Evaline

di LettriceEllie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima -Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***



Capitolo 1
*** Parte prima -Capitolo 1 ***


 Quando riemerse dalle macerie le ci volle un po’ per realizzare cos’era successo. Intorno a lei alcuni fantasmi fluttuavano furiosi al seguito delle loro teste in una caccia senza fine, mentre urla ed esplosioni accompagnavano il fiotto di maledizioni che illuminavano la notte. Nelle orecchie di Evaline i suoni erano ovattati, come se provenissero da lontano, un fischio la trafiggeva da parte a parte impedendole di pensare a qualsiasi cosa, perfino al corpo immobile di Fred e di Percy chino sul suo.
Da quanto tempo era cominciata? Non ne aveva idea. Dall’istante in cui aveva visto la sagoma nera di Piton sparire oltre la finestra aveva cominciato a muoversi come se a comandare il suo corpo fosse qualcun altro, non lei. Evaline si era rintanata da qualche parte, nascosta e assopita, mentre obbediva alle direttive di Minerva. Fu l’arrivo degli studenti nella Sala Grande a destarla, costringerla a guardare negli occhi i ragazzini del primo anno e lì, in quel terrore, trovare sé stessa. Il suo primo e unico pensiero sarebbe stata la loro sicurezza, si ripeté mentre camminava tra loro e li rassicurava, la voce calma e dolce, i modi gentili, una calma che cozzava con il groviglio che si dibatteva nel suo petto. La voce del Signore Oscuro la fece vacillare, ma si mantenne comunque salda come le era stato insegnato.
«Tornerai qui una volta che gli studenti saranno al sicuro. Non ti lascerai distrarre da altro, giusto?» Minerva McGonagall l’aveva guardata da dietro le lenti squadrate degli occhiali, la bocca serrata in una delle sue espressioni severe. Evaline aveva colto la sua allusione e avrebbe tanto voluto rispondere con altrettanta fermezza, ma tutto ciò che era riuscita a fare fu un cenno rapido del capo. Quando si fu voltata per scortare i ragazzi Evaline aveva sentito lo sguardo della collega fisso sulla sua nuca, poteva sentirlo mentre la trafiggeva.
Affidati gli studenti ad Aberforth tornò a sentirsi un burattino manovrato da fili invisibili, una sensazione quasi rassicurante, perché tutto quello che doveva fare era starsene rannicchiata dentro quel cantuccio sicuro all’interno di sé e seguire quel flusso. Dopo tutto era stata allevata per eseguire gli ordini, no? Era facile, maledettamente facile: restare con gli studenti, combattere all’interno delle mura di Hogwarts insieme ai suoi colleghi, ai membri dell’Ordine, il lascito di Silente schierato tra quelle pareti in cui aveva trascorso gran parte della sua vita. La luce di due maledizioni che si scontrarono la fece sobbalzare e per un attimo vide il proprio riflesso su un vetro infranto e faticò a riconoscersi. La veste da notte era sgualcita e sporca, la treccia scarmigliata pareva un animale morto, con uno strato di polvere e detriti impigliati tra le ciocche e sangue rappreso sulla fronte. Aveva sbattuto? Non ricordava. Sulle sue spalle era appuntato un mantello nero, era stato allacciato con cura solo poche ore prima, in un momento rubato che pareva incastonato in un tempo lontano, lontanissimo. La stoffa quasi toccava il pavimento, ma per fortuna non l’intralciava nei movimenti. Forse era a causa di quel mantello che Minerva le aveva posto quella domanda, l’allusione nel tono e nei suoi occhi severi.
Ad Evaline non importava granché. Si era rannicchiata in quel giaciglio sicuro, dentro di sé, nel tentativo di obbedire a ciò che le era stato ordinato. Tornò a reprimere il galoppante desiderio di ignorare gli ordini e corse dove c’era bisogno del suo aiuto, quel debole aiuto che era in grado di fornire ad Hogwarts e a Potter. Non era riuscita a guardarlo in faccia neanche una volta da quando era tornato, né ne aveva intenzione. Combatté le maledizioni con una maestria che non era la sua, obbedì meccanicamente a ciò che il corpo le suggeriva di fare, scansando fiotti di luce e macerie che le rovinavano addosso. Ad ogni balzo, ad ogni piroetta la sua lunga treccia danzava, il rosso dei capelli illuminato dalle maledizioni, il sangue rappreso sulla fronte e sulla tempia. Inseguì un mangiamorte ferito e si trovò in biblioteca, dove alcuni libri incantati si scagliarono sull’uomo colpendolo a ripetizione sul cranio già vessato da una fattura lanciata da chissà chi. L’uomo fece per voltarsi, ma esitò, la bacchetta in mano e gli occhi sgranati.
«Tu sei la figlia di Rosier. Dovresti essere…»
«Diffindo!» la voce di Evaline sferzò l’aria insieme al fascio di luce che trafisse l’uomo, facendolo crollare contro uno dei tavoli posti in fondo. Non era mai stata brava negli incantesimi offensivi, ma in quel momento sarebbe stata in grado di compiere qualsiasi gesto. Il suo corpo lo era, almeno. Lei, Evaline, era al sicuro. I suoi piedi non si mossero, però. Fissò il tavolo della biblioteca e per poco non le mancò il respiro. Era quello posto in fondo a destra, tra le alte librerie e alcuni scaffali che lo nascondevano alla vista di chi si trovava dalla parte opposta della stanza. L’accesso al reparto proibito era poco più avanti, i fantasmi a guardia adesso erano impegnati altrove, ma era lì che fluttuavano, pallide sentinelle messe a guardia da Madama Pince. Quel tavolo su cui adesso era steso il mangiamorte era stato spostato, forse qualcuno aveva già combattuto lì dentro, i libri sopra di loro si agitavano come uccelli impazziti, sbatacchiando le pagine come ali pesanti. Evaline fissò quel tavolo per un tempo che parve infinito, dopodiché tornò in sé. Sapeva benissimo cosa fare. Sapeva benissimo dove andare. Forse era la pozione a suggerirlo, forse l’aveva sempre saputo, ma si sarebbe preoccupata di darsi delle risposte solo quando lo avrebbe trovato. Corse via, corse con un’agilità che non le apparteneva, custodendo nel cuore l’immagine di quello stesso tavolo accostato tra le librerie, anni prima, con la luce del pomeriggio ad illuminare due sagome lì sedute, ma distanti, come a ribadire l’esistenza di una barriera invalicabile.
 
Capitolo 1
 
«…undici pollici, flessibile, pero e cuore di crine di unicorno.» Olivander elencava le proprietà della bacchetta con un sorriso che esprimeva sollievo. Fece per dire altro, ma Moody attirò l’attenzione su di sé con un grugnito, lasciando intendere di voler concludere in fretta la questione. Evaline osservò l’auror intento a pagare la sua bacchetta, poi tornò a guardare il disastro che aveva combinato con gli esemplari precedenti. Venuto a conoscenza del nome della ragazzina, Olivander le aveva proposto alcune bacchette nella convinzione che fossero adatte a lei perché simili a quelle del padre: poco flessibili, legni capricciosi, corda di cuore di drago nel nucleo. Evaline aveva agitato le prime con movimenti energici, ma dopo i primi fiotti di scintille brucianti aveva deciso di essere più cauta. Quella che aveva provato poco prima di essere scelta l’aveva scossa appena e quel movimento impercettibile era bastato a scaraventare il vecchio bancone contro la parete opposta, fracassando alcuni scaffali. Moody era rimasto impassibile, mentre Evaline era paonazza per la vergogna e il calore del fuoco che aveva appiccato ancora prima.
«Alastor.» Lo chiamò flebilmente mentre tentava di tenere il passo dell’uomo. Il mantello era troppo pesante, di un caldo asfissiante, ma non aveva modo di sfilarlo a causa dei pacchi che reggeva con entrambe le mani.
«Ti comprerò un gelato quando avremo recuperato i dannati libri che mancano. Devi anche prendere le misure per la divisa scolastica.»
«Oh, non intendevo chiederti un gelato.» Ammise con un sorrisone ansante. L’avrebbe accettato volentieri, però. Il caldo era sempre più asfissiante ed erano passate ore dalla colazione. «Ti volevo solo chiedere…»
Esitò, ma lo sguardo diretto di Moody la costrinse a cacciare fuori la domanda che le si era già affacciata negli occhi. «Secondo te la bacchetta che mi ha scelto è come quella di mia madre?»
Non avvenne alcun mutamento sul viso sfregiato di Alastor Moody, ma Evaline era preparata a quell’impassibilità. Di rado le concedeva informazioni sulla famiglia a cui apparteneva un tempo, non sembrava neppure vagamente interessato a fornirne. Di suo padre, Evan Rosier, Evaline sapeva soltanto che era stato un mago oscuro e che aveva portato con sé un pezzetto di naso di Moody prima di morire. Non provava malanimo nei confronti dell’auror, né nei confronti dei suoi colleghi che si alternavano per occuparsi di lei. Rimasta sola e senza nessuno in vita, dall’età di quattro anni Evaline aveva sperato in un’adozione, desiderio che non venne mai realizzato. Viveva in un orfanotrofio e gli auror che scortavano le sue gite erano tutti gentili. Moody, per quanto burbero, non faceva eccezione.
«Possibile.» rispose dopo un po’, liberandola dai pacchetti. «Di certo non ha nulla a che vedere con la bacchetta di tuo padre, puoi stare tranquilla.»
Erano ormai entrati al Ghirigoro ed Evaline preferì non chiedere altro. Una voce dentro di lei si interrogava spesso su un dilemma morale: avrebbe dovuto odiare l’uomo responsabile della morte di Evan Rosier? Suo padre sarebbe stato vivo se non fosse stato per lui, eppure Evaline sentiva di voler bene all’auror. L’orfanotrofio destinato ai figli di maghi era gestito da Madame Francine, una donna vigorosa e buona, ma Evaline passava molto tempo in compagnia degli auror che alternavano la guardia alla struttura. Secondo Madame Francine la loro presenza era rassicurante, perché spesso i bambini senza famiglia venivano destinati al Signore Oscuro, giovani leve da indirizzare alle arti oscure.
Il solo pensiero fece accapponare la pelle di Evaline, che per un attimo riuscì a dimenticare il caldo. Un attimo, appunto. Si sfilò il mantello e lo lasciò su uno sgabello, in modo da potersi aggirare comodamente nel negozio affollato, dove maghi e streghe non facevano che urtarla e inciampare su di lei. Era piccola, paffuta, l’abito azzurro le stava un po’ stretto, ma a Moody era stato detto di commissionare altri vestiti oltre la divisa scolastica.
«Vedi di andarci piano con le merende, ragazzina. Non puoi sperperare la tua eredità in vestiti.»
Evaline arrossì leggermente, ma la vergogna era limitata a quel breve calore che le accendeva le guance, un rosso che richiamava in parte i capelli, di una nota pel di carota accesa da sfumature bionde. Il tutto non era accompagnato da lentiggini, nemmeno il sole diretto ne faceva affiorare una spruzzata, limitandosi ad arrossarla a chiazze.
«Evans, non hai risposto ai miei gufi.»
Fu per caso che Evaline si trovò nei pressi di un ragazzo alto, magro, i capelli spettinati e un paio di occhiali sul naso. Guardava la ragazza davanti a sé con aria vagamente contrita, delusa quasi, ma qualsiasi fosse l’espressione di lei, Evaline non riuscì a vederla. C’era solo quella massa incantevole di capelli rosso scuro a scivolarle lungo la schiena. Evaline avrebbe voluto avere la stessa chioma curata, spesso aveva desiderato qualcosa di diverso rispetto alle onde crespe che, spazzolate malamente, si gonfiavano orrendamente.
«Tutta l’estate.» incalzò lui, ma non c’era traccia di aggressività nella voce. Guardava la ragazza e i suoi occhi parvero feriti.
«Mi sembrava ci fossimo salutati bene, a fine anno. No?» azzardò un sorriso, la speranza che tornava a farsi strada nei suoi occhi. La ragazza davanti a lui chinò leggermente il capo e un po’ di luce illuminò gli occhi di lui. Evaline ipotizzò che l’altra stesse sorridendo.
«Non sapevo cosa scrivere.» Ammise l’altra, la voce un po’ cupa screziata da quella che parve timidezza. «Volevo…»
Non seppe mai cosa volesse, perché il ragazzo si accorse di Evaline e, mormorato qualcosa all’altra, si allontanarono da lì. Evaline ebbe giusto il tempo di vedere il viso della ragazza e di ricambiare il suo vago sorriso con uno più affrettato ma sentito. Non voleva spiare, ma si era ritrovata a pochi passi da loro a causa della folla che la spingeva lontano dal bancone. Folla che si divise al passaggio dell’Auror, gli sguardi che dal suo volto fuggivano via nell’istante in cui parevano riconoscerlo. Evaline era abituata a quelle reazioni e poco le importava se dietro quell’atteggiamento ci fosse paura o rispetto, odio o disgusto. Non aveva mai compreso la gravità degli eventi legati al Signore Oscuro, per quanto Moody non si facesse scrupoli a parlarne davanti a lei che, tutte le volte, riusciva a distrarsi pensando a qualcosa di futile e spensierato.
«Ti sei fatta un’idea delle case di Hogwarts, immagino.» buttò lì Moody dopo averle concesso l’agognato gelato. Erano seduti su un muretto tra pacchi e buste, quasi tutte le compere portate a termine. Ai passanti faceva uno strano effetto vedere una coppia così male assortita, ma bastava un’occhiata di Moody a costringerli a voltarsi dalla parte opposta.
«Sì. Secondo Theodore finirò a Serpeverde.» Evaline emerse dal gelato e rispose senza curarsi né di quanto detto né della vaniglia appiccicata sul mento.
«Chi è Theodore e dov’è che ha sbattuto la zucca che si trova al posto della testa? Cosa c’entri tu con Serpeverde?»
Evaline rise. «Theodore sta in orfanotrofio con me. I suoi genitori erano entrambi Auror, quindi sa un sacco di cose e mi ha detto che tutta la mia famiglia era Serpeverde.»
A Moody non sfuggì l’adorazione di Evaline nel nominare la professione dei genitori e per quanto apparisse compiaciuto, non si soffermò granché, procedendo in tono burbero. «Theodore sbaglia.» tagliò corto. «Tua madre era Corvonero. Adesso finisci quel gelato e…» ma non ebbe modo di finire perché Evaline parve ricordare qualcosa e, passato il cono all’uomo, corse verso il Ghirigoro facendo cenno di aspettare. Un po’ avvilito, l’auror borbottò un’imprecazione mentre lei si richiuse la porta alle spalle. La ragazzina tentò di farsi strada all’interno del negozio finché lo sguardo non si posò su una figura magra e grigiastra che se ne stava appollaiata su uno sgabello come un avvoltoio sul suo trespolo. Evaline si posizionò a pochi passi da lui e si schiarì la voce nel tentativo di attirare la sua attenzione, ma lui continuò a starsene con un libro aperto sulle gambe e il profilo rivolto verso una finestra che dava sulla stradina affollata del quartiere magico. Era privo di colore, pallido come un morto nonostante l’estate appena trascorsa.
«Perdonami.» pigolò Evaline dopo essersi decisa a rompere il silenzio, ma le ci volle un secondo tentativo per attirare l’attenzione del ragazzo. «…il fatto è che…» più che la timidezza fu la paura di disturbarlo a renderla tanto esitante. «Il mantello, dico. Sì, sei seduto su…»
Finalmente il ragazzo prese atto della sua presenza e la trafisse con un’occhiata feroce, cattiva. «Che vuoi?» Un sibilo, l’aria di chi sembra pronto a mettere mano alla bacchetta, Evaline la vide sbucare dai pantaloni. Probabilmente era uno studente di Hogwarts e il pensiero la fece rabbrividire appena. Se fossero stati tutti ostili come lui sarebbe stato un bel problema. Poi notò i suoi occhi lucidi e il timore poco a poco si dissipò, lasciandola solo vagamente impacciata. «Ti sei seduto sul mio mantello. L’ho dimenticato quando sono entrata poco fa e…» ma lui sembrava essersi già dimenticato di lei, perché aveva individuato qualcuno tra la folla. Non le scoccò neppure un’occhiata mentre si alzava e raggiungeva un paio di ragazzi dall’aria vagamente annoiata. Evaline ne approfittò per raccogliere il mantello sgualcito, lanciare un ultimo sguardo al ragazzo che spariva nella folla, per poi tornare da Moody e i suoi borbottii per essersi allontanata a quel modo.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


I primi mesi ad Hogwarts furono lieti e la casa che l’accolse, Tassofrasso, un nido sicuro. Tenersi al passo con lo studio, però, fu problematico. Poco dotata, distratta, più incline a far perdere punti piuttosto che far guadagnare lustro alla sua casa, Evaline tendeva a sentirsi fuori posto, inadatta. Il suo cognome divenne oggetto di mormorii e più di un’occasione si ritrovò a dover dare spiegazioni sull’assenza di gufi e parenti in attesa di lettere. Fuori dalle mura di Hogwarts le schiere del Signore Oscuro si facevano sempre più numerose, non era raro che giungessero cattive notizie e uno o più studenti piangessero la perdita di un caro. In una di queste circostanze, proprio in Sala Grande, una studentessa di Tassofrasso, Susan, ricevette cattive notizie durante la colazione. Evaline era seduta pochi posti di distanza e per lei fu naturale abbandonare il porridge per correrle incontro. Le stava simpatica, un paio di giorni prima l’aveva difesa da un Serpeverde del settimo anno che aveva deciso di prendere di mira gli studenti del primo. Susan si era piazzata davanti a lei e, bacchetta sfoderata, aveva urlato: «Non oggi, Avery. Provaci e dovranno tirarti giù dalla Torre di Astronomia.» Quella volta era andata bene, ma la successiva pare che Avery avesse usato magia oscura ai danni di una Grifondoro che si trovava in infermeria. «Susan, cosa…» Era sul punto di sfiorarle il braccio, ma nel vederla quella si scostò bruscamente da lei e, occhi brucianti di lacrime e lettera stretta nel pugno, le scagliò addosso parole che risuonarono per la Sala Grande. «Non mi toccare, Rosier. Se avessi saputo che sei figlia di quel pazzo non mi sarei mai sognata di avvicinarmi a te.» Un prefetto si avvicinò a loro e presa Susan per le spalle, si affrettò a calmarla e, tra i singhiozzi, venne fuori che il fratello di lei era stato trovato morto nel suo ufficio al ministero. Evaline provò a dire qualcosa, se ne stava in piedi a pochi passi da loro e si sentiva distante chilometri. Avvertendo lo sguardo dei presenti addosso decise di andare via, di lasciarsi la Sala Grande alle spalle, alla ricerca di una tregua. Non aveva le lacrime agli occhi, eppure sentiva una gran voglia di piangere. Cosa ricordava dei Rosier, lei? Cosa ricordava del padre che tanta sofferenza aveva inflitto al prossimo? Aveva l’immagine sfocata di un uomo bellissimo, il sorriso gentile contornato da bei capelli biondi. Ricordava vagamente la sua voce gentile mormorarle dolcezze. “Così giovane e così talentuosa, la mia Eva. Piccola, meravigliosa e bellissima Eva.” Quando in orfanotrofio sognava una famiglia sperava di sentirsi ripetere quelle poche e semplici parole che le erano rimaste addosso come un marchio. Per qualcuno era stata preziosa, bellissima, talentuosa. Talentuosa. Lei che non era in grado di portare a termine il più semplice esercizio di trasfigurazione, lei che ad incantesimi era l’unica a non essere riuscita a far levitare la sua piuma. Non era speciale per nessuno, salvo forse per Alastor, il caro zio Alastor che a Natale le inviò uno spioscopio pensando di farle regalo gradito. Si ritrovò nel cortile della torre dell’orologio, nuvole di condensa fuggivano dalle labbra ansanti, le mani strette sulle braccia nel tentativo di scaldarsi. Aveva dimenticato il mantello e la sciarpa, stupida com’era non c’era da aspettarsi nulla di diverso. Le scarpe che calpestavano la neve produssero il dolce suono della meringa che si sgretola, il freddo le si insinuò anche sotto la gonna e nonostante le calze aveva le gambe gelide. Erano tutti in Sala Grande o da qualche parte al calduccio, dove avrebbe dovuto trovarsi anche lei. Evaline era grata per quella solitudine e, finalmente, si concesse di piangere. Era un pianto liberatorio, singhiozzi, lacrime e moccio, mugugni, tutto il pacchetto. Ne sentiva il bisogno, l’aveva trattenuto dal primo giorno di scuola e adesso trovava finalmente compimento. Aveva il volto tra le braccia, lo sfregò e tamponò occhi e naso, le spalle scosse dal pianto da bambina che sembrava però farla stare un po’ meglio. «Frignare con questo freddo è da stupidi.» Una voce annoiata e mormorata a denti stretti la costrinse a voltarsi e a pochi passi vide la figura magra di un Serpeverde di cui vedeva solo parte del profilo, perché collo e mento erano avvolti a più riprese dalla sciarpa verde e argento. Riconobbe il naso adunco e i capelli unticci, era lo stesso ragazzo incontrato al Ghirigoro che aveva poi riconosciuto ai primi giorni di scuola. Non aveva avuto modo di incrociarlo, ma lo aveva visto spesso con Avery e un paio di brutti musi di Serpeverde. Si vergognò mortalmente d’essere stata sorpresa a piangere. Mai si era concessa di piangere davanti a qualcuno. Piangere è una debolezza che non può permettersi. Non sapeva perché, ma sapeva che era sbagliato. «Non ti avevo visto. Scusami.» farfugliò lei roca. Quelle parole fecero inarcare le sopracciglia di lui, la cui espressione da annoiata si fece sorpresa. «Mh.» Le gettò un’occhiata indagatrice, fece per dire altro, quando Amy Rivers, una Tassofrasso del settimo anno, emerse dal castello e si affrettò a gettare su di lei mantello e sciarpa. «Piton, cosa le hai fatto?» Sbottò inacidita, la bacchetta già in pugno. Lui parve irrigidirsi, ma non estrasse la propria bacchetta, quasi trovasse superflua la minaccia dell’altra. «Ti segnalerò al professor Lumacorno.» Da dietro la sciarpa di Serpeverde emerse un ghigno storto, gli occhi scaltri ormai fissi sulla compagna di classe. «Accomodati, Rivers.» Fece noncurante, lasciandosi le due alle spalle con passo flemmatico. Quando fu andato via Amy Rivers abbassò la bacchetta, per poi posare il palmo contro la guancia di Evaline. «Ti ha detto qualcosa di spregevole, per caso?» le sorrise incoraggiante e al cenno di diniego di Evaline parve rasserenarsi, anche se di poco. «Non andare in giro da sola. Non è sicuro, non con lui e i suoi tra i piedi. Gente brutta, Evaline. Adesso vieni, ti accompagno a lezione.» La ragazzina la seguì, grata di non dover dare ulteriori spiegazioni sul perché si era messa a piangere.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


