Iris

di ThatXX
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Favore restituito ***
Capitolo 2: *** Luna ***
Capitolo 3: *** Il monaco ***
Capitolo 4: *** Odiami ***
Capitolo 5: *** Fantasmi ***
Capitolo 6: *** In una notte qualsiasi ***
Capitolo 7: *** Amarsi ***
Capitolo 8: *** Occhi viola; occhi azzurri ***
Capitolo 9: *** Fiato sospeso ***
Capitolo 10: *** Segreti ***
Capitolo 11: *** Hanae ***
Capitolo 12: *** Ricominciare ***
Capitolo 13: *** Quando riaffiorano i ricordi ***
Capitolo 14: *** Promessi sposi ***
Capitolo 15: *** C'era una volta uno stregone e una senza poteri ***
Capitolo 16: *** Principe ***
Capitolo 17: *** Sole, acqua, terra ***
Capitolo 18: *** Maledizione ***
Capitolo 19: *** Sì ***
Capitolo 20: *** Hanabie ***



Capitolo 1
*** Favore restituito ***



Lei gli somigliava. Tutta la parte superiore del viso, colore degli occhi compreso, l’aveva ereditata da lui: dall’uomo che lo aveva reso libero. E se Toji Fushiguro si era spinto a tanto – nella sua scarna lista di buone azioni questa era senz’altro al primo posto – era stato solo per restituirgli il favore: una vita per una vita, ma con l’aggiunta di un extra in denaro o non se ne sarebbe fatto nulla. In fin dei conti, un milione e mezzo di yen era una richiesta esigua e onesta se messa a confronto con la ricompensa promessa da quegli invasati della Ruota Astrale. Di quella somma da capogiro era riuscito a mettersi in tasca soltanto l'anticipo, mentre il resto della paga era andato a farsi fottere per aver "distrutto" il corpo del Ventre. Che massa di creduloni.
Pazienza. L’anticipo di trenta milioni era più che sufficiente per starsene sei mesi in ozio, sempre che non si fosse fatto prendere dalla sua inveterata mania per le scommesse.
Con i soldi di quell’uomo avrebbe pagato Kong per il favore che stava per chiedergli, se solo quell’idiota si fosse dato una mossa a tornare.
 
Ayame si svegliò di soprassalto. L’ultima cosa che ricordava era il viso sereno di Suguru ma poteva essere che lo avesse solamente sognato. Aveva un nauseante mal di testa.
Le ciglia si mossero pazzamente qua e là a guardarsi attorno: era distesa sul divano di un piccolo salotto in una casa mai vista prima. Quanto all’uomo che fece capolino dalla cucina in quel momento, quello sì che lo aveva già visto. La frangetta corvina e frastagliata gli scendeva appena sugli occhi allungati. Lo sguardo della ragazza cadde sulla cicatrice che solcava verticalmente l’angolo destro della sua bocca.
 
L’uomo le rivolse un’espressione accigliata. Aveva l’aria pericolosa, lo sapeva; aveva con i propri occhi visto la sua spada svettare dal petto squarciato di Satoru. Ciononostante, Ayame non provò che un breve e fulmineo istinto di fuggire, solo quello, poi il nulla. Tornò a sentirsi come quelle bambole di pezza smarrite o abbandonate sul ciglio della strada. L’avrebbe uccisa, ne era sicura.
 
Lui venne avanti, le porse una tazza di tè e Ayame si animò di scatto mettendosi a sedere. Chiuse la tazza tra le dita infreddolite e la portò sotto al naso perché il vapore le desse un po’ di sollievo. Aveva freddo e il corpo non cessava di tremare.
 
- È normale – chiarì l’uomo esibendo una voce grave e uniforme. – Hai perso una notevole quantità di sangue e ora deve tornare in circolo -.
 
- Cosa è successo? –. Ayame lo fissò un istante, intensamente, un po’ a voler mettere una distanza di sicurezza tra sé e quell’uomo sinistro mostrando il proprio sangue freddo, ma poi abbassò lo sguardo. Non aveva saputo sostenerlo. Gli occhi erano quelli di uno spietato assassino e il loro verde acceso, smeraldino, aveva lo stesso colore di un potente veleno.
 
- Tecnicamente ti ho quasi uccisa – replicò lui con un tono inflessibilmente glaciale. – Ti ho sparato alla testa -.
 
Ayame si irrigidì ma continuò a mostrare un certo distacco. – Fai parte degli Q? -.
 
Fushiguro esplose in una risata fragorosa. La sua bocca era ampia, mostrò una dentatura perfetta e bianchissima. – Figurati se faccio parte di quella massa di imbecilli. Anzi, dovresti ringraziarmi. Se nessuno di loro ha cercato di mettere le mani su di te, principessa – sottolineò smaccatamente – è solo per merito mio -.
 
La ragazza comprese al volo. – Li hai uccisi? – chiese per avere conferma. Bevve un lungo sorso di tè.
 
- Precisamente – sibilò lui. L’uomo si sedette scompostamente sul divano. Tese il braccio lungo lo schienale, le dita rasentavano la spalla della ragazza, e divaricò le lunghe gambe. Gettò la testa all’indietro e la rivolse verso Ayame, ora rimpicciolita nell’angolo del divano. Lui la guardò con un sorriso sghembo, decisamente poco raccomandabile.

– Conosci la Tecnica di Inversione? – chiese e una risata argentina vibrò nel silenzio quando Ayame scosse timorosamente la chioma spettinata. – Sei davvero uno spasso, principessa – sottolineò ancora. L’accento un poco salace di quella parola le fece venire la pelle d’oca. – Ti consiglio di smetterla di guardarmi con quegli occhi spaventati o mi verrà ancora più voglia di farti paura – e si passò la punta della lingua sulle labbra frattanto che un sorrisetto sadico gli si dispiegava sulla bocca.
 
- Comunque – riprese sospirando; ora i suoi occhi di smeraldo puntavano al soffitto. – Ti ho fatta curare in tempo da un medico di mia conoscenza che è in grado di utilizzare la Tecnica di Inversione -.
 
- È impossibile – constatò prontamente lei: un velato coraggio trasparì nel tono di voce.
 
L’uomo la fulminò con lo sguardo. - No, non lo è – ribatté Fushiguro infastidito per essere stato contraddetto. – Ma per poter usare quella tecnica è necessario che la persona resti viva. Ti starai chiedendo come hai fatto a sopravvivere dopo un colpo in testa. Hai mai sentito parlare di Phineas Gage*? -.
 
Ayame annuì piano. Bevve un altro sorso di tè e posò la tazza sul tavolino davanti a lei. – Allora non serve che ti dica altro – concluse l’uomo alla svelta.
 
- Continuo a non comprendere. Per Phineas Gage si è trattato di fortuna. Mi sembra di capire, invece, che tu l’abbia fatto di proposito. È… -.
 
- Impossibile? – l’uomo le tolse le parole di bocca. – Non per me. Per farla breve, i miei sensi sono di gran lunga più sviluppati di qualunque altro essere umano. Sapevo perfettamente dove colpirti, principessa -.
 
Poi strisciò accanto a lei. Il petto ampio e scolpito, chiaramente visibile da sotto la maglietta aderente, si chinò sulla ragazza sovrastandola con la sua ombra. Il corpo rigido di Ayame era ritratto più che poteva contro il divano; sentiva le molle conficcarsi dolorosamente nella schiena.
 
Le labbra dell’uomo si accostarono al suo orecchio. - Posso persino sentire la tua paura, principe- -.
 
Il rumore di uno schiaffo, secco, acuto come una frustata, tagliò di netto quel soprannome: il soprannome che suo padre Izashi usava spesso per rivolgersi a lei.
 
Toji arretrò placidamente e sorrise. A guardarlo sembrava soddisfatto. – Adesso sì che gli somigli – ammise a bassa voce, così sottilmente che le parole parvero giungere dal fondo dell’anima, dalle labbra di un uomo esistito in passato e ora sostituito da un guscio traboccante d’odio. La voce grave sembrava quella di un ragazzo.
 
- Quindi è questo che vuoi? Fottermi? – fece lei volgarmente. La paura la teneva inchiodata a quel divano.
 
L’uomo ridacchiò incredulo. – Però che caratterino. E comunque non sei il mio tipo, sei solo una ragazzina -. Il commento la offese. – E poi non mi va proprio di tradire tuo padre -.
 
Ayame sgranò gli occhi. – Mio… padre? – biascicò.
 
- È stato lui a salvarmi quando avevo quindici anni. Tu non ne sai niente di come funziona il mondo dell’occulto ma io e tuo padre sì. Devi sapere che nel mondo degli stregoni esistono tre grandi clan: il clan Gojo, quello da cui proviene il tuo fidanzatino, il clan Zenin, quello da cui provengo io, e il clan Kamo – spiegò Fushiguro.
 
– O forse è il capellone il tuo fidanzatino? Comunque… - e scosse la testa a quella piccola, intenzionale digressione. – Per il mondo dell’occulto, e soprattutto per gli Zenin, io sono nato difettoso. Non posso essere considerato né un senza poteri né uno stregone, dal momento che a differenza vostra non possiedo un briciolo di energia malefica. Sin da piccolo sono stato tenuto prigioniero dai membri della mia stessa famiglia e sono stato torturato fino all’esaurimento. La vedi questa? – e puntò l’indice alla cicatrice che solcava la sua bocca – è un piccolo ricordo di quei tempi -.
 
- Che crudeltà – commentò Ayame sommessamente. Ora i suoi occhi blu non lo guardavano più con timore ma con sincero dispiacere. A Toji quello sguardo non piacque affatto.
 
- Quando eri piccola tuo padre è venuto da me. È stato un incontro fortuito, in realtà. Lui aveva cominciato a lavorare tra la servitù degli Zenin, ovviamente tra quella servitù di senza poteri che credeva di lavorare per un dojo di samurai, non certo per degli stregoni. Solo che, a differenza loro, tuo padre sapeva perfettamente in che posto era finito. A quel tempo stava cercando uno stregone di cui potersi fidare per assegnargli un importante incarico. Sarebbe stato tutto molto più semplice se tua madre non ti avesse abbandonata ma che vuoi farci? Certe persone non dovrebbero fare figli a prescindere –.
 
- Un giorno mio fratello maggiore Jinichi inviò tuo padre nelle prigioni del dojo, dove gli Zenin tengono i “traditori”, per portare loro il pasto. Sfortunatamente, il mio caro fratellone si era dimenticato di avermi gettato dentro una di quelle gabbie, e solo per aver cercato di oppormi ai suoi giochetti sadici. Fu allora che incontrai tuo padre. Cercava di avvicinarsi solo a coloro che erano in qualche modo ripudiati dagli Zenin o tenuti sotto scacco, perché solo tra loro sapeva di poter trovare qualcuno disposto ad aiutarlo senza fare la spia. E trovò me. Mi chiese se fossi bravo a combattere – Fushiguro sghignazzò: fu una risatina agghiacciante. Poi si massaggiò il viso con la mano. – Altroché se ero bravo e devo ringraziare quegli stronzi della mia famiglia per questo. Ero continuamente costretto a combattere contro centinaia, no migliaia di maledizioni. Non ero bravo, ero il migliore. Nel mondo dell’occulto questo tipo di capacità prende il nome di “Battesimo di Dio”: una capacità fisica innata che risvegliai a forza di combattere -.
 
- Tuo padre mi disse che sarebbe stato disposto a liberarmi se lo avessi aiutato. Gli chiesi anche dei soldi in cambio e lui accettò. Mantenne la promessa e una settimana dopo mi aiutò a fuggire. Facemmo in modo che la colpa ricadesse su un membro dell’unità Kuruku, altra lunga storia, così nessuno sospettò di tuo padre e lui poté continuare a lavorare indisturbato al dojo. Gli servivano i soldi per potermi pagare per quell’incarico e vendere fiori non gli sarebbe bastato -.
 
- Quale incarico? – Ayame si intromise nel racconto.
 
- Quello di salvarti, principessa – rispose lui con melliflua ovvietà. – Quando sei nata, l’Istituto di Arti Occulte ha fatto visita a tuo padre per informarlo della nascita di un Ventre perfettamente compatibile con Tengen e quel Ventre eri tu. Lo informarono anche che, compiuti diciotto anni, l’Istituto ti avrebbe presa per prepararti alla fusione. Da quel giorno tuo padre non ha fatto altro che cercare un modo per salvarti. Sai, principessa, ti conosco molto più di quanto pensi -. Prese una breve pausa: il tempo di fissare i suoi occhi di smeraldo in quelli blu, ora spenti, di Ayame e riprese.
 
– Vuoi sapere perché è scomparso? Perché tuo padre era uno stupido. Ci fu un’altra fuga dal dojo, circa dieci anni più tardi, ma non fu opera sua. Lui, però, da quando mi aveva aiutato a fuggire, aveva preso il brutto vizio di contattarmi per sapere dove fossi, se stessi bene, se mi servissero dei soldi. Io non facevo che ripetergli di dimenticarsi di me, di non cercarmi, perché se qualcuno della mia famiglia avesse scoperto il nostro legame lo avrebbe accusato di tradimento. Tornai persino dalla mia famiglia per non alimentare sospetti. Ero diventato così forte da essere temuto da tutti e nessuno si azzardava più a considerarmi. In pratica, ero un fantasma. Poi incontrai una donna e la sposai poco dopo. Mi allontanai nuovamente dal clan, cambiai persino cognome, e alla fine diventai padre. Izashi continuava a contattarmi nonostante mi rifiutassi di rispondergli. E quando morì mia moglie, quando rimasi da solo a occuparmi di mio figlio, lui venne a saperlo. A nessuno importava un fico secco di me, eppure in quella famiglia non si faceva che sparlare alle mie spalle. Sospetto che tuo padre l’abbia saputo dalle voci di corridoio -.
 
- Come poteva un tipo come me occuparsi di un bambino in fasce? Un uomo maltrattato sin da piccolo dalla propria famiglia, capace solo di provare odio e rabbia. Riesci a immaginartelo? Tuo padre conosceva i miei limiti e sapeva anche per quale motivo li avessi, e quando venne a sapere di me e… mio figlio volle darmi a tutti i costi una mano – disse. Aveva provato a ricordare il nome del figlio ma era stato tutto inutile.
 
- Mi ha insegnato a cambiargli il pannolino, a lavarlo, a calmarlo, a svezzarlo. Si precipitava qui quando il piccolo si ammalava o quando piangeva disperato e io non riuscivo a farlo smettere. Lo definiva il suo “nipotino”. Che sciocco. Poi ci fu la seconda fuga dal dojo, quella di cui ti parlavo. A quel punto, la mia famiglia cominciò a sospettare di qualcuno all’interno del clan e iniziarono le indagini. La prima a finire nel loro mirino fu la servitù. Iniziarono a farli seguire di nascosto, tra loro c’era anche tuo padre, e quando lo beccarono insieme a mio figlio era ormai troppo tardi -.
 
- Ci aveva visto lungo, il vecchio – disse quasi con tono nostalgico. – Aveva capito che dopo quella seconda fuga la mia famiglia si sarebbe messa in moto. Mi disse che aveva un brutto presentimento e che doveva andarsene o ti avrebbero trovata e l’avrebbero fatta pagare a te. Da qui in avanti conosci la storia. Lui ti lasciò un biglietto di addio e io lo aiutai a scappare ma fu tutto inutile. Quel vecchio si era affezionato a… - provò a ricordare ancora. Niente. – Insomma, a mio figlio e a me, e credeva sul serio che alla fine ce l’avrei fatta a salvarti. Gli importava solo aver salvato l’uomo che avrebbe messo al sicuro sua figlia. E alla fine si è fatto ammazzare, così che gli Zenin non se la prendessero anche con te -.
 
Ayame rimase ad ascoltare tutto il tempo. Si sentiva vuota, ancora come la bambola di pezza smarrita o abbandonata sul ciglio della strada, ma non versò una lacrima. Aveva già pianto a sufficienza allora, il giorno del ritrovamento del biglietto, quando una vocina stridula nella testa le aveva immediatamente suggerito di farsene una ragione, perché suo padre era morto. Non sparito, non andato chissà dove, ma morto.
 
- Cosa dovrei fare adesso? – chiese lei con un filo di voce. Assurdo. Aveva appena domandato a un folle assassino, all’uomo la cui spada aveva trafitto il ragazzo col quale aveva fatto l’amore, a colui che l’aveva salvata sparandole un colpo in testa, ‘dio che razza di follia, che cosa avrebbe dovuto fare da quel momento in avanti. Si chiese se non potesse andare peggio di così.
 
- Cambia cognome, allontanati da qui e non ti avvicinare mai più all’Istituto né a quei ragazzi. Se ho fatto credere loro di averti uccisa è stato solo perché tuo padre desiderava questo -.
 
Ayame lo guardò con gli occhi colmi di lacrime. – No, non voglio - scosse animatamente la testa.
 
- Se tornerai da loro, l’Istituto ucciderà te e i tuoi amici diventeranno dei traditori. Per i piani alti tu sai troppo. Andava bene finché fossi rimasta un Ventre, perché una volta completata la cerimonia ti saresti fusa con Tengen, ma adesso la questione è diversa. La fusione salterà, Tengen evolverà e il mondo dell’occulto subirà un drastico cambiamento -.
 
- Non voglio – ribadì.
 
- Allora fatti ammazzare e metti in pericolo le persone che ami! Fa’ pure la stessa fine di tuo padre, a me non interessa. Gli ho restituito il favore, il mio compito è finito. E ora aspetta qui – ruggì alzandosi dal divano. – Devo chiamare quello stronzo del mio collega -.
 
Fushiguro lasciò Ayame a meditare in salotto. Cercava di ricordare quale fosse il cognome di sua madre mentre fissava il vuoto con le guance rigate dalle lacrime. E di punto in bianco le venne in mente. Aveva visualizzato i mazzetti di gigli rigogliosi che suo padre aveva piantato nel piccolo giardino davanti alla loro vecchia casa e a quel punto aveva ricordato il cognome di sua madre.
Non aveva alcun ricordo di lei ma Shoto sì: una foto scattata proprio ai piedi di quella casa, dove papà aveva piantato i gigli. La foto ritraeva un piccolo Shoto di quattro anni in braccio a sua madre con il grembo appena rigonfio. Anche Ayame, a modo suo, era finita in quella fotografia.
Ripensando ai gigli, alla loro vecchia casa, al sorriso sdentato di suo fratello, alla madre in dolce attesa, Ayame aveva ricordato.
Il suo cognome era Yoshimura.
Yoshimura Kasumi


 
*Un uomo sopravvissuto dopo che una sbarra di metallo gli trapassò il cervello danneggiando i lobi frontali
Per scaramanzia non dirò nulla. Spero vi piaccia.

 

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Capitolo 2
*** Luna ***



Dicembre 2008
 
Shiu Kong spense l’ultima sigaretta del pacchetto nel posacenere pubblico nell’area fumatori al lato della strada, ad Ayase, nella prefettura di Kanagawa. Un piccolo tributo al suo ex collega Toji Fushiguro, nonché amico di vecchia data, sebbene il termine fosse un tantino troppo generico per racchiudere in sé un rapporto complicato come il loro. Un tributo a quel pazzo che, prima di tirare le cuoia, gli aveva mollato la regina suprema delle grane. Stupido lui a non aver avuto il fegato di rifiutare. Ben gli stava.
 
Tuffò le mani infreddolite nelle tasche del cappotto e rimase ad attendere all’area fumatori. Il tempo gli pareva scorrere a rilento, complice la neve di quel pomeriggio: cadeva fiaccamente sulle teste dei passanti, lungo i profili dei palazzi, posandosi e svanendo come zucchero filato sotto il sole cocente.
 
All’improvviso gli venne da sorridere ironicamente. Era stata lei a scegliere Ayase e solo per “l’aria buona”. Qualche volta aveva persino sospettato che lei sapesse; che Ayase come città per rifarsi una vita non fosse stata una scelta casuale o presa con la scusa dell’aria buona, piuttosto una decisione inevitabile, di quelle che sai di dover scongiurare come la peste ma di cui alla fine non puoi proprio fare a meno. Eppure, lei non ne sapeva proprio nulla, né del suo lavoro né del posto in cui lavorava e né, tanto meglio, per chi. Aveva seriamente scelto Ayase soltanto per l’aria buona ma restava lo stesso una decisione pericolosa.
 
Squillò il cellulare. L’ex poliziotto, ormai lungi moralmente dal rivestire un simile ruolo, rispose lanciando dapprima un’occhiata al numero di telefono comparso sullo schermo.
 
Una voce cavernosa parlò. - Mi servi qui -. Perentorio come al solito, pensò Kong.
 
Le narici del naso gelato sbuffarono aria fredda; i baffetti si incresparono in una smorfia seccata. – Non posso, lo sai. Oggi è quel giorno del mese – si giustificò. L’altro accolse cupamente la risposta stringendo i denti. Non poté vederlo ma lo sentì: lo schiocco di una mascella contratta.
 
- Tutti i mesi? -.
 
- Tutti i mesi – fece eco lui a ribadire un concetto che non sembrava affatto andare a genio al suo interlocutore. – Erano i patti, no? – aggiunse.
 
- D’accordo – l’altro riattaccò veloce e l'ex poliziotto fece spallucce.

Mise il telefono nella tasca del cappotto seguito a distanza da uno sguardo truce, di un violetto lucente. Qualcuno lo stava fissando a circa una decina di metri da lui, mimetizzato nell’ombra di un vicolo con una felpa scura e il cappuccio sollevato sulla testa. Gli occhi scintillavano ma a quella distanza non erano altro che minuscoli puntini di luce, simili a stelle lontane in un cielo più nero del nero.
 
L’uomo nel vicolo si accorse che Kong guardava verso qualcuno, una giovane donna gli veniva incontro, e il respiro gli si ruppe in gola; si mozzò con un gemito di orrore quando, tra una sfilza di sagome che andavano e venivano, in mezzo all’alternarsi di quegli innumerevoli volti, la vide: meravigliosa, dolce, viva.
 
Ayame sorrise; fu un sorriso che gli trafisse il petto e gli fece gonfiare gli occhi nelle orbite. A tentoni cercò il muro, vi si appoggiò con la mano mentre l’altra premeva con forza sulle labbra e rimase a guardarla: il passo sicuro, il viso radioso dello stesso colore della neve che le danzava attorno, gli occhi lampeggianti di vita.
 
- Scusa il ritardo! – esclamò Ayame con enfasi. Una risata breve e argentina le scappò di bocca a ricordargli infidamente, ma senza che lei se ne rendesse conto, delle risa di quella notte al lago Biwa. E poi dello sparo, argentino anche quello, squillante come una tromba infernale, che le aveva spezzato la vita in un battito di ciglia. O così credeva.
 
Kong le rispose con un sorriso storto, orgoglioso ma non troppo per come quella giovane poco più che sconosciuta avesse ripreso in mano la sua vita. Aveva persino versato due lacrime contate per quello sciagurato di Fushiguro alla notizia della sua morte. La consapevolezza di aver perso per l’ennesima volta un palpabile legame con suo padre, benché sottile, l’aveva fatta piangere. L’uomo che poteva raccontarle di lui non c’era più.
 
E Kong, al quale avevano affidato il compito di vegliare su di lei, come prima di Toji aveva fatto il Signor Ishikawa a uno sventurato Zenin poco più che quindicenne, non poteva dirle niente riguardo a suo padre. Il massimo che poteva fare era parlarle del più e del meno per tenerle compagnia in quel singolo giorno del mese.
 
- Ti sei fatta degli amici? -. Una domanda fuori contesto per Ayame ma perfettamente coerente con i pensieri dell’ex poliziotto.
 
Ayame scosse la testa. Lui grugnì scocciato. – Non cercare di impietosirmi. Sai benissimo che ho a disposizione un solo giorno al mese. E comunque, anche avendone di più, non credere che io abbia voglia di trascorrere il mio tempo libero con una ragazz- -.
 
- Lo so – si intromise lei debolmente, poi il tono della voce parve decollare parola dopo parola. – Ma sei il solo a cui posso raccontare certe cose senza essere presa per pazza o violare chissà quale legge del cazzo del vostro mondo – concluse un poco indispettita.
 
- La tua sopravvivenza è già una violazione – replicò l’altro apaticamente. Levò una mano dalla tasca e porse alla ragazza un pezzo di carta rettangolare dai bordi spiegazzati. – Tieni, sono i soldi per questo mese – farfugliò.
 
Lei prese l’assegno con la solita riluttanza. Andavano avanti così da sei mesi, eppure la sua mano non smetteva di tendersi esitante. E lo sguardo finiva per puntare in basso, chissà dove si chiedeva lui, in cerca di una dignità che Ayame sentiva scivolare via dalle dita ogni volta che afferrava quel banale pezzo di carta.
 
- Non fare quella faccia. Sono i soldi che tuo padre ha lasciato per te e che Toji ha affidato a me -.
 
- Bugiardo – lo riprese lei nell’immediato. – Sono i soldi con cui papà ha pagato il Signor Fushiguro e che lui ha dato a te per farmi da balia. Sono soldi tuoi -.
 
Kong scrollò le spalle e distolse lo sguardo; aveva bisogno disperato di fumare. – Perché tu lo sappia, non bisognerebbe mai essere schizzinosi quando si tratta di soldi -.
 
Ayame replicò dapprima con un ghigno secco. - Grazie della diritta, paparino, sei davvero un esempio di vita – e storse la bocca in una smorfia.
 
- Se non fosse perché vuoi portarmi questi soldi ogni mese non avresti motivo di passare del tempo con me, vero? -. Ayame guardò un’ultima volta l’assegno prima di infilarlo in tasca di malavoglia. Le servivano soldi, certo, su questo non poteva fare l’orgogliosa. Aveva preso a lavorare in un negozio di fiori ad Ayase ma l’intenzione era quella di diventare insegnante di ikebana e aprire un’attività propria. I soldi del Signor Kong le servivano per i corsi, fottutamente costosi, soprattutto ora che finire la scuola e diplomarsi era fuori discussione, e le permettevano di mettere da parte denaro per la futura attività. Però…
 
Kong sospirò, un po’ come se la domanda lo avesse preso in contropiede. – Invece di preoccuparti di queste sciocchezze pensa a trovarti degli amici. È meglio non avere a che fare con un tipo come me -. Il tono era stato stranamente paterno, più simile a quello di un padre che a uno pseudo-tutore legale. O sarebbe stato meglio dire illegale.
 
Lei borbottò qualcosa di incomprensibile. Le sopracciglia le si incresparono sulla fronte perlata: un’espressione che l’uomo nel vicolo accolse con un sorriso amaro.
Le gambe gli tremavano: era il riflesso della lotta che si stava consumando dentro di lui. Queste volevano muoversi, correre a più non posso, uscire a precipizio dall’ombra di quel vicolo per andare da lei. Il resto del suo corpo, il cervello primo fra tutti, il cuore che gli batteva follemente nel petto, le mani tremanti, le mani di un assassino, grandi quasi il doppio delle sue, resisteva faticosamente.
 
Talvolta arretrava offrendosi come cibo all’ingorda oscurità che lo avvolgeva, altre avanzava ma solo di pochi millimetri, troppo poco perché potesse raggiungere il fascio lontano di luce che entrava di traverso nel vicolo. E Ayame lo era ancora di più; più lontana di quando la vedeva arrivare con un Gojo in miniatura incastonato negli occhi; più lontana di quando l’aveva vista morire. E gli sembrò di osservare la luna, tanto era distante, tanto si sentiva piccolo e inerme dinnanzi a lei, schifosamente impotente.
 
Le sue mani intrise di sangue non avrebbero mai più potuto raggiungerla, figurarsi toccarla. Gli occhi proiettati verso un mondo di sterminio, un mondo vietato per quelli come lei, non avrebbero mai più potuto guardarla. E l’amore, quello che ora era orribilmente consapevole di provare per lei, quello che lo fece d’un tratto sentire ignobile, sbagliato, miserabile, non avrebbe mai più potuto proteggerla.





 

Mai si sarebbe immaginato di finire appeso al muro come una di quelle piccole croci cristiane che notava in qualche tavola calda dove si fermava per consumare il pranzo. Di quelle internazionali s’intende, aperte da qualche immigrato straniero, che offrono cibo spazzatura dai nomi esotici e che puntualmente attirano un sacco di gente: giapponesi curiosi o turisti che, lontani dal proprio paese, cercano un luogo per sentirsi a casa.
 
Solo che lui era tenuto appeso per il colletto della camicia. Con il senno di poi, avrebbe smesso di portare la cravatta o quel folle di un bonzo l’avrebbe usata per strangolarlo. Ed era probabile che non l’avesse ancora notata tanto era preso a fissarlo, no a trafiggerlo, con uno sguardo feroce e ribollente di ira. Quel giovane aveva quasi la metà dei suoi anni e il doppio della sua massa corporea e non era un caso che fosse annoverato nella lista dei peggiori tra gli stregoni neri in circolazione.
 
Si era visto arrivare le sue venose mani al collo sul limitare della porta che dava sulla sala dove il bonzo amava terrorizzare i suoi stupidi discepoli: le sue scimmie. Non aveva neppure fatto in tempo ad accorgersene; le aveva viste chiudersi selvaggiamente alla gola un istante prima di sentire la spina dorsale schiantarsi contro la parete e falciargli il respiro.
 
Kong gli stringeva scioccamente il polso come se il gesto bastasse a frenare quell’istinto omicida. Un istinto omicida che, nella forma di una grossa vena gonfia e serpeggiante, correva lungo il braccio scoperto del bonzo insinuandosi sotto la manica arrotolata del koromo* e rispuntando all’altezza del collo.
 
- Ora mi spieghi che cosa ci facevi con lei ieri pomeriggio -. Pronunciò la frase con gelida chiarezza sillabando le parole una ad una perché arrivassero alle orecchie di quell’uomo disorientato dal terrore, la cui coscienza doveva essere fuggita altrove a giudicare dallo sguardo vacuo, assente.
 
L’altro rispose con un rantolio, poi riuscì a mettere miracolosamente in sequenza qualcosa di sensato. – M-Mi sto occupando di lei. Le… porto dei soldi ogni mese -.
 
Geto fece schioccare la lingua cinicamente. – Per ordine di chi? – ringhiò sottovoce.
 
- Nessuno! – esclamò lui di riflesso. – La sto soltanto aiutando. Suo padre… il padre di Ayame ha ingaggiato Toji per salvarla. Io l’ho soltanto aiutata a farsi una nuova identità, sono un ex poliziotto, ho le mie conoscenze – aggiunse con voce vibrante di timore. La bocca era così secca da frenare l’articolazione delle parole.
 
- Lo sa qualcun altro? -.
 
Kong agitò la testa in segno di negazione. – Se il mondo dell’occulto lo venisse a sapere… -.
 
- Lo so –. Geto trascinò gli occhi in basso e Kong pensò che puntassero alla sua cravatta sgualcita. Pensò che fosse arrivata l’ora della sua dipartita e che nel giro di qualche minuto sarebbe morto soffocato dalla sua stessa fissazione a volersi sempre vestire a modo in qualunque occasione. Davvero un bell'autogol.
 
Poi notò che lo sguardo scendeva ancora a poco a poco, chissà dove si chiese, e gli parve che guardasse nello stesso punto in cui Ayame posava gli occhi quel giorno del mese, quando lui le mollava l’assegno tra le mani.
 
Geto lasciò la presa. Kong cadde di peso come un sacco di patate battendo il fondoschiena sul tatami che ricopriva il pavimento della sala. Le gambe gli avevano ceduto proprio all’ultimo.
 
Suguru gli diede le spalle. – Non sa niente di me, vero? -. La voce si era fatta sottile, inoffensiva, come il verso di una bestia ferita che si avvia a ritirarsi dallo scontro.
 
- No, ma mi ha chiesto di te. Le ho detto che non alcun legame con l’Istituto e da allora non ha fatto più domande -.
 
- Capisco – replicò l'altro brevemente. Ora era lui ad avere la bocca secca. Tossì e rivolse gli occhi alle spalle per guardare il suo intermediario: quello di cui aveva dubitato, che si era messo a pedinare e che senza volerlo l’aveva portato da lei. – Ti autorizzo a prelevare denaro dal fondo della setta una volta al mese, non mi importa quanto. Sai cosa devi farci -.
 
Geto fece per andarsene. Aprì la porta scorrevole rivestita di carta di riso e si fermò prima di mettere piede fuori dalla sala. – Non dovrei dirlo a te ma… grazie per averla salvata -. E andò via più vuoto che mai.




 
*si tratta della veste da monaco indossata da Suguru

 

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Capitolo 3
*** Il monaco ***



Yuki Tsukumo non era mai stata più interdetta di così. Glielo si leggeva in faccia: i lineamenti del viso erano tesi come corde di violino, gli occhi erano sbarrati e le labbra spalancate in una bizzarra forma ovale. Il corpo, con le sue braccia conserte al petto e le gambe dritte unite tra loro, esprimeva invece disappunto. Ciò che aveva appena sentito le aveva fatto venire la pelle d’oca.
 
Guardava Tengen, la sua proiezione astrale a voler essere precisi, che la fissava a sua volta con i suoi quattro obliqui e vitrei occhi. Oltre la diafana figura intravvedeva il colossale tronco dell’albero sacro: il cuore del Tempio.
 
- Avevi detto che non avresti interferito con lo scorrere naturale delle cose! – protestò lei ricomponendosi e puntando i piedi per terra.
 
Non era solita incontrarsi con Tengen. Al contrario, ora che aveva modo di rifletterci, frattanto che aspettava delle risposte più che convincenti, comprese che quella fosse a tutti gli effetti la prima volta in cui accettava di recarsi al Tempio, sebbene con estremo malcontento.
 
- Con la mia evoluzione, ora che sono un tutt’uno con il mondo stesso, sono in grado di vedere cosa accadrà. Quello che intendo fare è solo garantire la sopravvivenza del mondo dell’occulto e senza le mie tecniche di barriera ciò non potrà essere possibile –. La voce di Tengen era placida ma echeggiante, come di qualcuno che avesse pazienza da vendere.
 
- Non è giusto – ribatté prontamente la donna: le sopracciglia si incontrarono nello spazio che le separava, corrugandosi. – Sei un maledetto essere immortale, cavolo, perché non puoi pensarci tu come hai sempre fatto finora? -.
 
- Perché tu stessa sai cosa succederebbe se perdessi la mia volontà -.
 
- Ma perché dovresti?! – obiettò lei.
 
- Non mi è permesso parlare del futuro – replicò Tengen con voce costante, piana. – Posso solo continuare a proteggere il mondo dell’occulto, in un modo o in un altro -.
 
 


 
 
Giugno 2015
 
Ayame osservava il viavai della gente per strada dal bancone del suo negozio di fiori, sotto al condizionatore che mandava sbuffate di aria fresca a risollevarle lo spirito sfinito dal caldo di fine giugno. Ogni tanto trascinava meccanicamente lo sguardo sul cellulare lasciato accanto al registratore di cassa e quando le capitava di farlo, quando se ne rendeva conto, sorrideva malinconica.
 
Quel vecchio burbero di Kong non le telefonava più da anni; il solo dal quale avrebbe potuto ricevere qualcosa, che fosse una chiamata, un messaggio o il solito assegno mal gradito dagli angoli spiegazzati. L’ultima volta che lo aveva incontrato era stato per rifiutare definitivamente quel denaro, poco importava da dove venisse, e da allora lui non aveva più avuto alcun motivo per rivederla.

“Ormai sei grande”, le aveva detto tra una boccata di fumo e l’altra prima di sparire. Se n’era andato il mese prima dell’inaugurazione del negozio. Che infame. Avrebbe almeno potuto aspettare per festeggiare insieme quel suo traguardo e invece era scomparso; come gli altri, come tutti, come lei.
 
Nessuno le avrebbe telefonato. Non si era mai fatta degli amici, contrariamente a quanto aveva fatto credere a Kong per mettere un freno a quella sua petulante raccomandazione. Era già impossibile dimenticarsi di quelli del passato, figurarsi impegnarsi per farsene di nuovi e poi perderli irrimediabilmente. Perderli, sì, perché era questo il destino di un Ventre: la solitudine.
 
Il campanellino della porta d’ingresso trillò attirando l’attenzione di Ayame. La Signora Omori, l’anziana cliente abituale che abitava dall’altro lato della strada, entrò nel negozio. Un cappello di paglia con un appariscente fiocco merlettato le incorniciava la testa come una grossa aureola.
 
- Buongiorno Signora Omori – salutò la giovane.
 
- Buongiorno a te, Ayame -. L’anziana signora le restituì un saluto gioviale.
 
- Le solite margherite per il Signor Omori? -.
 
- Sì, mia cara – rispose frugando nella borsetta in cerca del portafogli.
 
La Signora Omori portava delle margherite bianche sulla tomba del marito ogni settimana da dodici anni. Frequentava il negozio di Ayame da tre anni, da quando era stata aperta l’attività, e diceva spesso di ritenersi fortunata che il negozio fosse proprio a due passi da casa.
 
Ayame provava per lei un’innocente invidia. L’ottimismo col quale compiva quel rito settimanale la faceva sentire una povera codarda. Lei aveva semplicemente rinunciato a quanto le era stato di più caro al mondo, mentre la Signora Omori non si dava per vinta. Il marito era morto, se n’era fatta una ragione, ma non il suo amore per lui. Al contrario, ad Ayame non era rimasto quasi nulla di quei polverosi sentimenti ma solo una vaga impressione, come la traccia sbiadita del pastello che resta anche quando la si prova a cancellare.
 
Assorta nei pensieri, la giovane confezionò in silenzio il mazzo di margherite per la Signora Omori. Lei le passò dei soldi in contanti e Ayame li prese contraendo il viso in una smorfia di dolore. Gemette piano e si toccò la spalla.
 
- Che ti succede cara? – chiese l’anziana con un accenno di apprensione nel tono strascicato di voce. L’altra sorrise per sdrammatizzare.
 
- Non è niente, è solo un periodo un po’ stressante. Forse è colpa del caldo -. Si massaggiò la spalla indolenzita. Ogni tanto la bastarda le mandava delle sferzate di dolore accecante quando meno se lo aspettava.
 
La Signora Omori la guardò pensosa. – Si è fatta vedere da un medico? -.
 
- Sì, ma pare che il dolore non voglia andarsene. Ho provato di tutto: antidolorifici, fisioterapia, agopuntura. Niente di niente. Temo dovrò fare una risonanza -.
 
- Da quanto va a vanti? -. L’anziana sparava domande a mitraglietta.
 
Ayame ci pensò su. – Circa un mese, credo -. Poi ebbe l’impressione che la Signora Omori avesse cambiato espressione e che ora la stesse fissando accorata. Comprese di non essersi spinta troppo in là con l’immaginazione quando la donna le afferrò entrambe le mani di getto.
 
- Mia cara, qui c’è bisogno dell’intervento di un monaco – dichiarò sapientemente e con una faccia così seria che Ayame si sorprese nel vederla. Era la prima volta che quel viso dolce e attempato si increspava a tal punto.
 
La giovane aggrottò la fronte. – Un… monaco? – fece eco lei ma con la voce smorzata, incerta.
 
- Sì, ne conosco uno bravissimo che ha aiutato la figlia di una mia cara amica. Lei ha sofferto di dolori alla schiena per mesi e nessuno ha saputo fare niente eccetto quel monaco. Il tempio si trova a Oyama, vicino al fiume Suzu -.
 
- Non credo che un monaco possa fare qualcosa, Signora Omori – replicò la giovane educatamente, quindi sorrise a disagio.
 
- Ti garantisco che funziona –. La donna non si arrese. Perseverava con la stessa dedizione di quando portava le margherite alla tomba del marito tutte le settimane. Doveva essere una sua peculiarità: credere fino in fondo che ciò a cui prestava fede avesse un che di legittimo, di sacrosanto.
 
Ayame cedette, anche solo per fare contenta la Signora Omori e liberare le mani dalle sue dita ossute e congelate. Assentì. – Va bene. Mi scriva l’indirizzo -.
 


 
***
 
 
 
Poteva giurarci: nel batacchio a forma di anello di quel portone, massiccio e rugginoso, avrebbe potuto infilarci la testa tanto era gigantesco. Si sorprese nel constatare che un tempio di quelle dimensioni si nascondesse così efficacemente tra i boschi della prefettura di Kanagawa, immerso in un paesaggio quasi fiabesco, con il fiume Suzu che a momenti gli si aggrovigliava attorno.
Dalle fronde degli alberi filtrava una luce farinosa di raggi solari ancora insonnoliti e che si spargeva a macchie sull’erba umida. Si udivano i primi canti degli uccelli e il costante sciacquio ruvido del fiume; nient’altro.
 
Ayame stringeva il batacchio nel pugno, immobile, assorbita interamente dalla perfetta forma circolare del battiporta e da un dubbio.
Che diavolo ci faccio qui? Pensava a più riprese mentre la gola le si chiudeva al pensiero di finire con la testa in quell’anello. Perché mai avrebbe dovuto? Non ne aveva idea.
 
Ci ragionò su rimandando il momento di bussare al portone 
a quando fosse stata sicura di farlo senza ripensamenti, e allora le venne in mente: l’incubo. Quell’incubo ricorrente che a notti alterne la svegliava di soprassalto in una pozza di sudore, lasciandole addosso la sensazione di esservi ancora intrappolata come di chi si sveglia da un sogno ritrovandosi in un altro sogno. L’incubo in cui veniva strangolata da una mano sudicia e verdastra, o forse era una zampa; l’enorme zampa di un mostro, con gli artigli affilati e neri come il petrolio.
 
Indubbiamente, l’agopuntura, le sedute di fisioterapia, la scatola da ventotto compresse di antidolorifico da prendere due, massimo tre volte a giorno a sentire il medico, le avevano portato giovamento ai dolori alla spalla. Ma quando quel mostro si ripresentava nel sonno, quando le dita nodose e scricchiolanti si chiudevano attorno al suo collo, le fitte alla spalla tornavano e più martellanti di prima. Era come se vi si fosse accomodato; come se vi giacesse appollaiato come un famiglio in attesa che lei chiudesse gli occhi.
 
Si era recata lì per l’incubo. Era andata lì perché, per qualche illogico motivo, il dolore alla spalla e il mostro senza volto sembravano avere una qualche correlazione. E quella soffocante paura di finire con la testa incastrata nel batacchio le ricordava di molto quella che le restava appiccicata addosso quando spalancava gli occhi nel cuore della notte e l’incubo le si chiudeva alle spalle.
Fare contenta la Signora Omori era solamente una ragione in più, sebbene, ironia della vita, fosse stata la prima per cui aveva deciso di rivolgersi a un monaco. Ora, invece, era diventata l’ultima.
 
Dopo un paio di respiri profondi Ayame bussò. L’eco del colpo si perse attutito dal legno spesso del portone. Seguirono trenta secondi di silenzio assoluto, poi i rintocchi sordi di passi lontani che si avvicinavano.
Uno dei due battenti del portone arretrò aprendosi in un lamento strascicato e una donna comparve sulla soglia: il fisico slanciato, il seno prosperoso, le labbra scarlatte di rossetto a lunga tenuta, di quelli di marca che costano un occhio della testa. La donna la squadrò obliquamente, poi il labbro superiore le si arricciò appena in una specie di smorfia di disgusto. La parve guardare come si guarda un insetto zampettante steso sul dorso nei suoi ultimi attimi di agonia. E infine mostrò un sorriso: un sorriso tirato, insincero e spaventosamente ampio.
 
- Salve – cinguettò leziosamente. – Posso aiutarla? -.
 
Ayame deglutì timorosa. – Sono qui per vedere il monaco -. La donna assentì.
 
- Mi segua – rispose veloce. Ora appariva soddisfatta, benché non mancasse di scagliare occhiate di ripugnanza quando incrociava lo sguardo di Ayame o quando le leggeva sulle labbra l’intenzione di rivolgerle parola. “Sta’ zitta e seguimi” parevano intimare quegli occhi taglienti, spolverati di ombretto color pesca.
 
Ayame l’assecondò e la seguì ridicolmente taciturna. Si fece scortare in un lungo corridoio illuminato vivacemente dai raggi del sole e che entravano dalle vetrate facendosi strada tra le fitte chiome degli alberi.
 
- Da questa parte – proferì la donna a circa metà del corridoio. Sospinse di lato una porta scorrevole che dava su una grande sala vuota e fece il gesto di accomodarsi. – Aspetti pure qui – aggiunse, e quando Ayame varcò la soglia richiuse la porta.
 
Manami ripercorse i propri passi. Il tubino di seta viola la costringeva in una camminata serrata che non le dispiaceva affatto. Tanto per cominciare le faceva risaltare i punti giusti del corpo, anche se per questo doveva ringraziare anzitutto lo stile di vita salutista e una buona dose di ottimo di metabolismo, e poi donava un che di sensuale alla sua andatura. Tutti lì dentro lo pensavano, tranne lui; lui non ci faceva nemmeno caso.
 
Passò davanti a una seconda porta e si limitò a bussare velocemente con due nocche: due colpetti secchi e ravvicinati, così perfetti che potevano risultare solo da un’azione ripetuta, abitudinaria. Era il segnale di avviso che qualcuno fosse arrivato per lui.
Al riecheggiare di quel segnale il monaco aveva già finito di allacciare la kesa alla spalla sinistra. Gettò un'occhiata veloce alla porta, poi infilò placidamente i sandali ai piedi. Congiunse le mani all’addome: le lunghe e ampie maniche del koromo si unirono chiudendosi come un sipario e le mani scomparvero. Era pronto a entrare in scena.
 
Ayame si guardava attorno: la sala era deserta, tanto silenziosa da darle l’impressione di trovarsi in una cassa di legno sepolta sottoterra. C’era un vasto rettangolo vuoto, uno spazio per la preghiera dove lei se ne stava a roteare su sé stessa gettando le ciglia curiose ora da una parte ora dall’altra, e un altare rialzato con un bracciolo di legno piantato nel pavimento.
 
Smise di colpo di volteggiare e guardò in su, in un angolo del soffitto, dove una piccola mosca tracciava invisibili cerchietti nell’aria in una danza scoordinata. E improvvisamente cessò di svolazzare. Precipitò, dritta per dritta, tutta appallottolata nelle sue alette inermi, e si schiantò al suolo. Gli occhi di Ayame la puntavano perplessi cercando di cogliere il più fievole sussulto. Mai prima di quel momento aveva assistito a una morte così atrocemente fulminea, tanto che non le sembrava possibile. Si sporse per guardarla meglio.
 
Alle sue spalle l’altare non era più vuoto. Qualcuno doveva essere entrato da una delle porte laterali e a lei doveva essere sfuggito. Si era seduto sul pavimento, aveva poggiato il gomito sul bracciolo di legno e aveva comodamente gettato il peso su un fianco. La testa pendeva verso la mano e due dita la tenevano in equilibrio. Il monaco esordì con un monotono colpo di tosse.
 
Fu allora che Ayame si voltò scattando come un soldatino e il suo sguardo si dilatò quando lo riconobbe. L’altro avvertì il cuore precipitare nel petto e un brivido inerpicarsi tra le vertebre mentre la fissava con gli occhi gonfi e sporgenti.
Ayame cercò di parlare ma la lingua le si era accartocciata in bocca. Il respiro andava e veniva irregolare e il cuore tuonava convulsamente sotto la camicetta.
 
Quell’inconfondibile ciuffetto d’ebano vibrò e in un attimo gli anni si riavvolsero come il nastro di una videocassetta mandato indietro a gran velocità. Ripresero a scorrere in avanti a quando lei sedeva in un’auto che sfrecciava verso Otsu tra i lampioni dell’autostrada: il vento tra i capelli, il profumo di casa, quello che aveva sentito propagarsi dalla camicia appesa al pomello dell’armadio e che ora pervadeva l’abitacolo, e quel profilo che si stagliava nel nero dei suoi capelli.
 
Avvertiva i ricordi accalcarsi in un unico punto della mente, lì, in quella regione rinnegata del cervello, e arrampicarsi avidamente gli uni sugli altri in una perpetua lotta di supremazia. Ora, ad esempio, si vedeva a gambe incrociate sul letto del suo vecchio appartamento, nella spasmodica attesa di ricevere quello che allora le era parso l’SMS della vita, il suo SMS: la risposta all’ingenua richiesta di telefonargli; quel “sì” che era arrivato vibrando poco dopo. Quella era stata la notte del loro primo messaggio e insieme della prima telefonata.
 
Ne passò un altro, veloce: Suguru che la teneva per mano mentre correvano a perdifiato fuori dall’Istituto. Poi un altro: Suguru che le diceva di tornare a casa ora che non aveva più così tanta voglia di sacrificarsi. E un altro ancora: Suguru nel suo impeccabile abito elegante, con lo sguardo sognante per chissà quale ragione, che ballava insieme a lei.
 
Passò un ultimo, indimenticabile, raggelante ricordo. Questo non aveva a che fare direttamente con lui ma lo riguardava. C’era Kong, rosso in viso, e lei che in uno scatto di rabbia gli aveva agguantato il bavero della giacca. Lo aveva sentito parlare al telefono, era la Vigilia di Natale, l’ultima trascorsa insieme, e dalle sue labbra era venuto fuori un nome: Geto. Lei lo aveva minacciato se non le avesse dato spiegazioni.
 
- Ti segnalerò ai tuoi vecchi colleghi – aveva detto coraggiosamente, sospettando che la parola “ex” davanti al titolo di “poliziotto” fosse finita lì per ragioni poco nobili e non certo per il capriccio di cambiare vita e soddisfare una precoce crisi di mezz’età. A quel punto, Kong aveva cantato come un usignolo. Non che avesse davvero dato peso alle intimidazioni della ragazza, no. Lo aveva fatto perché aveva pensato che fosse giusto così. Era giusto che sapesse che cazzo di uomo era diventato e a che razza di mentecatto lei continuava disperatamente ad aggrapparsi. Era stato il suo regalo di Natale per lei.
 
Le aveva detto che era un assassino. Le aveva detto che aveva perso la testa e che aveva maledetto a morte ben centododici persone. Le aveva detto che l’avrebbe odiata, perché odiava quelli come lei, quelle inutili scimmie di cui farneticava di continuo e che avrebbe fatto carte false per sterminare.
 
- Ayame -. Una voce sottile si insinuò nei suoi pensieri riportandola alla realtà. Lei non disse una parola. Salì con lo sguardo oltre la spalla di lui e poi schiuse le labbra di qualche millimetro in una smorfia di atteso sbigottimento. Sulla parete che faceva da sfondo all’altare c’era una scritta: i caratteri erano dipinti a mano ma leggibili.
 
“A morte le scimmie”*. Dunque, era vero.




 
*la frase è inventata perché il tempio in questione non è lo stesso tempio che vediamo nel vol. 0
 

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Capitolo 4
*** Odiami ***



Aveva stupidamente provato a immaginare cosa sarebbe successo se lo avesse incontrato. Le era venuto spontaneo pensarci appena dopo la scioccante rivelazione di Kong, sebbene non le fosse mai passata di mente l’idea che un giorno sarebbe potuto concretamente accadere. Lo aveva fatto così, tanto per fantasticare.
 
Aveva soppesato ogni parola tra quelle che avrebbe potuto dirgli, considerato ogni sentimento che si sarebbe potuto innescare in lei nell’istante in cui i suoi occhi lo avessero incontrato, ed era arrivata alla sconvolgente conclusione che, salvo uno sbigottimento iniziale, non le sarebbe importato nulla dell’uomo che era diventato; desiderava solo rivederlo.
 
Lui, al contrario, non si era mai azzardato a perdere tempo a farsi certe illusioni. Riteneva inammissibile incontrarsi di nuovo con lei, specie per come erano cambiate le cose. Forse in un’altra vita ma non in quella, non più, ed era per questo che Suguru, ben peggio di lei, aveva sentito la terra mancargli sotto ai piedi quando l’aveva vista. Era per questo che l’aveva guardata con un terrore dilagante negli occhi, che era stato lì lì per svenire per l’improvvisa apnea se non fosse stato per il coraggio ritrovato all’ultimo di prendere un respiro e pronunciare stentatamente il suo nome.
 
Ayame mosse un passo, uno soltanto, piccolo e incerto e si fermò. Lui l’aveva interrotta con un gesto della mano. - Devi andartene – esordì gelidamente con voce profonda. Lei la ricordava più alta di almeno un tono.
 
Quella voce la fece crollare sulle ginocchia: le braccia si tesero ai lati delle orecchie con la testa nel mezzo sospesa nel vuoto e le punte dei capelli che rasentavano il pavimento. Non c’era stato niente da fare per quelle ginocchia. Non c’era stato niente da fare per nessuna di quelle risposte fisiche che normalmente avrebbe potuto fare lo sforzo di controllare: come le gambe inaspettatamente molli, il cuore imbizzarrito che pulsava non più solo nel petto ma ora anche nella gola, nelle tempie e dietro gli occhi arrossati, o come il fiato che singhiozzava nei polmoni brucianti.
 
- Non puoi stare qui, Ayame. Te ne devi… -.
 
