrava davvero ormai a portata di mano per la Compagnia Charlie, Ryan e Josef: il peggio era passato e ora restava da costruire una vita nuova, basata sull’amicizia e la solidarietà.

Fine capitolo venticinquesimo

 

* Non so abbastanza di Storia Americana per dare giudizi veri e propri sui due Presidenti, mi baso su notizie che ho preso su libri ed enciclopedie e, devo ammettere, anche sulla naturale antipatia che ho avuto verso Truman guardando il film Oppenheimer! Tuttavia da diverse fonti è venuto fuori che Franklin D. Roosevelt è considerato tuttora uno dei migliori Presidenti USA, mentre Truman viene ricordato, oltre che per la decisione di usare la bomba atomica (decisione che, si dice, il Generale Eisenhower non avrebbe affatto condiviso), principalmente per la sua diffidenza e chiusura verso l’Unione Sovietica che provocò l’inizio della Guerra Fredda e un clima da caccia alle streghe negli USA per il continuo sospetto di infiltrati comunisti.

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Capitolo 26
*** Cap. 26: Whatever it takes ***


Cap. 26 e ultimo: Whatever it takes

 

I've opened every door
I always wanted more
I didn't have much to believe in
I searched the world for you
I found what's really true
It's your love that gives me a reason

Baby it's only you who can free my heart
I can't do it on my own
It seems like just yesterday I was in the dark

Whatever it takes I will be there
By your side baby anywhere
When you're lost and alone
I'll bring you home
I will come through for you
Whatever it takes…

(“Whatever it takes” – Belinda Carlisle)

 

Il ritorno in patria della Compagnia Charlie fu salutato con grande entusiasmo: la nave, appena giunta al porto, fu accolta da folle festanti e ovviamente dalle famiglie dei soldati, da tutte le personalità più importanti della politica e dell’esercito e da una pletora di giornalisti e fotografi. La storia tragica ma a lieto fine del soldato James Ryan fu raccontata in tutte le salse e anche la vicenda di Josef Saltzmann, il tedesco che aveva tradito il suo Paese per salvare dei giovani soldati americani… chissà come la stampa era venuta a conoscenza della vicenda ma, probabilmente, qualcuno prima o poi ci avrebbe scritto perfino un libro!

Dopo i primi giorni di caos, tuttavia, la situazione iniziò a tornare pian piano alla normalità e tutti poterono riprendere a pensare alle cose serie. Ryan tornò a vivere a Mansfield in Iowa con la madre e la fama ottenuta, suo malgrado, per la vicenda dei suoi fratelli e del suo salvataggio lo aiutò comunque a trovare subito un acquirente per la loro fattoria, ormai troppo grande da mandare avanti, e un’offerta molto vantaggiosa per l’acquisto di una più piccola che sarebbe stata perfetta per James e sua madre. Upham, Jackson, Wade e il Sergente Horvath tornarono a casa con le loro famiglie, ma solo Horvath sarebbe rimasto definitivamente a Minneapolis con i suoi: Upham, Jackson e Wade avevano altri progetti e il loro futuro era a New York, sarebbero restati con le loro famiglie solo qualche settimana per ritrovare e riabbracciare i loro cari.

Miller si ricongiunse subito alla moglie e ai figli che erano venuti ad accoglierlo al porto, ma poi spiegò loro che, prima di tornare a Addley, in Pennsylvania, dov’era la loro casa, avrebbe dovuto trascorrere del tempo a New York per assicurarsi che tutti i progetti dei suoi ragazzi andassero a buon fine e per aiutare Saltzmann ad ottenere asilo politico negli USA. Lui e la moglie ne avevano già parlato, ma la famiglia decise che, vista la felice conclusione della guerra, avrebbero festeggiato rimanendo anche loro a New York con lui e concedendosi una bella vacanza, così poi sarebbero tornati a casa tutti insieme. Miller fu molto felice della sorpresa e questo mitigò almeno in parte la sua preoccupazione… perché, dopo aver dato una rapida occhiata alla famiglia di Mellish, che era venuta ad accoglierlo al suo sbarco, aveva capito che aiutare il ragazzo non sarebbe stata affatto una passeggiata, anzi probabilmente sarebbe stato molto più difficile che mettere una buona parola per l’asilo politico di Saltzmann e l’ingresso nell’Accademia di Polizia di Jackson. Avrebbe dovuto usare tutta la sua pazienza e la sua diplomazia con i genitori di Mellish!

