Darkside

di Sidney Prescott
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eris ***
Capitolo 3: *** Oh, where have you been, my handsome young man? ***
Capitolo 3: *** No man of woman-born shall betray him ***
Capitolo 4: *** Dress like a man, act like a man, but live as a woman ***
Capitolo 5: *** Fear leads to anger. Anger leads to hate. Hate leads to. ***
Capitolo 6: *** Don't worry, I trusted you; my mistake, not yours. ***
Capitolo 7: *** To be, or not to be, that was supposed to be the question. ***
Capitolo 8: *** Love can do much, but duty more. ***
Capitolo 9: *** I can no longer obey; I have tasted command, and I cannot give it up. ***
Capitolo 10: *** Women loved to be called cruel, even when they are kindest. ***
Capitolo 11: *** Death may be the greatest of all human blessings. ***
Capitolo 12: *** One day, who knows, in 100 years. ***
Capitolo 13: *** Below the Surface. ***
Capitolo 14: *** There's no place like home. ***
Capitolo 15: *** Be our Guest. ***
Capitolo 16: *** Still trying to find my place in the world. ***
Capitolo 17: *** Hey brother, i'm home! ***
Capitolo 18: *** Am I missing something here? ***



Capitolo 1
*** Eris ***


   Chapter 1: Eris 

 

“Nella mitologia greca, Eris, sorella del dio Ares, è la divinità della discordia e della vendetta, figlia della Notte; la sua vera natura si cela dietro un demone alato dagli occhi di sangue.”

 

Current Day

 

Pioggia.

Trystan odiava quella cazzo di pioggia, battente, insistente, che non smetteva di cadere da quel cielo nero come il suo umore da quando lo avevano spedito per chissà quanto in quelle terre, lontane da tutto, da Dio in persona, dalla civiltà e da casa; in realtà l’ultima prospettiva non era poi così terribile, non era mai stato un nostalgico, affatto, ma l’idea che il primo bordello disponibile fosse ad almeno 3 ore di viaggio da quelle terre di scopa capre lo mandava letteralmente ai pazzi.

Si stava annoiando come non mai.

Gàidhealtachd

Era quello il nome del posto di merda in cui lui e i suoi uomini erano stati mandati, una regione di cui francamente ignorava l’esistenza e avrebbe continuato volentieri a farlo, ma quando il suo muso venne sbattuto contro la dura rigidità degli ordini venuti direttamente dall’alto..beh, chi era lui per potersi tirare indietro?
Ragioni di massima priorità”, aveva detto quel succhiacazzi di Neuville, quel odioso lacchè dei piani alti che non faceva che saltellare da una sede all’altra della Hunter, con tutti gli agi e lussi garantiti, ovviamente; ma cos’aveva fatto lui per essere dov’era?

L’uomo cercò di allontanare l’idea del grassoccio tirapiedi dalla sua mente, accavallando le lunghe gambe atletiche sulla scrivania del suo alloggio, scadente esattamente come quello dei suoi sottoposti, con le braccia incrociate sotto il capo corvino e la sua fidatissima bombetta direttamente appoggiata sulla faccia; non poteva dormire con il suono insopportabile dell’acqua che batteva contro quella sorta di sudicia baracca, fatta di schifosa pietra muschiata, fredda, con il puzzo di muffa che rischiava di soffocarlo dal primo momento in cui ci aveva messo piede. 

Dovevano essere ormai le 2 passate, ma di lei non c’era ancora traccia; sulla faccia coperta di Trystan Griffith, tenente del battaglione scelto della Hunter britannica, passò un ghigno di non poco conto, forse incuriosito, forse supponente, intento a dondolarsi con un movimento oscillatorio sopra la scricchiolante sedia di legno. Che avesse avuto problemi? Nah, l’aveva addestrata lui, dopotutto, eppure l’idea di un imprevisto dietro l’angolo aveva sempre quel non so che di affascinante, un brivido di pura adrenalina. 

Erano passati un po di anni dalla sua carica ex carica di capitano, mille forse da quella di soldato, ma la sensazione di sangue, terra e merda incollate sul corpo, sulla pelle, nell’anima, era viva dentro di lui, come un cavallo a briglie sciolte, imbizzarrito, e la amavo tanto quanto si ama una puttana da ubriachi; alla follia!

«A che state pensando, tenente? Alla missione di Eris..?»

Il tenente Griffith aveva quasi dimenticato la presenza del suo sottoposto, aprendo appena uno dei suoi grandi occhi verdastri sotto il berretto nero, non sognandosi nemmeno di toglierlo; Brando Guidi era un ragazzo su cui non avrebbe mai scommesso, ma nemmeno nei suoi sogni più fantasiosi, troppo per bene, troppo ingenuo, troppo ansioso, e poi un fiorentino che faceva lavori pesanti?

Ma per piacere.

Sghignazzò sotto la cupoletta del suo berretto, risatina che fu perfettamente udita dalla giovane recluta, che gli lanciò una sinistra occhiataccia con un sopracciglio interrogativo; stava appoggiato coi gomiti ai bordi della finestra, ormai incollato al vetro grezzo di quella casupola da diversi minuti, in attesa di vedere qualcosa, o forse, qualcuno. 

Trystan finalmente si tolse il cappello dal viso, rivelando quell’espressione strafottente scolpita su quelle labbra rosee da quando quella buonanima di sua madre l’aveva concepito, ma questo Brando aveva imparato a sopportarlo, forse. Si sollevò dal bordo della persiana solo per assumere una posizione militare, perfettamente dritto come una candela.

«Vi fa ridere? Non pensavo ci fosse dello humor in questa faccenda, superiore…sono passate ormai troppe or..»

«Brando, Brando, Brando, se non fosse per la tua possente stazza da eroe troiano ti avrei già mandato a pulire i fondi delle padelle incrostate insieme alle fighette che ci mandano dal nord..

Rilassati, che hai? Paura che la tua fidanzatina non ritorni? 

Corri più pericoli tu solo con me in questa stanza, te lo posso assicurare..» fece con sicurezza l’uomo più vecchio, almeno il doppio dei suoi anni, scegliendo saggiamente di sgranchirsi le gambe con una terapeutica passeggiata fino al suo fidatissimo tavolinetto degli alcolici. Brando roteò gli occhi nocciola verso l’alto, appoggiando le larghe spalle contro il freddo muro, lasciandosi sopraffare da un sospiro puramente preoccupato, con le braccia conserte al petto.

Trystan lo guardò appena con la coda dell’occhio, mentre il liquido color miele finiva drasticamente nel fondo del suo bicchiere.

 «Non si tratta di…sono preoccupato per la squadra, che è ben diverso! Una missione notturna, in queste terre? Con la pioggia? Non siamo a Londra, e nemmeno a Cardiff, qui se ti perdi sei fottutto..e perchè non mi ha permesso di andare con loro?

Cazzo..io sono il suo secondo, sono il suo braccio destro…sono..»

Il ragazzo fiorentino non potè nemmeno terminare il discorso che la mano di Trystan con un dito alzato lo fece fermare improvvisamente, quasi a farlo tacere; il tenente non aveva intenzione di gustare il suo pregiato whisky invecchiato di 30 anni con le lagne di quel lattante nelle orecchie. Lo terminò tutto d’un fiato, sbattendo il fondo spesso del bicchiere sulla superficie di legno, gustandosi quel sapore autentico ancora aromatizzato sulle labbra.

Ora poteva cercare di assecondare quel discorso assolutamente infantile.

«Non ti ha mai detto nessuno nel tuo paesello di belle arti che alle donne non piace il cagnolino focoso che le si attacca alla gamba? E fammi la cortesia..non usare la scusa della squadra, perchè sei patetico, Guidi..»

Brando si sentì personalmente attaccato; Trystan era un provocatore nato, ma se c’era qualcuno a cui non sfuggiva nemmeno un dettaglio era proprio lui; non rispose, guardando un punto indefinito di quella catapecchia, ma sapeva pure lui che nemmeno la pietra incastonata nei muri avrebbe potuto nasconderlo.

«Vorrei…vorrei solo che non le accadesse nulla..l’ultima volta..ho fatto una cazzata..e tu lo sai, me lo hai detto, di non starle tra i piedi, ma non ti ho ascoltato..» 

«E con ciò? Brando…se il capitano Griffith agisce in certe maniere avrà i suoi motivi, non si tratta di tagliare fuori i membri delle squadre di ricerca, ma di valorizzarne il potenziale!

Pensi che si tratti di orgoglio? Inizia a metterlo da parte, David di Michelangelo, perché sei entrato in un’associazione pericolosa, dove non siamo altro che pedine da gioco..siamo tutti utili ma nessuno è indispensabile...e quando dico nessuno, intendo davvero nessuno!» rispose senza esitazione il tenente, in posizione speculare a quello della recluta. Il primo era alto, di corporatura asciutta e sfilata come un giunco, dai lunghi capelli neri brizzolati legati all’altezza della nuca, tremendamente curati, a differenza della sua barba che aveva appena ripreso a crescere lungo la marcata mascella; sebbene fosse uno dei superiori più importanti del suo dipartimenti non si era mai sognato in 26 anni di onorato servizio di indossare quella opprimente divisa, a differenza dei suoi colleghi, ligi e lineari come una freccia, ma non lui, non Trystan, che delle autorità se n’era sempre sbattuto altamente. A molti piaceva pensare che quelle sue insubordinazioni passassero inosservate solamente per il buon nome della sua famiglia o per la posizione di spicco ricoperta da suo fratello, ma non era così; Trystan Griffith era un cacciatore senza pari, e nessun titolo avrebbe potuto rendergli omaggio come la sua stessa bravura ed esperienza.

Brando segretamente,dentro il suo giovane cuore, lo invidiava da morire; sebbene fosse una sorta di pecora nera, per la sua famiglia, per i suoi superiori e per chiunque lo avesse mai incontrato, riusciva sempre ad uscirne vincitore e a testa maledettamente alta, senza guardare in faccia nessuno. Rozzo, zotico, senza ombra di dubbio cresciuto molto lontano dalla vita di corte e dalle buone maniere, ma quel borioso contorno era del tutto superfluo quando scendeva sul campo di battaglia; l’uomo dall’aspetto piratesco sollevo lo sguardo dal suo bicchiere, notando lo sguardo perso del giovane pisano sul suo, assottigliando i verdi occhi.

«Vuoi forse baciarmi, Michelangelo?.»

«CHE?! Ma che cazzo…no, certo che no..ero solo..» 

«Suvvia, non fare lo scandalizzato, mica eri uno studente dell’Accademia? Credevo facesse parte dell’esame d’ammissione spingerlo nel..» terminò la frase semplicemente mimando il seguito con le lunghe dita, ma prima che potesse finire Brando voltò lo sguardo quasi schifato, con un brivido lungo le spalle. 

«Ma che diavolo le passa per la testa…ho studiato astrologia, se proprio ci tiene a saperlo, sono un alchimista!

Non sono un artista o uno studioso di pittura, ma vedo che voi cafoni gallesi avete un’idea abbastanza pittoresca della nostra terra, e deduco anche che non sappiate nemmeno distinguere un astronomo da un astrologo...» 

Trystan rimase quasi sorpreso da quella grinta ben celata dietro quel visetto composto, mimando un piccolo applauso con le mani, avvicinandosi alla figura poco più bassa di Brando, con le mani sui sottili fianchi. 

«Che mi venisse un colpo..il piccolo Brando ha forse le palle? Buono a sapersi, ti serviranno quando farai il giocoliere dopo aver perso il lavoro, ma prima che ciò accada, voglio darti una dritta, ragazzino…da uomo.a..be, soldatino di stagno..» 

Griffith mise le mani callose sulle spalle di Guidi, guardandolo bene in quel viso, molto piacevole, circondato da quei capelli ricci e bruni, quasi pareva un cherubino, stonante con la sua forma fisica massiccia; lasciò che la sua voce gli entrasse bene nelle orecchie, come un suono metallico.

«Al posto di guardare le stelle o leggere le carte come una vecchia truffatrice, ricordati che i veri problemi stanno in terra, non in cielo..o ci sei dentro fino al collo o ti chiami fuori, e te lo sto dicendo da amico!

Ah, un’altra cosa…» 

I numerosi orecchini appesi all’orecchio destro di Trystan tintinnarono come una campanella, una molto chiara e concisa, che stava dando al giovane soldato un messaggio inequivocabile.

«Non le piace quando un uomo, in particolare un moccioso, le si mette d’intralcio, lo so perfettamente, quindi lasciati un attimo…dominare? Dal flusso degli eventi, e se proprio non ti piace stare sul sedile del passeggero, prova anche a saltare su quello di comando, ma un consiglio…Brando Guidi..dovrai almeno stare…al suo passo..o provarci, prima che il nostro capitano si ricordi..della tua esistenza!» 

La gola del ragazzo divenne arida come il deserto, centrato in pieno come un bersaglio di paglia durante l’addestramento da un dardo infuocato; fottuto…fottuto cinico supponente e arrogante.

Quella conversazione non sarebbe durata ancora per molto, poiché un chiaro trambusto svegliò l’accampamento nel cuore della notte, dove un viavai di soldati ormai svegli aveva animato l’intero crocevia di corridoi di pietra; il respiro di Brando divenne impetuoso, con il battito del cuore a mille.

«Eris?!!» fu l’unico nome che riuscì a proferire, sfuggendo alla presa volontaria del suo stesso superiore, che lo guardò correre fuori dalla sua stanza, unendosi al fiume dei suoi commilitoni; Trystan si fece prendere da un sorriso inconsapevole, massaggiandosi i mossi capelli con il palmo della mano. Era tornata.

La sala centrale fu improvvisamente invasa dall’intero plotone, dove reclute, soldati e sottufficiali si confusero tra di loro, tutti accorsi solo per il ritorno della squadra Alfa, nient’altro che il fiore all'occhiello di quel battaglione; parve quasi una sorte di parata improvvisata ai giovani occhi di Brando, che quasi fece a spallate tra i cadetti per vedere qualcosa, ma non sarebbe servito; la voce tonante del sergente Boris Belinsky riuscì in meno di mezzo secondo a far zittire l’intera sala, in piedi, al centro di quel enorme tavolo di pietra, a cui stavano seduti solo i più alti gradi delle cariche ufficiali della spedizione. La pioggia non aveva risparmiato nessuno di loro, fradici ed esausti, con le divise logore ancora addosso,ma dei 5 posti adibiti a sedere solo 4 erano stati occupati; lei non c’era.

Belinsky era l’ufficiale più anziano del gruppo, ma non per questo si era permesso a sedersi, nossignore, con le grandi mani ancora sporche di sangue ben ancorate alla superficie del tavolo, con quei grandi baffoni neri che predominavano sul suo enorme faccione slavo. Gli altri 3 ufficiali seduti sembravano quasi essere in una dimensione a loro estranea, nemmeno prestando attenzione alle parole del loro superiore, parole di vittoria, quei discorsi che sembravano benzina sul fuoco per quelle giovani menti, per il futuro della caccia ai mostri, al “nemico” sempre in agguato nell’oscurità. Era una propaganda che a Brando non era mai stata troppo a genio, ma le espressioni assenti dei suoi comandanti quasi lo lasciarono sbigottito, se non sospettoso. 

«Be? Ma hai sentito, Brando? Sono riusciti ad uccidere i ribelli delle isole a catturare i sacerdoti del tempio..Brando? Ma..non sei felice? Abbiamo vinto..potremo tornare a casa!» 

«Mmm? Perdonami, Hugh, ma non..non lo so, qualcosa non mi torna..e poi che diavolo ci fa Novacek al tavolo dei comandanti?» 

Hugh Darcy era sicuramente una delle reclute più entusiaste e anomale che il campo Hunter avesse mai visto, arrivando alle spalle dell’amico con quel suo sorriso insormontabile; più alto di Guidi, ma terribilmente gracilino, fatto quasi di vetro soffiato, dai grandi occhiali tondi, quasi buffi, ad ingrandire i suoi occhioni scuri e dal naso all’insù. Ancora Brando si chiedeva come quel manico di scopa fosse entrato nella squadra, ma poi bastò ricordarsi che fosse il figlio bastardo di una nobile famiglia che voleva disfarsene e la risposta non tardò ad arrivare. 

«Sempre il solito musone…pensi troppo, Guidi..ah no, forse ci sono! Sei forse afflitto perché un certo qualcuno non è qu..» 

Una gomitata di Brando gli centrò lo stomaco, piegandolo in due.

«Cazzo!.» 

«Cuciti la bocca a filo doppio, e rispondimi: la squadra Alfa ha già il capitano Griffith, che cosa ci fa Evgenij Novacek seduto lì?» 

Hugh si riprese velocemente dal colpo, osservando come la figura del capitano Evgenij Novacek avesse catturato negativamente l’attenzione di Brando; difficile dargli torto, ma non era né il luogo, né il momento per parlare, limitandosi ad indicare con gli occhi il lungo corridoio che conduceva dalla sala fino agli appartamenti degli ufficiali.

Eris Griffith non era mai, mai stata avvezza a quelle sorte di fenomeni teatrali che erano le congratulazioni, oppure quelle onorificenze a seguito di una schiacciante vittoria, anche perchè non c’era stata nessuna vincita, nessun onore, alcuna gloria, ma era molto più facile illudere degli ignari spettatori che illustrargli la realtà; non aveva mai presieduto alcuna assemblea da quando era diventata capitano, mai una volta aveva accettato quelle gratifiche; la sensazione del sangue che si scioglieva a contatto con l’acqua avrebbe dovuto farla stare meglio, ma non era così semplice come sperava.

Prima spara, poi fai le domande.

Era la regola fondamentale della Hunter; ma che senso ha interrogare un uomo quando giace esanime sotto i tuoi piedi? 

La tinozza d’acqua di fronte allo specchio del suo bagno privato aveva assunto quel color ciliegia dall’odore ferroso, agitata dalle lunghe dita affusolate ormai pulite, eppure il suo riflesso era tutto fuorchè candido. La pelle pallida del suo viso era quasi cadaverica, i capelli neri corti furono brutalmente tirati all’indietro da un gesto nervoso della mano, lasciando le tenere goccioline rossastre a colare lungo il collo, fino ad inumidirle il colletto della camicia non più bianca da molto.

Li hai uccisi, li hai uccisi tu.

«Posso…capitano Griffith?» 

«Questo vizio di merda..non imparerai mai a bussare, non è vero? Tenente?» 

Trystan, appoggiato pigramente allo stipite della porta, fece spallucce, come se non sapesse proprio di cosa la giovane stesse parlando, con le mani rivolte verso il cielo; Eris gli tirò dritto in faccia il vecchio asciugamano sporco di sangue, che quello prese al volo, fischiettando.

«Marmellata ai lamponi o..?» 

«Le tue battute del cazzo, Trystan, falle a qualcun altro, non è giornata..» replicò senza mezzi termini il capitano, che si lasciò andare di schiena contro il duro e inospitale materasso; l’uomo annuì senza dover aggiungere una parola, chiudendo così alle sue spalle la porta d’ingresso, lontani da sguardi indiscreti perchè, fra quelle mura, anche gli spiriti avevano orecchie.

«Dunque…suppongo che le parole vittoriose di Boris poco fa fossero solamente una pletora di minchiate? Non ho mai capito perché quella balalaika dal culone flaccido sia stato nominato sergente…è un miracolo se non soffoca sua moglie quando scopano…»

Eris fece un’espressione pittoresca al solo pensiero, sollevandosi sui gomiti, come se l’immagine le avesse dato un sentito schiaffo.

«Questi pensieri..nefandi, li fai perchè sei in astinenza di sesso o perché hai una segreta attrazione per Boris?»

Trystan prese posto al suo fianco su quel letto, sdraiandosi completamente, coi lunghi capelli sciolti; Eris fin da bambina aveva adorato quella magnifica criniera morbida, nero pece, ora accompagnata da qualche filo argentato, che aveva intrecciato non so quante volte, ma ormai quel tempo era finito, in abbondanza. Lui notò quello sguardo malinconico, deluso, rabbioso, sfiorando con il pollice la cicatrice caratteristica che attraversava il viso dell’altra dalla fronte fino alla guancia, come a cercare di togliere quel peso personale che aveva dentro.

Lei non provò nemmeno a sorridere, non c’era bisogno di mentire, non con lui. Si mise a sedere, con i gomiti contro le ginocchia, lo sguardo fermo, fisso.

«Ricordi la squadra di reclute di Novacek? Quella partita due settimane fa che non è mai tornata?»

Trystan annuì, cambiando totalmente espressione quando quel nome gli solleticò le orecchie. Eris proseguì, rivolgendo all’uomo la parte di viso segnato indelebilmente dalla sua storica ferita.

«Lui è stato l’unico sopravvissuto, caduto in una bella imboscata, stando alla sua testimonianza…l’intero gruppo sterminato dai guerrieri druidi della penisola! 

Boris insieme agli altri superiori non hanno esitato nemmeno un momento a preparare il contrattacco, hanno preparato una sorta di legione della morte per annientare quegli stramaledetti analfabeti con le facce dipinte di blu con i miei cazzo di uomini..

Allora ho capito che qualcosa non andava…perchè coinvolgere anche Novacek? Sono io il capitano della squadra, e l’ho fatto notare in maniera poco gentile…»

Il tenente roteò gli occhi verdi, non aspettandosi nulla di diverso da quella paladina della discordia, massaggiandosi appena le tempie, quasi con fare confuso. 

«Fammi capire…hai fatto a pugni con la tua nemesi o ci hai scopato? Perchè sto cominciando a non capirci più una sega di tutte queste sottotrame da quando quella mezza cartuccia di tuo padre ci ha spediti con tanto di bacio accademico in questo cacatoio scozzese!»

A quella viva provocazione, Eris afferrò con quegli artigli il viso barbuto del suo stesso sovrintendente, portandosela a nemmeno un palmo dal viso, soffiandogli sulle labbra quelle taglienti parole.

«Vorrei tanto ricordarti, mio dolce e insolente superiore, che quell’uomo che hai chiamato padre è il tuo stesso fratello, sangue del tuo sangue, e per quel che mi riguarda puoi tagliargli la gola mentre dorme, perchè ci siamo in due in questo “cacatoio”, e ti dirò una cosa…caro zio…non siamo stati mandati qui solo per uccidere quattro guerrieri coi corni di vacca e Nessie, se mai esistesse!»

Non erano mai stati come zio e nipote, se non per legame di sangue, per assurdo Trystan l’aveva portata via con sé quasi come un padre, ma nemmeno quello era in grado di descrivere il loro rapporto, enigmatico, con troppe sfumature di colore, ma ormai ci erano talmente abituati che nemmeno se ne rendevano più conto.

«Il mio amato…e odiato fratello…fa molto Caino e Abele, ma ti consiglio di non pestare nuovamente i piedi di Evgenij, nipote, potrebbe risultarti fatale questa volta!
Sai perfettamente che qui tutti vedono ciò che vogliono vedere, e basterebbe un testimone ben rigirato per farti accusare di insubordinazione...»

«Non hai troppa fiducia nelle mie capacità, mi pare di notare, Trystan..e io che credevo mi avessi insegnato tutto!» fece quasi con l’amaro in bocca la giovane donna, che poteva avere poco più di 23 anni, lasciando andare il viso dello zio dalle sue unghie, ma non si allontanò di troppo, perché Trystan le prese velocemente il braccio: ora erano faccia a faccia, più vicini di prima.

«Oh, al contrario, ragazzina, ho pure troppa fiducia, ma scatenare una guerra per un mucchio di zotici blu non mi pare esattamente il caso, non dopo quello che è successo tra voi due anni fa!

Quindi, per una cazzo di volta, accetta gli ordini dei tuoi comandanti e non invischiarti ulteriormente…perchè non sono entusiasmato dall’idea di dover recuperare pezzi del tuo splendido cervelo dal pavimento..» glielo disse con la più seria delle espressioni, cosa abbastanza rara per uno sbruffone strafottente come lui, ma non esisteva niente di più serio quando compariva davanti ai suoi occhi quella sfrontata e avventata ragazza, incapace di concepire nient’altro che vendetta. 

Quel sentimento, la accecava ogni volta, non c’era verso di riportarla sui binari.

Il volto di Eris venne travolto da una piacevole espressione, sorpresa quasi; erano rari i momenti in cui riuscivano a scambiarsi qualche parola, figurarsi una dolce, ma se ci tenevano alla carica e alla testa, avrebbero dovuto azzerare quelle visite clandestine, o quasi?

Sfiorò una ciocca di capelli ebano che penzolava accanto al collo dell’uomo, arricciandola attorno all’indice, dal profumo di verbena; i loro occhi gemelli, della medesima sfumatura preziosa non poterono che brillare di pericolosa intesa, culminata dalla grinta ribelle di quella guerriera che fece leva sulla camicia bluastra del tenente, colto in quella trappola improvvisa, più bramata da entrambe di quanto non si credesse.

Erano sempre stati due abili maestri nel mentire.

Quest'ultimo non oppose resistenza alcuna, tutt’altro, vagando con le mani lungo quei navigati fianchi, infilandosi sotto il tessuto sporco di quella superflua camicia, ripercorrendo quei marchi sulla pelle, cimeli di caccia per entrambe che si erano guadagnati col sudore e col sangue; ma ne era valsa la pena?

Trystan se lo chiedeva da una vita, Eris no.

Le labbra avevano già abbondantemente ripreso la loro familiarità senza esitazione, a discapito forse di quello stesso indumento indigesto alla vista del capitano, che iniziò a sbottonare man mano che il bacio si fece più intenso,condito da quei sospiri delicati e soppressi capaci di far venire la pelle d’oca, ma quel barlume di libertà si spense sul nascere.

Qualcuno bussò improvvisamente alla porta.

Trystan non ebbe neanche il tempo di realizzare la velocità delle cosa, che si ritrovò sbattuto all’interno dell’armadio della ragazza, non capacitandosi nemmeno di quale forza mastina avesse usato quella belva dagli occhi sfuggenti, ma gli toccò appollaiarsi come un gufo in quel fetido ripostiglio; col cazzo proprio che era facile scopare, pareva quasi che una cinturà di castità avvolgesse l’intero corpo di caccia. Ma poi chi cazzo l’aveva detto che tra cacciatori non si potesse farlo? Un cerebroleso,non c’era dubbio.

«Brando..?»

Quando Eris aprì la porta del suo alloggio trovò davanti a sé una sorpresa inaspettata. Guidi arrossì istintivamente, trovando qualcosa di sconvolgente in quell’aspetto malconcio e logoro che aveva tutto tranne che del razionale, ma non appena realizzò la situazione si diede uno schiaffo immaginario per tenere la sua dignità integra.

«Salve, capitano Griffith..io…io…mi scuso se mi permetto di disturbarla, ma è arrivata una lettera urgente per lei, signora..» disse balbettando come un perfetto idiota, allungando sotto il viso della giovane una busta avorio sigillata, ma non una busta qualsiasi: il sigillo del grifone era di rossa ceralacca.

Nelle viscere di Eris qualcosa ebbe iniziato a muoversi, tramutando tutto ciò che c’era di sereno nel suo viso nel caos più completo; faticò quasi a prendere la busta tra le mani, volendo incenerirla con il solo sguardo. Brando lo notò, deglutendo di colpo.

«Suo padre, capitano, il comandante Griffith, ha voluto che la ricevesse lei in persona, e ha detto che è molto urgente, ma che confida nella saggezza della vostra risposta...»

Eris non rispose, congedò semplicemente il giovane con un cenno del capo per poi richiudere la porta, rompere quel odiato sigillo e leggere; ricevere una lettera dopo..quanto, 8 anni? 9? Faceva un certo effetto. 

10. Erano passati 10 anni.

Passarono diversi minuti, quasi una ventina, finché il povero tenente non uscì di soprassalto dall’armadio, boccheggiando come un pazzo.

«MA CHE CAZZO, ERIS?! Stavo soffocando li dentro, aprire?! Dio santo lo ammazzo, quella checca pisana riceverà pedate nelle palle da subito..Eris…? Eris che cos..»

Come riprese fiato, Trystan osservò lo sguardo vitreo della giovane nipote, con le spalle contro la porta, in posizione quasi fetale, rannicchiata su se stessa, con la carta ancora fra le mani. Non gli servì nemmeno chiedere da dove venisse, il sigillo rotto con la testa di grifone parlava chiaro.

«Che cosa vuole…»

«Torniamo a casa..Trystan..io e te…torniamo a Cardiff..»

L’uomo aggrottò minaccioso le sopracciglia. Cosa?

Dopo 10 anni di esilio, li rivoleva a casa? 

Con quale faccia osava pronunciarsi?

«Rhys...vuole che torniamo a casa..»

«Rhys vuole? E da quando ci importa di lui? Eris ti sei dimenticata cos’è successo negli ultimi 10 anni o hai bisogno di..»

«Duncan è stato ferito gravemente, in una spedizione nel Devonshire e..Sheelah aspetta un bambino..»

Calò un grave silenzio nella stanza. I muscoli del viso di Trystan si ammorbidirono, ma non furono affatto rilassati, appoggiandosi alla scrivania coi palmi delle mani, realizzando con sincera fatica tutte quelle notizie; una doccia fredda dopo l’altra.

«Sheela..incinta? Solo ieri aveva 6 anni…»

«Si, 10 anni fa, anche tu eri molto più giovane, Trys..,»

«Hey, va a farti fottere, Griffith, sono il 39enne più sexy su cui poserai mai i tuoi occhietti da faina,e per la cronaca, non farmi passare per pedofilo…ci passiamo solo 15 anni, io e te..» precisò l’uomo appena preso in causa, mettendo le cose in chiaro con quel suo modo scenico che Eris amava profondamente. Lo guardò negli occhi, ascoltando il suono scrosciante della pioggia che li aveva accompagnati per tutto il tempo.

«Sai perfettamente..che non è l’età il problema tra noi due,Trys..» 

«Io non voglio figli, perciò non correremo il rischio di avere dei mostri con 4 teste, e un pene extra, che forse non è poi così male..»

La prese per il polso, tirandola su, ora di nuovo alla stessa altezza; lei gli sorrise, trovando sempre una sorta di conforto in quel sarcasmo cinico, mai mutato in tutti quegli anni. Eh cazzo, l’amore era veramente una bestia che nemmeno il più forte dei cacciatori riusciva a domare.

I polsi finirono per incrociarsi dietro il collo del tenente, come le mani dell’altro ripresero posto su quei fianchi; gli leccò languidamente il collo facendo attenzione a solleticargli la cartilagine dell’orecchio con la punta del naso.

«Ho aspettato 10 anni, Trys, 10 anni sono rimasta lontana da tutto quello che era mio, dalla mia terra, dai miei fratelli, mentre una serpe si infilava nel letto di mio padre..non mi lascerò sfuggire questa occasione, che io sia dannata se le lascerò vincere anche questa battaglia..»

«Eris..»

«Non lo sto facendo per quel vile di Rhys, per Duncan e Sheelah, sebbene mi manchino da morire, Trys…è per Merrion, e tu lo sai!

E non mi darò pace finché..lei non sarà morta…»

Merrion.

Trystan chiuse gli occhi, stringendola quasi a farle male fra le sue braccia, con una mano dietro la nuca; respirò profondamente, rischiando quasi di tirare quei lisci e corti fili d’ebano fra cui le sue dita si erano ormai perse.

Merrion, quando lascerai in pace le nostre vite?

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Capitolo 3
*** Oh, where have you been, my handsome young man? ***


Chapter 2:Oh, where have ye been, my handsome young man ?
 
Current Day

Cardiff, house Griffith.
«Lord Duncan? My lord? Dovete svegliarvi..Lord Duncan, se mio padre vi trova di nuovo qui finirete in un brutto, bruttissimo guaio!»
La campagna gallese, a sud della immensa isola britannica, era stata da poco ridestata dai caldi raggi del sole, una mattina primaverile dal buon profumo di pane sfornato, dolci casalinghi e un morbido, morbidissimo giaciglio da cui Duncan Griffith non si sarebbe mai, mai più svegliato. 
Mugugnò qualcosa, ancorato con le braccia e il corpo nudo ad una serie di cuscini, causando una sincera risatina nella proprietaria del suddetto letto, con annessa stanza; il giovane aprì solo un occhio, troppo stanco e sbronzo per pensare lucidamente, ma riuscì ad identificare la figura di Liza appoggiata alla parete nella sua vestaglia a fiori, con le braccia sotto il florido seno e i capelli dorati sciolti lungo le spalle.
«Liz...sembri mio padre, messa lì, tutta autoritaria..eddai, torna qui, la notte..è ancora giovane..» biascicò convinto, grattandosi il capo riccissimo color rame, ma non appena provò anche solamente a tirarsi su, un dolore lancinante lo colpì agli arti inferiori. La bionda sbuffò, roteando gli occhi.
«Razza di lattante…sei ingessato, te lo ricordi? Dovresti andartene ora che puoi farlo, anche perchè a quest’ora dovresti essere a palazzo…Duncan, tuo padre ti ucciderà, e il mio gli darà una mano come saprà che hai dormito di nuovo con sua figlia!»
«Sembra eccitante..Ginevra, perché non vieni un po 'qui?» replicò il lord, con un occhio ancora socchiuso per la stanchezza e il dolore; prese la figlia del panettiere  per i floridi fianchi, appoggiando la fronte su quel accogliente grembo, ma la ragazza era più rigida di un generale. Nossignore, nessuna proroga.
Gli sollevò il viso scombinato verso il suo, con una smorfia.
«Non potrai nasconderti per sempre, lo sai vero? Ti sei rotto una gamba di proposito, si o no?»
Duncan sgranò gli occhi, liberandosi della presa di Liza con la mano.
«Spero tu sia impazzita! Te l’ho detto…sono rimasto ferito durante una spedizione…»
«Duncan, guardami! Hey, ho detto guardami!»
Silenzio. L’erede di casa Griffith si trovò nudo sia letteralmente che fisicamente, sotto gli occhi interrogativi della vecchia amica ed amante che lo conosceva fin troppo bene:beccato.
«Non..non voglio, Liza..non voglio diventare il prossimo Grifone, non voglio..preferisco spezzarmele entrambe le gambe! Lo sai cosa significherebbe?! La fine della mia libertà!»
Sembrò un condannato sull’orlo del patibolo. Liza gli prese le mani, sfiorando accidentalmente il grande anello dorato dal sigillo inconfondibile.
«E suicidarti sarebbe la soluzione? Oh, smettila, che senso avrebbe?! Se tu solo parlassi con tuo padre..» tentò la fanciulla, ma prima che potesse proseguire, quello negò col capo rossiccio.
«Non conosci Rhys, non conosci la mia famiglia, e non sai che succede se mi tiro indietro..perciò, non ho altra scelta che..» 
«TU, SCHIFOSO PORCO DI UN GRIFFITH! COME OSI TOCCARE MIA FIGLIA?!»
«Oh…cazzo..» 
«PAPÀ NO!»
La porta d’ingresso di quella piccola stanzetta fu praticamente abbattuta dalla figura inferocita del padrone di casa; ora erano cazzi. Sebbene la gamba destra fosse più dura d’un pezzo di cemento, lo spirito di sopravvivenza di Duncan lo intimò, con tutta calma, a togliersi dalla traiettoria di un mattarello scagliato contro la sua faccia; quel panettiere era pure vecchio e paffuto, ma ci sapeva fare!
Mentre Liza cercò disperatamente di fermare il padre iracondo, armato di attrezzi da forno, il rosso discolo rubò giusto un cuscino, i suoi sgualciti pantaloni e nulla più, zoppicando fino alla porta sul retro, non mancando di far cadere mobili e ostacoli al suo passaggio. Si voltò indietro solo una volta, con un sorriso sulle labbra, schivando appena in tempo una formina di pan di zenzero per biscotti.
«Ti amo» mimò con un suono di voce appena percettibile, ma Liz lo capì senza alcuno sforzo, ricambiando con meraviglioso sguardo radioso, salutandolo con la mano, prima che il vecchio Phineas lo colpisse in pieno con il tegame da burro. Quella fuga sul retro del cortile durò veramente poco per fortuna del ragazzo, o forse sfortuna, poiché una carrozza dai toni bui, scarlatti, e dalle rifiniture dorate, lo stava aspettando proprio in quella viuzza stretta di campagna. Si fermò di colpo non appena quella sinistra porticina si aprì, ad occhi chiusi, sospirando, coi pugni stretti ai fianchi. 
Il cocchiere gli riservò un’occhiata svergognata, ma il ragazzo alzò la mano, a risparmiarlo da qualsiasi commento non gradito; sarebbe bastato Barnabas Payne a fargli rimpiangere di non essersi risvegliato a casa, nel suo letto, dove avrebbe dovuto essere.
Con uno schiocco di frusta, Reginald ripartì come una freccia lungo quel percorso sterrato. Davanti alla figura quasi incresciosa e discinta del giovane lord c’era quella integerrima e quasi apostolica del signor Payne, precettore della prole ingestibile del casato Griffith; l’uomo, nel suo completo verde metallizzato, le scarpe di vitello pettinato, il fazzoletto nel taschino, i guanti di pelle fiorentina, gli occhialini sul naso aquilino, il Newsboy e la sua costosa colonia, non poteva essere altro che il ritratto del buon gusto dell’alta società gallese, anzi, britannica se proprio si voleva essere pignoli e questo Duncan lo sapeva fin da bambino. 
Aveva in mano un libro, che continuò a leggere anche dopo l’arrivo del suo protetto, a gambe accavallate, storcendo appena il naso per l’odore di sudore e alcool che gli aveva appena schiaffeggiato l’olfatto.
«Dite, signorino Griffith, sapreste forse dirmi a chi appartiene questo aforisma? 
“Ciò che non fa bene all’alveare non può far bene alle api”?»
Quelle domande a bruciapelo lasciavano Duncan sempre perplesso; ma perché quel pennellone parlava per enigmi? 
Fece spallucce, sparando a casaccio, come al solito.
«Un tizio che fa il miele?»
L’uomo a quella risposta sciocca emise un sospiro seccato, chiudendo il libro con uno schioppo sentito, che fece eco in tutta la carrozza.
«Marco Aurelio, signorino Duncan, che avreste dovuto studiare tempo addietro, ma deduco che le grazie della signorina Clay siano sicuramente più interessanti per voi. Oh? Non fate più lo sbruffone?
Quante volte vi dovrò ripetere che queste pagliacciate da adolescente non vi fanno onore, e ciò che non fa onore a voi non lo fa certamente al vostro buon nome.
Oh tu guarda, lo zoppo è tornato a camminare?»
Disse Barnabas, notando da sotto la lente nera dei suoi occhialini tondi la gamba trascinata muoversi sotto il pesante gesso; il ragazzo fece finta di non saperne nulla, guardando oltre la finestrella che dava sul paesaggio di campagna, una distesa infinita di verdi colli. 
«Fatemi indovinare, ora mi prenderete per l’orecchio e mi riporterete da mio padre, così mi sculaccerà per bene e tornerò sulla retta via!»
Payne inarcò un sopracciglio, togliendosi con entrambe le mani la montatura d’argento, rimettendola immediatamente nel taschino della sua pregiata giacca, per poter finalmente guardare con i suoi profondi occhi neri quelli azzurri del lord, che si sentì un mirino puntato in faccia.
«Parliamoci francamente, Duncan, perchè sono oltremodo stanco di venire a recuperare il suo privilegiato fondoschiena dalle case di tutte le cortigiane della campagna gallese. Io non sono ne lord Rhys, ne lady Rhiannon o chi di dovere, sono il suo precettore e la sua educazione è mio compito da ben 19 anni dacché è a questo mondo, quindi, se vuole seriamente portare avanti questa ridicola crociata, lo faccia con un minimo di dignità..
Oppure, se proprio vuole sparire, si metta almeno uno straccio addosso, perché è indecoroso!»
Gli gettò una giacca scura praticamente in faccia, a fungere da ipotetico schiaffo; il ragazzo la prese, non tardando ad indossarla, ma doveva rendere conto a quel cazzo di pinguino: aveva ragione, non era certamente lui il motivo della sua collera.
Duncan si passò una mano fra i capelli rossi, facendo trasparire una vena malinconica sul suo viso squadrato, rivelando quella imbarazzante somiglianza tra lui e il capostipite della sua casata.
«Non basterà una gamba rotta a rimandare la cerimonia, vero?»
Barnabas si fece sfuggire una sincera risata, roteando gli occhi verso l’alto.
«Pensate davvero che al gran consiglio interessi che la vostra dolce gambetta sia fratturata? Ragazzo, non essere ingenuo, a meno che un gruppo di wendigo non ti divorino vivo, non c’è modo che il tuo danno temporaneo possa sottrarti dai tuoi obblighi, e lo sai quanto me..e credimi, davvero, prenderei pure il tuo posto, ma avere a che fare con Luther Richter e le famiglie dell’associazione?
Passo. Mi piace vivere,fare da maestro a dei viziati ricchi, mangiare caviale, vestire italiano e fare sesso con i ricchi signorotti inglesi, altre stupide obiezioni?»
«Non hai..detto quel nome..vero? Lui..sta venendo per me?»
«No, per l’arcivescovo di Canterbury! Ovvio, Duncan, sei tu il prossimo comandante, chi altro? Di sicuro non verrà per tua sorella che, quasi dimenticavo, stamattina ha avuto le prime contrazioni..» disse quasi ad aver tirato un piccolo dettaglio dalla sua agenda. 
Il ragazzo balzò sul sedile per via di una grossa buca presa in pieno dal cocchiere, ma la sua faccia divenne quasi pallida per la preoccupazione, afferrando le braccia di Payne.
«Sheelah?! Contrazioni? Vuol dire che sta per partorire? Sta bene?!»
Payne diede uno schiaffo alle mani non esattamente pulite di Duncan, pulendosi velocemente le maniche del vestito.
«Non lo so, te lo farò sapere appena partorirò, ti sembro una grassa ostetrica? No, e comunque lady Griffith sta benissimo, mancano ancora un paio di settimane a detta di quella palla di cannone della guerra civile..oh, finalmente siamo arrivati, non ne potevo più di questa conversazione a senso unico!» esordì con quel suo solito sarcasmo pungente il precettore; quando Duncan scese si trovò i piedi ancorati all’ingresso di palazzo Griffith.
Lo stendardo del grifone rosso e nero appeso ovunque era l’unica cosa in grado di farlo inquietare.
«Coraggio, signorino Duncan, il grifone non può  graffiarla, non finché è appeso lassù!» gli gridò Barnabas dal mastodontico portone d’ingresso, battendo a terra un piede nell’attesa che entrasse. 
Avrebbe fatto bene a restarci.
E se Duncan Griffith era il figlio che tanto avrebbe voluto fuggire dalla sua casa, Sheelah Griffith era l’unica figlia che sarebbe rimasta; è tutto così facile quando si è giovani, spensierati, ignari del tutto.
O quasi?
«Ricapitolando, dovrei fare il soprammobile per quanto tempo? »
«3 settimane, 4 se il travaglio dovesse essere troppo difficoltoso, ma hai sentito la nutrice, tornerai come nuova entro 6 mesi o poco più, e poi sei giovane, tesoro, non avrai alcunissimo problema! »
«Siete così ottimista da quando, madre? Mm? Non siete voi che avete questo coso scalciante che mi sta sventrando viva.. » sbuffò ormai stremata l’ultima erede di casa Griffith. Sheelah era di piccola statura, una bambolina di porcellana dalle guance rosse, la pelle d’avorio, gli occhi turchesi e i lunghi capelli castani in quel momento arruffati. Era distesa su quel triclinio da ore, e il via vai di servitori l’aveva quasi portata al manicomio, solo l’arrivo di lady Rhiannon aveva interrotto quella processione pre parto e la fine della sua infinita visita, pure troppo scrupolosa; semplice routine, se era la salute di un Griffith dopotutto, nulla poteva essere lasciato al caso.
In quelle ore l’affresco sul soffitto di San Giorgio con il drago aveva assunto un’immagine puramente inquietante agli occhi della ragazzina, che fu felice di cambiare aria con l’arrivo materno della lady di casa. 
Aveva sempre odiato quella copia di Paolo Uccello, e pensare che suo nonno Yvain aveva cercato personalmente i migliori artigiani di Arezzo per averne una riproduzione pressoché identica all’originale.
Lady Rhiannon era d’una bellezza assai differente da quella innocente e prematura di sua figlia, una selvaggia, molto simile a quella di un’amazzone, solo nascosta da quei vestiti non poi così abbondanti, tipici della moda Belle Epoque di quegli anni. Gli occhi erano verdi, quelli d’un felino a cui niente sfuggiva, la forma d’una clessidra senza tempo, nonostante non avesse vent’anni da almeno due decenni e i capelli tinti di nero erano accuratamente raccolti sul capo con una spilla d’oro. 
«Sai bene quali sono i doveri di una donna, Sheelah, non c’è bisogno che io te li rammenti..e poi non puoi permetterti sviste al tuo primo parto, non vorrai mica ingrassare mi auguro, o restare sotto peso, sarebbe una tragedia per te e per il tuo prossimo figlio!» 
La voce era tagliente, infida, che alle orecchie di Sheelah parve quasi un rimprovero, più che una consolazione; alzò il viso umido verso quella della madre, intenta ad asciugarglielo con un panno caldo.
«Il..secondo? Non ho ancora avuto il primo e pensate seriamente che muoia dalla voglia di averne un altro? Madre, non siete ottimista, siete completamente pazza.. »
Rhiannon fece un mezzo ghigno sarcastico, facendo particolare attenzione alle guance della fanciulla, abbassandosi di poco per rendere più privata la conversazione.
«Se così fosse, non ti avrei avuta, e mi sarei fermata a quella testa dura di tuo fratello, eppure eccoci qua, a compiere i nostri compiti di mogli, tu come me e io come fece mia madre a sua volta, e così via dicendo..»
Sheelah bloccò il polso della madre, con uno sguardo tutto fuorché innocente, inarcando il sopracciglio bruno.
«Ma davvero? Che stranezza, per quanto adori nonna Gwen, be, mia onorevole madre, non la definirei esattamente la tipica donna che sta a casa ad accudire i figli, e tutto il caricone pesante sulle spalle e, perdonatemi se mi azzardo, ma nemmeno voi..siete una cerbiatta smarrita, Rhiannon..»
La donna fulminò istantaneamente la figlia, concedendole almeno quella volta una piccola vittoria con una carezza sul suo viso; buttò il panno ormai usato nella tinozza di ceramica, girando poi come un avvoltoio attorno a quella lettiga barocca, con le mani sulle rotonde anche, come se fosse presa in una riflessione interna con le nocche sotto al mento.
Sheelah la seguì con lo sguardo, in posizione seduta ad alleviare il peso sulla schiena, quella donna; era sua madre, la sua guida, ma nonostante questo alcune a volte finiva solo per metterla in soggezione, come se ci fosse sempre qualcosa di non detto, che stava tramando.
«Una donna, Sheelah, non è tenuta a svelare i suoi segreti, ma siccome sono sono tua madre, mi trovo nella posizione di poter condividere alcune perle proprio con la mia bambina, perchè credimi, quando io non ci sarò più, sarai sola…completamente sola, e questa società è più temibile della vita di strada, e sai perchè?
Perchè tutti si aspettano qualcosa da te!»
Si fermò, finalmente, accanto al busto marmoreo di una Venere di Milo posto in un angolo di quella camera da letto, disegnandone i contorni immaginari con le dita.
«Ti vogliono priva di pensiero, incapace d’agire, sorda alle volte, ma rigida come il metallo, Sheelha! 
Ed è per questo che non possiamo fare altro che scendere a patti con il nostro io interiore; mangiare o essere mangiati? Piegarsi o piegare? Pensi veramente che le nostre azioni siano dettate da sentimenti? Non essere così ingenua..» le intimò a tono basso e di rimprovero con la coda dell’occhio, lasciandola così a capo basso, ma non muta.
Strinse istintivamente la coperta appoggiata sulle sue gambe, guardando accidentalmente la fede nuziale dorata al suo dito che brillò alla luce del sole mattutino.
Non era una sciocca.
«Io amo mio marito, non l’ho sposato perché…perché..c'erano solo assurde trame politiche dietro! Caledon non..non mi userebbe mai..fin da bambini siamo stati insieme...perchè state ridendo ora?»  fece la fanciulla con voce quasi tremante.
Rhiannon la guardò quasi con tenerezza, avvicinandosi nuovamente alla figlia minore per prenderle il viso tra le mani, guardandola dritto negli occhi.
«Ricordati questo, i nostri destini vengono scelti ancora prima che i nostri figli vengano al mondo! Tuo fratello Duncan sposerà una delle figlie di casa Lovett, tu hai sposato un erede di casa Campbell e tuo figlio a sua volta, se maschio sarà, prenderà un giorno il posto di suo padre nel gran consiglio, come farà tuo fratello, anzi, come avrebbe già dovuto fare anni fa! 
Ora…hai altre sciocche questioni da tirare su oppure hai intenzione di renderti presentabile?» ribadì lady Griffith, con la mano già sulla porta della camera, pronta ad uscire e non riprendere più quella futile discussione. Sheelah, con un piccolo slancio, riuscì a mettersi in piedi sebbene il peso fosse notevole, ma non la fermò certamente dal guardare la madre autoritaria dritta in faccia.
A volte, fingersi sordi ed innocenti, era la condizione ideale per sopravvivere più a lungo nelle 5 casate.
«Siete così sicura di tutto…madre? A volte anche i piani meglio riusciti possono rivelarsi un totale fallimento, dopotutto non si possono controllare le persone, per quanto intensamente lo si voglia..io ho avuto fortuna, fortuna di sposare un ragazzo che già amavo, il fatto che fosse un Campbell non fa che rendere la mia scelta la più saggia di tutte..ma rammentate anche voi questo!
Non esistono Grifoni senza ali, e un Grifone che non vola, che utilità ha?» domandò retoricamente, con le mani rivolte al cielo, con un viso d’angelo davvero convincente.
La donna si fece travolgere da un ghigno appena infastidito.
«Non fare questi giochetti con me, ragazzina, sono tua madre e come ti ho creata ti disfo, lo stesso riguarda per quello sbandato che ho messo al mondo prima di te!»
Sheelah sorrise, accarezzandosi lo sporgente grembo, in maniera serafica, del tutto anomala rispetto alla pungente conversazione.
«Vi credo sulla parola, onorevole madre, ma come ci avete messi al mondo, ci avete fornito anche strumenti per pensare e agire, a differenza della bella statua che stavate sfiorando, come ne me, ne mio fratello siamo pupazzi da giostrare..e per la cronoca, sappiamo entrambe che quel posto..non era di Duncan, ma di..»
Lady Griffith prese quasi selvaggiamente il collo della figlia, che si aggrappò alla presa mastina con entrambe le mani, a svincolarsi, ma le dita di Rhiannon parvero artigli, e non quelli del Grifone, ma di un’arpia.
«Prova..anche solo a pronunciare quel nome, quel maledetto nome, e ne pagherai le conseguenze, Sheelah Griffith, e non sono una donna che fa promesse a vuoto! Prima tu e quel idiota imparerete a stare al vostro posto meglio sarà, oppure la persona di cui tanto parli non sarà l’unica ad essere spedita in posti che pregherete di non vedere mai, nemmeno nei vostri incubi…è chiaro?»
«Lady Griffith? Il signorino Duncan è stato…come posso dire, appena recuperato, e a breve tornerà anche vostro marito; posso dare l’ordine di preparare il pranzo?»
La voce del signor Payne dietro l’uscio diede fine a quel match acceso, ma non era sicuramente terminato, quanto più..rimandato?
Quella tramutò come per magia il suo viso corrucciato in un sorriso placido, rimettendo in ordine la sottoveste scompigliata della figlia, che prese le distanze di almeno un passo, se non due.
«Ottimo, Barnabas, lavoro eccellente come al solito! Di ad Annette di servire il pranzo nella sala centrale, dopotutto, cosa c’è di meglio di un bel pranzo con tutta la famiglia..riunita..o quasi?»
 
“Nella mitologia classica greca, le Arpie erano figlie di Taumante ed Elettra, capaci di corrompere con il loro canto anche il più stoico degli uomini; vengono descritte come creature feroci e letali, dal corpo d’uccello e dal volto di donna,”

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Capitolo 3
*** No man of woman-born shall betray him ***


     Chapter 3: No man of woman-born shall betray him

                                                

             Current Day  

Somewhere in London.

 

Il Royal Circus Theater non era certamente uno dei teatri più in  vista di quella città, né tanto meno quello più rispettabile o quanto meno a norma, eppure aveva quel qualcosa di squallido e di vissuto che gli altri teatri non potevano offrire; era senza dubbio un’esperienza unica assistere ad uno spettacolo ricolmo di pessima scenografia,  spettatori ubriachi, lord e lady con i loro fortuiti amanti, addirittura domestici in pausa caffè, o gli stessi tecnici addetti agli effetti speciali, che di certo non erano pagati il giusto per un simile posto. 

Era mezzogiorno, un orario completamente morto, di fatti nella struttura c’erano solamente i pochi reduci sbronzi presenti dalla replica della sera prima, il vecchio usciere, intento a sonnecchiare proprio all’ingresso del teatro e un giovane attore; la sala era deserta, il proprietario si degnava di presentarsi solo la sera dopo la fine degli spettacoli per raggruppare il gruzzoletto di quelle magre entrate, quindi Elaijah si ritrovava padrone di quel casolare più spesso di quanto si potesse immaginare. Stava seduto sul bordo di quel logoro e malandato palcoscenico, scricchiolante per via delle termiti che piano piano stavano divorando tutte le fondamenta, immerso nella lettura di un piccolo e stropicciato copione; portò all'indietro i biondi e lisci capelli, dei fili dorati quasi, tenuti appena su dalla matita messa dietro l’orecchio. 

Odiava la confusione, non sopportava la presenza degli spettatori, solo sul palco si permetteva il lusso di eclissarli dalla propria mente, ratti boriosi e grassi che rosicchiavano via le briciole delle tragedie di qualcun altro; ma si, era proprio quella la società!

Il teatro di strada, per uno come quel ragazzo, era stato il posto più educativo di qualsiasi altra scuola; aveva visto la prostituta ridere, ridere della miseria di Lucrezia, oppure aveva visto l’avido e sdentato aguzzino in prima fila godere nell’inganno di Iago ai danni di Otello, oppure…il povero ladro sdegnarsi dell’umiltà di Priamo nel riavere il corpo del figlio Ettore, chino alle ginocchia del possente Achille, perfino la feccia riusciva a sentirsi potente nel grande cerchio dell’animo umano!

La tragedia, il tipo di opera che Elaijah aveva sempre prediletto fin da bambino, su tutte le altre; non c’era nulla di più autentico, poiché essa causava le reazioni più varie, dal riso al pianto, dal sorriso al ghigno, dall’orrore alla piena vittoria, ma c’era un prezzo da pagare a seguito di ciò: ovvero la vita, ma sempre con quella di qualcun altro. 

Quella sera avrebbero replicato l’atto terzo di Macbeth, dove il ragazzo avrebbe interpretato proprio il nobile protagonista scozzese, accecato a tal punto dalla brama e dal potere da uccidere re Duncan, per prendere la corona lui stesso con le mani ancora sporche di sangue; sbuffò appena, per poi lasciare il libretto per terra. Si massaggiò il viso, con fare shakespeariano, drammatico, come se fosse perso in se stesso, perfino la matita cadde sul pavimento, creando un piccolo tintinnio.

-”Sulla mia testa posero una corona sterile, e in questa grinfia misero uno scettro infecondo che una mano d’estraneo mi strapperà perché un figlio non può succedermi. Se è così per la stirpe di Banquo ho insozzato la mia anima, per loro ho assassinato l’amabile Duncan,ho versato rancori nel calice della mia pace solo per loro; e il mio gioiello eterno l’ho ceduto al nemico di ogni uomo, per farli re, il seme di Banquo re!” 

Tsk….che….che vile personaggio….pensò tra sé e sé il giovane, così cieco ma allo stesso tempo così determinato a togliere di mezzo chiunque si mettesse tra lui ed un trono; eppure, il suo soliloquio non fu così sordo, poichè nelle file più lontane dal sipario c’era uno spettatore molto, molto insolito, che applaudì per qualche istante; il biondo assottigliò lo sguardo azzurro, per poi serrare le palpebre vagamente infastidito.

«Tu….che ci fai qui?

Credevo che la cultura desse fuoco a voi Queensbury..»

«Elaijah, hai sempre una buona parola per i tuoi amici?

Stavo solo apprezzando le tue doti interpretative! Un peccato che tu debba esibirti..in questo….tugurio, meriteresti qualcosa di più degno…»

«Certo che sì, ad esempio la tua squadra Beta di buffoni, li fate esibire i clown!»

Rispose annoiato l’attore, con le mani sui fianchi, scrutando il ragazzo di statura poco più bassa avvicinarsi verso di lui; Quentin Queensbury, figlio della fortuna, così gli piaceva considerarlo!

Era un giovane di bell’aspetto, dalla carnagione bronzea, non pareva europeo quanto più proveniente da un altro continente, ma quel accento francese poteva trarre in inganno molte orecchie, anche quelle più accorte; Elaijah sembrava essere il suo totale opposto, una bellezza diversa molto più fredda e meno languida, ma alla fine tutti e due erano molto più simili di quanto non si credesse. Erano dei tramiti, e quello poteva bastare.

Quentin,con fare annoiato,fece spallucce, guardando negli occhi azzurri l’altro, appoggiando una sigaretta fra le carnose labbra.

«Non sono io Banquo, non è me che devi assassinare, oh mio lord di Scozia, e nemmeno sono tua moglie, ringraziando Dio.. »

«Sei credente adesso? »

«Meglio bastardo che credente, almeno faccio affidamento su me stesso e non su una credenza popolare..»

«E tu di figli bastardi te ne intendi, vero?»

«Vuoi che…iniziamo a lottare? Ti vedo particolarmente aspro stamane…

Ti avverto però, non sono l’unico bastardo qui,dico bene? »

«Cosa sei venuto a fare Quentin?

Prima che ti ingaggi per il ruolo di Lady Macbeth, siamo a corto di attrici ultimamente!»

Quentin rise a quella sentita proposta, solo per far sparire dalle sue labbra qualsiasi forma di goliardia; tirò fuori dalla tasca della sua giacca una busta dai toni avorio, appena piegata sui bordi.

Gli occhi azzurri dell’attore tradirono un sussulto, solo per posare la piena attenzione su quelli bui del Queensbury, il quale non fece altro che tendergli quel pezzo di carta come un invito; si guardò intorno, notando come i mediocri costumi di scena fossero gettati alla rinfusa all’interno di un baule sgangherato, ma erano ben riconoscibili, tra cui un’armatura fatta di latta, una spada di legno e una corona, probabilmente anche quelle di qualche lega insignificante. 

«Mai apprezzato Shakespeare…troppo…prolisso…quasi scontato…ho sempre preferito la tragedia greca, non trovi…collega? »

«Collega?
Non ricordavo di essere uno di voi!
Dopotutto…io e te lavoriamo su fronti un tantinello opposti, Queensbury, o mi sbaglio?»
«Sarà vero? Facciamo parte di fazioni relativamente opposte, per come la vedo io, ma il fine è comune!
E poi non ti sarai mica pentito!
I nostri…”superiori” non la prenderebbero troppo bene, i tuoi soprattutto..»

«Ne sei sicuro?
Credo che se malauguratamente fallissi, il tuo capitano farebbe di te cose poco ortodosse, o pensa se i tuoi commilitoni venissero a sapere che sei una spia..vogliamo andare oltre?
E poi, Queensbury, cosa siamo noi davanti alla richiesta di un committente?

Nulla, solo pedine..»

«Pedine che si fanno pagare bene…»

«Tsk…puttana..»

«Falso moralista..»

«Moralista? Io?»

Elaijah si sentì quasi offeso, roteando gli occhi per la buffonata appena udita, finendo di leggere ciò che c’era scritto in quelle brevi ma essenziali righe. Annuì, senza alcuna espressione in viso, se non un barlume di stupore, dando poi alle fiamme il foglietto incriminato, appoggiandolo sopra il lume d'una delle varie lampade a petrolio; entrambe guardarono quel misero foglietto contorcersi tra le fiamme, fino a diventare un insignificante cumulo di cenere.

Il cacciatore scostò dal suo viso uno dei suoi ricci focosi e ribelli, usando la stessa lampada per accendere quella sigaretta rimasta lì a penzolare; ne tirò una boccata, poi guardò quella desolata sala, avvertendo una sensazione nuova.

«Si vede proprio tutto…da quassù!»

«Anche quello che non vorresti vedere, credimi..e così pare proprio che il regicidio dovrà essere rimandato! 

Una svista alquanto fastidiosa.. »

«Non prendertela per così poco, mia letale Cassandra…stasera toccherà a te, domani a me, chi può dirlo cosa sceglieranno i nostri dei?»

Fece Quentin con fare scenico, sguainando la spada di scena da quella sorta di disorganizzato cassone, puntandola proprio contro la giugulare di Elaijah; lasciò un ghigno perfido a bondargli sulle labbra, stringendo le distanze fra i due quando prese la la punta della finta arma, premendola maggiormente contro la sua gola.

«Non farti beffe di me….Ulisse...non sempre gli dei sono così misericordiosi, soprattutto con chi è così ostinato ed insolente…potresti puntare sul cavallo sbagliato!»

«Non sono così stupido…dal commettere una simile mancanza…checchè ne possa dire il nostro Macaone...oppure tu..»

Gettò la spada al suolo, creando un notevole eco in tutta la vacante sala, già prossimo ad andarsene via, ma dovette fermarsi quando Elaijah lo prese per una spalla.

«Che ne è…del nostro Achille invece?»

«Achille…? Alle prese…con Patroclo…un po come ogni giorno…ma..perchè mi chiedi? »

«Perché sta per succedere qualcosa, Quentin…non so cosa, ma….anche “loro” sono inquieti.. »

«I tuoi dei? »

«Non i miei dei, Ulisse..»

Gli strinse il braccio, avvicinandolo a sé, quasi a rendere più chiara l’idea.

«I nostri..demoni..

Difficilmente sbagliano, e questo lo sai!»

Il ragazzo più giovane prese un sentito respiro, annuendo a quelle parole, ricambiando il contatto sulla spalla del biondo, appena più rassicurante.

«Ho capito, d’accordo…ma ti ricordo che a differenza nostra, Achille, è protetto dalla sua natura divina.. noi siamo dei mortali..»

«E io ti ricordo che anche il figlio di Peleo era in parte mortale…non prenderti mai gioco delle mie premonizioni, scaltro…Ulisse..»

Gli sguardi dei due giovani rimasero a fissarsi per diversi istanti, prima di sciogliere qualsiasi contatto; il Queensbury riprese a camminare verso l’uscita, voltandosi indietro solamente una volta.

«Cambio di programma, stasera andrà in scena la caduta di Troia, signore e signori!»

L’attore lo guardò da lontano lasciare quella sala, con la mente piena di pensieri, caotica; non c’era mai pace per il maligno,era proprio vero!

Il suo occhio terso cadde all’altezza del suo stesso avambraccio, distrattamente scoperto per pura mancanza, su cui un nero marchio all’oggiava da chissà quanto, sebbene la fattura paresse fresca; lo sfiorò con il pollice, sebbene vi fosse riluttanza in quel gesto:  un pentagono sovrastato dal capro nero. Lo nascose ancora prima di poterlo analizzare ulteriormente, non volendo nemmeno più osservarlo; aveva uno spettacolo da preparare..

Maledetto,maledetto Odisseo!

 

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Capitolo 4
*** Dress like a man, act like a man, but live as a woman ***


     Chapter 4: Dress like a man, act like a man, but live as a woman.
        

   Current Day

 

London, Mayfair.

 

«Signorino Jude..? Singnorino Lowell?!! Per l’amor di Dio, signorini, smettetela di correre sulle scale, finirete per farvi molto male! Vostro padre potrebbe darvi pure il resto in quel caso, lo sapete?»
Ben lontano da dove la povertà regnava sovrana, nel ricco quartiere del Mayfair, le urla di gioia e di spensieratezza sembravano portare un bagliore di luce in quella fredda schiera di magioni aristocratiche, una in particolare: casa del barone e cavaliere Benjamin Burke. Fra quelle mura domestiche, ornate di splendidi arazzi, mobilio costoso e tappeti importati dall’oriente, due bambini, fratelli, ignoravano categoricamente i richiami dell’anziana governante, che cercò in tutti i modi di disarmarli di quelle improvvisate spade giocattolo, ovvero due appuntiti bastoni da passeggio con cui presero a rincorrersi sempre più velocemente. Eppure i tentativi dell’anziana donna dai capelli ormai candidi vennero messi a tacere dalla voce della figlia maggiore del padrone di casa, nient’altro che la madre di quei terremoti, comodamente seduta su uno dei divanetti broccati di quel accogliente e sofisticato salotto.
«Via, via, Bernadette! Se quella…carcassa di mio marito riuscisse anche solo ad acciuffare uno di quei discoli gli verrebbe un infarto il secondo dopo…non diciamo sciocchezze, sono solo bambini! Lasciali pure giocare, non ti ricordi com’eravamo noi 3 alla loro età?» disse la stessa giovane donna dai capelli rosso fuoco, con le braccia avvolte attorno alla seduta del divano, sorseggiando un profumato liquore in un bicchierino di cristallo. Bernadette annuì quasi con un sospiro nostalgico, tenendo sempre un occhio di riguardo sui due fratellini dai capelli riccissimi, color pece, quasi anomali in una famiglia di teste bionde e rossicce come quella.
«Ricordo bene, signorina Yvonne, come se fosse ieri…siete cresciute tutte quante così in fretta che a stento riesco a starvi più dietro!» commentò la vecchia con un piccolo singhiozzo, quasi triste, interrotto però dal borbottio di una delle domestiche di casa, intenta a fare da sarta ad un’altra delle 5 figlie di lord Burke. Yvonne si lasciò andare ad una risata quasi divertita, osservando la sorella minore, in piedi su una pedana di legno, immobile come una statua, in preda alle mani completamente inesperte della nuova cameriera di casa, che cercava di rammendare un evidente strappo alla camicia della fanciulla; quest’ultima non emise nemmeno un fiato alle innumerevoli scuse della domestica, osservando il vuoto con i suoi grandi occhi azzurri, quasi assente o esterna a ciò che stava succedendo lì dentro. Alzò solo una mano in alto, facendo fermare di botto la giovane sarta al suo fianco, con ago e filo ancora in opera.
«Perdonatemi signorina Evelyn, vi..vi.. ho forse fatto male?» chiese la donna con fare da cerbiatto impaurito. La ragazza rispose con una negazione del capo, congedandola con un semplice gesto della nuca, facendo praticamente fuggire la sarta terrorizzata da quel suo gesto perentorio. Chiunque avrebbe reagito alla stessa stessa maniera davanti a quello sguardo di ghiaccio, nient’altro che silenziosa freddezza negli occhi di Evelyn Burke, un nome di battesimo poco usato in quella casa, solo di facciata forse; Yvonne posò sul tavolino il suo bicchiere vuoto, guardando la sorella di spalle, con un’espressione incuriosita, appena sarcastica, per nulla sorpresa dal suo fare, a cui era abituata fin dall’infanzia. Fece spallucce, sdraiandosi del tutto con il suo sfarzoso vestito verde lungo il suo personale triclinio.
«Noto con dispiacere che stamattina la cortesia l’abbiamo lasciata altrove..."Evelyn", sbaglio? Che succede, problemi con lord Luther? Di sicuro è un uomo più loquace di te!» concluse provocatoria, sciogliendo la folta chioma riccia dal fermaglio dorato che la tratteneva sulla nuca.
Saul, quello era il suo nome, rispose con un ghigno fintamente divertito, osservando allo specchio il lavoro appena passabile eseguito sull’orlo della sua camicia blu elettrico; a differenza di Yvonne, i capelli della giovane lady erano di un biondo estremamente chiaro, quasi tendente al bianco, esattamente come la sua pelle pallida. Il suo fisico asciutto era messo in evidenza da un abbigliamento poco consono ad una donna del suo status sociale, anzi, non era consono a nessuna donna e basta, visto che erano abiti di taglio maschile, fatti esattamente su misura; non era una casualità, o forse una novità per l’aristocrazia di Londra, ma restava, a porte chiuse ovviamente, un pettegolezzo sempre di moda.
«Non ne dubito, meglio di te non li conosce nessuno….i nobili inglesi….dico bene,sorella..anche se dubito che un uomo come lui ti lascerebbe la lingua ancorata in bocca, non è così?»
Saul era di poche parole, quasi muta, ma quel poco che proferiva era tagliente come una sciabola; si voltò a ¾ in direzione di Yvonne, in tempo per godersi la sua espressione infastidita, eppure si ritrovò il viso di bronzo di quest’ultima, intenta a sventolarsi con il suo ventaglio in piume di pavone.
«Dunque oltre al “sissignore”  e “nossignore”, la mia mansueta sorellina azzarda queste frecce? Saul, potresti quasi sorprendermi, lo sai?»
«Come tu obbedisci agli ordini di nostro padre e di quel patetico flaccido di tuo marito, io eseguo il mio ruolo sotto comando del mio superiore, funziona così la catena di montaggio, se non ricordo male….» disse la bionda, aggiustandosi i gemelli d’argento nelle asole del polsino. «Pesce piccolo si sottomette al pesce più grosso, non è quello che dici sempre tu? Anche se non ricordo se me lo accennasti in riferimento a questo argomento o blaterando qualcosa con le tue dame di compagnia sui tuoi amanti…»
Negli occhi bruni di Yvonne passò un chiaro fulmine, d’avvertimento, recepito perfino dalla governante, che scelse saggiamente di lasciare sole le due sorelle nel salotto, preferendo di gran lunga badare ai due ragazzini. Non appena le porte si chiusero, la rossa si alzò senza alcuna fretta, raggiungendo come meta unica il tavolinetto degli alcolici: un anestetico comune in qualsiasi ambiente, a quanto pare.
«Se pensi di ferirmi raccontandomi la mia vita, Saul, stai facendo un bel buco nell’acqua, perché per lo meno qui, discutiamo di solide verità, tu invece, che scusa hai?»
«Di che stai parlando?» la bionda sbottò, con le sopracciglia chiare aggrottate, fermandosi dal vestirsi, solo per pochi istanti. La sorella indicò con gli stessi occhi i suoi abiti, anzi, non tanto quelli, forse più il loro significato, roteando all’interno dello stesso bicchiere quel liquido miele.
«Hai veramente intenzione di esaudire i desideri di un porco e di un folle fino alla tomba, Evelyn? Eh? Per quanto ancora fingerai di avere il cazzo e di portare i capelli raccolti come una vedova?»
«Che linguaggio colorito, sorella…e poi, se per essere un vero uomo bastasse solo avere il cazzo, beh, il cervello sarebbe quasi inutile, non pensi?»
«Come se non andassero già così le cose…» mormorò fra sé e sé la maggiore, puntando il suo sguardo su quello contrastante di sua sorella; sembrò l’incontro tra fuoco e ghiaccio, due forze distruttive a loro modo. Il primo sembrava trasparire una tempesta, il secondo invece non lasciava emergere alcuna emozione, ben celate sotto anni di rigida educazione maschile, addestramento militare e privazione di qualsiasi sentimento simile all'amore o all'empatia. 
Non era la prima volta che quel discorso animava le due donne, e forse non sarebbe stata l’ultima, ma una cosa era certa: l’essere irremovibile di Saul non sarebbe mai mutato, nemmeno davanti al sangue del suo sangue. Mise la sua giacca, i guanti, il cappello, riservando una piccola scrollata alle spalline del cappotto scuro; il buon profumo di agrumi e di vaniglia era forse l’unica cosa che addolciva quella sua figura così burbera ed autoritaria, un viso su cui il sorriso era tramontato, o forse non era mai sorto, una cosa orribile per una giovane di appena 23 anni. La distanza fra le due sorelle diminuì nel momento in cui la bionda si avvicinò alla rossa.
«Siamo tutti colpevoli, Yvonne, di questo sistema corrotto, dal pedone alla regina, siamo noi stessi a creare le basi di un apparente equilibrio ed è nostro compito salvaguardarlo, mantenerlo intatto, pensa se davvero ognuno di noi potesse veramente avere il libero arbitrio su tutto…pensa, sorella, cosa ne sarebbe della tua bella casa, dei tuoi splendidi figli se veramente potessi sbarazzarti di tuo marito…non saresti una donna libera, tutt’altro, dovresti svenderti come si fa con la carne di seconda scelta, e sai meglio di me che passati i 30 anni una donna, in questo ambiente, non ha altra scelta che diventare un frivolo passatempo per qualche noioso lord troppo pigro per cercare cacciagione più fresca….»
Negli occhi scuri della donna si vide un chiaro brivido di disgusto, seguito dalla stretta crudele di Saul suo stesso braccio; non violenta, ma stretta il giusto da trasmettere un ghiaccio penetrante, più illuminante di quelle stesse vere e laceranti parole. Si avvicinò all’orecchio di Yvonne, quasi congelata sul posto.
«Smetti di giocare col fuoco, Yve, non hai più l’età né la possibilità di rimetterti in gioco qualora quel cieco di Mason dovesse venire a sapere che ti prendi gioco di lui, e pensa che cosa farebbe a Jude e a Lowell, o a te stessa, se scoprisse che non sono figli suoi..a volte perfino le persone più stolte possono essere pericolose, figurati per una donna adultera e per dei figli bastardi…nessuno ci salverà, ne nostro padre, né ciò che resta della mamma…siamo noi contro loro, e se per affrontarli a testa alta dovrò avere un paio di pantaloni…che ben venga allora…» le disse senza alcuna indecisione, diretta come una freccia in pieno petto. Saul sciolse quella presa, ma la mano di Yvonne la bloccò esattamente dov’era: un ultimo disperato tentativo?
«E tu...sorellina? A cosa vai incontro? Ti negherai tutte le gioie di essere donna? Essere amata? Essere…quello che sei davvero? Questo equilibrio vale veramente la tua felicità? Pensaci anche tu; conosco i miei peccati, mi perseguitano, ma li ho commessi con consapevolezza, dal primo uomo che ho incontrato dopo essere stata costretta a questo matrimonio fino all’ultimo, che ultimo probabilmente non sarà…» commentò sarcastica con un sorriso amaro sulle labbra ciliegia, sfiorando la gote candida di Evelyn con le nocche della mano.
«Dimmi, quando sua maestà si sarà stancata dei tuoi servizi, Luther Richter sarà finalmente in una coltre di legno e io in fondo ad un dirupo, di te esattamente cosa ne resterà? Una vecchia, una vecchia sola, senza nessuno accanto, né un marito, né un amante, dei figli, nulla, né un amico, nessuno a piangere per te quando te ne andrai...ora dimmi, ha così tanto valore soddisfare le volontà di chi ci controlla? Io non credo, sorellina, e l’ho capito troppo tardi per scappare…ci sono cose che non si possono cambiare, come la mia situazione,ma...che io sia maledetta se pure la mia prole dovesse scontare la mia stessa pena…» disse Yvonne, quasi pronunciando un solenne giuramento sulla sua misera vita, guardando gli stessi bellissimi figli oltre la vetrata della porta finestra che dava sul grande giardino sul retro; pure gli occhi di Saul finirono inevitabilmente sugli spensierati nipotini, uno più bello dell’altro, due anime libere e innocenti. Non volle cedere ad un sorriso, ma dentro di sé avvertì un chiaro dolore, quasi una ferita nascosta mai curata, e che sarebbe rimasta tale se non l'avrebbe messa a nudo a breve. Non erano le vesti a cambiare le cose, non un bustino o una camicia, ma gli animi repressi e soffocati da essi; bisognava prendere una scelta, nessuna mai facile: piegarsi e soccombere, o alzarsi e morire? Vincere, in ogni caso, non era contemplato, a meno che a giocare non fosse il re o la regina.
«S-Signorina Evelyn..? Mi perdoni se la disturbo, ma i fratelli Nardi sono arrivati, e insieme a loro c’è il signor Richter che chiede espressamente di lei..» 
Yvonne a solo sentire quel nome diede le spalle alla sorella, la quale annuì appena al messaggio della cameriera, che scappò via esattamente come pochi istanti prima, lasciando miss Burke ai suoi ultimi effetti personali.
La rossa la guardò, senza il benchè minimo stupore.
«Come puoi non ascoltarmi? Ma non lo capisci che questo è un gioco malato? Lui è un assassino, un manipolatore..» cercò le parole giuste, ma avrebbe solo sprecato fiato, poichè lo sguardo di ghiaccio della sorella minore le congelò l’anima, inchiodandola contro il muro.
Saul strinse appena il nodo della cravatta, recuperò il suo bastone ed infine gli occhiali scuri.
«Apprezzo la tua premura, sorella, ma resta fuori dal mio mondo, non entrarci mai, perchè non ne usciresti, non viva almeno, e fammi questo favore..levati dalla bocca il nome di quell’uomo, perchè non sai di cos’è capace,e nemmeno io!»
Detto questo, della presenza di Saul Burke rimase solo il dolce profumo di lillà, delicato con un sussurro, un sussurro che racchiudeva in esso segreti, molti segreti, che avrebbero fatto bene a restare tali.
In quella stradina del ricco Mayfair, una carrozza attendeva l’arrivo della giovane miss di casa Burke, e due giovani damerini dall’aspetto non esattamente familiare facevano quasi da guardia a quella casupola su ruote oscurata; il primo era molto più alto e robusto, dai capelli castani lisci, un taglio quasi militare ai lati e ciuffi lasciati più lunghi sul davanti, un paio di penetranti occhi azzurri e uno sguardo serio, vigile, attento. Il secondo, beh, diciamo che l’essere serio non era esattamente fra le sue tante e ignote qualità; molto più magro, ma non meno agile o sprovveduto, ben vestito, con uno sgargiante cappotto mogano, i capelli tinti di un biondo quasi metallizzato, il cappello a cilindro alto e un paio di neri occhiali da sole borchiati attorno alle lenti. 
Diego Nardi riservò al fratello un’occhiata praticamente basita, con le braccia incrociate al petto; Ivo si abbassò gli occhiali appariscenti sulla punta del naso, facendo comparire quei verdi occhi da stregatto.
«Che?» fece indispettito, appoggiando la suola del suo stivale con il tacco contro la ruota della carrozza. 
L’altro lo squadrò da capo a piedi, a rendere palese il messaggio.
«Ti sei vestito per il carnevale?»
«A te invece è morta la zia di Castellammare del Golfo, Don Carmine? » rispose prontamente il linguacciuto giovane dagli italiani natali, con un occhiolino riservato al nero guardaroba di Diego, che gli consegnò un coppino dietro la nuca. 
«Ti ricordo che non siamo venuti fin qui per fare i clown, e so che la cosa ti viene naturale, ma vedi di darci un taglio, Ivo! Se ti chiedo di non attirare l’attenzione un motivo ci sarà, non pensi? Ma se vuoi farti notare per essere la nuova puttana di un pappone, allora vedi di startene a casa, fratello..» gli intimò il maggiore all’orecchio, quasi come se fossero ancora due bambini, e non due giovani uomini ormai adulti.
Ivo si diede una sistemata alla giacca, cercando di rimettersi in riga, sebbene fosse quasi più forte di lui; fratelli gemelli, due facce della stessa medaglia, solo che una scintillava come un penny lustrato, la seconda era opaca, come ricoperta da ossido.
Diego si passò una mano sul viso, per poi sospirare, come a cambiare argomento.
«Duncan Griffith..è lui il motivo della nostra visita..le famiglie vogliono l’approvazione di Luther..»
«E chi cazzo è? Un altro dei figli di Rhys? » fece stupito Ivo, non ricordandolo affatto.
Diego annuì, allungandogli una fotografia dal taschino del cappotto nero. Il ragazzo analizzò con un ghigno maligno quel giovane viso, ma prima che potesse esprimere qualsiasi apprezzamento, il Nardi riprese quel piccolo foglio di carta, storcendo il naso.
«Guarda che non devi aggiungerlo alla lista delle tue cavie sadomaso, dobbiamo portarlo a Luther, integro..» ribadì con un cipiglio costantemente sdegnato.
Ivo sbuffò, riportando con l’indice gli occhialini sul volto.
«Caro fratello, integro vuol dire tante cose, e dubito che al nostro gentile padre scocci se mi ci diverto un pochino, mica dobbiamo proporlo in moglie a nessuno..» concluse il ragazzo, guardando l’orologio sul polso. Erano le 12.00 in punto.
«Ivo?»
«Si, Diego?»
«Tieniti. Il. Cazzo. Nei. Pantaloni. » 
«Lo farò quando tu, amato fratello, ti toglierai la scopa dal culo,e fino ad allora sei gentilmente pregato di non rompermi il suddetto cazzo, ok?»
Diego sentì il suo pugno formicolargli all’idea di dare un bel pugno in viso al fratello, ma si trattenne quando vennero entrambi raggiunti dalla persona che stavano aspettando. 
«Avete trovato Griffith?» chiese a bruciapelo Saul, non guardando nemmeno Ivo, bensì Diego, che annuì, ma venne sorpassato dal biondo, che si tolse giusto il cappello dal capo.
«Non ti piacciono i preliminari vedo, del tipo, “buongiorno ragazzi, avete dormito bene?”»
«Nardi non sono qui per prendere il the con una prostituta dell’Est End come te! Ho un lavoro da svolgere, e parlerò solo con il signor Richter, non con il suo bastardo..»
Tra i due albini ci fu quasi una viva tensione di schiaffi volanti all’orizzonte, a cui Diego sorvolò con uno sbadiglio di noia, mettendo una mano sulla spalla del fratello, non troppo incline al dialogo.
«Inutile accoltellarci tra di noi, per quanto sia divertente! Salga su, miss Burke, il viaggio è lungo e magione Griffith non è esattamente alle porte della città.» 
Non bastarono altre parole; Saul salì senza degnarli di uno sguardo, prendendo posto in carrozza, ma prima che le porte di chiudessero, Ivo prese Diego per il braccio,lasciando fuori emergere una lingua che difficilmente i cittadini inglesi avrebbero capito.
«Se questa bagascia mezzo uomo mi dà ancora della puttana, non rispondo di me, fratello, perché comincio a non sopportarla più e me ne frego se è al servizio della Corona, sai?»
«Se tu la accoltelli, mio caro ragazzo, che racconteremo a Luther? Che l’hanno rapita i predoni? » rispose sarcastico l’altro.
«Come no, nemmeno sua madre la vorrebbe indietro a quella puttana..»
«Sebbene comprenda la tua collera, ci serve viva! Lei conosce…il tramite, e il tramite sa cose che nessun altro conosce, e se lei muore addio alle informazioni sul libro che, ti ricordo, tu hai perso..Ivo, se siamo nella merda è anche colpa tua..quindi o ti metti zitto e buono a sedere, oppure le segrete della Hunter avranno un nuovo ospite, e nemmeno Luther potrà salvarti il culo questa volta!»