- Mi sei mancato -. Chiuse gli occhi e singhiozzò. Non c’era stato niente da fare nemmeno per quel pianto dirompente.
 
Aveva provato stupidamente a immaginare cosa sarebbe successo se lo avesse incontrato, eppure prepararsi a quell’evenienza, anche soltanto giocando come una bambina con la propria fantasia, non le era servito a niente. Non l’aveva minimamente preparata a reggere l’ondata di stupore, di smarrimento, di disperazione che l’aveva travolta alla vista di quel ciuffo d’ebano, di quel viso sempre bello, ora più maturo e severo, e di quegli occhi allungati nei quali una volta il suo riflesso galleggiava mentre adesso vi naufragava.
 
Lui, al contrario, non si era mai azzardato 
a perdere tempo a farsi certe illusioni, ma in quel momento comprese che sarebbe stato meglio se lo avesse fatto. Sapere con anticipo cosa dire per allontanarla, come comportarsi per imbrigliare quel suo stupido cuore che picchiava come un forsennato nel torace, forse lo avrebbe salvato dall’esitare di fronte a lei.
Dal momento che Ayame era viva avrebbe dovuto considerare, e non lo aveva fatto, che il loro incontro sarebbe stato possibile per quanto le probabilità fossero ridicolmente infinitesimali.
 
Si mise bruscamente in piedi. Le mani tornarono a nascondersi dentro le maniche del koromo e si congiunsero all’addome. La recita doveva continuare.
Si accinse ad andarsene dritto sulla schiena senza più rivolgerle uno sguardo, neanche di scorcio. I singhiozzi di Ayame davano il ritmo al suo passo incalzando e alternativamente trattenendo la camminata ora imperturbabile ora vacillante. Era letteralmente diviso a metà.
 
Suguru si sorprese nell’accorgersi come quello sciocco adolescente qual era stato, e che il nuovo sé stesso aveva gettato in pasto all’odio più autentico ed efferato, continuava ad annaspare dentro di lui da qualche parte nelle remote incrinature dell’animo; quel ragazzo a cui non importava niente del resto del mondo ma solo di lei e di poche altre cose; il Suguru che l’aveva segretamente amata in quel vicolo di Ayase e chissà forse anche prima di quel momento, durante la loro ultima notte a Otsu o addirittura prima ancora. Sospettava di essersene innamorato quando la voce timida e rassicurata di lei gli aveva augurato la buonanotte la sera della loro prima telefonata.
 
Continuò a camminare, attraversò per lungo l’altare e poi spalancò la porta scorrevole diametralmente opposta a quella da cui era entrato.
 
- Aspetta! – lo pregò Ayame; aveva ancora la testa tra le braccia ed era rimasta in ascolto del passo incostante di Suguru. Si alzò per andargli dietro. L’istinto fu quello di afferrarlo ma ritrasse il braccio un istante prima di riuscire a toccarlo perché la porta le si chiuse in faccia. Lei non la riaprì subito ma attese che qualcosa accadesse; attese che lui si prendesse il suo tempo.
 
Al di là della porta, Suguru puntò il gomito alla parete del corridoio e vi si appoggiò di peso. Si portò un pugno alla bocca e lo strinse tra i denti per non cacciare fuori qualsiasi cosa gli stesse salendo prepotentemente dallo stomaco: poteva essere un grido o il bisogno immediato di rimettere. Si morse così forte che i segni gli sarebbero rimasti per giorni, allora sì che sarebbe stato un fottuto problema spiegare a Manami o alle gemelle che cosa gli fosse successo.
Mollò la presa o il sangue avrebbe cominciato a sgocciolare dal gomito, e il braccio cadde mollemente lungo il fianco. In quel momento la porta alle sue spalle prese a scorrere piano: il fruscìo gli fece accapponare la pelle.
 
- I capelli… - evidenziò timidamente la voce di Ayam, ora ridotta a un sussurro. Se ne stava immobile sulla soglia. – Ti sono cresciuti i capelli -.
 
- Ti ho detto che devi andartene – la intimò un’altra volta.
 
- Ti stanno bene – continuò lei, ancora con quella voce mormorante e amorevole che gli dava alla testa. Una volta lo avrebbe fatto capitolare mentre ora il suo unico effetto era quello di fargli montare una rabbia irrefrenabile. Scaricò quella rabbia contro la parete di legno assestandole un pugno violento.
 
Contrasse la mascella. - Vattene Ayame. Non sono più la persona che conoscevi e non hai la minima idea di quello che sono in grado di fare -. Le parole strisciarono bonarie tra i denti malgrado l’intento minaccioso.
 
Ayame fece un passo avanti, meno incerto e più ampio di quello che aveva tentato di fare nella sala delle udienze, e lui avvertì il rumore di quel passo vibrare come un terremoto alle spalle. Era una mossa che non avrebbe dovuto fare per nessuna ragione al mondo, lui l’aveva avvertita. La furia dentro di lui si riaccese in un attimo, avvampò come un incendio e si lanciò su di lei.
 
Ora Ayame era con le spalle al muro, tenuta ben ferma da una singola mano chiusa attorno alla sua gola e che sentiva trattenersi contro la pelle.
Suguru la fissava con una faccia distrutta sul punto di impazzire. Uccidila, sibilava una voce nella sua testa. Uccidi questa maledetta scimmia. Lei, invece, lo guardava con placida impazienza attraverso gli occhi gonfi di pianto. La sua espressione era ben lontana da quella che lui si sarebbe aspettato di vedere o chiunque altro al suo posto avrebbe avuto scolpita sul volto. Suguru ebbe quasi l’impressione di leggere nei suoi occhi un vago sogno di morte.
 
Una lacrima corse lungo la guancia, scivolò fino al mento dibattendosi per restarvi appesa, poi cadde bagnando in pieno il polso di Suguru. – Uccidimi -. La voce di Ayame si unì a quella nella sua testa.
 
Lei fece per accarezzargli il viso e per un attimo le dita attorno al suo collo si strinsero mozzandole il respiro. Con enorme sorpresa di Suguru, nessun suono venne fuori dalla bocca di lei: nessun lamento, nessuna boccheggiante protesta o parola strozzata; niente di niente. Allentò di poco la presa.
 
- Perché? – piagnucolò lui tra i denti. Disperazione, rabbia, rassegnazione: le sentiva turbinare dentro, scambiarsi continuamente di posto con il solo e unico proposito di condurlo alla pazzia.
 
– Perché non hai paura di me? Perché non scappi via? – domandò esasperato. – Hai idea di che cosa ho fatto? Ho ammazzato a sangue freddo più di cento persone, mi sono preso la vita dei miei genitori e ho intenzione di sterminarvi tutti, quindi perché? Perché sei venuta qui? Perché mi guardi come se volessi accettarmi per quello che sono? Perché non mi odi?! – gridò e batté furiosamente il pugno ferito contro la parete, a un palmo dalla testa immobile di Ayame mentre a questa le si irrigidiva di colpo la schiena, e non perché sospettasse di vederselo arrivare dritto in faccia. Si era irrigidita perché lui si era piegato su di lei: il viso alla distanza di bacio dal suo.
 
L’unica paura che conosceva da quando indossava un cognome che le era stato stretto sin da subito, Yoshimura, era la solitudine. Non sapeva che farsene della paura della morte perché a nessun’anima viva sarebbe importato qualcosa se da un momento all’altro se ne fosse andata per sempre. A lui sarebbe importato?
 
 - So che cosa hai fatto – Ayame fiatò dopo minuti interminabili di silenzio. – Me lo ha detto il Signor Kong -.
 
- Lui ti ha detto che ero qui? -. La tensione nella voce scese verso un tono che doveva trovarsi pressappoco tra la collera e lo sfinimento, ma ancora contraddistinto da un’inalterabile durezza.
 
Ayame scosse la testa. – Mi ha detto solo che mi avresti odiata – e un sorriso di amara constatazione curvò appena gli angoli della sua bocca.
 
La scritta in bella vista dietro l’altare, messa lì con il preciso scopo di seminare timore e soggezione, e ora la mano che smaniava nell’attesa di ricevere il comando di chiudersi e spezzarle il collo, erano la prova incontestabile che Kong aveva ragione. Non c’era andato giù pesante con le parole solo perché quel brindisi di troppo gli aveva dato alla testa. Non erano state le semplici conclusioni di un ubriacone occasionale ma la più terrificante delle verità.
 
Suguru la odiava. E quante volte da quella Vigilia di Natale da dimenticare, allora che gli infallibili effetti della sbronza avevano dato prova di non essere poi così tanto infallibili, Ayame aveva provato vergogna e un viscerale rifiuto verso la sua stessa natura di senza poteri. Un sentimento di sdegno che, in retrospettiva, Ayame sapeva essere tutt’altro che una novità. Lo aveva provato da sempre, tacitamente, tenendoselo ben segregato nel fondo della mente come il più perverso dei segreti. La sua convinzione era che, se fosse nata con qualche cazzo di potere, sua madre non l’avrebbe abbandonata alla nascita, suo fratello non sarebbe morto trivellato di coltellate, trentuno a voler essere precisi, e suo padre non avrebbe dovuto immischiarsi con quella famiglia di pazzi violenti e con la puzza sotto al naso per garantirle, alla fine, un futuro intessuto di solitudine e costringerla a campare su una grossa menzogna di nome “Ayame Yoshimura”.
 
Ma poi, dopo un lungo periodo di indigestione di rabbia e frustrazione, aveva capito che non avrebbe fatto alcuna differenza nascere con o senza poteri. Aveva compreso che, se tanto da qualche parte fosse scritto che la sua vita doveva andare alla malora sempre, arrovellarsi il cervello su come sarebbe stato meglio nascere non aveva alcun senso. Era come il dibattuto dilemma su chi fosse nato prima tra l’uovo o la gallina. Alla vita non fregava assolutamente nulla di chi fosse nato prima o dopo, se con poteri straordinari o con l’unico potere di essere vergognosamente inutile. Bastava un suo capriccio a privare una persona qualsiasi di tutto.
 
Suguru aprì adagio la mano sulla gola di Ayame per lasciarla libera e la pelle della ragazza gli rimase 
per un attimo appiccicata alle dita. Abbassò vigliaccamente gli occhi alla vista dei segni stampati sul collo.
 
- È stato il Signor Kong a dirti che ero viva? A giudicare dalla tua reazione di prima, nella sala, non sembravi sorpreso di questo ma più di vedermi lì -.
 
Suguru negò fiaccamente con la testa e in quel frangente decise di usare l’argomento per provare a ferirla ancora una volta. Forse così lo avrebbe finalmente odiato. – Ti ho vista nel dicembre di sette anni fa ma ho fatto finta di nulla -.
 
E adesso odiami. Dimmi che sono un vigliacco. Disprezzami per averti abbandonata. Accusami di essere un bugiardo. Biasimami per non aver mantenuto la promessa di proteggerti. Dammi un pugno se può farti stare meglio, ma spezzami il cuore come hai già fatto migliaia di volte quando cercavi me e pensavi a un altro.
Uccidi quello stupido essere che alberga dentro di me, quell’inutile e patetico uomo, l’ultima mia ombra di debolezza, e rendimi immenso, rendimi invincibile.
Devi temermi. Devi detestarmi.
Distruggimi. Respingimi. Feriscimi.
Ripudiami. Abbandonami.
Odiami.
 
- Mi dispiace che tu abbia dovuto scoprirlo così. Meritavi di saperlo, davvero – replicò lei morbidamente e concluse la frase con un sorriso mesto ma comprensivo.
 
- No! – scattò lui. – Non è questo che devi dire! -. La prese per le spalle e la guardò con una follia vorticante negli occhi dilatati. La sua voce si alzò verso un tono quasi isterico. – Non sono più l’uomo che conoscevi! Lui è morto! Quello che stai cercando dentro di me non è nient’altro che un fantasma! -.
 
Lei lo sorprese con poche parole. Lo mandò al tappeto proprio con quel pugno che Suguru si augurava di ricevere ma che lei aveva deciso di assestargli a modo suo, con la pacatezza che la contraddistingueva e la dolcezza di sempre; come se tra loro non fossero trascorsi degli anni bensì una manciata di secondi. – Per te potrà anche essere un fantasma, Suguru, ma io lo vedo ed è proprio qui, davanti a me -.
 
Le braccia gli caddero giù, pesanti e molli. Lo sguardo si spense. Per quanto si sforzasse, e con una foga a dir poco ridicola, di nasconderle quell’ultimo barlume di debolezza questo trovava continuamente il modo di darsi alle fiamme per splendere per lei. Ed era Ayame a soffiarvi sopra, come le braci che non si esauriscono mai finché qualcuno si cura di tenerle in vita. Lei era l’alito che le alimentava.
 
Suguru arretrò di un passo e prese il fiato per spenderlo in un ultimo, supplichevole tentativo. – Devi andartene, Ayame – ripeté. Era un ritornello che si ripresentava ogni volta che esauriva le parole o quando quelle esatte parole erano le uniche che sapeva di poter pronunciare, perché lasciarsi andare all’avvicendarsi di commoventi confessioni era qualcosa che avrebbe potuto fare l’adolescente di un tempo e non l’uomo che era adesso.
 
Lui la vide prendere dalla borsetta a tracolla una penna e una piccola agenda. Ayame scrisse un indirizzo, strappò la pagina e la chiuse nel pugno di Suguru cosicché lui non potesse astenersi se lei gliel’avesse semplicemente offerto. – Vieni a trovarmi, ti prego -. Che lo avesse fatto per ucciderla o per odiarla non aveva alcuna importanza; desiderava soltanto rivederlo.
 
Una voce di donna rimbombò nella sala accanto: Suguru e Ayame voltarono simultaneamente la testa verso il fazzoletto di luce che entrava dalla porta. Il cuore di Suguru fece un balzo nel petto.
 
Le mani si strinsero con decisione alle spalle di Ayame. - Adesso va’ via, sbrigati! Alla fine del corridoio troverai una porta sulla sinistra, aprila e vattene. Corri! – mormorò concitatamente.
 
La spinse per l’agitazione del momento ma senza esagerare. Nell’istante in cui la vide correre via si chiese se quel gesto fugace di premura avesse una qualche importanza ora che aveva tentato di strangolarla e la risposta era che, no, non ne aveva. E mentre se ne stava a osservare quella schiena minuta come un tempo, così piccola che a stringerla sarebbe scomparsa tra le sue braccia, Suguru si accorse che qualcosa non andava: un’ombra iniziava a crescerle dentro e a fuoriuscire come vapore nero dalla camicetta.
 
Quella bastarda era riuscita a confondersi con l’energia malefica di Ayame e a sottrarsi ai poteri di Suguru di percepirla, ma le forti emozioni negative che lei stava provando in quel frangente l’avevano fatta uscire allo scoperto e adesso giaceva accovacciata sulla sua spalla a godersi il pasto, divorando voracemente la sua energia.
A quel punto, appena prima che la figura di Ayame si riducesse ad un puntino lontano, Suguru notò che si teneva la spalla.
Quella maledizione l’avrebbe uccisa se Ayame avesse continuato a maledirsi in quel modo.



 
***


Il foglietto stropicciato con l’indirizzo di Ayame finì sotto la manica del koromo assieme al pugno morsicato appena in tempo per vedere la porta scorrevole spalancarsi davanti alla faccia. Suguru pregò che non vi fosse nulla di diverso dal solito; che tutte le emozioni che si erano intervallate sul suo viso fossero già svanite o che Ayame le avesse portate via con sé. Pregò che nessuno dei lineamenti normalmente impiegati a conferirgli un’espressione ben distinta, la solita in pratica, si trovasse fuori posto e che Manami lo guardasse come faceva sempre, vagamente trasognata per quella sua “rara bellezza” che, a sentire lei, era bastata da sola a convincerla a unirsi a lui.
 
Nel sopracciglio che si incurvò appena sotto la frangetta di Manami, quando questa lo vide, Suguru colse una smorfia perplessa e istintivamente pensò di essere fottuto. Poi quel sopracciglio si distese e lui tirò internamente un sospiro di sollievo.
 
- È già andata via? -. Il suo era un falso interesse.
 
Lui mimò un’alzata di spalle. – È stata una cosa rapida – rispose e dovette afferrare al volo, c'era mancato poco che gli sfuggisse tanto gli costava ammetterlo, il pensiero che da quel momento in avanti, non sempre, non scherziamo, avrebbe dovuto raccontare balle. Perché l’avrebbe rivista, era innegabile, anche solo per il pretesto di esorcizzare quella lurida bestiaccia agiatamente in vacanza sulla sua spalla.
 
Non doveva necessariamente mentire e questo era un fatto positivo; nessuno avrebbe domandato lui perché fosse uscito il giorno x all’ora y; alle gemelle non faceva alcuna differenza quando se ne andava per fatti suoi e quella volpe di Manami non sarebbe stata nei paraggi quando fosse sgattaiolato fuori dal tempio per farsi un giretto notturno ad Ayase. Ma Suguru sapeva altrettanto perfettamente che incontrare alle spalle della sua nuova famiglia quella che a tutti gli effetti era una loro naturale nemica giurata significava di fatto mentire; o, peggio ancora, ingannare.
 
E in quel momento si pose un limite; proprio nel silenzio che anticipò il commento scocciato di Manami sulla camicetta giallo canarino della ragazza e che lui aveva confusamente avvertito come un brusio di fondo. Si promise che l’avrebbe incontrata esclusivamente per liberarla da quella maledizione e poi via, veloce come il vento, e a mai più rivederci.
Sì, avrebbe fatto così.

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Capitolo 5
*** Fantasmi ***


Quella sera aveva notato qualcosa di diverso in lui. Le aveva accolte come al solito con quel sorriso affabile, ampio e sincero che non mancava mai di indirizzare loro per consolarle o per dare loro il bentornato a casa. Avevano cenato insieme, adorava unirsi alle ragazze per cena quando aveva tempo, e neppure in quella circostanza era accaduto qualcosa che le aveva risvegliato il presentimento di un problema all’orizzonte. Tutto si era svolto entro i comodi confini della normalità. Dopo cena aveva pazientemente ascoltato i loro discorsi sorseggiando del tè tiepido, a tratti inframmezzati dai soliti battibecchi tra sorelle e che lui sapeva tutte le volte stemperare con un’affettuosa carezza sulla testa di ognuna. Aveva augurato loro la buonanotte intorno all’una e si era ritirato nella propria stanza in un atteggiamento perfettamente coerente a quella che era la norma.
Nel concreto, non c’era stato niente di insolito.
 
Quando aveva chiesto a Mimiko se avesse notato qualcosa, nel loro quarto d’ora di conversazione confidenziale tra sorelle prima di andare a dormire, lei le aveva risposto di no. Le aveva persino fatto notare quanto a volte fosse troppo paranoica e lei aveva reagito con stizza rigirandosi nel letto e mostrandole la schiena. Poi Mimiko si era addormentata.
 
Ma c’era qualcosa che non andava, ne era sicura. Se n'era accorta subito incrociandolo in corridoio, un istante prima che il suo caloroso saluto le scaldasse il cuore come succedeva da sette lunghi anni; mai troppo lunghi se trascorsi insieme a lui.
Lo aveva notato perché non era più una bambina, perché aveva imparato a scorgere le nubi di inquietudine che calavano sul suo volto quando qualcosa non andava e perché oramai conosceva quel viso quasi meglio di quello di sua sorella. E su quel viso quella sera aveva colto il residuo di un’ombra, come se gli fosse rimasta impressa nei lineamenti anche dopo che se n'era andata.
 
Orgogliosamente certa di avere ragione, impaziente di rinfacciarlo a sua sorella l’indomani mattina, aveva trascorso una buona mezz’ora a chiedersi perché a Mimiko fosse sfuggito quel dettaglio, ed era sicura che non c’entrasse nulla la paranoia per cui lei aveva avuto tanto da rimproverarle.
Non era paranoica, era innamorata: l’amore ossessivamente innocuo di una tredicenne. Quel tipo di amore che la faceva accorgere persino dei più insignificanti cambiamenti altrimenti tanto impercettibili da passare inosservati.
 
Se n’era innamorata a forza di pettinargli i capelli, perché era lei ad occuparsene quando desideravano coccolarlo un po’. In quei momenti sapeva di avere tra le mani l’uomo più maestoso che avesse mai incontrato, di una tale eleganza, grandezza e solennità che le uniche possibili alternative erano invidiarlo o venerarlo. Non lo riteneva un padre, un fratello o un maestro ma un essere divino: colui che aveva salvato lei e sua sorella da un incubo che tutt’ora alle volte le toglieva il sonno. Era il solo che le aveva amate.
Se n’era innamorata a forza di sentirlo parlare del mondo per cui si stava dando tanto da fare; un mondo in cui i tipi come lei, come lui e come sua sorella, gli attuali “mostri” per alcuni e gli “invisibili” per altri, non avevano più niente da nascondere e tantomeno da rimproverarsi per la loro natura di stregoni. Un mondo dove nessuno, mai più, si sarebbe azzardato a rinchiuderle in una gabbia.
 



 
 
La pioggia picchiettava sul cappuccio della felpa mentre la sentiva infradiciarsi falcata dopo falcata. Il diluvio era scoppiato a metà strada senza la minima avvisaglia, quando ancora sedeva riparato sul sedile posteriore di un taxi di Oyama. Ma poi si era visto costretto a scendere dal veicolo quando il traffico di Ayase lo aveva tenuto bloccato per quasi quaranta minuti a meno di un chilometro dalla destinazione. In soli dieci minuti, e con tanto di camminata svelta, la pioggia lo aveva ridotto a uno straccio gocciolante.
Bel modo di presentarsi a casa sua.
 
Percorse gli ultimi metri che lo separavano dal palazzo in cui abitava Ayame, un edificio con tre appartamenti di nuova costruzione, tenendo il passo spedito ma pesante. Più si avvicinava più sentiva aprirsi una voragine nel petto, laddove in circostanze migliori, e per migliori si intende passate, avrebbe avvertito il cuore riempirsi, gonfiarsi di beatitudine anziché svuotarsi dall’amarezza. Raggiungere Ayame gli stava costando fatica, sorprendentemente più dell’ora trascorsa nel taxi in compagnia di una miserabile scimmia, la cui soffocante energia malefica, tanto per non farsi mancare niente, gli aveva procurato un cocktail di nausea ed emicrania.
 
Giunto in prossimità del portone strinse i pugni e chinò la testa: il cappuccio gli cadde davanti agli occhi, pesante d’acqua. Il pensiero di invertire la marcia e tornarsene al tempio gli attraversò la mente, interrompendo quello stillicidio interiore di inesauribili “e se” cominciato al momento di mettere il naso fuori dal taxi.
 
E se non riuscissi a dirle addio?
E se volesse rivedermi?
E se volessi rivederla?
E se lasciassi perdere?
E se scappassi?
E se…
E se…
E se…
 
Cadevano nel fondo della mente come la pioggia dall’estremità del cappuccio, goccia dopo goccia, e quando si infrangevano sulla superficie piatta della coscienza davano origine a un’immagine diversa ogni volta: ipotetici scenari, uno peggiore dell’altro, e non necessariamente sfavorevoli per lei quanto per lui.
 
Un fremito lo scosse dal basso verso l’alto a gran velocità: una risposta alla fresca umidità che permeava il tessuto della felpa, o questo era quanto credeva. Invece, si trattava di qualcosa di assai più corporeo del brivido che continuava a correre su e giù dalla schiena e che dapprincipio non aveva saputo percepire. C’era qualcosa a trattenerlo materialmente, altro che quel distillato di dilemmi mentali irrisolvibili, ed era una mano piccola e tremante che lo aveva agguantato per l’orlo della felpa fradicia.
 
Gettando uno sguardo oltre la spalla Suguru vide Ayame stagliarsi dietro un velo di argentea pioggia battente e gli parve che gli occhi le si inondassero di lacrime perché, sotto l’ombrello, le sue guance si bagnarono inspiegabilmente.
 
Senza accorgersene, occupato a opporsi all’influenza di quelle lacrime, si ritrovò nel salotto dell’appartamento di Ayame al terzo piano a sgocciolare sul pavimento mentre lei insisteva a restare aggrappata all’orlo della sua felpa. Un vago ricordo affiorò e dissolse la nebbia mentale fino a quel momento scesa tra i pensieri a tenerlo prigioniero della propria psiche: lui che si trascinava su per le scale augurandosi di non arrivare mai con lei che lo seguiva in assoluto silenzio a un braccio di distanza.
 
- Sono venuto solamente per esorcizzare la maledizione che porti sulla spalla – esordì lui con lentezza, come se le parole gli si stessero sciogliendo in bocca, inconsistenti. Ebbe la sensazione di averle soltanto pronunciate senza attribuire loro un significato.
 
Finalmente Ayame lasciò la presa della felpa; Suguru ne fu lieto e insieme dispiaciuto. – Prima però togliti questi vestiti bagnati o prenderai un raffreddore -. Solo allora comprese che lo aveva fatto unicamente per scomparire dietro una porta e riapparire poco dopo con un cambio di vestiti asciutti piegato tra le mani.
 
- Erano di mio fratello – aggiunse e gli porse i vestiti. Più appropriato sarebbe dire che lo costrinse ad accettarli, senza se e senza ma, passandoli direttamente nelle sue mani. – Non sono riuscita a buttarli via – concluse con un mezzo sorriso.

Suguru azzardò un rifiuto formulando una protesta a fior di labbra ma lei non volle sentire ragioni e lo mise a tacere con un conciso e categorico “sbrigati”. Obbedì.
Ayame gli fece strada verso il bagno e lui si cambiò con lei che lo ascoltava dall’altro lato della porta. Non le sembrava vero che fosse lì con lei.
 
Ricomparve sulla porta con un ammasso di vestiti inzuppati tra le mani e che lei mise nell’asciugatrice dopo averli strizzati nel lavandino. Ora indossava una maglietta nera a maniche corte con un drago stampato sulla schiena e un paio di pantaloni rossi da ginnastica con due righe nere cucite su ciascun lato.
Il discorso riprese da lì, davanti all’asciugatrice, perché Suguru riteneva di non potersi permettere di perdere altro tempo.
 
- Dobbiamo sbarazzarci di questa maledizione Ayame, altrimenti ti ucciderà -. La notizia non la sconvolse. Forse nemmeno poteva quantificare la pericolosità della situazione.
 
Era indispensabile per lei rimanere fuori dal mondo di Suguru o avrebbe voluto certamente restarne coinvolta. Ignorare la distanza tra loro, quella fottuta distanza congenita che aveva imperativamente fatto di lei la perfetta antitesi di quell’uomo, era il solo rimedio per non sentirsi dalla parte sbagliata del mondo; una distanza che nemmeno un abbraccio eterno avrebbe mai potuto riallacciare del tutto.
 
Finse di capire. – D’accordo. Cosa dovrei fare? -.
 
Suguru tese il braccio. – Resta ferma – suggerì mentre la maledizione si palesava sulla spalla di Ayame aizzata dall’energia malefica dello stregone, puro veleno per lei. Questa mandò un ruggito dai denti sporgenti e si dibatté. Ayame gemette e si toccò di riflesso la spalla dolorante ma lui la esortò nuovamente a restare ferma.
 
Una maledizione di terzo livello come quella autoinflitta di Ayame non richiedeva l’intervento di una seconda maledizione per esorcizzarla né di un vincolo per assorbirla. La faccenda si risolse in pochi istanti: la maledizione convogliò nel palmo di Suguru formando una sfera nera e lucida, striata di plumbei fili sottili che vorticavano al suo interno. Lui la mise in tasca; non voleva farsi vedere da lei mentre la inghiottiva e poi si contorceva per l’ondata passeggera di nausea e disgusto.
 
Il dolore alla spalla si ridusse a un lontano ricordo. L’espressione corrugata di Ayame si distese e lei guardò Suguru con gratitudine, qualunque cosa avesse fatto.
Credeva di aver dimenticato da tempo il significato di quello sguardo colmo di riconoscenza, di anni dall’ultima volta in cui se l’era visto arrivare ne erano passati parecchi, e nel rendersi conto del contrario si stupì in una maniera che più tardi, quando se ne fosse ricordato a mente fredda, lo avrebbe fatto sentire ridicolmente stupido. E la guardò proprio così, come un fesso, con una qualsiasi risposta strozzata in gola. Poi abbassò gli occhi.
Doveva dirle di smetterla con quella gratitudine, obbligarla se fosse stato necessario, ma non disse niente. Non poté dire niente.
 
- Questa volta è toccato a me prestarti dei vestiti – intervenne Ayame a porre rimedio a un silenzio che sapeva avere effetti deleteri su entrambi. Lui non fiatò.
 
Lo sguardo della ragazza scese sui pugni chiusi di Suguru: la forza con cui li stringeva metteva in risalto il bianco delle nocche. Parlò ancora, seria adesso, con una voce quasi solenne. – Non trattenerti. Fallo. Uccidimi -. Di nuovo, Suguru rimase immobile.
 
Ayame si fece avanti e gli prese il pugno tra le mani. Incontrò una certa resistenza da parte sua quando si toccarono ma poi lo sentì arrendersi. Tentò di sciogliere il pugno chiuso e lui l’assecondò allentando i muscoli delle dita, ignaro tuttavia di quello che Ayame intendesse farci. A quel punto, lei accompagnò adagio le dita di Suguru alla gola e le guidò affinché si chiudessero attorno al suo collo: il pollice opportunamente piazzato sulla giugulare. – Uccidimi – ripeté lei.
 
Suguru le lanciò uno sguardo inorridito attraverso le iridi violette. Non c’era niente di cui inorridirsi, era stato lui il primo a commettere quel gesto avventato, eppure ora gli sembrava di trovarsi di fronte alla sinistra incarnazione del terrore, alla vivida cristallizzazione di tutte le sue paure messe assieme. Ripensò immediatamente allo sparo di quel giorno, il panico di allora e quello di adesso si mescolarono divenendo indistinguibili spasmi viscerali, e avvertì il sangue gelarsi nelle vene. Accadde proprio mentre la mano di Ayame si chiudeva sulla sua a incalzare una presa ancora troppo fiacca perché potesse ucciderla.
 
Dita e occhi si spalancarono con una sincronia perfetta al secondo. Suguru barcollò all’indietro, urtò di colpo il bordo della vasca da bagno e vi si sedette su. Poi scattò in piedi come mosso da un istinto primordiale e uscì rapidamente dal bagno fermandosi di botto tra il salotto e l’ingresso per l’improvviso, insospettabile, deciso, caldo e riconciliante abbraccio di Ayame. Gli si avvinghiò contro stringendoselo al petto, così serratamente che Suguru poté avvertire il cuore di lei battere con frenesia contro la schiena.
 
- Ti prego non te ne andare – piagnucolò. La voce supplichevole di Ayame vibrò tra le sue vertebre e gli parvero risuonare dentro, con il petto che fungeva da cassa di risonanza amplificandone il suono. – Anche se mi odi non te ne andare -.
 
Suguru sospirò sordamente e rifletté, nel preludio silenzioso di una replica per forza di cose scevra di entusiasmo, su quanto fosse terapeutico e paradossalmente dannoso per il suo rancore l’abbraccio di Ayame. – Sei tu che dovresti odiarmi -.
 
- Non potrei mai odiarti, Suguru – replicò lei nell’immediato. - Non so quale dei due mondi meriti di essere protetto, se quello degli stregoni o quello dei senza poteri. D’altronde, come potrei saperlo? Sono stata protetta dagli stregoni quando dei senza poteri volevano uccidermi. Un senza poteri ha assassinato mio fratello ma è anche vero che mio padre è stato ucciso dagli stregoni. È stato un senza poteri a crescermi e ad amarmi da quando mia madre, uno stregone, ha scelto di abbandonarmi alla nascita. E ora che la fusione è saltata, se i piani alti dell’occulto venissero a sapere che sono viva mi farebbero uccidere per tradimento e perché una senza poteri come me non dovrebbe conoscere certe cose del vostro mondo. Cosa vuoi che ne sappia di cosa è giusto e cosa non lo è? – e prese una breve pausa per stringersi a Suguru con più forza.
 
- E non mi importa saperlo. La sola cosa che desidero è che tu non te ne vada. In questi tre anni non ho fatto altro che pensarti. Da quando ho scoperto che il Signor Kong aveva legami con te, quando mi ha detto la verità su cosa avevi fatto, sei sempre stato nei miei pensieri. Sospetto che lui abbia tagliato i ponti con me per paura che io mi avvicinassi a te, e sarebbe andata così se lui non fosse sparito perché avrei fatto di tutto per rivederti, anche sapendo che avresti potuto uccidermi -.
 
- Come puoi dire una cosa simile? Tuo padre ha sacrificato la sua vita per salvarti e… -.
 
- Salvarmi, certo – lo riprese sbottando in una risata breve e sprezzante; la risata di una persona stanca di sentire accampare sempre le stesse scuse in merito alla sua vita. – Mio padre mi amava, sono assolutamente sicura di questo, e so che i suoi sacrifici sono stati fatti per il mio bene ma c’era qualcosa di cui non voleva rendersi conto o che non voleva accettare, vai tu a saperlo, e mi riferisco alla solitudine che mi avrebbe attesa al di là di quel sogno. Il Signor Fushiguro aveva ragione: il destino di un Ventre è quello di rimanere solo e non è qualcosa che si può controllare. Arriviamo tutti al momento della fusione senza avere più una famiglia; belli pronti a sacrificarci perché ormai non abbiamo più niente da perdere. Arriviamo già soli. E se per caso, per miracolo o cosa ne so io, qualcuno di noi sopravvive continua a perdere ancora e ancora. Mio padre ha dato la vita per consentirmi di vivere alla stregua di un fantasma costringendomi a rinunciare al cognome per cui tanto andavo fiera; a rinunciare a te, a Satoru, a Mito, a Kaori; a rinunciare alla mia casa, al mio lavoro, alla mia città, alla vita che mi ero costruita da sola dopo aver perso anche l’ultimo membro della mia famiglia. Sono stanca di perdere. Non te ne andare, Suguru -.
 
Un brivido sottile salì dalla schiena alla radice dei capelli. Perché il suo discorso aveva così tanto senso? Perché non riusciva a ribattere? Perché continuava a voler restare tra le sue braccia?
Suguru si schiarì la voce, tanto per darsi l’aria di chi resta inflessibile a qualunque condizione, poi parlò con un tono inespressivo. – Probabilmente, l’unico che può opporsi al tuo destino di Ventre è Satoru -. La frase gli lasciò la bocca amara.
 
Ayame serrò le braccia e lo strinse duramente per qualche istante poi allentò. – Smettila! – lo ammonì. – Perché continui a sentirti il secondo in tutto quando c’è di mezzo lui?! -.
 
Gli sovvenne la risposta più scontata, la scusa anzi, che rifilava a sé stesso nei momenti in cui non riusciva in qualcosa e che di conseguenza finiva per ritenere impossibile, quando “impossibile” nel dizionario di Satoru Gojo era invece una parola come un’altra. – Perché lui è il più forte – rispose con voce afona. Dovette cacciare quelle parole fuori dalla gola come si fa per il catarro con un colpo di tosse per quanto ora, meno nei suoi anni da studente, gli costava ammetterlo.
 
- Davvero pensi che basti essere il più forte per starmi accanto? -.
 
No. Sapeva qual era la risposta ma tacque. Parlò lei al posto suo. – Per stare accanto a un fantasma bisogna essere fantasmi -. Suguru avvertì la presa allentarsi, un muto consenso di Ayame a prendere le distanze nel caso avesse voluto, e pur non volendo si separò con rammarico da lei avanzando di un passo.
 
Si prese un momento per recuperare la cognizione del tempo: doveva essere passata la mezzanotte. Da quando il diluvio era cessato non aveva più avvertito lo scorrere dei minuti. La pioggia aveva smesso di tamburellare con il suo ritmo discontinuo e tintinnante sulla ringhiera del balconcino; quello che dal salotto si affacciava sul retro dell’edificio su una fascia orizzontale di prato che divideva una zona residenziale dall’altra. Restava il residuo di quel diluvio: qualche gravido gocciolone che dai canali di gronda precipitava di tanto in tanto in un tonfo cupo come rintocchi ubriachi di un orologio. L’unico altro suono era il ronzio appena udibile dell’asciugatrice accesa.
 
- Domani ho da fare – disse. Ayame immaginò che quello fosse un modo tutto suo per comunicarle che voleva rivederla o che fosse riuscita a convincerlo. Suguru si arrese e non perché sapeva di trovare nell’accondiscendenza l’unico mezzo per togliersi da quella scomoda situazione, ma perché voleva farlo. Volle cedere.
Fanculo il limite; fanculo l’orgoglio; fanculo tutto! Però…
 
- Non possiamo vederci tutti i giorni. Credo di farcela due volte alla settimana, non di più, e solo la sera, quando il tempio chiude al pubblico. Inoltre… - si fermò dall’elencare le sue condizioni per voltarsi e incrociare lo sguardo di Ayame. – Arriverà un momento in cui dovrò andarmene. Non so dirti quando ma succederà. Ti chiedo di non cercare di fermarmi perché non ho alcuna intenzione di rinunciare al mondo che intendo… -.
 
- Non ho nessuna intenzione di fermarti. Se il mondo a cui aspiri è il solo che può renderti felice allora per me va bene così. Quando lo avrai realizzato torna da me e uccidimi. Sarò volentieri la tua ultima senza poteri -.

 

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Capitolo 6
*** In una notte qualsiasi ***


Quella notte, la notte del diluvio, Manami si infilò nuda nel suo letto. Davvero un tempismo del cazzo.
Si mise cavalcioni su di lui, lo baciò, gli abbassò di poco i pantaloni del pigiama e lui gemette piano ma distrattamente.
Non facevano sesso da un anno e solo perché lui non aveva mai mostrato segni di effettivo interesse. E quando raramente lei si infilava sotto le sue lenzuola, vogliosa e inarrestabile, Suguru si limitava a godersela senza proteste, sempre meglio che accontentarsi da soli, ma adesso sentiva che ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Sentiva di volersi trovare nel letto di un’altra donna, non per forza con lei cavalcioni sopra.
Sentiva di volere lei, e solo lei, a guardarlo con desiderio attraverso quegli occhi blu come l’oceano.
 
Manami gli afferrò le mani con foga e se le portò ai fianchi per accompagnare i suoi movimenti intensi e disinvolti. Suguru fissava il soffitto: il buio come una gola profonda che avrebbe tanto voluto vedersi chiudere su di lui per inghiottirlo. Aveva lo sguardo distante, lontano persino da quei seni turgidi che sobbalzavano sopra di lui, con i capezzoli sodi come grossi pulsanti rosati, e che per un istinto puramente primitivo gli avevano sempre fatto salire una gran voglia di farlo quelle volte in cui lei si presentava nuda al letto, meno che in quel momento.
 
Ora, invece, il sesso con Manami aveva un che di deludente. Era vuoto. Non che prima non lo fosse ma passava di mente con estrema facilità quando lui le scivolava dentro e quando lei se lo fotteva selvaggiamente, e gli orgasmi decollavano come razzi dalla gola. Ma quel vuoto non accennava a sparire. Anzi lo percepiva dilatarsi, espandersi oltre le pareti della stanza per riversarsi nello sconfinato cosmo dello squallore.
 
Improvvisamente si sentì un gran bastardo. Cominciò a provare vergogna per Ayame. L’abbraccio caldo di lei era ancora impresso sulla sua pelle e lui stava scopando con un’altra donna. Gli sembrava che i suoi grandi occhi blu li fissassero da un angolo buio della camera facendogli pesare ogni secondo trascorso pelle contro pelle con quella donna. Scongiurò disperatamente il soffitto di fagocitarlo o lo avrebbero fatto quegli zaffiri lì nell’angolo.
 
I polpastrelli di Suguru affondarono d’un tratto nei fianchi di Manami e la trattennero. – Basta - un tono austero troncò sul nascere un gemito della donna.
 
Lei lo guardò perplessa. – Non ti va? – domandò con voce ansimante.
 
- Non devi più venire qui – dichiarò Suguru con freddezza e la fece scendere da lui accompagnandola con la sua presa decisa. Il pene duro e pulsante tornò troppo prematuramente nei pantaloni del pigiama.
 
Manami ne rimase scottata ma non poté permettersi di darlo a vedere. Era la prima volta che Suguru le diceva di non tornare. Certo, non era nemmeno mai capitato che le dicesse il contrario ma il punto era che non le aveva neanche mai detto di non farlo. Si sistemò in fretta i capelli e scese dal letto per coprirsi con la camicia da notte lasciata a terra. – Allora… buonanotte – mugugnò e si rivestì.
 
Gli occhi d’ambra lo guardarono un istante. Suguru fissava un punto imprecisato del soffitto: aveva le braccia aperte ai lati della testa con le mani a fare da cuscino. D'un tratto vide il suo sguardo saettare verso un angolo ben preciso del soffitto. Vi rimase incollato per qualche secondo e alla fine tornò al punto indefinito di prima ma mortificato in viso. Lo fece per tre volte, come ipnotizzato, poi parve riprendersi. Si girò su un fianco e le mostrò le spalle.
 
- Buonanotte – fece lui di rimando con un filo di voce.
 
Manami chiuse la porta della camera dietro sé e andò via con l'immagine della schiena nuda di Suguru, una pennellata color bianco perla su un tetro sfondo blu notte, come stampata in negativo negli occhi.
 
 
 

 

Suguru e Ayame si incontrarono di nuovo la notte del sei luglio, nel giorno in cui tutta la prefettura di Kanagawa festeggiava il Tanabata; una notte che a lui parve calare prematuramente. Giunse con estrema impazienza, quasi si fosse sintonizzata con il suo desiderio di rivederla, eppure troppo in fretta perché quella smania sfumasse in semplice attesa.
 
Una smania che non si era placata neppure dopo averla incontrata, quando con spigliatezza lei gli aveva chiuso le braccia al collo sul pianerottolo di casa mormorando un saluto che gli aveva tolto l’ossigeno. Con il cervello ancora in blackout per quella voce seducente si era tolto le scarpe. Solo allora aveva compreso di doverle rimettere per salire fino alla terrazza dell’edificio: teatro del loro appuntamento. Lassù, Ayame aveva disposto una grossa coperta, un paio di cuscini da divano, una treccia di lucine alimentata a batterie per fare atmosfera, due vassoi di takoyaki da asporto, due calici per il vino e una bottiglia di vino rosso.
 
Gli fece il gesto di accomodarsi sulla coperta e Suguru l’assecondò senza obiezioni, più sciolto della scorsa volta e di quella prima ancora ma non al punto da godersi una serata tranquilla. Si erano dati appuntamento per il giorno del Tanabata durante la loro ultima conversazione. Lui la sentiva ancora risuonare vividamente nelle orecchie e sorprenderlo a misura che le parole assumevano ulteriore significato nel riascoltarle. A proprie spese sapeva che la solitudine poteva portare a prendere decisioni disperate come quella di Ayame di accettarlo per i suoi crimini e di voler morire per mano sua, che queste avessero un senso per gli altri o meno. Sia lui che lei ne erano un esempio.
Ciò nonostante, perché avesse scelto proprio lui era qualcosa che ancora sfuggiva alla sua comprensione.
 
- Ti va un po’ di vino? -. Nel gesto di Ayame di passargli il calice riempito con tre dita di vino rosso, Suguru alzò lo sguardo su di lei e vide che aveva gli occhi sognanti, della stessa limpidezza del cielo stellato dispiegato sopra le loro teste. Era felice.
Aveva le mani sudate quando accettò il vino, poco convinto di fare la cosa giusta nell’accogliere quella gentile ma insidiosa offerta.

Ayame gli si sedette accanto. Al primo sorso di entrambi, con gli sguardi fatalmente agganciati l’un l’altro, Suguru ebbe il sospetto che per Ayame fosse cominciato un gioco di resistenza e che fosse consapevole di essere la prima dei due a finire per cedere.
 
- Suguru posso chiederti una cosa? -. Gli occhi di Ayame scesero a osservare il rosso vermiglio del vino nel calice.
 
- Cosa vuoi sapere? – chiese l’altro in tono difensivo ma senza risultare sgradevole o infastidito dalla curiosità della ragazza.
 
- Che cosa ti è successo? Quando mi credevate morta, intendo -.
 
Suguru piegò le ginocchia al petto e vi posò i gomiti; le mani ancora chiuse attorno al bicchiere. Un inizio di sorriso sollevò un angolo della sua bocca. – È per questo che hai scelto il vino? Vuoi farmi ubriacare per chiedermi di rivelarti tutti i miei segreti? -.
 
Lei sollevò gli occhi di scatto ma lo sguardo di Suguru era già fuori dal suo raggio, preso a tentare di sconfinare nel cielo spruzzato di stelle. Guardò il suo collo, lungo e latteo, e il pomo d’Adamo sporgente nel suo lento saliscendi quando Suguru deglutiva. – Allora chiedimi prima tu qualcosa, così poi saremo pari – propose.
 
- Qualunque cosa? -. La guardò di scorcio solo per un istante, poi tornò a fissare la notte.
 
- Qualunque cosa – affermò lei più determinata che mai.
 
- Perché proprio me, Ayame? – domandò Suguru di getto e lei rispose con altrettanta risolutezza.
 
- Perché solo tu sei Suguru Geto -. Lui sentì sciogliersi tutto dentro. Non era tanto quello che aveva detto quanto come, con un tono che innegabilmente denotava una certa gelosia. Era gelosamente suo; non “Suguru Geto” in generale ma il suo Suguru Geto, e capì cosa volesse dirgli. “Solo tu puoi uccidermi; solo tu puoi avermi; solo tu puoi odiarmi; solo tu puoi commettere un crimine ed essere perdonato. Solo tu, Suguru Geto”.
 
La replica di Suguru sprofondò nella gola e tacque. Ayame continuò. – Non ti basta come risposta, vero? – rise. Fu una risata calante: iniziò con sincero divertimento e poi si affievolì in un lamento triste, pregno di tutti i sentimenti che non sapeva spiegare né spiegarsi. – Ho soltanto scelto come vivere e come morire: la prima quando ti ho rivisto; la seconda quando ho saputo cosa avevi fatto – aggiunse e distolse lo sguardo dispiaciuta di non aver incontrato i suoi occhi.
 
L’occhio cadde su uno dei vassoi di takoyaki: ne contenevano otto ciascuno. Ayame prese le bacchette di legno, le divise con un movimento deciso e prese su una polpettina. – Dai, mangia qualcosa – suggerì bonariamente.
 
Suguru la guardò. Intuì che Ayame volesse imboccarlo e per un po’ non successe nulla. Passò qualche momento a dividere l’attenzione tra gli occhi di lei incollati ai suoi e la polpetta tenuta saldamente tra le punte delle bacchette. Si disse che sarebbe stato meglio declinare, contrariamente a quanto era successo per il vino. Si disse che quel vino rosso, quel cielo perfetto cosparso di stelle e le lucine sistemate tutte intorno a loro erano una combo altamente rischiosa e che farsi imboccare da lei era l’ultima condizione necessaria perché si innescasse una reazione con un unico, inequivocabile, irreparabile epilogo: un bacio.
 
E lo sentì, quel bacio, già sulle labbra: una previsione tanto dolce quanto inverosimile, a risvegliare l’uomo innamorato addormentato dentro di lui come una favola a ruoli invertiti. Ripensò alla loro ultima notte al lago Biwa e fiatò senza neppure accorgersene.
 
- Lo stai facendo di nuovo – disse mormorando. Questo tuo gioco di seduzione sconsideratamente inconsapevole, aggiunse tra sé prima che la frase sgusciasse interamente fuori dalle labbra.
 
- A cosa ti riferisci? -.
 
Lui morse la polpetta. – Niente – rispose una volta mandato giù il boccone. Continuò a parlare. Doveva continuare a parlare o avrebbe mangiato l’intera polpetta e le cose gli sarebbero sfuggite di mano perché, a quel punto, non vi sarebbe stato più nulla tra la sua e la bocca di Ayame. – Perché vuoi che sia io a ucciderti? -.
 
Ayame mangiò l’altra metà della polpetta nella più totale disinvoltura. – Forse perché morire di vecchiaia trascorrendo la vita da sola o farsi ammazzare dai piani alti del mondo dell’occulto è decisamente peggio che essere uccisi da una persona a cui si vuole bene -.
 
I loro sguardi si incontrarono brevemente, poi lui distolse gli occhi. Questa volta guardò nel calice, quindi bevve un altro sorso di vino. – Satoru sarebbe in grado di proteggerti. Perché invece di morire non scegli di tornare da lui? Non saresti più sola -.
 
- Adesso tocca a te rispondermi – ribatté lei con un’altra polpettina tra le bacchette, pronta a imboccarlo di nuovo. Suguru scosse piano la testa e prese le sigarette dal tascone sul davanti della felpa. Ne sfilò una dal pacchetto, la depose tra le labbra e prese il posacenere tascabile con dentro l’accendino dalla tasca dei pantaloni, ma Ayame lo anticipò. Da qualche parte tra i cuscini del divano aveva nascosto un accendino per cogliere quell’occasione e ora la sua fiamma oscillava mollemente a pochi millimetri dall’estremità della sigaretta di Suguru. Lui tese appena il collo in avanti e l’accese. Mandò fuori una boccata di fumo e insieme un sospiro prima di tenere fede al loro piccolo patto.
 
- Quando ci siamo conosciuti avevo già cominciato a dubitare di me stesso come stregone. Ho accettato di iscrivermi all’Istituto di Arti Occulte perché desideravo sfruttare il potere con cui sono nato per proteggere i senza poteri da questo male che per loro è invisibile; un male che io, invece, posso vedere e distruggere – disse e fece un altro tiro di sigaretta.
 
- Però alla lunga mi sono anche reso conto quanto fosse demotivante esorcizzare maledizioni senza risolvere il problema. Anzi più gli anni passavano più aumentavano le maledizioni. Mi sembrava assurdo darsi tanto da fare per proteggere la fonte di questo male. Ancora più assurdo era rischiare la vita come stregone e continuare a restare all’ombra dei senza poteri. La loro incoscienza cominciava a nausearmi –. Batté l’indice sulla sigaretta per rimuovere la cenere in eccesso. Ayame rimase in silenzio a osservarlo: il cuore perdeva un battito ogni volta che il fumo strisciava fuori dalle labbra di Suguru o quando socchiudeva gli occhi per gustarsi la sigaretta.
 
- Però un’altra parte di me non voleva cedere al crescere di questo disprezzo e si ostinava a fare il suo dovere di stregone mettendo la propria vita al servizio dei senza poteri. Ero letteralmente in uno stato di equilibrio mentale precario. Ma quando ti ho incontrata e ho saputo che avrei dovuto proteggere te, una senza poteri costretta a dare la propria vita per tenere in piedi il mondo degli stregoni, il mio mondo, ho sentito di nuovo quel desiderio di un tempo. Volevo proteggerti. Eri la sola a tenermi ancora a galla. Quando ho pensato che fossi morta ho perso anche quell’unica ragione che avevo di resistere. Con l’evoluzione di Tengen la situazione è peggiorata drasticamente. Diversi stregoni sono morti a causa di alcune potenti maledizioni prima tenute a bada dalle barriere di Tengen. Tra loro c’era anche un mio kohai. E alla fine ho fatto la mia scelta: odiare i senza poteri e distruggerli. Ecco come sono arrivato a questo punto -.
 
Con grande sorpresa di Suguru, Ayame esordì con un ghigno secco. Lui la vide sorridere. – Tu gli somigli, sai? A mio fratello Shoto – rispose lei con un filo di voce, amara in alcuni punti e tenera in altri, soprattutto nel menzionare quel nome. Si prese il tempo per mangiare una polpetta e bere un sorso di vino, poi proseguì. – Sapevi che lui poteva vedere le maledizioni? -.
 
Suguru annuì in silenzio. – Era scritto sul tuo fascicolo. Noi del mondo dell’occulto le chiamiamo “finestre” -.
 
- Aveva molto da rimproverarsi e rimproverarci in quanto senza poteri – aggiunse lei. – Il fatto stesso di produrre maledizioni era per lui una maledizione, o forse più una punizione. Diceva che ero fortunata a non poterle vedere. Diceva che erano dappertutto, mostruose e affamate; un ammasso di odio, rabbia, terrore, disperazione. Anche lui voleva trovare una soluzione. Cominciò persino a lavorare con gli stregoni cercando e segnalando le maledizioni -.
 
- Ha lavorato per l’Istituto? -. Suguru la interruppe: la voce era sfumata di sorpresa.
 
Ayame rispose con un’alzata di spalle. – Non lo so. Non parlava molto di queste cose. Anzi, da quando si è unito a quel gruppo di stregoni non ha più detto una parola su questo argomento. Il punto è che, sebbene non odiasse i senza poteri, non riusciva ad accettare questa nostra punizione. Forse ce lo meritiamo, chi lo sa -.
 
- Ma noi no – ribatté Suguru nel suo ultimo tiro di sigaretta. – Non meritiamo di perdere la vita nel cercare di epurare questa vostra maledizione -.
 
- Già, hai perfettamente ragione. Mi dispiace per quello che ti abbiamo fatto, Suguru -.
 
