Il confine dell'umano

di Glenda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il messaggio e il messaggero ***
Capitolo 2: *** Installare confini ***
Capitolo 3: *** Abbastanza ***
Capitolo 4: *** Insicurezza del cuore ***
Capitolo 5: *** Il Valico del Vento ***
Capitolo 6: *** Tenere i pensieri qui ***
Capitolo 7: *** Il Deserto di Vetro ***
Capitolo 8: *** Capelli rossi ***
Capitolo 9: *** Il diritto di essere aiutati ***
Capitolo 10: *** La carovana dei folli ***
Capitolo 11: *** La ragazza maledetta ***
Capitolo 12: *** Il dovere della felicità ***
Capitolo 13: *** Iruvàn ***
Capitolo 14: *** Quelli da lasciare indietro ***
Capitolo 15: *** La Persuasione dell'Aria ***
Capitolo 16: *** Il tuo nome ***
Capitolo 17: *** Heze ***
Capitolo 18: *** Il segreto di Luxei ***
Capitolo 19: *** Di tradizioni e modi di dire ***
Capitolo 20: *** Il Persuasore anarchico ***
Capitolo 21: *** Il giorno dei dubbi ***
Capitolo 22: *** L'interrogatorio ***



Capitolo 1
*** Il messaggio e il messaggero ***


Heze aveva imparato ad apprezzare negli anni l’efficacia delle frasi fatte: erano utilissime quando la situazione era complessa, o imbarazzante, o, come in quel caso, la più eccezionale di tutte quelle che avrebbe vissuto mai.

“Sono Heze, del servizio postale. È un piacere incontrarvi.”

La bellezza delle formule stava nell’essere comprensibili a tutti, accessibili a tutti, a prescindere dalla cultura, dall’età e dalla classe sociale.

Chi era l’imbecille che aveva detto che la formalità amplificava le distanze?

Al contrario, la formalità era democratica: codificava anche la stranezza e serviva a rendere gli esseri umani capaci di interagire l’uno con l’altro.

Allora perché il suo interlocutore non sapeva che, di fronte ad un “Io sono tizio” si risponde “Ed-io-sono-caio-il-piacere-è-mio?”.

Invece lo aveva guardato a lungo, esitando a stringere la mano che lui gli aveva teso. Poi aveva detto: “Del mio nome puoi fare a meno.”

Ma forse non lo aveva detto, forse lo aveva domandato: parlava con una voce bassa, vagamente dolce ma lontana… Il punto interrogativo c’era o non c’era? Chiederglielo non sarebbe stato formale nemmeno un po’, ma anche ignorare la domanda – se lo era – non gli avrebbe fatto fare una buona figura.

Fu l’altro a sciogliere lo stallo.

“Scusami.” chiosò.

Di cosa?

Quell’uomo era strano – se strano era la parola giusta – ma avrebbe dovuto prevederlo. I maghi dovevano mettere soggezione, faceva parte del ruolo! Heze aveva avuto a che fare con loro solo per aver consegnato alcuni messaggi: del resto si poteva tranquillamente affermare che la stazione di posta di Villanuova - o forse Villanuova stessa - esistesse perché era il luogo più vicino all’enclave… Ma era la prima volta che si trovava a parlare con uno di loro a tu per tu, e, a dirla tutta, si sentiva anche piuttosto fiero di sé per il fatto di essersi presentato all’incontro con la chiara intenzione di accettare il lavoro che gli sarebbe stato offerto, per quanto il contenuto dell’incarico gli fosse stato illustrato con grande avarizia di dettagli.

Nel luogo in cui era cresciuto, la parola “magia” veniva pronunciata con una specie di reverenziale reticenza, che in realtà nascondeva solo paura: paura per qualcosa che appariva potente e incomprensibile, sì, ma soprattutto paura dell’autorità, il che era tutto sommato naturale in una terra isolata che percepiva l’ordine costituito come una forza punitiva. Ma Heze aveva viaggiato parecchio e pensava di aver sviluppato un punto di vista più obiettivo: certo, la magia non era qualcosa di cui si poteva serenamente discorrere a colazione, ma i maghi erano comunque esseri umani, con cui ogni tanto qualcuno scambiava persino due chiacchiere o che, guarda un po’, ti offrivano un ingaggio pagato troppo bene per rifiutarlo.

“Mi hanno detto che avete bisogno di effettuare una consegna nella capitale tagliando attraverso i Monti di Vetro. È corretto?”

“Corretto, se non esiste una via più breve.”

“Nessuna, a meno che voi” scherzò “con conosciate un modo per volare sopra la Frattura, signore.”

Lui sollevò le sopracciglia come se quella battuta fosse degna di essere soppesata.

“Purtroppo non rientra nelle mie arti.”

Miseria, lo aveva detto sul serio? Un premio al senso dell’ironia!

“Hai già fatto quel percorso altre volte?” si informò.

“Diverse, ma in altri momenti dell’anno.”

“Puoi fare una previsione sulla durata?”

“Nell’ipotesi migliore, ci metto ventiquattro, venticinque giorni col tempo buono, servendomi del trasporto fluviale nell’ultimo tratto. Ma partendo adesso ci vorrà di più, perché se piove – ed è difficile che non accada in questa stagione – alcuni sentieri non sono praticabili, la luce cala presto ed io non viaggio di notte. Vi direi un mese circa, ma gli intoppi vanno preventivati: i Monti di Vetro non sono un luogo accogliente per mille ragioni.”

L’interlocutore si stropicciò la fronte con le dita.

“Ce lo faremo andare bene.” commentò, rivolto più che altro a se stesso “Puoi essere pronto a partire subito?”

“Dipende da ciò che devo consegnare. Lettere, nessun problema. Pacchi pesanti, materiale ingombrante, oggetti fragili, mi devo attrezzare.”

“Non devi consegnare niente: ho bisogno che tu mi faccia da guida. Devo andare a Feuzte ed ho tutta l’urgenza del mondo.”

Lo disse con una pacatezza che offendeva la parola «urgenza».

“Scherzate?”

No, non aveva la faccia di uno che scherzava, anzi, guardandolo con attenzione aveva l’aria di qualcuno che non si sentiva molto bene. Continuava a massaggiarsi le tempie e a strizzare gli occhi come se quella mezza luce già crepuscolare gli desse fastidio.

“Signore, io non so cosa vi abbiano detto di me, ma non sono in grado di prendermi in carico la sicurezza di una persona. Lavoro per il servizio postale: porto solo messaggi… ”

“Lo so. Ma in questo caso, sono io il messaggio. Le informazioni che devo trasmettere sono state calate nella mia memoria profonda, e possono essere lette solo da qualcuno capace di richiamarle in superficie. Pochi, oltre l’effettivo destinatario, ne sarebbero in grado. È un sistema di sicurezza che funziona bene, ma comporta che il messaggero incontri il ricevente di persona.”

Heze sentì un brivido percorrergli le spalle. Avere a che fare con un mago per trattare di lavoro era un discorso, accompagnarlo in viaggio per consegnare un messaggio segreto era un altro: quanto al sentir parlare esplicitamente di incantesimi...beh! E tuttavia la naturalezza con cui quell’uomo descriveva cose che per la gente comune erano arcane e spaventose come se potessero essere banalmente spiegate era intrigante. Anche troppo.

“Perché è stato necessario ricorrere a questo sistema?” azzardò a chiedere “Le informazioni che portate sono pericolose? Ci sono rischi di cui devo essere messo al corrente?”

“Non lo posso escludere,” rispose candidamente lui “ma mi assumo la responsabilità che non coinvolgano te.”

“Siete un po’ troppo vago per essere rassicurante. Spesso la serenità si accompagna alla chiarezza.”

Il mago si soffermò su quella frase con sincero interesse, poi scosse appena il capo e disse: “Io amo essere chiaro, e cercherò di esserlo sempre più che posso, ma al momento sono le circostanze a costringermi alla vaghezza. Come ho detto, non conosco il contenuto del messaggio, dunque non posso sapere a chi potrebbe essere scomodo che arrivi o meno a destinazione. Però posso garantirti che io sono in grado di prendermi in carico la sicurezza di una persona: sono Persuasore di Confini.”

Lo sguardo di Heze fu eloquente come un grosso punto interrogativo.

“Pratico l’arte della protezione.” parafrasò l’interlocutore “Ma non mi è sufficiente ad attraversare i Monti di Vetro. Quell’insieme di conoscenze e capacità che tu chiami «magia» può fare ottime cose e, d’altro canto, non può farne un sacco di altre. Chiunque pensi il contrario è un cretino.”

Quella sentenza così prosaica strappò a Heze una risata.

“Avete mai viaggiato?” domandò, riportando improvvisamente la conversazione sul proprio terreno.

L’uomo si strinse nelle spalle in un gesto di timido diniego ed Heze emise un teatrale sospiro.

“Dunque. Una volta raggiunta la pianura, il tragitto è semplice perché segue il corso della Baorva: da Baodzega possiamo fare l’ultimo tratto via fiume. Anche la valle del Lungo è agevole, ma i Monti di Vetro, signore, oltre una certa quota mettono a dura prova anche i viaggiatori esperti, il Valico del Vento è un luogo ostile ed io non sono un soccorritore montano. Pensateci bene. Poi aggiungete almeno una settimana alla mia previsione.”

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Capitolo 2
*** Installare confini ***


Maledetto mal di testa.

Quanto ancora sarebbe durato? Luxei avrebbe dovuto avvertirlo. Ma forse la colpa era sua, forse era solo auto-suggestione. Se avesse avuto il tempo e la calma per lavorarci sopra, magari sarebbe riuscito a mandarlo via, ma il tempo era improvvisamente diventato la sua risorsa più scarsa. E pensare che ne aveva perso il senso, negli ultimi anni; a volte aveva smarrito il nome dei giorni e dei mesi, confuso le albe coi tramonti: la sua esistenza era diventata un lunghissimo presente in cui la sua mente aveva potuto vagare e distendersi.

Era stato lontano dalla vita degli altri, aveva fatto dell’enclave il suo rifugio, dei suoi compersi i suoi soli contatti sociali, di Luxei l’unica relazione che potesse definirsi tale. Ma non era del tutto vero che non aveva mai viaggiato: aveva percorso quella stessa distanza in senso contrario, una volta nella vita, anche se passando per la altre vie, anche se non ricordava quanto tempo prima, né se era estate, inverno o, come allora, primavera che tarda a iniziare.

Maledetto mal di testa.

E la colpa era sua, certo che era sua, perché gli era stata fatta una richiesta difficile, e lui ci si era perso dentro.

Il compito che ti sto affidando è molto importante.”

Ed io prometto che lo eseguirò bene, come ho sempre fatto per tutto ciò che mi è stato chiesto.”

Luxei si era adombrato e il peso degli anni sul suo volto era diventato sfacciatamente evidente.

Non desidero che tu obbedisca ad un ordine. Desidero che ti fidi di me.”

Lasciare che tu scriva nella mia memoria mi pare un atto di fiducia abbastanza significativo.”

Yèlveran,” Luxei era il solo che pronunciava il suo nome in un modo che gli fosse piacevole “a volte mi sembri confondere ciò che vuoi con ciò che è inesorabile che avvenga. Sono stato tuo maestro e tu mi stimi dunque trovi ragionevole che le cose vadano come io penso debbano andare, ma la fiducia non è qualcosa che ci cade addosso, è una scelta.” aveva scrollato lentamente la testa “Tu ti comporti sempre come chi di scelte non ne ha.”

Mi sono solo sforzato di rendere tutte le scelte più simili possibile tra loro. Più i pesi sono distribuiti in modo equo, più io ho controllo su di me, non è questo che mi hai insegnato?”

Sì.” ma c’era poca sicurezza in quel monosillabo “E non intendo confondere la distribuzione dei tuoi pesi. Mi fido io di te abbastanza per entrambi.”

Maledetto mal di testa.

“Signore, state bene?”

La voce di Heze lo riportò al presente, un presente vivido e misurabile: mattina, alba, primavera, profumo di erba, aria ferma e umida. Che fatica riabituarsi al tempo!

Erano partiti che era ancora buio, a piedi, come due fuggiaschi nella notte: meno persone fossero state coinvolte in quella faccenda, meglio era.

“Sto bene. Sono solo un po’ confuso. È a causa della Persuasione dei Ricordi. Se non tengo il passo, sgridami.”

“Scherzate? Dove sono nato io, si dice che chi manca di rispetto a un mago muore in trentatré ore.”

“Mm…” Yèlveran prese un respiro, inseguendo un pensiero “Perché proprio trentatré? Perché non ventiquattro, o quarantotto…?”

Heze rise: rideva con una tale facilità che sembrava davvero che la vita lo divertisse. Faceva una bella impressione: giovane, vent’anni circa, un paio di occhi scuri e allungati e una testa prepotentemente rossa, che quel mattino sembrava irridere al grigiore scialbo del cielo appannato. Di etnia eshkarti, a giudicare dai tratti del viso: la sospettosa e brutale gente dell’Altopiano, gli uomini con la pelle dorata dal sole ed il cuore posseduto dalla notte. Ma quel ragazzo non sembrava proprio rispecchiare lo stereotipo: schietto e affabile, si muoveva nel mondo come se fosse un posto amichevole e esprimeva una accattivante confidenza coi propri panni e bagagli, con le proprie parole, con il proprio corpo… con la Realtà, gli sarebbe venuto da dire. Non aveva idea del perché Luxei si fosse rivolto proprio a lui per quell’incarico, ma sapeva che nel proprio lavoro era molto apprezzato.

“Trentatré perché è considerato il numero della sventura.” stava intanto spiegando lui, mentre rallentava il passo per accordarlo al suo “A Exneirva c’è un’intera tradizione legata all’evitare (o all’occorrenza all’affibbiare ad altri) la sventura. Sui metodi per procacciarsi la fortuna, anche: ma meno fornita. Sarà che troviamo sempre più divertente augurare il male piuttosto che il bene… o temiamo di più che ci capiti il male, anziché che non ci capiti mai il bene.”

La prima frase era di un sarcasmo semplice, ma la seconda aveva una sottigliezza diversa. Yèlveran ripensò agli anni del suo addestramento, a quanto la concentrazione sull’evitamento delle emozioni negative lo avesse desensibilizzato a tutto il resto. Eppure altre scelte non ce n’erano: Luxei non aveva diritto di svegliarsi un mattino e affermare il contrario.

“Credo di poter capire…” disse.

“Io invece proprio no.” affermò Heze voltandosi a guardalo in viso e camminando per alcuni passi all’indietro “Preferisco avere abbondanza di buona e cattiva sorte piuttosto che niente d’entrambe.”

“Allora mi auguro che in questo viaggio non verrai accontentato.”

Il ragazzo scoppiò di nuovo in una fresca risata.

“Questa era buona!” esclamò facendo un gesto d’approvazione con le dita.

Ma il suo umorismo, se così era stato percepito, non era stato intenzionale. Lui non si sentiva affatto pronto ad affrontare dei pericoli, o forse questo non era esatto, si sentiva in grado di sopportare delle fatiche, di trovarsi di fronte ostacoli ambientali, persino di gestire la paura… ciò che non era pronto ad affrontare un pericolo che avesse forma umana. Peccato che la voce dentro di sé, che avrebbe tanto desiderato non ascoltare, gli diceva che Luxei lo aveva scelto anche per questo, perché era certo che, messo alle strette, sarebbe stato capace di difendere sia se stesso che il suo accompagnatore. Ma non era vero. Quello che lui sapeva fare non era difendere: difendere era una parola solida, una parola sotto controllo. I Confini difendevano, lui no.

Alle loro spalle, la torre dell’enclave, con le sue caratteristiche punte asimmetriche, non si vedeva già più, e Yèlveran pensò che non si era mai così allontanato tanto da «casa»: cercò di definire quale sentimento si accompagnasse a quel pensiero, ma non riuscì a dargli un nome, così lo lasciò scivolare via.

Tu confondi ciò che vuoi con ciò che è inesorabile che avvenga.

Maledetto mal di testa.

Il sentiero curvava oltre le colline per giungere fino alla strada lastricata che portava a Villanuova. Heze aveva progettato di farsi caricare da un carro e procedere su ruote per un pezzo, finché non fossero stati abbastanza vicini ai Monti di Vetro. Da lì avrebbero abbandonato la via principale e tagliato verso il Valico del Vento.

“Perdonatemi se mi faccio i fatti vostri, ma perché nessun mago mette mai piede al paese? È l’unico posto vivo in un mare di desolazione!”

“Forse dovresti chiedermi perché l’enclave è stata costruita in quel mare di desolazione.”

“Immaginavo per segretezza. I maghi devono custodire i propri misteri!” e incupì comicamente il tono sull’ultima frase allungando le vocali a mo’ di caricatura. Yèlveran pensò che sì, forse qualcuno dei suoi compersi si sarebbe offeso, pur non potendolo uccidere in trentatré ore…

“La segretezza è importante per molte ragioni” disse “politiche, più che legate alle arti in senso stretto, ma non nel caso in questione. Questa enclave è un luogo di apprendimento, e per apprendere una Persuasione è necessario un certo grado di distacco da… dal ritmo della vita, se devo parafrasare un concetto intraducibile. L’apprendimento è una specie di conversazione rigorosamente a due: il Persuasore e la sua mente, senza intrusi. E la mente umana è piena di intrusi, spesso ce ne sono più di quanti ce ne potrebbero entrare… figuriamoci se a questo salotto sovraffollato aggiungi pure le persone, con le loro beghe, le loro complicazioni, le loro pretese e tutto il resto!”

“Ho capito. Quindi fare il mago è una scelta di solitudine?”

Quel ragazzetto faceva domande semplici che tuttavia sembravano nascondere sempre una qualche provocazione. Ma lui aveva imparato a ignorare i non detti: preferiva rimanere al livello basilare della conversazione, che non era affatto il meno importante, anzi, a volte veniva trascurato per cercare di cogliere altro. Che non sempre c’era.

“Questo no. E non è neppure vero che nessuno di noi sia mai venuto in paese, anche se non è frequente. Anzi, i Persuasori hanno un ruolo prevalentemente sociale: molti sono consultati in questioni di governo, consigliano figure di potere e conducono una vita decisamente meno ritirata di quella che fino ad oggi ho condotto io. I più esperti affiancano il Consiglio dei Nove. Anche durante il periodo di apprendimento è comune spostarsi parecchio: per allargare il proprio campo di studi è necessario visitare più enclavi e incontrare maestri diversi. Il numero di Persuasioni praticate è discriminante per chi aspira a ruoli di prestigio.”

“E quante ne praticate voi?”

“Una.”

“E a voi la solitudine piace?”

“Che mi piaccia non è esatto. Mi piacciono gli effetti che produce.”

“Ad esempio?”

Yèlveran rifletté ed incappò di nuovo in un vuoto di parole.

“Scusami, così su due piedi non ho il linguaggio per rendere l’idea.”

“Vi sto facendo troppe domande?”

“No. Ogni domanda ha diritto ad una risposta, e se ce ne fossero alcune a cui la risposta è inopportuna, ti dirò francamente che non posso dartela. Come ti ho detto ieri, apprezzo molto che mi si chieda chiarezza: il cercare di essere chiaro per gli altri chiarifica me, e poiché non sono un buon conversatore le domande mi sono d’aiuto.”

Heze sorrise con dolcezza.

“Dovete avere una concezione un po’ alta di buon conversatore!”

 

Il carro li lasciò al limitare di un sentiero che saliva verso la montagna, mentre la strada che avevano percorso scollinava e tornava a scendere per ricollegarsi con la via per Godeu, quella che arginava la catena montuosa e che Heze di solito percorreva per raggiungere i centri abitati della valle del Lungo. Raramente gli era stato chiesto di andare fino alla capitale: in genere la corrispondenza che doveva oltrepassare l’ala occidentale dei Monti di Vetro veniva consegnata alla stazione di posta di Ponte al Lungo, che la riassegnava ad altri. Il Valico del Vento non faceva parte dei normali percorsi dei messaggeri, ma veniva usato per particolari urgenze, o, talvolta, per il trasporto di carichi preziosi per cui il committente chiedeva la massima sicurezza: allora chiamavano lui, e non c’era molto da discutere visto e considerato che tutti i suoi colleghi perdevano ogni spirito di concorrenza di fronte a quel toponimo.

In fondo, Heze era cresciuto sull’Altopiano, il luogo più inospitale della terra – il culo del mondo, lo chiamavano! - e questo di per sé gli faceva da referenza. Tutto l’Oltrefrattura, in verità, Villanova e dintorni compresi, erano considerate, per ovvie ragioni pratiche, i sobborghi dell’umanità: ma l’Altopiano aveva una lunga tradizione di isolamento e gli abitanti erano ostili almeno quanto l’ambiente, pregiudizio che Heze non aveva gli strumenti per smentire. Superstizione, diffidenza, ferocia gratuita vi facevano da padroni, soprattutto nei paesi piccoli e abbandonati dalla civiltà, come quello in cui lui era nato: ma anche a Exneirva le cose non stavano molto meglio. Al paragone, Villanuova era accogliente e festosa, il che era tutto dire per un borgo sperduto dove la maggiore attrattiva era un palio rionale in cui ciascun rione era composto da due case!

Si stava facendo sera e procedere oltre con così poca luce sarebbe stato difficile.

“Facciamo un pezzo di sentiero, poi ci fermiamo per la notte e domattina iniziamo la salita.”

L’altro non fece commenti e lo seguì in silenzio finché la vegetazione non cominciò a infittirsi e il crepuscolo a confondere ogni cosa. Heze uscì dal sentiero e si inoltrò fra gli alberi, facendo strada: raggiunsero una radura dove tre grosse pietre, una addossata all’altra, creavano una piccola cavità coperta.

“Cos’è?” chiese il suo compagno di viaggio.

Heze fu piacevolmente sorpreso di sentirgli aprire bocca: quell’uomo era davvero molto silenzioso, a meno che non gli venissero fatte delle domande.

“Non si sa. Potrebbe esserci mano umana oppure no. Qualcuno pensa a una specie di altare, o magari una tomba. Però nulla ci dice che non sia solo ciò che resta di una frana avvenuta in tempi molto antichi: il tipo di roccia è lo stesso dei Monti di Vetro, e le pendici sono davvero qui a due passi. In ogni caso…” Heze si tolse il bagaglio dalle spalle e ci frugò dentro estraendo un grosso telo cerato “I viaggiatori lo usano come punto di sosta.”

Cominciò a montare una tenda.

“Stanotte non pioverà,” disse annusando l’aria “ma l’umidità può essere altrettanto fastidiosa, e noi vogliamo viaggiare asciutti.”

L’altro non disse niente, ma cominciò a guardarsi in giro, camminando lentamente quasi in cerchio attorno alle tre rocce.

“Non ci muoveremo da qui per stanotte, giusto?” chiese all’improvviso.

“Io non viaggio col buio.”

“Questo me lo hai detto. Quello che mi serve sapere è se ci sono ragioni per cui dovremmo allontanarci da questo punto. Anche di pochi metri.”

“Ho tutto il necessario per accendere un fuoco e per mangiare, se è questo che intendete.”

La risposta parve soddisfarlo.

“Allora installo un confine qui, così dormiamo tranquilli tutti e due.”

Heze lo osservò con occhi curiosi, ma non osò porre la domanda. Incantesimi, ecco di cosa aveva appena parlato. Così come lui parlava di umidità e di accampamento.

“Però mi devi aiutare.” riprese “Quando te lo chiedo, devi restare fermo, fare silenzio, e respirare come se…” cercò le parole “come se tutto andasse piano. Come se il tuo corpo rallentasse. Ci puoi provare? Così io faccio più in fretta e con meno fatica.”

Heze annuì, perplesso.

E poi ciò che vide fu esattamente il contrario di ciò che aveva sempre immaginato pensando alla magia. Niente oggetti esotici, parole in lingue di cui si è persa memoria o gesti incomprensibili: il suo compagno di viaggio ripeté semplicemente più volte lo stesso percorso circolare attorno al punto in cui si erano sistemati, si fermò a lungo in alcuni punti, spostò dei sassi, piantò dei bastoncini nel terreno, osservò dettagli del paesaggio come se dovesse imprimerli nella memoria, poi si sedette accanto a lui e gli fece il cenno convenuto di fare silenzio. Heze rimase immobile e zitto per un tempo che non passava mai… non gli pareva che stesse accadendo niente, il solo dettaglio degno di nota era forse proprio come quell’uomo fosse capace di scomparire: gli sembrava di non avere accanto niente e nessuno, gli sembrava che non respirasse.

Poi, ad un tratto, lui fece un piccolo suono con le dita, aprì gli occhi, si tirò su in piedi e si stropicciò il viso come qualcuno che si è appena svegliato dal sonno.

“Puoi smettere di tenere il fiato.” gli disse, con dolcezza “Guarda che ti avevo chiesto di respirare come se tutto andasse piano, non di rischiare di morire soffocato!”

Solo in quel momento Heze si rese conto di quanto il suo corpo fosse rigido: altro che rilassarsi, si sentiva teso dappertutto ed una strana confusione gli aveva invaso la testa.

“Quanto tempo è passato?”

“Molto meno di quanto ti sembra e un po’ di più di quanto avrei voluto.”

“Non state rispondendo alla mia domanda.”

L’altro sollevò le sopracciglia e sembrò quasi in imbarazzo.

“Scusa. Dieci minuti, quindici… più o meno. Mi piacerebbe essere più veloce, ma ho dovuto disegnare il confine prima di installarlo, e deve rimanere stabile per tutta la notte…”

Heze si guardò in giro: tutto gli pareva assolutamente immutato.

“Cosa avete fatto, di preciso?”

“Ho modificato la percezione di questo luogo dall’esterno. Ho definito un confine immaginario intorno a noi e poi ho spostato quello che c’è dentro al di fuori dal campo visivo e dei sensi degli altri. In sostanza, chi si avvicina vedrà qualcosa di diverso da due persone accampate sotto i sassi e avvertirà suoni e odori diversi: la realtà si confonde, e noi siamo qui e non ci siamo.”

“E lo avete fatto allineando sassi e smettendo di respirare per dieci minuti?”

L’altro sorrise debolmente.

Tu hai smesso di respirare, non io. E no, non funziona così. I sassi, i punti di riferimento, mi servono per avere chiaro lo spazio di lavoro, perché siamo in un luogo aperto e un confine definito non c’è. Lavorare su un edificio è paradossalmente più facile anche se l’area è più grande. Prima chiarifico bene quello che voglio modificare e poi la mente lo modifica visualizzandolo in modo diverso.”

“Cioè… la magia funziona con l’immaginazione?”

“I termini corretti sono rispettivamente Persuasione e Visualizzazione, ma sì.”

“Wow. Sarei proprio curioso di vedere che effetto fa…”

“Meglio di no, perché se oltrepassi il confine non posso garantire che poi resti stabile.”

“Quindi… qui dentro nessuno può entrare?”

“Non esattamente. Nessuno percepirà che qui c’è un luogo. Ma se si mette a piovere, la pioggia ci bagnerebbe lo stesso. Non esistono confini invalicabili. Anche se io...”

Un’ombra passò sul suo viso, ma scomparve prima che Heze potesse domandarsi quale pensiero lo avesse turbato.

“Accendi il fuoco?” domandò “Col buio, viene freddo in fretta… ”

 

Era freddo, già.

E l’aria era gonfia d’acqua, anche se – aveva detto Heze – non avrebbe piovuto.

Addormentarsi si stava rivelando difficilissimo, anche se era stanco morto: le gambe gli facevano male, non riusciva a trovare una posizione comoda e i rumori della notte erano troppo vividi, vicini come non li aveva mai sentiti. Eppure, aveva già dormito all’aperto: nelle sere d’estate, quando certi incubi lo facevano balzare in piedi nella notte, gli capitava di uscire nel chiostro e stendersi sull’erba a guardare le stelle. La stranezza di quel gesto e il senso di irrazionalità che gli provocava lo alleggerivano, e qualche volta tornava anche il sonno: di solito le prime luci dell’alba lo svegliavano, ma altre era Luxei a scuotergli la spalla, scrollando la testa con sconsolata benevolenza.

“Non è girovagando di notte che seminerai i fantasmi. Devi imparare a chiudere la serratura.”

“Non sono fantasmi, sono ricordi, e tu avresti potuto cancellarli.”

“I ricordi si possono cancellare, ma i loro fantasmi no. Le memorie più dolorose si imprimono nei sensi: continuerebbero a svegliarti e tu non sapresti neppure perché. Che è la cosa peggiore che ti possa capitare, perché allora sì che sei impotente davvero. Chiudi la serratura.”

Si girò su un fianco perché un sasso gli stava premendo contro la schiena: sarebbe stato capace di affrontare quel viaggio? Non si era mai allontanato tanto, non aveva mai messo alla prova la propria resistenza, e non era abituato alle scomodità, ma non voleva infliggere al suo accompagnatore un senso di responsabilità che lui aveva apertamente dichiarato di non volere.

Odiava l’idea di spingere un altro a fare ciò che non vuole, per quello si era rifiutato di imparare la Persuasione della Cesura. C’era qualcosa di perverso nell’idea di sostituirsi alla volontà altrui.

Eppure, molti tra i suoi compersi sostenevano che la sua mente fosse particolarmente predisposto, o che, almeno, avrebbe dovuto allargare i propri ambiti di apprendimento.

Beh, stare lontano dall’enclave per un po’ avrebbe imposto una tregua alla pressione sociale.

Si tirò la coperta fin sopra le orecchie: se non altro, il dolore alla testa era cessato; la concentrazione sul confine aveva arieggiato la sua mente e l’aveva riportata ad una dimensione più confortevole. Tracciare confini era bello. Tenere cose e persone al sicuro era bello. Praticava un’arte gentile e almeno questo andava bene così.

Almeno questo.

Guardò Heze che dormiva con la testa appoggiata su una sacca e l’espressione beata di chi si sente a casa propria. Si chiese se mai nella sua vita gli sarebbe stato possibile avere un’espressione simile, l’espressione di chi non ha paura dei fantasmi, di chi sa che la paura è solo una forza che lavora per tenerci in vita, non un tormento a cui si è condannati.

Aveva paura di essere in viaggio con lui.

Aveva paura di incontrare le persone.

Aveva paura di tornare a Feuzte.

Aveva una paura capace di divorarli entrambi.

“Chiudi la serratura.”

 

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Capitolo 3
*** Abbastanza ***


La stagione era stata generosa con loro: viaggiavano da quattro giorni e non era mai piovuto, ed anche quel mattino l’aria era tersa e radiosa. Bene per l’agevolezza dei sentieri, meno bene se il tempo fosse rimasto tale una volta oltrepassato il valico: allora la luminosità sarebbe diventata un problema, come Heze aveva ben sperimentato percorrendo lo stesso tragitto l’estate precedente. Nelle ore di sole diretto, forse avrebbero dovuto fermarsi: difficilmente un viaggiatore inesperto avrebbe potuto camminare ignorando i riflessi e gli scherzi di luce dei Monti di Vetro. Ma il suo compagno era determinato: ogni giorno arrivava a sera più esausto del precedente, ma non aveva mai chiesto una volta di fermarsi, e al suo “come state?” di rito sollevava le spalle restituendogli un altrettanto rituale “abbastanza bene, grazie.”

Abbastanza era un avverbio che usava spesso e che lo rispecchiava; non era loquace, ma nemmeno taciturno, non era solare, ma nemmeno cupo, non era espansivo ma nemmeno timido: era abbastanza tenace per essere uno che non aveva mai viaggiato, abbastanza limpido per essere un mago e abbastanza umile per appartenere ad una classe sociale mille volte superiore alla sua.

Ma di una cosa Heze era certo: affascinante lo era molto più che abbastanza, e cercare di indurlo a parlare di sé stava diventando quasi una sfida. Anche perché era un piacere sentirlo parlare: aveva nella voce una sorta di dolcezza naturale, la stessa dolcezza che metteva nei gesti, nel modo di guardare e toccare le cose per tracciare i suoi «confini», nella cura con cui stendeva o ripiegava la coperta. Attorno a lui era davvero come se tutto rallentasse.

E poi c’era la faccenda dei capelli biondi: quella testa di capelli biondissimi che gli riportava alla mente le storie con cui era cresciuto. I luminosi: gli uomini sinceri e felici.

Ma un mago poteva avere i capelli biondi?

Se avesse voluto dare credito alle leggende eshkarti, decisamente no.

Nella visione che gli era stata trasmessa – ed anche un po’ in quella che, negli anni, si era costruito da solo – nessun mago poteva essere sincero, e, quanto alla felicità, chi possedeva del potere in genere lo aveva costruito sul dolore degli altri.

Il suo compagno di viaggio assolutamente biondo quanto era sincero? Forse un po’ meno di abbastanza. E di sicuro era felice un po’ meno di per niente.

La voce di lui lo distrasse dal seguire quel pensiero.

“Che belli. Cosa sono?”

Dopo il primo paio di giorni aveva cominciato ad avviare spontaneamente qualche conversazione, ma senza mai scivolare nel privato. Lo interrogava ora su una pianta, un fenomeno, un paesaggio, una qualsiasi cosa che non riuscisse a ricondurre alle sue conoscenze teoriche. Spesso era attratto da dettagli che gli apparivano fuori posto, come se i suoi occhi si fermassero su tutto ciò che sembrava incongruo, in disordine: in quel caso si trattava di una pianta grassa che si affacciava sbucando dalla crepa di una roccia le cui estremità si aprivano in fiori carnosi a forma di grappolo, di un arancio vivido.

“Fiori di luyo” spiegò Heze “Quando saremo oltre la linea delle acque, e soprattutto sull’altro versante, ne vedrete molti. Il luyo cresce bene in terreno arido.”

“Non ne avevo mai visti.”

“Ma è possibile che ne abbiate bevuti, dato che sono la base del luyush.”

Lui scrollò appena il capo.

“Non bevo liquori.”

“È un peccato, non sapete che vi perdete!” scherzò Heze.

“Certo che so cosa perdo. Il controllo. Ed è vietato.”

Aveva sul volto un’espressione compita, ma la sua voce era rimasta morbida e distesa.

“Vietato a voi maghi?” si incuriosì.

“No. Vietato a me.”

“Solo a voi? Perché?”

Lui rimase un attimo in silenzio, pensieroso.

Perchè. Mm. Temo sia una di quelle domande a cui è saggio che io non risponda.”

Heze aggrottò le sopracciglia, perplesso: gli pareva di aver appena chiesto la cosa più innocente del mondo e invece il suo interlocutore ne pareva turbato.

“Come il vostro nome?” gli sfuggì, per accorgersi troppo tardi di essere stato provocatorio. L’altro non si scompose.

“Sì, se vuoi.”

Si chinò sulle ginocchia osservando più da vicino la pianta.

“Contano così poco i nomi, Heze. Conta solo come vengono pronunciati.”

(E modo in cui pronunciava il suo suonava dannatamente bene: accidenti a lui, quell’uomo era dolcezza personificata e la troppa dolcezza aveva il potere di far sentire gli altri in colpa anche quando la colpa non c’era.)

“Dissento.” protestò “Conta da chi vengono pronunciati, solo allora il come diventa rilevante.”

Di spalle, lo vide annuire lentamente.

“Mm. Probabilmente è così…”

Ma non stava più parlando con lui. In che razza di pensieri era inciampato?

Ogni tanto, e per ragioni che Heze non si sapeva spiegare, quell’uomo si perdeva a guardare qualcosa di buio e senza fondo e ci restava imprigionato.

Altro che i biondi sinceri e felici della sua tradizione: con lui quell’immagine valeva più o meno come le trentatré ore (o quarantotto. O ventiquattro).

 

Yèlveran non era mai stato tipo da sopravvalutarsi, il contrario semmai: glielo dicevano sempre tutti. Dunque sapeva che ci sarebbe stato un momento in cui sarebbe crollato, ma sperava di procrastinarlo il più a lungo possibile, per evitare di creare problemi al suo accompagnatore. Detestava i problemi, ma soprattutto detestava l’essere il problema.

Finché la pendenza era stata lieve, i sentieri erano stati abbastanza agevoli, nonostante le scorciatoie di Heze prevedessero sempre qualche tratto in cui, anziché camminare, bisognava arrampicarsi tra massi e arbusti o guadare ruscelli. Ma negli ultimi due giorni quel modo di procedere era diventato la norma, i verdi stavano cedendo posto ai rossi e alle terre, l’erba a rocce e spine, l’aria era rarefatta e sempre più secca e lui si sentiva sempre più debole, di una debolezza che gli rendeva il corpo poco presente e la testa in disordine. Ricordava qualche sensazione affine, se pur non identica, nel proprio passato, ma erano ricordi sfocati e lontani, e soprattutto intrisi di un confuso dolore, perciò cercava di non disturbarli e rimanere concentrato sul presente.

Per fortuna la natura gli offriva buone distrazioni: aveva letto diversi libri sui Monti di Vetro, sulle loro stranezze geologiche, sulle bizzarre caratteristiche del clima e sulle avventure e disavventure dei primi che li avevano scalati, ma tra l’immaginare e il guardare c’era la stessa distanza che tra l’ascoltare e il comprendere. Quello che all’inizio del viaggio gli era apparso un paesaggio del tutto simile al bosco che vedeva ogni mattina dalle finestre dell’enclave, era velocemente stato sostituito da un’atmosfera del tutto diversa, più desolata e lunare, con fiori sconosciuti, alberi radi dalle foglie opache, cespugli bassi con nodose radici superficiali, in cui era fin troppo facile rischiare di inciampare, piante grasse variopinte ed ampie chiazze di roccia nuda, dove si poteva già distinguere il mirdev, il minerale a cui i monti dovevano il loro nome, e che sarebbe stato il loro compagno di cammino ed il loro principale problema una volta arrivati sul versante est. Traslucido, cangiante, a volte trasparente, il mirdev rifletteva la luce con l’intensità con cui poteva farlo uno specchio: si raccontava che inducesse ai viaggiatori visioni e disturbi della vista, ma la verità era semplicemente che, con una certa inclinazione dei raggi solari, il riverbero di quella roccia rendeva impossibile tenere gli occhi aperti. Così gli aveva spiegato Heze.

Il sole aveva da poco oltrepassato il mezzogiorno quando una folata di vento violento gli schiaffeggiò il viso e si infilò impunemente sotto i vestiti. Yèlveran si parò gli occhi con il dorso di una mano e con l’altra tentò impacciatamente di tenere il mantello allacciato. Non aveva mai sentito un vento simile: si era sollevato dal niente e fischiava come un piffero. Sentì la mano di Heze che afferrava una cinghia del suo bagaglio e lo aiutava a rimetterlo in spalla.

“Potresti essere più gentile con un ospite!” esclamò, sovrastando con la voce lo sfarfallare dell’aria nelle loro orecchie.

Lo diceva al vento, che cosa buffa. Molto da Heze.

“E pensate che non siamo ancora entrati a casa sua!” aggiunse, rivolgendosi ora a lui “Ecco a voi un assaggio del monellaccio del valico!”

Yèlveran riposizionò il bagaglio in equilibrio e lasciò che gli il vento gli riempisse la testa: una volta superata la prima sorpresa, lo trovava persino piacevole, sembrava una grossa ramazza che spazza via polvere e pensieri. Heze, invece, lo sospinse avanti, verso un angolo più riparato, e disse: “Mi serve la vostra collaborazione”.

Individuò una bassa roccia sporgente che poteva fungere da appoggio, tirò fuori paletti e telo cerato e gliene diede due capi da reggere.

“Cosa stiamo facendo?” chiese Yèlveran, mente la furia del vento strapazzava il telo come una grossa vela gonfiata dalla tempesta.

“Montiamo la tenda” fece lui, mentre piantava un paio di grossi chiodi nella roccia e cercava di stabilizzare la loro copertura con le corde “e ci prepariamo al temporale più clamoroso che voi abbiate mai visto!”

Una nuova sferzata strappò a Yèlveran uno dei lembi che stava tenendo, ma non fece in tempo a riafferrarlo che il cielo si coprì di nuvole e gocce enormi cominciarono a disegnare grosse chiazze sul terreno: Heze lo invitò a mettersi al riparo e portò a termine il lavoro, mente la furia della pioggia si scatenava dal cielo.

“La copertura tiene?” si informò, mentre si scrollava i capelli, che in pochi secondi si erano già bagnati, e lo raggiungeva all’asciutto.

Yèlveran annuì e il ragazzo andò a sedersi accanto a lui.

“State comodo?”

“Abbastanza.”

L’odore della terra bagnata era buono e il rumore della pioggia sembrava tenere il ritmo come uno strumento musicale accordato bene. Socchiuse gli occhi e sorrise.

“Vi piacciono i temporali pazzi?”

“Tanto.”

 

Tanto.

Aveva veramente detto Tanto.

Wow, questo si che era sbilanciarsi!

“Quali sono le altre cose che vi piacciono tanto?” colse la palla al balzo Heze.

“Mm…”

Lui ci pensò su, con quell’aria sognante ma al tempo stesso seria che assumeva quando gli si facevano delle domande.

“Mm.”

“Spero non stiate per dirmi che non potete rispondere.”

“No, affatto…” si schermì “È solo, emh, non elementare.”

“Invece, vi prego, siate elementare. La prima cosa che vi viene in mente!”

“La prima… ?”

“Conto fino a tre. Uno, due… ”

“I suoni belli. Come questo che fa la pioggia. Le voci calme, quelle che non sono capaci di urlare. Il silenzio quando è solo silenzio: quando non c’è dietro niente.”

Heze rise bonariamente.

“Povero me che avrei risposto pane caldo e vino buono! Chi è il bravo conversatore qui?”

“Tu.”

“…?”

“Tu fai belle domande e trovi subito le parole. Sei amichevole con le parole. Essere un buon conversatore significa saper fare belle domande ed essere amichevole con le parole.”

Heze gettò uno sguardo fuori dalla tenda: non accennava a smettere e rivoli d’acqua filtravano lungo le pareti di roccia e sul terreno, arrivando fino ai loro piedi.

“Ne avrà per un po’. Posso farvi un sacco di belle domande.”

“Pioverà a lungo?”

“Di solito, almeno un’ora, ma è una fortuna per noi: anche se saremo rallentati nel cammino, potremo rifornirci più facilmente di acqua prima di oltrepassare il valico. Sul lato est, la prima sorgente è a diversi giorni.”

“Fai una bella domanda, allora.”

Heze raccolse un sassolino e lo lanciò in una pozza che si era formata appena fuori dalla tenda: atterrò in un tintinnio argentino.

“Di che soffrite?”

Lui spostò lo sguardo in giro, evitando il suo.

“Mm.” temporeggiò giocherellando con le proprie dita “Il concetto ce l’ho, ma sono in difficoltà a trovare le parole corrispondenti.”

Era un tipo di frase che usava spesso, come se il non riuscire a farsi comprendere fosse qualcosa che lo disturbava.

“Siate elementare.”

“Di essere me, credo.”

“Perché?”

“Domanda a cui non posso rispondere.”

“Ancora?” protestò blandamente Heze “Quante ce ne sono?”

“Tu non ne hai?”

“Beh, ci sono domande a cui mi vergognerei di rispondere, o a cui mi farebbe male, ma a cui non posso direi di no.”

“Allora ti spiace se te ne do una io? Una volta arrivati a valle, se qualcuno dovesse chiederti chi sono, o come ci siamo incontrati, cosa stiamo facendo e dove stiamo andando, non rispondere.”

“Pessima idea! È il modo migliore per destare sospetti. Se non volete che la gente si faccia i fatti vostri, inventatevi una balla!”

“Ah.” lui contrasse la fronte come se l’affermazione richiedesse di essere meditata bene “Ma sì. Devi aver ragione. Allora, beh… inventa una balla. Io non sono bravo ad avere a che fare con la gente. Tu sembra di sì. Svolgi tu questo compito per me.”

Era così disorientante il modo in cui passava dal parlare di bellezza e di sofferenza con immagini capaci di incantare le pietre a discorsi di spiazzante ingenuità come quello.

Riusciva a lasciarlo letteralmente senza parole.

Rimasero in silenzio per un po’: il suono della pioggia stava cambiando, meno costante, più rado.

“Heze,” (le voci belle, quelle che non sono capaci di urlare) “tu, invece, di che cosa soffri?”

Non dovette pensarci su: la risposta se l’era data molti anni prima.

“Della furia dell’universo. E del fatto che l’umanità è composta da una massa di imbecilli incapaci di fare fronte comune contro la furia dell’universo, diventandone, di fatto, complici. Ma soffro molto meno di quanto non sia felice, perché, di fronte a tutta questa ferocia, cercare di essere felici è la sola risorsa che abbiamo… ”

L’altro abbassò gli occhi e gli sfuggì un sorriso triste: si era perso di nuovo, forse nelle troppe domande a cui non poteva rispondere.

“Sei tu il bravo conversatore, qui.”

 

Le cose che gli piacevano tanto.

Un uomo che non fosse stato lui avrebbe saputo rispondere serenamente, e la difficoltà sarebbe stata, semmai, quella di sfoltire, di mettere la lista in ordine.

Ma soprattutto un uomo che non fosse stato lui avrebbe reciprocato la domanda, portato avanti quello scambio per conoscere meglio il proprio compagno di viaggio, o anche solo per sfuggire la noia mentre la pioggia li teneva bloccati.

Lo avrebbe fatto senza dare troppo peso alle parole, senza neppure troppa attenzione, perché così parlano le persone tra loro: chiacchierano, e dialogando ingannano il tempo, e non importa cosa ne resta alla fine, è l’atto sociale ad avere un significato: l’atto sociale in sé è svago e piacevolezza.

Perché invece lui si sentiva così stanco?

Ogni volta che doveva frugare in se stesso e tirarci fuori qualcosa, gli pareva di fare uno sforzo enorme, ancora maggiore di quello che aveva fatto tanti anni prima per allontanarle, quelle stesse cose: per renderle innocue.

Le cose che si amavano, le cose che si odiavano, quelle di cui si soffriva, non erano mai innocue, e per lui erano peggio: erano pericolose. Ma le più pericolose di tutte erano quelle che gli facevano paura.

Le relazioni gli facevano paura. Le domande di Heze, i suoi tentativi di creare vicinanza, la sua curiosità gli facevano paura.

Dov’erano finite le cose che gli piacevano tanto? Quali erano, quali erano state? Perché era faticoso metterle in fila, dagli un nome, dirle ad alta voce?… E dov’era Luxei, ora? Da solo non riusciva a gestire la distanza: troppa, e le cose si perdevano… troppo poca, e ci inciampavi dentro, come in quelle radici annodate. Ed era un disastro.

Era così stanco.

Così stanco.

 

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Capitolo 4
*** Insicurezza del cuore ***


 

“Hai mandato Yèlveran a consegnare un messaggio a Feuzte? Spero che si tratti quantomeno di impedire la fine del mondo!”

Garlan, suo pari sia per esperienza che per posizione nell’enclave, era un uomo a cui era difficile tenere dei segreti: si poteva solo sperare che avesse in lui sufficiente fiducia da accettare la spiegazione complessiva senza pretendere i dettagli.

“Il messaggio che dovevo recapitare non poteva essere affidato a mani sconosciute, e non volevo che ne rimanesse traccia scritta.”