Era stato chiaro, pure fin troppo.

Ivo fu l’ultimo a salire in carrozza, ma prima di farlo si voltò di scatto verso il vicolo buio e deserto che precedeva l’ingresso di magione Burke; si girò diverse volte, come se qualcosa lo stesse guardando, spiando, o forse qualcuno, non era sicuro, ma difficilmente si sbagliava. 
Che fosse solo una stupida sensazione?

Si sfiorò il retro del magro collo, dove una croce rovesciata al contrario era tatuata, ma non indugiò ulteriormente; far indugiare il suo patrigno non era una cosa saggia.

Affatto. 

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Capitolo 5
*** Fear leads to anger. Anger leads to hate. Hate leads to. ***


      Chapter 5: "Fear leads to anger. Anger leads to hate. Hate leads to"

 

              Current Day

 

Somewhere in the middle of nowhere.

 

Una cella buia. Non c’era una finestra, né un semplice alito di vento, nulla.

Sarebbe morto lì? 

Ovvio, la Hunter non faceva mai prigionieri, ma l’eccezione alle volte sapeva essere una vera maledizione, per il condannato, si intende. Per Luther Richter invece era normale amministrazione, un barboso martedì lavorativo come molti già passati e ancora tanti altri a venire, e non sarebbe stata sicuramente la nuova identità della sua vittima a cambiargli la giornata.
Nemmeno aveva in memoria il nome di quello sciagurato che continuava a rigirarsi come una salamandra senza coda su quel lettino di ferro, anche perché non gli importava minimamente; buffo come il lavoro sporco finisse sempre nelle sue mani!
«In questa breve e, spero per te, significativa pausa…hai forse rinvenuto dettagli di vaga importanza sulla fuga di Balthazar dalle segrete della Hunter…em, mi ripeti il tuo nome? 
Anzi, no, lascia perdere il nome, conserva il fiato per la tua confessione.» precisò con quel tono di  voce maledettamente calmo, armonico, un timbro intenso e orecchiabile, completamente intriso di un essere risoluto che dava quasi i brividi. 
«Ve l’ho già detto, maledizione, io non ne so niente, non ho a che fare con quel lestofante da anni, da quando ha rubato ai monaci quel maledetto libro! Non lo vedo da allora, come potrei sapere dov’è adesso?!» disse il pover’uomo completamente nudo, con gli occhi sgranati, quasi fuori dalle orbite, il fiato che gli moriva in gola e il cuore che gli galoppava come un pazzo in petto.
Non erano gli strumenti di tortura, non era la schiera sguainata di bisturi, il grembiule sporco di sangue, non era quello a fargli desiderare la morte; era il suo sguardo di iceberg che lo mandava in paranoia.
A prima vista quell’uomo sembrava un lord, un uomo ben distinto, garbato, dai modi assai raffinati, accorto, pragmatico,con delle capacità oratorie al di sopra della media, per non parlare delle sue tecniche di combattimento; era persino peggio di quello che poteva sembrare dal semplice esterno.
Sbuffò, non aspettandosi certo risposta diversa da quella precedente, ma questo di certo non lo fece indugiare nemmeno per un secondo; la luce fredda di una lampada da laboratorio appesa al soffitto illuminò al meglio il suo viso spigoloso, i capelli biondo cenere, la figura assoluta.Gli prese la mascella con una stretta tale da far rompere l'osso, premurandosi di avvolgere con le fauci di una tenaglia uno dei molari del penitente, avvicinandosi maggiormente al suo volto.
«Capisco la posizione in cui ti trovi, davvero, da un lato hai noi che faremo di te una maschera di sangue, dall’altra hai i tuoi confratelli…ma quello che non capisco è perchè tradirli per un…imbroglione che puzza di spezie, questo proprio mi sfugge..e speravo con tanta fiducia che avresti collaborato!
Quindi te lo chiederò solo un’altra volta, prima che dente dopo dente ti renderò una prugna appassita, e tu non lo vuoi questo, giusto?» cantilenò l’uomo accanto all’orecchio del prigioniero, che guaì come un cane morente quando quella sorta di forcipe iniziò a fargli pressione sulle gengive, ma prima che Luther potesse strapparglielo via, qualcosa lo fermò.
Roteò gli occhi chiari verso le sue spalle, inarcando un sopracciglio retorico.
«Quanto hai intenzione di restare là dietro, Ivo? Non ricordavo che il tuo compito fosse disturbare il mio! »
«Come? Io? Disturbare? Che idea assurda, sono più silenzioso di un gatto, Lulu, e lo sai, anzi, piuttosto che fare il cacciatore dovrei invece fare il ladro, dopotutto guarda qui che linea..» puntualizzò il minore dei gemelli Nardi, con le spalle appoggiate alla porta d’ingresso di quel posto infernale. Luther si passò seccato il polso contro la fronte, rivolgendo parzialmente lo sguardo verso il figlio, e non senza riservargli un’occhiata poco felice. 
Ivo mostrò un sorrisetto furbastro a 32 denti, uno più bianco dell’altro, salutando con la mano la vittima sul lettino, ma senza avvicinarsi.
«Come andiamo lì? Vedo alla grande, ha forse cantato il fratacchione? Avviso per te amico mio...e lo dico per farti una cortesia...» fece sgattaiolandogli accanto all’orecchio, fingendo quasi di non essere visto. Il frate agitò compulsivamente i polsi, ma servì a ben poco, incatenato com’era.
«Fossi in te inizierei a raccontargli pure i segreti di San Pietro, perché non è uno che ci va leggero, lo so personalmente, mi ha cresciuto lui! »
«Mmmm…forse hai ragione..» sospirò pensieroso l’uomo armato ancora di tenaglia, perso ad osservare chissà cosa. Ivo rimase a bocca asciutta, indicandosi da solo con il suo indice smaltato di nero.
«Frena le rotative, io...avrei ragione? Adesso mi toccherà farmi frate…OH MA CHE CAZZO, DAI, LO SAI QUANTO COSTA LA MIA GIACCA?» 
Un istante più tardi l’intero viso del ragazzo venne ricoperto da schizzi color carminio, che si pulì infastidito con il fazzoletto allungato da Luther, rigorosamente dopo aver piantato nell’occhio del frate l’intera tenaglia.
Era risaputo, torturare un cazzo di monaco non lo avrebbe portato a nulla, se non ad una perdita di tempo. Doveva cercare altrove le informazioni che gli servivano, ma quello era già un punto di partenza non indifferente!
Tirò fuori dalla cavità oculare distrutta l’arnese di ferro ricoperto di quel tiepido liquido, aprendo la bocca senza vita di quel prigioniero fino ad arrivare con la punta della tenaglia ad estrarre senza grossa difficoltà l’ultimo molare radicato in profondità. Ivo guardò quel processo con una sentita nota di nausea, grattandosi la tempia con perplessità.
Schiuse le labbra per un mezzo secondo, ma quello che vide lo fece zittire all’istante; sul molare del frate era inciso un simbolo curioso, bizzarro, ma non sconosciuto agli occhi dell’uomo, che lasciò il dente all’interno di una boccetta di vetro.
«Non ricordavo che i frati romani avessero a che fare coi demoni..ma vedo che niente è poi così sicuro ormai..»
«Demoni? I monaci con la tonaca adesso fanno patti con quelle blatte? E perché poi? Cosa c’era in quel libro di tanto importante?»
«Questo, Ivo, dovresti dirmelo tu, dopotutto sei tu che hai lasciato andare Balthasar, o dico male?» fece l’uomo senza la benché minima emozione nel tono di voce, puntando però i suoi occhi ghiaccio su quelli verdi del ragazzo.
Ivo Nardi; era difficile capire che cosa passasse per la testa di quel giovane ragazzo, assolutamente fuori posto, figlio non della fortuna quanto più del caso e perfetta definizione di persona sbagliata al momento sbagliato.
Non voleva essere un cacciatore, non gli importava nulla della Hunter, di quel mondo in cui era stato trascinato quand’era appena un bambino, uno che avrebbe solo dovuto crescere, giocare, vivere una vita normale e non imparare ad armeggiare coi coltelli; ma ormai era storia vecchia, quella.
Diego, lui si che era diverso, sembrava il figlio naturale di quell’uomo che gli stava davanti, che lo aveva cresciuto nonostante avesse potuto fare altrimenti e abbandonarlo al suo inevitabile destino; in cuor suo Ivo non sapeva nemmeno perché aveva ancora fiato nei polmoni, dopo ciò che aveva fatto, come minimo, lo avrebbero dovuto consegnare alle autorità, ma quell’uomo, che odiava e rispettava allo stesso tempo, lo aveva salvato.
Di nuovo.
Non ebbero bisogno di dirsi nulla, parlarono coi soli occhi finché il ragazzo non cambiò argomento, accarezzandosi con la punta della lingua la perfetta dentatura.
«Abbiamo recuperato la tua pupilla suonata a casa Burke; è già pronta per prendere il suo rispettoso trenino per Cardiff..»
«Noto del puerile sarcasmo; se hai qualcosa da dire, ragazzo, non mi pare che tu abbia il divieto di parola sebbene meriti il bavaglio spinto giù per la gola..e se si tratta dello stupido battibecco dell’ultima volta...» 
Luther si trovò davanti quasi di colpo la figura buia e forse sfuggente del figliastro, con occhi diversi dal solito, cosa che lo stranì; inarcò un biondo sopracciglio, esortandolo a continuare.
«Non mi fido, lo so, sono l'ultimo del gruppo a dover parlare, e so che se il gran consiglio non mi ha fatto staccare la testa è solo grazie a te, ma fidati quando…quando ti dico che ho una brutta sensazione..è come se ci fosse qualcosa di..nascosto..» disse il giovane, con lo sguardo preso da chissà cosa. 
Luther aveva 999 motivi per non dare retta al ragazzo, anzi, anche di più, ma un diavoletto sulla sua spalla lo stava pizzicando da parecchio tempo, e proprio il motivo numero 1000 sembrava fare da ombra agli altri precedenti; il beneficio del dubbio, uno dei demoni più pericolosi che aveva in tasca.
E se Ivo invece seminava il dubbio e il caos, Diego era come Michele, con la spada sguainata al suo fianco, pronto a servire con cieca fedeltà quegli ordini, anche se nemmeno per uno come lui avevano un vero significato.
Il treno fischiò.
«Dunque, vediamo se ho compreso appieno la situazione…il nuovo successore del casato dei Griffith sarà Duncan Griffith? Dico bene? E cosa sappiamo di lui?» 
«A lato teorico, miss Burke, sappiamo tutto, ma a lato pratico siamo abbastanza carenti di risorse..» 
«Ma com’è possibile? Che trascorsi militari ha? Sarà addestrato quantomeno, non è figlio unico e non è l’unico erede..come..come possiamo trovarci a mani vuote? Le famiglie non permetteranno che un idiota senza percezione del reale prenda posto nel consiglio...lo sappiamo bene!.» 
I paesaggi della steppa inglese fecero da sfondo a quella conversazione assolutamente privata a bordo di una delle carrozze di prima classe, un lusso davvero per pochi all’epoca, ma le finanze non era sicuramente un limite per nessuno dei presenti in quello spazio ristretto, ricoperto di sfarzo, solo per nascondere il marcio che c’era sotto. Luther aspirò profondamente il fumo del suo sigaro, guardando il suo stesso riflesso nel vetro del finestrino, causando uno strano e innaturale fastidio sul viso di miss Burke, che mantenne la calma a fatica.
I gemelli Nardi, seduti accanto ai due, si finsero apparentemente sordi, uno con lo sguardo su un libro e l’altro sulla sua meticolosa manicure, ma le loro aguzze orecchie erano tutto fuorché distanti; Saul si tolse nervosamente i guanti scuri, appoggiandoli sulle sue gambe accavallate, rivolgendosi unicamente all’uomo di fronte a lei.
«Senta, non voglio risultare scortese, ma conosce benissimo il pensiero delle altre famiglie...e io mi trovo tra l’incudine e il martello, non lavoro per dei babbei ma per Sua Maestà,e non sarà lieta di sapere che il suo paese verrà difeso da un 20enne masturbatore seriale  che non saprà nemmeno reggere una pistola con due mani!.»
«Se si masturba come spara allora sarà Billy the Kid sul campo di battaglia..» sghignazzò il minore dei Nardi, causando una smorfia divertita anche nel maggiore, che roteò i grandi occhi azzurri verso il gemello. 
Saul trattenne una bestemmia colorita, ma la conversazione tornò nuovamente nelle mani dell’uomo apparentemente assente.
«Miss Burke, comprendo tutte le sue perplessità e le condivido, so che stiamo brancolando nel buio, ma come le dicevo, la famiglia Griffith non è una delle prime arrivate, anzi, insieme a casa Darcy e casa Campbell crearono la pace che fino ad oggi ci ha consentito di convivere con le sventurate creature che respirano con noi a questo mondo, e continueremo su questa strada anche con il signor Duncan Griffith, nonostante il ritardo lampante nella sua..presa di potere..»
Gli occhi gelidi della ragazza tradirono un tono fortemente dubbioso, scettico perfino.
«So che lei e Rhys Griffith siete conoscenti, anzi, vecchi amici, dico bene? Siete stati cadetti e reclute nella stessa squadra d’addestramento, ai tempi…»
Quella insinuazione non venne ben accolta dai gemelli Nardi, che misero inconsapevolmente le mani sulle fondine delle loro armi, ma prima di qualsiasi irreparabile gesto, Luther sollevò semplicemente una mano in alto, fermandoli sul colpo.
Sorrise, sereno.
«Signorina Saul, prima che lei avanzi qualsiasi sciocca ipotesi di favore o di complotto nei confronti di Rhys, ci tengo a precisare che io non sono altro che “l’amministratore” del gran consiglio, perchè di tutta onestà non me n’è mai importato nulla delle questioni familiari delle case fondatrici..come lei ben sa io non sono un nobile, non sono uno dei fondatori, io sono un cacciatore e tutto quello che è  venuto dopo è stato solo grazie al sangue e alla mia spregiudicata caparbietà, e per quanto riguarda l’erede di casa Griffith…be..non è mio compito sicuramente eleggerlo, quanto verificare che sia all’altezza della situazione…e in caso contrario….»
«In caso contrario? Chi prenderebbe il suo posto? So di una sorella..e di uno zio..» fece scaltra la giovane, impuntandosi curiosamente sulla questione, attirando inevitabilmente l’attenzione dei due ragazzi. Richter si fece sfuggire un sospiro mesto, torvo.
«Non credo che una sedicenne gestante sia nelle facoltà di prendere il ruolo di comandante dell’esercito, miss Burke..e per quanto riguarda lo..”zio”, le chiederei di riporre le sue armi cariche di curiosità e impertinenza, perchè se conoscesse Trystan Griffith preferirebbe mettere a capo della famiglia perfino Nerone...e non sto scherzano...»
«Ma è un cacciatore senza precedenti, ha esperienza, conosce il mondo della Hunter, sa cosa significa essere capo di un gruppo, questo Duncan invece che ha di speciale? Oltre ad essere l’unico figlio maschio di Rhys?»
La ragazza non aveva intenzione di mollare; Luther glielo doveva riconoscere, era veramente una sconfinata testa di cazzo!
E come tutte le teste di cazzo, non avrebbe mollato l’osso. Prese un respiro, spegnendo nel posacenere d’argento il mozzicono fumante del suo sigaro, guardando dritto negli occhi quella fanciulla, molto più audace e preparata di quanto non si pensasse. 
«Mi sento in dovere di informarla di tutta la questione, dopotutto è un membro ufficiale del nostro gruppo, non vedo perchè non dovrebbe saperlo…ma badi a quello che sto per dirle; si lasci sfuggire anche un singolo dettaglio di ciò che sentirà e la sua testa si farà un giro in solitario rotolando sui binari, mi ha capito, miss Burke?» chiese con quella sua innata e tetra calma l’uomo. Saul, con un brivido, annuì, in totale silenzio.
«Bene, da dove comincio? Ah,sì, dal principio, direi..lei conosce o ha mai sentito parlare di lady Merrion Darcy?» 
Alla domanda, la ragazza negò, ma allo stesso tempo aprirono tutti e 3 bene le orecchie; quando il nome di un Darcy veniva pronunciato non c’era mai da abbassare la guardia.
Luther non ne rimase minimamente sorpreso.
«Naturale, siete tutti molto giovani per esserne al corrente; lady Rhiannon Thorn la conoscete però!» 
«Certo che la conosco, frequenta mia sorella e il suo circolo, una donna che non passa inosservata direi..» 
Ivo fu prossimo ad una battuta terribilmente sconcia, ma stavolta non disse nulla dopo il calcio alla caviglia da parte del fratello, che continuò imperterrito nella sua lettura. I due non vennero tuttavia distratti, lasciando proseguire l’uomo nel suo discorso.
«Dovete sapere che lady Thorn, storica moglie di lord Griffith, non è la prima sposa di Rhys…affatto! I Griffith non si sarebbero mai legati in prime nozze con una famiglia non appartenente ad un rango nobile come il loro, infatti la prima moglie fu proprio lady Merrion Darcy...erede legittima di casa Darcy a tutti gli effetti e probabile succeditrice di suo padre al titolo di comandante del nord,rammenterai lord Cillian Darcy, attuale comandante…di casa Darcy..» 
«Lord Cillian, ma certo che lo ricordo...ma allora vuol dire che...» 
«Cillian era il fratellastro di lady Merrion, appena un ragazzino quando lei morì, 20 anni fa? Forse qualcosa in meno, sinceramente questa faccenda non viene rievocata troppo spesso, e si fidi di me, è meglio così…
Ad ogni modo, lord Yvain, padre di Rhys, per mantenere puro il sangue della prima linea di successione, decise di dare in moglie al figlio sua nipote Merrion, figlia di sua sorella, lady Gwendolyn Griffith, rammentate lady Griffith vero? Una donna...difficile da dimenticare…» 
Saul annuì, avendo bene in mente la figura dell'anziana donna, una sorta di colonna portante, sempre presente nella cerchia ristretta del gran concilio; ricordava bene quei piccoli occhi scuri, taglienti e misteriosi.
«Quindi, lady Gwendolyn era la madre di lady Merrion? Credevo che...avesse solamente come figlia Rhiannon Thorn, avuta da lord Benjamin..non avevo idea che avesse avuto un'altra figlia, da un Darcy!» 
«Lady Gwendolyn in gioventù è stata una donna molto audace, possiamo dire; ha intrattenuto diverse relazioni, tra cui quella con Charles Darcy,non ci fu matrimonio, lui all'epoca era fidanzato, ma riconobbe senza indugio la piccola Merrion..»
«Non capisco dove questa storia ci possa portare;lady Merrion sarà stata una bambina all'epoca, un matrimonio così breve da essere dimenticato...» osservò la Burke, non comprendendo nemmeno le ragioni di quel bizzarro racconto.
Luther le fece un sorriso quasi comprensivo, forse di tenerezza, riportando l'attenzione sul paesaggio che scorreva fuori veloce, come una saetta.
«Yvain programmò il matrimonio, ma non considerò le volontà delle due figlie di lady Gwendolyn, che col tempo aveva preso in marito lord Thorn, designando Merrion per Rhys e Rhiannon per suo fratello minore, Trystan...
Trystan non gradì mai lo sgarbo che gli fu fatto sottraendogli la sua amata Mery, di fatto i due giovani erano divenuti amanti, così per sottrarsi al matrimonio con Rhiannon, che bramava il potere più di tutti, rinunciò al titolo di lord Griffith e si arruolò come soldato nella Hunter.
Le nozze si svolsero come da manuale e...da questo matrimonio...nacque la prima figlia di Rhys...e lady Darcy…
Eris Griffith, nessuno più legittimo di lei in linea di successione! »
Stavolta perfino i due gemelli si trovarono a sollevare la testa, Diego specialmente; voltò lo sguardo sorpreso verso la figura paterna, con il libro a mezz'aria.
«Eris Griffith...il capitano della squadra Alfa, quella Eris? Io..io credevo che fosse qualche...qualche cugina alla lontana dei Griffith, non..non la figlia legittima di Rhys! Nessun...nessuno fa mai cenno al suo legame di..»
«E perché dovrebbero? Credete che l'abbiano mandata così lontano per nulla? Vedete...quando Eris nacque, nessuno fu più felice di Rhys, ma quella felicità sarebbe durata poco..non molto tempo dopo, Merrion iniziò ad ammalarsi e morì non molti anni più tardi..Eris aveva forse 4 o 5 anni..Lady Rhiannon nel mentre si era rifiutata di prendere marito, e quando la sorellastra morì non fu troppo difficile fare breccia nel cuore stanco di Rhys..e da cosa nasce cosa!La sposò, e nacque il primo erede maschio di casa Griffith, il nostro caro Duncan, seguito poi da Sheelah, una famiglia quasi perfetta, direte voi…Ma non erano questi i termini di felicità voluti dal destino. Vedete, la giovane Eris non ha mai avuto...come dire, pace dalla morte della madre, in maniera quasi ossessiva e paranoica si è perseguitata da sola..»
«Che vorreste dire?»
«Voglio dire che chi è causa del suo mal pianga se stesso, miss Burke! Ritenendo responsabile della morte della madre lady Rhiannon, Eris, con il probabile ma non certo aiuto dello zio, cercò di uccidere molti anni fa la donna e non fece nulla per nasconderlo!Grazie a Dio, forse, l’attentato alla lady di casa fu sventato in tempo, ma non sarebbe bastato a scagionare la ragazzina, che si prese tutte le colpe diventando l’imputata principale…Lady Rhiannon cercò di farla processare ma Rhys non glielo permise, dopotutto era sempre sua figlia, così, per proteggerla? Chi lo sa, chiese a Trystan di portarla via, lontano da Cardiff, fuori dal raggio della corte e delle orecchie indiscrete, e così è stato per 10 anni..»
«Mio Dio, io non..non avevo idea di questa storia, conoscevo per fama il tenente Griffith, ma di Eris…»
La giovane rimase quasi ammutolita da quel racconto tutto fuorchè per bambini, respirando a pieni polmoni, come se fosse rimasta senza fiato; nemmeno i due giovani erano rimasto indifferenti alla cosa, Diego specialmente, che finì per sfiorarsi istintivamente l’avambraccio, coperto dal tessuto nero della camicia, come se al di sotto ci fosse qualcosa.

Qualcosa di molto importante.

Luther guardò la lancetta del suo orologio da taschino, rimettendolo poi nuovamente nella giacca, con un chiaro sospiro.
«Per questo vi posso assicurare che sia Trystan che Eris Griffith preferirebbero veder bruciare l’intera casata piuttosto che venire in suo soccorso, specialmente se si tratta dei figli della donna che ha portato via la loro felicità…e, credetemi, per quanto io abbia a cuore l’amicizia di Rhys, non sono disposto a fare sconti per nessuno, figurarsi per proteggere i suoi di peccati, quindi gradirei che in futuro rifletteste ben due volte prima di sputare sentenze senza conoscere fatti e circostanze, ci siamo intesi?» chiese l’uomo con i suoi occhi inquisitori, occhi di cui Saul, sebbene lo nascondesse bene, aveva fottutamente paura. Non le rimase che annuire in silenzio, volgendo poi entrambe lo sguardo al finestrino; Ivo non apprezzò particolarmente quella quiete agghiacciante, scrollando le spalle come se una superficie di brina fredda lo avesse atrofizzato.
Uscì dalla cabina riservata, il tempo di prendersi una boccata d’aria; ne aveva già piene le palle di quel viaggio, figurarsi di stare a sentire le scopate oltraggiose di 4 nobili pigri e coperti di agi e lussi. Il cartello di divieto di fumo era appesa in ogni dove, ma la tentazione fu più forte di lui, portandosi così la cartina tra le dita, arrotolandola con una certa maestria; non molto lontano da lui, anzi, forse fin troppo vicino alla sua cabina, c’era un giovane di bell’aspetto che lo incuriosì di colpo, ispezionandolo da capo a piedi con la coda del suo acuto occhio.
Elaijah notò lo sguardo di quel bizzarro e intrigante ragazzo su di sé, ma lo ignorò categoricamente con quel suo fare snob che tanto lo caratterizzava; Nardi aggrottò entrambe le sopracciglia a quella sorta di rifiuto.

Scusami?

Non chiuse nemmeno la cartina della sua sigaretta, rimasta incompleta, ora rivolgendo pienamente la sua attenzione al giovane appoggiato di spalle ad uno dei grandi finestrini del corridoio; aveva un non so che di familiare, forse lo aveva già visto, difficilmente una chicca come quella gli sarebbe sfuggita. Si mise con una spalla contro la parete di legno, quasi provocando lo sconosciuto con quella faccia arrogante; Elaijah roteò gli occhi azzurri, rivolgendogli un chiaro sorriso sarcastico.
«Hai perso la mamma, ragazzino? Prova a controllare nel vagone bagagli, magari la trovi li..»
«Credo che la tua invece sia nel vagone merci, principe Azzurro, ma se ti va andiamo a controllare insieme! Non è un luogo adatto ai bambini, dovresti essere accompagnato da un adulto!»
Il biondo assottigliò lo sguardo a quella sorta di flirt assolutamente inaspettato, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni scuri, riportando nuovamente la sua attenzione sul viavai di inservienti nel corridoio centrale.
«Se l’adulto in questione sei tu, beh, grazie ma, no grazie, perchè non torni dalla tua allegra famigliola..Ivo?»
Ivo non trattenne nemmeno per un secondo un divertito sghignazzo, trovando la faccenda molto più interessante di quanto non avesse previsto; cercò di scavare nei meandri della sua mente, ma più ci provava e più l’enigma restava irrisolto.

Chi era quel ragazzo? E perché lo conosceva?

Elaijah si sollevò dal vetro, avvicinandosi al cacciatore con quell’espressione furba, difficile da decifrare, ora girando attorno al ragazzo come un avvoltoio; il corridoio divenne improvvisamente silenzioso.
«Sai è strano, generalmente le ricordo tutte le mie conquiste, ma di un bambolino come te onestamente non ricordo..principe Azzurro, o dovrei dire..?»
«Principe Azzurro andrà bene, credo facciano poco testo nome e cognome, specialmente per uno come te! »
Ivo rimase davvero sorpreso, trovandosi il ragazzo poco più alto di fronte. ora osservando bene quei tratti angelici; era quasi scultoreo, dai tratti così particolari, perfetti quasi. Sbatté le palpebre per riportare effettivamente l’attenzione su quell’anomala conversazione, non mancando di sfiorare la pistola ben conservata a lato della sua cintura.
Elaijah notò quel movimento, con un sospiro quasi rammaricato, ma puramente recitato.
«Non ti piacciono i preliminari?! »
«Oh, non sai quanto in realtà, sono la mia parte preferita, ma capirai anche tu che non siamo esattamente soli e, scusami se te lo dico, il tuo accento ti tradisce parecchio…Lord Fauntleroy…»
Il biondo sorrise, stupendosi; forse lo aveva un po sottovalutato. Elaijah mise scenico le mani in alto, facendo cenno verso le sue tasche, con lo sguardo quasi innocente.
«Perquisisci pure, non sono armato, impavido cecchino, ero solo nei paraggi e volevo quasi ringraziarti personalmente per quello che hai fatto…per Balthasar…credevo che voi della Hunter uccideste gli stregoni, ma noto con estremo piacere che non siete tutti uguali..»
«Prima che ti ficchi una pallottola dove non la vuoi, chi diavolo sei razza di stronzetto? Questo giochino sta cominciando a stancarmi..»
«Ivo..Ivo…Ivo, non c’è bisogno che reciti pure tu, con me, so perché hai liberato Balthasar, ed è proprio per questo che sono venuto a cercarti..non torcercò un capello alla tua diabolica testolina, perché dovrei quando so che ti abbiamo dalla nostra parte?»
Il ragazzo indietreggiò, abbandonando completamente qualsiasi aspetto di divertimento; il clic della sicura disinserita creò una sensazione sinistra in quell’ambiente deserto, mentre le falangi del cacciatore avvolgevano pericolosamente l’impugnatura della pistola.
«Tu non sai..tu non..lui mi ha ingannato…si è preso gioco di me fin dal principio, non mi sarei dovuto fidare di..un prigioniero...»
«Per favore, non essere pietoso, perchè non ci credi nemmeno tu a questa cazzata..tu lo hai liberato perchè lo volevi, perchè sapevi cosa l’Hunter gli avesse fatto…e hai voluto aiutarlo..ti rispetto per questo, Ivo Nardi, ma non per questo mi farò sparare da te...ammesso che tu lo voglia davvero..»
Elaijah strinse drasticamente le distanze, finché la canna della scintillante lady Rose non si trovò puntata contro il suo petto, all’altezza del cuore; si guardarono nuovamente. 
Sapevano entrambe che non avrebbe premuto quel grilletto, e per questo Ivo si morse crudelmente l’interno della guancia fino a farsi male.
Il cacciatore chiuse gli occhi, abbassando inevitabilmente la pistola fino al suo fianco, maledicendosi ripetutamente per quella sua insormontabile debolezza; al contrario, il biondo sorrise, ma non vittorioso, quanto più comprensivo, mettendogli una mano sulla spalla.
«A volte ci illudiamo, Ivo, pensiamo di essere solo quello che i nostri genitori pianificano per noi, come se non ci fosse alcuna possibilità di scelta..anch’io, un tempo, mi ero illuso e anche cullato dietro agli scopi di chi mi precedeva ma..sono stato io che ho deciso cosa fare…tu cosa stai aspettando? Ad unirti a noi? »
«No..no io..io ho Diego, ho...una famiglia..non posso tradirli...non posso! »
Si liberò di quella presa indietreggiando di colpo, sebbene quel minuscolo ma tenace tarlo avesse iniziato a incidere una canzone scandalosa nel suo orecchio; Elaijah fece spallucce, fintamente accondiscendente, già pronto a sorpassarlo e proseguire con il suo viaggio.
Spalle contro spalle, immobili, come se il tempo si fosse fermato; ma aveva davvero scelto lui dove arrivare?
Un formicolio di non poco conto aveva avvolto l’avambraccio del giovane attore, uno più forte dei precedenti ma lo mise a tacere chiudendo gli occhi; li riaprì, voltandosi indietro solo una volta.
«Anch’io credevo...nella famiglia...nella mia...famiglia, ma anche quella ha saputo tradirmi, anche Balthasar si era fidato della tua gente, e come lieto contraccambio li avete sterminati...quindi, mi domando, da che parte hai intenzione di stare? Da quella degli assassini a sangue freddo, comandati da 6 famiglie che li venderebbero al diavolo, oppure nel giusto, comandato da te stesso e dalla tua unica volontà?»
Ivo si sentì tremare dentro, come se fosse appena salito al patibolo, eppure un dettaglio lo riportò alla realtà come uno schiaffo.
«Il gran consiglio è formato dalle 5 famiglie fondatrici…non 6…»
«Ne sei davvero sicuro? Chiedi a Luther Richter se non ti fidi..ma non ti assicuro la sua collaborazione a riguardo..»
«Aspetta!»
Ivo lo fermò, prendendolo per il braccio; finirono nuovamente faccia a faccia.
«Si?»
«Chi sei tu? E perchè non mi sembri una faccia nuova? E soprattutto..come sai tutto questo?»
«Come lo so? Oh Ivo..credevo ci fossi arrivato! Ma se vuoi ti do un piccolo indizio..»
Arrivò a sussurrargli all’orecchio, un qualcosa che solo lui avrebbe potuto sentire, capire e forse ritrovare in se stesso qualcosa che non voleva fare altro che riemergere.
«Non ho gambe, ne braccia, ma questo non è un problema, arrivo alle tuo spalle senza che tu mi senta e cambierò aspetto in continuazione e se di uccidermi avrai l’esitazione mi avventerò su di te finchè non pagherai con la tua espiazione…chi sono?» 
Ivo riaprì di colpo gli occhi, ma come lo fece del ragazzo non c’era più alcuna traccia, completamente dissolto nel nulla; si guardò attorno più volte, ma di Elaijah non trovò nemmeno l’ombra.
«Ti senti bene o ti sei fatto? Ivo stai bene?»
«Cosa? Si..è solo..il..il serpente! IL SERPENTE è..è la riposta!»
«Scusa..che?»
Diego guardò il fratello con un sopracciglio inarcato, sbucando dalla cabina con il capo; il ragazzo rimase senza parole, scuotendo il capo come a lasciar perdere, dopotutto che diavolo di spiegazione avrebbe mai potuto dargli? Quel viaggio sarebbe ripreso senza ulteriori intoppi, o almeno così si sperava, ma Diego non trascurò sicuramente lo sguardo completamente assente del gemello; che storia era quella del serpente?

Ma cosa più importante, perché era coinvolto con le famiglie fondatrici? 

 

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Capitolo 6
*** Don't worry, I trusted you; my mistake, not yours. ***


  Chapter 6: Don't worry, I trusted you; my mistake, not yours.

 

                                                                Current Day

 

Isle of Skye

 

«E così è suonata la campana, eh? Chi l’avrebbe mai detto, perfino un uomo come tuo fratello si è rimangiato la parola?
Dannazione, se è così ormai tutto è possibile…dopo 10 anni? Cazzo…non vorrei proprio essere nei tuoi panni, Trys..»

«Si, si, tu continua pure a prendermi per il culo, voglio proprio vedere che cosa farà il tuo di culo bolscevico di merda senza di me con una cinquantina di reclute che se lo menano dalla mattina alla sera..e non ringraziarmi!»
«Non credertela così tanto, Griffith, sei uno dei miei uomini migliori, ma te la ricordi bene la legge di natura,si?
Tutti siamo utili…»
«..ma nessuno è indispensabile? Oh, sì, me la ricordo molto bene..ma non sono d’accordo, dopotutto, se fosse davvero così saremmo tutti identici, immagina un esercito di culattoni russi coi baffi, non sarebbe inquietante?» sghignazzò il tenente Griffith appoggiato di schiena contro il suo cavallo, intento a brucare sereno in quella distesa infinita di verde, una meraviglia per gli occhi, per non parlare dell'incontro all’orizzonte tra cielo e mare. Erano terre senza dubbio selvagge, ma forse era proprio quella la loro bellezza.

Il piccolo ma ben piazzato ometto roteò i grandi occhioni scuri, seguendo con lo sguardo molto attento quello del suo fedele sottoposto non molto lontano, al campo addestramento, dove i giovani soldati venivano monitorati in modo vigile dal loro integerrimo capitano.

Boris si lasciò andare ad un vistoso e conscio sospiro, non prima di essersi concesso un degno sorso di liquore dalla sua fiaschetta.

«So che ti viene difficile, ma potresti rendere la cosa meno palese smettendo di fissarla in continuazione...oh, non guardarmi con quegli occhi da tonno, il tuo segreto scottante è al sicuro con me, ma per quanto lo sarà ancora, Trystan?»

L’uomo lo guardò con un cipiglio serio, ma anche sinceramente preoccupato; Trystan non era sicuramente il primo arrivato, sapeva bene quanto fosse esposto e questa cosa lo tormentava ripetutamente da troppo tempo. Annuì, portando all'indietro la folta capigliatura ebano, non nascondendo nemmeno lui i suoi timori.

«Se potessi tornare indietro di 10 anni, te lo posso giurare sulla tomba di Merrion, non l’avrei mai portata con me, Boris, l’avrei..portata ovunque, ma non qui, non in questa storia, in questo mondo dove si è obbligati ad essere qualcosa che non si è davvero…ma poi quando l’ho vista così combattiva, fiera, credevo di essermi sbagliato fin dall’inizio, eppure lei..sembra essere in simbiosi con il suo compito, da sempre!»

Boris inarcò un sopracciglio, forse quasi incuriosito da quella frase.

«Ed è un male? Non posso certamente discutere sulle sue doti, è una cacciatrice straordinaria, certo, una testa di cazzo di non poco conto ma non ho di che lamentarmi..se non per, be, lo sai! Ma tolto quel fatto, Eris è esattamente la donna che abbiamo addestrato!»
«Per caso il suddetto fatto prende il nome del tuo compaesano, Evgenij? Ancora faccio fatica a credere che tu l’abbia veramente nominato capitano, quel…»
Ancora prima che Trystan potesse finire la frase, Boris lo guardò con un’espressione seria e assolutamente irremovibile, come il soldato qual era, un pezzo di marmo. L’uomo più giovane dovette ingoiarsi la lingua, guardando altrove, capendo al volo il messaggio.
«Ti rispetto Trystan, ma non sono disposto ad ascoltare oltre solo per i tuoi conflitti personali, e devi iniziare a trattare tua nipote con maggior distanza, ci siamo intesi? Ero e sono amico di tuo fratello e ti ho accolto come un figlio quando sei arrivato e lo stesso ho fatto per Eris, ma caro ragazzo devi metterti in testa che non è più una bambina, lei ha scelto di sfidare Evgenij, nessuno l’ha costretta a farlo e ha pagato la sua impudenza con quel duello!
Non potrai proteggerla per sempre...è una donna adesso, e se non sei così cieco capirai da te che prima o poi dovrai lasciarla andare, per quanto doloroso possa essere..quelli come noi non possono permettersi il lusso di amare, lo sai, è nel regolamento!»
«Avresti potuto denunciarci già molti anni fa..e non lo hai fatto..»
Boris afferrò il braccio dell’uomo, con estrema forza e confidenza, avvicinandolo a sé il giusto per scandire, con quel accento inconfondibile, quelle chiare parole.
«Allora, ragazzo mio, non costringermi mai a farlo, maledizione!»
«Perdonate l’interruzione, signori, è forse accaduto qualcosa? Vi ho visti particolarmente..in pena..morto qualcuno?»
«Tu, se non ti levi dal cazzo immediatamente!» ringhiò come un cane il tenente non appena la presenza del suo problema personale si palesò sfrontata dinanzi ad entrambe i due superiori. 

Boris lasciò andare l’altro, ricomponendosi il giusto la giacca ma non mancando di fulminare Trystan per quella sua solita avventatezza e avversione verso il secondo capitano della spedizione.

Eris Griffith non era il primo capitano per nomina di quel corpo di ricerca, bensì il secondo, ma non sicuramente per fama e rispetto, per quello il primo posto non aveva eguali,ma per influenza  c’era solo un uomo più in alto di lei, e quello era proprio Evgenij Novacek. Non si sapeva quasi nulla di lui, nemmeno un indizio, soltanto qualcosa sulle sue origini straniere, ma erano solo poche briciole di pane; ma una cosa Trystan la sapeva bene su di lui.

Era una serpe in seno, sleale,infido, con una mostruosa abilità nel maneggiare armi da taglio e una velocità invidiabile; era giovane, non molto più grande di Eris, forse di qualche anno, verso i 30, alto e asciutto, dagli occhi chiari, tendenti al ceruleo e i capelli biondo scuro. 
Eppure Trystan non riusciva proprio a dimenticare, vedeva solo un bersaglio sul suo volto da schiaffi, che avrebbe centrato volentieri con un fucile di precisione.

«Tenente Griffith, siete sempre così pungente e rozzo, avete mai considerato il fatto che provenite da una famiglia importante?
Ma come potreste, dopotutto avete passato più tempo qui, che a casa..e lo stesso posso dire della…vostra…pupilla..» disse il giovane uomo con le mani incrociate dietro la schiena, guardando con quel sorriso irritante il tenente, che dovette fare affidamento alla sua calma interiore non appena quello gli si piazzò davanti. Boris prese le redini della situazione in mano prima che potessero magicamente presentarsi dei feriti, mettendosi praticamente in mezzo ai due uomini di stazza nettamente superiore alla sua, pingue e buffa.
«Siete venuto per dirmi qualcosa, Novacek? Per quanto sia divertente vedervi azzuffare tra di voi come due eleganti signorine, vorrei evitare questi dissapori inutili, facciamo tutti parte dello stesso gruppo e vogliamo tutti la stessa cosa, quindi vedete di piantarla.»

Calò tra i 3 un corposo silenzio, sostituito solo dalla brezza marina che soffiava libera lungo la costa; lei non poteva essere messa a tacere, dopotutto.

Evgenij diede attenzione alle parole del superiore, annuendo col capo, con un passo in avanti.

«Ieri mi è stato comunicato dell’imminente partenza del mio…pari, il capitano Griffith, e mi è anche stato riferito che potrei prendere provvisoriamente il controllo della squadra Alfa, in sua assenza…dico bene, sergente Belinsky?»
«Che cosa?! Questo clown prende la squadra di Eris e tu non mi hai detto niente? Oh adesso col cazzo che sto buono..»
«PRIMA CHE TI RIMANDI AI LAVORI FORZATI, CUCITI QUELLA MALEDETTA BOCCACCIA, GRIFFITH!.» sbottò come una pentola a pressione il piccolo ometto russo, che a breve avrebbe preso fuoco alla successiva mancanza di rispetto del suo sottoposto, strillando ora come balalaika molto stonata.

Con un respiro, Boris riprese quella calma apparente che stava cercando di mantenere, mostrando una lettera che da poco gli era giunta al campo, lettera a cui Evgenij sorrise maligno; un segno poco promettente.
«Il comandante Rhys, dopo aver contattato il capitano Griffith, ha avvertito il nostro dirigente nazionale di occuparsi della sostituzione nel periodo del vostro congedo straordinario…e ha scelto il capitano Novacek come sostituto del capitano Griffith, non sono ordini miei, Trystan, quindi non prendere fuoco quando non c’è motivo!.» precisò Boris consegnando personalmente all’uomo quella missiva.
«Sono lusingato che il signor Richter abbia pensato a me, davvero, non me lo aspettavo..non dopo la tragica missione a nord e alla perdita dei miei valorosi uomini! » 

Evgenij pensò alla gravosa operazione nelle terre selvagge del nord ormai fallita,profondamente contrito, ma quella faccia non avrebbe convinto Trystan nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Conosceva quella fottuta firma; Luther, maledetto bastardo, perché aveva scelto proprio lui? Che cosa stava tramando?
Non poteva fare nulla davanti a quel comando ufficiale, nemmeno stracciarlo via, arrendendosi così all’evidenza dei fatti.
«Come si è premurato il nostro superiore di venirci in soccorso, ma non staremo via così tanto! Non c’è bisogno..di una sostituzione…» 
«Non ne sarei così sicuro, ragazzo, se tuo padre ha chiesto l’aiuto di Luther ci sarà un motivo, anzi, da quello che so si tratta del titolo di successione, anche lui verrà a Cardiff in questi giorni, sempre che non sia già li!
Capitano Novacek, lei può andare ma si tenga a disposizione per nuovi ordini.» fece con un cenno del capo il sergente, congedando così il giovane capitano. Boris sentì perfettamente gli occhi carichi di interrogativi furiosi da parte del tenente, chiudendo così istintivamente i suoi, con un amaro sospiro.
«Immagino che adesso mi aggredirai per questo...»
«Da quanto tempo sapevi di questa bravata? Da quanto? Settimane? Luther Richter va a Cardiff e coincidenza delle coincidenze, Rhys Griffith, autoritario frocio, richiama al fronte figlia e fratello, che scherzo è questo?»
Boris guardò il campo addestramento, nello specifico proprio la giovane capitana, più abile di una gazzella, mettere a tappeto 3 giovani reclute; sapeva che quel giorno prima o poi, sarebbe arrivato. 
«Trystan…che tu lo voglia o no sei un Griffith e lo sarai per sempre, e lo stesso sarà per tua nipote...vedi, l’adunanza per la successione del tuo casato è stata aperta qualche anno fa...sai cosa vuol dire, vero?»
Il viso di Trys divenne pallido, quasi un lenzuolo. Strinse con forza i pugni ai fianchi.
«Credi che me ne freghi qualcosa delle famiglie?»
«Inizierà a fregarti quando sapranno che Duncan, tuo nipote, è del tutto inadatto a fare il comandante, e soprattutto inizierà ad importarti quando Luther capirà che il vero potenziale di questa famiglia sanguinosa è lì, fra il fango e la cenere...perdonami, ma non ho intenzione di vedere i miei soldati morire dietro ai capricci di 5 famiglie troppo orgogliose da ammettere una donna nei loro ranghi, ti è chiaro?
Lei può farlo...lei potrebbe essere la chiave a tutti i problemi! Oppure…be..» disse quasi ambiguo l’ometto, guardando da capo a piedi il tenente che lo disdegnò di colpo.
«Scor…da…te..lo! Non prenderò mai quel posto!»
«Allora condanni Eris ad essere comandante! E poi non far finte d’essere così sorpreso...sapevi già della situazione di tuo nipote, non è così?»
Lo sapeva: sapeva che Duncan non sarebbe mai stato in grado di farlo, ma non avrebbe condannato Eris a quello; ecco perchè Luther aveva insistito su quel viaggio, ecco perché Rhys li rivoleva a casa.

No, non sarebbero partiti.

Boris guardò la figura del suo sottoposto e si, anche amico, allontanarsi sempre di più verso il campo, dove a coppie le reclute si esercitavano nel combattimento corpo a corpo, finendo per lo più a fare da tappeto d’arredo contro il suolo umido e fangoso.

Raramente i capitani si occupavano dell’addestramento delle reclute, ma questo ad Eris fregava molto poco, trovandoci forse un certo gusto nelle facce sgomentate e incredule dei giovanotti che metteva k.o, e in quel caso non sarebbe stato diverso, nemmeno per uno agile come Quentin.
Il ragazzo si trovò il braccio incastrato dietro la schiena, tenuto ben stretto dalla presa della donna dietro di lui, non trattenendo una viva smorfia di fastidio a tratti compiaciuta. Eris lo trascinò all’indietro, con una mano ben arpionata sul suo collo.

«Quanto siamo frettolosi, Queensbury, non te l’ha detto nessuno che non basta solo essere veloci? Bisogna bilanciare velocità con leggerezza, fai affondi troppo pesanti e questo danneggia la tua prestazione! Con un solo movimento potrei spezzarti braccio e collo senza alcuno sforzo..» gli chiarì all’orecchio lasciandolo poi andare, barcollando il peso in avanti. Quentin si massaggiò appena il polso, agitandolo per constatare i danni, ma prima di poterlo fare si trovò con la faccia all’ingiù dopo che la terrà gli fu tolta da sotto ai piedi. Si tirò su col peso sui gomiti, sputando via il terriccio finitogli quasi in bocca.
«Brutta…stronza..» 
«Che villano! Ma la brutta stronza in questione non ti ha mai insegnato a voltare le spalle al tuo avversario mentre vi battete..dico bene, dolcezza?!»

La giovane si abbassò all’altezza del soldato, sollevandogli il viso sporco verso il suo; sebbene la sconfitta, Quentin mostrava sempre fieramente quella sorta di ghigno superbo e spavaldo, riscoprendo con estremo piacere che il capitano della squadra Alfa era più attraente di quanto ricordasse.
«Vero...avrei una domanda per voi, capitano..siete impegnata in questo lavoro a tempo pieno oppure..»

Eris inarcò un sopracciglio sarcastico, dando un buffetto sulla testa del ragazzo, che tornò con la faccia per terra.

«Credo che tu non sia nella condizione di fare queste domande, e…non avresti alcuna possibilità, in tal caso, specialmente se fai il lumacone con me…Queensbury, coraggio, in piedi!» gli intimò il capitano con la mano tesa. Quentin la accettò senza pensarci su due volte, tirandosi su con una spinta alle ginocchia. Erano davvero poche le donne nella Hunter, ancora meno sul campo di battaglia ma la cosa non l’aveva mai sfiorata fin dal principio, si era misurata da sempre solo e unicamente con uomini; faceva differenza, alla fine? 

No.

«Posso parlarti…capitano? »
«Mmm? Oh, Trystan..non ora, ho l’addestramento in corso..»
«La cosa è urgente.»

Quella precisazione bastò ad entrambe per capirsi al volo. Quentin seguì con lo sguardo i due superiori allontanarsi verso l’accampamento degli ufficiali, e non solo con gli occhi; si, la curiosità prima o poi lo avrebbe ucciso.
Il tenente quasi trascinò la ragazza per un braccio, la quale tentò diverse volte di divincolarsi ma senza alcun successo.Entrarono come due ladri, mentre l’uomo chiuse dietro di sé la porta assicurandosi di non essere stato seguito, quasi paranoico; la nipote lo guardò con le mani sui fianchi, quasi basita.
«Si può sapere cos’hai? Spero tu abbia un valido motivo…al di fuori di una simpatica sveltina mattutina, zio..»
«Vedi di fare poco la spiritosa, Eris! Lo sapevi che Evgenij prenderà il tuo posto quando ce ne andremo?»
«Cosa..?»
«E sapevi che questa decisione l’ha presa Luther Richter?»

Quel nome fermò completamente il gioco in tavola; la ragazza sgranò entrambi i verdi occhi, sentendo un violento brivido di rabbia percorrerle tutto il corpo. Si mise una mano sul viso, cercando di mantenere insieme i pezzi già abbondantemente infranti della sua psiche, ripercorrendo involontariamente la sua cicatrice.
Trystan la prese per le spalle, quasi a tenerla cosciente e legata al filo del discorso.

«Non torneremo a Cardiff, Eris, questa è una trappola, conosco Luther e questo è un suo piano!»
«COSA? Tu…tu vuoi che mandi tutto a puttane perchè il sommo amministratore si è messo in mezzo?!»
«Non è questo, lo sai che non è per questo, non prendermi per il culo, e sai che questa storia puzza, perchè ora? Perché dopo tutto questo tempo? Andiamo Eris, non farti accecare dalla rabbia per l’ennesima volta..»
«VAFFANCULO TRYS!»
La ragazza diede una violenta spinta allo zio, che finì per sbattere di schiena contro uno degli armadi della stanza, rompendo inavvertitamente uno dei bicchieri al suo interno. 

Eravamo allo stesso punto di partenza.

L’uomo si tenne la spalla dolorante, mentre la donna cercò di calmarsi ma con scarsi risultati, sentendo la mano tremarle come una foglia per il nervosismo.
«Ho aspettato anni per tornare a casa e adesso, solo perché uno stronzo si mette in mezzo, dovrei rinunciare? Col cazzo, Trys..!»
«Ma perchè non mi dai retta?! Tutto quanto è una grandissima presa per il culo, io lo so, conosco Rhys e so che Luther è senza scrupoli, è dannatamente ovvio!»
«Cosa? Dimmelo, avanti, cosa è così dannatamente ovvio?!»
«Non essere ingenua, perchè non lo sei; Rhys è disperato perchè Duncan è un completo idiota e Luther non vorrà mai al potere un babbeo che finge di rompersi una gamba durante una spedizione di routine!»
«Un momento…che cosa? E tu come fai a sapere questo? »
Eris guardò negli occhi gemelli lo zio con una furia difficile da decifrare, una a cui Trystan era più che vaccinato, quasi abituato, guardandola avvicinarsi a lui con quello sguardo iniettato di sangue; si mise le mani dietro al capo, con il fiato fermo in gola.
«Mi hai mentito…non è vero che non sai nulla…chi..chi..oh, ma certo, che stupida che sono..che idiota! »
«Sheelah…me lo ha detto lei..è stata lei ad informarmi della situazione a casa.. » confessò senza mentire il tenente, guardando il ghigno della ragazza tramutarsi in una risata convulsa, con la mano sui suoi stessi occhi.
«Eris…non trascendere senza..»
«Sta zitto, fottuto bugiardo; dimmi Trys, questa tua pervesione per le nipotine sta forse peggiorando?
E così adesso hai anche la piccola Sheelah dalla tua? Cos’è, stai preparando il tuo ritorno a casa con tanto di botto? Hai intenzione di scoparti pure lei? » 

Il suono sordo di uno schiaffo frizzante rimbombò per tutta la stanza, come lo scoppio di un proiettile sulla guancia della ragazza, che rischiò di cadere all’indietro se non fosse stato per un tavolo dietro di lei a cui si aggrappò.
Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, anche dargli del figlio di puttana, ma questo no, mai. Un delicato rivolo di sangue colò sulle labbra della ragazza, caldo e dal colore vivo che macchiò sul petto la camicia chiara, aggiungendosi alle altre pregresse, quasi come una schiera di medaglie al valore. 

Trystan non era mai stato un uomo violento, nemmeno una volta in tutta la sua vita, ma quelle parole non le riuscì a sopportare, non da lei, nemmeno per scherzo. Non si pulì nemmeno le nocche sporche, afferrando il colletto della sua camicia il giusto dal tirarla su, nuovamente in piedi, nuovamente faccia a faccia.
«Se non fossi...tu..ti avrei già piantato un proiettile in fronte..» 
«Fallo!Schifoso...bugiardo...mi fidavo di te!»
«NON TI HO MAI TRADITA, MALEDIZIONE!
Sheelah mi ha scritto, tempo fa, per sapere di noi, di cosa stesse accadendo qui perché Rhiannon le ha sempre vietato di mettersi in contatto con me e soprattutto con te..
Così ho saputo di Duncan, di lei e di tutto il resto, e non te l'ho detto perché sapevo come avresti reagito!»
«Levami le mani di dosso!»
«Altrimenti?
Che farai, Eris? Uno dei tuoi infantili colpi di testa?
Cazzo, credevo di essere io quello stupido, geloso, puerile, ma l'unica impulsiva testa di merda sei soltanto tu! Credi che non sappia perché vuoi tanto tornare a casa?»
«Tu non sai niente di me!»
«IO TI CONOSCO MEGLIO DI CHIUNQUE ALTRO IN QUESTO MONDO!»
Quelle urla, quel chiasso, non sarebbero passati affatto inosservati, ma ai due Griffith in quel preciso momento importava davvero poco. 

Uno di fronte all'altro, urlanti, feriti, colmi di odio e risentimento; per l'associazione Hunter erano pedine, pedine abili e ottimi investimenti, per la famiglia Griffith? Due ombre da nascondere, per il mondo? Due perversi che avevano violato il buon costume e si erano abbandonati ad empietà, ma per una ragazza senza amore e un uomo senza giustizia c'erano soltanto due persone che non avevano più nient'altro che li guidasse, se non quel filo d’acciaio che li aveva uniti tempo addietro. 

Era così difficile trovare qualcuno che potesse capire, che potesse avere cura dell’altro senza chiedere nulla in cambio; c’era una cosa ancora più terribile dell’essere uccisi sul campo: essere completamente soli.

Eris si pulì il sangue con la stessa camicia dopo essersi allontanata con uno spintone dallo zio, cercando di mutare del tutto quelle parole affilate come spade che non fecero altro che avvolgerla come un nodo.
«Sai una cosa? Lo credevo anch’io..anch’io credevo che fossi tu l’unica persona in grado di sentire quello che provavo..ma mi sbagliavo! Sei come gli altri…anche tu cerchi di controllarmi ed è una cosa che odio, odio con tutta me stessa…»
«Eris..»
«Guardami negli occhi, Trystan, guardami e dimmi che mi lascerai partire, dimmi che come aprirò quella porta ce ne andremo entrambe e non faremo più parola di questo discorso, promettimelo!» 

La ragazza lo guardò negli occhi, pronta a giurare senza più pensarci; Trystan non l’avrebbe fatto, sebbene fossero proprio quegli occhi a chiederlo. occhi per cui avrebbe ucciso.

No.

Eris si morse istintivamente il labbro spaccato, sperando davvero di non dover arrivare a tanto; un secondo schiocco animò nuovamente quella stanza, ma stavolta ad incassare fu il tenente, mandato a tappeto con un violento cazzotto dritto in volto che lo fece sbattere di conseguenza verso il muro su cui scivolò, fino al pavimento. Il capitano non lo degnò d’uno sguardo, tenendosi solo le nocche doloranti con l’altro pugno, già fuori da quella porta dopo averla riaperta.

«Noi due…non abbiamo più niente da dirci, tenente Griffith..» disse gelida come una statua prima di andarsene via, di nuovo sul campo, nella mischia, al suo posto, mentre l’uomo si tenne il capo dolorante con la mano, non alzandosi nemmeno da terra. Si limitò solo ad appoggiare la nuca contro le mura di pietra, sospirando. 

Era inutile contrastare la corrente, poteva solo seguire il suo corso.

Quel litigio non passò sicuramente inosservato, specialmente ai grandi e oscuri occhi di Brando Guidi, nascosto non troppo lontano dalle cabine degli ufficiali; sembrò quasi una vecchietta a caccia di pettegolezzi, ma non era certamente non era l’unico. C’era un disgraziato francese che era persino peggio di lui.

«Vedo che a qualcuno qui piace parecchio farsi i cazzi dei suoi superiori, vero Brandon? Ah no, scusa, com’è che ti chiami tu? Brady? Brody? Bron?.»
«A dire il vero mi chiamo Brando, e credo di non essere l’unico che qui si fa dei fatti che non sono i suoi, soldato semplice Queensbury...»
«Solda…come scusa? Chi cazzo sei, la mascotte di Belinsky? Nah, chiamami pure Quentin, puttanella!.» esordì con una pacca sulla spalla di Brando lo stesso francese, camminando con l'indice ed il medio fino alla punta del naso del fiorentino, pizzicandogliela.

Brando si allontanò da lui con una smorfia infastidita, facendo sbuffare di noia l’altro che, ancora lordo di terra, si pulì maleducatamente sulla camicia pulita di Guidi.
Quest’ultimo gli diede uno schiaffo alle mani.
«Ma che cazzo…ma che diavolo fai?! Che cosa vuoi dannato idiota?»
«Bu, Bu, Bu! Adesso che farai, andrai a piangere dal tuo capitano che, tra parentesi..» fece Quentin avvicinandosi al suo orecchio, ridacchiando come una iena perfida e maligna «..potrebbe concederti la grazia di farti vedere qualcosina solo se ti mettessi in ginocchio…andiamo Guidi, hai finito di fare il lacchè? Lo sanno tutti che il tenente si sbatte la nipote…oh..oh cazzo aspetta, tu..tu non lo sapevi? »

Il viso di Brando sembrò congelato da una secchiata di acqua fredda, da dipingere, una che Quentin avrebbe fotografato volentieri; per quanto avrebbe voluto prenderlo per il culo per un’oretta buona, il cacciatore della squadra Beta si toccò le tasche dei pantaloni da cui tirò fuori un pacchetto di sigarette. Gliene allungò una praticamente accanto alle labbra.
Brando la guardò come se fosse una sorta di bacchetta magica, accettandola senza cerimonie, finendo entrambe per sedersi sul retro di quelle baracche dove i cavalli pascolavano tranquillamente, lontani dal chiasso di quelle reclute che non facevano che picchiarsi anzi, pardon, allenarsi.

Un fiammifero accese entrambe i mozziconi alle labbra dei due ragazzi, che finirono per godersi quel soffio amaro e pungente di libertà; il primo l’aspirò a pieni polmoni, il secondo quasi ne analizzò il forte odore che lo fece tossire.

Quentin sghignazzò.
«Non fumi immagino, vero?»

Brando fece cenno di no, prendendo un po di fiato.
«Si nota, dico bene?»
«Onestamente? Mi chiedo che cazzo ci faccia un ciambellano come te in un posto come questo, eh no, non ti sto prendendo per il culo, sebbene con quella tua faccia sia difficile trattenersi dal farlo..»
«Grazie tanto, ha parlato Robespierre, mai provato a frequentare una scuola di dizione? Farebbe sparire quel rotacismo che hai alla lingua..» disse Guidi con un sopracciglio accusatorio a cui Quentin sollevò orgogliosamente il dito medio.
«Per tua informazione la mia erre francese riscuote più successo dei tuoi piagnistei alla Dante solo perché Beatrice non ti si fila,andiamo! Che cazzo…un po 'di amor proprio, ci sono una marea di donne, ok, magari non qui a meno che non ti piacciano quelle con la sorpresa, ma là fuori? Pff..non c’è partita! »
«So già della loro relazione…non sono così idiota come credi..» confessò l’altro con un irrequieto sospiro, aspirando una nuova boccata, avendo ormai imparato ad aspirare senza tossire.

Quentin lo guardò stranito, come se non avesse ben capito il gioco; Brando sogghignò appena a quella espressione pittoresca, ricambiandogli il colpo del naso sulla sua stessa fronte.
«Non ci vuole un genio per capire che non sono l’immagine usuale del tipico cacciatore rude ed illetterato che spara senza pensare, ma giudicarmi per questo credo sia abbastanza stupido e prevedibile!»
«Ma allora..perchè continui…oh,non dirmi che ne sei innamorato perchè vomito adesso…»
«Lei mi ha salvato la vita anni fa, è un ufficiale straordinario, leale, e voglio ripagare il mio debito, ecco perché…» 

La sigaretta di Quentin rischiò quasi di cadergli di bocca, ma la prese giusto in tempo dal precipitare sul terreno; non osò parlare, controbattere, annuendo quasi rispettoso a quella sorta di dichiarazione. Perfino Brando rimase sorpreso; non si conoscevano bene, per lo più si erano incrociati durante gli allenamenti e le competizioni, ma non si sarebbe mai avvicinato volontariamente a Quentin Queensbury, il più abile imbroglione di tutto il campo.
«Wow..mi aspettavo qualche battutina, lo ammetto!» 
«Perchè? C’è forse qualcosa di umoristico in tutto questo? Non mi pare..ah no, aspetta, sarà forse perché io sono nella squadra del perfido e subdolo capitano Novacek e tu in quella della Pallade Atena? Davvero, Guidi? Ed ero io quello rude ed illetterato..» sbuffò quasi offeso il Queensbury, che appoggiò il capo riccioluto contro le braccia incrociate all’indietro. Brando si fece prendere da una sorta di sorriso.

Fairplay.

Il vento di quella mattina sembrò spazzare via quelle mille parole che per lui non erano altro che vani sussurri, ormai persi nell’aria come foglie; tutte quelle chiacchiere erano niente a confronto di quella pace dei sensi, troppo bella per essere vera.
«Ammetto di averti giudicato male, Quentin..non sei così fastidioso come credevo!» 
«Amen, tu invece sei noioso e moralista come pensavo! Però si, una cosa te la concedo, hai un capitano molto più sexy del mio e se un giorno volessi casualmente fare cambio di squadra..» 
«No grazie, sto bene dove sto, ma se avessimo bisogno di bravi truffatori ti farò chiamare personalmente dal capitano!» 
Finsero quasi di brindare con quei due mozziconi ardenti a mezz’aria, godendosi quei momenti di tranquillità fino all’arrivo della prossima tempesta. 

Non avrebbero dovuto aspettare molto.

All’improvviso una voce sconosciuta li sorprese alle spalle.

«Emm…scusatemi…il capitano Evgenij Novacek è forse qui?» 

«Si, perchè, chi lo chiede?»

«Il suo giustiziere..riccioli d’oro..»

«Cosa…?»
Quella sigaretta non sarebbe durata abbastanza, poiché il calcio di un fucile da caccia colpì alla testa i due giovani cadetti della squadra di ricerca privandoli dei sensi sul colpo.

 

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Capitolo 7
*** To be, or not to be, that was supposed to be the question. ***


    Chapter 7: To be, or not to be, that was supposed to be the question.

 

                                                 Current Day

 

London, Saint Edward's Convent.


 

«Ditemi, lei come sta, suor Annabelle? Recentemente ho avuto così poco tempo per venirla a trovare, purtroppo i miei impegni iniziano a farsi sentire ogni giorno di più e ammetto che l’idea di mandare tutto al diavolo mi stuzzichi più del previsto…ah, e mi scusi per la mia blasfema esclamazione!»

«Lord Darcy, non siate sciocco! Sapete molto bene che non potreste mai offendere nessuno, con le vostre buone maniere poi, nemmeno Nostro Signore potrà dirvi altrimenti…per quanto riguarda lei, non ho veri e propri aggiornamenti da darvi, è così difficile parlarci!
Nonostante abbia tentanto molte volte di instaurare un dialogo, lei..lei si isola nel suo mondo, distante, completamente assente…poi inizia a vaneggiare e mi dispiace davvero dirlo ma, seguire il filo del discorso è davvero complesso; non me ne vogliate, lord Cillian…»
«Non potrei mai volervi alcun male, Charlotte, siete stata preziosa per me in questi anni, e vi ringrazio dal profondo del cuore per ciò che fate per me ma soprattutto per lei!»

Parole dolci, delicate, sentite anche, eppure così bizzarre in un contesto grigio e austero come quello del convento di Sant'Edoardo, nel cuore della pulsante Londra. Era un luogo molto poco frequentato dai giovani, figurarsi i giovani nobili, ma lord Cillian Darcy era un’eccezione assai particolare.

Era un giovane uomo come non se ne vedevano molti, e suor Annabelle questo lo sapeva molto bene.

Eppure nemmeno la giovanissima donna era così comune, anzi, era quasi anomala fra le sorelle del convento, d’una bellezza rara, imprigionata all’interno della rigida veste religiosa come una sorta di pena da scontare per essere tanto radiosa, un bagliore dopo un temporale. Le loro storie erano agli antipodi, due sconosciuti che passeggiavano l’uno accanto all’altra lungo la navata centrale di quella bellissima e oscura chiesa gotica, dove la quinta ora pomeridiana era scoccata da appena una ventina di minuti. Suor Annabelle teneva fra le lunghe e affusolate dita un rosario in madreperla che oscillava come un pendolo ad ogni suo passo verso una zona molto più appartata del monastero, dove una serie di celle stava schierata come soldati una dietro l’altra, rendendo quel corridoio infinito quasi ipnotico alla vista.

Cillian non era alto, anzi, era di media altezza, ma il suo charme e carisma insieme ai bellissimi occhi turchesi e il colorito roseo erano in grado di far cadere in suo potere molte più persone di quanto non si credesse, ma in quel luogo le sue armi erano riposte al sicuro; si passò la mano libera dal guanto di velluto tra i mossi capelli castani, portando all’indietro l’unico ciuffo ribelle che gli ricadeva spesso sulla fronte. Annabelle nascose dietro quella maschera di virtù un accenno di rossore, continuando quella camminata.

«Vi prego, vi scongiuro, lord Darcy, non chiamatemi Charlotte, sapete che rinunciamo al nostro nome quando prendiamo i voti…Annabelle andrà più che bene!»
«Vi accontenterò solamente se voi mi chiamerete Cillian, dopotutto ci conosciamo da 5 anni ormai, perchè tutti questi formalismi?» disse con quel tono armonioso l’erede di casa Darcy, rallentando il passo fino a proseguire a stento. La sorella strinse istintivamente la collana di perle fra le mani, assicurandosi che attorno a loro non ci fosse nessuno dalle orecchie troppo lunghe, ma era difficile accertarsi; le monache del convento erano sorde per natura, ma non c’era mai troppo da fidarsi, neanche dei religiosi. Mise delicatamente una mano sul polso dell’uomo, parlando quasi ad un filo di voce.
«Cillian, per l’amor del cielo, se la madre superiora dovesse sentirvi finirei in un mare di guai..per favore! Io..sto facendo tutto questo in nome della nostra…amicizia…»
«Lo so bene, ma la madre superiora da quel che mi risulta è ben lontana dal convento, dico bene?»
«No, vi sbagliate, lei potrà anche essere fuori città, ma le sue novizie farebbero qualsiasi cosa pur di restare al suo fianco, pure vendere le altre consorelle! Quindi vi prego…per quanto mi riempia di gioia vedervi, non indugiamo ulteriormente..venite, non manca molto!» rispose l’acerba monaca quasi affrettando il suo passo. Per quanto tenesse in cuor suo a quelle visite, era come chiedere al diavolo di passeggiarle accanto senza mai corteggiarla; e questo, era inevitabile, no?
Il loro breve contatto svanì non appena la donna sfuggì praticamente dalle mani di Cillian, che nascose un sospiro quasi divertito, trovando una sorta di fascino innocente in quei modi semplici, umili, timidi, tutto ciò che lui non era mai stato e probabilmente mai sarebbe divenuto. Ma il Signore avrebbe chiuso un occhio anche quella volta, dopotutto chi avrebbe detto di no davanti agli occhi ingenui di una devota sorella?
L’uomo la seguì assecondando i suoi desideri, restando ad una debita distanza di almeno 2 metri finchè la monaca giunse alla fine di quel tunnel spettrale di stanze serrate a doppia mandata; la giovane tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi di varia forma e misura, ritrovando poi quella che le serviva, infilandola nella serratura. Emise un fastidioso cigolio arrugginito, quasi un fischio, segno che veniva aperta molto di rado ma era meglio così; per tutti quanti.

La porta si aprì.

Prima che lord Darcy potesse entrare, Anna dovette cedere ad un impulso più forte di lei, fermando l’uomo per il braccio; non osò guardarlo negli occhi lucenti, preferendo restare col capo chino, per rispetto? No, per timore, timore delle sue stesse azioni.
«Annabelle, cosa c’è?»
«Negli ultimi mesi, ha iniziato a comportarsi in modo più strano del solito, con del gesso ha iniziato a scrivere sui muri; all’inizio credevo che fosse una sorta di demenza senile, ma è oltremodo giovane per potersi ridurre in quel modo, in uno stato poi così avanzato…un momento era infantile, quello dopo pareva rinsavire, quello dopo ancora cantava una canzone assolutamente inquietante, io..spero dal profondo del cuore che possa, un giorno, guarire! Cillian…cosa fate…Cillian vi prego..» lo supplicò la fanciulla, che poteva avere appena 25 anni, non di più, come lo sentì sollevarle il viso con la mano scoperta, tornando così entrambe a guardarsi pericolosamente negli occhi. Il nobile si permise solamente di riportarle dietro l’orecchio una piccola ciocca di capelli color rame, non potendo ignorare quello sguardo miele, quell’aspetto imbarazzato e virtuoso.

Non era mai stato credente, ma per lei probabilmente avrebbe pure pregato.
«Restate pure con me, non c’è bisogno che andiate via, i miei segreti dopotutto li conoscete anche meglio di mia moglie…»
«Non dite così, per Dio, è peccato! »
«E noi non abbiamo forse peccato, in gloria a chi giudica con troppa facilità?»
Annabelle non rispose, non riuscendo a fronteggiarlo ulteriormente; gli sfiorò la mano sul viso, per poi annuire in silenzio, facendogli cenno di entrare per primo.
Le celle del Sant’Edoardo erano molto piccole ma con una vista singolare, dove una grande vetrata protetta da sbarre dava sul bellissimo giardino fiorito dello stesso convento; la stanza era semplice, ridotta, i monaci non erano abituati allo sfarzo, bastava un letto per pregare, una piccola scrivania di legno usurato, un mobiletto che avrebbe funto da armadio e una croce di noce scura a predominare quell'ambiente già all’osso. I muri erano grezzi, di pietra, da poco ripulita con un panno per eliminare i segni del gesso, ma nonostante tutto erano ancora visibili, come se la mano che li avesse incisi avesse impiegato tutta la sua forza per lasciare il segno. Indelebile.
La proprietaria di quella cella era una sorta di fantasma per le altre consorelle del convento, perché era più unico che raro vederla al di fuori della sua camera, non più una cella quanto più una fortezza dove nascondersi, dalla luce del sole, dagli sguardi maligni e si, forse anche dallo stesso Dio.
Cillian si addentrò all’interno di essa, mentre Annabelle preferì restare sulla soglia della porta, guardando, con le mani giunte sul grembo, una donna di spalle seduta alla scrivania, intenta a scribacchiare chissà che cosa.
«Suor Maria Celeste? C’è una visita per lei..sarà molto felice di vedere chi è venuto a trovarla.»
«Suor Maria Celeste..mi riconoscete? Maria Celeste?» chiese a voce bassa e calma Cillian, avvicinandosi alla donna, vestita in maniera diversa dalle suore del convento, avendo addosso solo una veste nera semplice, coi capelli lunghissimi sciolti, maltrattati, non più lucenti come una volta; erano quasi identici a quelli del giovane uomo, dello stesso castano chiaro, mossi, sebbene l’età avesse anche aggiunto qualche filo argentato a quella folta matassa. 
Maria Celeste non sollevò lo sguardo dal suo foglio, continuando invece a scrivere come se nulla fosse accaduto, ma sorrise; un sorriso le si dipinse sulle labbra rosee, chiudendo i grandi occhi azzurri come ad esprimere la sua gioia, o almeno così sembrava. Cillian si sedette sul bordo del letto accanto alla sedia della suora, togliendosi i guanti e il cappello dalle mani, appoggiando poi il palmo sul braccio in movimento della donna sui 45 o anche 50 anni. Quella si fermò, ricambiando finalmente lo sguardo del giovane; erano due gocce d’acqua, dalla somiglianza quasi balorda, con le lentiggini sparse sulle gote messe in evidenza dal calore della luce.
«Cillian…ti eri forse dimenticato di me? Sono già un paio di mesi che non vieni a trovarmi, avevi smarrito l’indirizzo?» gli chiese la sorella con un’espressione di finto disappunto, puntualizzando la cosa con il dito contro il legno del tavolo.
Il Darcy si ritrovò a sorridere, sorpreso da quel pungente sarcasmo che lui stesso aveva ereditato, stringendo istintivamente la mano della sfiorita donna; scosse il capo, negando.
«Non potrei mai dimenticarmi, dolce zia…come state? Suor Annabelle mi ha detto delle vostre ricadute, perché non mi avete fatto chiamare? Sapete bene che su di me potete sempre contare..»
La donna chiuse gli occhi, scuotendo vistosamente la testa insieme alla mano; era un "no" più che deciso. 
«Perché avrei dovuto? Sto bene, nipote, hai già fatto tutto il possibile per una vecchia pazza come me, non occorre tediarti ulteriormente, e poi come potrei rubarti del prezioso tempo? Hai una splendida moglie, dei figli bellissimi, che dovresti fare con me? No, no, non sono così egoista!»
«Non siate così severa con voi stessa, e poi non siete vecchia come dite, vi ricordate quanti anni avete?»
«Non essere insolente, avrò anche perso la cognizione del tempo, ma non quella del decoro, e chiedere l’età ad una donna sarà sempre di cattivo gusto, Cillian Darcy!
Tuo padre..non ti ha educato così..» 

Annabelle nascose un sorriso divertito a quella scena, trovando quel rapporto tra zia e nipote molto raro e dolce; anche il lord fu coinvolto in quella risata, ma non era del tutto una visita di semplice cortesia, quella. Tornò serio non molto più tardi, quando tirò fuori dalla sua tasca una sorta di catenina d’argento, con tanti ciondoli sebbene alcuni di essa fossero mancanti. Maria Celeste appena la vide cambiò completamente espressione, sobbalzando sul posto, ritornando celermente a scrivere, ad evitare l’argomento in principio.

Cillian sospirò, non aspettandosi diversamente.
«Zia…so che vi causa un immenso dolore, e mi dovete perdonare se insisto tanto, ma ho bisogno del vostro aiuto…se non voi chi altro?»  
«Se ci tieni alla tua famiglia, nipote, butta via quella collana…non ha alcun valore in moneta, non serve ad altro che darmi il tedio, e io non voglio essere tediata, come non voglio che lo sia tu!» 
«Oggi Merrion avrebbe compiuto 40 anni…e zia Johanna ne avrebbe compiuti 69, te lo ricordi? Erano nate lo stesso giorno…» 
«Il 22 aprile…me lo ricordo bene! E appunto perchè me lo ricordo…ti chiedo di smettere…Cillian… 
So perché sei qui, ma a cosa può giovare tutto questo? La nostra famiglia seppellisce morti in continuazione…come se piovessero dal cielo! Merrion è morta, tua zia è morta, le serpi invece sono vive, respirano…la famiglia Griffith respira e ogni respiro è un insulto alla loro memoria!» disse stringendo i candidi denti fino a quasi spezzarli; il foglio che aveva in mano andò in un milione di pezzi, iniziando a stracciarlo con rabbia, finendo in milioni di coriandoli come il giorno di Carnevale. L’uomo chiuse i suoi occhi azzurri, restando quasi in un religioso silenzio; sfiorò con le dita i ganci rotti della catenina a cui erano stati volutamente staccati i ciondoli dalla forma ovale, come una mandorla.

