Niente di cui scusarsi

di Airborne
(/viewuser.php?uid=214804)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5.1 ***
Capitolo 6: *** 5.2 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7.1 ***
Capitolo 9: *** 7.2 ***
Capitolo 10: *** 8 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Avvertenze:
questa fanfiction si discosta un po’ dal canon, soprattutto per quanto riguarda le età e le tempistiche. Come riferimento, durante gli avvenimenti del primo capitolo della mia storia Tenzō ha 9 anni, mentre in Naruto gli stessi fatti avvengono quando lui è un bambino molto molto piccolo, se non addirittura un neonato. Nella mia storia, Tenzō è più grande di Itachi di 5 anni, mentre nel manga se ne passano solo 2.
(Insomma, per una volta mi sono concessa di prendermi delle libertà.)
Buona lettura!

 

----------------------------------------------------------------------------------------------------

 

Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well you
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

1

Tenzō

 

 

 

Tenzō è spaesato. Non c’è altro aggettivo che si attribuirebbe in quel momento. Non capisce niente, non sa niente. Si ricorda alcune sensazioni: l’acqua sulla pelle, il suono di una voce, un qualcosa che potrebbe anche essere felicità se solo sapesse a quale momento della sua vita (di cui, per quanto si sforzi, non conserva alcun ricordo) è collegato. Il dottore, un uomo sorridente con i capelli riccissimi, gli ha detto che ciò che gli è successo gli ha fatto perdere la memoria, che forse, tra un po’ di tempo, inizierà a ricordare. Non tutte insieme, però, ha precisato. Non gli ha nemmeno detto cosa gli è successo esattamente, come mai una mattina si è svegliato in ospedale senza sapere come ci fosse finito.

Il Terzo Hokage è un uomo gentile. Lo saluta con un gran sorriso quando entra nel suo ufficio, e lo invita a sedersi alla scrivania, davanti a lui. Gli chiede come sta; lui risponde con un flebile e tremante «Bene» nonostante non si sia ancora tolto i cerotti dalle braccia e non si senta ben fermo sulle gambe.

«Ti dirò tutto quello che è successo, Tenzō». Lo guarda negli occhi ancora per un secondo mentre lui aspetta, incerto se rispondere o meno. Alla fine non ce n’è bisogno. «Il dottore mi ha detto che non ti ricordi niente. Che non sai perché ti sei ritrovato in ospedale».

«No, signore».

«Mentre dormivi, un ninja ha… guardato nella tua mente e ha ricostruito cos’è successo».

Tenzō non dice niente.

«Non è una bella storia, Tenzō, voglio che tu lo sappia. Ma ricordati che a Konoha sarai sempre protetto».

Konoha. Quel nome lo ricorda. È il posto in cui vive.

«Un ninja di nome Orochimaru ti ha rapito molti mesi fa per svolgere un esperimento».

«Orochimaru?» Questo non lo ricorda.

«Abitava anche lui a Konoha, una volta. Fino a poco tempo fa, a dire la verità. Purtroppo, di recente ha fatto cose che vanno contro la legge, come l’esperimento di cui eri parte».

«Che esperimento era, signore?» domanda Tenzō arrossendo, incapace di trattenersi.

«Tu sai chi era il Primo Hokage?»

«Il… il primo capo di Konoha?»

«Esatto. Era un ninja molto forte, in grado di combinare il chakra di terra e di acqua per utilizzare un’abilità nota come Tecnica del Legno».

Tenzō non è sicuro di aver capito bene, ma non osa interrompere l’Hokage.

«Questa particolare tecnica lo ha reso noto in tutto il mondo, e molte persone lo ritengono il ninja più forte di sempre.

«Orochimaru è riuscito a reperire alcune cellule dal corpo del Primo Hokage e le ha impiantate in te e in altri bambini, cercando di potenziarvi per farvi ottenere le sue abilità». Lo sguardo del Terzo Hokage si fa più diretto, e Tenzō si sente improvvisamente a disagio. «Vi ha tenuti a lungo nel suo laboratorio, addormentati, registrando le reazioni del vostro corpo. Però alla fine l’esperimento è andato male. Tu sei l’unico sopravvissuto».

Il Terzo Hokage fa una pausa più lunga delle precedenti, senza spostare lo sguardo dal suo. Tenzō non è sicuro di come si dovrebbe sentire, di cosa quelle parole vogliano dire. È spaesato, e vorrebbe smettere di sentirsi così.

«Sei sopravvissuto, e sei stato un successo, dal punto di vista scientifico. Ora hai le cellule del Primo Hokage nel tuo corpo e potrai usare la Tecnica del Legno».

Ancora una volta, Tenzō non sa come dovrebbe reagire. È una cosa buona? Deve esserlo, visto che il Primo Hokage è stato il ninja più forte di tutti i tempi. Ma come può essere una cosa buona se così tanti bambini come lui sono morti nella sua realizzazione? Non è neppure una cosa naturale. Sembra una cosa finta, in un certo senso, sporca. Tenzō non vuole essere né finto, né sporco, né una persona cattiva.

«C’è qualcosa che non capisci, Tenzō?»

Molte cose.

«No, credo di aver capito tutto, signore».

Il Terzo Hokage lo scruta con i suoi occhi castani, e questa volta Tenzō non riesce a sostenere il suo sguardo. «Se ti servisse qualcosa, gli abitanti del villaggio ti aiuteranno sempre. Compreso io».

Il Terzo Hokage, aiutare lui?

«I prossimi tempi non saranno molto facili per te, Tenzō. Ma sei sempre stato una persona forte, e ce la farai».

E così era una persona forte anche prima dell’esperimento di Orochimaru? Bè, è confortante.

«Ho parlato con i consiglieri della tua situazione, e siamo giunti alla conclusione che la cosa migliore per te sia entrare nella Radice».

«La Radice? Cos’è, signore?»

«Sai chi sono gli ANBU?»

Tenzō fa cenno di no.

«Gli ANBU sono le forze speciali di Konoha. Sono tutti ninja molto forti che possiedono abilità particolari, e sono incaricati di missioni molto pericolose ed estremamente importanti. Sono la punta di diamante del nostro esercito. La Radice è una sezione speciale degli ANBU, di cui fanno parte ninja solitamente molto giovani che in futuro diventeranno la punta di diamante degli ANBU. Tu sarai uno di loro». Il Terzo Hokage gli sorride benevolo. «Diventerai uno dei ninja più forti di Konoha».

Di questo, Tenzō è contento. Essere fortissimi non è mai una cosa cattiva.

«Andrai alla caserma della Radice questa sera stessa, e inizierai ad allenarti lì. I tuoi senpai e i tuoi maestri ti aiuteranno a controllare la Tecnica del Legno».

Però c’è qualcosa che non va, in quel piano.

«Non sarà facile, te lo dico onestamente. La Radice ha regole molto severe, e la vita al suo interno, come tra gli ANBU, è dura. Ma ce la farai».

«Signore» dice agitandosi sulla sedia, «dovrò stare sempre lì? Potrò tornare a casa, qualche volta?»

L’espressione del Terzo Hokage cambia di nuovo. Adesso è ancora gentile, ma Tenzō scorge qualcosa che non gli piace. Non saprebbe dire cosa, di preciso.

«La Radice sarà la tua casa. Ora, non spetta a me spiegarti le regole che dovrai seguire, ma questo deve esserti molto chiaro fin da subito. Non…» esita, «non sarai nessuno, fuori dalla Radice. Nessuno conoscerà il tuo nome, né le tue abilità, né la tua vita, a parte i tuoi compagni nella Radice e tra gli ANBU. Almeno, fino a quando non ti saranno assegnate missioni che richiederanno che tu operi al di fuori dell’organizzazione, ma questo succederà solo tra molti anni».

«Ma… Non potrò vedere nemmeno i miei genitori?»

L’espressione dell’Hokage si fa più dolce, ma lui ha ancora meno voglia di sentire la sua risposta.

«I tuoi genitori non ci sono più da tanto tempo, Tenzō».

Gli si mozza il respiro.

«Non te lo ricordi, ma lo hai sempre saputo. Sono caduti durante una missione, quando tu avevi cinque anni».

È una strana sensazione. Crede al Terzo Hokage, gli crede quando dice che lo ha sempre saputo, ma non ne ha memoria. Fino a pochi secondi prima, nella sua mente mamma e papà erano lì a Konoha, da qualche parte, ad aspettare di vederlo tornare a casa o di potergli fare visita in ospedale. Non è concepibile che non sia così, non è reale. E fa male scoprire che sono morti da tanto tempo. Tenzō non ha ricordi che li riguardino, ma fa male. Fa così male che piange anche se non vorrebbe. Lui è forte, può usare le tecniche del Primo Hokage. Non dovrebbe piangere.

«Sarà difficile, Tenzō. Ma tu sei un ragazzo forte».

Non se lo ricorda, ma lo spera davvero.

Poco dopo, nell’ufficio del Terzo Hokage entrano un ninja con il volto mascherato e un signore che gli fa paura. Quest’ultimo si presenta come il capo della Radice, Danzō. Il ninja mascherato, invece, gli viene presentato come Jun’ichiro, il suo senpai da ora in poi. Tenzō attraversa la città con loro. Entra nella caserma degli ANBU, e gli viene detto che non ne uscirà prima di un anno.

È triste, e ha paura. Ma è un ragazzino forte, e non ha famiglia all’infuori della Radice. E capisce presto che quella regola, la prima dello Statuto della Radice, la più importante, per lui è più vera che per molti altri.

 

----------------------------------------------------------------------------------------------------

Note
Ho scritto questa storia nell'arco di due anni, penso, e sì, la mia incostanza è l'ostacolo principale alla mia passione per la scrittura. Non è una storia che mi premeva in modo particolare, né ne sono chissà quanto soddisfatta. Però A) l'ho finita, e visto come mi sono andate le cose negli ultimi anni da sempre nell'ambito scrittura, già questo è un gran risultato, e B) è la prima volta che mi cimento a scrivere di missioni, scene d'azione e riflessioni esplicite sull'universo di Naruto. Inoltre, per qualche imperscrutabile motivo non mi andava di farla marcire per sempre nel mio computer, perciò ho deciso di pubblicarla ugualmente. D'altra parte, penso che nemmeno Stephen King sia soddisfatto di tutti i suoi millemila romanzi allo stesso modo.
In totale sono otto capitoli; oggi pubblico i primi due, e ne seguiranno uno a settimana fino ad arrivare alla conclusione. Forse dividerò i capitoli più lunghi in due. Cercherò di pubblicare sempre il mercoledì.
Ringrazio fin da ora chi vorrà recensire, ma anche solo chi leggerà. Già questo mi farà molto piacere.
Buona estate,
Airborne

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well you
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

2

Kakashi

 

 

 

Da quando Obito e Rin sono morti, la caserma degli ANBU è il posto più accogliente di Konoha. Non è un’opinione popolare, quella. Gli abitanti del villaggio nutrono rispetto per gli ANBU, ma anche soggezione, e gli ANBU stessi non trascorrono molto tempo in caserma se possono evitarlo. Non tutti hanno quel lusso, ma lui sì. Kakashi ha il lusso di avere una casa propria, una casa di cui è l’unico abitante da sette anni e che, a dirla tutta, preferirebbe non avere. Ci sono ricordi dolorosi a ogni angolo, in quella casa, e lui ci si sente solo. È una sensazione che gli si è attaccata addosso alla morte di suo padre e non viene più via, come un’ostinata macchia d’olio sui vestiti; ed è ancora peggio da quando non c’è più Rin. Non gli è rimasto più nessuno, salvo il maestro Minato e quindi, appunto, nessuno, dal momento che il suo maestro è il ninja più impegnato di Konoha. Non avrebbe mai creduto che l’assenza di legami potesse pesargli così tanto. Molti lo criticano, molti dicono che si atteggia troppo, mentre dovrebbe essere un ragazzino normale con degli amici e una vita (quasi) spensierata. Ma si sbagliano: Kakashi non si è mai atteggiato, è schivo e freddo e arrogante di suo. Quindi, non ha mai creduto che sarebbe arrivato un momento della sua vita in cui avrebbe sentito tutto il peso della solitudine.

Nella caserma degli ANBU non c’è un momento di solitudine neanche a pagarlo oro. C’è sempre un gran andirivieni e nessuno si ferma molto, se non quelli che dormono lì; ma qualcuno c’è sempre. Non è Obito, non è Rin, ma certe volte, specialmente dopo i giorni di riposo in cui non fa niente e non parla con nessuno, è un sollievo. Soprattutto, è un sollievo perché solo lì ci sono persone che sanno cosa vuol dire sacrificare i propri compagni in nome di una missione. Nemmeno tra gli ANBU è un’alternativa popolare, ma ognuno di loro, prima o poi, è costretto a prendere quella decisione. Un ninja ordinario ha sempre un certo margine di scelta, un ANBU no. A quei livelli ci sono troppi interessi in gioco per potersi permettere il lusso di preferire la vita di un compagno, o la propria, alla missione. E anche se nessuno di loro conosce le vicende che hanno portato alla morte di Obito e di Rin, tutti capiscono e nessuno lo critica. Lo lasciano semplicemente in pace, ben sapendo che lui, come tutti gli altri, ha i propri traumi da gestire, e che ne può guarire veramente solo curandosi a modo suo. E il suo modo è parlarne ai diretti interessati, davanti a un monumento nella foresta, e basta.

Se solo potesse tornare indietro nel tempo.

Molti lo salutano nei corridoi della caserma. Kakashi, suo malgrado, è sempre stato la mascotte degli ANBU. Nessuno è mai entrato nei corpi speciali così giovane e pochissimi hanno il suo talento. Fuori da lì è disprezzato per la sua storia e il suo carattere, ma all’interno della caserma è stimato per gli stessi motivi. Non si può dire che abbia amici tra gli ANBU: tanti compagni, ma nessuno con cui vorrebbe veramente condividere qualcosa di più. E sono tutti così più grandi di lui, con le proprie vite così diverse dalla sua. Nessuno gli nega una chiacchierata, ma nemmeno si spinge più in là di così.

Però, ad alcuni di loro piace averlo intorno. Jin è uno di questi: un jonin di diciotto anni forte e con un gran sorriso sempre piantato in faccia, che fa casino come tre Obito messi insieme e odia le missioni di assassinio. A Kakashi sta simpatico. Preso a piccole dosi. Non lo vede da giorni, perciò non si fa pregare quando Jin lo chiama a gran voce dall’altro lato della mensa, agitando furiosamente un braccio. È in compagnia di altri due ninja, Ogai e Toshio, con cui Kakashi non ha scambiato più di una decina di parole nell’arco della vita, che lo salutano quasi con altrettanto entusiasmo.

«Che ci fai da queste parti?» gli domanda Jin porgendogli un pezzo di carne secca, che lui rifiuta con un cenno della testa.

«Rapporto, sono appena rientrato da una missione. Che si dice?»

«Niente di che» sbuffa Jin. «Domani parto per il Paese dell’Acqua. Scorto il Daimyo».

«Che spasso» ridacchia Toshio.

«Non mi lamento, è un incarico rilassante».

«Perché il Daimyo se ne va nel Paese dell’Acqua?»

«Vai a capire. Di sicuro per un motivo del cavolo, quello lì vive in un mondo tutto suo. Spero solo che non se ne esca con richieste strane, ho sentito storie davvero raccapriccianti».

«Sì, tipo quella volta che…»

Ma Kakashi non ascolta il racconto di Ogai. È ora di pranzo anche per la Radice, a quanto sembra. Fanno quasi paura, quei ragazzini, mentre entrano in mensa in fila per due, tutti vestiti uguali, con la bocca chiusa e lo sguardo fisso davanti a loro. Gli fa quasi impressione sapere che alcuni sono più piccoli di lui. La sua infanzia non sarà stata bella, ma non farebbe a cambio per nulla al mondo. È macabra, la Radice: è macabro che la divisione più rigorosa e militarizzata di Konoha sia composta da bambini.

«Vedi quello laggiù?» gli chiede Jin mentre Ogai ancora parla, indicando a dito un ragazzino in fondo alla fila. È piccolo, perso e ha due occhi enormi. Kakashi non lo ha mai visto prima. «Si chiama Tenzō. È entrato nella Radice solo un paio di giorni fa».

«Come fai a conoscerlo già?» domanda, osservandolo mentre aspetta pazientemente il suo turno di ricevere il pranzo. Spicca all’interno del gruppetto della Radice, anche solo perché è nuovo. E spaesato. È molto spaesato, anche per gli standard dei nuovi arrivati alla Radice.

«È stato il soggetto della mia ultima missione».

«Cosa?»

«È uno dei ragazzini di Orochimaru».

Ah. Brutta storia.

«Hai sentito parlare dell’esperimento che ha fatto con le cellule del Primo Hokage?»

«Sì, ho sentito qualcosa».

«Tenzō è l’unico sopravvissuto. Il trapianto è stato un successo, su di lui. Ora può usare la Tecnica del Legno».

Kakashi non si sorprende facilmente, ma quella è una cosa di cui entusiasmarsi. Anche se lui non mostra mai il suo stato d’animo.

«Non che ne sia già in grado. È appena uscito dall’ospedale. Sono stato la sua guardia del corpo mentre era ricoverato».

«E i vecchi hanno ben pensato di metterlo nella Radice» commenta Kakashi distogliendo, infine, lo sguardo dal ragazzino.

«Non che avessero molta scelta. Il fatto che sia sopravvissuto non significa che sia del tutto fuori pericolo. Nessuno ha mai fatto un esperimento del genere prima d'ora, e non si sa come reagirà il suo corpo a distanza di mesi o anni».

«E non volevano farsi scappare un asso nella manica del genere».

«Sì, anche quello» ridacchia Jin. «Si sono presi una bella gatta da pelare, nessuno ha la più pallida idea di come allenarlo nella Tecnica del Legno».

«Com’era, prima?»

«Nella media, pare. È diventato genin a sei anni, ma non è ancora stato promosso a chūnin. Non credo sia mai stato al fronte». Kakashi spera per lui che non ci vada mai, al fronte. «È orfano, i suoi genitori sono morti in missione parecchi anni fa. È stato in un istituto fino a quando Orochimaru non l’ha rapito. Non ha comunque una casa».

Kakashi coglie il pensiero che ha spinto Jin a rivelargli quella cosa, e gliene è grato. È una bella sensazione sapere che c’è qualcuno che ha a cuore il suo stato d’animo, anche senza darlo a vedere, anche senza chiederglielo. «Credo che diventerà un ninja interessante» dice solo.

«Se esce indenne dalla Radice».

Kakashi rabbrividisce. Menomale che lui non ci è finito, nella Radice. Spera, come fa per tutti i ragazzini dell’organizzazione, che quel Tenzō sia abbastanza forte da sopravvivere. E spera che non debba mai, mai fare i conti con qualcosa come Obito e Rin.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

3

Tenzō

 

 

 

Ogni mattina, quando si sveglia, Tenzō è contento. Riflettendoci avrebbe molti motivi per non esserlo, ma non gli importa. È contento perché ha uno scopo, dei compagni che chiamare famiglia sarebbe più corretto, una vita migliore di molte altre in un villaggio ninja stabile di un Paese non dilaniato dalla guerra, dalla povertà o dalla criminalità organizzata. È contento che il suo scopo sia mantenere quella situazione invariata, perché può dedicare la sua vita a migliorare quelle degli altri.

Ovviamente, Tenzō non sa di essere contento per queste ragioni. Ha solo tredici anni, dopotutto, ha uno stile di vita che nessun tredicenne dovrebbe avere, fa cose che nessun tredicenne dovrebbe fare e il suo passato è pieno di traumi, e a dirla tutta non è mai del tutto contento di svegliarsi, perché i suoi doveri lo buttano giù dal letto alle cinque del mattino quando, avendo tredici anni e un compagno di stanza coetaneo, passa le serate a trovare pretesti per non andare a dormire, ma è contento. Ha il suo posto nel mondo, cosa che a molte persone manca.

Sono un bel posto, gli ANBU, al contrario di quello che molti dicono. Ci si trova bene. Ci si trova anche meglio di quanto non facesse nella Radice. Non è del tutto sicuro che il suo passaggio da un’organizzazione all’altra sia stato un buon segno (d’altra parte, se gli ANBU sono la punta di diamante del villaggio, la Radice è la punta di diamante degli ANBU), ma ci sta decisamente meglio. Nemmeno nella Radice si era trovato male, ma solo ora si rende conto di quanto fosse dura la vita sotto il comando diretto di Danzō. E, soprattutto, è molto più divertente. Niente allenamenti sfibranti nel cuore della notte, tanto per cominciare, e molte meno regole. Anche se gli tocca comunque alzarsi tutti i giorni alle cinque, quando non gli viene ordinato di prepararsi ancora prima per missioni molto mattiniere. Per fortuna non è uno di quei giorni, ma non è ancora del tutto sveglio quando viene il suo turno di entrare nell’ufficio dell’Hokage per l’assegnazione degli incarichi.

«Kakashi Hatake, Tenzō, Itachi Uchiha».

I due nomi pronunciati dall’assistente dell’Hokage insieme al suo lo svegliano di colpo. Li conosce entrambi, e conosce Itachi anche di persona. Gli sta simpatico, quel ragazzino: è piccolo, più piccolo di lui, ed è estremamente schivo, ma si è sempre trovato bene durante le missioni che hanno svolto insieme. Kakashi, invece…

Su Kakashi girano un sacco di voci. Tenzō non gli ha mai nemmeno rivolto un saluto, ma sa tutto di lui: che è stato allievo del Quarto Hokage, di come suo padre, il leggendario Zanna Bianca, è morto, di come sia tornato da una missione con un compagno in meno e uno Sharingan in più e di come la sua altra compagna di squadra sia morta in sua presenza in circostanze non chiare. Lo stesso Kakashi è quasi una leggenda tra i compagni: jōnin a tredici anni, il secondo ANBU più giovane della storia e l’unico che abbia già capitanato ninja molto più grandi ed esperti di lui, un numero assurdamente esiguo di missioni fallite e feriti gravi o deceduti nella sua squadra. Ed è strano che perfino lui, dopo soli pochi mesi negli ANBU, sappia tutto di Kakashi, ma che quest’ultimo rimanga comunque circondato da un’impenetrabile aura di mistero e soggezione.

