Memories

di Blablia87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Note ***
Capitolo 3: *** In principio fu... ***
Capitolo 4: *** Acqua Santa ***
Capitolo 5: *** Marmo e pioggia ***
Capitolo 6: *** Elevazione ***
Capitolo 7: *** Candele ***
Capitolo 8: *** Parole di carta ***
Capitolo 9: *** Piani ***
Capitolo 10: *** Poker ***
Capitolo 11: *** Emissari ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Azi

 

 

INTRO

 

 

 

 

Londra - 1926

 

 

 

Una piccola increspatura.

Poi, una seconda.

Aziraphale - chino sulla propria scrivania - spostò lo sguardo dal libro poggiato di fronte a sé alla graziosa tazza decorata alla sua sinistra.

Qualche attimo e il tè al suo interno iniziò a fremere con sempre maggiore intensità, creando dei piccoli cerchi concentrici che - dal centro - si allargavano fino a sbattere con forza contro i bordi di ceramica dipinta.

Poco distante i suoi occhiali da lettura - fino a quel momento placidamente dimenticati di fianco al volume che stava analizzando (perché, pur amando la loro sottile e aggraziata montatura dorata, non ne aveva una reale necessità e quindi spesso dimenticava di inforcarli) - iniziarono a seguire l’esempio della bevanda, sobbalzando prima piano e poi sempre più in alto.

«Ma cos-» si lasciò scappare l’angelo mentre l’intera libreria cominciava a fremere in modo leggero ma perfettamente percettibile.

Un libro, “The poems of Oscar Wilde”, si lasciò cadere dall’alto di uno scaffale, finendo a terra.

Guardandosi attorno smarrito si spostò fino al centro della sala, mentre un rombo sordo - simile ad un tuono - si faceva sempre più vicino.

Un secondo volume si portò saltellando in prossimità del bordo del ripiano nel quale era ospitato, sporgendosi pericolosamente nel vuoto. Con un veloce movimento delle dita Aziraphale lo rimandò indietro, portandosi vicino alla finestra più prossima alla porta di ingresso per dare una rapida e circospetta occhiata fuori.

All’inizio la strada gli parve completamente deserta, cosa strana data la tarda ora del mattino.

Poi si rese conto che in realtà le persone c’erano, ed erano anche piuttosto numerose.

Solo che erano, tutte, nessuna esclusa… immobili.

«Per l’amore del Ciel-» riuscì appena a proferire, prima che una Bentley nero corvino si materializzasse con un ultimo boato davanti alla sua porta.

L’angelo fece istintivamente un balzo indietro, come se il frastuono l’avesse effettivamente colpito.

Dietro di lui un paio di libri svennero, accasciandosi l’uno sull’altro.

Pochi secondi, e la strada tornò alla vita. Le persone ripresero a muoversi, e ricomparve anche il brusio delle loro voci (Aziraphale, immerso nella lettura prima e nello sconcerto poi, non si era nemmeno accorto che fossero sparite).

La macchina rimase ferma, con il motore acceso e i finestrini oscurati tirati su come drappeggi.

Aziraphale la osservò con sospetto, quasi attendendo che fosse lei a fare la prima mossa. Poi, rendendosi conto che la vettura non aveva alcuna intenzione di svelare i propri segreti, sbuffò alzando gli occhi al cielo.

«E va bene…» le concesse, tornando in posizione eretta e prendendo un respiro profondo ad occhi chiusi per farsi coraggio prima di dirigersi alla porta d’ingresso e spalancarla.

Solo una volta che ebbe raggiunto il primo gradino della libreria il motore della Bentley si spense con un sospiro, lasciando che la portiera del guidatore si spalancasse.

La prima cosa a comparire oltre il montante dello sportello furono dei capelli rossi, ordinatamente pettinati secondo la moda del momento.

L’angelo avrebbe saputo descrivere tutto quello che ne sarebbe seguito ancor prima di vederlo, nonostante fossero ormai passati un po’ di anni dal loro ultimo incontro: pelle bianca, un piccolo e sottile tatuaggio a forma di serpente sotto l’orecchio destro e un paio di stravaganti occhiali a coprire due splendenti occhi gialli da rettile.

«Crowley!» si sentì pronunciare con un entusiasmo tale da cadere in un profondo imbarazzo subito dopo.

«Angelo…» rispose lui, finendo di scendere dalla macchina e aggirandola per mostrarsi pienamente. «Non è una bellezza?» Si entusiasmò, facendo un cenno alla vettura e aprendosi in uno dei suoi rari sorrisi.




Non sorrideva spesso, il demone Crowley. Ma, quando lo faceva, Aziraphale riusciva ancora a scorgere quella scintilla di gioia fanciullesca che gli illuminava il viso la prima volta che si erano incontrati.

Non sorrideva spesso, no. Ma quando lo faceva, era sempre perché in preda a un genuino entusiasmo.




«Hai comprato… una macchina?» Si sorprese Aziraphale, scendendo l’ultimo gradino e raggiungendo l’altro.

«Ho comprato una Bentley!» Lo corresse il demone, dando un colpetto al cofano. La macchina, in risposta, fece un piccolo saltello in avanti. «Esattamente venti minuti fa.»

Aziraphale osservò la vettura. Sembrava perfetta, per Crowley. Scura, elegante, veloce, prestant-

«Sei… sei stato tu a fermare il tempo, poco fa?» Domandò Aziraphale, scuotendo la testa per cacciare gli ultimi pensieri e lanciando un’occhiata ansiosa attorno a sé. Lo faceva spesso, quando era in compagnia dell’altro. Un automatismo acquisito in secoli e secoli di sotterranea - e assolutamente mortale se scoperta dai loro capi - collaborazione.

«Loro andavano troppo lenti, io troppo veloce. Non volevo rischiare…»

Aziraphale alzò un sopracciglio, sorridendo soddisfatto in attesa che l’altro ammettesse di esserci preoccupato dell’incolumità altrui.

«… di ammaccare il cofano.» Terminò il demone, beffardo.

Rimasero in silenzio per qualche secondo: i convenevoli erano finiti e, a questo punto, solitamente chi si era palesato all’altro (quasi sempre Crowley, fuori dai loro incontri “di lavoro”) comunicava il perché.

«Dai, salta su. Ti porto a fare un giro» esalò il demone, in un sol fiato, girando su se stesso per tornare verso il posto di guida.

«Un… un giro?» Gli fece eco Aziraphale, sorpreso, la voce più alta di un tono rispetto al normale.

Da che avesse ricordo, non era mai capitato che Crowley si presentasse senza che vi fosse una reale necessità di qualche tipo. Poi, una volta risolto il problema del momento… beh, un pranzo era sempre cosa gradita, e rifiutare sarebbe stato scortese.

«Un giro, Angelo. Dove preferisci. Sto anche insegnando all’autoradio a sintonizzarsi sui pensieri, e…»

«Non… non posso» si affrettò a rispondere l’angelo, senza nemmeno riuscire a capire del tutto  perché lo stesse facendo. «La libreria, il Piano Divino, il testo sacro che sto studiando…» balbettò, rendendosi conto che non avessero molto senso come giustificazione per un “no” a un giro in auto. La verità, realizzò, è che non era mai accaduto prima che lui e Crowley si trovassero in un posto tanto ristretto come l’interno di un’auto. E non era pronto anche solo a immaginare che accadesse.

«Ma daaaaai» provò a insistere l’altro. «Il mondo non finirà oggi, e sicuramente non accadrà se ti assenti un paio d’ore dalla tua preziosa libreria… che non vende libri.»

«Io vendo libri» ribatté Aziraphale, indispettito. «Solo, non le prime edizioni.»

«E quante seconde edizioni ci sono, là dentro?» Lo canzonò il demone, abbassandosi gli occhiali sulla punta del naso e arcuando un sopracciglio.

«Beh, un pai-» iniziò l’angelo, accorgendosi solo dopo aver iniziato a rispondere di dove volesse andare a parare l’altro. «Ah ah. Divertente. Il mio resta un no, a ogni modo.»

«Come vuoi.» Crowley si strinse nelle spalle, gesticolando in modo teatrale in segno di saluto. «Se cambi idea… beh, sarà troppo tardi» sogghignò, aprendo la portiera e scivolando all’interno dell’abitacolo quasi fosse fatto di fumo.

«Va’ piano» si raccomandò Aziraphale, mentre la Bentley si rimetteva in moto.

Il finestrino dal lato passeggero si abbassò lentamente. Il demone si sporse sul sedile di fianco a sé, inclinando la testa da un lato. «Hai detto qualcosa?»

«Ho detto “bel piano”. Il mio, sai. Quello di un pomeriggio calmo e tranquillo in compagnia di un tè e un buon numero di pagine lette.»

Crowley increspò appena le labbra in un abbozzo di sorriso. «Sta’ attento, angelo. Okay?»

«A… a cosa?» Balbettò Aziraphale, in tensione.

«A non morire... di noia!» Lo canzonò l’altro, prima di tirare nuovamente su il finestrino e tornare su strada.

Pochi attimi e il rombo del motore lanciato a pieno ritmo riempì l’aria.

Mentre osservava la Bentley allontanarsi, Aziraphale mosse appena le dita della mano destra, formulando una piccola benedizione di protezione sulla vettura.



Erano sui due lati opposti della scacchiera, lui e Crowley, ma questo non voleva dire che non lo preoccupasse il pensiero che potesse discorporarsi in un incidente dovuto alla sua guida spericolata.



All’interno dell’abitacolo intanto l’autoradio si accese, facendo partire “Yes sir! That’s my baby” di Sinatra.

 

 

 

az1a

 

 

 

Angolo dell’autrice:

 

       Oh sh*t, here we are again.

Era dai tempi - sembra passato un secolo! - dell’attesa della S4 di Sherlock che non sentivo la necessità così impellente di scrivere.

Ma non scrivere e basta: cercare di far combaciare tutti i punti, tutte le apparenti incongruenze, trovare ristoro al dolore e all’attesa.

C’è voluto più del solito (d’altronde anche la mia vita è cambiata e molto, da allora) ma sono riuscita a stilare il canovaccio di un’ipotetica s3, e sono pronta - se mai si possa esserlo davvero ad attraversare tanto dolore per raggiungere un agognato e meritato lieto fine - a portarvi con me, se vi andrà di seguirmi in questo viaggio.

Ci sarà del dolore? Direi di sì. Inevitabile, dopo quel finale.
Ci sarà di ridere? Assolutamente. Altrimenti non sarebbe GO, giusto?
Ci sarà il lieto fine? Ci mancherebbe anche!

Sono anche nel pieno della fase “discutiamo di tutti i più piccoli dettagli!” quindi, se vi va di approfondire teorie o anche solo di piangere insieme maledicendo caffè e ascensori divini, sono qui!

A presto,

B.

 

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Capitolo 2
*** Note ***


Azi

 

 

Londra - Un imprecisato lasso di tempo dopo la salita di Aziraphale in ascensore

 

 

Osservò nuovamente la fila di libri davanti a sé, sbattendo ancora e ancora le palpebre come a voler abituare gli occhi alla scarsa - quanto meno se paragonata al costante e abbacinante candore del Paradiso - quantità di luce che la avvolgeva.

All’esterno, la debole pioggia che aveva iniziato a cadere non appena aveva messo piede nella libreria si era velocemente trasformata in un acquazzone.

Non avrebbe saputo dire da quanto tempo si trovasse in piedi in quell’esatto punto, pochi metri oltre la soglia di ingresso. Il tempo umano era un concetto piuttosto bizzarro, per quel poco che era riuscita a capire: ne avevano poco, pochissimo (o almeno così avevano ripetuto diversi avventori del bar dall’altro lato della strada mentre, un libro stretto tra le mani, aspettava che Metatron la richiamasse per dirle cosa desiderasse da lei), eppure lo impiegavano - Michele avrebbe detto sprecavano - nelle cose più assurde, ad esempio litigare animatamente su quale squadra di calcio avrebbe vinto il campionato (senza sapere che c’era un ufficio intero, all’Inferno, preposto esclusivamente alla creazione dei risultati in base a quale scelta avrebbe generato più perdite agli scommettitori).

E, sì: anche quello era accaduto a pochi passi da lei (due distinti uomini d’affari le erano passati davanti discutendo a gran voce su chi dei due avrebbe offerto da bere quella sera, in virtù del fatto che la sua squadra avrebbe vinto strappand… no, stracciando quella dell’altro), qualche attimo prima che decidesse di tornare verso la libreria, nel caso Metatron la stesse aspettando all’interno.

Lui non c’era, aveva scoperto con sollievo affacciandosi ad una delle grandi finestre laterali, ma qualcosa - non avrebbe saputo dire esattamente cosa - stava comunque accadendo.

E quando era terminata (qualunque cosa fosse e qualsiasi fosse il suo significato, che non riusciva in alcun modo a decodificare o immaginare) Aziraphale - il traditore, avrebbe sempre detto Michele - sembrava dolorante, come se gli facesse molto male qualcosa. Aveva gli occhi lucidi e le labbra pallide e tirate. Stava dicendo qualcosa a Crowley - il demone, avrebbe rincarato la dose Saraqael - ma non avrebbe saputo dire cosa, con esattezza. Non un gran dialogo, comunque. Erano molto meno loquaci della gente lì fuori. Pochi secondi e il demone aveva scosso la testa, uscendo con passo rapido e testa china dalla libreria.

Lei lo aveva osservato con curiosità mentre si avvicinava alla propria auto. Sembrava molto più… innocuo, senza la sua camminata spavalda. Teneva la schiena leggermente piegata, come se un peso invisibile gli fosse appena piombato sulle spalle. Gli parve anche di scorgere qualcosa, oltre i laterali dei suoi occhiali da sole. Un piccolo barlume di luce, sembrava. Assomigliava a quello che si era creato sulla superficie del bicchiere d’acqua che Nina le aveva messo sul tavolino - di fianco a quella bevanda nera dalla quale gli umani sembravano dipendere - quando un raggio di sole l’aveva colpito.

Crowley aveva raggiunto la Bentley e aveva fatto aperto lo sportello. Ma, poi, doveva averci ripensato, perché lo aveva richiuso prima di voltarsi verso la libreria.

Presa alla sprovvista si era rigirata di colpo verso la vetrata, appena in tempo per vedere Metatron indicarla mentre parlava con Aziraphale. Istintivamente lei aveva alzato una mano e fatto un cenno di saluto, ma l’Angelo sembrava molto meno sorridente del solito. Non si intendeva granché di espressioni e gestualità, certo, ma - nonostante l’onore (non capita certo tutti i secoli, di parlare con il Messaggero dell’Altissimo!) che stava ricevendo in quel preciso istante - non le sembrava gioioso, anzi. Qualcosa doveva continuare a fargli davvero male, a un livello che non aveva mai visto in un Essere Celeste. In Paradiso le era capitato di avere un po’ di mal di testa, qualche sporadico dolore alle braccia se i faldoni da spostare erano troppi, ma dolore vero e proprio mai. Non era nemmeno sicura che un Angelo potesse provarlo, non con quell’intensità quanto meno.

E poi Metatron e Aziraphale se n’erano andati, e anche Crowley. Ed era rimasta… lei. Lei e la libreria della quale avrebbe dovuto prendersi cura mentre l’Angelo era via.

«Non dev’essere così complicato…» sussurrò tra sé, per farsi coraggio. Un respiro profondo (“Respirare profondamente fa sorridere chi hai intorno” si era appuntata sul suo taccuino, dopo averlo visto fare a un ragazzo paonazzo prima di avvicinarsi - una rosa in mano - a una graziosa ragazza poco distante da lui, che gli aveva sorriso), e si staccò dalla porta d’ingresso. Con cautela si avvicinò alla poltrona di Aziraphale, appoggiando sulla scrivania di fronte ad essa il blocco degli appunti lentamente, quasi si aspettasse si vederlo esplodere al contatto con la superficie di legno.

Senza sedersi girò le pagine, fino a trovare quella che cercava.

Il nome Crowley, seguito dal termine “demone”, campeggiava in alto, al centro del foglio.1)  Per punti, poco sotto, si poteva leggere:

 

1. Scontroso, ma anche simpatico

2. Ama la sua macchina più della maggior parte delle persone (probabilmente di tutte le persone)

3. Mi piace il modo in cui cammina!

4. Sembra guardare sempre Aziraphale il traditore

 

Tirò fuori una matita dalla tasca destra della sua divisa e aggiunse:

 

5. Senza la sua camminata spedita sembra più… indifeso?

 

Voltò pagina.

Questa volta, il nome riportato al centro era quello di Aziraphale (poi cancellato e sostituito con un più corretto - nel caso il blocco fosse finito nelle mani dei suoi superiori - “il traditore”)

Sotto, il suo elenco puntato riportava:

 

1. Sempre preoccupato per qualcosa, proprio come me

2. La sua libreria è piena di libri… ma non ci sono mai clienti

3. Veste sempre in modo pulito (questo mi piace tantissimo)

4. Riesce a rendere lo scontroso demone Crowley meno scontroso

 

Anche per lui tracciò una nuova riga, scrivendo:

 

5. Ama il caffè con lo sciroppo di mandorle (?)

 

Stava per chiudere il taccuino quando le venne in mente un’altra cosa che, forse, era importante non tralasciare. Si guardò attorno con aria circospetta, preoccupata che - da un momento all’altro - alle sue spalle potessero nuovamente ricomparire Arcangeli accigliati e Demoni sul piede di guerra. Si sentiva anche un po’ in colpa, a essere sinceri. Era stata mandata sulla Terra per quello, certo, ma Aziraphale era stato sempre gentile con lei (come del resto anche il demone, persino quando, con l’inganno, l’aveva convinta a portarlo in Paradiso) e non voleva farlo finire in guai più grossi di quelli in cui già doveva trovarsi, dato il suo fraternizzare da secoli con un elemento della compagine nemica.

 

Alla fine, con tratto appena leggibile, si fece coraggio e scrisse:

 

6. Non credo si fidi di Metatron.

 

 

az1a

 

 

 

Note:

1) i profili ufficiali di Good Omens su Facebook e Instagram hanno pubblicato le pagine degli appunti di Muriel dedicate a Crowley, Aziraphale, Nina e Maggie. I primi 4 punti sia di Aziraphale che di Crowley sono presi, parola per parola, da lì. <3

 

Angolo dell’autrice:

capitolo di passaggio, così come il primo era meramente introduttivo.

Ma - avendo concepito la storia come una possibile terza stagione - è necessario anche che siano presenti anche questi piccoli episodi affinché tutto riesca, alla fine, a prendere forma.

Dalla prossima settimana, non essendo più in vacanza, dovrei riuscire a scrivere e ad aggiornare con maggior frequenza. E nel capitolo tre, finalmente, seguiremo uno dei nostri due protetti nell’inizio di questa nuova fase della sua vita.

Chi sarà? Chi vorreste che fosse?

Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione.

A presto,
B.

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Capitolo 3
*** In principio fu... ***


Azi


 

Paradiso - Un breve, anzi brevissimo, lasso di tempo dopo la salita di Aziraphale in ascensore


 

In principio fu…
 

... il mal di testa.

Un enorme, portentoso mal di testa, reso ancor più forte dalla luce accecante che lo circondava e avvolgeva.

Non ricordava che il Paradiso fosse così bianco e così… vuoto.

Il silenzio, poi, era assordante.