Li riaprì, osservando l’accurata fattura di quella maglia.
«Mi ricordo quando papà venne a casa con questa; io avevo appena 10 anni, Merrion invece ne aveva 13, era il suo regalo di compleanno e quando lo aprì lei disse…» 
«Cillian, ora basta! » 
«“Un medaglione per ogni femmina di casa Darcy”; uno lo prese lei, uno lo diede a zia Johanna, uno lo prendesti tu, e poi disse che ne avreste dovuto prendere un altro a testa per ogni figlia femmina che avreste avuto, così ve ne diede subito un secondo, che avreste dovuto restituire in caso di figlio maschio...zia Johanna era già cagionevole da tempo e in là con gli anni, non ebbe mai una bambina, ma Merrion si...e tu il tuo medaglione dove lo hai lasciato, zia? Lo desti a Kelly, non è così?»  
«Kelly…Kelly è morto…smettiamola di rivangare questa storia…quanto male vuoi ancora infliggere? Ho ucciso quel neonato ancora prima che potesse aprire gli occhi su questo mondo…non avrei mai sopportato di vedere morire un altro Darcy per colpa di…di questa sorta di maledizione, quindi ho estirpato il problema alla radice!» 
Cillian inarcò un sopracciglio appena confuso, assottigliando lo sguardo verso quello visibilmente scosso di Maria Celeste.
«Ma Kelly…non era una bambina? Una femmina? Credevo avessi partorito una bambina…» 
«Si, si, si certo, era una bambina…altrimenti non avrei mai fatto ciò che fatto! E poi sai bene che ne avrebbe fatto tuo nonno se avesse scoperto la mia gravidanza…era la cosa più giusta da fare…ma perché continui ad indagare? Cosa speri di ottenere? Tua sorella non tornerà indietro, mio dolce nipote…uccidi Rhys, uccidi tutti i Griffith se vuoi, ma lei non tornerà, ormai ho smesso di sperare…e ora vorrei che mi lasciassi sola!» 
Maria Celeste mise le mani davanti al viso, giunte quasi in preghiera, creando una sorta di muro invalicabile tra lei e il nipote, ma non sapeva quanto fosse cocciuto e ostinato; un vero Darcy dalla testa in giù. 
Cillian si alzò dal bordo del letto, rimettendo in tasca il gioiello danneggiato che emise un delicato tintinnio, finché non si avvicinò all’orecchio della zia.
«Quanti anni avevi quando hai cominciato a sentire le voci…cosa ti dicevano di fare? Perché solo le donne di questa famiglia possono sentirle mentre gli uomini non possono? Qual è l’enigma? Rispondi…Cybil…» 
Quando la donna udì il suo vero nome, l’espressione sul suo viso mutò d’un tratto, abbandonando qualsiasi pietà, qualsiasi dolore, girando meccanicamente il capo di lato, verso lo stesso Cillian, con uno sguardo vitreo, folle, sgranato.
«Non sono semplici voci, tu non puoi capire proprio perchè sei solo…un uomo…è il nostro io interiore che ci chiama, una voce che solo noi possiamo sentire, un suono che pochi riescono ad ascoltare, nessuno sopravvive, a meno che non abbracci il proprio demone nascosto e lo accetti per quello che è!
Le persone vanno avanti tutta la vita senza fare pace con se stesse, ma è fondamentale essere un tutt'uno con la propria metà oscura…altrimenti un cappio al collo diventerà la cosa più affascinante da indossare,più d'un collier di diamanti!
Dimmi…tu non hai una figlia?» gli chiese la suora, piegando la testa di lato, con un fare quasi innaturale e macabro.
Lord Darcy annuì, non perdendo nemmeno un centesimo del suo decoro, rimanendo come una statua di sale, con i pugni stretti ai fianchi.
«Cécile, ha da poco compiuto 16 anni…» 
Cybil prese un respiro, iniziando a lavorare con le dita un altro foglio di carta, tagliuzzandolo con le forbici in diversi punti, quasi a caso.
«Sedici anni, una bellissima età…ma non temere, è ancora troppo giovane, quasi aspra per i miei gusti, ha ancora un po 'di tempo davanti a sé per contrastare la follia…ma non posso dire la stessa cosa della figlia del Grifone…dimmi…qual era il suo nome?» 
Cillian guardò in maniera sinistra la zia, sentendo uno strano respiro gelido dietro il suo collo, una sensazione quasi spettrale, che spazzò via quando pronunciò quel nome, uno che portava male, quasi bizzarro da dare ad una neonata.
Era uno dei ciondoli mancanti della collana di Merrion.
«Eris, l’ha chiamata così Merrion, Eris Griffith…» 
«Ti sbagli, è una Darcy tanto quanto è una Griffith; Rhys potrà anche illudersi che sia solo sangue di grifone, ma l’essenza della viverna è viva…ma non pretendo che tu capisca…Cillian!
Eris…è uno strano nome per una bambina, ti sei mai chiesto perchè tua sorella avesse scelto proprio quello?» 
La donna posò le forbici sul banco, spiegando quel foglio trasformato in un kirigami a forma di bambina stilizzata, una serie di pezzi di carta uniti tra loro a formare una catena di bamboline raccapriccianti che si tenevano la mano tra di loro.  Suor Annabelle si era ormai abituata alle stranezze di quella donna, ma questo non l’aiutava certamente a giustificarle; ogni colloquio si concludeva pressappoco nella stessa maniera in cui cominciava: a mani vuote.
Il giovane lord riprese i suoi effetti personali, limitandosi ad un doveroso saluto col capo, ma rispose, conoscendo almeno la risoluzione di quel quesito.
«Merrion amava la letteratura greca, ma amava ancora di più l’idea di una donna in grado di poter distruggere tutto quello che la ostacolava…credo volesse un disegno del genere per sua figlia, ma questa è una mia supposizione, zia Cybil…e ora perdonatemi, ma ho una persona che mi sta aspettando!» 
«Saluta il giovane Caleb da parte mia, Cillian…è proprio un bravo, bravo ragazzo…» gli disse la donna, rimasta puntualmente di spalle fino alla fine; Cillian annuì, congedandosi pochi istanti dopo con sorella Annabelle, che si premurò di chiudere nuovamente la cella. 
«Come vi è sembrata, Cillian? Avete trovato ciò che cercavate?» fece sempre con delicatezza la giovane Charlotte, riprendendo il fianco dell’uomo sulla strada del ritorno, quasi più silenziosa dell’andata. Lord Darcy era pensieroso, come non mai, negando visibilmente.
«Sta mentendo, so riconoscere bene una menzogna…e lei ne ha dette pure troppe!» 
«Voi credete che vostra zia…vi menta?!» 
«Non è che lo credo, Anna, ne sono fermamente convinto! Sentite, devo chiedervi un favore, uno enorme!» 
La sorella corrucciò lo sguardo, ora effettivamente preoccupata dalla probabile richiesta del nobile che la prese in disparte, dentro la stessa cella di Annabelle; le gote della ragazza divennero quasi bordeaux per l’imbarazzo, nascondendo quella sensazione lampante con le braccia incrociate sotto il petto.

Quello non era un favore, era una follia.

«Siete completamente impazzito…voi volete che io faccia che cosa? Questo è perfino peggio di infrangere i voti, Cillian…non posso frugare nell’ufficio della madre superiora! Per cercare dei documenti che forse nemmeno esistono? 
Oh, mio lord, ma perché volete per forza svegliare il cane che dorme?!» 
«Vi sto chiedendo molto, lo so, ma credo che mia zia non abbia mai ucciso quel bambino...e non credo nemmeno che abbia avuto una figlia femmina…credo che fosse un maschio! » 
«COSA?! E allora? Si tratta sempre di un neonato, per Dio! Io…da dove dovrei iniziare a cercare?» 
Cillian sorrise, roteando gli occhi azzurri con le mani sui fianchi; Anna sbuffò, facendo spallucce.
«Che avete da sorridere?» 
«Dunque mi aiuterete?» 
«Credo che entrambe avremo un posto riservato all’inferno, tanto vale guadagnarselo a pieno titolo!» ammise la donna con un sorriso molto simile a quello del lord, il quale rispose a quella presa di consapevolezza, o forse incoscienza, in un modo assolutamente inappropriato al luogo, all’etica, al matrimonio e a tutto quello che c’era di santo in quel convento.

Non c’era maschera più pericolosa di quella della virtù.

Poco tempo dopo, apparentemente trascorso in un istante per i due giovani, suor Annabelle accompagnò all’uscita del convento l’uomo, rammentando più a se stessa che ad altri ciò che doveva cercare.
«Chiesa di Sant’Edmondo, un bambino o una bambina nata nel dicembre del 1883, di nome Kelly…avete altre informazioni utili? Il nome del padre…o…» 
«Purtroppo no, suor Annabelle…ma se come credo mia zia abbia mentito, Kelly Darcy oggi dovrebbe avere quasi 27 anni! Confido in voi per la massima discrezione a riguardo…» 
«Non dovete nemmeno dirlo, Cillian…oh,cielo! Ma quel ragazzo è proprio il vostro Caleb?» 
Alle porte del Sant’Edoardo stava un bellissimo albero di pesco fiorito, uno squarcio di natura fra le grigie strade di Londra, dove un giovane fanciullo si era appoggiato da ormai una trentina di minuti; non aveva fatto troppo caso all’assenza del padre, la sua lettura lo aveva completamente rapito, facendogli dimenticare il come, il quando e soprattutto il perché della sua visita. Non si accorse nemmeno dei petali rosa caduti fra i suoi ricci capelli castani, ormai le pagine di quel librò erano giunte al termine; con uno sguardo d’intesa il lord salutò velocemente la giovane, la quale si ritirò nuovamente fra le mura del convento, mentre Cillian si premurò di raggiungere il figlio, rimettendo guanti e cappello. Il lord tolse via dai suoi capelli i petali dell’albero.
«Alla fine dell’opera, Raphael de Valentin consumerà a tal punto la pelle di zigrino che scomparirà insieme ad essa; sei contento, Caleb?» 
«Cos…che vizio odioso avete, padre, e poi mi mancavano appena una quindicina di pagine!
Ma grazie per l’anticipazione…» rispose il figlio minore di casa Darcy, con un sospiro effettivamente scocciato; se solo suo nonno Charles l’avesse conosciuto, erano praticamente identici. Stessa figura slanciata, spalle larghe, capelli ricci e occhi verdi, il naso sottile ma ben proporzionato; i modi tuttavia erano quelli di un’altra persona molto più accorta, che purtroppo il giovane non ebbe mai avuto modo di conoscere.
Cillian prese il libro dalle mani del figlio, sbattendoglielo affettuosamente sul capo riccioluto, invitandolo poi a riprendere quella camminata lungo le strade trafficate di Londra, tagliando per il Regent’s Park.
«Se non sbaglio credevo di aver detto a tuo fratello Cedric di prendere la Ford e venire qui giù a prendermi…oh no, fammi indovinare…» 
Caleb si riprese il libro sotto braccio, annuendo alle supposizioni di suo padre con un sentito sghignazzo, non prima di avergli mostrato una ricevuta da diverse battute, dal totale esorbitante ben evidenziato in basso.
Cillian afferrò quel foglietto, accartocciandolo poco dopo nel suo stesso pugno; Rhys Griffith aveva una gatta da pelare di nome Duncan, invece Cillian Darcy ne aveva un’altra: Cedric Darcy.
«Al posto di venire qui di persona, Dioniso ha mandato me, il povero Hermes…l’idiota si è rimesso a fare l’allibratore alle corse di cavalli giù ad Epsom Downs!
Generalmente non faccio la spia…però inizio un po 'a prendermela se mi ritrovo spedito in giro come un postino, anche perché non è la prima volta, papà..» 
«Argh…e io un giorno dovrò passargli il titolo; questo manda i conti in bolletta come l’Austriaca!»
«Parole sante, ma prima di convocare gli Stati Generali, come mai sei venuto al Sant’Edoardo? E non dirmi per affari, non sono uno stupido, ma se patteggi con i farisei fammi un fischio…» disse sarcastico il ragazzo dai capelli ricci, ora con le mani nelle tasche della lunga giacca nera, guardando il padre negli occhi, interrogandolo indirettamente e affatto incline a sentire scuse o fandonie. Cillian aveva tre figli, ma nessuno di loro era come Cal; Dio benediva gli audaci, ma aveva un occhio di riguardo ben particolare per i saggi, gli stoici, i fermi, e quel ragazzo lo era in tutto e per tutto. Cedric era il figlio maggiore, futuro erede di casa, spavaldo, temerario, pronto a buttarsi nella mischia senza riflettere, superbo e assolutamente senza alcun senso del pudore; forse erano proprio i 20 anni a dargli alla testa! Poi c’erano Cecile e Caleb, fratelli gemelli; la prima era una giovane testa calda, in competizione con il fratello successore per qualunque cosa, un maschiaccio nascosto sotto ad abiti femminili e maniere decorose che non le si addicevano, ed infine c'era Caleb. Forse era l’unico nella famiglia Darcy, dopo la madre Rebecca, in grado di calmare le acque senza creare uno tsunami per mettere a tacere la corrente impetuosa; non si era mai curato di essere nobile, dei grandi nomi di cui la gente si riempiva costantemente la bocca, era solo un ragazzo di quasi diciassette anni.

O almeno, era quello che lasciava far credere.

E questo, un padre come Cillian, lo sapeva benissimo; si lasciò sfuggire un sorriso, mettendo anche lui a mo di riflesso le mani nelle tasche dei pantaloni, passeggiando per quel parco, come due amici, nemmeno come padre e figlio.
«Coraggio…avvocato Darcy, create la vostra tesi, io vi dirò se è giusta o mi limiterò semplicemente a guardarvi cuocere nel vostro brodo…»
«Da quanto tempo prediligete i rosari di madreperla, padre? Non vi sto giudicando, per quanto sia sbagliato…vorrei solo capire cosa vi abbia condotto fin quaggiù...potreste avere amanti in ogni dove, ma una suora? 
E vi prego di non trascendere in inutili convenevoli, spiegatevi pure..non sono qui per condannarvi!» fece sereno ed impassibile il giovane Darcy, portandosi alle labbra una sigaretta e offrendone una anche al padre, il quale la accettò di buon grado. Il vento tiepido della primavera si fece sentire fra i loro capelli, rischiando diverse volte di spegnere la fiammella debole dell’accendino d’oro di Cillian, che ripose nel taschino dopo aver acceso i due mozziconi.
L’uomo fece spallucce.
«Che posso dirti, Cal? Sono uomo e peccatore…concepito probabilmente nel peccato…»
«Chi non lo è? Eppure, il peccatore che ho davanti, se non ricordo male, non è il primo idiota che si fa abbindolare dalle grazie di una donna, anche se porta il velo…ma cosa potreste mai volere, mi domando, da una sorella…la vostra è una risposta troppo comoda!
Sarà forse che la starete raggirando per un tornaconto personale?» chiese il ragazzo, spostandosi dal viso dei vistosi boccoli che gli intralciavano continuamente la vista, ma non la ragione; quella mai.
Lord Darcy si dovette ricredere, mettendo una mano profondamente divertita sulla spalla del figlio, ringraziando ogni giorno della sua vita per aver avuto dalla sua un discolo tanto sagace e sveglio. Caleb dal canto suo si chiedeva sempre più spesso quale ideale guidasse suo padre; la famiglia, l’amore, la vendetta, i soldi? I suoi fratelli erano eccitati dall’idea della lotta, del titolo, della presa di potere, ma a lui tutto questo faceva solamente mettere in dubbio l’entità morale di quello scopo.
«Può essere, ragazzo, possono essere entrambe le cose…potrei semplicemente essermi servito di suor Annabelle, aver sfruttato il suo debole per me, oppure potrei solamente essermi concesso una ventata d’aria fresca…alla fine che cosa cambierebbe? Solamente il mio scopo, ma il mezzo resta semplicemente immutato…eh adesso? Che cosa farai?» 
«Mi state chiedendo se andrò da mia madre a dirle che siete infedele? Perché dovrei? Alla fine il vostro è un rapporto mutuale, che differenza farebbe? 
Padre, è tradimento quando c’è un fondo d'amore e di lealtà tra le parti; tra voi due invece c’è un deserto incolmabile, ma mi fa piacere sapere che abbiate affetto per qualcuno, solo non immaginavo fosse…una suora…» ammise il ragazzo effettivamente sorpreso, sedendosi poi su una delle panchine che davano in vista sulla fontana centrale di quel parco ricco di un viavai di signore, signori e bambini.
Cillian tradì volontariamente un’espressione malinconica, amara, guardando il colore del cielo pomeridiano assumere una sfumatura rossastra, quasi poetica; eppure dentro di sé le sfumature di colore sembravano  essersi ridotte solo a due toni: bianco e nero.
«Sai, ragazzo, mi piace pensare di essere ancora capace di amare qualcuno…di poter vedere oltre quella prospettiva egoista e senza futuro che sono stato abituato a sentire da quando ero un bambino…eppure, quando passano gli anni e le cose non cambiano, tutto inizia a scivolarti improvvisamente addosso e non ti accorgi più se il tuo cuore batte ancora oppure va avanti per inerzia!
Una cosa posso dirtela però…» 

Gettò per terra il mozzicone ormai terminato, spegnendolo con la suola della scarpa.
«Potrete mandare pure a puttane il nome di questa famiglia, ma sarete sempre i miei figli, Caleb, questo è tutto quello che conta!» 
Caleb osservò la cenere della sua sigaretta disperdersi nel vento come neve, lenta, inesorabile, guardando l’uomo accanto a sé con la coda dell’occhio. Spolverò la copertina del suo libro con il dorso della mano, sfogliando distrattamente alcune delle pagine, sentendo quel profumo caratteristico di inchiostro stampato su carta che, personalmente, adorava.
«Papà…ti sbagli, non funziona così l’animo umano, non si può dividere il mondo in due categorie, non si può minimizzare tutto così semplicemente e si, superficialmente!
Esistono anche gli altri, che fanno parte della nostra vita, non da cornice; avete sposato la gelida Fedora e ora corrette come un codardo fra le braccia di Pauline…guardatevi bene le spalle, perché nessuna delle due è una semplice comparsa, anzi!
Fedora potrà anche permettervi un simile sgarbo, ma Pauline? Non esistono santi in terra, quindi la vostra unica salvezza potrebbe trasformarsi nella vostra peggior nemica…padre, non usatela come mezzo per i vostri scopi!
Vi ricordo che, nonostante il velo, c’è sempre una Burke al suo interno…e non premuratevi a scoprire come l’ho saputo, anch’io ho le mie…spie…» 
«Dimentichi che io non ho venduto l’anima come Raphael!» precisò il padre, trovandosi preso in contropiede, un avvenimento assai inusuale, ma non per Caleb; quest’ultimo ghignò, quasi consapevole che non si trattasse solamente di un semplice tornaconto personale, quanto più di una missione; un vero e proprio compito.
Il pomeriggio si sarebbe presto tramutato in sera: era il momento di andare. Il ragazzo si alzò, sempre con il fedele libro sotto il braccio.
«Quando un uomo, caro padre, dedica quasi tutta una vita ad una sola missione è come se l'avesse già fatto!
L’unica differenza è che ora nessun demone verrà a cercarvi per reclamare ciò che gli spetta, ma badate bene a ciò che vi dirò; siete ancora in tempo per deragliare questa sorta di spedizione suicida prima che diventi una vera ossessione!
Zia Cybil non è pazza, ha ragione; il vero nemico siamo noi stessi, siamo noi l’unico demone da assecondare con criterio, ma non reprimerlo…quello mai…non avrebbe senso farlo; la nostra vera natura riemergerà sempre, in un modo o nell’altro, sta a noi dunque decidere il come, il quando…e il perché! » 


 

“Nell'araldica la viverna può essere rappresentata in modo simile ad una coccatrice o a un basilisco, e può assumere diversi significati. Può rappresentare la peste, la conquista o simili concetti, o indicare lo status della casata o del nobile.”

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Capitolo 8
*** Love can do much, but duty more. ***


Chapter 8: Love can do much, but duty more.

 

Current Day.

 

Burke’s summer Residence, London.

 

«Cosa ci può essere di tanto importante da rimandare il mio massaggio delle 10?
Coraggio, fate in fretta prima che i pori della mia pelle ne risentano spaventosamente…» 
«Mio signore, avete una visita da uno dei vostri debitori..» 
«E chi se ne frega?! Barbatos, ne abbiamo già parlato…lo vedi questo bel visetto? Mica sta su per il potere divino! Inoltre quella massaggiatrice thailandese si fa pagare fior fior di quattrini ogni mezz’ora, non c’è bisogno che vada avanti, si?» 

Lontano dal cuore della città inglese, fra le radure, sorgeva fra le fronde dei rigogliosi alberi una magione mastodontica, dal fascino barocco, misterioso; la sua posizione distante non era affatto casuale, restava nell’ombra, come se nessuno dovesse notare la sua presenza, anzi, forse era meglio perfino ignorarla. Lord Benjamin Burke viveva nella sua fortezza d’avorio da moltissimi anni, come le generazioni prima di lui, insieme alla moglie nel Mayfair, ma in pochi sapevano della sua residenza alternativa; una innocente e appartata villa nelle campagne inglesi, lontana da sguardi indiscreti, e si, lontana anche dalla sua stessa famiglia e perfino dalla sua stessa fedele compagna, la prima vittima di quella spirale d’infelicità matrimoniale.
Eppure, mentre lady Burke scendeva nel baratro del malcontento e della disperazione, suo marito si concedeva ai piaceri più sordidi che Londra gli potesse offrire, circondandosi di individui discutibili, giovani amanti, ma forse quella di tutte le sue perversioni era quella meno deprecabile. 
Naberius era proprio una di quelle; il suo viso era qualcosa di celestiale, una visione per gli occhi, di una bellezza rara, o forse, soprannaturale! I capelli biondi erano lisci come la seta, lunghissimi, quasi tendenti al bianco di quanto erano chiari, come la carnagione purissima; i suoi bellissimi zaffiri blu lo rendevano un angelo agli occhi degli estranei, non immaginavano nemmeno lontanamente che sotto quelle angeliche spoglie si celasse il marchese Naberius, principe infernale e protettore dei cancelli degli inferi. Ma se Naberius era il giovane ed esuberante guardiano dell’inferno, Barbatos invece era il saggio e anziano demone al suo servizio, e non per gerarchia, ma per badare che quel rampollo troppo egocentrico e lazzarone non finisse nei guai. 

Il demone dai capelli argento arrivò nella sua ricca camera da letto con un’espressione fortemente infastidita, con giusto una tovaglia legata alla vita, i ciuffi ancora umidi incollati sul collo e il torso nudo a fronteggiare la tiepida aria di quel suo alloggio, gentilmente concesso dal vecchio Benjamin in persona. Barbatos indossava un semplicissimo abito nero, simile a quello di un maggiordomo, sebbene in quel momento avrebbe definitivamente preferito avere indosso una maschera per non sottolineare il suo vivo disappunto per quei comportamenti da principessa; si passò una mano sulle tempie, scostando diversi ciuffi mossi dal suo viso.
«Si tratta….di Elaijah, mio signore..è qui per vedere vostro zio, Mephisto, e non se ne andrà se non riceverà udienza…»
«Chi?
E io che c’entro coi cazzi di mio zio?»
«Siete un reale, mio signore, vorrei che usaste i termini più consoni possibile…»

Naberius roteò gli occhi all’indietro per la noia,lasciando al posto delle iridi azzurre le sclere bianche in segno di protesta; non aveva mai sopportato l’etichetta!
«Quello che è, mio zio non c’è, manda indietro chiunque sia questo babbeo.»
«Mio signore…Elaijah…quel Elijah…»
«Grandioso, Barbatos, adesso si che mi è chiaro!» 

Fece sbattendosi una mano sulla fronte, quasi come se avesse risolto l’arcano; il maggiordomo era in bilico sul prenderlo a schiaffi o tenersi, ma scelse la seconda per quieto vivere.
«Il vostro…principe azzurro…lo chiamate così se non sbaglio!
O sbaglio…?»
L’arrogante giovane si fermò dallo scegliere come una pettegola lady il vestito buono per la serata, facendosi travolgere da un sorriso maligno sulle labbra rosse; rise sotto ai baffi, con le mani strette ai fianchi.
«Perchè non lo hai detto subito, ho sempre tempo per il mio azzurro…fallo entrare!»
«Non…avete intenzione di vestirvi?»
«Oh...? Tsk, ringrazia che non lo accolga con le grazie al vento, Barbatos, e poi Elaijah è uno di famiglia, ha visto…più del necessario!»
«Non andate oltre, non voglio vomitare...»
Lo fermò con una mano davanti alla bocca, quasi a tenerlo dal proseguire; di tutta risposta il ragazzo tirò fuori la sua lingua demoniaca, simile a quella di un serpente, dove al centro uno zaffiro era stato incastonato, in perfetto richiamo con il colore dei suoi occhi. 
Non era la prima volta che l’attore di teatro veniva in segreto dentro le mura di quella profana residenza, nella ricerca del consiglio di creature moralmente discutibili, ma nulla lo avrebbe mai fermato in quel determinato punto della sua vita: all’apparenza era un bellissimo e prestante giovane, ma dietro c’era una lunga concatenazione di maledizioni, legate al sangue, una condanna che per gli uomini valeva più della vita stessa; quanto poteva essere terribile pagare per dei peccati che non erano i propri?
Il sapore della pena era amaro, veleno puro, soprattutto se non si era fautori del proprio destino, ma semplici pedine, di una partita già chiusa da quasi 25 anni, o forse no?
Lo sguardo mare del demone infernale si illuminò di luce propria quando vide sulla soglia della sua porta quei due bellissimi occhi Acquamarina; il suo massaggio dopotutto avrebbe potuto attendere, non era poi così importante!
«Sai, da quando sono ospite di lord Burke vengo trattato molto meglio di quanto il mio rango consenta…principe azzurro…dovresti farci un salto, se solo ti vedesse…»
«Sei assurdo…Naberius…semplicemente assurdo…»
Il sole era tramontato da ormai un’ora, lasciando posto alle avvolgenti tenebre; le labbra del demone scesero lentamente lungo la mandibola del biondo ragazzo, tenendo il suo viso con la mano sinistra, coronata da brillanti anelli.
Elaijah sospirò pensieroso, con il capo appoggiato su quei numerosi cuscini di piuma d’oca, coi capelli dorati sparsi ovunque, mentre quelli argento del marchese gli solleticarono appena il mento. Non rise, ma si fece sfuggire una smorfia appena divertita, necessaria al  nobile per poter prendere il timone sul corpo caldo dell’altro; gli bloccò i polsi ai lati del capo, riprendendo indisturbato quella scia di focosi morsi fino all’altezza dello sterno.
«Cosa c’è di tanto assurdo, principe azzurro? Sono nato divino, sono caduto, e ora vivo la conseguenza delle mie scelte nel migliore dei modi…»
Gli sussurrò il dannato, lasciando il caldo respiro a scontrarsi contro la pelle rosea del ragazzo; Elaijah si sollevò sui gomiti, interrompendo così il lavoro di Naberius, quasi confuso da quella strana espressione assente, o forse più pensierosa. L’attore osservò il suo viso, sfiorando quei capelli argentati dalla radice fino alle punte, che attorcigliò fra le dita; erano così belli…rari!
Negò quelle parole assurde, avvicinandosi alla bocca del marchese ma non la riprese, lasciandolo in quel modo sempre più interdetto.

«Mi spieghi perché un demone nobile come te può accontentarsi di questo squallore?»
«Squallore?
Io non lo definirei tanto male, mio principe, dopotutto non ho mai dato il culo a quel depravato con la fissazione per i minori…»
Fece quasi con ovvietà, non capendo davvero tutte quelle storie su una cosa tanto irrilevante come quella; il ragazzo assottigliò lo sguardo acqua, quasi lasciandosi prendere sul personale dalla questione, togliendosi poi da quella posizione per lo sgomento; si mise seduto a bordo letto, dando le spalle larghe al demone, il quale dovette perfino sbattere le ciglia candide dalla sorpresa.
«Elaijah non riesco a capire come possa infastidirti questa cosa, come fai a farmi la predica?»
«Io non ti sto facendo la predica, dannazione, sei uno stramaledetto demone, sei libero, perchè ti pieghi a questo?»
«Oh buon….argh! Libero? Mi credi così libero solamente perchè nella catena alimentare che puzza di zolfo non sono un bastardo senza nome, ma se non avessi…quel titolo…credimi,potrei davvero considerare la prostituzione come scialuppa di salvataggio! Ma almeno io non sono vincolato da interessi di altra natura…
E allora perchè tu ti sei piegato a mio zio?
Ancora convinto del tuo piano vendicativo? Ci tieni a morire? Elaijah, la tua casata non esiste più, non hai più nulla che ti leghi alle tue radici…tra noi due quello libero sei tu! »
«Vorresti forse mettere a paragone le nostre condizioni, Naberius?
Tu sei suo nipote, io sono solo un debito da saldare…la mia vita non ha questa grossa rilevanza…non per lui!
Ma ormai ci sono dentro, Pheles, e non ho intenzione di rinunciare a tutto ciò che mi hanno tolto, pagheranno e soffriranno tutti…nessuno escluso!
E poi diciamoci la verità, per i demoni gli esseri umani non hanno alcun valore…»
«Se davvero così fosse…allora perché uno del mio rango perderebbe tempo con un…abominio come te..?»
Il mento di Naberius finì per appoggiarsi sulla spalla di Elaijah, con lo sguardo di entrambe rivolto verso lo scuro cielo stellato oltre la finestra; l’attore si voltò il giusto per ritrovare l’oceano dell’amante nuovamente suo, contemplandolo per secondi che parvero interi minuti. Lasciò tranquillamente, per quel momento, prendere il sopravvento ai loro giovani animi, ritrovando quel mancato contatto, quasi un anestetico per quelle vite imposte, manipolate o forse perfino scelte, ma in quel preciso istante non era di chissà quale importanza.
Il demone gli accarezzò il marchiato avambraccio, venendo quasi travolto da una brutale scossa che lo costrinse ad allontanarsi contro la sua volontà, con un dolore notevole lungo tutto l’arto.
«Naberius?! Ti sei ferito? »
«Tsk…mio zio sa essere possessivo con i suoi contratti…se solo ci fosse un modo per..»
«Non esiste e lo sai! O meglio, un modo c’è, ma..
Si sta dimostrando molto più complicato del previsto..»
«Che mi dici della tua spia alla Hunter? Quel…Quentin? Che ti ha detto? Hanno ritrovato il libro? »
«Quentin mi ha consegnato un accurato resoconto della spedizione della squadra Betha nelle terre del nord; qualcosa è andato storto! Quentin non è l’unico infiltrato nella Hunter…
Il libro l’ha preso qualcun altro, e non è stato quella sorta di latino americano con l’accento Borbone a prenderlo! 
Credo che c’entri il traditore numero uno…» ammise il biondo con un sospiro pesante, lasciando Naberius ad aggrottare le sopracciglia bianche. Il demone sfiorò inconsapevolmente il suo anello col marchio, annuendo silenzioso.
«Balthasar è fuggito da tempo ormai, potrebbe essere ovunque! Non avevi detto di aver seguito quel cacciatore, Ivano?»
«Ivo Nardi…si, si l’ha lasciato andare, però dubito sappia qualcosa del Grimorio o tanto meno dei peccati della sua associazione, ma potrebbe tornarmi utile in situazioni rischiose!
La sua fede di cacciatore vacilla, basta applicare la giusta pressione nei punti esatti e la breccia diventerà una voragine…»

Elaijah ricordò perfettamente quello sguardo, il dubbio vivo negli occhi del giovane hunter, non più così sicuro dei valori per cui aveva combattuto durante quegli anni; provò quasi dispiacere per lui, una sorta di rara empatia, sentimento veramente sconosciuto per uno come lui, abituato a non sentire niente, o forse, quasi niente.
Il marchese infernale lo conosceva molto bene, sapeva che in quegli occhi il tarlo della vendetta continuava a rimuginare in continuazione; ma che avrebbe potuto fare per ostacolarlo?
Gli sfiorò i biondi boccoli sulla nuca, con un sospiro profondo.

Sarebbe stato tutto diverso se lui non fosse stato un demone e lui uno stregone.

«Principe Azzurro…possiamo ancora uscirne, se solo mi ascoltassi! Sicuramente non lo faremo in maniera pulita…ma se abbandonassi l’idea di distruggere la Hunter, potrei aiutarti personalmente a mettere le cose al proprio posto!
Mio zio si troverà un’altra anima da torturare…ma non la tua!»
«Ho detto di no, Naberius!»

Il ragazzo si voltò di colpo verso l’albino, con il volto serio, quasi corrucciato, non avendo più intenzione di ribadire quel concetto un’altra volta; il marchese mise le mani in alto, sebbene la sua lingua avrebbe tanto voluto ribattere come era solito fare, eppure quel principe azzurro aveva sempre saputo prenderlo nel verso giusto come nessuno mai prima di allora!
«Quanto siamo leali..principe…»
«Non è lealtà, marchese, è causa e conseguenza…se Mephisto sapesse che hai cercato di aiutarmi la mia pena si triplicherebbe! 
E poi…non credo che userebbe con te i guanti bianchi…in caso fossi tu a tradirlo.»
«Lo..lo stai facendo per me?»
Il ragazzo lo guardò con una nota di pieno stupore a cui Elaijah faticò a trovare risposta; abbassò il capo, come ad evitare l’argomento, riprendendo quel suo scudo di bronzo che era solito mostrare per la maggior parte del tempo; ormai si era abituato!
«Ci guadagnamo entrambi, non importa per chi lo sto...
Naberius…?»

Le mani del demone gli presero il viso all’improvviso, con un gesto notevolmente deciso, lasciando sul viso di Elaijah una piacevole e buffa espressione di sorpresa, soprattutto quando trovò la bocca di Naberius sulla sua: un bacio diverso, elegante, quasi delicato rispetto al suo modo di fare ed essere, dove i pollici gli accarezzarono su e giù gli angoli della mandibola. Si susseguì uno schiocco semplice, una chiusa quasi perfetta, che non aveva bisogno di ulteriori scuse, nemmeno per uno petulante come Naberius Pheles.

«Questo…per cos’era, se posso?»
«Per toglierti dall’imbarazzo…senza un copione di teatro sei…pessimo, un terribile oratore; l’arte della retorica, mio principe, ha salvato molti uomini nei secoli, tu che ti immergi nelle arti greche dovresti saperlo…Le parole dei consiglieri, dei saggi, hanno lasciato il segno più di quanto faccia una spada contro la gola di qualcuno!»
«Stiamo ancora….discutendo di storia?»
«Vai al diavolo…Spellman..»

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Capitolo 9
*** I can no longer obey; I have tasted command, and I cannot give it up. ***


  Chapter 9: I can no longer obey; I have tasted command, and I cannot give it up.


                 1 year ago.

 

Somewhere in London, far far away.

 

Era il 13 gennaio del 1885 quando l’incendio di casa Spellman rase completamente al suolo le radici di quella famiglia, un tempo molto temuta e potente, custode di segreti magici e baluardo della negromanzia; nessuno si sarebbe mai sognato di sfidarli, non senza conseguenze estreme.

Da quei lignaggi di sangue si poteva fiutare l’odore del male assoluto fino alle viscere della terra.

Elaijah non era ancora nato all’epoca, ma aveva sentito quella storia talmente tante volte da sentirsi parte di essa come nessun altro; lui era l’ultimo ancora in piedi, l’ultimo frammento del frutto della crudeltà e dell’avidità, ma era davvero così?
Era schiavo dei suoi natali?
Se lo domandava da 24 anni ormai, ma la risposta non  riusciva ad apparirgli chiara nemmeno sforzandosi. Vagava, assente, all’interno di quella mastodontica magione, o meglio, di ciò che ne restava; uno scheletro bruciato avvolto dalla rigogliosa e selvaggia vegetazione che piano piano stava ricoprendo ogni maceria, come a riportarla alla terra, riprendersi tutto quello che era stato fatto. Era orfano, non aveva mai conosciuto sua madre, una bambina praticamente, morta ancora prima di poter capire cosa le stesse accadendo, e nemmeno il resto dei suoi predecessori, la maggior parte morti durante l’incendio di quella gelida nottata di ben 25 anni prima.

Incendio non così accidentale come tutti preferivano ricordare.

Sentiva quasi le voci in lontananza di quei corpi che bruciavano, di quelle grida di disperazione, ma qualcuno riuscì a fuggire dalla furia cieca del fuoco e delle fiamme; una pallida ragazzina e suo padre,in fuga da qualcosa, o da qualcuno. 
Perchè Naberius gli aveva chiesto di vedersi li?

Odiava tornarci, si sentiva quasi impotente alla vista di quel mastodontico rudere, dove l'odore di cenere e di muschio avevano ormai avvolto ogni cosa; solo la luce del primo mattino, penetrante dalle malmesse persiane, riusciva a spazzare via il buio tetro di quelle mura carbonizzate, facendo quasi luccicare i suoi profondi occhi blu, che scattarono al rumore di una tavola del pavimento scricchiolante. Non ci fu nemmeno bisogno di voltarsi, il suo corpo fu travolto da brividi tremendi, come pugnali tirati alla sua schiena: col cazzo, quello..quello non era Naberius.

«Nel 64 dopo Cristo, mentre la città eterna era arsa dalle fiamme, Nerone stava seduto ben lontano da Roma, mentre con la sua lira andava cantando per il palazzo la caduta di Troia..
Mito, leggenda o forse verità? Tu cosa credi, Elaijah? »

«Mephisto…»
Le labbra del ragazzo divennero improvvisamente aride, come se non potesse nemmeno deglutire; dal nulla era apparso, come un fulmine col cielo terso, come il dolore del marchio sulla sua carne, sempre fiammeggiante quando il suo di padrone si mostrava.
Mephisto Pheles, una curiosa storpiatura del suo nome originario: Mefistofele. 
Era diverso da tutti i demoni che volgarmente infestavano la terra, il suo essere era qualcosa di mistico, fottutamente ammaliante, come una musa per gli impavidi, per chi avesse davvero voluto sfidare i confini del mondo allora conosciuto: questo era Mephisto. 
Non di imponente statura, o di chissà quale fisicità greca: dall’esterno era un uomo come ogni altro, ma il luccichio folle nei suoi verdi occhi era senza dubbio fuori dal comune, o umano. Aveva i capelli ricci, folti e bruni, d’aspetto piacevole, come il suo tono pacato, terribilmente accordato come il suono di un clavicembalo, per non parlare del suo passo sciolto e deciso, come se fosse in perfetta sincronia con gli elementi del creato, come se fosse al corrente d’ogni cosa, come se capisse ogni respiro che la natura emanava. Vestito di nero, come un corvo, buio completo, per nulla affine ai gusti sfarzosi e barocchi della sua famiglia, preferendo di gran lunga la semplcità dell’apparire, poichè il vero spettacolo, come ogni buon intenditore sapeva, stava all’interno, mai al di fuori.Le gambe del ragazzo rimasero erette, ma il fremito che le scosse fu impossibile da non notare; strinse debolmente i pugni ai fianchi, osservando ogni suo movimento nel tentativo di prevedere le sue azioni.

«Quale folle guarderebbe la sua città bruciare? I suoi cittadini morire? Eh?»
«Ironico non credi?

Hai detto bene…”quale folle”, mio dolce fanciullo…pensa a questo impero, il tuo impero!»
«Non..non è mio…non è mai stato mio e mai lo sarà!»
«Ah no?
Io però leggo tutt’altro nelle tue profondità, ragazzo…sono sempre stato al tuo fianco, dopotutto…e non c’è bisogno di conoscere un uomo per una vita intera per giudicarlo, fidati di me!
Bastano pochi…e semplici…istanti..»
Il respiro del demone sfiorò improvvisamente la cartilagine di Elaijah, che si voltò di scatto, ma non vi trovò nessuno, solamente una vecchia poltrona impolverata, ricoperta di fuliggine e ragnatele. 
«Naberius non verrà, è stato…come dire, trattenuto?»
«Che gli hai fatto?!»
«Stai calmo, non ho fatto assolutamente nulla a quel…precipitoso e irresponsabile di mio nipote, sebbene meriti d’essere frustato per il suo simpatico teatrino messo in piedi..in tuo soccorso!
Ma come, non lo sapevi?
Allora non siete così affiatati come credevo…o forse, tu non ti fidi davvero di lui?»
Fece sfuggente e sottile lo stesso Mephisto che ,con uno schiocco di dita, fece accendere una fiamma vorace all’interno del antico caminetto di quel decadente salotto, prendendo comodamente posto sull’unico divanetto ancora intatto; tirò fuori dal suo taschino del panciotto un paio di occhiali da lettura che mise delicatamente sul naso, con un libro fra le mani, sfogliando le pagine con leggerezza come se fossero state dei delicati petali di un fiore.
Lo Spellman sentì il suo cuore galoppare come un cavallo impazzito: Naberius, ma che hai fatto?!
L’uomo sghignazzò improvvisamente, come se stesse leggendo un giornaletto satirico, e non Le Metamorfosi di Ovidio.
«Oh quel…quel ragazzo, dannazione!
Pagare una troia per uccidere Quentin Queensbury, devo ammettere che o è completamente idiota oppure prende un po troppo sul serio le profezie di quell’angioletto di Berith!
Ma almeno quel ricciolino non mi ha deluso…magari avessi fatto un patto anche con lui!»
«Ucci….uccidere Quentin?! 
Perchè? Lui è solo un tramite…una spia…»
«Non te lo ha mai detto nessuno che a lavoro compiuto le spie vanno tolte di mezzo, ragazzo?»
Il demone fece spallucce, non distogliendo subito lo sguardo dalla sua lettura, accavallando pure le gambe come se fosse stato in un salotto del tè, o al club del libro, sotto lo sguardo completamente congelato dell’altro; pensò per un momento a come fosse giunto ad una simile conclusione, ma non ebbe il tempo di pensare, che il dolore sul suo braccio quasi lo piegò in due, con le ginocchia al pavimento.
Mephisto sollevò lo sguardo oltre le tonde lenti di vetro, guardando senza alcuna empatia il viso del fanciullo avvolto nel suo dolore, chiudendo il libro con un piccolo tonfo, lasciandolo davanti al fuoco acceso.
«Lo sai perchè ti trovi in queste condizioni, ragazzo?
Non è per via di mio nipote, Naberius è solo un moccioso viziato a cui nessuno ha mai detto di “no”, quindi ora si illude di poter avere la sua libertà cercando di aiutarti…sei la sua catarsi, la sua purificazione…ma noi due sappiamo bene qual’è la verità!
Tuo padre…»
«ERA UN MOSTRO!»
«Si be…se vogliamo parlare di etica, Conrad non era esattamente San Francesco d’Assisi, ma come Prometeo, aveva osato dove nessuno era riuscito…e tuo nonno prima di lui…»
Fece con un dito in alto, quasi a puntualizzare il concetto, facendo oscillare avanti ed indietro la gamba accavallata, guardando con quei grandi e pungenti occhi il marchio del capro inciso sull’avambraccio del ragazzo, quasi a contemplarlo.
«Ma senza follia, senza azzardo, Elaijah, non avrai mai ciò che desideri…dimmi quale uomo, dimmene uno solo, che non ha fatto follie per arrivare in alto, a toccare il cielo, a sfiorare dove gli dei dormivano, non c’è!
Io non sono un conservatore…non lo sono mai stato...non ho mai creduto nella gerarchia degli ordini...è vero, sono fra i principi più antichi, ma io, come te, vengo dal peccato e resterò in esso…Ma non è tanto da dove veniamo a definirci, Elaijah, quanto più cosa faremo per riottenere la gloria eterna, il potere assoluto! 
Prometeo rubò il fuoco, Ercole ebbe le sue 12 fatiche, Icaro e la meta del sole…»
«Sono morti…sono morti tutti quanti, cazzo...Prometeo ha passato la vita con il fegato divorato dalle aquile, Icaro invece?
Così in alto è arrivato, per cadere così in basso…
Ed Ercole? Dopo aver ucciso moglie e figli, ottiene si l’immortalità, ma a quale prezzo?»
Era quasi una rivendica, la voce corrotta dalla rabbia e dal disprezzo, una voce che Mephisto aveva udito molte volte, troppe quasi, poiché non era la prima occasione in cui  lui e il suo protetto finivano per scornarsi. 
Sbuffò, roteando gli occhi, come se quasi non avesse ascoltato una sillaba di quella obiezione, grattandosi un sopracciglio lievemente interrogativo.
«Ho una domanda, ragazzo...perchè davvero non ti comprendo...o meglio, nemmeno mi interessa in realtà, ma per sfizio personale, tu cosa vuoi veramente? Eh?
Hai passato gli ultimi 22 anni della tua vita come un cane, uno straccione, al mio servizio, ai miei capricci più disparati, sei a tanto così dal tuo riscatto, ed è ora che ti vengono i flussi di coscienza?
Perchè perdonami se te lo chiedo, ma per cosa ti stai battendo?»
Mephisto stesso afferrò in un battito di ciglia il volto del biondo attore, sollevandogli il capo verso i suoi occhi demoniaci, brillanti come smeraldi; Elaijah ricevette una freccia nel cuore, dritta in petto, guardando il suo carnefice negli occhi, sebbene non fosse lui la causa dei suoi mali in fondo. Ma lui cosa voleva?
Voleva essere schiavo tutta la vita?
Vittima di un passato che gli aveva macchiato l’anima?
E se Mephisto fosse stata la chiave invece della sua resurrezione? Aveva mai considerato quella come via d’uscita? 
Il demone sorrise, sfiorandogli lo zigomo sinistro con il pollice, come se quel ragazzo smarrito fosse stato quasi un figlio, o forse un diabolico calcolatore, che stava modellando a sua immagine e somiglianza.
«Non mi importa se fornichi con Naberius, sono problemi tuoi chi scegli di condurre fra le tue lenzuola…
Ma scegli bene, ragazzino, il fine ultimo delle tue battaglie!
Combatti per amore di un demone?
Combatti per vendicare tua madre o per punire i peccati di tuo padre? 
O forse…per distruggere…chi ha affondato il nome dell’impero Spellman?»
Quell’ultimo interrogativo gli fu sussurrato all’orecchio come un sibilo, capace anche di abbattere una casa; una brutale scossa adrenalinica, vero carburante nelle vene. Mephisto non era un semplice demone, si insinuava dentro come una malattia, facendo leva sui bisogni e i desideri più dimenticati; aspettava solo il momento giusto per poterli scoprire, come un trucco di magia, in cui in ballo c’era molto più che un coniglio nascosto nel cilindro. 
«Rammenta le mie parole…
L’uomo può essere un mostro feroce e senza pietà, ma c’è una grossa differenza tra una semplice bestia incontinente e un uomo astuto, che sa dove iniziano i suoi limiti ma sa anche dove finiscono! Il controllo, Elaijah, è l’arte del potere insieme alla conoscenza, non avere limiti non significa vincere, mai, come dici tu, che senso ha arrivare in alto e poi cadere?
Quegli uomini...non avevano saputo controllarsi, tu invece, ne sei in grado?
Ne…saresti in grado?
Ma per scoprirlo, mio dolce erede di casa Spellman, dovrai spingerti oltre il palcoscenico di un teatro, e non saranno le grazie di Naberius a proteggerti dal tuo destino, sarai solo tu con le tue scelte a costruirtelo, mi hai capito bene?
Solo un limite ha l’uomo; “quod me nutrit, me destruit.”»
«Ciò che...mi nutre…mi distrugge…»
«Bravo, bravo il mio ragazzo!»

Gli lasciò andare il viso, rischiando così inavvertitamente di cadere a faccia in avanti contro il vecchio pavimento se non fosse stato per i riflessi pronti, lasciando le sue stesse mani ad attutire lo scivolone, chiudendo di botto gli occhi. Allora udì una musica.

Un…un waltzer?

Il giovane aprì gli occhi completamente confuso, ma come lo fece ritrovò davanti a sé uno spettacolo senza eguali; era come se l’incendio non ci fosse mai stato, poiché il salone splendeva come una moneta appena lustrata, uno sfarzo unico ed inimitabile, come se il tempo si fosse fermato alla notte del 12 gennaio, senza mai più proseguire oltre. Il fuoco ardeva nel camino, i servitori imbandivano delle più succulente pietanze quella tavolata, lord e lady danzavano al ritmo lieto e gioioso di quella melodia suonata dal vivo, dove un quartetto d’archi creava con gaudio quella incredibile melodia; non esisteva più quella disperazione, come se non ci fosse mai stata.

Niente più distruzione, niente più urla, solo la famiglia Spellman intenta a festeggiare il compleanno della giovane discendente di casa: sua madre Selena, una fanciulla di soli 14 anni, avvolta in quei merletti e lustrini che la fecero apparire come una piccola principessa sotto gli occhi di tutti gli invitati, quasi pazzi di lei. Al suo fianco c’erano due figure ben distinte; la prima era una donna giovane, i cui rossi capelli mossi erano raccolti, lasciando così spazio a quel bel viso gioioso come non mai, mentre stringeva fra le mani le spalle dell’unica figlia erede di quella fortuna, o maledizione. Ma fu il secondo sguardo a stravolgerlo, come un pugno in pieno stomaco: accanto alla donna rossa c’era un uomo alto, di notevole bellezza, portamento fiero, capelli dorati e occhi azzurri. Per Elaijah fu come guardarsi allo specchio; quella letizia sparì, un brivido lo smorzò; Conrad Spellman, era suo padre.

«L’uomo più temuto dalla Hunter, da Charles Darcy, dai Griffith, perfino dalle famiglie del consiglio e da molti altri lord che non si permettevano di guardarlo in faccia…preferivano tutti essergli amici che remargli contro, come gli stessi traditori che hanno appiccato il fuoco!»
Mephisto gli riapparve accanto, come un'ombra, indicando una ad una le figure dinanzi al fuoco, solo sagome di cose passate, ricordi del tempo, ormai svanito. 
Elaijah lo ascoltò, quasi rapito, guardando quei volti così lontani ma allo stesso tempo vicini, inconsapevoli della tragedia che li avrebbe travolti da lì a poche ore dopo. 
«Tuo padre aveva aperto un condotto tra il nostro mondo e il suo…si è servito delle forze oscure per arrivare fino in alto, ma non aveva considerato il primo avvertimento che ogni buon saggio deve ricordare prima di aprire il vaso di Pandora…
Il mondo dell’occulto porta senz’altro ad un controllo del potere, ma di una minuscola parte! E vuole sempre, sempre qualcosa in cambio…»
«Lui…lui ha condannato la nostra famiglia,sua moglie,ha...distrutto persino sua figlia...»
«Ha fatto molte cose orribili, sì, ma il bagliore è stato divino! Ma in pochi di questa famiglia hanno davvero capito il peso che stavano portando sulle loro spalle, nemmeno lady Darcy era cosciente di chi aveva sposato…
Ma nessuno conosce la propria metà finchè non ci divide il letto, dopotutto!»
Accanto a quel quadretto familiare apparentemente angelico, si avvicinarono 3 uomini che Elaijah aveva già visto in passato, o meglio; due di loro seppe riconoscerli, ma il terzo lo catturò in maniera particolare. Vestiti diversamente da tutti gli invitati imbellettati dell’alta società inglese, parevano quasi degli imbucati del tutto estranei a quei festeggiamenti; il primo giovane uomo, dalle spalle larghe, il fisico possente e i biondissimi capelli dorati parve quasi un sorvegliante di marmo, completamente in nero se non per un piccolo stemma rosso cucito accuratamente sulla spalla della sua giacca: un grifone nero circondato dal sangue. 

Rhys Griffith in persona, identico a come lo ritraevano i numerosi dipinti che l’attore aveva visto più volte nel corso della sua infanzia, ma non fu il braccio destro della Hunter a turbarlo; si sapeva, non erano i Griffith la mente pensante dell’associazione, quanto la forza bruta e la violenza a disposizione di un uomo, e non uno a caso, a capo di quel trittico sinistro e lugubre.

Homo Novus: Luther Richter. 

Non era nobile, anzi, era poco più che il figlio bastardo di qualche lady tedesca non in grado di tenere le gambe chiuse che, pur di evitare lo scandalo, s’era disfatta del suo peccato in un modo o in un altro; ma che importava, alla fine? Un uomo in grado di ottenere un simile potere, senza denaro, senza titoli e senza amici era l’essere più pericoloso che il creato avesse partorito, perché non si poteva né corrompere e neanche comprare, e forse nemmeno distruggere. Poteva avere appena 21 anni all’epoca, ma quella sfumatura di gelo negli occhi non era affatto cambiata, ne mutata, cruda, fissa sul bersaglio, e quel centro era proprio l’intera stirpe di casa Spellman; nessun superstite era contemplato.
Elaijah guardò suo padre stringere amichevolmente la mano del suo assassino, il quale rispose con un cordiale cenno del capo, scambiando tra di loro qualche parola che non fu udibile all’orecchio dell’attore ormai consapevole di ciò che sarebbe accaduto. Il terzo giovane hunter invece stava fedelmente dietro le spalle di Luther, un volto molto più inquieto che non ricordava di aver mai visto; Mephisto notò perfettamente dove lo sguardo del suo protetto fosse andato a parare, tamburellando sulla sua spalla con l’indice e il medio.

Ma chi era mai quel cacciatore così vicino a due teste tanto importanti?

Il biondo attore cercò la risposta negli occhi verdi del demone ma non ottenne alcuna delucidazione, poiché quello mise le mani in alto, quasi ad essere all’oscuro di quella fitta trama di pugnalamenti alle spalle; eppure Elaijah non fece in tempo ad osservare oltre in quel buio ricordo, figurarsi scoprire chi fosse quel misterioso giovane, ma i loro visi erano ben impressi nella sua mente, completamente indelebili.

«Non saranno quelle ombre del passato a darti una guida, Spellman, rassegnati,però, se può consolarti, potranno darti almeno un punto di partenza ben solido, non ti pare?»
Quello sfarzo, quel gaudio, svanirono in un istante, ritornando esattamente tutto com’era prima di quella visione, completamente avvolto dal buio e dalla cenere; era di nuovo lui, solo e soltanto lui. Si guardò attorno, come alla ricerca dello stesso demone, ma non c’era nessuno in quel luogo dimenticato da Dio; solo il cinguettio degli uccelli nelle orecchie del ragazzo, che si trovò fra le mani proprio lo stesso libro che il demone nobile aveva sott'occhio poco prima.

Lo aprì, trovando un vecchio biglietto teatrale a fare da segnalibro, dove fra le righe trovò una frase ben sottolineata, a matita, con cura e attenzione.

 

“O tre dee del castigo, Furie, volgete il vostro sguardo a questo rito infernale!

 Vendico una colpa commettendone un'altra. 

La morte va espiata con la morte.

 A delitto va aggiunto delitto, a funerale funerale: si estingua lo sciagurato casato, con questo accumularsi di lutti.“

 

Ma allora lui cosa avrebbe dovuto essere?
Se suo padre aveva fallito, lui come avrebbe potuto fare diversamente?

Più volte negli anni si era chiesto se in lui ci fossero le stesse tracce di quell’ambizione, se ci fossero veramente delle somiglianze, non solo apparenti, con i suoi predecessori; suo padre, uno dei più potenti stregoni del XIX secolo, sua madre, “la strega bambina”, ma lui…chi era? 
Lo schiavo di un demone…oppure il fondatore, una fenice che risorgeva dalle ceneri di un’antica scintilla non spenta del tutto?

Dio aiutava i puri di cuore, Mephisto gli audaci e i folli con acume sufficiente a conquistare il mondo; alla fine,non era mai stato particolarmente cattolico, dopotutto.

 

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Capitolo 10
*** Women loved to be called cruel, even when they are kindest. ***


Chapter 10: Women love to be called cruel, even when they are kindest. 

 

Current Day

 

Isle of Skye.

 

«La mia...la mia....testa, cazzo che male! Quentin, Quentin sei vivo?»

«Si, purtroppo si, ma che cos'è successo?»

«Se lo sapessi...non sarei qui per terra...come un coglione...

Cristo, ma che cosa ci ha colpiti?»

«O meglio, chi ci ha colpiti...»

Quentin e Brando si svegliarono diversi momenti più tardi da quella inaspettata aggressione alle spalle; la fronte di Guidi ancora sanguinava, come il naso dell'altro, che si teneva la testa dolorante mentre con l'altra mano si sorreggeva contro il muro di pietra. Sembravano gli unici ad essere stati colpiti, poiché il resto del campo addestramento sembrava avvolto in una strana quiete, come se nulla fosse accaduto di fatto, come se si trovassero apparentemente in due mondi paralleli.
Brando si pulì il sangue con la manica della camicia, guardando ancora scosso il compagno.
«Evidentemente non era un cacciatore…visti i risultati…cercava Novacek!»
«Lui…come altri diecimila stronzi a cui quello stangone ha fatto un torto, Dio…è tanto grave?» disse quasi disinteressato il Queensbury, con la narice ancora sanguinante. Brando sbuffò, dandogli quasi uno spintone.
«Non hai niente, non morirai per un naso rotto…dobbiamo avvertire il capitano! Se quel cazzo di energumeno lo trovasse…Quentin…mi stai nascondendo qualcosa? Sai chi è il tizio che ci ha aggrediti?
Sei stranamente calmo…e non mi piace, se devo essere onesto!»
«Credo che faresti bene a farti i fatti tuoi, Brando, se continui a ficcare il naso dove non ti compete, beh, potresti farti male!
No, non conosco personalmente il bestione che ci ha messo una baionetta nel culo…ma conosco il mio capitano e francamente si merita il plotone d’esecuzione, e non ho intenzione certamente di fermare Ercole, se ci tiene a fargli un buco in fronte! Quindi…se vuoi fare un favore alla società e a me, limitati a cercarmi del ghiaccio per il naso e vivi un altro giorno, mi pare un buon compromesso.»
Il tono serio e freddo del ragazzo francese sembrò quasi anomalo, estraneo alle orecchie del pisano, abituato a quella spavalderia e strafottenza innata che sembrava sorgere spontanea; Evgenij negli anni si era guadagnato una reputazione veramente orrenda, un giovane senza scrupoli, che otteneva tutto con la violenza e con dei mezzi poco ortodossi, ma girare la testa dall’altra parte?

Non era proprio da uno come Brando.

Quentin roteò i grandi occhi scuri, capendo perfettamente cosa gli stesse passando per la testa; era difficile fare il doppiogioco, figurarsi il triplo, come stava facendo lui! 
Non si dissero più una parola, poiché il ragazzo più giovane lo lasciò esattamente lì, contro la parete, avviandosi a passo spedito verso gli appartamenti dei superiori. Alcune gocce fredde e pesanti caddero sul viso del francese, lavando via quelle macchie di sangue indurite e vecchie; allora era proprio vero che i propri peccati sarebbero venuti a cercarli ovunque, pure ai confini del mondo!
Sorrise, ma non di gioia, quanto più per consapevolezza che tutto, prima o poi, avrebbe avuto un epilogo, una fine a tutta quella sofferenza, forse non causata direttamente da lui, ma a cui aveva preso parte.

Iniziò a piovere.

Quella che sembrava essere una giornata serena, in pochi istanti, divenne un vero e proprio temporale che costrinse chiunque al campo a fare ritorno agli accampamenti, ma non c’era modo di tornare alla base, oltre la costa. L’isola di Skye era senza dubbio un luogo perfetto per addestrare le reclute per via delle sue terre, ma in caso di mareggiata, era meglio non attraversare il mare stretto.
Una magnifica prigione in mezzo al mare, costretti a stare insieme, indipendentemente dall’amore o dall’odio, e il secondo era sicuramente più in voga del primo. Chi poteva saperlo meglio dei Griffith, dopotutto?
L’unico luogo rimasto deserto dopo l’inizio del temporale erano proprio le scuderie, dove i cavalli, agitati per i tuoni, nitrivano spaventati al suono di quei rombi sempre più forti; nemmeno la presenza della giovane capitana riuscì a tranquillizzarli, solo a rassicurare, sebbene per poco, i loro animi inquieti. Vagavano ancora violente le parole che erano volate fuori con una simile facilità dalle loro bocche. Era così stufa di sentire bugie giustificate da un bene superiore, ma quale bene era più importante della sua felicità? Quale?

Non ci si può fidare nemmeno di chi si ama. Aveva già imparato quella lezione anni prima, perché allora ci era ricaduta?
Tirò un violento pugno contro una delle travi di legno della stalla, che scricchiolò visibilmente, ma non fu nulla confronto a ciò che aveva dentro, un fiume di lava che iniziava a scavare sempre più in profondità; era da alcuni mesi che si sentiva reclusa più del solito, non riusciva a capirne la ragione. Era come essere intrappolati in un corpo estraneo senza via d’uscita.
Eris guardò le sue nocche spellate, non facendo caso alle schegge di legno conficcate nella pelle; erano nulla rispetto a ciò che aveva dentro, un vago fastidio quasi. 
«Vediamo se riesco ad indovinare, hai immaginato la mia faccia al posto di quel pezzo di legno!
Consiglio da amico, colpisci più forte perchè non ho sentito davvero nulla…amore…ops, dimenticavo che quel periodo è bello che trapassato!» esordì nel bel mezzo di quel macabro e sinistro trambusto il secondo capitano della squadra Beta, il famoso ed irritante, unico e solo, Evgenij Novacek. Era rimasto appoggiato contro una delle stalle della scuderia di spalle, giocando con una mela rossa che faceva su e giù contro il palmo della sua mano, attirando l’attenzione di uno dei cavalli ancora tranquilli, che si avvicinò al cancelletto del suo box per avere un morso dello stesso frutto. Il sangue di Eris tornò a bollire come una pentola a pressione, senza sosta, non potendo proprio sopportare quel viso, borioso e malefico che non smetteva di prendersi gioco di lei, dal primo momento in cui era arrivata al campo Hunter.
Non era fisicamente possente o muscoloso, ma la sua statura titanica e il suo viso, insieme alla sua presenza, sapevano incutere una sensazione di pericolo spregiudicata, accentuata dallo sguardo verde che pareva essere senzanima dal momento in cui era stato concepito. Sorvolando questo inquietante particolare, era un giovane persino di piacevole aspetto, con i mossi capelli biondo scuro e il naso delicatamente rivolto all’insù, ma bastava trascorrere con lui solamente pochi istanti per capire che si era in presenza di un puro sociopatico. La puledra tuttavia non fu dello stesso avviso della capitana, che rubò un sostanzioso morso del frutto maturo, avvicinandosi senza alcuna paura al ragazzo, che teneva vigile la coda dell’occhio sulla ragazza a pochi passi da lui. 
4 anni prima sarebbe stata la situazione ideale per potersi nascondere dagli occhi dei loro superiori e stare insieme, indipendentemente dal luogo e dallo spazio; i letti erano oltremodo sopravvalutati per la loro modesta opinione, alla fine bastavano solo due anime per creare la giusta atmosfera.
«Il tuo ego potrebbe riempire questa stalla fino a farla esplodere, se ti illudi di essere ancora il protagonista dei miei pensieri, Ev…non te lo ha mai detto nessuno che il passato resta passato? E tu sei sepolto lì, insieme alla tua dignità. » ringhiò la ragazza, come un gatto randagio, non osando nemmeno ridimensionare quelle distanze, mantenendo quei 3 metri di sicurezza, oltre i quali sarebbe potuta finire solo in un modo: uno spiacevole. 
Evgenij posò i suoi grandi occhi sporgenti verso quel volto, in particolare verso quel trofeo di guerra che aveva marchiato impunemente su quella guancia, sfiorata solo Dio sapeva quante volte; Eris strinse i pugni fino a spezzarsi le dita da sola, ma scaricò quella pressione impellente in una risata sarcastica, toccandosi la parte di viso illesa,
«Dovrei forse porgere l’altra guancia e dimenticare tutto? Affinchè tu possa sfregiare pure questa?»
Evgenij ghignò quasi sorpreso, non allontanandosi dalla cavalla affamata, ignara di quei sentimenti pungenti e carichi di rancore che le stavano dinanzi al muso.
«Chi te lo starebbe chiedendo? Io no di certo, Eris, perché dovrei? Io ti ho volontariamente ferita, lo sappiamo entrambe, non sono uno che nega l’evidenza, come te o come quel capellone di tuo zio…ma cosa vuoi, è questa la differenza tra me e te!
Non avrebbe mai funzionato, troppo diversi, ideali contrastanti…»
«Ohh perché tu hai degli ideali? Credevo che la tua unica guida fosse fottere il prossimo senza badare alle conseguenze!»
Il capitano della squadra Beta sollevò l’indice verso l’alto, in negazione.
«Sbagliato, la mia guida è fottere il prossimo senza badare alle conseguenze, tranne quelle che possano includere la mia sconfitta, ti mancava un pezzo fondamentale, capitano!
Se ti avessi sfidata a porte chiuse avrei sicuramente passato i miei giorni al fresco, e invece l'ho fatto alla luce del sole con tanti, tanti testimoni ed eccomi qui! 
Respiro ancora, sono fra i sottufficiali della Hunter e…il mio bel visetto è esattamente come mamma lo ha fatto!»
«Per ora,bastardo!»
Una fredda lama da taglio si puntò contro lo zigomo sinistro di Novacek, facendolo indietreggiare contro il cancello di legno di un box vuoto, spinto dalla furia della giovane Griffith che caricò tutto il suo peso contro il corpo molto più alto e slanciato dell’altro, con i denti stretti tra loro, come un animale ferito che si rifiutava di morire. Evgenij mise fintamente le mani in alto, roteando gli occhi verso il cielo, incurante completamente di quella sorte di attacco vendicativo, non sentendo nemmeno la goccia di sangue che colò lungo la sua guancia, fino al mento. Il torsolo della mela, ancora a metà, cadde sullo sporco pavimento fra la paglia dorata e il fango, non molto lontano dai due capitani, nuovamente faccia a faccia dopo tanto tempo.
Era una transazione irreversibile; l’odio non poteva trasformarsi in amore, nonostante la differenza tra i due sentimenti fosse veramente impercettibile in certi casi. 
Eris continuò a premere contro quella faccia, come un bersaglio, allargando il taglio di pochissimi centimetri, ma non riuscendo nemmeno volontariamente a continuare e ciò che era peggio era che entrambi ne fossero pienamente consapevoli; la sua presa sull’elsa del pugnale divenne debole e facile da disarmare, trovandosi con il polso sollevato a mezz'aria dal biondo che, senza cerimonie, lo strinse fino a quasi romperlo.
I respiri si incrociarono come gli sguardi, separati da una velata patina salata degli occhi di Eris, una che bruciava fino a dar fastidio, mentre quelli di Evgenij erano fermi e fissi, senza tradire un singolo movimento oppure emozione.
«Siamo punto a capo, amore mio, non te ne accorgi,vero? »
«Non chiamarmi così, non ne hai più il diritto, brutto pezzo di merda doppiogiochista!»
«Allora perchè non mi pugnali? Perchè non mi uccidi? Nonostante tu ci stia provando con tutta te stessa, continui a permetterti il lusso di vivere nel passato nella speranza che la nostra condizione cambi…Dio mio come ti illudi, ragazzina, mi fai quasi pena!»
Anche il pugnale seguì la mela con un suono metallico sul suolo, riavvolgendo il nastro degli eventi al contrario, dove fu la capitana ad essere sbattuta al posto del giovane uomo con una presa salda sul suo viso, arpionando con le lunghe e magre dita quel volto, tenuto verso l’alto, verso di lui, verso i suoi occhi.
Eris sgranò i suoi, sentendosi quasi sollevata da terra per la loro evidente differenza di altezza, aggrappandosi con entrambe le mani all’avambraccio di Novacek, e non senza graffiare quella pelle color latte con le unghie.
«S-se ti faccio così tanta pena…perchè non mi levi di mezzo, capitano del mio grosso cazzo? Fallo, almeno la facciamo finita con questa farsa…ma almeno, ti saresti potuto evitare un sacco di rogne…tipo il rischio di diventare padre…tanto per cominciare! »
«Se vuoi che sia spudoratamente sincero…»
«Sapresti esserlo? Dubito…quindi fottiti!» rispose la Griffith sputando praticamente a terra, mancandolo di pochi centimetri; il ragazzo inarcò appena un sopracciglio, venendo nuovamente catturato da quella cicatrice che lui stesso aveva inflitto diversi anni prima: era profonda, ben cicatrizzata, di una precisione quasi chirurgica, perfetta, un autentico capolavoro scolpito su un viso ancora più bello.
Sorrise, con quel suo macabro ghigno capace di far accapponare la pelle perfino al mostro più deforme, testando con la sua presa la durezza di quella mascella, fantasticando quanto avrebbe retto prima di rompersi. 
«Sai, potrei sorprenderti dicendo che in realtà non ho mai finto con te, nemmeno una volta, dico sul serio, mi piacevi davvero finchè non hai abbracciato questa tua…debolezza!
Sei debole Eris, sei sopraffatta dalle tue emozioni personali e queste non ti permetteranno mai di vedere le cose come stanno, cercherai una via d’uscita anche dove non c’è, cercherai di fare la cosa giusta anche se non lo è, ferendo tutti, ma soprattutto te stessa…
Questa è la tua maledizione, e non te ne libererai mai...a meno che non permetti alla vera te stessa di liberarti, ovviamente!»
«GIRATI MALEDETTO IDIOTA! DIETRO DI TE!»
«Sei…seria? Credi veramente che ci caschi? Sei pure infantile oltre che...»
Il rumore di uno sparo dritto alle spalle del capitano Novacek venne completamente coperto dal violento boato di un tuono, causando però i nitriti terrorizzati di tutti i cavalli della scuderia, che presero a scalciare come impazziti contro le pareti di legno, quasi fino a sfondarle. Eris si ritrovò in una manciata di secondi il peso del corpo del capitano riverso su di sé, con uno strano tepore che iniziò a diffondersi rapidamente sulla stessa ragazza e sui suoi vestiti; l’umido calore di una macchia di sangue prese ad espandersi come olio sul tessuto bianco della camicia della Griffith, con gli occhi completamente sgranati sul viso di Evgenij, contorto in un’espressione di piena sorpresa e di puro fastidio proprio all’altezza del petto, poco più in basso, dove un proiettile da caccia gli si era conficcato, centrandolo in pieno. 
Il tintinnio del bossolo usato catturò l’attenzione dei due capitani alle spalle dell’uomo ferito, che dovette cedere con il peso sulle spalle della giovane; una figura alta e robusta, quasi monumentaria, stava in piedi con un fucile di precisione spianato fra le grandi e forzute braccia, puntato proprio contro la fronte di Novacek, senza alcuna esitazione.
Eris non aveva mai visto quel giovane uomo, non tanto più vecchio del capitano ferito, ma lui lo conosceva, o almeno, ne ricordò le fattezze, nonostante la vista offuscata.
Evgenij assottigliò le palpebre, con un sorrisetto sfacciato sul viso, deglutendo con seria fatica ma non mancando di cinismo e pungente sarcasmo.
«Che…m-mi venisse un colpo…tu? Quel buzzurro…d-delle montagne? Ne hai fatta…d-di strada per trovarmi! C-come te la passi senza…quel vecchio…cazzaro?»
Un secondo colpo partì crudele come unica ed inequivocabile risposta contro la coscia del giovane, costringendolo ad inginocchiarsi malamente contro il suolo fangoso, trascinando con sé anche la ragazza, non più così sicura delle sue azioni, tuttavia era ancora lucida il necessario per poter reagire, mettendosi d’isitino davanti al capitano compromesso.
Sebbene lo odiasse, non le era ancora permesso il lusso di scegliere per la vita degli altri, ma come cacciatrice aveva un unico dovere: proteggere, non importava altro. 
«Togliti di mezzo…non sono venuto per te, ma per lui! Non voglio fare del male a nessuno…o almeno, finchè non sono costretto a farlo…» disse lo straniero che aveva fatto irruzione armato fino ai denti. Aveva un accento forte, molto particolare, tipico di quelle popolazioni del nord della fredda Scozia, molto simile a quello delle famiglie di pescatori e contadini che abitavano quelle terre solitarie ed impervie; Eris mise le mani in alto, dietro la nuca, fissando il suo sguardo verde su quel viso grezzo e caratteristico che nutriva una dose di risentimento e vendetta non indifferente.
I capelli lunghi e biondi erano fradici, incollati lungo al viso barbuto, esattamente come i vestiti scuri, solamente i verdi occhi smeraldo luccicavano ardentemente, simili alla mira del fucile da caccia che aveva in mano, puntato oltre Eris, sulla testa di Novacek.
La Griffith avanzò di un solo passo, lasciando fuoriuscire la punta di un coltello dalla manica della camicia.
«Credimi…non so cosa lui ti abbia fatto, ma hai tutte le motivazioni per volergli riempire il culo di piombo!
Ma…purtroppo per me e soprattutto per te, ho una cosa che si chiama coscienza e, sfortunatamente, credo proprio che non mi lascerebbe in pace se ti spianassi la strada, amico, quindi fai un passo indietro e vattene via prima che l’intera Hunter capisca che hai appena attentato alla vita di uno dei suoi uomini!
Ti sto facendo un’offerta più che vantaggiosa…» 
«Credo che non sia poi così vantaggiosa per te, signorina, se si viene a sapere che hai lasciato andare un nemico della tua lega di killer professionisti!
A cominciare dal verme che stai difendendo alle tue spalle e per finire…»
«Ma…che caz..zo stai aspettando ad ucciderlo….Eris?» sospirò dolente, quasi con un ringhio, Evgenij, ormai riverso al suolo nel suo stesso sangue; se non sarebbe intervenuta all’istante sarebbe morto dissanguato e, per quanto lo meritasse, non era da lei, affatto! 
Eris tornò immediatamente con lo sguardo sullo straniero ancora ben armato, nonostante la sua espressione nel viso freddo avesse appena vacillato, seppur di un solo secondo; gettò a terra anche il pugnale nascosto, facendo spallucce, nonostante il suo io interiore le urlasse diversamente.
L’avversario rimase perplesso per pochi istanti, indeciso sul da farsi, ma non indugiò ulteriormente, abbassando così anche lui l’arma verso il basso, nonostante gli prudessero le mani da morire dal desiderio di cancellare quel miserabile dal mondo conosciuto. 
«Nonostante ciò che ti ha…fatto, insisti nel volerlo salvare? Devi avere una curiosa visione del senso del dovere, perché prevale sul senso di giustizia…ma questo, voi cacciatori, non siete soliti rispettarlo, dico bene?»
«Non ho idea di cosa tu stia parlando! E so benissimo cosa sia giusto e cosa non lo sia, razza di energumeno sceso dai Pirenei…è chiaro?»
«Ah…tu lo sai? Dunque, dimmi, Eris…è questo il tuo nome, si? Dimmi, Eris, trovi giusto, trovi leale, trovi etico che il tuo compagno d’armi abbia dato l’ordine di uccidere un intero tempio di sacerdoti completamente disarmati e innocenti? 
Li hanno uccisi, sgozzati come capre dal primo all’ultimo e cosa peggiore, li hanno persino torturati per avere informazioni che nemmeno avevano!
Dal tuo volto…deduco che non ne sapessi nulla, vero, capitano?»
«I sacerdoti hanno attaccato gli uomini della squadra Beta, li hanno uccisi…sono caduti in un’imboscata!»
«Oh…forse è quello che vi ha fatto credere l’unico sopravvissuto al feroce attacco…non è così, Novacek?» chiese il giovane uomo all’altro ormai quasi privo di sensi, che nemmeno si degnò di guardarlo negli occhi, sputando un grumo di sangue dalle labbra livide. 
Eris rimase congelata, fredda, come l’acqua che continuava a battere sulla tettoia della scuderia ormai teatro di una bizzarra vicenda, non poi così assurda; sapeva bene che Evgenij era un bugiardo, ma arrivare a questo? Ma perchè? 
Lo guardò con la coda dell’occhio, ma non riuscì a chiedergli nulla poichè perse conoscenza pochi istanti dopo; Griffith deglutì amaramente, tamponando con uno straccio quella ferita profonda.
Se quel tipo stava seriamente dicendo la verità, che aveva fatto Evgenij alla vera squadra Beta?
Lo straniero capì perfettamente cosa stesse passando attraverso la mente della giovane ragazza, respirando profondamente, capendo così che aveva già adempiuto a metà del suo dovere; mise la sicura al fucile, avvicinandosi di un singolo passo verso di lei, portando all’indietro quella folta criniera bionda, non provando alcuna compassione per il capitano incosciente.
«Non sono un barbaro, un selvaggio, non sono venuto ad uccidere l’intero accampamento, sarei uno stupido se pensassi il contrario, sono solo venuto a vedere bene in faccia l’assassino di mio padre…
Era il capo sacerdote, un uomo che non ha mai fatto del male a nessuno, che si prendeva cura della gente del villaggio…finché la vostra orda di belve illetterate non ha distrutto tutto!
Ora dimmi, giovane capitano, sei ancora così convinta che il tuo senso del dovere verso la tua associazione sia ancora così intatto?» chiese così lo scozzese, piegandosi col peso sulle ginocchia, arrivando a pari altezza con la Griffith, che dovette rendergli conto, almeno per ciò che concerneva quel punto, non poi così saldo.
Sotto il suo palmo sporco di sangue sentiva il diaframma di Evgenij sollevarsi sempre più debolmente, e ogni istante che passava era una possibilità tolta dal salvargli la vita, dal fare la cosa giusta, anche se in quel momento era veramente difficile capire quale tra quelle lo fosse realmente. 
Un ululato, buio e profondo, sovrastò persino il rumore della pioggia che si era ormai affievolita, rompendo quel silenzio ormai precario.
L’uomo annuì, guardando verso l’unica finestra che dava sull’esterno; era ora di andare.
«Aspetta…dove stai andando?»
«Lo hai detto tu, se mi trovano qui non ne uscirò, non vivo, e non ci tengo a morire per colpa di un bastardo di provincia con le smanie di potere…mi rifarò un’altra volta, e magari la prossima non ci saranno fastidiosi testimoni ficcanaso…e ora, portalo da un medico, altrimenti morirà dissanguato entro una decina di minuti!»
«ASPETTA!»
«Ah…dimenticavo…il mio nome è Nike, in caso volessi cercare vendetta per il tuo…fidanzato…»
«Il mio che cosa?!» sbottò di colpo la ragazza a quella insinuazione del tutto fuori luogo, ma l’unica risposta che ottenne in cambio fu solo una lontana e divertita risata, ma l’uomo era completamente svanito, nel nulla, insieme al fucile e alle sue tracce; non ebbe tempo di chiedersi altro, quel bastardo le stava per morire tra le braccia e non l'avrebbe permesso, non così.

Passò un’intera notte, una insonne, per molti cacciatori nel campo Hunter, specialmente per 6 di  loro.

