Itai doshin

di MissAdler
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cascare nei tuoi occhi ***
Capitolo 2: *** Non avere paura ***
Capitolo 3: *** Vorrei ***
Capitolo 4: *** Connessi ***
Capitolo 5: *** Bright Star ***
Capitolo 6: *** 10 cose che odio di te ***
Capitolo 7: *** Autumn in Tokio ***



Capitolo 1
*** Cascare nei tuoi occhi ***


Coppia: Hinata/Kageyama
Rating: giallo
missing moment, post s2/pre s3

 
 

CASCARE NEI TUOI OCCHI
 
 
 
Ed io che invece vorrei solo averti più vicino
Cascare nei tuoi occhi e poi vedere se cammino
Che sono grandi come i dubbi che mi fanno male
Ma sono belli come il sole dopo un temporale

 

Avere a che fare con Hinata Shoyo era come inciampare ripetutamente su un tappeto elastico. Un rimbalzo, uno soltanto, e la forza di gravità non esisteva più, niente ti teneva attaccato al suolo, a ogni secondo un nuovo balzo ti sparava più in alto, ti faceva girare la testa, ti shakerava il cervello, ti rammolliva i muscoli, le ossa, la volontà. 
Tobio l’aveva studiato a lungo, il suddetto cretino. Conosceva ogni sua micro-espressione, ogni sfumatura ramata di quella massa informe che gli spioveva sugli occhi e che profumava di zucchero filato. Conosceva il modo in cui i suoi muscoli si tendevano durante la rincorsa, in cui gli spigoli delle ginocchia sporgevano sotto la pelle tesa per poi dargli lo slancio e farlo schizzare in aria come una scheggia impazzita. 
L’aveva scomposto e analizzato eppure continuava a sfuggirgli qualcosa, qualcosa di importante che non riusciva mai ad afferrare e a decifrare, cosicché il non capire lo rendeva agitato, insofferente, talvolta scontroso. Soprattutto quando lo sognava, in quei dormiveglia confusi e umidicci di cui non ricordava niente, a parte l’arancione inconfondibile dei suoi capelli e un odore dolciastro che poi gli restava nel naso tutto il giorno.
Perché accidenti Hinata Shoyo restava ancora un mistero per lui?
Se lo stava chiedendo anche quella sera, mentre lo guardava spingere la sua bici con le mani che tremavano e le guance rosse. La brezza notturna che gli spettinava i capelli ancora sudaticci. 
Avevano appena battuto il Seijoh, erano in finale con lo Shiratorizawa e l’indomani si sarebbero giocati tutte le loro carte. Avrebbero lottato insieme, lui avrebbe fatto splendere Hinata come il sole stesso, avrebbe alzato per lui nel momento perfetto, con la perfetta angolazione e velocità, lo avrebbe reso inarrestabile come si riprometteva di fare ogni volta, a ogni partita, a ogni allenamento.
Finché io sarò qui, tu sarai il più forte, gli aveva detto un giorno, non ricordava più nemmeno quando, e aveva tutta l’intenzione di prestare fede a quel giuramento.
 
Si stava alzando il vento, le stelle sembravano troppo vicine, come uno stuolo di lucciole attratte dall’elettricità che emanavano i loro corpi. 
Le fissavano ansimando sottovoce, le mani di Tobio chiuse a pugno nelle tasche, quelle di Shoyo a stritolare il manubrio della bici. 
Poco prima avevano provato qualche schiacciata, incapaci di restare fermi, di scendere a terra e di tenere i piedi attaccati al suolo. Erano corvi tornati a volare, come poteva, il coach Ukai, chiedere loro di restare giù, quando entrambi si sentivano ancora tra le stelle? Le stesse stelle che ora non potevano smettere di fissare, bevendole con gli occhi, riflettendone il bagliore sulla pelle lucida delle guance.
La senpai Shimizu li aveva spediti a casa a riposare, ma nessuno dei due sarebbe riuscito a farlo davvero. Dormire, poi, era impensabile, con quell’eccitazione a fior di pelle che gli faceva vibrare il sangue nelle vene, formicolare le piante dei piedi e fremere le mani. 
“Posso accompagnarti fino alla fermata del bus?” 
Hinata l’aveva balbettato senza voltarsi, gli occhi nascosti dalla frangia spettinata mentre si fissava la punta delle scarpe da ginnastica.
Kageyama aveva fatto scorrere gli occhi sulla curva del suo collo, su quel pallore lattiginoso che scompariva oltre la stoffa nera della felpa. Per un istante aveva immaginato di posarci la mano, di far combaciare il palmo con l’intero lembo di pelle scoperta, di sentire le ciocche sulla sua nuca solleticargli le dita.
“Va bene” aveva farfugliato a mezza bocca, come faceva sempre quando le emozioni si affollavano nella sua testa, nel petto, nella pancia, senza che lui sapesse cosa farne, se buttarle fuori a singhiozzi o ricacciarle in qualche oscuro anfratto del suo inconscio. E allora borbottava giusto un paio di monosillabi, con aria indolente e sguardo vacuo, nascondendo l'imbarazzo.
 
L’aria fresca gli asciugava il sudore mentre camminavano fianco a fianco, lentamente, senza dire una parola, lungo la strada deserta che risaliva fino al corso principale.
Tobio sapeva bene di essere attratto da quell’idiota, l’aveva sempre saputo, fin da quella ridicola partita delle medie. Tobio aveva desiderato lanciargli una pallonata sul naso, ma anche stringere a sé quel corpo esile, scattante, carico d'elettricità senza controllo. Voleva afferrare quel moccioso con gli occhi color miele e trascinarlo nella sua vita, voleva conoscere la sua storia, il suo talento, i suoi sogni. L’aveva voluto dal momento in cui l’aveva visto schizzare dall’altra parte del campo e balzare oltre la rete in quel modo folle e solo suo, senza tecnica né disciplina, col fuoco nei polpacci e due ali invisibili dietro la schiena inarcata.
Era rimasto folgorato. Restava folgorato ogni volta, anche adesso. A ogni balzo, a ogni schiacciata, a ogni passo avanti che faceva il nanerottolo, Kageyama si sentiva orgoglioso, perché lui stesso era parte di quella magia e perché Hinata aveva scelto di fidarsi di lui, tanto da chiudere gli occhi, saltare e colpire l’aria alla cieca.
“Hai paura?” gli aveva chiesto Shoyo di punto in bianco, camminandogli accanto mentre spingeva la bici dall'altro lato.
“Non essere ridicolo.”
“COSA?? Ridicolo sarai tu, creti-yama!” aveva gridato con la faccia paonazza. Era sempre buffo quando si arrabbiava. Ma poi si era rabbuiato, era tornato a guardarsi le scarpe, prendendo a calci un sassolino lungo la strada. “Sto solo pensando che-”
“Te l’ho detto, ci sono io, non devi preoccuparti.”
“Perché?”
“Perché cosa?”
Hinata aveva smesso di camminare, le mani ancora strette sul manubrio, la fermata del bus a pochi metri da loro.
Kageyama si era fermato di riflesso, guardandolo finalmente in faccia e perdendosi in quegli occhi giganteschi, così limpidi e profondi da fargli quasi paura. A volte, quando incrociava il suo sguardo, aveva l’impressione di venire risucchiato direttamente nell’anima di Shoyo, di vederla tutta – colorata e luminosa come l’esplosione di mille soli – di toccarla, di perdersi in essa.
“Come fai a essere così fiducioso? Voglio dire, io me la sto facendo sotto, Ushiwaka è tipo... un super figo! Andiamo, stiamo parlando del ragazzo dei miracoli, di un armadio a quattro ante e-”
“Ushijima non è imbattibile, anche lui ha dei punti deboli e il coach Ukai ci ha spiegato bene come difenderci.”
“Sì ma… perché tu hai così tanta fiducia in me?”
“Che domanda sarebbe?”
“Io non ho paura di Ushiwaka” aveva ammesso Hinata mordendosi il labbro. “Ho paura che tu... che ti renderai conto che non sono poi così invincibile...”
Tobio aveva sentito il proprio cuore smettere di battere per poi ripartire all'improvviso, veloce e martellante come un tamburo impazzito. 
Non aveva risposto subito, non avrebbe saputo cosa dire. Invece aveva distolto lo sguardo e l’aveva lanciato tra le stelle, indugiando sul sottile spicchio di luna che irradiava luce bianca, candida come la fronte aggrottata di Hinata che ora se ne stava lì, con gli occhi bassi e il vento a spettinargli i capelli.
“Sei un cretino.”
“C- che?”
“Sei un grandissimo, gigantesco pezzo di cretino!”
“COOOOSAAA???” 
“Pensi che io non sappia che farai delle stronzate clamorose? Ti ricordo che una volta hai servito sulla mia testa!”
“S- sì, beh, è  stata l’emozione, non è più successo, no? Non succederà più.” 
“Lo so benissimo, non sei più quel ragazzino stupido e fifone! Altrimenti pensi davvero che avrei alzato a te contro Oikawa? Pensi che domani alzerei ancora a te, in una partita così importante??”
Hinata l’aveva guardato a occhi sbarrati, quegli stessi occhi che erano un portale sempre aperto sul suo cuore. Aveva sbattuto le palpebre più volte, in uno sfarfallio di ciglia lunghe e chiarissime, stirando le labbra come se stesse effettivamente soppesando le parole di Kageyama. Poi aveva sorriso, agguerrito e risoluto, mentre il fuoco riprendeva a divampare sul suo viso.
Hinata brillava, brillava sempre, come un sole inesauribile. Tobio non avrebbe mai smesso di ruotare intorno a lui, di splendere del suo riflesso e di restituirgli quella luce accecante, calda e dorata. E non avrebbe mai smesso di credere in lui, anche se forse questo non gliel'avrebbe mai detto. Non così apertamente. 
“Domani noi… vinceremo” aveva concluso tutto d’un fiato, quasi monocorde, nonostante il cuore a mille, alzando il pugno in un raro gesto di cameratismo per siglare quella promessa. Solo che Hinata non l’aveva battuto con il suo. Aveva alzato il braccio, questo sì, staccandosi a fatica dal manubrio tremolante, ma anziché rispondere al gesto di Kageyama, aveva posato il palmo sul suo pugno serrato, racchiudendolo delicatamente nella sua mano.
Tobio era rimasto immobile, a fissare quello strano groviglio di dita e nocche, percependo il suo calore, la pelle indurita dai mille impatti della palla sul suo palmo.
Poi l’aveva visto sporgersi in avanti, sollevarsi sulle punte dei piedi e…
 
Un tonfo, un cigolio fastidioso, la ruota della bici contro la sua caviglia. Le labbra di Hinata, calde e screpolate, morbide da perderci la testa, erano premute sulle sue. 
 
Era durato un secondo, forse anche meno, tanto che il palleggiatore prodigio non aveva nemmeno fatto in tempo a chiudere gli occhi. La mano destra di Shoyo ancora sospesa a mezz’aria, chiusa sul pugno di Kageyama, la sinistra stretta sulla manica della sua felpa.
Col respiro incastrato in gola, insieme a mille parole che non sarebbero mai uscite, Tobio l’aveva guardato impotente mentre lasciava la presa su di lui, mentre raccoglieva la bici da terra e goffamente montava in sella, mentre si allontanava con le spalle che ancora tremavano. 
Anche le sue mani tremavano, soprattutto la sinistra, ancora stretta a pugno lungo la coscia.
E tremavano le sue gambe, le ginocchia, le spalle, la testa. Tremavano le labbra, mentre i denti si digrignavano e un profumo dolciastro gli solleticava le narici.
 
“Shoyo!”
 
