Il Bacio della Pantera

di Milly_Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Serata in discoteca ***
Capitolo 3: *** Una telefonata inattesa ***
Capitolo 4: *** Il sole di luglio ***
Capitolo 5: *** Gli occhiali di Theresa ***
Capitolo 6: *** Notte di lavoro ***
Capitolo 7: *** Rebecca Shepard ***
Capitolo 8: *** Il caso Flint ***
Capitolo 9: *** Veronica Freeman e il signor Carpenter ***
Capitolo 10: *** La videocassetta ***
Capitolo 11: *** La pantera ***
Capitolo 12: *** Raymond ***
Capitolo 13: *** L'incidente ***
Capitolo 14: *** Il primo incontro ***
Capitolo 15: *** La schermata verde ***
Capitolo 16: *** Samuel e Theresa ***
Capitolo 17: *** Jamie ***
Capitolo 18: *** La locanda ***
Capitolo 19: *** John e Harriet ***
Capitolo 20: *** Phil e Albert ***
Capitolo 21: *** Scheletri nell'armadio ***
Capitolo 22: *** La fotografia ***
Capitolo 23: *** La lettera ***
Capitolo 24: *** Confusione ***
Capitolo 25: *** La giovane Kay ***
Capitolo 26: *** L'ombra del sospetto ***
Capitolo 27: *** L'appuntamento ***
Capitolo 28: *** Il cartello rosso ***
Capitolo 29: *** Aberrazione cromatica ***
Capitolo 30: *** Il delitto ***
Capitolo 31: *** Grazie, Avah ***
Capitolo 32: *** Ancorarsi al passato? ***
Capitolo 33: *** Un mistero ancora da risolvere ***
Capitolo 34: *** Produttori di biscotti ***
Capitolo 35: *** Avah e Samuel ***
Capitolo 36: *** Semplice precauzione ***
Capitolo 37: *** Ogni storia ha la sua fine ***
Capitolo 38: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Albert era sul punto di abbandonare le speranze e di andarsene quando la sottile porta di compensato si aprì, senza che nessuno proferisse parola.
Avvolta in una vestaglia scarlatta sulla quale era ricamata la sagoma di un drago grigio, Avah lo squadrò dalla testa ai piedi.
Ci volle qualche istante, prima che mormorasse: «Tu... qui...»
Albert non ebbe dubbi: Avah era rimasta spiazzata dalla sua visita. Doveva essere quella la ragione per cui si stava mostrando troppo poco ospitale nei suoi confronti.
Albert la guardò negli occhi.
«Posso entrare?»
L’insicurezza parve scomparire in un istante, nel momento in cui Avah sbuffò.
«Di solito non faccio entrare in casa mia la gente che si presenta a sorpresa...» Abbassò lo sguardo e il suo tono, per fortuna, si fece più accomodante. «Nel tuo caso penso che potrei spingermi a fare uno strappo alla regola.»
Albert annuì.
«Bene.»
Era soddisfatto dalla piega che gli eventi stavano prendendo. Presentarsi a casa di una ragazza che conosceva a malapena, in una fredda sera di dicembre, non era una mossa che tutti si sarebbero permessi di fare.
“Dopotutto” si disse, “Avrebbe potuto sbattermi la porta in faccia.”
Non l’aveva fatto, forse perché aveva capito che a spingerlo a presentarsi a casa sua era stata un’idea che non poteva scartare a priori.
Le avrebbe fatto una proposta che avrebbe potuto cambiare il senso della sua stessa esistenza e, nel momento in cui Avah si scostò per lasciarlo entrare, Albert varcò la soglia realizzando che era davvero la persona giusta.
Una volta dentro, si guardò intorno. L’appartamento della ragazza era piccolo e poco illuminato. L’ingresso dava sulla cucina, al centro della quale vi era un tavolo rovinato dai tarli.
Avah richiuse la porta e si diresse proprio in quella direzione. Si sedette sul bordo, mentre Albert continuava a guardarsi intorno.
C’era un albero di Natale sintetico, alto poco meno di un metro, posizionato sul pavimento. Le luci colorate e intermittenti, piuttosto che ravvivare la stanza, sembravano darvi quasi un aspetto spettrale.
Albert le domandò: «Hai mai pensato che meriteresti di più?»
Avah scosse la testa.
«Sono tutte favole.»
«Nemmeno per sogno.» Albert le si avvicinò. «Ho parlato con te non più di tre volte, prima di stasera, ma ho capito chi sei. In realtà stai aspettando che la zia di Phil si decida a schiattare e che lui erediti.»
Ad Avah sfuggì una risatina.
«Davvero ti ho dato quell’impressione?»
«Sì, e per un attimo mi hai fatto pena» ammise Albert. «Conosco bene Phil e sono certo che, anche quando sua zia morirà e lui entrerà in possesso di una fortuna, continuerà a fare la stessa vita che fa ora. Rifletti, Avah...» Fece un altro passo verso di lei. «È davvero quello che vuoi? Vuoi passare la tua vita accanto a un uomo che, ogni giorno della sua vita, passerà le ore in una polverosa officina e tornerà a casa sporco di grasso? Non riesci a immaginare niente di meglio per il tuo futuro?»
«Mia madre sarebbe felicissima, se io potessi condurre quel tipo di vita» puntualizzò Avah. «Starei accanto a un uomo ricco, con un lavoro sicuro, che...»
Albert la interruppe: «Saresti sprecata, accanto a lui, e forse lo sei già. Te l’ho appena detto, Avah: anche se erediterà, Phil non cambierà di una virgola la sua vita. A lui non interessano le ville lussuose, non sa che una donna ha bisogno di pellicce e gioielli...»
«Io non ho mai avuto pellicce e gioielli» puntualizzò Avah. «Evidentemente non sono necessari per sopravvivere.»
Albert insisté: «Vuoi dire che non ti piacerebbe questo tipo di vita?»
«Oh, sì, mi piacerebbe» replicò Avah, «Ma faccio la cameriera in un’osteria frequentata da ubriaconi e venderei l’anima al diavolo per potere avere un lavoro più decente.»
Albert sorrise.
«Io non me ne faccio niente della tua anima, ma se vendi il tuo corpo a me, invece, un giorno sarai ricca.»
Avah scoppiò a ridere. Evidentemente non lo prendeva sul serio.
«Ricca? Grazie a te? Vedi, Albert, Phil fa il meccanico ma almeno l’officina è sua. Tu, invece, sei un suo dipendente che non ha nulla di suo.»
«Adesso non ho nulla di mio» ammise Albert, «Ma è un grave errore pensare che le cose non possano mai cambiare, nella vita, e il mio non è semplice ottimismo, ma volontà di mutare le cose. Io sarò un’altra persona, un giorno, fidati di me.»
Avah aggrottò le sopracciglia.
«E se io mi dovessi fidare di te, che cosa mi daresti in cambio?»
«Te l’ho detto, un giorno sarai ricca» ribadì Albert, «Chissà, un giorno potremmo anche sposarci... Io diventerò un uomo celebre amato e rispettato da tutti e tu sarai la mia musa ispiratrice.»
«Chiacchiere» decretò Avah. «Le tue sono soltanto chiacchiere senza fondamento.»
«Chiacchiere che ti interessano, però» azzardò Albert. «Un giorno non dovrai più servire da bere a degli alcolizzati, mia cara. Ti fidi, se ti dico che tutto ciò avverrà prima del tuo trentesimo compleanno?»
«E tu mi credi, se ti dico che manca ancora tantissimo tempo?» replicò Avah. «Ho diciannove anni e tutto quello che conta è quello che ho adesso. Onestamente non me ne importa proprio nulla di quello che accadrà quando ne avrò trenta: io voglio vivere la mia vita adesso, non quando sarò vecchia.»
Albert rise.
«A trent’anni saresti vecchia?»
Avah annuì, lentamente.
«Eccome.»
«Io ne ho trentuno» le confidò Albert. «Ne ho trentuno, proprio come Phil. Mi sento tutt’altro che vecchio.»
Avah sorrise.
«Buon per te. Evidentemente pensi di avere ancora tutto il tempo che vuoi, per vivere la tua vita fino in fondo.»
«Sì, c’è ancora tempo» convenne Albert, «Per vivere la mia vita... e anche per realizzare il mio sogno.»
«Quando ne avrai più di quaranta...» Avah fece una smorfia, forse di disgusto. «Dovresti cercare di affrettare i tempi, Albert.»
Lui abbassò lo sguardo.
«Forse dovrei, Avah, ma affrettare i tempi non sempre è possibile. È meglio godersi le cose a tempo debito, ma godersele davvero. Devi credermi.»
Tornò ad alzare gli occhi e vide che Avah lo fissava.
«Sei un visionario.»
Il suo tono era meno critico di quanto Albert avrebbe potuto aspettarsi.
«So che anche tu vuoi quello che voglio io.»
Con un balzo, Avah scese dal tavolo.
«Temevo che tu fossi un tipo ancora più scialbo e banale di Phil, ma non lo sei.»
Albert aggrottò le sopracciglia.
«Cosa vuoi dire?»
«L’hai detto tu stesso» puntualizzò Avah. «Phil non farebbe mai niente per cambiare la propria vita, qualunque cosa possa accadergli.»
«Esatto» convenne Albert, «E una ragazza come te, accanto a lui, è sprecata. Tu meriti qualcuno che ti dia tutto quello che desideri.»
Sul volto di Avah comparve un inquietante sorriso.
«E se tu mi stessi sottovalutando, Albert? Se lo scopo della mia vita non fosse aspettare che un uomo mi dia quello che voglio, ma piuttosto essere io stessa a conquistarmelo?»
Albert sospirò.
«Ecco, anche tu inizi con queste fantasie...»
«Non sono fantasie» replicò Avah. «Il mondo potrà anche sembrare in mano agli uomini, ma una donna con le palle non aspetta che qualcuno decida che cosa offrirle.»
Con un rapido movimento della mano destra slacciò la cintura della vestaglia.
Albert la fissò a bocca spalancata. Sotto portava biancheria intima di pizzo.
Avah parve non notare la sua espressione. Non voleva mostrargli il proprio corpo, ma soltanto una cicatrice sul fianco destro.
Era lunga quasi una decina di centimetri, più chiara rispetto al resto della pelle.
Albert volle sapere: «Come te la sei fatta?»
«Domanda sbagliata» replicò Avah. «Avresti dovuto chiedermi che cosa ne è stato della persona che me l’ha fatta.»
Albert spalancò gli occhi.
«L’hai denunciato?»
Avah scosse la testa.
«L’ho ucciso.»
Albert non ebbe indecisioni. Quella ragazza parlava sul serio.
«L’ho ucciso e sono felice di averlo fatto» insisté Avah. «Come vedi non ho aspettato che qualcuno mi salvasse. Ci ho pensato da sola. Sarò io a badare a me stessa.»
«E se un giorno ti dimostrassi che i miei sogni non sono soltanto fantasie?» replicò Albert. «Allora cambieresti idea su di me?»
Avah sbuffò.
«Se un giorno diventassi ricco, intendi dire? I soldi sono una bella cosa, Albert, ma il potere che ti danno non è lontanamente paragonabile a quello che ho fatto io. Mi sono sentita padrona del mondo, quel giorno.»
«Un giorno saremo padroni del mondo insieme, io e te» le assicurò Albert. «Ti dimenticherai di Phil, di questa topaia e dell’uomo che hai ucciso.»
Avah lo guardò storto.
«Prima che io compia trent’anni?»
«Prima che tu compia trent’anni» confermò Albert. «Considerala una promessa.»
«La considero una promessa» rispose Avah, piuttosto frettolosamente. «Ora, però, potresti lasciarmi sola?»
Albert non si oppose e se ne andò, consapevole che le parole pronunciate dalla ragazza avevano come solo scopo quello di liberarsi di lui, almeno per quella sera.
Erano le 22.35 del 28 dicembre 1968 e negli anni a venire non si sarebbe mai dimenticato di quel loro incontro.

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Capitolo 2
*** Serata in discoteca ***


“Voi andate, io vi raggiungo” aveva detto Theresa.
A Samuel non era sfuggito il modo in cui l’aveva guardato; i suoi occhi grandi, che dietro alle lenti degli occhiali apparivano ancora più grandi, erano meno imploranti del solito ed esprimevano un’inequivocabile condanna. Non gli era chiaro, in quel momento, se la sua collega non approvasse il fatto che Kay, per festeggiare il successo dell’imminente ripresa del suo programma, avesse deciso di concedersi una serata di svago, oppure se a infastidirla fosse soltanto la sua partecipazione all’evento.
Guardando l’orologio per l’ennesima volta, tutto gli apparve più chiaro. La giornata di venerdì 23 agosto era legalmente terminata da almeno venti minuti e non era senz’altro quello l’orario in cui una donna come Theresa faceva la propria comparsa in un locale pubblico.
Seduto a pochi metri di distanza dalla pista, Samuel iniziò a chiedersi se la sua stessa presenza fosse giustificata.
“E se Theresa avesse ragione? Se dovessi davvero impiegare il mio tempo in modo più costruttivo?”
Quel pensiero durò soltanto poche frazioni di secondo. Era un uomo di successo e aveva tutti i diritti di divertirsi, qualunque cosa ne pensasse lei, che era brava soltanto a farsi viaggi mentali e a non parlare chiaro.
“Non che mi stia divertendo molto, per ora...”
Le sue riflessioni vennero interrotte dalla voce di Anthony, che era seduto alla sua sinistra.
«Non bevi?» Indicò il suo drink, ancora intatto, sul tavolino. «Da quando hai deciso di diventare un bravo ragazzo?»
Samuel si girò verso di lui e sorrise.
«Sono sempre stato un bravo ragazzo.»
«Sarai anche un bravo ragazzo» obiettò Anthony, «Ma per il momento mi sembri troppo perso in chissà quali fantasie. Rassegnati: Theresa non è venuta, ma il mondo è pieno di donne. Anzi, non capisco perché ti ostini a frequentarla.»
Samuel sospirò.
«Forse per lo stesso motivo per cui lei si ostina a cercare me.»
Si rese conto di avere parlato troppo piano: la musica era troppo alta perché Anthony potesse sentirlo.
«Cos’hai detto?»
«Niente, lascia stare» concluse Samuel. «Se Theresa ha deciso di non venire, sono problemi suoi. Mi sono stancato di sforzarmi di capire le donne, perché tanto non ne sono capace.» Prese il bicchiere, lo portò alla bocca e bevve un sorso del suo cocktail. «A proposito, hai un’idea anche solo vaga di che fine abbia fatto Kay?»
Anthony gli ricordò: «È andata in bagno.»
Samuel annuì.
«Qualcosa come un quarto d’ora fa...»
Anthony rise.
«Sai come sono le donne. Perdono tanto tempo in bagno.»
«Theresa non è così» obiettò Samuel, appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Lei non mi fa mai aspettare.»
«Infatti noi non stiamo aspettando nessuno» puntualizzò Anthony. «Se Kay ha deciso di chiudersi alla toilette a riflettere sulla pace nel mondo, sull’immortalità dell’anima e sulla gestione degli spazi pubblicitari nelle reti televisive, perché dovremmo preoccuparci?»
Già, perché dovevano preoccuparsi? Era quello che gli ripeteva sempre anche Theresa: lo accusava di non fare altro che intromettersi negli affari altrui, e in parte esagerava. Erano altre le persone, tra quelle con cui aveva a che fare ogni giorno negli studi di Radio Scarlet, che si occupavano troppo degli altri, non certo lui.
Samuel si limitò a osservare: «Se proprio deve chiudersi in bagno a fare riflessioni profonde, è molto più probabile che stia pensando alla povera signora Flint.»
Anthony annuì.
«Temo proprio che tu abbia ragione.»
«Ci sta mettendo l’anima, in quell’affare» aggiunse Samuel. «A volte non riesco a spiegarmi perché si sia... come dire... fissata, su quel caso.»
Anthony ripeté: «Fissata...» Abbassò lo sguardo. «Temo che tu ci abbia visto giusto: ormai sta diventando un’ossessione, per lei. Mi ha assicurato che, se ci ha lavorato per tutta l’estate, è stato perché vuole occuparsene non appena ricomincerà il suo programma.»
Samuel non poté fare a meno di osservare: «Non ne sembri molto convinto.»
«Temo che possa essere un buco nell’acqua» ammise Anthony. «Vorrei che Kay si rendesse conto che si tratta soltanto di una poveretta assassinata durante un tentativo di rapina.»
«Questo rende la sua morte meno grave?»
«Certo che no.»
«Allora ha ragione Kay.»
Anthony alzò gli occhi, scuotendo la testa.
«Non capisci.»
«Invece credo di avere capito benissimo» replicò Samuel. «Vuoi dire che è del tutto legittimo commuoversi per le sorti di quella donna, ma che non c’è nessun motivo per concentrarsi proprio su quella, quando ogni giorno avvengono delitti in tutto e per tutto simili.»
«Vedo che hai centrato il punto» osservò Anthony. Gli indicò una donna, a qualche metro di distanza da loro, da sola sul bordo della pista da ballo. «Passando alle cose che veramente contano, è da un po’ che quella graziosa signora se ne sta lì da sola. Perché non vai a chiederle se puoi offrirle qualcosa da bere? Tanto Theresa non verrà...»
Samuel lanciò un’occhiata distratta alla donna, che in quel momento gli voltava le spalle. Era alta e longilinea e portava un abito leopardato. Portava i capelli scuri raccolti in uno chignon.
«A primo impatto non mi sembra la mia donna ideale.»
Anthony convenne: «Forse no.»
«E poi» aggiunse Samuel, guardandola allontanarsi nella direzione opposta, «Pare che se ne stia andando.»

Kay appoggiò la borsa sul bordo del lavandino, imprecando tra sé e sé: quando le serviva qualcosa, non lo trovava mai!
Prese a rovistare tra il contenuto, notando un foglio di giornale ripiegato. Si guardò intorno. Dal momento che non c’era nessuno, lo prese fuori. “Incidente mortale sulle montagne”, diceva il titolo di un trafiletto. Kay lesse le prime righe, come a conferma che si trattasse proprio di quell’incidente. Appallottolò la pagina e la gettò sul fondo della borsa. In quel momento vide, infine, quello che cercava.
Estrasse la piccola trousse e ne prese fuori il rossetto. Si avvicinò allo specchio e se lo passò sulle labbra.
Lo stava mettendo via, quando vide riflettersi l’immagine di una donna che entrava.
Kay non le prestò molta attenzione. Mise il rossetto nella trousse, poi infilò quest’ultima dentro la borsa, la afferrò per la tracolla e si allontanò dal lavandino.
Non avrebbe fatto caso alla sconosciuta, se questa non si fosse rivolta a lei.
«Ha lasciato la cerniera aperta.»
Kay abbassò lo sguardo sulla borsa.
«Oh, grazie.»
La richiuse e si diresse verso la porta d’uscita, provando per un attimo una sensazione di familiarità. Vi rifletté soltanto dopo avere oltrepassato la soglia. Quella donna, con il vestito maculato e i capelli scuri - a Kay era sembrato che fossero scuri anche gli occhi, ma non ne era totalmente sicura - le ricordava qualcuno.
“Già, ma chi?”
Non era la prima volta che aveva un’impressione di dejà-vu, ma era la prima volta in cui provava una sensazione di fastidio. Le era quasi sembrato di essere osservata. Dopotutto perché una perfetta sconosciuta avrebbe dovuto fare caso alla sua borsa?
“Smettila, Katherine” si ordinò, usando il proprio nome completo nel rivolgersi a se stessa, quasi in onore di quei vecchi tempi che per lunghi anni aveva cercato di rimuovere dalla propria mente. “I fantasmi del tuo passato non ti troveranno mai e non verranno mai a tormentarti.”
Lasciò andare la porta, che si richiuse alle sue spalle. Doveva attraversare quasi tutta la sala per raggiungere Anthony e Samuel. Una volta arrivata da loro, inoltre, avrebbe dovuto far finta di niente.
“Dopotutto” ricordò a se stessa, “Non è successo niente.”
O almeno, non era accaduto nulla che non la riguardasse personalmente, perché in realtà i problemi c’erano: il primo era che aveva commesso il grave errore di tenere nella borsa del materiale compromettente, il secondo era che stava iniziando a diventare paranoica. Quale dei due fosse la causa scatenante dell’altro, non le era ancora chiaro.
Si avviò nella penombra, verso quello che era stato il suo punto di partenza. Camminò in fretta, abbagliata dalle luci colorate che si riflettevano anche oltre la pista da ballo, diretta verso i due uomini che la stavano aspettando.
Era ormai giunta a destinazione, quando si fermò. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco e finalmente li vide: erano ancora seduti al tavolo e Samuel teneva un bicchiere in mano.
Quando li raggiunse, Anthony osservò: «Pensavamo che ti fossi persa.»
Samuel intervenne: «Veramente hai detto che, se stava facendo profonde riflessioni, era meglio non preoccuparsi e lasciare che tutto procedesse secondo gli schemi.»
Kay rabbrividì.
Aveva trascorso troppo tempo lontana dal tavolo, e non era un bene. Negli ultimi giorni non faceva altro che chiudersi in se stessa e, presto o tardi, qualcuno le avrebbe chiesto quale fosse la ragione del suo comportamento anomalo.
«Io, invece, mi sto chiedendo se tu abbia fatto le radici su quella sedia.» Si sforzò di sorridere, mentre si rivolgeva ad Anthony. «Alza il culo e vieni a ballare.»
Anthony spalancò gli occhi.
«Perché dovrei?»
«Perché la tua legittima consorte te lo ordina» ribatté Kay. «Sei stato tu a proporre di venire qui, quindi datti da fare.»
«Più tardi» replicò Anthony. «In questo momento non ne ho voglia.»
«Va bene.» Si girò verso Samuel. «Vieni con me.»
«Dove?»
«Dove Anthony non vuole venire.»
Per fortuna Samuel non oppose resistenza. Per fortuna... o forse purtroppo. Già una volta, quel giorno stesso, aveva accennato al suo strano atteggiamento. Kay fu tentata di dirgli che aveva cambiato idea, ma ormai si era già alzato in piedi.
Appoggiò la borsa sul tavolo e lo seguì sulla pista, sperando che tutto potesse procedere nel migliore dei modi.

Cercando di non farglielo notare, Samuel scrutava Kay con attenzione. In apparenza sembrava non esserci nulla di nuovo, ma il suo sguardo era sfuggente.
Stavano ballando da pochi minuti, quando finalmente decise di trovare una scusa per rimanere da solo con lei.
«Andiamo a fumare?»
«Possiamo farlo qui» gli ricordò Kay.
Samuel scosse la testa.
«È meglio fuori. Qui potrebbe dare fastidio a qualcuno.»
«Guardati intorno» gli suggerì Kay. «C’è tanta gente che sta fumando.»
«E tanta altra che, quando uscirà da qui, si lamenterà perché stava per avere un attacco d’asma» puntualizzò Samuel. «Andiamo?»
Sapeva che, allontanandosi dalla pista, avrebbe suscitato l’effetto desiderato: Kay sarebbe andata con lui.
«Aspetta» lo pregò lei, afferrandolo per un braccio per attirare la sua attenzione. Disse qualcosa che Samuel non capì, le parole coperte dal frastuono della musica. «...e ti raggiungo.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Cos’hai detto?»
«Ho detto che vado a prendere le sigarette, poi ti raggiungo.»
Non c’era tempo da perdere, Samuel lo sapeva. Se fosse tornata al tavolo, avrebbe invitato Anthony a unirsi a loro e, in sua presenza, non avrebbe risposto alle domande che intendeva porle.
«Ce le ho io» le assicurò. «Possiamo andare.»
Per fortuna Kay non oppose resistenza. Si allontanarono dalla pista e si diressero verso la porta che, sul retro del locale, conduceva verso una sorta di piccolo cortile.
Ci volle qualche istante e, non appena uscirono, Kay volle sapere: «Allora? Per quale motivo mi hai portata qui?»
Samuel prese fuori il pacchetto di sigarette dal taschino della camicia.
«Per fumare.»
«Puoi anche metterle via, per quanto mi riguarda» puntualizzò Kay. «Pensi che non abbiamo capito?»
Samuel sorrise.
«Dato che non ci ho ancora capito nulla nemmeno io, mi sembra molto improbabile che...»
Kay lo interruppe: «Basta con questi giochetti, Sam.»
Lui le lanciò un’occhiataccia.
«Sai che non mi piace essere chiamato Sam.»
«E a me non piace essere presa in giro» replicò Kay. «È stato Anthony che te l’ha chiesto, non è vero?»
Samuel le ricordò: «Sei stata tu a propormi di ballare. Io mi sono limitato a fare quello che volevi. Al massimo puoi dare la colpa ad Anthony per non essere venuto in pista con te.»
Kay sbuffò.
«Non continuare a girarci intorno. Cosa vuoi?»
«Voglio che mi spieghi - e sono io a volerlo, non Anthony - che cosa ti prende, ultimamente. Ti ho sentita, stamattina, al telefono.» A Samuel non sfuggì il lieve sussulto di Kay, a quelle parole. «Non so con chi stessi parlando, ma mi sembravi piuttosto tesa. Quando sono entrato in ufficio, inoltre, ti sei affrettata a riattaccare.»
«Osservazione molto interessante» ammise Kay, che sembrava nuovamente sicura di sé, «Ma che non ci porta da nessuna parte.»
«Ci porta molto più lontano di quanto tu possa immaginare, invece.»
«Davvero?»
Samuel annuì.
«A condizione che tu non mi dia una spiegazione, dedurrò che stai nascondendo qualcosa a tutti, negli ultimi tempi.»
Kay si lasciò andare a un lieve sorriso.
«Infatti è proprio così. Ci sono alcuni retroscena del caso Flint che ancora ignorate.»
«Pensavo che tu ti fidassi dei tuoi collaboratori» puntualizzò Samuel. «Lo ammetto, non mi infastidisce che tu voglia lavorarci su per conto tuo, ma mi piacerebbe sapere come mai hai preso questa decisione.»
«Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio» rispose Kay. «Inizio a pensare di dovermela vedere da sola, ogni tanto.» Abbassò lo sguardo. «In realtà non voglio mettere in pericolo nessuno.»
Samuel sospirò.
«Ma quale pericolo, Kay? La signora Flint è stata assassinata perché si è difesa da un tentativo di rapina.»
Kay alzò la testa di scatto. I loro sguardi si incrociarono.
«Questa è la storiella che ci hanno sempre propinato, ma mi sembra più che scontato che non sia andata così!»
Samuel obiettò: «A me pare tutt’altro che scontato.»
«Questo significa, appunto, che la tua deduzione è corretta: vi sto nascondendo qualcosa, proprio come mi pare di avere già ammesso.» Kay fece una breve pausa, guardandosi intorno. Sembrò sollevata dal fatto che le poche persone presenti non stessero badando a loro. «Stai tranquillo, Samuel: presto saprete tutto anche voi... Tutti sapranno come sono andate le cose e, per qualcuno, sarà poco piacevole.» Gli indicò la porta che conduceva all’interno. «Torniamo a ballare?»
«Eravamo venuti qui per fumare» obiettò Samuel. «Non...»
Si interruppe nel vedere Kay passare oltre, ormai diretta verso l’interno. Mise le sigarette in tasca e la seguì.
«Kay, aspetta» la pregò. «Non abbiamo nemmeno finito di...»
L’amica si girò un attimo, lanciandogli un’occhiata gelida.
«Non abbiamo finito che cosa?»
«Stavamo parlando» precisò Samuel. «Non mi piace lasciare i discorsi a metà.»
«Infatti non l’abbiamo lasciato a metà» fu la secca replica di Kay. «Io non ho più niente da dire, almeno per il momento.» Il suo sguardo si fece implorante. «Ti prego, Samuel, dimenticati di Marissa Flint.»

Kay si sentiva sollevata. Aveva dovuto affrontare una discussione del tutto indesiderata, ma se l’era cavata. Era riuscita a convincere Samuel a tornare a ballare e, almeno per il momento, c’era la possibilità che il loro argomento di conversazione fosse dimenticato.
Cercò di concentrarsi lei stessa su qualcos’altro e il caso giocò a suo favore: vide di nuovo la donna con l’abito maculato, a pochi metri di distanza.
Si avvicinò a Samuel e gli domandò: «La conosci?»
Lui non capì a chi si riferisse e iniziò a guardarsi intorno.
Kay gliela indicò.
«Lei. Quella con i capelli raccolti.»
Samuel la osservò per qualche istante.
«Non mi pare.» Inaspettatamente ridacchiò. «Prima me l’ha fatta notare anche Anthony. Mi aveva suggerito di andare a parlare con lei.»
«Tu, però, non l’hai fatto.»
«Ovviamente no.»
«Perché deve essere così scontato?» obiettò Kay. «Theresa non è venuta, dopotutto.» Non le era ben chiaro quale rapporto ci fosse tra i suoi due collaboratori, ma era certa che si frequentassero. «Se lei ti dà buca di continuo, hai tutti i diritti di guardarti intorno.»
«Non così» puntualizzò Samuel. «Non credo che quella donna abbia nulla in comune con me.»
Kay aggrottò le sopracciglia.
«Perché, Theresa sì?»
Samuel non rispose.
Kay insisté: «Non ha senso che tu continui a stare con una donna con cui sei infelice. Non capisco perché ti ostini a...»
Samuel la interruppe: «Io, invece, non capisco perché la mia vita privata sia così interessante per te.»
«Siamo amici, mi pare.»
«Certo che sì, ma certe cose preferisco tenermele per me. E poi, lo sai bene, tra me e Theresa non c’è niente di serio.»
Kay precisò: «Lei sembra convinta del contrario.»
«Theresa è convinta di tutto e del contrario di tutto» ribatté Samuel. «È stata la prima a dirmi che non si voleva impegnare.»
«Forse perché pensava che fossi tu a non volerlo.»
Samuel la guardò con occhi carichi di rassegnazione.
«Purtroppo non sono ancora in grado di leggerle nella mente.»
Kay rise.
«Per fortuna, direi.»
Per la prima volta, quella sera, si sentì soddisfatta. Era riuscita a far dimenticare a Samuel il loro poco piacevole discorso e, per riuscirci, le era bastato tirare fuori Theresa che, proprio come si aspettava, alla fine non si era presentata nel locale, nonostante si fosse dichiarata tanto desiderosa di uscire insieme a loro.
“Di certo” realizzò Kay, “Se la prenderà a morte con Samuel, perché sperava che non venisse nemmeno lui.”
Per qualche oscuro motivo, negli ultimi tempi, sembrava non approvare molto le frequentazioni di Samuel.
Seppure a fatica, Kay si tolse dalla testa anche i dubbi a proposito della sua collaboratrice. C’erano cose più importanti di cui doveva occuparsi in quel momento: convincere Anthony a ballare, per esempio.

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Capitolo 3
*** Una telefonata inattesa ***


Kay controllò nel retrovisore: aveva parcheggiato entro le linee bianche. La paranoia della sera precedente non era svanita nel nulla, come aveva sperato, e si stava già chiedendo se fosse stata una buona idea quella di lasciare la macchina all’interno di Radio Scarlet. Qualcuno avrebbe potuto chiedersi che cosa fosse andata a fare alla sede di sabato.
«Non essere ridicola, Katherine» borbottò. «Dentro ti vedrebbero e scoprirebbero comunque che sei stata qui. E poi, per male che vada, puoi sempre inventarti una scusa.»
Non sarebbe stato difficile. Bastava dire di avere dimenticato qualcosa e di non potere aspettare tutto il weekend per rientrarne in possesso.
“Nessuno potrebbe anche solo ipotizzare che io sia venuta a incontrare la mia più grande rivale.”
Si sfilò gli occhiali e li ripose nella custodia, che poi appoggiò sul cruscotto.
Scese dall’automobile e richiuse la portiera a chiave, prima di avviarsi verso l’entrata. Si fermò un attimo e si guardò intorno: non c’era nessuno, nelle immediate vicinanze, nessuno che potesse mettersi tra lei e il proprio obiettivo.
Si diresse a passo spedito verso l’ingresso dello stabile.
Varcò la soglia e passò di fianco alla reception.
«Kay!» esclamò Michelle.
Kay, che fino a quel momento non l’aveva degnata di uno sguardo, decise di comportarsi come di consueto: si girò verso di lei e la salutò sorridendo.
La receptionist le domandò, con la sua solita curiosità: «Come mai ti fai viva da queste parti anche di sabato?»
Kay sospirò.
“A quanto pare anche lei, pur essendo guidata dalle migliori intenzioni, non può evitare di fare domande.”
Si sforzò di apparire sempre di buon umore, mentre rispondeva: «Ho dimenticato un po’ di roba in ufficio. Volevo lavorarci su oggi pomeriggio, quindi sono passata a prenderla.»
«Capisco.» Michelle sorrise. «Potevi mandare tuo marito. È un tipo galante, sarebbe stato felice di...» La ragazza si interruppe. «Scusami, non avevo intenzione di sembrare invadente.»
Kay continuò a sorridere.
«Non preoccuparti.»
«No, davvero» insisté Michelle. «Me lo diceva sempre anche mia madre, quando ancora abitavo insieme a lei. Era convinta che non riuscissi a fare a meno di intromettermi negli affari degli altri... e aveva ragione.»
«In fondo, a chi non interessa nemmeno un po’?»
«Mhm...» Michelle esitò. «A te? Non mi sembra che tu sia un’impicciona...»
«Io sono un’impicciona elevata alla massima potenza» puntualizzò Kay. «Il mio lavoro consiste proprio in questo.»
Michelle obiettò: «È diverso. Tu ti occupi di cronaca...»
«Che cos’è la cronaca, se non una mega-intromissione nei fatti di qualcun altro?» Kay rise. «Certo, questa intromissione è dettata da una ragione più edificante che dal semplice non poter fare a meno di ficcare il naso da qualche parte, ma si tratta pur sempre dello stesso principio.» Notando che Michelle continuava a guardarla con aria interrogativa, decise di rispondere anche alla domanda che aveva ignorato fino a quel momento. «Per quanto riguarda i documenti che mi servono, non ho mandato Anthony perché non sa di cosa si tratta. Sai, sono un po’ disordinata. Volevo evitare che mi portasse a casa qualcosa che non mi serviva, lasciando qui ciò che mi preme davvero.»
Senza aggiungere altro, si allontanò dalla reception imboccando il corridoio sulla destra. Non prese l’ascensore; quegli aggeggi non le piacevano. Salì due piani di scale, oltrepassò l’archivio e infine giunse nell’ufficio che condivideva con Anthony, Samuel e Theresa.
Chiuse la porta e andò a sedersi alla propria scrivania, guardando l’orologio. Mancava ancora qualche minuto alle dieci e Rebecca, che tendeva più ad arrivare in ritardo che in anticipo, naturalmente non era ancora arrivata.
Kay si mise a leggere, distrattamente, un foglio di carta stampata appoggiato alla tastiera del suo computer. Non era niente di utile, quindi lo appallottolò e lo lanciò verso il cestino dei rifiuti, collocato accanto alla porta.
«Dannazione!» esclamò, nel mancare l’obiettivo per pochi centimetri.
Si alzò in piedi e, mentre si stava chinando per raccoglierlo, il telefono iniziò a squillare. Non desisté dal proprio intento e, quando finalmente il foglio fu dentro al cestino, si diresse verso la scrivania e portò il ricevitore all’orecchio.
«Sei tu, Michelle?» domandò, sedendosi.
Fu una voce maschile a risponderle.
«No, non sono Michelle.»
Kay rabbrividì.
«John?»
«Come hai fatto a indovinare?» ribatté lui. «Temevo che ormai non fossi più capace di riconoscere la mia voce.»
«Ti ricordo» replicò Kay, «Che ci siamo sentiti anche ieri.»
«Sì, certo.»
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Ho fatto lo stesso numero e, quando mi ha risposto la ragazza del centralino, ho chiesto di parlare con la signora Brooks.»
Kay sbuffò.
«Non era a questo che mi riferivo!»
«E a che cosa, allora?» obiettò John. «Mi hai fatto una domanda e io ti ho risposto.»
«Non farmi perdere tempo, John» sbottò Kay. «Io non vengo quasi mai di sabato. Come facevi a sapere che oggi sarei stata qui?»
«Fortuna.»
«Non ti credo.»
«Sei libera di non credermi, ma ti assicuro che è andata così. Al massimo la ragazza della reception avrebbe potuto dirmi che non c’eri.»
Kay si gettò all’indietro, appoggiandosi allo schienale.
«Avrebbe dovuto farlo lo stesso» replicò. «Posso almeno avere l’onore di sapere che cosa vuoi da me?»
John puntualizzò: «Ti ricordo che non sono io che voglio qualcosa da te, ma è piuttosto l’esatto contrario.»
«Ne abbiamo già parlato.»
«Appunto. Tu volevi qualcosa da me.»
«Sì, esatto» confermò Kay, «E tu mi hai detto che non se ne faceva niente e che dovevo pensarci io, perché tu non vuoi saperne niente.»
«In effetti è quello che ti ho detto» ammise John, «Ma ne ho parlato con Suzanne e mi si è aperta la mente.»
Kay spalancò gli occhi.
«Mi stai dicendo che la tua signora ti ha convinto a prendere la decisione migliore?»
John rise.
«Non proprio. Suzanne è stata chiarissima: non devo assolutamente intromettermi in affari che non mi riguardano, secondo lei.»
«Eppure tu stai prendendo in considerazione l’idea di disobbedire ai suoi ordini» dedusse Kay. «Non si fa così, John.» Rise. «Certo, dal mio punto di vista stai prendendo la decisione migliore, ma dovresti...»
«Non dirmi quello che dovrei o che non dovrei fare» la interruppe John. «Ci ha già pensato Suzy. Per il resto mi sono semplicemente detto che quello che accadde ha qualcosa a che vedere anche con me, quindi non posso comportarmi come se non mi riguardasse.»
«Bravo, John, finalmente inizi a ragionare.»
«Io sarei disposto a darti quel video, ma...»
Si interruppe.
Kay attese qualche istante e, dal momento che John non aggiungeva altro, lo esortò: «Ma...?»
Dopo quella che le parve un’infinità, finalmente lui ammise: «Quello che ti ho raccontato non è vero. O meglio, lo è, ma non ti ho detto una cosa fondamentale: alla fine anche Suzanne s’è convinta.»
«Molto bene» concluse Kay, «Ma non capisco dove vuoi arrivare.»
«Non lo capisco nemmeno io. O meglio, lo capisco, ma non è stata un’idea mia. Suzanne vuole dei soldi.»
«Dei... dei soldi?» Kay esitò. «Di che soldi parli?»
«Dice che devi pagare, se vuoi quella videocassetta.»
Kay sospirò.
«Non cambierai mai.»
«Ti ho detto che non è stata un’idea mia» si difese John. «Suzanne dice che, se proprio dobbiamo aiutarti, tanto vale che...»
Kay non lo lasciò finire.
«Ti saluto, John. Posso fare a meno di quella cassetta.»
Lui obiettò: «Non vedo come...»
Kay lo interruppe: «Ci sentiamo un’altra volta, John. Quando deciderai di essere più ragionevole, sempre che questo momento arrivi, prima o poi, arriveremo senz’altro a un accordo. Per il momento non se ne parla. Non ho intenzione di tirare fuori un centesimo, almeno finché non avrò le prove di quello che ha combinato il nostro amico.»
«Senza offesa, Kathy, non credo di potermi definire amico di quell’individuo. Non mi ricordo nemmeno che aspetto avesse.»
«C’è il video.»
«A proposito di quel video» le ricordò John, «Non sono sicuro che tu voglia davvero che venga alla luce. È compromettente, dopotutto.»
Kay rabbrividì.
Sapeva che correva dei rischi e, in effetti, non aveva intenzione di divulgarlo, a meno che non fosse necessario. Qualcuno avrebbe potuto usarlo contro di lei, rivelando il suo legame con una delle persone coinvolte.
“Qualcuno come Suzanne.”
Quell’idea la fece rabbrividire.
«Solo un’ultima cosa, John.»
«Ti ascolto.»
«Che cos’hai raccontato a tua moglie?»
«Che c’è un filmato» fu la risposta di John. «Tu sei convinta che ci siano delle prove schiaccianti, ma non mi è chiara la base su cui lo affermi. È tutto quello che le ho raccontato. Gliel’ho anche fatto vedere, in realtà.»
Kay si sentì sollevata.
«Quindi non sa chi sia quella donna?»
«No.»
«Mi raccomando, John...»
Lui la interruppe: «Certo, Kathy, Suzanne non sa niente. In ogni caso, non mi è chiaro quale sia il tuo obiettivo, se non vuoi che qualcuno sappia chi sei veramente.»
«Qualunque cosa non ti sia chiara, non è un problema mio» puntualizzò Kay. «Te l’ho detto: tu-sai-chi è coinvolto fino al collo. Potrebbe essere una catastrofe, per lui, se quel filmato venisse alla luce.»
«Vuoi ricattarlo» dedusse John.
«No, voglio incastrarlo.» Kay rabbrividì. «Voglio incastrarlo, e lo farò.»
«In pratica vuoi rovinarlo.»
«È il minimo.»
«Sì, ma hai idea di quanto potrebbe essere pericoloso, se le cose stanno davvero come pensi? Non ti viene in mente che, se davvero ha commesso un delitto a sangue freddo, come sei pronta a sostenere, potrebbe farlo di nuovo?»
Qualcuno bussò alla porta.
«Scusa, ma devo andare.» Kay si preparò a riattaccare e abbassò la voce. «Smettila di cercarmi in ufficio. Ti richiamo io, tra qualche giorno. Tu, nel frattempo, cerca di convincere la tua Suzanne che, per permettere alla giustizia di trionfare, non bisogna sempre guardare al tornaconto economico. Oppure cerca di farmi avere quella videocassetta senza che lei lo sappia, se proprio non puoi fare a meno di eseguire i suoi ordini.»
Sbatté giù il ricevitore proprio mentre chi la stava cercando bussava di nuovo.
«Avanti.»
La porta si spalancò e ne entrò quella che, in apparenza, era più adatta in uno studio televisivo piuttosto che alla radio.
Kay non poté fare a meno di lanciarle un’occhiataccia.
«Sei in ritardo, Shepard.»
Rebecca si guardò intorno.
«Vedo che sei da sola, senza la tua troupe di cani da guardia.»
Kay si alzò in piedi e le andò incontro.
«Non ti ho chiamata qui per fare polemica o per litigare» chiarì. «È un affare serio, questo.»
«È un vero peccato che tu non mi abbia invitata qui per litigare» ribatté Rebecca, chiudendo la porta. «Se non sbaglio è quello che sappiamo fare meglio.»
«Me ne rendo conto, Shepard, ma in certe circostanze è necessario allearsi con le persone più improbabili.» Kay indietreggiò e si sedette sul bordo della scrivania. «È stata una decisione difficile, ma alla fine ho scelto proprio te.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia.
«Hai scelto me per che cosa?»
Kay accennò un lieve sorriso.
«Non preferiresti sapere perché ho scelto te?»
«Effettivamente anche questo è un dubbio interessante» ammise Rebecca, scostando la sedia e accomodandosi. «A cosa devo questo onore?»
Spinse indietro la sedia e appoggiò i piedi sul bordo della scrivania.
Kay le scoccò un’occhiataccia.
«Le scarpe sono pulite» puntualizzò Rebecca, che calzava un paio di decolleté nere. «È la seconda volta che me le metto.»
Kay la ignorò.
«Ci sono persone di cui ci fidiamo e altre dalle quali siamo abituati a guardarci.»
Rebecca annuì.
«Ti seguo.»
«A volte qualcuno ci colpisce alle spalle» proseguì Kay, «E i colpi ricevuti alle spalle di solito sono quelli fatali.»
«Anche qui, continuo a seguirti.»
«Il problema di fondo è che soltanto quelli di cui ci fidiamo riescono a colpirci alle spalle.»
«La tua teoria è molto interessante» osservò Rebecca, «Ma non comprendo dove vuoi arrivare.»
Kay la guardò negli occhi.
«Se vuoi che arrivi al dunque, eccoti accontentata: tu non conosci i miei punti deboli, quindi ti sarà più difficile metterti contro di me.»
Rebecca scosse la testa, con decisione. I suoi capelli ramati ondeggiarono.
«Avrei mille modi per mettermi contro di te, Brooks. Se non lo faccio è solo perché credo che, alla fine, chiunque verrà premiato per i propri meriti.»
Kay sbuffò.
«Non hai ancora finito di rivangare il passato, Shepard? Capisco le tue frustrazioni: non deve essere facile vivere con la consapevolezza che l’uomo che hai sposato preferisce un’adolescente dai capelli viola a te, ma non vedo perché tu debba prendertela con me.»
Rebecca si alzò di scatto.
«Io, invece, non vedo perché tu debba intrometterti nella mia vita privata. Io faccio per caso allusioni al fatto che tu e Samuel passiate tutto il giorno a flirtare davanti agli occhi di tuo marito?»
Kay spalancò gli occhi e scese con un salto dalla scrivania.
«Tu stai delirando, Shepard. Io e Samuel siamo...»
«Sì, siete solo amici» la interruppe Rebecca. «Conosco questa storiella e nemmeno me ne importa, se devo essere sincera. Ti ricordo che sei stata tu la prima a parlare di faccende personali. Per quanto ne sapevo io, dovevamo parlare di un caso di cronaca di cui ti stai occupando.»
«Infatti ti ho chiamata proprio per questo.» Kay si sforzò di calmarsi, nonostante la piega che gli eventi stavano prendendo. «C’è qualcosa che devi vedere.» Si avvicinò alla borsa, appoggiata di fianco al monitor del computer, e vi rovistò dentro finché non ne trovò la chiave che apriva i cassetti della scrivania. Notando che Rebecca la guardava con aria interrogativa, chiarì: «Te l’ho detto, non mi fido. Preferisco che, quando non ci sono, nessuno possa frugare tra le mie cose.»
L’altra non replicò.
Kay premette il pulsante di accensione del computer, mentre apriva l’ultimo cassetto in fondo. Ne estrasse una cartellina e la aprì.
Rebecca si avvicinò.
«Cos’è quella roba?»
Kay la fissò, mentre si sedeva.
«Te lo spiego subito.»

«Sono solo articoli» osservò Rebecca, indicando i ritagli di giornale posati sulla scrivania, dopo che Kay le ebbe esposto le proprie teorie. «Un uomo ha un colpo di sonno al volante. Precipita in un burrone. La macchina esplode. Non c’è null’altro, a parte supposizioni.»
Kay scostò la sedia e si alzò.
«Ne ho le prove.»
«Tu non conoscevi quell’uomo» replicò Rebecca. «Ora vieni a dirmi che...»
Kay la interruppe: «So dove si nasconde ora.»
Rebecca si prese la testa tra le mani, appoggiando i gomiti sulla scrivania.
«Kay, quell’uomo è morto.»
«Un uomo è morto» convenne Kay, «Ma quali prove abbiamo sulla sua identità? La sua macchina, certo... ma se non fosse stato lui, al volante?»
«Sono solo supposizioni» insisté Rebecca. «Se fossi al posto tuo, frenerei un po’ il tuo interesse.» Si alzò in piedi. «Potrebbe essere una tua fantasia... oppure qualcosa di veramente pericoloso. Non ti consiglio di esporti troppo.»
Kay le lanciò un’occhiata di fuoco.
«In pratica mi stai dicendo che dovrei occuparmi di faccende di poco conto, come accadeva quando c’eri tu al posto mio.»
Eccola, finalmente Rebecca la riconosceva. Kay Brooks era bravissima a recriminare, nonostante fosse lei stessa quella che calpestava gli altri e faceva di tutto per mettersi contro di loro.
«Io impostavo la trasmissione alla mia maniera» si affrettò a puntualizzare. «Non mi atteggiavo a fonte universale della conoscenza.»
«Nemmeno io lo faccio.» Kay abbassò lo sguardo. «Il punto è che certe cose le so.»
«Ed è per questo che mi hai chiamata?»
Kay infilò gli articoli nella cartellina da cui li aveva presi fuori e gliela allungò.
«Portatela a casa.»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Io dovrei...»
«Dovresti portarla a casa» ribadì Kay.
«Perché?!»
«Perché tutti sanno che io te non siamo mai state amiche. Se dovesse accadermi qualcosa e qualcuno cercasse questi ritagli, non penserebbe mai che io li abbia dati proprio a te.»
Il suo tono era dannatamente serio. Per la prima volta da quando era entrata nel suo ufficio, Rebecca iniziava a pensare che Kay non stesse esagerando. Semplicemente non le aveva detto tutto, ed era molto probabile che non si fosse esposta con nessun altro.
Prese in mano la cartellina e Kay la pregò: «Mettila via, in modo che nessuno la veda. Poi c’è un’altra cosa che devo darti. Ce l’ho sul computer. Se ti sposti, te la stampo.»
Rebecca si alzò e infilò la “collezione” di articoli nella borsa, mentre Kay si sedeva davanti al computer. La vide aprire una schermata di Wordpower, che la colpì.
«Fammi capire, tu ce l’hai impostato così?»
Kay si girò a guardarla.
«Cosa c’è di strano?»
«Lo sfondo rosso» rispose Rebecca. «Non mi sembra un colore molto normale. Capisco che tu voglia a tutti i costi apparire alternativa...»
«Io lo vedo bene» replicò Kay, «Ed è uno dei colori di default. Infine, non capisco perché stiamo parlando delle mie impostazioni personalizzate di Wordpower. Devo stamparti una cosa importante.»
«Riguarda il tizio volato giù per il burrone?»
«Sono semplicemente appunti. Potrebbero esserti d’aiuto.»
Rebecca la guardò, aggrottando la fronte.
«D’aiuto per che cosa?»
Kay sorrise.
«Per scoprire che cosa mi è successo davvero, se dovesse accadermi qualcosa di spiacevole.»

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Capitolo 4
*** Il sole di luglio ***


Era una donna stupenda e le sue labbra di velluto avevano il sapore di lucidalabbra alla vaniglia. Anthony detestava quel gusto, ma su di lei gli parve stupendo, anche se il suo inconscio sapeva che era assurdo baciare con passione una sconosciuta che, per qualche motivo, si era ritrovata nel suo ufficio nelle prime ore del lunedì pomeriggio.
Quando le loro labbra si allontanarono, lei gli sorrise.
«E così lei è Anthony Hunter, il famoso Anthony Hunter.»
«Veramente» obiettò Anthony, «Non mi ritengo così famoso.»
La donna lo ignorò.
«La prima volta che ho sentito la sua voce alla radio non ho potuto fare a meno di pensare che un giorno o l’altro avrei dovuto incontrarla.»
Mille domande attraversarono la mente di Anthony, in quel momento, ma nessuna gli parve importante abbastanza da dedicarvi del tempo.
«E così» dedusse, «Conosceva il mio nome e sapeva chi ero.»
«Di solito non entro nell’ufficio del primo sconosciuto per regalargli un bacio» puntualizzò la donna. «Riservo questa cortesia solo agli uomini più speciali.»
Era assurdo.
“Del resto tutto questo è assurdo.”
Il lato razionale stava iniziando a prevalere, mentre i secondi che scorrevano velocemente sull’orologio appeso al muro, che segnava le tre e un quarto, rendevano un po’ più lontano il momento del bacio appassionato che la sconosciuta gli aveva dato.
«Cosa vuole da me?» Anthony si rese conto di essere stato alquanto brusco soltanto nel momento in cui lei gli lanciò un’occhiataccia. Non se ne curò e cercò di ignorarne il meraviglioso corpo avvolto da un attillato abito maculato, che continuava ad attirare il suo sguardo. «La prego, mi dica che cosa desidera. Ho bisogno di saperlo.»
In realtà avrebbe potuto farne anche a meno, ma in quel momento le domande che aveva accantonato poco prima avevano iniziato a farsi più vive e accese.
Com’era entrata? Qualcuno doveva averla lasciata passare e averle indicato dove raggiungerlo.
Che cosa voleva da lui? La storiella della sua voce sentita alla radio - Anthony interveniva davvero, di tanto in tanto, ma accadeva piuttosto sporadicamente - non gli sembrava più così credibile come gli era apparsa in un primo momento.
«Sono il sole di gennaio» fu l’unica risposta che lei gli concesse. «Sono quel sole che illumina troppo poco, lasciando i pensieri spenti immobili, travolti dal proprio destino feroce, quel sole che non riscalda, lasciando i fiori a soccombere nel gelo. Io sono questo e null’altro che questo. Le basta?»
Anthony stava per replicare che non gli bastava. Mentre quella sibillina risposta si confondeva con l’aria tiepida mossa dal ventilatore, il telefono squillò, costringendolo a mettere da parte i propri propositi.
«Mi scusi.»
Si affrettò a rispondere, senza distogliere lo sguardo dalla sconosciuta.
Fu piuttosto brusco.
«Chi parla?»
«Signor Hunter...» La voce dall’altro capo del telefono appariva confusa, come se la conversazione fosse disturbata. Non era sorprendente, dato che c’erano spesso problemi di linea. «Signor Hunter... mi sente?»
«Sì, la sento.» Anthony lasciò perdere la donna che si definiva il sole di gennaio e cercò di non mostrarsi troppo infastidito. «Chi parla?»
«Hunter» ripeté la voce, «È lei?»
«Sì, sono io. Chi parla?»
«Veronica. Veronica Freeman. Potrebbe, per cortesia, venire il prima possibile nello studio del signor Carpenter?»
Anthony si lasciò andare a un lieve sospiro.
«Un quarto d’ora e sono da lei.»
«No, non un quarto d’ora» replicò Veronica, decisa come soltanto lei sapeva essere. «Ho bisogno di lei subito.»
Non c’era modo di sottrarsi alle richieste della segretaria del direttore.
«Come vuole, arrivo.»
«Non è un desiderio mio» ci tenne a puntualizzare lei. «È un desiderio preciso del signor Carpenter che lei venga subito a...»
Anthony la interruppe: «Arrivo, le ho detto. Se mi fa la cortesia di lasciarmi riattaccare e di salire da lei...»
Senza aspettare la replica della signora Freeman, sbatté giù il telefono.
«Attenda qualche istante» disse, rivolgendosi alla bella sconosciuta che l’aveva baciato. «Devo solo risolvere una noiosa questione e poi sono da lei.»
Si girò a guardarla.
Lei rispose, con un sorriso accennato: «Non c’è problema.»
Sembrava accomodante.
“Forse troppo.”
In ogni caso gli appariva stupenda, sebbene Anthony non fosse in grado di determinare che cosa, in lei, lo attraesse più di tutto il resto. Forse era affascinato dal modo in cui sapeva essere travolgente, al punto tale che istante dopo istante si ritrovava quasi a desiderare di trascorrere tutta la vita insieme a lei.
Si affrettò a dirigersi verso la porta, perché la Freeman aveva bisogno di lui e perché andare via era la soluzione migliore.
«La aspetto qui, signor Hunter» gli assicurò lei. «Cerchi di non metterci troppo.»
«Non ci metterò troppo» le garantì Anthony. «Veronica Freeman mi chiama soltanto quando ho qualche scartoffia da firmare.»
Uscì dall’ufficio e si diresse verso le scale, dal momento che l’ascensore era occupato e che Veronica lo aspettava due piani più sopra. Cercò di calcolare quanto tempo sarebbe trascorso prima di rivedere la magnetica estranea e si affrettò, per non sprecare istanti preziosi.
I suoi pronostici si rivelarono fondati.
«Avrei bisogno di una sua firma» furono le prime parole che Veronica pronunciò, mettendogli davanti un foglio dattiloscritto.
Anthony non la degnò di uno sguardo, fece ciò che gli chiedeva e declinò la sua velata offerta di fermarsi per qualche istante a spettegolare o, come avrebbe detto lei, a scambiarsi qualche innocente opinione a proposito dei fatti che accadevano nel mondo. Sotto l’etichetta “fatti che accadono nel mondo”, ovviamente, catalogava fidanzamenti e matrimoni, separazioni e divorzi, gravidanze e battesimi, decessi e funerali, oltre che avvenimenti che, al contrario, non avvenivano alla luce del sole.
«Mi dispiace, ma sono incasinatissimo. Devo scendere subito.»
Fu quello che fece, lasciando Veronica di stucco.
«La prego, signor Hunter...»
Non fece nemmeno in tempo a finire di ascoltare il suo accorato appello: era già in corridoio, diretto verso le scale, pronto a rivedere colei che si definiva il sole di gennaio. Era più che certo che lei l’avrebbe aspettato e si ritrovò, suo malgrado, a fantasticare su quello che avrebbe fatto al ritorno: avrebbe chiuso la porta a chiave, l’avrebbe spogliata e avrebbero vissuto mezz’ora di sesso selvaggio sulla scrivania.
“O meglio, è quello che farei se non fossi felicemente sposato.”
Kay veniva prima di tutto e nulla sarebbe cambiato, nemmeno se una sconosciuta capace di provocare un’erezione a un impotente piombava nel suo ufficio e lo baciava con passione.
Fu quasi un sollievo, per lui, rientrare e scoprire che quella donna non c’era più. Aveva ragione: il sole di gennaio veniva e se ne andava in fretta, senza riscaldare.
A volte, però, lasciava un biglietto, prima di andarsene. Anthony lo trovò sulla scrivania e si affrettò a leggerlo.

Sei il sole di luglio, Anthony Hunter. Il contatto con le tue labbra non lo dimenticherò, il bacio che ci siamo scambiati vale molto di più del sole di gennaio. Vale molto più di me e della mia vita stessa. Non ti dimenticherò mai, perché tu sei il sole di luglio e mi hai riscaldata come nessuno ha mai fatto prima d’ora.
Ti chiederai chi sono e ti posso dire soltanto una cosa: mi chiamo Flint, come quella Flint. Tu sai a chi mi riferisco.
Ho bisogno di parlare con te, perché voglio che sia fatta luce sulla morte di mia madre. Ti aspetto nel mio paese natale. La cosa ti sembrerà strana, ma ho molta pazienza. Posso aspettare. Anzi, preferisco aspettare, perché non c’è niente di meglio che la notte per combattere contro i propri fantasmi.
Sento di amarti, Anthony Hunter. Sento di amarti perché so che, se ti dicessi di presentarti davanti alla vecchia locanda nel cuore della notte (indicativamente intorno alle 2:30) sono sicura che verresti. Sento di amarti, perché il mistero della morte di mia madre sta per essere risolto... anche grazie a te.

Chissà se stanotte ci rivedremo.
Io ci spero.

K. Flint.

Anthony aveva appena terminato la lettura e si era appena accorto che la frequenza del suo battito cardiaco era aumentata, quando udì qualcuno che parlava, in corridoio. Erano in due e non si sforzavano nemmeno di abbassare la voce.
«Sei un insensibile! Come puoi dire che quella non è una storia romantica?»
«Non ho detto che non è romantica. Ho detto che mi annoierebbe a morte. Se fosse per me, le soap opere non esisterebbero!»
«Stammi a sentire, Sammy! Ti ho detto che nella puntata di ieri sera Guillermo ha finalmente dichiarato a Juanita il proprio amore, cosa che si era sempre ripromesso di fare, fin da quando lei aveva sposato Iñacio. Sono passati ventiquattro anni, ma finalmente ha...»
«Ti ho detto che non m’interessa! E soprattutto, non chiamarmi Sammy! Soltanto mia zia lo faceva e non hai idea di quanti insulti le abbia lanciato tra me e me.»
Anthony si avvicinò al cestino dei rifiuti, strappò il biglietto, tanto aveva memorizzato tutto quello che serviva, e lasciò che i pezzi cadessero all’interno.
Un attimo dopo la porta, che lui aveva lasciato accostata, si spalancò.
«Cosa sono quei coriandoli?» domandò Theresa, sfilandosi gli occhiali e lasciandoli ricadere, trattenuti dalla loro catenella. Dietro di lei comparve anche Samuel. «Per caso stiamo festeggiando il carnevale in ritardo di sei mesi? A proposito, ve l’ho mai detto che adoro il carnevale?»
Diede un’occhiata al cestino, dove oltre ai frammenti di carta c’erano alcuni kleenex appallottolati, il torsolo ormai annerito di una mela - probabilmente il pranzo di Theresa di quel giorno - e una chewing-gum masticata.
Il suo sguardo al cestino si prolungò più del dovuto.
“In effetti” pensò Anthony, “È improbabile che i teleromanzi la attirino al punto tale da impedirle di fare il proprio tuffo quotidiano negli affari degli altri.”
«Niente di che, cartacce» borbottò, con un tono che gli parve tutt’altro che convincente e che, con tutta probabilità, aveva fatto la stessa impressione anche a lei.
Se solo Theresa fosse stata meno pettegola, magari avrebbe potuto parlarle di quanto accaduto, dal momento che era l’unica con cui avrebbe potuto confidarsi, a meno che non avesse scelto di rivolgersi a uno psicologo.
“Toglitelo dalla testa” si ordinò immediatamente. “Il bacio tra te e la sconosciuta non è un argomento da trattare con i tuoi collaboratori diretti, neanche tra un milione di anni.”
Radio Scarlet era piena di pettegoli e gli unici a cui Anthony non avrebbe attribuito quell’etichetta erano Kay e Samuel, ovvero le ultime persone che avrebbe potuto informare di quello che gli era appena successo. Sua moglie non sarebbe stata per nulla soddisfatta di sapere che aveva l’abitudine di baciare sconosciute abbigliate con provocanti abiti leopardati. Samuel ne sarebbe stato senz’altro meno infastidito, ma la probabilità che si sentisse in dovere di riferirlo a Kay erano troppo alte per correre rischi.
La voce di Theresa, che finalmente aveva tolto gli occhi dal cestino dei rifiuti, lo scosse.
«È passato qualcuno a cercarti?»
Anthony aggrottò le sopracciglia.
«No, perché?»
Theresa parlò con naturalezza, nell’informarlo: «Michelle mi ha detto che è entrata una donna che aveva bisogno di noi.»
Anthony sentì il cuore rimbalzargli nel petto.
«U-una donna?»
«Sì» confermò Theresa. «Non si è vista?»
«Ero dalla Freeman.»
«Oh, mi dispiace...» Theresa abbassò lo sguardo. «Magari quella poveretta ha pensato che non ci fosse nessuno e se n’è andata.»
«Se davvero aveva bisogno» replicò Anthony, «Avrebbe aspettato. Dubito che si sia persa in giro per i corridoi: qualcuno dei ficcanaso che lavorano qui dentro sarebbe senz’altro stato in grado di accompagnarla a destinazione.»
«Sì, non ho dubbi» convenne Theresa. «Hai visto Kay?»
«Kay?» ripeté Anthony. «È fuori per...»
Theresa lo interruppe: «Ha detto che alle tre e mezza, non più tardi, sarebbe stata qua.» Gli indicò l’orologio. «Direi che ci siamo quasi.»
Anthony annuì.
«Sì, hai ragione, me n’ero dimenticato.»
Stava iniziando a perdere colpi. La causa doveva essere il bacio con la sconosciuta. Quella donna aveva il potere di distoglierlo dalla realtà al punto tale da scordarsi di tutto il resto. Cosa sarebbe accaduto se Kay fosse rientrata in anticipo e l’avesse sorpreso in sua compagnia?
Stavano succedendo troppe cose. La figlia di Marissa Flint - perché il dettaglio più fondamentale era l’identità di quella sconosciuta che non era più tale - era entrata nel suo ufficio, sapendo che l’avrebbe trovato da solo, l’aveva sedotto e, quando lui era stato chiamato dalla segretaria del direttore, gli aveva scritto un biglietto comunicandogli il proprio nome e dandogli appuntamento per quella notte nel paese natale della donna su cui Kay stava indagando. Era convinta che il mistero legato alla morte di sua madre, mistero su cui gli inquirenti brancolavano nel buio, sempre ammesso che le autorità se ne stessero ancora occupando, fosse sul punto di essere risolto e che lui potesse avere un ruolo chiave.
“Questo significa che devo inventarmi una scusa e andare là.”
Cercò di non mostrare il proprio stato d’animo.
«Kay arriverà presto, come ha ti detto» confermò a Theresa. «In effetti, adesso che ci penso, ha detto la stessa cosa anche a me.»
Theresa annuì, con aria soddisfatta.
«Perfetto.»
«Per quanto riguarda me, invece» la informò, «Credo che tra poco me ne andrò. Più tardi ho un appuntamento.» Per evitare che Theresa si facesse strane idee, puntualizzò: «Questioni di lavoro, ovviamente. Pare che sia qualcosa di serio.»
Samuel gli lanciò un’occhiata interrogativa.
«Di cosa si tratta?»
Anthony valutò l’eventualità di accennare qualcosa. Dal momento che avrebbe dovuto inventarsi qualcosa, per giustificare a Kay la propria assenza notturna, fece un nome, in modo da poter limitare il più possibile le dimensioni del castello di menzogne che aveva già iniziato a costruire.
«Marissa Flint.»
«Dal momento che quella signora è morta, e non da poco tempo» obiettò Samuel, «Ho seri dubbi che tu debba incontrare lei.»
«Ovviamente» ammise Anthony, «Incontrerò una persona che ha avuto a che fare con lei. Diciamo che c’era un legame stretto, tra loro.» Lanciò sia a Samuel sia a Theresa un’occhiataccia. «Mi raccomando, siate riservati. Cercherò di raccontare il meno possibile a Kay, per non deluderla qualora l’incontro dovesse rivelarsi un flop.» Si rivolse soltanto a Samuel: «Immagino che tu sia d’accordo con me: è fondamentale dare la possibilità di parlare a chiunque abbia qualcosa da dire, a proposito di quel caso.»
«Sì, certo» confermò Samuel. «Per che ora è fissato questo incontro?»
Anthony sospirò.
«A notte inoltrata.»
«A... notte inoltrata?!» Samuel aggrottò le sopracciglia, con aria perplessa. «Sei sicuro che questa persona sia affidabile?»
Anthony fu costretto a uno sforzo non indifferente per non scoppiare a ridere.
«Spero di sì.»
«Lo spero anch’io» concluse Samuel. «Per quanto questa persona legata alla signora Flint abbia strane idee a proposito dell’orario ideale per un appuntamento di questo tipo, non c’è ombra di dubbio: devi andare. Mi raccomando, però, stai attento.»
«Bene, a quanto pare Anthony terrà alto il nome di sua moglie e si impegnerà a far luce sulla verità.» Theresa sorrise. «È un piacere scoprire che in voi c’è sempre un certo senso di giustizia.» Guardò Samuel. «Vado in bagno un attimo.» Si diresse verso la porta e la aprì. Aveva già oltrepassato la soglia, quando si fermò. «Anthony, per caso la persona legata alla signora Flint è una donna?»
Anthony sussultò.
«Non mi sembra di avere detto niente in proposito.»
«Esatto, non hai detto niente» confermò Theresa, «Ma quella misteriosa visitatrice di cui mi ha parlato Michelle non può essere sparita nel nulla, se davvero cercava qualcuno di noi. È semplice fare due più due. Stando a quanto ha detto Michelle, era piuttosto attraente. Non deve avere faticato molto per convincerti.»
Anthony fece per replicare, ma le parole gli si bloccarono in gola.
Per fortuna, Theresa si rivolse a Samuel.
«Tu avevi già capito tutto, non è vero?»
Samuel spalancò gli occhi.
«Cos’avrei dovuto capire?»
«Non fare il finto tonto» sbottò Theresa. «Altrimenti che interesse avresti avuto a convincerlo ad accettare l’appuntamento?»
«Ti ricordo» puntualizzò Samuel, «Che io non l’ho convinto a fare niente. Sono stato messo di fronte al fatto compiuto. Tra l’altro, non so nemmeno chi sia quella donna di cui stai parlando.»
«Questo è verosimile.»
«Stavi andando in bagno» le ricordò lui. «Non ho tempo per le tue congetture. Ho alcune cose da sistemare e...»
«Va bene, va bene» lo interruppe Theresa. «Ho già capito tutto. A proposito, mi sono scordata di dirti com’è finita la puntata della soap. Dopo avere confidato a Juanita il proprio amore, che si era tenuto dentro per anni, Guillermo ha ricevuto un due di picche clamoroso. Inoltre c’era Clara che stava origliando e non mi sembrava molto soddisfatta. C’è chi dice che i teleromanzi sono inverosimili, ma non lo sono affatto: anch’io sarei molto insoddisfatta, se avessi una storia con un uomo che continua a sognare un amore impossibile.»
Se ne andò senza aggiungere altro, senza nemmeno richiudere la porta.
Se non altro, pensò Anthony, grazie al suo comportamento fuori dagli schemi, c’era qualcosa di cui parlare, senza dover tornare su argomenti che preferiva evitare.
«Che cosa le prende?» domandò a Samuel.
«Niente, lascia perdere. Sai com’è fatta Theresa.»
«No, non lo so com’è fatta» obiettò Anthony. «Quelle allusioni...»
«Non è colpa mia se Theresa si è fatta dei film» puntualizzò Samuel. «È stata la prima a dirmi che non le interessavano le relazioni serie. Non capisco perché debba prendersela così tanto se anche per me è così. Tu, piuttosto...» Esitò. «Sei sicuro che vada tutto bene?»
«Sì, perché?»
«Ti vedo un po’ strano. È successo qualcosa?»
Anthony scosse la testa.
«Non è niente.»
Samuel lo conosceva abbastanza per non credergli.
«Quella persona...» Parve riflettere per qualche istante. «L’hai vista? È stata qui poco fa? Era una donna?»
Messo alle strette, Anthony confermò: «Era una donna... ed era anche attraente. Vuoi iniziare anche tu a fare dei film?» Si rese conto di essere stato troppo scortese nei suoi confronti. «Scusami, non dovrei prendermela con te. Purtroppo Theresa è insopportabile, a volte.»
Samuel sorrise.
«Non dirlo a me. A proposito, com’era?»
«Chi?»
«Quella donna.»
Anthony ci pensò qualche istante. Poteva dirglielo? Sì, decise, poteva almeno fargli una descrizione fisica.
«Era alta, bruna, con i capelli lunghi. Portava un vestito leopardato, simile a quello di quella tizia che abbiamo visto l’altra sera in discoteca.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Chi?»
«Quella con cui ti avevo suggerito di parlare.»
«Ah, già...» Samuel si avvicinò alla propria scrivania. Non sembrava molto interessato. Si limitò a osservare, piuttosto distrattamente: «Anche lei era bruna, se non sbaglio.»

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Capitolo 5
*** Gli occhiali di Theresa ***


Kay imprecò.
«Maledetto programma!»
Sbuffò e vide Samuel girarsi verso di lei.
«C’è qualche problema?»
«Il problema è questa versione di Wordpower» borbottò Kay. «È crashato di nuovo.»
Samuel ridacchiò.
«Secondo me sei tu che non te la cavi molto bene al computer. A me non succede mai.» Si alzò in piedi e la raggiunse. «Cos’è successo stavolta?»
Kay avvampò, nel notare che la classica schermata rossa era tornata al proprio posto.
«Niente, a quanto pare.»
«Secondo me sei semplicemente stanca» puntualizzò Samuel. «Perché non vai a fare un giro in corridoio, o fuori a fumare una sigaretta?»
«Perché non ne ho voglia.» Kay gli lanciò una lunga occhiata. «Inoltre non capisco perché siate tutti così desiderosi di liberarvi di me, oggi.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Liberarci di te?»
«Anthony è stato il primo» gli ricordò Kay. «A proposito, sappi che non me la sono bevuta, quella storiella. Cos’ha in mente?»
Samuel la guardò con aria innocente.
«Cosa dovrebbe avere in mente?»
Kay indietreggiò con la sedia e si alzò in piedi.
«Deve vedere una persona legata a Marissa Flint, mi ha detto. Quello che non capisco è perché questa persona voglia incontrare proprio lui.»
«È un dubbio legittimo» ammise Samuel, «Ma credo che tutto finirà per sistemarsi. Se davvero ha delle informazioni importanti, potremmo essere vicini a un punto di svolta.»
Kay scosse la testa.
«Ho già smesso da tempo di credere nei punti di svolta.»
«Donna di poca fede» ribatté Samuel, «Se tu non ci credessi, avresti già cambiato lavoro. So quanto ci tieni a quello che fai.»
«Wow.» Kay si sforzò di trattenere una risata. «Dal volerti liberare di me sei passato all’elogiarmi su tutti i fronti.»
«Non sto elogiando nessuno. Sto solo dicendo la verità.»
«È una strana situazione, questa, per mettersi a declamare verità» osservò Kay. «Proprio mentre stavo per chiederti che fine avesse fatto davvero Anthony...»
«In questo momento, con tutta probabilità, sarà ancora a casa» si limitò a rispondere Samuel. «Non so altro.»
«Sai dov’è l’appuntamento?»
«No.»
Kay gli scoccò un’occhiata gelida.
«Come vorrei che tu mi dicessi la verità, Samuel... Credimi, lo vorrei davvero, al punto di desiderarlo più di ogni altra cosa.»
Samuel non fece altro che sorridere.
«Ciò che desideri più di tutto il resto è che il tuo programma sia un successo... e lo sarà. Tra appena una settimana, proprio a quest’ora, sarai in onda. Con tutta probabilità potrai iniziare proprio dalla povera signora Flint.»
Kay rabbrividì.
«È strano.»
Samuel la guardò con aria interrogativa.
«Cosa?»
«Fino a poco tempo fa Carpenter non mi avrebbe mai affidato un progetto così ambizioso.»
«E allora?»
«Allora è strano che l’abbia fatto. Mi chiedo quale sia il suo scopo.»
Samuel sospirò.
«Il suo scopo sono i punti di share. Smettila di vedere del marcio in tutto quello che ti circonda. Il mondo circostante non è un esercito schierato contro di te.»
«Un esercito schierato contro di me, certo.» Quella battuta fece sorridere Kay. «Hai ragione, a volte tendo a lasciarmi suggestionare facilmente.» Cercò qualcosa di sensato da dire; qualcosa che non la facesse apparire come una paranoica. «Si vede che, in fondo al cuore, ho ancora paura che Rebecca voglia prendersi quello che ritiene suo.»
«Rebecca, Rebecca, Rebecca...» sbottò Samuel. «Smettila di pensare a lei! Carpenter le ha offerto la conduzione di un programma più adatto al suo stile e, senza ombra di dubbio, tra un paio di settimane non si ricorderà nemmeno più di essersi occupata di attualità.»
Kay annuì.
«Sì, hai ragione.»
Samuel rise.
«Come sempre, del resto. Comunque non volevo liberarmi di te: quando ti ho chiesto perché non andavi a fare un giro, per riposarti un po’ la vista, quantomeno, dato che è da due ore che non ti stacchi da quel computer, ti stavo implicitamente proponendo di farti da accompagnatore.» Le strizzò un occhio. «A quest’ora, di solito, la nostra cara signora Freeman va a casa. Se ci vedesse passeggiare insieme lungo i corridoi, potrebbe costruirsi dei film mentali talmente interessanti da rendere quasi emozionante la sua serata di congetture sulla vita privata altrui.»
Anche Kay non poté fare a meno di ridere.
«La nostra cara Veronica... sì, ne sono sicura anch’io: per lei è impensabile che un uomo e una donna che parlano insieme non finiscano insieme nello stesso letto.»
«Considerando che lei parla con chiunque» azzardò Samuel, «Per arrivare a formulare quella teoria deve essere una che si dà da fare parecchio.»
Kay spalancò gli occhi.
«Non mi ci far pensare! Non riesco proprio a immaginarmi Veronica mentre fa sesso. Non credo che ne abbia il tempo: è sempre troppo impegnata a parlare dei fatti degli altri.»
«Anche questo è vero» ammise Samuel. Si avviò verso la porta. «Allora, vieni fuori, Kay?»

Passando davanti alla reception, Theresa notò che Michelle se n’era già andata ed era stata rimpiazzata dalla sua collega. Quel giorno Penelope Altman indossava un vestito rosa pastello con il quale dimostrava meno dei suoi ventisei anni. Aveva l’aria di una ragazzina innocente, Theresa non poté fare a meno di notarlo, e nessuno avrebbe mai potuto immaginare i segreti che nascondeva. Del resto Penelope - o Penny, come la chiamavano tutti quelli che pendevano dalle sue labbra, che purtroppo erano troppi e sembravano aumentare di giorno in giorno - si dava molto da fare per celare le verità più scomode.
Valeva la pena di fermarsi qualche istante, anche se fino a pochi istanti prima portare in ufficio i documenti che aveva appena recuperato in archivio le sembrava una priorità. Quelli potevano aspettare: a Theresa piaceva tantissimo fare allusioni che colpivano dritto al cuore e Penelope era la sua vittima preferita.
Non si degnò di salutarla, nel fermarsi davanti alla reception.
«Oggi Samuel non è ancora venuto da te?»
Penelope, che non si era ancora accorta di lei, alzò lo sguardo.
«Samuel?»
«Mi pare che tu e lui andiate piuttosto d’accordo» puntualizzò Theresa. «Vi vedo sempre chiacchierare insieme ed è curioso che non si sia ancora fatto vedere, oggi.» Sorrise. «Devo ipotizzare che lui non contraccambi il tuo interesse nei suoi confronti?»
Penelope le parve impassibile, mentre replicava: «Quale interesse?»
«Niente, lascia stare, mi sarò sbagliata.»
Penelope annuì.
«Può darsi.»
Theresa si avvicinò al tavolino accanto alla reception, e vi appoggiò gli occhiali e il plico con i documenti, per mostrare all’altra la propria intenzione di proseguire quella conversazione.
«A me, invece» insisté, «Sembra che tu sia molto attratta da lui. Quasi sbavi, quando lo vedi. Deve essere per fare colpo su di lui che ti sei messa quel vestito da bambolina. Che illusa: non sei proprio il suo genere di donna.»
Penelope spalancò gli occhi.
«Di cosa stai parlando?»
«Sto parlando di te e delle tue ambizioni. È chiaro che hai puntato a lui fin dal primo giorno che hai appoggiato il culo su quella sedia.»
«Ti sbagli» replicò Penelope. «Quando scelgo i miei vestiti, lo faccio prima di tutto per piacere a me stessa, non certo per piacere a un uomo.»
Theresa scosse la testa.
«Risparmiami questo discorso. L’ho sentito almeno un milione di volte, nella mia vita. Possibile che voi gatte in calore non sappiate fare altro che inventare giustificazioni che non stanno né in cielo né in terra?»
«Si vede che ogni categoria di donna ha i propri limiti» ribatté Penelope. «Tutto sommato è meglio essere una gatta in calore piuttosto che una zitella che si avvicina ai quarant’anni.»
Theresa si irrigidì. Quello era un affronto e, prima o poi, Penelope avrebbe affrontato le conseguenze di quelle parole.
“Anzi, adesso.”
Stava per riferirle qualche dettaglio sulla propria relazione con Samuel - tanto, anche se lo negava, Penelope gli aveva messo gli occhi addosso, ne era sicura - ma non ne ebbe il tempo, dal momento che intravide qualcuno che, dal corridoio alla loro destra, si avvicinava a loro.
Penelope continuava, frattanto, a fissarla con un’espressione beffarda stampata su quel volto da bambola di porcellana.
Theresa notò che il nuovo arrivato era un tizio sui trent’anni che occupava un ruolo di scarso rilievo ma che, di tanto in tanto, aveva l’abitudine di chiudersi nel bagno del pianterreno insieme a Rebecca Shepard. Si chiamava Raymond, o qualcosa del genere. Dire qualcosa di sgradevole a proposito di Penelope in sua presenza avrebbe potuto essere appagante.
La fulminò con lo sguardo, come per lasciarle intendere che il peggio doveva ancora venire. Stava per parlare, quando Raymond si sedette sul tavolino, senza guardare.
«Come state, ragazze?»
Theresa si girò lentamente, strabuzzando gli occhi. Stava per urlare, ma Raymond la precedette.
«Credo di essermi seduto su qualcosa di tuo.»
Si alzò in piedi e finalmente Theresa esplose.
«Maledetto cretino, perché non torni a fartelo succhiare da quella vacca di Rebecca?!»

Samuel non aveva mai visto Theresa così agitata. Stava urlando qualcosa, davanti alla reception, gesticolando furiosamente contro un ragazzo che portava i capelli lunghi raccolti in una coda. Doveva essere quel tizio che girava sempre intorno a Rebecca.
«Che cosa sta succedendo?» domandò Kay.
«Non ne ho idea» ammise Samuel, avvicinandosi. «Theresa mi sembra leggermente fuori di sé, oggi.»
«Magari» azzardò Kay, che lo stava seguendo, «È successo qualcosa di grave.»
A Samuel non sfuggì il tono con cui Kay aveva parlato. Sembrava nascondere qualcos’altro.
“O forse sono io, che sto diventando paranoico come lei.”
Giunto di fronte alla reception, si avvicinò a Theresa.
«Ehi, calmati.»
Lei non lo degnò di uno sguardo.
«Come faccio a calmarmi, quando qua dentro ci sono dei tali cretini?»
«Si può sapere cos’è successo?»
Lo spasimante di Rebecca intervenne: «Ovviamente non è successo nulla di irreparabile.»
«Taci, Raymond!» gli ordinò Theresa. «È facile, per te, dire che non è successo niente!» Si rivolse a Samuel: «Questo coglione si è seduto sui miei occhiali.» Glieli indicò. «Guarda in che condizioni sono!»
Raymond puntualizzò: «Le ho anche assicurato che domani mattina li riavrà esattamente com’erano cinque minuti fa.» Era completamente calmo mentre ribadiva, con Theresa: «Come ti ho detto un attimo fa, sto per uscire. Conosco l’ottico del negozio che c’è in fondo all’isolato. Sono sicuro che domani mattina potrai già andarli a prendere.» Prese in mano gli occhiali. «Pagherò stasera stessa e tu potrai andare a ritirarli domani, prima di venire al lavoro.»
Theresa fece per scattare verso di lui, ma Samuel la trattenne.
«Tutto sommato, il problema è risolto. Se hai bisogno di qualcuno che ti accompagni a casa...»
Theresa lo interruppe: «Non ho bisogno di un tassista privato, e soprattutto non è vero che il problema è risolto. Quel cretino ha i miei occhiali tra le mani, la montatura è rotta e a me servono ora!»
«Non starai esagerando?» si intromise Kay, che fino a quel momento non aveva detto nulla. «Non ti sono poi così fondamentali.»
«Per lavorare al computer, non posso farne a meno» obiettò Theresa. «Senza occhiali sono persa, qua dentro.»
«Non preoccuparti» le assicurò Kay, con un sorriso. «Tra l’altro, di solito, a quest’ora te ne vai sempre a casa.»
Theresa annuì.
«Sì, ma...» Si interruppe. «Sai cosa voglio dire.»
«So cosa vuoi dire» confermò Kay, «E sono sicura che tu possa fare a meno degli occhiali, fino a domani mattina.»
Raymond interpretò quelle parole come un segno di approvazione, poco importava che non provenissero dalla bocca della diretta interessata.
Uscì dallo stabile portando con sé gli occhiali di Theresa, che sembrava tutt’altro che soddisfatta, dal momento che imprecava ancora tra i denti.
«Non è la fine» cercò di rincuorarla Samuel. «Inoltre, se hai bisogno di qualcuno che ti porti a casa...»
«Non preoccuparti, te l’ho già detto» insisté Theresa, «Posso cavarmela anche senza, oltre quella porta.» Nonostante quelle parole, sembrava quasi terrorizzata. «Scusate, è meglio che vada. Ci vediamo domani, Samuel.» Guardò Kay. «Ci vediamo.»
Kay annuì.
«Sì, a presto.»
Lei e Theresa, Samuel lo notò, si scambiarono un’occhiata, prima che l’altra si avviasse verso l’uscita.
Solo a quel punto Kay si lanciò all’inseguimento.
«Aspetta, mi sono dimenticata una cosa!»
La porta, aperta poco prima da Theresa, si richiuse alle spalle di Samuel, che non udì più nulla.
Oltre il vetro trasparente le vide parlottare per qualche istante. Kay appariva rilassata, mentre Theresa batteva ansiosamente un piede sui gradini davanti all’entrata.
Le stava ancora guardando, quando la voce di Penny attirò la sua attenzione.
«Samuel?»
Si girò.
«Dimmi.»
«Cosa sta succedendo?»
«Niente» rispose Samuel, cercando di non manifestare il proprio stupore per quella domanda. «Cosa ti fa pensare che stia capitando qualcosa?»
Penny scrollò le spalle, scuotendo la testa. I suoi capelli tinti di biondo platino si mossero intorno a lei.
«Era solo un’impressione.»

Theresa se n’era appena andata, quando Samuel uscì.
«Sarei rientrata subito» puntualizzò Kay, «Non importava che tu venissi a cercarmi.»
Lo vide ridere.
«Non ti stavo cercando. Stavo solo pensando che potremmo approfittarne per fumarci quella famosa sigaretta di prima.»
«È una buona idea» ammise Kay, «Direi che abbiamo tutti i diritti di rilassarci un po’.»
Senza preoccuparsi troppo dei pantaloni bianchi che indossava, si sedette sui gradini e attese che Samuel facesse lo stesso. Non ebbe bisogno di invitarlo. Un istante più tardi il suo collaboratore si piazzò alla sua destra.
«Allora?» chiese Kay. «Anthony dov’è?»
Samuel sussultò.
«Anthony...» ripeté. «Anthony è...»
Sembrava non avere una risposta pronta.
Kay insisté: «Dov’è?»
«Non lo so» le assicurò Samuel. «Non mi ha detto...»
«Smettila di coprirlo. Non sei credibile, quando ti inventi storie che non stanno né in cielo né in terra.» Gli sfilò il pacchetto di sigarette che teneva nel taschino della camicia. «Me ne dai una? Ho dimenticato le mie.»
«Non credo di avere alternative, dato che te la stai già prendendo» ribatté Samuel. «Comunque non so dove debba andare Anthony. È vero, non me l’ha detto.»
«Però ti ha detto chi deve incontrare.»
Samuel annuì.
«In un certo senso.»
Kay sbuffò.
«Dove hai messo l’accendino?» Prima che potesse allungarsi a prenderlo, Samuel glielo porse. «Allora?»
Samuel fece un lungo sospiro.
«Dovrebbe essere la figlia di Marissa Flint, per quanto ne so.»
Kay si accese la sigaretta e aspirò la prima boccata di fumo.
«Cosa vuole?»
«Non lo so» ammise Samuel, che stava iniziando a diventare più arrendevole, «Sinceramente non ne ho la più pallida idea.»
Kay aggrottò le sopracciglia.
«Mi sembra strano.»
«Anche a me. Eppure...»
Samuel si interruppe.
Kay lo guardò, sforzandosi di apparirgli implorante.
«Mi faresti un favore immenso?»
Samuel ricambiò lo sguardo.
«Lo sai, per te sono poche le cose che non farei.»
Kay si sentì rassicurata.
«Vai con lui.»
Samuel guardò l’orologio.
«Potrebbe essere già partito, anche se...» Non concluse la frase. «No, non credo che sia ancora partito.»
«Allora vai a prendere le tue cose e vai a raggiungerlo» gli ordinò Kay. «Lo farei io stessa, se solo potessi.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Qual è il tuo impedimento? A parte il fatto che, se Anthony ti avesse voluta con sé, ti avrebbe chiamata lui stesso?»
Kay rimase sul vago.
«Ho da fare in archivio. Rimarrò qui fino a tardi, stasera.»

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Capitolo 6
*** Notte di lavoro ***


Prima ancora di rientrare in ufficio, Samuel ebbe la sensazione che lui e l'amica non sarebbero stati da soli. Non si sbagliava, realizzò, nel momento in cui vide il direttore. Era in piedi, di fronte alla scrivania di Kay.
«Buonasera, Jeffrey.»
Samuel ricambiò il saluto.
«Buonasera.»
Carpenter lo considerò a malapena.
«Pensavo che fosse già andato a casa. Dov’è Kay?»
«Sono qui.» Kay varcò la soglia. «Anch’io pensavo che lei non ci fosse, signor Carpenter.»
«Invece ci siamo tutti.» Il direttore le rivolse un sorriso enigmatico. «O meglio, ci siamo tutti a parte suo marito. Dov’è?»
«È già andato via.»
«Peccato. Avevo bisogno proprio di lui.» Carpenter si avvicinò a Kay. «Se fossi al posto di suo marito, non mi permetterei certe leggerezze.»
Samuel si irrigidì.
L’atteggiamento del signor Carpenter, socio di maggioranza e direttore di Radio Scarlet, non gli era mai piaciuto, ma quella sera gli appariva oltremodo invadente.
Kay lo guardava, senza capire.
«Di quali leggerezze sta parlando?»
«Lei è una bella donna e senz’altro fa gola a molti uomini» chiarì Carpenter. «Io, se avessi una moglie così, non la lascerei sola in compagnia di qualcuno che non fa altro che fissarla con la bava alla bocca.» Si girò verso Samuel. «Mi scusi, Jeffrey, Veronica me lo dice sempre: dovrei smetterla di dire tutto quello che penso.»
«Io, invece» replicò Samuel, «A volte ci sono costretto, a non dire quello che penso.»
Carpenter rise.
«Si rilassi, Jeffrey. Tutti sanno che ha messo gli occhi addosso alla nostra Kay. Dopotutto è così deliziosa.»
«Cercava mio marito, signor Carpenter.» Kay sembrava a disagio. «Anthony non c’è. Le consiglio di tornare a cercarlo domani.»
«È quello che farò. Lei, nel frattempo, cerchi di non fare danni. Posso capirla. Le piacciono gli intellettuali, anche se quello che ha l’aria più intellettuale di tutti è suo marito, specie quando porta gli occhiali che usa per stare al computer. Quello che dirò sempre e non farò mai a meno di ripetere è che tutti abbiamo delle passioni. L’importante è che, se sono passioni immorali o sconvenienti, rimangano chiuse tra quattro pareti.» Indicò lo spazio circostante. «Questo ufficio è perfetto, ma cercate di ricordare sempre che anche i muri hanno gli occhi.»
Samuel non riuscì a trattenersi.
«Potrebbe per cortesia smettere di fare insinuazioni?»
Carpenter sogghignò.
«È brutto sentirsi dire la verità, non è vero, Jeffrey?»
«Quale verità?» obiettò Samuel. «Per quanto le possa sembrare strano, io e Kay siamo sempre stati solo amici. Se così non fosse, invece di sposare Anthony, Kay avrebbe sposato me.» Guardò l’amica. «Vero, Kay?»
Lei annuì.
«È proprio così. Inoltre la nostra vita privata non è un affare che la riguarda.»
«Sono d’accordo» convenne Carpenter. «A questo punto mi vedo costretto ad andarmene, se per oggi non esiste la possibilità di trovare Hunter.»
«Glielo ripeto: Anthony è già andato via» ribadì Kay.
Quelle parole sembrarono convincere il direttore, che di lì a qualche istante tolse il disturbo.
Kay sbuffò.
«Era proprio ora che se ne andasse» borbottò, quando fu sicura che ormai fosse lontano. «Non tollero le sue insinuazioni.»
Era tesa. Camminava avanti e indietro per l’ufficio e il ticchettio dei suoi tacchi, a lungo andare, disturbava.
«Stai calma» la pregò Samuel. «Lo sai, il mondo è pieno di malelingue.»
«Lo so» ammise Kay, fermandosi, «Ma non riesco a rassegnarmi. Sono convinta che quell’uomo abbia cose molto più importanti di cui occuparsi, piuttosto che intromettersi nei nostri rapporti puramente professionali.»
Samuel le lanciò un’occhiataccia.
«So di essere un collaboratore molto più che valido, ma pensavo che mi considerassi anche il tuo migliore amico.»
«Infatti è proprio così» convenne Kay. «Ora, però, per cortesia, vai a raggiungere Anthony e assicurati che non faccia cazzate.»
«Lo farò» le promise Samuel. «Te lo riporterò a casa tutto intero.»
Kay abbassò lo sguardo.
«Speriamo.»
«Fidati di me» la pregò Samuel. «Andrà tutto bene.»
Kay si chinò a raccogliere una bottiglia di aranciata che aveva lasciato accanto alla scrivania e controllò che fosse sigillata.
«Io, adesso, vado a chiudermi in archivio» lo informò. «Ci vediamo domani.»
Samuel controllò di avere in tasca le chiavi della macchina.
«Ci vediamo domani, Kay.»

