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Melissa appoggiò il naso sul vetro del treno e pensò: Non ho mai visto niente del genere.
Davanti ai suoi occhi sfrecciarono dapprima file di alberi, che lasciarono poi il posto a una valle adombrata da nubi che tagliavano le cime delle montagne. Alzò gli occhi solo per notare che sembravano portare acqua, e poco dopo la visione che aveva dal treno fu increspata da scie di pioggia che rigavano il vetro.
«Hai visto, mamma?», domandò alla donna seduta accanto a lei, dopo essersi rimessa composta. «Ha cominciato a piovere.»
Dana si avvicinò alla figlia e diede un’occhiata attraverso il vetro.
«In montagna è normale che il tempo cambi all’improvviso.»
«Pensi che riusciremo comunque a fare trekking?», domandò la ragazzina con sguardo preoccupato. Avevano deciso di recarsi a Leibnitz per festeggiare i suoi quattordici anni, anche se Melissa sapeva che sua madre non amava particolarmente il trekking sulle valli. Diceva che era faticoso e che odiava la sensazione dei passi sulla terra scivolosa e bagnata, ma aveva acconsentito senza nemmeno doverla pregare troppo. Forse anche lei, come Melissa, aveva bisogno di distrarsi, dopo il divorzio che aveva spaccato la loro famiglia a metà.
«Credo di sì», rispose, «in fondo abbiamo tutta l’attrezzatura. Non preoccuparti.»
Dana rassicurò la figlia con un bacio sulla testa, e la ragazzina tornò a guardare attraverso il vetro.
Il convoglio viaggiava a cento chilometri orari. Melissa lo apprese dal monitor posto in mezzo ai due filari di posti a sedere, che presto lasciò il posto all’elenco delle fermate previste. Mancavano solo venti minuti per arrivare a Leibnitz, anche se prima il treno avrebbe fatto un’ulteriore fermata a Zell am See. Melissa si chiese se avrebbe visto il lago, mentre nel frattempo il monitor indicava che la velocità del convoglio era scesa a novantasei chilometri orari.
Aveva anche smesso di piovere. Le scie di pioggia sul vetro iniziarono a sparire, e lo fecero in maniera definitiva quando spuntò il sole da una valle che si apriva tra le montagne. Melissa appoggiò di nuovo il naso sul vetro, per sorridere alla vista di una manciata di mucche che pascolavano tranquille nella valle. Una casa col tetto a spiovente fu l’ultima cosa che vide prima che davanti ai suoi occhi tornassero a sfilare gli alberi e le loro fronde.
«Hai fame?», le domandò sua madre. Teneva in mano un pacchetto di crackers salati, ma lo sguardo di Melissa cadde sul tavolino del posto accanto al loro, nell’altro filare. Sopra c’era un pacchetto cilindrico in un involucro viola, aperto in cima, dal quale una mano estrasse un biscotto al cioccolato che le fece venire l’acquolina in bocca. Non mangiava da colazione, dove si era accontentata di un sandwich con insalata e pomodori e di una spremuta d’arancia nel bar della stazione. Erano rimaste sedute lì giusto una decina di minuti, per non rischiare di perdere il treno.
«Vuoi i crackers o no?», domandò Dana, e le sventolò di nuovo il pacchetto davanti agli occhi. La ragazzina deglutì nella speranza di buttar giù anche il desiderio di rimpinzarsi con tre o quattro di quei biscotti.
«Grazie», rispose infine, poi afferrò il pacchetto. Lo stomaco di Melissa gorgogliò.
Aveva già finito i crackers quando arrivarono a Zell am See. Il lago era strepitoso, proprio come Melissa si aspettava. C’era l’acqua cristallina, c’era un prato verde irlandese che le ricordava casa, ma soprattutto c’era il sole delle due del pomeriggio che picchiava sull’intera superficie del lago, facendola risplendere. Melissa incollò ancora una volta il viso sul vetro del treno, e pensò di nuovo che non aveva mai visto niente del genere.
Era una ragazza di città – una città dai colori grigi e spenti, dove pioveva a giorni alterni e dove il meteo sapeva sorprenderti più volte nel corso della giornata. Anche le montagne austriache, avrebbe scoperto presto Melissa, sapevano essere piuttosto umorali per quanto riguardava il meteo, ma in quel momento scalpitava all’idea di immergersi nel verde e di inerpicarsi per i sentieri tra i boschi.
Dal treno scesero una decina di persone e ne salirono altrettante. Melissa si accorse solo in quel momento che il cilindro di biscotti al cioccolato era sparito, così come il suo proprietario. Al suo posto si materializzò una giovane donna in costume e pantaloncini, che appena seduta sfilò dalla testa il cappello di paglia che indossava e lo adagiò sul seggiolino accanto a lei. A Melissa ricordò una star di Hollywood, con i suoi lunghi capelli biondi e lisci, e la pelle abbronzata tranne che in prossimità del costume. La ragazza inclinò poi la testa all’indietro, forse per dormire, e Melissa invidiò la sua serenità per una bella giornata di sole.
Lei, in effetti, era da molto che non ne vedeva.
Siamo in arrivo a Leibnitz, annunciò l’altoparlante del treno. Melissa non aspettò nemmeno la seconda parte dell’annuncio, quella che invitava i viaggiatori a raccogliere i propri effetti personali, per mettersi in spalla lo zaino da trekking e avviarsi verso l’uscita. Era eccitata all’idea di trascorrere tre settimane nel verde, e con altrettanta eccitazione esortò sua madre a sbrigarsi a scendere, per poggiare i piedi sulla banchina della stazione l’attimo dopo.
Respirò a pieni polmoni l’aria frizzantina di Leibnitz e si fece baciare la fronte dal sole, poi spalancò le braccia per lasciarsi sbilanciare appena dalla brezza. Si voltò verso sua madre e le sorrise. La loro vacanza era cominciata.
Salve a tutti 😊
Visto che ho questa storia in cantiere da qualche giorno, non ho resistito e ho deciso di cominciare a pubblicarla. Non ho ancora la trama in mente per filo e per segno, ma ho alcuni eventi chiave, quindi dovrei riuscire ad arrivare in fondo senza problemi.
Spero che seguire le avventure di Dana e Melissa possa piacervi, per cui... alla prossima settimana!
Simona
P.S.: il corsivo me lo mette con un altro font, vai a capire perché 😅
La stazione di Leibnitz contava quattro binari. Melissa era certa
che al suo arrivo avrebbe trovato una stazione dimenticata da Dio e dagli
uomini, come amava ripetere sua madre per ogni cosa che aveva visto giorni
migliori. Era infatti la stessa definizione che aveva dato alla stazione del
Brennero, da cui Dana era passata tempo addietro, definita un varco per un
altro mondo prima, e un armadio di Narnia poi.
Ma Leibnitz non era né un armadio di Narnia, né dimenticata da Dio
e dagli uomini. Non aveva cartelli sbiaditi o finestre rotte, ma anzi si
presentava con una bella pavimentazione scura e una tettoia sotto la quale
Melissa e Dana sostarono per verificare dove fosse l’alloggio.
Dana stava ancora consultando il cellulare quando Melissa alzò gli
occhi verso il convoglio che le aveva portate fino là. Fu solo in quel momento
che notò, in coda, un rimorchio metallico che conteneva una quantità cospicua
di auto e moto, tutte in fila indiana.
«Mamma, perché credi che il treno si sia portato dietro tutte
queste auto?»
Dana alzò gli occhi dal cellulare e studiò il convoglio indicato
dalla figlia, poi fece spallucce.
«Non lo so, forse è per una concessionaria.»
Però no, si disse Melissa, non era possibile: dentro le auto, e
poi sulle moto, c’erano delle persone alla guida, che poco alla volta uscirono
dal convoglio in retromarcia, per poi immettersi sulla strada adiacente alla
stazione e sparire dentro la città di Leibnitz. Quando era salita sul treno,
all’andata, non si era accorta che stavano rimorchiando anche tutte quelle
auto. Quando le avevano agganciate?
«Non lo sapete?», domandò una voce alle loro spalle. Le due donne
si voltarono, per ritrovarsi davanti un uomo prossimo alla settantina, i
capelli bianchi coperti da un cappello da ferroviere e una divisa scura che
richiamava lo stesso tema. Sul volto gli comparve un sorriso, che accentuò le
rughe che gli solcavano il viso intorno alla bocca e agli occhi.
«Che cosa?», domandò Dana.
«Leibnitz è una città dove la vita si assapora lentamente»,
rispose l’uomo, scoccando un’occhiata al convoglio, che ancora non era
ripartito. Indugiò con lo sguardo e Melissa fece lo stesso, senza capire cosa
ci trovasse l’uomo di tanto interessante. «In auto puoi arrivare fino a Bad
Hofstein da nord o a Oberstall da sud, ma se vuoi proseguire con la macchina
devi metterla laggiù», e indicò col mento il rimorchio in metallo. «Poi puoi
decidere se scaricarla qui o se farti lasciare al di là del valico.»
«Quindi la città non è raggiungibile con l’auto?», chiese Melissa.
«No. Si entra e si esce da Leibnitz solo in treno.»
Melissa si sentì pizzicare il naso da una sensazione spiacevole.
Lo grattò e lo strusciò, ma quel formicolio rimase lì.
«Grazie mille per l’informazione», lo liquidò Dana, elargendo uno
dei suoi sorrisi di circostanza. Sortì l’effetto sperato, perché l’uomo le
salutò e si allontanò poco dopo. Il formicolio al naso di Melissa sparì di
colpo.
Il fischio del capotreno attirò l’attenzione di entrambe. Le porte
del treno si chiusero, il rimorchio metallico quasi del tutto svuotato. A
quanto pareva, in tanti avevano deciso di fermarsi a Leibnitz. Il convoglio
ripartì lento, poi guadagnò velocità e raggiunse il valico sud, finché non
sparì del tutto dal campo visivo delle due.
Il naso di Melissa tornò a pizzicare. Le sembrò anche di provare
un po’ di nausea.
Angolo autrice
Salve a tutti! Eccoci arrivati al secondo capitolo, dove scopriamo
la peculiarità di questa cittadina. Nella realtà (perché Leibnitz è ispirata a
una reale cittadina dell’Austria dove sono stata l’anno scorso) il collegamento esclusivo
tramite treno è solo da nord, mentre da sud pare che ci sia una strada vera e propria
che collega al resto dell’Austria. Ho pensato però che così fosse più d’atmosfera…
e chissà che non abbia qualche conseguenza sulle vicende delle nostre due protagoniste.
Ora non aggiungo altro, sennò faccio spoiler come mio solito 😆
Alla prossima e grazie a tutti coloro che hanno deciso di seguire questa mia nuova avventura 💖
Piovve tutto il pomeriggio. A Dana sembrò incredibile che fossero
arrivate tutte quelle nubi dopo il sole delle due che le aveva accolte. E
invece non solo pioveva, ma lo faceva anche con una certa intensità.
Almeno trovare l’hotel era stato semplice. Era una vecchia
palazzina di tre piani rimessa a nuovo, dove il piano terra ospitava la
reception e la sala colazioni, con quest’ultima che dalle cinque del pomeriggio
diventava un ritrovo per aperitivi. C’era anche uno spazio esterno adibito alla
stessa funzione – o almeno così recitava il cartello all’ingresso della
struttura –, ma i tavolini e le sedie erano ormai zuppi d’acqua.
Dana si era chiesta più volte dove diamine fossero finite,
soprattutto nel tragitto che andava dalla stazione all’hotel. Le dichiarazioni
dell’uomo in tenuta da ferroviere l’avevano lasciata inquieta, e fu solo uno
dei tanti motivi per cui si maledì di non aver convinto Melissa a scegliere
un’altra destinazione. Non le interessava fare trekking, e di certo non le
interessava farlo in una città piovosa e dove la vita si assapora lentamente.
La loro camera era all’ultimo piano. Non c’era ascensore, quindi
si erano trascinate zaini e valigia per tutte e tre le rampe di scale. L’ultima
aveva gli scalini sbilenchi e irregolari, e Dana aveva rischiato un paio di
volte di sbilanciarsi e cadere.
«Fai attenzione, è facile perdere l’equilibrio», suggerì alla
figlia.
«Per questo mi sto reggendo», rispose lei, indicando il corrimano
di legno.
«È uguale», ribatté ancora Dana, che finalmente posò la valigia
sul pianerottolo del terzo piano. «È pericoloso lo stesso.»
Melissa alzò gli occhi al cielo, ma Dana notò che ora faceva passi
più lenti e accorti.
La camera si rivelò graziosa come il resto della palazzina. Nella
stanza più grande riecheggiava l’odore della vernice fresca, che il viavai di
ospiti non era ancora riuscito a scalfire. Le finestre, che si affacciavano sui
tavolini all’ingresso, erano decorate con delle tendine bianche a pois rossi.
Cercavano di incorniciare il paesaggio, ma era difficile rendere piacevole quel
cielo tetro. Almeno la doccia aveva l’acqua calda.
Melissa, però, le era sembrata entusiasta. Aveva già scelto il
lato destro del letto, sul quale ora riposava placidamente. Aveva gli occhi
chiusi, ma Dana sapeva che si stava rigirando troppe volte perché stesse
dormendo davvero.
Fuori dalla finestra, il tempo non accennava a migliorare. La
pioggia cadeva fitta, e le montagne tutto intorno, imponenti e aguzze, la
fecero sentire in trappola. Coprivano quasi interamente il suo campo visivo, da
qualunque parte volgesse lo sguardo. Le cime erano alte, e lo sembravano ancora
di più quando le nuvole d’acqua le superavano, svelandole in tutta la loro
maestosità. E se non c’erano le montagne, c’erano i vapori che sembravano
scaturire da esse, come se qualcuno ci avesse acceso un falò sopra. Ma non era
ovviamente possibile, si disse Dana. Nessuno avrebbe potuto accendere un falò
in montagna con quella pioggia.