Niente… com’era? Niente usignoli

Aggrottò la fronte, sentendo la pelle reagire in modo strano a quell’input.
Usignoli? Perché mai aveva pensato agli usignoli?

«Tutto bene?», chiese Metatron con voce piatta e un sorriso beffardo appena accennato sul volto. 

L’ascensore si chiuse alle loro spalle, sparendo in una sottile linea dorata.

«C-Credo… credo di sì.» Aziraphale girò appena la testa in direzione dell’elevatore, trovando al suo posto solo uno sconfinato androne vuoto.
«Pensavo agli usignoli…» aggiunse poi, titubante, come se dirlo ad alta voce potesse aiutarlo a capire il perché.

«Usignoli, eh?» commentò l’altro, scrollando le spalle. «Credo li abbia creati Eosforo poco dopo la nascita del Pianeta Terra. Diceva che fosse tutto troppo… com’era…»

«… silenzioso», concluse per lui Michele, avvicinandosi a grandi passi con una malcelata espressione di fastidio.

«Siamo quasi pronti per l’Elevazione» aggiunse poi, posando gli occhi sugli abiti di Aziraphale, il disappunto scritto a chiare lettere negli occhi. «Hai scelto il tuo nome?«

Sul volto dell’angelo comparve un’espressione interrogativa. «Cos’ha che non va, il mio nome?» rispose, cercando con lo sguardo l’aiuto di Metatron che - però - era scomparso lasciando dietro di sé solo un leggero pulviscolo argentato.

Michele si portò due dita all’attaccatura del naso e scosse la testa, rassegnata. 

«Ogni qual volta si sale o si scende di Livello bisogna scegliere un nuovo nome, ricordi? O sei stato così a lungo lontano da qui da aver dimenticato anche le basi? Ancora non capisco perché l’Altissimo…»

«Ah, sì, giusto…» Aziraphale annuì con finta convinzione. «La Potenza del Nome

«Già», sibilò l’altra, stirando le labbra. «Allora, il nuovo nome? Serve per i registri.»

L’angelo mosse gli occhi da un lato all’altro, abbassando leggermente la testa. Non aveva mai pensato ad un nome diverso dal suo. Non voleva dimenticare chi fosse stato dalla sua Creazione fino a quel momento, anche se aveva la strana sensazione che in parte fosse già successo. 

Sentiva che, in un qualche modo, farlo avrebbe significato anche dimenticare qualcosa di fondamentale. Non riusciva a mettere a fuoco cosa, ma percepiva chiaramente che avrebbe dovuto cercare di tenerlo stretto a sé in qualche modo, qualunque cosa fosse.

«Credo che… credo che Raphaele 1) andrà bene» disse poi, abbozzando un sorriso distensivo in direzione dell’altra.

«E Raphael sia» ribatté lei, tracciando le lettere davanti a sé.

Una dopo l’altra, dorate e splendenti, comparvero una R, una A, una P, un’H, un’altra A, una E e, infine, una L.

«Sarebbe Raphaele, con la ‘E’ finale» cercò di correggerla, ma lei lo fermò con un brusco gesto della mano. 

«Ah. Beh, ormai è andata. Potremmo sistemare ma, sai… la burocrazia è infernale, da queste parti.»

«Sì, ma…» tentò nuovamente lui, mentre un potente fascio di luce trasformava il suo splendido abito sartoriale in un anonimo completo grigio.

Socchiuse gli occhi, cercando di resistere all’impellente desiderio di allentare la cravatta che - come un serpente - gli si avviluppava al collo.

Stranamente, non appena questa similitudine prese forma nella sua mente, la presenza dell’accessorio gli parve diventare meno opprimente. Istintivamente passò le mani lungo tutta la sua lunghezza, sistemandola con un gesto delicato all’interno della giacca.

«Adesso, se vuoi seguirmi, ci sarebbero alcuni fogli da firmare». Michele, con un cenno brusco del capo, lo invitò ad incamminarsi con lei in direzione degli uffici.

(Azi)Raphael la raggiunse, iniziando a camminare al suo fianco.

«È bizzarro…» cercò di rompere il silenzio l’angelo.

Lei lo ignorò, allungando il passo.

«Non riesco a ricordare bene cosa sia successo prima di arrivare qui, poco fa», proseguì comunque lui, più per tentare di seguire il filo dei propri pensieri che per renderne partecipe la sua accompagnatrice.

«Suppongo che badare agli uomini sia piuttosto noioso, dopo secoli e secoli. Ripetitivo, direi. Nulla di importante da tenere a mente, ad ogni modo» si limitò a ribattere «Per fortuna tutto questo sta per finire».

Aziraphale 2) si voltò di scatto. «In che senso sta per finire?» 

Lei sbuffò, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «La Seconda Venuta, la spartizione tra buoni e cattivi, la Fine dei Tempi… non sei qui per questo? Per trovare un modo per aiutare gli uomini ad accettare serenamente il proprio destino? E poi, grazie a Dio, tutto questo ridicolo balletto tra Bene e Male finirà e resteremo solo noi. In pace, finalmente.»

Aziraphale sgranò gli occhi.
«Ma n-» iniziò, venendo interrotto da una decina di angeli che li superarono correndo.

«Si può sapere cosa sta succedendo?» urlò loro Michele, iniziando a seguirli con passo 

«È la Terra!» risposero in coro, correndo ancora più velocemente. «La Terra perde acqua

«Ma cosa…»

Michele e Aziraphale raggiunsero velocemente gli altri angeli intorno al globo luminoso e sospeso che permetteva di prendere contatti con la Terra. 

«Spostatevi!» ordinò loro Michele, non riuscendo a vedere oltre la marea di teste che si accalcavano davanti al Pianeta. «Ho detto…»

Sentendo qualcosa toccarle la suola delle scarpe, chiuse la bocca e abbassò gli occhi verso il pavimento.

Un rivolo d’acqua si era fatto largo tra le gambe degli angeli ed era arrivato fino a lei, strisciando sul pavimento lucido come un piccolo serpente.

«Che diamine…»

Aziraphale, chiedendo gentilmente permesso, riuscì a farsi lentamente spazio tra gli astanti.
Quando riuscì a raggiungere la prima fila si bloccò, schiudendo le labbra per la sorpresa. 

«È il più grosso temporale registrato dai tempi di Noè…» sussurrò uno degli angeli, basito. 

Davanti a loro, un punto preciso del globo sembrava essere stato improvvisamente sostituito con una bolla di inchiostro: Londra era pressoché scomparsa, inghiottita da un’unica, enorme, spaventosa nube nera. 3)

 

az1a

 

Note:

1) Lo so, lo so, la teoria più quotata vorrebbe Crowley come Raphael. Ma, dopo lunga riflessione e per una serie di motivi che avrò modo di raccontarvi pian piano (per non anticipare alcuni punti di trama), sono abbastanza convinta che la figura dei Raphael sia più vicina ad Aziraphale. So anche che la scrittura corretta sia Raphael, ovvero quella “scelta” di Michele, ma mi piaceva l’idea che il nostro angelo avesse tentato di scegliere un nome quanto più possibile vicino al suo, proprio in virtù di quella sensazione di dover cercare di non dimenticare ancor più di quanto avesse fatto.

2) Avrei potuto continuare a scrivere (Azi)Raphael o semplicemente Raphael ma, in entrambi i modi, avevo la sensazione che appesantisse la lettura o la snaturasse un po’. Quindi, a parte la prima trascrizione (utile per lo più per mostrare quanto i nomi si somiglino), Aziraphale resterà tale per noi anche se - chiaramente - gli altri personaggi si rivolgeranno a lui chiamandolo con il nuovo nome.

3) Ho pensato che se, per una fortissima arrabbiatura, Crowley era in grado si creare fulmini… forse per una grande dolore gli sarebbe venuto spontaneo generare inconsciamente un grosso, grigio, triste acquazzone. Alla fine nella pioggia le lacrime si confondono… no?

 

Angolo dell’autrice:

Questo è stato, in realtà, il primo capitolo scritto. Mi divertiva, in effetti, che l’intera storia si aprisse con un “In principio…”

Poi, però, mi sono detta che nemmeno la seconda stagione stessa iniziava "dal Principio”, ma da ben prima: da due angeli e un universo ancora in divenire. E quindi perché non fare anche qui un salto indietro?

Comunque eccoci qui. Da questo capitolo in poi la storia entrerà nel vivo, e non vedo l’ora di raccontarvi tutto!

Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione.

A presto,

B.

 

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Capitolo 4
*** Acqua Santa ***


Azi

 

 

 



Londra - 1941 - Al termine di una rocambolesca nottata

 

 

 

Seduto - con il busto leggermente reclinato all’indietro e le caviglie incrociate - sulla propria poltrona imbottita, Aziraphale si strofinò nuovamente, soprappensiero, l’indice della mano destra tra naso e bocca. Poco distante da lui, abbandonati su una tavola adesso sgombra, due calici di vino vuoti si tenevano compagnia rimanendo vicini.

Crowley era andato via da un tempo che - abbandonato ai suoi pensieri offuscati dal vino e dalla gioia di essere sopravvissuto a spie naziste e demoni in cerca di promozioni facili - non sarebbe stato in grado di stabilire in modo chiaro. Come non sarebbe stato in grado di affermare con certezza da quanto stesse fissando immobile la sua valigetta piena di libri antichi, scampata “per un piccolo miracolo da demone” a un bombardamento che aveva privato Londra di un’altra chiesa ma - in cambio - le aveva donato alcuni zombie in rapido disfacimento.

Forse aveva iniziato ad osservarla con attenzione quando il demone vi aveva appoggiato di fianco gli occhiali da sole, stanco di aggiungere un ulteriore strato di oscurità a quello della stanza (scarsamente illuminata solo dal tenue bagliore delle candele) e delle sue pupille allungate che, per loro stessa conformazione, lasciavano filtrare la luce in modo limitato. Lo aveva fatto in modo naturale, con un piccolo sbuffo, trasformando il gesto in un movimento fluido simile ad una danza. Le dita affusolate della mano destra strette attorno al calice di vino con il quale stavano accompagnando la cena frugale (d’altro canto non sarebbe stato gentile verso gli Uomini, far comparire un lauto banchetto mentre il mondo era nel pieno di un conflitto bellico di proporzioni catastrofiche) aveva chiuso quelle della mano sinistra attorno all’asticella della montatura togliendosi gli occhiali, richiudendoli e posandoli di fianco alla sua borsa tutto con un unico movimento del polso.

Aziraphale aveva seguito quella gestualità quasi incantato, così come lo era rimasto nel rincontrare - dopo secoli - il giallo intenso e screziato delle iridi dell’altro.

«Qualcosa non va, Angelo?» lo aveva interrogato lui.

«No, no…» si era sbrigato a rispondere, distogliendo lo sguardo e dando una profonda sorsata al proprio vino.

Crowley aveva aggrottato le sopracciglia, sospettoso, ma aveva deciso di lasciar perdere. Parlare con Aziraphale era incredibilmente semplice quanto sorprendentemente complicato. Era come se utilizzasse due lingue completamente diverse: con una proferiva le parole reali, concrete, quelle che il demone percepiva chiaramente; e poi - sospeso tra quelle - sembrava esserci un intero altro linguaggio, fatto di silenzi modulati e cangianti. Una linguaggio nel linguaggio che riusciva a scorgere appena e che lo confondeva come nient’altro nel Creato era in grado di fare.

Avevano proseguito la loro serata conversando del più e del meno, della Guerra, del povero Furfur incapace di pronunciare correttamente il nome dell’angelo e dell’incredibile quanto (quasi) mortale spettacolo di magia. Alla fine Crowley si era congedato, inforcando nuovamente gli occhiali prima di salutare l’altro con un leggero tocco alla falda del cappello.

Aziraphale lo aveva seguito con lo sguardo fino a vederlo sparire oltre la porta d’ingresso e, non appena quella si era richiusa alle sue spalle, era scattato in piedi. Si era guardato nervosamente attorno, con un vago malessere che iniziava a irradiarsi all’altezza del petto: la stanza sembrava di colpo più buia senza Crowley, quasi l’oro dei suoi occhi - si trovò a pensare confusamente - fosse stato luminoso come un’ulteriore fiamma.

Disorientato e imbarazzato si era trascinato fino alla sua poltrona, dove si era lasciato cadere con un piccolo tonfo. Con un movimento della mano destra aveva provveduto a sparecchiare, anche se i due calici proprio non ne avevano voluto sapere di tornare nella credenza.

Ed era stato solo allora che il suo sguardo si era poggiato nuovamente sulla borsa di pelle, e vi era rimasto fino a quel momento. Pulita, intonsa, miracolosamente senza un graffio o un solo granello di polvere. Crowley l’aveva salvata, come aveva salvato lui. Di nuovo. E aveva letteralmente camminato su un suolo sacro, per farlo.

Aziraphale sentì lo stomaco stringersi in una sensazione di “piacevole dolore” che non aveva mai provato prima. Nella sua mente esplosero una serie di pensieri sfocati, tumultuosi come il mare in tempesta. Quanto tempo sarebbe dovuto passare prima che si rivedessero? Dove? Era davvero giusto che un angelo del Paradiso si interrogasse su quando incrociare nuovamente il cammino con un demone? Era giusto che sperasse di vederlo accadere il prima possibile? E se, nel frattempo, a Crowley fosse successo qualcosa?

Mentre l’ultima domanda prendeva forma nella sua testa, un ricordo affiorò attraverso la foschia. Si trattava di un biglietto, un piccolo biglietto con due sole parole: “Acqua Santa”.

D’improvviso i colori di un pomeriggio sulle sponde di un laghetto strariparono, deflagrando insieme al frastuono di una bomba lontana.

«Acqua santa…» sussultò, balzando in piedi.

Si guardò attorno atterrito. Era ovunque.

Nascosta dietro i volumi, celata in un cassetto della scrivania, custodita in piccole ampolle poggiate con cura sul parapetto del piano superiore. D’altro canto il mondo era in guerra, e non avrebbe potuto escludere che - approfittando del caos - l’Inferno si stesse preparando a scatenarne una propria.

Aveva letteralmente fatto mangiare Crowley circondato dall’unica cosa al mondo, anzi nell’intero Universo, che avrebbe potuto farlo scomparire per sempre tra atroci sofferenze.

Sarebbe bastato che inavvertitamente avesse sbattuto contro il corrimano della scala per…

Sentì un fiotto di nausea mischiarsi alla paura e risalirgli la gola. Iniziò a muoversi da una parte all’altra della libreria velocemente, recuperando con mani tremanti tutte le fialette e le ampolle che aveva nascosto con perizia in posti strategici. Alla fine ne riversò il contenuto nel contenitore che più gli sembrava sicuro: un thermos 1) da viaggio con una gradevole decorazione in tartan beige, sulla cui sommità era possibile avvitare una piccola tazza. La chiusura era ermetica e - sommata alla doppia filettatura del bordo che permetteva al bicchiere di restare ben saldo al suo posto - rendeva pressoché impossibile che Crowley potesse venirci in contatto accidentalmente.

Una volta richiuso lo sollevò all’altezza degli occhi, facendolo ruotare lentamente in cerca di possibili crepe. Quando fu abbastanza convinto che non ve ne fossero salì rapidamente le scale e lo portò in camera sua, nascondendolo sotto il letto con un gesto repentino.

Solo in quel momento riprese a respirare (o, per meglio dire, la sua abitudine a simulare il respiro), accorgendosi di aver trattenuto il fiato durante tutta l’operazione di disinnesco del suo santo - anzi santissimo 2) - “sistema di allarme”.

Si lasciò cadere sul materasso con un piccolo sbuffo, chiudendo gli occhi.

Se il Paradiso avesse saputo, se avesse anche sono sospettato che aveva preferito rinunciare alle proprie armi piuttosto che…

«Oh, beh, in caso di necessità posso sempre ricorrere all’aureola… di nuovo. 3)» cercò di convincersi, imponendosi di mettere un freno ai pensieri.

Era stata una lunga notte e, improvvisamente, ne sentiva addosso tutto il peso.

Con un veloce movimento delle dita spense tutte le candele sparse per la libreria - tranne quella sul suo comodino - e si sdraiò, gli occhi al soffitto. Le ombre che ballavano sull’intonaco gli richiamarono alla mente una nebulosa in formazione vista nascere milioni di anni prima e, per la prima volta dopo secoli, si ricordò di quanto luminosi fossero gli occhi dell’angelo che la stava creando. Non lo aveva mai più visto tanto felice come in quell’istante, dinnanzi a un Universo che si schiudeva come un fiore e correva loro incontro pieno di colori meravigliosi e cangianti. E come avrebbe potuto, d’altro canto, dopo la Caduta.

Si rese conto solo in quell’istante di cosa avessero perso. Non solo Crowley, no. Tutti loro. Lo stesso Aziraphale, e persino il Paradiso. Avevano perso una delle stelle più luminose del Cielo: il sorriso di gioia pura di un angelo che amava il Creato al punto da volerne proteggere - da subito, fin dal primo istante - ogni più piccola parte. E che, nel cercare di farlo, aveva perduto tutto.

E - per la prima volta con autentica convinzione e un opprimente dolore al centro del petto - si domandò se Paradiso e Inferno fossero, poi, davvero tanto diversi.

 

-

 

Nello stesso momento un demone stava guidando la sua Bentley lungo le strade disastrate di Londra, l’abbozzo di un sorriso in bilico tra gli occhi (nascosti da lenti scure) e le labbra.

Di fianco a lui - sul sedile del passeggero - una piccola foto in bianco e nero, ricordo di una serata in cui gli era stato chiesto di fidarsi e in cui lui, dopo secoli di diffidenza verso chiunque o quasi, semplicemente… aveva scelto di farlo.

 

az1a


Note:

1) non ero sicurissima che esistessero già i thermos nel 1941, né che ve ne fossero già di decorati. E invece, sorprendentemente, sì!

2) e sì, è proprio “la più santa” che, alla fine, cederà proprio a Crowley qualche decennio dopo.

3) d’altro canto lo dice lui stesso nella sesta puntata, di averlo già fatto durante la Grande Guerra. XD


Extra: questo piccolo flashback origina da una risposta di Neil ad un* fan, che gli domandava perché Aziraphale, durante l’attacco in libreria, non usasse acqua santa ma libri e suppellettili.

Neil ha risposto che non c’è acqua santa nella libreria di Aziraphale, perché non terrebbe mai qualcosa che potrebbe far male a Crowley.

Non è dolcissimo?

 

Angolo dell’autrice:


Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione: fa bene al cuore leggere che ciò che scrivo vi sta piacendo!

A presto,
B.

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Capitolo 5
*** Marmo e pioggia ***


Azi

 

Londra, ufficio di Crowley - 15 ore e 32 minuti da quell’ultimo, 
disperatissimo, tentativo di tenere Aziraphale sulla Terra

 

 

 

Un’ultima goccia di pioggia, coraggiosa, solcò il vetro per raggiungere tutte le altre sul davanzale scuro della finestra.

 

Aveva piovuto per ore, incessantemente, quasi il cielo avesse deciso di rovesciare tutte le sue stille al suolo in un solo pomeriggio.