Non ricordava di averlo mai chiamato per nome. 
Shoyo. 
No. Quel suono così bello, dolce, stranamente familiare, non se l’era mai ritrovato tra le labbra, non se l’era mai rigirato sulla lingua, non vi aveva mai affondato i denti per assaporarlo fino in fondo. Se lo sarebbe ricordato, no?
Eppure adesso non era importante, nulla lo era, mentre Shoyo si voltava verso di lui, gli occhi lucidi e le guance arrossate, quelle labbra che erano appena state sulle sue senza che lui se ne rendesse conto.
Due o tre falcate e Tobio fece ciò che aveva sempre voluto fare, fin dal primo momento. Infilò le dita in quella massa arancione e tirò piano le ciocche ramate fino a sollevare il viso da bambino di Shoyo, portandoselo a meno di un soffio dal suo. Respirò a pieni polmoni quell’odore di zucchero filato e lasciò cadere gli occhi dentro ai suoi. Precipitò in quelle iridi gigantesche e accettò di perdersi, una volta per tutte.
Non gli lasciò il tempo di smontare dalla bici, di staccare le mani dal manubrio o di pronunciare anche solo una parola. Lo baciò e basta, senza fretta, sentendo montare dentro di sé una nuova certezza. L’indomani avrebbero vinto, l’indomani sarebbero stati invincibili. Non solo perché Shoyo aveva lui, ma anche perché lui aveva Shoyo. Perché avrebbero combattuto insieme. Perché ora entrambi sapevano.



 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Salve! Approdo in questo nuovo fandom e spero davvero di restarci il più possibile perché sono totalmente innamorata di questi corvi tontoloni, ma anche di tutto il resto del tontolario. 
Penso che questa si trasformerà in una raccolta, ho già in mente altre shottine su loro due ma anche su altre ship, quidi vediamo come va con questa intanto. Se vorrete lasciarmi due paroline ve ne sarò grata, ma siate indulgenti, è la prima volta che scrivo di loro e ho letto davvero pochissimo. A tal proposito ci tengo a ringraziare la bravissima Violet Sparks che mi ha letteralmente conquistata con le sue storie, al punto di convincermi a recuperare l'anime. 
Il titolo e la citazione appartengono a una canzone di Ultimo.
Non aggiungo altro, ma spero davvero che questa piccola storia vi sia piaciuta. 
A presto ♥ 
Aislinn


 

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Capitolo 2
*** Non avere paura ***


Coppia: Azumane/Nishinoya
Rating: giallo
missing moment, post s3

 
 

NON AVERE PAURA
 
 
 
Se mi guardi così, se mi sfiori così
Se avvicini la tua bocca al mio orecchio
Non finirà bene
Ma ti prego no, non smettere
Non smettere mai


 

Yū Nishinoya correva veloce, come una volpe selvatica che sfrecciava tra gli alberi annusando l’aria impregnata di pioggia. Asahi Azumane gli stava dietro a fatica, con i suoi settantacinque chili di muscoli e la stazza di un orso impacciato.
Il vento che gli gelava le guance profumava di legno dolce e terra bagnata, le scarpe affondavano mollemente nel fango mentre i pantaloni della divisa si inzaccheravano fino alle ginocchia.
“Nishi, aspetta! È inutile, ci siamo persi!”
Non erano nemmeno le cinque di pomeriggio, ma a fine gennaio le giornate erano corte e la notte arrivava presto, molto prima del sonno.
“Non ci siamo persi” aveva risposto il volpacchiotto mentre sfrecciava pochi metri avanti a lui. La voce attutita dalla pioggia battente, la figura illuminata solo per un istante da un lampo in lontananza mentre indicava qualcosa di imprecisato davanti a lui. “Vedi?? Guarda laggiù, quella è la casetta di cui ti ho parlato! Quella dove venivamo io e il nonno d’estate.” Noya aveva smesso di correre e ora saltellava sul posto sovraeccitato. “Direi che abbiamo trovato il riparo perfetto!”
“L- lì dentro?”
“Andiamo, Asahi, non fare il cacasotto! Sei un armadio di un metro e ottanta!”
Ma una capanna abbandonata nel folto del bosco, durante una tempesta, è lo scenario perfetto per qualunque film dell’orrore, si era ritrovato a pensare Azumane mentre batteva i denti per il freddo. Forse un po’ anche per la fifa.
Nishinoya doveva essersi stancato di saltellare e ora lo stava guardando immobile, con la testa inclinata da un lato. Azumane aveva sentito quella familiare vibrazione lungo la spina dorsale, tra le costole, fino all’osso sacro mente osservava i suoi capelli nerissimi e sporcati di giallo, completamente zuppi, che gli si appiccicavano alla fronte, alle orecchie, ai lati del collo. Si era sfiorato distrattamente i propri, ancora raccolti morbidamente dietro la testa ma appesantiti dall’acqua. Non riusciva mai a dire di no a Yū. Non riusciva a essere davvero spaventato se quel ragazzino gli stava accanto, il che suonava ridicolo visto che era lui quello grande e grosso, il gigante su cui circolavano le voci più disparate, dicerie che lo descrivevano sempre come una specie di criminale da cui guardarsi le spalle. Yū invece era un furetto tutto grinta e ottimismo, così minuto da sembrare un moccioso delle medie, eppure rimaneva l’unica persona che riusciva davvero a infondere coraggio al temuto asso del Karasuno.
“Va bene, andiamo a dare un'occhiata.”


Doveva essere solo una passeggiata di un paio d’ore, Noya voleva fargli vedere il bosco dove lui e suo nonno andavano a raccogliere funghi, il laghetto con le carpe bianche e rosse, quel rifugio in mezzo agli alberi che non era nemmeno sicuro ci fosse ancora.
Ma poi il percorso era diventato difficile da seguire, erba, rami caduti, cespugli di pungitopo li avevano costretti a uscire dal sentiero e a gironzolare senza sapere bene dove andare, finché il buio e il temporale non li avevano sorpresi totalmente impreparati.


“Okay, mi aspettavo di peggio… non è messa poi così male.”
“Te l’avevo detto. L’ultima volta il nonno aveva anche riparato il tetto. In effetti è un peccato non esserci più tornati…”
Mentre Yū continuava a parlare a raffica, raccontando di quella volta in cui aveva pescato un pesce di quasi tre chili o di quando suo nonno gli aveva insegnato ad andare in bicicletta senza mani, Asahi continuava a guardarsi attorno affascinato. Le assi del pavimento scricchiolavano sotto i suoi piedi mentre passava in rassegna i muri di legno, le travi sul soffitto e i pochi mobili spartani: un divano logoro e macchiato, un tavolo con due sedie traballanti, un armadio mezzo aperto da cui spuntavano diverse canne da pesca e un vecchio baule mangiucchiato dai tarli.
Era bello trovarsi in un luogo dove Yū era stato bambino, in qualche modo era come imparare a conoscere lati di lui che a occhio nudo nessun altro poteva scorgere.


La prima volta che si era trovato davanti quel ragazzino del primo anno, capelli ingellati all’insù, maglietta bianca oversize, un sorrisetto impertinente sulle labbra sottili, Asahi Azumane era rimasto folgorato. All’inizio dell’anno scolastico l’aveva incrociato nei corridoi, ma non si erano mai parlati, nemmeno una volta. Finché un pomeriggio il piccoletto non si era presentato in palestra, con le sopracciglia aggrottate e un ghigno risoluto, quasi sfacciato. Azumane non avrebbe potuto negare che gli avesse fatto uno strano effetto.
L’aveva visto sfrecciare sul linoleum come un fulmine, ricevere le sue schiacciate in ogni modo possibile in un fluire di pura elettricità senza controllo, e allora aveva iniziato a domandarsi se a un certo punto la palla avrebbe di nuovo toccato terra o se avrebbe continuato a rimbalzare all’infinito sugli avambracci di quel ragazzino esagitato che non smetteva di ghignare.
Tu sei l’asso, giusto?”
Beh, tecnicamente… sì, sono Asahi Azumane, secondo anno.”
Che figooo! Le tue schiacciate fanno SBOOOM ma anche SBAM! Sono difficilissime da ricevere! Io mi chiamo Yū Nishinoya, primo anno!”
Oh… grazie, io… devo ancora migliorare il secondo tempo in realtà...”
Quindi adesso lo faremo insieme?”
F- faremo cosa?”
Le strisce a tutti i culi!


La pioggia non smetteva di picchiettare sul tetto di quella minuscola catapecchia, in lontananza qualche rapace notturno bubolava pigramente. Noya aveva riportato lo sguardo su di lui, i capelli completamente abbassati che gli gocciolavano sul viso, le guance arrossate dal freddo.
“Cavolo, mi dispiace Asahi.”
“Per cosa?”
“Doveva essere una passeggiata tranquilla.”
L’asso aveva sorriso lasciandosi cadere sul divano polveroso. “Con te? Qualcosa di tranquillo?”
“Ma ora sei bloccato qui… magari hai degli impegni per cena…”
“Nessun impegno. E poi sto bene qui” aveva detto stringendosi nelle spalle e infilando le mani tra le ginocchia, “mi piace la pioggia.”
Mi piace stare con te, non importa dove siamo, non importa se il cielo ci cade addosso.
Era questo che avrebbe dovuto dire, se per una volta avesse trovato il coraggio necessario, ma poi uno starnuto lo aveva strappato dai suoi pensieri.
“Se ti ammali prima del torneo primaverile, Daichi ammazzerà me, lo sai?”
“Ammazzerà tutti e due.”
Un secondo starnuto, un altro e un altro ancora.
Nishinoya si era avvicinato al baule e ne aveva tirato fuori una coperta appallottolata. “Fa un po’ schifo, ma meglio di niente.”
“Beh, dovresti prenderla tu. Come ti è saltato in mente di uscire in pantaloncini corti??”
“Nah, io non ho mai freddo!”
Azumane se l’era appoggiata sulle spalle, poi era rimasto seduto a guardare l’amico che gironzolava allegro in quei pochi metri quadri, le mani sui fianchi e gli occhi che saettavano su ogni oggetto, su ogni asse di legno, come se fossero schermi in cui poteva vedere proiettati mille ricordi.
Se Asahi avesse avuto le palle di correre il rischio, si sarebbe alzato da quel divano, avrebbe raggiunto Yū e l’avrebbe stretto tra le braccia, avrebbe premuto il torace tra le sue spalle, la bocca tra i suoi capelli bagnati, non avrebbe temuto di spezzare quelle ossa sottili, di soffocarlo con la sua stretta poderosa e sgraziata. Non gli sarebbe importato di essere il doppio di lui, di poterlo letteralmente frantumare, spaventare o imbarazzare, di rovinare tutto, di mandare all’aria quell’amicizia che si era radicata sotto la loro pelle così spontaneamente, così testardamente.
“Mio nonno diceva che avere paura è una perdita di tempo.”
“Come?”
Yū aveva recuperato un vecchio pallone dal baule lasciato aperto e ora lo teneva tra le mani fissando con sguardo assente il cuoio scolorito.
Asahi si chiese se non stesse semplicemente ragionando ad alta voce o se magari non avesse detto nulla, se l’avesse solo immaginato, perché ciò che aveva mormorato il più piccolo era la risposta perfetta a tutte le domande che gli vorticavano in testa.
“Dietro ogni paura c’è un’occasione sprecata, Asahi.” Nishinoya si era voltato e ora lo guardava negli occhi, stringendo il pallone tra le mani. “E poi, tu tra poco te ne andrai. Dopo questo torneo non sarai più il nostro asso.”
Per un momento Azumane aveva creduto che stesse per piangere. Lui stesso forse stava per farlo, perché il pensiero di non essere più parte del suo mondo, di quella squadra, del sogno per cui avevano lottato, per cui si erano allontanati, persi e ritrovati, trasformandolo in un obiettivo reale, concreto, raggiungibile… era deprimente e insostenibile.
Non voleva perdere tutto questo. Non voleva perdere Yū.
“Quindi ti deciderai a baciarmi, prima della vittoria?”
Ad Asahi era andata di traverso la saliva e aveva iniziato a tossire come un idiota. La coperta gli era caduta dalle spalle e quando la tosse era passata lui era rimasto a fissare le ginocchia di Nishinoya incapace di articolare anche un solo monosillabo.
“Perché vinceremo, giusto?” aveva continuato il libero senza scomporsi, lasciando cadere il pallone a terra e andando a piantarsi proprio davanti a lui.
Asahi non aveva più potuto evitare di guardarlo in faccia.
“S- sì…”
“Sì, vinceremo, o sì, mi bacerai?”
Sorrideva in quel modo sfacciato che gli faceva accartocciare lo stomaco. Di fronte a lui si sentiva debole, codardo, e allo stesso tempo aveva la sensazione di poter sollevare un palazzo a mani nude, di essere invincibile, di poter volare come il corvo che era in campo.
“Ma... io credevo che tu… Nishi, a te piace Shimizu” aveva balbettato squadrando il suo viso senza capire.
“A tutti piace Shimizu.”
In quei due anni, asso e libero avevano sviluppato un legame atipico, la loro non era propriamente un’amicizia tradizionale. In trasferta si addormentavano vicini sul pullman, la guancia di Yū sulla sua spalla, il respiro caldo sul suo collo, i capelli a solleticargli la mascella. La notte, rannicchiati nei futon improvvisati, una coperta da condividere era più che sufficiente, con il profumo del suo shampoo che gli riempiva il naso e le ginocchia che si toccavano per sbaglio e che poi restavano attaccate fino al mattino. Talvolta, in piedi contro un muro, tra la folla, sugli spalti durante la partita di qualcun altro, si erano sfiorati le dita senza nemmeno guardarsi, impalati uno di fianco all’altro, per poi intrecciarle in silenzio e restare così, palmo contro palmo, sentendosi completi.
O almeno, Asahi si sentiva così, quando gli era vicino. Come se in quel ragazzino così diverso da se stesso riuscisse a scorgere il suo riflesso, la sua parte mancante, metà della sua anima.