Si sedette al tavolino in legno posto al centro della stanza,
oltre i piedi del letto. Dando una rapida occhiata, si rese conto che quasi
tutto era in legno: il pavimento, il letto stesso, le porte, il soffitto. Dana
sbuffò. Era finita nella patria degli ecologisti, si disse.
Quantomeno, però, era accogliente. Sul pavimento in legno aveva
camminato scalza senza provare freddo ai piedi, anche se l’umidità glieli aveva
fatti gelare in ogni caso. Si diresse verso la sua parte del letto e raccolse i
calzini per infilarseli. Aveva sempre i piedi gelati, solo che ora erano
avvolti da calzini altrettanto umidi. La sensazione non le piacque.
Nell’attesa, utilizzò il cellulare per cercare un posto dove
mangiare. Ne trovò uno di fronte all’hotel, più o meno letteralmente (e non era
difficile che lo fosse, visto che Leibnitz contava meno di mille abitanti). Era
una sorta di tavola calda, e vedere le foto di braciole e zuppe vaporose la
fece stringere ancora di più nella sua felpa, in preda a un inaspettato brivido
di freddo, inusuale per il luglio che conosceva.
Melissa si svegliò quando la lancetta delle ore aveva superato le
cinque. Era presto per cenare, ma Dana cominciò a sentire insofferenza per lo
stare chiusa in quella camera con la pioggia che batteva sul vetro. Voleva
uscire di lì, e voleva farlo al più presto.
Angolo autrice
Salve a tutti! Questo capitolo è l’ultimo a essere un
pochino più introduttivo, perché dal prossimo le cose si faranno più
interessanti (o almeno spero) 👀
Intanto vediamo che Leibnitz, durante i giorni di pioggia, può essere molto
soffocante…
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo questa storia,
alla prossima 💖
La tavola calda era chiassosa. Erano sedute a un tavolo vicino
all’entrata, su dei divanetti in velluto giallo che cominciavano a mostrare i
segni del tempo. L’ambiente era illuminato da una fila di lampadari a soffitto,
posti ciascuno sopra ogni tavolino. Dietro di loro si aprivano una serie di
grandi finestre, che però non avevano molto da mostrare, se non la stessa,
incessante pioggia che le aveva accompagnate per tutto il pomeriggio.
A quel pensiero, l’insofferenza di Dana aumentò, e si disse che
senz’altro era perché ormai aveva scollinato. I quarantacinque anni non
avrebbero tardato molto a farle visita, facendola entrare nella seconda metà
della decade dei quaranta, ed ecco che avrebbe scollinato per davvero.
Aveva pensato la stessa cosa quando aveva superato i venticinque, e anche i
trentacinque, e sapeva che lo stesso pensiero l’avrebbe attraversata anche al
compimento dei suoi quarantacinque anni.
Avevano ordinato due viennesi con patatine fritte, ormai da una
ventina di minuti. Dana si guardò intorno nella speranza di vedere uscire il
personale di sala con i loro piatti, e invece il suo sguardo incontrò una
manciata di uomini in divisa da lavoro seduti intorno al bancone al centro del
locale. Bevevano e facevano rumore, e lì Dana ne ebbe la certezza: aveva scollinato,
ancora prima di compiere gli anni.
«Ehi, mamma», la richiamò Melissa, «lo sai che sia Bad Hofstein
che Oberstall distano circa quindici chilometri da qui?»
Lo stomaco le si chiuse per un attimo. Uno degli uomini si alzò,
lasciando visibile un cartello – in legno, ovviamente – appeso al
pilastro in muratura intorno al quale si snodava il bancone. Recitava: “Il cibo
arriva quando è pronto”. La testa dell’uomo l’aveva coperto fino a quel
momento. Il viso di Dana si contrasse in una smorfia di disappunto.
«Metti via il telefono, Lis. Siamo a tavola.»
«Ma ancora non stiamo mangiando! E poi era una cosa interessante.»
«Sì», la assecondò Dana, poi bevve un sorso della Coca che le
avevano portato. «E questo non fa che confermare quanto questo posto sia
dimenticato da Dio.»
«E non dagli uomini?», domandò Melissa.
«Cosa?»
Melissa bloccò il telefono e lo ripose accanto al tovagliolo.
«Lo dici sempre: dimenticato da Dio e dagli uomini.»
Dana rise. «No, non dagli uomini. Tuo padre mi ha chiamato l’altro
giorno per chiedermi per filo e per segno dove saremmo andate. Ha voluto tutti
i numeri di telefono, tutti i percorsi.»
«Perché? Per Bradley?»
«Sì», rispose Dana, e si lasciò andare a un sospiro pesante. «Per
Bradley.»
«Avremmo dovuto portare anche lui», ribatté Melissa, il cui
sguardo si abbassò per un istante. Fissava le posate, poi scoccò un’occhiata in
fondo alla sala, alla sua destra.
«Sai bene che sarebbe stato complicato, Lis.»
La ragazzina non ribatté. Lanciò di nuovo un’occhiata alla sua
destra, e Dana se ne accorse, ma non fece in tempo a seguire il suo sguardo.
«Un po’ me lo ricorda», sussurrò Melissa, lasciando ora che lo
sguardo alla sua destra fosse più di un’occhiata rubata. Dana seguì la
direzione dei suoi occhi, e capì subito cosa – o meglio, chi – stava
guardando sua figlia. Sul divanetto, in un angolo del locale, e circondato da
un uomo e una donna, sedeva un ragazzo che aveva a occhio e croce la stessa età
di Bradley. I suoi occhi vagavano per il locale senza soffermarsi troppo a
lungo su qualcosa, e un primo accenno di barba circondava una bocca che il più
delle volte rimaneva schiusa, e da cui uscivano gemiti sconnessi. Le mani erano
contratte in maniera quasi innaturale, ma era calmo, proprio come lo era sempre
Bradley.
«Non fissarlo, Lis. Non è educato.»
«Un sacco di persone fissano Brad.»
«Be’, è perché sono maleducate. Non si fissa nessuno, a maggior
ragione le persone come lui e tuo fratello.»
«Solo perché lo dice la buona educazione?», la provocò Melissa.
«No», rispose secca Dana. «Perché, come hai detto tu, un sacco di
persone si soffermano a guardare. E a giudicare. Non serve che ti ci metta
anche tu, né che mi ci metta io.»
Nessuna delle due guardò più il ragazzo seduto all’angolo del
locale. L’attimo dopo, un cameriere portò loro le viennesi con patatine che
avevano ordinato.
«Buon appetito», augurò l’uomo.
Le due ringraziarono, e non appena si fu allontanato afferrarono
coltello e forchetta.
«Non mi piace molto il tedesco», commentò Melissa.
Dana tagliò una striscia di carne, poi la divise in quattro
tocchetti. «Sei fortunata a conoscere due lingue. Se io avessi sposato un
irlandese o un inglese, ne conosceresti una sola.»
Ma almeno non avrei incontrato tuo padre,
continuò nella sua testa Dana.
«Sai che roba», rispose la ragazza, mandando giù un boccone. «E
poi non stavo dicendo questo.»
E non avrei avuto te e Bradley, fu tentata di dire.
Eppure si fermò. Si fermò perché là sotto, dietro quella frase, nascosto sotto
un cumulo di responsabilità, e impegni, e problemi – per non parlare delle
continue entrate e uscite dagli ospedali –, c’era qualcos’altro. Qualcosa che
avrebbe fatto bene, quello sì, a rimanere dimenticato da Dio e dagli
uomini. Qualcosa che la faceva vergognare.
«Mamma?»
«Hai ragione», tagliò corto Dana. «Nemmeno a me piace troppo il
tedesco.»
La cena proseguì senza intoppi. Melissa ordinò poi un gelato che
le fu servito in una coppa slanciata in ceramica, con l’immagine di un
pagliaccio sopra. Le piacque molto, e la divertì. Non parlarono più di Bradley,
né ci furono altre occhiate al ragazzo adombrato all’angolo.
Non ci fu più spazio nemmeno per quel sentimento che aveva
provato, altrettanto adombrato in un angolo del suo cuore. Come ogni volta,
Dana lo aveva ricacciato indietro con successo.
Melissa indicò lo zaino da trekking sulle spalle, e Dana sospirò
perché, essendo chiuso, non aveva idea di cosa sua figlia ci avesse messo
dentro. Lei comunque si era premurata di prendere almeno un po’ d’acqua, e
l’aveva messa nella tasca laterale dello zaino, quella in tela. Se già il
trekking non la entusiasmava granché, l’idea di doverlo fare con la sete in
corpo le sembrava una prospettiva di gran lunga peggiore.
Aveva smesso di piovere, almeno per il momento. Dana sapeva che
quello stato di grazia non sarebbe durato troppo a lungo, pertanto aveva
indossato un paio di pantaloni lunghi, perché non voleva correre il rischio di
sentire l’acqua picchiettarle sulle gambe. Melissa, invece, sfoggiava dei
pantaloncini al ginocchio color cachi.
«Hai i calzini abbassati», le fece notare Dana.
«E quindi?», domandò con uno sbuffo. Nonostante questo, però, non
aspettò una risposta: posò lo zaino a terra, si sedette sul letto e tirò su le
calze.
«Potrebbero morderti delle zecche», spiegò sua madre. «Poi non è
divertente toglierle.»
«Va bene, va bene», rispose seccata Melissa. Si assicurò che le
scarpe fossero ben allacciate, poi si tirò su in piedi e rimbuzzò la camicia
dentro ai pantaloni.
«Ora possiamo andare?», chiese la ragazza, di nuovo con lo zaino
in spalla.
Dana notò una certa impazienza nella sua voce, la stessa che
probabilmente l’aveva fatta scattare sulla soglia della camera, le dita già
sulla maniglia della porta. Uscirono dalla stanza e scesero le tre rampe di
scale – Melissa aveva tenuto il corrimano in quella che portava dal terzo al
secondo piano –, finché non furono accolte alla reception da una ragazza tutta
lentiggini. Agganciato sopra il petto, un cartellino riportava il nome “Heike”.
«Fate una passeggiata? Oggi il tempo è splendido.»
Dana soffiò una risatina. Gli abitanti di Leibnitz avevano una
strana concezione di tempo splendido, si disse. Non pioveva, era vero,
ma non era certa che il tempo avrebbe retto. E di fronte a quella prospettiva,
forse avrebbe preferito rimanersene in camera – anzi, no: a casa, direttamente
– a non fare niente, ma proprio niente. In quei mesi aveva trottato talmente
tanto che l’unica prospettiva a cui anelava, che bramava con un’intensità mai
provata, era proprio quella di dedicarsi al niente.
Però Melissa era felice, glielo si leggeva negli occhi. Lo era
anche in quel momento, mentre mostrava a Heike il giro che avevano intenzione
di fare.
«Dovremmo impiegare circa un’ora per arrivare al rifugio», spiegò
Melissa, percorrendo sulla mappa l’intero tragitto col dito. «Tornare indietro
credo sia facile», aggiunse poi. «In fondo, è un percorso per famiglie.»
Un’ora più un’ora fanno due ore, pensò Dana, e si
complimentò da sola per la banalità del calcolo. E qui si arriva solo in
treno, aggiunse poi, con la voce del vecchio in tenuta da ferroviere, forse
più gracchiante di come la ricordava.
«Sì, è un percorso facile», concordò Heike, e la voce della
ragazza destò Dana dai suoi pensieri. L’aria le sembrò diventata più densa, e
quasi maleodorante. «Solo, fate attenzione a…»
«Alle zecche?», completò la frase Melissa. «Per quelle siamo già a
posto.»
Quindici chilometri a nord, quindici chilometri a sud,
cantilenò Dana nella sua testa. Si sentiva di nuovo a disagio, proprio come
quando avevano lasciato la stazione. Quindici chilometri…
La ragazza della reception incrociò il suo sguardo. Il respiro di
Dana si fece più pesante, e qualcosa sembrò stringerle la gola.
«No, non intendevo le zecche», ribatté Heike. «Parlavo dei
Sabotatori.»
Bradley non sorrideva molto spesso. Non c’era foto di famiglia
dove le sue labbra si piegassero in un guizzo di contentezza, e questo, insieme
a tanti altri piccoli dettagli, lo aveva portato a essere oggetto di attenzioni
da parte di amici e parenti. I più cauti si limitavano a scoccargli un’occhiata
di sottecchi, ma spesso, più di quanto Melissa volesse ammettere, gli
rivolgevano appellativi pensando che lui non potesse sentirli – o addirittura
che non potesse capirli. Melissa li aveva sentiti, quegli appellativi, e
ogni volta si era sentita impotente.
Si sentiva impotente anche in quel momento, passo dopo passo sul
sentiero ombroso che percorrevano ormai da mezz’ora, ancora un po’ fangoso per
via della pioggia del giorno prima. Il rumore dei rametti secchi che si
spezzavano sotto le sue scarpe le ricordava il sussulto che faceva il suo cuore
ogni volta che qualcuno si rivolgeva a Bradley. Ed era buffo, sebbene lei non
lo ritesse affatto tale, come il ripetersi di quegli episodi avesse cambiato la
sua percezione delle parole. Ritardato aveva cominciato quasi a
sembrarle un complimento, in confronto al resto.
«Tutto bene, Lis?»
Dana camminava qualche passo avanti a lei. Melissa stimò che a sua
madre erano occorsi almeno dieci minuti per accorgersi del suo silenzio, ma
questo non la stupì.
«Sì, è solo che…»
Che di solito facevamo queste passeggiate anche con papà e Bradley,
avrebbe voluto aggiungere. Sapeva, però, che quei tempi erano ormai passati, e
che non sarebbero esistiti più. Le sembrava strano, a quattordici anni, che
qualcosa potesse non esistere più per il resto della sua vita.
«Ti hanno spaventata quelle chiacchiere sui Sabotatori?»