Lui prese un altro sorso di vino e scosse la testa. Non disse niente; fu Ayame a rompere ancora il silenzio. – Non ti senti bene? È per questo che non mangi niente? -.
 
Suguru la guardò con una faccia interrogativa. – Una volta mi hai detto che fumare ti aiuta a far passare la nausea. Non so perché ma me lo ricordo ancora. Se soffri di nausee da così tanto tempo forse dovresti farti vedere da un medico -.
 
Lui sorrise e l’espressione corrugata si distese. – Sto bene, non devi preoccuparti. Le nausee sono una conseguenza della mia tecnica innata, tutto qui – e la guardò accorgendosi di quanto lei volesse saperne di più. I suoi occhi blu mandavano scintille di curiosità.
 
Suguru si arrese. – La mia tecnica consiste nel manipolare gli spiriti maledetti – spiegò. - Significa che per esorcizzare le maledizioni, quantomeno quelle considerate pericolose, devo sfruttare le maledizioni che ho esorcizzato e assorbito in precedenza. Purtroppo, però, per assorbire le maledizioni io devo… ingoiarle. Sono disgustose. La stessa energia malefica dei senza poteri lo è. E lo è anche la mia tecnica -.
 
- Non è vero, non lo è – replicò prontamente Ayame. Lo costrinse a incrociare il suo sguardo sfiorandogli la guancia con le punte delle dita e poi accompagnando quel viso verso di lei. Il cuore le martellava in gola quando riprese a parlare. – Io non penso che la tua tecnica sia disgustosa. Tu sei magnifico -.
 
Quella voce morbida e timida gli parve venire da lontano, da quel passato che, pur tentando con ogni mezzo di dimenticare, si riaffacciava più spesso di quanto avesse immaginato e più spesso ancora adesso che era con lei. Veniva dal passato eppure era vicinissima, come se riecheggiasse dentro di lui. Erano le parole che l’adolescente di un tempo avrebbe tanto voluto sentirsi dire e che ora l’uomo adulto seduto accanto a lei non contava più di ricevere.
 
Ayame avvertì un'improvvisa voglia di baciarlo: un istinto non propriamente estraneo o recente ma quasi antico. Poteva appartenere alla Ayame di una vita passata o a quella della sua breve vita all’Istituto ma sentiva che in verità si trattava di un sentimento così remoto da essere sempre stato lì, nel nucleo dell’anima, dal suo primo giorno sulla terra. Erano i suoi stessi atomi a volerlo baciare.

Le labbra di Ayame presero ad avvicinarsi adagio, con le palpebre che le calavano sugli occhi nel farsi strada in quel piccolo vuoto. Sentì il respiro caldo di Suguru sbattere sulle labbra, poi di nuovo il fresco vento e a quel punto aprì gli occhi. Lui aveva torto il collo sottraendosi a quel bacio.
 
– È per colpa mia, vero? – chiese Ayame con voce roca, sommessa, quasi introspettiva. Si alzò di scatto fremendo dall’imbarazzo e si accostò al parapetto della terrazza. Ora non sembrava più Ayame ma una sagoma nella penombra dai contorni a malapena sfumati di una luce opaca, come se intorno le si fosse formato un alone o un’aura simile a quella di uno spettro.
 
Si chiuse nelle spalle e si abbracciò. – È colpa di questa disgustosa energia malefica, vero? – e cominciò a singhiozzare: debolmente dapprincipio, poi salendo d'intensità e scoppiando in un pianto ritmato. – Questa schifosa energia malefica che non verrebbe via nemmeno se mi strappassi la pelle - a
ggiunse tra le lacrime.
 
Si conficcò le unghie nelle braccia per scorticarsi. Si odiava e odiava quella stronza di natura che l’aveva fatta nascere così com’era, vergognosamente debole e diversa, come lo era stato suo padre in una famiglia di stregoni. Fu allora che due braccia forti la strinsero e la fermarono.
 
S’intromise tra i singhiozzi una voce paziente e zuccherina come quella di un adulto che cerca di placare il pianto disperato di una bambina. – Sei proprio una stupida – disse lui teneramente. La cullò tra le braccia portandosi la testa di Ayame al petto ma il suo singhiozzare, ora incalzante, non accennava a calmarsi. - Ogni volta che ci vediamo non fai altro che piangere. Per favore, basta -.
 
A quel punto, le cose cominciarono a svolgersi con una lentezza quasi sovrannaturale. Suguru le prese il viso tra le mani e le baciò la fronte. – Basta – mormorò. Le baciò le ciglia bagnate di lacrime e poi la guancia salata.
 
- Sono disgustosa – piagnucolò Ayame rumorosamente, forse troppo sconvolta per accorgersi delle labbra di Suguru stampate sulla pelle.
 
- Non dire stupidaggini – la riprese lui con voce tenue, dolce. Le baciò un angolo della bocca, poi le labbra tremanti e asciutte. E i singhiozzi tacquero.
 
Ayame accolse con meraviglia quel bacio: dischiuse le labbra in una sincronia perfetta con quelle di Suguru. Le assaggiò come si farebbe con un frutto proibito e scoprì che le piaceva, ‘dio se le piaceva, proprio come se l’era immaginato. Il sapore un poco amaro del tabacco e quello dolciastro del vino, che mai avrebbe scommesso si sarebbero amalgamati alla perfezione, si mescolavano armoniosamente nella bocca di lui e passavano in quella di Ayame che nel frattempo lo baciava avidamente.
 
Lui avanzò mentre lei seguì il suo passo arretrando. Incontrò il parapetto dietro di sé, vi si accostò con il fondoschiena e Suguru la serrò al suo corpo aprendo le braccia e appoggiando le mani al davanzale del parapetto.
 
Era sbagliato. Era tutto sbagliato. I loro incontri segreti erano sbagliati. Provare sentimenti per una senza poteri era sbagliato. Smettere per un attimo di rincorrere il proprio sogno e sognare lei era sbagliato. E improvvisamente pensò di doversi fermare ma la lingua di Ayame era già nella bocca in una danza di carezze e sfregamenti con la sua a fargli sentire il paradiso, sempre che ce ne fosse stato uno per un bacio passionale come quello.
 
Suguru avvertì le mani di Ayame aggrapparsi a lui. Si teneva per non darla vinta alle ginocchia molli, per non crollare, perché sorreggersi a lui era lo stesso che restare appigliati alla concretezza della vita e non più a delle ingenue fantasie. Ed era meravigliosa quella vita; era gentile e sensuale e profumava di tabacco, oltre che di quell’odore di casa che subito le fece venire in mente la camicia appesa al pomello dell’armadio, ma soprattutto era reale.
 
Le labbra si separarono da quel bacio tanto lungo da togliere loro il fiato. Gli sguardi si incontrarono nell’attesa, sospesi tra l’esitazione di lui e l’ardore di lei. Un’esitazione che Ayame notò sfrecciare nelle iridi violette di Suguru come una cometa e poi sparire. Ma non se n’era veramente andata. Suguru aveva semplicemente chiuso gli occhi. La baciò di nuovo, le succhiò le labbra, corrodendosi dentro per resistere dal distenderla sulla coperta e amarla sotto quel cielo di una notte qualsiasi.
 
Poi un fischio frusciante, basso all’inizio e acuto alla fine, esplose frizzando in una miriade di altri suoni sottili, come se una gigantesca bolla di sapone fosse d’un tratto scoppiata nel cielo, e spezzò quel bacio. Alzarono gli sguardi, stretti l’uno all’altra come due metà inseparabili, e una pioggerellina di colori sgargianti scintillò nei loro occhi. Erano i colori dei fuochi d’artificio; anche il Tanabata di quell’anno stava giungendo al termine.
 
- Io… dovrei andare – esordì Suguru con tono esitante, contrario a volersene tornare al tempio ma costretto da quello stesso limite che era soltato slittato convenientemente un poco più in là rispetto a quanto si era promesso all'inizio, e non proprio eliminato del tutto. Non era possibile rimuovere completamente quel limite.
 
- Va bene – annuì lei con una nota di disincanto nella voce.
 
Lo accompagnò alla porta che dava sulla terrazza. Suguru chiuse la mano attorno alla maniglia ma si girò di spalle per guardare Ayame un’ultima volta. Lei si sollevò sulle punte dei piedi e gli fece indossare il cappuccio della felpa sulla testa: il ciuffo d’ebano oscillò brevemente davanti al viso. – Non deve vederti nessuno. Voglio che resti al sicuro -. Quella sera Suguru aveva stranamente scelto di raccogliere i capelli come faceva da adolescente e a lei sembrò che il tempo avesse fatto un enorme balzo all’indietro.
 
Lui accennò un sorriso; non sapeva se di gratitudine, di tenerezza o di che altro sentimento gli frullasse dentro in quel momento. – Verrò a trovarti la prossima settimana. Lunedì hai da fare? -. Al di sopra delle loro teste i fuochi erano prossimi alla conclusione.
 
Ayame scosse il capo in un debole gesto di negazione. – Riuscirò prima o poi a invitarti a cena? – propose mordendosi l’interno della guancia, pregando per un sì.
 
- Si può fare. Dammi solo un altro po’ di tempo -.
 
Ayame annuì un’altra volta. – Va bene -. Lo prese per le estremità del cappuccio, lo avvicinò a sé e gli stampò un bacio sulle labbra per saluto. Per l’ultima volta, sotto quel cielo stellato di una notte qualsiasi, le loro labbra si dischiusero, chiudendosi poi con una sincronia perfetta.





 
Salve a tutti! Di solito non mi dilungo con le chiacchiere ma questa volta vorrei spendere due paroline per questo capitolo.
Anzitutto, spero vi stiate godendo le vacanze. Io sono al mare ma non riesco proprio a fare a meno di scrivere quando ho un po' di tempo.
A chi spera di leggere qualcosa su quel poveraccio di Satoru (tranquilli, ci sarà) e che non è ancora praticamente mai comparso dall'inizio di questa storia, voglio dire di non preoccuparvi e di resistere perché nel prossimo capitolo farà la sua apparizione. Diciamo un po' insolita ma lo farà. Sinceramente avrei voluto mettere il pezzo già in questo capitolo ma stava diventando troppo lungo e sto cercando di scrivere i capitoli più o meno della stessa lunghezza. Perdonatemi!
Quanto al resto del capitolo, non ho niente da dire. Dovreste essere voi a dirmi qualcosa xD
Ma vabbè, pace.
Buona lettura e alla prossima!

 

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Capitolo 7
*** Amarsi ***



Marzo 2004

Masamichi Yaga sollevò lo sguardo all’aprirsi cauto della porta dell’aula. Un ragazzo dal fisico slanciato entrò a un cenno del capo e si avvicinò con passo deciso alla scrivania dove sedeva il professore: stringeva al petto una cartella blu a rilegatura rigida.
 
- Ecco i rapporti di oggi, Professor Yaga – gli passò il fascicolo.
 
Yaga lo depose sulla scrivania, lo aprì e cominciò a scartabellare le pagine in ordine sparso. Il sunto era che nel distretto di Kabukicho, il cuore a luci rosse per eccellenza di Tokyo, erano state segnalate due maledizioni di secondo livello inferiore, non proprio una bazzecola, e un altro paio di maledizioni di terzo livello nel quartiere di Akihabara. L’ultima, stando al rapporto stilato dall’assistente di direzione Jiro Hasegawa, e quella per cui sarebbe stato necessario l’intervento di uno stregone di primo livello, era stata avvistata nei pressi del Tokyo Dome e lì sì che erano dolori.
 
- Qui dice che le maledizioni scoperte a Kabukicho sono opera tua -. Gli occhi scuri, nascosti dietro un paio di lenti da sole, passarono dal dossier al ragazzo in piedi di fronte alla scrivania e spuntarono da sopra gli occhiali a guardarlo con aria fosca. – Shoto Ishikawa – e cominciò il suo predicozzo – che diavolo ci facevi in un quartiere a luci rosse nel cuore della notte?! -.
 
- Non è come sembra prof! – si difese il ragazzo arrossendo di vergogna.
 
L’uomo grugnì sommessamente e a lungo. – Invece di andartene in giro a cercare di tua volontà le maledizioni, limitati a segnalare soltanto quelle che incontri per caso. Non c’è da andarci leggeri quando si tratta di maledizioni e tu sei non sei uno stregone, ricordatelo! -.
 
Shoto abbassò gli occhi desolato. Con quella predica Yaga aveva centrato uno dei suoi punti più deboli. – Lo so – rispose con amarezza. – So di non essere uno stregone -.
 
La tensione si allentò quando Yaga tirò un sospiro di rassegnazione e gli parlò ancora, questa volta con un tono più morbido e meno paternalistico. – Capisco che ti senti coinvolto, tua madre è uno stregone e tu vedi le maledizioni, ma non devi mai abbassare la guardia, hai capito? - e vide il ragazzo annuire animatamente senza fiatare.
 
- Per oggi hai finito? -.
 
- Sissignore – mormorò Shoto, ancora ferito dall’essere stato ripreso per la sua imprudenza. Imprudenza giustificata dal semplice fatto di amare perdutamente il mondo dell’occulto; un mondo che per un soffio lo aveva mancato. Non gli bastava trovarsi al confine tra il normale e l’occulto. Non gli bastava essere solo una “finestra”. Voleva di più; voleva starci in mezzo del tutto.
 
- Torna a casa e prepara la valigia. Domani andremo fuori Tokyo per un paio di giorni. Diciamo pure che ti sei meritato una gita alle terme – disse il professore chiudendo il fascicolo. Lo mise nel cassetto della scrivania e si alzò per dare una pacca paterna sulla spalla del giovane.
 
L’altro lo guardò meravigliato come un bambino a cui era stato promesso un giro a Disneyland o nel negozio di dolci più grande del mondo. – Ma chiedi prima a tuo padre, intesi? -.
 
- Certamente! – esclamò con fare esaltato.
 
- Avevo comunque già preso i biglietti anche per te. Ci vediamo domani alle otto alla stazione di Tokyo e non fare tardi – lo ammonì un’ultima volta.
 
- Grazie prof, sarò puntualissimo -. Shoto si congedò con un inchino.


 
***


Satoru Gojo arrivò per ultimo all’appuntamento delle otto, in ritardo. Nella sua flemma distinta, l’andatura oscillante e con le mani puntualmente infilate nelle tasche dei pantaloni, raggiunse il Professor Yaga e una seconda persona sconosciuta gustandosi da lontano la scena dell’insegnante spazientito che nel frattempo lanciava fiamme dagli occhi.
 
- Razza di pelandrone! -. Yaga lo accolse con i dovuti rimproveri, già esausto per come sarebbe stato fare da insegnante a un tipo sfaticato come lui, l’anno prossimo. Confidò sulla serietà del suo secondo studente: il ragazzo che stavano andando a incontrare.
 
Yaga lo conosceva già. Diverse volte era andato a fargli visita per parlargli dell’Istituto di Arti Occulte. Aveva scoperto il suo talento puramente per caso durante uno dei suoi numerosi viaggi negli angoli più sperduti del Paese. Era un giovane un po’ ombroso, schivo, dall’infanzia non proprio rosea e di umili origini. Viveva a Kitakami, nella prefettura di Iwate, in un villaggio ai piedi delle montagne dove l’inverno inclemente e selvaggio non dava tregua per quasi quattro mesi l’anno. Il villaggio era noto per le sue sorgenti termali e per una stazione termale, la Geto Onsen, accessibile solamente in primavera e in estate, quando le temperature salivano, e da generazioni di proprietà della famiglia del ragazzo. L’incontro serviva a far conoscere i due futuri studenti.
 
- Se pensi di poter mantenere questo atteggiamento nella mia classe, l’anno prossimo, ti sbagli di grosso! – gli ringhiò contro Yaga.
 
- Va bene, ho capito. Che palle – si lagnò il giovane quattordicenne. Uno sbadiglio gli si ruppe in gola quando la manona del professore lo punì assestandogli una bella sberla educativa sulla spalla.
 
- E saluta, maleducato che non sei altro – rimbrottò Yaga. Gli piazzò una mano sulla testa arruffandogli i capelli e lo costrinse a inchinarsi.
 
- Gojo Satoru, piacere – si presentò tiepidamente.
 
- Il piacere è mio – rispose Shoto con un sorriso cordiale ma interdetto. – Io sono Ishikawa Shoto – disse ma Satoru lo liquidò sull’ultima sillaba con una voce apatica, disinteressata.
 
- Sì, sì, va bene – agitò pigramente la mano e rivolse gli occhi cristallini al professore. – Dov’è che stiamo andando? -.
 
Sull’orlo di una crisi di nervi, Yaga fece un respiro profondo. – Te l’ho già detto migliaia di volte. Stiamo andando a Iwate a conoscere il tuo futuro compagno di squadra -.
 
- Ah già – bofonchiò Satoru. Puntò il pollice verso il ragazzo. – E lui che cosa c’entra in questa storia? È solo un inutile senza poteri – commentò con disdegno, quando una seconda sberla educativa volò questa volta mirando alla testa.
 
- Disgraziato! Porta rispetto a un senpai! E adesso scusati! -.
 
Satoru borbottò qualcosa a bassa voce, poi porse controvoglia un mezzo inchino tanto per fare scena. – Scusa Sota, o come ti chiami – e si rivolse a lui informalmente.
 
- Gojo Satoru! – sbottò il professor Yaga. L’intervento tempestivo di Shoto impedì l’alzarsi di un'altra sberla educativa.
 
- Non si preoccupi, professore – e rise nervosamente agitando le mani davanti a sé. – Effettivamente potrebbe aver ragione -.
 
Yaga ribatté sulla difensiva. – Ti ho portato con me per premiarti del duro lavoro con una gita fuoriporta e non dare ragione a questo screanzato! -.
 
Partirono. Per Satoru furono le tre ore più lunghe della sua vita, spese a guardare fuori al finestrone dello Shinkansen palazzi che si alternavano a distese di fitta vegetazione, finché il paesaggio non si ridusse al solo sottobosco; tanto, nauseante, noioso sottobosco.
 
Aveva appena toccato il punto più profondo del suo sonno quando Yaga lo svegliò con uno scossone: quello che si meritava. Trasalì e guardò il responsabile con sguardo glaciale, di per sé glaciale per il colore, ma il professore non si lasciò intimidire e lo affrontò a brutto muso.
 
- Hai qualcosa da dire? -.
 
Il giovane Satoru sbuffò con espressione piccata e scrollò le spalle. Sbuffò per un’altra ora, questa volta stravaccato sul sedile di un taxi. Rimase costantemente sulle sue come se il resto gli fosse del tutto estraneo o persino superfluo. C’era lui e solo lui. Era sempre stato così sin da bambino. Il pupillo del clan Gojo, il figlio prodigio, il miracolo.
Non aveva interesse per altro al di fuori di sé stesso; niente attirava la sua attenzione a meno che non fosse conveniente per lui. Era come un principe annoiato dal mondo; futuro re di quello stesso mondo insignificante, incolore, monotono.
 
Arrivarono a destinazione. Satoru scese dal taxi e si sgranchì le gambe particolarmente lunghe, considerata la sua età, mentre uno sbuffo soffocato gli colava dalle labbra. Udì il vocione di quel rompiscatole di un professore rumoreggiare alle spalle. Quel suo tono cavernoso faceva sembrare ogni parola una filippica.
 
- Ishikawa, tu puoi andare a rilassarti. Noi ti raggiungiamo più tardi. Gojo, tu vieni con me – disse Yaga spostando lo sguardo da uno all’altro ragazzo: il primo annuì con accondiscendenza; il secondo storse la bocca in una smorfia di malavoglia e ruotò gli occhi al cielo. Quell’atteggiamento gli costò l’ennesima sberla educativa. A quel punto, la bocca del giovane emise un sonoro “che palle!” che quasi quasi fece salire a Yaga la voglia di assestargliene un’altra.
 
- Evidentemente la tua famiglia non te ne ha date abbastanza – commentò il professore sospingendolo davanti a sé per farlo camminare. Persino la sua andatura indolente era capace di fargli saltare i nervi. Satoru infilò le mani nelle tasche e si arrese alle sollecitazioni manesche del prof.
 
L’abitazione della famiglia Geto era situata proprio accanto alla stazione termale e fu lì che trovarono il ragazzo. Se ne stava seduto sull’ultimo scalino di legno che dava esternamente sulla porta d’ingresso con i gomiti puntellati alle ginocchia e le gambe piegate al petto.
 
Satoru notò subito che aveva il labbro inferiore spaccato da un lato e un ciuffo ridicolo che gli pendeva davanti alla faccia. Non perse tempo e ci andò giù col sarcasmo.
 
- Ma cos’è quel ciuffo? Non dirmi che sei uno di quegli emo depressi che si taglia le vene perché nessuno lo comprende. Fa’ vedere -. Satoru gli afferrò il polso e l’altro lo ritrasse bruscamente divincolandosi.
 
Suguru lo guardò livido in volto e rispose alla provocazione con un’altra provocazione. – E che mi dici di te? Hai fatto un tuffo nella candeggina? -. Il giovane gli lanciò un’occhiata tagliente; tagliente come lo erano i suoi occhi, caparbi e strafottenti, di un violetto vivo e brillante. A Satoru parve che avesse due gemme incastonate negli occhi.
 
- Vuoi forse fare a botte? – lo istigò Satoru facendo scrocchiare le dita. Notò una chiazza nera comparire alle spalle del ragazzo; questa si espanse il tanto che bastava a far spuntare il muso di un enorme drago.
 
- Con immenso piacere – replicò l’altro in tono di sfida. Rimase seduto.
 
Gojo scattò istintivamente all’indietro alla vista del drago e strabuzzò gli occhi, piacevolmente sorpreso ma anche un po’ intimidito dal talento di quel ragazzo. A soli quattordici anni possedeva già nel suo arsenale una maledizione di così alto livello, il noto “Drago Arcobaleno”, ed era impossibile per lui capacitarsi di come avesse fatto a trovarla, a vincerla e ad assorbirla.
 
Satoru attivò il Minimo Infinito. Non gli riusciva ancora in maniera fluida e gli ci volle qualche secondo per innescare la tecnica. Nel frattempo, il corpo del Drago Arcobaleno era già fuori dal portale di quasi la metà della sua lunghezza.
 
Yaga si mise celermente in mezzo. Il Drago Arcobaleno scomparve e la tecnica del Minimo Infinito si disattivò. Afferrò un giovane per il braccio e l’altro per la maglietta e li immobilizzò tenendoseli stretti sotto le braccia, uno da una parte e uno dall’altra. Le loro teste sbucavano immusonite da sotto le ascelle del professore. – Idioti! – tuonò serrando la presa per togliere loro qualche secondo d’aria. – Non siete altro che due teste calde! -.
 
I due giovani si dibatterono ma inutilmente. Tentarono persino di mandare a segno qualche cazzotto ma Yaga li stritolava senza il minimo riguardo ogni volta che un pugno menava l’aria. – Piantatela! -.
 
Suguru rinunciò per primo: sollevò le braccia e aprì le mani in segno di resa. Per Gojo ci volle qualche minuto prima che la rabbia passasse e le guance imporporate tornassero del loro colore candido. Yaga liberò prima un ragazzo e poi l’altro ma rimase nel mezzo nel caso fossero venuti nuovamente alle mani.
 
Sospirò con la pazienza ormai sottile come cartapesta. – Potreste per favore fare le vostre presentazioni come due persone normali? – si strofinò il viso sfiancato da quell’uragano di egocentrismo e irascibilità di nome Satoru Gojo, e ora anche dal giovane in cui aveva erroneamente riposto la speranza di trascorrere un anno scolastico in parziale tranquillità. Fu colto da un inizio di gastrite al pensiero che il suo terzo studente potesse essere una copia sputata di quei due o, che dio lo avesse in misericordia se fosse stato così, una combinazione dei loro lati peggiori.
 
- Mi chiamo Geto Suguru – disse il giovane a mezza bocca e tese il braccio verso l’altro ragazzo sicuro di beccarsi uno smacco da quell’albino arrogante. Satoru lo sorprese e gli strinse la mano. La sua non era stata un’espressione delle più amichevoli: lo aveva guardato col muso lungo, accigliato e con la faccia sostenuta di chi pensa di aver vinto in qualsiasi caso, eppure, al tempo stesso, aveva saputo tacitamente riconoscere le doti del suo avversario. Si era persino azzardato a credere che fosse al suo stesso livello. Assurdo.
 
Gliela strinse sinceramente, soddisfatto di aver finalmente trovato un degno rivale. No, un degno compagno di squadra. – Piacere, io sono Gojo Satoru -.

 
 ***


Suguru non conobbe mai Shoto durante quel fine settimana a Kitakami o se ne sarebbe ricordato, contrariamente alla memoria precaria di Satoru, il quale lo aveva irrispettosamente continuato a chiamare “Sota” nel poco tempo trascorso insieme. Lo aveva soltanto incrociato una volta mentre lasciava le terme e attraversava la strada per recarsi all’alloggio messo a disposizione per i tre visitatori. Si erano scambiati un inchino silenzioso, poi ognuno aveva preso la sua strada.
 
E se adesso, nel presente, Suguru avesse saputo chi era quel senza poteri dai capelli corvini e gli occhi blu come zaffiri, una fotocopia di Ayame a pensarci, avrebbe provato non pochi rimorsi per essersi lasciato scappare quel ragazzo. Sapendolo avrebbe pensato che, se fossero diventati amici, forse lui avrebbe potuto proteggerlo ed evitare il suo assassinio. Se fossero diventati amici, forse Shoto lo avrebbe invitato a casa sua per passare del tempo insieme e lì avrebbe conosciuto Ayame.
 
Avrebbe pensato che, se avesse conosciuto Ayame, con molta probabilità se ne sarebbe innamorato nel giro di poco e che, se lei avesse ricambiato il suo amore, avrebbero potuto mettersi insieme come normalmente fanno due quattordicenni, tra bigliettini smielati, regalini di coppia e cioccolatini.
 
Avrebbe pensato che, se Ayame fosse diventata la sua ragazza, conoscendola ora, lei avrebbe insistito per visitare la sua terra natale e alla fine lui avrebbe accettato, ma con non poche riserve, di portarla con sé al villaggio. E lì l’avrebbe coraggiosamente baciata per la prima volta nel fienile dietro casa, tra la paglia pungente e il lamento gracchiante delle cicale.
 
E sarebbero cresciuti insieme; si sarebbero amati per quello che erano, uno stregone e una senza poteri, accettandosi l’un l’altro per ciò che loro stessi non potevano accettare di sé. E lui l’avrebbe salvata dal suo destino di Ventre senza mai, nemmeno di sfuggita, dubitare del proprio dovere di stregone e restando fedele a sé stesso. Sarebbe rimasto uno studente; si sarebbe diplomato; avrebbe fatto da insegnante per le future generazioni e alla fine si sarebbe sposato con Ayame; avrebbero avuto dei figli, forse due o forse addirittura quattro, amandosi sempre come il primo giorno.
Avrebbe potuto, sì. Ma questa, ahimè, è un’altra storia.
 



 


Suguru e Ayame si incontrarono ancora e poi ancora, due volte alla settimana come lui le aveva promesso. Il lunedì del loro quarto incontro era accaduto qualcosa che aveva in definitiva sciolto il dubbio che lo assillava dal giorno in cui l’aveva vista al tempio.
Suguru era andato a trovarla nell’appartamento di Ayame come al solito, alla stessa ora per circa due ore, dalle dieci a mezzanotte, così da non abituarsi a stare troppo con lei e da non dover esagerare con le bugie nel caso qualcuno della sua famiglia avesse chiesto perché fosse rimasto fuori tanto a lungo. Comodamente seduti sulle poltrone sistemate per l’occorrenza sulla soglia del terrazzino di casa, avevano parlato di Satoru.
 
- Ti manca? – aveva chiesto lui dubitando fortemente di voler conoscere la risposta.
 
- Certo che mi manca -. Ayame aveva abbozzato un sorriso alla luna, tonda e lucente come una moneta d’argento nel cielo.
 
- Allora perché non torni da lui? -.
 
- Perché non voglio – aveva risposto in breve, ma poi aveva capito che Suguru meritava di più di una semplificazione come quella; che loro meritavano di più.
 
– Prima della fusione scrissi una lettera a Satoru – aveva confessato. – Se devo essere sincera, avevo intenzione di scrivere una lettera sia a te che a lui ma alla fine ho dovuto lasciar perdere a metà dell’opera. L’idea di guardarmi dentro per scoprire cosa avrei voluto dirti mi terrorizzava. Se avessi capito di provare qualcosa anche per te, cosa ne sarebbe stato dei sentimenti che provavo per Satoru? Sarebbero forse diventati un’enorme bugia? Non volevo che lo diventassero e alla fine ho dovuto fare una scelta. Ho preferito evitare di scoprire quali erano i miei sentimenti per te per concentrarmi su quelli che provavo per Satoru. In fin dei conti, è inaccettabile provare qualcosa per due persone contemporaneamente, no? È sbagliato. È immorale. Non volevo essere come quelle stupide adolescenti che non sanno decidersi e che si gettano tra le braccia di uno o dell’altro a seconda di come fa loro comodo anche se forse, a pensarci – e aveva riso seccamente – è andata proprio così -.
 
- Satoru ha sempre messo davanti il proprio orgoglio e io per tenergli testa dovevo tirare fuori il mio. Non siamo mai stati veramente sinceri l’uno con l’altra. L’unica volta in cui abbiamo messo da parte il nostro orgoglio e siamo stati sinceri è stato quando abbiamo fatto l’amore, ma poi le cose sono tornate come prima. Satoru ha rinunciato a me per restare fedele a sé stesso e io ho rispettato la sua scelta. Non so che tipo di uomo sia oggi ma so che io sono cresciuta e so che cosa voglio adesso. E quello che voglio è scoprire quali sono i miei sentimenti per te, Suguru -. Poi era strisciata in punta alla poltrona per sporgersi e baciarlo con tenerezza, lentamente e a lungo, per la prima volta durante quella serata. E Suguru aveva compreso perché avesse perso la testa per lei, tanto seriamente da non averla più ritrovata nemmeno dopo sette anni spesi a convincersi di aver fatto la cosa giusta a fingere che fosse morta: la sua forza. Quando Ayame amava qualcuno diventava la donna più forte che avesse mai conosciuto.
 
 
Continuarono a frequentarsi regolarmente e in men che non si dica trascorse un mese e mezzo. Dopo tre settimane, e senza che avessero mai toccato l’argomento, entrambi iniziarono a preoccuparsi delle precauzioni nel caso in cui tra chiacchiere e baci si fosse intromesso il tempo per il sesso. Suguru iniziò portando un preservativo sempre con sé; Ayame riprendendo il ciclo di pillole anticoncezionali smesso solo un paio di mesi prima di ritrovarsi con Suguru. Ma non successe niente. Le intenzioni c’erano eccome; più che intenzioni erano vere e proprie voglie tempestose ma era il tempo a disposizione a mancare, perché due ore non bastavano per amarsi.
 
Verso la fine di agosto, nel giorno dell’anniversario della morte di Shoto, Ayame si recò a Otsu per trascorrere un paio di giorni al lago Biwa nella vecchia casa di suo nonno, eredità della famiglia Ishikawa. Quella sera la raggiunse Suguru in sole due ore e mezza di volo, viaggiando in groppa a una delle sue tante maledizioni: un enorme pellicano tra gli otto e i dieci metri. Arrivò per l’ora di cena e la trovò a fare il bagno in quello che sapeva essere il suo posto preferito. Com'era già accaduto in passato, Ayame dovette tempestarlo di richiami per convincerlo a unirsi a lei.
 
Dopo una lunga nuotata tornarono indietro e raggiunsero il villaggio. Delle venti famiglie che avevano abitato la riva meridionale del lago al tempo in cui Ayame trascorreva l’estate con la famiglia ne erano rimaste solamente cinque. Le case avevano ormai quasi tutte l’aspetto di piccole carcasse di legno, salvo quelle delle famiglie sopravvissute. Lo stesso valeva per la casa di Soichiro Ishikawa, il nonno di Ayame morto ormai da decenni, mantenuta in buono stato dal padre di Ayame e poi da lei stessa, purtroppo con meno frequenza.
 
Suguru fece una doccia su invito di Ayame. U
scendo dal bagno della camera la trovò seduta al centro del letto a spazzolarsi i capelli: indossava un vestito turchese con le spalline.
 
- Resti per cena? – suggerì lei con voce suadente. Osservò come la mano venosa di Suguru stringeva l’asciugamano per tenerlo avvolto alla vita e tra le gambe avvertì una soffice scossa. E quei rivoletti d’acqua che dal collo scendevano fino al ventre navigando i muscoli in bassorilievo le misero improvvisamente sete.
 
- Sì, anche se mi dispiace dover mentire alla mia famiglia -.
 
- È colpa mia se devi farlo, perciò se non te la senti… -.
 
- No – s’intromise lui, poi si mise a sedere sul letto. – Te lo avevo promesso e voglio farlo -.
 
Le aveva raccontato della sua nuova famiglia durante uno dei loro appuntamenti. Le aveva parlato in particolare delle gemelle, di quando e come le aveva trovate e di come non era stato capace di lasciarle al loro crudele destino scegliendo di prenderle con sé e crescerle. Se la gentilezza di Suguru non si era inaridita col tempo era stato per merito loro.
 
- Va bene – mormorò lei di rimando. Gattonò alle sue spalle, gli baciò un punto della schiena nuda e imperlata di acqua e vi posò la guancia rinfrescandosi. – Grazie -.
 
Suguru si sentì trapassare da un fremito: il pensiero di essere nudo vicino ad Ayame, nello stesso letto e con la sua pelle incollata addosso. Torse la schiena e si voltò a guardarla.
 
- Che c’è? – domandò Ayame con un filo di voce. Lui non rispose. La mano libera di Suguru salì a tuffarsi nei capelli del suo collo e la baciò sulle labbra.
 
Lei gli sciolse i capelli raccolti alla nuca e lo sospinse dolcemente all’indietro. La schiena di Suguru si lasciò andare contro il cuscino; la bocca perennemente congiunta a quella di Ayame. Quando Suguru stese le gambe sul letto Ayame si sedette sopra di lui e il pene gli diventò duro di colpo, attraversato capillarmente da sottili fitte di dolore.
 
Un lamento gli sfuggì di bocca al separarsi delle loro labbra e lei intuì cos’era stato a provocarlo. Lo percepiva distintamente sotto la gonna, tra le gambe, e premeva su quell’asciugamano che le dita di Suguru continuavano testardamente a stringere.
 
Ayame si prese una pausa da tutto per ammirarlo. Il petto ampio si alzava e si abbassava rapidamente; i muscoli in tiro erano visibili da sotto la pelle e guizzavano come lampi; il viso era spolverato di timidezza ed eccitazione; le labbra fremevano per i sospiri che montavano dalla gola e il violetto dei suoi occhi si era fatto limpido e accecante: rifulgeva nell’alito di polverosa luce giallognola emesso dal vecchio lampadario della camera.
 
Lo toccò. Ripercorse con le dita la vena che dal collo correva sotto la pelle attraversando la spalla fino al braccio e fermandosi dove la vena si inabissava nel polso. Gli accarezzò i muscoli addominali giocando a contarli uno ad uno, passandovi con le dita nel mezzo e poi sopra, e poi ancora attorno. E Suguru si lasciava toccare ma con grande sforzo a restare calmo e immobile. Era come se Ayame se lo stesse vivendo per la prima volta in assoluto; come se quanto aveva toccato di lui prima di quel momento non fosse mai stato reale o, meglio, sufficientemente reale. Lo aveva toccato nei pensieri, nei sogni, ma mai nel tanto ambito piano del tangibile dove le scelte di entrambi, la scommessa di un amore per lei e di un nuovo mondo per lui, li avevano tenuti lontani.
 
Lui volle viversela al suo stesso modo. Le tolse il vestito scoprendo due seni tondi, pallidi e sodi, rosseggianti sulle punte. Si chinò in avanti, Ayame accolse il suo viso al petto, e chiuse gli occhi come per odorare la pelle vellutata di lei. Raccolse uno dei seni sul palmo come un frutto succulento e lo baciò. I capezzoli di Ayame erano duri e sporgenti, dannatamente invitanti. Le labbra di Suguru si chiusero ingorde attorno a quella piccola ciliegia matura e Ayame mandò un gemito; forse per la sorpresa, forse per il piacere o forse per entrambe le cose. Suguru sentì le cosce di Ayame contrarsi.
 
Le passò un braccio attorno alle spalle, la fece girare e stendere sul letto, con lui che adesso la guardava dall’alto. Le dita avevano rinunciato a reggere l’asciugamano e questo era scivolato giù dalle natiche di Suguru nello scambiarsi di posto.
Era interamente nudo sopra di lei, duro dappertutto; i capelli morbidamente scesi ai lati del viso. Anche la chioma di Ayame si era lasciata andare sotto la testa e si era sparsa attorno al suo viso come grosse radici di un esile albero tingendo il cuscino di nero.
 
Con entrambe le mani le accarezzò i fianchi, poi le tolse gli slip di pizzo. Si chiese istintivamente da quanto tempo Ayame indossava quella biancheria sexy e da quanto sognava di mostrargliela prima che lui se ne sbarazzasse.
 
- Ho dimenticato il preservativo nei pantaloni. Vado a prenderlo – mormorò facendo per scendere dal letto ma Ayame lo afferrò per un braccio.
 
- Possiamo farlo senza, se vuoi. Sto prendendo la pillola – propose lei sottovoce. Si era improvvisamente rimpicciolita dalla timidezza.
 
Cazzo. Senza preservativo era tutta un’altra storia. Senza preservativo significava raggiungere l’acme del piacere, quello autentico e non filtrato da scomodi ma necessari metodi contraccettivi. Senza preservativo voleva dire toccarla con la propria pelle e venire direttamente dentro di lei. Niente di così diverso da quello che succedeva con Manami, tecnicamente, e invece assolutamente diverso, perché era prossimo ad amarla di nuovo; a rinnamorarsene.
 
Suguru annuì piano. La baciò piano. La penetrò piano. Si amarono a lungo, con il tempo che lentamente si scioglieva attorno a loro sfuggendo alla percezione. Si amarono dimenticandosi di essere Suguru lo “stregone nero” e Ayame la “senza poteri” e limitandosi alla sola esistenza reciproca, senza più distinzioni o limiti, ripensamenti o timori. Regredirono a due semplici anime uguali in tutto.
 
Suguru amò Ayame più di quel mondo che era determinato a raggiungere, pur non rinunciando all’idea di realizzarlo. E per la prima volta Ayame amò sé stessa, la donna a cui Suguru aveva scelto di donarsi, e amò lui per averla accolta nel suo cuore.



 
Allooooora... anzitutto salve a tutti. Scusatemi se mi dilungo anche questa volta con le chiacchiere d'autrice ma in questo caso sono piuttosto doverose. 
Per prima cosa vorrei farvi delle anticipazioni che si legano a quanto dovrei dirvi riguardo alla prima parte della storia. L'anticipazione è che con molta probabilità l'altra storia, quella su Geto, resterà sospesa. Ho preferito inserire alcune delle idee che avevo per quella storia in questa, che è la principale ed è il progetto più grande che sto scrivendo. Non so se l'altra la riprenderò, un giorno, ma so che voglio rendere questa storia più ricca possibile, anche sacificando progetti secondari. 
Con questa anticipazione mi riallaccio alla prima parte della storia. Anche in questa storia Suguru viene da un villaggio (è una cosa che sospetto in verità anche per l'opera originale ma si tratta solo di enormi, gigantesche ipotesi) ma in questo caso ho voluto essere più specifica e l'ho collocato dove Gege Akutami si è ispirato al suo cognome, ovvero le Geto Onsen, situate a Kitakami. 
Avrei dovuto mettere un sacco di asterischi per i riferimenti ma ho preferito evitare.
Un altro punto che vorrei toccare è la parte in cui Yaga scopre il talento di Suguru. In verità, dall'autore, sappiamo solo che Suguru è entrato all'istituto perché qualcuno ha scoperto il suo talento, ma non sappiamo chi effettivamente sia stato. Penso anche che il professore del primo anno di Satoru, Suguru e Shoko non sia stato Yaga, dato che era il loro professore al secondo anno, ma non sapendo chi sia mi sono limitata a scegliere Yaga come professore "fisso" per tutti i loro anni all'istituto. Il ragionamento mi è nato osservando Satoru. Quando Yuta è entrato all'istituto, Satoru era l'insegnante dei primini, e quando il gruppo di Yuta è passato al secondo anno, Satoru è rimasto l'insegnante dei primini (Yuji, Megumi e Nobara) anziché seguire gli studenti precedenti per tutti gli anni di istituto. Questo mi ha fatto pensare che, forse, il professore cambia ogni anno per gli studenti, mentre questo resta fisso all'anno a cui è stato assegnato (tipo Satoru che si occupa dei primini). E' irrilevante? Sì, ma siccome cerco di restare più fedele possibile all'opera su certi punti, preferisco fare chiarezza su alcune delle mie scelte. Ovviamente questo vale anche per il Drago Arcobaleno di Suguru, che non si sa quand'è che lo ha assorbito.
L'ultima precisazione è in verità una correzione. Quando dovetti pensare ad un luogo di origine di Ayame e Shoto mi venne in mente Kyoto per alcune ragioni che al momento non posso rivelarvi, però come una stupida non ho fatto una ricerca approfondita e ho scritto che il villaggio natale di Shoto e Ayame era nella periferia di Kyoto. Sbagliato! Si trova vicinissimo a Kyoto ma non è a Kyoto, bensì a Otsu nella prefettura di Shiga, perciò ho dovuto cambiare tutte le volte che nella storia ho scritto Kyoto, sostituendolo con Otsu. Vabbè, niente di irrimediabile insomma.
Per il resto... non so cosa dire. La storia tra Ayame e Suguru va avanti ma sapete meglio di me come andrà a finire.
Probabilmente il prossimo sarà l'ultimo incentrato su di loro. Non ne sono ancora sicura, ma è un indizio.
Insomma, spero che il focus su loro due non vi stia dando noia e mi rivolgo soprattutto agli amanti di Satoru. 
Okay, ho finito. Grazie a tutti per aver letto fin qui!
All prossima.


 

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Capitolo 8
*** Occhi viola; occhi azzurri ***



-  Mostro! -. Prima di quell’esclamazione Suguru sentì risuonare un acuto schiaffo e che poi si tradusse in una sferzata di pungente dolore alla guancia. La toccò e gli parve andare a fuoco.
 
Era la paura, si ripeteva. Suo padre non poteva vedere quell’orrenda faccia deformata, con tanti di quegli occhi piccoli e vitrei da far girare la testa, nascosta dietro lo sportello della cucina sopra al lavandino. E allora pensava che quella sua violenta reazione di aperto panico fosse l’unico modo di suo padre di difendersi.
 
Alle spalle del genitore, quella massa di occhi lo fissava e poi agitava pazzamente le pupille in tutte le direzioni nel momento in cui Suguru distoglieva lo sguardo.
 
Aveva quattro anni quando prese consapevolezza di essere diverso, di scorgere creature mostruose che altri non riuscivano a vedere né a sentire, e da due anni, dal giorno in cui si era fatto avanti e aveva confessato ai suoi genitori di vedere “cose”, suo padre lo puniva per questo. Ora ne aveva otto.
 
- Se non lo faccio sparire continuerà a crescere e ci farà del male – ribatté il piccolo Suguru affrontando suo padre. Lui gli assestò un altro manrovescio e Suguru indietreggiò barcollando.
 
- Piantala! Non vedi che stai spaventando tua madre?! -.
 
Lei sedeva al tavolo della cucina stretta nelle spalle e con la faccia devastata, sfinita dal ripetersi di quelle situazioni familiari che, anziché diminuire con il tempo, peggioravano. Quelli di Suguru non erano più scherzi innocenti sospettati inizialmente dalla madre per giustificare gli strani atteggiamenti del figlio ma veri e propri atti di terrorismo psicologico.
 
- Mamma devi credermi – insisté lui e la madre lo fissò con i suoi occhi vacui. Due sole lacrime le rigarono le guance.
 
Suguru si sentì afferrare per le spalle. – Vattene! Stanotte dormirai nel fienile. Va’ via! -. Il padre lo spinse a forza fuori dalla cucina; lo scuoteva violentemente ogni volta che sentiva levarsi una qualsiasi protesta da parte del figlio. Spalancò la porta di casa trattenendolo per il colletto della maglia e lo scaraventò fuori, giù per le scale, dove Suguru inciampò e cadde faccia avanti. Un sapore ferroso di sangue e terra gli esplose in bocca.
 
Cercò di rimettersi in piedi con una fretta spasmodica ma le gambe gli cedettero dalla paura. Le scale di legno cigolarono flettendosi sotto ai passi pesanti di suo padre e il terrore gli crebbe dentro a una velocità disarmante. Suguru strizzò gli occhi, i lacrimoni correvano giù copiosamente dalle guance bianchicce, mentre l'uomo scendeva impugnando il caro vecchio attizzatoio.



 
***


Suguru si svegliò nel letto di soprassalto in un grido soffocato. Aveva la faccia e il collo madidi di sudore. Il cuore scalpitava follemente nella gola e gli sembrò che fosse sul punto di vomitarlo.
 
Una mano calda gli toccò la spalla: era Ayame. – Ehi – esordì lei con voce soffice per rassicurarlo. – Tranquillo, è stato solo un incubo -. Gli accarezzò i capelli scostando quelli che gli si erano appiccicati al viso, poi gli si strinse al petto ad ascoltare il cuore di Suguru recuperare lentamente il suo ritmo naturale.
 
- Ti senti meglio? – chiese amorevolmente dopo un po’. Suguru fece di sì con la testa ma mentì.
 
L’attizzatoio. Pensava all’attizzatoio e si sorprese nel constatare, come del resto accadeva quando questo balenava tra i pensieri senza preavviso, con quanta facilità gli fosse rimasto ben impresso nella mente e non sulla pelle. Gli aveva sfregiato l’anima, questo era poco ma sicuro, ma mai la schiena che lo aveva preso tante di quelle volte da fargli perdere il conto. Questione di fortuna, credeva.
 
Si riteneva fortunato che suo padre lo impugnasse sempre dalla parte della punta, e mai dal manico, quando se ne serviva per dargliene di santa ragione e che non gli fosse mai venuto in mente di usarlo contro di lui dopo averci smosso le braci del camino per ravvivare il fuoco. Con molta probabilità, quella stessa fortuna risiedeva nella volontà di suo padre di mascherare le violenze domestiche, perché nessuno si sarebbe insospettito per qualche livido in faccia a un bambino di otto anni, facili da procurarsi da solo scorrazzando in aperta campagna; mentre nel caso di grosse cicatrici sulla schiena non avrebbe retto alcuna giustificazione. Ergo, gli schiaffi volavano molto più spesso e con più facilità dell’attizzatoio ma era quest’ultimo, questo bastardo, a perseguitarlo nel sonno.
E poi c’erano gli occhi di sua madre, talvolta inespressivi e imperscrutabili, altre traboccanti di rimorsi per aver dato alla luce un mostro come lui. Quelli sì che facevano male.
 
- Suguru? -.
 
Lui trasalì e rispose con un verso interrogativo. Si accorse che Ayame si era piazzata cavalcioni su di lui e che lo stava osservando con la testa inclinata da un lato, dalla stessa parte della bretellina del pigiama che le pendeva dalla spalla. – Avanti, dimmi che succede -. Le venne fuori un tono quasi esigente, non proprio entusiasta di doverlo costringere a parlare, ma aveva intuito che qualcosa non andava.
 
- Solo brutti ricordi – replicò lui in breve e Ayame volle accontentarsi.
 
- D’accordo - gli sorrise. – L’importante è che adesso stai bene -.

Suguru le sorrise di rimando. Era un dato di fatto: quando Ayame era così comprensiva, così abile a captare il suo malessere con quel suo inspiegabile talento di spiarlo dentro, ma poi così attenta a rispettare i suoi spazi, i suoi traumi, i crimini e le brutture, lui non sapeva resisterle.
 
Dalle imposte socchiuse della finestra alle spalle di Ayame entravano i primi colori dell’alba a stemperare il buio della stanza. Era una domenica di metà settembre. Lei si mosse per scendere dal letto ma i riflessi pronti di Suguru la presero in tempo, la capovolsero mentre un gridolino di sorpresa le sfuggiva dalle labbra e la immobilizzarono gentilmente sotto di lui.
 
- Suguru! – esclamò Ayame ridendo. – Ti sei ammattito? -. Si guardarono intensamente. Il blu e il viola delle loro iridi si incontrarono e parvero mescolarsi uno negli occhi dell’altra in un terzo e nuovo colore: un indaco.
 
La spallina del pigiama di Ayame pendeva ancora sul braccio e gli dava un assaggio di quel panorama che a breve, a giudicare dal rigonfiamento nei pantaloncini, si sarebbe aperto ai suoi occhi come una finestra su un deserto di sabbia bianchissima, dove il bianco stava per il colore della pelle di Ayame e le dune sabbiose i suoi teneri seni. E allora l’attizzatoio, le botte di suo padre, lo sguardo vigliacco della madre, le accuse di essere un mostro scomparvero come precipitando di nuovo negli abissi dell’inconscio, risucchiati allo stesso modo di quando si tira lo sciacquone per lavare via il vomito.
 
Nei suoi pensieri ora, c’era spazio solo per lei. - Ti va di fare l’amore? – propose piano nel suo orecchio. La risposta di Ayame si tradusse in un lento, frusciante sotto le lenzuola, divaricarsi di gambe.
 
Una mano finì sotto la veste da notte di Ayame, il deserto poteva attendere, per scendere verso il delta del suo sesso e toccarla. Lei gli passò un braccio attorno alle spalle, lo strinse e si lasciò andare a un gemito sommesso. Suguru la baciò sulle labbra e ansimò nella sua bocca al sentire il corpo di Ayame fremere di piacere.
 
- Suguru… -. Quel nome fuoriuscì come un soffio.
 
Avvertì in quel mormorio l’urgenza di Ayame di unirsi a lui e la spogliò ma senza fretta. Viceversa, lei si sbarazzò presto della maglietta di Suguru, poi lo baciò avidamente con le mani tuffate nei suoi boxer alla cupida ricerca delle sue natiche sode. Le afferrò, le strinse forte, le spinse verso sé e Suguru non capì più niente, eccetto che doveva averla e immediatamente.
I boxer volarono fuori dal letto tracciando un arco nel vuoto e precipitando da qualche parte sul pavimento. Scivolò dentro di lei.
 
Il sesso con Suguru aveva un che di trascendentale e non era quasi mai un “tutto e tutto assieme” ma una piccola scoperta alla volta. Lo facevano spesso, almeno una volta alla settimana, e non perché ci fosse poco altro da fare a starsene rinchiusi in casa tra le dieci e mezzanotte. Non che gli appuntamenti fossero ancora così sistematici, a ogni modo.
Dopo il sesso, Suguru restava a dormire da lei e rincasava il giorno dopo alle prime luci del mattino, anche se i giorni per vedersi continuavano regolarmente a essere due alla settimana e mai gli stessi.
 
Ayame gli si avvinghiò contro, dentro e fuori, contraendosi e poi sciogliendosi sotto di lui. Il suo corpo rispondeva servilmente al tocco e ai movimenti incalzanti di Suguru. Pareva implorarli, anzi pretenderli. Dal ventre di Ayame, colmo del pulsante piacere di Suguru, risalì un gemito di estasi echeggiante.
 
Le piaceva da impazzire. Tutto di lui le dava alla testa: il suo profumo, la pelle rovente, i capelli lunghi e selvaggi, gli occhi imprigionanti; e come si muoveva, come la toccava, come le parlava. Niente di divino o celestiale ma sorprendentemente reale, fisico, umano; tutto il contrario di Satoru. E lo amava per quella sua concretezza, perché mai più di così era stata vicina a quello che doveva essere il paradiso.
 
 
 ***


 
Quando si gettarono sulla schiena sudati e sfiniti, con le facce rivolte al soffitto, erano da poco scoccate le sette. Al primo sguardo all’ora dalla sveglia sul comodino Suguru scattò a sedere e imprecò.
 
- Cazzo! La colazione con le ragazze! -. Saltò giù dal letto cercando di capire dove diavolo avesse lanciato le mutande. - Me ne stavo completamente dimenticando – aggiunse battendosi una mano sulla fronte. Individuò e indossò i boxer.
 
Ayame si puntellò sui gomiti. - E pensi di presentarti alle ragazze conciato così? Non se ne parla. Adesso calmati e vai a farti una doccia -.
 
- E se non facessi in tempo? -.
 
Lei sospirò e scese dal letto raccogliendo da terra la veste per coprirsi. Gli restituì il laccio per capelli, quello che durante il sesso amava custodire al polso come una specie di cimelio, e lo prese per le spalle. – Farai in tempo – lo incoraggiò pacatamente.
 
Suguru annuì veloce. - Va bene. Sì, hai ragione -. La ringraziò con un bacio a fior di labbra, poi corse a gettarsi sotto la doccia.
 