“A- a me non piace Shimizu…”
L’asso era sprofondato nello schienale del divano quando Yū gli si era avvicinato ancora, senza sganciare gli occhi dai suoi: non gli avrebbe mai concesso di fuggire proprio ora.
Troppo a lungo Asahi si era ostinato a considerare Shimizu l’alibi di Yū, quando in realtà era sempre stato il suo. Era più facile credere di non avere speranze, di non essere ricambiato, che l’oggetto del desiderio di Nishinoya fosse un’altra persona. Era un po’ come restare sempre in panchina: non rischiava niente, ma non vinceva mai.
Con il cuore in gola aveva strabuzzato gli occhi, squadrando l’altro che si metteva a cavalcioni su di lui, circondandogli il collo con le braccia e ostentando la più completa nonchalance, come se fosse solo un gioco. All’improvviso Asahi non aveva più freddo, la pioggia era una patina gelida sulla pelle ma lui non la sentiva più. Non sentiva il ticchettio cadenzato sopra le loro teste, il profumo di resina e terra bagnata, il peso dello chignon ormai sfatto e pesante d’acqua sulla sua nuca. C’era solo Yū, le sue ossa che premevano sui muscoli delle cosce, il suo peso caldo e denso che lo immobilizzava contro ogni logica. Se Azumane avesse voluto, avrebbe potuto sollevarlo con un braccio solo, scansarlo, allontanarlo, gettarlo a terra e fuggire via.
Se solo avesse voluto.
Invece aveva sollevato lo sguardo puntando gli occhi in quei pozzi scuri e immensi. Era strano che in quella posizione Yū fosse più in alto di lui, ma allo stesso tempo era giusto.
Asahi aveva sempre pensato che per qualche errore divino i loro corpi fossero stati invertiti, che quello alto e ben piazzato dovesse essere Nishinoya, mentre lui, con la sua indole timida e insicura, si sarebbe trovato più a suo agio in quelle membra corte e sottili, in quei muscoli abbastanza scattanti per scappare via, abbastanza asciutti da farlo passare inosservato.
Ma in fin dei conti, era bello anche così, con loro due che in qualche modo si erano scambiati i corpi, che per quel disguido sarebbero rimasti collegati per sempre, nonostante tutto.
“A me non piace Shimizu” aveva ribadito con più convinzione, sfiorando con dita incerte le cosce toniche di Yū, la peluria imperlata di pioggia e sudore, la pelle calda, i solchi dei muscoli tesi vicino alle ginocchia.
Dietro ogni paura c’è un’occasione sprecata.
“Perché tu sei uno originale, Asahi.”
Yū stava sorridendo, senza malizia, in quel modo impertinente, infantile e contagioso che Asahi aveva scoperto di amare dal primo momento.
“No” aveva risposto sentendosi improvvisamente coraggioso, come nell’istante in cui si dava lo slancio per staccarsi da terra e sfondare un muro a tre, assurdamente convinto di poterci riuscire. “Perché a me piaci solo tu.”


Yū non aveva smesso di sorridere, ma tutto il suo corpo aveva tremato per un istante. Asahi aveva sentito tutti i suoi muscoli acerbi contrarsi all'unisono, le sue cosce stringersi su di lui, le braccia farsi più strette intorno al suo collo. E lasciandosi guidare da quell’improvvisa fiammata di coraggio, si era gettato in avanti, chiudendo gli occhi mentre le labbra di Yū si aprivano contro le sue.


Azumane non aveva mai baciato un ragazzo.
Alle medie gli era capitato con un paio di ragazze, più per curiosità che per vero desiderio. Il tifo degli amici scemi poteva questo e altro durante una festa estiva o un gioco a penitenze.
Ma da quando aveva conosciuto Yū Nishinoya, si era reso conto di volere solo lui, di volerlo davvero, cosi intensamente da starci male. Voleva ascoltare la sua risata, i suoi deliri logorroici, gli insulti, le parolacce. Voleva guardarlo giocare, sorridere, arrabbiarsi. Voleva toccarlo e stringerlo e premere la bocca sulla sua. Voleva spettinargli i capelli e farlo sentire al sicuro, proprio come si sentiva lui quando gli era accanto. Amava ogni particolare di quel ragazzino pazzo e sovraeccitato, perché accanto a lui diventava una persona migliore.
Per questo aveva avuto così tanta paura di deluderlo, per questo era rimasto immobile, su quella panchina immaginaria, per ben due anni.
Ma ora che l'asso era entrato in campo, non si sarebbe seduto mai più.


Asahi fece scorrere le mani sui fianchi stretti di Yū, le infilò sotto la sua felpa e sotto la maglietta ancora bagnata, li premette contro la sua schiena bollente e se lo trascinò addosso. Quando Noya piegò la testa di lato per baciarlo più profondamente, Asahi non ebbe più paura di fargli male, di stringerlo troppo forte o di togliergli il respiro. In realtà adesso era lui quello senza fiato, mentre la bocca del ragazzino scivolava umida sulla sua e le sue dita giocherellavano con i capelli sfuggiti allo chignon.
Non gli importava se il temporale avrebbe imperversato per tutta la notte o se quella catapecchia gli sarebbe crollata in testa. Avere paura era una perdita di tempo, ora finalmente lo capiva. E gliel’aveva insegnato Yū. Glielo stava insegnando anche ora, mentre con quella lingua dispettosa accarezzava la sua, mentre si sedeva un po’ più avanti sulle sue cosce, schiacciandosi su di lui, strappandogli un gemito che si era confuso con la pioggia.




 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Salve corvetti e corvette! Torno prima del previsto con questa piccola Asanoya, che avevo in testa già da un po’ ma che alla fine sono riuscita ad abbozzare solo in questi giorni. Non sono pienamente soddisfatta del risultato, forse perché ho paura di non averli resi abbastanza IC, ma spero che comunque vi sia piaciuta. Ero molto tentata di continuare la lemon e farli quagliare, lo ammetto, però boh, ancora non mi sento sicura perché sono picciniii XD
Comunque, se vi va di lasciarmi un parere, mi farete felice.
La canzone citata è Non avere paura di Tommaso Paradiso.
A presto!
Aislinn


ATTENZIONE
Questa storia partecipa fuori-challenge all’iniziativa “Tanti piccoli semi per far fiorire nuove storie” indetto sul gruppo L’Angolo di Madama Rosmerta e si ispira al prompt del PACCHETTO BIANCOSPINO, che conteneva queste indicazioni:
Prompt: Passeggiata nel bosco
Situazione: A e B vengono sorpresi da un temporale e sono costretti a rifugiarsi in una casa abbandonata.
Bonus: a un certo punto della storia viene inserito un flashback.



 

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Capitolo 3
*** Vorrei ***


Coppia: Sawamura/Sugawara, past Sawamura/Kuroo
Rating: arancione
missing moment, da collocare durante la s2, un po' a piacere XD

 
 

VORREI
 
 
 
Il posto più bello del mondo l'ho visto
Ed erano i tuoi occhi col riflesso del sole



 
KŌSHI


Sugawara non sopporta di sentirsi così nervoso. Lui non si arrabbia mai. Non senza un motivo valido. Di solito è quello che disinnesca, che fa ragionare, che scioglie tensioni e addolcisce anche la situazione più amara. Ci sarà un motivo se quello sbruffone di Oikawa lo ha soprannominato Raggio di sole.
Al contrario, è Daichi quello che normalmente perde le staffe, che fa la voce grossa e tira le orecchie.
Eppure adesso è proprio la sua vicinanza che mette a dura prova i nervi del vicecapitano e gli fa temere una qualche esplosione imbarazzante.


“Mammina e papino stanno litigando. Lasciamoli un po’ da soli.”


Il fatto che sia stato proprio Kuroo a dirlo lo fa innervosire ancora di più. Ma almeno è sollevato che se ne sia andato, l’ultima cosa che desidera è dare spettacolo davanti ai suoi compagni e al Nekoma al gran completo.
La porta si chiude, il silenzio ovattato preme sulle tempie e gli fa rimbombare l’eco di quelle parole nelle orecchie.
Mammina e papino.
Che cosa stupida da dire. Dopo quello che ha scoperto poche ore prima non ha il minimo senso paragonarli a una bella famigliola felice.




L’amichevole di quel pomeriggio si è conclusa con la vittoria dei gatti. Per poco. Per pochissimo…
Ma Suga era in campo e aveva appena saputo. Non era concentrato e ha sbagliato. Un errore dietro l’altro, un effetto domino di cappellate.
Stupido, stupido Kōshi!
Anche Sawamura aveva iniziato a sbagliare, dopo aver visto come lo guardava. E un pochino Sugawara se ne era compiaciuto: provocare una reazione così evidente nel valoroso, imperturbabile capitano, senza pronunciare neanche una parola…
Una stupida vendetta, come stupido si è sentito lui subito dopo il fischio finale.


Sono le dieci di sera e i coach sono usciti a bere qualcosa insieme, i ragazzi del Nekoma hanno portato ai corvi yakisoba e takoyaki caldi: una specie di offerta di pace dopo averli battuti due set a uno.
Lui aveva già pronta una scusa, li avrebbe lasciati a banchettare nella sala comune e se ne sarebbe andato a dormire presto, certo di poter smaltire con una nottata di riposo quel nervosismo bruciante.
Ma no. Sawamura è un bravo capitano, è dovuto venire a chiedergli cosa non andasse, se si sentisse poco bene, se avesse bisogno di qualcosa…
“Sono solo stanco, credo che andrò a letto.”
“Ma è ancora presto, non hai mangiato niente.”
“Non importa, davvero, preferisco farmi una bella dormita.”
“Sei pallido. Dovresti misurarti la febbre…”
La sua mano gli aveva afferrato il polso e quello sguardo preoccupato lo aveva colpito come un pugno nello stomaco.
“Cavolo, ho detto che sto bene!”
Ma quel genere di risposta, quel tono e quell’aria stizzita non sono proprio da lui.
È stato allora che Kuroo ha fatto sloggiare tutti, in un brusio sommesso di curiosità e proteste colorite, chiudendosi la porta alle spalle senza guardarli.