«Un po’», rispose, per farla contenta. Non voleva dirle cosa
pensava davvero, non dopo quello che era successo la sera prima. Sai bene
che sarebbe stato complicato, aveva detto, quando aveva tirato fuori la
“questione Bradley”. Melissa si chiese se non fosse solo un altro modo per
dire: No, Bradley non lo abbiamo portato perché è…
«Credo che Heike abbia solo gonfiato un po’ la cosa», la rassicurò
sua madre, che ora camminava al suo fianco. «È normale che ci siano delle teste
calde, ci sono sempre. Ma da qui a definirli degli ecoterroristi…»
Melissa non aveva idea di cosa fossero gli ecoterroristi, ma se
sua madre non sembrava preoccupata, allora si disse che nemmeno lei aveva
motivo di esserlo.
Non che quell’equazione funzionasse sempre, ovvio. I suoi genitori
non sembravano preoccuparsi troppo del futuro di suo fratello, ma Melissa non
riusciva a fare altrettanto. Si chiedeva spesso infatti se qualcuno, all’infuori
di lei, gli avrebbe mai voluto davvero bene. Era certa che anche Bradley se lo
fosse chiesto – perché lui capiva, anche se fin troppe persone facevano
finta che non fosse così –, e aveva smesso di stupirsi per quell’espressione
quasi imbronciata che vedeva sul volto di lui, come fosse stato perennemente
arrabbiato per quel torto che la vita gli aveva riservato.
L’area boschiva si interruppe per lasciare spazio a una valle
verdeggiante, tagliata da un ruscello attraversabile in due o tre falcate. Fu
questione di passi prima che la ghiaia lasciasse il posto a ciottoli sempre più
grandi, ma non abbastanza da permettere a entrambe di oltrepassare il ruscello
senza bagnarsi la suola degli scarponcini. Anche sua madre doveva aver avuto la
stessa intuizione, a giudicare dalla smorfia scontenta che le comparve sul
viso.
Melissa affondò i piedi nell’acqua del ruscello, che si rivelò
fredda, anche se limpida. La corrente era piuttosto debole, ma le piaceva
lasciarsi accarezzare dalla natura, e di certo sarebbe piaciuto a Bradley; così
sostò nell’acqua qualche altro istante, per se stessa ma anche per lui, prima
di rimettere piede sulla riva opposta del ruscello.
Dietro di sé, osservò sua madre tastare col piede ogni pietra, per
vedere se fosse stabile prima di salirci sopra. Non voleva bagnarsi i piedi, e
la ragazza non aveva idea del perché. Si disse soltanto che così avrebbero
impiegato un sacco di tempo, se ci fossero stati altri corsi d’acqua lungo il
loro cammino.
Melissa si guardò intorno per riempirsi gli occhi con il fitto del
bosco, l’erba incolta, il rumore del ruscello placido ma vitale e il cinguettio
di due rondini che si rincorrevano nel cielo. Respirò a pieni polmoni, per poi
espirare buttando fuori tutto, anche i brutti pensieri. Sull’ultimo punto, non
era certa di esserci riuscita.
Dopo cinque minuti, Melissa ebbe la certezza che non ci era
riuscita proprio per niente. Rientrare nel bosco aveva fatto sì che la luce
arrivasse solo in fiochi raggi, e così come si era adombrato il sentiero, così
aveva fatto il suo entusiasmo per la natura.
Continuò a camminare sulla ghiaia fangosa e a osservare i suoi
scarponcini sporcarsi sempre più, e per un attimo ebbe come l’impressione che i
suoi passi affondassero ogni volta più in basso, quasi come se sotto ai suoi
piedi ci fossero state delle sabbie mobili, pronte a imbrigliarla come i suoi
pensieri.
«Stai più vicina, Lis», le suggerì Dana, che si fermò per
aspettarla. Notò che aveva il fiatone, anche se cercava di nasconderlo.
Raggiunse sua madre in pochi passi e poi proseguirono insieme, Melissa sempre
un passo indietro. Aveva ancora la testa alla cena della sera prima.
Mamma non voleva dire quello, lo sai. Un
piede affondò nel fango e Melissa lo sollevò a fatica. Vuole bene anche a
Brad, si disse ancora, dopo un passo più impegnativo del precedente. Le
sembrò che quelle sabbie mobili diventassero ogni attimo più reali.
Non essere scema, si disse.
(SCEMA SCEMA! SCEMA COME BRAD!)
Melissa si fermò di colpo. Si voltò indietro col cuore in gola, ma
non c’era nessuno. Era stata la sua mente a parlare, e lo aveva fatto con la
voce strafottente di un ragazzino di undici anni, perché – a poco a poco si
ricordò – c’era stato davvero qualcuno che aveva pronunciato quelle parole. Era
un cretino che aveva avuto la sfortuna di incontrare a scuola pochi anni prima,
e che rispondeva al nome di Louis Harlington.
Quello SCEMO, pensò Melissa.
«Lis, stai bene?», domandò sua madre, che poi abbassò lo sguardo
sui suoi piedi. «Hai la scarpa slacciata, tesoro.»
La ragazza notò che aveva ragione. Si abbassò ad allacciarsi la
scarpa destra, e si ripromise di abbandonare ogni pensiero su Bradley e su
quello scemo di Louis Harlington. Non pensava spesso a suo fratello in quei
termini – né agli altri, a dire il vero –, e non aveva idea del perché le si
fossero risvegliate simili idee. Si concentrò sul percorso, e sull’idea che in
fondo non mancava poi molto al rifugio.
Camminarono un altro paio di minuti, quando Dana si bloccò, due
passi avanti a lei.
«Senti anche tu questo odore?», chiese la donna, che cominciò ad
annusare l’aria. Dapprima Melissa non sentì niente, ma quando raggiunse sua
madre, e cominciò ad annusare l’aria come faceva lei, si sentì pizzicare di
nuovo il naso, come alla stazione. Era un odore pungente e sgradevole, che ad
ogni respiro diventava sempre più nauseabondo. Il viso di Dana si irrigidì
all’improvviso, e allargò appena le braccia in un gesto protettivo, come a
volerla difendere da qualcosa di invisibile situato davanti a loro.
«Stai ferma qui, vado a controllare», le intimò sua madre, e
Melissa sentì la paura scorrerle nelle vene in una frazione di secondo.
E se non tornasse?, si domandò. Ma invece tornò.
Urlando.
Se Dana avesse dovuto dare la definizione di “cervo morto” – e
nella sua testa lo fece, eccome se lo fece –, ne avrebbe data una da manuale,
come faceva sempre coi suoi studenti.
“Un cervo morto”, avrebbe detto (e se lo disse), “si presenta
solitamente accasciato a terra, con una ferita compatibile con un morso all’altezza
del collo e uno smottamento di terra sotto alle zampe, segno che ha tentato di
lottare per la vita”.
“Certamente in prossimità del morso trovereste del sangue”,
continuò nella sua mente, con gli occhi fissi sulla cosa che giaceva
davanti a lei. “Molto sangue. Tanto sangue. In fondo, sarebbe morto per
dissanguamento, no?”
I suoi studenti avrebbero alzato gli occhi dai loro taccuini,
perché di solito non parlava così, col respiro affannato e inciampando sulle
parole. “Dovrebbe esserci molto sangue”, ripeté ancora.
“Dopo subentrerebbe il rigor mortis, ma questo dettaglio è
irrilevante”, continuò, senza sapere più dove stesse andando a parare. “Gli
altri animali ne farebbero un banchetto. E quei pochi brandelli di carne
rimasti si decomporrebbero, fino a lasciare uno scheletro. Uno scheletro è
sempre rassicurante, no?”
Guardò ancora la cosa davanti ai suoi occhi, ravanando
frenetica nelle sue certezze scientifiche, in quella realtà oggettiva in cui
aveva sempre creduto. Ormai i suoi studenti non l’avrebbero più seguita – forse
l’avrebbero presa per pazza, altroché.
“Non è comunque facile trovare un cervo morto”, proseguì, in quel
suo monologo interiore, con le parole che si rincorrevano sempre più veloci e
stridule nella sua testa. “Sono dei velocisti nati e non hanno dei veri e
propri predatori. A parte l’uomo, s’intende”.
A quel punto, qualcuno si sarebbe alzato dalla sedia e avrebbe
abbandonato l’aula. Altri sarebbero rimasti a seguire la follia di quella che
era stata la loro docente, e ne avrebbero parlato al passato perché avrebbero
convenuto tutti che fosse impazzita.
“Bene, ecco la definizione di cervo morto”, concluse, col
respiro affannato e gli occhi puntati sul sentiero. “E spero che l’abbiate
ascoltata bene, perché questa cosa decisamente non lo è.”
Angolo autrice:
Lo so, lo so. È un capitolo corto! Mi spiace avervi fatto
aspettare tutto questo tempo per queste poche righe, ma ero in vacanza e
inoltre la faccenda della pubblicazione di Due Marlboro mi ha destabilizzato un
attimo. La buona notizia è che ho bisogno di pace e tranquillità al momento,
una pace che penso proprio di poter trovare nella scrittura. Spero quindi di
potervi regalare qualche capitolo extra per farmi perdonare 💖
Per la terza volta in meno di ventiquattr’ore, Melissa pensò: Non
ho mai visto niente del genere.
Aprì bocca per dire qualcosa, ma fallì senza riuscire a emettere
alcun suono. Invece starnutì, liberandosi così di quel prurito al naso che era
tornato prepotente, da quando aveva sentito l’odore di quella cosa.
E sì che era abituata a ciò che i più avrebbero definito macabro.
Sua madre si addormentava spesso nel preparare le lezioni, che potevano
occuparla anche fino a mezzanotte; e quando Melissa udiva quel flebile ma
caratteristico ronzio del suo respiro, capiva che era il momento giusto.
Sgattaiolava allora fuori dalla sua camera, si avvicinava al portatile di Dana
e cominciava a ingurgitare informazioni sulle modalità più disparate con cui
una persona poteva morire – e come riconoscere tali modalità, ovviamente.
L’ultima volta era toccato al “metodo di Stas-Otto-Dragendorff negli
avvelenamenti da alcaloidi”, che, come Melissa aveva appreso, consisteva nella
preparazione di una miscela a base di acido acetico e due sali inorganici il
cui obiettivo era, appunto, provocare un’eventuale reazione con qualunque
sostanza organica contenente azoto. L’intossicazione da alcaloidi, se contratta
a livello neurologico, era in grado di provocare non solo convulsioni e spasmi,
ma anche allucinazioni.
Questa però non è un’allucinazione, si
disse, guardando ancora una volta ciò che giaceva sul sentiero davanti a sé. È
reale.
«Che stai facendo, Lis?»
Melissa si era abbassata per raccogliere un bastone secco ai suoi
piedi. Continuava a osservare la cosa con circospezione, e abbassò lo
sguardo solo nel momento in cui afferrò il bastone, quasi temesse che la
carcassa potesse rianimarsi e attaccarle.
«Lascia fare a me, tesoro», le intimò sua madre, che tentò di
strapparle il bastone di mano, ma lei scansò il braccio.
«Mamma», soffiò lapidaria, ora guardandola, senza più temere la cosa.
«È morto.»
Si avvicinò a piccoli passi verso la carcassa, finché non ebbe la
certezza di ciò che aveva intuito da lontano: era un cervo, come aveva
ipotizzato sua madre, ed era davvero morto. Melissa si accorse che l’odore
nauseabondo che avevano avvertito poco prima l’aveva ormai assuefatta, dato che
non lo sentiva più. Il fatto la stupì, ma mai quanto le condizioni in cui
versava il cervo.
Se avesse dovuto descriverlo con una parola, avrebbe scelto
senz’altro “mummificato”. Sembrava che qualcuno o qualcosa lo avesse ucciso e
poi ne avesse risucchiato tutti i liquidi vitali, di fatto lasciandolo
prosciugato e rinsecchito, senza la benché minima traccia di sangue. Non
c’erano ferite evidenti, quantomeno non sul lato opposto rispetto a quello su
cui era accasciato. Melissa lo pungolò all’altezza del ventre e scattò
all’indietro per precauzione, ma il cervo ovviamente non reagì. Anzi, secco com’era,
bastò spingerlo un altro po’ perché si spostasse appena. Melissa sussultò ed
ebbe quasi paura. L’attimo dopo, però, ebbe una rivelazione.
«E se fosse finto?», domandò a sua madre.
Lei la guardò, come se avesse detto una sciocchezza. Eppure,
Melissa notò quell’attimo di esitazione negli occhi di Dana, che però si
riscosse subito.
«Non avrebbe questo odore, Lis. Lo senti, no?»
«A dire il vero non tanto», ribatté la ragazza.
«Come sarebbe “non tanto”? A momenti vomito!»
Melissa fece spallucce. Annusò l’aria, ma di quel tanfo riuscì a
sentire solo qualche rimasuglio.
«Che ti devo dire? Mi sono abituata.»
Dana la guardò di sbieco. Fu solo in quel momento che si avvicinò
alla figlia e le strappò di mano il bastone. Melissa la osservò ripetere i suoi
stessi gesti: sua madre fissò infatti il cervo da più angolazioni, poi lo
pungolò col bastone, azione che ancora una volta non provocò alcuna reazione
nella carcassa. Melissa avrebbe dovuto ritenerlo un gesto sciocco – d’altronde,
se una cosa è morta non può più muoversi –, eppure entrambe avevano sentito
l’urgenza di accertarsi che quella sorta di mummia rispondesse alle leggi
dell’universo, e che quindi, in quanto essere privo di vita, non potesse più
compiere alcun movimento.
Dana ancora fissava immobile il cervo.
«A che pensi, mamma?»
«Penso che non capisco», mormorò. «È chiaramente morto da poco,
altrimenti sarebbe in una fase di decomposizione più evidente. Allo stesso
tempo, però, non dovrebbe avere questo aspetto così prosciugato, specie se è
rimasto esposto all’aria aperta, come credo. Si potrebbe pensare a delle
particolari condizioni climatiche che l’abbiano ridotto in questo modo, ma non
mi sembra proprio il caso. È questo che davvero non capisco.»