Nel momento in cui sentì il telefono squillare, Samuel guardò l’orologio. Erano le dieci passate e, dato che di solito non riceveva chiamate a quell’ora, aveva una vaga idea di chi potesse essere.
Spense il televisore, sintonizzato su un programma che non gli interessava particolarmente, e andò a rispondere.
Sollevò il ricevitore, con una pessima sensazione addosso.
«Sì?»
«Samuel?»
Riconobbe quella voce.
«Kay?»
«Sono io» confermò lei, «E avrei tanto desiderato non trovarti in casa.»
Samuel si sentì colpevole.
«Non ho potuto farci niente.»
Kay parve capire.
«Anthony era già andato via, non è vero?»
«Proprio così.»
«È tutta colpa di Carpenter!» sbottò Kay. «Magari, se non ti avesse trattenuto con quei discorsi assurdi, avresti fatto in tempo a raggiungerlo e a fermarlo.»
«Forse sarei riuscito a raggiungerlo» confermò Samuel, «Ma dubito fortemente che sarei riuscito a fermarlo. Quando Anthony si mette in testa qualcosa...»
«Con una botta in testa, c’è qualche speranza di farlo desistere» ribatté Kay. «Tra l’altro a volte ne avrebbe bisogno.»
Desideroso di cambiare discorso, Samuel le domandò: «Sei ancora alla radio?»
Kay confermò: «Mi sono chiusa a chiave dentro l’archivio.»
«Sei sola?»
Samuel si pentì subito della domanda che le aveva appena posto.
Kay impiegò qualche istante, prima di rispondere.
«Ti do l’impressione di essere una che si chiude in archivio a intrattenersi con il primo venuto?»
«No, non sono Carpenter.»
Kay rise.
«Lo sai bene quanto me: a quest’ora non c’è più nessuno in giro, nell’ala di Radio Scarlet in cui stiamo noi.»
«Nemmeno Penny alla reception?»
«A quest’ora, direi proprio di no, anche se non ho intenzione di uscire da qui per andare a controllare.»
Samuel si informò: «Come sei messa?»
«Sono ancora un po’ indietro.»
«Se vuoi posso tornare ad aiutarti.»
«No, per carità. Hai idea di quante chiacchiere scateneresti?»
Samuel puntualizzò: «Hai detto che non c’è più nessuno.»
«L’ha detto anche il direttore» gli ricordò Kay. «Anche le pareti vedono quello che succede. È meglio non fidarsi troppo.»
«Okay, ma cerca di non rimanere lì fino a notte inoltrata» la pregò Samuel. «Domani avresti le occhiaie e non ti donerebbero affatto.»
«Stai tranquillo» lo rassicurò Kay, «Non è mia intenzione venire al lavoro con le occhiaie. Tutto sommato ci tengo al mio aspetto.» Fece una breve pausa, durante la quale a Samuel parve di udire un lieve brusio di sottofondo, ma doveva essere colpa della linea telefonica di Radio Scarlet, che come al solito dava problemi. «Ci vediamo domani, Samuel.»
«Sì, a domani.»
Dopo averla salutata, Samuel riattaccò.
Era andato tutto storto, lo sapeva.
Se fosse successo qualcosa ad Anthony, Kay non l’avrebbe mai perdonato.
“Avrei dovuto costringerlo a spiegarmi per filo e per segno che intenzioni avesse.”
Quella era una parte di lui. L’altra gli suggeriva che, a trentadue anni, Anthony era già capace da parecchio tempo di badare a se stesso. Non toccava a lui occuparsi dei suoi affari, né tantomeno era suo dovere assecondare le richieste di Kay.
Era indeciso.
Come al solito, era indeciso.
Theresa aveva sempre avuto ragione su tutto, quando lo accusava di dipendere da Kay Brooks. Era sempre pronto a fare qualunque cosa lei gli chiedesse. Doveva essere quella la ragione per cui, a poco a poco, tutto aveva iniziato ad andare a rotoli.
“Forse ho ancora qualche possibilità di recupero.”
Tutto sommato, con Theresa non stava male. Magari avrebbe potuto telefonarle, chiederle se si fosse calmata, dopo il casino combinato dal ragazzo con i capelli lunghi di cui si era già dimenticato il nome.
Si ricordava il numero a memoria.
Sollevò il ricevitore e iniziò a girare la rotella.
Non terminò, riattaccando prima di averlo composto: era troppo tardi per telefonare, non era quella l’ora di disturbare Theresa.

Non erano ancora le sette del mattino e la casa era già vuota. Anthony se ne rese conto subito: sua moglie parcheggiava sempre davanti al cancello.
Cos’era andata a fare alla radio, a quell’ora?
Entrò in casa sospirando. Di lì a un paio d’ore avrebbe dovuto presentarsi là anche lui e, dopo la notte appena trascorsa, si sentiva del tutto incapace di affrontare un’intera giornata di lavoro. Se almeno lui e la signorina Flint si fossero incontrati e avessero parlato, si sarebbe sentito rincuorato, invece quella femme fatale da quattro soldi si era guardata bene dal presentarsi all’appuntamento, lasciandolo ad attendere per oltre un’ora, nel cuore della notte, davanti a una fatiscente locanda di un paese che esisteva soltanto nelle cartine geografiche più particolareggiate.
Tutto era esattamente come l’aveva lasciato la sera precedente.
Il cuore gli rimbalzò in gola quando, entrando nella stanza da letto, vide che gli abiti gettati alla rinfusa prima di partire erano ancora dove li aveva lasciati.
«Kay?» urlò, rendendosi conto da solo che nessuno, in nessuna delle stanze della loro casa, avrebbe risposto al suo richiamo.
Kay non c’era.
Con tutta probabilità, Kay non era mai tornata a casa, la sera precedente.
Kay non era rientrata e quella storia non gli piaceva affatto.
Anthony sapeva di avere una sola cosa da fare: scrollarsi di dosso la stanchezza e correre a Radio Scarlet.

Per quanto la sua collega Penny fosse fermamente convinta nel descrivere Raymond come un tipo insopportabile, Michelle era di parere diametralmente opposto. Inoltre era un uomo alquanto attraente, e la cosa non guastava.
“Peccato che i tipi come lui non si accorgano mai di me.”
Sorrise, nel vederlo arrivare.
Raymond la salutò con un cenno della mano.
Michelle si alzò in piedi, pronta a corrergli incontro. Scambiare quattro chiacchiere con qualcuno era un desiderio al quale non poteva sottrarsi e, quella mattina, Raymond sembrava essere più disponibile del solito.
«Come va?»
«Tutto bene.» Raymond sorrise. «Ho soltanto il portafoglio molto più leggero. Il mio amico ottico, comunque, mi ha assicurato che gli occhiali di Theresa saranno pronti stamattina.»
Michelle aggrottò la fronte.
«Gli... occhiali di Theresa?»
«Perché, non c’eri anche tu, ieri sera? Mi sembrava...» Raymond si batté una mano sulla fronte. «Scusami, doveva esserci la tua collega.»
«Sì» confermò Michelle, secca. «C’era Penny.»
Quel discorso stava prendendo una brutta piega. Per quanto non avesse niente contro l’altra ragazza, a Michelle non piaceva essere scambiata per lei. Raymond le stava facendo capire che le riteneva entrambe talmente insignificanti dal considerarle intercambiabili.
Decisa a non lasciarsi rovinare la giornata da quell’episodio, si affrettò a domandargli: «Cos’è capitato?»
«Niente di grave, solo un piccolo incidente» le assicurò Raymond. «Theresa aveva lasciato gli occhiali al tavolo, io non me ne sono accorto e mi ci sono seduto sopra. La montatura era rotta e lei ha iniziato a imprecare.»
Michelle spalancò gli occhi.
«Chi, Theresa?»
«Sì.»
«Strano. Di solito è sempre così calma.»
«Io non la definirei esattamente calma, ma lasciamo perdere.» Raymond ridacchiò. «A proposito, quando arriva, potresti chiederle se è andata dall’ottico e se è rimasta soddisfatta dal lavoro?»
Michelle annuì.
«Lo farò molto volentieri.»
Non era esattamente quello che pensava, ma sapeva di non poter rispondere: “nell’improbabile caso in cui io mi tenga in mente, se ne avrà voglia, glielo domanderò”.
Raymond stava per andarsene, ma proprio in quel momento comparve Veronica Freeman. Proveniva dal corridoio e, in effetti, Michelle l’aveva vista salire almeno mezz’ora prima. Era arrivata presto, quella mattina, molto prima del solito.
Si stava sbracciando per attirare la loro attenzione.
«Michelle, mi dia subito la chiave dell’archivio!» la pregò.
«La... chiave dell’archivio?»
«Sì, subito, Michelle, non c’è tempo da perdere.»
Evidentemente qualcuno doveva avere chiuso una porta che in genere restava sempre aperta.
Michelle fece ciò che la segretaria del direttore le aveva ordinato.
«Eccola qua.»
Si era messa avanti, per prendere tempo, già sicura di trovarle.
Mancavano.
La Freeman si avvicinò, tendendole una mano.
Michelle avvampò.
«Mi scusi, Penelope deve avere fatto un po’ di confusione, ieri sera, e averla scambiata con quella della...» Penny non le aveva scambiate con nulla. «No, devo ammetterlo, non ci sono.»
«Tutto ciò non mi piace» borbottò Veronica. «Com’è possibile che una chiave sparisca nel nulla? Me lo spieghi, Michelle... anzi, no.» Si girò verso Raymond. «Io ho bisogno di entrare in archivio. Non posso aspettare che quella chiave ricompaia magicamente. Lei è proprio la persona che può aiutarmi.»
Raymond spalancò gli occhi.
«Io?»
«Sì, proprio lei.»
«E, sentiamo, cosa dovrei fare, abbattere la porta con una spallata, come nei film?»
Quell’ipotesi fece sorridere Michelle, ma non la Freeman, che continuò a fissarlo con un’espressione severa sul volto.
«Faccia poco lo spiritoso. Lo sa che a Radio Scarlet nessuno ha segreti per nessuno. Sappiamo tutti chi si nasconde dietro la sua faccia da bravo ragazzo. Lei ha dei precedenti penali per furto con scasso. Mi sono sempre chiesta, fino a oggi, chi sia stato quel pazzo che le ha dato un lavoro, ma finalmente tutto assume un senso: venga con me e apra quella porta.»
Michelle vide Raymond avvampare.
«Io...» Si interruppe subito. «Va bene, signora. Vedrò se riesco a fare qualcosa per aiutarla.»
Si avviò insieme a lei e, per un attimo, Michelle fu convinta di poter avere finalmente un po’ di pace.
Vide entrare Samuel Jeffrey. Era un tipo abbastanza riservato, che tutto sommato non le dispiaceva. Penny era pazza di lui e Michelle non riusciva a capire come potesse esserne così attratta. Non aveva nulla di speciale e poi non aveva occhi che per Kay, che in compenso non lo degnava di uno sguardo.
Samuel si fermò un attimo a parlare, ma Michelle si limitò a fingere di prestargli attenzione. In realtà, in fondo al cuore, ne aveva abbastanza di lui, così come ne aveva abbastanza di tutti gli altri. Non vedeva l’ora di cambiare lavoro ed era sicura che, presto o tardi, si sarebbe aperto uno spiraglio di luce anche per lei.
Samuel continuò a parlare, interrompendosi soltanto quando la Freeman tornò indietro, seguita da Raymond, urlando a gran voce.

Anthony entrò nella sede sentendosi rincuorato. Aveva visto l’auto di sua moglie nel parcheggio quindi, qualunque cosa fosse accaduta, l’avrebbe trovata lì.
Entrò, trovando un gruppetto di persone radunate davanti alla reception. C’erano Michelle, Samuel, la Freeman e il ragazzo di Rebecca.
La segretaria del direttore stava parlando in tono concitato, come in preda a una strana forma di eccitazione. Doveva essere scioccata, anche se Anthony non aveva idea di che cosa potesse sconvolgere qualcuno, lì dentro.
Non aveva ancora capito che cosa stesse accadendo, quando dal corridoio alla sua sinistra arrivò Theresa.
Sembrava stravolta anche lei, come se avesse dormito poco, quella notte. Anthony si ritrovò inconsciamente a sperare che avesse passato quelle ore insieme a Samuel.
A Michelle non sfuggì l’arrivo di Theresa.
«E tu da dove sbuchi?»
«Dal retro. Ho preso la metropolitana e la fermata è là dietro.» Si accorse dell’amico di Rebecca. «Ehi, Raymond. Com’è andata, ieri?» Lui le lanciò un’occhiata distratta. Sembrava sconvolto, forse più della stessa Theresa che, da parte sua, insisté: «Credo che l’ottico sia ancora chiuso, ci andrò più tardi. Sei riuscito a risolvere il problema?»
Soltanto a quel punto Veronica si rivolse a lei.
«Theresa, mi dispiace doverla informare che l’ottico è l’ultimo dei nostri problemi, in questo momento.» Vide Anthony. «Oh, signor Hunter.»
Anthony raggelò.
«Cosa sta succedendo?» domandò.
Aveva paura della risposta.
Veronica Freeman abbassò lo sguardo.
«Sua moglie...»
«Mia moglie» ripeté Anthony. «Cos’è successo a mia moglie?»
Dal momento che la segretaria continuava a girarci intorno, fu Raymond, o qualunque fosse il suo nome, a prendere la parola.
«Sua moglie è morta, signor Hunter.»

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Capitolo 7
*** Rebecca Shepard ***


Il portiere del meraviglioso stabile alzò gli occhi dal giornale.
«È un piacere vederla da queste parti, signora Shepard.»
Come al solito iniziò a contemplarla a occhi sgranati, come se non avesse mai visto una donna piacente in tutta la sua vita.
«Ogni giorno passo da queste parti» gli ricordò Rebecca, seccata.
«È davvero stupenda, signora» aggiunse il portiere. «Mia moglie ascolta ogni giorno la sua trasmissione. Se la chiamo un attimo, potrebbe incontrarla? Sarebbe molto...»
Rebecca tagliò corto: «Non oggi.»
Si affrettò ad avviarsi verso le scale, fremente di rabbia. Perché diamine aveva accettato di mantenere quel fallito del suo ex marito in quella meravigliosa palazzina signorile? Quel parassita non lavorava da anni, grazie al consistente assegno di mantenimento che gli arrivava ogni mese e, nonostante tutto, sembrava scocciato dal dover svolgere l’unica attività utile di cui si era dimostrato capace, quella di occuparsi del loro bambino.
Lasciò le scale e deviò verso l’ascensore. Le avrebbe fatto bene, se lo sentiva: almeno non avrebbe dovuto precipitarsi di corsa alla porta di quel buono a nulla.
Primo piano.
Secondo piano.
Terzo piano, finalmente.
Le porte si aprirono lasciandola sul pianerottolo.
«Resisti, Beck» mormorò, rivolta a se stessa. «Dylan ha passato tutto il giorno insieme a un fallito mantenuto e a una puttana altrettanto mantenuta. Almeno sua madre deve comportarsi da persona normale.»
Si recò verso la porta sulla cui targhetta spiccava il nome di Nicholas Williams. Se non altro quello di Sheila o come si chiamava non era ancora stato aggiunto.
Non si sentiva affatto calma.
Fece un profondo respiro, ricordandosi che ci pensavano già Nicholas e le varie ragazze che portava a casa a dare il cattivo esempio a Dylan.
Dall’interno dell’appartamento proveniva il poco rassicurante fracasso emesso da un televisore acceso a volume troppo alto. Dall’audio era improbabile che fosse sintonizzato su un programma culturale.
“Cosa diamine stanno guardando?” si chiese Rebecca, premendo a lungo sul campanello.
Attese qualche istante, sicura che non avrebbe potuto fare a meno di ricoprire l’ex marito di insulti non appena le si fosse palesato davanti. Invece non venne ad aprirla Nicholas, ma Dylan. Alla vista del figlio, un dolcissimo bambino di sei anni, lo sguardo di Rebecca si illuminò per un istante; un istante molto fugace, però, perché un pensiero cupo la travolse immediatamente.
«Dylan, te l’ho detto tante volte che, prima di aprire la porta, bisogna accertarsi di chi ha suonato il campanello, mi pare.»
Il figlio la guardò con aria colpevole.
«Papà mi ha detto che eri tu» si giustificò. «E poi c’è il portiere, giù, a vedere chi c’è.»
«Non è una buona ragione per aprire la porta a chiunque abbia suonato il campanello» lo rimproverò Rebecca, richiudendo la porta alle proprie spalle. «Non devi più farlo, Dylan.»
Sentì di nuovo il sangue che le ribolliva nelle vene; era meglio andare a raggiungere Nicholas e Sheila, prima di trattare Dylan come se fosse colpevole della mancata educazione che gli veniva impartita dal padre.
«Piuttosto, perché non è venuto lui ad aprire la porta?» volle sapere, in ogni caso. «Fino a prova contraria, siamo a casa sua.»
«Stavamo guardando un film» lo giustificò Dylan. «C’era una scena interessante e non voleva alzarsi. Neanche Sheila voleva venire, quindi hanno mandato me.»
Rebecca si avviò verso il soggiorno e quando vi entrò non seppe dire che cosa fosse più agghiacciante, se la scena che appariva sul teleschermo, nella quale una ragazzina dall’aria spaventata veniva stuprata da quattro uomini, o se quella reale di Nicholas e Sheila, accasciati sul divano a fumare e ingozzarsi di patatine.
«Voi state facendo vedere queste porcherie a mio figlio?» domandò Rebecca, sconvolta, indicando il televisore. «Siete degli idioti!»
«Piano con le parole» replicò Nicholas. «Mica è un porno!»
Rebecca continuò a puntare il dito contro il televisore.
«Mi pare ben peggio di un porno, questa roba.»
«Eh dai, non ti scaldare tanto... È una cassetta che ha noleggiato Sheila oggi pomeriggio. Secondo me a Dylan piace.» Si rivolse al figlio: «Che ne dici, Dylan?»
Dylan rispose timidamente: «Preferivo Will Coyote. Lo danno sempre, a quest’ora.»
«Ecco, finalmente ha parlato la bocca della verità» confermò Rebecca. «Un bambino della sua età non dovrebbe vedere questa robaccia.»
Sheila intervenne: «Se non ti sta bene quello che facciamo vedere a tuo figlio mentre tu stai a sparare cazzate alla radio, sei liberissima di pagare una baby-sitter per badargli, invece di lamentarti di quello che facciamo noi che ci occupiamo di lui gratis.»
Rebecca rise, sprezzante.
«Voi vi occupate di lui gratis? E, sentiamo, chi è che passa a questo fallito i soldi per fare una vita dignitosa qui dentro? Tu non fai la baby-sitter... Certo, ci pensa Nicholas a mantenerti senza un lavoro, ma dato che lui non ha un soldo, anche tu vivi qui dentro grazie a me. Sono io che vi mantengo. Non mi pare un favore eccessivo chiedere a Nicholas di badare a suo figlio!»
Sheila sbuffò.
«Nick, le tue ex sono tutte così isteriche?»
Udendo le parole della fidanzata, Nicholas sorrise. Rebecca se ne accorse e gli lanciò un’occhiataccia.
Ordinò poi al figlio: «Vai a prendere il giubbotto, che andiamo.»
«Ma...»
«Niente “ma”, Dylan. Dobbiamo andare.»
«A proposito, mia cara» riprese Sheila, «Credo proprio che, con tutti i soldi che hai messo da parte, potresti anche rimanere a casa dal lavoro e badarci tu, a tuo figlio. Tanto meglio se non ce lo scarichi qui ogni giorno, come se fossimo i tuoi camerieri. Per il lavoro che fai, poi, non sarebbe una grossa perdita. Quel programma che conduci fa schifo... a quanto pare fa anche male alla salute mentale, se la tua amica Riccioli d’Oro, una settimana prima che iniziasse, ha pensato bene di chiudersi in uno stanzino e di avvelenarsi. Non è stata certo una perdita per la società.» La ragazza fece una breve pausa. «A proposito, ne hai avuta di fortuna.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia.
«In che senso?»
«Ma come, non lo capisci da sola?» Sheila rise. «Tu odiavi Riccioli d’Oro.»
Rebecca fece per obiettare.
«Io non...»
Sheila la interruppe: «Non facevi altro che lamentarti di lei ogni giorno quindi non negarlo: tu la detestavi profondamente.»
«Cosa vuoi saperne tu?» obiettò Rebecca. Stava per lanciare a Nicholas un’occhiata implorante, ma si trattenne appena in tempo, dato che non sarebbe servito a niente. «Tu non la conoscevi. Anche per quanto riguarda me, mi conosci a malapena.»
Sheila rimase ferma sulla propria posizione.
«Tu la odiavi perché, fin da quando era arrivata, non faceva altro che metterti i bastoni tra le ruote, perché piaceva alla gente e ne era perfettamente consapevole. La tua posizione era stata molto ridimensionata, a causa della sua crescente popolarità. Non è stata una fortuna, per te, che sia morta? Quando lei è finita sottoterra, ne hai ricavato due vantaggi: il primo, ti sei sbarazzata della tua peggior nemica; il secondo, ti sei ripresa ciò che era tuo e ti sei rifatta una posizione. Hai ricominciato da pochi giorni e tutti ti considerano già la salvatrice di Radio Scarlet, anche se il tuo programma fa schifo.» Sorrise. «Dimenticavo il terzo: sicuramente il direttore ti avrà aumentato lo stipendio.»
«Se il mio stipendio serve per mantenere un fallito e una sgualdrina» replicò Rebecca, «Forse era meglio essere nullatenente!» Una voce, dentro di lei, le suggeriva di non scaldarsi così tanto di fronte a suo figlio, ma non riusciva a darle ascolto. «Per quanto riguarda Kay Brooks, invece, ti consiglio di fare attenzione a quello che dici. Non ti hanno mai insegnato che non si parla a questo modo dei morti?»
«Morto o non morto, chi nasce rompipalle muore rompipalle, non è che adesso dobbiamo beatificare la povera Kay solo perché non c’è più» obiettò Sheila. «So come andavano le cose a Radio Scarlet, dato che ne parlavi di continuo, e so com’erano i rapporti tra te e Kay. Ora vorresti farmi credere che la sua morte non è stato l’evento più bello della tua vita?»
«Non lo è stata. L’evento più bello della mia vita è stato la nascita di mio figlio, su questo non ho dubbi.»
«Bel modo per sviare la mia domanda. Certo che hai gusti strani, tu. L’evento più bello della tua vita è stato l’arrivo di tuo figlio? Secondo me certe donne i guai se li cercano. Con tutto quello che si può fare di bello nella vita proprio relegarsi a badare a un figlio... Va beh che c’è di peggio: basta pensare a tutte le baby-sitter che, in cambio di una paga piuttosto modica, si occupano dei figli degli altri.» Sheila sospirò. «Dì un po’, Rebecca, non hai pensato a quanto sarebbe stato bello godersi la vita?»
Nicholas s’intromise: «Se l’avesse fatto, probabilmente a quest’ora saremmo ancora marito e moglie.»
«Permettimi di dubitarne» obiettò Rebecca. «In ogni caso mi pare di avere già perso anche troppo tempo a discutere con voi.»
«Infatti» confermò Sheila, indicando il televisore. «Mi sono perfino persa la scena più bella. Quei quattro hanno ammazzato la ragazza, mentre io ero impegnata a parlare di Riccioli d’Oro! Eh, così va la vita. Nulla va mai per il verso giusto.»
«Proprio così, nulla va mai per il verso giusto.» Rebecca si rivolse al figlio. «Andiamo via, Dylan, è tardi.»
Uscirono dall’appartamento e scesero le scale in silenzio.
“Come vorrei che fosse già domani mattina.”

A Rebecca succedeva fin dal giorno in cui il direttore aveva deciso di farla lavorare insieme a Samuel e a Theresa: veniva colta da un inutile e assurdo timore reverenziale nel momento in cui si apprestava a bussare alla porta del loro ufficio, quello che era stato anche l’ufficio di Kay.
Rimase in attesa, per qualche istante.
“Adesso” si disse. “Adesso o mai più.”
Stava per manifestare la propria presenza, quando qualcuno, dietro di lei, le sfiorò i capelli.
Rebecca sorrise. Quel tocco era inconfondibile.
«Ray» mormorò, girandosi verso di lui.
Raymond la fissava.
«Buongiorno, splendore.»
«Buongiorno a te... ma, per cortesia, chiamami con il mio nome.»
«Vedrò cosa posso fare.» Raymond ridacchiò. «Che cosa ne dici di continuare la nostra conversazione in un luogo più appartato?»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Non dovresti lavorare, a quest’ora?»
«Stare accanto a te è lavoro» ribatté Raymond. «Ti chiedo solo cinque minuti. Ho bisogno di passare un po’ di tempo da solo con te.»
Rebecca non avrebbe mai rifiutato, Raymond lo sapeva.
«Sì, certo.»
Oltrepassò la porta di Samuel e Theresa e proseguì, camminando in punta di piedi per contenere il rumore dei tacchi.
Raymond la seguì in silenzio fino all’uscita d’emergenza.
Rebecca spalancò la porta, prima di uscire sulla scala antincendio. Raymond la raggiunse, sedendosi sui gradini.
«Vieni qui» la invitò.
«C’è sporco» obiettò Rebecca.
Per nulla al mondo avrebbe rischiato di impolverare la gonna. Non era nel suo stile.
Raymond, però, le lanciò uno sguardo implorante.
«Ti prego, Beck.»
Rebecca sospirò.
«Credo di essere ormai completamente dipendente da te. Sono pronta a fare qualunque cosa tu mi chieda.» Si sedette. «È grave, lo sai?»
«Non è per niente grave» replicò Raymond. «È quello che qualunque donna dovrebbe essere disposta a fare per l’uomo della sua vita.»
«Il problema» puntualizzò Rebecca, «È che non ho ancora deciso se sei l’uomo della mia vita.»
Raymond rise.
«Potrei non esserlo?»
Rebecca era consapevole di deluderlo, nel rispondere: «Sì, potresti non esserlo.»
Raymond non la prese sul serio. Era quella l’unica parte di lui che non le piaceva. La faceva sentire viva, ma dava per scontato che il loro amore fosse eterno e indissolubile.
Rimasero seduti in silenzio per qualche istante, infine Raymond cambiò discorso.
«Quei pettegolezzi della signora Freeman...»
Non aggiunse altro, come se il seguito fosse scontato.
«Quali pettegolezzi?»
«Hai capito.»
«No, non ho capito affatto» replicò Rebecca, ed era sincera. «La signora Freeman spettegola su qualunque cosa.»
«Quello che dice sul mio passato» puntualizzò Raymond. «Ovviamente non è vero. Non so come se lo sia inventato. Qualcuno deve averglielo riferito e...»
«So benissimo che non è vero» mentì Rebecca, che invece era certa del contrario. «So che sei un bravo ragazzo.»
Raymond la guardò sorridendo.
«Non so se prenderlo come un complimento o come un insulto.»
«Scegli tu.»
«Scelgo di non farmi troppe domande.» Raymond si avvicinò. «Credo che parlare con te sia tutto tempo sprecato, splendore.»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Mi stai accusando di dire cazzate?»
Raymond rise.
«Certo che no.»
«Eppure mi hai appena dato questa impressione.»
Raymond si allungò verso di lei e le sfiorò le labbra con le proprie.
«Intendevo che è tempo sprecato parlare, perché si potrebbe impiegarlo molto meglio. Adesso devo andare, ma mi piacerebbe incontrarti in un posto ancora più appartato, oggi.»
Rebecca si guardò intorno.
«Questo non è appartato abbastanza?»
«Non quanto il bagno.»
Entrambi risero, insieme.
«Vorrà dire che ci incontreremo nel nostro bagno preferito.» Rebecca guardò l’orologio. «Tra due ore potrebbe andare bene?»
Raymond annuì.
«Sarà una lunga e dolorosa attesa, ma se non possiamo fare diversamente...»
«Non possiamo fare diversamente.» Rebecca si alzò in piedi e gli indicò di fare altrettanto. «Torna a lavorare, prima che la Freeman decida di inventarsi qualche altro capo di imputazione.»
Raymond scosse la testa.
«No, splendore, le cose andranno diversamente. Se mi costringerai ad aspettare due ore prima di rivederti, potrei sbatterti contro il muro e stuprarti. In tal caso, se la Freeman mi vedesse, non se lo inventerebbe.»
Rebecca gli lanciò un’occhiataccia.
«Smettila di dire assurdità.»
«Non è un’assurdità.» Raymond sorrise. «Sono sicura che l’idea di essere violentata da me ti fa impazzire.»
«L’idea di fare sesso con te mi fa impazzire» precisò Rebecca. «L’idea che tu mi costringa a farlo...»
«Hai ragione, non c’è bisogno di costringerti. Tu sai di che cosa ha bisogno un uomo.»
Rebecca gli indicò l’interno dello stabile.
«Torniamo dentro, Ray.»
«Come desideri, splendore.»
Entrarono e Rebecca richiuse la porta alle loro spalle.
Come ogni singolo giorno, si pose tante domande.
Come sempre, non riuscì a darsi una risposta.
«A dopo, splendore» furono le parole con cui Raymond la salutò, quando finalmente giunse nello stesso punto in cui si erano incontrati poco prima. Rebecca non fu in grado di capire se la prospettiva di rivederlo dopo due ore le facesse piacere o se la disgustasse.
Bussò alla porta, prima di entrare.
Samuel la salutò a malapena. Theresa, invece, si spinse al punto di sorridere.
«Eccoti, finalmente.»
Rebecca si sentì spiazzata. Come sempre, era convinta di essere un pesce fuori dall’acqua.
“Perché è così difficile?”
Dentro di sé, sapeva che cosa la stesse tormentando. Era stanca di girare intorno al problema senza mai affrontarlo. Si avviò, quindi, verso la scrivania di Samuel.
«Non vorrei disturbarti, ma devo farlo.»
Lui alzò lo sguardo.
«Dimmi.»
«Non qui.» Gli indicò Theresa. «Vorrei che ci fossimo io e te da soli.»
Trattenne a stento un’esclamazione di sorpresa nel vedere la donna alzarsi in piedi.
«Vi lascio soli» disse, senza esitare. «Vado in bagno, nel frattempo. Spero che non vi serva troppo tempo.»
«Oh, no» la rassicurò Rebecca. «È questione di un minuto.»
Theresa uscì dall’ufficio, richiudendo la porta alle proprie spalle.
Samuel esortò Rebecca: «Ti ascolto. Dato che sei stata così scortese da cacciare via Theresa, potresti almeno degnarti di dirmi che cosa vuoi.»
Samuel non aveva una buona opinione di lei. Dopotutto lui e Kay erano sempre stati amici inseparabili.
«Non era mia intenzione mandarla via» puntualizzò. «Avrei preferito che tu mi seguissi un attimo in corridoio.»
«Avresti potuto essere più chiara» replicò Samuel. «Immagino che tu lo capisca anche da sola non posso leggerti nella mente e immaginarmi le tue intenzioni.»
«Certo che no. Hai ragione, avrei dovuto essere più chiara.»
«Vedo che, almeno su questo, siamo d’accordo, per quanto la cosa mi sembri fuori dal mondo.» Il tono di Samuel si era fatto più accomodante. «Qual è il problema? Non sei soddisfatta del mio lavoro? È molto strano, dato che sei tu che decidi come gestire la trasmissione. Figuriamoci cosa diresti se esprimessi davvero il mio parere su...»
Rebecca lo interruppe: «Non sono qui per parlarti della scaletta del programma. Si tratta di Kay.»
Samuel spalancò gli occhi. In lui parve essersi acceso un campanello d’allarme.
«Cosa vuoi dire?»
«Le avevo parlato, due giorni prima della sua morte. Non mi sembrava una persona sul punto di suicidarsi.»
«Il tuo parere in proposito è molto interessante» obiettò Samuel, «Ma non penso di farmene qualcosa. Ormai Kay non c’è più, e...»
«Non riesco a credere che l’abbia fatto» insisté Rebecca. «Quando abbiamo parlato, sembrava che avesse qualcosa da nascondere. Mi ha fatto un discorso strano, sul fatto di potersi o non potersi fidare delle persone. Io...» Esitò, perché quello che stava per affermare poteva apparire ridicolo. «Io...» Decise, infine, di non tirarsi indietro. «...Penso che Kay sia stata uccisa.»
Lentamente, Samuel si alzò in piedi.
Si guardarono negli occhi per un lungo istante.
«Anch’io sarei pronto a giurare che Kay è stata uccisa» la informò, infine, «Se solo non fosse del tutto impossibile.»
Rebecca abbassò lo sguardo.
«Eppure...»
«Eppure non siamo in un romanzo» le ricordò Samuel. «Kay era in una stanza senza finestre, chiusa a chiave dall’interno. La bottiglia da cui ha bevuto l’aveva portata lei e le persone che sapevano a quali farmaci fosse allergica - farmaci che avrebbero potuto condurla a una morte pressoché immediata - si contavano sulle dita di una mano. Purtroppo quella del suicidio è l’unica ipotesi plausibile, dato che è del tutto impossibile che si sia trattato di una morte accidentale: mi pare ovvio che Kay non usasse sonniferi mentre era al lavoro.»
Rebecca annuì.
«Deve essere come dici tu, lo so.»

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Capitolo 8
*** Il caso Flint ***


«Oggi non ho ancora visto il tuo ragazzo» osservò Theresa, mentre lei e Rebecca erano sole in corridoio. «Non c’è?»
Rebecca si irrigidì. Non le piaceva che Raymond venisse definito con quei termini e che alla radio si facessero pettegolezzi sulla loro frequentazione.
«Non l’ho ancora visto» ammise, «Ma credo proprio che ci sia.» Si affrettò a cambiare discorso, certa che Theresa non gliel’avrebbe impedito, visto ciò di cui aveva intenzione di parlare. «Cosa mi dici di Anthony?» A due settimane dalla morte della moglie e di lontananza da Radio Scarlet, quando nessuno se lo aspettava, aveva deciso di tornare al lavoro. «Come sta?»
Theresa lasciò passare qualche istante, prima di rispondere: «Sinceramente si comporta in modo diverso da come mi sarei aspettata. Non sembra che sua moglie si sia suicidata, a vederlo. Si direbbe piuttosto che Kay non sia mai esistita, per lui.»
Rebecca rifletté.
«Anche a me ha dato quell’impressione.»
Come rassicurata dalle sue parole, Theresa annuì con aria di approvazione.
«Forse si sente colpevole.»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Colpevole di che cosa?»
«Istigazione al suicidio, naturalmente» rispose Theresa, come se fosse la cosa più normale del mondo. «Kay non era il tipo di persona che si toglie la vita, almeno in apparenza. In realtà, andando più a fondo, ho sempre avuto l’impressione che fosse profondamente infelice.»
Rebecca cercò di ignorare il brivido che la attraversava.
«Infelice, dici?»
«Beh, sì. Te ne sarai accorta anche tu...»
Non aggiunse altro, ma dal suo tono di voce sembrava un discorso lasciato a metà.
Rebecca si sforzò di pensare a Kay, quando dentro di lei scorreva ancora la vita. Theresa aveva in parte ragione: dietro una facciata quasi indistruttibile, si nascondeva sicuramente dell’altro. Kay Brooks, in realtà, non era la donna decisa che tutti conoscevano.
«Sì» convenne, «Anch’io me ne sono accorta.» In più, c’era dell’altro. «A volte ho avuto la sensazione che, dentro di sé, fosse diversa da come appariva.»
Theresa annuì.
«Lo era davvero. La colpa non poteva essere che di Anthony.»
Quell’osservazione era interessante.
«Perché lo dici?»
«Perché è così.» Theresa sospirò. «Quando una persona è infelice, generalmente lo è perché la sua vita di coppia sta andando a rotoli.»
Rebecca pensò a Nicholas. Tra di loro tutto era precipitato in un batter d’occhio. Secondo Theresa, ciò avrebbe dovuto portarla al suicidio.
Non fece commenti, così come non ricordò a Theresa che una donna che non si era mai sposata e che viveva da sola non era la persona ideale per fare valutazioni sulla vita coniugale. Si limitò a puntualizzare: «Avrebbe potuto esserci qualcos’altro. In fondo cosa sappiamo di Kay e del suo passato? Non ne parlava mai.»
«Non c’è bisogno di parlare del passato» obiettò Theresa, «Dato che viviamo nel presente. Anzi, si può quasi dire che il presente non esista: io e te stiamo parlando, adesso, ma quando avremo finito di parlare tutto quello che avremo detto sarà parte del nostro passato.»
«E allora?» obiettò Rebecca. «Il tempo scorre, il presente diventa passato... ma per quale ragione dovremmo nascondere le nostre origini?»
Theresa aggrottò la fronte.
«Per caso Kay nascondeva le proprie origini?»
«Di certo non ne parlava volentieri.»
«Sì, forse hai ragione» concesse Theresa, «Ma credo che la causa di una decisione così drastica non siano le sue origini. A volte, quando ti rendi conto di avere sposato l’uomo sbagliato...»
Rebecca puntualizzò: «A me è successo. Gli ho chiesto il divorzio. Sono ancora qui... ed è ancora qui anche lui, non si è certo suicidato. Anzi, ci vorrebbe un pazzo a suicidarsi proprio adesso: fa la bella vita con i soldi del mio assegno di mantenimento.»
Theresa non parve molto impressionata da quel lato della medaglia e rimase ferma sulla propria posizione.
«Kay era abituata a prendersi quello che voleva. Purtroppo, però, non sempre è possibile. Sapeva perfettamente chi era l’uomo giusto per lei e sapeva che non l’avrebbe mai avuto. Che senso aveva la vita, per lei?»
Rebecca scosse la testa.
«Non è possibile. Kay era forte abbastanza da cavarsela da sola.»
«Oh, no.» Theresa abbassò lo sguardo. «Nessuna donna è forte abbastanza da cavarsela da sola, quando vede tutta la sua vita crollare.»
Rebecca non replicò, perché avrebbe senz’altro fatto qualche osservazione spiacevole sul fatto che, se ogni donna poteva vivere soltanto finché il suo salvatore la teneva attaccata alla vita, era curioso che Theresa non fosse ancora morta.
«È meglio tornare al lavoro» osservò. «Devo andare un attimo in archivio. Vieni con me?»
Theresa alzò gli occhi. Tremava, notò Rebecca.
«Sì, lo so» ammise, «Non è il posto più piacevole in cui andare, dopo quello che è successo a Kay, ma noi siamo ancora vive e la nostra vita deve andare avanti, non credi?»
Theresa annuì, ma con poca decisione.
Rebecca non aggiunse altro. Si avviò verso l’archivio, seguita dalla collaboratrice.

Anthony si avvicinò al computer di Kay.
«Qualcuno l’ha usato, in questi giorni?»
«No.» Samuel lo raggiunse. «Non c’era motivo per farlo.»
Anthony premette il pulsante di accensione e attese. Quegli aggeggi malandati erano di una lentezza allucinante.
«Potrebbe esserci.»
Samuel lo guardò con aria interrogativa.
«Potremmo trovare qualcosa a cui stava lavorando, ma...»
Anthony lo interruppe: «Appunto. Potremmo trovare qualcosa a cui stava lavorando e schiarirci le idee.»
Dal modo in cui lo fissava, Samuel sembrava non avere la più pallida idea di che cosa stesse parlando, e Anthony non poteva biasimarlo per quella ragione.
Finalmente la procedura di accensione terminò e apparve il desktop. Kay non si era mai decisa a mettere una password.
Anthony si sedette.
«Cosa cerchi, esattamente?» volle sapere Samuel.
Anthony sospirò.
«Non lo so ancora.»
Accedette alla cartella in cui Kay generalmente salvava le proprie bozze. Dai nomi dei documenti, nessuno gli appariva molto interessante, almeno finché non ne vide uno intitolato “Flint2”.
«Mi sembrava strano che non ci fosse nulla.»
Samuel si avvicinò.
«Cos’hai trovato?»
Anthony glielo indicò.
«La nostra Marissa Flint continua a tormentarci anche adesso. “Flint 2”, tra l’altro, quasi come se fosse la seconda parte di qualcosa.»
Era stato modificato il 26 agosto, il giorno stesso della morte di sua moglie, nel tardo pomeriggio. Forse era stato l’ultimo file che Kay aveva aperto.
«Aprilo» gli suggerì Samuel.
Anthony lo aprì e ciò che vide lo fece quasi commuovere.
«Alla fine mi ha ascoltato!»
Le impostazioni di Wordpower erano state cambiate. Finalmente Kay aveva abbandonato quell’orribile rosso che piaceva solo a lei.
Samuel osservò: «Deve averlo fatto quel giorno stesso, dopo che me n’ero andato. Sono quasi sicuro che nel suo computer non ci fosse niente di nuovo, finché siamo stati in ufficio. Se avesse fatto un cambiamento così radicale, dopo mesi che la prendevi in giro per i suoi bizzarri gusti in fatto di colori, me ne sarei accorto.»
Anthony fece strisciare la sedia sul pavimento, per indietreggiare, e scattò in piedi.
«Questa è un’altra prova!»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Non capisco, una prova di che cosa?»
«Una persona che si vuole suicidare non ha certo in mente di cambiare le impostazioni di Wordpower, tornando a mettere quelle di default.»
Samuel obiettò: «Nelle impostazioni di default, la schermata è blu.»
«A maggior ragione» replicò Anthony, «Avrebbe dovuto complicarsi ancora di più la vita. Rifletti, Samuel: se tu volessi morire, te ne importerebbe qualcosa di Wordpower?»
«Obiettivamente parlando, direi di no.»
«Proprio qui volevo arrivare.»
Samuel scosse la testa.
«Lo so, è strano, ma...»
Prima che potesse aggiungere altro, Anthony lo interruppe: «So che per te è una sottigliezza, ma per me quello che ho visto significa molte cose.»
Samuel gli indicò il file.
«Non c’è scritto niente, in quel documento. È completamente vuoto. Questo dovrebbe significare qualcosa di più.»
«Per esempio?»
«Per esempio che Kay potrebbe avere voluto eliminare tutto ciò che aveva a che fare con Marissa Flint.»
Anthony sbuffò.
«Adesso non dirmi che ha avuto una crisi mistica e che ha deciso prima di cancellare il suo lavoro e poi di suicidarsi!»
«Non sto dicendo questo» puntualizzò Samuel. «Sto solo dicendo che, come mi hai fatto notare tu prima, il file si chiama “Flint 2”. Sembra la seconda parte di qualcosa, eppure non esiste la prima, come se Kay l’avesse cancellata.»
«Kay, oppure qualcun altro.»
Samuel azzardò: «In tal caso, potrebbe essere stato qualcun altro a cambiare le impostazioni di Wordpower.»
Anthony strabuzzò gli occhi.
«E perché mai avrebbe dovuto, se il suo scopo era solo cancellare un file?»
Samuel non fu in grado di dargli una risposta. Effettivamente non c’erano risposte, se non l’unica che Anthony voleva cogliere: la sera del 26 agosto, Kay non aveva alcuna intenzione di morire.

Theresa era sola, ma non sarebbe durata a lungo. Per fortuna Rebecca non sarebbe tornata che di lì a qualche ora, ma Samuel e Anthony sarebbero arrivati molto presto, a ricordarle involontariamente - specie uno dei due - quanto la sua vita fosse stata un fallimento.
Udire dei passi in corridoio la rincuorò. Dopotutto non era troppo tardi per cambiare le cose, se non era soddisfatta, e non si era mai arresa: sognava ancora di avere entro i quarant’anni - dopotutto mancavano ancora più di tre mesi ai trentasette - ciò che un tempo aveva sognato di avere prima dei trenta, ovvero un marito e un figlio; e il marito avrebbe dovuto essere colui che, con tutta probabilità, sarebbe entrato in ufficio pochi istanti più tardi. Samuel Jeffrey aveva quasi cinque anni in meno di lei, ma non le importava, nessuno si sorprendeva se una donna sposava un uomo di cinque anni più vecchio, per cui chi avrebbe dovuto sconvolgersi se il suo futuro marito fosse stato di cinque anni più giovane?
Era ancora immersa in quelle riflessioni quando la porta finalmente si aprì. Scattò in piedi, pronta ad accogliere l’unico uomo che avesse mai amato.
Strinse i denti e abbassò lo sguardo. Era delusa. Era maledettamente delusa, perché Samuel non c’era.
Si rivolse ad Anthony: «Dov’è il tuo collega?»
«Arriverà a momenti» le assicurò lui. «Era davanti alla reception, stava parlando con Penny.»
Certo, c’era da aspettarselo.
Theresa non disse nulla e tornò a sedersi.
Anthony le domandò: «Va tutto bene?»
Si sforzò di guardarlo negli occhi, mentre replicava: «Certo. Che cosa non dovrebbe andare bene, dopotutto?»
Anthony non rispose alla sua domanda e Theresa apprezzò il fatto che non si sforzasse nemmeno di rendersi conto di essere stato interpellato in proposito.
I casi erano due, realizzò Theresa: o quella dannata Penelope Altman era l’origine - una delle tante origini, almeno - delle sue disgrazie, o Samuel sembrava preferire qualunque altra donna a lei, il che sarebbe stato molto più preoccupante. Se non altro, se avesse avuto soltanto un interesse passeggero per Penelope, sarebbe svanito nell’apprendere spiacevoli verità su di lei che, nonostante la facciata, non aveva un passato così roseo e cristallino.
Theresa si diresse verso la porta.
«Scusa un attimo.»
Anthony le chiese, distrattamente: «Dove vai?»
Non sembrava davvero interessato a ricevere una risposta, ma Theresa puntualizzò, comunque: «Ho bisogno di parlare un attimo in privato con Samuel.»
Anthony non fece commenti.
Theresa uscì e si richiuse la porta alle spalle. Per un attimo rifletté sull’opportunità di tenere gli occhiali appesi alla catenella oppure se indossarli; forse le davano un’aria più professionale.
“Smettila” ordinò a se stessa. “Samuel ti conosce perfettamente. Non gliene importa niente. Anzi, è capace di non accorgersene nemmeno.”
Peccato che non notasse nemmeno tutto il resto.
Theresa cercò di non scoraggiarsi troppo, mentre si dirigeva verso la reception, ma era convinta che ormai ci fosse ben poco da fare: Penelope aveva già conquistato tutti, con i suoi modi falsi e la sua aria da ragazza innocente.
Come al solito, vederla insieme a Samuel fu un colpo al cuore per lei.
Non si accorsero della sua presenza - o almeno finsero di non notarla - finché Theresa non si schiarì la voce per attirare l’attenzione.
Penelope si girò a guardarla.
«Ciao Theresa, non ci siamo ancora incontrate, oggi. Come stai?»
Theresa mormorò un monosillabo incomprensibile, ma la receptionist non parve preoccuparsene, dal momento che si era già voltata verso Samuel, riprendendo la loro conversazione interrotta qualche istante prima.
Lui, da parte sua, sembrava troppo impegnato a chiacchierare con quella ragazza insignificante. Era di più di quanto Theresa potesse sopportare.
Lo afferrò per un braccio.
«Vieni in ufficio?»
«Sì, scusa, arrivo subito.» Samuel si girò verso di lei, finalmente. «Un attimo che finisco di raccontare una cosa a Penny, poi...»
Theresa lo interruppe: «Anthony ha bisogno di te, e ha bisogno subito.»
Erano le classiche parole magiche che convincevano Samuel a lasciare da parte qualsiasi cosa e a dedicarsi al proprio dovere. Ci teneva a non lasciare in difficoltà nessuno, dal punto di vista professionale.
“Se non altro sul lavoro è impeccabile” valutò Theresa. “Peccato che, nella vita privata, faccia sempre più schifo giorno dopo giorno.”
Si avviarono insieme in corridoio e, nonostante le proprie valutazioni, si sentì subito più sollevata. Era felice di essere accanto a lui e, dentro di sé, avrebbe voluto non provare alcuna emozione. Essere così succube non era un bene, sua sorella non aveva fatto altro che ripeterglielo, durante gli anni che avevano trascorso insieme.
Theresa abbassò lo sguardo.
Non doveva pensare a sua sorella.
Non doveva pensare a chi l’aveva sempre usata a proprio piacimento.
“Anche lei era come tutti gli altri. O forse sono io che ho qualche problema e mi faccio dei complessi inutili.”
Avrebbe desiderato fare una conversazione sensata, per quanto breve, con l’uomo dei suoi sogni, ma ancora una volta non disse nulla. Era la storia della sua vita, giorno dopo giorno, a ripetersi sempre uguale.
A rompere il silenzio fu Samuel.
Erano ormai arrivati, quando le domandò: «Cosa voleva Anthony?»
Già, cosa voleva? Theresa avrebbe dovuto pensarci.
Si sforzò di non complicare troppo le cose e rispose: «In realtà non ha chiesto espressamente di te, è stata un’impressione mia...»
Samuel annuì.
«Capisco.»
“Beato te” avrebbe voluto replicare Theresa, “Io non ci capisco nulla.”

In ufficio si respirava una strana atmosfera, anche in assenza di Rebecca. In realtà, anche se gli costava ammetterlo, negli ultimi dieci giorni Samuel era riuscito ad abituarsi alla sua presenza e a trovarla sopportabile. Non poteva dire che fossero amici, e con tutta probabilità non lo sarebbero stati mai, ma non si sentiva particolarmente infastidito. Aveva l’impressione che anche Theresa la pensasse allo stesso modo, ma non si era mai preoccupato di chiederglielo. Meno le parlava, negli ultimi tempi, e più si sentiva a posto con se stesso. Quella donna era capace di farlo sentire in colpa per qualsiasi cosa e, seppure entrambi fossero sempre stati chiari l’uno con l’altra, aveva l’impressione che Theresa non lo fosse mai stata fino in fondo. Era lei, piuttosto che Rebecca, quella che lo faceva sentire quasi fuori posto. A Samuel non sfuggiva il modo in cui lo fissava, di tanto in tanto, alzando gli occhi dalla scrivania. Cercava di non ricambiare i suoi sguardi, ma non sempre era possibile.
“Forse” rifletté, nel notare che quel giorno le occhiate erano più frequenti del solito, “Dovrei trovare qualcosa da dire.”
Per sua fortuna, prima che potesse peggiorare la situazione commettendo l’errore irreparabile di pronunciare le parole sbagliate, Anthony prese la parola.
«Ci ho pensato per ore. Ne sono sempre più convinto.»
A Samuel parve che Theresa sussultasse sulla sedia.
«Di cosa?»
La sua reazione non lo sorprese. Theresa era sempre tesa, negli ultimi tempi; in realtà lo era da settimane, ormai.
La risposta di Anthony non chiarì i suoi dubbi.
«Non è stata lei.»
«Di chi parli?» insisté Theresa. «Chi non ha fatto che cosa?»
Samuel si accorse che Anthony lo fissava.
«Tu hai capito, vero?» Si alzò in piedi. «Glielo puoi spiegare tu, per favore? Io ho bisogno di andare a prendere una boccata d’aria.»
In quel momento fu tutto chiaro.
Dopo che Anthony fu uscito, Samuel precisò: «È convinto che Kay non si sia suicidata, ma che qualcuno l’abbia uccisa.»
Theresa si alzò di scatto e si avvicinò alla sua scrivania.
«Tu, ovviamente, hai pensato bene di non fargli notare che farsi delle fantasie per accettare una realtà troppo dura da digerire non migliorerà la situazione.»
Samuel la guardò negli occhi.
«Cos’avrei dovuto fare?»
«Avresti dovuto fargli capire che non ha senso aggrapparsi a una verità che non esiste» rispose Theresa, secca. «Purtroppo Kay si è suicidata, non ci sono dubbi. Anthony dovrà farsene una ragione.»
«Quindi» dedusse Samuel, «Anche tu sei convinta che Kay - la nostra Kay, così piena di vita - volesse morire.»
«Non si sa mai cosa passi davvero per la testa alle altre persone» replicò Theresa. «Fatto sta che Kay si è avvelenata mentre era chiusa a chiave dall’interno dentro l’archivio, dopo che tutti erano già andati a casa, in quest’ala dell’edificio. Sapeva perfettamente di essere allergica a quei medicinali, eppure li aveva con sé e li ha presi. Nel resto della bottiglia, c'era soltanto aranciata. Realisticamente parlando, ci sono altre spiegazioni?»
Samuel non rispose.
Le considerazioni che Theresa gli aveva appena esposto erano del tutto simili a quelle che lui aveva già elencato a Rebecca la settimana precedente. Erano la realtà che tutti, tranne Anthony, sembravano avere accettato.
Perché l’assenza, sul computer di Kay, di materiale relativo al delitto Flint gli aveva fatto ipotizzare che ci fosse qualcosa di più?

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Capitolo 9
*** Veronica Freeman e il signor Carpenter ***


Al quarto piano non c’era più nessuno. Anche Rebecca Shepard, generalmente l’ultima persona che passava di lì dopo avere lasciato lo studio in cui si svolgeva la diretta, se n’era già andata.
Era passata circa un’ora dalla fine del programma, Veronica se ne rese conto guardando l’orologio che aveva al polso. Generalmente a quell’ora anche lei se n’era già andata da tempo, ma quella sera, in via del tutto straordinaria, era rimasta per non lasciare solo il direttore.
Veronica adorava guardarlo mentre era al lavoro, forse perché non accadeva troppo spesso di trascorrere con lui intere ore in ufficio. Inoltre il direttore in persona le aveva affidato dei compiti extra, di recente, ed era suo intento svolgerli al meglio.
Uno dei compiti straordinari di Veronica Freeman, appunto, era monitorare costantemente la situazione, limitatamente al quarto piano, il suo raggio d’azione. Come le aveva spiegato il suo principale era un’attività importante, era meglio non fidarsi troppo, dopo quello che era accaduto negli ultimi tempi, e soltanto allora, quando non c’era più nessuno da quelle parti, che potesse infastidire Carpenter, Veronica si era sentita libera di abbandonare lo stabile.
Stava percorrendo il corridoio quando notò qualcuno che sopraggiungeva, ancora a debita distanza. Veronica non avrebbe saputo dire se l’avesse riconosciuto prima dal modo di camminare o dal riflesso dorato dei suoi capelli, ma non aveva dubbi: quello era Samuel Jeffrey. Veronica lo trovava un tipo insignificante, ma ciononostante era parecchio informata su di lui: si vociferava che in più di un’occasione lui e quella donnetta dall’aria altrettanto insignificante, con gli occhiali sempre appesi al collo, che lavorava per tutto lo staff del programma di Kay - o meglio, di Rebecca, dato che la Brooks aveva deciso di mettere fine alla propria vita - fossero finiti nello stesso letto; un genere di dettaglio per cui le era difficile non provare interesse.
Passarono diverse decine di secondi prima che Samuel le passasse accanto e, quando ciò si verificò, Veronica si affrettò a salutarlo con la solita cortesia. Tutto sommato, si disse, non le sarebbe dispiaciuto ritrovarsi lei stessa al posto di quella donna insignificante: Samuel Jeffrey non era esattamente il suo uomo ideale, ma considerando che nella sua vita gli uomini scarseggiavano da anni, non le sarebbe dispiaciuto divertirsi un po’ con Samuel, che doveva essere venuto alla luce più o meno mentre lei terminava le scuole superiori.
«Salve Veronica» la salutò il giornalista. «Come mai ancora da queste parti? La sua famiglia non la sta aspettando?»
Evidentemente Samuel pensava che avesse qualcuno a casa ad aspettarla. Effettivamente Molti lo pensavano e Veronica stessa ci teneva a farsi chiamare signora Freeman, tanto che chiunque, a Radio Scarlet, si era convinto che fosse sposata.
«La mia famiglia può aspettare» confermò Veronica. Considerando che la sua cosiddetta famiglia erano due pesci rossi che nuotavano dentro una vaschetta di vetro non si sentì in colpa nel pronunciare una simile affermazione. «Lo sanno che sono una donna impegnata e che con il lavoro, a volte, ne ho fino a tardi. Lei, piuttosto, che cosa ci fa ancora qui?»
«Anch’io a volte ne ho fino a tardi, col lavoro» puntualizzò Samuel. «Perché lo trova tanto inconsueto?»
«È inconsueto incontrarla da queste parti» precisò Veronica. «A che cosa devo l’onore di qui al quarto piano?»
Le parve che Samuel non fosse molto soddisfatto, nel sentirsi rivolgere quella domanda.
“Deve pensare che io sia una gran ficcanaso.”
Non che a Veronica importasse molto il suo parere. Samuel era talmente insignificante che i suoi pregiudizi senza fondamento non avevano alcun senso per lei.
«Devo sbrigare un’ultima cosa prima di andarmene» le spiegò lui, a quel punto, rimanendo sul vago.
A Veronica non piacevano gli uomini che non venivano al sodo.
Si sentì estasiata, nel potersi permettere di commentare: «Dopotutto quella ragazza ossigenata, in apparenza, può sembrare più intrigante della sua assistente.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Come, prego?»
«Ho detto» ripeté Veronica, «Che l’ossigenata deve essere una preda perfetta, per lei. L’unica cosa che mi stupisce è che, quando tutti vanno a casa, vi incontriate qui al quarto piano. Non potreste semplicemente appartarvi in bagno, come fanno la Shepard e il ragazzo con la coda?»
Samuel osservò: «Vedo che è molto informata su quello che succede a Radio Scarlet.»
«Il mio compito» gli ricordò Veronica, «È vegliare su ciò che è di mia competenza.» Gli indicò lo spazio circostante. «Questa dovrebbe essere zona off-limits. Scusi la franchezza, ma mi sembra ridicolo che lei venga qui con la signorina Altman a...»
Per fortuna Samuel la interruppe prima che Veronica si sentisse costretta a utilizzare termini specifici per ciò che fino a quel momento aveva soltanto accennato.
«Punto primo: io e Penelope non ci appartiamo al quarto piano. Punto secondo: non ho mai avuto rapporti sessuali con una donna all’interno di questo edificio. Punto terzo: io e Penelope non abbiamo una relazione.» Samuel la guardò negli occhi. «So che per lei questa realtà può essere dura da accettare, ma le assicuro che è così.»
Veronica non gli credé. Anche se ammetteva di non avere fatto niente con Penelope Altman, all’interno dello stabile, senza dubbio non si poteva dire lo stesso di quell’altra: lui e Theresa rimanevano spesso da soli in ufficio, quindi non avevano nemmeno bisogno di salire negli ambienti vuoti del quarto piano.
“E poi c’era la Brooks.”
Veronica non fece allusioni a quella che doveva senz’altro essere stata l’amante di Samuel Jeffrey, ma fu soltanto per rispetto nei confronti della defunta.
Samuel, probabilmente messo in crisi dal suo silenzio, si sentì in obbligo di proseguire: «Deve avere travisato, signora Freeman. Non so chi le abbia riferito che io e Penny stiamo insieme, ma le assicuro...»
Veronica lo interruppe: «Va bene, va bene, non sono fatti miei. Mi scusi se sono stata invadente. In fondo quello che fa con l’ossigenata sono affari suoi.»
Samuel sospirò.
«Vedo che torniamo sempre sullo stesso punto.»
Veronica fece un lieve sorriso.
«E dove dovremmo mai andare, Samuel? Se ci tiene a mantenere segreti i dettagli della sua vita privata, dovrebbe almeno avere la decenza di renderli meno evidenti. È ormai risaputo che lei trascorra tutto il suo tempo libero in compagnia della signorina Altman. Quando c’è Michelle, non va mai alla reception.»
«Ha centrato il punto, signora Freeman: io mi trovo bene con Penny, mentre Michelle la conosco a malapena. Questo, però, non significa che io e lei abbiamo una relazione.»
Veronica annuì.
«Capisco. In effetti deve essere stato un duro colpo perdere...»
Si interruppe.
“Niente chiacchiere sulla Brooks.”
Non poteva contravvenire al proprio codice etico: non si parlava male dei morti. Non che ci fosse qualcosa di male nel portarsi a letto un giovane insignificante ma pur sempre piacente come Samuel Jeffrey, ma Kay Brooks era stata una donna sposata e, in quanto tale, avrebbe dovuto essere in grado di controllare i propri istinti.
Samuel la guardò, aggrottando la fronte.
«Continui.»
Veronica sorrise, sforzandosi di assumere un’aria innocente.
«Come dice?»
«Continui. Stava accennando a una perdita.»
Veronica fu sorpresa dalla propria brillantezza nell’uscire da ogni impiccio.
«Mi riferivo alla povera Kay» ammise. «So che la considerava una cara amica. È sconvolto, quindi è normale che non faccia molta attenzione a come si comporta con le sue... mhm... come posso dire? amanti, forse è il termine migliore.»
«A-amanti?» ripeté Samuel.
«Sì, certo: Penelope e Theresa.» Veronica si rendeva conto che correva di passare per impicciona, e non aveva mai avuto quell’obiettivo, ma almeno non aveva accennato a un’ipotetica relazione tra lui e Kay Brooks. «A proposito, se permette un consiglio, cerchi di fare attenzione: alle donne non piace essere messe da parte, quindi non si esponga troppo, con Penelope, perché Theresa potrebbe non gradire affatto.»
«Per quanto le abbia già spiegato che non ho una relazione con Penny» replicò Samuel, «Cercherò di tenere in mente i suoi suggerimenti.»
«Perfetto.»
Samuel non disse nulla. Dato che rimaneva in silenzio, Veronica si sentì autorizzata a proseguire: «Non mi piace affatto l’impronta che la Shepard sta dando alla trasmissione. Tra l’altro la trovo una speaker insopportabile. Prevedo che ben presto gli ascolti coleranno a picco.»
«Purtroppo non è la sola pensarlo, anche se io sono convinto che Rebecca sia comunque una professionista di talento. A parte un po’ di divergenze a proposito dell’impostazione del programma, non la trovo poi così male.»
Veronica scosse la testa.
«Lasci che glielo dica: secondo me quella donna è un’incapace. Purtroppo il signor Carpenter non ha sempre molto acume nel scegliere il personale.»
«Rebecca c’è e ci tocca sopportarla.» Samuel rise. «In ogni caso le assicuro che, anche se sono sicuro che tra dodici ore saremo in ufficio a litigare sulla scaletta della trasmissione di domani sera, non è così terribile come potrebbe apparire a chi non ha a che fare con lei tutto il giorno.»
Veronica decise di lasciar perdere la propria invettiva.
«Ora mi scusi, ma Mike e Pat mi stanno aspettando a casa.» Sorrise come una donna che aveva appena pronunciato il nome del marito e quello del figlio, nonostante in realtà Mike e Pat fossero soltanto i suoi due pesci. «È proprio il caso che io me ne vada.» Gli puntò gli occhi addosso. «Scende con me? Ormai qui non c’è più nessuno, a parte Carpenter.»
«Infatti sono venuto qui per lui» chiarì Samuel. «Come le avevo già detto, non ho uso questi ambienti per i miei incontri amorosi.»
Veronica si irrigidì.
«Vuole incontrare il signor Carpenter, ha detto?»
«Proprio così.»
«Non ce n’è bisogno. Può dire a me.»
Samuel scosse la testa con fermezza.
«No, signora Freeman. Ho bisogno di parlare a tu per tu con il signor Carpenter. Non posso dire a lei, non sarebbe la stessa cosa.»

Samuel non riusciva a liberarsi della brutta sensazione che aveva addosso. Aveva l’impressione che la Freeman, invece di scendere, uscire dallo stabile e avviarsi verso la fermata del tram, come faceva ogni sera, fosse in qualche modo riuscita a seguirlo senza dare nell’occhio, per fermarsi a origliare dietro alla porta dell’ufficio di Carpenter.
Cercò di scacciare quell’assurda sensazione, mentre il direttore lo fissava con aria interrogativa, invitandolo a sedersi di fronte a lui.
Samuel prese posto, rimanendo ancora in silenzio.
«Allora?» lo esortò Carpenter. «Per caso è qui per lamentarsi di Rebecca? È convinto che non sia la persona migliore per la conduzione del programma della povera Kay?»
«No.»
«Eppure è venuto da me, a quest’ora, per giunta.»
Samuel annuì.
«Lo so, l’orario non è dei migliori.»
«Vedo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Stavo giusto pensando di andarmene a casa quando è arrivato lei a bussare alla mia porta.» Carpenter continuava a fissarlo. «Mi permetta di esserne alquanto infastidito.»
«Non volevo recarle disturbo» obiettò Samuel. «Se sono salito soltanto a quest’ora, è perché preferivo che non ci fosse nessuno ad ascoltarci.»
Carpenter puntualizzò: «La mia segretaria è una persona fidata.»
«Anche mia madre è una persona fidata» replicò Samuel, «Ma penso che le scoccerebbe se me la portassi al seguito.»
Carpenter accennò un lieve sorriso.
«La sua filosofia di vita è molto interessante, Jeffrey, ma temo di non avere tempo da perdere. Come le ho già detto...»
Samuel non gli diede il tempo di finire.
«Se ne stava andando, lo so.»
«Ed è quello che farò» puntualizzò il direttore, «Se non viene al dunque. C’è qualcosa di così importante da non poter rimandare a domani? E soprattutto, c’è qualcosa di così interessante di cui non poter parlare di fronte a Veronica?»
Samuel decise di rompere gli indugi e di andare dritto al punto.
«Vorrei parlarle di Kay Brooks.»
«Kay Brooks» mormorò Carpenter, quasi soprappensiero. «La sua perdita ci segnerà per molto tempo, lo sappiamo tutti. È anche vero, però, che dobbiamo sforzarci di andare avanti. So che Kay era una sua amica e, senz’altro, sentirà profondamente la sua mancanza. Questo, però, non dovrebbe influenzare la sua opinione nei confronti di Rebecca.»
«Infatti non sto giudicando Rebecca basandomi su quello che faceva Kay» obiettò Samuel. «Anzi, non ho affatto parlato di Rebecca. Non mi interessa parlare di lei, stasera.»
«Dunque» dedusse Carpenter, «Tutto ciò che le interessa è Kay. La capisco, Jeffrey. Certo, io non sarei altrettanto ossessionato da una donna che non c’è più, se fossi al posto suo, ma tutto sommato mi posso sforzare di...»
«Scusi se la interrompo, ma non vedo niente di ossessivo nel mio comportamento. Non mi ha ancora lasciato il tempo di spiegarle perché sono qui. Quello che vorrei chiederle è che cosa ne pensa di Kay. Era...» Samuel esitò. «Lo so, può pensare che sia strano che io lo domandi proprio a lei...» Iniziava a credere di avere avuto una pessima idea, ma doveva assolutamente andare avanti. «Io e Kay eravamo amici, lo sa. Non ho mai notato niente di insolito in lei, negli ultimi tempi. Non avrei mai potuto immaginare che potesse anche solo prendere in considerazione l’idea di togliersi la vita.»
«Invece l’ha fatto.»
«Sì, e...»
«L’ha fatto» ribadì Carpenter, «Nel peggiore dei modi. Avrebbe potuto scegliere un luogo diverso, invece ha preferito infangare il nome di Radio Scarlet andando a chiudersi in archivio e facendosi trovare morta con ancora in mano l’involucro delle tre pillole effervescenti che ha deciso di ingerire e con un bicchiere di plastica con tracce d’aranciata e di farmaci davanti a sé. Adesso la mia radio viene bollata come un luogo in cui i dipendenti subiscono uno stress psicologico tale da spingerli a commettere gesti estremi.»
«Obiettivamente parlando, non mi pare che Radio Scarlet abbia questa reputazione» replicò Samuel. «Certo, molte persone sono rimaste sconvolte dal suicidio di Kay, sia dentro sia fuori di qui, ma non sono convinto che qualcuno possa pensare...» Non concluse la frase; Carpenter aveva capito. «Tornando a noi, la mia conoscenza di Kay, dal punto di vista personale, non mi avrebbe mai portato a ipotizzare che stesse progettando di suicidarsi. Sono qui per chiedere a lei se, dal punto di vista professionale, le ha mai dato l’idea di essere infelice.»
Carpenter spalancò gli occhi.
«Lo chiede a me?!»
«Beh, sì...»
«È assurdo» sbottò Carpenter, alzandosi in piedi. «Lasci che glielo dica, Jeffrey: mi ha già fatto perdere abbastanza tempo. Non...»
«Lo so, è più scontato pensare che ne parlasse con suo marito o con me, se era insoddisfatta, ma sa com’era fatta Kay: quando c’erano problemi sul lavoro, cercava di non scaricarli mai su di noi. È molto più probabile che, se ci fosse qualcosa che non andava...»
«Non c’era niente che non andava» tagliò corto Carpenter. «Kay era soddisfatta del proprio lavoro e, dal mio punto di vista, le lasciavo la massima libertà di espressione perché credevo nelle sue capacità. Seppure fossi il primo a non approvare fino in fondo i contenuti della sua trasmissione, perché talvolta rivangava storie passate che non interessavano a nessuno, non ho mai cercato di tarparle le ali; questo deve riconoscerlo.»
«Lo riconosco, infatti.»
«Bene, Jeffrey. Allora direi che abbiamo finito.»
Fece per avviarsi verso la porta, ma Samuel lo trattenne.
«Posso farle un'altra domanda?»
Carpenter rise.
«Desisterebbe, se le dicessi di no?»
Samuel avvampò, alzandosi in piedi.
«Mi ha preso proprio per uno scocciatore!»
«Lei non si sta certo impegnando per farmi pensare il contrario.»
Samuel fu costretto ad ammettere che aveva ragione, dopodiché gli chiese: «Tra i contenuti che, per sua ammissione, non approvava fino in fondo, per caso c’era il delitto Flint?»
Carpenter rimase in silenzio per qualche istante, con una mano ferma sulla maniglia della porta. Samuel ebbe l’impressione di averlo spiazzato.
Il direttore recuperò comunque, in breve tempo, la consueta naturalezza.
«Il delitto Flint? Perché mai?»
«Può essere definito come una storia passata.»
Carpenter annuì.
«Tutto sommato ha ragione. Suppongo anche che agli ascoltatori non interessasse molto. È una storia di dieci anni fa, vero?»
«Un po’ meno.»
«Roba vecchia, comunque.»
«Su questo posso essere d’accordo.»
«Allora, come vede, non c’era motivo per concentrarsi più di tanto sull’argomento» concluse Carpenter. «Non so perché Kay si fosse messa in testa che il pubblico potesse essere tanto interessato a quella vecchia storia.»
Samuel lo fissò.
«Non era questo il suo scopo.»
«Qual era, allora?»
«Credo che Kay ci tenesse davvero a far luce sulle vicende di quella poveretta. Non era convinta che si trattasse di una semplice rapina. Era il senso di giustizia a guidarla.»
«Povera Kay» mormorò Carpenter. «Era una brava donna, ma ogni tanto perdeva il proprio tempo a costruire castelli in aria. Ricordo poco il caso Flint, ma si trattava senza ombra di dubbio di una rapina.»
«Come fa ad esserne così sicuro?»
«Vengono commessi ogni giorno tanti delitti simili.»
Samuel sospirò.
«Devo ammettere che, da questo punto di vista, ha ragione.»
«Allora non c’è più niente di cui dobbiamo parlare» ribatté il direttore, «Il che è molto positivo, perché stasera ho da fare. Se volesse seguirmi...»
Samuel si affrettò a raggiungerlo. Era chiaro che, per andarsene, Carpenter aspettava che anche lui facesse la stessa cosa.
Uscirono e il direttore prese fuori, da una tasca della giacca, la chiave della porta, che fece scattare due volte nella toppa.
Si diressero in silenzio verso le scale.
Soltanto prima di svoltare in direzione dell’ascensore Carpenter si fermò un istante.
«Permette un consiglio, Jeffrey?»
«Sì, certo.» Samuel si preparò al peggio. «Mi dica.»
«So che le piaceva Kay Brooks.»
Samuel abbassò lo sguardo.
“Il peggio è arrivato.”
Carpenter lo esortò: «Non si nasconda. Tutti, alla radio, lo sapevano.»
«Ci tengo a precisare» ribadì Samuel, «Che io e Kay eravamo soltanto amici.»
«A volte le apparenze ingannano» ammise Carpenter, «Ma ho l’impressione che non sia questo il caso. Penso di poter comprendere: Kay era una donna bella e famosa; doveva apparirle molto desiderabile.»
Samuel alzò gli occhi, ma si sforzò di evitare il suo sguardo.
«Dove vuole arrivare?»
«Non voglio arrivare da nessuna parte. Vorrei soltanto che lei capisse che è meglio per tutti non parlare più di lei.»
«Che cosa?!» Samuel scosse la testa. «Mi sta dicendo che dovremmo dimenticarci di lei? Che dovremmo fingere che non sia mai esistita?»
Carpenter sentenziò: «È la soluzione più facile per chi, come lei, ha troppe cose da nascondere. Non so se abbia avuto o meno una relazione con Kay e nemmeno mi interessa...»
Samuel lo interruppe: «In tutta sincerità, dubito che la cosa non le interessi, così come dubito che non interessi a tutta la gente che lavora qui dentro. Purtroppo, fin dal primo giorno, non ho fatto altro che sentire pettegolezzi su di noi.»
«Si immagina a che livello potrebbero arrivare adesso? C’è già chi racconta che Kay era insoddisfatta dalla propria vita sentimentale.»
«E quindi?»
«E quindi agli occhi dei più il responsabile è lei. So che può essere spiacevole, ma questo è quanto si racconta a Radio Scarlet.» Avanzò di pochi passi e premette il pulsante per chiamare l’ascensore. «Viene anche lei?» chiese, quando le porte si aprirono.
«No» rispose Samuel. «Preferisco scendere le scale.»
«Come vuole.»
Carpenter sparì all’interno dell’ascensore, mentre Samuel si appoggiava alla parete. Qualcosa lo portava a pensare che sarebbero seguiti molti giorni infernali.

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Capitolo 10
*** La videocassetta ***


Suzanne non c’era, per qualche ora non sarebbe tornata e, anche se in realtà non era affatto lontana, non avrebbe controllato le sue mosse.
John si affrettò a cercare la videocassetta. Suzanne non gradiva che lui vi perdesse troppo tempo, lo aveva esortato a dimenticare l’accaduto, dopotutto si era trattato di un caso se... John cercò di ricacciare indietro quel triste pensiero. Qualcosa, dentro di lui, lo invitava a tenere gli occhi aperti: non si trattava di un caso, non poteva trattarsi di un caso. Doveva guardare quello strano filmato ancora una volta, scoprire che cosa gli fosse sfuggito fino a quel momento.
Non sapeva nemmeno perché l’avesse conservato. Probabilmente perché quindici anni prima gli era sembrato un ricordo o forse perché non voleva dimenticarsi di quella ragazza che compariva insieme a lui in una delle ultime scene, quella che gli diceva: «ehi, cretino, quella telecamera l’hai lasciata accesa». Dentro di sé, quindici anni prima sentiva già che, presto o tardi, l’avrebbe persa, era scritto nel destino, se mai ne esisteva uno, e se il destino non esisteva, allora significava che a quella ragazza non piaceva la vita che stava vivendo. Era andata proprio così, dato che, dopo averlo lasciato, era sparita per sempre non solo dalla sua vita ma anche da quella di tutti i suoi conoscenti. Si era costruita da sola la propria strada e, se solo avessero saputo dov’era finita, ne sarebbero stati spiazzati, uno dopo l’altro.
Era una storia sepolta da tempo, quella tra John e la donna dalla doppia identità; si erano lasciati da tanti anni e in quegli anni la sua vita aveva subito un radicale cambiamento. Per prima cosa era arrivata Suzanne, la ragazza che mai aveva notato e che gli era sempre sembrata insignificante. Ciò che era più curioso, che lo fece sorridere nel ripensarci, era che all’epoca non vi era nessuno che ritenesse Suzanne una ragazza insignificante: complici la sua incredibile cordialità, anche con gli scocciatori, e le sue forme ben pronunciate nei punti giusti, aveva sempre avuto fin troppi corteggiatori, che era solita rifiutare.
Quando avevano iniziato a interagire, Suzanne aveva avuto un grande potere su di lui fin dall’inizio, anche se prima, quando la conosceva di vista, non aveva mai fatto seriamente caso a lei. La realtà era che Suzanne gli aveva messo gli occhi addosso già da tempo, come aveva avuto modo di scoprire, e che l’unica ragione per cui non si era mai fatta avanti con lui in precedenza era stata proprio quella relazione tristemente fallita.
Per molti anni la donna dalla doppia identità era stata una figura senza nome, sepolta in un passato che non sarebbe più tornato. Una volta firmate le carte che avevano messo fine al loro insensato matrimonio, celebrato quando erano appena ventenni, non si erano più visti.
Non era stata una fine disastrosa, di quelle che lasciavano spiazzati. Era arrivato l’incontro “fatale” con Suzanne, quella Suzanne che non aveva l’aria né da donna irresistibile né da diva del cinema, ma che era riuscita a stregarlo come nessuna aveva mai fatto prima. Sebbene John avesse promesso a se stesso di non commettere mai più l’errore di sposarsi di nuovo, era proprio quello che aveva fatto e ne era felice.
Ritrovato il VHS: ritrovato il VHS, John lo inserì nel videoregistratore e accese il televisore. Il filmato era iniziato da qualche istante quando riconobbe se stesso, anche se decisamente più giovane, mentre usciva da quella sorta di magazzino.
Aveva appoggiato la telecamera sopra uno scaffale, accendendola inavvertitamente, poi era corso fuori dal magazzino per andare a raggiungere la sua lei. Il magazzino era quello in cui lui e quella ragazza si erano intrattenuti per tutto il pomeriggio, ricordò, naturalmente con la telecamera spenta, con quella avevano soltanto girato un breve filmato in cui ridevano sguaiatamente dicendo assurdità senza limiti, ma qualche giorno prima; filmato che era finito su un altro VHS, probabilmente conservato a casa dei genitori di John, mentre notava quanto poco interessato al risparmio energetico fosse all’epoca: vide infatti se stesso uscire senza nemmeno spegnere la luce elettrica. Non gli sovvenne la ragione per cui avesse lasciato la telecamera proprio in quel luogo, probabilmente aveva semplicemente pensato che lì dentro non sarebbe entrato nessuno.
Mentre la registrazione scorreva, John notò per l’ennesima volta che nessuno era effettivamente entrato per un certo periodo di tempo. Anziché far scorrere quella parte con l’avanzamento rapido del nastro, però, lo guardò interamente, cercando di notare qualche particolare che gli fosse sfuggito. Il tentativo, naturalmente, fallì: non vi era assolutamente niente di particolare da vedere, furono semplicemente ventidue minuti interminabili, prima che la porta venisse aperta lentamente, per lasciar entrare una donna, nel suo abito da lavoro, con i capelli castani raccolti in una sorta di chignon.
La nuova arrivata richiuse la porta alle proprie spalle e, senza rendersene conto, lanciò una lunga occhiata in direzione della telecamera. Il suo sguardo appariva provato, la sua stessa espressione scoraggiata sembrava in grado di possederla; si appoggiò poi al muro, mentre John, guardandola attraverso lo schermo, si interrogava sul suo destino.
Marissa Flint era stata assassinata alcuni anni più tardi durante un tentativo di rapina. Per un attimo John si chiese se fosse mai stata tormentata da quello che era successo.
La donna in uniforme da lavoro fu l’unica protagonista del filmato per una buona decina di minuti, fino al momento in cui la porta si spalancò.
«Ecco dove ti eri cacciata!» strepitò una voce maschile.
Il nuovo arrivato doveva avere più o meno la stessa età di Marissa: sui quarant’anni o giù di lì.
Il co-protagonista del filmato sembrava carico di indignazione e di risentimento. La prima volta in cui aveva visto quel video, John era stato seriamente preoccupato per quello che avrebbe potuto fare o dire.
Udendo il telefono squillare, John cercò il telecomando e, una volta premuto il pulsante “pause”, uscì dal soggiorno e si diresse verso il telefono.
Alzò il ricevitore.
«John?» gli domandò una subdola voce, probabilmente contraffatta per non essere riconosciuta.
Era stata una donna a parlare, una donna che, John non ne capiva il motivo, gli dava l’idea di potere ipnotizzare qualunque uomo le capitasse a tiro; una di quelle donne che potevano stregare, ma non nel modo innocente in cui Suzanne l’aveva fatto con lui. La sua interlocutrice telefonica doveva essere una seduttrice professionista, una di quelle che sceglievano di ammaliare gli uomini per diletto o per scommessa, per prosciugare la loro linfa vitale.
«Sì, sono io» riuscì a rispondere, non senza fatica e udendo la propria voce tremare.
Uno strano presagio lo invase. Chi era la donna con cui stava parlando?
«Lo sapevo» mormorò lei. «Sapevo che mi avresti risposto.»
«Chi parla?» chiese John, tentando di mantenere saldo il proprio autocontrollo. Il risultato era in ogni caso abbastanza scarso e il terrore di cadere nella rete della sua interlocutrice era alto. Lei era sicuramente certa di averlo in proprio potere, ormai, doveva avere fatto lo stesso giochetto con decine di uomini e quello che John non capiva era che cosa desiderasse da lui: una del genere se la immaginava ad arpionare uomini ricchi per prosciugare il loro patrimonio.
“Anzi, no, non deve essere nemmeno una di quelle che si accontentano di fare le mantenute. Il suo desiderio deve essere quello di distruggere.”
«Tu non mi conosci» fu la risposta di lei. «Non mi hai mai conosciuta e mai mi conoscerai. Non avrai mai la possibilità di baciare le mie labbra di velluto.»
“Riattacca” tentò di ordinare John a se stesso. “Maledizione, che diamine ci fai ancora attaccato al telefono?”
Fu tutto inutile, naturalmente. Come il ferro è attratto da una calamita, lui era attratto da quella voce, una voce che giungeva diversa da com’era in realtà e che, in qualche modo, gli ricordava il ruggito di una pantera, una subdola pantera in grado di affascinare chiunque incrociasse il suo sguardo.
«Perché dovrei baciarti?» le chiese.
“Sono un vero coglione” pensò, in contemporanea. “Perché non capisco che devo mettere giù la cornetta e basta?”
«Tutti gli uomini che ho incontrato hanno sempre voluto baciarmi.»
John era certo che molti ci fossero riusciti e che poi ne fossero usciti distrutti. Era un bene che quella donna avesse con lui soltanto un contatto telefonico.
«Ti faccio i miei complimenti, allora. Quello che non capisco è perché mi hai telefonato e che cosa vuoi da me.»
«Volevo soltanto alleviare le tue sofferenze» rispose lei. «Mi pare di capire che ti struggi per un dubbio interiore. Una ragazza del passato...»
La donna si interruppe.
«Di che parli?» domandò John. «Non ci sono ragazze del passato che mi tormentano, come dici tu, e nemmeno dubbi interiori.»
«Sarà come dici tu, però mi sento davvero ben disposta nei tuoi confronti...» Si interruppe per un attimo, mentre John si sentiva sempre più in suo potere. «Vedi, John, non sono poi così sicura di non volerti baciare. Che ne dici di venire a sperimentare le mie labbra di velluto?»
John fu costretto a un notevole sforzo per riuscire a darle la risposta più opportuna.
«Non vado a caccia d’avventure e non m’interessano le tue labbra di velluto, come dici tu.»
«Non ti interessa nemmeno il sole di gennaio?» chiese la donna. «Nemmeno il sole di gennaio che, con i suoi raggi, riesce ad assorbire quel passato che pensavi non si sarebbe mai lasciato bruciare e che avrebbe continuato a tormentarti?»
«Non riesco a capire il senso di quello che mi stai dicendo.»
«Credimi, John, se tu potessi davvero capirlo, non lo direi. Io sono un enigma, un enigma che però puoi risolvere. Troviamoci domani, alle diciotto e trenta, al...»
John riattaccò di scatto: se avesse saputo in che luogo quella donna l’avrebbe aspettato non sarebbe riuscito a sconfiggere la tentazione di andare da lei, anche soltanto per vederla dal vivo, e non doveva permettersi che accadesse.
Nei minuti successivi, la videocassetta riuscì a distrarre John dal pensiero della telefonata. Guardò con un’attenzione insuperabile le scene della lite tra quella donna e quell’uomo, ascoltò le loro parole senza lasciarsene sfuggire nemmeno una, convinto che tra loro si celasse un significato che non aveva colto. Il risultato fu il nulla, o almeno nulla che andasse oltre le vicende personali, vicende personali peraltro abbastanza contorte, con lui che la accusava di avergli fatto perdere le sue tracce tanti anni prima “gettando al vento tutti i loro sogni di un futuro insieme”, niente che non avesse mai notato, se non che ormai non gli faceva più né caldo né freddo l’impicciarsi in una storia che non l’aveva mai riguardata.
Dopo un’innumerevole serie di insulti, nonché varie minacce che lui rivolse non a Marissa, ma a qualcuno che non era lì presente, John lo vide andarsene sbattendo la porta. La donna, invece, rimase lì, prendendosi la testa tra le mani, si appoggiò poi di nuovo al muro, rimanendovi per quello che a primo impatto poteva sembrare un tempo decisamente lungo, ma che in realtà era quantificabile in poco più di otto minuti, come testimoniava la scritta luminosa che sul display del videoregistratore quantificava i minuti che scorrevano con lo scorrere della cassetta.
Marissa se ne andò, lasciando ancora la luce accesa, e seguì il niente più assoluto per almeno mezz’ora, durante i quali John fu più volte sul punto di deconcentrarsi e di tornare a pensare alla telefonata.
La concentrazione tornò in quello che era sempre stato, per lui, il momento più incomprensibile. La porta si spalancò di scatto, la donna veniva spinta all’interno da un uomo, non quello con cui aveva litigato poco prima, ma un altro uomo che finiva per voltare le spalle alla telecamera. Marissa urlava; urlava come non mai.
«Che cos’hai fatto, maledetto bastardo? Non riesco a credere che...»
L’uomo le mise con forza una mano davanti alla bocca.
«Stai zitta» la pregò. «Non accadrà nulla. Fidati di me, nessuno scoprirà niente, se tu mi aiuterai. Possiamo risolvere tutto.»
Tolse la propria mano dal volto di lei.
«Aiutarti?!» replicò io. «Io dovrei aiutarti?! Dopo quello che hai fatto...»
«Non ti preoccupare. Quello che conta è che tu vada a pulire tutto quanto, al lavoro sporco ci penso io. Andrà tutto bene, credimi.»
«Francamente non ho motivi per farlo.»
L’uomo rise.
Era una risata quasi diabolica, la sua.
“O forse è suggestione” si disse John.
«Ma come?» le chiese, con tono sarcastico. «Tu ne hai tanti di motivi per assecondarmi, mia cara. Tu sei l’unica che sa, e non vuoi che si sappia...»
«Questo lo dici tu» urlò Marissa, con coinvolgimento. Abbassò immediatamente la voce, però, nel proseguire. «La verità è che non meriti nulla da me, Albert. Tu hai distrutto la mia vita...»
«Te l’avrò anche distrutta, come ti piace credere, ma sei ancora qui e sei viva. Perché tu ci tieni a vivere, vero? Ci tieni a vedere tua figlia diventare una donna migliore di te?»
Marissa rimase in silenzio.
Indietreggiò di alcuni passi.
«Dove pensi di scappare, eh?» ribatté Albert. «Sei in trappola, mia cara. Ci sei dentro fino al collo e, se vuoi uscirne senza farti troppo male, devi fare quello che ti dico.»
«Altrimenti che cosa fai?»
«E me lo chiedi anche? Non lo sai che, dopo avere ucciso la prima volta, tutto è mille volte più facile?»
Marissa replicò, con rabbia: «Tu che cosa ne sai? Ne hai uccisi altri, prima di...?»
S’interruppe.
«No, mia cara, ma non esiterei a farlo di nuovo, se fosse necessario» le assicurò Albert. «Che cosa ne dici, adesso vuoi seguirmi?»
«Per aiutarti a sbarazzarti di Phil?»
John raggelò.
Phil.
Quel nome gli ricordava qualcuno.
L’uomo non rispose alle accuse di Marissa. Si girò di scatto e, per un istante, il suo volto fu ben visibile.
John spalancò gli occhi.
«Oh, mio Dio, non è possibile! Non può essere...»
Riavvolse il nastro di qualche decina di secondi, tornando a visualizzare quella sequenza. Non vi aveva mai fatto caso, ma quello sconosciuto era proprio... Scosse la testa, non voleva nemmeno pensarci.
John aveva ancora gli occhi strabuzzati, mentre terminava di vedere il video, in cui i due uscirono dal magazzino subito dopo, diretti chissà dove, forse a cancellare prove, rispettivamente a “pulire tutto quanto” e a dedicarsi “al lavoro sporco”.
L’attesa fu lunga, poi la porta del magazzino si aprì di nuovo. Dovevano essere passati poco più di venti minuti dagli ultimi fatti “di rilievo”, forse mezz’ora; John aveva perso di vista il timer già da un po’. Rivide lei, la ragazza dalla doppia identità, con cui quindici anni prima pensava che avrebbe condiviso il futuro, prima di scoprire che avrebbe optato per assecondare l’altra se stessa.
La sua voce risuonò.
«John, perché diamine hai lasciato la telecamera là sopra?»
La rivide andare verso di essa senza lasciargli il tempo di rispondere.
«Ehi, cretino, quella telecamera l’hai lasciata accesa! Ora che sarai vecchio, secondo me, non ti ricorderai più nemmeno come si fa a parlare!»
«Tranquilla, ora la spengo, non ci vedo nulla di male nel registrare il nulla per un paio d’ore.»
John rise.
Il nulla.
“Come se avessi davvero registrato il nulla.”
Premette “rewind” per far riavvolgere il nastro, poi si diresse verso il telefono.

Lo squillo fece sussultare Suzanne.
Sollevò il ricevitore.
«Locanda delle Rose, buonasera.»
«Suzy, sono io.» Era suo marito, e parlava con una voce più sfuggente del solito. «È successa una cosa...»
«Sto lavorando, John» gli ricordò Suzanne. «Non ho tempo da perdere con le tue questioni di poco conto.»
Si sorprese della propria reazione.
“Questione di poco conto?” realizzò. “Potrebbe essere importante, se John ha deciso di disturbarmi al lavoro.”
Lui parve non fare caso al tono scortese con cui gli si era rivolta.
«Si tratta del video.»
Suzanne sbuffò.
«Ancora quel dannato video?! Ormai non ce ne facciamo più niente, John: l’unica persona che lo cercava ha pensato bene di suicidarsi, quindi non abbiamo più la possibilità di guadagnarci dei soldi.»
«In quel video due persone parlano di un potenziale omicidio commesso da uno di loro» le ricordò suo marito. «Ti sembra una questione da ignorare?»
«L’hai fatto per quindici anni.»
«Non è una buona ragione per...»
«Sì, è una buona ragione, invece» replicò Suzanne. «Quella giornalista della radio ha fatto una brutta fine. Vuoi diventare anche tu ossessionato da questa storia? Vuoi ammazzarti come ha fatto lei, gettando al vento tutto il tuo futuro? Se tu non avessi fatto di testa tua, a quest’ora le avremmo venduto il video, avremmo guadagnato un po’ di soldi e...»
«Suzanne, l’ho rivisto» la informò John. «Ho riconosciuto quell’uomo. Adesso so cosa voleva fare Kay.»
Suzanne indietreggiò di qualche passo, per potersi appoggiare alla parete. Per fortuna il filo del ricevitore era lungo abbastanza.
«Mi sono rotta le palle di questa storia. Non puoi semplicemente fregartene?»
«Lo vorrei.»
«E allora limitati a farlo» gli suggerì Suzanne. «Che cosa c’entriamo noi? Tra l’altro stiamo parlando della madre della tua ex moglie! Vuoi che nasca uno scandalo e che la povera signora Flint venga considerata complice di un assassino?»
«Non è quello che voglio» chiarì John. «Ho solo l’impressione che...»
Si interruppe.
Suzanne lo esortò: «Hai l’impressione che...?»
«Niente, lascia stare» replicò John. «Scusami se ti ho disturbata.»
Riattaccò e Suzanne sospirò di sollievo.

John rimase a lungo a fissare il telefono. Non si era aspettato che Suzanne fosse più collaborativa del solito, ma credeva che provasse almeno un po’ d’interesse per i nuovi sviluppi di cui era venuto al corrente.
“Invece non gliene importa nulla.”
Suzanne continuava a vivere in un mondo dorato dal quale non si sarebbe mai allontanata fino in fondo, poco importava che fosse stato commesso un delitto e che in giro ci fosse un criminale in libertà.
“O forse due.”
Marissa Flint era stata assassinata durante un tentativo di rapina; o almeno quella era la versione dei fatti ufficiale. Era andata davvero così?
“O forse tre.”
C’era anche Kay, che si era suicidata, ma ancora una volta John aveva molti dubbi in proposito e non si sarebbe sorpreso se, prima o poi, fosse emersa una realtà diversa, anche se, per il momento, dalle notizie che erano filtrate sui mass media, tutto sembrava portare verso una soluzione fin troppo precisa.
C’era la questione del bicchiere: era di plastica, proveniva da una confezione che lo staff teneva nell’archivio, in caso di necessità e nessuno poteva prevedere che fosse proprio lei a prenderne uno; di conseguenza si trattava di un innocente recipiente usa e getta.
C’era la questione delle pillole: l’autopsia aveva confermato che era stato proprio quel farmaco a causare la morte di Kay Brooks; doveva essere stata proprio lei a sciogliere le pillole nella bibita, vista l’imprevedibilità che fosse proprio quello il bicchiere prescelto.
C’era la questione del loro involucro: al momento della morte, Kay su una sedia, con il busto e le braccia appoggiati al tavolo che aveva davanti; il bicchiere era rovesciato, con ancora qualche traccia del suo contenuto, accanto alla mano destra, l’involucro delle pillole, invece, era al di sotto della sua mano sinistra, come se l’avesse stretto in punto di morte, per poi rilasciarlo quando il corpo si era irrigidito.
Infine c’era la questione della porta: era chiusa a chiave dall’interno e, a quanto pareva, era storta nella toppa, il che avrebbe impossibile l’ingresso anche a chi ne avesse avuto un’eventuale copia, e a quanto pareva era la sola via d’accesso alla stanza in cui il corpo della giornalista era stato rinvenuto.
John si allontanò dal telefono e tornò in soggiorno, interrogandosi sul da farsi. Non si aspettava di trovare una risposta. Ci sarebbe stato tempo, anche se ormai non era più tanto sicuro che non ci fosse fretta di risolvere quella situazione, che lo riguardava molto più da vicino di quanto avrebbe potuto desiderare.