«Vediamo se ho capito bene, perché onestamente ho qualche dubbio a riguardo…caro signor Guidi, ha detto che lei e il suo compagno, il signor Queensbury, siete stati aggrediti alle spalle oltre le baracche e che non avete visto l’aggressore negli occhi, dico bene?»
«Sì, signore.»
«E che, per aggiunta, dopo essere stati colpiti nessuno vi ha sentiti o comunque ha visto nulla?»
«Esatto.»
«Quindi, due dei miei cadetti sono stati presi alla sprovvista alle spalle, un capitano è stato quasi ucciso e lei, capitano Griffith, non ha potuto in alcun modo fermare questo aggressore?
Lo capite pure voi che questa storia mi suona assurda, per quanto io e il tenente Griffith vorremmo credervi!
In 3, escluso Evgenij, non siete riusciti in alcun modo ad arrestare questo folle armato di fucile? Inventatene una migliore, ragazzi…perché se Novacek non si sveglia e al più presto, saranno anche problemi vostri!» 
L’ufficio di Boris divenne in meno di un paio d’ore più affollato del solito, e non sicuramente per una motivazione lieta; il baffuto uomo si versò nel vecchio bicchiere scheggiato una discreta dose di scadente liquore, tirandolo giù tutto d’un fiato e non senza un certo mal di testa che gli fece aggrottare le foltissime sopracciglia scure.
Eris, Quentin e Brando sembravano quasi muti, nello specifico soprattutto i primi due, con le mani nelle tasche, ancora tutti sporchi di fango,acqua e sangue a macchiare i vestiti e i volti; Trystan, appoggiato al muro alle spalle dell’amico ufficiale, cercò ripetutamente di incrociare lo sguardo della ragazza ma ci riuscì a stento per mezzo secondo, prima che quella cambiasse direzione con i verdi occhi, optando per una completa visuale sul muro laterale.
Il russo sospirò, concentrandosi nuovamente sulla capitana, cercando nella sua mente le parole più posate possibili per evitare ulteriori tafferugli.
«Eris…sei l’unica ad aver visto Evgenij per ultima, dovresti almeno sapere cosa o chi lo ha colpito…sempre che non ci sia dell’altro che non so! Questa è una stanza sicura, possiamo ancora risolverla tra di noi, perché ci sono ufficiali che vi avrebbero già messo ai lavori forzati per questa vostra negligenza…anche se il vostro silenzio, perdonatemi se lo dico, mi fa quasi orribilmente pensare ad una congiura! »
Quentin si fece immediatamente avanti, battendo un pugno non troppo gentilmente sulla scrivania dell’uomo.
«Ma che cazzo le viene in mente?! Che altro vuole sapere, quello che non abbiamo visto? Io e Brando siamo stati colpiti alla testa, nient’altro…nemmeno sapevamo che cercasse Evgenij, altrimenti crede che non avremmo impedito un simile attacco?»
Brando, in un angolo, guardò malamente il compagno, sentendo la sua coscienza non esattamente al suo posto, ma che avrebbe dovuto fare?
Se lo avesse tradito in quel momento sarebbe finita male sia per lui, ma soprattutto per il suo capitano, ora completamente assente, del tutto, come se la questione non la riguardasse, o non la toccasse nemmeno un po '. Guidi capì l'insinuazione del suo superiore e, sebbene non volesse crederci, le apparenze avrebbero potuto facilmente puntare il dito su un unico sospettato. 
Trystan guardò Brando negli occhi scuri, notando quel suo rimuginare abbastanza sospetto nei confronti della capitana, prendendo parola al posto di Belinsky.
«Brando, se vuoi dire qualcosa che ti turba noi siamo qui ad ascoltarti…lascia perdere ogni forma di lealtà verso il francesino e il capitano che non ha intenzione di collaborare!
Boris ha ragione, se siete scaltri, almeno un minimo…dite la verità e finiamola qui, perchè non so dalle vostre parti, ma un uomo non si spara da solo un proiettile al petto e una alla coscia per suicidarsi e, conoscendo Novacek, non è uno da suicidi, ma tu…dovresti saperlo meglio di tutti, Eris!» 
La ragazza lo fulminò malamente, come una iena, applaudendo scenica a quella sagace presunzione.
«Mi piace questa tesi…quindi avrei attirato Evgenij nella stalla, avremmo lottato, poi gli avrei sparato con il mio fucile invisibile e lo avrei pure soccorso? Però, certo che i miei piani sono veramente all’ultimo grido…ritenta Trys, non c’entro nulla con quello che è successo al culo pallido di quel coglione, sebbene avrei avuto ogni buona ragione per alimentare le vostre teorie!»
«Un testimone dice di averti vista entrare nella stalla poco prima del tramonto e che subito dopo sia entrato Evgenij, nessun altro è entrato oppure uscito dopo voi due, e poi l’unica ad essere uscita dopo i probabili spari sei tu che cercavi aiuto per lui…Eris, cos’è che manca da questo racconto? Hai detto di non aver visto chi lo ha attaccato, ma non sei mai uscita dalla scuderia…quindi com’è possibile tutto questo?» chiese quasi adirato lo stesso tenente con entrambe i palmi sul legno del tavolo, facendo scendere un orribile gelo tra quelle 4 mura che ormai parevano quelle d’una prigione. 
Zio e nipote si guardarono negli occhi, quasi annullando le presenze degli altri 3 uomini; la capitana mise le mani sui fianchi, avanzando lentamente verso l’altro.
«Chi sarebbe…questo valoroso testimone?» 
«Ha importanza?» 
«Deve averne parecchia, se metti in discussione la mia versione, zio…» sottolineò la giovane, avendo sulla punta della lingua un nome, un cognome e soprattutto un volto, volto che non tardò nemmeno un momento a palesarsi. Sulla soglia della porta, vestita completamente di nero, comparve una giovane donna, decisamente più grande di Eris e dei due cadetti imputati, quasi vicina all’età del tenente; bella, anzi, bellissima, dai capelli biondo chiaro, gli occhi azzurri, le labbra color fuoco e la carnagione pesca. 
Sulle labbra spaccate di Eris comparve un ghigno sprezzante, quasi divertito, portando all'indietro i mossi capelli corti, scuotendo il capo quasi a non volerci credere; la donna in questione sollevò il sopracciglio dorato, con le braccia incrociate dietro la schiena, non mancando di osservare quel viso sporco e impudente per cui non nutriva alcuna simpatia.
Boris fece cenno alla donna bionda di entrare nell’ufficio, la quale eseguì l’ordine senza indugio, affiancandosi quasi fedelmente al fianco del superiore e a quello di Trystan, il quale si massaggiò la nuca istintivamente, visto che l’aria era appena diventata pesante e rarefatta, irrespirabile. 
La Griffith guardò i due uomini con un'espressione completamente delusa e disgustata, già pronta ad abbandonare la sala, finché la voce della stessa donna non la fermò sul posto.
«Dove credi di andare, Griffith? Hai forse dimenticato che sei la sospettata principale?» 
«Se pensi veramente che me ne freghi anche solo un emerito qualcosa di quello che esce dalla tua bocca, puttana impudente, puoi succhiarmi il cazzo fino a venirne a noia!» 
Brando e Quentin si guardarono seriamente preoccupati ad una simile provocazione, guardando la loro capitana sotto il mirino di un ufficiale molto, molto importante, con cui non si scherzava nemmeno per errore. Non era Trystan l’unico ufficiale a cui i capitani dovevano rendere conto, c’era una donna con i suoi stessi poteri e anche più influente di lui, ed era il luogotenente Tea Lovett. Boris si mise una mano sul viso, non potendo più intervenire in favore della ragazza, ormai fuori dal seminato da un bel pezzo, nemmeno se lo avesse voluto; ormai era nelle mani della donna, che rispose a quella grave offesa con un sottile assenso col capo.
Trystan strinse il pugno lungo il fianco, ma dovette ingoiarsi la lingua amaramente perché da lì in avanti non avrebbe più potuto aiutarla in alcun modo.
«La ringrazio per l’ennesima dimostrazione, capitano Griffith, di quanto il suo comportamento sia del tutto inadatto al ruolo che, per fortuna o sfortuna, ricopre ormai da diversi anni e non per mia decisione, cosa che ci tengo a sottolineare ogni qualvolta mi capita di dover avere a che fare con lei e le sue bravate da insubordinata irresponsabile e testarda, sempre pronta a mettere avanti i propri interessi personali e mai capace di dare ascolto al buon senso, ammesso che sappia che cosa sia!
Ora…abbiamo solo due modi per risolvere questa faccenda…» fece Lovett iniziando a girare lungo il perimetro della stanza, con le mani sempre dietro la schiena, sempre con quell’aria rigida e autoritaria da autentico mastino da caccia, affiancando alle spalle anche i due cadetti, più tesi di prima. Si fermò coi tacchi proprio dinanzi alla figura di Eris, ad un palmo dal suo viso, lasciando così che quei due sguardi potessero farsi la guerra semplicemente guardandosi in faccia.
«O ti decidi a parlare, dicendo cos’è davvero successo nella scuderia con il tuo compagno d’armi con il quale è nota la tua avversione nei suoi confronti dopo l’incontro per la promozione che non hai ottenuto…»
«Incontro che tu, stronza, hai autorizzato senza il permesso di nessuno dei tuoi superiori!»
«Questo è irrilevante ai fini della questione, abbiamo un uomo gravemente ferito, una sospettata, perfino due complici per come la vedo io e un uomo misterioso che nessuno ha visto!
Capisci anche tu che non posso lasciar correre…»
«Se sei tu il misterioso testimone, Tea, come sai che non è entrato nessun altro dopo Evgenij? Significa che sei rimasta a guardia della scuderia per tutto il tempo?»
«Se stai cercando di sviare i sospetti, ragazzina, cadi male!
O confessi immediatamente quello che hai fatto o inizia a retrocedere fino ai bassifondi della Hunter, mocciosa, perchè non ammetterò una simile violazione da parte di un capitano che si rispetti…e uno…»
«Capitano!» si fece sfuggire Brando, afferrando il braccio della giovane, quasi a farle cambiare idea. Eris sollevò la mano verso l’alto, fermandolo sul posto, esattamente dov’era, sotto gli occhi tremanti di Quentin, che sentì un sincero coinvolgimento in quella storia. 
Trystan guardò la nipote negli occhi, più disperato che mai, esortandola a confessare. Eris non parlò. Tea proseguì con quella conta inesorabile.
«…e due…»
«Capitano Griffith, parlate finchè siete in tempo, siete un valido superiore e tutti i vostri uomini contano molto su di voi, ne avete una chiara prova proprio in questa stanza…la prego!
Non ci rimetta il posto per una simile puttanata…glielo chiedo come amico di famiglia!» disse Boris quasi come ultimo tentativo, alzandosi dalla sua poltrona quasi di getto. La Griffith lo guardò nei suoi piccoli occhietti vispi, quasi cancellando la presenza di Tea praticamente invalicabile tra lei e i due uomini poco più in là, non avendo quasi più nulla da perdere.
«Che cos’è successo alla squadra Beta di Evgenij dopo la spedizione a nord, Boris? Chi ha dato l’ordine di far uccidere degli innocenti e soprattutto…chi è che sta coprendo questa epocale stronzata dalle orecchie dei superiori più in alto di voi? Ammesso che…non siano proprio i nostri ufficiali a manovrare questo gioco sadico…»
«Eris…ma di che diavolo…stai…» 
«…e tre! Dunque, Griffith, dopo questo patetico tentativo di confondere le acque, hai scelto cosa fare? Resti con noi oppure… »
Tea non finì nemmeno la frase, poiché la capitana, o forse, ex capitana, tirò fuori dalla cintura la pistola d’argento sbattedogliela praticamente accanto, sul tavolo, strappandosi a seguito dalla camicia logora quella spilla avuta con tanta fatica e dolore, scagliandola in un luogo indefinito della stanza, sotto gli occhi increduli di tutti i presenti. 
La bionda annuì a quel gesto chiaro e ben codificato, ma prima che potesse pronunciare anche una sola sillaba sentì quelle parole ben scandite accanto al suo orecchio.
«Ascolta bene il suono della mia voce, vipera succhiacazzi: vai…a…farti…fottere! Non ci sto agli ordini di una banda di corrotti, né di te, né di voi tutti e nemmeno del Creatore!»
«Capitano Griffith, ti dichiaro sollevata dal tuo incarico e sospesa ufficialmente a data da destinarsi dal campo Hunter con congedo straordinario variabile da 2 mesi ad un anno di sorveglianza vigilata. 
In tua assenza, mi incaricherò personalmente della gestione della squadra Alfa e della Beta finché il capitano Novacek non si sveglierà e non ci racconterà come sono andate le cose, ma fino ad allora, non avrai alcun contatto con la nostra associazione…»
Tutti i presenti, al di fuori delle due donne, rimasero seriamente impressionati dalla severità di quella punizione, persino Quentin dovette cedere ad un'espressione di puro sgomento, per non parlare di Brando che quasi si sentì colpevole di quel risvolto assurdo e ingiustificato. Boris si massaggiò le tempie, affatto sorpreso da quella soluzione, limitandosi soltanto a freddare Trystan sul posto, già prossimo a scoppiare; alla fine quel giorno era arrivato anche per lei!
Fu come un vento congelato, esattamente quello che rimase quando Eris abbandonò quella stanza un secondo più tardi senza voltarsi verso nessuno, senza ribattere oltre o dire altro, forse anche perché da un lato era stato detto pure troppo. I due giovani cadetti vennero congedati, insieme ai due superiori, ma Trystan  era tutto tranne uno che si fermava dopo la prima battuta d’arresto. 
Il polso di Tea venne afferrato dallo stesso uomo lungo i lugubri corridoi sotterranei dell’accampamento, fermandola di colpo prima che potesse congedarsi nei suoi alloggi. Lovett lo guardò in faccia, assottigliando lo sguardo a due minuscole fessure, come dei piccoli e scintillanti pugnali.
«Ma tu guarda chi è venuto a cercarmi! Il topolino mezzano di casa Griffith…se sei venuto ad intercedere per tua nipote, fatti un favore Trys!
Scordatela…e lascia che un minimo d'ordine si ristabilisca in questa squadra. »
Il Griffith trattenne uno sghignazzo ipocrita, incrociando le braccia al petto, facendo quasi delle sarcastiche spallucce a quella freccia scoccata proprio in sua direzione, schivandola senza problemi.
«Sbaglio o sei stata tu pochi minuti fa ad aver detto a “mia nipote” che non era in grado di separare la vita privata dal lavoro? Tea, con tutto il rispetto, mi sa che siete in due a meritare d’essere sollevate…e voglio sottolineare che è grazie a me che non sei stata rispedita a casa a calci per quello che hai fatto anni fa!»
«Vuoi forse un ringraziamento per quello? »
«Oh fidati, mi hai già…ringraziato abbastanza, e sai cosa intendo!»
Uno schiaffo sonoro fece collisione sulla guancia sbarbata di Trystan, creando un eco notevole lungo tutto il vuoto ambiente, frizzante e deciso; la luogotenente lo guardò malamente, forse effettivamente offesa nel profondo da quelle parole, afferrando per il colletto l’ufficiale, portandolo praticamente ad un passo da se.
«Se credi veramente che tutto quello che c’è stato tra noi sia frutto di un ringraziamento, hai preso un abbaglio Griffith, abbassa le ali, non sei nessuno, solo il fratello rinnegato di un uomo importante, tutto qui!»
«Ah, su questo non ci piove, sicuro, però il fratello rinnegato ha innescato una simpatica ira dentro di te, Teodora…e se pensi che vendicarti su Eris per la fine della nostra storia serva a ferirmi, be…hai fatto un pochino cilecca, ma lo dico a bassa voce, così non ci sente nessuno!» bisbigliò puramente ironico e sarcastico l’uomo dai lucenti capelli scuri, appoggiando una mano contro la fredda parete umida, con il viso ben illuminato da una scoppiettante torcia a mettere in risalto il suo ghigno, quasi perfido, maligno.
Tea non rispose nemmeno, riprendendo delle sicure distanze dal compagno come a sentirsi più protetta, ma chissà da cosa; guardò quegli occhi da stregatto restare fissi sui suoi, inchiodarla all’angolo.

Prese un respiro.

«Sei rimasto uguale, presuntuoso, spavaldo, uno spaccone che crede che il mondo ruoti solo intorno ai suoi interessi!
Il mondo va avanti Trystan, non esiste solo Eris, come non esisto solo io; sono un luogotenente, ho delle responsabilità come le hai anche tu, cosa che sembra sfuggirti di recente visto che passi più tempo fra le grazie di quella sciagurata che ad occuparti dei tuoi obblighi!
Eris non mi è mai piaciuta, e lo sai…dal primo momento in cui tu l’hai portata qui, distruggendo tutto il nostro duro lavoro…»

«Il nostro lavoro?
O la nostra storiella? Perchè da come la vedo io, hai colto l’occasione come una volpe per toglierla di mezzo! Non ci è riuscito Evgenij, ma tu…wow, sei veramente tenace, dolcezza, devo riconoscerlo, ma lascia che ti dica questo: è vero, Eris non è uno dei soldati più mansueti, che esegue gli ordini senza fiatare, che lascia correre, so bene anch’io quanto sia complesso averci a che fare, ma so anche che i suoi uomini si fidano!
I ragazzi la seguono in battaglia,Tea! Un uomo combatte sicuramente più motivato se a guidarlo ha qualcuno di cui si fida, cazzo!
Credi davvero che Evgenij sia in grado di tenere una squadra unita? Per Dio, ha sfigurato la sua compagna pur di batterla, è un bugiardo, un maledetto truffatore, che sentimento può nutrire un cacciatore verso un leader simile?!
Tu, tu sei figlia di un uomo d’onore, un uomo leale, Tea, e non sei diversa da lui! Sei una cacciatrice valida e forte, dai valori saldi, non farti offuscare da una stronzata simile…reintegrala, ti prego, non farla andare via!»
Erano parole forti, soprattutto per uno come Trystan che non amava troppo parlare, figurarsi così tanto, stringendo fra le mani le spalle della donna non poi così senza cuore, in fondo; ma la situazione, in quel momento, era assai diversa. Gli occhi azzurri di Teodora si chiusero, mettendo una mano su quella del tenente, solo per annullare quella presa sulle sue braccia fino ad abbassarla del tutto fino all’altezza del fianco; li riaprì, non nascondendo un minuscolo barlume di personale disappunto e anche dispiacere.
«No, Trystan, non stavolta. Se mi pensi una sciocca adolescente che si fa guidare dalla vendetta, ti sbagli; so cosa provi per lei, e risparmiati la goffa fatica nel negarlo e sai quanto sia sbagliato e lasciami aggiungere perfino poco ortodosso, ma quelli sono fatti tuoi!
Ma quando vengono toccati gli interessi della Hunter è mio dovere tutelarli; questo è il mio compito, ed Eris Griffith più volte ha commesso atti di insubordinazione su cui sono passata sopra per tua amicizia…e pure per qualcos'altro, ma questa volta c’è di mezzo un ferito grave e non volterò le spalle alle mie responsabilità, sebbene Evgenij non sia uno stinco di santo è sempre un cacciatore!
Anzi, per come la vedo io le sto facendo pure un favore…» disse senza alcun ripensamento la luogotenente, già prossima ad alzare i tacchi, se non fosse stato per il tono sprezzante dell’uomo che quasi la costrinse a bloccarsi. 
«Oh, un favore? Sei pure così caritatevole? Ma tu che cazzo ne sai di lei?!» ringhiò di rimando l’altro, mostrando un lato aggressivo di sé che raramente emergeva in superficie, ma che la donna conosceva e pure bene. Si voltò con tanta di quella foga che perfino i suoi biondi capelli finirono per sciogliersi lungo la schiena, facendo cadere per terra un bastoncino molto fine e delicato, di legno, scuro con intarsi dorati.
Stavolta in quegli sguardi non c’era più solo del mero rispetto delle regole per l’associazione Hunter, ma qualcosa di più intrinseco e profondo, solo puro e chiaro interesse personale, raccontato dal tremore ben visibile in quella splendente iride cielo.
«Vuoi veramente sapere cosa ne so? Oh, Trys, non è Eris il problema della storia, non lo è mai stato…è facile scaricare la colpa su una ragazzina di soli 14 anni, che nemmeno sapeva cosa fosse la Hunter, cosa ci fosse fuori dalle belle mura affrescate, dai pavimenti in marmo di Carrara e dai servizi da the d'argento puro! 
Eravamo noi due, io e te, due giovani pronti a mandare al diavolo tutto quanto…quante notti abbiamo passato insieme pensando ad un futuro diverso da quello che ci siamo scelti? Quante volte mi hai detto che volevi tagliare corto con la tua famiglia, con tuo fratello, col fantasma di una donna che hai amato più di 20 anni fa, quante?!» ripeté con gli occhi lucidi, colmi di calde lacrime, prossimi a straripare.
L’uomo dovette mordersi crudelmente l’interno della guancia.
«Tea, ascolta…»
«No, ascolta tu! Io mi sono arruolata per vendicare mio padre, un uomo buono e onesto che ha fatto del bene a molte persone, avrei dato pure la mia vita per questa gente finchè non ti ho conosciuto; tu, l’arrogante pecora nera di casa Griffith, il rinnegato, quello a cui nessuno ha mai riconosciuto niente perchè secondogenito…ho creduto ad ogni tua singola parola, anche se erano solo tonnellate di bugie, scappare insieme, andare via e ricominciare…me la ricordo ancora quella notte!
Ti aspettavo per tagliare la corda; mi dicesti che saresti tornato dopo un paio di giorni da Cardiff, perchè dovevi mettere le cose al loro posto con Rhys e ti ho creduto…e invece?
Invece un bel giorno, cos’era? Non lo ricordo più, so solo che ti sei presentato al campo…bagnato fradicio, come un cane bastonato, e alle tue spalle c’era una ragazzina che non avevi mai visto, che a stento sapevi il suo nome, figlia dell’uomo che ti aveva portato via tutto, e nonostante questo hai scelto comunque di portarla con te!
Di mandare all’aria tutto per lei, per Merrion…avevi scelto un'altra volta la tua famiglia al mio posto!»
«Se non lo avessi fatto, l’avrebbero processata…o mia cognata avrebbe trovato un modo per farle patire le pene dell’inferno!»
«Ti prego, basta con le cazzate…sei veramente miserevole se continui così! Se sei uomo ammetti almeno che hai fatto tutto questo per sputare in faccia a Rhys e che ancora non hai dimenticato quel volto, quel nome…lo vedi? Non hai il coraggio! Non hai le palle nemmeno per ammetterlo!
Ti illudi di essere andato avanti, ma non è passato un solo giorno nella tua mente, sei ancora bloccato all’idea che un giorno riavrai Merrion, ma non è così…hai illuso me, come stai illudendo Eris, perché la verità è che non ami nemmeno lei!
Ami l’idea di aver fatto un simile torto a tuo fratello, di esserti preso l’unica cosa che gli restava di sua moglie come lui ha fatto con te…»
Trystan sentì la pupilla ridursi ad un minuscolo puntino nella sua iride verde, come se fosse stato appena pugnalato alle spalle da un qualcosa che mai si sarebbe aspettato di sentir dire, ad alta voce, in faccia, da lei. I muscoli divennero talmente rigidi e tesi che parvero spezzarsi sotto il peso d’un tale macigno, nemmeno riuscì a deglutire, le parole uscirono quasi da sole senza pensare.
«Tu non sai di che cazzo parli…non sai nulla di me!»
«Ti piacerebbe che fosse così, Trys, ma non lo è! Ho avuto tempo a sufficienza per constatare da me che tipo di uomo sei davvero…un dannato che si trascina dietro un dolore incurabile con la maschera della rettitudine, ma la cosa peggiore è che ti porti dietro anche gli altri!
Se avessi voluto il bene di quella ragazza avresti chiesto a Boris di nasconderla il più lontano possibile da qui, lontano da questo schifo dove siamo stati cresciuti, invece l’hai voluta qui, con te, al tuo fianco, fino a farle credere che poteva fidarsi di te, ma ormai a che serve dirlo?
Però una cosa puoi farla, nonostante non ci sia modo per rimediare a ciò che le avete fatto…lasciatela andare, lasciatele rifarsi una vita!
Io pagherei non so quale prezzo pur di riavere questa opportunità…ma credo sia ormai troppo tardi…
Buonanotte, tenente Griffith, medita su ciò che ti ho detto.»

Si chinò a riprendere il piccolo accessorio per i capelli che lo stesso tenente le aveva regalato molti anni prima, guardandolo quasi di sfuggita, per poi fare dietrofront e ritirarsi nei suoi appartamenti, lasciando l’uomo avvolto in un'oscurità ben peggiore della semplice assenza di luce: quella della sua mente.

Pochi metri più in là, oltre il sentiero illuminato dalle torce, c’era un ex capitano che aveva sentito ogni singola parola, ogni respiro, ogni sussurro: una lacrima argentata scese senza vergogna lungo la guancia marchiata, ripercorrendo proprio il solco dello stesso segno fino a cadere nel vuoto, precipitando sulla carta da lettere giallastra che teneva stretta fra le mani.

L’inchiostro della firma del mittente si sbiadì, solo in parte però.


                                                                                                      Cardiff, 05/04/1910

 

Casa Griffith.

 

Nemmeno io so come cominciare questa lettera, credo sia la cosa più difficile per me e soprattutto per te da leggere dopo tutto questo tempo e so con certezza che non vorrai avere più nulla a che vedere con un uomo simile e, onestamente, figlia mia, hai ogni motivazione valida dalla tua: nemmeno io sono fiero di ciò che ho fatto, non sei sola nel tuo rancore.

Non ho alcun diritto su di te e nemmeno su mio fratello, sebbene mi manchiate più del respiro stesso; questa casa non è più la stessa, non provo più gioia verso nulla, nessuno, nemmeno la letizia di divenire presto nonno sembra allietare il mio animo, figlia mia. Forse non lo sai, ma tua sorella Sheelah è cresciuta, si è sposata non molto tempo fa e a breve nascerà il mio primo nipote; vorrei tanto che tu e tuo zio foste presenti ad un simile evento, e so di peccare di presunzione con una simile richiesta, ma non vi chiederò nient’altro se mai, per pietà o buon cuore, sceglieste di accogliere la richiesta dell’uomo che vi ha arrecato una simile sofferenza. So della tua carriera nella Hunter, so di tutte le tue incredibili imprese, dei tuoi meriti, di tutto quanto, ho sempre avuto tue notizie da quella buon vecchia volpe di Boris su cui posso sempre contare e non posso che dire una sola cosa, Eris: tuo padre è fiero di te, lo è sempre stato, nonostante i trascorsi ci abbiano tenuti lontani per tempo immemore. 

Anche Duncan, sebbene con diversi risultati, sta proseguendo sulle orme dei nostri predecessori, ma non so davvero, piccola mia, che direzione prenderà lungo il suo cammino; troppo incerto e pieno di dubbi, ha bisogno di qualcuno che lo guidi, lo vedo perso, smarrito, non so come fare per aiutarlo. Recentemente è rimasto ferito durante una delle spedizioni di ricognizione, ma credo che la ferita del corpo sia ben più superficiale di quella dello spirito, con cui non sono mai riuscito ad entrare in sintonia, ma pare essere proprio questa la mia maledizione: non capire mai a fondo la confusione arrecata dalle mie scelte su di voi.

So che queste parole sembrano futili richieste d’aiuto, Eris, e mi dispiace venire a bussare alla tua porta ormai chiusa come un miserabile, ma lo farò solo questa volta e mai più, quindi ti prego e ti supplico di tornare a casa, da me, da noi, dalla vostra famiglia o ciò che ne rimane, tornate!

Un grifone senza ali…non ha senso di esistere,dopotutto….


                                                                                Con tutto l’amore che ho per te, tuo padre

                                                                                             Rhys di casa Griffith.

 

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Capitolo 11
*** Death may be the greatest of all human blessings. ***


Chapter 11: Death may be the greatest of all human blessings.

 

Current Day


House Griffith.

 

«Allora, dottor Blake…di che morte dovrò morire, si sa già? 
Per l’amor di Dio, le spiace togliermi questo stramaledetto coso dalla schiena? Argh, sempre odiato le visite mediche, non per colpa vostra, chiariamoci!
Fino ad oggi siete stato il medico meno invadente che abbia mai visto…e vi devo molto…»
«Non sia così drammatico, Rhys, per abbattere un colosso come lei ci vorrà ben altro che il mio stetoscopio! 
E poi non mi offendo mica, sono in pochi, anzi, direi quasi nessuno felice di vedere un dottore in casa propria; io non sarei troppo lieto di vedermi intorno…potete rimettere la camicia, ho finito.»
«Questo lo vedo…mi domando solo quale sarà la diagnosi, Bogart…»

In genere la primavera segnalava un momento di rinascita, quando la terra si risvegliava dal lungo letargo torpido che era l’inverno, ormai lontano ricordo di un periodo buio e gelido, specialmente nelle vaste e sconfinate campagne del Galles, dove il sole aveva ripreso a brillare su quella regione dorata, dove i campi si erano riempiti di variopinti fiori: uno degli spettacoli più belli che quelle terre avessero da offrire. Rhys Griffith conosceva le sue valli fin da bambino, lui come sue fratello, le avevano visitate in lungo e in largo, senza mai fermarsi un momento, fino a quel giorno, dove ormai erano divenuti alla lunga due estranei; Bogart Blake era il medico curante di tutta la famiglia Griffith da oltre 20 anni, aveva assistito ad ogni sorta di evento in quella bizzarra e maledetta casa animata dai sentimenti più contrastanti, ma non si era mai azzardato, nemmeno una volta, a commentare oltre le sue competenze mediche.
Il padrone di casa rimase seduto su quel divanetto nel bel mezzo della sua stanza da letto, con la camicia ancora sbottonata all’altezza dello sterno con lo sguardo scuro completamente perso, al di fuori della persiana semi aperta che dava sulla bella e vasta terrazza privata del lord; era uno degli angoli più belli di quella dimora, un’autentica oasi di tranquillità e bellezza.
Sebbene l’età non fosse più quella di un tempo, la figura possente dell’uomo era in grado di nascondere anche il peggiore dei malanni: una statua di marmo, alta, possente, forzuta, le spalle larghe e vigorose, il volto squadrato, i grandi occhi color mandorla che combaciavano con la sfumatura dei folti capelli castani, sempre portati all’indietro dacché era una recluta; Luther lo ricordava così da sempre, dal primo momento in cui erano stati arruolati insieme, moltissimi anni prima, più di 30.
Bogart guardò lo sconosciuto forestiero arrivato poco prima, proprio accanto al divano personale del padrone di casa, con un occhio di riguardo, quasi a mantenere delle sentite distanze da lui, sempre con quel suo fare discreto e silenzioso; ripose fedelmente i suoi strumenti nella valigetta di pelle, rivolgendosi unicamente all’uomo seduto.
«In genere non visito i miei pazienti con tanto di pubblico…Rhys, ma per lei posso fare una chiara eccezione, sempre che voglia ora il verdetto, si intende.» chiarì il medico apparentemente più giovane dei due cacciatori, ritrovandosi addosso lo sguardo gelido e pungente dell’ospite. 
Rhys rise, sollevando la mano in aria, in direzione di Luther.
«Ho passato con questo caro bastardo più tempo in questo mondo che con chiunque altro in vita mia, Bogart! 
Quello che so io può sapere lui, non essere timido, coraggio! Che devo sapere? Di quanto è peggiorato il mio male?»
«Se insiste…io non lo chiamerei male, quanto più causa e conseguenza, e ne abbiamo già parlato, Rhys!
Mi aveva promesso che non avrebbe più toccato una goccia di alcol, e invece mi ha mentito più volte; il suo fegato è forte, ma non indistruttibile, non bisogna giocare con questa carta…
Se il fegato peggiora, il resto del sistema immunitario cederà insieme a lui, basterà una semplice febbre per ucciderla, lo capisce?»  fece l’uomo dai profondi occhi incavati, verdastri, i capelli biondo scuro tirati rigorosamente all’indietro e la valigetta da lavoro già a portata di mano. Griffith annuì, quasi come se non avesse nemmeno udito quelle parole seriamente, finendo per alzarsi a sua volta, con una pacca sulla spalla del medico.
«Mi trovo in un mondo pieno di persone preoccupate di cosa ne sarà di me…sono l’unico a non essere interessato da questo, davvero!» 
«Non dire sciocchezze, Rhys…non è il momento per il canto del cigno!» 
«Non siamo noi a deciderlo, possiamo solo, come dire, accelerare il processo, mio caro Bogart…ti ringrazio per essere venuto, celere come sempre.
Ci vediamo…» 
Non senza qualche perplessità, il medico di casa Griffith finì per abbandonare alle sue spalle quella ormai fredda stanza, quasi gelida, come se fosse animata dagli spiriti di ombre del passato; Rhys se le vedeva danzare attorno giorno e notte, come costanti compagnie indelebili che non lo avrebbero mai lasciato andare, non senza prima averlo fatto soffrire fino alla fine. 
Luther era poco più giovane del vecchio compagno, di un appena 2 o 3 anni, ma in quel momento parvero interi secoli a separarli, come se l’amico fosse rimasto incastrato in uno spazio temporale diverso, assente, con la mente assorta in un luogo lontano, etereo. Non era ciò che aspettava di trovarsi, non in quelle condizioni.
Il tedesco prese un profondo respiro, accostando la poltrona della grande scrivania di mogano nei pressi del divano dove Rhys riprese a sedersi, sorridendo appena, un sorriso che svanì nel giro di un momento; Griffith guardò negli occhi chiari l’altro stringendo fra le grandi mani un qualcosa di luccicante, che Luther non riuscì ad inquadrare subito.
«Mentirei se ti dicessi che le cose vanno bene, vecchio amico…qui va tutto male, anzi, forse nulla è mai andato per il verso giusto, però vederti mi rallegra, davvero, Luther, sebbene l'ultima volta che ti abbia visto sorridere risalga a…quanti anni sono passati da quando lui se n’è andato? Ho perso il conto…vecchio mio…si buono, versami qualcosa da bere, ho la gola secca!» gli chiese il padrone di casa, indicando una bella bottiglia di cristallo proprio sul tavolino accanto al sofà; Luther ascoltò bene quelle parole, non aspettandosi nemmeno di sentirle, non dopo tutti quegli anni. Si limitò a prendere il bicchiere di vetro e versare il contenuto di quella sorta di caraffa: era un infuso profumato.

Limone.

«E io mentirei se ti dicessi che sono del tutto tranquillo da ciò che vedo…erano molti anni che non venivo a sud, l’ultima volta credo sia stata per il tuo matrimonio…il tuo primo matrimonio!
Era un inverno, uno molto freddo, eri da poco divenuto capitano e prossimo al convolo a nozze, ne sono passati di anni…»

«Quanti anni, Luther? Quanti? Aiutami a ricordare…20? 25? Da quando sono caduto nel vizio tendo a rimuovere tutti gli eventi dalla mia mente, ma poi la mia coscienza, come un serpente che si morde la coda, mi perseguita con ricordi amari…»
Richter annuì a quelle parole meste, tristi, come lo sguardo vuoto del loro proprietario; guardò fuori sulla terrazza, dove alcuni piccoli passerotti erano atterrati, in cerca di mangime o vermi nelle grandi fioriere colorate. 
Era un suono incantevole, innocente, puro: le loro menti invece erano scrigni maleodoranti e stantii, colmi di un male incurabile, che nemmeno la sbornia più pesante avrebbe cancellato. Luther aveva imparato a convivere con se stesso da tempo immemore, forse non si era mai posto il problema, ma quanti amici, compagni, aveva già visto in quello stato? Tanti, tanti prima di Rhys, e chissà quanti ne sarebbero venuti dopo di lui.

Aveva perso il conto; erano passati 25 anni.  

«Un quarto di secolo, mio vecchio amico…uno molto lungo, doloroso, che ci ha cambiati, tutti quanti…l’unica differenza sono gli effetti che ha portato con se: alcuni di noi ne portano i segni, altri li nascondono, alcuni non li avvertono nemmeno, altri invece fingono direttamente che non si siano mai ripercossi…»
«Come abbiamo fatto io e te, dopotutto, vecchio amico! E non negarlo…ti trovo bene, comunque…non dimostri affatto gli anni che hai, dico sul serio…»
Luther sorrise, roteando i sottili occhi di lato, accarezzando con l’indice il bordo del suo di bicchiere pieno; anche la casa era rimasta immutata, mastodontica, un poco spettrale, con quei dipinti e affreschi barocchi che infestavano le mura e i soffitti. Rhys era sempre stato un uomo dai gusti semplici, avrebbe tanto voluto essere solo un umile campagnolo, un villico qualunque, e invece aveva avuto in serbo grandi piani, più di lui, imposti. 
«Nemmeno tu sei cambiato molto, hai quasi 50 anni e nessuno dei miei cacciatori ha una prontezza fisica come la tua, Maciste, ma chissà da chi avrai preso!
Da tuo padre no di certo…il vecchio Yvain assomigliava ad una fotocopia di Napoleone, dico bene? 
Forse tua madre, ma non la ricordo…non così bene…l’avrò vista una volta sola, ad un ricevimento, tantissimi anni fa…»
«Uno dei compleanni di Trystan, si, me lo ricordo, forse è stata la prima volta che ci siamo visti, noi due!
Anzi, noi 3…»
«Rhys, non siamo mai stati due vecchi nostalgici, rivangare il passato non servirà a nulla, credimi!
Siamo due uomini che devono guardare al futuro, perché se ci permettessimo davvero il lusso di guardare indietro verremmo annientati dai nostri peccati, tutti quanti…vorrei davvero, credimi, che questa fosse solo una visita di pura cortesia, ma lo sappiamo entrambe!
Non lo è, e sono qui per un qualcosa che non possiamo più rimandare…Rhys? Mi stai ascoltando?» fece Luther ora più rigido e serio, esattamente come sempre, ma nemmeno il suo tono gelido riuscì a far breccia nella mente offuscata dell’altro, che continuò a fissare fuori dalle persiane. 
Rimase in silenzio per alcuni minuti, finché non chiuse le palpebre sotto i raggi tiepidi del sole che finirono per illuminargli il viso; una sensazione calda e piacevole, come non gli succedeva da tempo.
«Sei venuto a prenderti mio figlio, vero? A prenderti Duncan? »
«Ambasciator non porta pena, Rhys; non sono venuto a portarti via tuo figlio, sono venuto in qualità di amministratore, non farla così difficile. Per 30 anni abbiamo servito i nostri superiori, finché non siamo divenuti tali anche noi…ricordi bene le parole dei saggi, si?»
«”Io come mio padre, mio padre come suo padre, mio figlio come suo padre e suo figlio come me”, si, si me le ricordo bene quelle parole…me le ricordo meglio delle preghiere della domenica, Luther! 
Quante volte ho sentito mio padre sussurrarmele, quante? Nemmeno riesco a pensarci…ma la mia famiglia ha già pagato un prezzo alto, non possiamo proprio…»
Rhys strinse inconsapevolmente le callose mani in due serrati pugni accanto ai fianchi, guardando con gli occhi lucidi il viso dell’amico con un’espressione di quasi supplica. 
Forse Saul Burke non aveva poi mirato in maniera così errata; era così difficile fare questo, soprattutto ad un amico così caro.
Luther si mise il dorso della mano sotto al mento, sorseggiando inquieto quel profumato infuso alla frutta, assaporandone gli aromi pungenti e particolari, quasi cercando di riflettere: non poteva fare eccezione alcuna, nemmeno per suo figlio,no.
«Conosco il tuo dolore, amico mio, so che hai perso tanto, ma anche tanto ti ha dato la vita…so che non ti farà sentire meglio ciò che ti dirò, ma il tuo medico, il signor Blake, non ha torto.
La vita è fatta di un concatenarsi di eventi, che possono sia trascinarci nel fiume dell’incertezza ma possono anche renderci forti abbastanza da saperci navigare; ma questa navigazione è fatta di scelte…causa e conseguenza!
Tuo fratello, tua figlia….è per questo che stai soffrendo, non è così? Di sicuro non è per il figlio della tua seconda moglie che sei così in pena…
Inutile che ti dica che tutto questo si sarebbe potuto evitare, ma ormai siamo troppo oltre per tornare indietro, soprattutto per tua figlia!
E poi…dovresti essere orgoglioso, è un buon ufficiale…»
«Avvertimi, amico, quando finirai di prendermi per il culo…Luther, non ho bisogno di sentire queste stronzate, ti è chiaro?»
Finalmente la voce di Rhys tonò severa come quella di un tempo, facendo sorridere di proposito l’altro sotto ai baffi a quella voluta reazione; lo guardò alzarsi da quella posizione trasandata dal divano fino ad uscire alla luce del sole sulla grande terrazza. Lo seguì con un passo calmo a sua volta, finendo per essere entrambi sfiorati dal vento caldo e primaverile. 
Griffith guardò quelle terre infinite, tutte sue, ma in quel momento le avrebbe pure lasciate alle avide fiamme; non gli importava più nulla di niente, figurarsi dei suoi possedimenti. 

Rise, in maniera sarcastica, puro fiele, portandosi una mano fra i capelli.

«Arriva un momento nella vita di un uomo, chi prima chi dopo, dove si chiede che cosa vuole fare davvero, dove capisce cosa ha senso e cosa no, per cosa si vuole combattere, Luther, e per me quel momento è arrivato, anzi, per i miei gusti fottutamente troppo tardi…
Merrion ha passato gli ultimi anni della sua giovane esistenza a tentare di mettermi in guardia, e non l’ho mai ascoltata per orgoglio, e l’ho persa…come ho perso tutto il resto, adesso ne ho abbastanza di perdere pezzi, persone che amo, la mia vita, sto perdendo me stesso e sono l’unico in grado di salvarmi!
Non pretendo la tua comprensione, ti conosco bene…dopotutto, devo ringraziare anche te per avermi reso ciò che sono oggi.»
«Il comandante di casa Griffith? Un alcolizzato pietoso? Un rancoroso in cerca di perdono? Scegli la tua versione, ma non incolparmi dei tuoi peccati…Rhys, questo non te lo permetto!
Io non ti ho mai detto certamente di condannare tua figlia alla Hunter…anzi, per quel che mi riguarda potevamo pure far sparire tua moglie in un fosso e fingere che nulla fosse accaduto…ma sei troppo virtuoso, tu, e i tuoi ideali…
L’unica colpa che possono addossarmi è quello di averti esposto a missioni pericolose, ma è questo il nostro compito di cacciatori, quindi colpa relativa, a questo punto!»
Rhys rivolse lo sguardo incredulo verso quello di pietra dell’altro uomo, completamente indifferente a quelle parole, come se nulla fosse in grado di scalfirlo nel profondo; appoggiò le mani sulla ringhiera di pietra della bella veranda, sospirando con chiara consapevolezza, una triste e rassegnata.
Luther lo guardò con la coda dell’occhio, facendo quasi spallucce.
«Mi stai forse giudicando, Griffith? Perchè se è così stai veramente toccando il fondo! Credo che sappiamo tutti che tu…»
«Bastardo impenitente…ma come fai a convivere con tutto il sangue che hai sulle mani?
Io mi sveglio la notte, terrorizzato, dalle gole che ho tagliato, dalle vite che ho reciso come lo stelo di un fiore, dalle preghiere, dalle suppliche…
Come puoi non essere pentito?
Come? Mia moglie mi perseguita, la gente innocente che abbiamo giustiziato sotto tuo ordine, sotto quella maschera di giustizia che indossi come una seconda faccia! Io so chi sei, Luther Richter, i tuoi figli, quelli che hai preso con te, prima o poi si renderanno conto del mostro che li ha presi sotto la sua ala…
Ma sai cosa mi consola? Che l’unica persona che tu abbia mai amato ti abbia abbandonato,e sai perchè?»
Rhys gli si avvicinò accanto al viso, a pochi centimetri l’uno dall'altro, faccia a faccia; Luther non tradì nemmeno un battito di ciglia, guardando quella pupilla divenire minuscola, come quella di un falco pronto a dilaniare la preda. 
«Perchè quelli come me e come te non meritano nessuno in grado di amarli per i mostri quali sono…io vivrò i miei ultimi giorni, se Dio vorrà, in compagnia di mia figlia e di mio fratello, se avranno mai la forza di perdonarmi, ma non ho intenzione di restare in questo mondo con tutti quelli come noi vivi un minuto di più…
L’idea mi ripugna, mi soffoca! 
Perciò…scusami, ma ho ben altro a cui pensare, e se stai cercando mio figlio, non è qui. Sarà ai suoi allenamenti con i ragazzi…» concluse il padrone di casa oltrepassando la figura dell’ospite, rientrando nella sua camera, ma prima di poter uscire da essa la voce sempre pacata e armoniosa di Luther lo fece fermare proprio sulla soglia della porta.
Il vento si permise il lusso di spostare quei ciuffi chiari e lisci all’indietro; Luther era senza ombra di dubbio un uomo particolare, ma non era certamente vero che i sentimenti dell’animo umano non lo riguardassero.

Un tempo gli erano più familiari di chiunque altro.

«L’ho lasciato andare, Rhys…lui, l’ho lasciato andare…»
«Di che stai…chi hai lasciato andare?» chiese con una nota di effettiva curiosità Griffith, che guardò la figura di spalle dell’uomo ancora sulla terrazza. Percepì per la prima volta in quel tono completamente impenetrabile una sfumatura antica, dolce, malinconica, nostalgica, che non sentiva da tempo immemore. 
Luther si voltò e lo guardò, ma bastò come risposta senza nemmeno aprire bocca, lasciando Rhys con lo sguardo sgranato e la labbra schiuse. 
«Tu…tu hai…tu lo hai lasciato scappare? Vuol dire che è ancora vivo?»
«Non lo so e non mi importa, l’unica cosa che riconosco è che quel giorno di 24 anni fa non gli ho ficcato un proiettile in fronte, tutto qui…e non chiedermi perché, saresti uno sciocco in tal caso! »
«Quindi vuoi farmi credere che non lo hai mai cercato, nemmeno una volta? Luther…Ostergaard era…»
«Ostergaard Volden non è più affare mio da moltissimi anni, ho commesso un errore, ed è stato quello di lasciarlo andare; ad oggi l’Hunter lo crede morto e io con loro, ma se mai dovesse tornare, be, lapalissiano sarà il suo destino, suo e di tutti coloro che hanno scelto di seguirlo disertando i miei ordini!
Mi sembrava giusto avvisare anche un vecchio caprone ostinato come te…»
«Mi stai chiedendo di schierarmi da una parte? 
Questo è ciò che devo leggere tra le righe? O te o lui? Tu…lui era l’unico, l’unico in grado di salvare quella povera gente, si è ribellato e molti lo hanno seguito!
All’epoca ero solo un ragazzo, come te, due stupidi troppo ciechi per vedere al di la delle menzogne costruite dall’associazione; Ostergaard era diverso da noi, lui era in grado di vedere un mondo dove questa violenza gratuita non serviva, tu dovresti conoscerlo meglio di chiunque altro, Luther…
Ora sono vecchio, sono stanco, non ho più la forza di lottare!
Se tu e il tuo…ex compagno d’armi volete farvi la guerra, fatela pure, ma non contare su di me; io non punterò mai il mio fucile contro uno dei miei uomini, seppur infedele, seppur traditore, non lo farò mai!
Noi Griffith siamo molto strani; anche dopo essere stati traditi, non riusciamo proprio a puntare il grilletto contro chi ci ha sparato, non è vero?
Codardia, debolezza? Scegli la tua versione, ma non cambierò idea!» 

Le parole di Rhys furono solenni come una preghiera, irremovibili; mise la mano sulla maniglia della porta, scambiando un ultimo sguardo con il suo compagno d’armi, non risparmiandogli uno dei suoi sguardi gravi e forse delusi, ma comunque riconoscenti.
«Indipendentemente da quello che ci siamo detti oggi, sarei lieto se tu insieme ai tuoi figli e a miss Burke foste miei ospiti nei prossimi giorni.
Avrò dimenticato come si fa il bravo e ubbidiente soldato, ma non il buon padrone di casa…Barnabas vi mostrerà le vostre stanze e ora mi perdonerai, ma ho del lavoro da sbrigare!» 
Nella sua vita Rhys Griffith aveva incontrato molte, moltissime persone, parecchie delle quali erano divenute sue nemiche non senza qualche difficoltà iniziale; non era mai stato un uomo avido di potere, era semplicemente cresciuto nel cieco rispetto degli ordini come suo padre, e suo nonno prima di lui, una catena di montaggio senz’anima, crudele e senza alcuno scrupolo. Si era reso conto del male troppo tardi e non c’era modo di tornare indietro.

Era un pensiero che aveva più volte attanagliato le viscere di quella famiglia, di ogni singolo membro: Rhys non era sicuramente più il futuro del casato, quanto più il suo passato, ora toccava a qualcun altro prendere le redini di quel folle bestione alato che aveva ormai smarrito la via da tanto, troppo tempo.

Ma era davvero Duncan Griffith il Grifone che tutti stavano attendendo?
Ad un’oretta di distanza da lì, nelle terre di mezzo tra Cardiff e Londra, i campi d’addestramento per le giovani reclute erano nel fulcro della loro attività, dove i pomeriggi erano infiniti e faticosi, un vero strazio specialmente per chi aveva appena iniziato a farsi le ossa nei combattimenti o meglio, a farsele rompere.

Quel giorno però c’era una differenza sostanziale che molti dei giovani cadetti notarono appena, poichè troppo presi dallo schivare ganci e pugni dritti in faccia; non si accorsero nemmeno della presenza di 3 nuove e sconosciute figure sedute sugli spalti della lunga pista da corsa. Saul, Diego ed Ivo erano rimasti appostati su quelle scomodissime seggiole per almeno una quarantina di minuti buoni, osservando quella pletora di mocciosi lagnanti e urlanti: una scena pietosa, una sorta di scherzo di pessimo, pessimo gusto. Per miss Burke fu come una sorta di offesa personale; quei ragazzi avrebbero dovuto difendere le persone ignare del pericolo? Davvero? 

Erano già passati un paio di giorni dal loro arrivo in quelle terre lontane dalla metropoli londinese e ancora non era riuscita ad ambientarsi del tutto; forse la compagnia dei gemelli Nardi non aveva sicuramente aiutato la sua causa, o almeno, quella di un fratello nello specifico. 
Si tolse i guanti color antracite, appoggiandoseli sulle gambe, cominciando a non sopportare più quel clima afoso che non le si addiceva per nulla. Diego, seduto al suo fianco, inarcò un sopracciglio verso la giovane, porgendole un sorso dalla sua fiaschetta d’argento.
«Ne avremo ancora per un po, miss Burke, credo sia meglio ricorrere ad un anestetico per il suo fastidio…le reclute si allenano per molte, moltissime ore e i primi risultati sono sempre molto deludenti, ma è più che normale!
Niente arriva subito, e non così facilmente…» 
«Ti ringrazio, ma non credo che mi faccia più alcun effetto. E poi capisco perfettamente, solo che non comprendo a cosa possa servire la nostra presenza, spiare questo Duncan? Per constatare quanto in realtà sia inadatto? Per favore, Luther si sta forse divertendo nel farci perdere tempo in questo modo? Vorrei ricordargli che non sono una donnina che si perde dietro a simili spacconate maschili e aggiungo che ho trovato oltremodo oltraggioso dover dividere la stessa aria con tuo fratello…che…che c’è? Perchè mi guardi così?» chiese la giovane ancora accigliata, ma che cambiò espressione in una molto più timida non appena si accorse dello sguardo del ragazzo sul suo. Diego sbatté le palpebre fortemente stupito, prendendo un bel respiro, massaggiandosi con i lunghi palmi delle mani le atletiche gambe.
«Wow…in meno di un minuto ne hai dette di cose…beh, posso farci ben poco con le decisioni di mio padre!
So che non fa una buona impressione a nessuno, ma sa sempre cosa fare e mi fido di lui; ti abituerai ai suoi modi, o forse no, sta di fatto che generalmente il margine di fallimento è quasi nullo!» 
La giovane incrociò le braccia al petto a quella affermazione, assottigliando i grandi occhi azzurri in due minuscole fessure.
«Ah si? Che mi dici invece di Ivo? Con lui che margine adoperate? Quello di far scappare i prigionieri? So che cos’ha fatto…e non sforzarti a chiedermi oltre, la mia fonte è sicura!
Sai che accadrebbe se i nemici della Hunter sapessero che ci sono cacciatori così deboli? Sarebbe l’anarchia, Diego!» 
Diego aveva già sentito quella storia molte volte, veramente troppe, ma dopotutto non poteva nemmeno darle torto; Ivo era suo fratello, suo sangue e parte della sua anima, ma alcune volte non riusciva proprio a capirlo nemmeno sforzandosi ed erano passati da tempo i momenti in cui avrebbe potuto difenderlo a spada tratta. Si portò all’indietro un ciuffo bruno riccioluto, guardando da lontano la figura molto più asciutta e sfilata del fratello gemello, appoggiato con gli avambracci sulla ringhiera limitrofa al campo, intento in tutto e per tutto a godersi quello strano spettacolo, ignaro della conversazione tra i due giovani seduti un po più indietro.
Nardi si passò una mano dietro al collo, con un sospiro pesante, quasi colpevole, riportando poi l’attenzione su Saul, rimasta con le orecchie ben aperte, pronta ad ascoltarlo.
«Mi sembri un ragazzo molto più ragionevole di tuo fratello, Diego, o mi sto forse sbagliando?» 
«Sarò diverso da lui, come lui è diverso da me, Saul, ma è mio fratello! » 
«E con questo? Lo lascerai commettere simili puttanate?! » 
«No, no io vorrei tenerlo il più lontano possibile da questo mondo! Ivo è uno spirito libero, non merita di stare qui, è come guardare una farfalla chiusa in un barattolo, ma non posso impedirgli di provare a scappare! Sono suo fratello maggiore, ho il dovere di proteggerlo, di impedire che possa farsi male da solo, ma non sono onnisciente, non posso controllare ogni sua azione, sono solo un fratello maggiore, miss Burke, e lei dovrebbe capirmi, dopotutto non sono l’unico ad avere dei fratelli, dico bene?» 
Saul dovette rimanere in silenzio per un momento, trovandosi sullo stesso livello del ragazzo al suo fianco; annuì sebbene un pensiero amaro l’avesse abbondantemente rabbuiata, ritornando ad osservare il campo reclute, massaggiandosi la fronte per alleviare il suo cruccio interiore.
«Un senso di responsabilità che non ti lascia dormire la notte, ne so qualcosa, la cosa buffa però è il doversi curare dei fratelli maggiori, invece quelli minori alle volte sono perfino più scaltri dei maggiori; gliela fanno sotto al naso senza che se ne accorgano!» 
«Perfetta descrizione di Ivo, l’unica differenza è che se ne sono accorti tutti i cacciatori, gran consiglio e Luther Richter! 
Ma che possiamo farci? Per quanto grossa possano farla, resteranno sempre parte di noi…» 
«Anche se rischiano di distruggere tutto quello che è stato costruito duramente? Anche se rischiano di farsi un male irreparabile da soli? Che nemmeno il nostro intervento potrà salvarli? Anche a queste condizioni, Diego?» chiese quasi con tono tremante la giovane donna in abiti sempre puramente maschili, lasciando trasparire un sentito interesse personale in quella richiesta. Diego lo capì, con un sorriso quasi serafico, annuendo con il capo senza alcun ripensamento.
«Siamo i figli cresciuti dal pugno di ferro, dove errare non è consentito, ma in qualche modo e non so quale permettiamo che chi amiamo erri come noi non abbiamo potuto! E poi si sa, potremmo perfino chiuderli in una teca di cristallo, cercheranno sempre un modo per fuggire da essa, tanto vale dare loro la chiave della serratura e lasciarli perdere…forse così capiranno quanto sia sicura la rotta prestabilita oppure scegliere quella inesplorata!
Chi sono io per decidere per Ivo? Chi sei tu per importi sulle tue sorelle? Io ho deciso così per me, la rotta di mio padre ,e tu? Hai scelto tu per te stessa oppure…»
Diego non finì nemmeno di chiedere quella importante domanda che la stessa giovane lo bloccò dal proseguire, alzandosi di colpo dalla sedia e scendere alcuni scalini più in basso verso la stessa transenna, indicando con lo sguardo una scena pittoresca che aveva preso luogo proprio al centro del campo. Il ragazzo dovette alzarsi a sua volta, seguendo a ruota sia la ragazza che il fratello minore, il quale si stava già godendo lo spettacolo da alcuni minuti con un grande lecca lecca alla fragola in mano.
Saul guardò Ivo sbigottita dalla sua incuranza, ma quello ricambiò quella brutta occhiataccia roteando gli occhi dietro le colorate lenti lilla, leccando il dolcetto senza alcun ritegno. Diego sbuffò, mettendosi subito tra i due prima che iniziasse qualsiasi battibecco insopportabile.
«Che sta succedendo qua? Perchè c’è questa baraonda?»
«Ohhh ve ne siete accorti? Credevo che il vostro flirt omosessuale proseguisse alla grande, non volevo disturbare te e...Bagoas, comunque me lo potevi dire che ti piaceva il ca…»
Saul tirò fuori dalla tasca della giacca un coltellino svizzero con una velocità della luce, ma prima che potesse conficcarlo nella mano di Ivo, Diego le bloccò il polso ad un misero centimetro dal palmo del provocante gemello. Quest’ultimo emise un sospiro effettivamente infastidito, lasciando scivolare sulla punta del naso i suoi eccentrici occhiali da sole, rivelando così il suo sguardo strafottente, ma quell’aria frizzante fu interrotta dallo stesso Diego, che guardò malamente entrambi.
«State cominciando a seccarmi voi due, sembrate due ragazzini, possibile che non riusciate ad ignorarvi nemmeno per un minuto? 
Pensavo di avere a che fare con due giovani coscienziosi, ma devo rendermi conto che invece siete più simili e impulsivi di quanto pensassi, ecco perchè non vi tollerate affatto!»
«Scusami?!»
«Diego, non ti permettere…»
«Mi permetto eccome, Saul, e sapete che c’è? Alla prossima sceneggiata non interverrò io, ma Luther e non è uno a cui piace perdere tempo, quindi, se non volete scontare questa vostra antipatia nelle segrete della Hunter, cambierei atteggiamento a partire da subito e non sono uno che si ripete!
Chiaro?» disse solenne il ragazzo, mettendo non troppo gentilmente le mani sulle rispettive spalle della ragazza e del fratello, rischiando seriamente di rompergliele. Entrambi, dopo uno sguardo reciproco non troppo entusiasta, annuirono con un sospiro, venendo successivamente lasciati andare. Diego si mise le mani sui fianchi, riportando l’attenzione sul campo, dove tutte le reclute avevano disertato gli allenamenti per accerchiarsi attorno a due giovani, come se fosse un incontro clandestino, o meglio, una rissa alle spalle dei superiori parecchio distratti.
«Ma che sta succedendo, perché nessuno interviene? Da quando sono permesse simili stronzate?»
Ivo fece spallucce, indicando con il suo indice smaltato il ragazzo in palese difficoltà durante quella sorta di match clandestino, coperto di fango e chissà cos'altro. 
«Ah non lo so, però ho la vaga impressione che il nostro Duncan non se la passi troppo bene nelle nostre milizie, ma sono solo supposizioni le mie!
Chiediamoglielo a fine incontro, se ci arriva, chiaro…ouch! Quello deve aver fatto male, dritto sui denti!»
Diego guardò meglio il giovane ragazzo piegato al suolo, con le mani nella melma, esattamente come Saul al suo fianco, che aguzzò bene la vista su di lui, scorgendo appena quel viso stanco e stufo, coperto da quella montagna di ricci rossi ormai madidi di sporcizia. 
«Dunque, è lui Duncan Griffith? Non era così che avrei immaginato un Griffith, in genere li esaltano per la loro…ferocia in battaglia, io invece vedo solo un passerotto che nemmeno ha imparato a volare…»
«Mmm…un uomo non motivato a combattere non è un uomo debole o incapace, semplicemente non ha nulla per cui battersi, ho già visto quello sguardo più volte fra i cacciatori!
Nel giro di una settimana vengono per lo più uccisi, o finiscono a pulire le latrine nelle retrovie, un classico direi quasi. » ammise non troppo fiero lo stesso gemello maggiore in risposta alla ragazza che all’improvviso aggrottò le bianche sopracciglia in un’espressione tutto fuorché entusiasta. I gemelli lo notarono, ma vennero distratti dal rumore di un pugno crudo che mise fine a quell’incontro. Ivo si tolse gli occhiali dal viso, osservando meglio in viso il ragazzo che ebbe avuto la meglio sul Griffith, grattandosi la tempia.
«Conoscete il tipo spaccone che si è letteralmente sfogato sul ricciolino? Ha un ghigno talmente vittorioso sulle labbra che quasi mi da i brividi…e poi quello non era troppo leale come colpo, specialmente sotto la cintura!»
«Conoscete forse membri di casa Darcy che siano leali? Io onestamente no. Quello lì è Cedric, Cedric Darcy, il futuro comandante del suo casato. L’ho incontrato più d’una volta durante le competizioni sportive; è un maledetto bugiardo e falso, sarebbe capace di rubare le stampelle ad uno storpio…» rispose subito il cacciatore alla domanda del fratello, sotto lo sguardo severo di Saul che concordò su ogni singola parola appena detta. Quasi le iniziarono a far male le mani, attorcigliando le dita attorno alla sbarra di ferro del parapetto.
Ivo lo notò, con un’aria sorpresa.
«Immagino che tu lo conosca, fiocco di neve, amico tuo? Anche se da come stringi quel pezzo di metallo, non lo definirei tale…»
«Io, amica di un simile selvaggio? No, fortunatamente no, ma lo conosco bene; mio padre, quel…argh, ha sempre tenuto molto vicino a sé la famiglia Darcy, per trarne profitto e so già che darebbe in moglie pure le mie sorelle a quel bifolco pur di avere una fetta di quella eredità marcia su cui i loro culi poltriscono ogni giorno!
Cedric è più giovane di me, quindi per logica l’ho già scampata come possibilità, ma ho due sorelle più piccole di me, e Dio mi fulmini se le lascerò in mano di quella belva…
E poi è un Darcy, non c’è da fidarsi per principio!
Sono loschi, hanno sempre qualcosa da nascondere…»
Ivo si massaggiò adesso entrambi i lobi frontali a quella risposta così spinosa, ma quella situazione di stallo per i 3 giovani spettatori sarebbe durata ancora poco, molto poco, perchè Cedric Darcy non era esattamente ciò che l’alta società inglese dipingeva per nascondere la verità; era sicuramente il figlio di lord Cillian, il futuro erede di una somma da capogiro, bello, affascinante, era il sogno di qualsiasi ragazza di sangue nobile ed in cerca di un marito facoltoso, ma era l’incubo di qualsiasi persona presa di mira dai suoi scherzi, tutto fuorché infantili e innocui. 
Duncan Griffith lo sapeva meglio di chiunque altro; erano nati quasi insieme, uno a poco tempo di distanza dall’altro. Anche il loro destino era pressoché identico; futuri comandanti delle loro nobili famiglie, un tempo unite, ora rivali per astio, una sorta di tradizione assurda che si ostinavano a portare avanti. 
Ma c’era una differenza epocale tra i due; Duncan non avrebbe mai fatto del male a nessuno, anche a costo di prenderle senza pietà, Cedric invece non si fermava davanti a nulla, figurarsi davanti al suo esercito di reclute, dei lacchè pietosi e secondari, senza identità e scopo. 
Ivo si mise in bocca il suo lecca lecca, guardando con la coda dell’occhio il fratello, dandogli un piccolo colpo col gomito.
«Interveniamo o…? Ci rendiamo testimoni e complici di un omicidio.»
Diego roteò di tutta risposta gli occhi mare, ma non disse nulla, fermando però i due ragazzi al suo fianco alzando semplicemente la mano a mezz’aria.

Voleva prima assicurarsi di qualcosa, ma cosa?

Le ginocchia di Duncan ormai erano sfinite, gli facevano male, quasi non riusciva più a muoverle, era rimasto immerso nella gelida fanghiglia per così tanto che quasi si sentiva parte di essa; il gesso ormai era un ricordo e non aveva più modo di evitare l'inevitabile, tra cui il battersi come un lottatore contro quel buffone insopportabile di cui non tollerava nemmeno la presenza.

Riuscì a specchiare il suo viso ammaccato nella pozza di fango sotto di se; dannazione, sembrava una maledetta prugna prossima ad essere spremuta con tanta soddisfazione!

Gli fischiavano le orecchie, gli doleva tutto, perfino la vista gli giocò un modesto scherzo, traballando a destra e sinistra come un budino. Lo sghignazzo di Cedric lo riportò quasi alla realtà; non tanto alto però slanciato, dai capelli scuri, neri, una frangetta militare liscia e rasato ai lati del capo, il naso all’insù, gli occhi azzurri tipici dei Darcy e un quel ghigno da sadico pagliaccio intagliato sulle labbra rosee. 

Detestabile.

Darcy diede un calcio ad un cumulo di fango che finì dritto sul viso di Duncan ancora per terra, inginocchiato come un penitente, un’immagine più che appagante per l’ego smisurato di Cedric, come l’oceano.
«Che visione celestiale che mi regali, topolino, sei adorabile, è così schifosamente facile dartele che quasi non ci provo più nessun gusto…oh, insomma ma reagisci o no? Uffa, sei noioso, davvero, almeno un tempo avevi la sagacia di rifilarmi quelle risposte tipiche da Griffith; sai no, quelle frasi da Lancillotto che vi piace dire?
Mi vendicherò di te, le tue budella verranno mangiate dai corvi, peste alle vostre famiglie”, e tutta la pappardella shakespeariana a suo seguito, no? Niente? Ma che cavolo…» sbuffò come un bambino il giovane Darcy, tamburellando con il suo indice sinistro sulle carnose labbra. Duncan dal canto suo non proferì nemmeno una sillaba e questo non fece altro che infastidire a più non posso l’altro giovane in piedi. 
Le reclute non dissero nulla, incredule della totale assenza di risposta; chiunque al posto del rosso avrebbe desiderato rompere la faccia a quel bulletto, ma lui niente, nemmeno ci provò.
I suoi occhi chiari rimasero rivolti verso il basso, verso la terra, come al patibolo; Cedric si mise una mano sotto al mento, valutando quasi l’opzione di finirlo del tutto.
«Cristo, se sei noioso…e tu dovresti essere un comandante? Sei a stento una recluta, non sei nemmeno bravo a prenderle, non dai soddisfazione…dev’essere una grossa, enorme vergogna per tuo padre avere te come erede!
Digli di aspettare altri 20 anni, magari tua sorella gli dà un erede in grado almeno di stare in piedi, oppure il tuo vecchio ha le ore contate e tu sei l’ultima pecora nera rimasta?
Rispondimi, fottuto Grifone senza ali ne artigli!» gridò quasi con un ringhio Cedric, ora effettivamente stufo di quel silenzio assordante da parte di Duncan, afferrandogli con una forza bruta i capelli rossi, tirando senza pietà quei boccoli color rame verso l’alto, costringendolo così finalmente a guardarlo in faccia, con il viso ora scoperto da qualsiasi intralcio.
Ivo si morse un labbro in maniera quasi provocante, grattandosi imbarazzato la mascella, guardando altrove, forse verso il cielo.
«Non conosco quel Darcy, ma se uno mi prendesse i capelli così inizierei a sospettare una discreta passione per il cazzo…e non lo dico io, ma Madre Natura!
Quanta mascolinità tossica in eccesso…» 
Saul chiuse le palpebre a quelle solite allusioni sessuali del tutto inappropriate, non trovandoci nulla di così scandaloso come solo quel ragazzo sapeva fare, mentre Diego teneva il suo sguardo fisso e attento su Duncan, un po come fa il cacciatore quando aspetta che la preda esca dal suo nascondiglio. 
Suo padre gli aveva insegnato una cosa molto importante; le persone erano sicuramente diverse tra di loro, ma l’istinto era un qualcosa che si aveva nel sangue, e in quegli occhi apparentemente spenti c’era la sottile pupilla di falco di un vero rapace. Quando le iridi del Darcy e di Griffith si incrociarono, quest’ultimo gli sputò proprio proprio su quella bocca irritante e perfida un grumo di sangue e saliva, proprio su quel ghigno odioso che il rosso aveva sopportato per troppo tempo, fin troppo a lungo. 

 

Fa credere al tuo nemico di averti in pugno, di averti distrutto, tolto tutto, sconfitto, solo allora risorgi dalla cenere è attacca più forte di prima; sarà troppo stanco per reggere il colpo inaspettato.

 

Il giovane Griffith non era di certo uno dei soldati più brillanti che l'associazione avesse visto, ma aveva tenuto quel consiglio molto caro nei meandri della sua mente, una sorta di eredità di cui avrebbe beneficiato probabilmente fino alla sua morte.

Chi diceva che la posizione torreggiante era quella più strategica?

Distratto da quel gesto plateale, Cedric si trovò atterrato con violenza da tutto il peso di Duncan, caricato e avvantaggiato dalla sua posa bassa come un ariete, colpendo in pieno addome con la testa il corpo dell'altro che si ritrovò a tappeto in una manovra molto svantaggiosa; a cavallo di sé stesso, il Darcy trovò un Griffith energico e non poi così spento com'era solito ricordarlo, e furono proprio i pugni in faccia a chiarirgli quel concetto.
Ivo e Saul rimasero profondamente sorpresi da quel radicale cambio di ruoli, ma non lo diedero troppo a vedere, forse per non dare tutta quella soddisfazione al lungimirante Diego che non nascose affatto un sincero sorrisetto compiaciuto sulle labbra, incrociando al petto le solide braccia prima di battere le mani a mo di applauso, infrangendo così la barriera che si era creata tra pubblico e attori, tra loro e i due litiganti.
«Basta così, credo che ci abbiate mostrato a sufficienza chi sia la preda e chi il cacciatore, non vi pare?» 
«Cosa...?» 
Duncan non capì nemmeno da dove provenisse la voce di Diego, poiché Cedric approfittò di quel momento di distrazione per liberarsi da quella posizione infruttuosa con un altro tiro mancino sotto al mento, scaraventando sul suolo accanto a lui il corpo del rosso, il quale emise un sonoro lamento di dolore alla schiena.
I 3 spettatori scesero di conseguenza dagli spalti, addentrandosi su quel suolo melmoso sotto gli occhi confusi delle reclute che nemmeno avevano impedito una simile insubordinazione, non avendo neanche capito la gravità della situazione, e poi c'era chi come Cedric Darcy se ne fregava altamente.
Infatti quest'ultimo cercò con una mano nel fango, ancora al suolo, qualcosa di molto specifico da usare come contrattacco, ma non fece in tempo a raccoglierla che Diego gli bloccò con il piede il braccio nella fradicia terra, impedendogli l'ennesimo attacco alle spalle; si abbassò con quell'espressione grave e sinistra che aveva ereditato spudoratamente dal padre adottivo, divertendosi quasi a caricare tutto il suo peso su quel povero avambraccio. 
«Spero tu sia sordo, marmocchio, perchè se non lo sei, passerai una serie di guai molto, molto grossi…non ti ha mai detto nessuno che è severamente vietato prendere a cazzotti un compagno, razza di coglioncello? O fammi indovinare, lo sai ma nessuno ti ha mai detto niente perché sei figlio di tuo padre…» 
Cedric rise a quella frase, leccandosi il sangue del Griffith dalle labbra, guardando bene quel viso che già aveva visto altrove in passato, ma se ne fregò del tutto, roteando lo sguardo in direzione dei suoi tirapiedi, che fecero finta di nulla, incuranti di quel richiamo. 
Ivo non rimase affatto meravigliato, incrociando le braccia tatuate e scoperte dietro la nuca con uno sghignazzo di fatto schifato, dando una pacca sulla schiena del fratello, con cui scambiò uno sguardo complice; si rimise sul naso i tondi occhiali viola, sgranchendosi le gambe avanti e indietro come se si stesse preparando per una corsa.
Saul non capì subito cosa stesse passando nella mente dei gemelli Nardi, ma approfittò della situazione per porgere una mano quasi d’aiuto al Griffith, ancora sorpreso da quei visi sconosciuti che lo avevano praticamente salvato; accolse quella mano con uno sguardo riconoscente, tirandosi così su fino a mettersi in piedi con un discreto dolore, mentre Diego non lasciò andare nemmeno per idea l’altro, ancora sotto la sua solida morsa.
«Dimmi, fratello, cosa ne facciamo in genere dei bulletti come lui? Solitamente ci divertiamo con loro, no? E qui ne abbiamo tante di teste calde, dico bene? » cantilenò quasi sinistro il gemello maggiore, mentre il minore si leccò i bianchi denti fingendosi indeciso.
«Dici che possiamo? Dopotutto, il moccioso è il figlio di Cillian Darcy…oh, che sciocco che sono, ma certo che si! 
Noi possiamo fare quel gran cazzo che ci pare, e sai perchè?
Perchè il nostro di papà è più in alto del tuo! » rispose quasi gioioso Ivo, dandosi un colpetto scenico sulla sua stessa fronte, guardando proprio verso il gruppo di compari di Cedric, che cambiò di colpo espressione, non sentendosi più poi così sicuro della protezione cieca del loro “leader”; persino Darcy digrignò i denti, non perdendo quel suo fare arrogante e bellicoso, sfidando fino all’ultimo la sorte.
«Ah si, e chi sarebbe il tuo paparino? Gesù Cristo? Il diavolo? Me ne fotto, damerino della laguna!»
«Ah però, il frocetto ha un buon orecchio per essere solo un caprone inglese, non trovi anche tu, Ivo?»
«Già già, sono d’accordo, ma dimmi, fratellone, dici che Luther si arrabbierà se le orecchie gliele tagliamo? Tanto ne esistono di cacciatori sordi, non serve per forza che ci sentano!
Tanto non ascolterebbe a prescindere. Oh, ma che cos’ho nella manica? Ecco! Cercavi forse questo, Cedric?» disse il biondo facendo penzolare sul viso del nobile un coltellino a scatto proprio contro la punta del suo naso.
Bastò un nome, uno solo, a far dileguare sul posto quel gruppo di codarde reclute che nemmeno ci pensarono un solo secondo a tagliare la corda, lasciando lì nel fango il loro “capo”, non più così protetto come una volta. 
Diego si godè la scena proprio come il fratello, liberando finalmente il braccio del ragazzo da terra fino ad indietreggiare di un passo, con le mani nelle tasche.
«Beata omertà, mi pare di non aver mai lasciato l’Italia quando vedo queste scene…dimmi Darcy, ha tutto un altro sapore quando l’unico ad essere sul bordo del precipizio sei solo tu, vero?
Coraggio, alzati…» fece Diego con uno sbuffo, allungandogli la mano per rialzarsi da terra. Cedric guardò quella presa rivolta verso di se, ma la sdegnò con uno schiaffo alzandosi così da solo da terra senza guardare nessuno di quei 3 in faccia, soprattutto il bruno cacciatore. Si tolse con disgusto il fango dai vestiti, guardando poi Duncan dritto negli occhi, quasi a mettere in chiaro la situazione.
«La prossima volta, Grifone, saremo solo noi due, nessuna interruzione.»
Duncan annuì, guardandolo poi andarsene senza dire più nient’altro; Ivo guardò il fratello con le mani sui sottili fianchi, sbuffando sonoramente prima di mettersi la giacca venaccia sulle spalle per il fresco.
«Che razza di tipo, se non fosse un autentico stronzo potrebbe pure essere il mio genere…»
«Cedric è fatto così, inutile cercare di averci a che fare; porgere l’altra guancia con lui è del tutto inefficace, lo so per esperienza!»
«Mmm? Oh, guarda guarda chi abbiamo l’onore di conoscere! Duncan Griffith, finalmente…non si parla altro che di te, da mesi interi…ti facevo più basso, quanto sei alto scusa?» fece il piccolo dei Nardi, squadrando molto accuratamente la figura ben messa del giovane Griffith ma prima di poterci mettere su un solo dito, Diego lo spinse di lato, roteando gli occhi per quel suo modo incontenibile di fare.
«Perdona i modi rozzi e trinariciuti di mio fratello Ivo, Duncan…e mi dispiace che il nostro primo incontro verrà ricordato per questa scena! Io sono…»
Duncan lo bloccò dal proseguire, annuendo con un sospiro consapevole, accettando poi di buon grado un fazzoletto da parte di Saul, pulendosi anche lui il volto sporco di fango.
«So bene chi siete, Diego ed Ivo Nardi, i figli adottivi di Luther! Mio padre mi ha parlato spesso di voi, e noi due ci siamo già incontrati, Diego, ma ero molto piccolo all’epoca, quindi non ti ricorderai di me! Un piacere conoscervi, anche se in queste spiacevoli…circostanze, e lei invece?»
Saul gli tese nuovamente la mano in saluto, con un'espressione molto difficile da decifrare, un misto tra timidezza ed estrema riservatezza, tutto racchiuso da una maschera di puro distacco.
«Sono Saul Burke, signor Griffith, dei servizi speciali di Sua Maestà la regina. Sono qui per verificare la sua idoneità come tramite tra la Corona e l’Hunter!
Ho sentito molto sul suo conto, anzi, su quello della sua famiglia….siete, ecco, come dire…»
«Sulla bocca di tutti perché la gente non ha un cazzo da fare se non farsi quelli dei miei parenti? Si, lo so, funziona così da prima che venissi al mondo, e ci sono pure abituato, ma le cose cambiano quando a farmi visita sono 3 illustri emissari come voi…risparmiate lo charme, i lustrini e le gratifiche, so perchè siete qui, e grazie per prima ma, resterete profondamente delusi, signori e signora…» disse senza alcun pelo sulla lingua il giovane dai capelli rame, non facendosi alcuno scrupolo nel dire la cruda e sana verità, con le mani tese lungo i fianchi. 
Saul rimase molto meravigliata da quelle parole così dirette e senza vergogna, avendo in mente un’idea molto sbagliata del ragazzo; i suoi pregiudizi giocavano sempre d’anticipo, come al solito!
Ivo e Diego si guardarono come al solito di sottecchi, decidendo quasi in maniera telepatica come agire, lasciando stavolta la parola al fratello minore, già pronto ad accendersi una sigaretta; il tempo stava cambiando, stava iniziando a farsi tardi.
«So che ti aspetti il plotone d’esecuzione, lo capisco, nessuno vuole avere a che fare con questa merda, ma avrei un’idea meno merdosa!
Tu hai un aspetto pietoso, io ho fame, Diego se non si beve una birra tra meno di un’ora ci sgozza tutti e beve il nostro sangue, e muoio dalla voglia di vedere Maria Antonietta qui bella ubriaca, quindi se vogliamo traslare la discussione nella taverna più vicina…che te ne pare?»
Duncan inarcò un sopracciglio dubbioso sulla proposta di Nardi, guardando poi la ragazza e il gemello altrettanto sorpresi, finendo così per sospirare al vento, acconsentendo a quella strana uscita con un cenno del capo.
«Seguitemi, c’è un posto che possiamo raggiungere senza troppe grane, ma non fatemi fare figure del cazzo…ci lavora una mia amica, chiaro? Soprattutto tu, trickster dagli occhiali viola…»
«Sentilo, io un trickster? Fai strada va…testa rossa, avremo una lunga notte davanti!»
I due giovani proseguirono in testa a quel curioso convoglio, mentre Saul e Diego rimasero un po 'più distanti, specialmente la ragazza che afferrò il braccio dell’altro per non essere sentita.
«Cos’ha in mente tuo fratello? Farlo ubriacare, così seguirà a menadito gli ordini di suo padre?»
«In genere funziona così! Non lo sapevi? Pura, semplice e normalissima amministrazione.»
«Diego, sono seria…»
«E quando mai non lo sei? Non lo so, Saul, stavolta lascio Ivo condurre i giochi. Lo hai visto anche tu, quasi si faceva ammazzare di botte pur di non battersi…e sinceramente di avere un morto sulla coscienza non mi va!»
La fanciulla dai capelli bianchi guardò le figure dei due ragazzi divenire più piccole man mano che si allontanavano, per poi tornare con lo sguardo su Diego, nei suoi occhi blu, speranzosi e molto determinati. Si mise sul capo il suo solito berretto scuro, chiudendo lo sguardo ghiaccio quasi per riflessione.
«Hai visto qualcosa prima, quando ha reagito alle provocazioni di quel Cedric…che cos’è che ti avrebbe convinto? Perché insistere? Lo hai appena detto, non ha senso sparare su un uomo morto! Diego? Mi stai a sentire?»
Il ragazzo dai capelli ebano mise le mani in alto, iniziando a camminare dietro ai due già avviati da un pezzo, lasciando la ragazza quasi a decantare nei suoi dubbi, finché non le rispose dopo aver ripreso il sentiero interrotto.
«Hai detto bene, non ha senso sparare su un uomo morto, ma se non ricordo male il suddetto uomo è un Grifone, e ne ho visto uno più vivo che mai…deve solo imparare a volare, tutto qui, miss Burke!»
«Ora tu e tuo fratello vi intendete pure di pennuti?!»
«Io personalmente no, ma Ivo sa il fatto suo quando si parla di uccelli, Saul…»
«Stai parlando seriamen…oh, andate al diavolo, tutti e due, Nardi!»

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Capitolo 12
*** One day, who knows, in 100 years. ***


Chapter 12: One day, who knows, in 100 years.

 

8 years ago.

 

Isle of Mull

 

Odio l’acqua.

Fu il primo pensiero che venne alla mente della giovane recluta Novacek, che osservò con i grandi occhi verdi quella distesa rossastra ed immensa di acqua salata che luccicava tremolante sotto il sole, prossimo al tramonto; romantico, senza dubbio, quasi da fargli venire la nausea. Il vento freddo di fine ottobre iniziò a farsi sentire tagliente come un coltello fra i suoi capelli mossi, che alla luce dei raggi parvero quasi dorati. Aspirò un ultimo tiro dalla sua sigaretta, gettando poi il mozzicone rovente al suolo fangoso, sotto il suo stivale. 

Chissà per quale diavolo di motivo avevano scelto proprio lui per andare ad esplorare quelle terre solitarie e inospitali del nord; l’unico lato positivo, però, era il non essere solo, non del tutto!