Garlan borbottò qualcosa tra i denti.

“Si tratta di politica?”

Luxei non aveva mai raccontato molto di sé, ma tutti nell’enclave sapevano che aveva dei trascorsi alla capitale, che era stato raccomandato da un Persuasore importante, e che il suo essere lì era una specie di esilio auto-inflitto per tenersi alla larga da un qualche scandalo legato ad una famiglia influente. Che a grandi linee, poteva anche essere considerata la verità, o parte di essa.

“Ti risponderò con franchezza di sì. Ma non posso aggiungere altro.”

“Amico mio, sai che ciò che accade a est non mi interessa né mi è mai interessato. Sono nato nell’Oltrefrattura e ho scelto di rimanerci pur avendo avuto l’opportunità di andarmene. Ma tengo a questo posto e ai miei compersi, e Yèlveran è il nostro allievo migliore. Il migliore come Persuasore, intendo, ma il più privo di senso pratico. Dunque: perché lui?”

“Per la ragione che hai appena detto: perché è il migliore, ed è anche la persona a cui sono più legato.”

Il volto di Garlan si scurì e nel suo sguardo si poteva leggere aperta disapprovazione.

“Hai usato il Ricordo Sepolto?”

“Più stretta è la relazione e meglio funziona.”

Garlan grugnì un’imprecazione.

“Io non riesco a capire! Se era così importante, perché non hai svolto questo compito di persona?”

“Non ho più l’età né le energie per affrontare un viaggio del genere.”

Falso: non si sentiva poi così vecchio, e avrebbe volentieri sfidato i limiti del proprio corpo per non coinvolgere Yèlveran in quella storia, ma non poteva, perché Yèlveran era già coinvolto, anche se non ne era a conoscenza…

“Quel ragazzo è uscito da questa enclave quattro sole volte in dodici anni!” rimarcò Garlan.

“Che, hai tenuto il conto?”

“Per forza lo tengo: una volta su due si è perso!”

A Luxei sfuggì un sorriso velato di malinconia: ricordava quelle circostanze e ciò che Yèlveran gli aveva raccontato.

“Non si è perso.” fece “Si è confuso. Vedere troppa gente tutta insieme lo disorienta.”

“Già. E a Feuzte ci sarà davvero pochissima gente…” commentò Garlan sarcastico.

“L’ho messo in buone mani.”

“Quelle del messaggero eshkarti? È poco più che un bambino.”

“Un bambino competente e dotato di un raro altruismo. Non abbandonerebbe un altro essere umano in difficoltà nemmeno a costo della vita.”

“Come puoi conoscerlo così bene se…” l’indignazione sul volto di Garlan si sciolse in un sospiro di sgomento “Per l’amore del cielo, hai letto la sua mente?”

Luxei annuì, serafico.

“Non potevo affidare Yèlvern a qualcuno delle cui capacità, ma soprattutto del cui cuore, non fossi sicuro.”

Garlan scosse il capo, e il suo silenzio deluso gli rimandò la stessa domanda che rimbalzava nella sua testa da giorni: «E di te, del tuo cuore, quanto sei sicuro?»

 

Garlan stimava Luxei abbastanza da aver sempre chiuso un occhio sull’ombra scura che gravava sulla sua schiena. Era arrivato lì un giorno d’inverno di dodici anni prima, con una lettera di presentazione da parte di un’enclave di Feuzte, portando con sé un ragazzino che non riusciva a parlare, ma che aveva – a detta del suo accompagnatore – tutte le potenzialità per essere addestrato. A Garlan erano bastati pochi giorni per capire che quel ragazzo aveva un’irrazionale paura di interagire con gli altri, quasi che fosse una creatura di vetro che si muoveva in mezzo a statue di granito. Si era impuntato a riuscire a relazionarsi con lui ma gli ci era voluto più tempo di quello che era servito a quel promettente apprendista per imparare a installare un confine dal niente.

Luxei era un Persuasore di alto livello, praticava numerose arti, ma era maestro in particolare di Persuasione dei Ricordi: Yèlveran, invece, non aveva seguito quella strada. Gli piaceva il concetto di potersi autoescludere da ciò che gli altri vedevano e percepivano, ed aveva occhi così attenti ai piccoli dettagli e una tale capacità di estraneazione, che per lui costruire confini immaginari era quasi una forma di rilassamento. In quei dodici anni aveva studiato una sola arte, ed era diventato un vero maestro. Garlan era convinto che dovesse apprendere almeno un’altra Persuasione: se lo avesse chiesto, avrebbe avuto in Luxei un insegnante d’eccezione nella Persuasione dei Ricordi, la sua empatia lo rendeva un ottimo candidato per la Persuasione del Destino e di sicuro, con la capacità di autocontrollo che si ritrovava, lui stesso avrebbe potuto insegnargli la Persuasione della Cesura in pochi anni. Ma Yèlveran diceva sempre di no e quel «no», pur detto con tanta reticenza, era tassativo, perché era l’unico «no» che pronunciava mettendoci un’intenzione dentro, tra i mille sì detti solo per compiacere gli altri.

Una volta Garlan lo aveva preso da parte e gli aveva chiesto di spiegargli il perché fosse così ostinato a non voler mettere a frutto il suo talento, senza, in realtà, sperare di cavare un ragno dal buco. Ma lui lo aveva sorpreso con una risposta che lo aveva positivamente colpito: “La Persuasione dei Confini è un’arte che non tocca direttamente né il corpo né la mente di un altro, quindi, pur violando lo spazio, non può direttamente violare un’altra persona. È un’arte gentile, ed io desidero diventare un uomo gentile.”

Perché Yèlveran aveva permesso a Luxei di manipolare i suoi ricordi? Gli aveva detto di sì nello stesso modo in cui lo faceva sempre, con un monosillabo che era solo un suono, e poi accada ciò che deve accadere? E Luxei aveva accettato quel «sì»? Non se ne capacitava.

 

Luxei sapeva che Garlan aveva valide motivazioni per essere arrabbiato con lui: non solo lo aveva scavalcato prendendo autonomamente una decisione a proposito di uno dei compersi giovani, ma aveva affidato quel compito alla persona che, ad un’osservazione esterna, era la meno adatta ad allontanarsi dall’enclave. Quello che Garlan non poteva sapere era il fatto che Yèlveran fosse anche la persona con le più alte garanzie di arrivare sano e salvo a Feuzte.

Luxei era consapevole di quanto quel pensiero fosse egoistico, di quanto stesse facendo affidamento su qualcosa che a Yèlveran faceva male, di quanto lo stesse in realtà sfruttando. E la reazione di lui, la sua rassegnata indifferenza, quel suo lasciarsi trascinare dagli eventi come se ogni piccola resistenza fosse solo fatica sprecata, ingigantivano il suo rimorso. Per un momento aveva desiderato che non si prestasse a quel gioco: che per una buona volta gli dicesse di no, che pretendesse la verità. Ma il mondo di Yèlveran non funzionava così: il meccanismo dei sì e dei no si era inceppato molto tempo prima.

Guardò dalle finestre della torre il cielo farsi sempre più vicino: le nuvole si stavano abbassando, spintonandosi tra loro, come se tutto quello spazio non gli bastasse, come se volessero prendersi ogni cosa, il profilo dei monti, la torre, le cime degli alberi. Tutto. Come se volessero divorare tutto.

Un lampo si accese e si spense, seguito dal rotolare di un tuono lontano.

Yèlveran avrebbe detto che gli piaceva quel rumore, perché il rumore di un tuono era nulla più di ciò che era. E gli piaceva il suono della pioggia perché metteva il mondo in silenzio, e anche quel silenzio non era nulla di più di ciò che era.

Yèlveran amava le cose semplici perché era fatto per comprendere quelle complesse: percepiva tutto, leggeva i non detti, coglieva i sottintesi, avvertiva le note stonate negli atteggiamenti degli altri, e non era stato facile aiutarlo a mettere una distanza tra sé e quel costante assedio di segnali dal mondo. Tante volte Luxei si era chiesto se non fosse stato un peccato indurlo a ridimensionare quella dote, insegnargli a sentire meno, a sbarazzarsi delle emozioni più forti per dividere equamente il peso di ciò che provava. Ma aveva avuto paura e aveva intrapreso la strada che portava ai risultati più sicuri, perché se per un Persuasore il controllo era lo strumento per amplificare il proprio potere, per Yèlveran era molto di più: per lui faceva la differenza tra avere una vita e non averla.

In quegli anni gli aveva insegnato a distaccarsi da se stesso, a praticare l’arte della concentrazione assoluta, e lui aveva imparato fin troppo bene: era fatto così, prendeva tutto alla lettera, era ossessivo, metodico, perfezionista, faceva ogni cosa esattamente come gli veniva chiesto di farla, non si concedeva mai il diritto di dare un po’ meno di ciò che gli altri si aspettavano da lui. Ma non dava nemmeno qualcosa di più: si conformava alle regole cautamente e in silenzio, per rendersi invisibile.

Invisibile, ma in grado di difendere se stesso e gli altri. E leale come nessuno.

Affidare il messaggio a lui era stata la decisione migliore, la sola ragionevole: non solo, a Feuzte sarebbe stato al sicuro, Àtsuran lo avrebbe protetto. Luxei continuava a ripeterselo e il suo cuore continuava a logorarsi e a dirgli che no, che era stato solo un maledetto manipolatore.

 

A differenza di Àtsuran, Luxei non si era mai fatto trascinare in questioni politiche, ma la politica l’aveva osservata da vicino, e le Nove Famiglie le aveva studiate una per una, fino a convincersi che ci fosse qualcosa di marcio non solo nel sistema, ma nel cuore stesso delle persone che aspiravano a esserne parte.

Il problema non riguardava il Consiglio dei Nove, o l’influenza, silente o palese, dei Persuasori nelle loro scelte, non riguardava gli equilibri di potere né le rivalità dinastiche, inevitabili in un’oligarchia rigida e per di più immutata da secoli. Non riguardava, nemmeno, le questioni di giustizia sociale che erano e sarebbero state procrastinate per l’eternità. L’errore era più piccolo, più strisciante, ma più insidioso, sufficiente a corrompere il concetto stesso di società, e ad intaccare nel profondo quello di Umanità. L’errore stava nei valori: i valori in cui i Nove credevano e che inculcavano nella mente dei propri figli, i valori che i Persuasori stessi tramandavano per mantenere intatto un sistema che li conservava al vertice della piramide sociale, valori di cui la gente comune si nutriva e si imbeveva, a volte consapevole a volte meno, ma che erano, per tutti, non meno veri e meno indispensabili della carne, del sangue e del respiro. Il valore dell’obbedienza ad un ordine superiore, il valore della forza militare, il valore del saper stare al proprio posto, il valore dell’immutabilità delle cose, il valore del non mettere in discussione, mai, credenze vecchie quanto il mondo e farle diventare un alibi per rendere accettabile l’inaccettabile, umano il disumano.

Àtsuran era diverso da lui: aveva scelto di essere consigliere di una delle Famiglie, era convinto che fosse compito dei Persuasori indirizzare la mano dei potenti e assicurarsi che la ferocia umana non venisse lasciata a piede libero; ma il suo punto di partenza era ben più roseo e ottimistico del suo: credeva sinceramente nella buona fede dei suoi compersi, così come credeva che le Maledizioni fossero calamità naturali da cui proteggere l’umanità, per quanto questo potesse portare a scelte estreme.

Ne avevano spesso dibattuto, a volte litigando, ed ognuno era sempre rimasto fermo sul proprio punto di vista, pur non perdendo la stima dell’altro.

Ma poi c’era stato il caso Yèlveran, ed entrambi si erano trovati a mettere tutto in discussione e dover fare delle scelte. Quella di Luxei lo aveva portato nell’encalve più sperduta dell’Oltrefrattura, a fare l’addestratore. Non era stata un’imposizione, né era stato un peso: lo avrebbe rifatto da capo. Villanuova era il meglio che gli fosse capitato. Yèlveran era il meglio che gli fosse capitato. Sarebbe stato felice se gli equilibri che aveva scomodato non fossero tornati a bussare alla sua porta: si era quasi illuso di poter uscire da quella sporca faccenda silenziosamente, passando da una porticina sul retro.

Purtroppo non era andata così.

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Capitolo 5
*** Il Valico del Vento ***


Yèlveran non sapeva fino a che punto il corpo lo avrebbe sorretto ancora: le ultime ore erano state un continuo salire, ed ogni volta che aveva dovuto far leva sulle gambe o tirarsi su a forza di braccia si era immaginato il momento in cui avrebbe ceduto. Heze gli aveva dovuto tendere la mano per aiutarlo nell’arrampicata almeno centomila volte, e almeno centomila volte gli aveva chiesto se voleva fare una pausa e riprendere fiato, ma lui aveva sempre rifiutato: se si fosse fermato non sapeva se sarebbe riuscito a rialzarsi. Aveva la testa pesante, brividi ovunque, le ossa a pezzi.

Il vento non si era placato un istante, faceva un tal frastuono che era difficile udire la voce di Heze che gli parlava, nonostante il ragazzo non si allontanasse mai da lui che di qualche passo per aprire il cammino: stavano procedendo lungo una sorta di sentiero strettissimo, che era di fatto una lunga fenditura nella roccia, dove le raffiche si incanalavano con una potenza indicibile, facilitate dalle lisce pareti di mirdev su cui non spuntava una foglia, non si apriva un pertugio, non sporgeva un masso ribelle.

“Adesso c’è un tratto un po’ difficile, ma una volta superato questo, il peggio è fatto.” lo avvertì Heze, quando furono vicini ad un punto in cui il sentiero pareva curvare ed una delle due sponde digradare in diagonale. “Se avete problemi con l’altezza, non guardate in basso.” incrociò il suo sguardo e, leggendovi probabilmente tutto lo sconforto che c’era, si corresse “Anzi, in basso non ci guardate proprio. Guardate sempre la mia schiena e fate quello che faccio io.” Yèlveran si limitò ad annuire, gli pareva di non avere più fiato nemmeno per un monosillabo.

Heze prese la corda che teneva legata alla cintura e gliela assicurò attorno alle spalle e alla vita. “Da qui in poi il sentiero costeggia lo strapiombo: il vento diminuirà un po’, perché la fenditura si allarga, ma dovete rimanere addossato alla parete perché lo spazio in cui appoggiare i piedi è poco. Se avete fastidio agli occhi o vi sentite stordito, fermatevi immediatamente. La fretta è la peggiore nemica: un passo dietro l’altro.”

Raggiunsero la svolta sul sentiero e davanti ai loro occhi si aprì l’abisso: la parete di destra calava a precipizio verso il vuoto e sotto di loro si spalancava la voragine più impressionante che Yèlveran avesse mai visto. Se un attimo prima gli era sembrato di muoversi nelle profondità della terra, adesso si sentiva in equilibrio sul niente. Sospeso sopra un enorme mare di niente, di cui non si vedeva il fondo ma solo il baluginio del mirdev colpito dai raggi di un sole biancastro e tuttavia sufficiente a riempire il dirupo di inquietante luce soffusa.

“Oddio… “ gemette, facendo un passo indietro.

“Vi ho appena detto di non guardare in basso!” lo rimproverò Heze.

Poi gli allungò una mano e con l’altra indicò un pezzo di ferro ricurvo che sporgeva sulla parete rocciosa.

“Quelli sono il nostro sistema di sicurezza: li ho piantati molto tempo fa e sono stabili. Il problema del mirdev è riuscire a bucarlo, una volta fatto è un materiale solidissimo. Non si sfalda, non frana. La peggiore delle cose che vi può accadere è trovarvi a penzolare nel vuoto… ma non succederà perché voi siete un uomo capace di mooolta concentrazione, non è vero?” gli strizzò l’occhio e sorrise “Guardate i chiodi. Guardate la mia schiena. Guardate la corda. Immaginate di doverci installare un confine.” Yèlveran annuì di nuovo, sforzandosi di interiorizzare le istruzioni e di calmare i battiti del proprio cuore. “Un passo dopo l’altro, d’accordo? La mia schiena. La corda. Mai in basso. E vi prometto che vedrete qualcosa di meraviglioso, una volta arrivati di là.”

Di là sembrava un concetto astratto e Yèlveran non riusciva a vedere oltre il proprio naso: ogni volta che cercava di focalizzarsi sui chiodi, o sulla schiena di Heze, i suoi occhi venivano confusi dai continui giochi di luce sulle pareti. Non aveva idea di dove fosse di là. Di quanto lontano fosse. Ma ad ogni passo che faceva sentiva la voce di Heze che scherzava come se stesse conducendo una scampagnata. Che non era la verità: Yèlveran percepiva la sua tensione, ma anche la sua solidità e la volontà di trasmetterla.

“Tutto bene?”

“Abbastanza!”

“Ditelo ancora una volta e vi chiamerò così, dato che non so il vostro nome!”

“Preferisci per niente?”

“Veramente speravo in un sì, benissimo!”

Il fischio del vento li costringeva ad urlare.

Sì benissimo!”

“Così mi piacete!… Non guardate in basso.”

“Non sarebbe possibile, non vedo niente!”

“Allora restate fermo finché non ricominciate a vederci!”

“Quanto manca?!”

“Potete chiederlo più tardi?”

E via così, per minuti che sembravano infiniti… Però, una parola dopo l’altra, le sue mani smisero di tremare. Ogni tanto si fermava, ed Heze tornava indietro di un paio di passi per assicurarsi che si prendesse il tempo necessario, che non cedesse all’urgenza di uscire da quella situazione. Gli faceva domande che non c’entravano niente, lo prendeva un po’ in giro, lo distraeva.

Poi finalmente la base di appoggio dei loro piedi si fece più larga e il sottile sentiero di roccia si aprì in un ampio sperone pianeggiante affacciato sul crepaccio.

Non c’erano più chiodi e la corda cadeva floscia ai loro piedi, ma Yèlveran continuava a fissarla e stringerne un tratto come se dovesse rimanerci aggrappato.

Heze gli batté una mano sulla spalla scuotendolo da quello stordimento.

“Ora invece dovreste proprio guardare.” disse.

Lui allentò a poco a poco la stretta delle mani e le braccia ricaddero lungo i fianchi; prese un lungo respiro e alzò gli occhi: da quell’angolazione, i riflessi di luce erano meno intensi e permettevano di ammirare con chiarezza il baratro appena superato, con la sua vertiginosa profondità; la voragine pareva tagliata col coltello e le due pareti, quasi completamente trasparenti, si riflettevano l’una sull’altra, creando una sensazione di infinita distanza. Dall’altro lato, col sole ormai calante verso ovest, si spalancava intero lo spettacolo del versante orientale dei Monti di Vetro, col suo famigerato effetto di scomposizione della luce, che assumeva, sui diversi tratti di roccia, i diversi colori dell’iride.

Era una luminosità che ubriacava, una grandezza da annegarci dentro.

“Questo è uno spettacolo che solo pochi fortunati si possono permettere!” commentò Heze, fiero.

Yèlveran osservava paralizzato: non sapeva se si sentiva più emozionato o più smarrito, o entrambi. Di certo, non aveva le parole giuste e non gli era rimasta nessuna energia per andare a cercarle.

“Io mi sento…” provò a iniziare una frase, ma si bloccò. Lentamente si mise a sedere per terra, lasciando che lo sguardo si perdesse.

“Ehi…” chiese Heze con premura “State bene?”

“Mi sento… svanire.”

“Ed è una cosa buona o una cosa pessima?”

“L’una e l’altra… ” si portò una mano al petto, ascoltò il suo respiro muoversi su e giù. Su e giù.

Chiuse gli occhi.

“Ehi…” sentì la mano di Heze posarsi sulla sua fronte “Oh, per la miseria! Voi non state bene per niente!”

Invece no… Invece gli pareva di stare abbastanza bene.

Era solo stanco.

Così tanto stanco…

 

Heze aveva montato il campo nel punto meno battuto dal vento che era riuscito a trovare: avrebbe preferito scendere ancora un po’, perché lassù, in una notte come quella, sarebbe calato un gelo infernale. Ma il suo compagno di viaggio non poteva camminare ancora, con una febbre simile! D’altro canto il freddo non gli avrebbe fatto del bene, c’era solo da sperare che il vento non rendesse difficile tenere il fuoco acceso.

“Installo il confine qui…?” chiese lui fievolmente.

“Ma nemmeno per idea! Quassù non passa anima viva. Ora vi sdraiate e dormite. Stanotte resto sveglio io.”

Tirò fuori dal bagaglio tutto ciò che aveva, un telo impermeabile di riserva, una coperta in più, ogni cosa che servisse per proteggersi dal freddo, e li lanciò letteralmente addosso al compagno di viaggio prima che tentasse di opporre una seppur debole resistenza.

“Sto abbastanza bene…” mormorò.

“… E noi vogliamo evitare che domani stiate abbastanza male.”

Lui si raggomitolò nella coperta fino quasi a sparirci dentro.

“Scusami.”

“Di che cosa?”

“Non mi piace essere un problema.”

Quell’affermazione così schietta gli fece tenerezza, ma gli parve anche la punta visibile di un disagio più profondo.

“Non vi piace essere un problema perché non volete che altri debbano risolverlo per voi, o perché diffidate che gli altri possano risolverlo?”

L’altro esitò, con la solita espressione di quando soppesava per bene i pensieri prima di parlare.

“Che domanda difficile…”

Heze gli si chinò accanto e lo aiutò a sistemare un giaciglio su cui distendersi.

“Allora fate come se non ve lo avessi chiesto e mettetevi il cuore in pace: questo genere di problemi non mi pesa risolverli e sono capace di farlo. Avete affrontato un viaggio difficile, senza nessuna preparazione: ve la siete cavata anche troppo bene. Se ci prendiamo una pausa non accadrà nulla di che: lo avevamo messo in conto, ricordate? Riposo, calore, e soprattutto una guida dalle mille risorse che si occupa di voi, e domattina starete bene più che abbastanza!” gli fece l’occhiolino, poi prese ad occuparsi del fuoco.

Per fortuna il vento soffiava alto e non creava problemi.

“Sei molto gentile, Heze.” la voce era attutita da due strati di coperte, sotto le quali era sparita anche la sua testa troppo bionda “Le persone gentili mi piacciono tanto.”

Il buio scese con inverosimile rapidità: accedeva così, non appena il sole spariva oltre le montagne, ed in quella stagione il fenomeno era ancora più evidente. La temperatura cambiò in fretta, ma la tenda si era riscaldata bene e manteneva un tepore accettabile. Heze allestì la cena e preparò un infusione di corteccia di salice: era un buon febbrifugo e una bevanda calda avrebbe fatto bene a entrambi. La questione delle scorte d’acqua l’avrebbe affrontata più avanti: i problemi andavano risolti uno alla volta. Non credeva sul serio a ciò che aveva detto: ci sarebbe voluta ben più di una notte perché una febbre come quella passasse, e attraversare il deserto di mirdev non era una passeggiata: c’erano i riflessi, la siccità, i neshpa, le serpi delle crepe…

Come era finito in quella situazione?

Per quanto cercasse di apparire sicuro di se stesso, la circostanza in cui si trovava era una fonte infinita di indesiderati dejavu. Erano passati quattro anni dall’ultima volta che aveva viaggiato in una terra ostile insieme a persone completamente impreparate: allora, anche lui lo era, e non si era buttato in quell’impresa di propria volontà. Allora, la sua volontà non contava, perché la sua vita apparteneva ad un altro. Poi, l’altro era morto: lo aveva visto morire per gli stenti e le ferite, ed aveva solo potuto restare fermo a guardare. Non lo amava, ma nessuno meritava la morte. Nemmeno il peggiore dei peggiori. Se quel pensiero non fosse stato solo suo, se quel pensiero fosse stato condiviso da almeno una parte dell’umanità, il mondo sarebbe stato un po’ meno infelice.

Il suo compagno di viaggio si era addormentato: un sonno agitato, difficile, disturbato da tremiti e spifferi di vento. Poveretto, aveva fatto anche troppo. Non doveva essersi mai spostato molto in vita sua: era così impacciato, così poco pratico nell’arte di arrangiarsi, e tuttavia non aveva osato rallentare la loro marcia finché non era arrivato a non reggersi più in piedi. Doveva pesargli molto il pensiero di non poter provvedere da solo a se stesso.

Viaggiavano insieme da sette giorni e almeno qualcosa di lui gli pareva di averla capita: si riteneva prima di tutto uno studioso, era affascinato dal mondo naturale e dalla cultura umana ma le interazioni sociali gli costavano sforzo, anche perché nell’enclave stessa le relazioni interpersonali non erano particolarmente incoraggiate, ciascuno si dedicava a perfezionare le proprie arti e spesso lo faceva restando a lungo solo con se stesso, o in rapporto uno ad uno con altri maghi che lui chiamava «addestratori». Anche la parola mago, a dirla tutta, non la usava: lui diceva «Persuasore» e, per rispetto, Heze si stava impegnando a imitarlo… ma le troppe leggende e gli altrettanti modi di dire su maghi e magia in cui era stato immerso fin dall’infanzia glielo rendevano difficile. E più difficile ancora era associare quelle leggende e quei modi di dire a quell’uomo lì, perché i maghi, pur nell’aura di fascino e mistero in cui erano avvolti, nella cultura popolare erano dei cattivi: esseri pericolosi e contorti, vendicativi, suscettibili, gelosi dei propri segreti, e di certo non del tutto umani.

Quell’uomo lì era indubbiamente misterioso e strano, ma anche, indubbiamente, parecchio umano.

 

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Capitolo 6
*** Tenere i pensieri qui ***


Prima era un prato e poi era una stanza.

Sul prato la spada era caduta per terra, qualcuno stava gridando. Gridava contro di lui, ma lui non capiva le parole, l’ombra era altissima e adesso riempiva la stanza, e le pareti erano coperte di rosso – erano drappi grandi, facevano odore di polvere – voleva strapparli via, tirarli giù, farli a pezzi. La polvere li avrebbe soffocati tutti e lui voleva che soffocassero tutti.

Faceva freddo, il fuoco nel camino era spento, l’ombra alta urlava e accanto a lui ne urlava un’altra, ed un’altra, tutti urlavano.

Non erano urla vere, erano urla peggiori che vere, perché i visi urlavano, i corpi urlavano, tutto urlava, ma loro fingevano di non urlare.

Perché il camino era spento?

Faceva freddo, le voci erano fredde, le mani erano fredde, la spada era fredda.

Un ragazzo chiedeva pietà, a terra, in mezzo alla stanza: sapeva di conoscerlo ma non gli vedeva il viso, anzi, lo vedeva, ma sul viso non c’era niente, niente occhi, niente naso, niente bocca. Era piccolo, così piccolo che avrebbe potuto prenderlo e metterselo in tasca, e portarlo via. Ma era lontano, e c’erano le ombre in mezzo e le ombre guardavano lui, lo avvolgevano, lo immobilizzavano – o erano le voci a farlo?

Le bocche non smettevano più di parlare. Quello che dicevano era altro da quello che dicevano. Parlavano ma urlavano – Volete star zitte? - la testa gli faceva male. Anche il corpo gli faceva male, gli facevano male le ossa, era come se gli avessero sempre fatto male.

Non riusciva a parlare – State zitte, basta, state zitte! È da tutta la vita che urlate ed urlate ed urlate! Le ombre gli stringevano le braccia, si sentiva divorare.

Il ragazzo invece non urlava: adesso aveva gli occhi grandi, grandi, grandi, e lui sapeva che stava per morire, sarebbe morto divorato, sbranato, fatto a pezzi, e i suoi occhi erano rossi – come potevano essere rossi? – sembrava che tutto sanguinasse.

Le ombre sanguinavano, le voci sanguinavano, urlavano e non urlavano.

Pensò No. No. No. No e No.

Voleva che tutti soffocassero.

Voleva che tutto andasse in pezzi, e il sangue era ovunque e le ombre avevano facce, occhi, nasi e bocche, e lui conosceva quelle facce, e gli occhi erano rossi perché sanguinavano, i volti sanguinavano, il mondo sanguinava.

Ed ora era lui che stava urlando…

 

“Ehi!” Heze gli appoggiò le mani sulle spalle, cercando vanamente di spingerlo a rimettersi disteso “Ehi, calma, state calmo…!”

Si era svegliato di soprassalto ed era balzato a sedere gridando, gli occhi sbarrati e il respiro corto.

Forse era in preda a un delirio indotto dalla febbre: era sudato fradicio e tremava visibilmente.

“Dovete aver avuto un incubo. Va tutto bene…”

Ma a Heze sembrava di parlare per nessuno: era come se lui fosse altrove, se non sentisse.

“Chiudere la serratura… ” cantilenò con una voce spezzata, come chi ha appena smesso di piangere a lungo “Chiudere la serratura… ”

Heze gli appoggiò la mano sulla fronte: contro ogni evidenza, la temperatura sembrava invece diminuita. Non doveva essere la malattia la causa di ciò a cui aveva appena assistito.

“Ehi,” ripeté ancora, con tutta la serenità di cui era capace “Sono qui. Voi siete qui.”

“Qui…” fece eco lui, e finalmente parve accorgersi della sua presenza. Le sua schiena si rilassò, curvandosi verso il basso insieme alla sua testa “Aiutami a tenere i pensieri qui… ”

Tenere i pensieri lì: doveva essere qualcosa di cui aveva bisogno spesso.

Heze se ne era accorto dal modo in cui ogni tanto perdeva l’attenzione, dalle sue domande su dettagli apparentemente insignificanti, dai suoi discorsi che cominciavano in un modo e poi restavano a metà.

Quell’uomo voleva tenere i pensieri lì, si sforzava continuamente di farlo, ma erano i pensieri che lo trascinavano da qualche altra parte, dove invece non voleva stare.

Che poteva fare per lui? Non era in grado di capire, figuriamoci di aiutare! Ma non essere in grado di rispondere ad una richiesta d’aiuto gli metteva addosso un terribile senso di emergenza.

“C’è una tradizione tra la mia gente…” buttò là, improvvisando “una cosa che fanno i pastori quando stanno per giorni sull’altopiano: una cosa per non pensare alla solitudine… ” le parole gli si ingarbugliarono sulle labbra “Oh, accidenti: ascoltate soltanto.”

Era tanto che non esercitava quel canto: non era più molto allenato. Un tempo, quando la sua stessa vita dipendeva da quanto sapesse rendersi utile o piacevole, lo intonava spesso, e lo aveva fatto anche quella notte, quando era riemerso, sano e salvo, dalla Frattura: l’unico rimasto vivo e appena diventato un uomo libero senza riuscire a rallegrarsene.

Non c’erano canti per scacciare davvero la solitudine, figuriamoci l’infelicità. Ma quei suoni erano il lamento dell’uomo piccolo e impotente, abbandonato sotto un cielo troppo grande, lontano e indifferente. Non bisognava perdersi in quell’immensità e in quell’indifferenza: si doveva rimanere lì, tenerci i pensieri.

Fuori dalla tenda, cominciò ad affacciarsi l’alba e il fuoco si stava spegnendo.

“È bello… ” mormorò ad un tratto il suo compagno di viaggio, con una voce appena sussurrata “Grazie.”

Heze smise di cantare, improvvisamente richiamato alla realtà.

“Un po’ meglio?”

Lui non rispose alla domanda.

“Che cos’era… ?”

Aveva lo sguardo più presente, sorrideva anche un po’.

“Canto armonico eshkarti,” spiegò Heze “Ma forse lo avete sentito nominare come Canto dell’Altopiano, o Canto della Lontananza. È un modo di cantare che è tipico del mio popolo, i bambini si esercitano a produrre questi suoni fin da piccoli. In realtà nasce per tre o quattro voci, ma i pastori nomadi conducono una vita molto solitaria, così ognuno, quando si sente smarrito e troppo distante da casa, canta la propria parte come se fosse un rito per mettersi in contatto.”

Lui ascoltò in silenzio poi si nascose il viso tra le mani, come a coprire un’espressione, o un emozione, e fece un profondo respiro.

“Ti sono tanto grato.” disse.

Heze si stropicciò la testa, vagamente in imbarazzo.

“Addirittura? Guardate che ho solo fatto un po’ di strani giochi con la voce!”

Lui, di nuovo, non rispose.

Il cielo si era fatto chiaro e le trasparenze del mirdev facevano quasi scomparire il profilo dei monti, rendendo l’orizzonte vago e spazioso.

“Heze…” la voce di lui si fece ancora più bassa, e al tempo stesso così profondamente dolce “Tu cosa pensi delle Maledizioni?”

 

Che razza di domanda era? Un trabocchetto, un modo per studiarlo?

No, lui non ne era proprio il tipo. Se chiedeva qualcosa, gli interessava la risposta, punto.

Dunque avrebbe accettato di buon grado il suo “non posso rispondere”… perché lui non poteva rispondere, nessuno poteva: era una domanda insidiosa, non era una domanda da fare così, alla leggera, mentre un attimo prima stavano parlando di canto difonico e di pastori nomadi…!

E allora perché l’aveva fatta? Che aveva in mente? Era saggio non rispondere? E perché invece aveva voglia di rispondergli?

“Non penso niente: non si possono avere pensieri su cose che ti hanno solo raccontato.” buttò là, quasi di getto.

“Mm.” l’altro si lasciò cadere all’indietro, sprofondando tra le coperte “E… che cosa ti hanno raccontato?”

“Vi interessa proprio? Il mio popolo non sa distinguere le leggende dai fatti, la superstizione dalla scienza…”

Lui si massaggiò la fronte, cercando una posizione comoda: sembrava più presente, ora, nonostante il tono improbabile di quella conversazione.

“Sì, mi interessa. Sennò non lo avrei chiesto.”

Touché.

Heze non riusciva proprio a resistere a quel suo vezzo di parlare con trasparenza di ciò che era tabù per tutti.

“Storie. Mi hanno raccontato soprattutto storie, quando ero piccolo. Le storie per bambini descrivono le Maledizioni come mostri deformi che mangiano carne umana, oppure come uomini che di notte si trasformano in spettri… Poi, crescendo, lo capisci che sono solo favole, ma il timore resta in sottofondo, funziona così. Le favole servono per instillare senso del pericolo. Il poco che mi hanno spiegato da grande è che molti pensano che le Maledizioni siano uscite dalla Frattura: si dice che quando la terra si è spaccata, qualcosa nell’equilibrio del mondo si è rotto, e sono venute alla luce delle creature che non dovrebbero esistere. Hanno l’aspetto di uomini, ma sono qualcos’altro ed i loro poteri violano le leggi della realtà.”

“Mm. E tu ne hai paura?”

“Come vi ho detto, ci insegnano a…”

“Tu ne hai paura, Heze?”

Voltò appena il capo nella sua direzione.

“Ne ho paura, sì.” ammise “Ma ho altrettanta paura della cattiveria degli uomini. Non ho mai incontrato una Maledizione, ma una volta ne è stata individuata una vicino a Exneirva. Era una donna, il suo potere si era manifestato all’improvviso, aveva – dissero – bruciato una casa. Quella è stata la prima volta che ho visto un mag… emh, che ho visto un Persuasore mettere piede sull’Altopiano. Non so bene come si siano svolti i fatti, so solo che la Maledizione è stata catturata e condannata. Quello che però ho percepito chiaramente è stata, come dire, la barbarie umana. Non la paura di venire a propria volta aggrediti, ma il desiderio di sangue, il desiderio che un essere vivente morisse. Noi non sappiamo – o magari qualcuno lo sa, non noi gente del popolo, comunque – cosa davvero una Maledizione sia. Ma per il poco che possiamo sentire e vedere, sono in tutto e per tutto persone. Se ne può avere terrore… ma come si può desiderarne attivamente la morte?”

Era impazzito? Che razza di discorso aveva appena fatto davanti a… a qualcuno che per un’affermazione simile aveva il potere di farlo processare? Lo conosceva da otto giorni! Poteva essere dolce quanto voleva, però…

“Anche i Persuasori violano le leggi della realtà.” fece lui, intrecciando le mani dietro la testa “Ma tocca a noi Persuasori uccidere le Maledizioni. La chiamiamo Purificazione, ma è un omicidio. Noi condanniamo e noi uccidiamo. Non il sistema giudiziario, non l’esercito. Noi. È una specie di… incongruenza, ed io…”

Fissò il telo della tenda dritto sopra il suo naso. Per un attimo si perse di nuovo.

“Grazie di avermi risposto. Potevi dirmi di no, come avrei fatto io.”

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Capitolo 7
*** Il Deserto di Vetro ***


 

Davanti ai loro occhi si spalancava lo stupefacente e inquietante spettacolo del Deserto di Vetro: una successione di lastre di mirdev che sembravano estendersi all’infinito.

“Non preoccupatevi, è solo un effetto ottico.” precisò Heze “Lo oltrepasseremo in un paio di giorni e da quel momento in poi non dovete aspettarvi più nulla di diverso da ciò che abbiamo incontrato all’inizio del viaggio!”

Yèlveran guardava quella landa luminosa e semitrasparente con occhi affascinati: c’era il sole e faceva caldo – molto più caldo di quanto si sarebbe aspettato a quell’altezza e in quella stagione – eppure gli pareva di trovarsi di fronte ad una distesa di ghiaccio immacolato.

Si sentiva ancora un po’ debole, ma la febbre era passata e Heze, che per due interi giorni era stato tassativo, alla fine aveva valutato che potevano provare a muoversi.

Heze aveva davvero un talento nell’ispirare fiducia: se non gli fosse accaduto, Yèlveran non avrebbe mai scommesso di riuscire a sopportare l’invasione dei suoi fantasmi in un momento di simile vulnerabilità. Sembrava che quel ragazzo sapesse sempre come era saggio reagire: che sapesse contattare l’emozione giusta nel momento giusto. Stare in sua compagnia era semplice, e lui amava le cose semplici, anzi, le desiderava.

“Adesso scendiamo per questo sentiero.” spiegava intanto lui, accompagnandosi con gesti delle mani “È un po’ più lungo ma meno ripido e meno esposto al riverbero. Procederemo credo un’ora o meno finché non avremo contro la luce diretta. A quel punto ci fermiamo, lasciamo girare il sole e riprendiamo. Chiudete gli occhi.”

Yèlveran gli rivolse uno sguardo interrogativo, mentre Heze stava estraendo qualcosa da una tasca.

“Chiudete gli occhi.” ripeté, mostrandogli un barattolino con un misterioso unguento nero “Questa robaccia serve per ridurre il fastidio dei riflessi. Su questo tratto alcuni viaggiatori utilizzano delle maschere, ma io preferisco questo sistema perché non toglie la visione laterale. Voglio che possiate guardare bene quel che vi circonda e soprattutto dove mettete i piedi!”

Yèlveran obbedì ed Heze gli spalmò quello strano materiale tutto attorno agli occhi: aveva una consistenza appiccicosa ed un odore fresco e piacevole.

“State bene?”

“Abbast…” si interruppe “Molto bene. Grazie.”

Camminare sul mirdev era impegnativo almeno quanto i sentieri avventurosi che avevano percorso per raggiungere il valico: Heze era abile a calcolare l’angolazione da cui sarebbero arrivati i riflessi, ma vi erano zone in cui la trasparenza era tale che la luce rimbalzava da una roccia all’altra rendendo davvero impossibile sfuggirle. A volte la vista di Yèlveran si annebbiava del tutto e per un po’ si trovava immerso solo in una accecante luce bianca, o, al contrario, in un nero assoluto sul quale baluginavano fosfeni come mosche impazzite. Ma per Heze la marcia era evidentemente così poco faticosa che riusciva a parlare a ruota libera degli argomenti più disparati, intrattenendo e soddisfacendo curiosità: il sole tramontò molto prima che Yèlveran potesse realizzare di essere stanco.

Procedettero ancora di qualche passo nel crepuscolo, finché la luce non scomparve del tutto e dovettero accamparsi. Le stelle erano lucide di notte come le rocce su cui sedevano lo erano di giorno.

“Non ho mai visto un cielo così…” ammise Yèlveran, col naso rivolto in aria.

“Un po’ è per l’effetto della roccia. Se cercate una lastra abbastanza trasparente potete pure vederci le stelle dentro…” si interruppe “ma preferirei che non lo faceste e che rimaneste sotto la tenda e sotto le coperte. Il calore del giorno non deve ingannare, fa poco sarà freddissimo, e il nostro fuoco non starà acceso a lungo: la materia prima scarseggia… ”

Heze aveva portato con sé della legna che aveva raccolto quotidianamente prima che la vegetazione si facesse scarsa, ma in cima al valico l’avevano esaurita quasi tutta.

“Mi dispiace.” disse Yèlveran “Se non avessimo tenuto il fuoco sempre acceso per due notti di seguito, non avremmo il problema…”

“Avevate la febbre.” sdrammatizzò “È stato un incidente di ordinaria amministrazione. Piuttosto, sull’acqua dobbiamo andare al risparmio: a meno che non piova - e il cielo pare suggerire il contrario - la sorgente è ancora distante.”

Anche le scorte d’acqua erano diminuite a causa della sua malattia: a forza di sudare era rimasto letteralmente disidratato, ma Heze non si era curato di lesinare sulle loro riserve. “Un passo dopo l’altro” diceva sempre “Le cose si prendono una per volta, perché ogni giorno ha le sue fortune e i suoi guai.” Aveva il dono dello stare nel presente, e non per fuga ma per istinto: era radicato a ciò che accadeva nel momento, per questo sapeva anche affrontarlo. Non permetteva all’ansia del futuro di rendere più difficile la sua lotta quotidiana, eppure, di lotte doveva averne affrontate parecchie: aveva troppa esperienza per l’età che dimostrava, troppa sottile saggezza per essere un ragazzetto del popolo cresciuto in una delle regioni più sperdute del mondo, troppo solido ottimismo per non averlo faticosamente costruito.

 

Il mattino all’alba, Yélveran fu svegliato da un rumore: era rauco e distante, ma spiccava nell’assoluto silenzio, specie in quel momento di calma di vento.

Fece fatica ad aprire gli occhi e solo dopo esserseli stropicciati con le dita si rese conto che le sue ciglia erano ancora impastate di nero. Non poteva permettersi il lusso di lavarsi il viso, perciò cercò di pulirsi le palpebre con un lembo della manica: sentiva davvero bisogno di farsi un bagno e cambiarsi i vestiti; per fortuna, stando alle previsioni, in una giornata sarebbero arrivati ad una sorgente e in capo ad altre due ai piedi dei monti.

Heze dormiva, raggomitolato su un fianco, col bagaglio sotto la testa e il mantello addosso: da quando lui si era sentito male, aveva insistito che usasse anche le sue coperte e non si era mai posto il problema che in quel modo prima o poi ne avrebbe fatto le spese. Yèlveran non riusciva a non sentirsi in colpa e al tempo stesso grato: Heze aveva detto fin da subito che non desiderava assumersi la responsabilità di un’altra persona, e invece alla fine aveva fatto esattamente questo, con delicatezza e senza farlo pesare.

Si alzò piano per non svegliarlo e si affacciò fuori dalla tenda: la luce era piacevole, il sole era ancora basso e i riflessi rendevano l’atmosfera soffusa e rosata.

Si guardò in giro alla ricerca della fonte del rumore che continuava a sentire: era qualcosa di misto tra un sibilo e un grugnito, che saliva e calava, ma si faceva sempre più vicino. Poi una folata di vento si alzò e il rumore si spense; Yèlveran fece per richiudere i lembi della tenda, quando all’improvviso qualcosa di grosso e pesante piombò davanti a lui con un tonfo: era una creatura che non aveva mai visto nemmeno disegnata, lunga un paio di braccia, zampe corte e ventre largo, rivestita da un’abbondante pelle squamosa che gli ricadeva in una tripla piega sugli occhi rendendola palesemente cieca; adiacenti alle zampe aveva larghe membrane, che dovevano servire a spiccare piccoli voli quando, come in quel caso specifico, il vento la aiutava a darsi la spinta.

L’animale girò la testa in più direzioni, senza muoversi: nemmeno Yèlveran si mosse, fino a quando l’ospite indesiderato non puntò nella sua direzione, allargando la bocca e mostrando una doppia fila di denti tutt’altro che amichevoli.

“Oddioooo!” esclamò lui rovinando a sedere all’indietro, terrificato.

Heze si svegliò di soprassalto e subito ebbe chiaro lo scenario.

“Ssst!” fece, alzandosi con cautela e posizionandosi tra Yèlveran e l’intruso “Non vi muovete, non lo spaventate: rinuncerà ad attaccare appena si renderà conto delle nostre dimensioni. Però se si sente in pericolo è un’altra storia.”

Yèlveran non se lo fece ripetere due volte e rimase immobile lì dov’era atterrato.

Neanche l’animale avanzò, ma emise un fischio-grugnito prolungato e contrasse le narici.

“Usa il suono per prenderci le misure” spiegò Heze, mentre, con gesti lentissimi e precisi, frugava tra le riserve di cibo “E con l’olfatto decide se vuole mangiarci. Ovviamente siamo troppo grossi per lui, ma il suo morso fa male! Speravo di non incontrarne, avrebbero dovuto essere ancora tutti in letargo.”

La lezione di etologia in quel momento non era affatto rassicurante, ma Heze non pareva allarmato e non si ritrasse neppure quando quella creatura spalancò di nuovo la bocca sfoggiando la dentatura.

“Devi avere un sacco di fame…” disse, sporgendosi in avanti con un avanzo di carne essiccata in mano “Mi sa che ti sei svegliato troppo presto… ”

Lanciò il cibo nella sua direzione e si avvicinò di un passo.

L’animale annusò l’aria, poi si avventò sulla carne e la fece sparire in un battito di ciglia. Heze ne estrasse un altro pezzo, e ripeté il gesto: lo fece diverse volte, finché non gli fu così vicino da poterlo toccare. La creatura gli girò attorno, articolò più volte il suo strano verso, poi indietreggiò, spalancò le membrane e balzò via.

“Che… accidenti… era?” farfugliò Yèlveran, in bilico tra la sorpresa e il sollievo.

“Vi siete spaventato?”

“Più che abbastanza, direi… ”

“Era un neshpa, il predatore del Deserto di Vetro. È cieco, così non viene ostacolato nella caccia dai riflessi. Cerca le prede con l’olfatto e con l’eco-localizzazione. Di solito mangia le serpi delle crepe, grossi insetti e, usando le membrane per volare, anche alcuni uccelli. Non trova molto di meglio qui, per questo è molto temuto quando, spinto dalla fame, scende oltre la linea del mirdev. Ma in verità è un animale socievole, e ci sono studiosi che pensano che potrebbe essere addomesticato. Con me si sono sempre relazionati bene!”

A quell’affermazione a Yèlveran sfuggì una risata.

“A me è sembrato che sia stato tu a relazionarti bene con lui!”

Heze si voltò a guardarlo e sbatté le ciglia, come se qualcosa l’avesse appena molto sorpreso.

“Ehi…” disse, senza smettere di fissarlo “vi ho appena fatto ridere o sono vittima di un miraggio dei riflessi?”

“Era… qualcosa di cui non è corretto ridere?” fece lui, senza capire.

“Ma no, ma no!” si affrettò a rispondere Heze “È che, allora, sono molto contento di aver incontrato un neshpa fuori stagione, perché fino ad oggi voi non avevate ancora riso mai!”