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Capitolo 11
*** La pantera ***


Anthony stava fissando la schermata verde di Wordpower già da qualche minuto, continuano a interrogarsi sui dubbi interiori che lo attanagliavano ormai da giorni.
Samuel si avvicinò.
«Non vai a pranzo, oggi?»
Anthony si girò a guardarlo.
«Non ho fame.»
«Allora vai a fare un giro, almeno» gli suggerì Samuel. «Non puoi trascorrere tutto il giorno chiuso qui dentro.»
Anthony sbuffò.
«Smettila di dirmi quello che posso e non posso fare. Non sono un bambino. Riesco a cavarmela da solo anche se...» Si interruppe, esitante. «...Anche se non ho più una moglie che si occupi di me. Ora, per cortesia, lasciami solo.»
Senza aggiungere nulla, Samuel si avviò verso la porta.
Non uscì.
Si fermò e poi tornò indietro.
«Dobbiamo parlare.»
Anthony si alzò in piedi.
«Di che cosa?»
«Di quello che è successo.» Samuel gli indicò il monitor del computer di Kay. «Non fraintendermi, non me ne frega niente del colore che ha messo su Wordpower e del perché l’ha fatto, ma credo che tu abbia ragione.»
Anthony non capì.
«Su cosa?»
«Ci ho pensato» ribadì Samuel, «E mi sono detto che il giorno in cui è morta sono successe troppe cose strane.»
Anthony aggrottò le sopracciglia.
«Cose... strane?»
Samuel annuì.
«Certo. Quella donna che è venuta qui, facendoti credere di essere la figlia di Marissa Flint...»
Anthony avvampò.
«Dobbiamo proprio parlarne?» Si sedette sul bordo della scrivania. «Mi ha dato un appuntamento a cui non si è mai presentata e...»
Samuel lo interruppe: «Appunto per questo ho iniziato a sentire puzza di bruciato. Non ne abbiamo più parlato, dopo la morte di Kay, ma secondo me dovremmo chiedercelo: chi era quella donna e che cosa voleva da te?»
«Probabilmente era una di quelle ascoltatrici fanatiche che vedono i giornalisti della radio come degli idoli» ipotizzò Anthony. «Voleva incontrarmi e l’ha fatto, inventandosi una storia che non stava né in cielo né in terra.»
«Ma deve essere entrata, in qualche modo.»
«Non è così difficile passare dalla reception.»
«Qualcuno l’ha vista?»
Anthony fu costretto ad ammettere che non ne aveva idea. Non aveva parlato della bella sconosciuta con le receptionist e non aveva intenzione di farlo.
«Inoltre» puntualizzò, «È abbastanza facile entrare anche dal retro. Anzi, è ancora più facile, dato che non c’è controllo.»
«Quindi, di fatto, chiunque potrebbe entrare in sede a proprio piacimento, sempre ammesso che ne conosca gli ingressi» osservò Samuel. «Questo significa che potrebbe essere accaduto anche quella sera stessa.»
Anthony spalancò gli occhi.
«Vuoi dire che...»
Samuel confermò: «Ci ho riflettuto molto, in questi giorni, e sono arrivato a delle conclusioni. So che non siamo in un romanzo, ma sono convinto che ci sia una spiegazione, se la porta era chiusa a chiave dall’interno.»
«Che genere di spiegazione?»
Samuel sospirò.
«Non ne ho idea, per il momento, ma credo che, prima o poi, ci arriveremo in fondo. Tu dici che Kay non aveva intenzione di morire e io posso confermare la stessa cosa. Noi la conoscevamo, Anthony. La conoscevamo meglio di chiunque altro.»
Anthony rabbrividì.
«È davvero così?»
Samuel lo guardò, aggrottando la fronte.
«In che senso?»
«Anch’io ci ho riflettuto, in questi giorni» gli spiegò Anthony. «Io ero convinto di conoscere perfettamente Kay, ma adesso mi rendo conto che c’erano tante cose che ignoravo. La sua ossessione per Marissa Flint, per esempio...»
«Se Kay avesse ricominciato il programma, avrebbe parlato di lei» puntualizzò Samuel, «E del mistero della sua morte. Kay sapeva qualcosa che non ci aveva riferito.» Indicò il computer. «Sono quasi certo che avesse degli appunti, che però sono stati cancellati. Rimane un dubbio: è stata lei o è stato qualcun altro? Entrare qui dentro è relativamente semplice, in nostra assenza. Nel computer di Kay non c’era una password. Nel...»
Anthony lo interruppe: «Soltanto noi della radio sapevamo che Kay avrebbe parlato del caso Flint e che era al corrente di qualche retroscena finora tralasciato.»
Samuel scosse la testa.
«No, Anthony, potenzialmente avrebbe potuto saperlo chiunque. Quante persone discrete ci sono qua dentro? Nessuno. Basta uno che sappia, qua dentro, perché tutti sappiamo. Ciascuno conosce tanta gente, al di fuori di Radio Scarlet. Le voci girano. Del tutto inconsapevolmente, qualcuno potrebbe avere rivelato due parole di troppo a qualcuno che era meglio non informare. Non si può affermare con certezza che soltanto in pochi sapevano.»
«Quindi la tua teoria sarebbe che gli appunti di Kay siano stati cancellati da qualcuno, ma che questo qualcuno potrebbe essere sia della radio sia non esserlo?»
Samuel abbassò lo sguardo.
«Non mi convince fino in fondo, ma...»
Anthony osservò: «Prima hai detto che Kay non si sarebbe mai suicidata. Adesso dici che, secondo te, qualcuno ha cancellato i suoi appunti. Vuoi dire che...»
«Sì.»
«Quindi» dedusse Anthony, «L’unico dettaglio che non ti convince è la porta dell’archivio chiusa dall’interno.»
«Esattamente, e devo ammettere che non è un problema da poco.» Samuel si allontanò e andò ad affacciarsi alla finestra. «Sta arrivando Theresa. Possiamo andare a continuare il discorso da un'altra parte?»
«Non ti fidi di lei?»
«Non ho detto questo. Preferisco, comunque, parlarne solo con te.»
«Approvo.»
Uscirono dall’ufficio e Samuel richiuse la porta alle loro spalle.
«Hai ragione» disse Anthony, non appena furono del corridoio. «Quello che chiami “unico dettaglio” è un grosso problema, perché purtroppo siamo sicuri che sia andata davvero così: alla reception non c’erano le chiavi, la Freeman ha detto che era chiuso a chiave, l’amico di Rebecca ha fatto la parte dello scassinatore... Insomma, tutte le versioni coincidono: dobbiamo prendere per buono quello che ci hanno detto loro.»
«Allo stesso modo, però» aggiunse Samuel, «Kay mi ha chiamato, quella sera. Sarà stato mezz’ora prima di morire, un’ora al massimo. Ti assicuro che, al telefono, era quella di sempre. Non aveva intenzione di farla finita.»
«Non c’è bisogno che me lo assicuri. Lo so.» Anthony udì delle voci, in fondo al corridoio. «Andiamo fuori.»
«No, non nel piazzale» replicò Samuel, avviandosi nella direzione opposta. «L’uscita d’emergenza è un posto più riservato. Non abbiamo ancora finito il nostro discorso sulla presunta figlia di Marissa Flint.»
Anthony sussultò.
«Oh...»
«Tu non me l’hai raccontata giusta, quel giorno» lo accusò Samuel. «Adesso mi spieghi per filo e per segno quello che è successo.»
Anthony si irrigidì.
Dentro di sé era sempre stato certo che quello fosse un evento da rimuovere totalmente dalla sua mente.
“Samuel sembra convinto del contrario, invece.”
Forse aveva ragione.

Si sedettero sui gradini della scala antincendio, dopo essersi dati un’occhiata intorno. Non c’era nessuno nei paraggi.
«Allora?» domandò Samuel. «Ricordo che era bruna e che portava un abito maculato.» Ripensò alla serata trascorsa insieme ad Anthony e a Kay, pochi giorni prima del presunto suicidio della sua amica. «Hai detto che somigliava a quella del locale.»
«Come stile» puntualizzò Anthony. «La donna della discoteca non l’ho vista da vicino. Non posso dire che le somigliasse.»
«Però potrebbe essere lei» azzardò Samuel. «È curioso che due donne con uno stile molto simile si trovino entrambe intorno a te, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, quando tua moglie sta per essere uccisa.»
Anthony si girò verso di lui, lanciandogli un’occhiataccia.
«Parla piano!»
«Non c’è nessuno... e poi sto parlando piano.» Samuel si guardò intorno, per accertarsi che la situazione fosse immutata. «Quella che è venuta in ufficio ti ha detto di essere la figlia della signora Flint...»
Anthony scosse la testa.
«Non è andata esattamente così.»
«Eppure...»
Anthony sospirò.
«Quando ne abbiamo parlato, Kay era ancora viva. Non credevo che quello che era successo avesse importanza. O meglio, ne avrebbe avuta per lei, e non volevo che lo scoprisse. Allo stesso modo, non potevo parlarne con te. Cos’avresti fatto se ti avessi detto...?» Si interruppe. «Non è facile, Samuel, nemmeno adesso.»
Seppure impaziente di vederci chiaro, Samuel non lo forzò.
«Non ti ha detto subito chi era» si limitò ad accennare, «Ma avrà pur detto qualcosa che giustificasse la sua presenza qui! Non ti sei chiesto chi era?»
«Va bene, avrebbe dovuto dirmi qualcosa di sensato, lo so» ammise Anthony, «O almeno io avrei dovuto chiederglielo. La verità è che in quel momento stesso me lo chiedevo a malapena, chi fosse. Era talmente bella... O meglio, più che bella userei altri termini: appariscente, vistosa... Insomma, non era semplicemente una bella donna, ma era una che colpiva. Potevano essercene mille più belle di lei, ma nessuna aveva quel fascino.»
«Insomma, una belva» decretò Samuel. «Era giovane?»
«Non giovanissima. Anzi, penso che fosse più vecchia di noi: poteva avere anche quarant’anni, ma se li portava molto bene. Più che belva, l’avrei definita femme fatale, ma la tua definizione non è del tutto scorretta: quella era una pantera, una tigre... Era vestita in modo appariscente, con un abito leopardato, uno di quegli indumenti che in genere colpiscono, ma non si trattava solo di questo, più che il suo vestito, era lei stessa a colpirmi, una donna di quelle che sanno stregare.»
«Direi che la mia definizione era corretta, allora» valutò Samuel. «Era una di quelle donne che fanno perdere la testa. Adesso, però, dobbiamo tornare al punto di partenza: cosa ti ha detto?»
«Più che quello che ha detto, mi occuperei di quello che ha fatto» replicò Anthony. «Mi ha baciato.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Ti ha... ti ha baciato?»
«Proprio così, ed è stato un bacio di quelli che ti lasciano senza fiato. O meglio, il fiato me l’ha lasciato, l’intelletto per un po’ se n’è andato.»
«Penso di riuscire a immaginarmelo. Quello che mi è difficile, invece, è immaginare che tu abbia baciato una donna che non era tua moglie. Non mi è difficile immaginarlo, quello che mi è difficile immaginare è che tu l’abbia baciata. Insomma, che cos’aveva Kay in meno di lei? Forse non aveva il suo stesso charme, ma...»
Anthony lo interruppe: «Kay non aveva il suo charme, ma aveva mille cose in più di lei; quella panterona non credo che avrebbe mai potuto allietare la mia vita come l’ha allietata Kay. Il fatto è che, mentre ce l’avevo davanti, non riuscivo certo a pensare a Kay, anzi, nemmeno mi ricordavo che esistesse mia moglie. Tutto ruotava intorno a me e alla donna che era venuta qui ufficio. Anzi, più precisamente tutto ruotava intorno a lei. Non sono sicuro, in quel momento, di essere stato consapevole di chi ero io stesso.»
«Pensavo che quel tipo di donne esistessero solo nei thriller di quart’ordine» ribatté Samuel. «Me le sono sempre immaginate come killer seriali, che seducono uomini e poi li uccidono.»
«Evidentemente ti sbagliavi, dato che sono ancora vivo» replicò Anthony. «La cosa più curiosa, però, è che, nonostante io mi ricordassi a malapena il mio nome, lei lo conosceva perfettamente. La cosa mi ha fatto un certo effetto.»
«Se si è scomodata di entrare qui dentro in un momento in cui io e Theresa non c’eravamo con il solo scopo di baciarti, mi pare normale che lo sapesse.»
«È così, a pensarci bene, ma allora non mi veniva spontaneo pensarlo, anche se me l’ha detto lei stessa, che non entrava casualmente in un ufficio per baciare uno sconosciuto. Le ho chiesto chi fosse, naturalmente: era una perfetta sconosciuta, per me, anche se...» Anthony parve fermarsi qualche istante a riflettere, prima di ammettere: «Adesso che ci penso, ho avuto l’impressione che mi fosse vagamente familiare, come se l’avessi già vista da qualche parte.»
«L’avevi... già vista?»
«Non so né dove né quando. In quel momento, comunque, stavo pensando a tutt’altro. Le avevo chiesto chi era e lei mi aveva dato una risposta strana. Si era paragonata al sole di gennaio, o qualcosa del genere. Volevo chiederle qualcosa di più, ma a quel punto il telefono ha iniziato a squillare.»
«Wow» borbottò Samuel, «Proprio quello che ci voleva.»
«L’ho pensato anch’io, in quel momento: un intoppo mi separava da quella donna così tanto desiderabile... Una strana coincidenza, non credi?»
«Più che una coincidenza, una rottura di palle.»
Anthony annuì.
«Già, era la Freeman.»
Samuel si mise le mani tra i capelli.
«Quella rompiscatole capita sempre al momento sbagliato.»
«Esatto, tanto più che mi ha convocato d’urgenza nel suo ufficio per conto di Carpenter.»
«Ed era davvero qualcosa di urgente?»
«Doveva farmi fare una firma» spiegò Anthony, «E poi mi ha intrattenuto con i suoi soliti pettegolezzi.»
Samuel sbuffò.
«Non farmi pensare ai pettegolezzi di quell’impicciona!»
Anthony lo guardò, palesemente incuriosito.
«Hai avuto a che fare con lei di recente?»
«L’altro ieri.»
«Cosa ti ha detto?»
«Era convinta che avessi una storia con Penny e che...» Samuel si fermò appena in tempo. «Si è inventata anche un'altra storia, ma era roba di poca importanza.»
Anthony non fece domande, per fortuna.
Samuel ne approfittò per chiedergli: «Cos’è successo dopo? Come hai scoperto che quella donna era - o almeno fingeva di essere - la figlia di Marissa Flint?»
«Mi ha lasciato un biglietto» rispose Anthony. «Quando sono tornato in ufficio, se n’era già andata. Mi spiegava chi era e che cosa voleva da me: si firmava K.Flint e voleva vedermi quella notte, davanti alla locanda che Marissa aveva gestito.»
«Un viaggio da duecento chilometri, in pratica.»
«Già.»
«E tu l’hai ritenuta una cosa normale?»
Anthony si alzò in piedi.
«Certo che no. Era tutt’altro che una cosa normale.» Si guardò intorno, ancora una volta. «Dato che se n’era andata e non avevo la possibilità di farle domande, però, non avevo altre soluzioni: ho deciso di accettare il suo invito.»
«Hai ancora il biglietto?»
«No.»
«Avresti dovuto tenerlo.»
«Avrei dovuto» ammise Anthony, «Ma siete arrivati tu e Theresa. Lei stava parlando della sua telenovela preferita, o qualcosa del genere.»
Samuel fece mente locale.
«Sì, ricordo vagamente.»
«Lei si mise a fare allusioni sugli uomini che perdono tempo dietro a delle donne che non lo prendono in considerazione, senza fare caso a quelle che vorrebbero avere un futuro insieme a loro» aggiunse Anthony. «Stava parlando di qualcosa del genere, se non sbaglio.»
«Sì» confermò Samuel, realizzando a chi Theresa si stesse riferendo quel giorno. «Ogni tanto faceva invettive del genere.» Si pentì di avere parlato al passato. «Tornando al biglietto...»
«Sì, l’ho rotto in mille pezzi e l’ho buttato nel cestino. A quel punto me ne sono andato il prima possibile, perché avevo intenzione di incontrare K.Flint, o qualunque fosse il suo nome, quella notte stessa.»
«Al paese di Marissa...»
«Al paese di Marissa.» Anthony scosse la testa. «È stata un’idiozia: non c’era nessuno ad aspettarmi. Per un attimo ho pensato che fosse una trappola.»
«Invece non era una trappola per te» mormorò una voce alle loro spalle.
Samuel scattò in piedi e si voltò.
«Penny?!» Sussultò, nel vedere la receptionist. «Da quanto tempo eri qui?»
«Mhm...» La ragazza parve riflettere. «Più o meno trenta secondi.»
Anthony si girò lentamente verso di lei.
«Non sapevo che avessi l’abitudine di origliare.»
«Infatti non ce l’ho» obiettò Penny, secca. «Volevo parlarvi.»
Anthony le scoccò un’occhiata gelida.
«Di che cosa, se non sono indiscreta?»
«Di Kay e di Rebecca. Michelle mi ha detto che si sono incontrate, il sabato precedente alla morte di Kay. Era...»
Anthony la interruppe: «Che cosa?»
«Al sabato mattina» ribadì Penny, «Kay è venuta in ufficio. Doveva vedere Rebecca. Michelle mi ha riferito che...»
«Al diavolo Michelle!» sbottò Anthony. «Quella mattina Kay è uscita dicendomi che andava a fare la spesa.»
«Non ci ha messo più tempo del solito?»
«Non faccio caso al tempo che mia moglie trascorre al supermercato.»
Penny abbassò lo sguardo.
«Sì, scusa. Non volevo sembrarti invadente.»
«Per quanto possa sembrarti strano» ribatté Anthony, «Sì, sei invadente, ma la cosa mi dà meno fastidio di quanto pensavo in un primo momento. Sai qualcosa, a proposito di Kay, che evidentemente io non sapevo, fino a questo momento. Dove vuoi arrivare?»
Penny non replicò.
«Ti prego» la esortò Samuel, «Se sai qualcosa, parla. Potrebbe essere importante.»
Penny rialzò lo sguardo e i loro occhi si incrociarono per un istante.
«Finora me lo sono tenuta per me, perché mi sentivo una stupida, ma ho sempre avuto l’impressione che...» Esitò. «Io non c’ero quando è stato trovato il cadavere di Kay. Non ho visto la porta chiusa a chiave dall’interno. Non ho visto nulla. Io non credo che si sia tolta la vita.»
A Samuel non sfuggì il modo in cui Anthony la guardava: sembrava carico di improvvisa gratitudine.
«È proprio così» le disse. «Anch’io sono sicuro che mia moglie non si sia suicidata. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a dimostrarlo.»
«Puoi contare su di me» gli assicurò Penny. «Kay era un’amica, per me, ed è terribile che la verità debba rimanere nascosta.»
«Ci arriveremo in fondo» le promise Anthony, «Costi quel che costi. Non so che cosa tu abbia sentito, prima, ma credo che dovremmo programmare una gita nel paese della nostra cara signora Flint.»
«Flint» ripeté Penny. «Direi di sì. Non mi è mai sfuggito l’effetto che faceva su Kay, sentir pronunciare quel nome.»

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Capitolo 12
*** Raymond ***


Rebecca stava ascoltando a malapena.
«...che avresti parlato di nuovo di quel tizio che ha tradito la moglie. Però sei stata fantastica, quando hai iniziato a parlare di tutt’altro.» Nicholas ridacchiò, prima di iniziare a imitarla. «L’unica cosa che penso, nel vedere le fotografie apparse sulle riviste di gossip, è che le figure sono definite da strani confini. Se non vado errata, tale fenomeno si chiama aberrazione cromatica assiale, ed è causata dal modo in cui i colori vanno a fuoco attraverso la lente della macchina fotografica. Per questa ragione vediamo aloni che tendono soprattutto al rosso o al blu, che sono colori opposti sulla scala cromatica.» La guardò con aria di approvazione. «Te la sei cavata alla grande, Rebecca, si vede che sei stata sposata con un fotografo.»
Rebecca puntualizzò: «Ex fotografo, che ora vive a mie spese.»
Nicholas la ignorò.
«Sei stata eccezionale, anche se devo ammettere che, quando hai iniziato a fare paragoni tra la lente della macchina fotografica e l’occhio umano, ho smesso di seguirti.»
Rebecca sospirò.
«Hai finito? In tal caso, dovrei chiederti un favore.»
Lui annuì.
«Tutto quello che vuoi.»
Nonostante le premesse, Rebecca sapeva che non sarebbe stato così semplice. Infatti, non appena fece la propria richiesta, le parve che Sheila si sentisse mancare.
«Fammi capire, noi dobbiamo badare a tuo figlio anche di sera, adesso?» domandò, spalancando gli occhi.
«E dai, Sheila, non è un dramma» cercò di farla ragionare Nicholas. «In fondo Dylan è anche mio figlio.»
«Eh, aveva proprio ragione mia madre, quando mi diceva che se volevo essere felice non solo non dovevo fare figli, ma non dovevo nemmeno mettermi insieme a un uomo che ne avesse.»
Rebecca osservò: «Se tua madre diceva questo, vuole dire che non devi averle dato troppe soddisfazioni.»
Nicholas non riuscì a trattenere un lieve sorriso, ma Sheila nemmeno se ne accorse.
«È fuori discussione, Rebecca, io non sono la tua baby-sitter gratis, ti conviene mettertelo in testa. Già io e Nick dobbiamo tenere tuo figlio mentre lavori, speravamo che almeno adesso, che la trasmissione l’hai finita, potessi essere capace di occuparti di lui.»
Rebecca sbuffò.
«Si tratta di due o tre ore, non di più. Come vi ho già detto, ho una cena piuttosto importante e non posso mancare.»
Nicholas osservò, quasi distrattamente: «Immagino che sia una di quelle noiosissime cene di lavoro che non finiscono più, dato che tu non hai una vita privata, ma vivi solo per quel programma.»
«Ti sbagli» replicò Rebecca. «Devo andare a cena con il mio uomo.»
«Non sapevo che finalmente fossi riuscita a trovare la tua metà e mi sorprende che esista un uomo capace di sopportarti.»
«Ti ricordo che anche tu l’hai fatto.»
Nicholas rise.
«Tempi passati. Ormai mi sono dimenticato tutto.»
«L’unica cosa di cui non ti sei dimenticato è come si fa a chiedermi soldi» ribatté Rebecca. «Comunque non fare storie... Terrai Dylan stasera, vero?»
«Sì, certo» rispose Nicholas. «Dopotutto, se non mi sono dimenticato come si fa a chiederti soldi, non devo nemmeno dimenticarmi che ogni tanto devo fare qualcosa per te, se voglio continuare a riceverne.»
«Preferirei che tu ti rendessi conto di dovere fare qualcosa per nostro figlio, ma non posso pretendere troppo, in fin dei conti non...»
Sheila la interruppe: «Eh, no, mia cara, io e Nick abbiamo diritto ai nostri spazi, che non abbiamo se ci imponi la presenza di quel maledetto marmocchio!»
Nicholas le fece segno di abbassare la voce, ricordandole: «Dylan è nella stanza accanto.»
Sheila la ignorò e proseguì: «Non me ne importa un bel nulla se mi sente e, per quanto riguarda te, Rebecca, tornatene a preparare la scaletta per quel tuo programma ridicolo e lasciaci in pace, una buona volta. Io e Nick abbiamo diritto a vivere in pace la nostra relazione, se no finirà come è finita tra voi... Io non voglio fare la tua fine, non voglio essere lasciata, anche perché valgo mille volte di più di te!»
«Non è stato Nicholas a lasciarmi» puntualizzò Rebecca. «Magari lui te l’ha raccontato per darsi un po’ di arie, però la verità è diversa, dato sono stata io a mettere fine alla nostra relazione: avrei dovuto essere una santa per sopportare un uomo così inconcludente, e la santità non è uno dei miei obiettivi, almeno per il momento.»
Sheila la smentì: «Nick non è un uomo inconcludente, anzi, è la persona migliore che io abbia mai incontrato...»
«Beh, certo, credo che sia il primo che ha i soldi per arrivare a fine mese anche senza fare nulla e che ti mantiene spennando la sua ex moglie.»
Nicholas intervenne: «Non esagerare, Rebecca, tu guadagni un sacco di soldi, e tutto per dire quattro baggianate alla radio... A proposito, difetti di fotografia a parte, è vero che il ministro della difesa ha tradito la moglie con la segretaria, facendosi immortalare in pubblico mentre camminava mano nella mano con lei?»
«Nick, non mi dire che ti ascolti quella robaccia di quart’ordine!» esclamò Sheila. «Il programma di Rebecca interessa soltanto alla gente che non ha obiettivi nella vita.»
«Puoi stare tranquilla, non la ascolta abbastanza bene da non rendersi conto che Francis Sherman non è il ministro della difesa» la rassicurò Rebecca. «In ogni caso su questo hai ragione: non è tanto interessante l’argomento che va per la maggiore in questi ultimi tempi.»
«E allora» obiettò Nicholas, «Come mai te ne occupi in media tre volte alla settimana? Non ci sono argomenti più interessanti?»
«Ce ne sarebbero a migliaia, ma purtroppo non sono io a decidere la scaletta del programma. O meglio, sono io in teoria, ma nella pratica le cose vanno diversamente.» Era una delle poche volte in cui Rebecca ammetteva di non godere delle stesse libertà che Kay si era conquistata. «Io rimango pur sempre una dipendente di Radio Scarlet e devo adeguarmi a quello che mi viene detto dall’alto, dato che, per il momento, Carpenter conta ancora più di me.»
Nicholas aggrottò le sopracciglia.
«Strano che a quel milionario interessi qualcosa del ministro della difesa... o quello che è.»
Rebecca scosse la testa.
«Oh, no, non è che gli interessi più di tanto della vita privata degli esponenti politici. Diciamo che la sua unica preoccupazione è che, di questi tempi, gli “argomenti scomodi” vengano lasciati un po’ da parte.»
Sheila osservò, improvvisamente interessata: «Da come lo racconti tu sembra che fare la giornalista sia un intrigo internazionale.»
«Definirlo intrigo internazionale mi pare un po’ troppo» ammise Rebecca, «Ma dire che è un intrigo non è così sbagliato, dato ci sono cose che passano sotto ai nostri occhi che molta gente non vedrà mai. Ho le prove che ci siano degli eventi rimasti nascosti troppo a lungo.»
Il caso di Albert Wilkerson era un valido esempio: quel poveretto che era precipitato con la propria automobile giù da una scarpata, quindici anni prima, pareva essere un tipo insignificante, che viaggiava da solo e che da solo era morto. C’era stata un’esplosione, al momento in cui l’automobile era precipitata, ma quell’Albert probabilmente non se n’era nemmeno accorto, dal momento che sembrava essere stato un trauma cranico a provocarne la morte. La stampa gli aveva dedicato soltanto qualche trafiletto, dichiarando che era celibe, che aveva trentanove anni e che l’incidente era avvenuto a meno di sessanta chilometri da Ambermount.
A Rebecca non era ancora chiaro il collegamento tra Albert Wilkerson e Marissa Flint, ma i due sembravano essere in qualche modo connessi, viste le annotazioni quasi incomprensibili che Kay aveva fatto sulle pagine di giornale che avevano dedicato trafiletti all’incidente mortale avvenuto nel 1976. Soltanto il giornale locale di Ambermount gli aveva dedicato ben mezza pagina: vi era perfino una fotografia dei rottami bruciati della sua automobile, anche se di Wilkerson sembravano non esserci immagini.
«Sembra interessante, tutto sommato» osservò Sheila, distraendola dai suoi pensieri sull’incidente. «Strano, dal momento che tu sembri tutt’altro che una persona interessante.»
Nicholas sorrise.
«Tutti hanno delle qualità nascoste, cerca di non dimenticarlo, Sheila.»
«Sì, io ho quella di mantenerti» ribatté Rebecca. «Lasciamo stare, in ogni caso. Se Dylan può rimanere con voi, è il caso che io vada.»
«Aspetta, non ci hai detto tutto» la trattenne Sheila. «Il tuo uomo che tipo di persona è?»
Rebecca la fulminò con lo sguardo.
«Non vedo perché debba interessarti.»
«Io pensavo che un po’ di confidenze tra donne non facessero male...»
Rebecca rise.
«Tu sei l’ultima donna con cui mi confiderei. Lo sai, le persone inconcludenti non mi piacciono e tu rientri pienamente in quella categoria.»
«Tutta invidia, la tua. Io ho quello che vorresti avere: ho Nicholas, e tu non ce l’hai più. Confessa, ti sei pentita di averlo lasciato.»
«Fatti curare da un bravo psichiatra, Sheila» le suggerì Rebecca. «Se credi che io mi sia pentita di avere lasciato Nicholas ti sbagli di grosso. Anzi, credo piuttosto che sia la prima cosa veramente sensata che ho fatto nella mia vita.»
«Va bene, come preferisci tu, sei libera di nascondere la verità. In ogni caso, dato che ci hai rivelato di avere un nuovo amore, perché non ci dici chi si tratta? Ad esempio, come si chiama?»
«Raymond Walker.»
«Mai sentito nominare.»
«Non mi sorprende che tu non l’abbia mai sentito nominare.»
«Comunque spero almeno che sia giovane. Se io fossi al posto tuo, mi sarei scelta un ragazzo di vent’anni o venticinque a dir molto, sei piena di soldi e secondo me potresti permetterlo.»
«Io non voglio un uomo che stia con me per soldi.» Istintivamente Rebecca portò lo sguardo su Nicholas. «L’ho già avuto in passato e ne ho abbastanza di questo genere di relazioni.»
«Sì, ma questo Raymond quanti anni ha?» insisté Sheila. «È giovane?»
«Ha circa la mia età.»
Sheila la guardò con aria di approvazione.
«Almeno non ti sei scelta un vecchio! Certo, avresti potuto scegliertene uno veramente giovane, per far crepare d’invidia tutte le donne che ci sono nel tuo ambiente.» Rise. «Per la prima volta saranno loro a invidiare te.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia.
«In che senso?»
«Finora» le ricordò Sheila, «Eri tu quella che invidiava qualcuno.»
Nicholas intervenne: «Non mi pare il caso di insistere con questa storia.»
Sheila lo mise a tacere.
«Dì la verità, Rebecca, non invidiavi forse quella brava ragazza che si era presa il tuo lavoro? Riccioli d’oro, intendo...»
Rebecca replicò: «Non sono affari che ti riguardano.»
«Non saranno affari che mi riguardano, ma tutti, parlando di Radio Scarlet, non facevano che parlare di due galline dalle uova d’oro che non vedevano l’ora di liberarsi l’una dell’altra, e tu ci sei riuscita.»
«Ti prego di portare rispetto a Kay.» Rebecca cercò di mantenere il proprio autocontrollo. «Non ti ha mai insegnato a nessuno che non è carino sparlare di persone che, per forza di cose, non possono difendersi?» La risposta le parve subito ovvia. «No, certo, evidentemente non te l’ha mai insegnato nessuno. Del resto, l’unico insegnamento che ti ha dato tua madre è quello che i figli sono soltanto un intoppo alla serenità delle coppie che non fanno nulla tranne guardarsi film horror, fumare e mangiare cibi ipercalorici.»
«Questo non mi pare che c’entri qualcosa» obiettò Sheila. «La verità, mia cara giornalista, è che tu la odiavi profondamente. Era risaputo: negli ultimi anni tutti non facevano altro che dire che Radio Scarlet aveva fatto la scelta giusta, affidando a Riccioli d’Oro il programma d’informazione che fino ad allora avevi condotto tu. Non si può dire che avessero tutti i torti: parlare di politici che tradiscono la moglie non ha alcuna importanza! Ci scommetto che hai provato una gioia sadica, nell’apprendere della morte di Kay Brooks: finalmente non c’era più Riccioli d’oro a renderti la vita difficile e...»
Nicholas la interruppe: «Basta, Sheila, finiscila, per favore.»
«Oh, no, non ho certo finito» obiettò la ragazza. «Ho ancora parecchie cose da dire e...»
«Non importa che tu me le dica» la interruppe Rebecca. «Come vi ho già detto ho da fare, per cui credo proprio che me ne andrò, dal momento che mi devo ancora preparare per la cena con Raymond.»

Quando gli occhi di Avah incrociarono i suoi, Raymond comprese di non avere scampo. Quella donna aveva un potere fortissimo su di lui, che ancora sognava di poter ricostruire quello che c’era stato un tempo. Aveva avuto dieci, venti, forse trenta altre relazioni, ma nessuna, nemmeno quella che stava vivendo al momento, aveva mai eguagliato la sua passione folle per Avah.
Era ancora un bambino, quando l’aveva conosciuta, e viveva in quella schifosa casa di periferia con quel relitto di suo padre e con una madre che sembrava giorno dopo giorno più distrutta. Per un certo periodo Avah gli aveva fatto da baby-sitter, ma poi se n’era andata e non era più tornata nemmeno dopo che lui e sua madre erano rimasti soli.
Aveva cercato di sfondare nel mondo della moda, per quanto ne sapeva Raymond. Non era andata bene, perché Avah non sottostava alle regole altrui: nessuno poteva costringerla a dimagrire o a ingrassare a seconda degli abiti che avrebbe dovuto indossare, nessuno poteva costringerla a diventare qualcuno che non era.
Raymond, che aveva conservato qualche fotografia, grazie alle quali aveva avuto la sua prima erezione, era convinto di averla persa per sempre.
Non era andata così. Aveva diciassette anni quando l’aveva rivista e, contrariamente a tutte le sue aspettative, Avah aveva smesso di considerarlo un bambino. La loro relazione era stata di breve durata, ma Raymond aveva sempre avuto la convinzione che il cuore di Avah sarebbe sempre appartenuto a lui.
Tra di loro c’era un legame che andava al di sopra di qualsiasi cosa tanto che, quando l’aveva rivista all’improvviso, appena una settimana prima, era caduto ai suoi piedi. Era quella la ragione per cui, seduta di fronte a lui, Avah lo fissava con aria di accusa.
«Tu hai scoperto qualcosa.»
«Perché non parli e mi osservi con aria colpevole?» insisté Avah.
Raymond si sentì incapace di pronunciare qualunque parola.
Se solo fosse stato più reattivo, avrebbe potuto farle notare che, dal momento che i suoi occhi erano fissi sul pavimento, non la stava affatto guardando.
Si limitò a negare, perché l’esperienza gli aveva insegnato che nascondere la verità era sempre l’alternativa che offriva maggiori speranze di successo.
«Non ho scoperto nulla.»
La realtà era ben diversa. Sapeva qualcosa che non avrebbe mai voluto sapere; qualcosa che poteva incrinare la sua relazione con Becks, il che era l’ultimo dei suoi desideri, dato che quella donna contava parecchio a Radio Scarlet, che avrebbe potuto aprirgli maggiori possibilità di carriera e che, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto consentirgli di vivere una vita agiata.
Alzò gli occhi verso Avah, assumendo quella che gli sembrava un’espressione innocente.
Avah, che gli stava seduta davanti, accavallò le gambe con quel movimento che lo faceva impazzire. Raymond ammirò avidamente i suoi pantaloni neri attillati. La sua amica aveva adottato un look sobrio per presentarsi da lui, un look inusuale per lei; ciò nonostante era stupenda, con il suo charme sempre inalterato.
«Se tu mi dicessi come stanno le cose» gli fece presente Avah, «Potrei anche cedere su qualcosa che ti sta molto a cuore.»
La sua era un’affermazione quantomeno sibillina, considerò Raymond.
«A che cosa ti riferisci?»
Avah si alzò in piedi e fece un passo verso di lui.
«Lo sai benissimo.»
Anche Raymond si alzò.
«Ti sbagli. Ci sono tante cose che mi stanno a cuore.»
«E senza dubbio non ti sta a cuore quell’elegantona con cui esci ultimamente. Io sono più bella e più interessante di lei.»
Raymond sorrise.
«Tu sei più bella e più interessante di qualsiasi donna.»
«Forse hai ragione, anche se io non mi do così tante arie. Per esempio farei molto volentieri cambio corpo con molte mie ex colleghe modelle, ma questo è letteralmente impossibile, quindi non ha nemmeno senso stare a discuterne. Veniamo al punto. Che cosa faresti per una notte d’amore con me?»
Raymond guardò a lungo l’amica, prima di parlare.
«È fuori discussione. Non mi accontento di una notte. Non mi basterebbe. Ricordo quando siamo stati insieme...»
Avah lo interruppe: «Ti prego, Raymond, non ricordiamoci dei “bei vecchi tempi”. In realtà non era un’epoca migliore di quella attuale. Anche tu, in realtà, da me non vuoi altro che una sana scopata. Ormai la tua vita è accanto a Rebecca Shepard. Lei è ricca, potrebbe darti un futuro molto migliore di quello che potresti conquistarti da solo. Io e te siamo due linee parallele destinate a non incontrarsi mai.»
Raymond scosse la testa.
«Non eravamo linee parallele, una volta.»
«Le cose cambiano.»
«Lo so, e infatti sono già rassegnato. Un giorno, però, potrebbero cambiare di nuovo.»
«Può darsi» ammise Avah, «Solo che, nella vita, bisogna sapersi conquistare tutto. È una delle prime lezioni che ho imparato. Dovresti impararla anche tu.»
«Come faccio a impararla?» obiettò Raymond. «Tu stessa mi hai insegnato che, quello che fai, non ha mai importanza. Mi sono sempre comportato bene con te, ti ho trattato come se fossi stata una principessa, ho convinto mia madre ad accettarti, nonostante non volesse che frequentassi una donna più grande di me di dieci anni, ti ho fatta diventare una di casa... Tu mi hai umiliato nel peggiore dei modi. Mi hai lasciato al pranzo di Natale, davanti a mia madre, che non so come aveva accettato di invitarti!»
Avah annuì.
«Lo so, mi sono comportata male con te. Non so come ho potuto essere così stupida.»
«Invece lo sai benissimo, e lo so anch’io» replicò Raymond. «Eri tornata a casa perché ti eri finalmente resa conto che quello che definivi come il tuo grande amore non avrebbe mai usato i suoi soldi per aprirti la strada verso il successo e che, anzi, non avrebbe avuto un soldo fino alla morte della sua cara zia milionaria, che non si decideva affatto a raggiungere la pace eterna! I soldi non ce li avevo nemmeno io, ma tanto valeva passarti un po’ il tempo. A quel punto hai incontrato qualcuno che ce li aveva e te ne sei andata ancora una volta.»
Raymond si sorprese dell’improvviso barlume di lucidità che gli era piovuto addosso, nonostante Avah fosse a meno di un metro di distanza da lui.
«Mi stai dicendo che ti ho usato?»
Raymond la guardò negli occhi.
«Sì.»
«Io non ho mai pensato di usarti» replicò Avah. «Stavo bene con te, anche se eri soltanto un ragazzino. Il fatto che poi mi sia messa con un uomo per i suoi soldi, significa che era lui quello che volevo usare. In ogni caso questa è una storia vecchia: sono passati quindici anni da allora, è arrivato il tempo di dimenticare, non credi?»
«Con quale scopo?»
«C’è un motivo se mi sono fatta avanti con te.» Avah lo fissò con occhi che sembravano carichi di desiderio. «Finora ho convissuto con l’abitudine al rimpianto e con il volere pagare il prezzo di averti lasciato. Certe occasioni nella vita capitano una volta sola e chi le spreca non merita di avere ciò che ha gettato via, mi ripetevo continuamente. Adesso, però, sento di avere già pagato abbastanza. Credo che, se tu accettassi una sola condizione, potrei tornare indietro. Tu che ne dici, Ray? Sei disposto a fare ciò che ti chiedo?»
Raymond sospirò.
«Dipende.»
«Certo, dipende da cosa ti chiedo» dedusse Avah. «La mia proposta è una sola: metti da parte i tuoi presunti sentimenti per Rebecca Shepard. Io posso offrirti di più.»
Raymond la guardò negli occhi.
«Cosa vorresti offrirmi?»
«Una vita senza figli a intralciarci, innanzi tutto. Lei ne ha uno, se non sbaglio.»
«Sì.»
«Io non ho mai avuto figli. Non è già questa una buona ragione per scegliere me?»
«Non è certo la ragione principale.»
Avah sorrise, con la sua solita malizia.
«Lo so, ci sono mille altre regioni per scegliere me. Ci vorrebbe una vita soltanto per elencarne la metà, ma presumo che tu già le sappia.»
«Oh, sì. La prima è che sogno di passare tutto il resto della mia vita insieme a te fin da quando ero un ragazzino. Sono stato sul punto di sposarmi, alcuni anni fa, ma poi sono tornato sui miei passi.» In realtà era stata la sua fidanzata che, mentre lui era in carcere a scontare una pena per furto con scasso, si era data alla macchia, ma non era il caso di riferirlo ad Avah. «Sarei l’uomo più felice del mondo, se tu potessi concedermi un’altra opportunità.»
«Come ben sai, sarei felice di concedertela. Ricordati, però, che ogni cosa ha il suo prezzo. Io ti chiedo semplicemente di farmi sapere tutto ciò di cui la tua donna è al corrente. Sai di cosa sto parlando.»
«Ti sbagli. Mi ha detto qualcosa, ma non tutto. Anzi, essenzialmente non mi ha detto nulla, solo che sa qualcosa. Io, però, non ho idea di che cosa.»
Avah osservò: «Si fida di te. Puoi farle delle domande. Puoi scoprire quello che mi interessa.»
Raymond puntualizzò: «Puoi spiegarmi perché ti interessa, da parte tua. Più il tempo passa e più mi convinco che tu ti stia atteggiando a serva del potere.»
Avah rise.
«Soldi» rispose, con un sorriso quasi innocente. «Tanti soldi... e potere, soprattutto potere. Per la prima volta nella mia vita sarò libera di gettare al vento tutto quello che ho vissuto finora. Che ne dici, Ray? Ti pare una prospettiva allettante? Potremmo condividerla insieme, la mia vita futura, quando tutto sarà finito.»
«Toglimi una curiosità, quand’è che tutto sarà finito?»
«Solo il tempo può dirlo, ma spero presto.»
Avah si avvicinò, in qualche istante gli fu addosso. Le loro labbra si sfiorarono.
«Sono ancora la tua dolce Avah» sussurrò la donna. «Lo sarò per sempre.»
I due si baciarono con passione travolgente, o almeno, con quella che a Raymond parve passione travolgente, al punto tale dal fargli dimenticare per un attimo perfino il suo stesso nome.
«Allora?» gli chiese lei, quando il bacio terminò. «Che cosa ne pensi, siamo riusciti a raggiungere un accordo?»
Raymond fissò gli occhi della sua amica. Ripensò alla prospettiva economica. Se Avah sosteneva che avrebbe potuto cambiare vita, con i soldi che avrebbe ricevuto per la sua collaborazione, anche la sua vita poteva cambiare radicalmente. Non che gli importasse più di tanto: quello che contava era la possibilità di potere baciare nuovamente Avah come era appena accaduto, potere fare l’amore con lei, cosa che non accadeva da quando aveva diciassette anni, vivere insieme a lei, cosa che non era mai accaduta.
«Sei un sogno. Sei un sogno, Avah, e sono convinto che per te farei qualunque cosa.»
«Ne sono sempre stata convinta anch’io. Ero sicura che avresti accettato la mia proposta. Ora, però, vattene: Rebecca Shepard ti sta aspettando e non puoi farle perdere tempo. Non ci gioverebbe, dal momento che la sua fiducia nei tuoi confronti è essenziale ai fini del nostro accordo.»

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Capitolo 13
*** L'incidente ***


Raymond si sentì soddisfatto, nel poter affermare: «Mi piace il tuo programma: è così... mhm... indispensabile.»
Perfino l’esitazione era studiata ad arte. Il suo incontro con Avah gli aveva davvero schiarito le idee.
Dall’altro lato del tavolo, Rebecca lo guardò con aria interessata.
«Ne sei davvero così convinto?»
«Perché, tu no?» obiettò lui. «Pensavo che il tuo lavoro ti piacesse.»
Rebecca annuì.
«Infatti mi piace. Sono solo un po’ delusa da come vanno le cose, di recente. Non devo fare altro che parlare della vita privata di Sherman.»
Raymond dedusse: «Evidentemente è questo che interessa alla gente.»
Rebecca scosse la testa.
«No, la gente si stava interessando anche al caso Flint» obiettò. «Deve esserci un motivo per cui il caso Flint è come tabù. Aveva ragione Kay quando diceva che c’era qualcosa di losco dietro: deve esserci di mezzo qualche pezzo grosso.»
Raymond inspirò profondamente prima di porre a Rebecca la domanda che aveva sempre evitato di farle.
«Sai qualcosa a proposito del passato di Marissa Flint?»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Del suo... passato?»
«Beh, sì. Se è stata uccisa, immagino che sia stato per qualcosa del suo passato. È per questo che la gente viene assassinata, no?»
«Può capitare» ammise Rebecca. «Anche se, devo ammetterlo, io cercavo più che altro di scavare nel presente di quella donna - il presente in cui è morta, almeno.»
«E nel presente che cosa c’era?» volle sapere Raymond.
«Niente di che, gestiva una locanda nella zona di Ambermount. Non era mai stata sposata. Aveva una figlia già grande, che si era trasferita altrove e con cui non aveva più contatti. Il suo presente era molto tranquillo, forse troppo.»
«Questo fa pensare che il segreto della sua morte si nasconda nel suo passato, allora, se davvero c’è un segreto da svelare.»
Rebecca abbassò lo sguardo.
«Deve esserci un segreto, la storia della rapina fa acqua da tutte le parti.»
«Perché, ti sembra così strano?»
«Sembrava strano a Kay. Inoltre ho il plico che mi ha consegnato due giorni prima di morire. Ci sono degli articoli piuttosto interessanti. Parlano di un incidente stradale avvenuto nell’estate del 1976.»
Raymond si irrigidì.
«Un... incidente stradale?»
«Già.»
«E, sentiamo», Raymond si limitò a simulare interesse, «Che cosa c’entra un incidente stradale con Marissa Flint?»
«Me lo sono chiesta anch’io, fin da subito» ribatté Rebecca. «L’incidente coinvolse un uomo di trentanove anni, Albert Wilkerson, che morì nell’esplosione della sua automobile, dopo essere caduto in un precipizio.»
«Sembra una di quelle scene da film giallo» osservò Raymond.
«Qui non stiamo parlando di un film, ma della realtà; una realtà che può essere contorta, lo ammetto, ma pur sempre realtà. Mi sono interrogata a lungo a proposito di questo incidente e al suo collegamento con il caso Flint, stavo anche per arrivare alla conclusione che non vi fosse alcun collegamento...»
Raymond la interruppe: «E poi?»
«Poi ho fatto una scoperta: pare che di questo Albert Wilkerson non si trovi nulla, nemmeno una fotografia, e che non abbia parenti viventi.»
«Questa è un’ottima scoperta» osservò Raymond, «Ma non vedo come possano esserci collegamenti tra lui e Marissa Flint. Hai detto che è morto nel 1976, giusto? La morte della Flint è molto più recente.»
«Esatto» confermò Rebecca. «Si potrebbe dire che sono esattamente al punto di partenza, ma non è proprio così. Sono riuscita a raccogliere qualche informazione su questo Albert Wilkerson.»
Raymond la pregò: «Potresti riassumere?»
«Certamente: Albert Wilkerson, nato nel 1937, di professione meccanico, mai stato sposato, nessun figlio, genitori morti parecchi anni prima di lui, niente fratelli o sorelle e, in generale, senza altri parenti di primo o di secondo grado. Non è stato facile nemmeno reperire queste informazioni, come puoi immaginare.»
«Sembra che questo Albert Wilkinson abbia sempre cercato di non lasciare tracce, ovunque andasse.»
Rebecca annuì.
«Proprio così» confermò. «Ovviamente immagino che tutto sia stato casuale, a meno che...»
Si fermò di scatto, e la cosa non sfuggì a Raymond.
«Che cosa c’è, Rebecca?»
«Non ci avevo mai pensato: non è detto che Wilkinson non abbia mai lasciato tracce. Potrebbero esserci state, ma qualcuno potrebbe averle cancellate per evitare che si potesse risalire a lui.»
Quelle sembravano fantasie, a Raymond.
«Adesso stai vaneggiando.»
«Perché?»
«Hai detto che quel tizio è morto in un banale incidente stradale. Chi avrebbe interesse a cancellare tutto ciò che riconduce a lui?»
«Se sto vaneggiando è colpa tua» ribatté Rebecca. «Sei tu che hai parlato di film gialli, se non sbaglio, e in quelli la scena scena è un classico: qualcuno che rimane privo di sensi, viene caricato su un’auto cosparsa di benzina e scaraventato in un burrone. Nessuno ci impedisce di pensare che ad Albert Wilkerson possa essere capitata la stessa cosa.»
«Quindi fu ucciso, secondo te?»
«È un’idea. Non ho avuto la fortuna di conoscere molto bene Kay Brooks; anzi, all’epoca credevo fosse una sfortuna conoscerla, ma ho capito, anche se troppo tardi, che non lasciava nulla al caso, di conseguenza, se collegava Wilkerson alla nostra Marissa Flint, deve esserci stata una ragione logica. Se la morte di Wilkerson fosse in realtà un omicidio, potrebbe spiegare anche un secondo omicidio.»
Raymond puntualizzò: «Albert Wilkerson e Marissa Flint sono morti in modo completamente diverso l’uno dall’altra e gli assassini seriali, stando ai film almeno, uccidono sempre nella stessa maniera.»
Rebecca negò.
«Non stiamo parlando di un assassino seriale, ma di qualcuno che negli anni Settanta - per ipotesi, ovviamente - assassinò Albert simulando un incidente d’auto e che a distanza di molti anni, magari scoprendo che Marissa sospettava qualcosa, ha deciso di eliminarla. Simulare un altro incidente d’auto poteva essere pericoloso: ricordati, Raymond, che nulla è mai lasciato al caso, in situazioni come queste.»
Raymond sorrise.
«Da come parli sembri un’esperta di delitti.»
Rebecca scoppiò a ridere.
«Stai tranquillo, non lo sono. Sono e sarò sempre la tua Rebecca, quella che conosci in tutto per tutto e che per te non ha segreti.»
Era una bella frase, pensò Raymond. Valeva la pena di ripeterla.
«Io sono e sarò sempre il tuo Ray, invece, quello che per te non ha segreti, che conosci in tutto e per tutto.»
Si ritrovò a pensare a quanto quelle parole si discostassero dalla realtà e a quanto poco sarebbe bastato a Rebecca per smentirlo.
“Non posso permettermelo.”
Raymond voleva Avah, la desiderava con tutte le proprie forze e, per avere qualche speranza con lei, doveva sottostare a certe condizioni. Sapeva che era assetata di potere, ma era anche certo che non si sarebbe accontentata di rimanere nell’ombra di un uomo che la mantenesse. Ad Avah non piaceva venire dopo qualcuno. Prima o poi sarebbe tornata da lui, perché lui non aveva niente, perché nella loro relazione sarebbe stato lui ad essere succube.
Per Avah era pronto a lasciare da parte Rebecca e tutte le sicurezze che la giornalista poteva offrirgli.
“Devo solo impegnarmi ancora un po’.”
Raymond si sforzò di apparire non troppo interessato all’argomento, nel domandargli: «A proposito di Kay, che cosa mi dici di lei?»
Rebecca lo guardò per qualche istante, prima di ripetere: «Di Kay?»
«Sì» confermò Raymond. «Non mi parli mai di lei.»
Rebecca aggrottò la fronte.
«Dovrei farlo?»
«Mi pare proprio di sì» ribatté Raymond. «Io ti parlo di tutto quello che mi succede, ma tu non fai lo stesso. Non ti fidi di me, Becks?»
Stava iniziando a divertirsi.
Lanciare un’accusa assurda nei confronti di Rebecca significava mettere in rilievo il modo in cui si comportava lei e distogliere l’attenzione da se stesso.
«Non... non mi fido di te?» Rebecca continuava ad apparirgli stupita. «Mi spieghi come ti viene in mente? Ti ricordo che Kay Brooks non era una mia amica intima, ma una giornalista che tu conoscevi a malapena.»
«Stava indagando su quella storia della donna rapinata e dell’incidente d’auto» puntualizzò Raymond. «Adesso te ne stai occupando anche tu.»
«E quindi?»
«Quindi ho il diritto di esserne informato.»
Rebecca sbuffò.
«Senti, Ray, io non so che cosa tu ti sia messo in testa. Le indagini di Kay non sono affare tuo, per cui non vedo che cosa te ne importi. Sono solo noiose questioni di lavoro. Io e te potremmo parlare d’altro, non credi?»
«Non ne sono convinto: prima hai parlato di quell’Albert Wilkerson. Quella storia mi ha preso molto e, tenendo conto che ci sei di mezzo anche tu, mi piacerebbe saperne di più. Senza contare che, se ti occupi di questioni del genere, potresti essere in pericolo.»
«E molto gentile da parte tua preoccuparti per me, ma...»
Raymond la interruppe: «Smettila di contraddirmi, Becks. Ho tutti i diritti di intromettermi nelle questioni di lavoro della donna che amo, dal primo momento che questa, senza chiedermi che cosa ne pensassi, ha deciso di mettersi a fare la detective dilettante, mettendo a repentaglio la propria vita.»
«Stai esagerando, Ray» lo accusò Rebecca. «Io non sto mettendo a rischio la mia vita e, soprattutto, quello che faccio è il mio lavoro.»
Raymond la guardò con fermezza.
«A me non sta bene.»
«Non so cosa farci.»
«Dovresti sapere che cosa fare. Non mi piace che tu...»
Rebecca sospirò.
«Non me ne importa niente di che cosa ti piace e di che cosa non ti piace. Non ti permetto di dirmi che cosa devo e che cosa non devo fare. Se non ti sta bene...»
Raymond si affrettò a interromperla, dato che sapeva cosa sarebbe seguito: Rebecca avrebbe rimarcato, come faceva talvolta, che lui non era obbligato a starle accanto, se non accettava il suo stile di vita.
«Scusami, Becks.»
Rebecca parve compiaciuta.
«Vedo che hai capito come funziona, Ray. Ora, per cortesia, smettiamola di pensare a Kay. Non mi va di parlare di lavoro, quando esco con te.»

Era quasi mezzanotte quando Raymond poté finalmente suonare il campanello che più gli premeva in quel momento.
La donna intorno alla quale ormai ruotava il suo mondo venne ad aprirlo. Era in vestaglia, notò Raymond, e appariva elegante quasi come sarebbe stata se avesse indossato un abito da sera.
«Cosa vuoi, Ray?»
Lui le sorrise.
«È questa l’accoglienza che mi riservi?»
Avah sbuffò.
«Entra.»
Raymond si introdusse nell’appartamento e Avah si affrettò a richiudere l’uscio.
«Mi spieghi per quale dannata ragione ti sei presentato a casa mia senza avvertirmi? Lo sai che non mi piace.»
«Non pensavo che fosse vietato» replicò Raymond. «Mi avevi lasciato intendere che...»
Avah lo interruppe: «È vietato venire a casa mia se non hai nulla di consistente da offrirmi e, conoscendoti, dubito che tu...»
Anche Raymond non la lasciò finire.
«Non dovresti dubitare di me. Ho fatto una scoperta piuttosto interessante, che senza ombra di dubbio ti farà piacere scoprire.»
«Interessante. Di che cosa si tratta?»
«Rebecca è convinta che l’omicidio di Marissa Flint sia legata alla morte, in un incidente stradale, di un certo Albert Wilkinson. È morto nel 1976, proprio l’anno in cui io e te...»
Raymond smise di parlare, notando che Avah si era incupita.
«Albert Wilkinson?» ripeté.
Non gli sfuggì la tensione della sua voce.
«Sai di chi si tratta?»
«Questi non sono affari che ti riguardano» replicò Avah, secca. «Sei tu che devi passare informazioni a me, non il contrario.»
Raymond annuì.
«Hai ragione, scusami.»
«Non fa niente. Che cosa sa?»
«Poco» ammise Raymond, «E non penso che, se ci fosse stato qualcosa di davvero importante da dire, l’avrebbe fatto. Rebecca non ha trovato niente di meglio da dirmi che non ha intenzione di pensare al lavoro quando è con me.»
Avah sbuffò.
«E che cosa volevi, che la tua ragazza avesse come unico interesse quello di parlarti di Kay Brooks e di Marissa Flint?»
«Non ero così ottimista» puntualizzò Raymond, «Ma mi sono accorto che non le piace parlare di Kay. Finché l’argomento era Marissa, non si faceva tanti problemi. Quando siamo passati a Kay, però, ha iniziato a tirare fuori delle scuse.»
Avah osservò: «Mi risulta che non corresse buon sangue, tra quelle due.»
«Pare proprio di no.»
«Eppure lavoravano insieme.»
Raymond scosse la testa.
«No, da quanto mi è parso di capire. Semplicemente Kay sembra averle affidato del materiale a proposito di quel Wilkinson.»
«Capisco.»
«Io, invece, non capisco affatto. Perché dobbiamo occuparci di loro?»
Avah rise.
«Già, perché dovremmo occuparci di loro, quando potremmo fare qualcosa di più interessante? Se ci fai caso, i tuoi discorsi non sono tanto diversi da quelli che la Shepard ha fatto con te stasera stessa.»
Ray preferì non fare commenti in proposito.
Non ne avrebbe comunque avuto il tempo, dato che Avah riprese: «Tornando a Kay e Rebecca, mi risulta che, seppure non avessero l’abitudine di lavorare insieme, stessero confabulando un po’ troppo tra di loro, in quei giorni, per non risultare sospette.»
Raymond spalancò gli occhi.
«Come lo sai?»
Si appoggiò alla porta chiusa, ipotizzando che la risposta non avrebbe potuto non piacergli affatto. Avah, però, non pronunciò una sola parola.
Raymond azzardò: «C’è un uomo di mezzo, non è vero?»
Non se ne sarebbe sorpreso. Avah era una donna nei confronti della quale era molto difficile provare indifferenza.
«Qual è il problema?» Avah gli scoccò un’occhiata di fuoco. «Per caso sei geloso, Ray?»
Raymond si irrigidì.
Avah non l’aveva smentito.
«Immagino che ci sia davvero un uomo di mezzo» sbottò, «Uno con cui stai felicemente insieme, mentre io sono qui a struggermi per te e a fare tutto quello che mi chiedi.»
«Non ti ho obbligato a struggerti per me né tantomeno ho il potere di controllare la tua mente e le tue azioni» gli ricordò Avah. «Tutto quello che fai lo fai per amore e non avrai difficoltà a capire che anch'io, per amore, sono disposta a fare quello che sto facendo.»
«No, non è così» la accusò Raymond. «Tu non sai cosa sia l'amore.»
Avah sorrise.
«Ci sono vari tipi d’amore. Io amo il denaro e il potere, Ray. Quando li avrò, potrò fare tutto quello che voglio, anche occuparmi di te. Comunque mi sento soddisfatta. In quarant’anni non mi sono mai sentita meglio.»
Raymond la corresse: «Ne hai quarantadue.»
All’improvviso Avah si fece più sfuggente.
«Quaranta, quarantadue... non cambia molto. Comunque abbiamo perso troppe cose, ormai, e non le ritroveremo mai. Tutto sommato è meglio che tu viva la tua vita con Rebecca.»
«Non posso» replicò Raymond. «Non posso fingere che Rebecca sia più importante di te.»
Avah lo guardò negli occhi.
«Non l'hai ancora capito? Le nostre strade si devono dividere, non c'è altra scelta.»
«Quando mi hai proposto di aiutarmi, poche ore fa, non mi avevi detto che avevi intenzione di scaricarmi, una volta concluso il tuo "affare".» Raymond le si avvicinò. «Adesso che ti ho già riferito tutto quello che ho scoperto, è troppo facile pretendere che io me ne vada e mi dimentichi di te. Non è così che funziona!»
«Non era questa la mia intenzione» replicò Avah, dandogli l’impressione di mentire. «Purtroppo non sempre le cose vanno come ci aspettiamo. Forse avrei dovuto farmi passare le informazioni da mia sorella, piuttosto che da te.»
«Tua sorella...» mormorò Raymond. «Credo di non averla mai conosciuta. Non...»
Avah non lo lasciò finire.
«Mia sorella è sempre stata una perdente. Forse l’avresti trovata simpatica: i perdenti hanno la tendenza a provare un’innata simpatia per i loro simili.»
Se Avah non fosse stata la donna più desiderabile che avesse mai visto, Raymond avrebbe difficilmente resistito all’impulso di prenderla a schiaffi.
«È questa la considerazione che hai di me? Tutto quello che sto facendo non conta niente per te, vero?»
«Ti sbagli, conta tantissimo.» Avah gli mostrò uno dei sorrisi falsi che era sempre stato abituato a vedere. «Sei tu che non mi servi più. Tornatene da Rebecca, dimenticati Marissa Flint e di tutto il resto. Fai finta che nulla sia accaduto e riprenditi la tua vita di sempre. Non è troppo tardi, Ray, puoi ancora farcela.»
«No» replicò Raymond. «Da quando ti ho rivista ho capito che la mia vita accanto a Rebecca non vale nulla.»
Avah sospirò.
«Ray, io parlo per il tuo bene. Torna da lei e dimenticati questa dannata storia una volta per tutte.»
«Ti ho detto che non è possibile.»
«Sono soltanto parole, le tue. Non c’è nulla che ti trattenga qui. È meglio per te se esci da questa storia adesso, prima che diventi troppo pericolosa. Dopotutto Rebecca non è così male come donna, no?»
«No, certo.»
Avah aggiunse: «In questo momento, probabilmente, sarà a casa a chiedersi che fine hai fatto. Non si aspettava che la vostra serata finisse prima del previsto, vero?»
«Non credo che Becks stia pensando a me, adesso» replicò Raymond. «Con tutta probabilità sta pensando alla trasmissione di domani.»
«O magari si starà struggendo per quanto è accaduto a Kay Brooks» azzardò Avah. «Certo che il comportamento delle persone è davvero strano: fino a poco tempo fa la Shepard odiava quell’impicciona di Kay Brooks, ora che è morta vuole arrivare in fondo al caso di cui si stava occupando... Cerca di dissuaderla, se ci tieni a lei.»
Raymond rabbrividì.
«Mi stai dicendo che Rebecca potrebbe essere in pericolo?»
«Sto dicendo semplicemente che da questa storia dovete starci lontani, sia tu sia lei; lontani da Marissa Flint, dagli articoli su quell’altro tizio e soprattutto da Kay Brooks. Fidati di me: ho le mie fonti.»
«Non sarà facile» obiettò Raymond. «Ho il sospetto che Rebecca pensi a Kay più del dovuto.»

Rebecca teneva davanti agli occhi il plico con gli articoli.
“C’è qualcosa che mi sfugge.”
Non era una novità, c’era sempre stato qualcosa al di sopra della sua portata; quella doveva essere la ragione per cui, della pagina di appunti che la sua collega aveva stampato poco prima di morire, nulla riusciva ad apparirle chiaro, in particolare le annotazioni a proposito di un “operatore turistico che ha l’hobby di registrare filmati sulle cosiddette bellezze del luogo in cui vive con una costosissima attrezzatura all’avanguardia”. Probabilmente Kay Brooks non l’aveva mai raccontata giusta a nessuno.
Erano passati oltre cinque anni dal loro primo incontro, ma Rebecca non riusciva a togliersi dalla testa l’idea - forse assurda - che tutto fosse iniziato proprio quel giorno.
«Non metterti in testa delle idiozie» borbottò, rivolta a se stessa. Alla fine, però, si arrese all’evidenza: «E va bene, ritieniti libera di rievocare ogni singolo secondo che hai vissuto insieme a Kay, ma se poi non ne ricaverai niente, non dire che non te lo aspettavi!»

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Capitolo 14
*** Il primo incontro ***


(Luglio 1986)

Rebecca era seduta nell’ufficio di Adam Carpenter, azionista di maggioranza e direttore di Radio Scarlet.
«Il direttore arriverà a momenti» la rassicurò Veronica. «Ora, se non le dispiace, dovrei scendere un attimo. Devo andare al piano terra ad accogliere una persona.»
Si trattava senza dubbio di Kay Brooks. Rebecca non l’aveva mai incontrata prima, ma sapeva che si dicevano cose positive sul suo conto.
Guardò Veronica mentre si allontanava, domandandosi per quale dannata ragione un uomo nella posizione di Carpenter avesse scelto come propria assistente personale quella donna avanti con gli anni e dall’aspetto insignificante. “Da uno come lui mi aspetterei che si circondasse di tutt’altro genere di esponenti del gentil sesso.”
Cinque minuti più tardi udì dei passi che si avvicinavano lungo il corridoio e delle voci.
«Siamo quasi arrivate, signorina Brooks.»
Quella era indubbiamente Veronica.
«Okay, non vedo l’ora.» Kay Brooks sembrava soddisfatta. «Sarà davvero un onore, per me, parlare con il signor Carpenter.»
«Sarà un onore per il signor Carpenter parlare con lei» ribatté Veronica. «È un talent scout come pochi, il migliore del settore, e se l’ha chiamata qui, c’è indiscutibilmente una ragione valida alla base.»
«Lo spero.»
Veronica Freeman varcò la soglia dell’ufficio del titolare.
Rebecca si girò di scatto verso la porta.
«Prego» disse Veronica, con un radioso sorriso, rivolgendosi a Kay Brooks.
Era bionda, con i capelli ondulati. Era alta e slanciata e indossava un abito verde con una giacca in tinta.
Si girò verso Rebecca e parve impallidire per lo stupore, come una teenager di fronte al cantante di una boy-band.
«R-Rebecca...» balbettò.
Rebecca non poté fare a meno di sorridere.
«Tu dovresti essere Brooks» disse. «Kay Brooks.»
«Sì, sono io» rispose Kay.
Sembrava quasi imbarazzata.
«Sono io che ti faccio questo effetto?» le domandò Rebecca, cercando di metterla a suo agio.
Non raggiunse il risultato sperato, dal momento che Kay arrossì vistosamente.
«Beh, in effetti sì.»
Rebecca rise.
«Se ti faccio questo effetto io, figuriamoci quando vedrai Carpenter.»
«C-Carpenter?»
«Sì, il direttore.»
Kay annuì.
«Sì, certo, so perfettamente di chi si tratta, è stato lui a contattarmi personalmente.»
«Ne sono informata» confermò Rebecca. «Mi ha parlato benissimo di te. Dice che sei la giornalista radiofonica più promettente di cui abbia sentito parlare negli ultimi dieci anni.»
«Addirittura? Sono sicura che non gli farò questa impressione, quando mi vedrà.»
«Non ti preoccupare» la rassicurò Rebecca. «E poi Carpenter non ti ha ancora vista, hai tutto il tempo per ambientarti.»
Kay si rivolse a Veronica Freeman: «A proposito, quando arriverà?»
«Tarderà qualche minuto. Ora scusate, ma devo scendere un attimo.»
Veronica si allontanò, con il rumore dei suoi tacchi che rimbombava nel corridoio.
Kay, evidentemente dubbiosa, domandò a Rebecca: «Ma tu... perché sei qui? Qui nel suo ufficio, intendo.»
«Hai ragione, avrei dovuto dirtelo prima. Pare che il direttore ti voglia come assistente nel mio programma.»
Kay strabuzzò gli occhi, palesemente incredula.
«Assistente nel tuo programma?!»
«Perché, non ti piacerebbe?»
«Beh, sarebbe semplicemente... grandioso! Anche se, ovviamente, non dovrei contarci troppo: non sono ancora stata assunta, è un po’ prematuro parlare di quello che accadrà dopo.»
«Toglitelo dalla testa» replicò Rebecca. «Di fatto, puoi considerarti già assunta. Carpenter non contatta persone che gli interessano. Tu ora puoi scegliere Radio Scarlet, ma non dimenticare mai che è stata Radio Scarlet a scegliere te.»
«E tu che ruolo hai in tutto questo? Insomma, voglio dire, perché sei qui?»
«Hai ragione, mi sono scordata di specificare che Carpenter ha pensato che anch’io dovrei avere voce in capitolo e mi ha chiamata qui per incontrarti.»
Kay azzardò: «Immagino di averti fatto una pessima impressione.»
«Per niente.» Rebecca sorrise, indicandole una sedia. «Sono stata informata che la tua carriera professionale ha avuto una rapida salita, negli ultimi tempi. Hai impressionato tutti, sei una grande promessa del giornalismo radiofonico. Non c’è da sorprendersi che una rete all’avanguardia come Radio Scarlet ha pensato a te.»
«Non avrei mai creduto che una rete in espansione potesse selezionarmi, o addirittura soltanto notarmi» ammise Kay, sedendosi. «Inoltre l’idea che potrei lavorare con te mi lascia semplicemente spiazzata.»
«Ti avverto fin da subito che sarò una presenza piuttosto ingombrante.»
«La cosa non mi spaventa. Tu sei... sei il modello di giornalista a cui mi ispiro. So che posso sembrarti ridicola, ma ti ascolto ogni giorno alla radio e tu sei il mio idolo.»
«Ridicola? E perché mai» ribatté Rebecca. «È un onore per me. Non pensavo di essere l’idolo di qualcuno, soprattutto di una persona con cui dovrò lavorare, per giunta una giornalista talentuosa come te, e sono sicura che, se queste sono le premesse, io e te andremo d’accordissimo.»
Kay annuì.
«L’impressione è la stessa anche per me. Lavorare con te era il sogno che pensavo di non potere realizzare mai, e spero davvero che sia come dici tu, che il signor Carpenter sia davvero intenzionato ad assumerti. Pensavo che, al massimo, con un po’ di fortuna sarei riuscita a incontrarti e a chiederti un autografo.»
Rebecca rise.
«Davvero vorresti il mio autografo?»
Kay, avvampando, rispose: «Sì, se fosse possibile...»
Rebecca afferrò una penna e scarabocchiò poche parole su un foglio che poi allungò a Kay.
«Con affetto, alla mia nuova collega Brooks, R. Shepard» lesse l’altra. «Grazie mille.»
«Di niente. È un piacere firmare autografi, specie a una ragazza come te. In genere ne firmo a casalinghe di mezza età, che uscirebbero di casa in ciabatte e con i bigodini in testa, pur di venire a chiedermelo. Non chiedermi come facciano a riconoscermi.»
Kay ammise: «Speravo che la tua trasmissione avesse un altro tipo di target.»
«Io non ci faccio caso» obiettò Rebecca. «Quelle donne non sono così male. La loro ragione di vita è quella di ascoltare il loro programma preferito, piuttosto che di aspettare i loro mariti che tornano dal lavoro.» Se i consorti di quelle donne somigliavano al suo, non c’era motivo per cui avrebbero dovuto essere attesi con ansia. «È un piacere sapere che mi ritengono importante.» Sorrise. «A proposito, scusa l’intromissione, tu sei sposata?»
«Non ancora, ma presto potrebbe accadere.»
Rebecca le strizzò l’occhio.
«Beata te, che hai trovato qualcuno che vale la pena di incastrare!»
Kay annuì.
«Sto insieme a un mio ex compagno di università, anche lui giornalista, si chiama Anthony.»
«Te ne sei scelto uno che lavora, almeno tu» scherzò Rebecca. «Mio marito invece, vive a mie spese.»
Abbassò rapidamente lo sguardo, come se pensare alla sua vita coniugale le mettesse tristezza.
«Tuo marito si chiama Nicholas Williams, vero? Le informazioni che ho trovato su di te sono queste, almeno, e tuo figlio si chiama Dylan.»
Rebecca la guardò a lungo.
«Sei sicura di non essere un’aliena?»
Kay aggrottò le sopracciglia.
«Perché dovrei esserlo?»
A Rebecca sfuggì una risatina.
«Le altre donne cercano informazioni sulla vita privata del loro attore preferito, non su quella di una conduttrice televisiva di programmi di attualità, per questo ho come l’impressione che tu non sia umana.»
«Ti assicuro che lo sono, ma credo che, per qualche verso, il mio patrimonio genetico sia simile a quello delle donne che ti inseguono per strada con le ciabatte ai piediae i bigodini in te.»
«Evidentemente hai una parte di te che vorrebbe essere una casalinga ossessionata dalla TV!»
Kay non ebbe il tempo di rispondere.
La voce di Veronica, che evidentemente era ritornata davanti alla porta aperta, si rivolse a qualcuno che sopraggiungeva.
«Ben arrivato, signor Carpenter.»
«Scusi per il ritardo, Veronica» disse il direttore. «Rebecca è già dentro?»
Kay sussultò.
Rebecca si domandò che cosa le stesse accadendo: era una normale reazione dovuta all’imminente incontro con il suo futuro datore di lavoro o c’era qualcosa di più? Non riuscì a capirlo.
«Sì, signor Carpenter, e anche Kay Brooks è già qui.»
«Allora sono proprio il ritardo.»
Rebecca colse uno strano bagliore negli occhi di Kay.
«Che cosa succede?»
«Niente» si affrettò a rispondere l’altra. «Sono solo un po’ tesa.»
Rebecca sorrise.
«Non devi esserlo.»
«Non è facile» le fece notare Kay. «Potrei dire qualcosa di sbagliato e...»
All’esterno, Veronica disse: «Non si preoccupi, signor Carpenter, Rebecca ha saputo intrattenere perfettamente la nostra ospite. Mi sembra che vadano d’accordo. Credo che quelle due diventeranno grandi amiche, prima o poi.»
«Questo non mi riguarda» replicò Carpenter. «Tutto ciò che mi preoccupa è l’andamento della trasmissione e i relativi introiti pubblicitari. Nient’altro conta.»
«Sì, certo» confermò Veronica.
Non appena Carpenter entrò nell’ufficio, la sua segretaria tuttofare se ne andò, richiudendo la porta alle proprie spalle.»
«Buongiorno Rebecca» salutò il titolare. «E soprattutto buongiorno a lei, signorina Brooks.»
Kay guardò l’uomo appena entrato e di nuovo ebbe quella che a Rebecca parve una strana reazione. Dopotutto era normale: probabilmente non aveva mai visto il signor Carpenter nemmeno in fotografia o in un filmato - le sue fotografie sui giornali e le sue interviste televisive si contavano sulle dita di una mano - e per un attimo si era sentita spaesata.
Lui la fissava.
«Kay Brooks, mia cara Kay Brooks, è davvero un piacere averla qui.»
«È un piacere per me essere qui» affermò Kay. «La ringrazio per avermi dato questa possibilità. Significa molto per me.»
Il direttore sorrise, nell’andarsi a sedere accanto a Rebecca.
Era un sorriso artificiale.
Kay non distolse gli occhi da lui, scrutava attentamente quell’uomo distinto sulla cinquantina, con i capelli brizzolati e uno sguardo piuttosto penetrante.
«Perché sono qui?»
Carpenter osservò: «Pensavo che la signora Shepard le avesse annunciato qualcosa.»
Rebecca intervenne: «Sì, l’ho fatto.»
«Proprio così» confermò Kay. «Quello che vorrei sapere è perché proprio io.»
«Perché lei è una giornalista brillante» rispose Carpenter. «Le basta?»
Kay negò.
«Non tutti i giornalisti brillanti ricevono proposte così interessanti.»
Carpenter concordò: «Ha ragione, ma non tutti se lo meritano quanto lei, oppure, se vuole metterla in altri termini, non tutti spaventano Scarlet Radio quanto lei.»
Kay strabuzzò gli occhi.
«Cosa intende dire?»
Rebecca intervenne: «Credo che il signor Carpenter voglia dire che è meglio averti dalla nostra parte, piuttosto che in una rete concorrente.»
«Proprio così» confermò Carpenter, con un tono troppo subdolo per pensare che non avesse altri fini. «Mi creda, signorina Brooks, le persone come lei sono più uniche che rare. Lei potrebbe diventare l’anti-Rebecca, se lavorasse per un’altra rete. La vedrei più che bene alla conduzione di una trasmissione di attualità. Ora potrebbe chiedermi: “Se sono così brillante, perché dovrei accettare di diventare l’assistente di Rebecca Shepard, mentre altrove sarei la sua concorrente?” È semplice: perché altrove nessuno le assicura il successo, mentre io, qui, non le offro soltanto un lavoro sicuro e ben retribuito, ma la possibilità di fare carriera. Provi a immaginare il suo futuro, Kay. Io posso darle tutto quello che desidera.»
Il telefono squillò all’improvviso e Carpenter chiese a Rebecca di rispondere.
La chiamata le portò via solo qualche istante.
«Era la signorina Silver dal piano di sotto» informò, un attimo più tardi. «Mi ha pregata di scendere, deve parlarmi a proposito della trasmissione di stasera.»
«La raggiunga, allora» le ordinò Carpenter. «La trasmissione viene prima di tutto.»
«Sì, certo.»
Mentre Rebecca usciva dall’ufficio un pensiero strano la travolse: se solo Theresa Silver non fosse stata una persona totalmente affidabile, avrebbe avuto l’impressione che quella telefonata fosse arrivata ad arte, per permettere al direttore di rimanere da solo insieme a Kay Brooks.
Ciò nonostante, una volta verificato che non vi fosse Veronica Freeman nei paraggi, rimase accanto alla porta, per ascoltare che cosa Carpenter avesse da dire a Kay.
«Non si preoccupi, signorina Brooks, la signora Shepard tornerà quanto prima. Piuttosto, vedo che si è fatta firmare un autografo.»
«S-sì» balbettò Kay. «Rebecca è la giornalista cui mi ispiro.»
Carpenter sembrò soddisfatto.
«Questo significa che, se un giorno dovesse prendere il suo posto, se la caverebbe senza troppe difficoltà.»
“Non accadrà mai neanche tra un milione di anni” si disse Rebecca. “Non ci contare, Kay. Sarai anche una brava giornalista, ma non avrai mai ciò che è mio.”
«Beh, devo ammettere che mi piacerebbe. Con questo non intendo dire che voglio rubare il lavoro a Rebecca, naturalmente, però, se un giorno dovesse abbandonare la trasmissione...»
“Bene” considerò Rebecca. “La ragazza sa qual è il suo posto.”
«Signorina Brooks, un giorno lei sarà al posto di Rebecca, se lo vorrà» le promise Carpenter. «Glielo garantisco.»
«Non capisco» replicò Kay. «Sembra che lei voglia aiutarmi a realizzare tutti i miei desideri.»
Carpenter ridacchiò.
«La cosa la spaventa?»
«Un po’.»
«Non capisco che cosa la turbi.»
«Non si preoccupi, è normale ansia. Non capita tutti i giorni di parlare con il direttore di Radio Scarlet in persona.»
«Su questo ha ragione. Soltanto pochi fortunati possono avere questo onore e lei fa parte di questa ristretta cerchia di persone.»
«Già.»
«La sua reazione è normale, chiunque, al suo posto, si sarebbe chiesto che cosa mi fossi messo in testa. Ebbene, sarò sincero con lei: io sono disposto a darle tutto ciò che vuole, e lei, in cambio, deve semplicemente essermi riconoscente. Io non faccio niente per niente... e penso neanche lei, signorina Brooks.»
«Immagino che la riconoscenza che desidera non sia squallida come potrebbe pensare qualcuno, sentendoci casualmente» azzardò Kay, «O almeno è quello che vorrei sperare.»
Carpenter scoppiò a ridere.
«No, no! Non voglio favori sessuali, che sia chiaro! Posso permettermi donne molto più sexy di lei - senza offesa, naturalmente - senza dovere offrire loro un lavoro.»
Kay sembrò sollevata.
«Meglio così. Cosa desidera, quindi?»
«Niente di particolare.»
«Come sarebbe a dire?»
«Semplice: si ricordi di quello che ho fatto per lei... e magari cerchi di dimenticarsi qualcos’altro» ribatté il direttore. «Credo che, in fondo, possa capirmi.»
«No, per niente, non ho idea di che cosa stia parlando, signor Carpenter» obiettò Kay. «Non ho nulla da dimenticare, è la prima volta che ci incontriamo, oggi, mi pare.»
«Ha ragione» osservò Carpenter. «Non ci siamo mai incontrati finora e credo che sia proprio questa la ragione per cui andremo d’accordo, io e lei.»
«Può darsi.»
In quel momento Rebecca decise di rientrare. Non le piaceva la piega che quella conversazione stava prendendo, era meglio che finisse lì.
«Rebecca, è già qui?» esclamò Carpenter, spalancando gli occhi. «Pensavo che fosse accaduto qualcosa...»
«Non si preoccupi, Theresa si è sbagliata» mentì Rebecca. «Abbiamo già risolto tutto.» Accennò all’altra donna. «Mi sono persa qualcosa?»
«No, nulla» rispose Carpenter. «Io e Kay abbiamo solo scambiato quattro chiacchiere.»
Rebecca si accorse che Kay sembrava più sollevata.
“È perché ci sono io o per quello che le ha detto lui?”
«Le ha già dato il benvenuto a Radio Scarlet, signor Carpenter?» domandò Rebecca al direttore, che scosse la testa.
«No, ma stavo per farlo.» Si rivolse poi a Kay: «Spero che le sia chiaro, signorina Brooks, che da questo momento in poi lei è una dei nostri. Lavorerà a tu per tu con Rebecca Shepard, naturalmente.»
«Sarà un onore» disse Rebecca, tendendo la mano alla nuova collega.
Kay gliela strinse.
«Sarà un onore anche per me.»
Si fissarono per un attimo. Un istante più tardi, tra loro, era già guerra aperta.

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Capitolo 15
*** La schermata verde ***


Nel momento in cui Penny varcò la soglia, vide la sua collega Michelle alzare lo sguardo. I suoi occhi si posarono su di lei e, anche se non aveva ancora fatto domande, le sue intenzioni erano piuttosto chiare.
Penny decise di anticipare i tempi.
«Anthony mi ha chiamata ieri sera, mi ha chiesto se potevo venire. È per una cosa che riguarda Kay.»
Diversamente da lei, Michelle aveva sempre avuto con la Brooks un rapporto puramente professionale, pertanto non le avrebbe domandato altro... o almeno, così Penny sperava.
La ragazza della reception si limitò ad aggrottare le sopracciglia.
«Mhm... Kay.»
Penny non sapeva se sentirsi sollevata o preoccupata. Non aveva dubbi sul fatto che Michelle impazzisse dal desiderio di aggiungere qualcos’altro. Si limitò pertanto a fare un discreto tentativo di defilarsi.
«Io andrei...»
Stava già per avviarsi, quando Michelle la trattenne.
«C’è anche Samuel.»
Penny asserì: «Lo so.»
Sperava che, a quel punto, potesse calare il silenzio, ma l’argomento “Samuel” era uno dei preferiti di Michelle.
«Lui sa che ci sei anche tu?»
«Non ne ho idea.» Anthony le aveva assicurato che negare l’evidenza era la miglior soluzione possibile, in certe circostanze, e Penny non intendeva deludere le sue aspettative. «Può essere che lui sia qui per motivi completamente diversi.»
Michelle annuì.
«Sicuramente è così.»
Penny si sforzò di sorridere.
«C’è altro o posso andare?»
«Puoi andare... anzi...» Michelle esitò. «Aspetta un attimo, Penny.» La sua voce sembrava avere assunto un tono solenne, come ad avvertirla che fino a quel momento non erano ancora passate al sodo. «So che dovrei badare un po’ agli affari miei, ma...»
«Ma non riesci a fare a meno di interessarti a chi ti sta intorno» la interruppe Penny. «Lo so, ormai ti conosco. Qual è il problema?»
«In realtà non c’è un vero e proprio problema.»
Penny fece un sospiro.
«Meno male!»
Si pentì di quell’esclamazione prima ancora di avere finito di pronunciarla: Michelle, che aveva l’incredibile talento di interpretare tutto alla propria maniera, avrebbe potuto farsi delle fantasie tutt’altro che piacevoli.
Fu esattamente quello che accadde.
«C’è qualcosa che non va, Penny?»
«No.»
«Eppure sembra che tu abbia qualcosa da nascondere.» Michelle avvampò. «Ovviamente non sono io che lo dico, ma la signora Freeman. È convinta che...»
Penny non la lasciò finire.
«Sono molte le cose di cui quella donna si convince.»
Michelle fu costretta ad ammettere che aveva ragione.
«In realtà» aggiunse, però, «Anch’io mi sono fatta delle domande. Tu non parli mai della tua famiglia.»
Penny obiettò: «Nemmeno tu.»
«È diverso» puntualizzò Michelle. «Nessuno ha mai fatto chiacchiere strane sulla mia famiglia. La signora Freeman, invece, dice che tu vivi insieme a tuo padre e a...»
«Se la signora Freeman ha dei dubbi su di me» precisò Penny, «Può venire a informarsi direttamente, invece di parlarne con te. Ora, per cortesia, lasciami andare: sono in ritardo, Anthony mi aspettava per le dieci.»
«Tu, Anthony, Samuel...» borbottò Michelle. «Siete tutti qua, di sabato mattina. Tre settimane fa sono venute Kay e Rebecca, e Kay si è suicidata due giorni dopo.»
«Stai insinuando che venire qui in radio di sabato provochi manie suicide?» obiettò Penny. Si lasciò andare a una lieve risata. «Tu sei qui ogni sabato: è davvero curiosa che tu sia ancora viva e vegeta.»
Michelle non rise.
«Non parlavo di questo. Mi riferivo a Samuel.»
Penny spalancò gli occhi.
«Samuel?! Ti ho detto che devo incontrare Anthony.»
«Sarebbe estremamente squallido se ti avesse invitata a trovarvi qui, da soli» replicò Michelle, che sembrava totalmente incapace di ipotizzare che un uomo e una donna potessero trovarsi insieme da soli senza fare nulla di particolarmente sconveniente. «Deduco che ci sia anche Samuel, con voi. Era proprio di lui che volevo parlarti.»
«È apprezzabile che tu ti preoccupi per Samuel» ribatté Penny, «Ma io non sono né sua madre né la sua balia. Se c’è qualche problema che lo riguarda...»
«No, nessun problema. È solo che, prima che lui si accorgesse di te, andava a letto con Theresa. Quella donna ti odia. Ti odiava già prima, figuriamoci adesso che...»
Si interruppe.
Penny la esortò: «Adesso che...?»
«Adesso che tu e Samuel...»
«Non c’è niente tra me e Samuel» si affrettò a concludere Penny, «E, se Theresa ha qualcosa contro di me, non so cosa farci. Sinceramente non mi cambia la vita.»
Senza aspettare eventuali repliche da parte di Michelle, decise di passare oltre e di avviarsi verso l’ufficio in cui Anthony e Samuel la aspettavano.

Qualcuno bussò alla porta.
«Questa deve essere lei» dedusse Anthony. «Entra!» Ci aveva visto giusto: si trattava proprio di Penny. «Sei in ritardo.»
Lei abbassò lo sguardo.
«Lo so, scusami, ho avuto un piccolo problema.»
«Non fa niente» le assicurò Anthony. «L’importante è che siamo tutti qua e che non ci sia nessuno a intromettersi.»
Penny richiuse la porta alle proprie spalle.
«Sempre che Michelle non decida di superare se stessa.»
Samuel, che fino a quel momento aveva fissato il monitor del computer di Kay, si girò verso di lei, apparentemente illuminato dalla sua presenza.
«Sono felice di vederti.»
Anthony si sforzò di non fare commenti. A lui era sempre sembrato che Penelope Altman fosse una ragazza insignificante, ma a quanto pareva Samuel non la pensava così.
Penny fece un lieve sorriso.
«Anch’io.» I suoi occhi si posarono sul computer. «Come mai è di quel colore?»
«Cosa?»
«La schermata. Mi sembrava che non lo fosse, l’ultima volta in cui...» Penny non proseguì. «Lo so, non me ne intendo per niente di quelle diavolerie moderne.»
Samuel ridacchiò.
«Diavolerie moderne? Stiamo parlando di un programma - e anche di un sistema operativo - ormai sorpassato. Solo a Radio Scarlet abbiamo ancora questa roba. Sarebbe ora di aggiornarci un po’, in effetti...»
Penny avvampò.
«Oh, scusa. Non lo sapevo. Mi sembrava solo che, quando Kay scriveva qualcosa, lo sfondo non fosse verde.»
«Infatti l’aveva cambiato di recente» la informò Anthony. «Ci sono vari colori di default... anzi, il colore di default per eccellenza sarebbe il blu, che però è talmente scuro da rendere molto difficile la lettura, quindi quasi tutti usano il grigio, a parte gli alternativi - come era mia moglie - che scelgono colori diversi. Oltre al blu e al grigio ci sono il verde, il beige e addirittura il rosso che, detto tra noi, mi sembra la scelta più assurda.»
«Il rosso, una scelta assurda» ripeté Penny. «Sì, sono sicura di avere visto che Kay scriveva su una schermata rossa, tempo fa. Devo ammettere che era una scelta piuttosto originale.»
«Sì, ma a quanto pare l’ha cambiata» replicò Anthony, sedendosi sul bordo della propria scrivania, mentre Penny rimaneva ancora in piedi. «Vuoi sapere quando?»
«Se me lo puoi dire...»
«Apparentemente, poche ore prima di morire.»
«Anthony è convinto» precisò Samuel, «Che sia una sorta di “prova”: chi sta progettando il proprio suicidio, generalmente ha problemi ben più grandi, rispetto al colore della schermata di Wordpower e non lo cambia certo perché ritiene che il rosso sia un colore poco adatto.» Si alzò in piedi. «Seppure io sia d’accordo con lui sul fatto che la morte di Kay non sia stata un suicidio, a me non sembra un indizio così schiacciante.»
Anthony si irrigidì.
«Per te niente sarebbe un indizio schiacciante. Se un giorno vedessi chiaramente un’astronave aliena nel mezzo del cielo, non faresti altro che dire che è la luna piena.»
Samuel lo ignorò.
«Possono essere tanti i motivi per cui Kay ha cambiato lo sfondo a Wordpower e, secondo me, non dovremmo preoccuparcene.»
«Oppure» azzardò Penny, «Potrebbe averlo cambiato qualcun altro.»
Samuel si rivelò d’accordo con lei.
«Esattamente.»
«Certo, se lo dice Penny, come potrebbe essere diversamente?» sbottò Anthony. «Dato che siete del parere che sia stato qualcun altro, vi viene in mente una ragione logica per cui qualcuno dovrebbe cambiare colore alla schermata di un programma in un computer che non usa abitualmente?» Lasciò qualche istante per intervenire a entrambi e, quando non lo fecero, dedusse: «Non ci sono motivi validi per prendere in considerazione questa teoria. Di conseguenza, è stata Kay e deve esserci un motivo per cui l’ha fatto. Torniamo al punto di partenza: finalmente si è resa conto che ci sono colori che favoriscono di più la lettura, considerazione che, chi ha deciso di farla finita, sicuramente non ha in mente.»
«Di fatto, dato che siamo tutti convinti che Kay non si sia uccisa, questo non cambia le cose, per noi» puntualizzò Penny, andando a sedersi alla scrivania di Samuel. «Di conseguenza possiamo dimenticarci di quel Power-come-si-chiama, invece di continuare a discutere sul motivo per cui ha cambiato colore.»
«Il problema» obiettò Samuel, «È che, con tutta probabilità, oltre a cambiare il colore ha anche cancellato, anche se non ne abbiamo la certezza, un documento che avrebbe potuto far luce sull’assassinio di Marissa Flint.»
«Oppure» azzardò Penny, «Potrebbe averlo cancellato qualcun altro. Ci sono tante persone, qua dentro, qualcuno avrebbe potuto...»
Anthony la interruppe: «Sì, qualcuno avrebbe potuto farlo, sono d’accordo. Purtroppo non abbiamo prove. Qui a Radio Scarlet, senza troppe difficoltà, chiunque potrebbe andare a curiosare nel computer di chiunque.» Lanciò un’occhiataccia a Penny. «O meglio: potrebbe farlo chiunque sappia come accenderlo, e dubito che qui dentro tutti ne siano capaci.»
Penny non colse, o finse di non cogliere, l’allusione.
«Quindi, se il problema del computer di Kay è archiviato, perché dovremmo continuare a occuparcene?»
«Perché il problema del computer di Kay è tutt’altro che archiviato» replicò Samuel. «Guardiamo le cose da un altro punto di vista: quella sera Kay mi ha praticamente mandato via, come se non vedesse l’ora di liberarsi di me...»
Anthony gli ricordò: «Voleva che venissi con me dalla figlia della Flint.»
Samuel obiettò: «Voleva sbarazzarsi di me, prima di tutto. Sosteneva di avere qualcosa di importante da fare, in archivio... ed è effettivamente andata là. Forse sospettava che potesse accadere qualcosa e, se ha cambiato lo sfondo di Wordpower, potrebbe essere stato per lasciarci un indizio, nel caso le fosse accaduto qualcosa.»
Anthony spalancò gli occhi.
«Stai delirando, per caso? Che indizio vuoi ricavare da una schermata verde?»
Samuel sospirò.
«Non so che indizio si possa ricavare da una schermata verde, ma è proprio quello che vorrei cercare di scoprire.»