La loro non era una vera e propria convivenza ma era come se lo fosse. In un cassetto del comò Suguru aveva lasciato qualche vestito di riserva. In bagno aveva sistemato un nuovo spazzolino da denti, un secondo accappatoio e persino il suo bagnoschiuma preferito. La sola cosa che mancava per dare a entrambi l’impressione di una normale vita di coppia era il numero di cellulare e che per motivi di sicurezza avevano preferito non scambiarsi.
 
Alle sette e mezza era pronto a uscire. Raccolse i capelli lasciando quelli più lunghi sciolti sulle spalle, poi si chinò per colmare la differenza di altezza tra sé e Ayame e la baciò sulle labbra. – Ci vediamo tra tre giorni – mormorò soffiando sulla bocca umida di lei e alla fine uscì dal suo appartamento.
 
Arrivò puntuale all’appuntamento con le gemelle. Lo avevano convinto a provare la nuova pasticceria inaugurata sulla terrazza di un palazzo a Yokohama, malgrado fosse un autentico ricettacolo di energia malefica e senza poteri: non proprio il suo ambiente favorevole. Presero un vassoio di pasticcini assortiti, tre fette di torta di tre gusti diversi, del tè nero per lui e due granite per le ragazze.
 
Verso gli ultimi bocconi di torta la curiosità di Nanako la tradì e la sua lingua si sciolse prima che il cervello potesse metterle un freno; una curiosità che 
premeva da dietro le labbra già da settimane,
 
- Mimiko – cominciò – non ti sembra che ultimamente il Sommo Geto sia parecchio di buonumore? -.
 
Lui sollevò gli occhi dal giornale, un acquisto dell’ultimo minuto prima dell’incontro con le ragazze, e le guardò entrambe a turno.
 
Mimiko studiò l’espressione serena di Geto strizzando gli occhi come per riflettere, poi rispose con un cenno di approvazione. – In effetti hai ragione. Sommo Geto… - disse e rivolse lo sguardo direttamente negli occhi dell’uomo che le sedeva di fronte – le è successo qualcosa di bello? -.
 
- No – mentì seraficamente. – Cosa dovrebbe essermi successo? -.
 
- Non so. Tipo… una donna? – intervenne Nanako tirando a indovinare.
 
Mimiko guardò la sorella sbigottita. – Una donna?! – fece eco lei incredula, eppure in un certo senso convinta che nella congettura di Nanako ci fosse un fondo di verità.
 
- Ragazze non dite sciocchezze –. Suguru le ammonì docilmente ma sorrise. Sorrise, dannazione. Se ne rese conto tardi, quando ormai quel verso di beatitudine era più fuori che dentro la bocca per cui rimangiarselo sarebbe stato impossibile, oltre che inutile. Un sorriso che inequivocabilmente faceva sospettare di una donna; non così diverso da quelli che Suguru rivolgeva ad Ayame quando lei lo accoglieva sulla porta di casa, quando lo pregava di fare il bagno assieme o quando gli si accoccolava addosso dopo aver fatto l’amore.
 
- È una donna – asserirono le gemelle all’unisono scambiandosi un’occhiata complice.
 
- È bella? – domandò di getto Mimiko. Nanako le rispose con un versaccio.
 
- Certo che è bella ma che domande fai?! -. Gli occhi enormi di curiosità di Nanako saltarono dalla sorella al suo tutore. – La prego Sommo Geto, ci dica di più! È più giovane di lei? È uno stregone potente? Da quanto tempo state insieme? State insieme, giusto? È una cosa seria? -.
 
Suguru dovette frenare quella tempesta di domande con un gesto paziente della mano. – Nanako… - esordì poi con voce afona, affievolendosi - è complicato -.
 
Nello spegnersi del suo sorriso Nanako colse un'espressione infelice. Ebbe l’impressione che fosse stanco di nascondersi, eppure apertamente contrario a rivelarsi, e lesse nei suoi occhi l’esigenza di rinunciare a qualcosa ma senza avere idea di come fare.
 
- È per questo che sta ritardando il trasferimento al tempio di Tokyo? Non sa come dirle addio? -. Nanako si era fatta seria. Gli era parso anzi che fosse cresciuta e maturata di botto.
 
- Anche – rispose lui telegrafico.
 
- Se vuole restare… -. Questa volta fu Mimiko a intromettersi timidamente e a dire la sua. – Sì, insomma, se non se la sente di lasciarla e trasferirsi a Tokyo per noi va bene così, Sommo Geto. Lo sa, per me e Nanako conta soltanto che lei sia felice -.
 
Suguru notò che Nanako stava annuendo animatamente alle parole della sorella. - E non deve più nascondersi. Ora che lo sappiamo può portarla al tempio tutte le volte che vuole -. L'ingenuità di Mimiko lo fece sorridere appena.
 
- Temo non sia possibile, ragazze, né restare e né presentarvela -.
 

E sarebbe andata così, anche se in quel momento non aveva motivazioni tanto urgenti da spingerlo a lasciarla e andarsene. Ma nel giro di cinque mesi l’urgenza gli sarebbe piombata addosso come una pioggia improvvisa, calda per certi versi e gelata per altri.
 
Gli era giunta sul finire di gennaio; era stato Miguel a portargliela. Lui, Toshihisa e Larue, contrariamente a Manami e alle gemelle che avevano fissa dimora al tempio, avevano ricevuto il compito di viaggiare per il Giappone in cerca di spiriti maledetti di livello speciale. Tamamo no Mae era stata trovata e assorbita da Geto proprio in questo modo e ora era arrivato il turno di Rika Orimoto, nientemeno che la “regina delle maledizioni”.
 
Aveva saputo da Miguel che l’Istituto di Arti Occulte di Tokyo stava tenendo d’occhio il suo possessore, l’adolescente Yuta Okkotsu, almeno finché non avesse costituito un reale pericolo. A quel punto sarebbe scattata la cattura e l’esecuzione del giovane. Ma sapeva anche, non certo grazie a Miguel, che Satoru Gojo, l’unico stregone in grado di tenere per le palle le autorità del mondo dell’occulto, non avrebbe mai permesso a quei vecchi incapaci di compiere un abominio come uccidere Yuta Okkotsu senza mettersi in mezzo, per esempio rimandandone l’esecuzione con la scusa di insegnare al ragazzo come gestire l’energia malefica e la stessa Rika. E qui entrava in gioco il piano di Geto.
 
Affinché gli fosse possibile assorbire Rika Orimoto era necessario che la regina delle maledizioni si manifestasse completamente, cosa finora mai avvenuta. In sostanza, gli insegnamenti di Gojo erano indispensabili perché Yuta imparasse a richiamare consapevolmente Rika per usarla e controllarla e solo a quel punto Suguru avrebbe potuto impadronirsene. L’unica cosa che gli restava da fare era trasferirsi al tempio di Tokyo e attendere che Okkotsu si mettesse nei guai con l’Istituto richiamando l’attenzione di Satoru.

 
Fissava vigliaccamente il soffitto della camera da letto di Ayame quando giunse il momento di parlargliene: era il secondo giorno di febbraio. Disteso sul letto con Ayame coricata sul ventre sopra di lui, un manga aperto sul petto dello stregone e lei che lo sfogliava silenziosamente, Suguru deglutì e parlò.
 
- È arrivato quel momento, Ayame -.
 
- Quale momen… -. attaccò con voce svagata ma nell'istante in cui comprese smise di colpo di parlare. La gola le si era chiusa di riflesso. Fissava il disegno di un soldato agonizzante, l’ammazzadraghi di Guts* conficcata per metà nello stomaco, e quell’espressione le si trasferì in faccia cristallizzandosi gelidamente tra i lineamenti delicati del viso.
 
Suguru si chiuse in un mutismo forzato consapevole che qualsiasi parola gli fosse venuta da dire, poteva essere una scusa o un tentativo improvvisato di consolarla, sarebbe suonata alle orecchie di Ayame insignificante, vuota e forse persino incomprensibile. E non poté dire più nulla, neppure volendo, quando lei iniziò a singhiozzare.
 
Pianse sull’immagine del soldato agonizzante quasi le dispiacesse per la sorte di quella comparsa, come lo era stato Suguru nella vita di Ayame. Il loro era stato un film breve, dal finale atteso ma non per questo meno doloroso, e pregava tra le lacrime che qualcuno lo mettesse in pausa per sempre e che a nessuno venisse in mente di arrivare ai titoli di coda. Avvertì subito cosa le sarebbe rimasto di quella storia: il malessere, il dispiacere dell’abbandono apparentemente ingiustificato e invece pienissimo di senso e il riaffacciarsi della solitudine.
 
- Quando? – formulò lei tra i singhiozzi in un tono che sapeva di aspettativa infranta e non per colpa di Suguru.
 
Era stata lei a dimenticarsene. Forse non proprio a dimenticarsene ma sicuramente a fantasticare, finendo per darlo per scontato, su quel “prima o poi dovrò andarmene” come più un poi che un prima. Aveva davvero creduto che quella sottospecie di clausola del loro rapporto avrebbe potuto verificarsi il giorno successivo così come anni dopo, perché nessuno sapeva quando sarebbe giunto quel momento. Ma quel momento era arrivato e troppo improvvisamente perché riuscisse facilmente ad accettarlo; troppo presto perché non avesse più niente da condividere con lui.
 
Suguru rispose a fatica. – Domani mattina - una voce remota uscì dalle sue labbra asciutte, poi un sospiro si frappose tra i singhiozzi di Ayame. – Per favore non piangere -.
 
Le asciugò le lacrime, la strinse al petto e pensò di porre rimedio con un bacio ma nemmeno così avrebbe messo fine al suo pianto inconsolabile, certo non come la prima volta. Attese che le lacrime si esaurissero da sole, che la rassegnazione o l’accettazione prendesse gradualmente forma nella mente e poi sul viso di Ayame in un’espressione distesa, non esattamente serena ma vicina di molto a quella di tutti i giorni dopo una sfiancante giornata lavorativa, salvo per gli occhi arrossati e gonfi dal pianto.
 
- Ci rivedremo, d’accordo? È una promessa -.
 
Lei annui debolmente e si tirò su mettendosi a sedere sul letto. Ripose il manga nel cassetto del comodino e fissò il vuoto. Contemplava il silenzio come la sola risposta a quelle cose irrimediabili, la fine di un amore ad esempio, che in virtù della loro fatalità era necessario lasciare che continuassero a fare il loro corso naturale. Di fatto, nessuno dei due disse più niente.
Si lasciarono andare a un amore folle, egoista, estremo e dall’estasi totalizzante: un monito a non dimenticarsi e a vivere da quel momento in avanti con quelle ultime sensazioni scolpite nell'anima.





 
 
Febbraio 2016
 
Il batacchio della porta era ancora grande come lo ricordava: tondo e tozzo e dalla circonferenza giusta per infilarci dentro la testa. Solo che ora lo batteva con impellenza, cinque, dieci volte, a una frequenza crescente ma discontinua, non più diffidente su chi avrebbe incontrato dietro quel portone ma nella speranza quasi delirante di trovarvi qualcuno disposto ad aprire. Ma nessuno sarebbe venuto. Suguru aveva abbandonato il tempio da settimane e a meno che non avesse lasciato qualcuno a guardia di quel luogo, Ayame confidava fortemente che fosse così, sarebbe rimasta lì fuori, al freddo, con un segreto appeso alle labbra.
 
Chiamò Kong al cellulare per l’ennesima volta e per l’ennesima volta ci fu un susseguirsi di squilli a vuoto. Riattaccò. Sedette sulle scale esterne al tempio, si strinse nel cappotto e mise naso e bocca al riparo dietro la sciarpa avvolta attorno al collo. Era nuovamente sola.
 
Non sapeva dove cercarlo, tantomeno come contattarlo. Stupida lei ad aver messo la prudenza davanti al proprio egoismo e alle proprie esigenze. Ma dal momento che Suguru aveva sempre mantenuto fede alla sua parola, presentandosi puntualmente a tutti i loro appuntamenti, Ayame non aveva sentito il bisogno di obbligarlo a condividere il numero di cellulare. Aveva preferito la sua sicurezza ai messaggini sdolcinati e alle chiamate notturne per raccontarsi la reciproca giornata, e ora quella stessa prudenza le si era rivoltata contro.
 
Si guardò il polso, poi prese a giocare con il laccio per capelli di Suguru, quello che lui le aveva regalato dopo aver fatto l’amore per l’ultima volta come ricordo di sé. Lo portava con sé da allora, non più come un cimelio da custodire durante il sesso e da restituire al momento di salutarsi ma come un frammento di lui da cui non poteva più separarsi. Un residuo del suo profumo, prossimo a svanire, le ricordò quanto adorava sciogliergli i capelli e sentirli cadere sul viso.
 
Il laccio per capelli non era la sola cosa che le restava di Suguru. Le aveva lasciato qualcosa di più di un fedele accessorio, una fotografia scattata insieme e quel poco che era rimasto del suo bagnoschiuma preferito. Non era stato solo una comparsa ma un segno indelebile nella sua vita.
Mai più di così avrebbe potuto imprimere sé stesso dentro di lei.
 
 
 

 
24 Dicembre 2017
 
Kong l’aveva vista spegnersi attraverso gli occhi. Una parte di lei era morta a quella notizia. L’aveva afferrata tra le braccia e l’aveva stretta a sé quasi protettivamente mentre le grida straziate di Ayame si spezzavano nella stoffa della sua giacca; gli rimbombavano dentro come tuoni di una tempesta.
 
L’aveva informata che Suguru era morto durante uno scontro, attento a tralasciare il nome del responsabile e le circostanze per cui aveva perso la vita. Era stato strano accorgersi quanto gli dispiacesse vederla sfaldarsi un filo alla volta allo scoccare di ogni singhiozzo e aveva capito di essersi affezionato a lei.
 
Quando Ayame aveva smesso di piangere e di gridare, di aggrapparsi disperatamente a lui, lo sguardo di Kong si era separato distrattamente da lei per fissarsi oltre la sua spalla e sbarrarsi di sgomento.
 
- Devo andare da lui. La prego, Signor Kong, io devo… -.
 
- Va’ – aveva risposto con voce opaca, approfittando di una brevissima finestra di attenzione prima di ricadere in uno stato confusionale. Anche Ayame aveva rivolto gli occhi alle spalle.
 
- Ci penso io – aveva assicurato lui, questa volta in tono risoluto. – Tu va’ -. Ed era andata via. Anzi, era corsa via.
 
 
E ora si dibatteva per liberarsi e irrompere nell’edificio dell’Istituto di Arti Occulte. La trattenevano le mani di tre uomini in giacca e cravatta, gli assistenti di direzione, uno per lato e il terzo davanti.
 
- Lasciatemi! – gridò ancora una volta tentando di divincolarsi. La disperazione aveva temporaneamente ceduto il posto alla rabbia. – Devo vedere Suguru, lasciatemi andare! -.
 
L’uomo sul davanti si rivolse a lei pacatamente. – Signorina non può stare qui. Questa è proprietà privata -. Non faceva che ripetere quella stronzata anziché darle ascolto. Vedevano soltanto una squilibrata finita lì per caso e che gridava frasi senza senso. Nessuno di loro sembrava comprendere l’urgenza, lo strazio che accompagnava le sue proteste, né perché stesse chiedendo di qualcuno tanto insistentemente con quella faccia devastata, smunta, collosa di lacrime.
 
- Toglietevi di torno! – ringhiò Ayame. Una voce stentorea partì dal diaframma schizzando dolorosamente fuori dalla gola.
 
- Lasciatela – intervenne qualcuno. Gli occhi di tutti puntarono all’uomo da cui era partito l’ordine. Aveva un leggero fiatone.
 
Lo sguardo di ghiaccio, abbagliante nel contrasto con il blu scuro di quella notte caliginosa, si posò sulle mani degli assistenti ancora inopportunamente avvinghiate ad Ayame a sgualcirle i vestiti. – Ho detto: lasciatela – scandì Satoru tra i denti mentre sentiva montare dentro un’imprecisata collera. Poteva avere origine da quel modo indegno di toccare Ayame, dalla recente morte di Suguru, dall’obbligo in quanto stregone di uccidere il suo migliore amico, dalle sue stupidissime manie di grandezza, oppure dallo scoprire dopo nove fottutissimi anni di aver convissuto inutilmente con la morte di Ayame sulla coscienza perché, sorpresa sorpresa, lei era ancora viva.
 
Dalla sua ultima espressione, quella schizzata del proprio sangue, sembrava trascorso a malapena un secondo. Era la stessa faccia di allora: spaurita, pallida, distrutta. Solo che adesso aveva qualcun altro riflesso negli occhi.


 
*Guts è un personaggio di Berserk e la "ammazzadraghi" è la sua spada

Spazio autrice:
Buonasera! Con questo capitolo siamo finalmente giunti alla fine della prima parte di Iris, in particolare quella dedicata alla storia tra Ayame e Suguru.
Non ho intenzione di aggiungere nulla riguardo alla storia, ma di condividere con voi la decisione che ho preso anche seguendo la scia di altri autori.
Mi dispiace comunicarvi che non ho più intenzione di pubblicare questa storia a meno che non riceva qualche considerazione da parte vostra.  
Amo molto scrivere ma non lo faccio esclusivamente per me stessa, altrimenti terrei le storie per me. Siccome ritengo che pubblicare le proprie idee presuma creare dei legami con chi apprezza tali idee, e presuma quindi scambiarsi delle considerazioni, forse anche un po' peccando di presunzione (questo sta a voi deciderlo) penso di meritarmi, anche solo per il tempio che impiego nello scrivere, la giusta attenzione. 
Immagino, in base ad un numero piuttosto costante di letture, che alcuni di voi stiano seguendo regolarmente la storia, eppure soltanto una persona si prende veramente del tempo per lasciarmi le sue impressioni. Dopo 23 capitoli, considerando anche Crisantemo, penso di essermi un tantino stancata di fare finta che la cosa non mi importi e che non mi dispiaccia. Chiaramente la storia continuerà, ci sono ancora un saaaacco di cose da scrivere, ma sarete voi a decidere il destino di questa storia per quanto riguarda la sua pubblicazione. 
Per il resto, ringrazio tutti per aver letto questa storia. 
Saluti.


 

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Capitolo 9
*** Fiato sospeso ***



Satoru guardò in alto: le iridi di acquamarina contro i colori tenui del vespro, lenti a imbrunire. Inespressivo, come se si fosse sganciato provvisoriamente dalla realtà, osservava quello che doveva essere un cielo screziato e che in quell’attimo di sospensione mentale rassomigliava al vuoto che portava dentro; a prima vista dolce, sì, ma malinconico.
 
Sedeva per terra appoggiato contro il muro, nell’abbraccio dell’ombra che adagio scivolava allungandosi sul selciato al placido ritirarsi del sole. Solo così si aveva la percezione dello scorrere del tempo, ma con lo sguardo incollato al cielo, a quella fedele riproduzione in scala reale del suo microcosmo interiore, il tempo gli sembrava immobile.
Solo un gocciolio animò lo sguardo assente e cadde verso il basso sulla sagoma che gli sedeva di fronte, non più ritta per volontà ma per uno strano, sinistro frutto del caso.
 
Il vento sbuffò tra le ciocche cascanti di quei capelli neri e Satoru le osservò ondeggiare calme, ignare, indisturbate. Lo stregone mandò un ghigno asciutto. Gli tremava ancora la mano stesa lungo il fianco, la responsabile della morte del suo migliore amico, ma se ne accorse soltanto in quel momento, ora che quel gocciolio lo aveva riportato indietro restituendogli la percezione di sé e soprattutto di lui.
 
Sedevano uno di fronte all’altro nello stretto vicolo. Le gambe lunghe di Satoru erano chiuse al petto o le suole delle scarpe sarebbero finite addosso al cadavere del suo amico e questo non poteva permetterlo. Era già stato fin troppo dilaniato, insultato, violentato. Ed era pronto a distruggere il mondo pur di proteggerlo, com’era altrettanto pronto a sorbirsi le prediche di Shoko quando presto l’avrebbe pregata, sì pregata, per poi passare alle maniere forti se non avesse acconsentito, di non distruggere quel corpo.
 
Quella sera sarebbe uscito a bere: una decisione che Satoru prese sul momento nel seguire con gli occhi il dondolio ipnotico di quelle ciocche corvine, ascoltando lo sgocciolare del sangue dallo squarcio dove poche ore prima vi era il braccio di Suguru. L’alcol non era un rimedio ma solo un modo per dissociarsi una buona volta da “Satoru Gojo” e fare qualcosa che lui non avrebbe mai fatto. A quel punto, due mai avrebbe infranto in una sola notte, quando per una vita intera aveva creduto di non poterli infrangere per nessuna ragione al mondo; perché mai si sarebbe sognato di uccidere il suo migliore amico e mai si sarebbe sognato di attaccarsi agli alcolici per rinunciare a sé stesso ed essere qualcun altro.
 
Lo guardò in viso, quel poco che si stagliava dietro i lunghi capelli ricaduti sul davanti, e notò come il pallore iniziava a tendere al grigiastro, l’indubitabile colore della morte. Le labbra erano livide, sottili come una riga di pennarello, e gli angoli degli occhi parevano colare sugli zigomi conferendogli un’espressione mesta e spenta. Le ciglia, un tempo compatte, sembravano avvizzire. Soltanto i suoi capelli sfoggiavano ancora la loro viva lucentezza mandando scintille aranciate quando il vento li sospingeva oltre la linea d’ombra laddove cominciava la luce del sole. Era come se non volesse rinunciare al proprio fascino; un fascino macabro, si capisce, ma pur sempre fascino.
 
Sbottò a ridere improvvisamente. Trovava curioso, al limite dell’ironia, che qualcuno di tanto importante per lui fosse scomparso per sempre mentre un altro faceva ritorno, come se quello fosse un compromesso ragionevole, uno scambio equo: una vita per una vita. Uno scambio equo un corno.
 
E pensò ad Ayame. Gli sovvenne solo il suo viso schizzato di sangue, nient’altro: l’ultimo fotogramma che vedeva la sua vita e quella di lei impresse nella stessa immagine. Pensò a quando le loro vite si fossero di nuovo incontrate in uno stesso fotogramma e se fosse stato disposto a perdonarla per averlo privato della possibilità di un’intera vita assieme, perché di quel fermo-immagine, ora che conosceva il suo segreto, non sapeva che farsene. E lo stesso valeva per quella lettera d'amore, vuota ora di qualunque significato.
 
Progettò di andare a cercarla nel momento in cui il paraurti anteriore di un furgoncino nero si affacciò nel vicolo, portandosi via anche quell’ultimo spicchio di tramonto che a tratti accarezzava i capelli di Suguru a donargli un alito di vita. E così si spense del tutto.
 
Due degli assistenti di direzione scesero dal vano posteriore trasportando una lettiga. Satoru si alzò in piedi. – Fate attenzione – raccomandò con tono minaccioso: una mano teneva l’altra ancora percorsa dal formicolio e da tremori intermittenti.
 
Salì nel furgoncino attento a sorvegliare dallo specchietto laterale le manovre dei due assistenti mentre caricavano il suo migliore amico nel retro del veicolo. Al chiudersi degli sportelli posteriori lo stomaco di Satoru fece altrettanto. Gli era parso in quel suono di udire qualcosa di definitivo; un suono di tomba, di lapide incisa, di fiori freschi e recisi, di incenso e di sakè. Un suono di quelli che il cervello registra per certi eventi traumatici e che nell’ascoltarli evocano sempre le stesse brutte immagini.
 
Si abbandonò contro il sedile senza badare alla voce del conducente che nel frattempo tentava di mettere in fila due mezze parole di conforto. Le masticava, se le rigirava in testa e poi nella bocca perché, in ogni caso, non avrebbe saputo cosa dire al riguardo. Ad ogni modo, a Satoru non avrebbe fatto alcuna differenza e forse avrebbe apprezzato assai di più se fosse rimasto in silenzio.
 
Il tramonto collassò davanti ai suoi occhi. L’ultima falce sottile di sole svanì all’orizzonte e di lui rimase soltanto l’eco di un giorno prossimo a concludersi. I suoi ultimi respiri, bagliori di arancio intenso, gli inondarono il viso e i capelli argentei.
 
Era il loro ultimo tramonto insieme. Il precedente risaliva al loro secondo anno d’Istituto, durante la pausa estiva, quando il caldo e il frinire delle cicale toglievano il sonno nove notti su dieci e le zanzare facevano il resto; quando si dormiva in mutande o direttamente all’aria aperta sul portico dell’Istituto. Il periodo delle bibite ghiacciate, delle abbuffate di somen e di quelle orrende camicie hawaiane di Suguru.
 
E volle ricordarlo almeno un’ultima volta, addentrandosi nella spiacevole regione dei ricordi per rivederlo seduto accanto a lui, con una mano chiusa attorno a una lattina di Cola grondante e l’altra posata sulla fronte per schermarsi gli occhi, a scrutare il tramonto da una panchina vicina ai distributori automatici di snack a due passi dal campetto da basket dove giocavano durante le belle giornate. Erano soliti spartirsi da bere ma quella volta Suguru aveva preso una lattina tutta per sé, forse perché troppo assetato dopo la partita o forse indispettito, in fondo, dal vizio di Satoru di rubargli per capriccio sempre il sorso più lungo. Alla fine, lui glielo aveva rubato comunque. Erano volate delle proteste, Suguru lo aveva accusato di essere incontentabile, anche quando si sfidavano nei tiri a canestro, e poi avevano riso.
 
Suguru lo perdonava sempre. Lo lasciava essere sé stesso scrollandosi facilmente di dosso la frustrazione che sovente Satoru faceva montare negli altri con i suoi eccessi di protagonismo. E poi non mancava mai di mostrargli pazientemente, educandolo in un certo senso, il mondo da un’altra prospettiva. Senza di lui ora il mondo aveva ripreso a mostrarglisi insignificante, salvo quell’ultimo spasmo di sensatezza in quel tramonto morente.
 
Squillò il telefono allo spegnersi del motore. Il veicolo aveva impiegato appena due minuti per fare il giro dell’Istituto e imboccare l’ingresso nord, vicino all’edificio dove Shoko aveva il suo laboratorio. Satoru rispose distrattamente.
 
- Pronto? -.
 
Dall’altro capo del telefono Yaga esordì con un sospiro. – Satoru, Ayame è… -.
 
- Viva, lo so – finì la frase per lui.
 
- È qui all’Istituto – lo corresse, rimandando al momento opportuno le dovute spiegazioni.
 
Il cellulare gli scivolò di mano. Lo lasciò tra i sedili e scese dall’auto di fretta. Hasegawa gli gridò dietro qualcosa, probabilmente di riprendersi il telefono o sarebbe toccato a lui riportarglielo e di grane di cui occuparsi ne aveva già abbastanza, ma Satoru non vi badò e corse via.
 
Fu l’istinto a guidarlo e a condurlo da lei. Tre assistenti di direzione la trattenevano frattanto che Ayame cercava di divincolarsi. Il suo respiro era agitatissimo a giudicare dalle gonfie nuvolette di condensa che spiravano dalle labbra pallide. Anche quello di Satoru lo era e per un attimo si sintonizzarono sulla stessa frequenza.
 
Satoru fece lo sforzo di calmarsi, poi fiatò. – Lasciatela –. E si ripeté, più intimidatorio quando questi parvero non dargli ascolto, passando uno ad uno lo sguardo gelato sulle facce ancora poco spaurite degli assistenti e che fulmineamente impallidirono. Eseguirono l’ordine senza fiatare e arretrarono di un passo per lasciare spazio alla ragazza.
 
- Me ne occupo io, voi andate pure – aggiunse pensoso. Aveva l’aria assente. Ragionava sulla scusa migliore da rifilare a quei vecchi rimbambiti dei piani alti quando presto l’avrebbero convocato in merito a quella situazione e su come proteggere Ayame dalla sentenza di morte. Con Okkotsu era riuscito a cavarsela ma con una senza poteri come Ayame la situazione si complicava notevolmente.
 
Le si avvicinò quando rimasero soli. Ayame tremava di paura e di sgomento. I suoi occhi blu erano arrossati e tondi, grossi di lacrime che aveva tentato di trattenere inutilmente e che stava di nuovo tentando di trattenere per non vanificare ancora quello sforzo immane. Avrebbe voluto stringerla tra le braccia ma desistette.

- Dov’è Suguru? -. Furono le sue prime parole, timide e fiacche.
 
Confuso per come avesse fatto Ayame a sapere della morte dell’amico, Satoru rispose con poche e risolutive parole. – Vieni con me -.
 
Lo seguì all’interno dell’Istituto e poi lungo un corridoio apparentemente senza fine. Luce e ombra si alternavano sulle loro espressioni immobili. Satoru percepiva Ayame dietro di sé sgretolarsi a ogni passo, rallentando talvolta, con la gola gonfia di singhiozzi trattenuti.
Gli costava continuare a guardare avanti; avrebbe voluto disperatamente voltarsi, prenderla per le spalle e domandarle, folle di dolore, perché lo avesse lasciato così tanto indietro. Ma continuò a camminare orgogliosamente, ferito dentro, in un silenzio forzato carico di rabbia e frustrazione, così denso di parole non dette da rallentare persino il suo di passo. Gli sembrava di nuotare in un mare di gelatina.
 
Proseguì a fatica e si fermò soltanto alla fine del corridoio, davanti alla porta del laboratorio di Shoko, nonché obitorio quando fatalmente ci scappava il morto. Un’ondata di disagio li travolse quasi simultaneamente; li fece esitare entrambi, faccia a faccia con quella porta d’acciaio che rifletteva opache le loro sagome, più simili a spettri che a persone. Satoru abbassò la maniglia.
 
Un lamento sinistro risuonò nella stanza; un bianco abbagliante investì i loro volti che si contrassero alla luce violenta; zaffate di disinfettante passavano sotto ai loro nasi. E un grido si ruppe nella gola di Ayame, troppo grosso perché trovasse una via d’uscita. Rimase lì come un boccone di traverso mentre gli occhi si dilatavano e sporgevano dalle palpebre spalancate.
 
Fissava impietrita il corpo esanime di Suguru steso su una lastra di freddo metallo. Una fitta di dolore le squarciò il petto e gemette. Si precipitò al suo capezzale, lo guardò con gli occhi spessi di lacrime e pianse più forte che poteva. I singhiozzi risuonavano come frustate nel soffocante silenzio.
 
Si accasciò sul suo petto laddove un tempo posava beatamente la testa dopo aver fatto l’amore e lo strinse a sé aggrappandosi ai suoi vestiti impolverati, insanguinati, lacerati. – Amore mio – mugolò con la voce rotta dal pianto.
 
Satoru era rimasto sulla porta, vuoto e disarmato. Era troppo da sopportare anche per uno come lui; troppe informazioni da processare tutte assieme: la morte del suo migliore amico, il ritorno dall’oltretomba dell’unica donna per cui aveva provato qualcosa e, adesso, quel suo inatteso, stridente alle orecchie di Gojo, lacerante come una coltellata nel petto, “amore mio” che gli aveva spezzato il cuore e il respiro. Aprì la bocca per parlare e poi la richiuse debolmente nella convinzione di non avere niente da dire malgrado l’intento fosse stato quello di pronunciare qualcosa.
 
- Perché non lo hai salvato? – dal petto di Suguru arrivò un gemito sommesso. Poi quel gemito sommesso sfociò in un grido straziato quando Ayame sollevò la testa. – Perché non lo hai salvato?! -.
 
Si avventò su di lui. Volò un pugno che lo colpì alla spalla; Satoru lo incassò. – Avresti dovuto salvarlo! -. Ayame lo colpì altre due volte, poi lo agguantò per il colletto della divisa e lo spintonò. – Avresti dovuto salvarlo! Avresti… - la frase le morì sulle labbra.
 
Ayame tirò Satoru a sé e crollò inerme tra le sue braccia in una crisi di pianto incontrollabile. Singhiozzò nel suo petto, il corpo di Satoru vibrava a ogni acuto lamento, e vi nascose il viso sommerso di lacrime. Pianse tra le braccia di Satoru lente a sollevarsi e a stringerla. Aveva l’aria così indifesa, così ferita e vulnerabile che avrebbe potuto dissolversi al più delicato dei movimenti.
 
Satoru si chinò su di lei, il bagliore che emanava naturalmente parve smorzarsi a poco a poco, e posò la fronte sulla spalla di Ayame. Un tempo aveva provato di tutto perché Ayame gli mostrasse le sue lacrime. Ora, invece, si odiava per averlo anche solo desiderato.
 



 


- Spiegati, Gojo Satoru -. Una voce austera parve scuotere le fiamme delle fiaccole appese alle pareti di una camera circolare avvolta nella penombra. L’ombra di Satoru molleggiò all’agitarsi del fuoco ma il suo corpo mantenne una solenne compostezza. La voce era giunta da uno dei cinque paraventi di legno pregiato disposti circolarmente nella stanza, dietro ai quali celavano la loro identità i membri dei piani alti dell’occulto.
 
Satoru rispose con un’alzata di spalle. Ayame era fuori che lo aspettava e lui aveva una gran voglia di dare un taglio a quell’inutile riunione. Non contento della risposta, l’uomo incaricato di sovrintendere l’assemblea parlò ancora.
 
- Sei responsabile del tradimento del Ventre del Fluido Astrale? -.
 
- Anche fosse? – ribatté Satoru con fare scanzonato: le mani fedelmente affondate nelle tasche dei pantaloni. – Tengen è stabile, no? Siamo tutti felici -.
 
- Non è questo il punto! – tuonò una seconda voce; giunse alla sinistra di Satoru.
 
Lo stregone puntò i suoi occhi fiammanti di crescente furore alla sua sinistra, spingendo lo sguardo oltre la stretta fessura del paravento a coste dove un viso in ombra vi si nascondeva. Era davvero patetico da parte sua credere che un pezzo di legno d’antiquariato potesse in qualche modo difenderlo dalla sua ira bruciante. – E quale sarebbe il punto? – sillabò Satoru contraendo la mascella.
 
- È una senza poteri che sa troppo – si giustificò l’altro intimidito.
 
– Se Tengen perdesse la sua volontà il mondo intero cadrebbe in rovina e sarebbe soltanto colpa sua! – intervenne un terzo membro del consiglio.
 
- Allora, Gojo Satoru, cosa pensi di fare al riguardo? Hai intenzione di proteggere il Ventre del Fluido Astrale? – a condurre la discussione fu di nuovo la voce austera, colui che dell’ispettorato occulto deteneva senz’altro la carica più alta.
 
- Ho intenzione di proteggere mia moglie – ribatté con gelida fermezza, quando un sorriso smaccato aleggiò sulle sue labbra con tutta l’intenzione di farsi beffe di quegli ottusi, patetici, decrepiti burattini. Più il legame con Satoru era intimo e profondo più Ayame sarebbe stata intoccabile. – Scommetto che non lo sapevate – proseguì ciondolando sulle punte dei piedi, poi alzò teatralmente le spalle. – Purtroppo, non c’era posto per voi al nostro matrimonio. Spiacente -.
 
- Che cosa stai cercando di dire? – domandò la voce austera.
 
- Sta mentendo! – insinuò qualcuno. L’eco roboante ne impedì la localizzazione tra quei cinque paraventi.
 
Satoru ridacchiò in modo sinistro. – Il mio è solo un avvertimento. Toccate mia moglie e vi farò conoscere questo potere che tanto temete -.





 
Angolo autrice:
Saaaalve! Fortunatamente non sono sparita ma ho dovuto affrontare un esame piuttosto difficile che mi ha portato via davvero un sacco di tempo!
Ma andiamo con ordine, oggi ho davvero un migliaio di cose da dirvi...
Anzitutto, ringrazio quei lettori che hanno compreso il mio disagio e che si sono subito attivati per farmi sapere le loro opinioni. Mi avete dimostrato di tenere davvero a questa storia e devo dire che leggedovi mi sono persino commossa! Mi avete dato la forza di tornare con questo nuovo capitolo.
Mi scuso per la brevità del capitolo (scarsino, vero?) ma vi chiedo di avere pazienza. Scriverlo è stato molto difficile per diverse ragioni. Non vi nascondo che è stata durissima scrivere la scena di Satoru nel vicolo e poi quella insieme ad Ayame nel laboratorio/obitorio di Shoko. L'altra ragione è che sono stata lontana dalla scrittura per diverse settimane e devo riabituarmi al ritmo che avevo prima, perciò sono un po' "arrugginita". Se passa tanto tempo dall'ultima volta che scrivo tendo ad atrofizzarmi, chissà perché. Pertanto, sarò un po' lentina inizialmente o scriverò meno di quanto avrei potuto fare nel pieno della scrittura, ma non vi preoccupate. I contenuti che non riuscirò ad inserire in un capitolo a causa della lentezza verranno ovviamente inseriti nei capitoli successivi. Ad esempio, questo capitolo avrebbe dovuto essere più lungo e contenere un'altra parte decisamente importante, ma non avendo idea di quanto altro tempo avrei impiegato per scriverlo, e accorgendomi di quanto tempo era passato dall'ultima pubblicazione, ho preferito far slittare questa parte al prossimo capitolo. Spero non vi dispiaccia. Ovviamente il discorso vale finché non recupererò il mio ritmo, che sono sicura di riprendere abbastanza in fretta.
Mi auguro che, sebbene il ritorno un pochino zoppicante, il capitolo vi sia piaciuto e vi abbia suscitato ciò che ci tenevo ad esprimere. 
Ovviamente, spero di ricevere da voi altre considerazioni che mi possano dare la forza e la soddisfazione di continuare questa storia.
Grazie mille, davvero. Se questo capitolo ha potuto vedere la luce è stato per merito vostro ^^
Alla prossima! 


 

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Capitolo 10
*** Segreti ***



L’auto di Ayame rimpiccioliva sullo sfondo mentre sfrecciava via. Satoru era stato abbastanza sveglio da registrare con gli occhi il numero di targa ed era sicuro di ricordarsene almeno finché non avesse minacciato Hasegawa di usare quel numero per risalire al proprietario del veicolo. Poi non gli sarebbe più servito impegnarsi tanto per tenerlo a mente. Sì, impegnarsi. E non perché ricordare una semplice targa fosse chissà quanto difficile per una mente sempre fresca di Tecnica Inversa come la sua, ma perché il rifiuto perentorio di Ayame occupava qualunque spazio del pensiero, che fosse vuoto o pieno poco importava.
 
Si era offerto di riaccompagnarla a casa e lei lo aveva rifiutato. Avevano soltanto discusso dei funerali che non ci sarebbero stati e a quel punto Ayame aveva ricominciato a piangere, distante questa volta dalle sue braccia pronte ad accoglierla. Alla fine, era andata via. Avevano parlato poco, davvero troppo poco, e Satoru sentiva di aver dimenticato di dirle qualcosa di importante. Ma cosa?
 
Ci pensò mentre tornava indietro verso il luogo dov’era avvenuto lo scontro tra Suguru e Okkotsu e dove un chiacchierio animato ravvivava un’atmosfera fumosa di polvere, quasi statica a guardare con che torpore il pulviscolo sfrigolava nell’aria. Satoru si addentrò tra le macerie avvicinandosi ad alcuni stregoni raccolti in un punto. Nanami, Kusakabe e Ino lo videro arrivare.
 
- Che mi sono perso? – chiese con un indice di interesse pressoché inesistente. Si era recato sul luogo del disastro soltanto per rintracciare Hasegawa, farsi restituire il cellulare e affibbiargli quel numero di targa a tanto così da finire nel dimenticatoio. Ayame aveva invaso ogni metrocubo della sua mente.
 
Gli occhi fecero il giro dei presenti: Nanami gli restituì lo sguardo, gli operai sgobbavano febbrilmente nel rimuovere i detriti mentre Ijichi dava loro indicazioni grondando di sudore. Aveva il nodo della cravatta allentato e il ponte degli occhiali sceso sulla punta del naso. Poi c’era il preside, più in disparte, a calciare sassolini nel mezzo di una telefonata tanto intima quanto urgente.
 
- Che sei venuto a fare? – lo rimproverò aspramente Nanami con i nervi a fior di pelle. Lo voleva fuori dai piedi e solo perché si augurava che Satoru restasse il meno possibile coinvolto nella faccenda. Doveva tornare a casa, riposare e riprendersi dalla morte del suo migliore amico. Al resto avrebbe pensato lui.
 
- Niente – replicò l’altro con voce piana mentre lo sguardo localizzava la figura tarchiata di Hasegawa: un nero e grasso punto dapprincipio che prese forma nell’avvicinarsi goffamente a Ijichi, isterico e trepidante. – Vi saluto -. Satoru si lasciò alle spalle il gruppo di stregoni e raggiunse a grandi passi Hasegawa mettendosi sulla sua strada. Il viso adiposo dell’uomo inorridì quando lo vide.
 
- Se sei qui per chiedermi un altro favore puoi… -.
 
- Sono qui per un altro favore – asserì monotono Satoru, professando quella sua cattiva abitudine di interrompere l’interlocutore per risparmiare tempo. Poi gli spianò la manona sotto la faccia facendo il gesto di restituirgli il cellulare. Un sorriso presuntuoso aleggiava sulle sue labbra.
 
Hasegawa si massaggiò il viso e cedette. Non che avesse chissà quali altre alternative. – Che cosa vuoi? – domandò con la rassegnazione scavata tra le guance paffute.
 
- Voglio il nome e l’indirizzo del proprietario di questo veicolo – e riferì il numero di targa mentre si riappropriava del cellulare. – E lo voglio ora – pretese, fissando le sue gemme di un azzurro lucente in quelle fessure stanche e gonfie che dovevano essere gli occhi assonnati di Hasegawa.
 
L’assistente fece per aprire la bocca e obiettare ma Satoru lo anticipò. – Centomila yen. Ti bastano? – propose di getto.
 
L’altro bofonchiò. – Ah, che seccatura -. Tirò fuori il cellulare dalla tasca interna della giacca e prese nota del numero di targa. – Ti chiamo tra dieci minuti. Ho bisogno di un computer per entrare nei server di ricerca dell’Istituto -.
 
Satoru annuì. Poco più in là, ciondolando avanti e indietro sulla stessa mattonella quadrata tra le poche ancora intatte di quel cortile quasi interamente devastato, Yaga stringeva il telefono nella mano. Le vene pulsavano sotto la pelle lievemente raggrinzita dall’avanzare della vecchiaia, finora clemente e piuttosto in ritardo per i suoi quarantasei anni. A sentire lui, invece, sembrava già con un piede nella fossa.
 
- Ti prego Kasumi, ripensaci. Hai già perso un figlio, possibile che non ti importi di sapere che Ayame è ancora viva? Possibile che non vuoi incontrarla? -.
 
Una voce di donna s’intromise. – Ne abbiamo già parlato, Masamichi. Io non ho figli -.
 
- Se fosse vero che non ti importa di loro non me ne avresti mai parlato. Te lo ricordi, no? Il giorno in cui ci siamo messi insieme – ribatté lui con la cieca sicurezza di avere ragione. Calciò un sassolino e grugnì di dispiacere. La fine della loro storia era ancora una ferita aperta ma mai come la tragica morte del giovane Shoto.
 
- Se devi parlarmi di queste cose ti prego di non chiamarmi più – ribatté categorica e l’azione successiva fu quella di riattaccare ma indugiò al levarsi di un sospiro dalle note nostalgiche.
 
Yaga sospirava ancora come quando era nel fiore dei suoi ventiquattro anni, vagamente remissivo e dichiaratamente amareggiato per non riuscire a imporsi su di lei e tantomeno ad avercela con lei. Eppure, sarebbe stato orribilmente facile per lui odiarla con ogni fibra del suo corpo
se Masamichi avesse saputo cosa aveva riservato ad Ayame quando era ancora in fasce. Il guaio era che le mancava il coraggio di confessarglielo e in definitiva di farsi odiare da lui.
 
- Dimmi soltanto una cosa – aggiunse la donna. – Ayame è una senza poteri? -.
 
- Sì, perché ti interessa saperlo? -.
 
Perché l’aveva venduta ai Gojo, ammesso che fosse stata utile. E aveva giurato loro che non gliene sarebbe importato nulla se Ayame avesse ereditato la tecnica del suo clan; che avrebbero potuto tenersela e farci quel cavolo che volevano con i loro esperimenti genetici del cazzo. Ma alla fine si era rivelata una ragazzina inutile, tanto più per un clan autorevole come i Gojo. Di buono c’era che i Gojo avevano avuto l’accortezza di restituirla a Izashi anziché gettarla in pasto a quegli infami del suo clan.
 
- Ora devo andare – lo liquidò lei sviando la domanda. – Se devi ancora parlarmi di loro risparmiati la prossima telefonata. Ciao Masamichi -.
 
- Kasumi aspet… - l’interruzione di chiamata troncò quell’ultima supplichevole sillaba e Yaga sospirò una seconda volta.
 
Durante la sua ingenua giovinezza aveva fermamente creduto che Kasumi avesse abbandonato i propri figli per proteggerli dagli abomini del suo stesso clan, mentre ora era vicinissimo a ritenere che lo avesse fatto per un sincero disinteresse, per amore della propria libertà riscoperta dopo un breve periodo di maternità inconsapevolmente indesiderata.
 
Aveva altrettanto creduto che Kasumi gli avesse raccontato i suoi trascorsi per toglierselo di torno nel periodo in cui lui le andava dietro, perché era impensabile che un’affascinante ventisettenne come lei, un abile stregone di livello speciale, potesse invaghirsi di un ragazzone di ventiquattro anni come lui, un sempliciotto malgrado la stazza e ancora in vena di prendersi sbandate come quella. E anziché rinnegare i propri sentimenti per lei e definirla una pessima donna, tanto più una pessima madre, quando lo aveva saputo, era stato così stupido da baciarla e da innamorarsene perdutamente.
 
Si erano amati per sei anni, durante i quali nessuno dei due si era azzardato a toccare l’argomento “matrimonio” e men che meno a menzionare la parola “figli”. Non c’era niente che Kasumi amasse più della propria libertà e quando qualcosa cominciava a starle stretta lei semplicemente volava via. Il suo era un potentissimo meccanismo di difesa forzatamente appreso nei diciassette anni trascorsi con il suo clan, tra soprusi e ubbidienza.
 


 


Ayame rincasò gelata nel corpo e nell’anima. Era uscita di casa spezzata a metà e vi aveva fatto ritorno in frantumi, oltre che con gli occhi più gonfi e arrossarti.
Un viso pallido si affacciò dal salotto per darle un tiepido benvenuto. Kong aveva in faccia un’espressione che non le piaceva; l’espressione di uno a cui fosse venuta un’improvvisa voglia di pontificare per tutte le volte in cui non c’era stato per farlo.
 
Lo osservò asciugarsi le mani sul panno da cucina e solo in quel frangente si accorse delle maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e del grembiule da cucina accuratamente allacciato in vita. Ayame soffocò una risata ma qualche nota le sfuggì in una buffa pernacchia dalla bocca. Era la sua prima risata dopo la drammatica notizia.
 
- Non ti si addice – commentò, ma la voglia di pontificare era ancora tutta lì, in quella smorfia che non si smosse nemmeno per il sollievo di sentirla ridere. Ayame si spense e il suo umore regredì tornando a quando era appena entrata dalla porta. – Piantala di guardarmi così. Sono io che dovrei avercela con te – lo accusò.
 
- No, non credo – ribatté lui svelto.
 
Ayame lo fissò. – Tu dici? Pensi di poter avere il diritto di sparire e poi di tornare con quella faccia da sputasentenze? Pensi di potermi fare la predica? -.
 
- Dovevi stargli lontana – riassunse sillabando: un perfetto tono da paternale che tradì la gelida noncuranza con cui fino a quel momento si era preso cura di lei. – E invece guarda in che situazione ti sei cacciata -.
 
- Non ti azzardare – replicò Ayame con la voce che le tremava tra le labbra, preludio di un’ennesima crisi di pianto all’orizzonte. – Non sono stata io a chiederti di farmi da balia per quattro anni e dubito avessi questa gran voglia di starmi dietro, perciò non ti permettere di giudicarmi -.
 
Kong strinse i pugni e serrò la mascella. Aveva ragione ma le voleva bene, almeno quel tanto che bastava per sorprendersi e imbestialirsi all’idea di non sapere come comportarsi in una situazione come quella. – Mi dispiace, d’accordo?! – ribatté, non propriamente dispiaciuto ma più sulla difensiva. – Io non sono bravo a prendermi cura delle persone -.
 
- Solo perché tu non ne sei capace non significa che la cosa valga anche per me -. Gli occhi le si velarono di lacrime. – Ti ho cercato come una disperata, ti ho chiamato un numero infinito di volte e non ti sei mai degnato di rispondere. Tu non c’eri. E non sai come mi sono sentita per tutto questo tempo –.
 
Kong sospirò. - Mi dispiace – questa volta lo disse con sincero rammarico. Le andò vicino adagio, incerto se lei volesse o meno un abbraccio di consolazione da un uomo come lui, e alla fine si limitò a posarle le mani sulle spalle. – Hai dovuto vendere il negozio, vero? – chiese con voce sommessa, comprensiva. Ayame annuì piano senza stupirsi di come avesse fatto a saperlo.
 
- E la casa? -.
 
Lei tirò su col naso. – Sono rimasta soltanto per Suguru. Se fosse tornato avrebbe saputo dove trovarmi -.
 
- Come facciamo ora con la faccenda dell’Istituto? -. L’allusione al “noi” la fece stranamente sentire sollevata, come se avesse lasciato sottintendere di avere l’intenzione di rifarsi del tempo perduto. – Non sono un granché nemmeno come stregone ma cercherò di fare il possibile per proteggere sia te che… -.
 
Ma il resto rimase sospeso lì così come le labbra di Kong: queste non si chiusero né ebbero il tempo di concludere il discorso per il suono improvviso del citofono. Solo lo sguardo diede un segno di vita fissandosi oltre la spalla di Ayame, verso la porta.
 
Lei andò a rispondere. – Chi è? -.
 
- Sono Satoru -. La sua voce era chiara e solenne, ferma nell’intenzione di rimanere inchiodato lì finché lei non avesse acconsentito a qualsiasi cosa fosse venuto a chiederle a quell’ora della notte.
 
Ayame guardò per un attimo e stolidamente il citofono prima di posarvi di nuovo l’orecchio. – Satoru?! Che ci fai qui? Come sai dove abito? -.
 
- Devo parlarti, apri – rispose in breve.
 
Le si gelò il sangue. – N-non puoi – farfugliò di getto.
 
- Posso restare qui anche tutta la notte se è questo che vuoi -. Lui e la sua cocciutaggine: immancabili e sempre gli stessi. Se qualcosa di lui era cambiato con il passare degli anni certo non era l’ostinazione, fedele a lui come i suoi bellissimi, ancora e forse eternamente, occhi con il paradiso dentro. – Sai che posso farlo – insisté.
 
Seguì qualche secondo di assoluto silenzio, il tempo che servì ad Ayame per prendere una decisione e a Kong per rivestirsi degnamente della giacca e la cravatta, poi ci fu un rumore metallico e il portone sussultò sganciandosi dalla serratura. Frattanto che Gojo saliva le scale a due a due, Shiu Kong usciva dall’appartamento di Ayame con la promessa sulle labbra di rifarsi vivo il più presto possibile. Poi cominciò a scendere; i due si incrociarono al secondo piano e si passarono accanto con indifferenza.
 
Giunto al terzo piano, Satoru notò immediatamente la porta aperta di pochi centimetri e si fiondò all’interno dell’appartamento senza troppe cerimonie. Sbrigarsi era l’unico modo per anticipare un eventuale ripensamento di Ayame e arrivare da lei prima che quel ripensamento si risolvesse con una porta sonoramente sbattuta in faccia. Entrò a braccia tese spaventando Ayame.
 
Lei si volse di scatto e lo vide chiudere delicatamente la porta per rifarsi dell’irruenza con cui era entrato e infine appoggiarvisi contro con la schiena. Ayame era almeno a quattro ampi passi da lui.
 
- Perché sei venuto? –. Gli occhi languidi lo fissavano; contemplavano con velata meraviglia quanto fosse cambiato e al contempo quanto fosse rimasto lo stesso. E non seppe fare una scrematura precisa, perché era tutto così armoniosamente bilanciato da rendere difficile distinguere una cosa dall’altra. Sembrava davvero un essere divino.
 
Satoru chiuse gli occhi. – Non lasciarmi indietro, Ayame –. Era serio. – O forse mi odi a tal punto da volermi cancellare dalla tua vita – disse, poi la guardò con i suoi grandi occhi azzurri, o forse erano turchesi, o addirittura color acquamarina. Non lo sapeva. Non erano mai stati di uno stesso colore per troppo tempo. Eppure, la luce che scaturiva da quegli occhi, adesso, non era più crudele come una volta ma docile e inoffensiva.
 
- Io non ti odio – replicò lei morbidamente. Aveva d’un tratto rinunciato a tenersi sulla difensiva come era stata abituata a fare in passato. – Ma ti ho lasciato indietro, è vero – ammise.
 
- Perché? -.
 
- Perché non volevo mettervi in pericolo. L’Istituto vi avrebbe accusati di tradimento e temevo che potessero arrestarvi o addirittura uccidervi -.
 