Certo, quella maschera non aiuta pensa guardandolo di traverso nell’ufficio dell’Hokage, incapace di trattenere la curiosità. Nessuno lo ha mai visto in viso, a quanto si dice. Tenzō si è sempre chiesto il perché di tutto ciò. Non crede che lo scoprirà durante la missione che li aspetta.

«Ah, sì» sorride l’Hokage. «voi tre».

A volte, Tenzō pensa che il Terzo Hokage si diverta alle spalle dei suoi sottoposti. Quell’atteggiamento gli fa sospettare che abbia formato quella squadra, composta dai tre ANBU più giovani, per pura curiosità.

«Missione di ricognizione» gracchia l’Hokage con la pipa tra le labbra. «Ci sono stati segnalati degli strani movimenti in questa zona», e indica un’area boschiva sulla mappa di fronte a lui, a un paio d’ore di strada da Konoha, «e sospettiamo che ci sia lo zampino di una qualche banda mai notata prima. Stazionerete là due giorni e farete rapporto domani sera, segnalandoci ogni cosa sospetta che avrete notato. Nessuno deve sapere che siete lì».

Una missione piuttosto rilassante, pensa Tenzō. Ne è contento, ogni tanto gli ci vuole.

«Il capitano, ovviamente, sarà Kakashi».

Non c’erano dubbi.

«Andate».

 

 

 

È davvero una missione rilassante, constata Tenzō a fine giornata, quando si accampano in una grotta in cui di lì a breve farà un freddo cane. Non possono fare altrimenti: hanno una visuale perfetta sui dintorni, cosa che permetterà loro di tenere sott’occhio la situazione. Durante il giorno hanno individuato una serie di tracce molto strane, il che ha spinto Kakashi a ipotizzare che la banda di briganti esista davvero, che sia composta da una decina di persone parecchio alle prime armi e dagli intenti non troppo definiti. “Un branco di buffoni”, li ha definiti con grande sorpresa di Tenzō. Un linguaggio del genere non gli si addice proprio.

Nessuno dei tre ha parlato molto durante la giornata. La missione lo richiede, dopotutto, ma è comunque strano. Tenzō non è un chiacchierone, ma è socievole. Ci tiene ad andare d’accordo con i compagni, a conoscerli, per quanto possibile nella loro condizione di ANBU. Kakashi, in particolare, lo incuriosisce molto. Ha solo sedici anni, ma sembra molto più esperto e autoritario di altri. Anche dietro la maschera da cane, il suo sguardo attento è perfettamente avvertibile e anche parecchio pesante, se deve dirla tutta. Kakashi gli sembra il tipo di persona che giudica spietatamente gli altri, soprattutto i propri sottoposti durante una missione. D’altra parte, tra i doveri di un caposquadra c’è anche quello di riferire ai superiori il comportamento dei compagni, segnalandone i punti di forza e debolezza, in modo da poterli sfruttare e correggere affinché le missioni successive siano assegnate ai ninja più adatti. Non è un tipo di giudizio che gli mette pressione o lo preoccupa, però. È un giudizio professionale e giusto nella sua spietatezza.

O forse è tutta una sua impressione e Kakashi è la persona più tranquilla del mondo, e lui si è semplicemente fatto suggestionare da tutte le voci che circolano a riguardo.

Aveva anche sperato di vederlo usare lo Sharingan, ma data la natura della missione dubita che succederà. Dovrà vivere ancora un po’ con quella curiosità.

«Stanotte vi organizzerete su turni» esordisce ancor prima di aver finito il suo pasto. La sua voce è profonda, ferma e imperturbabile. «Dobbiamo tenere sott’occhio la zona per tutta la notte. Farete guardie di quattro ore, mentre l’altro riposerà. Decidete voi chi comincia».

«Tu cosa farai, capitano?» gli chiede Itachi. Lui sì che è incredibile. Essere lì a undici anni, parlare a un suo superiore con quel tono… Tenzō ne ha quasi paura, a volte.

«Io pattuglierò la foresta per osservare la situazione più da vicino. Tornerò qui all’alba e vedremo il da farsi, a seconda dei movimenti che avremo registrato. Non dimenticate di annotare tutto quello che cattura la vostra attenzione, ogni minima cosa».

«Non dormirai neanche un po’?» domanda Tenzō. Non è una cosa infrequente nelle missioni degli ANBU, ma è sempre meglio evitarlo, se possibile, e quell’incarico non è così essenziale da richiedere una dedizione del genere. Anche lui o Itachi potrebbero pattugliare la foresta per qualche ora, se servisse.

«No, la missione è più importante» risponde fissandolo con l’unico occhio scoperto, mortalmente serio. «Questa può sembrare una banda trascurabile, ma non lo è. È esattamente il tipo di organizzazione che in futuro potrebbe darci un sacco di grane, se non ce ne occupiamo adesso. Potrebbe anche essere trascurabile sul serio, ma non possiamo permetterci di ragionare in questo modo».

Tenzō è sorpreso e ammirato. Non molti compagni con cui ha lavorato hanno la dedizione di Kakashi.

«Però potresti riposare un po’ anche tu, capitano. Potremmo darti il cambio poco prima dell’alba, che è l’ora in cui è meno probabile che si muovano. Così controlleresti comunque la situazione nei momenti cruciali, ma recupereresti anche un po’ di forze per la giornata di domani».

Sì, i ragionamenti di Itachi lo lasciano decisamente a bocca aperta. Lui, dall’alto dei suoi due anni in più, non ha minimamente pensato a organizzarsi in quel modo.

«No, non vi preoccupate di questo» rifiuta ancora una volta Kakashi. «Voi avete molto più bisogno di dormire di me. E poi sono abituato a rimanere sveglio per più giorni di fila». Quel commento chiude la conversazione.

Kakashi sparisce nella foresta poco dopo, al calare del sole, mentre Tenzō e Itachi stanno finendo di mangiare. Itachi ha preso il primo turno di guardia, ma non è ancora lontanamente l’ora in cui Tenzō si mette a dormire, così si siede accanto a lui stringendosi nel mantello. Sono esposti al vento e fa già parecchio freddo. «Che ne pensi di Kakashi? Nemmeno tu ci avevi mai lavorato prima, vero?»

«No» conferma Itachi. «Mi piace. Sa quello che fa e non perde tempo».

«Non ti sembra un po’ troppo… rigido?»

«No. È solo molto bravo».

«Ho capito, ma negarsi così qualche ora di sonno, solo per orgoglio…» Per Tenzō, rinunciare volontariamente a dormire quando si potrebbe benissimo evitare non è nemmeno concepibile, soprattutto quando hai passato la giornata a correre di qua e di là e sai che l’indomani sarà uguale.

«Non credo sia orgoglio. Secondo me è dedizione».

Se le ricorderà, Tenzō, quelle parole.

 

 

 

La notte è tranquilla, ma Kakashi non si concede un minuto di riposo. Lui dorme anche troppo, invece: Itachi lo sveglia con mezz’ora di ritardo rispetto alla fine del suo turno di guardia, dicendo che “mi sono perso nei miei pensieri e non mi sono accorto del tempo che passava”. Fresco come una rosa, al pari del loro capitano.

Ora, Tenzō non si considera affatto un ninja debole o poco preciso nel suo lavoro, ma quei due sono dei mostri. Di Itachi lo sapeva, naturalmente, ma per quanto riguarda Kakashi non si era mai davvero fidato delle voci che circolano su di lui. Credeva che fossero ingigantite all’estremo, ma anche se quella è solo una missione di ricognizione è più che evidente che tipo di ninja sia Kakashi, non solo per il modo in cui regge alla fatica e all’assenza di sonno. Non esita mai, non si concede un singolo attimo di distrazione anche quando potrebbe benissimo farlo, non fa rumore quando si muove e non lascia tracce del suo passaggio. Utilizza tecniche senza nemmeno formare i sigilli e la sua mente sembra sempre essere tre passi avanti ai fatti, e Tenzō è convinto che l’unico motivo per cui non hanno ancora messo le mani sui banditi è che gli è stato ordinato diversamente. Anche quella diceria è totalmente vera: Kakashi segue le regole alla lettera e si assicura che lui e Itachi facciano lo stesso. Sembra saltato fuori dai manuali ninja della Radice.

Tenzō avrà occasione, più avanti, di vedere quanto ciò sia vero solo fino a un certo punto. Ma in quel momento pensa solo che non è sicuro di volerlo vedere all’opera in una missione più movimentata, perché gli legge negli occhi (nell’occhio) che sarebbe disposto a sacrificare qualunque cosa pur di portarla a termine con successo. E lui non ha nessuna intenzione di lasciarci le penne a tredici anni.

E poi, dopo due giorni di ordini comunicati a gesti durante i quali Tenzō ha visto piano piano scemare le possibilità di conoscere il leggendario Kakashi Hatake più da vicino, la suddetta leggenda vivente decide di farlo lui, sempre che la sua frase possa essere considerata tale.

«Tenzō» lo chiama, e lui si volta rallentando il passo, aspettando che lo raggiunga. Lo fissa negli occhi dall’alto dei suoi venti centimetri in più, ed è intimorente.

«Hai fatto un buon lavoro».

E non è niente, sono cinque misere parole, ma Tenzō si sente come se non gli avessero mai fatto un complimento migliore.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

4

Kakashi

 

 

 

Quando rientra a Konoha dopo una missione di tre giorni, Kakashi capisce subito che c’è qualcosa che non va. Kurenai e Rie, che presidiano l’ingresso al villaggio, sono da tutt’altra parte con la testa, e nonostante ci sia un trambusto innaturale Konoha sembra oppressa da una cappa di desolazione. Anche il vento che spazza le strade è aggressivo, più ostile, e i volti in pietra degli Hokage non hanno mai avuto un’espressione più grave.

«È successo qualcosa?» chiede alle ragazze sperando sinceramente che la risposta sia “no”, e non solo perché non è tranquillo. Sperava di poter andare dritto da Obito e Rin.

«Una tragedia» risponde Rie, mortalmente seria. E se Rie è seria significa che la situazione è davvero grave.

L’espressione di Kurenai è ancora più frastornata, e le sue parole sono un fulmine a ciel sereno.

«Ieri sera Itachi Uchiha ha sterminato il suo clan e ha abbandonato il villaggio».

 

 

 

È palese che non tutti, al mondo, condividano la stessa visione della vita e gli stessi valori. È altrettanto palese che un ragazzino, ninja o civile che sia, non sa nemmeno cosa quelle parole vogliano dire: per un ragazzino la vita ruota attorno al trovare una scusa per non fare i compiti, e l’unico valore seguito con costanza è spesso l’egoismo. È per questo che esistono i genitori, i maestri e gli eroi: perché i bambini possano capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il significato di comportarsi in modo onorevole e quali siano le cose per cui vale davvero la pena darsi da fare.

Kakashi non pretende di essere (essere stato?) un esempio per Itachi, o per qualsiasi altra persona abbia incontrato nella sua vita; anzi, spera con tutto sé stesso che nessuno lo abbia mai preso a modello, perché non riesce a pensare a qualcuno di peggiore per ricoprire quel ruolo. Ma non si capacita di come Itachi Uchiha, lo stesso Itachi Uchiha con cui ha portato a termine un’infinità di missioni, l’Itachi Uchiha che parla (parlava?) del suo fratellino come se al mondo non esistesse niente di più importante e che si impegnava più di chiunque altro per dare un contributo concreto a Konoha abbia potuto massacrare il suo intero clan. È questo, più del fatto che Itachi abbia appena tredici anni e, per quanto talentuoso possa essere, abbia (avesse) solo da imparare dai suoi familiari, che lo lascia sbigottito. Più della gravità dell’accaduto, più dell’ “E adesso?” che Konoha si chiede da tre giorni.

E, molto egoisticamente, non si capacita, no, è arrabbiato perché qualcuno, e Itachi Uchiha fra tutti, nel giro di… Quanto? Un’ora? Due?, ha buttato all’aria tutto ciò per cui Konoha lavora da un secolo o giù di lì, e ha infangato le cose per cui suo padre e il suo maestro, eroi del villaggio, hanno dato la vita. È arrabbiato perché Itachi, tra tutti, era l’ultimo da cui si sarebbe aspettato una cosa del genere; lui stesso sarebbe stato un candidato molto più credibile a compiere quel gesto. E vorrebbe tanto sapere perché l’ha fatto, perché di punto in bianco la sua personalità, il suo tutto è cambiato in maniera così inaspettata, ma in quel momento prova solo tanta rabbia.

Tutta Konoha è arrabbiata e confusa.

Chissà cosa ne penserebbe Obito. Chissà se lui sarebbe stato in grado di sopravvivere a Itachi. Probabilmente no.

Kakashi è sdraiato sul letto a fissare il soffitto da un bel po’ quando qualcuno bussa alla porta di casa. Quasi si spaventa, assorto com’è nei suoi pensieri. Non è proprio dell’umore adatto per vedere gente; per un momento prende in considerazione l’idea di fingere di non essere in casa, anche se potrebbe essere una convocazione per una missione urgente. Una missione per catturare Itachi, magari. A Konoha non ci sono molti ninja in grado di portare a termine un incarico simile. Forse nemmeno lui è tra questi.

«Senpai!»

È Tenzō. Le probabilità che sia richiesto per una missione non aumentano, ma nemmeno calano. In ogni caso, non può sottrarsi al suo dovere in quel modo.

«Ciao, Tenzō» lo saluta. Non porta la maschera da ANBU e non è in divisa, cosa che lo rende abbastanza certo che non sia lì per via di un incarico urgente. I suoi occhi sono enormi, come al solito. «Che succede?»

«Niente, io… sono passato a vedere come stavi».

Tenzō non sarà Obito o Rin, ma Kakashi apprezza la sua compagnia. È la prima persona, dopo loro, con cui pensa che valga la pena avere un rapporto che vada oltre l’essere commilitoni. È buono, Tenzō, è innocente, sveglio e, contrariamente a lui, farebbe di tutto per evitare uno scontro. Come (faceva) Itachi.

«Tutto bene» risponde Kakashi precedendolo in casa. «Vuoi bere qualcosa? Non ho granché, in realtà».

«Un tè andrà benissimo».

E lo capisce meglio degli altri, soprattutto. Ha capito che Kakashi non è tranquillo come lascia intendere, perché dopo avere chiesto il tè non dice nient’altro, e se Tenzō ha un difetto fastidioso è proprio quello di essere un gran chiacchierone.

«Cosa mi racconti?» gli domanda riempiendo la teiera.

«Niente di che, il solito. È un po’ che non ti si vede in caserma».

«Sono stato parecchio in giro. Tira una brutta aria dalle parti del Paese della Pioggia».

«Sì, ho sentito. Hai scoperto niente?»

«Molto poco, il che vuol dire che qualcosa di preoccupante sta succedendo di sicuro».

Tenzō non replica. Kakashi decide che tanto vale arrivare subito al dunque. «Che si dice in caserma degli Uchiha?»

«Un sacco di cose» risponde Tenzō dopo una breve esitazione. «Brutte, più che altro. Poco oggettive».

Sì, è proprio intelligente.

«Non c’è niente di oggettivo in questa storia» sbotta sedendosi dall’altra parte del tavolo in attesa che l’acqua bolla. Non avrebbe voluto, e Tenzō non merita di vederlo arrabbiato per l’accaduto dopo essersi preso la briga di andare da lui a vedere come sta. Ma Kakashi è arrabbiato.

Ma il ragazzo risponde come se lui fosse rimasto calmo. «Sì, nessuno ci sta capendo nulla. Per non parlare delle baggianate che girano…»

«Che cosa si sta inventando la gente?»

«Le cose più assurde. Che Itachi è stato pagato da Iwa, che è tutto un complotto degli Hyūga per non perdere la loro posizione all’interno del villaggio… Qualcuno è addirittura convinto che sia tutta opera di Naruto Uzumaki».

A Kakashi gira la testa nel sentire il nome del figlio di Minato, ma l’istante dopo è già passato. «Quante cazzate. Mi chiedo come faccia la gente a crederci».

«Hai sentito di Sasuke?»

Kakashi annuisce prima di alzarsi a versare il tè nelle tazze. Il fatto che Itachi abbia risparmiato il fratello è forse la parte più crudele di tutta quella follia. Nessuno ha avuto il coraggio di interrogare Sasuke, non ancora, e Kakashi ne è quasi sorpreso. Non che servirebbe a qualcosa: ha sentito dire che il ragazzino si è chiuso in un silenzio impenetrabile. Qualcuno dubita addirittura che ricomincerà mai a parlare. Kakashi non vuole nemmeno immaginare ciò a cui potrebbe aver assistito.

«Non sembra che lo faranno entrare nella Radice».

«No, infatti. Non è mai stato nei loro radar. Sembra che abbia talento, ma non abbastanza per la Radice». Ed è un sollievo: meno ragazzini entrano in quell’organizzazione, meglio è. Non lo dice ad alta voce per rispetto di Tenzō, e perché è superfluo dal momento che anche lui è dello stesso avviso.

«Penso che lo terranno sott’occhio per un po’ e poi lo manderanno a casa. Con Naruto hanno fatto così».

Forse sarebbe meglio che lo mettessero in un istituto pensa Kakashi. Lui era già troppo grande quando suo padre era morto, ma lo avrebbe preferito alla vita che aveva condotto da allora.

«Come stai, senpai?»

Kakashi non risponde subito. Si risiede a tavola, ma non beve e non guarda verso Tenzō.

«Sono arrabbiato. E deluso».

Si chiede se sia il caso di raccontare a Tenzō certe cose che sono successe nel suo passato. Non le ha mai dette a nessuno. Ci hanno sempre pensato gli altri a raccontare la tragica vita di Kakashi dello Sharingan.

«Itachi, tra tutti».

«Lo so» sospira Tenzō. «Sono sconvolto anch’io».

«È che… dopo tutto quello che ha fatto, dopo tutte quelle missioni, dopo essere cresciuto durante una guerra… un gesto del genere non ha nessun senso».

«Non lo difendo, sia chiaro, ma… conoscendolo, avrà di sicuro avuto i suoi motivi».

«L’abbiamo mai conosciuto davvero, secondo te?»

Tenzō lo guarda dritto negli occhi. «Forse no».

Stanno in silenzio a lungo, sorseggiando il tè. Non è un silenzio opprimente; non lo è mai, tra loro. A dire il vero, per Kakashi, che non sopporta le parole dette solo per dare aria alla bocca e tappare buchi, non lo è in nessun caso, con nessuno.

«Non sarebbe dovuta andare così. Itachi era il migliore tra tutti noi. Ha sempre avuto in mente solo il bene di Konoha, per quanto piccolo fosse».

«Come tuo padre, senpai?»

Kakashi vede chiaramente una scintilla negli enormi occhi di Tenzō, ancora prima che arrossisca e abbassi lo sguardo. Probabilmente pensa di essersi spinto troppo oltre, e se ne vergogna.

«Scusa».

«Sì, come mio padre».

È pronto a parlarne, ora, con Tenzō. Sono passati anni, e sia loro due che il villaggio hanno perso la propria innocenza, ormai.

«Mio padre ha messo Konoha prima della sua stessa vita. Prima di me». Fa ancora male, ma ha imparato a scenderci a patti. «Itachi avrebbe fatto lo stesso, fino a tre giorni fa». Guarda fuori dalla finestra: non ce la fa a raccontare quella cosa guardando qualcuno negli occhi. «Una volta mi ha detto che considera mio padre un vero eroe di Konoha. Come aveva fatto Obito. Gli avevo appena salvato la vita e mi ha detto che mio padre è un eroe per aver preferito fallire la missione piuttosto di lasciare che i suoi compagni morissero, anche se poi...» Non finisce la frase, ma sa che Tenzō capisce. «Che lui sarebbe stato disposto a fare anche di più. Che si sarebbe sacrificato per salvare la vita dei suoi compagni, se non avesse avuto altra scelta».

«Tu non avresti voluto sentirti dire certe cose».

Kakashi riporta lo sguardo sul ragazzo. Tenzō sta quasi trattenendo il fiato, come se sapesse che lui non ha mai raccontato quella storia a nessuno. E forse lo intuisce davvero.

«No, non avrei voluto. Non sono mai riuscito a considerarlo veramente un eroe. Sono un cattivo figlio, secondo te?»

«No» risponde Tenzō con un mezzo sorriso. «È sempre diverso quando ci sei dentro».

E lui è stato un cattivo padre? vorrebbe chiedergli, ma non è sicuro di poter sopportare la risposta.

«Forse hai solo bisogno di più tempo» continua il ragazzo.

«Sono passati nove anni, Tenzō».

«E allora?»

E allora, è stufo di continuare a vivere con quel peso nel cuore, come se non ne avesse già altri, come se i dubbi e i rimpianti non si accumulassero uno sull’altro missione dopo missione.

«Non puoi cambiare il passato, senpai» continua Tenzō con una disarmante e inconsapevole crudeltà. «Puoi solo imparare a conviverci. E secondo me tu l’hai già imparato. È normale pensarci ogni tanto e sentirsi tristi».

Lui si sente sempre triste, ed è tutto così dannatamente difficile.

«Soprattutto…» Tenzō esita. «Soprattutto se… se ti sono successe altre cose brutte».

Kakashi beve una lunga sorsata di tè. «Tu lo sai cos’è successo a Obito Uchiha e Rin Nohara?» Cazzo. Anche solo pronunciare i loro nomi fa male.