La riva dell’isola di Mull era quasi pittoresca rispetto al suo grottesco e disabitato entroterra, piena di piccole abitazioni rurali, case contadine e di pescatori che abitavano quello squarcio di terra isolato dal mondo, nella Scozia più gelida di sempre. Il ragazzo non si curò granchè degli sguardi sospettosi degli abitanti, era così abituato ad essere guardato storto che solamente il contrario lo avrebbe insospettito; dopotutto, è difficile essere accoglienti con chi indossa un pugnale alla cintura e fredda l’anima di chi l’osserva con quello sguardo senza l'ombra di sentimenti, almeno umani. 
Solamente una persona era in grado di guardare dentro di lui, dentro il marcio e l’odio, e scorgere qualcos’altro, qualcosa che nemmeno lui sapeva esistesse: ma c'era davvero, albergava un solo bagliore di luce in lui? Ah, non gli importava, finchè lei continuava a guardarlo con quegli occhi si sarebbe pure finto Cristo redentore. 
Un paio di pescatori avevano appena attraccato la loro piccola imbarcazione al porticciolo, con le loro reti ormai issate e le grosse sacche da lavoro riempite di pesce; doveva essere stata una caccia fruttuosa, la loro.
Un perfido sghignazzo bondò sulle labbra rosee del ragazzo, all’epoca di appena 18 anni, mentre un’idea maligna gli serpeggiò fra le mani: un autentico peccato se quel piccolo bottino fosse finito in mani sbagliate!
Uno dei pescatori, quello più anziano dei due, notò la figura insolita e sinistra del giovane cacciatore vicino alla spiaggia, appoggiato di spalle contro uno dei frondosi alberi in riva al mare; le strane vesti, la sua presenza, inquietarono l’uomo fino alle viscere, facendogli istintivamente sfiorare un qualcosa che teneva nella tasca dei pantaloni rattoppati con buffi scampoli di stoffa. Il pescatore più giovane, di stazza decisamente più grossa, probabilmente il figlio del vecchio marinaio stanco, osservò nella stessa direzione del padre: nessuno dei due si sentì improvvisamente al sicuro. Evgenij, o come si faceva chiamare, rispose a quell’occhiata senza nemmeno pensarci due volte, facendo indietreggiare i due uomini, specialmente il vecchio marinaio, il quale si mise saldamente in spalla la sua sudata sacca, cambiando subito prospettiva, preferendo di gran lunga incamminarsi verso la via del ritorno, finalmente a casa.
Il giovane figlio invece non seguì subito il vecchio, continuando a fissare storto il cacciatore come ad attendere una sua qualsiasi mossa; il biondo ragazzo nemmeno batté le palpebre, come se fosse fatto di marmo, facendo deglutire sonoramente anche il pescatore.

Boo.

Mimò con le labbra, in un’espressione grottesca, il cacciatore profondamente divertito, invogliando decisamente il giovane a darsela a gambe sulla via del ritorno senza nemmeno voltarsi indietro, dimenticando però qualcosa di molto importante nella malmessa barca: un bel premio che Evgenij non avrebbe tardato a reclamare, con un sorrisetto diabolico sempre inciso in viso.
La sera era ormai prossima e il piccolo villaggio si era ormai ripopolato di tutti i suoi abitanti, lasciando i camini sui tetti a fumare senza sosta; anche il vecchio pescatore e il figlio tornarono a casa loro dopo una lunga camminata, parlottando tra di loro sottovoce, rigorosamente nel loro antico e complesso dialetto del nord. La loro casupola non era certamente diversa dalle altre, di pietra, legno e paglia, esattamente come tutte quelle degli altri pescatori sull’isola; eppure quella sera, ad attendere padre e figlio in casa c’era una visita del tutto inaspettata, soprattutto per degli isolani del tutto non abituati a ricevere visitatori, turisti, o forse pure nemici, chi poteva mai saperlo.
La moglie del vecchio marinaio, una donna paffuta e rossa come una mela, stava seduta al tavolo della accogliente cucina insieme ad una ragazza, una giovanissima, che nessuno dei due uomini aveva mai visto. Era bella, bellissima, dai capelli lunghissimi, neri, il viso ancora aspro, troppo giovane per avere anche solo 20 anni, vestita alla stessa maniera del curioso e indesiderato giovane visto poco prima sulla riva dell’isola. 
La fanciulla salutò i due nuovi arrivati con un rispettoso cenno del capo, alzandosi subito dalla sedia; Eris all’epoca invece aveva 15 anni, non aveva ancora capito che genere di mondo fosse quello ma a breve ne avrebbe avuto un amaro assaggio.
Il vecchio la squadrò, sospettoso e in allarme.

«Cosa volete? Non siamo gente che vuole guai…andatevene, questo posto non è terra per turisti, specialmente se vengono qui per spaventarci!» ribadì con quel accento terribilmente forte, non abituati a parlare la lingua comune soprattutto con gente esterna. La ragazza era certo molto giovane, ma anche molto accorta e paziente, annuendo di risposta alle parole dell’uomo; la moglie del vecchio prese parola, quasi in favore della straniera.
«Sono qui per le donne aggredite alla brughiera, a nord, sono qui per aiutare, Donald, non sono dei nemici…credono che queste aggressioni non siano state una coincidenza!»
«Sta zitta, femmina, so io cosa vogliono questi tagliagole di città!» disse crudamente il pescatore, battendo il calloso palmo sul tavolo, quasi spaventando la povera donna che si tirò improvvisamente indietro, zitta e silenziosa. La Griffith non gradì particolarmente quell'atteggiamento bruto e rozzo, mettendo le mani in alto simbolicamente, guardando con i suoi grandi occhi verdi, ben diversi da quelli di Evgenij, i due uomini, specialmente il capo famiglia; sul muro di fronte erano appese diverse prede di caccia, tra cui una trota impagliata, alcuni poveri cervi e un'aquila. Sospirò, riprendendo il suo discorso.
«Comprendo il vostro scetticismo, e fate molto bene a stare in guardia, ma io e il mio compagno non siamo qui per fare del male a voi, oppure ai vostri vicini, siamo qui perché, da cacciatrice a cacciatore, stiamo cercando chi ha ferito le vostre compaesane…»
Il vecchio, di tutta risposta, sputò al suolo in maniera disgustosa, aiutato forse dall’assenza di buona parte dei suoi denti, ridendo quasi di quella premessa, appoggiando senza alcuna gentilezza la sacca lurida piena di pescato fresco sul tavolo, incurante del fetore o del decoro, a cui un po tutti lì parvero essere del tutto estranei.
Il figlio invece arrivò ad un passo da Eris, con la sua stazza mastodontica, guardandola come se non avesse mai visto una donna in tutta la sua vita; il vecchio disse qualcosa in lingua madre che la ragazza non capì, ma bastò al giovane per iniziare goffamente a perquisire la cacciatrice, da cima a fondo, tutto sotto lo sguardo impassibile del capofamiglia, che fissò dritto nelle pupille della fanciulla, quasi a scorgere un fremito di sincero fastidio, forse aspettandosi una reazione più eclatante, ma la ragazza non lo accontentò così facilmente. Il ragazzo non trovò nulla, se non una piccola catenina d’argento appesa al collo della fanciulla, che sollevò molto incuriosito, quasi in imbarazzo; il vecchio Donald disse qualcos’altro, ancora incomprensibile, ma non poi così tanto, poichè di conseguenza il figlio strappò dal collo di Eris la collanina, portandola fino al cospetto del vecchio, che morsicò il ciondolo, a verificarne la consistenza.
Sul viso della ragazza si creò un autentico gelo, fortemente tentata dal reagire in maniera brutale, ma non poteva proprio perdere la calma in quel momento, prendendo un profondo respiro, calmandosi. 
«Argento…mi sembra uno scambio equo per il disturbo che tu e quello smilzo inquietante avete arrecato alla mia gente, a mia moglie! 
Nessuno vi ha chiamati, chiunque voi siate…siamo stati molto bene per secoli senza di voi, barbari coloni senza Dio, venite qui per depredare, saccheggiare e profanare…voi che venite dall’esterno siete quasi peggio del Diavolo!
Vi atteggiate da…com’è quella parola che vi piace tanto usare? Civilizzati? Si, credete di vivere in una società all’avanguardia, ma siete solo empi demoni…voi inglesi, con quella vostra smania di potere, non avete già abbastanza oro? Dovete derubare pure della povera gente come noi?»
«Non siamo qui per derubare nessuno, siamo qui perché più di 10 donne nell’ultimo anno sono state aggredite, rapite e segregate, in seguito uccise, probabilmente sacrificate!
Erano vostre compaesane o di villaggi limitrofi a questa zona, siamo qui per indagare su cosa sia realmente accaduto, signor MacLaine, e mi scusi se glielo faccio notare…ma anche sua moglie è una donna, ed è in pericolo tanto quanto le altre signore del vostro paese!
Non ha intenzione di fare nulla a riguardo?» sbottò non troppo incline alla calma la ragazza, abbassando le mani lungo i fianchi, facendo cenno proprio verso la signora MacLaine che, impaurita, guardò disperata marito. Quest’ultimo ghignò, un ghigno orribile di un vecchio e sdentato uomo che in quel momento avrebbe tanto voluto colpire dritto al cranio con una pietra acuminata; frequentare Evgenij stava portando i suoi frutti, alla fine.
«Un tentativo molto convincente, ma io non mi curo delle mogli degli altri mariti, troppo stolti per tenere la propria donna dove deve stare, al sicuro, in casa, nella loro cucina…li non corrono alcun pericolo, signorina…anche tu, in questo momento, sei in pericolo!
Lo sapevi? Le bambine come te non dovrebbero mai allontanarsi da casa, da sole, in compagnia per lo più di un bizzarro giovane come il tuo…amico! Potrebbero accadere cose molto spiacevoli, te lo assicuro…» chiarì con quel tono roco e losco, girandosi fra le dita la medaglietta argentata fino a mettersela nel taschino della malandata camicia sporca, sotto lo sguardo molto inquieto del figlio, che guardò ovunque ma mai negli occhi del padre, della madre, e tanto meno in quelli della ragazza. 
Non avrebbe ottenuto molto da quella famiglia, erano troppo spaventati dalla figura del vecchio per poter dire anche una sola sillaba. Era la sua prima spedizione da sola, lontana dal gruppo e da suo zio, e in compagnia di una delle reclute più promettenti del campo Hunter; avrebbe dovuto sentirsi in soggezione, dopotutto nessuno dei suoi compagni si permetteva di sfidarlo, ma non lei, finendo così per essere assegnati insieme nello stesso caso. 

Ironico.

«E così quella famiglia di zotici villici, ignoranti e scopa pecore non ti ha detto nulla di interessante sul caso? Oh, Griffith, sei quasi adorabile… non dirò “te lo avevo detto” perchè, beh, te lo avevo detto no?»
«Se hai intenzione di gongolare per tutta la notte, ti avviso subito, Novacek, ti accoltellerò alle schiena non appena ti addormenterai!»
«Sempre se non ti addormenterai tu prima di me, passerotto spelacchiato…riesco a stare molto tempo senza bisogno di dormire…»
«Ma non senza rompere il cazzo, quello ti viene praticamente impossibile, vero?» replicò non troppo entusiasta la giovane recluta ancora presa dalle sue riflessioni precedenti; erano nel bel mezzo di una boscaglia, poco distante dal villaggio, ma abbastanza da non essere notati, specialmente per via del fuoco acceso che scoppiettava insistente sotto le squame arrostite di due merluzzi che rosolavano su uno spiedo improvvisato. 
Il ragazzo roteò gli occhi occhi chiari verso il cielo blu, non così limpido come l’avevano trovato, appoggiandosi di peso sui palmi delle mani contro il morbido suolo erboso, mentre il suo giovane viso veniva illuminato dalle lingue di fuoco vive, che si agitavano al ritmo del vento.
Eris, esattamente di fronte a lui, divisi solo dal braciere acceso, appoggiò gli avambracci sulle ginocchia, rimuginando ancora sull’accaduto, incredula.
«Sanno qualcosa, ne sono sicura…soprattutto quel vecchio troglodita del cazzo! Se solo fosse rincasato dopo, avrei potuto…»
«Eris, con questa gente usare le parole serve a poco, anzi non serve a nulla! Sono fottute pecore senza dignità, pensano solo al loro orticello e credono che oltre al confine non esista più nulla, non otterrai niente da loro. Spara e basta, dopo fai le domande.»
La ragazza assottigliò lo sguardo, portando all’indietro la lunga chioma scura, affatto convinta.
«Detto da te risulta quasi ironico, Novacek…se fosse per la tua idea, questo mondo sarebbe rimasto senza abitanti, perché avremmo già sparato a metà di loro! Credi veramente che uccidendoli avremmo ottenuto le risposte che cerchiamo? Almeno la donna è riuscita a dirmi qualcosa…non è forse un inizio?
E adesso che diavolo fai, perchè mi fissi così?»
Evgenij appoggiò il mento contro il pugno chiuso della sua mano, guardando quel viso senza nemmeno rendersene conto, affatto concentrato sulla discussione; Eris sentì un delicato bruciore sulle guance a quello sguardo così penetrante e fisso sul suo, preferendo cambiare direzione, cercando altrove un qualsiasi cosa, ma non il viso del compagno. Ev rise, di gusto.
«Sei adorabile, sei come un passerotto spelacchiato, uno di quelli che cade dal nido e che mamma uccello non reclama, perché non sente più il suo odore e dunque non considera più uno dei suoi piccoli…sei del tutto persa e cerchi una risposta nella Hunter, davvero, Eris? Potresti cercare altrove…magari lontano da tuo zio, mai pensato a questa opzione?»
«Ma chi…chi diavolo credi di essere? Tu non sai nulla di me, né della mia famiglia…ne di Trystan! »
«Quello che so mi basta…non te ne accorgi davvero? Sei solo una bambina, cosa credi che possa farci uno navigato come lui con una mocciosa come te? Si realista e tirati su da sola, ammesso che tu abbia le forze per farlo…»
«Stai cercando di provocarmi, perché se è così ci stai riuscendo e anche molto bene! Ma ti avviso…siamo molto lontani da casa, se misteriosamente non dovessi tornare avrei ogni motivazione valida dalla mia, Ev.» fece seriamente la giovane, roteando tra le dita il pugnale personale del cacciatore, il quale istintivamente si toccò la fondina legata alla vita. Era vuota.
Si leccò il labbro inferiore, annuendo consapevole con le mani in alto, quasi per pura beffa, con un ricciolo biondastro che gli ricadeva sulla fronte.
«Sei stata brava, davvero, sono colpito, però la tua condizione non cambia affatto, passerottino! Resti sempre nell’ombra della tua famiglia, nonostante tutto quello che ti hanno fatto…Trystan non ti ha salvata, ti ha condannata, non essergli così grata…»
«Perchè ti interessa? Non ti è mai importato nulla di nessuno al campo, nessuno, perché invece la mia condizione ti esalta tanto? Oh no, aspetta, forse ci sono…» 
Eris si alzò dal terreno umido, avvicinandosi verso la figura del cacciatore in maniera sinistra, con il volto in penombra per via della scarsa illuminazione attorno a loro, lasciando che il verde occhio brillasse ardente nel buio, quasi di luce propria. 
La lama del pugnale era rivolta contro Evgenij che non si perse nemmeno un movimento di quella prematura ragazza, godendoseli tutti uno dietro l’altro, sdraiato in maniera del tutto strafottente, come se tutta quella situazione fosse irrilevante e non una spedizione di salvataggio. 
«Credi che la vicinanza con mio zio possa farmi ottenere ruoli che tu probabilmente potresti sognarti, hai paura di essere sminuito, che tutto ciò che hai guadagnato così duramente possa scivolarti via dalle mani, per colpa di una ragazzina…ho ragione? 
Coraggio dillo, voglio sentirtelo dire…» 
Si abbassò sulle ginocchia, raggiungendolo proprio al suo fianco, con la punta acuminata dell’arma letteralmente sotto al mento. Il cacciatore inarcò un sopracciglio completamente divertito, ora sollevato sui gomiti, scuotendo visibilmente la testa per l’assurdità appena sentita.
«Sei più persa di quanto credessi, mio dolce passerotto, ma una cosa te la posso giurare sulla vita di mia madre!
Potresti pure essere la puttana di tuo zio, di tutto l’esercito Hunter, non mi batteresti mai, sei troppo emotiva, troppo ingenua, semplicemente non sei il mio tipo…ma nemmeno quello di Trystan…a lui piacciono, come dire, quelle con i complessi paterni!» 
«Conosci così bene Trystan? Avete forse scopato e non lo sapevo? E poi…sei così sicuro che io non sia il tuo tipo, biondino? Io sto ricevendo tutt’altro segnale…e su questo non mi sbaglio, te lo assicuro!» 
La lama venne conficcata improvvisamente fra le gambe appena semi aperte del ragazzo, a un millesimo di centimetro dal suo cavallo, trafiggendo il suolo con un suono secco e netto; Evgenij era di ghiaccio, senza dubbio, ma un lieve brivido lo tradì sulla pelle, lungo la schiena, restando entrambi in silenzio, a guardarsi per dei secondi che parvero secoli. Cacciatori, si, ma erano solo due ragazzi, dopotutto, per quanto confusi e perversi; il biondo non era mai stato un giovane loquace, parlare lo aveva sempre annoiato molto, ma quel giorno si era trovato a spendere più sillabe del solito ed era parecchio stanco di disquisire, specialmente in quel momento, dove quelle labbra gli sembrarono il posto migliore per poter riposare. 
Eris gli afferrò istintivamente la mascella con la mano, capendo subito le sue intenzioni, ma lo bloccò di colpo; si sentì il cuore dritto in gola, con le pupille tremanti.
«Non sono la puttana di Trystan, e questo include anche il non essere la tua, cosa credevi? Che ti sarei saltata addosso?» 
«Onestamente mi stavo chiedendo che cazzo stessi ancora aspettando a farlo, ma se vuoi chiedere il permesso al tuo onorevole zio, Griffith, fa pure! 
Ma ti avviso, io non sono uno romantico e nemmeno ti farò la corte, e non ti aspetterò per sempre…solo finchè non aprirai gli occhi e vedrai ciò che vedrò io…questo è quanto sono disposto a fare per te.» 
Non aveva ricevuto mai dichiarazioni prima di allora, nemmeno ne pretendeva dopotutto, ma non erano sicuramente le parole a stranirla quanto più chi le ebbe pronunciate con simile coraggio, sfrontatezza; lo guardò in viso, come se lo stesse osservando attentamente per la prima volta, sebbene non fosse affatto così. Aveva avuto il suo tempo per analizzare bene chi fosse quel soggetto, ma c’erano troppi interrogativi, troppe domande senza alcuna risposta; un ciuffo bruno le sfiorò improvvisamente il naso, cadendole proprio dinanzi agli occhi. Lo soffiò via, ma furono le dita annoiate dell’altro a riportare quella ciocca dietro alla sua cartilagine, come un delicato fermaglio. Non disse assolutamente nulla, si sdraiò nuovamente sulla schiena e chiuse gli occhi, con le braccia incrociate dietro la nuca. Eris si morse la lingua, infastidita da se stessa per non aver ribattuto, ma non ne ebbe neanche il tempo, poiché il ragazzo borbottò qualcosa già prossimo al sonno.
«Tagliati i capelli…sono troppo lunghi per i miei gusti, devi essere agile quando ti batti, non fare la principessa nella torre!
Stai tranquilla, tuo zio troverà ugualmente un modo per tirarti, ne sono sicuro…avrei già qualche idea…e ora dormi, domani sarà una giornata pesante.» 
La giovane si morse quasi le mani, dando un violento calcio contro il terreno come una ragazzina capricciosa e infastidita, non riuscendo a tollerare tutte quelle frecciatine infuocate, mirate solo a farla infuriare; non potè vedere il ragazzo in volto, ma era più che certa che su quelle labbra arroganti ci fosse uno dei suoi tipici ghigni da farabutto qual’era. 
Guardò inconsapevolmente una delle lunghe ciocche di capelli sfiorarle la schiena, arricciandone una attorno all’indice; non li aveva mai tagliati, mai, nemmeno una volta da quando sua madre era morta, non era riuscita a separsi nemmeno da una sciocchezza come quella. Come avrebbe potuto allora farlo con tutto ciò che le rimaneva di familiare?
E se Evgenij, dopotutto, avesse avuto ragione? Lui sembrava essere così libero, da tutto e da tutti, mentre attorno a se stessa vedeva solo dei fili rossi che la legavano, corpo e anima, a tutto ciò che c’era stato e non riuscisse più a proseguire avanti. Si allontanò verso il lato opposto, mentre il fuoco piano piano iniziava a spegnersi, sempre più debole, fino a sdraiarsi anche lei nel tentativo di prendere sonno, sebbene non ne avesse alcuna voglia; il suo sguardo cadde ripetutamente sulla schiena del ragazzo, ma l’orgoglio quasi le impedì di rivolgergli la parola. Il vento sembrò essersi fermato, come il rumore degli alberi, della natura, all’improvviso tutto apparve stranamente morto, come se la vita notturna del bosco si fosse improvvisamente spenta; la ragazza sentì il fuoco affievolirsi del tutto qualche minuto più tardi, rimanendo ferma ed immobile come una statua.

Ma che stava succedendo?

L’unica cosa che riuscì a pronunciare fu il nome del compagno con un fil di voce, ma non ricevette la benché minima risposta, solamente il brutale suono di uno sparo nel buio le diede la forza necessaria per riaprire gli occhi di colpo; era un’imboscata. 
Sebbene fosse quasi completamente buio, la luce della luna bugiarda fu in grado di illuminare il necessario la stazza mastodontica del figlio del fottuto pescatore alle prese con un enorme fucile da caccia ancora fumante, puntato proprio in direzione del giaciglio di Evgenij, ma con sorpresa di entrambe, non era nienta’altro che il semplice cappotto del cacciatore sistemato di proposito in quella maniera ingannevole. La ragazza tirò un sospiro di sollievo ma era troppo presto per cantare vittoria; se il figlio era lì, allora il padre era…oh, già, proprio dietro di lei!
Digrignò i bianchi denti perlati, alzando nuovamente le mani in alto, fingendosi così disarmata al sentire la canna di una pistola puntata proprio all’altezza della schiena.
«Pecoraio del cazzo…ci siete voi dietro tutto questo? Sono quasi sorpresa…a che scopo, mi chiedo ora.»
«Te l'avevo detto, inglesina, questo non è posto per turisti, specialmente per dei cacciatori che non sanno farsi i fatti propri! Siamo degli isolani che sanno cavarsela da soli, non avevamo bisogno proprio di due bambocci mandati dalla Hunter. Ah, dimenticavo, dov’è il tuo amico? Non ti avrà mica lasciata da sola, povera piccola…» 
Chiese con quel tono rivoltante il pescatore avvicinandosi pericolosamente all’orecchio della ragazza, la quale rimase del tutto impassibile, di piombo, facendo affidamento sul suo udito per capire meglio in che situazione si trovasse; Evgenij sembrava sparito, lasciando così che l’altro uomo si distrasse nel cercarlo, in buona difficoltà a causa del buio. 
Eris si lasciò sfuggire una risata divertita, spostando il viso di lato, osservando parzialmente alle sue spalle la figura ossuta e malandata del vecchio, sebbene il fetore fosse sufficiente ad annunciare la sua rivoltante presenza.
«Magari è così, diciamo che Evgenij non è mai stato uno particolarmente galante, non mi sorprenderei se fosse scappato…oppure, chi lo sa, mentre voi lo stato cercando qui, lui è al villaggio e sta tagliando la gola di tua moglie!
Oh, e non sto bluffando, sarebbe capacissimo di farlo…» 
La pistola tremò appena contro la schiena della ragazza a quelle parole, ma con una bruta spinta il vecchio marinaio la buttò con il viso rivolto contro il suolo ancora tiepido per via del fuoco da poco spento, non smettendo di puntare l’arma alle spalle di Eris, la quale notò che a poco da sé, sotto la cenere del focolare, c’era ancora della brace viva e rovente; ne sentì il calore a pochi centimetri da se. 
Il figlio, succube del tutto del volere del vecchio, si voltò verso lo stesso padre, confuso e stanco di quella caccia senza meta, abbassando il fucile verso il terreno, quasi spaesato.
Il vecchio lo guardò poco indulgente, quasi accusatorio.
«Non dirmi che il bamboccio te l’ha fatta sotto al naso, stupido bestione…» 
Il ragazzo quasi tremò, tanto grosso quanto impaurito, un gatto terrorizzato quasi. Gli tremarono perfino le labbra per la paura.
«L-lui non c’è, papà, d-dev’essersi accorto di noi...per questo è f-fuggito…» 
«Miserevole idiota, avevi un compito solo! Tenere i ficcanaso lontano e sbarazzarti di loro mentre cercavo quella malefica fata, non era abbastanza chiaro?! Invece mi ritrovo a doverti fare da balia, come se avessi ancora i denti da latte…quella cagna di tua madre farà bene a sparargli un colpo in fronte a quel fottuto ciclope dei sobborghi londinesi!
E tu…troietta, farai meglio a dirmi dov’è quella creatura…ho già perso troppo tempo a cercarla, e chi meglio di due cacciatori di mostri per trovarla!
Dico forse male?» chiese retorico Donald, abbassando la guardia in un momento quasi cruciale, dove la luce bianca della luna illuminò finalmente alle spalle di Eris, permettendole di determinare con precisione la posizione del bastardo.
La spatola di legno improvvisata era ancora rovente e calda, abbastanza da fare male e anche molto.
«Sei stato tu…tu hai ucciso quelle donne, eri convinto che fossero delle fate dei boschi? Per questo le hai catturate, povero…povero coglione! 
Ora capisco perché tua moglie aveva paura di parlare, perché sapeva che cazzo di pazzo aveva sposato e che fine le avresti fatto fare in caso contrario.» 
«Risparmia il fiato, prima che pure tu raggiunga quelle poverine in fondo al fiume!
Ora dimmi come catturare la Bean-nighe, stronza!» 
Quegli schiamazzi quasi fecero l’eco fra quelle buie querce, ma non erano sicuramente soli, quei 3, affatto. Fu una questione di rapidissimi secondi, dove i carboni ardenti della brace ancora accesa finirono dritti contro il viso di MacLaine insieme al pezzo di legno arroventato che la ragazza gli conficcò dritto nel costato, allontandolo il giusto da appropriarsi della sua pistola.

Non c’era da pensare: spara e basta.

Si voltò di colpo contro la figura sempre più vicina del mastodontico pescatore più giovane che non aveva fatto in tempo a ricaricare le cartucce del fucile, approfittando di quel situazione di vantaggio per scaricare l’intero caricatore contro quel gigante troppo ignavo per rendersi conto della situazione in cui era finito. Quei boati di proiettili, 8 per la precisione, resero la testa di quel povero ragazzone una groviera insanguinata, trapassandola perfino, andandosi a conficcare nella dura e resistente corteccia dell’albero dietro di sé, su cui il corpo ormai senza vita finì per scivolare fino ad accasciarsi per terra. 

Non era ancora finita.

Sebbene ferito e zoppicante, il vecchio non ci pensò nemmeno un momento ad afferrare i capelli di Eris con tutta la forza che gli era rimasta, trascinandola verso di sé in direzione di una sorta di dirupo, dove la caduta libera era quasi obbligatoria. Un taglio netto, all’altezza del collo della ragazza, la liberò da quella morsa furiosa, dove il pescatore ancora incredulo rimase con un pugno di lunghi fili ebano appena recisi fra le mani, non aspettandosi l’intervento del secondo cacciatore dato per disperso; stronzate, non si era mai allontanato da lì nemmeno per un momento, si stava solo godendo lo spettacolo da un’altra prospettiva.
Donald incontrò solamente quegli occhi senz’anima fissarlo dal buio, spaventosi, innaturali, non si accorse nemmeno della lama che gli tranciò di netto la gola con un taglio preciso, quasi chirurgico, lasciando che alcuni schizzi di sangue finissero non solo sul viso del suo carnefice ma anche sulle pallide guance della ragazza, quasi come i frutti dell’agrifoglio sulla neve fresca. Il vecchio avvolse le sue mani quasi come una sciarpa su quello squarcio che prese a sprizzare sangue da tutti i pori inesorabilmente, indietreggiando fino al bordo di quello strapiombo con gli occhi che puntavano quasi fuori dalle orbite.
Evgenij finse uno sbadiglio, arrivando ora sotto la luce bianca lunare, alzando poi la mano in alto, mimando un sarcastico ed educato saluto, prima di colpirlo con un calcio dritto all’altezza dello sterno. Il corpo dell’uomo  precipitò nel vuoto per qualche metro, finché un tonfo secco non determinò il grave atterraggio; il ragazzo arrivò a sporgersi appena il giusto per vedere ciò che era rimasto del cadavere del vecchio, notando come il cranio si fosse fracassato contro un masso appuntito nel fondo della scarpata: fece un’espressione effettivamente sorpresa, pulendosi dal viso quel sangue con le dita. Eris era rimasta senza fiato, toccandosi ancora con le dita tremanti il dietro della sua nuca, dove i suoi capelli erano stati tagliati di netto con il coltello del cacciatore al suo fianco, ora insanguinato fino al manico. 
Evgenij si voltò di lato, inarcando un sopracciglio sarcastico.
«Te lo dicevo io, quei capelli erano troppo lunghi per la missione! Il nemico ha un appiglio in più gentilmente offerto e non mi pare il caso di avvantaggiarlo così! » 
«Brutto…figlio…di puttana…mi hai lasciata da sola! DOVE CAZZO ERI?!» 
«Non essere così drammatica, Griffith, erano un vecchio moribondo con il figlio mongoloide, non c’era nemmeno bisogno che intervenissi a dirla tutta, alla fine mi pare che te la sei cavata! E se vuoi la mia opinione…stai molto meglio con i capelli corti! » fece quasi senza colpe l’altro, non trovandoci nulla di strano in ciò che era appena accaduto, anzi, guardò la ragazza dritta negli occhi come a darle quasi una lezione. Eris non ci vide più, lasciando un rovente schiaffo su quel viso arrogante e presuntuoso, senza vergogna e morale, scompigliandogli perfino i capelli per via del colpo inferto.
«Sei un bastardo, non mi sorprendo affatto che nessuno si fidi di te! Sei uno stronzo che si diverte a vedere gli altri fallire, sarei potuta crepare e tu cosa fai? Per mettermi alla prova ti sei messo da parte e hai aspettato il momento più opportuno per saltare fuori e farmi la tua lezioncina del cazzo? Ma che ti ho fatto, si può sapere? Hai un minimo di cuore dietro a quella faccia di bronzo o sei esattamente come ti dipingono tutti? 
Ti credevo diverso, onestamente, ma forse ho fatto male i miei conti! Questa è l’ultima missione che accetto insieme a te, la prima e l’ultima, non mi posso fidare di un partner che mi abbandona nel momento in cui ho più bisogno…» rispose con tutto il fiato che aveva Griffith, con gli occhi visibilmente lucidi e spaventati, ma non abbastanza da scappare via o evitare quel confronto, testa a testa con la sua nemesi, o quella che sarebbe diventata tale un giorno, chissà, tra 100 anni.
Il biondo applaudì, scenico, a quelle parole, lasciando trasparire quasi del sincero disprezzo da quegli occhi, un sentimento, finalmente, che provava molto bene, forse meglio di molti altri, gettando vicino ai piedi della ragazza la lama inzaccherata di sangue, fra le foglie, la cenere e la terra.
«Mi credevi diverso? Diverso da che cosa, Eris Griffith? Dalla tua famiglia? Si, si, sono diverso dalla tua morbosa e permettimi di dirtelo francamente, disturbata famiglia, che non fa altro che buttarselo nel culo da sola dalla mattina alla sera! Io non sono Trystan, io non sono tuo amico, io non sono tuo fratello e tanto meno la tua bambinaia, sono un cacciatore, un Hunter fino al midollo, io uccido, ed è quello che dovresti fare anche tu!
Non essere una copia sbiadita di chi cerca di plasmarti, di chi prova a controllarti, tu non sei una Griffith, tu sei Eris, e basta! 
Al diavolo tutti questi ideali retrogradi del cazzo sull’onore e il rispetto, pretendevi un combattimento leale? Che come Artù e Lancillotto ci saremmo battuti spada a spada contro il nemico? 
Svegliati, svegliati ragazzina altrimenti sarà qualcun altro a svegliarti con un proiettile in faccia!
Io non sono come la tua gente, io mi faccio strada da me e non guardo nessuno in faccia, e anche tu dovresti, perchè tu sei…meravigliosamente diversa da loro ma sei troppo…cieca per capirlo!»
Arrivarono ad essere così vicini, un passo o poco meno a dividerli, in quel teatro di morte ed oscurità, dove le nuvole in cielo avevano scelto di aprire il sipario a quello che era un cielo notturno ormai del tutto sereno, pieno di stelle luminose.
Lei lo stava guardando negli occhi, di nuovo, senza avere paura, lo sentiva, non aveva paura di lui, sebbene facesse così tanta fatica ad accettarlo; Evgenij si mise una mano nella tasca della camicia nera, tirando fuori da essa qualcosa di scintillante e tintinnante. Eris sgranò gli occhi, riconoscendo al volo la caterina che ormai aveva dato per dispersa, lasciando avvicinare il giovane con le mani al suo collo fino a riagganciarla al suo posto, sul suo petto, sfiorandola inconsapevolmente con le dita fino al medaglione rotondo. 
«Non riesco…a dormire, da quando nemmeno io ho memoria, ma non riposo sonni tranquilli da troppo tempo, ho sempre l’impressione che qualcuno cerchi di annegarmi nel sonno…poi mi risveglio e mi rendo conto che è solo un incubo. Lo faccio spesso, da quand’ero bambino!
Quasi ogni notte…così riemergo e mi rendo conto che odio la sensazione della paura, così elimino tutto quello che possa indebolirmi attorno a me…non avere paura è l’unica cosa che mi consente di andare avanti, di non cedere, e permettere al mio io interiore di emergere…il tuo invece, qual’è, Eris?» chiese il ragazzo dagli occhi verdastri, togliendo col pollice dal viso della giovane una timida gocciolina di sangue che quasi aveva osato avvicinarsi troppo vicino alle sue labbra.
La lasciò con quell’interrogativo a pendere sul suo animo già abbondantemente tormentato, incamminandosi così oltre quel cimitero boschivo che si era appena creato; non era saggio restare lì, per nessuno dei due, ma forse dopo tutto quello che era appena successo, il rischio nemmeno li sfiorò più di tanto.

Chi se ne fotte, alla fine.

Eris si mise le mani nelle tasche dei pantaloni, iniziando a sbottonarsi i primi due bottoni quasi soffocanti della camicia scura, non avendo affatto bisogno di riflettere: già aveva la risposta pronta da tanto, troppo tempo.
«Il giorno in cui ho cercato di uccidere la mia matrigna, più o meno un paio d’anni fa, mi sono fermata in tempo, e non perchè qualcuno me lo ha impedito, ma perchè non ho avuto il coraggio di farlo…c’era suo figlio con lei, era poco più che un bambino, non avrei avuto la forza di uccidergli la madre davanti agli occhi!
Sapevo quanto fosse doloroso, mi avevano portato via mia madre ancora prima che me ne fossi resa conto, tutto sotto i miei occhi…e la cosa buffa sai qual’è? Che non era nemmeno lei la colpevole…ma la sua follia stessa!
Follia a cui anch’io ogni tanto temo di soccombere senza neanche saperlo…ecco qual è il mio io, Evgenij…o dovrei forse dire, Kelly, giusto? 
Boris fa piuttosto schifo a mantenere i segreti, basta un goccetto di vodka per farlo cantare come un passerotto!»
Il giovane si fermò di colpo sul posto, rimanendo di spalle per diversi istanti, aspirando a pieni polmoni il profumo dell’aria gelida e il fruscio del vento tra le fronde degli alberi proprio sopra le loro teste, ora nuovamente vicine; Eris lo raggiunse, appoggiando la mano sulla sua spalla, che scivolò lentamente lungo la sua schiena, non facendo nemmeno caso al cadavere tumefatto del pescatore letteralmente ai loro piedi.
Il biondo si voltò col viso verso la ragazza, stranamente serio, come se la sua presunzione fosse svanita insieme al suo personaggio fittizio, accuratamente creato negli anni. 
«Ingoiati la lingua fuori da quest’isola, c’è gente che preferirebbe vedermi morto piuttosto che indossare la mia vera identità, ti è chiaro, uccellino? Altrimenti te la strappo…
Per quanto tu mi piaccia, Griffith!»
«Quindi, immagino che se dovrò igoiarmi la lingua, la nostra prematura storia dovrà limitarsi solamente a stanotte, Novacek…un peccato, perchè anche tu stavi cominciando a piacermi…peccato, sarà per un’altra volta!»
«Dove credi di…»
Se c’era qualcuno che ci era caduto quella volta, era proprio il ragazzo dall'identità ancora incerta, che si trovò preso in contropiede dalle labbra morbide e calde di quella spina nel fianco che era la sua compagna di caccia e non ci sarebbe mai stata al mondo definizione migliore per descriverla, mentre quelle bocche si lasciavano e riprendevano ad intervalli altalenanti con melodiosi schiocchi soffusi.
Infrangere il regolamento era un’altra cosa che avrebbero fatto quella notte, sotto più voci, ma erano troppo lontani affinchè qualcuno potesse anche solo accorgersene; le dita lunghe del giovane sfiorarono quei ciuffi corti e aspri per via di quel taglio così brutale, ma non c’era sensazione migliore della sua pelle sotto le mani. 
«Ah comunque, ero sincero quando dicevo che eri molto più bella con i capelli corti…»
«Oh, l’avevo capito, e il tuo nome è senz’altro meglio della tua copertura da spia menscevica, fidati!» boccheggiò di tutta risposta Griffith liberandosi non troppo più tardi di quelle soffocanti e lugubri vesti che erano le loro divise, già armeggiando con l’asfissiante cintura del ragazzo, anche lei prossima a venire meno.
8 anni. Sarebbero bastati a distruggere tutto quello che era cominciato su quell’isola, nel caso meno probabile del mondo, ma anche quello più spontaneo e incerto; se solo avessero potuto dare uno sguardo al futuro, non avrebbero mai proseguito oltre quel bacio.

Sarebbe stato meglio per tutti quanti, specialmente per chi si sarebbe ritrovato il cuore spezzato a metà dal tradimento.

Anche quella notte se ne andò, fino alle prime luci dell’alba che filtrarono delicate attraverso i rami degli alberi, fino a raggiungere il viso anche assonnato di Kelly, profondamente addormentato sotto il tepore del suo stesso cappotto. La ragazza era ancora al suo fianco, intenta a rivestirsi ad un passo da lui, mentre stringeva i lacci degli stivali in maniera pigra e ancora buffamente intontita; guardò più volte, senza potervi porre rimedio, il riccio biondo sulla fronte del cacciatore, spostandolo all'indietro, permettendosi pure di lasciar finire tutte le dita tra quei capelli tiepidi e morbidi. Lo lasciò dormire, almeno per quella volta in cui parve essere stranamente sereno, approfittando di quella quiete per potersi disfare di prove compromettenti e di tracce indesiderate. Padre e figlio, sepolti non molto lontano da quella radura, con le carcasse di pesce, le armi e i sogni di un'avventura impossibile ormai coperti da cumuli di terra. Non era la prima volta che degli esseri umani cercavano di catturare una fata, come la Bean-nighe, scambiandola per una donna mortale, con cui erano solite confondersi per ingannare l’uomo avido e crudele; quante povere anime erano morte per porre fine ad una simile sete di denaro?
La ragazza scacciò via quei pensieri dalla mente sciacquandosi le mani e il viso sporchi di terra e sangue nell'acqua limpida e freddissima di una fonte nascosta in quel fitto bosco, frequentata solo dagli animali del luogo e dai variopinti pennuti che svolazzavano da un albero ad un altro. Si fermò ad osservare, con occhi quasi sognanti, quell’ambiente così puro ed intatto, lontano dalla malvagità umana.

Bellissimo.

Eppure Eris Griffith non era affatto sola in quell’oasi naturale, scorgendo sulla riva opposta una figura sconosciuta, di donna, ripiegata su se stessa che lavava nell’acqua della sorgente un panno,uno straccio, o qualcosa di simile. La fanciulla si passò una mano sul viso per la stanchezza, incolpando quasi le allucinazioni, ma la presenza di quella signora era reale: era anziana, dal viso magrissimo, triste, sciupato, i capelli lunghi e spenti, brizzolati, le pendevano fino ai piedi nudi, lunghi, palmati e storti, come le mani rachitiche e curiosamente sfilate, coperta da una veste vecchia tanto quanto lei probabilmente. 
Chiunque sarebbe fuggito alla vista di una creatura simile, ma Eris provò solo un profondo senso di vuoto e di malinconia, quasi empatizzando quel profondo dolore scavato nel suo stesso viso pallido e deforme. Si chiuse per decoro la camicia, arrossendo appena per non essersene accorta prima, decidendo di lasciare in pace la vecchia solitaria, finché la sua stessa voce non la fermò.
«Lo ami? Ami il mortale con cui hai giaciuto? »
«Mi perdoni, come?»
Gli occhi della ragazza si sgranarono visibilmente, sentendo le guance andarle in fiamme, ritornando però composta appena si accorse dello sguardo della signora su di sé; sembrò quasi che il tempo e lo spazio fossero mutati, non più sulla terra, quasi in un altro mondo, dove la natura e l’uomo coesistevano fino a fondersi. 
La donna era quasi ripugnante, ma la ragazza non ne ebbe alcun timore, avvicinandosi d’istinto alcuni passi più avanti, notando come la domanda della vecchia fosse sincera, precisa, diretta. Non smise di lavare quel panno nero, strofinandolo sempre con la stessa stanca presa.
«Amarlo? Io…non lo so, è una domanda troppo difficile anche per me…ma non escludo nulla ormai. Il nostro è proprio un mondo strano…però forse, chi lo sa, magari un giorno, tra 100 anni!»
«E lo perdoneresti? »
«Perdonare Kelly? Per quale motivo? Non mi ha…oh mio Dio…» 
Le labbra di Eris si schiusero del tutto, restando quasi a bocca aperta; quella non era una donna, e nemmeno una vecchia di passaggio.

 

Se uno è abbastanza attento quando si avvicina, tre domande possono trovare risposta dalla Bean Nighe, ma solo dopo che tre domande hanno avuto risposta prima.

 

Era una fata, una fata dai tristi natali, ambasciatrice di fati incerti e morti imminenti.
La creatura non parve essere turbata affatto dalla scoperta della fanciulla, la invitò piuttosto ad avvicinarsi, non smettendo mai di lavare i panni. Ripropose con quel tono malinconico e mesto la sua domanda.
«Perdoneresti il mortale che ami se un giorno ti tradisse?» 
«Me lo stai chiedendo perchè sai che accadrà? Io non lo so…devo ancora perdonare il mio stesso padre, se mai lo perdonerò…ma una cosa è certa, non lo dimenticherò!» 
La fata strofinò la stoffa nera con forza, da cui stinserò le macchie di sangue, lordando quella meravigliose fonte di cristallo fino alle sue sponde.  La giovane si portò una mano sulla bocca, ora spaventata dalla successiva domanda, imminente; 3 domande la fata avrebbe fatto, e 3 domande lei avrebbe potuto chiedere.
«Ma tu…ti perdoneresti…se un giorno lo tradissi?» 
«Impossibile, io non lo tradirei mai. Non sono una persona da rimorsi, ma non potrei mai tradire chi mi ha salvato la vita, ancora prima di provare qualcosa per lui.» 
La creatura ascoltò risposta dopo risposta, annuendo ad ognuna di esse, allungando poi la scheletrica mano verso la ragazza, invitandola implicitamente a chiedere ciò che le spettava; c’erano così tante domande, tanti perchè da chiedere, un profeta dell’aldilà quasi impossibile da incontrare, se non per pochi, pochissimi eletti.
Strinse i pugni screpolati, avanzando verso di lei ancora di un passo.
«Dimmi che ne è stato di mia madre, di Merrion, chi l’ha uccisa, chi? Chi mi ha portato via la mia mamma?
Ti prego, non mi importa di altro…» 
«Non è vero che non ti importa di altro, bambina…solo non sai dove trovare te stessa! Nemmeno tua madre avrebbe potuto aiutarti, lei non era in grado di reggere il peso del potere che avrebbe dovuto trasmetterti!
Tua madre non è stata uccisa da un uomo, ma da se stessa, non ha accettato il suo dono, lo ha rinnegato come tutte le donne prima di lei, troppo spaventate per capire il loro ruolo di tramiti…e si è uccisa da sola, ammalandosi e abbandonandoti…» 
«Cosa…? Ma quale potere? Mia madre era una ragazzina come me quando se n’è andata, cosa avrebbe potuto darmi? Quale ruolo? Ma di che stai parlando vecchia strega?!» 
La Bean Nighe sollevò dall’acqua lo straccio nero, facendogli quasi prendere aria, per poi immergerlo nuovamente a fondo e riprendere il suo lavoro di lavandaia, non alzando mai il capo dal basso. 
Eris aveva i brividi a fior di pelle, trovando qualcosa di molto strano in quel panno, maledettamente familiare, ma le lacrime erano troppo salate e fastidiose per mettere a fuoco l’immagine.
«Dalle donne nasce il mondo, la terra, la vita, Dio creò una donna ma poi si pentì d’averlo fatto, poiché era perfida, ribelle e avida, così ne creò una seconda, amorevole, saggia e generosa, ma anch’ella tradì, per amore della conoscenza e del libero arbitrio...questo è il potere di una donna! Il potere che tua madre non ha accettato, come non lo accettarono molte donne prima di lei…Eris di casa Griffith e di casa Darcy.» 
Quelle parole suonarono in Eris come vaneggi, strane favole e significati incerti, tutte cose senza senso e spiegazione; guardò nuovamente quella stoffa nell’acqua, riuscendo ora a distinguerla finalmente: era una camicia, una camicia nera del corpo Hunter.
Il fiato le si bloccò in gola.
Kelly?
«La leggenda dice che tu…lavi i panni senza sosta, fino alla fine dei tuoi giorni, le vesti di chi avrà un futuro tragico, che morirà in una maniera orribile…è…» 
«Qual è la tua terza domanda, bambina?» 
Stavolta la cacciatrice non esitò, sebbene ci fosse qualcosa di insolito nella stessa stoffa di quella divisa tenuta fra quelle mani abominevoli. 
Fissò i suoi occhi verdi sulla fata e parlò.
«Che ne sarà di Kelly? Perché lavi la sua camicia con tanta insistenza? Che significa?» 
Ci fu un breve silenzio dove la fata smise improvvisamente di lavare la camicia, sollevando per la prima volta il suo grottesco viso verso quello di Eris, mostrandosi in tutto il suo orrore vacuo e sconsolato; mise la testa di lato, trovando quasi strana quella domanda, osservando poi nuovamente l'indumento fra le sue mani, sollevandolo dall'acqua tutto fradicio e gocciolante.
«Ma bambina, non lo vedi? Questa non è la camicia del tuo compagno, questa è la tua… » 
La pupilla di Eris divenne un minuscolo puntino nel vasto verde dei suoi occhi, toccandosi immediatamente quella che aveva in dosso: non era possibile, non poteva essere la sua.
Si controllò improvvisamente la divisa, ma non appena lo fece si accorse della differenza di misura di quella che aveva addosso, trovandola più larga e rovinata, sporca di terra e piena di cuciture.
Era la camicia di Kelly quella, non la sua.
Indietreggiò, sempre più velocemente verso il sentiero da cui era venuta, con le lacrime che scendevano veloci lungo le guance, precipitando chissà dove nel vuoto. La fata se la mise sulle ginocchia, strizzando l’acqua in eccesso per renderla più leggera, ma quel messaggio era pesante come un macigno e non c’era modo di alleviarlo.
«Mi chiedi perché la strofino tanto forte? Perchè la tua camicia è piena di macchie, alcune sono più lievi, altre ostinate, altre semplicemente indelebili, Eris…ne ho lavate molte nella mia lunga esistenza, ma per questa provo molta, molta pena…non c’è modo di pulirla! 
Non si può indossare un simile peso, si può gettare via, liberarsene…ammesso che non si sia abbastanza forti da portarne le conseguenze.
Tu…tu ne sei in grado?» 
«Hey, ladra di camicie, hai intenzione di lasciarmi crepare di freddo? Hai forse perso la tua? Ma sei impazzita? Perché hai buttato la tua in acqua? Ti pare ora il momento di fare la bella lavanderina?»
La Bean Nighe scomparve esattamente com’era arrivata, lasciando Eris nella confusione e nello sconforto più totale, mentre la sua camicia, incredibilmente, sprofondò al centro della sorgente, quasi inabissandosi nel suo stesso fondale. Kelly osservò quella scena con uno sguardo incredulo, ma non appena vide le lacrime sul viso della ragazza gliele asciugò col pollice.
Quella le cacciò via con le maniche, volendo dimenticare tutto ciò che era appena accaduto.
«Si, scusami…non me ne sono accorta, sono solo stanca…torniamo a casa!»
«Ah! Su questo ci puoi cazzo contare, non rimetterò più piede su questa isola di merda…però, cos’è successo? Non ricordavo di averti lasciata in lacrime stanotte…anzi tutt’altro…»
«Kelly...»
A quel nome, il ragazzo divenne quasi serio, sollevandole il viso con le dita sotto al mento, alzandoglielo il giusto da guardarsi negli occhi, uno dentro l’altra, fissi, tersi, senza più altro da chiarire.
Eris gli accarezzò lo zigomo, fino a sfiorargli i capelli dorati, annuendo più a se stessa che al giovane, con un triste,amaro ma consapevole sorriso.
«Se mai mi tradirai, un giorno, non so quando, forse tra 100 anni o almeno è quello che spero, io ti perdonerò, ma lo farò soltanto dopo averti ucciso…ti va bene?»
Con un’espressione quasi compiaciuta, sorpresa e si, meravigliata, Kelly sorrise, annuendo di rimando a quella promessa, sigillandola personalmente con uno schiocco sulle labbra della ragazza, prendendosi tutto il tempo del mondo, senza lasciare nulla al caso.
«Va benissimo, e se un giorno ti dovessi tradire, non so quando, forse tra 100 anni, uccidimi, ammesso che tu ci riesca, guardandomi negli occhi, fino alla fine…non sarebbe male se fossi tu…l’ultima persona che vedrò mai in questa vita, ti pare?»



 

La Bean Nighe scozzese è una Banshee che viene solitamente avvistata dai viaggiatori nei pressi di laghetti o fiordi, mentre lava il sudario di una persona che sta per morire, cantando una nenia o piangendo. Lo spirito fatato confiderà il nome dello sfortunato che sta andando incontro alla morte e, se il viaggiatore avrà il coraggio di chiederlo, rivelerà anche il suo destino.

 

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Capitolo 13
*** Below the Surface. ***


 

Chapter 13: Below The Surface.

 

Current Day

 

Bergen,Norway. 

 

Aveva appena smesso di nevicare.

Aprile era un mese molto particolare, specialmente in Norvegia, dove le giornate di sole erano quasi un vago ricordo dopo le abbondanti nevicate che finivano per innevare tutto il paesaggio costiero; cielo e mare erano quasi in simbiosi, un bianco candido quasi accecante.
La città si teneva alla larga da quegli sfondi nevosi, spazzando via i cumuli di ghiaccio che ostruivano le strade e le vie, ma non le campagne e le zone boschive, immerse nella loro quiete, ben lontane da quello stile mondano e caotico che Ostergaard aveva sempre odiato fin da quando era un bambino.
La famiglia Volden, capitanata da suo padre Magnus, non era mai stata incline alla convivenza con tutte le follie moderne della metropoli, preferendo di gran lunga vivere ai margini di quella società corrotta ed infame, nei boschi, dove le uniche creature civili e si, accoglienti, erano gli animali delle foreste. Una volpe dal pelo rossiccio sbucò dalla sua tana ben nascosta sotto il manto soffice di neve, arrivando a farsi strada per quei sentieri di montagna con grande agilità, tra massi scivolosi e buchi nel terreno, nascosti dal ghiaccio e dall’erba, fino a giungere nel bel mezzo del bosco una modesta baita, nascosta, gelosa della sua intimità, fra grossi pini e abeti carichi di pesante neve. Non era sicuramente la dimora più accogliente del mondo, anzi, dava quasi i brividi così sperduta e malandata, ma il padrone di casa era in grado di far cambiare idea in meno di mezzo secondo, sebbene d’esse anch’egli l’impressione di un qualcosa di decaduto, sebbene un tempo fosse d’uno splendore raro ed unico.
La volpe conosceva la strada, era di casa ormai; salì sul porticciolo scricchiolante senza paura, pronta a salutare con un affettuoso versetto l’uomo seduto sulla veranda, quasi come se fosse un giorno di piena estate, avvolto appena in un vecchio ma simbolico scialle scuro, rattoppato chissà quante volte. Ostergaard posò i suoi sfuggenti occhi color ghiaccio sulla bestiolina che si era aggrappata sui suoi pantaloni, sorridendole istintivamente. Le diede un buffetto sul capo, accarezzando il morbido e umido pelo della creatura.
Quella rispose strusciando dolcemente il suo musetto contro il palmo screpolato e segnato dell’uomo, finendo poi per sedersi proprio al suo fianco, ora finalmente nel suo luogo sicuro. 
Il manto rame della volpe era identico al colore dei capelli dell’uomo, anzi, forse appena più scuri, profondamente trascurati in lunghezza, ormai arrivati a sfiorargli le scapole, ma per lui quel genere di cose non avevano mai contato troppo. Prese fra mani una tazza di bollente caffè, amaro e scuro come la pece, sorseggiandolo cautamente; chiuse le palpebre, ascoltando con quella sua innata capacità il suono del vento fra gli alberi, oltre le fronde cariche di neve dei pini e degli abeti, finché non udì anche il tintinnio del suo acchiappasogni appeso proprio davanti alla porta dingresso, fatto di piccoli legni e piume ormai cadute di volatili, sempre lì di passaggio.

Non c’erano buone notizie all’orizzonte.

Un lamento, anzi, quasi più una richiesta d’aiuto, un gemito angosciato, di dolore; persino la creaturina conosceva la strada, sgattaiolando all'interno della baita del tutto indisturbata attraverso la porta semi aperta. L’uomo non tardo di certo nel seguirla nella sua stessa baracca; dall’esterno quel posto sembrava fatiscente e prossimo al crollo a seguito di un’abbondante nevicata, ma nulla era ciò che appariva. Era incredibile come, in un posto simile, si nascondessero simili tesori, libri di ogni genere, rarità, cimeli, profumi d’ogni sorta, provenienti da chissà quali paesi: a primo impatto sarebbe quasi sembrato un bazar arabo, con quei colori carichi, terra bruciata e ottone, ma allo stesso tempo così accoglienti e rassicuranti. Ma alla fine chiunque entrasse in contatto con quell’uomo veniva assorto in una strana pace interiore, inspiegabile per davvero, sebbene calunnie e maldicenze lo avessero canzonato con nomi orribili e dicerie infangati, ma ad Ostergaard i pettegolezzi non avevano mai fatto ne caldo ne freddo.

E poi, mica viveva lontano dalla società per caso.

I lamenti aumentarono man mano che l’uomo si addentrava nella stanza, arrivando in quella che avrebbe dovuto essere la sua camera da letto, ma ormai non lo era più da tempo; o almeno, non più sua. Si appoggiò al vecchissimo baldacchino, osservando non troppo serenamente, con un pesante sospiro, il volto di un giovanissimo uomo madido di sudore fino all'osso, agitato,febbricitante. Delirava senza sosta, continuamente e non sembrava essere intenzionato a smettere.
Quel giovane era nient'altro che Balthasar Drake, i cui marcati tratti orientali non vennero sicuramente nascosti nemmeno dall’aggressiva febbre e dagli incubi; era a letto ormai da settimane, dietro le cure costanti e attente di Volden, il quale prese posto accanto a lui sul materasso. Non lo svegliò; mai interrompere un incubo per quanto orribile potesse essere,  limitandosi solo a tamponare con un freddo panno la fronte del ragazzo dal colorito bronzeo, i capelli neri, umidi, mossi e folti sparsi su tutto il cuscino, umido a suo volta. 

Doveva essere tornato lì, di nuovo, ancora, dopo tutti quegli anni.

Le labbra carnose dell’uomo più giovane erano livide, secche come il deserto, ma riuscirono ugualmente a pronunciare delle parole a molti incomprensibili, ma non ad Ostergaard, che aveva imparato quella lingua, e non senza difficoltà, più di 20 anni prima; gli mise la mano sulla fronte, trovandola rovente.
«Certo che tu, diavolo, sei proprio bravo a cacciarti nei guai, Balthasar….che devo fare con te? Se solo tuo padre fosse qui, glielo chiederei…»
«B-bâbâ? Mâmân? »
«Oh, adesso capisco…»
Il sonno del povero giovane divenne impetuoso, irregolare, più del mare in tempesta, agitando compulsivamente le forti braccia al vento, rischiando persino di colpire in pieno viso l’uomo; non ci riuscì poichè lo fermò prima, bloccando a mezz'aria il suo avambraccio già pronto a prenderlo in faccia. Ostergaard corrucciò lo sguardo, sentendo sotto i suoi polpastrelli i muscoli terribilmente tesi di quell’arto, come se fosse pronto a difendersi, a lottare, da un nemico che purtroppo conosceva molto bene anche lui.
«Nadya? D…dove sei? AIUTAMI!»
«Balthasar…ora basta, ti devi calmare!»
«NADYA!»
Con un urlo disperato e quasi folle, con il cuore prossima ad uscirgli dal petto, il giovane stregone si svegliò di soprassalto dal suo ricorrente incubo, spaventando perfino la povera bestiola che si era accucciata fedelmente ai piedi del letto; grondava sudore da ogni parte, con i grandi occhi turchesi spalancati verso il vuoto, ma sarebbe stato colmato velocemente, visto che il suo viso gelato venne afferrato paternamente dall’uomo dai capelli rame. 
Quest’ultimo roteò gli occhi ghiaccio, allungandogli il panno umido per rinfrescarsi; il giovane lo prese, ma non così in fretta, come se avesse avuto bisogno di un momento di calma per realizzare, ancora una volta, che quella era solo un’ombra, una del suo passato.
«Non…dirmi che è successo di nuovo, non dirmelo!»
«Posso anche non dirtelo, ma sappiamo benissimo che non è così, ragazzo…stavi di nuovo sognando quella notte, vero?»
Il ragazzo non rispose alla domanda, limitandosi a guardare con il suo schivo sguardo verso il viso dell’uomo, facendo spallucce, come se di fatto non ci fosse nulla da dire di concreto; si grattò distrattamente il collo, sgranchendosi avanti e indietro le larghe spalle, con uno sbuffo.
«Ha importanza? Direi di no…solita, vecchia, ridondante, inopportuna storia, niente che un po 'di lavoro non possa cancellare…che ore sono?»
«L’ora che la finisci di raccontare palle...se pensi di incantarmi, Shahrazād, ti sbagli di grosso! Non penserai che questa volta ti lascerò correre via di nuovo in bocca alla morte, per poi rivederti tornare praticamente distrutto, vero? Balthasar? Perché non hai più 15 anni, e permettimi di dire che non hai più l’età per le cazzate avventate!» chiarì senza tentennamenti l’uomo dai tratti nordici, cambiando tono in uno molto più serio e rigoroso, uno che il giovane conosceva bene, a cui rispose con un sospiro pesante. Mise le mani in alto, portando all’indietro quella chioma riccia e scura, lontano dal suo viso, mentre la piccola creaturina dal pelo carota si accucciava teneramente sul suo grembo; il ragazzo abbozzò, sebbene con qualche difficoltà, una sorta di sorriso, grattando il capo della bestiola.
«Mi stavate facendo una veglia? Carino, davvero, ma sto bene, sono solo molto stanco a dire il vero, tutto qui. La febbre si sta abbassando, non è niente di grave Os, quindi risparmiami la predica!
Vero, non ho più 15 anni, e appunto perchè non sono più un moccioso dovresti smetterla di preoccuparti per me, ti verrà un infarto, vecchio mio…»
Balthasar fece per alzarsi dal letto, ma la mano di Ostergaard sulla sua spalla lo rimise esattamente seduto dov’era, senza la benché minima espressione di stupore in viso; lo stregone inarcò un sopracciglio basito, mentre l’altro invece gli mostrò il suo totale disappunto.
«Che c’è adesso?»
«Partiamo dal presupposto, dolcezza, che “vecchio” lo dici a qualcun altro, e poi questo posto non è un ostello, dove torni quando ti fa comodo, quindi portami un minimo di rispetto, e poi sono passati 6 mesi, dove cazzo sei stato in sei mesi?
A raccogliere i datteri per il Ramadan? Oppure a cercare il verbo di Dio? Oh, no, ho un’alternativa migliore!
Che mi dici della visita nelle segrete della Hunter?»
«Come lo hai saputo…guarda, non importa! Non mi interessa nemmeno saperlo, ma non credo di doverti delle spiegazioni, non più, Ostergaard, e scusa se te lo faccio notare, ma sto seguendo le orme di mio padre, alla fine!
E ora scusatemi, voglio farmi un bagno.» concluse il giovane fuggitivo, già fuori dal letto in meno di mezzo secondo, sebbene i muscoli delle sue gambe non rispondessero poi così fedelmente ai suoi comandi, arrivando a sostenersi perfino ad una delle cortine del letto fino a strapparla.
L’altro incrociò le braccia al petto, guardando proprio dritto in viso il ragazzo, con un sopracciglio sarcasticamente alzato.
«Hai finito di dire cagate o…perchè se vuoi ci metto 5 secondi a rimetterti in pista, con un calcio dritto in culo, e se vuoi mi premuro anche ad accompagnarti a scegliere il vestito giusto per quanto riposerai coi piedi in avanti! Sai, io vorrei farmi cremare, o almeno, se proprio devo essere utile fino alla fine, divorato dai lupi; che senso ha conservare i cadaveri in sontuose bare nella speranza di arrestare il processo di decomposizione?
La gente non la voglio vedere nemmeno da viva, figurati che interesse ha mantenerla da morta!
A chi interessa preservare un qualcosa dopo che non è più di alcuna utilità? E soprattutto, che senso ha elevare la morte ad un qualcosa di adulatorio, quando in vita non si è fatto nulla per meritarlo?»
«Ho capito, hai intenzione di farmi impazzire, è questa la tua tattica di merda…»
«Però in 25 anni ha funzionato molto bene, non è così, ragazzo? E onestamente, mi dispiacerebbe buttare via ¼ di secolo perché sei troppo orgoglioso o semplicemente una iconica testa di cazzo, tu che dici?
Balthasar…»
Ostergaard si alzò dal letto fino a raggiungerlo dall’altra parte; non era poi così alto quel ombroso e solitario uomo delle nevi, come Balthasar amava paragonarlo dacché era un bambino, una sorta di eremita saggio, si, ma cocciuto, sarcastico senza dubbio, ma anche buono e generoso. Un misantropo delle nevi, ecco come si poteva descrivere quell’uomo, un tempo, uno lontano, parte di un qualcosa di molto più grande a cui aveva voltato le spalle per un motivo e uno soltanto: lui.
Di nuovo faccia a faccia.
«So cosa ti passa per la testa, davvero, so cosa vuol dire perdere la propria famiglia, ma se continui in questo modo…otterrai solo una cosa!
Raggiungerli…in direttissima. »
Balthasar assottigliò lo sguardo, restando senza parole per quel cinismo tanto diretto. Quello fece spallucce, con le mani rivolte verso l’alto.
«Be cosa ti stavi aspettando? Che ti dicessi il contrario? La Hunter è senza scrupoli, pensi veramente che gli importi della tua vendetta? Ti prego, sono un gruppo di zotici e fanatici che non fa altro che accusare tutto ciò che non sia ordinario di tutta la merda che c’è  nel mondo che, per inciso, loro hanno causato…»
«Ti ricordo che un tempo ci eri dentro con tutte le scarpe! Non ti sembra un tantino ipocrita questo discorso? E non ti sto giudicando, ma non credo che dimenticherei così facilmente una parte simile della mia vita…»
«Non fare lo psicologo con me, ne usciresti devastato, mocciosetto! 
Pensi davvero che potrei mai dimenticare quella fetta della mia esistenza? No, non posso e nemmeno vorrei farlo, non sono il tipo di persona che rinnega se stessa. Solo gli stupidi cancellano il proprio passato, Balthasar, te l’ho insegnato io stesso a mantenere viva la fiamma delle tue origini, ma non ti ho mai detto di alimentarla fino a bruciarti!
Bisogna avere sempre un obiettivo davanti, ma non può essere quello di farsi giustizia da solo, contro un’orda di cacciatori armati…
E, tra parentesi, anche se non sanno nemmeno leggere un libro, sono dannatamente bravi a tagliare teste, quindi ti decapiteranno ancora prima che tu possa pronunciare anche un solo incantesimo!»
«Eppure sono stato loro ospite per un tempo discreto e tu guarda, sono illeso, senza un graffio, evidentemente non sono poi così imbattibili come credi tu…vecchio mio…»
«Ah, davvero? E allora, visto che sei così splendido, come sei scappato? Drake? Eh? Perchè da quando sei tornato non hai fatto parola nemmeno della metà delle cose che ti sono capitate, quindi presumo che o tu l’abbia fatta grossa o ci siano dei complici di cui non so…»
Balthasar lo squadrò malamente, quasi offeso nel privato da una simile insinuazione, scostandosi malamente dalla presa sul suo braccio.
«Non oserai credere che io abbia collaborato con uno di quei killer senza Dio…vero?»
«Io credo che tu sia un brillante stregone ma un pessimo dialogatore a livello umano, perciò non fatico a credere che per una volta tu abbia ceduto, sopraffatto da…non so cosa, e c’è un altro dettaglio: nessuno esce dalle celle di quelle segrete…da solo…quindi o sei stato illuminato dal divino oppure qualcuno ti ha aiutato, ragazzo…quindi inizia a vuotare il sacco prima che ci ritroviamo invasi dalla Hunter fino al collo!»
Lo stregone persiano non era cresciuto sicuramente nella miglior prospettiva di fiducia e di amore verso il prossimo, faticava a fidarsi persino di se stesso; non sarebbe stato affatto da lui fidarsi di uno sconosciuto, un cacciatore per giunta, ma agli occhi dell’eremita niente era impossibile. Anche gli uomini più duri e freddi avevano dei punti deboli e sapevano mostrarsi anche nei momenti meno opportuni.
L’uomo non disse nulla in sua difesa, come se avesse cercato di rimuovere a mani nude quella parte ancora inspiegabile di verità sepolta dentro di sé, che da mesi lo tormentava e teneva inquieto, insieme ai suoi spiriti e demoni, quello di suo padre, sua madre e sua sorella.
Il nome di quel ragazzo gli venne alla mente come un respiro tiepido, tenue, un solletico quasi brioso, una gentile pelle d’oca che non avrebbe dovuto nemmeno manifestarsi, tanto era sbagliato ciò che era accaduto.
Drake si mise una mano sul suo stesso avambraccio, mettendo quasi istintivamente a tacere le sue voci interiori in maniera brusca e perentoria; se quel…quel tipo bizzarro lo aveva lasciato andare, forse, c’era un trucco sotto, un tranello, ma certo!

Doveva…doveva essere così…che altra spiegazione logica poteva esserci altrimenti?

Sentì lontano un delicato “clic” della serratura di quelle gelide e strette manette che si aprivano, come il tatto di quelle mani che gli liberavano i polsi da esse; no, non se l’era sognato!
Quel maledetto idiota lo aveva liberato di sua spontanea volontà e non aveva voluto assolutamente nulla in cambio!

Ma perchè quel dettaglio lo mandava in paranoia da settimane, mesi? Perchè? C’era una falla in quel sistema tanto meccanico e senz'anima.
Una falla con un nome e un cognome che non avrebbe ricordato nemmeno sotto tortura; accettarlo era già abbastanza duro, figurarsi ammetterlo.

Nessuna risposta fu trovata.

Balthasar sfuggì a quel confronto come tante altre volte prima, non meravigliando minimamente Ostergaard; non erano certo risposte quelle che l’ex cacciatore cercava, quanto più certezze e si, magari speranze: sperare era l’unica cosa che gli era consentita nella sua scomoda e nascosta posizione.
Si era tagliato fuori da quel mondo sinistro molti anni prima, troppi anni prima, ma non abbastanza da allontanarsi del tutto da esso poiché ancora una volta era venuto a bussare alla sua porta; una visita sgradita, amara, dal sapore di rancore e rimpianto. Lui però era già morto agli occhi della sua antica famiglia, Balthasar invece era un capitolo nuovo e vegeto che non avrebbe potuto nascondere nemmeno volendo, e forse nemmeno avrebbe dovuto: dopotutto, lui aveva fatto qualunque cosa affinché fosse pronto abbastanza da affrontare qualunque pericolo, ma aveva fatto il possibile anche per schiudere il suo animo chiuso e ferito?
La porta del piccolo bagno si chiuse, i vestiti fradici finirono per terra insieme a tutto il resto, mentre il corpo del ragazzo finiva lentamente sotto la superficie di quella patina d’acqua fredda, quasi un toccasana per distendere i nervi prossimi al collasso definitivo; si portò all’indietro ,quasi a solleticargli le spalle, la criniera scura bagnata, fissando il soffitto di legno: diverso, completamente opposto a quello melmoso e scrostato della sua cella.
Ricordava bene quell’odore sgradevole, un puzzo quasi insopportabile di marciume, muffa, Dio solo sapeva che altro, quasi si era dimenticato di avere dalla sua l’olfatto, se non fosse stato per l’arrivo di quel bizzarro e assurdo ragazzo; aveva un profumo dolce, come l’odore caratteristico dello zucchero filato alle bancarelle del circo, invitante, quasi in simbiosi con il colore dei suoi capelli. Sembrava non essere reale, estraneo a quel mondo grigio, buio, senza luce, era talmente luminoso e stravagante che ancora non riusciva a capire cosa ci facesse lì un simile colibrì.
Fra quei ciuffi argento stavano incastrati i tondi occhiali da vista viola, abbinati a quella camicia semi aperta color mosto, tirata su fino ai gomiti mentre gli avambracci stavano a penzoloni appoggiati alle sbarre di quella gabbia; erano rimasti insieme, li, nel vuoto e nel silenzio, più di una volta, silenzi interrotti dalla diarrea verbale del cacciatore dall’animo troppo curioso per essere un hunter qualunque. Le prime volte lo stregone si era chiesto se fosse semplicemente stupido o annoiato, ma dopo l’ennesima visita ebbe iniziato a ricredersi, e non perchè le speranze di uscire vivo di li stessero drasticamente calando, ma perchè c’era qualcosa di diverso dietro quelle lenti malva.

Balthasar non parlava molto con quasi nessuno, eppure le conversazioni più lunghe della sua vita erano state proprio schiena contro schiena con il suo nemico naturale, divisi solo dai freddi tubi di metallo delle grate. 

Ricordava bene quella conversazione; era stata la loro ultima, dopotutto, prima di quella notte.

«Mi stai forse dicendo che voi streghe non amate i gatti neri? Davvero? Ma allora da dove viene la diceria della sfiga legata al loro passaggio?
E degli specchi allora? E che mi dici della storia della scala?»

«Possibile che voi occidentali vi siate seriamente focalizzati su simili fesserie? Ma chi vi forma a voi? Nostradamus?
Sono solo stupide credenze medievali…credevo foste un tantino più all’avanguardia, specialmente tu che sei tanto sveglio,apparentemente, si intende…» precisò con sarcasmo il persiano, appoggiando la nuca contro la fredda sbarra di metallo alle sue spalle. Il cacciatore, dal canto suo, rispose con una smorfia, ricambiando però un sarcastico riso, accendendosi fra le labbra una sigaretta, sbuffando via una corposa nuvola di fumo.
Balthasar scacciò quella nube con la mano, tossendo appena.
«E fumi pure in servizio? Parli con il prigioniero? Mi spieghi che razza di cacciatore sei tu, Nardi?»
Ivo sollevò lo sguardo verso l’interno della cella, con la coda dell’occhio, rispondendo dopo alcuni secondi, il tempo necessario per poter aspirare nei suoi polmoni quel fumo tossico e pesante. Perfino per lo stregone quei momenti di silenzio parvero innaturali, ormai abituato alla costante e sì, perfino piacevole, parlantina dell’altro. 
«Uno che non voleva esserlo…tanto per cominciare…e poi sei l'unico prigioniero in circolazione, il massimo che può succedere è che l'allarme antincendio ci faccia una bella doccia…e fidati, ne avresti bisogno, puzzi più di una capra…»
«Scusa, cosa? Che hai detto?»
«Che puzzi? Non volevo offenderti, è che la differenza tra te e la capra è…»
«Non parlavo della tua simpatica battuta, saltimbanco da due soldi, che dicevi di non voler essere un cacciatore? »
«Storia vecchia, niente di entusiasmante, begli occhioni!»
«Si da il caso che non credo di uscire di qui a breve, anzi, per come la vedo io è la cosa più bizzarra che quelli come voi abbiano fatto fin’ora!
Voi…non fate prigionieri, lo so benissimo…
Perchè mi state tenendo qui, allora? »
Nardi si grattò una tempia a tutte quelle supposizioni, rispondendo soltanto con un sentito sospiro pensieroso; si mise le mani dietro la testa, allungando le snelle gambe sul pavimento come se fosse stato disteso su una spiaggia. Fece spallucce, dando un delicato colpetto sulla coda della sigaretta.
«Dolcezza mia, stai chiedendo informazioni all’uomo sbagliato, io sono tipo l’ultimo a cui vengono dette le cose, è mio fratello il primo della classe, io sono il somaro a cui si attacca la coda nel didietro. Non fraintendermi, non mi interessa molto cosa la gente pensi di me o del mio ruolo in questa storia di folli, però l’essere sottovalutato,beh, ha i suoi vantaggi e svantaggi, ecco tutto…
Be? Ti sei mangiato la lingua? Me lo avevi detto tu di…»
«Chi hai paura di deludere, Nardi? »
Il cacciatore spalancò gli occhi, voltandosi finalmente, faccia a faccia con lo stregone, appoggiato con i palmi sul suolo polveroso; qualsiasi hunter al posto di Ivo lo avrebbe rimesso in riga con frustata, ma lui?

Nah.

Inarcò un sopracciglio chiaro a quella curiosa insinuazione, assottigliando poi gli occhi verso quelli acqua del ragazzo di pochi anni più grande, spegnendo contro il pavimento la sigaretta ormai divenuta un rovente mozzicone.
«Credo di aver deluso la vita in partenza, andiamo, sono tutto quello che di sbagliato potesse capitare ad un genitore…ad un fratello, ad una squadra.
Insomma, secondo te perché sono qui a farti da balia? Perché sono uno affidabile? Coraggio, Balthasar…non sei sicuramente il primo stronzo e questo non è il tuo primo rodeo…sono uno fuori posto, fine del racconto, che si è ritrovato con un fucile in mano prima di rendersi conto di che cosa avrebbe dovuto farci.»
Drake ascoltò attentamente quelle parole, trovando un’immagine pure troppo ben costruita dietro a quelle lenti colorate, quei modi, quei tatuaggi, quelle vesti sgargianti; si guardò intorno, tornando indietro con la mente fino alla sua infanzia, di cui purtroppo aveva pochissimi ricordi, ma quei pochi rimasti intatti erano ben nitidi nella sua mente.
«Nemmeno io volevo essere dove sono ora…ad essere sincero…
Eh no, prima di una delle tue battute idiote, non solo qui in una cella, incastrato con te a farmi da cane da guardia, ma in queste condizioni. Sai, è vero, non sempre i nostri natali sono di buon auspicio, sembra che sia già tutto deciso ancora prima che tu possa iniziare a camminare…io volevo essere tante cose, finchè non mi hanno portato via la mia famiglia, ma non voglio annoiarti con le mie storie…»
«Si da il caso che nemmeno io abbia piani entusiasmanti per la serata, potrei andare a farmi gli inservienti delle docce in realtà,  ma niente che non abbia già visto, perciò, questa è la tua serata,ragazzone…» sghignazzò con sincerità il minore dei gemelli Nardi, lasciando scendere la montatura d’argento quasi sulla punta del suo naso, con un sorriso bianco, perlato.
Si guardarono entrambe negli occhi per diversi secondi, come se stessero cercando di prevedere o anche solo di capire cosa stesse passando l’uno nella mente dell’altro; lo stregone distolse successivamente lo sguardo, interrompendo la sua riflessione.
«Fratelli maggiori, dico bene? I prescelti…»
Il cacciatore distese le spalle, facendo cadere drammaticamente all’indietro il suo capo,a penzoloni.
«Tsk, sai che importanza può avere? Per cortesia, e chi le vuole tutte quelle responsabilità? Solo per avere cosa in cambio? Una misera pacca sulla spalla e un elogio da questo gruppo di puttanelle leccapiedi? Sono in questa merda da tutta la vita, maghetto, e sinceramente non me n’è mai importato nulla della gloria, della fama dell’eroe o del mito del bravo soldato…
Se mio fratello crede invece che sia la sua strada, beh, tanti auguri per lui, ma non è la mia, col cazzo proprio!»
«Ne sei sicuro, hunter? E allora perché sei ancora qui? Nonostante le proteste, il rancore, l’odio per il sistema, perché non hai ascoltato questo tuo grido e non sei fuggito?
Credimi, io so che cosa vuol dire, nonostante non sia ciò che vuoi, ciò che davvero credi di meritare, avere un legame che nemmeno la cosa più spaventosa del mondo potrà alterare…
Ed è proprio tuo fratello! 
Anzi, ad essere sincero, credo che non sia solo lui il motivo per cui tu sei rimasto…o sbaglio?»
Il persiano sembrò dimostrare una strana, innata, e forse malinconica empatia, una che Ivo non aveva mai ricevuto prima d’ora, una che quasi lo lasciò sconvolto al punto di distogliere lo sguardo, come a fingere di non considerare nemmeno quell’assurda probabilità.
Al collo dello stregone era appesa una piccolissima ma luccicante pietra, un’ametista grezza, molto segnata dal tempo, legata accuratamente da un cordone vecchio di tessuto nero; la sfiorò con le dita lunghe, attorcigliandola fra di esse. Quel gesto non passò inosservato agli occhi di Ivo, togliendosi per la prima volta dal viso i suoi iconici occhiali, appendendoli alla tasca della stessa camicia.
Lo stregone mise sul palmo della mano la vecchia pietra.
«Non è bellissima? »
«Si, si direi di si, anche se non è nelle migliori delle condizioni…»
«Vero, un po 'come noi due,non trovi?» affermò senza esitazione quello, guardandola con un particolare riguardo.
Ivo inarcò un sopracciglio, mordendosi il labbro con il suo solito lato malizioso.
«Ci stai provando, persiano? Perché sto ricevendo segnali contrastanti qui…»
«Se per un istante dimenticassi il tuo ego e il tuo essere superficiale, capiresti di ciò che sto parlando, cacciatore; è vero, questa pietra non è stata conservata nel migliore dei modi, anzi, ha visto giorni terribili, quelli di ogni primogenito della famiglia Drake da generazioni…
Mio padre voleva che restasse fra i tesori della nostra casata, ma mia sorella maggiore, Nadya, credeva che non avesse senso tenere al sicuro il simbolo della nostra stirpe e andare a combattere senza di esso, anche a costo di distruggerlo!
Faceva parte di noi, l’ametista senza stregone non ha alcun valore, come la famiglia senza i suoi membri, un fratello senza l’altro…
Un uomo senza il suo branco, un lupo se preferisci, la cosa non cambia, hunter!
Sarà anche rovinata, datata, prossima al frantumarsi al suono delle spade che stridono tra di loro, ma morirà con me, o con chi verrà dopo di me…ciò che conta è restare assieme ad essa, tutto il resto non ha importanza!
E non è un semplice rendere orgogliosi i propri avi, padre, madre, fratello…ma è l’essersi riscattati personalmente, senza dover più dover nascondere il viso sotto la sabbia…»
«Hai…hai rubato per questo il libro? Per riscattarti? Perchè? Sapevi che l’Hunter ti sarebbe piovuta addosso come un temporale, perché Balthasar? Che scopo hai?»
Il cacciatore si avvicinò istintivamente alle sbarre, sfiorandole quasi per errore, ora fermamente coinvolto da quelle parole, vere e forse corrisposte; lo stregone si morse la guancia, negando seccamente con il capo.
«Se credi che volessi il libro per farvi il culo, sei fuori strada…volevo quel maledetto libro perchè è pericoloso, Nardi, perchè non sono il nemico numero uno della Hunter, credimi!
Io sono solamente un frammento dell’apocalisse che vi piomberà addosso, perchè con tutta la merda che può essere evocata con quel codice…verrete poi a pregarmi in ginocchio affinché ve lo recuperi!
Se solo finisse nelle mani di…»
«Nelle mani di chi, Balthasar?»
Un suono sinistro alla fine del lungo corridoio fece scattare in piedi lo stesso cacciatore, che sentì i passi di alcune delle guardie di vedetta avvicinarsi sempre più velocemente alla cella del suo prigioniero. Ancora prima che potessero essere scoperti, Balthasar afferrò Ivo per il lembo della sua camicia, avvicinandolo bruscamente alle sbarre, vicini il necessario per non essere uditi da orecchie indiscrete e prossime.
Gli occhi turchesi del giovane Drake assunsero una bizzarra e intrigante luce violacea.
«Guardati…dal serpente…lui non deve arrivare a quel libro, a quei segreti, promettilo Ivo!»
«Io…io lo prometto, Balthasar….Balthasar? BALTHASAR?!»