Satoru chiuse i pugni ma lo fece debolmente. – Però lui lo sapeva -.
 
- Io e Suguru ci siamo incontrati per caso – spiegò e la voce uscì lenta e afona dalla bocca. Era un discorso che non avrebbe mai voluto affrontare con Satoru. Del resto, lui era pur sempre il suo primo ragazzo; il solo che si fosse preso di lei qualcosa di irripetibile.
 
- Stavate insieme? -. La serie di domande proseguì a ritmo costante e così le risposte.
 
- Ci siamo frequentati per sette mesi, poi lui ha preso la sua strada – replicò lei. Questa volta la voce uscì strozzata dalla gola.
 
- Quand’è stata l’ultima volta che lo hai visto? -.
 
- Quasi due anni fa. Ti prego Satoru, basta -.
 
Ayame lo vide strofinarsi il viso, poi lo sentì sospirare sordamente. – D’accordo, scusami -. Era la prima volta che Satoru si scusava con lei.
 
Era andato da Ayame per dirle del finto matrimonio, per confessarle che le piaceva da matti, cosa che non aveva fatto in passato quando era stato il loro momento, quando lei aveva occhi solo per lui e quando starle accanto era la cosa più scontata del mondo. E invece era finito per mettersi in ridicolo di fronte a lei con quell’inutile scenata di gelosia il cui unico effetto era stato quello di dimostrare di non essere cresciuto affatto. A quel punto, dubitava che Ayame lo ritenesse cambiato davvero.
 
- Comunque… - riprese cercando di dominarsi – ho detto ai piani alti dell’occulto che sei mia moglie. È per questo che dovevo parlarti -.
 
Lei lo guardò sgranando gli occhi. Li precedette di qualche secondo la bocca che si aprì formando una specie di piccolo ovale. Poi disse qualcosa: la prima frase che le venne in mente. – Stai scherzando? -.
 
- Dico sul serio – ribatté prontamente lui. Dallo sguardo si capiva espressamente che era serio.
 
- Satoru! Ma come diavolo ti è venuto in mente?! – lo rimproverò con un’enfasi accesa di sgomento, poi avanzò di un passo. E quando se ne accorse arretrò istintivamente come se lo spazio stabilito dapprincipio tra loro dovesse restare inalterato, perché più vicino di così era sinonimo di guai. Di che genere? Non ne aveva idea. Non era nemmeno tanto curiosa di volerlo scoprire.
 
- Senti, è l’unico modo che ho per proteggerti. Non credere che per me sia stato facile – commentò lui mettendo le mani avanti.
 
Le scappò un ghigno asciutto. – A me sembra tanto di sì -. Quell'alito di ironia gli suggerì che fosse giunto il momento di provare a farsi spazio in quella piccola apertura nel suo orgoglio, e che tanto difendeva senza remore, per accorciare le distanze. Per un attimo gli parve di essere tornato ai giorni in cui passavano il tempo a punzecchiarsi.
 
- Gojo Ayame. Dai, non suona male – scherzò Satoru. In altri momenti quella battuta sarebbe stata accolta e rigirata abilmente contro di lui con un’altra battuta ma dalla musicalità tagliente tipica di Ayame. E invece la magia si spense in un batter d’occhio perché l’espressione di lei s’incupì. E l’orgoglio di Ayame tornò ad essere inespugnabile; gli si chiuse in faccia come sarebbe successo con la porta se fosse arrivato con qualche secondo di ritardo.
 
- Non è divertente – fece lapidaria. Le lacrime tornarono ad affacciarsi agli occhi per accanirsi contro l’ostinazione di Ayame a reprimerle e vincere.
 
Sposarsi era il sogno di una vita per lei. Aveva cominciato a pianificare il giorno delle sue nozze quando a sedici anni Nobu Arata, un ragazzo più grande di lei di due anni, le aveva donato il secondo bottone dall’alto della sua divisa scolastica dopo la cerimonia del diploma. Il gesto aveva suscitato le risa di molti, di solito ci si dichiarava ai compagni dello stesso anno, ma non quelle di Ayame che invece ne era rimasta ammaliata. Pensava al matrimonio da allora, sebbene non fosse mai stata sua intenzione quella di sposarsi con Nobu. Con lui aveva avuto una breve storia d’amore; frequentandosi avevano scoperto di avere ben poco in comune perché potessero costruire qualcosa di duraturo. Ma lui le aveva fatto venire voglia di sognare in grande, di impegnarsi per ottenere la propria rivincita a fronte di una situazione familiare infelice, la cui unica utilità era stata quella di insegnarle che l’amore era un sentimento effimero. E adesso Satoru lo aveva reso una semplice messinscena.
 
Un sonoro singhiozzo decollò da qualche parte dentro di lei e Ayame cominciò a piangere; non proprio una novità quella sera.
 
- Ehi –. Satoru parlò con voce sommessa, impensierita. Si allontanò dalla porta e mosse un passo verso di lei ma Ayame ristabilì le distanze facendone uno indietro. – Ayame cerco solo di proteggerti. Lo so che con tutta probabilità non hai minimamente pensato alle conseguenze quando hai fatto irruzione all’Istituto stasera, e non voglio nemmeno rinfacciarti la cosa dicendoti che avresti dovuto considerarlo. Lo so che Suguru era più importante di tutte queste cazzate, anche io ho infranto delle regole per lui. Il punto però è che io posso permettermelo perché quei vecchi rimbambiti mi temono, mentre tu per loro sei una preda facile. Ti chiedo solo di fidarti di me. Vieni via con me, qui ad Ayase non posso proteggerti. Ti farò stare nella villa di famiglia, tanto non ci vive più nessuno. Però, per favore, almeno questa volta mettiamo da parte l’orgoglio. Che ne dici? -.
 
Ayame scrollò animatamente la testa. Si asciugò le guance con il dorso della mano e soffocò un singhiozzo. – Mi dispiace Satoru – piagnucolò.
 
Lui reagì alzando di poco la voce. – Perché non vuoi capire?! Nessuno può proteggerti a parte me! Se resti qui ti uccideranno e io non ho alcuna intenzione di perderti un’altra… - Satoru si ammutolì come se avesse d’un tratto dimenticato le parole. La gola emise un gemito straziato, di stupore inatteso e fatalmente doloroso, e il cuore fece un tuffo nel vuoto; cadde senza arrivare mai.
Da qualche parte in quella casa riecheggiava il pianto di un bambino.




 
Salve! Sono di nuovo tornata con le solite chiacchiere d'autrice che piacciono tanto a me (e scommetto meno a voi lol). 
Ringrazio anzitutto le persone che hanno recensito il capitolo precedente, le quali sono soprattutto responsabili di questo decimo capitolo (ebbene sì, prendetevi le vostre responsabilità per ciò che leggerete eheh). Scherzi a parte, il mio cuoricino vi ringrazia perché avete permesso a questo capitolo di essere pubblicato. Arigato gozaimasuuuu!
Che dire di questo capitolo? Senz'altro è stata dura. Sono ancora in quella fase "meh" della scrittura in cui qualsiasi cosa scrivo mi suscita solo che pietà e ribrezzo (xD) e sono ancora nella mia fase sonnacchiosa in cui non so come mettere le idee per iscritto. A proposito di idee... tutto ciò che leggete non sono cose dell'ultimo minuto ma fasi precise definite già in partenza (addirittura da quando scrivevo Crisantemo) e... niente. Ci tenevo semplicemente a dirlo. 
LO SO che probabilmente non ci state capendo una mazza con tutti questi colpi di scena ma era previsto, perché sono un pochino sadica lo ammetto.
Detto ciò, ringrazio già anticipatamente coloro che lasceranno un commento permettendo a questa storia di proseguire.
Alla prossima ^^

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Capitolo 11
*** Hanae ***



Satoru fissava la mano chiusa attorno alla maniglia con lo sguardo assente, rivolto a scrutarsi dentro. Si domandava, in quell’intermezzo, tra l’atto che aveva fatto di voltarsi e aprire la porta e quello prossimo di andarsene per mai più tornare, e con un’improvvisata giustificazione ancora umida sulle labbra, che cosa avrebbe dovuto fare.
 
Fuggire, suggeriva l’istinto; fuggire perché peggio di così non poteva andare. – È il caso che vada, si è fatto tardi – aveva detto al levarsi di quel pianto ma era ancora lì, a meditare, a tormentarsi.
 
Regredì a quando aveva diciotto anni, a quando le cose che lo ferivano dentro, per quelle fuori bastava il potere del Minimo Infinito, se le lasciava scivolare addosso; al tempo in cui feriva per non essere ferito.
 
Non era cambiato, dopotutto. Trovava ancora inaccettabili certe sue debolezze. Voleva ancora fuggire, ferire, allontanare, distruggere, fingere. Era rimasto un bambinone, per usare l’epiteto preferito di Ayame, irresponsabile e codardo nelle questioni personali, e ne stava dando prova proprio in quel momento, stritolando la maniglia nella mano e guardando davanti a sé con espressione vigliacca.
 
Lei, alle sue spalle, non c’era più. Si era recata in camera da letto e aveva preso tra le braccia una bambina per cullarla ma questa continuava a piangere a dirotto. Si udì il tonfo della porta d’ingresso e Ayame immaginò che Satoru fosse andato via. Come biasimarlo. Aveva cercato di nascondergli l’esistenza di sua figlia e prima ancora il fatto di essere viva; e, a voler tornare ancora più indietro, anche di essere il Ventre di Tengen. Aveva nascosto così tanto di sé a Satoru che pretendere di essere la sola ad aver collezionato delusioni e sconfitte nel loro gioco di resistenza, ora che poteva rifletterci maturamente, era un atteggiamento scorretto nei confronti di un uomo che non smetteva di esserci per lei.
Quell’orrendo scontro tra orgogli, alla fine, era stato vinto da lei e di questo non andava molto fiera.
 
Uscì dalla camera e camminò fino al salotto cullando la figlia tra le braccia, e lì si fermò. Satoru aveva chiuso la porta ma non se n’era andato via. Ayame lo guardò incredula.
 
- Pensavo te ne fossi andato – mormorò. Il pianto della piccola iniziava a placarsi.
 
Satoru sorrise a forza, timidamente. – Stavo per farlo ma… eccomi qui – commentò con fare autoironico. Accompagnò la battuta infelice con un’alzata di braccia, poi ricaddero mollemente lungo i fianchi.
 
La bambina emise un risolino. Tese le piccole braccia verso Satoru cessando improvvisamente di piangere e agitò le manine. – È attratta da tutto ciò che è bianco, scusala – spiegò Ayame. La piccola mirava ai capelli di Satoru.
 
Lui attese un’occhiata di consenso da parte di Ayame, poi si fece avanti con prudenza e annullò quasi completamente la distanza tra sé e la bambina. Si piegò di poco sulle ginocchia e le mani della bambina si tuffarono curiose nei suoi capelli argentei. Li fissava affascinata senza battere ciglio e lanciava gridolini quando i capelli di Satoru le facevano troppo solletico.
 
Lui si sentì sciogliere dentro. Era terrorizzato e insieme commosso da quella innocente tenerezza; lo feriva e al tempo stesso lo rincuorava senza sapere il perché della seconda. Quello che gli faceva male, invece, era rendersi conto che la donna per la quale aveva scelto di restare era la madre di quella bambina e che quella bambina, poteva giurarci a giudicare dalla somiglianza, era anche la figlia del suo migliore amico.
 
Di lui aveva la forma degli occhi mentre il colore dell’iride era quello di Ayame, solo di un blu leggermente più chiaro, ma era ancora presto per capire esattamente cos’altro avesse ereditato di suo padre. Quanto al colore dei capelli, nerissimi, poteva averlo preso da Suguru così come da Ayame.
 
- Si chiama Hanae – proferì Ayame notando quanto Satoru la osservava, curioso forse di conoscere il suo nome.
 
Lui tornò dritto sulle gambe quando la bambina diede segni di stanchezza: si strofinò gli occhietti ed emise un lamento sommesso. Satoru la guardava. – Suguru non mi ha detto di avere una figlia -.
 
- Non lo sapeva – replicò mestamente lei dondolandosi sul posto per far addormentare la bambina. – Quando ho scoperto di essere incinta lui aveva già abbandonato il tempio -. Pausa. Respiro.
 
– Non so proprio come sia potuto accadere – e riprese mugugnando con gli occhi colmi di lacrime. La voce iniziò a incrinarsi. – Siamo sempre stati molto attenti, non ho mai dimenticato di prendere la pillola, nemmeno una volta. Davvero, non so proprio come sia… -. Scoppiò a piangere, sforzandosi di soffocare i singhiozzi per non disturbare il sonno via via profondo di sua figlia.
 
Una figlia indesiderata proprio come lo era stata Ayame per sua madre. Non esattamente allo stesso modo, dopotutto lei era stata abbandonata, ma certamente accolta con meno entusiasmo di come sarebbe accaduto in circostanze migliori.
 
– Non ce l’ho fatta a… - aggiunse tra le lacrime ma lasciò la frase in sospeso. Abortire. Voleva dire abortire. – Lei è pur sempre mia figlia ed è anche la figlia di Suguru e io non potevo fare una cosa così orribile -. Questa volta le scappò un acuto singhiozzo, uno solo, che fortunatamente non ebbe alcuna conseguenza sul sonno della bambina. – E adesso Suguru è morto e io… -.
 
- Venite con me – propose Satoru risoluto.
 
Sarebbe stato lui questa volta a rimettere insieme i pezzi. Lo aveva deciso quando aveva richiuso la porta, perché per quanto Ayame lo avesse lasciato indietro ora per loro non restava altro che andare avanti, sopravvivere, adattarsi.
 
- Ai vecchi dei piani alti basterà sapere che vivi nella casa di famiglia per credere alla faccenda del matrimonio. Non dovrai fare nulla di sconveniente, credimi – cercò di rassicurarla.
 
Ayame non lo guardava. Si sentiva inadeguata, miserabile all’idea di accettare l’ennesimo aiuto da qualcuno, eppure così disperatamente bisognosa di scollarsi di dosso quella condizione opprimente di solitudine. Ingigantiva all’affacciarsi di una nuova delusione, tanto che ormai non era più nemmeno sicura di riuscire a resisterle ancora per molto.
 
- Non saresti dovuto venire – ammise lei in un pianto calante, prossimo a esaurirsi negli ultimi sommessi singhiozzi, e non perché si fosse d’un tratto accorta di disprezzare quell’uomo, o perché fosse in definitiva certa di aver fatto bene a stargli alla larga, ma perché sentiva già quella solitudine diradarsi e non vi era alcuna garanzia che questa volta sparisse per sempre.
 
- Che cosa ti trattiene qui? -.
 
Niente la tratteneva. Suguru, il solo per cui era rimasta in quella città e in quella casa, era morto e non avrebbe più potuto mantenere la sua promessa di tornare. Il negozio di fiori a cui aveva dedicato anima e corpo era stato venduto al settimo mese di gravidanza. Per un po’ era stato mandato avanti da una sua dipendente ma i costi dei fornitori, delle utenze e degli stipendi l’avevano quasi costretta a dichiarare il fallimento. Era riuscita a pagare i debiti grazie ai soldi ricavati dalla vendita del negozio e ora sbarcava il lunario tenendo corsi online di ikebana e di lingua giapponese agli stranieri. Non c’era proprio niente a trattenerla in quella dannata città, ma Ayame non rispose.
 
Incalzato da quel silenzio Satoru riprese il discorso. – Ti aiuterò con Hanae. Non dovrai più crescerla da sola. Farò del mio meglio e… -.
 
- Non sei tenuto a farlo – s’intromise lei.
 
- È la figlia del mio migliore amico, Ayame – ribatté lui nell’immediato. – Dannazione, ho aiutato il figlio di quel bastardo di Toji, come pensi possa ignorare la figlia del mio migliore amico? Il mio migliore amico – sottolineò con più enfasi e convincimento.
 
Ayame parve sorpresa di udire quel nome. – Il figlio del Signor Fushiguro? Parli di Megumi? -.
 
Satoru la guardò aggrottando le sopracciglia. – Lui ti ha parlato di Megumi? – domandò, al che scosse la testa. – Piuttosto, come fai a essere viva? È stato lui a salvarti? -.
 
Lei annuì. – Lo ha fatto per saldare un debito che aveva con mio padre. Io però non ne avevo idea, su questo puoi credermi -.
 
- Allora? Vieni via con me? – chiese di nuovo: una domanda del tutto scollegata dal resto ma la sola che avesse davvero importanza. La osservò con i suoi occhi tersi, di cielo estivo e senza nubi, e se la impresse nello sguardo. Lei lo degnò dell’attenzione: la notte in miniatura racchiusa nelle iridi di Ayame e il giorno contenuto in quelle di Satoru si incrociarono alla luce della lampada. Un sole e una luna artificiali si riflettevano nei loro occhi.
 
- Va bene – rispose Ayame tutto d’un fiato: una decisione presa sul momento già minata di ripensamenti. Era naturale che ce ne fossero. Averlo intorno le risvegliava opache vicissitudini del passato, non più tanto opache quando le tornavano in mente, come se lui fosse la chiave per rimetterle a fuoco. Riaffiorarono i battibecchi, le frecciatine, i dispetti, gli improperi, le lunghe occhiatacce e gli sguardi fugaci, i baci, il sesso, le bugie, le risate.
 
L’espressione di Satoru si distese e nascose un gesto di esultanza dietro un breve sorriso. – Verrò a prenderti domani pomeriggio -.
 
- Non posso dare al proprietario un così breve anticipo. Da contratto servono almeno tre mesi –.
 
- Penserò io a gestire la questione con il proprietario. Tu mandami il suo numero e… -.
 
Ayame vide Satoru trafficare con il cellulare, poi avvertì il telefono vibrare nella tasca posteriore dei jeans. – Quello è il mio numero – spiegò lui.
 
- Come hai fatto a…? – Ayame sospirò scuotendo la testa. – Lascia perdere, come non detto -. Proprio come ai vecchi tempi.
 
- Scrivimi anche una lista di cose che servono per Hanae. Porta soltanto l’essenziale, d’accordo? -.
 
Ayame cominciava a stancarsi di tenere in braccio la bambina, le dolevano le spalle e la schiena, e una smorfia di dolore le attraversò debolmente il viso. – Va bene – farfugliò.
 
Gli ultimi sguardi di Satoru prima di salutarla e lasciare l’appartamento furono destinati a lei e alla bambina, difficili da tradurre in qualcosa che avesse un’accezione univoca. Le aveva guardate con dolcezza ma anche con dispiacere; teneramente e insieme con la faccia affranta; con il coraggio negli occhi ma anche con travolgente timore. Per un attimo le parve di vedere il Satoru del passato e quello del presente sovrapporsi, poi alternarsi e infine sovrapporsi di nuovo. Che fosse o meno cambiato, il suo desiderio di proteggerla era rimasto lo stesso.
 
 

 

C’era un seggiolino sistemato sui sedili posteriori della sua auto e Hanae vi dormiva indisturbata. Ci finiva l’occhio ogni volta che controllava la strada dal lunotto attraverso lo specchietto retrovisore centrale. Ironico per un uomo che teneva sempre di riserva qualche preservativo nel portaoggetti al lato del passeggero.
 
Gli crebbe dentro una grassa risata ma fece in tempo a reprimerla nel diaframma o avrebbe avuto la sensazione di aver perso completamente il senno. Ma doveva essere già a un buon punto. Non sapeva spiegarsi altrimenti la presenza di quel seggiolino nella sua auto, o l’omogeneizzatore, i pannolini e il passeggino disposti con precisione millimetrica perché non rotolassero di qua e di là nel portabagagli: ultimi acquisti della lunga lista dettagliata di Ayame.
 
Quando gli era toccato mettere il naso in un negozio per bambini, la prima volta, aveva di riflesso fatto un passo indietro, meccanicamente, come un soldatino di legno scarico nel suo ultimo spasmo di vita, e le porte scorrevoli del negozio gli si erano aperte di colpo alle spalle facendolo a momenti capitombolare per terra.
 
Aveva suscitato le risate graziose delle cassiere; queste gli avevano lanciato occhiate svenevoli, segretamente demoralizzate al pensiero che un uomo affascinante e giovane come lui fosse già alle prese con un marmocchio; che fosse già occupato. Alcune di loro avevano persino pensato che fosse sprecato per fare il padre. Lo avevano visto bene sotto le lenzuola di un hotel a sbattersele selvaggiamente come un dio del sesso dopo averle legate per i polsi alla spalliera del letto. Certo non con un bambino nel seggiolino della sua auto di lusso.
Se era parso inverosimile a loro, figurarsi a lui che se lo fissava a più riprese.
 
Da quando era montata in macchina Ayame non aveva detto una parola. Guardava la strada scorrere oltre il finestrino tutta raccolta contro lo sportello per mettere quanta più distanza possibile tra sé e Satoru.
 
Aveva sul viso un’espressione anonima. Anzi, sembrava non avere affatto un’espressione, ed era la prima volta che Satoru la vedeva così priva di sé. Non azzardò alcun commento, né tentò di scucirle qualche parola, e guidò fino alla villa di famiglia inciampando sovente con lo sguardo sul viso pacioso di Hanae quando all’occorrenza controllava la strada dallo specchietto retrovisore.
 
La villa di famiglia era immancabilmente di uno stile tradizionale, risalente al periodo Heian, dal valore storico inestimabile. La barriera mistica che la circondava la teneva al sicuro dai senza poteri e in generale da chiunque potesse costituire una minaccia per la casata dei Gojo. Era situata su un’altura verdeggiante e circondata da una foresta di proprietà della famiglia.
 
Ayame rimase in auto finché Satoru si affaccendava a svuotare il portabagagli e portare in casa le valigie e gli ultimi acquisti, come se non ne avesse ancora abbastanza di fare avanti e indietro con scatole e scatoloni da quando, quella mattina, aveva avuto la brillante idea di portarsi avanti con la lista di Ayame. Fortuna che l’inverno era dalla sua o sarebbe stato già al secondo cambio di camicia nell’arco di mezza giornata.
 
- Vieni, ti faccio strada – esordì sbuffando e allentandosi nervosamente la sciarpa avvolta attorno al collo. Le guance appena imporporate gli conferivano un aspetto tenero e buffo al tempo stesso. Ayame sorrise internamente.
 
La ragazza scese dall’auto, prese Hanae dal seggiolino svegliandola e scusandosi con lei per averlo fatto. La bambina piagnucolò un momento ma la vista dei capelli bianchi di Satoru ebbe l’effetto di calmarla. Allungò la manina per cercare di raggiungere quei ciuffetti innevati e si lagnò quando riuscì a toccare al massimo il mento di Satoru.
 
Oltrepassarono un piccolo ponte ad arco che attraversava un ruscello di acqua gelata e poi un piazzale lastricato. Un ampio patio faceva il giro della villa. S'intravvedevano gli alberi di un vasto giardino sul retro svettare oltre i tetti noyane, le loro fronde sibilavano al passaggio del vento, e il ruscello correva orizzontalmente a perdita d’occhio verso le profondità della foresta.
 
Ayame fermò bruscamente il passo al sorgere di un brivido che dal fondoschiena salì vertiginosamente alla nuca. Lo sguardo saettò alla sua destra con un movimento meccanico, deciso, come se l’inconscio le avesse detto dove guardare o come se qualcosa da qualche parte, laggiù, avesse bisbigliato il suo nome. Un piccolo tempio, o così le sembrava, si specchiò nei suoi occhi, brillante del suo color rosso vivo. Costituiva una zona a sé, separata dal resto della casa, e pareva più antico di quanto lo fosse la villa di Satoru, dai colori lignei e scuri.
 
- Io… - mormorò con voce remota, come se provenisse da un’altra dimensione. – Io ho già visto quel tempio – ammise sottovoce.
 
- Tokyo è piena di templi così – sdrammatizzò Satoru. Aveva colto il disagio farsi spazio sul volto di Ayame ma non vi aveva badato molto. Non era veramente il tempio a sconvolgerla, si diceva, ma la morte precoce e inattesa di Suguru, l’improvviso trasferimento nella villa di famiglia, il finto matrimonio, il piagnisteo sottile e ininterrotto di Hanae che, alla lunga, avrebbe portato all’esasperazione chiunque.
 
- Sì – replicò lei riluttante – forse hai ragione -.
 
Varcarono la porta di casa ed entrarono lasciandosi la solennità della villa alle spalle, i sapori antichi e aristocratici che rimandavano a un’epoca remota eppure così vicina da camminarci in mezzo. All’interno dominava uno stile moderno ma non per questo in disarmonia con l’architettura originale della casa. L’arredamento era raffinato ma essenziale e i colori chiari si abbinavano perfettamente all'ebano delle pareti e del pavimento, interamente di legno.
 
- Ho speso una fortuna per rimodernarla -. La voce di Satoru catturò lo sguardo di Ayame come una piccola farfalla presa nel retino, prima rivolta a svolazzare in quel gigantesco spazio. – Perlomeno adesso c’è qualcuno che può godersela –.
 
- Satoru… - Ayame fece per dire qualcosa ma Hanae cominciò ad agitarsi tra le sue braccia. Gemette per parlare con urgenza ma le parole per “voglio andare lì” erano troppo difficili perché fosse già in grado di pensarle e poi articolarle. Si sporse in avanti e puntò le mani verso un angolo della stanza saltellando in braccio alla madre e muovendo la bocca in vocalizzi e versetti.
 
Ayame vi diresse lo sguardo, perplessa, poi le scappò di bocca una risata serrata e dalla musicalità incredula. Satoru aveva disposto un’area giochi nel vasto salotto, con tanto di tappeto in gommapiuma, peluche, giocattoli e barriere che delimitavano la zona. Depose Hanae per terra e questa gattonò da sola fin lì zampettando di contentezza.
 
Satoru l'anticipò. – Quello è il mio regalo di benvenuto –. Si massaggiò la nuca stranamente a disagio. – So che non era nella lista ma… -.
 
- Avrai speso una montagna di soldi. Non capisco, avremmo potuto prendere il necessario dal mio appartamento -. Invece, la sola cosa “vecchia” che aveva potuto portarsi dietro stando alle indicazioni di Satoru, a parte vestiti e giocattoli, era il seggiolino nella sua auto. Nient’altro.
 
Lei lo vide scuotere piano la testa. – Avrei dovuto far scomodare alcuni assistenti di direzione per il trasloco e sinceramente non volevo che ficcassero il naso in questa faccenda – spiegò in tono serafico. Guardava Hanae, come inaugurava i suoi nuovi giocattoli mordicchiandoli tutti, e le labbra ammiccarono per sorridere debolmente.
 
- Con il proprietario dell’appartamento com’è andata? -. Ayame sembrava improvvisamente aver riacquistato la voglia di parlare.
 
Satoru fece spallucce. – Mi è bastato pagare in anticipo i tre mesi di preavviso -. A quel punto, si accorse che Ayame lo guardava impensierita e non attese nemmeno che quell’espressione le si cristallizzasse completamente sul viso. – Che non ti venga in mente di restituirmeli o di comportarti come se fossi in debito con me perché, ti avviso, potrei arrabbiarmi – ammise schiettamente guardando da un'altra parte. Lei richiuse le labbra e si ammutolì.
 
Prima di distogliere lo sguardo Satoru aveva scorto un grazie rosseggiare su quella bocca. Lo stregone scrollò le spalle come per scacciare una sferzata di freddo nelle ossa, simile a un brivido gelato e pungente, e ficcò le mani nelle tasche del cappotto.
 
- Chiamami se ti serve qualcosa – si raccomandò prima di congedarsi. – Domani mi farò accompagnare da Nanami fino ad Ayase per prendere la tua auto e gli ultimi bagagli. Ho fatto anche un po’ di spesa così potrai stare tranquilla per un po’ -.
 
La salutò con gli occhi e tutto si svolse quasi con la stessa metodicità della sera precedente: Ayame lo guardò andare via indugiando sulle proprie gambe, le quali smaniavano 
inspiegabilmente di corrergli dietro, e lui si allontanava piano, con il passo stretto e i piedi ravvicinati, in un’andatura innaturale e terribilmente scomoda per delle gambe lunghe come le sue.
Immaginava che, se avesse preso tempo, qualcosa sarebbe potuto cambiare. Ma non accadde niente.





 
Salve a tutti! 
Come sempre ringrazio le mie predilette lettrici e i loro commenti che hanno permesso a questo capitolo di vedere la luce. 
Non ve la farò troppo lunga questa volta ma so che alcuni di voi ci tengono ad essere aggiornati. 
La situazione scrittura è ancora nella fase critica. Non c'è niente, ma proprio niente, che mi piaccia davvero. Anzi, ho il sospetto che con il procedere dei capitoli la qualità della mia scrittura stia andando a regredire. Faccio molta fatica ad esprimere i sentimenti dei personaggi, ultimamente. E mi sento davvero poco poetica. Non che le altre volte mi sentissi chissà quanto poetica ma sicuramente più di ora. Non so, mi sembra una scrittura più macchinosa e meno spontanea. E non so da cosa dipenda, sinceramente. All'inizio avevo accusato la pausa dalla scrittura per via degli esami ma temo non sia questo. Comunque, non vi preoccupate, continuerò a scrivere la storia perché so che alcuni di voi ci tengono e sinceramente anche io.
Vi chiedo scusa se doveste avere l'impressione di un calo di qualità. 
Detto questo... niente. Benvenuta Hanae! (più o meno).
Ringrazio anticipatamente coloro mi dedicheranno un po' del loro tempo per lasciarmi una considerazione permettendo a questa storia di continuare!
Grazie a tutti e alla prossima!

 

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Capitolo 12
*** Ricominciare ***



Mandò giù un sorso di vino bianco vuotando il bicchiere tutto d’un fiato e depose il calice a distanza di braccio sul tavolino da caffè davanti al divano. La TV accesa trasmetteva un vecchio film di Natale a volume basso. Era Natale: il secondo Natale senza Suguru. Ben diverso, questa volta, dal precedente.
 
Un tempo aveva potuto sperare che tornasse. Aveva persino sorriso quando se l’era immaginato sulla soglia di casa indossando un buffo cappello da renna sacrificando la serietà solo per strapparle una risata e farsi perdonare della lunga assenza. Alla fine, quel sogno era rimasto un sogno ma si era ripromessa di immaginarselo ancora così il Natale successivo. E ora che quel momento era arrivato la sola immagine che vedeva profilarsi nella mente era il suo cadavere steso sul lettino dell’obitorio, pallido e senz’anima. Non c’era un buffo cappello da renna ma sangue secco tra i capelli e sui vestiti.
 
Lasciò perdere il vino. Si rannicchiò contro un angolo del divano e pianse con la fronte appoggiata alle ginocchia. Rimase in quella posizione per un buon quarto d’ora alternando lacrime e singhiozzi strozzati, poi il suo cuore fece un balzo e la testa scattò in su come una molla. Si asciugò in fretta le lacrime e…
 
- Satoru? – biascicò Ayame a stento, stordita dallo sgomento e probabilmente anche dal vino.
 
Le sembrava che fosse comparso dal nulla. Aveva fatto un tuffo di schiena sul divano, gettandosi a peso morto e cogliendo Ayame alla sprovvista, e un grugnito era sgusciato fuori dalle labbra quando la mano aveva battuto accidentalmente contro il tavolino da caffè.
 
- Mi hai fatto prendere un colpo. Ti rendi conto di che ora è? – borbottò: le mani giunte al petto come a reggersi il cuore in fibrillazione perché non schizzasse fuori.
 
- Devo aver sbagliato casa – biascicò lui visibilmente alticcio.
 
Ayame sgranò gli occhi come se avesse assistito a un miraggio. – Ma tu hai bevuto! -.
 
- Sì, ma non sono ubriaco – puntualizzò Satoru e un sorriso sbocciò dal nulla sulla sua bocca.
 
Lei fece schioccare la lingua. – Quanto bisogna essere sobri per sbagliare casa? -.
 
La battuta lo fece sbottare a ridere e poi lo convinse a confessare. – Va bene, va bene. Ho mentito -.
 
- Sputa il rospo – lo incalzò lei pazientemente. Si avvicinò slittando di un posto sul divano e lo osservò dall’alto mentre le ciglia innevate sfarfallavano e gli occhi lucidi passavano nervosamente dal viso di Ayame al soffitto. La testa di lui era a meno di un centimetro dalle sue gambe.
 
- Ero in un locale – attaccò a raccontare: le parole uscivano strascicate e rallentate. – Una donna mi ha offerto un drink e abbiamo scambiato due chiacchiere. Insomma, per farla breve, lei ha abbordato me e io ho abbordato lei. Stavamo per andarcene a fare sesso da qualche parte ma, quando sono andato a pagare il conto, ho capito che se avessi voluto trascorrere la notte in compagnia di una donna… - si fermò il tempo di un sospiro - quella dovevi essere tu, ed eccomi qui -.
 
Era stato strano ammetterlo. Dirlo ad alta voce era diverso che ripeterselo a mente, non soltanto per l’efficacia di quella confessione ma per come l’aveva elaborata nella testa, più macchinosa e impersonale di come era venuta fuori alla fine. Non che avesse avuto modo di controllare quel fiume di parole, o l’intonazione, o l’espressione con cui le aveva pronunciate, sicurissimo che fosse stata un’espressione da ebete. Aveva provato a mettere loro un freno, prima mordendosi la lingua e poi la guancia, ma queste avevano preso la via della voce né più e né meno con la stessa naturalezza di quando espirava aria.
 
E per ricucire quel silenzio, ancora guidato dalla franchezza dell’istinto, sollevò il braccio pallido – la manica della camicia gli si raccolse al gomito – e colse sul dito una lacrima tra le ciglia di Ayame, di quelle che le erano rimaste appese agli angoli degli occhi.
 
Parlò con voce ferma adesso, più consona al Satoru sobrio che a quello un poco intontito dall’alcol. – Stavi ancora piangendo? -.
 
Ayame non si scansò, né scansò la mano di Satoru quando le sfiorò la guancia per catturare quella lacrima, ma s’irrigidì come se si stesse confrontando con una situazione del tutto nuova che richiedeva un certo tempo di reazione. E lo era. Un Satoru così sincero, vulnerabile, e per la prima volta in assoluto alticcio, non lo aveva mai incontrato.
 
Accennò un sì e schivò in tempo i celestiali occhi di Satoru socchiudendo le palpebre. Lui aveva reclinato la testa all’indietro e guardato oltre le bianche sopracciglia alla ricerca di uno sguardo che, alla fine, non aveva trovato. Solo allora si accorse del calice vuoto sul tavolino e della bottiglia di vino ancora piena per metà: se ne intravedeva il contenuto in controluce.
 
Il braccio ricadde lungo il fianco. – Vedo che nemmeno a te è servito per dimenticare -. L’allusione era al tentativo di entrambi, davvero stupido tra l’altro, di riempire i vuoti con l’alcol pur conoscendone a priori l’inefficacia. E gli fu amaramente chiaro che darsi a cose stupide per rimediare al dolore era prerogativa della fragilità umana, persino sua che tra tutti era il più lontano a definirsi e ad essere definito “umano”.
 
- Pensi che potremmo mai? -. Satoru avvertì Ayame girarsi cautamente su un fianco, verso di lui. Stese il braccio lungo lo schienale del divano e vi posò la guancia. Ora, la testa di Satoru si trovava nell’incavo che era andato a crearsi tra le cosce e i fianchi di Ayame.
 
Sentiva di volerla toccare di nuovo ma accantonò la possibilità di farlo. – Sì – replicò lui a bassa voce, quasi a dover convincere prima sé stesso affinché quella conclusione potesse avere un effetto persuasivo su Ayame. – Possiamo andare avanti – suggerì.
 
Lei sorrise indulgente. La mano si animò in un piccolo spasmo, poi tornò a stendersi dove aveva l’obbligo di stare e non tra i capelli di Satoru, dove per un attimo aveva bramato di tuffarsi. Le era venuto spontaneo. In alternativa, poteva credere che fosse stata spontaneamente incoraggiata dal vino, ma dove stava la differenza?
Si sentiva sola. Satoru era lì, il vino pure. E non si trattava di un uomo qualunque ma di Satoru. Forse poteva essere lei la fortunata, quella sera.
 
- A cosa pensi? -. Lui parve insinuarsi nella sua testa, cogliere quel pensiero e cacciarglielo fuori, perché solo così poteva sperare di realizzarlo o sarebbe rimasto a marcire per sempre nella categoria mentale del “dignitosamente sbagliato”.
 
Ayame si umettò le labbra e prese coraggio. – E se fossi io quella donna? Quella del bar -.
 
Lui sbottò in una risata serrata. – Se stai cercando di mettere alla prova la mia lucidità, ti garantisco che sono sobrio. Va be’, quasi – rettificò in un grugnito sommesso, già pentito di aver ordinato quel primo bicchiere di Pétrus quella sera.
 
- Vorresti che lo fossi? – insisté lei, ma con una compostezza che gli fece venire la pelle d’oca.
 
La risposta di Satoru non si fece attendere. – No – disse con onestà. La donna del bar era una sconosciuta, a malapena ricordava il suo nome. Sachiko? Seiko? O forse era Setsuko? Ad ogni modo, il punto era che avrebbe continuato a non avere un nome, o un nome che lui avrebbe sicuramente insistito a sbagliare.
Con la donna del bar avrebbe fatto del sesso anonimo, mentre con Ayame aveva fatto l’amore.
Ayame non era una donna qualunque abbordata in un bar di lusso ma l’unica donna che avesse mai occupato il suo cuore striminzito, troppo angusto per farci stare un sacco di gente dentro.
 
Ayame sorrise amaramente. – Allora perché sei venuto qui? -.
 
Satoru si tirò su a sedere, non ne poteva più di guardarla di traverso, e assunse la stessa posizione di Ayame ma in modo speculare. Piegò la testa di lato, adagiandola contro lo schienale del divano, e la guardò intensamente con i suoi tondi occhi lucenti.
 
- Perché volevo vederti -.
 
- Bugiardo – ribatté lei veloce. – Sei venuto qui perché vuoi qualcosa e allo stesso tempo non lo vuoi, proprio come me. Il punto è: perché lo vuoi, Satoru? E perché non lo vuoi? -.
 
- Perché dovrei avercela con te per avermi mentito -. Satoru rinunciò a tenere la bocca chiusa e confessò in un lungo sospiro. – Perché sei innamorata del mio migliore amico. Perché per stasera ho già fatto troppe cose stupide -.
 
- E perché siamo entrambi ubriachi – aggiunse Ayame poi scoppiò a ridere genuinamente, totalmente fuori contesto ma coerente al suo stato mentale alterato dal vino.
 
Satoru la imitò e rise stupidamente di sé stesso ma anche di lei; di loro. – Già, anche per questo -. A quel punto, la vide scivolare verso il basso e Satoru lesse i suoi movimenti, anticipandola: si sedette compostamente sul divano e lasciò che Ayame posasse la testa sulle sue gambe.
 
- Probabilmente domani me ne pentirò ma per adesso lasciami stare un po’ così, Satoru. Anche se sei arrabbiato con me – farfugliò fiaccamente, colta da uno strano e improvviso torpore. I muscoli si allentarono e Satoru avvertì il corpo di Ayame adagiarsi profondamente contro di lui.
 
Non era più orgogliosa come un tempo, si capiva. Il suo spirito combattivo, la testardaggine, la pretesa di avere sempre ragione, non se n’erano semplicemente andati ma affievoliti con il passare degli anni, delusione dopo delusione. Ayame non era maturata, era letteralmente appassita. E immaginò che la sua vita fosse stata un inverno perenne, salvo quando Suguru le aveva donato un po’ di calore. Riuscì quasi a perdonargli di averle rubato il cuore al posto suo.
Sarebbe stato lui, questa volta, a far sbocciare di nuovo quell’Iris?
 
 

 

Nella settimana che trascorse alla villa di Satoru, Ayame ebbe il tempo di trasferirsi definitivamente. Sistemare i propri vestiti e quelli di Hanae negli armadi, adattarsi alle nuove disposizioni delle stoviglie nella credenza della cucina, riempire i cassetti del bagno con i propri effetti personali, era stato come mettere le radici: sensazione che non aveva provato con le abitazioni precedenti e forse perché frenata dal contratto di affitto, il quale le aveva sempre trasmesso un senso di temporaneità e mai di permanenza. O forse perché si sentiva stanca di pensare di dover cercare ancora un punto fermo.
Per il momento, aveva deciso di credere che quella casa fosse la sua sosta definitiva.
 
Satoru le aveva fatto visita tutti i giorni. I suoi primi approcci con Hanae erano stati piuttosto divertenti. Lei sembrava misteriosamente attratta da lui, non soltanto per il colore dei suoi capelli. Gli andava continuamente dietro, persino in bagno se non stava attento a chiudere bene la porta; una volta era addirittura riuscita ad arrampicarsi fin sopra al divano per stargli vicino, addormentandoglisi addosso mentre Satoru schiacciava un pisolino. Quando aveva riaperto gli occhi se l’era trovata a un palmo dalla faccia, con la guancia incollata al suo mento e le manine aggrappate alla maglietta, e quella vicinanza aveva fatto nascere in lui il sospetto che Hanae fosse in grado di percepire la sua energia malefica. Era stato un bel momento; inatteso, sì, forse prematuro ma piacevolmente dolce.
 
Di momenti con Ayame, invece, ne aveva passati davvero pochi ed erano stati tutti momenti trascorsi insieme a lei e ad Hanae, mai loro due da soli. Forse era la stessa Ayame a volerli evitare, o forse era la pessima combinazione tra i suoi impegni all’Istituto e il tempo in cui Hanae riposava a privare loro di questa possibilità.
 
All’Istituto non si faceva che parlare di lui e della sua presunta moglie, a riprova di quanto fosse noiosa la vita di uno stregone al di fuori del lavoro, anche se tra i vertici del mondo dell’occulto c’era chi dubitava ancora della fondatezza di quelle voci. Ma a Satoru importava meno di niente, sia di chi gli si avvicinava per fare del sarcasmo, sia di chi alle spalle sosteneva che si trattasse di una bugia.
 
Nanami gli aveva creduto per pura formalità; impicciarsi il meno possibile, specie degli affari personali di Satoru, era il suo miglior pregio e per quanto ne sapeva poteva persino metter su una squadra di calcetto che non gli sarebbe cambiata la vita di un millimetro. Yaga, conscio di quella ridicola farsa, gliene aveva cantate quattro allo stesso modo di quando gliene cantava da giovane per i suoi atteggiamenti scanzonati. Non erano volate le sberle educative ma di pruriti alle mani gliene aveva fatti venire a profusione. Però, alla fine, aveva malvolentieri dovuto riconoscere a Satoru la perspicacia di quell’iniziativa e si era trovato d’accordo a tenere Ayame al sicuro nella villa di famiglia. Invece, si era astenuto dal chiedergli quali fossero le sue intenzioni con lei. I sentimenti di Satoru per Ayame e quelli di Ayame per Satoru erano qualcosa in cui nessuno avrebbe dovuto mettere il naso, tantomeno lui.
 
Quanto a Ijichi e a Shoko, nessuno dei due si era pronunciato. A tenere a freno la lingua di Ijichi era stata la paura di una qualsiasi reazione di Satoru, mentre per Shoko doveva essersi trattato di qualcosa di strettamente personale, a giudicare dall’occhiata di disappunto che gli aveva scoccato alla notizia del suo finto matrimonio.
 
Yuta, Panda e Toge gli avevano dato il tormento e il suo unico conforto erano le missioni in solitaria o in compagnia di Maki o Megumi, troppo schivi per avanzare qualche domanda, meno quando si trovavano soli a discuterne tra loro.
 
Durante la settimana, Ayame si era incontrata un paio di volte con Shiu Kong. Lui aveva mantenuto fede alla sua parola ed era parso sollevato quando lei lo aveva messo al corrente delle ultime novità. Saperla al sicuro nella villa dei Gojo era stato come liberarsi di un enorme peso sulla coscienza. Tanto per cominciare, Gojo era lo stregone più temuto dai vertici del mondo dell’occulto; nessuno si sarebbe arrischiato a farselo nemico, a meno che il proposito non era di finire all’altro mondo. E poi era giovane, di bell’aspetto e condivideva dei trascorsi con Ayame. Riteneva che fosse anche un brav’uomo, una volta messa via la maschera dell’immodestia. Ammesso che le voci sul suo conto fossero vere. Erano sempre gli altri a parlare per lui, ad avercelo continuamente sulla bocca, e raramente aveva sentito dire che era stato Satoru Gojo in persona a dire questo o quello.
Aveva sentito dire che era un egocentrico, presuntuoso, frivolo, arrogante, pieno di sé, ma quello che rivelavano di lui gli occhi di Ayame era l’esatto opposto. E lui preferiva credere alla trasparenza di quello sguardo piuttosto che alle voci degli invidiosi o di chi si limitava a giudicarlo in superficie.
 
Ayame aveva pregato Kong di aiutarla a riappropriarsi della sua vera identità, così come in passato l’aveva aiutata a sbarazzarsene grazie ad alcune vecchie conoscenze del mestiere. In questo modo, lei avrebbe riavuto indietro il cognome legittimo di suo padre, mentre Hanae avrebbe finalmente avuto il cognome che si meritava: Ishikawa. La stirpe fantasma degli Yoshimura poteva andare a farsi fottere.
 
Per cinque interi giorni era stata alla larga dalla curiosità di avvicinarsi al misterioso tempio rosso cangiante; una vera impresa quando lo vedeva affacciarsi dalle ampie portefinestre aperte nel momento in cui vi passava occasionalmente davanti, il tempo di far cambiare aria alla casa. Più il tempio finiva per riflettersi nel suo sguardo più cresceva la convinzione che avesse un che di familiare. Non ne aveva alcun ricordo cosciente o nebuloso, difficile affermare che si trattasse di un ricordo e non di un semplice fenomeno inspiegabile come il déjà-vu, ma lo avvertiva dentro, non proprio come una memoria perduta ma più come un vecchio incubo: qualcosa mai vissuto materialmente ma solo generato dal lato oscuro della psiche.
 
Il sesto giorno di quella prima settimana l’impazienza l’aveva condotta ai piedi della sua corta scalinata. I raggi del sole, che ne accentuavano il colore vivo, facevano sembrare le superfici del tempio cosparse di sangue fresco: ampie pennellate di numerosi sacrifici umani. L’aura spettrale l’aveva fatta desistere un momento, poi aveva sollevato il piede e calcato il primo gradino aspettandosi di udire il rumore acre del sangue sotto le pantofole.
 
Al penultimo gradino qualcosa era andato storto. Improvvisamente, le era parso che le gambe perdessero di consistenza: la corrispondente sensazione corporea di quando osservava l’aspirina sciogliersi in un bicchiere d’acqua. La testa aveva preso a girare, il mondo attorno a lei aveva preso a girare, e uno sciame di minuscoli punti neri aveva invaso il suo campo visivo divertendosi a ronzarle convulsamente davanti agli occhi. Aveva perso l’equilibrio, e avrebbe rischiato un bel volo giù per le scale se all’ultimo secondo non avesse fatto lo sforzo di sporgersi in avanti cadendo ginocchioni sul gradino. Quella manovra le aveva procurato un ginocchio sbucciato; sempre meglio di qualche osso rotto.
Di quell’episodio non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno con Satoru.



 
Salve a tutti! 
Ci tengo a ringraziare chi ha commentato il capitolo precedente perché questo vostro impegno nei miei confronti sta permettendo alla storia di continuare. Ringrazio anticipatamente anche chi lascerà qualcosa di suo in questo capitolo permettendomi di continuare a pubblicare la storia. 
Qualcosa da dire riguardo a questo capitolo (e forse anche gli ultimi... uhm... due?) ce l'ho. Anzittuto, ho dovuto spezzarlo in due parti perché stava diventando veramente lungo e volevo evitare di scrivere un capitolo troppo diverso dagli altri in fatto di lunghezza. Spero che il capitolo non vi annoi, ma in realtà lo sto sperando già da due o tre capitoli, insomma da quando Ayame e Satoru si sono rivisti. Purtroppo questi sono capitoli "delicati", di riassestamento in un certo senso, per il loro rapporto e non posso passare da 0 a 100. Spero capiate. Sto anche cercando di arricchire questi momenti di riassestamento con dei chiarimenti della trama accennati in precedenza. Tipo: Ayame venduta ai Gojo dalla madre o quel famoso dialogo tra Tengen e Tsukumo che non so se ricordate. E altre questioni. Ma ovviamente, sempre per il discorso di non voler passare da 0 a 100, sto dosando i momenti in cui introdurre queste novità di trama e allo stesso tempo mi sto occupando di ricucire il rapporto tra Ayame e Gojo. Insomma, una faticaccia. Quindi, mi auguro che questi capitoli transitori (?) non vi stiano dando noia. 
Detto questo... uhm... 
Credo di aver finito.
Grazie di aver letto il capitolo!
Alla prossima ^^

 

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Capitolo 13
*** Quando riaffiorano i ricordi ***



- Avanti, ho detto a tutti che saresti venuta – la pregò Satoru, cantilenando per tutte le volte che aveva dovuto insistere. Stava tentando imperterrito di invitare Ayame alla festa di Capodanno dell’Istituto, ma lei non sembrava affatto intenzionata a rimangiarsi il rifiuto categorico.
 
- Ho detto di no – ribadì seccata, e perché fosse chiaro all’ostinazione di Satoru aggiunse: - non ci voglio venire -.
 
Discutevano nella camera da letto di Ayame. Satoru l’aveva disturbata al momento di piegare i vestiti di Hanae, ed erano almeno cinque minuti che piegava e ripiegava tra le mani uno dei suoi pigiamini. E ogni volta il risultato era peggiore del precedente.
 
In una sfuriata abbandonò l’impresa e uscì dalla stanza passando accanto a Satoru, pigramente appoggiato tra il muro e lo stipite della porta, cercando di fare ordine nei pensieri malgrado le martellanti lamentele dello stregone. Lui le andò dietro.
 
- Si può sapere qual è il problema? Se sei preoccupata per Hanae, ti ho già detto che se ne occuperà una persona fidata -. Satoru frenò di botto quando Ayame si volse di scatto verso di lui.
 
- È quel dannato posto il problema! – scattò lei: gli occhi spessi di lacrime preannunciavano una crisi di pianto, l’ennesima da quando Suguru era morto, ed era ridicolmente imbarazzante per lei scoprire ogni volta di non saper reagire altrimenti. – Noi… - smise di parlare e sospirò. – Abbiamo ballato, in quella sala. Abbiamo riso e parlato – la voce cominciò a calare verso un tono di autocommiserazione. - E io non ce la faccio a tornare in quel posto. Non riesco nemmeno a tirare fuori la sua fotografia dalla valigia – o a godersi un po’ di pace a mollo nella spaziosa jacuzzi del bagno padronale senza rivivere dolorosamente le volte in cui lo aveva fatto assieme a Suguru. Il massimo che Ayame riusciva a tollerare era il laccio per capelli ancora fedelmente custodito al polso.
 
Satoru mandò giù una boccata amara. Quella sala, quella notte, era stata anche la loro sala e la loro notte. Avevano litigato, sì, ma avevano anche ballato ed erano stati a tanto così da scambiarsi il loro primo bacio. – C’ero anche io quella sera, o forse te ne sei dimenticata -.
 
- Tu non capisci. Hai idea di cosa vuol dire svegliarsi ogni mattina e vedere il suo viso su quella bambina? La sua bambina. Per me questo è già troppo da sopportare -.
 
Satoru intervenne. – Invece capisco eccome, Ayame. Anche io sono ancora vivo. Pensi che per me varcare tutti i giorni l’ingresso dell’Istituto sia una stronzata solo perché sono bravo nelle stronzate? Pensi che non mi sconvolga venire qui e vedere la sua faccia su tua figlia? Nessuno tiene a Suguru più di me, nessuno – ribadì gelosamente. – Vedo la nostra scuola, la nostra vecchia aula, il nostro campo da basket, le nostre divise indosso agli studenti, tutti i maledetti giorni. Prendo ancora da bere allo stesso distributore dove ci piaceva cazzeggiare per far perdere le staffe a Yaga. Il vicolo in cui è morto è in quella scuola, sai cosa significa? Sai cosa significa passare al laboratorio di Shoko e fingere che non sia mai stato steso su quel lettino? -.
 
Satoru rinunciò. Si massaggiò il viso prendendo un respiro profondo, poi buttò fuori l’aria lentamente fin quasi a togliersi il fiato. – Senti, fa’ come vuoi. Penso di trattenermi alla festa fino alle undici, poi vorrei passare qui. Ti trovo sveglia? Non mi va di lasciarti da sola il primo dell’anno -.
 
Ayame rispose silenziosamente con un flebile cenno di assenso. Satoru stava andando di nuovo via e le gambe di Ayame smaniavano ancora di corrergli dietro. Si allontanava svelto questa volta, non come faceva di solito quando si augurava che cambiasse qualcosa. Probabilmente era stanco di farsi delle aspettative.
 