«Non lo so. So solo che…»

«Che sono morti in missioni a cui partecipavo anch’io».

Tenzō arrossisce, come sempre. Arrossisce davvero spesso, anche quando non ne avrebbe motivo. È buono, Tenzō, e vuole solo vivere la sua vita senza disturbare gli altri. «Non devi raccontarmelo se non te la senti».

Kakashi sorride tristemente sotto la maschera. «Non me la sentirò mai». Ma prima o poi lo dovrò fare, e tanto vale farlo ora e con Tenzō. «Obito ha fatto ciò che avrebbe voluto fare Itachi. È morto per salvare me e Rin, perché io…» Non solo è difficile guardarlo negli occhi, è difficile anche mantenere la voce ferma, ora. «… Perché io sono stato talmente una merda da lasciare Rin indietro, invece di andare subito a salvarla. Ho fatto il contrario di quello che avrebbe fatto mio padre, e il risultato è stato…» Non serve che glielo dica. «Obito non sarebbe morto se fossi intervenuto subito».

«Questo non lo puoi sapere».

«E se Obito non fosse morto, probabilmente nemmeno Rin lo sarebbe. Io e lui insieme saremmo riusciti a salvarla, e lei non si sarebbe suicidata sul mio Millefalchi per proteggere Konoha».

Tenzō è sgomento per il racconto di Kakashi. Se lo sarebbe mai aspettato, lui, che il suo senpai, il grande Kakashi Hatake dello Sharingan, uno tra i migliori ANBU di Konoha, con il record di missioni completate e di sottoposti vivi e illesi al rientro, avesse le mani sporche del sangue dei suoi più cari amici?

«Perché alla fine si riduce sempre tutto a questo, no? O Konoha, o la propria vita». Non ha mai pensato che il sistema su cui si fondano i villaggi ninja fosse sbagliato; se ne rende conto solo in quel momento.

«Non si riduce sempre tutto a questo» balbetta Tenzō dopo un lungo silenzio. Per tappare i buchi, appunto.

«Non c’è bisogno che mi consoli. Non c’è niente al mondo che possa perdonare o giustificare ciò che ho fatto». Come niente al mondo può perdonare o giustificare ciò che ha fatto Itachi.

«Ma non è semplice, senpai».

«Non stavamo parlando di questo» taglia corto, troppo vulnerabile per continuare.

«Soffriamo tutti, prima o poi».

«Non è una giustificazione».

«Non vuole esserlo».

Le parole di Tenzō sorprendono Kakashi. Messo in quella situazione, chiunque cercherebbe di sostenere il contrario, anche se è una bugia, perché bisogna proprio essere degli stronzi per rigirare il coltello nella piaga in quel modo. Ma Tenzō non sta dicendo quelle cose per ricordargli che razza di persona sia (sia stato?). Sta cercando di farlo sentire meglio, perché è buono. Un po’ zoppicante come tentativo, ma in quel momento Kakashi gli è grato per la sua determinazione nello stargli accanto.

«Ormai non puoi più cambiare il passato» ripete. «Devi solo decidere che atteggiamento avere a riguardo. Ci starai sempre male, senpai, ma non ha senso rimuginarci su». Gli sorride, Tenzō. «So che non ci rimugini su spesso, non abbastanza da lasciare che ti influenzi. Ma è normale che in questo momento tu lo faccia. No?». Gli sorride, quando tre quarti del villaggio non gli si sono più avvicinati davvero dopo la morte di Obito e Rin. O forse è lui che non si è mai sentito particolarmente vicino a nessuno di loro, perché con nessuno, prima di Tenzō, ne è valsa veramente la pena.

Kakashi finisce il suo tè prima di ricominciare a parlare. «Tu ci pensi mai a… a quello che ti è successo? Se ti va di parlarne» si affretta ad aggiungere.

«Tutte le volte che uso le mie tecniche» risponde subito, «e anche di più. Non è stata una bella esperienza, e io ero solo un bambino. Forse questo è un bene, però, se avessi avuto più coscienza di me stesso non so se avrei avuto la forza di reagire. Ma è una cosa diversa da quelle che sono successe a te».

«Cos’è successo di preciso?»

«Non mi ricordo niente dell’esperimento. So solo quello che mi ha raccontato il Terzo Hokage. Ma non dev’essere stata una bella esperienza, visto che mi ha fatto perdere la memoria». Tenzō sghignazza. È forte, lui. «Molto comodo, visto che i membri della Radice non hanno storia».

«Neanche tu hai avuto una vita facile, eh?»

Che cosa stupida da dire.

«No. Ma sono felice di come sono adesso, immagino».

«Beato te».

Si guardano negli occhi a lungo. È passato molto tempo dall’ultima volta che Kakashi è riuscito a guardare qualcuno negli occhi in quel modo, e un’infinità di cose. «Per quello che vale, senpai» dice Tenzō, «tu sei un grande ninja e una brava persona. E… Puoi venire da me, quando ne hai bisogno».

Soprattutto, Tenzō è puro di cuore. Come Obito e Rin.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5.1 ***


 

Pre-note:
La wakizashi è un tipo di spada corta giapponese (quella di Sai, per intenderci).
Buona lettura!

--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

5

Tenzō

 

 

 

Kakashi è oggettivamente bello, lo dicono tutti. Poco importa che abbia sempre il volto coperto: certe cose si capiscono lo stesso. È alto e asciutto, tanto per cominciare, e ha le movenze di chi è sicuro di sé, di chi è padrone del suo corpo come del suo mondo, per quanto incasinato sia. I vestiti che porta sotto la divisa da ANBU, poi, lasciano intendere un busto definito, e non potrebbe essere altrimenti visto il lavoro che fa. E non è nemmeno del tutto vero che la maschera sia un ostacolo a determinare il suo aspetto fisico, perché non nasconde i lineamenti del viso; semmai li risalta, oltre ad aggiungere un intrigante (e minaccioso per i nemici di Konoha, bisogna ammetterlo) alone di mistero sulla sua persona.

È un bravo ragazzo, Kakashi, oltre a essere bello. In diciotto anni di vita, di cui nove passati senza una figura genitoriale, non si è mai messo nei guai, non ha mai dato pensieri a nessuno. Certo, ci sono quelle storie poco chiare di Obito Uchiha e Rin Nohara, ma si è trattato comunque di missioni, e in missione Kakashi non ha mai dato motivo ai suoi compagni di dubitare di lui. È un ottimo ninja, è maturo, è tremendamente intelligente e va d’accordo con tutti, nonostante sia freddo. Ed è così bello, come sussurrano molte ragazze quando lo vedono passare per strada, e come commentano alcuni ragazzi. Non tutti con malizia: quando un uomo è oggettivamente bello, è oggettivamente bello. E tutti vorrebbero vederlo in faccia almeno una volta nella vita.

Qualcuno che l’ha visto in faccia c’è, in realtà. Più di uno. Molti, tra gli ANBU uomini, hanno avuto questo piacere, complici le docce della caserma. Kakashi non frequenta spesso la caserma, ancora più raramente si fa la doccia lì, e di solito sceglie sempre i momenti più tranquilli, quando ci sono meno probabilità di incontrare qualcuno. Le malelingue attribuiscono questo comportamento alla vergogna per qualcosa di non meglio precisato, ma Tenzō, che lo ha visto farsi la doccia in caserma, sa che non ha proprio niente di cui vergognarsi.

Il volto di Kakashi non ha niente di particolare. Ha una pelle liscia, talmente liscia da sospettare che non gli crescano neanche quattro peli di barba in croce; ha dei bei lineamenti, non troppo morbidi né troppo spigolosi, decisi, cosa che un po’ rispecchia la sua personalità; labbra piuttosto sottili, un naso ben proporzionato e gli occhi... Bè, gli occhi di Kakashi sono noti, diversi e penetranti in entrambi i casi. O forse sarebbe meglio dire penetrante, visto che l’occhio sinistro si apre solo in battaglia, e bisogna sperare di non incrociarlo mai. Preso nel suo complesso, il viso di Kakashi è gentile, e forse questa è la vera sorpresa. Non che lui non sia gentile, ma non è di certo la prima cosa che se ne direbbe. Il suo viso, invece, è buono, è tranquillo, e anche quando è impassibile sembra che sia sempre sul punto di sorridere. Almeno, questo è ciò che Tenzō ha visto nel viso di Kakashi le poche volte che lo ha incontrato nella stanza delle docce.

Non ha visto solo quello, Tenzō.

Kakashi è oggettivamente bello. Anche Tenzō lo ha sempre pensato, fin da bambino, e fin da bambino la sua bellezza è stata un tutt’uno con la sua intelligenza, la sua dedizione e il suo animo tormentato. D’altra parte Kakashi è una persona, non può essere preso a compartimenti stagni, è un pacchetto unico.

Da qualche tempo, più precisamente dalla penultima volta che lo ha incontrato nella stanza delle docce, sei mesi prima (Tenzō ha quasi tenuto il conto dei giorni), al pacchetto si è aggiunta la sensualità. E se la bellezza può essere oggettiva, altrettanto non si può dire della sensualità.

È stato allora che Tenzō ha capito di avere un problema bello grosso. È affezionato a Kakashi da molto tempo e lo ammira da ancor prima, ma è stato solo in quel momento, solo quando lo ha visto entrare nella stanza nudo, con gli addominali e qualcos’altro in bella mostra, sicuro di sé, mentre le labbra di norma nascoste si piegavano a scandire le parole Ciao, Tenzō, che la testa ha cominciato a girargli per nessun motivo plausibile (salvo uno), ha sentito un caldo non imputabile all’acqua appena tiepida che gli scorreva lungo la schiena e, poi, un altro tipo di calore al basso ventre.

Aveva capito subito cos’era successo.

Sono sei mesi che ci pensa. È bello, a volte, essere innamorati, anche se non lo sa nessuno. Ma altre volte lo mette a disagio, gli fa paura, è semplicemente inspiegabile. Perché Kakashi? Perché non prima? Non lo saprà mai. Può solo accettare la cosa e decidere come gestirla. La prima parte è facile: è facile accettare di essere innamorati, e sospetta che accettare di essere innamorati di Kakashi sia più facile che accettare di essere innamorati di altri. La seconda parte è più difficile, e lo spaventa.

 

---

 

L’area che va da Taki fino al mare, su a nord, è brulla e selvaggia. È la prima volta che Tenzō viene mandato in quella zona e nemmeno i suoi molto più scafati compagni vi si trovano a loro agio. Non sono abituati a combattere in territori dove non ci si può nascondere. Kakashi, tanto per cambiare capitano, ha insistito molto su questo punto prima della partenza da Konoha e durante il viaggio, ma non li ha preparati a sufficienza: il territorio li spiazza. Procedono in gruppo, strisciando a terra, consapevoli di essere comunque visibili e che separarsi non aiuterebbe.

Sono alla ricerca di un’organizzazione che si fa chiamare Tigri Rosse. Non è ben chiaro perché l’Hokage si sia preso la briga di mandarli così lontano dal Paese del Fuoco per sgominare una banda di criminali, ma tant’è, avrà avuto i suoi buoni motivi. Per quanto lo riguarda, l’assegnazione della missione è stata agghiacciante. In quattro (ANBU, per carità) a sgominare un gruppo di trenta persone circa (con poche probabilità di incontrarli tutti insieme, per carità), trenta fanatici invasati di una qualche religione pagana e sanguinosa. Gli è sembrata un’idea quantomeno azzardata già nell’ufficio dell’Hokage, ma ora che hanno superato Taki, l’ultimo villaggio ninja a nord prima dell’oceano, è convinto che sia una missione suicida.

«Tenzō» lo chiama Kakashi con un sussurro. Incrocia il suo sguardo indecifrabile (o meglio, fissa la maschera del capitano all’altezza degli occhi) e spera con tutto sé stesso che stia per annunciare mezz’ora di riposo. «Concentrati».

Ovviamente. «Sì, senpai. Scusa».

«Sono preoccupato anch’io» gli rivela, gli occhi di nuovo fissi davanti a sé. E Tenzō sorride brevemente, perché se Kakashi è preoccupato vuol dire che sono messi parecchio male e, soprattutto, non è una cosa che direbbe a tutti. Jin e Hiroka, infatti, non hanno sentito niente.

Quello scambio di parole costa loro molto caro.

Il boato porta con sé un gran polverone e un crepaccio a pochi centimetri da loro di cui non si vede il fondo. Non fanno in tempo ad alzarsi in piedi che si ritrovano circondati da cinque ninja a volto scoperto e dall’abbigliamento simile.

«Guarda, guarda, se non sono ANBU di Konoha» sghignazza il tipaccio dall’altro lato del burrone rimettendosi in piedi. Ha dovuto toccare il terreno con le mani, il che vuol dire che combatte utilizzando il chakra della terra, se il baratro in cui non sono caduti per miracolo (o per il volere dei loro avversari) non fosse stato abbastanza per capirlo.

Tenzō li osserva uno a uno. Nessuno indossa il coprifronte della Cascata, ma tutti hanno una fascia di tessuto rosso lungo l’avambraccio destro e l’elsa di una wakizashi che spunta da dietro la spalla sinistra.

«Quantomeno ci avete evitato la faticaccia di trovarvi» dice Kakashi. Il suo tono è quasi amichevole, ma Tenzō sa che il suo occhio sta carpendo ogni informazione disponibile e il suo cervello le sta mettendo insieme. Durante il viaggio hanno concordato una strategia generale, ma non possono fare molto affidamento su piani ideati praticamente sul nulla.

«Tra un po’ non sarete così felici di averci trovati» sghignazza l’altro.

Tenzō sente il battito accelerare. Per quanto ci sia abituato, non è mai facile scontrarsi con dei nemici. E loro sono in inferiorità numerica, pur essendo la punta di diamante del Villaggio della Foglia. Anche se le Tigri Rosse non hanno la minima idea delle loro abilità, mentre loro qualcosa sanno.

E sono cose parecchio inquietanti.

«Cosa dite, ANBU di Konoha…» dice uno dei ninja alle sue spalle, «Vorreste unirvi al culto del Dio Jashin?»

Uccidono le persone, quelli, in nome del loro dio.

«Manco se mi preghi in ginocchio» ringhia Hiroka.

«Come osi!» urla la donna davanti a Tenzō, sfoderando la sua wakizashi. «Come osi anche solo pensare che potremmo pregarti come una divinità? C’è un unico Dio, e il suo nome…»

Un attimo dopo, c’è solo il caos.

Sono veloci, le Tigri Rosse. Fulminee, visto come si sono avvicinati a loro senza che se ne accorgessero, mentre la donna continuava a sbraitare cose riguardo il loro dio. Voleva distrarci pensa Tenzō bloccando una lama a pochi centimetri dal suo viso per unico merito dei suoi buoni riflessi. Con me ci è riuscita? Non avrebbe dovuto riuscirci. Lui non avrebbe dovuto distrarsi; ma a questo ci penserà dopo. Kakashi, senza molti complimenti, afferra di peso il ninja che lo ha attaccato e lo porta via da lui, via dal gruppo. Sono in inferiorità numerica, e hanno concordato che fosse lui a occuparsi di più nemici contemporaneamente, se la situazione lo avesse richiesto. Ma Tenzō avrebbe quasi preferito che quell’incarico fosse stato affidato a lui, se avesse saputo che avrebbe dovuto affrontare la donna. I pazzi fanatici sono pericolosissimi, e quella ninja sembra di gran lunga la più fanatica del gruppo.

«Non credi di essere un po’ troppo giovane per essere un ANBU?» lo provoca, correndo verso di lui con la wakizashi tesa.

Tenzō non si degna nemmeno di risponderle. Invece erge una parete di terra per bloccare la sua corsa, e salta oltre di essa per calare sulla donna dall’alto, pronto a bloccarla con la Tecnica del Legno. Dovrebbe puntare subito a ucciderla, lo sa: quello è l’ordine che hanno ricevuto dall’Hokage. Ma non gli piace uccidere, e spera sempre di non doverlo fare. Di solito è Kakashi a incaricarsi di uccidere i suoi avversari, come se già non avesse abbastanza responsabilità. Quasi non gli passa per il cervello che quella volta le cose dovrebbero andare diversamente.

Così, Tenzō rimane a dir poco spiazzato quando la donna si getta di proposito contro la punta acuminata del blocco di legno che si estende dal suo braccio, rimanendone trafitta al centro del petto con un urlo disumano.

Non che si senta in colpa; non si dispiace certo per un nemico che si suicida. Ma la cosa è sospetta, e lui comincia ad avere paura anche se non ha senso, perché la sua avversaria si è appena uccisa.

Tenzō capisce presto che il suo istinto ha avuto ragione.

Quando l’urlo di dolore della donna si spegne, il sorrisetto folle sul suo volto si allarga. «Grazie dell’aiuto, ragazzino» dice, e nel suo tono non c’è né dolore, né il gorgoglio del sangue che riempie la bocca dopo una ferita del genere. Sotto gli occhi di Tenzō, paralizzato dallo stupore, taglia in due il blocco di legno facendo scorrere il chakra del fulmine lungo la wakizashi. Mentre estrae la metà piantata nel suo petto, Tenzō cade a terra, attraversato dalla scossa elettrica che ha risalito il legno fino a raggiungere il suo corpo. «Il sommo Jashin mi ha addirittura voluto graziare assegnandomi un avversario debole contro il mio chakra» continua. «Il sommo Jashin ringrazia sempre chi lo serve con dedizione!»

«Buon per te» commenta Tenzō rimettendosi lentamente in piedi, «ma ci vuole ben altro per mettermi al tappeto».

La ninja scoppia a ridere come una pazza invasata. La ferita nel suo petto gronda sangue, ma non sembra nemmeno accorgersene. Non c’era niente di tutto ciò nelle informazioni che hanno ricevuto prima di partire per Taki, e Tenzō non ha mai visto niente di più agghiacciante. E di cose agghiaccianti ne ha viste, nella sua vita. «E pensi di essere in grado di mettere me al tappeto?»

«Dèi, quanto parli» dice allontanandosi da lei con un balzo. Stando a quello che ha visto, la donna combatte a corta distanza; lui no, per fortuna, e deve sfruttare quel vantaggio. Non ha molto altro a cui aggrapparsi, visti i loro tipi di chakra.

«Jin!»

L’urlo disperato di Hiroka lo spinge istintivamente ad alzare lo sguardo. Cerca il compagno di squadra sul campo di battaglia, ma c’è così tanta confusione che vede ben poco di quello che stanno facendo gli altri, e lui ha problemi più urgenti.

«A Konoha ve la insegnano a scuola, la blasfemia?» lo provoca la ninja.

Non le risponde. Si sta muovendo sul posto in modo alquanto sospetto, e Tenzō ci mette un po’ a capire che sta… disegnando? qualcosa a terra col suo stesso sangue. Nemmeno questo era nelle loro informazioni, e di certo non è un modo per ingannare il tempo in attesa che lui faccia la sua mossa.

«Ma tanto morirete tutti». Vede il suo terrificante ghigno invasato anche da quella distanza. «A cominciare da quel tuo compagno laggiù».

Jin. Cosa sta succedendo, cazzo?

Ma non è il momento di farsi domande, è il momento di iniziare a portare a termine quella missione. Sono in inferiorità numerica, e Kakashi sta combattendo da solo contro due avversari. Non vuole che lui, tra tutti, rischi più del dovuto. Dèi, non vuole che nessuno di loro rischi più del dovuto.

Forma una serie di sigilli e batte le mani a terra, come poco prima ha fatto uno dei ninja di cui si sta occupando Kakashi. Davanti a lui non si apre nessun crepaccio, ma il terreno trema con un boato, e pochi, pochissimi istanti dopo degli speroni di roccia spuntano davanti alla sua avversaria, mirando a infilzarla. Lei li evita con facilità saltando in aria, ma Tenzō non è così sprovveduto da lasciarsi sorprendere dal cambiamento di strategia. La donna ha fatto esattamente ciò che lui voleva facesse, e infatti si vede arrivare addosso un fascio di blocchi di legno che a mezz’aria hanno molte probabilità di andare a segno; ma riesce ugualmente a evitare anche quell’attacco.

È dannatamente forte, oltre che una pazza invasata. È più pericolosa di quanto sembri a prima vista, e la cosa non gli piace per niente.

«Dovrai impegnarti più di così se vuoi colpirmi» lo sfotte toccando terra con eleganza, l’orribile ghigno ancora stampato sul volto.

Da qualche parte poco lontano, Jin urla di dolore.

Anche la donna lo sente. Dèi, chi non lo noterebbe, un urlo così? «Lo sai come si prega il sommo Jashin, ragazzino?»

Tenzō non ha nessuna intenzione di ascoltare le sue farneticazioni. Un clone di legno sbuca dal terreno davanti a lei, cogliendola di sorpresa, ma non abbastanza da bloccarla. È velocissima. Lui è lento in confronto, e davvero non poteva capitargli avversario peggiore. E Jin è messo male, e Kakashi sta combattendo contro due avversari contemporaneamente.

«Il tuo compagno non ha scampo».

È sicura di ciò che dice. Ne è assolutamente certa.

«Jin!» urla di nuovo Hiroka. È più disperata di prima, cazzo.

No, cazzo. No.

E intanto la sua avversaria sta correndo verso di lui, la wakizashi stretta in pugno, talmente sottile da confondersi col paesaggio plumbeo che li circonda. Tenzō le lancia addosso degli shuriken, che vengono deviati dalla lama.

«Kakashi! Tenzō!» urla ancora Hiroka. «Non fatevi ferire! Qualunque cosa succeda, non fatevi ferire!»

«Non distrarti, ragazzino!» gracchia la ninja. Tenzō erge una barriera di legno; e poi, inspiegabilmente, sente un dolore lancinante alla gamba.

Un clone. È stato ferito da un clone.