Suga non è affatto sicuro che qualcuno non abbia portato qualche birra di straforo, che i primini non siano mezzi ubriachi, ma ora non gli importa, non è la mammina della squadra, non è un adulto che deve occuparsi di ogni cosa. Ha sempre provato a farlo perché è la sua indole, gli viene naturale prendersi cura delle persone, avere a cuore i suoi amici e fare di tutto per il loro bene, dare il massimo per ciò che ama. Anche se poi non è mai il protagonista, anche se la maggior parte delle volte resta fermo a guardare e deve ingoiare la frustrazione come uno sciroppo amaro.
Sacrificarsi per un bene superiore, fare un passo indietro per dare alla squadra una speranza di vittoria.
Eppure adesso, con lui, farsi da parte è così difficile…


“Suga…”
“Mi dispiace, non farci caso, ok? Credo di essere solo stanco. Anzi, forse hai ragione, ho anche la febbre, mi ci vuole una bella dormita e tornerò come nuovo, non preoccuparti.”
“Cosa ti ha detto Kuroo durante il secondo set?”
“Ma di che parli?” cinguetta sfoggiando uno dei suoi soliti sorrisi miti e portandosi una mano dietro la testa, ignorando il cuore che inizia a martellargli nel petto.
“Ho visto che ti ha detto qualcosa sottorete.”
Suga non risponde, la sua faccia non riesce a mantenere quella maschera allegra, gli angoli della bocca sono improvvisamente pesanti e si abbassano in un broncio che coinvolge anche fronte e sopracciglia.
“Ti ha detto di quello che è successo all’ultimo ritiro qui a Tokio, non è vero?”
Sugawara proprio non ce la fa a rispondere adesso. Le parole gli restano impigliate in gola e ha come la sensazione che se si sforzerà di sputarle fuori gli strapperanno anche tutto il resto: tonsille, ugola, trachea, sfilacciandogli pure il cuore.
Ma Sawamura è di fronte a lui e l’angoscia sul suo viso è tanto evidente da fare male, perciò si sforza e annuisce lentamente, guardando altrove, un punto imprecisato sulla maglietta bianca del capitano.
Non sa perché faccia così male.
Daichi e Kuroo.
O forse lo sa fin troppo bene.




Il capitano è in forma oggi! Mi toccherà lasciarlo stare sopra anche stavolta…


Come?


Non te l’ha detto? Che scemo, si fa un city-boy e non se ne vanta con gli amici!


Il sangue che si gela, il cuore che si spacca come uno stupido soprammobile di cristallo. Un gingillo impolverato di cui ci si ricorda solo nel momento in cui si frantuma.




Sottorete capita di prendersi insulti, provocazioni, qualche spintone di straforo. Ma quello…
Le immagini che hanno affollato la testa del vicecapitano da lì in avanti sono state così disturbanti da farlo dissociare totalmente. Flash di baci, di carezze, di corpi sudati che aderivano l’uno all’altro, che si torcevano in un groviglio di muscoli tesi e gemiti ovattati.
Daichi che baciava qualcuno che non era lui.


Qualcuno che non era lui.




Era successo solo una volta, l’anno prima, al compleanno di Asahi. Nishinoya aveva rubato una bottiglia di sakè di suo nonno, Shimizu era andata via presto e la tranquilla serata nel seminterrato di casa Azumane si era trasformata in una baraonda.
Sawamura aveva provato a rimettere tutti in riga, ma anche lui era vagamente alticcio, dopo un paio di bicchierini.
Nessuno aveva avuto il coraggio di rifiutare, un po’ perché era una varietà eccellente di sakè, ma soprattutto perché si trattava di una tacita sfida tra maschi, una prova di coraggio, una specie di iniziazione. Una cosa stupida, che Sawamura aveva rifiutato quasi fino all’ultimo, fino a quando non era stato proprio Suga a dirgli che per una volta poteva anche lasciarsi andare e divertirsi.
I ricordi di quella notte sono tutt’ora confusi. Fiocchi di neve sulle guance, le luci gialle dei lampioni sulla strada di casa, le labbra calde e asciutte di Daichi un attimo prima di vederlo andare via.


Non ne hanno mai parlato, non è più successo. Per giorni Sugawara si era ritrovato a credere di esserselo immaginato, ma era bastato un unico sguardo in palestra, una minima esitazione durante un passaggio, per fargli capire che era stato reale, che Sawamura ricordava tutto.




“Voglio spiegarti.”
“Non serve, davvero. È che non immaginavo ti piacesse proprio lui, ero convinto che ultimamente ti vedessi con Michimiya, pensa che scemo! Non ci avevo capito niente!”
Le parole gli escono a raffica mentre ostenta una risata che risulta decisamente poco credibile, debole, come ora sono deboli le sue gambe. Vorrebbe sedersi, sdraiarsi, rannicchiarsi sotto una coperta e diventare invisibile. Dormire per giorni. Tutto, pur di fuggire da quello sguardo che ora lo sta squarciando senza pietà.
“Ma no, Michimiya è solo un’amica” mormora Daichi infilando le mani nelle tasche dei pantaloni e stringendosi nelle spalle. “E Kuroo...”
“Non ti devi giustificare con me, non serve, davvero!”
“Però io voglio che tu lo sappia.”
Perché Sawamura pensa di dover dare delle spiegazioni? Perché proprio a lui?
Trascorre tutto il suo tempo a occuparsi della squadra, proprio come un padre si occupa dei suoi figli. Ma in fondo Daichi è solo un ragazzo, perché non dovrebbe volersi divertire? Perché lui dovrebbe esserne così sconvolto?
O forse non è quella la parola giusta. Sugawara non è sconvolto. Non solo.
È geloso.
“È successo solo una volta” riprende il capitano abbassando la voce di un’ottava, sfoggiando un insolito rossore sugli zigomi, “e non è stato come avrebbe dovuto essere, non era lui la persona con cui... aaaahh merda! Perché è così difficile??”
Suga percepisce tutto il nervosismo che gli gravava sulle spalle scivolargli di dosso come un drappo di seta.
“Perché me lo stai dicendo?”
Daichi si stringe ancora di più nelle spalle, le mani ben calcate nelle tasche e gli occhi che saettano dai suoi calzini a quelli di Suga.
“Lo… lo sai perché.”
Sì, è vero. Forse lo sa. Forse l’ha sempre saputo ma non osava sperarlo.
Il modo in cui Daichi lo ha guardato fin dal primo giorno, il modo in cui gli parla o gli sorride. Con lui il capitano è diverso. Come se lo ritenesse… speciale?


Prima che abbia il tempo di crederci davvero, di arrossire o di realizzare cosa sta per succedere, Daichi gli prende il viso tra le mani, il tempo di soffiargli piano sulla bocca e poi lo bacia.



 
•♡•


 
DAICHI


Le labbra di Kōshi sono sottili e tenere, proprio come le ricordava. Tremano contro le sue e si schiudono in un sospiro. Sulla lingua Daichi sente un sapore dolce, che inghiotte ancor prima di realizzare cosa stanno facendo.
Non riesce a credere di aver trovato il coraggio, dopo tutte le paranoie, il terrore di rovinare la loro amicizia, gli equilibri della squadra e anche il suo – quello mentale – che ora sta andando direttamente a farsi benedire.
Ma chi se ne importa di tutte le cose fragili che si rovinano per così poco, di tutte le stronzate che lo hanno frenato tanto a lungo, quando la pelle di Suga è così bianca, così liscia sotto le dita.
Vorrebbe quasi chiedere un time-out e correre a ringraziare Kuroo, perché nelle sua idiozia ha fatto qualcosa di buono, ha rotto gli equilibri, li ha spinti uno tra le braccia dell’altro. Un po’ lo odia per aver fatto soffrire Suga, forse anziché ringraziarlo dovrebbe prenderlo a pugni, o magari fare entrambe le cose, ma ora che lui e Kōshi sono così vicini non ha la minima intenzione di staccarsi da lui e continua a far scorrere le mani sotto la sua maglietta, assorbe il suo calore, respira il suo profumo che è così dannatamente buono, così familiare e diverso allo stesso tempo, più intenso, più caldo… e si chiede come abbia fatto a resistere per tre anni senza saltargli addosso, dove abbia trovato la forza di starsene al suo posto.


“E se gli altri dovessero rientrare?”
“Non rientreranno tanto presto.”
“Come lo sai?”
“Kuroo li terrà lontani per un po’.”


Non gli dice che quel gattaccio sapeva perfettamente della sua cotta stratosferica per lui, che aveva minacciato più volte di sputtanarlo col diretto interessato, se non si fosse dato una mossa a dichiararsi. Non gli dice che insieme si sono divertiti, hanno sperimentato e trovato un po’ di sollievo dai loro amori creduti impossibili, ma che l’unico ragazzo che ha sempre voluto davvero è solo lui: il suo migliore amico, la persona più saggia e gentile che conosce, che gli dà coraggio, sicurezza, voglia di impegnarsi, la persona che ammira di più.
Forse gliele dirà più tardi, tutte queste cose, ora vuole solo togliergli i vestiti, spingerlo su quel divano, stendersi sopra di lui e continuare ad assaggiare ogni centimetro della sua pelle, affondare il naso tra i suoi capelli, nell’incavo del suo collo, nella piega dell’inguine.
Con il cuore a mille e il respiro corto fa scorrere le dita nel solco al centro del suo petto, sull’addome leggermente cavo, le costole sporgenti sotto la pelle quasi trasparente. I polpastrelli disegnano linee invisibili intorno all’ombelico e poi più giù, sfiorando la peluria chiarissima. Kōshi getta la testa all’indietro e scopre la gola, i capelli una corona d’argento sulla stoffa nera del divano. Daichi non può smettere di guardarlo, si rifiuta di sbattere le palpebre e se potesse eviterebbe perfino di sfilarsi la maglietta per non interrompere il contatto visivo.


Gli piace toccare Suga, ma quando è Suga a toccare lui per un istante gli sembra di aver dimenticato come si respira.
Magari più tardi si deciderà a dirgli anche che è innamorato perso di lui già da quando erano due primini spaesati, ma tutto ciò che adesso riesce a balbettare è un sei bellissimo roco e strozzato, a cui Kōshi risponde con il suo sorriso più puro, le guance rosse, gli occhi liquidi. E quando Daichi scivola dentro di lui basta veramente poco e tutto il suo universo esplode e diviene caos, svaniscono i contorni, si ribalta l’orizzonte, si mischiano i colori. La luce è accecante. Una luce argentata e pura come i capelli di Suga impigliati tra le dita.
Le sue labbra sottili, le guance arrossate, quella piccola voglia vicino all’occhio…
Daichi ama tutto di lui, ogni singolo particolare, anche quel piccolo gemito che si lascia sfuggire mentre inarca la schiena e gli affonda i polpastrelli nelle scapole.