Melissa sapeva che ammettere di non capire, per sua madre, era una
dichiarazione di resa – a cui si sottoponeva raramente, e sempre malvolentieri.
Le ripeteva di continuo che l’universo è governato da leggi, e che ogni corpo
che lo abita risponde a esse; che per tutto c’è sempre una spiegazione, e che
gli eventi inspiegabili sono soltanto fatti provocati da una legge che
l’umanità non ha ancora decodificato. Melissa però sapeva che gli occhi di sua
madre erano quelli di una persona che non solo non aveva trovato quella legge,
ma che non sapeva nemmeno dove cercarla. Ammesso che ce ne fosse stata una,
ovvio.
«Potrei quasi dire che è impossibile», sussurrò Dana,
abbassando il tono di voce in corrispondenza di quell’ultima parola, «ma so che
ci deve essere una spiegazione.»
«Possiamo provare a raggiungere il rifugio e fare qualche
domanda», suggerì Melissa. «Non dovrebbe mancare molto.»
Per la prima volta, dopo interminabili minuti, Dana tornò a
guardare la figlia.
L’orologio del rifugio ticchettava. Era un vecchio orologio di
legno a cucù, a forma di chalet, e scandiva i secondi in maniera netta e
rumorosa. Segnava le undici quando Melissa e Dana avevano fatto il loro
ingresso al rifugio, nel quale erano state accolte e fatte accomodare dopo aver
spiccicato giusto due parole.
Era un prefabbricato dai colori caldi, con travi a vista e
pavimento in legno, e un’ampia sala dove ci stavano comodamente un bancone
sulla sinistra e una decina di tavoli in legno (di cui la metà erano occupati)
sulla destra, così come le panche e le sedie. Ciascun tavolo era illuminato da
luce naturale, vista la presenza di ampie finestre incorniciate da tendine
leggere, ora fermate ai lati da una coppia di raccoglitende a forma di fiore.
Fuori – Melissa e Dana lo avevano visto di sfuggita prima di entrare – c’era un
appezzamento di terra recintato con una dozzina di galline (che si litigavano
un tozzo di pane) e un paio di caprette, e più avanti, in lontananza, si
scorgeva anche un piccolo campo coltivato.
Il cameriere arrivò quasi subito a prendere le loro ordinazioni.
Doveva aver notato l’espressione sui loro volti, scambiandola per fame, ed ecco
che senza troppi convenevoli si appuntò di portare due costolette con patatine
fritte. Dana lo guardò sparire in cucina per portare la comanda, per poi
notare, un’occhiata più su, un quadro di arte moderna dalle dimensioni
notevoli. Riempiva un quarto della lunghezza di quel muro, per rappresentare un
qualcosa che per Dana rimase un mistero.
«Sembra uno dei quadri di papà», osservò Melissa.
«Nel bene e nel male», rispose Dana, e sua figlia si lasciò
scappare una risatina.
Nel bene e nel male, ripeté nella sua testa. Finché
morte non ci separi.
Erano stati sposati per vent’anni. Si erano conosciuti al liceo, e
da subito lei era rimasta affascinata da quel fuoco creativo che gli
imperversava dentro, mentre lui sentiva il disperato bisogno di qualcuno che
guidasse quella sua confusione con rigore.
Il caso aveva voluto che lui si chiamasse Daniel, e che questo li
avesse portati a coniare il loro soprannome (“Dan&Dana”), che, diceva lui,
era un chiaro segno del destino. A Daniel piaceva parlare di grandi disegni, di
fato. A lei non altrettanto.
Erano occorsi vent’anni, però, perché capissero che il caos non
può essere imbrigliato e che il rigore va nei pazzi con delle macchie di
colore, e che il fatto che fossero soprannominati Dan&Dana era
niente più di questo – un soprannome. Nessun disegno del destino, ma solo una
buffa coincidenza.
Dana ricordava bene l’evolversi dell’arte di Dan, e l’aveva
misurata con la voglia, via via più scarsa, di voler esporre i quadri di lui in
casa.
Il primo periodo di Daniel Leery l’aveva visto ritrarre in
particolar modo la moglie, raffigurata sempre col sorriso sulle labbra. Ma non
era solo la posa: era soprattutto la palette di colori chiari e accesi, e
l’espressione di lei che infondeva positività. A Dana piaceva esporre quei
quadri in casa, un po’ perché facevano arredamento, e un po’ perché saziavano
un ego che aveva scoperto di avere solo con lui. Non avrei potuto fare
scelta migliore, sposando un artista, si ripeteva ogni volta che passava da
quella sua personalissima esposizione. Il primo periodo di Daniel Leery –
un’esplosione di amore e colori – però, durò poco meno di quattro anni.
A chi glielo chiedeva, Dana rispondeva sempre che l’improvviso
mutare dell’arte di suo marito era di certo dovuto alla sua nuova condizione di
padre e alle notti insonni che passava per via di Bradley, che piangeva di
continuo. Nessuno però si soffermava a notare le piccole contraddizioni di
quella coppia, come l’assenza di occhiaie, o quanto i due neo-genitori fossero
riposati, a fronte di un bambino descritto come problematico.
Il secondo periodo di Daniel Leery, che durò per i primi anni di
vita di suo figlio, lo fece virare verso l’astrattismo, verso una
destrutturazione delle forme certe in favore di quelle più incerte e
scricchiolanti. Chi guardava i suoi nuovi quadri scherzava dicendo che avevano
bisogno dell’interpretazione dell’autore, e Dana ridacchiava morendo dentro
ogni volta, perché quale spiegazione avrebbe potuto dare? Che il bambino ancora
non parlava come gli altri? Che aveva sempre lo sguardo perso, che sembrava non
afferrare i concetti di base? Che ogni certezza che avevano avuto prima di
diventare genitori era stata spazzata via dall’inusuale mondo di Bradley nel
quale loro non riuscivano a entrare?
Dana ci aveva provato. Ci aveva provato a comunicare con suo
figlio, pensando che sarebbe stato naturale (perché una madre e il suo
bambino si capiscono con uno sguardo, le ripeteva chiunque avesse capacità
di dar aria alla bocca), e invece non lo era stato per niente. Non lo capiva,
punto. E non lo capiva nemmeno suo marito, e lui forse non capiva nemmeno più
la sua arte.
Dan e Dana avevano passato tre anni della loro vita a cercare di
ridare un senso alle forme, a costruire dei nuovi pilastri. Poi alla fine era
arrivata Melissa. Subito dopo il parto, nello stringere con affetto (ma anche
sollievo, soprattutto sollievo) quel frugoletto tra le sue braccia, Dana
aveva sentito finalmente una connessione col sangue del suo sangue, un
vero capirsi con uno sguardo, lasciando che la sua inadeguatezza come madre
diventasse solo un ricordo lontano, convincendosi che quell’amore travolgente
che provava fosse dovuto solo al fatto che il secondo figlio, si sa,
porta meno preoccupazioni – e che il primo figlio fosse Bradley, uno come
Bradley, non c’entrava proprio niente, e che quindi non avesse nulla di cui
vergognarsi.
La nascita di Melissa aveva avuto anche il potere di riportare la
scala dei valori cromatici di Daniel verso i toni chiari, anche se mai come nel
suo primo periodo. Nel fissare il quadro appeso alla parete del rifugio, Dana
si rese conto che quello era stato il primo cenno di cedimento di suo marito.
Sarebbe stato ipocrita, però, fingere che anche lei non avesse pensato, almeno
una volta…
«Ho ancora in testa quel cervo», esordì dal nulla Melissa, e Dana
pensò che quelle parole arrivavano al momento giusto. C’era sempre qualcosa che
arrivava al momento giusto, quando si trovava faccia a faccia con quei pensieri
che voleva seppellire, pensieri che, non sapeva né come né perché, in quel
luogo sembravano aver trovato terreno fertile.
«In fondo, se ci pensi», continuò la ragazza, «se fosse morto per
mano di un uomo, sarebbe stato quasi sicuramente nel bosco e avrebbe perso
sangue, e di certo il cacciatore non l’avrebbe lasciato lì. Lo stesso se fosse
stato attaccato da un predatore. Se invece fosse morto per cause naturali, lo
avremmo trovato rannicchiato da qualche parte, non trovi?»
Dana sorrise. «Qui qualcuno ha studiato, vedo.»
«Dico sul serio», ribatté Melissa, e Dana notò che lo sguardo di
sua figlia non scherzava affatto. «Sembra quasi che qualcuno lo abbia messo lì.
Sai, tipo…»
«I Sabotatori?», domandò Dana, completando la frase.
«Forse avremmo dovuto prendere più seriamente le parole di Heike»,
aggiunse Melissa, con sguardo sempre più accigliato. Dana si accorse che sua
figlia era sull’orlo delle lacrime, così le si avvicinò per accarezzarle la
schiena, offrendole conforto.
La porta del rifugio si aprì insieme al tintinnio di una
campanellina, annunciando l’arrivo di un nuovo ospite. Dana non se ne accorse,
e il suo sguardo continuò a vagare per il quadro appeso alla parete, e provò a
immaginare in quale periodo artistico di Daniel Leery avrebbe potuto
collocarlo.
«Mamma, guarda», sussurrò Melissa, indicando l’ingresso del rifugio.
Lo sguardo di Dana si impietrì di colpo, e dentro di lei cominciò
a serpeggiare una sensazione così spiacevole da chiuderle lo stomaco.
Sua figlia le fece un mezzo sorriso. «È il ragazzo di ieri sera,
quello che mi ha fatto pensare a Brad. Ti ricordi di lui, no?»
Sua madre allentò la presa e Melissa ne approfittò per
divincolarsi. Il ragazzo aveva preso posto al tavolino accanto al loro, situato
all’angolo adiacente del rifugio. Era solo, lo sguardo rivolto verso il
bancone, che non staccò da lì nemmeno quando Melissa prese posto accanto a lui.
Lei provò a osservare ciò che osservava anche lui, ma vide solo il proprietario
alla cassa che riordinava le banconote e sistemava i menù. Li aveva raccolti e
poi battuti sul bancone, finché non si erano riallineati tutti, e li aveva
rimessi accanto al registratore, pronti per essere serviti ai clienti.
Melissa scoccò un’occhiata al ragazzo accanto a lei, temendo che
potesse voltarsi da un momento all’altro e domandarle sorpreso perché diamine
lo stesse fissando. Lei allora avrebbe risposto imbarazzata, farfugliando che
somigliava a suo fratello, certa che lui, proprio come Bradley, non avrebbe
compreso fino in fondo il motivo del suo imbarazzo. A dispetto di ogni
aspettativa, però, lui continuava a essere affascinato dal bancone, e Melissa
era presa a sua volta dallo sguardo del ragazzo, nel quale, per un istante, le
sembrò di poter entrare. Gli occhi di Bradley raramente le davano quella
sensazione, se non si metteva d’impegno, perché il suo mondo era come blindato,
ed entrarci era complesso; e se aveva pensato la stessa cosa di quel ragazzo
quando lo aveva visto la sera prima, non lo pensava in quel momento, dove le
sembrò che stessero viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda.
Lui si voltò all’improvviso, e lei se ne accorse troppo tardi
perché potesse distogliere lo sguardo.
«Scusa», sussurrò, in cerca di una frase fatta che non trovò. «Io
sono Melissa. Piacere.»
Il ragazzo la fissò per un po’, dritta negli occhi. Bradley non la
guardava mai negli occhi, perché lo metteva a disagio. Per questo lei gli aveva
insegnato un paio di trucchi, tipo quello di fissare la radice del naso, per
illudere l’altro che quello fosse proprio un contatto visivo, pur non
essendolo.
Quello del ragazzo, però, lo era. Le sue iridi si muovevano in maniera
quasi impercettibile, spostandosi a osservare ora un occhio, ora l’altro. E
Melissa sentì di nuovo la sensazione che dentro quegli occhi ci potesse
guardare dentro, con la stessa facilità con cui lo faceva con sua madre, suo
padre o chiunque non fosse Bradley. Si sentì pizzicare il naso, come già le era
accaduto da quando aveva messo piede a Leibnitz.
«Leonhard», rispose lui, dopo un’attesa interminabile, e sempre
fissandola.
Melissa non pensava che le avrebbe mai risposto, e per questo era
a corto di argomenti. No, a ripensarci non era quello – in fondo, voleva
chiedergli del cervo. Quello che le mancava era il come. Lui tornò a
guardare davanti a sé, verso la cassa, che ora era vuota. Il proprietario si
era allontanato un attimo, anche se Melissa non aveva visto dove. Fece scorrere
allora il suo sguardo sul profilo del ragazzo, senza sentire più alcun disagio
all’idea di fissarlo al di fuori di ogni convenzione sociale.
«Io e mia madre abbiamo trovato un cervo morto venendo qua», disse
saltando a piè pari i convenevoli. Lui non sbatté nemmeno le palpebre di fronte
a quella frase.
«Era, tipo, mummificato», aggiunse, nella speranza di suscitare
una reazione nel ragazzo.
«Secco», mugolò Leonhard, e il viso di Melissa si illuminò.
«Sì, esatto! Secco», ripeté lei. «Però è strano, no? Di solito un
cadavere non è così.»
Ancora una volta, non ci fu alcuna reazione da parte di Leonhard,
che ora seguiva con gli occhi una coppia sui cinquanta che era appena entrata.
Il proprietario si era di nuovo materializzato, e ora li stava facendo
accomodare al tavolo accanto a quello suo e di sua madre. Non appena si furono
seduti, a Melissa sembrò che il brusio all’interno del rifugio fosse aumentato.
«Non è così», le fece eco Leonhard, e lei pensò che stesse solo
ripetendo ciò che diceva, come a volte faceva Bradley. «Ma qui è così»,
continuò però subito dopo.
«Nel senso che succede spesso?»