Michelle stava per alzarsi in piedi, quando il telefono squillò.
Sbuffando, sollevò il ricevitore.
«Radio Scarlet, buongiorno. Sono Michelle, in che cosa posso esserle utile?»
Dall’altro capo udì una risata.
«Chi parla?» insisté.
Finalmente ottenne risposta.
«Ehi, sono io.»
«John» mormorò Michelle. «Perché mi hai chiamata proprio adesso?»
«Perché Suzy è uscita e non vuole che continui a pensare a questa storia, adesso che Kat... adesso che mia cugina è morta.»
A Michelle non sfuggì la sua indecisione.
«Cosa dicevi?»
«Niente. Mia cugina non si faceva chiamare Kay, un tempo. All’epoca la conoscevamo tutti come Katherine o Kathy.»
Il tono di John era piatto, quasi come se un automa si fosse sostituito a lui.
“Ha qualcosa da nascondere” dedusse Michelle.
In realtà, la storia secondo cui Kay Brooks era proprio la cugina di suo cognato, le era sempre apparsa tutt’altro che credibile ed era sempre stata convinta che quei due avessero in comune soltanto il cognome.
Gli ricordò: «Sto ancora aspettando di scoprire perché mi hai telefonato. Nel caso ti sia sfuggito, io sono qui per lavorare.»
«Lo so» ammise John. «Volevo chiederti com’è la situazione, lì alla radio.»
Michelle sospirò.
«Come vuoi che sia? Tutti continuano a parlare di Kay, ma lo fanno sempre meno spesso e sempre più sottovoce. Lei ha scelto di morire, ma per tutti gli altri la vita continua. La direzione è soddisfatta, perché Rebecca Shepard è comunque una buona conduttrice e...»
John la interruppe: «Cosa mi dici della Shepard?»
Michelle rifletté.
«Mhm... È una conduttrice radiofonica. Cos’altro vuoi sapere?»
«So di che cosa si occupa!» sbottò John. «Ascolto ogni pomeriggio la sua trasmissione. Parla di pettegolezzi a proposito di gente della politica o di altre cose che non mi interessano più di tanto. Anche Kay lo faceva?»
«No. Lei si occupava di questioni più serie.»
«Come il caso Flint, per esempio» borbottò John. «È così?»
«Sì» rispose Michelle, secca, «Ma non capisco perché dobbiamo parlarne adesso. Forse ha ragione mia sorella: dovresti prenderti una pausa, smetterla di occuparti di Kay Brooks e...»
«Al diavolo le pause!» replicò John. «Forse tu non te ne rendi conto, ma...»
Michelle non ne poteva più. Fin da quando John e Suzy avevano scoperto che aveva trovato un impiego alla reception di Radio Scarlet, non avevano fatto altro che alludere alla Brooks e, dopo la sua morte, aveva iniziato a trovare oltremodo irritante quell’atteggiamento che, seppure fosse stato abbandonato da Suzy, in suo marito era ancora persistente.
«Sta arrivando qualcuno» mentì, «Quindi devo lasciarti.»
Senza aspettare una risposta, buttò giù il telefono e si allontanò dalla reception, decisa a scoprirne di più a proposito dell’incontro tra Anthony e Penny, che con tutta probabilità coinvolgeva anche Samuel.
Si diresse verso l’ufficio in cui era sicura di trovarli e vide le proprie certezze incrementare nel momento in cui, oltre la porta, udì delle voci.
Parlavano troppo fitto, affinché le fosse possibile udire la loro conversazione. Le parve, comunque, di sentire il nome di Kay.
Presa da una curiosità insormontabile, bussò alla porta.
Nessuno rispose, ma il compenso Samuel spalancò la porta.
Rimasero a fissarsi per qualche istante, infine lui le domandò: «Possiamo fare qualcosa per te?»
Michelle scosse la testa.
«No, volevo sapere io, piuttosto, se potevo fare qualcosa per voi.» Senza aspettare un invito esplicito che - ne era certa - non sarebbe mai arrivato, varcò la soglia della stanza, penetrando all’interno dell’ufficio. «Anche voi...»
Si interruppe nel notare l’occhiataccia di Anthony.
«Non abbiamo bisogno di niente» puntualizzò il marito di Kay. «Stavamo parlando e, anzi, l’unica cosa che ci serve è essere lasciati soli.»
Michelle annuì.
«Sì, scusate se vi ho disturbato.» Li fissò tutti e tre, uno dopo l’altro, infine domandò, ancora: «Non c’è Theresa?»
Le parve che Samuel sussultasse.
«Theresa?» ripeté. «Perché avrebbe dovuto esserci?»
«Di solito, quando ci sei tu, c’è anche lei.» Michelle sorrise. «Mi fa piacere, quando vi vedo insieme. Theresa è molto meno imbronciata, quando parla con te delle strane avventure del suo passato.»
Michelle si accorse che Penny la guardava.
«Strane avventure del suo passato?» ripeté. «A cosa ti riferisci?»
Michelle ridacchiò.
«Niente di particolare. Una volta l’ho sentita - per puro caso, ovviamente - mentre raccontava a Samuel che, da piccola, il suo hobby era nascondersi negli armadi. Ci rimaneva per ore intere, per vedere se qualcuno si fosse degnato di cercarla.» Si fece seria. «Non deve avere avuto un’infanzia molto felice. A quanto ho capito aveva una sorella più grande, con la quale non andava per niente d’accordo.»
Samuel puntualizzò: «Dubito che Theresa sarebbe molto soddisfatta, se sapesse che stai raccontando i fatti suoi a tutti.»
«Non li sto raccontando a tutti» obiettò Michelle, «E poi siamo tra colleghi... Qui tutti conoscono Theresa.» Si interruppe un attimo, ma prese a fissarlo. «A volte ho l’impressione che qualcuno preferirebbe non conoscerla, ma questo è un altro discorso.»
«Te ne stavi andando» le ricordò Penny. «Per cortesia, ci lasci da soli?»
«Sì, scusate.» Michelle si diresse verso la porta. «Scusate per il disturbo.»
Uscì, richiudendola alle proprie spalle.
“È meglio che io non torni più qui, stamattina.”

«Maledetta impicciona» borbottò Samuel, tra i denti, avvicinandosi a Penny. «Siamo sicuri che non sia imparentata con la Freeman?»
«Temo proprio che non lo sia» confermò Penny. «Michelle è originaria di Ambermount.»
Samuel sussultò.
Non ebbe il tempo di replicare, dal momento che Anthony osservò: «È un caso davvero molto curioso.»
«Appunto» confermò Penny. «È un caso.»
«Sarà anche un caso» obiettò Anthony, «Ma ho la vaga impressione che, da quando Kay ci ha lasciati, il caso si stia dando un po’ troppo da fare.»
Per quanto la rivelazione di Penny non l’avesse lasciato indifferente, Samuel cercò di farlo riflettere.
«Michelle era di Ambermount molto tempo prima che la presunta figlia di Marissa Flint ti invitasse da quelle parti.»
Anthony non replicò, ma Samuel non se ne sorprese: lo conosceva da molti anni, ormai, e sapeva che preferiva il silenzio piuttosto che la prospettiva di dover dare ragione a qualcun altro.
«La penso come voi» confermò Penny. «Per quanto sia meglio non sottovalutare il fattore Ambermount - perché quella donna ha invitato Anthony a raggiungerlo là proprio quella notte? è questo che dovremmo chiederci - non dovremmo fissarci sugli aspetti più insignificanti. Michelle è soltanto una receptionist impicciona che lavora qui già da un anno e che non vede l’ora di andarsene, perché aveva aspettative diverse, per la propria vita. Non si sente felice e, per sentirsi meglio, cerca di convincersi che anche gli altri non siano soddisfatti di quello che hanno.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Ti sei data alla psicologia, ultimamente?»
Penny sorrise.
«Conosco Michelle, ormai.»
Samuel guardò Anthony. Anche lui sembrava impressionato dalle osservazioni di Penny, nonostante fino a quel momento avesse sempre considerato a malapena le parole che uscivano dalla sua bocca.
«Dovremmo chiederci perché la figlia della Flint mi ha invitato dalle parti di Ambermount, quella notte» convenne. «Ne abbiamo già parlato e abbiamo dedotto che il comportamento di quella donna è stato tutto fuorché convenzionale.»
«Inoltre» aggiunse Samuel, «Quella donna era nello stesso locale in cui siamo andati il venerdì precedente alla morte di Kay.»
Anthony scosse la testa.
«Non possiamo esserne sicuri.»
«Non possiamo esserne sicuri» ammise Samuel, «Ma è una circostanza a cui hai fatto caso fin da subito, prima ancora di tutto il resto.» Si avvicinò ad Anthony, che era accanto alla finestra. «E se K. Flint...»
«Kay Flint» lo interruppe Penny, «Hai detto?»
«K. Flint.»
«Kay Flint, K. Flint... è quasi uguale.»
Anthony si girò a guardarla.
«Complimenti Penny, oggi stai superando te stessa. Per caso hai fatto qualche cura per lo sviluppo dell’intelligenza, ultimamente?»
Samuel fu costretto a un notevole sforzo, per non replicare. Cercando di ignorare le parole di Anthony, si rivolse alla ragazza: «Deve trattarsi di una coincidenza... l’ennesima coincidenza, a quanto pare.»
«Appunto» confermò Penny. «Qui c’è qualcosa che non torna, Samuel.»
«Assolutamente. Non...» Fu interrotto dal telefono che squillava. «Puoi rispondere tu, Penny?»
Lei, che era la più vicina all’apparecchio, non esitò. Fu una comunicazione breve e, non appena ebbe riattaccato, annunciò: «Era Michelle. Mi ha chiesto se posso raggiungerla un momento.»

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Capitolo 16
*** Samuel e Theresa ***


Anthony camminava avanti e indietro, sbuffando.
Quando finalmente si fermò, guardò per l’ennesima volta l’orologio, prima di commentare: «A quanto pare Penny ha deciso di abbandonarci.»
Samuel si appoggiò alla parete.
«Presumo che stia aiutando Michelle.»
«Non è il suo orario di lavoro, questo. Anzi, non è nemmeno giorno di lavoro, per lei.»
Samuel ignorò quell’osservazione.
«Credo, comunque, che non ci sia molto altro da dire, se non che...»
Anthony lo interruppe: «Se non che il quoziente intellettivo di Penny è talmente basso che avrei fatto meglio a non chiamarla nemmeno.»
Samuel si irrigidì.
Quell’ennesima allusione era più di quanto potesse sopportare.
«Si può sapere che senso ha prendersela con lei?! Penny non è una stupida. È ovvio che, se prendi una ragazza che della reception e pretendi che sappia come Kay affrontava il proprio lavoro, non otterrai grandi risultati.»
«Con lei, non andremo da nessuna parte» obiettò Anthony. «Certo, magari a te fa un’impressione diversa perché, tutto sommato, come aspetto si differenzia un po’ da Theresa e, chissà, in camera da letto si dà da fare.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Non so che cosa tu ti sia messo in testa a proposito di me e Penny...»
Anthony lo interruppe: «Non importa che ti ostini a negare. Tutti, qui dentro, sanno che tu e Penny andate a letto insieme.»
«Tutti, qui dentro, hanno una fantasia immensa» puntualizzò Samuel. «Alla maggior parte di questa gente basta vedere un uomo e una donna mentre parlano insieme, per farsi le fantasie più assurde. Vedrai, tempo un decennio o due, quando l’omosessualità non sarà più un tabù, le fantasie se le faranno anche nel veder parlare persone dello stesso sesso... Sempre ammesso che, andando in pensione Veronica Freeman, l’attitudine al pettegolezzo non diminuisca, cosa di cui comunque non sono particolarmente convinto.» Si allontanò dalla finestra a poca distanza da lui e si avviò verso la porta. «Direi che, per il momento, non abbiamo altri elementi.»
«Quindi» volle sapere Anthony, «Stai pensando di andartene?»
Samuel annuì.
«Mi sembra la cosa migliore da fare.»
«E, tanto per curiosità» insisté Anthony, «Che cos’hai di così importante da fare?»
Samuel era deciso a non rivelargli l’idea che era maturata nella sua mente nei minuti immediatamente successivi al momento in cui Penny era uscita dall’ufficio, diretta verso la reception.
«Niente di che. Vado da Theresa.»
«T-Theresa...» Anthony sembrava piuttosto sorpreso da quell’affermazione. «Per caso fa parte dei tuoi piani per allontanare i sospetti?»
«No.» Samuel scosse la testa con fermezza. «In realtà non sono così preoccupato da quello che la gente dice a proposito di me e Penny. Credo solo che Theresa meriti di avere al suo fianco un uomo che la sa sorprendere, di tanto in tanto.»
Anthony aggrottò la fronte.
«Che intenzioni hai? È da settimane, per non dire mesi, che cerchi di evitarla.»
Samuel sospirò.
«Sono un uomo single e indeciso. È quello che dicono tutti, no?» Fermamente deciso a non aggiungere altri dettagli, aprì la porta. «Ci vediamo lunedì mattina, Anthony. Non posso permettere che Theresa aspetti ancora a lungo.»
«No» borbottò Anthony. «Se aspetta ancora un po’, fa in tempo a invecchiare.»
Samuel preferì non commentare. Uscì e richiuse la porta alle proprie spalle, deciso a non perdere nemmeno un secondo di troppo. La riuscita del suo piano stava tutta nella sua capacità di persuasione e, per poterla mettere in pratica, aveva bisogno di raggiungere Theresa il prima possibile, sperando di trovarla in casa.

Anthony tornò a sedersi davanti al computer di Kay. Controllò ogni singolo file Wordpower, leggendo ciascuno da cima a fondo, maledicendo la propria decisione di lasciare gli occhiali a casa. Anche se, per fortuna, i suoi problemi erano talmente lievi da non condizionarlo troppo nella lettura, gli occhi gli bruciavano.
Si allontanò sbuffando.
Non avrebbe ricavato niente, l’aveva sempre saputo.
Non avrebbe ricavato niente, ma aveva mentito a se stesso, sforzandosi di convincersi di avere delle chance.
Kay si era suicidata, secondo le ricostruzioni ufficiali.
Si era chiusa in ufficio, si era versata un bicchiere di aranciata, ci aveva messo dentro tre pillole di sonnifero che là dentro si erano sciolte e se l’era scolato. Sull’involucro delle pillole non c’erano impronte di altri. La stanza era chiusa dall’interno e non c’erano finestre. Sarebbe stato impossibile provare che qualcuno l’aveva uccisa.
Anthony si alzò in piedi e si diresse verso la finestra e guardò oltre. La tarda mattinata del 14 settembre 1991 non stava rivelando particolari sorprese e il mondo non si era fermato. Qualche metro più in basso c’erano persone che continuavano a vivere senza chiedersi che cosa fosse accaduto a Kay Brooks.
“Loro non la conoscevano. Loro non condividevano la vita con lei.”
Quella riflessione colpì Anthony come una coltellata, per le incredibili conseguenze che aveva sempre cercato di ignorare.
Poteva dire di avere conosciuto davvero sua moglie?
Poteva dire di avere mai saputo chi fosse, se gli aveva sempre dato l’impressione di essere una persona senza un passato?
Chissà, forse aveva davvero qualche motivo per togliersi la vita.
“No.”
Anthony si allontanò dalla finestra, scuotendo la testa.
Non era possibile.
Kay poteva anche essere una donna senza un passato, poteva avere avuto qualcosa da nascondere, sui primi ventitré anni della propria vita, ma non intendeva morire prima del tempo, questo Anthony lo sapeva per certo. Non doveva arrendersi alle logiche che tutti, intorno a lui, stavano cercando di vendergli.
Marissa Flint era stata, e sarebbe stata sempre, il punto di partenza.

«Oh, sta uscendo anche Anthony» mormorò Michelle.
Davanti al banco della reception, Penny si girò a guardarlo, felice che ci fosse almeno un diversivo, oltre che la possibilità di andarsene senza che la collega cercasse di trattenerla.
A Michelle interessava soltanto spettegolare, oltre che lamentarsi di un lavoro che le era piovuto dal cielo perché, per qualche strana ragione, il direttore in persona aveva pensato che fosse la ragazza ideale per occupare la posizione che le aveva affidato.
Quando Anthony fu vicino, Penny osservò: «Anche tu ne hai avuto abbastanza, a quanto pare.» Rifletté un attimo, poi aggiunse: «Samuel andava piuttosto di fretta.»
«Sì» confermò Anthony. «Mi ha detto che doveva incontrare Theresa, quindi non ho dubbi che non vedesse l’ora di essere da lei. Per amore si fa di tutto, dopotutto.»
Penny cercò di non mostrare il proprio disgusto.
“Amore?!”
Anthony parlava di amore.
Com’era possibile, anche solo lontanamente, che un uomo delizioso come Samuel potesse provare amore per quell’insopportabile lunatica?
«Contento lui...» borbottò.
Anthony salutò Michelle e poi si diresse verso l’uscita.
«Vieni anche tu, Penny?»
Penny colse l’occasione al volo. Era da almeno mezz’ora che non aspettava altro che il momento in cui si sarebbe liberata di Michelle.
Non appena furono fuori dalla porta, Anthony osservò: «Theresa non ti piace, vero?»
«No, per niente. Ha sempre cercato di farmi sentire una nullità.»
Penny lo vide arrossire.
“Evidentemente è convinto che Theresa non abbia tutti i torti.”
Dal momento che Anthony non disse nulla, scelse di astenersi nel ripetere ad alta voce il proprio pensiero.
«Non preoccuparti» la rassicurò lui, dopo qualche istante. «Theresa è così. Chissà, magari sta andando in menopausa in anticipo.»
Penny ridacchiò.
«Vista la scenata che ha fatto al povero Raymond - un tipo poco sopportabile, lo ammetto - qualche tempo fa, non mi sorprenderebbe.»
Anthony osservò: «Non sapevo che Theresa avesse a che fare con Raymond.»
«In effetti, di solito, non ha a che fare con Raymond» precisò Penny. «Diciamo che, una volta, lui si è seduto sui suoi occhiali. Lei era completamente fuori di testa, anche se lui li ha portati dall’ottico e si è accollato tutte le spese.»
Anthony alzò gli occhi al cielo.
«Ora capisco.»
«Che cosa?»
«Perché ci sia tanta gente che spettegola su storie immaginarie, qui dentro. Non è sorprendente, dato che quello che accade davvero è di una noia mortale. Non trovo niente di interessante in un tizio che si siede sugli occhiali di Theresa e in lei che inizia a urlare come una matta. Deve essere andata così. Io, però, non mi sono nemmeno accorto che sia accaduto.»
Penny annuì.
«Per forza, tu non c’eri. È stato il pomeriggio prima della...» Esitò. «Prima di...»
«Ho capito, ho capito» le assicurò Anthony. «Ora scusami, ma vado a casa. Ci vediamo la prossima settimana.»
Penny lo salutò e lo guardò mentre se ne andava.
Un lieve brivido la scosse.
“C’è qualcosa...”
Quel pensiero svanì sul nascere. Non sapeva nemmeno perché, all’improvviso, aveva avuto l’impressione che un dettaglio fondamentale le sfuggisse.

Quando il campanello suonò, Theresa posò la rivista sul tavolo.
Non aspettava visite, quindi esitò un istante, prima di avviarsi verso la porta. Doveva essere qualche scocciatore.
«Chi è?» domandò, al citofono.
«Sono Samuel» rispose una voce, davanti alla porta di compensato dalla quale si accedeva al suo appartamento.
Il portone non si chiudeva bene. Samuel doveva essere salito.
Theresa esitò ancora, forse troppo a lungo, dal momento che sentì ancora la voce dell’uomo dei suoi sogni.
«Mi apri?»
«Sì.»
Theresa aprì, rendendosi conto soltanto in un secondo momento che non aveva nemmeno controllato, davanti allo specchio, se la sua acconciatura fosse impeccabile. Inoltre non si era tormentata con i soliti dubbi interiori a proposito dell’apparenza che aveva con gli occhiali indosso, nonostante per lei fosse sempre stato problematico capire se Samuel la preferiva con o senza.
Lui, però, non sembrava affatto fare caso agli occhiali o ai capelli.
«Scusami se mi sono precipitato qui all’improvviso.»
Theresa si fece da parte.
«Non c’è problema. Entra pure.»
Samuel non si mosse.
«Ti rubo solo qualche istante.»
Theresa abbassò lo sguardo.
“Lo sapevo.”
Samuel doveva essere venuto da lei perché, per qualche ragione, si era sentito costretto a farlo, e non certo per vederla.
“Meglio così” cercò di convincersi.
Non era opportuno frequentare un uomo che, presto o tardi, avrebbe avuto una pessima reputazione, a Scarlet Radio. Tutti erano al corrente di quali fossero i rapporti tra Samuel e Kay, anche se lui sembrava averla dimenticata molto in fretta, per correre dietro a quella svampita che lavorava alla reception. Tutti sapevano, inoltre, che Anthony era convinto che sua moglie fosse stata assassinata. Non ci sarebbe voluto molto prima che i sospetti cadessero proprio su Samuel, che con la vittima doveva sempre avere avuto un rapporto tormentato.
Theresa si sentì sollevata.
Si stava disintossicando, forse.
Seppure l’unico obiettivo della sua vita fosse ancora quello di potersi sposare, prima che fosse troppo tardi, iniziava a prendere in considerazione l’idea che il suo futuro marito potesse essere qualcun altro.
«Stavo pensando» le rivelò Samuel, «Che dovremmo concederci un po’ di tempo insieme, da qualche parte in cui non ci conoscono. Sai, i pettegolezzi non mi piacciono.»
Theresa alzò lo sguardo e spalancò gli occhi.
«Un po’... un po’ di tempo... insieme?»
Samuel sorrise.
«Sì, certo. Capisco che il weekend sia già iniziato, ma secondo me facciamo ancora in tempo a fare qualcosa. Che cosa ne dici?»
Che cosa ne diceva? Innanzi tutto che non si era disintossicata affatto, nonostante tutte le considerazioni di poco prima.
“Dì di no” ordinò alla parte razionale di se stessa.
La parte più razionale la ignorò.
«Secondo me è una buona idea. Cosa pensi di fare?»
«Potremmo andare via, in un posto in cui non ci conosce nessuno, sperare che le ore trascorrano il più lentamente possibile...»
Theresa aggrottò le sopracciglia.
«Non è mai successo, finora.»
«C’è sempre una prima volta.»
«Va bene.»
Era arrendevole.
Era troppo arrendevole, e non andava bene.
Samuel le domandò, a quel punto: «Ti basta un’ora per prepararti? Anche a me serve un po’ di tempo, dato che ho un po’ di cose da sistemare.»
Theresa annuì.
«Sì, un’ora mi basta.»
Le sarebbero stati sufficienti anche appena dieci minuti, in caso di necessità. Non poteva negare a se stessa che per Samuel era pronta a tutto.

Theresa era già pronta e lo aspettava davanti al portone.
Samuel si limitò ad accostare e ad abbassare il finestrino.
«Sali!»
Theresa sorrise, salutandolo con un cenno della mano. I suoi capelli castani erano raccolti in quella che a Samuel parve un’acconciatura elaborata. Portava un abito lungo fino al ginocchio, di colore rosso. Era la prima volta in cui Samuel la vedeva indossare un indumento di un colore vistoso: al lavoro portava sempre pantaloni e giacche dai colori sobri.
Gli parve che esitasse, quindi ribadì, ancora una volta: «Vieni su!»
Non servì ripeterlo ulteriormente, dato che finalmente Theresa aprì la portiera, lasciò sul sedile posteriore lo zaino che aveva portato con sé e si sedette accanto a lui.
«Allora?» volle sapere. «Dove mi porti, per quello che resta del weekend?»
Samuel si irrigidì.
Non poteva dirglielo; non ancora, almeno.
«Aspetta e vedrai.»
Forse, se tutto fosse andato per il verso giusto, Theresa non avrebbe mai sospettato niente... ma non era il caso di essere così ottimista.
«Non pensavo che tu fossi un uomo così misterioso» ribatté lei. «Non credo che tu abbia mai avuto dei segreti.»
Samuel si sforzò di apparirle rilassato, mentre replicava: «Dipende da che significato dai a questo termine.»
«I segreti sono segreti, non ci sono tante alternative» puntualizzò Theresa, mentre Samuel controllava nel retrovisore che nessuno stesse transitando. «Ci sono persone che sono un libro aperto per tutti, mentre altre...»
Si fermò, ma Samuel comprese perfettamente che cosa intendesse.
«Sono d’accordo con te» ammise, immettendosi sulla strada. «Intendevo semplicemente dire che, per me, non tutto può essere definito con questi termini. Per esempio, poche persone conoscono i tuoi gusti in fatto di biancheria intima. Non è che tu lo stia mantenendo segreto. È solo che ritieni sconveniente, imbarazzante o magari soltanto inutile parlarne con le altre persone. Quindi, allo stesso modo, potrebbe esserci qualcosa di me che ho sempre preferito non dire, perché ritenevo fosse meglio tenerlo per me.»
«Credo di capire a che cosa tu ti stia riferendo» replicò Theresa, «Ma in questo caso non mi sembra si trattasse di qualcosa che riguardava solo te. In una relazione clandestina, c’è sempre un’altra persona.»
Samuel sospirò.
«Ti prego, Theresa, lascia perdere.»
Il suo tono, se ne rese conto troppo tardi, era stato tutt’altro che convincente. Theresa non avrebbe mai rinunciato alle proprie fantasie, perché era proprio di fantasie che viveva, quando si trattava di fare ipotesi sulle avventure sentimentali altrui.
«Come faccio a lasciare perdere? Come faccio proprio oggi, che mi hai invitata a prendermi una vacanza insieme a te? Come faccio, Samuel? Il fatto che Kay sia morta...» Theresa si interruppe. «Scusa, Sam. Non avrei dovuto fare il suo nome. Erano questi gli accordi, tra di noi, no?»
Samuel scosse la testa.
«No, non sono mai esistiti questi accordi e...» Frenò, per schivare un uomo che attraversava la strada in bicicletta, senza nemmeno degnarsi di guardare che non stessero sopraggiungendo automobili. «Certi idioti non dovrebbero andarsene in giro per strada!» Diede un colpo di clacson e ripartì. «Il fatto che io e Kay fossimo amici» riprese, «Ha sempre destato sospetti. In realtà, te lo posso garantire, io e lei siamo sempre stati soltanto amici.»
«Tu la amavi» lo accusò Theresa. «Mi hai sempre messa da parte per lei.»
«Sì, è vero, io la amavo» convenne Samuel, «Ma questo non significa che Kay mi ricambiasse o che Kay lo sapesse. Ho solo commesso l’errore di non essere capace di togliermela dalla testa prima che fosse troppo tardi. Credo che il mio interesse per lei fosse qualcosa di patologico.»
«Sì, credo che sia la parola giusta» osservò Theresa. «Se davvero è come dici tu, trovo assurdo che tu abbia distrutto, per lei che nemmeno ti voleva, tutto quello che avrebbe potuto esserci da noi.» Samuel la intravide mentre si girava verso di lui. «Ti prego, Samuel, dimmi che non accadrà di nuovo. Dimmi che potremo essere felici insieme, nonostante tutto.»
Samuel sospirò.
«Lo spero.»
Era sincero.
Kay non c’era più e forse lui e Theresa avrebbero potuto avere un futuro insieme. Prima, però, c’erano parecchie cose da sistemare. Era quella la ragione per cui, di lì a poco, avrebbe imboccato la strada che conduceva verso Ambermount.

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Capitolo 17
*** Jamie ***


«Avanti, sorridete» esclamò Sheila, con la macchina fotografica sospesa a mezz’aria, sperando che Dylan e l’altro bambino si decidessero a mettersi in posa.
Anche la madre dell’altro fece lo stesso invito.
«Non farle perdere tempo, Jamie.»
Dunque l’amico di Dylan si chiamava Jamie. Sheila era sicura che anche la madre, una tizia mingherlina con i capelli tinti di biondo platino, si fosse presentata, ma non riusciva a ricordarne il nome.
Finalmente i due si misero in posizione, davanti a un albero che stava iniziando a perdere le foglie; secondo Sheila non era il massimo, ma almeno era meglio del cassonetto dei rifiuto da loro scelto inizialmente.
«State fermi lì!» li pregò.
Scattò.
Solo a quel punto Dylan e Jamie si mossero.
«Speriamo che sia venuta bene» osservò Sheila, mentre la madre dell’altro bambino si voltava verso di lei.
«Perché non dovrebbe?»
«Non saprei» ammise Sheila, «Ma il mio compagno potrebbe non apprezzare il mio lavoro. Sai, lui faceva il fotografo.»
L’altra sorrise e Sheila la osservò più attentamente. Non doveva essere tanto vecchia, poteva avere anche solo venticinque anni.
“Questo significa” realizzò Sheila, “Che era più giovane di me quando ha messo al mondo quel bambinetto che non fa altro che ridere e urlare.”
Quella sconosciuta iniziava a farle compassione.
Oppure...
“E se non fosse figlio suo?”
Sheila si era ripromessa di non intromettersi troppo negli affari privati della madre di Jamie, ma non riuscì a farne a meno.
«Scusa se ti faccio una domanda indiscreta...»
L’altra non parve spaventata da quella prospettiva.
«Dimmi pure.»
«Vedo che sei così giovane...» Sheila esitò. «Anch’io lo sono, ma Dylan non è figlio mio. Tu invece...»
«Vuoi chiedermi se sono la vera madre?»
«Già.»
La ragazza con i capelli biondo platino non parve particolarmente imbarazzata.
«Sì, sono la vera madre.»
«Eri praticamente una bambina, quando l’hai messo al mondo, allora» osservò Sheila. «Non per farmi gli affari tuoi, ma quanti anni hai?»
L’altra sorrise.
«Ne ho ventisei. Ne avevo diciotto quando sono rimasta incinta.»
«E non te ne sei mai pentita?»
«Certe cose non si scelgono... o almeno, in quella situazione c’è chi ha avuto la possibilità di scegliere, e ha pensato bene di darsi alla macchia. Io non potevo.»
«Oh...» mormorò Sheila. «Non avevo capito che fossi una madre single. Mi dispiace.»
«Non è poi così terribile» obiettò l’altra ragazza. «Se penso che Jamie avrebbe potuto crescere insieme a un uomo che non sarebbe mai stato capace di amarlo...»
«Magari, conoscendolo, avrebbe cambiato idea.»
«Forse... ma non ha voluto nemmeno provarci.»
Sheila abbassò lo sguardo.
«Mi dispiace.»
Si rese conto di averlo già detto poco prima, ma non c’erano altre parole per commentare la sorte della madre del piccolo Jamie. Se si fosse ritrovata lei, al suo posto, da sola e con un figlio da mettere al mondo, sarebbe impazzita.
«È tutto a posto, non preoccuparti» ribadì l’altra, che iniziava a sembrare desiderosa di cambiare discorso. «Scusa, credo di essermi dimenticata il tuo nome.»
Sheila ridacchiò.
«Allora siamo in due. Mi chiamo Sheila. Tu?»
«Penelope.»
«Cosa fai nella vita?»
«Lavoro in una radio.»
Sheila spalancò gli occhi.
«Wow! Che bella cosa! Anche la madre di Dylan lavora in una radio. Spero che tu non sia noiosa come lei, che non fa altro che parlare di cronaca e di attualità.»
Penelope rise.
«Forse hai capito male. Io lavoro alla reception. »
«Beh, non vedo dove sia il problema» ribatté Sheila. «Se anche Rebecca lavorasse alla reception, almeno non romperebbe le scatole a chi ascolta la radio.»
Penelope spalancò gli occhi.
«Rebecca?!»
Sheila annuì.
«Rebecca Shepard, di Radio Scarlet. Forse hai già sentito parlare di lei.»
«Eccome, se ho sentito parlare di lei» confermò Penelope. «Faccio la receptionist proprio a Radio Scarlet.»
Quella sì che era una notizia!
«Com’è piccolo il mondo.»
«Già, com’è piccolo il mondo» borbottò Penelope. «Mi raccomando, non dire niente a Rebecca.»
«Niente... di cosa?»
Penelope le indicò i bambini, che parlottavano davanti all’albero spoglio.
«Alla radio nessuno sa che ho un figlio. Preferisco evitare pettegolezzi... e ti assicuro che i miei colleghi non pensano ad altro.»
Sheila sorrise.
«Non preoccuparti. Penso che Rebecca non abbia una grande stima di me, quindi ci saranno poche occasioni di parlare di te. Quando mi rivolge la parola è solo per lamentarsi che sto rovinando suo figlio.»
Penelope aggrottò le sopracciglia.
«Non mi sembri così terribile, quando sei con lui.»
«Rebecca non la pensa così. È convinta che, al mondo, ci siano solo delle merde, a parte lei.» Sheila avvampò, nel notare che Dylan si era girato verso di lei proprio quando aveva usato quell’espressione poco elegante. Era sicuro che se lo sarebbe lasciato sfuggire con la madre, incrementando ulteriormente le tensioni. «Non fa altro che criticare chiunque... a parte il suo fidanzato, ovviamente. È convinta che sia l’uomo perfetto, ma...»
Penelope puntualizzò: «Non credo che Rebecca sarebbe molto felice, se sapesse che tu fai pettegolezzi sul suo fidanzato.»
Sheila le assicurò: «Non lo scoprirà.» Si rivolse al figliastro. «Non glielo dirai, vero, Dylan?» Quando il bambino annuì, precisò, con Penelope: «Raymond non piace nemmeno a Dylan. E poi, resti tra di noi», Sheila abbassò la voce, «Proprio ieri sera sono uscita con Nick - il padre di Dylan - e l’ho visto. Ho fatto finta di niente, perché Raymond non sa nemmeno chi sono. Era insieme a una donna, una bellissima donna, tra l’altro... e dai loro atteggiamenti non si poteva certo dire che fossero solo amici.»
Penelope osservò: «Conosco Raymond... o almeno, parlo con lui, di tanto in tanto. Non mi sta molto simpatico.»
«Nemmeno a me, anche se non lo conosco affatto» convenne Sheila. «Quella stronza di Rebecca...» Si morse la lingua e diede un’occhiata a Dylan che, per fortuna, sembrava non avere sentito nulla. «Dicevo, Rebecca non è sicuramente una mia cara amica, ma mi dispiace per lei. Sta dando troppa importanza a questo Raymond e lo sta sopravvalutando. A quel tizio non importa niente di lei. Sono sicura che sta insieme a lei soltanto perché è ricca e famosa. Lei, però, accusa Nick di avere fatto il mantenuto, e di farsi mantenere tuttora, quando anche il tizio con cui sta insieme adesso non è che sia molto diverso. Non...»
Venne interrotta dalle voci dei bambini.
«Ci fai un’altra foto, Sheila?» Dylan la guardava con aria supplichevole. «Ti prego. Se quell’altra non è venuta bene...»
Sheila sorrise.
«Sì, certo, mettetevi di nuovo davanti all’albero.»
I due si posizionarono e Sheila li guardò, attraverso l’obiettivo.
Jaime si girò.
«Stai fermo» lo pregò sua madre.
Sheila scattò.
Non era sicura affatto sicura che la fotografia fosse venuta bene.
«Quei due si muovono troppo» mormorò, «E poi...» Rise, guardando Penelope. «...E poi Nick dice sempre che a volte le foto non vengono bene.» Abbassò gli occhi sulla macchina fotografica. «I colori vanno a fuoco in modo diverso, attraverso la lente dell’obiettivo.»
«Tutto questo mi ricorda qualcosa» osservò Penelope. «Mi sembra che Rebecca ne abbia parlato alla radio, proprio in questi giorni.»
«Sì, può darsi.»
«Era qualcosa sul rosso, sul verde e sul blu e aveva a che vedere sia con l’obiettivo della macchina fotografica sia con l’occhio umano.»
Sheila non ricordava di avere sentito nulla del genere alla radio - non prestava molta attenzione alle trasmissioni condotte da Rebecca, quando le capitava di ascoltarle - ma era certa che Nick avesse commentato quella parte.
«Proprio così» confermò, «Anche se la storia dell’occhio umano non l’ho capita.»
Penelope ridacchiò.
«Nemmeno io, se devo essere sincera. Quella storia che il blu e il verde si riflettono davanti alla retina, mentre il rosso si riflette dietro, non mi è molto chiara. Inoltre non ho capito che cosa c’entri con la fotografia.»
«Niente, credo» ammise Sheila, «E, visti gli argomenti di cui parla di solito Rebecca in trasmissione, credo che c’entrino poco anche con quel tizio che si è fatto beccare in giro mano nella mano con l’amante.» Ridacchiò. «Chissà, magari quel politico è un parente alla lontana di Raymond, dato che sembrano avere le stesse abitudini.»

«Vado da sola» chiarì Rebecca.
Raymond si avvicinò a lei.
«No.»
Rebecca si allontanò.
«Dylan è mio figlio» gli ricordò.
Raymond ne aveva abbastanza. Rebecca non gli avrebbe mai permesso di controllarla, e non era quella l’idea di relazione sentimentale che aveva in mente. Più il tempo passava e più le donne erano convinte che il loro ruolo non fosse quello di servire e assecondare il loro uomo. Raymond si era illuso, in un primo tempo, che non fossero tutte come Avah, invece Rebecca si stava rivelando come fatta dello stesso stampo. L’unica differenza era che Avah non aveva problemi ad ammetterlo, mentre Rebecca fingeva di essere come tutte le donne normali.
«Non me ne importa niente se è tuo figlio» sbottò, infastidito dal fatto che la sua fidanzata continuasse a mettere al primo posto quel moccioso. «Va bene, devi andarlo a prendere, devi tenerlo con te per il resto del giorno e devi sacrificare la tua libertà per lui, ma lasciami almeno venire con te.»
Rebecca sospirò.
«Lo sai, non gli piaci.»
«Non gli piaccio perché tu non gli hai insegnato come si sta al mondo» replicò Raymond. «Dato che sei una pessima madre, avresti fatto meglio ad abortire. Almeno non ti saresti trovata quel pacco sempre da portare da qualche parte e avresti potuto essere libera di essere te stessa.»
Rebecca si girò di scatto verso di lui.
«Tu non hai capito proprio niente di me.»
«No, sei tu che non hai capito niente di me» obiettò Raymond. «Ne ho abbastanza di tutte le tue cazzate da donna indipendente.»
«Allora, se ne hai abbastanza di me» ribatté Rebecca, «Puoi sempre andartene e lasciarmi in pace una volta per tutte.»
Era proprio quello che Raymond avrebbe fatto, se Avah non gli avesse imposto di continuare a trascorrere il proprio tempo con quella stronza. Poteva essere importante, diceva Avah, senza sapere quanto fosse difficile continuare a resistere.
Raymond sospirò.
«Va bene, va bene» si arrese. «Probabilmente hai ragione tu: chi non ha figli, non si può rendere davvero conto di che cosa significhi avere un figlio.»
Lo sguardo truce di Rebecca si fece più accomodante.
«Ci vediamo lunedì al lavoro.»
Raymond spalancò gli occhi.
Quella puttana aveva intenzione di escluderlo dalla propria vita per tutto il resto della giornata e per tutto il giorno seguente?!
Non vedeva l’ora che quella storia - di qualunque cosa si trattasse, perché Avah non si sbottonava molto facilmente - fosse finita, per potersi prendere il lusso di dire a Rebecca di quello che pensava di lei.
Si sforzò di non pronunciare una sola parola.
Riuscì nell’intento, ma a fatica.
«Sapevo che avresti capito» ebbe il coraggio di concludere quella stronza, pronta ad immergersi nella vegetazione di quel ridicolo parco frequentato da mocciosi che avevano l’età di Dylan. «Ci vediamo, allora.»
Raymond si sforzò di sorridere. Dalla relazione con la sua ex fidanzata - quella puttanella da quattro soldi che, invece di rimanergli accanto, se n’era andata non appena aveva appreso dei suoi problemi giudiziari - il trucco segreto era sorridere: solo in quel modo tutto era concesso... anche se Rebecca continuava a non essere troppo malleabile e continuava a insistere con le sue scemenze contro natura sul fatto di essere una donna indipendente.
«A lunedì, mia cara.»
La guardò andarsene e socchiuse per un attimo gli occhi, facendosi qualche deliziosa fantasia. Come gli sarebbe piaciuto prenderla per il collo e stringere fino a farle credere che l’avrebbe ammazzata. Non che avesse l’intento di farle davvero del male, ma sarebbe stato fantastico farglielo credere. Con la sua ex gli era capitato di farlo, un paio di volte, e lei aveva capito che doveva rimanere al suo posto.

«Sta arrivando Rebecca» osservò Sheila.
«Oh...» Penelope le parve spiazzata. «Allora è meglio che vada.» Si rivolse al figlio. «Jamie, sei pronto?»
Jamie protestò, ma Penelope fu inflessibile.
«Andiamo, Jamie, che il nonno ci aspetta.»
A quelle parole, il bambino si fece più accomodante. Sheila realizzò che doveva essere molto legato al padre di Penelope.
«È stato un piacere» le disse. «Spero di rincontrarti presto.»
Penelope sorrise, facendole un cenno di saluto con la mano.
«Lo spero anch’io.»
Dylan suggerì: «Potreste venire anche domani.»
«Domani passerai tutto il giorno con tua madre» gli ricordò Sheila. «Magari potrete mettervi d’accordo per vedervi durante la settimana. Jamie potrebbe venire a trovarti a casa di papà, un pomeriggio.»
«È meglio di no» ribatté Penelope. «Jamie al pomeriggio dovrebbe dedicarsi un po’ di più ai compiti. Vero, Jamie?»
Il bambino sbuffò.
«Lo sai: fare i compiti mi fa venire mal di testa.»
Penelope alzò gli occhi al cielo.
«Chissà perché fare i compiti ti fa venire mal di testa, leggere ti va venire mal di testa... ma giocare e guardare la televisione no!»
Jamie abbassò lo sguardo.
«Perché non mi credi, mamma?»
«Non vedo perché dovrei» ribatté Penelope. «Tutto quello che ha a che vedere con la scuola non ti piace.»
«Non è vero che non mi piace» insisté Jamie. «Mi piace leggere, ma mi bruciano gli occhi e mi viene mal di testa.»
Penelope sospirò.
«Va bene, leggere ti fa venire mal di testa, ma adesso andiamo.» Sembrava in allarme, come se temesse di essere sorpresa da Rebecca. «Te l’ho detto, il nonno ci aspetta.»
Jamie non oppose resistenza.
I due si allontanarono, proprio pochi istanti prima che sopraggiungesse Rebecca.

Nascosto dietro gli alberi, Raymond trattenne a stento un sussulto. Aveva già visto quella stronza dai capelli viola. Se la ricordava chiaramente: l’aveva vista in quel locale in cui Avah l’aveva portato, dandogli l’illusione di essere diventata un po’ più arrendevole. Quella ragazza doveva avere una ventina d’anni, ma Raymond l’aveva vista insieme a un uomo più vecchio; uno che doveva avere sui trentacinque anni, forse quaranta.
“È un’impicciona.”
L’aveva fissato con insistenza e, con la stessa insistenza, aveva guardato anche Avah. Per un attimo Raymond aveva ipotizzato che si trattasse di invidia. Dopotutto, chi non avrebbe desiderato essere bella e sexy come Avah? Quella ragazzina non lo sarebbe stata mai... Solo in un secondo momento, quando si era accorto che la ragazza dai capelli viola lo guardava con aria di disapprovazione, aveva capito che doveva esserci qualcosa di più.
A quanto pareva, quella piccola stronza era la fidanzata di quel fallito per cui Rebecca continuava a sborsare dei soldi e anche lei viveva a sue spese. Sarebbe stato bello se l’appartamento in cui quei due vivevano fosse stato avvolto dalle fiamme, magari mentre il moccioso era con loro, facendo morire carbonizzati tutti e tre. Finalmente Rebecca avrebbe capito che doveva vivere per compiacere lui, e non certo per occuparsi di un bambino. Certo, la morte di Dylan l’avrebbe distrutta, ma Raymond sapeva per esperienza che le donne disperate erano più facili da gestire. Con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a sposarla, a farla sfociare verso la pazzia e, a quel punto, ad appropriarsi del suo patrimonio, mentre lei sarebbe marcita in una clinica psichiatrica... Chissà, magari Avah sarebbe stata fiera di lui.
Guardò Rebecca che salutava la ragazza dai capelli viola e che se ne andava insieme al bambino, assicurandosi di essere nascosto tra le foglie.
Vide la ragazza prendere fuori da una delle tasche dei pantaloni un pacchetto di sigarette. Ormai Rebecca era lontana, quindi era il momento ideale per avvicinarsi a lei.
Le arrivò alle spalle.
«Scusa, me ne daresti una?»
La ragazza sussultò, nel voltarsi. Effettivamente non l’aveva sentito arrivare.
«Prego?»
«Mi potresti offrire una sigaretta?» le chiese Raymond.
La ragazza gli mostrò il pacchetto vuoto.
«Mi dispiace, ma questa era l’ultima.»
«Potresti offrirla a me» le suggerì Raymond. «Una ragazza giovane come te non dovrebbe rovinarsi fumando. Lo sai che il fumo invecchia la pelle?»
«Anche un bell’uomo come te non dovrebbe fumare» ribatté lei. «Sono sicuro che con le donne te la cavi alla grande... ma cosa direbbero, se la tua bellezza venisse a mancare?»
Per nulla estasiato dai complimenti - sarebbe stato molto lusingato se Avah gli avesse rivolto quelle parole, ma gli era del tutto indifferente che quella pantegana lo considerasse un uomo attraente - replicò: «Ai miei tempi le ragazze erano rispettose nei confronti degli sconosciuti.»
La pantegana dai capelli viola gli strizzò un occhio.
«Anche adesso lo siamo. Guarda al lato positivo: ti ho impedito di farti del male.» Si accese la sigaretta, aspirando una boccata di fumo. «Chissà, un giorno mi ringrazierai per questo.»
La ragazza se ne andò.
“Un giorno sarai tu a ringraziarmi, per averti risparmiato la vita in questo momento.”

«Mamma?»
Penny sospirò.
«Andiamo di fretta, Jamie» ricordò al figlio. «Cosa c’è?»
Erano ormai arrivati all’uscita del parco e, anche se ormai non c’era più il rischio di essere sorpresa da Rebecca insieme al bambino, non si sentiva tranquilla.
Ricordò a se stessa che Jamie non doveva accorgersi di nulla.
Si armò di tutta la pazienza che possedeva e si fermò. Suo figlio le indicava due cartelloni pubblicitari identici, affissi dall’altro lato della strada.
«Sono uguali?» le chiese.
«A parte che uno è rosso e l’altro è blu» ribatté Penny, «Mi sembra proprio che siano uguali. Perché non dovrebbero esserlo?»
«No, non sono uguali...» Jamie esitava. «Le scritte, su quello, sono molto più visibili.»
Penny aggrottò le sopracciglia.
«Su quello blu?»
Jamie annuì.
«Su quello blu.»
«Sarà un’impressione» replicò Penny, «Oppure...» Tutto sommato, assecondando le strane idee di Jamie, sarebbe riuscita ad allontanarsi più in fretta. «Sì, effettivamente hai ragione: quello blu si legge meglio.»
Suo figlio parve rasserenato.
Potevano andarsene.
Potevano andarsene e, almeno per quel giorno, il suo segreto sarebbe rimasto inviolato.

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Capitolo 18
*** La locanda ***


Quando scesero dall’automobile, Theresa rabbrividì. Odiava il freddo, non soltanto quello intenso, ma anche il tanto apprezzato fresco delle colline.
«Scusa» domandò a Samuel, «Dobbiamo fermarci qui?» Gli indicò uno stabile vecchio, le cui facciate non venivano verniciate ormai da decenni, data l’apparenza. «È questo il famoso bel posto che mi avevi promesso?»
Dentro di sé lo sapeva: non avrebbe dovuto lamentarsi, dal momento che, per la prima volta da quando si conoscevano, Samuel l’aveva invitata a seguirlo da qualche parte per una vacanza, seppure breve. Era molto probabile che l’uomo dei suoi sogni non si rendesse nemmeno conto di quanto quel luogo fosse squallido e che lo ritenesse di proprio gusto.
In ogni caso, si affrettò a ricordarle: «Non ti ho detto che il posto sarebbe stato bello. Ho detto che lo speravo. Inoltre non sappiamo ancora come sia, dentro. Magari è accogliente.»
«Lo spero» borbottò Theresa, tra i denti, «Perché non vedo quali alternative ci siano a una stanza da letto calda.»
Quel pensiero la rincuorò.
Tra quattro pareti, sapeva come far piegare Samuel alle sue volontà. Se si erano allontanati così tanto, negli ultimi tempi, era soltanto perché tra di loro non c’erano mai stati momenti di intimità. Tutto sommato non importava niente se erano dalle parti in cui quella dannatissima Marissa Flint aveva vissuto e se Samuel aveva affittato una camera in un luogo così fatiscente.
Stava per dirigersi verso la porta d’ingresso, quando lui la trattenne.
«Spero che non ti dispiaccia. Quando ho prenotato, come nome ho dato “Silver”.»
Theresa si girò verso di lui, spalancando gli occhi.
«Perché?»
Samuel sorrise.
«Mi piaceva l’idea di prenotare a nome tuo. Ero convinto che ti avrebbe fatto piacere, che ti avrebbe fatta sentire importante...»
Theresa sbuffò.
“Quante scuse assurde.”
Per quanto Samuel fosse poco credibile, si sforzò di non perdere la calma. Non poteva permettersi di rovinare il loro weekend insieme, quello in cui si sarebbe impegnata per riconquistarlo e per fargli dimenticare la povera Kay.
«Va bene, va bene» mormorò, in fretta, sperando che Samuel non aggiungesse altro in proposito. Si avviò verso l’entrata, sperando che lui la seguisse. Lo intravide con la coda dell’occhio e si sentì soddisfatta. «Come facevi a conoscere l’esistenza di questo posto?»
Samuel non rispose.
Quello era un pessimo segnale.
Theresa si fermò e si girò.
«Allora?»
«Me ne hanno parlato» fu la semplice risposta di Samuel, «E poi non mi sembra così importante. Sapevo che ti avrebbe fatto piacere un weekend di vacanza e il mio solo rammarico è non averci pensato prima.»
Theresa puntualizzò: «Se eri davvero convinto che fosse meglio partire di venerdì sera, avremmo potuto aspettare la prossima settimana.»
«Rischiando che, da un giorno all’altro, le temperature si abbassassero? Ti ricordo che siamo ormai a metà settembre.»
Metà settembre.
Erano già passate quasi tre settimane dalla sera in cui Kay era morta.
Theresa fece un profondo respiro.
“È normale” cercò di convincersi. “Tanta gente muore ogni giorno.”
Il fatto che tante vite terminassero in luoghi ben diversi dalla sede di Scarlet Radio e dall’archivio che quasi tutti cercavano di evitare come la peste, negli ultimi tempi, era però talmente lampante da rendere impossibile qualunque forma di conforto.
Inoltre faceva già freddo e le parole di Samuel glielo avevano ricordato.
“Non fa niente. Il suo calore mi riscalderà.”

Harriet Harrison guardò la porta mentre si apriva. I suoi occhi, poi, si posarono sui due nuovi arrivati: una donna sui... trentacinque? sì, doveva avere più o meno trentacinque anni, accompagnata da un uomo che sembrava lievemente più giovane. Dovevano essere i coniugi Silver, sempre ammesso che fossero davvero sposati e che non si fossero rifugiati in quel luogo dimenticato da Dio proprio perché si incontravano clandestinamente.
“Smettila, Harriet” si ordinò.
Non era da lei farsi film mentali sulle coppie che soggiornavano per il weekend alla locanda; d’altronde anche lei, qualche decennio prima, era stata una semplice amante, seppure fosse sempre stata convinta che in realtà Albert non avesse mai avuto una moglie, nonostante lui fosse pronto a giurarglielo, pur di rimanere fuori dalla sua vita e da quella delle sue figlie; le figlie che, volente o nolente, anche lui avrebbe dovuto accettare come proprie.
Sorrise, come aveva sempre fatto.
Sorrise e salutò.
La signora Silver borbottò un monosillabo. Non doveva essere una donna di molte parole, e nemmeno molto briosa.
L’uomo, invece - un uomo dall’aria distinta, con due stupendi occhi azzurri, notò Harriet - si mostrò subito molto più cordiale. Era etichettabile come cliente modello, non c’era dubbio, anche se in realtà qualunque cliente era perfetto, specie nel momento in cui si dirigeva verso la cassa.
Harriet chiamò la figlia.
«Suzy?»
Passò qualche istante prima che Suzanne, solitamente impegnata in cucina, sopraggiungesse.
«Sì?» Vide i Silver e capì. «Li accompagno subito nella loro stanza.»
Suzanne imboccò le scale che conducevano al piano di sopra, seguita dai due clienti. Harriet li fissò finché non furono scomparsi.
Il suo sguardo si spostò, in un secondo momento, verso l’orologio appeso alla parete. Segnava le cinque e venti.
“Che sia già ora di fare la rituale telefonata ad Albert?”
In realtà non lo chiamava così spesso e non c’erano appuntamenti precisi. Accadeva soltanto sporadicamente, quando Harriet avvertiva il desiderio di ricordargli che era lei quella che teneva in mano il coltello dalla parte del manico.
Guardò il telefono.
Stava per alzare il ricevitore, ma si trattenne. Non era il caso. Poteva farlo in un’altra occasione, quando non c’era nessuno. Nemmeno Suzanne sapeva niente di lui. Nessuno, in realtà, sapeva niente di lui. Albert Wilkerson era ufficialmente morto, Harriet non doveva mai commettere l’errore di dimenticarsene.

Finalmente erano soli. Suzy, sempre ammesso che Theresa ricordasse correttamente il nome con cui la donna più anziana che stava alla reception l’aveva chiamata, se n’era andata, dopo quello che le era sembrato un tempo quasi infinito.
La stanza era al di sotto delle aspettative, ma non importava.
Theresa andò a chiudere la porta.
«Sono felice» mormorò. «Sono felice di essere qui con te.»
Samuel sorrise.
«Anch’io.»
Il tono con cui parlò le fece venire un nodo allo stomaco.
Si sentiva persa.
Si sentiva distrutta, perché la sua voce la annientava ogni volta, dandole la spiacevole sensazione che tutto si sarebbe sgretolato a poco a poco, di nuovo, come era sempre successo.
Samuel, infatti, osservò: «È ancora presto. Che cosa ne dici di andare a fare una passeggiata fuori, prima che sia ora di cena?»
Theresa scosse la testa.
«Fa freddo.»
«Mettiti una giacca.»
«Non c’è nulla da vedere, fuori.»
Samuel non la smentì, ma Theresa non lo colse come un buon segnale. Era sicura che, se si fosse rifiutata di uscire, se ne sarebbe andato da solo.
Fu uno sforzo notevole, per lei, fingere di avere cambiato idea e acconsentire alla sua proposta.
«Tutto sommato hai ragione. Con la giacca non dovrebbe fare troppo freddo.»
Se la infilò, domandandosi quanto a lungo sarebbe continuata quella storia. Aveva ritenuto, forse troppo ingenuamente, che sarebbe stato sufficiente chiudersi nella stanza insieme a lui per annullare una volta per tutte il distacco che si era creato tra di loro, ma iniziava a pensare che fosse del tutto impossibile.
Seguì Samuel giù dalle scale, fantasticando su uno scenario alternativo, in cui lei sarebbe stata felice anche senza di lui, in cui lui sarebbe stato distrutto dal mondo che lo circondava.
Si ritrovò a sorridere.
Dopotutto non era così improbabile.
Per quanto fosse impossibile dimostrare che Kay Brooks non si era suicidata, Anthony avrebbe continuato a professare la teoria dell’omicidio perfetto. In radio c’era già qualcuno che gli credeva. Samuel era stato il primo, e quell’errore gli sarebbe stato fatale.
«Ehi, Sam.»
Lui si fermò, quando ormai mancavano pochi gradini al pianoterra.
«Samuel» la corresse.
Theresa lo ignorò.
«Mi stavo chiedendo, tu dov’eri la sera in cui Kay è morta?»
Samuel spalancò gli occhi.
«Come, scusa?»
«Ti ho chiesto» ribadì Theresa, «Dov’eri quella sera. Non ti sto accusando di niente, anche perché non vedo come qualcuno possa avere forzato quella porta...» Rifletté. «Certo, c’è Raymond che, lo sappiamo tutti, ha un passato a cui non si può essere indifferenti, ma quando la Freeman gli ha chiesto aiuto per aprire la porta dell’archivio, ha rotto la serratura. In ogni caso, anche ammettendo che a Radio Scarlet ci siano scassinatori più abili, la chiave, nella toppa, era storta. Nessuno, dal di fuori, nemmeno il più abile degli scassinatori, avrebbe potuto riuscire a fare un lavoro del genere. Quella porta è stata indubbiamente chiusa a chiave dall’interno, su questo sembrano concordare tutti. È per questo, ovviamente, che non ti sto accusando di niente.»
A Samuel sfuggì una risatina.
«Vuoi dire che, se le cose fossero andate diversamente, avresti sospettato di me?»
Theresa sospirò.
«No, Samuel, come ti viene in mente?»
Quello che desiderava, era che fossero tutto gli altri a sospettare di lui. Le sarebbe bastato, perché per una volta l’avrebbe visto in una posizione difficile.
«Non lo so» rispose lui. «Mi hai dato quest’impressione.»
«E tu» puntualizzò Theresa, «Mi hai dato l’impressione di non avere risposto alla mia domanda. Dov’eri?»
Samuel puntualizzò: «Non credo che la cosa ti interessi davvero. Quella domanda è solo il tuo modo di vendicarti.»
«Vendicarmi?» ripeté Theresa. «Per che cosa?»
«Per averti portata qua» rispose Samuel, abbassando la voce. «Dato che stiamo parlando di impressioni, mi sembra di avere capito che questo posto non ti piace.»
«Tu portami fuori a fare un giro» ribatté Theresa. «Più tardi saprò dirti se riesco a trovarci qualcosa di positivo o no.»

«Harriet.»
Una voce la fece sobbalzare.
Alzò gli occhi e sospirò, sollevata.
«John.»
Il marito di sua figlia, si faceva vedere alla locanda, di tanto in tanto. Di solito aveva l’aria spensierata, ma Harriet era convinta che, negli ultimi tempi, qualcosa lo turbasse.
“Forse non è l’unico.”
Anche lei, seppure conoscesse perfettamente la voce di John, in un primo momento si era sentita spiazzata, poco prima.
Che fosse Albert il problema? Quando non pensava a lui, estraniandosi completamente da quel passato che in certi momenti aveva davvero creduto di poter dimenticare, Harriet si sentiva molto meglio.
«Ho visto i due clienti» la informò John, rompendo il silenzio che si era venuto a creare negli ultimi istanti. «Da dove vengono?»
«Scarlet Bay.»
Harriet guardò John e lo vide sussultare.
«S-Scarlet Bay?»
Harriet sorrise.
«Qualcosa ti turba, per caso?»
John si affrettò a scuotere la testa.
«Certo che no.»
«Non ne sono del tutto convinta.» Harriet girò intorno al banco della reception, per potersi avvicinare a lui. «Scarlet Bay era la città di Kay Brooks.»
«Già.»
Il tono di John era piatto, come se per lui quel nome non avesse avuto alcun significato.
«Quella poveretta si è suicidata» puntualizzò Harriet, «O almeno così dicono. La cosa ti lascia indifferente?»
«Sì. È solo un semplice caso di omonimia.»
Harriet scosse la testa.
«C’erano le sue foto, sui giornali. Era la nostra Katherine.»
John aggrottò le sopracciglia.
«Nostra?»
«Beh, forse non è il termine migliore per definirla» ammise Harriet, «Ma non me ne viene in mente nessun altro. È praticamente cresciuta qui.»
«La Katherine che è cresciuta qui non ha nulla a che vedere con la Kay Brooks che presentava un programma alla radio» replicò John, secco. «Il tempo cambia le persone.»
Harriet rabbrividì.
John aveva ragione: il tempo cambiava le persone. Anche Albert si era trasformato in un altro, dopo quello che per lui era stato il momento della svolta.
“E anch’io.”
L’unica differenza era che per lei non c’erano stati momenti di svolta.
«Sì» ammise, «Sono d’accordo con te.» Gli indicò il corridoio che conduceva alla cucina. «Susy è di là, se vuoi andare da lei.»
«Sì, tra poco ci vado.» John abbassò lo sguardo. «Sai, Harriet, forse hai ragione: è strano.»
«Che cosa?»
«Che, poche settimane dopo la morte di Katherine...», John esitò, «...Kay Brooks» preferì definirla, «una coppia di Scarlet Bay sia venuta a passare qui il weekend. Peraltro non tutto il weekend. Sono arrivati oggi pomeriggio e se ne andranno domani, più o meno a quest’ora.»
Harriet sospirò.
«Vedi del marcio ovunque, a quanto pare.»
«Non è questione di vedere del marcio ovunque» obiettò John. «Diciamo che la loro città d’origine è un dettaglio che salta all’occhio.»

«Allora?» domandò Samuel, quando furono di ritorno. Si era fermato proprio davanti all’entrata, come se volesse una risposta prima di varcare la soglia. «Hai cambiato idea?»
Theresa lo guardò negli occhi.
«Non è così male, questo posto, dopotutto.»
Si era sentita incredibilmente bene, mentre era fuori insieme a lui. Per un attimo le era sembrato che tutto il resto non esistesse... e poi c’era l’altro lato della medaglia: avere fatto nascere in lui il sospetto di ritenerlo capace di pianificare un delitto, la faceva sentire sollevata. Nella relazione con Samuel, ciò che l’aveva sempre resa infelice era stata la scarsa sensazione di controllo che aveva sempre avuto. Il controllo portava al potere e il potere conduceva inesorabilmente alla soddisfazione interiore.
«Sono felice che ti piaccia.»
Theresa sorrise.
“Sì, ormai le cose sono cambiate.”
Ne era certa, non si stava illudendo. Fino a qualche tempo prima, Samuel non si sarebbe nemmeno preoccupato di che cosa fosse di suo gradimento e di che cosa le risultasse invece particolarmente indigesto. Avrebbe dato per scontato che i loro gusti coincidessero, perché la convinzione di Samuel era proprio quella: c’era lui e c’era il resto del mondo, che doveva adeguarsi alle sue esigenze per poter essere preso in considerazione.
Theresa non si sentiva colpevole delle proprie riflessioni interiori, così critiche nei confronti dell’uomo che amava così tanto. Il fatto di riuscire a esercitare qualche forma di controllo su di lui le faceva apparire davanti agli occhi un’altra realtà; una realtà che le piaceva, perché i difetti di Samuel facevano passare in secondo piano i suoi.
Il suo sorriso si fece ancora più radioso.
«Allora, se siamo felici entrambi, non abbiamo niente di cui preoccuparci.» Si avvicinò a lui. «Sai, Sam, ho temuto per troppo tempo che io e te avessimo sprecato la nostra occasione. Adesso mi sento di nuovo viva.»
Samuel ridacchiò.
«Non scherzare, Theresa. Tu puoi vivere anche senza di me.»
«E tu» dedusse lei, «Senza di me.»
«Beh, suppongo di sì» ammise Samuel. «Ciascuno di noi esiste come individuo a se stante quindi, potenzialmente, per chiunque è possibile.»
Theresa non avvertì il classico disagio di qualche mese prima.
Quella era la verità.
Samuel poteva vivere anche senza di lei, l’aveva sempre fatto. Allo stesso modo, il mondo era pieno di persone che facevano rinunce. Toccava a lei la parte più importante: fargli capire che non era quello l’aspetto in cui doveva privarsi di qualcosa.
Doveva dire qualcosa di particolarmente acuto.
Doveva aprirgli gli occhi e doveva farlo in quel momento.
Un attimo prima si era avvicinata a lui con l’intenzione di baciarlo, ma non esitò ad arretrare di scatto.
«La verità è che tu avresti potuto vivere senza Kay» puntualizzò, «Anche senza avere avuto la necessità di vederla morta.» Si sforzò di non sorridere per l’immenso compiacimento, quando lo vide spalancare gli occhi e sussultare, di fronte alle sue accuse. «Ti sarebbe bastato limitarti ad aprire gli occhi, prima di guardare ciò che avevi davanti.»
Superato il momento di stupore iniziale, Samuel si limitò a scuotere la testa.
«Non sai quello che dici.»
«Ah, no? Anche Guillermo ha ucciso Juanita, in fondo.»
«Mhm...» Samuel sembrava pensieroso. «Guillermo? Juanita? Di chi stai parlando?»
Theresa sospirò.
«Te ne ho parlato mille volte.»
«Il telefilm?» azzardò Samuel. «Quello che guardi ogni sera?»
«Telenovela, non telefilm» puntualizzò Theresa. «Juanita l’aveva rifiutato, qualche settimana fa, e nella puntata dell’altro ieri lui l’ha strangolata. Clara ha visto tutto e non sa se denunciarlo. Se lo farà, perderà per sempre l’uomo che ama. Anche se non dovesse farlo, però, dovrebbe convivere con la certezza di averlo perso per sempre.»
«È una telenovela, appunto» le ricordò Samuel. «Non ha nulla a che vedere con la realtà.»
«Invece ha molto più a che vedere con la realtà di quanto tu possa immaginare. Guillermo era sempre stato segretamente innamorato di Juanita, ma lei era sposata con Iñacio. Guillermo pensava di poter essere felice insieme a Clara, ma il suo amore per Juanita continuava a venire sempre al di sopra di ogni cosa. Penso che, se Clara decidesse di non denunciarlo, un giorno potrebbe arrivare a capire che Guillermo ha ucciso Juanita anche e soprattutto per il loro bene. In fin dei conti è un po’ quello che potrebbe essere successo anche a te.»
Samuel scoppiò a ridere.
«Per cortesia, Theresa, torna su questo pianeta!»
Theresa decise di accontentarlo.
Sapeva che le sue allusioni non divertivano affatto Samuel e, ancora una volta, la sua sensazione di controllo le dava la forza di andare avanti.
«Entriamo» gli propose, lasciando immediatamente da parte le congetture sull’omicidio-che-sembrava-un-suicidio. «Ormai qua fuori sta iniziando davvero a fare freddo, anche con la giacca. E poi si sarà fatta ora di cena, ormai.»
«Veramente è ancora un po’ presto per cenare» obiettò Samuel. «Potremmo salire un attimo in camera e...»
Theresa lo interruppe: «Sì, potremmo.»
In realtà non ne era del tutto sicura. Aveva evitato anche solo di baciarlo, poco prima, e si era sentita meglio che se l’avesse fatto.
Il controllo le piaceva.
Il controllo le dava sensazioni che nemmeno Samuel, da solo, era in grado di regalarle.
Sua sorella aveva cercato di insegnarglielo, quando erano bambine, ma lei non aveva mai voluto apprendere le sue lezioni di vita.
Theresa si accorse di essersi persa nelle proprie riflessioni soltanto quando Samuel, che ormai stava aprendo la porta, le domandò: «Va tutto bene?»
«Sì.»
«Mi sembri pensierosa.»
Theresa annuì.
«In effetti, mi è venuta in mente per un attimo mia sorella.»
«Ah, già, mi hai parlato di lei, una volta.»
Theresa non ricordava di averlo fatto.
«Strano, dato che non l’ho mai più vista dopo avere lasciato la casa dei nostri genitori e che non sono nemmeno andata al suo funerale.»
Samuel avvampò.
«Oh... non ricordavo che era morta.»
«Forse non te l’avevo detto» osservò Theresa. «Non mi piace molto parlare di lei.»

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Capitolo 19
*** John e Harriet ***


Samuel attese un istante, prima di pronunciare le parole che avrebbero potuto essere la sua condanna.
«Scendo un attimo.»
Theresa si girò verso di lui, spalancando gli occhi.
«Come hai detto?»
«Ho detto che scendo un attimo.»
Lei sbuffò.
«Si può sapere perché dovresti? Ti fa così schifo rimanere qui, insieme a me?»
«No, non mi fa schifo» le assicurò Samuel, «Ma credo di essere in crisi d’astinenza da nicotina.» Quella scusa funzionava sempre. «Non ci metterò molto.»
Theresa si sedette sul bordo del letto.
«Puoi fumare qui.»
«Ti dà fastidio» le ricordò Samuel, «E non farei mai qualcosa che può darti fastidio.»
Theresa gli scoccò un’occhiataccia, probabilmente con l’intento di fargli capire che era esattamente quello che stava facendo in quell’occasione e che, nella sua concezione di idee, non era nemmeno la prima volta.
Samuel ignorò le sue proteste.
Aprì la porta, uscì e la richiuse alle proprie spalle.
Quel tizio sui trentacinque anni che andava avanti e indietro da ore, che la sessantenne che stava alla reception aveva chiamato John, gli aveva dato la brutta impressione di essere fin troppo interessato a tenere d’occhio lui e Theresa. Samuel lo sapeva, la questione doveva essere approfondita, prima che se ne andasse. Inoltre, prima o poi, avrebbe dovuto trovare un momento per parlare anche con la donna della reception, che a quanto pareva rispondeva al nome di Harriet Harrison.
Scese le scale in fretta, sperando che Theresa non lo seguisse. Se tutto fosse andato come pensava, non l’avrebbe fatto.
Le sue previsioni si rivelarono esatte.
Passò davanti alla reception, in cui in quel momento non c’era nessuno. Forse la Harrison era andata ad aiutare la donna più giovane in cucina.
Samuel guardò oltre la porta.
John era ancora là fuori, quindi si affrettò a uscire.
L’altro non si accorse di lui, almeno finché Samuel non si schiarì la voce per attirare la sua attenzione. A quel punto si girò.
«Siete aperti tutto l’anno?» gli domandò Samuel.
Non era sicuro che John lavorasse in quel posto, ma gli sembrava una buona scusa per poter parlare con lui.
«Sì, ma io non lavoro qui.»
«Oh...» Samuel si finse imbarazzato. «Sono desolato. Forse avrei dovuto chiedere a qualcun altro. La signora della reception...»
«Harriet» gli comunicò John, «È mia suocera. La ragazza che lavora in cucina, invece, è mia moglie. Questo posto è di Harriet, quindi tutto sommato credo di poterle dare tutte le informazioni che vuole.» Sorrise. «Tutto sommato non dovrei neanche cavarmela male: molti anni fa ho lavorato per un breve periodo come guida turistica, prima di decidere che il mio futuro era quello di agente immobiliare.»
Quel tizio, osservò Samuel, non sembrava un uomo di poche parole. Era perfetto per raccogliere informazioni e non poteva lasciarselo scappare.
Decise di presentarsi.
«Mi scusi, non le ho ancora detto come mi chiamo. Sono Sam...»
«Samuel Silver» lo interruppe l’altro. «Lo so. Io, invece, mi chiamo John Brooks.»
Samuel sussultò.
«John... Brooks?»
L’altro annuì.
«Sì, Brooks, proprio come quella giornalista della radio. Immagino che sappia benissimo di chi sto parlando.»
Samuel rabbrividì e, ne era sicuro, non era solo per la temperatura.
«Non capisco cosa voglia insinuare.»
«Voglio insinuare che Radio Scarlet l’hanno ascoltata tutti, almeno una volta nella vita. Chi non l’ha mai fatto, avrà senz’altro visto il telegiornale, qualche volta, o letto un quotidiano. Lei vive in questo mondo, signor Silver?»
«Certamente.»
«Quindi» dedusse John, «Suppongo che abbia sentito parlare del suicidio di Kay Brooks.»
Era arrivato il momento di svelarsi, almeno in parte, aggrappandosi alla storiella che aveva inventato in ogni minimo dettaglio.
«Ogni tanto avevo sentito la sua trasmissione. Mia zia, che mi ha consigliato questo posto», indicò l’edificio accanto a loro, «Mi ha anche raccontato una storia strana. Pare che quella Brooks, nella sua trasmissione, abbia parlato anche di una signora che in passato lavorava qui. Naturalmente non le ho creduto: mia zia racconta sempre tante storie strane. Con lei non lo dico, ma...»
John era talmente desideroso di parlare che non lo lasciò finire.
«Forse sua zia aveva ragione.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Davvero?!»
Si domandò se avesse enfatizzato troppo uno stupore che non provava, ma John parve non essersi accorto di niente.
«Ogni tanto Kay Brooks aveva parlato di lei, in trasmissione. Morì durante un tentativo di rapina, in circostanze mai del tutto chiarite.»
Samuel azzardò: «Si chiamava Mary... Mary-qualcosa.»
«Marissa» confermò John. «Marissa Flint. Lei e mia suocera avevano lavorato in questo posto fin da ragazze. Poi, un giorno, quando i vecchi proprietari decisero di cedere l’attività, Harriet riuscì a rilevarla.»
«Quando avvenne?»
«Almeno venticinque anni fa.»
«Ma quella signora Flint... signora Flint o signorina Flint? Quella signora Flint rimase a lavorare qui?»
«La signorina Flint rimase a lavorare qua» confermò John. «In realtà ci lavorava ancora, quando fu assassinata. Fu un vero colpo per Harriet.»
«Mi sembra che ora si sia ripresa bene» osservò Samuel. «Mi sembra una donna molto piena di vita e sicura di sé.»
«Non sbaglia.»
«Mia zia mi ha anche detto che quella Marissa aveva una figlia» aggiunse Samuel. «Sostiene di conoscerla.»
John strabuzzò gli occhi.
«Sua zia conosce la figlia di Marissa?!»
A Samuel non sfuggì la reazione di John Brooks e si affrettò a rassicurarlo: «Sono sicuro che si tratti soltanto di una delle storie che si inventa mia zia. In realtà non è che se le inventi. È avanti con gli anni e non mente consapevolmente. Confonde le persone l’una con l’altra. Con tutta probabilità collega a Marissa Flint una persona che con lei non ha nulla a che vedere.»
«Mi sembra l’ipotesi più probabile» confermò John, «Dal momento che la figlia di Marissa non si faceva vedere da queste parti da almeno dieci anni, quando lei fu uccisa. Per quanto ne so, non si sentivano più. Non si fece nemmeno vedere al funerale.»
Samuel ascoltò attentamente, cercando di immagazzinare il maggior numero di dettagli possibili sulla fantomatica K. Flint.
«Allora dovrò dire a mia zia che la signorina Flint di cui mi ha parlato lei, con tutta probabilità non è la figlia di Marissa.» Samuel si finse pensieroso. «In realtà, potrebbe esserlo davvero, però. Se anche la figlia di quella donna non si è più fatta vedere, mia zia potrebbe averla incontrata dalle parti di Scarlet Bay.»
John sussultò.
«Lei dice?»
«Mia zia non fa altro che ripetermi che la sua è una memoria di ferro e, chissà, magari potrebbe davvero avere ragione. Il fatto che racconti storie strane, non significa necessariamente che non siano vere. Lei stesso mi ha appena confermato che qui lavorava una donna di cui la Brooks di Radio Scarlet ha parlato in trasmissione. Per caso, signor Brooks, si ricorda della figlia di Marissa? Quanti anni potrebbe avere, adesso?»
«Sui trentacinque, direi.»
L’età poteva coincidere. La donna che si era firmata come K. Flint nel biglietto che aveva lasciato ad Anthony poteva avere trentacinque anni.
«Per caso era bella, elegante e bruna?»
John Brooks scosse la testa.
«Sono spiacente di deluderla, ma per quanto fosse piacente non era una ragazza poi così elegante... e soprattutto non credo di poterla definire bruna. Era castana chiara.»

Harriet entrò nella camera attigua a quella dei coniugi - sempre ammesso che lo fossero - Silver. Aveva preso una decisione, non poteva più aspettare. Non poteva, però, correre il rischio di essere udita da sua figlia.
Si sedette sul bordo del letto e sollevò il ricevitore del telefono.
Compose il numero a memoria e rimase in attesa.
Rispose una donna, e Harriet perse le parole.
Il tono era sensuale. Non poteva trattarsi di una cameriera.
«Chi è?» ripeté la voce.
Finalmente Harriet riuscì a trovare la forza di dire qualcosa.
«C’è Albert?»
L’istante che seguì, le parve infinito.
«A-Albert?» domandò, infine, la donna. «Credo che abbia sbagliato numero: qui non abita nessun Albert.»
Harriet sorrise. Stava iniziando a divertirsi davvero e, pur non sapendo chi fosse la sua interlocutrice telefonica, le sarebbe davvero piaciuto spiattellarle tutta la verità. Purtroppo non poteva, quindi si limitò a giustificarsi: «Sono passati molti anni e io non sono mai stata molto ferrata nel ricordare i nomi. Potrebbe per cortesia passarmi il padrone di casa? Gli dica che sono una cara amica di Marissa, lui capirà.»
«Un attimo.»
Da ciò che udì nei momenti successivi, Harriet ebbe l’impressione che la donna che aveva risposto al telefono avesse coperto il ricevitore con una mano, nella speranza di non essere udita.
«C’è un problema. Vieni subito.»
«Non agitarti, Avah. Non ci sono problemi che non si possano risolvere.»
«È una donna. Dice di essere un’amica di Marissa.»
«Passamela e vai di là. Ci penso io.»
Seguì un po’ di trambusto, forse il rumore di una porta che si chiudeva.
Albert rispose, parlando a voce bassa.
«Harriet?»
«È un vero piacere risentirti» lo accolse lei. «Scusa se ti ho disturbato. Non pensavo di trovarti in dolce compagnia.»
«Pensavi male» replicò Albert, «E mi hai costretto a chiudermi dentro perché lei non mi senta. Mi spieghi cos’hai in mente?»
«Non ho in mente nulla di particolare» lo rassicurò Harriet. «Volevo solo sapere come stavi e accertarmi che non ti fossi dimenticato dei bei tempi che abbiamo trascorso insieme. Da quando non c’è più Marissa mi sento molto sola. A volte ho bisogno di risentire gli amici di un tempo. Sarebbe terribile se tu ti scordassi di me.»
«E sarebbe molto più terribile» puntualizzò Albert, «Se tu ti dimenticassi di quando ti ho aiutata a salvarti, dopo che ti eri indebitata fino al collo per comprare quella locanda che rischia di cadere da un momento all’altro. Avevamo un accordo, se non sbaglio.»
«Sì, ma gli affari non vanno molto bene. Se tu volessi darmi un piccolo contributo, io sarei disposta a...»
Interrotta dal rumore del ricevitore che veniva sbattuto giù con forza dal suo interlocutore, Harriet sbuffò.
«Lo sapevo!»
Non poteva fidarsi di Albert, non poteva fare affidamento su di lui.

Theresa trattenne i conati di vomito.
Aveva riconosciuto perfettamente la voce della donna dai folti capelli grigi che stava alla reception e che, a quanto pareva, era la titolare di quel posto. Non si era degnata, al telefono, nella stanza accanto, di abbassare la voce, permettendole di udire l’ultimo nome che Theresa avrebbe desiderato sentire.
Marissa.
Marissa Flint aveva lavorato in una locanda.
Samuel l’aveva ingannata, portandola con sé perché non voleva destare sospetti. Con una donna accanto, che spacciava per sua moglie, qualche malalingua avrebbe potuto azzardare l’ipotesi che si trattasse di un uomo che andava a nascondersi da qualche parte con l’amante per il weekend, magari fingendo con la propria famiglia di avere importanti impegni di lavoro fuori città. Da solo, invece, sarebbe apparso per quello che era: un impiccione che faceva domande indiscrete; perché Theresa era sicura che fosse proprio quella l’attività a cui si stava dedicando.
La signora della reception era impegnata a telefonare, in quel momento, ma doveva esserci la donna più giovane, da qualche parte, e magari anche quel tale che, senza avere un impiego ben preciso, non faceva altro che gironzolare.
Theresa uscì dalla stanza, con l’intento di scendere giù. Non era sicura di cosa avrebbe fatto. Le sarebbe piaciuto affrontare Samuel davanti a tutti, facendolo apparire per quello che era davvero, ma non era possibile. In certi momenti l’interesse personale andava messo da parte; e poi quello non sarebbe stato un interesse, per lei, ma avrebbe soltanto rischiato di perdere per sempre l’uomo che desiderava con così tanto ardore.
Si scontrò con la titolare, che usciva dall’altra stanza.
«Mi scusi» mormorò. «Non l’avevo vista.»
La signora Harrison - si chiamava così, almeno? Theresa non era certa di ricordare bene - le mostrò un radioso sorriso, che sembrava finto.
«Mi scusi lei. Non è mia abitudine tagliare la strada ai clienti.»
«Si figuri.» Anche Theresa si sforzò di sorridere. «Come mai da queste parti? È arrivato qualcun altro?» Indicò la camera da cui la Harrison era appena uscita. «Per caso c’è qualcuno che alloggia lì?»
La titolare scosse la testa.
«No, sono salita per fare una telefonata.»
«Capisco. Io invece sto scendendo per andare a vedere che fine ha fatto mio marito. È sceso con la scusa di andare a fumare una sigaretta, ma visto il tempo che ci mette ho il sospetto che se ne stia fumando un intero pacchetto.» Quello poteva essere il momento adatto per fare un’invettiva in grande stile. «Lei fuma, signora Harrison? Personalmente io detesto il fumo. Purtroppo Samuel non vuole saperne di smettere, anche se non fa altro che promettermi che prima o poi si metterà d’impegno e ci riuscirà.» Theresa sospirò. «Sa cosa le dico, signora? Che gli uomini non si impegnano mai per fare nulla, se siamo noi donne a chiederglielo.»
«Tutto sommato ha ragione» ammise la titolare. «È questa la ragione per cui non mi sono mai sposata.»
«Beata lei!» borbottò Theresa. «A volte invidio chi non ha fatto una scelta come la mia.» Sorrise ancora. «Scusi se sono indiscreta, ma posso chiederle come mai non si è mai sposata? Era troppo presa dal lavoro per potersi permettere di occuparsi anche di un uomo?» Intravide Samuel, che saliva le scale, finalmente pronto a raggiungerla. «Mi è davvero difficile concepire l’idea che una donna possa scegliere di evitare il matrimonio.»
«Si vede che non tutte trovano un uomo come me» intervenne Samuel, reggendole inaspettatamente il gioco. «Mica tutte hanno la fortuna di incontrare il marito ideale!»
«Ha proprio ragione» confermò la titolare. «Sua moglie, però, non è molto soddisfatta di lei.»
A Theresa non sfuggì il sussulto di Samuel, nel momento in cui la Harrison l’aveva definita con quei termini.
Gli volle qualche istante, prima di riprendersi e chiedere, senza lasciar trapelare alcuna sensazione: «Perché si sta lamentando di me?»
«Lo sai, Samuel» ribatté Theresa. «Fumi troppo e la cosa non mi piace.»
«Se tu può consolare» la informò lui, «Non ho fumato affatto.» Si rivolse alla titolare. «La prego, perdoni Theresa. A volte ritiene opportuno lamentarsi di me anche con le persone che conosce a malapena, come se non avessi nemmeno un lato positivo.»
«Un lato positivo, glielo assicuro, ce l’ha» rispose la titolare, con un lieve sorriso. «Lei ha una voce stupenda, signor Silver. Ora, però, vogliate scusarmi: devo scendere.»

«Suzy?» chiamò a gran voce Harriet. «Suzy, dove sei?»
La voce di Suzanne riecheggiò, dalla cucina.
«Dimmi, mamma?»
«Dov’è John?»
«Sta andando via» rispose Suzanne, a gran voce. «Va da sua madre a prendere i bambini, poi va a casa. Perché?»
Harriet non si preoccupò di risponderle.
Doveva fare presto.
Doveva fermarlo, prima che fosse troppo tardi.
Scattò verso la porta d’uscita, mentre dalla cucina arrivò ancora una volta la voce di Suzanne.
«Va tutto bene, mamma?»
«Sì, non preoccuparti.»
Harriet spalancò la porta e varcò la soglia.
John stava salendo in macchina, quindi si affrettò a correre verso di lui.
«Aspetta, non andartene!»
Si rese conto di ansimare, forse per l’eccitazione.
«Dimmi, Harriet.»
Lei gli indicò la macchina.
«Possiamo salire? Mi sentirei più sicura.»
John aggrottò le sopracciglia.
«È successo qualcosa?»
Harriet non rispose. Si limitò ad aprire la portiera, a sedersi sul sedile accanto alla guida e a richiuderla.
John salì a bordo e, quando anche il suo sportello fu chiuso, Harriet chiuse dall’interno con la sicura.
«Quell’uomo...»
«Samuel Silver?» domandò John. «Ci ho parlato, pochi minuti fa.»
«Quell’uomo» riprese Harriet, «È un giornalista. Ho riconosciuto la sua voce. Si chiama Samuel Jeffrey, era nell’entourage di Katherine.»
«Si chiama Samuel Silver» puntualizzò John. «Non ti sarai lasciata suggestionare dal suo nome?»
«No» affermò Harriet, sentendosi sicura di sé. «A chiamarsi Silver è la donna. Dubito che quei due siano sposati. Forse lavorano insieme. Devono essere venuti qui per l’omicidio di Marissa. Non ho la più pallida idea di che cosa sappiano.»
«Mi ha fatto delle domande a proposito di Marissa» ammise John. «Mi ha detto che una sua zia la conosceva e...»
«Lo sapevo!» sbottò Harriet. «Quel bastardo ci ha fregati. Si è finto un regolare cliente, portando con sé quella donnetta insignificante, e il suo unico scopo era quello di intromettersi in affari che non lo riguardano.»
«Sono d’accordo, quel tizio è uno stronzo» convenne John, «E glielo farò notare, se avrò occasione di rivederlo. In realtà, però, nonostante i suoi metodi siano molto scorretti e per nulla professionali, non sarebbe così terribile se qualcuno facesse luce sul caso di Marissa.»
«È stata una rapina. Cos’altro c’è da dire?»
«È stata una rapina, ma ci sono molti punti mai del tutto chiariti. Kay...»
Harriet lo interruppe: «Smettila di parlare di Katherine! Quell’esaltata ci odiava! Odiava te, odiava Marissa... ha sempre odiato tutti. Non vedeva l’ora di andarsene e di intraprendere una carriera di successo. Anche quando abitava qui, stava sempre lontana da tutti. Michelle non si ricorda nemmeno che faccia avesse. Per quello è stato così facile trovarle lavoro a Scarlet Radio. Non ha mai collegato Kay Brooks a Katherine.»
«Lo so» ammise John. «La prima volta in cui le ho detto che Kay Brooks era...» Esitò. «...Che era mia cugina, sembrava che non volesse credermi. Kay non c’entrava niente con me, diceva.» Sbuffò. «In effetti non è che avesse tutti i torti!»
«Esatto» confermò Harriet, «E dobbiamo impegnarci affinché tutto rimanga com’era. È proprio quello che avrebbe desiderato la povera Marissa.»

All’improvviso tutto assumeva un altro senso: la titolare se n’era andata e non c’era più nessuno, a parte lei e Samuel.
«Sei sicuro di non avere fumato?» gli domandò Theresa. Marissa non era più un problema, o almeno non lo era in quel momento. «Potrei verificarlo. Basterebbe un bacio per scoprire se la tua bocca sa di tabacco.»
Samuel sorrise.
«Allora cosa aspetti?»
Theresa scattò verso di lui e lo sbatté contro la parete dello stretto corridoio.
Nel momento in cui posò le labbra su quelle di lui, si sentì incredibilmente viva e si pentì di tutte le volte in cui aveva atteso, sperando che fosse lui a fare la prima mossa.
Gli infilò la lingua tra le labbra, mentre Samuel la afferrava saldamente per i fianchi.
Si sentì spingere all’indietro e comprese che voleva condurla all’interno della camera che avevano affittato.
Tutto aveva un senso.
Tutto, tranne Marissa Flint: il passato, in quel momento, era del tutto insignificante, così come le intenzioni originarie di Samuel; era chiaro che il suo intento, negli ultimi istanti, era radicalmente cambiato.

Quando Harriet rientrò, trovò Suzanne ad attenderla, appoggiata contro il banco della reception.
«Cosa sta succedendo, mamma?»
Mentire era sempre la soluzione ideale, in quei casi, Harriet lo sapeva.
«Niente.»
«Tu e John...»
«Sono andata a salutarlo, tutto qui» replicò Harriet, «E, da buona rompiscatole che sono, gli ho ricordato di accendere sempre i fari e di guidare con prudenza, di sera.»
Suzanne sospirò.
«Mi avete presa per scema?»
«Certo che no.»
«E allora perché non ammetti che il problema sono quei due?» Suzanne gli indicò il piano di sopra. «John si è lasciato sfuggire che vengono da Scarlet Bay.»
Harriet annuì.
«È una città come un’altra.»
«No» obiettò Suzanne, «Non è una città come un’altra. Speravo che, almeno con la morte di Kay Brooks, John si fosse deciso a lasciar perdere quel dannato filmato, invece...»
Harriet spalancò gli occhi.
«Quale filmato?»
Sua figlia aggrottò le sopracciglia.
«Non...» Sembrava esitante. «Non te ne ha parlato?»
Harriet scosse la testa.
«Di che cosa avrebbe dovuto parlarmi?»
«Niente, lascia stare» la rassicurò Suzanne. «Credo che l’avere conosciuto Kay Brooks, unito al fatto che non si è trattato di una conoscenza superficiale, lo faccia sentire come una sorta di supereroe. È un video insignificante, che non ha alcun valore. Vorrei tanto che John se ne accorgesse.» Le voltò le spalle e si diresse verso la cucina. «Vado a finire.»
Harriet non la trattenne.
Suzanne non avrebbe aggiunto altro; proprio lei che la accusava di nasconderle qualcosa! Qualunque cosa riguardasse il filmato di cui le aveva parlato, doveva essere qualcosa di importante. Se sua figlia non voleva parlargliene, Harriet avrebbe scoperto da sola di che cosa si trattava. Non era altro che quello che aveva sempre fatto, fin dal giorno in cui era venuta a conoscenza della relazione tra Marissa e Albert.