«Kakashi e Tenzō» continua la donna, afferrando al volo il kunai che le ha lanciato la copia di sé stessa prima di sparire in una nuvola di fumo. Lui inizia a sospettare che quell’orrendo sorrisetto invasato gli sia stato cucito addosso con ago e filo. «Si dicono grandi cose di voi, in questo Paese. Pensa solo a cosa avreste potuto fare nella nostra organizzazione». E, sotto lo sguardo atterrito di Tenzō, si porta la lama alle labbra e lecca il suo sangue. «Anche se le dicerie sono esagerate, sembra. Essere tra gli ANBU e farsi giocare da un clone…» ridacchia.

Tenzō stringe con forza la gamba ferita. Sotto la maschera, il suo volto è contratto dal dolore. Prova a rialzarsi, ma la donna è stata molto astuta e diabolicamente accurata nel colpirlo in un punto che gli rende difficile muoversi, come se la sua velocità già non bastasse.

Poi alza di nuovo lo sguardo verso di lei, e se prima la situazione era sospetta, ora gli sembra inquietante.

L’aspetto della donna è mutato. La sua pelle ha cambiato colore, e a Tenzō sembra di guardare un teschio negli occhi. Il volto è quasi completamente bianco, salvo un cerchio in mezzo alla fronte, dei segni sotto agli occhi, sotto alla bocca e sul naso, e anche sulle mani dei segni candidi come la neve ricalcano le ossa che si trovano pochi centimetri sotto, oltre la pelle.

«Tenzō!» La voce di Hiroka urla il suo nome, adesso. «Kakashi, Tenzō…»

La ninja la ignora. «Chissà se il tuo compagno è già morto». Jin. «Probabilmente sì» si risponde, e con un balzo raggiunge lo strano disegno che ha tracciato col sangue.

Se Jin è morto come dice lei, sono ancora più in inferiorità numerica di prima.

Si odierebbe per un pensiero del genere, se non fosse nel bel mezzo di uno scontro; ma d’altra parte la Radice gli ha insegnato a ragionare in quel modo, prima la missione e poi tutto il resto, e non se ne libererà mai.

Sempre che esca vivo da quel casino.

«Bloccala! Portala via da lì!» strilla ancora Hiroka. È terrorizzata. E Tenzō non capisce bene perché dovrebbe essere così terrorizzata, ma sa che quando Hiroka dice qualcosa durante una missione, è sempre meglio darle ascolto.

«Sei ancora in tempo per convertirti, se vuoi. Ma ti conviene deciderti in fretta». Alza la wakizashi sopra la testa, e lui è impotente e paralizzato dalla paura. «Lo sai come si prega il sommo Jashin, ragazzino?»

Tenzō, limitato nei movimenti, usa ancora una volta la Tecnica del Legno, ma non può fare molto altro. È chiaro che la ninja non ha problemi nello schivarla, e lui non può fare molto altro. Le tecniche di terra e acqua gli si ritorcerebbero contro, il corpo a corpo è fuori questione, e con i kunai e gli shuriken si fa poco.

«Però non puoi metterti a rompere le scatole proprio ora» dice la sua avversaria evitando con un salto il legno che spunta dal suo braccio. «Almeno ho avuto la conferma finale che non vuoi convertirti». Si capovolge con una capriola a mezz’aria e tocca il fascio di legno; Tenzō si accorge troppo tardi delle sue intenzioni e, nonostante riesca a staccare il braccio prima che il grosso della tecnica raggiunga il suo corpo, viene lo stesso colpito da una scossa elettrica. «Finiamola qui, ragazzino» continua la donna toccando nuovamente terra. Non ghigna più. Sembra davvero di guardare un teschio, ora. Alza un’altra volta la wakizashi, puntandola verso di sé, e Tenzō non capisce cos’abbia in mente. L’unica cosa sensata che potrebbe fare da quella distanza è lanciargliela addosso, ma la wakizashi non è un’arma da lancio.

E invece la abbassa di colpo verso di sé, mirando allo stesso punto in cui pochi minuti prima è stata trafitta dal legno di Tenzō.

Tenzō intuisce la pericolosità di quel gesto nel momento in cui Kakashi entra nel suo campo visivo, l’armatura che luccica dove un istante prima c’era la wakizashi e i capelli argentei che lasciano come una scia al suo passaggio. E sente un'inspiegabile fitta al petto nel momento in cui il capitano rotola a terra con la donna, e sente la maglia sotto la divisa bagnarsi di una sostanza appiccicaticcia, e il dolore gli toglie il fiato e lo costringe un’altra volta a terra, in ginocchio. E lì, raggomitolato su sé stesso, sente l’odore ferroso del sangue, molto più vicino alle sue narici di quanto non sia la ferita alla gamba.

«Tenzō!» urla Kakashi, ma lui non ha la forza di alzare la testa per guardarlo. Gira tutto, ed è sul punto di svenire.

Non ha capito niente di quello che è successo, ed è stato dannatamente lento.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5.2 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

5

Tenzō

 

 

 

Il sonno di Tenzō è molto più tormentato di quanto sia stato fino al suo primo risveglio dopo lo scontro. Si agita, si sveglia spesso per precipitare di nuovo nel torpore nel giro di pochi secondi. Sente delle voci che non appartengono né a Kakashi né a Hiroka, capisce di essere in movimento, ma non intuisce altro. Il dolore non sembra diminuire, mai, e la gola è sempre più arsa. Una volta è svegliato da qualche goccia di acqua fresca sulle labbra, ma non distingue chi lo sta aiutando. Nella sua mente immagina che sia Kakashi.

 

 

 

Poi, a un certo punto si sveglia del tutto. Dovunque sia, la luce è forte e il suo corpo è pesante, ma è avvolto in coperte calde e per un istante è certo di non essersi mai sentito meglio di così. Dolore a parte, s’intende.

Vicino a lui c’è Kakashi. È seduto su una poltrona, non indossa né la maschera da ANBU, né la divisa, né il coprifronte, e sta leggendo un libro. È talmente concentrato che non si accorge del suo risveglio; tra tutte le domande che potrebbero passargli per la mente in quel momento, Tenzō si chiede che libro sia.

«Senpai».

Kakashi alza la testa di scatto. «Tenzō…» L’occhio destro è spalancato dallo stupore, o forse dal sollievo. Appoggia il libro sul bracciolo della poltrona e si avvicina al suo letto. «Come stai?»

«Male». Riesce a sedersi con la schiena dritta, non senza provare dolore in varie parti del corpo, e prende il bicchiere d’acqua che Kakashi gli tende. Decide che non sottovaluterà mai più l’acqua in vita sua. «Dove siamo?»

«All’ospedale di Taki. Hai dormito tre giorni, mi ero già rassegnato a dover star qui un mese».

«Esagerato». Risponde per le rime: buon segno. «Ho una fame da lupi». Altro buon segno.

«L’infermiere dovrebbe passare tra poco. Gli chiederemo di portarti qualcosa».

«Hiroka?»

«È già ripartita per Konoha. Abbiamo informato l’Hokage dell’accaduto, ma aveva bisogno che qualcuno tornasse subito. Non possiamo mica interrompere le missioni».

Tenzō tace. Di tutte le cose che vuole sapere, non ce n’è neanche una che vorrebbe chiedere a Kakashi. Come si è conclusa la missione? Jin? Come sta lui?

«Noi quando ce ne andremo?»

«Pensa a guarire, prima di fare domande del genere». Il suo tono è vagamente accusatorio, ma sta sorridendo.

«Sono messo così male?»

«Hai due costole rotte e non puoi camminare, vedi un po’ tu».

Tenzō rigira la domanda. «Quanto ancora è disposta a ospitarci Taki?»

«Credi di fregarmi così?» ridacchia Kakashi, ma poi risponde. «In realtà si sono rivelati molto gentili, anche se non ci andiamo d’accordo». Lo ha chiesto per quello. I rapporti tra i loro villaggi non sono mai stati particolarmente distesi. «In pratica possiamo rimanere fino a quando sarà necessario. Il capovillaggio è un po’ contrariato che Konoha abbia mandato degli ANBU a occuparsi delle Tigri Rosse, ma ci ha offerto la sua ospitalità e le cure che ti servono».

«Quanta magnanimità». Tenzō nota l’ombra sul volto di Kakashi al nominare la missione. «Quindi? Per quanto ne ho?»

«Una settimana prima di riuscire a camminare, dicono». Tenzō sbuffa. «Hai un intervento alla gamba programmato per domani pomeriggio».

«Fantastico». Rabbrividisce al pensiero di bisturi, siringhe e fili vari attaccati al suo corpo. Gli danno la nausea ancora più di certi cadaveri squartati che ha visto ed è perfettamente conscio di quale sia il motivo. «Spero che tu non abbia intenzione di rimanere qui una settimana ad aspettarmi». In realtà lo spera con tutto il cuore.

«Due settimane, vorrai dire». Davvero fantastico. «Certo che ho intenzione di rimanere qui ad aspettarti. Ci mancherebbe solo che ti faccessi attraversare mezzo mondo nelle tue condizioni senza alcuna assistenza».

«Ce la posso fare anche da solo» insiste, trattenendosi dal sorridere. «A Konoha hanno sicuramente bisogno di te».

«E di te al meglio delle tue condizioni».

«Di me?» chiede Tenzō, più a sé stesso che a Kakashi. Io sono debole. A Konoha non serve uno come me.

«Tenzō». Riporta lo sguardo nei suoi occhi. «Non ci pensare. Non adesso».

Improvvisamente ha una gran voglia di piangere.

 

 

 

L’intervento è un successo, come ci tiene a sottolineare più volte il ninja medico che lo ha eseguito. Il dolore se ne va molto lentamente, ma alla fine se ne va.

Kakashi passa molto tempo con lui, ma approfitta anche di quel soggiorno inaspettato per visitare Taki (e allenarsi, ovviamente. Una sera parla anche di una certa ninja della Cascata che gli ha insegnato una nuova tecnica di combattimento corpo a corpo). Tenzō è sicuro che ci sia qualcos’altro sotto: il bisogno di star da solo con i suoi pensieri, a elaborare ciò che è successo per tornare a Konoha con la mente libera, pronto a buttarsi a capofitto nel prossimo incarico e a portarlo a termine senza nemmeno una sbavatura. Gli ci vogliono due giorni e mezzo per provare a chiedergli come sta.

«Bene».

No, non è ancora il momento di affrontare il discorso.

Kakashi è ancora più silenzioso del solito, anche quando escono finalmente dall’ospedale (Kakashi portando entrambi gli zaini, Tenzō zoppicando) e si profondono in ringraziamenti nei confronti del capovillaggio prima di lasciare Taki alla volta di casa. Il viaggio è lungo e appesantito da una cappa di silenzi e pensieri negativi che li segue lungo il brullo paesaggio del Paese della Cascata, nelle praterie sconfinate del Paese dell’Erba e anche attraverso le familiari foreste del Paese del Fuoco. È bello passare tutto quel tempo da solo con Kakashi, anche se le motivazioni che ci sono dietro non lo sono proprio per niente. Parlano poco, ma si dicono tanto. Kakashi si preoccupa per lui, lo sorregge quando il dolore diventa troppo forte e accetta di buon grado di fermarsi spesso a riposare; e lui lo ringrazia ogni volta perché non può fare altro, ma nessuno di quei ringraziamenti è vero e significativo quanto quello che non ha il coraggio di pronunciare per il timore di farlo soffrire più di quanto non stia già facendo.

«Tenevo molto a Jin».

È così che Kakashi decide di affrontare l’argomento. Sono a mezza giornata di distanza da Konoha e Tenzō, che ha iniziato a pensare di dover aspettare parecchio tempo prima di poterne parlare senza fare ulteriori danni, è appeso alla sua schiena, perché è troppo debole per camminare ma nessuno dei due ha la minima intenzione di passare un’altra nottata lontano dal proprio letto, e lui ha bisogno di altre cure. Soprattutto, in quel modo non si possono guardare negli occhi. «E fa malissimo non essere riuscito a proteggerlo».

Tenzō non sa bene cosa dire. Non può dire stronzate di circostanza come “non è colpa tua” o “non potevamo fare altro”, non a Kakashi. È la verità, ma sono cose talmente ovvie che pronunciarle ad alta voce è superfluo, e non gli sarebbero di alcun conforto.

«Non doveva andare così. Niente di questa missione doveva succedere».

Hanno già fatto un discorso del genere, e se lo ricordano entrambi.

«E so che mi vuoi dire che non posso cambiare il passato e che l’unica cosa da fare è decidere come farci i conti, ma niente di tutto questo dovrebbe essere successo».

Tenzō stringe istintivamente le braccia attorno alle spalle di Kakashi. Vorrebbe abbracciarlo come si deve, ma può fare solo quello. «Non ho nessun consiglio da darti, senpai».

«Forse al mondo ci sono delle cose per cui non esistono consigli».

«O forse ognuno deve trovare il suo modo di superarle».

«O forse non ci sono modi per superare certe cose».

Tacciono. Tenzō pensa che forse è lui a non essere pronto per affrontare il discorso.

«E io ero pure il capitano. È una mia responsabilità se la missione è fallita, Jin è morto e tu sei in queste condizioni. Come con Obito e Rin».

«Non è colpa tua».

«Ma è una mia responsabilità».

«Non succederà niente, senpai. Sei uno dei migliori capitani degli ANBU, nessuno prenderà provvedimenti perché hai fallito una missione».

«Il punto non è questo».

Sì, lo sa anche lui.

«Posso assumermi un po’ di questa responsabilità?»

«Tu? Tu non hai proprio nessuna responsabilità in questa storia, Tenzō».

«Tranne quella di non essere abbastanza».

«Chi è che si colpevolizza, ora?»

«Avremmo anche potuto concludere la missione se fossi stato all’altezza dello scontro».

«Non credo proprio».

Kakashi pensa veramente ciò che sta dicendo, e la cosa allevia il suo dolore molto più degli analgesici di cui si è imbottito nelle due settimane precedenti.

«E prima o poi capita a tutti di trovarsi davanti nemici molto più forti».

«A te non è mai capitato» gli fa notare.

«La mia carriera di ninja è ancora lunga». Un purtroppo rimane appeso nell’aria.

«Non posso permettermi di essere così debole. Anch’io ho molte responsabilità, come ANBU e come compagno di squadra. Non può dipendere tutto dal caso di trovarsi davanti un avversario più forte o più debole».

«Hai ragione, in effetti».

«Non è confortante, senpai».

Lo sente ridacchiare, e la cosa lo fa stare un po’ meglio. «Scusa. Però è così. Ma anche per questo non si può fare granché, a parte allenarsi».

«Ma allora siamo sempre al punto di partenza, no? Il mondo è fatto così e non ci si può far niente».

«Noi di sicuro ci possiamo fare poco».

Il discorso muore lì. Tenzō posa la testa sulla spalla di Kakashi, cercando di far finta, nella sua testa, che vada tutto bene, che lui sia abbarbicato sulla sua schiena per nessun motivo al mondo e di sicuro non perché non è in grado di reggersi sulle proprie gambe, l’ennesima dimostrazione della sua inadeguatezza. La conversazione non lo ha aiutato a stare meglio, ma spera che lo stesso non valga per Kakashi. Lui è molto meno fragile di Kakashi. Molto più spensierato. Certe cose le può sopportare meglio, e perdonarsele, col tempo. E davvero non vuole altro se non saperlo più sereno di quanto non sia stato negli ultimi giorni.

«Non dirò all’Hokage di come… di come è andato il tuo scontro. Mi inventerò qualcos’altro».

«Ma non è giusto, senpai!» protesta Tenzō. «Non puoi mentire all’Hokage, e non è giusto che tu ti assuma tutta la responsabilità!»

«Ancora con questa storia? Il capitano sono io, tu non hai nessuna responsabilità».

«Non è vero».

«Non ti getterò addosso delle conseguenze negative all’interno degli ANBU».

«Ma che conseguenze vuoi che ci siano?» Non è vero. Le conseguenze ci sarebbero eccome. Ma lui le può sopportare.

«Promettimi solo che continuerai ad allenarti per diventare più forte».

«Non c’è bisogno di promettere. Sai che lo faccio già».

Ci andrà lui stesso, a parlare con l’Hokage.

 

 

 

Arrivano a Konoha alle undici passate. Kakashi lo scarica a terra mentre spiega brevemente ad Asuma ed Ebisu, di turno al presidio, come mai sono rientrati a quell’ora e perché stava portando il suo compagno sulla schiena. Tenzō prova a sgranchirsi un po’ le gambe, ma deve appoggiarsi alla guardiola per riuscire a stare in piedi senza sentire dolore.

«Prendi l’antidolorifico che ti hanno dato a Taki» gli ordina Kakashi.

«Vai all’ospedale» gli consiglia Asuma.

«Non ho nessuna voglia di tornare in un ospedale» dice a Kakashi quando si allontanano lungo le vie di Konoha (casa, finalmente). Odia gli ospedali, non vi si sente a suo agio e nelle ultime due settimane ne ha avuto abbastanza per una vita intera.

«Prima o poi dovrai andarci, quelle ferite non guariranno da sole».

«Non ho voglia di andarci ora». Vuole solo il suo letto, e basta. Vuole riposare, e l’ospedale non è un luogo dove si riposa.

Kakashi sospira. «Domani mattina ti ci porto io, che ti piaccia o no».

«Grazie, senpai» sorride contro la sua spalla.

«Se vuoi stare più tranquillo, stanotte puoi venire da me».

In condizioni normali, Tenzō si strozzerebbe nel sentire una proposta del genere. Non che ci sia niente di strano, è chiaro; ma lui è innamorato di Kakashi, e con quelle parole ne torna pienamente consapevole, come se con tutte le cose successe nelle ultime due settimane i sentimenti che prova per lui si fossero affievoliti. Ma non sono in condizioni normali e non c’è davvero niente di strano: sono amici, sono più vicini di quanto siano mai stati e Tenzō sta male. È del tutto legittimo che Kakashi voglia che passi la notte in un posto più comodo e tranquillo della caserma degli ANBU e che voglia assicurarsi che mantenga il buon proposito di andare in ospedale la mattina seguente.

«Sei sicuro?»

«Certo».

«Ma dove dormo, scusa?»

«Nel mio letto, mi pare ovvio. Io mi metto sul divano».

«Ma…»

«Se preferisci te lo ordino».

Tenzō sorride. «Va bene».

Kakashi mette l’acqua per il tè sul fornello e va a preparare il letto mentre Tenzō aspetta in cucina con l’ordine di non alzare nemmeno un dito e mangiare almeno tre dei biscotti che gli ha messo davanti. Non ha mangiato molto durante il viaggio, e per prendere le medicine bisogna essere a stomaco pieno. Kakashi non tocca né il tè, né i biscotti, ma accompagna Tenzō fino in camera e lo aiuta a cambiarsi per la notte. Lui arrossisce nel farsi vedere in mutande, come se non lo abbia già visto nudo. O forse arrossisce nel farsi vedere così fragile.

«Grazie» dice mentre gli rimbocca le coperte.

«Se ti serve qualcosa, fai un fischio».

«No, dico sul serio» dice poi, rendendosi conto che lo sta ringraziando per qualcosa di più dell’ospitalità. «Grazie per avermi salvato la vita. Non te l’avevo ancora detto».

L’occhio destro di Kakashi legge nei suoi, come sempre. «Non è vero». Lentamente, come se non sapesse bene come muoversi, si siede accanto a lui sul bordo del letto. «E in ogni caso non devi ringraziarmi per una cosa del genere».

«Come no?»

«Non si ringraziano gli amici perché ti salvano la vita». Gli sembra un po’ una cazzata, ma forse è vero. «E tu, tra tutti…» Kakashi distoglie lo sguardo, e per qualche motivo inspiegabile Tenzō sente la testa girare. «Non avrei mai potuto non salvare te».

C’è qualcosa di strano nell’aria, e lui ha la gola secca.

Kakashi sospira. «Voglio dire che…» balbetta, tormentandosi le mani e guardando dappertutto tranne che verso di lui. «Voglio dire che ti devo ringraziare anch’io per tutto, Tenzō, e…» E poi non va più avanti.

«E…?»

«E ti sono grato che ci sei sempre, quando ne ho bisogno».

Tenzō sorride. «Le rare volte che ne hai bisogno».

«Quando ne ho bisogno. Lo sai, non… non sono mai stato abituato a una cosa del genere».

«Sono tuo amico, senpai». Sono innamorato di te. «Non si ringraziano gli amici per queste cose».

Si guardano negli occhi a lungo. Tenzō sorride, Kakashi no. È così bello, e forte, e coraggioso, e buono, anche se la bontà è difficile da trovare in uno come lui. Si chiede cosa gli stia passando per la testa

«Bè, buonanotte» dice alla fine, alzandosi. «Se hai bisogno, chiama».

«Sì. Buonanotte, senpai».

Lo guarda allontanarsi da lui attraverso la stanza, e lo vede fermarsi davanti alla porta e mormorare qualcosa.

«'Fanculo».

Lo vede voltarsi di nuovo, tornare a passo deciso verso di lui guardandolo negli occhi. E lo sta ancora guardando, aspettando che gli dia una spiegazione del suo comportamento, quando si tira giù la maschera e lo bacia sulle labbra.

«Non provare mai più a farmi preoccupare così tanto».

E non ha capito niente di quello che è appena successo, a malapena si rende conto che Kakashi si è tolto la maschera davanti a lui per baciarlo sulle labbra e non accenna a volersela rimettere, anche se non lo sta più baciando e gli ha detto quello che gli voleva dire (ma cosa gli voleva dire, poi? E perché è così contento che gliel’abbia detto anche se non lo ha capito?), ma forse, dopotutto, certe cose non si capiscono con la testa, e infatti è il cuore che gli martella nel petto che lo fa avvicinare a lui per baciarlo di nuovo, oltre le labbra e oltre ogni cosa che la testa potrebbe pensare.