La famiglia di Mellish abitava a Yonkers, una città vicina a New York sulla riva orientale del fiume Hudson e il padre possedeva un’importante impresa di costruzioni in società con il figlio maggiore Benjamin. Erano dunque ricchi e abitavano in una elegante villa che ospitava i genitori del ragazzo, il fratello maggiore sposato e con un figlio e il fratello più giovane, Adam, che a settembre sarebbe partito per il college. La sorella di Mellish, Sarah, invece, abitava in una villetta a pochi isolati di distanza con il marito Daniel, un dentista, e due bambini piccoli. Insomma, per Miller fu subito chiaro che i genitori di Mellish erano fieri di ciò che avevano ottenuto e avevano progettato un futuro ben preciso per ognuno dei loro figli allo scopo di assicurare loro lo stesso benessere economico e un’eredità cospicua. Era molto difficile che accettassero di buon grado un qualsiasi altro progetto di vita. Miller decise quindi di non imporre la propria presenza per non peggiorare le cose e, durante i suoi primi giorni a New York, oltre a trascorrere del tempo con moglie e figli, si occupò prima di tutto di parlare con l’ufficio immigrazione per ottenere al più presto l’asilo politico per Josef e poi contattò un vecchio amico dell’esercito che adesso era Commissario del New York Police Department per riferirgli di Jackson che presto avrebbe fatto domanda per essere ammesso all’Accademia di Polizia. Si recò dunque a Yonkers per incontrare i genitori di Mellish dopo qualche giorno, sperando che in quel periodo la famiglia non avesse fatto troppe pressioni al giovane. Era indeciso se portare o meno con sé Saltzmann, ma poi decise per il sì: era importante che i genitori di Mellish comprendessero che quell’uomo aveva salvato la vita al loro figlio e che, per questo, il ragazzo si era preso la responsabilità di aiutarlo a integrarsi negli Stati Uniti, cosa che dimostrava una crescita e una maturazione importanti.

Purtroppo, però, i genitori del giovane erano veramente molto severi e rigidi e in quei pochissimi giorni trascorsi a casa sembrava che il povero Stanley fosse ritornato il ragazzino immaturo che era quando viveva ancora in famiglia.

“Sì, Stanley ci ha parlato di questa storia, del resto è anche su tutti i giornali, ma cosa dovremmo fare noi?” attaccò bruscamente il padre del ragazzo, Amos. “Non voglio neanche parlare di tutto quello che i Nazisti hanno fatto alla nostra gente, già solo per quello non dovremmo permettere a nessun tedesco, neanche a quelli che si sono opposti a Hitler, di mettere piede negli Stati Uniti! Ma lasciamo perdere questo, va bene, quest’uomo ha salvato la vita di Stanley, e adesso cosa vuole in cambio? Gli ha salvato la vita solo per poi rovinargliela? Mio figlio dovrebbe rinunciare a un futuro di prestigio come i suoi fratelli per occuparsi di questo tizio che farà… beh, al massimo l’operaio?”

“Signor Mellish, capisco benissimo la sua preoccupazione” replicò Miller, che in realtà era disgustato dalla grettezza di quell’uomo, “anch’io sono un padre e ci tengo a un futuro in cui i miei figli possano realizzarsi, ma… ecco, lei ha mai chiesto a Stanley cosa desidera veramente? Lei vuole che si associ anche lui all’impresa di famiglia, ma se a lui non interessasse?”