A Soho, Nina e Maggie - terminato il turno di lavoro - erano rimaste a guardare, le spalle a sfiorarsi, quell’incredibile quantità d’acqua riversarsi davanti ai loro occhi. Se mai possibile, sembrava che di fronte alla libreria del Signor Fell ne stesse cadendo una quantità ancora maggiore. Riuscivano a scorgere a malapena una figura appoggiata alla finestra più vicina alla porta d’ingresso che - se non fosse stato davvero strano da immaginare - sembrava quasi stesse schiacciando il naso contro il vetro come un bambino farebbe davanti a una vetrina di dolci.

«Si saranno parlati?» aveva quasi urlato Maggie, in modo da riuscire a sovrastare il frastuono della pioggia.
«Spero di sì!» Aveva sorriso l’altra. «Mai visto qualcuno incaponirsi tanto a negare l’evidenza!»

Durante tutto il tempo di quel temporale inarrestabile, una Bentley aveva girato quasi ogni strada della città, lentamente. Era passata più volte davanti al Ritz, rallentando ulteriormente in prossimità dell’ingresso. Qualcuno, vedendola comparire nuovamente dopo pochi minuti, si era chiesto se il suo proprietario stesse cercando posto o se, invece, stesse cercando qualcuno.

«L’ultima volta che ho fatto così - aveva detto un uomo sulla quarantina alla sua compagna, cingendole la vita con affetto - ero sotto casa tua, e non riuscivo a trovare il coraggio di fermarmi e suonare il campanello.»
Lei aveva sorriso, dandogli un piccolo bacio al lato della bocca. «L’amore, eh?»

Fu avvistata anche, per un paio d’ore, girare senza meta apparente tra le vie di Soho. Le aveva percorse più e più volte tutte tranne una, quasi sapesse che proprio lì - più precisamente davanti a una specifica libreria - il maltempo sembrava aver assunto le dimensioni e l’intensità di un monsone.

A un certo punto aveva attraversato The Mall 1), accostando all’altezza della parte centrale del laghetto. Un ragazzo - passando di corsa con un quotidiano trovato chissà dove in bilico sulla testa in un maldestro tentativo di sfuggire alla furia del temporale - aveva gridato al conducente di alzare il finestrino lato passeggero se non voleva trovarsi l’abitacolo completamente allagato.

Lui non aveva dato segno di averlo sentito, le braccia abbandonate sul volante e la testa - leggermente reclinata su un lato - rivolta al lago. Dopo qualche minuto la Bentley
si era rimessa in moto, allontanandosi a passo d’uomo.

Era ormai passata la mezzanotte quando si era arrestata nuovamente - questa volta in modo definitivo - borbottando col motore il proprio disappunto.

«Oh, per l’Amor del… Per tutti i diavoli!» aveva sibilato il demone al suo interno, Crowley, quando si era reso conto che la l’auto non aveva alcuna intenzione di farlo scendere.
«Piantala, MALEDIZIONE!» era esploso subito dopo, buttandosi con tutto il peso contro lo sportello che si era spalancato di colpo, facendolo sbilanciare verso l’esterno.

Per qualche secondo aveva sentito una rabbia accecante risalirgli la gola, inondando occhi e tempie. Dietro le lenti scure dei suoi occhiali, le iridi si erano accese come due tizzoni.
La Bentley, di tutta risposta, aveva fatto due piccoli saltelli in avanti e si era abbassata un po’ sulle ruote, quasi a chiedere scusa.
Crowley aveva sentito la rabbia spengersi di colpo, sommersa da una sensazione di piena, totale, atterrente solitudine. Qualche secondo e anche le screziature rosse che gli avevano acceso lo sguardo solo un attimo prima erano scomparse, spente in due piccole pozze d’acqua che avevano iniziato a formarsi agli angoli degli occhi.

Scosse la testa con forza.

Non avrebbe pianto, no.
Non avrebbe pianto, non avrebbe urlato, non avrebbe dato al Paradiso e all’Inferno un solo fottuto motivo per crederlo vulnerabile. L’unica cosa che desiderava era… dormire.

La Bentley aveva emesso, in risposta a quel pensiero, un gracchìo preoccupato attraverso l’autoradio.

«Non ho intenzione di fare nulla di stupido, ok?» l’aveva rassicurata lui, prendendo un respiro profondo prima di uscire dall’abitacolo. «Come se non lo avessi già fatto» aveva buttato fuori poi, sbattendo lo sportello e attraversando - sotto la pioggia battente - la strada che lo separava dall’ingresso del suo vecchio ufficio.

Aprirne la porta, dopo tutti quegli anni, era stato straniante. Non ricordava fosse tanto ampio, tanto scuro e tanto vuoto. Le sue caratteristiche gli balzarono agli occhi con ancora maggior forza dopo il lungo tempo passato all’interno della libreria di Aziraphale, che ne era l’esatto opposto: straripante di libri al punto da sembrare angusta, satura di colori tenui e piena… beh, di tante cose preziose.

Aveva mosso qualche passo incerto nell’ingresso - quasi spaesato, i capelli bagnati appiccicati alla fronte e piccole ombre d’acqua a segnare i suoi passi - fino a trovarsi di fronte alla statua che, da sempre, campeggiava all’inizio del lungo corridoio che conduceva alla sala centrale.

Si era fermato di colpo, sorpreso di trovarla ancora lì. Shax non ne era sembrata entusiasta, il pomeriggio in cui - tutte le sue piante (o per meglio dire le poche sopravvissute ad anni di urla e una Fine del Mondo quasi giunta a compimento) sistemate in due grossi scatoloni - le aveva ceduto le chiavi.

«Cosa dovrebbe rappresentare?» aveva domandato lei, aggrottando le sopracciglia.
«Il Bene e il Male che lottano, con il Male che trionfa… credo» si era limitato a rispondere lui, lanciandole il mazzo. «O almeno così ha detto lo scultore che me l’ha regalata per saldare un debito. Era il 1503, potrei aver dimenticato i dettagli.»
«Sei sicuro che stiano lottando? 2)» Aveva sorriso l’altra, beffarda, ma lui era già con un piede oltre la soglia.

Solo in quel momento, guardandola con più attenzione - con un groppo in gola che non riusciva a mandare via - aveva capito cosa Shax avesse cercato di insinuare.
Aveva tutto l’aspetto di una battaglia, vero, ma non sembrava tanto dissimile anche dalla posa di due angeli che - per una crudele quanto beffarda ironia della sorte - erano sul punto di conoscersi nel modo che gli umani definivano “biblico”. 3)

Era rimasto a osservarla per un lasso di tempo che non avrebbe saputo quantificare, sentendo ogni cellula del suo involucro terreno vibrare sommessamente. Non riusciva a capire se quello che percepiva allargarsi al centro del petto fosse stupore o confusione, furore o disperazione. Sembrava un groviglio rovente di ogni emozione mai concepita dal Creatore, un intrico tanto denso e massiccio da aver iniziato ad attorcigliarsi attorno ad ogni organo, respiro, ricordo.

Quando alla fine aveva serrato gli occhi e concesso a tutto quel rimestio di emergere in un lungo, gutturale, ferale ringhio, la statua era stata colpita da un fulmine che - dopo aver frantumato una delle vetrate della sala grande - aveva travolto i due corpi di marmo con la forza e la violenza di un uragano.



Solo a quel punto, di colpo, su Londra aveva smesso di piovere.

 

 

Un’ultima goccia di pioggia, coraggiosa, solcò un vetro per raggiungere tutte le altre sul davanzale scuro della finestra.

Crowley socchiuse gli occhi, abbassandoli al suolo. Colpiti nel punto di giuntura tra loro, gli angeli si erano prima separati e poi, con un frastuono spaventoso, erano caduti davanti a lui. E così li trovò: lontani, con piccole crepe a solcarne i corpi, e le ali spezzate.

Osservò con un’ombra di commiserazione quello che, fino a qualche attimo prima, era prossimo alla vittoria. Sembrava così sciocco e inerme, senza il polso dell’altro stretto tra le dita, che gli venne da ridere. Una risata amara, nera, resa ancor più lugubre dal fatto che la seconda statua, per un’ennesima beffa del destino, appariva invece - senza il peso del corpo dell’altro addosso - sul punto di rialzarsi.

Si voltò, incamminandosi verso la sala. Con un piede salì su una delle ali del demone che - nello staccarsi - era scivolata all’imbocco del corridoio. La sentì sbriciolarsi sotto la suola con un rumore simile a un lamento, ma non rallentò.

Arrivato nella stanza principale, si rese conto che tutto era rimasto pressoché al suo posto. La scrivania, l’enorme sedia, persino la macchia lasciata dal corpo di Ligur mentre si disfaceva colpito a morte dall’acqua santa. Shax doveva essere stata davvero molto impegnata a cercare di capire le bizzarrie degli uomini, per non trovare un attimo di tempo in anni per adeguare l’arredamento ai suoi gusti.

Al centro della scrivania era ancora presente il suo vecchio telefono verde scuro, affiancato dalla segreteria telefonica. Osservò l’apparecchio per qualche secondo, quasi si aspettasse di vederlo suonare. Quasi sperasse, di vederlo suonare. Quando si rese conto di quanto stesse facendo lo raggiunse a grandi passi con un sibilo sommesso, strappando il filo dalla presa. Non che Aziraphale… l’Angelo - si obbligò a correggere mentalmente - non fosse in grado di farlo suonare ugualmente, se avesse voluto, ma quanto meno avrebbe dovuto compiere un piccolo sforzo in più, mettere a fuoco dove l’apparecchio di trovasse e desiderare di parlarvi attraverso aggirando le leggi terrestri.

Alla fine, esausto, spostò con un calcio la sedia e vi si lasciò cadere sopra. Con un gesto pesante - quasi le sue braccia fossero anch’esse divenute di marmo - si tolse gli occhiali, lasciandoli cadere a terra.

Aveva bisogno di bere. Di bere fino a non ricordare per chi… per cosa - si sforzò nuovamente di aggiustare il tiro, rendendo i pensieri coerenti con la nuova realtà delle cose - lo stesse facendo.

Bere e poi dormire, dormire fino a dimenticare la sua stessa forma umana. Erano passati molti secoli dall’ultima volta, ma era abbastanza sicuro di riuscire ancora a farlo senza troppe difficoltà.

“Sì. Sembra un buon piano” pensò, annuendo appena.


Ecco, quindi, cosa avrebbe fatto: avrebbe portato su le sue piante, bevuto fino ad annegare nell’alcool anche l’ultima emozione e, poi, semplicemente se ne sarebbe andato.

 

 

 

az1a

 

 

Note:

1) È una delle strade che costeggiano St. James' Park.

2) Anche questo scambio di battute origina da un racconto di Neil Gaiman su Tumblr. Se andate QUI, troverete sia la statua che il suo racconto. Adoro quest’uomo!

3) Il “conoscere”, in termini biblici, viene interpretato (anche) come “avere un rapporto sessuale”. Probabilmente deriva da una cattiva interpretazione di alcuni termini biblici da parte dei traduttori. Infatti il termine usato, “yadha”, nella Bibbia è utilizzato anche nel senso di “avere rapporti sessuali” ma, la maggior parte delle volte, (933 contro 10) indica esclusivamente l’atto di “conoscere”.


 

Angolo dell’autrice:

Okay. Scrivere questo capitolo è stata una vera tortura.

Un po’ perché continuavo a cambiarlo, riscriverlo, limarlo, un po’ perché cercavo di rifuggire il dolore di dover descrivere la tristezza di Crowley e un po’ perché… beh, perché non ero affatto sicura di come avrebbe reagito, Crowley.

A voi, adesso, il compito di dirmi se sono riuscita o meno a descrivere un post addio credibile. <3

Come sempre grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione!

A presto,
B.

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Capitolo 6
*** Elevazione ***


In un angolo recondito del Deserto del Gobi un paio di piccole sfere luminose comparvero di colpo, con due brevi scoppi. Volteggiarono un paio di volte l’una attorno all’altra. Poi si fermarono a mezz’aria, vicine, senza che i raggi cocenti del sole proiettassero a terra le loro ombre.

 

“L’Elevazione dell’Angelo Aziraphale avrà luogo tra mezz’ora terrestre” vibrò la prima, di un tiepido ocra.
“L’unica cosa importante, lo sai, è che scompaiano. Tutti” pulsò l’altra, accendendosi di vermiglio.
“Il grosso è già stato fatto durante la salita. Non c’è più nulla di cui preoccuparsi.”
“Sarà meglio per te.”
“Sarà meglio per noi.”

 

La sfera rossa vibrò appena, quasi innervosita dalla risposta dell’altra. Senza aggiungere altro fece una breve giravolta e scomparve richiudendosi su se stessa.
La seconda rimase sospesa per qualche altro secondo, ondeggiando. Poi si dissolse, lasciando dietro di sé solo un leggero pulviscolo argentato.
 

 

Azi

 

Paradiso - Pochi minuti terresti prima dell’Elevazione dell’Angelo Aziraphale

 

Aziraphale chiuse gli occhi, inspirando profondamente. Con le palpebre ancora abbassate drizzò le spalle e la schiena, sistemandosi la cravatta prima di espirare in modo lento e tornare a guardarsi attorno.

Michele, Saraquael e Uriel, poste l’una di fianco all’altra davanti a lui, si lanciarono un’occhiata nervosa.

«Non capisco perché ci debba volere così tanto» sbuffò la prima, scuotendo la testa. «È tutto assolutamente ridic-»

«Stai forse criticando il volere di Dio?» le domandò con tono severo e profondo Metatron, comparendo sopra di loro - un sopracciglio sollevato con fare protervo - sotto la forma di una gigantesca testa fluttuante.

«Assolutamente no! Non lo farei mai» si sbrigò a chiarire lei, la voce ridotta a poco più di uno squittio.

«Mooolto bene» sorrise lui. «Molto bene davvero. Veniamo a noi, dunque.»

La testa si guardò attorno, fino a mettere a fuoco Aziraphale che - le dita delle mani impegnate in piccoli movimenti nervosi - la stava osservando senza alzare troppo il viso.

«Pronto per l’Elevazione, Aziraphale?» gli domandò allegra.

L’angelo si mosse nervosamente sulle gambe, annuendo appena. «Immagino… beh, immagino di sì.»

«Ottimo!» Il fascio di luce dorata attorno a Metatron vibrò entusiasta. «Uriel, a te la parola.»

L’arcangelo non sembrò averlo sentito: non si mosse di un millimetro, troppo assorta a studiare le espressioni sul volto di Aziraphale. Sembrava preoccupato ma anche assorto, quasi stesse compiendo mentalmente una difficilissima operazione… qual era il termine usato dagli umani? Ah, sì: matematica. Una difficilissima operazione matematica.

«Uriel…» la richiamò Metatron con tono irritato, ma non fu necessario continuare: Saraquael, con una gomitata ben assestata all’altezza dei fianchi, riportò l’altra in sé.

«Sì… sì, certo!» si scosse lei, facendo un passo verso Aziraphale. «Aziraphale, Principato del Signore! Oggi, davanti a questa Corte Celeste, io ti insignisco del titolo di Arcangelo Supremo con il nome di… di…» si voltò verso Michele, con aria interrogativa. Metatron, sopra di loro, alzò gli occhi al cielo.

«Raphaele» si intromise Aziraphale, calcando con forza la parte finale.

«Con una sola “E"» precisò Michele, quasi gli avesse letto nella mente.

«In realt-»

«… Raphael!» tagliò corto Uriel con voce stentorea, poggiando le mani attorno alle tempie dell’angelo. Un tepore morbido e piacevole iniziò a irradiarsi da quel punto di contatto in ogni cellula del Corpo Celeste di Aziraphale, che socchiuse gli occhi e inclinò la testa da un lato. Sentì le ali - chiuse e ben celate alla vista così come l’aureola - ingrandirsi leggermente, e percepì distintamente alcune piume tingersi di dorato nella parte finale. Sulla pelle del viso - una ad una - comparvero tante piccole scaglie luminose, concentrate attorno a naso e guance.

Respirò un paio di volte in modo profondo, portando nuovamente la mano destra alla cravatta e stringendola con forza. Un cerchio di luce dorato comparve attorno alla sua testa, divenendo poco a poco sempre più brillante e carico di raggi. Una volta terminato di ingrandirsi si stabilizzò, pulsando in maniera impercettibile.

«Raphael, Arcangelo Supremo del Signore!» tuonò Metatron. Michele stirò le labbra, stizzita. «La tua Elevazione è stata compiuta. Ora va’, il Piano di Dio attende di essere compiuto!»

Uriel ritrasse le mani, richiamandole al petto. Rimase immobile, in attesa di cosa non avrebbe saputo dirlo nemmeno lei con esattezza. Era arrivata molto dopo l’Elevazione di Gabriele ad opera di Dio in persona e, proprio per questo, si era sorpresa non poco quando Metatron aveva affidato quella ancestrale ritualità proprio a lei.

Aziraphale allungò il collo e mosse la testa da una parte all’altra, adagio, quasi avesse terminato un lungo allenamento e avesse bisogno di distendere i muscoli. La corona dorata attorno alla sua testa divenne sempre meno protesa verso l’esterno, e si ridusse di dimensione sino a spegnersi tra i suoi ricci biondi. Un ultimo raddrizzamento di schiena e poi, con un movimento lento, l’angelo (o per meglio dire l’arcangelo) aprì gli occhi.

Saraquael non riuscì a trattenere la sorpresa. Certo, sì, c’era da aspettarselo. Non a caso Gabriele - durante il suo soggiorno terrestre da banale umano - aveva mostrato dei semplicissimi occhi verdi.

Ma vedere le iridi di Aziraphale tinte di un luminoso viola la lasciò comunque senza parole.

«Bene, è ora che torniate ai vostri affari» commentò Metatron, con voce allegra. «Quale sarà il tuo primo compito da Arcangelo Supremo, Raphael?»

«Penso» rispose lui con tono basso voltandosi verso Uriel che, istintivamente, fece un piccolo passo indietro. «Penso che per prima cosa tornerò a dare un’occhiata alla Terra.»

Metatron sembrò allarmarsi, tanto che la luce attorno a lui vibrò distintamente. «La Terra? Lascia stare la Terra, ci sono cose più importanti a cui pensare, adesso.»

«La Seconda Venuta, certo» ribatté Aziraphale, con calma. «Ma fino a poco fa stava accadendo qualcosa di… di… fuori dal comune, laggiù. E, se devo occuparmi di preparare gli uomini alla Fine dei Tempi, è di primaria importanza che verifichi che non stia accadendo nulla che potrebbe interferire in questo compito. Mi limiterò a una piccola indagine da qui.»

Michele alzò un sopracciglio, sorpresa di vedere il tranquillo e sempre ubbidiente Aziraphale mantenere il punto davanti alla Voce dell’Altissima in “persona”.

«Oh, beh» si arrese Metatron, con un sorriso tirato. «Il Paradiso stesso è alle tue dipendenze, ora. Sono certo che sarai in grado di amministrarlo a dovere.»

Aziraphale sorrise a sua volta, un sorriso ospitato in larga parte dalle labbra e in piccolissima dagli occhi.

«Uriel» riprese l’arcangelo «Ti dispiacerebbe accompagnarmi? Sarebbe meraviglioso se volessi, poi, mostrarmi il mio ufficio una volta che avremo terminato con la Terra.»

«Io, beh…» lei si voltò verso Metatron, in cerca di conferme.

«È Raphael il tuo capo, ora» si limitò a ricordarle lui. «Se vuole esser-»

«Sì» lo interruppe lui, sbrigativamente. «Mi farebbe davvero piacere se volessi accompagnarmi velocemente…» Aziraphale strizzò gli occhi, quasi terminare la frase gli richiedesse uno sforzo fisico. «… alla sfera della Terra.»