La magia oscura non era ammessa tra le mura di Hogwarts, eppure in infermeria il numero di pazienti aumentò sempre di più, di pari passo con il potere del Signore Oscuro. I corridoi spesso divennero teatro di maledizioni lanciate ai figli di babbani, con la conseguente reazione di chi si erse a difesa dei compagni vessati. Evaline percorreva i corridoi a passo svelto, dimenticando di dover saltare il gradino mancante o impigliandosi nelle armature quando correva con la sciarpa che ondeggiava dietro di sé. Le armature non la prendevano bene quando accadeva che lei si portasse dietro un elmo o un guanto. Era da poco finita l’ultima lezione della giornata quando si ritrovò nello stesso corridoio di Avery e un altro Serpeverde del settimo anno, uno di cui non conosceva il nome. Forse non avrebbero levato la bacchetta contro quella Tassofrasso grassottella e timida, ma Evaline non diede loro modo di rifletterci perché fuggì via per scale e corridoi, fino ad infilarsi in biblioteca. Il suo respiro ansante irruppe nella sala e le fece guadagnare occhiatacce da Madama Pince che le fece cenno di sedersi o andarsene. Afferrò un libro al volo e si avviò in fondo, lì dove un tavolo semi nascosto dalle librerie le permetteva di infilarsi indisturbata. Nessuno era seduto a quel tavolo, dove alcuni libri giacevano dimenticati in un paio di pile accatastate ordinatamente. Liberata di sciarpa e mantello, Evaline prese a sfogliare il libro recuperato a caso dagli scaffali, perdendosi tra le pagine che sfiorò con la punta della bacchetta. Un susseguirsi di fiori e piante velenose, insetti e ragni disegnati tra le pagine giallastre le fecero compagnia e la cullarono. Palpebre appesantite, un mormorio tra le labbra, la punta della bacchetta posata sul disegno di alcune farfalle coloratissime. Tra le ciglia chiare intravide un movimento che la costrinse ad aprire gli occhi e fissare incantata l’immagine evanescente di alcune farfalle che al tocco della bacchetta sul foglio si librarono in volo, disegnando scie luminose nell’aria. Erano illusioni che svanivano subito, ma a lei parvero piacere, tanto che provò a toccarle con le dita, ma quelle erano incorporee. Ripeté i movimenti della bacchetta sul foglio e alcune api si staccarono dal disegno di un giardino e ronzarono intorno al suo volto strappandole un sorriso tiepido. «Sei una strega o una babbana che fa giochi di prestigio?» Riconobbe la voce sprezzante un attimo prima di vedere il Serpeverde prendere posto nei pressi della pila di libri insieme ad altri volumi. I suoi capelli erano cresciuti ancora e si dividevano unti e neri intorno al viso scarno. La guardava in tralice, ma non sembrava esserci astio o rimprovero. «Ah, io…sì, stavo…» «Rosier, dico bene?» Lo domandò tenendo lo sguardo sui propri libri. Evaline si limitò ad annuire e lui parve avvertire quel cenno pur non guardandola. «Perché sei sempre rintanata da qualche parte da sola? I Tassofrasso pensano di essere migliori di una Rosier?» «Ma no.» Esordì lei in un pigolio talmente basso da rischiare d’essere coperto dallo sfogliare del libro. «Sono io che…» «Non piangerti addosso. È fastidioso.» La voce bassa e annoiata si strascicava appena. Sembrava stanco, eppure i suoi occhi neri erano vivaci mentre scrutavano tra le pagine del primo libro alla ricerca di qualcosa. Non disse nulla per parecchio tempo e lei decise di stare in silenzio. Non l’aveva cacciata via, quindi tanto valeva rimanere nascosta ancora un po’. Non aveva più sonno, non osava abbassare la guardia davanti a Piton. Così finse di sfogliare il libro con aria forzatamente assorta. Passarono diversi minuti e lui aveva già finito di consultare il primo volume ad una velocità straordinaria, almeno secondo Evaline che sbirciava il profilo del ragazzo con curiosità crescente. «Quelle illusioni che hai riprodotto.» Eveline lo guardò spaventata, quasi si aspettasse un rimprovero o una maledizione o tutte e due insieme. «Erano ben fatte. Al primo anno non insegnano trucchetti simili. Dove lo hai imparato?» Continuava a non guardarla, chiunque se l’avesse visto avrebbe pensato che stesse mormorando qualcosa tra sé e sé. «Non è un trucco. Disegno i contorni con la bacchetta e le immagini vengono fuori.» e vedendo che lui taceva, lei parve incoraggiata a prendersi uno spazietto in più. «Ti faccio vedere.» Lo vide aggrottare le sopracciglia, lo sguardo ancora tra le pagine come se avesse letto un passaggio più complicato. Evaline sfogliò il libro con cura, fermandosi su un jobberknoll azzurro. La punta della bacchetta disegnò i contorni dell’immagine ed Evaline ci impiegò più tempo per dedicarsi come si deve alle penne della coda. Poi con uno schiocco l’uccello si librò in volo, molto più piccolo di un jobberknoll reale, ma altrettanto elegante, colorato, una forma evanescente che svolazzò sotto il naso adunco di Piton che rimase apparentemente impassibile. Tornò a guardarla, interdetto dal sorriso della ragazzina, che non mostrava alcuna paura adesso, dimentica ormai delle raccomandazioni di Amy Rivers. Non dissero nulla. Evaline si limitò a ripetere quel gioco finché non ebbe finito le figure del libro e Piton non fece nulla per interrompere la ragazzina, limitandosi a studiare e prendere appunti finché la biblioteca rimase aperta. Dopodiché si alzarono per recarsi ognuno al proprio dormitorio, con Piton forse deciso ad ignorarla, forse no. Tuttavia, Evaline lo salutò con un cenno della mano e un sorriso che l’altro non vide, ma che lo seguì mentre si allontanava.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Quegli incontri al tavolo della biblioteca divennero frequenti, ma di rado lui degnava di uno sguardo Evaline, che al contrario si mostrava raggiante, di un’allegria ingiustificata. Avrebbe potuto esercitarsi con i compiti e le lezioni arretrate, ma tutto ciò che sembrava aver voglia di fare era riprodurre quelle illusioni colorate. Disegnare, in un certo senso. Il volto si distendeva quando le sue creazioni uscivano fuori dalle pagine dei libri, era così appagante che iniziò a divertirsi nella creazione di creature mai viste e fiori mai cresciuti in nessun giardino del mondo. Un mercoledì, giorno in cui solitamente quel tavolo era già occupato da Piton, Evaline trovò il posto di lui ancora libero e un libro posto davanti la sedia di solito occupata dalla Tassofrasso. “Disegno illusorio: passatempo o talento artistico?” Un manuale per affinare la tecnica di quello che pareva essere l’unico argomento degno del suo interesse. Seppe con certezza che quel libro era stato lasciato da Piton e per quanto all’interno fosse indicato che appartenesse alla libreria di Hogwarts, lei cominciò a adorarlo come se fosse solo suo. Non lo incontrò quel giorno e neppure quello dopo ancora, lei ipotizzò fosse preso dagli esami di fine anno, ormai imminenti. Lo vedeva prendere posto al tavolo di Serpeverde per ultimo e andar via per primo, segno che aveva fretta di seguire un ritmo di studio adeguato. Evaline se ne convinse, almeno. Era sorta in lei un’ingiustificata e insensata adorazione nei suoi confronti, un segreto che non osava condividere con i compagni ma che le strappava un sorriso in più a tavola. Spinta dall’esempio del compagno più grande, Evaline studiò con ritrovata energia, tanto che perfino la McGonagall se ne accorse, e le assegnò i primi cinque punti da quando aveva messo piede ad Hogwarts. Dopo un anno trascorso a sentirsi inadeguata, Evaline capì di essere brava in qualcosa: le illusioni. Non era neppure una disciplina scolastica, ma non era importante, non dopo che lo stesso Silente aveva tessuto le sue lodi un giorno di fine aprile. Evaline si trovava nei pressi del dipinto di Barnaba il Babbeo quando la sua bacchetta riprodusse l’immagine sbiadita di un troll in tutù che prese a piroettare per il salone con grazia inaspettata. Fu allora che Silente la sorprese, dedicandole un sorrisetto compiaciuto. «Signorina Rosier.» Esordì dopo aver battuto le mani per tre volte in segno di apprezzamento. «Lei è riuscita lì dove Barnaba ha fallito. Erano anni che non assistivo ad una simile grazia.» La guardo da dietro gli occhiali a mezzaluna, un sorriso gentile e caloroso. «Dovrò decidermi ad introdurre una nuova materia, prima o poi. La professoressa McGonagall ha visto dei miglioramenti in lei, così come il professor Flitwick. Devo dedurre che siano cominciati quando ha preso ad esercitarsi in quelle deliziose illusioni che hanno rallegrato la biblioteca, dico bene?» Ad ogni parola e ad ogni secondo che passava, Evaline rigirava la bacchetta tra le mani e le sue guance arsero di vergogna. Ci mise un po’ a comprendere che non avrebbe fatto perdere nessun punto alla casa e ancora di più a realizzare che il preside fosse davvero compiaciuto. Alla fine sorrise, un sorriso goffo e imbarazzato, ma sincero e caldo, uno di quelli che l’illuminavano fino alla punta dei capelli annodati in due grosse trecce. «Lo pensa davvero?» Silente sorrise. «Sul fatto che lei abbia talento o a proposito della decisione di voler introdurre una materia che stimoli gli studenti ad esercitarsi con i movimenti della bacchetta attraverso attività ricreative?» Una pausa, quindi accennò vagamente ad un congedo con un cenno del capo. «Sì, Rosier.» Lo guardò andare via mentre il sorriso su di lei si fece via via più ampio. I voti migliorarono appena, ma non fu solo il suo rendimento scolastico a trarre beneficio da quella piccola e dolce scoperta. I compagni Tassofrasso, scoperta quella dote, la presero come esempio e provarono a ricreare le stesse illusioni partendo dai loro disegni e fu tutto un tripudio di animali dalle sembianze incerte, fiori asimmetrici, creature mostruose che svanivano poco dopo aver visto la luce. Evaline primeggiava in quanto a creatività e prodezza nel riprodurre illusioni che duravano anche più di una manciata di secondi. Non erano vere e proprie riproduzioni solide, palpabili, avevano sempre la pecca di apparire trasparenti come ologrammi, ma abbastanza nitide da avere contorni e colori precisi. Il mercoledì successivo, quello in cui sperava di trovare Piton in biblioteca, le sue aspettative vennero accontentate. Peccato che non fosse solo. L’istante in cui ebbe svoltato l’angolo della libreria si ritrovò a fissare la figura di schiena di quello che senza alcun dubbio doveva essere Avery, intento a parlare con Piton. Fu un attimo e lei si parò dietro gli scaffali un attimo prima che il Serpeverde potesse accorgersene, salvandosi. Non poteva essere certa di essere scampata agli occhi di Piton, ma quello non fece nulla per segnalare la sua presenza, né diede segno di stanarla dal suo nascondiglio. «Non essere impaziente, avverrà tutto quando ci saremo lasciati questo posto alle spalle.» «Come fai ad essere così calmo, Severus? Lì fuori i nostri si stanno prendendo il meglio e noi…» «Basta.» la voce di Piton era calma ma perentoria. «Non qui. Non ora. Adesso vattene, ho bisogno di studiare.» «Cosa te ne importa del voto di fine anno? Sarà tutto finito e…sì, ho capito, vado.» Uno sbuffo e Avery marciò verso l’uscita, lasciandosi la biblioteca alle spalle. Evaline riprese a respirare e per un po’ si limitò a starsene accovacciata contro gli scaffali, indecisa se andare al tavolo o girare sui tacchi e sparire a sua volta. Mentre la ragazzina rimuginava, la voce di Piton provenne in un sibilo da dietro la libreria. «Hai intenzione di startene lì per tutto il tempo, Rosier?» sembrava annoiato. Evaline sbucò a malincuore dal suo nascondiglio e trottò verso il tavolo con un sorriso incerto, confuso. Il ragazzo aveva il profilo immerso nel libro, non la degnò di uno sguardo, prendendo atto della sua goffa figura ora seduta a pochi posti da lui. «Cosa?» Mormorò lui dopo quella che parve un’eternità in cui lei lo fissava senza dire nulla. «Sei stato tu.» gli sorrise, un’unica fossetta sulla guancia sinistra. «Mi hai lasciato quel libro. È stato molto utile, sai? Non ero mai stata la più brava di tutti in qualcosa.» Lui non rispose. Non una conferma né una smentita, il naso adunco che quasi sfiorava le pagine del vecchio volume su cui erano incise rune che Evaline non era in grado di decifrare. Aveva l’aria di essere davvero antico. «Sei il ragazzo più studioso della scuola.» Riprese lei, i piedi che dondolavano a mezz’aria, i gomiti puntati sul tavolo. C’era adorazione nei suoi occhi, qualcosa a cui l’altro probabilmente non era abituato e che, ora che l’aveva sotto il naso, non era in grado di cogliere. «Mi nascondo spesso in biblioteca e tu sei l’unico che la frequenta così spesso. Nessuno prende tutti quei libri, poi. Da dove provengono? Erano nel reparto proibito? Posso guard-» «Perché ti nascondi?» Solo adesso Piton aveva sollevato leggermente lo sguardo, fissandola attraverso alcune ciocche che gli scendevano sul volto. Inespressivo e pallido, la guardava senza distogliere lo sguardo dal volto della ragazzina che, nonostante tutto, pareva a suo agio. «Il tuo amico mi fa paura.» ammise lei, accennando ad Avery. «Ma non è l’unico. Alcuni ragazzi lanciano delle maledizioni orribili, ho visto Priya di Corvonero finire in infermeria a causa di una fattura che le ha incollato le labbra.» Piton emise uno sbuffo leggero, per la prima volta vagamente divertito. «La conosco. Parla troppo, quella. Non ho capito perché dovresti avere paura, però. Tu non sei come lei.» Non disse quelle parole. Non disse Sangue Marcio. Gliene fu grata, ma improvvisamente si sentì a disagio. «Non possono saperlo. Quelli che lanciano le maledizioni, dico. Come fanno a sapere com’è il mio sangue se non lo vedono?» «Tutti sanno che sei una Rosier.» Decretò lui con l’aria di chi sta spiegando ad una bambina quanto fa uno più uno. «Chi mai oserebbe farti del male? Tutti rispettano il nome dei Rosier.» Non stava sorridendo, era maledettamente serio. Gli occhi neri per una volta scalfiti da una punta di freddo interesse che la mise a disagio. «Sono l’ultima dei Rosier. Non ricordo mio padre, so solo che non c’è niente di cui andar fieri.» Lo disse abbassando lo sguardo sulla superficie del tavolo, la consapevolezza di essere studiata dal serpeverde. Si perse nella contemplazione delle venature del legno, gli occhi fissi sui disegni irregolari. Il volto del padre lottava per emergere nella sua memoria, ma era un’immagine sempre più sbiadita, i tratti belli e regolari mutavano ogni volta che tentava di rendere nitido il ricordo. La sua voce, però, era limpida, una carezza soave che non poteva appartenere ad altri se non ad una persona di buon cuore. «Tuo padre era un genio. Una delle menti più brillanti che Hogwarts abbia mai visto. Da quel che so tua madre era altrettanto geniale, una mente raffinata.» No, non c’era calore nella voce di lui, ma riuscì comunque a strappare un sorriso ad Evaline che, grata, tornò a guardarlo con gli occhi che ancora bruciavano. «Potresti raccontarmi di loro?» Pigolò torturandosi le mani paffute. «Zio Alastor non mi dice mai nulla. So solo che tutti gli averi di famiglia sono stati confiscati e li riavrò quando avrò compiuto diciassette anni.» Lui storse le labbra in una smorfia beffarda. «Come puoi chiamare zio l’uomo che ha ucciso tuo padre? Non puoi essere così stupida da averlo perdonato.» Lei fece per ribattere, le guance già ardevano di una rabbia che stonava sul suo volto morbido e gentile, ma lui levò una mano in un cenno di diniego. «Non sono fatti miei, non mi interessa sapere cosa ti hanno raccontato gli auror.» Sfogliò una pagina, poi un’altra, lo sguardo ora rivolto al libro. «Di Evan Rosier so quello che sanno tutti: era un mago brillante, capace, uno studioso formidabile e idee che cozzavano con le fandonie del Ministero.» Chiuse di scatto il libro, lo ripose insieme alla pila dei volumi già consultati, ordinando alla penna d’oca di prendere appunti con un movimento distratto della bacchetta. Quindi aprì l’ennesimo libro di runologia. «Tua madre era abile in occlumanzia. Alina Rosier ha scritto dei saggi sull’elegante arte di manipolare le menti e modificare i ricordi. Può essere d’aiuto per affrontare dei traumi, anche se ha poco senso farne uso. Non è estirpando la memoria che guarisci le ferite.» Lo sguardo di Piton esitò su un punto a caso, prima di tornare a lei, che trovò immobile, le labbra schiuse in un’espressione a metà tra lo stupore e l’adorazione. «Sai…sai davvero tutto.» Bisbigliò lei con gratitudine. «Nessuno ha mai parlato così dei miei genitori.» Sospirò un sorriso sollevato e triste insieme. Lui continuò a fissarla con studiato interesse, riflettendo tra sé e sé per un po’. «Voglio provare una cosa.» Azzardò con un mezzo sorriso che non gli sfiorava gli occhi. «Posso?» Esitò, la bacchetta a mezz’aria. In lei non c’era traccia di paura, fiduciosa e ancora presa dalle piccole rivelazioni di poco prima. Quindi annuì senza esitare, di un’accondiscendenza che fece tentennare l’altro al punto che per un attimo parve ripensarci. La guardò un istante di troppo, combattuto, per poi indurirsi nuovamente e, puntata la bacchetta contro la sua fronte, mosse silenziosamente le labbra, pronunciando parole che l’altra non udì. Sentiva solo la punta della bacchetta al centro della fronte, gli occhi storti nel tentativo di guardare, un’espressione confusa e goffa. In un attimo tutto divenne buio, soave. Cos’era successo? Era piacevole. Quando era spaventata o triste tendeva ad avvolgersi in una coperta calda, la simulazione di un abbraccio che, lo sentiva, mai aveva ricevuto. La sensazione era più o meno la stessa, con la differenza che era davvero tutto ovattato, distante, come la voce del Serpeverde che le stava comunicando qualcosa. Lui era l’unico legame con il mondo esterno, l’unico appiglio che le impediva di crollare definitivamente in quel dolce tepore. Poi, all’improvviso, tutto cessò. Fu come emergere da una pozza d’acqua calda, l’aria gelida contro la pelle che ancora ricordava il piacevole calore di un abbraccio. Si osservò intorno con aria persa, confusa, prendendo atto di aver abbandonato il posto al tavolo per starsene in piedi sul davanzale della finestra che dava sul cortile esterno. «Tuo padre era un genio.» Il mormorio di Piton la costrinse a guardare in basso, verso di lui ormai in piedi, gli occhi neri che la studiavano avidamente, un’insistenza che per un po’ la mise a disagio. «Come…come sono finita qui?» Boccheggiò lei, il corpo rannicchiato sul davanzale nel tentativo di non perdere l’equilibrio. Il cuore si dibatteva come un animale ferito, negli occhi il bruciore che annunciava le lacrime. Lui non rispose alla domanda, era preso da pensieri che gli affollavano lo sguardo. Furono le parole successive di Evaline a destarlo, gli occhi fissi ora sulla mano che porgeva dall’alto. «Mi…mi aiuti a scendere? È alto, ho paura.» La voce ridotta ad un singulto, il corpo scosso da un tremore che la rendeva simile ad un coniglio costretto all’angolo. Lui serrò le labbra, c’era una punta di fastidio negli occhi ridotti a due fessure. Eppure l’aiutò a scendere, reggendola con entrambe le mani in uno sforzo che non era abituato a compiere. «Sei pesante. Dovresti andarci piano in Sala Grande. Fortuna che non vai ad Hogsmeade o spenderesti tutto al negozio di dolci.» «Oh, mi piacciono solo i cioccocalderoni.» Borbottò lei, impacciata, le mani che armeggiavano con la divisa scolastica nel tentativo di stirarla in basso. «Perché non me ne prendi un po’, la prossima volta?» Azzardò con un sorriso speranzoso, mentre il colore stava riprendendo ad animare le sue guance. Lui era tornato a sedersi, la schiena curva sui libri. «Sì.» Fu la risposta sbrigativa del ragazzo. «Vediamoci al cortile vicino le serre di Erbologia, dopo Hogsmeade. C’è una cosa che voglio chiederti, ma devo prima capire.» Evaline accolse la proposta in uno slancio di allegria che ancora portava i segni di ciò che era successo poco prima, un sorriso un po’ incerto sulle labbra. «Cos’è successo, prima? Un attimo prima ero seduta e quello dopo ero…» «Tutto a suo tempo, Rosier.» Tagliò corto lui. «Puoi stare tranquilla su una cosa, però: non ti farei mai del male. Tu sei preziosa, tuo padre ha riposto in te molte speranze.» Non ci fu verso di estorcergli altro, però.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Fece come le era stato detto. Era ridicolo pensare che lui la considerasse un’amica, ma una vocina dentro di Evaline bisbigliava speranze con crescente forza. Non era poi tanto strano che i ragazzini del primo anno bazzicassero nei pressi dei ragazzi dell’ultimo, magari per estorcere qualche trucchetto o consiglio per sopravvivere agli esami. Piton, ne era certa, doveva essere il più intelligente e dotato del suo anno. Della scuola, forse. Si disfò e ricompose le due trecce più volte, ma non c’era verso di renderle simmetriche né ordinate, perché alcuni ricci sfuggivano, altri erano particolarmente gonfi e spettinati, così ci rinunciò e accettò l’immagine al proprio specchio. L’unico dettaglio di lei di cui andava fiera erano gli occhi. I suoi occhi ricordavano quelli del padre, la parte di lui che meglio ricordava perché se la ritrovava davanti ogni volta che vedeva il proprio riflesso. Occhi grandi, il taglio dolce, un colore a metà tra l’azzurro e il verde chiaro, contornato da lunghe ciglia rosse pel di carota. Odiava quei capelli perché in orfanotrofio erano oggetto di scherno. «Dove vai?» Theodore Williams la fissava dall’alto della scalinata che conduceva al primo piano, la divisa di Corvonero lustra e stirata, lo sguardo corrucciato fisso su di lei. Condividevano la vita in orfanotrofio, ma oltre quello avevano ben poco in comune: lui figlio di auror, lei di mangiamorte. Ricambiò lo sguardo facendosi incerta, le mani che giocavano con gli orli del mantello mentre tentava di trovare una risposta convincente. Non sapeva mentire, quindi optò per la prima cosa che le veniva in mente. «Un amico mi aspetta.» «Tu non hai amici.» Fece male, sì. Lo guardò con il volto arrossato di vergogna e gli occhi un po’ umidicci, ma non replicò, preferendo lasciarselo alle spalle. Lui e le sue domande inopportune. Non vide l’espressione di Theodor, né udì le sue parole che si persero nel rumore dei passi e nei borbottii dei gargoyle che superò più in fretta che poteva. Quando fu fuori si rese conto di aver sbagliato percorso, così tornò sui suoi passi e con suo sommo sollievo Theodore era sparito. Corse verso le serre di Erbologia e trovò Piton lì, l’aria seccata di chi doveva aver atteso più di quanto aveva previsto. «Non mi piace aspettare.» «Scus-» Nulla, il respiro era affannoso al punto da soffocare le parole. Il volto paonazzo e gli occhi ancora tristi che lui parve trovare interessanti, motivo di attenzione. Scosse il capo e tornò a lei. Indossava la divisa scolastica anche se non vi era alcuna regola di portarla durante le gite ad Hogsmeade e lei l’attribuì alla sua impeccabile diligenza. «Come promesso.» Le lanciò una scatola di cioccocalderoni e lei per poco non li fece scivolare nel lago. Cinse la scatola con un sorriso goffo e grato, l’aria raggiante. «Grazie, Severus.» Non ci aveva nemmeno fatto caso, ma quella era la prima volta che lo chiamava per nome. Lui storse le labbra, non disse nulla però, la bacchetta rigirata tra le lunghe dite mentre camminava avanti e indietro con il suono dei passi accompagnato dal lento ondeggiare delle barche contro il molo. «Mantengo le mie promesse.» C’era fredda cortesia nei suoi modi, negli occhi un luccichio sinistro, inquietante. Evaline sapeva che c’era qualcosa che non andava, ma nonostante tutto non ebbe paura. Un cagnolino in attesa di una carezza o un premio. Dato che ancora non parlava, lei azzardò un passetto verso di lui. «Avevi detto che mi avresti detto di più su mio padre. Magari anche su mia madre.» Un altro sorriso incoraggiante, le dita che stringevano la scatola di cioccocalderoni tradivano trepidazione. «Magari…mi dirai che è successo in biblioteca. Mi hai spostato con un incantesimo?» Lui parve sorpreso, dopodiché un sorriso storto albeggiò sul volto magro e pallido. «No, ti sei spostata da sola. Sai essere molto agile nonostante la ciccia, sai? Potresti essere molte cose. Potresti diventare grande se solo lo volessi. Tuo padre aveva grandi progetti per te, lo sanno tutti.» «Tutti…chi?» Pigolò lei. «No, non posso essere nessuno di importante, io. Non so fare niente. Io…sì, insomma, mi distraggo e tutto il resto. Dicono che ho la testa piena di sciocchezze, che non sono brillante come…» Deglutisce. «Beh chiunque.» «Ti sbagli. Tu hai molto potenziale.» Arrossì fino alla punta delle orecchie, le guance ardevano e sentiva quel calore renderla più impacciata. «Per te è facile dirlo. Tu sei lo studente più brillante di tutta la scuola.» Non c’era traccia di adulazione, lo disse con semplicità, come se questa volta fosse lei a spiegare un concetto facilissimo. Lui esitò, parve sorpreso e combattuto, indeciso sul da farsi. Si fece più pallido, gli occhi neri un po’ più lucidi. Sembrava provare rimorso, qualcosa che lei non seppe spiegarsi. «Severus?» Lui risollevò lo sguardo e sentirsi chiamare per nome parve dargli ulteriore vigore. «Gli auror devono aver fatto qualcosa quando eri piccola. Devono aver messo dei freni ai tuoi talenti. Io…posso rompere quei freni, sì. Io posso renderti migliore in tutto.» Lei lo guardò senza capire, ancora colpita da quanto l’altro stava mostrando di sé. Neanche badò a lui che, ancora una volta, posava la punta della bacchetta contro la sua fronte. «Non ti farò del male. Fidati, sarai più forte, sarai pronta a vivere nel mondo che creeremo.» «Mi…mi fido di te.» Non seppe neppure perché lo disse. Stava andando contro ogni consiglio che le era stato dato dagli auror, dai compagni di scuola più anziani e dal buonsenso. Lui tornò a mormorare parole incomprensibili e distanti ed Evaline si immerse in quel cantuccio dentro di sé in cui sapeva che sarebbe stata protetta. Durò a lungo, l’unico suono era quello del lago e il mormorio incomprensibile di Severus. Infine, come se tuonasse, la sua voce echeggiò nella sua testa: «…e sarai la studentessa più brillante, più capace, più talentuosa di tutta la scuola. Studierai finché le forze te lo consentiranno, non perderai tempo in frivolezze perché concentrarti sul tuo avvenire sarà prioritario. Dopodiché, terminati gli studi, sarai fedele serva del Signore Oscuro. Così voleva tuo padre e così ti comando io, Severus Piton.» Aprì gli occhi con quella voce che echeggiava nella sua testa, un peso nel cuore che per un attimo le impedì di respirare, pensare, realizzare il mondo intorno a sé. Poi vide il viso scarno di Piton e nei suoi occhi fermi trovò un appiglio, una luce a cui fare affidamento. Sorrise, un sorriso tenero e stanco. «Devi…devi dirmi altro, Severus?» Poco a poco la sua confusione si dissipò, lasciando dietro di sé una freddezza che non le apparteneva. Eppure, sorrideva a Piton, un sorriso che per lui parve naturale. «No. È tutto.» Fece lui, asciutto. Sembrava imporsi un certo controllo, rigido come se improvvisamente avesse timore di lei. «Devo tornare in sala comune, adesso. Non ho mai iniziato la relazione per il professor Lumacorno e se non recupero le lezioni che ho tralasciato rischio di prendere voti bassi agli esami.» Lui rimase rigido dove stava, non disse niente in risposta, limitandosi ad un rapido cenno del capo. Evaline gli sorrise ancora, quindi si voltò per ripercorrere la strada che portava al castello e poi ai dormitori. Non si era neanche accorta della scatola di cioccocalderoni che le era caduta per terra, né di Piton che si chinava a raccoglierla con un’espressione indecifrabile sul viso magro.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Il cambiamento in lei avvenne in modo repentino e nella sala comune di Tassofrasso le illusioni di Evaline smisero di aleggiare tra gli studenti. Non ci furono più né farfalle né troll in tutù, mostriciattoli o fiori. Niente. In pochi si accorsero della dedizione crescente che Evaline dedicava ai libri di testo, la sua ricerca spasmodica di metodi di memorizzazione efficaci che la mettessero in pari nello studio. Era indietro, tremendamente indietro e il desiderio di primeggiare la divorava come un tarlo al punto da toglierle del tutto la fame. Si recava in Sala Grande per ultima, trangugiava quel tanto che le occorreva per restare in piedi e poi si rintanava in biblioteca o in sala comune. Non provava alcuna gioia nei tortini di zucca e cannella, la marmellata parve di colpo insapore e le giornate primaverili solo una mera distrazione per i perditempo. Da qualche parte dentro di sé Evaline si domandava perché le parole di Piton quel giorno parevano diventate tanto importanti per lei, ma quelle domande avevano il peso della punta di uno spillo che di tanto in tanto la pungolava. Nulla riusciva però a portarla via dai libri. Un mese trascorse e lei riuscì a recuperare il programma di incantesimi, trasfigurazione, pozioni e perfino storia della magia. «Eva, ti ricordi la puffskein che hai disegnato per il mio compleanno? Ti andrebbe di…» Ma la voce di Susan si perse oltre le tende del letto a baldacchino che Evaline tirò per lasciar intendere di voler essere lasciata in pace. La compagna squittì scandalizzata, borbottando qualcosa che Evaline ignorò, ormai sorda alle distrazioni delle compagne. «Lumos.» La luce della bacchetta di pero illuminò il suo giaciglio permettendole di studiare dagli appunti di trasfigurazione. Il giorno avrebbe sostenuto gli esami insieme a tutti gli altri e non poteva permettersi di dimenticare le formule che tanto faticosamente aveva imparato e compreso. Prese il massimo. Tutti gli insegnanti furono piacevolmente sorpresi da quella ripresa improvvisa, la stessa McGonagall aveva notato i miglioramenti, tanto che si complimentò con lei davanti l’intera classe. «Sono felice che tu abbia trovato un metodo di studio efficace, signorina Rosier. Adesso puoi goderti un po’ di tregua.» L’aveva detto dopo aver notato il suo pallore e l’evidente dimagrimento, ma Evaline non aveva l’aria di aver colto le sue lodi. Annuì, un sorriso cortese abbastanza ampio da mettere in risalto la fossetta sulla guancia sinistra, ma privo di calore al punto che i suoi occhi rimasero freddi. No, non avrebbe conosciuto tregua. Ottenere il massimo dei voti non era abbastanza, non era il risultato che aveva sperato di ottenere. Sapeva di dover recuperare al più presto i libri per il prossimo anno in modo da essere abbastanza preparata da concedersi approfondimenti extra. Non c’era spazio per le illusioni svolazzanti, un inutile perditempo che non le avrebbe dato alcuna gioia. A filtrare quella fitta rete di pensieri legati allo studio c’era solo una distrazione, l’unica che sentiva il bisogno di concedersi. Era la fine dell’anno, gli esami ormai finiti, gli studenti del settimo anno pronti a dire addio ad Hogwarts, alla casa che avevano condiviso quegli anni meravigliosi. Evaline cercò il serpeverde nella biblioteca, provò a scorgerlo tra i volti che affollavano la Sala Grande e i giardini, senza trovarlo. Non fuggì via davanti Avery e i suoi compagni che, come aveva detto Piton, non le diedero fastidio. Camminò in mezzo a loro e stonava con la sua divisa di Tassofrasso in disordine, piuttosto larga e trasandata, così come erano trasandati i capelli lasciati sciolti sulle spalle. Trovò Piton alla Torre di Astronomia, le mani serrate sulla ringhiera che dava sul cortile esterno e da cui si scorgeva il campo di quidditch e le montagne. Il profilo era rivolto in basso dove le macchie colorate degli studenti si muovevano come tanti insetti vivaci. Stava scrutando un punto in particolare quanto Evaline gli fu accanto, in piedi dietro uno dei cannocchiali puntati al cielo. Non si era accorto subito di lei e ci fu un breve attimo in cui parve angosciato, preso da un dolore che trafisse Evaline facendole provare qualcosa dopo settimane di gelo. Le dispiacque per lui, ma quell’attimo di cedimento scivolò via dal viso del Serpeverde, lasciandolo torvo e arido come sempre. «Sì?» «Ho preso il massimo dei voti.» Non sapeva di volergli dare quell’informazione finché le parole non furono uscite dalle sue labbra. Solo allora si rese conto di quanto fosse importante per lei metterlo al corrente dei suoi progressi. Le dita di Evaline strinsero la ringhiera mentre attendeva con disperazione una reazione di lui. Reazione che tardò ad arrivare, i suoi occhi scaltri stavano macinando pensieri che ci misero un po’ a toccare le sue labbra. «Non basta.» Le disse poi. «Scoprirai che i voti non sono nulla, Rosier. Questa scuola pone dei limiti che hai il dovere di superare e dovrai farlo con le tue sole forze, perché non troverai nessun mentore disposto ad aiutarti. Non qui.» «Non puoi essere tu ad aiutarmi?» Lo slancio con cui lo chiese era pieno di un fervore inaspettato. Aveva gli occhi lucidi, i lineamenti spezzati in una preghiera pronta a sgusciare via dalle labbra tremanti. Lui parve interdetto, un disagio che lo costrinse a distogliere brevemente lo sguardo da lei. Quanto tornò a parlare, la voce fredda andò a cozzare con il fervore della ragazzina. «Non posso. Non ne ho il tempo. La mia vita sta per cambiare radicalmente e non vedo come potrei riuscire a seguirti nello studio.» «Potresti aiutarmi durante l’estate. Potresti…sì, potresti, io…» «Non essere sciocca, ragazzina.» La voce sprezzante sferzò l’aria e il sorriso di Piton lo rese ancora più arido e privo di felicità di quanto apparisse poco prima. «Cosa dovrei fare, mh? Incontrarti in quel dannato istituto protetto dagli auror? Impossibile. C’è un motivo se li hanno messi a guardia.» Lei fece per interromperlo, ma un’occhiata del ragazzo bastò ad ingoiare le parole ancor prima che toccassero le labbra. «Te la caverai da sola come ho fatto io. Nessuno avrà da ridire se ordinerai libri per studiare e una volta tornata a scuola troverai tutto ciò di cui hai bisogno in biblioteca. Quando verrà il momento dedicati ad antiche rune e aritmanzia, non perdere tempo in materie come babbanologia o divinazione.» Ogni parola le si scolpì da qualche parte nel cervello, annuì meccanicamente, mossa dall’impulso di obbedirgli che pareva naturale come respirare. Le sue viscere si contorsero come tentacula velenosa quando un pensiero emerse poco a poco nella sua mente, per poi toccare le sue labbra in una dolorosa consapevolezza. «Non ti vedrò finché non mi sarò diplomata.» Dirlo non l’aiutò a liberarsi di quel peso. «Passeranno anni, Severus.» Anche lui parve interdetto. C’era qualcosa che stonava nella fredda compostezza del ragazzo, un senso di colpa che lei vide con chiarezza e, con altrettanta chiarezza, vide anche una punta di compiacimento. Era difficile comprenderlo, le sue emozioni affioravano di rado. «Non hai bisogno di vedermi. Ricorda quanto ti ho detto e un giorno renderai onore al tuo sangue, al nome che porti. E al Signore Oscuro.» Ancora una volta la voce che proveniva da quel cantuccio distante parve lottare per affiorare, era debole come il vagito di una bestia morente: è tutto sbagliato. Lei soffocò quella voce, annuendo debolmente. «Renderò onore a te.» Lui inarcò le sopracciglia senza aggiungere altro. Annuì, di nuovo assorto. Quindi tornò a posare le braccia sulla ringhiera e a guardare in basso, con Evaline immobile a pochi passi da lui. Era troppo piccola per potersi sporgere come si deve, ma nonostante per tutta la vita avesse avuto paura delle altezze, ora quel timore parve irrilevante. «Mi mancherai.» Un pigolio debolissimo, parole fragili e spezzate da un sospiro. I capelli neri di lui celavano il volto, così lei si limitò a guardare le mani bianche che si serrarono contro la ringhiera. Ipotizzò che non fosse contento della confessione della ragazzina. Rimasero a lungo senza dire nulla, aspettando semplicemente che il pomeriggio lasciasse spazio alla sera, per poi recarsi in Sala Grande senza guardarsi, senza un saluto, senza un gesto. Lui all’alba del suo futuro, lei ancorata ad un’attesa che l’avrebbe logorata.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Vigilanza costante. Moody aveva trascorso l’estate a ripeterlo ogni volta che Evaline palesava il desiderio di andare in Diagon Alley e fare scorta di libri al Ghirigoro, gita che veniva sempre rimandata a causa dei disordini e gli attentati dei mangiamorte. Per Evaline fu complicato ignorare l’impulso di fuggire per procurarsi da sola ciò di cui aveva bisogno, in più di un’occasione venne sorpresa appena in tempo da Madame Francine o da Theodore, che in qualche modo si era fatto più sospettoso. «Sei strana.» Dichiarò un pomeriggio particolarmente sereno, quando tutti i ragazzini si trovarono fuori a giocare e lei era rannicchiata sulla sua poltrona preferita intenta a rivedere delle formule di pozioni che ormai aveva imparato a memoria a forza di rileggerle. «Me lo hai già detto.» «Studi troppo.» «Detto da un Corvonero suona strano, sai? Dovresti essere tu quello con il muso tra i libri.» Il commento stizzito fece aggrottare ulteriormente la fronte di lui, che le si piazzò davanti con ostinata attenzione. «Mi riferisco anche a questo. Ieri hai fatto piangere Alice, sei stata cattiva.» «Aveva nascosto i miei appunti.» «Perché voleva giocare con te. Ti vuole bene, prima di Hogwarts stavate sempre insieme. Le sei mancata, sai?» Evaline esitò quel tanto che bastava a far comprendere all’altro che quelle parole avevano sortito l’effetto sperato. «Andiamo in cortile, dai. Sei pallida come un avvincino.» Evaline scattò in piedi, spinta da una furia che poco si sposava con i tratti del viso, con la dolcezza degli occhi e quell’indole docile che aveva sempre mostrato. «Tu non sopporti l’idea che la figlia di un mangiamorte sia meglio di te, non è vero? Sei patetico. I tuoi perfetti genitori auror non ti hanno insegnato che è scorretto cercare di sabotare il prossimo?» Theodore divenne rovente, le guance paonazze nel tentativo di trovare una risposta che Evaline trafisse sul nascere. «Lasciami in pace. Io devo essere l’alunna migliore di Hogwarts.» Marciò via dalla stanza lasciandolo sgomento. Non si parlarono per tutta l’estate e l’inizio dell’anno scolastico giunse senza ulteriori intoppi. La sera prima della partenza per Hogwarts venne a trovarla Moody, cicatrici nuove sul viso già deturpato. «Sei contenta?» Borbottò lui nel tentativo di essere anche solo vagamente gentile. «Mi pare che ti sia piaciuto stare lì. I tuoi voti erano buoni, no?» Evaline annuì, le gambe rannicchiate sotto la lunga camicia da notte di cotone rosa. Le stava larga, le maniche adagiate sulle braccia magre. Era cresciuta di qualche centimetro, dettaglio che pareva spiegare la sua magrezza. «Bene.» Sbottò lui. «Cerca di non esagerare. Gli anni della scuola servono ad instaurare legami. Sì, insomma…amici, no?» Non attese una risposta, pareva che quel discorsetto fosse stato preparato e ripetuto più volte. «Beh insomma, fa’ la brava. Se ti serve qualcosa scrivimi, il tempo di risponderti lo trovo.» La debole presenza di quella voce dentro di sé si fece sentire con più prepotenza: abbraccialo. Lei obbedì, ignorando la rigidità dell’uomo. Il peso che si portava nello stomaco parve dissiparsi del tutto. «Lo so, zio Alastor.» Ma ogni volta che la lasciava andare, Evaline tornava lì, nel suo rifugio, lasciando che i fili invisibili tessuti da qualcun altro la conducessero dov’era destinata. Trascorsero anni e senza rendersi conto dello scorrere del tempo, Evaline si ritrovò al quinto anno: spilla da prefetto, ottimi voti, rispettata dai membri di Tassofrasso che, grazie a lei, erano al primo posto tra le case di Hogwarts. Erano a tanto così da vincere il trofeo, l’anno prima, ma per la gioia del professor Lumacorno alla fine furono i Serpeverde ad avere la meglio. Ad Evaline non importava. Non c’era gioia nelle sue vittorie, non c’era orgoglio nei risultati raggiunti, né la benché minima ombra di dolcezza nei suoi tratti sempre più induriti. Pareva ingrigita, pallida, una figura smagrita che si aggirava per i corridoi in compagnia degli altri prefetti ai quali a stento rivolgeva la parola. Ogni traccia di vanità in Evaline era assente, non c’era cura nel modo in cui teneva i capelli appuntati in una grossa treccia pel di carota che ondeggiava lungo la schiena. «Il prossimo finesettimana andiamo ad Hogsmeade?» La voce di Theodore la raggiunse tardivamente. Entrambi prefetti, si aggiravano per i corridoi deserti della sera. «Sì. La gita è fissata da un po’.» Rispose apatica, distante. «Intendevo…» Si fermò a pochi passi da lei, interrompendo così il suo passo. «Insieme. Andiamoci insieme.» Non sembrava aver capito, ma era evidente che la sua confusione era stata presa da Theodore per timidezza, perché sorrise con una nuova speranza negli occhi. «Facciamo scorta di cioccocalderoni. Ti sono sempre piaciuti, no?» Evaline esitò, un ricordo che galoppava nella sua mente. Quella scatola di cioccocalderoni non l’aveva mai aperta e il pensiero le inumidì inspiegabilmente gli occhi. Theodore fraintese anche quella reazione, era evidente dal rossore che gli accese le guance. Nonostante l’acne era bello, uno dei più carini del loro anno. Evaline non provava nulla, assolutamente nulla per lui, neppure la vocina nascosta dentro di lei si destò alla vicinanza del prefetto che, più audace, si sporse per baciare frettolosamente le sue labbra. Evaline non indietreggiò, ma non ci fu neppure il benché minimo tentativo di ricambiare il suo gesto. Arida e apatica, inarcò le sopracciglia chiare in un vago rimprovero. «Non farlo più.» Esalò alla fine, oltrepassandolo. Dietro di lei Theodore si maledisse per la sua audacia, lo sentì borbottare delle scuse impacciate. «Verrò comunque ad Hogsmeade con te. Ho voglia di cioccocalderoni.» Qualunque fosse la sua espressione, Evaline la ignorò, completando il giro per poi filare al proprio dormitorio. Una volta in Sala Comune esitò sotto il quadro di Tosca Tassofrasso, perdendosi nella contemplazione della coppa che teneva tra le mani. Sì, per la prima volta dopo tanti anni provava l’inspiegabile desiderio di mangiare qualcosa. Faceva freddo ad Hogsmeade, ma per gli studenti fu piacevole respirare un po’ di aria fresca dopo tanto tempo trascorso al chiuso a causa del maltempo. Evaline camminava svogliatamente al fianco di Theodore che sembrava essersi pentito di averle chiesto di uscire. Il silenzio era pesante, una tensione insostenibile aveva reso irascibile il Corvonero, che tuttavia rimase fedele a sé stesso e condusse Evaline all’interno di Mielandia. La folla li costrinse a starsene gomito a gomito, contatto che imbarazzò lui ma lasciò impassibile la Tassofrasso, che finì con il lasciarsi trascinare nella fiumana di gente dentro il locale. «Forse è meglio se mi aspetti fuori.» Suggerì lui. «Diamine, si soffoca qui dentro.» Non trovando nulla da obiettare, Evaline uscì avvolgendosi la sciarpa sotto il naso, maledicendosi per quella perdita di tempo sottratta allo studio, quando qualcosa la trafisse all’improvviso. Una figura magra, nera, naso adunco ed espressione severa sotto il cappuccio di un pesante mantello che ne nascondeva parte del volto. Non furono solo i fili invisibili a tirare braccia e gambe verso di lui, ma anche la voce debole e nascosta dentro di sé si era fatta limpida, alta, urlava a gran voce il nome del mago a diversi metri da lei. «Severus.» Boccheggiò infine, cercando di raggiungerlo. Lui salì delle scale, si infilò in una viuzza tra le case e lei tentò di raggiungerlo con passo affrettato. Le mancava il fiato dall’emozione, il corpo oppresso dal peso di quegli anni si fece leggero e agile, un’agilità inaspettata per lei che nella vita era sempre stata goffa e impacciata. Oltrepassò la fiumana di studenti e raggiunse il vicolo, ma del ragazzo non c’era traccia. L’aveva immaginato? Corse lungo il vicolo e passò oltre, girò il cumulo di case e ripercorse le strade senza badare agli sguardi perplessi degli studenti che la vedevano ansimare e affannarsi alla ricerca di qualcuno che non vedevano. Gli occhi le si bagnarono in un pianto che non sapeva se attribuire all’angoscia o alla frustrazione, il respiro accelerato per lo sforzo di correre e sostenere delle emozioni tanto forti dopo anni di totale apatia. «Sev…» Era davvero lui, poi? Sembrava più maturo, non più il ragazzo che aveva conosciuto tra le mura del castello. Più duro, più cupo, i lineamenti fermi. E se l’avesse scambiato per qualcun altro? No, impossibile. Sentì le viscere contorcersi come tentacula velenosa, un dolore nauseante che la costrinse a fermarsi per tentare di respirare. Fu preda di un malessere crescente, l’impulso di vomitare e brividi lungo le spalle. Sul punto di svenire, due mani l’afferrarono prima che le sue gambe cedessero sotto il peso del suo corpo. «Che ti è preso? Cerco di fermarti da un pezzo, sei ammattita?» Theodore tentò di sorreggerla, nel volto una crescente preoccupazione. Per un attimo Evaline aveva confuso gli occhi neri del ragazzo con quelli dell’uomo che aveva cercato di raggiungere e quando si fu resa conto dell’errore fu preda di un pianto debole, fragilissimo. Stremata da una sofferenza di cui non si era mai resa conto, alla fine cadde. Scelse l’oblio, l’abbandono, un po’ di riposo da quegli anni in cui non aveva mai ceduto a qualsiasi cosa le si agitasse in corpo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