“Se a lui non interessasse? Cosa vorrebbe dire? Stanley non ha ancora ventun anni e non può capire cosa significhi il vero lavoro, come può sapere adesso cosa vorrà fare della sua vita? A questa età i ragazzi pensano solo a divertirsi con gli amici, agli sport e alle ragazze” obiettò l’uomo. “Non vorrà farmi credere che lei lascerà i suoi figli liberi di diventare, che so, saltimbanchi di strada o di lavorare in un circo?”

Mellish, dal canto suo, se ne stava in disparte senza osare neanche alzare lo sguardo su Miller né, tanto meno, su Josef. Sapeva che li stava deludendo, ma non aveva mai trovato la forza, in tutta la sua vita, di ribellarsi al padre. Anzi, l’unica scelta che aveva compiuto autonomamente era stata quella di arruolarsi volontario, e anche allora aveva comprato la benevolenza dei genitori sostenendo che voleva andare a combattere in Europa contro quei Nazisti folli e crudeli che uccidevano gli Ebrei!

“Certo che no, ma Stanley non andrà a lavorare in un circo o cose del genere” ribatté Miller, innervosito dall’ottusità del padre di Mellish. “A New York vivrà con alcuni dei suoi commilitoni, altri ragazzi con cui ha combattuto e che stanno scegliendo proprio in questi giorni il loro futuro. C’è chi diventerà un medico, chi un poliziotto, chi uno scrittore… e, nel frattempo, tutti loro aiuteranno Josef Saltzmann a trovare un lavoro e una casa, a imparare bene l’inglese, insomma, a integrarsi. Mi sembra una decisione molto generosa da parte di Stanley e dei suoi compagni e io sono molto orgoglioso di loro.”

“Beh, sono contento per lei, ma io non sono affatto orgoglioso di un figlio che vuole buttare via la sua vita per fare da balia a un crucco!” esclamò irato Amos Mellish, dimostrando che alla fine non solo i tedeschi erano dei razzisti… “Stanley ha già perso anni preziosi per colpa della guerra, ma è ancora in tempo per andare al college, laurearsi e trovare un lavoro degno di lui, se proprio non vuole entrare nell’impresa di famiglia!”

Il pensiero del futuro che gli si offriva se fosse rimasto in famiglia apparve a Mellish come un tunnel oscuro, asfissiante e infinito. Come poteva restare a lavorare con suo padre e suo fratello che non capivano un bel niente di ciò che aveva passato, senza mai poter parlare con nessuno dei suoi incubi e dei traumi che ancora lo tormentavano? E come avrebbe potuto sopportare di andare a un qualsiasi college dove i compagni sarebbero stati tutti più giovani e sciocchi di lui, gente che magari si era iscritta al college per avere la scusa di non arruolarsi, gente che davvero non aveva altro in mente che i divertimenti e le ragazze? No, non poteva, sarebbe morto!

“Io non voglio lavorare nell’impresa di famiglia e non voglio andare al college” riuscì a dire con la forza della disperazione.

Il padre si voltò verso di lui, fissandolo come se fosse diventato improvvisamente pazzo.

“Ah. E che cosa vorresti fare, allora, sentiamo? Quali grandi piani hai per il tuo futuro, oltre che badare a questo crucco che, magari, sarà anche meglio dei suoi connazionali, ma non ha mai fatto niente per noi?”

A quelle parole un lampo passò negli occhi del giovane.

“Non ha mai fatto niente? Ma ti ascolti quando parli, almeno? Josef Saltzmann mi ha salvato la vita! Ha ucciso un suo compagno per salvare me, non è abbastanza?” esclamò.

“Ma sì, la sappiamo la storia, è stato furbo, glielo concedo. A quel punto era chiaro che gli Alleati avrebbero vinto la guerra e lui ti ha salvato e poi si è arreso per avere l’opportunità di salvarsi la pelle e venire negli Stati Uniti” fece il padre, caustico. “Sono più vecchio di te, figliolo, e questi trucchetti li conosco tutti. Magari pensava anche di guadagnarci dei bei soldi, salvando un ragazzo ebreo, tanto si sa che gli Ebrei sono tutti dei ricconi, non è così, mangiacrauti?”