Michele e Saraquael si scambiarono uno sguardo interrogativo.

«D’accordo» scandì Metatron, con voce roboante. «Dichiaro questo incontro della Corte Celestre…»

«Concluso» lo anticipò Aziraphale, facendo cenno Uriel di muoversi. «Grazie a tutti per aver partecipato. Ci aggiorniamo presto su fine dei tempi e tutto il resto, va bene?»

Appoggiò una mano delicatamente sulla schiena di Uriel, che nel frattempo si era avvicinata, dandole una spinta gentile.

Iniziarono a camminare lungo il corridoio, seguiti dagli sguardi sconcertati degli altri tre.

«Bene, Uriel» le sussurrò Aziraphale quando svoltarono l’angolo sparendo alla vista degli astanti. «Hai esattamente il tempo che ci separa dal raggiungere il Globo per raccontarmi cosa sia successo sulla Terra poco fa.»

 

 


«Ancora una volta, per favore.» Aziraphale si avvicinò con il viso alla sfera sospesa che fungeva da portale con il pianeta.

«Un temporale. Forte e lungo. Lunghissimo. Concentrato su Londra» ripeté Uriel per la terza volta, alzando gli occhi al cielo. «Ieri» aggiunse, fermando sul nascere la domanda successiva dell’arcangelo - anch’essa ripetuta già due volte.

Lui annuì, allargando con le dita nel punto che voleva zoommare. L’Inghilterra, poi Londra, poi…

«Soho» lo precedette l’altra «davanti alla tua vecchia libreria. Le precipitazioni più forti si sono avute lì.»

Aziraphale allargò ancora la visuale, fino a riuscire a distinguere chiaramente le lettere dorate all’ingresso di quella che - fino a pochissimo tempo prima - aveva chiamato “casa”.

Sentì il cuore - perché sì: Dio non aveva fornito gli angeli di corpo fisico, ma li aveva progettati esattamente come gli uomini (o, per meglio dire, erano stati quest’ultimi a essere riprodotti con i disegni già depositati dei Servitori Celesti) - saltare un battito. La piccola luce davanti alla porta era accesa e, attraverso i vetri, poteva scorgere qualche gradino della sua vecchia e adorata scala. Per qualche secondo gli parve di rivivere qualcosa, legato a quella scala. Una… battaglia, forse? Non ne era sicuro. Lo era di poche cose da quando Metatron, un caffè bollente in mano, aveva varcato la soglia della libreria. Non ricordava molto, di quella giornata. Solo Gabriele e Belzebub che si tenevano la mano, e quella strana sensazione di paura mista a speranza che aveva provato nel vederli così vicini. Chissà perché, poi…

«Ho bisogno di sapere il motivo di tanta pioggia» sussurrò, avvicinandosi al globo. «Mostramelo.»

L’ingrandimento si spostò da Soho a Mayfair 1), al secondo piano di un signorile palazzo dalla facciata in mattoni rossi.

Aziraphale socchiuse gli occhi. C’era qualcosa di stranamente familiare, in quei posto. Certamente doveva esserci davanti finito durante una delle sue tante camminate solitarie (sentì la fronte corrugarsi a quel pensiero, quasi ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato), d’altro canto Mayfair e Soho distavano tra loro poco più di mezzo miglio.

«Sii un po’ più preciso, per favore» chiese, gentilmente.

Uriel, alle sue spalle, cercò di sbirciare cosa stesse accadendo, ma la schiena di Aziraphale le ostruiva quasi completamente la visuale.

Lo zoom si avvicinò il più possibile a una delle finestre dall’appartamento senza tuttavia entrare al suo interno (la privacy non era un concetto solo umano e, persino in Paradiso, c’erano delle soglie di tolleranza oltre le quali non è possibile andare).

Aziraphale riuscì a scorgere solo una scrivania di legno massiccio e tante, tantissime piante. Era abbastanza sicuro di averne comprata anche lui una, in un passato ormai lontano, ma non riusciva a mettere a fuoco perché e dove fosse finita. 2) Era abbastanza sicuro che nella libreria non ve ne fossero… quanto meno non nel momento in cui aveva seguito Metatron fuori dalla stessa. Però ricordava di averne viste alcune, lì vicino… in un locale, forse, o sui sedili posteriori di un’auto. Fu assalito da una terribile tristezza, talmente forte che sentì le ginocchia cedere leggermente.

Oltre i vetri dell’appartamento una delle piante tremò appena, colpendo con una foglia una bottiglia di birra vuota posta vicino a lei sul mobile. Qualche attimo in bilico sul bordo e il vetro cadde a terra, infrangendosi.

Il globo vibrò appena, tornando alle sue consuete caratteristiche. Londra scomparve, sostituita da una lontana visuale delle isole britanniche.

Aziraphale sospirò, tornando in posizione eretta.

«Possiamo andare, adesso?» chiese Uriel, spazientita.

Lui annuì appena, lanciando un ultimo sguardo deluso alla Terra prima di seguirla in direzione del suo ufficio.

 

 

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Terra - Nell’esatto momento in cui un arcangelo zoomava verso le finestre

di un appartamento di Mayfair

 

 

Nella penombra Crowley strisciò, leggermente barcollante, verso l’ultima bottiglia di birra rimasta sul mobile. Le altre erano finite poco a poco tutte sul pavimento, alcune quando ancora aveva forma umana e altre - quasi tutte per la verità - una volta che aveva scelto di trasfigurarsi nell’essere che gli era stato assegnato dopo la Caduta: un maestoso, lucente, sinuoso Biacco Nero 3).

La birra aveva decisamente un effetto accentuato quando era sotto forma di serpente e addormentarsi per anni, decenni, persino secoli sarebbe stato molto più facile - aveva concluso dopo una breve riflessione - abitando le spoglie di un animale capace di andare in letargo.

Stava per avvolgersi attorno al corpo della bottiglia per raggiungere le ultime gocce che erano rimaste in bilico sul collo quando ebbe la netta, sorprendente, meravigliosa e spaventosa impressione di aver udito una voce fin troppo familiare.

 

«Sii un po’ più preciso, per favore.»

 

Istintivamente si voltò verso il centro della stanza, sollevandosi con la quasi totalità del corpo. Con la coda diede inavvertitamente un colpo a una delle foglie della pianta davanti alla quale si trovava che - a sua volta - colpì la bottiglia facendola crollare a terra.

I pensieri offuscati dall’alcool rimase in attesa, la lingua che saettava fuori dalla bocca socchiusa a saggiare l’aria in cerca di qualche odore conosciuto. Anche se non lo avrebbe mai ammesso ad anima viva, sarebbe stato in grado di riconoscere il profumo di Aziraphale anche in mezzo a una folla. Aveva, come tutte le anime immortali, un preciso “colore” e un’ancora più specifica tonalità (lilla tenue) ma anche una specifica fragranza (violetta e lavanda). Cercò di scorgerne una traccia, seppur labile, ma non percepì che luppolo, umidità e polvere.

Tornò ventre a terra con un sibilo in bilico tra la rabbia e la desolazione. Una piccola scheggia di vetro, rimbalzata fino al ripiano del mobile dove si trovava, gli graffiò la pelle mentre si dirigeva lento verso l’ultimo vaso della fila. Ospitava una piccola Anthurium 4) i cui fiori, cascasse il Mondo (letteralmente), sbocciavano ogni estate fin dal 1941 5) e rimanevano splendenti per tutti i mesi successivi.

Si inerpicò sul vaso, strisciando sulla terra umida fino a trovare riparo sotto una delle foglie cuoriformi. Lì si avvolse su se stesso e, spossato, si lasciò cadere in un sonno profondo.
 

 

az1a
 


Note:

1) ho impiegato un po’ di tempo a risalire a dove canonicamente veniva collocato l’appartamento/ufficio di Crowley. Alla fine, quando sono risalita al quartiere di Mayfair, è stato sorprendentemente scontato scoprire che i due abitano a poche centinaia di metri l’uno dall’altro.

2) vi rimando al dolcissimo primo capitolo della raccolta di Missing Moments di Lory221B. Lo potete leggere QUI. (“Cos’è questo, un episodio crossover?” Cit.) Cronologicamente il suo racconto si pone esattamente dopo lo spettacolo di magia ma - avendo questa ff già un suo capitolo a riguardo - in questo universo i fatti narrati nella raccolta di Lory sono avvenuti in un momento non molto lontano da quella notte ma non combaciante con essa. <3

3) il Biacco è un serpente non velenoso della famiglia dei Colubridi. La sua colorazione è dominata nelle parti superiori dal nero, motivo per cui è chiamata anche biscia nera, il ventre è di colore chiaro. Il capo e il dorso hanno  screziature di colore giallo che formano una sorta di reticolo. Sul ventre è possibile distinguere un fascio di linee longitudinali  giallo-verdastre. Insomma, mi sembrava perfetto per Crowley.

4) meravigliosa pianta d’appartamento che, nel linguaggio dei fiori, rappresenta sia l’amore che l’amicizia (e bravo Aziraphale…)

5) anche qui faccio riferimento alla storia di Lory221B.

 

 

Angolo dell’autrice:

 

Sì, ho i miei headcanon su Aziraphale Arcangelo. Occhi viola, e scaglie dorate. Scusatemi.
E, chiaramente, sì: ho una passione viscerale per Crowley in versione serpente. Insomma, oggi posso andare a letto felice. XD

Come sempre grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione!

A presto,
B.

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Capitolo 7
*** Candele ***


Azi

 


 

Soho - 2019 - Qualche giorno dopo il mancato Armageddon

 

 

 

 

 

«Angelo!»

La porta della libreria si spalancò di colpo, andando a sbattere contro il muro con un cigolio di protesta.

Aziraphale - assorto nella lettura del quinto quotidiano del mattino ben rilassato sulla propria poltrona - sobbalzò spaventato, alzando uno sguardo atterrito verso la figura slanciata che, semi-nascosta da un voluminoso scatolone di cartone, era comparsa sulla soglia.

«C-Crowley?» riuscì a malapena a balbettare, socchiudendo gli occhi per riuscire a distinguerlo meglio nonostante il chiarore della strada alle sue spalle. «Sei tu?»

«E chi dovrebbe essere? Un oritteropo? 1)» commentò sarcastico l’altro, entrando con ampie falcate. «Certo che sono io!»

Lasciò cadere con pochi complimenti la scatola sulla scrivania dell’angelo, che aggrottò la fronte.

«Posso sapere cos-»

«Sh-sh-sh» lo zittì l’altro, portandosi l’indice della mano sinistra alle labbra. «Ho una cosa per te» cantilenò contento, togliendosi gli occhiali e appendendoli allo scollo della camicia nera che stava indossando.

Aziraphale schiuse le labbra per la sorpresa, richiudendo velocemente il giornale a appoggiandolo con delicatezza sul bracciolo della poltrona.

«Un regalo? Per me?» trillò con un sorriso.

«Tecnicamente non è un regalo, e tecnicamente non è per te» ribatté l’altro, allegro, dando un paio di colpi alla parte superiore dello scatolone.

Aziraphale parve deluso, ma si alzò comunque e si avvicinò alla scrivania.

«Posso?» domandò con tono pacato, indicando il contenitore.

Crowley - al quale non era sfuggito lo spegnersi veloce del sorriso dell’angelo e si stava interrogando sul perché fosse accaduto - non diede segno di averlo sentito.

«Posso?» chiese nuovamente Aziraphale, arrivando a pochi centimetri dal volto dell’altro.

Solo in quel momento, con gli occhi azzurri dell’angelo così vicini, Crowley sembrò tornare in sé.

«Uh, sì, certo!» tentennò appena, facendogli spazio. «Sono tutte tue.»

Aziraphale aggrottò la fronte, un sorriso confuso che si faceva largo agli angoli delle labbra. In seimila anni di saltuaria frequentazione, non di rado l’altro gli aveva fatto dei “regali”. Potevano essere sotto forma di cibo come di vestiario, senza dimenticare i biglietti di svariati spettacoli teatrali prima e cinematografici poi. Non che lo cercasse volutamente per offrirglieli, è chiaro, ma - se per i casi della vita e dell’ineffabile piano divino - le loro strade si incrociavano in prossimità di una buona osteria o un teatro alla sua serata inaugurale, Crowley aveva l’abitudine di coinvolgerlo e di pagare per lui. Dopo un paio di secoli, era divenuta una muta ritualità alla quale nessuno dei due avrebbe mai rinunciato ma che, allo stesso tempo, mai avrebbe ammesso apprezzare.

Si voltò verso la scatola, sollevando con attenzione le due ali esterne. Poi si chinò in avanti, cercando di dare una piccola sbirciatina attraverso la stretta fessura creata da quelle interne, ancora ben accostate.

Crowley lo osservò sporgersi in avanti e muovere la testa in varie angolazioni per riuscire a vedere qualcosa del contenuto e, istintivamente, gli venne da sorridere.

C’era qualcosa, in quegli sprazzi di innocente fanciullezza di Aziraphale, che riusciva ad aggrapparsi - con una leggera scossa di emozioni mescolate e confuse - al centro del suo petto come nessun’altra cosa al Mondo.

L’angelo, lo sapeva perfettamente, era tutt’altro che sciocco o frivolo. Non a caso Dio l’aveva scelto come guardiano di uno dei cancelli dell’Eden e, ancor meno fortuitamente, aveva posto tra le sue mani una spada fiammeggiante. Nascosto sinuoso e lucente tra i cespugli del Giardino lo aveva osservato a lungo - quando ancora i minuti e le ore non erano stati creati e messi di fronte all’Uomo come inesorabile clessidra della sua mortalità - impugnarla e allenarsi, con una non comune abilità, a rotearla tra le mani con veloci e precisi movimenti dei polsi.

Si annoiava terribilmente, era evidente, eppure non mancava al suo compito un solo attimo.

Capitava poi, ogni tanto, che qualche bestia feroce appena creata si avvicinasse alle Mura e Aziraphale, con lo stesso sguardo di viva curiosità che scorgeva sul suo volto anche in quel momento, deponeva l’arma e si chinava in avanti per osservarne ogni dettaglio dall’alto.

Crowley amava profondamente quegli attimi, e quell’espressione. La amava anche perché non gli era mai capitato di scorgerne di simili sul viso degli altri angeli. La curiosità (quanto aveva avuto ragione Aziraphale, quando aveva provato a metterlo in guardia…) era mal vista, quando non espressamente condannata. E, al di là di questo, sembrava proprio non essere di alcun interesse per le creature divine. Ma Aziraphale ne era ricolmo, come lo era stato lui. E, quando non aveva il timore di essere visto, se ne lasciava pervadere con una tale meravigliosa arrendevolezza che il demone non riusciva a rimanerne indifferente.

L’angelo sollevò con delicatezza anche le alette sottostanti, scoprendo una ventina di piccoli bastoncini bianchi accatastati gli uni sugli altri alla rinfusa.

«Sono…» iniziò, girandosi verso Crowley.

«Venticinque. Benedette, credo, a giudicare dal teporino che sentivo irradiarsi dal cartone» confermò lui, annuendo.

Aziraphale schiuse le labbra per la sorpresa, un evidente punto di domanda dipinto sul volto.

«Le avevano lasciate incustodite davanti alla chiesa di Sant’Anna, e…»

«Le hai rubate da una chiesa?!» lo interruppe l’angelo, con tono a metà tra lo scandalizzato e l’incredulo.

«Erano sul sacrato, quindi tecnicamente non erano ancora in una chiesa» si difese l’altro, divertito.

«Ma Crowley!»

«Quante storie, Angelo!» sbuffò. «Sono sicuro che non avranno difficoltà a ordinare altre candele elettriche per i candelieri delle offerte. Che poi, siamo onesti, è abbastanza ridicolo che le candele si accendano da sole non appena inserisci le monete. Gli uomini sono già pigr-»

«Sono elettriche?» lo bloccò Aziraphale, tornando a guardare la scatola. Inserì una mano all’interno, estraendo una delle candele. Una piccola fiammella di plastica sagomata si ergeva fiera sopra il corpo in finta cera, una lucina a led ben celata al suo interno.

«Perché mi hai “regalato” delle candele elettriche? 2)» domandò, facendosela ruotare davanti agli occhi.

«Perché la cera è terribilmente démodé e sporca ovunque?» provò Crowley, già conscio del fatto che quella spiegazione non sarebbe bastata.

Aziraphale sollevò un sopracciglio, scettico.

Il demone alzò gli occhi al cielo.
«E va bene.» iniziò, scuotendo la testa. «Perché ho pensato fosse più… sicuro.»

«Sicuro?»

«Di certo quelle - ribatté, puntando un dito verso il cero che Aziraphale teneva ancora all’altezza del viso - non rischiano di cadere e dar fuoco a tutto.»

C’era qualcosa, nel tono con cui Crowley aveva pronunciato le ultime parole, che costrinse l’altro ad abbassare la candela per riuscire a vederlo meglio.

«Hai paura che dia accidentalmente di nuovo fuoco alla libreria?» gli domandò, confuso.

«Beh, di sicuro non è stato un bello spettacolo» soffiò Crowley, serrando la mandibola e abbassando lo sguardo verso il pavimento. «Non ci tengo particolarmente a rivederlo.»

“Tu non eri qui, Angelo. Non hai idea”, pensò irritato, guardando la punta delle proprie scarpe muoversi un po’ contro le assi del pavimento che aveva visto coperto di fuoco e libri distrutti.

Aziraphale osservò serio il volto dell’altro. Non gli piaceva, quando un velo di cupezza gli offuscava gli occhi. Si allargava tra il giallo limpido delle sue iridi, sporcandolo. Alle volte faceva fatica a capire cosa lo provocasse. Altre, come in quel caso, pur non riuscendo a pieno a comprenderne i motivi si sentiva comunque in detentore di uno dei più meravigliosi doni divini mai stati concessi: la capacità di strappare quella cappa con una sola, semplice, parola.

«Oh, beh… grazie!» tintinnò, allegro. «Mi sembra davvero un’ottima idea. Ti spiacerebbe…?»

Crowley fece appena in tempo ad alzare uno sguardo interrogativo sull’altro prima che il pesante candelabro che l’angelo teneva sulla scrivania gli venisse spinto tra le mani.

«Tu pensa a queste, a quelle consacrate penso io» comandò scherzosamente Aziraphale, con voce gentile.

Con sollievo vide - come aveva sperato - il viso dell’altro rischiararsi e un accenno di sorriso increspargli agli angoli delle labbra mentre si guardava attorno, cercando di individuare tutte le candele presenti nel proprio campo visivo.

 

 

 

«Il problema è che non credo che queste funzionino, senza gli appositi alloggiamenti nei candelieri. Non vedo batterie, o fili, o…» si lasciò sfuggire Aziraphale, rattristato, quando ebbe sistemato i primi ceri nei portacandele che - uno a uno - Crowley gli stava lasciando vuoti sul tavolino dell’ingresso.

«A questo credo si possa porre rimedio» lo rassicurò lui, le braccia ingombre di candele di ogni dimensione e la giacca scura macchiata qua e là da piccoli sbuffi di cera.

Si avvicinò al tavolo e - tenendo gli occhi fissi su quelli dell’altro - soffiò gentilmente sulle fiamme di plastica, che si accesero avvampando come sotto a una leggera brezza.