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Capitolo 20
*** Phil e Albert ***


(Luglio 1976)

La voce della figlia di Marissa riecheggiò.
«Vi saluto! Ciao mamma, arrivederci Harriet!»
Harriet non uscì dalla cucina. Per quanto fosse legata a Marissa, non aveva intenzione di interrompersi per sua figlia.
La sua collega, invece, si allontanò, per qualche istante.
Era normale. Anche Harriet vedeva Susanne e Michelle come due ragazze fantastiche, perfino Michelle che, con le sue manie da asociale, si escludeva da tutto. Non c’era da sorprendersi che Marissa non si accorgesse di quanto quella detestasse tutti loro, di quanto non vedesse l’ora di andarsene e di sparire per sempre dalle loro vite. Forse non doveva nemmeno fargliene una colpa: quelle colline e i paesi che le circondavano non avevano così tante attrattive.
Harriet udì le loro voci risuonare tra le pareti, prima che Marissa tornasse indietro.
«Sono felice che sia venuta a trovarmi.»
Non si vedevano tanto spesso. Da quando erano rimaste soltanto loro due, Marissa trascorreva la notte alla locanda e talvolta accadeva che passassero giorni prima del suo ritorno a casa. In quelle occasioni, spesso la ragazza era fuori per lavoro, oppure a casa del suo fidanzato, un ragazzo che abitava poco lontano, ma che Harriet non aveva mai incontrato.
Simulò il proprio interesse.
«Di cosa si occupa, adesso?»
«Il solito.»
Harriet non aveva la più pallida idea di che cosa intendesse Marissa, ma la cosa non aveva importanza.
«Vado alla reception» la informò.
Marissa annuì.
«Speriamo che arrivi qualcuno.»
«Già, speriamo» confermò Harriet.
Gli affari stavano andando a rotoli, quell’estate. Per fortuna ci sarebbero stati ancora un paio di mesi buoni, per recuperare. Per il momento, però, Harriet era poco ottimista.
Si diresse verso il banco della reception e andò a sedersi.
Attese.
Era passata quasi un’ora e il sole stava già tramontando, quando la porta d’ingresso si aprì.
Harriet alzò lo sguardo soltanto per un istante, intravedendo un uomo dai capelli chiari. Doveva avere tra i quaranta e i quarantacinque anni.
Era del tutto insignificante per lei, ma doveva prepararsi ad accoglierlo nel migliore dei modi. Non c’erano clienti che non meritassero un sorriso radioso.
«Buonasera.»
«Buonasera, Harriet» rispose lui, facendole spalancare gli occhi.
Finalmente lo riconosceva.
«Phil?»
«Sì, sono proprio io» confermò lui. «Sei sorpresa di vedermi?»
«Un po’ sì» ammise Harriet, mentre Phil si avvicinava. «In ogni caso sono felice che tu sia qui. Bentornato, Phil. Bentornato dopo... dopo quanto? Vent’anni?» Ricordò che, l’ultima volta in cui l’aveva visto, la figlia di Marissa non era ancora nata. «No, forse ventuno.»
«Sì, ventuno» confermò Phil. «Anch’io sono felice di rivederti, Harriet. Però non ne sono affatto sorpreso: so quanto ci hai sempre tenuto e sapevo che avresti conservato il tuo posto di lavoro molto a lungo.»
«Guarda che potrei offendermi» ribatté Harriet, indicando lo spazio circostante. «Questo posto è mio, adesso.»
«Allora hai fatto il salto di qualità. Complimenti.»
«Grazie.»
Phil si appoggiò al banco.
«Ci sei rimasta solo tu?»
«No.» Harriet sapeva che era proprio la risposta che Phil voleva sentire. «Nonostante la locanda sia mia, adesso, ho deciso di non rinnegare tutto quello che ha fatto la vecchia gestione. In particolare ho conservato una dipendente.»
Phil azzardò: «Marissa?»
«Marissa» confermò Harriet. «Se vuoi, posso chiamarla. Non credo che le dispiacerebbe incontrarti.»
«Ne sei sicura?»
«Per quanto la conosco, sì.»
«Sono passati così tanti anni» obiettò Phil. «Con tutta probabilità era convinta che non ci saremmo incontrati mai più.»
«E tu?» obiettò Harriet. «Non lo pensavi anche tu?»
Phil annuì.
«Fu una decisione sua, quella di non vederci più. Perché avrei dovuto tornare a trovarla?»
«Non lo so. Perché sei qui, ora?»
«Perché è passato tanto tempo e perché adesso non farà più male né a me né a lei.»
Harriet azzardò: «Anche negli anni scorsi avrebbe potuto...»
Si interruppe, nell’udire i passi che usciva dalla cucina.
«Harriet, hai preso tu le...»
Non seppe mai a che cosa si riferisse Marissa.
La guardò e la vide impallidire, fissando Phil a bocca spalancata.
«Tu...»
Phil rise.
«È un piacere incontrarti di nuovo, Marissa!»
Lei era talmente spiazzata da non riuscire a parlare.
Phil le si avvicinò.
«Posso avere l’onore di riabbracciarti?»
A Harriet non sfuggì il comportamento passivo di Marissa. Sembrava un automa e, con tutta probabilità, era del tutto incapace di provare emozioni che andassero oltre al semplice stupore.
Toccava a Harriet prendere in mano la situazione.
«Quanto tempo pensi di fermarti, Phil?»
L’abbraccio tra lui e Marissa si sciolse.
«Qualche giorno.»
«Ti sei finalmente concesso qualche giorno di ferie, quindi» osservò Harriet. «Hai fatto bene... e hai fatto ancora meglio a venire da noi.»
«Beh, sì, tanto in officina c’è Albert e mi fido di lui.»
Marissa abbassò lo sguardo e non commentò.
Harriet si irrigidì.
«Albert» ripeté. «Come sta?»
Era da un po’ che non si faceva sentire, per l’esattezza da quando gli aveva accennato ai problemi economici che la locanda stava affrontando.
«Sta bene.»
«Ne sono felice. Salutalo tanto da parte mia, quando lo rivedrai.»
«Lo farò senz’altro» le assicurò Phil. «Gli suggerirò anche di venirvi a trovare, un weekend o l’altro. Sono sicuro che anche a lui farebbe piacere rivedervi.»

«Alla fine» borbottò Marissa, «Se non altro un cliente è arrivato.»
Erano le prime parole che pronunciava da quando erano rientrate in cucina.
«Per fortuna.» Harriet andò a cercare il suo sguardo. «Per fortuna abbiamo un cliente.» Attese una risposta, una qualsiasi risposta, e quando questa non arrivò, sbottò: «Mi spieghi cosa ti prende, Marissa? Quello che è arrivato, non è un cliente come tutti gli altri!»
«Paga» replicò la sua collega, «Quindi è come tutti gli altri.»
Harriet sospirò.
«E va bene, Marissa, tu e lui avete avuto una storia. Sono passati più di due decenni da allora. Non c’è più niente che...»
Marissa la interruppe: «C’è mia figlia. Mia figlia, di cui lui non conosce nemmeno l’esistenza e che, tra parentesi, è anche sua figlia. Non è sufficiente per spiegare che cosa mi prende?»
«Non sei obbligata a dirgli che è figlia sua» replicò Harriet, «E nemmeno a parlargli di lei. Tra l’altro, basta che tu gli menta sull’età... o che tu gli faccia capire di essere stata anche con altri, nel periodo in cui eravate fidanzati. Poco importa che non sia vero, quindi...»
Si fermò quando vide l’amica avvampare.
«Io...»
Harriet spalancò gli occhi, di fronte alla reazione di Marissa.
«Fammi capire. La piccola dolce Marissa, fidanzata con Phil fin dall’epoca in cui nessuno aveva mai guardato che cosa avesse sotto la biancheria intima, se la faceva con altri uomini?»
Marissa scosse la testa.
«Non proprio.»
Harriet insisté: «Eppure...»
«Eppure sì, ho avuto un altro, oltre a Phil» le comunicò Marissa. «Sono stata con lui più volte, almeno finché ho capito che non ne valeva la pena.»
«E il padre chi è?»
«Phil. Avevo già chiuso con l’altro, quando sono rimasta incinta.»
«Ora capisco.» Harriet si prese per un attimo la testa tra le mani. «Anzi, no, non capisco. Si può sapere perché, se la figlia era sua, l’hai lasciato e hai preferito crescerla da sola?»
«Perché non avrei mai più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi» le spiegò Marissa, «Senza pensare a quello che avevo fatto. Quando sono stata con lui per l’ultima volta, quando sono rimasta incinta, l’ho fatto solo perché volevo che il nostro addio fosse meno amaro. Sapevo già che il mio futuro non era con Phil.»
«E l’altro?» volle sapere Harriet. Quel retroscena le interessava. «Chi era l’altro?»
«Non ha importanza.»
«Potrebbe averne, invece.»
«Ti assicuro che non ne ha» confermò Marissa. «Te l’ho detto, non ne valeva la pena, quindi perché parlarne?»
Harriet si piegò alle sue volontà.
«Come vuoi. Io, però, non mi lascerei scappare Phil, adesso. Hai quarantaquattro anni. Quante altre occasioni pensi che arriveranno?»
Marissa sbuffò.
«Non me ne importa niente di quelle che tu chiami occasioni. E poi chi ti dice che Phil sia ancora interessato a me, dopo più di vent’anni?»
Harriet sapeva che era così.
Le poche volte in cui aveva avuto contatti con Albert, lui le aveva rivelato che, di tanto in tanto, Phil gli parlava di Marissa. Di conseguenza non l’aveva mai dimenticata fino in fondo, o almeno c’era quella speranza.
«Sì, hai ragione» si limitò comunque a rispondere Harriet.
Perché doveva augurarsi che Marissa e Phil potessero essere felici insieme, quando lei non poteva avere Albert?

La porta si aprì lievemente.
«Harriet.»
Era stato un solo sibilo, ma riconoscere quella voce non era difficile.
«Vieni dentro» gli ordinò Harriet.
Come secondo ritorno improvviso in due giorni consecutivi, la presenza di Albert la disturbava più di quanto avrebbe voluto.
«Esci tu» la pregò Albert.
Seppure riluttante, Harriet lo accontentò. In fin dei conti, visti i problemi che la locanda stava affrontando, era meglio comportarsi gentilmente.
Si diresse verso la porta e uscì.
«Allora?»
«Non mi saluti nemmeno?» replicò Albert. «Non è elegante da parte tua.»
«Non me ne importa un accidente di che cosa sia e di che cosa non sia elegante» puntualizzò Harriet. «Il tuo arrivo qui ha per caso a che fare con quello di Phil?»
Albert non le diede una risposta diretta.
«Devo parlare con Marissa.»
Harriet spalancò gli occhi.
«Devi parlare... con Marissa?»
Era assurdo.
Albert e Marissa non erano mai stati molto affiatati, nemmeno da giovani. Albert l’avrebbe completamente ignorata, se non fosse stato costretto a stare in sua compagnia.
Cercando di mettere da parte i propri dubbi interiori, Harriet si affrettò a rispondergli: «È uscita un attimo. Sua figlia e il suo futuro genero sono venuti a trovarla.»
Era la prima volta in cui Harriet vedeva quel ragazzo. A primo impatto le era sembrato un tipo a posto, uno che non aveva niente a che vedere con la figlia di Marissa. Eppure, nonostante tutto, quei due sembravano essersi messi in testa di sposarsi e volevano farlo con una cerimonia riservata, a cui avrebbero presenziato soltanto i familiari più stretti.
Harriet fissò Albert e si chiese come sarebbero andate le cose se lui avesse accettato di sposarla, invece di limitarsi a contribuire al mantenimento delle due figlie che avevano avuto insieme.
Lui, in quel momento, sembrava avere ben altri pensieri per la testa.
«È uscita un attimo, hai detto. Quindi suppongo che sarà qui a momenti.»
«Sì.»
«Phil, invece, dov’è?»
«È in giro da qualche parte» lo informò Harriet. «È uscito questa mattina. Non so a che ora tornerà.»
«Tornerà dopo Marissa, in ogni caso» osservò Albert, «Il che è perfetto. Ho bisogno di parlare con lei il prima possibile.»
«Non importa che me lo ripeti» ribatté Harriet. «Dovrebbe rientrare a momenti... almeno lo spero.» Guardò l’orologio che portava al polso. «Tra un’ora vorrei andarmene.»
Albert sorrise, quasi compiaciuto.
«Vedo che i tuoi orari di lavoro sono rimasti invariati.»
Harriet annuì.
«La sera torno sempre a casa. L’idea che Michelle rimanga da sola con Suzanne non mi piace molto.»
«Come stanno?»
Il tono di Albert sembrava disinteressato.
«Bene» gli assicurò Harriet. «Certo, mi piacerebbe dare loro qualcosa di più...»
«Lo avrai al più presto.»
Harriet aggrottò le sopracciglia.
«Dovrei crederti?»
Albert annuì.
«Le cose stanno per cambiare, te lo assicuro. Sto per fare l’affare del secolo.»
A Harriet sfuggì una risata.
«Non dire assurdità, Albert.»
«Non sono assurdità» puntualizzò lui. «Sto per fare l’affare del secolo e tu non avrai che da guadagnarne. C’è solo una condizione: non devi fare domande.»
«Se ci guadagnassi, stai sicuro che non ti farei domande.»
«Bene.» Albert la guardò con aria di approvazione. «Allora rimaniamo d’accordo così: stasera andrai via con un po’ d’anticipo e...»
Harriet lo interruppe.
«Non vado mai via in anticipo. Marissa potrebbe insospettirsi e...»
«Dille che stai male.»
«Non...»
Albert sbuffò.
«Dille. Che. Stai. Male.» Le lanciò un’occhiata di fuoco. «Fai come ti dico, Harriet, e sarà meglio per tutti.»
Harriet decise di credergli.
«Okay, Albert, facciamo come vuoi tu. Non appena Marissa rientrerà, le dirò che non mi sento bene e me ne andrò.»
«Grazie, Harriet. Sapevo che avrei potuto contare su di te.»

Harriet aveva lasciato la macchina nel parcheggio più vicino, prima di tornare indietro a piedi. Si era arresa al volere di Albert, ma il suo comportamento e il suo desiderio di parlare in privato con Marissa erano strani.
“Quel tipo ha in mente qualcosa.”
Nascosta dietro al vecchio magazzino accanto alla locanda, incurante della temperatura che all’ora del tramonto si abbassava di diversi gradi, Harriet aspettava che accadesse qualcosa.
L’automobile di Albert era ancora parcheggiata lì davanti. Chissà, forse il padre delle sue figlie aveva deciso di fermarsi e aveva affittato una stanza.
Harriet udì il motore di un’altra macchina che si avvicinava. Sbirciò, per vedere se si trattasse di Phil o di qualcun altro.
Era Phil, che parcheggiò nel cortile.
Dalla sua postazione, Harriet vide Marissa uscire dallo stabile, proprio mentre lui scendeva dall’auto.
“Sembra quasi che fosse appostata dietro la porta, in attesa che Phil uscisse.”
Lui la salutò con un cenno della mano, che Marissa ignorò. Si avvicinò a passo spedito a lui, indicandogli il magazzino.
Harriet sussultò.
Per caso l’avevano vista?
No, non indicava il magazzino, la cui porta, notò Harriet, doveva essere stata lasciata spalancata da quell’oca della figlia di Marissa.
La sua collega condusse Phil in uno spiazzo isolato, poco distante.
Harriet continuò a tenerli sotto controllo. Li vide parlare tra di loro per qualche minuto e le parve di notare un certo grado di tensione.
Alla fine Phil le voltò le spalle e si allontanò, diretto verso la propria automobile. Marissa, invece, entrò nel magazzino, forse con l’intento di spegnere la luce lasciata accesa da sua figlia.
Phil aveva già aperto la portiera, quando sembrò cambiare idea. La richiuse con impeto e tornò indietro.
«Marissa?» Non vedendo più la donna, si mise a chiamarla a gran voce. «Marissa, dove sei?» Si accorse della porta spalancata ed entrò. Parve vederla dal momento che, dall’esterno, Harriet lo udì sbraitare: «Ecco dove ti eri cacciata!»
Harriet fu tentata di tornare indietro, ma ci ripensò.
Phil si era comportato gentilmente con Marissa, il giorno precedente. L’aveva fatto anche quella mattina. Quel suo improvviso cambiamento doveva dipendere dalla loro conversazione di poco prima.
Harriet raggelò.
“Albert...”
Tutto, di colpo, le sembrava più chiaro di quanto avrebbe voluto.
Non poteva andare via.
Doveva esserne certa.
Si avvicinò alla porta, ancora aperta, per sentire meglio.
«Lasciami in pace!» urlò Marissa. «Con quale diritto pretendi di poter rientrare nella mia vita e sconvolgerti per qualcosa che successe più di vent’anni fa?»
«Ti ricordo che sei stata tu a volere che lo scoprissi» puntualizzò Phil. «Se tu non mi avessi rivelato che la nostra storia finì a causa sua...»
Marissa lo interruppe: «Volevo che lo sapessi. Volevo lavarmi la coscienza. Non so nemmeno io che cosa volevo...»
«Invece lo sapevi benissimo» replicò Phil. «Tu e lui siete sempre rimasti in contatto, per tutti questi anni, non è vero?»
«No.»
«Non mentire, Marissa! Eri tu che volevi che mi convincesse a non cercarti. Eri tu che...»
Harriet si appoggiò alla parete.
L’uomo con cui Marissa aveva avuto una relazione, molti anni prima, era Albert.
Quella consapevolezza avrebbe dovuto farle male, ma si rendeva conto di non riuscire a provare alcuna sensazione.
Albert era solo uno stronzo che l’aveva sempre trattata male.
Aveva sedotto lei, aveva sedotto Marissa, quando in realtà, per lui, le donne non erano poi così fondamentali. Erano i soldi che gli interessavano, Harriet lo sapeva, e non ne aveva mai abbastanza. Sarebbe stato ancora più divertente cercare di spillargliene altri.
Continuò ad ascoltare Marissa e Phil.
«È stato lui a decidere tutto.»
«Certo, è stato lui a decidere tutto... ha deciso anche che tu dovevi fare la puttana con lui, e nemmeno una volta sola!»
«Non parlo di questo!»
«Vedo che non neghi di essere una puttana.»
Marissa continuò a ignorare i suoi insulti.
«Temeva che io potessi rivelarti la verità e che tu lo cacciassi. Diceva che, se tu avessi scoperto tutto, avresti distrutto le nostre vite.»
«Nel tuo caso, non ce ne sarebbe stato bisogno» replicò Phil. «Ti sei distrutta la vita anche da sola, rimanendo qui, in questa topaia, per tutti questi anni, mentre per quello stronzo tutto continuava se niente fosse accaduto!»
«Cos’altro avrei dovuto fare?»
«Non lo so, e nemmeno me ne importa! Quello che so è che cosa devo fare io. Tu ne sei uscita distrutta, Marissa, e ora ne uscirà distrutto anche lui. Ti chiederei di aiutarmi, se non mi facessi così tanto schifo da non valere nemmeno la pena di prenderti in considerazione. Ti assicuro che quel figlio di puttana pagherà per quello che ha fatto!»
Harriet udì i suoi passi. Si stava dirigendo verso l’uscita, quindi le conveniva tornare nel suo nascondiglio.
Sentì la porta che veniva sbattuta violentemente e intravide Phil che si dirigeva verso la locanda. Non avrebbe trovato nessuno, ma non era un problema che riguardasse Harriet. Marissa era rimasta da sola e avrebbe dovuto pensarci lei.
“Io me ne vado, adesso.”
Non c’erano ragioni per rimanere oltre. Sapeva quello che, fino a qualche minuto prima, avrebbe desiderato sapere, ma si era accorta che non gliene fregava niente.
Phil poteva fare quello che gli pareva. Poteva mettere Albert alla porta e lasciarlo senza un’occupazione. Le sarebbe dispiaciuto perché, meno denaro avesse avuto a disposizione, meno ne sarebbe arrivato a lei, ma non era un problema insormontabile.
Michelle la stava aspettando. Doveva essere lei il suo unico pensiero.

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Capitolo 21
*** Scheletri nell'armadio ***


«Non mi fido di quel tizio» borbottò Sheila, abbassando il volume del televisore e lasciandosi sprofondare sullo schienale del divano.
Non era la prima volta che cercava di tirare fuori quel discorso, quella sera, e Nicholas non capiva dove volesse andare a parare.
Le allungò il recipiente con i pop-corn.
«Ne vuoi ancora?»
Lei scosse la testa.
Sembrava preoccupata, e quella era una novità.
«Smettila di pensare a lui» le suggerì Nicholas. «Nel caso tu te ne sia dimenticata, non possiamo permetterci di intrometterci nella vita privata di Rebecca.» Indicò lo spazio circostante. «Tutto questo appartiene a lei.»
«E allora?» obiettò Sheila. «Dobbiamo permettere che quel coglione stia a contatto con Dylan? Se permetti, la cosa non mi piace.»
«A Rebecca non piace nemmeno che tu stia con Dylan.»
Sheila scosse la testa.
«Ti sbagli, Nick. Io non le piaccio, tu non le piaci... ma l’idea che Dylan stia con noi non le fa così schifo.»
Nicholas fu costretto ad ammettere che Sheila non aveva tutti i torti.
«In ogni caso» le ricordò, «Rebecca cerca di uscire con quel tizio soltanto quando Dylan può stare con noi.»
«Sì, è vero» concesse Sheila, «Ma quello che è successo oggi non mi piace nemmeno un po’. Quel tipo stava spiando Rebecca.»
«Magari l’aveva accompagnata.»
Sheila scosse la testa.
«Ti dico di no! È venuto lì, quando Rebecca e Dylan se n’erano già andati, e ha iniziato a fare discorsi strani. Non mi fido di lui.»
«Nessuno ti obbliga a farlo.»
Sheila sbuffò, alzandosi in piedi.
«Come fai a non capire, Nick?! Forse Rebecca non ha tutti i torti, quando dice che sei una testa di cazzo. È vero, ti interessano solo i soldi, ma...»
«Sì, mi interessano i soldi» confermò Nicholas, «E, per continuare a fare la vita che facciamo, non dobbiamo fare innervosire la mia ex moglie. La conosco, Sheila. La conosco e so che le intromissioni non le piacciono, quindi, per cortesia, dimenticati di quel tizio che frequenta e fai finta che non esista.»
Sheila insisté: «Non posso fare finta di niente. Raymond mi ha dato l’impressione di essere uno che ha molti scheletri nell’armadio.»
«Solo perché ti ha chiesto di offrirgli una sigaretta?»
«Raymond non è venuto da me solo perché voleva una sigaretta. Sapeva perfettamente chi ero, ne sono sicura.»
«Non puoi esserlo.»
Sheila si prese la testa tra le mani.
«Lo dico anche per te, Nick! Ci pensi cosa accadrebbe, se quel tale dovesse ammazzarla?»
Nicholas rise.
«Adesso non esagerare.» Le indicò il televisore. «A proposito, dove hai messo il telecomando? Ci stiamo perdendo la parte migliore.»
Sheila gli si avvicinò.
«Se è il tuo modo per dirmi che la gente viene uccisa solo nei film, ti sbagli di grosso. Li leggi mai i giornali?»
«Perché, tu sì?»
«No» ammise Sheila, «O meglio, li leggo raramente. Quello che intendevo è che capita talmente tanto spesso... Insomma, non c’è da stare sicuri. Se anche non te ne frega niente, di sicuro non ti farebbe piacere rimanere senza la tua gallina dalle uova d’oro, se quel tipo dovesse stancarsi di lei e sbarazzarsene in un modo non del tutto legittimo.»
«A Rebecca non succederà niente del genere» la rassicurò Nicholas. La prospettiva che la sua ex moglie permettesse a qualcuno di farle del male era totalmente inconcepibile, per lui. Rebecca non si metteva in situazioni pericolose. «Puoi stare tranquilla, Sheila. Ora, però, mi dici dove hai messo il telecomando?»
Sheila glielo indicò.
«Grazie.» Nicholas sorrise. «Che cosa ne dici se adesso ci dimentichiamo di Rebecca e di quel tale e ci concentriamo sul film?»
Sheila scosse la testa.
«L’ho già visto, so come va a finire. Vado a lavarmi i denti.»
Si stava già avviando verso il bagno, quando Nicholas la trattenne.
«Sei sicura che non vuoi degli altri pop-corn?»
«Sì, ne sono sicura. Ho già mangiato abbastanza.»
Nicholas la seguì con lo sguardo finché non fu scomparsa nel corridoio.
Alzò il volume del televisore, ma all’improvviso si rese conto che il film non gli interessava più di tanto.
Sheila era preoccupata.
Forse stava esagerando, ma se non fosse stato così?
“Magari avrei dovuto assecondarla.”
Si alzò in piedi, con l’intento di raggiungerla in bagno. Giunse fino davanti alla porta, che era chiusa, poi tornò indietro.
“Non succederà niente” pensò, tornando a sedersi sul divano.

“Eccola.”
Ovunque fosse andata, Avah stava tornando a casa. Indossava un abito leopardato, che la rendeva ancora più graziosa di quanto non fosse di solito.
Era mezzanotte e mezza e Raymond non era per niente soddisfatto. Le donne non avrebbero dovuto andarsene a zonzo a quell’ora, completamente sole. Non si rendevano conto che le strade erano piene di malintenzionati?
“Che poi, con che coraggio vengono definiti malintenzionati?”
Se le donne non sapevano come comportarsi, era giusto che qualcuno insegnasse loro come si stava al mondo.
Raymond attraversò la strada.
Doveva fare presto, se voleva raggiungerla prima che si chiudesse la porta alle spalle. Sapeva che, se avesse suonato il campanello, non avrebbe aperto. Era una stronza... non una stronza come Rebecca, ma una che tutto sommato meritava di essere rispettata, anche se se ne andava in giro a tarda ora come tutte le puttane che rendevano il mondo un posto peggiore.
La raggiunse proprio quando lei, senz’altro scambiandolo per uno sconosciuto, stava per sbattergli la porta in faccia.
«Avah, sono io!»
Lei gli lanciò un’occhiataccia.
«Abbassa la voce!» gli ordinò. «Non so se te ne rendi conto, ma qui ci abita anche dell’altra gente, che magari a quest’ora sta dormendo.»
«Solo vecchi sordi» puntualizzò Raymond.
Lei aggrottò la fronte.
«Per caso ti sei informato sullo status di tutti i condomini?»
«In un certo senso.»
«Hai fatto male» sbottò Avah, mentre Raymond chiudeva la porta. «Dovresti badare un po’ di più ai fatti tuoi. La tua vita migliorerebbe.»
«E tu dovresti farti pagare, come fanno tutte le altre puttane» ribatté Raymond. «Sei stata dal tuo uomo, vero?»
«Questi non sono affari tuoi.»
«Se permetti, sono affari miei, dato che abbiamo un accordo. Non mi piace il fatto che tu vada a farti scopare da chiunque, specie se quel “chiunque” è un uomo ricco che non si prende nemmeno l’impegno di trovarti una sistemazione migliore.»
«Hai mai pensato che potrei avere scelto io, con la mia testa, di rimanere qui?» obiettò Avah. «Do meno nell’occhio, qui.»
«I tuoi vicini di casa ti scambieranno per una escort.»
«Dovrebbe interessarmi? Tu stesso lo stai facendo.»
«È quello che sei, di fatto, e nemmeno ti rendi conto di quanto faccia schifo la tua vita.»
Avah rise.
«Figuriamoci quanto deve fare schifo la tua, se il tuo unico scopo è quello di intrometterti nella mia.»
«Lo faccio per il tuo bene, Avah.»
Lei scosse la testa.
«No, Ray, non prendermi in giro. Tu lo fai perché hai voglia di venire a letto con me, non per altro. Te l’ho già detto più di una volta: continua a fare quello che stai facendo, e alla fine otterrai anche tu il tuo premio.»
Raymond la afferrò per un braccio e la mandò a sbattere contro la parete.
«Tu non hai capito proprio niente di me. Credi di potermi accontentare con le tue promesse? Io sto già lavorando per te e per il tuo amico, senza avere ancora visto niente.»
«Pensi che io abbia visto qualcosa, per ora?» replicò Avah. «Non fa altro che ripetermi che spera che un giorno io lo raggiunga davanti all’altare, indossando un abito bianco. Se solo sapesse che il mio vero desiderio è raggiungerlo, quando sarà chiuso in una bara, indossando un abito nero...» Sospirò. «Non ho niente, Raymond. Ho un uomo che mi regala gioielli e abiti costosi... come se i gioielli e i vestiti cambiassero davvero la vita! Mi aveva promesso una vita migliore, ma la sua idea di vita migliore è quella che io rimanga in disparte, ad ammirare i suoi successi. Io continuo a non essere nessuno.»
«Sei la sua puttana» puntualizzò Raymond, «E lui ti tratta come tale. Se io avessi i soldi che ha lui, ci sarei io al suo posto. Non avrei bisogno di seguirti di nascosto, di penetrare qui dentro contro la tua volontà...»
Avah spalancò gli occhi.
«Mi stai dicendo che te ne rendi conto?»
Raymond sorrise.
«Di cosa?»
«Che nessuno ti ha invitato.»
«Certo che non sono stato invitato» confermò Raymond, «Ma che cosa me ne faccio degli inviti?» Trattenne Avah, che cercava di liberarsi dalla sua stretta. «C’è una cosa che ho imparato, nella vita: quello che vogliamo, dobbiamo prendercelo, senza aspettare che qualcuno ce lo offra su un piatto d’argento.»

Sheila uscì dal bagno.
Trovò Nick ad attenderla; o meglio, le sembrava che, fino a quel momento, fosse andato avanti e indietro per il corridoio.
“Non avrei dovuto allarmarlo.”
Nonostante la sua indifferenza, sapeva che era ancora molto legato a Rebecca. Non l’aveva sposata soltanto per interesse e la sua attrazione per la bella giornalista radiofonica non era svanita nemmeno dopo la fine del loro matrimonio.
«Mi dispiace» mormorò.
Nick la guardò, senza capire.
«Di cosa?»
«Di avere detto quelle cose. Credo che tu abbia ragione: Rebecca non è in pericolo. Quel tipo non è la persona più affidabile di questo mondo, ma se la caverà. In fondo è sempre stata bravissima a cavarsela da sola.»
Nick abbassò lo sguardo.
«Lo spero.»

Rebecca si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi.
“Raymond non mi ha chiamata...”
Di solito le telefonava ogni sera, ma in quell’occasione non l’aveva fatto. Doveva essersi offeso per il suo comportamento, quel pomeriggio.
Rebecca sbuffò.
“Se pensa di potermi cambiare, si sbaglia di grosso.”
Non avrebbe rinunciato al proprio lavoro, ai propri principi e alla propria famiglia perché era lui a chiederglielo. Se voleva una compagna che lo servisse e lo riverisse tutto il giorno, annullandosi completamente per lui, doveva andare a cercarla da un’altra parte.
“Dovrei smetterla di continuare a cadere tra le sue braccia.”
Raymond era un perfetto imbecille e, il fatto che fosse attraente e che in un primo tempo, l’avesse fatta sentire viva non era una buona ragione per non ammetterlo.
Avrebbe dovuto lasciarlo.
C’erano altri uomini, al mondo.
C’erano altri uomini a cui sarebbe bastato aiutarla a combattere per qualche ora la sua solitudine, senza pretese di controllare la sua vita.
Doveva liberarsi di Raymond e doveva farlo al più presto, prima che la situazione degenerasse. Rebecca iniziava ad esserne convinta: era quello che sarebbe accaduto, se non si fosse impegnata per impedirlo.

«Perché non vai da Rebecca?» suggerì Avah.
Raymond scosse la testa.
«Rebecca ha un figlio. Non ha tempo per me.»
Avah arretrò di scatto.
«E ti sembra una buona ragione per venire a infastidire me?»
Gli voltò le spalle, pronta a dirigersi verso le scale, e si sentì afferrare per i capelli.
«Sì, è una buona ragione» confermò Raymond, «Dato che non ho ancora ottenuto quello che mi spetta di diritto.»
Avah avvertì un brivido.
Anche col padre di Raymond, molti anni prima, era iniziato tutto così.
«Lasciami, Ray» ordinò, secca.
«Non finché non mi sarò preso quello che mi spetta» ribadì Raymond. «Sono stanco di aspettare, te l’ho già detto. Vuoi cedere con dignità o costringermi a farti del male? La scelta è tua, Avah. Io mi adeguerò.»
«Va bene...» mormorò Avah.
Raymond non era sicuro di sé tanto quanto lo era stato quello schifoso alcolizzato di suo padre, la cui sicurezza peraltro derivava dal fatto di andarsene in giro con un coltello in tasca. Quelle parole gli furono sufficienti per lasciare andare i suoi capelli.
Avah si girò lentamente.
Raymond la guardò negli occhi.
«Sapevo che sei una persona ragionevole» osservò. «Non mi avresti costretto a fare niente di estremo.»
«Esatto, sono una persona ragionevole» confermò Avah. «Devi andartene e devi farlo subito, altrimenti andrà a finire molto male.»
«Per te sicuramente.»
Avah scosse la testa.
«No, Ray, ti conosco. Conosco tutti i tuoi punti deboli. Sarai tu a fare una brutta fine. Magari non in questo momento, ma molto presto. Lo sai che per me gli accordi sono sacri: lo rispetterò.» Mentiva, ma in quel momento non aveva importanza. «Rispetterò il nostro accordo, ti darò quello che vuoi... ma soltanto alla fine. Ti bastava, fino a poco tempo fa.»
Raymond annuì.
«Mi bastava, certo, ma ancora non mi ero reso conto che ti fossi abbassata a fare da puttana al tuo amico. Sei tu che non avrai niente, alla fine.»
«Non preoccuparti per me» replicò Avah. «Vada come vada, troverò la mia strada, proprio come ora tu troverai la tua... la tua strada è fuori da quella porta, Raymond.» Gli indicò il portone. «Devi solo sparire, Ray, e io mi dimenticherò di tutto quello che è successo. Inoltre non dovrai mai più permetterti di entrare senza il mio permesso. Sono stata abbastanza chiara?»
Raymond scattò verso di lei e la afferrò per il collo.
«Forse sono io che non sono stato abbastanza chiaro!»
Avah non ebbe difficoltà ad allontanarlo con una spinta.
«Se vuoi fare la stessa fine di tuo padre ed essere lasciato a morire dissanguato in un vicolo buio, sei libero di ignorare quello che ti ho detto.»
Raymond indietreggiò.
Avah ne era sicura: aveva colpito nel segno.
«Chissà, probabilmente anche lui non avrebbe fatto una fine così triste, se si fosse comportato meglio» proseguì. «Lo sai, Ray, che tuo padre aveva l’abitudine di pensare che le donne fossero al suo servizio? Più erano giovani e più era probabile che tacessero. Gli piacevano le adolescenti... ma un giorno si è comportato male con la ragazza sbagliata.»
Raymond scosse la testa.
«Non è andata così.»
«Oh, certo, non è andata così» ribatté Avah. «Ovviamente il caso è stato insabbiato, per volontà di tua madre. Era molto meglio, per lei, credere che suo marito fosse stato brutalmente assalito durante una rissa tra ubriachi, piuttosto che far sapere a tutti di avere sposato uno stupratore seriale di ragazzine.»
«No» insisté Raymond, «Te lo stai inventando.»
«Niente affatto, Ray» replicò Avah. «Non me lo sto inventando. E ora, per cortesia, vattene e lasciami sola.»
Non fu necessario insistere ulteriormente. Raymond si avviò verso la porta, senza opporre resistenza.
Se ne andò, lasciandola sola.
Avah si sedette sui gradini.
No, non era sola.
Il fantasma dell’uomo che l’aveva distrutta sarebbe stato per sempre con lei. Tanti anni prima aveva pensato che ricorrere alla chirurgia plastica per eliminare i segni che le aveva lasciato sul corpo fosse sufficiente. Non lo era e non lo sarebbe mai stato. Le cicatrici dell’anima non potevano essere cancellate.
“Basta, lascia perdere” ordinò a se stessa.
Lo faceva da tanti anni.
Lo faceva da tanti anni e tutto stava andando a rotoli.
Non avrebbe risolto niente, se non avesse deciso di passare all’azione. Per quanto riguardava Raymond, soprattutto, avrebbe dovuto iniziare a considerarlo per quello che era: un problema che, giorno dopo giorno, sarebbe stato sempre più difficile gestire.
Si alzò in piedi e si affrettò a salire nel proprio appartamento.
Subito dopo avere richiuso la porta alle proprie spalle, corse verso il telefono.
Albert non parve molto soddisfatto.
«Harriet?»
Avah sbuffò.
«No, non sono Harriet. Sono io.»
«Oh... Come mai mi hai chiamato a quest’ora?»
Avah fece un profondo respiro, prima di rispondere: «Voglio che ti liberi di Raymond e che lo fai al più presto.»

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Capitolo 22
*** La fotografia ***


Non c’era nulla di spiacevole come il rumore quasi spettrale del forte vento che si era innalzato all’esterno, ma allo stesso tempo niente era piacevole tanto quanto la sensazione che tutto avesse una soluzione.
Risvegliata dal frastuono proveniente dall’esterno, Theresa accese la luce. Vide Samuel che dormiva, alla sua sinistra.
Scese dal letto e, per prima cosa, controllò l’orologio. Non doveva avere dormito molto, considerando che la mezzanotte era passata da appena quaranta minuti.
La sua biancheria intima era caduta sul pavimento. La raccolse e la indossò, per poi prendere il vestito, che invece era rimasto sul letto.
Sbuffò, nel notare che era macchiato di sperma; lo appallottolò e lo gettò a terra. Andò ad aprire il suo zaino, dall’altra parte della stanza. Aveva un abito molto simile, nero anziché rosso. Avrebbe potuto mettere quello.
Quando finalmente fu vestita, si mise gli occhiali, che teneva sul comodino, raccolse le scarpe e si diresse verso la porta. Le calzò soltanto quando fu all’esterno, per evitare di fare rumore e di svegliare Samuel.
Aveva ricominciato a pensare a Marissa Flint e, nonostante in un primo momento il comportamento di lui le fosse sembrato squallido, si era convinta che non ci fossero soltanto lati negativi. Avrebbe potuto approfittarne lei stessa, per dare un’occhiata intorno a sé e, chissà, magari cogliere qualche dettaglio che le avrebbe fatto fare un’ottima figura con Samuel.
Scese le scale, cercando di non fare rumore.
Nella sala in cui lei e Samuel avevano cenato, aveva notato delle fotografie su una bacheca di legno inchiodata alla parete.
Erano dalla parte opposta, per cui non si erano soffermati a guardarle - anzi, non ne erano nemmeno interessati - e Theresa stava iniziando a chiedersi se non valesse la pena di curiosare un po’, per vedere se ci fosse qualcosa che potesse essere degno di nota.
Sarebbe stata costretta a passare davanti alla reception, ma non sarebbe stato un problema insormontabile.
Avrebbe potuto fingere di soffrire d’insonnia.
La signora Harrison - o signorina, dal momento che aveva rivelato di non essere mai stata sposata - non avrebbe fatto domande. Non era nel suo interesse infastidire una cliente, che avrebbe potuto fare una pessima pubblicità alla locanda.

Harriet aveva appena finito di rileggere la vecchia lettera battuta a macchina su carta che il tempo aveva ingiallito.
Era stata tentata, per l’ennesima volta, di strapparla e di gettarla in un cestino, ma non poteva. Quella lettera avrebbe potuto diventare una prova... o forse no, perché in fin dei conti non c’era scritto nulla di davvero compromettente.
Udendo dei passi lungo le scale, Harriet si affrettò a infilarla distrattamente all’interno dell’agenda che, qualche istante prima, aveva appoggiato sul banco, per fare spazio al giornale che stava leggendo.
Pochi istanti più tardi Theresa Silver passò davanti a lei.
«Salve.»
Harriet sorrise e la salutò cordialmente.
«C’è qualche problema?» le chiese poi.
La signora - signorina? - Silver scosse la testa.
«Nessun problema, a parte questo vento. Non riuscivo a dormire, quindi sono venuta giù a fare un giro.»
Harriet le indicò l’abito che indossava.
«Quella è la sua camicia da notte?»
«Oh, no...» Theresa Silver avvampò. «Avevo voglia di scendere a fare un giro e non mi sembrava il caso di mettermi in camicia da notte.»
«Però non è l’abito che portava oggi.»
«No. Mi sono sporcata.»
Dal tono con cui aveva risposto, comunicandole peraltro dei dettagli che Harriet non le aveva espressamente richiesto, lasciava intendere di non avere intenzione di aggiungere altro e che, anzi, vedeva la sua privacy invasa.
Harriet avrebbe dovuto andarci cauta.
Ricominciò a parlare delle condizioni meteo non proprio allettanti.
«È una vera sfortuna che stia per scoppiare un temporale proprio stanotte, ma sa come la penso? Meglio di notte che di giorno.»
«Sono d’accordo con lei.» La signora Silver guardò oltre la porta. «Sta anche piovendo? Da qui non si vede.»
«Non sono andata a controllare, ma dal rumore mi pare di no.» Harriet ridacchiò. «Per ora, almeno. Ho l’impressione che cambieranno molto a breve.»
«Già» convenne la signora Silver. «Speravo di potere andare a fare un giro fuori, ma...»
«Senza giacca?» la interruppe Harriet. «Guardi, non mi pare proprio il caso.»
Theresa Silver la ignorò.
«...Ma ho l’impressione che rimarrò dentro.» Indicò la sala da pranzo. «Posso andare un po’ di là? Ho bisogno di sgranchirmi le gambe e quello è l’unico posto in cui ci sia spazio per camminare un po’. Al piano di sopra il corridoio è così breve e stretto...»
«Vada pure» la esortò Harriet.
Per quanto quella donna fosse l’amante di un giornalista impiccione, del tutto consapevole dei suoi intenti, nella sala da pranzo sarebbe stata del tutto inoffensiva. Non c’era niente, là dentro. Harriet si sentiva al sicuro.

La bacheca era quasi sommersa di fotografie, la maggior parte delle quali vecchie. In molte di esse, la stessa signora Harrison appariva insieme a una donna della stessa età. In quelle più recenti, in cui erano ritratte insieme, sembravano avere giù superato i cinquanta. I capelli della titolare della locanda erano grigi e vaporosi, appena un po’ più lunghi di quelli dell’altra donna, di colore mogano scuro, probabilmente tinti.
“Marissa Flint.”
A colpo d’occhio c’era ben poco di interessante.
Era stata una perdita di tempo.
Theresa non avrebbe ricavato nulla e non avrebbe avuto in mano niente che potesse sorprendere Samuel.
“Eppure qualcosa deve esserci...”
Non si trattava di una sensazione, ma di una semplice speranza.
Theresa si soffermò quindi a controllare ogni singola fotografia, alla ricerca di qualche eventuale volto familiare.
Non ce n’erano, a parte quello della signora Harrison e quello della signora Flint.
La maggior parte erano immagini in bianco e nero, che nulla avevano a che vedere con ciò che cercava. Era più la curiosità, di tutto il resto, a spingerla a non saltarle di netto.
Stava per abbandonare la propria osservazione, quando un dettaglio la fece rabbrividire.
«Oh...!»
Theresa si morse subito la lingua.
Non avrebbe dovuto permettersi di lasciarsi andare a quell’esclamazione. La signora Harrison avrebbe potuto sentirla.
Si avvicinò maggiormente alla fotografia - gesto che, per qualche assurdo motivo, le ricordò Kay quando si ritoccava il trucco, avvicinandosi tantissimo allo specchio - e si concentrò sul soggetto rappresentato.
C’era Marissa Flint ed era insieme a una ragazza dall’età apparente di diciotto o diciannove anni. Aveva i capelli lunghi che, data la tonalità di grigio che avevano assunto nella foto, dovevano essere sul castano chiaro.
Non fu l’acconciatura a colpirla, ma il volto.
Si ritrovò a chiedersi cos’avrebbe pensato Samuel, se avesse visto quella fotografia e si girò un attimo a controllare che non sopraggiungesse nessuno.
“Via libera. La titolare starà badando ai fatti propri alla reception.”
Staccò rapidamente le puntine, prese la fotografia e, con un rapido movimento, la fece penetrare al di sotto della scollatura del vestito.
Per quanto il problema fosse tutt’altro che risolto, al momento non era visibile a chi, entrando per caso, si fosse ritrovato a passarle accanto. Le due puntine, invece, necessitavano di essere nascoste il prima possibile. Theresa se ne liberò scostando leggermente la fotografia vicina e conficcandole nel legno sottostante.
Arretrò per valutare l’effetto complessivo. Il vuoto lasciato dava un po’ troppo nell’occhio, per cui Theresa fu costretta a spostarne un’altra. Dal momento che le immagini non erano state attaccate in maniera molto regolare, non fu difficile riempire gran parte del “buco”. A primo impatto, nessuno si sarebbe accorto che mancava qualcosa, a meno che non avesse cercato proprio quella specifica fotografia.
Theresa la fece scivolare sempre più in basso, infilandola in parte all’interno degli slip.
In un primo momento aveva valutato la possibilità di risalire immediatamente in camera, ma ci ripensò. L’abito era decorato, sul davanti, ed era difficile notare che sotto al tessuto era stato nascosto qualcosa.
Theresa si avvicinò al tavolo più vicino, scostò una sedia e si accomodò.
Sorrise, pensando a quanto era stata fortunata.
Quel weekend, tutto sommato, si stava rivelando perfetto: in un primo momento aveva avuto, seppure per qualche istante, la sensazione di poter dominare Samuel, dopodiché tra di loro era scoppiata di nuovo la passione; infine aveva trovato qualcosa di importante prima di lui, forse la migliore delle conquiste.
“Grazie di esistere, Marissa Flint” pensò. “Se ci fossero più Marissa Flint, questo mondo sarebbe un posto molto migliore.”

Era l’una e cinque, Theresa non era in camera e fuori sembrava fosse scoppiato il diluvio. La luce, inoltre, era accesa.
“Deve essere stata Theresa” pensò Samuel, “Quando è uscita.”
Provò un certo disappunto nel notare il modo in cui, nella foga, aveva gettato i propri indumenti. Erano tutti stropicciati e, ne era certo, una volta indossati non avrebbero avuto una bella piega.
In quel momento non importava.
Samuel se li infilò, prima di uscire.
Non si era allacciato le scarpe e, lungo le scale, inciampò in un cordone rischiando di cadere e trattenne a stento un’imprecazione.
Fece un profondo sospiro e cercò di rilassarsi. Theresa sarebbe stata ben poco soddisfatta, nel vederlo teso, e Samuel non riusciva a vedere altre ragioni per scendere al pianterreno, se non per andarle incontro.
Una volta arrivato davanti alla reception, notò la signora Harrison. Sembrava essersi addormentata, con la testa appoggiata su un giornale aperto. Come riuscisse a dormire con quel caos che proveniva dall’esterno era un mistero, ma tanti anni trascorsi in quel luogo dovevano averla condotta all’abitudine.
Sul bancone, c’era un’agenda. Era aperta e c’era un foglio sul punto di cadere.
Samuel pensò che richiuderla fosse un pensiero gentile. Dopotutto poteva trattarsi di un documento importante, che rischiava di andare perso.
Si avvicinò e, urtandolo accidentalmente, lo fece scivolare oltre il suo appoggio. Quando lo vide sul pavimento, si chinò per raccoglierlo.
Non era sua intenzione leggere qualcosa che non era suo e non l’avrebbe fatto, se non avesse colto un nome che saltava all’occhio.
Dalla sala da pranzo giunse una voce.
«Samuel?»
Non c’era tempo da perdere, doveva prendere una decisione e doveva farlo in fretta. Ripiegò rapidamente ciò che aveva trovato e lo infilò in tasca.

Nel momento in cui Theresa spense la luce, abbandonando la sala da pranzo, si accorse di Samuel, che, per qualche strana ragione era chinato.
«Samuel, cosa fai?»
Lui alzò lo sguardo.
«Cosa vuoi che faccia? Mi sto allacciando una scarpa.» Parlava a bassa voce e, nel rialzarsi, le indicò il banco della reception. «La signora dorme» mormorò, «Quindi cerca di parlare piano.»
Theresa sospirò.
Evidentemente quell’impiccione aveva pensato bene di chiudere gli occhi quando ormai era troppo tardi.
Scacciando quell’inutile pensiero, domandò a Samuel: «Come mai sei sceso?»
«Eri sparita» rispose lui, con un sorriso, «E mi sembrava carino venire a cercarti.» I suoi occhi si soffermarono sul vestito e, istintivamente, Theresa si mise le mani sul ventre. Samuel, però, si limitò a chiederle: «Ti sei cambiata d’abito?»
«Sì» rispose Theresa, secca, «Per colpa tua.» Non scese nei particolari, sperando che Samuel capisse. «Ce l’avevamo sul letto ed è capitato un piccolo incidente.»
«Oh, mi dispiace.»
«Non fa niente. È solo un vestito e i vestiti si lavano. L’importante è che sia successo quello che è successo. Sono stata benissimo con te.»
«Anch’io.» Samuel le indicò la donna addormentata. «Temo che non sia il caso di parlarne qui. Potrebbe svegliarsi e sentirci.»
Theresa annuì con un cenno del capo, per fargli capire che non aveva tutti i torti.
«Torniamo su?» gli propose.
«Torniamo su» accettò Samuel. «In camera potremmo proseguire il discorso e tu potresti mostrarmi il corpo del reato.»
Theresa ridacchiò.
«È un buon modo per definire un vestito imbrattato di sperma.»
«Oppure» suggerì Samuel, «Potremmo dedicarci a qualche attività più produttiva e potremmo rischiare di sporcare anche l’altro.»
Theresa si irrigidì.
La proposta era allettante, ma comportava di doversi spogliare e, di conseguenza, di rivelare la fotografia. Sarebbe stata un ottimo trofeo da mostrare a Samuel, quello non poteva negarlo, ma Theresa aveva imparato, dopo anni di umiliazioni, che c’era un tempo per tutto. Quello non era il momento più opportuno per mostrare all’uomo che amava un ritratto in bianco e nero risalente agli anni Settanta.
Samuel parve cogliere la sua esitazione.
«Se non hai voglia...»
«Certo che ne ho voglia» ribatté Theresa, «Ma credo che prima dovrai concedermi cinque minuti per mettere a posto il vestito.»
«Tutto il tempo che vuoi» concesse Samuel, «Sempre che tu non mi costringa a invecchiare nel frattempo. Sai, andando avanti con gli anni, è sempre più difficile avere un’erezione.»
Theresa rise.
«Vado. Mi raggiungi su?»
Senza lasciargli il tempo di rispondere, si precipitò su per le scale. Sarebbero bastati pochi istanti per infilare la fotografia dentro lo zaino. Samuel non sarebbe mai andato a controllare là dentro. Ce l’avrebbe fatta e, come premio per gli ottimi risultati della sua indagine improvvisata, avrebbe avuto l’uomo che più desiderava, con la speranza che la possedesse con la stessa foga di qualche ora prima.

Theresa si era affrettata a sparire al piano di sopra. Era proprio ciò che faceva al caso di Samuel che, visto l’intento di lei, riteneva tutt’altro che positivo tenere qualcosa di compromettente nella tasca dei pantaloni. Theresa era insindacabile: voleva essere lei a spogliarlo e, se non glielo concedeva, lo prendeva come un insulto personale.
Per fortuna aveva con sé il proprio pacchetto di sigarette, non avendolo tolto dalla tasca della camicia quando era salito in camera da letto dopo avere parlato con John Brooks. Lo prese fuori, ripiegò il foglio ancora una volta e lo infilò proprio lì, dove Theresa non sarebbe mai andata a controllare.
Non gli restava che salire le scale e raggiungere la donna con cui non aveva creduto possibile tornare ad essere così in sintonia.
La trovò sdraiata sul letto.
A parte le scarpe e gli occhiali, non le mancava niente.
«Allora non hai messo via il vestito» osservò, chiudendo la porta.
Theresa non rispose alla sua domanda.
«Dai un giro di chiave» gli suggerì.
Non era un’idea così pessima.
Non appena ebbe eseguito ciò che Theresa gli chiedeva, andò ad appoggiare le sigarette sul comodino.
«No!» esclamò lei, sollevandosi. «Non mi dire che vuoi fumare ora.»
«Niente affatto» la rassicurò Samuel. «Ho sentito quello che hai detto alla titolare, stasera: ti dà fastidio che tuo marito fumi.»
Rise, immaginando che anche Theresa avrebbe fatto lo stesso, ma lei rimase seria.
«Scusa.»
«Per che cosa?»
«So che faceva parte del tuo progetto per mantenere celata la tua identità, ma non avrei dovuto parlarne con lei.»
A Samuel parve che quelle parole fossero un campanello d’allarme.
«Cosa vuoi dire?»
Theresa lo guardò negli occhi.
«So perché siamo qui.»
Samuel si era aspettato che prima o poi lo scoprisse, ma la sua reazione non era quella che si era aspettato.
«Sembra quasi che non te ne importi niente.»
«Infatti» confermò Theresa, «È proprio così. In un primo momento ci sono rimasta male, pensando che mi avessi ingannata. Poi...»
Non proseguì, quindi Samuel la esortò: «Poi...?»
«Poi mi sono resa conto che, se Marissa Flint fosse stata il tuo unico obiettivo, saresti venuto da solo. Invece no, mi hai portata con te e mi hai fatto credere che questa fosse una vacanza “normale”. Questo significa tante cose.»
Samuel aggrottò la fronte.
«Per esempio?»
«Per esempio che desideri stare con me tanto quanto io desidero stare con te.»

Harriet si svegliò di soprassalto.
“Maledetto tuono...”
Le ci volle qualche istante prima di rendersi conto di essere alla reception e di essersi addormentata seduta davanti a un giornale.
Non era un atteggiamento professionale.
Non doveva succedere mai più, così come non era quasi mai accaduto fin da quando lavorava alla locanda.
Per giunta aveva lasciato un’agenda aperta. Non che ci fosse qualcosa di compromettente, scritto su quelle pagine, ma non era comunque una cosa da fare.
“Stai invecchiando” si disse. “Non sei più reattiva e scattante come un tempo. Un giorno o l’altro tua figlia diventerà più brava di te.”
Non che la cosa le dispiacesse, dato che Suzanne avrebbe potuto salvare la locanda da una chiusura sempre più imminente.
“No, Suzy non c’entra niente.”
L’unico che poteva aiutarla era Albert. Quando servivano dei soldi, si era sempre rivolta a lui. Il segreto stava nel non chiedere cifre enormi e nel non essere troppo pressante. Prima della morte di Marissa, non si era mai tirato indietro.
«Questo» borbottò Harriet, rivolta a se stessa, «Dimostra quanto tu sia incapace. Basterebbero le accuse giuste al momento giusto.»
Dentro di sé, ne era certa: dietro al banale tentativo di rapina in cui Marissa Flint era stata assassinata, si nascondeva molto di più... e non solo. Non c’era da sorprendersi che Kay Brooks fosse morta proprio poco prima che il suo programma stesse per ricominciare. Harriet non credeva alla tesi del suicidio: qualcuno aveva deciso di chiuderle la bocca per sempre. Non aveva la più pallida idea di come fosse stato possibile allestire quel teatrino, ma d’altronde non era un problema che la riguardava in prima persona. Ciò che contava era avere altri soldi, per fare stare buoni i fornitori, non certo il pensiero che Marissa e Katherine riposassero in pace.

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Capitolo 23
*** La lettera ***


Ambermount, 30 Luglio 1976

Carissima Harriet,
è mio dovere annunciarti che il nostro comune amico Albert Wilkerson è mancato la scorsa settimana in un incidente automobilistico.
Non avendo parenti ancora in vita, mi sono accollato io stesso l’organizzazione e le spese del suo funerale. Sapevo che avrebbe preferito una cerimonia privata, e così è stato.
Negli scorsi mesi mi aveva rivelato che Suzanne e Michelle erano figlie sue e che ti passava del denaro per contribuire agli studi della maggiore e al mantenimento della minore. In ricordo dell’amicizia che mi legava a lui e all’affetto che ho sempre provato per te, sarò lieto di fare il possibile per aiutarti. Tra le carte di Albert, ho trovato il numero del conto sul quale ti faceva i versamenti. Nei miei limiti, continuerò quello che aveva iniziato a fare lui. Non preoccuparti per me: sarò l’unico erede di un grosso patrimonio e, per tutto il resto della mia vita, difficilmente dovrò affrontare difficoltà di tipo economico. Anche per questa ragione sarò lieto di dare a te e alle tue figlie una vita migliore.
Non credo che ci incontreremo mai più di persona. Quando riceverai questa lettera, avrò già lasciato Ambermount: mi sto trasferendo e preferisco non comunicare a nessuno il mio nuovo indirizzo.
Qualora Marissa non ne sia informata, sei libera di comunicarle la notizia della morte del nostro amico Albert. Ti chiedo, però, di non divulgarle in alcun modo il contenuto di questa lettera e di non metterla al corrente dell’aiuto economico che ti sto offrendo per il futuro perché, da parte mia, non ho intenzione di avere mai più contatti con lei.

Saluti. P.C.


Appoggiato contro la porta del bagno, Samuel rilesse la lettera ancora una volta.
Erano passati oltre quindici anni da quando era stata scritta e indirizzata a Harriet Harrison. Era curioso che, dopo così tanto tempo, fosse ancora in giro. L’impressione era che la titolare fosse andata a ripescarla perché, per qualche ragione, aveva ritenuto opportuno rileggerla proprio in quei giorni.
Il testo, da sé, gli appariva quasi insignificante. Evidentemente Harriet aveva avuto due figlie con un uomo con il quale non era mai stata sposata, che l’aveva aiutata a mantenere le ragazze e che era deceduto nel corso degli anni Settanta.
Suzanne doveva essere la donna che lavorava in cucina, mentre l’altra, apparentemente più giovane... Samuel rabbrividì. Era solo un caso che si chiamasse Michelle Harrison, esattamente come la ragazza che lavorava a Radio Scarlet?
“Originaria anche lei, tra l’altro, di Ambermount...”
No, non si trattava di un caso.
Era assurdo pensare a una coincidenza... o forse no. Magari era stato proprio grazie a lei che Kay aveva iniziato a provare un interesse maggiore per il caso di Marissa Flint che, di per sé, non sembrava avere nulla di molto più significativo di tanti altri delitti analoghi rimasti irrisolti nel corso degli anni.
Samuel cercò di fare mente locale.
Michelle era figlia della titolare della locanda. Kay l’aveva scoperto per caso e, trovando un interessante collegamento con un vecchio caso di cronaca, aveva preso la decisione di vederci più chiaro.
“È possibile.”
Conoscendo Kay, doveva essere andata così, eppure Samuel non riusciva ad esserne convinto fino in fondo.
Rilesse la lettera da cima a fondo, ancora una volta.
Anche lì c’era qualcosa di strano, per esempio il fatto che fosse dattiloscritta. Era una lettera informale, tra due amici di vecchia data. Inoltre l’autore non sembrava cavarsela così bene nell’impaginazione, dando l’impressione di chi, in genere, stava ben lontano dalle macchine da scrivere.
“E poi c’è la firma.”
Almeno quella, avrebbe potuto farla a mano, invece di limitarsi ad apporre delle semplici iniziali in coda ai saluti.
A Samuel bastò poco per trovarsi a fantasticare su un ulteriore soggetto che, fingendosi quel P.C., chiunque fosse, aveva deciso di scrivere a Harriet Harrison spacciandosi per lui, battendo la lettera a macchina perché incapace di imitarne la grafia.
Ordinò a se stesso di smetterla. Doveva finire di prepararsi per scendere e, dal momento che Theresa dormiva ancora, approfittarne per andare a schiarirsi le idee all’esterno. Nonostante il temporale della notte precedente, il cielo era limpido e splendeva il sole.

Alla reception c’era una donna che Samuel non aveva ancora visto. Doveva avere sui cinquant’anni e, con tutta probabilità, lavorava alla locanda al mattino e durante le prime ore del pomeriggio. Non si era accorta di lui e, quando la salutò, sobbalzò.
«Mi scusi» borbottò. «Non mi ero accorta di lei.»
«Non si preoccupi.»
La donna guardò l’orologio.
«È prestissimo. Come mai è sceso a quest'ora?»
Effettivamente erano appena le sette e un quarto.
«Volevo andare a fare due passi fuori» ammise Samuel, «Ma dato che sono qui, magari ne posso approfittare per farle una domanda.»
L’espressione della donna rimase impassibile.
«Che genere di domanda?»
Samuel sapeva già come muoversi. Aveva funzionato con John Brooks, il giorno precedente, e c’era la possibilità di avere successo anche con la collega delle Harrison.
«Io e mia moglie siamo venuti qui perché è stata una mia zia a consigliarmi il posto. Purtroppo mia zia è molto avanti con gli anni e non si ricorda più molto bene le cose. Mi ha raccontato, qualche tempo fa, di avere conosciuto di persona un amico della titolare...»
Ancora una volta, la donna non gli parve molto interessata.
Ciò nonostante, lei lo esortò: «Continui, la ascolto.»
«Non so se sia vero o no» riprese Samuel, «Perché mia zia dimentica molto spesso le cose, oppure confonde le persone. Quel tale doveva chiamarsi Wilkins o qualcosa del genere...» Si finse pensieroso. «No, non era Wilkins. Forse era Wilker...» Simulò un’intuizione. «Wilkerson! Si chiamava Wilkerson!»
«Wilkerson...» ripeté la donna, palesemente distratta. «Non sono sicura di ricordarmi niente del genere. È da poco che lavoro qui in pianta stabile. Quando c’era ancora Marissa - una donna che lavorava qui fin da quando era ragazza, che purtroppo è mancata un paio d’anni fa - io venivo solo a fare le pulizie un giorno sì e un giorno no. Non ricordo bene gli amici di Harriet, sempre ammesso che quel Wilkerson venisse qui a trovarla.»
«Non so se venisse qui» ammise Samuel, «Ma so che è morto. È stato un incidente stradale, o almeno così dice mia zia. Lui si chiamava... Alfred? No, forse era Albert. Sinceramente non ricordo. I discorsi di mia zia sono un po’ confusi e...»
«Albert Wilkerson!» esclamò la donna, finalmente interessata. «Lui e Harriet non erano solo amici. O meglio, non lo erano affatto. Avevano avuto una relazione, quando avevano venti o trent’anni. Deve essere durata un bel po’, ma lui non veniva qui molto spesso. All’epoca io non venivo ancora a lavorare qui, ma la cugina di mia madre fece la cameriera qui per un breve periodo, negli anni Sessanta... Diceva che, secondo lei, quel tizio non sposava Harriet, nonostante avessero avuto due figlie, perché aveva già una moglie. Non so se fosse davvero così, ma Sally ne era sicura. A Harriet, però, non piacevano i pettegolezzi, quindi Sally non è che ne parlasse più di tanto.»
Quel lungo discorso bastò a Samuel per comprendere quale fosse l’interesse della sua interlocutrice: fare congetture sulla vita sentimentale altrui. Di solito le persone che amavano quel genere di argomento non sottovalutavano nemmeno le disgrazie, perciò non sarebbe stato difficile spostare la conversazione sull’incidente in cui Albert Wilkerson aveva perso la vita. Decise comunque di non interromperla, perché sembrava avere anche altro da dire.
«Sa qual è la cosa strana? Me lo ripeteva sempre Sally. Sia Harriet sia Marissa erano due ragazze madri. Marissa era stata fidanzata con un amico di Albert, un certo Phil, Philip o qualcosa del genere che, dopo che lei rimase incinta, non si fece più vedere. Qualcuno diceva che era stata proprio Marissa a voler chiudere con lui, perché la figlia era di un altro. Harriet e Albert, comunque, si conobbero proprio grazie al fidanzato di Marissa. Ogni tanto Albert tornava a trovarla, più per darle dei soldi che per altro.» La donna ridacchiò. «In realtà veniva anche per qualcos’altro, ovviamente, ma a Harriet interessavano di più i soldi. Se avesse voluto trovarsi un altro uomo, avrebbe avuto tante altre occasioni, dato che Albert era sempre lontano.»
«Poi Albert morì» azzardò Samuel, a quel punto.
«Esatto» confermò la donna. «Ero stata assunta da un paio di mesi per fare le pulizie e Albert era venuto proprio qui. Io non c’ero, non era il mio giorno di turno, ma so che il giorno prima era arrivato anche il fidanzato di Marissa, anche se non avevo fatto in tempo a vederlo perché io lavoravo soltanto la mattina. Era tornato dopo tanti anni, quasi come se fosse uscito dal nulla, ma non ebbi occasione di vederlo: non so quanto a lungo si fosse fermato, ma era già ripartito quando tornai. Non vidi nemmeno Albert, perché per qualche ragione era partito anche lui, lasciando la stanza praticamente impeccabile... anche se in effetti, quando chiesi a Marissa se per caso l’avesse pulita lei, viste le ottime condizioni in cui si trovava, lei ebbe una strana reazione. Non ci pensai più di tanto, comunque. Harriet mi pagava per pulire, non certo per fare domande, e mi sembrava di avere capito che di Albert si dovesse parlare il meno possibile. Non era un problema, per me. Anzi, meno c’era sporco e prima facevo a svolgere il mio lavoro.»
«E dopo? Come morì Albert?»
«Non lo so di preciso. Qualche tempo dopo Harriet comunicò a Marissa - io sentii tutto, perché ne parlarono a pochi metri di distanza da me, non certo perché mi fossi presa il disturbo di origliare - che Albert era deceduto. Aveva fatto una brutta fine, credo. Per quanto ne so, dovrebbe essere precipitato in un burrone.» La donna sospirò. «L’ho sempre detto io, che le automobili saranno la rovina del mondo! Pensi che la macchina di Albert prese addirittura fuoco, un po’ come succede nei film.» Sul suo volto comparve un’espressione di disgusto. «Non mi faccia pensare a quali dovranno essere state le condizioni del cadavere. Sarà stato riconosciuto dalla targa dell’automobile, con tutta probabilità.»
Samuel annuì.
«È molto probabile.»
Dal momento che la donna scuoteva la testa, con aria affranta, e sembrava non avere più niente da dire in proposito, Samuel decise che era giunta l’ora di cambiare discorso.
«La signora Harrison ha due figlie, ha detto?»
«Sì.»
«Una lavora qui, mi pare.»
«Sì, Suzy.» La donna sorrise. «È una brava ragazza.»
«E l’altra?»
«È una brava ragazza anche lei.»
«Non lo metto in dubbio» puntualizzò Samuel. «Le stavo soltanto chiedendo se anche lei lavora qui.»
«Oh, no» replicò lei. «Michelle vive in un’altra città... a... mhm... Scarlet Bay. Non viene molto spesso a trovare la madre, ma la chiama tutte le sere.»
«E la figlia dell’altra donna?» azzardò Samuel, cercando di rimanere impassibile nonostante la conferma appena ricevuta. «Ha mai lavorato qui?»
«No. Non mi ricordo nemmeno il suo nome, né che aspetto avesse. So solo che si sposò a vent’anni e poco dopo divorziò. Se ne andò da qualche parte e non tornò mai a casa. Lei e sua madre non erano più in contatto. Non aveva una buona reputazione, quella ragazza, da queste parti. Per fortuna il suo ex marito trovò una ragazza più adatta a lui. Adesso è sposato con la figlia maggiore di Harriet. E ora mi scusi, mi piacerebbe molto rimanere qui a parlare con lei, ma devo andare in cucina.»
La donna si alzò in piedi e si allontanò.
Samuel non riusciva nemmeno a capacitarsi di quante informazioni fondamentali avesse appreso nel giro di pochi minuti. Per fortuna, ogni tanto, si trovavano persone dalla parlantina facile. Quella signora avrebbe sempre avuto un posto speciale tra i suoi ricordi.

«Suzy, esco!» annunciò John.
Sua moglie, dal bagno, gli domandò: «Come mai così presto?»
«Ho voglia di fare un giro» mentì John. «Ho avuto un lieve capogiro, stamattina, e vorrei vedere se, prendendo una boccata d’aria, starò un po’ meglio.»
«Okay, non fare tardi.»
Il tono piatto della voce di Suzanne non lo preoccupò. Aveva sempre quel tono, quando parlava con lui. Lo vedeva come un incapace, ormai, perché non aveva colto il momento opportuno per vendere la videocassetta a Kay Brooks.
Ovviamente non le aveva raccontato dei retroscena che aveva scoperto. Non aveva alcuna ragione per farlo, dato che lei si divertiva a demolire ogni sua intuizione. Di teorie nuove non ne aveva, tutto ciò che sapeva si basava su quanto aveva visto. La volontà di non generare tensioni inutili lo spingeva a fingere che il video non esistesse, almeno finché si trovava entro i confini delle mura domestiche. Al di fuori iniziava la sua libertà.
John uscì e richiuse la porta alle proprie spalle, scese le scale e si diresse verso la macchina parcheggiata in cortile.
Doveva vedere Samuel Jeffrey.
Doveva costringerlo a confessare la propria identità.
Quel tizio voleva qualcosa da loro e John aveva la necessità di sapere che cosa.
Salì in auto, si allacciò la cintura di sicurezza e avviò il motore.
“A quest’ora Harriet sarà a casa.”
Ci sarebbe stata soltanto la nipote - o quello che era - della vecchia Sally, che taceva sempre, a meno che qualcuno non trattasse argomenti che rientravano nel suo specifico interesse. Se anche l’avesse visto all’esterno, non avrebbe fatto caso a lui. O meglio, l’avrebbe senz’altro notato, ma non avrebbe ritenuto la sua presenza fondamentale e non si sarebbe presa il disturbo di chiedergli come mai ultimamente andasse così spesso alla locanda.
Con un po’ di fortuna, Samuel Jeffrey si sarebbe allontanato e avrebbe potuto incontrarlo in un luogo più riservato. Magari si sarebbe stancato di stare tutto il giorno accanto a quella tizia che spacciava per sua moglie, nei confronti della quale John non riusciva a provare un minimo di fiducia. Aveva l’aria dell’oca svampita, e quello era proprio il genere di donna da cui John cercava di stare lontano.
Lungo la strada, decise di fermarsi prima di giungere alla locanda. Poteva lasciare la macchina in un parcheggio a qualche centinaio di metri di distanza e fare il resto del percorso a piedi. Sarebbe stato molto più discreto, da parte sua.

Samuel non c’era, nemmeno al pianterreno. Doveva essere uscito. Per quanto Theresa si sentisse meglio in sua presenza, fu sollevata dal fatto che, in quel momento, non ci fosse. Come ogni donna, di tanto in tanto aveva la necessità di fare telefonate riservate.
Salì le scale, entrò nella stanza e chiuse la porta, dando un giro di chiave per sentirsi più sicura.
Il telefono era sul comodino, accanto alla parte del letto dove aveva dormito Samuel.
Theresa si sedette e fece un profondo respiro.
“Non sarà difficile, è solo una chiamata.”
Compose il numero e rimase in attesa.
A ogni squillo sperò di non ottenere risposta, ma sapeva di non potere sfuggire per sempre al proprio destino.
«Pronto?»
Riconobbe con chiarezza quella voce.
«Ehi. Sono Theresa.»
«Theresa?!» L’altra parve quasi stupita. «Perché mi stai chiamando?»
«Sono in vacanza con Samuel. Sto benissimo con lui.»
«Buon per te. È quello che hai sempre voluto, dopotutto. Almeno adesso potrai sentirti più rilassata, quando fantasticherai sul giorno in cui finalmente potrai stirargli le camicie, o cambiare il pannolino ai vostri figli.»
Quelle parole erano proprio quelle che, in genere, la facevano sognare a occhi aperti, ma Theresa si sforzò di mantenere la concentrazione.
«Siamo vicino ad Ambermount.»
«A-Ambermount?»
«Sì» confermò Theresa. «Siamo proprio nella locanda in cui lavorava Marissa Flint.»
«E tu ti esalti per questo?»
«Non proprio, ma è comunque piacevole essere qui con lui.»
«Ti ha portata lì soltanto perché la donna che gli interessava davvero si stava occupando di quel caso. Com’è possibile che tu non te ne accorga?»
Theresa sospirò.
«Lo so, ma...»
Non c’era altro che potesse dire. Senza aggiungere una sola parola riattaccò. Quella telefonata era stata un errore.

Samuel osservò con attenzione lo stabile accanto alla locanda. Sembrava un magazzino o qualcosa del genere, chiuso da vecchio portone malandato.
Non era molto interessante, da vedere. Proseguì, allontanandosi dal cortile, che non era recintato e che, da quel lato, dava su una specie di boscaglia quasi incolta.
Samuel si diresse proprio in quella direzione, inoltrandosi tra gli alberi e rischiando, a ogni passo, di inciampare sulle sterpaglie.
Si mise a riflettere su ciò che aveva appreso quella mattina.
La figlia minore della signora Harrison lavorava a Scarlet Radio, di questo ne aveva la certezza. Sapeva anche che Michelle era in contatto quasi costante con Harriet. Era convinto che, a proposito di quella parentela, ci fossero ben pochi lati oscuri. Era ormai certo che il lavoro di Michelle alla radio non fosse una semplice coincidenza, ma con tutta probabilità era stata proprio quella la causa scatenante. Rimaneva da chiedersi perché Kay non avesse mai fatto il nome di Harriet Harrison, ma era plausibile che preferisse tenere al di fuori le persone che non avevano niente a che vedere con la morte di Marissa.
Harriet Harrison sembrava essere stata sentimentalmente legata ad un uomo di nome Albert Wilkerson, deceduto nel 1976 in un incidente stradale. Quell’uomo era - stando a quanto scriveva P.C. e a quanto riferiva la collega di Harriet e Marissa - il padre naturale di Suzanne e Michelle. Non aveva mai voluto né sposare Harriet né dare il proprio cognome alle due figlie, ma sembrava avere contribuito al loro mantenimento. I suoi rapporti con Harriet, dopo la fine della loro relazione, sembravano essere stati quasi esclusivamente di tipo economico. Non era chiaro se, dopo la sua morte, quel P.C. avesse davvero aiutato la Harrison, ma Samuel non era sicuro che quella questione aveva importanza.
A seguire c’era un certo Phil, forse proprio l’autore della lettera, che aveva avuto una relazione con Marissa, terminata ancora prima della nascita della loro - sempre ammesso che fosse sua - figlia. Stando a quanto emergeva dalla lettera da lui inviata a Harriet Harrison, sembrava che nel 1976 avesse avuto intenzione di interrompere i propri contatti con Marissa. Dal colloquio avuto con la dipendente della locanda, Samuel sapeva anche che, con tutta probabilità, dopo essersi lasciati, Marissa e Phil non si erano mai più rivisti, almeno fino all’estate del 1976. Phil sembrava essersi presentato alla locanda un pomeriggio o una sera e il giorno successivo era arrivato anche Albert. Nessuno dei due c’era più la mattina immediatamente successiva, quando era arrivata la donna delle pulizie. Nel corso della sera o della notte, Albert Wilkinson sembrava essere deceduto, precipitando con la propria automobile da un burrone, e il suo corpo era probabilmente rimasto carbonizzato. Sembrava che fosse stato Phil a occuparsi della sua sepoltura, prima di trasferirsi altrove, con l’apparente intento di far perdere le proprie tracce. Inoltre, con tutta probabilità, Marissa aveva pulito la stanza in cui Albert era stato, nonostante la presenza di una dipendente alla quale sarebbe toccato quel compito.
Infine c’era la figlia di Marissa che, all’improvviso, sembrava essere stata la moglie di John Brooks. Non si trattava di un dettaglio da poco, ed era curioso che, proprio il giorno precedente, lui ne avesse parlato come se fosse stata poco più di una sconosciuta. In realtà, per quanto quell’uomo avesse senz’altro omesso di riferirgli qualcosa di fondamentale,
, di per sé non era detto che gli avesse mentito: secondo lui quella donna se n’era andata da circa dodici anni, non aveva più avuto contatti con nessuno e non era tornata nemmeno per il funerale della madre. Inoltre era apparso sorpreso, se non addirittura preoccupato, di sentirla mettere in relazione alla città di Scarlet Bay. Forse quella donna non aveva davvero i capelli castani chiari, oppure se li era semplicemente tinti di un altro colore. Dentro di sé era sempre più convinto che si trattasse proprio della donna che aveva invitato Anthony a raggiungerla la sera in cui Kay era stata assassinata.
Stava ancora riflettendo, quando udì un rumore alle sue spalle.
Qualcuno doveva averlo seguito.
Ricevette una spinta che gli fece perdere l’equilibrio, facendolo cadere sul tronco dell’albero che aveva davanti, prima di arrivare a terra.
«Credo che tu abbia molte cose da spiegarmi, Samuel Jeffrey» sibilò una voce, «In primo luogo, che cosa vuoi da noi?»

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Capitolo 24
*** Confusione ***


«Spero che non ti dispiaccia ricapitolare» osservò Anthony, in corridoio, mentre si avviavano verso il loro ufficio, «Perché ormai ho perso il filo.»
Samuel annuì.
«Sì, capisco. In effetti raccontarti tutto in cinque minuti...» Si interruppe, prima di riprendere la propria narrazione. «Come ti stavo dicendo, avevo appena scoperto che John Brooks era stato sposato con la figlia di Marissa Flint, la famosa donna che non si faceva vedere da dodici anni e di cui non sono riuscito a scoprire niente, se non che aveva i capelli castani chiari.»
Anthony raggelò.
«Dodici anni, hai detto?»
Samuel spalancò gli occhi.
«Sì, perché me lo chiedi?»
Anthony si sforzò di sorridere con aria indifferente.
«Lascia stare, è semplice curiosità. Continua.»
«Dunque, avevo appena scoperto che quel tizio era stato sposato con la figlia della Flint e sono andato fuori per riflettere un po’ per i fatti miei. Per quanto sia stato bene con Theresa, continuo a non sentirmi bene tanto quanto vorrebbe lei...»
«Vieni al dunque» lo pregò Anthony, fermandosi a pochi metri di distanza dal loro ufficio. «Mi interessa di quel tale, in questo momento, e non certo di quello che provi per la nostra fedele collaboratrice!»
«Sì, hai ragione, scusami.» Samuel si appoggiò alla parete. «All’improvviso, mentre cercavo di schiarirmi le idee è arrivato John Brooks.»
«Fino a questo punto mi è tutto chiaro» confermò Anthony. «Hai detto anche che sembrava abbastanza infastidito dal fatto che tu gli avessi mentito sulla tua identità.»
«Più che infastidito, era convinto che avessi qualche scopo poco legittimo» ammise Samuel, «Come se noi giornalisti volessimo nascondere i fatti invece che farli venire alla luce.» Sospirò. «È proprio vero, quando cerchi di combinare qualcosa di buono, deve per forza esserci qualcuno che dubita di te!» Scosse la testa. «Comunque non mi è servito tanto per convincerlo che, se mi ero presentato con un nome falso, era soltanto perché pensavo che agire in incognito fosse più sicuro. Anzi, non mi aspettavo nemmeno che qualcuno potesse riconoscermi dalla voce. Perché si calmasse mi sono anche complimentato con lui per essere un assiduo ascoltatore del nostro programma... Non che ne fossi davvero convinto: ho l’impressione che, in realtà, sia sua suocera quella che ci ascolta ogni pomeriggio.»
«Avresti potuto fargli notare che anche lui ti aveva mentito» ribatté Anthony, «E farti dare qualche informazione in più su K. Flint.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«K. Flint?»
«Beh, la figlia di Marissa Flint deve essere lei, no?»
«Forse.»
«Mi sembrava che anche tu ne fossi convinto» puntualizzò Anthony, «E poi ti ricordo che è stata lei a firmarsi così, quando...»
Samuel lo interruppe: «So perfettamente come si è firmata. Non ti sto accusando di essertelo inventato. Hai ragione: anch’io sono convinto che la donna che è venuta a trovarti al lavoro fosse proprio la figlia di Marissa Flint, ma non possiamo averne le prove, per il momento. Potrebbe essersi firmata con un nome falso.»
«A che scopo?»
«Non ne ho idea.»
«E soprattutto, perché è venuta da noi?»
Samuel abbassò lo sguardo.
«Non mi vengono in mente altre spiegazioni, se non quella che volesse allontanarti da Scarlet Bay. Se fosse implicata nell’omicidio...»
Anthony non lo lasciò finire.
«Mi spieghi che motivo avrebbe avuto per volere impedire a Kay di far luce sulla morte di sua madre?»
«Te lo spiego in un altro momento.» Samuel alzò gli occhi. «Non ho ancora finito, a proposito di John Brooks. Quel tizio è - o dice di essere - il cugino di Kay.»
Anthony pensò di avere capito male.
«Il... cugino di Kay?»
Samuel confermò: «Sì, me l’ha detto lui. Non vedeva Kay da molti anni - da oltre un decennio, ha detto - e...» Esitò. «Se Kay viveva ancora là quando lui era sposato con K. Flint, però...»
Anthony scosse la testa.
C’era qualcosa che non tornava.
«No, Samuel, non...»
«Lasciami finire!» lo pregò il collega. «Ammettiamo che la figlia della Flint sia la stessa donna che abbiamo visto in discoteca e che fosse sposata con il cugino di Kay, quando lui e Kay si vedevano ancora. Forse Kay la conosceva. In tal caso, avrebbe potuto riconoscerla facilmente.»
Almeno una certezza, Anthony ce l’aveva.
«No... o almeno, non tanto facilmente quanto potrebbe apparire: erano passati dodici anni, per quanto ne sappiamo, c’era poca luce e, per quanto ne sappiamo, Kay potrebbe non averla mai vista da vicino. Ti ricordo che mia moglie non aveva una vista particolarmente acuta. Per quanto potesse vederla e trovarla familiare, difficilmente avrebbe potuto notarne con chiarezza i lineamenti, a qualche metro di distanza. Quindi è plausibile - per quanto questa teoria mi convinca poco - che non sia stata in grado di riconoscerla.»
«Questa teoria ti convince poco, dici» osservò Samuel. «Perché?»
Anthony si sentì sollevato, quando la porta dell’ufficio si aprì e ne uscì Theresa. Se non altro, poteva astenersi dal rispondere.
Per fortuna Samuel concesse: «Ne parliamo dopo.»
Dietro Theresa, uscì anche Rebecca.
«Sì» confermò Anthony. «Ne possiamo parlare durante la pausa pranzo.»
Diverse ore li separavano da quel momento. Non sarebbe stato difficile trovare un modo per sviare quella domanda.

Rebecca fece un sospiro di sollievo.
«Finalmente!» Guardò Anthony con occhi imploranti. «È successa una cosa davvero strana.»
«Già» confermò Theresa. «Sono appena arrivata, ma ho avuto modo di rendermi conto di...» Esitò. «Di...»
Rebecca si rese conto che era meglio interromperla e spiegare tutto in prima persona.
«Sono arrivata qualcosa come venti minuti fa. Sono entrata in ufficio e ho trovato il computer di Kay fracassato.»
Vide Samuel spalancare gli occhi.
«Che cosa?!»
«Era in pessime condizioni, come se qualcuno l’avesse preso a martellate o qualcosa del genere. Naturalmente ho segnalato la cosa, ma...» Rebecca abbassò lo sguardo. «Questa storia non mi piace per niente.»
«Nemmeno a me» osservò Samuel, «E non posso fare a meno di chiedermi se non c’entri qualcosa con lo sfondo verde.»
«Lo... sfondo verde?» ripeté Rebecca.
«Sì, parlo della schermata di Wordpower» le spiegò lui. «Forse Anthony non te ne ha mai parlato, ma...» Si interruppe, guardando il marito di Kay. «Non lo sa, vero?»
Anthony sospirò.
«Credo di no. Temo che non sapesse nemmeno che Kay in genere teneva lo sfondo rosso, in Wordpower. Diceva che, con quello blu di default, le scritte erano troppo sfuocate.»
«Casomai era troppo scuro» replicò Samuel, «Ma non mi sembra affatto che sullo sfondo blu le scritte siano sfuocate. Non...»
Rebecca interruppe quella discussione sul nascere.
«Sì, sì, sapevo dello sfondo rosso. Mi è capitato di vederlo, un paio di volte, compreso il giorno in cui...» Era meglio evitare di parlare davanti a tutti del loro incontro, il sabato precedente alla morte della collega. Guardò Anthony, cercando di fargli capire che c’era dell’altro, di cui avrebbe preferito riferirgli in privato. «Stavate dicendo dello sfondo verde, comunque. Che cosa intendevate dire?»
Samuel le spiegò: «Kay - o qualcuno al posto suo - ha cambiato lo sfondo di Wordpower nelle ore immediatamente precedenti alla morte.»
«E allora?» intervenne Theresa. «Non penserai davvero che sia importante.»
Anthony si intromise: «Perché non dovrebbe esserlo?»
«Ci sono mille ragioni per cui Kay potrebbe averlo fatto, e nessuna di queste ragioni potrebbe essere importante.»
«Oppure potrebbe essere un indizio» obiettò Anthony. «Forse il colore verde è, per qualche motivo, collegabile a qualcuno...»
Rebecca scosse la testa.
«Mi sembra una teoria un po’ campata in aria. In fondo la scelta del rosso al posto del blu derivava dal fatto che Kay vedeva male il testo sullo sfondo blu. Potrebbe avere optato per il verde perché lo vedeva meglio e...» Non finì la frase. «Oh, maledizione!» Si accorse di essere rabbrividita. «Invece sì, se l’ha cambiato lei, era per lasciare un indizio.»
Anthony spalancò gli occhi.
Rebecca ipotizzò che fosse la reazione di chi si rendeva conto che lei aveva appena ammesso di non credere più all’ipotesi del suicidio.
In realtà doveva avere in mente qualcos’altro, dato che le domandò: «Cosa te lo fa pensare?»
Non c’era che una risposta.
«Il fenomeno dell’aberrazione cromatica.»
L’espressione di stupore di Anthony non mutò.
«Non capisco.»
Rebecca fece un lieve sorriso.
«Non importa.»
Theresa intervenne: «Non era qualcosa che aveva a che vedere con la fotografia?»
«Sì» confermò Rebecca, «Ma è un fenomeno che spiega anche altre cose.» Si girò a guardare Samuel. «Grazie per avermi illuminata.»
Anche lui parve non capire.
«Su cosa?»
«Su tante cose.» Rebecca sapeva che era meglio non aggiungere altro, specie alla luce di certe valutazioni. «Ci sono parecchie cose che dobbiamo definire per la trasmissione di oggi» si affrettò a chiarire, «Quindi è meglio che ci diamo da fare.»
Theresa la guardò con aria di approvazione.
«Sì, a questo proposito, se non sbaglio, venerdì avevamo lasciato qualcosa in sospeso.»
«Hai ragione» rispose Rebecca, seppure non ricordasse nulla di simile. «Entriamo e cerchiamo di fare il nostro lavoro, almeno per qualche ora.»
Tornò ad avviarsi verso l’ufficio e varcò la soglia. Udì Theresa, Samuel e Anthony parlottare, nel corridoio.
Vide gli occhiali di Theresa, appoggiati su un giornale, sulla scrivania; gli occhiali su cui, rammentò, Raymond si era seduto per errore.
Rebecca li prese in mano per un attimo, poi avvicinò li avvicinò al giornale, guardando attraverso le lenti.
Sentì dei rumori, oltre la porta, e mise tutto al proprio posto, senza sapere se ciò di cui si era accertata potesse esserle utile.

Samuel guardò dalla finestra e vide Theresa salire in macchina.
«Per un po’ non dovrebbe venire a disturbarci.»
«No» convenne Anthony, togliendosi gli occhiali e spingendo la sedia all’indietro, per allontanarsi dalla scrivania. «Possiamo riprendere il nostro discorso.»
Samuel gli indicò la porta, mentre andava a sedersi alla propria postazione.
«Sei sicuro che Rebecca non tornerà?»
«Se la conosco bene, si sarà imboscata da qualche parte con quell’idiota del suo ragazzo. Direi che possiamo occuparci di quell’Albert Wilkerson.»
Samuel aggrottò la fronte.
«Wilkerson?»
«Perché no? È da stamattina che non aspettiamo altro che...»
Samuel lo interruppe: «Stavamo parlando della presunta figlia di Marissa Flint e del fatto che tu non fossi convinto che...»
La porta, che Theresa aveva lasciato socchiusa, si spalancò.
Samuel si girò di scatto.
«Rebecca?!»
Doveva avere l’espressione di chi ha appena visto un fantasma, dal momento che la giornalista gli ricordò: «Lavoro qui anch’io, nel caso tu te ne sia dimenticato.»
Samuel annuì.
«Sì, certo, ma credevo...» Si interruppe. Quel discorso non aveva molto senso. «Io e Anthony ce ne stavamo andando.»
Fece per alzarsi in piedi, ma Rebecca lo trattenne.
«Aspetta, Samuel.» Si rivolse anche ad Anthony. «Aspettate entrambi. Ho l’impressione che abbiamo lasciato parecchie cose in sospeso.»
Anthony azzardò: «Raymond - o come si chiama - potrebbe essere poco soddisfatto, nel sapere che sei qui a parlare di lavoro insieme a noi, piuttosto che a intrattenerlo.»
Rebecca sospirò.
«Raymond, Raymond, Raymond... La mia vita non ruota intorno a Raymond. Inoltre pare che oggi non si sia presentato al lavoro, ma che non abbia avvertito nessuno.»
«Potresti telefonargli» le suggerì Anthony, «E chiedergli che fine ha fatto.»
«Oppure» replicò Rebecca, andando a sedersi sul bordo della sua scrivania, «Posso godermi l’inaspettata tranquillità che la sua assenza mi offre. Comunque, se ti può consolare, non sono qui per parlare di lavoro. Vi ho sentiti, mentre entravo. Stavate parlando di un certo Albert Wilkerson; e non negate.»
«Stavamo parlando di un certo Albert Wilkerson» confermò Samuel. «Dovrebbe essere un perfetto sconosciuto per te.»
«Sì e no» rispose Rebecca. «È vero, non ho mai conosciuto questo fantomatico signor Wilkerson, quindi si può dire che sia uno sconosciuto, ma è altrettanto vero che ho sentito parlare di lui... anche piuttosto approfonditamente.»
«Ah, sì?» domandò Anthony. «In che occasione?»
«L’ultima volta in cui sono rimasta da sola con tua moglie. Sembrava che avesse fatto una sorta di raccolta di articoli di giornale che lo riguardavano. Niente di che: tutta roba che segnala la sua morte in un incidente d’auto. Pare che sia precipitato in un burrone e che la sua macchina abbia preso fuoco. Su chi fosse, si sa poco e niente. Pare che non siano mai state pubblicate sue fotografie.»
«Una... raccolta di articoli?» Samuel si alzò in piedi e si avvicinò a Rebecca. «Hai un’idea, anche solo vaga, di dove siano finiti?»
«Sì, sono a casa mia.»
«Perché li hai tu?»
«Perché Kay me li ha consegnati. Ha anche stampato una cosa, quando ci siamo viste qui dentro.» Indicò il computer fracassato. «Sembra che lì qualcuno abbia rimosso l’hard-disc. Magari c’era memorizzato proprio quel file.»
Samuel rabbrividì.
«Era un file su che cosa?»
«Parlava di un video» gli riferì Rebecca, «Registrato da qualcuno. Una guida turistica o qualcosa del genere...»
Samuel sussultò.
Anthony si accorse di qualcosa, dal momento che gli domandò immediatamente: «Ehi, va tutto bene?»
Nel frattempo Rebecca stava considerando: «Io e Kay ci siamo viste al sabato mattina. Può darsi che quel file si sia arricchito, oppure che sia diventato più chiaro, e che...» Guardò Samuel. «Cosa succede?»
«Forse» rispose lui, «È meglio cominciare dall’inizio.» Con poche parole le riferì brevemente di avere trascorso il weekend alla locanda di Harriet Harrison, nella quale Marissa Flint aveva lavorato per moltissimi anni. Infine aggiunse: «Il genero della signora Harrison, tale John Brooks, era una guida turistica o qualcosa del genere, un tempo.»
A Rebecca, che aveva ascoltato con attenzione, senza interromperlo, quel nome non sfuggì.
«John Brooks, vero?»
Samuel annuì.
«È, o sostiene di essere, il cugino di Kay, anche se non si vedevano da molti anni. Tra l’altro c’è anche un’altra coincidenza curiosa: sua moglie Suzanne Harrison altri non è che la sorella maggiore di Michelle.»
Rebecca strabuzzò gli occhi.
«Michelle della reception?»
«Proprio così» confermò Samuel. Indietreggiò e, giunto alla propria scrivania, vi si sedette sul bordo. «Vuoi sapere anche di chi sono figlie?»
«Di quella signora Harrison, suppongo.»
«Sì, ma questo era scontato» ribatté Samuel. «Pare che quella donna avesse una relazione clandestina proprio con quell’Albert Wilkerson e che le ragazze siano entrambe figlie sue. E non è tutto: pare che, poco prima di morire, quel misterioso signor Wilkerson abbia fatto visita a Harriet e a Marissa.»
«Tutto ciò è molto curioso» ammise Rebecca. «Toglimi una curiosità. Hai detto che sei stato alla locanda insieme a Theresa. Anche lei, per caso, sa tutto questo?»
«No. Ho preferito non dirle nulla.»
Rebecca lo guardò con aria di approvazione.
«Hai fatto bene. Meno persone ne sono al corrente, e meglio è. Se solo potessi tornare indietro, anch’io mi comporterei in modo più sensato.»
«Cosa vuoi dire?» intervenne Anthony.
«Avrei potuto andare io alla locanda e cercare di raccogliere informazioni dalla gente del posto» rispose Rebecca, «Invece non l’ho fatto. Mentre cercavo di capire che diamine di legame potesse esserci tra quell’Albert Wilkerson e quella dannata Marissa Flint, ho sprecato il mio tempo a parlarne con quella testa vuota di Raymond.»
Anthony accennò un sorriso.
«Pensavo che avessi un’opinione più elevata del tuo ragazzo.»
«Anch’io lo pensavo, fino a qualche tempo fa» tagliò corto Rebecca, prima di tornare sul loro principale argomento di discussione. «Per quanto riguarda Kay, era certa che tra la Flint e Wilkerson ci fosse un legame. Era anche preoccupata. Forse temeva che addirittura che io potessi scoprire di che cosa si trattava.» Fece un lungo sospiro. «Più il tempo passa e più inizio a credere che non ci siano dubbi: se è stata uccisa, è perché era al corrente del legame tra Marissa e Wilkerson.»
«Invece un dubbio c’è, e anche bello grosso» puntualizzò Samuel. «Come è venuta a saperlo? Chi gliel’ha detto?»
Anthony azzardò: «Lo sapeva già.»
Samuel lo fissò.
«In un modo o nell’altro, deve averlo appreso...»
Anthony scosse la testa, prima di alzarsi in piedi.
«Lo sapeva già, ti ho detto. Evidentemente, se vogliamo credere alla versione secondo cui suo cugino era sposato con la figlia di Marissa Flint, esistono buone probabilità che lei e Marissa si conoscessero.»
Samuel osservò: «Quella storia non ti convince.»
«No, non mi convince affatto» replicò Anthony, «Ma questo è un dettaglio secondario. Credo che dovremmo concentrarci su Phil.»
Senza voltarsi verso di lui, Rebecca ripeté: «Phil?»
«Phil, altrimenti detto P.C.» le spiegò Samuel, «E l’ipotesi di riuscire a risalire alla sua identità è abbastanza improbabile. Pare che fosse stato il fidanzato di Marissa quando avevano vent’anni o venticinque e che anche lui, proprio in concomitanza con l’ultima visita di Albert, si fosse recato alla locanda. Non si sa a fare che cosa, ma pare che si sia fermato molto poco. Harriet Harrison conserva ancora una sua lettera... o meglio, la conservava, dato che è venuta a casa con me. È da lì che ho scoperto le iniziali di quel tizio.»
«P.C.» borbottò Rebecca. «Non sai altro, vero?»
«Purtroppo no, se non che la lettera era stata battuta a macchina e che, chiunque fosse l’autore, dava l’idea di non cavarsela molto bene con l’impaginazione, al punto tale da spingermi a chiedermi perché avesse fatto quella scelta, invece di scrivere a mano.»
«Oltre a chiedertelo, ti sei anche dato una risposta?»
«Sì, ma è troppo fantasiosa.»
Anthony si intromise: «Non mi hai detto nulla in proposito. Anzi, non hai nemmeno accennato al fatto che fosse scritta a macchina.»
«È vero, non l’ho accennato» confermò Samuel, «Perché la mia è una teoria alquanto assurda. Abbiamo Phil che va alla locanda dopo tanti anni e Albert che arriva di lì a poco. Abbiamo Albert che muore in un incidente stradale; la sua macchina bruciata e il suo corpo carbonizzato vengono ripescati in un burrone. Abbiamo Phil, che pare sparire nel nulla. Infine abbiamo una lettera, in cui Phil sostiene di essersi occupato del funerale di Albert, che a quanto pare non aveva parenti viventi, e di essere intenzionato a trasferirsi, non si sa bene dove. Sostiene di essere unico l’erede di un grosso patrimonio e di essere al corrente del numero di conto su cui Albert versava del denaro per Harriet e le sue figlie. Dice che non avrà problemi ad aiutarla, ma non vuole più vederla, né vuole che qualcuno possa rintracciarlo. Lo so, non mi crederete, ma ho iniziato a chiedermi se...»
«Se Phil si è affrettato a darsi alla macchia perché in realtà è stato lui a uccidere Albert» azzardò Rebecca. «Potrebbe avergli manomesso la macchina e...»
Samuel scosse la testa.
«Quello che dici potrebbe avere un senso, ma perché avrebbe dovuto affrettarsi a sparire dalla circolazione, se la morte di Wilkerson era stata archiviata come incidente?»
Rebecca parve riflettere per qualche istante.
«Non saprei.»
«È questo il motivo per cui ho molte perplessità. Non abbiamo prove che Phil abbia scritto la lettera e, il fatto che l’abbia battuta a macchina, lascia intendere che l’autore potrebbe averlo fatto perché incapace di imitare la grafia di qualcun altro. La mia teoria è che Albert abbia ucciso il suo amico, dopo il loro incontro alla locanda, e che da allora si spacci per lui. Questo giustificherebbe il voler cambiare vita, il rifiutarsi di avere contatti con le persone che lo conoscevano e tutto il resto. Può darsi che Marissa sapesse qualcosa e che Albert si sia visto costretto a metterla a tacere.»
«Sì, ma perché mai Albert avrebbe ucciso Phil?» obiettò Rebecca. «Questo passaggio non mi è molto chiaro.»
«Non ne ho idea» fu costretto ad ammettere Samuel, «Ma l’idea che Albert abbia voluto prendersi la sua identità per poi appropriarsi della sua eredità non mi sembra così campata in aria.»
«Non mi sembra nemmeno una cosa normale» azzardò Anthony.
Samuel sbuffò.
«Non penso che uccidere qualcuno sia un comportamento normale, in tutti i casi, quindi non vedo di che cosa dovremmo stupirci. Quello di cui dovremmo sorprenderci è, casomai, che Kay fosse al corrente di tutto questo.»
O forse no, non c’era davvero da meravigliarsi.
Kay abitava da quelle parti, dopotutto. Magari aveva conosciuto Albert e Phil, oltre che Marissa, e aveva avuto dei sospetti fin dall’epoca, sfociati poi in una successiva conferma.
Samuel si prese la testa tra le mani.
Perché non si era mai chiesto fino in fondo che cosa si nascondesse nel passato di Kay, un passato che, fin dal giorno in cui l’aveva conosciuta, si era sempre rivelato maledettamente oscuro e pieno di buchi?