Miller afferrò per un braccio Josef, temendo che il tedesco reagisse con la sua solita spontaneità e semplicità e dicesse di aver salvato Mellish perché lo amava o cose del genere, e allora sì che sarebbe   stato un vero disastro. Ma lo aveva sottovalutato, perché Saltzmann prese un lungo respiro per controllarsi prima di rispondere con pacatezza.

“Io salvato vostro figlio perché stanco di guerra. Mia famiglia morta per bombardamenti e io rimanere solo. Io non volere più altro sangue di giovani vite, solo questo. Non soldi, non bella vita, solo pace” disse.

I fratelli di Mellish, Adam e Benjamin, che erano di un’altra generazione e quindi non ottusi come il padre, rimasero colpiti dalle parole del tedesco e iniziarono a capire perché il loro fratello aveva deciso di ricambiare il favore. Si rendevano conto, loro, di quanti ragazzi della loro età non fossero più tornati a casa e di quanto fossero fortunati ad essere vivi e con le loro famiglie sane e salve. Per tanti non era stato così. Anche per quel Josef Saltzmann non era stato così.

“Papà, ora stai esagerando” disse Benjamin, il figlio maggiore. “Quest’uomo ha messo a rischio la sua vita per salvare quella di Stanley, perché sappiamo bene che, se i Nazisti lo avessero scoperto, lo avrebbero fucilato su due piedi. Ed è questo il modo di ringraziarlo?”

“Questo è vero, Amos” concordò la madre di Mellish, Ruth, che fino a quel momento era sembrata in perfetto accordo con il marito. “Neanche a me piace pensare che Stanley se ne vada a New York e trovi un lavoro qualunque pur di restare accanto ai suoi commilitoni e all’uomo che gli ha salvato la vita, ma non riesco a non pensare a tante madri che, invece, i figli li hanno riavuti indietro solo in una bara… e a volte neanche quella. Se non ci fosse stato quel tedesco, Stanley ora non sarebbe qui e… e se in cambio volesse anche metà del nostro patrimonio, io glielo darei!”

A quel punto la donna scoppiò in lacrime e Mellish andò ad abbracciarla.

“Dai, mamma, non fare così. Io sono qui, sto bene, sono tornato” mormorò affettuosamente. Ma anche lui non poté fare a meno di pensare alla madre di Caparzo, che non avrebbe mai più riabbracciato suo figlio…

“E va bene, siete tutti d’accordo, allora. Fate pure quello che volete, andatevene a New York, andate a fare i senzatetto per le strade, non mi importa più niente!” gridò il padre di Mellish, rendendosi conto di avere tutti contro.

“Non le importa neanche che suo figlio sia vivo? Che sia sano e salvo? Io ho visto morire tanti e tanti ragazzi sotto il mio comando e per me anche una sola vita è preziosa, nonostante Stanley non sia mio figlio” commentò Miller. “Comunque sia, lei ha dato il suo consenso e quindi Stanley verrà a New York con noi, dove ritroverà i suoi compagni. Naturalmente voi siete la sua famiglia e potrete andarlo a trovare quando vorrete, New York e Yonkers sono molto vicine.”

“Se lo può scordare. Io non andrò da nessuna parte finché mio figlio non metterà giudizio!” tagliò corto l’uomo.

Suo figlio ha molto più giudizio di lei, anche se è così giovane, pensò Miller, ma non lo disse, non voleva rovinare ancora di più la situazione. Aveva ottenuto ciò che voleva e Mellish aveva trovato l’appoggio della madre e dei fratelli. Li lasciò da soli perché si salutassero e uscì sul portico con Josef.

“È andata bene, Capitano? Io potere abitare con Stan?” domandò il tedesco.

“Sì, è andata bene, e anche grazie a te, hai detto poche frasi ma venivano dal cuore e chi doveva capire ha capito” rispose Miller.