«…non può essere come allora, Albus.» «Forse no, Alastor. Non sta bene, però. È meglio che resti in infermeria per qualche giorno, giusto per esserne certi. Il signor Williams afferma di aver colto un comportamento…curioso. Era sconvolta, pare.» «Evan Rosier è morto, non ha più alcun controllo su di lei, me ne sono accertato personalmente. Suggerisco di ripetere gli incantesimi per esserne sicuri.» «Sai bene che non è pronta a subirli.» Una pausa, poi il preside riprese. «Signorina Rosier, bentornata.» Lo vide sorridere con gentilezza, gli occhi luminosi dietro gli occhiali a mezzaluna erano rivolti a lei che tentò di sollevarsi sui gomiti. Qualcuno le aveva messo addosso un pigiama e i capelli erano stati liberati dalla treccia, spargendo le ciocche per tutto il cuscino. «Cos’è successo?» Pigolò frastornata. Alastor Moody avanzò verso il suo letto, mezza faccia fasciata da una serie di bende a coprire uno dei due occhi. Quella visione la fece scattare a sedere, tesa. «Non è niente.» Ruggì l’auror. «Presto ne avrò uno nuovo.» La scrutò con il suo unico occhio azzurro, contorcendo le labbra in una smorfia. «Da quant’è che sei così magra? Da piccola non facevi che mangiare. Silente, gli elfi domestici sono degli spilorci?» «Niente affatto, Alastor. I pasti sono abbondanti e deliziosi, giusto ieri mi hanno fatto apparire sotto al naso un tacchino grosso come un ippogrifo.» Evaline li osservò in attesa di ricevere spiegazioni, sposando lo sguardo da uno all’altro finché Madama Pomfrey irruppe nella stanza con aria contrariata. «La signorina Rosier è una mia paziente. La febbre è appena scesa e ha bisogno di dormire come si deve.» Il tono severo era rivolto sia all’auror che al preside, entrambi presto arresi alla richiesta di lasciare in pace Evaline. Una volta sola, la ragazza parve come…svuotata. Ripensò al groviglio di emozioni che le si erano risvegliate ad Hogsmeade, al dolore che aveva affondato le sue radici in quegli anni di totale dedizione allo studio. Adesso pareva nuovamente svuotata, un’ampolla ben chiusa entro cui aveva celato sé stessa. Quella vera, quella che amava disegnare, creare, fantasticare. Quella che aveva un talento tutto suo che l’aveva aiutata ad essere benvoluta nella sua casata, seppur per poco tempo. Adesso era una creatura ingrigita dalle responsabilità da prefetto, dall’ossessione malsana di ottenere solo il massimo in ogni materia. Riuscendoci, anche. A che prezzo, però, non lo sapeva. Ripensò all’uomo che aveva visto ad Hogsmeade, alle domande che avrebbe dovuto porgli. Avrebbe dovuto aspettare pochi mesi prima di vederlo ancora. Si immerse tra i cuscini decisa a recuperare in fretta le energie, in modo da poter tornare tra i libri il prima possibile. Non gliene importava nulla delle stranezze intorno a lei, né del cambiamento repentino che ad un certo punto l’aveva colta. Sapeva quando era accaduto, sapeva chi era stato, ma non aveva la benché minima importanza. Il suo scopo era quello di obbedire a quella semplice richiesta che, alla fine, l’avrebbe portata ad essere un’ottima studentessa. Era diventata prefetto, no? Andava bene così.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Scese dalla carrozza trainata dai Thestral. Riusciva a vederli, lei. Li aveva sempre visto e accettato quella verità senza porsi ulteriori domande, come sempre. Si era abituata a loro, così come si era abituata a percorrere i passi fino alla Sala Grande senza alcuna emozione nel petto, senza alcun desiderio di incontrare compagni o amici, incline com’era ad una solitudine studiata, misurata. Ignorò lo smistamento, lo sguardo fisso sul piatto vuoto davanti a sé, la voce della McGonagall che chiamava i ragazzini del primo anno che, tra applausi e fischi, venivano accolti nelle rispettive case. Non badò neppure alla voce del preside che annunciò i cambiamenti del corpo docenti, non finché non ebbe nominato l’insegnante che avrebbe sostituito Lumacorno. Non sollevò lo sguardo dal piatto, non subito. Fu cauta, limitandosi prima a sbirciare con la coda dell’occhio, furtiva e silenziosa. Poi volse il capo verso il tavolo degli insegnanti e lo vide. Intorno a lei i piatti cominciarono a riempirsi, il chiacchiericcio intervallato dai rumori delle posate fece da sfondo e nessuno badò né al suo respiro mozzato né al suo sguardo devoto e luminoso puntato sul professore di pozioni. L’uomo, scuro e arcigno, aveva mantenuto il cipiglio severo, il portamento rigido e un po’ ricurvo come chi ha passato gran parte della sua vita sui libri. I capelli unti e neri ricadevano intorno al volto pallido e magro, sgradevole secondo i commenti di qualcuno intorno a lei. Evaline non toccò cibo per la durata della cena, ricordandosi di ingollare un paio di bocconi poco prima che i piatti sparissero nuovamente. Non ricordò neppure cosa ebbe trangugiato né le importava. Non avrebbe dovuto aspettare altri due anni prima di rivederlo. Sarebbe stato fiero del lavoro che aveva fatto? Sapeva che era diventata prefetto? «Evaline?» Sorrideva distratta, gli occhi umidi, le guance rosse e l’aria persa di chi rifiutava di destarsi dal proprio sogno. Rupert, l’altro prefetto di Tassorosso, la stava fissando inebetito, evidentemente confuso dalla compagna che di rado aveva visto sorridere. «Evaline, dobbiamo condurre gli studenti nella sala comune. La parola d’ordine, ricordi?» «La…sì, la parola d’ordine. Cavoli cinesi.» L’altro inarcò un sopracciglio, ma lei ormai era nuovamente padrona di sé. Avrebbe tentato di incontrare Piton dopo aver svolto le proprie mansioni di prefetto. Più volte gettò lo sguardo verso di lui mentre si lasciava la Sala Grande alle spalle, ma l’uomo non sembrava intenzionato a ricambiare le attenzioni. Fu un’eternità il tempo trascorso a percorrere il corridoio che oltrepassava le cucine, i ragazzini non facevano che domandare, chiedere, riempirla di richieste infantili e irritanti. Rupert fu impeccabile come sempre e perfino comprensivo quando Evaline lo pregò di continuare al posto suo, farfugliando poche parole a proposito di qualcosa che aveva dimenticato in Sala Grande. Saltò qualche gradino mentre si dirigeva in Sala Grande, dove alcuni studenti e alcuni insegnanti si erano attardati, ma né lui né il preside erano presenti. Tornò sui suoi passi, ancora indecisa su dove andare, finché non ebbe deciso di fare un tentativo ai sotterranei. Forse sarebbe passato dall’aula di pozioni, chi lo sa. Nessuno. L’odore pungente dei reagenti stipati in ampolle e barattoli aleggiava nell’aria, i calderoni già posizionati sui posti assegnati agli studenti e nella penombra non si sentiva altro se non i suoni lontani di fantasmi di passaggio. Alcuni ritratti ammiccarono verso di lei, un paio di loro le intimarono di andare al proprio dormitorio, ma vedendo la spilla da prefetto decisero di non insistere troppo. Era stanca, molto stanca. L’anno ancora agli inizi e lei era l’ombra di ciò che era un tempo. Vide il proprio riflesso su uno dei calderoni lucidi e fu complicato realizzare che appartenesse a lei quel volto scavato, i capelli rossi e scarmigliati chiusi in una treccia arrangiata senza alcuna cura. La divisa scolastica era in ordine, le pieghe della gonna scendevano impeccabili lungo le gambe ossute e la camicia abbottonata ai polsi sottili. Non aveva subito la maledizione dell’acne, almeno la pelle era morbida e liscia, ma tirata sul viso al punto da trasfigurare la sua espressione di un tempo, rendendola cupa, triste. «Il mio incarico ha appena avuto inizio e già devo togliere punti?» La voce di Severus Piton sferzò l’aria in un sibilo tanto inaspettato da farla sussultare. Persa com’era nella contemplazione della propria immagine, Evaline aveva rimosso il motivo che l’aveva portata lì. Ferma al centro dell’aula si voltò verso di lui, una mano stretta contro il bordo del tavolo quasi temesse di cadere via. Sulle sue labbra si modellò un sorriso incredulo, sollevato, felice e commosso insieme. «Sei tornato, Severus. Sono…guarda, sono diventata prefetto.» Mostrò la spilla e lo sguardo dell’uomo se possibile si fece più duro. «Buon per lei, signorina. Ciò non toglie che la mia aula non è…» disse altro, ma lei già non gli dava retta, un fischio le attraversò il cervello. «S-signorina? Sono io. Sono…sono Evaline.» «Temo di saperne meno di prima. Mi dica il suo cognome e farò in modo di ricordarmelo quando sottrarrò punti a Tassofrasso.» «Rosier. Evaline Rosier. Davvero non ricordi?» Qualcosa cambiò nello sguardo dell’uomo. La riconobbe in quell’istante e la sua immagine parve disturbarlo al punto da impedirgli di parlare per una pausa che parve infinita. «Ora…ora ricordi?» Un sorriso tremante sulle labbra, la voce incerta e sottile come la punta di uno spillo. «Sono…sono cresciuta, sì. Sono la migliore del mio anno, sai? Forse riuscirò a diventare Caposcuola. Sta andando tutto come mi avevi detto di fare, presto sarò pronta per il Sig-» «Zitta.» Le ordinò lui e con un gesto brusco le indicò la luce delle candele. Voleva vederla meglio. Lei obbedì, le sembrò incredibilmente facile seguire il suo volere, neanche fosse mossa da fili invisibili tenuti dalle sue dita. «Sei diversa.» Constatò poi. Se fosse positivo o meno, non lo disse. Lei aveva smesso di parlare e non osava dir nulla finché non le veniva concesso di parlare, così si limitò a starsene immobile sotto la luce. Gli sorrise con adorazione, gli occhi un po’ sgranati e folli. «Ho creduto…» La voce del professore era bassa e incerta, quasi spaventata. «…ho creduto che quell’incantesimo si sarebbe indebolito. L’ho sottovalutato. Sono stato…uno stupido.» «Uno stupido? No, mai. Eri sicuramente il ragazzo migliore di Hogwarts. Gli altri perdevano il loro tempo in frivolezze, tu invece studiavi sempre. Un genio. Sì, un genio.» «Avremo parlato sì e no…quante volte? Oh, sta’ zitta, sciocca. Devo porre rimedio a tutto. Tutto.» «Severus, in questi anni che tu…sì, mi sei mancato. Ma ho studiato sempre, sai? Non ho fatto altro, credimi. Non è esistito altro se non i libri che mi hai detto di procurarmi.» Lui le intimò di tacere, era visibilmente furioso, ma non con lei. Forse. «Professor Piton. Non prenderti confidenze che non devi, ragazzina. Comportati da studentessa e mantieni le distanze, non sono più un allievo di Hogwarts.» «Professore. Sì, professore.» Annuì, era inebriata dalla possibilità di eseguire un ordine. «Devo continuare a studiare e obbedire. Pensa che sono pronta a diventare…» «No, non lo sei. Adesso fila nel tuo dormitorio e lasciami il tempo di capire come rimediare a tutto. Tutto questo.» Lei annuì, finalmente sollevata. Sarebbe andato tutto bene, adesso che c’era lui a guidarla da vicino. Si ripeté questa certezza fino allo sfinimento, ignorando quella parte di sé che, dal fondo del suo animo, aveva cominciato ad alzare appena la voce. Ancora troppo debole, ancora incapace di rompere l’involucro che l’avvolgeva.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Non avrebbe avuto la lezione di pozioni prima di due giorni e quell’attesa la logorava. Era tormentata dal desiderio di mostrargli tutti i progressi che aveva fatto: la tecnica con cui estraeva il pus di bubotubero, la precisione con cui sminuzzava radici molto più rapida dei suoi compagni, così come il modo in cui rimestava le pozioni ed era capace di anticipare il bollore e spegnere il fuoco alla temperatura perfetta. Rigirò la bacchetta di pero mentre nella sua testa ripercorreva i passaggi che occorrevano per la preparazione del distillato della morte vivente, i bagliori dorati del legno avevano la stessa sfumatura di alcune ciocche di capelli e di tanto in tanto li tormentava cambiando posizione alla treccia in gesti nervosi. Il tutto mentre si avviava a lezione di aritmanzia. «Rosier.» Non aveva sperato in tanta fortuna per paura di restare delusa. Si voltò e trovandoselo davanti le riuscì difficile lottare con l’impulso di rivolgergli un sorriso estatico, di raggiante. Si volgeva verso di lui con la stessa grazia di un fiore che seguiva il sole, era tutto così esagerato ed enfatico da risultare quasi sciocco. Un’adorazione che non aveva la forza di contenere, spontanea e quasi meccanica come respirare. «Ricomponiti, sei ridicola.» Era cereo. La voce bassa, molto bassa, eppure parve urlare. Lei smise di sorridere, obbedì all’istante. «Seguimi. Il preside ci aspetta.» Girò sui tacchi e non aspettò che l’altra si destasse dal proprio torpore, avviandosi il lungo corridoio che costeggiava il cortile della torre dell’Orologio. Avevano parecchie scale da fare, un’infinità, passando per pareti costellate di ritratti che lanciarono loro occhiate annoiate. «Severus, ho lezione. Non posso saltare le lezioni.» «Non chiamarmi così.» Precisò senza guardarla. «La professoressa Vector è stata informata, qualcuno ti farà avere gli appunti.» «Non mi sono mai assentata, sai? Non ho perso neanche una lezione.» Era patetico il tentativo di ottenere le sue lodi, ma non poteva fare altrimenti. Aumentò il passo e lo affiancò, il profilo rivolto verso il suo. C’erano più rughe intorno ai suoi occhi, eppure era ancora così giovane. Poco più che ventenne. «Splendido.» Una sola parola, ma parve bastarle. Davanti al gargoyle di pietra esitò il tempo di pronunciare la parola d’ordine: cioccocalderoni. Quindi entrarono. Non era mai stata nell’ufficio del preside, ma non sembrava un fatto di chissà che importanza. Silente era seduto oltre la scrivania, tutti i suoi oggetti scintillanti, gli strumenti lucidi e dall’aria antica erano riposti ovunque intorno a loro. Il ritratto di Phineas Nigellus Black era l’unico che prestava attenzione all’uomo appena entrato, tutti gli altri dormivano o erano semplicemente assenti. «L’ultima dei Rosier. Una donna, che peccato. Il cognome morirà con lei.» Phineas Nigellus sospirò e poi prese ad arricciarsi la barba a punta. «Serviti pure, signorina Rosier.» L’accolse Silente indicandole una ciotola di api frizzole. Lei si limitò a scuotere il capo con cortesia, cercando lo sguardo di Piton nella speranza di comprendere quello che stava accadendo. Lui non la stava neppure guardando, si limitò ad indicarle una delle due sedute, per poi limitarsi a starsene in piedi a pochi passi da lei, alle sue spalle. Una presenza opprimente per qualcuno, rassicurante per lei. «Perché sono qui, preside?» L’anziano preside sorrise con cortesia, ma lei aveva colto l’occhiata lanciata a Piton e, per quanto priva di ostilità, sembrava fredda. C’era qualcosa in quel silenzio, parole non dette. «Sei qui perché ti è stato fatto un grave torto, signorina Rosier.» Prese posto dietro la scrivania, l’aria bonaria e rassicurante di sempre. «Due volte.» Non guardò Piton, ma lei lo avvertì irrigidirsi alle sue spalle. Sentiva il suo respiro. «Non dovremmo aspettare…» Piton non ebbe il tempo di terminare la frase, dei passi dietro di loro annunciavano l’arrivo di qualcuno che aveva appena attraversato la statua del gargoyle. «Dov’è?» Ringhiò Moody ancora prima di mettere piede nell’ufficio, la bacchetta sguainata rivolta a Piton l’istante in cui il suo occhio roteò su di lui. Marciò a grandi passi, la maledizione era sulla punta delle sue labbra, il movimento della bacchetta quasi completo. Prima ancora che Piton mettesse mano alla sua, Evaline balzò con l’agilità di una gatta, parandosi tra i due e, bacchetta alla mano, puntare la propria su Alastor Moody. «Cru…» L’incantesimo non verbale di Piton fu più svelto e la bacchetta di Evaline deviò con uno strattone, mentre la sua bocca emise un rantolo soffocato. Le si era spento il cervello e riacceso nel giro di pochi secondi, una nausea improvvisa le rivoltava le viscere mentre si piegava carponi sotto lo sguardo dei tre uomini. Fu l’auror a piegarsi su di lei, a reggerla, l’occhio che roteava da Piton a Silente e viceversa. «Le avevo estirpato ogni traccia di magia nera, dannazione a te!» Ringhiò a Piton. «Come hai fatto, sciocco ragazzino? Eri uno studente, solo uno studente.» Impassibile, Piton si limitò a portare lo sguardo altrove, standosene in silenzio. Nessuno parlò, Evaline sentiva le tempie pulsare e il cuore dibattersi come un uccellino morente. Cercò l’auror, lo sguardo mortificato e spaventato insieme. Non capiva cos’era successo, non sapeva neanche che maledizione era sul punto di uscirle dalle labbra. Gli occhi dei presenti tornarono su Silente, che nel frattempo si era limitato ad alzarsi, ma non aveva ancora mosso le labbra. «Non la radice, a quanto pare. Evaline è come un burattino a cui hanno lasciato cadere i fili e Severus, consapevole della propria maestria, li ha raccolti.» Con calma tornò a Piton, che ricambiava il suo sguardo con durezza. «Come ci sei riuscito, Severus? Sapevi del lavoro di Evan Rosier, ma arrivare a sostituirti a lui…» Evaline emesse un singulto, poi cercò lo sguardo del professore di pozione, alzandosi grazie al sostegno di Moody. Non nascose ai presenti la devozione che gli riversava ad ogni occhiata, adesso ferita dal dolore che ancora le scorreva in corpo. «Non pensavo che sarebbe durato più di qualche mese. Ero…affascinato dal lavoro di suo padre, ma ero convinto fosse temporaneo. Invece si è consolidato.» «Cosa le hai ordinato di fare, feccia? Dovrei sbatterti ad Azkaban seduta stante.» Moody era fremente come un mastino idrofobo. «Non è ovvio? Mi chiedo come mai nessuno si sia reso conto di quanto sia dimagrita, a malapena si regge in piedi.» Gli rifilò un’occhiata in tralice e Moody fu sul punto di puntargli nuovamente la bacchetta, ma si fermò al cenno della mano di Silente e alla reazione di Evaline, pronta ad ergersi nuovamente in difesa del professore di pozioni. «Le ho ordinato di studiare. Le ho imposto di diventare l’allieva più brillante della scuola.» C’era altro, ma quel dettaglio lo riservò con un’occhiata a Silente, che tacitamente parve comprendere. Evaline mosse le labbra per dire qualcosa, ma pareva incapace di interromperli. «Credevo di farle un favore, in un certo senso. Sangue come il suo è sprecato nella mediocrità.» Silente chiuse un momento gli occhi, si prese il suo tempo prima di riemergere dai propri pensieri e, come sempre, la sua calma non venne mai intaccata. «Evaline Rosier non è mai stata mediocre. Di rado i miei studenti lo sono e lei ha un dono che si dibatte per uscire, non è vero?» Sorrise ad Evaline, che in piedi accanto all’auror non riusciva a seguirli. «Io…non capisco. Che sta succedendo? Non voglio che ve la prendiate con Severus, lui non ha mai fatto nulla di male. Mi piaceva stare seduta con lui in biblioteca, mi faceva sentire importante stare al tavolo del migliore studente della scuola.» Piton non mosse un muscolo, ma parve nauseato. «Sta’ zitta, ragazzina.» «Non usare quel tono con lei, verme.» abbaiò Moody. «Tutto questo non giova ad Evaline, rimandate le dispute ad un secondo momento.» Intervenne Silente. «Adesso sarà cura di tutti i presenti fare in modo che ogni traccia di magia oscura venga rimossa. Si tratta di un compito delicato ed estenuante, ma sono certo che il professor Piton ne sarà all’altezza. Dico bene, Severus?» L’altro annuì con un movimento rigido del capo. Tornò su Evaline, la guardò dritto degli occhi per la prima volta da quando l’aveva richiamata per i corridoi. «Rimedierò al mio errore.» Promise, la voce pareva risuonarle dentro la testa. Non seppe cosa aggiungere, ma non ce ne fu bisogno, perché Piton aveva già sollevato lo sguardo su Moody. «Se tu rimedierai al tuo, Moody. Dovrai raccontarle perché una ragazzina di sedici anni non ricorda nulla di ciò che era prima che tu uccidessi suo padre e del perché non si pone nessuna domanda.» La voce divenne poco più di un soffio. «Forse è stato più facile usare un po’ di quel potere per tenerla buona, mh?» Moody fu sul punto di esplodere e gli ci volle tutto il suo autocontrollo per non farlo. Piton nel frattempo si era congedato dai presenti, limitando a Silente un rapido saluto. Quindi si dileguò verso l’uscita, lasciando Evaline nello sconforto. Anche in quel momento, nessuna domanda. «Repellente il tuo professore di pozioni.» Sbottò lasciandosi cadere su una delle due sedie. Evaline non seppe cosa fare, così si limitò a seguire il suo esempio, in attesa. Silente le sorrise con dolcezza, ma tornò su Alastor, in attesa. «Dille quello che puoi, Alastor. Non può andare avanti così.»

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


L’assenza di Piton la fece piombare nell’apatia, per un po’ osservò il punto in cui poco prima si ergeva senza battere ciglio. Nel silenzio che si venne a creare non fece troppo caso alle occhiate che i due maghi si scambiavano, né fece caso alla voce che dentro di sé reclamava risposte. «Ho provato a risparmiarti questa storia, ragazzina.» Esordì Moody fissando altrove con l’occhio buono, mentre l’altro roteava su di lei, sondando le sue reazioni. Nulla smosse l’immobilità della sua figura magra, stanca. Probabilmente l’Auror si maledisse di non aver prestato attenzione a quella magrezza, attribuendola forse allo studio eccessivo o la crescita. Lei non chiede niente. «Tanto vale buttare tutto fuori.» Sbuffò. «Ti ho trovata a Villa Rosier dopo…sì, dopo aver avuto a che fare con tuo padre. Non dovevo essere un bello spettacolo, perché Evan mi aveva staccato il naso e gli auror che erano con me non furono in grado di aiutarmi, sul momento. Tu eri una cosina minuscola che si reggeva malamente sulle gambe, ma che già brandiva la bacchetta e lanciava maledizioni a destra e a manca. Mai vista una cosa simile, non sapevamo che fare per fermarti, mica potevamo attaccare una bambina.» Evaline avvertì una nota dolce ammorbidire le ultime parole dell’Auror. Adesso era tornata a guardare lui, non più il punto in cui prima si ergeva la sagoma nera del professore. «Venimmo a sapere che tuo padre ti aveva cresciuta incantandoti poco alla volta, magia nera e antichissima, qualcosa che si trova così in profondità da essere impossibile da estirpare. Potevamo minimizzare i danni, toglierlo del tutto sarebbe stato pericoloso, non sapevamo quali sarebbero stati gli effetti su una bambina.» Evaline ascoltava senza muovere un muscolo, le palpebre leggermente abbassate sugli occhi chiari, lo sguardo basso sulle proprie mani ancora accostate alla bacchetta di legno dorato. «Eri stata allevata per diventare la serva di Tu Sai Chi, un giorno. Conoscevi i nomi delle maledizioni esattamente come un bambino piccolo conosce le filastrocche, ma eri stata addestrata a lanciarle con consapevolezza qualora ci fosse qualcuno a minacciare l’incolumità del tuo creatore. Tuo padre.» Solo adesso lei mosse le labbra, ma non uscì alcun suono. Stava modellando sulla bocca quella maledizione che era stata in procinto di scagliare poco prima. Moody annuì, grave. «Stavi per scagliarmi addosso la maledizione cruciatus, poco fa. Temevi per il tuo nuovo padrone, il tuo mentore o come diavolo vuoi chiamare quel verme.» «Non chiamarlo così.» «Lo chiamo come mi pare, ragazzina. Severus Piton è stato davvero uno degli alunni più brillanti che questa scuola abbia mai visto, perché è riuscito a togliere i sigilli che auror più anziani di lui avevano impresso nella tua mente. Ha preso il posto di Evan Rosier e ha fatto di te un soldato. Ti sei logorata per ottenere i risultati che lui ti aveva ordinato di raggiungere, dico bene? Quante ore di sonno ti sei concessa, quanti pasti hai saltato perché chiedevi troppo alle tue forze?» Evaline non rispose, era impegnata a tenere a tacere quella vocina che si dibatteva dentro di lei. Quella affamata di risposte, quella che la pungolava continuamente. «Silente, non vedi che è inutile raccontarle tutto questo?» Sbottò irato lanciando al preside uno sguardo con entrambi gli occhi. «Non le importa, è priva di volontà. Lei non vede l’ora di far ritorno ai suoi libri perché Piton glielo ha ordinato.» «Ne sono consapevole, Alastor.» Replicò pacato. «Evaline ha bisogno di sapere, però. Prima o poi queste informazioni le saranno utili, è importante che vengano recepite da una parte di lei, quella nascosta che la magia non è riuscita a contenere.» Vedendo che l’altro era sul punto di interromperlo, il preside fece cenno di tacere con un movimento della mano. Poi scosse il capo. «Noi non possiamo fare nulla. I nostri tentativi potrebbero peggiorare la sua mente o recarle un danno di tale portata da ridurla ad un vegetale. Non possiamo permetterlo. L’unico che può fare qualcosa è Severus, l’unico a cui lei aprirebbe la mente senza alcun tentennamento.» Tornò ad osservare Evaline, il sorriso sempre lì, una certezza. «Dico bene?» «Se lui lo vorrà.» La ragazza rigirò nervosamente la bacchetta tra le dita, la voce spezzata dall’emozione che traboccava dai suoi occhi. «Questo vuol dire che non mi impedirete di incontrarlo, non è vero?» Evaline notò lo sdegno sul volto deturpato di Moody, la bacchetta stretta tra le dita. La ragazza si ritrovò in silenzio a contemplare l’auror con aria assente, distratta, senza badare al mormorio che lento si levava dalla sua gola. La voce pareva provenire dagli abissi della sua anima. «Non pensare male di lui, zio Alastor.» Non c’era l’ardore di poco prima, l’adorazione pareva smorzata da un’apparente apatia. Il mormorio era basso, debole. Fu in quell’esatto istante che una farfalla fuggì via dalla sua figura: era un’immagine evanescente, rosa e viola appena visibili nella trasparenza delle ali che si dissolvevano come fumo mentre svolazzava intorno a lei per poi svanire. Silente ammiccò per un momento, dopodiché tornò a sorridere. «Non penseremo male di lui, signorina Rosier. Te lo prometto.» Ricambiò lo sguardo della ragazza, che ora fissava il preside con gli occhi che scintillavano in quel velo umidiccio che li ricopriva. «Severus Piton in questo istante sta sicuramente trovando il modo di porre rimedio ai suoi errori, ne sono certo.» Impresse un certo impeto nelle ultime parole, forse per far sì che anche l’auror le recepisse. Evaline si limitò a sorridere, alzandosi finalmente dalla sedia quando il preside le fece intendere di aver finito. «Il professor Piton si occuperà di te, non preoccuparti. Adesso va’ a lezione, forse fai ancora in tempo per aritmanzia.»