Il chiacchiericcio del rifugio fu sovrastato all’improvviso da un
roco vociare. Era una voce grave e ovattata, almeno finché qualcuno non uscì
dalla cucina. La voce apparteneva a un uomo, con uno spruzzo di ciuffi bianchi
e radi come capelli, il volto paonazzo e rugoso, e due mani robuste che ora
sbattevano forti sul bancone.
«È l’ultima volta che mi vedi qui, Peter! E te la farò pagare, fosse
anche l’ultima cosa che faccio!»
Si slacciò il grembiule da cuoco che indossava, logoro e macchiato
di sugo, e lo sbatté sul bancone, facendo sussultare il proprietario.
«Raph, parliamone…»
«No!», urlò l’uomo, con una mano sul pomello della porta d’ingresso
che aprì con forza. «Tu per me sei morto! Morto, capito?»
Il proprietario tentò di inseguirlo, ma la veemenza con cui l’uomo
si chiuse la porta alle spalle lo convinsero che forse era meglio lasciarlo
sbollire. Nella sala era caduto il silenzio. Peter si voltò verso i suoi
clienti, attoniti e a tratti smarriti, e mise su un sorriso di circostanza come
a voler sminuire quanto accaduto. Melissa trattenne a fatica uno starnuto. Le
prudeva davvero molto il naso.
«Tic-toc, tic-toc», squittì dal nulla Leonhard. Melissa si voltò
verso di lui, e osservò i suoi occhi sbarrati e un sorriso divertito. «Tic-toc
tic-toc tic-toc», ripeté ancora lui, più veloce di prima. «Tiiiiiic-toooooc»,
cantilenò di nuovo, con sguardo fisso, quasi fosse posseduto.
«Titititiiiiic-tooooooooooc!»
«Smettila, Leo», gli intimò Peter. Leonhard smise.
Melissa si sentì afferrare per un braccio, e per poco non urlò.
Nel vedere che le dita strette intorno alla sua pelle altri non erano che
quelle di sua madre, però, provò un inedito senso di sollievo, tanto che per
Dana non fu nemmeno necessario strattonare sua figlia – fu lei ad alzarsi di
scatto e a tornare al suo posto. Non aveva salutato Leonhard, ma non gliene
importava granché, ed era certa che non importasse neanche a lui.
Bastò il primo cicaleccio perché nella sala tornasse tutto come
era prima. A poco a poco l’aria si riempì di nuovo di rumore, che sovrastò i
pensieri di tutti, in special modo quelli di Melissa. La ragazza continuò a
fissare Leonhard, incerta se dirgli ancora qualcosa o meno. Intanto, si accorse
che il vetro di una delle finestre era rigato di pioggia. Guardò dietro di sé e
ne ebbe la conferma non appena scorse una perturbazione carica e scura sopra le
loro teste.
Leonhard si alzò poco dopo. Melissa lo guardò sgusciare via dalla
panca su cui era seduto e dirigersi verso l’ingresso. Peter stava ancora
asciugando un bicchiere quando lo vide avvicinarsi alla soglia. Se lo girava
tra le mani, con gli occhi fissi sulla porta, e lo strofinava col canovaccio,
anche se ormai era più che asciutto. Fu solo quando il ragazzo si allontanò del
tutto che Peter si convinse che per quel bicchiere poteva bastare così. Melissa
e Dana tornarono ad aspettare il loro pasto.
Fu Peter in persona a servire loro le costolette. Dana ipotizzò
che avessero circa la stessa età, almeno a giudicare dalla stempiatura dei suoi
capelli. Aveva il volto spigoloso e un paio di sopracciglia folte e scure, ma
anche un sorriso che si dimostrò affabile nel momento in cui augurò loro buon
appetito.
Dana lo trovava affascinante. E anche qualcosa in più, si
ritrovò a pensare, accompagnata dalla sensazione di aver messo la testa fuori
dall’acqua dopo una lunga ed estenuante apnea durata diciotto anni. Mentre lo
guardava allontanarsi e tornare al bancone, Dana lo immaginò svestito e
arrossì.
«Sai cosa mi ha detto Leonhard?»
Dana abbandonò i suoi pensieri. Che diavolo le era saltato in
mente, con tutto ciò che c’era in ballo?
«No, cosa?»
«Che robe come il cervo qui sono normali», bisbigliò Melissa.
Stava tagliando la sua costoletta, ma dopo quella frase si fermò con le posate a
mezz’aria. «Non so, da una parte qualcosa mi dice che dovremmo tornare a casa.
Però vorrei anche scoprire di più sul cervo e su quello che ha detto Leonhard.»
Dana ripensò a ciò che avevano trovato lungo il sentiero, a come
aveva urlato. Ricordò la paura che avevano provato all’idea che il cervo
potesse muoversi, e il sollievo quasi sciocco che le aveva invase quando
avevano constatato che si trattava di una carcassa. E le tornò in mente anche
quella fastidiosa sensazione che l’aveva costretta a usare la parola impossibile.
Lo stomaco le bruciò.
«Non credo che dovresti parlare di nuovo con quel ragazzo. Lo
trovo inquietante.»
Quel ragazzo che somiglia a tuo figlio, Dana?
«Ma mamma…»
Stai dicendo che tuo figlio è inquietante?
«Lis, non discutere. Per favore.»
Melissa ubbidì. L’orologio a cucù annunciò il mezzogiorno.
Dopo una ventina di minuti, Dana era in piedi alla cassa, con la
carta di credito in mano. Osservò Peter afferrarla e inserirla nel lettore, con
le sue dita lisce e ossute. Le fece scorrere sui tasti per inserire la cifra,
poi girò il lettore verso di lei. Melissa era lontana, ancora in piedi accanto
al tavolo, che guardava la pioggia rigare il vetro della finestra.
Di nuovo fu colta da una sensazione che credeva ormai morta sotto
meandri di mesi di astinenza, e, quasi a volersi liberare di quel pensiero
scomodo, digitò il codice della carta e osservò di nuovo il quadro alla parete.
I pensieri di Dana si sopirono, fino a farlo del tutto quando Peter le consegnò
la ricevuta del pagamento.
Lei e Melissa uscirono fuori dal rifugio, ma si fermarono subito
sotto la sua tettoia. La pioggia batteva ancora, e il cielo era chiuso, segno
che non sarebbe migliorato a breve. L’odore acre della stalla e del pollaio si
stava diffondendo rapido, e intriso a quello della pioggia rendeva l’aria quasi
irrespirabile. Sia le capre che le galline si erano rintanate nei loro spazi
chiusi, conferendo all’aia un aspetto piuttosto desolato.
Dana e Melissa si scambiarono un’occhiata. Nessuna delle due,
ovviamente, aveva una mantella o un ombrello.
Non dissero granché durante il viaggio di ritorno verso l’hotel,
nemmeno quando, ripercorrendo a ritroso la stessa strada dell’andata, non
avevano più trovato il cervo sul sentiero. Melissa era troppo impegnata a
ripararsi dalla pioggia per dare peso a un dettaglio del genere, ma in cuor suo
sapeva che, non appena aveva visto il sentiero sgombro, la sua mente era andata
subito ai Sabotatori. E forse era proprio questo che l’aveva spinta a tirarsi
ancora più su il colletto della maglietta e ad affrettare il passo, anche se
all’interno dell’area boschiva la pioggia non cadeva poi così forte.
Il terreno fangoso e scivoloso le aveva costrette a rallentare in
prossimità dei punti più ripidi, facendo sì che il loro ritorno all’hotel
avvenisse solo verso le due. Salutarono Heike alla reception, poi percorsero le
tre rampe di scale, che a Melissa parvero più lunghe e irregolari del solito.
Una volta in camera, si chiuse in bagno con la scusa di farsi una
doccia. Ispezionò comunque gambe e caviglie alla ricerca di zecche (che non
trovò), poi si infilò sotto l’acqua affinché lo scroscio del getto coprisse il
rumore dei suoi pensieri, perché aveva come l’impressione che da fuori si
potessero sentire. Nonostante sapesse quanto quell’ipotesi fosse improbabile,
lasciò scorrere l’acqua davanti ai suoi occhi, senza infilarvici sotto, con il
solo scopo di pensare in libertà. In fondo, anche un cervo mummificato, secco,
prosciugato (o comunque lo si volesse descrivere) era stato definito impossibile
da sua madre, eppure era stato davanti agli occhi di entrambe, ed entrambe
erano sicure di non aver sognato affatto. Quindi ecco che il rumore dell’acqua
che picchiettava sul fondo della doccia le infondeva una certa sicurezza,
quella che cercava da quando avevano rinvenuto la carcassa.
Il primo pensiero che ammise fissando l’acqua fu che Leonhard
aveva un qualcosa che la intrigava. E non nel senso positivo del termine,
quanto più quello che la legava a una dissonanza cognitiva. Era un
termine che ricorreva di frequente nelle lezioni di sua madre, e che spesso
accostava all’intuizione. Forse era più semplicemente legata al fatto che
l’istinto reagisce sempre in maniera più veloce, e spesso più accurata, della
nostra mente. Leonhard aveva una qualche disabilità?, si era chiesta
dunque Melissa. I suoi occhi le avevano detto di sì, perché era chiaro, si vedeva.
Eppure il suo istinto non era della stessa opinione. Eccola là, la dissonanza,
quel cortocircuito nella sua mente che le suggeriva di fare attenzione.
Melissa si infilò sotto l’acqua. Prese un po’ di sapone e lo passò
su tutto il corpo, mentre lasciava che il secondo pensiero le si facesse spazio
nella mente. Leonhard sa qualcosa sul cervo e sui Sabotatori, affermò
con una certa sicurezza. La reazione che aveva avuto davanti alla sfuriata del
vecchio cuoco l’aveva spaventata sul momento, ma lì, sotto la doccia, con i
suoi pensieri al riparo da orecchie indiscrete, aveva la certezza che non
fossero parole buttate a caso. Un’altra dissonanza, la seconda.
E poi c’era la terza. Mentre si sciacquava via il sapone, Melissa
si trovò incerta sul verbalizzare o meno ciò che era stata solo una sensazione,
e che riguardava sua madre. Sapeva che i suoi genitori non si amavano più,
altrimenti non avrebbero divorziato, però…
Melissa chiuse l’acqua, perché era diventata lei stessa quel
qualcuno da cui voleva mettere al riparo i propri pensieri. Si asciugò rapida e
si mise addosso un cambio asciutto, poi uscì dal bagno e si buttò sul
letto.
«Puoi andare tu, se vuoi», disse a sua madre, seduta sul bordo
della piazza opposta, con sguardo perso. Chissà a cosa sta pensando, si
chiese, ma non c’era più l’acqua a proteggerla, e temeva che in qualche modo le
si leggessero in faccia le sue preoccupazioni.
«Faccio veloce», rispose soltanto Dana, prima di infilarsi in
bagno.
Melissa si rannicchiò in direzione della finestra. Il ritaglio di
cielo che mostrava era tetro e per nulla accogliente, smosso solo dalle gocce
di pioggia che cadevano trite e fitte, tanto da lasciar intendere molto poco
del paesaggio che si stagliava oltre il vetro.
Chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dall’oscurità, finché non
scivolò in un sonno dissonante, proprio come lo erano stati i suoi pensieri.
C’era la calma del dormiveglia che precedeva un dormire più profondo, ma
c’erano anche delle immagini, delle persone – no, una soltanto, e quella
persona era Bradley, che apriva bocca ma senza emettere alcun suono. Melissa
provò a camminare in quell’etere oscuro in cui era immersa nel sogno, e le
sembrava più che altro di librarsi in aria, come se non ci fosse stata gravità.
Ecco quindi che si avvicinava a suo fratello, che lo raggiungeva, solo per
rendersi conto che il suo viso diventava ogni secondo più paonazzo, e che non
stava cercando di emettere suoni, ma di respirare. Dalla gola gli uscivano solo
gemiti strozzati, proprio come era il suo collo, sul quale si erano avventate
due mani che stringevano forte, con le dita ben piantate nella carne, e Melissa
provò a urlare con tutto il fiato che aveva in corpo, ma il suo urlo si rivelò
poco più che un sibilo. Suo fratello sarebbe morto se non avesse fatto
qualcosa, così tentò di raggiungere quelle mani senza proprietario, ma più si
librava in aria con piccoli salti, più lui si allontanava, e gli occhi di lui
ruotarono verso l’alto, finché…
Melissa si svegliò di soprassalto. C’era ancora il rumore
dell’acqua della doccia. Aveva dormito per pochi minuti, ma gliene servirono
almeno quattro prima che il suo respiro si calmasse. Doveva chiamare Bradley.
La linea era libera. Melissa immaginò che Bradley fosse sul letto
a sonnecchiare, e che stesse mugolando infastidito per lo squillo del telefono.
Avrebbe risposto a breve, se lo sentiva – e se non lo avesse fatto… be’, non
era una possibilità che voleva contemplare.
Seguirono un altro paio di squilli. Melissa addentò una pellicina
sull’indice, e poi passò all’unghia. Morsicò, morsicò, morsicò. Aveva dieci
anni l’ultima volta che si era mangiata le unghie, e le aveva lasciate così
martoriate che si era ripromessa di non farlo mai più.
Il cuore di Melissa cominciò a battere forte.
Perché non rispondi, Brad?
Morsicò, morsicò, morsicò ancora, infrangendo in pochi secondi
quella promessa di bambina.
La porta del bagno si aprì di colpo. Ne uscì sua madre, con
indosso l’accappatoio e un asciugamano a contenerle i capelli.
«Lis, chi stai chiamando?»
Melissa tirò su col naso e si accorse solo in quel momento che
stava piangendo.
«Mamma, ho paura per Brad.»
Dana aggrottò le sopracciglia e le si sedette accanto, posandole
una mano sulla schiena.
«Perché? È successo qualcosa?»
Subentrò la segreteria e Melissa sussultò. Riattaccò delusa, col
cuore che batteva a mille, e buttò il telefono sul letto.