Aziraphale le guardò estasiato, e Crowley si trovò a pensare per la prima volta che non c’era luce - di candela, di stelle o di qualunque altra cosa nel Creato - che potesse competere con quella che nasceva in fondo allo sguardo dell’angelo quando era felice.

Era forse quello, il motore che lo spingeva a correre in suo aiuto ogni volta che lo percepiva in difficoltà. Quella piccola, flebile, fragile, meravigliosa e inconfessabile speranza di vedere quel lume accendersi davanti a sé.

«Contento?» gli domandò qualche attimo dopo, ridestandosi dai pensieri con finta noncuranza.

«Assolutamente», sorrise l’altro. «Posso sdebitarmi con un invito a cena?»

 


 

az1a

 

Note:

 

1) "What kind of stupid question is that? What else am I gonna be, an aardvark?!” risponde Crowley a un imbarazzato Aziraphale che cerca di rompere il ghiaccio con un impacciato “Still a Demon, then?" quando se lo ritrova in una taverna dell’antica Roma. Non so come sia stato tradotto in italiano, ma mi ha sempre fatta ridere.

2) Avete notato che TUTTE le candele presenti nella libreria di Aziraphale sono elettriche? Beh, io NO. Me lo ha fatto notare, come mille altre cose, Lory221B. Un grazie di cuore, quindi, come sempre. <3

 

 

Angolo dell’autrice:

Benedetta sia la scrittura, che salva dai momenti duri della vita! Vado un po’ a rilento perché sono impelagata in mille casini nella “vita vera” ma arrivo, arrivo sempre!

Grazie ancora una volta a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione!


A presto,
B.

 

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Capitolo 8
*** Parole di carta ***


Azi

 



Soho - Un anno e due mesi da quell’ultimo,

disperatissimo, tentativo di tenere Aziraphale sulla Terra

 

 

 

Se c’era qualcosa che Muriel aveva capito, in quei lunghi mesi sulla Terra, era che i libri non amavano essere venduti.

All’inizio si era domandata se non fosse un suo problema. I clienti entravano nella libreria, salutavano, toccavano i volumi, alle volte li sfogliavano minuti interi con attenzione. Poi però - era capitato centotrentuno volte su centotrentotto avventori (gli altri sette non avevano trovato nulla di loro gradimento), lo sapeva con precisione perché lo aveva trascritto ogni volta sul suo taccuino - quando apparivano sul punto di chiederle quanto costasse una data opera, una forza invisibile sembrava attraversarli. Restavano immobili per qualche secondo, come colti da un pensiero improvviso e poi, con movenze un po’ impacciate, rimettevano al loro posto i libri che avevano tra le mani e uscivano senza nemmeno salutare.

Dopo che il novantaseiesimo potenziale acquirente le aveva nuovamente rivolto le spalle e aveva inforcato in silenzio la porta d’uscita era stata colta da quella improvvisa, maestosa, chiarificatrice epifania: i libri non amavano essere venduti.

Doveva essere necessariamente così. Erano… com’è che si definivano gli esseri umani? Ah, sì: amici. Erano tutti amici, in quella libreria, e nessuno avrebbe abbandonato il compagno di scaffale per seguire un perfetto estraneo in chissà quale luogo.

Annuendo con forza lo aveva appuntato in un foglio nuovo: “Penso che ai libri di Aziraphale piaccia stare qui.”

Aveva smesso di correggere il nome dell’angelo cambiandolo in “il traditore” all’incirca dopo tre mesi dalla chiamata dello stesso in Paradiso: ogni persona del quartiere che si era affacciata nella libreria in cerca del Signor Fell si era mostrata profondamente dispiaciuta quando le era stato riferito che “fosse partito per un lungo viaggio in Europa” e - in più di un’occasione - aveva anche dedicato qualche minuto a raccontarle di quanto fosse gentile, stravagante (Muriel non aveva ancora scoperto cosa significasse, ma le sembrava un termine positivo), disponibile, un brava persona con la quale era bello scambiare due chiacchiere (purché non in francese, ci aveva tenuto a specificare la proprietaria del ristorante dall’altro lato della strada). Questo cozzava terribilmente con la descrizione che di lui le era stata fatta Lassù e, senza che nemmeno se ne rendesse pienamente conto, aveva cominciato a pensare ad Aziraphale come a una figura sorridente e rasserenante che si aggirava felice tra i suoi libri. Il “traditore”, alla luce di tutto questo, le era apparsa una definizione terribilmente scortese e - poco a poco - aveva cessato di usarla.

Anche Crowley si era velocemente riappropriato di una sua identità all’interno degli appunti, smettendo di essere indicato come “il demone” e tornando a comparire col proprio nome (o, quanto meno, con quello che si era scelto dopo la Caduta. Muriel, infatti, che aveva accesso a tutti i registri angelici dalla Creazione al presente, era piuttosto certa che mai - in nessun momento - fosse esistito un angelo del Signore con quel nome).

Aveva iniziato a trascriverlo semplicemente come Crowley dopo aver trovato, in giro per la libreria, piccoli appunti su di lui lasciati da Aziraphale. Brevi promemoria, principalmente, nascosti tra le pagine dei libri pubblicati negli anni a cui quegli appunti facevano riferimento.

Crowley mi ha invitato all’inaugurazione del Gran Teatro La Fenice”, recitava una piccola pergamena trovata nel volume “Versi di Francesco Zacchiroli”.1)

L’incontro di oggi con Crowley non è stato affatto piacevole” raccontava un’altra, piegata al centro di un volume del 1862, in una grafia più tremolante del solito. “La sua richiesta è inaccettabile!2)

Crowley si è presentato con una scatola di candele elettriche, si preoccupa che dia accidentalmente fuoco alla libreria”.

La Bentley di Crowley è assolutamente adorabile, sa sempre quale musica vorrei sentire”.

Da quegli stringati spiragli di “quotidianità” il demone appariva assolutamente innocuo, quando non palesemente gentile.

Si preoccupava per l’altro, lo invitava a spettacoli e mostre, e non di rado si palesava alla sua porta con vino o cioccolato da condividere durante o dopo una cena.

Ma non c’erano solo le trascrizioni di Aziraphale.

Angelo, sono passato ma non ti ho trovato. Cena al Ritz stasera?” aveva trovato scritto su un piccolo foglio di carta di riso ripiegato con cura all’interno del volume più in alto tra quelli accatastati vicino alla poltrona di Aziraphale. La grafia appariva più obliqua e spigolosa rispetto a quella dell’angelo, ma anche estremamente elegante. Un piccolo pezzetto di nastro adesivo raccontava che il foglio fosse stato attaccato da qualche parte, probabilmente alla porta di ingresso della libreria.

Hanno aperto un nuovo padiglione del Royal Botanic Kew Gardens” annunciava un altro, conservato in un trattato di erboristeria medica.

Ho sentito che Ketèlbey è in città” avvisava quello, ingiallito dal tempo, che dormiva indisturbato tra le pagine di un libretto dell’Opera dal 1922.

La frequenza degli appunti era aumentata negli ultimi tre anni, divenendo quasi quotidiana. Uno degli ultimi volumi letti da Aziraphale ne era quasi pieno: cinema, cene, passeggiate, vivai, orti botanici e concerti… In un paio di occasioni l’angelo aveva anche trascritto espressamente la sua tristezza riguardo al fatto che l’altro non si trattenesse mai fino al mattino, anche quando l’orario raggiunto lo avrebbe reso quasi naturale. “Se avesse aspettato anche solo un’ora, avremmo potuto fare colazione assieme!

Non che Muriel avesse pienamente compreso che quella fosse tristezza, ma le appariva comunque evidente che vi fosse qualcosa di diverso in Aziraphale, in quei casi.

Crowley, quindi, le era velocemente divenuto familiare. E non come un demone - essere da cui guardarsi e del quale biasimare ogni operato - ma come, semplicemente, se stesso.

In fondo, poi, era sempre stato piuttosto gentile nei suoi riguardi, persino quando - con l’inganno - l’aveva convinta a farlo accedere al Paradiso.

Aveva pensato spesso a quel momento. Non tanto all’accadimento in sé, quanto più a tutte le stranezze che lo avevano caratterizzato: nessun allarme era scattato, all’arrivo del demone nei Santi Uffici; i suoi poteri non erano risultati affievoliti o azzerati dalla Santità del luogo; e, cosa ancor più incredibile, era stato in grado di accedere a fascicoli secretati senza alcuna difficoltà. In passato doveva essere stato un angelo di grado molto elevato, e il pensiero di averlo perso in battaglia le dispiaceva terribilmente.

Ogni tanto - durante quei lunghi mesi di quasi totale solitudine (aveva stretto amicizia, pur non rendendosi del tutto conto di averlo fatto, solo con Nina e Maggie) - si era ritrovata a domandarsi dove fosse finito, Crowley.

Avrebbe avuto così tante domande da porgli! Alcune, quasi tutte a dire il vero, riguardavano l’amore. D’altro canto lui si era detto disponibile a rispondere a ogni sua curiosità in merito e - dopo aver letto quasi tutti i volumi di Jane Austen presenti nella libreria, ne aveva davvero molte.

Uno, in particolare, conteneva una frase che Aziraphale aveva sottolineato con un tratto leggero e lievemente incerto. Diceva: “Venni da te sicuro di essere accettato. E tu mi facesti capire quanto fossero povere le mie pretese di piacere a una donna a cui è un onore piacere.”.3)

La cosa la confondeva terribilmente, e non riusciva in alcun modo a dipanare la matassa.

Aveva trovato poi, evidenziato all’interno di una raccolta di poesie di Hugo, un passaggio che recitava: “Faccio tutto ciò che posso perché il mio amore non ti disturbi, ti guardo di nascosto, ti sorrido quando non mi vedi.4) Questo, se possibile, le risultava ancor più ostico e incomprensibile. Perché mai l’amore di qualcuno dovrebbe essere un fastidio? E che senso aveva, sorridere a qualcuno che non poteva vedere quel sorriso schiudersi?

Crowley, sicuramente, avrebbe saputo spiegarglielo. Ma, purtroppo, non era mai venuto a trovarla.

Anche Maggie e Nina si erano domandate che fine avesse fatto.

Che Aziraphale fosse tornato in Paradiso lo avevano saputo da Muriel stessa il giorno in cui aveva nuovamente varcato - incerta e con addosso dei vestiti di Aziraphale, trovati ben riposti all’interno di un armadio al piano superiore, riadattati alla sua figura con un piccolo miracolo - le porte della caffetteria, circa una settimana dopo essere stata lasciata a custodia della libreria.

Ancor prima che potesse aprire bocca le era stato chiesto se l’angelo stesse bene, non avendolo più visto dal nubifragio. Lei aveva risposto in modo spontaneo, senza riflettere troppo sul perché due umane sapessero della vera natura del signor Fell e quindi, assai probabilmente, della sua e di quella di Crowley. Era stato un sollievo talmente grande non doversi concentrare fino allo sfinimento per non lasciarsi scappare una parola di troppo - come accadeva con vicini e acquirenti - che semplicemente aveva accolto quel realtà come tale. Il discorso era parso comunque essersi concluso lì, e ne era stata felice: se Michele o Uriel avessero saputo che parlava del Piano Divino con due sconosciute, sicuramente le avrebbero fatto un richiamo.

Quella stessa sera però, dopo orario di chiusura, Maggie e Nina si erano presentate alla porta della libreria per domandare se anche Crowley fosse andato con Aziraphale.

«La sua auto è sempre stata qui davanti negli ultimi quattro anni» aveva spiegato Maggie, con tono preoccupato e un sorriso dolce sul viso.

«Beh, a parte durante il Lockdown 5). Però, per il resto, mai mancato un giorno. Magari qualche ora, quello sì - aveva rincarato la dose Nina, con tono sbrigativo - Ma una settimana intera? Nah. Mai.»

«Uh, beh, no…» aveva risposto Muriel, balbettando. «Sapete, è un demone… Quelli come lui non vanno in Paradiso. Beh… quasi mai» aveva concluso, guardandosi con imbarazzo la punta delle scarpe.

Le due donne si erano scambiate uno sguardo preoccupato.

«Dici che si saranno parlati?» aveva sussurrato Maggie.

«Oh, sì sì!» aveva trillato l’angelo, risollevata che fosse accaduto qualcosa che - evidentemente - le altre si auguravano. «Sono sicura che abbiano parlato, prima che uscisse dalla libreria per fermarsi vicino alla macchina.»

«E…?» L’aveva esortata a continuare Nina.

«E… nulla. Hanno parlato, e lui è uscito.»

«Sì, okay…» Nina aveva alzato gli occhi al cielo per qualche secondo. Maggie, con gentilezza, le aveva dato un colpetto affettuoso all’altezza dei fianchi per chiederle silenziosamente di essere paziente. «Ma com’era, quando è uscito dalla libreria?»

«Era… innocuo?» tentò Muriel.

«Era felice? Triste?» Nina aveva provato a pronunciare le parole il più lentamente possibile, accompagnandole con una mimica facciale molto accentuata.

«Ah! Ho capito cosa intendi!»

Le due donne avevano tirato un sospiro di sollievo.

«Era…» Muriel aggrottò la fronte, cercando di risultare addolorata ma finendo con l’apparire solo come un cucciolo dall’espressione buffa.

«Non promette bene, vero?» aveva sussurrato Maggie all’altra, dispiaciuta.

«Neanche un po’» aveva confermato Nina, scuotendo la testa e corrucciandosi.

Da quel giorno Crowley a Aziraphale erano riemersi - per quel poco che aveva potuto vedere Muriel quando, un paio di pomeriggi a settimana, si concedeva una tazza di cioccolata e una buona lettura seduta nei tavolini esterni del Café (Nina le aveva spiegato con rude pazienza che era felice di averla lì e che sarebbe sempre stata la benvenuta, a patto che smettesse di osservare ogni avventore con lo sguardo stupito e confuso di un entomologo di fronte al rinvenimento di una nuova specie di insetto) - nei loro discorsi sporadicamente, quasi sempre a seguito di eventi particolari: un piccolo black-out, una mattinata particolarmente nebbiosa, l’avvicinarsi dell’incontro degli esercenti di quartiere… cose così. In realtà le due avevano parlato più volte della possibilità di cercare Crowley, quanto meno per accertarsi che stesse bene dopo quello che appariva - alla luce dei pochi dettagli a loro disposizione - come uno dei casi di rifiuto dopo una dichiarazione più drammatici e definitivi a memoria d’uomo. Ma, questo, Muriel non poteva saperlo.

Maggie aveva preso negli ultimi mesi l’abitudine di chiudere il negozio di dischi subito prima di pranzo, per aiutare Nina con gli studenti e i professionisti che - più numerosi in quelle due ore che in tutta la giornata - si recavano al “Give me coffee or give me death” per un pasto veloce.

E lì la trovò Muriel anche quel giorno (un anno e due mesi dopo l’addio di Aziraphale alla Terra), quando - attraversando con passo leggero la strada che separava i due negozi - la salutò con un gesto entusiasta della mano.

«Ehi!» ricambiò lei con un sorriso, finendo di sistemare alcune tazze di una vecchia consumazione  su un vassoio di metallo un po’ ammaccato. «Il solito?»

«Sì, grazie infinite!» cinguettò l’angelo, stringendo con più forza il piccolo volume che teneva tra le braccia.

«Hai iniziato qualcosa di nuovo?» Maggie sollevò il vassoio e iniziò ad avviarsi verso la porta, camminando all’indietro. Con un cenno del capo indicò il libro che faceva capolino dalla stretta dell’altra.

«Sì! È bellllllissimo! Sono poesie di Nerub… Neruc…» Muriel aggrottò la fronte, girando il volume verso di sé. «Neruda. Aziraphale ha sottolineato molte pagine, e ho capito che quando trovo un volume così tanto evidenziato è perché merita di essere letto!»

«Che meraviglia…» si lasciò scappare Maggie con tono dolce, dando con il fianco sinistro un colpetto alla porta per aiutarsi ad aprirla.

«Che cosa?» Nina era comparsa sulla soglia, tenendo il battente aperto in modo da farla passare agevolmente.

«Aziraphale sottolineava dei passi delle poesie di Neruda» sospirò intenerita Maggie.

«Romantico» commentò l’altra, a metà tra l’ironico e il sinceramente colpito. «Da’ qua, ci penso io» aggiunse poi, togliendo il vassoio dalle mani dell’altra e dandole un bacio sulle labbra prima di sparire nuovamente all’interno del locale.

Maggie arrossì, rivolgendo uno sguardo di leggero imbarazzo in direzione di Muriel.

La trovò con gli occhi spalancati e le labbra socchiuse, come colta da una rivelazione improvvisa.

«T-tutto bene, tesoro?» le domandò, preoccupata.

«Cos’era?» chiese l’angelo a sua volta.

«Cos’era cosa? Nina?» tentò Maggie, senza capire.

«No!» Muriel scosse con forza la testa. «Quella cosa che ha fatto! Sulla bocca» precisò, indicandosi le labbra con l’indice della mano destra.

«Ah!» Maggie scoppiò in una piccola risata, smettendo subito davanti all’espressione di completo smarrimento dell’altra. «È un bacio! Una cosa che solitamente fa chi ti ama. Serve a dire, senza parole, “sei la cosa più importante che ho”. Non lo hai mai trovato in nessuno dei libri letti? Io e Nina ci siamo messe insieme da poco, e-»

«Quello è un bacio sulle labbra?!» ribatté Muriel, avvampando.

«Ho quasi paura di domandartelo, ma… cosa pensavi fosse, un bacio sulle labbra?»

L’angelo si chiuse nelle spalle e iniziò a guardarsi attorno scuotendo la testa. «Non lo so! Pensavo che fosse, tipo… lasciare che le labbra si sfiorassero appena. Jane Austen…»

«Tesoro, Jane Austen scriveva nei primi anni del 1800… A quei temp-»

Muriel non le aveva dato il tempo di finire. Senza aggiungere altro aveva fatto una mezza piroetta su se stessa ed era tornata a grandi passi verso la libreria. Maggie l’aveva vista armeggiare impacciata davanti alla porta. Prima le erano cadute le chiavi. Poi, mentre si chinava per riprenderle, anche il libro. Alla fine, dopo quasi un minuto passato a raccogliere e far cadere nuovamente gli oggetti, doveva essersi ricordata di poter aprire la porta semplicemente con uno schiocco di dita, e così aveva fatto. Maggie e Nina - che nel frattempo era comparsa al suo fianco con aria interrogativa - l’avevano vista sparire all’interno a gran velocità, le chiavi e il libro abbandonati sul gradino d’ingresso a pochi centimetri dall’uscio.

«Ma che è successo?» chiese Nina, aggrottando la fronte.

«Non ne ho la minima idea» ribatté l’altra.

 

All’interno della libreria Muriel corse alla scrivania di Aziraphale, afferrando il proprio taccuino con mani tremanti.

Scorse le pagine velocemente, una dopo l’altra, cercando spasmodicamente quella relativa a Crowley.