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


«Sto già rimpiangendo Lumacorno.» «Tu eri una delle favorite del suo circolo ristretto, vorrei ben vedere.» «Sì, è vero. Ma Piton è abominevole, simpatico come un avvincino quando si tratta di qualsiasi studente che non sia un Serpeverde.» «Oh, è vero che ha tolto già trenta punti a Grifondoro?» «Cinquanta.» Evaline decise di non sentire oltre, ma le imprecazioni della Tassofrasso più grande la seguirono mentre si avviava verso il corridoio che conduceva alle cucine, diretta alla sua prima lezione di pozioni. Sul punto di afferrare la bacchetta, ricordò l’ammonimento di Piton solo poche ore prima, quando l’ebbe richiamata nel suo ufficio per prevenire eventuali maledizioni cruciatus scagliate a sproposito. «Non ti è consentito lanciare maledizioni ai tuoi compagni, né a nessun altro, per quanto sgradevoli possano essere.» «Dei Grifondoro parlano male di te.» Aveva ribattuto lei. «Loro posso schiantarli, no?» Il professore aveva esitato, combattuto. «No, non puoi.» disse a malincuore. «Non cadrò mai così in basso da aver bisogno dell’aiuto di una sedicenne.» Lei aveva acconsentito, accettando di recarsi da lui la sera dopo cena con la scusa di una punizione. Sarebbe stato credibile, una manciata di studenti aveva ricevuto già quel trattamento a neanche una settimana dall’inizio della scuola. Prima, però, la lezione di pozioni. Tassofrasso e Corvonero insieme, Theodore al suo fianco davanti ai calderoni lucidi e ponti per essere utilizzati. Le mormorava qualcosa a proposito della loro passeggiata ad Hogsmeade, sembrava dispiaciuto e allo stesso tempo speranzoso. Probabilmente era sul punto di chiederle di riprovarci il finesettimana successivo, ma lei gli intimò di fare silenzio indicando l’arrivo del professore. I banchi erano disposti per la stanza in ordine sparso, non c’era un criterio per capire quale dei posti sarebbe stato più vicino a lui, quindi sperò che aleggiasse intorno al suo. Theodore, giustamente risentito, lasciò perdere con uno sbuffo indignato. Era stata sgarbata, non era da lei. Ma quella non era lei da molto tempo, solo che lui non poteva saperlo. «La professoressa Sprout mi ha chiesto di fornirle delle scorte di pozione sempreverde.» Non si presentò neppure, Piton andò dritto alla lezione e gli studenti aprirono in fretta i libri mentre lui parlava. Il rapido sfogliare delle pagine fece da sfondo alla sua voce monocorde. «Si tratta di una pozione adeguata al vostro anno, confido che tutti la portiate a termine senza alcun problema.» Evitando ostinatamente lo sguardo di Evaline, Piton indicò l’orologio, storcendo le labbra in un sorriso sarcastico. «Avete mezz’ora da adesso. Naturalmente senza contare il tempo di riposo. Chi terminerà prima dello scadere del tempo e avrà realizzato la pozione meglio riuscita riceverà un’adeguata ricompensa.» Evaline era già a lavoro. La pozione era semplice, ma erano previsti due tempi in cui lasciare riposare la pozione per dieci minuti esatti, per un totale di venti. Raggiungere il bollore equivaleva a sommare altri cinque minuti al massimo, il che voleva dire che le restavano meno di cinque per estrarre il sangue dalla salamandra e inserire le lumache cornute. Lei fu la prima a correre in fondo all’aula per recuperare le lumache cornute, era così assorta nel proprio compito che quasi non notò l’occhiata in tralice di Piton, che la tenne discretamente sotto controllo per tutta la durata della realizzazione della pozione. Evaline fu impeccabile: aggiunse la foglia di rabarbaro dopo aver raggiunto il bollore, poi la goccia di sangue di salamandra e poi fece riposare i primi dieci minuti. In quel lasso di tempo pulì e riordinò il proprio banco per il semplice gusto di avere tutto in ordine e pronto per l’operazione successiva. Ripeté il tutto meccanicamente, aspettando poi l’esatto istante in cui inserire le lumache cornute. Impiegò ventisei minuti esatti. Piton esaminò la pozione senza tessere lodi né occhiate d’approvazione, le intimò anzi di raccogliere il calderone e portarlo in fondo all’aula, dove sarebbe poi stato coperto con un panno spesso per permettere al composto di riposare. «Davvero deludente.» Cominciò l’uomo rivolto alla classe e in quella pausa Evaline temette di morire. «…che solo la signorina Rosier si sia degnata di rispettare le tempistiche.» Sollievo. Meraviglioso sollievo. Lei riprese a respirare e neanche si accorse dei cinque punti a Tassofrasso, un sorriso come non le si era mai visto fiorì sul suo volto acceso di contentezza. Per la seconda volta una minuscola farfalla fluttuò via dalla sua figura, svanendo in uno sbuffo di rosa e giallo, ma nessuno parve accorgersene. Theodore aveva dimenticato di essere stato sul punto di invitarla ad uscire ancora, rosso in volto per essere stato battuto sul tempo. Lui ci aveva impiegato trentuno minuti a terminare la sua pozione che, per quanto impeccabile, non aveva fatto guadagnare nessun punto a Corvonero. Trascorsa la lezione le restava antiche rune e poi la cena. Il tempo fu interminabile, ma lo impiegò come meglio poteva, fiondandosi fuori dalla Sala Grande quando anche il professore ebbe terminato la cena. Lei fu più veloce, se ne stava in piedi davanti la soglia dell’ufficio nei sotterranei con la sciarpa penzoloni dietro di sé. «Hai dimenticato il mantello.» Furono le prime parole del professore di pozioni quando fu comparso sulla soglia dei sotterranei, fissando la figura magra di Evaline. Nessun mantello per lei, lui non si era premurato di raccoglierlo dalla Sala Grande, né si era mostrato propenso a fornirgliene uno. A ben guardarla era visibilmente intirizzita dal freddo, nuvole di condensa sbucavano dalle labbra livide. «Vieni dentro.» La oltrepassò senza troppe cerimonie, aizzando il fuoco del camino con uno sventolio di bacchetta, per poi sedersi dietro la scrivania e farle cenno di fare lo stesso su una delle due sedie poste davanti. Il ripiano a dividerli. Dietro di lui i barattoli scintillavano, densi intrugli e occhi appannati la fissavano come se la stessero esaminando. Lei obbedì. «Devi far caso ai dettagli, Rosier.» La fissava negli occhi senza mostrarle altro che fredda indifferenza. «Non puoi trascurare pasti o cura di te. Sono stato uno sciocco a darti quell’ordine, ne convengo, ma a mia discolpa non pensavo che avresti avuto bisogno di sottrarre ore al tuo sonno o al cibo per poter raggiungere questi risultati.» «Io sono lenta nello studio.» Intervenne lei con sincerità. «Per te è diverso, tu sei geniale. Tu impari subito, sei stato uno studente fantastico.» «Smettila.» Troncò lui con un cenno brusco. «Penseranno che tu mi stia adulando, cerca di non farti sfuggire questo comportamento snervante.» «Lo dicevo per spiegarti come mai ho avuto bisogno di sacrificare sonno e tutto il resto.» Chinò il mento, gli occhi improvvisamente presi dalle dita magre che lui aveva intrecciato sulla superficie della scrivania. Qualcosa mosse le sue viscere, ma non vi badò. «Metti Theodore.» «Chi?» «Theodore Williams. Era seduto accanto a me a lezione.» Un sorriso perfido campeggiò sul suo volto. «L’idiota che non ha preso bene la tua piccola vittoria. È un tronfio arrogante, non sopporta che tu sia la prima in tutto.» Lei parve interdetta, la bocca schiusa in un’esclamazione muta. Non sapeva che dire, quindi continuò. «Lui era molto più bravo di me, prima. Per imparare una formula ci metteva una manciata di minuti, io giorni. Oh, dico sul serio…» Per la prima volta divenne paonazza davanti la sua incredulità. Ma non offesa. «Ricordo com’ero. Ricordo quanto era difficile concentrarmi. Grazie a te riesco ad avere ottimi voti, sono diventata prefetto.» Gli mostrò ancora una volta la spilla, puntandovi contro le dita rinsecchite. Erano sottili come bastoncini, di una magrezza quasi malsana. Lui per un po’ rimase in silenzio, contemplò quella mano mentre qualcosa di simile al rimorso sfumò sul suo viso. Una debolezza momentanea, perché tornò a guardarla con ritrovata durezza. «Dovrai ottenere il meglio che riuscirai a fare senza tralasciare la cura del tuo corpo: non rinunciare né al sonno né ai pasti regolari.» Annuì, certa che avrebbe preso alla lettera anche quel consiglio. L’osservò mentre si alzava, bacchetta alla mano, per poi aggirare la scrivania e tornare al suo fianco, prendendo posto nella sedia vuota accanto alla sua. «Cominciamo, Rosier.» Esordì toccandole la fronte con la punta della bacchetta. «Ci vorranno giorni per trovare il fulcro dell’incanto. Devo ripercorrere i flussi di magia nera che hai dentro di te e tornare al giorno in cui ti è stato inflitto il primo incanto. Durante le sedute dovrai stare seduta e non interrompermi. Dovrò violare molti dei tuoi ricordi, probabilmente dovrò sbloccare attimi dolorosi e traumatici. Evan Rosier aveva tante doti, ma non era classificabile come genitore dell’anno.» Lei stiracchiò un sorriso mesto, qualcosa che non aveva nulla a che vedere con l’adorazione che le aveva inculcato, una reazione provocata da quella creatura che teneva nascosta dentro di sé e ogni tanto riusciva a far baluginare l’eco di ciò che provava. «La mia mente è tua, puoi farci ciò che desideri.» Lo disse con estrema semplicità, senza adorazione o enfasi. Lui rimase rigido, gli occhi neri fissi nei suoi erano freddi, conficcati nelle sue orbite e non esprimevano altro che quel perenne distacco. «Da adesso in avanti non dire più nulla.» Lei obbedì, da brava. Severus Piton chiuse gli occhi e la sua bocca prese a mormorare una silenziosa litania che lei non poteva capire, né sembrava intenzionata a farlo. Non sapeva quanto gli stava mostrando di sé, non le importava. Guardarlo compiere quell’incanto era tutto ciò che potesse desiderare.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Avevano insieme concordato che si sarebbero incontrati una volta a settimana e così fecero. Durante quelle sedute lei non avvertiva in sé alcun cambiamento, se non un cenno di calore nel punto in cui la bacchetta era posata. Per il resto se ne stava immobile, le mani posate in grembo in una postura composta e un po’ rigida che, una volta sciolta, le lasciava addosso parecchi dolori. Guardava il viso arcigno dell’uomo e le viscere a volte si contorcevano come tentacula velenosa, il cuore saltava un battito, ma oltre questo non accadeva nulla. In quelle settimane il colorito di Evaline si era fatto più sano, le guance rosa e più piene quando sorrideva, ma per il resto aveva conservato una magrezza ancora evidente. La imbruttiva quella magrezza, la gonna della divisa cadeva sui fianchi con la pesantezza di uno straccio abbandonato su uno sgabello e i capelli erano stopposi, secchi, spesso radi lì dove anni prima fiorivano ciocche corpose di un bel rosso acceso che ricordava autunno, foglie cadute dagli alberi, note dorate ad illuminarle. Non si curava del proprio aspetto, né di quello del prossimo. Nonostante l’apatia dell’incanto in cui era imprigionata, Evaline coglieva i pregi nascosti sul volto di chiunque. Rupert, per esempio, il compagno Tassofrasso del suo stesso anno: aveva il volto massacrato dall’acne, capelli color topo appiccicati sulla testa e gambe e braccia che sembravano troppo lunghe per il suo corpo non ancora formato. I suoi occhi erano grandi, però, gentili, di un bel nocciola che al sole brillavano di sfumature più calde. Era buono e la sua bontà era tutta nei suoi occhi. Anni prima aveva colto qualcosa anche dal volto del ragazzo di Serpeverde che ora le sedeva di fronte ogni settimana, forse ignaro dei pensieri che affioravano nella sua mente. Si era ritrovata a pensare all’espressione assorta e tormentata che aveva scorto al Ghirigoro, gli occhi neri resi umidi da pensieri che lo angosciavano e pungolavano, la postura ricurva di chi era schiacciato da pesi che lei avrebbe voluto togliere. Di rado aveva rivisto quell’espressione durante l’unico anno che avevano vissuto insieme da studenti, lui aveva la capacità di celarsi dietro un’impeccabile e fredda indifferenza. Di quegli incontri nel suo ufficio le rimasero impressi l’odore pungente dei liquidi di conservazione contenuti nei barattoli e la penombra della sera che gettava cupi pensieri sul viso indurito del professore. Anche lui aveva perso peso, la pelle bianca del viso era tirata e la bocca serrata in una smorfia che il più delle volte esprimeva fastidio, disgusto, sadico divertimento. Non c’era traccia di gioia né di calore e la sé stessa nascosta dentro di lei si contorceva dal dolore a quella consapevolezza. Non lo aveva mai visto sorridere con leggerezza. «Per oggi abbiamo finito.» Esordì lui, la notte ormai sovrana del castello. Lo vide allontanare la bacchetta dalla propria fronte e abbandonare le spalle contro lo schienale della sedia, una ruga tra le sopracciglia nere. Lei ammorbidì la propria postura con un sospiro sollevato, la schiena martoriata da quella posizione che mai aveva cambiato durante quella seduta. «Come sta andando?» La voce di Evaline tradiva stanchezza, era arrochita e bassa, il tono di chi cercava sempre di non recare disturbo al prossimo. «C’è qualcosa che posso fare per renderti il lavoro più facile?» La fissò una manciata di istanti di troppo, gli occhi neri che coglievano i pensieri di lei senza che nessuno gli avesse dato licenza di farlo. Lei non lo sapeva, ma anche se lo avesse saputo non glielo avrebbe impedito. «No, non puoi fare altro.» Rispose lui alzandosi, il fruscio del mantello dietro di sé. «Immagina dei fili di una ragnatela che diventa più ampia man mano che trascorrono gli anni. Io devo percorrere quei fili a ritroso e cercare di arrivare fino in fondo senza perdermi. Fino ad ora non ho avuto grossi problemi, gli anni di Hogwarts sono tutti uguali e sono costellati da eventi privi di nota.» Fece una pausa, una smorfia sprezzante sul finire. «Theodore Williams?» Lei parve a disagio. «Siamo cresciuti insieme all’istituto. Lui mi ha chiesto di uscire, non so perché, non ho mai mostrato alcun interesse e…» «Sei migliore di lui e molti ragazzi non lo accettano.» La interruppe bruscamente e le diede le spalle, recuperando alcuni libri sparsi per gli scaffali. «Cercherà di eclissarti, ci proverà in tutti i modi. Si è avvicinato per proprio tornaconto.» Evaline si domandò come potesse sapere così tanto di Theodore, ma lasciò perdere, poco interessata alla questione. Aveva capito che il momento del congedo era arrivato, così si alzò dalla sedia e a malincuore lo salutò. «Buonanotte, Severus.» «Professor Piton.» La tentacula tornò ad agitarsi nella sua pancia mentre si voltava per lasciarsi lo studio alle spalle. Chiusa la porta ebbe modo di muovere pochi passi che quella si aprì e apparve di nuovo lui, gli occhi neri piantati in quelli di Evaline. «Il mantello, Rosier.» Sibilò con una punta di fastidio, porgendoglielo senza troppe cerimonie. Lei accorse e lo prese in fretta, aggrappandosi alle sue dita nell’atto di sfilarlo dalla sua mano. La voce nascosta dentro di sé pigolò, il cuore saltò nuovamente un battito e sul viso comparvero chiazze rosse, un imbarazzo che le bruciava la pelle mentre dal suo corpo si levavano due minuscoli uccellini evanescenti. Evaline non vide il piumaggio colorato, le note calde che passavano dal rosso al ramato, né il battito d’ai che, frenetico, li portava fino al professore che le lesse qualcosa negli occhi, pensieri che per un attimo lo stordirono. Lei si voltò in fretta, mantello appallottolato tra le braccia, i piedi che in fretta la portarono via dal sotterraneo, mentre quegli uccellini ronzavano ancora intorno al volto dell’uomo. Lui, stordito e irritato, li scacciò via con una manata e si tumulò nel proprio ufficio sbattendo la porta così forte da indignare i quadri appesi alle pareti.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


D’improvviso, un bimbo in fasce ebbe la meglio sul Signore Oscuro. Fu tutto così repentino e inaspettato da far piombare un senso di stordimento generale, seguito da festeggiamenti frenetici, esaltati, una gioia che invase il mondo magico ed esplose al grido: viva Potter! Evaline si ritrovò nella Sala Grande e ci mise un po’ a realizzare quello che era successo: la notizia era dilagata dai primi studenti che, ricevuto il gufo, avevano levato un mormorio che divenne urlo di gioia. I festeggiamenti della notte di Halloween reagirono secondo l’umore generale e ovunque le zucche danzavano, i pipistrelli piroettavano tra i tavoli e i fantasmi cantavano cori per il bimbo sopravvissuto. Nessuno dedicò un solo commento ai genitori periti nel tentativo di salvarlo, la gioia del momento non ammetteva una sola goccia di dolore. In molti tra quegli studenti avevano perso un padre, una madre, fratello, amico, conoscente. Tutti avevano avuto a che fare con paura e morte, ombre e orrori. Ma quei tempi ebbero finalmente fine e la contentezza fu irrefrenabile. Stordita e gelida, Evaline cercò sostegno al tavolo degli insegnanti, dove all’appello mancavano Piton, McGonagall, Silente e perfino il guardiacaccia Hagrid. La Tassofrasso avrebbe dovuto gioire, ma qualcosa le si era rotto dentro e non riusciva ad attribuire la causa dello stato in cui si trovava. Doveva essere felice, no? Il Signore Oscuro aveva lasciato una scia lunghissima di cadaveri, una ferita che per molti non si sarebbe mai rimarginata. Lei, figlia di uno dei più noti mangiamorte della storia, fu preda di uno sgomento nauseante. Improvvisamente il volto del padre affiorò nella sua mente, più nitido che mai: bello, bellissimo, un angelo biondo che pareva irradiare bontà e tenerezza ad ogni sorriso che le rivolse in quel ricordo. Poi, buio. Quando riaprì gli occhi il ricordo si era fatto sbiadito e lontano, il soffitto sopra la sua testa non era la volta stellata della Sala Grande, bensì quello dell’infermeria. Nessun compagno di scuola al suo capezzale, nessun conforto, nessun volto amico al di fuori del preside. L’uomo sembrava essere appena arrivato, occhi scintillanti dietro gli occhiali a mezzaluna. «Ben svegliata, signorina Rosier.» Lei accennò a tirarsi sui gomiti, ma lui le fece cenno di non muoversi. «No, resti comoda.» un sorriso gentile. «Ha trascorso due giorni in uno stato di semi-incoscienza. Madama Pomfrey l’ha accudita in modo impeccabile, suo zio Alastor viene informato costantemente circa il suo stato. È andato via giusto poco fa.» Una breve pausa, il tempo di prendere posto alla sedia vuota accanto al letto. La barba bianca era tenuta dentro una cintura di velluto, la tunica da mago scendeva con grazia fino al pavimento e sulla testa il cappello era inclinato appena. «Lei ha subito gli effetti della morte di lord Voldemort. Uno degli aspetti dell’incanto impresso su di lei le imponeva di servirlo una volta terminati gli studi. Se non fosse stato per l’intervento del professor Piton gli effetti sarebbero stati disastrosi.» «Dov’è Severus? Non era tra gli insegnanti. Sta bene?» Il groviglio di tentacula velenosa si strinse nel suo stomaco e un paio di falene grigiastre svolazzarono via dal suo corpo stanco, svanendo in uno spruzzo di polvere evanescente. Silente si perse in quel dettaglio che lei aveva a malapena notato, tornando nei suoi occhi come se potesse leggervi i segreti al suo interno. Le sorrise con inaspettata tenerezza. «Sta bene.» La tranquillizzò. «C’è molto trambusto, come potrai immaginare, lui sarà assente da scuola per qualche tempo.» Le mani di lei strinsero le coperte in un senso di frustrazione che non scossero l’uomo, sempre pacato e rassicurante. «Il mio consiglio è di dedicarsi alla quotidianità fino al suo arrivo. Lei è stata autonoma per anni, sono certo che sarà molto brava anche adesso. Vedo che ha preso colore e si è avvicinata ai suoi compagni di scuola. Non è mai tardi per stringere delle amicizie.» Evaline annuì, incerta. «Preside?» Lui la guardò con la calma di sempre, il sorriso cordiale non accennava ad andarsene. Evaline si prese di coraggio e parò ancora. «Un mangiamorte è capace di voler bene a qualcuno? Mio padre, sì…era quello che era. Ma ho dei vaghi ricordi in cui mi trattava con amore, sembrava fiero di me.» L’uomo attese diversi istanti prima di rispondere, l’aria di chi stesse valutando bene cosa dire. «Si può essere capaci di compiere atti di perfidia e al contempo provare amore per qualcosa. Io non conoscevo suo padre, ma conosco un uomo che ha conosciuto oscurità e male, ne è rimasto invischiato per tutta la vita. Un uomo che sembrava perso per sempre, ma che alla fine si è tratto in salvo perché l’amore l’aiutato a fare la scelta giusta.» Questo non rispondeva esattamente alla sua domanda, ma Evaline comprese che il preside non poteva sapere cosa avesse nel cuore Evan Rosier. Non chiese nient’atro, si limitò ad un timido cenno del capo in segno di saluto quando il preside si alzò, accompagnato da Madama Pomfrey che lo scortò fino all’uscita dell’infermeria.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Un giorno, due giorni, tre giorni. Passarono due settimane prima che Severus Piton facesse ritorno al tavolo degli insegnanti e nessuno degli studenti pareva aver provato nostalgia. Fu a lezione che Evaline ebbe modo di sbirciarlo ogni volta che poteva, ma durezza e cinismo a parte, niente sembrava cambiato in lui. Si aggirava per i banchi come un enorme pipistrello, il mantello che svolazzava dietro di lui, il profilo dal naso adunco rivolto a questo o quel calderone, dove i malcapitati subivano commenti inaciditi e punti in meno alla prima occhiata sfacciata. «Sbaglio o è peggio del solito?» Bisbigliò Theodore quando fu certo che il professore non fosse a portata d’orecchi. «Questa vacanza deve averlo rinvigorito, guardalo come strapazza Marigold.» «Zitto, mi deconcentri.» Lo ammonì lei preoccupata. Si succhiò il labbro inferiore in un gesto nervoso nel vedere che Theodore sembrava anzi incentivato a rompere ulteriormente il silenzio, continuando a bofonchiare. «Con noi ci va leggero, anzi. Sai che quelli di Grifondoro sono in fondo alla classifica per la Coppa delle Case principalmente a causa sua?» Mentre lui incalzava, lei sfiorò il calderone per assicurarsi che fosse abbastanza caldo da procedere. Ritrasse la mano in un uggiolio di dolore, conscia di aver attirato l’attenzione del professore adesso più vicino. «Signorina Rosier, non mi tedi con una gita in infermeria.» Lei levò il capo dal calderone bollente, abbozzando un sorriso carico di scuse. «Volevo essere certa che fosse caldo a sufficienza.» «Lo è.» Ribatté lui nel superare il suo banco. «L’ora è passata. Puoi procedere.» Il consiglio gli era sfuggito distrattamente, il Corvonero parve accorgersi di quell’insolito trattamento di favore; Theodore arrossì di rabbia accanto a lei. Evaline raccolse il secchio pieno d’acqua di cascata, non fu facile perché le braccia magre riuscivano a stento a reggere carichi tanto pesanti, ma alla fine riversò il contenuto nel calderone con uno sbuffo soddisfatto. Theodore le stava dietro nella preparazione, sembrava affannarsi per non perdere dei passaggi. Stavano preparando la maleficum aperui, la pozione che si utilizza per permettere di verificare se un oggetto è sotto maledizione. In attesa che l’acqua raggiungesse il bollore, Evaline si portò avanti con il lavoro e trafficò con l’uovo di serpente, separando il tuorlo con l’aiuto di un cucchiaino che tenne su un lato del banco, in modo da non sporcarlo né contaminarlo con altri ingredienti. Sul lato destro, quello che condivideva con Theodore, gli occhi di pipistrello attendevano di essere utilizzati, erano in parte puntati al soffitto e il resto su Evaline, che con precisione millimetrica iniziò a tritare la radice del diavolo con cura certosina. Quando fu il turno di inserire il tuorlo iniziò a mischiare con aria rilassata, certa che tutto stava andando secondo i suoi piani. Fu per caso che si accorse che gli occhi di pipistrello erano sette, non otto. Senza smettere di mischiare il contenuto del calderone iniziò a cercare freneticamente sul bancone, poi si sporse in basso alla ricerca dell’occhio fuggiasco. Niente. Sbagliare la realizzazione della pozione il giorno in cui Piton era rientrato parve per lei inammissibile, una sconfitta che non poteva permettersi. «Ehi piantala, mi hai quasi fatto cadere l’uovo di serpente.» Theodore le conficcò un’occhiata in tralice e lei si scusò con uno squittio incerto. Pochi secondi ancora e avrebbe dovuto inserire sette e non otto occhi, una mancanza che avrebbe compromesso la realizzazione della pozione. Gli oggetti maledetti stavano ammassati sulla scrivania del professore, tutti in attesa di essere immersi nei calderoni degli studenti. Il suo panico infine attirò l’attenzione di Piton, il quale incontrò i suoi occhi sgranati e vi lesse dentro ciò che gli bastava per comprendere la situazione. «Inserisca gli occhi di pipistrello, signorina Rosier.» Intimò con calma, gli occhi adesso fissi in Theodore che lavorava sulla sua pozione. «Io…oh, me ne manca uno. Li avevo contati, dico davvero. Prima di preparare una pozione controllo almeno due volte la lista degli ingredienti.» Alcune teste si levarono dai calderoni, ma in pochi seguirono il piccolo dramma che si stava consumando. Lo stesso Theodore stava già inserendo i suoi occhi, cominciando dal primo paio così com’era indicato nel procedimento scritto sul libro di pozioni aperto sotto il suo naso. «Inserisca la prima coppia, Rosier.» Intimò l’uomo alzandosi dalla scrivania con passo flemmatico. Lei obbedì, seguendo il procedimento provando ad ignorare il fatto che alla fine avrebbe dovuto inserire un unico occhio anziché due. L’uomo nel frattempo si era fermato davanti al banco e, occhi su Theodore, continuò. «Ora passi alla seconda coppia di occhi, Rosier.» La voce era un sibilo da rettile, freddo e acuminato come lo sguardo che si ostinava a trapassare il cranio di Theodore. Il corvonero sembrava fare del suo meglio per evitare quello sguardo, ma alla fine fu chiaro che non poteva eluderlo per sempre. «…e ora la terza coppia.» Le intimò con voce sempre più bassa. Non batteva neanche più le palpebre, scavava nello sguardo di Theodore finché quello non perse ogni traccia di calore dal viso. I secondi passavano ed Evaline temette di non aver più scampo e la pozione sarebbe venuta un disastro. «Mi dica, signor Williams.» Sussurrò il professore. «Si deciderà mai a vuotare le sue tasche o sta aspettando che sia io a costringerlo?» «Io non…» «Tiri fuori l’occhio che ha in tasca, signor Williams.» Tutti avevano smesso di rimestare la pozione e guardavano in direzione del banco di Evaline senza osare produrre alcun un suono. «Io non…» «Subito.» Scoppiò un brusio piuttosto molesto, soprattutto tra i corvonero, quando lui ebbe tirato fuori dalla tasca l’occhio mancante. Evaline neanche gli scoccò un’occhiata di rimprovero, presa com’era dall’ansia di terminare tutto secondo i tempi prestabiliti, ecco che acciuffò l’ultima coppia e la inserì nel calderone con un sospiro di sollievo che le ammorbidì le spalle. Solo in quell’istante ebbe modo di sollevare il profilo e scoccare al professore uno sguardo pieno di gratitudine, ma lui non parve neanche accorgersi del languore nei suoi occhi. «Di certo la sua è la casata da cui meno mi aspetto delle scorrettezze.» Una pausa, il tempo di soffiare un: «Silenzio!» Ai corvonero agitati, per poi storcere le labbra in un sorriso compiaciuto che non gli scaldò gli occhi. Quelli restarono di pietra. «Cinquanta punti in meno a Corvonero.» La classe tornò a tuonare, qualcuno imprecò e questa volta Piton diede loro il tempo di scoccare rimproveri ad un pallidissimo Theodore, per poi levare una mano intimando al silenzio. Il resto della lezione trascorse in silenzio, una quiete intervallata da chi ancora si era attardato a sminuzzare la radice di diavolo, inveendo su di essa con movimenti goffi dei coltelli affilati. La pozione di Evaline funzionò a dovere e la spilla per capelli maledetta emise un grido quando venne immersa nel liquido grumoso e bollente. Soddisfatta del risultato, si premurò di allacciare brevemente lo sguardo con quello del professore. Lui non le assegnò neppure un punto, limitandosi ad un cenno rapido con il capo. A cena le venne recapitato un messaggio da un Serpeverde del primo anno, che consegnò ad Evaline una pergamena sigillata in cui erano incise due parole in una calligrafia sottile che riconobbe al volo: riprendiamo domani.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