Yèlveran si stropicciò la testa, confuso: che strano, nella sua percezione, gli era sembrato di aver riso un sacco di volte. Era così difficile sentire le cose nella misura giusta: troppo poco, e gli altri non se ne accorgevano, troppo e diventava pericoloso.

Smontarono il campo e ripresero la marcia. Via via che scendevano, il mirdev cedeva sempre più rapidamente posto alla roccia nuda, qua e là bucata da cespi arancioni di luyo, finché il loro sentiero si aprì su una ariosa distesa di erba e fiori. In lontananza si sentiva il gorgolio di un ruscello.

“Fine dei riflessi e fine del razionamento d’acqua!” esclamò Heze “Siamo alla sorgente della Marva, e adesso seguiamo il suo corso più o meno fino a Capovalle!”

Il sole stava tramontando quando poterono finalmente lavarsi il viso, togliere gli ultimi residui di unguento dagli occhi e bere abbastanza da farsene passare la voglia.

Sedettero vicino alla sorgente e riposarono un po’: lo sguardo di Yèlveran si perse sulle vette da cui erano discesi, che, viste da lì, erano tornate ad essere aguzzi denti azzurrini stagliati sul cielo, montagne identiche a quelle che si intravedevano dall’enclave, identiche a qualsiasi altra montagna: nessun indizio del riverbero iridescente del mirdev, delle voragini spazzate dal vento e della loro imponderabile vacuità.

“A voi piacerebbe viaggiare.” disse all’improvviso Heze, richiamandolo al presente.

Non era una domanda: sembrava quasi una sentenza. Yèlveran sollevò le sopracciglia come a chiedergli di precisare quell’affermazione.

“Avete una bellissima gamma di espressioni ogni volta che vi fermate a osservare come è fatto il mondo. Persino quando qualcosa vi terrorizza e spalancate gli occhi sospirando Oddio, voi non avete in faccia spavento, ma senso di immensità…”

Senso di immensità. Che bel concetto.

“Davvero?”

“Davvero. Voi dovreste proprio viaggiare. Siete chiaramente fatto per guardare le cose. Una vita di isolamento nell’enclave di Villanuova sarà forse necessaria ai vostri studi, ma di sicuro non è adatta ai vostri occhi.”

“Davvero?” ripeté Yèlveran, ancora: gli pareva di aver appena ricevuto un enorme complimento.

“Ho detto qualcosa di così assurdo da aver bisogno di doppia conferma?”

“No, è che… ” si interruppe “Aspetta. Fammi trovare le parole giuste.”

Ci pensò su, riprese.

“È che ognuno di noi ha un’immagine di sé. Un po’ auto-costruita, un po’ costruita dagli altri, ma tu ti ci specchi dentro, e inesorabilmente stai lì. Io ho di me l’immagine di qualcuno che non si muove a proprio agio nella… emh…realtà. Che inciampa nel mondo e nelle persone. Che inciampa persino nel proprio corpo e nei propri abiti. Che deve tenere le cose con due mani perché non gli cadano. Che ha bisogno di piedistalli per stare in piedi.”

“Siete stato perfettamente in piedi su una delle voragini più impressionanti che la realtà possa offrire.”

“Perfettamente no. Abbastanza.”

Abbastanza col cavolo: voi avete attraversato i Monti di Vetro!”

Heze lo stava guardando con un’espressione orgogliosa e sicura e Yèlveran pensò a quante volte, molti anni prima, quando era ancora un bambino, gli sarebbe piaciuto essere guardato in quel modo. A come, forse, le cose avrebbero potuto andare diversamente. Ma nella famiglia in cui era cresciuto non c’era posto per chi non si mostrava naturalmente forte, naturalmente deciso, naturalmente cattivo. Heze aveva ragione: non erano quei monti a fare paura, era la ferocia umana… e loro stavano per buttarcisi in mezzo.

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Capitolo 8
*** Capelli rossi ***


Heze si sentiva davvero sollevato: avevano raggiunto la valle, il suo compagno di viaggio non aveva avuto ricadute e presto avrebbero potuto fermarsi al mulino sulla Marva, col suo grazioso abitato attorno, dove avrebbero potuto dormire su un letto comodo, rimettersi in sesto e mangiare come si doveva: e considerato con chi stava viaggiando, poteva pure permettersi di non badare a spese! Forse c’era anche speranza di ottenere un passaggio su ruote, benché i tratti percorribili da carri fossero pochi e male in arnese. Quanto alla possibilità di procedere a cavallo, invece, la conversazione si era svolta più o meno così: “Sapete cavalcare?” “Quando ero bambino hanno provato a insegnarmi, ma dopo una frattura, un trauma cranico e uno zoccolo sulla schiena” (eventi – aveva tenuto a precisare – avvenuti in tre circostanze diverse) “hanno rinunciato.”

Heze aveva approfittato di quel riferimento all’infanzia per fare domande sul suo passato, ma il dialogo si era inesorabilmente arenato su uno dei fatidici “è meglio se non rispondo.” Ogni volta che si toccavano argomenti che riguardavano la vita prima di entrare nell’enclave, i discorsi si chiudevano tutti così, ma Heze non si dava per vinto e cercava di rubare confidenze da ogni scambio, e non per curiosità morbosa bensì perché aveva l’impressione che, a prescindere dalle domande tabù, quell’uomo trovasse sollievo nell’essere ascoltato. E poi aveva quella voce maledettamente bella…

“Quanti anni siete stato nell’enclave?”

“Più di dieci, credo.”

“E quanti ne avete adesso?”

“Venticinque...ventisei…credo.”

“Credete?”

“Nell’enclave ho perso un po’ il conto. Tenerlo non mi serviva.”

...

“Che farete dopo aver consegnato il vostro messaggio?”

“Torno a Villanuova e studio.”

“Fino a che punto si può studiare una Persuasione?”

“Tutta la vita, credo.”

“E a cosa vi serve?”

“A… realizzare un desiderio, credo.”

“Un desiderio? Che bello. Quale?”

“È una domanda a cui non posso rispondere.”

“Come si diventa un Persuasore?”

“Mm. Non è facile da spiegare… ”

“Nessun altro oltre a voi me lo spiegherebbe.”

“Perché? Non siamo esseri mitologici, abbiamo solo fatto un percorso di apprendimento diverso.”

“Però non tutti possono…emh… imparare la magia, giusto?”

“Sì, beh, immagino sia così. I potenziali Persuasori vengono selezionati per predisposizione.”

“In che modo?”

“Non so. È un compito che spetta ai Persuasori di Ricordi. Io non mi occupo di sbirciare nella testa altrui.”

“Che intendete?”

“Intendo che per selezionare bisogna andare a scovare… come dire… una specie di dissonanza nella mente: solo in certe menti le Persuasioni possono essere svegliate. Ma non funziona sempre: a volte alcuni percorsi di addestramento si chiudono in un nulla di fatto. Però è anche vero che nessuno ha mai provato ad addestrare qualcuno che quelle caratteristiche non le mostrasse, quindi l’affermazione che non tutti possono imparare è teoricamente ancora discutibile.”

“E sostenere questa teoria è… legittimo?”

“Non lo so. Ma il mio addestratore è un uomo che non dà molto peso all’etichetta, per grazia del cielo.”

E niente, Heze adorava quel tono: lo stesso con cui, al loro primo incontro, aveva dato di cretini a tutti coloro che sopravvalutavano se stessi solo per il fatto di essere maghi. Nella sua pacata dolcezza, esibiva senza riserbo alcuni valori ben definiti: che le distanze sociali non lo riguardavano, che il diritto di chiedere spiegazioni era di tutti, e che le cose non erano fatte in un modo solo perché si era sempre pensato che fossero così. Era naturalmente anarchico e naturalmente simpatico.

 

Raggiunsero la loro meta al tramonto: il cielo tinto di rosso prometteva un’altra bella giornata e le case avevano porte aperte sulla strada e persone sulla soglia. Marvino era un paese notoriamente tranquillo: gli abitanti erano quasi tutti contadini e il vecchio mulino, che faceva da cuore di quel posto, era piccolo e malfunzionante a causa della scarsa portata della Marva, che non era certo un fiume sulla cui regolarità si poteva contare. Non ci girava tanta gente, men che meno merci o affari: un luogo con nulla da perdere e nulla da guadagnare, dove tutti si conoscevano ed anche i viaggiatori come lui erano pochi e sempre gli stessi. Heze si era chiesto spesso a chi fosse venuta l’idea di costruire un mulino ad acqua proprio lì, ma purtroppo la valle del Lungo non abbondava di fiumi atti a questo scopo, fatta eccezione di quello che le dava il nome.

Si diresse sicuro verso un edificio a un solo piano: l’unico con un comignolo fumante e, a differenza di tutte le altre case, con le inferriate alle finestre. Sulla porta, un grossa botte rovesciata faceva da sedia ad una donna di mezza età, con la schiena ampia e curva e due avambracci massicci, intenta a fumare una pipa, la quale, non appena riconobbe il ragazzo, si alzò con una scioltezza che irrideva al suo peso.

“Chi si vede! Il mio piccolo rosso!” nel dirlo, non si tolse la pipa di bocca masticandosi invece due terzi delle parole “Quale emergenza ti porta su questa strada?”

Heze colse subito il sottinteso.

“Niente di prezioso o scottante, puoi dormire tra dieci guanciali!” la tranquillizzò, poi accennò col capo al compagno di viaggio, che era rimasto qualche passo indietro “Accompagno quest’uomo a Feuzte. A quanto pare ha un affare da concludere là e mi ha chiesto la strada più corta.”

Gli occhi della donna si posarono sullo sconosciuto.

“Deve essere un affare piuttosto importante per voler attraversare il valico.” indagò.

Heze fece spallucce, abbassando il tono della voce.

“Una faccenda di eredità, pare… Ma ti prego di non toccare l’argomento con lui e non chiedergli il suo nome. Credo si senta in profondo imbarazzo per il comportamento dei membri della sua famiglia: deve essere una di quelle storiaccie in cui per un pugno di spiccioli fratelli e cugini si accoltellano tra loro!”

La donna allungò una nuova occhiata all’oggetto della conversazione.

“Mpf… famiglia altolocata, perciò. Bel tipo, anche se un po’ sciupacchiato. Paga bene?”

“Eccome: quindi, spero che ci tratterai con tutti i riguardi. Ci servono una stanza per dormire, una bella cena, un bagno e lui tiene molto a far lavare i suoi vestiti.”

Heze si voltò verso il suo compagno e vide che non si era mosso di un passo, come se aspettasse il permesso. Fu la donna a prendere l’iniziativa e andargli incontro.

“Sono Tomira,” disse “la proprietaria di questa baracca!”

“Ma baracca comoda,” chiosò Heze, ammiccando all’amica “e anche l’unico punto di ristoro da qui a Capovalle.”

Lui le strinse timidamente la mano.

“Figliolo, così non va.” fece lei “Un po’ di energia in queste dita, siete giovane e forte!” e diede in una risata un po’ roca ma calorosa “Siete tanto stanco, eh?”

“Abbastanza…”

 

Erano quattordici giorni che Yèlveran non vedeva un tetto sopra la propria testa, e il trovarsi in quello stanzone fumoso e dal soffitto basso gli dava calore e stordimento insieme. Qua e là c’erano gruppetti di persone: forse qualcuno era un viaggiatore come loro, ma, dal modo in cui interagivano e dagli intercalari condivisi nelle loro conversazioni, i più dovevano essere gente del luogo che passava lì il proprio tempo. Tutti uomini, di diverse età: alcuni chini attorno ad un tavolo, a fare cerchio su una partita di Quattro Venti, altri che stavano semplicemente mangiando e bevendo, un paio accudivano la brace e un pentolone, mentre la proprietaria era di vedetta lì dove l’avevano incontrata. Era entrato in un posto simile una volta, a Villanuova: ci si era infilato per sfuggire al palio degli asini e alla gente che si spintonava urlando. Non che la sua idea fosse stata brillante: all’interno aveva trovato solo ubriachi molesti e l’odore intenso dell’erba celeste, che gli dava alla testa anche senza averla mai fumata e che danneggiava l’autocontrollo più in profondità che i peggiori liquori. Allora si era confuso e aveva perso il senso del tempo e dello spazio: era tornato all’enclave a notte fonda e aveva fatto preoccupare Garlan. Luxei invece si era fatto raccontare tutti i dettagli ed aveva riso. Poi, però, lo aveva preso in disparte e gli aveva ripetuto quello che gli diceva sempre, da anni: “Non devi temere di fare cose che non vuoi, Yèlveran. La tua mente è forte e può gestire gli eventi: non sono gli eventi a manovrare te. Ma devi rappacificarti con la paura: finché la temi non puoi controllarla.”

La mano di Heze si appoggiò lievemente sulla sua spalla.

“Ho inventato una balla per voi, come richiesto!” gli disse, forse cercando di interpretare il suo smarrimento “Nessuno vi farà domande.”

Yèlveran abbozzò un sorriso.

“Spero che non ti sia pesato… ”

“Cosa, mentire? Sono un giramondo, la gente come me fa la tara sia alla verità che alla bugia, e quando ve ne sarete andato di qui, le cose che ho raccontato di voi non saranno né bugie né verità, ma solo storie!”

Mentre lui si guardava intorno per individuare l’angolo più isolato della stanza, Heze si avvicinò deciso ad uno dei due che stava tenendo vivo il fuoco, e iniziò a dire qualcosa, quando una voce brusca si sovrappose alla sua.

“Chi ha fatto entrare quello!?!”

Yèlveran ne individuò subito il proprietario: un uomo che poteva avere poco più dei suoi anni, in piedi dall’altro lato dello stanzone, che puntava smaccatamente il dito nella direzione del ragazzo. Stesso taglio di occhi e tratti del volto: eshkarti anche lui.

Heze non aveva ancora reagito, ma Tomira era già rientrata a prendere il controllo della situazione: dritta sulla soglia con le mani sui fianchi e la sua altezza spropositata, faceva una certa impressione.

“Che hai da gridare? Qua la gente vuole stare tranquilla!”

L’uomo la fronteggiò senza farsi intimidire.

“Non posso stare nella stessa stanza di quello là! Porta male!”

“Ed io invece dico che quello là ha diritto quanto te di essere qui, perciò, se vuoi mangiare e continuare il tuo gioco, fattene una ragione.”

Il tizio si era effettivamente alzato dal tavolo del Quattro Venti, ed i suoi compagni lo stavano alcuni rabbonendo altri, invece, sobillando. Niente di peggio che incitare una testa calda, ma niente di peggio anche sfidarla: a Yèlveran l’atmosfera non stava piacendo affatto.

“Lo conosci?” chiese sottovoce ad Heze.

Lui si strinse nelle spalle e sfoggiò un sorriso privo di allegria.

“No, ma lui è un eshkarti coi capelli del colore giusto, dunque, per convenzione, dovrei sloggiare da qui senza nemmeno farmelo chiedere.”

“Perché?”

“Perché, beh… cosa vi avevo detto a proposito del mio popolo e delle sue credenze? Io” e si portò una mano sul petto “sono nato rosso, dunque per la mia gente sono un discendente della despota dalla chioma di fuoco che, nella nostra mitologia, oppresse il popolo eshkarti. In sostanza: sono un pericolo, un abominio, un portatore di sventura… fate voi.”

La voce lo interruppe di nuovo.

“Ehi, figlio della fiamma, alza i tacchi e levati dalle palle senza che scomodiamo la Signora!”

Le sopracciglia di Tomira arrivarono quasi a toccarsi: c’era aria di tempesta sul suo viso ed anche tutto intorno. I compagni di tavolo dell’eshkarti chiamavano la rissa, per noia o magari per il gusto di prendersi gioco delle superstizioni del loro amico, quest’ultimo minacciava Heze con la sicurezza di chi l’avrà vinta, i due alla cucina sembravano pronti a scendere in difesa del ragazzo, mentre resto dei presenti continuava a mangiare e bere indifferente, qualcuno forse un po’ incuriosito dall’insolita piega che stava prendendo una serata dal ritmo abituale.

Heze fece un sospiro rassegnato e si rivolse alla padrona di casa.

“Senti, è meglio se… ”

E no.

Proprio no.

 

“Scusami… mi spiegheresti perché non puoi restare nella stessa stanza con questa persona? È una storia che non so e mi piacerebbe conoscerla.”

Heze sgranò gli occhi: l’uomo che non voleva avere a che fare con la gente gli aveva appena tolto la parola e si era rivolto a quel tizio con placida serietà.

“Che ti devo spiegare? Quello porta iella e lo sa! Dove passano quelli come lui succede sempre qualcosa di orrendo! Se ne deve andare!”

“Mm. Chi lo dice?”

“Ma che cazzo vuoi? Se le cose non le sai, allora non rompere i coglioni a chi le sa!”

Lui attraversò la sala e andò a piazzarsi dritto davanti all’altro, occhi negli occhi.

“Hai ragione, non so niente… ma proprio perché non so un bel niente ho bisogno che le cose mi vengano dimostrate.”

Buttò uno sguardo al tavolo da gioco.

“Quattro Venti?”

Il gruppo al tavolo confermò ridacchiando. Heze temette che la situazione degenerasse in una rissa: che gli era saltato in mente? Non era lui quello che desiderava starsene in disparte, non essere notato, sparire?

“È un gioco in cui la fortuna conta parecchio, non certo un gioco per strateghi. Meglio così.” passò letteralmente oltre la schiena del suo interlocutore, e si sedette al tavolo “Dunque, Heze, puoi venire qui accanto a me?” e gli fece un cenno con la mano.

Heze sbatté le ciglia, spiazzato, mentre Tomira sorrise con un solo lato della bocca.

“Partita secca, uno contro uno. Se vinci, mi avrai dimostrato che hai ragione tu.”

L’ultima cosa che Heze aveva immaginato era che un mago si dilettasse a giocare a carte: eppure, in fondo, che ci sarebbe stato di strano? Nell’enclave sperduta di Villanuova, in qualche modo anche loro dovevano pur passare le serate! Era un’idea così estranea al suo immaginario che gli faceva venire da ridere, nonostante la situazione non fosse affatto divertente.

Il suo compagno cedette il mazzo all’avversario, che mescolò e distribuì. Con un paio di buone mani, l’eshkarti passò rapidamente in vantaggio, ma l’altro non sembrava preoccuparsene e continuava a giocare impassibile, con quello sguardo perso altrove che Heze aveva imparato a conoscere bene. A metà della partita, le sorti si erano capovolte drasticamente: sembrava che lo sfidante conoscesse una per una le carte in tavola, non lasciava passare che pochi secondi tra una mossa e l’altra e alla terzultima mano era già evidente chi fosse il vincitore.

“Come cazzo fai!” esplose lo sconfitto spazzando le carte via dal tavolo, insieme ad un piatto che si infranse al suolo “Stai barando, figlio di puttana!”

“Affatto.” rispose lui senza fare una piega “È stata solo… fortuna.” e ammiccò con lo sguardo ad Heze.

L’uomo balzò in piedi e si sporse oltre il tavolo con la prossemica di un aggressore.

“Oppure no.” proseguì lui, serafico “Magari la fortuna non c’entra niente, magari c’entra il fatto che so tenere il conto delle carte che passano, che leggo sul tuo viso che mano hai di fronte, che la troppa sicurezza ti frega, così come ti ha fregato pensare che la sventura dovesse accompagnarmi. Ma non esiste la sventura: esiste avere intelligenza e non averne.”

Un pugno partì al suo indirizzo, ma Heze lo intercettò bloccandogli il braccio con entrambi i suoi.

“Ti ammazzo, baro di merda, e ammazzo anche te, rosso del malaugurio!”

“Heze…” quella voce dolce e svagata in quell’atmosfera densa da tagliarla a fette sembrava un paradosso “In quante ore hai detto che muore chi manca di rispetto a un mago?”

La domanda fece scendere il silenzio attorno al tavolo.

“Emh… trentatré.”

“Trentatré. Mi fa così strano che vi siate inventati una tradizione tanto precisa, ma non vorrei gettare fango su un’altra delle vostre credenze, quindi vada pure per trentatré.

Con lentezza, arrotolò la manica della camicia fino al gomito, stendendo il braccio sul tavolo: nemmeno Heze aveva mai visto tracciato sulla sua pelle il simbolo – che pure sapeva dovesse esserci – di… di cosa? Della casta dei maghi? Dei membri delle Persuasioni? Non sapeva neppure più che termini usare.

L’eshkarti impallidì.

“La mia guida sta aspettando delle scuse. Se poi non gradisci condividere la stessa stanza con noi per ragioni diverse dalla sventura, nessun problema, ma almeno chiamiamo le cose col loro nome.”

 

“Per la miseria, spiegatemi che vi è saltato in mente!”

Si erano appena ritirati nella stanza che Tomira aveva allestito per loro: gli aveva acceso il caminetto, fatto portare coperte morbide, abiti puliti, ad aveva fatto allestire un bagno caldo con tutti i crismi… doveva essere la prima volta nella vita che un mago si fermava a dormire nella sua locanda!

Heze, però, era ancora frastornato: per tutto il tempo che gli era servito per consumare la cena, era rimasto innaturalmente zitto perché non aveva chiaro come avrebbe dovuto comportarsi.

Il suo compaesano aveva levato le tende continuando a chiedere perdono… chissà se temeva ancora di morire entro le trentatré ore successive, nonostante fosse stato rassicurato più volte che le scuse erano state accettate. Quanto al resto degli avventori, avrebbero avuto una bella storia da raccontare alle mogli quella sera… Ma lui? Doveva continuare ad inventare storielle? Far finta di non aver saputo prima? O che altro?

Saltato in mente mi sa che è proprio la parola giusta.” il suo compagno si era seduto sul bordo del letto e si stropicciava gli occhi, come preda a una strana stanchezza “È che quei discorsi mi hanno dato fastidio e ho perso il controllo della situazione…”

“A me pare piuttosto che ve lo siate preso, il controllo! E meno male che non sapevate interagire con la gente. Ma forse devo smettere di stupirmi: forse quando un Persuasore dice di non saper fare una cosa, in realtà è il contrario, o forse avete delle aspettative molto più alte di noi comuni mortali.”

Non era arrabbiato, ma si rendeva conto di star mettendo fin troppa veemenza nelle proprie parole.

L’altro fece un breve sospiro.

“Scusami.”

Lo aveva detto con lo stesso tono con cui, il giorno del loro primo incontro, si era scusato di non avergli rivelato il proprio nome, ed anche quella volta Heze desiderò chiedere “di cosa?”: ma non lo fece.

“È la verità…” riprese lui “Sono in difficoltà nel relazionarmi con la gente, proprio perché non mi piace che… che il mio sentimento in una determinata circostanza mi porti a fare o dire cose che non erano progettate. Perché poi le parole e le azioni amplificano quegli stessi sentimenti, li rendono più vividi e quindi più potenti, e non è una cosa che fa per me. È come il luyush. Permettere a me stesso di reagire agli stimoli che ricevo dagli altri, è come bere luyush. Mi è vietato.”

“Ed ora io vi chiederò il perché e mi direte che non potete rispondere.”

“Già.”

“Accidenti a voi!”

Lui non rispose ed abbozzò un sorriso vuoto.

Accidenti davvero.

Che c’era di sbagliato nella testa di quell’uomo? Come poteva esistere un divieto di provare emozioni? E perché, perché dopo averlo difeso a spada tratta, dato la lezione che meritava ad un prepotente, e averla avuta vinta in modo clamoroso, aveva quello sguardo così triste?

Accidenti davvero.

“Beh, questo almeno ditemelo:” Heze cambiò tono, tuffandosi disteso sul letto a pancia in su “dove avete imparato a giocare a Quattro Venti in quel modo? Fa parte del percorso di studi di un Persuasore?”

Lui si concentrò sulla domanda e il suo viso si distese: Heze si compiacque tra sé di quanto ormai avesse imparato a conoscerlo. Era uno di quei momenti in cui aveva bisogno di tenere i pensieri lì.

“Nel mio caso, potrei dire di sì. Il mio addestratore mi ha insegnato moltissimi giochi: carte, dadi pedine. Giocavamo ogni sera. Serviva per imparare a chiudere la mente alla Persuasione dei Ricordi. In teoria, nella nostra Regola è severamente vietato usare una Persuasione su un altro Persuasore senza il suo consenso, ma la verità è che nessuno si fida davvero, così molti Persuasori si impegnano ad apprendere, almeno ad un livello superficiale, le tecniche degli altri, per riconoscerle e difendersi. Per questo visualizzo confini immaginari anziché utilizzare oggetti rituali: sarebbero troppo più facili da disfare da chi fosse istruito sul come. Allo stesso modo, anche se non sono Persuasore di Ricordi, se qualcuno volesse leggere la mia mente me ne accorgerei, e probabilmente glielo impedirei. Beh, a meno che il Persuasore non sia molto bravo o abbia tempo a disposizione. Contro il tempo e la pazienza c’è poco da fare.”

Heze si era fermato a metà di quel discorso.

“Il vostro addestratore legge nella mente?”

Era un’immagine piuttosto inquietante, e per un attimo si chiese, con un certo turbamento, se i suoi pensieri fossero al sicuro in compagnia di quell’uomo.

“Tutti i Persuasori di Ricordi lo fanno. È alla base della loro arte.”

“E voi…”

“Io non sono capace. Ci sono Persuasioni che non intendo apprendere, ma proprio per questo il mio addestratore ha insistito che sapessi almeno proteggermi.”

Nemmeno di questo addestratore aveva mai fatto il nome, eppure lo chiamava in causa spesso come una figura di riferimento.

“Gli siete affezionato?”

“Mm. Sì, credo.”

“Questo non vi è vietato?”

Si fermò a pensarci.

“Direi… no…”

Heze fece un lungo sospiro ostentato.

“Grazie al cielo!”

 

Quella notte, Heze fece fatica ad addormentarsi. Le parole di quel tizio continuavano a bruciargli, nonostante ci avesse fatto il callo da tutta la vita. Figlio della Fiamma, Portatore di Sventura, Rosso del malaugurio erano epiteti che lo avevano accompagnato fin dall’infanzia, ma era da molto tempo che non gli capitava di essere vittima diretta di un’aggressione: dopotutto, da quando lo aveva lasciato si era tenuto deliberatamente alla larga dall’Altopiano. Né intendeva tornarci, se non obbligato: del resto, per i pochi che forse ricordavano la sua esistenza, lui era morto inghiottito dalla Frattura, come tanti altri pazzi che avevano tentato quell’impresa abbagliati da un miraggio.

Si era costruito una vita nuova, una vita che per una volta era soltanto sua: dura, a volte, ma indipendente. Era un messaggero apprezzato e ben pagato, gli ingaggi non gli mancavano, il lavoro gli piaceva: metteva in contatto le persone e vedeva il mondo; non era il sogno che aveva coltivato da piccolo, ma ci si avvicinava, e aveva ottenuto tutto questo con le proprie forze, in barba alla presunta sfortuna che avrebbe dovuto accompagnarlo e ai pregiudizi che avevano reso il suo passato un inferno.

Eppure, situazioni come quella appena vissuta lo rigettavano indietro nel tempo e lo facevano sentire di nuovo piccolo e impotente, tanto da restare zitto, cedere senza reagire ed essere disposto a darla vinta a un imbecille qualsiasi. Avrebbe dovuto dirgliene quattro, prenderlo a pugni, magari: non temeva di avere la peggio in una rissa, aveva attraversato mezzo mondo, era stato assalito, derubato, minacciato, e ne era sempre uscito in piedi: era capace di difendersi. Ma davanti a quelle parole aveva chinato la testa… Perché, nonostante non ci credesse, nonostante avesse lottato una vita per scrollarsi di dosso la mentalità eshkarti, per avere una mente aperta e razionale, sentiva ancora il peso di tutte quelle frottole? Forse per la stessa ragione per cui la gente aveva il terrore delle Maledizioni: perché le storie erano fatte per rimanere nelle ossa e continuare a lavorare in profondità, e a remare contro anche quando il cervello aveva chiara la direzione.

Guardò il suo compagno addormentato: si conoscevano da due settimane, non potevano certo dirsi amici, ma non aveva esitato a prendere le sue difese, anche andando contro le proprie intenzioni e dicendo e facendo cose che non erano progettate. Non se lo aspettava.

«Pratico l’arte della protezione» gli aveva detto.

Non solo tracciando confini, a quanto pareva.

Heze non desiderava questo: aveva bisogno di poter badare a se stesso da solo. Però nessuno lo aveva mai protetto prima, ed era una sensazione dannatamente piacevole.

E poi…

E poi c’era quella cosa che gli piaceva ancora di più.

Quell’uomo era intervenuto.

Di fronte alla ferocia del mondo, non era rimasto indifferente: non ne era diventato complice.

 

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Capitolo 9
*** Il diritto di essere aiutati ***


Furono pronti per ripartire in tarda mattinata: Heze aveva insistito perché approfittassero dalla situazione per riprendere le forze, dato che ci sarebbero volute un altro paio di notti all’addiaccio prima di raggiungere Capovalle. Quando lasciarono la locanda il sole era già alto, poche nuvole sfilacciate si rincorrevano in cielo e in paese c’era movimento perché era giorno di mercato.

Tomira preparò loro il pranzo e riempì le loro borse di provviste più di quanto avessero chiesto, tuttavia, mentre faceva scivolare nella bisaccia di Heze una bottiglietta del liquore che produceva sottobanco, si avvicinò al suo orecchio e gli sussurrò: “Sei in qualche guaio? Hai bisogno d’aiuto?”

Il ragazzo lanciò un’occhiata in tralice al compagno di viaggio: era intento a bere una spremuta di frutta e completamente estraneo a quello scambio di battute.

“No. Perché?”

“Lavori per…” fece una specie di gesto scaramantico “per un mago! In che casino ti sei andato ficcare?”

“Nessun casino, Tomira. Voleva andare a Feuzte, ha degli affari là, ha fretta… che ne so. Ma mi paga bene ed è…” alzò di nuovo lo sguardo verso di lui “gentile. Viaggiare con lui è un piacere.”

“Heze, benedetto ragazzo… è un mago. Quelli sono incantatori, ci mettono un attimo ad abbindolarti, ma hanno sempre dei secondi fini che non ti dicono. Fini che non sono roba per noi.”

“O forse crediamo che non lo siano perché nessuno gli fa mai delle domande.”

“Mi sto solo preoccupando per te. Tieni gli occhi aperti!”

“Lo farò. Ma tu non lasciarti fregare dai pregiudizi. Hai visto dove possono portare.”

Le strizzò l’occhio, poi fece un cenno al suo compagno.

“Pronto a partire?”

Lui annuì sorridendo.

Quel mattino aveva un’espressione particolarmente serena: il cibo caldo, il riposo, l’essersi potuto lavare e cambiare sembravano averlo messo di buon umore. Non doveva essere proprio abituato alle scomodità di un viaggio, men che meno agli imprevisti, ma gli bastava davvero poco per soddisfare le sue esigenze: Heze si era fatto l’idea che nell’enclave di Villanuova, a scapito di tutti i sentiti dire, i Persuasori dovessero condurre una vita piuttosto umile.

Uscirono infilando la strada principale: nonostante il mercato e il via vai di gente, era la via più breve per uscire dall’abitato e riprendere a costeggiare il fiume; in cielo c’era un sole alto e giallo come un limone, che rendeva la testa del suo compagno ancora più bionda, e dai banchi sparsi qua e là arrivava una tempesta di odori, sarebbe sembrata davvero la più normale delle giornate se non fosse stato in viaggio con un uomo misterioso per consegnare un messaggio di cui nemmeno lui conosceva il contenuto! Ma con Tomira era stato onesto: non temeva di essere manipolato o messo in pericolo suo malgrado. La verità era che si fidava. Forse non avrebbe dovuto, forse sarebbe stato saggio tenere gli occhi aperti, non farsi ammaliare dal fascino naturale di quel tipo strano e intrigante… tuttavia, aveva imparato più cose in quelle due settimane che in anni: cose che nessuno mai gli avrebbe spiegato se non avesse avuto quell’occasione. Era un’avventura.

Stavano per lasciare il paese, quando si trovarono la strada sbarrata da un gruppo di uomini: uno di mezza età, che Heze aveva visto la sera prima alla locanda, gli altri due giovani, più o meno suoi coetanei. Non avevano l’aria aggressiva, al contrario, sembrava che stessero facendo appello a tutto il loro coraggio per essere lì, ma stavano anche occupando il passaggio rendendosi non ignorabili.

“Aiutateci!” esclamò il primo, facendo un passo avanti “Voi siete un Mago… aiutateci, vi imploro!”

La situazione si prospettava complicata, eppure in quel momento Heze non poté fare a meno di trovare divertente l’espressione stranita che si dipinse sul viso del suo compagno.

Prima che quest’ultimo potesse aprire bocca, sospinse i tre ai margini della strada con gesti eloquenti affinché quel siparietto non attraesse pubblico indesiderato, poi sfoderò la sua faccia più professionale e disse: “Vi pare il caso di fare una piazzata simile?”

Ma il più anziano lo scavalcò ed andò ad afferrare le mani del Persuasore.

“Aiutatemi! Mi figlia sta morendo!”

 

Yèlveran non era abituato al contatto fisico imprevisto e le sue mani rimasero come paralizzate. Non era abituato nemmeno all’esibizione diretta dei sentimenti e la supplica di quell’uomo gli faceva prendere atto di quanto, nonostante il lungo addestramento, fosse ancora difficile per lui ignorare quel rimescolio di sensazioni che gli si aggrovigliavano nello stomaco. Ma non era abituato, soprattutto, all’essere chiamato in causa per risolvere problemi, cosa che invece aveva visto accadere ripetutamente ai membri dell’enclave più propensi a entrare in contatto col mondo. Proprio per evitare questo non avrebbe dovuto esporsi: per sfuggire alle aspettative illusorie della gente, per evitare di fomentare speranze facili. I Persuasori non erano gli esseri superiori che li si credeva; avevano abilità negate alle persone comuni, ma non erano in grado di dispensare quei doni che la gente maggiormente desiderava: la salute, la giovinezza, l’eternità. Era tutta una grande mistificazione, costruita sull’ingenuità dei più e incrementata da chi ne aveva interesse.

“Mi dispiace. Non ho alcun potere contro la malattia.”

L’uomo non lasciò le sue mani.

“Non è una malattia! È un sortilegio!” intervenne uno dei giovani “Qualcuno deve averla maledetta! Stava benissimo fino a ieri!”

“Non esistono sortilegi che portino alla morte. Esistono arti per infliggere dolore, ma dubito sia questo il caso. A vostra figlia serve un medico.”

Heze intervenne a togliergli parte del peso di quella conversazione.

“Avete chiamato il guaritore?” il silenzio dei tre fu eloquente “E come accidenti avete deciso che si tratta di stregoneria?”

“Stava bene…” ripeté il padre “Poi, all’improvviso…Aiutateci!”

“Se lui dice che non può aiutarvi, è la verità. Se potesse lo farebbe. Chiamate il guaritore.”

Se potesse lo farebbe.

L’intensità con cui aveva pronunciato quella frase diede a Yèlveran una strana sensazione: erano parole belle, ma gli facevano male e non trovava i pensieri giusti per spiegarsi il perché.

“Venite almeno a vederla.”

E poi c’era nell’aria qualcosa che non andava, qualcosa di molto storto.

L’uomo aveva, sì, una voce sottomessa e implorante, ma lo sguardo era ostinato e certe piccole espressioni del viso rendevano evidente che si sentisse in colpa, o in difetto. Era un uomo messo all’angolo, e un uomo all’angolo era pericoloso: non avrebbe accettato di lasciarli semplicemente andare via.

“Se veniamo a vederla,” fece ad un tratto Heze “poi accetterete i nostri consigli?”

Che gli saltava in mente?

Non aveva nessun desiderio di trovarsi al capezzale di una ragazza che muore. Non si era allenato abbastanza per gestire una situazione del genere!

Aveva paura.

Paura.

Il ragazzo gli rivolse un’occhiata rassicurante che sembrava sottintendere che aveva un piano, ma lui desiderava solo dirgli che no, assolutamente no, non dovevano infilarsi in quella situazione, c’era qualcosa che non andava affatto: qualcosa di sbagliato in quelle persone, in quell’uomo, nelle sensazioni che emanava, e lui stava sentendo troppo, e quando sentiva troppo era male.

Ma non disse niente. Lo seguì e basta. Come uno che lascia che le cose inesorabilmente avvengano. Come uno che di scelte non ne ha.

«Tu hai una dote che al momento non puoi permetterti di gestire, perciò, per prima cosa, la dobbiamo ridimensionare un po’. Dobbiamo imparare a spegnere i troppi segnali dal mondo. D’accordo Yèlveran? Fidati di me. Ti insegnerò a chiudere la serratura.»

Luxei.

Luxei…

 

La stanza era piccola, con poca luce che entrava da un’apertura quadrata all’altezza del soffitto e quattro letti uno accanto all’altro, uno solo dei quali occupato da una ragazza che poteva avere quindici anni, o meno. Se Yèlveran non avesse saputo, avrebbe pensato che stesse serenamente dormendo.

“Devi lasciarci soli.” disse Heze al capofamiglia, l’unico che era entrato. L’uomo non ribatté e si tirò docilmente indietro, chiudendosi la porta alle spalle.

Yèlveran fu sorpreso di quella reazione e gli rivolse uno sguardo interrogativo, al quale il ragazzo ne rimandò uno altrettanto dubbioso.

“Assistere ad atti di magia è considerato sacrilego.” sussurrò “Davvero non sapete nemmeno questo?”

No, non lo sapeva. Ma non era cresciuto in un contesto cui questo tipo di superstizioni potevano attecchire: suo padre aveva il suo Persuasore di fiducia, e lui lo aveva sempre visto muoversi per casa come uno di famiglia. Quanto a Luxei, non si era mai preoccupato della percezione che il mondo intero aveva di lui: figuriamoci se si sarebbe preoccupato di informarlo di un dettaglio simile!

“Ma non ci saranno… emh… atti di magia, e tu…”

Heze si portò un dito di fronte al naso a intimargli il silenzio.

“Installate un confine qui.” disse “Poi parliamo.”

Bene.

Quella richiesta era ciò che gli ci voleva per ripulire i pensieri.

Peccato che quello spazio così angusto e ben definito, sia dal punto di vista architettonico che funzionale, era davvero troppo facile da isolare: un lavoro di un paio di minuti.

“Scusate se ho preso l’iniziativa.” iniziò a spiegare Heze “Ma avevate intuito anche voi che per spuntarla avrei dovuto usare la forza, vero?”

Era la prima volta che lo sentiva parlare in quei termini: a vederlo, non lo avrebbe mai detto il tipo di persona che mena le mani, ancor meno che brandisce un’arma.

“Non vi sembro capace, eh?” fece il ragazzo, sovrascrivendo il suo pensiero “Lo so, e questa è la mia fortuna. Le idee che gli altri si fanno di noi non sono solo condizionamenti, a volte sono vantaggi.” si avvicinò al capezzale della ragazza “Se avessi voluto toglierceli dai piedi, penso sarei stato in grado di farlo. Ho evitato perché non mi sarebbe piaciuto, e ho pensato… beh… che sarebbe piaciuto ancora di meno a voi.”

Yèlveran confermò con un piccolo cenno del capo.

“Portandovi qui, in primo luogo ci siamo separati da loro, e immagino che se voi voleste, potreste usare la Persuasione dei Confini per disimpegnarvi a vostro piacimento…”

“Con un po’ di calma, sì.”

Ma Heze non gli aveva chiesto di farlo: gli aveva chiesto di tracciare il confine attorno a quella stanza, e in quel momento si stava chinando sulla ragazza priva di conoscenza e sembrava che stesse esaminando il suo viso.

“A Marvino non ci sono medici.” disse “Credo non ve ne siano in tutta la valle, tranne a Ponte al Lungo. Siamo ancora ad Est, benché non più nell’Oltrefrattura. Però c’è un guaritore che conosco, è uno in gamba, amico di Tomira: non l’hanno chiamato, perciò mi sono insospettito.”

Toccò la fronte della ragazza, le sentì il battito, le sollevò le palpebre con la scioltezza di chi lo ha fatto mille volte.

“Ti intendi di medicina?”

“Sì.” rispose, con una nota di orgoglio misto a dispiacere nella voce “Non ho studiato, ma sì.”

Avrebbe dovuto immaginarlo. Non si era sgomentato affatto quando lui aveva avuto quella brutta febbre, ed aveva dimostrato di sapere benissimo come comportarsi in una situazione del genere. Forse lo doveva solo all’esperienza sul campo, tuttavia…

“Pensi di poter fare qualcosa per lei?”

Quell’idea gli dava sollievo: la vicinanza di quel corpo ancora vivo ma apparentemente senza vita lo stava facendo sentire sempre peggio.

“Forse, se mi concedete un po’ di tempo.”

Gli stava chiedendo il permesso, come se il tempo di cui aveva bisogno fosse un tempo che sottraeva a lui e all’incarico che aveva accettato di svolgere.

“Certamente sì!” si affrettò a mettere in chiaro Yèlveran, sentendosi a disagio nel ruolo di chi quel permesso poteva concederlo o negarlo “Posso… aiutarti in qualche modo?”

Heze distolse l’attenzione dalla ragazza e alzò la testa verso di lui. Forse notò qualcosa nella sua espressione, perché gli rivolse un sorriso accogliente e disse: “Sì. Prendete quella sedia, sedetevi, e tenete i pensieri qui. Fatemi domande, se volete. O rispondete alle mie. Ma non vi perdete in luoghi che non so.”

Yèlveran spostò meccanicamente lo schienale della sedia di paglia che Heze gli aveva indicato, e altrettanto meccanicamente si sedette. Come faceva quel ragazzo a intuire così bene i suoi stati d’animo? Prima di allora, ci era riuscito solo Luxei.

 

Se si intendeva di medicina.

Che maledetta nota dolente. Soprattutto quando la risposta era sì, parecchio, e non per le ragioni che avrei voluto. E anche sì, parecchio e non posso farne un mestiere perché l’alta scuola di medicina di Feuzte non avrebbe mai ammesso a sostenere gli esami il figlio di un pastore eshkarti.

Gli sarebbe piaciuto poter rafforzare le sue capacità con gli studi, ma non era nato dalla parte giusta del mondo, e non solo geograficamente. Pazienza, era riuscito comunque a trovarsi un lavoro che amava, e, in circostanze come quelle, a volte riusciva a rendersi utile.

Non gli ci volle molto per formulare un’ipotesi: ipotesi che sarebbe stata sicuramente condivisa dal guaritore di Marvino, se lo avessero chiamato…

“Faleux notturna … ” disse tra sé, osservando il colore rossastro che avevano preso le unghie della ragazza “Questo sembra proprio l’effetto di un’intossicazione da faleux notturna.” poi si rivolse al compagno di viaggio, mentre sbottonava la camicia di lei “Se la cosa vi imbarazza, non guardate, ma devo confermare il mio sospetto…”

Appena le scoprì il ventre, Heze sgranò gli occhi: la pelle era piena delle macchie scarlatte che accompagnavano quel genere di avvelenamento, ma, per essere ridotta in quello stato, doveva aver assunto molti fiori di faleux tutti insieme, o con molta costanza per molti giorni… Il che era piuttosto incompatibile con il reiterato «fino a ieri stava bene» dei parenti.

“Non mi piace…” fece Heze.

Incrociò lo sguardo del suo compagno per esporgli la sua idea, ma prima che potesse parlare, lui scosse lentamente la testa, con un movimento meccanico, quasi assente.

“Non farlo.” disse, atono “È meglio che non la svegli.”

Heze non comprese: si rendeva conto che gli stava sfuggendo qualcosa, e cercò il pezzo mancante negli occhi dell’altro. Ci trovò solo immagini che non poteva vedere, come quella notte sul valico, e una tristezza che poteva ingoiare tutto, una tristezza inesorabile.

“Perché?”

Non gli veniva altra parola che quella. Gli aveva davvero appena chiesto di lasciar morire una ragazzina?

“Perché lo ha deciso lei. E chissà quanto le è costato. Lasciala in pace.”

Heze lo guardò confuso: stava parlando di un tentativo di suicidio? E in base a cosa lo supponeva? Aveva detto di non saper leggere i pensieri!

“Per fare un’affermazione del genere bisogna essere sicuri. Molto sicuri.”

“Sono sicuro.” la sua voce non cambiò tono, ma il suo sguardo sprofondava sempre di più in quegli abissi dove i pensieri rimanevano intrappolati “Tu hai cercato i segni del veleno perché vuoi salvarle la vita, io ho trovato altri segni, e ti dico che quella vita non vuole essere salvata.”

Si alzò, e ad Heze per un attimo sembrò che fosse troppo lontano da lì per tenersi in piedi: invece era solido sulle sue gambe e i suoi gesti erano misurati e calmi. Con il dito indicò un segno sul polso della ragazza: un livido vecchio, quasi riassorbito, ma ancora visibile. Poi ne indicò un altro, ed un altro… Concentrato nel cercare le conferme alla sua teoria, non ci aveva prestato attenzione.

“È stata picchiata.” constatò Heze “Ripetutamente. Per questo non volevano chiamare il guaritore. Perché tutto il paese lo saprebbe.”

L’altro annuì.

“E secondo voi…” sbottò improvvisamente, tornando indietro di un passaggio “per questa ragione dobbiamo lasciarla morire, quando so come salvarla?”

Lui annuì di nuovo.

“Dannazione, perché?! Non possiamo, invece, cercare di risolvere il problema per lei? Non ha diritto ad essere aiutata? Se ha cercato di ammazzarsi, se era così disperata da non aver paura di morire, significa che non ha trovato nessuno che la aiutasse! Si può morire pensando questo? Che al mondo nessuno ti aiuta?”

Non aspettò la reazione, si fiondò alla porta e la spalancò con foga.

“Mi serve che qualcuno corra immediatamente dal guaritore: ditegli che abbiamo un avvelenamento grave da faleux! Fatevi dare l’antidoto o il materiale per prepararlo. E qualcuno la lavi con sapone e acqua calda: se ci sono ancora spore di faleux sul corpo il processo di avvelenamento continua!”

Si trovò parati di fronte il padre, la madre, i due fratelli e la sorella piccola: guardavano lui e dietro di lui, con sguardi sbigottiti e sgomenti. Heze voltò la testa all’indietro e si rese conto di non vedere la porta da cui era uscito, e più cercava di orientarsi, più gli pareva di ricordare che lì non ci fosse mai stata alcuna porta: non aveva mai avuto la possibilità di osservare coi propri occhi come funzionasse la Persuasione dei Confini.

 

Yèlveran era rimasto solo, ma la stanza era ancora impregnata di tutta quell’emotività. Eccessiva, dolorosa, eppure in parte piacevole. Non c’era mai nulla di non piacevole nel modo in cui Heze trasmetteva quello che sentiva.

Doveva smontare il confine, altrimenti né lui né altri sarebbero riusciti a rientrare.

Ma prima di farlo si chinò sulla ragazzina: con la mano le fece una carezza immaginaria sulla testa, a distanza, senza toccarla.