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Capitolo 25
*** La giovane Kay ***


(Novembre 1979)

Samuel teneva gli occhi fissi sul giornale che aveva portato con sé, tentando di concentrarsi sulla lettura, o quantomeno di evitare lo sguardo di Marybell, seduta quattro file più avanti di lui. Era la studentessa più invadente del suo corso, gli aveva messo gli occhi addosso da settimane e lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Entrò la professoressa White e Samuel chiuse il giornale.
“Prepariamoci a due ore di noia.”
Guardò l’orologio, chiedendosi dove si fosse cacciato Anthony che, in linea teorica, quel giorno avrebbe dovuto portargli degli appunti della settimana precedente.
Samuel sospirò.
“A quanto pare non c’è” realizzò, consapevole del fatto che Anthony non arrivava mai in ritardo ai corsi.
La professoressa White aveva già iniziato a parlare, quando la porta si aprì di nuovo. La ragazza che ne entrò, si conquistò un’occhiata gelida.
Samuel non aveva mai visto quella studentessa arrivata in ritardo. Doveva essere del primo anno; c’erano alcuni studenti che seguivano quel corso come opzionale.
Per qualche motivo, la nuova arrivata lo colpì, seppure il suo aspetto fosse nella media. Era minuta e aveva i capelli raccolti in una coda, biondi, con una ricrescita più scura. Aveva una felpa nera abbinata a pantaloni di velluto dello stesso colore. Non aveva niente di eccezionale, eppure lo attirava.
“Magari fossero tutte come lei.”
Sembrava diversa da Marybell e dalle sue amiche.
Oltrepassò la prima fila e oltrepassò anche la seconda, dove erano sedute le ragazze da cui Samuel cercava sempre di sfuggire.
Oltrepassò anche le file successive e, arrivata accanto a lui, si fermò.
«Sono liberi questi posti?» gli domandò.
Aveva una voce, osservò Samuel, con una voce così avrebbe potuto fare la speaker radiofonica, o anzi, tenendo conto anche dell'aspetto, magari addirittura la conduttrice televisiva.
«Certo, sono liberi» si affrettò a rispondere.
La ragazza si sedette e appoggiò la borsa sopra al banco.
«Com’è questo corso?» si informò. «Non l’ho mai seguito, finora.»
«Noioso» rispose Samuel, con il massimo della sincerità. «Specie la professoressa, lei è noiosa come nessun altro.»
La professoressa White prese a riepilogare gli argomenti trattati nel corso delle lezioni precedenti, ma Samuel non se ne curò.
«Non ti ho mai vista prima» disse, rivolto alla sua compagna, «Sei del primo anno?»
«Sì.»
Sembrava di poche parole.
Samuel decise di insistere.
«Come ti trovi?»
«Mhm... bene» ribatté la sconosciuta, «A parte che, dalla seconda fila in poi, devo strizzare gli occhi come se li mettessi dentro a una pressa per vedere la lavagna.»
«Oh... Peccato, allora. Se l’avessi saputo, ti avrei tenuto un posto in prima fila.»
La ragazza ridacchiò.
«Non mi dire che stavi tenendo il posto per me. Fino a due minuti fa non sapevi nemmeno della mia esistenza.»
«In effetti no» ammise Samuel. «Aspettavo un amico, ma a quanto pare non c’è.»
«Potrebbe essere in ritardo» azzardò lei. «Se vuoi, mi posso spostare.»
«Anthony non è mai in ritardo» chiarì Samuel, «E comunque può sedersi anche più indietro. Lui non ha bisogno di mettere gli occhi in una pressa per vederci, almeno credo. E poi lui ha gli occhiali.»
«Wow» mormorò la ragazza. «Deve essere un tipo interessante.»
«Perché?»
La ragazza sorrise.
«Quelli con gli occhiali hanno fascino, non trovi?»
«C’è chi ha fascino e chi non ce l’ha» obiettò Samuel, «Indipendentemente dagli occhiali. Certo, a volte contribuiscono a dare un’aria da intellettuale che alle secchione potrebbe piacere...»
«Mi stai dando della secchiona?»
«Se non lo fossi, non avresti deciso di studiare giornalismo. Comunque, se ti può consolare, Anthony è interessante solo a metà: non l’ho mai visto con gli occhiali indosso, fuori dall’università... e anche fuori dal liceo.»
«Lo conoscevi già da prima?»
«Sì.» Samuel non aggiunse altro; ormai era stanco di parlare di Anthony. «A proposito, cosa mi racconti di te? Non sei di Scarlet Bay, vero?»
Lei si girò a guardarlo.
«Si sente così tanto il mio accento?»
«No, non si sente» ribatté Samuel. «Tutti quelli di Scarlet Bay, invece, hanno un accento piuttosto marcato.»
«Non sono di Scarlet Bay» ammise la ragazza, «Ma mi piacerebbe viverci in pianta stabile. In realtà ci vivo già.»
«Sì, ma ogni tanto tornerai a casa, immagino...»
Lei scosse la testa.
«Avere una casa significa avere qualcuno che ti aspetta... o qualcuno che attendi di rivedere. Io non ho una casa, se non quella di Scarlet Bay, anche se non c’è nessuno ad aspettarmi. A volte è meglio così.»
Samuel non sapeva cosa replicare.
Forse sarebbe stato meglio tacere e ascoltare la professoressa White. Era quello che si era proposto di fare quella mattina, nell’entrare in facoltà.
Sarebbe rimasto in silenzio, se la sua compagna non gli avesse indicato Marybell.
«Quella tizia è la tua ragazza?»
Samuel spalancò gli occhi.
«Certo che no!»
«Ti sta fissando con insistenza fin da quando mi sono seduta. Sembra che non le piaccia l’idea che io mi sia seduta accanto a te.»
«Il suo parere non mi riguarda» ribatté Samuel. «Non la sopporto. È una rompiscatole, non fa che intromettersi negli affari altrui. È convinta che, se non ho una fidanzata, sia perché sto aspettando lei.»
La ragazza sospirò.
«Che assurdità! Ci sono persone convinte che i single vivano per cadere ai piedi del primo venuto o della prima venuta.» Abbassò gli occhi. «Certa gente non capisce che a volte stai insieme a qualcuno solo perché non hai il coraggio di cambiare vita. A me è successo, solo perché mi rendevo conto che nessuno mi avrebbe creduto quando...» Si interruppe. «Lasciamo stare, non capiresti. La mia vita era un casino, prima che mi trasferissi a Scarlet Bay.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Mi stai dicendo che in realtà, qualcuno che ti aspetta, c’è?»
«No.»
«Il tuo ragazzo...»
«Io e lui non stiamo più insieme» puntualizzò lei, «E con tutta probabilità non ci vedremo mai più. Per quanto ne so, sta frequentando un’altra persona, tra l’altro, e non posso fare a meno di essere felice per lui. Questa è la prova definitiva che non eravamo fatti per stare insieme. Ora, però, lasciamo perdere. Non mi piace parlare del mio passato.»
«Non c’è problema. Se hai voglia di parlare di qualcos’altro, ricordati che io ci sono.»
Samuel si rese conto di non voler correre il rischio che, una volta terminata quella lezione, lei sparisse per sempre dalla sua vita.
«È molto gentile da parte tua» osservò la ragazza, «Però non ti conosco. Ti ricordo che non so nemmeno il tuo nome.»
«Va beh, a tutto c’è rimedio. Mi chiamo Samuel Jeffrey, sono nato a Scarlet Bay il 3 maggio 1959 e, come potrai tranquillamente intuire, ho vent’anni.» Sorrise. «Mia madre è un'infermiera, mentre mio padre lavora all'ufficio postale qui in città, e ho una sorella di ventiquattro anni che studia medicina in un’altra città. Ecco, ora sai chi sono.»
La ragazza sorrise a propria volta.
«Se è questo che intendi per conoscersi, allora non mi chiedi troppo. Mi chiamo Katherine Brooks - ma se non vuoi ritrovarti castrato inizia subito a chiamarmi Kay - e sono nata il 16 giugno 1956 in un noioso paese di collina dove non succedeva mai niente. Non ho più una famiglia, se non qualche parente che non ho mai frequentato, e l’unico obiettivo che ho è quello di diventare giornalista. Mi piacerebbe lavorare in una radio o qualcosa del genere, piuttosto che nella redazione di un giornale. Biografia interessante, eh?»
Samuel ribatté: «Tutti, in qualche modo, siamo interessanti.»
Kay obiettò: «Personalmente non credo proprio di esserlo.»
“Invece lo sei” avrebbe voluto replicare Samuel. “Sei molto più interessante di ogni altra ragazza che ho incontrato finora.”
«Nemmeno io lo sono» le disse, invece. «Non è una caratteristica solo tua.»
Kay sorrise.
«Sai, sono felice di essermi messa vicina a te» gli confidò. «È da pochi minuti che ci conosciamo, ma ti sei già dimostrato diverso da tutti gli altri, che da quando sono all'università non fanno altro che evitarmi.»
Samuel aggrottò la fronte.
«Perché dovrebbero evitare una ragazza come te? Non ne vedo il motivo.»
«Non lo so, Sam, davvero, non riesco a capirlo» rispose Kay. «Forse sono io stessa a sentirmi diversa.
«Samuel, non Sam» la corresse lui. «Anzi, cerca di non chiamarmi Sam, se non vuoi che mi aggiunga alla lista delle persone che ti evitano.»
«Okay» accettò lei. «Non ti chiamerò più Sam. Ora, però, mi lasci seguire un po' quello che dice la Signora Noia? È la prima lezione che seguo e mi piacerebbe farmi un’idea più precisa di questo corso.»
«Va bene» concesse Samuel. «Ti permetterò di annoiarti senza più disturbarti.»
Kay gli mostrò un sorriso radioso che gli fece comprendere che, nella vita, c’era sempre spazio per qualcosa di positivo.

Anthony arrivò mentre Kay se ne andava.
Samuel scattò in piedi.
«Perché hai saltato le lezioni della White?»
Anthony rise.
«Eri spaventato per gli appunti, non è vero?»
«Diciamo che mi sarebbe piaciuto averli entro oggi» ammise Samuel. «Lo sai, non ci capisco nulla di quel corso. L’unica speranza che ho di superare l’esame è studiare dai tuoi appunti. Me li hai portati?»
Anthony gli indicò la porta.
«Ho visto una bella ragazza che se ne andava e ho avuto l’impressione che fosse seduta di fianco a te. Chi era?»
Samuel puntualizzò: «Non hai risposto alla mia domanda.»
«E tu» ribatté Anthony, «Non hai risposto alla mia.»
Samuel sbuffò.
«Scusa se insisto, mi hai portato gli appunti?»
«Sì.»
«Bene. Era proprio quello che volevo sentire.»
«Io, invece, non ho ancora saputo ciò che mi interessa. Chi era quella ragazza?»
«Una del primo anno» gli riferì Samuel, «Che ha scelto questo corso come opzionale.» Rise. «No, non mi sembra che abbia manie suicide, se è quello che mi vuoi chiedere.»
Anthony sospirò.
«Non mi dire che ti stai ancora lamentando della White, solo perché è un po’ soporifera.»
«E allora tu» replicò Samuel, «Che hai saltato la sua lezione?»
«Piano con le accuse, non l’ho fatto di proposito. C’era un traffico pazzesco, stamattina. Quando sono arrivato in facoltà, la lezione doveva essere già iniziata da mezz’ora. Detesta chi arriva in ritardo. Si sarebbe ricordata di me, all’esame. Per precauzione ho deciso di rimanere fuori e di attendere pazientemente che le sue ore terminassero. A quel punto ho visto...»
Samuel perse il filo del discorso.
Ad un tratto, Anthony sbottò: «Ehi, mi stai ascoltando o stai ancora pensando alla ragazza di prima?»
Samuel avvampò.
«No, figurati.»
«Non mi hai ancora detto come si chiama» osservò Anthony. «Gliel’hai chiesto, almeno?»
«Kay» rispose Samuel. «Kay Brooks. Non avevo mai sentito parlare di lei, prima d’ora.»
Anthony ridacchiò.
«Io sì, invece.»
Samuel spalancò gli occhi.
«La conosci?»
«No. Ne ho sentito parlare da quei ragazzi del primo anno che vengono a volte alle lezioni della White. Pare che Kay sia una che se ne sta sempre per conto suo, ignorando tutti. Ci sono delle strane chiacchiere su di lei. Qualcuno sospetta che abbia una doppia vita...» Anthony non doveva essere interessato all’argomento tanto quanto aveva dato a vedere in un primo momento, dato che cambiò subito discorso. «Stasera ci sei?»
«Dove?»
«Alla serata al Queen of the 70’s.»
«Intendi dire in quella bettola che secondo Marybell e le sue amiche sarebbe un “locale maledettamente fashion”?»
«Sì, quello.»
«Per passare un’ennesima serata a giocare a biliardo nella speranza che, da un momento all’altro, accada qualcosa di interessante?»
Anthony annuì.
«Pare che ci sia una “festa maledettamente fashion”, che sicuramente non si rivelerà tale.»
Samuel puntualizzò: «Devo studiare, stasera, dato che mi hai portato finalmente i tuoi appunti. L’esame è tra quindici giorni.»
«Appunto, c’è una vita, davanti» ribatté Anthony. «Ti aspetto alle nove al Queen of the 70’s. Non avrai perso ogni speranza che accada qualcosa di interessante, prima o poi, spero...»

«Ho deciso» esclamò Samuel, appoggiato al tavolo da biliardo. «Passerò il resto della mia vita a chiedermi quale sia il significato di “locale maledettamente fashion”.»
«Guarda al lato positivo» gli suggerì Anthony. «Non c’è quella sanguisuga di Marybell e, almeno stasera, avrai un attimo di calma.»
Samuel scosse la testa.
«Stasera avrei dovuto rimanere a casa a studiare. Te l’avevo detto che...»
Anthony lo interruppe: «Basta pensare allo studio, almeno stasera. Hai passato tutto il giorno all’università. Meriti un po’ di svago... e anche un altro drink.»
«No, mi scoppia già la testa» replicò Samuel. «Lo sai, non sono abituato a bere. Credo che la cosa migliore da fare sia andare a casa.»
«Non prima di avere finito la partita.» Anthony prese in mano la stecca. «Anzi, ti propongo una scommessa folle.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Che tipo di scommessa folle?»
«Chi vince si conquista il diritto di provarci con la ragazza più attraente del locale.» Anthony gliene indicò una, seduta da sola a un tavolo. «Che cosa ne dici di quella?»
«Tu sei pazzo» ribatté Samuel. «In pratica chi vince la partita finisce per fare una figura di merda colossale...»
«Non essere così pessimista» replicò Anthony. «Magari potresti anche rimorchiare un bel pezzo di ragazza... sempre se sarai tu a vincere, cosa che io non darei per scontata.»
Samuel rise.
«Mi stai sfidando?»
Anthony scosse la testa.
«Ti sto solo ricordando che nella vita c’è altro, oltre allo studio. Per esempio quella tizia che...»
Samuel strabuzzò gli occhi, quando la vide girarsi per un attimo.
«Ehi.» Anthony cercò di attirare la sua attenzione. «Mi ascolti?»
«Sì. È solo che...» Samuel fece un cenno di saluto alla compagna di corso. «Quella ragazza» borbottò, poi, «È Kay, quella che c’era vicino a me, oggi, alla lezione della White.»
«Mi stai dicendo che quella è Kay Brooks?» Anthony non sembrava troppo sorpreso. «Il mondo è proprio piccolo.»
«Già, il mondo è piccolo» osservò Samuel, «E i “locali maledettamente fashion” frequentati dagli studenti universitari sono ancora più ristretti.»
«Questa scoperta è la conferma che meritiamo un po’ di svago. Il discorso dell’altro drink è ancora valido. Vado a ordinare.»
Anthony si allontanò, prima che Samuel riuscisse a trattenerlo.
Non aveva affatto voglia di bere ancora.
Guardò Kay, che si era voltata di nuovo.
Gli serviva la mente lucida, se voleva concretizzare il proprio obiettivo... ed era sicuro che più di tanto non lo fosse, altrimenti avrebbe ignorato totalmente l’assurda proposta che Anthony gli aveva fatto.

Ormai se n’erano andati quasi tutti.
Anche Anthony se n’era andato, o almeno così aveva detto.
Samuel si avvicinò a Kay, che era ancora seduta al proprio tavolo.
«Sei da sola?»
Lei sussultò.
Non l’aveva sentito arrivare, a quanto pareva.
Si girò.
«Mi hai vista con qualcuno, per caso?» Il suo tono era secco. «Se ero sola prima, lo sono anche adesso.»
«No, non lo sei.» Samuel scostò una sedia e si accomodò accanto a lei. «Forse avrei dovuto raggiungerti prima, invece di limitarmi a salutarti, ma...»
Kay lo interruppe: «Non ce n’era bisogno. Ho visto che eri troppo impegnato a giocare a biliardo e soprattutto a bere e a fare scommesse ridicole.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Di cosa parli?»
«Pensi che non ti abbia sentito?» Kay indietreggiò, sfregando la sedia sul pavimento, prima di scattare in piedi. «Non ti sei nemmeno degnato di abbassare la voce. Hai scommesso con il tuo amico che saresti riuscito a sedurmi e...»
«No.» Samuel cercò di negare, perché in realtà non era andata proprio così. «È Anthony che mi ha proposto di...»
«Ma fammi il piacere! Abbi almeno la decenza di ammettere le tue responsabilità.» Kay si avviò verso la cassa. «Ti avevo scambiato per una persona seria, Samuel. A quanto pare mi sono sbagliata.»
Samuel la guardò pagare la propria consumazione, prima di andarsene.
Avrebbe voluto seguirla, ma non avrebbe avuto senso.
Avrebbe voluto cambiare le cose, ma non c’era modo di riuscirvi. Se aveva sognato un futuro insieme a Kay Brooks doveva dimenticarsene una volta per tutte. Sarebbe rimasta soltanto una ragazza dal passato misterioso che, per poche ore, aveva fatto parte della sua vita; ormai ne era sicuro, anche se, per principio, non aveva mai certezze.

L’indomani Samuel avvampò, nel vedere Kay seduta sui gradini, davanti alla porta ancora chiusa. Era arrivata in anticipo, a quanto pareva, e con lei anche Anthony. Samuel si pentì di non avere perso tempo, quella mattina, garantendosi la possibilità di evitarla.
Si mantenne a distanza, ma Kay lo chiamò con un cenno della mano.
Samuel fece un profondo sospiro.
Evidentemente, quella mattina, c’erano prospettive più terribili, rispetto ad altre due ore della “Signora Noia”, come l’aveva chiamata Kay il giorno precedente.
Si avvicinò, con lo stesso entusiasmo di un condannato a morte che viene condotto verso il patibolo, sperando che la situazione non fosse così terribile come aveva ipotizzato la sera precedente.
Kay gli parve comprensiva.
«Anthony mi ha detto di non fare caso a te, perché hai l’abitudine di bere e, quando bevi, ti comporti sempre da cretino. Mi ha detto, però, che all’università posso fidarmi di te.»
Samuel lanciò all’amico un’occhiata di fuoco.
«Io ho l’abitudine di...»
Anthony lo interruppe, per rivolgersi a Kay: «Come vedi sta cercando di negare, nella speranza di riuscire a fare bella figura con te.»
«Ho visto, e non c’è bisogno che si sforzi» ribatté Kay. «Personalmente non ammiro molto quelli che si rendono ridicoli solo perché vogliono bere di più di quanto riescano a sopportare. Non ho problemi, però, ad avere a che fare con loro quando sono sobri, soprattutto dentro le mura dell’università.»
«Vedo che hai capito tutto dalla vita» osservò Anthony. «Tua madre sarà senz’altro molto soddisfatta di te.»
Kay abbassò lo sguardo.
«Non lo so, ma spero che, se mio padre fosse qui, potrebbe esserlo almeno lui.»
Il tono con cui aveva parlato, fece raggelare Samuel.
Ricordò quanto aveva detto il giorno precedente, a proposito di una casa in cui nessuno la aspettava più.
Suo padre doveva essere morto... e forse anche sua madre.

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Capitolo 26
*** L'ombra del sospetto ***


Come al solito Rebecca era arrivata presto.
Dopo la loro conversazione con Samuel del giorno precedente, Anthony fu felice di trovare solo lei, in ufficio.
Lei gli indicò il vuoto, laddove fino al giorno precedente c’era stato il computer di Kay.
«Hai visto? Hanno fatto presto a eliminarlo.»
Anthony sospirò.
«Tanto non c’era niente di importante.»
Rebecca scosse la testa.
«Credo che ci sia qualche sistema per recuperare tutti i file cancellati.»
«Ti ho detto che non importa» le assicurò Anthony, andando a sedersi alla propria scrivania. «Parliamo piuttosto della teoria di Samuel. Che cosa ne pensi?»
«È interessante.»
Il tono di Rebecca non sembrava particolarmente entusiasta. Forse non era nello stato d’animo migliore per fare commenti in proposito.
«Scusa se ti sto stressando.» Anthony si ricordò di quanto gli aveva detto il giorno precedente a proposito di Raymond. «Hai sentito il tuo ragazzo, alla fine?»
«No.»
«Oh...»
Anthony si pentì subito di essersi lasciato sfuggire quell’esclamazione, dal momento che Rebecca gli scoccò un’occhiataccia.
«La teoria di Samuel» riprese Rebecca, «È molto più interessante della presunta scomparsa di quel buono a nulla. Avrà deciso di cambiare vita all’improvviso, senza nemmeno degnarsi di avvertire qualcuno.»
«E non sei preoccupata?»
«Per niente. Ray è grande abbastanza per badare a se stesso.»
«Non direi» ribatté Anthony, «Se non è neanche capace di capire se ha qualcosa sotto al culo oppure no.»
Rebecca ridacchiò.
«Vedo che ti è rimasta impressa, la storia degli occhiali di Theresa.»
«Non del tutto, in realtà» ammise Anthony. «So solo che, se si fosse seduto sui miei, avrebbe fatto una pessima fine.»
«Voci di corridoio narrano che non ci sia andato molto lontano» borbottò Rebecca. «Theresa era infuriata come non mai.»
«Per forza. Lavorare al computer senza occhiali, per lei, è impossibile. Credo che non ci veda bene nemmeno da lontano, tra l’altro.»
«Mhm...» Rebecca parve pensierosa. «Per caso è ipermetrope?»
«Sì» confermò Anthony, «E lo è molto più di me.» Mise da parte l’argomento, per tornare a concentrarsi su Albert Wilkerson. «Il sospetto di Samuel è molto affascinante, dicevamo. Devo ammettere che in un primo momento non mi convinceva, poi sono tornato sui miei passi e ho iniziato a pensare che non fosse poi così male.»
Rebecca aggrottò la fronte.
«Come mai?»
«Penso che, se in questa storia fosse implicato qualcuno che aveva cambiato identità, l’interesse di Kay sarebbe stato assicurato.» Anthony rabbrividì, nel rendersi conto di quanto fosse profondo il significato delle sue stesse parole. «Chissà, magari aveva smascherato Albert Wilkerson, scoprendo l’identità che aveva assunto...»
«L’identità di P.C.?» domandò Rebecca.
«P.C. o Phil, è molto probabile» confermò Anthony. «Purtroppo non abbiamo dettagli più precisi sul suo nome.»
Rebecca annuì.
«Già, non li abbiamo, per ora.»
Anthony spalancò gli occhi.
«Cosa vuoi dire?»
Rebecca si alzò in piedi.
«Niente.» Si avvicinò alla finestra, con un fastidioso ticchettio di tacchi. «Era solo un modo per farti capire che non dobbiamo scoraggiarci. Pensa a quante cose sappiamo, che ignoravamo fino a pochi giorni fa.»
«Sì, Samuel ha avuto una buona idea ad andare alla locanda della signora Harrison.» Anthony si alzò e raggiunse Rebecca. «Senza di lui, non sapremmo nulla di Albert Wilkerson.»
«Ci sono gli articoli» puntualizzò lei. «Samuel si è solo limitato a trovare la direzione in cui quel tale doveva essere cercato.»
«In un certo senso hai ragione.»
«Sono felice che tu lo pensi. Dopotutto, se ti fidi di lui...»
Rebecca si interruppe.
Anthony andò a cercare il suo sguardo, che però era sfuggente.
«Non dovrei?»
«Nessuno meglio di te può sapere se puoi fidarti di Samuel oppure no» replicò Rebecca, secca. «C’è da dire che la storiella che ti ha raccontato, del cugino di Kay, non è molto credibile.»
«Potrebbe essere il presunto cugino di Kay a mentire» obiettò Anthony. «Anzi, sono sicuro che sia proprio così.»
«Forse» azzardò Rebecca, «Dovremmo cercare di contattarlo.»
Anthony scosse la testa.
«Non ancora.»
«Perché no? Se gli appunti di Kay hanno un significato e suo cugino possiede un filmato che potrebbe avere una qualche rilevanza...»
«No» insisté Anthony. «Credo che John Brooks sia una carta che dovremo giocarci con molta cautela... almeno io. Se Kay ha nascosto a tutti certe cose, doveva esserci una ragione logica.» Abbassò lo sguardo. «Per tanti anni mi sono chiesto perché non mi abbia mai parlato della sua famiglia e...»
«John era solo un cugino» gli ricordò Rebecca. «Certi miei cugini, non mi ricordo nemmeno che faccia abbiano.»
«John dice di essere un cugino di Kay, è vero, ma abbiamo soltanto la sua parola. Io mi riferisco ai genitori.»
«Non li hai mai conosciuti?»
Anthony sbuffò.
«Non ho nemmeno mai saputo come si chiamassero! Ho sempre dato per scontato che fossero morti, e invece...»
Non finì la frase, e immediatamente Rebecca lo esortò: «Invece...?»
«Invece credo che sua madre fosse viva e vegeta, almeno all’epoca» le rivelò Anthony, ripensando al giorno di tanti anni prima, in attesa della lezione di una professoressa alquanto noiosa e soporifera, aveva inavvertitamente fatto un’allusione che la sua futura moglie non sembrava avere apprezzato. «E che Kay non volesse più avere niente a che fare con lei, al punto di non volerne nemmeno parlare.» Si era affrettata a menzionare suo padre, ignorando totalmente la donna che l’aveva messa al mondo, dandogli l’impressione che fosse lui l’unico di cui le sarebbe piaciuto avere l’approvazione. «Forse sua madre aveva fatto qualcosa che Kay non riusciva a tollerare in nessun modo...»
Rebecca indietreggiò. Anthony si girò a guardarla, mentre si sedeva sul bordo della scrivania più vicina, domandandogli: «Qualcosa di che tipo?»
«Qualcosa come essersi macchiata di un grave crimine» suggerì Anthony. «Se Kay avesse avuto il sospetto, o addirittura la certezza, di essere la figlia di un’assassina, ad esempio...»
Rebecca sospirò.
«Non mi dire che adesso vedi dei delitti ovunque!»
«Non vedo delitti ovunque» insisté Anthony, «Ma soltanto laddove sembra che ne sia stato commesso uno. Albert Wilkerson ha ucciso P.C., abbiamo ipotizzato. L’ha ucciso in un luogo vicino a quello in cui viveva Kay. Qualcuno potrebbe averlo aiutato... e quel qualcuno potrebbe essere stata la madre di Kay.»
«Così non vale» ribatté Rebecca. «Stai aggiungendo un tassello in qualcosa che con la madre di Kay non ha niente a che vedere. Per quale motivo...»
Anthony la interruppe: «Credo che, per la prima volta dopo tanto tempo, abbiamo tutto davanti agli occhi. Il nostro problema è che, per vedere bene quello che abbiamo davanti, dobbiamo metterlo a fuoco proprio sulla retina, non prima e non dopo. Abbiamo un uomo che potrebbe avere commesso un delitto negli anni Settanta e che, pochi anni fa, potrebbe avere eliminato anche Marissa Flint. Forse voleva chiuderle la bocca per sempre... forse perché Marissa era stata sua complice nel delitto.»
«E come arrivi alla madre di Kay?»
«Tramite John Brooks. La figlia di Marissa l’ha sposato quando aveva appena una ventina d’anni e al giorno d’oggi dovrebbe averne trentacinque. Il matrimonio, tra loro, è durato poco e lei ha lasciato per sempre il suo paese dodici anni fa, senza più farsi vedere. In più, per quanto possa sembrare un dettaglio insignificante, Samuel mi ha riferito che l’ex moglie di John aveva i capelli castani chiari e non era una ragazza particolarmente elegante. Potrebbero essere semplici coincidenze, oppure...» Anthony esitò. Rivelare a Rebecca di non avere mai conosciuto davvero l’unica donna che avesse mai amato non era facile, ma doveva farcela. «...Oppure il mio sospetto potrebbe essere fondato: Marissa era la madre di Kay e John è il suo ex marito.»
Rebecca scese dalla scrivania con un balzo, spalancando gli occhi.
«Che cosa?!»
Anthony sospirò.
«A volte le cose sono più semplici di quanto possano apparire, non credi?»
«Il fatto che Kay in passato fosse stata sposata con un altro a tua insaputa rende le cose più semplici?» obiettò Rebecca. «A me non pare.»
«Kay non parlava mai del proprio passato. Sembrava che volesse nascondere la propria identità a tutti i costi. Fingere di non essere mai stata sposata e che Brooks fosse il suo cognome da nubile, le consentiva di non essere collegata alla Kay Flint», o K. Flint?, «che era stata in passato. Era una sicurezza, per lei.»
«E questo semplifica le cose, invece di complicarle?»
Anthony scosse la testa.
«Non mi riferivo a questo. Rifletti, Rebecca: Phil era stato il fidanzato di Marissa, che non aveva mai avuto relazioni con altri uomini, almeno alla luce del sole. Con tutta probabilità, quell’uomo era il padre di Kay e, se anche non lo era, era plausibile che lei ne fosse convinta. Sospettava - o addirittura sapeva per certo - che sua madre aveva aiutato un altro tizio ad ammazzarlo, o forse a inscenare l’incidente. Era legittimo che avesse finito per detestare sua madre al punto di non volerla vedere mai più, di non voler portare il suo cognome e di voler fingere che non esistesse. Poi è stata uccisa anche lei: a quel punto Kay potrebbe avere fatto un passo indietro, iniziando a sospettare che sua madre non fosse davvero d’accordo con Albert Wilkerson e che magari si sia ritrovata coinvolta in qualcosa di troppo grande per lei. Tu che cosa faresti, Rebecca, se entrambi i tuoi genitori fossero stati uccisi e se il responsabile della loro morte, anziché pagare per le proprie azioni, fosse da qualche parte, al di sopra di ogni sospetto, a godersi un patrimonio che nemmeno gli spettava?»
«Penso che andrei a scovarlo, ovunque sia» rispose Rebecca, «E che sarei pronta a rischiare la mia stessa vita per incastrarlo.»
Anthony annuì.
«Questa è la prova che Kay ti somigliava molto più di quanto tu e lei avreste desiderato.»

Quando Michelle vide Theresa passare, non poté fare a meno di fermarla. Theresa Silver era una delle poche persone che non le risultassero completamente indigeste, a Scarlet Radio, ma aveva l’impressione di apparirle più come un pezzo da tappezzeria che faceva parte del tutto, piuttosto che come una persona vera e propria.
Theresa accennò un saluto.
Sembrava decisa ad andarsene, pronta a raggiungere Anthony e Rebecca, ma Michelle decise di tentare il possibile per trattenerla.
«Samuel non è ancora arrivato.»
Quel nome sembrava avere poteri miracolosi.
Theresa le rivolse un’occhiata carica di interesse.
«Ah, no?»
«No.»
«È in ritardo, stamattina.»
Michelle scosse la testa.
«No, semplicemente non è in anticipo.» Aveva introdotto l’argomento giusto, ne era sicura; così come era certa che spingersi oltre sarebbe stato molto più indicato, se voleva conquistarsi la stima di Theresa. «Ho saputo.»
L’altra non capì, o quantomeno finse di non capire.
«Che cosa?»
«Che tu e lui siete tornati insieme.»
Theresa abbassò lo sguardo.
«Non proprio.»
«Eppure Penelope mi ha detto che siete stati in vacanza insieme, durante il weekend. Pensavo che...»
Theresa alzò gli occhi di scatto.
«Mi faresti una cortesia, Michelle?»
«Sì, certo.»
«Quando arriva quella stronza, dille di occuparsi dei fatti suoi, invece di pensare alle mie vacanze con Samuel.»
Michelle annuì.
«Riferirò.»
«E, mi raccomando» aggiunse Theresa, «Se è convinta che io e Samuel siamo tornati insieme, lasciaglielo credere.»
Michelle sorrise.
«Certo, Theresa. Anzi, mi chiedo come faccia Samuel a rischiare continuamente di lasciarsi scappare una come te. Posso capire che sia attratto da Penny - dopotutto a volte gli uomini sono attratti dalle donne più improbabili - ma non c’è nemmeno paragone tra voi due. Io, se fossi un uomo, non avrei dubbi.»
«Ti ringrazio» replicò Theresa, «Ma ti ricordo che non sei un uomo e che soprattutto non sei Samuel. Purtroppo non ragionate alla stessa maniera, a quanto pare. Finché Penny lavorerà qui, sarà sempre un ostacolo tra di noi.»
«Prima non era così?»
Di fronte alla domanda di Michelle, Theresa parve esitare.
«Prima...» Non finì il discorso. «Hai detto che sono già arrivati sia Rebecca sia Anthony, non è vero?»
A quanto pareva, a Theresa non piaceva rivangare il passato. Samuel si era accorto di Penny soltanto dopo la morte di Kay, dopotutto.
Michelle decise di non infierire.
«Sì, sono arrivati entrambi.»
«Allora è meglio che vada.»
Prima che si avviasse, Michelle azzardò: «Tua sorella come sta?»
Theresa sussultò.
«Mia... mia sorella?»
Michelle ridacchiò.
«Lo so, lo so, non mi faccio mai gli affari miei. Ricordo che una volta ti ha cercata in ufficio, qualche settimana fa, e che io ti ho passato la chiamata. Pensavo...»
«Pensavi male, se eri convinta che mi importasse qualcosa di mia sorella» chiarì Theresa. «Io e lei non ci teniamo in contatto né mi interessa sapere come sta.»
Michelle avvampò.
«Oh, scusa...»
Theresa non rispose, avviandosi lungo il corridoio.
Michelle si morse la lingua.
“Non avrei dovuto chiederglielo. Avrei dovuto continuare a parlare di Samuel, piuttosto, e di quanto Penny voglia mettersi in mezzo a loro.”
Anzi, no: sarebbe sembrata ugualmente un’impicciona. L’unico modo per aiutare Theresa era convincere Penny di non avere speranze.

Era ormai metà del pomeriggio quando Samuel raggiunse Penny alla reception. Era al telefono e non si era accorta della sua presenza.
Solo quando mise giù il ricevitore, Samuel le fece un cenno.
Penny parve illuminarsi.
«Ehi, che piacere!»
«Il piacere è tutto mio» ribatté Samuel. «Come stai?»
«Bene, grazie...» Penny gli parve lievemente esitante. «Sei sicuro che Theresa non abbia niente in contrario al fatto che tu sia qui?»
Samuel rise.
«Perché dovrebbe?»
«Michelle mi ha detto che state insieme e che, per non crearti dei problemi con lei, dovrei evitare anche di parlarti.»
Samuel scosse la testa.
«A quanto pare Michelle ha una visione molto pittoresca della realtà. Io e Theresa non siamo tornati insieme. Non nel vero senso della parola, almeno.»
Penny gli scoccò un’occhiataccia.
«Sei sicuro che Theresa la pensi così?»
«Sì, ne sono sicuro» confermò Samuel. «Ieri mi ha ignorato. Ha praticamente fatto finta che non esistessi.»
«Magari si aspettava che fossi tu a fare il primo passo.»
Samuel sospirò.
«È difficile capire che cosa si aspetta Theresa. È sempre così sfuggente e...»
Si fermò, prima che fosse troppo tardi. Non aveva alcuna ragione per scaricare i propri problemi di coppia su Penny.
La receptionist, però, gli segnalò indirettamente che era già troppo tardi, nel momento in cui gli chiese: «Sei sicuro che il problema sia Theresa?»
«Ovvio che ne sono sicuro» replicò Samuel, senza comprendere dove volesse andare a parare. «A volte si comporta in modo così...»
Penny lo interruppe: «Si comporta diversamente da Kay.»
Samuel raggelò.
Penny non era mai stata così diretta.
«Cosa c’entra Kay?» si sforzò di obiettare. «Non puoi paragonare lei e Theresa. Kay era la mia migliore amica, mentre Theresa...»
«Mentre Theresa era solo la donna che ti portavi a letto nell’attesa che Kay si accorgesse di quello che provavi per lei» concluse Penny. «È così, non è vero?»
Samuel scosse la testa con decisione.
«No, affatto. Inoltre non mi sembra il caso di parlarne qui, dove chiunque ci potrebbe sentire. Lo sai come vanno le cose: qui tutti si fanno i cazzi degli altri.»
«Non c’è nessuno» precisò Penny, indicandogli il corridoio vuoto. «Non hai niente di cui preoccuparti.»
Sì, Penny non aveva tutti i torti, almeno da quel punto di vista.
«A parte il fatto che tu ti sia fatta delle strane idee su di me.»
Penny gli parve sinceramente dispiaciuta.
«Non ho detto che tra te e Kay ci fosse davvero qualcosa di più di una semplice amicizia. Parlavo di quello che provavi tu per lei.»
«Ha davvero così tanta importanza?» obiettò Samuel. «Non credo che...»
«Shhhh!» lo zittì Penny, all’improvviso, guardando oltre di lui. «Sta arrivando Rebecca.»
Samuel cercò di non mostrarle il proprio sollievo. Non aveva idea di che cosa sarebbe potuto accadere se la giornalista avesse udito il loro discorso. Gli sembrava meno impicciona di molti altri dipendenti di Radio Scarlet, ma avrebbe comunque finito per farsi qualche fantasia del tutto inappropriata.
Rebecca li raggiunse.
«Non sapevo che fossi qui, Samuel» mormorò.
Il suo tono sembrava quasi accusatorio.
Samuel si girò, per guardarla negli occhi.
«Invece sono qui.»
«Avevi detto» puntualizzò Rebecca, «Che saresti andato fuori a fumare una sigaretta.»
«Invece ho capito che chiacchierare qualche minuto è molto più salutare» replicò Samuel. «Spero non sia un problema, per te.»
Rebecca fece un sorriso appena accennato.
«Sarà soddisfatta Theresa.»
Samuel aggrottò la fronte.
«Theresa?»
«Detesta il fumo.»
«Oh...» Era vero, anche se Samuel sospettava fortemente che Theresa odiasse Penny molto più delle sigarette. «Sì, può darsi.»
In quel momento il telefono squillò.
Penny si affrettò a rispondere.
«Radio Scarlet, buon pomeriggio. In che cosa posso esserle utile?»
Rebecca la guardò per un istante, poi abbassò la voce, nell’osservare: «Ti conviene stare attento a quello che fai, Samuel. C’è chi ti tiene d’occhio.»
Samuel la guardò con aria interrogativa.
«Parli di Theresa?»
Rebecca annuì.
«Anche.»
Quella risposta non chiarì i suoi dubbi.
«Che cosa stai cercando di dirmi?»
«Che la storiella di John Brooks è molto interessante, forse più di quanto tu stesso sia convinto... ma non mi freghi. Non puoi avere scoperto tutto per puro caso.»
«Invece sì» insisté Samuel. «Parlare con qualcuno, da quelle parti, è come entrare a Scarlet Radio e scambiare qualche parola con le prime persone che incontri. Fai molto presto a scoprire tutto quello che vuoi. Basta solo che ti poni nel modo giusto.»
«Sì, certo» convenne Rebecca, «Ma il modo migliore per apprendere qualche informazione così velocemente è esserne già al corrente. Il mio parere è che tu e Theresa ci stiate nascondendo qualcosa.» Gli indicò Penny. «Lei è la pedina che ti stai giocando per non dare nell’occhio, non è vero?»
Samuel sospirò.
«La tua fantasia è più smisurata di quanto tu possa immaginare. Hai mai preso in considerazione l’idea di scrivere romanzi?»
«E tu hai mai preso in considerazione l’idea che un giorno la stessa Theresa potrebbe stancarsi di questa situazione? Non le piace Penny, proprio come non le piaceva Kay. Stai attento a quello che fai, Samuel, perché potrebbe essere pericoloso.»
Non aggiunse altro, prima di voltargli le spalle e di allontanarsi nel corridoio.
Samuel la fissò finché Penny, che ormai aveva già riattaccato, osservò: «Mi sembri un po’ sconvolto.»
Con tutta probabilità, quello era proprio il termine giusto per descriverlo.
«È tutto a posto» la rassicurò. «Ci ho ripensato: vado fuori a fumare.»

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Capitolo 27
*** L'appuntamento ***


Un’altra settimana stava finendo e Theresa non sapeva come comportarsi. Andare avanti e indietro davanti alla reception al rientro dopo la pausa pranzo non le sembrava la cosa migliore da fare, ma almeno Michelle sembrava essersi momentaneamente allontanata.
Doveva parlare con Samuel.
Doveva mostrargli la fotografia trovata alla locanda.
Non era quello che voleva, o meglio, non era quello che doveva, ma era l’unica chance che aveva per attirare la sua attenzione.
“Ha passato gli ultimi giorni a confabulare insieme a Penny.”
La soluzione migliore sarebbe stata spiattellargli davanti la verità sulla ragazza a cui continuava a ronzare incontro, ma Theresa sapeva che sarebbero sorte delle difficoltà: prima di tutto doveva dimostrargli che Penny aveva davvero un figlio e soprattutto c’era il rischio che Samuel si commovesse per la sua sorte di ragazza madre.
Era sul punto di allontanarsi, diretta finalmente verso l’ufficio, quando la voce di Michelle, alle sue spalle, la fermò.
«Avevi bisogno?»
Theresa non si voltò.
«No.»
«Eppure» obiettò Michelle, «Eri qui ad aspettarmi.»
Theresa sospirò.
«Riflettevo.» Si girò verso la ragazza della reception. «In realtà non ho bisogno di te... e non ho nemmeno tanta voglia di parlare.»
«Capisco, vai pure.» Michelle abbassò lo sguardo. «È per la mia invadenza dell’altro giorno, non è vero?»
Theresa spalancò gli occhi.
«Come ti viene in mente?»
«Ti ho fatto quelle domande su tua sorella...»
Theresa scosse la testa.
«Non importa, lascia stare.»
Michelle non sembrava intenzionata a lasciar perdere, dal momento che insisté: «Ricordo che una volta hai parlato di lei e che di recente ha chiamato una volta o due, chiedendo se potevo metterla in contatto con te...»
«Va tutto bene» le assicurò Theresa, sforzandosi di sorriderle. «Io e mia sorella non siamo mai andate molto d’accordo, è vero, ma non c’è nulla di scandaloso nel parlare di lei. Diciamo solo che non è una cosa che mi piace fare.»
Michelle annuì.
«D’accordo. Scusami ancora per l’invadenza.»
Per fortuna il telefono si mise a squillare.
«Ti lascio al tuo lavoro» concluse Theresa, prima di allontanarsi. «Buon proseguimento di giornata.»
Dentro di sé, imprecava per il troppo tempo perso con Michelle. Perché le ragazze della reception erano entrambe così insopportabili?
Si fermò in bagno, prima di dirigersi verso l’ufficio. Era un luogo più tranquillo nel quale riflettere, se non altro.

Anthony guardò Samuel che metteva già il telefono.
«Allora?»
Si accorse che anche Rebecca, seppure non avesse ancora proferito parola, lo fissava con un certo interesse.
«Era John Brooks» li informò Samuel.
«Lo so» puntualizzò Anthony. «Ti ho sentito. Quello che non ho capito è che cosa dovresti fare oggi pomeriggio.»
«Dovrei incontrarlo. È a Scarlet Bay, oggi.»
Anthony si sforzò di rimanere fermo al proprio posto.
«Vengo con te» si limitò a dire, semplicemente. «Credo che quel tizio abbia un po’ di cose da spiegarci.»
«No, tu non verrai» replicò Samuel, secco. «Il cugino di Kay vuole parlare con me e non sono sicuro che sia disposto a farlo in tua presenza.»
«Sarò molto discreto» gli assicurò Anthony. «Magari...» Si girò verso Rebecca. «No, niente. Avevo pensato anche a te, ma probabilmente sarà all’ora della trasmissione.»
«Sarà alle 18.30» confermò Samuel, «E ti ricordo che oggi tu dovresti intervenire in trasmissione. Rebecca ha già annunciato, ieri, che stasera saresti stato ospite.»
Anthony sospirò.
«Non si parla di politici fedifraghi, stasera, me n’ero scordato...»
Rebecca gli lanciò un’occhiata gelida.
«Non sono io a decidere di che cosa occuparmi. Ci sono delle regole da rispettare. Purtroppo non ho lo stesso potere che aveva tua moglie.»
«Quindi» concluse Samuel, «Dal momento che sarete impegnati entrambi, andrò da solo, proprio come John Brooks mi ha chiesto.»
Anthony sbuffò.
“Le cose si stanno mettendo male.”

Era arrivato il momento, Theresa non poteva più mentire a se stessa.
Aprì la porta.
Anthony, Samuel e Rebecca interruppero immediatamente la loro conversazione, qualunque fosse l’argomento di dibattito.
Theresa si irrigidì.
Non sopportava il fatto di essere sempre considerata di troppo, ma non aveva importanza: quello che dicevano e facevano Anthony e Rebecca non la riguardava; era soltanto di Samuel che le interessava.
Gli si avvicinò.
«Potresti venire fuori un attimo?»
Samuel, senza nemmeno degnarsi di salutarla, alzò finalmente lo sguardo.
«Adesso?»
«Sì, adesso» insisté Theresa. «È una cosa piuttosto urgente, non posso aspettare.» Si girò un attimo a guardare Rebecca. «Mi dispiace, non è per perdere tempo, ma...»
Non finì la frase.
Non valeva la pena di parlare, quando si accorgeva di non essere ascoltata. Il problema era sempre il solito: accadeva troppo spesso.
Finalmente Samuel si alzò in piedi.
«Vieni con me» ribadì Theresa.
All’improvviso non c’era altro che contasse. Qualunque fosse l’opinione di Samuel sul modo in cui si era raccolta i capelli o sull’aria da segretaria che le davano gli occhiali da vista, di lì a poco avrebbe perso importanza.
“Sempre ammesso che abbia un’opinione in proposito.”
Theresa stava iniziando a dubitarne.
Uscirono dall’ufficio.
Samuel lasciò la porta accostata.
Theresa lo condusse in bagno.
«Vieni dentro» insisté, vedendolo esitare. «Lì dentro nessuno si intrometterà... almeno spero, dato che ormai non mi fido di nessuno.»
Samuel accennò un lieve sorriso.
«Spero che almeno tu possa fidarti di me.»
Anche Theresa sorrise.
«Ci sto provando. Tu, però, devi farmi una promessa.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Quale?»
«Che non penserai che voglio nasconderti qualcosa di importante. Avrei potuto dirtelo prima, lo so, ma non era il momento.»
Samuel le parve teso.
«Di cosa si tratta?»
Theresa abbassò lo sguardo.
Samuel insisté: «Ti prego, dimmelo. Se è una dichiarazione d’amore...»
Theresa non fu in grado di trattenere una fragorosa risata, alzando nuovamente gli occhi.
«Una dichiarazione d’amore?! Capisco le tue manie di protagonismo, Samuel, ma non sei così fondamentale per me! Posso vivere senza di te. Lo so che per te è un concetto difficile da comprendere, dato che tu eri talmente ossessionato da Kay, al punto da...»
Samuel la interruppe: «Io non ero ossessionato da Kay!»
Per quanto Theresa disprezzasse il tono con cui lui aveva replicato, gliene fu grata. Se non l’avesse fermata, non avrebbe saputo come continuare e avrebbe finito per inventarsi qualcosa di completamente assurdo.
«Sì, eri ossessionato da Kay» si limitò a dire, prima di prendere fuori la fotografia che teneva in tasca e sbattergliela davanti agli occhi. «Ti dice niente, questa?»
Samuel la guardò.
«È Kay.»
«Già, una giovane Kay» convenne Theresa, «Insieme a Marissa Flint. Dietro c’è perfino scritta la data. È roba della seconda metà degli anni Settanta.»
Samuel non parve impressionato.
«Dove l’hai presa?»
«Alla locanda.»
Solo allora Samuel strabuzzò gli occhi.
«Domenica?»
«Sabato sera» lo corresse Theresa, «O meglio, la notte tra sabato e domenica.»
L’espressione di stupore di Samuel non si affievolì.
«Dannazione, Theresa, è venerdì pomeriggio! Quanto tempo pensavi di aspettare ancora, prima di farmela vedere?»
Theresa non si lasciò scoraggiare dal suo tono di voce.
«Pensavo di essere sicura di potermi fidare di te. Ci sto provando, te l’ho detto. Mi sto sforzando di convincermi che tu non c’entri niente, che la tua ossessione per Kay non ti avrebbe mai condotto a...»
Samuel le strappò di mano la fotografia.
«Grazie per avermela portata, Theresa. Per il resto, non credo di avere altro da dirti. Potrei spiegarti le mille ragioni per cui non avrei mai fatto del male a Kay, ma sarebbe tempo sprecato. Dubito che potresti capire.»

Per Samuel era ormai giunta l’ora di andare all’appuntamento. Anthony sospirò, rassegnato.
«Se ti rimane un po’ di tempo, cerca di ascoltare la trasmissione» gli suggerì. «I miei interventi potrebbero interessarti.»
Samuel ridacchiò.
«Sicuramente, ma ormai so già tutto a memoria.» Si alzò in piedi e si diresse verso la porta. Lanciò una rapida occhiata prima a Rebecca poi a Theresa, infine gli domandò: «Puoi venire un secondo? Ti devo parlare.»
Anthony notò che Theresa, che quel pomeriggio era stata particolarmente silenziosa, aveva alzato un attimo lo sguardo.
«Sì, certo» confermò, alzandosi in piedi a sua volta e raggiungendo il collega.
Rimasero in silenzio per un lungo tratto di corridoio e, prima di arrivare alla reception, Samuel si fermò.
«C’è una foto che devo farti vedere.»
Anthony non se lo aspettava.
«Una foto?!»
Samuel annuì.
«L’ha trovata Theresa alla locanda, ha deciso di portarsela a casa e me l’ha fatta vedere solo oggi. Non so perché abbia aspettato così tanto...»
Dava l’idea di saperlo perfettamente, ma Anthony decise di non insistere.
«Che genere di fotografia?»
Samuel gliela fece vedere.
«Una giovane Kay insieme a Marissa Flint.»
«Lo sapevo!»
Anthony avvampò, nel momento in cui Samuel gli domandava: «Che cosa?»
«Kay ci stava nascondendo qualcosa, ci ha sempre nascosto qualcosa.» Non gli piaceva lanciare accuse del genere nei confronti di sua moglie, che non poteva più fare nulla per difendersi, ma non aveva scelta. «Non so perché l’abbia fatto, ma sospetto fortemente che fosse la figlia di Marissa Flint.»
«È assurdo» replicò Samuel. «Kay non poteva essere la figlia di Marissa Flint.»
«E perché no?» obiettò Anthony. «È da qualche giorno che ci penso...»
«Ora capisco» osservò Samuel. «È da un po’ che lo sai, non è vero?»
«È da un po’ che ci penso» ammise Anthony. «John Brooks non ha mai fatto espressamente il nome della sua ex moglie, o sbaglio?»
«No. Avevo ipotizzato che si trattasse di quella K. Flint...»
Anthony lo interruppe: «K. Flint, appunto. Katherine Flint. Deve avere sposato John Brooks e avere mantenuto il suo cognome nonostante la breve durata del loro matrimonio.»
Samuel scosse la testa.
«Mi sembra una teoria un po’ campata in aria.»
«Sarebbe molto più campato in aria credere che la figlia di Marissa Flint fosse in realtà quella panterona apparsa dal nulla e successivamente scomparsa nel nulla» puntualizzò Anthony. «Tra l’altro, se ci fai caso, i lineamenti di Kay, nella fotografia, somigliano un po’ a quelli di Marissa. Questo avvalora la mia ipotesi.»
«Allora perché John Brooks ha detto di essere suo cugino?» obiettò Samuel. «Che cosa gli costava dire la verità? Lui non aveva niente da perdere. Era Kay, non certo lui, quella che mentiva a chiunque sul proprio passato.»
«Non lo so perché John Brooks abbia mentito a proposito della propria identità» ribatté Anthony, «Ma è proprio quello che devi scoprire.»
«Io?!»
«Chi, se non tu? Sei tu quello che vuole incontrare, no? A proposito, dove avete intenzione di vedervi?»
Samuel gli ricordò: «Devi presenziare in trasmissione. Se anche te lo dicessi, non potresti comunque raggiungermi.»
Anthony sospirò.
«Fai come ti pare.»
«Non c’era bisogno che tu me lo dicessi» ribatté Samuel. «L’avrei fatto comunque.»
Anthony lo guardò andare via in gran fretta.
“Speriamo che riesca a concludere qualcosa.”

Seduto ad un tavolo all’esterno di un bar, John teneva d’occhio il quadrante dell’orologio che portava al polso.
Era intenzionato a liberarsi una volta per tutte del peso della videocassetta e il parere di Suzanne era ormai del tutto irrilevante.
“Tanto quello che faccio non le va mai bene. Non accadrà nulla di diverso dalle altre volte.”
Samuel Jeffrey sarebbe arrivato di lì a poco e, per l’ultima volta nella propria vita, John avrebbe recitato la parte del cugino di Katherine Flint; o meglio, di Kay Brooks, perché era quello il nome con cui si era fatta chiamare da quando era diventata una stella del giornalismo radiofonico.
Gli avrebbe lasciato il filmato, che in quel momento si trovava sulla sua automobile.
Gli avrebbe lasciato il filmato e sarebbe tornato a casa, pronto ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
Gli avrebbe lasciato...
Una voce, alle sue spalle, interruppe i suoi pensieri.
«Buonasera, John.»
Era indubbiamente Samuel Jeffrey.
John si girò.
«Siediti.»
«Volentieri» ribatté Samuel, «E ringraziami se non ti sbatto a terra come tu hai fatto con me, quando hai scoperto che mentivo sulla mia identità.»
John sussultò.
«Cosa vuoi dire?»
Samuel si sedette di fronte a lui.
«Lo sai perfettamente. Tu non eri il cugino di Kay. Sei stato sposato con lei, in passato... e non negare.»
Stava bluffando, John lo sapeva; Samuel non poteva averne le prove.
Era tentato di continuare la propria farsa, ma in fin dei conti non c’erano ragioni valide per andare avanti.
«Va bene» si arrese. «Sono stato sposato con Katherine, ma è stato una vita fa. Non ricordo nemmeno che cosa ci trovassi in lei.»
«Le tue riflessioni sul tuo matrimonio fallito non mi interessano» puntualizzò Samuel. «Kay è stata ammazzata e ho motivo di ritenere che la ragione sia il passato di Marissa Flint.»
«O forse il suo passato» ammise John. «C’è un filmato, che registrai per sbaglio qualche mese prima di sposare Kay. Era interessante, per cui decidemmo di tenerlo. Riguardandolo ho visto che c’era qualcosa...» Si interruppe. «Ti darò la videocassetta, potrai controllare tu stesso. Sono sicuro che anche tu capirai tutto, proprio come Kay.»
«Come mai questo filmato esce proprio ora?»
John sospirò.
«È una domanda legittima.»
Samuel lo fissò con insistenza.
«Mi aspetto anche una risposta.»
«Te l’ho detto, non sapevo che significato dare al video. Qualche settimana prima di morire, Kay mi ha cercato. Lo voleva. Io gliel’avrei dato, sarei stato lieto di liberarmene... ma Suzanne non voleva. Mia moglie, intendo, e in realtà non aveva niente in contrario; solo che voleva che Kay pagasse per averlo.»
«Per caso quel video ha a che vedere con un certo Albert?» domandò Samuel.
John si irrigidì.
«Lo scoprirai tu stesso.»
«Il video» dedusse Samuel, «Riguarda un certo Albert.»
John abbassò lo sguardo.
«Quell’Albert ha ucciso qualcuno...»
«E magari ne ha rubato l’identità?»
John raggelò.
«Questo non lo so, ma al giorno d’oggi usa un’altra identità, questo te lo posso assicurare. Credo che qualcuno lo sappia, perché c’è una donna che mi telefona. A volte lo fa perfino quando Suzanne è in casa. Se risponde lei, riattacca. Prima o poi Suzy si metterà in testa che ho un’amante. Quella donna vuole rovinarmi, credo.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Una donna?»
John annuì.
«Tutto è iniziato dopo la morte di Kay. Ha l’aria di una femme fatale. Dice che vorrebbe incontrarmi, che vorrebbe farmi conoscere la vera passione... tutte stronzate del genere. Ah, già: dice anche qualche cazzata a proposito di una ragazza che appartiene al passato. Immagino che si riferisca a Katherine.»
«L’aria di una femme fatale...» borbottò Samuel.
«Pensi che io sia ridicolo, non è vero?» ribatté John. «Sì, in effetti non hai tutti i torti. Non so come mi sia venuta in mente quell’idea, ma...»
Samuel lo interruppe: «Non ti ritengo ridicolo. Ti ritengo un idiota, ti ritengo un irresponsabile senza un minimo senso ti giustizia... ma di sicuro non ti ritengo ridicolo per questo. Ti va di parlarmi un po’ di questa donna?»
«Non so chi sia» puntualizzò John. «Non l’ho mai vista. Non so nemmeno come si chiama. È una tizia che mi chiama e che sa del filmato. Non posso dirti altro. Non ho mai pensato che fosse così fondamentale accertarmi della sua identità.»
Samuel alzò gli occhi al cielo.
«Pensavi che non fosse fondamentale?! Tre persone sono morte, nel caso non ti sia chiaro.»
«Mi è chiaro, mi è chiaro» precisò John. «Quello che non mi è chiaro è perché io mi sia trovato in mezzo a questa storia. Comunque presto sarà finita. Se vieni con me, ti do subito la cassetta.»
«È un’ottima idea» convenne Samuel.
A John parve che stesse per alzarsi in piedi, quando udì una voce, dietro di lui.
«Samuel?»
John raggelò.
Sebbene non avesse la tonalità sensuale che aveva udito al telefono, gli sembrava quasi che quella voce fosse simile.
Samuel alzò gli occhi.
«Theresa? Cosa ci fai qui?»
«Ti devo parlare» rispose lei, facendosi avanti.
John la guardò.
Doveva avere trentacinque anni, forse qualcuno in più, portava giacca e pantaloni scuri e indossava un paio di occhiali da vista. Non aveva neanche lontanamente l’aria della femme fatale e, dopotutto, l’intonazione era molto diversa.
«Non adesso» la pregò Samuel. «Mi sto occupando di una questione piuttosto seria e...»
Theresa lo interruppe: «Ti rubo solo cinque minuti. Mi dispiace per quello che è successo, ma non possiamo parlarne qui.»
Samuel sospirò.
«Scusami, John. Arrivo subito.»
John gli fece un cenno di assenso.
«Okay, ti aspetto.»
Lo guardò allontanarsi insieme alla donna che sembrava chiamarsi Theresa e sperò che non ne avesse per molto.
Riprese a controllare lo scorrere del tempo sull’orologio.
Dovevano essere trascorsi un paio di minuti, quando qualcuno, dietro di lui, gli domandò: «John Brooks?»
Soltanto in quel momento John si rese conto di quanto la voce dell’amica di Samuel fosse diversa da quella della donna che gli telefonava spesso.
Si girò.
«Ci conosciamo?»
«In un certo senso» rispose una bella sconosciuta fasciata in un attillato abito leopardato. «Se puoi seguirmi un attimo, ti dirò cosa voglio da te.»

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Capitolo 28
*** Il cartello rosso ***


Rebecca sbuffò.
Sheila le avrebbe promesso che sarebbe stata puntuale, ma di lei non si vedeva l’ombra. Non che per Dylan e il suo amico fosse un problema, anche se per qualche strana ragione sembravano pendere entrambi dalle labbra di quella psicopatica dai capelli viola, ma Rebecca non voleva fare tardi.
“Ci sono tante cose di cui occuparsi.”
Il weekend era finito e c’era una grande attesa per la prima puntata della settimana... o almeno era quello il modo in cui Rebecca gradiva vedere le cose.
Erano le quasi le quattro del pomeriggio e gironzolare per un parco pubblico con due bambini che ancora non avevano compiuto sette anni non era una prospettiva molto allettante. Se solo quella psicolabile si fosse degnata di presentarsi all’appuntamento...
Rebecca alzò gli occhi al cielo, mentre Dylan e Jamie continuavano a borbottare.
«Ti dico che è quello!»
«Non c’è niente di strano.»
«È la stessa cosa che pensa anche mia madre. Eppure...»
Rebecca diede un’occhiata, per controllare che non stessero facendo niente di sconveniente. Per fortuna non era così: stavano solo contemplando due cartelloni pubblicitari, dall’altra parte della strada.
«Eppure deve essere vero!» insisté Jamie. «Nel film che stavo guardando con il nonno, gli alieni nascondevano messaggi segreti nei cartelli dove c’erano già delle scritte.»
Rebecca sospirò.
“Forse un giorno capirà che i bambini devono guardare film per bambini!”
Dylan obiettò: «Gli alieni non esistono.»
Rebecca abbassò gli occhi.
“Magari, con un po’ di fortuna, pensa che non esistano nemmeno gli assassini e gli stupratori seriali.”
Sperò che la conversazione sulle forme di vita extraterrestri fosse finita, ma evidentemente per Jamie non era così.
«Secondo me l’hanno fatto anche qui. Nel cartello rosso...»
Rosso.
Rosso.
Rosso.
Perché Rebecca iniziava a convincersi che ascoltare l’amico di suo figlio fosse la cosa migliore da fare?
Si avvicinò finalmente ai due bambini e domandò: «Qual è il problema?»
«Jamie dice che gli alieni hanno lasciato un messaggio sul cartello rosso.» Indicava i due pannelli pubblicitari, uno rosso e uno blu, che riportavano scritte identiche. «Vede qualcosa di diverso su quello rosso.»
«I confini delle lettere non sono definiti bene come su quello blu» spiegò Jamie. «Secondo me è un messaggio degli alieni... un po’ come sul nostro libro di scuola.»
«Non c’è niente sul libro di scuola» obiettò Dylan. «Quando tua madre dice che vedi cose strane, ha ragione.»
Jamie insisté: «Potrebbero essere messaggi degli alieni. Nel film che guardavo con mio nonno, gli extraterrestri stavano avvelenando gli umani. È per questo che quando leggo mi lacrimano gli occhi e mi viene mal di testa. Nessuno mi vuole credere, ma...»
«Quando leggi ti lacrimano gli occhi?» lo interruppe Rebecca. «E ti viene spesso mal di testa? È così?»
«Sì.»
«Però riesci a leggere.»
«Sì.»
«Sia i libri, sia i cartelloni stradali. Anche se quei due ti sembrano leggermente diversi, vero Jamie?»
«Sì.»
Rebecca ridacchiò.
«Non sei di molte parole.»
«Tanto nessuno mi crede» ribatté il bambino, «Quando dico che gli alieni sono tra noi. Perfino il nonno mi dice che esistono solo nei film.»
Rebecca sorrise.
«Tuo nonno potrebbe avere ragione.»
Jamie indicò ancora una volta il pannello pubblicitario.
«E il cartello?»
«Beh, non tutti vediamo le stesse cose» gli spiegò Rebecca. «Adesso ti sembra che i due cartelloni siano diversi e che gli alieni abbiano modificato quello rosso. Un giorno, forse, ti sembreranno uguali.»
Era molto più probabile, realizzò Rebecca, che un giorno la madre di quel bambino si rendesse conto che suo figlio aveva problemi di vista e che un oculista arrivasse alla conclusione che il suo bulbo oculare fosse leggermente troppo corto.
Era ancora immersa in quel ragionamento, quando una voce alle sue spalle la fece sobbalzare.
«Sono qui.»
Era Sheila.
Rebecca si voltò.
«Finalmente.»
«Scusami» mormorò Sheila. «Lo sai come funziona, quando vai dal medico. Sai quando entri, ma non sai quando esci.»
«Ti lascio i bambini» la informò Rebecca. «Ormai ho già perso anche troppo tempo.»
«Certo» borbottò Sheila, tra i denti, «Quello che trascorri con tuo figlio è tempo perso. Non potevo aspettarmi altro.»
Rebecca non commentò.
Si stava facendo tardi.
Aveva la macchina parcheggiata proprio davanti all’ingresso del parco, quindi non le sarebbe bastato meno di un minuto per arrivarvi.
La raggiunse e salì a bordo.
“È tutta una questione di bulbo oculare” realizzò, allacciandosi la cintura di sicurezza. “La cosa assurda è che, se quello almeno di Kay fosse stato della giusta lunghezza, non saremmo mai arrivati in fondo alla questione di Wordpower.”
In realtà nemmeno i suoi collaboratori più stretti avevano capito di cosa si trattasse.
“Due di loro, almeno.”
C’era chi era perfettamente al corrente della verità, chi lo era stato fin dal primo momento.
Rebecca sorrise, compiaciuta.
Se erano più vicini a una soluzione, era soltanto grazie a lei. Se solo anche gli altri avessero sprecato un po’ del loro tempo ad ascoltare assurde dissertazioni di bambini costretti a sforzare la vista più del dovuto per riuscire a mettere a fuoco ciò che vedevano a pochi centimetri dal loro naso, forse avrebbero potuto intuire qualcosa.

Theresa sussultò, nell’udire una voce dietro di lei.
«Signorina Silver» scandì, subito dopo, Veronica Freeman, «Non volevo spaventarla.»
«Si figuri.»
Theresa non si voltò. Doveva finire di battere quella dannata scaletta, nella speranza che Rebecca apprezzasse il suo lavoro.
“Sempre ammesso che si degni di venire.”
Era andata a prendere il figlio a scuola, quel giorno, perché la tizia fuori di testa che stava insieme al suo ex marito era impegnata. Rebecca se n’era lamentata parecchio, ma del resto Theresa non se ne stupiva: era talmente piena di sé, ancora più di Kay, da non rendersi conto che essere costretta a occuparsi di suo figlio, di tanto in tanto, non era il più terribile dei sacrifici.
A Theresa sarebbe davvero piaciuto avere un figlio, prima o poi. Ormai non ci sperava più, perché sapeva che, in qualunque modo quello che stava accadendo fosse finito, tra lei e Samuel avrebbe finito per crearsi una frattura troppo profonda. Alla sua età sarebbe stato troppo tardi per trovare un altro uomo. Avrebbe già dovuto impegnarsi per riuscire a trovare un altro lavoro; perché lo sapeva, ormai, doveva lasciare Radio Scarlet.
La signora Freeman si schiarì la voce, per attirare la sua attenzione.
«Le chiedo scusa per il disturbo, signorina Silver...»
Theresa fece un lieve sospiro, mentre finalmente iniziava ad abituarsi all’idea che, se la scaletta doveva aspettare, era per ascoltare le chiacchiere della segretaria del direttore e non certo per lasciarsi andare alle proprie digressioni mentali.
«Mi dica.»
«Ho letto la notizia, sul giornale.»
Theresa si girò a guardarla.
«Quale notizia.»
«Di quel tale che si è suicidato.»
Theresa iniziò ad avvertire un poco piacevole nodo allo stomaco.
«Tanta gente si suicida.»
«Intendo dire quel John Brooks» puntualizzò la Freeman. «Quello che si è buttato giù da un cavalcavia venerdì sera.»
«Capisco.» Theresa trattenne i conati di vomito. «Vuole chiedermi se era un parente di Kay, non è vero?»
Veronica Freeman scosse la testa.
«No, non sono qui per questo. In realtà è una domanda interessante, ma al momento non è la mia priorità. Mi è giunta voce che il signor Jeffrey dovesse incontrarlo, proprio venerdì nel tardo pomeriggio.»
Theresa si lasciò andare a un lieve sorriso.
«Vuole chiedermi se penso che in realtà Samuel l’abbia ucciso?»
Veronica arrossì vistosamente.
«Certo che no.»
«E allora di che cosa si tratta?»
«Si tratta proprio di Samuel Jeffrey» ammise la segretaria di Carpenter. «Perdoni la domanda imbarazzante, ma non le sembra quantomeno strano che quell’uomo abbia deciso di suicidarsi proprio dopo avere incontrato il nostro collega?»
«Né io né Samuel siamo responsabili delle azioni intraprese da altre persone» puntualizzò Theresa. «Venerdì pomeriggio ho raggiunto Samuel nel luogo in cui stava parlando con il signor Brooks. Avevo bisogno urgente di chiarire con lui una faccenda capitata poco prima. Gli ho chiesto di raggiungermi un attimo, in disparte. Samuel l’ha fatto e, quando è tornato da Brooks, si è reso conto che quel tizio se n’era andato senza dire niente a nessuno. Questo è tutto. Non penso che ci siano le condizioni necessarie per parlare di istigazione al suicidio.»
«Non ho mai accusato nessuno di istigazione al suicidio!» sbottò Veronica Freeman. «Potrei accusare tranquillamente Samuel Jeffrey di avere sedotto fin troppe donne, qui dentro, e di avere portato una di loro sulla strada della perdizione...»
Theresa spalancò gli occhi.
«Sta parlando di me?»
«Non mi risulta che lei sia sposata o che abbia una relazione con un altro uomo» puntualizzò la Freeman. «Per quanto io, al suo posto, mi guarderei bene dal lasciar entrare Samuel Jeffrey nel mio letto, è libera di fare quello che più desidera. Parlavo ovviamente di un’altra persona.» Indicò la scrivania, spoglia fin dal giorno in cui il computer rotto - un semplice depistaggio, Theresa ne era sicura - era stato portato via. «Deve ammettere che il signor Hunter avrebbe potuto aspirare ad avere una moglie migliore.»
«Anthony ha avuto una moglie che gli ha dato un lavoro» puntualizzò Theresa. «Lo sanno tutti qui dentro. Il signor Carpenter pendeva dalle labbra di Kay, perché era sicuro che fosse la persona più adatta per aumentare gli ascolti.»
Veronica Freeman annuì.
«Su questo devo darle ragione. Il signor Carpenter teneva molto in considerazione Kay. Mi sono sempre chiesta perché. In realtà, se mi è concesso esprimere la mia opinione, sono sempre stata del parere che, come speaker, non fosse minimamente paragonabile a Rebecca. Sarebbe stata perfetta per un ruolo secondario, almeno in trasmissione, ma affidarle la conduzione di un programma è stato a mio avviso esagerato. Ci sapeva fare, il suo lavoro era brillante... ma una giornalista brillante non sempre è brillante allo stesso modo quando si tratta di parlare davanti al grande pubblico della radio.»
L’analisi di Veronica era perfetta.
«Credo che abbia ragione, signora Freeman» ammise Theresa. «Al giorno d’oggi la ragione per cui il direttore abbia sempre avuto una tale ammirazione per Kay è tuttora un mistero.»
«Già.» Veronica Freeman sembrava più intenzionata che mai a proseguire la propria invettiva. «Se ci pensa bene, per quanto Anthony Hunter e Samuel Jeffrey siano due giornalisti validi, nessuno dei due sarebbe mai arrivato qui, se non fosse stato per la spinta di Kay. La Brooks ci sapeva fare. Era capace di portare chiunque dalla propria parte. Ciò che mi stupisce è che sia stata in grado di farlo anche con il signor Carpenter. Lui non è così disposto a cedere al fascino di una donna...» Rise. «È vero, nella sua vita privata, per quanto ne so, frequenta una donna di notevole bellezza, ma Kay era di tutt’altro stampo. Come dire, Kay Brooks era una bella donna, ma non era una seduttrice. Non ne aveva bisogno. Ci sono donne, invece, che scelgono di impiegare la loro vita a sedurre uomini, perché non sanno fare nient’altro.»
Theresa abbassò lo sguardo.
Sì, c’erano donne che non sapevano fare nulla.
Ce n’erano alcune, come sua sorella, che sceglievano di sedurre uomini. Ce n’erano altre, come lei, che finivano in un polveroso ufficio a sognare quanto sarebbe stata migliore la vita se qualcuno si fosse accorto di loro.
Theresa ne era sempre più certa: lei e sua sorella erano entrambe due perdenti, destinate all’infelicità.
“L’unica differenza è che io ne sono consapevole.”
Fino a quel momento Theresa era sempre stata convinta che fosse un bene, ma era sempre più sicura di essersi sbagliata.

Era tardi, nel momento in cui Rebecca entrò. Ormai Michelle se n’era già andata e alla reception c’era Penny.
Purtroppo non era al telefono.
Rebecca fece un rapido cenno di saluto, con la speranza di allontanarsi senza che l’altra la trattenesse.
Non accadde.
«Va tutto bene?»
Penny ci provava sempre, a quanto pareva. Più il tempo passava e più tendeva a diventare simile a Michelle. Quelle due erano il futuro di Radio Scarlet: prima o poi Veronica Freeman sarebbe andata in pensione e una nuova reginetta del pettegolezzo sarebbe stata necessaria.
«Sì, va tutto bene» rispose Rebecca, realizzando soltanto in un secondo momento che, tutto sommato, tra Penelope Altman e Veronica Freeman c’era un abisso. A Penny non interessavano gli affari degli altri: si limitava a voler apparire cordiale per farsi apprezzare. Decise di non deluderla e le domandò: «Tu, invece, come stai?»
«Bene.»
Rebecca la guardò per un attimo con aria di approvazione, prima di domandarle: «Ci sono tutti, non è vero?»
Penny annuì.
«Samuel, Anthony e Theresa? Sì, certo.»
«Meglio così.»
Rebecca stava per andarsene, quando la voce della receptionist la trattenne.
«Invece...» Penny parve esitante. «Per quanto riguarda Raymond...»
Già, Raymond.
Rebecca avrebbe dovuto aspettarselo, prima o poi qualcuno avrebbe iniziato a fare domande.
«È da un po’ che non si vede» osservò finalmente Penny. «Volevo chiederti se per caso se n’è andato definitivamente. La signora Freeman, venerdì pomeriggio, diceva che si è licenziato e che, stando a quanto ha capito lei, ha lasciato la città.»
«Lo spero» ammise Rebecca, «Perché sinceramente non ho nessuna intenzione di avere ancora a che fare con lui, nel prossimo futuro. In ogni caso non ne so niente. Non so quando abbia deciso di licenziarsi e di trasferirsi, dato che non si è degnato di informarmi.»
«Oh, mi dispiace...»
«Fidati, non c’è niente di cui tu debba dispiacerti» la rassicurò Rebecca. «Ci sono uomini che non hanno un valore. Raymond era uno di quelli.» Cercò di trattenersi, ma non vi riuscì. «Per quanto riguarda te, invece, può darsi che un giorno un uomo che vale davvero si accorga di te.» Rebecca fu tentata di mordersi la lingua. Altro che Penny, la reginetta del pettegolezzo sarebbe diventata lei stessa, se avesse continuato su quello stampo! Ciò nonostante, decise comunque di proseguire: «So che, in questo momento, potrebbe sembrarti che quello che ti sto dicendo non abbia molto senso. Ti assicuro che in realtà non è così. Se c’è una certa persona che ti interessa davvero non devi perdere le speranze.»
Penny abbassò lo sguardo.
«A volte è meglio non sprecare troppo tempo a sperare. Ci sono uomini che, per quanto possano apparirci interessanti, non fanno caso a noi. A volte stanno accanto a donne che ci sembrano prive di valore.»
Rebecca cercò di trattenere una risatina.
Penny parlava di Samuel e di Theresa, non aveva dubbi.
«Non è detto che sprechino tutta la vita insieme a loro. Pensa a me e a Raymond. Qualcuno avrebbe potuto pensare che avrei potuto puntare a qualcosa di meglio...» Rebecca decise che era giunto il momento di mettere fine a quella conversazione. «È meglio che vada. Sono già in ritardo, si staranno chiedendo dove sono andata a finire.»
Penny non la trattenne. Se non altro, diversamente da Michelle, era in grado di capire che era meglio non spingersi oltre certi livelli.
Rebecca imboccò il corridoio e si diresse verso l’ufficio. La porta era aperta, notò. C’era qualcuno che parlava, all’interno e, nell’avvicinarsi, riconobbe chiaramente la voce di Veronica Freeman, che stava blaterando qualcosa a proposito di donne affascinanti che avevano come unico obiettivo di vita quello di sedurre uomini facoltosi. La ragione per cui stesse discutendo di quell’argomento proprio con Theresa le era ignota, ma lavorava a Radio Scarlet da abbastanza tempo da non stupirsi più di niente.
Entrò e fu costretta a schiarirsi la voce per far notare la propria presenza.
«Oh, Rebecca, finalmente!» esclamò Theresa.
Il suo entusiasmo sembrava sincero. Del resto, realizzò Rebecca, chiunque sarebbe stato molto lieto di avere la possibilità di liberarsi della Freeman.
«Stavamo parlando del suicidio di John Brooks» puntualizzò Veronica. «Ne ha sentito parlare?»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Del... suicidio di John Brooks?!»
Tutto ciò che sapeva era che, il venerdì precedente, quel tizio aveva ammesso di essere stato sposato con Kay in passato e che, non appena Samuel si era allontanato per un attimo, se n’era andato sparendo apparentemente nel nulla.
Si era suicidato?
Quella prospettiva non stava né in cielo né in terra.
Veronica Freeman puntualizzò: «Si è buttato giù da un cavalcavia.»
Si era buttato giù o qualcuno l’aveva spinto?
«Ho bisogno di parlare con Anthony e Samuel» dichiarò Rebecca. «Dove sono?»
«Anthony è da qualche parte, l’ho visto l’ultima volta verso le due e mezza e mi ha pregata di informare Samuel che aveva urgenza di vederlo» le riferì Theresa. «Samuel doveva incontrare quel tizio dell’associazione dei consumatori, per la trasmissione di domani. È rientrato non più di mezz’ora fa. Gli ho detto che Anthony voleva parlargli, quindi è andato a cercarlo.»
Non era una notizia così terribile. Anzi, il fatto che fossero entrambi assenti, in quel momento, le dava un po’ di tempo in più per decidere sul da farsi.

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Capitolo 29
*** Aberrazione cromatica ***


«Cerca qualcuno?»
Samuel non si era accorto di Veronica Freeman che tornava al quarto piano.
Per un attimo rimase fermo, a guardarla, senza dire nulla.
La signora Freeman sorrise.
«Non si aspettava di trovarmi qui?»
«No» ammise Samuel.
La Freeman sospirò.
«Nemmeno io mi aspettavo di trovarla qui. Cercava il signor Carpenter, per caso?»
«No, non cercavo il signor Carpenter» le assicurò Samuel, convinto che quelle parole bastassero per liberarsi di lei.
«Infatti non è in ufficio, oggi pomeriggio» lo informò Veronica. «Se invece stava cercando qualcun altro...»
Tanto valeva metterla al corrente, dato che non c’era nulla di segreto.
«Stavo cercando Anthony. Ho saputo da Theresa che ha bisogno di vedermi.»
«Lo trova in archivio.»
Samuel raggelò.
«In... archivio?»
«Sì, sono entrata a dare un’occhiata e ho visto che stava rovistando tra le carte che ci sono nell’armadio.»
«Oh...»
Samuel si rese conto che quell’esclamazione avrebbe potuto essere interpretata nel modo sbagliato, ma non se ne curò.
Di fronte a lui, Veronica Freeman parve esitante.
Samuel le domandò, più gentilmente che poteva: «Ha bisogno di qualcosa?»
«N-No...» La segretaria dell’azionista di maggioranza non sembrava molto convinta. «Beh, sì, in realtà...» Abbassò lo sguardo, come se fosse imbarazzata. Samuel ne era certo: stava fingendo, per non fare la parte dell’impicciona. «In realtà devo ammettere che vedere il signor Hunter in archivio, proprio dove è morta sua moglie, mi ha fatto uno strano effetto.»
Certo, Samuel non aveva dubbi. A Radio Scarlet tutto faceva uno strano effetto, per chi voleva vedere oltre la realtà.
«Per caso ha pensato al fatto che, nei romanzi polizieschi, spesso gli assassini tornano sul luogo del delitto?» azzardò Samuel. «In effetti è una riflessione piuttosto accurata. Mi sono sempre chiesto, appunto, perché dopo avere commesso un omicidio sentano la necessità di tornare indietro. Che cosa ne pensa?»
La signora Freeman alzò gli occhi.
«È strano che lei mi faccia questa domanda.»
«Sì, è strano.» Samuel non era più sorpreso da quanto si abusasse di quel termine. «In effetti ne sono sicuro, che non se lo aspettasse.»
«Non credevo che arrivasse a ipotizzare che il signor Hunter...»
Samuel la interruppe: «Le faccio notare che, in nessun momento, ho mai espresso la mia opinione in proposito. E poi Kay si è suicidata.»
«Ne è convinto?»
Samuel sospirò.
«Ci sono forse dei dubbi?»
«Tecnicamente no» ammise Veronica Freeman, «Ma mi è parso di capire che Hunter ne sia tutt’altro che convinto... e che non sia il solo.»
«A volte le convinzioni sono dettate da quello che, dentro di noi, desidereremmo che fosse vero. Magari le nostre sono solo illusioni.»
«O forse sono qualcosa in più. La prego, Jeffrey, faccia attenzione. Un cadavere a Radio Scarlet basta e avanza.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Mi sta suggerendo di fare attenzione ad Anthony?»
La Freeman scosse la testa.
«Le sto suggerendo di fare attenzione, in generale, senza entrare nello specifico. Penso che, nel proprio intimo, ciascuno di noi sappia da chi si deve guardare.»
Samuel ridacchiò.
«Lei da chi si guarda, signora Freeman?»
La donna avvampò.
«Da nessuno.»
«Deve essere molto sicura di sé.»
«Semplicemente non ho scheletri nell’armadio.»
«Nemmeno io» le assicurò Samuel. «Da questo punto di vista penso di poter essere al sicuro.»

Ogni istante di attesa era deleterio, Anthony lo sapeva. La sua mente non era altro che un cumulo di riflessioni senza né capo né coda, in cui allo sfondo verde di Wordpower si mescolavano il passato di Theresa e il modo in cui Rebecca era stata messa da parte dopo l’assunzione di Kay a Radio Scarlet.
Nel grande armadio davanti a lui, in cui non c’erano scaffali, vecchi documenti ingialliti erano accatastati l’uno sull’altro quasi disordinatamente.
Anthony aveva finto di esaminarli, quando Veronica Freeman si era affacciata alla porta. Aveva udito i suoi passi in anticipo, quindi aveva avuto tutto il tempo di inscenare quella commedia. In realtà, nell’attesa di Samuel, si era semplicemente portato avanti con il lavoro, perché non intendeva far sfigurare Rebecca e, in realtà, non intendeva sfigurare nemmeno lui stesso, qualora si fosse presentata l’occasione di intervenire in trasmissione.
Sentì qualcuno passare, in corridoio.
Forse era colui che stava aspettando.
Anthony si avvicinò alla porta e si affacciò.
Era lui.
«Samuel.»
L’altro alzò gli occhi.
Sembrò avere un lieve fremito, nel notare che Anthony era proprio in archivio.
“Perfetto. Tutto sta andando come doveva andare.”

A quanto pareva, la sua ricerca si era conclusa.
Anthony stava già rientrando nell’archivio, per cui Samuel si affrettò a raggiungerlo. Non chiuse la porta alle proprie spalle. Sperava di averne per poco, dal momento che non intendeva rimanere a lungo in quella stanza.
«Ti ho cercato per tutta la radio» puntualizzò. «Avresti potuto riferire a Theresa dov’eri.»
«Magari» obiettò Anthony, «Preferivo non informarla. Dopotutto stiamo pur sempre parlando del luogo in cui mia moglie è morta.»
«Appunto» confermò Samuel. «Non capisco perché tu abbia voluto vedermi proprio qui. Suppongo che la cosa non sia stata casuale.»
«Volevo un luogo riservato.»
«Ho incontrato la Freeman, mentre ti cercavo. È stata lei a dirmi dove potevo trovarti. Credo che le tue teorie a proposito di luoghi riservati siano da rivedere.»
Anthony ignorò la sua osservazione.
«Hai un’idea anche solo vaga del motivo per cui ti ho chiamato qui?»
«No.»
«Apprezzo la tua sincerità.»
Lo sguardo di Samuel si posò sull’armadio, alle spalle di Anthony.
«Cos’è quella roba?» domandò. «Veronica mi ha detto che eri alla ricerca di qualche vecchio documento e...»
Anthony lo interruppe: «Per favore, Samuel, fai finta che Veronica non esista. Fai finta che non esista nemmeno questo armadio, se ci riesci. Per il resto non ho idea di quando sia stata portata qui questa roba.»
«Quindi» non poté fare a meno di osservare Samuel, «Può darsi che questo armadio sia anche stato vuoto, qualche tempo fa.»
«Sì, vuoto o quasi.»
Samuel rifletté.
Non aveva mai pensato a quel dettaglio.
Anthony non gli lasciò il tempo di continuare a concentrarsi su quel mobile.
«John Brooks è morto.»
«Lo so perfettamente» precisò Samuel. «Ne abbiamo già parlato. In realtà è da giorni che ne parliamo. Ti assicuro che non mi è mai sembrato che fosse un uomo sul punto di suicidarsi. Non avrei mai creduto che...»
«Appunto» confermò Anthony. «La teoria del suicidio è ridicola. Quell’uomo sapeva qualcosa che noi ancora non sappiamo.»
«Mi ha confermato che quell’Albert Wilkerson...»
Anthony lo interruppe: «Parla piano, Samuel. Qualcuno potrebbe sentirti... a meno che tu non sia perfettamente sicuro che, anche se qualcuno dovesse sentirti, tu abbia comunque il culo parato. Magari è davvero così...»
Samuel aggrottò la fronte.
«In che senso?»
Anthony si allontanò di qualche passo dall’armadio, lasciandogli una visuale perfetta.
Samuel si stava lasciando distrarre ancora una volta, ma la voce dell’amico lo riportò alla realtà.
«Tu lo sapevi.»
«Che cosa?»
«Che qualcuno voleva uccidere Kay. Magari hai anche collaborato. Tutto mi porta a pensare che sia andata proprio così.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Non ho idea di che cosa tu ti sia messo in testa, ma...»
Anthony lo interruppe: «Basta! Mi sono rotto le palle di questa stupida commedia. Sei andato ad Ambermount a cercare John Brooks, l’hai convinto a venire qui a Scarlet Bay...»
«Sì, certo, come no. L’ho invitato qua, l’ho convinto a seguirmi sul cavalcavia, gli ho dato una botta in testa e, una volta che ha perso i sensi, l’ho buttato giù.» Samuel sospirò. «Spero che tu ti renda conto che questa storia è ridicola!»
«Spero anche che tu ti renda conto che, se Kay è stata ammazzata, è perché si è fidata di una persona sbagliata» insisté Anthony. «In fin dei conti chi è che sapeva che avrebbe trascorso qui tutta la sera?»
«Non ne ho idea. Qui dentro tutti sanno tutto!»
«C’è qualcuno, però, che sa meglio di altri. Tu sei sempre stato uno di quelli. Inoltre avresti potuto tranquillamente pasticciare sul suo computer per convincere tutti quanti a credere che avesse cambiato lo sfondo di Wordpress.»
«Perché avrei dovuto farlo?»
Anthony gli lanciò un’occhiata penetrante.
«Cambiare lo sfondo o renderti complice di chi ha ucciso Kay?»
«Cambiare sfondo» rispose Samuel. «L’altra accusa è talmente ridicola che non la voglio nemmeno commentare.»
«La questione dello sfondo è molto semplice. Molto probabilmente non ti ricordavi nemmeno che aveva lo sfondo rosso. Quando hai acceso il suo computer per controllare che non ci fosse niente di compromettente e hai lanciato Wordpower avrai pensato di essere stato tu a cambiare colore. Ti sarai ricordato che Kay vedeva il testo troppo sfuocato sul colore di default e che ne aveva scelto un altro, ma sul momento ti sarai dimenticato di quale si trattava...»
«Questa è la teoria più ridicola che io abbia mai sentito anche perché, se Kay teneva lo sfondo rosso, un motivo doveva esserci...»
«Sì» ammise Anthony. «Strane manie.»
«Oppure il semplice fatto che, come diceva Rebecca qualche tempo fa, ci siano colori che si riflettono davanti e colori che si riflettono dietro alla retina» replicò Samuel. «Kay stava a mezzo metro di distanza dal computer o poco più. È ragionevole pensare che quella fosse la distanza limite, per lei, prima di iniziare a vedere sfuocato. Su uno sfondo verde, o addirittura blu, ci avrebbe visto decisamente più sfuocato che su uno sfondo rosso che, entro certi limiti, le permetteva di mettere meglio a fuoco le scritte.»
«Ancora meglio» osservò Anthony, «Perché questo significa che avresti avuto una ragione per cambiare lo sfondo da rosso a verde.»
«Quale, se non sono indiscreto?»
«È molto semplice: avresti fatto cadere i sospetti su qualcun altro.»