Alla festa, il primo sguardo che lo accolse fu quello demoralizzato di Yuta. Il tempo di accorgersi dell’entrata in solitaria di Satoru e lo spirito festaiolo del ragazzo, di per sé modesto, gli si era spento in viso. Non aveva ancora scambiato il primo saluto con il suo professore che già aveva pronta sulle labbra la domanda cruciale.
 
- Avete litigato? -.
 
Satoru gli lanciò un’occhiata interdetta. Per un attimo distribuì l’attenzione fra i suoi studenti radunati attorno a un tavolo, poi puntò fissamente lo sguardo sul giovane stregone: una smorfia indefinita, perplessa su alcuni punti del viso e attonita su altri, cominciava a delinearsi sulla sua faccia.
 
- La tua perspicacia è davvero inquietante – commentò e Yuta sorrise compiaciuto. Malgrado fosse poco convenzionale, Yuta lo considerava più un complimento che un appunto, a condizione che uscisse unicamente dalla bocca del suo insegnante.
 
- Sempre il solito ficcanaso – lo accusò Maki di riflesso. Di rado teneva i capelli sciolti e quella sera le ricadevano graziosamente sulle spalle.
 
Yuta arrossì appena. Arrossiva sempre quando era Maki a beffeggiarlo, a rimproverarlo o a fargli il culo durante gli allenamenti. - M-ma che dici?! Sono solo preoccupato per il prof -.
 
- Salmone – confermò Toge, stranamente d’accordo con Maki; per una volta aveva fatto un’eccezione.
 
Yuta lo guardò stralunato e rinunciò a difendere la propria innocenza. Persino Panda si era astenuto dal coalizzarsi con lui; lo aveva guardato con occhi grandi e supplichevoli e questo di rimando aveva semplicemente scrollato le possenti spalle in un tacito “veditela da solo”. Megumi, appena tornato dal bagno, guardò la scena senza intromettersi.
A quel punto, Yuta si accasciò sul tavolo e sbuffò con aria sconsolata suscitando una risata generale. Perfino Gojo, leggermente di malumore, si fece contagiare.
 
Ben presto passò al tavolo degli adulti: Kusakabe e Shoko accesero quasi simultaneamente la terza, forse quarta sigaretta della serata, in tempo per asfissiarlo con una solidale, grossa nuvola di fumo. Satoru tossì sventolando la mano in un gesto melodrammatico, e il gesto non fece che accrescere nei due una voglia matta di fumargli direttamente in faccia per toglierselo di torno. Ijichi sudava freddo, tremante nel suo completo da sera, intento a sistemarsi ripetutamente gli occhiali sul naso per scongiurare le occhiate pungenti di Gojo, incline a scoccargliene alla prima occasione da dietro le lenti scure. Nanami, alienato dal resto del gruppo, giocava con il cellulare.
 
- Stupido di un Gojo! -. Un ruggito alle spalle catturò d’un tratto la sua attenzione. Utahime gli veniva incontro con un passo svelto e serrato. Quando gli fu davanti si mise in punta di piedi per accorciare le distanze dal suo brutto muso e gli rivolse una smorfia scontrosa, fulminandolo con gli occhi. Si vide riflessa negli occhiali da sole di Satoru e per un attimo si congratulò mentalmente con Shoko per come le aveva sistemato con il trucco la sua brutta cicatrice.
 
- Cosa hai fatto a quella poveretta?! -.
 
Satoru corrugò la fronte. – Prego? -.
 
Utahime ridacchiò nervosamente. – In giro si dice che ti sei sposato. Tu con la vera al dito? Ma non farmi ridere! Ammettilo, quali promesse che non sarai mai in grado di mantenere hai fatto a quella povera donna per spingerla a sposarti? -.
 
E proprio perché la gentilezza non era mai stata di casa, Satoru reagì con stizza scansandola rudemente. – Non sono fatti tuoi -.
 
Sì, forse non era tipo da fare promesse, ma non era certo colpa dei suoi “giochetti” se in passato lui e Ayame si erano amati. Lei aveva visto qualcosa di recuperabile nel suo caratteraccio, qualcosa che valesse la pena. Ayame aveva visto un uomo che nessun’altra donna sembrava vedere al di là dell’apparenza. A rifletterci, era stata lei a sedurlo, ad affascinarlo, a conquistarlo, e non con l’inganno ma con la sua sincerità.
Se alla fine erano riusciti ad amarsi era stato per merito di Ayame, non suo.
 
Il ghigno sardonico di Utahime si contrasse in una smorfia seria. Con sorpresa si trovò a considerare l’ipotesi di aver esagerato e, ancor più inverosimilmente, di aver ferito i sentimenti di Satoru. – Dai, stavo scherzando. Mi aspettavo una battutaccia delle tue – disse in tono difensivo. – Almeno dimmi qualcosa di lei -.
 
- È sicuramente più bella di te -. La voglia di scherzare gli era improvvisamente tornata. Dopotutto Utahime era sempre Utahime. Era lui, semmai, ad essersi impermalito e la causa era l’eco della sua breve lite con Ayame.
 
La donna incassò la battuta meglio di come l’avrebbe presa in altre circostanze. Prima brontolò qualcosa, poi rise quasi istericamente e per concludere lo mandò cordialmente al diavolo. Satoru sghignazzò e pensò di potersi godere la serata tralasciando per un momento la piccola crisi con Ayame. Allo stesso tempo, si promise di farle recuperare i loro ricordi sbiaditi e riprendersi parte del suo cuore.



 


 
Il primo passo verso la guarigione fu la vasca da bagno, o così credeva. Ne aveva approfittato dopo aver messo Hanae a letto, verso le dieci di sera, ma entrarvi era stato più doloroso del previsto. Le era bastato mettere un piede in acqua per ridursi alle lacrime, perché era lui a dirle sempre di stare attenta, a tenerla mentre entrava nella vasca, e solo perché adorava prendersi cura di lei. Lui si immergeva per secondo e a quel punto era Ayame a prendersi cura di Suguru, beandosi a lavargli i capelli e la schiena. E alla fine trascorrevano il resto del tempo a parlare; non troppo o si sarebbero trasformati in due prugne rinsecchite e la visione li faceva scoppiare a ridere tutte le volte. Rimanevano a mollo finché il freddo non li costringeva a trovare rifugio sotto le lenzuola, uno tra le braccia dell’altra.
 
Senza più quelle braccia forti e rassicuranti, il profumo di casa, i baci caldi sulla fronte, non le restava che rinsecchirsi come una prugna e morire di freddo. Sedeva rannicchiata nella vasca da bagno da quasi un’ora, mogia e infreddolita, con le gambe chiuse al petto e il mento appoggiato sulle ginocchia. Fissava il Suguru del passato seduto di fronte a lei, nei suoi eterni venticinque anni: le estremità dei suoi lunghi capelli galleggiavano sul pelo dell’acqua formando delle piccole spirali d’inchiostro nero.
 
Ayame strizzò gli occhi, poi li riaprì pregando intensamente che Suguru la lasciasse andare, pregando sé stessa di lasciarlo andare, ma non accadde. Allora chiuse gli occhi per non riaprirli più, chiedendosi se fosse o meno giusto nei confronti di sua figlia o di Satoru tenerli chiusi per sempre. La risposta risalì dal fondo della coscienza, con la fretta di chi teme che un secondo di troppo basti a seminare il germe del ripensamento: no, non era giusto. Eppure, richiuse gli occhi.
 
***
 
- Ayame? Sei lì dentro? -.
 
La ragazza spalancò le palpebre sussultando. Dovevano essere trascorsi all’incirca dieci minuti da quando aveva preferito l’oscurità alla nostalgica immagine di Suguru seduto con lei nella vasca. Adesso era sola. Indubbiamente, era stata la voce di Satoru a farla sparire.
 
Ayame rimase in silenzio e si rannicchiò con più forza. – Ayame? – chiamò ancora Satoru, il cui dubbio su dove fosse la ragazza si risolse al levarsi di un lieve sciabordio al di là della porta.
 
- Rispondi, Ayame. So che sei lì dentro – la incalzò lui. Al primo richiamo la sua voce era stata incerta, poi inquieta al secondo e adesso, quando gli fu chiaro che Ayame non avrebbe risposto, si fece cupa. – Non costringermi ad entrare – minacciò ma non ottenne altro che silenzio.
 
Lei nascose il viso tra le braccia. Trovava ingiusto che fosse bastata la voce di Satoru a spezzare quell’illusione, quando di sua iniziativa falliva miseramente ogni volta che provava a rimettersi in piedi da sola. Era colpa di Satoru se aveva creduto di poter superare la morte di Suguru con quel bagno. Era colpa di Satoru se provava vergogna per essere così penosamente fragile. Era colpa di Satoru se aveva desiderato dimenticare il dolore passando la notte con lui. Era tutta colpa sua.
 
- Se pensi che rinuncerò sei fuori strada. Ti avverto che sto per entrare -.
 
Eppure, voleva vederlo. Anche questo era colpa sua.
 
- D’accordo, lo hai voluto tu -. Fu l’ultimo avvertimento di Satoru prima di aprire la porta e fare il suo ingresso nel bagno padronale. La sua espressione rimase impassibile finché non scorse che era nuda, poi passò a velarsi di sbigottimento. Solo all’ultimo la guardò con pazienza. Si tolse gli occhiali da sole e sospirò. – Non dovresti gridarmi di uscire a questo punto? -.
 
La prima reazione di Ayame fu un breve, quasi impercettibile, moto di spalle. Aveva ancora la testa chiusa tra le braccia. Al che mugugnò atona. – Tanto mi hai già vista nuda -.
 
Lui fece un verso di cinico stupore. – Anche questo è vero ma… -. Si accomodò per terra, si abbandonò contro il fianco della vasca e gettò la testa all’indietro per guardare il soffitto. – Sono pur sempre un uomo – dichiarò con voce piana, controllata.
 
- Non mi importa -. Lei lo aveva sentito farsi vicino dal profumo, intenso adesso.
 
Satoru ridacchiò e si passò la mano tra i capelli. – Però, quanto sei ingiusta. Potresti almeno farmi vedere qualcosa -. La provocò con l’unico proposito di innescare in lei una qualsiasi reazione. – Scommetto che ti sono cresciute le tette – aggiunse smaliziato, poi si girò su un fianco, incrociò le braccia lungo il bordo della vasca e vi poggiò su il mento.
 
Una frustata di acqua tiepida lo colpì di traverso in pieno viso. Un piccolo ruggito proruppe dalle labbra contratte di Ayame quando questa sollevò la testa di scatto. – Idiota! Scommetto invece che a te non è cresciuto un bel niente! -.
 
Satoru gemette tra il divertito e l’indispettito e si asciugò il viso con la mano. Alcune ciocche bagnate pendevano sulla fronte, grondanti di acqua. Lo scherzetto di Ayame lo fece scoppiare a ridere dal sollievo. – Temevo fossi cambiata ma sei ancora permalosa come un tempo -. Le risa continuavano.
 
Lei lo guardava imbronciata ma per Satoru era già abbastanza che lo guardasse. – Noto che anche tu sei rimasto l’idiota di allora – commentò lei. Il tono non fu affatto sprezzante piuttosto nostalgico, quasi assurdamente tenero. Poi sorrise: un sorriso incerto, appena accennato, ma autentico.
 
Gli occhi di Satoru si presero un secondo per navigare sul pelo dell’acqua. Il seno di Ayame era immerso quasi del tutto, certamente più florido dell’ultima volta che lo aveva visto. Era il seno di una donna e, soprattutto, di una madre. Lei, conscia di quello sguardo su di sé, pensò per un momento di lasciarlo fare poi lo punì con una seconda spruzzata di acqua in viso.
 
- D’accordo, d’accordo! – esclamò Satoru ridendo brevemente. – Questa me la sono meritata -. Si passò una mano sul viso per asciugarsi, poi incrociò nuovamente le braccia sul bordo della vasca poggiandovi questa volta la guancia, anziché il mento. Le ciglia bagnate gli raddolcivano lo guardo.
 
- Che hai fatto al ginocchio? – chiese con tenerezza, passando veloce gli occhi dal viso di Ayame al ginocchio che sbucava dalla superficie dell’acqua, e puntandoli infine di nuovo su Ayame.
 
- Sono caduta mentre cercavo di entrare nel tempio – spiegò fissando l’altra estremità della vasca. Suguru non accennava a fare ritorno. – Forse sono paranoica ma c’è qualcosa di quel tempio che mi fa star male ogni volta che lo guardo -.
 
Lui aggrottò le sopracciglia. – Se ci fosse un’energia negativa i miei occhi la percepirebbero -.
 
- Non ho idea di cosa sia. So solo che, quando ho provato ad avvicinarmi, mi sono sentita mancare -.
 
Satoru si sporse alla ricerca dello sguardo di Ayame: sembrava pronto a fare un tuffo nella vasca tanto si era proteso sull’acqua. La testa sfiorò le ginocchia della ragazza. – Vuoi che vada a dare un’occhiata? -.
 
- Mh mh – annuì lei a labbra strette e sollevò leggermente lo sguardo, passando dalla punta del naso di Satoru a quegli occhi che somigliavano a due gemme rare. Li contemplò un istante, sicura che fossero in grado di leggerle l’anima, e dopo distolse lo sguardo.
 
- Va bene, allora vado a controllare – Satoru si mise in piedi. – Tu intanto esci da questa vasca o ti verrà l’influenza. Ci guardiamo un film quando torno? -.
 
Lei accennò un sì con la testa e Satoru le sorrise di rimando. A quel punto, uscì dal bagno per passare nella cameretta di Hanae ad accertarsi che stesse bene. La bambina dormiva serenamente abbracciata al coniglio di peluche che lui le aveva regalato. Ayame gli aveva raccontato delle crisi di sonno di Hanae, crisi che tormentavano sia lei che la bambina da quando era nata, ma ora il problema sembrava essersi risolto. Satoru aveva pensato di infondere un po’ della propria energia malefica nel coniglio di peluche, presumendo che potesse avere lo stesso effetto di quando lei cercava un contatto fisico con lui per addormentarsi, e da allora niente più crisi.
 
Si recò al tempio facendosi luce con la torcia del cellulare. Il primo pensiero andò a suo padre, un uomo dalla fierezza e dall’austerità schiaccianti. Poi gli venne in mente il viso della speziale di famiglia e i suoi intrugli stomachevoli, ottimi secondo lei per amplificare l’energia malefica. Ne assumeva in gran quantità quando doveva fare pratica con i Sei Occhi, sotto la guida rigorosa di suo padre, bendato per bene perché non vedesse altro che l’oscurità.
 
Per anni, sin da bambino, era stato sottoposto a quel duro allenamento al buio, drogato dalla mistura di erbe della speziale, per imparare a percepire, riconoscere e distinguere l’energia malefica. Ed era proprio in quel tempio che quella vecchia megera teneva il suo laboratorio. Non era davvero un tempio, era stato costruito appositamente per sembrarlo, ma una piccola casa degli orrori, per come lo ricordava Satoru.
 
Al di là della porta c’era una stanza ottagonale. Vecchie ampolle impolverate occupavano una credenza che aveva visto giorni migliori; uno degli sportelli aveva ceduto e pendeva pericolosamente, affisso ancora al mobile da un’unica eroica cerniera. C’erano ciotole di legno su alcuni ripiani; in una di queste Satoru notò il mortaio che la vecchia utilizzava per pestare gli ingredienti, perlopiù erbe e spezie. E poi il tavolo da lavoro dove se ne stava ingobbita per ore a studiare nuovi modi per drogarlo o nuovi rimedi per quando ci si ammalava, col suo prediletto becco Bunsen sempre acceso a scaldare brodaglie.
 
Accanto al tavolo scendeva dal soffitto una tenda di tessuto leggero che somigliava a una grossa ragnatela sagomata a precisione, dietro la quale Satoru sapeva avrebbe trovato un letto per pazienti. Ogni singolo membro del clan era passato per quel letto, fosse stato solo per un raffreddore, un’infezione o un semplice mal di testa.
 
Satoru scostò la tenda. L’umidità aveva ingiallito il cuscino e le lenzuola; le superfici del comodino e delle mensole sopra al letto erano così impolverate che era possibile scriverci su. Quando lo sguardo cadde su una vecchia lampada a olio del comodino, Satoru notò un cofanetto di legno intarsiato, piccolo e rettangolare, bianco di polvere. Lo aprì incuriosito e dentro vi trovò un fermaglio per capelli. Un fermaglio dall’aria familiare e che in un primo momento ricollegò a sua madre ma poi, d’un tratto, balenò nella sua mente il volto di una bambina dai lughi capelli color ebano e le iridi blu come una notte stellata.
 
- Io ti conosco – farfugliò tra sé e sé con voce lontana, assorto a rimestare nella propria mente per scovare il ricordo di quella bambina e ghermirlo. Chiuse gli occhi e fece un salto nel passato.




 

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Capitolo 14
*** Promessi sposi ***



- Ci vediamo tra tre giorni! Non preoccuparti, principessa di papà, andrà tutto bene! -.
 
L’espressione falsamente serena di Izashi si ritirava sullo sfondo man mano che la figlia veniva trascinata gentilmente via. Lei lo guardava con gli occhi grandi di paura, svelando il fallimento di suo padre di tranquillizzarla durante il tragitto verso quell’imponente villa, dimora del primo fra i più importanti clan del mondo dell’occulto: i Gojo. Per quanto la si guardasse sembrava impossibile catturarla interamente con uno sguardo.
 
Benché le sorridesse, il sorriso più ampio che fosse stato costretto a rivolgere a uno dei suoi figli, non così diverso da quello che ricordava di aver avuto stampato in faccia il giorno in cui Kasumi li aveva abbandonati, Izashi aveva l’inquietudine scavata tra le sopracciglia e sulla fronte. Avrebbe potuto non rivederla mai più e nell’ipotesi peggiore pensò di fissare indelebilmente nei ricordi, perché lo accompagnasse per il resto della vita, l’immagine di Ayame con in dosso il suo primo kimono, una primavera di fiori di pesco su uno sfondo verde acqua; l’ultima metaforica concessione caritatevole del capoclan dei Gojo prima di prenderla definitivamente con sé.
 
Era solo una remota possibilità, ne era ben consapevole. Sua figlia era “normale”, si diceva. Lo avvertiva in maniera quasi preternaturale. Lo aveva fatto presente persino a quel pomposo delegato del clan Gojo, quando una settimana addietro si era presentato in casa sua a rammentargli del loro vecchio accordo, ma questo non aveva prestato che uno sguardo affilato per starlo a sentire. Poi era passato a studiare sua figlia come una cavia da laboratorio.
 
Kasumi l’aveva venduta ai Gojo: soldi certi per una congettura. Ma ai Gojo non importava di perdere qualche migliaio di yen in quella scommessa. Quella “remota possibilità” era più che sufficiente perché sborsassero cifre da capogiro.
 
Tempo di trovare una scusa da rifilare alla famiglia perché Ayame dovesse restare tre giorni con degli estranei ed era già lì a salutarla con la mano; a confortare da lontano il suo viso spaurito con un tale sorrisone da dolergli i muscoli della faccia.
 
Sarebbe andata bene in ogni caso, continuava a dirsi; meglio ancora se fosse rimasta sotto la protezione dei Gojo. In questo modo, si sarebbe risparmiato la preoccupazione di mettersi a cercare qualcun altro che si occupasse di proteggerla. Era pronto a compiere qualsiasi sacrificio, a rinunciare addirittura alla sua adorata principessa pur di impedire a sua figlia di dare la propria vita in cambio della stabilità del mondo. E se il sangue di Ayame si fosse rivelato utile come molti speravano, e lui poteva dirsi incluso tra questi, lei sarebbe andata al futuro capo clan dei Gojo, nonché il ragazzino più temuto del mondo dell’occulto.
Se fosse veramente andato tutto a favore dei Gojo, Izashi pregava solo che quel ragazzino avesse cura di lei e che, una volta divenuto un uomo, l’amasse con tutto sé stesso.
 

 
Il delegato, così lo aveva chiamato papà, le lasciò la mano quando tra loro e la figura di Izashi vi era ormai una tale distanza per cui avrebbe potuto facilmente confondere suo padre con un una delle ombre nel fitto della foresta alle loro spalle. Era un uomo alto e snello, vestito di un abito tradizionale grigio ardesia, e serio in viso. I lunghi capelli dorati come grano maturo scendevano lungo la schiena quasi a fiorargli le natiche; somigliavano a sottilissimi raggi di sole estivo. La guardò con i suoi occhi di giada, occhi fieri e imperscrutabili, e lei si strinse di riflesso nelle spalle.
 
- Lo vedi quel tempio rosso? -. Il delegato si rivolse a lei con tono amichevole mentre puntava l’indice ossuto alla loro destra. Lei annuì svelta, dubbiosa se fidarsi dell’affabile apparenza e diffidare di quello sguardo glaciale.  
 
- Va’ a sederti su quelle scale e aspetta lì – disse sorridendo e la incoraggiò sospingendola garbatamente dalle spalle.
 
La bambina cominciò a camminare. Mandava avanti un piede dopo l’altro con la stessa insicurezza di quando da piccola aveva iniziato a muovere i primi passi, con gli applausi di papà e di Shoto ad incitarla in sottofondo, solo che adesso aveva sette anni ed era sola. Non si udiva altro che il vento primaverile bisbigliare tra gli alberi e il gorgoglio basso del ruscello, non proprio la stessa cosa delle risa e degli applausi dei suoi familiari.
 
Un pesce fece un piccolo balzo fuori dall’acqua e si rituffò. Ayame sussultò, il cuore parve rimpicciolirsi nel petto come conseguenza al terrore che intanto cresceva. Inciampò nei sandali nuovi di zecca e cadde lunga, distesa per terra. Da qualche parte si udì il rumore di uno strappo.
 
Si guardò frettolosamente attorno riscoprendosi sola e rimase lì, paralizzata nell’atto di farsi leva per rimettersi in piedi, con i gomiti puntati sul selciato e un velo di lacrime ad appannarle la visuale. Lottò per trattenere un pianto isterico poi si alzò, si sistemò fieramente il kimono sgualcito e lacerato chissà dove, molto lontana adesso dal sentirsi la principessa di quel castello. Per convincerla, suo padre le aveva raccontato che lì, da qualche parte in quell’enorme magione, un principe la stava aspettando. Le aveva detto che, se il suo sangue fosse stato come quello della mamma, se avesse avuto sangue reale, sarebbe diventata a tutti gli effetti una principessa, altro che “principessa di papà”. E poi, in futuro, sarebbe diventata una regina. E lei gli aveva creduto, anche solo per la cieca fiducia che un figlio nutre istintivamente per il proprio padre. Ma ora, misurando con lo sguardo la vastità di quella desolazione, Ayame stava quasi per rassegnarsi all’idea che suo padre le avesse mentito. Per quanto ne sapeva, poteva averla persino abbandonata come aveva fatto sua madre.
 
Riprese a camminare, singhiozzando questa volta. La fiaba di suo padre era prossima a trasformarsi in un incubo a cominciare da quel cortile deserto, il silenzio insopportabilmente tetro, e quel sinistro tempio rosso scarlatto, rosso come il suo sangue, un sangue che poteva essere regale come quello di sua madre se solo la bugia di suo padre fosse stata vera; un sogno che era prossimo a ribaltarsi nel peggiore degli scenari se non fosse stato per un paio di occhi tanto azzurri da fare invidia al più sereno dei cieli.
 
Scoprì che la guardavano dalle scale di quel piccolo tempio vermiglio e lei li guardò di rimando con aria perplessa, chiedendosi come avesse fatto a non notarli o come fossero d’improvviso comparsi dal nulla. Alla prima occhiata le sue labbra si mossero meccanicamente; si schiusero per poi bisbigliare al vento, così piano che la sua consapevolezza se ne accorse a malapena: - è il mio principe – aveva detto. Poi smise di colpo di piangere.
 
Aveva i capelli corti, ciuffi di neve dalle sfumature perlate, bianchissimi e fitti, proprio come le ciglia e le sopracciglia. Indossava uno yukata bianco a righe celestine e una cintura dorata. Dal modo in cui sedeva sugli scalini sembrava annoiato.
 
- Tu devi essere il mio principe – asserì lei avvicinandosi, schietta come solo un bambino sapeva essere. Poi si asciugò il naso con la manica del kimono senza accorgersi di averlo fatto.
 
Il ragazzino fece una smorfia confusa, quasi di antipatia verso quella spontaneità. Nessuno, né all’interno delle mura di casa né nel mondo esterno, si era mai rivolto a lui in quel modo così coraggiosamente sincero. Estraneo a come reagire a quella situazione del tutto nuova rispose com’era solito fare. – Non dire cavolate – ribatté ostile.
 
La piccola Ayame scoppiò a ridere e il ragazzino sbatté le palpebre turbato e insieme sorpreso di quella reazione. Quando l’aveva vista piangere, Satoru aveva trovato la sua debolezza nauseante. Adesso, invece, era cambiata, o forse era cambiata la prospettiva con cui la stava giudicando. Non era debole ma delicata, come un fiore che a fine inverno torna a sbocciare e che ad ogni nuovo inverno perisce, ma solo temporaneamente. Era come se le stagioni si alternassero sul suo viso al mutare del suo umore.
 
- Sei un principe un po’ antipatico – commentò scherzosamente mentre la risata si esauriva sulle ultime sillabe.
 
Satoru grugnì e rinunciò a controbattere. Distolse lo sguardo ma con la coda dell’occhio notò la ragazzina sedersi accanto a lui. Allora, la punta di un esile dito picchiettò sulla sua spalla. – Come ti chiami? -.
 
Satoru fece un verso di fastidio ma non si volse a guardarla. – Non te lo dico – replicò con voce incolore.
 
Sapeva diverse cose su quella ragazzina, alcune delle quali le aveva carpite origliando una conversazione in segreto tra suo padre, sua madre e Yula, la vecchia speziale di famiglia. Aveva sentito dire che grazie al sangue di quella bambina, premesso che fosse appartenuto allo stesso clan della madre, il clan Gojo avrebbe goduto di un prestigio senza precedenti, arrivando addirittura a ottenere l’egemonia sull’intero mondo dell’occulto. Aveva sentito dire che, nel caso si fosse rivelata discendente diretta di quel clan, lui avrebbe dovuto sposarla quando fosse arrivato il momento. “Col cavolo!” si era detto, e “che schifo!” aveva esclamato poi. A quel punto, stufo di origliare i discorsi assurdi dei suoi e sdegnato della loro pretesa di controllare la sua vita con la scusa idiota della “legittimità parentale”, era andato a lanciare sassi nel ruscello per spaventare i pesci.
 
- Allora ti chiamerò Principe, perché è quello che sei – insisté Ayame. Lui le gettò addosso i suoi occhi fiammanti con l’intenzione di intimorirla ma il gesto suscitò l’effetto contrario. Sulle prime la ragazzina non si scompose, poi ridacchiò timidamente portandosi la mano alle labbra.
 
Satoru mise il broncio. – Non farmi arrabbiare. Devi avere paura di me, lo sai? Tutti hanno paura di me perché sono il più forte -.
 
- Se dici così vuol dire che sono fortunata. Ho un principe che può proteggermi -.
 
- Non sono il tuo principe! – sbottò lui.
 
Lei sussultò appena e un attimo dopo lo guardò con espressione ferita. – Perché no? È colpa del mio vestito strappato? – chiese e con gli occhi si mise alla ricerca dello strappo. Questi vagarono per molto senza trovare nulla, tanto che Ayame cominciò a sospettare di averlo soltanto immaginato, quando con un verso di rassegnazione Satoru le afferrò svogliatamente il braccio e lo sollevò rivelando uno squarcio sotto l’ascella sinistra.
 
- È qui – borbottò scocciato.
 
Lei lo guardò radiosa. Forse nemmeno aveva fatto caso allo strappo, tanto era presa a fissare quel ragazzino dai colori fiabeschi. I suoi occhi esprimevano una gratitudine che Satoru non aveva mai visto rivolgersi prima di quel momento.
 
La replica spontanea a quel modo sgradevolmente gentile di guardarlo fu: - che c’è? – e aggrottò le sopracciglia candide.
 
- Quindi fai solo finta di essere antipatico, in realtà sei gentile – affermò lei e un borbottio infastidito proruppe in risposta.
 
Sei tu che sei stupida, pensò ma non volle dirglielo. Qualcosa in lui aveva costretto quelle parole alla ritirata: uno strano e indubbiamente insolito senso di colpa che gli aveva attraversato la mente al pensiero di ferirla.
 
- E adesso come faccio? Con questo vestito strappato non posso più essere una principessa – si lagnò Ayame. – E se tu non vuoi essere il mio principe per colpa di questo vestito… -.
 
Un sonoro sbuffo la interruppe. – D’accordo, va bene, sarò il tuo principe. Contenta? –.
 
 


 

Satoru si rigirava il fermaglio tra le mani: le gemme incastonate al centro dei fiori in rilievo scintillavano alla luce artificiale della torcia. Era lo stesso fermaglio che aveva pensato di regalare a quella bambina per rinfrancarla del vestito strappato, perché potesse lo stesso continuare a sentirsi una principessa. Ne aveva rubato uno dalla camera di sua madre, ne aveva così tanti che non si sarebbe mai accorta di quel piccolo furto, ma non si era limitato a pescarne uno alla cieca. Li aveva presi tutti, li aveva disposti per terra in file da sei e li aveva studiati uno ad uno con meticolosa attenzione. Alla fine, la scelta era ricaduta sul fermaglio con i fiori di pesco in rilievo: gli stessi fiori del suo bellissimo kimono lacerato.
 
Per un po’ lei lo aveva indossato tra i capelli. Il suo viso intristiva quando Yula la forzava a rimetterlo nel cofanetto di legno, poi lo vedeva contorcersi di disgusto quando Yula le faceva bere le sue droghe liquide, un istante prima di farla distendere sul lettino. A quel punto, entrava in uno stato di sospensione psicofisica e la sua pelle candida diventava olivastra costellandosi di grosse perle di sudore. E l’esperimento cominciava.
 
- Satoru? Va tutto bene? -.
 
Ayame era comparsa alle sue spalle. Aveva parlato così piano che lui l’aveva udita appena, e chissà quante altre volte lo aveva chiamato prima di rendersene conto. Si scusò con voce fievole e ripose il fermaglio nella scatola di legno.
 
- Non ti vedevo tornare e mi sono preoccupata -. Si avvicinò a lui, quasi incorporea per la leggerezza del passo, e adagiò la fronte al centro della sua schiena. Tremava, travolta un inspiegabile senso di terrore. – Non farlo più – mormorò.
 
Quando l’esperimento cominciava, Yula gli faceva indossare la benda. Talvolta gliela stringeva così forte da procurargli un’emicrania. Poi gli porgeva una ciotola di legno per fargli bere l’intruglio tutto d’un fiato.
Restava lì per ore, a cercare di scorgere nella fitta oscurità una traccia di lei, anche solo un microscopico puntino di luce o un baluginio, ma lei sembrava vuota come una bambola di porcellana; completamente priva di energia malefica. Allora, Yula continuava a drogarla. Ancora e ancora.
 
- Possiamo andarcene adesso? Questo posto mi mette i brividi -.
 
- Sì – rispose lui serrando la mascella. Guardò quel letto e il cofanetto di legno un’ultima volta, adesso con una furia nello sguardo che da solo sarebbe bastato a rischiarare il buio della stanza. Fiamme azzurre divampavano nei suoi occhi.
 
Uscirono dal tempio. Ayame era ancora lì che tremava contro di lui mentre Satoru le cingeva il fianco con il braccio. Si portarono a debita distanza, poi Satoru la esortò a ripararsi dietro di lui e Ayame lo fece senza chiedere spiegazioni. Tese il braccio: le vene correvano gonfie sottopelle, alimentate da una collera che stentava a tenere a bada.
 
Alle due di notte del secondo giorno di esperimenti, Ayame era morta per tre minuti. Lui aveva gridato quando aveva capito dall’urgenza nella voce di Yula che qualcosa era andato storto e a quel punto si era strappato via la benda. Aveva colpito Yula quasi mortalmente, colto da un improvviso furore, e suo padre lo aveva schiaffeggiato.
Quando Ayame aveva ripreso a respirare il suo corpo traboccava di energia malefica. Erano state le droghe di Yula a risvegliarla, ma con dispiacere dell’intera casata dei Gojo, meno che per Satoru, l’energia malefica che si era sprigionata era quella di una senza poteri. E alla fine niente più matrimonio, niente più principessa, niente più fermaglio e nessun ricordo dell’accaduto.
 
- Chiudi gli occhi – le suggerì Satoru. Ayame si fidò di lui e serrò le palpebre aggrappandosi istintivamente all’altro braccio dello stregone, steso lungo il fianco. Una sfera di luce si schiantò contro il tempio rosso scarlatto con una violenza esplosiva. Ci fu un boato assordante e di quel tempio non rimase altro che polvere.


 
Salve a tutti! Scusate il ritardo e (sinceramente) scusate il contenuto. Sono sempre più convinta che questa storia sia da finire al più presto possibile perché sto esaurendo le energie, eppure di idee da scrivere ne ho ancora veramente tante. Perciò, fatemi sapere se effettivamente ne sta valendo la pena o se è il caso di darci un taglio xD
Più che altro sto esaurendo il repertorio delle parole e non so più come esprimere concetti senza ricorrere a cose già usate. Quindi, alla fine, mi innervosisco e comincio a scrivere un po' a cavolo di cane perché non voglio passare ore o giorni su una stessa frase. Insomma, sono una disastro. Ma da una che non è mai riuscita a finire una storia in 16 anni neppure io mio aspetterei chissà che. 
Comunque, vorrei spendere due parole per questo capitolo. La spiegazione sul passato di Ayame non finisce qui, chiaramente. Anche perché ancora non è stato detto a quale clan apparteneva sua madre così interessante da attirare persino l'attenzione dei Gojo. Non ho voluto neanche specificare perché i Gojo fossero interessati a lei. Cioè, sì, per consentire al clan di ottenere l'egemonia sul mondo dell'oculto, ma come? Questo è per la prossima puntata xD
Mi sono divertita a scrivere quelle poche battute tra Ayame e Gojo da piccoli. Spero si siano notati i richiami con il presente (i fiori, le botte e risposte, lei che vede in lui qualcosa che nessuno, tantomeno lui, vede, eccetera). 
E niente, credo di aver esaurito anche le parole per le note d'autrice... mamma mia che disastro.
Spero vi sia piaciuto. Spero che la storia non vi stia annoiando. Spero che la mia scrittura vi stia ancora piacendo. Spero che ciò che scrivo vi stia ancora emozionando. 
Sinceramente, se questo non dovesse accadere più non sentirei più la necessità di scrivere. 
Ringrazio coloro che lasceranno una recensione. 
E grazie anche a chi resta nonostante tutto.
Alla prossima!

 

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Capitolo 15
*** C'era una volta uno stregone e una senza poteri ***



Yaga lo sentì arrivare dal corridoio: ampie falcate, di gambe sorprendentemente lunghe, rimbombavano nella solitaria quiete dell’Istituto come pallonate ritmiche alle pareti. Satoru si presentò nel suo ufficio con espressione seria, la faccia di chi non ha niente di buono da comunicare, e che, come un temporale improvviso, si rabbuiò quando gli fu davanti. Batté le mani sulla scrivania e vi si appoggiò sporgendosi verso la figura impassibile del preside.
 
- Dobbiamo parlare -.
 
- Buongiorno a te – replicò monotono l’altro, intimamente seccato al pensiero che un tempo sarebbe bastata una salutare sberla educativa delle sue per rimettere quel disgraziato in riga, mentre ora era impossibile persino sfiorarlo. Bei tempi, quelli.
 
Satoru schivò il sarcasmo e sollevò le sopracciglia innevate. – Kasumi Yoshimura… il suo è un cognome fittizio, dico bene? -.
 
Yaga impallidì. Nel riflesso dei suoi occhiali Satoru rimase immobile, in attesa di una risposta che, a giudicare dalla faccia sconvolta del preside, capì di conoscere già. Era un plateale “sì” quello che traspariva dall’espressione attonita di Yaga.
 
Il giovane stregone annuì come se la replica nella sua testa si fosse trasferita sulle labbra del preside e questo le avesse dato voce confermando in definitiva le sue ipotesi. – È una Kamo – asserì e storse le labbra in un sorriso di autentica soddisfazione ma anche di aperta ostilità.
 
Quella notte si era promesso di non raccontare mai ad Ayame del suo, anzi del loro legame con quel tempio e di farsi carico tutto da solo di almeno una delle numerose sfortune di Ayame. Il frastuono del tempio che andava in pezzi aveva svegliato e spaventato Hanae ed era toccato a lui calmarla e farla riaddormentare, con sincera invidia di Ayame per la facilità con cui la piccola crollava tra le sue braccia in confronto agli isterici piagnistei quando invece era lei a metterla a letto.
 
- Sì – rispose Yaga lapidario. – Ma adesso non appartiene più a quel clan – aggiunse.
 
- Forse non per lei, ma per mio padre sì. Sapeva che ha venduto sua figlia al mio clan? Dovrebbe, visto quanto tempo avete passato a lavorare insieme -. La scelta lessicale gli fu dettata dal buonsenso, laddove l’istinto non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a usare parole come “scopare”, tanto sprezzanti quanto veritiere.
 
Yaga negò fermamente. Gli crebbe una tale angoscia dentro che il corpo si mosse in automatico e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. – Non è vero – mormorò in rinforzo al precedente diniego.
 
- Invece è andata proprio così. Il sangue dei Kamo ha sempre fatto gola agli altri due grandi clan ed è per questo che è il clan più conservativo. Così conservativo che ci si accoppia solo tra parenti -.
 
- Minazuki Kamo – Yaga cedette e lo interruppe dopo un breve sospiro. – Era il cugino che Kasumi avrebbe dovuto sposare - ammise.
 
Fissava la superficie lucida della scrivania come se d’un tratto avesse cominciato a proiettare immagini del passato e lui le stesse passando in rassegna una alla volta. – Un vile bastardo. Iniziò ad abusare di lei quando Kasumi aveva soltanto quattordici anni. Lui ne aveva diciotto. Ovviamente nessuno sospettava di un ragazzo tutto d’un pezzo come Minazuki e quando Kasumi tentò di raccontare la verità al suo clan nessuno volle crederle. L’accusarono di essere invidiosa del figlio del capoclan e di essere una bugiarda. A quel punto, per riparare al disonore che Kasumi causò alla sua famiglia con quella “menzogna”, suo padre e suo zio decisero di dare Kasumi in moglie a Minazuki -. La voce di Yaga si sospese per qualche secondo.
 
- Perciò decise di fuggire -. Satoru lo anticipò e il preside annuì fiaccamente.
 
- A diciassette anni. Cambiò cognome e scappò verso Otsu, nelle periferie di Kyoto. Non aveva abbastanza soldi per allontanarsi troppo dalla città. Finì in un villaggio di pescatori che sorgeva su una delle rive del lago Biwa e… -.
 
- E lì incontrò Izashi Ishikawa, il padre di Ayame -. Satoru lo anticipò di nuovo.
 
- Se ne innamorò all’istante e l’anno dopo rimase incinta di Shoto, il primogenito, ma non si sposarono mai. Cinque anni dopo diede alla luce la secondogenita e abbandonò improvvisamente la sua famiglia quando Ayame aveva appena sei mesi di vita. Non so perché lo ha fatto, non ha mai voluto dirmelo, ma non credo che dietro al suo gesto ci sia un sacrificio a fin di bene per la propria famiglia. Tutt’altro. Kasumi è sempre stata una donna profondamente egoista e gelosa della propria libertà, ma credo che abbia cominciato a rendersene conto quando ormai era troppo tardi -.
 
- E qui entra in gioco il clan Gojo – questa volta fu Satoru a condurre la conversazione, intromettendosi. – Per scappare dalla sua famiglia e da Otsu, Kasumi pensò di recarsi da mio padre e di vendere sua figlia in cambio di una somma ingente di denaro. Il primogenito era un senza poteri ma Ayame era ancora troppo piccola per determinare se avesse o meno ereditato il sangue dei Kamo e, come ho detto prima, il sangue dei Kamo ha sempre fatto gola agli altri due grandi clan. Le potenzialità di quel sangue erano già venute alla luce un centinaio di anni prima, quando Noritoshi Kamo, l’allora capoclan, fu incriminato per degli esperimenti genetici abominevoli. Quel sangue avrebbe permesso a mio padre di mettere mano ai limiti naturali del nostro clan e di sorpassarli. Tutte le tecniche innate dei tre grandi clan ne posseggono alcuni ma questo lei lo sa già, preside. Ci sono almeno due limiti che riguardano le tecniche del clan Gojo, uno dei quali l’ho infranto io stesso -.
 
Satoru sollevò l’indice. – Il primo: non possono esistere contemporaneamente due possessori dei Sei Occhi. Questo è un limite che ancora oggi è rimasto inviolabile – spiegò, quindi sollevò il dito medio. – Il secondo: la possibilità di ereditare entrambe le tecniche del clan è una su un milione. Adesso, provi ad immaginare cosa sarebbe successo se mio padre avesse avuto tra le mani un sangue capace di violare questi limiti. Provi ad immaginare cosa sarebbe successo se io, il prodigio del clan Gojo nato con entrambe le tecniche, e Ayame, una discendente diretta del clan Kamo sfuggita al loro controllo, avessimo avuto dei figli. Era questo il progetto futuro di mio padre: creare una discendenza libera dai vincoli della natura. I nostri figli, e i figli dei nostri figli, avrebbero ereditato entrambe le tecniche proprio come me o, nel peggiore dei casi, più di uno di loro avrebbe posseduto contemporaneamente i Sei Occhi: la tecnica innata più potente del clan Gojo. Tuttavia, sfortunatamente per i piani di mio padre, Ayame si rivelò una senza poteri -.
 
Yaga negò ancora una volta. – Tutto questo è assurdo. È vero, Kasumi ha abbandonato la sua famiglia ma non può aver fatto una cosa del genere. Ne sono sicuro – replicò con un tono di indignazione e di offesa.
 
Di riflesso all’ostinato rifiuto di Yaga di credere alle sue parole, Satoru sbatté furiosamente le mani sulla scrivania. Il rumore fu attutito dalle spesse fibre del legno ma il portapenne tremò e le penne al suo interno si agitarono tintinnando. – È la verità, dannazione! – sbottò.
 
– Quando Ayame aveva sette anni è stata portata nella villa di famiglia. La sua energia malefica era ancora latente, ma è piuttosto comune che l’energia malefica si manifesti in età differenti; ha tempo fino ai dieci anni di vita per insorgere. E invece quello stronzo di mio padre ha voluto forzare i suoi canali energetici per scatenare prematuramente il flusso di energia malefica. Non aveva alcuna voglia di aspettare che si manifestasse spontaneamente. Per lui era più importante scoprire il prima possibile la natura dell’energia malefica di Ayame e tenerla al sicuro sotto la custodia del clan Gojo, sicuramente prima che tra i Kamo nascesse il sospetto di un potenziale discendente del loro clan alla mercé di chiunque -. Il tono si smorzò.
 
- E quando ieri mi sono reso conto che la ragazzina incontrata vent’anni fa era in realtà Ayame, mi sono chiesto perché mio padre si fosse interessato al suo sangue fino a questo punto e da lì è stato facile rimettere insieme i pezzi. Mi mancava soltanto scoprire qualcuno dell’Istituto che avesse avuto dei legami con Kasumi nel periodo in cui lei ha collaborato con la scuola e, mio dio che colpo quando sono venuto a saperlo, è venuto fuori il suo nome, preside Yaga -. C’era del sarcasmo nella sua voce piana; un sarcasmo perfido, di sottintesa accusa. Era complice degli errori di Kasumi: questo diceva la voce di Satoru.
 
Yaga si tolse gli occhiali e si massaggiò il viso con aria stremata. L’ultima verità di Kasumi gli era piombata addosso come una doccia gelata e non era sicuro di provare ancora quello stesso coraggio di amarla a prescindere dai suoi sbagli. D’altronde, nemmeno lui aveva più ventiquattro anni.
Non aveva più l’età per perdonarla.




 


- Come va lì? Tutto bene? -.
 
- Alla grande -. Satoru teneva il cellulare in equilibrio tra l’orecchio e la spalla mentre passava il bavaglino sulla bocca impiastricciata di Hanae, alle prese con le sue prime pappe in autonomia. Riusciva a centrare la bocca dopo una serie di tentativi; mediamente, mandava il boccone a segno ogni due o tre cucchiaiate. Era passato un mese dalla notte in cui Satoru aveva distrutto il tempio. – Ce la stiamo cavando anche senza di te, mamma – scherzò lui e la bambina rise.
 
- Mam… ma – fece eco la piccola Hanae, quindi posò il cucchiaino e puntò il dito su Satoru. – To… ru – e poi ancora verso una fotografia incorniciata alla parete tra l’ingresso e la cucina. – Pa… pà -.
 
Il secondo traguardo di Ayame era stato quello di tirare fuori dalla valigia la foto di Suguru, all’incirca dieci giorni dopo la sera del bagno. Aveva singhiozzato per un’ora intera, fissandola senza mai distogliere gli occhi da lui, e poi aveva mostrato la fotografia alla piccola Hanae che dalla curiosità si era arrampicata sulle gambe della madre. Era stato Satoru ad appendere la fotografia alla parete in un secondo momento. Rincasando una sera se l’era ritrovata lì, in bella vista, e quella era stata l’ultima volta in cui Ayame l’aveva guardata con le lacrime agli occhi. Quel giorno era stato anche l’ultimo in cui aveva trascorso del tempo con Satoru e per le successive due settimane c’era stato un continuo alternarsi di telefonate e messaggi.
 
- Sei sicuro di farcela? Lo sai quanto può essere sfiancante Hanae alle volte. Senza contare che sei appena tornato da una missione di due settimane, immagino tu voglia riposarti. Avresti potuto lasciare Hanae al nido e venire a trovarci più tardi -.
 
Satoru grugnì debolmente. – Volevo stare con questa peste, sono due settimane che non la vedo -. Gli costava ancora molto essere sincero fino a quel punto e c’era sempre una nota di orgoglio nel tono della sua voce. – E lo stesso vale per te. Quando torni? Voglio vederti -. Lui non poté vederla ma la sentì arrossire. Arrossiva quando le scappava quello strano verso dalla bocca di stupore misto a irritazione, e lui si beò silenziosamente di quel suono.
 
- Fra un paio d’ore dovrei essere a casa -.
 
- Va bene. Ti aspetto – disse, quindi si salutarono e Satoru attaccò il telefono.
 
Hanae finì le ultime cucchiaiate di yogurt e tese le braccia verso Satoru, aprendo e chiudendo le manine per richiedere di essere presa in braccio. Lui le tolse il bavaglino e la issò su dal seggiolone mentre la piccola scalciava dalla contentezza. I loro sguardi si incrociarono.
 
- To… ru – sillabò, poi gli premette piano il dito sulla punta del naso.
 
Satoru abbozzò un tenero sorriso. – Ti sono mancato, vero? -. Lei parve cogliere le sue parole e sorrise di rimando. – Di’ un po’… alla mamma sono mancato? -.
 
- Mam… ma – pronunciò e poi: - Ya… me -.
 
Satoru la mise giù e giocò un po’ con lei. Intuì che presto avrebbe preso a camminare dal modo in cui cercava continuamente di mettersi in piedi. Talvolta si issava tenendosi aggrappata a lui, altre si arrampicava temerariamente sulle prime superfici rialzate che incontrava.
 
Si esercitarono con i primi passi: Satoru era così alto e Hanae così piccola che immaginò gli sarebbe venuto il mal di schiena: tutto sommato, un’ottima scusa per trascorrere la serata a farsi riempire di attenzioni da Ayame.
 
Con lei aveva fatto ben pochi progressi. Alcuni momenti la sentiva lontana, altri aveva l’impressione di averla a un soffio dalle labbra. La presenza di Suguru era ancora tra loro, a tratti quasi limitante come all’inizio, ma ora, anziché chiudersi in sé stessa nei momenti in cui le mancava, si rifugiava in lui: incrociava più spesso il suo sguardo, strisciava accanto a lui quando restava fino a tardi a farle compagnia sul divano, davanti a un buon film, o lo tempestava di messaggi se non era lì con lei. E Satoru si limitava ad accontentare passivamente quelle sue piccole necessità, senza mai imporsi. Era maturato, se non altro per lei e per Hanae. Eppure, proprio adesso che l’avrebbe rivista a distanza di due interminabili settimane, sentiva che non gli sarebbe più bastato restare in disparte ad aspettare ed era stufo di farsi soffiare la donna dal suo migliore amico. Non aveva alcuna intenzione di commettere lo stesso errore del passato.
 
 


Ayame rincasò con un’ora di ritardo e Satoru le andò incontro sulla porta con la piccola Hanae in braccio, sveglia per miracolo. La bambina gettò le braccia al collo di sua madre con degli acuti versetti di gioia e Ayame se la strinse al petto, poi la baciò sulla fronte.
 
Guardò Satoru, i suoi ardenti occhi azzurri, e segretamente, senza la minima esitazione, pensò: “mi sei mancato”. Hanae aveva il suo profumo addosso. Era un bene che le sue braccia fossero occupate a sorreggere la bambina o le avrebbe chiuse di getto attorno al collo di Satoru per poi pentirsene immediatamente.
 
Avvertì il brivido di un bacio nell’attimo in cui i loro occhi si incrociarono e Ayame si sganciò preventivamente da quello sguardo. Passò accanto a Satoru e si diresse nella camera di Hanae per deporre la figlia sul letto; la sua testa ciondolava dal sonno ed era lì lì per addormentarsi. Satoru la seguì e rimase sulla porta mentre Ayame rimboccava le coperte alla figlia. Parlò sottovoce.
 
- Qualcuno qui mi sta evitando – commentò. Il tono non era stato eccessivamente duro ma lasciava intendere una velata pretesa di ricevere spiegazioni.

- Non ti sto evitando – rispose lei con tono difensivo continuando a trafficare con le coperte per guadagnare tempo. Aleggiava ancora quel bacio tra loro. Non aveva alcuna importanza quanto lontano andasse e con quanta forza cercasse di opporsi; stava lì, sospeso nello spazio che li separava, a terrorizzare lei e infondere coraggio a lui.
 
E se non le fosse piaciuto? Se le avesse ricordato del suo amore per Suguru? E se invece le avesse fatto provare il desiderio di volerne ancora facendola sentire in colpa?
 
- Satoru… non possiamo – esordì improvvisamente con un filo di voce. Anche lui aveva percepito il brivido di quel bacio.
 
Satoru la osservò chiudersi nelle spalle e rinunciò. – Va bene – mormorò di rimando.
 
Di questo passo sarebbe sempre stato troppo presto per lei lasciarsi andare. Ayame avrebbe continuato a trovare delle scuse nella fotografia appesa alla parete tra la cucina e l’ingresso, nel viso di Hanae dalla somiglianza disarmante a quello di suo padre, nell’elastico per capelli conservato al polso o nel suo passato turbolento con Satoru. L’animava la convinzione che un giorno, ma chissà quando si domandava Satoru, ogni giustificazione sarebbe scomparsa da sé come una ferita che torna ad essere pelle.
 
- Preferisci che me ne vada? -.
 
- No – Ayame negò energicamente. – Ma vorrei che la smettessi di essere così -.
 
- Così come? -.
 
La ragazza sospirò come a volerlo pregare di passare alla prossima domanda. Si morse l’interno della guancia prima di parlare. – Così… perfetto – ammise; si percepiva la frustrazione vibrare nella frequenza opaca della voce. Le tremava il respiro. – Sei paziente e accondiscendente. Mi aiuti con Hanae, con la spesa e con la casa. Non ti arrabbi mai. Non ti imponi. Ti prendi cura di me. Mi sopporti. Non mi giudichi. Certe volte vorrei che fossi ancora il ragazzo di un tempo: egocentrico, testardo, orgoglioso, capriccioso e bambinone. Almeno così avrei ancora un mucchio di ragioni per avercela con te. Invece sei cambiato e io non lo sopporto -.
 
- Me lo hai chiesto tu, no? In quella lettera – intervenne lui veloce.
 
Ayame lo guardò spaesata e insieme sorpresa. – La mia lettera? -. La sua faccia diceva molto delle aspettative che si era fatta a proposito di quella lettera. Aveva creduto che Mito avesse mancato alla sua promessa o che Kaori si fosse dimenticata di fare quella telefonata, o addirittura che Satoru avesse cambiato numero di cellulare.
 
- Sì, la tua lettera. Potrei recitartela a memoria -.
 
- Be’ – esordì lei un po’ impacciata, arrossendo. – Questo non fa che peggiorare le cose. Perché mai dovresti cambiare solo perché te l’ho chiesto io? – e tornò sulla difensiva.
 
- Perché mi piaci, Ayame -. La voce era la stessa, serafica e piana, ma il contenuto di quella frase ebbe lo stesso effetto di una scatola a sorpresa quando il pupazzo a molla salta fuori all’improvviso. – È lo stesso motivo per cui sono entrato nel negozio di fiori di Kaori, se vuoi saperlo -.
 