La giornata trascorse e lei impiegò tutte le sue energie per non correre come un’ossessa dopo aver ingollato la sua cena. Avrebbe avuto poco senso, lui era ancora a cena e sapeva che lo avrebbe dovuto aspettare all’ingresso del sotterraneo, ma quella sua frenesia fu provvidenziale perché aveva come sempre dimenticato il mantello al tavolo di Tassofrasso. Si incontrarono davanti la porta dell’ufficio: lui pallido e rigido, lei paonazza e trafelata. I capelli le ricadevano sulla schiena in una coda gonfia e spettinata, in netto contrasto con le ciocche nere e lucide che scivolavano ai lati del viso di lui che le fece cenno di entrare e accomodarsi al solito posto. Chiusa la porta alle loro spalle lui aizzò il camino con un colpo di bacchetta e, senza dir nulla, prese posto davanti ad Evaline. «Sei pronta?» Era la domanda di rito che solitamente era seguita da un cenno affermativo da parte di lei che, adesso, sedeva immobile con i pugni stretti sul grembo. Mentre la tentacula le si contorceva nella pancia, i suoi occhi si spinsero a studiare i lineamenti che aveva imparato a memoria in quelle sedute e che adesso erano solcate da nuove rughe, la pelle più tesa a causa della magrezza e il pallore malsano di chi si è ripreso da poco da un brutto malanno. «Stai bene?» L’angolo della bocca stretta sussultò, ma Piton non mutò la sua espressione di una virgola. Implacabile, ostentava una calma glaciale che non ammise repliche. Lasciò calare il silenzio tra loro, quindi sfoderò la propria bacchetta e la puntò al centro della tua fronte. «Ci vorranno poche altre sedute. Forse due o tre, tutto dipende da come sfrutteremo il tempo che abbiamo.» Sottinteso: taci. Lei deglutì un groppo di malinconia, ma non rispose, obbedendo alla sua richiesta implicita. Posata la bacchetta sulla fronte l’uomo chiuse gli occhi e cominciò da dove aveva lasciato e ad Evaline non restava che sbirciare il suo viso da sotto le ciglia, fuggendo a tratti dall’immagine di lui per posarsi in un punto a caso. Si ritrovò a sospirare silenziosamente, lasciando che il tempo trascorresse senza ulteriori intoppi. Tempo che parve infinito: minuti, ore. Sul punto di scongiurarlo di porre fine alla seduta, Piton sussultò, costringendola a cacciare in gola le parole che stava per pronunciare. «Per oggi…» Schiuse gli occhi e la guardò, la bacchetta abbassata, una ruga di stanchezza tra le sopracciglia. «…per oggi basta.» Non riuscì a leggere nulla sul suo volto criptico, ma aveva imparato a comprenderlo, a modo suo, e sapeva che qualcosa era appena accaduto. «Stai bene?» Pigolò ancora. «…hai chiesto troppo a te stesso, eri stanco prima di cominciare. Cosa hai…» Lui pose fine alle sue domande alzandosi stancamente dalla sedia per rivolgerle un rapido cenno di congedo. «Rosier, è tardi.» Lei esitò ancora, le gambe bloccate, le mani strette in grembo. Acconsentì, non poteva fare altro. «Buonanotte.» Gli rivolse un tiepido sorriso e lui tornò a guardarla, ma i suoi occhi parvero non vederla. Ancora una volta trascorsero parecchi giorni prima che qualcosa infrangesse la sua quotidianità. Venne convocata nell’ufficio di Silente, dopo cena. Fu lo stesso Piton a scortarla fin lì, camminando al suo fianco senza degnarla di un’occhiata. Il suo incedere era rapido, lei dovette rompere in un leggero trotto per stare al suo passo, il profilo spesso rivolto verso quello del professore nella speranza di scorgere un cenno, un’occhiata, qualsiasi segno di consapevolezza di averla accanto. «Dove hai lasciato il mantello, questa volta?» «Come?» Ci mise un po’ a realizzare, la voce di Piton era giunta inaspettata, quando ormai era convinta che non avrebbe aperto bocca per tutto il tragitto. Le sembrò che il passo di lui si fosse fatto più sostenibile, complici i molteplici gradini che si inerpicavano verso la torre del castello. Le indicò le spalle e lei le tastò come se fosse una sonnambula appena destata dal proprio sonno. «Io…in sala comune, credo. Dopo le lezioni sono rientrata per riporre i libri e devo averlo sfilato lì.» Stiracchiò un sorriso di scuse, come se dovesse chiedere perdono a lui per quella sbadataggine. La guardò con la coda dell’occhio, i lineamenti arcigni che non accennavano a sciogliersi. Evaline notò le occhiaie profonde e le rughe di stanchezza intorno agli occhi, tutti segni che gli conferivano un’aria più vissuta per la sua età. Quanti anni doveva avere, ormai? Ventiquattro, forse. «Quand’è che compi gli anni?» La domanda l’aveva colto così alla sprovvista che il suo passo parve arrestarsi, un tentennamento che lo costrinse a guardarla dritto negli occhi con aria indagatrice. «Gennaio.» Rispose, piatto. Riprese a camminare guardandola guardingo, di tanto in tanto, come un animale pronto a scattare in caso di attacco. «Il giorno?» «Il 9. Ora vedi di stare zitta, quello di cui parleremo non sarà piacevole per te.» Si fermò davanti al gargoyle di pietra e pronunciò la parola d’ordine, cioccorane. Questa volta Moody era arrivato per primo e si ergeva tenendosi ad un bastone, l’aria arcigna di un uccello rapace in attesa di scagliarsi sulla preda. «Zio Alastor, la tua gamba!» Accorse lei, dimentica di dover salutare il preside, accorrendo verso l’auror lasciandosi uno sdegnoso Piton alle spalle. «Non è niente, non è niente.» Minimizzò Moody dandole due rudi pacche sulla testa. «Sto per andare in pensione, pochi altri anni di servizio e potrò godermi un po’ di pace con gli arti che mi restano.» Il viso deturpato mostrò un sorriso che ebbe breve durata, perché bastò la presenza di Piton a cancellarlo. «Ora che siete qui.» La voce di Silente si levò con garbo nella stanza, stemperando la tensione che si era creata tra auror e Piton. «Direi che possiamo procedere. Prego, sedetevi. Signorina Rosier, sa che può servirsi anche da sola.» Le sorrise indicandole una ciotola di api frizzole, ma lei aveva lo stomaco in subbuglio e preferì declinare l’offerta. Guardò Piton interrogativa, era sempre a lui che rivolgeva lo sguardo quasi adorante, ma lui non era intenzionato a ricambiarlo. «Non ho detto nulla alla signorina Rosier perché ho pensato fosse necessario informare il suo tutore legale.» Piton rimase rigido a pochi metri di distanza, su una seduta laterale, quasi a voler ribadire un distacco anche fisico tra lui e gli altri due, che invece avevano preso posto davanti la scrivania di Silente. «Per una volta hai pensato bene.» Precisò Moody, attirando un’occhiata dura da parte dell’altro, che non rispose. «Sono fermamente convinto che ad Evaline abbiate nascosto fin troppo.» Sentirsi chiamare per nome da lui costrinse la ragazza a guardarlo ancora e qualcosa dentro di sé si smosse. Questa volta si accorsero tutti della piccola farfalla evanescente che da lei svolazzò verso il professore, svanendo in uno sbuffo di rosa e viola. Lei schiuse le labbra e si fece assorta, il ricordo di quei piccoli prodigi che tornò a farsi strada nella sua mente: era brava a crearli. Quand’era stata l’ultima volta che aveva messo mano sui suoi disegni? «Per il suo bene, ricordalo.» Intervenne Moody, arcigno. «Tieni per te le tue convinzioni, in questa stanza sono l’unico a vederti per quello che sei.» Piton serrò le labbra e per un momento Silente sembrò sul punto di intervenire, ma la risposta secca del professore tagliò l’aria in un sibilo crudele: «Le hai taciuto l’esistenza del suo unico parente in vita e adesso vuoi impedirle di liberarsi della magia nera che le circola in corpo?» Calò il gelo. Moody aveva la mano alla bacchetta, pronto a sfoderarla, Evaline fu sul punto di fare lo stesso, i gesti meccanici e incontrollati, lo sguardo sgomento tutto sull’auror per la mezza rivelazione appena ricevuta. «Siete nel mio ufficio, non dimenticatelo.» Silente sorrideva ancora, ma c’era fermezza nel suo tono. Le mani vennero allontanate dalla bacchetta, ma nessuno si rilassò. «Dicci, Severus.» Continuò il preside. «Mi hai parlato di ciò che hai visto. Come intendi procedere?» Evaline spostò lo sguardo sui presenti, alternandoli finché non si soffermò ancora su Piton, in attesa. «Dovete pensare a questa maledizione come un intreccio fumoso di nodi e legacci. Al centro di questa…ragnatela, come ho spiegato alla signorina Rosier, ci sono i ricordi assopiti che lei stessa si rifiuta di far affiorare. Io posso minimizzare gli effetti dell’incanto, ma per annullarlo del tutto dobbiamo fare in modo che Evaline affronti quei ricordi. È fondamentale.» Lo guardò senza battere ciglio, le dita frementi si artigliarono tra loro in una morsa tesa. Non aveva idea di cosa stesse parlando, lui stesso quando la guardò non poté cogliere altro se non confusione. «Stai chiedendo il permesso di aprirla a quei ricordi, Severus?» Chiese Silente con una nota più dolce nella voce che non servì ad ammorbidire la durezza dell’altro. «Non a lei, preside. Né al suo tutore.» E tornò a guardare Evaline, arcigno. «Non ti piacerà assistere a quello che ho visto.» Lei non fu spaventata, ma le viscere le si contorsero davanti la gravità di quello sguardo. Annuì, quindi, sentendo Moody irrigidirsi accanto a lei. Non era d’accordo, ma ormai non c’era modo di tornare indietro. Piton lesse nello sguardo di Evaline ciò di cui aveva bisogno, quindi cercò Silente, lasciando intendere di volersi congedare. «Io procederei, preside. Alla fine dell’anno.» «Ma…perché?» Perché aspettare, intendeva lei. Silente aveva annuito, ma Evaline non sembrava d’accordo. Non osò dire niente, cercò nuovamente lo sguardo di Piton, ormai in piedi. «Non ha senso turbarti a metà anno.» Le disse lui, il volto una maschera inespressiva. «Una volta terminati gli esami di fine anno resterai ad Hogwarts ancora un po’ e lavorerai con me. Dopodiché avrai abbastanza tempo per…riprenderti prima dell’inizio dell’ultimo anno.» Una spiegazione che lasciò lì mentre si congedava definitivamente, abbandonando l’ufficio come se non desiderasse altro che lasciarsi tutti, Moody in primis, alle spalle. Chiusa la porta, l’auror sbuffò. «Premuroso, il ragazzo.» Fece lui, sarcastico, ma l’occhiata carica di ammonimento che gli rivolse Evaline bastò a lasciar cadere l’argomento. «Sì, suppongo di doverti dire molte cose, ragazzina. Ma non oggi.» L’occhio sano di Moody guardava lei, l’altro roteava nel punto in cui si trovava Piton e poi alla scala a chiocciola. «Un parente in vita, ha detto.» Non c’era rimprovero nella sua voce, che era fatta adesso della stessa consistenza di un filo sottile pronto a spezzarsi. «Perché non me ne hai parlato?» Lui era visibilmente a disagio, lo sguardo che andò al preside che nel frattempo si dedicava alle carte da ordinare. «Sono certo che ne riparlerete quando entrambi sarete pronti.» Le parole di Silente avevano messo fine alla questione con incrollabile gentilezza.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Le vacanze di Natale le trascorse al castello insieme a pochi altri studenti. Durante il regno del Signore Oscuro le famiglie preferivano lasciare i figli al sicuro sotto la guida di Silente, quindi fu strano per lei aggirarsi per i corridoi senza sentire l’eco del chiacchiericcio degli allievi della scuola. Non aveva smesso di indossare la divisa neppure in quei giorni di vacanza, ormai abituata al rito di vestizione mattutina che compiva senza rendersene conto. Calze alte, gonna grigia plissettata con fili sottilissimi di un motivo tartan giallo e nero che si intrecciava sul tessuto, il gilet dal bordo giallo, la camicia abbottonata con cura, la spilla da prefetto appuntata al petto e ben lucidata. I capelli erano meno crespi e stopposi ora che aveva ripreso un po’ di peso, al mattino si limitava a legarli in una coda bassa perché le ciocche scoprì che non avevano bisogno di essere spazzolate, perché avevano preso delle pieghe ondulate e corpose che la spazzola avrebbe rovinato. Glielo aveva detto Athena McCarthy, una ragazza del suo anno con la quale condivideva il dormitorio e con la quale aveva iniziato a legare i suoi primi mesi ad Hogwarts, per poi perderla dopo aver cominciato a seguire il volere dell’incanto di Piton. «Ti stanno meglio, sai? So che a te non importa, magari ti sembra stupido, ma non rischi di prendere voti bassi se cominci a trattare meglio i tuoi capelli.» C’era una punta di acidità nelle sue parole, ma del resto era normale se considerava che per anni il suo unico obiettivo era stato quello di eccellere nello studio sacrificando il resto. Avvertì un senso di solitudine opprimente ora che la scuola era semideserta, un peso nel petto che le ricordava quanto aveva perso per perseguire i suoi scopi. Fuori faceva molto freddo, la cena era ancora lontana e i suoi passi la condussero nell’unico posto del castello in cui riusciva a sentirsi addirittura felice. «Cosa c’è?» La voce di Piton proveniva da dietro un calderone che ribolliva sul ripiano della sua cattedra. Le aveva lanciato un’occhiata sospettosa che lei ricambiò in silenzio, consapevole di non sapere come spiegare quel senso di solitudine e amarezza che l’avevano afflitta fino a quel momento. Chissà come, lui parve capire, perché le fece cenno di chiudersi la porta alle spalle. «Mettiti i guanti e affetta i funghi arroventosi.» Tornò ai propri funghi, lasciandole intendere con un cenno del capo di occuparsi con lui di quel compito. Lei non se lo fece ripetere due volte e infilati i due guanti raccolti da uno scaffale ecco che corse da lui, posizionandosi al suo fianco per poter armeggiare con abilità con coltello e funghi. «Cosa stiamo preparando?» Chiese lei imitando i movimenti dell’uomo, intento a tagliuzzare finemente i funghi ad una velocità che lei non riuscì a sostenere, restando leggermente indietro. «Pozione per la resistenza al fuoco, la imparerai il prossimo anno.» Le rispose con voce annoiata. «L’insegnante di cura delle creature magiche ha alcuni esemplari di fiammagranchio e non vuole correre il rischio di riempire l’infermeria di studenti carbonizzati.» Osservò con occhio critico la precisione con cui lei tagliava i funghi, per poi sfilarsi i guanti e lasciarla libera di occuparsene, per dedicarsi ai semi di fuocofreddo e il sangue di salamandra. Li schiacciò uno alla volta utilizzando il pestello, movimenti lenti ma decisi, metodici, con il pestello che ruotava quattro volte in senso orario e quattro in senso antiorario. «Inserisci i funghi nel calderone adesso che bolle. Appena hai fatto inizia a polverizzare l’acetosa di bosco, ma aspetta un mio cenno per inserirla.» Andava versata poco alla volta, Piton le dava indicazioni mentre diluiva il muco di vermicoli nell’estratto di dittamo. Infine sminuzzò il granato, l’ultimo ingrediente da inserire dopo aver mestato e rimestato ad ogni passaggio per permettere agli ingredienti di amalgamarsi come si deve. Evaline per la prima volta trasse vera gioia dai propri gesti, non c’era l’affanno di ottenere un buon voto e il fatto di trovarsi fianco a fianco con Piton le regalò un dolce tepore sulle guance. Se lui se ne accorse o meno, non lo diede a vedere. Si dedicò ad un dettaglio, piuttosto. «Di grazia, potresti…?» Le indicò con un cenno infastidito alcuni uccelletti evanescenti che andarono a posarsi sulle spalle di lui. Evaline arrossì, cacciando lo sguardo dentro il calderone come se tutto ad un tratto non ci fosse nulla di più interessante al di fuori di quello. Con uno sbuffo lui riprese ad armeggiare con gli strumenti, deciso a non emettere un suono. Anche in silenzio si sentiva bene, Evaline. Lavorava meravigliosamente con lui a guidarla passo passo, gliene fu grata ed era sul punto di dirlo, quando con la coda dell’occhio notò una piega amareggiata contrarre le labbra di lui in un’espressione che per un attimo lei associò al dolore. Arrestò i propri movimenti e lo guardò apertamente, il viso rivolto verso il suo, le labbra schiuse in una domanda che salì a fatica lungo la sua gola. «Perché sei triste?» Lui trasalì, indurendosi. Le scoccò uno sguardo feroce, ritraendosi con aria infastidita. «Osi troppo, ragazzina. Non farmi pentire di averti dato qualcosa da fare.» Evaline si succhiò il labbro inferiore in un moto di contrizione, ma non disse nient’altro, limitandosi a dargli una mano nel travasare la pozione in appositi barattoli contrassegnati da un’etichetta su cui lui aveva scritto il nome e la data di realizzazione. Il resto del tempo lo trascorsero così, in azioni meccaniche e ripetitive accompagnate dal tintinnare del vetro dei recipienti riposti in ordine sul ripiano. «Mi sento così legata a te per via di quell’incantesimo?» Le parole le uscirono di bocca senza che le pensasse, erano conservate da qualche parte dentro di sé ed erano fuggite vie in un momento in cui aveva abbassato la guardia. Lo sentì irrigidirsi al suo fianco, ma quando sbirciò il suo profilo non vide altro che la solita inequivocabile fredda indifferenza. «Può darsi.» «Mi piaceva starti intorno anche prima, però.» Considerò lei, pensierosa. Ancora una volta, lui non rispose, quasi non l’avesse sentita. Evaline raccolse coraggio e una boccata d’ossigeno, ma lui intervenne in fretta, anticipandola. «Qualsiasi cosa tu stia per dire, morditi la lingua.» Sferzò l’aria in un sibilo. «Ti ho già detto di frenare il tuo atteggiamento, non è solo inopportuno, ma anche fastidioso. Sono un tuo insegnante.» Lui sembrava sapere meglio di lei cos’era sul punto di dire, perché improvvisamente si sentì confusa, stordita. «Quando non sarai più il mio insegnante potrò parlare liberamente?» Lui non trovò nulla da ribattere, pareva arreso, perfino stremato. Annuì debolmente, gli occhi fissi su un punto a caso. «Immagino che a quel punto la penserai diversamente.» Evaline si domandò se fosse davvero così palese quella che qualcuno avrebbe potuto definire infatuazione, ma che per lei aveva radici più profonde, qualcosa di mischiato a magia nera pericolosa e assai potente. Lasciò al silenzio le parole non dette, approfittando di quei momenti in cui le era concesso stargli intorno senza dover tenere troppo a freno i suoi sguardi. Osservarlo più a lungo fu per lei un modo per comprendere quegli sprazzi di lui che affioravano nel suo comportamento sprezzante e arcigno. Lo sorprese a fissare il vuoto, perso in pensieri a cui lei non aveva accesso. Le vacanze di Natale volsero alla fine e lei si tenne stretto il ricordo di quei giorni in cui avevano preparato pozioni insieme, gomito a gomito, in compagnia l’uno del silenzio dell’altra. Il 9 gennaio si concesse di bussare alla sua porta, dopo cena. Era stata una giornata come tante altre, Evaline non aveva alcuna lezione di pozioni, né occasione di incontrarlo. Dovette ricorrere a tutto il proprio coraggio per recarsi al piano degli appartamenti privati dei professori, durante la ronda, bussare alla porta e trovarsi sulla soglia uno stordito e irritato Severus Piton con in mano una candela. «Spero che tu abbia una buona ragione, Rosier.» Le sibilò stizzito, il pigiama nascosto dal mantello nero. Lei arrossì copiosamente, chiudendo gli occhi gli porse un pacchetto chiuso ad arte da un involucro di carta rilegato da un nastro verde e argento. «Sono ancora in tempo. Avrei voluto dartelo prima, ma sarebbe stato inopportuno, come dici sempre.» Teneva il profilo rivolto ostinatamente in giù, lo sguardo inchiodato sul pavimento e la mano sollevata verso di lui con il pacchetto sul palmo. Si aspettò per un attimo che lui la cacciasse con una manata, tanto era irritato, ma alla fine sentì le dita dell’uomo raccogliere il regalo e sfiorarle il palmo con la punta dell’indice. Il cuore saltò un battito. Non chiuse la porta, aprì il pacchetto davanti a lei, impassibile e ancora annoiato mentre lasciava scivolare il nastro per rivelare il contenuto del regalo: una penna d’aquila con il beccuccio in argento. «Non sapevo cosa regalarti.» Ammise lei, le guance bollenti. «Guarda.» Sollevata sulle punte indicò all’uomo un minuscolo ghirigoro inciso nell’argento. «Un serpente.» Sporse il profilo verso l’alto, l’innocenza di chi non ha badato alla distanza ravvicinata e sorrideva con naturalezza. «Per sempre Serpeverde, no?» Il sorriso vacillò di fronte alla durezza di lui e un’ondata di rossore e consapevolezza la costrinse a ritrarre il capo ormai paonazzo. «Insomma, è tutto.» Sul punto di girare sui tacchi in una fuga affrettata, ebbe il tempo di udire le ultime parole di lui. «Buonanotte, Evaline.» La porta si chiuse prima che potesse scorgere il suo viso e lei rimase a lungo a fissare la porta davanti a sé come se fosse una statua di sale. Le aveva dato la buonanotte.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


I mesi scivolarono via senza che lei quasi se ne accorgesse, cadenzati dai ritmi a cui si era abituata e che ben si sposavano con i suoi desideri. Studiare era diventato facile come respirare, naturale come vivere e stare seduta in Sala Grande per qualche minuto in più non era più un peso insostenibile. Le capitava spesso di lanciare occhiate furtive al tavolo degli insegnati dove Piton trascorreva i pasti in disparte, a volte preso da conversazioni di poco conto con i colleghi seduti al suo fianco. Lei di rado partecipava alle chiacchiere dei suoi compagni, a lei estranei dopo quasi sei anni di scuola, provava un vago senso di inadeguatezza, così si limitava a starsene ai margini, gettando loro delle occhiate, di tanto in tanto. «Quest’anno siamo ad un passo così dal vincere la coppa di Quidditch.» «La nostra cercatrice non è il massimo, ma i cacciatori sono una bomba. Dal tavolo di Corvonero ci lanciano ancora imprecazioni, li sentite?» «Sì, giusto ieri Williams se n’è stato sulle sue e a stento mi ha rivolto la parola. Che tipo.» «Gli parli ancora, Rosier?» Evaline aveva un grumo di porridge sulle labbra, lo pulì via in fretta per rispondere ad Athena McCarthy, che a causa della sua domanda aveva spostato l’attenzione di tutti su di lei. «Ah, ecco…sì, se capita.» «Non dovresti, è stato un vero bastardo.» Gregory Thompson, un ragazzo del suo anno, scosse il capo nel dire quelle parole. «Ti voleva sabotare perché è geloso, sei quella che ci fa guadagnare più punti a lezione.» Annuì Athena. Evaline rimase stordita e un po’ impacciata davanti le attenzioni gentili dei compagni, l’ombra della goffaggine di un tempo di nuovo in agguato. Non disse nulla, rossa, il viso ora rivolto in basso. «Verrai a vedere la partita?» Insistette Athena, mentre qualcuno intorno a lei bisbigliava con aria scettica. Nessuno l’aveva mai vista al campo da Quidditch, sapendola rintanata in Sala Comune per approfittare del silenzio e dedicarsi allo studio. Fu sul punto di rispondere che no, non sarebbe andata, quando Gregory si lasciò sfuggire un commento sprezzante, sguardo rivolto al tavolo degli insegnanti. «Finale con Serpeverde. Ci pensate che faccia farebbe Piton se vincessimo noi? Per Merlino, che darei per vederlo gonfio di bile. Non sopporto la sua faccia tronfia ad ogni partita.» La risposta di Evaline non tardò ad arrivare. «Ci sarò.» Venne agghindata con i colori di Tassofrasso, un tripudio di giallo addobbò volto e capelli: due strisce sulle guance, una sulla fronte, nastri tra i capelli che Athena scelse di lasciarle cadere sulla schiena in onde rosse e oro. Si sentiva un po’ a disagio e in colpa per aver trascurato i propri appunti di trasfigurazione, ma si ripromise che li avrebbe recuperati quella sera stessa. La partita fu una delusione, per lei: noiosa, complicata da seguire, chiassosa. I compagni erano accalcati su di lei e urlavano, cantavano, imploravano la cercatrice di prendere il boccino e portavano avanti dei cori in rima dedicati a Tassofrasso. Non ricordò una parola, a partita finita, perché la sua attenzione fu lesta a vagare sugli spalti opposti, dove la figura nera del professore di pozioni se ne stava appollaiata lì con una sciarpa di serpeverde intorno al collo. Fu strano e bellissimo vederlo tanto preso. Non si lasciava prendere dai cori né dal tifo, ma il suo sguardo era vivace, attento, il respiro a tratti mozzato dalla tensione. Poi, con gran disappunto dei Tassofrasso, il boccino venne catturato da Archibald Stone di Serpeverde e la vittoria fu tutta per loro. L’uomo fu soddisfatto. Non esultò né espresse la sua approvazione in chissà che gesti esaltati, limitando la gioia ad un sorriso soddisfatto, tronfio, i tratti sempre apatici rotti da una vivacità inattesa. Evaline si pentì in quell’istante di aver saltato il Quidditch. Si era sentita sollevata nel constatare che c’era qualcosa in grado di smuoverlo, un piccolo piacere che sembrava animare il volto del professore. Si tenne stretta quella conquista mentre tornava in Sala Grande insieme ai compagni demoralizzati, dimenticando di essere ancora addobbata a tifosa improvvisata. La cena fu deprimente per i suoi compagni, ma anche per Corvonero e Grifondoro, demoralizzati dai festosi Serpeverde che cantavano e festeggiavano felici al loro tavolo. Quando cominciarono a riprendere le invettive ai danni di Piton, Evaline dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non mettere mano alla bacchetta, ma all’ennesimo insulto al professore di pozioni lei fu costretta ad alzarsi e sgattaiolare fuori, dove i corridoi deserti vennero inondati dal suono del suo passo affrettato. Marciò per scaricare la tensione, i piedi la portarono fino al cortile della Torre dell’Orologio, dove rimase a contemplare la fontana posta al centro. Sentiva il lento oscillare del pendolo alle sue spalle, gli ingranaggi che ad ogni click risuonavano nel silenzio. Poi dei passi. «Hai preso male la sconfitta, Rosier?» Evaline osservò l’aria compiaciuta del professore di pozioni con aria assorta, contemplativa. Dimentica dello stress a cui era stata sottoposta poco prima, sospirò un mezzo sorriso che le ammorbidì ulteriormente i tratti. «Non pensavo fossi interessata al Quidditch.» Valutò lui vago, lo sguardo sulle sue guance e sui nastri gialli. Non sembrava granché colpito, ma una punta di curiosità affiorò ai suoi occhi. «L’ho trovata noiosa.» Ammise lei, sincera. «Non mi è mai interessato granché.» «Perché sei andata, allora?» domandò inarcando un sopracciglio. Lei schiuse le labbra e fu sul punto di rispondere, ma le sigillò nuovamente perché, lo sapeva, sarebbe stato inopportuno dirgli il motivo della sua presenza. Ricambiò lo sguardo un po’ più impacciata del solito, combattuta tra il bisogno di rispondere ad una sua domanda e quello di tener fede a vecchi ammonimenti. Era lì per lui, per vederlo, per sbirciare stralci di contentezza e gioire della sua soddisfazione. Il cuore saltò un battito al pensiero che per quelle due ore Piton sembrava più leggero, libero dal fardello che lo aveva tanto consumato negli ultimi mesi. Pensava a tutto questo e ricambiava il suo sguardo, con Piton che, poco a poco, tornava ad irrigidirsi sempre di più. Si sentì conficcare lo sguardo nelle orbite, parve scavare ogni pensiero dai suoi occhi e raccoglierli come mani che attingono ad una pozza. Parve leggere tutto questo e molto di più, ma era evidente che non gli piacque, perché distolse lo sguardo di scatto, un impeto che pareva rabbia mista a paura. «Torna dentro.» Le sibilò fissando altrove, ora nuovamente immobile, inespressivo. Evaline non aveva la benché minima consapevolezza di ciò che provava, così rimase qualche istante di troppo davanti a lui, le dita artigliate tra loro in una morsa ansiosa. «Mi dispiace.» Pigolò lei. «Per cosa?» Sbottò ostinato a non guardarla. «Non lo so.» Ammise chinando il capo, i passi che già accennavano a portarla verso l’interno del castello. «Mi dispiace e basta.» Quando pensò di esserselo ormai lasciato alle spalle, la voce dell’uomo giunse al suo orecchio, bassa e amara come un veleno che uccide poco a poco. «Dovresti dispiacerti per te stessa, ragazzina. Il ricordo che riporterò alla luce ti farà già abbastanza male. Non aggiungere altro carico.» Lo sentì allontanarsi e quando fu certa di non avere lo sguardo di lui addosso, le spalle le si curvarono in avanti e un sospiro doloroso le scivolò via dalle labbra tremanti. Avvertì un gran bisogno di piangere, ma non seguì quel desiderio. Risparmiò ogni goccia, quasi sapesse di doverle conservare tutte.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


La fine dell’anno giunse senza ulteriori eventi degni di nota ed Evaline risultò l’allieva più brillante della scuola. Non ci fu gioia in quel traguardo, perché Piton non sembrava colpito, ben lontano dal favorire ulteriori avvicinamenti tra loro. Nessun incontro, nessun contatto tra loro che non fosse quello che lui riservava agli studenti. Di tanto in tanto le regalò dei punti, unica Tassofrasso a godere di tale privilegio. I compagni non notarono la sua assenza nella calca di studenti che si affrettavano a prendere posto all’Hogwarts Express. Per lei fu strano trovarsi al castello con la sola presenza di fantasmi e ritratti ad accompagnare il suo peregrinare per i corridoi in attesa di essere convocata. Faceva caldo e abbandonata la divisa all’interno dei bagagli si trovò a disagio tra gli abiti acquistati l’anno prima. Era cresciuta di qualche centimetro, il vestito azzurro le scivolò addosso fino a sfiorare le ginocchia pallide e magre. Si sentiva braccia e gambe troppo lunghe per il corpo che si era ritrovata a contemplare con un cipiglio perplesso, come se il riflesso che vedeva appartenesse a qualcuno che non era lei. Capelli legati in una coda bassa, vagò a lungo prima di essere raggiunta dalla professoressa McGonagall, che la invitò a raggiungere l’aula di difesa contro le arti oscure. Luogo azzeccato, pensò amaramente mentre si avviava lì con le orecchie che fischiavano. Ad attenderla, come previso, Moody, Silente e Piton. Sapeva di non aver tempo per i convenevoli, né aveva orecchio per altro se non la voce di Piton che le chiese di prendere posto su una delle due sedie poste una di fronte all’altra. «Il preside ha chiesto che fossi io ad eseguire anche l’ultima parte dell’incanto.» Disse in tono monocorde mentre prendeva posto davanti a lei. «Una volta iniziato non potremo interromperci finché non avrai portato alla luce il ricordo rimosso. Incontreremo delle resistenze, sarai tu stessa ad innalzarle. Si tratta di una precauzione che hai preso per salvaguardare il tuo benessere.» La voce era asciutta, pratica. «Sia messo agli atti che io non sono d’accordo.» Moody aveva una voce più tetra del solito. «La mia presenza è necessaria, però. Alla fine.» Silente rimase dritto a pochi passi da loro, le mani intrecciate sotto la lunga barba d’argento. «Procedi, Severus.» Lo invitò con pacatezza. Evaline per tutto il tempo aveva tenuto lo sguardo incollato sul viso di Piton alla ricerca di tentennamenti, ansie, paure. Nulla. L’uomo era fermo, saldo, padrone di sé, una sicurezza da cui lei trasse conforto. Con il cuore più leggero, sorrise un’ultima volta al professore di pozioni, occhi fiduciosi e tiepidi. «Ho fiducia in te.» Lui annuì meccanicamente. Tirata in su la manica della mano destra, puntò la bacchetta in mezzo alla sua fronte e un mormorio lieve prese a recitare gli incanti che fino ad allora aveva ripetuto nella sua mente. Intuì che lo stesse facendo per render conto di ogni passaggio ai due maghi che lo stavano osservando. Guardò ancora una volta il viso concentrato di lui, poi le palpebre divennero pesanti e lei sprofondò in un luogo rassicurante, bellissimo. Era il cantuccio in cui era stata imprigionata per tutti quegli anni, un luogo lontano in cui si sentiva protetta. Fu come essere stata privata dei colori, ma ad un secondo sguardo capì che tutto era stato ovattato da una nebbia sottile che ingrigiva tutto. Guardò le proprie mani semi trasparenti e prive di bacchetta, assenza che la mise in allarme, tanto che per un po’ si mise alla ricerca tastando il pavimento su cui era accasciata. “Non ti servirà.” Disse la voce di Piton. Lo cercò, trafelata. “Non ne hai bisogno. Cerca di orientarti. Capirai da sola dove andare.” La voce dell’uomo non proveniva da nessun luogo, si trovava all’interno di lei che parve avvertirlo nella mente, nel petto, ovunque. Si alzò, quindi, scoprendo i piedi nudi e una veste da camera che scendeva fino alle caviglie. Non capiva perché era vestita così, ma ignorò l’impulso di chiedere e cominciò a camminare alla cieca. “Concentrati.” Chiuse gli occhi, respirò a fondo. Avvertì calore al centro della fronte, il punto esatto in cui lui aveva posato la bacchetta. Quello era un altro luogo, un’altra sé stessa. Riaprì gli occhi al suono di un frullio d’ali. “Un jobberknoll!” L’uccello azzurro si librava davanti al suo naso, le piume eleganti oscillavano ad ogni battito d’ali. Provò a toccarlo, ma quello si ritrasse e svolazzò verso un punto preciso, per poi fermarsi e guardarla, in attesa. Evaline capì che doveva seguirlo, che quell’animale aveva un significato speciale. Lo seguì senza timore, passo dopo passo pareva che quel percorso non avesse fine. Quanto a lungo camminò in mezzo alla nebbia? Non poteva saperlo. Il tempo non era un concetto di cui preoccuparsi, lì. Man mano che avanzava al seguito dell’uccello i colori si facevano più nitidi, la veste divenne di un rosa pallido e i capelli si accesero in quella tonalità calda che ricordava l’autunno. L’uccello si fermò a mezz’aria, la testolina rivolta verso di lei mentre schiudeva il becco, pronto ad emettere un suono. “No…” Pigolò Evaline, conscia che il jobberknoll non emetteva alcun suono se non quando si trovava in punto di morte, momento in cui liberava in un urlo tutti i rumori e suoni uditi nel corso della sua vita. Un suono straziante le graffiò timpani e cuore, costringendola a tapparsi le orecchie per proteggersi da quello strazio. “No, no.” Gemette, ma ancora una volta la voce di Piton risuonò limpida nella sua testa. “Non fermarti. Evaline, continua.” Ferma, perentoria, la voce dell’uomo tirò fili invisibili che costrinsero la ragazza a muoversi. Davanti a lei l’uccello si era cristallizzato in una forma d’oro che, toccata, rivelò essere la maniglia di ingresso di un pesante cancello. Evaline lo spalancò, trovandosi in un giardino immenso. Percorse il sentiero che conduceva all’interno, ignorando ciò che stava avvenendo a pochi passi da lei: qualcuno stava combattendo. Udì risa folle, esplosioni, lampi di luce verde. Evaline sapeva di non doversi fermare, ma quando distinse più chiaramente una delle due voci, lei sussultò. “Non ti riguarda, Eva.” Piton neanche badava più alle formalità. Percepì la gravità di quello che avrebbe rischiato se si fosse fermata ad assistere alla morte di suo padre. Varcò l’ingresso della villa e si lasciò alle spalle il combattimento e le risate da folle di Evan Rosier. L’interno della stanza era stato ridotto ad un ammasso di mobili schiantati e arazzi anneriti, ma ovunque spiccava lo stemma dei Rosier: un jobberknoll che si librava in volo. La posizione delle ali e del corpicino ad Evaline ricordarono l’attimo in cui l’aveva visto morire, ma cacciò via quell’immagine dalla sua testa per continuare ad avanzare. I suoi passi la condussero fino al secondo piano, le cornici vuote dei quadri alle pareti parevano finestre sbarrate. Posò la mano sulla maniglia di una porta chiusa, ma un lamento al suo interno la costrinse a ritrarsi ancora e un dolore mai provato prima le trafisse il petto. “Evaline, va’.” “No.” Si rannicchiò su sé stessa, le orecchie tappate e gli occhi serrati nel tentativo di isolarsi da tutto e da tutti. Perfino la voce di Piton era troppo debole, un soffio lontano e dimenticato. Soffriva, un dolore acuto le tolse il respiro e qualsiasi cosa ci fosse al di là della porta, lei sapeva che sarebbe stato peggio. Arresa a quello stato, si destò quando qualcosa le toccò le spalle: due mani. Non aveva mai sentito il peso di quelle mani contro le spalle, né aveva mai respirato il suo odore. Severus Piton era curvo su di lei, una sagoma sbiadita che emanava calore e prendeva sempre più forma man mano che lei realizzava che era reale. “Devi aprire quella porta, Eva.” “Ti prego, no. Chiedimi qualsiasi cosa, ma non questa.” “Se non aprirai quella porta resterai qui per sempre.” “Io…forse è quello che voglio. Forse voglio restare qui per sempre, Severus.” La rigidità sul volto di lui venne infranta da un tremore all’angolo della bocca e se possibile la sua espressione divenne feroce. “Non è quello che voglio io, però.” Non urlava, non ne aveva bisogno. La presa delle sue dita si fece più forte, provò dolore per quella stretta. “Alzati e va’.” Non era in grado di resistere oltre ai suoi ordini ignorati. Si alzò a fatica, ma c’era lui a tenerla, c’era lui a reggerla con una forza che non si sarebbe mai aspettata dal suo corpo magro. Lo guardò ancora, occhi velati e addolorati, la bocca tremava e il respiro le si strozzò più volte in un singhiozzo silenzioso. Non riuscì a piangere neanche adesso. “Alla fine di tutto tu ci sarai, non è vero?” “Sì.” Non aveva bisogno di dire altro. Dritta davanti all’uomo, Evaline si concesse di sfiorargli il petto con dita esitanti, per poi ritrarre la mano e toccare la maniglia. Anche qui un jobberknoll era inciso nell’oro massiccio che impugnò con ritrovata fermezza. Aprì la porta, il lamento all’interno le perforò i timpani con la stessa veemenza di una coltellata. Si trovò in un’ampia stanza per bambini, era luminosa e bella, piena di luce e colori, con il soffitto incantato che rivelava una giornata di sole. Letto, mobili e pavimento parevano essere cresciuti da un albero, con il baldacchino da cui sbucavano rami coperti di fiori ed erba fresca e pulita sotto i piedi nudi. Alcuni giocattoli erano sparsi sul prato, margherite sbucavano tra gli oggetti disseminati ovunque, contornando tre figure. Una era Evaline, che riconobbe la sé stessa bambina al primo sguardo: paffuta, bella, florida, con indosso una tunichetta verde chiaro e dei fiori tra i capelli pel di carota. Stringeva tra le mani una bacchetta rotta, una risata ancora impressa sul volto su cui poco a poco riaffiorava una consapevolezza gelida. Non capiva, era solo una bambina di due anni, incapace di realizzare che sua madre non si sarebbe più alzata. Sembrava una bambola rotta, Alina, stesa per terra in una posa scomposta, con la veste da notte rosa pallido adagiata con grazia sul corpo snello. Capelli corposi, rosso rame, ciocche voluttuose e calde sparse sul pavimento e sul viso a contornare lineamenti morbidi, belli. Una borsa piena di vestiti indicava che era sul punto di fuggire, di recuperare più oggetti possibili e allontanarsi dalla battaglia. Evaline lo sapeva, era per questo che aveva fatto irruzione nella stanza. Raggomitolato a lei, immobile e sporco di sangue, un altro bambino. Identico a lei, stessi capelli ricci, stesso naso, stesse guance morbide, stessi colori. L’istante in cui lo vide ricordò ogni cosa: ricordò il riflesso di sé sul volto di un altro bambino, i giochi condivisi in una villa antica e bellissima. Rivide padre e madre, Evan e Alina, intenti a recitare incanti di magia nera volta a modellarli in una perfezione che avevano a lungo idealizzato. Ricordò ogni cosa e seppe che quel nome era stato sempre sulle sue labbra. “Ewan.” Pronunciato quel nome riemerse dal ricordo in un urlo che ricordava tanto l’urlo della creatura magica morente. L’aula di difesa contro le arti oscure vorticò furiosamente intorno a lei mentre il lamento divenne pianto e lacrime calde sgorgarono da sotto le sue ciglia. Fu come un’esplosione, luci e ombre sfuggirono al suo controllo e ovunque comparvero sagome mostruose di creature raccapriccianti, volti deformi che fuggivano dal suo corpo e riempirono di orrore l’aula. La luce parve un vago ricordo, tutto si spense e quegli incubi deformi banchettarono su di lei, le tolsero il respiro, la soffocarono. Sul punto di arrendersi, ancora una volta due mani la raccolsero da terra e la strinsero. Avvertì il petto caldo attraverso la stoffa premuta contro la sua guancia, un braccio avvolgerla e una mano affondare tra i capelli spettinati. «Puoi mandarli via. So che puoi. Fallo da sola, forza.» «Sono…stanca.» Le stava chiedendo troppo. Se non fosse stato per la presa di Piton, lei sarebbe caduta tra quei mostri che avevano invaso la stanza. Due fiotti di luce squarciarono l’oscurità e comparvero Silente e Moody, immobili e in attesa. «Ho ucciso mia madre. Ho ucciso Ewan.» «Non hai ucciso nessuno. Non hai cadaveri sulla coscienza, credimi.» La voce dura di Piton venne attraversata da una punta di dolore, sofferenza che lo trapassò come la punta di uno spillo. La consapevolezza di quella sua sofferenza la costrinse a sollevare il profilo a guardarlo, le mani strette contro di lui al quale restò aggrappata, timorosa d’essere spazzata via. «Cacciali via.» Le ordinò ancora, guardandola con occhi tiepidi, per una volta calorosi. Non c’era dolcezza né nel tono né nei suoi modi, ma a lei quella traccia di calore bastò. Chiuse gli occhi, posò la fronte contro il suo petto e tornò a respirare il suo odore. Poco a poco i mostri divennero sbiaditi, fumosi, illusioni che svanirono lasciando il posto ad una manciata di farfalle, libellule, api e uccelletti evanescenti che volavano stanchi ma colorati, una presenza gentile intorno a lei. Poco prima di perdere i sensi sul petto di Piton ebbe solo la consapevolezza di quella presenza, del calore del corpo dell’uomo e le parole di Moody, lontane e sbiadite. «Ewan non è morto, Evaline.»