Theresa alzò gli occhi.
Seduta alla scrivania di Anthony, Rebecca le sembrava più irrequieta del solito.
«Hai una vaga idea di quando dovrebbe tornare?» le domandò, frugando tra i fogli che Anthony aveva lasciato in giro.
«No.»
Rebecca sbuffò.
«Speriamo che si sbrighi.»
Theresa, in realtà, aveva ben altro di cui preoccuparsi.
«Hai visto la scaletta?» volle sapere.
«Sì, va bene.»
Rebecca sembrava quasi disinteressata; e infatti a Theresa sembrava che non avesse dato più di un’occhiata fugace a ciò che le aveva proposto.
Doveva fare finta di niente?
Doveva chiederle se ci fosse qualche problema?
Forse la soluzione migliore stava nel mezzo.
«Come mai hai un bisogno così impellente di vedere Anthony? C’è ancora qualche dubbio, per la trasmissione di oggi?»
Doveva trattarsi di lavoro, dopotutto. Theresa non riusciva a immaginare che Rebecca avesse qualcos’altro per la testa, in quel momento.
«Non è successo niente di grave, se è quello che ti preoccupa» le assicurò Rebecca. «Scoprirai tra poco perché ho un urgente bisogno di parlare con Anthony. Quello che devo dire a lui riguarda anche te... anche te e Samuel.»
Si era trattato di un’esitazione?
Il nome di Samuel era stato volutamente pronunciato, in un secondo momento, perché Rebecca sapeva di non farne a meno?
Theresa si alzò in piedi.
«Scusa un attimo. Vado in bagno un istante.»
Rebecca le lanciò una lunga occhiata assente.
«Non metterci troppo» la pregò, infine. «Abbiamo qualcosa di molto importante a cui pensare, oggi pomeriggio.»

Le accuse di Anthony erano semplicemente ridicole.
«Credo che tu sia pazzo» concluse Samuel. «Capisco che la mancanza di Kay si faccia sentire e che per te sia stato un trauma, anche se ti ostini a fare la parte dell’impassibile che può andare avanti anche da solo, ma questo non ti dà il diritto di infangare il nome di chi ti sta intorno.»
Anthony non parve impressionato.
«Le tue sono solo parole, Samuel. Ci hai sempre saputo fare. Hai incantato non so quante persone, con le tue doti oratorie. Kay, evidentemente, era una di quelle. Sei riuscito a convincerla a fermarsi in archivio, sei riuscito a convincerla a...»
Samuel lo interruppe, con un’elevata dose di sarcasmo: «Certo, sono anche stato capace di avvelenarla e di simulare il suicidio. Poi, come se non bastasse, sono riuscito perfino ad andare fuori passando attraverso la porta chiusa a chiave! Lo devi ammettere, Anthony, il mio è stato un piano perfetto: nessuno può incastrarmi e, quando cercherai di smascherarmi farai la figura del visionario.» Si appoggiò a una delle ante dell’armadio, che si chiuse cigolando. «Non so come ti vengano in mente certe idee. Mi conosci da diciotto anni. Come puoi anche solo ipotizzare che io abbia...»
Anthony non lo lasciò finire.
«So quello che provavi per lei. Lo sanno tutti.»
«Tutti hanno molta fantasia. Io e Kay non abbiamo mai avuto una relazione.»
«So perfettamente che tu e Kay non avete mai avuto una relazione» puntualizzò Anthony. «Non ho mai messo in dubbio la fedeltà di mia moglie e non intendo certo farlo ora. Mi riferisco ai tuoi viaggi mentali, di cui tutta Radio Scarlet è informata.»
Samuel si irrigidì.
Non gli piaceva parlare dei sentimenti che aveva provato nei confronti di Kay, tra l’altro sarebbe stato molto imbarazzante farlo proprio con il marito di lei, ma non aveva scelta.
«Ammettendo che quello che tutti sostengono sia vero, che cosa proverebbe?»
«Proverebbe che ti sentivi respinto e frustrato, perché la donna che amavi non ne voleva sapere di te.»
«E, sentiamo, è abbastanza per commettere un omicidio e inscenare tutto questo dramma?» Samuel strabuzzò gli occhi. «Temo che tu stia vaneggiando.»
«Niente affatto» replicò Anthony. «Non ho mai voluto vedere la questione Wordpower dal giusto punto di vista. La verità è che tu volevi liberarti non solo di Kay, ma anche di me. L’unico problema è che l’unica persona a cui mancavano gli occhiali, quel giorno, non ero io!»
«Liberarmi di Kay e anche di te?! L’ho già detto e lo ripeto, Anthony: tu sei completamente pazzo e, dato che non ho intenzione di sprecare il mio tempo a discutere con un pazzo, credo che la cosa più sensata sia andare a raggiungere Rebecca e Theresa. Ormai si saranno già chieste più di una volta che fine ho fatto.»
Samuel fece per allontanarsi, ma Anthony lo afferrò per un braccio.
«Aspetta. Non ho finito.»
Samuel fece un sospiro.
«Qualunque altra cosa tu abbia in mente, sono stanco di ascoltare le tue stronzate. Credo che ti farebbe bene prenderti qualche giorno di riposo.»
«Niente affatto. Non sono mai stato più lucido di adesso, l’unica cosa che non capisco è che cosa c’entri tu con Marissa Flint. Qualcuno ti ha pagato, non è vero? Devono averti corrotto. Dopotutto ciascuno di noi ha un prezzo.»
Samuel si liberò dalla stretta di Anthony, allontanandolo da sé.
L’altro inciampò e si appoggiò al tavolo dietro di lui, per mantenere l’equilibrio.
«Stavi cercando di farmi cadere e sbattere la testa contro uno spigolo? Volevi liberarti di me, dato che non sei riuscito a farmi accusare dell’omicidio di Kay?»
Samuel non gli rispose.
Era intenzionato ad andarsene, senza perdere ulteriore tempo.
Era ormai arrivato alla porta, quando Anthony osservò: «Il trucco era l’armadio, non è vero? È grazie a quello che sei riuscito a mettere in atto il tuo piano? ...sempre ammesso che fosse un piano tutto tuo, cosa di cui dubito fortemente.»
Samuel si fermò.
«L’armadio?» Si girò lentamente. «Che cosa intendi?»
«Nessuno può passare attraverso una porta chiusa, ma evidentemente ci sono altri modi per commettere il delitto perfetto.»
«Puoi facilmente svuotare l’armadio» gli suggerì Samuel. «Capiresti perfettamente che, diversamente da quanto avviene nei film, è un semplice armadio. Non ci sono passaggi segreti nascosti.»
«Non ho mai ipotizzato che ci fossero passaggi segreti» puntualizzò Anthony. «Metti che l’assassino di Kay si sia nascosto qua dentro. Se l’armadio fosse stato vuoto, come tu stesso hai ipotizzato, l’assassino avrebbe potuto rimanere qui fino alla scoperta del cadavere e uscirne fuori soltanto in un secondo momento. Per l’esattezza, quando parlo di secondo momento, mi riferisco a quando la Freeman e il delinquente amico di Rebecca sono scesi ad annunciare che Kay era morta, lasciando l’archivio completamente incustodito.»
«Molto interessante» osservò Samuel. «Puoi chiedere a Michelle, così come alla stessa Freeman: ero alla reception prima ancora che quell’impicciona salisse insieme a Raymond. A meno che tu non voglia insinuare che posso stare in due posti diversi nello stesso momento, credo che dovrai rivedere le tue teorie.»
Anthony gli sembrò spiazzato per un attimo.
«Sì, tu eri giù quando...»
«Esatto» confermò Samuel. «Questo dimostra chiaramente che sono tutte cazzate.»
«Eppure sei stato tu a cambiare il colore su Wordpower. Devi essere coinvolto in qualche modo. Solo tu avresti potuto arrivare alla conclusione che io...» Anthony si interruppe. «A meno che...» Esitò ancora. «No, non sei stato tu, ma sai perfettamente com’è andata.»
Samuel scosse la testa.
«Continuo a pensare che tu sia pazzo, ma credo che sia meglio lasciarti qui a lambiccarti sui tuoi deliri interiori. Credo che Rebecca abbia bisogno di me.» Si avviò verso la porta, stavolta senza essere trattenuto. «Non preoccuparti, mi inventerò una scusa per coprirti. Fermati a riflettere sul senso della vita per tutto il tempo che vuoi.»

Anthony non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso da quando Samuel l’aveva lasciato solo. Non aveva alcuna importanza.
Tutto quello che contava era che, affacciandosi alla finestra, aveva notato Theresa che raggiungeva il parcheggio.
Non poteva essere così tardi.
Perché se ne stava già andando?
Era una parte del piano anche quella? Per caso Samuel l’aveva messa in guardia e lei, per evitare accuse alle quali non avrebbe saputo replicare, stava andando via?
“O forse sono soltanto io che sto impazzendo.”
Magari Samuel aveva ragione.
Era esaurito.
Era fottutamente esaurito.
Avrebbe dovuto prendersi una pausa e dimenticarsi di tutto, per quanto gli apparisse come un’impresa impossibile.
Doveva farlo per Kay.
Doveva...
No, rimanere lucido non era un obbligo che aveva nei confronti di Kay; tutto quello che contava era renderle giustizia.
Doveva raggiungere Rebecca.
Era l’unica che poteva dargli una spiegazione sensata.

«A quanto pare» osservò Rebecca, «Siamo rimasti da soli, io e te.»
«Quando Anthony avrà finito» ripeté Samuel, per quanto a lei sembrasse tutt’altro che necessario, «Ci raggiungerà.»
La porta si aprì proprio in quel momento.
«A quanto pare» osservò Rebecca, alzando gli occhi verso Anthony, «Ha già finito.»
Il nuovo arrivato chiuse la porta alle proprie spalle.
«Dov’è Theresa?»
Rebecca ridacchiò.
«Siete tutti molto interessati a lei, oggi.»
«Dov’è?» ribadì Anthony. «Ho bisogno di saperlo.»
«Si è sentita male» lo informò Rebecca, «E ha deciso di andare a casa. Non so cos’abbia avuto con esattezza, forse un capogiro. Sai qual è la cosa strana? Che è successo proprio mentre le parlavo di un amico di mio figlio.»
Rebecca si accorse che Anthony la fissava, senza capire. La reazione di Samuel era più velata, ma anche lui non riusciva a seguire il discorso.
«Ti stai chiedendo - vi state chiedendo - perché ne abbia parlato proprio con Theresa, non è vero?» Rebecca sorrise. Stare al centro dell’attenzione era splendido e, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva in una posizione privilegiata. «Questo amico di mio figlio» proseguì, «è un tipo piuttosto fantasioso. Crede che gli alieni modifichino i nostri cartelloni pubblicitari... e tutto perché, a seconda dello sfondo che hanno, li vede leggermente diversi e in alcuni le scritte gli sembrano un po’ meno nitide.»
«Temo che tu voglia arrivare, in modo indiretto, a quel dannato Wordpower» osservò Anthony. «È così?»
Rebecca annuì.
«L’amico di mio figlio mi ha detto anche che gli alieni vogliono avvelenarlo tramite i suoi libri scolastici, perché quando legge gli lacrimano gli occhi o gli viene mal di testa. Credo che tu, Anthony, possa tranquillamente riconoscere questi sintomi. Sono sicura che, in qualche momento della tua vita, anche tu hai provato qualcosa del genere.»
«Dove stai cercando di arrivare, Rebecca?» replicò Anthony. «Stai cercando di dirmi che sono stato io a cambiare lo sfondo al programma sul computer di Kay?»
«No, sto solo dicendo che non è stata lei. Il testo nero sullo sfondo blu - sfondo blu che, come tutti sappiamo, è molto scuro, ma questo non c’entra molto con Kay - le appariva più sfuocato che sullo sfondo rosso. È così?»
«Sì» confermò Anthony.
«Era proprio quello che volevo sentire, perché conferma la mia teoria: il verde sta in mezzo al blu e al rosso, pertanto chi vede meglio su uno sfondo rosso che su uno sfondo blu, molto difficilmente vedrà meglio sul verde piuttosto che sul rosso. Il motivo per cui Kay aveva scelto quello sfondo, quindi, era semplicemente che le permetteva di leggere meglio di quanto avvenisse su uno sfondo blu o su uno sfondo verde: necessità, anziché fantasia galoppante. Sarei pronta a scommettere che tua moglie non avesse una vista perfetta.»
«Già. Al lavoro stava sempre senza, ma doveva portare gli occhiali, per guidare. -1.75, se non vado errato.»
«Evidentemente Kay non era l’unica a non avere una vista perfetta. In effetti in questo ufficio ci siete anche tu e Theresa che avete problemi di vista...»
«Ma con le lenti vediamo perfettamente il monitor del computer.»
Rebecca annuì.
«Appunto. La mia conclusione è che la persona che ha cambiato lo sfondo di Wordpower abbia un forte difetto di rifrazione, veda malissimo sul rosso e che, non avendo i propri occhiali a disposizione, sia andata per tentativi cercando un colore che le facesse apparire il testo leggermente più comprensibile. Quel giorno stesso Raymond si è seduto sugli occhiali di Theresa e, senza che lei potesse fare nulla, li ha presi per portarli dall’ottico. Inoltre, Anthony, tu stesso mi hai confermato che Theresa è ipermetrope. Con tutta probabilità, se il blu fosse stato più chiaro, sarebbe stato il colore prescelto. In alternativa si è accontentata del verde.»
Anthony impallidì.
«E non è tutto. Pare che Theresa abbia raccontato a Michelle che da piccola le piaceva nascondersi negli armadi.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia.
«Nascondersi negli armadi? Non capisco che cosa intendi dire...»
La situazione le stava sfuggendo di mano. Anche Samuel, che fino a quel momento non aveva pronunciato una parola e non aveva dato segni di vita, si era girato a guardare Anthony.
«Non capisci, lo so, ma presto capirai. Intendo dire, con un certo margine di sicurezza, che Theresa è stata l’esecutrice materiale dell’omicidio di mia moglie e che so come ha fatto.»

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Capitolo 30
*** Il delitto ***


[26 Agosto 1991]

Nel profondo del cuore, Theresa sapeva di odiare Penelope Altman. La odiava perché aveva l’ammirazione di tutti, la odiava perché mentiva sulla propria vita privata per non essere additata come colei che non era stata in grado di tenersi stretto un uomo. Aveva un figlio che doveva avere sei anni e mezzo, forse quasi sette, Theresa lo sapeva. Era l’unica a saperlo. Divulgare la notizia sarebbe stato intrigante, se solo non avesse corso il rischio di fare la parte dell’impicciona che on poteva fare a meno di intromettersi nelle vite private altrui.
Penelope la fissava, come se non sapesse quanto Theresa fosse in grado di essere sgradevole, nei suoi confronti. Far notare agli altri quanto Penelope fosse inutile era una delle sensazioni migliori al mondo.
Stava ancora riflettendo su qualcosa da dire, quando comparve quel Raymond - o come si chiamava - che andava a letto con Rebecca.
Era una nullità e, a Radio Scarlet, non aveva una posizione. C’era qualche leggenda sul suo conto, si raccontava che la sua vita, fino a quel momento, non fosse stata proprio immune da macchie. A Theresa non importava. Nonostante fosse una nullità, era comunque qualcuno davanti al quale Penelope si sarebbe sentita maggiormente in imbarazzo, in caso di qualche allusione poco piacevole.
“È proprio quello che dovrei fare.”
Lanciò alla giovane receptionist un’occhiata di fuoco, proprio mentre la voce di Raymond finalmente si fece sentire.
«Come state, ragazze?» domandò, nel sedersi sul tavolino accanto alla reception.
Theresa si girò.
Lo fece lentamente, perché non aveva il coraggio di guardare.
Spalancò gli occhi.
Non ebbe il tempo di dire nulla.
Raymond osservò, con naturalezza: «Credo di essermi seduto su qualcosa di tuo.»
Si alzò in piedi, con un lieve sorriso stampato sulle labbra.
Theresa raggelò. Averne la conferma era molto più terribile che limitarsi alla pura e semplice immaginazione.
«Maledetto cretino» urlò, rivolgendosi alla nullità che aveva appena appoggiato il fondoschiena sui suoi occhiali da vista, «Perché non torni a fartelo succhiare da quella vacca di Rebecca?!»
Per un attimo Raymond le parve scioccato.
Non era una reazione normale, la sua, stava senz’altro pensando.
Certo, quell’idiota che aveva la fortuna di avere una vista perfetta non poteva neanche lontanamente immaginare che cosa significasse per lei fare a meno degli occhiali. Cercava di portarli il meno possibile, perché le davano un’aria da segretaria che non apprezzava per niente e che, con tutta probabilità, nemmeno Samuel apprezzava, ma era maledettamente diverso: andare in giro per i corridoi senza vedere con il massimo della nitidezza ciò che aveva davanti non era terribile quanto fissare senza occhiali lo schermo di un computer, dove sarebbe riuscita a malapena a dare una forma a ciò che vedeva sul monitor.
Lo ascoltò a malapena, mentre tentava di rincuorarla.
«Li porto subito dal mio amico ottico. C’è solo un’asta completamente fuori posto, le lenti sono intatte. Domani mattina li riavrai e non dovrai spendere un soldo.»
«Maledetto idiota!» urlò ancora Theresa. «Non puoi semplicemente guardare dove ti siedi?! Hai appena...»
Theresa si interruppe nell’udire una voce che la pregava: «Ehi, calmati.»
Era Samuel che, come al solito, arrivava nel momento meno opportuno e pretendeva di sapere quale fosse la cosa migliore da fare.
«Come faccio a calmarmi» replicò Theresa, senza nemmeno guardarlo, «Quando qua dentro ci sono dei tali cretini?»
Samuel le chiese, con il suo solito tono calmo: «Si può sapere cos’è successo?»
«Ovviamente non è successo nulla di irreparabile» puntualizzò Raymond.
Certo, per lui era tutto regolare.
Theresa lo pregò di tacere, prima di spiegare a Samuel ciò di cui voleva essere informato. A quel punto Raymond ricominciò a comportarsi come se quanto era accaduto fosse la cosa più normale del mondo. Avrebbe portato gli occhiali dall’ottico, specificò prendendoli in mano senza nemmeno chiederle l’autorizzazione, avrebbe pagato per la loro riparazione e Theresa li avrebbe riavuti la mattina successiva.
Quell’idiota meritava soltanto di essere afferrato per quel ridicolo codino ed essere sbattuto contro al muro fino a fracassargli la testa. Theresa temeva che l’avrebbe fatto davvero, se Samuel non fosse intervenuto con una delle sue solite uscite del tutto fuori luogo.
Andare a casa? Non se ne parlava nemmeno. Non poteva andare a casa.
Rifiutò l’offerta di Samuel e rimarcò che quello non era un danno facilmente rimediabile.
«Quel cretino ha i miei occhiali tra le mani» aggiunse. «La montatura è rotta e a me servono ora!»
Tutto si aspettava, tranne l’intromissione di Kay.
«Non starai esagerando? Non ti sono poi così fondamentali.»
Theresa rabbrividì.
Temeva di essersi smascherata da sola.
Doveva rimediare e doveva farlo subito.
«Per lavorare al computer, non posso farne a meno. Senza occhiali sono persa, qua dentro.»
Kay sorrise.
«Non preoccuparti. Tra l’altro, di solito, a quest’ora te ne vai sempre a casa.»
«Sì» confermò Theresa, facendo un cenno con la testa, «Ma...» Esitò. «Sai cosa voglio dire.»
«So cosa vuoi dire e sono sicura che tu possa fare a meno degli occhiali, fino a domani mattina.»
Le parole di Kay, pronunciate proprio mentre Raymond si allontanava con gli occhiali in mano, accidenti a lui, la rincuorarono: la giornalista non aveva capito, era convinta che temesse di avere bisogno di usare il computer, o di dover comunque sforzare la vista, quella sera stessa e che fosse quella l’unica ragione per cui era preoccupata.
Theresa non riuscì a trattenere un’imprecazione nei confronti di Raymond.
Magari fosse stato tutto così facile come pensava Kay.
Rifiutò ancora una volta l’offerta di Samuel di accompagnarla a casa. Era meglio andarsene, se non voleva sentirselo ripetere ancora una volta.
Salutò tutti, anche Kay, che le lanciò un’occhiata.
Theresa si avviò, aspettando di essere raggiunta.
«Aspetta, mi sono dimenticata una cosa!» esclamò Kay, seguendola.
Doveva essere desiderosa di rimanere con lei in un luogo dove nessuno potesse sentirle.
Si fermarono davanti all’ingresso.
«Vieni alle nove, okay?»
«Sì.»
«Mi raccomando, Theresa, non dire a nessuno che ci dobbiamo vedere. Anch’io non ne ho fatto parola, nemmeno con Anthony.»
Theresa si sentì sollevata. Tutto stava procedendo regolarmente. Kay sembrava addirittura comportarsi come se fosse stata lei stessa a proporre di trovarsi per discutere di quella dannatissima Marissa Flint e dei punti non chiariti della vicenda.
«Stai tranquilla» la rassicurò, «Non ne parlerò con nessuno.»
Soltanto una persona ne era informata, la stessa persona che l’aveva messa in guardia nei confronti di Kay, e Theresa doveva raggiungerla.
Doveva prendere altre istruzioni.
Avrebbe preso la metropolitana, sarebbe stato molto più sicuro. Prima, però, avrebbe allontanato la macchina dal parcheggio di Radio Scarlet. Era una precauzione necessaria, la persona che le dava istruzioni era stata molto chiara.

«Metti le pillole in tasca. Assicurati che le ingerisca tutte. Se non vuole bere niente, tu devi insistere.»
«Non sarà pericoloso?»
«No. Dormirà come un sasso per una decina di ore. La troveranno addormentata, domani mattina, e andrà tutto bene.»
«Posso vedere l’involucro?»
«L’involucro ce l’ho io. Non ti serve.»
«Ho paura che possa accadere qualcosa di brutto.»
«Stai calma, Theresa. Ti ho detto che ho accesso a fonti privilegiate. Kay Brooks vuole incastrare una persona che con la Flint non ha nulla a che vedere. È sempre stato il suo obiettivo. Dobbiamo fermarla. Dobbiamo controllare fino a che punto si è spinta. Non puoi rinunciare proprio adesso che siamo a un passo dalla verità.»

A Theresa non sembrava affatto di essere a un passo dalla verità. Aveva ricevuto istruzioni precise e si sarebbe attenuta a quelle, ma non poteva fare a meno di essere preoccupata. Per fortuna almeno Kay sembrava essere intervenuta in suo aiuto, del tutto involontariamente.
Nel momento in cui chiudeva la porta dell’archivio, Theresa notò la bottiglia di aranciata appoggiata sul tavolo.
Kay aveva l’abitudine di bere schifezze ipercaloriche. Dentro quella robaccia dal colore brillante, le tre pillole effervescenti che aveva in tasca si sarebbero sciolte perfettamente.
Si sedettero.
«Io so chi ha ucciso Marissa» furono le prime parole che Kay pronunciò.
Theresa fu felice di udire quell’affermazione. Era l’ennesima prova che ormai la giornalista si era convinta di essere stata lei l’artefice di quel loro incontro, in serata, quando ormai in quel ramo dello stabile non c’era più nessuno. Non c’erano nemmeno Carpenter e la sua segretaria, che a volte rimanevano al lavoro fino a molto tardi.
“Sempre ammesso che rimangano qua per lavorare.”
Theresa avvampò, dopo quel pensiero.
Veronica Freeman doveva avere più o meno l’età del direttore, ma era sicura che un uomo come Carpenter non l’avrebbe nemmeno presa in considerazione.
“E poi tutto questo non mi riguarda.”
Kay aspettava una risposta e gliel’avrebbe data.
«Dici che sai chi ha ucciso Marissa Flint. Come fai a saperlo?»
«Ho le mie informazioni e, te lo assicuro, non ho dubbi» fu tutto ciò che ottenne da Kay. «Credo che sia meglio ricapitolare tutto ciò che abbiamo a disposizione.»
«Come vuoi.»
Kay la guardò negli occhi.
«Mi assicuri che posso fidarmi di te?»
Theresa accennò un lieve sorriso.
«Certo... e poi so già tutto quello che c’è da sapere.»
Kay scosse la testa.
«No, Theresa, ci sono molte cose che ancora non sai. Per esempio hai mai sentito parlare di un certo Albert Wilkerson?»
Quel nome le era del tutto indifferente.
«No.»
«Bene, allora è giunto il momento che tu sappia che quell’uomo risulta essere morto in un incidente automobilistico nel 1976» concluse Kay. «In realtà quell’uomo è vivo e vegeto, porta il falso nome di colui che è morto al posto suo... e poco meno di tre anni fa ha assassinato Marissa Flint, per proteggere il segreto della propria identità.»
Theresa non era affatto impressionata.
Quella storia non la riguardava.
«Come lo sai?» le chiese, soltanto perché, in un modo o nell’altro, doveva ingannare il tempo, in attesa che Kay si versasse da bere e che fosse possibile somministrarle il sonnifero.
«Lo so perché l’uomo che è morto al posto di Albert Wilkerson era mio padre.»

«Non fidarti. Qualunque cosa ti dirà, sarà falsa.»
«Come puoi saperlo per certo?»
«Smettila di fare domande, Theresa. Ti sto offrendo su un piatto d’argento la possibilità di fare qualcosa per cui un giorno qualcuno ti apprezzerà. Pensi che, quando Samuel scoprirà quello che Kay ha intenzione di fare, cadrà ancora ai suoi piedi? No, Theresa, sarà in quel momento che si accorgerà di te.»

Theresa si avvicinò a Kay che, con gli occhi strizzati, guardava oltre la finestra, cercando di distinguere qualcosa nel buio.
«Mi dispiace» mormorò.
«Che cosa?»
Theresa finse almeno un minimo di partecipazione emotiva, mentre rispondeva: «Mi dispiace che tuo padre sia stato ucciso. Quello che non capisco è come si incastri Marissa Flint in tutto questo, ma sono certa che tu lo saprai perfettamente.»
Kay annuì.
«Ovvio che lo so, anche se preferisco non parlarne.»
Finalmente un minimo di evidenza: a quanto pareva Kay Brooks aveva davvero qualcosa da nascondere e, con tutta probabilità, la storiella del padre assassinato da Albert Wilkerson era stata inventata ad arte.
Qualcuno rischiava di avere la propria vita, o almeno la reputazione, rovinata da una giornalista senza scrupoli; Theresa stava iniziando a convincerne.
Poi arrivò il colpo che non si era aspettata di dover parare.
«Faccio una telefonata a Samuel.» La giornalista si avvicinò al tavolo, aprì la bottiglia, fino a quel momento sigillata, e si versò da bere in un bicchiere di plastica precedentemente recuperato lì in archivio. «Stai tranquilla, mi ruberà solo qualche istante e non gli dirò che sei qui.»
Theresa trattenne a stento il disgusto, sentendosi rincuorata nel momento in cui l’altra abbandonò il bicchiere pieno d’aranciata per dirigersi verso il telefono che, in genere, veniva utilizzato soltanto per le comunicazioni interne.
Kay era una gatta in calore che, in ogni occasione possibile, cercava di tenere Samuel aggrappato a sé.
“Mi chiedo come faccia Anthony a sopportare questa situazione e a trattarmi come se fossi una visionaria.”
Theresa si sforzò di non ascoltare la conversazione telefonica, ma non le fu possibile. Kay era una gatta in calore che non si atteggiava a gatta in calore. Forse era quello il modo in cui aveva attirato Samuel a sé: gli dava l’impressione di non avere interesse, nei suoi confronti, che andasse oltre l’amicizia che li legava.
Per prima cosa Kay chiese notizie di Anthony.
Che cosa ci fosse da dire su di lui, a Theresa non importava.
Ad un tratto, Kay ritenne opportuno dare a Samuel indicazioni sul luogo in cui si trovava: «Mi sono chiusa a chiave dentro l’archivio.»
Theresa udì in sottofondo la voce di Samuel. Non comprese cosa avesse domandato a Kay, ma senz’altro aveva chiesto se fosse da sola, dal momento che lei, dopo qualche secondo, ribatté: «Ti do l’impressione di essere una che si chiude in archivio a intrattenersi con il primo venuto?»
Theresa strinse i denti.
Avrebbe dovuto saperlo, era parte del loro accordo.
Avrebbe dovuto saperlo, ma il fatto che Kay stesse negando la sua presenza le urtava i nervi come non mai.
Doveva fare qualcosa.
Kay era impegnata, non stava facendo caso a lei.
Si avvicinò furtivamente al bicchiere. Lasciò cadere le pastiglie effervescenti, l’una dopo l’altra, realizzando quanto in una bibita gassata tendessero a passare inosservate.
Di lì a qualche istante, Kay avrebbe finalmente bevuto quella dannata aranciata e, in breve tempo, si sarebbe addormentata.
Per il momento continuò a parlare.
Quanto tempo aveva intenzione di trascorrere con Samuel?!
Theresa si lasciò sfuggire un’imprecazione. Kay la udì a malapena, ma si girò a guardarla con aria di disapprovazione.
«Non è mia intenzione venire al lavoro con le occhiaie» concluse, finalmente. «Tutto sommato ci tengo al mio aspetto. Ci vediamo domani, Samuel.»
Riattaccò e tornò a dirigersi al tavolo.
«Scusami, Theresa. Sono un po’ preoccupata per mio marito.» Si sedette, sollevò il bicchiere e lo portò alla bocca. «Tornando a noi, quell’Albert Wilkerson...»
Kay fece una strana smorfia, dopo avere bevuto.
Theresa raggelò.
“Forse aveva notato qualcosa.”
Realizzò soltanto in un secondo momento che Kay non si era accorta di nulla. Ci volle meno tempo di quanto ipotizzava, per vederla cadere profondamente addormentata.

«Esci, senza lasciare le tue impronte sulla chiave e senza rimuoverla dalla toppa.»
«Perché?»
«Per sicurezza.»
«E poi? Cosa devo fare?»
«Vai nel vostro ufficio. Cerca sul computer di Kay. Tutto quello che ha a che vedere con il caso Flint, devi stamparlo e cancellarlo.»

Theresa penetrò nell’ufficio e chiuse la porta alle proprie spalle. Se tutto fosse andato per il verso giusto, Kay non si sarebbe accorta della sua assenza.
Dormiva.
Dormiva come un sasso, e tutto stava andando nella maniera più opportuna.
Accese il computer, lasciando la luce spenta. Non poteva permettersi che, dall’esterno, qualcuno vedesse la stanza illuminata.
Si sedette e rimase in attesa, battendo freneticamente un piede a terra.
Perché ci metteva così tanto?
Perché soltanto in quella dannata radio erano rimasti così indietro con la tecnologia?
Finalmente la procedura di accensione terminò.
Non c’erano password, perché tecnicamente Kay si fidava di tutti.
In realtà, Theresa lo sapeva, era tutta una finzione: Kay Brooks non era la persona genuina che tutti credevano e, in realtà, aveva in progetto di incastrare un innocente.
Puntò lo sguardo sul monitor.
“Maledetto Raymond!”
Non aveva mai pensato ai propri occhiali come a una necessità, ma in quel momento si rendeva conto di quanto le fossero fondamentali.
Soltanto la memoria la guidò verso la cartella in cui Kay conservava i propri documenti.
Soltanto andando a intuito riuscì a riconoscerne due: “flint1”, “flint2”. Kay non aveva molta fantasia, ed era un bene.
Aprì il primo e le parve che due frecce le stessero trafiggendo gli occhi. Quello sfondo rosso era abbagliante.
Theresa indietreggiò il più possibile: a volte funzionava, ma quel testo continuava a rimanere dannatamente illeggibile.
Chiuse gli occhi per un attimo e si concentrò.
Doveva essere quel rosso a peggiorare le cose.
“Imposta il colore di default” ordinò una voce, dentro di lei. “Ce la puoi fare. Ce la devi fare. Devi impedire a Kay di rovinare la vita di qualcuno che non se lo merita.”
Quella storia su Albert Wilkerson doveva essere inventata.
Tutto doveva essere inventato.
Kay Brooks era una persona squallida e lo era sempre stata.
Se non lo fosse stata, non si sarebbe messa tra lei e Samuel.
“Lo sta facendo apposta, per rovinarmi la vita.”
Affidandosi alla memoria e all’intuito, Theresa riuscì a portare lo sfondo da rosso a blu e realizzò che la situazione non era cambiata più di tanto.
«Dannazione, perché l’hanno fatto così scuro?!»
Dovevano esserci altri colori.
C’erano, ma in quel momento non ricordava quali.
Era normale non ricordarsene: aveva qualcosa di molto più importante di cui occuparsi.
Andò a caso, ne scelse un altro.
Era un verde chiaro piuttosto particolare ma, tornando a indietreggiare, Theresa si rese conto che, quantomeno, non era fastidioso e faceva contrasto con il testo.
Fece un profondo respiro.
“Puoi farcela. Incastra Kay e Samuel sarà tuo.”
Riuscì a riconoscere il nome di Albert Wilkerson e qualche accenno a un filmato.
Faticava tantissimo a leggere e non le sembrava molto importante, ma mandò comunque il documento in stampa.
Lo chiuse e lo cancellò.
Aprì il “flint2”.
Non c’era niente di che, soltanto dettagli insignificanti come la data di morte di Marissa Flint, di cui Kay aveva lungamente discusso in trasmissione.
L’ordine che aveva ricevuto era stato quello di cancellare tutto.
Non si era nemmeno chiesta, realizzò soltanto in quel momento, se non ci fosse il rischio che Kay si accorgesse di qualcosa. Rimuovere un file che menzionava un tale Albert Wilkerson non significava farla desistere dalle proprie intenzioni.
La porta si aprì e Theresa sobbalzò.
«Sono io.»
Riconobbe la voce e la cosa le bastò.
«Cosa ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»
«Io entro dove voglio.»
«Perché sei qui?»
«Ti serviva il mio aiuto. Hai fatto quello che ti ho chiesto?»
«Un documento l’ho stampato e cancellato. È lì, da quella stampante. Nell’altro non c’è niente di interessante.»
«Cancella il testo, ma non eliminarlo.»
«Perché?»
«Fai quello che ti dico.»
«Come lo spiegherò a Kay, domani?»
«Non dovrai spiegarle nulla. Purtroppo quel sonnifero le è stato fatale.»
Theresa rabbrividì.
«Che cosa stai dicendo?! Kay è...»
«Kay è morta.»
Theresa non ebbe nemmeno la forza di replicare.
Kay era morta.
Qualcosa era andato storto.
O forse...
«Mi hai incastrata, vero? In realtà il tizio che Kay voleva accusare era davvero colpevole. Tu mi hai...»
«Basta, Theresa, è andata com’è andata! Adesso non hai che una cosa da fare: disporre tutto in modo che si pensi al suicidio.»
«Io... dovrei...» Theresa si sforzò di non urlare. «Dovrei...»
«Stai calma, ti spiego io cosa devi fare. I capelli ce li hai già legati, non ne perderai; ora non ti resta che mettere un paio di guanti di lattice, casomai a qualcuno venisse in mente di cercare impronte digitali nell’armadio. Dubito che accadrà, ma bisogna anche cautelarsi un po’...»
«Impronte nell’armadio? Quale armadio?»
«Quello dell’archivio. Tornerai in quella stanza, chiuderai la porta a chiave dall’interno - non preoccuparti per questo, i guanti te li ho portati io - e ti infilerai nell’armadio, fingendo che il cadavere non ci sia. Non toccherai Kay Brooks nemmeno con un dito, se non vuoi mandare tutto all’aria, e soprattutto non ne uscirai dall’armadio finché qualcuno, domani, non avrà forzato la porta e scoperto il cadavere. Per forza di cose, prima o poi, arriverà un momento in cui avrai l’occasione di venire fuori. A quel punto correrai giù e fingerai di essere arrivata entrando dal retro. Serviva a questo il cambio d’abiti che ti ho suggerito prima.»
«No» replicò Theresa. «Non posso farlo!»
Tutto ciò che ottenne fu una risata.
«Credo che ti converrebbe, se non vuoi finire in carcere accusata di omicidio e perdere Samuel per sempre. La scelta è tua.»
Non era una scelta, Theresa lo sapeva.
Chiuse gli occhi per un istante, mentre domandava: «Dove sono i guanti?»

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Capitolo 31
*** Grazie, Avah ***


Penny aveva appena messo giù il telefono, quando vide Samuel avanzare verso di lei. Di base, in quelle circostanze, era felice; in quella particolare occasione, invece, si rese conto di essere più spiazzata di quanto avrebbe desiderato.
Era successo qualcosa?
Non era bello porsi domande di quel genere, che lasciavano intendere che tutto potesse andare a rotoli da un momento all’altro, ma Penny non poteva farne a meno. Kay Brooks, la sua amica Kay Brooks, era stata assassinata e nessuno di loro poteva ritenersi davvero al sicuro.
“O meglio, io sì.”
Penny sapeva di essere, agli occhi di tutti, una presenza insignificante, che serviva più ad abbellire l’entrata che ad altro. Non importava che molti la apprezzassero: dopotutto in tanti apprezzavano anche ciò che non era loro utile.
«Penny, ti prego, ho bisogno di te!»
Le parve quasi che Samuel la stesse implorando.
«Cos’è successo?»
«Cerca il numero di Theresa!» la pregò Samuel. «Chiamala!»
«Theresa...» mormorò Penny. «È andata a casa circa mezz’ora fa, forse un po’ di più. Non si sentiva bene, mi ha detto.»
Samuel non parve per nulla interessato a quella ricostruzione.
«Cerca quel dannato numero e chiamala!» ribadì. «È importante. Fallo subito.»
Penny spalancò gli occhi.
«Mi stai dicendo che Theresa è in pericolo?»
«Ti sto dicendo di cercare quel fottuto numero, di sollevare quella fottuta cornetta e di chiamarla!» sbottò Samuel. «Theresa ha sempre detto che sei una cretina, ma credo che tu possa arrivare a capire almeno questo!»
Penny avvertì una fitta allo stomaco.
Era la prima volta che Samuel si rivolgeva a lei con quel tono.
Era la prima volta, ma era sufficiente a far crollare tutte le sue speranze.
«Scusami.»
Samuel sospirò.
«Ti prego, Penny, non c’è tempo da perdere. Non fare domande e cerca di metterti in contatto con Theresa.»
Per quanto le costasse, Penny si rassegnò.
Non doveva fare domande.
Non doveva occuparsi di ciò che contava davvero.
Anche Samuel era come tutti gli altri. In certi momenti le era sembrato che lui si fidasse di lei, che pensasse davvero che lei potesse aiutarlo... Non era mai stato così e la sola idea di aiutarlo a mettersi in contatto con quella stronza di Theresa la disgustava.
Ad ogni modo, non c’erano vie di fuga.
Doveva cercare il numero.
Doveva chiamare Theresa.
Doveva mettere Theresa in contatto con Samuel.
Era quello il suo ruolo, null’altro, poco importava che avesse sempre sognato di ottenere qualcosa di più.
Forse aveva ragione Michelle, quando sosteneva che Radio Scarlet era un covo di menefreghisti e che andarsene sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Penny sapeva dov’era il numero privato di Theresa.
Lo compose.
Rimase in attesa.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
Quattro squilli...
Continuò ad aspettare, ma invano.
«Niente» mormorò, nel momento in cui la linea cadde. «Non ha risposto. Penso che non sia in casa. Stava male. Magari è dal medico o in farmacia.»
Samuel scosse la testa.
«No, Theresa non stava davvero male.»
Era la prima volta, in quegli ultimi minuti, in cui si rivolgeva a lei con un tono né troppo esasperato né troppo scorbutico.
«Perché avrebbe dovuto mentire?» domandò Penny, rincuorata dal nuovo atteggiamento di Samuel. «Mi spieghi che cosa sta succedendo?»
Lui abbassò lo sguardo.
«Non so che cosa stia succedendo. So solo che mi rendo conto di non averla mai conosciuta davvero.»

Era finita, Theresa lo sapeva.
Rebecca l’aveva smascherata, e tutto per quel dannato Wordpower e per il suo colore di sfondo.
Tutto era andato nel peggiore dei modi, nonostante la fiducia che aveva avuto fin dal primo momento in cui era riuscita a lasciare l’archivio senza che nessuno si accorgesse di lei. Erano tutti concentrati sull’orribile scoperta che avevano appena fatto. Veronica e Raymond si erano precipitati al pianoterra. Seguire le istruzioni si era rivelato più semplice che mai, anche perché Theresa aveva passato tutta la notte e le prime ore del mattino a desiderare di potersi allontanare dal cadavere.
Dentro di sé, si era convinta che tutto potesse risolversi.
Kay era morta, ma non si sentiva responsabile. Le aveva soltanto somministrato un sonnifero. Aveva obbedito a un ordine, affascinata dalla possibilità di sbarazzarsi di Kay, in un senso molto più metaforico.
Aveva sognato un mondo in cui Kay Brooks sfruttava la propria posizione e un finto desiderio di giustizia per rovinare la vita a chi si era messo contro di lei.
Aveva sognato un mondo in cui Kay Brooks sarebbe finalmente apparsa per quello che era... ma era stata solo un’illusione, perché Kay non aveva desiderato altro che far luce su un caso di cronaca rimasto irrisolto.
Seduta sui gradini, davanti alla porta dell’appartamento di Samuel, lo aspettava.
Doveva parlargli.
Doveva spiegargli cos’era successo... o forse no.
“Samuel mi odia, adesso.”
Purtroppo Kay gli interessava davvero. Se così non fosse stato, avrebbero potuto vivere in un mondo illusorio, in cui la morte di Kay sarebbe rimasta un suicidio.
Tutto sommato non le era dispiaciuto liberarsi di lei. Per quanto Rebecca non le fosse mai piaciuta, almeno tra lei e Samuel c’era soltanto un rapporto professionale.
Non le importava che Samuel e Kay, in realtà, non fossero mai andati a letto insieme. Il solo fatto che Samuel avesse sempre preferito Kay a lei, era sufficiente per non essere addolorata dalla sua morte.
A dispiacerle era soltanto di essere stata costretta a sporcarsi le mani per sbarazzarsene, il che non sarebbe stato nemmeno così terribile, se solo non avesse comportato di perdere irreparabilmente l’affetto di Samuel.
Doveva andarsene.
Doveva sparire per sempre, in un luogo in cui lui non potesse vederla mai più, né viva né morta, e magari dimenticarsi di lei.
“No, non lo farà.”
Non ce l’avrebbe fatta.
Ancorato com’era al ricordo di Kay, gli sarebbe rimasto impresso tutto quello che era accaduto.
L’unica ragione per cui pentirsi di quello che aveva fatto, realizzò Theresa, era che, perfino da morta, Kay continuava a condizionare la vita di tutti quelli che le stavano intorno.
Li distruggeva, uno dopo l’altro.
Li distruggeva, senza che nessuno la fermasse.
Samuel voleva la verità.
Theresa si alzò di scatto e si precipitò giù dalle scale.

Rebecca teneva lo sguardo fisso sulla scrivania.
«Non mi sento pronta.»
Anthony sospirò.
«Non dire sciocchezze. È solo una trasmissione come tutte le altre. E poi arrivarci in fondo prima di me era esattamente quello che volevi.»
Rebecca arrossì.
«Che cosa te lo fa pensare?»
«Tu me lo fai pensare» puntualizzò Anthony, avvicinandosi a lei. «Tu e Kay vi siete sempre somigliate più di quanto abbiate mai desiderato. È chiaro che avresti desiderato essere la prima a capire cos’era accaduto.»
«Tu, però, ci sei arrivato prima di me» replicò Rebecca, «E, nonostante tutto, mi sembri abbastanza impassibile.»
«Cos’avrei dovuto fare?» obiettò Anthony. «Precipitarmi a cercare Theresa come ha intenzione di fare Samuel?»
«A proposito di Samuel» volle sapere Rebecca, «Che cosa ne pensi di lui? Credi davvero che sia...» Esitò. «...coinvolto?»
Anthony sbuffò.
«Non so più niente, Rebecca! Non so né chi stia da una parte né chi stia dall’altra. So solo che, tra tutte le persone che ci sono qua dentro, Theresa non mi sembra capace di architettare tutta questa storia da sola.»
«Infatti non era da sola» puntualizzò Rebecca. «È ragionevole ipotizzare che lei fosse soltanto l’ultima pedina. Magari non sapeva nemmeno che somministrare quel sonnifero a Kay fosse letale. Dopotutto non è il genere di persona che avvelenerebbe chicchessia dietro compenso.»
«No» convenne Anthony. «Può darsi che, per qualche verso, all’inizio non volesse farlo. Eppure non ha mosso un dito per fermare chi c’era dietro, non appena tutto le è stato chiaro.»
«Tu cosa faresti?» obiettò Rebecca. «Ti lasceresti accusare di un omicidio che non avevi intenzione di commettere?»
Anthony le lanciò un’occhiata di fuoco.
«Cos’avrei fatto al posto di Theresa? Beh, io non mi sarei mai ritrovato in quella posizione. Non somministro farmaci ad altre persone a loro insaputa, io!»

Theresa ignorò ogni sguardo, mentre correva verso la propria automobile.
Non voleva soltanto allontanarsi, ma desiderava anche raggiungere l’unica persona che avrebbe potuto aiutarla.
“Dovrà farlo.”
Chi l’aveva distrutta, aveva il dovere di riportarla in vita.
Aprì la portiera, salì a bordo e la richiuse.
Non si preoccupò di allacciare la cintura di sicurezza. Tutto ciò che contava era capire come sarebbe andata a finire.
Theresa accese il motore e partì.
Si sforzò di guardare la strada, ma si rese conto di quanto fosse difficile.
“Eppure devo farcela.”
Quasi quindici chilometri la separavano dalla topaia in cui abitava sua sorella e non poteva permettersi di perdere la concentrazione.
Quel pensiero la fece sorridere.
Sua sorella non aveva fatto una fine migliore della sua. Entrambe avevano cercato di dare una svolta alla loro vita, ma non ce l’avevano fatta.
Erano due perdenti.
Erano due perdenti che uccidevano per fare la loro parte in giochi di potere da cui non avrebbero mai guadagnato nulla.
Soltanto una di loro si rendeva conto di come stessero le cose, ricordò Theresa a se stessa, per infondersi un po’ di fiducia.
«Sono io quella che capisce fino a che punto può spingersi.»
Non servì a nulla.
Era soltanto un delirio, il suo.
Sua sorella le aveva chiesto di avvelenare Kay Brooks e lei l’aveva fatto, non c’era molto da discutere.
Non aveva voluto ucciderla, ma si era scoperta soddisfatta dell’azione che aveva commesso, almeno finché quella stronza di Rebecca non aveva deciso di intromettersi.
A quel punto la vita fatta di finzione che aveva vissuto per settimane si era sgretolata tra le sue mani.
Non aveva niente in più di sua sorella.
Stava per implorare il suo aiuto, dimostrandosi ancora una volta una nullità.
Quello era il peggiore dei fallimenti.

Samuel lo capiva: Penny lo guardava con occhi critici, ormai stanca di comporre sempre lo stesso numero.
«Perché insisti?» volle sapere. «Non mi hai ancora spiegato esattamente che cosa sia successo. Perché hai bisogno di rintracciarla?»
Giustamente, Penny cercava risposte.
Samuel non poteva dargliele.
«Ho bisogno di lei perché temo che abbia fatto una cosa terribile. Io voglio...» Rifletté. Che cosa desiderava davvero? «Io voglio aiutarla.»
No, non lo desiderava affatto.
L’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stata gettarle addosso tutto il proprio disprezzo, se non fosse riuscita a dimostrargli che le accuse erano infondate.
Theresa non meritava aiuto.
Chi uccideva e si fingeva irreprensibile non meritava aiuto.
«È molto gentile da parte tua» osservò Penny. «Molti altri, al posto tuo, vorrebbero stare più lontani che possono da lei.»
Samuel non pensò nemmeno per un attimo che Penny avesse intuito qualcosa. Quella ragazza vedeva Theresa come un’avversaria; era sempre stato così e nulla sarebbe mutato, nemmeno se la verità di Rebecca fosse venuta alla luce.
Samuel rabbrividì, nel rendersi conto che, per lui, Theresa era già condannata.
Perso in quelle riflessioni, dimenticò che Penny era in attesa di una risposta.
«Mi dispiace» mormorò lei. «A volte non riesco a trattenermi dal dire quello che penso, anche quando non dovrei.»
«Non c’è niente di sbagliato» replicò Samuel, «Nel dire quello che pensi.»
Penny scosse la testa.
«Non dovrei farlo. Non quando si tratta della tua fidanzata, almeno.»
Quella definizione trafisse Samuel come una coltellata.
«No.»
Penny lo guardò con aria interrogativa.
«Non state più insieme?»
Samuel abbassò lo sguardo.
«È difficile da spiegare, Penny. Il nostro è sempre stato un rapporto complicato.»
«Me ne sono accorta. Non preoccuparti, ti capisco.»
Samuel riuscì perfino a sorridere.
«Beata te, perché non riesco a capire nemmeno io.»

Theresa ce l’aveva fatta, era arrivata. Non le restava che sperare che sua sorella fosse in casa. Era molto probabile che ci fosse, impegnata a farsi fantasie sul giorno in cui, vestita di bianco, avrebbe raggiunto l’“amato” all’altare, se mai quel momento fosse arrivato. Una volta raggiunto quel traguardo, avrebbe iniziato senz’altro a farsi fantasie sul giorno in cui il suo abito non sarebbe stato bianco ma nero e ad attenderla all’altare avrebbe trovato soltanto una bara. Theresa sapeva che sua sorella frequentava qualcuno, ma l’unica attrazione che provava nei suoi confronti era di tipo economico.
“Lei non saprò mai cos’è il vero amore. Non saprà mai come mi sento ogni volta in cui vedo Samuel.”
Theresa si irrigidì.
Non l’avrebbe visto mai più.
Non avrebbe mai più avuto niente a che fare con lui.
La vita, per lei, non avrebbe più avuto alcun senso, ma non aveva alternative.
Scese dalla macchina e richiuse violentemente la portiera, prima di dirigersi in gran fretta a destinazione.
Si attaccò al campanello e iniziò a premerlo con frenesia.
Tutto continuava a portarla al suo chiodo fisso.
Samuel, Samuel, Samuel... era come se non ci fosse mai stato nient’altro che Samuel, nella sua vita, e quella consapevolezza le faceva venire voglia di vomitare.
Doveva trattenersi.
Doveva resistere, perché non sarebbe stata sola: di lì a poco sua sorella le avrebbe aperto la porta e le avrebbe indicato la strada da seguire.
Le sfuggì una risata ricordando il momento in cui aveva fatto credere a Samuel che fosse morta. Lui non gli aveva posto ulteriori domande e, per qualche istante, si era sentita come se lo fosse stata davvero.
Le sembrava che fosse passato un secolo, da quel momento, invece erano trascorsi appena nove giorni.
Premette ancora il campanello con foga.
Aveva bisogno di una risposta.
Aveva bisogno di qualcuno, che la salvasse dal buio in cui stava precipitando.
«Chi è?» domandò una voce che, in quel momento, le diede un’immensa sicurezza.
«Sono Theresa. Aprimi, ti prego.»
Sua sorella ascoltò la sua supplica e diede il tiro.
Theresa spinse la porta e varcò la soglia.
Doveva solo salire le scale.
Di lì a poco, in un modo o nell’altro, tutto avrebbe avuto una fine.
Quando giunse sul pianerottolo, sua sorella la aspettava sullo stipite, come al solito agghindata come se avesse dovuto partecipare a una serata di gala.
«Buonasera Theresa. È un piacere vederti da queste parte.»
Parlava con quel solito tono teatrale che Theresa non aveva mai sopportato, quindi era meglio venire al dunque e farle capire che la situazione era disperata.
«Rebecca Shepard mi ha scoperta.»
«Sii più chiara» la pregò sua sorella. «Cos’è capitato?»
«È capitato che Rebecca non l’ha detto chiaro e tondo, ma mi ha fatto capire che sa che cos’ho fatto. Solo tu puoi aiutarmi.»
L’altra rise.
«Fammi indovinare. Vuoi che mi inventi una scusa che tu ripeterai a Samuel, per fargli capire che tu non avresti mai fatto del male alla sua amata?»
Theresa abbassò lo sguardo.
«Non prendermi in giro. Sai cosa intendo.»
«Sì, so cosa intendi: vuoi dire che, in un momento o in un altro, hai combinato qualche casino. Adesso vuoi che lo risolva. Entra in casa. Vedrò cosa posso fare per aiutarti.»
Theresa non trovò il coraggio di guardarla negli occhi.
«Grazie, Avah.»

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Capitolo 32
*** Ancorarsi al passato? ***


Avah non si girò a guardare Albert.
Appoggiò i gomiti al tavolo mentre gli ripeteva, ancora una volta: «È tutto a posto. Ti assicuro che va tutto bene.»
La mano di Albert le sfiorò la spalla destra.
«Stavolta è diverso.»
«No, non è diverso» obiettò Avah. «Non è stata la prima volta. Se ho resistito con il padre di Raymond...»
«Quello è stato molto tempo fa» puntualizzò Albert, «E se lo meritava, dopo quello che ti ha fatto. Stavolta...»
«Anche lei se lo meritava» replicò Avah. «Doveva fare un lavoro semplicissimo, dal quale lei stessa avrebbe tratto solo dei vantaggi...»
«Vantaggi tipo avere la coscienza sporca?»
In un’altra occasione, Avah avrebbe riso di quella battuta. Quella sera, però, non era una sera come tutte le altre.
«No, Albert, Theresa si è fatta molti meno scrupoli di quanto tu possa immaginare. Kay Brooks non le piaceva. È vero, l’idea di essere stata proprio lei a causarne la morte non le è andata giù tanto facilmente, ma ha superato ben presto lo shock, quando si è accorta che vivere senza Kay era molto meglio che vivere con Kay.»
«Non mi aspettavo che tua sorella fosse così cinica.»
«Se non lo fosse stata, non avrei permesso che fosse proprio lei ad agire in prima persona» precisò Avah. «Tu non eri d’accordo, all’inizio.»
«Effettivamente non avevo tutti i torti.»
«No.»
«Comunque, grazie al tuo rapido intervento, dovrebbe essere tutto risolto» realizzò Albert. «Forse sarebbe opportuno che tu ti allontanassi da Scarlet Bay per un po’. Magari qualcuno potrebbe arrivare a te e...»
Avah lo interruppe: «Sì, qualcuno potrebbe arrivare a me, ma cos’avrebbe contro di me? Sono la sorella di Theresa Silver, una poveretta che ha commesso un omicidio, non si sa per quale assurda ragione. Obiettivamente parlando, Theresa avrebbe potuto sapere dell’allergia della Brooks. Magari Kay non si confidava con lei su queste cose, magari non pensava nemmeno più a quel dannato farmaco... ma chi potrà dimostrarlo?»
«Sì, nessuno può dimostrarlo» ammise Albert, «Ma, stando a quanto ti ha riferito tua sorella, non hanno prove schiaccianti contro di lei.»
«Questo no.»
«È già un problema. Quei detective dilettanti potrebbero spingersi oltre, e la cosa non va affatto bene.»
Avah sospirò.
«Devi stare tranquillo, Albert.»
Lui le afferrò i capelli e diede loro una lieve ma intensa tirata.
«Phil.»
«Devi stare tranquillo, Phil» si corresse Avah. «Sei soddisfatto, adesso?»
«Sarei molto più soddisfatto se tu non ti rivolgessi a me chiamandomi Albert almeno tre o quattro volte al giorno. Se proprio non ti va giù il mio nuovo nome, perché non mi chiami tesoro o amore o con qualche altro nomignolo del genere?»
«Perché preferirei morire, piuttosto che farlo. E poi non vedo che cosa sia successo di grave. Siamo soli, Albert.»
Il telefono iniziò a squillare.
«Non lo siamo più.»
«È solo uno scocciatore» replicò Avah. «Ci vorrà poco per liberarsene.»
«È uno scocciatore che chiama alle...» Albert esitò un attimo, come se stesse controllando l’ora sull’orologio che portava al polso. «...alle undici e trentacinque di sera. Non mi sembra una cosa molto normale.»
«Non venirmi a parlare di normalità!» ribatté Avah. «Ormai non sappiamo nemmeno più che cosa sia.»
«Devo darti ragione. Ora scusami, ma vado a rispondere.»
Avah non si girò nemmeno per guardarlo uscire dalla stanza.
Lo sentì chiudere la porta, come faceva sempre, quando arrivavano telefonate a orari troppo inconsueti.
Albert aveva qualcosa da nascondere, Avah lo sapeva.
Ovviamente aveva qualcosa da nascondere, certo, ma non si trattava soltanto dell’identità rubata e dei crimini che aveva sulla coscienza, sempre ammesso che ne avesse una: c’era qualcuno che lo tormentava, e il telefono, che a volte stava muto per settimane, di tanto in tanto ricominciava a dare segni di vita.

Harriet era seduta sul bordo del letto e aspettava.
Era curioso che Albert non avesse ancora deciso di cambiare numero telefonico.
“Se fossi stata al posto suo” rifletté Harriet, “l’avrei fatto... a meno che non fossi stata terrorizzata dalle conseguenze.”
Albert era spaventato.
Albert era nelle sue mani.
Doveva essere stato lui ad assicurarsi che John si buttasse giù - in senso metaforico, perché Harriet lo conosceva abbastanza bene da sapere che non si sarebbe mai suicidato - dal cavalcavia; lui o qualcuno che gli stava intorno, come ad esempio quella donna che con lui sembrava fare coppia fissa.
Doveva essere un’arrivista come lui, per accettare di frequentare un uomo del genere.
Forse lo ricattava anche lei, minacciando di rivelare al mondo i suoi segreti, se lui non l’avesse mantenuta.
“O forse sono io che sto fantasticando troppo.”
C’erano donne senza un soldo che, in cambio di una vita agiata, erano disposte a non fare mai troppe domande e Harriet non doveva dimenticare che, per chi lo conosceva nella sua nuova identità, Albert non era altro che un uomo d’affari rispettabile, che si era sempre tenuto lontano da ogni scandalo.
Prima o poi quella commedia sarebbe finita, ma Harriet sapeva di non dovere anticipare i tempi. John aveva provato a incastrarlo, a quanto pareva dalle ricostruzioni di Suzanne, che continuava comunque a ignorare buona parte di quella storia, ma non ne era stato in grado e si era lasciato attirare in una trappola.
“Io non farò lo stesso errore.”
Harriet sapeva di dovere attendere.
In quel momento, per l’esattezza, doveva attendere che Albert le rispondesse.
L’avrebbe fatto.
Quando era in casa, lo faceva sempre.
A quell’ora non era difficile trovarlo.
Harriet avvertì un brivido di soddisfazione, nel momento in cui l’altro alzò il ricevitore.
«Sì?»
Harriet sorrise, compiaciuta.
«Albert?»
Per lui doveva essere sempre un duro colpo, sentirsi chiamare con il nome che da quindici anni stava cercando di dimenticare.
«Harriet?»
«Sì, sono io» gli assicurò lei. «Nessun altro ti chiama Albert... per ora.»
«Cosa vuoi?»
«Cerca di fare uno sforzo» gli suggerì Harriet. «Non dovrebbe essere così difficile capirlo. Quello che è successo a John...»
Albert la interruppe: «Non so di chi tu stia parlando, quindi ti prego di farmi la cortesia di essere più specifica... anzi, no: gradirei che tu mi lasciassi in pace una volta per tutte.»
«Dovresti essere più specifico anche tu: vuoi sapere o non vuoi sapere?» ribatté Harriet. «In realtà credo che tu sappia perfettamente. Parlo di mio genero, John Brooks.»
«Ho letto il nome, sui giornali.»
«Quindi sai cosa gli è successo.»
«Sì, e mi dispiace per lui. Quello che non capisco è perché tu dovresti sentirti autorizzata a chiamarmi alle undici e mezza passate per questo. Io e te non abbiamo niente da dirci nemmeno di giorno, Harriet, figuriamoci a quest’ora.»
«Invece ho molte cose da dire» insisté Harriet, «Per esempio che so per quale motivo John si è ritrovato oltre il parapetto di quel dannato cavalcavia. So che aveva una videocassetta, con sé... o meglio, che ce l’aveva prima di fare quel volo.»
«Harriet, smettila» la pregò Albert. «Non hai niente da guadagnarci, nel fare tutte queste strane allusioni.»
«Non sono strane allusioni. Tu sai perfettamente di che cosa sto parlando. Smettila di recitare una parte, con me.»
«E va bene» ammise Albert, «So di che cosa stai parlando. A maggior ragione dovresti capire benissimo anche tu che è meglio evitare certi discorsi. Hai sempre finto di non sapere ed è sempre convenuto a tutti e due. Continua a farlo e continuerai a vedere i frutti della nostra collaborazione. Lo sai, sono un uomo di parola.»
Harriet raggelò.
Albert le stava proponendo un accordo.
«Intendi darmi dei soldi?» gli domandò. «Sono questi i frutti della nostra collaborazione?»
«Mi pare evidente. Quanto ti serve per salvare quella locanda fatiscente?»
Era una proposta che la tentava.
«Lasciami riflettere. Se per te va bene, ti richiamo domani sera. Non ho ancora deciso quanto vale la vita di John.»

Albert rientrò in soggiorno imprecando, ma ancora una volta Avah non si voltò.
«Tutto bene?»
La sua voce appariva più piatta che mai. Albert era sicuro che quanto accaduto con sua sorella l’avesse traumatizzata più di quanto volesse dare a vedere.
«No, non c’è niente che va bene» replicò, afferrando la sedia alla destra di Avah e tirandola indietro. «Quella stronza...»
Finalmente la vide alzare gli occhi verso di lui.
«Di chi parli?»
Albert si sedette.
«Harriet Harrison.»
«La suocera di John Brooks?»
«Proprio lei.»
Avah sospirò.
«Perché non te ne liberi?»
«Perché...» Albert si interruppe quando si accorse di non essere in grado di darle una risposta vera e propria. «Io non...»
«Sei ancora ancorato al tuo passato, non è vero?» azzardò Avah. «Hai ancora bisogno di avere qualcuno che ti conosce come Albert Wilkerson e che non cambierà mai idea? Sapere che Harriet potrebbe incastrarti ti fa sentire bene?»
Albert scosse la testa.
«È la madre delle mie figlie.»
«Le tue figlie non ti conoscono nemmeno. O meglio, una delle due ti conosce, ma non ha la più pallida idea del fatto che tu sia suo padre.»
«Già» ammise Albert, «Ma questo non significa che le ragazze mi siano del tutto indifferenti. Harriet, a sua volta, è una parte di me.»
«È una parte di te molto più pericolosa di quanto tu possa immaginare» replicò Avah. «Io so chi sei. Se tu facessi qualcosa di veramente irritante, potrei prendere in considerazione l’idea di divulgare il tuo segreto.»
Albert rabbrividì.
«Tu mi tradiresti?»
Avah scosse la testa.
«Certo che no. Ho detto che, se tu facessi qualcosa di irritante nei miei confronti, potrei prendere in considerazione questa eventualità. Non significa che io abbia in programma di farlo. Non credo che tu sia in grado di fare qualcosa che potrebbe davvero disturbarmi. Harriet, invece, non deve essere stata molto soddisfatta della morte di quel poveretto.»
Albert ridacchiò.
«È strano che proprio tu lo descriva con quei termini.»
«Mi sono commossa per la sorte di quello sventurato» puntualizzò Avah. «Non è stato bello doverlo uccidere solo perché non era in grado di badare agli affari suoi. Se avesse distrutto quel filmato o avesse fatto finta che non fosse mai esistito, avrebbe potuto vivere molto a lungo. Immagino, però, che per Harriet sia molto difficile fare questo genere di considerazioni.»
«Tutto sommato credo di potermela cavare» obiettò Albert. «Fortunatamente per me - anzi, fortunatamente per noi, perché se io dovessi precipitare tu saresti la seconda a cadere - Harriet è facilmente influenzabile. Continuerà a considerarmi il peggiore dei criminali, su questo non ho dubbi, ma tutto sommato ha una certa ammirazione nei confronti dei criminali che le fanno ingenti versamenti. Siamo d’accordo che domani ci sentiremo di nuovo e mi comunicherà quanto vale la vita di John Brooks.»
Avah aggrottò le sopracciglia.
«Vuoi pagarla?»
«Non ho alternative.»
«Un’alternativa ci sarebbe» ribadì Avah, «Se tu non avessi deciso di vivere nell’eterna celebrazione dei vecchi tempi, quelli in cui eri Albert lo squattrinato che spargeva i propri geni in giro per le colline di Ambermount.»
«Non voglio uccidere Harriet, a meno che non mi costringa a farlo» puntualizzò Albert. «Credo che il nostro accordo sia stato ragionevole.»
«Sì, potrebbe esserlo» ammise Avah, «Ma sei davvero sicuro che sia un accordo? Se non sbaglio Harriet non ti ha ancora dato la sua conferma. A quanto pare si è presa del tempo per riflettere sul da farsi. Potrebbe essere un grave errore. Non possiamo più permetterci di sbagliare di nuovo.»
Finalmente Albert la riconosceva.
No, quanto accaduto con quella testa vuota di Theresa Silver non l’aveva rovinata completamente: Avah era sempre la solita arrivista.
“Devo stare molto attento” realizzò Albert, ancora una volta.
Non doveva mai darle l’impressione di essere lei quella che reggeva il gioco: Avah era pericolosa e anche lui avrebbe potuto pagare le conseguenze di una distrazione.

«Maledizione, vuoi deciderti a parlare?!»
Appoggiata contro al muro, Suzanne pretendeva spiegazioni che Harriet non aveva alcuna intenzione di darle.
Che cos’aveva sentito? Poco, sperava.
“A meno che non sia qui da molto tempo.”
Quella prospettiva non era del tutto improbabile. Non c’era alcuna ragione, almeno tecnicamente, per cui Suzanne avesse dovuto presentarsi alla locanda, quindi poteva averlo fatto a qualunque ora. Poteva avere udito tutta la conversazione con Albert...
“No” cercò di rassicurarsi Harriet, “Non ha sentito niente.”
Si rivolse alla figlia: «Credo che dovresti andare a casa e cercare di calmarti. Stai passando un momento terribile, Suzy, non c’è ragione per cui tu debba preoccuparti di...»
«Non ho ragione di preoccuparmi?!» Sua figlia era visibilmente sconvolta. «Credi che sia sorda? Ti stavi accordando con qualcuno sul valore della vita di John.»
«Parlavo metaforicamente» mentì Harriet.
«Ti prego, mamma, smettila di fingere! Lo so, fingevate entrambi. John sapeva chi ha ucciso la sua ex moglie. Te l’ha detto e tu fingi di non sapere. John non si è suicidato, nonostante tu abbia passato i giorni a convincermi che è andata davvero così! Ne ho abbastanza. John ha venduto quella videocassetta a qualcuno, o almeno ci ha provato...»
«No» la interruppe Harriet. «John non ha venduto niente a nessuno. Voleva soltanto liberarsene, darla al collega di Kay. Non mi ha chiesto un vero e proprio consiglio, ma deve avere avuto la sensazione che io gli stessi dando la mia approvazione. In realtà, se fosse stato per me, quella cassetta sarebbe stata distrutta. Sarebbe stata la soluzione migliore per tutti. Katherine Flint se n’è andata molto tempo fa, con il chiaro intento di dimenticarsi di tutti noi. Perché avremmo dovuto occuparci di lei?»
Quelle parole non servirono a calmare Suzanne.
«Le tue riflessioni non mi fanno né caldo né freddo! Se volevi fermare John, potevi pensarci prima!»
Harriet non replicò.
Non c’era nulla da dire.
Suzanne aveva ragione, dall’inizio alla fine.
Sua figlia proseguì: «Ormai non c’è più niente da fare. Se sai chi è stato a ucciderlo, se sai chi è stato a uccidere Kay Brooks, non puoi permettere che continui. Quanto tempo passerà prima che venga a cercare anche noi?»
Da quel punto di vista, Harriet si sentiva abbastanza sicura.
«Non accadrà, te lo posso garantire.»
Quell’osservazione non sortì l’effetto sperato.
«Vuoi dire che lo conosci?!» Suzanne la fissava, con gli occhi strabuzzati; Harriet non seppe dire se per lo stupore o se per l’orrore. «Tu conosci l’assassino di John e, di conseguenza, mi stai garantendo che non ci farà del male?!»
Harriet abbassò lo sguardo.
«Sì.»
«Eri al telefono con lui.»
«Sì.»
«E volevi dei soldi in cambio di quello che ha fatto.»
«No, io non...»
Harriet si interruppe.
Poteva davvero negare?
«Tu l’hai sempre saputo» mormorò Suzanne. «Tu hai sempre saputo tutto, fin da quando è stata assassinata Kay Brooks.»
«No» obiettò Harriet, «So da molto prima di che cosa sia stato capace quell’uomo.» Guardò la figlia negli occhi. «L’uomo che ha ucciso - o almeno, ha fatto uccidere - Kay Brooks e tuo marito... è tuo padre.»
Suzanne scosse la testa.
«Non dire cazzate, mamma! Albert Wilkerson è morto! Mi hai portato a visitare la sua tomba! Non puoi accusarlo di...»
«Posso, invece» replicò Harriet, «Perché l’uomo morto precipitato da una scarpata a bordo della propria automobile non era Albert, ma il padre di Katherine.»

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Capitolo 33
*** Un mistero ancora da risolvere ***


Quando Michelle vide Veronica Freeman che si dirigeva a passo spedito verso di lei, capì al volo: non era un buon segnale, perché generalmente la segretaria del direttore aveva un’andatura molto più elegante e controllata.
Qualunque cosa fosse accaduta, cercò di mostrarsi radiosa e sorridente come sempre.
Per quanto non si sentisse a proprio agio a Radio Scarlet, sapeva perfettamente di non essere lei, tra le due ragazze della reception, quella di cui tutti parlavano male alle spalle.
Continuò a sorridere e accolse la nuova arrivata.
«Buongiorno, signora Freeman. Ha visto che bel sole che c’è stamattina? Nemmeno un po’ di nebbia, e siamo quasi alla fine di settembre.»
Per nulla interessata al sole o alla nebbia, e in realtà nemmeno al ricambiare il saluto, la Freeman sbraitò: «Lei è una vera incompetente, Michelle!»
Era la prima volta che Veronica Freeman perdeva il controllo in sua presenza e Michelle spalancò gli occhi più per quell’atteggiamento che per l’insulto appena rivolto nei suoi confronti.
Superò comunque la meraviglia in gran fretta, dal momento che sapeva che non era opportuno perdere tempo, in quelle circostanze, né tantomeno scusarsi per un errore che non sapeva nemmeno di avere commesso.
«Non so cosa sia successo» si affrettò a puntualizzare, «Ma penso di poterle dimostrare che si sbaglia. Mi dica qual è il problema e vedrò di risolverlo.»
«Il problema è che lei ha appena passato una telefonata extraurbana al direttore in persona.»
Michelle annuì.
«Ho soltanto seguito un ordine del signor Carpenter. Mi ha pregata espressamente di passare a lui ogni telefonata.»
«Era sconvolto» puntualizzò la Freeman, «E lei non deve permettersi di passare al signor Carpenter telefonate che possano sconvolgerlo.»
«Non potevo saperlo in anticipo» obiettò Michelle. «Sono desolata per quanto sia capitato, ma la signora che mi ha chiesto di parlare con il signor Carpenter sembrava così gentile... mi ha informata che aveva bisogno di lui per una vicenda di cui il direttore desidera occuparsi personalmente. Ovviamente, se dovesse richiamare, mi informerò meglio sull’identità di...»
La segretaria di Carpenter la interruppe: «Ha già parlato abbastanza, per il momento, quindi mi faccia il piacere di stare zitta! Non so chi fosse quella donna, né cosa volesse, ma non ho mai visto il signor Carpenter impallidire così in tutti questi anni... e le assicuro che, negli ultimi dodici anni, sono sempre stata al suo fianco giorno e notte...» Veronica arrossì violentemente. «Intendevo dire, di giorno e a volte anche dopo il tramonto. Prima che vada a pensare male, le assicuro che non frequento il signor Carpenter al di fuori di questo edificio.»
«Non deve giustificarsi con me per quello che fa nella sua vita privata» le ricordò Michelle. «Per quanto riguarda quella telefonata, le chiedo scusa per l’incidente, ancora una volta. Se c’è altro che posso fare per lei...»
«L’unica cosa sensata che avrebbe potuto fare sarebbe stata non presentare mai domanda di lavoro a Radio Scarlet, ma purtroppo è troppo tardi. Le assicuro che farò il possibile per farla rimuovere da questo incarico. Non si preoccupi: so che ha bisogno di lavorare, e non la farò buttare in mezzo a una strada, ma mi sembra la persona meno adatta a lavorare a contatto con il pubblico. Magari potrei proporre al direttore di...»
Michelle non seppe mai che cosa Veronica Freeman intendesse proporgli, dal momento che il signor Carpenter in persona fece la propria comparsa alle spalle della segretaria.
«Che cosa sta succedendo, Veronica?»
«Stavo precisando alla signorina Harrison che non deve mai più permettersi di passarle telefonate minatorie.» La Freeman sembrava indignata. «Ancora non riesco a capacitarmi di come...»
«Non era una telefonata minatoria» puntualizzò Carpenter. «Si calmi, Veronica. Mi sembra che abbia travisato.»
«Forse avrò travisato sulla telefonata» ammise la segretaria, «Ma non ho travisato sul comportamento di questa incompetente! Credo che dovrebbe fare qualcosa, signor Carpenter! La metta al posto di quel Raymond-come-si-chiama, quel tizio che se n’è andato, ma la tolga dalla reception!»
«Veronica», il tono di Carpenter si fece particolarmente secco, «Questi non sono affari che la riguardano. Va tutto bene. Conosco la persona che mi ha contattato e anche quella con cui ho...» Si interruppe, dopo avere lasciato intendere che gli era stato passato qualcun altro. «Questi non sono problemi suoi, Veronica.»
Michelle trovò un attimo per riflettere su quanto la cosa fosse curiosa: a pensarci bene la donna che aveva telefonato chiedendo urgentemente di parlare con il direttore aveva una voce molto simile a quella della donna che lavorava con sua madre e sua sorella alla locanda.
Veronica Freeman mantenne la propria posizione.
«Non capisco, signor Carpenter» obiettò, aggrottando le sopracciglia. «Non dovrebbe essere tutto permesso, qui a Radio Scarlet. La signorina Harrison...»
«La signorina Harrison ha l’incarico di passare le telefonate agli effettivi destinatari ed è esattamente quello che ha fatto» tagliò corto il direttore. Si rivolse a Michelle. «Chiedo scusa per l’equivoco.»
Michelle spalancò gli occhi.
«Oh... non fa niente.» Non si sarebbe mai aspettata che il signor Carpenter prendesse le sue difese, soprattutto con una sua collaboratrice fidata. «La ringrazio.»
Il direttore addirittura le sorrise, prima di rivolgersi alla Freeman: «Venga con me, Veronica. Ci sono alcune questioni piuttosto urgenti a cui dovrei dedicarmi, ma ho bisogno del suo aiuto. Lo sa, senza di lei sono perduto.»
Michelle li guardò allontanarsi nel corridoio.
Erano appena le nove e quaranta del mattino ed era già successo qualcosa di molto sorprendente.
Guardò il calendario.
“Martedì 24 Settembre. Chissà che non sia un giorno da ricordare.”

Rebecca batteva fastidiosamente una penna sul bordo della scrivania.
«Mi sembri un po’ irrequieta» osservò Anthony. «Cosa succede?»
Lei alzò lo sguardo.
«Oh, niente» ribatté, sarcastica. «Siamo solo convinti che la nostra collaboratrice sia scomparsa e che si sia macchiata dell’omicidio di tua moglie. Mi sembra una situazione completamente normale... non trovi?»
«So benissimo che cos’è successo e so benissimo che Theresa sembra essersi volatilizzata» puntualizzò Anthony. «Ieri sera Samuel è andato a cercarla a casa sua. Ha parlato con i vicini di casa, che sostengono di non averla vista né nel tardo pomeriggio né in serata. Nessuno aveva la più pallida idea di dove trovarla. Come se non bastasse, invece, è proprio una vicina di casa di Samuel ad averla vista. Sarebbe andata da lui dopo essere venuta via da qua. Ha aspettato per un po’ davanti alla porta, poi evidentemente deve avere pensato che fosse meglio darsi alla macchia. Sono sicuro che Samuel non sarebbe stato molto soddisfatto di vederla. Anche lei deve averlo capito prima che fosse troppo tardi.»
«Parenti non ne ha, da queste parti?»
«Pare di no.»
«Eppure ho sentito parlare di una sorella...»
«È morta, o almeno così mi ha detto Samuel.»
«Secondo Michelle è viva e vegeta... o quantomeno lo era fino a poche settimane fa.»
Anthony rifletté un attimo.
«Michelle?»
«Sì, Michelle. Deve avere telefonato qua, cercando Theresa. Ovviamente Michelle non ha perso l’occasione per farsi un po’ di fatti altrui... A proposito di Michelle, è successa una cosa piuttosto curiosa.»
«Quando?»
Non che ad Anthony interessasse molto scoprire che cosa fosse accaduto alla ragazza della reception, ma non doveva dimenticarsi che quella ragazza sembrava essere la figlia minore di Harriet Harrison, la titolare della locanda presso la quale Marissa Flint aveva lavorato e in cui Albert Wilkerson aveva soggiornato poco prima della propria morte; sempre ammesso che fosse deceduto davvero lui e non quel Phil di cui nessuno sembrava avere saputo più nulla.
Rebecca guardò l’orologio.
«Più o meno mezz’ora fa Veronica Freeman è andata a lamentarsi da lei, alla reception. Pare che Michelle avesse passato a Carpenter una chiamata che alla Freeman è parsa fuori luogo. L’ha definita una telefonata minatoria, o qualcosa del genere.»
Anthony sussultò.
«Carpenter riceve telefonate minatorie qui alla radio?»
«Secondo Veronica Freeman sì, ma sappiamo entrambi che, quando tutti noi vediamo una pozzanghera, la Freeman pensa di avere visto un’inondazione.»
«Allora» obiettò Anthony, «Non c’è niente di strano in tutto quello che è successo.»
«Invece sì» replicò Rebecca. «È arrivato anche Carpenter che, mentre la Freeman sbraitava, ha preso le difese di Michelle.»
«Non vedo che cosa ci sia di strano. La Freeman ha spesso la tendenza a travisare e...»
Rebecca lo interruppe: «E va bene, la Freeman ha la tendenza a travisare, ma non credo che a Carpenter, di solito, interessino le polemiche tra la sua segretaria e le ragazze della reception. Mi sarei sorpresa molto di meno se, invece di andare dietro a Veronica come se fosse stata un cagnolino sfuggito dal guinzaglio, se ne fosse rimasto nel proprio ufficio a fare il proprio lavoro. È quello che avviene di solito. Che bisogno c’era di andare a controllare che Veronica non dicesse nulla di inopportuno a Michelle?»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
Rebecca fece un sospiro.
«Forse ti può consolare, ma non lo so nemmeno io.»
Anthony scosse la testa.
«No, non mi consola affatto. Tra l’altro stavamo parlando di Theresa.»
«Già» confermò Rebecca, «Di Theresa e di Samuel. A proposito, è sempre fuori per la questione dell’associazione dei consumatori?»
«Sì.»
«Quella di cui, almeno tecnicamente, dovrei occuparmi nella trasmissione di stasera.»
«Non preoccuparti» la rassicurò Anthony, «Dovrebbe rientrare nella tarda mattinata. Anche se siamo rimasti solo in tre, dovremmo farcela a preparare tutto, entro il tardo pomeriggio.»
Rebecca abbassò lo sguardo.
«Non è questo il problema.»
«Quale, allora? Ti stai chiedendo se anche Samuel c’entri qualcosa, con la morte di Kay? Se ti può consolare, me lo sono chiesto anch’io, e anche tante volte.»
«E a che conclusione sei arrivato?»
«Ho pensato che, se lui e Theresa fossero stati complici, lei sarebbe rimasta ad attenderlo, ieri sera. Non l’ha fatto, quindi ho ripreso a sperare che Samuel sia innocente.»
«Capisco. Quindi, se non ti preoccupa la prospettiva che anche Samuel, come Theresa, possa sparire nel nulla...» Rebecca cambiò discorso. «Veniamo a noi. Non voglio parlare dell’associazione dei consumatori, questa sera. In un momento come questo non me ne importa un accidente se, quando andiamo a comprare biscotti confezionati, li paghiamo il doppio a causa di un accordo di cartello tra i produttori.»
«È il nostro lavoro» le ricordò Anthony. «Carpenter ha insistito tanto. Occuparsi del prezzo dei biscotti confezionati, dopotutto, è più sensato che preoccuparsi di chi si portino a letto i membri della nostra classe politica.»
«Sì, certo» confermò Rebecca, «Ma credo che ci sia qualcosa che ci preme di più, in questo momento: un uomo è morto in circostanze misteriose venerdì scorso.»
Anthony strabuzzò gli occhi.
«Non mi dire che vuoi occuparti di John Brooks in trasmissione!»

Samuel ascoltò con la massima attenzione il discorso che Rebecca tenne sulle proprie intenzioni per il programma di quella sera.
In un primo momento gli era sembrato di essere all’interno di un sogno assurdo, ma si era gradualmente reso conto che ormai, dopo i sospetti nei confronti di Theresa, che sembravano corrispondere a realtà, non c’era più nulla che potesse davvero turbarlo.
«Come pensi di cavartela con Carpenter?» si limitò a chiederle. «Ti aveva assegnato certi precisi argomenti, per cui...»
Rebecca lo interruppe, alzandosi in piedi.
«Kay come faceva?» Si avvicinò alla sua scrivania. «Si limitava a non ascoltare i suggerimenti del direttore.»
«Quelli erano suggerimenti» obiettò Samuel, «E non imposizioni. Nonostante la tua grande esperienza, Carpenter sembra non fidarsi al punto tale da lasciarti carta bianca.»
«Se permetti, ne ho abbastanza di questa situazione.»
«Hai mai pensato» azzardò Samuel, «Che il direttore voglia semplicemente tutelare te e la radio? Kay si occupava di tematiche troppo pesanti e sappiamo tutti com’è andata a finire.»
«Ci stai dicendo» intervenne Anthony, «Che dovremmo assumere un atteggiamento omertoso per evitare di dovere affrontare delle grane?»
«Niente affatto.»
«Mi pare che tu abbia espresso proprio quel concetto, anche se hai usato altre parole. Questo significa che, negli anni passati al fianco di Kay, hai soltanto finto di condividere il suo punto di vista.»
Samuel alzò gli occhi al soffitto.
«Le tue accuse sono giorno dopo giorno più insensate.»
«Forse è il tuo punto di vista ad essere insensato» replicò Anthony. «Kay si impegnava per quello che faceva. Era pronta ad andarci di mezzo in prima persona, quando non poteva tirarsi indietro. Aveva deciso di dedicare tutta se stessa al caso Flint...»
Samuel lo interruppe: «Ti ricordo che Marissa era sua madre e che, con tutta probabilità, quel Phil che sembra essere stato ucciso quindici anni fa era suo padre. Ho sempre ammirato Kay, ho sempre apprezzato il suo lavoro, questo lo sai anche tu, ma adesso sto iniziando a pensare che, se non si fosse trattato di quella famiglia che sosteneva di non avere più, non si sarebbe impegnata al punto tale da farsi ammazzare!»
«Non sarebbe stata ammazzata comunque, se tu avessi tenuto sotto controllo la tua ragazza» puntualizzò Anthony. «Magari, inavvertitamente, hai informato Theresa di qualcosa di cui era meglio non metterla al corrente...»
«Adesso sarebbe colpa mia?» sbottò Samuel. «Prima di tutto Theresa non era la mia ragazza... e poi, se lei si è lasciata comprare, non vedo perché la colpa dovrebbe essere mia. Ciascuno di noi è responsabile delle proprie azioni, non certo di quelle degli altri. Vogliamo parlare di te, che hai seguito la prima sconosciuta che ti ha fatto credere di avere un legame di parentela con Marissa Flint e che hai lasciato tua moglie da sola proprio la sera in cui è stata uccisa?»
«Kay non mi avrebbe permesso di venire qui con lei» precisò Anthony, «Quindi non avrei potuto fare niente per lei nemmeno se fossi rimasto a Scarlet Bay. Non puoi dare la colpa a me, per quello che le è successo!»
«Allo stesso modo tu non puoi accusare me!»
«Avete intenzione di continuare a discutere ancora per molto?» intervenne Rebecca, sedendosi sul bordo della scrivania di Anthony. «Se volete continuare a litigare per stabilire di chi sia la colpa, potete farlo in un altro momento. Adesso dobbiamo decidere come impostare la trasmissione di oggi.»
«Mi pare che tu abbia già deciso tutto da sola» le ricordò Samuel. «Io non ne ho saputo niente fino a cinque minuti fa. Pensavo che fossimo d’accordo sull’argomento di cui...»
Rebecca non lo lasciò finire.
«Credo che, per i prossimi giorni, tu abbia abbastanza soldi per comprare una confezione di biscotti.»
«Io non compro mai i biscotti.»
«Le tue abitudini di consumatore non mi interessano. Il prezzo dei biscotti non mi interessa. La denuncia dell’associazione dei consumatori non mi interessa. John Brooks è venuto qui a Scarlet Bay per incontrare te, nel caso tu te ne sia dimenticato. Dovresti essere il primo a volere che sia fatta luce sul caso.»
«Parlarne alla radio alle diciotto e trenta di questo pomeriggio stravolge la situazione, per caso?» obiettò Samuel. «Presumo che ci sia qualcuno che si occupa delle indagini. Non è nostro compito correre dei rischi solo perché vogliamo sbattere in piazza i nostri sospetti.»
«A proposito di sospetti, che cosa ci faceva Theresa là proprio quando l’hai incontrato?»
«Mi cercava.»
«E, guarda caso, non appena lei ti ha raggiunto, lui se n’è andato. Mi viene da pensare che insieme a Theresa ci fosse qualcuno e che sia stato proprio questo qualcuno a spingere John Brooks ad andarsene, con una scusa.»
Samuel puntualizzò: «Non ti permetterò di pronunciare una simile atrocità in trasmissione! Ti ricordo che non abbiamo niente contro Theresa, se non sospetti, e che nessuno ne è al corrente, a parte noi tre e la stessa Theresa.»
«Theresa che ha pensato bene di sparire nel nulla...»
«Potrebbe esserci un’altra spiegazione» azzardò Samuel. «Mi è molto difficile credere che...»
Anthony lo interruppe: «Non me ne importa niente di che cosa ti sia difficile credere. Quella che definisci un’atrocità, non può essere che la verità. A meno che Theresa non avesse l’abitudine di seguirti ovunque tu andassi, mi sembra molto improbabile che, per puro caso, abbia deciso di avere bisogno di parlare con te proprio mentre tu eri insieme a John Brooks.»
«Sì, lo ammetto, è molto improbabile che si tratti di un caso.» Samuel se ne rendeva conto, seppure cercasse ancora di aggrapparsi alla speranza che Theresa non fosse la mela marcia che Rebecca e Anthony stavano cercando di farla apparire. «Anche l’improvvisa scomparsa di Theresa lascia molto riflettere...»
«Finalmente hai visto la luce!» ribatté Anthony. «Era ora che ti degnassi di accettare la realtà, è un passo avanti piuttosto notevole.»
«Spero che il prossimo passo avanti sia quello di accettare il mio cambio di programma per stasera» aggiunse Rebecca, «Perché non ho intenzione di tirarmi dietro e tu non puoi fare niente per farmi tornare sui miei passi.»
Samuel la guardò negli occhi.
«So accettare una sconfitta, Rebecca. Fai quello che vuoi. Il mio suggerimento è, ancora una volta, quello di andarci cauta.» Si alzò in piedi. «Spero che mi perdonerai, ma sento la necessità di andare a fumare una sigaretta. Tra cinque minuti sono qui.»
Rebecca lo guardò con aria di approvazione, come se non vedesse l’ora di rimanere a tu per tu con Anthony.
«Vai pure.»
Samuel si diresse verso la porta.

Rebecca attese qualche istante.
«Dovrebbe essersene andato» mormorò, a bassa voce, a quel punto. «Che cosa ne pensi?»
«Rimango dello stesso parere: parlare di John Brooks potrebbe essere rischioso, ma tutto dipende dal modo in cui pensi di farlo.»
«Te l’ho già spiegato: non inizierò mettendo in dubbio che si tratti di un suicidio. Quell’ipotesi sarà formulata soltanto in un secondo momento. Comunque non era a questo che mi riferivo.» Fissò Anthony rimanendo in silenzio per qualche istante, prima di domandargli: «Che cosa ne pensi di Samuel?»
«Penso che, pur di non correre rischi in prima persona, sarebbe disposto a negare che Kay sia stata ammazzata!»
«Non essere così drastico» gli suggerì Rebecca. «Sono sicura che, nonostante facesse di tutto per starle lontano, in fondo tenesse a Theresa molto di più di quanto abbia mai dato a vedere.»
«Non c’è niente a cui Samuel tenga, se non alla propria sicurezza.»
Rebecca sorrise.
«Teneva anche a tua moglie.»
Anthony sbuffò.
«Non capisco dove tu voglia arrivare.»
«Da nessuna parte.»
«E allora smettila di fare allusioni» la pregò Anthony. «È vero, non ho mai conosciuto Kay fino in fondo, ma sono sicuro che, se avesse voluto stare insieme a Samuel, non avrebbe sposato me. Sai, non era nel suo stile.»
«Non parlavo di Kay, ma soltanto di Samuel» puntualizzò Rebecca. «Mi sembravi del parere che Samuel si fosse reso conto di non avere speranze con lei.»
«Infatti Samuel non aveva speranze, con Kay, e l’ha sempre saputo, fin dal giorno in cui l’ha conosciuta.»
Rebecca obiettò: «Non puoi dirlo per certo.»
«Sì che posso dirlo» ribatté Anthony. «Sapevo che Samuel era interessato a Kay e ho fatto in modo che facesse una figura di merda davanti a lei, a suo tempo. Se mai Kay avesse ricambiato il proprio interesse, l’ha perso in quel momento stesso. Di conseguenza, devo fare un passo indietro: il fatto di essere senza speranze con lei, difficilmente sarebbe stato sufficiente, dopo dodici anni, per convincere Samuel a prendere parte a un piano attuato al fine di sbarazzarsi di lei.»
«Giusta osservazione» approvò Rebecca. «Quindi i casi sono due: o Samuel è totalmente estraneo ai fatti, o ha collaborato all’omicidio di Kay per qualche altra ragione. Spetta a noi due scoprire quale.»
Anthony aggrottò la fronte.
«Dai per scontato che sia colpevole?»
«Stava insieme a Theresa. Se lei è un’assassina, lui non deve essere tanto diverso.»
«Tu stavi insieme a Raymond, invece» le ricordò Amthony. «Per caso anche tu sei una scassinatrice?»
Rebecca scosse la testa.
«Stavo con Raymond solo perché ho un debole per gli uomini sexy.»
«Quindi Raymond sarebbe sexy?»
«Per certi versi...»
Rebecca non era felice di parlare di Raymond, ma era meglio focalizzare l’attenzione di Anthony su un argomento che non fosse l’ipotetica colpevolezza di Samuel.
Rebecca non lo riteneva capace di uccidere, ma dentro di sé aveva avvertito il bisogno di depistare Anthony.
Era convinta di avere avuto un’intuizione e non intendeva permettergli di venire a conoscenza dei propri sospetti.
Sarebbe stata lei stessa a risolvere il mistero che si nascondeva dietro la morte di Marissa Flint e dietro a quella di Kay.
“La Brooks sarebbe fiera di me, se ci riuscissi... e non sarebbe la sola.”