“Io ho capito perché lo hai fatto.” disse “Io lo so che sei stata coraggiosa. Qualcuno penserà che sei solo fuggita, ma non è così. Tu hai deciso di porre fine al dolore senza trasformarlo in odio. Scusami se non difendo la tua scelta. Lo vorrei, ne avresti diritto. Ma Heze… lui è così gentile con me. Non riesco a pensare di fargli del male.”

 

L’antidoto era arrivato e i familiari, turbati dall’aver assistito alla scomparsa del confine, lo avevano lasciato ad occuparsi della ragazzina in pace. Lei rimaneva incosciente e Heze non sapeva quanto ci sarebbe voluto perché la disintossicazione fosse completa, come non aveva idea del tempo che avesse impiegato quella povera ragazza per arrivare a tanto. Forse ci sarebbero voluti giorni perché si svegliasse, la faleux era un potente sonnifero già in piccole dosi.

Il suo compagno non aveva detto più niente, ma non si era allontanato dalla stanza, osservando in disparte il suo lavoro con la stessa espressione che aveva quando usava la sua arte: come se dovesse presidiare e tenere al sicuro quel luogo. La famiglia, da parte sua, si guardava bene dall’avvicinarlo o dal rivolgergli la parola, e, per estensione, non aprirono bocca nemmeno con Heze.

Passarono ore, quelle che servirono affinché le unghie della ragazza cominciassero a poco a poco a riprendere il colore naturale. Doveva essere pomeriggio avanzato.

“La cura sta facendo il suo effetto.” disse Heze “Ma non possiamo rimanere altro tempo qui. Prima che torni cosciente potrebbe volerci molto tempo. Avete bisogno del guaritore, non siate stupidi.”

Il padre aveva un’espressione a cavallo tra la riconoscenza e il desiderio che se ne andassero presto, il che non faceva che confermare la deduzione del suo compagno di viaggio. Ma cosa altro avrebbe potuto dire? Fargli la ramanzina? Pregarlo banalmente di non picchiare la figlia? Proprio lui, che veniva da una cultura dove le famiglie povere se li vendevano, i figli? E però… non fare niente sarebbe stato esattamente confermare ciò di cui il suo compagno lo aveva accusato: aver voluto strappare una persona alla morte per riportarla viva al suo tormento quotidiano.

Era prigioniero dei suoi pensieri quando l’altro iniziò a parlare.

“Non c’erano malocchi né sortilegi su questa casa o su questa ragazza” disse “E io non pratico arti di guarigione. In compenso, molti di noi leggono il pensiero: lo sapevate quando avete chiesto il mio aiuto?” cercò lo sguardo del padre, che lo abbassò “Immagino di no. Già.”

Li guardò uno ad uno, e, pur nella loro abituale assenza, i suoi occhi riuscivano ad avere qualcosa di inquietante. Forse era voluto, forse era solo suggestione, ma il capofamiglia fece un passo indietro.

“La cosa vi preoccupa? Mm. Sì. Fa bene a preoccuparvi.”

Sembrava assolutamente distante, come se davvero nessuno degli esseri umani con cui stava interagendo avesse un peso: come non fossero neppure lì. E invece, per gli interlocutori, lui era fin troppo presente.

“Non pratico arti di guarigione, no. Però so fare molte altre cose, che preferite non sperimentare. Ma per non sperimentarle, avete un solo sistema: fare sì che io non sappia cosa accade in questa casa.” si stropicciò la testa con noncuranza “E per fare sì io non lo sappia, anche in questo caso avete un solo sistema: che non accada.”

La madre guardò verso di lui e poi verso il marito con aria interrogativa, i due fratelli tenevano al testa rivolta al pavimento, mentre il capofamiglia cadde in ginocchio e si mise a piangere.

 

Il sole cominciava a calare quando si lasciarono alle spalle Marvino.

“Porca miseria, lo avete terrorizzato!”

“Mm. Non dovevo?”

Adesso aveva di nuovo la sua amabile aria svagata: gli era bastato lasciare quel luogo per cambiare espressione.

“Emh, no… non intendevo questo. Al contrario. Ma pensavo non foste capace di inventare balle.”

Lui non rispose.

“Grazie, comunque. Io non avrei potuto fare niente e…”

“Hai detto che volevi cercare di risolvere il problema per lei. Ho fatto la sola cosa che era nelle mie facoltà fare.”

Calò il silenzio, che proseguì per lunghi minuti.

“Davvero, emh…” Heze non era certo di voler avere quella risposta, ma non riusciva nemmeno ad ingoiare quelle domanda “Davvero l’avreste lasciata morire?”

“Sì.” rispose, senza turbamento.

“E non avreste pensato… che ne so… che una persona che ha sofferto tanto avesse diritto ad una seconda possibilità?”

Lui rifletté sulla domanda, come era solito fare, forse cercando le parole giuste per essere capito.

“L’altro mio addestratore è Persuasore di Cesura,” disse “una delle più potenti delle nove. Consiste, letteralmente, nel tagliare il filo che lega la mente al corpo: nel prendere possesso del corpo di una persona e costringerla a fare cose che non farebbe. In genere la vittima ne rimane cosciente. Tutti, all’enclave, ritengono che io sia particolarmente adatto ad apprenderla, che la padroneggerei in poco tempo. Ma a me fa paura. Più che leggere i pensieri. Più che manipolare dei ricordi. Noi stessi siamo tutto ciò che abbiamo e il non essere padroni di sé mi terrorizza.”

Pronunciò quel verbo con una leggerezza che dava i brividi. Si poteva usare il vero «terrorizzare» rimanendo così dolcemente impassibili? Quell’uomo aveva seppellito da qualche parte un dolore che non era in grado di sopportare, e lo celava a se stesso dietro una cortina di vaga indifferenza, impalpabile e appannata come i riflessi del mirdev.

“È a questo che guardate, quando i vostri pensieri non sono qui?”

Lui inclinò appena la testa e abbozzò un sorriso.

È a questo che guardo, quando i miei pensieri non sono qui.”

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Capitolo 10
*** La carovana dei folli ***


Si erano da poco alzati e rimessi in cammino, dopo una notte con le schiene affondate in un mucchio di erba tagliata da cui Yèlveran stava ancora cercando invano di liberarsi, quando sentirono sopraggiungere un rumore di zoccoli e ruote: poco dopo sopravvennero anche le voci sguaiate di un consistente gruppo di persone. I due si portarono al margine della strada ed Heze aguzzò lo sguardo per farsi un’idea di chi si stesse avvicinando.

“Vi avevo detto che un passaggio ci avrebbe fatto recuperare il tempo perso, giusto? Magari siamo fortunati!”

In qualche minuto, preceduto da un gran polverone, venne verso di loro un carro coperto tirato da due cavalli: era piuttosto grande ed in evidente difficoltà nel procedere su quello sterrato pieno di buche; i fianchi erano dipinti con colori sgargianti e sugli opposti lati si aprivano due finestrine perfettamente intagliate, con tanto di scuri e cornice dipinti, che lo rendevano simile ad una buffa casa viaggiante. La parte superiore era protetta da uno spesso telo curvo, anch’esso smaccatamente colorato, con miriadi di frange che svolazzavano ad ogni sobbalzo del mezzo. Certo, non era un veicolo che passava inosservato; ma ancora meno lo facevano i due seduti a cassetta, né alla vista, né all’udito: uno, col viso coperto di cerone bianco e il cappello più buffo che Yèlveran avesse mai visto, stava intonando una canzone accompagnandosi col suono di due campanelle, l’altro, grosso come un orso e quasi altrettanto peloso, gli imprecava contro ed imprecava ancora di più quando le ruote rimbalzavano su una buca o un sasso.

“Siamo più che fortunati!” esclamò Heze, e si parò in mezzo alla strada agitando le braccia.

Yèlveran non ebbe il tempo di preoccuparsi per l’incolumità fisica della sua guida, che l’orso umano tirò le briglie fermando i cavalli con una prontezza inattesa e lasciò faticosamente il posto profondendosi in un inchino cerimonioso (l’altro intanto continuava a cantare e non pareva essersi nemmeno accorto che si erano fermati).

“Ancora sulla stessa via, struggente cantore della lontananza!” disse, con un vocione roco ma caldo.

Heze ripeté lo stesso gesto accompagnato da un ampio sorriso.

“Così pare, Grande Mago della Carovana dei Folli!”

Si andarono incontro e si abbracciarono.

Passò un attimo dal momento in cui, sorpresi dalla sosta inaspettata, altri personaggi, uno più bizzarro dell’altro, cominciarono ad affacciarsi, chi alle finestrine, chi oltre le spalle del tizio che cantava, finché una donna con una nuvola di ricci sulla testa non balzò giù dal carro fiondandosi addosso ad Heze.

“Luce dei miei occhi! Mi sei mancatoooo!” esclamò, e gli stampò un bacio sulla bocca che lui non parve disdegnare affatto. Dopo di lei, altri gli buttarono le braccia al collo, tra pacche sulle spalle, buffetti ed effusioni così caotiche che solo quando le manifestazioni d’affetto si furono definitivamente placate Heze si ricordò di Yèlveran, il quale, nel frattempo, si era ritirato in disparte e stava cercando di sottrarsi agli sguardi.

“Loro sono la Carovana dei Folli: la compagnia dell’arte della Valle del Lungo. I più bravi, i più famosi, i più spiritosi, i più simpatici…” si rivolse all’orso con un occhiolino “manca qualcosa? Ah sì: e i più generosi, ovvero quelli che ci offriranno un passaggio fino a Capovalle!”

“Urrà! Il mio messaggero preferito viaggia di nuovo con noi!” esultò la donna tutta capelli, baciandolo di nuovo e non meno appassionatamente.

“Innamorata, da quando qui comandi tu?” la riprese l’omone.

“E tu da quando non ti affretti ad accaparrarti i servigi di un maestro di canto armonico dell’altopiano?”

“Ah, beh, se stai chiedendo ad Heze di esibirsi con noi…”

“Chiediglielo tu, dato che sei il capo!”

“Io sono il capo… e tu quella che mi scavalca perché se lo porta a letto!”

E presero a becchettarsi tra loro, dimenticandosi di nuovo della presenza di Yèlveran, finché il tipo seduto a cassetta non interruppe la sua canzone stonata, si stropicciò il viso portandosi via metà del trucco dalla faccia, e puntò due occhi spaventosamente celesti nella sua direzione: “Wow! E questo tizio bellissimo da dove sbuca fuori?”

Saltò giù dal carro con un’acrobazia ed atterrò ai suoi piedi con una piroetta e un inchino.

“Sono Pagliaccio,” e sfoderò un sorriso provocante aggiustandosi il cappello “e tu chi sei?”

Una ragazza.

L’improbabile canterino era una ragazza.

“Io…”

Heze giunse prontamente in suo soccorso.

“Lui è il mio attuale cliente, gli faccio da guida. È una persona molto riservata che preferisce non presentarsi per nome. Ma almeno tra voi non sarà un problema!”

“Beh, un nome d’arte ce lo avrà!”

“Non credo che ce l’abbia.” fece un sorriso ammiccante e si rivolse a Yèlveran “Oppure sì?”

“Ma sì, certo che sì!” continuò come un fiume in piena la donna chiamata Pagliaccio, girandogli intorno senza smettere di fissarlo “Qualcosa tipo Splendore, Sogno ad occhi aperti, Raggio di sole…?”

“Io a volte lo chiamo Abbastanza.” scherzò Heze, e gli strizzò l’occhio.

Era chiaro che trovava la situazione divertente.

Per lui, invece, era tutto troppo: troppe persone, troppe parole, troppo movimento, troppa energia, troppa fisicità. Oddio.

 

Heze conosceva la Carovana dei Folli da molto tempo, ed aveva spesso viaggiato con loro, non solo perché il loro carro era confortevole e riparato dal freddo e dalla pioggia, ma soprattutto perché quella gente era proprio fatta per lui. Di tutti conosceva la storia, a volte più di una dato che ad ogni incontro amavano narrarla in modo diverso o stravolgerla del tutto: ciascuno di loro era un emarginato, un diverso, un fuggitivo, e per ciascuno di loro contava poco ciò che eri stato e ancor meno ciò che la gente credeva tu fossi. Grande Mago, Giudice, Capitan Spavento, gli Innamorati, Manolesta, Pagliaccio: sopra quel carro tutti erano solo maschere e il mondo un grande palcoscenico dove non importava quale fosse la tua provenienza e, ancora meno, il colore dei tuoi capelli. Sopra quel carro i capelli si tingevano e i volti si truccavano: tutto si mescolava e tutto andava bene.

In cambio di un passaggio, si era più volte esibito con loro: Grande Mago, il vero cuore del gruppo, aveva un debole per il Canto della Lontananza, e, più in generale, apprezzava la sua voce.

Adesso stavano andando a Capovalle per la Festa della Purificazione: sarebbero rimasti lì per l’intera durata delle celebrazioni, ma Heze aveva contrattato per partecipare alla loro prima serata e poi riprendere il viaggio che li avrebbe portati a oltrepassare il lato orientale dei Monti di Vetro e raggiungere finalmente la strada maestra per Feuzte.

La metà del loro cammino, con una settimana di ritardo già accumulato.

Quel passaggio gli avrebbe fatto riguadagnare almeno un giorno, forse di più, per questo il suo riservato compagno di viaggio se ne sarebbe fatta una ragione e avrebbe sopportato di buon grado la fatica che doveva costargli un contatto così stretto con una comunità così poco discreta.

O almeno lo sperava.

Da quando erano saliti a bordo, era stato subissato dalle attenzioni di Pagliaccio: un altro, al suo posto, ne sarebbe stato compiaciuto, ma lui sembrava proprio in difficoltà; doveva aver avuto così poche interazioni sociali nella sua vita! Però era un attento osservatore dell’umanità, lo aveva dimostrato a Marvino, leggendo sottintesi che a lui erano del tutto sfuggiti: chissà quali dettagli era già riuscito a cogliere dalle domande che i membri della compagnia continuavano a fargli sperando invece di strappare qualche storia curiosa a lui…

“Da quanto tempo conosci Heze?”

“Sedici giorni.”

“Quante volte si è già ubriacato?”

“Nessuna.”

“Non ci credo.”

“Se è successo non me ne sono accorto.”

“Ah, ecco…!”

“Ma io sono bravo ad accorgermi delle cose.”

“Splendido! Allora ti sei accorto che ti sto corteggiando?”

“Mm.”

Heze le tirò un nocchino sulla testa.

“Pagliaccio, falla finita!”

“Ohi, rossino, non fare la lagna! Se mi vuoi casta e pura, non presentarmi uomini belli!”

“La tua castità non riguarda me.”

“Eh, lo so… visto che preferisci spassartela con Innamorata!”

“Ehi, ma i fatti tuoi mai?”

“I fatti miei sono così noioooosi! Mi piacciono quelli degli altri!”

Buttò la testa all’indietro fino a appoggiarla sulla spalla del principale oggetto dei suoi interessi, che non osò scrollarsela di dosso, forse per buona creanza, forse perché la sfrontatezza di lei lo aveva paralizzato.

“Da dove vieni?”

“Oltrefrattura.”

“L’oltrefrattura è grande: da che zona?”

“Non vorrei rispondere.”

“Che risposta è?”

Lui si strinse nella spalle, facendo sbilanciare la testa dell’interlocutrice, che invece ne approfittò per appoggiarla più vicino al suo petto.

“E dove vai?”

“Feuzte.”

“A fare cosa?”

“Non vorrei rispondere.”

“Sei sposato?”

“No.”

“Hai figli?”

“No.”

“Che fai nella vita?”

“Studio.”

“Cosa studi?”

“Non vorrei rispondere.”

“Uffaaaaa! Sai recitare?”

“No.”

“Cantare?”

“No.”

“Danzare? Suonare? Fare acrobazie?”

“No.”

“Che sai fare di bello?”

“Mm.”

“Gioca a carte.” intervenne Heze, sperando di offrire un’alternativa a quell’interrogatorio “E a pedine, a dadi e a un sacco di altri giochi di abilità. Scommetto che straccia anche Giudice!”

Quella sfida indiretta scaldò subito l’atmosfera.

“Ohoh!” si entusiasmò Pagliaccio, battendo le mani come una bambina “Allora punto su di te, biondino! Adoro le scommesse al buio!”

Il suo compagno di viaggio gli rivolse uno sguardo incerto, come a chiedergli se dovesse assecondarlo o meno.

“Suvvia, scegliete il gioco!” lo incoraggiò Heze “Il viaggio è lungo e questa è la vostra unica opportunità di ridurre i logorroici al silenzio!”

La ragazza sfoggiò un plateale broncio, incrociando le braccia sul petto.

Fu Giudice, un anziano alto e allampanato che fino ad allora era rimasto in disparte, a muoversi barcollando dalla sua postazione e intimò a Pagliaccio di cedergli il posto.

“Gioco dei Lupi” propose, stendendo una scacchiera di stoffa tra i loro piedi “Sempre che le buche sulla strada non ci ostacolino troppo. Bianchi o neri?”

Lui esitò un attimo, poi abbozzò un timido sorriso.

“Bianchi.”

Giudice gli tese un sacchetto di velluto aperto.

“Sorteggia per la prima mossa, giovanotto.”

 

Yèlveran era grato a quell’uomo: la sua presenza statica e calma lo aveva aiutato a riportare la situazione sotto controllo. Anche il modo in cui muoveva i pezzi sulla scacchiera aveva un effetto stabilizzante: rifletteva, si dava tempo e poi li spostava con delicatezza, sollevandoli con due dita, cautamente. Yèlveran giocava nel modo in cui Luxei lo aveva istruito, ovvero tenendo sempre un occhio sulle espressioni facciali e la prossemica dello sfidante, lui, invece, guardava solo le pedine, come se non stesse competendo con un individuo ma solo con la mano che le faceva cambiare di posizione. Ogni tanto Pagliaccio faceva qualche commento a casaccio e altri le facevano eco, ma Giudice metteva tutti a tacere con un solo cenno della mano: contestualmente alzava gli occhi verso di lui e abbozzava un sorriso complice da sotto i baffi.

Yèlveran si stava divertendo: si era dimenticato di trovarsi in uno spazio stretto a contatto ravvicinato con degli sconosciuti e il suo interesse era tutto sulla partita.

Quando spinse fuori dalla scacchiera l’ultima pedina di Giudice, gli attori esplosero in un coro incredulo.

“Perdinci, tu sei bravo, figliolo!” esclamò il vecchio sbattendo un pugno entusiasta sul tabellone vuoto “Finalmente qualcuno che fa funzionare il cervello! Dammi la rivincita!”

Risistemarono la scacchiera e ricominciarono: passò almeno un’altra ora finché non fu Giudice, questa volta, a rimanere con l’ultimo pezzo in gioco.

“Magnifico, magnifico!” fece sfregandosi le mani “Che altro sai fare?”

“Mm. Me la cavo a Quattro Venti, Torre, Rosso e Nero…”

Giudice aveva già riposto le pedine ed estratto un mazzo di carte.

“Quello che ti pare. Stupiscimi.”

Giocare con quell’uomo era piacevole: gli ricordava moltissimo le sere pacifiche passate nell’enclave a sfidare Luxei.

Nei primi tempi della sua vita a Villanuova quell’attività non era stata solo un mezzo per allenare la mente a costruire “serrature” ma più banalmente il suo modo di entrare in relazione con quel maestro gentile e al tempo stesso enigmatico, che non aveva peli sulla lingua nel metterlo di fronte a verità terribili, ma lo guardava come qualcuno che possiede le risorse per affrontarle, che gli insegnava a tenere le distanze e non farsi coinvolgere dai sentimenti, ma poi gli chiedeva di fidarsi di lui. Ricordava bene i pomeriggi a studiare libri su libri, a comprendere tutto l’impianto filosofico che c’era alla base delle nove Persuasioni, a mandare a memoria le classificazioni, le sei Radici e i loro intrecci, e i rapporti tra una Persuasione e l’altra… A fine giornata Garlan lo interrogava, discuteva con lui di scienza e filosofia, cercava di metterlo in difficoltà con le sue domande scomode, e poi… E poi arrivava Luxei, che gli scompigliava i capelli e diceva «E ora basta riempire questa bella testa di informazioni. Giochiamo.» e se lo portava nella sala grande, vicino alla finestra sul chiostro, e lo batteva regolarmente qualunque gioco scegliessero.

«Yèlveran, Yèlveran,» cantilenava, e lui non aveva mai sentito pronunciare il suo nome con tanta affezione «stai riflettendo troppo: concentrarsi sulle proprie mosse è bene, ma se ci investi così tanto io leggerò la tua mente. Dividi i pesi: pensa alla tua strategia, ma guarda anche me, prova a intuire dal mio viso che carte ho in mano, e pensa un po’ anche ad altro. Dividi i pesi, alleggerisci i tuoi pensieri e confondi i miei… Cosa hai voglia di mangiare stasera, ad esempio?»

Ci aveva messo cinque anni per arrivare a batterlo..

Ultimamente, però, ci era riuscito spesso.

Giudice lo riportò al presente sfilando l’ultima carta dal suo mazzo.

Torre. Stavolta uno a zero per me.”

Yèlveran riavvolse i pensieri fino al passaggio che si era perso.

“Oh. Accidenti. Ho fatto un errore proprio stupido. Un’altra?”

“Come no! È da quando è morto il vecchio Manolesta che non trovo qualcuno che mi diverta! Questo qua…” e accennò all’uomo che si era presentato con lo stesso nome “Ha preso tutto da suo padre tranne l’intelligenza!”

“Giudice invece ha preso tutto dal suo personaggio, compresa la stronzaggine!” ribatté quello al volo, ridacchiando, subito imitato da Pagliaccio, che rideva anche quando sembrava non aver capito niente.

C’era qualcosa in quella ragazza che a Yèlveran sfuggiva: di certo non era del tutto lucida, non sapeva se per ubriachezza, per effetto dell’erba celeste o per una condizione naturale. Era priva del concetto di spazio personale, non coglieva le reazioni degli altri, era affamata di attenzioni, ma il modo in cui esponeva il proprio corpo alla ricerca di contatto non aveva in realtà molto a che vedere con la sensualità: sembrava piuttosto che non fosse in grado di comunicare altrimenti che così, e quella risata continua, vacua e a volte così fuori contesto, non aveva nulla di veramente allegro.

“Dove hai imparato a giocare così bene?” chiese Innamorata, mentre la sua mano non smetteva di gingillarsi coi capelli di Heze.

“Non ci distrarre:” protestò Giudice “Torre è il gioco dei sordi e dei muti.”

Yèlveran intanto sistemava l’ultima carta sul suo mazzo.

“Uhuh! Uno a uno, nuovo giro!” esclamò Manolesta.

Giudice annuì compiaciuto.

“È in gamba il tuo amico!” commentò all’indirizzo di Heze “Per una volta mi hai portato qualcosa di meglio che distrazioni e ubriachezza molesta!”

Intanto il carro lentamente si fermò.

“Qualcuno venga a darmi il cambio.” disse il cocchiere.

Manolesta e Capitan Spavento, rispettivamente un ometto minuto col viso da furetto e un bel ragazzo dalle spalle larghe e una barba che doveva essergli spuntata da poco, si sostituirono a Grande Mago e Innamorato a cassetta. Nello spostamento, un grosso fagotto che Yèlveran aveva etichettato come bagaglio sembrò muoversi: una coperta rotolò di lato e un ottavo passeggero sbucò fuori. Era una bambina di forse sei, sette anni, con un paio di trecce mezze disfatte, un viso piccolo e severo e due occhi indagatori.

“Non siamo ancora arrivati.” disse Pagliaccio, ma la piccola scivolò fuori dal suo giaciglio e si guardò in giro, scrutando i due sconosciuti con diffidenza.

“Lui è Heze.” fece la donna “Non ti ricordi di Heze? Quello che fa i suoni strani…” e si lanciò in un’imbarazzante imitazione.

“Così sembra che qualcuno ti stia strangolando!” scherzò lui.

La bambina si mise a ridere e puntò un dito verso il ragazzo come a sottolineare di averlo riconosciuto. Poi la sua attenzione si spostò sull’altro ospite.

Yèlveran ricambiò lo sguardo: lo trovava intelligente e pieno di parole; non stava solo guardando, stava comunicando.

“Non puoi parlare, vero?” le chiese, con naturalezza.

La piccola annuì.

“Ma vuoi sapere chi sono, perché non tutte le persone ti piacciono.”

Lei si fece seria seria, come a voler rafforzare quell’affermazione.

Yèlveran le fece cenno di venire più vicino e la bimba acconsentì, incurante dei movimenti del carro che frattanto era ripartito: scavalcò con agilità le gambe di Pagliaccio andando a posizionarsi a fianco di Giudice.

“Da dove vengo io” disse Yèlveran “mi è stato insegnato che non si deve mai dire il proprio nome, tranne a coloro di cui ci si fida moltissimo. Perciò non ti posso dire come mi chiamo. Ma questa è casa tua e se decidi che sono una persona che non ti piace o che ti fa paura, devi fare solo così…” alzò la mano facendo un segno con le dita “Va bene? È un comando per dirmi che devo sloggiare subito, ed io prometto che ubbidirò.”

Lei annuì ancora, poi sorrise e andò a sedersi accanto a lui, impossessandosi del sacchetto di velluto di Giudice: rovesciò tra le gambe tutte le pedine e prese in una mano tre bianche, nell’altra tre nere.

Nel mentre, senza che Yèlveran ne capisse la ragione, tutti gli attori si erano voltati a guardare lui.

“Porca puttana!” esclamò Pagliaccio, con un’espressione a metà tra il turbamento e la meraviglia “Ma tu chi cazzo sei?”

Che tipo di risposta si aspettava di ricevere? Yèlveran si stropicciò la testa.

“Mm. Un viaggiatore che viene dall’Oltrefrattura…? Scusa, non ho capito la domanda.”

“Eddai, cazzo, non prendermi per i fondelli!” Pagliaccio fece un largo sorriso, e, prima che lui potesse schermirsi, gli prese il viso tra le mani e gli stampò un bacio sulla fronte “Lei non fa mai così con chi non conosce! Detesta chi non conosce!”

La bambina, accoccolata al fianco di Yèlveran, intanto stava facendo saltare abilmente le pedine da una mano all’altra, come un’esperta giocoliera.

“Si chiama Fortuna.” la presentò la donna “È mia figlia.”

 

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Capitolo 11
*** La ragazza maledetta ***


Meirem stava cavalcando più velocemente che poteva, ma temeva di avere poche possibilità di arrivare in tempo. In fondo, era già un miracolo che fossero venuti in possesso di quell’informazione: se Leu non fosse partito per l’est, non l’avrebbero mai saputo.

Era una grande risorsa, il potere di Leu: ben altra cosa che il suo.

Eppure, Iruvàn contava su di lei più che su chiunque altro, e anche quella volta, quando avrebbe potuto servirsi di qualcuno dei suoi numerosi seguaci, si era invece affidato completamente alle sue capacità.

Ne era così orgogliosa: nessuno, prima di Iruvàn, l’aveva mai guardata in quel modo. Nessuno l’aveva fatta sentire straordinaria. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per non deluderlo. Di più: avrebbe dato la vita per lui, ne era certa.

Spronò il cavallo: doveva essere a Peshparao entro il sorgere il sole, doveva sorprenderlo ancora una volta portando a termine quell’incarico dagli scarsi margini di successo: proteggere la vita della Maledizione e riportarla sana e salva da lui.

La Maledizione era stata individuata il giorno prima ed i Persuasori erano già intervenuti, prendendola in custodia. Purtroppo, quei dannati erano molto rapidi nell’eseguire le loro condanne; non avevano bisogno di prove, di processi, di testimoni: in quel settore avevano carta bianca. Ma del resto, che c’era da processare? La vittima non aveva commesso crimini: aveva solo dei poteri a cui loro non avevano accesso. Meirem pensò che se una speranza di fare in tempo c’era, in quel momento stava proprio nella natura del potere in questione: se lo avessero trovato particolarmente interessante, forse lo avrebbero studiato per un po’, e l’esecuzione sarebbe stata rimandata.

Da quando Iruvàn l’aveva salvata, Meirem aveva imparato molto sulle Maledizioni e su se stessa: lui le aveva spiegato che non era vero che le Maledizioni erano abomini prodotti dalle forze malvagie che si erano sprigionate il giorno che la terra si era spaccata, quella era solo una teoria senza alcun fondamento che i Persuasori avevano elaborato per demonizzare una forma di potere che non potevano ricondurre alla loro stupida classificazione. Ma di quella teoria avevano fatto una persecuzione: non solo avevano alimentato la paura superstiziosa in modo da essere chiamati in soccorso ogniqualvolta un individuo che non era stato selezionato da loro manifestava poteri sovrannaturali, ma attraverso la politica del terrore si erano presentati, nei secoli, come la sola forza benigna in grado di proteggere l’umanità da un misterioso “male” di cui nemmeno loro stessi conoscevano la natura. Le favole funzionavano dalla notte dei tempi, e continuavano a farlo… soprattutto quando esistevano persone capaci di inculcare quelle favole nella mente degli uomini rendendole realtà. Se solo Iruvàn non le avesse aperto gli occhi, avrebbe continuato a vivere nella convinzione di non essere neppure umana, sarebbe stata per sempre lo sbaglio di natura che i suoi genitori avrebbero preferito non mettere al mondo.

Invece il destino era andato controcorrente ed oggi lei, la Maledizione che sei anni prima avrebbe dovuto morire, era il braccio destro dell’unico uomo che potesse dare una raddrizzata a quel mondo ottuso e distorto. L’unico che aveva il coraggio di provarci e forse il potere di farlo.

Il profilo del borgo si stagliava all’orizzonte: la luna era ancora alta, evviva.

Per fortuna a Peshparao non esisteva un’enclave, altrimenti le sue possibilità sarebbero state nulle: invece il suo obiettivo doveva essere stato imprigionato in qualche luogo più neutro. Certo, senza la collaborazione della Maledizione stessa sarebbe stata una battaglia persa, ma stando alle informazioni di Leu, l’uomo che doveva salvare aveva molti assi nella manica, se lei fosse riuscita a convincerlo a giocarseli. Doveva solo preoccuparsi del confine, quello sì: una condanna a morte non si eseguiva mai senza un confine. Tuttavia, sapeva anche che per uccidere una maledizione servivano un Persuasore di Sensi e un Persuasore di Cesura, e, se erano già arrivati lì, significava che li avevano mandati dall’enclave più vicina, che troppo grande non doveva essere: dunque poteva sperare che nessuno dei due fosse un esperto di confini, e, se la sorte era dalla sua parte, magari se l’erano presa comoda e avevano usato gli oggetti rituali: in quel caso aveva buone opportunità di trovarli. Non solo, poteva pure augurarsi che non fossero particolarmente preparati, o almeno non entrambi.

Iruvàn non aveva mai voluto insegnarle le sue arti: “Offendono la tua identità” aveva detto “Non è giusto che tu impari ciò da cui hai dovuto fuggire”; ma le stava insegnando a proteggersi da ciascuna di esse. “Non devi essere come loro, ma devi diventare tutto ciò che gli si oppone: grazie al tuo potere e al mio aiuto, diventerai il loro peggiore ostacolo. Meglio: il loro rovescio.”

Iruvàn l’aveva fatta diventare forte, lui l’aveva resa perfettamente padrona di sé.

Poteva batterli.

Anche una contro due.

Non aveva paura.

 

Era proprio il suo giorno fortunato: non solo i Persuasori non avevano ancora eseguito la condanna, ma avrebbero trasferito la Maledizione alla loro enclave di provenienza. Meirem non conosceva le ragioni di quella scelta: forse non erano in grado di installare il confine, forse non erano stati mandati lì come esecutori diretti perché non praticavano l’arte giusta… fatto sta che li precedette sulla strada, mentre viaggiavano a bordo di un carro, con la vittima inerme tra loro, di certo sotto l’effetto di una Persuasione.

Meirem indossò la maschera e spronò il cavallo nella loro direzione, terrorizzando i muli e il cocchiere: si portò al fianco del carro e vi balzò sopra. Le bastò un colpo d’occhio per avere chiaro lo scenario: uno dei due era Persuasore di Cesura, era evidente dal contrasto tra la posa docile della Maledizione e il suo sguardo terrorizzato. Quale? La donna – una ragazza più giovane di lei – che stava seduta vicina al prigioniero: Iruvàn gli aveva spiegato che maggiore era la prossimità, migliore l’effetto della Persuasione, e lei la sapeva lunga, in quanto a prossimità…

Si lanciò dunque sull’altro: bisognava sempre neutralizzare prima l’elemento ignoto, piuttosto che il noto. Lo afferrò, gli torse il braccio dietro la schiena e gli puntò il coltello alla gola. Il cocchiere cercò di frenare ed il carro sbandò, finendo con due ruote fuori strada: Meirem si tenne salda, mentre gli altri due passeggeri evitarono per poco di essere sbalzati fuori.

“Scendi e vattene, o lo ammazzo!” intimò alla donna.

Non fece in tempo a finire di parlare che un dolore acuto le attraversò il polso, scendendo fino alle dita che stringevano l’impugnatura: strinse i denti quanto bastava a non farsi fregare da quell’attacco a sorpresa.

«Quest’uomo è Persuasore di Sensi,» constatò «ma debole e inesperto. Non deve essere la sua arte principale.»

Gli si fece più vicina e lo cinse attorno alla vita, in una stretta molto simile ad un abbraccio.

“Provaci ancora, dai…” gli soffiò all’orecchio.

Era sempre divertente vedere un dannato Persuasore allibire davanti alla manifestazione del suo potere. Il dolore alla mano scomparve e le gambe del suo prigioniero tremarono: era un ometto così fragile, così poco resistente, che se lo avesse stretto un po’ più forte sarebbe crollato svenuto.

La reazione dell’altra non si fece attendere, ed era esattamente ciò che lei sperava: si accorse subito che la ragazza stava usando la sua arte su di lei. Meirem non era ancora abbastanza brava da impedirlo ed allentò la presa, lasciando che l’altro ricadesse in ginocchio, spossato, ai suoi piedi, ma questo non era importante, anzi, faceva parte del piano, perché nessun Persuasore di Cesura, per quanto abile, poteva esercitare il dominio su due persone contemporaneamente.

“Se vuoi salvarti, mi devi aiutare ora!” gridò nella direzione del terzo uomo, che, come sciolto da catene invisibili, si era rimesso in piedi tentando di guadagnare la fuga. Si scambiarono un solo sguardo, poi le assi cominciarono a tremare sotto i loro piedi e a spezzarsi una ad una come fuscelli. Meirem balzò al fianco della Maledizione, il Persuasore di Cesura soccorse il compagno che stava tentando di rialzarsi, ma in quell’istante anche le ruote cedettero e il carro collassò su se stesso in un’esplosione di schegge. Meriem richiamò il cavallo con un fischio e gli balzò in groppa insieme all’alleato: poi lo spronò al galoppo prima che i due potessero riprendere il controllodella situazione.

 

“Chi sei? Mi hai salvato! Come hai fatto? Perché?”

Meirem trovava quella Maledizione un omino mite e delizioso: un po’ attempato per aver manifestato i poteri solo adesso, ma a volte la mente faceva scherzi strani. Era impacciato, con un voce esile, quasi effeminata, barbetta rada e un viso pallido e lungo, su cui si aprivano un paio di occhi buoni. Come si poteva pensare che un tipo così potesse essere un pericolo? D’accordo, faceva a pezzi le cose con la forza del pensiero, ma non era certo più minaccioso di un branco di adolescenti ricchi a cui veniva data in mano un’arma solo perché avevano l’età giusta per avviarsi alla carriera militare.

“Vuoi sapere troppe cose e tutte insieme. Aspetta. Prima prendi fiato e abituati all’idea che per il momento sei al sicuro. Poi parleremo, ed io risponderò ad alcune, a tutte o a nessuna delle tue domande, a seconda di quale scelta farai.”

Cavalcò per ore finché non ebbe messo debita distanza tra sé e i potenziali inseguitori: smontarono e si inoltrarono nel fitto di un bosco di cui Meriem conosceva bene i sentieri. Aveva bisogno di un posto tranquillo per parlare. Non le sarebbe servito molto tempo: nelle operazioni di salvataggio, la rapidità era la migliore alleata e non c’era troppo spazio per la delicatezza.

“Come ti chiami?”

L’uomo la seguiva arrendevole, le spalle curve e il mento basso.

“Teshdei.”

“Teshdei, come avrai capito,” iniziò “io sono come te. Immagino che adesso tu sia spaventato, turbato, arrabbiato con l’universo: magari non avresti mai voluto scoprire di essere anche tu una delle aberrazioni che disprezzavi fino a ieri…”

Lui abbassò gli occhi, colpevole.

“Ma così stanno le cose, e tu hai tre scelte: arrenderti al pensiero comune e lasciarti ammazzare, nasconderti per sempre sperando di riuscire a gestire il tuo potere da solo o venire con me e accettare di contribuire alla mia causa. Solo in quest’ultimo caso potrò offrirti protezione, dirti chi sono e come ho fatto a salvarti. Sul perché lo abbia fatto, invece, è piuttosto semplice: credo fermamente che le Maledizioni abbiano diritto alla vita. Di più: al rispetto. Sei un essere umano come gli altri, nessuno può esigere la cancellazione della tua esistenza.”

“Sono sempre stato onesto… ” gemette lui “non ho mai fatto un torto ha nessuno, non ho mai infranto la legge, mai mancato di rispetto…” il dolore lo sopraffece e scoppiò a piangere “Ho una moglie e due figli! Come faranno senza di me?”

Quella era la parte più emotivamente disturbante del suo lavoro, ma al tempo stesso la più semplice, perché c’era una sola risposta a quella domanda: uguale per tutti. Inutile sperare nella pietà e nel buon senso umani.

“A quest’ora si stanno domandando come hanno fatto a non accorgersi di avere una Maledizione in casa, e stanno sospirando di sollievo al fatto che i Persuasori siano arrivati subito a portarti via.”

“No! Proxeim non lo penserebbe mai…”

Meirem affondò lo sguardo nel suo.

“Immagina la situazione al contrario. Cosa avresti fatto tu?”

L’uomo tacque: i suoi grandi occhi onesti ammisero la verità.

“Ci hanno insegnato che le Maledizioni sono un pericolo, anzi, hanno fatto di peggio, perché non si sono limitati a sostenere che il pericolo risieda nell’incapacità di controllare un potere troppo grande, bensì ci hanno convinto che le Maledizioni siano tutte intrinsecamente crudeli: che nutrano desiderio di fare del male e di distruggere. Non si accontentano di stigmatizzare ciò che tu sei, ma credono di poter decidere e poi condannare ciò che tu vuoi e pensi. Sai che è così, perché lo hai creduto anche tu: ma adesso che tu sei la Maledizione, sai cosa senti, sai cosa pensi, sai cosa desideri… e non potrai dirlo a nessuno, perché non verrai ascoltato. Quello che puoi ricevere dal mondo, d’ora in poi, è solo disprezzo e terrore. Io sono la tua alternativa: piangi pure ancora un po’, ma poi prendi una decisione. Il diritto a compatirti è un altro dei tanti che non ti sono più concessi.”

Lui strinse i pugni: aveva mani fragili, nodose e lunghe, non doveva essere abituato ai lavori di fatica, sembrava un insegnante, o uno studioso… forse era stato un uomo rispettabile nella sua vita precedente. Ora non era più nulla.

“Che cosa ti aspetti da me?”

“Niente che tu non sia in grado di fare, né che tu non voglia fare. L’uomo che ci guida non pretende nulla da nessuno. Ma vuole la tua lealtà, e che tu gli dia il permesso di assicurarsela.”

“Cosa significa?”

“Sai come funziona la Persuasione del Cuore?”

L’uomo gli rivolse lo stesso sguardo ignaro che, a questo punto, le rivolgevano tutti.

“Magia.” parafrasò “Stringerai un’alleanza attraverso la magia. Col tuo consenso, ovviamente, o non funzionerà.”

Ma il consenso glielo avrebbe dato, Meirem lo sapeva. Tutti lo davano. Per una Maledizione scampata alla morte, conoscere Iruvàn ed amarlo erano quasi sempre la stessa cosa.

 

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Capitolo 12
*** Il dovere della felicità ***


Heze si era abituato alla compagnia di quel Persuasore così diverso dai pochi che aveva visto e dai molti di cui aveva sentito raccontare: aveva imparato a vedere oltre la sua estraniata introversione, a cogliere le sue espressioni di entusiasmo sotterranee, le tenui manifestazioni di gioia e le innumerevoli ma quasi impercettibili alterazioni dello sguardo che erano la sola parte visibile di un mondo interiore precluso agli altri. Ma il modo in cui si relazionava con la piccola Fortuna trasformava quei segnali in autentica comunicazione; da quando si erano accampati attorno al fuoco, si era intrattenuto con lei con un’affabilità che era inconsueta per entrambi: per lui che evitava volentieri la vicinanza, e per lei, che diffidava degli estranei.

Si erano fermati per la notte in uno spiazzo ai margini della strada, affacciato su un bel campo in piena fioritura: se il tempo era buono, la Carovana dei Folli preferiva dormire sul carro invece che nei rifugi dei viaggiatori, ma a due passi c’era un capanno atto a quell’uso se loro due avessero preferito dormire sotto un tetto.

Era stato il suo compagno in persona a sorprenderlo accettando di accamparsi con loro, nonostante la rigidità che assumeva di fronte alle avances di Pagliaccio.

Mentre gli attori bivaccavano e schiamazzavano, ogni tanto improvvisando qualche numero, Fortuna si era accoccolata sulle sue gambe e gli stava mostrando giochi di abilità con le pedine. Ogni tanto le sussurrava qualcosa che la faceva ridere e, qualcuna di quelle volte, rideva anche lui. Era talmente difficile vederlo ridere: sorrideva spesso – per posa o per gentilezza, più che per manifestare un’emozione – ma che ridesse di cuore era un evento raro. Eppure, le poche volte che lo faceva, lo trovava di una bellezza disarmante: non c’era da stupirsi che avesse fatto perdere la testa a Pagliaccio in meno di mezza giornata.

“Da quanto tempo viaggiate insieme?”

Innamorata stava distesa accanto a lui, masticando un filo d’erba.

“Un paio di settimane.”

“Sei molto protettivo, per conoscerlo da così poco!”

“Sono la sua guida: è mio compito che il suo viaggio sia sicuro e mi piacerebbe che fosse anche gradevole.”

Ma non era solo quello, Innamorata aveva la vista lunga. Nonostante avesse avanzato mille riserve sull’assumersi la responsabilità di altri, gli ci era voluto pochissimo tempo per prendersi a cuore lui: all’inizio ne era solo rimasto affascinato, poi, però, la fascinazione aveva ceduto il posto a sentimenti diversi. Era un Mago: uno di quegli esseri spaventosi che potevano piegare la realtà alle proprie leggi, aveva influenza, intelligenza, cultura… e però si svegliava terrorizzato nel cuore della notte, si negava il diritto a lasciarsi andare e gli aveva detto soffro di essere me.

Sì, era protettivo perché quell’uomo aveva bisogno di essere protetto, anche se gli taceva da che cosa.

“Perché ti rivolgi a lui in modo così… boh… come se parlassi con uno molto importante?”

Heze pensò che se le avesse risposto con sincerità le avrebbe riso in faccia. Grande Mago invece forse ci avrebbe creduto e poi si sarebbe sentito artisticamente mortificato perché la sua parodia del personaggio non rispecchiava nemmeno da lontano quel Persuasore lì.

“Mi ha dato lavoro e mi… beh, mi paga parecchio.”

“Aaaah! È uno ricco, allora! Di che famiglia? Proprietari di terre? Esercito? Usurai?” gli lanciò un occhiata in tralice e ridacchiò “Chissà quanto è disgustato di viaggiare su questa carovana pulciosa!”

“Ti sei fatta un’idea sbagliata.” negò prontamente “Lui non… non è per niente uno con la puzza sotto il naso. E non guarda mai la gente di sotto in su. È molto umile. Gentile.”

Innamorata lo scrutò con aria ambigua.

“Ci vai a letto?”

Heze sgranò gli occhi.

“Che cazzo dici?”

Lei diede in una risatina seducente.

“Beh? Cos’è quella faccia? Nel caso, non sono mica gelosa!” si sollevò a sedere e gli passò le braccia intorno alla schiena “E comunque è carino, e se piace a Fortuna deve essere anche onesto. Mpf, un ricco onesto, pensa tu! Ma Fortuna non fallisce mai nel fiutare le persone che vogliono fregarci.”

Heze non credeva alla virtù fatata che i Folli attribuivano alla loro piccola mascotte, ma era anche vero che quella bambina era incredibilmente intuitiva: del resto, chi nasce con uno svantaggio deve sviluppare le attitudini necessarie a sopravvivere.

“Non ci vado a letto.” ribadì.

Innamorata fece spallucce.

“Allora potresti smetterla di fissarlo e rivolgere le tue attenzioni a qualcun altro. Oggi siamo vivi e domani non lo sappiamo.” le sue labbra gli sfiorarono il collo “Restiamo svegli, stanotte.”

Ma sì, perché no. Tanto finiva tutte le volte così.

Lui le piaceva, lei gli piaceva: ogni tanto le loro strade si incrociavano, facevano sesso, si scambiavano un po’ di tenerezza da serbare per i momenti bui e poi riprendevano ciascuno il proprio cammino senza promettersi niente.

L’amore dei randagi era fatto di questo, e a volte era una cosa bellissima, altre gli lasciava addosso una struggente nostalgia. Nostalgia di casa: nostalgia di un desiderio di ritorno.

I pastori eshkarti, nelle lunghe notti di solitudine, cantavano la lontananza.

Ma lui non era lontano da niente: non aveva una terra che sentiva propria, non aveva una famiglia, non aveva affetti profondi, non aveva più nemmeno un passato. Poteva cantare solo il non appartenere e il non ritornare.

 

Fortuna si era addormentata e Yèlveran era rimasto immobile con la testa di lei sulle ginocchia, incapace di spostarla da lì. Il fuoco scoppiettava ancora, ma alcuni degli attori si erano già ritirati sul carro a dormire, Grande Mago strimpellava un motivo dolce su uno strano strumento a corde e Innamorato stava improvvisando un monologo strappalacrime ad una Innamorata assente.

“Non credo tu voglia restare fermo come una statua tutta la notte, o domattina avrai la schiena rotta!” gli disse Pagliaccio, chinandosi su di lui e prendendo la figlia in braccio.

“Non volevo svegliarla…”

“Se si sveglia, si riaddormenta.” fece lei, sbrigativa, e la caricò sul carro, balzando poi di nuovo giù con un aggraziato salto acrobatico “Non è il tipo di bambina che fa i capricci, altrimenti non sarebbe durata un anno con una stronza come me!”

Yèlveran si sgranchì le gambe e si portò le ginocchia al petto.

“Da piccoli non si può scegliere. Si deve durare per forza.”

“Ehi, signor galanteria, quando una donna ti dice sono brutta, sono stupida o, come nel caso in questione, sono stronza, un uomo deve rispondere…” gli afferrò la mano e sfoderò due occhioni languidi “ma no, cara! Cosa dici mai!”