Sorride, ora, e sorride anche Kakashi. Non si rimette la maschera. È ancora più bello di quanto ricordasse, ed è il sorriso, perché non lo ha mai visto sorridere senza la maschera. Ha un sorriso gentile, forse più gentile di quanto ci si aspetterebbe da uno come lui.

«Domani ne parliamo, che dici?»

«Mi piaci un sacco, Ka… Senpai».

Kakashi quasi scoppia a ridere. «Vai a cagare, Tenzō».

Non è la risposta che ha sempre sognato, ma va bene così.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

6

Kakashi

 

 

 

«Voleva parlarmi, Hokage?»

«Ah, Kakashi. Sì».

Si è chiesto cosa sia così importante da farlo mandare a chiamare, visto che si vedono comunque tutti i giorni.

«È stato deciso che tu lasci gli ANBU».

Kakashi spalanca gli occhi (l’occhio) per la sorpresa. «Cosa?!»

 

 

 

Tenzō lo sta aspettando nel vicolo accanto alla biblioteca. Normalmente cercherebbe di avvicinarsi di soppiatto per tentare di coglierlo di sorpresa, ma in quel momento neanche ci pensa. «Scusa, ero…»

«Ti eri perso tra le strade del destino, immagino» lo interrompe con un sorriso.

Kakashi sa che è arrivato non più tardi di dieci minuti prima, ma non glielo rinfaccia, non quel giorno. È terribilmente serio quando decide di andare dritto al punto. «No. Ero dall’Hokage».

«È successo qualcosa?» si preoccupa lui.

«Sì».

«Che fai, non me lo dici?»

La prima cosa che si nota nella figura di Tenzō sono gli occhi. È la primissima cosa che Kakashi ha notato di lui quando lo ha visto nella mensa della caserma nove anni prima. Gli occhi di Tenzō sono neri, lucidi ed enormi e sembrano quelli di un bambino. Kakashi ci legge dentro; lui gliel’ha sempre lasciato fare, nei momenti felici come in quelli in cui è stato più fragile. Ed è disarmante per lui guardare nei suoi occhi, vederci passare tutto ciò che prova e pensa l’uomo che ama. È bellissimo, ma disarmante. In quel momento non è nemmeno bello vedere tutta la curiosità e l’aspettativa negli occhi di Tenzō, perché sa che quello che gli deve dire non gli piacerà. Dèi, non piace neanche a lui. Chi l’avrebbe mai immaginato?

«Mi hanno tolto dagli ANBU».

Tenzō non sa cosa dire. Non hanno mai veramente parlato dell’eventualità che una cosa del genere accadesse. Stanno bene negli ANBU, a volte è dura, ma Kakashi non ha mai veramente desiderato andarsene. Di solito i ninja vengono allontanati dall’organizzazione molto più tardi, non quando sono nel fiore delle loro energie, e non c’è veramente motivo per cui un capitano come lui debba andarsene così presto. Per assurdo, avrebbero molti più motivi per allontanare Tenzō. Ad ogni modo, non ci hanno mai veramente pensato. «Ma… Bè…»

«L’Hokage pensa che sarei un ottimo maestro per i genin che escono dall’Accademia» spiega senza guardarlo negli occhi. «Se lo sarà sognato di notte» dice mentre Tenzō scoppia a ridere.

«O avrà fumato troppo».

«Dèi, mi ci vedi ad avere a che fare con quei marmocchi? È già tanto se conoscono la differenza tra un kunai e un pugnale».

«L’Hokage se ne pentirà dopo tre giorni, sicuro». Sta ancora ridendo, Tenzō. E Kakashi sta bellamente evitando il punto di tutta quella storia. «Nel frattempo andiamo?»

Hanno in programma di cenare da Ichiraku, ma Kakashi non ne ha nessuna voglia, e nemmeno Tenzō ne avrà quando avrà sentito ciò che gli deve dire. «L’Hokage mi ha anche dato un altro incarico».

«Cosa, fare il babysitter?»

Gli lancia un’occhiataccia, ma la cosa non ferma i suoi ridacchiamenti. «Devo tenere sott’occhio Danzō».

Tenzō smette di ridere quasi all’istante. «Cosa sospettano di Danzō?»

«Non lo so, non mi ha detto niente. E anche se lo sapessi non te lo direi».

«Sì, hai ragione».

«Comunque, il problema è un altro» si decide. Meglio tagliare la testa al toro. È sempre meglio tagliare la testa al toro.

«Perché, c’è un problema?»

È così difficile guardarlo negli occhi in quel momento. «Non potremo più vederci». Gli si spezza il cuore. Gli si è già spezzato nell’ufficio dell’Hokage, ma ora gli si spezza un po’ di più.

«Cosa… Cosa stai dicendo?»

«Devo… dovrò… troncare tutti i miei rapporti con gli ANBU. Tutti».

Tenzō non crede a ciò che ha appena detto, lo sa. Non lo crede possibile, non lo crede concepibile. I suoi occhi sono ancora più grandi del solito, le pupille sono dilatate come se fosse appena stato ferito in battaglia. Kakashi si ricorda tutte le volte che è stato al suo capezzale, e la cosa non lo aiuta.

«Non può essere».

«Me l’ha ordinato l’Hokage».

«Da dove l’ha tirata fuori una cazzata del genere? Come se gli ANBU non conoscessero nessuno fuori dall’organizzazione!» sbotta. Si sta arrabbiando, e ha tutta la sua comprensione.

«Non è questo il punto».

«E qual è il punto allora, Kakashi? Qual è il cazzo di punto?»

«Non posso investigare su Danzō e avere rapporti stretti con chi gli è vicino».

«Ma che cazzata è?» sbotta di nuovo. Kakashi gli fa segno di abbassare la voce, ma Tenzō nemmeno se ne accorge. «Cos’è, ha dimenticato le basi dello spionaggio?»

«Credo che abbia già qualcuno all’interno degli ANBU che fa la spia per lui». Forse non dovrebbe dirglielo, ma d’altra parte è solo una sua supposizione, non è una cosa che sa per certo. «Il mio ruolo sarà diverso» spiega, ma Tenzō non lo sta quasi a sentire. Si volta, gli dà le spalle, si allontana di qualche passo.

«E poi cosa c’entrano gli ANBU con Danzō, scusa? La Radice è una cosa diversa!»

«Non è vero, e lo sai anche tu».

«Perché giustifichi tutte queste scelte del cazzo?»

«Nemmeno io ti voglio lasciare, Tenzō!» esclama alla fine. Vederlo così agitato lo fa star male; dirgli quelle cose lo fa star male, ma non ha scelta.

Tenzō sospira forte e si passa una mano davanti agli occhi. «Lo so. Hai ragione, scusami». Lo guarda appoggiarsi di schiena al muro, il volto tra le mani, a nascondere una realtà che non gli piace. Una volta (forse due) gli ha detto chiaro e tondo di essere emotivamente più forte ed equilibrato di lui. Kakashi era stato d’accordo, in cuor suo; ma in quel momento pensa che, semplicemente, non aveva ancora trovato la cosa che lo fa vacillare.

«Non c’è niente di cui scusarsi». Gli si avvicina, lo abbraccia. La cosa sembra calmarlo. Anzi, lo calma di sicuro, perché Kakashi odia le manifestazioni d’affetto e le tollera di buon grado solo in determinate situazioni, figurarsi farle in prima persona. «Non è colpa tua, non è colpa mia ed è una merda».

«Ammesso che tu possa» gli dice guardandolo dritto nell’occhio, «non vorresti rifiutare?»

La domanda lo infastidisce un po’. «Cos’è, un test per capire se preferisco te alla carriera?» Lo sa, Tenzō, che Konoha viene prima di tutto il resto, fosse anche solo perché glielo ha ordinato l’Hokage in persona. Anche per lui è così.

«Scusami» ripete. «È che sono sconvolto e non riesco a capire. Mi sembra che questa storia non abbia alcun senso».

«Anche a me».

Kakashi non saprebbe dire per quanto tempo rimangono abbracciati. È confortante. Solo con Tenzō riesce a dimenticarsi di tutto e a essere in pace con sé stesso, come se fosse tutto un brutto incubo e solo lui, tra tutte le cose del mondo, fosse in grado di cullarlo fino a farlo addormentare. Lasciare gli ANBU significherebbe (significherà) rinunciare anche a questo.

«Ti ha detto una data?»

«Tra un mese».

«Cazzo» boccheggia Tenzō, e lo stringe più forte. Un mese è troppo poco, un mese è niente. «Scusa, Kakashi» si divincola, «non ho voglia di andare da Ichiraku».

«Nemmeno io».

«Torno a casa. Scusami, ci vediamo domani».

Come biasimarlo.

Kakashi si avvia da solo verso casa, cercando di non pensare che stanno consapevolmente rinunciando (per motivi legittimi, per carità) alla prima delle loro ultime trenta occasioni di trascorrere del tempo insieme.

 

 

 

Il giorno arriva, alla fine. Troppo presto, come se l’ultimo mese fosse durato un battito di ciglia.

È crudele quanto poco tempo abbiano avuto. Perfino scoprirsi non più innamorati l’uno dell’altro o lasciarsi dopo un tradimento non avrebbe fatto così male. Non si può chiudere una cosa come la loro in quel modo, per un motivo esterno. Tenzō è tutto ciò che ha, è tutto ciò che ha reso i suoi problemi sopportabili e l’unica cosa della sua vita di cui sia veramente felice. È crudele, non ci sono altri aggettivi per definire quella storia.

Sono silenziosi, quel giorno. Tra loro c’è un muro di emozioni strazianti. Anche guardarsi negli occhi fa male, e le tazze di tè, il tè che è una costante quando sono da Kakashi, non sono mai sembrate così interessanti.

«Così dovrò ricominciare a chiamarti senpai anche quando non c’è nessun altro?»

«Scommetto che sono anni che aspettavi questo momento». Voleva essere una battuta, ma nemmeno lui riesce a sorridere.

«Io non lo accetto» dice Tenzō serrando il pugno. «Ci dev’essere un modo».

«Non c’è». Ne hanno discusso tantissimo nelle ultime settimane. Ne hanno discusso anche troppo, quando invece avrebbero potuto usare quelle ore per fare l’amore, o parlare di altre cose, o godersi le giornate di sole.

«A me l’idea di vederci in segreto non sembrava così male».

«A parte il piccolo dettaglio che non avrebbe senso che io lasci gli ANBU, se poi vedo te in segreto». Ha detto quella frase almeno mille volte, ma non riesce a rassegnarsi.

«Non può finire così».

«Lo farà». Dèi, odia vedere Tenzō in quello stato. «È già successo».

Tenzō fa il giro del tavolo e lo abbraccia. «Non è vero. Non ancora». Gli piace essere abbracciato da lui. Ha una stretta decisa, come se bastasse a tenere insieme i pezzi.

«Ma non ci rimane molto da fare» sussurra contro il suo collo. «Ormai ci rimane solo oggi».

«Oggi?» sbotta Tenzō, quasi una risata senza allegria. «Io credevo che sarebbe andata avanti per sempre».

Anche io.

«Sono stufo di parlare di queste cose». Si allontana, lo guarda negli occhi. «Non possiamo dimenticarci di tutto, Tenzō? Solo per qualche ora».

I suoi occhi sono enormi. «Io mi dimenticherei di tutto per sempre».

Kakashi sbuffa. «Te l’ho mai detto che tutto questo romanticismo sarà la tua rovina?»

«Almeno una volta a settimana» ridacchia, finalmente, Tenzō. Sente le sue mani intrecciate dietro il collo. «Ma sarà anche la tua salvezza».

«Sarebbe stato».

«Ma allora sei stronzo, però».

Gli passa il pollice sulle labbra semiaperte. «Voglio solo vedere il Tenzō spensierato di sempre».

«Non è questo il modo migliore».

«Lo so, qual è il modo migliore». Lo bacia, e un minuto dopo sono sul letto, nudi, e Tenzō è bellissimo e spensierato e sussurra il suo nome come se la parola senpai non fosse mai stata inventata.

Le loro mani sono grandi uguali, messe palmo contro palmo. È un gioco che fanno spesso dopo l’amore, mentre parlano di tutto e di niente. Tenzō lo prende sempre in giro, gli dice che è la massima dimostrazione d’affetto di cui Kakashi è capace, e non ha neanche tutti i torti. Kakashi sa di non essere una persona facile a cui stare accanto. Si porta dietro i suoi traumi da tutta la vita, rimane chiuso a riccio il novantanove per cento del tempo e ha fisiologicamente bisogno di starsene da solo a lungo. Tenzō è tutto il contrario e ancora non capisce come faccia ad accettare una persona come lui. E se nei quattro anni durante i quali è stato con lui ha imparato qualcosa dell’amore, è che un vero motivo potrebbe anche non esserci.

«Non credo di averti mai detto quanto e perché sono contento di averti nella mia vita».

«Guai a te se lo fai adesso».

«Quando lo dovrei fare, scusa?»

«Potevi pensarci prima, non mentre mi lasci».

«Sei arrabbiato?»

«No, ma vorrei. Domani lo sarò. Ma tanto non avrà più importanza».

«Potrei scrivertelo in una lettera. La leggerai quando avrai voglia».

«E certo, così poi mi tornerà tutto in mente e starò male per giorni». Tenzō tace per un momento, ma poi ricomincia, perché zitto non ci sa stare. «Questo discorso è surreale».

Tutto in quella storia è surreale. E crudele.

«Parliamo piuttosto di quando ci vedremo in giro. Potrò almeno dirti ciao?»

«Cosa pensi, che ti tolga il saluto?»

«Se devi troncare ogni rapporto con gli ANBU…»

«Vai a cagare, Tenzō».

«Potresti dirmi questo al posto di salutarmi, forse l’Hokage ne sarebbe più contento» ridacchia, perché quel particolare insulto, detto da Kakashi, a seconda del contesto può voler dire tutt’altra cosa. «Oppure potresti grattarti il mento e io saprei che mi stai dicendo che mi ami, o una cosa del genere».

«Proprio il giusto comportamento che dovrebbero tenere due persone che troncano tutti i rapporti».

«Sì, ma non si può fare niente, allora».

Il punto è proprio quello. Non possono fare niente, e fa male da morire.

Kakashi si gira a pancia in giù e lo abbraccia. Vuole solo addormentarsi così, per l’ultima volta. «Magari tra un po’ ti cacciano anche a te dagli ANBU».

«Non darmi false speranze».

Nemmeno lui si aspetta niente del genere. Tenzō è un asso nella manica per l’organizzazione, e vi appartiene come si appartiene a una famiglia. Kakashi non avrebbe mai la presunzione di chiedergli (o sperare) che se ne vada dagli ANBU per lui, anche solo perché sarebbe il primo a non fare una cosa del genere. Konoha viene prima di ogni cosa.

«Tu sei stato la mia casa, Kakashi».

Lo sa.

«Non appartenevo a niente, prima».

Lo sa.

È l’ultimo pensiero triste che condividono quella sera. Che condividono. La mattina dopo, quando il sole sorge e la sveglia suona, sono ancora abbracciati, nudi. Non parlano, non si guardano in faccia. Tenzō sfiora il suo corpo con le dita, dalla clavicola alla cresta iliaca. Lui trattiene il fiato mentre lo fa, e si protende per baciarlo; ma si ferma prima, e guardandolo dritto nei suoi enormi occhi neri capisce che è finita.

Tenzō se ne va senza nemmeno bere l’ultima tazza di tè. Gli sorride quando lo accompagna fino sulla porta, dopo un abbraccio che vorrebbe essere molto, molto di più. «Bè, ci vediamo in giro, allora». Ma i suoi occhi, i suoi grandi occhi neri, gli stanno dicendo addio.

Pensa, quando Tenzō gli gira le spalle e scompare giù per le scale senza voltarsi indietro, che darebbe qualsiasi cosa per fare in modo che tutto ciò non servisse. Vorrebbe potersene andare dagli ANBU e continuare comunque a vedere Tenzō. Così come avrebbe voluto che le cose con Obito fossero andate diversamente, che Rin e suo padre non fossero morti, che il suo maestro fosse ancora al suo fianco.

La sua vita è composta esclusivamente da rimpianti.

L’unica cosa che non rimpiange è aver amato Tenzō.

 

 

 

Nei mesi successivi si incrociano una manciata di volte per le strade di Konoha. Kakashi si gratta il mento quando lo saluta, e Tenzō sorride e non gli fa mai mancare un senpai.

Poi gli giunge voce che lo hanno inserito in una squadra speciale, e non lo vede più.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7.1 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

7

Tenzō

 

 

 

Gli ANBU, di norma, vivono nell’ombra, sconosciuti ai più. Certo, ci sono ANBU la cui fama travalica anche i confini dei Paesi, e per dovere di completezza la loro fama è legata più che altro a una morte eroica o cruenta, o a qualche fatto estremo come assassinii di massa o il tradimento del proprio villaggio (ogni riferimento a Itachi Uchiha è puramente voluto), ma non è raro che un ANBU debba operare nell’ombra, non debba farsi vedere o sentire, e debba procedere per la sua strada anche quando le sue azioni sembrano non avere senso o remare contro gli obiettivi del suo villaggio. È la normalità. E questo, nonostante gli ANBU siano responsabili di molte cose che in futuro verranno insegnate ai bambini durante le ore di storia, ha sempre fatto sentire Tenzō quasi distaccato dal resto del mondo, come se la sua vita e quelle dei civili e dei ninja regolari fossero parallele e destinate a non incontrarsi mai, come se le vere vicende di Konoha e del mondo si svolgessero separatamente dalle sue e non lo riguardassero.

Naruto e Sakura sono una di quelle vicende. Tutti conoscono la storia loro e di Sasuke, gli unici allievi che Kakashi, in tutti quegli anni, abbia mai avuto, una ragazzina come tante altre, la forza portante della Volpe a Nove Code e il fratello minore di Itachi Uchiha. Quando l’Hokage lo ha nominato capitano dell’ex squadra 7 riveduta e corretta, Tenzō è stato catapultato nel bel mezzo di vicende che ha sempre percepito come distaccate da sé, e non è sicuro che la cosa non gli piaccia. È diverso da ciò a cui è abituato, ma è quasi divertente, nonostante con lui Naruto e Sakura siano simpatici come un chiodo piantato nel piede, Sai sia una cosa in più a cui stare attenti prima di essere un compagno di squadra, e quei due esagitati gli ricordino terribilmente Kakashi anche quando non ne parlano esplicitamente.

C’è molto di Kakashi in Naruto e Sakura. C’è tanta ammirazione nei suoi confronti, prima di tutto, e anche la sua visione del mondo. Dicono di Sasuke le stesse cose che Kakashi pensa (pensava?) di Itachi: per loro non è un traditore, ma un compagno da riportare indietro. Solo che Kakashi è (era?) molto più pragmatico e devoto a Konoha, e nonostante tutto quello che pensa di Itachi non si sognerebbe nemmeno di cercare di riportarlo indietro con la forza. Gli hanno detto che si sono incontrati, qualche anno prima, e ingaggiare battaglia è stato il loro naturale comportamento. Naruto non ha voluto ingaggiare battaglia. Non ha voluto, anche se Sasuke aveva intenzione di ucciderlo. Tenzō si domanda, da quel momento, come dev’essere volere talmente bene a una persona da decidere di non difendersi quando questa vuole ucciderti.

Sono passati sette anni dall’ultima volta che Tenzō ha visto Kakashi. Fa quasi venire il capogiro, a pensarci, perché abitano nello stesso posto, perché ogni cosa si è interrotta bruscamente, un taglio netto, una morte rapida. Ha fatto dannatamente male, ha fatto male incrociarlo per le strade e non poterlo nemmeno abbracciare nonostante lui gli “dicesse” che lo amava. Ha fatto male doverlo dimenticare, doversi disinnamorare di lui, è stato un processo lungo e doloroso. E Tenzō non ha mai più trovato nessun altro come lui; si è innamorato di nuovo, ha avuto delle storie, ma non ha trovato nessun altro come lui. Si chiede, a volte, se sia questo ciò che la gente intende quando dice che il primo amore non si scorda mai, o se invece Kakashi sia stato l’unico vero amore della sua vita. Non lo sa. Non sa niente, è cresciuto e non sa niente.

Non sa nemmeno come vuole apparire davanti a Kakashi. Non lo sapeva quando l’Hokage lo ha portato con lei all’ospedale, prima della missione, perché Kakashi gli spiegasse come sigillare la Volpe e cosa fare quando Sasuke fosse stato nominato (sul momento la cosa gli era sembrata un po’ esagerata, ma si era ricreduto molto presto. Avrebbero dovuto prepararlo meglio ad affrontare il pensiero di Sasuke, altro che Volpe a Nove Code). Ha semplicemente fatto finta di niente, e sa, sa che agli occhi di Kakashi ha fallito su tutta la linea. Certo, mica potevano mettersi a fare scenate davanti all’Hokage, ma a Kakashi è bastato uno sguardo per capire quanto fosse nervoso. Lui non lo era, ma Tenzō non si era aspettato che le cose andassero diversamente. Si era aspettato, invece, che fosse ancora dannatamente sexy, e lo è.

Ora, Tenzō non ne è innamorato, non dopo tutto quel tempo. Se c’è una cosa che sa, è quella. Ma sfiderebbe chiunque a rivedere il proprio primo amore e a non esserne turbato in alcun modo.

Non sa, Tenzō, come vuole apparire davanti a Kakashi, ora che la missione si è conclusa, lui è stato dimesso e gli ha giustamente chiesto di incontrarsi. Per fare il punto sulla missione e sulla squadra 7, aveva scritto nel messaggio. E per fare quattro chiacchiere dopo tutto questo tempo. Non sa se è pronto a subire una strigliata per com’è andata la missione: Kakashi non le mandava certo a dire, e non nutre molte speranze che le cose siano cambiate negli ultimi sette anni. Non sa cosa dovrebbe dire, non sa come dovrebbe comportarsi. Tra loro c’è stato troppo per essere tranquilli in un momento del genere. Non è solo un incontro di lavoro. Non potrebbe mai esserlo.