Lei scosse ripetutamente la testa in un atteggiamento che sembrava opporsi con tutte le forze alla confessione di Satoru. Non ci credo, si diceva con assoluto rifiuto. Non ci credo. – Ti prego, non aggiungere altro – fece supplichevole, poi sgusciò via e uscì dalla cameretta di Hanae nell’istante in cui Satoru si avvicinò a lei lasciando libera la porta.
 
Lui le andò dietro ma senza fretta. La trovò fuori, seduta sul patio che dava sull’ingresso della villa, a pizzicare debolmente l’elastico al polso. Satoru la raggiunse e si sedette accanto a lei. Gettò la testa all’indietro e guardò verso l’alto, il giorno che sfumava in un limpido blu notte.
 
– Sotto questo cielo mi viene ancora più voglia di baciarti – confessò e gli sfuggì un verso divertito. Quindi, per rompere il silenzio, chiese: - Ti va un po’ di musica? – ma la sua era una domanda retorica. Prese il cellulare dalla tasca e andò a colpo sicuro su una canzone che entrambi conoscevano, perché proprio sullo sfondo di quella canzone, in una notte stellata come quella, era sbocciato il loro amore. Rimasero in silenzio, gomito a gomito, ad ascoltare la canzone del loro primo ballo.



 
Sono tornata! Spero...
Non vi prometto la stessa costanza di prima ma cercherò di non far passare tanto tempo com'è successo per questo capitolo. Sapete, satavo per mollare. Ma penso sia dipeso molto dal fatto che stavo avendo sempre meno tempo (a cui poi si è aggiunta anche meno voglia) di scrivere. 
Questa volta non voglio dilungarmi con le note d'autrice perché non sento di dover dire nulla riguardo al capitolo. Forse che è stato tra i più sofferti perché tornare dopo tanto tempo a scrivere è stata dura. Avevo perso un po' il filo del discorso (e forse si nota pure) e ho cercato di rileggere gli ultimi capitoli per riallacciarmi meglio possibile. 
Comunque, se doveste essere curiosi della canzone del primo ballo di Ayame e Satoru, vi lascio il link. 
Un grazie a chi continua ad interessarsi a questa storia!
Alla prossima ^^

Naoko Gushima (具島直子) - 12月の街 (youtube.com)
 

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Capitolo 16
*** Principe ***



Continuava a cantarsi quella canzone nella testa. Se l’era ripetuta tra una commissione e l’altra, mentre serviva i clienti o batteva gli scontrini alla cassa.
Aveva trovato lavoro in un negozio di fiori non lontano dal quartiere in cui si trovava la villa di famiglia di Satoru. Purtroppo per lei, tornare a lavorare nel negozio di Kaori era fuori discussione. Per quel che ne sapeva, Ayame aveva perso la vita in un incidente d’auto e non poteva essere altrimenti.
 
A Mito, invece, era preso quasi un infarto quando aveva saputo dalla stessa Ayame cos’era successo. Dopo dieci giorni dal trasferimento nella villa di Satoru, Ayame aveva convinto lo stregone a metterla in contatto con Mito e il suo primissimo messaggio era stato un racconto verboso, farcito di scuse e giustificazioni, che ripercorreva la storia della sua vita sin dal giorno dell’incidente al Tempio Astrale. Dopo quel messaggio era scattata subito una telefonata furibonda che alla fine si era risolta con il perdono di Mito e la sua totale comprensione, meno che per la sciagurata scelta di Ayame di donarsi così presto a Satoru. Quella non l’aveva proprio mandata giù.
 
Si erano promesse di incontrarsi appena Mito fosse tornata a Tokyo, fuori per questioni di famiglia, e anche adesso che Ayame era con lei a godersi la compagnia in una caffetteria del centro continuava instancabilmente a pensare a quella canzone. Si affacciava all’improvviso nei suoi pensieri assieme all’ultima frase che Satoru le aveva detto: “sotto questo cielo mi viene ancora più voglia di baciarti”. A fine canzone l’aveva salutata con un bacio sulla fronte ed era andato via senza dire una parola, ma stranamente sereno in viso. Forse, il pensiero che sarebbe potuto scattare qualcosa aveva riacceso in lui qualche speranza.
 
- Lei è Hanae? Accidenti, è la fotocopia di Suguru! – commentò Mito osservando una foto sul cellulare di Ayame, entusiasta ma non troppo di vedere finalmente il frutto del loro amore, tristemente conscia di come fosse andata a finire tra i due.
 
- Già, lo è. A volte faccio ancora fatica a guardarla -. Riemersero le lacrime agli occhi ma solo per un istante: il tempo di imporsi di non cedere più. – Avrei voluto darle il nome Himawari, il fiore che ho sempre associato a Suguru, ma vista la somiglianza credo di aver fatto bene a ripensarci. Sarebbe stato molto peggio, altrimenti -.
 
- Tu e tuoi fiori: sempre inseparabili. Non sei cambiata per niente, Aya -. Mito le restituì il cellulare. – Con Satoru invece come va? State insieme? -.
 
Ayame rispose con una smorfia e arrossì leggermente. – Ma che cavolo dici?! No! -.
 
- Non dirmi che quell’idiota se la fa sotto – commentò ironicamente Mito.
 
L’espressione di Ayame si fece mesta tutt’a un tratto e guardò in basso per nascondere l’imbarazzo all’amica. – Non sarebbe giusto – replicò con voce afona, pentita.
 
– Per te, per Satoru o per Suguru? -. L’altra scosse la testa come a voler dire che non lo sapeva e Mito riprese il discorso.
 
– Hai detto che è stato Suguru a raccontare a Satoru di te, giusto? Quindi immagino che il suo ultimo desiderio fosse di farvi ritrovare. Quanto a te… - Mito sospirò. – Sei sempre stata troppo severa con te stessa, persino quando ti piaceva Satoru. “È troppo per una come me”, dicevi. Sì, troppo idiota, semmai – lo canzonò, quindi tornò seria. – Il punto è che non hai mai pensato di meritarti ciò che ti piaceva di lui ed è per questo che preferivi concentrarti su quello che non ti piaceva. Per me quell’individuo resterà un idiota a vita, lo sai, ma… mi scoccia ammetterlo, con te era una persona diversa. Non voleva rendersene conto, te l’ho già detto che è un idiota, no? Ma la verità è che Satoru ti vuole bene, Aya. Ti ha sempre voluto bene. Cavolo, non avrei mai creduto di prendere le sue parti! – e rise ironicamente.
 
Ayame notò l’amica frugare nella borsa appesa alla sedia, poi la vide tirare fuori un vecchio cellulare. Lo depose sul tavolo e lo spinse delicatamente verso Ayame. – Quando ti credevamo morta, Satoru lo ha dato a me. Non so se lo riconosci… -.
 
- È il mio cellulare – s’intromise Ayame con aria sorpresa.
 
- Mi ha detto di tenerlo nel caso qualcuno ti avesse chiamata ma ho il sospetto che me l’abbia fatto tenere perché sperava che fossi sopravvissuta e che ti fosse venuto in mente di chiamare il tuo stesso numero di telefono. Per un po’ l’ho sperato anche io. Ha continuato a pagare l’abbonamento per tenere il numero attivo e io ho continuato a tenere il telefono acceso – spiegò; le tremava appena la voce. – Dopo un po’ abbiamo entrambi smesso di credere che fossi ancora viva ma per qualche strana ragione non abbiamo smesso di prenderci cura di quel telefono, lui pagando l’abbonamento ogni mese e io rifiutandomi di spegnere il cellulare -. Prese una pausa per seguire con lo sguardo la mano incerta di Ayame afferrare il telefono. Lo aprì.
 
- 3105 – dichiarò Mito all’improvviso. – Sono i giorni trascorsi da quando te ne sei andata a quando sei tornata. E sono anche i messaggi che Satoru ti ha mandato ogni giorno durante questi nove anni -.
 
Scriveva solo: mi manchi. Ayame scorreva quei messaggi uno ad uno mentre gli occhi le si inspessivano di lacrime, così lucidi che Mito poteva quasi leggere quei messaggi direttamente dal suo sguardo. Si portò una mano alla bocca e soffocò un singhiozzo. Gli angoli delle labbra tremavano a dimostrare quanto si stesse impegnando nella lotta contro una clamorosa crisi di pianto; in gola tratteneva un grido tanto grosso da spezzarle il fiato.
 
La morte di Suguru aveva costretto il ritorno di Satoru a ridursi a qualcosa di marginale e inconveniente. La contentezza e il sollievo di averlo nuovamente accanto, assieme a una eco di rinnovato, benché sottile, sentimento per lui, avevano fatto la loro comparsa più tardi e comunque non erano stati in grado di rimediare al dolore della perdita. Le due settimane di lontananza da Satoru le avevano fatto capire qualcosa, niente di così indubitabile da poterle concedere il beneficio di una definizione, e quel qualcosa si era tradotto in una presenza fissa di Satoru nella sua testa.
 
- Sono stata un’egoista – piagnucolò piano affinché nessuno, a parte Mito, la sentisse.
 
L’amica intervenne con tempestiva freddezza. – Non dire stupidaggini. Ti sei dovuta allontanare per il bene di tutti voi. Lui ti aveva ferita. E, diciamocelo, avevi una cotta segreta anche per Suguru -.
 
- Sì, lo so, ma se non avessi fatto l’orgogliosa… - Ayame tentò di ribattere ma Mito la interruppe.
 
- Niente ma, Aya! Stai forse dicendo che la tua storia con Suguru è stata uno sbaglio?! – la voce salì di qualche tono.
 
- No, non è così! – singhiozzò lei. – Ma Satoru non si meritava quello che gli ho fatto! Gli ho mentito, mi sono innamorata del suo migliore amico e ho dato alla luce sua figlia. Pensavo… - strinse i denti e si asciugò le lacrime con la manica del maglioncino. – Pensavo di avere il diritto di superare i miei sentimenti per Satoru. Pensavo che mi avesse dimenticata e invece lui… lui… - le parole si persero, spezzate per via del pianto.
 
- Credi che Satoru sia così scemo da rimanere al tuo fianco sapendo di essere stato ferito di proposito? Dai, Aya, lo sai anche tu che non è vero. È da questo momento in avanti che puoi scegliere. Cosa provi? Cosa vuoi da Satoru? E non dirmi che i tuoi sentimenti sono ingiusti perché sei la sola qui che si sta autoinfliggendo una punizione immeritata -.
 
- Voglio baciarlo – rispose Ayame di getto, singhiozzando sonoramente. Qualcuno seduto alle sue spalle si girò per controllare che fosse tutto a posto e Mito gli fece cenno di non preoccuparsi.
 
- Allora va’ da lui e bacialo – la incoraggiò con ovvietà. - Va’ da quell’idiota e prenditelo. Hai già perso troppe persone, Aya -.
 
E il resto si svolse a una velocità impressionante. Ayame scattò in piedi alzandosi fragorosamente dalla sedia, si asciugò in fretta le lacrime dal viso e porse un insolito inchino a Mito come segno di riconoscenza. – Ti chiamo più tardi, d’accordo? -. Indossò velocemente il cappotto.
 
Lei aggrottò le sopracciglia. – Ehi, non credere che voglia sapere i dettagli dei vostri sbaciucchiamenti! – scherzò e Ayame scoppiò a ridere smettendo per un attimo di disperarsi.
 
Alla fine, corse via lasciando la sua parte del conto sul tavolo. Salì in auto e nel frattempo prese il cellulare per chiamare Satoru. Lui rispose dopo un paio di squilli.
 
- Pronto? -.
 
- Satoru, dove sei? – chiese mettendo il vivavoce e girando la chiave per far partire l’auto.
 
- Sono all’Istituto, perché? -. Il tono agitato di Ayame lo mise in allarme. – Che ti prende? È successo qualcosa ad Hanae? -.
 
- Non è successo niente, ma devo vederti subito. Possiamo incontrarci? -.
 
- D’accordo – rispose lui perplesso. – Vuoi che ti aspetti fuori dall’Istituto? -.
 
- Va bene. Sarò lì tra dieci minuti -.
 
 


 

Correva giù per la discesa con le guance pallide di freddo e gli occhi arrossati; una corsa febbrile, pericolosa, e che dava da pensare che potesse finire faccia a terra da un momento all’altro. Aveva parcheggiato l’auto di fronte all’entrata sbagliata e aveva deciso di farsi il resto del tragitto di corsa.
Un inspiegabile, brutto presentimento aveva trovato spazio per manifestarsi sulla fronte di Satoru, corrugata e rigida. Aveva anche la sensazione che gli si fosse chiuso lo stomaco.
Aprì la bocca per dire qualcosa ma Ayame lo travolse, letteralmente. Si lanciò tra le sue braccia e lo strinse con forza a sé. A Satoru mancò l’equilibrio per un istante.
 
- Scusami – mugugnò. Tra il pianto singhiozzante e la faccia compressa contro il suo sterno, fu quasi un miracolo capire le parole di Ayame. – Scusami, Satoru – si ripeté.
 
Lui reagì sorridendo nervosamente. – Perché ti stai scusando? E perché piangi? – chiese intenerito e insieme confuso, quindi le posò una mano sulla testa.
 
Tremava contro di lui. Avvertiva i singhiozzi riecheggiare nel torace e questo non faceva che incalzare il battito del suo cuore. Attese che la crisi di pianto passasse e sugli ultimi fiacchi singhiozzi di Ayame fece un secondo tentativo.
 
- Vuoi dirmi perché piangi? -. Il petto vibrò al timido scuotersi della testa di Ayame. – Allora… vuoi dirmi perché ti stavi scusando? -. Questa volta la ragazza negò energicamente e Satoru rinunciò.
 
Sentì che la presa di Ayame si allentava. Le braccia si spostarono verso le spalle di Satoru, così in là in altezza che fu costretta a sollevarsi sulle punte dei piedi. Lui le passò un braccio attorno alla schiena per sorreggerla, poi la benda sugli occhi salì a mo’ di fascia per capelli, con le dita sottili di Ayame che l’accompagnavano.
 
Le si fece giorno. Era già giorno al di sopra delle loro teste, anche se una foschia scintillante ricopriva il cielo di un azzurro invernale, sbiadito, ma a guardare quegli occhi aveva la sensazione che il sole le sorgesse dentro. Satoru sbatté le ciglia più volte, perplesso.
 
Lo sguardo di Ayame si mosse indeciso. Passò dagli occhi di Satoru alla bocca ricurva in un morbido sorriso e il coraggio l’abbandonò nell’istante in cui comprese di trovarsi a un niente dalle sue labbra, all’inequivocabile distanza di bacio, dove se ne avvertiva già il sapore. Ci andò decisa, occhi sbarrati e fiato sospeso, e lo baciò. La saliva di Satoru era calda e zuccherina; una sensazione dolce, molto simile a quando da bambina amava farsi sciogliere la meringa in bocca.
 
Satoru la cinse maggiormente, ricorse anche all’altro braccio per stringersela contro, e ricambiò il bacio affondando le labbra in quelle vellutate di lei. Non aveva capito niente, e avrebbe continuato a non capire niente se il prezzo di quel segreto erano i baci improvvisi di Ayame. La baciò forte, ma senza farle male, profondamente, a volersi rifare di tutti quei baci mancati, con il cuore che martellava nelle orecchie ovattando qualunque rumore di fondo. Non sentì neppure la voce del suo allievo che lo chiamava.
 
- Prof? -. Al terzo tentativo, con Ayame che cominciava a fare una piccola resistenza, la sola ad aver sentito quel richiamo già la prima volta, Satoru se ne accorse e le loro labbra si separarono con uno schiocco di sorpresa. Per un istante lui la guardò come se fosse appena riemerso, ma non completamente, da un lungo sogno, poi lanciò un’occhiata alle spalle e si tolse la benda.
 
- Ah, sei tu Okkotsu – proferì con una sottile irritazione celata dietro il tono svagato. L’altro gli lesse l’espressione sul volto e capì presto di aver interrotto uno dei migliori momenti della giornata, e forse persino della vita, del suo insegnante. Dovevano aver litigato di nuovo, ipotizzava, col prof era facile perdere le staffe, ed essersi riappacificati dopo chissà quanti giorni di musi lunghi ed evitamenti forzati. Doveva senz’altro essere andata così.
 
Yuta si sporse appena oltre la figura slanciata del professore per scorgere il volto di sua moglie avvampare dall’imbarazzo. Subito distolse lo sguardo. – Pensavamo le fosse successo qualcosa e… - farfugliò. Gli era parsa una buona giustificazione quando l’aveva proposta ai suoi compagni di corso ma ora aveva afferrato appieno perché lo avessero beffeggiato anziché prenderlo sul serio. Satoru lo smascherò al primo secondo.
 
- Volevi conoscere mia moglie? – chiese: la voce indulgente per non fargli pesare quella sua curiosità adolescenziale. La naturalezza con cui Satoru aveva articolato quella parola, moglie, accese letteralmente un fuoco sul viso di Ayame.
 
- Be’… -. Lo sguardo del giovane girovagò nel nulla; le guance si tinsero di un rosa purpureo.
 
Satoru tese una mano verso Ayame, invito silenzioso a venire avanti e affiancarlo, e lei gli andò vicino ma con passo molle, quasi che le ginocchia fossero sul punto di cedere. Quel bacio l’aveva prosciugata delle forze. Sperava solo di lasciarsi andare sul divano di casa in una nube inebriante di spensieratezza.
 
Le cinse la vita e per lei fu come prendere la scossa. – Okkotsu, lei è mia moglie Ayame – annunciò, al che guardò la ragazza con un tale sorriso sghembo da farle venire un’improvvisa voglia di mollargli un bel ceffone, ma niente di serio. – Moglie… - scherzò per rompere il ghiaccio. – Lui è Okkotsu Yuta -. Dalla sua espressione trionfante si capiva che avesse colto quell’intenzione direttamente dalla faccia spiazzata di Ayame.
 
Satoru si chinò verso l’orecchio di lei. – Per quello schiaffo, spiacente ma dovrai aspettare – bisbigliò e di rimando Ayame pensò che il suo alito avesse di punto in bianco assunto la stessa potenza stordente di un forte alcolico. Le lasciò un bacio a fior di labbra, colpevole di non sapersi contenere nemmeno in presenza del suo studente.
 
Lei lo spinse via di riflesso e lui la guardò con un sorriso sciocco, lo schiaffo ancora virtualmente stampato in faccia, poi rise divertito della timidezza con cui Ayame continuava incontrollabilmente ad arrossire. Eccome se te le do! minacciava il suo sguardo impermalito.
 
La ragazza si ricompose. – Vi chiedo scusa se ho interrotto la vostra lezione -. Ayame rivolse un breve inchino al giovane stregone.
 
Yuta agitò le mani davanti a sé e sorrise impacciato. – Ma no! La colpa è mia per non aver saputo controllare la curiosità -.
 
- Okkotsu ci teneva tanto a conoscerti – spiegò Satoru compiaciuto e Yuta si vide arrivare da Ayame un sorriso di riconoscenza.
 
Lei prese per un momento il telefono dalla tasca del cappotto e gettò uno sguardo all’ora. – Purtroppo, ho altre commissioni da fare e non posso trattenermi. Ma se ti fa piacere, un giorno di questi posso… -.
 
- Sì! Mi farebbe piacere! -. L’eccessivo entusiasmo di Okkotsu la interruppe.
 
Ayame rise graziosamente. – Va bene allora – e diresse lo sguardo su Satoru. – Posso? -.
 
Una risata asciutta scaturì dalle labbra dello stregone. – Certo che puoi. Ho già fatto registrare la tua energia malefica. Altrimenti, come farai a venire a trovare il tuo fantastico maritino quando ne sentirai la mancanza? – la provocò, ma non ottenne che un verso di rimprovero.
 
- Satoru! -.

 
 ***
 
 
 
Era andata via con un invito a cena. Lì per lì aveva provato un leggero panico, neanche fosse stata invitata da un perfetto sconosciuto, ma Satoru ci era andato molto vicino a somigliargli. Forse, in passato non aveva avuto tempo a sufficienza per conoscere certi suoi lati, o forse li aveva fatti suoi crescendo. Ma Satoru era così e lo era sempre stato: una sorpresa.
 
- Ha detto che cucinerà lui?! –. Un’esclamazione di stupore che per poco non le ruppe un timpano.
 
- Chiudi la bocca o ti cadrà la mascella! – la canzonò Ayame osservando l’amica esterrefatta riflessa nello specchio. Mito teneva Hanae in braccio mentre la piccola giocava con la versione plastificata della foto di suo padre, una copia che Satoru aveva fatto fare esclusivamente per lei.
 
La piazzò davanti agli occhi di Mito per mostrargliela e con quel tono consapevolmente assertivo dei bambini della sua età pronunciò: - Papà – e subito dopo – Guru -.
 
- Conoscevo il tuo papà. Detto tra noi era anche un gran figo – confessò Mito, poi rise.
 
- Insomma, Mito! – l’ammonì Ayame, occupata a disfare per la terza volta la treccia che avrebbe raccolto i suoi lunghissimi capelli neri, ammesso che le fosse riuscita bene. – Stavamo parlando di Satoru, ricordi? -.
 
L’altra tornò sull’argomento. – Insomma… ti ha invitata nel suo appartamento -.
 
- Cosa vorresti insinuare? -. Dallo specchio Ayame le scoccò un’occhiata scettica.
 
Mito fece spallucce. – Dico solo che sarete da soli, nel suo appartamento e senza che la dolce bimba qui presente interrompa qualcosa… -. Nel frattempo, Ayame rinunciò alla treccia e scaricò la frustrazione con un sonoro sbuffo. – Hai più fatto sesso con qualcuno dopo Suguru? -.
 
- No – rispose tiepidamente dividendo l’attenzione tra l’amica e la propria immagine allo specchio, intenta a spazzolarsi i capelli. – E comunque non ho alcuna intenzione di bruciare le tappe. Ci siamo solo baciati -.
 
- Non pensi di aver bruciato le tappe da un bel pezzo con lui? Mi pare tu abbia già conosciuto il suo…-.
 
Ayame la fissò esterrefatta. – Mito! Ma che cavolo ti prende oggi?! -.
 
- Che c’è? Sono solo contenta! Finalmente dopo tutti i casini che hai passato nella vita puoi essere felice. Una felicità stabile – sottolineò. - Senza offesa per papà Guru -. Hanae le fece subito il verso.
 
- Pensi che Satoru sia l’uomo giusto per me? -.
 
– Vuoi forse che ti ricordi cosa hai pensato quando lo hai visto per la prima volta? Sei stata tu a confessarmelo… -.
 
Ayame scosse piano la testa. Se lo ricordava eccome, quel giorno. E quando aveva sollevato gli occhi al cielo, richiamata da quel suo tono sgarbato, arrogante e antipatico, aveva istintivamente avuto un solo e unico pensiero: è il mio principe.




 
Salve a tutti! Cosa dire? Finalmente (?)
Questo capitolo è abbastanza leggero ma mi sono divertita a scrivere di Satoru che punzecchia Ayame. 
Chi come me pensa che Mito sia un nome e una garanzia? xD
Scherzi a parte, spero vi piaccia. Non mi dilungo con le chiacchiere d'autrice perchè ho un mal di testa infinito come la tecnica di Gojo.
Alla prossima! E grazie a chi leggerà e commenterà! ^^

 

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Capitolo 17
*** Sole, acqua, terra ***


La guardava sul pianerottolo, radiosa come una luna piena in agosto; sul viso un’espressione senza ombre e uno sguardo senza fantasmi, meravigliosamente pieno di vita. Forse, anche solo per quella notte, proprio come quel suo fiore dal nome bizzarro, il Kadupul, Ayame aveva scelto di fiorire. E lui sarebbe stato il suo sole per quella sera; la sua acqua e la sua terra.
 
Scattò subito un bacio, primo nutrimento della serata, e Ayame gli sorrise sulle labbra sentendosi avvampare. Il cuore di una diciottenne scalpitava nel petto. Tornò improvvisamente ingenua, impacciata, insicura; improvvisamente vergine, come se Satoru l’avesse messa al mondo in quel momento con la forza vitale di quel bacio.
 
Dalla scollatura della camicia bianca veniva l’odore inconfondibile di bergamotto. Profumava di sesso e di ore passate in cucina. Lui l’aiutò a togliersi il cappotto e lo appese all’appendiabiti a scomparsa dell’ingresso, poi le propose di accomodarsi al tavolo da pranzo nel suo lussuoso openspace. Satoru era un uomo ricco, era innegabile, e questo non la faceva sentire meno tranquilla.
 
Servì la cena e prese posto davanti a lei. Lo stereo in sottofondo mandava una musica perfetta per l’atmosfera. La candela accesa del centrotavola gli illuminava lo sguardo: occhi ineffabili, gemme inondate d’azzurro. La sua fiamma tingeva di fuoco quelle ciglia candide come braci d’inverno.
 
Satoru le scoccava sguardi velati di impazienza. Avrebbe fatto volentieri a meno della cena per ricoprirla di baci. Il miglior cibo era la sua timidezza, le guance che le si arrossavano, i sorrisi imbarazzati ma apertamente compiaciuti, il repentino ritorno ai suoi diciotto anni. Anche lei, a guardarla, sembrava d’accordo a voler saltare quei convenevoli.
 
Alla fine, qualcosa della cena rimase sui piatti. Finirono di cenare sulla bocca dell’altro muovendosi come in una danza improvvisata: passarono dal tavolo alla parete più vicina; dalla parete al divano; dal divano alla camera da letto. Il ritmo dei loro baci scandiva il tempo dei loro passi.
 
Satoru si chinò su di lei quando Ayame urtò il bordo del letto e vi si sedette su. Se la portò alle labbra ancora, avido e insieme gentile, con lei che confusamente gli sbottonava la camicia. Poteva aver detto una bugia a Mito o a sé stessa, ma le mani andavano da sole.
Cercarono la sua pelle e la trovarono appena sotto la camicia di lino.
 
Non toccava un uomo da due anni e non toccava sé stessa da quando era nata sua figlia. E quello che Satoru le fece decollare dal diaframma, quando intenzionalmente la mano s’insinuò tra le sue cosce, fu il suo primo e timido gemito dopo tanto tempo. Satoru ne fece un segnale per cominciare spogliarla.
 
S’inginocchiò davanti a lei e le tolse le calze. La camicia di Satoru scivolò giù dalle spalle sospinta via dalle mani di Ayame. Passarono qualche secondo a fissarsi negli occhi, poi ripresero. Lui la spogliò del vestito e del reggiseno che raccoglieva un seno materno, maturo; lei aprì la fibbia della cintura e gli sbottonò i pantaloni. E nel lasso di tempo di due, massimo tre battiti di ciglia rimasero nudi uno di fronte all’altra. Quasi nudi.
 
Gli occhi di Satoru scesero sul polso sinistro di Ayame. Lei gli lesse lo sguardo e capì, allora ritrasse il braccio chiudendoselo al petto.
 
- Non voglio che tu lo metta via per sempre, Ayame. Ma adesso vorrei che ci fossimo soltanto noi due – mormorò lui con voce comprensiva ma non meno esigente.
 
Qualche attimo di esitazione e lei annuì silenziosamente. Satoru le tolse l’elastico per capelli; lo fece con amabile premura, come se stesse maneggiando l’oggetto più sacro e fragile del mondo, e lo depose sul comodino.
 
Ripresero a baciarsi e lentamente si sistemarono sul letto. Ayame sollevò le braccia e cinse il collo di Satoru con le mani: le dita gli accarezzavano i capelli corti della nuca.
Divino: era il solo aggettivo che le passava di mente. Ma non nel senso di intoccabile o irraggiungibile, non più. Tantomeno invulnerabile. Era divino per come la faceva sentire. Le sembrava di trovarsi sopra una nuvola sulla sommità del mondo; un mondo grande quanto una pupilla, quella degli occhi di Satoru. E l’azzurro di quegli occhi era il suo cielo.
 
Lui la guardava dall’alto con la calma di chi ha atteso per tanto tempo e ha imparato ad attendere. Essere il suo sole, la sua acqua e la sua terra e proteggere il fiore più raro di tutti: ecco cosa pensava nel silenzio inframmezzato dai loro respiri. Aveva capito di volerla da quando l’aveva conosciuta, ma solo da poco aveva compreso cosa volesse essere per lei.
 
Si concesse una breve distrazione per prendere un preservativo dal cassetto del comodino e tornò negli occhi blu di Ayame come un pesce non può fare a meno del suo oceano. Ci si tuffò con lei che lo guardava sfarfallando le lunghe ciglia: una delle abitudini che più adorava di lei.
 
- Lascia, faccio io – esordì morbidamente: sensualità e timidezza si alternarono in quelle poche parole. Lui sentì montare un brivido lungo la schiena mentre Ayame gli sistemava il profilattico con quella sua squisita accortezza. Poteva anche essere l’uomo più forte del mondo, ma per lei sarebbe sempre stato qualcuno che accidentalmente avrebbe potuto ferire. Allora lo toccava sempre con gentilezza perché sapeva che il suo Minimo Infinito, almeno con lei, non era mai lì a proteggerlo.
 
- Satoru? -.
 
Lui fece un piccolo verso interrogativo. - Dimmi -.
 
- Dopo il parto non ho più avuto rapporti, perciò… - lo sguardo divagò leggermente in imbarazzo.
 
Lui la baciò con dolcezza sulle labbra richiamando quegli occhi su di sé. – Perciò niente acrobazie? -.
 
La battuta spiritosa la fece ridere. – Scemo! – e lo colpì con un tenero buffetto sulla spalla.
 
Satoru smorzò quella risata con un bacio più intenso. Benché considerasse quella risata ambrosia per lo spirito, il desiderio meno nobile di sentirla gemere per lui pulsava irrefrenabilmente lungo tutta la sua erezione.
 
Scivolò gradualmente dentro di lei e quando si sentì sicuro di non farle male puntò le ginocchia, guidò le braccia di Ayame al suo collo e le afferrò le cosce. – Tienimi stretto – raccomandò sommessamente, quindi la issò su facendo sedere Ayame sul suo bacino.
 
Si guardarono. Per una volta Ayame poteva vantarsi di essere un soffio più alta di lui. Allacciò le braccia attorno alle sue spalle e lo baciò quasi disperatamente. Gli si strinse addosso e le cosce gli cinsero i fianchi con decisione. Avrebbe impiegato ogni centimetro di pelle, ogni respiro e ogni secondo di quella notte per consacrarsi a lui. Avrebbe permesso a sé stessa di rinascere ma senza dimenticare tutto quello che era stata.
Avrebbe lasciato che Satoru fosse il suo sole, la sua acqua e la sua terra.
 


 
*** 
 

Satoru affondò il naso nell’incavo del collo di Ayame quando lei gli rivolse le spalle: profumava di una stagione ancora lontana e quando socchiuse gli occhi la immaginò profilarsi nei pensieri come un miraggio; lunghi viali di ciliegi in fiore, foglie di giada e un cielo di tempera sgombro di nuvole. Un sorriso di ritrovata pace interiore si dispiegò sulle labbra.
 
- Quanto tempo puoi restare? -. Sembrava dispiaciuto.
 
- Ho detto a Mito che sarei tornata al massimo entro mezzanotte, ma puoi sempre venire con me. In fondo, anche quella è casa tua – propose. Tracciava linee ondulate sul braccio di Satoru con la punta del dito. – Domattina possiamo fare colazione insieme -. Il pensiero non le dispiaceva affatto.
 
- Me lo stai proponendo solo per stanotte o…? -.
 
- Non lo so – rispose francamente. – Avevo detto a Mito che non avrei bruciato le tappe e invece sono qui che penso a come sarebbe svegliarsi accanto a te ogni mattina -.
 
Satoru la strinse maggiormente a sé; le odorò la pelle di pesca. – E come sarebbe? – chiese piano.
 
- Bello – ammise e non contenta aggiunse: - rassicurante e… - si morse l’interno della guancia – romantico. Perlomeno, questo è quello immagino. Non so realmente cosa si provi a svegliarsi sapendo che c’è sempre qualcuno accanto a te -.
 
- Con Suguru non l’hai mai provato? –. Domanda rischiosa la sua.
 
- Non proprio. Di solito andava via la mattina presto. A volte nemmeno lo sentivo uscire di casa. So che lo faceva per non svegliarmi, ma quando aprivo gli occhi non mi sembrava nemmeno di aver condiviso il letto con qualcuno. E poi… - si lasciò andare a un sospiro infelice – ero perfettamente consapevole che la nostra relazione non sarebbe potuta durare a lungo. Lui mi aveva avvertita. Questo non significa che non mi sentissi felice, però sapevo che avrei potuto perdere quella felicità da un momento all’altro -. Di riflesso si guardò il polso ma il laccio per capelli era ancora da qualche parte sul comodino di Satoru.
 
- Suguru ha voluto mettere il suo sogno davanti a entrambi – dichiarò lui con malinconico disappunto. – Ci ha lasciati indietro e prima di morire ha voluto che noi facessimo lo stesso con lui -. Sentì Ayame agitarsi e poi girarsi dalla sua parte.
 
I loro sguardi si incrociarono; lei gli accarezzò il viso. – Perdonaci per averti ferito, Satoru – sussurrò. Di rimando lui si rifugiò tra le braccia di Ayame nascondendo il viso nel suo seno, improvvisamente e inspiegabilmente vulnerabile. Nessuno aveva mai chiesto scusa per il suo carattere presuntuoso, frivolo ed egocentrico, imputando sempre a lui la colpa di tutto. – Perdonaci se ti abbiamo dato per scontato, se abbiamo pensato che le nostre parole non ti ferissero e se non abbiamo capito quanto a volte ti sentissi solo. Perdonaci tutti, Satoru -.
 
Lui si raggomitolò tra le sue braccia: un universo che d’un tratto si fece granello di sabbia. Capì perché aveva avuto così tanta paura di lei e perché il nemico più temibile che avesse potuto incontrare era la sua purezza, la sua comprensione, la sua empatia.
Ayame Ishikawa era il primo essere umano ad aver disarmato lo stregone più potente dell’era moderna: Satoru Gojo.
 



 


 Ayame aprì gli occhi e vide che Satoru la fissava: era già piena mattina in quello sguardo, prima che fuori alla finestra.
 
– Buongiorno – farfugliò lui con voce roca e assonnata.
 
La ragazza strabuzzò gli occhi e scattò a sedere. – O mio dio! Non dirmi che… -. Sul viso le passò un’espressione di panico e le ci volle più di un’occhiata per rendersi conto di trovarsi nella camera da letto della villa. A quel punto, tirò un sospiro di sollievo e ricadde di schiena sul soffice materasso. Satoru la fissò un secondo, stralunato, poi sbottò a ridere.
 
– Non c’è niente da ridere! – lo ammonì lei. – Per un attimo ho creduto che fossimo ancora nel tuo appartamento! – e le scappò una risata che tradì il proposito di far sembrare la questione davvero così grave.
 
Iniziò a ricordare di aver aiutato Satoru a sparecchiare e a mettere in ordine la cucina, e poi di aver scambiato due chiacchiere con lui mentre preparava una piccola borsa infilandoci dentro il pigiama, la divisa, lo spazzolino e poche altre cose. Satoru aveva preferito lasciarle qualche altro giorno di tempo per pensarci, pensarci seriamente, prima di fare del suo appartamento una seconda casa a cui appoggiarsi in caso di necessità, ma aveva lo stesso deciso di restare alla villa per quella sola notte.
 
Si erano presentati alla villa insieme. All’aprirsi della porta, con Mito che aveva diviso con scrupolosa precisione l’attenzione tra Ayame e Satoru perché le fosse da subito chiaro cos’era successo tra loro, le due si erano scambiate uno sguardo d’intesa. Niente sui loro visi aveva lasciato trasparire residui di una notte all’insegna della passione ma il vestito sgualcito di Ayame ne era stata la prova inconfutabile. E Mito l’aveva guardata con un orgoglio quasi materno negli occhi. Erano rincasati a mezzanotte meno dieci.
 
Ayame controllò l’ora dallo schermo del cellulare: aveva anticipato la sveglia di soli due minuti. Sospirò sconsolata. Fece per alzarsi ma Satoru ci mise del suo per peggiorare la malavoglia che aveva di uscire dal letto, agguantandola e serrandola tra le braccia. Lei non protestò e lo lasciò fare almeno finché non fosse suonata la sveglia.
Un fioco raggio di sole entrava dall’imposta della finestra e gli occhi di Satoru finirono nel suo fascio di luce diafano: le iridi scintillarono di migliaia di punte di diamante. Si baciarono.
 
- Devi andare a scuola oggi? -.
 
- No. Devo partire per una missione. Hokkaido – riferì.
 
La preoccupazione di Ayame le corrugò la fronte. – Un’altra? E per quanto starai via questa volta? -.
 
- Sarò di ritorno domani, tranquilla – la rassicurò, poi la sua espressione cambiò e con aria pentita aggiunse: – scusami se ieri non te l’ho detto -.
 
- Non può andarci qualcun altro? – chiese lei ingenuamente. Non ne sapeva granché del mondo dell’occulto, ma era abbastanza sveglia da aver intuito che la sua salvaguardia c’entrasse qualcosa con Satoru e questo la rendeva nervosa. Voleva dire missioni pericolose, rischi enormi, vite umane sulle spalle.
 
- Proprio no. Sono io il più forte – fece per darsi un tono ma lei lo guardò scontenta della sua propensione a minimizzare certe questioni, specie quelle che avevano a che fare con la sua incolumità. Per capriccio gli tirò un pizzicotto sul braccio e lui sussultò.
 
- Ahia! – le rivolse una smorfia sconvolta. Nel frattempo, suonò la sveglia.
 
- Visto?! Anche tu puoi farti male – commentò con quell’aria da so tutto io, così graziosa eppure cocciuta, che le assicurò dapprima una scarica di solletico e poi una tempesta di baci.
 
Satoru la tratteneva sotto di sé intervallando intrecci di labbra e sguardi fugaci. Per un attimo gli occhi caddero sull’elastico per capelli di Suguru, rimesso fedelmente al suo posto, e convenne che la cosa lo feriva un po’ ma non così tanto da mettersi a fare l’orgoglioso e rischiare di rovinare tutto.
 
Il cellulare continuava a diffondere le note di “Stand by me” di Anna Tsuchiya. Ayame aveva ancora quell’espressione sofferta sul viso; l’angoscia che gli fosse potuto accadere qualcosa.
 
- Ti prego, sta’ attento – sussurrò sulle sue labbra.
 
Un altro paio di baci e arrivò il momento di separarsi. Scesero dal letto insieme e si divisero i compiti: Satoru andò a svegliare la piccola Hanae e Ayame a preparare la colazione. Sulle prime la bimba fece un po’ di storie, ma quando si accorse che si trattava di Satoru il suo umore cambiò radicalmente.
 
Aveva sviluppato una curiosa attrazione per lui e poteva dipendere dai suoi capelli bianchi, dall’energia malefica o da qualsiasi altra stranezza affascinasse tanto ossessivamente una bambina di quasi sedici mesi. Sapeva, ad esempio, che adorava farsi prendere in braccio da lui perché la elettrizzava il brivido dell’altezza, e lui di altezza ne aveva da vendere. Sapeva che andava matta per lo yogurt già solo perché era di colore bianco e lo stesso si poteva dire dei capelli di Satoru, nei quali non mancava mai di metterci le mani appena finivano alla sua portata. Sapeva che dopo “mamma” la sua seconda parola era stata “Toru” e che, a sentire Ayame, le piaceva così tanto da pronunciarla almeno dieci volte al giorno. Sapeva che il coniglietto di peluche infuso della sua energia malefica l’aiutava a dormire; che le sue gambe lunghe erano un’occasione fantastica per arrampicarvisi; che impazziva di gioia quando “Toru” e mamma “Yame” la portavano a vedere i “pei” al ruscello.
 
Se la tenne in braccio mentre andava in cucina. La mamma è sempre la mamma, e Hanae le si gettò al seno quando la vide. Per stimolarla a parlare, Ayame si divertì a elencare gli ingredienti della colazione mentre finiva di preparare e Hanae ne imitava qualche sillaba: banana era “nana” o “bana”; frutta era “utta”; e yogurt, probabilmente il più difficile ma anche il più stravagante, era “gutto”.
Satoru lo sapeva: Ayame aveva avuto dei grossi problemi all’inizio ad accettare l’esistenza di quella bambina, ma ora ce la stava mettendo tutta per diventare una brava madre e Satoru pensò che fosse meravigliosa.
 
Fecero colazione tutti e tre insieme; si lavarono, si vestirono e insieme uscirono di casa quasi come una normalissima famiglia. Satoru sarebbe passato al suo appartamento prima di recarsi in aeroporto e prendere il volo per Sapporo mentre Ayame avrebbe portato Hanae all’asilo nido per poi andare al lavoro. Al mattino lavorava part-time in un negozio di fiori e nel pomeriggio teneva corsi di ikebana in alcune università di Tokyo: di gran lunga più remunerativo dei corsi online.
 
Satoru e Ayame si baciarono al momento di salutarsi. Hanae pretese un bacio sia da sua madre che da Satoru, protestando quasi gelosamente quando le loro labbra si unirono. Satoru le fece una pernacchia sulla guancia e la crisi passò sfociando in una risata vibrante.
 
- Mandami un messaggio quando atterri – si raccomandò Ayame. Satoru annuì, si strinse nelle spalle e si preparò ad avviarsi verso l’auto tuffando le mani nelle tasche del cappotto.
 
- Ah, Satoru? -. Il richiamo di Ayame lo trattenne.
 
- Sì? -. Rivolse lo sguardo su di lei e scorse una faccia seria, risolutamente seria.
 
- Torna da me -.




 
Salve a tutti! Questa volta ho fatto presto perché ero mooooolto ispirata ma non fateci l'abitudine perché penso sia stata solo fortuna xD
Ho trovato piacevole scrivere questo capitolo e spero che si percepisca nella lettura (fatemi sapere se volete o potete).
Sono profondamente affezionata a Satoru e Ayame; è per loro (e per chi mi sostiene con le loro bellissime parole) che sto continuando a scrivere questa storia. 
A proposito di storia... a breve (ma ancora non so quanto breve) anche Iris dovrebbe giungere al termine e dovrebbe cominciare la terza e ultima parte della storia.
Purtroppo sono in crisi con il titolo xD Voglio restare sulla tematica dei fiori, penso si sia capito che è la tematica centrale della storia, ma finora me la sono cavata con i fiori che rappresentavano Ayame e Satoru. Sto cominciando a valutare l'idea di scegliere un titolo a casaccio senza doverlo per forza legare al tema della storia xD
Oppure, di questo passo, lo farò scegliere a voi!
Comunque, spero che questo capitolo vi piaccia. Se la vostra coppia preferita è AyamexSatoru, allora forse questo capitolo grida alla vostra ship preferita!
Purtroppo non posso garantirvi una velocità di pubblicazione (sono nel pieno degli esami) ma mi farò viva! Non abbandonerò la storia :)
Un grazie a tutti coloro che scrivendo le loro bellissime recensioni continueranno a sostenermi e a sostenere il progresso di questa storia.
Alla prossima! ^^

 

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Capitolo 18
*** Maledizione ***



Agli inizi di marzo all’Istituto fu organizzata una piccola festa per celebrare il compleanno di Yuta. L’idea era partita da Satoru e si era fatto punto per punto come aveva stabilito lui o ne sarebbero usciti tutti con i nervi a fior di pelle. In effetti, ci erano andati molto vicini.
La festa era stata allestita in classe con palloncini e bandierine colorate, ciascuna contenente una lettera a formare la scritta: Happy Birthday. C’era la musica, la torta e bevande rigorosamente analcoliche.
 
- Forza ragazzi, su i calici! Un brindisi a questo ragazzone e alla fine del vostro primo anno all’Istituto! -. Satoru passò il braccio attorno alle spalle di Yuta e lo incoraggiò con uno scossone. Megumi, Toge, Panda e Maki sollevarono i rispettivi bicchieri di carta ma lo fecero con un’eterogeneità nell’entusiasmo che la diceva lunga sul loro carattere.
 
Yuta ridacchiò a disagio e aderì al brindisi per ultimo. Stare al centro dell’attenzione era peggio che farsele suonare da Maki durante gli allenamenti e avrebbe di buon grado dato il cambio a Takuma, nel pieno di una missione, cedendo a lui il gradito ruolo da protagonista. Se poi l’anima della festa era quel bontempone del Professor Gojo tanto peggio.
 
- Scusate il ritardo –. Ayame si aggiunse ai festeggiamenti entrando dalla porta aperta dell’aula e Yuta ne fu rincuorato. Era contento di vederla ma anche meschinamente sollevato che l’attenzione di tutti avesse preso a gravitare attorno a lei.
 
Gli occhi di Ayame finirono su Megumi e la ragazza si paralizzò per un momento. Aveva così tanto di Toji che pensò che il Signor Fushiguro avesse avuto quello stesso aspetto quando suo padre lo aveva conosciuto. Erano uguali nei tratti ma sorprendentemente diversi nei modi; quella di Toji era un’aria cupa mentre quella di Megumi era stoica, di ragazzo alienato dal mondo ma orribilmente consapevole di non potersi esimere dal farne parte. Gli si leggeva in faccia che avrebbe certamente preferito un buon libro e una macchia d’ombra a uno qualsiasi di quei convenzionali riti sociali.
 
- Ayame! – esclamò Satoru su di giri. – Gente, vi presento la mia donna! -.
 
Ci fu un saluto generale e l’entusiasmo fu lo stesso che con il brindisi: Toge esordì con il suo incisivo “alga!” dall’accento amichevole; Panda agitò concitatamente la zampa e mancò per poco il bicchiere di Toge; quello di Maki fu più un verso funereo che un vero e proprio saluto e Megumi le si accodò quasi con la stessa enfasi ma in maniera meno esplicita. Yuta la salutò per ultimo e da bravo festeggiato la ringraziò della presenza porgendole un inchino.
 
Toge e Panda l’accerchiarono con la scusa della torta e un bicchiere di qualunque cosa avesse comprato il prof Gojo. – Tonno –. Inumaki le passò il piatto e Ayame fu colta alla sprovvista. Osservò perplessa il contenuto nel piatto e si accertò che fosse a tutti gli effetti una fetta di torta prima di prenderne un boccone.
 
- Toge parla solo con gli ingredienti degli onigiri – spiegò Panda offrendole da bere.
 
Lei pensò che stesse scherzando ma non stava scherzando. – Ah, capisco – farfugliò e attaccò a ridere nervosamente. Mandò giù l’analcolico tutto d’un fiato e passò ad abbuffarsi di torta per tenere quanto più possibile occupata la bocca.
 
- Quindi… - cominciò Panda: premessa di una lunga serie di domande scomode. – Finalmente conosciamo la moglie del Prof Gojo. Da quanto tempo vi conoscete? -.
 
- Da un po’ – rispose vaga.
 
- Figli all’orizzonte? -. Il boccone le andò quasi di traverso. Tossì portandosi una mano alla bocca per sputacchiare briciole di torta, sempre meglio che addosso al suo interlocutore, quando Satoru esordì alle loro spalle schiarendosi la voce. Aveva l’aria di uno rimasto per diversi minuti a torreggiare dietro di loro contando di essere notato.
 
Tese il braccio lungo le spalle della ragazza e lasciò cadere pigramente l’avambraccio in avanti. – Di cosa parlate? – s’intromise facendo capolino dalla sommità della testa di Ayame e posandovi su il mento. La sua curiosità talvolta rasentava quella di un bambino di cinque anni.
 
- Niente! – rispose lei nell’immediato.
 
Satoru avvertì Ayame irrigidirsi contro di lui. L’Istituto, la festa, gli sconosciuti, le domande inappropriate, la recita della moglie del professore: erano tutte buone ragioni per farla sentire sotto pressione, a disagio e fuori luogo; le stesse con cui Ayame si era fatta scudo nelle ultime due settimane ogni volta che Satoru aveva provato a sfiorare l’argomento “festa di Yuta”. Alla fine, dopo un’insistenza esasperante e un intimo senso del dovere, Ayame aveva accettato l’invito e Satoru si era sentito fiero di lei. Era ancora fiero di lei.
 
Le propose all’orecchio di uscire a prendere una boccata d’aria e Ayame annuì. Satoru le lasciò un bacio sulla tempia per rassicurarla. – Scusate ragazzi ma avevo promesso ad Ayame un giro dell’Istituto. Voi continuate pure – mentì rivolgendosi ai presenti, poi sventolò il braccio in aria.
 
Uscì dalla classe tenendosi Ayame sotto la spalla e quando furono sufficientemente lontani lei si divincolò, si ritrasse con la schiena contro la parete del corridoio e sospirò profondamente.
 
- Non capisco se sono più sconvolta per il figlio del Signor Fushiguro, il Panda parlante, il tizio degli onigiri o la domanda sui figli -.
 
Satoru si mise a ridere ma si ricompose subito. – Quella ha sconvolto anche me -.
 
- Non puoi semplicemente dire loro la verità? -.
 
- E quale sarebbe la verità? –. Il silenzio turbato di Ayame lo esortò a continuare. – Facciamo sesso da un mese ma non so che cosa siamo. Ci eravamo detti che avremmo provato a vivere insieme e ti ho lasciata libera di pensarci ma non mi hai più dato una risposta. Porti ancora il suo laccio per capelli al polso, Ayame. E sembra che di tutto questo tu non voglia affatto parlare -. Si era espresso pazientemente, più di quanto normalmente qualcuno avrebbe fatto nella sua stessa posizione, ma sentiva che non sarebbe stato così remissivo ancora per molto.
 
Ayame abbassò lo sguardo. – Hai ragione, scusami. È solo che non volevo dare l’impressione di pretendere da te più di quanto tu stia già facendo -.
 
- Dovresti – replicò lui. – Perciò sii sfacciata e dimmi che cosa vuoi davvero -.
 
Ayame… -. Improvvisamente una voce lontana invocò il suo nome e lei trasalì.
 
- Che ti succede? – Nell’eco di quella voce si aggiunse il tono apprensivo di Satoru. La vedeva spaesata e impensierita e la preoccupazione crebbe quando lei cominciò a voltare la testa da una parte all’altra.
 
- Sento una voce – riferì e udì ancora una volta qualcuno chiamare il suo nome.
 
- Una voce? -.
 
Lei accennò un energico sì con la testa. – Una voce di donna, credo -.
 
Un orrore sinistro lo colse. Tenere l’ispettorato occulto alla larga da Ayame era stato facile, più che per la faccenda della finta moglie per il timore di quei vecchi di sfidare la furia di Satoru, ma per quella voce non avrebbe potuto fare granché.   
 
- È Tengen – commentò Satoru serrando i pugni. – Che cazzo vuole da te adesso? -. Quell’orrore sinistro sfociò in un’ondata di odio viscerale.
 
- Vuole che vada al Tempio Astrale – disse assorta.
 
- Non se ne parla – obiettò lui.
 
- La fusione è saltata, no? Non può farmi niente. Forse ha qualcosa da dirmi – replicò Ayame con sicurezza.
 
Satoru cedette ma le pose la condizione di andare soltanto se l’avesse accompagnata lui e Ayame accettò senza obiettare. Nel tragitto le tornarono alla mente una miriade di ricordi spiacevoli, come la spada del Signor Fushiguro piantata nello sterno di Satoru, la corsa a perdifiato su per le scale per allontanarsi dalla battaglia, l’odore insinuante di terra umida e il cuore gonfio di paura. Da quel giorno al Tempio Astrale erano cominciati anni di lontananza e di solitudine e mettervi nuovamente piede le costò più di quanto avesse immaginato.
 
Oltre la porta della sala circolare la proiezione astrale di Tengen era lì, ironicamente sulla macchia secca di sangue che nessuno aveva pensato di lavare via. I suoi quattro occhi obliqui la puntavano. – Ciao Ayame -. Di Satoru non parve curarsi. – Come sta la piccola Hanae? -.
 
La curiosità si trasformò in terrore e si fissò come un bassorilievo sul viso di Ayame. - Come fai a conoscere mia figlia? -. Le parole uscirono incespicando tra i denti.
 
- Io so tutto di te, sei pur sempre un mio Ventre. E proprio perché sei un mio Ventre ho potuto trasferire i miei poteri nella tua bambina –.
 
Satoru intervenne spazientito. – Di che diavolo stai parlando? -. Cercò i suoi occhi insondabili ma questi erano presi a misurare lo sgomento di Ayame aspettandosi di vederla inorridire alle sue prossime parole.
 
– Senza le mie tecniche di barriera il mondo dell’occulto e quello dei senza poteri collasserebbe. Ora che sono una cosa sola con il mondo posso vedere il mio futuro e presto potrei perdere la mia volontà. Trasferire le mie tecniche di barriera e la tecnica dell’immortalità nel corpo di tua figlia era l’unico modo per mantenere questo equilibrio –.
 
Ayame indietreggiò di sorpresa e raccolse le mani al petto. – No – le uscì un verso stupito.
 