Yèlveran diede in una mezza risata, ma al tempo stesso si sottrasse al contatto.

“Ridi, eh? Per forza: i luoghi comuni fanno ridere sempre! Ridiamo perché in quel momento pensiamo a quante volte abbiamo visto quegli atteggiamenti negli altri e ci sentiamo più intelligenti… ma in realtà siamo tutti ugualmente imbecilli, e l’attore lo sa!”

Lui la guardò con stupore.

“Che c’è? Non mi facevi tanto acuta, eh?” proseguì la ragazza.

“La verità? Mi sei sembrata così…”

“Pazza? Esibizionista? Un’oca cretina?”

“No. Più…” scosse la testa “dammi un attimo: ho il concetto ma non la parola.”

“Ecco perché te la intendi con mia figlia! Lei ha sempre i concetti: non è scema come sua madre…”

“Mm.”

“Eh no, non ci siamo! Cosa ti ho appena detto che si deve fare quando una donna si denigra…?”

Lui abbassò lo sguardo.

“È che tu mi sembri… mi sei sembrata… vuota.” disse “Mi è sembrato che cercassi l’attenzione con degli strumenti che poi però non ti danno il tipo di attenzione che vorresti. Mi è sembrato che la tua risata fosse solo un paravento. Mi è sembrato che non fossi felice. Ma nemmeno infelice. Mi è sembrato che dietro alla maschera non ci fosse niente.

Pagliaccio si spinse vicinissima a lui e gli sollevò il mento con le dita.

“Cazzo, biondino…quanto alle arti della cortesia sei meno di uno zero, ma non posso dire di non sentirmi guardata.”

“Scusami.”

“Oh, con due occhi come quelli, ti scuso tutte le volte che vuoi.”

“Ora stai di nuovo mettendo la maschera, però…”

Pagliaccio abbozzò un sorriso malinconico, e fece scivolare la mano sotto la sua camicia.

“Fai l’amore con me.”

“Adesso sembri triste.”

“Fai l’amore con me e me ne dimenticherò…”

Quella vicinanza era proprio troppa. Il miscuglio di emozioni che gli arrivava da lei era troppo. La dita che accarezzavano il suo petto e facevano rabbrividire la sua pelle erano troppo. Ed era troppo quel desiderio di dimenticare, l’urgenza di quella donna di annullarsi, di diventare solo corpo, solo materia.

“Penso… di non potere.”

Lei avvicinò le labbra al suo orecchio.

“Che scemenza…”

Lui si ritrasse, e fermò la sua mano con un gesto incerto.

“Dimenticarsi… di sé… Io non lo posso fare.”

Pagliaccio lo guardò per un attimo con espressione seria, poi diede di nuovo in una risata chiassosa.

“Questa è la prima volta che un uomo mi rifiuta, sai? Ma porca puttana, il tuo modo è così assurdo che non c’è verso nemmeno di offendersi!”

 

Pagliaccio non capiva come mai stesse raccontando i fatti propri a quello sconosciuto e soprattutto come mai trovasse tanto liberatorio farlo. Solo i Folli conoscevano la sua storia, e lei sapeva che, al di fuori dalla compagnia, il mondo era capace unicamente di giudicare e di puntare il dito. Ma lui era piaciuto a Fortuna, e questo doveva pur voler dire qualcosa…

“… Quando ho cominciato a mendicare ero una bambina: facevo giochetti e acrobazie agli angoli delle strade o nelle piazze in cambio di cibo, ma non sempre funzionava, anzi, se il giorno era quello sbagliato, e capitava che ci fosse una qualche celebrazione o venisse in visita in città qualche persona importante, accadeva anche di prendersi una manciata di legnate. Passai presto al furto, era più redditizio e paradossalmente meno rischioso. Sono sempre stata agile e la gente al mercato è distratta, almeno finché non viene derubata la prima volta. Poi un giorno venni beccata e l’uomo che mi prese mi disse che non mi avrebbe fatto niente di male se io fossi andata a letto con lui. Ci andai, e fu meglio rispetto ad essere riempita di botte. A Ponte al Lungo c’è un intero mercato di vecchi rimbecilliti che pagano fior di quattrini per le ragazzine, sai? O per i ragazzini, non fa molta differenza, purché diano l’impressione di essere ancora puri ed ingenui. Deve essere stato così che ho imparato a recitare. Mi è andata bene per un po’, poi sono rimasta incinta. A dirla tutta non sapevo neppure come funzionava, avevo tredici, quattordici anni, che ne so… mi sono resa conto di aspettare un figlio quando ha cominciato a crescermi la pancia. Ho tenuto la bambina perché non avevo scelta: per abortire non avevo i soldi e poi avevo una paura fottuta di morire… Per carità, oggi sono felice che sia andata così, mia figlia è una delle cose migliori che io abbia combinato nella vita, ma a quel tempo la maledicevo in continuazione. In quelle condizioni nessuno mi voleva, di rubare non ero in grado, ero pesante, impacciata, non sapevo come sopravvivere… un casino, insomma. Ricominciai a mendicare e fare giocoleria… fu così che incontrai Grande Mago. Oggi immagino che mi offrì un lavoro per pietà, ma a me disse che aveva visto in sogno che una neonata avrebbe benedetto la carovana: è per questo che l’abbiamo chiamata Fortuna.”

Reclinò la testa sulla sua spalla e lui la lasciò fare, anzi, per una volta le passò un braccio dietro la schiena affinché potesse appoggiarsi meglio. Le piaceva il suo modo di ascoltare: era diverso da qualsiasi forma di attenzione che avesse mai ricevuto, era assolutamente presente ma assolutamente disinteressato, non si aspettava niente di più di quel racconto, e così il racconto le usciva fuori autentico e ripulito. Non doveva ottenere nulla da lui, non gli doveva dimostrare niente.

“Fortuna non ha mai imparato a parlare. Il perché non si sa: forse non ne è in grado… o magari non vuole. Se non vuole, non sta a me pretenderlo. Va bene così.”

Lui sorrise.

“Hai detto una cosa molto bella.”

“Davvero?”

“Sì.”

Lo trovava incantevole: sembrava perso chissà dove e al tempo stesso riusciva a rimanere così presente.

“Mia figlia è molto diversa da me. Tiene le distanze, ha paura di tutti.”

“No, la paura sei tu che ce l’hai. Lei diffida.”

“Da dove ti viene una simile stronzata, saputello?”

“Mm. Dal fatto che tu cerchi di annullare subito le distanze. Che hai una prossemica un po’… emh… aggressiva. È un modo per mettere in chiaro chi ha il potere nella relazione, ed è anche quella una forma di difesa. Fortuna è più cauta: vede te affrontare il mondo di petto senza darti il tempo di prendergli le misure, così le prende lei per entrambe.”

Pagliaccio allungò una mano sulla sua testa e gli scompigliò i capelli.

“Uhuh! Dette da te queste grandissime puttanate sembrano quasi avere senso!”

Lui abbozzò un sorriso.

“E tu, invece…?” incalzò lei “Com’è che non bevi, non fumi e non scopi? È una roba religiosa?”

Nel dirlo, estrasse dalla tasca un sacchetto di tela e prese ad arrotolare erba celeste in una foglia.

“Mm… no. È che mi sono vietate cose che mi facciano perdere il controllo su me stesso… Il sesso rientra nella categoria, credo…”

“Credi…?” Pagliaccio scoppiò a ridere per l’ennesima volta poi accese l’estremità della foglia sulle braci del fuoco e inspirò profondamente.

“Comunque non sai cosa ti perdi…”

“Lo dice anche Heze.”

Il profumo dolciastro dell’erba celeste si diffuse nell’aria.

“Quindi cosa fai per renderti la vita piacevole?”

“Non ci ho mai pensato, credo…”

“Questa è la più epica tra le cazzate che hai detto.”

“Perché?”

“Perché è naturale che un essere umano viva cercando di ottenere il massimo del bene!”

Lui contrasse appena le sopracciglia, lasciando vagare lo sguardo nel buio della notte.

“O cercando di fare il minimo del male…” mormorò.

 

Giunsero a Capovalle nel vivo di un pomeriggio di festa, con le strade affollate per il passaggio della processione, decorazioni alle finestre e sulle porte delle case, bancarelle che offrivano cibarie e musicisti che suonavano gli inni della Purificazione: in quel giorno si celebrava la cacciata dalla città degli spiriti maligni emersi della Frattura, un rito che, in una forma o in un’altra, si ritrovava quasi in ogni centro abitato; persino a Villanuova, in inverno, il feticcio di paglia della Maledizione veniva bruciato e calato nel pozzo, così gli aveva raccontato Garlan.

Yèlveran per una volta era contento di trovarsi sul carro degli attori, con Fortuna sulle ginocchia, Pagliaccio aggrappata al suo braccio da un lato e Capitan Spavento che quasi lo schiacciava dall’altro: così non avrebbe dovuto camminare in mezzo ad una folla di sconosciuti.

“Odore di nuvolotte!” esclamò Heze, fiutando l’aria, e, scavalcando un paio di attori, raggiunse il fondo del carro e saltò giù, per ritornare poco dopo con un cestino colmo di frittelle fumanti che allungò verso Yèlveran con un sorriso raggiante.

“Dovete assolutamente assaggiarle: è il dolce delle feste, qui. In realtà è un cibo molto semplice, acqua, farina e pezzi di frutta essiccata, ma nell’impasto ci sono i semi di xuro, perciò fuori dalla Valle del Lungo nessuno riesce a farle uguali.”

Fortuna non lo fece finire di parlare che si cacciò una frittella in bocca.

Yèlveran sorrise.

“Grazie…” disse.

“Viaggiare significa anche scoprire come la gente mangia!” sentenziò Heze.

“Perbacco, quanta saggezza!” lo derise Pagliaccio.

Yèlveran intanto masticava lentamente il dolce e si sentiva grato: grato del fatto che quel ragazzo premuroso desiderasse fargli apprezzare il senso del viaggio, grato della benevolenza degli attori nei suoi confronti, grato dei giorni di tempo recuperati e grato che tutto stesse andando bene.

“Allora, è buono?”

“Tanto.”

Heze sorrise.

“Come mi piacete quando usate questa parola!”

Quella parola piaceva anche a lui, se era associata a cose innocue come una frittella di frutta, e Yèlveran avrebbe desiderato circondarsi di cose innocue a migliaia. Avrebbe voluto una vita costruita su meravigliose e insignificanti piccolezze. Ma era la sua stessa identità a non permetterglielo, e Luxei aveva dovuto educarlo in modo che non lo dimenticasse.

Eppure, quei momenti di spensieratezza gli erano preziosi.

La sera, dopo che la processione mascherata ebbe finito di sfilare, la piazza fu ceduta alla Carovana dei Folli per l’esibizione. Yèlveran non aveva mai visto tanta gente tutta insieme: la cacofonia di voci lo mandava in ansia e tutto quel movimento e quei colori gli annebbiavano gli occhi; tuttavia, quando Grande Mago saltò su uno sgabello e tuonò sopra la folla il suo “Signore e signori”, un silenzio di attesa scese piano piano. Era uno di quei silenzi che gli piacevano, un silenzio-pagina-bianca.

Poi iniziò lo spettacolo, e la pagina bianca si riempì di cose: Innamorato con i suoi monologhi sdilinquenti, le scenate di gelosia di Innamorata, i pasticci di Pagliaccio, le escandescenze di Giudice e tutta quella gente che rideva e rideva, come se non ci fosse niente altro di cui preoccuparsi, quella sera… Quando Heze cantò, prima nel modo in cui lo aveva sentito fare sul Valico del Vento, poi insieme a Innamorata, accompagnato dallo strumento a corde di Grande Mago, Yèlveran si accorse di avere la testa completamente confusa e avvertiva all’altezza dello stomaco sensazioni che non riconosceva. Eppure, non aveva accettato di bere niente, non aveva respirato l’erba celeste di cui si era intossicata Pagliaccio prima di andare in scena, aveva solo guardato e ascoltato. Guardato e ascoltato. E gli pareva che se avesse continuato a farlo, poi avrebbe voluto non fare più nient’altro che quello.

 

Heze si arrampicò sul carro, dove il suo compagno si era rintanato mentre i Folli raccoglievano le offerte e si prendevano gli applausi.

“Ecco dove eravate finito… Ad un tratto non vi ho visto più e mi sono preoccupato!”

Lui fece spallucce e tirò fuori un sorriso smarrito.

“Non devi preoccuparti. Non stiamo scalando i Monti di Vetro.”

Aveva ragione, eppure a volte gli sembrava più in difficoltà in mezzo agli uomini che davanti al neshpa.

“Che ci fate rimpiattato qua dentro?”

“Mm…” si stropicciò la fronte con quell’espressione da non-sto-trovando-le-parole-giuste che Heze ormai conosceva bene.

“Non vi è piaciuto lo spettacolo?”

Lui scrollò la testa.

“Al contrario. Mi è… piaciuto tanto. E la tua canzone mi è piaciuta tanto tanto. Solo che… Le cose che mi piacciono devono piacermi una alla volta… sennò mi si confonde la testa e…” si portò le mani a coprirsi gli occhi, come per proteggersi da qualcosa “Non lo so. Non sono capace di vivere come fate voi. Le… sensazioni… Le devo capire una per una, perché altrimenti…”

“Perché altrimenti avete paura di non avere tutto sotto controllo.” completò Heze, con un sorriso prosaico.

“Mm.”

Heze lo prese per i polsi e allontanò le sue mani dal viso.

“Statemi a sentire: l’essere contenti, o eccitati, o euforici non implica per forza non essere controllati. Se vi hanno insegnato qualcosa del genere, o c’è stato un vostro fraintendimento o – perdonatemi – sono i vostri maestri che non capiscono nulla. Quando si prova un’emozione forte, come ad esempio l’amore, ma anche la paura, è ovvio che non possiamo avere il controllo assoluto di tutto, perché il cuore vuole dire la sua e il resto del corpo pure: però possiamo averlo abbastanza. Lo faccio continuamente io, che non ho nemmeno particolare attitudine alla moderazione: figuriamoci se non ci riuscite voi che siete allenato! Non dovete prendere tutto in maniera assoluta.

“Lo dice anche…” esitò, nascondendo un nome nei suoi pensieri “il mio addestratore preferito.”

“Ecco, per fortuna! Quindi adesso, prima che tutti si domandino che fine abbiamo fatto, venite a godervi il dopo-spettacolo, che è il momento più importante per qualunque compagnia che si rispetti!”

Gli fece cenno di seguirlo e spostò il telo che copriva il retro del carro, aprendo uno spiraglio sulla piazza dove Pagliaccio stava eseguendo una serie di numeri acrobatici mentre gli altri mettevano in ordine gli oggetti di scena.

“Heze,” lo richiamò lui, che non si era ancora mosso dalla sua posizione “ci sono tante cose che vorrei spiegarti e che non posso. Ma ti sono grato delle attenzioni che hai per me. Credo di non avere gli strumenti per ripagarti abbastanza.

Heze si voltò a guardarlo: che cos’era quella tristezza profonda, adesso? E come mai era piombata addosso anche a lui?

“Oh, accidenti!” esclamò “Ripagate condividendo una bella giornata con me, ad esempio! Voi avete diritto di essere felice. Ma, oltre al diritto, ne avete il dovere. Cominciate a guardare la felicità come un dovere, se questo vi aiuta: dovere verso quelli che in questo preciso istante stanno soffrendo e dovere verso i morti. Non è il mondo a rendere felici noi, siamo noi a rendere felice il mondo e ogni volta che non ci proviamo, ci stiamo tirando indietro dalla battaglia più cruciale dell’umanità.”

L’altro era rimasto immobile con gli occhi spalancati su di lui.

Poi annuì con incredibile convinzione.

“Va bene.” disse “Ho capito.” e saltò giù dal carrozzone.

 

 

*** A tutti coloro che mi leggono, ho voluto postare oggi perché AMO il titolo di questo capitolo, e sento davvero mie le parole di Heze: quando nulla ci rende attivamente infelici, abbiamo il dovere di impegnarci per essere felici e trasmettere felicità, proprio per rispetto di tutti coloro che non possono. BUON 2024. ***

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Capitolo 13
*** Iruvàn ***


Cosa dovrebbe provare un uomo che ha appena perso la sua intera vita e, in una manciata di minuti, gli viene offerto di iniziarne un’altra?

Teshdei non lo sapeva.

Da poche ore, non riusciva più a sentire né a comprendere niente.

Il pianto dirotto in cui era scoppiato davanti alla sua misteriosa salvatrice lo aveva prosciugato: gli sembrava che insieme alle lacrime se ne fossero andati il dolore, la paura, i rimpianti, persino l’amore e l’odio. Si sentiva un contenitore vuoto. Ora sì, ora avrebbe potuto abbandonarsi alla morte e alla vita con la stessa vacua indifferenza. Era lì? Davvero stava respirando, guardando, camminando? Per un attimo pensò che avrebbe potuto ridurre tutto in briciole, come aveva fatto con quel carro, come il giorno in cui aveva mandato in pezzi la staccionata dell’orto del suo creditore: gli sarebbe bastato abbracciare quella forza che gli rimescolava il cervello e gli annebbiava il cuore...

“Non è una buona idea. All’inizio sembra liberatorio, ma poi funziona come una sbronza: appena l’euforia passa, arrivano il vomito, il mal di testa e la tristezza.”

La ragazza fermò il cavallo e gli tese la mano per aiutarlo a scendere.

“Leggi nel pensiero?”

Ormai, non se ne sarebbe stupito.

“No. È che facciamo tutti così, non appena la mente torna presente a se stessa e ci rendiamo conto che dietro di noi ci sono solo macerie e davanti il nulla. Vorremmo cedere il comando: lasciare che quell’energia che non sapevamo di possedere e che ci ha appena distrutto la vita si prendesse ogni cosa. Ma non si può, perché essa non è altro da noi. Siamo noi.”

Si trovavano di fronte al rudere di una vecchia fortificazione, di cui restavano in piedi solo le mura, invase da rampicanti, ortiche e rovi. Lei lo condusse verso un’apertura nel muro, dove la vegetazione dava l’impressione di venire periodicamente tagliata, e lo spinse avanti, vero l’interno.

Dovevano trovarsi piuttosto distanti dall’ultimo centro abitato: si stava facendo sera, ma tutto intorno non si vedeva il riflesso di una luce, nemmeno in lontananza.

La ragazza gli passò avanti, si chinò sulle ginocchia e estrasse qualcosa dal terreno: una specie di punteruolo dalla testa tonda, ma stranamente lucente. Teshdei si stropicciò gli occhi, convinto che la stanchezza e l’oscurità gli avessero giocato uno scherzo: in mezzo allo spiazzo che prima gli era parso vuoto, ora gli sembrava ci fosse qualcosa. Lei si mosse in linea retta, si chinò di nuovo, estrasse un secondo punteruolo e ripeté il gesto altre due volte, seguendo un immaginario perimetro quadrato; adesso, dove prima non c’era nulla, Teshdei vedeva distintamente una casa, con uno dei muri in pietra grezza, simile ai resti della fortificazione, gli altri tre di costruzione più recente, lindi e ben rifiniti, sui quali si aprivano finestre illuminate.

“Non abbiamo specialisti di Confini, qui,” fece lei, come se gli dovesse una spiegazione “Quindi dobbiamo accontentarci di trucchetti da principianti. Ma in genere preferiamo la lealtà alla segretezza.”

“Buffo” trovò il coraggio di ribattere lui “detto da una donna che si nasconde il volto.”

Di tutta risposta, la ragazza si sfilò la maschera.

“Non lo sto nascondendo a te.” disse “Tu non hai interesse a tradirmi. Non solo, non puoi neppure farlo… non per tua scelta, almeno. Sapevi che per la nostra legge la testimonianza di una Maledizione non ha valore, a meno che non sia estratta da un Persuasore di Ricordi o rubata da un Persuasore di Lettura? È per questo che, adesso che conosci questo luogo e il mio volto, dobbiamo prenderci cura di te.”

Sorrise, con gentilezza e durezza insieme.

Era poco più che una fanciulla, poteva avere la metà dei suoi anni, ma parlava come una persona che ne ha vissuti mille. Era bella e arrabbiata, di una rabbia lucida e orgogliosa: occhi scuri, labbra grandi e vivide, e il cipiglio di una donna che non ha più nulla di cui sorprendersi.

“Il mio nome è Meirem, e questo per un po’ sarà il tuo rifugio. Seguimi.”

Fece suonare il campanaccio sulla porta e cinguettò un “Sono tornataaa!”, come una bambina allegra che rientra da una scampagnata; la reazione non si fece attendere, anzi, fu così veloce da far pensare a Teshdei che qualcuno fosse sempre stato lì.

“È un po’ tardi, cara, ma ti abbiamo tenuto la cena da parte!”

L’uomo sulla porta poteva avere poco più di trent’anni: non alto, ossuto e spigoloso, capelli rasati a pelle e un paio d’occhi l’uno di un colore diverso dall’altro, che facevano una certa impressione, specie su quel viso emaciato.

“Vedo che hai portato con te il nostro amico!” continuò “Sono lieto che tu sia ancora vivo!” gli allungò un’esile mano dalle lunghe dita di ragno “Io sono Xau. Accomodati!”

Li fece entrare e si rivolse a Meirem.

“Lui vi aspetta di sopra. Ti farò trovare di che rimetterti – e rimetterlo – in sesto quando avrete finito.”

 

La porta era aperta.

Iruvàn stava seduto di schiena, curvo sul tavolo a scrivere qualcosa alla luce timida di una candela.

Meirem indugiò sulla soglia a guardarlo: i capelli, imbiancati troppo presto ma ancora lunghi e folti, gli coprivano il collo, e le sue spalle un po’ curve sembravano sempre così stanche. Era un uomo forte eppure a volte sembrava vulnerabile, era severo eppure amabile, sapeva essere spaventoso e rassicurante insieme. Iruvàn era troppe cose: era un labirinto, era gli estremi che si toccano, era contraddizione pura. Non lo vedeva da almeno un mese, e Dio, quanto le era mancato! Sarebbe rimasta ferma lì ad osservarlo per ore.

“Non restare sulla porta, il corridoio è freddo.” la invitò lui, riponendo con delicatezza fogli e penna.

Meirem fece qualche passo avanti accennando a Teshdei di seguirla.

Iruvàn mosse la sedia senza fare rumore, le andò incontro e le accarezzò il viso.

“Sei stata veloce.” disse.

“Xau pensa che avrei dovuto farcela entro l’ora di cena.” scherzò lei.

“Xau non ha affrontato dei Persuasori da solo.”

Meirem arrossì e incrociò il suo sguardo: anche se lui sorrideva, quegli occhi non sorridevano affatto. Gli occhi di Iruvàn non sorridevano mai, erano un abisso in cui si poteva solo precipitare.

“Ti do il benvenuto.” si rivolse a Teshdei “Immagino che Meirem ti abbia già spiegato alcune cose… tutte le altre, te le spiegherò io. Siediti: avrai molto da chiedermi.”

L’uomo obbedì meccanicamente e prese posto su uno dei cuscini ai piedi del camino che lui gli aveva indicato. Anche Iruvàn fece lo stesso, e Meirem ravvivò la fiamma.

“Chi sei?”

“Oh.” il padrone di casa fece un ampio sorriso vuoto “Non mi immaginavo questa, come prima domanda! Peccato, dovrò mostrarti subito il mio lato meno accogliente. Non ti dirò il mio nome finché non penserò di avere la tua incondizionata lealtà. Il che è anche possibile che non accada mai. Mi trovo in una posizione molto complessa, essendo un Persuasore che viola la Regola.”

“Persuasore...?”

Iruvàn frustò l’aria con la mano.

“Mago, stregone, come preferisci… non ha molta importanza: importa che ho messo le mie arti a protezione di quelli come te. Tuttavia, i nostri progetti a lungo termine prevedono che io faccia parte di un’enclave e non perda credibilità davanti ai…” fece un sorriso sghembo “miei pari. Per questo devo mantenere la clandestinità con chi non è, o non è ancora, nel Patto.”

Lo guardò dritto negli occhi e Teshdei non resse lo sguardo.

“Cos’è… il Patto?” chiese, a mezza voce.

“È un giuramento tra persone che non approvano il modo in cui viene governata questa società. Più nello specifico, non approviamo l’atteggiamento dei Persuasori nella propria posizione di potere e la gestione del fenomeno che chiamano Maledizioni. Sai cosa ti sarebbe accaduto, se Meirem non ti avesse salvato?”

Teshdei deglutì e incurvò le spalle.

“Sarei stato ucciso.”

“No.” precisò Iruvàn, con la freddezza di una lama di coltello “Ti saresti ucciso da solo. I Persuasori non si sporcano le mani: non impugnano armi. Un Persuasore di Sensi avrebbe manipolato la tua mente privandoti della percezione del pericolo e di quella del dolore, e un Persuasore di Cesura avrebbe guidato la tua mano a conficcarti un pugnale nel cuore, a sgozzarti o a tagliarti le vene. Se non altro non avresti provato alcuna sofferenza: compassionevole, no?”

Teshdei rabbrividì e Meirem gli batté una mano sulla spalla.

“Ti è andata bene!” disse e poi spostò lo sguardo da lui ad Iruvàn “Quei due non erano particolarmente esperti. Uno non praticava la Persuasione dei Sensi come arte principale, e il Persuasore di Cesura era ancora un principiante, non è neppure riuscita a bloccare la mia voce.” guardò di nuovo Teshdei “Non tutti hanno la tua fortuna: se una Maledizione viene individuata in una grande città è difficile che noi riusciamo ad intervenire e la condanna viene eseguita nel giro di poche ore.”

“Quanti… ne avete salvati?”

Meirem prese a contare sulle dita, ma Iruvàn la precedette.

“Con te, otto. Meirem compresa. Non molti, ma quasi tutti quelli di cui siamo venuti a conoscenza. Non è facile sapere, e ancor meno sapere in tempo.”

Teshdei continuava a strapparsi frammenti di pelle alla base delle unghie: prima o poi si sarebbe fatto sanguinare le mani.

“Perché non mi domandi la cosa che non osi chiedermi?” fece Iruvàn pacatamente “È inutile che continui a roderti nell’ansia: spesso col pensiero anticipiamo pericoli che poi non si verificano. Le cose sono sempre più semplici quando vengono messe in chiaro subito.”

“Meirem ha detto…” la guardò in tralice “…mi ha parlato di un incantesimo.”

Lui annuì.

“Io pratico la Persuasione del Cuore. Non è la mia arte principale, oggi… ma lo era, un tempo, ed è tuttora quella a cui sono più affezionato. Mi permette di ottenere lealtà, rispetto, persino amore dalla persona che ne è l’oggetto.”

“Puoi… convincere qualcuno ad amarti?”

“Oh, sì. Persino a morire per me. Ma, come tutte le Persuasioni, ha forza e durata limitate sia nello spazio che nel tempo. Potrei costringerti a vedermi come il migliore amico che si possa avere e raccontarmi la tua intera vita qui ed ora: ma pochi minuti dopo ti domanderesti perché l’hai fatto. E non mi serve né mi interessa, capisci?”

No, dall’espressione sul suo volto Teshdei non capiva affatto. Non riusciva a districarsi in tutti quei concetti mai sentiti prima e non aveva idea di cosa quell’uomo si aspettasse da lui.

“La Persuasione del Cuore diventa affidabile se si basa sul consenso.” spiegò Iruvàn “Se tu vuoi fidarti di me ed ottenere la nostra protezione, la Persuasione sarà solida e duratura ed io potrò essere certo che non ci tradirai.”

Seguì un lungo silenzio.

“Come farai ad essere certo che il mio consenso è sincero?”

Sul volto di Iruvàn apparve un’espressione soddisfatta.

“Mi piace questa domanda, e mi dice molto di te. Il fatto che tu me lo stia chiedendo significa che non hai intenzione di fingere, ma che temi di non essere convinto e di darmi il tuo consenso solo perché ti senti vulnerabile e non sai dove altro andare. È così?”

Teshdei annuì.

“Non temere.” proseguì l’altro “I tuoi dubbi non sono un problema, mi interessano solo le tue intenzioni. Mi dai il permesso di utilizzare la mia arte su di te perché pensi di avene bisogno per rimanere vivo? È più che sufficiente.”

Per un attimo Iruvàn guardò nel vuoto e Meirem colse un’ombra passare attraverso i suoi occhi.

“Una persona a me cara” disse lui, sorridendo con dolcezza “diceva sempre mi fido abbastanza per tutti e due. Quindi, sta’ tranquillo. Ci penso io. Per tutti e due.”

 

La notte era calata da un po’ ed Iruvàn era ancora curvo su quella sedia, con la penna in mano ma senza scrivere niente.

“Non dormi?” Meirem appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle.

Iruvàn rilassò la schiena e lasciò che lei gli massaggiasse il collo.

“Lui come sta?” si informò, e c’era una certa premura in quella domanda, anche se mascherata bene dal tono monocorde della sua voce.

“Bene, compatibilmente alla sua situazione. Si è rifocillato e poi addormentato. Aveva una moglie e un figlio, poveretto, e nel suo cuore spera che loro lo amino ancora. Che un giorno li rivedrà, magari. Credo sia per questo che ha collaborato. Mi dispiace che si illuda. In ogni caso, al momento questa speranza gli serve per non crollare… Quanto a noi, ha un potere notevole e ci servirà.”

Iruvàn si passò una mano sulla fronte.

“Leu?”

“È quasi alle montagne.”

Lui annuì lentamente.

“Sei stanco, Iruvàn… Vai a dormire, per piacere.”

“No. Devo tornare all’enclave entro l’alba, non sanno neppure che sono uscito.” fece per alzarsi ma lei non si spostò, anzi gli circondò le spalle con le braccia.

“Non andare. Resta qui, stanotte.”

Lui le accarezzò le mani e poi le allontanò delicatamente da sé.

“Lo so, mi dispiace. Ma le cose si sono complicate e il tempo corre.” si alzò, con un profondo sospiro “Non mi posso permettere errori.”

Meirem gli prese il viso tra le mani.

“Per favore.”

Gli era mancato, gli mancava. Perché doveva essere tutto così difficile? Per mille ragioni, in verità: perché lui era la mente del Patto e lei solo la ragazzina che aveva salvato da morte certa, perché aveva trent’anni più di lei, perché era convinto che tutta la sua devozione fosse opera della Persuasione del Cuore… e invece la Persuasione non c’entrava niente, accidenti. Lo amava dal momento in cui lo aveva conosciuto, lo amava come non avrebbe mai potuto amare nessun altro.

“Meirem,” le disse in quel modo che le faceva male ogni volta “ho bisogno della tua intelligenza, non del tuo affetto. Per l’affetto ci saranno altri tempi. Uscendo, ripristinerò il confine: il nostro nuovo amico non deve uscire per un po’. E nemmeno tu.”

“Nessuno mi ha vista in faccia.”

“Non ha importanza. Hai aggredito due Persuasori e fatto fuggire una Maledizione. Ci sarà un bel trambusto…!”

C’era un sottinteso in quelle parole.

“Credi che avrei dovuto ucciderli?”

Stavolta fu lui ad appoggiarle le mani sulle spalle.

“No. Non avevi gli strumenti per valutare se meritassero di vivere o morire. Ed avevi un’altra priorità.”

La sua presa solida le dava i brividi: avrebbe voluto rimanere ferma così per ore.

“Ma anche io ho una priorità, dunque perdonami se ti lascio da sola a gestire questo caso.”

“Io…”

Iruvàn la fissò negli occhi. Azzurri, azzurrissimi. Era così dannatamente bello.

“Dimmi che nei sei in grado.”

Se anche non lo fosse stata, lo sarebbe diventata.

A lui non avrebbe mai detto no.

Annuì vigorosamente.

“Sì. Certo che sì.”

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Capitolo 14
*** Quelli da lasciare indietro ***


Quando arrivarono ai piedi del ramo orientale dei Monti di Vetro erano ancora piuttosto indietro sulla tabella di marcia, ma avevano comunque recuperato alcuni giorni e il tragitto che li aspettava era molto più agevole in confronto al Valico del Vento, innanzi tutto per la minore presenza di mirdev, e poi perché i versanti erano più dolci e l’altitudine inferiore.

“Ma c’è una probabilità su due di incontrare altri neshpa! Ormai staranno uscendo dal letargo!”

Heze studiò il suo compagno per vedere che faccia avrebbe fatto alla notizia, ma lui si strinse nelle spalle e disse: “Beh, tanto ci sei tu che ci vai d’accordo.”

Era proprio vero che le insidie del viaggio lo turbavano meno rispetto alle relazioni umane: di fronte alla natura, il suo spavento soccombeva alla meraviglia.

Raggiunsero Pedimonte prima del calare del sole e si fermarono in una piccola locanda che Heze conosceva: il Valico Basso era un punto di passaggio abbastanza frequentato rispetto a quello del Vento; i mercanti con carichi leggeri ma preziosi, i messaggeri, alcuni viaggiatori lo utilizzavano come scorciatoia per arrivare da Lafargau a Capovalle o a Ponte al Lungo, e Pedimonte, per quanto cittadina di poche anime, aveva fatto di questo viavai una fonte di guadagno, se non altro nella buona stagione.

“Non aspettatevi lo stesso calore che abbiamo ricevuto a Marvino: qua non sono amico della proprietaria. A meno che…” gli strizzò l’occhio “voi non vogliate presentarvi come un Persuasore in missione!”

L’altro scrollò le testa senza aver colto, nemmeno quella volta, la battuta.

“Meglio di no, credo.”

“Eh già,” la scrollò a sua volta Heze, rassegnato “meglio di no.”

Il posto era un piccolo edificio di due piani, asimmetrico, con un tetto a spiovente su un solo lato ed un pezzo di legno intagliato a forma di casetta, che pendeva da una trave, appeso a due catene arrugginite a fungere da insegna. La porta era aperta su una corte condivisa con altri due edifici: una casa dalla stessa struttura e una legnaia.

Heze diede un’occhiata generale dalla soglia studiando i presenti prima di entrare.

“Il locandiere è a posto,” disse, come a dover giustificare quella cautela “ma non è uno sveglio, e dal Valico Basso passa anche brutta gente.”

“Non sarò certo io a insistere per socializzare,” sorrise l’altro “desidero solo poter lavare me stesso e i miei vestiti prima di affrontare la mia seconda esperienza di scalata.”

Togfaran era un ometto piccolo e canuto con baffi spessi come setole: gestiva quel posto da tutta la vita, ma non brillava per buona memoria, tanto che Heze dovette ripresentarsi, come faceva ogni volta che passava di lì, nonostante, tra un viaggio e un altro, gli capitasse di vederlo piuttosto spesso. Era un tipo posato: fermarsi da lui significava rassegnarsi ai suoi tempi, mangiare sempre la stessa cosa e accettare di sentirsi porre la stessa domanda due o più volte, ma il posto era pulito e i letti comodi e il suo compagno di viaggio apprezzava quel genere di dettagli.

 

Yèlveran fu contento che Togfaran gli avesse servito le nuvolotte: oltre al fatto che gli erano piaciute molto, ormai associava quel sapore ad una sensazione di cura che lo faceva sentire a casa. Aveva altri ricordi di quel genere – la mano di Luxei sulla sua testa, il profumo delle tisane di Garlan, ancora Luxei che gli scrollava la spalla quando si addormentava nel chiostro – ma quello era il primo fuori dall’enclave e il primo legato ad una situazione sociale che non gli facesse paura. Istintivamente portò la mano in tasca e ci trovò la biglia che Fortuna aveva voluto ad ogni costo dargli quando si erano salutati: gli attori erano stati davvero gentili con lui, era contento che Heze gli avesse forzato un po’ la mano trascinandolo sul loro carro. E non aveva neppure dovuto forzare più di tanto: Heze riusciva con naturalezza a fargli attraversare le persone così come gli aveva fatto attraversare il Valico del Vento. Gli dava parole a cui appoggiarsi. Parole facili. Sicure. Guardate la mia schiena. Tenetevi alla corda. E ancora: Condividete una bella giornata con me. La felicità è un vostro dovere.

Rendeva le cose solide e chiare: quando era con lui, il mondo riusciva a sembrargli un posto amichevole e in certi momenti finiva pure per illudersi che lo fosse realmente.

“Heze,” chiese “a te chi ha insegnato a…” cercò la domanda giusta massaggiandosi la fronte con le dita “a vivere nel mondo?”

Lui lo guardò per qualche attimo con divertita perplessità e poi rise.

“Ehi, vi rendete conto delle domande buffe che fate?”

“È una domanda buffa?”

“Presuppone che a vivere qualcuno ti debba insegnare. Sì: è buffa. È come se mi chiedeste chi mi ha insegnato a camminare: a meno che non ci sia qualcosa di rotto, prima o poi succede.”

“Qualcosa di rotto. Mm.”

Heze si versò del vino, fece per offrirlo, poi si ricordò e rimise la brocca a posto.

“Ognuno impara cose diverse: quelle che ho imparato non sono quelle che avete imparato voi, ma non esiste un’arte del vivere nel mondo. Io ho dovuto imparare molto in fretta a sopravvivere, a mangiare poco e male, a difendermi… e poi ho imparato a orientarmi, a viaggiare, a scegliere di chi fidarmi o meno. Ma nulla mi garantisce che tutto questo mi servirà per svegliarmi vivo domattina: oggi, magari, potrebbe capitare che mi sarebbe servito quello che sapete fare voi. Per questo gli esseri umani sono fatti per cooperare: solo che molti non lo capiscono e… ”

La porta della locanda si aprì, e la figura che si stagliò sulla soglia catturò subito l’attenzione di Heze. Era un uomo imponente con una cicatrice sul viso, seguito da altri due uomini, uno anch’egli grande e grosso, l’altro che sembrava sparire al confronto. Togfaran si affrettò ad andar loro incontro con un’urgenza piena di timore, scambiò qualche parola con lo sfregiato, che pareva il capo, e li guidò a sedere ad un tavolo vicino alla porta sul retro mentre un muto disagio serpeggiava tra i presenti.

A Yèlveran non ci volle molto per rendersi conto che i due più alti erano armati e non avevano alcuna preoccupazione di nasconderlo: non erano militari, però, né dovevano far parte, dal modo in cui si erano posti, di un qualche Guardia locale agli ordini di un magistrato.

“È il tipo di brutta gente a cui ti riferivi?” chiese sottovoce alla sua guida, ma l’espressione che trovò sul volto di Heze non gli piacque affatto. La sua postura era tesa e i suoi occhi avevano assunto un’espressione che Yèlveran non vi aveva mai colto: non allarme o diffidenza, ma qualcosa di molto vicino alla tristezza. Stava fissando i movimenti del più piccolo del gruppo, una figura minuta coperta da un ampio mantello con cappuccio che sedeva a disagio accanto all’uomo con la cicatrice. Anche Yèlveran spostò lo sguardo in quella direzione e fu allora che si accorse di due cose: che l’oggetto dell’interesse di Heze era un ragazzo – o forse una ragazza – eshkarti e che al suo polso era appesa una catena.

“Non guardateli in quel modo. Sì, è brutta gente. Orrenda.” Yèlveran non reagì subito, allora Heze lo scrollò per una spalla bruscamente “Mi avete sentito? Non fatevi notare!”

Non era abituato a vederlo tanto in allarme: ubbidì, abbassando la testa sul piatto.

“Chi sono…?”

Il ragazzo lanciò un’altra occhiata in tralice al prigioniero e serrò le labbra.

“Mercanti di schiavi. Passano da qui per raggiungere la piana di Feuzte, perché sulle strade principali ci sono i controlli. A meno che” aggiunse con disprezzo “non abbiano già un compratore abbastanza importante. In tal caso, dimenticheranno tutti di averli visti.”

Yèlveran si intendeva poco o niente di faccende come quella, tutto ciò che sapeva aveva a che fare coi suoi studi e con l’educazione ricevuta da bambino.

“La Grande Legge vieta la schiavitù.” avanzò, incerto “Contraddice il Valore dell’Umanità.”

“La Grande Legge vieta anche l’omicidio, e il furto, e un sacco di altre cose, e non per questo non accadono. Scommetterei una mano sul fatto che persino nelle case delle Famiglie possono essere scovati schiavi eshkarti acquistati per sesso, intrattenimento o come ornamento: a Feuzte e dintorni quelli come noi appaiono esotici.”

Un’altra occhiata al ragazzo in catene, che per un attimo parve ricambiare lo sguardo. Non doveva avere nemmeno quindici anni e aveva occhi grandi e scuri, come quelli di Heze.

“Dove sono nato io, la gente muore di fame,” proseguì “e non è solo un modo per modo di dire che c’è povertà. Si muore di fame davvero e di questo la Grande Legge se ne fotte. Dar via un figlio ne può salvare un altro… Ma la gente come questa si sente in pace con la coscienza perché in fondo ha solo acquistato: il crimine morale lo hanno commesso i selvaggi dell’altopiano che vendono i bambini, non i ricchi oziosi che li comprano.”

Era la seconda volta che lo sentiva accalorarsi così: la prima era stata a Marvino, quando lui gli aveva prospettato l’eventualità di non fare niente per salvare la giovane suicida dal destino che si era scelta, e Yèlveran si rese conto con timore che, come quel giorno, se adesso Heze avesse chiesto la sua complicità lui gliela avrebbe data, pur ritenendo qualsiasi tipo di intervento, in una situazione del genere inutile, e persino controproducente.

La chiarezza di quella sensazione era disorientante.

“Andiamocene a dormire.” disse invece il ragazzo “La situazione qui non è sicura.”

“Heze…”

Lui si sforzò di mostrargli l’espressione più rassicurante di cui disponeva in quel momento.

“È brutta gente,” ripeté “abituata al rischio e che non si farebbe certo impressionare dal vostro ruolo né da qualsiasi intervento d’autorità… a meno che l’autorità non parli la lingua della forza e della spada. Non è roba per noi.”

 

Heze si coricò sapendo bene che non avrebbe dormito.

La cena gli era rimasta sullo stomaco e ogni volta che provava a chiudere gli occhi, quelli della mente si riaprivano sul volto del prigioniero, che poi era il suo stesso volto.

Erano passati quattordici anni.

Quattordici anni e la sua vita era cambiata completamente.

Ma gli occhi di quel ragazzo continuavano ad essere i suoi occhi, quel destino il suo destino.

Aveva sette anni quando aveva lasciato la sua famiglia ed era stato portato a Exneirva per essere venduto: non odiava suo padre per questo, anzi, da qualche parte dentro di sé provava ancora nei suoi confronti una vaga compassione, ma tra la compassione e il perdono si apriva una voragine. Sull’altopiano andava così: se le bocche da sfamare diventavano troppe, i figli più piccoli venivano ceduti ai mercanti di schiavi e nessuno percepiva quella pratica come deprecabile, al contrario, si giustificavano con il pensiero che, se avessero avuto la fortuna di essere comprati da qualche famiglia ricca del capoluogo, quei bambini avrebbero avuto una vita di gran lunga migliore rispetto a quella dei pastori. E però. Però nessuno pensava al peso della loro ferita. Nessuno pensava mai che l’essere stati il ramo da tagliare era un marchio da cui, emotivamente, sarebbe stato impossibile liberarsi, per il resto della vita. Che ciascuno di quei bambini sarebbe diventato un adulto convinto di essere una pedina sacrificabile, uno da lasciare indietro quando la barca affonda.

Adesso toccava a lui lasciare indietro quel ragazzo: toccava a lui perché era così che andava, perché nessuno faceva mai un passo fuori dal proprio giardino, perché da solo non poteva niente…Ma quella scelta lo faceva rigirare nel letto senza pace. Forse avrebbe dovuto cedere all’istinto, scagliarsi sui due schiavisti e prenderli a pugni, attirare l’attenzione dei presenti, scrollarli dalla loro gretta indifferenza, sperare che qualcuno reagisse, si indignasse, facesse qualcosa. Dio, qualcosa! E poi…? Poi forse si sarebbe scatenata una rissa, e qualcuno sarebbe morto oppure no, e lo schiavo sarebbe fuggito oppure no, e i mercanti sarebbero finiti davanti a un magistrato oppure no, e lui si sarebbe sentito un po’ più in pace con la coscienza e un po’ meno impotente… Ma una volta che le acque si fossero calmate, tutto sarebbe ricominciato come prima. Esattamente come prima. Non poteva cambiare il mondo e non era il suo compito farlo: era lì per accompagnare un uomo a Feuzte, e non doveva nemmeno ipotizzare di chiedergli di far pesare la sua posizione per scombinare le carte in tavola, strumentalizzarlo per far girare il mondo in un modo che gli piacesse un po’ di più. Anzi, doveva evitare di fargli capire che, in fondo al suo cuore, lo avrebbe desiderato.

Si alzò lentamente, si accertò che il suo compagno di viaggio stesse dormendo e uscì dalla stanza.

Non sapeva neppure lui cosa intendesse fare, ma il suo corpo non era capace di rimanere disteso.

Vagò su e giù per il corridoio come un sonnambulo, quasi in attesa di un cenno chiarificatore; doveva essere notte fonda. Si avvicinò all’altra porta e sbirciò nel buco della serratura.

“Per mille maledizioni, ma che cazzo sto facendo?”

Eppure non riuscì a muoversi da lì finché non fu certo che a dormire in quella camera non vi fossero i due mercanti col loro prigioniero. Scese al piano di sotto: li stava attivamente cercando… perché? Che sperava di ottenere? Non aveva nessuna speranza di affrontarli da solo; erano due, ed armati: forse avrebbe avuto una chance in uno scontro uno contro uno, ma non era nemmeno detto, visto e considerato che almeno uno di loro era alto il doppio di lui.

All’improvviso fu attratto da una voce: stava parlando piano, ma nel silenzio della notte si distingueva bene. Heze ne seguì la provenienza e accostò l’orecchio alla porta: con un sentimento indefinito che era insieme soddisfazione e terrore si rese conto di aver trovato quello che cercava.

“Non mi stai divertendo per niente, bambina: rivestiti e ricominciamo da capo.”

Con un fremito si chinò sul buco della serratura: sapeva benissimo cosa stava succedendo, eppure provava il bisogno di guardare, farlo gli avrebbe annebbiato la testa e dato il coraggio. Dal suo ristretto spiraglio di osservazione, alla luce tremolante di due candele accese, vedeva di profilo il prigioniero – una ragazza, anche se coi capelli cortissimi ed un seno inesistente – che copriva il suo magrissimo corpo con una lunga camicia sdrucita e poi infilava lentamente un paio di pantaloni, incerta sulle proprie gambe. In quel momento non aveva la catena al braccio, ma sia sul polso che sul collo mostrava i segni di averla portata a lungo. Vedeva anche l’altro uomo, quello che non stava parlando, seminudo disteso sul letto, mentre trangugiava vino direttamente dalla brocca. Del compare sentiva solo la voce.

“Adesso spogliati di nuovo e mettici più impegno. Mi devi eccitare, capito?”

La ragazza ristette e piegò appena la testa di lato: a Heze sembrò che lo stesse guardando e quegli occhi avevano conosciuto tutta la ferocia del mondo.

L’uomo entrò nel suo campo visivo: la prese da dietro e le infilò una mano tra le gambe.