Kakashi è puntuale. Cosa significhi di preciso questa cosa, Tenzō non lo sa. E si è ripromesso di non farsi travolgere dai ricordi, di non mettersi a fantasticare dei bei tempi andati e rischiare di suggestionarsi da solo sulle intenzioni di Kakashi. Che poi lui non è innamorato e non vuole che tra loro succeda nulla. Non ha una vera motivazione, ma non vuole.

Kakashi è puntuale e sembra che non sia mai stato ricoverato in ospedale un singolo giorno della sua vita. Il vento scorre attraverso i suoi capelli argentei, il suo portamento è elegante e fiero come ricordava e l’occhio destro è puntato su di lui. Non ha il coprifronte, né la divisa da jōnin, e Tenzō si chiede se si ricordi quanto gli piaceva guardarlo indossare abiti civili. «Ciao, Tenzō». La sua voce è sempre la stessa, sempre quella con cui lo mandava a cagare per dirgli che era la cosa più importante della sua vita. Non dovrebbe chiamarlo col suo vero nome, ma decide di sorvolare.

«Ciao, senpai». Il suo modo di rivolgersi a lui è sempre lo stesso, sempre quello che causava parecchie prese in giro e battibecchi.

«Entriamo?»

Niente convenevoli, niente inutili perdite di tempo, a malapena un sorriso accennato sotto la maschera. A Tenzō non dispiace, in realtà. Non vuole scenate, non vuole ricordare. Kakashi lo precede all’interno del bar, si fa indicare un tavolo per due e gli fa strada.

«Va meglio? Sei guarito del tutto?»

«Sì, grazie. Tu come stai?»

«Tutto bene».

Convenevoli, solo convenevoli. Ha appena fallito una missione, non sta bene, e Kakashi lo sa.

Tenzō ordina un sake. Kakashi, ovviamente, non ordina nulla. Tenzō non vuole pensare a che reazione avrebbe nel vederlo togliersi la maschera davanti a lui. «Non ti fai offrire niente?» dice però, più che altro per cortesia.

Kakashi gli sorride. «Lo sai che odio quando la gente paga per me».

Sì, lo sa. E lui non avrebbe dovuto lasciarsi scappare quello stupida domanda. Non avrebbe voluto ricordare il passato, ma è la prima cosa che ha fatto.

«Il che è un problema, visto che Naruto e Sakura non farebbero altro».

«Non stento a crederlo, stravedono per te» dice con una punta d’irritazione. Hanno passato tutta la missione a ricordagli che lui non è Kakashi, e che per giunta è peggio.

«Ho fin troppi problemi, e la maggior parte è dovuta a quei tre». Dritto a occuparsi delle cose importanti, come una volta.

«Già, dopo la missione credo di capire».

«Sì, forse capisci». Gli basta aprire bocca per darsi arie di superiorità senza nemmeno rendersene conto, come una volta. «Mi hanno detto che Naruto ha perso la testa».

«Sì. E ha… ha rischiato di fare parecchio male a Sakura. È stata una fortuna che l’abbia presa solo di striscio. Mi dispiace, senpai, avrei dovuto…»

«Non c’è niente di cui dispiacersi» lo interrompe, e non è la prima volta che gli dice quelle parole guardandolo negli occhi. «A parte il fatto che tu non hai un briciolo di colpa per come sono andate le cose, io sono arrivato a una conclusione. È ora che Naruto, e Konoha, sfruttino appieno il suo potenziale. Io, Jiraya e l’Hokage ne abbiamo parlato a lungo. È arrivato il momento che Naruto usi tutto il potere della Volpe, invece di reprimerlo».

«Siete fuori di testa?»

«Che c’è, non sei d’accordo?»

Riflettendoci bene, sì, è d’accordo. Non ha senso non sfruttare un potere del genere, soprattutto in vista di ciò che si profila all’orizzonte, e da che mondo è mondo ogni villaggio ninja che abbia di un demone codato ne dispone a proprio vantaggio. Ma è una cosa rischiosissima per tutti, punto primo, e, punto secondo, non si possono cancellare sedici anni di diffidenza e odio nei confronti di Naruto e della Volpe a Nove Code così, con una frase.

«Naruto non è più il bambino delinquente di un tempo. Ho idea che molto presto tutti si accorgeranno di avere a che fare con un eroe».

Addirittura?

«Comunque, di questo riparleremo dopo. Dimmi di Sasuke».

«Non c’è molto da dire. È diventato fortissimo, da quel poco che sono riuscito a vedere, è completamente assoggettato a Orochimaru e ci avrebbe uccisi senza battere ciglio, se lui non lo avesse fermato».

Lo sguardo di Kakashi è un enigma. Tenzō si chiede cosa pensi di tutta quella situazione. Non è mai stato molto capace di leggergli dentro (dèi, nessuno è capace di leggere dentro a Kakashi), ma di quella storia non sa assolutamente niente. Non sa che tipo di allievo fosse Sasuke, che rapporto c’era tra loro, se Kakashi pensava a Itachi quando gli parlava e se abbiano mai affrontato l’argomento. È una delusione, Sasuke, per Kakashi? Oppure lo capisce meglio di quanto non capisca Itachi?

«Sasuke è il più grande fallimento della mia vita». Ecco, appunto. «E la mia vita è piena di fallimenti, come tu ben sai». Lo sa. «Di quei tre era il mio preferito. L’ho allenato personalmente, l’ho preso a cuore molto di più di quanto non abbia fatto con Naruto e Sakura. E se c’è una cosa che un maestro non dovrebbe fare per nulla al mondo sono favoritismi».

«Lo hai fatto per Itachi».

«Sì, ripensandoci ora lo credo anch’io» sospira. «Sono anni che cerco di capire, e non ho ancora capito».

«Ho sentito dire che qualche anno fa vi siete incontrati».

«Già. Non un bello spettacolo».

«Ti ha fatto il culo, eh?» ridacchia Tenzō, anche se non c’è proprio niente da ridere.

Ma Kakashi sorride. «Già. Ovviamente».

«Non sei responsabile di Itachi e di quello che ha fatto, lo sai, vero?»

«Lo so» risponde guardandolo negli occhi, «ma ero comunque una figura di riferimento per lui».

Dèi, quanto gli manca.

«Cosa vuoi fare per gestire Sasuke?» gli chiede per scacciare il pensiero dalla mente.

«Non che si possa fare molto, non credi? È un criminale internazionale. Non possiamo riservargli un trattamento di favore solo perché è Sasuke».

«Ma Naruto e Sakura la pensano diversamente».

«E a lungo andare si ritroveranno in un mare di guai, se continuano così» osserva Kakashi. «La cosa non mi piace, sia ben chiaro, ma l’Hokage è troppo affezionata a loro e troppo permissiva quando si tratta di Sasuke».

«Tu lo cattureresti? Avresti il coraggio di condannarlo?»

Kakashi non risponde subito, e Tenzō si chiede se si sia spinto un po’ troppo oltre. «Lo farei. È andato da Orochimaru di sua spontanea volontà, ha continuato a causare problemi da quel momento e vi ha quasi uccisi, Tenzō». Sente la testa girare per un momento quando Kakashi pronuncia il suo nome. «Lui non è diverso da qualsiasi altro ninja abbia fatto una cosa del genere. Lo condannerei. Soffrirei come un cane, ma lo farei».

«Konoha prima di tutto, d’altra parte». È una frecciatina (che Tenzō non aveva alcuna intenzione di lanciare, ma tant’è), e Kakashi lo sa.

«Già».

«Non lo consideri più un compagno?»

«No».

Tenzō potrà pure non essere capace di leggergli dentro, ma è palese che la verità sia diversa. D’altra parte, Kakashi si è sempre sentito responsabile dei suoi sottoposti, anche dopo la fine delle missioni.

«Il che mi riporta a Naruto».

«A lui non andrebbe giù se tu lo condannassi».

«Detto sinceramente, non credo che cattureremo mai Sasuke. Ma ti volevo parlare dell’allenamento che abbiamo pensato per Naruto, visto che ne farai parte anche tu».

«Io?»

«Sì. Tu puoi tenere a bada il chakra della Volpe, e ne avremo assoluta necessità».

«Ma che allenamento è, scusa? O sfrutta il chakra o io lo tengo a bada, delle due una».

«Non dovrà sfruttare il chakra della Volpe, almeno non nei nostri piani. Ma siamo dell’opinione che ci saranno delle complicazioni in questo senso». Distoglie lo sguardo prima di continuare. «Non so se lo sai, ma il Rasengan è una tecnica incompleta. Minato l’aveva creata come base di partenza per tecniche più potenti che sfruttassero i vari elementi del chakra. Noi vogliamo che Naruto la completi e la padroneggi in tempo record, e per farlo dovrà usare il cento per cento del suo chakra tutto in una volta, ripetutamente. Capisci che in queste condizioni potrebbe attingere al chakra della Volpe senza rendersene conto. L’hai visto anche tu che il sigillo si è indebolito di molto rispetto a com’era all’inizio».

«Si spezzerà del tutto, prima o poi».

«Già».

«Tu ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo?»

«Hai paura di fare fatica?» lo prende in giro Kakashi.

«Vorrei vedere te, a fare una cosa del genere» ribatte Tenzō. «Ma lo farò. Non mi tiro indietro davanti alle difficoltà, né agli ordini».

«Lo so».

Anche lui sta ricordando il passato, ora. Gli è mancato? Pensa a lui con affetto? Cos’ha fatto in tutti quegli anni?

«Cos’hai fatto in tutti questi anni, Tenzō?»

Ecco, appunto.

È bellissimo quando lo guarda negli occhi in quel modo.

«Chiamami Yamato, per favore, senpai» gli dice per sviare il discorso ancora per qualche secondo. Non vuole ripensare al passato. «Niente di straordinario. Un po’ di questo, un po’ di quello. Sono stato molto in giro».

«Ho sentito dire che sei stato col fiato sul collo a più di un terrorista».

«È vero. Brutta esperienza. Non la rifarei».

Kakashi ridacchia. «Certe cose non ti sono mai piaciute».

«Già».

«È ironico, no? Che tu sia finito a fare quello e io il maestro. Sarebbe stato meglio il contrario, probabilmente».

«Io, fare il maestro? Manco per idea. Sono contento che questa rogna te la sia grattata tu».

Cazzata. Non è vero. Si sono lasciati, per quella rogna.

«E tu che hai fatto, senpai?»

«Il maestro. Niente di divertente, nemmeno per i miei allievi. Naruto, Sakura e Sasuke sono stati i primi e gli unici. Nessuno è stato all’altezza, prima di loro». Quanta sfacciata arroganza. «A volte penso che sia stato tutto un piano del Terzo».

«Probabile».

«E poi ho svolto varie missioni. Niente di troppo impegnativo. Tutto qua».

Tenzō non ci prova nemmeno più, a trattenere le domande che non vorrebbe fare. «E Danzō?»

Kakashi sorride di nuovo sotto la maschera mentre lo fissa con un’espressione ermetica. «Sai che non ti posso dire niente. Non dovresti nemmeno sapere che ho indagato su di lui».

«Almeno è stata un’indagine fruttuosa?»

«Non particolarmente».

«Fantastico».

Si ferma lì. Non sa più cosa dire. Cosa potrebbe dirgli? Non si vedono da sette anni.

«Stai ancora alla caserma?»

«No, mi sono trasferito in un appartamento dalle parti dell’arena».

«Chi l’avrebbe detto, che prima o poi saresti cresciuto anche tu…»

«Stai dicendo che sono un bamboccione?»

«Certo che no, una cosa del genere non mi passerebbe mai per la testa». Non sta scherzando. «Era solo una considerazione sul tempo che passa».

È tutto quello che hai da dire?, vorrebbe chiedergli. Ma d’altra parte cosa c’è da dire?

Dèi, quanto gli è mancato.

Ma non può dirglielo, non vuole. Non vuole che tra loro succeda niente. Non ha motivo di non volerlo: è single, gli è ancora affezionato e sa che Kakashi non lo ferirebbe mai. Ma non vuole. La loro storia appartiene al passato, ora c’è altro nelle loro vite.

«Sei proprio invecchiato».

Kakashi scoppia a ridere. Tenzō ha un tuffo al cuore nel ricordare che Kakashi non ride mai. «Disse il proprietario di casa».

«Sono in affitto, veramente».

«Ti senti? Che discorsi da pensionato» continua a prenderlo in giro.

«Mi pare di ricordare che i discorsi si facciano in due». Come varie altre cose.

Guai a te se pensi di nuovo una cosa del genere.

«Che poi tu vivi da solo da molto più tempo di me, se vogliamo dirla tutta».

«Chi ti dice che vivo da solo?»

Ah.

«Vivi con qualcuno? Chi è?»

Ghigna, e Tenzō capisce tutto prima di sentire la sua risposta. «Curioso?»

«Stronzo» dice ridendo, pieno d’imbarazzo fin sopra ai capelli. «Non vivi con nessuno».

«Se lo dici tu».

No, non vive con nessuno.

«Ti preferivo quando eri una persona seria».

«Certo, perché sei invecchiato».

«Vaffanculo, senpai».

«L’ospizio è vicino all’arena, tutto torna».

Non ribatte. Si è stufato di rispondergli, perché Kakashi troverà comunque un modo per prenderlo in giro. È troppo sveglio, lo è sempre stato. Si chiede quando e come gli sia spuntata tutta questa loquacità.

Se ne vanno non molto tempo dopo. Kakashi dice di avere un impegno, e per un momento Tenzō se ne dispiace. Poi si ricorda che lo sta prendendo in giro da mezz’ora e cambia idea. Un po’.

«Ti farò sapere quando Naruto inizierà l’allenamento, va bene?»

«Certo. Spero presto».

«Sì, entro qualche giorno. Mi ha fatto piacere rivederti, Tenzō».

«Anche a me» gli sorride. È vero, e dirlo ad alta voce lo agita un po’. Ma in effetti sono solo convenevoli. «Ci vediamo presto, allora. Solo… Con Naruto, Sakura e Sai non chiamarmi Tenzō, d’accordo? Sono Yamato».

Kakashi ghigna sotto la maschera. «E allora tu non chiamarmi senpai».

Solo più tardi, ripensando all’incontro nella solitudine della sua casa vicino all’arena (e all’ospizio, sì), Tenzō si chiede cosa voglia Kakashi da questo nuovo incontro.

 

 

 

Tenzō non sa niente. Più cresce, e meno sa.

Una delle cose che non sa è perché sia così cretino.

Non ci sono altri aggettivi per definire qualcuno che si prende una cotta per il suo ex dopo averlo rivisto per mezz’ora.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 7.2 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

7

Tenzō

 

 

 

Naruto è un prodigio, c’è poco da dire. È stato baciato dagli dèi con una quantità enorme di chakra e una testa talmente dura che riuscirà a superare tutti i muri della vita, ma è un prodigio. Tenzō ha quasi paura nell’osservarlo allenarsi, totalmente inconsapevole di quanto tempo ed energie richieda quel tipo di addestramento a qualcuno che non sia lui. Diamine, alcuni ninja nemmeno ci arrivano, ad affrontare quell’allenamento, e a lui sta costando lo stesso tempo e la stessa fatica che gli costerebbe una lunga corsa di resistenza.

A lui, invece, sta costando parecchio di più. Kakashi pensa che sia una passeggiata (“Su, Tenzō, che sarà mai, devi startene lì seduto e basta”), ma davvero vorrebbe vedere lui a tenere sotto controllo il chakra della Volpe. È sicuro che il famoso Kakashi, altro prodigio, si arrenderebbe dopo dieci minuti: quella tecnica richiede un altro tipo di resistenza. Ed è anche sicuro che Kakashi sappia bene quanto è faticoso, e che lo stia semplicemente prendendo in giro, come d'altronde fa sempre.

Questo non è cambiato: il suo modo noncurante di prenderlo in giro, quasi le pensasse veramente, certe cose, e solo un ammiccamento, una certa postura o un gesto leggero a mostrare che no, si sta solo divertendo a spese sue. Naruto quei segnali non li sa riconoscere, e infatti è il suo bersaglio preferito. A ogni modo, una volta le prese in giro erano intervallate da discorsi più seri, argomenti più intimi; ma ora non più, perché loro non si vedono da sette anni, non sanno più niente l’uno dell’altro, e anche perché hanno ormai perso la solennità che distingue i ragazzi dagli uomini.

Dèi, sono uomini. Quando è successo?

Si sente più bambino di quanto non sia mai stato. Di fronte al mondo, e di fronte a Kakashi.

Gli fa venire i nervi. Li ha messi entrambi al lavoro, a spezzarsi la schiena dopo un discorsetto motivazionale che ha incantato Naruto, ma di certo non lui, si è fatto costruire una panchina su misura e vi si è bellamente spaparanzato sopra, un braccio sotto la testa e l’altra mano a reggere un libricino che risponde al folkloristico nome di Le Tattiche Della Pomiciata, scritto da Jiraya. Per una volta, Tenzō è contento di poter affermare che non ne vuole sapere niente; ma ci sono altre cose, molte altre cose, che vorrebbe sapere. «Di’, senpai, quand’è che sei diventato così?»

«Così come?»

«Sfaticato» sghignazza Tenzō. Ma è tutta una farsa: vuole scoprire fino a dove si può spingere, se si può ancora permettere di parlargli in certi termini.

«Ma se sono due ore che ti lamenti perché sei seduto» replica strascicando le parole e con lo sguardo sempre incollato alle pagine.

«Lo abbiamo già fatto, questo discorso» sbuffa Tenzō.

Kakashi solleva improvvisamente lo sguardo e fissa l’occhio nei suoi. «E che discorsi vorresti fare?»

Vorrebbe chiedergli di lui. Vorrebbe sentirsi raccontare ogni cosa che ha fatto in quegli anni, se, come e quando è cambiato, quali sono le cose più importanti della sua vita. Se ha ancora i sensi di colpa per Obito, Rin, Itachi, Jin e tutte le altre cose che gli sono andate storte, o se ha fatto pace con sé stesso. Vorrebbe sapere se gli è mancato, cosa vede ora quando lo guarda.

«Raccontami di come il geniale Kakashi dello Sharingan è finito a leggere romanzetti spaparanzato su una panchina e com’è possibile che sia pagato per farlo».

Kakashi ridacchia. «Li leggevo anche una volta, i romanzetti».

«Ma per favore» ribatte Tenzō. «Me ne ricorderei, se…» Se avessi trovato libri del genere per casa. Per casa tua, quando ci rimanevo per fare l’amore con te.

«Li nascondevo».

«Seh, come no».

«Sul serio. Eri troppo innocente per cose del genere».

È una provocazione. Tenzō ne è consapevole e deve fare appello a tutta la sua (poca) faccia tosta per guardarlo storto. E Kakashi è dannatamente sexy mentre ricambia la sua occhiataccia senza battere ciglio, senza fare il minimo movimento.

«Chissà se lo sei ancora adesso».

Sei stato tu a portarmi fuori dalla mia innocenza, vorrebbe ricordargli. E vorrebbe sapere perché gli sta dicendo quelle cose. Vorrebbe sapere se sta flirtando, o se è solamente la sua naturale sensualità. Una volta non flirtava mai, non ce n’era bisogno.

«Cos’hai fatto in questi anni, Tenzō?»

«Mi sembrava che lo sapessi già».

«Ti sei innamorato?»

Il controllo del chakra della Volpe vacilla per un istante, ma l’unico a rendersene conto è Tenzō stesso.

Oh, bè. D’altra parte, è lui che ha voluto sapere tutto per primo.

«Sì» ammette dopo qualche secondo di esitazione. «Due volte. Neanche una che sia andata bene».

«Ma davvero» dice solo Kakashi, criptico. Non distoglie l’occhio dalla pagina nemmeno per un istante. «Li conosco?»

«Dubito. Uno è un AMBU di Suna. Abbiamo rincorso una banda di mercenari su è giù per il continente per un annetto, e poi chi si è visto si è visto. L’altro è un civile, un mercante di una città a una cinquantina di chilometri da Konoha».

«Ti hanno spezzato il cuore?»

«Non direi». In entrambi i casi, la risposta non dovrebbe essere quella. Entrambi avrebbero dovuto spezzargli il cuore, per come erano andate le cose. Ma non aveva fatto male, non quanto lasciare Kakashi. «E a te, senpai? Qualcuno ti ha spezzato il cuore?» La domanda non gli esce spensierata e canzonatoria come vorrebbe.

«No». Non lo guarda. Volta la pagina, e continua a leggere. Tenzō non capisce se la risposta è finita lì, e non sa se chiedergli di più o lasciar perdere. Ha deciso per la seconda ed è passato mezzo minuto buono quando Kakashi riprende il discorso. «Non riesco ad avvicinarmi a nessuno, nonostante tutto il tempo che è passato. Anzi, direi che la mia socialità diminuisce mano a mano che invecchio».

Perché le cose sono andate storte, per entrambi loro? Quando è successo?

«Sei ancora l’unico a cui mi sia avvicinato davvero».

Tenzō non sa bene cosa dire sotto lo sguardo penetrante di Kakashi. Tenzō non sa niente, tranne che ciò che prova è preoccupantemente simile a ciò che provava una volta.

«E non sono sicuro che non mi manchi».

«Tu sei sempre sicuro di tutto, senpai» dice, ma è più un pensiero ad alta voce che qualcosa che avrebbe voluto dire davvero.

«Non è vero. E non penso che mi piacerebbe».

 

 

 

Tenzō inizia a sorprendere Kakashi che lo guarda, da quel momento. Lo guarda e non parla, e non distoglie lo sguardo quando viene sorpreso, non finge che l’occhio si sia posato su di lui casualmente o solo per un attimo. Lo fissa, e continua a fissarlo quando Tenzō sostiene lo sguardo.