 
•♡•


“Perché non me l’hai detto?”
“Perché tu non me l’hai detto??”
“Era così ovvio! Come hai fatto a non capirlo? Dalla panchina guardo quasi sempre te.”
“Pensavo che lo facessi per farmi notare gli errori!”
“Beh, sì. Ma anche perché sei un bel tipo.”
“Senti chi parla! Mister Raggio di Sole…”
“Sarebbe un complimento?”
“N- no! Cioè, sì. Ma la prossima volta che Oikawa prova a richiamarti così gli sguinzaglio contro Azumane!”
“Che ha più paura di lui…”
“Allora Tanaka!”
“Sai, forse se non fosse stato per Kuroo, avremmo continuato a fare finta di niente all’infinito.”
“Sì, è probabile.”
“Dici che dovremmo ringraziarlo?”
“Mh. Solo dopo che ci saremo presi la rivincita in campo!”





 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Hello there. Chiedo scusa per questa roba confusa e nosense, nessun gatto o corvo è stato maltrattato durante la stesura. Ammetto che quando l'avevo pensata mi era sembrata perfetta, poi ho iniziato a scriverla e ho ricevuto una notizia molto brutta che mi ha fatto passare la voglia di continuarla. Un po' mi sono forzata, perché odio lasciare le cose a metà, ma ammetto che sono felice di averla portata fino alla fine, perché in fin dei conti mi piace scrivere, è qualcosa che amo fare, e mi ha aiutato a distrarmi un po'.
E poi Daichi e Suga sono una coppia dolcissima e comfort, mi hanno tenuto compagnia per qualche giorno e gliene sono molto grata. Ci ho infilato un po' di angst perché boh, ma alla fine Kuroo è stato il cupido della situazione, quindi lo perdoniamo no?
Ho iniziato a shippare Daichi e Kuroo (ma solo come friends with benefit) dopo aver letto una rossa di Violet, quindi ho voluto inserirci questa cosa, ma per me il vero amore di Sawamura è sempre stato e sempre sarà Sugawara. ♥
Se volete lasciarmi due parole, anche solo per dirmi se ha senso, mi farete contenta.
La citazione è presa da una canzone di Psicologi, che dà il titolo anche alla storia (lo so, è un titolo a cazzo di cane, ma non mi veniva in mente niente, gh).
A presto, spero. :/
Aislinn

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Capitolo 4
*** Connessi ***


Coppia: Hinata/Kageyama
Rating: giallo/arancione
Contesto: post time skip
spoiler per chi non ha letto il manga

 
 

CONNESSI
 
 
 
Penso non avrebbe senso
Fare un tuffo immenso
Se non ci sei tu a nuotare
Tu che sai colmare
Tu che sai calmare

 

La sabbia in Brasile è morbida e farinosa, una nuvola calda in cui arricciare le dita dei piedi mentre il sole picchia dispettoso sulla testa.
Kageyama non ha mai amato particolarmente l’estate. La sua pelle chiara si arrossa quasi subito, il sudore gli appiccica i capelli alla fronte e in giro c'è sempre troppa gente. Ma ora non gli importa. Non è per godersi il mare che si trova lì, né per fare il pieno di vitamina D.
Era iniziato tutto con un battibecco per telefono, poi c’era stato un invito e una promessa scucita a suon di monosillabi.

Il giorno in cui Hinata gli aveva inviato quello stupido selfie insieme a Oikawa, avrebbe voluto prendere il primo aereo e correre a strangolare entrambi, magari portandosi dietro Ushiwaka nel caso gli fosse servita una mano (o due bicipiti enormi) per occultare i cadaveri. Ma Tobio non è più il ragazzino permaloso e irascibile del primo anno di liceo e lui e Shoyo non sono più una coppia. In effetti, forse non lo sono mai stati. Pomiciare di nascosto ogni volta che ne avevano la possibilità fino al giorno del diploma non si può considerare una relazione. E nemmeno scivolarsi dentro goffamente, a poche ore dalla partenza, senza riuscire a guardarsi in faccia o a dire mezza parola.
Era stato solo un modo come un altro per dirsi addio, perché comunque alla fine Hinata se n’era andato per davvero.
Due anni al massimo, secondo il coach Washijō, ma Kageyama sapeva che sarebbe stata solo la prima tappa, che quella fame sarebbe sempre stata lì, a farli sbavare di fronte all’ennesima sfida e a spingerli in direzioni che difficilmente si sarebbero intersecate.
Sarebbe stato stupido tenerlo legato a qualcosa di così indefinito, frenare il suo volo quando lo slancio era tanto potente, continuare a stiracchiare quell’elastico già sottile quando a dividerli c’era praticamente mezzo mondo.
Eppure, ora che quei due anni si sono quasi esauriti, eccoli entrambi lì, sulla spiaggia bianca di Flamengo, con due stramboidi esagitati e vagamente brilli – i fratelli “comprami una birra”? – che continuano a trascinarli nell’ennesima partita di beach volley.

Il sole si attacca alla pelle di Shoyo come se non potesse resistergli. Tobio si incanta a osservare le mille lentiggini apparse sulle sue guance, sulla punta del naso, sulle spalle arrossate. Sono più ampie, quelle spalle, più solide, più virili. Kageyama ricorda un nanerottolo esile e spigoloso, un corpo leggero, minuto, roseo e liscio come quello di un bambino. Ma l'atleta che ha davanti adesso è completamente diverso.
Si passa una mano tra i capelli scuri e sudati, devia lo sguardo verso il bagnasciuga perché il suo cuore sta iniziando a martellare troppo forte dentro la cassa toracica ed è fastidioso. Come lo è Hinata che si rigira distrattamente la palla tra le dita, la schiena rilassata, il bacino leggermente inclinato da un lato, i piedi che affondano nella sabbia. Una posa disinvolta che non lascia trasparire il benché minimo turbamento.
Tobio gliela invidia, perché lui invece riesce a malapena ad alzargli la palla decentemente, a servire in salto o anche solo a stare in piedi. Sente le tempie pulsare come se due martelli pneumatici gli stessero trapanando il cranio.
Forse è il sole. Per forza! Dev’essere colpa dei raggi ultravioletti, del caldo a cui non è abituato o magari del jet lag (visto che è arrivato solo da poche ore).
La sua pelle è impregnata di sudore, sabbia e crema solare, a ogni ricezione in tuffo si impiastriccia ancora di più. I primi set erano andati meglio, giocandoli con i vestiti ancora addosso, ma poi le magliette si erano inzuppate di sudore e il sole di mezzogiorno li aveva costretti a rimanere solo con i calzoncini del costume da bagno. E beh, era stato l’inizio della fine. Non tanto per la sabbia ruvida sul petto, sui gomiti, fin dentro l’elastico del costume, quanto per Shoyo che si muoveva davanti a lui con una nonchalance illegale, stiracchiandosi e contraendo i muscoli come se non fosse minimamente consapevole della sua bellezza o non gliene importasse affatto.
Boke…
Boke, Hinata, boke!

“È assurdo che un normale palleggio venga cosiderato doppio tocco solo perché dura un millisecondo di troppo” si lamenta Tobio lasciandosi cadere sulla sabbia dopo l’ennesima sconfitta, “dovrebbe essere più come la pallavolo!”
“Sono le regole del beach volley, bakayama. O magari abbiamo solo trovato qualcos’altro in cui fai schifo, a parte la comunicazione umana!”
“Sta' zitto, cretino! È solo perché devo prenderci la mano!”
“Più che altro dovresti prendere la mira quando sei al servizio…”
“O MAGARI DOVREI PRENDERE A SBERLE LA TUA FACCIA DA CRETINO!”
“MA USI SEMPRE LO STESSO INSULTO! LO VEDI CHE NON SAI COMUNICARE??”

Col passare degli anni, quello non era mai cambiato.
Non avevano mai smesso di farsi la guerra, anche solo su Skype, di confrontarsi tra un insulto e l’altro, di fare a gara per qualsiasi scemenza. Ma non avevano mai parlato di quel loro strano legame, di chi avevano conosciuto, di cosa facevano di notte, quando la solitudine era troppo assordante per chiudere occhio e il letto troppo grande per uno corpo solo.
A che sarebbe servito ammettere di mancarsi? A cosa li avrebbe portati farsi masticare dalla gelosia?
Nemmeno dopo il loro primo bacio avevano mai parlato di sentimenti, non l’avevano fatto dopo la loro prima (e unica) volta. Perché avrebbero dovuto farlo quando ormai era tutto finito?
Si trattava di un tacito accordo, di un facciamo che non è successo niente, che non ci siamo mai baciati, che non siamo mai stati nudi sotto le coperte a stringerci come se stesse per esplodere l’universo, che siamo sempre stati solo amici, rivali, compagni di squadra.

Kageyama è abbastanza sicuro che Hinata abbia avuto delle frequentazioni a Rio, ma ora che lo guarda bene, tutto sorrisi, lentiggini e pagliuzze di sole negli occhi, è certo che in tanti (e in tante) si siano ritrovati a sbavargli dietro.
Beh, qualche avventura occasionale l’ha vissuta anche lui, è ovvio, ma la verità è che non ricorda più nemmeno i nomi, le facce, le sensazioni. La verità è che in ogni bacio, in ogni carezza, in ogni sospiro c’era sempre stato Hinata. C’era solo lui dietro le palpebre chiuse, nel vuoto ingannevole del buio, nei sogni impossibili che faceva a occhi sgranati, mentre il corpo di un altro si schiacciava addosso al suo.
Per qualche giorno, dopo aver ricevuto quella foto, aveva temuto che Hinata e Oikawa…
Ma anche solo il pensiero gli aveva dato la nausea.
Vietato fare domande. Non sapere è sempre la scelta migliore per lui.


“Ci facciamo un bagno?”
“Perché, sai nuotare?”
“Sta’ zitto cretiyama! Scommettiamo che arrivo alla boa prima di te??”
“Bene! Chi perde offre la cena!”
“Andata!”

L’acqua è fresca sulla pelle, la pulisce dalla sabbia e dal sudore, la sospinge in una carezza sensuale. Kageyama stringe la corda della boa tra le mani e abbandona la testa all’indietro, lasciando che i capelli ondeggino sotto la superficie e che i raggi del sole gli si incastrino tra le ciglia.
“Te l’ho detto che a nuotare fai schifo” gongola quando Hinata lo raggiunge pochi secondi dopo.
“So nuotare benissimo invece! È solo che le tue mani sono più grandi.”
“E questo che c’entra?”
“Quando nuoti riesci a spingere via l’acqua molto meglio di me. Come se avessi due remi incorporati!”
“Stai scherzando? Che razza di paragone è? Cosa sarei, una barca??”
“Una barca a remi.”
“E allora tu sei un canotto sgonfio!”
Non se ne accorge subito, ma il viso di Hinata è vicinissimo al suo, tanto che potrebbe contarle una per una, quelle dannate lentiggini. Le guance bagnate e abbronzate, le ciocche arancioni che grondano sulla fronte, sul naso, sulle labbra. Le sue labbra.
Tobio ne ricorda distintamente il calore, la morbidezza, quel sapore dolce che lo mandava fuori di testa. Da quella distanza irrisoria, poi, si accorge di poter sentire perfino l’odore del suo respiro…
“Hai freddo?”
È talmente assorto che ha quasi un sussulto quando Hinata gli parla.
“Come??”
“Stai battendo i denti.”
“Non ho freddo.”
Forse sta mentendo, ma gli piace troppo starsene lì, lontano dal mondo, dalla gente, con le ginocchia di Shoyo che gli sfiorano le cosce.
“E allora perché hai le labbra viola?”
Il corpo è rilassato, leggero, sospinto delicatamente dalla corrente, cullato come in un sogno, mentre Shoyo si avvicina di più, reggendosi con una mano alla boa e abbassando lo sguardo sulla sua bocca.
“C- che?”
“Hai le labbra viola” ripete sottovoce, prima di chiudere gli occhi e sfiorarle con le sue.