“Ubbidisci, puttana!”

Heze sentì il sangue arrivargli alla testa: con tutta la forza che aveva si buttò sulla porta con l’intento di buttarla giù a spallate, ma non ce ne fu bisogno perché era aperta e si spalancò sotto il suo peso. Lui rovinò nella stanza, sbilanciato dalla sua stessa spinta, e si gettò sullo sconosciuto caricando un destro che non andò a segno.

“E tu chi cazzo sei?”

Heze si rialzò approfittando del momentaneo sbigottimento e gli fu di nuovo addosso, stavolta assestandogli un pugno sul naso. Il grido di dolore della sua vittima lo fece sentire per un attimo pieno di forze e cancellò ogni sua paura: desiderava vederlo sanguinare, desiderava fargli tutto il male possibile, desiderava sfogare su di lui quattordici anni di rabbia. Quell’uomo lo meritava!

 

Yèlveran si svegliò d’improvviso, come disturbato da qualcosa: da quando era in viaggio, aveva un sonno così leggero che spesso bastava un lieve rumore a richiamarlo nel mondo della veglia, soprattutto se non era andato a dormire con la mente sgombra e le sue serrature perfettamente chiuse.

Lo stato d’animo di Heze lo aveva turbato. Aveva desiderato fargli delle domande, ma le domande gli si erano aggrovigliate nella testa e lui ci si era perso dentro.

Quando aprì gli occhi, percepì subito la sua assenza senza bisogno di guardare. Non si chiese perché Heze fosse uscito senza dirgli niente: si alzò e andò a cercarlo, e quello fu il momento in cui anche il grido proveniente dal piano sottostante raggiunse il corridoio.

Yèlveran corse giù per la scala: vide la porta spalancata, sentì Heze urlare e due voci imprecare.

Un’ondata di angoscia lo assalì: era una sensazione arrivata da molto lontano, dalla sua infanzia, forse, ma era vivida nel presente e lo paralizzava sulla soglia.

Heze stava lottando con lo sfregiato: aveva un labbro spaccato, mente il suo avversario perdeva copiosamente sangue dal naso; la spada di quest’ultimo era ancora appesa ad un chiodo piantato nel muro. In un angolo, tra la testiera del letto e la parete, la ragazza eshkarti tremava e piangeva. Poi l’altro uomo si avvicinò barcollando: Yèlveran fece appena in tempo a vedergli estrarre un coltellaccio dal fodero e lanciarsi, pur se instabile sulle gambe, verso la schiena di Heze.

Voleva pensare e non ci riusciva.

O forse stava pensando ma i pensieri erano troppo veloci e i segnali dal mondo troppo invadenti e non riusciva ad afferrarne nemmeno uno. Non di pensieri. Non di segnali.

Perciò decise senza.

Si gettò nella stanza parandosi tra Heze e il suo aggressore: il tempo di gridare “aiuto” una volta, due, forse… Poi solo dolore e una gran confusione.

Facevano questo i pensieri, quando non si lasciavano afferrare.

Confusione.

 

Heze ritrovò la propria lucidità quando riconobbe la voce del suo compagno di viaggio. Al suo grido fece eco quello della ragazza, la cui voce fino ad allora non aveva mai sentito. Poi arrivarono passi per le scale, si accesero luci di torce all’esterno, sembrò che fosse diventato improvvisamente giorno e tutto il mondo avesse una gran fretta di fare qualcosa. Qualcosa. Qualcosa.

Il suo avversario colse l’attimo di esitazione e lo colpì all’inguine con un calcio.

“Via, via!” ordinò all’altro, strattonando la prigioniera fuori dalla porta.

Avrebbe voluto fermarli, ma il dolore gli impedì di rimettersi in piedi in tempo.

“Heze… stai… bene?”

Si alzò faticosamente.

“Sì. Niente di rotto.”

E invece c’erano tante cose rotte, anche se non erano le ossa. Ma erano rotte da sempre. Ecco perché non era affatto vero che sapeva vivere nel mondo.

 

“Meno male…” disse Yèlveran, e tutta la tensione degli ultimi minuti scivolò via lasciandolo senza forze.

“Voi non dovreste essere qui!” esclamò Heze andandogli incontro.

“Perché…?”

Aveva la vista appannata: sentiva la sua voce molto vicina ma non riusciva a orientarsi nello spazio.

Poi lo sentì di nuovo gridare.

“Oh cazzo! Aiuto!” era spaventato, le sue parole tremavano. “Qualcuno mi aiuti, c’è un ferito!”

Cosa stava succedendo?

Si accorse di provare un intenso dolore che partiva da un fianco e si irradiava in ogni parte del corpo. Portò la mano all’altezza della vita e sentì il sangue bagnargli le dita. La camicia ne era intrisa e la macchia scivolava giù, lungo la gamba. Tutto quel sangue era suo? E come poteva essere ancora in piedi? Ma no, non era affatto in piedi: c’erano le braccia di Heze che lo stavano sorreggendo.

“Oddio…”

Buio.

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Capitolo 15
*** La Persuasione dell'Aria ***


L’enclave dove si apprendeva la Persuasione dell’Aria, era come un mondo nel mondo e solo a pochi eletti era concesso mettervi piede. In molti sapevano che sorgeva su un isolotto in mezzo al lago di Zaosha, ma nessuno poteva vederla, il confine veniva costantemente mantenuto dal lavoro dei Persuasori stessi, e nessuno che non fosse un Persuasore vi era del resto mai entrato: erano loro a recarsi a riva per prelevare tutto il necessario che gli veniva mandato da Feuzte affinché potessero condurre una vita comoda.

Iruvàn non considerava quel luogo la sua casa, ma eleggerla a tale era stato un sacrificio necessario: un sacrificio lungo quindici anni in cui aveva gradualmente rinunciato non solo alle sue relazioni e al tipo di vita che altrimenti avrebbe scelto, ma anche a parti di sé, anche al se stesso di ieri.

Era stato selezionato per apprendere la più alta e la più difficile delle Persuasioni: la Persuasione dell’Aria era un’arte consentita a pochissimi, e, date le enormi ripercussioni politiche che derivavano dal suo utilizzo, quei pochissimi venivano osservati a lungo, con mezzi leciti e non, al fine di essere certi della loro motivazione, della loro lealtà alle Famiglie, della loro capacità di mantenere dei segreti. Il che – pensava Iruvàn con disprezzo – era simbolico dell’incoerenza e della corruzione del sistema: da un lato vigeva la regola generale che un Persuasore non potesse praticare la propria arte su un suo simile, dall’altro in quell’enclave ciò accadeva un giorno sì e l’altro pure, da un lato gli addestratori li allenavano a chiudere la loro mente, dall’altra pretendevano dagli allievi che gli lasciassero periodicamente sondare i propri pensieri.

Iruvàn era stato un giovane molto dotato; era diventato Persuasore di Cuore giovanissimo, aveva studiato diverse arti in poco tempo ed era sempre stato un passo avanti ai suoi compersi e un passo avanti rispetto a tutti coloro a cui aveva prestato i propri servigi: politici, militari, uomini troppo potenti da potersi permettere di avere fiducia nel prossimo.

Iruvàn li aveva osservati a lungo e li disprezzava tutti alla stessa maniera.

Desiderava vederli affondare, desiderava la distruzione del sistema, desiderava essere la catastrofe che porta il rinnovamento.

Ma per questo serviva conoscere la Persuasione dell’Aria, l’arte che influenzava le masse, che amplificava o sminuiva la percezione degli eventi su larga scala, che determinava a posteriori chi fossero i vincitori e i vinti, che indirizzava il modo in cui sarebbe stata scritta la Storia.

Una rivolta poteva diventare sia una grande rivoluzione sia un episodio indegno di memoria: solo la Persuasione dell’Aria avrebbe fatto la differenza.

Dunque Iruvàn aveva dovuto rendersi all’altezza.

Eppure, nonostante le sue doti, non avrebbe potuto aggirare il più grande degli ostacoli: non avrebbe potuto nascondere i suoi intenti così appassionati, le sue convinzioni così radicate, se non fosse stato per Luxei. Lui lo aveva assistito in tutte le fasi della valutazione, rimuovendo o modificando volta per volta i suoi ricordi in modo che apparissero puliti. E alla fine, il Patto aveva ottenuto il suo Persuasore d'Aria: la chiave di tutto, l’uomo indispensabile al progetto.

A volte, Iruvàn si chiedeva ancora perché proprio lui: lui che era il più giovane, il più energico, il più irruento, lui che più degli altri amava il contatto umano ed i legami; lui per cui, tra tutti, il sacrificio sarebbe stato più grande e i rischi più numerosi. Avrebbe potuto provarci Xeiratog, o Yurlan, o persino lo stesso Luxei. Ma Luxei aveva voluto rimanere accanto ad Àtsuran, perché riteneva che senza un paio di occhi aperti sulla scena politica di Feuzte non avrebbero potuto progettare un bel niente.

Era stato Luxei a spingerlo in quella situazione, a mettere tutto nelle sue mani, a giurargli di sostenerlo dall’esterno. Dove era finito? Era passato un mese dalla rottura della Serratura. Perché non gli dava notizie? Che ne era stato di lui? Era davvero ancora a Villanuova, in quell’enclave dimenticata da Dio? Questo non era nei piani!

“Non va. Così non va.”

Iruvàn smise di remare e la barca si fermò in mezzo alle placide acque del lago.

“Pensieri troppo forti. Troppo ricorrenti. Non va.”

Doveva rientrare prima che si accorgessero della sua assenza: per farlo aveva lasciato i suoi ragazzi ad arrangiarsi da soli… Ma la sua mente poteva tradirlo peggio di quanto non avrebbe fatto un’uscita non preventivata. Doveva mettere a tacere il rovello nella sua testa: doveva spingere le preoccupazioni in profondità, ritrovare la calma e lasciare che i suoi pensieri apparissero immobili come la superficie dell’acqua. Ormai era un Persuasore d'Aria a tutti gli effetti, nel giro di un paio d’anni avrebbe potuto essere nominato addestratore, i suoi compersi non dubitavano di lui: ma sarebbe bastato che anche un solo dettaglio tradisse la sua inquietudine per sollevare dei sospetti, perché per un Persuasore d'Aria sospettare era un dovere.

Se Luxei fosse stato lì, anche quel problema avrebbe avuto una facile soluzione: per questo avrebbe dovuto accorrere subito. Dov’era, dannazione? Dov’era?

 

Quella notte, Meirem non riusciva proprio a prendere sonno.

Succedeva così ogni volta che incontrava Iruvàn: rimaneva a rimuginare, a domandarsi come avrebbe potuto essergli più vicina, e se mai sarebbe stato possibile che lui la guardasse come altro dalla Maledizione a cui aveva salvato la vita. Che la considerasse degna della massima fiducia non era in dubbio, ma il suo atteggiamento verso di lei era sempre rimasto quello del maestro verso l’allieva, nonostante gli anni fossero passati e quella patetica ragazzina si fosse trasformata in una donna.

I ricordi di quel periodo erano sbiaditi, quasi appartenessero ad un’altra vita. E forse era così: la sua esistenza prima di scoprire la propria vera natura era stata un lungo sogno… un sogno in cui si era illusa di essere la preziosa figlia di due amabili genitori, la preziosa fidanzata del ragazzo che le piaceva fin da quando era bambina e si era immaginata moglie e madre in un piccolo nido sicuro. Era stato l’amore a svelarle chi era: l’amore l’aveva distrutta e fatta rinascere e il modo in cui era accaduto risvegliava ancora in lei un profondo senso di ingiustizia.

Quella giornata avrebbe dovuto essere la più bella della sua vita: compiva sedici anni, Zureg l’aveva portata in barca sul fiume, si erano accampati in una radura, avevano pranzato e poi lui le aveva donato la pietra degli innamorati e le aveva chiesto di sposarlo. Per la gioia lo aveva baciato e si erano abbracciati con un trasporto a cui non erano abituati: aveva pensato che forse avrebbe fatto l’amore con lui, che si sentiva impazzire… Poi Zureg aveva sciolto l’abbraccio, aveva iniziato a tremare ed era diventato pallido come accadeva a sua madre ogni volta che aveva un mancamento. Lei si era allarmata, aveva cercato di soccorrerlo, ma lui aveva sbarrato gli occhi e l’aveva spinta via. Che cosa mi succede. Che cosa mi stai facendo. Quelle parole e l’espressione con cui le aveva pronunciate erano la sola immagine ancora completamente nitida nella sua memoria. Poi si era accasciato al suolo.

Meirem non aveva idea di cosa fosse accaduto, era solo corsa a cercare aiuto, ed così aveva sancito la propria condanna.

Né i suoi genitori, né Zureg avevano pronunciato una buona parola per lei, quando i Persuasori erano arrivati: lui non aveva voluto più neppure guardarla.

Mentre la portavano via, nel silenzio assoluto di un paese barricato dietro porte chiuse, Meirem aveva lasciato cadere a terra la pietra degli innamorati e l’aveva calpestata.

“Non essere triste,” aveva detto allora uno dei due, appoggiandole inaspettatamente una mano sulla testa “Sii solo arrabbiata ed odiali più che puoi. Ho bisogno della tua forza, non del tuo dolore.”

L’altro Persuasore non aveva detto niente, ma aveva rivolto al compagno un sguardo di rimprovero, poi aveva parlato a lei.

“Non fermarti, continua a camminare finché non saremo lontani dalla vista. Il mio amico ha sempre un po’ troppa fretta di rassicurare e troppa poca cura degli sguardi indiscreti.”

Meirem si era voltata indietro e l’uomo che le aveva rivolto la parola per primo l’aveva spinta avanti.

“Non guardare nemmeno al passato,” aveva detto “non ti lasci alle spalle nulla che lo meriti.”

Aveva due incredibili occhi azzurri, che la guardavano con profonda attenzione, e lei aveva trovato in quello sguardo la sola rassicurazione a cui aggrapparsi. Enormi lacrime avevano cominciato a scenderle lungo le guance.

“Non voglio morire!” aveva singhiozzato “Non volevo fargli del male!”

Iruvàn le aveva porto un fazzoletto e le aveva sorriso.

“Non sono qui per uccidere: sono qui per proteggere.”

 

L’alba stava lentamente tingendo la superficie del lago di rosa quando Iruvàn oltrepassò il confine. Aveva studiato a lungo il lavoro dei compersi che se ne occupavano ed aveva imparato a fare resistenza e vedere oltre. Ci aveva messo anni, e tuttora non aveva gli strumenti per creare confini solidi egli stesso: anche per questo ci sarebbe voluto lui. Quando avevano stretto il Patto, ormai quasi vent’anni prima, si erano divisi i compiti in modo da saper padroneggiare quasi tutte le arti: Luxei, il più anziano di loro, era già addestratore nella Persuasione dei Ricordi ed era un abile Persuasore di Confini e di Destino, Xeiratog praticava la Persuasione della Cesura e del Silenzio, Yurlan quella dei Sensi. Quanto a lui, tutti i suoi sforzi avrebbero dovuto concentrarsi per farsi accettare come aspirante Persuasore d'Aria: l’ora di agire sarebbe venuta solo il giorno in cui lui sarebbe stato in grado di padroneggiarla alla perfezione. Ma nel frattempo avrebbero dovuto essere cauti; nessuno doveva avere accesso ai loro pensieri: per questo, quando finalmente Iruvàn era stato ammesso all’enclave del Lago, Luxei aveva creato la Serratura.

Quella era stata anche l’ultima volta che i complici del Patto si erano incontrati tutti di persona.

Erano in sedici, allora, di cui quattro Persuasori e due Maledizioni e a cui avevano offerto protezione: i giovanissimi Xau e Leu.

“Iruvàn,” Luxei aveva sempre una voce calda e paziente, anche quando si parlava di tempo “quanti anni pensi ti serviranno per essere capace di svolgere la tua parte?”

Lui non lo sapeva: aveva appena iniziato il suo addestramento e ciò che lo turbava di più, quella sera, era proprio il pensiero che non sarebbe stato facile rivedere i suoi compagni, che la sua vita sarebbe radicalmente cambiata. Ma lo faceva per loro. No, per il mondo. Per cambiare il mondo.

“Quindici” disse “In quindici anni sarò pronto.”

“Mi sembra un tempo ragionevole.” aveva detto Luxei “Dunque, io proteggerò il compito di Iruvàn per quindici anni. Questo, e nulla più: non esiste Persuasione potente abbastanza per nascondere così a lungo i nostri nomi, la memoria che abbiamo l’uno dell’altro, o la nostra posizione politica. Ma se uno di noi venisse scoperto, voglio che non sia in grado di rivelare, né intenzionalmente né contro la sua volontà, quale sia il fine ultimo del Patto e quale l’incarico che Iruvàn sta prendendo sulle sue spalle. Compreso Iruvàn stesso.”

Dopo quel giorno, molti di loro si erano allontanati prudentemente da Feuzte e solo Luxei era rimasto nella capitale, sfruttando l’antica amicizia che lo legava al consigliere dei Devenya, per spiare le macchinazioni delle Famiglie. Invece alla fine era stato quell’Àtsuran a sfruttare lui, coinvolgendolo nel salvataggio del terzogenito dei suoi protetti, che Luxei aveva portato con sé oltrefrattura.

Iruvàn non era stato favorevole a quella scelta: in fondo si trattava solo di un falsa forma di pietà affinché una delle Nove Famiglie sfuggisse allo scandalo. Non solo, era la manifestazione dell’ennesimo privilegio: se al posto di un Devenya in quella situazione ci fosse stato qualcuno dal nome meno importante, la via d’uscita non gli sarebbe stata mai offerta. Ma Luxei aveva ragione: conoscere gli scheletri nell’armadio dei propri nemici era un’arma da non sottovalutare, mentre lavarsi le mani da quella torbida faccenda sarebbe stato come contraddire i loro ideali, quelli per cui lo stesso Iruvàn aveva accettato di sottrarsi alla vita per quindici anni.

Adesso i quindici anni erano passati e lui era pronto.

Anche Yurlan e Xeiratog, e Xau e Leu lo erano. E Meirem. E tutti quelli che lui aveva salvato.

Ma questo era anche il momento più delicato: la sua mente, adesso più che mai, doveva essere tenuta al sicuro.

Perché Luxei non era lì?

 

“Sei ancora qua a tenere il broncio perché Iruvàn se n’è andato?”

Xau le era comparso alle spalle come un’ombra: era così silenzioso da sfuggire ai suoi sensi all’erta e Meirem trovava questo dettaglio irritante. Detestava essere colta di sorpresa, ma ancora di più detestava essere derisa.

“Vai a farti fottere, cuscino sotto il culo!”

“Sei crudele: solo perché a Leu piace viaggiare e a me no!”

Xau si abbandonò mollemente sul tappeto ai piedi del camino, e si distese, col braccio a novanta gradi a fare da appoggio alla testa.

“Perché hai lasciato spegnere il fuoco?”

“Perché non ne avevo bisogno.”

Col braccio libero rovistò con l’attizzatoio tra le braci.

“Bugia: non volevi che io venissi a chiederti cosa c’è che non va.”

Xau e Leu erano a fianco di Iruvàn da quando li conosceva: due Maledizioni che non avevano avuto bisogno di essere salvate, perché nessuno si era mai accorto delle loro capacità. Avevano scoperto fin da piccoli di poter vedere l’uno con gli occhi dell’altro, ascoltare l’uno con le orecchie dell’altro, ma si erano sempre preoccupati di celarlo bene, perché, essendo due bambini particolarmente geniali, avevano capito che ciò che sapevano fare non sarebbe stato altro che una fonte di problemi. Si erano uniti al Patto che erano appena adolescenti, ma quando Meirem li aveva conosciuti erano già due adulti, specie agli occhi di una sedicenne: in principio li aveva guardati con rispetto e quasi timore; poi, col passare degli anni, era diventata per loro un’amica, – anzi, la “terza sorella”, come diceva Leu – il che le rendeva più difficile sopportare quei momenti in cui Xau la trattava ancora come una bambina.

“Senti… non trovi che Iruvàn sia strano?”

Lui diede in una risatina roca.

“Che grande scoperta: te ne accorgi ora?”

“Cazzo, ma perché devi fare il cretino? L’ultima volta che ci siamo visti era come… confuso da qualcosa. Ha detto che mi avrebbe spiegato con calma, e poi non l’ha più fatto: se ne esce solo con frasi enigmatiche tipo le cose si sono complicate e il tempo corre.”

“Infatti è così: le cose si sono complicate, e se non te ne parla apertamente non è per mancanza di fiducia, ma perché non deve indugiare su quei pensieri. Verbalizzare rende i pensieri più concreti, e lui, nella posizione in cui si trova, non può farlo.”

“Perché non lo fai tu, allora? Mi pare che la sappia più lunga di me…”

“Preferirei lo facesse lui. Ma bisogna aspettare di avere notizie da Leu.”

“Che c’entra Leu? Pensavo fosse andato a mettersi in contatto con degli alleati.”

“Infatti. Tu hai conosciuto di persona solo Iruvàn, ma ci sono altri Persuasori nel Patto. Uno è Persuasore di Ricordi, e ad Iruvàn serve un Persuasore di Ricordi per poter mantenere la copertura fino al giorno stabilito.”

“Il… giorno stabilito? Per fare cosa?”

Xau diede di nuovo nella sua strana risata, così poco aperta e così poco allegra.

“Per cambiare il mondo, no?”

Per cambiare il mondo.

Già.

Iruvàn non si sarebbe espresso con parole meno impegnative di quelle.

Tante volte, in quei sei anni, le aveva spiegato quali fossero gli intenti del Patto: sovvertire il sistema delle Famiglie, screditare la posizione dei Persuasori, fare in modo che l’umanità si rendesse conto che le Maledizioni non erano creature del male, ma persone in carne ed ossa, dotate di volontà e intelligenza, che possedevano capacità non così diverse da quelle su cui i Persuasori stessi basavano il proprio potere.

Ma sui mezzi con cui conseguire quel fine non si era mai sbilanciato: fino ad allora, il loro ruolo era sempre stato salvare la vita a più Maledizioni possibili, e, ove ce n’era il modo, convertirle alla loro causa. E questo andava bene: in questo Meirem sentiva di avere un ruolo determinante.

La turbava l’idea che Iruvàn fosse costretto a tacerle qualcosa per ragioni che non dipendevano da lui: chissà come doveva essere dura non potersi confidare coi suoi compagni, chissà come si sentiva solo… Avrebbe voluto essere la sua spalla sempre: odiava non poterlo essere.

“Sii paziente, Meirem.” cantilenò Xau, con quel paternalismo che le faceva saltare i nervi “Noi lo siamo stati per quindici anni: tu devi farlo solo per qualche mese…”

 

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Capitolo 16
*** Il tuo nome ***


Heze teneva le mani premute sulla ferita per bloccare la fuoriuscita del sangue. Che cosa gli stesse accadendo attorno, che ne fosse stato dei mercanti di schiavi, chi si stesse affacciando sulla soglia e assistendo a quella scena… tutto era diventano lontano ed insignificante. La persona che avrebbe dovuto accompagnare e proteggere si era appena presa una coltellata al posto suo, ed ora giaceva svenuto sul pavimento e lui si sentiva così colpevole, inetto, impotente.

Togfaran accorse e si chinò sul ferito.

“Mannaggia, che brutta storia…” commentò, senza scomporsi troppo “E ora che facciamo?”

Heze si trattenne dello sbraitargli contro. Anche lui era responsabile: era lui che lasciava, per paura o per convenienza, che gente come quella alloggiasse nella sua locanda, e adesso il suo unico problema era che nessuno gli morisse in casa!

“Dammi una mano a metterlo disteso, invece di parlare a vanvera!” esclamò “E poi vai a far bollire dell’acqua, e portami degli stracci puliti, e le cose più alcoliche che hai! E mi serve anche più luce, porta su altre candele e lumi ad olio!”

Lo deposero sul letto e Heze esaminò la ferita: era profonda, ma non in una posizione vitale, probabilmente non c’erano lesioni interne, i rischi più seri riguardavano la perdita di sangue e le potenziali infezioni. Doveva solo ricucire il taglio e preoccuparsi di tenerlo pulito: era una cosa che gli era già capitata, sapeva come fare… allora perché gli tremavano le dita?

Lui aprì appena gli occhi e mormorò qualcosa. Heze gli appoggiò una mano sulla testa, mentre con l’altra continuava a tamponare l’emorragia.

“Ehi… mi sentite? Coraggio. Andrà tutto bene…”

“Heze…” sussurrò con una voce che si udiva appena “ho paura…”

Certo che aveva paura. La cosa più spaventosa che avrebbe dovuto capitargli sarebbe stata affacciarsi sulla voragine del Valico del Vento, e invece si era ritrovato con un coltello piantato in un fianco per aver voluto difendere un cretino.

“State tranquillo,” ripeté, continuando ad accarezzargli i capelli “non è qualcosa di cui morirete. Ci penso io.”

Ma non ci credeva fino in fondo.

Togfaran, insieme a una donna che aveva intravisto a cena, entrò portando nella stanza tutto ciò che Heze aveva richiesto.

Lui versò il liquore in una tazza e poi sollevò appena la testa del suo compagno di viaggio, parlandogli con tutta la calma che ancora gli restava.

“So che vi è vietato, ma ora questo lo dovete prendere. Per favore, fidatevi di me…”

Lui ci mise un po’ a reagire.

“Mi fido…” disse, ed Heze dovette quasi leggere la risposta dal movimento delle labbra.

“Il vostro primo luyush e non potete nemmeno apprezzarlo…” scherzò tristemente, mentre lo aiutava a bere.

Si rivolse a Togfaran.

“Fate bollire ago e filo mentre io lavo la ferita, e imbevete un paio di bende nell’alcol. Dove cazzo sono le altre candele?”

La donna si affrettò a disporre un lume ad olio sul comodino e ne mise un altro in equilibrio su uno sgabello, che spostò vicino al letto. C’era davvero poca luce, ma non poteva permettersi di aspettare che spuntasse l’alba: lui stava sanguinando troppo e la temperatura corporea stava scendendo.

Cominciò a pulire con delicatezza la ferita. La donna gli porse ago e filo.

“Cercherò di farvi meno male possibile,” disse “ma dovrete sopportare un po’…”

Lui si sforzò di aprire gli occhi. Dio, quando era spaventosamente pallido!

“Ora vorrei proprio…” mugolò “aver imparato la Persuasione dei Sensi…”

Cercò persino di sorridere, come se dovesse essere lui quello rassicurante tra i due, ed Heze si trovò a pensare che in quel momento sarebbe stato disposto a cedere qualunque cosa – la vita, la libertà, la felicità, il futuro – in cambio della salvezza della sola persona che mai, da che ricordasse, era intervenuta per proteggerlo: la prima persona che lo aveva guardato come qualcuno da non lasciare indietro.

Passò il filo nella cruna e cominciò a dare il primo punto: lui strinse forte le palpebre e soffiò tra i denti uno dei suoi oddio.

Heze avrebbe tanto voluto addossarsi un po’ di quel dolore, ma non poteva procedere con troppa calma: fermare il sanguinamento era la priorità.

Al secondo punto un paio di grosse lacrime rotolarono giù dagli occhi del ferito.

Togfaran gli diede da bere un alto po’ di liquore.

Alla fine del lavoro, era svenuto di nuovo.

“Ehi,” Heze gli batté un colpetto sulla guancia “Ehi, coraggio, il peggio è passato. Adesso mettiamo le bende ed abbiamo finito…”

“Mm.”

Il locandiere lo aiutò a stringere la fasciatura tutto intorno alla vita, poi portò lenzuola pulite e coperte.

“Voglio delle foglie di matarva per fare un infuso, vanno bene per prevenire le infezioni. E un po’ di frutti rossi, anche essiccati, che fanno sangue. E magari anche i baccelli di xuro: mi bastano quelli che hai usato per i semi nelle nuvolotte, tanto mi serve solo la buccia, ci faccio un impacco per la ferita…”

“Giovanotto, questa è una locanda non la bottega dell’erborista!”

“E allora vai a trovare la bottega dell’erborista, dannazione!”

“Ma non si è ancora alzato il sole…”

“Vorrà dire che sarai il primo cliente del mattino!”

Avrebbe potuto fargli un tipo di pressione ben diversa: dirgli che, se un mago fosse morto in casa sua, aggredito da due criminali, e senza aver ricevuto tutta l’assistenza necessaria, le conseguenze che potevano piovergli addosso non erano nemmeno quantificabili: questo, forse, avrebbe reso la sua collaborazione più pronta… invece, per tutto il tempo, si era ben guardato dal rendere visibile il marchio che il suo compagno di viaggio portava sul polso. Lo aveva fatto una volta lui – lo aveva fatto per difenderlo, già allora – e le conseguenze non lo avevano reso felice. In quanti guai lo stava trascinando? E pensare che, il giorno in cui si erano incontrati, si era preoccupato del contrario. Invece quell’uomo gentile non gli aveva mai dato un solo problema: si adattava a tutto, era capace di sopportare tutto, persino di farsi ricucire la carne viva e lamentarsi appena.

Quando Togfaran fu partito per svolgere le commissioni richieste, Heze si sedette accanto al letto e una stanchezza indicibile gli piombò addosso. Aveva fatto il meglio che poteva, adesso doveva solo aspettare, ma non riusciva a tollerare quel senso di sospensione e di inutilità: guardava le bende ogni cinque minuti, si accertava che la ferita non perdesse troppo sangue, gli controllava la temperatura, si assicurava che respirasse regolarmente, seguiva i piccoli cambiamenti nell’espressione del suo volto. Ed anche se tutto gli sembrava procedere per il verso giusto, provava un’ansia mai conosciuta prima.

 

Yèlveran non riusciva a restare presente a se stesso: cercava di aggrapparsi alla voce di Heze per rimanere sveglio, ma il sangue perso, quel dolore spietato e l’effetto dell’alcol gli impedivano di rimanere cosciente per più di qualche minuto per volta. Quando la lucidità lo abbandonava, scivolava in una specie di dormiveglia inquieto, dove il dolore si faceva più distante, ma non per questo meno spaventoso... smarginava dal presente e lo accompagnava nelle terre dei fantasmi, che però non erano fantasmi ma ricordi, e forse adesso capiva cosa intendeva Luxei quando gli diceva che si potevano cancellare le memorie ma non le sensazioni: le sensazioni erano come quella ferita, che pulsava anche in sogno e lo tramutava in incubo. Non voleva rimanere intrappolato negli incubi… aveva bisogno di essere solido... aveva bisogno di sentire la presenza di Heze… aveva bisogno di tenere i suoi pensieri lì… Dov’era Luxei? Aveva bisogno della sua calma, aveva bisogno delle sue mani. Quel male aggrediva il corpo e bruciava in un modo sconosciuto… doveva comprenderlo, addomesticarlo, o ci sarebbe sprofondato dentro. Non voleva sprofondare, e invece sprofondava ogni volta di più, sempre di più.

I suoi fantasmi.

I suoi ricordi.

Non era la prima volta che incontrava il dolore; la sua infanzia e la sua adolescenza ne erano costellate: gli schiaffi e le bastonate di suo padre in preda all’ira e alla delusione, le ferite che gli infliggeva suo fratello quando cercava vanamente di addestrarlo ad usare la spada, l’indifferenza di sua sorella, la tristezza indolente di sua madre, e le parole, le parole, le parole… mai una sola parola che non fosse nata per ferire, mai un silenzio vero, di quelli belli e vuoti, dove c’era spazio e orizzonte.

E la rabbia.

La propria.

Non voleva sprofondare.

Sentì la mano di Heze posarsi sulla sua fronte: voleva aprire gli occhi ma non ci riusciva…

Una fitta lunga e intensa lo riportò di nuovo indietro.

La caduta da cavallo, il corpo che non reagiva ai suoi comandi, quella sensazione di andare in pezzi e non essere in grado di gridare. Aveva gridato? No, lo aveva solo pensato… era rimasto senza fiato, senza riuscire a respirare, aveva avuto paura di morire…

“Dobbiamo chiamare il Persuasore di Sensi… non possiamo lasciarlo soffrire così… è solo un bambino.”

“Non è capace di tenere in mano una spada, di montare un cavallo, di tenere la schiena dritta: che impari almeno lo spirito di sopportazione! È un Devenya, per mille maledizioni!”

Lo spirito di sopportazione, quello che aveva distrutto tutto.

Se solo non lo avesse imparato… oh, se non lo avesse imparato…!

Se si fosse ribellato.

Se se ne fosse andato.

Se avesse gridato prima.

Se avesse detto no.

Prima.

Nel delirio, mormorò qualcosa.

Sentì Heze parlargli piano. Non capiva cosa dicesse.

Si sentì stringere la mano. Provò a rimanere lì: a quella stretta, al presente. Al dolore del presente. Quel dolore era solo dolore: non significava nient’altro, non implicava nient’altro. Come i silenzi che gli piacevano. Quel dolore era il meno spaventoso di tutti, anche se aveva paura di morire.

 

Era passata qualche ora quando la donna entrò silenziosamente nella stanza.

“Dorme…?” domandò, a bassa voce, accennando al ferito, che giaceva immobile respirando piano ma regolarmente.

“Non so. Temo sia più incoscienza che sonno… Ogni tanto si lamenta, ma se gli parlo non sembra sentirmi.”

“Ha ripreso un po’ di colore, però.” fece notare lei “Prima sembrava davvero bianco come un cadavere.”

A quel paragone Heze ebbe un brivido.

“Starà bene, la ferita ha smesso di sanguinare.” disse, rivolto a se stesso più che a lei “Ci vuole solo pazienza.”

“Mi sono procurata le cose che hai chiesto. Di matarva ne ho trovata poca, però: non è stagione. Scendi tu a preparare quel che ti serve o vuoi dare istruzioni a me?”

Avrebbe voluto farlo lui, ma l’idea di allontanarsi da lì lo faceva stare male.

Lei parve leggere il suo turbamento.

“So assistere un malato.” disse “L’ho fatto per molti anni…”

Solo in quel momento Heze si accorse di quanto somigliasse al locandiere.

“Sei la figlia di Togfaran?”

“Sì.”

“Non ti avevo mai vista qui…”

“Quando mi sono sposata, ho lasciato Pedimonte. Sono letteralmente fuggita di casa perché mio padre non approvava la mia scelta: tutti sapevano che l’uomo che amavo non avrebbe vissuto a lungo. Ma io sempre pensato che il tempo non si misuri in durata, bensì in qualità. L’anno scorso mio marito è morto, ed io sono tornata qui.”

Sollevò le spalle con un sorriso mesto, ed Heze provò un moto di gratitudine per come quella donna gli stava facendo dono di una confidenza tanto intima in un momento simile. Lasciò che tutto il peso che sentiva gli piegasse la schiena e si sostenne la testa con le mani.

“Voleva difendermi.” disse “È colpa mia.”

“Se le cose sono andate così, parlare di colpe sminuisce il valore di quello che ha fatto lui. La scelta è stata sua: non è giusto che tu te ne attribuisca una parte.”

Heze guardò con dolcezza il suo compagno di viaggio.

“Avete sentito che ha detto? Scommetto che questa frase vi piace, sembra una delle vostre…”

La donna gli appoggiò le mani sulle spalle, massaggiandole delicatamente.

“Coraggio. Sei stato in gamba, ma non disperdere energie in cose che sono al di fuori del tuo controllo. Prepara ciò che devi preparare, e poi lascia lavorare il tempo e prenditi un attimo di riposo. Le energie spese nell’ostinarsi ad attendere attivamente qualcosa che non dipende da noi, sono energie perse invano. Tienile da parte per quando ti serviranno.”

Era esausto, era vero, ma se fosse rimasto fermo, se avesse concesso al sonno di prendere il sopravvento, sarebbe affogato nell’angoscia. Si alzò a fatica.

“Accetto la tua offerta: resta tu qui per vedere se… se si sveglia, se gli serve qualcosa… Io vado a preparare l’impacco coi baccelli di xuro e l’infusione. Non mi ci vorrà molto. Per favore, non muoverti di qui.”

Lei prese il suo posto sulla sedia.

“Non mi muoverò.”

 

Quando Yèlveran aprì gli occhi doveva essere l’alba: una delle imposte era aperta e dalla finestra filtrava una bella luce da mattina presto, con la notte ancora attaccata al cielo che si stava lentamente sfaldando… e forse era perché il dolore si era attenuato, forse perché si sentiva finalmente lucido, ma rimase qualche minuto a guardarla schiarire, assorto, coi pensieri sospesi. Quando spostò lo sguardo in giro, si rese conto di trovarsi ancora nella stanza dove era avvenuta l’aggressione, sul comodino accanto al letto c’era una pila di stracci puliti da cui proveniva un buon odore e su una mensola brillava la luce affaticata di una candela che stava per spegnersi. Spostò la testa di lato e si rese conto con sollievo di essere pienamente consapevole dei suoi movimenti: fece la controprova prova muovendo una mano e poi l’altra, si sentiva intorpidito ma padrone di sé.

“Ehi! Siete sveglio!”

Yèlveran seguì la voce con gli occhi e si accorse che Heze era seduto ai piedi del letto, dove probabilmente un attimo prima stava dormendo in una sorta di giaciglio improvvisato fatto di cuscini e coperte.

“Come state?”

“Mm. Abbastanza…bene.”

“Siate sincero, per favore.”

Heze aveva il viso sciupato e gli occhi stanchi, ma c’era qualcos’altro al di là della spossatezza fisica: una specie di prigionia dell’anima, la sensazione di avere attraversato troppi pensieri e di non riuscire a ritrovare la strada di casa. Lui la conosceva bene.

“Mi sento presente. Mi sento qui.” ripeté “L’unico dolore che avverto adesso è qualcosa che mi sta pungendo il fianco… ma non fa troppo male né troppa paura. Quindi sì: abbastanza bene. Ma tu invece no. È colpa mia?”

“Cosa? No! Certo che no!”

Heze si alzò: afferrò la spalliera della sedia, la spostò e si sedette di fronte a lui.

“Però forse un po’ sì, invece.” riprese “Che accidenti vi è passato per la testa?”

Yèlveran sollevò appena le sopracciglia.

“Scusa… non ho capito la domanda.”

“Nah, accidenti a voi, certo che l’avete capita! Che vi è preso di affrontare quei due delinquenti? Ve lo avevo detto che non era roba per noi! Non eravate forse voi quello che mantiene sempre il controllo?”

“A-aspetta… ho… i ricordi confusi. Posso pensare un attimo a come risponderti?”

Heze diede in un sospiro esasperato.

“Cosa c’è da pensare? Vi siete messo in mezzo, vi siete scontrato con uno di quei due, e non avevate nessuno strumento e nessuna preparazione per difendervi!”

“Mm.” Yèlveran guardò fuori dalla finestra, il cielo aveva assunto un bellissimo colore rosato “È vero. Non ho mantenuto bene il controllo e non è una cosa che dovrei fare. Però non è successo niente, quindi è andata abbastanza bene.”

“Abbastanza bene?!?”

“Sì, credo. Perché sei triste?”

 

Non è successo niente.

E per lui si era ribaltato il mondo.

Quell’uomo aveva messo la sua vita davanti alla propria senza trovarci nulla di sorprendente, e si conoscevano da nemmeno un mese.

Chi accidenti era? Sembrava sempre distante da tutto e tutti e poi faceva cose impossibili e bellissime di cui non vedeva neppure il merito.

Mai, mai nessuno era intervenuto per lui, mai nella sua esistenza aveva pensato che una cosa del genere potesse succedergli, e si sentiva in colpa per il fatto che fosse successo, e ancora più in colpa perché questo lo rendeva felice.

“Siete in queste condizioni a causa mia, accidenti!” sbottò “Siete stato ferito a causa mia!”

L’altro incurvò appena le sopracciglia, pensoso.

“Mm. Non proprio, direi… semmai sono stato ferito a causa mia.”

“Ma porca puttana! Perché siete così… così…” Heze strinse coi pugni la stoffa dei pantaloni e d’un tratto si rese conto di non sopportare più il nodo che gli stava stringendo la gola “Potevate morire! Morire, capite? E io non conosco nemmeno il nome della persona che è stata disposta a prendersi una coltellata per me!”

Nascose il viso tra le mani e scoppiò a piangere.

Non voleva mostrarsi tanto vulnerabile e infantile, ma non riusciva proprio a trattenersi. Quando era stata l’ultima volta che aveva pianto? Forse molti anni prima, forse da bambino, non riusciva a ricordarlo…

“Yèlveran.” disse ad un tratto il suo compagno di viaggio.

Heze alzò appena lo sguardo.

“Il mio nome. Yèlveran.” sul suo viso c’era un sorriso dolce e quasi dispiaciuto “Non pensavo che per te fosse importante saperlo. Te lo avrei detto.”

“Yèlveran.” fece eco lui.

Era un nome con un suono morbido: sull’Altopiano avrebbero detto che si adattava ai capelli biondi. Gli stava bene.

Si asciugò gli occhi.

“Sono… felice di conoscerti, Yèlveran.”

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Capitolo 17
*** Heze ***


Non aveva mai parlato del suo passato con nessuno eppure aveva avuto un assoluto bisogno di farlo con lui.

In cambio del suo nome, forse. O del tempo che quella ferita avrebbe sottratto al suo viaggio.

Oppure era soltanto stanco: stanco che quella storia rimanesse soltanto sua.

“Ero un bambino quando mio padre mi vendette ad un mercante di schiavi. Le cose andavano male da un po’, lo sentivo dire sempre ai miei genitori: io non sapevo cosa significasse, ma vedevo il cibo diminuire nei piatti, e questo lo capivo bene. Tra i pastori eshkarti vendere un figlio è considerata una cosa relativamente normale: spesso significa una bocca da sfamare in meno e qualche speranza di sopravvivenza in più. Le principali vittime sono le femmine, un po’ per cultura un po’ perché meno adatte ad occuparsi del gregge, ma nel mio caso la scelta è stata diversa: io ero un figlio della fiamma, portavo sfortuna e forse mio padre mi attribuiva la colpa della nostra rovina, forse pensava che sbarazzandosi di me la sorte avrebbe ricominciato a girare nel verso giusto. A Exneirva esiste un vero e proprio mercato di schiavi bambini: una volta ogni tanto passa qualche militare mandato da Feuzte a fare la voce grossa in nome della Grande Legge, ma non serve a un accidente: è forma e non sostanza. In capo a un paio di giorni lo straniero indesiderato se ne va, dopo aver spillato qualche soldo agli schiavisti di turno, e tutto torna come prima. La verità è che a chi comanda non interessa cosa accade tra i «selvaggi». Non ero mai stato a Exneirva: prima di allora i miei occhi avevano visto solo pascoli disseminati di arbusti e pietre, cieli sconfinati e capanne; la città mi fece paura, e soprattutto mi fece paura che, in mezzo a tutta quella gente, nessuno si accorgesse di me e degli altri miei compagni di sventura, che le catene ai nostri polsi o al nostro collo non impietosissero nessuno, che nessuno se la prendesse con l’uomo che ci teneva imprigionati. Avevo sette anni, avevo fiducia negli adulti, ed ero certo che, se il mercante era un cattivo, sicuramente c’erano tanti buoni che ci avrebbero salvato… Invece gli unici sguardi che si posarono su di noi furono quelli dei potenziali compratori. Io fui venduto al proprietario di una miniera: oggi so che non mi potevo aspettare di meglio perché il colore dei miei capelli rendeva difficile la trattativa, almeno tra gli eshkarti. Non ho vissuto molti anni in quella mansione: non ero un buon lavoratore, e, nonostante tornassi utile per via della mia corporatura che mi permetteva di infilarmi nei cunicoli più stetti, mi ammalavo e ferivo troppo spesso per essere conveniente. Quando venni notato da un mercante dell’est che era in affari col mio padrone, lui mi cedette volentieri e quello fu l’ultimo giorno che passai sull’Altopiano. Non ci tornerò mai più, non ci voglio tornare…”

Era la prima volta che metteva in parole quel pensiero e sentì quanto quell’espressione fosse pesante, ma al tempo stesso solenne, definitiva. Mai più. L’Altopiano era il luogo in cui aveva capito di valere meno di niente e dove aveva imparato che le richieste d’aiuto sono solo suoni che cadono in pozzi di silenzio.

“Jagsur mi portò con sé a Ponte al Lungo e il mio tenore di vita, dal punto di vista materiale, cambiò parecchio. Lo stesso non si può dire di tutto il resto. Era affascinato dagli eshkarti e, non condividendo le stesse superstizioni del mio popolo, trovava i miei capelli un dettaglio attraente, che mi dava più valore: per lui ero un soprammobile da mostrare agli amici, quando mi andava bene, e, quando andava male, un oggetto di piacere e divertimento. Eppure, molti mi avrebbero ritenuto uno schiavo fortunato; venivo trattato con cura, mangiavo bene, venivo assistito se mi ammalavo, sono stato persino istruito: ho imparato a leggere e scrivere, ho studiato la geografia e le scienze, ed è stato per volere di quell’uomo che ho perfezionato il Canto della Lontananza… Del resto, lontano lo ero parecchio, ma senza alcuna nostalgia. Ovvero, ho avuto nostalgia della mia famiglia, qualche volta, non posso negarlo… ma poi il rancore prendeva il sopravvento e forse questo mi ha reso più arido, ma mi ha anche salvato. Ne ho passate parecchie, nella vita: la fame, l’abbandono, la fatica… ma credo che niente sia stato peggiore dell’oggettificazione. Per me, almeno.”

Incrociò gli occhi di Yèlveran; non riuscì a leggerci nessuna espressione, ma lo guardavano con attenzione assoluta e lui aveva bisogno di questo: di una presenza che lo aiutasse a tenere i pensieri lì, anche mentre li riavvolgeva all’indietro, ripercorrendo le sue esperienze più dolorose. Sapeva che non gli avrebbe fatto domande: lui non ne faceva quasi mai. Eppure, in qualche modo, gli tirava fuori le parole, era una sua dote, lo aveva detto anche Pagliaccio: non un conversatore ma un ascoltatore.