«Ho fatto un incubo, mamma», rispose lei, prima di lasciarsi
andare ai singhiozzi. Sua madre la accolse in un abbraccio e la accarezzò
ancora.
«Qualunque cosa fosse, era solo un brutto sogno», la rassicurò.
«Eppure era così vero», singhiozzò ancora Melissa. «Qualcuno
voleva uccidere Brad.»
«Lis…»
«Lo stava strangolando», aggiunse la ragazza, stringendosi di più
in quell’abbraccio rassicurante. Dana smise di accarezzarla per un attimo, per
riprendere solo quando i sussulti di Melissa divennero più dirompenti.
«Lis, non può…», le rispose, per poi correggersi. «Non succederà.
Bradley è a casa con papà, al sicuro. Più tardi proviamo di nuovo a chiamarlo,
va bene?»
Melissa sentì il bisogno di lasciarsi cullare di nuovo nelle
certezze di sua madre. Lasciò da parte le consapevolezze che la vita le aveva
insegnato, e scelse di fidarsi di lei.
Bradley è a casa con papà. È al sicuro, si
ripeté, ancora e ancora, come fosse un mantra. È a casa con papà. È al
sicuro…
«C’è sicuramente una ragione se non ti ha risposto», continuò
Dana, col tono pacato che l’aveva contraddistinta fino a quel momento, «e sono
certa che sia una motivazione banale.»
Melissa annuì, e lo fece per ogni volta che sentì sfrecciare
quell’ultima frase nella sua testa. Dopo che l’ebbe ripetuta dieci, quindici,
venti volte, la sua respirazione cominciò a tornare normale. I singhiozzi
l’abbandonarono, e le lacrime cominciarono a seccarsi sulle guance. L’attimo
dopo le sembrò quasi incredibile quanto era appena successo, e il sogno che
aveva fatto cominciò a perdere di lucidità.
Sua madre le rivolse un sorriso, che ricambiò.
«Stai meglio?»
«Sì», rispose Melissa, ancora incredula nel ripensare a quanto
quel sogno l’avesse turbata. Le parole di sua madre smisero infatti di essere
una nenia per tranquillizzarla, e cominciarono a suonare vere anche alle sue
orecchie.
«Finisco di prepararmi in bagno, allora.»
«Va bene.»
Dana si alzò dal letto e si sistemò l’asciugamano che le teneva i
capelli. Rivolse alla figlia un ultimo sorriso e poi sparì in bagno come
annunciato.
Melissa continuò a fissare la porta della stanza anche dopo che
sua madre l’ebbe chiusa, lo sguardo immobile e la testa fissa su un pensiero;
perché in mezzo a tanti sorrisi rassicuranti, Melissa era certa di aver
intravisto, sul volto di sua madre, una piccola, quasi impercettibile smorfia
di terrore.
Dana si offrì di scendere giù alla reception per prendere qualcosa
da bere per lei e Melissa. Quando arrivò, però, non c’era nessuno. Anche la
zona aperitivi era deserta e in generale, quando Dana aprì la porta della
struttura per guardare fuori, si accorse che non c’era anima viva nemmeno sulla
strada che costeggiava l’hotel.
Quello che c’era, però, era un cielo lugubre che rifletteva una
luce curiosa per quell’ora del giorno. Gli edifici sembravano accarezzati da un
bagliore sinistro, luminosi ma stagliati su nuvole scure.
Dana non seppe dire se a soffocarla fosse di più l’hotel deserto o
la cittadina fantasma. In ogni caso, prendere il cellulare e chiamare il suo
ex-marito le sembrò quanto di più piacevole potesse esserci, anche quando sentì
di nuovo la voce di lui dall’altro capo del telefono.
«Dana? Grazie al cielo hai chiamato.»
Un brivido la percorse. Ripensò al sogno di Melissa, a ciò che le
aveva raccontato.
«È successo qualcosa a Bradley?», domandò, con un allarmismo nella
voce che la fece agitare ancora di più.
«Qualcosa del genere», rispose lui, calmo. Dana si sentì gelare, e
le finestre dell’edificio di fronte, incorniciate da quel legno scuro e solido,
sembravano guardarla e giudicarla.
Sappiamo cosa hai fatto, parevano dirle. Eppure,
bisbigliò nella sua mente, nessuno sapeva. Tranne…
«Dana?», la sollecitò Dan.
Lei si riscosse. «Sì? Cos’è successo?»
«Ha avuto una delle sue crisi, e lo sa il cielo quanto ci ho messo
a calmarlo», rispose lui, quasi spazientito.
In Dana si fece largo un moto di stizza. Sapessi quanto ci ho
sempre messo io, avrebbe voluto rispondergli. Per tenere a freno la lingua,
però, si rigirò tra le dita il lembo inferiore della maglietta, e più passavano
i secondi, più il sapore della stizza diventava qualcos’altro, finché non
assunse le sembianze di un dolce aroma.
Dolce come la vendetta, si disse tra sé e sé, con un
sorriso sulle labbra che non le apparteneva.
«Sta bene, adesso?»
«Sì, ora sì. Farfugliava di continuo qualcosa su te e Melissa. Mi
ha fatto quasi paura.»
Dana chiuse la porta dell’hotel. Le sembrava che entrasse troppo
freddo da fuori, lo stesso freddo che le si era insinuato sotto la maglietta, e
ora le era penetrato nelle ossa, e nella parte più intima del suo cuore.
«L’importante è che sia passato», tagliò corto Dana. Aveva fretta
di tornare da Melissa, al caldo. Si guardò intorno, solo per notare la
reception vuota. Sopra c’erano depliant e guide dei sentieri della zona, così
come un registro cartaceo dove erano appuntati i nomi degli ospiti. Si capiva
che ogni tanto qualcuno passava da lì e che la contabilità era aggiornata, ma
non poté fare a meno di trovare quell’angolo piuttosto stantio, quasi
cristallizzato nel tempo.
«Laggiù come procede? Vi state divertendo?»
Ripensò a tutto quanto: il cervo morto, i Sabotatori, Leonhard…
Peter.
Dana sospirò. «Sì, non ci possiamo lamentare.»
La conversazione proseguì in maniera cordiale e con qualche
convenevole, che mise una pezza ai silenzi imbarazzanti che ormai si
insediavano spesso nelle loro conversazioni. Comunicare non era mai stato
facile, si rendeva conto in quel momento Dana, ma finché erano stati sposati
aveva sempre fatto uno sforzo. Dopo la separazione, però, non c’era stato più
alcun bisogno di farlo. Non c’era più un matrimonio da tenere in piedi, né
sorrisi forzati da dispensare.
Quando Dana riattaccò, corse subito su per le scale, verso la
camera. Correva talmente tanto che rimase vittima degli scalini dell’ultima
rampa, ma lei era accorta (oh, eccome se lo era!) e il corrimano l’aveva
salvata. Bussò alla porta col fiatone, che tentò di calmare non appena Melissa
la fece entrare.
«Come sta Brad?», le chiese subito, non appena la porta le si
chiuse alle spalle.
«Bene», rispose Dana, conscia di aver detto una mezza verità. «È
con papà, ed è tutto a posto.»
I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo. Dana
fu colta impreparata, e l’attimo dopo si rese conto che i suoi stessi occhi
avevano messo a nudo l’altra parte di quella mezza verità.
«Okay», rispose soltanto Melissa, prima di distogliere lo sguardo
da lei e tornare a sedersi sul letto.
Dana si sentì a disagio. Aveva nascosto qualcosa a sua
figlia.
Ma in fondo, le sussurrò una voce nella sua testa, non è la prima volta,
no?
La sala da colazione era avvolta nell’ombra. Entrando, Melissa e
Dana avevano cercato l’interruttore, ma senza successo. Alla reception non c’era
nessuno a cui chiedere, e anche la sala stessa era deserta. Si presentava
comunque come un ambiente ampio, con spazio per almeno sei o sette tavoli,
molti dei quali addossati alla fila di finestre che dava sulla strada. Melissa
e Dana si erano sedute in prossimità della finestra, per avere un filo di luce
che illuminasse il tavolo, e forse anche che scacciasse l’oscurità che
sentivano dentro.
La colazione prevedeva un paio di brioche a testa e un succo di
frutta. Melissa sentiva ancora lo stomaco gorgogliare dopo che ebbe dato
l’ultimo morso, e la desolazione del cestino da pane già vuoto le fece venire
ancora più fame.
«Dovremmo andare al supermercato a comprare qualcosa», suggerì a
sua madre.
Dana addentò la seconda metà dell’ultima brioche. «C’è un
supermercato?»
«Sì», rispose Melissa con un sorriso. «Ci siamo passate accanto
quando siamo arrivate il primo giorno, ricordi?»
Sua madre buttò giù il boccone e scosse il capo. «No. A volte mi
sembra già tanto che ci siano altre persone, qui.»
Fu proprio in quel momento che Melissa udì aprirsi la porta
d’ingresso della struttura. Lanciò un’occhiata verso la soglia della sala da
colazione, nella speranza di vedere chi fosse entrato nell’edificio. Dana, che
dava le spalle all’ingresso, si voltò seguendo la direzione del suo sguardo.
«Oh, be’, c’era da aspettarselo», disse la voce di quella che
riconobbero essere Heike. «D’altronde, dopo quello che è successo al rifugio…»
D’istinto, Melissa e Dana si guardarono, come attraversate dallo
stesso pensiero. Heike continuò a mugolare qualcosa, senza fornire ulteriori
dettagli, eppure Melissa sapeva che il presentimento che le si era insinuato
nella mente era lo stesso che albergava in quella di sua madre.
Si strinse nella felpa che aveva addosso, infreddolita da un
brivido che non sembrava volerla abbandonare. Lo sguardo le cadde poi su un
piccolo rimasuglio di brioche che sua madre aveva lasciato nel piatto. Sapeva
che non aveva più fame.
La telefonata terminò. Melissa e sua madre si scambiarono
un’occhiata d’intesa, e tanto bastò perché entrambe si alzassero per dirigersi
verso la reception. Heike posò la borsa sullo sgabello che accompagnava il
bancone, dopodiché si sfilò la giacca a vento e la appese all’attaccapanni. Fu
solo in quel momento che si accorse di Melissa e Dana, e sussultò.
«Dio, che spavento! Non vi ho sentite arrivare.»
«Scusa», si giustificò Melissa, senza aggiungere altro. «È
successo qualcosa al rifugio?»
Sua madre la guardò stupita, come a ricordarle che saltare i
convenevoli era qualcosa di assolutamente vietato dal manuale della buona
educazione, quello a cui sembrava tenere così tanto. Melissa intercettò il suo
sguardo e le rispose con un’alzata di spalle e tornò a guardare Heike.
«Sì», le rispose, per poi prendere posto sullo sgabello e
afferrare uno dei libri contabili. «Raphael è morto.»
Melissa si sarebbe posta la stessa domanda, se non fosse stato per
un flashback del giorno prima. Le tornarono alla mente il rifugio e Leonhard,
ma anche il proprietario che cercava di calmare un uomo uscito dalla cucina… Raph,
l’aveva chiamato.
«È morto?», domandò Melissa, scadendo l’ultima parola, come
se solo in quel momento avesse messo insieme i pezzi.
Lo abbiamo visto solo ieri, pensò, e oggi è morto. L’idea
che la vita potesse dare e togliere a suo piacimento la fece rabbrividire
ancora di più. Melissa si strinse di nuovo nella felpa, ma si rese presto conto
che nessun tessuto avrebbe potuto proteggerla da quella nuova consapevolezza.
«Sì», rispose Heike, che ora aveva afferrato una penna, «lo hanno
trovato stamani.»
Ripensò a ciò che era successo al rifugio il giorno prima, alle
parole d’odio che Raph e Peter si erano scambiati. Possibile che…?
«È stato un omicidio?», chiese Melissa con un pizzico di
preoccupazione. D’altronde, si disse, il rifugio non distava poi così tanto
dalla città.
«Oh, no», le sorrise Heike. «A Leibnitz non ci sono omicidi.»
Melissa e Dana si scambiarono un’occhiata, incerte su come
interpretare quella frase, senza proferire parola. Il loro silenzio durò così a
lungo che Heike cominciò a scrivere qualcosa sul libro contabile, senza curarsi
né della loro presenza, né di ciò che aveva appena detto.
La mente di Melissa, però, rincorreva un pensiero. E fu solo
quando il suo sguardo incrociò l’orologio sopra la reception che riuscì a
catturare quel pensiero, che presto diventò una scena vera e propria, con tanto
di suoni e sensazioni.
«Vorrei parlare con Leonhard», disse Melissa con una certa
agitazione nella voce. «Sai dove posso trovarlo?»
Heike smise di scrivere. «Chi? Lo scemo?»
In principio si sentì sbigottita. Devo aver sentito male,
fu il suo primo pensiero. Non può averlo detto davvero, fu invece il
secondo. Quelle parole, però, le sentiva talmente tanto a ripetizione nella sua
testa che si convinse di aver sentito benissimo. Fu in quel momento che spuntò
la rabbia.
(SCEMA SCEMA! SCEMA COME BRAD!)
La rabbia di non saper difendere suo fratello dai mali del mondo.
La rabbia di non saper difendere neanche se stessa. E la paura che a nessuno
sarebbe importato di farlo, di impedire che scene come quella si ripetessero
ancora e ancora.
(SCEMA COME BRAAAAAAD!)
«Come ti permetti?», sussurrò soltanto, con la voce rotta da
un’emozione che la caricava e spaventava allo stesso tempo. Strinse i pugni,
invasa da un calore che avrebbe volentieri stracciato quella felpa che non
l’aveva protetta da alcunché.
«Mamma!», gridò, rivolgendosi a Dana. «Ti prego, di’ qualcosa!»
«Io…»
Tornò a guardare Heike con tutto il disprezzo di cui era capace.
Ma non era solo disprezzo, no: c’era un nuovo sentimento che si stava facendo
largo dentro di lei, uno tsunami di emozioni che l’avrebbero portata anche a
urlare e a sfasciare tutto.