Poco dopo, Mellish uscì anche lui dalla villa con in mano una grossa valigia, pronto per partire. Miller aveva preso a noleggio un’auto per quei giorni, salirono a bordo e si avviarono in direzione New York. Mellish sembrava sollevato per essersi potuto spiegare almeno con la madre e i fratelli, ma c’era qualcosa che continuava a turbarlo e Miller lo vedeva, ma non voleva forzarlo a parlarne.

Quella sera, tuttavia, nella piccola e modesta camera d’albergo che lui condivideva con Saltzmann, Mellish aprì il suo cuore al tedesco.

“Mi dispiace tantissimo, Josef, non solo per le cose orribili che mio padre ti ha detto, ma anche perché io non ti ho difeso, io non ho detto nulla… insomma, ero disgustato e mi vergognavo, ma non ce la facevo a dire niente, non riuscivo a oppormi a lui” mormorò, a occhi bassi.

Saltzmann gli prese il viso tra le mani e lo attirò a sé.

“Io so che tu non volere quelle cose, tuo padre brutta persona, ora io capire perché tu paura quando io dicevo che in America noi stare insieme” lo rassicurò con dolcezza. “Io non volere che tu triste, ora noi insieme e pian piano trovare casa e lavoro, qualsiasi cosa che accadere noi poter superare perché noi insieme.”

Mellish lo abbracciò, forse per la prima volta fu lui a farlo spontaneamente, ma quella era una sera speciale per tutti e due.

“Mentre lui diceva quelle cose io… io ho capito che… che ti amo, ti amo davvero, Josef, sono stato fiero di come ti sei difeso davanti a lui e ho sentito che ti amavo e che ero fortunato ad averti. Non te l’ho mai detto prima, forse me ne sono accorto veramente solo oggi, ma io ti amo e sarò felice di vivere e di condividere tutto con te… qualsiasi cosa succeda” sussurrò il giovane tra le sue braccia.

“Mio Stan!” esclamò felice Josef (ora sì che lo poteva dire senza timore che lo sentissero le persone sbagliate…).

Strinse tra le braccia il suo giovane soldatino e lo distese sul letto con sé, accarezzandolo dolcemente e iniziando a baciarlo profondamente fino a unire e confondere i loro respiri e godere di ogni singolo istante, mentre Mellish, smarrito, dimenticava ogni preoccupazione nell’abbraccio avvolgente del tedesco e lo accoglieva con amore e spontaneità. Per molto tempo ogni altra cosa scomparve, spazio e tempo si confusero in un crescendo di dolcezza, calore ed estasi, fino alla fine, quando i due poterono stringersi in un abbraccio tenero e confortevole e lasciarsi vincere dalla dolcezza del sonno. Perché solo stretti l’uno all’altro, nel calore e nella tenerezza del ritrovarsi ancora una volta, Mellish e Saltzmann potevano riavere la pace e la serenità perdute e riposare, finalmente liberi da ostacoli, turbamenti e brutti pensieri, due persone che si amavano e che si erano trovate per completarsi e rendersi felici vicendevolmente. La guerra era finita e loro due, un tedesco e un ebreo americano, con il loro amore avevano combattuto il Nazismo, il genocidio degli Ebrei e tutte le atrocità, dimostrando che l’amore era più forte e potente di ogni odio e distruzione. Avevano creato un ponte e un legame tra due popoli che il conflitto avrebbe voluto nemici, e insieme agli amici di Mellish e alle scelte delle loro giovani vite (Wade sarebbe diventato un medico, Upham uno scrittore, Jackson un poliziotto, ma anche gli altri avrebbero preso le decisioni giuste per una vita serena e pacifica), avrebbero gettato le basi di un mondo nuovo, fondato sulla giustizia, la pace, la solidarietà e la fratellanza.

Qualsiasi cosa fosse accaduta e a qualunque costo.

 

FINE

 

 

 

 

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