“Gli anni con Jagsur sono stati orribili, e quando i suoi affari sono andati in malora è stata una vera benedizione per me. Ero entrato in quella casa poco più che bambino e ne uscivo adolescente, ma mi sentivo un adulto, un adulto che aveva una sola motivazione per rimanere vivo: diventare un uomo migliore di tutti quelli che avevo incontrato e dimostrare che gli esseri umani decenti ci potevano essere, che lo potevo essere io. Sono stato ceduto, come pagamento di un debito, a un uomo strano: si chiamava Dezgo, un tempo era stato un medico prestigioso – così almeno dicevano – ma invecchiando aveva perso la testa e si era intestardito in certe sue ricerche che gli avevano rovinato la reputazione. Non era una brava persona, era aggressivo verso il mondo intero, trattava me e la sua servitù con superbia e quando era ubriaco ci bastonava senza motivazione: ma nei pochi momenti di lucidità si intravedeva che doveva essere stato un sapiente, prima che il cervello lo abbandonasse. Non so per quali ragioni, ma gli ero simpatico e gradiva la mia compagnia… Io ne approfittavo e gli facevo domande sul suo mestiere e sulle sue ricerche: distinguere la sostanza dalle fantasticherie non era sempre semplice, ma il mio interessamento per la medicina è iniziato così. Dezgo aveva un grande sogno, un progetto folle per cui si stava preparando da anni: voleva partire per un viaggio di esplorazione della Frattura per dimostrare la sua teoria sulle origini delle Maledizioni. Riteneva che, se davvero era dalla Frattura che scaturivano i loro poteri, allora lì doveva celarsi una forza che poteva essere utilizzata per superare i limiti stessi dell’umanità. Mi aspettavo che prima o poi sarebbe stato arrestato per queste idee, anche solo per la facilità con cui usava la parola «Maledizioni» in pubblico. Ma, nonostante tutte le mie esperienze negative, non doveva essermi ancora molto chiaro che la gente, se una faccenda non la riguarda direttamente o non spera di averne un tornaconto, non si volta a guardare: lascia che la valanga rotoli, che la catastrofe si compia. I suoi presunti amici, la gente che lo conosceva, persino le autorità del posto si limitavano a deriderlo e nessuno cercò di fermarlo quando sperperò tutto ciò che aveva per assoldare una guida abbastanza folle da assecondarlo e stabilì che tutta la sua servitù sarebbe partita al suo seguito. Inutile dire che quelli che potevano permetterselo rifiutarono: molti servi lasciarono la sua casa e a partire con lui furono solo i suoi quattro schiavi e un’altra manciata di disgraziati che non aveva nulla da perdere. Dezgo ci promise molte cose, se avessimo saputo essergli d’aiuto: fama, la ricchezza che ne sarebbe derivata. A me, la libertà. Ma noi sapevamo bene che ci stava condannando a morte: e infatti siamo morti tutti, io compreso.”

Yèlveran sollevò le sopracciglia e lo guardò dalla testa ai piedi come a constatare la possibile veridicità di quell’affermazione. Heze pensò che se adesso gli avesse rivelato che stava parlando con uno spirito o qualcosa del genere, lui non lo avrebbe messo in dubbio e avrebbe continuato ad ascoltare il racconto senza battere ciglio. Gli venne da sorridere.

“Partimmo che era primavera, aggirammo i Monti di Vetro, procedemmo per lunghi giorni verso nord e ci lasciammo alle spalle il mondo civilizzato. Tra tutti coloro che costituivano il seguito di Dezgo, forse io ero quello che aveva viaggiato di più: ero stato schiavo di un mercante e mi era già capitato di spostarmi, talvolta anche in condizioni disagevoli… Inoltre ero nato sull’Altopiano, sapevo cosa significasse attraversare un luogo ostile, sopportavo bene la fatica, la fame, il caldo ed il freddo. Ma le Terre Maledette sono… sono altro che un luogo ostile. Avevo sentito storie sugli avventurieri che avevano cercato di scendere nel cuore della Terra alla ricerca chi di un non ben definito tesoro, chi della porta dell’aldilà, chi della vita eterna, chi dello spirito che esaudisce i desideri… e scommetto che anche oggi, in questo preciso istante, da qualche parte c’è un ambizioso o un disperato che si sta imbarcando in questa impresa. Ma nessuno è mai tornato indietro: ciò che sappiamo della Frattura è tuttora solo ciò che ci immaginiamo. I soli che si sono salvati e hanno portato resoconti dei propri viaggi sono coloro che, dopo aver guardato l’abisso negli occhi, hanno deciso che era abbastanza: che la loro avventura era già stata eroica e valeva la pena tornare a casa per raccontarla. Procedemmo per giorni in un paesaggio che si faceva sempre più alieno: per primi sparirono i sentieri, e con essi ogni traccia di passaggio umano, poi sparì la vegetazione lasciando il posto ad una distesa di roccia senza fine, tagliata da enormi crepe, talvolta più ampie di quanto la falcata d’uomo potesse superare, e profonde come pozzi… ma non c’era acqua, al loro interno. La sola acqua che potevamo procurarci usciva dai soffioni, enormi getti di vapore che ogni tanto sprizzavano dalla terra. Dovemmo abbandonare i cavalli e procedere a piedi. Di giorno l’aria era rovente ma appena calava la notte scendeva un gelo che spezzava le ossa. Alcuni si ammalarono: Dezgo fece quel che poteva per guarirli, ma l’ambizione era più forte della misericordia e non volle interrompere la marcia per permettere loro di riprendersi. Due non sopravvissero: seppellimmo i loro corpi nel deserto. Il percorso era molto più lungo del preventivato: credo che la guida stessa avesse perso l’orientamento, ma oggi, con un po’ di esperienza in più, mi rendo conto che orientarsi in quelle terre era quasi impossibile. Potevamo basarci sulle stelle, ma il cielo era sempre come offuscato da una cortina grigia, mentre il paesaggio intorno ci offriva immagini che si ripetevano identiche, tanto che ci convincemmo di star girando a vuoto. Uno di noi perse la testa e fuggì nella notte: non saprò mai se sia riuscito a tornare indietro. Forse avremmo dovuto ribellarci: uccidere Dezgo e costringere la guida a riportarci a casa, ma nessuno lo fece… Quel luogo è come stregato: è come se il tempo smettesse di scorrere, lo spazio si annullasse, e anche noi eravamo diventati apatici, svuotati, e non riuscivamo a fare altro che procedere dritti, o forse in tondo, chi lo sa. E poi venne il silenzio. Straniante, innaturale: non un rumore, un sibilo di vento, un ronzio. Era un silenzio così assoluto che avevamo paura di parlare. Il cibo e l’acqua iniziarono a scarseggiare: tentammo di catturare degli animali, i pochi che ogni tanto vedevamo, dei grossi crostacei che sbucavano dalle spaccature la notte, ma la loro carne risultò velenosa. Fu in quell’occasione che Dezgo mi insegnò come ci si comporta in caso di avvelenamento… io me la cavai, però alcuni dei nostri compagni erano davvero stremati e non ce la fecero. La nebbia cominciò a farsi sempre più fitta, ed era diversa dalla nebbia che sale dagli acquitrini o si deposita sui campi la sera… somigliava al vapore che si genera quando getti un secchio d’acqua gelida su una fiamma viva, ma più scuro, notturno. Quando raggiungemmo la Frattura, non ci accorgemmo di essere arrivati finché non fummo sull’orlo della voragine ed uno di noi precipitò: non lo sentimmo cadere, lo sentimmo urlare per un istante poi nemmeno più quello. Inghiottito nel nulla… Dio, io non credo di aver mai provato né che proverò mai un senso così chiaro e spaventoso di non contare niente. Di quanto tutti noi fossimo niente, e stessimo tentando di gridare invano che invece eravamo qualcosa, valevamo qualcosa, potevamo essere qualcuno, compiere imprese, essere ricordati… e ci trovavamo dentro le fauci di un mostro che non le chiudeva solo per pigra indifferenza. Perché eravamo lì, quale superbia, quale disperazione, quale vano sogno aveva portato Dezgo a quella follia? Della Frattura vedevamo solo confusamente l’altra sponda, distante forse duecento passi, e all’interno niente: la nebbia ci impediva di avere la percezione della profondità, della forma, o di cosa ci fosse dentro, o sul fondo…”

Senza dire una parola, Yèlveran allungò una mano e la appoggiò sulla sua.

Era così incredibilmente rassicurante: non stava facendo nulla di nulla, ma la sua dolcezza senza pretese era il rovescio esatto del paesaggio che lui gli stava descrivendo. Nessuna parola era invano, nessun dettaglio, nessun sentimento: a ciascuno dava peso, e poi avrebbe diviso quei pesi nel modo che gli avrebbe permesso di gestirli tutti.

“Dezgo decise che dovevamo scendere: cercammo di convincerlo del contrario. Non era pensabile affrontare una parete di roccia in assenza di visibilità: eravamo rimasti in tre, io, lui e la guida, e solo quest’ultimo sapeva scalare. Ma Dezgo era pazzo di gioia, era convinto di essere vicinissimo alla scoperta di una grande verità, nemmeno con la forza lo avremmo trattenuto. Avrei potuto rifiutarmi di seguirlo, ma non volevo nemmeno restare solo… non credevo che sarei stato capace di tornare indietro. Cominciammo la discesa con cautela: ad ogni passo ci appariva più visibile quale doveva essere il passo successivo, ma nulla di più. Impiegammo ore per scendere di pochi metri, e più scendevamo, più il cielo spariva, era quasi impossibile distinguere il giorno dalla notte. Non so cosa accadde, mi avevano lasciato in fondo e non vedevo niente: qualcosa franò, o forse Dezgo stesso mise il piede in fallo… i chiodi cedettero insieme alla parete. Precipitammo sotto ad una cascata di rocce fino a atterrare su uno sperone sporgente che ci frenò. Non sapevo a che distanza fossimo dalla cima, ma ero stato fortunato perché, essendo l’ultimo della cordata la caduta degli altri due aveva ammortizzato la mia. Sia Dezgo che la guida erano ridotti male e, col poco che avevamo con noi, sapevo di essere completamente impotente. Sapevo anche che ogni minuto che fossi rimasto lì non avrebbe salvato loro e avrebbe tolto a me speranze di uscire da quella situazione vivo… ma Dezgo disse aiutami, ti prego ed io pensai…”

No, non aveva pensato affatto: quello non era stato un pensiero, era stato qualcosa di molto più forte e molto più persistente. Una chiarezza. Una rivelazione che ancora non lo aveva abbandonato e mai lo avrebbe fatto.

“…Pensai che eravamo solo tre creature minuscole, inghiottite dalla ferocia del mondo, una ferocia impassibile e grandiosa, contro cui io non potevo fare assolutamente nulla, tranne una cosa: rimanere lì. Quante volte avevo gridato aiuto… quante volte avevo sperato che almeno uno sguardo si posasse su di me: quello, solo quello mi sarebbe bastato ad affrontare la mia battaglia impossibile… non a vincerla, ma a non morire solo. Nessuno deve morire solo. Mi sono preso cura di Dezgo e della guida come potevo, ho cercato di alleviare le loro sofferenze, ho cercato di fare in modo che non abbandonassero questo mondo col pensiero di essere stati lasciati indietro. Non sapevo cosa ne sarebbe stato di me dopo, in quel momento non importava: per tre giorni ho accompagnato la loro agonia, ho assistito al loro ultimo respiro. E forse… forse la ferocia del mondo ne è stata un po’ scalfita, perché io oggi sono qui. Sono vivo. Non so come io sia riuscito a risalire, ero così stremato che la mente non funzionava più, il corpo si muoveva da solo, spinto dal desiderio di sopravvivere e probabilmente le cose che avevo imparato nel tempo, l’abitudine alle privazioni, l’infanzia sull’Altopiano, il lavoro in miniera, le conoscenze mediche apprese da Dezgo, tutti questi piccoli pezzi mi hanno aiutato un po’. Non ricordo quasi niente del percorso di ritorno e non sapevo dov’ero quando ho perso i sensi. Mi sono risvegliato nella stazione di posta di Villanuova: un messaggero mi aveva trovato e soccorso. Fui curato e assistito e quando mi fui ripreso, tutti erano molto curiosi di conoscere la mia storia… chi ero, cosa ci facevo così vicino alla linea delle Terre Maledette, cosa mi era successo… Erano gentili, mi sentivo considerato, persino ammirato: era evidente che mi portavano rispetto per il fatto di essere scampato a un’esperienza simile. Ma soprattutto, era la prima volta che qualcuno mi trattava da pari a pari. Così mentii: inventai che ero un esule dell’Altopiano, che mi avevano cacciato perché ero un portatore di sventura, che avevo pensato di raggiungere la Frattura per compiere un’impresa che mi rivalutasse agli occhi del mio popolo, ma che mi ero smarrito nel deserto… e meno male che erano passati loro a trarmi in salvo. Decisi che non avrei mai raccontato la verità a nessuno: gli uomini della spedizione di Dezgo erano tutti morti, compreso il suo schiavo eshkarti. Ero un uomo libero.”

 

Yèlveran non sapeva niente di Heze, salvo le cose che per istinto aveva intuito anche senza un reale desiderio di farlo. Lo avevano addestrato a ridurre la sua capacità di percepire, a chiudere la mente a tutto ciò che gli arrivava dagli altri per prossimità, ma nessuno gli aveva mai spiegato cosa si doveva fare di fronte al dono spontaneo del proprio dolore: così riusciva solo ad ascoltare e tacere e lasciarsi sommergere da quella valanga di segnali ai quali, in altre circostanze, gli era stato insegnato ad opporre attiva resistenza. Si sentiva completamente confuso, privo degli strumenti per mettere ordine in quelle sensazioni: ma non le voleva arginare, voleva esserci.

Heze prese un ampio respiro e proseguì.

“Sono passati quattro anni. Sono rimasto a Villanuova e sono stato ingaggiato come messaggero. Da allora ho sempre viaggiato verso est, non mi sono più avvicinato né alla Frattura né all’Altopiano, e la mia vita è cambiata parecchio. Ho fatto amicizie, ho scoperto di essere molto apprezzato come viaggiatore, il lavoro non mi manca, sono persino stato assunto da un «mago»…!”

Rise, scacciando una nuvola dal suo viso.

“Ma di tutta questa storia… di tutta la mia vecchia vita c’è qualcosa di cui non riesco proprio a sbarazzarmi… ed è il fatto che… beh, che io odio l’indifferenza. Non la tollero. Quando vedo compiere una crudeltà e vedo che gli altri assistono senza fare niente, qualcosa dentro di me si muove: non so se è più rabbia verso chi la commette o disprezzo verso chi la ignora, ma non resisto dal fare qualcosa… e so che in questo caso non avrei dovuto, non voglio giustificarmi in alcun modo per questo. Ma quando ho visto la catena al polso di quella ragazza… mi sono sentito esplodere. Non ce l’ho fatta a non intervenire, perché troppe volte ho desiderato che qualcuno intervenisse per me.”

Yèlveran lo guardò sorridere di nuovo, mentre l’ombra di quell’intera vita sembrava posarsi su di lui e cercare di schiacciarlo. Ma Heze non si piegava, e nemmeno voltava indietro la testa; si aggrappava alla sua certezza, l’unica che lo aveva salvato da quel passato, e la sbandierava con orgoglio innanzi a sé: Odio l’indifferenza.

“Anche io.”

 

Anche io, aveva detto.

Due parole e nient’altro in risposta a tutto il suo racconto.

Heze cercò di incrociare il suo sguardo, ma Yèlveran aveva sprofondato la testa nel cuscino, con gli occhi socchiusi.

“Anche io nel mio passato ho desiderato che qualcuno intervenisse per me.”

Era la prima volta che chiamava in causa direttamente il passato, o, se non altro, la prima volta che sembrava metterci un’emozione dentro. Heze sperò che approfondisse, invece lui aveva di nuovo l’espressione persa altrove, l’ormai ben conosciuta espressione di chi non avrebbe risposto a quella domanda, se lui gliel’avesse posta.

Rimase qualche attimo in silenzio, assorto come solo lui sapeva fare.

Poi però sorrise.

“Per questo… a me piace che tu non resti indifferente. È una cosa che mi piace tanto. Quindi, ti prego, ogni volta che ne senti il bisogno o il desiderio, intervieni… e non pensare che il tuo ostacolo possa o debba essere io. Non lo sono.”

 

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Capitolo 18
*** Il segreto di Luxei ***


Luxei sapeva che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato, ma aveva sperato di non trovarsi di fronte proprio lui. Quel ragazzo – era un uomo, ormai – gli aveva concesso cieca fiducia: aveva messo la sua vita nelle mani di quattro Persuasori, gli uomini che in teoria avrebbe dovuto temere più di tutti e da cui avrebbe fatto meglio a nascondersi per sempre. Lo aveva fatto per un ideale, perché pensava di non potersi concedere un futuro felice se quel futuro non era concesso anche agli altri.

“Leu…”

La discromia degli occhi aveva sempre conferito al suo volto un’espressione inquietante, ma il suo sorriso sfacciato la sdrammatizzava: era stato così fin da piccolo, accattivante, egocentrico e provocatorio.

“Uff! Quanto mi hai fatto camminare! Se non sapessi che hai la pellaccia dura, ti avrei dato per morto. Ma è evidente che sei vivo e vegeto, quindi avrai anche un sacco di spiegazioni da darmi!”

Quel mattino Luxei era uscito per recarsi a Villanuova a fare una commissione e, prima di aver percorso pochi passi fuori dall’enclave, Leu l’aveva intercettato: pareva sfinito e aveva l’aria di uno che ha viaggiato per giorni, ma questo non bastava a togliergli dal viso un’irriverente cipiglio di sfida.

“Non dovresti essere qui!”

Non erano le parole che avrebbe voluto rivolgergli: avrebbe piuttosto voluto abbracciarlo, chiedere perdono e poi… E poi niente, perché le cose non sarebbero mai andate così.

“Perché non dovrei? Siamo in mezzo alle terre selvagge, quaggiù: come ci resisti? E comunque, se avessi voluto essere proprio spudorato avrei bussato alla porta dell’enclave ed avrei chiesto di te! Che ci sarebbe stato di male? Sono solo una tua vecchia conoscenza che passava per caso da queste parti, magari uno dei tuoi amanti o uno dei tuoi numerosi figli illegittimi lasciati in giro per il mondo, perché no?”

Era diventato ancora più logorroico di come lo ricordava: parlava con una velocità tale che spesso si mangiava qualche lettera.

“Le mie vecchie conoscenze non dovrebbero sapere che mi trovo qui, appunto.”

“Nemmeno i figli illegittimi?” e gli fece l’occhiolino.

A Luxei sfuggì un sorriso intenerito.

“Nemmeno quelli.”

“Che peccato! Vabbè, questo almeno tranquillizzerà Iruvàn: ma non credo gli basti!”

Sentir pronunciare quel nome ebbe l’effetto di una coltellata.

“Come sta?” chiese, fingendo naturalezza.

“Come vuoi che stia? È Iruvàn. Motivato, appassionato, tormentato, implacabile e pronto a tutto, in una parola: esaurito. E tu non lo aiuti.”

“Xau è con lui, adesso? Iruvàn vede ciò che vedi tu?”

“No. Ma niente ti assicura che io non ti stia mentendo. Beh, a meno che tu non provi a leggermi, così valuteresti quanto bravo sono diventato a resistere! Chissà se sarei capace di chiudere la mia mente a Luxei in persona, il grande Persuasore di Ricordi, la spia che tutti i Nove avrebbero voluto al proprio servizio!”

Si erano rivisti da pochi minuti e già voleva parlare di politica.

Era per politica che Leu era diventato uno di loro: per politica era stato pronto a far saltare l’anonimato che lui e il fratello avevano mantenuto per anni, salvandosi così la vita. Odiava le Famiglie, odiava i Persuasori, odiava il modo in cui veniva amministrata la giustizia, odiava un potere che sbandierava il concetto di Umanità e poi privilegiava pochi fortunati e decideva arbitrariamente, in base ad un sistema tutto teorico, chi fosse umano e chi no.

“Non leggerò nei tuoi pensieri, Leu.”

“Ed io invece pagherei per leggere nei tuoi.”

Si fece serio, lo fissò negli occhi, e poi ruotò lo stesso sguardo in giro, ad accertarsi che fossero soli.

“Dobbiamo parlare,” disse “e non qui in mezzo alla strada. Hai diritto di darci una spiegazione credibile sul perché stai ancora giocando a fare il reietto nell’Oltrefrattura dopo che la Serratura si è rotta.”

La spiegazione sarebbe stata tanto semplice, ma non per questo credibile, e soprattutto non accettabile.

La spiegazione – quella onesta, chiara al suo cuore – era che non se la sentiva più: tutto ciò che avevano progettato insieme e che allora gli era sembrato giusto, oggi gli faceva orrore. Non voleva diventare un assassino e non voleva che lo diventassero loro: non voleva che quel crimine venisse commesso. Aveva vissuto gli ultimi quindici anni ignaro dei propri intenti, della propria rabbia, della congiura che aveva ordito lui stesso e quegli anni erano stati i migliori della sua vita. Aveva amato essere un reietto nell’Oltrefrattura, aveva amato fare l’addestratore in quell’enclave dimenticata da Dio, ma più di ogni altra cosa aveva amato Yèlveran. Accanto a lui, l’odio si era svuotato, le priorità si erano capovolte e nel suo animo si era insediata una certezza: quella che avevano deciso di compiere non era violenza necessaria, era solo crudeltà gratuita.

Come dirlo a Leu?

Come dirlo a Iruvàn, che per la loro causa aveva sacrificato tutto?

Non poteva essere onesto. Doveva mentire ai suoi complici ed amici per guadagnare altro tempo, il tempo che serviva a Yèlveran per sventare una strage e per mettere se stesso al sicuro.

 

Erano passati più di vent’anni da quando aveva conosciuto Iruvàn: a quel tempo Luxei era da poco diventato addestratore ed era stato assegnato all’enclave in cui quel giovane promettente stava perfezionando la Persuasione del Cuore. La prima impressione che ne aveva ricevuto era stata che avesse scelto quell’arte per comodità: aveva fascino e carisma da vendere, abile comunicatore, disinvolto in tutti i contesti, seducente e magnetico, sapeva bilanciare perfettamente empatia e distacco e giocare a stregare il prossimo era per lui una specie di passatempo. Gli altri lo guardavano con invidia e un po’ di sospetto: proveniva da un piccolo villaggio di campagna all’estremo sud, lontano da qualsiasi centro abitato degno di tale nome, e, per quanto l’accesso alle enclavi non fosse limitato da alcuna barriera sociale, per quanto a qualsiasi individuo che ne avesse i requisiti fosse permesso di apprendere una Persuasione, il fatto che dei selezionatori si fossero recati a cercare materiale umano in un paese di quattro case era un evento piuttosto singolare.

Ma per Luxei, l’ultimo degli uomini che si sarebbe lasciato incantare dal troppo fascino personale, guadagnarsi la fiducia di quell’allievo ammaliante e manipolatore divenne subito una sfida. Avvertiva che dietro il suo atteggiamento ostentatamente sicuro si celavano fantasmi e che le sue doti erano assai superiori rispetto a quelle dei suoi compersi.

“E dunque, Iruvàn, chi è stato a scovare il tuo talento?”

“Congratulazioni, sei il primo uomo che me lo chiede.”

“Non capisco dove si trovi il merito: ho solo fatto una domanda.”

“Una domanda che tutti hanno paura di fare, perché la storia che c’è dietro è torbida e drammatica e a nessuno piace parlare di storie torbide e drammatiche: meno che mai qui, nel regno dell’equilibrio e del dominio di sé. Ma questo è ciò che mostriamo alla luce del sole: nel profondo del cuore umano, invece, niente è più stuzzicante di una storia orribile… Ci eccita sviscerarla, rimuginarci, riempire i vuoti… È un vero orgasmo mentale: non trovi?”

“Non sempre. E comunque dipende da quale sponda stai: se fai parte dei beati e incoscienti che tanto capita sempre agli altri è un conto, se invece la storia orribile da raccontare è la tua, allora è un’altra faccenda.”

“Ci sono anche le persone che svendono le proprie storie orribili solo per alimentare il piacere perverso di altri, per ricevere attenzioni, o per elemosinare pietà…”

“E tu stai girando intorno alla mia domanda per non ricadere in una di queste categorie, o solo perché nascondi dei segreti?”

“Leggilo nella mia mente.”

“Non posso. Mi è vietato, come lo sarebbe a te cercare di guadagnarti il mio favore con le tue abilità.”

“Non ne ho bisogno. Ho già il tuo favore.”

“Ah sì?”

“Sì. Perché io mi diverto a mettere gli altri alla prova, e tu trovi stimolante essere sfidato.”

“Non provocarmi: sarebbe un bel guaio se fossi io a mettere alla prova te. Di solito vinco.”

“Fallo. Leggi la mia mente. Te lo sto chiedendo io.”

“Perché?”

“Perché mi costa fatica rispondere alla tua domanda, ma tutto sommato desidero che tu abbia la risposta.”

“Ti darò un consiglio da addestratore: è molto più facile plasmare i discorsi che i pensieri. Per quanto un Persuasore possa arrivare a costruire intorno alla propria mente serrature eccellenti, per sviare o mentire sarà sempre più efficace imparare a usare il linguaggio nel modo giusto. Le parole hanno un grande potere e noi possiamo avere un grande potere su di esse. Dai nostri pensieri, invece, qualche spiffero passa sempre: i sentimenti di cui non si è coscienti, i rimossi, la memoria dei sensi… non si può bloccare tutto. E tu, che io sappia, non hai nemmeno iniziato a studiare la Persuasione dei Ricordi. Tieni al sicuro ciò che vuoi che resti privato, anziché sfidare un Persuasore molto più esperto di te per dimostrare a te stesso che sai resistergli.”

Passò del tempo prima che Iruvàn gli concedesse la sua fiducia, tempo che usò per prendergli le misure e comprendere fino a che punto valesse la pena essere onesti con lui. Luxei lo sapeva e si lasciava studiare: avviato all’Arte fin da bambino, imbevuto di valori come la segretezza, il riserbo, il senso di superiorità di casta, aveva fatto della fede nella chiarezza la sua prima forma di ribellione. Luxei non era il tipo di uomo che parlava per enigmi o che opponeva ad allievi troppo curiosi frasi fatte come domani capirai. Nessuno poteva scommettere sul domani, e lui riteneva che le domande lasciate senza risposta del passato fossero diventate le fondamenta del decadimento presente: chi si teneva strette le risposte si teneva stretto anche il potere, ma un potere fatto di non detti era destinato a reggersi sulla superstizione. Anche Iruvàn ne era, in fondo, una vittima: i Persuasori che lo avevano scovato si erano recati al suo villaggio non per selezionare, ma per catturare una Maledizione. La Maledizione in questione era un ragazzo di tredici anni, un suo compagno di giochi ed uno dei dei suoi migliori amici. Nonostante la paura dei più, i familiari e i coetanei presero le sue difese: non aveva fatto nulla di eclatante o di pericoloso, aveva solo il potere di ritrovare gli oggetti smarriti… Come poteva essere una minaccia per la comunità? Ma nessuno ebbe il coraggio di contestare l’autorità dei Persuasori, tranne Iruvàn, che li fronteggiò entrambi nel tentativo, pur vano, di mettere alla prova la dottrina col buon senso. L’esito di quell’arringa fu scontato, la Maledizione venne condannata e i Persuasori eseguirono il rito di purificazione sul posto, in modo che ogni seme di dubbio fosse spazzato via.

Ma nessuna conseguenza ricadde su Iruvàn: al contrario, l’anno dopo, uno di quegli stessi individui si presentò ai suoi genitori con un compenso chiedendo l’autorizzazione di valutare se il figlio avesse i requisiti per essere addestrato come Persuasore.

“E perché hai accettato? Non provavi disprezzo per quell’uomo?”

“Questa è una domanda trabocchetto, Luxei. Ma, come immaginerai, mi è stata già fatta prima di essere ammesso a questa enclave.”

“Non vuoi rispondermi?”

“Ti risponderò come ho risposto allora: che sì, ero rimasto turbato, e che sì, avevo trovato tutt’altro che umano condannare a morte un ragazzo davanti agli occhi dei suoi stessi familiari, ma che l’opportunità che mi veniva offerta era la più grande occasione che mai avrei avuto nella vita e che rifiutarla sarebbe equivalso a sputare su un dono. Posi una sola condizione prima di accettare: ammisi con franchezza che, se messo in una situazione come quella a cui avevo assistito, non mi ritenevo in grado di eseguire una condanna. Loro mi rassicurarono dicendomi che erano ben altre le arti per cui ero predisposto. Arti sociali.”

Luxei sorrise: era vero che era dotato per le «arti sociali» e tuttavia c’era dell’altro celato dietro quel discorso così ben costruito.

“E oggi pensi queste stesse cose?”

“Leggi nella mia mente, Luxei. Leggi. Così, se dovessi trovarci qualcosa di discutibile, anche solo una piccola macchia nella mia ortodossia, potrò dire che sei stato tu a sbagliare.”

“Non ti fidi di me, eh?”

Fidarmi? Di un Persuasore? Vorrebbe dire che non mi avete insegnato niente.”

“Nessun problema. Mi fido io per tutti e due.”

“Fossi in te non lo farei.”

“Ma tu non sei me, mentre io sono io. E ciò che penso io è che le Maledizioni siano esseri umani e dunque ucciderle sia, di fatto, in contraddizione coi principi fondamentali della Grande Legge. Vedi? Non ho nessuna paura ad ammetterlo davanti a te.”

 

Iruvàn era diventato un Persuasore con l’intento di portare il marcio alla luce e Luxei inseguiva una teoria tutta sua sulle affinità tra Maledizioni e Persuasioni. Insieme erano giunti alla conclusione che, finché l’autorità fosse rimasta nella mani dei Persuasori, non c’era alcuna possibilità che una posizione filosofica diversa sulla natura delle Maledizioni, e quindi sul trattamento che doveva essere loro riservato, venisse anche solo presa in considerazione. Il sistema di valori su cui si reggeva la società affondava le radici nel Mito della Frattura: la terra era il regno dell’Umano, il sottosuolo del Non-Umano, ma quando il confine che divideva i due mondi si era spezzato, un rigurgito di forze incontrollate si era riversato fuori dalla voragine contaminando l’umanità e le Maledizioni ne erano l’incarnazione. Le Nove Famiglie vantavano di discendere da coloro che erano scesi in battaglia per ricacciare il Male negli abissi e i Persuasori incoraggiavano questa credenza affinché la gente comune si sentisse, di fatto, protetta da chi esercitava il potere.

Ai Persuasori era comodo nascondersi dietro quel potere.

C’erano loro alle spalle di ogni scelta politica, erano loro a indirizzare l’operato di ogni singola Famiglia, il Consiglio dei Nove non era che un fantoccio nella mani delle enclavi di Feuzte, ma il loro rimanere nell’ombra gli consentiva di mantenere un’immagine mistica ed idealizzata, dunque incontestabile.

Le Famiglie erano quelle che tenevano in piedi il sistema che i Persuasori manovravano da dietro le quinte, per questo erano anche il punto debole della struttura: erano loro a dover cadere per prime, in quanto simbolo non solo di autorità ma anche, per molti, di oppressione.

Luxei ed Iruvàn stabilirono che avrebbero colpito i Nove, e lo avrebbero fatto in modo esemplare, davanti agli occhi di tutti, usando la Persuasione dell’Aria affinché l’evento venisse percepito come il segno del loro fallimento e della loro punizione. Certo, molte persone sarebbero morte. Certo, probabilmente degli innocenti sarebbero rimasti coinvolti, ma il sacrificio di pochi non era un prezzo troppo alto da pagare perché l’umanità aprisse gli occhi. Strinsero un patto, raccolsero complici fidati, organizzarono una rete di contatti e di spionaggio fino ad allestire in ogni dettaglio la congiura che avrebbe dovuto cambiare il mondo.

Ma poi era arrivato Yèlveran…

 

“Che cosa significa me ne chiamo fuori? Ti sei rimbecillito, Luxei?” il volto di Leu era più esterrefatto che arrabbiato: quelle parole dovevano apparirgli impossibili, uno scherzo, il delirio di un malato. “È accaduto qualcosa che non puoi dirci? Qualcuno forse…”

“No, Leu. Non è successo niente: nessuno mi ha scoperto, siete e rimarrete al sicuro.”

Ma non era la verità. Quando Àtsuran fosse venuto in possesso del messaggio, nessuno sarebbe stato davvero al sicuro: la sua unica certezza era che, in nome del debito che l’amico aveva nei suoi confronti, il trattamento a loro riservato sarebbe stato clemente. Àtsuran avrebbe trovato il modo di sventare la congiura e poi insabbiare tutto con discrezione, come aveva già fatto altre volte. Inoltre, non gli aveva rivelato l’identità di Xau e Leu: il loro coinvolgimento non sarebbe neppure risultato.

“E allora spiegami cosa ti ha fatto cambiare idea! Non ti interessa più lottare per i miei diritti?” e si batté una mano sul petto con veemenza “Sei stato tu a dirmi che spettava a me difendere la mia umanità, sei stato tu a trascinarci in un piano che metteva a rischio le nostre vite: non puoi lavartene le mani e fare come se nulla fosse successo. Ti rendi conto di tutta la gente che abbiamo coinvolto? Noi abbiamo lavorato per la causa ogni giorno ed ogni notte, mentre tu te ne stavi in panciolle in un luogo sicuro, per di più ad addestrare futuri servi del potere!”

Luxei non aveva idea di cosa Iruvàn avesse fatto in quei quindici anni: in verità, lo aveva immaginato chiuso nell’enclave di Zaosha, intento a studiare la Persuasione dell’Aria, in attesa, come lui. Ma nel profondo sapeva che era un pensiero stupido, e le parole di Leu non facevano che rendere chiare cose che avrebbe già dovuto immaginare: Iruvàn non era un uomo fatto per attendere, lui era energia, era movimento.

“Abbiamo salvato otto persone: otto Maledizioni, oltre a Xau e me, tutte pronte a sostenerci. Hanno poteri forti e Iruvàn li ha addestrati! Sarebbero capaci di fare la pelle a qualsiasi Persuasore!”

L’impeto di quelle parole gli suonò violento, inaspettato: il suo cuore ebbe un tuffo.

“Hai… ucciso qualcuno?”

L’indifferenza negli occhi di Leu fu già una risposta, a cui seguirono altre parole, altrettanto taglienti e piene di rancore.

“Di questo ti preoccupi? Se ho mai tolto la vita a uno dei bastardi che la toglierebbero a me senza l’ombra di un dubbio o di un rimorso?”

“Leu…”

“Sì. Una volta. Capita che per salvare la vittima si debba ammazzare il carnefice.”

“È stato Iruvàn a chiedertelo?”

“Iruvàn non ha bisogno di chiedere. Gli basta desiderare.”

Non gli era difficile credere a quella affermazione, ma ciò che sottintendeva lo faceva rabbrividire.

“Usa la Persuasione del Cuore su di voi: non siete voi a scegliere!”

“Siamo noi a permettergli di usarla, perché lo merita.”

“Ma è lui che non dovrebbe!”

“Davvero?” gli occhi di Leu si ridussero a due mezzelune “E i suoi ricordi, allora? Tutte le volte che hai cancellato pezzi della sua memoria e scombussolato l’ordine dei suoi pensieri solo perché potesse accedere alla Persuasione dell’Aria, allora anche tu non avresti dovuto.

Aveva ragione. Lui stesso faceva parte del sistema che aveva pensato di distruggere: lui che aveva manipolato i ricordi di Iruvàn e che, con la stessa presunzione, aveva utilizzato il suo potere su Yèlveran.

Yèlveran, dannazione.

Iruvàn non doveva sapere cosa ne fosse stato di lui e soprattutto non avrebbe dovuto mai e poi mai incontrarlo. Era ancora un ragazzo, non era forte abbastanza per resistergli e c’era ben più di un modo in cui Iruvàn avrebbe potuto strumentalizzarlo.

“Lui ha bisogno di te” riprese Leu, interpretando il suo silenzio come un ripensamento “o non riuscirà a mantenere la sua copertura. Vieni con me. Tu hai iniziato e tu devi finire: non ti permetterò di tirati indietro.”

Allungò una mano verso Luxei con negli occhi un piccolo barlume di speranza e al tempo stesso tutta la determinazione e la rabbia che lo avevano tenuto in vita.

In che modo non me lo permetterai, mio amato Leu? Mi trascinerai con la forza? Mi ucciderai? Sei venuto fin qui indifeso e solo, convinto di parlare con un amico: per sbarazzarmi di te mi basterebbe cancellare il ricordo del nostro incontro, o peggio, rivelare all’enclave che sei una Maledizione...

Quante parole crudeli avrebbe potuto dirgli. Quanto ciascuna di quelle pesava solo per il fatto di averla pensata.

Rimase di nuovo zitto.

“Cazzo, ti sei mangiato la lingua?! Che ti è successo? Non posso credere, non voglio credere che tu sia diventato come loro!”

Silenzio.

Leu trattenne a stento le lacrime, poi lo colpì con uno schiaffo.

Luxei incassò.

“Scoprirò quello che non mi dici!” gli urlò contro “Scoprirò ogni cosa, traditore!”

 

Era vero: era un traditore.

Tutti i Persuasori erano così, erano votati al tradimento. Lui, Iruvàn, Xeiratog, Yurlan, Àtsuran, persino Garlan e i tanti altri che aveva conosciuto. Era la loro stessa identità a renderli tali e a fargli percepire la falsità e il cinismo come virtù: tutti ugualmente individualisti, ermetici, ambigui ed infidi, con gli occhi sempre aperti e il cuore sempre chiuso.

Tutti tranne Yèlveran.

Yèlveran era completamente diverso, ed il merito non stava nei suoi insegnamenti: semmai era stato quel ragazzino triste ad insegnare a lui.

Dodici anni al suo fianco gli avevano dimostrato che la società, l’educazione ricevuta, gli uomini, le sventure, i fantasmi non possono uccidere la gentilezza, se alla gentilezza viene dato valore.

Sì, Yèlveran gli aveva restituito la gentilezza e quella gentilezza aveva stravolto tutto: le sue vecchie idee, i suoi desideri, la sua rabbia, il suo cuore.

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Capitolo 19
*** Di tradizioni e modi di dire ***


Ci volle qualche giorno perché Yèlveran riuscisse a alzarsi dal letto, ma Togfaran e sua figlia si erano presi a cuore la sua convalescenza e lo sommergevano di molte più cure di quante lui ne chiedesse, anzi, forse era proprio il suo essere una persona modesta e di poche pretese a renderlo, ai loro occhi, meritevole di un trattamento di favore. E pensare che Yèlveran non si era fatto sfuggire una parola sulla sua identità! Era sufficiente la sua naturale gentilezza a guadagnargli tutte quelle attenzioni.

Heze passava accanto a lui tutto il proprio tempo, preoccupandosi che non gli mancasse nulla e tenendogli compagnia; non era la circostanza migliore per scambiarsi confidenze, ma, dopo aver ascoltato il racconto del suo passato, anche Yèlveran aveva provato a dire qualcosa di sé: cose semplici, prosaiche, forse scelte affinché non comportassero forti slanci emotivi o «perdite di controllo», ma che erano quanto di più vicino ad una normale chiacchierata tra amici che lui gli avesse mai concesso.

“Mi vuoi far credere che ti sei perso a Villanuova? Ma sei serio?”

“Perso, sì. Due volte. La prima non uscivo dall’enclave da cinque anni: il mio addestratore aveva insistito per mandarmi a fare una commissione, perché pensava che prima o poi dovessi riabituarmi alle persone, credo. Ma quando ho visto tutta quella gente mi sono spaventato e ho fatto dietro front… solo che mi sono infilato in un sentiero che usciva dal paese e sono finito dentro il bosco: il silenzio era bellissimo, così mi sono addentrato un po’, ho fatto passare il tempo, è venuta sera… e quando ho deciso di tornare indietro mi sono reso conto che gli alberi tra loro si somigliano davvero parecchio!”

Faceva ironia, scherzava su se stesso: non lo aveva mai fatto prima.

“La seconda volta c’era il palio degli asini, un gruppo di miei compersi voleva andarci ed io non sono per niente bravo a dire no. Emh, neanche a dire sì, infatti i miei addestratori dicono che lascio che le esperienze mi accadano invece di sceglierle. Sono finito dentro una locanda e l’odore troppo forte dell’erba celeste mi ha preoccupato perché sapevo che era una sostanza capace di confondere la mente, ed a me è vietato lasciare andare la mente in confusione… Ma forse la mia mente era già confusa: dalle voci, dalla folla, dalla festa… fatto sta che mi sono nascosto e non sono rincasato finché non è venuta notte fonda… All’enclave mi prendono ancora in giro!”

“Per forza ti prendono in giro: a Villanuova ci sono due strade in croce e dieci case!”

Dieci è un numero enorme! Ha persino due cifre!”

Heze scoppiò a ridere: quanto gli piaceva vederlo di buon umore, sentirlo parlare di niente, dargli del tu, chiamarlo per nome. Chiamarlo per nome. Accidenti, doveva cercare di starci attento e non farlo in presenza di altri, dato che Yèlveran aveva infranto una regola, per lui.

“Mi è stato insegnato a non presentarmi per nome perché i nomi sono strumenti potenti: alcuni – quelli personali, o quelli molto antichi o quelli con una connotazione affettiva – lo sono più di altri. Ad esempio: la Persuasione del Cuore lavora sulle emozioni, induce ammirazione e lealtà nei confronti del Persuasore che la pratica, e questa arte aumenta la sua efficacia attraverso l’uso del nome proprio. Ricordi, Cesura, Sensi sfruttano un meccanismo simile. Insomma, un nome può essere un’ancora nella mente di qualcun altro, così solo i Persuasori di una stessa enclave si chiamano per nome, e nemmeno sempre.”

“Beh, in base a questo principio è proprio agli altri Persuasori che non si dovrebbe rivelare il proprio nome, non ai disgraziati come me che di manipolazione della mente non sanno un fico secco!”

“Eh già! Ma questo margine di pericolosità lo rende un rito di fiducia. Per quanto io sinceramente pensi che la fiducia stia da un’altra parte.”

“Dove?”

Yèlveran sorrise.

“Mm. Nel raccontare a qualcun altro che ti stai fingendo morto, credo.”

Poi si massaggiò la fronte e sfocò lo sguardo lontano.

“O nel lasciare che qualcuno nasconda un messaggio nella tua testa, credo. Cose così.”

 

Non appena si sentì in grado di muoversi, Yèlveran insistette per rimettersi in cammino: sapeva che non era una scelta prudente, la ferita faceva ancora male e di sicuro in un altro momento si sarebbe concesso ben più tempo per riposare, ma non aveva gli strumenti per valutare quanto il suo ritardo fosse grave e quali potessero esserne le conseguenze: Luxei gli aveva solo raccomandato di fare in fretta. In momenti come quelli si domandava quanto e se il suo addestratore, chiedendogli di fidarsi di lui, si fosse a sua volta fidato. Diceva di avergli consegnato un messaggio di immensa importanza, di poter contare solo su di lui, e si era persino preoccupato che il suo acconsentire alla richiesta non conseguisse da una passiva accettazione, bensì da una lealtà contraccambiata… «Non desidero che tu obbedisca ad un ordine» gli aveva detto «Desidero che ti fidi di me. Ti è ancora così difficile?»

No, non gli era affatto difficile. Gli era invece troppo facile. Difficile era stato imporsi il contrario:

difficile era stato alleggerirla, quella fiducia, smussare l’affetto che provava per quell’uomo, dare a quell’incarico la stessa importanza che avrebbe dato a qualsiasi altra richiesta ricevuta dall’enclave, perché, se non lo avesse fatto, la sua mente si sarebbe inceppata in una catena di domande senza fine e lui avrebbe solo saputo domandare, e domandare, e ancora domandare Luxei, perché? Che cosa ti è successo? Da dove viene questo dolore? Di cosa hai paura? Perché vuoi che proprio io, che tu hai portato lontano da Feuzte e tenuto nascosto per tutti questi anni, torni in quel luogo? Perché dici che ti fidi di me, ed invece non lo fai? Perché non chiedi apertamente il mio aiuto?

Glielo avrebbe dato, il suo aiuto. Senza riserve e senza condizioni.

Avrebbe fatto esattamente quello che gli avevano insegnato a non fare: ascoltare tutti i segnali, caricarsi di tutto il peso e correre il rischio di non poter controllare più nulla. Per lui.

Perciò non aveva domandato niente: si era comportato esattamente come chi di scelte non ne ha. Perché infatti non ne aveva.

Partirono un mattino all’alba, su un carro che la figlia di Togfaran si era fatta prestare per accompagnarli fino alle pendici dei monti: Heze aveva valutato la possibilità di cambiare itinerario e di aggirare l’ultimo tratto di catena montuosa in modo da non dover affrontare i sentieri, ma questo avrebbe comportato due giorni di percorrenza in più e Yèlveran aveva rifiutato. Gli dispiaceva imporre la propria volontà sulla sua guida, e gli dispiaceva ancora di più essere cosciente che, se lui non replicava, era perché si sentiva colpevole del ritardo: d’altro canto era anche certo che se la ferita gli avesse dato problemi Heze avrebbe saputo come comportarsi.

La salita fu molto più morbida rispetto alla prima parte del viaggio. Il mirdev brillava in piccole chiazze che sembravano pozze di luce aperte nella roccia, ma non erano abbastanza estese per dare fastidio alla vista. C’era anche più vegetazione, il luyo in piena fioritura tingeva il paesaggio di giallo e arancio e nelle spaccature della pietra si facevano spazio arbusti e muschi: l’acqua non abbondava, ma su quel versante le piogge erano più frequenti e il clima più dolce. Yèlveran riusciva a procedere con passo lento ma costante e al tramonto avevano già percorso un buon tratto di strada.

“Qui a due passi ci dovrebbe essere un posto in cui fermarsi.” decretò Heze “Siccome il Valico Basso è un passaggio che molti viaggiatori usano come scorciatoia, nel tempo ci sono stati costruiti alcuni capanni. Sono soluzioni arrangiate e non tutte reggono al passaggio dell’inverno, ma vediamo se siamo fortunati…”

“La temperatura è buona,” fece Yèlveran “e le giornate si sono allungate. Non potremmo procedere ancora un po’?”

“Potremmo, ma non lo facciamo.” tagliò corto Heze, fronteggiandolo con un ampio sorriso “Lo so che hai tutta la fretta del mondo, ma se ora non ci fermiamo domattina avrai addosso tutti i dolori del mondo. Ed io ho bisogno di luce per medicare la ferita e rifare il bendaggio.”

“Mm.”

“Stai tranquillo. Ti prometto che domani in giornata avremo superato il Valico Basso.”

Raggiunsero effettivamente una specie di casetta di legno addossata ad una parete di roccia: la struttura pendeva un po’ da un lato, ma l’effetto d’insieme era tutt’altro che cadente. Un ciuffo di luyo era persino cresciuto in una crepa e si era esteso fino sulle assi di legno del tetto, segno che quella capanna doveva essere in piedi da un po’. Ciò che però li sorprese fu vedere a pochi passi un uomo intento a raccogliere sterpi secchi, forse per accendere un fuoco.

“Mi sa che non siamo soli,” constatò Heze “ma per una notte ci possiamo adattare!”

“Oppure ci potremmo non adattare e andare a mettere il campo da un’altra parte.” fece Yèlveran di rimando, con l’espressione di chi ha appena emesso una sentenza irrevocabile.

“Certo che sì, e dopo aver dormito sulla pietra con quella ferita ti porterò su al valico in spalla.”

“Questo mi sa che è un po’ difficile… sono anche più alto di te…”

Heze scrollò la testa con un sorriso desolato.

“Yèlveran, era un modo di dire.”

In quel momento, lo sconosciuto si accorse di loro e gli rivolse un cenno di saluto, che rese inutili tutti gli ulteriori tentativi di sottrarsi ad un momento di socialità forzata.

“Che il vento favorisca il vostro viaggio!” li accolse “Siete qui per accamparvi?”

“Se non siamo di troppo!” rispose Heze, con la naturalezza di qualcuno che è abituato a quel tipo di convenevoli.