Ma lui…non era più lì dentro, grazie a lui.

La superficie dell'acqua cristallina venne brutalmente infranta dal corpo finito ormai in apnea dello stesso stregone, che si aggrappò quasi terrorizzato ai bordi della bianca vasca di ceramica. Era stato solo un sogno, anzi, un ricordo, uno che non rimembrava da diverso tempo. La piccola ametista luccicò di luce propria sotto le gocce fredde d’acqua sul petto ansimante del giovane Drake, afferrata dalla sua stessa mano con la stessa intensità con cui un cristiano prenderebbe fra le mani giunte un crocifisso. Sospirò, sciacquando il viso con una certa lena, quasi a svegliarsi da quella serie ininterrotta di sogni indesiderati, ma fu più calzante la mira di Ostergaard sulla sua testa, sbattendogli in pieno viso un caldo asciugamano bianco.

«Hey! Ma la privacy?! »
«Scusami, ho dovuto prendere diverse precauzioni da quando hai già cercato di annegarti da solo nella vasca…e poi, non sei il mio tipo, quindi c’è ben poco da vedere…»
Commentò con il suo innato sarcasmo lo stesso eremita, appoggiato di spalle sullo stipite della porta, guardando il ragazzo asciugarsi pigramente la nuca bagnata con morbida tovaglia, per poi bofonchiare un qualche ringraziamento, rigorosamente borbottato a bassa voce.
Os rise a quel comportamento infantile, già prossimo ad uscire dal bagno a gamba tesa, ma prima che potesse farlo un simpatico tarlo aveva già iniziato a tessere una tela assai intrigante nella sua mente, ritornando subito a braccia conserte.

«Allora….»

«Si…?»

«Chi è questo Ivo di cui tanto parli nella vasca? Ah, non ti giudico per questo!»

«Che cos….FUORI DAL MIO BAGNO, SUBITO!»
«Il TUO bagno? Sicuro che sia tuo? Coraggio, inizia a raccontare, abbiamo tutto il giorno davanti a noi! Lo sai…a me piacciono le storie!»

E quando uno come Ostergaard si metteva in testa una cosa, era impossibile fargli cambiare idea; Balthasar sprofondò nuovamente sotto la superficie d’argento.

Sarebbe stata una lunga, lunga giornata.




 

L'ametista è una pietra profondamente legata all'equilibrio. È un simbolo delle scelte ponderate, che richiedono tempo e cura e che, per questo, richiedono equilibrio. Averla sempre vicino significa ricordare a se stessi l'importanza di questa componente necessaria a una vita proficua.

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Capitolo 14
*** There's no place like home. ***


Chapter 14: There's No Place Like Home.

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«Sopravviverà?» 
«Mmm? Oh, capitano Griffith, non vi avevo sentita arrivare! Purtroppo è ancora presto per parlare, ma il nostro Novacek è bello tosto…
Le ferite sono molto profonde, ma avete fatto giusto in tempo per salvarlo, quindi si, il nostro uomo ce la farà!
Capitano, state bene? Siete così pallida…il vostro…dov’è il vostro distintivo?»
«Credo che sia l’ultimo dei nostri problemi, Caroline, ma ti ringrazio per il tuo lavoro, ora…puoi andare.»
Ormai era quasi l’alba, e quella folle notte era giunta al termine. Dopo essersi occupata del capitano ferito, l’infermiera di turno lasciò la tenda dell’ufficiale senza chiedere altro, specialmente dopo aver visto il volto della Griffith, livido e privo di alcuna emozione, come se gliele avessero assorbite tutte nel giro d'un momento.
Era quasi strano vederla vestita in borghese, insolito, ma questo non lasciava far intendere che una cosa soltanto: aveva accettato le conseguenze, e forse senza nemmeno troppi rimorsi. 
Evgenij era profondamente incosciente, supino nel freddo letto d’infermeria dove ogni ora uno dei medici veniva costantemente a controllarlo, ma ora era rimasto solo un flebile silenzio, ovvero quello dell’ex cacciatrice che, con chissà quale forza, arrivò a sedersi accanto al suo capezzale. Non parlò, non fiatò nemmeno, il suo sguardo spento aveva già detto tutto il possibile, si limitò solamente a guardare il profilo del giovane sedato; la sua mano arrivò a metà strada verso il suo viso, ma non ci arrivò a toccarlo, lasciandola cadere sulle sue ginocchia, con un mesto sospiro.
Stavolta erano pari, si erano già salvati la vita a vicenda più di una volta, nonostante le gelide circostanze.
«Sai, ragazza mia, non capirò mai il vostro rapporto! Dico sul serio, vi siete fatti la guerra fin da subito quando in realtà a me i fatti sembrano molto diversi…
Con voi Griffith credo di aver usato tutte le cartucce possibili, mi sa proprio che cederò le armi!
Ma non prima di essermi assicurato che le vostre assurde teste di cazzo non vi portino direttamente alla rovina…
Eris, ti sto parlando, si può sapere che cosa diamine ti è venuto in mente?
Perchè hai mandato tutto al diavolo?»
La voce di Boris bussò quasi in maniera opaca alle orecchie della ragazza, che non si voltò nemmeno indietro, preferendo restare con i grandi occhi verdi fissa sul volto inanimato del compagno d’armi; il superiore si passò una mano fra i folti capelli scuri, prendendo quasi un respiro di pausa, forse anche lui ormai stanco di tutte quelle bravate, mirate a portare avanti una crociata inutile e priva di senso.
«Se pensi che con il tuo silenzio proteggerai te, lui o chissà chi, ti stai sbagliando, credimi!
Anzi, dovresti approfittare dell’amicizia che ho per voi, perchè ci sono superiori non troppo disposti ad accogliervi a braccia aperte come faccio io, e lo sai benissimo perchè sei uno degli ufficiali più in gamba di cui dispongo…»
«Disponevi…semmai…»
«Quindi hai intenzione di mollare tutto? Di fotterti la carriera per cosa? Per un’imboscata alle spalle di Kelly? Ti credevo un minimo più ambiziosa di così…e più matura di tuo zio!
Non pensavo saresti stata tu a deludermi, sai?»
Eris rispose a quella sorta di domanda retorica con un sogghigno del tutto indifferente, con le spalle appoggiate allo schienale della sedia; si grattò stancamente la tempia, abbandonandosi col peso all’indietro mentre si accese fra le labbra una sigaretta.
«E io non credevo che la Hunter si servisse di mezzucci tanto insulsi per raggiungere i suoi scopi…ma ormai credo di aver visto un po tutto in questo sistema del cazzo, quindi risparmiami le tue paternali, Boris, ho già un padre e non me ne serve un’altro, soprattutto se questo simpatizza così tanto con il primo…
Sai, forse Tea ha ragione, questo non è il mio posto…me lo diceva anche Kelly, all’epoca, la domanda è, allora quale sarebbe?
Trystan non vuole che torni a casa, Tea non vuole che resti, temo di aver lasciato per troppo tempo le mie scelte in mano di terzi e francamente sono stanca di sentirmi dire cosa sia meglio per me…non credi?
Siamo in un nuovo secolo, nuove abitudini, nuovi pensieri…credo sia tempo di cambiamenti anche per me, e scusami se per una volta non me ne importa assolutamente più di questa associazione del cazzo…»
«Hai…bevuto?» chiese quasi con un sopracciglio inarcato il russo, avvicinandosi il giusto da scrutare meglio il volto dell’altra, ma quella gli rispose facendo spallucce, come se nemmeno avesse importanza.
Tirò un'altra boccata, espirando dalle narici quel fumo caldo.
«Non fingere tutto questo stupore, dopotutto l’alcolismo è alla base dell’addestramento in questo campo di merda, me lo avete insegnato tu e il tuo fidato allievo…che spero vivamente stia annegando in un bicchiere di rum scadente esattamente come le sue parole nel cercare di spiegarsi…sono stufa, di tutto, di tutti…»
«Eris…sei ubriaca…»
«E levami questa cazzo di mano di dosso, me la cavo benissimo da sola! Non ho bisogno dell’ennesimo richiamo, non da te…» rispose in maniera rabbiosa l'ex capitana con uno strattone alla presa sulla sua spalla, scacciando Boris quasi dall’altra parte, lontano da sé. I suoi occhi luccicavano, arrossati quasi,  chissà se per la sbornia o per qualcos'altro ben celato dall’alcol e dal carattere apparentemente strafottente.
L’uomo mantenne le distanze con un sospiro amareggiato, annuendo quasi più a se stesso che alle parole di Eris, guardando poi con un occhio di riguardo l’altro soldato convalescente, portandosi le mani incrociate dietro la schiena.
Forse, e diceva forse, era arrivato il momento di aprire quella gabbia.
«Hai ragione, fino ad oggi non hai mai potuto scegliere di testa tua…non hai scelto tu l’Hunter, non hai scelto tu di venire qui, come non hai scelto tu di andartene di casa, sebbene i validi pretesti. Tutto troppo in fretta e troppo presto, l’ho sempre detto a tuo padre…»
Quella rispose con una risata quasi di scherno, mandandolo al diavolo.
«Smettila, per favore, smettila di tirarlo in mezzo, è già abbastanza patetica la sua lettera di suppliche, non cercare di addolcire la pillola, perchè sei più vile di lui in questo caso…crede che tornerò a casa a braccia aperte? No, no, si sbaglia…»
«Allora perché stai scalpitando dalla voglia di tornare? Dopo 10 anni non hai mai immaginato il motivo del tuo rientro?
Al di fuori delle condizioni di tuo padre..? 
Non mentirmi, è dal giorno in cui sei arrivata in questo campo che hai sempre avuto un piano B, vorrei solo sapere di cosa si tratta, prima di lasciarti fuggire in bocca a scelte di cui potresti pentirti, perchè credimi, sarà così!»
«Spero sia una promessa allora…»
Le parole di Eris non erano sicuramente volte a trovare un compromesso o qualcosa di pacifico, limitandosi piuttosto a chiarire quel concetto: nessuno, al di fuori di se stessa, avrebbe mai più osato mettere bocca sulle sue decisioni, era già stata strappata alla sua volontà a sufficienza.
Si alzò dalla vecchia sedia di legno facendola stridere contro il pavimento, non lucida come credeva di essere ma il necessario per essere cosciente delle sua azioni, sotto gli occhi incuriositi di Boris, che la vide avvicinarsi di un paio di passi verso Evgenij; non si aspettò sicuramente gesti romantici o cavallereschi, perchè non ne sarebbero arrivati, tuttavia si sorprese profondamente quando vide la fanciulla strapparsi dal collo un qualcosa di argentato e luccicante. 
Quella catenina era rimasta con lei, fino a quel maledetto giorno.
Prima di separarsene la guardò un’ultima volta, sfiorando col pollice il ciondolino ovale ormai graffiato dal tempo e dalle avventure trascorse insieme durate tutta una vita; il riflesso dei suoi occhi era distorto e poco chiaro, ma era meglio così, sarebbe stato più semplice lasciarlo se non avesse potuto vederlo faccia a faccia, esattamente come il destinatario di quella singolare donazione.
La collanina fu lasciata nel palmo semichiuso del capitano della squadra Beta, nella speranza che lo avrebbe trovato, forse, quando si sarebbe svegliato, ma una cosa era certa: lei non ci sarebbe stata.
Eris non si voltò indietro nemmeno una volta, lasciandosi alle spalle l’intero campo Hunter, ma per Boris quel capitolo non si era affatto concluso, non ancora, anche perchè un certo qualcuno aveva ascoltato tutta la conversazione, ma non aveva avuto il coraggio di uscire allo scoperto, sentendosi quasi responsabile dell’accaduto.
Dopo aver tracannato il contenuto della sua fiaschetta, Belinsky guardo oltre la tenda dell’infermeria, roteando gli occhi scuri verso l’alto, effettivamente seccato.
«Sei la spia peggiore del campo, Brando...esci fuori di lì, per stasera credo che tu e quell’altro idiota francese ne abbiate già combinate di tutti i colori…»
«IO NON….c-cioè, stavo solo…»
«Risparmiami questa scena pietosa, ho già perso uno dei miei migliori soldati, non ci tengo a perderne un altro per mano mia adesso, chiaro?»
«S-si, signore. »
Il viso paonazzo di Brando sbucò oltre il tessuto corda della tenda improvvisata, entrandovi quasi imbarazzato e mortificato, ma era niente a confronto del peso che aveva dentro per l’ingiustizia subita dal suo capitano, e Boris non era di certo cieco, facendo cenno al giovane pisano di avvicinarsi. Quello si avvicinò. restando in religioso silenzio, avendo già il terrore di potersi tradire da solo anche solamente respirando, ma la sua unica fortuna era che Boris stava dalla sua parte ancora prima della sua improvvisata.
«Inutile che ti dica quanto il tuo comportamento sia stato sciocco e si, stupidamente devoto, ma è proprio per questo che ti darò la possibilità di non essere preso a calci da Tea o da chi di dovere…»
«Non credo di aver capito, signore…di che cosa sta…»
«Pensi davvero che uno solo di noi superiori abbia creduto alla stronzata che avete raccontato voi 3, davvero?
Direi che è quasi offensivo, ma per il bene del tuo stesso capitano cercherò di sorvolare…credimi, ti sto facendo un enorme favore,Guidi, perciò adesso apri bene le orecchie perchè non mi ripeterò una seconda volta…»
Boris fissò dritto nelle pupille il giovane cacciatore, il quale deglutì con un certo assenso, a pugni stretti e chiusi lungo ai fianchi, pronto ad ascoltare attentamente gli ordini del suo ufficiale.
Il vento fuori aveva smesso di soffiare, era tutto calmo, taceva perfino il cinguettio degli uccellini.
«Ormai quello che è successo resta tale, inutile piangere sul latte versato, però possiamo ancora evitare che le cose vadano del tutto in malora…conosci Eris, e non si farà più mettere il guinzaglio al collo, e credimi io non vorrei farlo!
Lei è una giovane davvero forte, ma anche le creature più tenaci rischiano di rompersi, e noi non vogliamo che succeda…e non posso contare su Trystan, purtroppo…è coinvolto tanto quanto lei, non ragionerebbe in maniera lucida, tu invece sì!»
«Cosa..? Io? Ma signore…come potrei aiutare? Non conosco il capitano Griffith così bene da poterla…si, insomma…»
«Non ti sto chiedendo ti psicanalizzarla, non ne usciresti sano di mente; i Griffith sono dei maledetti problemi mentali ambulanti, figurarsi se una povera anima come te può metterci mano!
Ti sto solo chiedendo di seguirla, tenerla d’occhio, darle supporto…ha passato più tempo nella Hunter che nel mondo comune, a volte…il passaggio tra queste due realtà può essere devastante…lo so, ci sono passato anch’io, e non è facile tornare in una realtà in cui si finge che non esista il mostro sotto al letto…» affermò il baffuto ometto grattandosi uno zigomo, guardando un punto indefinito della stanza, come a collezionare i suoi pensieri in uno unico. Brando rifletté su quelle parole, ricordando lui stesso quanto fosse stato difficile entrare nel mondo Hunter, figurarsi uscirne ed entrare in uno completamente diverso; com’era il termine? Ah, sì,civilizzato.
Il suo tono di voce divenne fermo, serio, calmo e accorto.
«Capisco la sua preoccupazione, e ne comprendo anche il motivo, ma posso chiederle una cosa?
Se crede che questo cambiamento possa turbare Eris fino a questo punto, allora perché la lascia andare?»
«Hai mai visto un grifone senza ali, Guidi? Credo sia come si sente Eris in questo momento…e tenerla qui non farà altro che peggiorare le cose…ma questo non significa certamente abbassare la guardia; Cardiff è nulla confronto a Londra, un covo di male e nausea…ma agli occhi di una ragazza di 23 anni?
Sarà il miglior incubo travestito da sogno che avrà mai visto…per questo voglio che tu vada con lei…dovrai farti dare un passaggio dai ragazzi dei rifornimenti, poi prendi il treno da Glasgow, arriverai a Cardiff entro un giorno se tutto va bene, giusto in tempo per riacciuffarla…»
«Ma, Eris è andata via poco fa, come…»
«Pronto? Sono le sue terre, dannato toscano, ci metterà meno di 24 ore ad arrivare dove vuole…saranno anche passati 10 anni, ma Cardiff non è cambiata poi così tanto, e se andrà come prevedo…non sarai l’unico a rincorrerla!
Vedila così, Rhys ti farà dormire sotto un tetto decente, per una volta…ah, già, mi sono premurato di mandare un telegramma al nostro comandante, poco dopo mezzanotte, volevo evitare che si ritrovasse in casa un campagnolo senza saperne il motivo; sarai accolto bene, non temere…anche se non posso garantire per tutto…il resto…
Vedi di non deludermi, Brando, io conto su di te, il tuo capitano…conta su di te!»
Brando si ritrovò fra le mani un biglietto di sola andata e una lettera per il comandante di casa Griffith ancora di prima di poter solamente accettare un simile incarico; inutile dire che il suo consenso fosse del tutto secondario, visto che una risposta negativa non era nemmeno contemplata da uno come Boris.
Un altro viaggio stava per cominciare quel giorno, le cui prime luci dell’alba iniziarono a farsi vedere all’orizzonte, soprattutto in quel luogo meraviglioso, molto lontano dal campo Hunter a nord, bensì a sud, sulla baia di Cardiff, dove i raggi rossastri del sole mattutino ebbero preso a luccicare contro le tenui onde del mare, che andavano ad infrangersi con quel suono caratteristico dello scontro sulla sabbia e gli scogli.
L’odore della salsedine fece starnutire Diego una quantità notevole di volte, seduto sulla tiepida battigia di quella spiaggia meravigliosamente deserta da forse un’ora, nessuno dei 4 ragazzi aveva più idea del come o del quando, o perfino del perchè fossero arrivati lì; erano talmente ubriachi che smaltire la sbornia sarebbe stato impossibile, quindi presentarsi in quelle condizioni a casa Griffith era poco consigliato, specialmente per Duncan, accasciato sui gomiti traballanti accanto ad Ivo, o quello che almeno credeva fosse Ivo.
Si massaggiò la faccia con il palmo insabbiato, sentendo solo una sensazione di nausea mista a mal di testa, quasi destabilizzante; Diego lo guardò accanto a lui, appena più lucido, con le braccia appoggiate sulle ginocchia, soffiandosi il naso per via degli starnuti insopportabili.
«Ti senti bene, grifone? Hai un aspetto magnifico, per un alcolista…»
Duncan mosse la sua testa a rallentatore verso la voce del gemello maggiore, mettendo a fuoco il suo viso dopo una manciata di secondi, continuando lentamente a scrollarsi il capo pieno di granelli dorati.
«Quanto cazzo…abbiamo bevuto? Dove…dove sono Saul e Ivo…e chi cazzo è questo qua?» disse il rosso indicando la figura di un vecchio addormentato a pochi metri da lui, con un fiasco di vino vuoto fra le mani.
Diego dovette sforzare anche la sua di vista per poi realizzare e ridere di gusto, passandosi una mano sugli occhi.
«Credo che fosse anche lui al pub…non ne ho idea, però se vuoi abbracciarlo…»
«Abbracciatelo tu, Cristo!
Mi viene…da vomitare…»
«Prego ragazzone, hai tutta la costa, serviti pure…e per quanto riguarda gli altri due fenomeni, guarda pure da solo!»
«Eh? Ma…che cazzo…»
Alle spalle dei due ragazzi seduti sulla riva, un quadretto piuttosto divertente e pittoresco si presentava proprio sotto i loro occhi non propriamente lucidi; Ivo schiacciava un profondo sonnellino appoggiato di schiena ad un masso, russando sonoramente sotto il suo stesso cappello, dopo che la stessa Burke glielo ebbe sbattuto in faccia nel tentativo di chetare quella sorta di trattore a scoppio insopportabile. Il biondo rimase beato nel suo sonno, non sentendo nemmeno i borbottii della ragazza, la quale scelse direttamente di dargli il benservito allontanandosi verso i due stessi giovani, con una camminata non troppo sobria, con le mani appoggiate sulle orecchie e il viso profondamente scocciato ed assonnato.
«Qualcuno dovrebbe mettere un tappo in bocca a tuo fratello, russa da far schifo!»
«Come si sveglia glielo faremo sapere, ma fino ad allora goditi questa sinfonia di Vivaldi, dal vivo!
Coraggio, siediti, prima che cadi e ti spezzi una gamba…» fece il moro indicandole con la mano di sedersi accanto a loro, dove le onde del mare nemmeno arrivavano, forse ancora troppo timide per via del vento calmo. La giovane non se lo fece ripetere due volte, tenendosi la faccia quasi paralizzata dal sonno, realizzando dopo diversi minuti di essere su una spiaggia, a sud del Galles, in chissà quale squarcio di Cardiff che non aveva mai visto prima. 
Aprì bene gli occhi chiari sulla vasta distesa d’acqua, facendo ridere pure il Griffith, che tornò sdraiato sulla sabbia.
«Come ci siamo arrivati? Ottima domanda, miss Burke…»
«Miss Burke? Da come avete bevuto voi due ieri notte credo che non ci sia più posto per tutti questi formalismi…anzi, da come abbiamo bevuto…»
«Dimmi, Diego, era questo il tuo piano? Anzi, quello dell’ornitologo la dietro? Sbronzarci e finire in riva al mare come 4 disperati?
Direi che ha funzionato alla grande, brutto coglio…»
Ancora prima che la ragazza potesse finire la frase, il cacciatore alzo la mano davanti al suo viso, non riuscendo a trattenere una risata quasi biascicata, tenendosi sempre la testa con la mano.
«Piano o non piano, è troppo presto per discutere di cose serie, e sono troppo brillo per rispondere con frasi di senso compiuto, perciò…Saul, goditi questa pace, perché non durerà a lungo!»
«Concordo…non appena Barnabas ci troverà si romperà l’incantesimo, perciò godetevi questi momenti di tregua, miss, anche perchè se andrà come temo, avremo brutte sorprese a casa…» concluse senza mezzi termini il mezzano dei fratelli Griffith, incrociando sotto la sua riccia e rossa nuca le braccia, trovandosi così a guardare il cielo sopra di sé, avvolto da splendide sfumature violacee e rossastre.
Diego annuì con un sospiro consapevole, mentre Saul rivolse lo sguardo su quello perso di Duncan, cercando poi nelle tasche della sua giacca il nastro con cui si teneva solitamente legata i capelli argento.
«Parli di tuo padre?»
«Parlo della mia vita, miss Burke…e si, se ci vuole proprio mettere mio padre in cima alla lista mi va pure bene, ma sarei un idiota se accusassi solo lui…alla fine siamo un po tutti schiavi del sistema, no?»
«Tu sei l’ubriaco filosofico, vero, Griffith?»
«Ah non lo so davvero, in genere non parlo molto, sarà stata la folle compagnia, non so dirti proprio, Nardi…e che mi dici invece di Luther Richter, è così terribile come si dice in giro?» chiese il ragazzo quasi ad entrambi i giovani alla sua destra, voltando lo sguardo verso di loro, profondamente incuriosito e si, internamente spaventato da quella figura mistica di cui tutti avevano tanto timore.
Saul inizialmente non parlò, lasciando la parola ad un Diego meno sbronzo di prima, il quale si portò all’indietro la frangia corvina, chiudendo gli occhi come a far mente locale su cosa dire, quasi a cercare le parole adatte; si rese conto, con una risata quasi imbarazzata, che fosse meno facile del previsto.
«Beh, posso dirti che non è un uomo facile da capire, io stesso a volte fatico a comprendere cosa gli passi per la mente, non è uno di quei padri…volevo dire, uomini, che si siedono davanti al fuoco e si mettono a raccontare storie, o aneddoti…però sa fare il suo lavoro, non è uno che resta ai piani alti come tanti altri superiori della Hunter, se c’è da sporcarsi le mani è proprio il tuo uomo…checchè ne dicano gli altri cacciatori…»
«Anche se i suoi metodi non sono proprio ortodossi, Diego?»
«Credo che voi dei Servizi Speciali della Corona ne sappiate meglio di noi hunter di metodi poco ortodossi, Saul…non venirci a fare la predica!»
«E chi vi dice cosa, alla fine fate ugualmente di testa vostra, voi scimmioni illetterati…non appena quel cazzo di spaventapasseri vi da un comando lo eseguite tutti così ciecamente?»
«Ragazzi, per favore…»
«Raccontala a qualcun altro, biondina, parlate voi che non appena quella salma di Giorgio vi da un ordine scattate sull’attenti come dei cazzo di corgi ammaestrati!»
«Almeno Giorgio non è losco come il tuo patrigno che, tra parentesi, sembra il diavolo incarnato!»
«RAGAZZI BASTA!
Ma che cazzo…vi prende? E menomale che era Ivo quello piantagrane, pure voi due ne avete di fiato da sprecare!»
Duncan si rimise seduto, mettendosi in mezzo tra i due litiganti che finirono per zittirsi sul momento dopo quella ripresa; Diego mise le mani in alto, quasi a chiedere un momento di tregua, mentre la ragazza sbuffò forse più verso se stessa che al ragazzo al suo fianco, facendogli cenno di lasciar perdere con la mano.
«Scusa…ho dato fiato alla bocca come farebbe tuo fratello…»
«Modo simpatico di chiedere scusa, e anche originale, ma è tutto apposto, scusami tu…è solo che nessuno prende mai bene mio padre, e non li biasimo, però c’è più di quanto non si creda, dico sul serio!»
«Volete che vi lasci soli voi 2 o…»
«Vedi di fissare il culo sulla sabbia, mio caro Griffith, siamo venuti per te noi 3, e non ce ne andremo sicuramente senza il tuo culo! Anzi…tra le diverse, numerose birre di stanotte…non ti ho ancora chiesto una cosa…»
Nardi ricordò in un momento di lucidità gli avvenimenti del pomeriggio precedente al campo addestramento, non riuscendo a togliersi dalla testa la ripresa inaspettata del ragazzo ormai prossimo ad essere battuto; Duncan capì subito dove volesse andare a parare, facendo spallucce quasi a giustificarsi.
«Guarda che non è stato niente di esaltante, Diego, si chiama puro spirito di sopravvivenza, perchè onestamente morire per mano di Cedric sarebbe un colpo basso pure per uno come me…»
«Perché quel cazzone ce l’ha con te? Il modo in cui ti ha aggredito è stato assurdo e ingiustificato!»
Saul prese quasi sul personale quel comportamento spaccone e aggressivo nei confronti del Griffith, ma quello non sembrò essere turbato poi così tanto, sgranchendosi le gambe fortemente indolenzite.
«Se trovi qualcuno che conosce il senso del comportamento da duro di quello lì, fammi un fischio!
Lo conosco da quando siamo bambini, stessi insegnanti privati, stessi ricevimenti, stesse feste, stesse famiglie montate…stesso destino, insomma…è il fratello che non volevo…»
«Questo sicuramente non lo giustifica nell’usarti come antistress, come puoi sopportarlo? Non capisco…almeno alla fine gliele hai date…credevo che non reagissi più!»
«Sei forse in pena per me, miss Burke? Non esserlo…e salvati da sola la pellaccia…mia sorella me lo diceva sempre!
Anche se era la prima a non ascoltare mai i suoi consigli…»
Sia Saul che Diego, dopo aver udito precedentemente la storia della famiglia Griffith raccontata da Luther, aguzzarono quasi istintivamente le orecchie alle parole del ragazzo, che si trovò i loro due visi incuriositi praticamente addosso. Inarcò verso l’alto entrambe le sopracciglia per poi roteare gli occhi, con le mani in alto.
«Eh no,non ho voglia di parlare di lei…non c’è molto da dire,è già abbastanza fastidioso dover discutere costantemente del prestigioso titolo che detiene mio padre, figuratevi la sorella leggendaria di cui nessuno ricorda il viso perchè spedita via di casa 10 anni fa…a volte fatico io stesso a ricordarmi il suo volto, è come se una maledizione avesse portato via qualunque cosa mi ricordasse lei in casa nostra...poi amplio semplicemente gli orizzonti, e mi ricordo che il segno di sciagura è semplicemente mia madre.»
«Ne so qualcosa anch’io…non dev’essere facile, e mi dispiace…tanto! Però non puoi saperlo, magari un giorno vi rivedrete, basterà aspettare…non credi?
Abbi fiducia…»
Il rosso si lasciò sfuggire uno sbuffo di sdegno, scuotendo il capo negativamente, ascoltando in sottofondo lo stridere dei gabbiani, che volavano leggeri e sereni lungo la riva del mare.
Guardò Saul con la coda dell’occhio, incrociando involontariamente il suo sguardo per qualche secondo, prima di ritornare ad osservare la distesa salata davanti a se.
«Oh, credimi, ne ho sempre avuta…dal primo momento in cui è andata via tutto ha cambiato forma, colore, mi sono ritrovato solo con Sheelah in una casa che faceva paura, troppo grande per due bambini, un padre preso dal lavoro costante e una madre interessata solamente alle apparenze che non faceva altro che riempirci la testa di stronzate…
Per non parlare dei nostri coetanei, dei cazzo di invasati, convinti di dominare il mondo solo perché il loro status glielo consentiva, ed era sempre la stessa storia, ogni giorno, per anni, non è una canzone che avete già sentito anche voi?
Forse è cambiato qualcosa?
Io non credo, come non credo che lei tornerà a casa e forse è meglio così…
Non serve a niente mettere in gabbia un altro grifone, ne abbiamo già abbattuti 3, uccidere anche il 4 sarebbe una sorta di estinzione di massa di tutta la famiglia!
Anche se non mi dispiacerebbe rivederla prendere a calci nel culo Cedric…» 
«Dici…sul serio? Ma quando…»
«Be, è successo 11 o 12 anni fa, onestamente non lo ricordo nemmeno io bene, ma Eris era una sorta di maschiaccio in grado di stendere qualunque bulletto nel giro di 10 km, e vi posso assicurare che il Cédric di 12 anni fa era un pezzo di stronzo tanto quanto quello di adesso…gliele ha date di santa ragione!
Lei mi ha insegnato tante cose…»
«Non credi sia forse ora di mostrare ciò che il maestro ti ha tramandato? Renderle giustizia?» disse quasi empatico lo stesso gemello, facendogli quasi cenno di rimettersi in piedi, in gioco, senza lasciare mai sbiadire quei ricordi impressi nella sua mente.
Anche la ragazza, sebbene meno loquace, si trovò d'accordo con le parole del ragazzo seduto in mezzo, ma non poté nemmeno esprimerlo che la voce di Ivo interruppe quel momento quasi surreale e troppo bello per essere vero.
«Non vorrei mai interrompere il vostro tea party sulla spiaggia, ma c’è un pennellone che presumo sia il tuo maggiordomo che ci sta aspettando…e non senza una collezione forbita di insulti che, onestamente, non ho capito!»
«Ma tu non stavi dormendo, biondino?»
Ivo alzò entrambe le dita medie verso la ragazza, con un sorrisetto fintamente divertito, al quale Saul ricambiò i gestacci, notando poi come, alle loro spalle, verso la zona erbosa, una figura quasi impossibile da dimenticare si fosse armata di ombrellino per il sole e occhiali scuri.
Diego strizzò gli occhi, ancora con la vista parzialmente annebbiata.
«Deduco che quello sia Barnabas…»
«Deduci benissimo, e prima di salire in macchina come minimo ci farà fare la doccia con la canna dell’acqua…coraggio, festa finita! Si ritorna al campo base…»
«Se riusciremo ad alzarci, si intende! Dici che il tuo pinguino verrebbe a darci una ma…»
Duncan negò definitivamente col capo alla richiesta della ragazza, porgendole però il suo stesso braccio in supporto, la quale lo accettò dopo qualche istante.
Ivo si stropicciò bene gli occhi marcati da due evidentissime borse, sghignazzando come sempre a quella scenetta curiosa ed insolita.
«Uhhh, mi sono forse perso qualcosa mentre dormivo o…»
«Vedi di camminare, fratellino, prima che a casa ci torni a piedi, e ci sono parecchi chilometri da fare con quegli stivali da cowboy!»
«HEY, NON VI AZZARDATE A MOLLARMI QUI!»
Tra una risata e una corsa, i 4 giovani finirono per essere accalappiati uno ad uno, e non senza essere ripresi, dal povero maggiordomo, che quasi si tappò il naso con i guanti di pelle per via dell’odore discutibile di quei discoli, ma alla fine avrebbe potuto farci ben poco; a meno che non li avesse attaccati con una corda alla marmitta dell’auto.
Ne erano passati di anni dall’ultima volta che il giovane grifone si era divertito così, per di più con dei ragazzi da poco conosciuti, ma aveva ragione su una cosa: quelle risate sarebbero stato praticamente un vago, vaghissimo ricordo, a confronto di tutto quello che sarebbe accaduto più tardi, al rientro in quella magione sorvegliata dalle imponenti statue delle creature alate in piedi sulle zampe posteriori.
Il via vai di cameriere e servitori quel giorno parve quasi essere incessante, una sorta di carovana di inservienti già all’opera da chissà quanto per rimettere a nuovo l'intera casa per l’evento tanto atteso: dopotutto, non capitava così spesso di avere come ospiti persone così illustri e in vista, e per casa Griffith era un autentico onore averle per cena!
E come l’etichetta richiedeva, ogni singola cosa sarebbe dovuta essere in ordine, nessun errore era consentito, neanche un capello fuori posto.
«Voglio morire...l'effetto del whisky è finito, cazzo!
Adesso tutto farà male esattamente come dovrebbe...»
«Se vuoi ti aiuto a romperti di nuovo la gamba!
Duncan, adesso basta scappare, affronta questa cosa una volta per tutte. 
Magari, chissà, potrebbe anche essere diverso da come lo immagini...»
«Ma davvero, sorellina?
E allora dimmi, la gravidanza è forse il momento clou della vita di una donna esattamente come lo descrivono tutte?»
«Al diavolo, è una sensazione orribile...sembra che debba scoppiare da un momento all'altro, lo detesto!»
Se c'era proprio qualcuno che quella sera sarebbe dovuto essere impeccabile quelli erano i giovani fratelli Griffith, stretti a braccetto lungo i corridoi infiniti della magione che ai loro occhi, in quel momento, parve semplicemente essere una sorta di labirinto infinito, lucidato come una moneta scintillante e maledettamente inquietante.
Sebbene fossero passate molte ore da quel risveglio devastante sulla spiaggia, il ragazzo si sentiva ancora traballante, con le gambe fatte di burro, stretto in quegli abiti eleganti e insopportabili che non erano affatto il suo genere.
Era l'inizio della fine.
Solo il sostegno della sorella riuscì a portarlo avanti, passo dopo passo, come una sorta di orologio che contava i minuti al contrario, alla rovescia. Sheelah gli strinse maggiormente il braccio,con quel suo caratteristico tono di voce dolce e comprensivo, delicato come un soffio di vento, sebbene i dolori della gestazione stessero iniziando a diventare insostenibili.
«Però fa parte del percorso, immagino, non credo esistano parti senza dolore, fratello, come non credo esistano scelte senza conseguenze...
Ho sposato Cal, lo amo, la mia sorte era inevitabile!
Tu sei l’erede della fortuna di casa nostra, credo che prima o poi ci toccherà accettarlo…non mi pare in realtà che sia una scelta, intendiamoci, ma cos’altro abbiamo?
Oltre alla famiglia?»
«Sembra di sentire nostra madre, ti prego, non ho le forze di ascoltare altre stronzate, come nemmeno ho voglia di pensare che tu creda a queste storie, Sheelah…cosa ci resta?
Vero, senza questo cognome magari non avremmo un soldo, ma almeno avremmo la libertà di vivere come più ci aggrada…non che ci troviamo costretti a portare avanti un retaggio di cui nessuno ricorderà più l’antica gloria tra 30, 40, 50 o perfino 100 anni!
Ha poi così senso sacrificare tutto solo per questo motivo?»
Duncan pose quella domanda quasi più a se stesso, o ad un’entità superiore che forse un giorno gli avrebbe risposto, stava certamente di fatto che la fanciulla non potè dargliene alcuna soddisfacente o comunque in grado di poter cambiare le loro imminenti sorti. La ragazza strinse quasi istintivamente il pugno decorato da tanti piccoli anellini scintillanti all’altezza del fianco, abbandonando per un momento quel suo stato serafico, guardando poi nei grandi occhi chiari il fratello, ormai a pochissimi passi dalla sala dei ricevimenti.
Il ragazzo lo notò, fermandosi di colpo.
«Cosa c’è? Non…ti senti bene?»
«No, sto benissimo, non è quello…è che…vedi, non siamo gli unici ad essere stati messi davanti a dei fatti compiuti, fratello…e sai bene di cosa parlo!
Pensi davvero che siamo stati quelli a pagare il prezzo più alto? Per l’amor di Dio, se davvero esiste, siamo stati maledettamente fortunati…non sai cosa passano loro in quelle terre…
Lontani da tutto, dalla civiltà, da qualsiasi forma di umana comprensione, noi per lo meno non abbiamo dovuto rinunciare alla nostra casa, ad una vita di agi e lussi, che...scusami se te lo dico…non ci sarebbe nemmeno spettata…dico bene?»
«Aspetta un momento, chi ti ha detto tutte queste cose?» domandò assottigliando lo sguardo il giovane grifone, non essendo mai entrato nei dettagli di quelle storie che ne lui e nemmeno la sorella avrebbero dovuto conoscere così a fondo.
Quella lo guardò con un sorrisetto quasi furbo, facendo innocentemente spallucce, proseguendo sempre più in là, fino alle soglie della maestosa porta di cristallo racchiusa in argini di ferro battuto, modellata ad arte su richiesta dello stesso padrone di casa.
«Fidati di me, ho una fonte molto sicura che non ci tradirebbe mai…non siamo poi così soli come credi, dopotutto, te l’ho detto, Duncan malfidente Griffith, siamo una famiglia!»
Quelle parole avrebbero dovuto forse rincuorarlo, ma il solo aprirsi di quel ingresso diede il semplice inizio ad una serata come se ne vedevano poche in casa Griffith, specialmente negli ultimi 10 anni; i gemelli Nardi scelsero saggiamente di ritagliarsi un angolino appartato sui divanetti del maestoso e barocco divanetto nel salone, ormai sobri, per fortuna o sfortuna, sebbene i postumi fossero ancora ben evidenti, specialmente in Ivo, che si tenne saldamente sugli occhi arrossati e incavati le lenti scure, mentre Diego si limitò a sorseggiare qualche drink analcolico dal dubbio gusto, gentilmente offerto dal maggiordomo di casa. 
Poco più in là, appoggiata al granito fresco del caminetto acceso, miss Burke contemplava semplicemente l’ambiente circostante con quel suo solito modo di fare, attento e guardingo, ascoltando di tanto in tanto il monologo ininterrotto e quasi insopportabile del giovane cognato di Duncan, Caledon, che sembrò essere caricato a molla, tanto non smetteva di parlare.
Ivo mimò teatralmente una pistola sotto al mento, non potendone più nemmeno lui di quella sorta di damerino dai capelli biondi ingellati che si dava tante arie di fronte a tutti i presenti; tra questi non potevano sicuramente mancare l'indiscusso padrone di casa, la sua onnipresente signora e l’incubo del giovane rosso fatto persona. 
Deglutì istintivamente, avendolo semplicemente visto di spalle, già sentendo le sue gambe fare dietrofront come di colpo, ma la presa di Sheelah non lo lasciò sfuggire neanche per sbaglio, inchiodandolo, come un crocifisso alla croce, al suo braccio, proseguendo quella camminata verso il patibolo. I suoi occhi non seppero chi guardare per primo, a chi chiedere aiuto, a chi aggrapparsi; troppo tardi.
«Ecco che arriva la star della serata!
Dannato coniglio, ma dov’eri finito? Nemmeno mia moglie ci mette tanto per prepararsi, e c’è ne vuole per battere una donna…hai un aspetto terribile!»
«Ti ringrazio, Caledon, è un piacere vederti, come sempre…»
«Coraggio, non essere così timido, c’è qualcuno di molto importante che è venuto fin qui per conoscerti, non vorrai mica farlo attendere fino alla morte! 
E poi tuo padre ti ha già salvato la faccia parlando delle tue imprese eroiche, probabilmente a sopravvivere a tutti i padri furiosi di cui ti sei scopato le figlie, ma questo noi a Luther non lo diremo.»
«Come sei…magnanimo, cognato…» commentò a denti stretti il povero Duncan, che si trovò strappato dalla presa della sorella per essere arpionato e trascinato via dal Campbell, con un braccio attorno alle sue spalle. Sheelah non potè nemmeno fermare l’esuberante marito che, con un gesto della mano, la intimò a lasciarlo fare, portandolo come un capretto sacrificale dinanzi a quel trittico spaventoso: sua madre, suo padre e il suo futuro superiore.
Di quelle persone, però, Luther parve essere quella meno elettrizzata da tutta quella sorta di preparazione, accettazione, lasciando il suo viso costantemente imperturbato da qualsiasi emozione, se non per un cortese e impercettibile sorriso, con la mano tesa in avanti, verso il ragazzo, annullando del tutte le ulteriori presenze, senza dire una singola parola.
La mano di Duncan, mossa probabilmente più dall'istinto che dalla consapevolezza, accettò quella stretta, venendo improvvisamente avvolto da un brivido di gelo, trovando quel contatto più invernale della neve, e a Cardiff gli inverni erano artici. 
Rhys, con un aspetto apparentemente migliore rispetto alla sua solita trasandatezza, mise le mani sulle spalle dei due rispettivi uomini, gioendo finalmente a quel fatidico incontro.
«Direi che ci siamo, finalmente…vecchio amico, questo è il mio ragazzo, il mio Duncan!
Figliolo, lui è uno dei cacciatori migliori che la Hunter abbia mai avuto il piacere di addestrare…»
«Stai cercando di corrompermi, Rhys? Troppo buono, non sono poi così straordinario, semplicemente mi attengo a delle norme precise, e pretendo che, chi come me, le rispetti con lo stesso zelo e costanza, mi pare il minimo sindacale, dopotutto.» affermò senza mai tradirsi l’uomo, non distogliendo l’attenzione dal ragazzo, il quale abbozzò con terrore una smorfia simile ad un sorriso di circostanza. 
Saul e i gemelli si guardarono tra di loro, indecisi se soccorrere il soldato al fronte oppure attendere il momento più opportuno per intromettersi, cosa che Ivo trovò quasi immediata ma prima che potesse solo dischiudere le labbra, Luther lo fulminò sul posto, facendo cenno ad entrambe i ragazzi di avvicinarsi.
«Immagino che tu già abbia fatto abbondantemente la conoscenza dei miei due figli, vedendo i vostri postumi…mi auguro sia un caso isolato, dico bene, ragazzi? E mi scuso in anticipo per qualsiasi battuta impellente di Ivo, ha un umorismo tutto suo…difficile da tenere a bada. »
Ivo, attraverso le lenti violacee, guardò il patrigno con uno sguardo sdegnato ed offeso, ma Diego decise di precederlo, affiancando il Griffith con una empatica pacca sulla spalla, forse nel tentativo di spezzare almeno un po quella pressione palpabile, seguito a sua volta dalla ragazza dai capelli argentei, che dritta come una freccia tese la sua di mano al comandante di casa Griffith, senza alcun pelo sulla lingua.
«Non sono una che aspetta terze presentazioni, sebbene ci siamo già incontrati, comandante Griffith, sono Saul Burke, onoratissima di rivederla!
Sono passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo visti...ed è un piacere rivedere anche lei, lady Griffith, mia sorella parla sempre di voi, siete una delle sue amiche più…care… »
«E così tu sei la sorella di Yvonne! Una delle tante…sei la seconda? La terza?
Non vi somigliate affatto, sai? Devi aver preso tutto da tua madre, povera donna, ho saputo che è molto malata…povera piccola!
E così tutta sola hai scelto di imbarcarti in questa avventura? Ammirevole…davvero…considerati la benvenuta in casa nostra, Evelyne…» 
La pupilla di Saul divenne uno spillo nel celeste dei suoi occhi, non gradendo minimamente il tono di lady Rhiannon, bella tanto quanto orribile nell’animo, stretta costantemente in uno di quei suoi procaci abiti fiammeggianti al fianco del marito, il quale sorvolò quasi quella mancanza di tatto, stringendo la mano della ragazza con un accogliente sorriso.
«Mia moglie ed io diamo a voi il più caloroso benvenuto, ragazzi, siamo felici di avervi qui…è importante questo momento, specialmente per noi che iniziamo a diventare, come dire, d'intralcio per voi giovani pronti a spiccare il volo…
Le porte di casa mia saranno sempre aperte per tutti voi, ma credo sia abbastanza da matusalemme riempirci di simili chiacchiere senza mettere nulla sullo stomaco!
Prego…Barnabas, accompagna i nostri gentili ospiti nella sala da pranzo, mi occupo io della portata principale.»
Con un cenno del capo, il maggiordomo eseguì l’ordine, lasciando indietro al convoglio i giovani appena traumatizzati, che si guardarono tra di loro non esattamente entusiasti; Ivo mandò all’aria con un gesto della mano l’intera situazione, Diego si limitò a grattarsi la fronte, mentre i fratelli Griffith tentarono con lo sguardo di scusarsi con la Burke, la quale semplicemente scrollò le spalle, prendendo un sonoro respiro, seguendo poi a sua volta quella sorta di legione di morte, che lasciò dietro di sé un'aria irrespirabile.
La cena era servita.
Duncan odiava quella sala imbandita non solo di cattiveria gratuita da parte di sua madre e passività di suo padre, ma anche per via delle opprimenti riproduzioni di alcune tele di Caravaggio su quasi ogni parete di quella vasta area, finendo piuttosto per fissare intensamente la piccola quaglia ormai defunta nel suo piatto, che mangiò talmente a rilento da darle il tempo di resuscitare e scappare via. Sheelah, al suo fianco, cercò ripetutamente di sollevarlo con sguardi incoraggianti, ma come avrebbe potuto tirarlo su?
Come nella “Flagellazione di Cristo” appesa di fronte alla tavolata, il ragazzo trovò ai tre capi apposti del tavolo lo stesso trittico di prima, come una tortura lenta in cui agonizzava come un martire; sua madre, dal canto suo, sembrò scrutare l’intera tavolata oltre il vetro scintillante del suo calice di vino, oltre i suoi figli e lo sciocco genero, interrompendo uno dei suoi soliti discorsi solo per potersi concentrare sul grande ospite d’onore.
Appoggiò sfacciatamente i gomiti aguzzi sul tavolo, posando il suo bel viso tagliente sui dorsi delle mani incrociate, rivolgendo l’attenzione completa sull’uomo al vertice sinistro, di fronte al marito all’altro capo del tavolo.
«Dunque, Luther, posso chiamarti così, dico bene?
Credo proprio di potermelo permettere, dopotutto…mio marito parla di te quasi come un fratello, e io accolgo sempre la famiglia, anche se non si tratta personalmente della mia…allora, parlami quindi di questa tua ispezione!»
«Rhiannon…per favore!»
«Cosa? Sono la madre dei tuoi figli, Rhys, credo più di tutti di doverne sapere di più, dico bene…Luther?» richiese la lady di casa, facendo leva sull’ultima parte del discorso, trovando quasi snervante il modo calmo e risoluto di quell’uomo, che non gradiva affatto in casa sua. Luther finì di masticare con tutta naturalezza il volatile nel suo piatto, assaporando senza interruzione il sapore intenso della salsa alle more messa di accompagnamento sul bordo della stessa porcellana; appena finì alzò di poco il sopracciglio verso la donna, quasi incuriosito.
«Ispezione, dice?»
«Esatto…onestamente non sono mai stata il tipo di donna che si intromette negli affari di suo marito, e non per mancanza di cura ma perché mi fido ciecamente di Rhys, ma posso dire lo stesso di…lei? »
«Oh, cara suocera, posso garantire io per qualunque cosa! L’amministratore sta solamente facendo il suo lavoro, dopotutto…diventare comandanti non è poi una cosa da tutti i giorni!
Sono grandi responsabilità che noi primogeniti dobbiamo prendere di petto, è risaputo…insomma, guardate me, guardate Cedric Darcy, anche lui, non so quando, diverrà comandante al posto di suo pa… »
«Ti ringrazio per la lezione di genealogia, mio caro Caledon, ma non è te che ho interpellato, quanto più il vostro superiore, di cui ho il piacere di riscontrare la scarsa loquacità!»
Rhiannon zittì sul colpo il genero, il quale si bevve di tutta risposta il suo bicchiere di vino, lasciando ammutoliti quasi tutti, per non parlare dello stessa Sheelah, che si passò una mano sul viso per lo sgomento non poi così sorpresa; Duncan rivolse personalmente lo sguardo all’amministratore, ma quello prese parola prima di lui, pulendosi con vera grazia gli angoli delle labbra col tovagliolo di lino.
«Se volete chiamarla in questo modo, io preferisco definirla una conoscenza, miss Thorn…oh ,scusatemi, volevo dire Griffith…»
«No, non vi scuso, e sono lady Griffith, non miss.»
Quella risposta fece abbassare ad Ivo gli occhiali di almeno 3 centimetri verso il basso, ma l’occhiataccia di Diego lo tenne fermissimo da anche solo fiatare; era una polveriera quella tavola. 
Luther incrociò lo sguardo verde di Rhiannon per un frammento di secondo, solo per poi riportare l’attenzione su Duncan, appoggiando gli avambracci sui braccioli della sua sedia.
«Ad ogni modo, non sono uno che gradisce essere interrotto, e il mio colloquio è rivolto solo ed esclusivamente al nostro Duncan, al quale vorrei porre alcune domande, perplessità…del tipo, come mai su 5 missioni sei risultato assente a 6 ma sei stato in grado di ferirti a 7 di loro…»
Rhys a quella freddura guardò l’amico con uno sguardo incredulo, ma non potè dire nulla a riguardo, dovendo lasciare il figlio, purtroppo, in balia di se stesso e delle sue responsabilità, stringendo però fra le dita una delle posate d’argento sul tavolo.
«Ebbene? Hai qualcosa da dire oppure…non so, vuoi prima consultarti con mamma e papà…»
«Guardi che non sono un bambino, quindi può anche smetterla di trattarmi come un idiota!
So bene che il mio curriculum di cacciatore lascia a desiderare, ma questo non da a nessuno il diritto di giudicarmi solo per…»
«Per? Le tue mancanze? Insolvenze? Leggerezze? Come vuoi definirle? Io le chiamerei assenze di disciplina, e non sarebbe la prima volta che le vedo, anche se in genere casa Griffith è una che riserva molte sorprese…ma che parlo a fare, credo che questo sia lapalissiano!»
Senza mezzi termini, l’uomo appoggiò sulla superficie del tavolo il suo tovagliolo ben piegato, facendo oscillare all’interno del calice di cristallo il vino scarlatto, che vorticò come un turbine circolare nel palmo della sua mano, assaggiandolo meticolosamente, dopo averne sentito il superbo profumo. I soli modi di fare di quell’uomo erano in grado di infrangere i nervi di qualsiasi persona, figurarsi in una situazione simile, dove quelli del ragazzo erano a fior di pelle.
Eppure, prese coraggio, sotto gli occhi sorpresi di molti.
«Se ha delle critiche oppure dei commenti da fare, li faccia pure, dopotutto…come si dice, siamo una famiglia, no? 
Ma se vuole ridicolizzare qualcuno, lo faccia con me…e non con chi non è presente, incapace di difendersi!»
Luther inarcò ora lo sguardo in uno sorpreso, accavallando la gamba sull’altra, con le mani giunte sul grembo; quella presa di posizione accese una miccia chiara negli occhi di tutti, specialmente in quelli della madre del ragazzo, che lo fulminò sul colpo, ma non le diede ascolto, proseguendo, finalmente, sulla sua strada. I gemelli si guardarono complici, esattamente come Sheelah e Saul, la quale rimase profondamente meravigliata dall’iniziativa del Griffith, rapendo del tutto la sua attenzione.
Caledon e Rhys invece scelsero saggiamente di evitare la cosa, quest’ultimo si passò le dita sulle tempie, con un sospiro grave e di avvertimento nei confronti del figlio, avvertimento che non venne ascoltato.
«Lunge da me offendere qualcuno, non è nel mio stile, in realtà, ma se ho detto o fatto qualcosa che ti ha arrecato disturbo, sono pronto a chiedere perdono, sebbene sia più frequente il contrario, te lo posso assicurare…»
«A volte le cose possono cambiare, non crede? Pensa che non sappia delle voci che corrono al campo Hunter? Sarò un pessimo soldato, ma ci sento benissimo…e so quanto schifo viene gettato sulla mia famiglia, sulle persone che amo, a partire da quelle che meriterebbero di stare qui più di tutti noi in questa stanza, ma preferiamo non interpellare perché è più comodo per tutti far finta di non vedere!
Non è così, Luther?»
«Duncan Griffith, modera quella lingua prima che te ne faccia pentire…stai dicendo una valanga di assurdità che non consento affatto vengano divulgate sotto questo tetto!
E ti sto avvertendo prima che perda la pazienza…»
«Credete di spaventarmi, madre? Il mio destino è già segnato, lo state facendo voi tutti per me, almeno mi toglierò lo sfizio prima di andarmene, non pensate?
Non siete tutti stanchi di mentire, e dire stronzate senza freno?
E proprio lei, che tutti descrivono come un uomo senza macchia e colpe, permette che tutto questo accada sotto i suoi occhi?
Ma come diavolo fa a tollerarlo?» disse sbattendo entrambe i palmi il ragazzo, facendo tremare l’intera argenteria sul tavolo, lasciando Richter ad appoggiare il suo mento sul palmo della mano, ma prima che la lady di casa potesse riprendere il figlio nuovamente, la fermò, con un guizzo degli occhi.
«Perdonami se interrompo la tua…dichiarazione d'indipendenza, ragazzo, e credimi, ti rende più onore delle storie che ho sentito sul tuo conto ma, vorrei capire, cos’è che avrei fatto per tollerare il crimine che stai denunciando?
Crimine di cui, apparentemente,sarei persino complice…dimmi, ti stai forse riferendo a tuo zio e tua sorella? Perchè, scusami se te lo faccio notare, dovresti anche ringraziarmi…se si stratta di loro…»
«Ringraziarti? E di cosa? Di averli spediti a fanculo?
Ti ringrazio tanto allora!»
La situazione divenne incandescente non appena quei nomi vennero a galla, specialmente sul viso brace di Rhiannon, che fu sull’orlo di una crisi di nervi, mentre Rhys guardò dritto in viso il figlio arrabbiato, chiedendogli di farla finita con lo sguardo, ma non si poteva sicuramente interrompere un simile idillio, specialmente quando dalle labbra di Luther fuoriuscì una sorta di ghigno divertito, lasciando i gemelli quasi spiazzati, affatto abituati a vedere il padre ridere o sghignazzare.
«A dire il vero, giovane grifone, sono io quelli che li ha richiamati dall’averli spediti a fanculo…su diretta richiesta mia e di tuo padre, ma dalle vostre facce deduco che non sapevate nulla…vero?»
Silenzio agghiacciante.
Rhys si mise il capo bruno fra le mani, guardando il vecchio amico con uno sguardo incredulo e senza vergogna, ma quello rispose con un semplice brindisi alla sua, finendo le ultime gocce di vino nel calice trasparente. Duncan si abbandonò alla sedia, sentendosi quasi nudo dopo quella orrenda figura, volendo sparire sotto il tavolo e fare un buco nel pavimento, ma fu niente paragonato al temporale di una moglie furiosa, che puntò ,come un toro al torero, il marito, con gli occhi sgranati.
«Che cosa diavolo sta dicendo questo pazzo? Rhys? Rispondimi, prima che io non risponda di me…»
«Rhiannon, calmati, te lo avrei detto!»
«Me lo avresti…mi avresti detto che cosa? Che tu, alle mie spalle, avresti richiamato al fronte quelle carogne?! Sei diventato pazzo tutto d’un colpo? Hai agito alle mie spalle?!»
Rhys alzò brutalmente il viso dal basso, sconvolgendo anche gli stessi ospiti, non credendo nemmeno loro che l’animo gentile e ignavo di quell’uomo stanco potesse essere travolto ulteriormente, ma fu proprio così, puntando sulla moglie gli incavati occhi scuri.
«Quelle che tu chiami carogne, sono mia figlia e mio fratello, donna, quindi non farmi perdere la pazienza, ti è chiaro?
C’erano prima di te e ci saranno anche dopo, quindi abituati all’idea, perchè non ho più intenzione di nascondere la testa sotto la sabbia…»
«E vuoi distruggere la nostra famiglia? Per cosa? Per un fratello rinnegato e una piccola pu…»
«Non azzardatevi, madre…»
«Tu stai zitto, con te non ho ancora finito piccolo ingrato e insolente che non sei altro!»
Il ringhio della donna mise quasi al guinzaglio il figlio, già pronto a ribattere, se non fosse stato per la sorella, che si alzò di colpo nonostante le cagionevoli condizioni fisiche, mettendo a tacere i litiganti genitori, lasciando pure la madre senza parole.
«Sheelah?! Che stai facendo?!»
«Quello che avrei dovuto fare prima, mamma, adesso basta con questa crociata senza senso!
Non siamo più dei bambini…e tu non hai alcun diritto di impedire ad Eris e Trystan di tornare a casa, perché questa non è solo casa tua, ma è casa di tutti noi, come prima lo era di tua sorella…»
«Non sai nemmeno di chi stai parlando, fino all’altro giorno ancora gattonavi e adesso mi vieni a parlare di cosa sia giusto?
Io, io ho portato l’ordine in questa casa, io vi ho cresciuti, io ho portato equilibrio nella vostra vita, senza di me sareste cresciuti selvaggi come quella ragazza che ho allontanato il prima possibile, altrimenti sareste diventati come lei o come quello zotico senza educazione e disciplina, ancorato a credenze medievali senza alcun senso del dovere e della famiglia!
Cosa vuoi saperne tu, ragazzina? Tu e tuo fratello non avete un briciolo di gratitudine, non ne avete mai avuta…ma di cosa mi devo sorprendere? 
Dopotutto…il tuo simpatico scambio epistolare con quel Robin Hood dei poveri deve averti messo in testa idee strane…»
Duncan si voltò di scatto verso Sheelah, ad occhi spalancati, ma quella non si sognò minimamente di dare alcuna spiegazione, nemmeno al marito seduto accanto, che aggrottò le sopracciglia confusamente. 
Gli sguardi di madre e figlia si incrociarono come spade, ma Rhys non permise quello scontro diretto, anche lui senza parole da quella rivelazione inaspettata.
«Tu…hai scritto a Trystan? Da…quando? Come? Come hai..»
«Non voltarmi le spalle anche tu ,papà, è mio zio, e avevo il diritto di sapere cosa ne fosse stato, di lui, di nostra sorella, se fossero vivi, se stessero bene, perchè si, per quanto scomodo, anche loro sono di famiglia, e che ti piaccia oppure no, mamma, ne faranno sempre parte!»
Non volò un fiato, nessuno disse nulla, ci fu un momento di apparente tregua in quella sorta di faida familiare carica di rancori e risentimenti, sotto gli occhi affatto sorpresi di Luther e degli altri presenti, specialmente della famiglia Griffith, che tuttavia non era ancora al massimo della sua potenza.
Rhiannon guardò il vuoto, non avendo nemmeno la forza di guardare in faccia ne i figli ne il marito, ma non ebbe il tempo di abbandonare quella cena indecorosa poichè alle sue spalle il suono di bicchieri tintinnanti risvegliò da quel silenzio assordante i commensali alienati; Rhys vide oltre la sedia di Richter una figura che non si sarebbe aspettato di vedere, anzi, nessuno dei presenti si permise anche solo di fiatare, alzandosi tutti quasi di scatto, chi per rispetto o chi per semplice impulso.
Luther fu l’ultimo a reagire, limitandosi semplicemente a voltarsi indietro, con un’espressione effettivamente meravigliata.
Sorrise, quasi di colpo.
«Questa si…che è una bella sorpresa…non credevo di incontrarvi, my lady…»
«Oh, non fare l’adulatore, Luther, non sei il mio tipo, troppo giovane per i miei gusti!
Però devo dirtelo, questo vestito ti mette in risalto tu sai cosa…»
«Nonna? Che ci fai qui?»
Uno dei pilastri portanti di quella famiglia era appena entrato in quella sala, e quella colonna era Gwendolyn Griffith. Non esisteva donna alcuna in grado di portare i 60 anni con la sua stessa classe e grazia, con un fisico simile e soprattutto con un portamento invidiabile, appoggiandosi senza bisogno di alcun permesso con il gomito sulla spalla dell’uomo, con cui parve avere una certa confidenza. Ivo si tolse gli occhiali effettivamente colpito, salutando quasi con rispetto innato quella icona vagante, la quale ricambiò quel gesto con un sorriso placido, ammiccando poi con un cenno elegante della mano ai due nipoti, non prima di tirare una boccata dalla sua sigaretta. 
«I miei boccioli di rosa, siete cresciuti parecchio dall’ultima volta che vi ho visti...almeno so che mio nipote provvede per voi!
Rhys, il mio invito si è forse perso nella posta del postino invisibile?
Ah, lascia perdere, non ha importanza, ciò che conta è che, come diceva la mia sagace nipotina, la famiglia si stia per riunire, dopotutto non vivrò per sempre…
Oh, e questi due adoni?»
«Sono i miei figli, Diego ed Ivo, Gwen, spero siano di tuo piacimento…volpe!»
La donna fischiettò senza alcun pudore sotto lo sguardo dei nipoti e della stessa figlia, ancora livida per via della sua apparizione che non si aspettava minimamente, fissandola muta come un fantasma. Lady Griffith mise le mani sulle spalle dei gemelli Nardi, tastando con un tatto morbido quasi la consistenza dei due poveri giovani. Diego divenne rosso di colpo, mentre Ivo se la rise di gusto, trovandosi il viso afferrato dalla stessa mano elegante e perfettamente curata della donna.
«Se solo avessi 20 anni di meno, credimi, caro hunter, non gli avrei lasciato nemmeno le braghe…»
«Zia Gwen, ma che diavolo…hanno l’età di tuo nipote!»
«Oh non fare il puritano, Rhys, se solo tuo padre potesse parlare ne avrebbe di storielle da raccontare!
Ma tu guarda che bel lavoro che hai fatto, Luther, e chi l’avrebbe detto…figli tuoi? Mica avevi altre tendenze, giovanotto, o ricordo male?»
L’intera tavolata finì per farsi quasi cadere la mascella a quella chiarissima insinuazione, per non parlare del volto dei gemelli in questione, che guardarono di filata il volto del padre adottivo, il quale, con una nonchalance innata, sviò quella palla curva in maniera eclatante, facendo spallucce come se la cosa nemmeno lo avesse sfiorato, sebbene gli occhi di Diego, Ivo, Saul e pure dei quadri di Caravaggio lo stessero fissando come una calamita.
«Diciamo che la gioventù fa dare colpi di testa importanti, lo sappiamo bene un po tutti, dico forse male, my lady?»
«Oh no, dici bene, mio caro ragazzo…ma appunto perchè ho  visto crescere sia te che mio nipote, e le mie figlie, e tutti questi bei ragazzi, e anche questa bellissima fanciulla, so bene che ognuno di noi ha un istinto e uno soltanto, e non è l’età a cambiare le cose…quanto più le  accentua!
Ma non sono qui per dare delle lezioni di vita, credo di averne meno diritto di tutti…ma più di mia figlia, sicuramente…dico male, Riha?»
Se c’era una sola persona in grado di tenere testa alla lady di casa, quella era sua madre, l’indiscussa donna Griffith, che arrivò alle spalle dei suoi nipoti, accarezzando amorevolmente le nuche di entrambe. Sheelah strinse istintivamente la mano della nonna, sotto lo sguardo amareggiato della madre, che guardò la sua con un sospiro.
«Sei venuta a dettare legge, come al solito? Cos’è ? Una congiura contro di me?»
«Solo se tu vuoi che lo sia, tesoro; a dire la verità non sono venuta qui per rimetterti in riga, sebbene quello che ho appena sentito mi abbia fatto riflettere abbondantemente…figlia mia!
Sono qui per tanti motivi: il primo di tutti è la salute di mia nipote, il secondo è stare accanto a mio nipote, sia quello grande che quello acerbo, il terzo è il compleanno di Cedric!
Che vi piaccia o no, anche i Darcy faranno sempre parte della nostra vita, e quarto…questa è casa mia, prima che qualcuno metta bocca sulla legittimità della cosa, perchè senza me e senza mio fratello voi nemmeno sareste qui!
Chiedo perdono a tutti gli ospiti per l’indecoroso spettacolo…non sono questi i Griffith che conoscevo, e se solo Yvain e Johanna potessero vedervi…vergognatevi!
Ah, è un’altra cosa…figlia mia, se tanto ti spaventa il ritorno dei miei dispersi nipoti, perchè non avverti la polizia? 
Con l’accusa di idiozia…»
«Vuoi forse dimenticare quello che ha cercato di farmi quella ragazzina?»
Gli occhi verdi delle due donne, identici, si sguainarono, ma la stoccata di lady Gwendolyn fu degna di uno spadaccino, mettendo a tacere perfino la servitù, che non faceva che origliare quella animata conversazione con i fondi del bicchiere.
«Eppure sei ancora qui, di che ti lamenti? 
Ci sono altre persone non così fortunate, ad esempio tua sorella, che ti ricordo essere anche mia figlia, e smettila con questa farsa…sei perfettamente in grado di difenderti con quegli artigli che hai sotto la gonna!»
Quel commento mandò in visibilio chiunque, costringendo Diego a tappare la bocca di Ivo praticamente da subito, come Luther chetò il suo riso con il bicchiere nuovamente pieno di vino; Saul guardò quella donna con tutto il rispetto che aveva in corpo, alzandole simbolicamente un brindisi alla sua, con un sorriso sulle labbra.
Rhys si alzò dal tavolo, non potendo più sentire altrimenti, mettendo una mano sulla spalla della zia.
«Vieni, è meglio che ti riposi…ti faccio preparare la stanza..»
«Oh, stai tranquillo, ragazzone, conosco la strada!
E ho proprio bisogno di un bagno, questo viaggio mi ha sfinita…è stato un autentico piacere rivedervi tutti…credo che ci divertiremo parecchio nei prossimi giorni!
Ah, Luther, dimenticavo una cosa…»
Prima di congedarsi, la donna guardò dritto negli occhi di ghiaccio il sommo amministratore, il quale rispose con piena attenzione, sotto le orecchie avide di curiosità dei giovani al tavolo.
«Sei meglio del finissimo vino, mi domando però se questa benedizione…includa anche qualcun altro…»
Lui sorrise.
«Ti auguro buon riposo, lady Griffith…bentornata a casa!»

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Capitolo 15
*** Be our Guest. ***


Chapter 15: Be our Guest.
 
Current Day


London, just another rich house.
House Darcy, south Kensington.