Il terzo giorno di allenamento, Kakashi lava i propri vestiti e gironzola tutto il giorno a petto nudo, e una vocina nei recessi della mente di Tenzō sussurra che il bucato non sia il vero motivo del suo comportamento, o almeno non l’unico. Kakashi gironzola a petto nudo (e il suo petto è esattamente quello di una volta, dèi, e anche l’addome, e lui si sente esattamente come una volta, ed è un problema) leggendo il suo libro e fissandolo, e Tenzō non sa se sia una casualità o se anche lui abbia voglia di… rivangare il passato.

Tenzō non sa proprio nulla, tranne che non c’è un solo motivo al mondo per cui dovrebbe trattenersi.

«Penso che manchi poco, ormai» dice Kakashi osservando Naruto da lontano. Ancora una volta, Tenzō non si capacita delle potenzialità di quel ragazzo.

«E cosa facciamo, quando avremo finito qui?» domanda. «Che missione ci aspetta?»

«Non lo so. L’Hokage non ha mandato messaggi, da quando siamo qui. Credo che sia tutto relativamente tranquillo, su al villaggio».

Niente nuove, buone nuove, immagina.

«Quello che ci aspetta» continua Kakashi, e gli punta addosso l’occhio in uno sguardo che conosce bene, «è una birra». E Naruto non è invitato, intuisce Tenzō, né tantomeno Sakura o Sai o l’Hokage o nessun altro. «Sempre che all’ospizio ti lascino bere».

«Sono più giovane di te, senpai» gli ricorda. Ed è incredibile come gli basti, ancora oggi, sentire una frase tanto banale perché gli si secchi la bocca.

«Spero veramente che gli anni ti abbiano reso un po’ meno innocente».

Potrebbe lasciarci le penne, a una frase del genere, perché è troppo, è semplicemente troppo, è qualcosa che a lui semplicemente non succede. Potrebbe lasciarci le penne, e Kakashi ride sotto i baffi, nudo fino alla cintola e più sexy di qualsiasi cosa Tenzō abbia mai visto nella sua vita, dopo avergli appena proposto qualcosa che desidera con tutto se stesso e che non ha nessun motivo al mondo per non fare, e dietro quello stupido imbarazzo adolescenziale c’è la meravigliosa sensazione di sollievo di quando tutto finalmente si incastra al posto giusto, e lui potrebbe lasciarci le penne.

E poi, appena dieci minuti dopo, proprio mentre Naruto è a un passo dal completare la sua nuova tecnica e lui sta facendo una fatica bestiale per concentrarsi sul chakra della Volpe anziché su Kakashi che beve una birra con lui nudo, Izumo piomba giù dal cielo e gli comunica che Asuma Sarutobi è caduto in battaglia.

 

 

 

È difficile, in quel momento, sentire il sapore della birra, anche se è la più buona di Konoha. È difficile anche entusiasmarsi per il fatto di essere seduti davanti a Kakashi in abiti civili e senza maschera in un bar.

Tenzō non conosceva bene Asuma Sarutobi. Non si poteva dire che lo ammirasse o lo stimasse particolarmente. Non lo disprezzava, questo no; ma era stato alquanto ribelle da ragazzo, e anche se si era tranquillizzato tempo prima, certi stigmi erano duri a morire in un villaggio ninja.

Kakashi è parecchio scosso, invece, più di quanto si sarebbe aspettato. Essere maestri di due squadre della stessa generazione deve avere il suo peso, immagina. E Tenzō sospetta che ci sia altro, dietro, qualcosa di cui parlavano, a volte, negli anni della loro relazione. Il dolore che il sistema in cui vivono porta inevitabilmente con sé, il dolore con cui Kakashi non è mai venuto a patti. Probabilmente, la faccenda di Sasuke non ha fatto altro che aggravare la cosa.

«Mangi qualcosa?»

A dire il vero, Tenzō non ha proprio fame. Probabilmente, uscire quella sera tra tutte, poche ore dopo il funerale di Asuma, non è stata la mossa ideale. Lui non avrebbe voluto, ma per qualche motivo che non capiva, Kakashi ha insistito.

«Uno stuzzichino, magari».

«Una porzione di takoyaki in due?»

«Affare fatto».

Ordinano i takoyaki, e aspettano, e mangiano. Non parlano. A Tenzō sembra un primissimo appuntamento completamente sbagliato, di quelli in cui non si riesce a superare l’imbarazzo iniziale e che portano a impacciate promesse di rivedersi che poi non si avverano mai. È un po’ un primo appuntamento, in effetti, o almeno è quello che sarebbe dovuto essere. Ma non è per niente il loro primo incontro, e si conoscono troppo bene per sentirsi in imbarazzo nel silenzio. Pensandoci bene, sembra più l’ennesima cena di una coppia che sta insieme da anni e non ha bisogno di fare conversazione per godere della reciproca compagnia.

Kakashi insiste per pagare anche la sua parte. Tenzō protesta, ma poi taglia corto dicendo che si sdebiterà la prossima volta. Questa sì che sembra una squallida battuta da primo appuntamento.

Si sta chiedendo quale sia il modo più naturale per concludere quella serata storta quando Kakashi lo anticipa. «Non è così che avevo immaginato questa cena. Sarebbe dovuta andare diversamente».

«Pazienza» dice solo Tenzō. Non c’è molto altro che possa dire, soprattutto quando il pensiero di Asuma Sarutobi è così presente. «Tanto più che ti…»

«Avremmo dovuto essere brilli, almeno».

Bè, questo è inaspettato. «Tu non bevi così tanto, senpai».

«Questa sera volevo farlo» replica Kakashi. «Avrebbe reso tutto più naturale».

«Più naturale di così?» dice Tenzō. Dèi, se tutte le interazioni con altre persone fossero naturali come quelle che hanno loro due ci metterebbe la firma. «Ci conosciamo da quanto, quindici anni? Più naturale di così si muore».

«Sedici» precisa Kakashi. Poi si ferma di colpo in mezzo alla strada, e Tenzō fa a malapena in tempo a rendersene conto prima di sentire le labbra sulle sue.

Non baciano più come ragazzi. Sono passati anni e tragedie da allora, e sono uomini. Non è il bacio esagerato e spavaldo degli adolescenti, è maturo e inevitabile e più ricco di significato persino del loro bacio d’addio di sette anni prima. Ma è ugualmente famelico. Si guardano dritti negli occhi, dopo, e non c’è bisogno di gesti impacciati per scacciare l’imbarazzo o la paura delle cotte adolescenziali. Kakashi gli stringe il braccio per un momento, ed è l’unico gesto di vicinanza che c’è.

«Vieni da me, stanotte?» gli chiede Kakashi.

«Sì».

Tutto così facile, tutto così naturale.

Attraversano il villaggio fianco a fianco, ma non mano nella mano. Tenzō sa, e lo sanno entrambi, che sarà tutto facile, che le cose non potrebbero andare diversamente. Non pensano al futuro, alla grande storia d’amore eterno che potrebbe nascere da quella notte. Semplicemente, è ciò che vogliono in quel momento, e basta. Al resto ci penseranno domani, forse, se sarà il caso.

«Mi sei mancato, senpai» sussurra Tenzō sulla spalla nuda di Kakashi. È l’unica cosa che vuole dirgli in quel momento, sapendo che racchiude tutto il resto.

Vale lo stesso per le parole di Kakashi. «Anche tu, Tenzō. Non sai quanto».

 

 

 

All’improvviso, è tutto come una volta. Gli sguardi, le parole, incontrarsi dopo una lunga giornata sul campo e chiudere il mondo fuori. Non si danno etichette, non si dicono che si amano, neppure mandandosi reciprocamente a cagare. Non ne hanno bisogno. Si divertono a flirtare in pubblico nel loro modo sottile e discreto, talmente discreto che nessuno se ne accorge. Non ci sono pressioni, non ci sono problemi di distanza o una scadenza annunciata all’orizzonte. È tutto semplicemente perfetto, e Kakashi è perfetto, è come una volta ma è come se tutte le cose che lo avevano fatto innamorare di lui si fossero amplificate con gli anni.

Eppure, si rende conto Tenzō, un problema c’è, e neanche trascurabile.

Tenzō rimane ancora una volta a bocca aperta quando Naruto disintegra Kakuzu dell’Akatsuki con quello che chiama Rasenshuriken. E poi, le cose cominciano ad andare a catafascio.

Itachi muore, ucciso da Sasuke. Jiraya muore, e gli sembrano due eventi troppo grandi per poterne capire la reale portata. Kakashi probabilmente ne capisce di più, ma lo sconvolge vedere con i propri occhi quanto Sasuke significhi per lui e per il resto della squadra 7. Su di lui, la morte di Itachi non ha un impatto altrettanto grande. E lo vede che pensa, pensa, pensa. Pensa sempre, Kakashi, anche quando non sembra che lo stia facendo. Rimugina sui suoi fantasmi, sulle cose che sono andate storte nella sua vita; ma rispetto a una volta, Tenzō nota che pensa sempre di più a come cambiarle, certe cose. Ne parlano spesso, più spesso di quanto facevano una volta. Kakashi odia il sistema in cui sono immersi fino al collo, odia che Naruto e Sakura soffrano fisicamente e psicologicamente per Sasuke, odia dover essere contento che Itachi, il ragazzino prodigio devoto a Konoha di cui tante volte è stato capitano, sia morto, e di riflesso odia che quel ragazzino abbia deciso di uccidere tutti i membri della sua famiglia. Ma bisognerebbe andare ancora più indietro e capire perché Itachi ha preso quella decisione; e così via, fino agli albori di Konoha e anche prima. Kakashi odia tutto quello, come odia che suo padre sia morto per Konoha e che il loro mondo sia basato sulla violenza fisica e, soprattutto, che lui stesso perpetri quella violenza, spinto dal fatto che le cose sarebbero probabilmente peggiori se lui non lo facesse. Odia tutto questo, e più di ogni cosa al mondo vorrebbe che il sistema cambiasse dalle fondamenta, per mettere fine a quella infinita catena di dolore e morte.

 

 

 

Poi, Konoha viene attaccata. Konoha viene rasa al suolo, e salvata da Naruto. È allora che la predizione di Kakashi si avvera. “Molto presto tutti si accorgeranno di avere a che fare con un eroe”. È lo stesso Kakashi a raccontargli di essere morto durante l’attacco, e di essere stato resuscitato dalla persona che lo ha ucciso. Tenzō non si sofferma troppo a pensarci: sa che ragionare sull’accaduto lo porterebbe alla pazzia. La distruzione di Konoha e il fatto che Kakashi sia morto è già abbastanza da elaborare.

Si sbaglia, evidentemente.

«Il daimyo ha nominato Danzō sesto Hokage».

«Cosa?»

Non può essere. Non può essere, pensa Tenzō. Non lui, non Danzō. E perché, poi?

«I consiglieri ritengono che non possiamo aspettare il risveglio di Tsunade. Non in questa situazione» spiega Kakashi, leggendogli la domanda in volto, oltre lo stupore e la preoccupazione. «Me l’ha detto Shikaku».

Vecchi fantasmi fanno capolino nella sua mente. «Io… non so cosa dire».

«Mi ha anche detto che lui e gli Anziani avevano proposto me» rivela, porgendogli un pacco con la razione per la cena.

E lui che pensava che Konoha rasa al suolo fosse troppo da elaborare.

«Danzō ha detto che vengo da una tradizione troppo pacifista per gestire la situazione attuale. E ha convinto il daimyo» continua togliendosi giacca e maschera.

«E cos’hai intenzione di fare?»

«Non c’è molto che io possa fare».

«Non possiamo avere Danzō come Hokage!» esclama. L’eventualità di vivere in incubo del genere non gli è mai nemmeno passata per la testa. Konoha è praticamente una monarchia. Non possono avere il capo della Radice come re. Semplicemente non possono.

«Cosa potrei mai fare, Tenzō?» replica Kakashi fissandolo negli occhi. «Sono un soldato. Il fatto che i consiglieri mi abbiano proposto come Hokage non mi dà nessun potere. È solo una prova di fiducia e apprezzamento, per come stanno le cose ora».

«Ma ti legittima come possibile avversario di Danzō».

«Vorresti fare una rivoluzione?»

A questo, Tenzō non sa cosa rispondere.

«Perché sarebbe un colpo di Stato».

Ha ragione, ovviamente. Per un momento si chiede se non ne valga la pena; ma certo che no, non ne varrebbe assolutamente la pena. L’Hokage è nominato dal daimyo del Paese del Fuoco. Spodestarlo potrebbe portare a una guerra civile, e loro hanno già abbastanza grane al momento. Senza contare che Danzō non è per niente uno sprovveduto o un debole, e con la Radice di guardia, anche solo arrivare a lui comporterebbe rischi enormi. Si chiede come abbia fatto anche solo a ipotizzare una cosa del genere.

«Sono d’accordo con te che è un disastro» riprende Kakashi portandosi un boccone alle labbra. «Ma non c’è molto che possiamo fare».

«Saresti stato un Hokage molto migliore di lui».

«Forse un pacifista non è quello che ci serve al momento. E io sono pacifista».

«Tu sei uno dei migliori ninja di Konoha, e faresti quello che devi».

Kakashi non risponde. Nessuno dei due parla, per un po’. Ma c’è un’altra cosa che lo preoccupa, in tutta quella storia. «Io sono sempre un ANBU, senpai».

«Cos’è, temi che Danzō ti ordini di uccidermi per eliminare i dissidenti?» lo prende in giro.

A quello non aveva pensato, ma il fatto che potrebbe benissimo succedere gli fa venire la nausea. Per il momento, decide di relegare il pensiero in un angolo della mente. «Temo che succederà come l’altra volta. Che prima o poi mi ordineranno di fare qualcosa che mi porterà lontano da te per sempre».

Kakashi lo fissa. È un’eventualità molto più verosimile dell’ordine di ucciderlo.

«Torniamo sempre allo stesso punto, no? O Konoha, o i nostri desideri. E sappiamo entrambi cosa sceglierei». Konoha, sempre e comunque Konoha. Per un ninja non c’è devozione maggiore di quella al proprio villaggio, e quelli che scelgono diversamente sono marchiati a vita come traditori. Glielo hanno insegnato Zanna Bianca, Naruto, Orochimaru, Itachi e Sasuke. «Non dirmi che non ci avevi pensato».

«E cosa vorresti fare?»

«Smettila di chiedermi cosa vorrei fare. Se succedesse, non potrei fare niente».

«Speriamo che non succeda, allora».

Tenzō sbatte le bacchette sul tavolo in malo modo. «Speriamo che non succeda? Davvero, Kakashi?»

«Cosa vuoi che ti dica? Non c’è niente che possiamo fare».

«Lo sai quanto sono stato male, l’altra volta?»

«Certo che lo so…»

«Lo sai come mi sento, all’idea che potrebbe succedere tutto di nuovo?» È fuori di sé dalla rabbia. Non ricorda di essersi mai sentito così, prima. «Io ti amo, Kakashi. Ti amavo prima e ti amo ora, e incontrarti di nuovo e innamorarmi ancora una volta di te è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata. Il pensiero che potremmo essere separati un’altra volta…»

Kakashi si alza e lo stringe a sé come un bambino. «Ti amo anch’io». È la prima volta che glielo dice in sette anni. Non aveva davvero bisogno di sentirselo dire. Lo sapeva già. «Sei davvero l’unica persona a cui mi sia mai sentito vicino, dopo…»

«Dopo tuo padre. Dopo il quarto Hokage e Obito e Rin».

«Sì. Non ti getterò via come ho fatto con loro».

«Ma cosa faremo se…»

«Troveremo un modo». Non basta. Non basta, e lo sanno entrambi. Non si “trova un modo”, quando Konoha ti chiede di rinunciare a qualcosa per lei. «E poi non sappiamo cosa succederà. Potrebbero non chiederti mai nulla del genere».

«Non mi consola».

«Ma non puoi nemmeno preoccuparti per qualcosa che non è ancora successo e non sai nemmeno se accadrà».

«Ma è già accaduto in passato».

«Smettila di pensarci».

«Ma…»

«Basta, Tenzō».

Tenzō tace.

«Va tutto bene, per una volta nella vita. Godiamocela senza farci troppe domande».

Non va per niente bene, invece, pensa Tenzō. Ma si sforza di non pensarci più, almeno per quella sera.

 

 

 

Danzō muore. Danzō muore, e lui ne è contento, anche se forse non dovrebbe. Kakashi non si pronuncia. Non gli importa di Danzō tanto quanto gli importa di Sasuke che ha cercato di uccidere Sakura, un’altra volta. Piuttosto, di Danzō gli importa che non sa il motivo che ha spinto Sasuke a ucciderlo, e che l’Akatsuki ne ha trafugato il corpo.

«Almeno le probabilità che ti mandino a uccidermi si riducono» gli dice al loro rientro a Konoha. Probabilmente vuole prenderlo in giro, ma il tono è quanto di più lontano dallo scherzoso ci sia.

Navigano a vista, non sanno niente di cosa succederà domattina. La guerra, infine, è alle porte, anche se a Tenzō sembra di esserci dentro già da settimane. È una sensazione del tutto nuova, anche per lui che è un ninja, e non gli piace. «Magari adesso ti fanno Hokage davvero» replica, e si rende conto che potrebbe anche essere vero.

«Penso che lo faranno, in realtà».

«E cosa ne pensi?» Normalmente sarebbe una notizia da festeggiare con gente e vino stappato e una lunga notte di veglia, ma in quel momento è solo un passo in più verso il campo di battaglia.

«L’hai detto tu una volta, no?» gli sorride da sotto la maschera. «Farò quello che devo».

Tenzō gli scopre il volto e lo bacia. Non sanno cosa succederà la mattina dopo, e se deve essere qualcosa di brutto, non vuole che quel momento insieme sia rovinato dalla tensione e dalle preoccupazioni. «Kakashi Hatake, settimo Hokage di Konoha».

«Non so se Danzō conti, in realtà. Non è stato nemmeno proclamato».

«E io sono il suo…» Ragazzo vorrebbe dire, ma non è un termine che si addice loro.

«… unico pilastro di sempre» completa Kakashi, e lo bacia a sua volta. «Lo sai che sei questo. Niente di meno. Per sempre».

Tenzō rabbrividisce. «È un periodo di tempo un po’ drastico».

«È il periodo di tempo che spero ci sarà concesso».

«Che ne sai, magari tra un mese incontri un belloccio di Kumo e mi scarichi».

«Spiacente di sottolinearlo, ma tra noi due quello che ha avuto altre storie sei tu».

«Perché tu non c’eri» si giustifica Tenzō, ed è vero. Se Kakashi ci fosse stato, se quando se ne è andato avesse saputo che sarebbe tornato, non si sarebbe messo insieme a nessun altro. Lo avrebbe aspettato, anche per mille anni.

«Sei sempre stato l’unico. Non ci sarà mai nessuno vicino quanto sei tu» mormora Kakashi sottovoce, infilando le mani sotto la sua maglia per accarezzargli la schiena. «E se mi nomineranno Hokage e tornerò vivo da questa guerra, renderò Konoha migliore di quello che è adesso. Per Naruto, Sakura e Sai, per tutti gli altri, e per te».

Il giorno dopo, Kakashi viene nominato sesto Hokage di Konoha. Non c’è una cerimonia, solo una cena attorno a un falò con qualche amico. Tenzō è talmente colmo di ammirazione e orgoglio che quasi riesce a dimenticare ciò che li aspetta. Ama Kakashi nonostante tutto, nonostante il dolore e la paura. È fiero di lui come non è mai stato fiero nemmeno di sé stesso. Ed è alla sua stoica forza d’animo e alla bontà dei suoi intenti che pensa quando sussurra «Ti amo, senpai», stringendolo a sé prima di partire con Naruto verso Kumo, come gli ha ordinato.

«Vai a cagare, Tenzō» replica Kakashi, e lui non si ricorda l’ultima volta che è stato così felice.

«Fai attenzione».

«Anche tu. Ci rivediamo presto».

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 8 ***


Niente di cui scusarsi

 

And up until now I have sworn to myself that I'm content
With loneliness
Because none of it was ever worth the risk, well
You
Are
The only exception

Paramore – The Only Exception

 

 

8

Kakashi

 

 

 

Sono passate settimane dalla fine della guerra. Probabilmente, in futuro nemmeno la definiranno così. Sembrerà più un’enorme battaglia campale di tre giorni, ai loro occhi; ma chi c’è stato dentro la ricorderà sempre come la Quarta Grande Guerra Ninja. La più significativa. Con un po’ di fortuna, l’ultima.

Affrontare Obito e lasciarlo andare di nuovo è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto, ed è tutto dire. Quella storia non è finita, e non lo sarà mai: la consapevolezza di avere una colpa ben più che marginale in quella guerra e nel dolore di così tante persone è il più grande dei fantasmi che si porterà dentro fino alla morte. Anche in questo caso, con un po’ di fortuna sarà l’ultimo.

Non la considera una grande consolazione.

Nonostante tutto, il suo infinito dolore personale è solo una goccia nell’oceano. Sono passate settimane, troppo poco perché le persone di un intero continente possano guarire dai traumi che quella guerra ha causato. Ha fatto un elenco di nomi e lo ripete a mente ogni giorno, appena esce di casa, quando il cielo non è ancora nemmeno colorato del grigio che precede l’alba. È per loro che lavora, ed è loro che deve ringraziare se riesce a non crollare sotto il peso dei suoi pensieri. È il sesto Hokage, in carica almeno fino a quando Tsunade non si sarà ripresa, ed è responsabile di tutti loro.

Ci sono anche altri nomi: i caduti, di Konoha e altri villaggi. Il primo è Obito, ovviamente, e avere il suo corpo ed essere riuscito a seppellirlo sul suolo di Konoha è una magrissima consolazione. Ha dovuto litigare con i consiglieri per riuscirci, e in tutta onestà ne capisce le motivazioni. Un Hokage che vuole seppellire all’interno del villaggio uno dei responsabili della Quarta Grande Guerra Ninja? Davvero si considera degno di essere Hokage?