Quando la trovò rilesse velocemente tutti gli appunti presi in precedenza, con espressione sempre più sbigottita via via che i suoi occhi si muovevano da una nota all’altra. Non poteva essere vero. Cioè, letteralmente non poteva esserlo. Crowley era un demone. Notoriamente gli esseri più abbietti e privi di sentimenti dell’intero Creato. Questo, almeno, a sentire Michele. Eppure, l’aveva visto lei stessa essere gentile con Aziraphale, e non solo. Lo aveva visto mutare forma per non farle passare dei guai in Paradiso. Lo aveva visto consigliare a Gabriele e Belzebub dove rifugiarsi. Lo aveva visto… baciare Aziraphale, anche se in quel momento - seminascosta da una delle vetrate della libreria - non se ne era nemmeno resa conto. “Sei la cosa più importante che ho”, aveva detto Maggie. E doveva essere così davvero, perché se c’era qualcosa che aveva notato da subito, immediatamente, era che - come riportato in uno dei suoi punti nella pagina dedicata a lui - guardava sempre all’angelo. Lo seguiva con gli occhi ovunque, in ogni momento in cui erano nella stessa stanza. “Non è proprio l'indifferenza verso il resto del mondo l'essenza del vero amore?”, aveva trovato scritto in Orgoglio e Pregiudizio, e solo in quel momento le fu completamente chiaro cosa intendesse l’autrice.

Con una nuova sensazione che si faceva largo al centro del petto (appariva come un mare in tempesta le cui onde, ad ogni respiro, le riempivano i polmoni di freddo e tristezza), aggiunse un altro numero in fondo alle note già scritte su Crowley:

 

6. Credo che sia innamorato di Aziraphale.

 

 

—-

 

 

Soho - Un secondo prima che Crowley salisse all’interno della propria auto dopo aver visto le porte dell’ascensore chiudersi.

 

 

 

 

Crowley osservò le porte di metallo dell’ascensore richiudersi e poi scomparire all’interno della facciata del palazzo.

Muriel si stava avvicinando alla libreria e, benché non potesse esserne del tutto sicuro, qualcosa gli diceva che - da quel momento - a vegliare su quel posto tanto familiare sarebbe stata lei.

Chiuse per qualche secondo gli occhi, muovendo appena le dita della mano destra.

Non sarebbe più tornato lì. Lo sapeva. Non c’era più nulla per lui, a Soho. Ma per tantissimi anni, secoli, quelle mura e quelle pile di carta e inchiostro erano state il rifugio di Aziraphale. E non avrebbe permesso a nessuno, Paradiso o Inferno che fosse, di mutarne anche solo un centimetro.

Nessun libro sarebbe mai uscito da quella porta, nessun arredo sarebbe potuto essere trasmutato in altro. Avvolse l’intera libreria sotto un manto di invisibile inviolabilità, un miracolo così forte che, all’Inferno, una delle spie di segnalazione iniziò a suonare con insistenza.

Shax - che era in attesa di conferire con il Consiglio per chiedere la propria promozione - raccolse il piccolo foglio di spiegazione sulla violazione in atto che era uscito dalla colonna che ospitava l’allarme, ubicato a pochi passi da dove era seduta (gli spazi all’Inferno erano sempre stati non solo bui ma anche angusti e, non di rado, in uno stesso ambiente potevano trovarsi la sala d’attesa di un direttivo e una S.A.T.A.N.2: Sezione Adibita al Tempestivo Avviso su Nefandezze e Negligenze).

Furfur - accomodato accanto a lei - si sporse per riuscire a vedere a sua volta cosa contenesse il biglietto, ma la donna fece sparire il pezzetto di carta con una piccola fiammata.

«Che succede?» le domandò, sospettoso.

«Niente, solo un falso allarme. Una medium deve aver nuovamente creato interferenza con i sensori» minimizzò lei, alzando le spalle.

Alla fine, Crowley le era sempre stato simpatico. E, per aver compiuto un miracolo come quello trascritto, era evidente che già non se la stesse passando benissimo. Inoltre era sempre meglio avere dei contatti fidati - o quanto meno decenti, vista la media del demoni a disposizione da qualche centinaio di anni a quella parte - ai quali poter ricorrere in caso di necessità. E, da quel che si vociferava nei corridoi, presto ce ne sarebbe stato davvero un gran bisogno.


 

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NOTE:

 

1) L’anno è il 1972.

2) Il riferimento è chiaramente all’episodio del laghetto e alla richiesta di Crowley di poter avere dell’acqua santa.

3) È un passaggio di Orgoglio e Pregiudizio.

4) Tratto da “Faccio tutto ciò che posso”, poesia che Juliette Drouet scrisse al suo amatissimo Victor Hugo.

5) Fa riferimento al piccolo audio (Canon!) registrato da David e Michael durante il 2020. Potete recuperarlo, nel caso non lo conosceste, QUI. Lo adoro!

 

 

 

Angolo dell’autrice:

 

Sì, lo so. Lo so. Ci ho messo un po’ più de solito ad aggiornare, ma qua fuori sta succedendo di tutto! In più, quello che doveva essere un semplice capitolo di raccordo è diventato il più lungo in assoluto.

 

Chiedo venia, ma era importante arrivare dove siamo ora per il proseguo della storia. <3

 

Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione.

 

A presto,

B.

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Capitolo 9
*** Piani ***


Azi
 

 



Paradiso - Ufficio dell’Arcangelo Supremo - Oggi

 

 

 

Aziraphale, i gomiti puntati sulla sua scrivania di vetro satinato, si passò nervosamente le mani tra i capelli.

Qualche scintilla dorata si liberò dalla chioma bionda, rimanendo sospesa attorno alla sua testa come una leggera nube.

Non c’era modo. Nemmeno una singola, piccola, marginale possibilità. Aveva trascorso tutto l’anno precedente a modificare dettagli più o meno importanti, testare luoghi, mutare accadimenti,  cambiare orari. In nessuno dei tremiladuecentoventitré scenari che aveva composto sarebbe stato in grado di salvare la Terra.

Certo: quello era il volere di Dio e, come tale, non avrebbe dovuto trovare ostacoli o ripensamenti, soprattutto ad opera di uno dei più alti ufficiali del Paradiso.

E, a ogni modo, i Giusti si sarebbero salvati (era stata in assoluto la prima cosa che si era premurato di controllare, trovando un intero paragrafo del Grande Piano dedicato alla spartizione delle Anime al “termine di Tutto”).

Ma non riusciva a non pensare agli altri. Ai giusti di animo, anche se non ospitati sotto le ali del loro dogma. Ai bambini di ogni angolo del globo appartenenti ad altre confessioni o così piccoli da non essere ancora stati battezzati (continuava a rimbombargli nelle orecchie una frase sentita chissà dove ma che non riusciva in alcun modo a ignorare: “non i bambini… non puoi uccidere i bambini!”1)). Certo, per loro era stato preparato il limbo. Ma era davvero un bel destino? Soli, senza genitori, eternamente immobili in un'enorme sala giochi con due angeli (nemmeno i più simpatici, da quanto aveva potuto sbirciare dalle assegnazioni) a custodirne l’ingresso?

Serrò gli occhi, le dita ancora affondate nei riccioli chiari.

E l’erba? Il sole? Il vento? La pioggia d’estate, gli animali, le piante? I pesci, i fiori, gli usignoli?

L’intero Universo sarebbe stato strappato via come una vecchia carta da parati. 2)

E che dire dell’improvviso sovraffollamento che si sarebbe creato all’Inferno? Era già abbastanza buio e angusto senza scaraventarvi dentro quasi sei miliardi di persone in un sol colpo. Considerando poi che le Schiere Celesti contavano un ventesimo di quella unità, non sarebbe passato molto tempo prima che gli inquilini del piano di sotto venissero a esigere un po’ di spazio. E una seconda Guerra Celeste era davvero l’ultima delle cose che avrebbe voluto veder accadere (o per meglio dire la seconda: la distruzione del Globo rimaneva salda al primo posto degli scenari da incubo).

Avrebbe potuto provare a istruire il Redentore sulla Terra… forse, conoscendola e imparando ad amarla, avrebbe fatto una chiamata alla Madre per comunicarle che “no, non se ne faceva nulla”. Ma non aveva un solo appiglio legale per poterlo fare. Le Sanctissima Scholarum si trovavano in Paradiso e, anche se avesse convinto l’Altissima della bontà dell’idea (il che, comunque, significava mentirle), sicuramente gli sarebbe stato affiancato almeno un altro Arcangelo come aiuto. E, a quel punto, tanto valeva rimanere Lassù e sperare di riuscire a svolgere qualche lezione “a porte chiuse”.

Per la tremiladuecentoventiquattresima volta, non trovando vie di uscita, sospirò e fece comparire una tazza di tè fumante alla sua destra e un blocco da disegno alla sua sinistra.

Aveva scoperto che disegnare riusciva a rischiarargli la mente e a mettere a tacere, almeno per qualche attimo, il suo tormento. Non avrebbe potuto continuare a farlo per sempre - Michele e Uriel avevano fissato la data di arrivo del Salvatore allo scoccare del secondo anno di sua reggenza del Paradiso («Ci sono un po’ di fascicoli arretrati da visionare - lo aveva avvisato Uriel aprendo la porta del suo ufficio, spalancando davanti ai suoi occhi una pila di faldoni che si ergevano traballanti gli uni sugli altri fino a sparire alla vista - Gabriele non amava molto la parte burocratica del lavoro… Penseremo alla Seconda Venuta quando saremo in pari!») - ma, fino a quel momento, aveva funzionato abbastanza bene nell’evitare che cedesse troppo allo sconforto o alla rabbia.

Disegnava quasi sempre piccoli animali (principalmente cani, api, serpenti, gatti, conigli) o vegetali (alberi, ma anche piante casalinghe come Anthurium, Filodendri, Zamie…), cercando di ripescarne tutti dettagli dalla memoria per tenere la mente in allenamento e non perdere il senso di familiarità che lo legava alla Terra.

E poi, senza una cadenza regolare, disegnava lui.

Non avrebbe saputo dire che si trattasse delle reminiscenze di un vecchio sogno o pura fantasia, ma ogni volta che tornava a tracciarne i contorni sentiva di essere nuovamente a casa.

Aveva le fattezze di un angelo, e ne portava le vesti (le prime in assoluto, quelle che l’Altissima in persona aveva scelto e intrecciato per loro). I capelli - di una meravigliosa tonalità di rosso che non era mai riuscito a ricreare fedelmente con i colori a sua disposizione - gli cadevano attorno al viso in piccoli e morbidi boccoli, circondando un viso sorridente e due grandi occhi verdi e brillanti. Si soffermava sempre a lungo su di essi, disegnandone ogni screziatura con cura e attenzione. Ma ogni volta rimaneva con addosso la triste sensazione di non essere riuscito a render loro - e alla gioia straripante che contenevano - piena giustizia. Tracciava poi ogni più piccolo dettaglio delle ciocche rubre. Quelle dietro alle orecchie, successivamente quelle sulla parte alta del capo e, infine, il piccolo ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte. Dopo passava al naso, alle labbra e, per terminare, a spalle e ali.

Aveva disegnato il suo volto da ogni angolazione, abituandosi così tanto alla sua persistenza nella propria mente da aver iniziato a percepirlo come un rifugio.

Anche quel giorno quindi iniziò dagli occhi, alternando tra le dita della mano destra il piccolo manico della tazza da tè e la matita che aveva fatto comparire sopra il blocco poco prima di iniziare a disegnare.

 

E così - chino sul foglio bianco, con tante piccole schegge d’oro sospese attorno alla testa come una pioggia immobile - lo trovò Saraquael circa tre ore terrestri dopo quando, con un leggero movimento delle dita, aprì la porta dell’ufficio e vi entrò senza tante cerimonie.

«Saraquael!» sobbalzò Aziraphale, le efelidi auree improvvisamente più accese. «Quante volte devo dirti di buss-»

«Più o meno lo stesso numero di volte in cui dovrò ricordarti che le bevande umane non sono ammesse in Paradiso, immagino» ribatté lei, guardando con malcelato fastidio la tazza vuota.

Lui sospirò, stirando le labbra. Con un piccolo sbuffo il taccuino scomparve, insieme alla penna. La tazza invece, quasi per sfida, si riempì nuovamente fino all’orlo.

«In cosa posso aiutarti?» riprese dopo qualche secondo, drizzando la schiena e intrecciando le dita davanti a sé sulla scrivania.

«Si vocifera che Laggiù siano in fermento. Qualche “cambio al vertice”.» Saraquael si avvicinò al tavolino con aria circospetta. «E, considerando l’avvicinarsi del Secondo Avvento, secondo me sarebbe il caso di iniziare a capire chi troveremo in testa alla fazione nemica.»

«Mhm» commentò l’altro, sollevando appena il capo a sottolineare di aver capito. «E quello che tu - perché sicuramente non ne avrai parlato con Michele e Uriel in qualche incontro segreto stranamente non apparso sul calendario ufficiale - suggerisci di fare, sarebbe…» la incalzò, inclinando la testa da un lato e fingendo attenzione.

«… fare una telefonatina dall’altra parte per presentarsi. Una forma di “gentilezza” che manteniamo coi Caduti in memoria dei vecchi sacri tempi di fratellanza.»

Aziraphale sospirò, alzando per un attimo gli occhi al cielo.

«Va bene. Dammi in contatto del nuovo Principe. Qual è il suo nome?»

«Shax» rispose sbrigativamente Saraquael, facendo comparire con un movimento della mano un cellulare traslucido sopra la tazza. Il fumo della bevanda continuò a vibrarsi verso l’alto, come se non vi fosse sopra di sé alcun ostacolo.

«L’ho già conosciuta?» domandò Aziraphale, aggrottando le sopracciglia. «Il suo nome non mi suona del tutto nuovo.»

L’altra lo osservò per qualche secondo con un’espressione incerta sul viso. «Penso… - tentennò, cercando le parole migliori - Penso si possa dire che abbiate avuto una “piccola divergenza di opinioni”, in passato. Nulla di importante. Tu presentati in qualità dell’Arcangelo Supremo Raphael, e non dovrebbero esserci problemi.»

Lui socchiuse gli occhi, sforzandosi di ricordare l’ultima “divergenza di opinioni” avuta con qualcuno, ancor più nello specifico con un demone. Ebbe un paio di flash di se stesso all’interno della propria libreria, ma non sembravano avere molto senso: c’erano un paio di occhiali scuri, qualche scintilla di rosso e qualcosa di spaventosamente brillante, giallo come il sole d’estate e nero come le spire della notte più buia.

«Nulla di importante…» ripeté a sua volta, più per rassicurarsi di non aver che per reale convinzione. «E cosa dovrei dirle, esattamente?»

«Che, come previsto dagli A.M.E.N. - Accordi sui Movimenti Ecclesiali Nascosti - siamo tenuti a comunicarle che a breve verrà posta in essere un’iniziativa che potrebbe condurre nuovamente alla Fine dei Tempi. Del resto loro ci hanno avvisati, l’ultima volta. Oh beh… chiedi anche come stia, naturalmente. Essere gentile è il compito primario di un angelo.»

Aziraphale si lasciò scappare uno sbuffo sarcastico.

«Va bene, Saraquael. Grazie.» Attese qualche attimo che l’altra si muovesse. Poi, capendo che non lo avrebbe fatto, sollevò un sopracciglio per congedarla e indicarle che no, non avrebbe svolto la telefonata davanti a lei.

Lei stirò le labbra, infastidita. Poi fece una piccola piroetta su se stessa, e uscì senza aggiungere altro.

Rimasto solo, Aziraphale indugiò con lo sguardo sul telefono, incerto sul da farsi. Certo, gli accordi avevano il loro valore e andava rispettato. Erano stati siglati alla conclusione della Grande Guerra Celeste, per garantire che non vi fossero ulteriori squilibri dovuti alla posizione di maggior vicinanza all’Altissima dei vincitori rispetto ai Caduti. D’altra parte - per quanto assurdo potesse sembrare agli occhi di moltissimi angeli - Lei non aveva voluto che i traditori scomparissero ma, in un qualche modo, li aveva riassorbiti all’interno di un nuovo equilibrio che si basava proprio sulla dicotomia tra le due fazioni. Non era comunque del tutto sicuro che prendere contatti diretti con gli avversari fosse la scelta più saggia: l’organizzazione si stava rivelando già abbastanza complessa senza mobilitare anche loro fin da subito.

Alla fine - con un grosso sospiro che gli liberava il petto attraverso le labbra schiuse - sollevò il telefono e se lo portò all’orecchio.

 


—-

 

[…]

 

«Capisco. Perdonami, potresti ripetermi il tuo nome?»

«Raphael.»

«Raphael

«Raphael, sì.»

«E quindi - alla luce di tutto quello che ci siamo detti - come posso aiutarti, Arcangelo Supremo

«In nessun modo, immagino. Telefonavo solo perché gli A.M.E.N. prevedono un contatto diretto tra le due figure operative più alte in grado, in questi casi. Era mio compito…»

«Informarmi. Grazie. Lo apprezzo molto.»

«Bene. Ottimo. C’è… c’è qualcosa che dovrei sapere a mia volta?»

«No, direi di no. Anzi sì, una cosa ci sarebbe

«Dimmi.»

«Visto le novità di cui mi hai messo al corrente, credo sia giunto il momento che Crowley riprenda il suo posto come Duca Infernale. In realtà non escludo una promozione, per lui.»

«Crowley…»

«Sì.»

«Non lo conosco, ma se ritieni opportuno che ti affianchi nelle vostre operazioni di controffensiva, fai pure.»

«Oh, sì. Più che opportuno

«D’accordo. Beh… ora devo andare. È stato… interessante, parlare con te.»

«Non sai quanto lo sia stato per me, Raphael…»

 

 

Shax - seduta con le gambe accavallate su un trono scuro e dai bordi aguzzi con addosso un abito aderente con un alto colletto in pizzo nero - rimase per qualche secondo con il telefono tra le mani, lo sguardo assorto di chi sta inseguendo un filo di pensieri particolarmente aggrovigliato.

Furfur, in piedi davanti alla porta del loro ufficio, socchiuse gli occhi. «Quindi?» domandò spazientito, quando si rese conto che lei non avrebbe parlato spontaneamente.

«A quanto pare, mio caro, abbiamo un piccolo angelo smemorato al timone, Lassù.»

Saltò in piedi, avvicinandosi all’altro a grandi falcate.

«Dove stai andando?» Il demone si scostò dall’ingresso, facendo un passo di lato.

«Vado a scambiare quattro chiacchiere con un vecchio amico… Credo che sarà molto sorpreso, quando gli dirò che l’Arcangelo Supremo in persona ha richiesto la sua partecipazione alla prossima Apocalisse» rispose lei, sibillina, spalancando la porta davanti a sé.

 

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Note:


1) È Crowley (al tempo Crawley XD) a dirlo ad Aziraphale, davanti all’Arca di Noè in costruzione.

2) L’angelo Crowley usa questa similitudine durante il primo incontro con Aziraphale all’inizio dei Tempi. “Ma è un’idiozia! È l’Universo, non una carta da parati stravagante!”

 

Angolo dell’autrice:


Qui fuori è successo DI TUTTO: ho avuto la febbre alta, figlio uno anche, figlio due pure (con l’aggiunta delle vaccinazioni). Mancava giusto la gatta, e il quadro sarebbe stato completo.

Non contenta ho ripreso a lavorare dopo la maternità, e quindi mi si è riversato addosso tutto l’arretrato di cinque mesi di stop.