Che cosa serviva a Rebecca Darcy per organizzare uno dei party più attesi di Londra?
La risposta era molto semplice: vino, un pacchetto di sigarette e musica.
Dopotutto suo figlio avrebbe compiuto 19 anni solamente una volta, ringraziando a Dio, non si sarebbe potuta permettere di sgarrare nemmeno con gli antipasti; la società inglese era così esigente, ipocrita, lurida, la odiava da cima a fondo nonostante ci fosse cresciuta, ci si fosse abituata e persino sposata.
Nonostante questo stile di vita controverso, in quella donna non era cambiato nulla, né il suo modo di vedere le cose o di approcciarsi alle persone, a partire dai suoi figli e da suo marito fino ai suoi pazienti, con cui riusciva ad instaurare un pieno rapporto di fiducia; essere degli psicologi nell’alta aristocrazia londinese richiedeva una pazienza ed una tempra non indifferente.
Il marcio partiva già dagli ideali imposti, figurarsi scendere nell’animo corrotto delle persone.
Le cameriere e la governante non facevano che tormentare Rebecca da settimane con stronzate assillanti: il colore delle cortine, delle tovaglie, il menù della serata, la lista degli ospiti, gli inviti da spedire, le conferme da ritirare e tutto un elenco infinito di assurdità di cui non si era mai occupata perché, beh, i Darcy non erano mai stati troppo di compagnia, figurarsi dei grandi festaioli.
Tutti così, tutti tranne il suo Cedric, nato esclusivamente per bere, fare baldoria, fumare e mettersi in mostra come nessuno sapeva fare.
La stilografica le roteò fra le lunghe dita diverse volte, scrivendo annoiatamente su carta quella infinità di sciocchezze che avrebbe dovuto personalmente controllare più e più volte, ma di concreto non c’era nulla, solo il suono in sottofondo del pianoforte nella sala a fianco e gli schiamazzi giovanili e gioviali in quella laterale; come si poteva pretendere anche il benché minimo impegno nella concentrazione?
Di colpo la porta dell’ufficio di Rebecca si aprì con poca gentilezza, lasciando che le stesse voci, prima ovattate, divenissero acute e ben presenti sotto ai suoi occhi, un tripudio di chiacchiere e di vivacità.
«Beh? Non si bussa più? Cosa siamo, all’ippodromo? »
«Perdonateci il disturbo, lady Darcy, lo avevo detto a Cecile di bussare…ma non mi ascolta mai!»
«Mia figlia ascoltare? Sarebbe un giorno di festa se accadesse ma, come suo fratello, una cosa da qui le entra e da qui le esce…non è vero, signorina?  
Mi stai ascoltando?»
«Si, mamma…ti sto ascoltando, e poi non crederai a tutto quello che dice la nostra Olly! Con quel faccino da santarellina è in grado di farti bere qualsiasi cazzata…»
«Cecile Darcy, modera quella lingua, non sei una pescivendola, e ci tengo bene a ricordartelo…»
«E chi se lo dimentica, me lo rammenti ogni giorno da 16 anni..» disse con una smorfia particolarmente stizzita l’ultima figlia di casa Darcy, nient’altro che quella testa calda e irruente di Cecile.
Non era alta o slanciata come la madre, era ancora acerba, sulla via dello sviluppo, eppure il suo viso e i suoi occhi da gatto ne sapevano una più del diavolo, un po come suo padre: quella innata capacità di ingannare con quel volto apparentemente candido e ingenuo. La giovane, stretta nella sua tenuta bluastra d’equitazione, gironzolò attorno alla scrivania di Rebecca, sotto gli occhi imbarazzati della inseparabile amica Olivia Burke, la quale si limitò ad un sorriso mortificato per il comportamento inopportuno della ragazza.
Lady Darcy roteò i grandi occhi azzurri, portando all'indietro alcuni ciuffi lisci del suo caschetto biondo, con la gamba accavallata sull’altra intenta a penzolare lentamente.
«Non hai niente di meglio da fare che venire qui a ciondolare? Il sarto ieri è venuto per prenderti le misure per il vestito e, guarda caso, tu non c’eri…quell’uomo lo pago ad ore, signorinella, e i soldi non crescono sugli alberi…»
Cecile tolse dal capo riccioluto il suo casco, scompigliandosi la corta chioma indomabile, lasciandosi cadere a peso morto sul divanetto dello studio della madre, facendo cenno all’amica di sedersi accanto a lei, dopo aver tirato fuori dal taschino della giacca una sigaretta stropicciata; Rebecca roteò gli occhi, passandosi una mano sul viso.
«Ho già Cedric addetto a rendere invivibile l’aria di casa, non mi serve un altro fumatore, quindi se proprio ci tieni ad intossicarti fallo fuori, lontano da quella divisa possibilmente…»
«Cedric rende invivibile anche l’ossigeno, quindi dovremmo bandirlo di casa a prescindere dalle sigarette!
Sarà una festa di compleanno davvero da sogno, indimenticabile…»
«Se la organizza tua madre, allora lo sarà di certo!
E poi, ci saranno tutti i rampolli dell’alta società…sai quanta gente conosceremo? »
«E chi li vuole conoscere, Olly? Sono un branco di segaioli, interessati semplicemente ad allargare la loro famigliola di raccomandati con matrimoni infelici, donne sottomesse al loro volere e di figli incapaci di scegliere il loro destino perché imposto dalla potestà genitoriale…ho forse dimenticato qualcosa? Ah, già, vorrei aggiungere che questo sia un aspetto lontano e sconosciuto alla mia famiglia, ma non è così!
Vero, mamma?» chiese la ragazza portandosi alle labbra confetto la sigaretta spenta, lasciando sogghignare Rebecca oltre la sua scrivania. Olivia rimase turbata da quelle parole pesanti e accusatorie, massaggiandosi il braccio quasi per consolazione, ma quello di Cecile le si avvolse attorno alle spalle scoperte, con un sorriso sul viso.
Quei comportamenti non passavano mai inosservati agli occhi attenti della lady, la quale si schiarì appena la voce, mettendo per un attimo da parte l’infinita lista di cose da fare solo per prestare attenzione alla giovane amica della figlia.
 «E tu, Olivia? Hai già un vestito per il ballo? Immagino che tuo padre avrà fatto venire il sarto italiano…Vittorio, giusto?»
La ragazza annuì con un flebile sorriso imbarazzato, dando un colpetto sulla coscia di Cecile per chiederle quasi indirettamente di darsi un contegno, specialmente in pubblico; Olivia, a differenza di Cecile Darcy, era timida, riservata, un bocciolo di rosa ancora chiuso in se stesso, con quei lunghissimi capelli bruni intrecciati circolarmente sul capo, una piccola milady educata e pronta al suo debutto in società: dopotutto, era questo il fine ultimo delle grandi feste, debuttare, essere messi in mostra.
Un po come il bestiame alle fiere di paese.
Cecile attorcigliò attorno al dito indice una delle ciocche mosse di Olivia, scalciando quasi in maniera infantile verso il basso nel tentativo di liberarsi al più presto dei lunghi stivali, incurante dei graffi.
«Mia madre ti sta gentilmente chiedendo se tuo padre ti metterà all’asta come ha fatto con le tue sorelle…»
«Cecile!»
«Cosa? Dopotutto, è la verità…credi che non sappia perché state spendendo tanto per la festa di Cedric? 
Olivia mi ha detto tutto…ha sentito il vecchio complottare con papà mesi fa, per il suo matrimonio…quando avevate intenzione di dirglielo?
Cazzo, Cedric è un autentico stronzo, ma credo che anche lui abbia il diritto di sapere che ne sarà del suo futuro…giusto per dargli quel vantaggio di 3 o 4 ore per scappare!»
«Cecile, adesso calmati…per favore!
Lady Darcy, sono mortificata…non avrei dovuto dirlo a nessuno…io, vi prego di scusarmi!»
Rebecca mise una mano in alto, quasi a far tacere entrambe le ragazze con quel semplice gesto, riuscendoci anche abbastanza bene; prese un profondo respiro, collezionando quasi i mille pensieri che vagavano nella sua mente furibondi, solo per poi riaprire i grandi occhi azzurri sul suo studio. Si alzò dalla sedia, non abbandonando il suo calice di vino, mandandolo giù tutto dun fiato.
Il suono del bicchiere sbattuto contro la superficie di legno fece quasi presagire il peggio; tuttavia, la musica non si interruppe e il pianoforte continuò a suonare.
Olivia e Cecile rimasero sedute in silenzio sul divanetto broccato, a pochissimo l’una dall’altra, intente quasi ad ascoltare, fra i pensieri burrascosi, la meravigliosa sinfonia che accarezzava l’aria.
I notturni di Chopin, i preferiti di Caleb.
«Non devi scusarti, Olivia, è tutto in ordine come sempre…dopotutto, questa casa partorisce segreti come eredi…tuo padre non mi aveva parlato delle sue riflessioni matrimoniali di tuo fratello, ma sei libera di non credermi, Cecile…»
La ragazzina aggrottò le sopracciglia, ammorbidendo di colpo la presa sul suo frustino di pelle scura; non aveva motivo di mentirle, e questo non fece che incupire il suo animo.
Rebecca fece spallucce, appoggiandosi di spalle alla sua fornitissima libreria, con un’espressione di puro disappunto sul viso, mista a quella costante riflessione interiore che le attanagliava la mente.
«Perchè…perchè papà non te ne avrebbe parlato? »
La bionda sorrise, in maniera amara, sollevando le belle e sfilate dita verso il cielo.
«La magia del matrimonio, o forse semplicemente si è dimenticato di informarmi del fatto che aveva intenzione di sbattere fuori di casa nostro figlio…
Immaginavo questa manovra, e di grazia, con chi vorrebbe accoppiare quello sciagurato? Con tutto il rispetto per le tue sorelle, miss Burke…»
Olivia divenne quasi paonazza per quelle parole così crude, abbassando inconsapevolmente lo sguardo verso la punta dei suoi stivali nocciola, stringendo fra le delicate mani i guanti del medesimo colore, con un sospiro consapevole.
«Ecco, mio padre ha già una figlia maritata, una nell’arma e io sono ancora giovane, perciò toccherà a mia sorella Rosemary…»
«Rosemary? Voi Burke siete un esercito…intendi, quella che sta a Parigi? E vuoi farmi credere che tuo padre non ha trovato nessun pretendente provenzano nei paraggi? 
Questa è buona…»
«Da quello che so, è stato vostro marito ad insistere e mio padre farebbe di tutto per voi Darcy, my lady, lo sapete!
Cedric sposerà mia sorella…ancora sono voci, ma conosco gli uomini della mia famiglia quando si mettono in testa una cosa…»
Cecile si lasciò andare ad un rumoroso fischio di sincera sorpresa, alzandosi di tutta risposta fino al tavolino degli alcolici, ma Rebecca le levò di mano la bottiglia prima che potesse versare anche un solo goccio di whiskey nel bicchiere di cristallo. La ragazza sbuffò, restando a braccia conserte, mentre la psicologa approfittò di quel momento per un altro sorso, quasi una sorta di anestetico. 
La donna assottigliò il profondo sguardo cielo verso la porta semiaperta della stanza accanto, su cui appoggiò una mano con la giusta pressione per spalancarla tutta; Cecile si mise subito di schiena contro la stessa apertura, fissando i suoi sfuggenti occhioni cerulei sulla figura del fratello gemello, del tutto estraneo e disinteressato alle chiacchiere delle donne presenti, il quale preferì di gran lunga continuare a fumare, con una sigaretta ben accesa fra le labbra.
Olivia non si avvicinò, nascondendo solo il suo rossore evidente dietro al casco scuro, fingendo quasi di non aver notato la presenza del ragazzo, che nemmeno si curò di tutti quegli sguardi su di lui, continuando tranquillamente a suonare.
«Perdonate il disturbo, maestro…ma c’è forse qualcosa che ti preme dirci? Non so…qualcosa che riguarda forse tuo fratello? »
Caleb non smise di suonare, limitandosi semplicemente ad una delle sue enigmatiche e democratiche risposte, posando però sulla superficie del pianoforte il suo accendino d’argento, che scivolò fino alle mani della sorella, che potè finalmente accendersi la sua.
«Non mi disturbate mai, madre, ma dovrete essere un poco più specifica!
E poi, chiedete a me ciò che potreste chiedere a mio padre? »
«Tu sapevi che Cillian se la faceva con i Burke? Conosco bene tuo padre…e c’è più di quanto non si creda dietro a quel faccino da brav’uomo…»
Il ragazzo si trovò lo sguardo investigativo della madre su di sé, niente di insolito dopotutto, sbuffando quasi per quella situazione ripetitiva; Cecile si mise a sedere proprio sulla coda del bellissimo strumento, guardando il gemello con una voglia insaziabile di notizie, incrociando sotto l’acerbo seno le braccia.
Cal smise di suonare, rivolgendo il bel viso verso la madre, non sentendosi di mentirle come suo padre, quanto più a mantenere quella situazione di mera equità che andava avanti da anni.
«Questo prima o dopo essere andata a letto con zio Willem? »
«Caleb non vorrai davvero che ti chiuda le mani nella tua bella pianola, vero? Da quanto?»
Olivia si ingoiò la lingua a simili parole, sapendo meglio di chiunque altro quanto marcio ci fosse dietro alle persiane di quelle ville da sogno, fingendosi quindi sorda a tutto ciò che sarebbe venuto a seguito, mentre Cecile trattenne delle risate di tutto gusto, facendo dondolare la gamba come suo solito oltre il bordo del piano.
Il ragazzo guardò la madre, portando all’indietro i suoi ricci e indomabili capelli, identici a quelli di Cecile, tornando a sistemare il suo spartito sopra il leggio.
«Onestamente? Non so dirlo...ma non poco, evidentemente la volpe avrà fiutato qualcosa…lo conosci meglio di me, e sai che Cillian non fa nulla senza un determinato scopo…anche se questa volta sono anch'io molto confuso!
Però non credo ci sia molto di che preoccuparsi…madre…
Se davvero il matrimonio di Cedric fosse stata cosa certa, lo avremmo saputo!
E io non mi sbaglio, lo sai…credo che accadrà qualcos'altro!
E poi…Cedric con una francesina?
Che accoppiata sbagliata…quel mulo ha bisogno di qualcuno che gli insegni le buone maniere, o  semplicemente lo stare al mondo, cosa non poi così semplice…»
«Concordo con Hermes, e poi…lo sai, papà lo teniamo sempre d’occhio!
Non potrebbe mai rimpiazzarti…che farebbe senza di te? »
Rebecca rise quasi divertita alle parole della figlia, scrollandole il capo con una mano, accomodandosi poi accanto al ragazzo, sfiorando i bianchissimi tasti del pianoforte con i polpastrelli delle dita.
Il nome della famiglia Hockley era inciso appena più su, in oro sul nero lucido e smaltato dello strumento, che le fece ricordare con un accattivante sorriso tutto ciò che possedeva, non mancando certamente di coinvolgere anche i due figli in quel pensiero ben condiviso.
«E come potrebbe? Dove la trova una moglie che gli dà carta bianca come la sottoscritta? Non è questo che mi preoccupa, ragazzi miei…vostro padre non è il classico traditore che, per noia, lo butta a destra e sinistra…»
«Giusto, quello è zio Willem!»
«Esattamente, Cecile…e c’è un motivo se ad ereditare il tutto è stato tuo padre e non tuo zio Willem…dobbiamo stare molto accorti, figli miei, sento odore di cambiamenti all’orizzonte, e non si tratta di uno stupido e prevedibile matrimonio!»
Caleb e Cecile si guardarono negli occhi, tirando quasi a sorte.
«Colpo di stato?»
«Omicidio?»
«Familiari nascosti?»
«Wow, questa si che è pesante, Cal, non vorrai azzardare così tanto!
Un altro fratello? 
Per favore, se esce come Cedric me ne vado di casa…»
Caleb negò con il capo, ripensando attentamente alla serie di eventi a cui era stato personalmente testimone, osservando poi come lo sguardo di Olivia fosse perso sul suo, quasi imbambolato; si assicurò con una semplice occhiata il silenzio di tomba della giovane, la quale guardò perfino altrove, verso la splendida persiana che faceva penetrare quel sole pallido e spettrale assieme alla sua luce, su quei visi di porcellana, nobili e ricercati.
«Non credo siano i peccati di papà a darci noia, quanto quelli di qualcun'altro, mie attente e preoccupate signore...ma, a proposito di questo, dov’è lui? »
«Il comandante Darcy o Ares, dio della guerra?»
Rebecca rispose alla domanda della figlia chiudendo istintivamente la tastiera del pianoforte con un suono sonoro, che lasciò un eco non indifferente in tutta la stanza; Caleb lo interpretò senza bisogno di pensarci ulteriormente, offrendo poi alla madre un tiro della sua stessa sigaretta che finì per accettare, sebbene l’odore di fumo in casa le desse profondamente fastidio.
Espirò, con i bellissimi occhi azzurri fissi sugli alti edifici scuri che addobbavano Londra come un deprimente albero di natale, passando poi il mozzicone quasi terminato al ragazzo, scrollando via dal lungo vestito carminio di velluto della probabile cenere grigiastra.
«A questi quesiti credo proprio di saper rispondere, miei adorati fanciulli…Ares starà smaltendo la sbornia in quello scadente pub di periferia insieme a quei suoi amici di cui, sinceramente, ignoro i nomi ma non i cognomi!
E il comandante, se agirà come ha già fatto in passato, starà andando a recuperarlo…perché è questo che Cillian fa, recupera i pezzi del suo grande puzzle e li rimette insieme!
Tutto così perfetto, nel suo unico e immenso disegno…»
«Di cui noi tutti facciamo parte, immagino…peccato, mi dispiace quasi per lui!»
«Mmm? Che vuoi dire, fratellone?»
«Credi davvero che uno come Cedric si piegherà ai piani di papà? Andiamo, non siate ingenue, signore, quel ragazzo semina solo caos, ve lo immaginate a capo di una sua squadra?
Li porterebbe in bocca alla morte e li guarderebbe perire solo per divertimento…però, da buon osservatore quale sono, potrei anche aspettarmi un coup de theatre!
La storia si ripete, dopotutto, nessuno impara davvero dai suoi errori...e ora, scusatemi, ma noi 3 a breve avremo lezione con il professor Grint , dico bene, miss Burke?»
Olivia balzò quasi su se stessa, guardando dritto nei grandi occhioni chiari del ragazzo con un palese bollore sulle gote, annuendo quasi come una marionetta vivente; Cecile roteò lo sguardo di lato, già sbuffando di noia. 
«Sarà una lezione noiosa, molto noiosa…come tutte le altre dopotutto!
Vado a cambiarmi…Olly, vieni con me? Potrei aver bisogno di una mano con tutto questa…roba…»
Rebecca fulminò la fanciulla con la coda dell’occhio, facendo passare un chiaro messaggio tra madre e figlia, la quale lasciò perdere poco dopo, dileguandosi assieme alla giovane amica fuori dal salottino principale; Caleb notò perfettamente l’espressione di sua madre, appoggiando una mano comprensiva sulla sua mano, quasi di conforto.
«Hai già un marito difficile e un primogenito ingestibile, non prenderti pena anche per le sciocchezze adolescenziali di Cecile; non è una sprovveduta, sa quello che fa!
Anche se i suoi modi da minatore greco raccontano tutt'altra storia…Londra sa essere un posto molto pericoloso, specialmente per gli occhi di un giovane pieno di vita come mio fratello…»
«Londra è un posto pericoloso per chiunque, Cal…nessuno escluso, dai più giovani fino ai demoni come tuo padre, non è sicuramente Cedric l’unico ad essere nel mirino del fucile…ma mi domando, allora, chi sia la prossima vittima!»
Bella domanda; chi sarebbe stata la prossima vittima?
Lady Darcy, anzi, lady Rebecca Hockley conosceva bene le insidie sensuali e accattivanti di quelle strade, dannate dalle fondamenta,dai mattoni rossi impregnati di sporco e di disperazione, dove pochi se non pochissimi eletti riusciva a sopravvivere in superficie, limitandosi a galleggiare in essa per prendere dei rarefatti respiri di aria malsana.
Era tutto così sbagliato da sembrare quasi giusto.
Cardiff era lontana da lì, ma non tanto per distanza quanto più per essenza; era sicuramente una città di porto che aveva visto qualunque cosa, ma a Londra c’era un qualcosa di più: una purezza paradossale del peccato.
Il diavolo ne avrebbe fatto personalmente la sua puttana preferita.
Cillian invece, a differenza della moglie, era quasi diventato del tutto indifferente al fascino di quel posto, forse perché lo aveva sempre visto con quei suoi occhi freddi e distaccati che lo avevano accompagnato dacché era un bambino; un infante troppo maturo per la sua età, uno che aveva conosciuto il peccato e che lo aveva abbracciato senza rimorsi. Ma che scelta c’era, dopotutto?
Cybil aveva ragione su una cosa: accettare il lato peggiore di se stessi era l’unico modo per poter sopravvivere al proprio io interiore.
Cillian questo lo aveva fatto.
Aveva assaggiato il peccato, non si era mai trattenuto, bensì moderato, unico limite che gli aveva concesso di poter ragionare a mente lucida fino a quel giorno, mentre camminava fra le strade di quella città, della sua città. Aveva da poco iniziato a piovigginare, quelle gocce d’acqua erano quasi fastidiose al dire dei passanti che non fecero altro che rifugiarsi sotto i cappelli oppure le tettoie improvvisate, ma quei minuscoli cristalli freddi non diedero alcun fastidio all’uomo, che li lasciò scivolare indisturbati sui suoi vestiti e sul bordo del panama nero. 
Era quasi mezzogiorno.
Il via vai di gente si era notevolmente affievolito, ma il quartiere di Soho, ben lontano da casa Darcy, viveva nel favore della notte, di giorno non era altro che un pallido susseguirsi di alti palazzi tutti uguali, senza luci né vita, se non per qualche ubriacone ancora moribondo accasciato agli angoli delle strade; quello era un quartiere a luci rosse a detta dei giovani rampolli dell'alta società, che non facevano altro dalla sera alla mattina che organizzare costosi party fra quelle camere di case chiuse, nient’altro che i bordelli più lussuosi di tutta Londra, frequentati non solo dai dandy della zona, ma da chiunque avesse un portafoglio importante.
E lord Darcy sapeva bene quanto suo figlio amasse circondarsi di vizi lussuosi, naturalmente a sue spese, senza mai badare né al conto, alle conseguenze e figurarsi alle apparenze; il pensiero che un giorno, purtroppo non più così lontano, quel disgraziato avrebbe ottenuto tutti i titoli del suo casato lo mandava letteralmente fuori di testa, ma non tanto per i soldi, quanto più per il peso da sopportare!
Cillian era stato cresciuto da sua madre nella più rigida delle maniere, a differenza di suo padre Charles, disattento e con il cuore troppo tenero, che non era stato in grado di tenere la mente lucida, di separare gli interessi personali dalla ragione,e ancora oggi pagavano le conseguenze delle sue azioni. 
Sapeva cosa volesse dire essere sull’orlo del baratro, ma Cedric? Giocava con il fuoco senza paura di bruciarsi, credendo che il mondo fosse suo di diritto; Cedric però non sapeva una cosa.
Il diritto non si eredita, lo si prende con la forza.
Quel giorno il Darcy non era proprio connesso con il mondo circostante, non si accorse del tempo, dello spazio, semplicemente era rimasto solo con se stesso e i suoi innumerevoli pensieri che gli tenevano compagnia da giorni; uno scontro però lo riportò alla realtà.
Sbatté con la spalla contro qualcosa, anzi, qualcuno, che andava nella direzione opposta alla sua, obbligandolo quasi meccanicamente a voltarsi all’indietro, a ¾ verso una figura in nero esattamente come lui: due anime nere speculari, entrambe rivolte l’una verso l’altra a nemmeno mezzo metro di distanza.
La pioggerellina non si curò certo di quel fortuito e inatteso incontro, continuò a cadere sui loro abiti, visi, delineandoli come un pennello sulla tela bianca.
Cillian per un momento si limitò quasi a mormorare una qualche frase di scuse, non poi così intenzionato a proseguire oltre, ma quando incrociò quel viso dovette fermarsi sul posto, stregato dal verde intenso di quello sguardo lontano anni luce dagli altri.
Dal canto suo, la giovane donna, vestita in maniera desueta per l’epoca, ricambiò quello sguardo quasi assente e piacevolmente confuso con un sorriso divertito, con i corti capelli neri incollati all'indietro sul collo e sulle guance, un po come la camicia bianca sottostante al cappotto pece, attaccata al corpo con un effetto vedo non vedo non indifferente.
«Vi sentite bene? Sembra che abbiate visto un fantasma…»
«Mmm? No, è solo che…lasciate perdere, scusatemi, ero con la testa altrove, non volevo importunarvi, signorina…avete scelto un giorno poco adatto per fare una passeggiata qui, non credete?
Siete fradicia…» commentò quasi di rimando l’uomo, che si sollevò la visiera del cappello ben oltre i suoi profondi occhi blu, liberando la sua vista da qualsiasi intralcio. La ragazza si guardò gli stessi abiti madidi di pioggia, facendo quasi spallucce a riguardo, guardando poi verso lo stesso cielo.
Un grigio pallido e malinconico, quasi maledettamente poetico.
Riportò l’attenzione sull’uomo, osservando bene quei suoi modi, quell’atteggiamento attento e riservato, ma non al punto da risultare austero o sdegnato.
«Ha importanza per caso? E poi, voi non mi sembrate forse asciutto…vedetela così, la pioggia può nascondere quello sguardo mesto che avete da diversi minuti, dopotutto non è sempre una cosa negativa…
Io la trovo terapeutica, e anche voi pensate la stessa cosa, altrimenti un illustre gentiluomo come voi non si sognerebbe mai di girare per questo quartiere a piedi, in pieno giorno, quando potrebbe farsi scortare dal suo autista per tutta la città, dico bene, my lord?» 
«Vi state prendendo gioco di me, signorina? Percepisco un certo sarcasmo dietro quel “my lord”, ma potrei sbagliarmi!
Non siete di queste parti…vero?» 
La ragazza non rispose a quella domanda, guardandosi piuttosto attorno, depistando momentaneamente il nobiluomo, ancora fermo esattamente dov’era rimasto poco prima; non aveva mai visto quel viso, ma sembrava conoscerlo terribilmente bene. Quasi non si accorse della profonda cicatrice che occupava gran parte di quel volto, tanto era immerso in quegli occhi, ma dovette svegliarsi e ristabilire quei limiti che per lui erano tanto sacri ed invalicabili, ma solo in determinati casi.
La giovane si avvicinò, un passo di troppo per il buon costume del tempo, ma nessuno dei due parve fare caso alla cosa, nemmeno Cillian, che si ritrovò improvvisamente derubato del suo cappello, scoprendo così quella matassa di bruni capelli mossi, ora del tutto esposta all’acqua e al vento, esattamente come quella folle appena incontrata sulla sua strada, irruenta come un temporale estivo.
Lei lo guardò, mettendosi sul capo umido lo stesso cappello quasi in maniera infantile, sistemandolo all’indietro il giusto da lasciare ben in vista quello sguardo sfacciato, diverso e si, forse nemmeno appartenente a quel mondo.
«Dipende cosa intendete con queste parti, my lord…non vi spiace se lo prendo io, vero?
Sapete, avrò dimenticato il mio da qualche parte, come dite voi, ma non so proprio quale…ma alla fine non conta da dove veniamo, quanto più dove stiamo andando…giusto?» 
Cillian fu tradito da un sorriso involontario sulle labbra rosee, annuendo senza indugio, portandosi alle labbra una sigaretta che teneva nel taschino del pregiato soprabito e se l'accese con il suo accendino dorato, con le sue iniziali incise nell’oro: C.D
Smise di piovere.
La straniera gli mise personalmente una mano nella giacca, frugando in maniera equivoca fino a tirare fuori un’altra di quelle sigarette artigianali, di fattura rinomata in tutta Londra, appoggiandola anche lei fra le labbra; Cillian accese la piccola ma potente fiamma a gas ma la ragazza lo fermò, scuotendo il capo, avvicinandosi piuttosto pericolosamente alla bocca dell’uomo, arrivando ad accendere la sua di sigaretta con il mozzicone ardente di quella del lord, restando così per alcuni secondi che parvero interminabili.
Una tiepida nube grigia fuoriuscì dalle labbra della ragazza, la quale ringraziò con lo sguardo il lord ancora intorpidito, come se la pressione della pioggia e di quello sguardo lo avessero assopito al punto da stordirlo completamente.
Pochi istanti dopo, di quella giovane, non ci fu più traccia. 
Riprese a piovere.
Solo allora Cillian si svegliò, accorgendosi perfino di aver proseguito fino ad allora nella parte opposta alla sua direzione iniziale, sentendosi quasi turbato: uno come lui che perdeva la strada da seguire?
Era una cosa che non doveva succedere e avrebbe dovuto fare qualsiasi cosa affinché ciò non accedesse.
Ma questo era il pensiero di lord Darcy, mica di suo figlio Cedric.
Cedric non era poi così lontano dal cuore di Soho, andando verso ovest, dove le bettole più scadenti e marce della città pullulavano di tossici e di ubriaconi, i posti dov’era più facile reperire qualche divertimento senza dare troppo nell’occhio.
Il Molly Malone's era proprio una di quelle taverne nei sobborghi del quartiere Whitechapel, abitato principalmente dagli immigrati in cerca di fortuna in quella terra ostile e non poi così ospitale con gli stranieri, specialmente se di religione cattolica o ebrea. Eppure il giovane erede di casa Darcy non era lì per pregare o simili, quanto più a cercare dell’autentico sballo fra le mura di legno pieno di termiti del vecchio locale, di cui era assiduo frequentatore da ormai diverso tempo.
C’era poca gente, l’orario di punta verso le 2 del pomeriggio, meglio restare lontani da sguardi indiscreti, specialmente per quel tipo di trattative losche e poco adatte ad un giovane così in vista e così…spericolato.
«Ho detto che te ne do al massimo 20 grammi, non di più…con quei soldi non ci pago nemmeno la dose per uno scarafaggio, ragazzino…e non insistere Cedric, perchè non mi convinci!
O alzi la quota o te ne torni nella bambagia dove sei stato fino ad oggi…non mi pagano per perdere tempo…» 
«Calma, calma, signori, nessuno vuole far perdere tempo a nessuno, siamo tutti uomini d’affari qui che cercano di soddisfare i loro tornaconti personali…nient’altro di più semplice no?
Io devo organizzare una festa e mi serve roba in quantità, la migliore che avete, ma non posso certamente farmi notare…capirete anche voi che devo mantenere un basso profilo…questi vizi non sono poi così economici!» 
Cedric, seduto in uno dei tavoli più appartati del Molly Malone’s, stava trattando con due uomini di losca natura, vestiti di nero e con due cappelli abbastanza logori sul capo, dallo sguardo quasi terrificante; se suo padre lo avesse visto in quel preciso momento lo avrebbe diseredato all’istante.
Ma non era solo, affatto; in sua dolce compagnia c’era la fedele compagna di scampagnate, Beatrix Lovett, una sorta di garanzia della presenza del ragazzo, perché dove c’era lui, c’era anche l’inseparabile Trixie, seduta proprio accanto al Darcy camuffata da ragazzaccio di strada, con un cappello dalla lunga visiera sul viso. A differenza di Cedric, però, non sembrava essere poi così entusiasta, quanto più guardinga e in allerta, continuando a girarsi a destra e sinistra come un falco. 
I due spacciatori, uno alto e magro mentra l’altro era pingue e basso, si guardarono con la coda dell’occhio, guardandosi poi nelle tasche dei loro voluminosi giacconi, quasi a controllare che tutta la roba fosse al proprio posto, ritornando poi a fissare con quegli sguardi vitrei e senz’anima quei due mocciosi, perchè tali erano, quasi divertiti; il più basso, che sembrò essere quello con la trattativa fra le mani, diede una gomitata buffa al compare spilungone, scuotendo la testa.
«Hai sentito il piccolo lord? Vuole fare lo spilorcio con gente onesta come noi pur di non pagare il prezzo autentico della merce…ragazzino ma cerchi guai per caso? 
O ci dai la cifra che ti abbiamo detto, o tu non vedrai nemmeno un millesimo di quella polverina, ci siamo intesi?
Perchè non vai a fumarti il basilico che usano i domestici nelle tue cucine? O lo hai già fatto e lo hai finito?
Però…se proprio ci tieni alla nostra roba, potremmo metterci d’accordo in tanti modi…insomma, non sono uno così legato solo al denaro, ma a tutti i piaceri che la vita ha da offrire!» 
La nauseante allusione dell’uomo fece venire un’espressione di autentico disgusto sul viso della ragazza accanto a Cedric, che si voltò di colpo dall’altro lato con un dito medio sollevato a mezz’aria; il ragazzo rise di gusto a quella squallida proposta, con quel suo largo sghignazzo che aveva un non so che di macabro, una risatina simile a quella dei clown caricati a molla all’interno dei carillon per bambini. 
Mise le mani in alto, portando all’indietro i lunghi ciuffi corvini, lasciando così i suoi profondi occhi bluastri, rubati palesemente al padre, a scrutare come un avvoltoio i due avidi porci che aveva davanti, iniziandosi a frugare fintamente nelle tasche della camicia nera, dove il rumore di carta fece tendere le orecchie dei due spacciatori.
«Avete perfettamente ragione, due gentiluomini come voi non vanno certamente presi per il naso da un ragazzino come me!
Sono proprio sciocco…posso alzare la quota del 20%, ma non di più, ma pretendo almeno la roba buona, e non quella porcheria indiana che mi avete cercato di vendere l'ultima volta..
Che ne dite? A me pare un’offerta onesta!» 
Trixie guardò preoccupata il ragazzo, sussurrandogli qualcosa all’orecchio, ma quello le rispose semplicemente con lo sguardo, quasi a rassicurarla; ma come li avrebbe pagati? Aveva appena la metà della cifra che gli stava proponendo!
Dannato idiota, combinava sempre e solo guai.
I due uomini annuirono tra di loro, lasciando poi la parola a quello più alto.
«30% e la chiudiamo così…» 
«25% e vi farò una pubblicità d’oro! Sono sempre un Darcy, conosco molta gente e ci sarà mezza Londra alla mia festa…quel 5% in più sarà un lontano ricordo quando verrete ricoperti dalle richieste dei miei ospiti, ve lo garantisco!
Parola di Darcy!» 
Trixie si alzò dal tavolo quasi stufa da quella storia, lasciando così quei 3 a concludere quella sorta di trattativa assurda, avvicinandosi al bancone della taverna coi palmi sul bordo, non toccandolo troppo però per via del giallastro sudiciume dal puzzo di birra scadente. 
Si rivolse con quel suo sguardo costantemente scocciato e alterato alla oste che stava di spalle, intenta a pulire i bicchieri con un vecchio panno umido, lasciando poi nell'acquario le stoviglie ancora sporche, voltandosi così verso la giovanissima e abituale cliente. Ciò che rendeva speciale il Molly Malone’s non era sicuramente il posto o ciò che serviva, anzi, per quello c’era bisogno di una multa a livello sanitario, quanto più la sua enigmatica e bellissima proprietaria, Molly, una bellissima donna dalle origini sconosciute che aveva preso in gestione quel postaccio ormai da parecchi anni.
Poteva avere sui 35 anni, forse 40, alta e slanciata, dai capelli mossi nerissimi raccolti con una pinza sulla nuca, il naso all’insù, la carnagione bronzea e i due grandissimi occhioni scuri: una bellezza greca quasi, del tutto fuori luogo con i visi pallidi e rossastri di quella città sempre grigia.
Molly, o come si faceva chiamare, si rivolse a Trixie con un sorriso gentile, versando una specie di succo nel bicchiere buono, avvicinandoglielo sul davanzale.
«E così Cedric a breve festeggerà il suo compleanno? Ha un modo tutto suo…di cercarsi del divertimento, non potreste cercare qualcosa di meno pericoloso?
Quella è gente che non scherza…» 
«Cedric sa quello fa, o almeno è quello che spero, e poi non è nulla che già non abbia fatto, queste truffe da moccioso gli riescono sempre bene!» 
«Ti fidi così ciecamente di lui? » 
«Ovvio che si…» 
«Davvero, davvero? E allora come mai ti sei travestita da Oliver Twist? Paura di essere riconosciuta, miss Lovett? Non ti preoccupare, non verrà nessuno dei tuoi conoscenti a scoprirti, ma non posso dire lo stesso per il baldo affarista lì in fondo!
Se pensa che quei due non si accorgeranno, prima o poi, dei soldi falsi si sbaglia di grosso…ma se dici che sa quello che fa, allora ti lascio alle tue convinzioni…
Bevi pure, offre la casa!» disse Molly lasciandola al suo drink, tornando poi silenziosamente alle sue faccende, mentre Trixie osservò l’amico avvicinarsi con quel sorrisetto a 32 denti stampato in faccia, con le tasche della giacca ricolme di un qualcosa di inequivocabile.
Incredibile, l’avevano davvero bevuta?
Roba da matti.
La bionda, quasi sdegnata, mise le mani in avanti, non volendo nemmeno sentire il resto della truffa, mentre l’altro prese posto accanto alla ragazza, sedendosi però di spalle al bancone, con i gomiti appoggiati sopra, a gambe accavallate e una sigaretta ben accesa fra le carnose labbra.
«Opsy…potrei aver colpito di nuovo! E Cedric Darcy porta a casa il montepremi…di nuovo, che noia, è stato troppo facile! 
Be? Che è quel faccino da iena scazzata? 
Fammi un sorriso, Trixie, potrai pippare cocaina in quantità tra pochi giorni…» 
Il ragazzo afferrò il viso di Beatrix per la mandibola, stringendole le labbra in una buffa smorfia a cuore, ma quella gli schiaffeggio stizzita la mano dal lato opposto, minacciandolo quasi con il suo sguardo turchese, dondolando nervosamente la gamba da un lato.
«Tieni giù le zampe, Darcy, e poi non darei la cosa per scontata! Se quei due ci scoprono ci fanno la pellaccia, allora si che dovrai chiedere l’aiuto di tuo padre in ginocchio, lo dovrai pregare come un santo!» 
Cedric a quell’immagine roteò gli occhi, indicandosi con il suo indice del tutto incredulo, chiamando poi Molly con la mano per farsi riempire il suo bicchierino scheggiato fino all’orlo. 
Lo calò giù d’un fiato, tamburellando poi con le lunghe dita sul bancone, lasciando scoperto, alla luce della giallastra della taverna, un livido ancora fresco sullo zigomo; poco dopo qualcun’ altro si sedette al bancone, ma passò del tutto inosservato agli occhi dei due giovani, piuttosto distanti dalla figura appena arrivata.
Beatrix inarcò il biondo sopracciglio a quella botta, sfiorando con i polpastrelli la guancia di Cedric, che scansò maldestramente quel tatto preoccupato, allontanandosi quasi volontariamente di un passo.
«Non è niente, è un graffio del cazzo…» 
«Lo vedo bene, e allora perchè ti gira tanto se provo a parlarne? Ti comporti come un cane rabbioso da giorni, Cedric, che cavolo hai? Mi dici chi ti ha dato quel pugno?
La lista è molto fitta, quindi dammi un suggerimento!
Tuo padre?» 
«A costo di rovinare questo faccino malandrino? Nah, mio padre non è uno violento…» 
«Ma potrebbe diventarlo se sapesse che spendi i suoi soldi in droga e compagnie di dubbio gusto!» 
«Per cortesia, Trix, sei la prima compagnia di dubbio gusto che frequento, ma almeno non ti pago per questo…» 
«Schifoso figlio di…» 
Il bruno le mise una mano davanti alla bocca, fermandola dal proseguire oltre, sebbene la ragazza avesse avuto l’attraente idea di tirargli dietro tutto il set di bicchieri vecchi della taverna: c’era qualcosa di strano in Cedric, e non si trattava del suo solito carattere da moccioso viziato e scorbutico, quanto più di un tarlo che rimuginava dentro la sua testa da tempo.
Ma cosa?
La Lovett lo guardò effettivamente preoccupata, soprattutto da quel silenzio, ma poi, finalmente, parlò.
«Duncan Griffith. » 
«Eh? E cosa c’entra adesso quello smidollato? No aspetta, non mi starai dicendo che a darti il cazzotto è stato…ma com’è possibile? 
Se la faceva sotto fra le grazie di suo padre e adesso, misteriosamente, ha trovato il coraggio?
E tu che hai fatto?» 
«Gli avrei anche dato il resto, ma quel pidocchio è stato salvato dalla cavalleria appena in tempo!
Colleghi di tua sorella, credo, insomma, i pezzi grossi della Hunter…2 damerini più in alto di me, quella puttanella di Evelyn Burke che adesso evidentemente lo succhia al loro capo, tutti amici di Rhys Griffith…
Diciamo che le probabilità di vincere erano un tantino scarse, miss Lovett!
Ma non finisce qui, te lo garantisco…avrà un trattamento che solo Cedric Darcy sa riservare…ed è proprio per questo che l’ho invitato personalmente alla mia festa!» 
Beatrix Lovett non si sarebbe mai sognata di sentire quelle parole, o almeno non pronunciate dal diabolico ragazzo in persona, deglutendo a fatica quel sorso di succo rimastole praticamente in gola.
Sulle labbra di Cedric comparve la sua firma, quel sorriso maligno e perfido che tanto lo caratterizzava, lasciando intendere alla cara amica che dietro quell’invito profumato non c’era altro che una delle vili trappole del giovane, firmate ovviamente Darcy.
Trixie corrispose quello sguardo indemoniato, avvicinandosi il giusto, quasi a sussurrare.
«Qual è il piano, lord Darcy? Sono tutta orecchie…» 
«Far sì che questa festa resti indimenticabile, dopotutto, quando ti ricapita di distruggere un Griffith davanti a tutta la società inglese?
Hey, amico, con tutto lo spazio che c’era proprio qui dovevi metterti? Non lo vedi? Stiamo parlando…fottuto bifolco…» ringhiò quasi infastidito Cedric, poichè tra lui e la Lovett si infilò una terza figura sconosciuta, completamente vestita di nero e con un cappello stranamente familiare sul capo, dividendo appositamente i due per chissà quale motivo.
Lo straniero allungò semplicemente una banconota stropicciata all’oste, la quale la accetto meravigliata, iniziando così a preparargli un drink non esattamente leggero, non osando nemmeno infilarsi in quei litigi di bottega: se lo avesse fatto per ogni scazzottata avvenuta al Molly Malone’s non ne sarebbe uscita più!
Cedric si lasciò sfuggire a fior di labbra una risata quasi indignata da un simile affronto, osando solamente mettere una mano sulla spalla di quella figura nera e sconosciuta, ma avrebbe pagato bene quel tentativo miserevole di confronto, poichè lo straniero, o meglio, straniera, gli afferrò il polso con la velocità di un rettile, sbattendolo a terra proprio come uno straccio per pavimenti. 
Trixie trasalì a quella manovra tanto lesta, scansandosi all’indietro fino a far cadere il suo stesso sgabello, con gli occhi sgranati e il viso corrucciato.
«Ma chi…cazzo credi di essere, stronzo?» 
Nessuna risposta.
La donna si tolse dal capo il cappello da poco rubato, bevendo il liquore appena servito con tutta calma, non curandosi né della ragazza o del giovane a terra il quale, quando tentò di alzarsi dal suolo, si trovò il tacco dello stivale antracite della sconosciuta sul petto, tenendolo fermo sul suolo lercio, finchè non finì di bere fino all’ultima goccia di quel pregiato cognac.
Cedric cercò di mettere a fuoco la vista, nonostante la botta presa, tirandosi sui gomiti per quel che poteva, capendo solo in quel momento che si trattasse di una donna, sotto quei pesanti abiti neri che conosceva benissimo, inconfondibili.
La giovane guardò dall’alto in basso, con uno sguardo segretamente compiaciuto, l’espressione di pura sorpresa del ragazzo, abbassandosi con gli avambracci sul suo ginocchio, caricando più pressione sulla suola della scarpa ora ben impressa sul torace del Darcy, il quale si lasciò sfuggire una lieve smorfia di fastidio.
«Vedo che non hai perso il tuo tocco…bulletto, non ti è bastata proprio una lezione, vedo…credo proprio che dovremo porre rimedio a questo!
Non pensi…Cedric?» 
Il ragazzo aprì bene i grandi occhi blu, ora mettendo a fuoco quel volto che non vedeva da tanto, tantissimo tempo, notando un particolare che non aveva mai visto, ma non notare quella cicatrice era impossibile, ma non era quella a caratterizzare quel viso, quanto più quegli occhi.
La donna sorrise, porgendogli quasi sarcasticamente la mano, coperta da un guanto nero di pelle, per farlo rialzare, non togliendo però dallo sterno del ragazzo quel tacco.
«Non mi riconosci? Darcy? Peccato…in genere non si scorda la prima persona che te le da di santa ragione…come dici tu!» 
«Io non ho mai detto di averti dimenticata…Eris…Griffith…semplicemente non credevo che ti avrei mai più rivista. » 
Il ragazzo accettò quella mano, tirandosi su con qualche ammaccatura, ma non sentì nemmeno un graffio in quel momento, quanto più una sorta di folgore: ricordava esattamente quegli occhi, quel viso profondamente cambiato negli anni, quell’atteggiamento.
Era lei, non c’erano dubbi.
Eris guardò il ragazzo da capo a piedi, trovandolo notevolmente cresciuto, ma affatto cambiato, ma alla fine, chi di loro lo era davvero nel profondo?
Trixie non gradì affatto quella sorta di rimpatriata, arrivando immediatamente al fianco di Cedric, quasi come una sorta di scudo, ma non ottenne chissà quale considerazione da parte della capitana, la quale invece tirò fuori dalla giacca una mancia abbondante per l’oste di casa, già pronta a riprendere il suo cammino, ricordandosi poi del cappello dell’uomo incontrato poco prima, che rimise sul capo.
«Credevo non saresti mai tornata…sono passati anni da quando sei andata via…» 
«Eppure eccomi qua, bulletto arrogante!
Sai sono quasi felice che tu non sia cambiato, mi renderete il ritorno a casa molto più facile del previsto,a questo punto…» 
«Ritorno…a casa? Sei tornata per restare? » 
«La cosa ti turba, Darcy?» chiese Eris gia prossima ad incamminarsi verso l’uscita, ma la risposta fu tutt’altro che negativa, poichè il giovane si mise le mani nelle tasche con un sorriso quasi idiota sulla bocca, sorriso che non passo di certo inosservato agli occhi di Beatrix, con  i pugni teribilmente serrati ai fianchi.
Cedric negò col capo, rimanendo stregato fino agli ultimi secondi, non sentendo neanche più il livido sulla guancia o quello in probabile formazione sul petto.
«Immagino che allora ci rivedremo per certo…magari, alla mia festa! Si consideri ufficialmente invitata, capitano Griffith…» 
Eris inarcò un sopracciglio ironico a quella sorta di invito, mettendo già una mano sulla porta d’ingresso, non riuscendo minimamente a trattenere quella risata spontanea, lasciando confusi i due rampolli.
«La festa a cui servirai del delizioso bicarbonato di sodio? Oh,certo, non me la perderei per nulla al mondo…sai, dovresti controllare meglio il tuo giro di amicizie, potresti rimanere…fottuto…» 
Il Darcy aggrottò per un momento le sopracciglia nere, non capendo di cosa la ragazza stesse parlando, finché la stessa Eris non gli tirò fuori dalle tasche degli inequivocabili sacchettini bianchi, sbattendogli praticamente in viso, facendo mettere una mano completamente basita sul viso di Beatrix, che borbottò all’orecchio di Cedric la verità.
«I tuoi amici hanno fregato te prima che tu potessi fregare loro, questa non è cocaina, è bicarbonato…idiota….Cedric ma dove cazzo stai con la testa?» 
Bella domanda.
Cedric era completamente altrove, nemmeno sentì le parole dell’amica, guardando piuttosto quella sorta di anima nera abbandonare il locale, ma non fu l’unica visita che il ragazzo avrebbe ricevuto, perché la presenza grave di suo padre si palesò esattamente al posto di quella di Eris, con un’espressione e un fisico nettamente diverso da quello della famosa capitana.
Lo sguardo di Cillian lasciava intendere solo una cosa: erano guai.
Il ragazzo sospirò, a denti stretti, ancora mentalmente steso sul pavimento sotto quello sguardo di smeraldo.
M’ha fottuto.

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Capitolo 16
*** Still trying to find my place in the world. ***


Chapter 16: Still trying to find my place in the world.

Current Day
On the way to somewhere, who knows?

Il sonno era l’esperienza probabilmente più vicina alla morte eterna. Quentin si svegliò di soprassalto, come di ritorno da un feroce incubo, annaspando quasi più aria possibile dalle labbra, ma dovette calmarsi immediatamente non appena si accorse di aver quasi spaventato gli altri passeggeri presenti nella sua stessa cabina.
Ora ricordava perché era lì, dannazione!
Si mise una mano tra gli splendidi capelli ricci, abbandonando poi il capo sulla testata della sua poltrona non poi così scomoda, con lo sguardo fisso sul grande finestrino che dava su quelle fredde steppe inglesi, mentre andava sempre più velocemente verso sud.
Il suo capitano era stato ferito, Eris era stata degradata e mandata via quasi di forza, e quel folle di Trystan, non appena appresa la notizia, non aveva fatto altro che correre dietro le sue tracce da fuggitiva; Brando era partito poco prima di lui, e lo stesso toccò anche al giovane Queensbury, per tenere a bada, secondo Belinsky, il testardo e impulsivo tenente Griffith.
Quella stramaledetta famiglia riusciva a perseguitarlo perfino quando non era del tutto sua la colpa, sebbene avesse omesso degli importanti dettagli, ma che avrebbe dovuto fare?
O lui o gli altri, non c’era altra scelta.
Fuori pioveva senza sosta, come una tempesta aggressiva prossima a spazzare via tutto, come le chiome degli alberi piegate disperatamente in direzione della corrente, un paesaggio deprimente per uno come Quentin, amante del sole, della luce, dell’aria aperta, un passerotto che avrebbe solo voluto volare via, ma che si era ingabbiato con le proprie mani in un mondo che, con lui, non c’entrava niente.
Sarebbe dovuto giungere a Cardiff entro le prime ore del mattino, ma non era quello il suo posto, poiché aveva lasciato parecchie questioni irrisolte in quell’unica e odiosa città di merda, dove i raggi d’oro del sole non erano mai arrivati: Londra.
Il treno si fermò finalmente alla stazione e quel fiume di gente, grigia come la città, si riversò fuori, nelle strade, nelle vie, l’importante è che fossero tutte lontane da lui. Non aveva nemmeno un ombrello con sé, ma non gli importò poi più di tanto visto che l’unica nota positiva era l’essere svegliati definitivamente da quell’incubo con la sensazione dell’acqua fredda sul viso.
Era un giorno come quelli, uno dei tanti, in cui lo aveva conosciuto, quasi un paio, forse tre anni prima; si era rifugiato come un gatto all’interno di quel fatiscente teatro, ancora vuoto per via dell’orario, e lì lo aveva incontrato, sul quel palcoscenico improvvisato, senza costumi o trucchi alla buona; Elaijah non aveva bisogno di alcun sostegno o controfigure per mandare avanti il suo spettacolo, era un attore in grado di recitare senza copione, perchè se lo scriveva da solo senza l’aiuto di sceneggiatori, coreografi o registi.
Aveva un fascino pericoloso e sinistro, un chiaro segnale dall’arme che avrebbe dovuto mettere in guardia perfino il più idiota della città, ma non appena la serpe iniziava a parlare si cadeva vittima del suo incatesimo ipnotico; il ragazzo si massaggiò il collo quasi a ripararsi dal vento pungente.
Per un momento,anche lui era caduto fra quelle labbra.
Chiuse gli occhi, lasciandosi quasi guidare dal suo innato istinto che, quasi sempre, era riuscito a salvarlo dal perdersi nel vuoto più totale, riconoscendo le strade come una piantina, già percorsa in passato più volte in lungo e in largo. Avrebbe potuto cercarlo anche al Royal Circus, ma era molto meglio andare alla fonte, che Quentin aveva già visitato diverse volte.
L’appartamento del giovane attore stava in uno dei quartieri meno raccomandabili di tutta Londra, nell’East End, più precisamente a Newham, zona che quasi portava alla mente del giovane francese antichi ricordi, quelli della sua infanzia, vissuti in un ambiente affatto diverso da quello, nella sua ormai lontana e amara Parigi, in cui non metteva piedi ormai da moltissimi anni. 
Era una delle palazzine più sgangherate e malmesse della zona, un po come tutte del resto, dove il portone d'ingresso rimaneva aperto notte e giorno, dalla serratura rotta chissà da quanto tempo, ma in quel quartiere si conoscevano quasi tutti, quindi i furti forse erano gli ultimi dei problemi; il ragazzo entrò ugualmente, salendo le scale scricchiolanti facendo però attenzione alle stesse mura scrostate, dove la vernice scadente, dal terribile odore di muffa, veniva giù con un semplice soffio di vento.
Si fermò per un momento sul pianerottolo intermedio, sentendo uno strano freddo dietro la schiena: si voltò di scatto ma non trovò assolutamente nessuno, si sentiva solo la voce squillante di qualche venditore ambulante che girava per quelle strade.
Era veramente diventato così paranoico?
Salì quelle ultime scale fino all’ultimo piano, dove l’appartamento numero 33 lo attendendeva in maniera sinistra con la sua porta grigia chiusa, lo zerbino malandato davanti all’ingresso e il numero 3 prossimo a cadere dalla stessa superficie di legno marcio. Gli tremò quasi la mano, non poi così pronto come credeva, arrivando a sorreggersi persino su quella porta di spalle: non doveva venire da solo, ci sarebbe caduto di nuovo, ma ormai era lì e non poteva tornare indietro a mani vuote 
Non dovette nemmeno bussare poichè la porta, al semplice tocco con la sua mano, si aprì di colpo lasciando l'ingresso completamente libero; Quentin rimase effettivamente perplesso, entrando silenziosamente come un topolino all’interno dell’appartamento apparentemente vuoto. Era esattamente come lo ricordava, semplicissimo, ordinato, con un gradevole profumo di lavanda o chissà che altro, illuminato solo dalla finestra semichiusa che dava sul vicoletto nel retro del palazzo.
«Elaijah? Elaijah ci sei ? Sono io…Quentin…Elaijah? Evidentemente non sei qui…» disse quasi in risposta alla sua domanda, addentrandosi in quella piccola casa con tutti i riguardi, sebbene la curiosità lo stesse mangiando vivo dall'interno. La piccola libreria nel soggiorno era piena di grossi e pesanti faldoni, libri di ogni genere, per non parlare della quantità di piante verdeggianti poste in ogni angolo libero del salotto, sembrava quasi una serra; il ragazzo finì pure per starnutire, sicuramente per la presenza di qualche rosa nei paraggi che non era ancora riuscito ad individuare, ma non ne aveva vista nessuna.
«Salute! »
«Emm? Ah, si grazie…no, aspetta un attimo…chi cazzo…e tu chi cazzo saresti?»
«Non solo sei un topo d’appartamento dai gusti discutibili, ma sei pure maleducato? Però, certo che se a Parigi vi fanno tutti così le prossime vacanze me le farò da un’altra parte, forse a sud, sai, verso la Costa Azzurra!
Ma credo che il massimo che tu abbia visto siano solo i bassifondi di Montmartre…» cantilenò quasi stizzita e snob la voce angelica e tagliente di Naberius, accomodato a gambe accavallate sul divanetto di modeste dimensioni nel bel mezzo del salotto, con le lunghe braccia avvolte sulla testata della sua seduta, con i capelli argento sciolti lungo le spalle. Quentin si mise quasi sulle difensive, non aspettandosi certamente una vista simile, anzi, eppure quel viso così particolare lo aveva già visto, soprattutto quel profumo, sentito già una volta, soprattutto per via di quel retrogusto alla rosa che gli urtava pesantemente le narici.
«Allora sei tu che hai lo stesso odore di una puttana in bella mostra a Porte Dauphine…» 
Il demone inarcò un sopracciglio chiaro, annusando lui stesso l’aria circostante, mettendo poi un dito in alto, coperto dal bianco guanto di camoscio, messo in risalto dalla camicia nera di lino che aveva addosso.
«Se con “odore” intendevi dire profumo di classe, si, hai capito perfettamente da dove veniva, dolcezza…tu invece puzzi di cane bagnato…e, sinceramente, non ho mai amato i cani…hanno il brutto vizio di giurare fedeltà alla prima persona che gli accarezzi la pancia…ma credo che tu ne sappia qualcosa, giusto…Quentin, dico bene?» 
«Ci conosciamo? Sei sicuro di non avermi confuso per qualcuno dei tuoi servitori? Sai, in genere frequento gente della mia stessa classe sociale, immagino di doverti parlare in questi termini, ma ti do una dritta…
La rivoluzione è finita da un bel po, e non a favore dei principini come te, te lo posso assicurare!» 
Il Queensbury rispose di tutto tono a quelle provocazioni mirate e del tutto consapevoli, non perdendo di vista nemmeno per un momento quella sorta di cherubino uscito da qualche quadro di Michelangelo, sebbene tutto potesse essere quello tranne che un angelo.
Naberius, dal canto suo, squadrò bene la figura slanciata del giovane parigino, disintegrandolo praticamente con gli occhi, molecola dopo molecola, per poi rilassarsi un momento, sorridendogli quasi in maniera beffarda.
«Stai tranquillo, recupereremo la lezione di storia in un altro momento, tu piuttosto cosa ci fai qui? Non lo sai che entrare in casa d’altri senza il loro permesso è da maleducati?» 
«A meno che tu non sia il proprietario di questo cacatoio di condominio, scusami se te lo dico, ma anche tu sei entrato senza chiedere…e non ho ancora avuto il piacere di conoscere il tuo nome, vostra altezza!»
«Naberius…marchese dell’inferno…carino. Già…proprio quel marchese…» 
I pugni di Quentin si serrarono di colpo, chiudendo gli occhi di seguito, mordendosi quasi il labbro di rimando. 
Chiaro…uno stregone che collabora con dei demoni? C’era da aspettarselo!
Finse la totale indifferenza, mettendo le mani sugli asciutti fianchi con uno sghignazzo notevolmente sorpreso, muovendo alcuni passi in avanti verso lo stesso demone che aguzzò lo sguardo, quasi a vedere oltre quella messinscena ben strutturata.
«Lo trovi divertente, cacciatore? Traditore, imbroglione? Come dovrei chiamarti esattamente?» 
«Onestamente? Io ti trovo esilarante, Naberius…ma sei fuori strada, sono un amico di Elaijah ed ero venuto a cercarlo per parlargli, e non per rubargli in casa, anche se da come ti presenti…credo che non sia tanto il suo appartamento quello che cerchi di proteggere, quanto più il suo…adorabile culo…ma potrei essere in errore!
Dimmi…da quanto sei la puttana di Elaijah? » 
«Io non sono la puttana di nessuno, microbo umano, vedi di non provocarmi…» rispose senza mezzi termini il demone, che fece vibrare perfino i vetri sottili di quelle finestre a seguito di quella sorta di insulto, bloccando il cacciatore alla parete come un bersaglio delle freccette, il quale non riuscì più nemmeno a muoversi.
Quentin non era stupido, cercava semplicemente di capire fino a che punto quella sorta di nuovo alleato nemico potesse spingersi, e nessuno ti minaccia a vuoto, non  senza un valido motivo alle spalle.
Non si divincolò nemmeno, si sarebbe ferito da solo, preferendo così guardare le mosse di quel viziato reale dell’inferno che, dopo alcuni secondi, si alzò dal vecchio divanetto sgangherato, scrollandosi i bei vestiti con la mano libera dal guanto bianco, arrivando praticamente a meno di mezzo metro dal cacciatore immobilizzato, accarezzandogli il viso abbronzato con il pollice candido, delineando quei tratti curiosi, quasi sudamericani.
Il moro tuttavia poteva ancora parlare, fissando così dritto negli occhi il demone, in quel turchese innaturale, quasi cristallino, ora più sicuro che mai di averlo già incontrato, non troppo tempo prima.
«Sei stato tu…tu hai cercato di uccidermi…e io che credevo che voi demoni non aveste interessi personali, al di fuori di riempirvi le gola di anime!» 
«Non ho idea di cosa tu stia parlando, piccolo straccione, ma ti posso assicurare che sei stai cercando di farla in barba ad Elaijah, Quentin Queensbury, te la farò pagare…perchè non mi fido di un cacciatore, figurarsi di uno che tradisce la sua squadra per aiutare il nemico naturale della sua associazione…» 
«Da quel che mi risulta, però, nemmeno dei demoni c’è da fidarsi, mio caro Naberius, direttamente dall’inferno, quindi potresti essere proprio tu quello che sta cercando di fregare Elaijah, o peggio!
E se fosse lui a star fregando noi? Ci hai…mai pensato? Dopotutto…sappiamo bene entrambi quanto potenziale ci sia dentro quella testolina perfida, e poi…diciamoci la verità, Naby… » disse il ragazzo ancora succube del potere del demone, avvicinandosi al suo orecchio fino a sussurrare quelle parole scabrose ed equivoche, sfiorando con lo stesso respiro i capelli d’argento del marchese «…una volta che si conosce quel ragazzo fino al suo interno, giunti in intimità, è impossibile uscirne vivi…quindi potrebbe controllarci come più gli aggrada e noi lo ringrazieremmo pure, non è così, vero?» 
L'iride acqua del demone si tinse di rosso sangue, come il vino quasi, ora avvolgendo il collo di Quentin fino a quasi soffocarlo con la mano nuda, ricoperta di quei preziosi e scintillanti anelli che, a contatto con la pelle del ragazzo, non fecero che lasciargli un evidente segno violaceo.
Adesso capiva quale sentimento legava quel demone allo stregone, mordendosi l’interno guancia quasi empatico, consapevole della pena interiore che avrebbe portato con sé in eterno; Naberius non era un demone facile da far infuriare, ma in quel momento il ragazzo ci era riuscito a pieno, mostrando finalmente la sua vera natura al cacciatore che quasi ne rise, causando in lui un ringhio animalesco.
«L’idea della morte è così goliardica per te?» 
«N-no…non la morte, ma l’amore…d-di un demone per uno degli uomini più vili del creato? P-provo…una gran pena per te, m-marchese…ti sei scavato la fossa da solo, perché Elaijah non sa amare, non sa nemmeno c-cosa sia l’amore…» 
«Non sai nemmeno di cosa tu stia parlando, pezzente, quindi falla finita prima che ti rompa il collo!» 
La presa divenne terribilmente stretta, al punto di far annaspare perfino il ragazzo in quella posizione sfavorevole, ma non bastò ad estirpargli quel ghigno amaro e sorridente dalla faccia, che quasi mandò ai pazzi lo stesso demone.
«S-se avessi davvero voluto uccidermi lo avresti fatto con le tue mani e non avresti assoldato un pietoso moccioso…se davvero, adesso, m-mi volessi morto, mi avresti già ucciso ancora prima di cominciare a parlare, eppure eccomi qua!
T-tu ami Elaijah, e ti capisco…a-anch’io per un momento ho creduto lo stesso, ma poi ho capito che non c’è nemmeno una parvenza di affetto in quel ragazzo, siamo solo pedine, tu, io, chiunque…Elaijah non ama, Naberius, e se ci è riuscito perfino un demone al posto suo, beh!
Trai da solo…l-le tue conclusioni…» 
Nella mente di Naberius quelle parole rimasero, non se ne andarono nemmeno volendo, trovandosi impreparato e incapace di rispondere, forse per la prima volta in vita sua, quasi un momento unico, perchè zittire il demone della retorica non era mica un'impresa così semplice.
Lo lasciò andare, facendo cadere il cacciatore praticamente in piedi, il quale tossì copiosamente, ritornando però a respirare, mettendosi una mano sulla gola ancora dolorante.
Si tenne alla parete per riprendere aria per alcuni secondi, alzando lo sguardo nocciola proprio su quello del demone che riassunse finalmente il suo colorito umano, sebbene dentro di sé nulla fosse tornato al suo posto, affatto.
I due giovani uomini si riguardarono, un’ultima volta, mentre la porta alle spalle di Quentin si riaprì completamente da sola, e non senza un inquietante cigolio.
«Vedi di andartene…prima che cambi idea, e non venire più a cercarlo!
Ci siamo intesi?»
«Allora non hai capito nulla di ciò che ti ho detto, non è così?»
Chiese il cacciatore, quasi sul pianerottolo che dava sulla tromba di scale in basso. Naberius fece spallucce, guardandosi poi attorno nello stesso appartamento dell’amante, socchiudendo appena i chiari occhi, come a sentire ancora quella sua essenza vicina, sempre presente.
Solo un sogno, ad occhi aperti.
«Che vuoi che ti dica, sarò un’idiota, questo già lo so, ma ci sono troppo dentro per tirarmi indietro, e tu invece, parigino? 
Quando smetterai di scappare?
Sarò anche uno stolto, uno sprovveduto, uno che non da il giusto peso alle cose e che si illude, ma se credi di restare indifferente a tutto senza subire conseguenze, sei ancora più stupido di me!
Non si può essere una comparsa nella propria vita…non pensi?
Torna alla Hunter, dai tuoi superiori, abbandonala, dalle fuoco, non mi importa, ma non puoi vivere su due fronti opposti…io almeno ho scelto da che parte stare!
Anche se è quella sbagliata, almeno non si potrà dire che sono stato un codardo…»
Quentin sentì benissimo quelle parole, una ad una, ma non si fermò, non rispose, preferì scendere quelle scale e lasciarsi all'indietro ,anche solo per un momento, quell'incontro appena avvenuto, avendo però la conferma che tanto aveva cercato per più di un anno.
Era finito nella lista nera di un demone.
                                                                               


 
1 year ago


London, Chinatown.


«Mio signore…certo che voi..sapete proprio farci con..certi trucchi..ve l’hanno mai detto che siete il giovane più bello di tutta Londra?»
«Ma che dici, secondo me di tutta l’Inghilterra…i lord di queste parti sono tutti uguali! Capelli biondi, pelle pallida, degli autentici cadaveri…e voi, Dio mi è testimone…siete un autentico Poseidone..»
«Henriette, lascialo un po anche a me, troietta viziata..e levati!»
«Lo hai avuto prima di me, Cornelius, sei insaziabile..»
Un giovane fanciullo della casa di piacere, il cui nome era molto famoso all’interno di quelle mura, si prese la briga di dare una spinta non troppo amichevole alla discinta collega dai lunghissimi e lisci capelli bruni, che finì di fianco al giovane e stranamente distratto Quentin “Queensbury”.  
Henriette guardò il biondo Cornelius, appena più esperto di lei, montare sul bacino del francese dai ricci capelli scuri,che districò abilmente fra le sue lunghe e morbide dita, agitando quei fianchi ad un ritmo quasi peccaminoso, chino sul corpo ben più formato dell’altro ragazzo, i cui occhi erano assenti. 
«Mio lord…?
Vi sentite bene? Siete di poche parole questa sera..qualcosa vi turba?
Cornelius è forse troppo…irruento per i vostri gusti raffinati?»
«Disse la troia che lo prende in culo tutte le sere dai peggiori marinai di Cardiff..»
Sfiatò l’altro arrogante fanciullo dagli occhi blu, preda all’eccitazione, cavalcando impunemente la zona pelvica di Quentin, non lontano all’apice del piacere, reggendosi istintivamente al petto del Queensbury, che tastò con cupidigia, fino al suo venoso collo, ricoperto ormai di voraci succhiotti.
Il ragazzo, vittima di tutte quelle attenzioni succulente, rivolse appena l’attenzione verso i grandi occhi, molto belli e lucenti, della ragazza stesa al suo fianco, che arrossì non appena lo notò su di sé; non l’aveva vista spesso, doveva essere una delle nuove reclute di quel bordello nella Chinatown inglese, eppure era abbastanza diversa dalle sue colleghe o colleghi. Molto più giovane, forse aveva 15 anni, 16? Sperò davvero che non fosse un’età inferiore a quella pensata, sospirando appena, forse per distrarsi, per smettere di pensare.
«No..va tutto bene..anzi…dobbiate perdonarmi..sono solo stanco..»
«Vi credo…bene…mio lord, venire da così lontano sarà sicuramente..impegnativo…
Oh…C-Cristo.. »
E con quella blasfema invocazione, Cornelius, finalmente, si accasciò anche lui al lato opposto di Henriette, impossessandosi famelico dei capelli del ragazzo, quasi segretamente attratto da essi; la ragazza roteò gli occhi ai modi del biondo, trovandolo quasi assillante, preferendo di gran lunga restare sul suo bordo di letto, coprendosi per lo meno il grembo nudo per il leggero fresco autunnale, guardando però con un piccolo occhio di riguardo lo stesso Quentin, con una sigaretta spenta tra le labbra.
La ragazza premurosamente gliel’accese con un bastoncino d’incenso ancora bruciante, il cui buon profumo di bergamotto non fece che accentuarsi, quasi confondendo i loro sensi, ma non quelli di Cornelius, che sghignazzò sotto ai baffi.
«Dici di essere pensieroso, mio signore…cos’è che ti annebbia la mente?
La politica? Il denaro? Di certo non la vecchiaia, come tanti nauseanti lord che sono costretto a servire…oh Dio, parlate!
Cosa affligge un giovane come voi?
Forse…l’amore?»
Sollevò il viso del Queensbury da sotto il mento, rischiando quasi di bruciarsi per via della cenere che piano piano cadeva da quel mozzicone fumante, non mancando mai però di guardarlo negli occhi, come in ipnosi. 
Quentin fece spallucce, tirando una profonda boccata di fumo fuori dalle stesse narici, come se lui stesso fosse alla ricerca di una risposta, notando però un curioso dettaglio, sull’anca in basso del ragazzo al suo fianco: si accorse di un tatuaggio insolito, molto particolare, un cerchio dagli strani ghirigori interni, ma non riuscì a vederlo bene visto che una camicia di seta porpora non faceva che ondeggiare a qualsiasi movimento del malizioso Cornelius.
C’era un forte odore presente, uno di rosa.
«Non credo di avere una risposta precisa, mon cher, so solo che per una volta che non sono preso dal mio lavoro… non voglio discuterne sicuramente, non sei d’accordo con me?»
Fece quasi a chiudere lì quella insolita serie di domande, ringraziando poi Henriette per la cortesia, la quale, molto timida e gentile, gli mise la sua camicia sulle spalle, aiutandolo a rivestirsi con il tatto di una piuma. Perfino il moro rimase sorpreso da quel tatto così fine, seduto ora a bordo del letto, intento a richiudersi i bottoni del pantalone, mentre la giovane si premurò di chiudere asola dopo asola quella morbida stoffa, finchè Quentin non le mise una mano sul polso, fermandola, con lo sguardo sinceramente provato.
«Non c’è bisogno che tu faccia anche questo…sei stata molto premurosa…Henriette..ti ringrazio…forse potresti insegnare un po 'di buone maniere al tuo compare chiacchierone qua dietro…»
«Ma che dite…»
Rispose lei con con quell’aria quasi divertita, nascondendo sotto la mano la risata dovuta soprattutto all’espressione corrucciata e chiaramente infastidita di Cornelius, che prese anche lui a rivestirsi, sicuramente non aiutato con la stessa parsimonia riservata a “lord Queensbury”. 
«Spero…di rivedervi..my lord…»
«My lord?
Non riservatemi tutte queste cortesie, madamigella..sono solo un bastardo con dei bei vestiti e un buon accento...non sono molto diverso dalla gente comune…non sono affatto nobile, ve lo posso giurare!»
«Potrà anche essere, eppure non mi avete mancata né di rispetto o mi avete umiliata…cosa che invece fanno molte altre persone..con quelli come noi…
Indistintamente dall’essere nobili di sangue o pezzenti pure nell’animo!»
Precisò con puntiglio la fanciulla, facendo quasi particolare attenzione nel chiarire bene l’ultimo punto, a braccia conserte contro il morbido seno, ora coperto da un caldo scialle color corallo, in perfetto risalto con il colore dei suoi occhi. Quentin guardò Henriette nelle iridi antracite, sorpreso e forse un poco lusingato, ma non lo diede troppo a vedere, limitandosi a porgerle i propri omaggi con un piccolo ed elegante inchino del capo, per poi abbandonare quel posto non molto dopo; quella breve e apparentemente innocua conversazione, tuttavia, non era minimamente passata inosservata alle orecchie di un certo ragazzo, che aveva ghermito qualsiasi dettaglio potesse stuzzicare la sua diabolica attenzione.
Scese le scale di quel covo di perdizione, sviando il più possibile le numerose coppie in amore appartate sulle scale e sui pianerottoli, sbattendo poi contro la spalla di uno strano tipo non esattamente sobrio, preso in un focoso bacio con uno di quei cicisbei del bordello dai tratti orientali; quello finì per rovesciare il suo bicchiere mezzo pieno di qualche alcolico stomachevole sulla camicia del parigino, che diede una sorta di spintone al ragazzo ubriaco dalle magre ma toniche braccia tatuate e dagli occhialini porpora appoggiati fra i capelli.
«Eh che cazzo…guarda che avete fatto! Ma che diavolo c’era in quel bicchiere? Benzina? Dio…se mi accendo una sigaretta prendo fuoco…»
«Oh, Dio….mi dispiace amore, ma sei tu che ci sei venuto addosso, io non ti ho nemmeno visto, ma ora che ti vedo, beh!
Avrei voluto vederti meglio prima…e poi fuori si asciuga in un attimo, non farne un dramma, tesoro…»
Il ragazzo in questione, nient’altro che il minore dei gemelli Nardi, completamente ubriaco e in gentile compagnia di qualche costoso amante che si stava già premurando di spogliarlo a dovere, cercò di scusarsi nel miglior inglese possibile, ma era troppo incosciente per capirci anche solo qualcosa, lasciando Quentin a roteare gli occhi per il fastidio, dando un colpo dietro alla nuca del biondo necessaria a fargli ricadere sugli occhi gli stessi occhialini da vista che, per via delle lenti oscurate, resero del tutto impossibile la visuale per via della luce già soffusa del posto.
«Hey, hey, ma chi ha spento le luci?!»
Lo spettacolo era appena cominciato, era troppo presto per spegnere le luci.
Quella sera Londra sembrava essere già alle porte del primo inverno più che dell’autunno, poiché il freddo aveva già sondato ogni strada col suo respiro tagliente, iniziando a mietere le prime vittime, come i poveri senzatetto per ipotermia, oppure la stessa natura, pallida e prossima allo sfiorire del tutto. Le gambe di Quentin avevano intrapreso una delle strade più isolate per ritornare indietro, con quei mille pensieri che andavano e venivano come un treno impazzito sulle rotaie; era successo tutto così in fretta che i suoi occhi ancora erano fermi, ancorati al ricordo di quella notte, la notte più folle della sua vita, passata in compagnia di quel biondo sceso dal paradiso, residente nell’appartamento numero 33.
Non c’era modo di cancellarla, nemmeno la costosa comitiva a pagamento era in grado di cancellare quella frenesia, e poi si sa: non c’è niente di peggio che il sesso a pagamento!
A nord di Chinatown, verso Gerrard Street, il vento tirava ancora più rabbioso e sibilante, come se quelle vie strette lo incentivassero a correre sempre più tempestoso, ma alle spalle del ragazzo non fece grossa differenza, stretto nel suo cappotto scuro, lungo quei vicoli quasi deserti. Il rintocco dell’undicesima ora risuonò quasi più grave per via di quel sinistro silenzio, dovuto forse all’assenza di passanti, ormai rincasati per evitarsi un serio malanno, o per evitare spiacevoli incontri; il Queensbury non parve minimamente toccato da quelle possibili sorti, procedendo il suo vuoto vagare verso un vecchio palazzo, o meglio, abbandonata fabbrica, diroccata, lasciata deserta a se stessa. Non era sconosciuto a quel luogo, tutt’altro, sparendo nel buio di quell’ambiente, inghiottito dall'oscurità più totale, se non per alcuni bagliori di luce lunare che penetravano dalle finestre infrante, illuminando solo cumuli di macerie, immondizia, lerciume d’ogni tipo, quasi una trappola vivente, ma non per uno che al buio ci vedeva molto bene, e il Queensbury era proprio dotato di quella peculiare caratteristica. 
Silenzio. 
L’edificio aveva 3 piani, collegati da vecchissime scale di ferro arrugginite dal tempo e dalla pioggia, ormai prossime al crollare, ma nemmeno emisero un suono al passo leggero e abile di Quentin, che arrivò all’ultimo livello, la cui vista era indubbiamente notevole, su quei tetti di case operaie, vecchie si, ma sotto il cielo buio erano quasi suggestive, grazie alla luce dei focolari che proveniva da quella miriade di finestrelle.
«Uno spettacolo suggestivo…non trovi?
Si vede solo da questa altezza…»
Disse il bruno ricciolo, in piedi sul cornicione di quell’ultimo piano, privo di pareti poiché ormai quasi tutte crollate, in bilico lui stesso nel vuoto più totale, eppure non fu minimamente spaventato da quel baratro, con le mani nelle tasche del cappotto. 
Silenzio, di nuovo.
Guardò con la coda dell’occhio l’angolo buio che conduceva alla scalinata di ferro, sentendola scricchiolare a tradimento proprio sotto il peso del suo pedinatore; non si era affatto sbagliato, l’avevano seguito non appena ebbe lasciato le mura di quel bordello!
«Dovresti limitarti a succhiare cazzi, piuttosto che tallonare i tuoi clienti…Cornelius..o forse tutte quelle tue belle domande..non erano poi così casuali?»
Sebbene fosse ancora nel favore delle tenebre, la magra e alta figura del ragazzo dalle origini probabilmente greche divenne sempre più visibile agli occhi scuri di Quentin, che sfiorò per un istante l’idea di attaccare, ma esitò, mantenendo le distanze, non sapendo davvero cosa doversi aspettare.
«Però…allora è vero che non sei un lord come tutti gli altri, o almeno non sei superficiale e borioso come fai credere ai più…
Siete molto particolare, Queensbury...ve lo hanno detto?»
Il viso magro e armonioso di Cornelius apparve finalmente a carte scoperte alla luce della luna bugiarda, nera, vestito di stracci, camuffato come un marinaio; anche lui tenne le mani nelle tasche, come se stesse nascondendo qualcosa, ma rimase apparentemente calmo, sempre con quel sorrisetto maligno stampato sulla bocca.
«Forse perchè non sono un lord, ma un morto di fame come tutti voi…
Che cosa vuoi, moccioso?
Sei in cerca di guai?»
«Ah no, Quentin, posso chiamarvi..Quentin? 
Credo che quello nei guai…siate voi,ditemi…avete mai danzato col diavolo nel pallido plenilunio?»
«Cosa..?»
Prima ancora di poter chiedere una singola spiegazione, l’agile fanciullo si scagliò contro l’altro perfettamente armato e con intenzioni molto ben precise; scintillò alla luce d’argento la lama acuminata e seghettata di un pugnale molto particolare, ben saldo nel pugno di Cornelius, che affondò senza ripensamenti nell’aria, iniziando a fendere colpi completamente disparati, poco precisi e assolutamente casuali. Quentin non faticò minimamente nel mancarli, tuttavia il suolo su cui entrambe poggiavano era instabile, e prima o poi quelle tavole di legno marcio avrebbero ceduto, ma era una variabile che nemmeno lui avrebbe sicuramente potuto calcolare!
Negli occhi del biondo c’era una strana luce, quasi accecata da qualcosa, ma non era sicuramente il momento di capire il movente di quell’attacco, quanto più sfuggirne senza danni; il Queensbury si spostò nella direzione opposta, dove le pareti di legno erano ancora intatte, cercando l’angolo più stabile per poter contrattaccare, dove finalmente afferrò il polso di Cornelius in uno dei suoi fallimentari attacchi, sbattendoglielo con forza contro una sbarra di ferro fino a romperglielo. Il coltello cadde per terra tra la polvere e le macerie, mentre il collo del ragazzo fu stretto in una morsa assassina fra le mani di Quentin, che portò la magra e scalciante figura dell’altro a penzoloni sullo stesso cornicione pericolante, tra la salvezza apparente e il vuoto più totale.
Gli occhi del biondo si sgranarono dal terrore alla vista del nulla, dimenandosi ancora più forte, ma non appena provò anche solo ad urlare, la presa del Queensbury si fece quasi letale, come a soffocarlo.
«Hai giocato molto male le tue carte, ragazzino..
Non avresti dovuto fare una stronzata del genere…perchè l’hai fatto, Cornelius? Chi sei?
Chi ti manda?»
«V-Vai..al..d-diavolo…»
«Prima che lo raggiunga tu stesso, rispondimi maledetto idiota..chi ti ha mandato?! 
PARLA!»
Nonostante il tono di Quentin non tradisse alcun tentennamento, il ragazzo non ebbe alcuna intenzione a collaborare, arrivando ad afferrare dalla tasca posteriore del suo pantalone un coltellino a serramanico, che conficcò con forza nell’avambraccio dello stesso cacciatore a tradimento: quella mossa però…gli sarebbe costata la vita.
Quasi di rigetto, forse per dolore o forse per vendetta, Quentin allentò del tutto la presa sul collo di Cornelius, lasciandolo precipitare nel vuoto,fino a toccare il suolo con un suono sordo, forte, frantumando spina dorsale e il cranio, come una bambola di pezza gettata al suolo, completamente scomposta.
Il Queensbury estrasse dal braccio ferito quel fastidioso coltellino insignificante, sporgendosi il giusto da quella balaustra per osservare con i suoi stessi occhi quel cadavere, i cui occhi erano ben aperti, spalancati dalla paura, mentre una vasta chiazza di sangue sotto di lui andava espandendosi sempre più velocemente, quasi come una sagoma sulla scena del delitto.
Ora riuscì a vedere meglio, grazie alla luce della stessa luna, il marchio impresso sulla pelle del ragazzo, all’altezza dell’anca, con gli occhi increduli; aveva già visto un tatuaggio simile…ma dove?
Non c’era tempo per pensare, non li, non in quel momento, sparendo così nuovamente nel buio della vecchia fabbrica abbandonata, facendo attenzione però al coltello caduto precedentemente al suo aggressore, che portò via con sé, eliminando qualsiasi traccia fosse rimasta sul luogo del delitto.
Eppure il giovane Quentin Queensbury non sapeva che aveva dimenticato dietro di sé molto più che una semplice traccia; un testimone visivo. Dietro ad un bidone dei rifiuti, proprio nello stesso vicolo in cui il corpo di Cornelius giaceva esanime, una piccola e minuta figura, coperta da vestiti da scolaretto, tremava a ciò che aveva appena visto, con la mano premuta contro le sue stesse labbra per soffocare qualsiasi respiro o gemito. Henriette rimase in quella posizione per minuti interminabili, forse anche un’intera ora, prima di avvicinarsi al cadavere lì ormai da diversi minuti; fece solo alcuni passi verso di esso, con le gambe quasi tremanti, ma ciò che vide nei momenti successivi le tolse del tutto il fiato.
Il marchio sulla pelle di Cornelius, uno strano simbolo antico e sconosciuto ai suoi grandi occhi, scomparve come carta bruciata dal fuoco, senza lasciare traccia; trasalì, lasciandosi sfuggire un grido di paura, ma temendo di essere stata sentita allora scelse di scappare, senza più voltarsi indietro, finchè non si trovò davanti una figura sconosciuta e quasi insolita.
Henriette non riuscì nemmeno a parlare dalla paura, ma non potè nemmeno fuggire dal lato opposto poiché quella creatura, con un solo schiocco di dita, le spezzò di netto il collo.
Naberius uscì finalmente dall’oscurità di quel vicolo, scrollandosi il pregiato soprabito con un sospiro nervoso, sbattendo poi il suo bastone da passeggio sul suolo fangoso. Non badò nemmeno al cadavere della giovane prostituta o a quello del suo sicario dal cranio spappolato, quanto più alla figura ormai lontana e in fuga dello stesso Queensbury, ormai salvo.
Che autentiche palle…

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Capitolo 17
*** Hey brother, i'm home! ***


Chapter 17: Hey brother, I'm Home! 
 