Io l’ammazzo!, sentì nella sua mente. L’AMMAZZO!
Proprio quando quelle parole stavano per sgusciarle via dalle
labbra, si fermò.
«Non ti agitare, ragazzina», sembrò schernirla Heike. «Non volevo
dire quelle cose.»
Si accorse che stringeva i pugni meno di prima. E che il suo
respiro, da gonfio che era, ora stava tornando a un ritmo normale.
«Non solo non dovresti dirle», rimarcò però Melissa. «Non
dovresti neanche pensarle.»
Heike si lasciò sfuggire un sorrisetto che a Melissa non piacque
per niente.
«Lo so, lo so. Ho capito. Mi dispiace.»
Sì, certo, come no, si disse tra sé e sé con sarcasmo.
Ripensò però alle parole che l’avevano attraversata poco prima, un sentimento
che le era del tutto sconosciuto, e se ne vergognò. Come le era venuto in mente
di pensare una cosa del genere?
«Quindi sai dirci dov’è?»
«No», rispose secca Heike. «Ma forse al rifugio sapranno dirvi
qualcosa di più.»
Melissa e Dana si scambiarono un’ulteriore occhiata, l’ennesima
che non aveva bisogno di parole.
«Va bene. Grazie», la liquidò, trattenendosi dall’aggiungere
altro.
Tornarono in camera, senza che nessuna delle due proferisse
parola, nemmeno sulla pericolosità dell’ultima rampa e sulla necessità di
tenersi al corrimano. Quando Melissa chiuse la porta, si rese conto che sua
madre aveva taciuto fin troppo con Heike. Si disse che c’era senz’altro un
motivo, una ragione che aveva intenzione di chiarire. Inoltre, in quella
stanza, si era levato un tanfo terribile. Voleva chiedere a sua madre se
potesse essere lo scarico, ma non aveva voglia di parlarle.
Dana osservò le sue scarpe da trekking piene di fango e si lasciò
sfuggire una smorfia disgustata. Aveva piovuto tanto nelle ultime ore, e se
percorrere quel sentiero l’aveva già infastidita il giorno prima, quando era
relativamente asciutto, c’era solo da immaginarsi come la facesse sentire in
quel momento.
Melissa era davanti a lei, e camminava scaltra, incurante del
fango che si attaccava sulle suole e che talvolta le schizzava sugli stinchi.
Lo stesso non si poteva dire di Dana.
Ogni passo emetteva un rumore simile a quello di uno schiaffo
sulla pelle a riposo, mentre le sue scarpe da trekking affondavano nelle pozze
di fango diventando, a poco a poco, sempre più sporche. Aveva dei buoni
calzettoni a proteggerle i piedi, ma niente che la proteggesse
dall’insofferenza di quel rumore. Alla fine si era ridotta a saltare di zolla
in zolla, attenta a evitare le pozze, con più fallimenti che successi.
Avrebbe voluto dire qualcosa a sua figlia. Sentiva, dentro di sé,
un peso che a ogni passo si faceva sempre più grande e fagocitante, che la
divorava coi sensi di colpa.
Perché?, riusciva solo a chiedersi, consapevole che quella era solo la
prima parola di una domanda che non era capace di porsi per intero. Ci provò un
altro paio di volte, senza che le parole trovassero una forma nella sua
mente.
Melissa la stava distanziando sempre più. Camminava guardando
davanti a sé, senza preoccuparsi di lasciarla indietro. Era stato così fin dal
primo momento in cui aveva lasciato l’hotel, dopo la discussione con Heike.
Come il giorno prima, si erano dirette ai confini della città svicolando tra un
paio di strade che si snodavano tra le poche abitazioni presenti; poi si erano
incamminate sulla strada asfaltata che segnava l’inizio del sentiero, finché
non si erano inerpicate nel vicolo sterrato che le aveva condotte sulla via che
stavano percorrendo.
Per tutto quel tempo, Melissa non aveva detto una parola. E mano a
mano che proseguivano, la ragazzina si allontanava sempre più da Dana: prima un
passo avanti a lei, poi due, poi dieci. Era quasi in grado di avvertire il
risentimento proveniente da sua figlia, quasi fosse stata una luce che si
irradiava tutt’intorno a lei. Sapeva che Melissa era arrabbiata, ma Dana non
aveva idea di come tirare fuori il discorso. Sì, i sensi di colpa che provava
c’erano, forti e chiari; eppure Dana sapeva che forse non erano per ciò che
aveva provato, ma per un sentimento che avrebbe dovuto far capolino e che
invece non si era proprio presentato.
Melissa si voltò indietro. Dana ebbe solo conferma di ciò che
aveva solo intuito, a giudicare dal cipiglio sul volto della ragazzina.
«Sei lenta, mamma», la rimproverò. Tornò a guardare davanti a sé e
proseguì. Dana pensò che forse si era voltata perché non sentiva più i suoi
passi – spirito di sopravvivenza, insomma.
Bene, pensò. Così ora mi odierà anche lei.
Sapeva di non poterla biasimare.
Sono una pessima madre.
Oh, sì che lo sei, le sussurrò con malizia una voce
gracchiante di donna. Vogliamo parlare di quello che è successo, Dana? Sai,quel piccolo incidente di qualche tempo fa…
«Sta’ zitta!», urlò Dana. Melissa, com’era prevedibile, si voltò
di scatto verso di lei.
«Prego?!»
Sua figlia aveva un’espressione incredula sul viso.
«Non dicevo a te, Lis», tentò di giustificarsi Dana, ma la smorfia
sul volto di sua figlia sembrava chiederle se la credesse stupida. La ragazzina
spalancò le braccia, in cerca di una spiegazione, ma Dana si limitò a fare
un’alzata di spalle.
«Davvero», provò ancora, «stavo solo… pensando.»
Melissa le lanciò un’occhiata, la stessa che Dana aveva immaginato
sul volto dei suoi studenti quando avevano ritrovato il cervo. Starà
pensando che sono pazza, concluse tra sé e sé. E forse non avrebbe tutti
i torti.
La ragazzina schioccò la lingua e alzò gli occhi al cielo, per poi
tornare a camminare.
«Lis?», la richiamò. Melissa si fermò di nuovo scocciata e la
guardò torva, e Dana per la prima volta le vide sul volto un guizzo di
maturità, che ritenne inusuale per una ragazzina di appena quattordici anni. Le
sembrò quasi che i ruoli si fossero invertiti, che fosse lei stessa a dover
giustificare una marachella (oh be’, qualcosa di più) di fronte a sua
figlia.
Dana recuperò i passi di distanza che le avevano separate fino a
quel momento, finché non si trovarono faccia a faccia, col cipiglio di Melissa
che la metteva sempre più in soggezione. Quando poi sua figlia incrociò le
braccia, in un chiaro segno di chiusura, Dana ebbe la sensazione che quella
maturità fosse molto più di un guizzo.
«Lis…», iniziò, con un tale tono paternalistico da irritare ancora
di più Melissa, «quello che vorrei dirti è che spesso dobbiamo scegliere le
battaglie da affrontare. Non tutte valgono la pena di essere combattute, se
questo significa indebolirsi.»
«Certo», ribatté sarcastica, «perché non è a te che dicono che sei
scema.»
«E cosa credi che mi dicano? Come pensi che mi trattino?»
Melissa liberò le braccia con un gesto di stizza e tornò a
camminare.
«Lis, aspetta!»
Dana la raggiunse e la fermò per un braccio, costringendola a
guardare sua madre negli occhi.
«Perché per una buona volta non pensi anche a Brad, mamma?»
Melissa aveva ancora le labbra socchiuse quando finì quella frase.
Dana si sentì rabbrividire, temendo che potesse aggiungere altro, che potesse
nutrire ancora il suo senso di colpa. Invece quelle stesse labbra non fecero
spazio ad altre parole, lasciando che il seguito di quella frase – quella che
forse Dana non riusciva a trovare dentro di sé – fluttuasse incorporea sopra le
loro teste, senza che nessuna delle due volesse acciuffarla.
Gli occhi di Melissa si inumidirono. Quando le divenne
insostenibile, la ragazzina si voltò per proseguire.
Fu questione di un attimo.
Melissa mise il piede su una zolla di terra imbevuta d’acqua. Ci
fu uno smottamento, e scivolò, precipitando oltre il sentiero. La sua sagoma
uscì dal campo visivo di Dana in un istante.
Dana si precipitò laddove era scivolata, e trovò le dita di sua
figlia ficcate nel terreno dove fino a poco prima aveva camminato, con le
scarpe da trekking piene di fango che si affacciavano sullo strapiombo sotto di
lei, mentre con gli occhi ancora umidi guardava sua madre.
Dana si accovacciò e la prese per i polsi, stringendoli e tirando
più forte che poteva.
«Mamma!», gridò terrorizzata. «Aiutami, ti prego!»
«Ci sto provando!»
Provò a tirare con tutta la forza che aveva. Melissa cercava di
fare presa con le scarpe, ma il fango sulle punte si era solidificato, e non
riusciva a piantarle nel terreno. I suoi piedi non facevano altro che
scivolare, e tentava, tentava invano, quasi fosse stata su un tapis roulant che
non aveva intenzione di fermarsi.
«Tieni duro, Lis», provò a rassicurarla sua madre, ma in realtà si
sentiva persa. Melissa non riusciva a fare leva, e lei non aveva abbastanza
forza da tirarla su. Non poteva permettersi di piangere, né di dare
l’impressione a sua figlia che non ci fosse più niente da fare.
«Mamma, ti prego», gridò ancora Melissa. «Non voglio morire. Non
voglio!»
«Non morirai, tesoro, te lo giuro.»
Strinse i suoi polsi ancora di più, ma le ginocchia avevano
cominciato a scivolarle, perché la forza con cui Melissa la stava trascinando
giù era troppo forte.
«Non riesco a fare forza coi piedi, mamma», singhiozzò ora, con la
voce strozzata come quando aveva ribattuto con Heike. «Ti prego, aiutami. Dimmi
cosa devo fare. Tu sai sempre cosa fare. Mamma. Per favore.»
Melissa proruppe in un pianto dirompente. Le ginocchia di Dana
scorsero un altro po’. I muscoli delle braccia cominciavano a farle male.
Osservò gli occhi di sua figlia, e si sentì morire perché non sapeva affatto
come aiutarla. Né come aiutare se stessa.
Precipiterà, si disse soltanto. Se la lascio andare,
precipiterà e morirà.
Si guardò intorno, in cerca di un appiglio, qualunque cosa. Ma
c’era solo lo strapiombo fatto di alberi e foresta, dove Melissa sarebbe
rotolata, guadagnando velocità, graffiandosi, fino a schiantarsi contro un
tronco, una roccia o sapeva il cielo cos’altro.
«Mamma cosa devo fare ti prego», singhiozzò tutto d’un fiato. «Non
lasciarmi cadere. Non voglio cadere.»
Dana guardò oltre i piedi di sua figlia. Le sue braccia non
reggevano più. Forse si sarebbe impigliata in qualche ramo e avrebbe evitato di
schiantarsi contro una roccia. Tirò su un’altra volta, ma era troppo
sbilanciata.
Di colpo, Melissa smise di urlare e di piantare i piedi nel fango.
Gli occhi della ragazzina si spalancarono. Dana lesse terrore in quello
sguardo, ora perso nel vuoto, in un qualcosa però che sembrava stagliarsi alle
sue spalle.
Dana ancora tremava da capo a piedi. Guardò i polsi di sua figlia
avvolti da dita lisce e ossute, e quelle stesse mani che facevano forza e
tiravano.
L’hai lasciata andare, Dana, la rimproverò la voce gracchiante. Come
hai potuto?
Dana tornò alla realtà e si precipitò verso sua figlia, così
chiuse le sue mani intorno agli avambracci di Melissa, e fece forza, tirando su
con tutta l’energia che aveva in corpo.
«Ce l’abbiamo, Dana, ce l’abbiamo! Ancora un ultimo sforzo…»
Fece come l’uomo le aveva detto, e tirò ancora, con le braccia che
le facevano male e il cuore a mille che pensava le sarebbe esploso dal petto.
Il corpo di sua figlia tornò più bilanciato verso il sentiero, e
le scarpe di Melissa ricominciarono in qualche modo a collaborare. Quelle dita
lisce e ossute cinsero la ragazzina per i fianchi, fino a riportarla del tutto
sul sentiero.
Dana si buttò su sua figlia e l’abbracciò. Per un attimo temette
che Melissa l’avrebbe scansata, o che le avrebbe recriminato qualcosa; invece
la ragazza ricambiò il gesto, stringendola forte e lasciandosi andare a un
pianto sommesso. Dana le accarezzò la testa, e a poco a poco rilasciò tutta
l’adrenalina che aveva in corpo.
Avrebbe voluto dirle qualcosa, eppure c’era una morsa allo stomaco
che la frenava. Così, quando Melissa smise di piangere, sciolse l’abbraccio e
alzò gli occhi per vedere chi avesse salvato la vita di sua figlia.
Era Peter.
Lui si rialzò e tese una mano a Dana per fare altrettanto, ma
l’istinto la spinse a non accettare e, anzi, a stringere di nuovo a sé Melissa.
«Come sai il mio nome?», domandò con una diffidenza che non riuscì
a celare. Piantò i suoi occhi in quelli di Peter, temendo che l’uomo potesse
fare qualche gesto avventato. L’attimo dopo si ricordò della morte di Raphael,
di quanto era successo al rifugio e il cuore tornò a batterle in maniera
irregolare. Forse è in combutta con Heike, pensò in preda al panico. Forse
ci stava seguendo, ipotizzò ancora.
Peter, però, rise, senza tirar via la mano ancora tesa verso di
lei.
«Non ricordo il cognome», scherzò lui, «ma sono sicuro che sulla
tua carta di credito ci fosse scritto proprio “Dana”.»
Lei lo fissò. Non seppe dire per quanto tempo, ma abbastanza
perché il sorriso dalle labbra di lui lasciasse posto a un filo di imbarazzo.