Insomma, riuscire a trovare il tempo (o le forze, o entrambi) per scrivere è diventata una missione quasi impossibile! XD

Questo capitolo avrebbe dovuto contenere anche la scena successiva, ovvero Shax che se ne andava tutta diabolicamente felice a cercare di convincere Crowley a tornare nella “grande famiglia infernale” ma - considerando che sarà una parte piuttosto lunga - ho preferito rimandarla in modo da non farvi attendere ancora per la pubblicazione.

Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione.

A presto,

B.

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Capitolo 10
*** Poker ***


Azi

 




Ufficio di Crowley - Oggi

 

 

 

«Crowley?»

 

Una sottile lama di luce strisciò - accompagnata da uno stridio prolungato - sul pavimento scuro, allargandosi e allungandosi lentamente come in un pigro sbadiglio.

La polvere che riposava sulle mattonelle di marmo si sollevò da terra, fremente, rimanendo per qualche secondo sospesa all’interno del cono luminoso che si era creato.

Un tacco scuro, a spillo, piombò nel fazzoletto di chiarore strappato alle tenebre con un piccolo tonfo, facendo disperdere le particelle come girini all’interno di uno stagno in cui era stato gettato un sasso.

Shax - gli occhi socchiusi per riuscire a orientarsi nel buio saturo di umidità nel quale era appena entrata - rimase per un attimo lì, immobile a pochi passi dall’ingresso, con la mano sinistra ancora appoggiata alla porta e la destra chiusa a pugno sotto il naso per proteggersi dall’odore di stantio che l’aveva accolta non appena aperto l’uscio.

«Crowley?» Provò nuovamente, portandosi in avanti quel tanto da riuscire a mettere a fuoco - nella poca luce a disposizione, posta tutta alle sue spalle - il piedistallo dove, quanto meno fino al suo ultimo giorno in quella casa, era ospitata una statua di due angeli in battaglia. «Ho provato a bussare, ma…»

Fece un paio di passi avanti, ondeggiando tra uno stordente odore di umidità e un silenzio opprimente che le ricordò - in maniera totalmente opposta eppure sorprendentemente similare - la sala d’attesa dell’Inferno. La seconda era sempre gremita di urla e terrore ma il peso invisibile che riempiva l’aria era analogo, così come l’istinto primario di ogni Essere (anche dei Caduti, benché nessuno di loro lo avrebbe mai ammesso apertamente) immerso in quegli ambienti: voltarsi e fuggire il più lontano possibile. Perché se vi era una cosa nel Creato che nessuno voleva davvero “sentire” - mai, nemmeno i demoni - quella era il dolore.

E l’appartamento - si rese conto quando, continuando ad avanzare al suo interno, colpì con la punta della scarpa destra un’ala di marmo spezzata - ne era, semplicemente, impregnato. Ne erano ricoperte le pareti, i soffitti, i pavimenti… ogni angolo. Si era stratificato poco a poco, giorno dopo giorno, una carta da parati impastata di muta sofferenza che si teneva su grazie al tempo e alla polvere.

«So che sei qui, Crowley» riprese, scavalcando il corpo dell’angelo che - una volta - si ergeva fiero sull’altro. Lui, di tutta risposta, finì di franare definitivamente al suolo, aprendosi a metà lungo la ferita che lo attraversava lungo tutto il busto.

I passi rimbombarono lungo il corridoio, fiocamente illuminato dalla poca luce proveniente dal pianerottolo. Arrivata a metà un odore dolciastro e nauseabondo la raggiunse, facendosi largo tra le dita chiuse che ancora premeva sotto il naso e scendendo lungo la gola come un cucchiaio di fiele denso. Conosceva bene quel miasma (l’Inferno ne era intriso, soprattutto nelle zone di primo approdo dei defunti) e - benché fosse certa che il demone non potesse essere in alcun modo morto (per prima cosa non era facile per una Creatura Celeste, anche se caduta, morire; secondo poi, la comunicazione sarebbe giunta Laggiù pressoché immediatamente insieme alla richiesta di un aggiornamento dei registri infernali) - sentì una punta di apprensione appesantirle le gambe.

Crowley era, da sempre, uno degli elementi più validi della Legione. Lo sapeva lei, come lo aveva saputo Belzebub prima di lei. Non a caso, per secoli, gli era stato concesso di vivere in un realtà a parte: pochi controlli, poca burocrazia, libertà d’azione quasi totale. Certo: aveva commesso anche anche lui degli errori - uno su tutti quello di stringere alleanza e infine invaghirsi (cosa palese a tutti tranne che a loro) di un Avversario - ma restava uno dei Caduti più competenti ed esperti e, con la Seconda Venuta alle porte, riuscire a riportarlo nei propri ranghi poteva fare davvero la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

«Devo parlarti di una cosa importante… - riprese, la voce strozzata dall’odore pungente che sentiva risalirle le narici e umidirle gli angoli degli occhi - … fondamentale

Giunta alla fine del corridoio, diede una piccola spinta all’imponente porta girevole che separava lo studio dal resto dell’appartamento. Una folata carica di umidità, polvere e sentore di guasto la colpì, così densa da spostarle i capelli dal volto.

Si affacciò nella stanza lentamente, mantenendo il resto del corpo fuori.

Il buio era pressoché totale, interrotto solo da piccole strisce di luce che - facendosi coraggiosamente largo attraverso le tapparelle chiuse - si posavano scomposte sulla parete di fronte alle finestre sbarrate.

Seguendone una con lo sguardo, Shax comprese finalmente da dove provenisse quel mefite che riempiva l’aria: le piante di Crowley - una volta verdi, lucide, rigogliose e floride come solo i vegetali terrorizzati dalla minaccia di venir cestinati possono divenire - giacevano morte l’una di fianco all’altra. Alcune si erano lasciate cadere sul pavimento, esauste. Altre si erano chiuse su loro stesse, quasi piegate in un inchino di commiato. Uno spesso strato di polvere e qualche ragnatela si posava sulle foglie ormai secche, rendendole simili a tristi sculture di sabbia. Qua e là, bottiglie di vino e birra vuote e opacizzate dal tempo sembravano fare da guardia ai vasi e al loro triste contenuto.

Solo una di loro - l’ultima della fila, la più piccola e all’apparenza fragile - sembrava aver resistito ai mesi di incuria e abbandono. Le foglie si erano lasciate andare verso il basso, ma avevano conservato un colorito se non sano quanto meno vitale.

«So che sei qui» riprese Shax dopo qualche attimo, superando la porta e portandosi al centro della stanza. «E so che sono, probabilmente, l’ultima persona con cui vorresti parlare in questo momento. Ma, vedi… - si raddrizzò con le spalle, abbassò la mano che aveva tenuto premuta sotto il naso fino a quel momento e assunse un’aria di vago compiacimento - … ho parlato con il nuovo Arcangelo Supremo, qualche ora fa, e penso potrebbe interessarti sapere cosa ci siamo detti.»

Una delle foglie dell’Anthurium tremò impercettibilmente. Shax la osservò con la coda dell’occhio, sorridendo.

«Mi ha stupita, sentire la sua voce…» continuò, voltandosi e sfiorando con un dito uno dei bordi della scrivania. Sentì la polvere aprirsi sotto il polpastrello, docile, e premette con ancor maggior forza come stava per fare con le parole. «Ha fatto carriera, alla fine. Chi lo avrebbe detto. Ma, d’altra parte, non avrei nemmeno mai detto che fosse il tuo tipo.» 1)

Questa volta fu il fusto della pianta a muoversi. Si piegò da un lato, scuotendo tutta la chioma. Un’ombra scura si allungò alle spalle della donna, elevandosi sul muro prima esile e poi sempre più simile a una figura umana.

Lei, sentendo l’aria spostarsi dietro di sé, accennò un sorriso soddisfatto.

«Fanno sempre così, alla fine, non è vero? Gli Angeli, dico. Ti circuiscono per portarti a fare quello che vogliono e poi… puff!, se ne tornano dal Grande Capo senza voltarsi indietro. E dire che dovremmo essere noi, gli infidi

«Piantala.» La voce di Crowley, bassa e cavernosa, riempì l’aria. Non usava le corde vocali da tempo, e la parola gli scivolò tra le labbra pesante e ruvida come una pietra coperta di rena.

«Di far cosa? Sappiamo entrambi che è la verità.» Shax si voltò lentamente, posando gli occhi in quelli dell’altro.

Il viso del demone, nella penombra della stanza, le apparve più livido e scavato di quanto non fosse mai stato. Gli occhi erano cerchiati da un profondo alone scuro e grigiastro, e i capelli - adesso di un rosso pallido 2) - gli sfioravano le spalle in ciocche disordinate.

«Cosa vuoi?» soffiò lui, alcune scaglie nerastre ancora visibili sulle guance.

«Raccontarti il Grande Piano dei nostri amici per il futuro del Mondo» rispose lei, con voce melliflua.

«Non mi interessa» ringhiò l’altro, muovendo qualche passo incerto verso la scrivania seguito dallo sguardo attento di lei. Non usava le gambe da più di un anno, ed ebbe la spiacevole sensazione che le rotule non riuscissero a trovare il giusto verso nel quale muoversi. «Esci da casa mia.» Si lasciò andare con un tonfo sulla sedia, indicandole la porta con uno sbrigativo movimento della mano.

«Davvero non vuoi sapere cosa mi abbia detto Aziraphale?» Ribatté Shax, socchiudendo gli occhi e increspando le labbra in un mezzo sorriso.

Crowley sentì il nome dell’angelo colpirlo in pieno petto, come se l’altra lo avesse scagliato contro di lui con tutta la forza possibile. Percepì il respiro mozzarsi, e i muscoli dell’addome contrarsi fino a rigirargli lo stomaco.

Inutile.

Era stato del tutto inutile. Mesi e mesi chiuso su se stesso, così lontano da tutto da apparire quasi privo di vita, e alla fine non era servito a niente.

Lui era ancora lì: Lassù. Ed era ancor di più - maledettamente - là: bloccato tra la sua gola e il suo torace.

Capace di smuovergli qualcosa, capace di renderlo reattivo. Chiuse gli occhi per qualche secondo, cercando di trattenere la rabbia che sentiva risalirgli la schiena.

«No, grazie» riuscì a dire dopo qualche secondo, trattenendo a stento l’istinto di alzarsi e portare Shax di peso fuori dall’appartamento.

«È un vero peccato…» la donna alzò le spalle, fingendosi dispiaciuta. «E dire che mi aveva fatto espressamente il tuo nome.»

Il demone spalancò gli occhi, posandoli - un misto di incredulità, collera e sordo dolore che affiorava sul volto - sull’altra. Le iridi erano divenute di un giallo talmente acceso da apparire quasi luminose.

«Beh…» iniziò lei, venendo interrotta dallo squillo del telefono che Crowley teneva sulla scrivania. Entrambi si voltarono verso l’apparecchio, attoniti. Dopo qualche secondo di esitazione il demone si portò in piedi con un movimento repentino, sollevando la cornetta.

«Eh…» si sentì dire dall’altra parte, da una voce bassa e impacciata. «Che dovrei fare, esattamente, adesso? Non capisco, a che serve questa cosa…?»

Il demone lanciò il telefono a terra, con un ringhio.

«Call center?» ironizzò Shax.

Di tutta risposta l’altro affondò entrambi i pugni sulla scrivania, cercando di trattenere l’istinto di distruggere ogni cosa attorno a sé.

«Parla. E poi vattene» soffiò, sentendo i canini superiori affondargli nelle labbra. 3)

«Va bene.» La donna si mise a sedere, con un piccolo saltello, sulla scrivania. «Stanno preparando la Seconda Venuta del Messia. La Fine dei Tempi. I buoni lassù, i cattivi - tanto per fare una cosa nuova - giù da noi, bambini e credenti di altre confessioni compresi.»

Crowley si lasciò cadere all’indietro, tornando a sedere sulla propria poltrona. «Il Paradiso che vuole mettere fine alla Terra. Questa sì che è una novità» commentò, ironico. «Se sei venuta a propormi di prendere parte alla “graaande battaglia finale” la mia risposta è no, grazie.»

«In realtà ero venuta a proporti il ruolo di Granduca Infernale. Non voglio vederti sul campo di battaglia. Voglio vederti disporvi le truppe

Crowley scoppiò in una risata fragorosa, ma vuota di ogni allegria. «Ancora una volta: no, grazie.»

«Peccato.» Shax scrollò le spalle, con finta noncuranza. «E pensare che Aziraphale mi ha detto di richiamarti in un ruolo operativo, nel caso lo avessi ritenuto opportuno. Oh, beh…»

«Cosa?» sfuggì dalla bocca di Crowley. Sentì un fiotto di nausea risalirgli la gola.

Era assurdo.

Assolutamente, completamente, solamente assurdo.

Potevano essersi lasciati nel peggiore dei modi possibili, ma Aziraphale sapeva. Sapeva cosa pensava della fine della vita sulla Terra, dell’Inferno, delle Battaglie Celesti. Non poteva, semplicemente non poteva aver detto una cosa simile. Averlo richiamato in battaglia. Averlo fatto sapendo che questo li avrebbe portati probabilmente a uno scontro diretto… e definitivo.

«Non ti credo.» Scosse la testa, le labbra piegate verso il basso e un’incredibile sensazione di stanchezza improvvisamente piombata sulle spalle. «È solo uno stupido modo per…»

«Vuoi sentirlo con le tue orecchie?» ribatté lei, serena, facendo comparire un piccolo cellulare semitrasparente tra le sue dita.

Crowley socchiuse gli occhi e aggrottò la fronte, sollevando uno sguardo ferale su di lei. «Stai bluffando.»

Shax, con aria indifferente, si limitò a sfiorare in silenzio il pulsante al centro dell’apparecchio.

 

«Visto le novità di cui mi hai messo al corrente, credo sia giunto il momento che Crowley riprenda il suo posto come Duca Infernale. In realtà non escludo una promozione, per lui.»
«Crowley…»

 

La voce di Aziraphale si sparse per la stanza, più sicura e profonda di quanto Crowley non la ricordasse. Sentirgli pronunciare il suo nome con così poca cura, quasi con distacco, ebbe il potere di spezzargli il fiato. Affondò le unghie nei braccioli della poltrona, cercando di reprimere l’istinto di piegarsi in avanti.

 

«Sì.»
«…se ritieni opportuno che ti affianchi nelle vostre operazioni di controffensiva, fai pure.»
«Oh, sì. Più che opportuno.»



Shax alzò un sopracciglio, con l’espressione soddisfatta di chi aveva vinto - con fin troppa facilità - l’ultima mano di una partita di poker. «Come sai, è impossibile ricreare una voce angelica. Non potrei… com’è che hai detto? Bluffare? Non potrei bluffare nemmeno volendo.»

Sotto il suo sguardo attento, il corpo di Crowley iniziò a vibrare impercettibilmente.

Non avrebbe saputo dire se fosse rabbia, delusione, dolore, o una commistione di tutti e tre i sentimenti. Ma - si disse tra sé tornando in piedi con un piccolo saltello - una cosa era sicura: che Crowley avesse deciso di tornare tra i ranghi o meno, l’Arcangelo Supremo aveva appena perso il più prezioso degli alleati.

«Oh, beh: si è fatto tardi. Ti lascio il tempo di riflettere. Nel caso volessi tornare tra noi, sai dove trovarmi.» Dondolando sui tacchi, diede un piccolo calcio a una delle bottiglie di birra finite a terra.  Questa rotolò verso il mobile che ospitava quanto rimaneva delle piante, andando in frantumi.

«È davvero un peccato, sai? Vedere un demone tanto intelligente ridursi così per un angelo ingrato» si congedò infine, lanciando un’ultima occhiata a Crowley prima di sparire oltre la grande porta che dava sul corridoio.

Lui rimase immobile, ascoltando in lontananza il portone d’ingresso che - cigolando sui cardini - si richiudeva, facendo sprofondare nuovamente e totalmente l’intero appartamento nelle tenebre.

Un fascio di luce - uno dei pochi che coraggiosamente riuscivano a farsi largo attraverso le feritoie degli scuri che serravano le finestre, reso più intenso dai fari di un’auto di passaggio - gli colpì il viso, all’altezza degli occhi. Le iridi gialle apparvero galleggiare come boe alla deriva in una congiuntiva dai bordi arrossati e liquidi. Non avrebbe saputo dire se quelle che sentiva premere ai bordi delle palpebre fossero lacrime di rabbia o di delusione. L’unica cosa che sapeva per certo era che Shax aveva ragione: un demone non poteva, in alcun modo, assumere le sembianze - anche solo vocali - di un angelo per trarre in inganno qualcuno. Vi erano poche regole tra i Caduti, ma quelle che esistevano non erano in alcun modo aggirabili.

Aziraphale, quindi, lo aveva davvero invitato a divenire un suo avversario. E lo aveva fatto senza un solo attimo di esitazione nella voce.

Chiuse gli occhi con forza, cercando di mettere a tacere i pensieri che sentiva accavallarsi nella mente.

Uno su tutti, indomabile e affamato, non riusciva in nessun modo a soggiogare: lui ricordava Aziraphale in battaglia. Ricordava il suo sguardo affranto ogni volta che si era visto costretto a gettare al Suolo un avversario - e, probabilmente, la sua attenzione per un “nemico” lontano nella folla in subbuglio era il motivo per il quale non ricordava di aver combattuto spalla a spalla con Furfur - ma, ancor più distintamente, ricordava la sua spada. Non si era rifiutato di usarla e, anzi, più di uno dei suoi “compagni di caduta” erano precipitati proprio accompagnati dalle fiamme della sua lama.

Richiamarlo alle armi - soprattuto in un ruolo di comando - voleva dire sapere che, prima o dopo, si sarebbero trovati nella posizione di combattere l’uno contro l’altro. Significava aver messo in conto di ferire, o venir ferito, guardandosi negli occhi. Sottintendeva la consapevolezza che, nel peggiore degli scenari, uno dei due - se non entrambi - sarebbe potuto persino scomparire dal Libro della Vita per mano dell’altro.

Per un attimo gli tornò alla mente il giorno dell’Apocalisse mentre, seduto a terra, aveva visto Aziraphale alzare la spada verso di lui per spronarlo a fare qualcosa. Era stato solo un attimo, una frazione di secondo. Nel tempo degli Immortali qualcosa della durata di soffio. Ma ora, immaginandosi di nuovo in quell’istante, non riusciva a non domandarsi se Aziraphale avesse dovuto combattere il suo istinto di calare la lama. D’altra parte lo aveva detto lui stesso: loro erano i cattivi. Loro. Tutti loro: lui compreso. Nonostante secoli di amicizia. Nonostante si fossero guardati le spalle milioni di volte. Nonostante pensasse… sperasse, che non ci fosse più alcuna parte se non la quella che li vedeva assieme.

Forse Shax aveva ragione. La loro parte era esistita fin quando Aziraphale non era stato “perdonato” (persino promosso!) dalla sua. Forse aveva tollerato la compagnia di un demone solo perché essere “un angelo che finge di essere dalla parte del Paradiso finché può” si era rivelato più solitario di quanto si era creduto capace di sopportare.

E allora tutto si era ridotto a un ricatto: tornare entrambi Lassù, o diventare nemici. Tornare nemici. Perché questo erano, d’altronde: “nemici ereditari”. 4).

Un nuovo fascio di luce gli colpì gli occhi. Questa volta le iridi apparvero scure, di un giallo opaco.


Il mare era scomparso, ritirandosi tra le ciglia distese: la tempesta era passata.