Era stato così anche la prima volta. Se non si fosse mosso Hinata, forse non sarebbe mai successo. E non perché Tobio non lo volesse, ma perché forse lo voleva anche troppo, tanto da bloccarsi e perdere ogni facoltà di movimento, esattamente come adesso.
Ma basta così poco…
La sua bocca bagnata di mare scivola su quella di Shoyo in modo perfetto, si apre in un sospiro mentre con la punta della lingua raccoglie gocce salate dalle sue labbra.
Forse è colpa del silenzio, del mondo che si è improvvisamente zittito intorno a loro. Solo lo stridio di qualche gabbiano sopra la testa e il vociare distante dei bagnanti sembrano rompere quella magia. O forse in qualche modo il rumore rende tutto più reale, cosicché Tobio non pensi che si tratti solo di un sogno, o di un’allucinazione data dal troppo sole.
Magari è vero che sente freddo, che ha le labbra viola, perché quelle di Hinata sembrano bollenti a contatto con le sue. Tutto il suo corpo è bollente e Kageyama si accorge solo ora di avercelo premuto addosso, le gambe di Shoyo che gli circondano il bacino, le braccia intorno al collo. Anche lui lo sta toccando, ma non sa quando sia successo, quando abbia preso la sua guancia nel palmo della mano o quando gli abbia infilato la lingua in bocca. Forse davvero sta impazzendo e questo è solo un folle delirio da insolazione. Eppure il suo sapore è così dannatamente buono, caldo, morbido… non può non essere reale…

“Ho paura che adesso mi toccherà offrirti la cena” mormora Hinata staccandosi appena dalle sue labbra. E Tobio vorrebbe solo stringergli forte le guance, mordergli via quel sorrisetto da bambino e sentirlo gemere nella sua bocca.
“Non è colpa mia se in acqua sei una lumaca.”
“Ma sentitelo! Però sulla sabbia sono sempre più bravo di te.”
“Sta’ zitto, cretino.”

Forse le loro vite non sono davvero due linee parallele, forse a un certo punto qualcosa nell’universo si è inclinato, mettendoli sulla stessa traiettoria, almeno per un po’. Forse quella forza misteriosa e benevola li ha fatti incontrare la prima volta per dare inizio a tutto, proprio come aveva detto il Professore. Sono connessioni che si creano dal nulla e che tengono la palla in gioco, proprio come in un match, dove l'importante è coordinarsi, supportarsi, non lasciarla mai cadere.
Sta pensando questo, Tobio, mentre riprende a baciare il suddetto cretino, mentre apre la mano e schiaccia il palmo sulla sua schiena, proprio in mezzo alle scapole, attirandolo maggiormente contro di sé.
Il petto di Hinata è liscio e scivoloso. Non più pelle e ossa come l’ultima volta, ma asciutto e solido, leggermente incavato nel mezzo, lì dove il rossore del sole deve bruciargli di più. Anche il suo addome ora è più definito, come le braccia, le cosce, i polpacci.
Tobio vorrebbe tirargli giù il costume e prenderlo lì, reggendosi a una boa, nel bel mezzo all’oceano. Forse quel pazzo non solleverebbe nemmeno obiezioni, svitato com’è.

“Sbrigati, ti do la rivincita” mugugna invece, staccandosi da lui come se questo non richiedesse uno sforzo sovrumano.
Hinata rimane disorientato per un paio di secondi, o forse è solo una sua impressione.
“Il primo che esce dall’acqua vince?”
“Sì, ma la cena me la paghi comunque.”
“Quel che è giusto è giusto. Pronti…”
“VIA!”
“MA DOVEVO DIRLO IO, BAKAYAMA!”

Connessioni.
Nulla in quegli anni è mai stato casuale. E se anche così fosse, sono sempre stati loro a tenere la palla in gioco, a non farla mai cadere, nonostante la distanza, le distrazioni, il tempo che non aspetta.
Anche ora, basta un minimo tocco e quella palla non cade sulla sabbia, né sulle maioliche del ristorante dove si spazzolano tre porzioni di churrasco a testa e una vagonata di brigadeiro. La palla non tocca i gradini su cui inciampano per raggiungere l’appartamento di Hinata, la soglia di legno quando chiudono la porta della sua stanza, non finisce sul pavimento insieme ai loro vestiti sparsi ovunque.
Quella palla continueranno a lanciarsela e a tenerla in gioco nonostante tutto. E se si separeranno ancora, ne hanno l’assoluta certezza, non sarà mai per sempre.




 
Continua...


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Rieccomi! Vi lascio questa storia prima di prendermi una pausa estiva (pre-esame in realtà, ma così suona meglio XD).
Ci sarà un continuo, probabilmente una rossa vera e propria, ho già in mente qualcosina, ma per ora vediamo come va questa. Se vi farebbe piacere leggerla però fatemelo sapere, sarebbe un bell'incentivo a lavorarci su. Spero che intanto questa vi sia piaciuta, il pov di Tobio lo amo tantissimo, spero non risulti OOC. Mi piaceva l'idea che fosse un sottone per lo Shoyo post time skip! ;) 
La canzone citata è di Coez, il titolo è farina del mio sacco e fa schifo al cazzo come sempre, ma ormai lo sapete, con i titoli faccio pena.
Grazie a chi ha letto fin qui, a chi ha aggiunto la storia in una categoria, e grazie in anticipo a chi lascerà un segno del suo passaggio, siete preziosissim*!
Buona estate! ♥
Aislinn


 

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Capitolo 5
*** Bright Star ***


[Questa storia partecipa alla “First Kiss Challenge” indetta dal gruppo Facebook “L’angolo di Madama Rosmerta ed è candidata agli Oscar della Penna 2024 indetti sul forum "Ferisce la penna"]

 
Coppia: Bokuto/Akaashi
Rating: giallo
Contesto: manga, Fukurodani VS Mujinazaka 

spoiler per chi non ha letto il manga
 
 

 BRIGHT STAR 
 
 
 
Così per la lor via vanno le stelle,
incomprese, immutabili!
Tu, mentre noi ci dibattiamo in vincoli,
di luce in luce ascendi.
Tu, la cui vita è tutta di splendore!
E se dalle mie tenebre
Tendo a te braccia nostalgiche
Sorridi e non m’intendi
mi baci.

 

La prima volta eri rimasto come folgorato. Quando una stella ti brucia davanti agli occhi non puoi tornare a vedere i contorni della realtà come li vedevi prima. Le tue pupille si adattano alla luce, le tue certezze crollano, la tua prospettiva si ribalta e inizi a mettere in dubbio perfino la forza di gravità.
Una rincorsa, un balzo, un’esplosione di scintille a mezz’aria. Quel bagliore dorato era schizzato ovunque, aveva imbrattato tutto. E aveva lo stesso colore dei suoi occhi.


Ti era stato chiaro da allora, che non saresti più stato lo stesso.



 



Koutarou Bokuto in campo era una potenza dirompente, ma anche una giostra di emozioni sregolate. Avevi imparato a memoria ogni sua debolezza, ogni suo capriccio, li avevi numerati e catalogati nel tuo palazzo mentale, avevi stilato approcci motivazionali, frasi a effetto e ridicoli teatrini mirati a rimetterlo in sesto, a dargli fiducia e concentrazione tutte le volte che si buttava giù per un nonnulla.
Forse perché eri un inguaribile maniaco del controllo, o forse perché volevi che lui fosse sempre al meglio, libero di brillare in quel modo che ti incendiava il sangue nelle vene.
Vederlo inarcarsi oltre la rete, pronto a colpire la palla con tutta la forza del suo braccio destro, ti faceva l’effetto di una scarica elettrica sottopelle. A ogni parallela schiacciata con precisione millimetrica, a ogni diagonale strettissima, carica di forza esplosiva, tu eri regista e spettatore insieme. Cosa avresti potuto desiderare di più? Cosa poteva esserci di più che stargli accanto, che alzare la palla per lui e goderti lo spettacolo così da vicino? Niente ti avrebbe persuaso a staccare gli occhi da Bokuto, perché se lui era così speciale, stargli vicino in qualche modo rendeva speciale anche te.


“Akaashi, le tue alzate sono le migliori!”


L’avevi deciso nell’istante in cui l’avevi visto giocare per la prima volta: un giorno saresti riuscito ad avvicinarti a quella stella, anche a costo di bruciarti. E in un istante, in due anni che erano scivolati via in un battito di ciglia, ti eri ritrovato lì, col sudore tra i capelli e gli applausi del pubblico nelle orecchie, a sentirti dire – proprio da lui – che in qualche modo tu – proprio tu – eri speciale.


Non gli importava che avessi fatto un casino, che fossi andato nel pallone al punto di essere mandato in panchina coi nervi a fior di pelle. Lui credeva in te. Lui voleva schiacciare le tue alzate. Le tue. Solo le tue. E quando eri rientrato in campo l'avevi fatto con la convinzione che non importava nient’altro in quel momento, perché voi due eravate davvero i protagonisti del mondo.



 



“Non è impossibile! È solo difficile!”
Lo era. Terribilmente difficile.
Vincere sempre, segnare sempre, splendere sempre. Ma con lui al tuo fianco, dopo quella vittoria, ti sembrava di poter fare tutto. Non c’erano più limiti ai sogni, non c’era trazione verso il basso, verso la deprimente concretezza della realtà, perché Bokuto era già oltre, si era staccato da terra e brillava di luce propria come l’astro che era sempre stato. Cosa poteva mai farsene lui, delle statistiche, dei pronostici, della banalità del concreto? Cosa potevi fartene tu, che gli stavi così vicino, aggrappato così testardamente all’orlo del suo entusiasmo da riuscire a spiccare il volo a tua volta?
“Hai ragione.”
Avevi sorriso tra le lacrime, senza più preoccuparti di nascondergliele. Un po’ perché non avevi potuto evitarlo, un po’ perché forse volevi che ti vedesse così, fragile e fuori controllo come non ti eri mai mostrato a nessuno. Una parte di te che forse era la più vera, la più onesta.


La partita contro il Mujinazaka era finita da una decina di minuti, i corridoi del palazzetto erano deserti e silenziosi, perfino i compagni di squadra avevano smesso di spiarvi e se n’erano andati a rifocillarsi chissà dove.
Ma tu non eri pronto a raggiungerli, a sciacquare via sotto la doccia quella sensazione indefinibile, ad asciugare gli occhi e a indossare di nuovo quella maschera stoica e impassibile. Non eri pronto ad allontanarti da lui. Non ancora.
C’era qualcosa di stranamente confortante nell’aver appena avuto un crollo nervoso, nel crogiolarsi in quel pasticcio di emozioni senza filtri né logica. Era liberatorio, quasi piacevole. Come starsene comodamente sdraiati sul fondo di un burrone dopo essersi lasciati cadere.


Avevi preso a tormentarti le dita, spiandolo di sottecchi da dov’eri seduto.
Se ne stava in piedi davanti a te ma era già di spalle, pronto a raggiungere gli spogliatoi: i capelli completamente zuppi di sudore che minacciavano di afflosciarsi da un momento all’altro, le spalle larghe, i muscoli delle braccia e delle gambe ancora gonfi e tesi, le vene in rilievo su polpacci e avambracci.
Gli avevi guardato le mani mentre stringevi forte le tue, torcendoti le falangi fino a farti male.
“Bokuto…”
“Sì?”
Si era girato a guardarti ma in realtà non sapevi cosa dire. Non sapevi perché l’avessi chiamato, perché continuassi a startene seduto in quel corridoio deserto quando lui, come sempre, era già oltre, proiettato senza alcun timore verso il futuro.