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


I mostri vennero a trovarla. Non la lasciavano mai realmente sola, perché quelle creature fuoriuscivano dalla sua figura rannicchiata tra le coperte del letto dell’infermeria solitaria in cui era stata portata. Madama Pomfrey, rimasta lì nonostante fosse ormai estate, venne al suo capezzale più volte. Non sapeva come reagire davanti agli orrori che si manifestavano, perché nessun incantesimo parve funzionare. Erano creature innocue, privi di sostanza, ma la sola presenza bastava a piombare la stanza nel buio in un incubo che non aveva fine. Evaline non aveva idea di come domarli, erano puro orrore, volti dagli occhi sgranati che le vorticavano intorno e minacciavano di morderla, ucciderla. In quei deliri Silente mormorava qualcosa per costringerla al sonno, un incanto che la aiutava a rannicchiarsi sotto le coperte e trovare poco a poco il ristoro a lungo agognato. Al suo risveglio, un giorno trovò Piton al suo fianco, l’aria arcigna di chi era lì controvoglia. Insieme a lei avevano cominciato a fuoriuscire ombre senza volto, si stiracchiavano come denso fumo nero e si arrampicavano lungo le pareti della grande sala vuota, divorando parte della luce che filtrava dalle finestre. «Hai finito?» Sbottò l’uomo. Lei emerse dalle coperte, gli occhi sgranati puntati su di lui e la bocca schiusa in un’esclamazione muta. Aveva le labbra secche, un sapore amaro nella bocca. In assenza di risposte, l’uomo proseguì con voce annoiata. «Impressionante.» Indicò i corpi umanoidi che si stiracchiavano lungo le pareti, figure metà mostro e metà orrore. «…devo aver paura, immagino.» «Severus, ti prego.» «Professor Piton.» Ribadì. «Detesto i ragazzini piagnucolanti. Quand’è che ci degnerai di collaborare? Non puoi certo aggirarti per Hogwarts con questa adorabile combriccola.» Lei aveva gli occhi arrossati, gonfi, il vago ricordo di essere stata stretta a lui ancora impresso sul corpo stanco. «Cosa…cosa devo fare?» Pigolò sollevandosi sulle braccia nel tentativo di tirarsi a sedere. Una creatura alata dotata di denti aguzzi volò intorno a lei. «…non vanno via. Sono sempre lì. Cacciali, tu puoi farlo.» «A che servirebbe cacciarli se poi ne creerai altri?» Indossava abiti neri, forse cotone, più leggeri con il caldo che iniziava a filtrare dalle finestre. «Non puoi mandarli via. Trasformali.» «Ho ucciso mia madre, Severus.» Le creature divennero più forti, mostrando denti e artigli, alcuni si tesero verso di lui, pronti a serrare fauci impalpabili intorno al suo collo. Lui non parve turbato, ma l’aria impassibile aveva lasciato spazio ad una serietà ritrovata. «Alina ed Evan Rosier si sono uccisi da soli. Tu eri una bambina.» «Cantava per me, Severus. Ricordo la sua voce, era un angelo, era…» «Era un mostro che ha instillato magia oscura nella tua testa con lo scopo di renderti un soldato per il Signore Oscuro.» «Tu non capisci, io…» «No, ragazzina.» La interruppe lui, terreo. «Io capisco.» Lentamente, Evaline tornò a rannicchiarsi e a sparire sotto le coperte, ma lui si sporse e le catturò i polsi con mani magre, dita lunghe e forti, serrate come ragni. «No, non ti piangerai addosso per una colpa che non hai. Non ti flagellerai per un crimine che non hai commesso.» I suoi ordini non avevano più la potenza di un tempo, il potere che l’incantesimo aveva impresso in lui, in loro, l’aveva abbandonata. Era rimasto solo l’eco di quel legame. Tuttavia, Evaline non fu comunque in grado di fuggire dal suo volere. «Cosa devo fare?» Lui l’aiutò a tirarsi a sedere, i polsi stretti dalle mani che non accennavano a lasciarla. «Trasforma quei mostri.» Indicò le creature annidate intorno a loro, i mostri che galleggiavano a mezz’aria e la rendevano nera e densa. «Hai affrontato un molliccio, no? Il principio è lo stesso: pensa a qualcosa di positivo. Qualcosa che ti piace.» La guardò negli occhi nel momento in cui lei, tra sé e sé, realizzava che tutto ciò che le piaceva era lì, a poco più di un passo e le stava stringendo i polsi con tale intensità da farle male. L’uomo allentò la presa, guardo altrove, ma non l’abbandonò. «Concentrati su ciò che ti fa stare bene.» Ripeté, cupo, evitando i suoi occhi. Lei ci provò. Le venne in mente un giorno lontano in cui Piton era uno studente, aveva la sciarpa avvolta a più riprese sotto il naso adunco e si trascinava per i corridoi con una pila di libri tra le mani. Evaline non era ancora sotto l’influsso dell’incanto, ma si era ritrovata a trottargli al seguito quando un foglio di pergamena scivolò via dalla sua pila e lei lo raccolse. Era disegnato un giglio. Evaline conservava ancora quel disegno, quel piccolo capolavoro tratteggiato con inchiostro nero e animato in modo che sembrasse coperto da perle di rugiada che scivolavano tra i petali. Sbocciarono alcuni fiori sul suo letto, petali di margherita si stiracchiarono pigramente e alcune api ronzarono intorno a loro. Le erano sempre piaciute, le api. «Continua.» Intimò lui, una sola mano stretta intorno al suo polso. Non la guardava, i suoi occhi si ostinavano a restare bassi. Un ricordo recente, adesso. Quello che nella sua mente aveva vissuto più volte in assoluto, con tenerezza, il sorriso impresso sulle labbra al pensiero dei gomiti che si sfioravano durante la preparazione della pozione. Forse era stato il primo e unico momento in cui si era sentita una sua pari, all’altezza di chi aveva messo su un piedistallo da cui non era mai crollato. «Apri gli occhi.» Le mormorò infine, la presa delle dita allentata sul suo polso, ma non la lasciò ancora. Lei obbedì, docile, sbirciando il prato fiorito e gli uccellini che le svolazzarono tutto intorno. Evaline li contemplò senza dire nulla, un sorriso stanco sulle labbra, lo sguardo che tornava al profilo di Piton rivolto in direzione di un ciuffo di gigli che sbucava a pochi passi da lui. Mentre in lei si affacciava la consapevolezza che l’uomo fosse preda di una tristezza che non si spiegava, una creatura di ombre emerse dal letto di margherite e minacciò di artigliarla. Divenne fumo. Tutto divenne fumo, mentre crollava ancora sul letto per soccombere, ancora, alla stanchezza. Le avrebbe cancellate tutte, quelle ombre: le sue e i solchi sul volto di Piton. Sì, lo avrebbe fatto.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Le ci vollero un paio di settimane per riuscire a comprendere e domare le illusioni che sorgevano dentro di sé. Piton non era sempre presente e la sua assenza rendeva tutto più complicato, perché qualcosa di rovente la mordeva dall’interno. La sensazione di smarrimento fu dovuta all’incanto spezzato, così ipotizzò, ma non ricevette alcuna spiegazione finché non ebbe modo di parlare con Silente da sola. Era ancora una volta davanti il dipinto di Barnaba il babbeo che insegnava ai troll la danza classica, lei in piedi con un vestito a fiori che le scendeva largo sulle gambe. Intorno a lei svolazzavano delle carpe bianche e rosse, enormi e pigre fluttuavano intorno alla sua figura resa più goffa dai centimetri di altezza che l’avevano smagrita ulteriormente. «Hogwarts in estate è un po’ più triste, non trova?» Silente si era avvicinato a lei con passo leggero, lo sguardo rivolto al dipinto di Barnaba. Sorrideva, il naso storto reggeva i soliti occhiali a mezzaluna attraverso cui guardò Evaline quando questa si fu voltata verso di lui. «Senza studenti, Hogwarts perde il suo scopo.» Spiegò. «Lei, signorina Rosier? Sente la mancanza dei compagni?» Evaline non sapeva mentire, sul suo volto si poteva leggere tutto quello che provava e pensava. Piton le aveva più volte dato la sensazione di essere fin troppo trasparente. «Temo di non aver legato con nessuno, qui a scuola.» Ammise infine, il tono basso e un po’ mortificato di chi è sorpreso a copiare. «Con nessuno non direi.» Fece lui con leggerezza. «Ti sei affezionata al professor Piton. Fatto di cui sono lieto.» Lei prese a guardarsi la punta delle scarpe. Stivaletti bassi dai laccetti penzoloni, dimenticava sempre di appuntarli. «Preside.» Bisbigliò lei senza sollevare lo sguardo dalle scarpe. Sentì lo sguardo del preside addosso, ma non osò ricambiarlo perché avvertiva il contorcersi della tentacula nella sua pancia. «Non c’entra l’incanto, giusto? Mi ero già affezionata a lui.» Non seppe mettere insieme più parole, tutto ad un tratto le parve stupido farsi uscire di bocca quei pensieri, ma le si erano arrovellati nel cervello e sentiva il bisogno di liberarli. «No, non c’entra.» Rispose lui con praticità. «L’incanto ti rendeva legata al suo ordine. Tutto il resto è opera tua.» Le carpe intorno a lei assunsero sfumature più accese e nuotarono vorticosamente intorno alla sua figura, sguazzando in un laghetto invisibile. Un piccolo sorriso sorse sulla sua bocca, poi levò lo sguardo e annuì al preside. «Sono lieto di vedere che stai meglio.» Era passato a toni meno formali ed Evaline gliene fu grato. Non era brava a mantenersi distaccata quando si rivolgeva a qualcuno, dimenticando spesso i ruoli di chi le stava davanti. «Alastor attende di essere convocato. Gli ho detto che gli avrei fatto sapere quando avrebbe potuto incontrarti e parlarti di Ewan.» Le carpe divennero degli avvincini, alcuni si contorsero dolorosamente tra loro ed Evaline avvertì il peso sul petto farsi più opprimente. «Pensi di essere abbastanza in te per incontrarlo? Per incontrare tuo fratello?» Evaline fu sul punto di scuotere il capo, ma annuì, mentre gli avvincini smettevano di contorcersi e nuotarono insieme ad altre carpe. «Perché non è a scuola? Lo avrei riconosciuto subito se fosse stato qui.» Silente la guardò, un luccichio negli occhi azzurri. «Di questo te ne parlerà Alastor. Non è facile neanche per lui, ti chiedo di avere pazienza. Alastor è un ottimo auror, il migliore probabilmente. Ma anche lui ha le sue debolezze e i suoi rimpianti.» Fece per dire altro, Evaline ebbe l’impressione che il preside avesse le parole sulla punta delle labbra, ma che alla fine avesse deciso di tacere. «Preside.» Bisbigliò lei, infine. «Vorrei incontrare Ewan.» * Il passo claudicante di Moody risuonava tra le pareti del San Mungo in un suono ritmato e preciso, con il piede buono seguito dal suono duro del legno che cozzava contro il pavimento. Evaline si muoveva al suo fianco torturando i lacci del mantello verde scuro che pendevano al centro del petto, in contrasto con l’abito color ambra che scendeva fino alle caviglie. Aveva impiegato qualche minuto per sistemare i capelli, ottenendo delle onde morbide e corpose scendere lungo tutta la schiena, con due ciocche laterali unite sulla nuca in un intreccio appuntato da un unico nastro nero. «Spero che tu capisca.» Aveva borbottato d’un tratto l’uomo. «…spero che tu capisca che eri troppo piccola per gestire tutto questo. Spero che tu capisca che non avevo scelta, che…» «Non preoccuparti, zio Alastor. Ho…ho capito, davvero.» Mormorò lei mentre il guaritore davanti a loro li conduceva per i corridoi, fermandosi di tanto in tanto a scambiare due parole con un paziente o un collega. Evaline era circondata da libellule evanescenti che lasciavano una scia luminosa al loro passaggio, per poi svanire in uno sbuffo di luce colorata. «Severus si sbagliava, comunque.» Continuò guardando dritto per non dover sostenere la disapprovazione che avrebbe letto su di lui nel sentir nominare il professore di pozioni. Il suo odio le spezzava il cuore. «Non ho un parente in vita. Ne ho due.» Sollevò la mano con timidezza, stringendo quella dell’uomo al suo fianco senza aver bisogno di guardarlo per sapere che non l’avrebbe rifiutata. «Ti chiamavo zio perché sapevo. Sapevo che mia madre era tua sorella.» La mano dell’auror esitò, poi strinse brevemente quella di lei in segno di assenso. Quindi la lasciò andare appena il guaritore ebbe indicato loro la stanza in fondo al corridoio. «Oggi è una buona giornata, ma vi invito a contenervi. Non sa gestire il carico di magia che ha in corpo.» Il guaritore spostò lo sguardo da Moody, che già conosceva, a quello di Evaline. «Siete identici.» Un sorriso cordiale, un po’ distaccato. Era un uomo di mezza età, stempiato, i modi pratici di chi sta compiendo la sua routine giornaliera. Si fece da parte e li lasciò entrare, senza mai abbandonare la soglia, però. «Ewan, hai visite.» La stanza era ampia e spaziosa, le finestre protette da sbarre lasciavano entrare molta luce e nonostante fosse un ospedale, quello aveva l’aria di un appartamento indipendente. Il mobilio era raffinato, elegante, Evaline ipotizzò che fossero stati usati i fondi ereditati dai genitori. Ma non le importava. Quel pensiero scivolò via mentre il suo sguardo vagava da una parte all’altra della stanza alla ricerca del fratello, mentre degli uccellini le svolazzarono intorno e zampettavano qua e là sulle sue spalle o sul capo di Moody. L’auror le indicò il letto a baldacchino, dove il corpo slanciato di un adolescente se ne stava appeso in cima e li fissava con occhi in parte nascosti da lunghi ricci pel di carota. «Di nuovo lì? Non sei una scimmia, Ewan.» Moody si rivolse al ragazzo con fare amichevole, secondo i suoi standard. «Scendi, ragazzo. Tua sorella è qui.» Evaline non aveva più mosso un muscolo, intenta com’era a scrutare il viso del fratello si era perfino dimenticata di respirare. Era la sua copia sputata, le gambe e le braccia lunghe si muovevano lentamente mentre scendeva sul pavimento, il suono ovattato da un paio di calzini pesanti, troppo caldi per la stagione in cui si trovavano. Indossava un pigiama azzurro abbottonato fino al collo, una massa di capelli lunghi scendeva su spalle e schiena, ombreggiando il viso pallido. L’espressione curiosa, gli occhi fissi su di lei erano l’unico dettaglio che non condividevano: se gli occhi di Evaline erano di un verde chiaro screziato di azzurro, quelli di Ewan erano azzurro intenso, freddo. Si fermò ad un passo da lei, le respirava quasi addosso mentre la studiava minuziosamente con la stessa attenzione di un cane che annusa qualcosa che ha un odore sconosciuto. Lui però pareva conoscerla, dimostrandolo ad ogni occhiata sempre più consapevole. Le toccò una guancia, poi l’altra, tenendo il suo viso tra i palmi per una manciata di secondi, finendo poi per distrarsi al volo a causa delle illusioni che fuoriuscivano dal corpo di Evaline. La ragazza sapeva che le illusioni rappresentavano ciò che provava, a volte pensieri e a volte sensazioni; perciò, fece del suo meglio per trasformare quel principio di avvincino in un calamaro maculato. «Ciao.» La voce di Ewan era roca, cupa, nel bel mezzo della trasformazione da bambino a ragazzo. La salutò senza guardarla, le mani che si muovevano nel tentativo di afferrare una carpa in gesti goffi, di una tenerezza impacciata. «Ciao.» Ripeté Evaline, la voce un pigolio che si perse nell’aria. Le illusioni erano tutte diverse perché quello che provava era complicato e indefinito: comparvero jobberknoll, farfalle, maggiolini; ma anche un gatto che tentava di ficcarsi un pettirosso tra le fauci e due mooncalf che danzavano insieme. In un angolo remoto della stanza, una sagoma dalla forma di gramo se ne stava accucciata senza muovere un muscolo. Evaline si sforzò di cacciare via la paura che le mordeva le viscere e dopo vari tentativi riuscì a domare quell’orrore, mutandolo in un puffskien rosa. Così quello era suo fratello, pensava. Sentiva il desiderio di stringersi a lui, ma ogni volta che provava ad avvicinarsi anche solo di un millimetro ecco che lui si ritraeva, lasciando intendere di non voler nessuno nel proprio spazio vitale. Così si limitò a guardare quel bambino nel corpo di ragazzo che giocava con illusioni che non poteva acchiappare, chiedendosi se quel peso che si era dissolto nel nulla aveva a che fare con la consapevolezza di non essere più sola. Avrebbe voluto raccontare tutto a Piton, per quanto non fosse poi così sicura che a lui importasse o meno. Sentiva il bisogno di guardarlo mentre si confidava, sentirsi in sua presenza e parlargli del suo incontro con Ewan e dell’autorizzazione che aveva ricevuto dal san Mungo di poterlo incontrare ogni volta che desiderava. Ad Hogwarts, però, non lo rivide. Né quella sera né il giorno seguente, finché non fu costretta a far ritorno in orfanotrofio dove avrebbe trascorso il resto dell’estate senza sapere perché le fosse stato negato un saluto.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Non seppe dire quanto era cambiata rispetto a prima. Gli anni trascorsi sui libri non erano andati perduti, si era scoperta in grado di comprendere i compiti lasciati per le vacanze e li portò a termine senza alcun problema. Non che ci fosse molto altro da fare in orfanotrofio, dove le uniche attività degne di nota si riducevano a sporadiche gite a Londra che lei dovette saltare a causa dell’incapacità di gestire come si deve le proprie illusioni. Theodore le era ronzato intorno per tutta l’estate, indagando sui motivi della sua assenza dall’Hogwarts Express e sulla presenza delle illusioni. Lei fu evasiva, non aveva dimenticato i suoi scherzi crudeli, né quanto le aveva detto Piton sul suo conto. Non avvertiva più il senso di adorazione costante, ma i crampi allo stomaco erano sempre presenti quando si sorprendeva a ripercorrere i momenti condivisi, scoprendosi felice, seppur per pochi istanti. Aveva scoperto nuovi lati di Ewan a forza di frequentare il San Mungo, imparando che il pomeriggio era sempre un buon momento mentre la mattina era il peggiore, perché appena sveglio era di pessimo umore. Un giorno fu tanto violento e collerico che le scagliò addosso la scopa giocattolo che non si levava più di un metro da terra. Per il resto i loro incontri erano serviti ad imparare a conoscersi con i mezzi di cui disponevano, scoprendosi simili in alcuni aspetti: ad Ewan piaceva il porridge caldo con frutta secca, mirtilli e sciroppo d’acero, esattamente come lo prendeva lei; entrambi avevano una fossetta sulla guancia sinistra e affiorava se sorridevano; i sapori forti facevano storcere le labbra ad entrambi in smorfie identiche. Un giorno, inoltre, si ritrovarono a canticchiare un motivetto all’unisono. Era una canzone priva di parole, lenta come l’ondeggiare del mare calmo, rassicurante come il tepore del sole che ti scalda il viso quando sei infreddolito. Ewan stava giocando con un jobberknoll di pezza, le piume in parte spettinate e in parte perdute, mentre Evaline sbucciava una mela avendo cura di tagliarla in spicchi tutti rigorosamente uguali per scongiurare eventuali crisi. Canticchiarono all’unisono, scoprendosi in perfetta sincronia, in quella melodia che lei associò alla ninnananna cantata da Aline Rosier. Il respiro le si spezzò al ricordo appena conquistato legato alla donna dai capelli simili ai suoi, ma di una bellezza che pareva peccaminosa, audace. Nel suo ricordo la donna aveva addosso un abito sfarzoso, l’azzurro e l’oro dei Rosier campeggiava sulla stoffa damascata stretta in vita e sui fianchi larghi, pieni, sui seni generosi scoperti da una scollatura a cuore, con maniche a losanga che parevano le ali ripiegate di un uccello aggraziato. Le onde voluttuose dei capelli erano raccolte in una spilla raffigurante un jobberknoll che stringeva nel becco una pietra trasparente che catturava la luce. Cantava per loro, in quel ricordo, li salutava un attimo prima di affidarli alle cure di un’elfa domestica che si affaccendava ai suoi piedi. «Ti ricordi di lei, Ewan?» Domandò quel giorno, ma il ragazzo aveva focalizzato tutto il suo interesse sugli spicchi di mela che divorò senza aver nulla da obiettare su eventuali imperfezioni. Non prese più l’argomento, arresa. Tornò ad Hogwarts con la consapevolezza che tutti avrebbero trovato strano vederla aggirarsi per il castello con un seguito di farfalle svolazzanti tutto intorno a lei, ma non ne fu turbata. Preso posto all’interno del vagone si trovò a dividere lo scompartimento con Athena e altre due ragazze del suo anno, Marigold e Priya, entrambe di Corvonero. Fu strano. Era come se le vedesse per la prima volta, scoprendosi a ridere alle loro battute, interessata a ciò che avevano da dire su qualsiasi argomento. «Sai che sei diversa?» Esordì Athena dopo il passaggio della strega che spingeva il carrello. «Farfalle e trucchetti a parte, dico.» «Ti sei fatta più bella!» Priya indicò i capelli ordinati, morbidi, chiusi da nastri gialli che richiamavano il tartan della gonna della divisa. Evaline arrossì e le sue farfalle svolazzarono più rapide, cambiando colore in tonalità scarlatte. Tutte tranne una, che divenne blu cobalto. Una parte di lei sussurrò un pensiero debolissimo nella sua testa: sei diventata caposcuola. Dicono così per far colpo su di te. Quel pensiero la pungolò tristemente per tutto il viaggio, finché non furono giunti a scuola. Sulla carrozza trainata dai Thestral rimasero unite, accogliendo una ragazzina del secondo anno di Grifondoro che se ne stava in disparte, persa nei suoi pensieri. «Ci pensate? Il nostro ultimo anno. Gli esami mi terrorizzano, credo che avrò numerosi attacchi isterici prima della fine.» Priya aveva sempre avuto ottimi voti, ma era anche piuttosto nervosa e irascibile quando si trattava di esami. Lei puntava ad una carriera al ministero, era risaputo. Da tutti meno che da Evaline, che quando l’ebbe domandato suscitò sbuffi da parte di Athena e Marigold poco desiderose di sentire i piani di Priya sul suo futuro, argomento che dovevano aver affrontato ripetutamente. «Lo avresti saputo se avessi prestato attenzione a noi, in questi anni.» L’ammonì Athena fissandola in tralice. Evaline si fece impacciata, tuttavia incassò il colpo cercando di dissimulare con un sorriso mesto. «Lo studio è stato molto importante, per me.» Pigolò. «Oh, smettetela di biasimarla, ha ragione.» Intervenne nuovamente Priya e di nuovo Evaline ebbe il timore che il suo impeto fosse dovuto alla spilla da caposcuola che portava al petto. «Anche tu aspiri al Ministero, dico bene? Eri anche tu tra i favoriti di Lumacorno e, si sa, lui li sa scegliere quelli che contano.» Evaline ringraziò Merlino per il viaggio appena finito, sgattaiolando verso l’interno della scuola con un solo pensiero fisso in testa: lo avrebbe incontrato. Aveva impiegato più tempo a sistemarsi i capelli perché sperava di essere anche solo vagamente carina, pensiero su cui rimuginò a lungo sentendosi sciocca. Sul punto di varcare la soglia della Sala Grande, venne richiamata da una mano che le si posò sulla spalla, facendola voltare di soprassalto con il cuore in gola. No, non era lui. «Ti ho cercata dappertutto.» Il ragazzo era trafelato, più alto di lei di una manciata di centimetri, il viso affilato e biondi capelli spettinatissimi. Lo riconobbe tardivamente, si trattava di Augustus Frey, un Serpeverde del settimo anno con la spilla da caposcuola appuntata sulla divisa. «Dobbiamo dare direttive ai prefetti, ricordi? Lo trovi scritto sulla pergamena e…oh, guardati, te ne sei dimenticata per davvero?» Evaline era avvampata di vergogna e le farfalle presero a svolazzare dietro la sua schiena, nascondendosi alla vista del compagno. «Mi dispiace.» «Ma no, fa nulla. Anzi scusami, avrei dovuto aspettarti, ma ho preferito dar loro le parole d’ordine e tutte le raccomandazioni del caso. Sapevi che ad Hogsmeade ha venduto ad un mercato degli oggetti maledetti che qualcuno ha venduto agli studenti, l’anno scorso? Gli studenti erano due Grifondoro, vatti a fidare di quei cretini. Ma insomma, è venuto fuori che l’orologio da taschino e l’anello erano appartenuti a due amanti in fuga e adesso i loro fantasmi infestano il terzo piano.» Parlava a ruota libera, era così pressante che Evaline quasi non si accorse di averlo seguito fino al tavolo dei Serpeverde. «Non è il caso che gli studenti del primo vadano lì, pare che sia in corso una disputa perché uno dei due fantasmi è un discendente del Barone Sanguinario e lui non approva la scelta di fuggire.» Si interruppe. «Oh, vuoi sederti qui? Per me va bene, ma Piton non penso che ti permetterà di stare ad un tavolo che non è il tuo.» Evaline era ancora stordita dalle sue chiacchiere, quando Augustus la costrinse a cercare la figura nera di Piton al posto del tavolo degli insegnanti. Per un attimo aveva intravisto una sua occhiata in tralice e l’aria di chi aveva appena mangiato uno schiopodo sparacoda. «Cosa? Perché non dovrebbe approvare?» «Beh sei Tassofrasso.» Giusto. Con un sorriso affrettato si congedò da lui, che la salutò cordialmente per riprendere a parlare di fantasmi con uno dei suoi commensali. Non era da lei distrarsi così facilmente, le sembrò di vivere il suo primo anno ad Hogwarts, con la differenza che adesso aveva più consapevolezza di sé e della scuola. Sapeva come concentrarsi e avrebbe fatto tesoro di quanto aveva studiato gli anni precedenti. Per certi versi fu abbastanza facile cominciare con aritmanzia e antiche rune, anche se in più di un’occasione dovette ricorrere a tutta la sua forza per rimanere concentrata. Lo stesso non poté dire per storia della magia, dove il fluttuante professor Binns passò l’ora ad elencare i titoli di chissà quale rivolta dei goblin di fine ‘800. Giunse l’ora di pozioni e lei vi si precipitò in anticipo, scegliendo un posto a caso tra i banchi sparsi per i sotterranei. La lezione l’avrebbero condivisa con i Serpeverde e Augustus Frey, con il quale non aveva mai condiviso altro se non una conversazione sui fantasmi, decise di sedersi al suo fianco. Invidiò la sua divisa in ordine e pulita, la sua aria impeccabile e ordinata, con i capelli folti al loro posto e la spilla lucida appuntata al petto. Quella di Evaline era piena di ditate, sul bordo della manica c’erano tracce di inchiostro ed era sicura che non emanava lo stesso odore di bucato appena fatto che emanava lui. Però aveva addosso una deliziosa fragranza al pompelmo, questo era già un punto a suo favore. L’arrivo di Piton venne accolto dal silenzio che piombò di colpo nell’aula, quasi non si udì il respiro degli studenti e nell’aria su percepiva la tensione di tutti. Evaline provò a reprimere il sorriso che aveva sperato di rivolgergli al suo arrivo ad Hogwarts, ma non ci fu verso di incontrarlo ed ebbe paura a recarsi da lui senza un motivo rilevante. L’anno prima non aveva provato alcun freno nei suoi atti di pura sfacciataggine, mentre adesso c’era un timido languore ad inumidirle gli occhi quando immaginava di stare sola con lui, di parlargli. Parlare di cosa, poi? Loro due mica parlavano. Non lo avevano mai fatto, per quanto si sforzasse di ricordare non c’erano che brevi scambi di battute, niente degno di peso reale. Non per lui, forse, perché lei a quei momenti aveva dato un valore inestimabile e più passava il tempo e più realizzava il peso che aveva ciò che provava per lui. «Ritorni da noi, signorina Rosier.» L’aveva ammonita senza guardarla negli occhi, parte di lei che evitò anche in seguito. «Lei è l’unica che non ha messo il libro sul banco. Vada a pagina…» «Sì, mi scusi!» La voce di Evaline era di una nota più squillante del solito, le sue farfalle presero a svolazzare freneticamente per la stanza, costringendo alcuni studenti ad indicarle con risolini divertiti. «Trovo affascinante il modo in cui rispecchiano il tuo umore, sai?» Sussurrò Augustus senza alcuna malizia né secondi fini, genuino come un ragazzino. «Adesso smetto di distrarti o Piton ci andrà giù pesante.» Tacque e lei sbirciò nella sua direzione, grata. Si sentiva a suo agio con lui come compagno di banco, perché a differenza di Theodore non stava con gli occhi pronti a sbirciare i suoi movimenti per copiare o intralciare. Nonostante alcuni piccoli tentennamenti in cui si era ritrovata a dover controllare spesso il procedimento sul libro, Evaline portò a termine la realizzazione di una pozione di cura senza alcun imprevisto. Aveva perso la velocità e la destrezza dell’anno prima, ma il risultato fu ottimo e Piton le assegnò cinque punti per aver realizzato la pozione migliore. Lo fece senza guardarla neppure, in modo asettico e distaccato, ignorando lei e le farfalle che avevano preso a battere più forte, tinte di una nota rosata. Le illusioni svolazzarono dietro di lei che, uscita per ultima, si concesse di sbirciare verso il professore un’ultima volta prima di scappare via. Ebbe modo di scorgere una delle sue farfalle posate sulla spalla di lui, pochi attimi prima di volatilizzarsi in uno sbuffo di luce rosa. Il suo rientro a scuola fu diverso rispetto agli anni precedenti per molti aspetti. Uno di questi era il suo desiderio di manipolare la magia che aveva in corpo per creare. Creare qualsiasi cosa, da animali a creature magiche, piante e creature bizzarre nate dalla mano dei suoi compagni di Tassofrasso. Gli studenti più grandi si limitarono ad assistere con grandi sorrisi mentre Evaline coinvolgeva i ragazzini del primo anno in quei giochi. I più timidi, quelli ancora scossi dal distacco dai genitori e, soprattutto, i timorosi nati babbani trovarono in quel gioco un modo per aprirsi, ridere e iniziare a creare i primi legami che li avrebbero accompagnati per sette anni meravigliosi. «Scusa.» Fece una voce alle sue spalle mentre innalzava uno dei suoi troll a danzare per la stanza come avrebbe voluto Barnaba il babbeo. «Sì?» Il ragazzo del sesto anno che le stava davanti le porse una pergamena. «Me l’ha data Augustus Frey.» L’aveva dimenticato. Una riunione tra i capiscuola, i prefetti e i direttori delle case. Non ricordò di aver mai corso tanto, sbagliando direzione più volte a causa delle scale capricciose, per poi inorridire quando si trovò a trapassare i corpi evanescenti dei due nuovi fantasmi che infestavano i corridoi del terzo piano, sensazione di gelo che tardò a svanire. Quando giunse all’aula destinata all’incontro vide che si erano appena seduti, il movimento delle sedie l’accolse insieme allo sguardo degli insegnanti schierati sui banchi posti in fondo e quello degli studenti sparsi davanti a loro. Solo Piton aveva lo sguardo basso sulle proprie mani intrecciate e nel vederlo le proprie farfalle smisero di sbattere le ali, mutando in falene blu dai movimenti goffi e lenti. Prese posto accanto ad Augustus, che l’accolse con un mezzo sorriso. «Ti ho avvisata prima. Mi sembrava scortese dare per scontato che avresti ritardato, ma…ehm.» Sì, aveva fatto bene. Lei ricambiò il sorriso in modo un po’ goffo e stentato, per poi voltarsi rapida su Piton, certa di essersi sentita il suo sguardo addosso. Così non fu per il resto della riunione, però. Lui era rimasto in silenzio limitandosi commentare annoiato certe decisioni e bocciarne altre senza alcun trasporto. Ce ne fu una in particolare a renderlo sdegnoso. «La proposta degli studenti è quella di riportare agli antichi fasti il ballo del solstizio d’inverno, già da prefetto mi sono fatto portavoce di questa loro richiesta, l’anno scorso.» Presa la parola, Augustus si mise in piedi in modo da avere l’attenzione di tutti. «Sì, sono consapevole che sarebbe problematico allestire qualcosa di adeguato a tutti gli studenti.» Fece rivolto a Piton, prevenendo eventuali repliche da parte sua che sembrava desiderare essere ovunque meno che lì. «Il rito del ballo era stato abolito, ma è un peccato, se posso permettermi. Gli studenti del settimo anno vorrebbero dare il loro saluto ad Hogwarts e la festa che si tiene alla fine delle coppe delle case viene sopraffatta dai vincitori.» Aveva inserito un sorriso mesto sul finire, ma era un pizzico compiaciuto. Serpeverde aveva rubato spesso la scena, con grande compiacimento di Piton che adesso pareva ascoltarlo, pur restando contrariato. «Lei sta suggerendo di organizzare un ballo per soli studenti del terzo anno?» Intervenne la professoressa McGonagall, la sua fermezza scalfita da un vago interesse. Augustus sorrise amabilmente, i prefetti intorno a lui pendevano dalle sue labbra, schiavi del suo carisma. «Studenti del settimo e gli eventuali invitati.» «Non accetteremo studenti di altre scuole, se è questo che intendi.» Precisò sempre la McGonagall e in quelle sue parole fu implicito che lei avrebbe approvato l’idea del ballo. Augustus annuì senza perdere il sorriso, ma per Evaline fu palese che quel dettaglio l’avesse scoraggiato. «Certamente. Intendevo invitati del sesto o del quinto anno, per esempio.» Questa risposta parve piacere agli insegnanti, tutti eccetto Piton, che oltre a mostrare il proprio disgusto non mosse un muscolo, neanche fosse stato pietrificato. Non era a suo agio, ma probabilmente questo l’ebbe capito solo lei, che per un po’ si limitò a guardarlo e le falene si fecero nuovamente farfalle di un rosa delicato. Fantasticò su quanto sarebbe stato bello trascorrere pochi minuti con lui, anche senza parlare, come il giorno in cui lo aiutò a preparare pozioni per il professor Kattleburn. Che gioia avrebbe potuto ricavare da un ballo? Eppure, quel pensiero l’accompagnò per un bel po’.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