Sì, Kakashi si considera degno. Ed è talmente presuntuoso da considerarsi anche la persona più adatta in assoluto a essere Hokage in quel momento. Perché forse, quando Konoha e il resto del continente si saranno rimessi in sesto, potrà cambiare le cose. E se Obito non può essere sepolto sul suolo di Konoha, neanche lui, in tutta coscienza, lo merita.

Sono passate settimane, e il continente è attraversato da un’immensa ferita ben lungi dal cicatrizzarsi. Konoha, ancora segnata dall’attacco dell’Akatsuki, è l'area messa peggio. Non è semplice curare le ferite della guerra in un villaggio che è già ferito di suo, ma Kakashi fa del suo meglio. La mattina si sveglia prestissimo ed esce prima dell’alba, quando nessun altro è in giro, e attraversa il villaggio a piedi, prendendo nota dei progressi che sono stati fatti il giorno precedente, riflettendo se sia il caso di tralasciare momentaneamente un’area per concentrarsi su un’altra e su come gestire le squadre di ricostruzione. Poi raggiunge il palazzo degli Hokage, e anche lì è la primissima persona ad arrivare. Entra nel suo ufficio (l’ufficio di Tsunade, in realtà) e si mette al lavoro. Le scartoffie sono poche, non c’è tempo. Studia mappe e rapporti, cercando di capire quale sia il modo migliore per gestire persone e approvvigionamenti, i rapporti con gli altri villaggi, con i civili e con i daimyo, se l’ospedale o l’Accademia o altro abbia bisogno di qualcosa, altre mille questioni, se ci sia qualcosa che possa essere fatto meglio. È difficile, gli hanno praticamente dato in mano un regno allo sfascio ordinandogli di riportarlo agli antichi fasti con centinaia di aspetti che hanno tutti la massima priorità. Ma si tratta di Konoha, ed è la cosa più importante che farà nella vita.

Eppure, non sempre è così facile andare avanti e arrivare alla fine della giornata. L’elenco dei caduti è lungo, e dopo Obito vengono Shikaku e Inoichi, e Neji, pezzi di Konoha che l’hanno resa un posto migliore e che avrebbero continuato a farlo, se le cose fossero andate diversamente. Hiashi Hyūga ha voluto che il nipote fosse sepolto all’interno del loro quartiere, e il suo sguardo è pieno di rabbia quando fa notare che per colpa dell’Akatsuki non ha potuto seppellirlo accanto a suo padre. La ricostruzione della zona destinata agli Hyūga è tra le più lontane dall’essere completate, ma c’è un piccolo tempio di pietra in corrispondenza della tomba di Neji, e i ragazzi ci vanno spesso.

Sono rimasti in undici, ora, e nessuno di loro sembra pensare che, invece, sono in dieci. Sasuke è stato rinchiuso nel vecchio carcere di Konoha, unico prigioniero della montagna degli Hokage. Durante gli interrogatori è stato collaborativo fin da subito, e Naruto e Sakura vanno a trovarlo ogni giorno; ma Kakashi è irrequieto a riguardo. Le persone che lo disprezzano e si augurano che venga condannato non sono poche, e lui non può certo biasimarle, con tutto quello che ha fatto.

Ma tutto intorno a lui, il villaggio inizia a guarire, le persone si rialzano come tante foglie che tornano a popolare un albero dopo l’inverno. Il palazzo degli Hokage non è ancora agibile quando Ibiki e Shikamaru si presentano da lui dicendo di essere ufficialmente primo consigliere e consigliere apprendista, come ordinato da Tsunade. È così che scopre che nemmeno quella volta il quinto Hokage si farà fermare da quisquilie come l’essere relegata in un letto d’ospedale. Qualche giorno dopo si imbatte in Naruto e Rock Lee che si allenano nella lotta con un braccio solo, supervisionati da Gai che cammina sulle mani, correggendoli e dispensando consigli. Viene poi a sapere che tutte le mattine Iruka, Ebisu e Shino fanno lezione ai bambini dell’Accademia in cima alla montagna degli Hokage, e che Kurenai si è temporaneamente trasferita dai Nara e fa i turni con Yoshino per badare alla figlia e dare il suo contributo nella ricostruzione di Konoha, e cento altre cose che lo convincono sempre di più che quella maledetta guerra, dopotutto, è anche il migliore dei nuovi inizi.

 

 

 

L’elenco delle persone per cui sta lavorando ne comprende un’altra, una che non gli piace includere nei pensieri delle sue passeggiate mattutine. Di solito lo ricorda quando entra nel palazzo degli Hokage, durante la cena, o quando il suo sguardo si sofferma per un attimo fuori dalla finestra. Lo pensa in ogni momento, in realtà.

Tenzō è ancora in coma. I medici sono convinti che prima o poi si sveglierà, che sia solo questione di tempo. «È già qualcosa» gli ha detto Sakura un giorno, sorridendo. «Lo sai di quante persone in coma non siamo sicuri se si risveglieranno o no? E quante non si risvegliano mai? Diamogli solo un po’ di tempo per riprendersi. Nemmeno lui ha avuto una guerra facile».

Per niente, pensa Kakashi, e teme il momento in cui dovrà spiegargli il ruolo che ha avuto nel conflitto.

Nel vederlo addormentato, sempre più magro e smunto, con tubicini vari che gli spuntano dal corpo, non può non pensare a quello che Orochimaru gli ha fatto quando era solo un bambino. E allora si mette a riflettere sui meccanismi di causa ed effetto che regolano il loro mondo, e non riesce più a decidere cosa sia giusto o sbagliato. Alla fine, Tenzō è Tenzō perché Orochimaru è stato disposto a rischiare di ucciderlo per uno dei suoi folli esperimenti. Tutta la sua forza deriva da quelle terribili torture, e se non ci fossero state, forse Naruto non sarebbe riuscito a sviluppare il Rasenshuriken e Sakura sarebbe morta, ma la guerra non sarebbe stata così difficile da vincere. Quindi, cos’è giusto e cos’è sbagliato, alla fine dei conti? Come si può giudicare un’azione senza conoscerne tutte le implicazioni future? Al processo, dovrà condannare Sasuke per il suo tradimento e tutti i crimini che ha commesso o assolverlo perché il suo percorso dal giorno in cui ha lasciato Konoha lo ha portato a diventare abbastanza forte da permettere all’Alleanza di vincere? E se lo assolverà, cosa gli garantisce che non tenterà davvero di diventare Hokage, magari trasformando Konoha in una dittatura, accecato dall’ambizione che lo ha sempre caratterizzato?

È diventato molto filosofo, dalla fine della guerra.

Non parla con Naruto e Sakura di quell’argomento. Sono irremovibili nelle loro pretese che Sasuke venga completamente reintegrato, e anche una parte di lui lo è. Ne discute invece con Ibiki e Shikamaru. Il primo propende per la condanna, il secondo no.

«Secondo le nostre leggi, non puoi assolverlo» gli fa notare un giorno Ibiki.

«Io penso che dopo una crisi del genere, le leggi vadano quantomeno riconsiderate, se non riscritte» ribatte Shikamaru. Kakashi non potrebbe essere più d’accordo.

E mentre il soggiorno di Sasuke in carcere si allunga, Tenzō è sempre addormentato. Kakashi ringrazia gli dèi di avere la responsabilità dell’intero villaggio, perché stare al suo capezzale senza sapere quanto ancora dovrà aspettare lo manderebbe fuori di testa. Va spesso a trovarlo, in realtà. Gli porta dei fiori, qualche volta. Soprattutto gli parla, gli racconta quello che fa e cosa sta succedendo nel villaggio. Gli racconta di Naruto e Sakura, di Sasuke, di Tsunade, di Shikamaru e Ibiki, di Sai che vuole lasciare gli ANBU, di Gai che lo ha sfidato a una gara di corsa sulle mani, di Mirai Sarutobi, di Hiashi Hyūga che ha invitato Naruto per il tè, del Kazekage che ha proposto un’alleanza tra Paesi e villaggi ninja anche in tempi di pace. Gli racconta tutto questo, e spera che non debba passare ancora tanto tempo prima che Tenzō possa vederlo con i suoi occhi.

 

 

 

Tenzō si sveglia il giorno dopo che il quinto Hokage, disubbidendo a ogni parere medico, riprende possesso del proprio ufficio.

La stanza è leggermente affollata quando arriva. Ci sono Sakura, Naruto e Sai, e un mazzo di fiori gigantesco sul comodino.

Tenzō lo vede quasi subito, ancora prima dei ragazzi, e spalanca all’inverosimile i suoi enormi occhi da ragazzino. Ed è pallido e magro e stanco e scombussolato, ma dèi, è sveglio.

«Senpai» dice solo, e allora anche gli altri si accorgono della sua presenza.

«Ciao, Tenzō» lo saluta. Potrebbe quasi mettersi a piangere dal sollievo. «Spero che tu ci stia andando piano con i resoconti, Naruto» lo rimprovera, giusto per spezzare un po’ la tensione.

«Non c’è pericolo, maestro, lo sto tenendo sotto controllo» dice Sakura. E di lei ci si può fidare.

Si avvicina a Tenzō, che sorride e non ha smesso un secondo di guardarlo. «Sto come avendo un déjà-vu» dice. Vorrebbe posargli un bacio sulla fronte, ma è un gesto troppo intimo per essere fatto alla presenza dei loro allievi. Non gli importa che vedano che si amano, probabilmente lo hanno già intuito, ma è troppo intimo.

«Già. Solo che questa volta la missione è andata bene, da quello che mi dice Naruto».

«Come ti senti?» gli chiede sedendosi sul letto.

«Frastornato. Non molto padrone del mio corpo».

«È normale» interviene Sakura. «Fa schifo, ma è normale. Dovrai stare a riposo assoluto per un po’, capitano».

«E tu, senpai?»

Gli sorride da dietro la maschera. «Aiuto a rimettere il mondo in sesto per quando sarai uscito da qui». Come ho detto che avrei fatto.

«Sta facendo un ottimo lavoro» dice Sai.

«Sì. Non riconoscerai più Konoha» sorride Naruto.

Vorrebbe dirgli tante di quelle cose che non sa da dove cominciare, e forse è meglio così, visto che Tenzō non sembra nella condizione di conversare o anche solo ascoltare per molto.

Anche Sakura se ne accorge. «Basta così, Naruto» ordina. «Deve riposare».

«Ma dobbiamo raccontargli ancora un sacco di cose!»

«Non dovete raccontargli proprio niente» dice Kakashi, e spera che non sia troppo tardi. Non si può dire a un ninja fedele a Konoha fino al midollo e appena uscito dal coma che il nemico lo ha usato per potenziare i soldati da mandare contro i suoi concittadini. Poco importa che lui non fosse né d’accordo, né cosciente. Sarebbe stato lui a dirglielo, con le dovute maniere.

«Andiamo, Naruto» lo esorta Sakura. Kakashi incrocia il suo sguardo e per un attimo pensa che lo stia facendo per dare loro un po’ di tempo da soli, ma poi si accorge che Tenzō non riesce nemmeno a tenere gli occhi aperti.

«Riposati, Tenzō» sussurra. «Pensa solo a riposarti. Tornerò appena posso» gli dice, ma Tenzō gli cerca la mano e gliela stringe. Una stretta molto debole, per la verità.

«Stai altri cinque minuti».

«Se vuoi ti canto la ninna nanna» lo prende in giro, ma gli accarezza la fronte.

«Non dico che non mi piacerebbe» biascica, e Kakashi prende nota. Gli rinfaccerà quella frase per il resto della vita.

«Sono così contento che tu ti sia svegliato» gli sussurra, avvicinandosi al volto. «Ero preoccupato da matti». Tenzō si addormenta prima che Kakashi gli baci la fronte.

 

 

 

Molte cose cambiano nelle settimane seguenti. Il quinto Hokage riprende i suoi vecchi compiti, e lui è ben felice di ammettere che Tsunade è molto più ferrata di lui in parecchie cose. D’altra parte, ha quattro anni di esperienza in più. Lui viene incaricato quasi esclusivamente di rimettere in carreggiata la struttura militare di Konoha.

Il villaggio si rimette in piedi, diverso da com’era prima, più forte. Una squadra di scultori si mette al lavoro sul suo volto di pietra, e a lui non importa niente. Naruto invece è estasiato e corre subito a informare Sasuke. Si reca a Suna con Shikamaru e Ibiki per il summit dei villaggi ninja, in cui il Raikage chiede che a Sasuke sia dato almeno l’ergastolo e viene proposto un trattato di alleanza, che ogni Paese dovrà esaminare prima del summit successivo.

E nel frattempo Tenzō si riprende, piano piano.

Kakashi va a trovarlo tutti i giorni. È insieme a lui quando riesce a mandare giù il primo boccone di cibo solido, quando attraversa la stanza sulle sue gambe per la prima volta e quando riesce a creare un clone di chakra. Tenzō si sente inutile a volte, a constatare quanta fatica gli costano queste semplici azioni, e Kakashi fa di tutto per tenerlo su di morale. Dopo avergli raccontato come ha perso lo Sharingan, cerca di evitare l’argomento guerra. Gli racconta invece cosa succede fuori da lì, gli descrive le stagioni che cambiano e gli edifici di Konoha mano a mano che vengono completati, gli elenca tutti i posti nuovi dove andranno a cena e le attività con cui potranno riempire il tempo libero. Gli parla del quartiere dove vorrebbe andare ad abitare con lui e delle case che ha già adocchiato; gli chiede dei posti che ha sempre voluto vedere e dove non ha ancora mai avuto occasione di andare e gli promette che ce lo porterà. Lo manda a cagare, molte volte.

Rimanda il momento in cui gli racconterà dov’è stato nei giorni della guerra, ma non ci riesce per molto. Tenzō non è stupido, e anche se lo fosse, non può ingannare la persona che ama.

«Di quante morti sono responsabile?» gli chiede solo, alla fine.

«Direttamente, nessuna» dice Kakashi, ed è la verità. «Non ti hanno usato per nulla di più che per rafforzare i loro soldati con le cellule del primo Hokage».

«Lo fai sembrare un’inezia» commenta senza alzare lo sguardo.

«Tra tutte le cose che ci hanno fatto in quei tre giorni, Tenzō, questa è la meno significativa».

«Ma è anche a causa mia se i nostri alleati sono morti!» sbotta.

«Ascoltami bene, Tenzō» gli dice, costringendolo a guardarlo in faccia. «Non è colpa tua. Niente di tutto questo lo è. Se proprio dobbiamo trovare un colpevole, è Orochimaru, per quello che ti ha fatto da bambino. Tu non c’entri niente».

«Non è vero».

«È vero».

«Non è vero».

Kakashi sospira. «Lo è, ma se proprio ritieni di dover espiare una colpa, sono certo che lo farai. E che il risultato varrà di più di aver rafforzato i corpi dei nostri nemici».

A questo, Tenzō non replica. I suoi occhi sono enormi, il suo broncio sarebbe quasi simpatico se non sapesse che sta soffrendo.

«Non è il momento di rivangare il passato, Tenzō. È un nuovo inizio».

«Lo è davvero?»

«Lo è. Te lo assicuro». Vorrebbe così tanto che non fosse confinato in quell’ospedale, che vedesse i cambiamenti che stanno avvenendo a Konoha e nei Paesi vicini.

Tenzō sembra rilassarsi. Si raddrizza sulla panchina, guarda verso il sole con gli occhi chiusi, assorbendone la luce. «Allora voglio un mondo in cui i bambini non vengano rapiti e usati come cavie».

«Sto già studiando modi per rendere questa eventualità più improbabile».

«Davvero? E quali?» lo provoca Tenzō in tono scettico.

«Maggiore controllo sulle strumentazioni scientifiche. Più ninja di pattuglia all’interno e nei pressi del villaggio. Maggiore sensibilizzazione dei minori di 12 anni» snocciola.

«Te lo sei inventato sul momento. Non ci credo che ci stai pensando davvero».

Kakashi lo fissa negli occhi, estremamente serio. «Certo che ci sto pensando. Sto ripensando a tutte le cose brutte che sono successe da quando sono nato, e sto cercando un modo di renderle evitabili».

Tenzō scoppia in una risata priva di gioia. «È impossibile».

«Sono o non sono l’Hokage?»

«Ci sono cose che nemmeno i Kage possono cambiare».

«Ma sono gli unici che ci possono provare. E poi, guarda com’è cambiata Suna da quando Gaara è Kazekage». A questo non può controbattere. «La tua negatività mi preoccupa, Tenzō».

«Vorrei vederti io, rinchiuso per mesi in un ospedale» ribatte, e Kakashi pensa che se fosse stato qualcun altro a fare quell’osservazione, la reazione sarebbe stata molto più rabbiosa. «Voglio un mondo in cui le ferite guariscano in massimo due giorni».

«Per questo dovrai chiedere a Tsunade o a Sakura».

Finalmente, Tenzō sorride. «Voglio un mondo in cui i bambini non rimangano orfani».

«Anche qui, maggiore sensibilizzazione, sicurezza e formazione medica. E trattati di cooperazione internazionale».

«Voglio un mondo in cui i ragazzi… anzi, nessuno possa diventare carne da cannone».

«Questo è un po’ più difficile, ma prima o poi ci arriverò» risponde Kakashi in tono quasi sarcastico.

Tenzō lo guarda dritto negli occhi. «E poi voglio un mondo in cui non rischiamo di essere separati da ordini esterni».

«Questo è molto più semplice, in realtà».

«Sì, come no».

È bellissimo e non ha idea di cosa gli sta per rivelare. «Te l’ho detto, no? Ripenso alle cose brutte e cerco il modo di migliorarle. E si dà il caso che Tsunade abbia incaricato me di risistemare la struttura militare di Konoha». Sa di avere catturato la sua attenzione, anche senza guardarlo. «Un lavoraccio ingrato, se proprio devo dirla tutta».

«È tutto qui?» lo esorta Tenzō dopo qualche secondo di silenzio.

«Potrei avere in mente di rivoluzionare completamente gli ANBU» dice trattenendosi dal sorridere, perché sarebbe un sorriso enorme e rovinerebbe la sorpresa. «Potrei aver pensato a un modo per permettere agli ANBU di andarsene volontariamente dall’organizzazione, ovviamente rispettando una serie di criteri accuratamente studiati».

«E me lo dici ora

«Sai com’è» sorride infine, «non vorrei che pensassi che non sono più irritante come una volta».

Tenzō lo abbraccia, lo stritola nella sua presa. «Pensavo che non me ne sarei mai liberato» dice Tenzō, e Kakashi sa che se lo guardasse negli occhi li vedrebbe lucidi. Gli ha appena cambiato la vita.

«Chi ti dice che te ne sei liberato? Mica ti ho detto quali sono i criteri» lo prende in giro.

«La sai una cosa? Sei un irritantissimo stronzo».

E Tenzō forse non se ne è ancora reso conto, ma la nuova Konoha sarà un immenso omaggio a lui.

 

 

 

È primavera inoltrata quando Tenzō esce dall’ospedale, la sontuosa primavera di Konoha piena di fiori. Il villaggio è un unico, immenso cantiere, ma qua e là alcuni edifici e quartieri sono già terminati. Kakashi sorride nel vedere la sorpresa di Tenzō a ogni angolo, e si diverte nell’ascoltare le sue ingenue preoccupazioni da ragazzo. «Ma dove siamo?», «L’arena non è di là?», «Mi stai dicendo che questa è l’Accademia?» e via di seguito. È sinceramente preoccupato che si perderà nel suo stesso villaggio, non avendo avuto il tempo di abituarsi alla nuova disposizione di strade ed edifici.

Rimane a bocca aperta anche quando entra nell’appartamento di Kakashi. Che sarà anche suo, almeno finché non ne troveranno un altro insieme. Ma questo deve ancora dirglielo. «Quanto guadagni ora che sei Hokage, senpai?»

Kakashi ride. Come dargli torto? È l’appartamento più lussuoso in cui sia mai entrato in vita sua. «Visto che comunque andava ricostruito tutto da zero, ho pensato di concedermi qualche comodità in più» dice, riempiendo d’acqua un bollitore che poi posa sul piano a induzione. «In tanti hanno avuto la stessa idea».

«Mi mancherà la vecchia Konoha».

«Manca a tutti» sospira Kakashi, ed è sincero. «Ma la nostra nuova casa potrà essere più… tradizionale, se vorrai» aggiunge, e si sorprende a rabbrividire.

Tenzō spalanca ancora di più gli occhi, e un enorme sorriso si apre sul suo volto. «Mi stai chiedendo quello che penso io?»

«Bè… sì. Se ti va, voglio dire». Quella precisazione è superflua. Certo che gli va. Lo sanno entrambi. Probabilmente sono la coppia più in sintonia nella storia delle coppie.

«Sì, mi va».

Kakashi gli si avvicina e lo bacia. Un bacio vero, come non gliene dava da prima che lui partisse per Kumo. E finalmente, l’ultimo pezzettino ancora fuori posto si incastra nel puzzle ormai completo che è la sua vita dopo la guerra.

«Ti amo, senpai» gli sussurra tenendogli il volto fra le mani.

E Kakashi pensa alle parti ancora grigie di quel puzzle: suo padre, Obito e Rin, Itachi, Jin, Sasuke e tutti gli altri fallimenti della sua vita, e al fatto che Tenzō è sempre stato in grado, unico al mondo, di portarvi un po’ di luce. E forse lui non potrà mai ambire alla completa, spensierata felicità che ha visto sul volto di Naruto quando Sasuke è stato assolto, ma sa che con Tenzō accanto potrà attraversare le lande desolate dei suoi rimpianti con una luce che gliene mostrerà la fine. E sarà quella la sua felicità. «Ti amo anch’io».

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4058703