Stupido, inventati una cosa qualunque… ormai hai pronunciato il suo nome, prova a dire qualcosa di sensato, una frase banale, di circostanza, un’ovvietà! Ti prego, parla o sembrerai più svitato di quanto tu non ti sia già dimostrato in queste ultime ore


“La partita del Karasuno sta per-”
“Ti staccherai le dita se continui a torturartele in quel modo.”
Avevi abbassato lo sguardo sulle tue mani martoriate, osservando stranito le nocche sbiancate e i polpastrelli violacei.
“Come farai ad alzarmi la palla se resterai senza nemmeno un dito??”
Era serio?
“Non mi staccherò le dita, stai tranquillo Bokuto-san.”
Aveva assottigliato lo sguardo, soppesando le tue parole come se si trattasse davvero di una questione della massima serietà, poi si era chinato davanti a te e aveva appoggiato le sue mani sulle tue.
“Secondo me invece sì!”
Il cuore aveva iniziato a rimbalzarti nel petto mentre Bokuto separava le tue dita delicatamente, per poi spostartele sulle ginocchia e premere i suoi palmi sul dorso delle tue mani.
La sua pelle era calda, umida e leggermente ruvida. Era bello sentire quella pressione sulle tue nocche, sulle tue unghie, sulla pelle chiara e sottile che ti ricopriva i reticoli verdastri delle vene.
“Così va meglio, no?”
Il suo sorriso ti abbagliava sempre, ma quella volta era diverso, la sua luce ti sembrava ancora più accecante. Eri rimasto come imbambolato davanti alle sue iridi dorate, era inutile sforzarti di restare impassibile, di darti un contegno, mentre le lacrime continuavano a pungerti gli occhi.
Quello che Koutarou stava facendo non sembrava normale. Di certo non sembrava una cosa da amici. O nella sua testa bacata lo era?
“La partita del tuo discepolo starà per iniziare” eri riuscito a bofonchiare mentre lui abbassava lo sguardo sulle vostre mani. Aveva preso le tue e le aveva girate all’insù, facendo scorrere lentamente i polpastrelli sui tuoi palmi.
“Non è giusto che le tue dita siano più lunghe delle mie!”
“Non credo sia rilevante nella pallavolo…”
“Ma io sono più grande di te!”
“Non vedo come questo possa incidere sulla lunghezza delle dita.”
Non avevi idea di come riuscissi ancora ad articolare risposte di senso compiuto. Non avevi più saliva in bocca, ti sembrava di dover vomitare da un momento all'altro.
Koutarou ti aveva sfiorato i polsi con la punta delle dita e a quel punto avevi smesso anche di respirare.
“Che stai facendo?”
“Non lo so. Però mi piace.”
Avevi abbassato gli occhi anche tu, fissando i movimenti circolari dei suoi pollici sulla tua pelle. In quel punto era così trasparente e ipersensibile che ti sembrava di percepire le scanalature delle sue impronte digitali. Piccole scosse elettriche ti correvano lungo gli avambracci, sulle spalle, dietro la schiena, drizzandoti la peluria sotto la maglietta ancora umida.
“A te piace, Akaashi?”
Aveva di nuovo sollevato lo sguardo e tu ti eri ritrovato a fare lo stesso, pensando per un momento che forse i tuoi desideri più reconditi non fossero poi così ridicoli e senza speranza. Che forse quella stella non era poi così inafferrabile.
“Sì.”
E mentre questa nuova consapevolezza si faceva strada dentro le pieghe della tua mente ancora esausta, Bokuto si era avvicinato al tuo viso e ti aveva stampato un goffo bacio sulla guancia, uno schiocco che ti era rimasto incastrato nell’orecchio e che forse non se ne sarebbe andato più.
“E questo... questo ti è piaciuto?”
Lui... ti stava davvero chiedendo se ti fosse piaciuto quel bacio? Koutarou Bokuto ti aveva appena baciato?
“Sì” avevi ripetuto con un filo di voce, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo.
“Sei salato.”
“Perché ho pianto.”
“Mh.”
Senza staccare le mani dai tuoi polsi si era avvicinato di nuovo, lentamente, sfiorando le tue labbra con le sue senza preoccuparsi di chiudere gli occhi.
“Però ora non piangere più, okay?”
Con la testa che si svuotava del tutto, che si faceva leggera come una bolla di sapone, col respiro che ti si incastrava in gola e che poi ti usciva tra i denti in piccoli singhiozzi strozzati, aspettavi solo che ti chiedesse se anche quello ti fosse piaciuto. Perché gli avresti risposto un'altra volta sì e in quel caso sarebbe stato come strapparti il cuore dal petto per consegnarglielo a mani aperte.
Ma lui non aveva più parlato, era rimasto come impalato a pochi centimetri dal tuo viso, con la faccia paonazza e gli occhi sgranati, come se si fosse reso conto solo in quel momento di cio che aveva appena combianto.
Forse, dopo tutto, avere la mente annebbiata non era sempre uno svantaggio, perché eri sicuro che in una situazione normale non avresti mai trovato il coraggio di essere così intraprendente.
Senza pensarci gli avevi stretto forte i polsi, piegando la testa da un lato e baciandolo a tua volta.
La consapevolezza che il momento di bruciarti infine era arrivato, che quella stella ora ce l’avevi addosso, che il suo fuoco dorato ti avrebbe inghiottito e divorato, ti aveva pervaso come lava nelle vene. Un cataclisma era il minimo che ti aspettassi, ma non avevi calcolato che baciare Bokuto potesse essere così, che le sue labbra fossero gentili, pazienti, mentre aspettavano che fossero le tue a schiudersi per prime. Era stato un bacio adulto, lento, sensuale, come se tutto il lato buffo e infantile di Koutarou fosse svanito all’improvviso. Il suo profumo nella testa, il battito del suo cuore che pulsava nelle vene dei polsi, proprio sotto le tue dita... era più stupefacente di qualunque fantasia avesse partorito in quei due anni la tua mente contorta.


“Akaashiii…” aveva farfugliato staccandosi dalla tua bocca e afflosciandosi sulle tue cosce.
“Bokuto-san?”
“Così mi ucciderai!”
Le sue braccia si erano strette intorno alla tua vita mentre il viso affondava nella stoffa dei tuoi pantaloncini. A quanto pareva il suo sprazzo di maturità era già finito.
“Spero proprio di no, Bokuto-san.”
Avevi sorriso e ti era quasi dispiaciuto che lui non potesse vederlo. Gli avevi sfiorato le ciocche argentate e te le eri rigirate delicatamente intorno alle dita, pensando che tu ti sentivi esattamente allo stesso modo, che un po’ stavi morendo e un po’ avevi appena iniziato a esistere. Proprio come fanno le stelle.




 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Avevo detto "pausa estiva" ma ci tenevo a partecipare comunque a questa challenge. Avevo iniziato anche una UshiHina, ma questa mi è letteralmente uscita dalle dita in pochi giorni, quindi eccola qui. Oggi poi, è anche San Lorenzo, quindi siamo in tema con le stelle, no? ;)
Nell'ultimo paragrafo c'è una semicit. a Call me by your name, perchè Aciman ci sta sempre bene, come il cacio sui maccheroni. Il titolo è quello di una poesia di Keats che personalmente amo, mentre i versi all'inizio sono di Hesse, con una mia piccola licenza sul finale! Non me ne voglia il buon vecchio Hermann. ♥
Non ho MAI letto nessuna fanfiction su di loro, spero siano abbastanza IC. Spero che questa piccola storia vi sia piaciuta, se vi va fatemelo sapere. Grazie comunque per essere arrivat* fin qui e un mega-abbraccione a chi mi lascia sempre un segno del suo passaggio. Stavolta niente sorprese fino a fine settembre, torno a studiare! T___T
Buon Ferragosto e buone vacanze! 
Aislinn

 

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Capitolo 6
*** 10 cose che odio di te ***


Coppia: Kuroo/Tsukishima
Rating: verde
Flash, introspettiva, Tsukki pov, s2, Tokyo summer camp

 
 

10 COSE CHE ODIO DI TE
 
 
 
A Lolloshima, che mi ha suggerito il prompt

 

Ti nausea quel ciuffo ridicolo che gli cade sugli occhi, la totale incoerenza di quel groviglio nero sparato per aria, come se ogni mattina al risveglio una mucca decidesse senza remore di lavargli i capelli con la lingua.

Ti nausea la spavalderia con cui assottiglia lo sguardo e sorride, in un modo che ti fa sentire preso in giro, spogliato, annientato.

Ti nausea il suono della sua voce, la cantilena con cui pronuncia il tuo nome, quel Tsukki quasi miagolato che ti manca di rispetto e ti irrita al punto di farti prudere i palmi delle mani.

Ti nauseano le sue spalle larghe, le sue braccia forti e salde che si protendono in alto, le dita lunghe che oltrepassano la rete mentre va a muro con tutta la sicurezza che tu non hai. Ti nausea anche quel ghigno obliquo, le pupille che scintillano quando fa rimbalzare la palla nel campo avversario senza che nessuno riesca più a salvarla.

Ti nausea quel nanerottolo coi capelli slavati a cui gironzola sempre intorno, il modo in cui lo tiene d’occhio con fare apprensivo.
Si comporta in modo diverso quando c’è quel ragazzino strambo, lo guarda con una smorfia che somiglia alla dolcezza e a te fa venire il vomito.
Molto più del duo di bislacchi, di quel fallito di tuo fratello, delle persone buone e pure che si mostrano al mondo senza filtri o di quelle che si impegnano totalmente per uno stupido club. Ti fa vomitare più dell’entusiasmo immotivato, dei discorsi incoraggianti e della patetica fiducia nell’umanità.
Kuroo Tetsurou ti nausea più di qualsiasi ridicola idiozia tu abbia dovuto e debba sopportare ogni giorno, sforzandoti di mantenere la stessa faccia impassibile e di non rigurgitare disagio come un cratere stracolmo di intolleranza.

“E bravo Tsukki, quello sì che era un muro! E ora diamo una bella strapazzata a quel gufo cazzone!”
“Ma Akaashiiii! Hai sentito come mi ha chiamato??”
“Ho sentito Bokuto-san.”
“E perché non mi difendi??”

Ma forse, più di tutto, ti nausea il fatto che non ti nausei mai abbastanza. Che la sua presenza rumorosa e disturbante non riesca davvero a disgustarti, non al punto di convincerti a voltargli le spalle e lasciarlo lì come un idiota, a dirgli di no quando ti chiederà un altro tre contro tre domani sera, dopodomani e il giorno dopo ancora.
Più di tutto, ti nausea desiderare che il tempo rallenti e che non faccia mai notte, che la sua spalla sfiori la tua sotto rete, che i suoi occhi ti restino incollati addosso anche a gioco fermo, senza nessun motivo apparente.

Forse, se lui ti sorridesse come fa con il suo piccolo palleggiatore, la nausea sparirebbe. Magari ti verrebbe anche un po’ di appetito.
Forse, ti dici trattenendo il fiato mentre ti scocca un'altra occhiata fastidiosamente intensa, è a te che sorride in modo diverso.
E la sensazione che ti si sprigiona in fondo allo stomaco, a questo punto, è nient’altro che una gran fame.




 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Ehi ehi ehi! Nessun gufo è stato maltrattato in questa storia, o comunque il suo amato allocco l'ha consolato come si deve, quindi tranqui.
Non avrei mai immaginato di buttar giù 'sta roba in dieci minuti ma è andata così. 
Il titolo è un piccolo omaggio al film con Julia Stiles e Heath Ledger. Il prompt mi è stato dato da Lolloshima che l'ha scelto sotto a un giochino su Facebook e recitava così:
 "Commenta con "Realize" e scriverò su un personaggio che realizza di amarne un altro". Mi è stata chiesta espressamente una KuroTsukki. Spero che le sia piaciuta e che sia piaciuta anche a voi, anche se è una cosina piccola. A presto ♥

 

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Capitolo 7
*** Autumn in Tokio ***


[Questa storia partecipa all’iniziativa “Pieno di ricordi” indetto sul gruppo Facebook L’Angolo di Madama Rosmerta. Il pacchetto che ho scelto prevedeva una slice of life che facesse riferimento a un ricordo, una ricorrenza, un anniversario o una prima volta.]