Aveva fatto la sua scelta.

 


az1a



 

Note:

1) Si rifà al dialogo in auto con Aziraphale. Ma lo avevate colto, vero? <3

2) In un post letto non so più dove, si discuteva della possibilità che i capelli di Crowley divenissero man mano più rossi e “vivi” al crescere del suo amore per l’angelo e all’aumentare del tempo passato in sua compagnia. In effetti il rosso della s2 è più forte di quello della s1, e mi sembrava “carino” usare anche questo dettaglio per sottolineare che la lontananza da Aziraphale ha conseguenze anche fisiche su di lui.

3) Sono incappata su TikTok in questo video stupendo in cui, con un rimaneggiamento dei frame, nelle scene dove Crowley appare arrabbiato i suoi canini si allungano leggermente. Considerando il fatto che possa trasmutare in un serpente, e che David con quei canini era se possibile ancor più bello del solito, ho deciso di rendere la cosa canon (per me… ma fidatevi, amereste vederla in scena!)

4) Lo dice Aziraphale a Crowley nella s1, prima di invitarlo in libreria con un largo sorriso: “I am an angel. You are a demon. We’re hereditary enemies.”

 

Angolo dell’autrice:

Eccomi qua. Tra una febbre, una congiuntivite, un battesimo e una festa di compleanno (perché giustamente che fai, non incastri due ricorrenze a distanza di due settimane l’una dall’altra) e destreggiandomi tra un ordine e una commissione a lavoro, sono finalmente riuscita ad aggiornare.

Vi chiedo scusa fin da ora per l’angst. Prima o poi finirà… giuro.

Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione.

A presto,
B.

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Capitolo 11
*** Emissari ***


Azi

 




Libreria di Aziraphale - Dieci minuti prima che una telefonata interrompesse la “cordiale” chiacchierata tra due demoni in un appartamento di Mayfair

 

 

Le gambe dello sgabello - tozze, di un legno chiaro non trattato che in alcuni punti presentava delle piccole imperfezioni e qualche abbozzo - strusciarono sul pavimento con un rumore stridulo.

Muriel - china sul panchetto, intenta (non senza un certo sforzo) a spostarlo vicino ad una delle librerie - socchiuse gli occhi istintivamente, arricciando il naso in segno di fastidio.

Se c’era una cosa alla quale ancora non si era abituata, quella erano i rumori forti (o acuti, o improvvisi). In Paradiso non ve n’era traccia. Tutto era permeato da un totale, profondo, irreale silenzio. Ogni tanto qualche coro angelico improvvisava un canto tra i corridoi, ma era comunque un suono lieve, celestiale e ovattato.

La Terra, invece, era piena di rumore. Sirene, scampanellii, voci che divenivano urla e sorrisi che si tramutavano in risate squillanti e sonore. Tanto il silenzio del Paradiso l’aveva fatta sentire sola tanto il costante brusio di Soho le teneva compagnia in ogni attimo, accompagnandola ovunque come una leggera coperta sonora che amava sentire addosso. Ma c’erano dei suoni che ancora, alle sue orecchie, giungevano con una forza tale da apparirle quasi dolorosa: l’abbaiare dei cani, ad esempio. Più di una volta la tazza di tè che stringeva tra le dita - mentre, seduta comodamente in uno dei tavolini esterni del café di Nina, si accingeva a iniziare un nuovo capitolo della lettura del momento - le era sfuggita di mano, cadendo a terra all’esplodere improvviso di un latrato. Tutte tazze miracolosamente ricompostesi, naturalmente, ma le restava addosso comunque un senso di imbarazzo misto a una leggera apprensione.

C’erano poi i clacson delle auto. Non ne aveva ancora capito completamente il senso, ma le sembrava di aver colto che gli uomini li usassero come protolinguaggio: potevano indicare apprezzamento (anche se chi lo riceveva assai di rado mostrava di apprezzarlo), un saluto a una persona conosciuta o una profonda rabbia. Da quanto aveva potuto osservare presso l’incrocio in fondo alla via, molto più di frequente la terza opzione.

Infine, nella sua personale classifica dei suoni di difficile gestione, si trovavano i lamenti del mobilio in movimento. Sedie, tavoli, sgabelli dalle gambe tozze. Il loro aggrapparsi al pavimento, quasi a voler contrastare in tutti i modi la volontà di chi li stava spostando, generava in lei un istinto primordiale di coprirsi le orecchie con le mani. E, i primi tempi, lo aveva fatto: si era fisicamente portata le mani alla testa, premendo i palmi contro i lobi. Il problema principale presentava - almeno nei primissimi giorni sulla Terra - quando a produrre quel fastidioso stridio era un avventore del bar. Ancora una volta il suo soggiorno presso Nina e Maggie si concludeva, in quei casi, con un piccolo miracolo di riparazione e tante (tantissime) scuse verso di loro.

Si era però imposta di vivere quasi totalmente senza utilizzare i suoi poteri, in modo da confondersi il più possibile - cosa che erroneamente riteneva di essere ormai capace di fare completamente e senza alcuno sforzo - con gli esseri umani: se era stata un credibilissimo agente ufficiale londinese, d’altra parte, era in larga parte merito del suo non aver mostrato mai, in nessun frangente, il più minimo cenno di “celestialità”.

E quindi anche quel giorno, invece di schioccare le dita e farsi semplicemente atterrare tra le mani il libro che stava cercando, aveva preso il panchetto e lo stava trascinando - con il massimo disappunto dei suoi timpani - in prossimità della libreria che ospitava il volume.

Gli occhi ancora socchiusi, prese un respiro profondo e si obbligò a percorrere la piccola distanza che la separava dall’approdo con con un unico, coraggioso, movimento. L’eco delle gambe dello sgabello che si aggrappavano alle assi del pavimento rimbombò per la libreria deserta, amplificandosi e scomponendosi.

Muriel, una volta posizionatolo dove si era prefissata, si risollevò con un’espressione soddisfatta, pulendosi le mani facendole sbattere tra loro e, infine, portandosele ai fianchi con aria compiaciuta.

Aveva, nei mesi, letto praticamente ogni volume custodito da Aziraphale. Ne rimanevano giusto una manciata, posti negli scaffali più in alto e quasi inaccessibili. Quello a cui stava puntando quel giorno era “Fridolins heimliche Ehe”, romanzo di Adolf Wilbrandt di tardo 1800.1)

L’angelo - per un motivo che non riusciva a comprendere - lo aveva ubicato non solo nel ripiano più elevato della libreria più nascosta (quella di fianco alla porta del proprio studio privato), ma anche dietro a un altro volume.

Se ne era accorta un pomeriggio, spolverando. Colpito mortalmente dalla punta del piumino, il libro davanti a lui era caduto, svelando il suo segreto. Muriel, a quel punto, aveva provato a prenderlo: prima aiutandosi con la stessa estremità che aveva inferto il mortal fendente al suo custode - per tentare di avvicinarlo - e, poi, con la punta delle dita. Era stato del tutto inutile. Il libro sembrava incollato al suo scaffale, e non si era mosso di un solo millimetro. Mentre rifletteva ancora sul da farsi era entrato un “acquirente” (il numero centoventinove), distraendola. Quando se n’era andato (anche lui a mani vuote), il volume era ormai scomparso dalla sua memoria. E così era stato fino a quel giorno quando - nuovamente intenta a pulire - lo aveva trovato ancora lì, a osservarla con una certa aria di superbia dall’alto della sua postazione.

Salì con un leggero sbuffo sullo sgabello e si mise in punta di piedi, cercando di raggiungere con i polpastrelli la parte superiore della costa del romanzo. Appena le sembrò che la presa fosse sufficientemente salda, provò a farlo inclinare tirando con tutta la forza possibile in una posizione scomoda come quella. Il volume non si mosse, quasi facesse parte della struttura stessa della libreria.

Cercò di spingersi con il corpo un po’ di avanti, in modo da riuscire a far scorrere le dita più in profondità e avere una presa maggiore.

Ancora una volta, premette i polpastrelli e tentò di portarlo a sé. Nulla. Arricciò il naso, in un buffo e vagamente infantile segno di fastidio. Si spostò ancora più avanti, portando il corpo quasi del tutto aderente alla libreria. Stirò il braccio più possibile, afferrando la porzione di quarta di copertina che sbordava oltre i fogli interni. A quel punto, preso un respiro profondo, tirò con tutta la forza che aveva, sbilanciandosi all’indietro.

Sentì le dita scivolare inesorabilmente lungo il tessuto della copertina, prive di qualsivoglia presa su di essa. Ancora prima di rendersene realmente conto, tutta la forza che aveva profuso in quel movimento le si ripercosse contro, sbalzandola all’indietro. Percepì il proprio corpo sbilanciarsi, perdendo aderenza con la libreria e il panchetto.

Pochi attimi ed era a terra, dove scivolò per qualche metro prima di andare a sbattere con la schiena contro la scrivania di Aziraphale.

Il telefono fisso su di essa ebbe un sussulto, facendo sollevare la cornetta che ricadde sul ripiano.

Ancora con gli occhi chiusi a seguito della caduta, Muriel sentì una voce metallica e leggermente ovattata dire: “sto chiamando il numero in rubrica selezionato: Anthony J. Crowley”.  Poi, dei segnali acustici gracchianti e cadenzati.

Ancora dolorante si portò in piedi, sfiorando dubbiosa la fonte di quei suoni. Toccò la cornetta un paio di volte prima di sollevarla, tenendola davanti a sé quasi fosse uno specchio da borsetta.

«Eh…» si lasciò sfuggire, inclinando la testa da un lato «Che dovrei fare, esattamente, adesso? Non capisco, a che serve questa cosa…?»

Per sua gioia, i suoni si erano interrotti. Ma, pochi attimi dopo, ne arrivò uno talmente forte e fragoroso che ebbe un sussulto. La cornetta le cadde di mano, finendo nuovamente sulla scrivania.

Stava ancora decidendo cosa fare quando l’eco di due voci lontane la raggiunse attraverso i fori dell’apparecchio.




«Parla. E poi vattene»

«Va bene. Stanno preparando la Seconda Venuta del Messia. La Fine dei Tempi. I buoni lassù, i cattivi - tanto per fare una cosa nuova - giù da noi, bambini e credenti di altre confessioni compresi.»

«Il Paradiso che vuole mettere fine alla Terra. Questa sì che è una novità. Se sei venuta a propormi di prendere parte alla “graaande battaglia finale” la mia risposta è no, grazie.»

«In realtà ero venuta a proporti il ruolo di Granduca Infernale. Non voglio vederti sul campo di battaglia. Voglio vederti disporvi le truppe.»

«Ancora una volta: no, grazie.»

«Peccato. E pensare che Aziraphale mi ha detto di richiamarti in un ruolo operativo, nel caso lo avessi ritenuto opportuno. Oh, beh…»

«Cosa?»

«Non ti credo. È solo uno stupido modo per…»

«Vuoi sentirlo con le tue orecchie?»

 

Le parole successive le arrivarono lontane, leggermente sbavate, come se avessero attorno un alone che le rendeva più polverose e metalliche.


«Visto le novità di cui mi hai messo al corrente, credo sia giunto il momento che Crowley riprenda il suo posto come Duca Infernale. In realtà non escludo una promozione, per lui.»

«Crowley…»

«Sì.»

«…se ritieni opportuno che ti affianchi nelle vostre operazioni di controffensiva, fai pure.»

«Oh, sì. Più che opportuno.»

«Come sai, è impossibile ricreare una voce angelica. Non potrei… com’è che hai detto? Bluffare? Non potrei bluffare nemmeno volendo. Oh, beh: si è fatto tardi. Ti lascio il tempo di riflettere. Nel caso volessi tornare tra noi, sai dove trovarmi. È davvero un peccato, sai? Vedere un demone tanto intelligente ridursi così per un angelo ingrato.»

 

 

Il silenzio che, dal quel momento, si era sparso per la stanza le sembrò un’eco fedele del vuoto che sentiva allargarsi nel petto. Aveva riconosciuto la prima voce. Le era sembrata più spenta, monocorde, incolore di quanto la ricordasse ma - senza ombra di dubbio alcuna - era la voce di Crowley.

La seconda, invece, non le appariva familiare ma nemmeno del tutto sconosciuta. Era come se accendesse in lei la scintilla di un ricordo, senza però permetterle di arrivare a ricostruire di quale memoria si trattasse.

E poi… beh. Poi c’era lui. Aziraphale. Era assolutamente certa - nonostante le interferenze - che la voce femminile dall’altro capo della cornetta non avesse mentito: aveva davvero fatto il nome di Crowley. E lo aveva davvero richiamato in battaglia.

Non appena quella parola le attraversò la mente si irrigidì, sollevandosi di scatto.

La battaglia!

Sentì il panico deflagrare in mezzo allo sterno, allargandosi di colpo fino a gola, braccia e gambe. Le ginocchia si piegarono, incapaci di sorreggerla come avevano sempre fatto.

Oltre la finestra, un paio di bambini - Sam e Lisa, i figli della simpatica coppia asiatica che viveva al secondo piano del palazzo di fronte - passarono rincorrendosi, lanciando piccole grida di gioia.

Muriel sentì il pavimento divenire di gomma, e flettersi sotto il suo peso.

La Fine dei Tempi. I buoni lassù, i cattivi - tanto per fare una cosa nuova - giù da noi, bambini e credenti di altre confessioni compresi.

Non riusciva a capire. Aziraphale amava la Terra. Lui stesso aveva sventato l’Armageddon, assieme a Crowley.

Perché mai, adesso, avrebbe dovuto pianificarne la distruzione con così tanta calma nella voce? Perché mai avrebbe dovuto coinvolgere l’altro in tutto questo?

Il demone lo amava! E doveva saperlo anche Aziraphale, perché il bacio che si erano scambiati lo rendeva - come avevano spiegato Nina e Maggie - palese. Forse non ricambiava i sentimenti di Crowley, ma era evidente che tenesse a lui. Perché, perché trascinarlo su un campo di battaglia dal quale rischiavano di doversi fronteggiare in modo diretto?

Lei la ricordava bene, la Grande Guerra. Aveva dovuto segnare, uno ad uno, tutti gli angeli caduti all’interno dei registri degli Indesiderabili e Imperdonabili.

E, per farlo, spesso si era vista costretta a verificare direttamente l’effettiva caduta di chi riportava all’interno degli elenchi.

Alcuni erano felici, ebbri di furore e cattiveria. Altri - la quasi totalità ad essere sinceri - aveva il volto, sporco e incrostato di sangue e terra, segnato da un’espressione di terrore che l’aveva perseguitata per secoli.

Si portò istintivamente le mani al petto, una sopra l’altra, quasi cercasse di proteggere se stessa dalla sola idea di una nuova battaglia. Guardò nuovamente oltre i vetri limpidi della libreria, immaginando i palazzi dall’altro lato della strada prendere fuoco e piegarsi su loro stessi uno ad uno, vittime innocenti di imperscrutabili scelte divine che li volevano immolati alle fiamme e all’oblio come la maggior parte dei loro occupanti.

Le sembrò quasi di riuscire a vederli, gli eserciti in battaglia. Il Cielo per avere ogni cosa, l’Inferno per non perdere il poco che deteneva. E, tra di loro, esseri umani atterriti il cui dominio (o salvezza) a nessuno dei due interessavano davvero.

Si scosse con un gemito, scuotendo la testa.

No. Non stava a lei giudicare l’operato di Dio. Il suo piano era, semplicemente… ineffabile.

Inoltre le era stato insegnato a non fare domande. Mai. Le domande portavano solo guai: richiami, ramanzine, scherni. Alle volte, se molto complesse e molto… sensate, beh, persino la Caduta.

Con le mani che tremavano e le braccia che sembravano improvvisamente essere divenute di pietra rimise a posto la cornetta, dandole un leggero colpetto per assicurarsi che fosse ben salda. Trattenne il fiato per qualche secondo, aspettando che qualche emissario del Paradiso o dell’Inferno comparisse alle sue spalle per chiederle conto dei suoi pensieri impuri (per sgridarla, nel primo caso, o complimentarsi vivamente nel secondo).

Ma non accadde nulla.

Alzò uno sguardo colpevole verso le finestre: la vita, oltre i muri della libreria, continuava a scorrere come se nulla fosse. Vide Nina portare il caffè a un avventore, chinandosi a dare un piccolo bacio a Maggie che - poco distante - stava sgombrando un tavolino appena liberatosi.

Sam e Lisa passarono nuovamente davanti ai vetri, questa volta fermandosi - le guance arrossate e i petti che si alzavano e abbassavano veloci al ritmo dei loro respiri affannosi - per rivolgerle un veloce cenno di saluto prima di correre via seguiti dall’eco delle loro risate cristalline e ansanti.

Si portò le mani al petto, chiudendole l’una sull’altra in segno di protezione. Lanciò un’occhiata ai vecchi volumi di Aziraphale, che sembravano improvvisamente - proprio loro che le erano parsi un’incredibile e inesauribile pozzo di risposte - vuoti, inutili.

Non riusciva a capire cosa dovesse fare. Cosa fosse giusto fare. Cosa fosse chiamata a fare.

Il suo ruolo…

«Il mio ruolo…» ripeté, spalancando gli occhi.

Ma certo! La sua importantissima, fondamentale, imprescindibile funzione, assegnatele da Metatron in persona. Lei era una degli emissari del Paradiso in Terra. E, come tale, era suo dovere informarsi in relazione a un prossimo conflitto celeste da compiersi anche nelle terre sotto la sua diretta custodia.

Annuì con forza più volte, in modo sempre più convinto, quasi farlo la aiutasse a sedimentare quel pensiero e renderlo concreto.

“Sì”, si ripete, abbassando le mani e dando un piccolo colpetto a terra con il piede sinistro. “Sì. Lei era Muriel, angelo lasciato a custodia di Soho. Lei era l’Essere preposto al controllo che tutti gli avvenimenti celesti nel West End di Londra si svolgessero come previsto dal Grande Piano. Lei, in quanto tale, era nel pieno diritto di parlare con l’Arcangelo Supremo”.


E, continuando a ripetersi queste parole nella mente per cercare di contrastare l’istinto di fuga che sentiva appesantirle le gambe, uscì - carica di ansia, dubbi e solo un filo di flebile speranza - dalla libreria, diretta all’Ascensore.

 

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Note:

1) Fridolins heimliche Ehe (Il matrimonio segreto di Fridolin, 1875) è il primo romanzo gay in lingua tedesca a lieto fine; vi sono inserite molte delle teorie di Karl Heinrich Ulrichs (considerato un pioniere del primo movimento omosessuale).

 

Angolo dell’Autrice:
 

Non saprei nemmeno da che parte cominciare, per chiedere scusa per questo lungo periodo di assenza.

Se vi raccontassi cosa sta succedendo nella mia vita, probabilmente mi suggerireste una benedizione (per rimanere in tema XD), di cercare qualcuno che tolga il malocchio o - più probabilmente - entrambe le opzioni e probabilmente insieme.

Non ho riletto il capitolo, quindi se doveste trovare degli errori macroscopici sentitevi liber* di farmelo notare malamente, e provvederò a sistemarli.

Almeno una cosa l’abbiamo scoperta: chi era al telefono, nello scorso capitolo.

Come sempre, grazie a chiunque abbia letto, inserito la storia in una qualche categoria e/o dedicato un po’ di tempo a lasciare una recensione.

A presto,
B.

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