La notizia che si sarebbe tenuto il ballo d’inverno si diffuse nel giro di pochi giorni, finché non divenne ufficiale all’annuncio del preside. Il fatto che sarebbe stato un evento a cui avrebbero partecipato gli studenti del settimo anno non demoralizzò gli altri studenti, soprattutto le ragazze, che si appostarono presso i ragazzi più grandi nella speranza di essere invitati. Evaline non se ne curò granché, sollevata dopo aver appreso che Theodore avrebbe invitato una Grifondoro del quinto anno. Una certa Alice, secondo Priya. «Non uscivate insieme, voi due?» Aveva chiesto Marigold frenando a stento la curiosità che animava i suoi occhi. Erano sedute in biblioteca, le voci poco più di un sussurro. «Io e Alice?» «Cos…no, tu e Theodore.» Evaline dovette compiere uno sforzo non indifferente per rievocare quell’unico disastroso tentativo di uscita che non avevano neppure portato a termine. C’era stato pure un bacio, forse, ma alcuni avvenimenti di quel periodo erano offuscati e distanti. «No. Cioè, siamo andati ad Hogsmeade insieme, ma non lo definirei uscire insieme.» Le parole erano uscite con un’innaturale durezza che poco si sposava con la sua indole e la timida dolcezza che solitamente l’accompagnava. Le erano tornate alla mente le parole di Piton a proposito di Theodore e il risentimento che non aveva provato allora le stava sorgendo adesso, insistente come uno spillo che ti pungola. «Lui non è stato carino nei tuoi confronti. Ha detto tantissime assurdità, ma io l’ho messo al suo posto, credimi.» Priya sembrava molto soddisfatta di sé, con Athena e Marigold che annuivano, lasciando intendere di aver assistito all’episodio. Episodio di cui Evaline non era a conoscenza, perché le guardò con aria interrogativa, il libro ancora aperto che attendeva di essere consultato. «Come, non sai? Te ne ha dette parecchie, quell’idiota.» fece Athena. «Era arrivato a sostenere che fossi la cocca di Piton. Tu.» L’idea pareva tanto assurda che risero con la mano davanti la bocca, temendo di essere udite da madama Pince. «In…in che senso? Non ha mai fatto favoritismi.» «Piton fa una marea di favoritismi, è risaputo.» Rimbeccò Marigold, ancora scottata dalle precedenti umiliazioni cui Piton l’aveva sottoposta. «Con quelli di Serpeverde, però. A te non ne ha fatti semplicemente perché sei la più brava.» «Sì, è vero.» Annuirono le altre. «Non lo sarò più se continuiamo a parlare anziché studiare.» Sorrise mesta in risposta, provando a far morire la questione per dedicarsi ad antiche rune. Non aveva voglia di tradurre i brani lasciati dalla professoressa Babbling. Cercò di non pensare al ballo imminente, motivo di noia per lei, che non avrebbe voluto andarci in compagnia di nessuno, perché avrebbe significato dover ballare, interagire e conversare con qualcuno che non era l’odiato professore. Non osò certo fantasticare di andarci con lui, sarebbe stato strano e inverosimile perfino nei suoi sogni più audaci. Però si trovò ad immaginarsi vestita a festa, la mano sul suo braccio, una passeggiata per i giardini e magari il suo mantello sulle proprie spalle. Camminava per i corridoi con questo pensiero, le guance accese e le farfalle che svolazzavano intorno a lei con ali dalle sfumature calde, dal rosa al porpora, quando Augustus le venne incontro con la sua solita aria da chi è felice senza alcuna ragione. «Speravo di incontrarti.» Fece lui affiancandola. Senza chiederle il permesso le raccolse anche i libri dalle mani, offrendosi di portarli al posto suo. Nei suoi gesti non c’era un’appiccicosa galanteria, pareva sinceramente contento di farle un favore. «Ascolta, perché non andiamo al ballo insieme?» Evaline doveva aver perso ogni traccia di colore, perché lui reagì alla sua espressione sbuffando un sorriso più furbo. «Come amici, non preoccuparti.» «Oh. Sì, con piacere.» «Non mostrarti così sollevata, però. Non sono mica da buttare.» Lei si fece più impacciata, le farfalle ancora accese da sfumature calde mentre cercava qualcosa da dire, quando in lontananza vide un mantello nero sgusciare via dal corridoio per recarsi nei sotterranei. Evaline perse un secondo di troppo a fissarlo andare via, il tutto sotto lo sguardo di Augustus che rimase al suo fianco con l’espressione serena di sempre. «Siamo entrambi caposcuola, non avremo modo di divertirci granché perché ci aspettano ronde e tutta la fatica della parte organizzativa.» «Ronde? Perché?» «Adolescenti in abito da sera, Rosier. Cosa credi, cercheranno di imboscarsi in giro per il castello o nel parco.» Quella punta di malizia la resero ancora più timida, chiudendola in un silenzio che l’altro accolse con divertimento. «Sul serio, Rosier? Sei adorabile, se non avessi già la ragazza penso che mi faresti gola.» La sua assenza di pudore la fece avvampare, la sua pelle era facile al rossore, di un bianco che bruciava alla più piccola sollecitazione. «Ma…se hai la ragazza perché non…» «Non studia qui, lei è di Beauxbatons.» Spiegò portando gli occhi languidi altrove. «Sai, è francese. Speravo di convincere i professori a permetterci di invitare studenti provenienti da altre scuole, ma su questo punto sono stati irremovibili anche davanti al mio sorriso migliore.» «Difficile dirti di no, in effetti.» «Lo so, mi alleno da tutta la vita. Mia madre diceva che studio e abilità sono fondamentali per un buon mago, ma se vuoi puntare in alto devi anche saper convincere senza alzare la voce.» Il fatto che parlasse di sua madre al passato la costrinse a sollevare gli angoli della bocca in un sorriso mesto, ma fece domande, non sulla donna almeno. «Tu punti in alto?» L’altro rise, la mano che non reggeva i libri indicò lo stemma di Serpeverde che campeggiava sulla sua divisa. «Ambizione, ricordi? Siete tutti dannatamente prevenuti con la mia casa, ci trattate da carogne.» Non perse la leggerezza, ma il sorriso gli si fece più affilato. «Siamo ANCHE tanto altro. Ma non mi aspetto che tu capisca, più parlo con te e più mi fai sentire un verme calcolatore. Sei trasparente e facile da capire anche per un legilimens alle prime armi.» «Sei…sei un legilimens?» «Se lo fossi non te lo direi, ti pare?» Le strizzò l’occhio, quindi l’accompagnò fino alla torre di astronomia, dove lasciati i suoi libri la salutò con la spensieratezza di sempre. «Ah, fammi sapere di che colore prenderai il vestito.» Il vestito. Fortuna che il primo finesettimana ad Hogsmeade era vicino e avrebbe potuto commissionarne uno da Gladrags Wizardwear. Priya, Marigold e Athena non stavano nella pelle e la costrinsero ad andare con loro, approfittando di una carrozza per stiparsi insieme, strettissime, gomito a gomito, parlando dei colori che più sarebbero stati bene su ognuna di loro. Tutte furono d’accordo sul fatto che Evaline non si sarebbe dovuta vestire di rosa, colore che a lei in fondo era sempre piaciuto. «Vai con Augustus?» Esplosero all’interno del negozio, mentre accostavano scampoli di stoffa al suo viso, cercando di indovinare la tonalità che le sarebbe stata bene. «Al diavolo l’azzurro, dovresti vestirti dei colori di Tassofrasso.» Fece Athena, indispettendo Marigold. «Perché? Se sta con lui sarebbe carino se si vestisse dello stesso verde della casa del suo accompagnatore.» Evaline provò un malcelato disagio nel dover procedere ancora con quel dibattito, su cui dovette per forza dare ragione almeno ad una di loro. «I colori di Tassofrasso andranno bene.» Athena sorrise soddisfatta e per il resto del tempo che condivisero fu amabile e carina. Prese le misure, Evaline commissionò un modello piuttosto semplice e di poche pretese, che si ripromise di arricchire di accessori come le era stato detto da Priya. Uscite da lì il cielo minacciava pioggia, così proposero di rintanarsi ai Tre Manici di Scopa, ma Evaline inventò una scusa e si staccò dal gruppo, preferendo tornarsene al castello. Era esausta. Eppure, scelse di percorrere la strada di ritorno a piedi, godendosi il silenzio a lungo agognato nel caos di Hogsmeade. Faceva freddo e si accorse di aver lasciato il mantello nella borsa di Athena, ma si rifiutò di tornare sui suoi passi, così si avviò insieme alla sua scorta di uccellini evanescenti che le svolazzavano intorno in quella presenza costante. Prima o poi avrebbe dovuto imparare a celarli, altrimenti non sarebbe stata più in grado di camminare tra i babbani. Vide Piton a diversi metri da lui, camminava solo e distante, una figura nera inconfondibile nel paesaggio che di lì a pochi giorni si sarebbe ammantato di neve. Era indecisa se affrettare il passo e raggiungerlo, ma nel trovarsi da sola fu naturale affrettarsi un po’ e sperare così di affiancarlo Era a pochi metri e fu uno dei suoi uccellini a trovarlo, svolazzando un paio di volte intorno a lui, fino a svanire sotto il peso della sua mano che, brusca, lo trasformò in uno sbuffo di luce in un gesto annoiato. Si voltò e la vide, ma lo sguardo su di lei non andò oltre il mento, perché si ritrasse prima ancora di toccare i suoi occhi. «Sei tu.» Non la salutò, ma restò fermo alcuni secondi, lasciando intendere di volerla aspettare, così lei ruppe in un leggero trotto mentre le sue illusioni presero le sembianze di farfalle rosa e porpora. «Devi imparare a controllarle, Rosier.» Continuò lui, la voce poco più di un sibilo. «Come farai davanti i babbani, mh?» Colta in fallo, arrossì. Non fu demoralizzata però, grata per quel momento che dopo mesi le si era presentato inaspettatamente. «Come stai?» Lui schiuse le labbra per rispondere, ma parve interdetto, così impiegò qualche istante prima di rompere nuovamente il silenzio. «Voi mocciosi avete aggiunto ulteriore carico a noi insegnanti con quella stupida festa che avete preteso. Sei caposcuola, avresti dovuto opporti.» «Sì, avrei dovuto. Ma gli altri sembravano tanto contenti…» «Non puoi fare felici tutti, non essere sciocca.» La interruppe, velenoso. «Immagino che tu sia comunque felice di quell’assurdità, no?» La voce aveva assunto una sfumatura beffarda che la ferì senza che sapesse cosa dire per un po’. «In realtà no.» Ammise a voce bassa, chiedendosi perché evitasse così ostinatamente di guardarla. «Non so ballare e non ho voglia di imparare. Queste vacanze di Natale saranno impegnative e io avrei preferito trascorrerle come l’anno scorso.» Te le ricordi, Severus? I suoi occhi lo cercarono speranzosi, ma lui non mosse un muscolo, la sua faccia parve atrofizzata dal freddo. «Sciocca.» Sbottò. «Neppure oggi hai un mantello.» Non sfilò il proprio per coprirla, ma con un colpo di bacchetta sulla sua spalla ricreò sul tessuto della divisa un rassicurante tepore che l’accompagnò per tutto il tragitto fino al castello. Non poté fare a meno di sbirciare il suo profilo contratto in un’espressione dura, pensierosa, lo sdegno che piegava la sua bocca sottile. Non badò mai alle farfalle evanescenti che svolazzavano verso di lui, posandosi sulle sue spalle in un contatto che lei non avrebbe mai osato cercare. Eppure, ricordava ancora il calore del suo petto contro la guancia in quel giorno che adesso pareva distante anni.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Aveva ricevuto dal preside i permessi speciali per recarsi al San Mungo anche in periodo scolastico, in modo da non perdere i progressi con Ewan. Il ragazzo aveva preso ad avvicinarsi a lei e le permise anche di tagliargli i capelli quel tanto che bastava da avere una lunghezza regolare. Secondo i guaritori Ewan era stata la magia nel suo corpo a peggiorare le condizioni psichiche, ma Evaline sospettava che fosse stato l’evento traumatico da loro condiviso a gettarlo in quello stato. La ragazza ricordava solo un dettaglio di quella notte, una frase detta dalla madre mentre tentava di arraffare alcuni bagagli e fuggire insieme a loro lontano dagli auror. “Vostro padre è perduto, adesso vi porterò via.” Evaline non poteva abbandonare l’uomo che aveva inciso quel marchio nella sua mente. Aveva cercato di impedire alla madre di essere portata via da lui, ma sul come avesse scagliato l’incantesimo, invece, non poteva saperlo. Terminata la visita al San Mungo, Moody le disse di aver chiesto a Silente il permesso di concedersi una gita fuori programma. La curiosità di Evaline venne soddisfatta quando l’uomo smaterializzò entrambi davanti ai cancelli in ferro battuto della villa che lei aveva ricordato nella visione. Mentre spalancava i cancelli con un tocco di bacchetta, Moody elencò tutti gli incantesimi anti babbani sparsi lungo il perimetro della tenuta, che comprendeva, oltre casa e giardino, i campi e un boschetto intorno. Si trovavano da qualche parte nel Galles, secondo Moody, il quale ci tenne a precisare che gli auror avevano disattivato tutti i malefici sparsi per il terreno e la casa, ma che qualcuno poteva essere sfuggito al loro controllo. «Non è molto rassicurante.» Fece Evaline, mentre intorno a lei gli uccellini erano diventati tremolanti pulcini che pigolavano terrorizzati, senza emettere alcun suono. Si limitavano a movimenti del becco. «Ci sono io, non preoccuparti.» Bofonchiò lui, rude, mentre attraversavano il viale malandato. C’erano erbacce e rovi ovunque, sul retro un labirinto celava gran parte della statua posta al centro, la cui punta era offuscata da rampicanti invasivi. Temendo di trovarsi una casa in rovina, Evaline rimase sorpresa nel ritrovarsi all’interno del salone che odorava di fresco, con le finestre ampie su cui spiccava lo stemma di famiglia in vetro azzurro rifinito in oro. «Perché siamo qui, zio?» Chiese senza smettere di contemplare i ritratti dei suoi antenati che la fissavano dalle cornici d’oro. Un paio di loro le puntarono il dito contro bisbigliando “Alina” con stupore, per poi essere messi a tacere da un’occhiataccia di Moody. «Perché hai già raggiunto la maggiore età, ragazzina. Tutto quello che vedi appartiene a te e tuo fratello Ewan. Il Ministero ha confiscato tutto ciò che abbiamo reputato illegale, ma per il resto hai a disposizione una discreta fortuna anche escludendo il lascito alla Gringott.» Fece una pausa, una smorfia sprezzante rivolta ai visi tronfi che parevano sconcertati nell’averlo tra quelle pareti. «Palloni gonfiati, i tuoi antenati. Non se ne salva nessuno, un branco di cani rognosi che non meritano di starsene appesi lì. Ma sarai tu a decidere che farne.» Evaline parve stordita, il passo leggero si fece lento man mano che avanzava all’interno della tenuta, trovandosi a rimirare il pavimento di marmo ornato di tappeti dove il jobberknoll volava tra motivi complessi in fili dorati. Esplorò la casa sperando di riconoscere degli anfratti o dei dettagli, ma l’unica cosa che accese i suoi ricordi fu un fermaglio lucidato e riposto in un portagioie in un salottino privato, che ipotizzò appartenesse alla madre. Era un jobberknoll in volo, una gemma trasparente stretta nel becco catturava la luce della stanza mentre lo avvicinava al volto per studiarlo. «Ci stanno lacrime di fenice, lì dentro.» Fece Moody. «Quelli invece sono crine di unicorno intrecciato.» Le indicò un diadema da cui partivano delle catenine dorate che, suppose lei, una volta indossato ricadeva sul capo illuminandolo con i gingilli. Tra le catene rilucevano i fili luminosi un tempo appartenuti ad un unicorno. «Alina aveva molti gioielli così. Le piaceva sapere di aver addosso dei piccoli trofei.» Non c’era affetto nella sua voce, ma Evaline aveva percepito comunque una traccia di rimpianto. «Silente ha detto che si terrà un ballo. Suppongo che tu possa portarti qualcosa. Scegli in fretta, non possiamo rimanere a lungo.» Evaline annuì decisa, rovistando tra collane e anelli che, osservati da vicino, si rivelavano essere occhi di rospo viola protetti da una sfera di pietra trasparente. Inorridita, li ripose, per poi sobbalzare alla vista di un paio di altri occhi gialli intenti a fissarla dal fondo della stanza. Sobbalzò così forte che Moody estrasse la bacchetta in un riflesso incondizionato di chi non abbassava mai la guardia. Vigilanza costante. «Ah, hai ereditato anche lei.» Una creatura coperta da un cencio stropicciato venne fuori dall’angolo in cui era rannicchiata, chinando il capo in segno di rispetto, con le orecchie enormi che sbatacchiarono verso il basso. «Siete il ritratto della signora Alina, signorina Eva.» Squittì l’elfa domestica, tornando a guardarla con un sorriso esitante. «Vi ricordate di Tulip, signorina? Vi cullavo quando eravate una bambina piccola e carina.» Fece per continuare, ma sobbalzò, terrorizzata. «Non che adesso non siate carina, no! Siete diventata molto, molto carina e lo diventerete di più quando avrete l’età che aveva vostra madre quando…quando…oh, Tulip non ce la fa, dovete perdonarmi.» Singhiozzò rumorosamente, le mani minuscole a coprire gli occhi pieni di lacrime. Evaline notò che le mancavano un paio di dita dalla mano sinistra e uno dalla destra. «Cosa è successo alle tue mani?» Fu tutto quello che riuscì a chiedere. «Oh, non piangere, dai.» Tulip non parve capire, le ci volle un po’ per trovare realizzare che si stesse riferendo alle dita mancante. Sorrise, un sorriso che sapeva di scuse. «Quando la signora Alina è diventata la signora Rosier Tulip ci ha messo un po’ a capire quali fossero le sue esigenze. A volte sbagliavo e lei mi ordinava di tagliarmi un dito.» All’orrore di Evaline lei rispose con un sorriso larghissimo. «Tulip pensa che sia stato istruttivo, perché non ha più dimenticato a che ora preferisse fare colazione. No no.» Evaline intuì che fosse stata lei a tenere in ordine la casa in quegli anni, ma non ebbe modo di chiederlo, perché Moody era deciso a non farla tornare ad Hogwarts oltre il tempo concesso dal preside. Nella fretta Evaline raccolse la spilla di sua madre e la cacciò all’interno del mantello, salutando Tulip con la mano. «Ci vediamo presto, Tulip.» Tornò ad Hogwarts in tempo per l’ora di cena, la testa piena del ricordo di quella che sarebbe diventata la sua casa dopo la fine della scuola. Uno spazio enorme per una persona sola.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Nessuno l’aveva preparata ai tacchi alti. Le era stato detto di trovare un abito adatto alla sua fisicità, Priya le aveva procurato una rivista da cui prendere spunto per i capelli, mentre Athena le aveva suggerito di concentrarsi e mutare le sue illusioni in qualcosa che si abbinasse alla stoffa dell’abito. Scoprì di provare una certa gioia nell’accostare i colori per comprendere quale abbinamento le piacesse di più, rifiutando le regole imposte in una rubrica del Settimanale delle Streghe. Il vestito era semplice, adatto più alla sua indole che alla fisicità, perché probabilmente un taglio a sirena le avrebbe donato di più, almeno secondo Marigold. Due spalline sottili reggevano la stoffa che scivolava leggera in un doppio strato: quello di base, raso di seta, seguiva il modello impero con un nastro nero sotto il seno; quello esterno, invece, era di una tonalità di giallo così chiaro da sembrare bianco, trasparente, si muoveva su di lei in quella trasparenza che giocava con il giallo più scuro sottostante. Evaline si era osservata parecchio allo specchio, coprendosi con le braccia in un moto di vergogna che le fece desiderare di non mettere piede fuori dal dormitorio. Non aveva uno scollo profondo, non si vedeva neppure un cenno dell’incavo dei seni, ma provò imbarazzo per la stoffa che tirava su di essi e perfino delle braccia nude, dettaglio di cui non si era mai preoccupata in estate. Athena le aveva messo un po’ di ombretto dorato e quello bastava a darle un sentore di appiccicaticcio sulla faccia, tanto che si rifiutò di provare del rossetto o chissà che altro. Anche i capelli furono un dramma, perché inizialmente era tentata di sollevarli sulla testa, ma scoprire ulteriormente il collo e le spalle la fece inorridire. Così li lasciò sciolti, curve rosse acconciate con la bacchetta in modo che l’umidità della sera non li rendesse crespi, lasciando due ciocche legate sulla nuca, dove spiccava il jobberknoll di sua madre. Le illusioni per un po’ lottarono tra il diventare dei goffi cerbiatti e pecore timorose, del tutto fuori luogo in quel contesto. Concentrandosi riuscì a mutare in dorato le farfalle trasparenti, che ad ogni battito d’ali rilasciavano luce flebile e timida come quella delle lucciole. «Le scarpe, Evaline.» Fece Athena, perentoria. «Non pensavo fossero tanto scomode. Le cinghie stringono e mi fanno male le punte dei piedi dopo pochi minuti.» «Coraggio, non essere sciocca. Sono certa che dopo la prima ora ti sarai abituata.» Un’ora, addirittura. Uscita insieme ai compagni Tassofrasso trovò Augustus ad attenderla con un completo nero che sarebbe stato privo di colori se lei non avesse notato la coppia di gemelli in argento, su cui erano scolpiti dei minuscoli serpenti dagli occhi di un verde brillante. «Oh, sei splendida.» Le sorrise raggiante. «Mi farai fare un figurone. Tieni.» Le allacciò al polso un nastro giallo a cui erano appuntati un narciso e delle margherite. Le puntò la bacchetta ai piedi e con uno schiocco una sensazione di sollievo li cinse, facendole dimenticare il dolore. Evaline pareva esterrefatta. «Come hai…» «Colette lo fa sempre quando deve mettersi i tacchi alti.» La sua ragazza francese, sì. Lui le porse il braccio ed Evaline lo prese senza esitare, grata di avere un appiglio a cui aggrapparsi nel caso avesse perso l’equilibrio dai tacchi. Le scarpe erano dorate, fasce sottili che abbracciavano i piedi fino ad allacciarsi intorno alle caviglie, alzandola dal pavimento di parecchi centimetri in tacchi sottili e pericolanti. «Augustus, io…» «Sì, ti piace un altro, lo so.» «Cosa?» Pigolò lei, le farfalle impazzite. «Non volevo dirti questo.» «Cosa volevi dirmi, allora?» Le sorrise, deliziato. «Arrossisci un sacco, sei molto bella.» Ignorò il complimento e le parole di prima, troppo stordita e forse codarda per affrontarle adesso. «Volevo dirti che non ballo. Non so come si fa e non mi sono esercitata, sono rimasta indietro con i compiti e…» «Tu ballerai.» Replicò lui, il sorriso ostinato di chi sapeva che avrebbe ottenuto ciò che desidera. «Guiderò io, non preoccuparti. Siamo abbastanza belli da far passare in secondo piano qualsiasi cosa, anche dei piedi calpestati.» Evaline sospettò che quelle fossero lusinghe buttate lì con lo scopo di farla cedere, ma la verità era che anche senza quelle avrebbe opposto una breve resistenza. Dietro i sorrisi e i modi gentili, Augustus era un politico nato, uno che riusciva a rigirarti e portarti dalla sua parte a prescindere dalle convinzioni. Sarebbe stato un ottimo ministro. Il ballo si sarebbe tenuto all’esterno. Era una notte limpida e piena di stelle, l’assenza della luna rendeva visibili i pianeti lontani, creando un tetto di gemme preziose sulle loro teste. Incantesimi sparsi intorno a quella che era la pista da ballo proteggevano quella zona del parco in modo da mantenere la temperatura decisamente più calda rispetto al resto dell’ambiente ricoperto di neve. Statue di ghiaccio campeggiavano qua e là, raffiguranti tassi, serpenti, corvi e leoni. Al posto dell’erba si ritrovarono un pavimento che sembrava cristallo, luci fioche galleggiavano a mezz’aria, ma a guardarle da vicino erano pixie vestiti di bianco e illuminati da incantesimi che facevano loro emanare calore e bagliori lattiginosi. Un gruppo si esibiva dal vivo sul palco presso cui si erano già ammassati i primi studenti. Evaline e Augustus coordinarono ogni evento della serata secondo una scaletta decisa dai direttori delle case, in modo che la festa non si protraesse troppo oltre. Piton non sembrava nei paraggi, lei lo cercò più volte, seguendo figure nere che si rivelarono essere studenti agghindati per il ballo. Dato che nessuno si decideva a dare il via alle danze, i due capiscuola andarono in pista all’inizio della canzone destinata ai balli. Era un walzer e si ritrovò ad eseguirlo facilmente, sotto la guida di Augustus che sorrideva a lei e al contempo sbirciava la reazione dei compagni. Qualcuno prese coraggio e seguì il loro esempio, Evaline vide Theodore con una ragazza molto carina che parve sinceramente felice di essere lì con lui. Presto la pista fu così piena che Augustus propose ad Evaline di seguirlo ad un tavolo per prendersi una pausa e bere del succo di zucca freddo. C’era una grande ciotola in cui immerse la prima coppa di cristallo, porgendola alla ragazza che, guance rosse, bevve così avidamente che lui con uno sbuffo divertito dovette riempirlo altre due volte prima di pensare a sé stesso. «Sta andando bene, non è vero?» «Sì.» Lei affiorò dalla terza coppa rifilandogli un sorriso intontito. «Direi di concederci un altro ballo, ma prima aspettiamo che passi questa ondata di lenti. Colette non è gelosa, ma mi sembra scorretto starti troppo appiccicato.» «Sì.» «Dopo dovremmo iniziare a girare per la prima ronda.» «Sì.» Lui le scoccò un’occhiata perplessa, osservando il suo volto paonazzo. «Hai intenzione di dirmi altro?» Mentre Evaline si serviva altro succo di zucca gelato, lui diede un sorso al proprio e trasalì. «Non ci posso credere.» Boccheggiò. «Non trovi che abbia un retrogusto un po’ strano?» «Non berlo, qualcuno ci ha messo del whiskey incendiario!» Allontanò il bicchiere da lei, che ci mise un po’ a realizzare quanto era successo. «Ascolta, io vado a minimizzare i danni. Comincia il giro senza di me, non si sa mai. Se dovessi aver problemi contatta uno dei direttori delle casate.» Lei obbedì, muovendosi verso l’interno a passo malfermo, ma ancora dignitoso nonostante la quantità di whiskey ingollato. Le illusioni da farfalle mutarono in grossi bombi che ronzavano scontrandosi tra loro goffi e incerti come incerto era il suo incedere. Fu grata di trovarsi nella sala d’ingresso, dove le armature ruotarono la testa per guardarla, mentre Peevs il poltergeist le fluttuò vicino ridendosela della grossa. «Non ti piace quello che ti ha fatto bere Peevs? Oh, è stato così difficile prenderlo allo sciocco inserviente.» «Cos…sei stato tu?» Poco convincente nonostante la bacchetta appena estratta, Evaline tentò di assumere l’aria di rimprovero che si confà ad un caposcuola. «Adesso vieni con me, dirai ai professori che…» Ma Peevs fluttuò via ridendosela, costringendola a muoversi sui tacchi mentre l’incantesimo di Augustus stava cominciando a perdere efficacia, con le prime fitte ai piedi che presero a tormentarla. «Gli…gli studenti non possono bere alcolici, è…» Gelo. Voltato l’angolo si ritrovò nel corridoio che portava all’aula di Trasfigurazione, ma non era sola: i due nuovi fantasmi approdati al castello stavano litigando furiosamente e lei si trovava all’interno di quello che urlava più forte. «Cara, te l’ho detto un’eternità fa, io non avevo idea che tu fossi la nipote del barone!» «Bisnipote, ho detto!» Lei lo aggredì con voce acuta, gelida, ma mai quanto la sensazione che provava Evaline quando, provando ad uscire dal primo fantasma si ritrovò dentro il secondo. Fu troppo. Sgusciò in avanti con un saltello, una mano aggrappata alla parete, il corpo piegato in avanti con le budella che le si contorcevano e… «Rosier, cosa…» Piton era dalla parte opposta del corridoio, l’espressione arcigna di chi combatteva tra stupore e rabbia. Lei provò a dirgli qualcosa, ma un fiotto di vomito schizzò sul pavimento e lei riuscì per miracolo a non sporcarsi. Si sentiva male, era sul punto di svenire, i bombi che continuavano a volare goffamente scontrandosi tra loro. Un’altra ondata di nausea salì, ma questa volta si trattenne, il volto terreo quando Piton le ebbe afferrato il polso e, strattonata con forza, la costrinse a camminare al suo seguito. «Io…Peevs, hai visto Peevs?» «Sta’ zitta, ragazzina.» Le ordinò lui con voce fremente, il profilo arcigno rivolto davanti a sé. Fu una tortura stargli dietro, i passi incespicavano sui tacchi alti, immaginò dovesse avere un aspetto orribile mentre arrancava al suo seguito. Guardava le sue spalle, gli occhi umidicci per il malessere che l’aveva assalita e la vergogna di essere stata sorpresa in quello stato da lui. Quando furono arrivati nei sotterranei, Piton chiuse la porta alle loro spalle e con uno schiocco di bacchetta accese candele e il fuoco sotto uno dei calderoni, attingendo ingredienti tra le provviste. «Sei caposcuola.» Sibilò senza guardarla, le mani abili che armeggiavano con ingredienti dall’aria viscida e maleodorante. «Dovresti dare l’esempio, come Augustus.» Pronunciò il nome del Serpeverde con una punta di durezza che non si era aspettata. «Cosa dovrei fare, mh? Toglierti la spilla e dei punti, suppongo.» «No, Severus…io…» «Professor Piton.» Ribadì aspramente, riversando gli ingredienti nell’acqua calda. Incantò il mestolo in modo che rimestasse il liquido al suo posto, poi raccolse un panno e gli versò dell’acqua, porgendoglielo. Lei non aprì bocca, usò quel panno per tamponarsi le labbra e il viso. Sentiva il sapore amaro e acido del vomito, la fronte sudata e lo sguardo reso annacquato dall’alcool. Non dissero nulla per un po’, almeno finché lui non le ebbe passato la coppa di pozione. «Bevi.» Ordinò. «Non puoi tornare in questo stato alla festa.» «Non ci voglio tornare.» «Cos’è, Augustus ti ha mollata? Non me ne importa nulla, devi finire di occuparti di questa dannatissima festa.» Lei ingollò alcuni sorsi e il senso di nausea svanì, mentre dalla gola percepiva un sapore fresco, balsamico. Si sentì vagamente meglio, ma le parole dell’uomo la fecero sprofondare in ritrovato sgomento. «Non stiamo insieme. Non siamo mai…» «Bevi.» Ordinò lui, il profilo rivolto altrove non perse la solita durezza. «Sei pallida. Ti aiuterà.» Lei lo guardò assorta, la coppa tra le mani, non osò sollevarla, limitandosi a scaldarsi le dita, per un po’. «Severus.» Riprese in un pigolio roco. «Peevs ha allungato il succo di zucca con qualcosa, forse whiskey. Non lo sapevo, ho bevuto molto per questo.» Lui parve incerto, ma nonostante tutto si ostinava a non guardarla, evitando i suoi occhi con una fermezza che la ferì. «So che in aritmanzia non sei preparata come gli altri anni.» Disse lui dopo un po’, lo sguardo fisso su un ragno che si arrampicava lungo la parete. «L’ultima volta che hai realizzato una pozione ti ho vista mentre stavi per sbagliare l’ordine degli ingredienti. Ti sei corretta subito, ma l’anno scorso non sarebbe successo.» Lei arrossì quel tanto che bastava a colorare leggermente le guance pallide. Fece per dire qualcosa, ma lui continuò con la stessa durezza sul volto, ma con voce più bassa. «Penso che sia normale. Studi con quelle tre stupide. Gironzoli con i ragazzi, stai togliendo tempo allo studio.» Lei, ferita, stava per ribadire che non gironzolava con nessun ragazzo, ma lui continuò a parlare, quasi rivolto a sé stesso tanto era basso il tono della sua voce. «Ridi molto di più. Ti ho sottratto parecchio legandoti a quel maleficio.» Serrò una mano, le nocche già pallide divennero ancora più bianche. «Ci hai guadagnato, però. Sei caposcuola. Non rovinare tutto comportandoti come…» «Perché non mi guardi?» Voluto che la propria voce risultasse arrabbiata, ma quello che uscì fu il lamento di un animale ferito. I bombi mutarono in falene blu che svolazzavano dietro di lei come se temessero qualcosa. Lui non si mosse e lei provò a mettersi in piedi, ma le scarpe le fecero