Current day, just not like the others…


Perchè gli uomini pregano?
Anzi, perché si prega?
Era una domanda molto importante, perché in essa venivano racchiusi secoli di soppressioni, di guerre, di conflitti, culture e credenze, dai confini dell’occidente fino alle coste dell’oriente, tutto il mondo attorno e forse perfino più in profondità.
Per paura? Per fede in un qualcosa di più grande? Forse perché semplicemente non si è abbastanza forti, così ci si alleggerisce il carico pesante credendo in un qualcuno in grado di sostenere i propri peccati, le proprie colpe.
Ma chi è in grado di sentirci veramente? Un dio di cui non conosciamo il vero nome? Un caduto, un amato, un fratello, un figlio a cui affidiamo la nostra sorte?
E se non ci sentisse, o peggio ancora, se non gli importasse?
Sono variabili importanti e Rhys le conosceva tutte.
I Griffith non avevano mai pregato, nemmeno nei momenti peggiori, e quella famiglia ne aveva passati di momenti orribili, eppure anche il più ostinato degli uomini era in grado di cambiare idea: solo gli stupidi non lo facevano.
I primi giorni di maggio erano quasi una carezza per il clima ostile e poco ospitale di quella grande isola, ma almeno per quella sera la tempestosa pioggia si era risparmiata, lasciando uno splendido vento fresco a scompigliare le bellissime chiome degli alberi nei grandi giardini di magione Griffith, avvolti ormai dal buio del cielo notturno.
Passeggiare tra quei roseti, quelle fronde odorose era l’unica cosa in grado di alleviare i suoi pensieri tormentati anche dall'alcool, ma per lo meno quella sera era riuscito a rimanere lontano dalla bottiglia più del solito, limitandosi solo ad un sorso d’acqua, grazie a Dio.
Ironico.
Fra quelle splendide siepi c’era nascosto anche un bellissimo gazebo bianco, una sorta di angolo segreto che in pochi conoscevano, un tempo uno dei posti più amati dalla prima moglie, al punto che vi trascorrevano intere serate senza mai smettere di parlare, così fino all’alba. Era molto diverso svegliarsi in due che in uno soltanto, purtroppo.
«Merrion adorava questo posto…non so perché, ma diceva che le ricordava quei libri che leggeva...c’era una sorta di bellezza greca!
Io non ci avevo mai fatto caso, a dire la verità…forse perchè non avevo mai vissuto questa casa come lei, o forse perchè non l’ho mai guardata attraverso i suoi occhi, ma so che dopo averla sentita parlare tutto mi sembrava diverso, vero, quasi surreale…e non un semplice giardino con degli arredi…»
«Dalle mie parti, nipote, si chiama vedere il mondo con gli occhi di chi ama! Anche le cose più piccole ed insignificanti ad occhio nudo assumono un valore che nemmeno l’oro può ripagare. 
Tutto sta, però, nel vederle in tempo…perchè ora come ora…ti stai deteriorando come il gesso sotto la pioggia, Rhys, e c’è un motivo se i greci hanno smesso di usare il gesso e hanno scelto il marmo!
Non credi anche tu?»
La voce serena e chiara di Gwendolyn raggiunse la presenza del nipote proprio accanto a lui, seduto sulla panchina di ferro battuto bianco posta proprio nel bel mezzo della bellissima struttura da esterno, in direzione del cielo, incredibilmente pieno di stelle, una più bella dell’altra. La donna prese posto vicino all’uomo, stringendo appena le larghe spalle in un tiepido scialle blu elettrico, concedendosi poi almeno una sigaretta, il cui fumo svolazzo verso l’alto, non coprendo minimamente lo splendore di quella luna perfetta.
Rhys guardò sua zia con un occhio di riguardo, adocchiando proprio la sigaretta accesa, ma quella gli rispose con una seria occhiataccia, scacciando via con la mano deliziosamente decorata da anellini dorati alcune nuvolette grigiastre.
«Non provare a rigirare la frittata, nipote…non sono io quella con il fegato prossimo al collasso, e non chiederti come lo so, basta guardarti in faccia!
Da quanto tempo sei in questo stato? »
«Chiedilo a Bogart…io sono troppo ubriaco per ricordarmelo e onestamente nemmeno mi interessa, Gwen…credo di essere arrivato in un’età in cui questi paletti inutili non mi sfiorano nemmeno più!
Quando? Perchè? Come? Ormai tutto è irreversibile…mia moglie è morta, mia figlia mi odia, mio fratello non mi parla da nemmeno so quanto e il resto della famiglia?
Un…quadro familiare patetico che ho messo su perché non ho saputo fare il padre?
Credo che non ci sia bisogno di andare troppo oltre...»
La donna guardò il nipote con la coda dell'occhio, respirando una coltre di fumo quasi enorme, massaggiando la tempia quasi senza parole.
«Che allegria, ragazzo mio...ora capisco i tuoi problemi d'alcolismo!
E poi, chi ti ha detto che non sai fare il padre?»
«Diciamo che la cena dell'altra sera ha dato un chiaro esempio della mia situazione familiare! Ti sembra forse delle migliori?»
«Oh credimi...c'è di peggio...ma questo non giustifica certo il tuo comportamento, o quello di tua moglie!
Sai...anch'io ti ho detestato per un periodo, nipote...»
«Oh mio...Dio...dove andremo a finire?»
Esclamò l'uomo quasi ironico, facendo sorridere entrambi per alcuni momenti alla luce chiara e pallida del cielo. Gwen fece cadere appena la cenere accumulata con il dito medio, non mancando di tirare un'altra corposa boccata come a riflettere meglio su ciò che le passava per la mente.
«Ti ho odiato...quando Merrion è morta ti ho odiato come non mai, ma mai come ho odiato Rhiannon!
Non riuscivo a sopportare un simile sgarbo, non nei confronti della mia prima bambina...di sua sorella praticamente, come se nulla fosse stato.»
«Per questo te ne sei andata?»
«No, non è solo per quello...ma è uno dei motivi!
Sai...tuo padre ha sempre cercato di sistemare i miei errori, da un lato lo odiavo ma dall'altro non potevo che ringraziarlo; nessuno si sarebbe preso tutte le responsabilità che si è preso lui...ed è quello che tu hai fatto con tua figlia...anni fa!
Avresti potuto reagire in maniera diversa, è vero, ma cosa sarebbe successo? 
Rhys?
La società ti avrebbe massacrato, la tua stessa moglie ti avrebbe messo ai ferri corti, non saresti sopravvissuto una sola settimana, ed Eris? Come avresti potuto far crescere quella creatura sotto questo tetto?
Insieme alla donna che aveva preso il posto di sua madre nella più infida delle maniere? 
Ormai è tardi, ciò che è stato è stato...ma puoi ancora cambiare quello che ne sarà di questa famiglia! Merrion lo avrebbe voluto...e lo voglio anch'io...»
«Gwen...?»
«Si?»
«Perché sei tornata?
Parlo sul serio...da quasi 50 anni che sono a questo mondo, tu sei sempre stata lontana dalla famiglia, da Cardiff, da quando Charles è morto tu non sei mai più tornata in questo posto e adesso, dopo più di un decennio, torni come se nulla fosse?
Dove sei stata? Con chi?
Perchè non ti sei mai fatta sentire? Lo so che hai sempre odiato questa casa, il tuo matrimonio con Benjamin, e so quanta gente ti ha portato via questa crociata senza senso…ma non vorrai farmi credere davvero che sei tornata solo perchè Sheelah è incinta!
Nemmeno te la ricordavi,l’avrai vista una volta in 16 anni, lo stesso vale per Duncan…figurarsi per Riha!
Non ti sto chiedendo di perdonarmi, non riesco a farlo da me, non lo chiederei di certo a mia suocera e zia, ma almeno sii onesta con me! Con tuo nipote…
Che ci fai qui?»
Tra zia e nipote calò un silenzio riflessivo importante, colmato dallo splendido frusciare del vento fra le foglie verdi e profumate degli alberi, quasi una sorta di anestetico al dolore antico che scorreva tra le vene di quella gente, avvelenata dal principio, dai loro natali per scelte imposte e prese da qualcun altro. 
La donna, sebbene fosse in là con l’età, era ancora di una bellezza notevole, con quei capelli ormai d’argento raccolti sulla nuca con una spilla, il corpo avvolto nelle sue vesti da camera delle più pregiate stoffe e lo sguardo verde, tipico delle donne Griffith, rivolto verso la luna come se fosse stata la risposta a tutte quelle domande. 
Sorrise, placida, serena, forse rassegnata, guardando poi in viso l’uomo che aveva visto nascere, crescere, innamorarsi e si, decadere.
«Quando avevo l’età di tua figlia, Sheelah, pensavo che tutto il mondo sarebbe potuto essere mio…ero bellissima, lo sono ancora, ma ho qualche anno in eccesso ora…e vedevo come ogni uomo cadesse in mio potere senza il benchè minimo sforzo, aggiungendo poi l’astuzia e l’intelligenza avrei potuto ottenere persino una corona, o chissà cos’altro!
Non mi interessava di deludere tuo nonno, Marshall, o mia madre, troppo ubriaca per starmi dietro, volevo solo darmi ai lussi più sfrenati, alle feste più costose e conoscere più ragazzi possibile…e non solo…
Cerchi di colmare il vuoto dell’infelicità con una dose di merda che non fa altro che logorarti la vita fino a spegnertela, questo finché non ho conosciuto l’unico uomo che non dovevo avere…
E il resto lo conosci!
All’inizio, quando sono rimasta incinta non ci ho nemmeno pensato, e continuava a non fregarmene niente, ero incosciente e volevo solo Charles a tutti i costi, ma poi ho capito che non potevo fare la madre e che non era la mia vita questa…quindi allontanare Merrion da me era l’unica cosa che mi sembrava giusta da fare.
Ero a pezzi, ero un disastro, ero tossica…ero tutto quello di cui gli uomini avevano di bisogno, ma era questo l’errore…aver bisogno e volere sono due cose nettamente diverse!
Un circolo vizioso come la droga…
Ci ho messo più di 30 anni a disintossicarmi, Rhys, e quando ci sono riuscita anche l’uomo che amavo se n’è andato, e mi sono ritrovata a quasi 60 anni senza più niente!
Credo che anche tu, ora, conoscerai questa sensazione…e non voglio che nessuno possa viverla di nuovo, nemmeno tu. 
Il rapporto che c’è tra me e mia figlia ormai non si può più sanare, sono stata una madre assente e saltuaria, non la biasimo per com’è diventata…una copia avara di quel diavolo che ho sposato per salvarmi la reputazione, e non biasimo nemmeno mia nipote…
E nemmeno tuo fratello!
I mostri non nascono tali, mio bel Grifone, li creiamo noi con l’odio, la rabbia e la miseria, non dobbiamo accanirci contro di loro perché ne siamo i fautori; per anni abbiamo pompato nel loro sangue puro fiele e se ritorneranno per farci a pezzi, li accoglieremo a braccia aperte, perché ne avrebbero ogni motivo…
E se può consolarti, ci sono stati padri peggiori di te, guarda il mio povero marito!»
«Oh, si…una tragica dipartita, davvero!
Disperso in mare, giusto?»
«Ringrazio qualunque divinità per averlo inghiottito nelle profondità marine, lui con i suoi carichi, le sue navi e la sua merce, ma ritornando alla questione precedente, mio dolce nipote, non sono tornata per caso, ma perchè dopo tanti anni di latitanza praticamente, avevo bisogno di un posto dove tornare. Anche i rapaci più coraggiosi, alle volte, hanno bisogno di fare ritorno al nido, anche se lo hanno lasciato indietro nemmeno una volta…»
Era molto difficile, specialmente per gente orgogliosa come quella, ammettere una simile debolezza ad alta voce, e lo era ancora di più se il confessore era nient’altro che l’ultima persona, l’ultima testa pensante della vecchia generazione di casa Griffith; Rhys era cresciuto praticamente senza madre, allevato da suo padre, un uomo stoico e risoluto che aveva fatto alla sorella non solo da fratello ma anche da guida, l’unico uomo che si era battuto per lei fino alla fine. Quelli erano dei Griffith degni del loro nome, ma dopo Yvain che ne era stato di quel nome nobile di sangue e d’animo? 
Yvain aveva dato tutto per la famiglia: aveva rinunciato a molti piaceri per essa, aveva protetto i suoi figli, aveva scelto perfino di non risposarsi dopo la morte dell’amata moglie, Johanna, morta di un male sconosciuto, pur di non creare disordine nella vita dei suoi eredi, si era curato di Gwendolyn e del suo nome infangato, di stabilire un legame con casa Darcy, sebbene l’antica rivalità, di creare un lascito per Rhys, futuro comandante e una terra immensa per il secondogenito, Trystan; tutto così perfetto, tutto secondo i piani.
Ma cosa di tutti quei sacrifici, di quelle visioni, si era avverato?
Rhys a quei pensieri si passò una mano tra i folti capelli castani, guardando anche lui il bellissimo alone d’argento lunare, ma non vide nemmeno per un istante il bagliore di quella luce quanto più un viso, un nome, uno che gli mancava molto; Johanna Darcy era una donna come non se ne vedevano molte, non tanto per bellezza quanto per bontà d’animo, era stata in grado di unire due casate dal fuoco rampante senza dover fare alcunché. 
Era bastato un sorriso, uno sguardo.
Era l’unico ricordo che i fratelli Griffith condividevano gelosamente della madre, morta troppo presto, senza un perché valido; non avevano quasi niente di lei, se non qualche foto.
Quel pensiero rese lucidi gli occhi scuri dello stanco Grifone, che appoggiò il peso sui gomiti sopra le forti ginocchia.
«La tua motivazione è più che ragionevole, zia, e non mi sento nella posizione di giudicare nessuno, non a questo punto dove mi ritrovo le mani sporche di sangue e macchiate di colpe più di tanti altri miei cari…
Papà avrebbe tanto voluto, prima di morire, vederci tutti insieme, ma quel giorno lui non ha mai potuto vederlo!»
«Ma forse tu potrai!
Anzi, prima di quanto tu creda; penso sia arrivato qualcosa per te nei tuoi appartamenti poco fa, o qualcuno…
Io inizierei ad avviarmi, se fossi in te!»
Quel cuore, ormai non più così giovane, perse un battito insieme al suo respiro; che fosse finalmente arrivato il momento tanto atteso?
Non restava che scoprirlo, a sue uniche spese.
Lady Griffith vide la figura del nipote maggiore allontanarsi sempre di più da lei, man mano che abbandonava quei giardini incantati verso casa Griffith, non riuscendo a non sorridere almeno per un brevissimo momento, avvertendo anche lei, in cuor suo, che qualcosa stava per cambiare: nemmeno lei conosceva le sorti che sarebbero toccate alla sua famiglia, ma di una cosa era certa.
Non sarebbe più scappata.
«Devo dire che questa settimana è stata fin troppo impegnativa…in più di 30 anni di servizio non avevo mai assistito a niente del genere, ma che ci possiamo fare?
Questo succede quando sei al servizio di una delle più, come dire in maniera fine, disastrate d’Inghilterra?
Concordate con me, giovane falco?»
«Non credo di essere più poi così giovane, ma ti ringrazio per il complimento, Barnabas.
Ti trovo bene per essere rimasto sotto questo tetto più a lungo di chiunque altro, è un record che pochi eletti possono superare!
I miei complimenti…»
«Molte grazie, Trystan…nemmeno lei è così peggiorato, sarà la puzza di cacciatori rudi e medievali a mantenervi così giovani probabilmente; siamo conoscenti noi 2, può rivelarmi il suo segreto, se le va!»
«Credo che più che semplici conoscenti, siamo stati e siamo ancora buoni amici, giusto?»
Il fedele maggiordomo e il secondogenito di casa Griffith di guardarono entrambe con la coda dell’occhio, fermi entrambi nel maestoso ingresso della magione proprio davanti ad uno degli autoritratti più imponenti che stavano appesi li, fissi ed immobili, eterni nel tempo.
Trystan li aveva sempre odiati, li trovava semplicemente inquietanti; enormi rettangoli bui dove quei 4 volti pallidi e spenti fissavano il vuoto per l’eternità. Quelle erano le richieste assurde di suo padre!
Agghiacciante.
Barnabas, dal canto suo, non poté che sorridere sotto ai baffi, osservando con quei suoi vispi occhietti neri come quel suo vecchio amico fosse cambiato, maturato forse, con quel suo aspetto quasi piratesco sempre impresso nel corpo e nell’anima. Trystan invece prese un profondo respiro, ritrovando la stessa e identica aria, pesante, forse per via della spropositata quantità di fiori che adornava quel salone, rischiando quasi di starnutire. 
Arrivò a tenersi pure il naso, ma il maggiordomo gli allungò immediatamente un fazzoletto di lino bianco, facendo spallucce.
«Mi duole informarla, mio caro buon vecchio amico, che la gestione è un po cambiata da quando lei è partito…credo lo abbia…»
«Notato? Direi di si, questa casa sembra una merdosissima serra! Non c’era bisogno di rendere l’aria più invivibile di prima, i proprietari sono degli esperti!»
«Anche lei, però, è un erede di casa Griffith, per quanto la cosa possa infastidire i più…»
«Facciamo che “Griffith” e la parola “erede” in una sola frase non stanno troppo bene, lo so per esperienza personale, Barnabas…e poi, erede di cosa?
Di un castello di merda nel bel mezzo del Galles? O meglio, di un titolo che non fa altro che causare morte e rabbia?
Passo.»
«Noto con piacere che le sue idee non siano affatto cambiate a riguardo!
Sa, anch’io vorrei che le cose fossero rimaste immutate, un po come il primo giorno in cui sono arrivato qui…uno, per quanto distaccato, ci si affeziona alle famiglie!
Anche una…fottuta...come questa, ma che cosa vuole?
Gli eredi crescono e diventano dei piccoli serpenti velenosi, i padroni invecchiano e muoiono, la servitù continua ad origliare a porte chiuse i più scottanti pettegolezzi da raccontare ai giornali, i matrimoni si combinano con o senza consenso, le tendenze e le mode cambiano, i tradimenti sono all’ordine del giorno e così via…
Questa è la vita di città: mantenere alte le aspettative e salvaguardare le apparenze, sempre e comunque…»
Trystan seguì l’amico maggiordomo lungo i corridoi della sua antica dimora, osservando passo passo come quel sentimento di malinconia e opprimente stupore continuasse a pungerlo in ogni punto della sua tormentata anima; ogni cosa era la stessa, ma con un tocco differente, una mano diversa che aveva modificato tutti i dettagli a sua immagine e somiglianza.
Il domestico notò lo sguardo profondamente contrariato del suo vecchio amico, sistemandosi quasi con il medesimo fastidio il suo scintillante cravattino ben inamidato.
«La signora Thorn ha messo il suo tocco un po ovunque, ha…rivoluzionato? Si, possiamo dire così, tutta la casa, in sua assenza…ha la tendenza a manifestarsi…»
«Come il vaiolo e la peste? Ne so qualcosa, amico mio, ti ricordo che dirigo un branco di sventurati che cagano e pisciano tutti nello stesso cesso per settimane, mesi, a volte pure in piena natura, per non parlare delle docce…»
«Alt! Non vada oltre…ci tengo che la mia cena resti esattamente dov’è, signorino Trystan, e ci tengo a ricordarle, anzi, mi fa quasi impressione farlo vista la sua età…»
«Molto gentile!»
«Dopotutto, è il mio compito da molti anni! Sono felice, davvero, che lei sia tornato…anzi, quasi attendevo con ansia il suo ritorno, ma le voglio rammentare l’ambiente in cui si trova!
Questa non è la Hunter…»
«Lo so, Barnabas, lo so…non devi preoccuparti anche di me, non è tuo compito…»
Barnabas si fermò nel bel mezzo del lungo corridoio, quasi tetro e lugubre per via della scarsa illuminazione, guardando poi bene in viso il secondogenito di casa Griffith, scuotendo quasi categoricamente il capo in avanti.
«Oh, lo è invece, Trystan, ogni giorno da più di 30 anni!
Io e lei siamo quasi cresciuti insieme, ma dal momento in cui ho messo piede in questa casa e ho conosciuto suo padre, il mio compito è stato quello di rispettare ogni suo singolo desiderio e uno di questi era prendermi cura, sotto questo tetto, di tutti i suoi figli e nipoti,non importava cosa…
Mi rendo conto che dopo tanto tempo, per un uomo testardo ed indipendente come lei, suonerà assurdo, ma lei resta e sarà sempre il fratello minore del mio nuovo signore, anche se, con male nel cuore, i vostri rapporti non sono più gli stessi di molti anni fa!»
Il tenente Griffith sentì personalmente una ad una quelle parole, stringendosi quasi con del lieve rimorso all’interno del suo lungo e nero cappotto, guardando altrove, con quei suoi lunghissimi e neri capelli lisci che cadevano morbidi lungo la schiena e le spalle. Annuì silenzioso, con le mani nelle tasche quasi messe in maniera infantile e sì, perfino buffa per un uomo della sua età, ma quel domestico, o come volgarmente veniva definito, era molto di più, era praticamente parte della famiglia, della sua vera famiglia.
Payne gli mise una mano sulla spalla, quasi a dargli manforte, sebbene non fosse mai stato un amante del contatto fisico.
«Questa casa…senza di lei e senza una certa bambina…non è più la stessa da troppo tempo, e vorrei che tornasse ad esserlo!
Anche se so con certezza che non potrà più ritornare quella letizia di una volta…»
«E anche quella bambina, signor Payne, non c’è più!
Ora c’è una donna, una testa di cazzo, incredibile, che nemmeno suo padre potrà mai rimettere in riga…a proposito, lei dov’è? 
Conoscendola, sarà già arrivata stamattina oppure prima: Eris è folle!
Cos’è quella faccia, maggiordomo?»
«Be, ecco, non dubito che la nostra lady sia ormai cresciuta, ma qui non è mai arrivata, non che io sappia e io, modestamente, so sempre tutto, nello specifico entrate e uscite che riguardano i cancelli di questa casa…
Eris non è qui, Trystan, l’unico ad essere giunto qui dal campo Hunter sei tu e…»
Il fedele maggiordomo tuttavia non riuscì a completare il suo discorso poiché, alle sue magre e ossute spalle, comparve un’altra figura completamente agli antipodi con la sua: quella del indiscusso padrone di casa.
Il tempo si fermò, forse per tutti e tre gli uomini, ma specialmente per due fratelli; il rumore della lancetta dell’orologio si arrestò quasi da solo, insieme forse a tutti i suoni della notte nelle campagne gallesi e dintorni, perchè il semplice respiro mozzato di quei due Grifoni bastò per fendere l’aria fino a renderla immobile, muta e inesistente.
Barnabas fece un passo indietro, esattamente a metà strada tra i due fratelli Griffith: il minore in posizione torreggiante, in cima al pianerottolo, e il maggiore sulle scale, con la grande mano ancorata alla splendida balaustra d’ottone lucente, forse per sorreggersi o semplicemente aiutarsi a scalare quel divario finalmente dimezzato.

 Quanti anni avevano aspettato quel momento? 
Quante volte avevano pensato a cosa si sarebbero detti? Talmente tante da finire per trovarsi del tutto impreparati, perché l’unica cosa che fuoriuscì dalle loro labbra fu un respiro rarefatto, quasi soffocato.
Trystan, il falco, sentì il suo cuore tremare esattamente come i suoi penetranti occhi smeraldo, fissi su quel fratello profondamente cambiato dal giovane rampante che ricordava averlo cresciuto, e Rhys? 
I grandi occhi del comandante faticarono a restare fissi su quel viso, non più di bambino ma d’uomo: era un dolore nuovo, strano e allo stesso tempo tiepido, quasi simile a quello di una carezza o di uno schiaffo.
Figli dello stesso ventre ma non della stessa mente.


«Ciao…fratello.»
Trystan trattenne quasi il fiato: quella parola aveva un suono completamente diverso, pronunciata da una voce personalmente coinvolta. Rhys mosse un altro passo in avanti su quella larga scalinata, avvicinandosi non più del dovuto, se ce ne fosse stato uno, arrivando esattamente di fronte al tenente.
Se Barnabas fosse stato un semplice cameriere avrebbe dubitato fortemente del legame di sangue tra quei due, completamente differenti in tutto; sembravano davvero figli di due padri diversi ma la loro eterogenea bellezza stava proprio in quello, dopotutto. 
L’hunter più giovane annuì ad occhi semi chiusi a quel saluto, guardando il viso di Rhys con una nota di sincero stupore, osservando come gli anni avessero colpito anche il Grifone supremo.
«Sei invecchiato…parecchio anche.»
Payne trattenne a stento un colpo di tosse a quel commento schietto, ma non fu niente rispetto a ciò che venne dopo, perchè una risata, una di quelle che non si sentivano in quella dimora da troppi anni, ruppe il silenzio della notte con il suo fragore.
Il padrone di casa rise, col cuore, lasciando perfino il fratello minore con uno sguardo di ingenuo stupore in volto, espressioni e sensazioni che su due uomini ormai così navigati, probabilmente, nessuno avrebbe più immaginato di veder comparire. Cos’era appena successo?
Cos’era quel tepore, da dove veniva, perché? 
Le spalle nettamente più asciutte e snelle di Trystan vennero strette senza preavviso dalle mani importanti e forti dell’altro, di colpo, senza aspettare una risposta, un qualcosa, un gesto, nient’altro; Rhys non aspettava più nient’altro, aveva già avuto tutto quello che gli serviva, ed era proprio vedere e toccare quel volto, guardarlo bene fino a studiare minuziosamente i suoi dettagli, come se l'avesse visto per la prima volta.
«Dannato sbruffone…devo dire che invece gli Dei con te sono stati notevolmente più generosi!
Hai quasi quarant’anni e ne dimostri una decina di meno, ma con quale demone hai stretto un patto?»
«La vita. Diciamo che a forza di schiaffi e pugnalate alle spalle ringiovanisci di colpo…o almeno, è la spiegazione che sono solito dare…fratello.
Tu invece, come si chiama il tuo demone? Matrimonio? » fece quasi con il suo crudo e solito sarcasmo il tenente, incapace e si, spaventato da quel momento perché non aveva idea di come affrontarlo lucidamente senza essere sopraffatto dai battiti del suo cuore, fin troppo su di giri per il suo abituale modo di essere.
Rhys non era certamente uno sciocco, perchè nelle sue vene scorreva lo stesso tremore ma, a differenza del fratello, non era più in grado di tenere su alcuna maschera senza rischiare di soffocarsi da solo. Annuì silenziosamente con un ghigno quasi consapevole, non volendo nemmeno sapere quanto dovesse essere mutato agli occhi di chi non lo vedeva da una vita, e preferiva non saperlo.
«Ognuno di noi ha un demone con cui deve convivere, credo che proprio noi siamo i massimi esperti sull’argomento, ma per una sera immagino che potremo lasciar perdere l’inferno e limitarci a transitare nel purgatorio, almeno finchè non dovremo sguainare le sciabole per…pugnalarci, non trovi?
Solo per una tregua, mi sembra doveroso dopo tutti questi anni.
Cosa ne dici, tenente Griffith? 
Sono troppo esigente o puoi concedere a tuo fratello maggiore questa indulgenza?»
Trystan a quella richiesta, 10 anni prima, anzi, forse pure 25, avrebbe risposto con un brutale schiaffo sul volto di un Rhys profondamente diverso da quello che aveva davanti: uno arrogante, uno borioso, uno prepotente e si, quasi onnipotente. Ma ora? In quel momento il tenente si trovò davanti solamente un uomo, di mezza età, un essere umano, i cui occhi gridavano silenziosi un disperato aiuto, anzi, un perdono che solamente una creatura senza cuore non avrebbe concesso.
Acconsentì con il capo, raggiungendo con le sue mani sfilate e lunghe quelle di Rhys, stringendole con una strana delicatezza e premura, tutto sotto gli occhi del silenzioso e discreto maggiordomo, il quale si ritirò con un modesto inchino nelle sue stanze, lasciando finalmente soli due fratelli che avevano tanto, troppo, da dirsi.
Quasi a scacciare sul nascere una lacrima traditrice, Trystan riportò l’attenzione sul discorso precedentemente interrotto, schiarendosi la voce in maniera quasi goffa e impacciata.
«Dunque…Eris non è arrivata?»
«Eris? Per cortesia, dopo 10 anni di spedizioni e di addestramenti della peggior specie, pensavi veramente che la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata correre nelle fauci del leone?
Davvero, Trystan? Se conosco mia figlia sarà ad esplorare il mondo circostante, com’è giusto che sia, che sarebbe...dovuto essere già da molto tempo…e poi lo sai, le donne sono sempre più curiose di noi uomini che temiamo il mostro nell’oscurità…loro non temono alcunché, noi invece corriamo ai ripari non appena inizia a piovere!»
Il tenente rimase quasi a bocca aperta da quelle parole, sbattendo più volte le lunghe ciglia ebano, portandosi una mano praticamente incredula dietro al collo.
«Il mostro nell’oscurità? Questa non la sentivo dai tempi in cui Boris cercava di spaventare noi reclute durante le prime settimane di addestramento, e sappiamo bene quanto Boris sia stronzo con le reclute…»
«Boris è uno dei miei più cari amici, ma non ti nego che delle volte lo avrei volentieri lasciato chiuso nelle latrine per ore, specialmente ai miei tempi, quando il cazzo gli si rizzava ancora!»
«Spero…non per uno di voi…anche perchè l’immagine, te lo posso assicurare, è quasi spaventosa.»
Anche sulle stesse labbra del tenente comparve un flebile ma genuino riso, forse a seguito della sua colorita battuta o della stessa risata scaturita dal fratello, il quale prese insieme a lui a passeggiare come una volta tra quei corridoi che sembravano infiniti; di notte era quasi bizzarro, ma c’era una sorta d'intimità complice in quei sussurri, in quelle parole, dette a bassa voce per non svegliare quelle miriadi di teste ormai profondamente dormienti, o almeno, così avrebbero dovuto essere.
Lo studio di Rhys era l’unica ala della magione che era veramente rimasta identica a come Trystan l’aveva vista l’ultima volta: caotica, polverosa e disordinata, una sorta di covo dove il suo signore poteva ritirarsi per ore senza dover parlare o vedere nessuno, anche perchè il Grifone, dopotutto, non era mai stato un animale loquace o propenso al dialogo: una caratteristica ricorrente in quella famiglia di pazzi tradizionalisti.
Anche l’odore dei sigari e il pungente retrogusto di qualche amaro erano rimasti tali, soprattutto accanto al tavolinetto degli alcolici ormai ridotto al bancone di un’osteria di pessimo gusto: bicchieri vuoti, posaceneri pieni e cartine per sigarette stropicciate e tabacco praticamente finito.
Lo stesso tenente riservò un’occhiata effettivamente preoccupata, incupita perfino, al fratello maggiore, già seduto sulla sua storica poltrona con le braccia distese e le gambe stanche, con lo sguardo riverso sulla vetrata della terrazza, buia si ma illuminata da quelle splendide stelle.
«Sapevo che avessi dei vizi,chi non li ha? Ma così mi pare che tu stia esagerando…da quanto?»
«Ti stai forse preoccupando per me, fratellino?»
«Oh, piantala con questi giochetti pietosi, Rhys, non siamo più dei bambini e non mi incanti di certo con questa serenata smielata che mi stai proponendo!
Pensi che sia tornato a casa perché mi mancava? Col cazzo, me ne sono andato di mia spontanea volontà 24 anni fa, senza chiedere niente né a te e nemmeno a papà! 
Ho letto la lettera che hai mandato ad Eris, e posso dire solo due cose con certezza…»
«Ovvero? Sentiamo, sono più che pronto ad ascoltare le tue…supposizioni.»
Il fratello minore si avvicinò repentinamente a quella poltrona, a quell’uomo distrutto che non era suo fratello, quanto più una copia pallida e sbiadita, nuovamente faccia a faccia, sotto la luce argentea della pallida traditrice.
«Siamo stati separati per anni, decenni cazzo, da odio, rancore e Dio solo sa che cosa, e mi stai dicendo che una mattina ti sei svegliato e hai scelto di richiamarci a casa?
Ti sembriamo forse delle marionette, Rhys? Anzi, non sono nemmeno arrabbiato per me, per quello che mi hai fatto, quanto più per Eris…credi che si meriti questo?
Te lo giuro su Merrion, Rhys, se è una trappola del cazzo metto fine personalmente alle tue sofferenze!»
«Azzardati a pronunciare il nome di mia moglie in vano e te la faccio passare quella tua aria da stronzo…fratellino!
Sarò invecchiato ma non sono sicuramente rincoglionito…ti è chiaro?» ringhiò il ferito comandante con un luccichio feroce negli occhi, non ancora spento del tutto, anzi, forse più vivo che mai. Quel abbaglio fece rimettere in riga il tenente, forse sollevato da quella reazione, ma non ancora convinto del tutto dalle vere intenzioni del Grifone supremo.
«Felice di sentirlo, fratellone…e allora che cosa vuoi da noi?»
«Pensi veramente che voglia farvi del male? Non ve ne ho già fatto a sufficienza? Non c’è trucco, Trystan, non c’è menzogna, io sto morendo e voglio riavere la mia famiglia riunita…cosa c’è di difficile da comprendere?
Di così…astruso?»
«Tu…tu che cosa?»
Rhys annuì all’orrore lampato negli occhi dell’altro in maniera superficiale, scacciando via quella sorta di vuoto con un gesto della mano, come a non farla poi così lunga, ma Trystan non fu dello stesso avviso, arrivando ad aggrapparsi frontalmente ai braccioli della poltrona del fratello.
«Mi hai capito perfettamente…sono uno stronzo, vecchio ubriacone che se l’è spassata per 50 anni, coperto dalle mie credenze e dagli ideali imposti da mio padre, ed eccomi ora!
Una patetica carcassa che, pur di rivedere suo fratello e sua figlia, deve arrivare a morire…nella speranza di suscitare in loro un qualcosa, un qualsiasi cosa, anche dell’odio…»
«Rhys…smettila di..»
«Dico sul serio, preferisco il tuo odio, fratellino, che la tua indifferenza!
Almeno so che c’è un sentimento da alimentare, anche per uno come me che non merita niente…
Ma ora non voglio parlare delle mie condizioni, anzi…sono fottutamente stanco di sentirmi chiedere la stessa cosa, da giorni, settimane…se devo andarmene vorrei farlo almeno senza la pietà degli altri stampata in faccia, non pensi?
Anzi, meno persone lo sanno meglio è.»
«Credi invece che l’inganno sia preferibile alla pietà? 
Non essere sciocco, fratello, sappiamo bene che le bugie hanno le gambe corte, e quando si saprà…perché si saprà..»
«Fino ad allora, però, promettimi che Eris non lo verrà a sapere!
Farò di tutto per non essere il derelitto che stai vedendo, ma almeno con te posso permettermi il lusso di essere me stesso…e siediti, per favore, messo così mi sembri la Maddalena penitente, sarà per colpa di quei capelli lunghi che ti ostini a portare!»
Un debole ma vivo riso bondò sulle labbra del tenente, ora seduto sul divanetto limitrofo, non poi più così sicuro dei sentimenti che doveva provare, ma in quel preciso momento si era dato una risposta importante: non era odio quello provava, ma allora cosa?
I suoi occhi verdi cercarono di scindere la verità dall’autocontrollo apparente del fratello, muovendo quasi istintivamente la mano verso quella dell’altro, stringendogliela in pugno, non guardandolo negli occhi però, preferendo fissare un punto diverso, forse a nascondere la sua confusione, o anche il suo dolore, ben camuffato da anni ed anni di distanza e apatia verso il mondo circostante.
«Non glielo dirò, va bene, ma ti prego…se c’è una cura, tu..»
«Non esiste una cura, Trys; i morti non tornano, lo so benissimo, e se tornano non è mai un bene!»
«Allora, promettimi per lo meno di dare ad Eris un qualcosa che abbia senso ricordare…perchè tutto ciò che ha è solo odio e tristezza!
E…anch’io…ho contribuito alla causa, purtroppo.»
Rhys inarcò meravigliato un sopracciglio, vedendo un profondo coinvolgimento negli occhi del fratello minore, quasi intrinseco come una battaglia interiore, arrivando personalmente a smuoverlo con una mano sulla spalla. L’altro scosse la testa, come a dirgli di non preoccuparsi, ma anche Rhys, dal canto suo, sapeva quando c’era qualcosa che non andava ed era proprio uno di quei momenti.
«Ti ricordi che ti ho cresciuto io, si? Perchè, in caso non te ne fossi accorto,sono la prima persona che ti ha insegnato a raccontare le balle, e questa è una di quelle!
Mia figlia ti ha sconvolto la vita a tal punto?
Parlami di lei, ti prego, insisto. Non so proprio cosa dovermi aspettare…lei, com’è? Com’è diventata? 
Assomiglia…a sua madre? Oppure, non lo so…»
«Io…ecco, non…no. Eris non somiglia a sua madre; so che è strano sentirlo, in genere la figlia femmina somiglia sempre alla mamma, ma non questa volta. Anzi, se vuoi saperla tutta di Merrion ha poco e nulla, se non per il suo animo gentile, sebbene non lo dia mai a vedere ma, se può confortati, somiglia molto a te…non esteticamente, grazie a Dio, quella è tutta farina di nostra zia…»
I grandi occhi dell’uomo quasi brillarono, fortemente colpiti, trattenendo a stento un piccolo e vispo sorriso commosso e anche teneramente preoccupato da quelle notizie, arruffandosi caoticamente i capelli con la mano.
«Dunque, è una Griffith a tutti gli effetti!
Onestamente non so temerla o aver voglia di conoscerla fino in fondo, lo sai? Anche se essere come me non è poi così un vanto…diciamo che non sono famoso per la mia…lucidità, purtroppo…»
«Si beh, diciamo che nemmeno Eris e la chiarezza non sono buone amiche, spesso non ascolta nemmeno se stessa, fa quello che le dice quella testa dura e non vuole sentire ragioni, si batte senza sosta per quello che ritiene giusto e ammetto di averne paura anch’io, alle volte…
Sai, all’inizio non avevo idea di come prenderla perchè era solo…una ragazzina, poi però ho capito che non ero io a prendere lei, ma era lei a guidare me, e così ha fatto con i suoi uomini, perfino con i nostri superiori; non ha paura di niente, se non di stessa! 
In battaglia ha il tuo stesso sguardo feroce…quello che da piccolo mi faceva desiderare di essere uguale a te quando sarei cresciuto!
Ma la forza bruta, come saprai, non è il mio forte, quanto più l’astuzia e la furbizia…
Ma almeno questa parte sono fiero di averla trasmessa personalmente a quella…maledetta testarda.»
«Ci tieni molto…a lei, non è vero?»
«C-come?»
«Eris, tieni molto a lei. Lo vedo da come ne parli, da come ti luccicano gli occhi; io, io non so cosa avrei fatto senza di te, fratello, come avrei potuto fare se non ti fossi preso cura di lei!
Ogni notte, da quando l’ho mandata via ho pregato, e io non credo in Dio, lo sai!
Pregato che potessi proteggerla, che potessi essere una guida più saggia e sicura di quanto non fossi stato io, e ti ringrazio per tutto quello che hai fatto…perché dopo come ti ho trattato,io…non avrei mai potuto avanzare alcuna pretesa nei tuoi confronti!»
«Rhys…io non sarei così riconoscente se fossi in te…io….io ho sbagliato, davvero, ho fatto una cosa che mai avrei dovuto fare!
Io…»
«Suvvia, che avresti fatto di tanto sbagliato? Ciò che conta è che non l'hai abbandonata, a differenza mia, e questo per me vale più di tutto, lo sai..
Trystan…che altro c’è? Perché hai quella faccia?»
Il rimorso iniziò a divorare vivo l’animo tormentato dalla menzogna del tenente Griffith, il quale nemmeno riuscì a guardare in faccia il comandante, quasi schiacciato da quel peso contro il divano dell’ufficio. 
Come avrebbe potuto dire al suo unico fratello una cosa simile? Oh mio Dio, ma cosa aveva fatto?
Perché solo in quel preciso istante tutto gli appariva così nitido e chiaro, perchè non prima e solo allora? 
Non parlò, non ci riuscì, le parole morirono da sole prima ancora di nascere. Scrollò le larghe spalle con gli occhi chiusi, cambiando radicalmente argomento.
«Perdonami, è che sono molto stanco; questo viaggio è stato più pesante del previsto e vorrei riposare…però prima, Barnabas mi stava accennando qualcosa a riguardo della Hunter!
Ma di che si tratta?»
«Oh, giusto! Niente di cui tu debba preoccuparti, Boris mi ha già avvisato di tutto, diciamo che casa Griffith non è mai stata piena come in questi giorni, fortuna che non ci mancano le stanze per gli ospiti…»
Trys aggrottò le nere sopracciglia, vedendo il fratello alzarsi quasi allegramente dalla poltrona, seguendolo quasi a ruota verso l’uscita, affatto sereno e quasi turbato.
«Ospiti? Non parliamo mica di…quel bastardo…vero?
Non dirmi che Luther è in questa casa, per favore.»
Rhys emise un sospiro consapevole, mettendo le mani in avanti prima che il fratello potesse iniziare a dare i numeri, chiudendo nuovamente la porta d’ingresso alle sue spalle.
«Senti, Trys, so che tra te e Luther non corre buon sangue…ma ti prego!»
«Ti prego? Non mi è mai piaciuto quel fottuto macellaio tedesco, ma ho tollerato la sua esistenza visto che dei corposi kilometri ci hanno diviso per molti anni, e ora mi dici che è qui?
In casa nostra?!»
«Sai benissimo che sarebbe successo, dopotutto Eris non è l’unica figlia cocciuta e bugiarda che ho!
Dico bene? So tutto delle lettere tra te e Sheelah…diciamo che l’altra sera ti sei perso un quadretto quasi pittoresco, ci mancava solamente il plotone d’esecuzione a mio carico…»
«Le…lettere? Tu…tu le hai lette? »
«Che? No, non mi metto a leggere la posta di una sedicenne, è stata Rhiannon a trovarle!
Sa tutto…ma si può sapere che ti prende?
Sei pallido da un pezzo ormai…»
«Cosa sa…Rhiannon?»
«Ok, stai iniziando ad inquietarmi! Sa che vi siete tenuti in contatto, del fatto che Sheelah ti abbia cercato e che ti abbia tenuto informato…tutto qua, perché? Ci sono segreti più scandalosi di questo?»
«No…è solo che tua moglie non è mai stata una buona consigliera, e specialmente non è mai stata brava a farsi i cazzi suoi!»
«Trys…senti, sono felice che tu sia a casa e sarò ancora più felice quando potrò stringere mia figlia tra le braccia, ma devi darmi una mano, ok?
Anche le mura hanno le orecchie e in questo momento siamo sorvegliati, lo capisci questo?
Ho già una moglie furibonda, un ispettore che sta cercando di torchiare un figlio scapestrato che non ne vuole sapere di stare al gioco, dei ragazzini bizzarri che mi girano per casa e un hunter talmente spaesato che per poco non se la fa nei pantaloni dalla paura…»
«Cos…ma chi…Brando? Brando è qui? Ma perchè…oh, chiaro, Boris…»
«E non è tutto, mi risulta che anche un certo Quentin stia arrivando a cercarti, perciò la situazione rischia di sfuggire di mano se non siamo uniti, ok?
Ho bisogno di averti dalla mia parte, fratellino, almeno stavolta!»
I fratelli Griffith, dopo tanto, troppo tempo, si guardarono negli occhi profondamente diversi ma nuovamente uniti; Trystan, sebbene poco convinto, annuì, mettendo una mano sulla forzuta spalla di Rhys, roteando gli occhi al cielo.
«Ci proverò, ma non ti prometto niente…forza, mostrami la mia stanza che sono fottutamente stanco!
Penseremo a tutta questa merda domani…ok?»
Rhys annuì con un sollievo nel cuore, ma nessuno dei due fratelli sapeva ancora che nemmeno la notte avrebbe potuto portare tranquillità fra quelle mura, dove non tutti ancora dormivano sonni beati, specialmente nell'ala est di quel immenso palazzo, dove tre uomini, perfettamente svegli, o quasi, discutevano.
«Cioè, vediamo se ho capito bene, quella Gwendolyn sarebbe la stessa donna dello scandalo di casa Darcy? AH!
Lo sapevo, è proprio il tipo di donna che fa per me!»
«A te mica piaceva il cazzo?»
«Non è quello il punto, Diego, parlavo della sua classe…che signora, diamine! E dov’è stata per tutto questo tempo?» 
«Gwen non è famosa per la sua rintracciabilità, a volte parte per un mese, altre per settimane infinite, e pure per anni, nessuno sa dove vada e onestamente, chi sono io per sindacare?»
«Oh, nessuno, sommo padre supremo, eppure sembravate molto in intimità voi 2! Ci devi forse dire qualcosa? Anche perchè lady Griffith…ti stava letteralmente denudando con gli occhi e, per quanto l’idea mi disgusti, questo la dice lunga…Lulu.»
«Diego, puoi ricordare a tuo fratello che il voto di silenzio è ancora valido?»
«Vorrei, davvero, però sono anch’io molto curioso; non parli mai della tua gioventù e questa gente sembra conoscerti invece molto, molto bene…hai forse paura dei giudizi dei tuoi figli?»
Luther si dovette concedere, appoggiato di schiena al bordo della sua privata terrazza, una risata sarcastica e beffarda, guardando con la coda degli occhi chiari i due gemelli seduti all’interno della sua stanza, comodamente spaparanzati sui triclini del piccolo salottino, curiosi quasi come due pettegole nell’ora del the. Ivo diede una spinta al fratello, cercando di allungare le magre gambe il più possibile, ma non perse di vista il padre nemmeno un momento, punzecchiandolo a dovere.
«Ebbene? »
«Ivo, sono ancora in tempo per rimandarti nelle segrete della Hunter, a pulire la merda con la lingua, quindi finitela tutti e due!
Non c’è nulla da scoprire: sono cresciuto a stretto contatto con le famiglie dell’associazione, per questo mi conoscono, tutto qui…e Gwendolyn non era da meno, quindi il mistero è risolto, e ora…parlatemi di questo Duncan!»
«Duncan?»
«Si, Diego, Duncan...il deficiente che vi ho chiesto di tenere d’occhio dacché siamo giunti in questa campagna lontana dalla civiltà, te lo ricordi?
O state ancora smaltendo la sbornia in cui avete coinvolto perfino un maledetto inviato della Corona Britannica? Cosa di cui dobbiamo ancora discutere, noi 3…»
Lo sguardo ambra dell’uomo si posò sui due ragazzi, i quali guardarono quasi altrove, lontano dall’essere salvi dalle loro stesse bravate, specialmente Diego, che si trovò sotto aperta inchiesta, visto che l’attenzione era proprio mirata sulla sua testa.
Si grattò la folta nuca ebano, annuendo colpevole.
«Ok, abbiamo sbagliato, lo so…»
«Ma tu pensa, lo sai?»
«Hey, stavamo cercando di avvicinarci a quel ragazzo senza terrorizzarlo!»
«Terrorizzarlo? Quel figlio di buona donna è perfino più grosso di suo padre, da che cosa dovreste rassicurarlo? Dalla gonna di sua madre?!»
Sbottò contrariato il sommo amministratore, ma Ivo arrivò in soccorso al suo gemello con la mano alzata, quasi si trovasse a scuola.
«Se devo dirla tutta…io sarei terrorizzato da quella donna, non mi piace affatto…è così meschina! Anzi, meschina è un aggettivo pure troppo gentile…quella è proprio puttana.»
«Cristo,che devo sentire…ragazzi, non siete qui per risolvere i problemi dei Griffith! Non siete qui per essere i loro amici del cuore, e non siete qui per esprimere pareri personali…pensate che al gran consiglio interessi dei pettegolezzi che vi siete scambiati con questa gente negli ultimi giorni?
Devo trovare un sostituto di Rhys il prima possibile, e voi al posto di trovare un briciolo di spina dorsale in quel colosso che fate?
La terapia di gruppo?
Questo me lo aspettavo da Ivo, ma da te, Diego? Sul serio?»
«Te l’ho detto, che avrei dovuto fare? Prenderlo di peso e portarlo al campo a combattere?»
«No, perché? Dopotutto questo è diventato il ritrovo delle lady per l’ora della merenda, giusto?
Io…argh…»
Luther finì per passarsi una mano sul viso, effettivamente stanco da quelle lunghe ed infinite giornate, dando in fine le spalle perfino ai due ragazzi, preferendo guardare con gli occhi incavati il giardino ormai buio e sconfinato immerso in quelle terre. Chiuse finalmente il pesante sguardo, respirando intensamente l’odore dell’erba e del bosco infinito, stringendo sotto le affusolate dita il marmo gelido della ringhiera, quasi a raccogliere i pensieri in uno solo.
I gemelli Nardi, consapevoli della situazione, si guardarono quasi complici come sempre, preferendo quasi tacere piuttosto che continuare a ribattere, sapendo quanto difficile, se non impossibile, fosse entrare in contatto con quell’uomo.
«Ascoltatemi bene, tutti e due, perché questo non è un gioco, o meglio, in realtà lo è, ma è uno molto pericoloso.
Non mi interessa nulla dei trascorsi di questo moccioso, voglio sapere se c’è almeno una vaga possibilità di riuscita in questa storia; so bene che siete giovani e quindi empatizzare è la cosa che vi riesce meglio, ma credetemi, quando  vi troverete con un coltello conficcato in gola perchè un idiota non è stato in grado di pianificare un attacco, allora capirete anche la mia di prospettiva!
E per quanto riguarda miss Burke, fate in modo che non si impicci più del dovuto…ho già troppi mal di testa, e non mi serve la merdosa Corona a ficcare il suo maledetto naso dove non le compete, chiaro?
Nessuno…strafalcione è consentito, mi avete sentito?»
«Si…»
«Chiaro.»
«No, forse non mi sono spiegato bene.»
Il volto sinistro e grave di Luther mise in riga, come uno sparo, i due ragazzi che scattarono in piedi come militari non appena i loro sguardi si incrociarono con quelli del loro stesso superiore, e non solo tutore; annuirono all’unisono, con le braccia dietro la schiena.
«Sì, signore.»
«Molto bene, potete andare…»
Richter finì per congedare i due giovani con un semplice gesto del capo, rimanendo poi a fissare per secondi interminabili le fronde buie degli alberi smosse dal vento, unica voce ancora presente fra quei giardini immensi,  ascoltandola ad occhi chiusi.

La natura, a differenza degli uomini, non aveva tutti quei problemi da porsi e non se li sarebbe mai creata; loro invece erano in grado di creare baccano anche per la più futile delle ragioni.

L'odore di fumo, però,  solleticò le narici dell'uomo in maniera quasi tiepida, non poi così forte come ci si aspettava, quasi flebile, come se fosse stato sì, vicino, ma non abbastanza da aspirarlo a pieni polmoni.
Quando riaprì gli occhi trovò una differenza pericolosa, in basso, nascosta per via del buio fra i tronchi lunghi e ombrosi degli alberi, ma non dovette sforzare granché la sua perfetta vista, poiché la figura apparentemente occultata continuò ad avanzare fino ad essere in pieno favore della luce della luna, perfettamente esposta.
La giovane donna in questione aveva sulla spalla il suo cappotto nero, una sigaretta accesa fra le labbra e un cappello nella mano, all'altezza del fianco, con lo sguardo sfacciato e arrogante fermo proprio sul volto di Luther, il quale si giurò di non aver mai visto quella ragazza, ma non faticò minimamente a capire chi fosse.
Erano poche le donne che si sarebbero introdotte in quei giardini, con quello sguardo, con quell'aria di sfida e soprattutto quella cicatrice inconfondibile proprio sul viso giovane e allo stesso tempo navigato.
Il biondo si sollevò dalla ringhiera, quasi a ricambiare al meglio quella sorta di tacita sfida di sguardi, lasciando un silente sorriso sghembo a bondare sulle sue labbra, ma quella non gli rispose di certo, preferendo tirare una boccata dalla sigaretta quasi terminata, spegnendola poi brutalmente sotto al tacco del suo stivale, calpestandola con piacere.
Luther ne rise, guardando quella iconica figura dargli volutamente le spalle con superiorità e scomparire fra gli alberi esattamente com'era arrivata.
Capitano Eris Griffith, finalmente ci conosciamo.

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Capitolo 18
*** Am I missing something here? ***


Chapter 18: Am I missing something here? 

Current Day, a shocking one.


London, it’s always been you.

«Grazie per essere venuta con me…io odio Londra, non mi piace nemmeno un po!
Mi fa letteralmente schifo…è sudicia, piena di stronzi e di gradassi con il culo pesante…
Non so nemmeno perché ci sono venuto di mia spontanea volontà!»
«Vedila così, Griffith, almeno per oggi non avrai la pressione di quel dittatore tedesco addosso…non ti pare una benedizione?
Oh, si, ti ho osservato per bene un paio di sere fa; ci mancava tanto così a scoppiare, l’ho visto perfettamente!
Ma non ti biasimo…mette i brividi anche a me quell’uomo, non mi piace per niente…»
«Temo siano in pochi, oltre a mio padre e i suoi figli, a tollerarlo come un essere umano! Lui è così fottutamente…gelido? Non sembra di questo mondo, ma se devo dirla tutta…neanche tu sei così usuale, miss Burke.»
«Devo prenderlo forse come un…complimento, Griffith?» 
«Io direi di si! A proposito…per quanto devo restare impalato come un cretino così, signor Olivieri?»
La sartoria di Vittorio Olivieri era una delle botteghe più rinomate di tutta la capitale, e non solo per la qualità delle sue stoffe ma soprattutto per gli splendidi modelli, ricercatissimi in tutto il paese soprattutto dai lord più in vista e più esigenti. Duncan non era affatto esigente e tanto meno gli interessava essere al centro dell’attenzione, ma nessuno sembrava dargli il benché minimo ascolto, specialmente se si trattava dei suoi desideri, per lungo tempo rimasti muti.
Saul, dal canto suo, non poté far altro che osservarlo da una delle seggiole d’attesa della bellissima boutique dallo spirito italiano, che conosceva perfettamente anche lei visto che suo padre, da anni, non faceva che rifornirsi lì per ognuna delle sue figlie: una più viziata dell’altra. La ragazza accavallò le sottili ma agili gambe una sull’altra, guardando come il ragazzo dai ricci capelli rossi non riuscisse a stare fermo nemmeno per un minuto, sotto le mani magiche e abili del povero sarto, seriamente in difficoltà a lavorare con un’anguilla grossa come quella.
Vittorio sbattè il tacco della sua scarpa di pregiato vitello spazzolato contro il pavimento, mantenendo la calma anche se ancora per pochissimi minuti, con la sua fidata spugnetta porta spilli che vagava a destra e sinistra, ancorata al suo minuto polso.
«Signor Duncan, so che le viene complicato stare fermo, ma se riuscisse almeno ad essere paziente mi farebbe una grande, grandissima cortesia!
Non ho il piacere di vestire fisici possenti come il suo o quello di suo padre così frequentemente, quindi le chiederei un minimo di indulgenza nei mie riguardi…chiaro?»
«Si, si, mi scusi, è solo che non sono abituato, non amo essere vestito da paggetto!
Figurarsi poi per un evento di cui non me ne importa assolutamente nulla!»
«Ma come? Si tratta di una delle feste più attese di fine primavera, anche lei dovrebbe essere esaltato come tutti i suoi coetanei…e poi, ci saranno moltissime fanciulle da ogni angolo della città.
Tra cui le sue sorelle, miss Burke!
Ho da poco avuto il piacere di vestire sia Olivia che lady Yvonne: saranno semplicemente divine, glielo prometto.»
Saul mise una mano in alto quasi in segno di fiducia nei confronti del sarto, finendo poi per alzarsi non appena quest’ultimo si ritirò a cercare qualcosa nel suo retrobottega, lasciando nuovamente soli i due giovani; Duncan sospirò sfinito, guardando con la coda dell'occhio la figura minuta della ragazza che gli girava attorno segretamente divertita.
«Ti diverti?»
«Molto, in realtà! Sai…non stai affatto male, vestito così intendo…lo hai sentito Vittorio! Ci saranno tutte le cretine di Londra da qui fino alla costa del sud, perciò potresti essere fortunato…»
Duncan sbuffò, allargandosi disperatamente il colletto stretto della sua camicia; la Burke si avvicinò di fronte al rosso, sbottonandogli così i primi bottoni per dargli modo di respirare. 
«Meglio?»
«Decisamente, grazie. E comunque non mi interessa poi molto fare il galletto nel pollaio, anche perchè credo che Liza potrebbe uccidermi a colpi di mattarello, o peggio, potrebbe farlo suo padre!»
Saul inarcò il pallido sopracciglio verso l’alto, portandosi dietro l’orecchio una ciocca argentata.
«Liza? E chi…oh! La tua fiamma?»
«Diciamo di si, ecco, non è una relazione proprio facile da descrivere ma…si! Io e lei…ci conosciamo da una vita, e poi…»
«E poi siete finiti insieme; una storiella già sentita precedentemente! Però carina,si…e vuoi sposarla?»
Il Griffith quasi cadde all’indietro, restando a stento sulla pedana di prova e soprattutto composto; ma che razza di domanda era quella?
La miss sogghignò furbamente a quella reazione goffa e agitata, mettendosi come a suo solito le mani incrociate dietro la schiena, e non senza aver ispezionato personalmente le cuciture ancora in corso del gilet.
«Ma cosa volete da me esattamente tu e quegli altri 3 svitati? Si può sapere? Sperate forse che, come mio padre, metta la testa a posto e serva un qualcosa in cui non credo?
Siete davvero stupidi in questo caso, non sono come Cedric, che muore dalla  voglia di avere quel titolo solo per farsi bello davanti ad ogni ragazza del paese, o agli occhi di quel pezzo di ghiaccio di Cillian Darcy…
Non mi è mai piaciuta quella famiglia, mi mette i brividi e per ovvie ragioni stiamo ben distanti!
E poi, matrimonio?
Andiamo…non essere sciocca, perchè non credo proprio tu lo sia, a differenza di quelle galline delle tue sorelle…» fece quello con una smorfia.
Saul inarcò un sopracciglio, non troppo entusiasta, con le mani sui fianchi, in attesa di risposta.
«Non ho molto a cuore i pettegolezzi di cui le mie sorelle vanno tanto pazze, ma non ti permetto sicuramente di mettere bocca su quello che non conosci!»
Duncan finse un’espressione di puro rammarico, solo per mostrarle uno sguardo strafottente.
«Lo stesso vale per te, allora! Non conosci niente del mio mondo, della mia educazione, della mia famiglia, di Liza o di tutto il resto, quindi smettetela di spingermi contro una cosa che non voglio!
No, non voglio sposarmi, non ora, non qui…non senza la persona che amo, che sia Liza o qualsiasi altra donna, l’unica cosa che conta è che sia per mia scelta, non quella di qualcun altro.»
Il giovane erede sembrò quasi chiedere aiuto e non passò inosservato, nemmeno agli occhi freddi e apparentemente insensibili di miss Burke, che si accorse solo allora di aver esagerato con quella sua dannata supponenza. Strinse appena il pugno al fianco, guardando poi il ragazzo allontanarsi verso il camerino, stanco di quelle prove, di quei merletti soffocanti, lasciandola così sola, con i suoi pensieri, ma non per molto.
Saul uscì dalla sartoria, forse per prendere una boccata d’aria, finendo per appoggiarsi di spalle contro il retro della bottega; era una giornata così fresca e grigia, in grado di scompigliarle quei capelli biondi sempre rigorosamente ordinati e perfetti.
Lei non conosceva Duncan, non conosceva i gemelli Nardi e nemmeno quel sinistro superiore per cui non provava alcuna simpatia, e appunto per questo non poteva permettersi il lusso di giudicare nessuno ma ,dopotutto, era proprio questo che la società, suo padre, tutti, le avevano insegnato: etichettare tutto e tutti senza uno straccio di prova.
Così nasce la legge dei sospetti.
Si passò una mano sul giovanissimo e candido viso, un fiocco di neve, guardando persa quel lungo e silenzioso vicolo, notando poi, oltre una fila di cassonetti proprio dietro ad uno dei ristoranti della zona, una figura maledettamente familiare, insolita, guardinga e piuttosto agitata.
La ragazza sbatté le lunghe ciglia argentate, avvicinandosi di soppiatto dietro a quei vistosi bidoni, non pensando di vedere la tonaca di una suora nei vicoli di quel quartiere, figurarsi nei retrobottega, dove si aggiravano solo i cani randagi e i senzatetto; aveva il viso coperto da un cappuccio ma la veste era quella monacale, si vedevano bene le mani, molto giovani e curate che stringevano fra le dita un fascicolo, una cartella abbastanza rovinata, mentre con il capo si voltava a destra e sinistra, in attesa di un qualcuno che non sembrava arrivare mai.
Saul Burke era sicuramente rigida e un po’ troppo bacchettona, ma era sicuramente una delle giovani più curiose che ci fossero in città, ma non lo dava troppo a vedere sotto quei vestiti e quel berretto sempre sul capo. Si acquattò, piccola, per nascondersi meglio, vedendo finalmente arrivare una seconda persona dallo sbocco principale del vicoletto, anche questa ben coperta, ma non bastò sicuramente un cappotto più lungo a nascondere chi davvero fosse quell’uomo.
Saul si nascose di colpo dietro ai bidoni, con una mano sulle labbra. 
Era lord Cillian Darcy.
Qualcosa dentro Saul le disse di prendere e andarsene e anche alla svelta, ma non lo fece nemmeno per idea, riprendendo coraggio per voltarsi in loro direzione e continuare a rendersi testimone di un qualcosa che non avrebbe dovuto vedere nessuno. 
Era troppo lontana per sentire le loro parole, ma sul viso di Cillian notò un’espressione assai turbata alla vista di quel fascicolo che prese personalmente fra le mani coperte dai guanti, mentre la suora non smise per un istante di stringergli in maniera equivoca e inappropriata i polsi, evidenziando quella scomoda conoscenza tra i due; lord Cillian con una suora?
E cosa diavolo c’era di così importante in quelle pagine dal doversi nascondere lì?
L’uomo accarezzò il viso della donna sotto al cappuccio, sorridendole in maniera subdola e falsa, con il pollice sulla sua guancia, coinvolgendola successivamente in un bacio pure troppo sentito, alchè il copricapo cadde, svelando inevitabilmente l’identità di quella monaca che avrebbe dovuto rimanere all’interno delle mura del suo convento, e non fra le braccia di un uomo, sposato, velenoso: semplicemente non avrebbe mai dovuto essere lì.
La pupilla di Saul divenne un granello di polvere, tanto si ridusse, persa nell’azzurro dei suoi occhi che non avrebbero mai voluto credere ad una simile scena, nemmeno se l’avessero pagata. 
Charlotte, in nome di Dio, ma che cosa cazzo stai facendo?
Perché sei con quell’uomo?
Erano degli interrogativi più che legittimi, ma non avrebbe ricevuto risposta, non così presto e di certo non lì;  avrebbe tanto voluto andare a prendere quel figlio di buona donna per il cappotto e sbatterlo al muro, ma con quale coraggio? Con quale faccia?
Su una cosa Duncan aveva ragione: quando comparivano i Darcy, comparivano i guai.
A proposito di Duncan…
Come la giovane Burke aveva scelto di uscire sul retro del negozio, l’erede di casa Griffith invece aveva optato per l’ingresso principale della bottega del sarto italiano, guardandosi attorno più volte ma non trovando la figura della ragazza da nessuna parte. Si grattò il capo con un sospiro rammaricato, forse in colpa per il modo in cui le aveva risposto, ma il dado ormai era tratto, dopotutto. Mosse alcuni passi in direzione della stazione, pensando forse che Saul lo avrebbe raggiunto strada facendo, o almeno così sperava, ma non sapeva che, alle sue spalle, con uno sguardo assai divertito e curioso, c’era un’altra persona, e non aveva niente a che vedere con Evelyne Saul Burke.
L’odore di fumo fece fermare il rosso sul posto, ma fu invece quella voce che gli fece arrestare perfino il pensiero, voltandosi lateralmente all’indietro.
Cedric.
Con le mani nelle tasche del pantalone a quadretti, la camicia sgualcita ma di finissimo cotone egiziano, quei capelli dal taglio militare spettinati, il volto arrogante: e quello un giorno, come lui, sarebbe dovuto divenire comandante?
La Hunter avrebbe avuto molti problemi,e soprattutto, molto seri, pensò Duncan, sbuffando perentorio.
«Adesso ti sei messo pure a seguirmi, Darcy? Credo che tu abbia bisogno di svagarti…»
Quello ghigno, guardandolo quasi offeso solo dopo aver dato uno scherzoso schiaffo circostanziale all’aria, facendo spallucce verso l’alto.
«Aww, mio caro grifone, solo mio padre può parlarmi con quel tono scocciato e deluso, non prenderti tutta questa libertà solo perché adesso avete in casa il bamboccione tedesco e i suoi due tirapiedi malavitosi!
Dai, Dunchino! Pensavi veramente che la tua condizione sarebbe cambiata da così a…» Iniziò a capovolgere il palmo della mano verso l’alto, ma finì drasticamente per abbassarlo praticamente verso terra, fingendo una lacrima con l’indice lungo la sua guancia.
L’altro roteò gli occhi, praticamente saturo da quelle circostanze indesiderate e al di fuori della sua portata.
«Oh, Dio, sei veramente convinto che ci possa guadagnare qualcosa da questa sorta di convivenza forzata? Ti credevo un attimo più perspicace di così, Cedric, perché se sei ancora convinto, dopo tutto quello che hai visto, che io voglia solamente avere a che fare con la tua fottuta crociata, non hai mai capito niente allora!»
Quello si mise l’indice sulle carnose labbra, assottigliando dubbioso lo sguardo.
«Effettivamente sei una vittima degna di pestaggio, però come cacciatore fai acqua da tutte le parti, e lo dico con affetto, sei semplicemente…come dire, inadeguato?
Goffo? Disadattato? Posso continuare all’infinito ma non c’è gusto con te, a meno che non ti si tocchi nei punti…giusti, un po 'come l’ultima volta! Te lo ricordi, questo?»
Il Griffith non potè nascondere un visibile sorrisetto sulle labbra alla vista del livido sul viso sfacciato di Cedric, che lo afferrò per il colletto della camicia abbastanza infastidito da quello sfregio importante, spintonando la figura di Duncan come un pupazzo.
Cedric gli mostrò i denti, soffiandogli come un gatto a fior di labbra.
«Ti fa ridere, coglioncello? Guarda che Luther non è mica Dio, non potrà difenderti in eterno..»
«Vero, eppure deve farti una certa paura se continui a blaterare e non ti permetti nemmeno di sfiorarmi come si deve! 
Andiamo, la sola idea di essere controllato ti fa impazzire, te lo leggo negli occhi, Darcy!
Io e te non siamo poi così diversi…»
«Scusami, scusami, scusami, che cazzo stai dicendo…?Moi? Io? Simile a te? La lana con la seta? Esattamente quanti gradi di vista ti mancano per farti dire simili stronzate?
Io sono il non plus ultra, tu sei letteralmente lo stalliere di turno, lo stronzo che praticamente è in balia del suo destino e annega in esso perché papà si è dimenticato di chiedergli il permesso di fare della sua vita ciò che più gli aggrada!
Tu sei quel bambino imbranato e pieno di pensieri irrealizzabili che pur di fuggire dalla realtà se ne inventava una che nemmeno esisteva!
Tu…Griffith, sei…»
Cedric delineò la figura della storica controparte con scherno e quasi incredulità, non smettendo mai di ridere strafottente, portandosi poi con uno strano nervosismo una mano fra i capelli disordinati. Non trovò ulteriori parole, si limitò solo a sputare per terra, nauseato.
«Tu…ed io, non siamo, non saremo mai uguali!»
«Se davvero lo credi, perché non riesci nemmeno a guardarmi in faccia come fai di solito? Ah? Io lo so…perchè fai lo stronzo con me, Cedric, e sinceramente è un motivo talmente imbarazzante che quasi mi fai tenerezza…»
Duncan guardò del tutto indifferente lo stesso ragazzo, la cui pupilla divenne un punto disperso nel suo oceano bluastro. Le nocche del Darcy divennero bianche, iniziarono a prudergli i pugni, vogliosi di cazzotti.
«Io, tenerezza? Vuoi proprio essere massacrato?»
«Fallo, non farlo, non mi interessa, noi due ripetiamo questa sceneggiata da una vita, Cedric…non sei un po stanco?
Di questo sistema, intendo…
I Darcy che odiano i Griffith per motivi che a noi onestamente nemmeno toccato, tu che mi vuoi pestare a morte perchè un giorno potrei prendere il posto di mio padre, o forse perchè hai semplicemente temuto che, se avessi voluto, sarei stato un picchiaduro perfino peggiore di te…
E invece, hai trovato un pupazzo di paglia che nemmeno risponde, e questo ti fa arrabbiare, perchè nessuno sfida Cedric Darcy “il bulletto”; ecco chi sei, per tutti!
Quello a cui nessuno dice di no perchè non vuole la faccia ammaccata, quello che tutti evitano perchè è solo un piantagrane infantile, quello che tutte le ragazze desiderano perché è sempre in mostra, spavaldo e spaccone, ma che le scarica come rifiuti una volta che si è divertito con loro…
Il primogenito mani bucate e scapestrato di un padre che non gli dimostra una briciola d’affetto, che non vorrebbe nemmeno lasciargli baracca e burattini perché sa che se lo fotterebbe in una settimana tra droga e puttane, vero?
Mi sbaglio, Cedric? Tu sei proprio questo, giusto? Avanti, dammi un bel cazzotto in faccia così la facciamo finita!»
Il giovane Darcy si leccò con la punta della lingua quei denti perfettamente dritti, scuotendo la testa inferocito come un bufalo. Sul voltò di Duncan atterrò un gancio da primo premio, lasciando la sua nuca a penzolare scossa verso il lato opposto, sul muro dove alcuni schizzi di sangue colorarono alcune mattonelle grigie. Cedric dovette perfino tenersi il pugno dal dolore, dolore forse non tanto causato dal colpo, quanto più dalle parole, parole che nessuno gli avrebbe mai rivolto con tanta sfrontatezza o anche solo sincerità; ma Cedric era Cedric, non incassava mai il colpo senza restituirlo. 
Duncan lo sapeva bene, e lo incassò senza grandi cerimonie, pulendosi dal labbro quel rivolo caldo, ritornando però a fissare dritto negli occhi il suo avversario, il quale non aveva più in volto quello sguardo che tanto lo caratterizzava.
Erano forse…pari? 
Era una tregua?
Difficile a dirsi, ma il secondo pugno non arrivò da parte di nessuno dei due, che si tennero quasi a distanza di sicurezza. Nessuno parlò, non finché Duncan azzardò un sarcastico passo in avanti.
«Tregua, Darcy?»
«Tsk, coniglio, non ci pensare! Non lo farei nemmeno se…oh!
A dir la verità una tregua te la potrei pure concedere, ma ad una condizione.»
«Mica non scendevi a patti coi conigli? Che cosa diavolo potresti mai volere da me? Un abbraccio?»
«Azzardati e ti do il resto! C’è...effettivamente una cosuccia uccia che vorrei tanto, e si da il caso che a breve questo bel fanciullo compia gli anni, perciò…» fece gongolando con le mani sui fianchi, porgendo come per magia un fazzoletto direttamente dalla tasca del pantalone al rosso, che lo accettò ma con un corposo sospetto.
«Vai al punto, imbecille con la faccia da cul…»
«Voglio tua sorella, e non la moglie suorina con la pagnotta in pronta consegna, ma la rinnegata sexy con la cicatrice sul viso e un paio di gambe che arrivano fin qui e gli occhi verdi, te la ricordi?»
«Che cosa…ma di che diavolo stai blateran…non stai parlando di Eris, vero?»
«Ohh…si! »
«Tu…tu sei pazzo, io non vedo Eris da 10 anni, come potrei convincerla e soprattutto perchè mai dovrei spingerla tra le braccia di un tossico maniaco faccia da schiaffi come te?
Sei letteralmente fuori strada!» 
Cedric roteò gli occhi all’indietro, annoiato ma non al punto di mollare, appoggiando perfino un gomito sulla spalla di Duncan, sembrando in maniera bizzarra e sì, perfino assurda, di essere quasi amici.
«Sei tu quello che non ha ancora capito che il cazzo nei pantaloni non serve solo per pisciare, coglione…Eris è qui, è tornata, ed è la miglior sorpresa che mi potessi fare, Griffith…» 
Il ragazzo aprì gli occhi fino a sgranarli, come se gli avessero appena sparato alle spalle, non tanto per la richiesta assurda di Cedric, quanto più per quella notizia che, in un modo o nell’altro, sarebbe serpeggiata in tutta la città da lì a breve. Non pensava che sarebbe mai successo, non per davvero, ma non ci avrebbe creduto finchè non l’avrebbe vista con i suoi stessi occhioni luccicanti. Il Darcy lo prese per un braccio, fermandolo sul posto.
«E adesso quale fisima ti affligge? Non vedi l’ora di vederla? Potrei farti compagnia…» 
«Cedric, non diventeremo amici dopo anni di pugnalate solo perché adesso ti sei preso una delle tue ennesime sbandate, e per giunta per una delle mie sorelle, e se conosco Eris come credo, non degnerebbe uno come te nemmeno di uno sguardo!
Sei un bambino infantile che…» 
Il rosso fu zittito da un gesto della mano del suo storico avversario, che aveva addosso un sorriso così strano, insolito, quasi sognante, sicuro della sua riuscita; che ne avevano fatto del vero Cedric, chi era quel tizio? 
Nonostante il dolore alle nocche, il fastidio per quelle parole non poi così distanti dal vero, nella testa di quel ragazzo c’era solamente l’immagine di quella ragazza arrivata dal nulla nella maniera meno indulgente possibile: non gli erano mai piaciute le gatte morte, tutto ciò che si poteva ottenere con troppa facilità, ed Eris non apparteneva affatto a quella categoria e la cosa gli dava letteralmente i brividi.
Duncan lo guardò praticamente andarsene, avvertendolo, avvisandolo che quella era una vera pazzia, ma  Cedric era troppo impavido e spavaldo per dare retta al saggio fratellastro della ragazza, il quale rimase in quel angolo praticamente di sasso, attonito, finchè poi il Darcy non concluse quel bizzarro colloquio iniziato malissimo e finito pure peggio, con un dito a picchiettare sul suo polso.
«Vi aspetto settimana prossima, sabato alle 9 precise, non vorrete mai far attendere il festeggiato, dico bene?» 
No, figurarsi, mai far aspettare un Darcy, porta male.
Cedric e Duncan non sapevano mica di essere stati visti anche loro, da un occhio molto meno indulgente e sicuramente assai annoiato da quella sorta di incontro non poi casuale; Caleb abbassò il giornale a metà viso, oltre il finestrino della Ford, seduto assieme alla fidata gemella, che si calò appena sul naso i tondi occhialini da sole.
Cecile rise.
«Hai visto anche tu quello che ho visto io, vero, Cal?» 
Quello rispose con una smorfia poco lieta, piegando il rotocalco di lato; la sorella accavallò le agili gambe, dondolando come sempre il piede.
«Che le cose stiano cambiando? Guardalo quello scervellato di nostro fratello, fraternizza con il nemico, che nemico non mi pare più la parola gius…» 
«I Griffith non sono così mansueti e avviliti come fanno credere, sorella, non facciamoci prendere per il naso come Cedric, che dietro ad un paio di belle gambe sarebbe pure in grado di cedere titolo e crediti!» 
«Vedo che la cosa ti infastidisce, e parecchio, fratello, come mai? Che ne sai di questa Eris Griffith? » 
La domanda fece inarcare al bel fanciullo dai capelli altrettanto ricci il suo sopracciglio, rivolgendo a Cecile il suo pieno disappunto.
«Da dove comincio? So ben poco, oltre alla nostra discutibile parentela, è un ufficiale della Hunter, uno di quei mastini picchia duro che andrebbe a nozze con il carattere bellicoso di Cedric, inoltre la sua promiscuità è nota nell’ambiente, soprattutto dai suoi…colleghi…» 
«Dannato diavolo di un pianista, come sai tutte queste cose? Chi te le ha spifferate?» 
«Oh, nessuno, se non il nostro stesso irrequieto padre, in via non propriamente diretta!» 
«Uh?
E tu quello dove lo hai preso?!» 
A chiarire le perlplessità di Cecile fu lo stesso fratello, che tirò fuori dalla sua giacca un fascicolo dal colore nero e masticato agli angoli, ma non soddifsfò del tutto le curiosità dell’altra, nascondendolo nuovamente al suo posto non appena la portiera dei sedili posteriori si aprì.
Caleb e Cecile tornarono subito ai loro posti nel preciso istante in cui il padre rientrò in macchina, accanto alla figlia minore, con il viso rivolto verso il vetro; l’autista mise in moto e ripartì, allontanandosi così da quel quartiere, in religioso e sinistro silenzio. 
Cal sapeva benissimo il perchè di quella insolita fermata, a differenza di Cecile, che scalciò contro i sedili.
«Ce ne hai messo di tempo, sono pronti i vestiti? Mmm? Papà?» 
«Vestiti? Di cosa parli?» 
Chiese ancora assorto Cillian, con il volto completamente rabbuiato e rimuginante, uno che tolse il respiro a Caleb. Fu in procinto di chiedere, di parlare, ma lo sguardo contrario del padre lo rimise a sedere nel suo angolino. Cecile non capì il perchè di tutta quella segretezza, sbottando con le mani sui fianchi.
«Si può sapere che cos’è tutta questa segretezza? Da quando Caleb è diventato il tuo prete personale? Uh?» 
«Cecile, non sono…» 
«E tu sta zitto, fratello, non permetterti a difenderlo!
Parlo proprio con te, oh disperso padre, che nascondi tanto gelosamente sotto quella giacca? La mamma ha ragione, sei più strano e pensieroso del solito, e se quel omertoso di mio fratello ti protegge…l'hai fatta grossa, allora!
Da dove cominciamo?» 
La figlia minore di Cillian era già sul piede di guerra, non lontana dall’essere testa calda di Cedric, ma quella reazione non sfiorò minimamente lo sguardo di ghiaccio del giovane padre, il quale tirò fuori dal cappotto alcuni fogli, che lasciò dritto nelle mani della figlia.
Quella li sfogliò, storcendo il naso, arrivando pure ad aggrottare le sopracciglia.
«Sono…fatture? Ricevute di pagamento? A nome dei…Burke?» 
Cillian, furbamente, annuì annoiato.
«La festa di tuo fratello ci sta costando una fortuna, e ultimamente lord Burke, che frequento per questioni puramente burocratiche, si è offerto di pagare il rinfresco perchè vuole che una delle sue figlie sposi Cedric, a suo malgrado, immagino…
Quell’uomo, pur di starci vicino, ci pagherebbe pure i debiti di gioco di tuo zio, cara Cécile, ma non è certamente per questo che gli permetto di starci così vicino!»
«Era..era questo che nascondevi? Alla mamma?
Che i Burke ci leccano il culo? Perché mi suona strano tutto questo? Non abbiamo problemi di soldi, noi…» 
«Indubbiamente vero, ma vedi, figlia mia, un uomo come tuo padre deve saper guardare al futuro!
I Burke sono gente discutibile per condotta morale, ma sono vicini alla Corona, ai vertici della Hunter, nell’industria bellica, insomma…hanno le mani in pasta in troppi posti per averli indigesti, e lord Benjamin è particolarmente interessato alla nostra amicizia!
Non pensare che mi piaccia, mi ripugna, ma tuo fratello è grande, egoista e capriccioso, e non ho buone prospettive; lo vedete da voi, prodigo e perdigiorno, una moglie e un titolo lo terranno occupato il giusto da intascarsi ciò che gli serve, e poi…si vedrà…
Ma non posso certamente rovinarmi perchè la società ha scelto che per farvi ingresso bisogna spogliarsi dei propri beni, e lo farei pure se avessi la certezza che Cedric, un giorno, non manderà tutto a puttane, ma come potete capire non ce l’ho!
E gradirei che le mie manovre non venissero più messe in discussione, Cecile, a meno che tu non abbia un’eredità indescrivibile nascosta nelle costose scuderie dei Cunningham o sotto la gonna di Olivia Burke.» concluse brutalmente lo stesso uomo, con un cipiglio talmente indifferente da far male, specialmente per la figlia, che si voltò quasi in imbarazzo e offesa dal lato opposto.
Fu un viaggio muto, silenzio di tomba fino alla stessa dimora dei Darcy, dove Cecile abbandonò la vettura per prima, e non senza aver sbattuto la portiera più forte che potè; fu una cena senza suono, una serata senza parole, nemmeno un soffio di vento se non per quello che osò entrare dalla finestra aperta dello studio di Cillian, dove stava seduto ormai dalla fine di quel indigesto desinare. Caleb stava seduto, come da bambino, sul bordo della stessa persiana, godendosi la vista sul bel giardino interno avvolto dalla penombra della notte, mentre l’uomo aveva chiuso i suoi bellissimi occhi azzurri da diversi minuti.
Quel fascicolo che gli aveva procurato suor Annabelle non lasciava più la presenza di alcun dubbio, ed era la cosa che fondamentalmente temeva di più.
Il ragazzo si voltò, preoccupato, verso il genitore, non sapendo che dire, cosa pensare o fare.
«Non era Benjamin Burke la causa dei tuoi mal di testa, ma perché non me l'avete detto subito?
Del convento, di tutto! Avremmo potuto…» 
«Cosa…Caleb? Avreste potuto fare cosa?
Per favore, sarai pure perspicace ed intelligente, ma resti un ragazzino, come tua sorella che si ostina a ribattere, per non parlare di Cedric, o di Rebecca…se sapesse di questa storia le verrebbe un crollo, e non è ciò di cui abbiamo bisogno!
Se sai è perché io voglio che tu sappia, ragazzo, perché questa storia non deve uscire da quest’ufficio…è uno scandalo troppo grosso, anche per gente come noi! 
E le ripercussioni?
Sai che notti insonni ho passato da quando tua zia Cybil si è ripresentata qui, a Londra?
Lei…combina solo casini, parte, ritorna, e chi deve risolverli sono proprio io!» 
La voce tormentata di Cillian tradì del sincero fastidio e anche rabbia, incredulo e amareggiato per le recenti notizie che aveva cercato per mesi e mesi interi, da quando la scapestrata zia era ritornata da chissà dove senza mai dare spiegazioni.
Un conto era nascondere dei soldi, ma un altro era nascondere un figlio per oltre 26 anni.
Lord Darcy non aveva il vizio del bere, ma quando ci voleva era più che necessario, infatti vuotò più di un semplice bicchiere di purissimo whisky invecchiato, senza battere ciglio nemmeno una volta.
«Prima di me, si era sempre occupato tuo nonno, quel pazzo incosciente! Le ha dato carta bianca e l’ha liberata dai suoi obblighi matrimoniali, l’ha lasciata viaggiare, e come si ripresenta?
Incinta, poco più che ragazzina, con il figlio di un criminale conosciuto in una delle sue gite orgiastiche, poi ci assicura che sempre quel figlio, anzi, figlia, è morta appena nata, così, distrutta dal dolore, riparte e ritorna, abbandona i titoli nobiliari, poi muore tuo nonno e spero con tutto me stesso che nemmeno lei si rifaccia mai più viva, e invece?
Non solo finge di essere pazza, ma ci ha tenuto segreto che quel figlio era vivo!» 
«Ma perchè? Perché non dircelo?
Non riesco a capire…e ora lui dov’è?» 
Cillian sbottò con un grugnito abbastanza amaro e stizzito.
«Onestamente? Spero all’inferno, Caleb, e non credere che sia un uomo perfido e senza scrupoli, ma hai la vaga idea di cosa accadrebbe se questo ragazzo tornasse mai in circolazione?
Vivo, con tutte le rotelle funzionanti, a conoscenza del suo retaggio?
Potreste iniziare a fare i bagagli insieme a tua madre, Cedric per primo…perchè credi che mi stia agitando allora?» 
Caleb storse il naso, facendo quasi spallucce alla faccenda, come se la cosa fosse priva di logica.
«Ma che state…stai dicendo? Tu sei l’unico erede di nonno Charles, zia Cybil non ha diritto a nulla, quindi perchè ti stai preoccupando tanto?!» 
Cillian rise quasi isterico alle sciocche e ingenue sicurezze di suo figlio, quasi barcollando a destra e a manca, ma poi finì per poggiare le sue mani sulle spalle larghe e solide di Caleb, il quale provò un brivido di paura molto sincero, soprattutto perché il suo fondoschiena si trovò a strapiombo sul bordo della finestra.
«Non hai mai letto il testamento di tuo nonno, allora, perchè se credi che mi spetti…tutto quanto, allora non hai capito troppo bene quanto siano velenose le famiglie aristocratiche!
Mio dolce e ingenuo ragazzo…tuo nonno ha lasciato tutto a me, in caso Cybil fosse morta e senza eredi, indipendentemente dalla loro legittimità, una clausola quasi irritante perché tuo nonno sapeva bene quanto fosse puttana sua sorella, e così…se malauguratamente questo bastardo venisse fuori, un giorno, chissà, dal nulla, potrebbe non solo avere metà della nostra fortuna, e fidati che diviso 4 non sarà un granchè, soprattutto se tuo fratello e tua madre non tagliano corto con spese inutili, perchè ci rovinerà alla grande!
E non è tutto…» 
Aggiunse stanco e contorto in un sorriso macabro, uno che raramente compariva sul volto di Cillian; quello di un pazzo maniaco assassino, che si massaggiò istericamente il collo, fino a grattarselo impulsivamente.
«Se questo Kelly è davvero un maschio, passerà sopra Cedric e si prenderà anche il suo posto da comandante, e della nostra cara e agiata famiglia resterà nient’altro che un ricordo!
Ora capisci…perché non ho detto nulla a tua madre? Perché se quella mi assilla in questo momento, io le spezzo il collo, ti è chiaro?» chiese quasi cantilenante lo stesso Darcy, lasciando praticamente terrorizzato lo stesso ragazzo, il quale annuì per paura o per inerzia, ricevendo poi un semplice sorriso di approvazione, ma non era certo uno sguardo di sincera gioia, quanto più di sinistra complicità, se di ciò si poteva parlare.
«Sapevo che, almeno tu, non mi avresti deluso…dunque, per rispondere alla tua domanda, non si sa di preciso dove sia oggi questo nostro piccolo impiccio, ma so per certo, grazie alla discreta collaborazione di Charlotte, che è stato affidato ad un convento del nord, ed è stato adottato da bambino nel 1889, a 6 anni, da un uomo di cui non si sa assolutamente nulla, ma immagino che non sia una novità!» 
«Che…che volete dire? Non c’è nulla?» 
«Ohh…invece c’è, più del dovuto! Sul certificato d’adozione non c’è il nome di chi lo ha portato via, ma c’è la sigla di chi l’ha adottato…
H.» 
Sotto il naso del ragazzo comparvero gli stessi fogli che Cillian aveva duramente cercato per mesi; non c’era alcun nome, se non quello del ragazzino senza cognome o provenienza, un trovatello: solo la lettere “H”, incisa nero su bianco, ormai ingiallito, sembrava avere un qualche significato. 
«H di Hunter, è così che l’associazione si firmava anni fa quando aveva bisogno di nuove reclute: i ragazzi venivano adottati negli orfanotrofi o nei conventi, un sistema barbaro, senza dubbio, ma non così recente, infatti gli ultimi ad essere stati assoldati in questa maniera sono stati Luther Richter e i suoi compagni, e sono uomini che sfiorano la cinquantina…quindi, questo mi porta a pensare solo una cosa!» 
«Vuol dire che sapevano perfettamente chi fosse e lo hanno nascosto nell’associazione! Qualcuno a conoscenza del segreto di Cybil…
Che ha insabbiato tutto dietro a questi documenti, ma chi?! Luther Richter?» 
«Ne dubito, anni fa era troppo giovane per occuparsi del reclutamento dei nuovi cadetti e sicuramente troppo lontano dalle famiglie per poter sapere di tutto questo! 
C’è solo un nome che mi viene in mente…ed è l’unico ad avere i mezzi per fare tutto questo e, guarda caso, non mette piede da queste parti da 21 anni esatti!» 
Cillian diede uno sguardo al mappamondo sulla sua scrivania, dandogli un lieve colpo che lo fece roteare su se stesso per qualche secondo, finchè non si fermò proprio su un paese molto esteso, gelido, su cui fece tamburellare le sue ossute dita.
«Sai, è da molto tempo che non vedo il mio vecchio amico Boris, credo sia proprio il caso di fargli un'improvvisata, non credi anche tu?».

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