«Oh», rispose soltanto. Allentò la presa su Melissa, senza nemmeno
rendersene conto. Tuttavia, il suo sguardo continuava a essere rapito da quello
di Peter. C’era qualcosa in quei suoi tratti spigolosi che parevano
rassicurarla.
«Stavo scendendo a valle, quando ho sentito delle voci», spiegò
ancora lui. «Ho voluto vedere di chi si trattasse e poi ho sentito le grida.»
Dana lo studiò ancora un po’. Scrutò i suoi occhi, dentro ai quali
non trovò traccia di menzogna; così lasciò andare del tutto Melissa e accettò
l’aiuto per rialzarsi in piedi.
«Grazie.»
«Tutto bene, ragazzina?», domandò Peter a Melissa.
Lei mosse qualche passo verso sua madre, solo per rendersi conto
che le faceva male una caviglia. Forse era una storta, forse qualcosa di
peggio.
«Ti fa male, tesoro?»
Melissa fece un altro paio di passi, durante i quali il suo viso
si contrasse in una smorfia di dolore.
«Un po’.»
Dana fece mente locale sul tempo che sarebbe occorso per tornare
in città, salire quelle maledette rampe di scale, cercare una farmacia o un
medico…
«Io non abito lontano», si intromise Peter, come se le avesse
letto nel pensiero. «Possiamo dare un’occhiata lì a questa caviglia. Il
percorso non è complicato.»
Dana e Melissa si guardarono, proprio come avevano fatto quella
mattina in sala colazione, consapevoli che, ancora una volta, erano state
attraversate dallo stesso pensiero. Tuttavia, sapevano che le scelte a loro
disposizione non erano poi molte. Scendere a valle da sole, senza un aiuto,
sarebbe stato piuttosto complicato.
Meglio essere il braccio destro del diavolo, che mettersi sul suo
cammino, pensò Dana. Si disse che, se davvero Peter aveva qualcosa a che
fare con la morte di Raphael, era senz’altro meglio averlo vicino che doversi
guardare le spalle da lui.
Dana incrociò lo sguardo dell’uomo, e si rese conto solo in quel
momento di avere i muscoli del viso contratti in un’espressione corrucciata e
diffidente. Scoccò un’occhiata a Melissa e si accorse che anche per sua figlia
era lo stesso.
Quasi come se avesse letto loro nel pensiero ancora una volta,
Peter si lasciò andare a un timido sorriso.
«So anche che avete fatto domande sul cervo», disse, e
l’espressione sul volto di Dana e Melissa mutò. «Immagino che siate curiose di
sentire qualche risposta.»
Peter si era caricato Melissa sulla schiena. Dana aveva osservato
ogni singolo movimento, certa di scovare prima o poi qualcosa di pericoloso in
lui. Prima di mettersi in cammino verso casa di Peter, aveva voluto prendere
qualche precauzione. Gli aveva chiesto in che direzione fosse la casa, e lui
aveva indicato un punto in direzione est. Dana aveva provare a dare
un’occhiata, ma vedeva solo alberi. Non ebbe però modo di dubitare che le
stesse conducendo davvero in quella direzione, perché il sole, benché coperto
da qualche nube e dalle fronde degli alberi, si stagliava proprio davanti a
loro.
D’un tratto, il cielo si oscurò. Dana continuò a camminare, senza
mai perdere d’occhio Melissa e Peter, nemmeno quando il bosco si fece più
fitto. Le sembrò che improvvisamente fosse scesa la sera. Sobbalzò quando
schiacciò un rametto con lo scarponcino. Al momento di scostare alcune fronde
con le mani, le sembrò di vedere qualcosa muoversi a lato.
È solo suggestione, Dana. Non essere sciocca.
Eppure, continuò a lanciare un’occhiata laddove le sembrava di
aver intravisto il movimento. Fu solo quando incespicò su una radice che si
convinse a distogliere lo sguardo, per poi tornarci con la coda dell’occhio un
attimo più tardi.
L’aria divenne putrida. Aveva piovuto molto nei giorni precedenti,
e là non arrivavano né luce né calore. Era inevitabile che ci fosse un ristagno
d’acqua, e che provocasse quell’insopportabile odore di muffa. Si guardò gli
scarponcini e vide che aveva delle foglie appiccicate sulla punta.
Melissa, però, non si era voltata neanche una volta. Sembrava
tranquilla sulla schiena di Peter, e anche lui non pareva minimamente stanco di
portare quel peso. Camminava adagio, senza indugi, ed era chiaro che conoscesse
quella strada a menadito.
Chissà se troveremo qualcos’altro, lungo il cammino, si disse Dana.
Un altro cervo, o forse… qualcosa di peggio.
Alzò gli occhi solo per notare le fronde degli alberi che si
intrecciavano, rendendo ancora più buio il sentiero. Dana si chiese come fosse
possibile che a quell’ora della mattina potesse essere così buio… e pregò solo
che quel percorso non fosse presagio di qualcosa. Una metafora,
un’immagine.
Ma no, si rassicurò ancora. Stiamo solo andando a casa di Peter.
Il tragitto durò altri venti minuti. Dana fu certa di aver visto
qualcosa muoversi tra i cespugli.
Melissa era ormai piuttosto stanca quando, finalmente, davanti ai
suoi occhi comparve uno spiazzo, con al centro un’abitazione. Non aveva mai
dubitato che sarebbero arrivati – d’altronde, in caso contrario, era certa che
sua madre avrebbe opposto resistenza a quell’invito.
Casa di Peter era un casolare in mattoni piuttosto grande,
disposto su due piani che, a occhio, contenevano ciascuno quattro o cinque
ampie stanze. Vi si giungeva da un sentiero acciottolato, che in prossimità
della porta d’ingresso faceva da spartiacque a un paio di aiuole di fiori ben
curate. Si fermarono sotto a un porticato in legno, adornato da rami d’edera
che si snodavano tra le travi. Nell’osservarle, Melissa fu scossa da un
tremito. Le sembravano pronte a divincolarsi e ad afferrarla, per poi trascinarla
chissà dove. Si immaginò quelle liane stritolarla, forse fino a morire.
La sua fantasia non proseguì oltre, perché Peter la mise giù,
costringendola così a distrarsi. La caviglia le faceva ancora un po’ male, ma
niente che non sarebbe passato nel giro di qualche ora, o un giorno al massimo.
Il dolore, però, le ricordò come se lo era procurato. Osservò i suoi piedi e i
suoi scarponcini, gli stessi che non erano riusciti a fare leva sulla parete di
terra per farla risalire su. Le sue gambe divennero molli di colpo e Melissa
sentì l’urgenza di fare pipì.
Sua madre le si avvicinò all’improvviso e la prese per un polso.
Nello stesso istante, Peter stava girando le chiavi nella toppa, e proprio
quando la serratura scattò, Dana strinse ancora di più le dita intorno al polso
di sua figlia. Melissa fu scossa da un tremito per la seconda volta nel giro di
pochi minuti.
«Prego, entrate», disse loro Peter con un cenno del capo. Melissa
seguì sua madre nel dare una sbirciata all’ingresso, ma nessuna delle due ci
vide niente di strano. Quello che però non sfuggì a entrambe fu un cicaleccio
che proveniva da un’altra stanza.
«C’è qualcun altro in casa?», domandò Dana, stringendo la presa
ancora di più.
«Sì, non vivo da solo», rispose Peter con naturalezza. «È più
conveniente così, per tanti motivi», aggiunse poi.
Dana annuì e stiracchiò un sorriso. Peter rinnovò il suo invito a
entrare e, dalla presa di sua madre, Melissa intuì che non si sentiva del tutto
al sicuro. Anche lei stessa, in fondo, era consapevole che quella caviglia
l’avrebbe messa al tappeto in tante situazioni.
Attraverso gli spiragli lasciati dai rami d’edera, diede
un’occhiata al cielo. Le nuvole erano scure e cariche, e avevano coperto del
tutto la luce del sole. Tutto ciò che rimaneva era un riverbero fioco, e il
vento che muoveva le fronde degli alberi nel fitto della foresta. Melissa pensò
ancora alla sua caviglia.
«Entriamo, mamma», la esortò, sperando di non pentirsene.
Il crepitio della fiamma del camino fu il primo rumore che avvolse
Melissa non appena mise piede in quella casa. Era situato sulla destra, in una
struttura a mattoni rossi. Accovacciata davanti, con l’attizzatoio in mano,
sedeva una donna più vecchia di sua madre, e dava loro le spalle. Era minuta e
all’apparenza tozza, e le fiamme del fuoco facevano brillare il grigio dei suoi
capelli.
Quando Peter chiuse la porta dell’abitazione, la donna si voltò di
scatto con un’espressione accigliata, che lasciò spazio a un sorriso non appena
lui le si avvicinò per fare le presentazioni.
«Mamma, loro sono Dana e…» Peter incespicò nel tentativo di
ricordarsi il nome della ragazzina.
«Melissa», lo aiutò lei.
«Molto lieta», rispose la donna, stringendo la mano prima all’una
e poi all’altra. «Io sono Lydia.»
Melissa notò i suoi denti ordinati. Anche i capelli erano ben
tenuti e in fondo, dando un’occhiata alla camicetta con trine sul colletto che
indossava, si sarebbe potuto dire al massimo che era demodé, ma non che fosse
stropicciata o sfilacciata. Melissa provò una sensazione di calore al petto, di
una ritrovata sicurezza.
In fondo a quella grande stanza, c’era una cucina in rovere
illuminata da una piccola finestra con delle tendine beige. La cappa sopra ai
fornelli si intonava col resto, così come un paio di mensoline poste su una
credenza a mezza altezza. Sopra c’erano contenitori cilindrici che riportavano
le scritte “Sale” e “Zucchero”. Melissa si avvicinò, e lì accanto adocchiò un
altro attrezzo cilindrico con sopra una manovella.
Lydia glielo porse. «È un macinino», le spiegò con la stessa voce
rassicurante con cui si era presentata. «Vuoi vedere come funziona?»
Melissa scoccò un’occhiata verso sua madre. Era davanti al camino,
con le mani protese verso il calore della fiamma e gli occhi indirizzati di
sottecchi verso Peter, che si scaldava accanto a lei.
«Magari un’altra volta», rispose a malincuore. Glielo rese, e per
un attimo si domandò se la signora Lydia non avesse bisogno di aiuto nel
rimetterlo a posto, visto quanto si allungò per riporlo sulla mensola. Le
tremavano le mani – Melissa lo notava solo in quel momento – e la sua pelle era
secca e rugosa.
Sembra così vecchia, ora, pensò. Le sorrise per mascherare quel
pensiero.
Zoppicò nel tornare da sua madre e Peter. Si lasciò distrarre da
un orologio a cucù alla parete, che divideva una fila verticale di pentole di
ottone. Guardò Lydia e si chiese se fossero lì per arredo o se le avesse invece
usate nel corso della sua vita.
«Lis, siediti. Starai sicuramente meglio», le suggerì sua madre,
indicando un divano angolare color panna che Melissa notava solo in quel
momento, dirimpetto al camino. Il dolore alla caviglia tornò a pulsare e non se
lo fece ripetere due volte.
«Che è successo, cara?», le domandò Lydia, che si sedette insieme
a lei.
«Ho dolore alla caviglia», rispose soltanto. Sebbene la donna le
ispirasse sicurezza, c’era ancora qualcosa in quelle quattro mura di legno che
non la faceva sentire tranquilla.
Lis, è vecchia, tentò di rassicurarsi. Anche se avesse un
coltello, non potrebbe certo rincorrerti. Il fuoco crepitava con
regolarità, come fosse stato un silenzioso spettatore.
«Vado a prenderti del ghiaccio, piccolina», le disse ancora la
signora Lydia con una certa premura. Peter la ringraziò e lo stesso fece Dana,
mentre la guardavano allontanarsi e sparire in una stanza adiacente
all’apparenza più piccola.
«Vorrei farti fare il giro della casa, Dana», esordì Peter.
Melissa si scambiò uno sguardo con sua madre, talmente fugace che non riuscì a
decifrare le reali sensazioni di lei. Sul volto di Dana si fece largo un
sorriso che Melissa definì sincero. E quella sensazione di calore, di rinnovata
sicurezza, lasciò spazio a qualcosa di più criptico dello sguardo di poco
prima.
«Va bene.»
«Faremo in un attimo, Melissa, non preoccuparti.»
In quell’attimo di silenzio tra le parole di Peter e la risposta
che stava per dare, l’unico sottofondo era il costante crepitio del fuoco e il
fruscio della signora Lydia in quello che doveva essere il bagno.
«Ma certo. Andate pure», rispose con un sorriso forzato. Per ogni
passo con cui sua madre si allontanava, Melissa sentiva crescere sempre di più
la necessità di guardarsi letteralmente le spalle. Si voltò, ma vide solo un
piccolo corridoio e l’ingresso per una stanza in fondo e una a lato, accanto
alla quale c’erano le scale che sua madre e Peter stavano percorrendo.
Cominciano dal piano di sopra?
Le si formò un’immagine, nella mente, ma non era macabra. Era più
qualcosa che aveva a che fare con il divorzio dei suoi. Qualcosa che
l’aveva attanagliata anche sotto la doccia il giorno prima.
La signora Lydia stava ancora cercando il ghiaccio, e ogni tanto
borbottava qualcosa.
Ci mette tanto, per un po’ di ghiaccio. E se…?
Si tastò la caviglia. Il dolore per un attimo fu lancinante. Si
voltò poi verso la porta d’ingresso, chiusa, ma non a chiave. Sostò con gli
occhi sulla piccola finestra della cucina, troppo piccola perché potesse
passarci senza fare acrobazie.
Tornò a guardarsi alle spalle, chiedendosi cosa ci fosse in quella
stanza in fondo al corridoio. E fu lì che, a fare capolino dallo stipite della
porta, vide suo fratello Bradley.