male, la carne martoriata dai lacci che si serravano sulla sua pelle. Si sedette con uno sbuffo, la pozione ancora tra le mani. Lui si era voltato verso Evaline, quasi fosse pronto a reggerla. Restò con la mano a mezz’aria e la ritrasse quando lei ruppe il silenzio con voce segnata da un dolore che non voleva mostrargli. «Ho fatto qualcosa di male? Sei arrabbiato perché non rispondo più al tuo volere?» Buttò lì le sue paure che in quei mesi l’avevano divorata come tarli. «Lo farei a prescindere da quell’incanto che ci univa, sai? Ti basterebbe…» «Smettila.» Lei tacque, non per l’ordine però: lui le piombò lo sguardo nel suo, affondandolo come se fosse la lama di un coltello. Non erano poi così vicini, perché Evaline era seduta e lui in piedi, il profilo rivolto verso il basso, la postura appena più curva. Pareva affaticato, distrutto. La durezza non era svanita del tutto, i solchi sul volto disegnavano rughe di stanchezza e i suoi occhi neri le parvero tristi e rabbiosi insieme mentre la guardava. «Soddisfatta?» Chiese con ritrovata durezza. Ora che aveva cominciato a guardarla, però, non sembrava capace di smettere. Gli occhi di Evaline erano umidi, velati del malessere che ancora le attanagliava le viscere, unito a qualcosa di più doloroso e dolce insieme. Le falene tornarono farfalle, colori di un rosa tenue, rosa pallido, porpora, rosso vermiglio, note calde divamparono in bagliori che andarono ad adagiarsi anche su di lui. «Era…così difficile?» Chiese in un sorriso debole, tremante. Fu quella la prima volta in cui desiderò di baciarlo. Durò un attimo, forse, ma in quell’attimo aveva sperato che lui si chinasse verso di lei e posasse la bocca nella sua. Evaline non aveva idea di come muovere le labbra, non sapeva se dovesse gettare o meno la testa di lato, inclinarsi, mettergli le braccia intorno al collo o posare le mani contro il suo petto. Nel silenzio dei sotterranei, così vicina a lui dopo tutto quel tempo, avrebbe voluto dirgli quanto sarebbe stato meraviglioso passare il resto della notte a preparare una pozione insieme piuttosto che andare tra ragazzi di cui non le importava nulla. Fu solo un momento fugace e rapido a svanire come le sue illusioni, ma in quel minuscolo lasso di tempo pensò a quanto sarebbe stato sublime che lui la considerasse bella, desiderabile. Pensò alla dolcezza del bacio che avrebbe tanto desiderato, quando avvertì le dita dell’uomo esitare a mezz’aria, indice e pollice chiudersi contro una delle ciocche che le era scivolata sulla spalla e scostarla in un gesto tanto privo di senso quanto bello. «No, non lo è.» Chiuse gli occhi e lo scoprì stanco, spossato, in collera e triste, in uno stato che lei non sapeva identificare. Era dovuto alla rabbia il tremore alla mano ora serrata? Evaline si liberò della pozione posandola sul banco e, in fretta, alzarsi nel tentativo di posare una mano contro il suo avambraccio sinistro, ma ebbe il tempo di sfiorarlo che lui si scostò da lei come se l’avesse bruciato al solo tocco. «Non toccarmi.» Pareva una bestia ferita, ma la voce era sempre bassa, non osava neanche alzarla. Lei ritrasse la mano, pentita, torturandosi le dita. «Severus, cosa c’è?» Soffiò lei, mentre le illusioni divennero ombre che presero a diramarsi dal pavimento fino alle pareti, inghiottendo le luci al loro lento passaggio. Piton se ne accorse e lentamente riacquistò controllo di sé, del proprio umore. Appariva calmo, lo stesso di sempre, ma la traccia di un dolore che non si sapeva spiegare era ancora lì, impresso nei solchi che incidevano il volto giovane. «Sei una mia studentessa.» Fece lui, arreso. «Torna dai tuoi compagni. È tardi.» Le ombre si ritrassero, lei provò a domarle, a richiamarle. Tutto ciò che ottenne fu uno sciame di falene blu e patetiche. «Buonanotte e…scusami. Credo.» Si mosse per avviarsi alla porta, l’incedere claudicante a causa delle piaghe ai piedi. La mano era già sulla maniglia quando avvertì del sollievo alle ferite e, sbirciando da sopra la spalla, vide lui a pochi passi con la bacchetta puntata sui suoi piedi. Aveva smesso di guardarla, la piega della bocca aveva assunto un’espressione amara. «Non devi scusarti.» Gli sentì dire mentre il proprio sguardò da lui si piantò alla porta, celandogli le inspiegabili lacrime che le erano venute su, imperlando le ciglia chiare. «Non devi guardarmi in quel modo, però. Né dirmi quello che mi hai detto.» Avvertì le dita dell’uomo toccare ancora una ciocca di capelli, tastandola con discrezione, quasi si vergognasse di compiere quel gesto. «…che faresti qualsiasi cosa per me, intendo.» «Lo penso davvero, però.» Chiuse gli occhi e adagiò la fronte contro la superficie della porta, concentrando tutta sé stessa in quello che il professore stava facendo: le dita contro la ciocca, i polpastrelli che sfregavano i capelli che lei aveva passato tanto tempo ad acconciare. «Non devo dirti quello che penso? Non vuoi che sia sincera?» «Sei dannatamente sincera anche quando non parli, Evaline.» Sbuffò e sentì il suo respiro scontrarsi contro la testa. Stava respirando il suo odore? Lei accennò soltanto a voltarsi, i muscoli si erano contratti in un movimento che ancora prima di compiersi avevano costretto Piton ad allontanarsi da lei e avviarsi dalla parte opposta dell’aula, dandole le spalle. «Ti dirò tutto quello che penso e che desidero, ma alla fine dell’anno.» Dichiarò con voce inaspettatamente più alta, ma ancora segnata dal languore che le inumidiva gli occhi. «Non sarò più una studentessa e tu mi ascolterai. Devi sapere quanto mi sei caro.» Adesso fu lei a fuggire, a voltarsi nel momento in cui lui aveva accennato a guardarla. Non seppe mai quale sguardo le riservò in quel momento, ma portò nel cuore la sensazione di calore che il suo respiro le aveva lasciato tra i capelli. Non ci fu altro, per lei.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Peevs aveva fatto meno danni del previsto, perché in pochi si erano concessi del succo di zucca, considerato troppo infantile per gli standard da ragazzi pronti a lasciare la scuola. Il giorno dopo sarebbero tutti partiti per le vacanze di Natale e per la prima volta Evaline lo avrebbe trascorso con la sua famiglia. Moody, adesso in pensione, le aveva proposto di accompagnare lei ed Ewan a Villa Rosier, nella speranza che, forse, lei prendesse familiarità con quel luogo austero e pretenzioso. Non aveva avuto modo di salutare Piton, né ci aveva provato granché, però, limitandosi a sguardi furtivi nella sua direzione quando le passava vicino o stava seduto al tavolo degli insegnanti. Non era un professore benvoluto, Evaline aveva spesso sentito i pareri dei compagni, opinioni che trasudavano disprezzo e in alcuni casi perfino odio. L’hanno definito crudele, odioso, ripugnante, viscido avvoltoio, serpe maledetta, appellativi che la facevano arrossire e tanti altri ancora. Conscia della ripugnanza che suscitava in molti, lei era irrimediabilmente ammaliata dagli occhi neri, dalle mani bianche, dal tono della sua voce. Ricordava ogni istante in cui la sua durezza aveva vacillato: erano stati pochissimi istanti, ma preziose memorie scolpite nella sua mente. Il Natale alla villa venne organizzato da Tulip, indaffarata ed efficiente, felice di avere nuovamente qualcuno da servire. «Padroncina Evaline e padron Ewan possono sempre contare su Tulip.» Aveva squittito loro quando Evaline l’ebbe convocata nella sala da pranzo, dove un tavolo ricco e sontuoso era stato apparecchiato per i due fratelli e l’ex auror. «Tulip non sa cosa i signorini amano mangiare, così ha preparato tutto quello che le è venuto in mente. Spero vada bene.» Andava più che bene. Non sarebbero stati in grado di mangiare tutto il tacchino ripieno, né l’arrosto con patate o la composta di mele da accompagnare al pasticcio di maiale glassato. Patate dolci e verdure al forno riempivano due larghi vassoi, mentre da una parte spiccavano i dolci a base di frutta e quelli a base di crema, delizie che Ewan accolse con gioia. Il gemello di Evaline non era a suo agio a tavola, arraffava i bocconi e si muoveva con curiosità sotto gli sguardi dei ritratti. Lo stile d’arredamento era barocco, con l’oro delle rifiniture che spiccava in modo prepotente, l’atmosfera preziosa era però piena di luce, complici le ampie finestre e i colori chiari scelti per la tappezzeria. L’azzurro del jobberknoll spiccava nei tappeti e nelle tende, la carta da parati era bianco panna, in alcuni punti rovinato dall’umidità di una casa che non veniva vissuta da anni. Tulip aveva fatto del suo meglio, però, rinnovando le stanze da letto in modo che Evaline le trovasse impersonali, prive dell’impronta dei precedenti proprietari. Negli armadi c’erano ancora dei vestiti della madre, lei li toccava con venerazione, incapace di accostare al volto dolce dei suoi ricordi tutto ciò che di malvagio le era stato inferto. Trascorse con Ewan tutto il tempo che fu concesso ad entrambi. Il ragazzo restava a distanza, sbirciando con la coda dell’occhio i movimenti della sorella, senza mai sfiorarla. Restio al contatto fisico, il gemello mostrava picchi di consapevolezza in quegli sguardi furtivi, ostinato in un silenzio che non era mai andato oltre il saluto di quel giorno lontano. Sul punto di lasciarsi casa alle spalle, Ewan si lanciò su Tulip in uno slancio che allarmò sia Moody che Evaline, ma che si risolse in un bacio scoccato sulla testa dell’elfa domestica, dove una zazzera di capelli color topo parvero drizzarsi dall’emozione. Tornata ad Hogwarts dopo quel dolce pranzo, Evaline trascorse a studiare il resto del tempo libero rimasto prima del ritorno dei compagni. Piton aveva ragione, era diventata meno diligente e più incline alle distrazioni, con questa consapevolezza decise di approfittare dell’assenza dei compagni per portarsi avanti con i compiti e le lezioni. Si rintanò spesso in biblioteca, seduta in quello stesso tavolo posto in fondo, tra le librerie, un giaciglio che non aveva mai voluto condividere con le tre compagne di studio. Era strano trovarsi seduta a quel posto che aveva occupato tante volte da ragazzina, lo sguardo rivolto alla sedia vuota su cui un tempo uno studente di serpeverde aveva condiviso una parte di sé con lei. Il rientro degli studenti gettò nei corridoi una fiumana di chiacchiericcio e mantelli svolazzanti, che fu caratterizzato dal rientro a pieno regime nella routine scolastica. Marigold, Athena e Priya vollero sapere quello che lei aveva omesso sul ballo, della sua assenza dalla festa e il suo ritorno in cui a loro era sembrata scomposta, un po’ arruffata, con l’ombretto sbavato sugli occhi pesti. «Augustus si è comportato male?» Azzardò Marigold, tesa. «Augustus è impeccabile, come ti viene in mente?» Rimbeccò Priya, trovando un cenno d’assenso di Evaline a confermare quanto aveva detto. «La verità è che mi sono sentita male. Non sapevo del whiskey incendiario.» Una mezza verità che convinse le tre e che temeva di dover ripetere ad Augustus, il quale però si comportò come se nulla fosse successo. Di ronda insieme, lui si limitò a raccontarle del suo Natale in Francia e di quanto Colette fosse stata adorabile nel suo vestito verde e argento che aveva indossato solo per lui. «L’ho conosciuta perché mio padre lavora al Ministero e si occupa dei rapporti con la Francia. I suoi genitori sono due purosangue di antichissimo lignaggio, sai? Ma non è per quello che le ho chiesto di uscire.» I suoi occhi vagarono per un po’ in quel ricordo che lo fece sorridere, ma le tacque cos’è che l’aveva spinto a corteggiare Colette. «Ad ogni modo, è inammissibile che tu non abbia ancora pianificato la tua vita una volta finito con la scuola.» «Come se non fossi già in ansia, Augustus.» Mormorò lei in risposta. Come dirgli che per anni il suo unico scopo era quello di diventare l’umile strumento del Signore Oscuro? «Io sto sondando i nostri compagni, invece. La tua amica Priya punta ad una carriera ministeriale, mi chiedo quanto in alto voglia andare.» «Cosa intendi per sondare?» Augustus le regalò uno dei suoi sorrisi gentili e luminosi, quelli che promettevano solo buone intenzioni. Il sorriso che gli avrebbe aperto le porte del Ministero, un giorno. «Punti di forza e punti deboli, Rosier. Sono un segugio, scovo scheletri nell’armadio e tengo quei piccoli segreti al sicuro, in attesa che mi tornino utili, un giorno.» Evaline sgranò gli occhi, inorridita. «Non è bello.» «Forse. Ma è politica. Nessuno ha segreti per me.» «Neanche io?» La domanda le era scivolata con leggerezza, immaginando un sorriso e una battuta in risposta. Lui però prese sul serio la questione e le rispose con estrema praticità. «Tu sei molto facile da capire, Rosier.» Nel dirlo sbirciò le farfalle colorate che svolazzavano al suo seguito e presero a sbattere le ali con maggiore vivacità nel sentire le sue ultime parole. «Figlia di maghi oscuri, cresciuta in orfanotrofio ed erede di uno dei casati più antichi del Galles e della Gran Bretagna. Studiosa, un disastro negli eventi sociali, ma volenterosa al punto che lascia sperare in un miglioramento a seguito di allenamento costante.» Poi giunsero le ultime parole, calme e pratiche come il resto del discorso. «Una predilezione nei confronti del direttore della casata di Serpeverde per il quale sembri nutrire un inspiegabile e tenero attaccamento.» Dissimulare noncuranza era impossibile, non con le farfalle che svolazzarono furiose intorno a lei, di un rosso acceso come le sue guance. «Oh, non temere, nessuno ha badato al tuo debole per Piton. Insomma, è una realtà così strana e assurda che nessuno sospetterebbe mai che…» «Ti prego, non dire altro.» La vocina pietosa e patetica di lei suscitò tenerezza nel Serpeverde, che le sorrise con inaspettata dolcezza, un sorriso molto più vero dei precedenti. «Non mi sognerei di dirlo a nessuno, Rosier. Non ne trarrei alcun vantaggio e mi dispiacerebbe causarti problemi. Sei carina e dolce come poche altre cose al mondo.» Le passò il braccio dietro le spalle, mentre la mano libera andò a spettinarle i capelli in un gesto fraterno che le diede un senso di tenero sollievo. «Però fatti più furba, la vita è crudele lì fuori.» Augustus fu il primo ragazzo che poté definire amico. Athena, Marigold e Priya erano presenze capricciose e prese da qualcosa che lei trovava lontano e frivolo, ma era comunque piacevole la loro compagnia. Erano divertenti, allegre, di battuta pronta. Poteva essere frivola insieme a loro o almeno provarci. Una parte di lei provava sollievo nel sapere che Augustus non solo condivideva il suo segreto, ma non ne pareva affatto turbato. Stranito, sì, ma non c’era traccia di giudizio e questo dettaglio lo rendeva speciale ai suoi occhi. Le tre compagne non avrebbero mai condiviso la sua visione, ne era certa. La prima settimana di scuola volse al termine e lei si sorprese della propria audacia, quando il giorno del compleanno di Piton non attese la notte per recarsi da lui. Si presentò nel pomeriggio, bussando al suo ufficio nei sotterranei con un pacchetto ben nascosto dalla manica della divisa. «Fa’ in fretta, Rosier.» «Evaline.» «No.» «Ma non ci ascolta nessuno…» Protestò lei chiudendo la porta alle spalle, per avvicinarsi alla sua scrivania, che lasciò accuratamente tra loro. La penna che gli aveva regalato l’anno prima era ancora lì, la stava usando su una pergamena su cui aveva inciso una calligrafia perfetta: sottile, inclinata, priva di ghirigori o svolazzi. Anche nello scrivere era pratico. «Sei sempre una mia studentessa.» Sospirò lui, la schiena abbandonata contro la spalliera della poltrona. Sbirciò i movimenti di lei con aria cauta, neanche fosse un animale che si aspetta un assalto da un momento o l’altro. «Buon compleanno.» Si curvò in avanti quel tanto che bastava a porgergli il pacchetto, una scatolina grande quanto un pugno. Lui la tenne tra le mani, indeciso sul da farsi. Non era a suo agio, l’espressione corrucciata si fece seria man mano che i secondi scorrevano e lui non faceva assolutamente nulla. «Evaline.» Cominciò, la voce bassa carica di una gravità che l’altra cacciò via con un gesto leggero della mano. «Non dire niente.» Gli sorrise, ma i suoi occhi erano tristi. Poteva quasi sentire il battito assordante del suo cuore che copriva ogni altro suono. Si sforzava di restare tranquilla, ma lui aveva ragione: leggere le emozioni su di lei era molto facile. Le farfalle divennero falene blu, volarono moge fino a lui, svanendo a contatto con il suo viso. L’uomo non le scostò neppure, gli occhi neri puntati su di lei che la trafiggevano come lame. «Non so cosa fare quando sei così…» Lei capì che non seppe trovare una parola che concludesse la frase. «Severus, ti prego.» Mormorò lei, il sorriso che tremava scosso da gioia e tristezza insieme. Sentirlo chiamarla per nome era stato bello e avrebbe voluto gettargli le braccia intorno al collo. «Ti ho preso un regalo di compleanno, tutto qui. Non mi pare che tu abbia mai dato peso a questo giorno, quindi lo farò io. Non puoi impedirmelo.» Intrecciò le dita dietro la schiena, un cenno del capo in direzione del pacchetto. «Coraggio, apri.» Lo esortò. «Sono in ritardo per Antiche Rune e non mi muoverò finché non lo avrai aperto.» Lui strinse le labbra davanti a quel ricatto. Non sembrava contento, i suoi occhi si erano induriti visibilmente, ma a parte questo non c’era nulla che potesse aiutarla a comprendere cosa provasse. Era una maschera di indifferenza. Aprì il pacchetto. All’interno si trovavano due gemelli, Evaline aveva preso l’idea dopo aver visto quelli di Augustus. Questi erano diversi, però: i serpenti erano in argento, erano arrotolati su loro stessi e custodivano due pietre nere. Lei sorrideva ancora quando lui le ebbe passate tra le dita. «Non partecipo a molti eventi eleganti, Rosier.» Disse con il solito tono basso e il volto indifferente. Lei si aspettava una risposta simile, fece anche spallucce con leggerezza, ma la risposta non le uscì dalle labbra, perché Piton si era alzato in piedi e fece qualcosa di totalmente inaspettato che lei non poté in alcun modo prevedere. Un bacio, uno sulla guancia, qualcosa che non si poteva neanche descrivere come un gesto d’affetto o pieno di calore, perché avvenne così rapidamente che lei ebbe il sentore che non fosse mai accaduto. Piton aveva sfiorato la sua pelle con le labbra, era goffo come erano goffe le falene che le volavano intorno un attimo prima e che adesso erano di nuovo farfalle impazzite di tonalità calde. «Va’ a lezione, Rosier.» Si ritrasse senza guardarla, senza dire altro, come se non avesse appena concesso ad Evaline qualcosa di così bello e inestimabile da farla sentire a metri da terra. «Ah…sì.» Mormorò lei, incapace di smettere di sorridere. Esitò davanti a lui, il viso inebriato di un rossore cocente, la felicità che contagiava le farfalle impazzite. «Magari un giorno andremo ad un evento importante, io e te. Magari indosserai quei gemelli. Sì?» Lui le lanciò un’occhiataccia e lei comprese che la sua fantasia faceva bene a fermarsi lì. Sbuffò un ulteriore sorriso felice, poi sgattaiolò via, dimenticandosi di richiudere la porta alle proprie spalle. Era felice da non reggere.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Una canzone sui deretani strombazzanti fece da sottofondo a quell’ultima, solitaria passeggiata di Evaline in direzione dei sotterranei. I M.A.G.O. erano alle sue spalle, i voti avevano soddisfatto le sue aspettative, dandole anche delle piacevoli sorprese. Aveva sospettato che Piton avesse alzato la sua media di un punto o due, ma aveva sempre preferito non soffermarsi su quel dubbio, limitandosi a seguire l’anno senza aspettarsi granché. L’esame di pozioni fu quello più semplice di tutti, perché la pozione da realizzare era la stessa che aveva realizzato al suo fianco quel Natale di quasi due anni prima. Probabilmente la sua fu semplice fortuna, ma ottenne comunque il suo Oltre Ogni Limite e ne fece tesoro. Il suo futuro era incerto e un’ottima media le avrebbe fatto comodo, dopotutto. Si sentiva svuotata mentre avanzava, le dita che di tanto in tanto sfioravano le pareti, gli occhi che salutavano i dipinti sparsi per i muri e rendevano omaggio a quei volti che le sarebbero mancati immensamente. Ad ogni passo era come se stesse sradicando le sue radici, la paura crescente di non avere idea di dove le avrebbe piantate. Nessuna divisa addobbava il suo corpo che lei sentiva ancora acerbo, qualcosa di non fatto, non definito. Sentiva i vestiti larghi, ma la verità è che provava fastidio nel sentire una stoffa che non fosse la divisa scolastica. Aveva addosso una gonna plissettata color ambra, una maglia di cotone color porpora e un paio di stivaletti bassi in cuoio marrone. Non aveva badato ai propri capelli, sentiva che non le importava più sentirsi bella o sicura di sé. Aveva paura, tanta paura, e una pettinatura più carina non avrebbe cambiato quello che provava. I suoi compagni stavano preparando i propri bauli, lei il suo l’aveva terminato da ore, gettando tutto alla rinfusa senza badare troppo a come piegare i vestiti. Tenne sulla testa la spilla di sua madre, lo stemma dei Rosier a tenere ferme due ciocche a liberare il viso, chiudendole sulla nuca. Augustus l’aveva invitata in Francia per l’estate, l’avrebbe presentata a Colette e insieme avrebbero girato alcuni castelli infestati. Era contenta di quell’opportunità. Tulip aveva preparato la sua stanza seguendo le direttive che le aveva dato l’ultima volta, ricreando un ambiente confortevole, fresco, con carta da parati a motivi naturali e dipinti che ricordassero Hogwarts. C’erano già alcune foto nei portafotografie dorati, i volti delle sue compagne sarebbero rimasti lì, insieme ad Augustus che le metteva un braccio sulle spalle e, molto distante, un uomo dal mantello nero che dava loro le spalle e si incamminava per sparire oltre la cornice. Farfalle, poi. Farfalle ovunque. Le stesse che la stavano seguendo giusto adesso. Volavano frenetiche, eccitate, i colori diversi tra loro cozzavano come cozzavano i sentimenti contrastanti che la stavano martoriando. Fuori appariva calma, in quella discesa, ma il suo incedere si faceva sempre più incerto man mano che la porta dell’ufficio di Piton si faceva vicina. Sapeva che l’avrebbe trovato lì. C’era una sorta di tacito accordo, una resa di conti, un appuntamento che si erano imposti man mano che la fine dell’anno si stava avvicinando. Con la stagione calda ormai agli inizi, il tempo scandiva i giorni, le ore e i minuti in una corsa inesorabile. Non aveva cercato altri contatti dopo il suo compleanno, non aveva provato a stare da sola con lui, né osato altro che non fosse un fugace sguardo che l’uomo assai di rado ricambiava. Era sempre distante, coperto dal grigiore di quel suo perenne distacco, la durezza negli occhi e lo scherno, a volte, nel modo in cui sorrideva davanti un grifondoro in difficoltà. A conti fatti, Evaline sapeva che lui c’era un seme di cattiveria che, ormai germogliato, lei non avrebbe avuto la forza di estirpare. Ma quei sette anni erano passati e tante cose erano cambiate, ma non lui come centro dei suoi pensieri. «Sto entrando.» Disse dietro la porta, non chiese neppure il permesso, limitandosi ad aprirla con calma per poi richiuderla alle sue spalle. Vi posò la schiena contro, quasi rassegnata, il sorriso un po’ mesto era inebriato dalla speranza. Non gli disse nulla quando lo vide in piedi davanti la libreria, intento a consultare libri che non si decideva a raccogliere. «Ora che non sono più una tua studentessa posso parlarti come vorrei?» Lui tacque per diversi istanti in cui parve non averla neanche sentita. Poi parlò, la voce annoiata e priva di calore. «Lo hai sempre fatto, mi sembra.» «No.» Fece lei senza staccarsi dalla porta, le mani dietro la schiena. «Non ti ho mai detto quanto mi sento bene se tu sei nella stessa stanza in cui mi trovo.» Le farfalle avevano smesso di svolazzare freneticamente, limitando un lentissimo volo in scie rosa pallido. Lei riusciva a parlare con voce stranamente calma, per quanto poco più di un dolce mormorio. L’osservava attraverso un velo di languore che appannava gli occhi chiari, di quell’azzurro che a tratti pareva verde chiaro a seconda della luce. Adesso parevano un po’ cupi. «Non ti ho detto neppure di amare la tua voce.» Disse poi, lo sguardo che crollò in basso nel momento in cui lui si era voltato verso di lei. Aveva paura di trovare altra durezza nei suoi occhi. Non avrebbe retto. «A volte ho sistemato i miei capelli nella speranza che a te piacessero, come se ti volessi far venire voglia di accarezzarli solo perché li avevo curati con oli profumati.» Sbuffò una risata priva di allegria. «A te non importano queste sciocchezze, lo so. Non mi guardi neppure.» Sollevò una mano verso il volto, sfregò un occhio con il polso, arrossandolo. «Non ti ho detto una marea di pensieri che ho avuto per la testa, Severus.» «Li ho visti tutti, quei pensieri.» Lo sentì dire, la voce più vicina di quanto si aspettasse. Il suo sguardo corse in avanti, lungo il pavimento, trovando la punta delle scarpe nere a pochi passi da lei. Ancora non sollevò il volto, lui pareva distante più che mai nonostante ce l’avesse davanti. «Te ne libererai quando lascerai questo posto dietro di te.» Lei scosse il capo, il polso che strofinava anche l’altro occhio, scoprendolo bagnato. «Non è possibile. Ti penso sempre.» «Smetterai.» fu la sua replica. Era implacabile, una barriera su cui la devozione di Evaline si scontrava. «Perché sminuisci quello che provo? Il fatto che tu sia indifferente non vuole dire che…» «Non sono indifferente.» Il suo sibilo squarciò l’aria e la costrinse a cercare il suo volto. Era terreo, la bocca serrata in una smorfia che tradiva furia e dolore insieme. I suoi occhi, poi, facevano spavento tanto erano taglienti. «Severus.» Lo implorò con le lacrime ancora impigliate sulle ciglia, la mano che osò sfiorargli il petto. Lui non si ritrasse, né lei cercò altro oltre quel contatto. «Cosa ho che non va? Non sono più una studentessa. Possiamo…» «Non sai niente, ragazzina.» Era furioso, una paura che non si riusciva a spiegare la costrinse a ritrarre la mano, ma lui l’afferrò e la premette con ferocia contro il proprio petto, tenendo il palmo sul suo dorso come se volesse schiacciarla. «Noi non possiamo un bel niente.» L’altra mano osò posarsi sulla porta accanto al suo volto. «Non c’è e non ci sarà mai nessun noi.» Incise quella promessa con tale livore da farle male. «Lo dici perché…perché sono più giovane?» Non mosse la mano che lui le teneva serrata contro il proprio petto in una morsa che non le lasciava scampo. Sollevò la mano libera per toccargli un lembo della veste e stringerlo appena, quasi temesse di vederlo scivolare via da lei da un momento o l’altro. «Crescerò più in fretta, se lo vorrai. Sarò più donna, sarò…» Farfugliò frasi senza senso, quasi potesse davvero controllare il tempo con la sola imposizione di quelle promesse, quando i suoi occhi gli dichiaravano un amore che non trovava la forza di pronunciare. La bocca stava già formulando nuovi giuramenti, ma lui la chiuse con la propria, incombendo sulle sue labbra in una fame rabbiosa, crudele. Evaline aveva immaginato di essere baciata da lui e aveva creduto di dover seguire dei movimenti di rito, qualcosa che fosse dolce ma appassionato insieme, magari intrecciando le braccia dietro la sua nuca per tendersi teneramente verso di lui. In quell’istante ciò che fece fu abbandonarsi all’uomo in una fiducia totale, incrollabile, fatta del tocco della mano contro il suo petto, ancorata lì anche quando la mano di Piton abbandonò la sua per toccarle la linea della mandibola, sfiorandola in una lenta corsa fino al collo. I polpastrelli sfioravano la pelle in un tocco casto, reverenziale, in netto contrasto con la disperazione della sua bocca che, quando si staccò, non si allontanò per molto tempo. Aveva la fronte contro quella di lei, gli occhi serrati, la bocca umida che raccoglieva il suo respiro, tornando a depositarle un bacio più piccolo, tanto innocente quanto era stato famelico il precedente. «Sei perfetta, Evaline.» Non allontanò la fronte dalla sua, accarezzò il suo profilo con il proprio, concedendosi di sfiorare le sue labbra mentre parlava, costantemente tentato di divorare ancora la sua bocca. «Il problema è proprio questo.» Lei continuava a respirare contro le sue labbra, la bocca umida e schiusa che lo invitava a continuare, inconsciamente schiava di una lascivia così inconsapevole da renderla innocente. La mano contro il suo petto aveva stretto la veste nera sgualcendola sotto il suo tocco. «Severus…» Il richiamo languido e lamentoso venne interrotto da un altro tocco della sua bocca che la cercò ancora, forse per zittirla, forse perché inebriato dal suo canto. «Zitta.» Tornò ad intimare con rabbia, la fronte nuovamente contro la sua. «Non merito la salvezza che mi offri, maledetta sciocca.» A tratti sembrava stringersi a lei, a tratti incombere sulla sua figura stretta tra lui e la porta. Sollevò entrambe le mani, raccolse il suo volto tra i palmi e riprese a guardarla, gli occhi due braci. «Uscirai da qui, adesso.» Il pollice andò a posarsi contro le sue labbra, un tocco a metà tra carezza e sigillo. «Avrai una vita, Evaline. Una bella vita. Non sprecarla a guardarmi, non sprecarla a cercarmi. Sono marcio, lo capisci? Marcio fino al midollo. Mi sono scavato una fossa e poco a poco mi ci rintanerò e tu non potrai fare nulla per impedirlo, mi sono spiegato? Non sei qui per salvarmi, non devi darmi nessuna via d’uscita, perché io non la voglio.» Ad ogni parola sembrava sempre più tentato dal suo profilo, dalla bocca che tornava a guardare con occhi lucidi, una fame che gli leggeva nel tremore della voce. La testa di Evaline girava, i suoi occhi pieni di languore lo imploravano mutamente di non smettere di parlare, di far durare quel momento il più a lungo possibile. Non poteva essere un addio, non aveva senso. «Perché?» Gemette lei, le labbra che strofinavano contro il suo pollice. «Non posso rintanarmi con te, in quel fosso?» La domanda era sorta con tale semplicità da strappargli un sorriso incredulo, amaro. Scosse il capo a metà tra la resa e l’esasperazione. Sembrava più deciso che mai, adesso. Eppure, le concesse ancora il contatto con le sue labbra, un bacio meno irruento in cui lui affondò le dita tra i capelli di Evaline come lei si era sempre immaginata. Avrebbe tanto voluto avere la forza di sollevare le braccia e cingergli il collo, ma si limitò ad assecondarlo, assaporando quei pochi secondi in cui ebbe la dolorosa certezza di amarlo e di non avere alcuna possibilità di imporsi nella sua vita. Sembrarono passati secoli quando emerse dal suo ufficio. Sentiva il suo sapore sotto la lingua, il calore delle mani ancora tra i capelli e del suo corpo contro il proprio. Avvertiva lo sguardo su di sé anche adesso che ripercorreva i gradini che l’avrebbero portata via da lui. Lo aveva lasciato alle sue spalle, è vero, ma la sua presenza pareva penetrata più a fondo nel suo petto, quasi vi avesse trovato un cantuccio in cui raggomitolarsi e non andare più via. Era finita, ma lo avrebbe amato comunque, anche senza vederlo.

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