 
Coppia: Bokuto/Akaashi
Rating: giallo
Contesto: post manga con flashback liceo

slice of life, romantico
 
 

 AUTUMN IN TOKIO
  




L’autunno è la stagione di Akaashi.
Non sai bene il perché, ma l’hai sempre pensato.
Forse perché è malinconico, silenzioso e calmo proprio come lui. Forse perché come lui si porta dentro un tripudio di colori caldi, vivi e brillanti!
Ricordi ancora la prima volta che l’hai visto leggere su una panchina accanto ai dormitori del Fukurodani, con i rami di ginkgo a danzargli sopra la testa e le foglie arancioni sulle spalle, tra i capelli, sulle ginocchia, in mezzo alle pagine di quel libro che stava catturando tutta la sua attenzione.
Si può essere gelosi di un libro?
Te lo sei chiesto più di una volta da quando lo conosci.
Eri al secondo anno, lui frequentava ancora il primo. Vi conoscevate già da diversi mesi per via del club, ma quando quel pomeriggio l’avevi visto seduto lì, era stato come trovarselo davanti per la prima volta.


Akaashi Keiji ti era piaciuto fin dal primo momento, con quegli occhi dal taglio allungato e le labbra sottili, le dita lunghe, la voce bassa e vibrante. Quel primino sembrava venuto da un altro pianeta, con i suoi sguardi indecifrabili e l’aria misteriosa, un temperamento calmo che però nascondeva – ne eri più che certo – un uragano di emozioni.
Il fatto che fosse un palleggiatore ti aveva fornito il pretesto per rompergli le scatole in continuazione, chiedendogli di aiutarti con le tue schiacciate anche nei momenti più improbabili, ma non immaginavi che lui ti avrebbe assecondato ogni volta senza battere ciglio.


“Agaashi!”
“Bokuto-san.”
“Che stai leggendo?”
“Un romanzo.”
“Che romanzo?”
“Tu non dovevi ripassare matematica?”
“La… canzone… di Achille” avevi scandito inclinando la testa di novanta gradi e assottigliando gli occhi davanti alla copertina. “Di che parla?”
Lui era diventato rosso come le foglie che gli ondeggiavano intorno.
“Della guerra di Troia.”
“Oh! Una battaglia in un bordello? Forte!”
“No, Bokuto-san.”
“Leggimi qualche riga.”
“Dovresti davvero metterti a fare matematica o non recupererai l’insufficienza di ieri entro la fine del semestre.”
“Eddai, fammi contento!”
I suoi occhi blu si erano dilatati appena quando il tuo braccio si era allungato sullo schienale della panchina per circondargli le spalle con fare compagnone.
Non eri sicuro del perché avessi fatto una cosa del genere, ma le guance ti erano andate a fuoco, esattamente come tutto il resto del corpo. Non ti aspettavi di essere cotto fino a quel punto! Accidenti, stargli così vicino era maledettamente bello, sfiorarlo ti era sembrato stupefacente! Non come quando facevi l’idiota con Kuroo, dandovi pacche sul culo a vicenda mimando volgarità. Toccare Akaashi, anche se in modo apparentemente superficiale, ti faceva uscire di testa, al punto che avresti voluto farlo sempre. Volevi stargli ancora più attaccato, allentargli la cravatta e sbottonare il primo bottone del colletto, posargli le mani sui fianchi, infilargliele sotto la camicia, attirartelo addosso, premere le labbra sotto la sua mascella e respirare il suo odore.
Avresti dovuto sentirti in colpa? Era la prima volta che ti piaceva un ragazzo, tra l’altro un tuo kohai, ma non ti importava. Come per la maggior parte delle ossessioni che ti si incastravano nel cervello, non saresti mai riuscito a liberartene.
“Dai, una frase sola!”
L’ennesimo sospiro, poi il primino aveva riaperto il libro al punto in cui stava tenendo il segno con due dita, la voce bassa, leggermente roca.

Eravamo come dèi all’alba del mondo e la nostra felicità era così abbagliante che non potevamo vedere altro che noi.”

Eri rimasto a fissarlo a bocca aperta, il cuore che prendeva a battere all’impazzata e il braccio che scottava sempre più a contatto con il suo collo e le sue spalle. La sua voce ti piaceva da matti.
Poi un’intuizione ti aveva pizzicato le meningi.
“Ehi, Akashi, non ti fa pensare a noi due?”
“A noi due?”
“Riflettici, quando siamo in campo e io ho appena segnato su una delle tue alzate, tu non ti senti esattamente così? Come se fossimo i protagonisti del mondo?”
“N- non saprei.”
Akaashi aveva abbassato lo sguardo sul libro ormai richiuso, poi si era liberato con cautela dal tuo braccio, alzandosi e borbottando un “devo andare” che era suonato piuttosto tremolante e incerto, soprattutto mentre si premeva il libro contro il petto.



 



“Hey hey hey, Keiji! Hai visto la diagonale che ho schiacciato alla fine del secondo set?”
“Certo. Era strettissima, li hai lasciati tutti a bocca aperta.”
Rimetti a posto lo spazzolino da denti e torni in camera con i capelli ancora bagnati.
“Vero che è stata una figata?? Per un attimo ho pensato che la spalla mi si svitasse dal corpo!”
“Per fortuna è ancora al suo posto.”
“Non ne sono sicuro, vuoi controllare?”
Akaashi si sistema meglio sul cuscino, l’espressione impassibile mentre digita qualcosa sulla tastiera del portatile e sposta le gambe sotto le lenzuola.
“Quando finisco di revisionare questa cartella provo a dare un’occhiata, non si sa mai.”
“Ah, in effetti mi fa male anche da un’altra parte, proprio qui” gongoli armeggiando con l’elastico dei boxer.
“Vedrò cosa posso fare.”
Non riesci a non sentirti felice vicino a Keiji. È sempre stato così. Ma ancora di più vuoi che lo sia lui. Vuoi farlo sorridere il più possibile. Anche se all’inizio è stato maledettamente difficile, anche se il massimo che riuscivi a ottenere era una smorfia piccola, breve, indecifrabile.
Ora invece Keiji sorride di più. Ogni volta che fai una battuta scema, ti infili la maglietta al contrario, o anche solo se lo guardi con quel broncio ridicolo, le sue labbra si aprono su due file di denti bianchissimi e gli occhi si inclinano come spicchi luminosi dietro gli occhiali da vista, regalandoti quel ghigno furbo e un po’ strafottente, quella risatina adorabile che è come musica per le tue orecchie.
“È un altro romanzo da editare?”
“Sì.”
“Fammi indovinare. Mattone polacco minimalista di scrittore morto suicida giovanissimo?”
“Se fosse morto non potrebbe assillarmi tutti i giorni lamentandosi delle mie correzioni.”
“Di cosa parla?”
“Vuoi che ti legga qualche riga?”
Smetti di tamponarti i capelli e ti tuffi sul letto accanto a lui, poggiando la guancia sul palmo della mano.
“Mi piace quando leggi per me.”
“Non mi dire…”
“Ricordi la prima volta che l’hai fatto?”
“Quella in cui mi hai costretto a leggerti l’estratto di un romanzo slash mentre avevo una cotta segreta per te?”
Ridacchi compiaciuto, perché è sempre bello pensare che gli piacessi già così tanto, mentre tu ti eri convinto di essere per lui solo uno schiacciatore ossessionato o al massimo un senpai pervertito.
Gli sfili delicatamente il portatile dalle mani, lo appoggi sul comodino, ti sdrai su di lui e gli posi un bacio leggero sulla punta del naso.
“Ma quella frase poi è diventata il mio mantra!”
“Allora ne è valsa la pena.”
Lo guardi dritto negli occhi, osservi un ciuffo di capelli scuri che gli ondeggia davanti alla montatura nera, vorresti scostarlo con le dita, togliergli gli occhiali e immergerti in quel blu sconfinato senza nessun filtro. Ma inaspettatamente è Keiji stesso a farlo, leggendoti nella mente come solo lui riesce a fare. Ci è sempre riuscito, fin dal primo momento.
Lo guardi piegare la montatura con attenzione e metterla sul comodino accanto al portatile, poi lo baci ancora, stavolta più a lungo, assaggiando quel sapore di menta e liquirizia che è lo stesso che hai tu sulla lingua, perché ovviamente usate lo stesso dentifricio.
“Quel giorno ho capito di essere innamorato di te” gli sussurri a fior di labbra, stirandole in un sorriso a trentadue denti. “Lo sapevi?”
Keiji sbatte le ciglia e schiude le labbra con aria incredula.
“Io pensavo che mi trovassi solo strano…”
“Infatti! Eri un soggettone, proprio come me. È quello che mi ha fatto innamorare.”
“Siamo due soggettoni quindi?”
“Siamo dèi all’alba del mondo, no? E la nostra felicità adesso è più abbagliante che mai!”
Senti le sue dita sulle tue guance, il suo tocco delicato mentre poggia la fronte sulla tua. “Te la ricordi ancora…”
“Te l’ho detto, è il mio mantra!”
“Va bene” ti soffia sulle labbra con un sorriso piccolo, di quelli che ti offriva quando al liceo sbagliavi un servizio e lui doveva venire a ripescarti sotto il tavolo dei drink vitaminici, infilato in mezzo ai tappetoni del club di atletica o dentro l’armadio delle scope. “Adesso fammi controllare questa spalla.”
Le posizioni si invertono e lui è sopra di te, si toglie la maglietta, gli premi le dita sulle scapole e sospiri.
Respiri il suo profumo e pensi che l’estate sta finendo, che tra un paio di settimane l’aria si farà più fresca e che allora lo porterai al Meiji-jingu Gaien, per vedere le foglie arancioni che gli danzano intorno e gli si posano addosso.
Perché l’autunno è la stagione di Keiji. E perché è stato proprio l’autunno a farti innamorare di lui.




 
FINE


 
ANGOLINO DELL'AUTRICE

Avevo detto "pausa estiva" e invece è già la seconda storia che pubblico mentre dovrei solo studiare. AAAAAARRRGHH non riesco a frenare l'ispirazione, soprattutto con questi due cuccioli!  ♥ 
Innanzi tutto, mi piaceva l'idea di citare La canzone di Achille, alcuni passaggi sono stupendi. Poi. Chiedo scusa per la citazione a Tre uomini e una gamba, ma ci stava TUTTA. Forse dovrei andare a nascondermi anche per il gioco di parole sulla guerra di Troia, che ovviamente rende solo in ita, ma 'sta fanfic chiama trash a palate e allora addio. Per il lancio dei pomodori potete fare una fila ordinata da quella parte. Grazie. Per il resto, io non sono tipa da slice of life, preferisco atmosfere meno fluff e più passionali, ma è stato bello mettermi alla prova con qualcosa di diverso. C'è da dire che loro si prestano molto alla tenerezza domestica. 
Spero di aver usato bene il pov di Bokuto, anche qui mi sono sbilanciata fuori dalla mia zona di comfort, ma volevo descrivere Akaashi attraverso i suoi occhi ed è stato bello immedesimarmi in questo ragazzone innamorato. Anche i dialoghi che si prendono quasi tutta la narrazione sono una novità per me, ma di certo Bokuto non sta tutto il tempo a farsi i viaggi mentali come suo marito, perciò mi è sembrata una scelta azzeccata.
Ora la pianto di sproloquiare e vi saluto, sperando che questa storia vi sia piaciuta e ringraziandovi se siete arrivat* fin qui.
Buona serata!
Aislinn

 

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