- Ma prima – proseguì Tengen con crudele indifferenza – avevo bisogno che tu, il mio unico Ventre, avessi una bambina e ho fatto in modo che rimanessi incinta – confessò. – Solo chi è legato spiritualmente a me può accogliere i miei poteri, ma non potevo trasferirli direttamente dentro di te perché si tratta di tecniche innate che si possono ereditare solo alla nascita. Quello che cerco di dire è che… -.
 
- Hanae diventerà la prossima Tengen – Satoru le tolse le parole di bocca. Parlò come se avesse dovuto accompagnare la voce, sforzarla, o ne sarebbe uscito nient’altro che fiato.
 
Ayame provò a dire qualcosa ma la lingua le si era incollata al palato. Era come se fosse morta sul posto. Si sentiva come se di lei fossero rimasti solo pelle e scheletro e il resto fosse semplicemente evaporato. Gli occhi tondi come due piatti fissavano inespressivi il viso deforme di Tengen.
 
Si rianimò nel momento in cui Satoru le posò una mano sulla spalla: il calore contrastante dissipò la ventata di gelo che l’aveva sopraffatta. – Stai dicendo che vuoi togliermi mia figlia? -.
 
- No, certo che no. Tua figlia non dovrà fare altro che imparare a controllare le mie tecniche di barriera. Potrà vivere come vuole, ammesso che resti lontana da ciò che può mettere in pericolo la sua vita. La mia evoluzione ha persino alterato la natura stessa della tecnica dell’immortalità, per cui non le sarà nemmeno necessario fondersi con un Ventre per azzerare la tecnica -.
 
Seguì un silenzio immobile, piatto come una superficie di lago, e che s’increspò con la voce rauca e rancorosa di Ayame. Non ne poteva più di subire e sopportare. – È tutta colpa tua –. In un primo momento parlò con tono basso, tra i denti, poi il tono cominciò a decollare. – Se mia figlia sta crescendo senza un padre è solo colpa tua! -. La voce ricadde. – Se sono una madre spregevole è colpa tua -.
 
Non versò che una lacrima e forse perché aveva pianto così tanto da essere rimasta a secco. Era la mano di Satoru a infonderle coraggio. Lui aveva questa strana influenza su di lei. Quando era con Satoru si sentiva come la marea che muta a ogni cambio di luna. E sebbene in quell’istante avvertisse dentro di lui agitarsi marosi di furore, Ayame provava un irrazionale senso di pace. L’impeto di rabbia se n’era andato in un attimo con la stessa velocità con cui era arrivato. Non le restava che la mano calda di Satoru e Ayame gliela strinse, profondamente grata che fosse lì con lei.
 
- Satoru… -. L’ira cieca dello stregone si allentò al richiamo rassicurante di Ayame e la mano smise di tremare. – Andiamo via – disse docilmente, rassegnata.
 
Aveva provato un desiderio sfrenato di uccidere, spaventosamente simile a quello nutrito il giorno del fallimento della missione, quando aveva creduto di aver perso Ayame per sempre, e così come allora qualcuno lo aveva fermato. Gli occhi di Satoru, come biglie roventi, osservarono Tengen da sotto la benda un’ultima volta mentre Ayame lo trascinava via.
 
Andarono e lentamente, come se camminassero a tentoni nel buio lungo una strada ignota, il futuro, stretti l’un l’altra nella mutua promessa di non lasciarsi più.


 
 
***
 


Sia per Ayame che per Satoru la festa si concluse con la visita al Tempio Astrale. Satoru si affacciò brevemente all’aula per salutare i suoi studenti con la scusa di un imprevisto e si allontanò dall’Istituto tenendosi Ayame stretta al fianco. Montarono in auto e tornarono a casa.
 
Ayame aveva guardato per tutto il tempo fuori al finestrino. Aveva la faccia stravolta e lo sguardo di chi non può far altro che lasciarsi trascinare dalla marea come un barattolo vuoto in balia della corrente.
 
Pensava a quante volte aveva maledetto quelle pillole e all’ansia paralizzante che l’aveva assalita all’idea di ricominciare a farne uso ora che aveva rapporti con Satoru; ansia che lo aveva messo nella condizione di dover indossare sempre il preservativo e anche così non si era mai sentita del tutto tranquilla. Nei loro momenti insieme si accendeva nella mente di Ayame la fissazione costante che potesse rompersi o, chissà dio come, sfilarsi e il sesso finiva per rassomigliare a una specie di roulette russa. Ma ora che sapeva la verità, si sentiva penosamente ridicola ad aver perso tanto di quel tempo ad angosciarsi per nulla quando avrebbe potuto donarsi liberamente a Satoru, riscoprirsi come donna e non più soltanto come madre, e accogliere finalmente i suoi sentimenti per lui. In un certo senso, quella verità l’aveva liberata.
 
Pensava ad Hanae e a tutte le volte in cui aveva accusato la sua forte determinazione di nascere; a tutte le volte in cui l’aveva biasimata per aver scelto una madre codarda come lei e un padre che sarebbe morto senza mai tenerla tra le braccia. Ma non era stata Hanae a desiderare tanto ardentemente di venire alla luce né a scegliersi una famiglia sgangherata come quella. La sola e unica responsabile era Tengen, colei che aveva scritto il destino di quella bambina prima ancora del suo primo vagito.
 
Trovarono Hanae a giocare con Nanami nel cortile che dava sulla villa. Lei si divertiva a corrergli dietro e lui si lasciava acchiappare. Deviò la corsa quando vide sua madre avvicinarsi e le si gettò alle gambe. Ayame la prese in braccio e la baciò con gli occhi lucidi. Era la prima volta che le succedeva.
 
Nanami venne loro incontro lievemente trafelato: aveva le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e i primi bottoni dall’alto slacciati. – Già di ritorno? -.
 
Ayame lo guardò demoralizzata. – Sì. Scusami se ti abbiamo fatto venire qui di sabato pomeriggio per così poco -.
 
Satoru li raggiunse e si tolse immediatamente la benda per non spaventare Hanae. Non le piaceva quando la indossava, Ayame gli aveva spiegato che per i bambini di quell’età il contatto diretto con gli occhi era fondamentale, e da allora era sempre stato attento.
 
Tempo di incrociare le sguardo con quello dello stregone e Hanae era già tra le sue braccia a indicargli questo o quello, tra cui Nanami che aveva ribattezzato “Nami”. Satoru l’assecondò per un po’, poi rivolse gli occhi all’amico guardandolo cupamente.
 
- Tengen l’ha fatta grossa – riferì e gli raccontò cos’era successo.
 
Nanami aveva saputo dell’esistenza di Hanae sul finire di gennaio. Per lui che era un tipo da “vivi e lascia vivere” la scoperta di Hanae non lo aveva scosso più di tanto e nemmeno sapere che Satoru se ne stava prendendo cura. Aveva già fatto una cosa simile con il figlio di Toji Zenin ed era impensabile che si tirasse indietro con la figlia del suo migliore amico e della sua donna. Sì, proprio così: la sua donna. Persino un disinteressato come Nanami si era accorto dei sentimenti di Satoru per Ayame e forse anche per questo aveva preferito non avanzare alcuna critica quando era venuto a conoscenza della verità. Ma sapere che dietro la nascita di Hanae c’era lo zampino di Tengen lo aveva lasciato decisamente di stucco.
 
Quando arrivò il momento di congedarsi, Nanami guardò entrambi con l’espressione ancora sbigottita e solo all’ultimo gettò un’occhiata dispiaciuta verso la bambina. Poi se ne andò accordandosi con Satoru di parlarne insieme l’indomani con il Preside Yaga.
 
Ayame e Satoru rientrarono in casa con la notte che avanzava lenta da est e attesero l’ora della cena guardando un film. Hanae crollò sul divano dopo dieci minuti, evidentemente aveva rinunciato al sonnellino pomeridiano per sfiancare il suo nuovo compagno di giochi, e Satoru la seguì poco dopo. Ayame spense la TV e si ritirò in camera da letto. Pescò l’album di famiglia dal fondo dell’armadio e cominciò a sfogliarlo sedendosi a gambe incrociate sul letto. Rivedere i volti dei propri familiari l’aiutava a concentrarsi esclusivamente sul passato, particolarmente su quello che c’era di bello del suo passato: il primo giorno di asilo di Ayame; Shoto e sua sorella con le facce impiastricciate di torta di compleanno; Shoto che teneva in braccio Ayame di appena due mesi; Ayame al saggio di canto; l’ultima vacanza al lago Biwa assieme al nonno prima della sua dipartita; Shoto nel giorno del diploma; Ayame sulle spalle di suo padre; Shoto immerso nei pensieri con una sigaretta tra le labbra.
 
Era stata Ayame a scattare quella foto e a tenerla nascosta perché suo padre non la vedesse. Guardandolo affacciato alla finestra aveva pensato che la sua bellezza meritasse di essere documentata, fissata per l’eternità. Il suo era tutt’ora un giudizio assolutamente soggettivo ma nessun uomo era o sarebbe mai stato bello come suo fratello. Aveva lo stesso portamento nobile di sua madre, più regale di quanto Ayame avesse potuto aspirare in tutta la sua vita, e l’aria di chi sa essere impenetrabile e gentile al tempo stesso.
Quella foto rappresentava anche l’ultimo passaggio di Shoto sulla terra.
 
La distrassero due colpetti leggeri alla porta. Ayame alzò gli occhi e notò Satoru farsi avanti. Fece il giro del letto e si sedette accanto a lei. – Ho messo quel piccolo uragano a letto -. La frase suscitò una breve risata di Ayame.
 
L’occhio di Satoru cadde sull’album fotografico. – Vuoi che ti lasci sola? – chiese e Ayame gli rispose di no. Poi lei ricominciò a sfogliare l’album da capo insieme a Satoru.
 
- Questo qui è mio padre – e indicò un giovane uomo con gli stivali di gomma e una salopette color cachi; uno scatto rubato tra un colpo di pala e l’altro mentre lavorava la terra. Aveva i capelli biondi e la scriminatura a sinistra, un po’ scompigliati dal cappello di paglia che aveva tolto per farsi immortalare. La luce tenue di un sole autunnale rivelava un paio di occhi color zaffiro. – Qui aveva venticinque anni. Stava per diventare padre per la seconda volta -.
 
Voltò pagina e s’intristì di punto in bianco. – Questa invece è mia madre -. Era una donna dai lunghi capelli corvini e gli occhi grigio madreperla. La fotografia la ritraeva con il figlio di quattro anni tra le braccia. – È la sola foto che ho di lei, non che la cosa mi dia tanta pena -.
 
- Questa è Kasumi? -.
 
Il viso di Ayame fu attraversato da una momentanea smorfia interrogativa. – Conosci mia madre? -.
 
- Non direttamente, ne ho solo sentito parlare. Lei fa parte di uno dei quattro stregoni di livello speciale attualmente in circolazione. Il quinto era… - lo sguardo di Satoru saettò sul polso di Ayame e tacque. Ebbe il presentimento che pronunciando quel nome l’umore di Ayame avrebbe potuto guastarsi in un modo che poi gli sarebbe risultato difficile riaggiustare. – Questo invece è tuo fratello? -. Deviò l’attenzione di Ayame indicando il bambino nella fotografia.
 
- Sì, aveva quattro anni. Mentre qui… - sfogliò rapidamente le pagine per tornare alla foto scattata alla finestra. – Qui aveva diciannove anni. È stato ucciso pochi mesi dopo. Sai, dopo la scomparsa di mia madre, la morte di mio fratello e quella di mio padre ho cominciato a pensare che la mia famiglia fosse stata maledetta, ma dopo quello che ho sentito oggi credo di essere io la maledizione. E adesso ho maledetto anche mia figlia -.
 
- È questo mondo la vera maledizione, Ayame. Non sei tu – precisò Satoru con assoluta convinzione. Incontrò i suoi occhi per guardarli fissamente e proseguì. – Ti prometto che la proteggerò. Le insegnerò a combattere e a non farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Diventerà forte, testarda e orgogliosa, proprio come sua madre. Te lo garantisco -.
 
Quello che inizialmente si era posto come un semplice compromesso mentale, stare con Ayame per prendersi cura della figlia di Suguru e, all’inverso, prendersi cura della figlia di Suguru per stare con Ayame, ora si era fatto una certezza: quella di esserci per entrambe.
 
- E voglio che tu sappia che… - riprese ma Ayame gli rubò il fiato baciandolo d’istinto.
 
Quelle ultime battute si persero negli schiocchi delle loro labbra e l’album di famiglia si capovolse uscendo goffamente di scena. Il bacio di Ayame si approfondì, un modo davvero favoloso di fargli venire un’erezione, e il cuore gli sembrò implodere quando lei gli passò una mano sul rigonfiamento dei pantaloni. Gli carpì un piccolo gemito. Poi le bocche si separarono per l’improvvisa esigenza di Ayame di parlare.
 
- Voglio che resti qui – mormorò soffiandogli sulle labbra. – Voglio stare con te e voglio che tu sia mio. E non me ne frega niente se il mondo ti desidera; non ho alcuna intenzione di cederti a nessuno, Satoru Gojo – affermò con la voce frusciante ma decisa.

E lentamente, come quando si rimuove un cerotto vecchio di giorni, vecchio di anni, rimasto tanto a lungo sulla pelle da fondersi con la pelle stessa, si tolse l’elastico per capelli dal polso. Si protese verso il comodino per chiuderlo definitivamente nel cassetto: un gesto simbolico che valeva più di migliaia di parole. Quello era il modo di Ayame di fargli sapere che fosse arrivato il momento di ricominciare, di reinventarsi, e lui accettò felicemente il futuro che d’ora in avanti avrebbe condiviso con lei.
L’amava.




 
Questa è una di quelle volte in cui mi sento sopraffatta dalla convinzione di non essere poi questo granché come autrice. Non che voglia farvi compassione, per carità, ma a volte ammetterlo ti lascia un senso di leggerezza. Mi rivolgo a chi tiene a questa storia: non temete, queste parole non rappresentano un epilogo.
Ma passiamo a qualcosa di meno deprimente, la storia: ho voluto mantenere la femminilità di Tengen. La traduzione in italiano in realtà è al maschile ma non me ne frega niente. Non so se Tengen sia effettivamente il nome che il personaggio ha sempre avuto o se le è stato dato quando ha cominciato a occuparsi delle barriere del mondo dell'occulto e quindi, non sapendolo, mi sono limitata a scegliere "Tengen" come nome per chi svolge il ruolo di Maestro delle barriere. Se nell'opera originale dovesse uscire qualche chiarimento, provvederò a sistemare.
Dovrebbero mancare due capitoli alla fine della storia. In realtà avrei ancora due momenti di slice of life da descrivere e sto scegliendo quale dei due mettere prima del capitolo conclusivo. Forse l'altro momento lo terrò per un capitolo extra o non lo so. Verrebbe fuori qualcosa di confusionario se invece scegliessi di metterli entrambi nello stesso prossimo capitolo. Credo...
In sostanza, stiamo entrando nella terza e ultima parte della storia. Hanabie sarà il suo titolo: è una parola che descrive una gelata improvvisa che si abbatte sulle prime fioriture dei ciliegi. Lascio a voi la libertà di trovare collegamenti con la storia. Non voglio influenzarvi. Ho cercato di trovare un titolo che si sposasse bene con gli altri due e che facesse in qualche modo riferimento ai fiori. Insomma, spero che il titolo vi piaccia.
Basta, ho già parlato troppo.
Continuerò a ripetermi fino alla nausea ma spero di leggere le vostre impressioni.
A presto!

 

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Capitolo 19
*** Sì ***



Guardava una riga di orizzonte con il mare che s’infrangeva nel vetro dei suoi occhiali: un mare d’inchiostro per il nero impenetrabile di quelle lenti rotonde. Il sole ci si rifletteva come un cerchio cromato, sfumato ai contorni. Le onde si avvicendavano srotolandosi pacificamente a riva e l’aria era piatta. Se ne avvertiva ogni tanto un alito appena e spirava cocente sulla pelle delle spalle. Era settembre.
 
Per quel finesettimana a Okinawa era stato quasi tentato di spegnere il cellulare, ma nell’ultimo periodo piovevano tante di quelle brutte notizie, improvvise come temporali estivi, per cui ritagliarsi qualche ora di assoluto isolamento dalle responsabilità era professionalmente inopportuno.
 
Yuji Itadori, uno dei suoi nuovi studenti del primo anno, era morto per qualche ora. Erano apparse maledizioni di livello speciale non registrate, una delle quali aveva il potere di trasfigurare esseri umani. Un ragazzo di nome Junpei Yoshino era stato coinvolto e aveva perso la vita assieme alla madre. Era stato preso di mira il magazzino segreto dell’Istituto durante l’incontro di scambio tra la scuola di Tokyo e quella di Kyoto e da lì erano state sottratte le sei dita di Sukuna tenute sotto custodia dall’Istituto e tre uteri maledetti. In quella sola giornata erano morti decine di stregoni. E ora qualcuno all’interno della scuola era sospettato di tradimento.
 
- Satoru! Satoru! –.
 
La piccola sagoma di Hanae si specchiò negli occhiali di Satoru deformandosi mentre si avvicinava correndo dal bagnasciuga. Lui si sollevò gli occhiali sulla testa con un gesto meccanico e reagì alla forte luce del sole strizzando un istante gli occhi. Hanae gli mostrò la conchiglia che stringeva nel pugno.
 
- L’hai trovata tu? -.
 
- Sì! – esclamò fieramente, poi ripartì come un razzo e ridiscese verso la riva dove Ayame prendeva una boccata d’aria con i piedi a mollo.
 
Ayame e Satoru vivevano insieme da sei mesi e per chiunque lo chiedesse rispondevano di essere compagni. Nelle sue conversazioni intime con l’amica, Mito li definiva “fidanzati” ma, nella prospettiva forse un po’ d’altri tempi di Ayame, il termine implicava una proposta di matrimonio che non c’era ancora stata e che in merito Ayame non aveva saputo esprimersi quando Mito le aveva avanzato la fatidica domanda. Per certi versi, avrebbe potuto rispondere che un matrimonio era troppo prematuro o stupirsi che un pensiero simile fosse partito proprio dalla bocca di Mito e invece, banalmente, aveva ammesso di non averci mai riflettuto. Per una ragazza come Ayame, e che a Mito ricordava molto uno dei personaggi della brillante autrice Ai Yazawa, Yukari Hayasaka, tanto per fattezze quanto per alcuni aspetti della personalità, quella di Mito avrebbe dovuto essere una domanda scontata, tutt’al più inattesa, ma alla fine si era rivelata una domanda senza risposta. La totale assenza di una qualsiasi reazione di Ayame le aveva fatto nascere il sospetto che, per amore di Satoru, era pronta a sacrificare anche la sua più grande aspirazione.
 
Satoru era l’amore della vita di Ayame: di questo Mito ne era più che convinta anche se non necessariamente entusiasta, non all’inizio a ogni modo. Lo era sempre stato, benché avesse indubbiamente provato puri sentimenti d’amore anche per Suguru. Mito se n’era accorta fin dal giorno del loro incontro all’Istituto, lo stesso in cui lei e Ayame avevano litigato nel tardo pomeriggio. Lo aveva definito “stronzo attraente”; lo aveva insultato per quasi un’ora intera con le guance rubizze per l’infatuazione e l’imbarazzo; lo aveva adorato in sordina mentre si lamentava dei suoi modi irriverenti, dei suoi piedoni da dinosauro, dei suoi fottuti occhi di cristallo, della sua camminata indolente, del tono da bastardo rubacuori. E sarebbe andata avanti così per ore se Mito non avesse interrotto quella sequela di improperi per dirle la verità.
 
Era stato il Signor Ishikawa a presentarle. A quel tempo, Ayame aveva sedici anni e Mito diciannove. Mito Kuroi era stata incaricata dalla sua famiglia di proteggere il Ventre di Tengen: un compito che andava avanti da generazioni. Il patto tra la famiglia Kuroi, l’Istituto di Arti Occulte e la famiglia Ishikawa obbligava la custode a non farne parola con Ayame almeno finché l’Istituto non l’avesse informata della fusione. E quando le era toccato rivelarle la sua identità, come darle torto, Ayame era andata su tutte le furie. Aveva rifiutato le sue telefonate per un paio di giorni ma poi aveva compreso che Mito non aveva avuto alternative. In cambio del perdono, Ayame le aveva fatto giurare di non dire niente a Satoru della sua natura di Ventre.
 
Nel corso di quei nove anni, Mito e Satoru avevano paradossalmente stretto una sorta di legame fondato sul reciproco affetto per Ayame. L’aspettativa di Mito era che Satoru si dimenticasse di lei nel giro di un mese o due e per una serie di ovvi motivi: perché di belle ragazze ne poteva avere a iosa; perché la sua frequentazione con Ayame era stata piuttosto breve; perché per un ottuso come lui era più facile dimenticare che riconoscere di provare certi di sentimenti. Ma tutto quel tempo passato a pensarla, a ricordarla e ad amarla in segreto l’aveva totalmente spiazzata. A quel punto aveva capito, benché a posteriori, che anche Ayame era l’amore della vita di Satoru. Ecco perché aveva chiesto proprio a lei di prendersene cura.
 
- Se dovessi sparire, proteggila dai piani alti. Nascondetevi nel mio appartamento. Pochi sanno dove vivo, perciò ti conviene memorizzare l’indirizzo – le aveva detto una sera prendendola da parte mentre Ayame rimboccava le coperte ad Hanae.
 
Mito lo aveva guardato con un solco tra le sopracciglia, pensosa. – Sparire? -.
 
- Ho un brutto presentimento – aveva detto alla fine, appena in tempo per il ritorno di Ayame in salotto.
 
Satoru covava quel presentimento da allora con crescente convincimento che quel giorno avanzasse con una rapidità imprevedibile e correva di pari passo alla vaghezza del suo futuro con Ayame. Ma poteva anche sbagliarsi.
 
Dopo qualche momento, riemergendo dai paludosi fondali di quelle riflessioni paranoiche, lui che di paranoia non aveva mai sofferto fino al suo incontro con Ayame, Satoru si alzò dalla sdraio e raggiunse la compagna sulla battigia. L’acqua fresca sembrò tagliargli di netto le caviglie e gli provocò un brivido. Lo sguardo si posò velocemente su Hanae seduta sul bagnasciuga a giocare a raccogliere l’acqua con la sua conchiglia quando l’onda passava: aveva le guance bianchicce di crema solare e indossava un cappello da pescatore giallo limone. Il mese prossimo avrebbe compiuto due anni.
 
- A che ora abbiamo il volo per Tokyo stasera? –.
 
- Alle sette, perché? – domandò lei e gli occhi si alzarono verso l’azzurro brillante del cielo dove il viso di Satoru sembrava dipinto: unica nuvola su quella tela dal colore uniforme. Lo guardò schermandosi gli occhi dal sole.
 
Satoru scosse la testa come per un ripensamento e le passò un braccio attorno alle spalle. Per un po’ condivisero l’orizzonte, poi si immersero in acqua per un ultimo bagno insieme prima di tornare in albergo. Hanae era stata opportunamente piazzata nella sua ciambella a forma di unicorno e sguazzava attorno a sua madre e a Satoru che la seguivano con occhio vigile e i riflessi pronti nel caso si fosse sporta. Rimasero a mollo per un buon quarto d’ora.
 
Rientrarono in camera verso le tre del pomeriggio e a turno si fecero una doccia. Ayame si lavò per ultima e si prese del tempo per dedicarsi a sé stessa mentre Satoru teneva impegnata la bambina. Aveva preso il suo libro illustrato preferito, “I racconti di Nim”, e aveva chiesto a Satoru di leggerlo insieme.
Sedevano sulla poltrona del salottino, Hanae adorava sedere sulle gambe di Satoru, quando la piccola indicò la figura di un uomo che abbracciava una bambina.
 
- Papà Nim – articolò.
 
- Giusto. Questo è il papà di Nim – rispose Satoru, quindi si vide puntare contro il dito paffuto di Hanae.
 
- Papà Satoru -.
 
E improvvisamente gli mancò il respiro, come se fosse stato colpito in pieno petto con un punteruolo da ghiaccio. Per un momento sentì il sangue gelarsi e rabbrividì. Lei gli sorrise inconsapevole, del tutto ignara dell’effetto devastante di quelle parole. Non aveva ancora l’età giusta per codificare l’espressione di marmo con cui Satoru la fissava.
 
Poi, in qualche modo che non seppe spiegarsi, le parole uscirono. – Perché dici che sono il tuo papà? -. Emise una voce tenue, non di dolcezza ma di contemplazione, ancora lì a riordinare i pensieri, sganciato mentalmente dalla realtà.
 
Hanae rispose come se quella di Satoru fosse stata la domanda più scontata del mondo. Tornò indietro di un paio di pagine e gli mostrò il disegno del papà di Nim che baciava la guancia di sua figlia. – Satoru bacio – disse. Alla pagina successiva, dove il papà di Nim giocava con la bambina, Hanae esordì con: - Satoru gioca – e concluse con un - Satoru coccole – quando puntò l’indice sul papà di Nim che stringeva sua figlia tra le braccia.
 
I bambini non assorbono soltanto per imitazione: costruiscono costantemente il loro linguaggio e i loro significati attraverso l’associazione di elementi e l’apprendimento intuitivo. E se Satoru faceva con Hanae le stesse cose che il papà di Nim faceva con Nim, allora, per la logica di una bambina di due anni, Satoru era il papà di Hanae.
 
La lettura riprese non senza difficoltà per lo stregone e si concluse quando il sonno di Hanae si approfondì. La depose sul letto e si prese un momento per guardarla. Non era solito riflettere su certe cose, ma in quell’attimo di sospensione mentale, in una di quelle rarissime volte in cui Satoru Gojo smetteva di essere Satoru Gojo, pensava che quella ragazzina avrebbe potuto essere sua figlia. Pensava che sarebbe bastato riuscire a uccidere Toji Fushiguro alla prima occasione perché fosse legittimo che Hanae lo chiamasse “papà”. Ma Hanae era la figlia di Suguru, quel titolo spettava a lui. Eppure…
 
- Satoru, c’è qualcosa che non va? -.
 
Il suo petto emise un debole sussulto e per un istante il fiato rimase imbottigliato nella gola. Se ne liberò schiarendosi la voce. – Sì -.
 
Osservò Ayame intrecciarsi i capelli e guardarlo fissamente sul limitare della porta del bagno. Ancora una volta, la prima l’aveva avvertita durante il compleanno di Ayame, provò l’irragionevole istinto di dirle che l’amava. E gli tornò in mente lo scopo ultimo di quel fine settimana a Okinawa programmato con due settimane di anticipo: il tempo necessario per organizzare i pensieri e, nel caso, prepararsi a incassare un amaro rifiuto. La breve discussione con Ayame, la sera prima, lo aveva fatto desistere. Le aveva tenuto nascosto lo scontro avvenuto con Testa a Vulcano, una delle maledizioni di livello speciale non registrate, ma la menzione del fatto in una telefonata col Preside Yaga e il perfetto tempismo di Ayame di sbucargli alle spalle proprio in quel momento avevano fatto scoppiare il litigio. Niente di irreparabile, certo, ma abbastanza disastroso da convincere Satoru ad avere un ripensamento. Eppure, a guardarla ora in piedi sulla porta, con l’unica colpa di avergli fatto scoprire un sentimento scomodo come l’amore, e rammentando quel piacevole senso di panico scaturito dalle parole di Hanae, Satoru capì che quella, non altre ma quella, era l’occasione migliore per farlo.
 
- C’è una cosa che vorrei dirti – disse tutt’a un tratto.
 
- C’è qualche altro stronzo che vuole ucciderti di cui dovrei essere messa al corrente? – chiese lei un poco stizzita.
 
- Voglio adottare Hanae – replicò Satoru schiettamente, ancora prima che il turno della conversazione potesse considerarsi concluso per Ayame. – Sempre che tu sia d’accordo – aggiunse correggendo il tono inavvertitamente imperativo.
 
Le dita impegnate a raccogliere i capelli in una treccia si fermarono di colpo. – Che hai detto? -. La voce vibrò di uno scetticismo di autentica sorpresa.
 
- Significa che non sei d’accordo? -.
 
– No! – Ayame fece un passo avanti. – Cioè, sì! – rispose confusamente. – Voglio dire… è meraviglioso, Satoru, dico sul serio. Hanae ti adora e tu saresti un padre fantastico. Ma sai benissimo anche tu che per adottare Hanae, noi… -.
 
Satoru annuì veloce. – Lo so. Perché non lo facciamo? Sul serio, questa volta -. Aveva la serietà incastonata negli occhi e abbagliava a ogni battito di ciglia. - Vuoi sposarmi, Ayame? -. Aveva fatto così tanti torti all’orgoglio tenace di un tempo da dimenticare cosa si provasse a infrangerlo e innamorarsi era uno di questi.
 
Il viso di lei si contrasse in una smorfia che presagiva un pianto imminente. Con il pensiero di doversi fondere con Tengen aveva messo da parte il grande sogno di sposarsi. E poi ancora, una seconda volta, quando la vita le aveva concesso un’altra occasione ma al caro prezzo di vivere come un fantasma per il resto dei suoi giorni. E una terza, quando Suguru le aveva confessato che il mondo a cui aspirava veniva prima di qualsiasi altra cosa.
Nessuno le avrebbe restituito quel sogno adolescenziale, pensava; nessuno, tranne il principe della bugia di suo padre: Satoru.
 
- Sì -.




 
Vorrei scusarmi per il capitolo breve (e, penso, piuttosto insulso) ma ho pensato di tornare facendolo a piccoli passi. Non voglio dilungarmi e parlarvi di tutte le motivazioni che mi hanno tenuta lontana dal sito perché probabilmente non è ciò che conta in questo caso. Comunque, le ragioni non riguardano la scrittura o qualcosa legato ad essa o alla storia. 
Non posso ancora garantire un ritorno effettivo. Però ho notato che ci sono persone che si stanno ancora appassionando alla storia nonostante non venga aggiornata da diverso tempo e questo mi ha convinta a riaffacciarmi per dimostrarvi che vi sono grata. La storia sta ancora seguendo il progetto che ho in mente, pertanto non ci sono stati neppure dei grossi cambiamenti. La sola differenza è che avrei dovuto pubblicare un ultimo capitolo, più lungo, di Iris anzichè spezzarlo in due parti.
Mi ripeto, mi vergogno un po' per il capitolo breve e dai contenuti scarsi ma sto cercando di rimettermi al passo poco alla volta. Spero che questo non vi dispiaccia.
Detto questo, grazie a tutti coloro che ancora hanno a cuore questa storia. 
A presto.

 

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Capitolo 20
*** Hanabie ***



Si fece spazio a gomitate. Gli altri le parlavano, vedeva le parole manifestarsi nel movimento animato delle loro bocche, con le loro facce stravolte, pallide e sciocche, ma l’unico rumore che avvertiva nelle orecchie era un fischio prolungato e stridente. Il cuore sferrava pugni nel petto forti come martellate. Nella confusione qualcuno le afferrò il braccio e lei si divincolò colpendolo inavvertitamente in faccia. Ben gli stava. Si allontanò correndo, poi uscì a precipizio dall’edificio boccheggiando per l’ansia che continuava a gonfiarsi in petto. Un muro di polvere correva senza fine davanti agli occhi e il massimo che poteva scorgere era lo scintillio opaco dei vetri rotti delle finestre più in alto; le più vicine al sole. Crepe profonde solcavano capillarmente l’asfalto e c’erano detriti ovunque: enormi avanzi di quelli che, appena un mese e mezzo prima, erano stati i grattacieli di Shibuya.
Le lacrime rigavano un viso inespressivo mentre gli occhi scattavano da un lato all’altro della strada nello sforzo di orientarsi. Dal video ricordava fossero usciti dalla galleria commerciale di un complesso di appartamenti e la sola galleria che conosceva a Shibuya distava tre chilometri da lì. Era troppo.
 
- Non farai mai in tempo così -. Il tono distaccato di Kashimo esordì alle sue spalle.
 
- Allora portami lì! – ordinò lei tra i singhiozzi. – Sei il dio del fulmine, no? -.
 
L’altro rise beffardo. Il ghigno sbilenco e affilato fu l’ultima cosa che vide prima di un lampo di luce abbacinante, al di là del quale, con uno sconquassamento di viscere che le fece montare una nausea improvvisa, scorse i resti della galleria commerciale. Tempo di accorgersi di aver percorso tre chilometri in un secondo che Kashimo era già a battersi con Sukuna. Un rombo lontano rotolò echeggiando tra gli edifici devastati ad annunciare l’inizio dello scontro.
In mezzo alla strada, abbandonato lì come una mera carcassa, Satoru giaceva a terra spezzato a metà. Ayame lo fissò con un grido lacerante dietro le labbra.
 
- Ayame -.
 
Sbarrò gli occhi. Il dolore al petto era così autentico che per un momento rimase senza fiato. Poi inspirò piano incontrando la sua ombra negli occhi di Satoru.
 
- Hai avuto un… -. Lei gli gettò le braccia al collo e Satoru smise di parlare. Attese che l’attimo di panico le passasse e poi si ridistese supino nel letto stringendosi Ayame al fianco.
 
Questa rimase in silenzio. La mano s’insinuò sotto la maglietta di Satoru alla ricerca della cicatrice che Sukuna gli aveva procurato. Quel bastardo lo aveva quasi ucciso. La toccò delicatamente con i polpastrelli: i bordi erano frastagliati e leggermente in rilievo e la pelle in quel punto era più calda del resto del corpo. Aveva una gran voglia di baciarla e pensò che fosse meglio affrettarsi o la sveglia avrebbe cominciato a emettere quel suono infelice di inizio giornata. Sprofondò sotto le lenzuola, il calore ristagnante le investì il viso, e posò le labbra su quella vecchia ferita che a distanza di quattordici anni la tormentava ancora nel sonno. L’eco di quel ricordo tramontò all’istante. C’era solo lui, il suo respiro che si riversava debolmente nella quiete e la pelle che scottava sulle labbra, più vivo che mai: la migliore benedizione che Ayame avesse ricevuto.

Satoru la fece sua poco dopo. Lui era ancora nel fiore degli anni. Si capiva dall’aspetto e dall’energia che ancora conservava per certe situazioni, dentro e fuori dal letto: una gioventù garantita dalla Tecnica d’Inversione quasi sempre attiva. Aveva smesso di abusarne solamente per lei, perché potessero invecchiare insieme, ma l’uso prolungato aveva lo stesso lasciato un segno. Le iridi continuavano a splendere del loro azzurro vivo e il bianco delle ciglia e dei capelli richiamava ancora il colore perlaceo della neve in un giorno di sole.
La sveglia suonò sul più bello ma nessuno dei due vi badò. Preferirono l’amore alla puntualità al lavoro e il ritorno a quell’adolescenza perduta, sconsiderata ed egoista, perché non si spezzasse l’illusione di essere sempre rimasti lì, nella camera da letto di un albergo di Nakano, eternamente diciottenni, col sole che li spiava bruciando d’invidia dietro la tenda a coste.
 



 
 

L’elastico di suo padre era il solo col quale raccoglieva i capelli. Se li sistemava proprio come lui e guai che quel ciuffo d’ebano non ciondolasse di qua e di là dal lato sinistro del viso. Di quell’elastico e di quell’acconciatura, del sangue che le scorreva nelle vene, nella ferma convinzione che, in ogni caso, suo padre Satoru era e sarebbe rimasto insostituibile, Hanae ne andava fiera. I suoi le avevano raccontato tutto quello che c’era da sapere su di lui e le avevano lasciato la libertà di scegliere per sé stessa quale opinione avere al riguardo. Alla fine, aveva preferito dare la priorità all’animo gentile di suo padre, all’amore che aveva provato verso sua madre e alle vite che aveva salvato prima che l’odio lo consumasse. Desiderava essere la parte migliore di lui e portarla avanti con fierezza e questo voleva dire anche rassomigliargli il più possibile.
 
Si diede un’ultima sistemata allo specchio, poi gettò lo sguardo sul comodino accanto al letto mentre abbassava la maniglia della porta. – Sto uscendo! A dopo, papà –. Si rivolse alla foto incorniciata di Suguru, una copia di quella che nella villa di famiglia era da sempre appesa alla parete tra l’ingresso e la cucina. Accanto a questa ce n’era un’altra più vecchia, dei tempi in cui suo padre frequentava ancora l’Istituto di Arti Occulte, che lo raffigurava insieme a Satoru spalla contro spalla. Era stato lui a regalargliela.
 
Uscendo notò la sua compagna di classe Natsumi aggirarsi per i corridoi del dormitorio con una lattina di tè bancha in mano e un’espressione scocciata scalfita in faccia. Le andò incontro.
 
- Nottataccia? -.
 
L’altra grugnì. – Se per nottataccia intendi “quel coglione di Ryota ha perso le chiavi del magazzino delle armi e mi ha tenuta sveglia tutta la notte per cercarla”, allora sì, è stata davvero una nottataccia – replicò caustica.
 
- Ti prego non parlarmi di quell’idiota – ribatté Hanae con aria seccata.
 
- Siete ancora sul piede di guerra? – chiese Natsumi sorseggiando il suo tè.
 
Hanae sorrise nervosamente. – Ma che domande fai? -.
 
- Dai, Hanae. Lo dice solo per provocarti – si mise sulla difensiva. – Scommetto che ha una cotta per te ma non gli va giù l’idea che tu sia così devota a quell’uomo -.
 
- Cosa vuoi che me ne importi? Non ho certo bisogno della sua approvazione – ribatté Hanae tempestivamente. - A proposito di coglioni… - aggiunse borbottando sottovoce mentre gli occhi scorgevano una figura emergere dalla densa ombra del corridoio. Era Ryota.
 
Il ragazzo gettò loro un’occhiata obliqua prima di parlare. - Muovete il culo. Il Prof ci sta aspettando fuori per gli allenamenti -. Aveva l’espressione scazzata e il tono di voce apatico di chi pensa di parlare a delle nullità.
 
La lingua di Hanae schioccò di riflesso. – Sempre in vena di simpatia, vero Himura? – lo canzonò. L’ideale sarebbe stato cancellare quell’espressione da schiaffi con una salutare ginocchiata in faccia ma si contenne.
 
Dalle labbra del ragazzo sbuffò un verso irrisorio. – Non provocarmi. Potrei dire di peggio alla figlia di un assassino come te -.
 
- Fottiti, Himura – ringhiò lei con il cuore che cominciava a battere istericamente in gola.
 
Natsumi rimase in disparte. La sua diplomazia si faceva sentire soltanto quando c’era da affrontarli separatamente, a meno che non avesse avuto la voglia, e, cielo, non ne aveva, di ricevere un corale invito a infilarsi la sua attitudine diplomatica in quel posto. Ryota si mise sulla strada di Hanae e l’affrontò a brutto muso. Quello era il segnale per Natsumi di alzare i tacchi e correre ad avvertire il loro professore prima che fosse venuta giù l’intera ala del dormitorio.
 
- Che c’è? Vuoi uccidermi come quell’assassino di tuo padre ha fatto con quella gente del villaggio? -. La provocazione era chiaramente intenzionale. Voleva vederla arrossire di rabbia. Voleva vederla piangere e godersi le sue lacrime. Voleva…
 
Un pugno magistrale, infuso di energia malefica per amplificarne la potenza, lo colpì in piena faccia scaraventandolo al suolo. Quello di Hanae era stato il primo pugno assestato a qualcuno che non fosse suo padre e il primo che era riuscita a mettere a segno di sua iniziativa. Suo padre Satoru era troppo forte e troppo furbo per farsi colpire durante i loro allenamenti e quando accadeva, perché alle volte adorava farla vincere, le lasciava sempre un senso di insoddisfazione. Quel pugno, invece, era stato assurdamente soddisfacente.
 
- Ripetilo se hai il coraggio -.

- Non mi aspettavo altro dalla figlia di un assassino – commentò lui aspramente, poi si pulì il sangue dal naso con la manica della divisa scolastica. Si rimise in piedi.
 
- Figlio di… ! -. Hanae si preparò ad avventarsi su di lui, a dargli tante di quelle botte da renderlo irriconoscibile, ed era persino pronta a riceverne purché servisse a difendere l’onore dell’uomo che l’aveva messa al mondo.
 
- Ishikawa! Himura! Adesso basta! -. Un ruggito li trattenne a un secondo dalla rissa. Megumi Fushiguro si frappose tra i due. Dietro di lui, Natsumi boccheggiava di fatica per la corsa frenetica.
 
- È stata lei a colpirmi, prof – si giustificò Ryota: studente del primo anno dell’Istituto di Arti Occulte e, spiacevolmente per entrambi, compagno di classe di Hanae.
 
- Se non la smettete una volta per tutte questa volta vi farò sospendere! E sono serio! – minacciò lo stregone distribuendo l’attenzione tra la figlia di Satoru e quel giovane attaccabrighe.
 
Questo grugnì cinicamente – È la cocca del Preside, figuriamoci se si permette di sospenderla. Ecco perché può fare quello che le pare -.
 
- Forse dovrei spaccarti i denti, così la smetti di dire cazzate –. La minaccia le assicurò l’occhiata fosca del professore.
 
Essere un’adolescente, la prossima Tengen, la figlia di uno stregone nero e al tempo stesso la figlia del preside della scuola, nonché lo stregone tra i più celebri e forti dell’epoca, non le rendeva la vita facile. A volte aveva la sensazione di non farcela, ma poi arrivava suo padre con quell’enorme sorriso raggiante e la battuta pronta, puntualmente stupida ma dalle risate garantite, a risistemarle l’umore. Sentiva di avere molto in comune con lui, a partire dalla mole di responsabilità che gravava sulle loro spalle, salvo la sua capacità di far fronte alle pressioni con l’ottimismo di chi sa di avere la vittoria in pugno o la fiducia cieca di riuscire a cavarsela in ogni caso. Sotto questo aspetto era molto più simile a sua madre.
 
- Ishikawa, mi stai ascoltando? -.
 
- Sì – biascicò lei distrattamente. Una parte di sé era ancora prigioniera dei propri pensieri. Puntò gli occhi dalle sfumature indaco verso il professore e solo allora si accorse dell’assistente di direzione che lo aveva affiancato.
 
- Oggi sei esentata dagli allenamenti. Vai pure -.
 
La presenza dell’assistente Matsumoto poteva significare soltanto una cosa: la maestra Tengen aveva chiesto di lei.

Ryota accolse quell’autorizzazione con una smorfia di disappunto. - La solita privilegiata –.
 
Nessuno studente era a conoscenza del suo legame con Tengen. Per Ryota e gli altri, il cui giudizio era fortemente condizionato dal legame di parentela tra lei e Satoru, le sue assenze ingiustificate non erano altro che un modo del preside di assecondare i capricci della figlia adottiva. Non che fosse pronta a scommettere che, se avessero saputo la verità, qualcuno avrebbe iniziato a trattarla con un po’ più di riguardo, ma non sarebbe stato male una volta tanto essere guardati con timore anziché con disprezzo. Il che la portava a pensare di somigliare a suo padre Suguru molto più di quanto immaginava. Aveva forse ereditato una parte del suo lato oscuro?
 
Hanae si allontanò schivando di proposito la provocazione di Ryota, con Matsumoto che le camminava al seguito e gli occhi del giovane Himura ben piantati nella schiena. Natsumi si sbagliava di grosso. La sua capacità di osservazione era alquanto mediocre, sebbene a suo dire sembrava un’esperta nel cogliere i sentimenti delle persone, e se ne imbroccava una era già una svolta epocale. Ryota non aveva affatto una cotta per lei. La odiava.


 
L’atmosfera al Tempio Astrale era la solita, tetra e spettrale. Passò accanto alla macchia di sangue di sua madre e, incapace di resistervi, ci buttò un occhio. Era cominciato tutto allora, in un giorno di fine giugno di ventiquattro anni prima. L’istinto fu quello di pensare che senza quella chiazza non sarebbe mai esistita, o forse sì ma non come la figlia di Suguru, che suo padre non sarebbe morto e che Satoru non avrebbe avuto quella brutta cicatrice da battaglia. Quella macchia di sangue aveva cambiato la vita di tutti.
 
Raggiunse l’albero sacro dove Tengen l’attendeva seduta a un tavolo circolare apparecchiato con la solita scacchiera dello Shogi e una lampada a olio. Si accomodò di fronte a lei e cominciò a disporre le pedine del suo lato del campo.
 
- Maestra Tengen – esordì modulando la voce sulla frequenza della curiosità – crede che avrei ereditato la tecnica di mio padre se non fossi nata per essere la futura Stella? -.
 
- Avrebbe avuto la meglio la manipolazione del sangue di tua nonna. Parlando per ipotesi, sarebbe stato più probabile che la ereditasse un tuo fratello o una tua sorella. Perché me lo chiedi? -.
 
La ragazza fece spallucce. – Ultimamente penso spesso a lui. Mi sembra come di averlo conosciuto e di essermene dimenticata -.
 
- Stai cominciando a connetterti con lo spirito di tua madre – spiegò. – Hai risvegliato i tuoi poteri da poco e non riesci ancora ad averne il controllo. Quello che percepisci sono i ricordi e le sensazioni di tua madre. Come sai, lei è un Ventre -.
 
- Significa che ultimamente mia madre sta pensando a lui? -. Hanae dispose l’ultimo pedone sulla scacchiera.
 
- Non necessariamente. Alla base della tua tecnica c’è un principio secondo cui tutto esiste simultaneamente nello stesso luogo e nello stesso tempo. Ciò significa che in questo momento potresti provare sentimenti, pensieri e ricordi di quando tua madre passava del tempo con lui. È la stessa ragione per cui senti di avere un legame particolare con Satoru Gojo. Sin da quando eri piccola, ancora prima di risvegliare i tuoi poteri o di averne consapevolezza, sei sempre stata attratta da lui. Eri come la sua ombra. Ma potrei dire lo stesso del tuo attaccamento verso tuo padre biologico. Chi si darebbe tanta pena per onorare un padre che non si è mai conosciuto e che ha compiuto gravi crimini? -.
 
Hanae si preparò a controbattere, piccata, ma Tengen l’anticipò. – Lasciami finire. I sentimenti di tua madre amplificano i tuoi. Non li avresti provati se non fossero venuti direttamente da te, altrimenti. Ricordati che anche io posso percepire i sentimenti di tua madre, persino più di te, eppure non provo alcun affetto verso Satoru Gojo o Suguru Geto. L’amore che provi per loro è frutto del tuo libero arbitrio, ma la sua intensità è contaminata dall’amore di tua madre. Naturalmente, questo vale solo quando ti connetti con il suo spirito. Imparando a controllare i tuoi poteri potrai anche decidere quando e se collegarti con lei. Ma prima è importante che tu acquisisca la capacità di mantenere attive le barriere in maniera inconscia; perciò, basta perdersi in chiacchiere e cominciamo l’addestramento di oggi -.
 
Hanae annuì, accontentandosi per il momento dei chiarimenti della sua maestra, e inspirò a lungo prima unire le mani al petto. – D’accordo, iniziamo – chiuse gli occhi. Dalle mani si propagò un’onda semi sferica che si estese fino a contenere tutto il perimetro dell’Istituto. Rimase in quella posizione finché non fosse sicura di avere il totale controllo della barriera, poi aprì gli occhi e studiò la scacchiera per qualche momento. Quando fece la sua prima mossa la partita cominciò.
 
 
 
***



Negli uffici dell’agenzia SHOTO, istituzione fondata a Tokyo in collaborazione con l’Istituto di Arti Occulte dalla moglie del preside della scuola, c’era un gran fermento. L’arrivo di nuove reclute dava sempre un bel daffare. Bisognava rivedere l’elenco delle matricole, isolare la sala di ritrovo perché nessuno studente di secondo grado vi accedesse, predisporre le divise, gestire il catering, controllare l’attrezzatura per la presentazione del corso e al tempo stesso occuparsi degli incarichi di routine, come contattare Maki per affidare alla sua squadra la sorveglianza di Ginza.
 
Choso le mostrò lo schermo del suo cellulare e lei strizzò gli occhi. In quel rettangolo di luce accecante intravide fluttuare nel mezzo un sintetico “Ok”. – Bene, e anche la squadra di Maki è sistemata – sospirò roteando gli occhi al cielo in segno di ringraziamento.
 
- Tu come ti senti? Sei pronto per accogliere i tuoi nuovi studenti? -.
 
- Mi fai la stessa domanda ogni biennio – commentò Choso. Conteggiò a mente il numero delle sedie sistemate nella sala di ritrovo per controllare che ci fossero tutte.
 
Ayame sbuffò. – Hai ragione, scusami -. Digitò alla svelta un messaggio a Kusakabe per avvisarlo che andasse tutto bene e aggiunse che per il giro di pattuglia a Ginza se ne sarebbe occupata Maki.
 
Kusakabe lavorava al piano di sopra e si occupava degli studenti che, dopo il diploma, entravano a far parte dell’agenzia di sicurezza. Ayame invece amministrava il piano riservato alla loro formazione. L’idea era stata quella di coinvolgere i senza poteri nella protezione del Paese dalle maledizioni sfruttando i benefici degli strumenti infusi di energia malefica. L’uniforme includeva una speciale visiera con la stessa funzione degli occhiali di Maki e due armi a scelta a breve e a lungo raggio.
 
L’era degli stregoni asserviti alla salvaguardia dei senza poteri era finita. Nessuno stregone avrebbe più combattuto da solo. Con la morte di Sukuna e la fine del Girone Mietitore, i senza poteri avevano raggiunto quella consapevolezza che per secoli era stata loro negata e per la quale ora erano chiamati a combattere al fianco degli stregoni: l’esistenza delle maledizioni. Chiunque poteva entrare a far parte dell’agenzia, a patto che superasse un esame preliminare per l’idoneità fisica e psicologica, e chiunque era libero di rinunciare.
 
- I nuovi studenti dovrebbero arrivare a momenti -. Lo sguardo di Choso saettò sul viso di Ayame in tempo per vederla impallidire.
 
Lei si aggrappò alla sua spalla nella sensazione che la terra fosse improvvisamente venuta a mancare sotto ai piedi, poi perse la presa. Choso l’afferrò al volo e se la strinse tra le braccia guardandola con espressione confusa. La pelle del volto era di un bianco innaturale. – Qualcuno mi aiuti! – gridò: la paura scolpita nel solco che gli attraversava la fronte.
 
- Avvertite il Preside Gojo e il Signor Kusakabe! – urlò qualcuno.
 
Choso cominciò a correre verso l’infermeria intimando i dipendenti a farsi da parte. Attraversò il corridoio deserto che dava sulle aule e deviò passando per gli alloggi degli studenti. Spalancò la porta dell’infermeria con un calcio e guardò il dottore con gli occhi cupi di terrore.
 
 

 
Con lo spostamento istantaneo era piombato lì ancora prima che Choso potesse finire di pronunciare l’ultima sillaba di una frase sconclusionata; l’unica che fosse riuscito a comporre nel tremore incessante delle labbra. Trovò Choso seduto nella sala d’attesa con le mani nei capelli e i gomiti puntellati alle ginocchia. Per molti quella reazione di aperto panico sarebbe risultata eccessiva, dopotutto Ayame era solamente il suo capo, ma non per Satoru. Choso era venuto a conoscenza della discendenza di Ayame dal clan Kamo e una ricerca più approfondita aveva rivelato che fossero parenti alla lontana. Noritoshi Kamo era il nonno di Kasumi, il che rendeva Choso il prozio di Ayame.
Satoru fece per irrompere nell’infermeria quando la maniglia sgusciò via dalle mani sudate e la porta si aprì. Il dottore lo fissò dal suo metro e settanta scarso.
 
- Signor Gojo – cominciò lentamente, come dovesse preparare l’interlocutore a ricevere una spiacevole notizia. Lo era. – Dai parametri vitali di sua moglie non sembra esserci alcuna anomalia. La causa del coma pertanto è ignota -.
 
Le ciglia innevate di Satoru si corrugarono. – Come ha detto? – poi si stesero quasi a sciogliersi sulla fronte. – Potrebbe ripetere, per favore? -. Il tono era sfiatato.
 
- Sua moglie è in coma -.



 
Incredibile che anche Iris sia finita. Lo so che probabilmente sarete confusi dallo sbalzo temporale ma è tutto già scritto nella mia testa quindi non preoccupatevi. I nodi verranno al pettine (si spera xD).
Comunque, non penso di approfondire molto l'organizzazione SHOTO perciò vi farò un breve riassunto di come funziona: le matricole sono assegnate a Choso, il loro insegnante, per i primi due anni. Questi vengono chiamati "studenti di primo grado". Il primo anno gli studenti vengono definiti di "primo grado inferiore" e il secondo anno di "primo grado superiore". Al termine del biennio gli studenti passano a Maki e il loro grado diventa "secondo inferiore". Al termine dell'anno, una volta diplomati, si passa al grado "secondo superiore" e si diventa dei veri e propri agenti. A quel punto, gli agenti passano a lavorare per l'agezia che è sotto l'amministrazione di Kusakabe.
Per altri chiarimenti, chiedetemi pure. 
Di solito sono una di molte parole ma oggi non so davvero cosa dire. Spero vi piaccia.
Alla prossima!

 

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