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Capitolo 34
*** Produttori di biscotti ***


Harriet scelse un parcheggio non troppo lontano da Radio Scarlet. La sensazione di vicinanza la faceva sentire bene.
Abbandonò l’automobile e si diresse verso il primo telefono pubblico che capitò all’interno del suo campo visivo.
Inserì i gettoni e compose il numero della figlia.
Suzanne rispose al secondo squillo.
«Chi parla?»
«Suzy, sono io.»
Seguì un istante di silenzio, poi finalmente Suzanne le domandò: «Dove sei, mamma? Sento uno strano brusio...»
«Sono in una cabina telefonica accanto alla strada» le spiegò Harriet, «A Scarlet Bay. Ti avevo detto che sarei venuta.»
«Me l’avevi detto, ma non pensavo che arrivassi a farlo sul serio.» Come al solito, Suzaanne iniziò a esprimere tutta la propria preoccupazione. «Non so che cosa tu ti sia messa in testa, ma sappi che non approvo affatto.»
«Pensavo che non volessi rischiare così tanto, per incastrarlo.»
Harriet sospirò.
«Io, invece, credevo che approvassi le mie intenzioni. Rifletti, Suzy: abbiamo sentito entrambe, ieri, la trasmissione di Rebecca Shepard...»
«Abbiamo sentito» la interruppe Suzanne, «E sai benissimo come la penso. Rebecca Shepard sarebbe in grado di dare la colpa della morte di John agli alieni, se solo servisse all’incremento dell’audience.»
«Ci sono argomenti tabù, a Radio Scarlet» puntualizzò Harriet. «Hanno mai fatto una sola puntata a proposito della morte di Kay Brooks?»
«Quella si è suicidata, almeno ufficialmente.»
«Anche John.»
«Sai cosa intendo.»
«No, Suzy, non so affatto cosa intendi. Sei stata tu la prima a farmi capire che non potevamo stare a guardare, dopo la morte di John, e che nessuna cifra poteva ripagarci. Hai per caso cambiato idea, nel corso della notte?»
«N-No.»
Suzanne le parve esitante.
Forse si era convinta.
Forse aveva capito che talvolta il denaro veniva prima del senso di giustizia.
Vedere l’assassino di John dietro le sbarre poteva essere allettante, ma era molto più allettante la possibilità di saldare i debiti e di potergli spillare altri soldi in futuro.
Per fortuna Rebecca Shepard non sarebbe mai arrivata in fondo al mistero che aleggiava intorno ai delitti.
“Tra l’altro il direttore non sarà stato molto soddisfatto di quelle allusioni.”

La porta dell’ufficio di Carpenter era aperta, quindi Rebecca accennò a entrare.
«È permesso?»
«Venga» la esortò il direttore in persona, mentre l’immancabile Veronica Freeman alzava gli occhi, fino a quel momento puntati sulla propria scrivania.
Rebecca sorrise.
«La signora Freeman mi ha appena comunicato che voleva vedermi.»
«Lo so.» Carpenter le indicò la sedia collocata di fronte alla propria scrivania. «Si sieda. Dobbiamo occuparci di una questione piuttosto importante.»
Rebecca si accomodò.
«Mi dica.»
«Si tratta del servizio sull’associazione dei consumatori.» Carpenter la guardò fisso negli occhi. «Come mai i programmi sono cambiati?»
Rebecca gli assicurò: «Ci occuperemo dell’associazione dei consumatori e del prezzo dei biscotti confezionati oggi stesso.»
«Dovrebbe bastarmi?»
«Suppongo di sì, dato che nessuno di noi ha la possibilità di tornare indietro nel tempo.»
«Ha detto bene, Rebecca» confermò Carpenter, «Nessuno di noi ha la possibilità di tornare indietro nel tempo... purtroppo. Quello che ha commesso ieri sera, con l’aiuto di Hunter e Jeffrey, è stato un errore madornale.»
«Mi è stato comunicato» puntualizzò Rebecca, «Che abbiamo fatto una percentuale di ascolti molto alta. Sbaglio?»
«No, non sbaglia, ma avevamo un accordo: spettava a me la decisione finale sulle tematiche da trattare. Non mi risulta di essere stato consultato.» Si girò per un attimo verso la segretaria. «Veronica, per caso le risulta che Rebecca o uno dei suoi collaboratori mi abbiano cercato, ieri, per chiedermi di stravolgere i programmi?»
«No» borbottò la Freeman, «Ma ormai non mi stupisco più di nulla. Quell’incompetente di Michelle deve avere contagiato tutto lo staff, ormai.»
Rebecca avvertì un lieve brivido.
«Michelle?»
«Lasci perdere, non è niente di importante» le assicurò Carpenter. «È capitato un piccolo incidente, ieri...»
«Lo so. Ero presente. Non mi è chiaro cosa sia accaduto esattamente...»
«Niente di importante» la interruppe Carpenter. «Tra l’altro considero la signorina Harrison una ragazza piuttosto valida. Tra l’altro, Rebecca, forse riesco a capire. Ieri è capitato quel casino per via della pressione a cui siete sottoposti adesso, dopo essere rimasti soltanto in tre. A questo proposito, credo che Michelle Harrison abbia le competenze necessarie per prendere il posto della signorina Silver, nel prossimo futuro.»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Theresa Silver ha lasciato definitivamente la radio?!»
«Già» intervenne Veronica, «Non mi risulta che siano arrivate comunicazioni ufficiali.»
Passò qualche istante, prima che Carpenter rispondesse: «Sono abbastanza sicuro, quando dico che la signorina Silver non tornerà più.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia.
«Posso chiederle come mai ne sia così convinto?»
«Non posso divulgare informazioni private relative ai miei dipendenti. Credo che possa capire, Rebecca...»
«Capisco, capisco» si affrettò ad assicurargli lei. «Soltanto una cosa non mi è chiara: come mai Michelle, che ha sempre lavorato alla reception, prenderà il suo posto?»
«Perché è una ragazza competente. E poi non accadrà subito. Diciamo tra un paio di settimane, se Michelle Harrison accetterà.»
Rebecca annuì.
«Come vuole.»
Fece per alzarsi, ma Carpenter la trattenne.
«Non ho ancora finito, a proposito di quel dannato John Brooks.»
Rebecca tornò ad appoggiarsi alla sedia.
«Mi dica.» Sospirò. «Possiamo fare in fretta, se le assicuro che non capiterà più?» Sorrise. «Sa, siamo rimasti solo in tre: siamo sempre di corsa, in questi giorni.»
Anche Carpenter sorrise.
«Volevo assicurarle che non c’è niente di sbagliato nel parlare di un uomo che ha deciso di suicidarsi e di fare ipotesi su versioni che contrastano con quella ufficiale. Solo, quell’uomo ha il cognome sbagliato. Qualcuno potrebbe arrivare a ipotizzare che si tratti di un parente della povera Kay... o magari a pensare che stiamo utilizzando il suo nome per farci pubblicità.»
«Ha ragione. Posso andare?»
«Sì, certo.»
Rebecca si alzò, voltò le spalle al direttore e alla sua segretaria e si diresse verso la porta. Era ormai arrivata alla soglia quando Carpenter la trattenne.
«Posso farle una domanda che non ha nulla a che vedere con il lavoro?»
Rebecca si voltò lentamente.
«Suppongo di sì.»
«Ieri ho sentito Michelle Harrison e Penelope Altman che parlavano di un evento a cui hanno intenzione di partecipare, stasera.»
«Una festa in un pub a pochi isolati da qui» confermò Rebecca. «Perché lo vuole sapere?»
«Ci andrà anche lei?»
Rebecca scosse la testa.
«Non mi piacciono le feste.»
«Peccato. Le avrebbe fatto bene svagarsi un po’. Avrebbe potuto portare con sé anche Hunter e Jeffrey. Siete tutti un po’ troppo tesi, ultimamente.»
«Sì, siamo tutti un po’ troppo tesi, ultimamente, ma mi sembra comprensibile» obiettò Rebecca, «Visto tutto quello che è successo nelle ultime settimane. Comunque, se la può consolare, credo che Samuel abbia già ricevuto un invito ufficiale a partecipare.»
Veronica Freeman intervenne: «Da Penelope?»
Rebecca si girò a guardarla.
«Sì, da Penelope.»
«Lo sapevo. Evidentemente ha fatto in fretta a dimenticarsi di Theresa.»
«Può darsi che non valesse la pena di ricordarla.» Rebecca tornò a focalizzare il proprio sguardo sul direttore. «Ora vado, signor Carpenter, se non le dispiace.»
«Vada, vada... E, mi raccomando, stasera dedichi lo spazio dovuto al cartello dei produttori di biscotti.»
«Certo» convenne Rebecca. «Un argomento così fondamentale alla sopravvivenza del genere umano merita il suo dovuto approfondimento.»
«Naturalmente.»
Rebecca fece per allontanarsi, ma si fermò all’improvviso. Era una manovra studiata ad arte, ma era sicura che il direttore non se ne fosse accorto.
«Perché non va anche lei alla festa, signor Carpenter?»
Lui sogghignò.
«Forse non si rende conto dell’età che ho.»
«La sua fidanzata sarebbe felice di partecipare, secondo me. A proposito, è da molto tempo che non abbiamo sue notizie.»
«Non ho l’abitudine di parlare della mia vita privata» le ricordò Carpenter. «A meno che qualcuno non l’abbia fatto al posto mio...»
Il suo sguardo cadde su Veronica, che avvampò.
«Certo che no, signor Carpenter. Non mi azzarderei mai a intromettermi negli affari della sua vita privata.»
Il direttore scoppiò a ridere.
«Vuole dire che io sono l’unico privilegiato?»
Veronica Freeman arrossì ancora di più.
«Io non...»
Le risate di Carpenter non cessarono.
«Non si preoccupi, Veronica» la rassicurò. «Non c’è niente di male nell’interessarsi a tutto ciò che ci circonda. Si chiama interesse per gli altri.» Si girò verso Rebecca. «Per tornare alla sua domanda, preferisco incontrare la mia fidanzata a casa mia, o comunque in luoghi più riservati. Che cosa le fa pensare che io sia un tipo da feste?»
«Niente, in realtà. Soltanto, mi è giunta voce che la sua fidanzata sia una donna molto giovane. Alle donne giovani, di solito, piace uscire...»
«La mia fidanzata» tagliò corto Carpenter, «Non è esattamente una ventenne, qualunque voce le sia giunta alle orecchie. Ha solo tredici anni meno di me che, a occhio e croce, la rendono di almeno un decennio più vecchia di lei, Rebecca.»
«Oh... mi era parso di capire che fosse più giovane. Devo avere capito male.» Lanciò un’occhiata interrogativa a Veronica Freeman. «Forse è la sorella di quella donna, che è più giovane? Non ricordo bene...»
«La... sorella?!» Il direttore spalancò gli occhi. «Che cosa le fa pensare che la mia fidanzata avesse una sorella?»
Rebecca ripeté: «Avesse?» Carpenter aveva parlato al passato e riteneva fondamentale farglielo notare, prima di avviarsi finalmente verso la porta. «Mi scusi per l’intrusione. Sarà l’ambiente: ormai sto diventando una pettegola anch’io!»

Samuel notò Rebecca, in fondo al corridoio. Si stava dirigendo proprio verso di lui, probabilmente pronta a rientrare in ufficio.
Le andò incontro.
«Com’è andata?»
«Bene, tutto sommato.» Rebecca sorrise. «Ne ho approfittato per mostrare alla Freeman che anch’io ho la lingua lunga.»
Samuel aggrottò le sopracciglia.
«Pensavo che il direttore volesse parlarti della puntata di ieri.»
Rebecca ridacchiò.
«Dì la verità, ti aspettavi che avesse deciso di licenziarmi in tronco, dopo che ho deciso di contravvenire ai suoi ordini?»
«Non mi aspettavo che fosse così estremo» ammise Samuel, «Ma ero convinto che non te la saresti cavata rimanendo su a spettegolare insieme alla sua segretaria. Credo che ti sia andata davvero di lusso.»
Rebecca sbuffò.
«Basta con queste leggende metropolitane. P.A. Carpenter non è fesso quanto lo descrivi. Sa che sono la stella più brillante di Radio Scarlet, se capisci cosa voglio dire. Sono una miniera d’oro, per lui. È giusto che anch’io abbia voce in capitolo.»
«Grazie per avermi spiegato con le tue parole che cosa sia il potere contrattuale, ma non era necessario. P.A. Carpenter, hai detto?»
«È il modo in cui si firma.»
«Non vedo che importanza abbia.»
«Nemmeno io.» Rebecca gli mostrò un altro dei suoi radiosi sorrisi. «Mi ha comunicato in anteprima una novità di cui credo che non avesse ancora discusso nemmeno con Veronica, dato che ha definito Michelle un’incompetente poco prima che lui dicesse l’esatto contrario. Vuole metterla al posto di Theresa.»
Samuel spalancò gli occhi.
«Michelle?! Al posto di Theresa?!»
«Perché?» obiettò Rebecca. «Preferivi Penny?» Rise. «No, non preoccuparti, non sono ancora arrivata a questi livelli. Naturalmente la Freeman ha accennato anche a una vostra ipotetica liaison...»
«Chissà perché, non avevo dubbi. Tornando a noi, per caso Theresa ha comunicato a Carpenter di essere intenzionata a lasciare il lavoro?»
«Non ho ben capito. Anzi, in realtà, Carpenter non è stato molto specifico in proposito. Si è appellato alla privacy.»
Samuel non riuscì a trattenere una risatina.
«Per caso, quando ha citato quel concetto, la Freeman è caduta giù dalle nuvole chiedendo di che cosa si trattasse?»
«No.»
«Per fortuna. Se l’avesse fatto, non essere stato presente sarebbe stato il peggiore dei miei rimpianti.»
«A parte quello» azzardò Rebecca, «Di non esserti mai portato a letto Kay Brooks?»
Samuel sussultò.
Voleva replicare, ma si rese conto di essere troppo spiazzato.
«Sì, è vero, ho la lingua piuttosto lunga, oggi» ammise Rebecca. «Sarà la conseguenza diretta di essermi allenata con Carpenter, parlandogli della sua fidanzata.»
«Perché dovresti averlo fatto?»
«Riflessioni mie. Quella donna ha tredici anni meno di Carpenter. Lui ne compirà cinquantacinque il prossimo febbraio, quindi lei dovrebbe averne ancora quarantuno.»
«Tutto questo» precisò Samuel, «Non è minimamente di mio interesse.»
«Nemmeno se ti dicessi che ha una sorella più giovane e che è morta?»
«Se stai ipotizzando che Carpenter sia fidanzato con la sorella maggiore di Kay, ti assicuro che Kay era figlia unica. Non mi risulta che Marissa Flint avesse altre figlie.»
«Appunto» confermò Rebecca. «Non ho mai ipotizzato che Kay e la fidanzata di Carpenter fossero sorelle.»
«Allora dove vuoi arrivare?»
«Da nessuna parte.»
Rebecca mentiva, era evidente, ma Samuel preferì non farle notare di averla smascherata.
«Tornando al presunto omicidio di John Brooks, ti ha detto altro?»
Rebecca scosse la testa.
«No, se non che sono libera di fare le mie congetture a proposito del suicidio di chiunque, fintanto che l’audience incrementa. Solo, sarebbe meglio evitare di parlare proprio di Brooks, per via del suo cognome. Sai, la reputazione è fondamentale. Non dobbiamo dare l’impressione di voler sfruttare la morte di un omonimo di Kay per farci pubblicità... Insomma, ha parlato un po’ di questo lato della questione, ma non sembrava particolarmente preoccupato.»
«Perché avrebbe dovuto esserlo?»
«Già, perché avrebbe dovuto esserlo? Dopotutto gli ho assicurato che stasera ci occuperemo di quei dannati produttori di biscotti confezionati, che stanno rovinando l’economia della nazione.» Rebecca ridacchiò. «È un argomento molto interessante, no? Che cosa vuoi che sia, essere buttato giù da un cavalcavia? Ci sono cose ben peggiori, nella vita. Pagare una scatola di biscotti il doppio di quello che sarebbe il suo vero valore di mercato, per esempio...»
«Mi sembri più sarcastica del solito, oggi» osservò Samuel. «Che cosa ti è successo?»
«Niente. Credo soltanto che la mia vita sia molto vicina a un punto di svolta.»
«Per caso Raymond è sbucato fuori dal nulla chiedendoti di sposarlo?»
Rebecca si prese la testa tra le mani.
«Per cortesia, Samuel! Sono stata sposata una volta ed è stato un vero fallimento, nonostante il mio ex marito, in confronto a Raymond, fosse una persona rispettabile. Non penserai davvero che voglia unirmi in matrimonio a un delinquente!»
«A proposito, ci sono novità su di lui?»
Rebecca scosse la testa.
«No, e nemmeno mi interessano. Quando sarò ricca e famosa, sarò ben lieta di averlo il più lontano possibile da me.»
Samuel le ricordò: «Sei già ricca e famosa.»
Rebecca annuì.
«Sì, ma presto sarò ancora più famosa. Sto per arrivare in fondo a una questione alquanto intrigante...»
«Non mi dire che hai scoperto chi è il vero responsabile dello scandalo dei biscotti.»
«Suvvia, Samuel, non penserai davvero che la mia vita ruoti intorno ai biscotti!» Gli strizzò un occhio. «C’è molto di più... davvero molto di più.»

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Capitolo 35
*** Avah e Samuel ***


La musica ad alto volume era snervante, per Avah che prediligeva il silenzio, ma sarebbe riuscita a resistere. Era necessario, così come era stato necessario la sera in cui aveva seguito Kay Brooks, suo marito e il loro collaboratore in una discoteca in cui Theresa si era rifiutata di entrare.
“Tanto, che bisogno aveva?” si domandò, seduta nell’angolo più buio del locale. “Kay era insieme al marito, era sicura che Samuel non si mettesse in testa strane idee.”
Avah si sforzò di dimenticarsi Theresa.
Non era mai esistita.
Non era mai stata abbastanza importante per guadagnarsi il diritto a un’esistenza, seppure modesta.
Theresa era stata una nullità, nessuno avrebbe pianto per la sua morte.
Non che Avah avesse bisogno di convincersene: non provava alcun rimorso per ciò che le aveva fatto. Le aveva affidato un compito semplice e non si poteva negare che fosse stata in grado di portarlo a termine, ma a che prezzo? Si era fatta smascherare da nientemeno che Rebecca Shepard, una che pensava soltanto alla carriera e al successo, che dalla morte di Kay Brooks ci aveva soltanto guadagnato.
Theresa meritava di morire e, quando era arrivato il momento, non aveva nemmeno tentato di sottrarsi alla morte. Aveva lasciato che il sacchetto di plastica la soffocasse quasi senza dimenarsi. Avah ne era sicura, nessuno aveva udito nulla. Su quale destino avesse avuto il cadavere, Albert aveva pensato a tutto e le aveva assicurato che non c’era niente di cui preoccuparsi. Avah gli credeva.
“Che sia perché non ho alternative?”
Quei pensieri non le piacevano.
Doveva smetterla.
Doveva concentrarsi su quella serata, perché Samuel Jeffrey doveva essere tenuto sotto controllo e non voleva rischiare un flop.
Lanciò un’occhiata di intesa ai due ragazzi che, venti minuti prima, guardandola avvicinarsi l’avevano fissata con occhi sognanti, probabilmente domandandosi se almeno uno di loro due avesse qualche chance di portarsela a letto.
Avah non riusciva a comprendere tutto quell’interesse per il sesso. Non negava che, in certe occasioni, potesse essere addirittura piacevole, ma che cos’era un orgasmo, se paragonato al denaro e al potere che esso conferiva alle persone?
Quei due, si vedeva perfettamente, erano due squattrinati.
Avah si era seduta al loro tavolo e li aveva guardati qualche istante, prima di domandare: «Sareste disposti a farmi un piccolo favore?»
Aveva scandito bene le parole, per evitare che sorgessero equivoci.
I due, che dovevano avere vent’anni o poco più, le erano sembrati quasi sconcertati.
«Qualunque cosa» aveva risposto uno dei due.
«Naturalmente» aveva assicurato Avah, «Non vi chiedo di farlo gratis.»
Ne era certa, i due avevano sperato, almeno per un attimo, in un altro tipo di compenso, ma non avevano disdegnato nemmeno le banconote.
«Di che cosa si tratta?» aveva domandato l’altro. «Quello che dobbiamo fare non ci metterà nei guai, vero?»
«Suppongo di no, a meno che quelle due non siano particolarmente suscettibili e non detestino a priori chiunque si avvicini a loro.» Aveva indicato due donne dall’aspetto nella media, ma che comunque non avrebbero sfigurato particolarmente, nel confronto con i due ragazzi. «Se non vado errata, quella bruna si chiama Michelle e quella bionda Penelope. Voi, però, ovviamente dovete fingere di non saperlo.»
«Che cosa dovremmo fare?» aveva preteso di sapere il ragazzo più apprensivo. «Niente di pericoloso, spero.»
«Oh, no, niente di pericoloso» aveva confermato Avah. «Dovrete intrattenerle. Sedetevi al loro tavolo e focalizzate la loro attenzione, se possibile per tutta la serata. Devo trascorrere questa serata insieme a un uomo che conoscono. Loro non devono accorgersi né di lui né di me.»
«E dopo? Dobbiamo trovare un modo per portarcele a letto?»
Avah aveva sorriso.
«Se loro sono d’accordo, perché no? In ogni caso, questo non mi riguarda. Fate quello che volete. L’importante, per me, è non averle tra i piedi. Al mio segnale, quindi, andate da loro e, mi raccomando, comportatevi in modo impeccabile. Non solo le due ragazze non devono notare me e il mio amico», Avah aveva dovuto sforzarsi per definire Samuel Jeffrey in quei termini, «Ma è fondamentale che anche il mio amico non faccia caso a quelle due.»
I due si erano dichiarati d’accordo. Anzi, si erano sorpresi di quanto fosse semplice ciò che lei chiedeva loro, in cambio di quella che appariva ai loro occhi come una cifra del tutto apprezzabile.
Avah li vide avvicinarsi a Michelle Harrison e a Penelope Altman.
Era fatta.
Doveva solo attendere Samuel.

La donna di Albert si chiamava Avah Silver. Era facile raccogliere informazioni, si disse Harriet. Nel suo caso era bastato leggere la targhetta sul campanello.
Avah era una bellissima donna, Albert aveva davvero buon gusto.
Era bellissima e doveva essere pronta a tutto, proprio come lui.
L’aveva aiutato.
Lo stava aiutando tuttora.
“Adesso, però, dovrà vedersela con me.”
Harriet sapeva dove si trovava Avah. Era a una festa in un locale, come tutte le persone che di tanto in tanto avvertivano il bisogno di svagarsi, distogliendo la mente da quello che davvero contava. Aveva in mente qualcos’altro, ne era certa, ed era meglio così: se non altro sarebbe rimasta fuori casa più a lungo.
Dopotutto doveva sentirsi al sicuro, se non si era resa conto di essere stata pedinata per gran parte della giornata; almeno per le ore che non erano servite a Harriet per premunirsi nel caso fosse riuscita a recuperare ciò che le premeva.
Sperava che quella donna - doveva essere stata lei ad attirare John in trappola, approfittando del fatto che si trattava di un uomo e che, in quanto tale, soffriva delle debolezze comuni a tutti gli uomini - avesse conservato ciò che Harriet stava cercando.
Suzanne le aveva descritto, più di una volta, per filo e per segno, il contenuto della videocassetta.
Avrebbe rovinato la reputazione a Marissa, ma non le importava.
In quel filmato c’era una prova inconfutabile: il volto di Albert, quello che nessuno sembrava ricordare, quello che nessuno sembrava avere mai immortalato in una fotografia.
Forse non era nemmeno necessario rovinare la reputazione a Marissa: doveva duplicarlo, produrne molte copie e metterle al sicuro. Finché ne avesse avute a disposizione, avrebbe potuto continuare a spillare denaro ad Albert.
Suzanne avrebbe disapprovato, in un primo momento, poi si sarebbe resa conto che il denaro era molto più importante, rispetto a un assassino assicurato alla giustizia.
Erano loro ad avere il coltello dalla parte del manico.
Erano loro e Harriet non intendeva perdere quell’occasione.
“Sperando sempre che Avah Silver non abbia distrutto la cassetta e che non l’abbia consegnata ad Albert.”
Dato che quest’ultimo abitava in una residenza signorile e non certo in un appartamentino tutt’altro che protetto da una porta che sarebbe stato facilissimo sfondare. Non che Harriet intendesse farlo: per aprire quelle porte bastava forzare la serratura con una scheda telefonica, che avrebbe fatto lo stesso effetto di una chiave e non avrebbe lasciato alcun segno di effrazione, quindi non sarebbe stato necessario commettere azioni avventate. In ogni caso quell’appartamento era accessibile, mentre non lo era la casa di Albert. Costituendo la sua unica speranza, non intendeva rinunciarvi a priori.
“Preparati, Albert, perché tra poco potrebbe iniziare la tua fine... sempre ammesso che non sia già iniziata.”

Quei due ragazzi erano di una noia mortale. Non facevano altro che parlare di feste e di locali, cosa che Penny non sopportava; forse perché Jamie era arrivato troppo presto, impedendole di vivere a pieno la propria giovinezza.
Non le importava, perché era proprio Jamie a dare un senso alla sua esistenza, ma era comunque irritante.
Purtroppo Michelle sembrava a loro agio, con quei due, quindi avrebbe dovuto sorbirseli almeno fino all’arrivo di Samuel.
“Sempre ammesso che arrivi.”
Uno dei due si rivolse a lei, distogliendola da quel pensiero.
«Tu di che cosa ti occupi?»
Penny sospirò.
Era sicura di avergli spiegato, non più di cinque minuti prima, che lei e Michelle facevano lo stesso lavoro.
«Fa quello che faccio io» intervenne la sua collega, risparmiandole la necessità di fornire una risposta al suo interlocutore e guadagnandosi da parte di Penny un’occhiata carica di gratitudine. «Lavoriamo alla reception, io di mattina e lei di pomeriggio, di solito.»
Penny si accorse che quel ragazzo non la stava nemmeno ascoltando, tanto era impegnato a guardarle dentro la scollatura.
Portò gli occhi sull’orologio.
Erano le dieci meno cinque.
“Dove diamine si è cacciato Samuel?”

L’appartamento di Avah Silver era piccolo.
“Più di quanto mi aspettassi.”
Harriet avrebbe potuto comodamente perquisirlo da cima a fondo, ma non le interessava.
Chiunque fosse Avah Silver, non avrebbe intaccato i suoi segreti, fintanto che non fossero diventati tutt’uno con quelli di Albert.
“A proposito, lui potrebbe offrirle una sistemazione più decente, con tutti i soldi che ha.”
Era curioso che Avah non si indignasse.
O magari lo faceva.
Oppure quella sistemazione era solo di facciata.
“Albert ci ha sempre tenuto molto alle apparenze, anche una volta, figuriamoci ora che è un uomo rispettato e stimato da tutti.”
Harriet sorrise, fantasticando sul giorno in cui avrebbe perso il rispetto e la stima.
Purtroppo sarebbe trascorso molto tempo, prima di quel momento.
Era necessario.
Harriet voleva impossessarsi di una larga parte del suo patrimonio, per tutelare sua figlia e la locanda, sempre ammesso che non decidessero di chiuderla, prima o poi, prospettiva che iniziava ad allettarla.
Non l’avrebbe denunciato, se non fosse stata messa alle strette, ormai ne era sicura.
Doveva trovare la videocassetta.
Doveva trovare la videocassetta.
Doveva trovare...
Harriet spalancò gli occhi.
Suzanne gliel’aveva descritta perfettamente, le aveva parlato perfino del tratto di penna con cui sull’etichetta John aveva scritto, molti anni prima, “Ambermount e dintorni”.
Era appoggiata sullo stesso ripiano del videoregistratore.
Harriet sorrise, più compiaciuta di quanto fosse mai stata in cinquantacinque anni di vita.

Samuel Jeffrey era inconfondibile. Era uno di quegli uomini impeccabili sul lavoro che riteneva opportuno apparire impeccabile anche nel tempo libero.
Non c’era da sorprendersi che Theresa fosse stata innamorata persa di lui.
Anche ad Avah sarebbe potuto piacere, se non avesse scelto, molti anni prima, di dedicare tutta la propria vita a una giusta causa: il raggiungimento degli obiettivi che alla maggior parte delle altre donne, e in realtà anche a moltissimi uomini, apparivano non solo irrealizzabili, ma anche totalmente estranei al loro modo di vivere.
Alzandosi in piedi, Avah controllò che l’abito leopardato che indossava cadesse perfettamente sul suo corpo.
Era impeccabile, si rese conto; era impeccabile tanto quanto Samuel, anche se erano molto diversi l’una dall’altra.
Gli andò incontro.
Samuel non si accorse di lei nemmeno quando fu a un paio di metri di distanza.
Avah non sapeva se esserne compiaciuta o disturbata.
Sapeva di essere una donna appariscente: spesso si ritrovava addosso gli sguardi degli uomini. A lungo andare, però, si era resa conto che talvolta passare inosservata era molto più proficuo.
Sarebbe servito poco, comunque, per far sì che Samuel notasse la sua presenza.
Avah si avvicinò ancora.
«Samuel Jeffrey?» domandò.
Lui spalancò gli occhi per un attimo.
L’aveva riconosciuta?
No, era impossibile.
Soltanto una volta l’aveva vista in compagnia di Albert, ed era stato molto tempo prima.
“In ogni caso è meglio che stia attenta. Potrebbe fare collegamenti che è meglio evitare.”
«Samuel Jeffrey» confermò lui. «Ci conosciamo?»

Avah scosse la testa.
«Ti ho sentito - se mi permetti di darti del tu - alla radio, qualche volta. Mi piace la tua voce.»
«Questo, però» replicò Samuel, «Non spiega come mai tu conosca il mio aspetto.»
«Effettivamente hai ragione» convenne Avah. Per fortuna era molto semplice inventare una scusa. «Un mio amico, che conosce la mia passione per il programma in cui intervieni in certe occasioni, mi ha fatto notare che eri proprio tu. Io ero un po’ preoccupata, non volevo fare una figuraccia. Temevo che si trattasse di uno scherzo, sapendo quanto è forte la mia passione...» Samuel le parve convinto, quindi era meglio interrompere sul nascere eventuali ulteriori giri di parole. «Sono felice che non lo sia.»
«Che non sia cosa?»
Avah sorrise.
«Che non sia uno scherzo.»
«Ah, capisco. Vuoi un autografo?»
«No.» Era giunto il momento, Avah lo sapeva, di tirare fuori le armi che sapeva usare meglio. «Vorrei offrirti un drink.»
«Tu?!» Dal tono, Samuel sembrava sorpreso. «Tu vuoi offrire un drink a me?»
«Perché no?» obiettò Avah. «Dove sta scritto che devono essere solo ed esclusivamente gli uomini a offrire da bere alle donne?»
«Da nessuna parte.»
«Allora dov’è il problema?»
«Due mie colleghe mi stanno aspettando, credo.»
Avah fece finta di guardarsi intorno.
«Dove sono? Sinceramente non mi pare di vedere qualcuno che reclami la tua presenza. Se dovesse accadere, comunque, in onore del tuo programma offrirò da bere anche a loro. Sono tue colleghe, hai detto. Devono essere persone importanti, proprio come te.»
«Non svolgono un ruolo di primo piano» puntualizzò Samuel, «E in effetti non mi ritengo troppo importante, nemmeno io.»
«Nessuno si ritiene mai importante tanto quanto dovrebbe.»
Samuel azzardò: «A parte te?»
«Perché?» Avah aggrottò le sopracciglia. «Ti sembro una persona che si dà delle arie?»
Samuel scosse la testa.
«Non l’ho mai detto. Mi riferivo al fatto che vuoi bere a tutti i costi insieme al tuo speaker radiofonico preferito.»
«Non è una cattiva idea, dopotutto?» Avah lo afferrò delicatamente per un braccio. «Vieni con me, allora, o no? Devo iniziare a credere che tu, in realtà, non voglia bere insieme a me?»
Samuel la seguì.
Avah sorrise, tra sé e sé.
Se la stava cavando alla grande, come al solito.

Finalmente quei due si erano distratti un attimo.
«Non ne posso più» borbottò Penny, rivolgendosi a Michelle.
«Sono simpatici» replicò l’altra, quasi indispettita. «E poi uno dei due, quello che mi guarda sempre le tette, è davvero carino. Credo che sia interessato a me.»
«È interessato alle tue tette» puntualizzò Penny, «E al fatto che tu, dentro le mutande, abbia un trofeo molto ambito.»
«Beh, è pur sempre qualcosa» ribatté Michelle. «Il fatto che un uomo si faccia delle fantasie erotiche su di me dimostra un certo interesse. Non vedo perché sia necessario scandalizzarsi se...» Si interruppe per un attimo, prima di esclamare: «A proposito di sesso...!»
«Di cosa parli?» le domandò Penny.
Michelle stava guardando in direzione della cassa.
«C’è Samuel.»
Penny si sforzò di individuarlo, in mezzo alla folla.
«Sì, è lui.» Era insieme a una donna, fasciata in un elegante abito attillato. «Quella, invece, chi è?»
«Non ne ho idea» ammise Michelle, «Ma credo che buona parte degli uomini qui presenti stiano crepando di invidia.»
«Non vedo perché dovrebbero.»
«Perché quella tizia è uno schianto e Samuel, in questo locale, è quello che ha più probabilità di andarci a letto insieme. Non ti pare una buona ragione per invidiarlo?»
Penny non poteva negare la verità.
Samuel si trovava insieme a una donna molto più affascinante di lei.
Doveva mettersi il cuore in pace, una volta per tutte.

«Come hai detto che ti chiami?» Samuel era a metà del secondo drink, ma gli sembrava di essere già sul punto di perdere il controllo. «Anna? Alma?»
«Avah.»
Avah.
Avrebbe dovuto ricordarsene.
In qualche momento indefinito del suo passato, ne era sicuro, aveva già sentito parlare di una donna che portava quel nome.
«Sei di Scarlet Bay?»
«Diciamo che ci vivo.»
«Da sola?»
«Sì. Anche tu vivi da solo, non è vero?» Avah stava ricominciando con le domande personali. «Il mio amico, quello che mi ha suggerito di venire a parlarti, mi ha detto che non sei sposato.»
«Ha ragione» ammise Samuel.
«Perché non ti interessa o perché non hai mai trovato la persona giusta?»
Samuel ridacchiò.
«Perché la persona giusta per me ha sposato un altro.»
«Io, al posto suo, non avrei commesso lo stesso errore» ribatté Avah. «Forse sono di parte, perché sei il mio speaker radiofonico preferito, ma temo che non mi sarei mai lasciata scappare uno come te.»
«E tu? Come mai non sei sposata?»
«Perché nessuno ha mai ritenuto che valesse la pena di sposarmi.»
«Vedo che, parlando di errori, anche qualcun altro ne ha commessi.» Samuel ciò che restava del suo drink e ripose il bicchiere vuoto sul bancone. «Come si può pensare che non valga la pena di sposare una come te?»
Avvampò.
Aveva davvero pronunciato quelle parole?
Doveva avere davvero bevuto troppo.
Avah, però, non sembrava del suo stesso parere.
«Io ho ancora sete. Immagino che sia lo stesso anche per te.»
«No» replicò Samuel. «Magari più tardi.»
Vide Avah sorridere.
«Mi stai dicendo che intendi passare tutta la serata con me?»
«Perché no?»
Avah sembrava davvero convinta.
Samuel cercò di non essere troppo razionale.
Dopotutto che cosa c’era di strano? Per quanto fosse piacente e sensuale, Avah doveva avere qualche anno più di lui. Con tutta probabilità era vicina ai quaranta. Era così impensabile che si interessasse a lui?
Certo, la storiella dello speaker radiofonico preferito sembrava fare acqua da tutte le parti... o era lui che, ormai abituato a vedere ovunque qualcosa di poco chiaro, non abbandonava nemmeno in quel momento le cattive abitudini?
Avah continuò a sorridere.
«Vieni con me?»
«Dove?»
«A fare quattro passi, prima di ordinare di nuovo da bere.»
Era una buona idea.
Samuel era sicuro che, se avesse accettato un altro drink, non sarebbe stato in grado di reggersi in piedi.

Harriet uscì.
Aveva la videocassetta tra le mani.
Era necessario non incontrare nessuno per le scale, nessuno che potesse ricordarsi di lei in un secondo momento.
Per fortuna quella palazzina sembrava piuttosto tranquilla. Chiunque fossero gli altri residenti, non dovevano avere una vita molto movimentata, visto il silenzio di tomba che regnava.
Harriet scese le scale in fretta.
Attraversò l’atrio.
Nascose la cassetta sotto la giacca a vento.
Varcò il portone e si ritrovò all’esterno.
Ce l’aveva fatta.
Doveva percorrere mezzo isolato a piedi, il breve tragitto che, per precauzione, aveva lasciato tra la propria automobile e l’ingresso del palazzo in cui abitava Avah Silver.
Un passo dopo l’altro, arrivò a destinazione.
Salì in macchina e si chiuse dentro, inserendo la sicura.
Aveva una voglia incredibile di andare a cercare un telefono e di chiamare Suzanne in quel momento stesso, ma sapeva che era più prudente aspettare.

Samuel non oppose resistenza, quando Avah lo trascinò in bagno.
Non oppose resistenza, quando lei chiuse la porta a chiave e lo sbatté contro la porta.
Forse, senza quei due cocktail, sarebbe stato più prudente.
Una voce, nella sua mente, si risvegliò.
“Prudente? Che cosa c’entra la prudenza?”
Con tutta probabilità, Avah non era altro che una donna malata di sesso che in quel momento si stava compiacendo di essersi rintanata in un bagno pubblico insieme a un uomo che ai suoi occhi appariva come popolare e importante.
Avah si avvicinò e gli diede un bacio sul collo.
«Sei felice di essere qui, Samuel Jeffrey?»
«S-sì.»
Temeva di non essere stato convincente, ma Avah parve non accorgersi di nulla.
La sua lingua iniziò a sfiorargli il collo, mentre le sue mani gli sfilavano la camicia dai pantaloni.
«Anch’io» mormorò Avah, «Sono felice di essere qui. È molto meglio che prendere un altro drink.»
Aveva ragione, Samuel non poteva negarlo.
Le mani di Avah iniziarono ad accarezzargli i fianchi, almeno finché lei non scelse di abbassare la destra.
Gli sbottonò i pantaloni e gli slacciò la cintura.
«Non sai da quanto tempo sognavo questo momento.»
Per quanto Samuel non fosse entrato in quel locale con l’intento di lasciarsi sedurre da una donna di quello stampo, iniziava a pentirsi di non avere provato lo stesso desiderio di Avah.
Quella donna era maledettamente eccitante.

«Vuoi bere qualcosa?» domandò il meno interessante - non che l’altro lo fosse - dei due ragazzi, di cui Penny non ricordava il nome.
Scosse la testa.
«No, grazie.»
«Ne sei sicura?»
Penny sospirò.
«Certo che ne sono sicura!»
«Anche qualcosa di analcolico, se sei astemia o non hai voglia di alcool. Se vuoi una Coca Cola o un succo di frutta...»
«Ti ho appena detto che non voglio niente» puntualizzò Penny. «Anzi, se permetti, andrei a fare un giro.»
Il ragazzo fece per alzarsi.
«Ti accompagno.»
«No, non è necessario.» Penny si sforzò di mantenere un tono gentile. «Vado fuori a prendere una boccata d’aria e torno.»

Anthony vide Penny e per un attimo fu tentato di salutarla.
“No, è meglio di no.”
La receptionist avrebbe potuto commettere qualche azione avventata, come ad esempio avvertire Samuel della sua presenza.
Era l’ultima cosa che doveva accadere.
“Certo, non è molto facile che succeda.”
Samuel non era in una situazione in cui fosse molto probabile accorgersi di Penny, dal momento che Anthony l’aveva visto chiaramente entrare in bagno insieme a una donna.
Aveva fatto bene a seguire il consiglio di Rebecca: Samuel andava tenuto d’occhio... Samuel e non solo lui, dal momento che Anthony aveva riconosciuto perfettamente la sua accompagnatrice, e non solo per il suo gusto in fatto di vestiti.

Tutto stava andando come doveva andare.
Samuel non era altro che uno dei soliti pesci pronti ad abboccare.
Avah sorrise, compiaciuta.
Aveva davanti a sé un uomo eccitato e tutto ciò che le era richiesto era di sapere usare la bocca nel modo giusto.
Dal momento che nessuno dei suoi precedenti partner si era mai lamentato, da quel punto di vista, Avah si sentiva sicura.
Samuel era completamente nelle sue mani.
Una volta accontentate le sue necessità, avrebbe potuto estorcergli qualunque informazione.
Avrebbe saputo, per filo e per segno, di che cosa fossero al corrente Rebecca Shepard e Anthony Hunter.
“Albert capirà quanto valgo. Capirà che non può fare a meno di me.”

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Capitolo 36
*** Semplice precauzione ***


Lui e Avah erano appena usciti dal bagno, quando per Samuel tutto iniziò ad assumere un senso.
«Credo di averti già vista, prima di stasera» azzardò.
Lei aggrottò le sopracciglia, mostrando uno di quei sorrisi beffardi ai quali Samuel sapeva di dover prestare attenzione.
«Può darsi. Te l’ho detto, abito a Scarlet Bay già da un po’ di tempo. È possibile che io e te ci siamo già visti, quando ancora non sapevo chi eri. Forse ti sei ricordato di me e...»
«No» la interruppe Samuel, «Io so esattamente dove e quando ti ho vista.»
«Ah, sì?»
«È stato tre o quattro anni fa. Ci siamo incontrati proprio a Radio Scarlet.»
Avah scosse la testa.
«Quello che dici è impossibile. Non sono mai entrata a Radio Scarlet. Mi piacerebbe, ma...»
Samuel non la interruppe.
Se Avah voleva continuare a mentirgli, forse era più prudente fingere di crederle.
«Devo averti confusa con qualcun’altra, allora. Per caso hai una sorella che vive a Scarlet Bay?»
Samuel non sapeva se fosse soltanto la sua immaginazione o se davvero Avah fosse stata scossa da un fremito nel sentire quella sua allusione.
«Non ho una sorella che vive a Scarlet Bay» gli assicurò lei, qualche istante più tardi. «Evidentemente dovrò arrendermi all’evidenza: ci sono donne che mi somigliano, da queste parti.» Fece una breve risata. «Non è poi così terribile.»
«No, per loro no» ammise Samuel. «Te l’ho già detto che sei stupenda?»
«Non espressamente» ribatté Avah, «Ma ho intuito che lo pensavi. Se così non fosse stato, forse non avremmo passato una serata così piacevole. Ora, però, che cosa ne dici di prenderci quel famoso drink?»
Era arrivato il momento di rifiutare.
«Mi piacerebbe, ma non posso.» Samuel guardò l’orologio, fingendo di avere fretta. «Mi dispiace, ma è il caso che me ne vada. Devo tornare a casa.»
«Di già?» Avah non parve molto allettata da quella prospettiva. «Hai detto che non sei sposato, non c’è nessuno che potrebbe avere qualcosa di cui lamentarti, se sprechi ancora un po’ del tuo tempo con me.»
Samuel doveva trovare una mediazione, se voleva andare via.
«Potremmo rivederci.»
«Perché?»
«Perché l’hai detto tu stessa, la nostra è una serata piacevole. Potrebbero esserci tante altre serate piacevoli, prima o poi.»
Avah gli si avvicinò e lo guardò dritto negli occhi.
«Mi stai dicendo che, ora che hai avuto un orgasmo, le nostre strade possono dividersi? Non è così che funziona, Samuel. Vorrei poterti conoscere meglio, parlare un po’ con te...»
«Potrebbero esserci altre serate piacevoli, se tu lo vorrai» ribadì Samuel. «Il concetto di “serata piacevole” può avere mille sfaccettature. Anche parlare e conoscerci potrebbe essere una di queste, non credi?»
Avah annuì.
«Tutto sommato, può darsi che tu abbia ragione.»
«Sono felice di sentirtelo dire» ribatté Samuel. «Posso andare, adesso?»
«Solo se mi dici dove trovarti.»
«A Radio Scarlet. Quando vuoi vedermi, basta che chiami e chiedi di me alla ragazza del centralino.»
Avah spalancò gli occhi.
«Mi stai dicendo che dovrei cercarti alla radio?»
«Perché no? Passo molto tempo là dentro.»
«Non lo metto in discussione, ma...»
Samuel la interruppe: «Basta che tu comunichi il tuo nome alla ragazza del centralino, perché lei mi passi la chiamata. A quel punto decideremo quando vederci.» Sorrise. «Ora scusami, ma devo andare.» Diede ad Avah un leggero bacio sulle labbra. «È stato un piacere.»
«Il piacere è tutto mio» replicò Avah, più seccata di quanto avrebbe dovuto essere una donna che si dichiarava felice di averlo incontrato. «Spero di rivederti presto.»

Avah si appoggiò alla parete.
Doveva lasciare passare qualche istante, prima di andare dal gestore - o da chiunque fosse il tizio che si atteggiava come se lo fosse - a elemosinare la possibilità di usare un telefono.
Non sarebbe stato difficile, dato che sapeva bene come giocare le proprie carte.
Bastava solo che Samuel Jeffrey non si accorgesse di nulla.
Quel tipo era troppo sospettoso, per i suoi gusti. Inoltre era meno fesso di quanto si fosse illusa in un primo momento.
Fece un profondo respiro, e poi un altro.
Attese ancora qualche istante, prima di allontanarsi dal bagno.
Doveva chiamare Albert.
Doveva avvertirlo che Samuel si era messo in testa qualcosa e che, con tutta probabilità, era quella la ragione per cui si era affrettato ad andarsene quando davanti a lui c’era la prospettiva che la loro “serata piacevole” si protraesse ancora per un’ora o due.

Anthony era già fuori, quando vide Samuel salire in macchina.
Se n’era andato in gran fretta, dopo essere uscito dal bagno in cui si era rifugiato insieme alla donna che, poche ore prima della morte di Kay, gli aveva fatto credere di essere la figlia di Marissa Flint.
Qualunque rapporto ci fosse lei e Samuel, quel rapporto andava approfondito. Anthony aveva intenzione di seguirlo, di vedere dove si stesse dirigendo.
“Non sarebbe uscito così in fretta, se avesse avuto soltanto l’intenzione di tornare a casa.”
Inoltre, in tal caso, la pantera l’avrebbe accompagnato fino all’uscita, o almeno l’avrebbe salutato pubblicamente.
Era possibile che quei due avessero intenzione di rivedersi.
Rebecca doveva avere ragione: non poteva fidarsi di Samuel, che con tutta probabilità aveva avuto un ruolo indiretto nell’omicidio di Kay.
Avrebbe pagato anche lui, come tutti.
Anthony ne era certo, i colpevoli avrebbero commesso uno sbaglio, prima o poi.
A pochi metri di distanza, Samuel richiuse violentemente la portiera.
Poco dietro di lui, qualcun altro fece lo stesso, notò Anthony.
Per quanto il fatto potesse essere casuale, decise comunque di sprecare qualche istante del proprio tempo per dare un’occhiata.
Aveva visto bene?
Il tizio al volante aveva un’aria molto familiare.
Anthony si diresse verso la propria automobile, domandandosi se Rebecca Shepard fosse davvero una persona degna della sua fiducia.

Veronica Freeman uscì dal bagno, pronta a tornare in ufficio. Era già tardi, ma non se ne sarebbe andata finché anche il direttore non avesse abbandonato lo stabile.
Non si trattava di eccesso di zelo nello svolgere la propria professione, anzi, il signor Carpenter non aveva nemmeno bisogno di lei. Era un'altra la ragione che la tratteneva a Radio Scarlet a tarda ora: la speranza, seppure vana, che il direttore si accorgesse del legame che li univa.
Erano stati l’uno accanto all’altra per anni, ma il loro rapporto era sempre stato puramente professionale. Veronica si era messa il cuore in pace giù da tanto tempo, ma non poteva fare a meno di continuare a sognare e, quando le era possibile, di rimanere da sola con lui: dopotutto non aveva altro.
Il signor Carpenter era al telefono, mentre Veronica si apprestava a rientrare in ufficio.
«Sì, è tutto a posto» stava dicendo. «Ho chiesto proprio al tuo amico di tenerlo d’occhio, dato che ho iniziato a sentire puzza di bruciato anch’io.»
Dall’altro capo del telefono, qualcuno - forse una donna - si mise a sbraitare.
«Non c’erano altre soluzioni» sbottò il direttore, a quel punto. «Ho pensato che quel tizio potesse farci molto comodo e gli ho promesso una ricompensa in cambio di un piccolo aiuto. Non capisco che cosa ci sia di male. Ora scusami, ma devo lasciarti. Stai tranquilla, perché è tutto sotto controllo.»
Veronica rientrò nel momento stesso in cui il direttore sbatteva giù il ricevitore.
«Qualche problema?» gli chiese, con un sorriso.
Il signor Carpenter scosse la testa.
«No, è tutto a posto: sempre le solite questioni, quando c’è qualcuno a cui le cose non stanno bene.»
«Avrebbe dovuto evitare di rispondere. Se quell’imbranata di Penny avesse staccato il telefono, la chiamata non le sarebbe mai stata passata in automatico.»
«È tutto sotto controllo, Veronica» le assicurò il direttore. «Anzi, perché non se ne va a casa?»
«Non è necessario, signor Carpenter. Mi fa piacere rimanere qui ad aiutarla.»
«Il fatto è che io non ho bisogno d’aiuto. Non ho più nulla da fare.»
«Allora perché rimane qui?»
«Semplice precauzione.»
Veronica aggrottò le sopracciglia.
«Che cosa intende dire? Ha paura che possa succedere qualcosa?»
Lui rise.
«Non vedo che cosa potrebbe succedere. Vada a casa, Veronica, e si dedichi un po’ a se stessa. Posso cavarmela anche senza di lei, di tanto in tanto.»

Samuel lasciò la macchina nel parcheggio di Radio Scarlet, prima di avviarsi verso l’ingresso secondario, quello che soltanto gli addetti ai lavori conoscevano: a quell’ora non c’era più nessuno alla reception e il portone principale era chiuso.
Si introdusse nel ramo più silenzioso dell’edificio. Non doveva esserci anima viva, da quelle parti... o almeno era quello che sperava, vista l’intenzione che aveva.
Sapeva dove aveva visto Avah.
L’aveva incontrata insieme al direttore.
Chiunque fosse quella donna, Carpenter la conosceva.
Samuel non sapeva ancora quale significato dare a quel ricordo, ma era certo che, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto essere fondamentale.
Chissà, forse Carpenter aveva un suo recapito, tra gli effetti personali, qualcosa che potesse aiutarlo a scoprire dove vivesse, o anche solo quale fosse il suo cognome.
L’idea di andare a rovistare nell’ufficio del direttore non lo allettava, ma sapeva di non avere alternative.
Quello che era successo era quantomeno insolito e, se una donna tentava di farlo ubriacare e di sedurlo, forse al solo scopo di estorcergli informazioni, si sentiva in diritto di decidere di vederci chiaro.
Si avviò lungo il corridoio in penombra, con l’intento di salire al quarto piano.

Sheila ne era sicura: in quel momento Nicholas si stava chiedendo che fine avesse fatto.
Gli aveva detto che sarebbe uscita dal pub per qualche istante, perché doveva controllare qualcosa, ma la sua assenza si stava prolungando più del dovuto.
“Se solo avessi preso le chiavi della macchina.”
Certo, vedendo sparire anche l’automobile, Nicholas si sarebbe preoccupato molto di più.
Cercò di lasciare da parte quei pensieri.
Aveva qualcosa di più importante di cui occuparsi.
Sapeva dove si stesse dirigendo l’uomo che l’aveva involontariamente attirata fuori dal locale e aveva intenzione di scoprire che cosa si fosse messo in testa.
Chissà, forse quella serata si sarebbe rivelata più interessante di quanto avesse ipotizzato nel momento in cui Nicholas le aveva proposto di uscire invece di guardare l’ennesimo thriller di serie B alla televisione.

Samuel si girò di scatto.
Era soltanto paranoia o gli era sembrato di vedere qualcuno alle sue spalle?
Non c’era nessuno, realizzò.
Non c’era nessuno, oppure qualcuno che era riuscito a nascondersi più in fretta di quanto Samuel potesse ipotizzare.
Per sicurezza, anziché proseguire verso il terzo piano, si fermò al secondo, anch’esso nella penombra delle poche luci fioche che restavano accese per tutta la notte.
Percorsi alcuni metri, si fermò per qualche istante a riflettere.
Era sicuro che non ci fosse nessuno?
Avrebbe dovuto controllare, prima di entrare, che non ci fossero finestre illuminate, ma aveva commesso l’errore di non farlo. Avrebbe potuto controllare, tra le macchine nel parcheggio, che non ce ne fosse nessuna appartenente a qualcuno che lavorasse proprio in quell’ala dell’edificio. Era un ulteriore errore e sperava vivamente di non doversi pentire di nessuno di quei due sbagli potenzialmente devastanti.
Non doveva dimenticare che Radio Scarlet non era più un luogo sicuro fin dal giorno in cui Theresa aveva messo delle pastiglie effervescenti di sonnifero nel bicchiere di Kay.
Doveva andare avanti, oppure tornare indietro?
Doveva depistare qualcuno, oppure l’ombra che aveva intravisto era soltanto un frutto della sua fantasia?
Kay, al posto suo, avrebbe saputo perfettamente cosa fare.
Era sempre stata la più cauta di tutti; forse era quella la ragione per cui aveva sempre cercato di mantenere per sé qualsiasi informazione a proposito della propria vera identità.
“No, non è andata così.”
Per quanto gli costasse ammetterlo, Samuel sapeva che Kay aveva avuto lo scopo ultimo di incastrare l’assassino di sua madre, chiunque esso fosse. Doveva essere stata perfettamente al corrente della sua identità, ma consapevole di non poterlo dimostrare.
Samuel rabbrividì, nel momento in cui si domandò se l’assassino di Marissa l’avesse sempre vista come un pericolo.
Come si sarebbe comportato, in tal caso? Avrebbe deciso fin da subito di sbarazzarsi di lei o, in qualche modo, avrebbe cercato di comprare il suo silenzio?
La morte di Kay sembrava avere avuto origine dai segreti di cui la sua amica era stata a conoscenza, forse per tanti anni. Forse non era stata l’unica a credere che fosse sufficiente tacere.
In tal caso, l’assassino di Marissa Flint avrebbe potuto, in qualche modo, tentare di corromperla.
Samuel raggelò.
Non poteva negare che c’era qualcuno che, per certi versi, aveva davvero tentato di farlo.
“No, non può essere.”
Samuel cercò di non domandarsi quanto fosse sottile il confine tra il bene e il male. Ne era certo, la risposta non gli sarebbe piaciuta.
Forse doveva andarsene.
Doveva andare a casa e chiamare Anthony, oppure Rebecca.
“Sì, Rebecca.”
Anche lei doveva avere capito tutto, era l’unico modo in cui certe sue allusioni potevano assumere un significato.
Samuel fece per girarsi, ma non ne ebbe il tempo.
Dietro di lui, qualcuno lo colpì alla nuca, facendogli perdere l’equilibrio. La vista gli si annebbiò, mentre cadeva a terra, chiedendosi se ci fosse ancora qualcosa da fare.
«Sei finito» lo avvertì una voce.
Non era uno sconosciuto.
Non era qualcuno che Samuel si aspettasse di trovare a Radio Scarlet in quel momento.
«Raymond?» mormorò.
«Complimenti» ribatté l’altro. «Vedo che mi hai riconosciuto. Peccato che ormai non ti serva più.»
Samuel sentì una lama gelida sfiorargli il collo.
Raymond?!
Quella consapevolezza lo lasciava spiazzato, ma allo stesso tempo gli suggeriva di reagire. Non poteva permettere all’ex ragazzo di Rebecca di ucciderlo senza avere prima scoperto come andasse a inserirsi nel puzzle che stava cercando di risolvere.
«Perché?» domandò, con il filo di voce che gli era rimasta. «Cosa c’entri tu?»
«Mi pagano» rispose Raymond, con un tono piuttosto soddisfatto. «Mi pagano e, per quanto mi riguarda, la tua vita vale meno di zero. Non credi che sia un incentivo sufficiente?»
Per lui doveva esserlo.
«Chi?» volle sapere Samuel.
Non udì alcuna risposta, da parte di Raymond.
Sentì invece i passi di qualcuno, in lontananza, e si chiese se fosse un bene o un male.

Avah uscì dal pub, ignorando l’occhiata di un tizio insignificante che sembrava particolarmente attratto dalla sua scollatura.
Non aveva tempo per pensare alla bassezza del mondo che per la circondava.
Non aveva tempo per nulla che non fosse il suo sogno che, pezzo dopo pezzo, iniziava a infrangersi senza che lei potesse davvero fare qualcosa per impedirlo.
Com’era possibile fare affidamento su Raymond?
Com’era possibile che Raymond fosse ancora vivo?
Aveva chiesto ad Albert di sbarazzarsi di lui e lui le aveva mentito di proposito. Doveva averlo convinto a farsi da parte, in cambio di qualcosa di più.
Raymond era facilmente malleabile di fronte a una bella donna, ma diventava ancora più malleabile quando si trattava di soldi.
Aveva accettato.
Aveva accettato ed era ancora vivo, pronto a distruggere di nuovo la sua esistenza.
Per la prima volta dopo tanti anni - anni in cui non si era tirata indietro, quando si trattava di fare il lavoro sporco - Avah si sentiva tradita.
Con la certezza che il suo sogno si stesse trasformando in un incubo, si avviò verso Radio Scarlet.

Samuel Jeffrey non era morto, ma non importava.
Oltre all’altro giornalista, poteva esserci chiunque altro.
Forse era una trappola.
Sì, certo, doveva essere una trappola; ed era tutta colpa di quella puttana di Avah.
Ray era certo di non essere stato inseguito, nel momento in cui spalancò la porta dell’uscita di emergenza.
L’allarme era inserito, ma non importava. Se c’era qualcuno, non era da quelle parti, a meno che l’edificio non fosse circondato, cosa di cui dubitava fortemente.
Scese di corsa la scala antincendio, per due piani, pronto a raggiungere il cortile, dal quale avrebbe potuto dirigersi verso il parcheggio.
Mancava poco.
Mancava davvero poco.
Gradino dopo gradino, maturò la convinzione che lasciare Scarlet Bay per sempre fosse la soluzione migliore.
Attraversò il cortile più in fretta che poté.
Intravedeva già la sagoma dell’automobile, la sua via di fuga.
Notò solo all’ultimo momento la ragazza appoggiata contro la portiera. Per un attimo gli parve una sconosciuta, poi si accorse che aveva i capelli tinti di viola.

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Capitolo 37
*** Ogni storia ha la sua fine ***


«S-seguilo!»
La richiesta di Samuel, in quel momento, appariva assurda.
Era sdraiato a terra e sembrava non essere nemmeno in grado di alzarsi.
«Non posso lasciarti qui» replicò Anthony. «Non...»
«Seguilo» ripeté Samuel, stavolta scandendo meglio ogni sillaba.
Anthony continuava a fissare con occhi sbarrati la macchia di sangue che si espandeva sulla sua camicia bianca.
Non aveva le competenze necessarie per capire quanto la ferita sul fianco sinistro di Samuel fosse profonda.
«Non preoccuparti per me. Segui Raymond.»
Raymond.
Quel nome lo fece rabbrividire.
Fino a quel momento Raymond era stato soltanto un tipo insignificante e alquanto irritante che ronzava intorno a Rebecca. Anthony non riusciva a spiegarsi né per quale ragione avesse aggredito Samuel, né perché fosse fuggito lasciando lì il coltello con il quale l’aveva colpito.
Doveva seguirlo.
Doveva fermarlo, forse.
Se non altro, doveva capire che cosa c’entrasse Raymond con Kay.
Avrebbe voluto comprendere anche che cosa fosse andato a fare Samuel a Radio Scarlet, dal momento che, visti gli ultimi sviluppi, con l’omicidio sembrava non c’entrare nulla. Anche la sua permanenza nel bagno del pub insieme alla donna che si era finta la figlia di Marissa Flint non aveva spiegazioni, per il momento, ma visto l’aspetto di quell’avvenente signora non c’era da sorprendersi se l’unica fosse stata irrazionale.
Anthony iniziava a sentirsi colpevole per avere dubitato di Samuel, ma non era il tempo di lasciarsi sopraffare dai rimorsi: Raymond era scappato lungo il corridoio, probabilmente raggiungendo l’uscita d’emergenza; Samuel gli stava chiedendo di inseguirlo e lui l’avrebbe fatto, anche se ormai era troppo lontano.
Corse verso il fondo del corridoio.
La porta ancora spalancata gli fece capire che l’intuizione che aveva avuto era corretta.
Anthony si fiondò giù dalle scale, per ritrovarsi in un cortile vuoto.

Avah sussultò, nel vedere Anthony Hunter scendere dalla scala esterna.
Che cos’aveva in mente?
“Deve essere colpa di quell’idiota di Raymond.”
Quel cretino doveva avere combinato qualche casino, facendosi sorprendere, qualunque cosa Albert gli avesse ordinato di fare.
La situazione le stava sfuggendo di mano, ed era una sensazione che non le piaceva per niente.
In quel momento, ne era certa, Albert era seduto comodamente a una scrivania, sorridendo compiaciuto, perché tutto stava andando come voleva.
“Tanto lui avrà sempre il culo parato.”
Era stata lei, quella che aveva dovuto organizzare tutto.
Era stata lei, quella che aveva deciso di sfruttare l’insicurezza di Theresa per trasformarla in una pedina nelle proprie mani.
Theresa non aveva mai saputo niente a proposito di Albert Wilkerson. Non poteva nemmeno immaginare di conoscerlo perfettamente.
Avah si irrigidì.
Anthony stava guardando verso di lei.
“Maledizione!”
No, non la stava guardando: era troppo protetta dall’oscurità. Anthony stava fissando il buio, come alla ricerca di qualcuno. Quel qualcuno, Avah ne era relativamente sicura, non poteva essere proprio lei.
Certo, c’era il rischio che Anthony avesse parlato con Samuel - a proposito, dove si era cacciato quell’altro impiccione? - e che avesse scoperto del loro incontro, ma un’altra delle convinzioni in cui credeva fermamente era quella che Samuel non fosse stato in grado di collegarla alla donna che aveva fatto visita a Hunter il giorno stesso in cui Kay Brooks era stata assassinata.
No, Anthony non la stava cercando.
Non aveva nemmeno la più pallida idea che lei fosse proprio lì.
Avah prese ad attendere pazientemente che si levasse di torno.
Doveva penetrare all’interno della sede della radio.
Doveva raggiungere la causa di tutte le sue disgrazie, sempre ammesso che tutto ciò in cui aveva scelto spontaneamente di coinvolgersi e che aveva almeno in parte architettato potesse definirsi con quel termine.

Anthony udì degli schiamazzi nel parcheggio.
Consapevole di avere intravisto una figura nel buio del cortile, decise di ignorarla. Una delle voci che provenivano da poco più lontano sembrava proprio quella di Raymond. L’altra era quella di una ragazza a cui Anthony non riusciva ad attribuire un volto.
Sentì un urlo.
Era stato Raymond a gridare.
Anthony corse verso il parcheggio.
In un primo momento non vide nessuno.
Attirato da un fioco rumore, individuò finalmente la direzione giusta.
Illuminata dalla luce di un lampione poco distante, una ragazza minuta stava in piedi accanto a un’automobile.
“Deve avere avuto qualcosa a che fare con Raymond.”
Anthony le si avvicinò.
«Cosa succede?»
La ragazza, nel vederlo, spalancò gli occhi.
«Non è stata colpa mia!»
Fu in quel momento che Anthony vide una sagoma inerte, riversa a terra. Doveva trattarsi di Raymond.
Qualunque cosa fosse accaduto, quella visione era allettante.
Anthony continuò ad avvicinarsi.
«Va tutto bene?»
La ragazza scosse la testa.
«No, per niente.»
Anthony la vide barcollare per un attimo, prima di appoggiarsi alla macchina, che doveva essere quella di Raymond.
«Cos’è successo?» le chiese, notando una ferita sanguinante sulla sua fronte. «È stato lui ad aggredirti?»
La ragazza annuì.
«Sì, senza motivo. Mi ha solo chiesto perché lo stessi perseguitando.»
Anthony aggrottò le sopracciglia.
«Perseguitando?»
«È una lunga storia» rispose la ragazza. «Credo che abbia battuto la testa. Non sarà... morto?»
Si stava commuovendo per la sua sorte, per caso?
Anthony ne fu disgustato per un istante, ma si rese conto che per lei non doveva essere una situazione molto piacevole.
Seppure riluttante, si chinò sull’ex fidanzato di Rebecca.
«Respira.»
«Quindi che cosa devo fare?» domandò lei. «Mi accuserà di avere tentato di ucciderlo, o qualcosa del genere. Non è andata così, mi sono solo difesa.»
«Ti credo» la rassicurò Anthony. «Ti credo, e ti assicuro che non c’è nulla di cui tu debba preoccuparti.»

Samuel si trascinò verso la parete, lasciando una scia di sangue sul pavimento.
Non era sicuro di riuscire a resistere senza perdere i sensi.
Sperava che Anthony riuscisse a raggiungere Raymond.
Era disarmato, adesso, e Samuel non riusciva a immaginare come quell’individuo potesse essere pericoloso, ora che era sprovvisto del coltello con cui l’aveva assalito.
Aveva la vista sempre più annebbiata.
Forse non era stata una buona idea, quella di spingere Anthony a uscire dallo stabile, quando nessun altro sapeva della sua presenza lì al secondo piano.
Stava per rassegnarsi a chiudere gli occhi, quando udì i passi di qualcuno. Chiunque fosse, doveva provenire dalle scale.
Per un attimo si sentì sollevato, prima di realizzare di non potersi più fidare di nessuno.
Sperò che fosse Anthony, di ritorno per qualche ragione.
I passi si avvicinarono.
No, non poteva essere Anthony che, con tutta probabilità, se avesse rinunciato all’inseguimento di Raymond, sarebbe tornato indietro per la stessa via dalla quale era uscito.
Quando i passi si fermarono una voce, vicinissima a lui, sibilò: «Finalmente, Jeffrey. Finalmente questa storia inizia ad avvicinarsi alla conclusione.»

Ogni storia aveva la propria fine, rifletté Albert Wilkerson. Si era aspettato, fin dal primo momento, che tutto andasse diversamente e che, nemmeno per un istante, l’entourage di Kay Brooks potesse arrivare a lui. Anche se meno invulnerabili di lei, non erano altrettanto scaltri. Tutto era andato bene, al momento di sbarazzarsi della figlia di Marissa, sfruttando la conoscenza pregressa della sua allergia a certi medicinali, appresa molti anni prima da Marissa stessa. Tutto era andato bene, poi era accaduto qualcosa. La verità era una sola, Albert lo sapeva: non avrebbe dovuto fidarsi di Avah e soprattutto non avrebbe dovuto permetterle di fare agire in prima persona quell’ingenua di sua sorella Theresa. Era stato un grave errore, ma se non altro Avah aveva mantenuto il segreto relativo alla sua identità.
Theresa non era mai stata nemmeno al corrente dell’esistenza di Albert Wilkerson, figurarsi se poteva immaginare che quell’uomo fosse tutt’altro che defunto e che da quindici anni vivesse una nuova vita con il nome di Adam Philip Carpenter.
O forse il vero problema non era Avah. Aveva permesso a Marissa di vivere troppo a lungo e addirittura non aveva mai pensato seriamente di sbarazzarsi di Harriet, forse in memoria di quei vecchi tempi in cui cercava ancora un modo per realizzare tutti i suoi grandi desideri.
Ce l’aveva fatta.
Era diventato un uomo ricco e famoso.
Aveva progettato per anni un modo per riuscirci e, al momento giusto, si era reso conto che l’unica maniera per realizzare il proprio obiettivo era appropriarsi dell’eredità che sarebbe spettata a Phil dopo la morte di sua zia. Non solo: era anche riuscito a costruire qualcosa di suo, per cui era apprezzato e rispettato.
Non si era mai pentito di quello che aveva fatto.
Non si era mai pentito di avere spinto Marissa ad agire nella maniera più opportuna.
Conosceva Phil abbastanza bene da comprendere che sarebbe rimasto sconcertato dalle rivelazioni della donna che aveva amato.
Era accaduto proprio ciò che Albert aveva ipotizzato.
Phil era talmente sconvolto, e non faceva altro che urlare che l’avrebbe rovinato, da non curarsi nemmeno di quello che succedeva dietro di lui.
Forse non si aspettava che Albert gli frantumasse un vaso di porcellana sulla nuca.
No, non se lo aspettava affatto; Phil si era sempre fidato di lui.
Guardando Samuel, sdraiato contro la parete, Albert si sforzò di non pensare all’amico sacrificato per una giusta causa.
Aveva altro di cui occuparsi.
Quell’incapace di Raymond era riuscito nella memorabile impresa di lasciare lì l’arma con cui aveva aggredito Samuel.
Per quanto quella considerazione avesse dell’assurdo, era proprio ciò che gli serviva proprio in quei frangenti.
Dare una fine definitiva alle sofferenze di Samuel Jeffrey sarebbe stato molto opportuno, in quel momento.
Si avvicinò ancora all’uomo ferito, togliendo per un attimo lo sguardo dal coltello insanguinato sul pavimento.
«L’ho sempre detto» gli ricordò, «Quello che conta è il risultato finale. Ottimo risultato, Jeffrey, ma siamo soli e sarò io a stabilire cosa succederà prima della fine definitiva.»
Erano soli.
Veronica Freeman se n’era già andata.
Non c’era pericolo che sopraggiungesse nel momento meno opportuno.

Albert non si accorse di Avah, finché lei non gli fu alle spalle.
«Cosa pensavi di fare con Raymond?» gli domandò.
Il trucco stava nel mantenere un tono calmo.
Albert non si sarebbe accorto di nulla, finché non fosse stato troppo tardi.
«Volevo tenere d’occhio Samuel Jeffrey.» Le indicò il giornalista riverso a terra, che doveva essere ormai privo di sensi. «Dato che ha pensato bene di introdursi qua dentro, ho l’impressione che sia stata la scelta giusta.»
«Dov’è Raymond ora?»
«È fuggito, credo.»
Avah si irrigidì, e non era un bene.
«Come sarebbe a dire? Non ne sei certo?»
«Sono certo che non ci darà problemi. Gli ho promesso altri soldi e documenti falsi, in cambio del suo silenzio.»
«Corrompere Raymond è stata l’azione più stupida che potesse venirti in mente» puntualizzò Avah. «Hai idea di quello che succederà, se qualcuno dovesse cercare di strappargli la verità? Non è un idiota: lui non ha fatto null’altro che ferire Samuel Jeffrey. Non si prenderà certo la colpa di delitti che non ha commesso. Farà il tuo nome, Albert.»
«Ti ho detto un milione che non devi chiamarmi Albert!»
«Ti ricordo che è il tuo vero nome, anche se hai preso in prestito quello di qualcun altro.»
«Non mi pare il caso di puntualizzarlo.»
«Te l’ho detto» ribadì Avah. «Grazie alla tua bella intuizione, la verità è sul punto di venire alla luce. È assurdo che tu continui a preoccuparti del nome con cui io mi rivolgo a te. Perché non pensi piuttosto al nome con cui ti chiameranno in tribunale?»
«In tribunale?» replicò Albert. «Phil, o meglio, Albert Wilkerson, è ufficialmente morto in un incidente stradale. Il caso non sarà mai riaperto e, anche se dovesse accadere, temo che sia già caduto in prescrizione.»
«Forse hai ragione su Phil, ma che cosa mi dici di Marissa Flint, Kay Brooks e tutti gli altri? La prescrizione è ancora molto lontana, se non sbaglio. Sei in trappola, Albert.»
«Credo che, se tra noi c'è qualcuno che è in trappola, quella sia tu» puntualizzò Albert. «Rifletti, Avah. Io sono un uomo rispettabile, ho i soldi e il potere. Tu chi sei? Non hai fatto altro che vivere a spese degli altri. Inoltre, te lo ricordo, è stata tua sorella ad avvelenare Kay Brooks. Tu hai ucciso il suo ex marito e, come se non bastasse, hai ammazzato anche tua sorella. Sei tu quella che non ha speranze.»
«Invece una speranza ce l'ho ancora» replicò Avah, «Ed è proprio grazie a te, che mi hai fatto riscoprire quanto possa essere piacevole uccidere. Sono stanca di vivere nella tua ombra.» Con un rapido scatto tirò fuori il coltello, raccolto da terra prima di manifestare la propria presenza e nascosto tra le pieghe del vestito, e si preparò a colpire Albert alle spalle. «Ho ucciso per spianarti la strada, ma ora sono stanca. Ho intenzione di farlo prima di tutto per me stessa.»

Veronica cercò di resistere all’orribile scena della donna bruna che posava il coltello a terra, chinandosi sul cadavere del direttore.
Poco lontano c’era anche Samuel Jeffrey, le cui condizioni non sembravano molto migliori.
«Addio, Albert» mormorò la donna dall’elegante abito leopardato. «Non mi mancherai.»
Veronica trattenne a stento i conati di vomito.
Qualunque fosse la ragione per cui l’altra si fosse rivolta al direttore chiamandolo Albert, la cosa non la riguardava.
L’aveva ucciso.
L’aveva ucciso e nulla le avrebbe mai più restituito l’uomo che aveva amato in silenzio per così tanti anni.
Veronica si chinò di scatto, impugnando il coltello con la mano destra.
Con la sinistra afferrò i capelli della donna dal vestito maculato, che si alzò sussultando.
Veronica la riconobbe: era la fidanzata del signor Carpenter, qualunque fosse il suo nome. Aveva gli occhi spalancati per lo stupore, nel vedere il coltello puntato contro se stessa.
Fu la sua espressione a darle forza, ma durò molto poco. Un attimo dopo, infatti, la fidanzata del direttore sorrise, accomodante.
«Lo metta giù» la esortò. «Le segretarie attempate di solito non maneggiano le armi.»
«E le puttane da quattro soldi di solito non ammazzano a sangue freddo l’uomo che le ha mantenute nel corso degli anni» replicò Veronica.
«Le interessa davvero così tanto?» obiettò l'altra. «Mi creda, Veronica, lui la considerava soltanto una donnetta insignificante.»
«Non importa che cos’ero io per lui, ma quello che lui rappresentava per me.»
L'altra rise.
«Non mi dica che ne era innamorata.»
«Ha ragione, non vale la pena di parlarne con una come lei. Per lei contano solo i soldi e il potere, nient’altro, lei non sai che cosa significa amare follemente un uomo che non se ne accorgerà mai. Io ero quella che faceva le fotocopie, che stampava i documenti, che gli portava il caffè, che rispondeva al telefono e che accompagnava la gente dentro e fuori dal suo ufficio, nient’altro. Non gliene ho mai fatto una colpa. Come poteva accorgersi di me, dopotutto, con tutte le belle donne che aveva intorno?»
«Vedo che a questo ci arriva» ribatté la fidanzata del signor Carpenter. «Lei era solo una nullità, per lui.»
«Sarò anche una stata nullità, ma non mi sono mai intromessa nella sua vita e non l’ho mai giudicato. Sapevo che si sarebbe scelto una donna stupenda e che lei sarebbe stata con lui soltanto per interesse.»
«La prego, non veda una realtà distorta. Non mi parli di concetti come il vero amore. È vero, io stavo con lui soltanto per i suoi soldi e non per ciò che aveva dentro. Ma lui? Se non fossi stata una preda da esibire ma, mettiamo il caso, soltanto una segretaria avanti con gli anni, gli sarebbe mai passata per la testa l'idea di frequentarmi? Dovrebbe saperlo, lei ha conosciuto bene Albert.»
Di nuovo quel nome.
Veronica aggrottò le sopracciglia.
«Albert?»
«Il suo titolare aveva molti scheletri nell'armadio. Non era un uomo rispettabile. In fondo la sua morte non è stata una perdita così terribile.»
C’era solo una morte che non sarebbe stata pianta da nessuno, Veronica ne era sicura.
Scattò in avanti e colpì Avah alla gola con tutta la forza che aveva in corpo.
Quando la vide cadere, lasciò andare anche il coltello.
Un urlo alle sue spalle la fece sussultare.
Veronica si girò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con Penelope Altman.
«Non si preoccupi» le assicurò, «Non ho intenzione di farle del male.» Le indicò Samuel. «Credo che lui sia ancora vivo. La prego, si occupi di lui.»
Penelope la guardò con qualche istante con gli occhi sbarrati, ma Veronica non se ne curò.
C’era soltanto una cosa che doveva fare.
Doveva salire due piani di scale.
Doveva raggiungere l’ufficio che aveva condiviso con il signor Carpenter.
Doveva vedere per l’ultima volta il luogo in cui, per tanti anni, l’aveva sognato in silenzio. Poi avrebbe scavalcato il davanzale della finestra e si sarebbe gettata nel vuoto. Lei e Adam Carpenter non erano mai stati uniti nella vita, ma lo sarebbero stati almeno nella morte.

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Capitolo 38
*** Epilogo ***


(Ottobre 1991)

Rebecca scese le scale lentamente. Gradino dopo gradino, le sembrava di lasciarsi alle spalle una parte di sé.
La puntata di quella sera era stata la più difficile di tutte, ma lei e i suoi colleghi avevano convenuto che non ci fossero alternative: bisognava spiegare, dall’interno, che cosa fosse davvero accaduto, nel tentativo di ridurre al minimo le speculazioni esterne.
Non era facile, ma nessuno sembrava esserne davvero preoccupato, a Radio Scarlet: in fin dei conti anche la pubblicità negativa era pur sempre pubblicità e, scoprendo che il direttore e azionista di maggioranza non solo aveva un passato oscuro, ma addirittura aveva commissionato l’omicidio della voce di punta della sua stazione radiofonica, molti ascoltatori occasionali erano diventati fissi, negli ultimi tempi, così come erano diventati ascoltatori occasionali molti che prima avevano a malapena un’idea dell’esistenza di Radio Scarlet.
Rebecca si diresse verso il proprio ufficio, per andare a recuperare la propria giacca.
Voleva andarsene.
Voleva raggiungere Dylan.
Suo figlio era rimasto particolarmente sconcertato, nello scoprire eventi di cui, purtroppo, non tutti si erano accordati per tenerlo all’oscuro. Aveva fatto qualche commento sul fatto che la realtà degli eventi ricordasse “i film che guardano papà e Sheila” e Rebecca non era sicura che fosse un’osservazione così positiva.
Aprì la porta.
L’ufficio non era vuoto.
«Come mai siete ancora qui?» domandò, rivolgendosi ad Anthony e a Samuel, seduti alle rispettive scrivania.
«Ti stavamo ascoltando» le rispose il marito di Kay. La radio era accesa, proprio sul loro canale. «Hai fatto un buon lavoro.»
Rebecca sorrise.
«Grazie a voi.» Lanciò un’occhiataccia a Samuel. «Se non ricordo male ti era stato prescritto riposo assoluto. Non solo sei tornato qui ancora prima che ti togliessero i punti, ma addirittura adesso hai iniziato a rimanere qui fino a tarda ora...»
Samuel ignorò il suo rimprovero.
«Ora non resta che accontentare il grande pubblico» le suggerì. «Potresti invitare Harriet Harrison in trasmissione.»
Rebecca sospirò, scuotendo la testa.
«Neanche per sogno!»
«Avere divulgato un filmato compromettente - per quanto in quel filmato, per fortuna, si senta soltanto parlare dell’omicidio del vero Philip Adam Carpenter, ma non si veda nulla di concreto - è stata una manna dal cielo, per lei. Si dice che fosse piena di debiti e che sperasse di salvarsi grazie all’intervento di Carp...», Samuel esitò, prima di correggersi, «...di Albert Wilkerson, ma che lui non si sia fatto incastrare. Pare che la sua partecipazione in tutti quegli show televisivi, dove va non soltanto per raccontare che, con tutta probabilità, fu proprio Marissa Flint a cancellare le tracce dell’omicidio, le stia fruttando. Le danno un sacco di soldi per raccontare quanto sia commovente la storia della sua vita. Non sembra una persona scioccata dalla perdita di un familiare.»
«Se permetti un’opinione» intervenne Anthony, «La mia impressione è che non gliene importi proprio nulla del povero John Brooks, né tantomeno di quello che la gente penserà di Michelle e del fatto che il direttore l’avesse assunta soltanto perché era sua figlia.» Non aggiunse altro; del resto si parlava poco di Michelle da quando, dopo avere scoperto la verità, si era affrettata a lasciare Radio Scarlet e si vociferava che si fosse trasferita fuori città. «Quello che conta, per la Harrison, sono i soldi. Certo, forse è più apprezzabile guadagnarli piangendo negli studi televisivi, piuttosto che permettendo a un assassino di andarsene in giro così come se niente fosse, ma se la tenete lontana da Radio Scarlet, avete soltanto da guadagnarci.»
Rebecca aggrottò le sopracciglia.
«Avete? Tu non sei coinvolto?»
Anthony abbassò lo sguardo.
«Per ora sì, ma non credo che durerà molto a lungo.»
«Cosa vuoi dire?»
«Sto pensando di andarmene. Dopo tutto quello che è successo...»
Rebecca lo interruppe: «Ce l’hai fatta finora! Non puoi abbandonare proprio adesso. Io, te e Samuel abbiamo sempre lavorato bene insieme.»
Anthony scosse la testa, mentre le rivolgeva un’occhiata.
«È da meno di due mesi che lavoriamo insieme. Prima tu non c’eri. Ti occupavi di altro. Con tutta probabilità pensavi che fossimo soltanto due incapaci a cui Kay aveva trovato un posto di lavoro. Due mesi non sono sempre.»
Anthony aveva ragione.
Rebecca non era nemmeno sicura dell’effettivo valore di Anthony e Samuel.
Se non fosse stato per l’omicidio di Kay, non avrebbe mai lavorato a tu per tu con loro e avrebbe continuato a snobbarli.
“Eppure non può finire così.”
«Lo so» ammise, «Due mesi non sono sempre e non è detto che tutto continui così.» Si rivolse a Samuel. «Ti prego, diglielo anche tu.»
Samuel le restituì un’occhiata assente.
«Che cosa dovrei dirgli?»
«Che andarsene sarebbe un errore.»
«Obiettivamente no, non lo sarebbe» replicò Samuel. «Credo che abbia molte opportunità di carriera, altrove... ancora di più che qui a Radio Scarlet.»
«Capisco il tuo punto di vista» confermò Rebecca, «E capisco anche il suo, ma non credo che ne valga la pena.» Il suo tono si fece quasi implorante. «Ti prego, Anthony, ripensaci. Abbiamo incastrato Carpenter, noi tre.» Non riusciva ad associare un altro nome al defunto direttore. «Abbiamo incastrato Carpenter, e questo significa che non c’è niente che possa fermarci. La nostra trasmissione sta andando alla grande. Non...»
Anthony la interruppe: «Non prenderti meriti che non hai. Tu non c’eri, quella sera. Tu non c’eri, quando Raymond - il tuo Raymond - ha tentato di uccidere Samuel. Tu non c’eri, quando Carpenter si è visto messo in trappola e ha agito di conseguenza. Tu eri arrivata a capire che Avah era la sorella di Theresa e che, di conseguenza, lui era il mandante dell’omicidio di Kay, eppure non hai avvertito nessuno, perché volevi essere l’unica a prendere tutta la gloria.»
«Quello che conta è che tutto si sia risolto nel migliore dei modi» replicò Rebecca. «Carpenter è morto, Radio Scarlet è sopravvissuta... che cosa vuoi di più?»
«Vorrei non avere visto Veronica volare giù dal quarto piano» puntualizzò Anthony. «Vorrei che Avah Silver non avesse ucciso il direttore e che la Freeman non avesse deciso di vendicarlo mettendo fine alla vita di Avah.»
«Non mi dire che ti sei commosso per la sorte di Avah.»
Anthony scosse la testa.
«No, vorrei soltanto non avere visto la Freeman dimostrare di non avere altre ragioni di vita se non l’amore non corrisposto che provava per il suo principale. Vorrei credere che l’ex direttore di questa radio fosse un uomo onesto e che la Freeman fosse solo una pettegola. Lo capisci, Rebecca, che non me ne importa un accidente del fatto che io, te e Samuel lavoriamo bene insieme?»
«Sì, lo capisco.» Rebecca comprese che non aveva altre opzioni, se non accettare il suo punto di vista. «Quello che ti suggerisco è di prenderti una vacanza; una lunga vacanza. Dopo avrai tutto il tempo per decidere. Se sarai ancora dell’opinione di andartene, te ne andrai. Tutto ciò che ti chiedo è di non fare scelte avventate. Potresti pentirtene, un giorno, se tu decidessi oggi. Riflettici per qualche settimana. A quel punto, ne sono certa, farai la scelta giusta.»
«Io sono certo del contrario, invece» replicò Anthony. «Nessuna scelta è mai davvero giusta o davvero sbagliata. Tutto dipende da tanti altri tasselli e dal loro modo di incastrarsi.»
«Sì, forse hai ragione» ammise Rebecca. «Vada come vada, spero soltanto che, un giorno, guardando indietro, tu possa sentirti soddisfatto di quello che hai fatto.» Si diresse verso l’attaccapanni e prese la giacca. «Si è fatto tardi, è meglio che torni a casa. Ci vediamo domani, spero.»
Anthony sorrise, con amarezza.
«Non importa che sia domani, che sia tra un mese o che sia tra tanti anni. Sono sicuro che un giorno ci rivedremo e che non faremo altro che chiederci se, quando potevamo, abbiamo davvero fatto abbastanza.»
«Le persone che hanno ucciso tua moglie non ci sono più» gli ricordò Rebecca. «Questo significa che sì, abbiamo fatto abbastanza.»
«Non ci sono più, è vero» obiettò Samuel, «Ma quanto sangue è stato versato nel frattempo? Quante persone sono morte? Quante ancora avrebbero potuto morire?»
«Tante» confermò Rebecca, «Ma rimango del parere che la maggior parte di loro se la siano cercata. Non posso commuovermi per Carpenter, per Theresa o per sua sorella. Meritavano la fine che hanno fatto.»
Si diresse verso la porta e uscì, richiudendola alle proprie spalle.
Era finita.
Forse un giorno Raymond sarebbe uscito dal carcere e sarebbe tornato a cercarla, ma dubitava che fosse ancora interessato a lei.
Era davvero finita, poteva sforzarsi di vivere serenamente.
Gli strascichi di quanto era accaduto si sarebbero trascinati nel tempo ma, almeno per quella sera, Rebecca voleva credere che fosse finita per sempre. Oltre lo stabile di Radio Scarlet, la sua vera vita la aspettava.

*** FINE ***



Milly Sunshine©
3 Novembre 2010 - 28 Marzo 2015






NOTE DI CHIUSURA: nell'ormai lontano 2010 avevo ventidue anni e alle spalle molti racconti, pochi dei quali a cui ero seriamente affezionata (tra quelli a cui ero affezionata, uno è diventato "Le Lettere dell'Innocenza" pubblicato l'anno scorso, uno sta diventando "Le Lacrime di Mezzanotte"). Nel corso dell'autunno iniziai a pensare a una trama, volevo scrivere di un mistero e di certi specifici elementi che a poco a poco vennero fuori e andarono a incastrarsi l'uno con l'altro.
Dovevano esserci un delitto commesso in passato e uno commesso nel presente, come Marissa e Kay (che in quella prima versione era Kate). Poi dovevano esserci due figure contrapposte da una forte rivalità professionale, come Kay e Rebecca. Doveva inoltre esserci una sorta di ipotetico love triangle che in realtà non c'era mai stato, come Anthony/ Kay/ Samuel. Doveva esserci una trasmissione (nella prima versione televisiva) che si occupava, per ordini dall'alto, di banalità invece che di questioni serie. Poi doveva esserci lei, la femme fatale che protagonista non era, ma intorno alla quale ruotava la vicenda: Avah, che ironia della sorte a quei tempi si chiamava Kay, nome cambiato perché Kate e Kay erano troppo simili.

Ci misi molto tempo ad abbozzare una prima versione, anche se non ricordo esattamente quanto, comunque un anno o giù di lì. Ne venne fuori qualcosa che non mi soddisfaceva del tutto, ma poi lo misi da parte e mi dedicai a un progetto nuovo (divenuto poi a distanza di anni e anni, nel 2021, "Il Sussurro della Farfalla" e poi pubblicato su EFP un anno fa).
Nel frattempo finii l'università alla fine del 2012, nell'autunno del 2013 trovai il mio primo lavoro e nel tempo libero mi dedicai occasionalmente a vari progetti, ma non a BDP. Fu solo quando persi il lavoro, all'inizio del 2015, che decisi di tornarci su, approfittando del tanto tempo libero che avevo.
Lo riscrissi quasi interamente in un mese o due, pubblicandolo su un forum di scrittura creativa ai tempi abbastanza frequentato e oggi semideserto. In particolare un appassionato di gialli mi diede parecchie dritte e ne venne fuori questa versione, che completai pochi giorni prima di ricominciare a lavorare da un'altra parte.

Piccola curiosità: ai tempi del mio primo lavoro mi facevano svolgere in prevalenza attività di segreteria, ma occasionalmente aiutavo dei colleghi in altre mansioni e talvolta mi capitava di usare il loro gestionale. C'era testo che, a seconda dello status di certe spedizioni, era evidenziato in verde, in giallo o in rosso. Mi saltò all'occhio come il testo nero su sfondo rosso fosse il più nitido in assoluto e realizzai che anche sui fogli Excel avevo la tendenza a evidenziare il testo colorando le caselle di rosso o colori affini (e il mio capo si lamentava perché secondo lui si vedeva male).
La cosa non era sorprendente, in realtà, per quanto all'epoca la mia miopia fosse lieve abbastanza da permettermi di vedere bene il monitor senza occhiali, mi rendevo conto che non tutti i colori di sfondo facevano risaltare il testo allo stesso modo, almeno per i miei occhi.
Fu così che mi venne in mente l'espediente dello sfondo di Wordpower, programma da me inventato, avendo in mente le grafiche dei sistemi pre-Windows, un po' mescolate con quella del televideo. Nella prima versione, invece, non vi era alcun accenno a difetti di vista, oppure a sfondi modificati.

Detto questo, veniamo ai doverosi ringraziamenti. Grazie Swan Song per le puntuali recensioni e per avere seguito questo racconto con così tanta partecipazione.
Grazie anche a Orso Scrive... che al momento in cui scrivo non lo sa, perché gli mancano ancora diversi capitoli, ma che ha esposto qualcosa che somiglia molto alla soluzione del mistero diverse recensioni fa.
Grazie anche a chi eventualmente verrà dopo, le recensioni sono sempre gradite, anche se fosse per dirmi che mi meriterei lanci di pomodori. In tal caso prediligo quelli piccoli, tipo datterini e ciliegini. ;-)

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