“Siamo solo in due e c’è spazio sufficiente.”

Yèlveran gettò un occhio dentro al capanno e intravide la sagoma di una donna che stava preparando un giaciglio all’interno, ma prima che potesse finire di studiarla fu lei ad uscire, attratta dalla conversazione. Dalla sua espressione, non era lieta come il compagno di trovarsi a dividere quel posto con due sconosciuti, ma fece buon viso a cattivo gioco e li salutò cordialmente.

“Lei è Neirseim, mia moglie, ed io sono Mantog.”

 

Quei due sembravano innocui e cordiali, ma la presenza della donna aveva un po’ insospettito Heze: per quanto il Valico Basso fosse una scorciatoia che i viaggiatori utilizzavano spesso, non era esattamente il percorso che avrebbe suggerito per una scampagnata di famiglia.

“Cosa ci fate qui? Dove state andando?”

Chiese, mentre scaldava sul fuoco l’acqua che gli serviva per la medicazione.

“Stiamo andando a Feuzte per la Celebrazione dell’Umanità.” rispose lui, con tutta la naturalezza del mondo.

“E non sarebbe stato più agevole costeggiare il Lungo e aggirare le montagne?”

“Per noi?” l’uomo sfoggiò un sorriso fiero “Io sono un cavatore di mirdev, questi monti sono la mia casa! Passare di qui era la scelta migliore per fare prima e per non incontrare troppa gente: le locande della valle saranno molto affollate di questi tempi… e i locandieri ne approfitteranno per alzare i prezzi! La Celebrazione dell’Umanità smuove tanta gente…”

Heze non aveva idea che la Celebrazione dell’Umanità ricorresse proprio quell’anno: quando si era svolta la precedente era appena un ragazzino ed era ancora al servizio di Jagsur.

“Non ci sono mai stato, non ho idea di come funzioni.”

Prima che l’interlocutore potesse esprimere la sua sorpresa di fronte a quella che per lui era clamorosa ignoranza, fu Yèlveran a prendere la parola.

“Non ti sei perso granché,” spiegò con poca partecipazione “è solo una sorta di rito religioso, che poi in realtà è un rito politico, e che alla fine è una specie di spettacolo teatrale, solo più grande di quelli che allestisce Grande Mago.”

Heze vide l’espressione sul viso dei due coniugi passare dallo sbigottimento all’indignazione, ma Yèlveran si stava rivolgendo solo a lui, e pareva non essersene nemmeno accorto.

“Per tradizione, ai Nove è proibito mostrarsi in pubblico contemporaneamente. Il Consiglio si riunisce in assoluta segretezza, dietro la protezione dei migliori Persuasori di Confini. Tuttavia c’è un rito a cui questa restrizione non si applica: si tratta della celebrazione che rievoca la battaglia in cui gli antenati delle Nove Famiglie avrebbero ricacciato gli spiriti maligni dentro la Frattura. Fanno una specie di rappresentazione - alquanto grottesca per me, in verità - in cui i capifamiglia ricevono dai rappresentanti delle gilde cittadine delle spade di legno costruire e decorate per l’occasione: con quelle inscenano una battaglia in cui un feticcio che rappresenta la Maledizione viene fatto a pezzi e rigettato nelle profondità della terra, momento di solito di grande d’effetto per via del confine tracciato per simulare la Frattura… Ma ti assicuro che alla fine dello spettacolo il povero fantoccio sta sempre lì, e qualcuno dovrà raccoglierlo e darlo alle fiamme. L’ultima Celebrazione dell’Umanità deve essere caduta otto o nove anni fa: non si ripete a cadenza regolare perché anno e giorno dipendono da una specifica congiuntura celeste. Attira molta gente perché è l’unico momento in cui al popolo è consentito guardare in faccia chi governa, e per una ragione che posso vagamente capire ma non condividere, le persone trovano interessante vedere da vicino le figure di potere… come se questo desse l’illusione di essere in confidenza con loro, persino di essere dei privilegiati. Le Nove Famiglie, ovviamente, conoscono questo meccanismo e se ne servono, con una serie di chiari vantaggi: governare col consenso è più facile che governare con la paura, la città si riempie di pellegrini e ne ha un ritorno economico incalcolabile, e alcuni giorni di abbondanza e divertimento allontanano la mente da tutto ciò di cui invece avrebbe senso lamentarsi. Inoltre, rimarcare in modo rituale che siamo costantemente minacciati da un male potente e strisciante ci rende fragili, e gli uomini fragili portano rispetto a chi gli offre protezione, anche se quella protezione non la riscuoteranno mai. Insomma, come strategia propagandistica funziona.”

Heze sorrise ammirato e pensò che lo trovava davvero straordinario.

Yèlveran era un Persuasore: non traeva alcun vantaggio dallo smontare l’impalcatura su cui si reggeva il potere della sua stessa casta… Eppure, tutte le volte che ne aveva l’occasione, non esitava a metteva a nudo le disfunzioni del lato del mondo a cui apparteneva. Poteva davvero dire le cose che stava dicendo? Era così lucido, diretto, trasparente: trasgressivo senza sembrarlo… e così abile nel mettere in fila i concetti in modo semplice e nello scegliere le parole giuste che persino i due coniugi, per quanto inizialmente scandalizzati, non riuscivano a ignorare il suo fascino.

“Signore, siete uno studioso voi?” prese la parola lei.

“Mm. Direi di sì.”

“E cosa fa uno studioso in cima alle montagne?”

“Vado a Feuzte anche io.”

“Per la celebrazione che non apprezzate…?”

“No. E non è la celebrazione che non apprezzo: non apprezzo la mitizzazione dei celebranti.”

“Cosa intendete? Non ho capito.”

“Dunque… i nove consiglieri sono nove persone. Cosa può avere di tanto speciale una persona? Per quanto possano essere ricchi o importanti, non hanno il potere di aggiungere un solo giorno alla propria vita. Sono foglie appese come noi…”

Per un attimo calò il silenzio, come accade quando, inaspettatamente, la Morte viene invitata e si siede a tavola. Heze guardò Yèlveran: i suoi occhi stavano di nuovo inseguendo pensieri persi altrove. Gli diede una mano a riportarli lì.

“Andiamo dentro il capanno: devo cambiare le bende prima che vada via la luce!”

Yèlveran annuì e abbozzò un sorriso riconoscente.

 

Il capanno era più ampio di come sembrava da fuori. I loro temporanei compagni avevano costruito un giaciglio su un cumulo di paglia e Yèlveran si chiedeva da dove venisse e chi ce l’avesse portata e, soprattutto, se non fosse un nido di pulci e sporcizia.

“Non fare quella faccia,” gli lesse nel pensiero Heze “mi sono organizzato bene.” e cominciò a distendere a terra, una sopra l’altra, le numerose coperte che tirava fuori dal suo bagaglio. Come avevano fatto a entrarci? “E comunque dormire su delle assi di legno sarà molto meglio che sdraiarsi sulla roccia. Tanto lo so che quando ci accampiamo all’aperto cambi posizione duemila volte al minuto!”

“Duemila al minuto mi sa che un po’ difficile…”

“Per la miseria, è un… ”

Yèlveran diede in una lieve risata e si sedette sul morbido, sfilandosi la camicia e cominciando a disfare la fasciatura.

“… un modo di dire.” completò la frase “Peccato, però… quasi credevo che per addormentarti contassi le volte che cambio posizione!”

“Ehi, ehi… da dove viene tutta questa ironia?”

Heze si inginocchiò accanto a lui, tirò fuori dalla sacca le bende pulite e ne imbevve una nell’acqua per lavare la ferita, ma in quel momento Neirseim si affacciò sulla soglia.

“Ti do una mano.” disse, non invitata, e si chinò vicino a loro.

“Non c’è bisogno, va… tutto bene… ” si ritrasse Yèlveran, in imbarazzo.

La donna abbozzò un sorriso condiscendente.

“Il nostro villaggio vive di estrazione del mirdev…” spiegò, come a voler giustificare l’intromissione “un mestiere molto pericoloso. Occuparmi di chi rimane accidentalmente ferito è compito mio. Ho con me molte cose che possono servirvi… oltre a un po’ di esperienza. Non fate complimenti.”

Yèlveran non era abituato a dare fiducia al primo sconosciuto incontrato, soprattutto trovandosi in una condizione di vulnerabilità, ma sapeva che per Heze la sensazione di ricevere aiuto gratuito era preziosa, così non reagì e lasciò che Neirseim visionasse la ferita.

I due si scambiarono poche parole, poi lei frugò tra le proprie cose e gli porse una serie di contenitori e pezzi di stoffa variamente profumati, spiegandogli le varie proprietà dei suoi unguenti.

Yèlveran li ignorò, cercando di staccare la mente dal proprio corpo e mandarla in giro altrove: alle cave di mirdev, per esempio, da cui venivano le suppellettili di lusso e i gioielli iridescenti di cui si adornavano le donne nelle corti di Feuzte e la cui estrazione era invece un mestiere molto pericoloso, alla bellezza dannata di quelle distese trasparenti coi loro giochi di luce, all’impasto nero che Heze aveva steso intorno ai suoi occhi per proteggerli dai riflessi, alla stupidità di ridurre l’immensità alla piccolezza, ed altri pensieri vaghi che si inanellavano uno dietro l’altro… finché non si accorse che Neirseim stava parlando con lui. Da quanto tempo?

“… ed avete fatto ugualmente tutta questa strada: siete dotato di un grande spirito di sopportazione…”

“Mm? Dotato…?”

La donna sorrise dolcemente.

“La maggior parte degli uomini ama mostrarsi sprezzante di fronte al pericolo e persino alla morte… ma poi, quando sentono male, diventano fragili come bambini. Voi siete bravo a sopportare il dolore.”

Yèlveran arricciò le sopracciglia, non cogliendo il complimento.

“Capito. Ma dotato è la parola sbagliata. Non è una dote, è solo iella!”

Heze diede in una franca risata.

“No, seriamente:” insistette lui, convinto “se uno è bravo a sopportare il dolore, significa che ha avuto diverse occasioni per impararlo, ed era molto meglio se non lo aveva imparato.”

La donna rimase ferma, col bendaggio sospeso a mezz’aria. Heze smise di ridere. Yèlveran si rese conto di aver detto qualcosa che lo aveva appena messo al centro dell’attenzione e arrossì.

“Intendevo solo che…” mormorò “che sento troppo spesso frasi tipo le mie sventure mi hanno insegnato ad essere forte, o solo quando hai guardato la morte in faccia comprendi il senso della vita… e a me danno un po’ fastidio perché sono… frasi fatte, credo. O solo una maniera vagamente dignitosa per prendere qualcosa di buono da quello che buono non è affatto.” esitò, fece un respiro, riprese sicurezza “Le disgrazie non ci piovono addosso per insegnarci chissà che o per renderci migliori: le disgrazie accadono, punto. E per come la vedo io, preferisco che il dolore mi trovi impreparato, piuttosto che essere bravo a sopportarlo, perché questo significa che prima non lo conoscevo… Insomma, non è detto che il dolore dobbiamo conoscerlo tutti: magari a qualcuno non capiterà mai, e arriverà alla fine dei propri giorni privo di spirito di sopportazione… Ma questo non è forse il meglio che possiamo e che dovremmo augurarci come esseri umani?”

Quando rialzò gli occhi, Heze lo stava guardando incantato.

“Porca miseria…” commentò “Tu sei davvero la negazione vivente dei modi di dire, amico mio!”

 

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Capitolo 20
*** Il Persuasore anarchico ***


Yelveràn trovava Mantog e Neirseim persone piacevoli, ma dopo due giorni di convivenza obbligata desiderava davvero tanto che le loro strade si separassero, ed aveva cercato di ottenere quel risultato in ogni modo, senza riuscirci. Purtroppo la via più veloce per Feuzte costeggiava la Baorva, e almeno fino a Lafargau, dove i coniugi avevano dichiarato di voler noleggiare due muli, il loro percorso coincideva. Heze era abituato alle sue esili proteste e le considerava una forma di misantropia a cui credeva di poter ovviare sostenendo da solo la conversazione coi compagni di viaggio, ma non si rendeva conto di quanto - esattamente come era avvenuto con la Carovana dei Folli – quel contatto umano prolungato sottoponesse la mente di Yèlveran ad un costante sforzo che lo prosciugava di energia. Non si trattava di riservatezza, non si trattava nemmeno del fatto che nell’enclave le relazioni coi compersi fossero scarne e inframezzate da lunghe ore di solitudine: il problema stava altrove, e lui non poteva spiegare ad Heze perché non avrebbe dovuto trovarsi in situazioni del genere, non poteva spiegargli quanto questo fosse pericoloso. Doveva lasciargli credere di essere solo un inguaribile timido e dissimulare il suo malessere fingendosi semplicemente stanco del cammino, mentre si concentrava ogni minuto, ogni secondo, per mettere in pratica tutti gli insegnamenti di Luxei: non farsi turbare dai segnali che riceveva dagli altri, prendere distanza dalle cose. Poteva farcela: doveva resistere solo fino alla fine di quel viaggio, poi avrebbe avuto tutto il tempo per riposarsi e permettere di nuovo al mondo di lasciarlo fuori. Al sicuro.

E tuttavia… a volte si trovava a pensare che Heze gli sarebbe mancato. Che sarebbe stato difficile tornare a Villanuova, riprendere la sua vita isolata e tranquilla – una vita, gli aveva detto lui, non adatta ai suoi occhi – e salutarlo senza avergli detto la verità.

La voce di Mantog interruppe i suoi pensieri.

“La campana di Koudad sta suonando.” constatò.

Heze e Neirseim si scambiarono uno sguardo rallentando il passo e Yèlveran ne approfittò per fermarsi del tutto e sgranchire la schiena, riassestandosi il bagaglio sulle spalle.

“Mm. Che significa?”

Mantog si grattò la testa.

“Dipende.” disse “ Se la campana suona, o è giorno di festa o avvisa di un pericolo, e non mi pare ricorrano festività particolari in questa stagione… ”

“Non risulta nemmeno a me.” concordò Heze “Però potrei sbagliare, e non vedo neppure traccia di cataclismi, da quassù!”

Sorrise, puntando col mento il paesello che si stendeva a fondovalle: il cielo era chiaro e la visuale nitida, da dove si trovavano potevano contare una ad una le case, disposte a scacchiera attorno all’incrocio di due strade, una più grande e una più piccola.

“Quella che va da nord a sud si collega a Ponte al Lungo aggirando i Monti di Vetro,” spiegò Heze, “ed è la strada che avrei scelto per noi se qualcuno qui non fosse un gran testone.” gli strizzò l’occhio “L’altra è quella che seguiremo per arrivare a Lafargau, sul lungofiume.” e additò all’orizzonte il luccichio lontano della Baorva. “Avviciniamoci e capiamo cosa succede. È molto più probabile che ci troviamo di fronte ad una celebrazione imprevista che ad una catastrofe naturale: nella peggiore delle ipotesi, staranno chiamando a raccolta per una caccia al neshpa.” si rivolse a Yèlveran facendo spallucce “Te l’avevo raccontato che a volte si spingono a valle e sono una vera calamità, giusto? Devastano ogni cosa: dagli orti ai pollai!”

Le parole di Heze parvero convincere tutti, e la comitiva si rimise in cammino.

In meno di un’ora furono in paese: ad accoglierli trovarono un innaturale silenzio, reso ancor più sinistro dal fatto che fosse un limpido pomeriggio di primavera e tutte le imposte delle case fossero invece sbarrate, quasi a chiudere fuori la luce del giorno.

“Ve lo avevo detto:” decretò Heze “neshpa!”

Ma non c’era traccia di quelle assurde creature, nei paraggi, né di cacciatori: corse invece loro incontro un uomo – che magari un cacciatore poteva esserlo, dato che portava un lungo pugnale appeso a un lato della cintura e una mazza dall’altro – il quale li respinse indietro agitando le braccia, forse con un sincero intento protettivo che veniva però vanificato dall’espressione truce del suo volto.

“Forestieri, non potete passare di qui. Oggi il paese è bloccato.”

Seguì un momento di stallo che amplificò la quiete innaturale che avvolgeva l’abitato. Yèlveran era certo che dietro le imposte chiuse ci fossero persone, avvertiva la loro presenza, sentiva il peso di occhi ed orecchie che non poteva vedere, ma se non fosse stato per quella chiara sensazione, il paese che Heze aveva chiamato Koudad quel giorno sembrava il regno dei fantasmi.

“Che vuol dire bloccato?” domandò Mantog, infastidito dall’inconveniente, o forse dall’ostentazione di autorità dello sconosciuto.

“Bloccato vuol dire bloccato. Chiuso. Fate il giro da un’altra parte.”

“Non possiamo fare il giro,” si scaldò “abbiamo bisogno di fermarci: il prossimo centro abitato è a troppe ore di cammino, scenderà la notte!”

“Problema vostro. Io ho l’ordine di non far passare nessuno.”

“Ma tu guarda…! A certa gente basta il permesso di sfoggiare un’arma per…”

Heze si parò davanti a Mantog e gli tolse prontamente la parola.

“Ti prego.” disse “Il signore, qui, sta facendo il suo lavoro. Se il paese ha dovuto costituire una Guardia armata significa che c’è un pericolo, da cui lui ci sta tenendo al sicuro.”

Sfoderò un sorriso cordiale e le sopracciglia dell’uomo si rilassarono.

“Cosa vi è successo? Possiamo forse renderci utili in qualche modo?”

L’uomo fece un grave cenno di diniego con la testa.

“Se foste a cavallo, vi avrei chiesto di portare un messaggio a Ponte al Lungo, ma faranno prima i nostri inviati a raggiungere l’enclave di Baorva. Abbiamo catturato una Maledizione.”

A quella sola parola, tutta la baldanza scomparve dal viso di Mantog, mentre quello di Neirseim si fece pallido: lo sguardo che si scambiarono fu molto eloquente, era chiaro che affrontare una notte in viaggio non gli sembrava più particolarmente spaventoso.

E lui?

Lui avrebbe dovuto fare lo stesso, girare alla larga, tutelare se stesso e gli altri sottraendosi al problema.

Luxei gli avrebbe consigliato così, anzi, glielo avrebbe ordinato.

Ma se Luxei fosse stato al suo posto, Yèlveran sapeva benissimo come si sarebbe comportato.

Nell’unico modo giusto. Nell’unico modo che li rendeva ancora perdonabili.

“La prendo in consegna io.” dichiarò, facendo un passo avanti e mostrando il polso alla guardia “Posso eseguire io il rito di purificazione.”

 

Il rito di purificazione.

Cioè condannare una Maledizione.

Cioè ammazzare una persona.

No, no e no.

Yèlveran non poteva aver pensato una cosa del genere, figuriamoci essersi offerto di farla.

Heze lo aveva visto diventare triste, quel giorno in cui gli aveva detto «Tocca a noi Persuasori uccidere le Maledizioni, la chiamiamo Purificazione ma è un omicidio» e non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Non era obbligato a rimanere incastrato in una situazione che gli avrebbe fatto solo del male: aveva mille modi per defilarsi, viaggiava in incognito, aveva già una missione da svolgereGli sarebbe bastato fare finta di niente e nessuno gli avrebbe chiesto niente.

Ma lui poteva affermare con certezza che Yèlveran non volesse svolgere quel compito? Lo conosceva abbastanza?

In fondo era un Persuasore, dunque lui stesso, nell’intraprendere la strada che si era scelto, doveva aver fatto le sue valutazioni: doveva aver accettato che potesse accadere anche questo.

Cercò il suo sguardo per ricevere un segnale, ma gli occhi di Yèlveran erano vuoti e distanti.

L’uomo armato, invece, si era fatto piccolo piccolo e l’autorità che le armi gli avevano conferito fino a un attimo prima sembrava essersi volatilizzata.

“Vi saremmo immensamente grati, signore… La vostra presenza qui è una grazia del cielo… ”

Anche Mantog e Neirseim ora guardavano Yèlveran come se non avessero mai trascorso con lui due giorni di cammino, come se non fosse più l’uomo schivo e gentile a cui lei aveva rifatto la fasciatura, l’uomo che arrossiva e abbassava gli occhi e che si perdeva nei suoi pensieri così a fondo da non accorgersi se qualcuno gli stava parlando: la sua stessa identità era capace di creare una voragine tra lui e gli altri, ed Heze si domandava quanto egli stesso non fosse vittima di quella suggestione.

“Credo che possiate fermarvi per la notte come speravate, se la Guardia cittadina lo riterrà opportuno” disse Yèlveran, senza rivolgere uno sguardo ai due compagni di viaggio “Non intendo eseguire un rito di purificazione in un centro abitato. Porterò la Maledizione in un luogo adatto all’installazione di un confine sicuro. Heze, aspettami qui.”

Sei impazzito, Yèlveran? Stai andando a eseguire una condanna a morte e tutto ciò che hai da dirmi è “aspettami qui”? Come se non ci fosse nulla da aggiungere? Come se fra qualche ora il nostro viaggio potesse continuare da dove si è interrotto? Come se io e te potessimo rimanere gli stessi, dopo…?

Avrebbe voluto urlargli tutto questo in faccia, ma non poteva, non davanti a tre testimoni, non se Yèlveran continuava ad evitare di guardarlo negli occhi. Così mise in parole il solo pensiero che fosse lecito, ed era un pensiero sincero, ma era anche l’ultimo.

“Non credi che interagire con una Maledizione da solo sia pericoloso?”

“La Guardia cittadina fornirà tutto il suo supporto!” si intromise l’uomo.

Yèlveran si strinse appena nelle spalle, ma di nuovo non si voltò indietro.

“Mm. No. Non mi serve.”

“Ma, signore…”

“Non mi servite. Non eseguo riti-spettacolo. E non sono in pericolo. Vi prego di non parlare di cose che non sapete.”

“P-perdonatemi.”

L’uomo chinò il capo e gli fece cenno di seguirlo.

“Voglio venire con te!” gridò Heze, e non sapeva se lo voleva davvero, forse sperava solo di scoprire che stava bluffando, o almeno di vedere qualcosa che lo aiutasse a capire: anzi, no, che smentisse il più atroce dei suoi dubbi, quello di non aver capito proprio niente, di non conoscere affatto la persona che aveva davanti.

“Preferirei evitarlo…” per un attimo la sua voce tornò ad essere quella di sempre, vaga e esitante, poi si fece di nuovo fredda “Ti ordino di restare qui, Heze.”

 

La Maledizione era stata confinata dentro la sua abitazione, una piccola casa di sasso ai margini del paese. Intorno al perimetro c’erano sette uomini armati, a cui si aggiunse quello che era con lui. Due di loro tenevano, ma con scarsa fermezza, immobilizzato un uomo, che si dimenava piangendo e supplicando. Yèlveran si sforzò di studiare la situazione, ma il suo accompagnatore lo precedette.

“È il padre. Non accetta che la figlia sia una Maledizione. Vi prego, siate comprensivo con lui…”

Yèlveran distolse lo sguardo per mettere distanza tra sè da quella violenza emotiva; doveva tenere a bada le sue, di emozioni, doveva chiudere tutte le serrature: come poteva essere comprensivo verso quelle degli altri?

“Avete individuato di cosa la Maledizione è capace?”

L’uomo abbassò la voce, intimorito dalle sue stesse parole.

“Ha spento il fuoco con gli occhi.”

“Mm. E ne avete la certezza? Una fiamma può smorzarsi per molte ragioni.”

“Nessun dubbio, signore. L’abbiamo costretta a rifarlo.”

Yèlveran si passò una mano tra i capelli e si rese conto del sudore freddo che gli bagnava la fronte: quegli uomini non volevano essere crudeli, temevano davvero chissà quali sventure per la città, si preoccupavano che fosse usata clemenza al padre, parlavano con la franchezza di chi pensa di aver agito bene, eppure era proprio quella buona fede a renderli spaventosi.

Costretta a rifarlo.

“È un potere con cui non può aggredire. Tutta questa gente schierata qui è superflua. Vi prego di andare via.”

“Ma signore, per la vostra sicurezza…”

Yèlveran si sforzò di rivolgergli lo sguardo più autoritario di cui fosse capace.

“Credete forse che un Persuasore non sia in grado di gestire una Maledizione così innocua?”

L’uomo deglutì, poi annuì vigorosamente e riferì l’ordine ai compagni, ma il padre della Maledizione – una bambina? Una ragazza? Chissà che età aveva, come si erano risvegliati i suoi poteri, cosa stava provando adesso... – si divincolò dai due che lo tenevano a distanza e, prima che chiunque potesse fermarlo, si gettò a terra, ai suoi piedi.

“Vi prego! Non ha fatto niente! Non farà mai più niente! Baderò io a lei… ce ne andremo lontano…lontano dagli uomini, lontani da tutto…!”

Uno dei presenti fece il gesto di trascinarlo via, ma lui lo respinse con violenza.

Yèlveran portò una mano all’altezza del fianco e premette sulla ferita: lasciò che il dolore si prendesse per qualche attimo la sua attenzione per non consentire alle emozioni di quel disgraziato di arrivare fino a lui.

“Lasciatelo rimanere.” disse “La Grande Legge concede il diritto all’addio persino ai peggiori criminali. Non temo di portarlo con me.”

Invece forse avrebbe dovuto. Cosa poteva essere capace di fare chi sta per perdere un figlio? In realtà non lo sapeva. Di solito i familiari delle Maledizioni si affrettavano a prendere le distanze, temevano chissà quale colpa o contaminazione, dimenticavano di essere stati genitori, fratelli o sorelle. L’amore disperato di quell’uomo era pericoloso, come tutti i sentimenti dai nomi antichi e potenti. Avrebbe dovuto guardarsene e averne paura.

Fece largo sulla soglia affinché il padre entrasse per primo e in un battito di ciglia quello corse a mettersi tra lui e la figlia, nascondendola tra le braccia.

“Non è il momento di fare sciocchezze.” disse Yèlveran, cercando di mantenere la freddezza che ci si aspettava dal suo ruolo, soprattutto in un momento del genere “Devo portarvi fuori dal paese, per la tranquillità di tutti. Non farmi pentire di averti concesso di esserci.”

L’uomo non si mosse.

“Non le farete del male senza farne a me. Uccideteci entrambi.”

Yèlveran diede in un lungo sospiro, appoggiando le spalle contro la porta chiusa.

“Oddio, che fatica! Che tu voglia commuovermi o votarti all’estremo sacrificio, potresti farlo quando ci saremo allontanati da qui?”

L’altro rimase per un momento spiazzato e sciolse lentamente l’abbraccio. Ora Yèlveran poteva vedere bene chi era la tanto temuta Maledizione, una bambina che poteva avere cinque anni, piccola e minuta, con due enormi occhi scuri sgranati e stupefatti. Non doveva capire niente di ciò che le accadeva intorno, ma avvertiva il terrore e la sofferenza del padre e di conseguenza piangeva.

Yèlveran abbassò la voce.

“Non c’è niente di più pericoloso delle azioni di una folla spaventata, e subire un linciaggio sarebbe molto peggio, per te e per lei, di qualsiasi cosa possa farvi io.”

 

Stava scendendo il crepuscolo.

Yèlveran lasciò la strada principale e si inoltrò lungo un sentiero che curvava per tornare verso le montagne, fino ad andare a morire nel bosco. Nonostante non fosse ancora buio, sotto le chiome degli alberi sembrava già notte. Lo precedevano un uomo e una bambina, ma appariva evidente che era Yèlveran a decidere la strada: i due lo anticipavano esitanti. Chi dei due era la Maledizione? Heze non riusciva a capirlo, ma era anche l’ultimo dei suoi pensieri.

“Yèl…” si morse la lingua, bloccò le sue parole, ma non i passi che lo spinsero a fianco del suo amico “Ti prego, no.”

Lo afferrò per il polso, quasi che trattenendo lui potesse trattenere le sue intenzioni.

Yèlveran sbatté gli occhi, come se quel gesto lo avesse improvvisamente svegliato da un sogno.

“Heze…? Che fai qui?”

L’uomo ebbe per un attimo l’istinto di correre via, poi trasse a sé la bambina e restò fermo, impotente, spaventato.

“Ti prego. Tu non vuoi fare questo. Non sei fatto per questo.”

“Ti avevo chiesto di aspettare.”

“Aspettare che tu faccia una stronzata di cui ti pentirai?” lo afferrò per le spalle e gli diede una vigorosa scrollata “Ma porca puttana! Mi hai detto che non sei d’accordo! Che il rito di purificazione per te è…”

“Vuoi stare zitto?!”

Heze lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, pietrificato. Era la prima volta che lo sentiva gridare, la prima volta che imprimeva violenza alle sue parole, che non riusciva a tenere sotto controllo il timbro sempre così dolce della sua voce.

“Ti avevo promesso di non coinvolgerti. Ci ho provato in tutti i modi. Ma tu me lo impedisci e finisci sempre per pretendere più di ciò che devi! Non sai un accidente, Heze!”

“So che stai per ammazzare una persona!”

“MA CERTO CHE NO!”

Certo che no.

Certo che no, aveva detto.

Anzi, lo aveva urlato.

Come se una stretta morsa gli avesse appena liberato la gola, Heze emise un profondo respiro.

Yèlveran invece era rimasto immobile, spaventato dalla sua stessa reazione.

L’uomo si strinse alla figlia, ma i suoi occhi ora osservavano la scena con un po’ di curiosità in più ed un po’ di terrore in meno.

“Va bene.” mormorò Yèlvaran, massaggiandosi le tempie con le dita “Va bene, ormai ci sei. Allora, per favore, rassicura tu questi due, che io non sono capace.” ad un tratto sembrava che tutta la stanchezza del mondo gli fosse piombata sulla schiena “Ho bisogno… che la tensione diminuisca… altrimenti per installare il confine ci metterò tutta la notte.”

Non aspettò neppure la risposta e tornò indietro di qualche passo: Heze lo guardò mentre si chinava sulle ginocchia a studiare chissà quali piccoli dettagli nell’erba per visualizzare – avrebbe detto lui – lo spazio immaginario che voleva circoscrivere… Quella volta non stava procedendo in tondo, ma era come se volesse tracciare una linea retta perpendicolare alla fine del sentiero.

“Che cosa significa questo…?” azzardò ad un tratto l’uomo.

Heze gli fece cenno di abbassare la voce.

“Se mi ha detto che vi devo rassicurare,” disse “allora significa che potete sentirvi rassicurati.

“È… veramente un mago? O ha mentito?”

“Oh, se lo è!”

“Un mago che non giustizia le Maledizioni?”

Heze sorrise.

“A quanto pare…”

 

Yèlveran non si era mai stancato così tanto nell’installare un confine, e non solo per il fatto che quello era il confine più lungo e più persistente che si fosse mai trovato a costruire, ma anche perché non riusciva a mantenere costante la concentrazione. Quei due sarebbero riusciti a salvarsi senza metterlo nei guai? Ed Heze? Come avrebbe fatto a tenerlo al sicuro da ciò che adesso sapeva? Luxei cosa avrebbe pensato? Il suo gesto poteva aver compromesso la missione che gli era stata affidata? Si lasciava turbare da ogni rumore. Lo distraevano il soffio del vento, l’umidità che saliva dalla terra, il canto di qualche uccello della sera, persino la silenziosa presenza dei tre: erano distanti e immobili, ma gli sembrava di sentire ogni loro respiro, i battiti dei loro cuori, persino i loro pensieri.

Quando ebbe terminato, si era fatto buio pesto: non aveva idea del tempo trascorso, probabilmente ore. Si sentiva sfinito.

Tuttavia girò le spalle al suo lavoro, indossò la sua espressione più neutra e tornò dai compagni.

“Scusate l’attesa.”

Heze e i due si erano accovacciati per terra tra un albero e l’altro e la bambina si era addormentata con il capo posato sulle gambe del padre. Quando Yèlveran si sedette vicino a loro, quest’ultimo si irrigidì e portò istintivamente una mano a proteggere la testa della figlia, ma sostenne lo sguardo.

“Voi… volete veramente aiutarci?”

Yèlveran non rispose alla domanda, si massaggiò ancora una volta la testa, poi la appoggiò tra le mani e lo guardò a sua volta.

“Ascolta bene le istruzioni. Adesso devi rimanere qui per un po’: le voci sulla comparsa di una Maledizione si spargono sempre in fretta e voi due non potete correre il rischio di farvi trovare su una strada, qualcuno potrebbe riconoscervi. Non allontanarti da questo punto, neppure di pochi passi: ho modificato la percezione del sentiero che porta qui e nessuno può vedervi. Dopo che io ed Heze ce ne saremo andati, farò lo stesso alle nostre spalle. Ti sembrerà che il paesaggio si confonda, ti sembrerà di non essere dove pensavi e forse la bambina si spaventerà, ma mantieni il controllo e aspetta che il confine svanisca da solo. Passerà del tempo, forse un paio di giorni, forse di più: pazienta. Quando comincerai a riconoscere il luogo, allontanati più velocemente che puoi evitando la strada da cui siamo venuti, anche a costo di attraversare il bosco a piedi. Non percorrere le vie principali, evita i centri abitati, e soprattutto tieni a bada il potere di tua figlia.”

“T-tenerlo a bada…? Come posso, io…”

Yèlveran lo interruppe con un cenno della mano.

“I poteri delle Maledizioni, a differenza delle Persuasioni, pare abbiano una forte componente istintiva: non ne sappiamo abbastanza per formulare teorie, ma determinate emozioni li attivano, o almeno li amplificano. Al momento, autocontrollo e isolamento sono i soli consigli che posso darti. Relazionati con meno gente possibile e dirigiti verso l’Oltrefrattura: quando sarai là, cerca un posto che si chiama Villanuova e aspetta. Vi troverò io.”

Non gli diede tempo di reagire e si rivolse ad Heze.

“Puoi spiegargli la strada che ti sembra migliore?” cambiò tono all’improvviso abbozzando un sorriso confuso “E poi… emh… Forse dovremo lasciargli qualcosa da bere o da mangiare… e una coperta per la notte… A questo non ho proprio avuto il tempo di pensare…”

Senza aspettare risposta, si mise a frugare impacciatamente tra le borse.

L’uomo lo osservò per un po’, e mentre lui tirava fuori a casaccio oggetti, abiti e cibarie, sentì le sue spalle farsi leggere e tutta la paura scemare.

Scoppiò a piangere.

“Voi siete una benedizione!” singhiozzò “Sarò vostro debitore per sempre!”

Yèlveran spalancò gli occhi, al tempo stesso sorpreso e turbato.

“Io… emh… No. Nessun debito.” si schermì “Però… ti potresti commuovere dopo che ce ne siamo andati? Le lacrime mi mandano la testa in confusione ed io devo ancora tracciare un altro confine, e sono tanto, tanto stanco!”

 

Era quasi l’alba quando il secondo confine fu installato e Yèlveran ed Heze si ritrovarono finalmente soli.

“Mi sa che dobbiamo trovare un’altra strada… un giro un po’ più largo, credo.”

Heze non riusciva a smettere di fissarlo: aveva l’aspetto di chi non dorme da giorni, ma il suo viso si era rasserenato ed ora parlava di cosa fare e dove andare con assurda naturalezza, quasi che non avesse appena fatto la cosa più pazzesca che lui avrebbe mai potuto anche solo immaginare di vedergli fare.

Aveva salvato una Maledizione.

Aveva infranto la Grande Legge.

“Scusami… ” disse “Scusami di aver pensato che…”

“Hai pensato quello che dovevi pensare. Se non lo avessi fatto mi avresti messo nei guai davanti a quella gente e adesso saremmo in un enorme pasticcio. Io non sono bravo a fingere, figuriamoci a mentire…”

Non era vero, aveva finto tante volte, da quando lo conosceva: aveva finto di poter uccidere un uomo in trentatré ore, finto di saper leggere nella mente, finto di essere in grado di eseguire una condanna a morte. E soprattutto fingeva ogni giorno un distacco e una freddezza che non possedeva.

“È che tu mi spiazzi sempre, Yèlveran.” buttò là, di getto “Sei coraggioso, sei altruista, sei… straordinario. E non ti posso capire. Ti posso solo ammirare.”

Lo pensava davvero.

Non aveva mai ammirato tanto un altro essere umano, e allo stesso tempo nessun altro essere umano era mai stato per lui così difficile da comprendere.

Yèlveran socchiuse gli occhi e sospirò.

“Essere sopravvalutato è un peso che non desidero portare.”

Heze fece per controbattere ma l’espressione sul volto dell’altro lo trattenne. Fu lui a riprendere a parlare.

“Oggi ti ho reso complice di un crimine. Se un Persuasore di Ricordi leggesse la tua mente, saresti condannato a morte all’istante. Le cose sono diverse, per me. Io sono uno di loro, riceverei un trattamento diverso. La pena più grave che potrebbero infliggermi sarebbe cancellare l’evento dalla mia memoria ed esiliarmi in una lontana enclave dell’Oltrefrattura… dove di fatto già vivo. Non c’è niente di straordinario nel privilegio, Heze.”

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Capitolo 21
*** Il giorno dei dubbi ***


Meirem si sentiva colpevole: le informazioni che Xau stava riferendo portavano collera e dolore sul volto di Iruvàn, ma lei non riusciva a guardare più in là della propria piccola gioia per averlo rivisto così presto. L’urgenza di ricevere quelle notizie lo aveva spinto a lasciare ancora una volta l’enclave per incontrarsi con loro: Meirem sapeva che ogni volta i rischi divenivano maggiori e che un solo sospetto avrebbe potuto mandare in malora il lavoro di una vita, ma il suo cuore era caldo e i suoi occhi inchiodati negli occhi dell’uomo che amava oltre ogni ragionevolezza.

Si erano riuniti in un luogo in cui lei non era mai stata, e per la prima volta era stata ammessa al cospetto di Yurlan e Xeiratog, i due Persuasori di cui i gemelli le avevano parlato e dei quali, fino ad allora, non aveva conosciuto il nome. Erano solo in cinque: nessun’altra tra le Maledizioni era stata invitata. Meirem se ne sentiva orgogliosa ma al tempo stesso intimidita, e celare quest’ultimo sentimento le costava un grande sforzo.

Xau parlava meccanicamente, sforzandosi di impedire al proprio giudizio di influenzare le visioni che aveva ricevuto: bastavano già i sentimenti di suo fratello a rendere la trasmissione particolarmente inquinata. Dei due, quest’ultimo era il più appassionato, e, per quanto Xau fosse abile nel mantenere le loro menti separate, il turbamento di Leu passava attraverso di lui.

“Luxei ha detto che se ne chiama fuori. Che non ci aiuterà né ci ostacolerà. Ma Leu era convinto che gli stesse mentendo.”

Yurlan e Xeiratog si scambiarono uno sguardo grave.

“E tu cosa credi, Xau?” chiese Iruvàn “Concordi con tuo fratello o ritieni che il suo sospetto sia stato falsato dalle circostanze?”

“Certamente in quel momento le sue capacità di valutazione erano annebbiate. Ma alcune informazioni da lui raccolte potrebbero dargli ragione. Ha indagato un po’ e…”

Il volto di Iruvàn si annuvolò e Meirem lo vide stringere i pugni fino a farsi diventare rosse le nocche delle mani.

“Aveva l’ordine di tornare subito indietro. Non ha la discrezione giusta per fare domande ed il suo volto non è facile da dimenticare. Non doveva parlare con nessuno!”

Xau sussultò, quasi che il rimprovero fosse rivolto a lui. Iruvàn non era uomo facile all’ira, ma le alterazioni del suo umore erano così intense che facevano vibrare l’aria.

“È vero, ma lo ha fatto.” dichiarò Xau, con un’ammirevole ripresa di sicurezza “Perciò sei tu a dovermi ordinare di riferirti ciò che ho visto o meno.”

Fu Yurlan a intervenire.

“Dicci tutto. Un paio di occhi sul posto sono molto più preziosi di mille congetture.”

Per un attimo Meirem ebbe il timore che Iruvàn si sfogasse sul compagno, invece rimase calmo, mentre la rabbia si agitava e ruggiva sotto la superficie: intrappolata, sotto il suo controllo. Si lasciò cadere stancamente su una poltrona e, con un cenno della mano, invitò Xau a parlare.

“Leu non ha più visto Luxei dopo quel giorno. Lui non ha più lasciato l’enclave e Leu non si è spinto troppo vicino, dunque nessun altro Persuasore lo ha incontrato. Tuttavia ha raccolto notizie in paese ed ha scoperto una cosa che forse merita attenzione: qualcuno, dall’enclave, quasi un mese fa ha ingaggiato un ragazzo alla stazione di posta, per consegnare un messaggio. Un dettaglio – ovvero che nessuno gli abbia saputo fare una descrizione di questo qualcuno – ha insospettito Leu sulla possibilità che sia stata utilizzata la Persuasione dei Ricordi. Ha fatto delle domande in giro e gli risulta che un messaggero locale sia effettivamente partito in quei giorni e non ancora rientrato. Si chiama Heze, capelli rossi, di etnia eshkarti, facile da notare: a Villanuova lo conoscono tutti. Ma c’è dell’altro: un tizio della zona dice di aver accompagnato questo giovanotto col suo carro fino alle pendici dei Monti di Vetro, e che non viaggiava solo. Era insieme ad un uomo anche lui giovane, che non aveva mai visto prima, un tipo schivo, di poche parole. Dice che i loro bagagli facevano pensare ad un viaggio piuttosto lungo. Leu teme che Luxei possa averci tradito ed aver deciso di sabotare il piano mettendo in guardia le Famiglie: non si è mosso di persona per non insospettirci.”

I tre Persuasori si guardarono, e per un attimo fu come se nessuno potesse penetrare la loro intesa, come se attorno a loro si fosse alzata una fortificazione.

Una fortificazione da cui, però, un uomo era appena uscito.

Luxei, il Persuasore di Ricordi.

Meirem aveva intuito dalle parole di Xau – e l’atteggiamento di Iruvàn lo confermava – che il rapporto tra loro era in qualche modo speciale. Per questo, nelle sue fantasie, Meirem lo percepiva come una specie di usurpatore: avrebbe voluto conoscerlo di persona solo per distruggerne il mito, per rubare il suo posto. Ma era difficile odiare gli assenti, e Iruvàn, davanti a lei, non ne aveva mai parlato: come si poteva essere gelosi di un uomo che non veniva nemmeno nominato? Eppure adesso ne sentiva la presenza, sentiva lo spazio che occupava e persino quello che aveva lasciato vuoto: se anche avesse potuto sostituirsi a lui, la sua piccola esistenza sarebbe stata troppo esile per riempirlo.

“Forse Leu sta solo dando troppa importanza alle scelte di un uomo vecchio e stanco, che non ha più nessuna voglia di combattere una guerra.” disse.

No, non era così. Che le era saltato in mente?

Leu era intelligente, percettivo, sensibile: Leu ci vedeva quasi sempre giusto, non poteva essersi sbagliato.

Ma lei desiderava che Iruvàn non gli credesse, che l’assenza di quel Luxei tornasse ad essere un dettaglio procrastinabile, che Iruvàn non fosse turbato, che Iruvàn lo ignorasse, che a Iruvàn bastassero loro, che gli bastasse lei. Che nulla cambiasse.

“Forse.” disse Yurlan “Ma da quel forse dipende il nostro piano. Io credo che dobbiamo prepararci al peggio anziché adagiarci sul meglio.”

Meirem cercò un appoggio nello sguardo di Xau, ma trovò solo un’espressione greve, rassegnata.

“C’è qualcosa che non comprendo.” insistette “Se anche questa storia avesse un senso, qual è il ruolo del secondo viaggiatore?”

Iruvàn si alzò dalla sua poltrona e, nel rispondere a lei, si rivolse a tutti come se stesse parlando ad una platea: la rabbia sotto la superficie si agitava e impazziva, Meirem riusciva a vederla.

“Gli servivano il messaggero ed il messaggio.” dichiarò “Se conosco Luxei… se conosco ancora Luxei, il giovane del servizio postale è solo il mezzo: l’altro uomo è il messaggio. Luxei avrà usato il meccanismo del Ricordo Sepolto, ma per far funzionare al meglio la tecnica deve essersi servito di qualcuno che gli ha concesso fiducia volontaria. È come per la Persuasione del Cuore: per garantire durata e intensità ci vuole collaborazione, e Luxei non poteva riceverla da un ragazzo comune che non sa neppure di che si tratta. Avrà ottenuto la complicità di un comperso dell’enclave, e questo rende tutto più grave perché significa che abbiamo già un fianco scoperto. Ma se – se – davvero conosco ancora Luxei, lui non è il tipo di uomo che distribuisce fiducia a mari e monti, dunque il suo inviato potrebbe essere ancora l’unico a conoscenza del piano.”

Nel suo sguardo brillò una luce cupa, che riverberò negli occhi degli altri due Persuasori.

“Non abbiamo molte scelte.” constatò Xeiratog.

Questa volta fu Xau a non capire, mentre Meirem aveva capito benissimo. Tutta quella rabbia non poteva rimanere lì: cercava uno sbocco da cui uscire.

“Che cosa facciamo?”

Iruvàn lo guardò con sufficienza.

“Li troviamo, confermiamo l’ipotesi e poi uccidiamo entrambi.”

Yurlan fece un passo avanti.

“Me ne occupo io.” si offrì “Sono il più libero di muoversi e il più adatto ad ottenere la verità,” fece una smorfia sarcastica “dato che a quanto pare non abbiamo un Persuasore di Ricordi tra noi. Xau, tu vieni con me.”

“Perché proprio io?”

“Sei veloce, silenzioso, e poi… potrebbe diventare necessario comunicare rapidamente con l’Oltrefrattura…”

Xau cercò lo sguardo di Iruvàn, forse aspettando una smentita. Che non arrivò.

 

Meirem non riusciva a capire cosa fosse preso al suo amico e come fosse possibile che Iruvàn non se ne fosse accorto.

“Perché hai accettato? Se non volevi questo incarico, dovevi dirlo: Iruvàn ti avrebbe ascoltato!”

Invece se ne era accorto eccome, e Xau lo sapeva: era lei che non riusciva a concepire l’idea che lui potesse ignorarli, avere altre priorità che non fossero “i suoi ragazzi”, concentrare le sue energie su qualcosa che li escludeva.

“Non avrebbe ascoltato affatto. Tu non lo conosci come credi. Se si parla di Luxei, perde il senso della realtà… Anzi, forse è stato Luxei stesso a farglielo perdere molto tempo fa!”

“Che significa?”

“Iruvàn è Persuasore d'Aria, Meirem. La Persuasione dell’Aria è la più potente delle arti: non agisce sui singoli individui, agisce sulla massa, dunque ha un’influenza molto più grande. È gemella della Persuasione dei Confini, ma mentre questa modifica solo la percezione dello spazio, la Persuasione dell’Aria modifica quella degli eventi e dei sentimenti ad essi associati: il Persuasore d'Aria ha un potere politico incommensurabile! Domandati come sia stato possibile che Iruvàn, un ribelle, un congiurato, sia entrato in un’elite del genere. Ciascun Persuasore d'Aria è sottoposto ad un controllo costante: devono essere tutti perfettamente allineati, tutti leali al sistema, ogni forma di pensiero autonomo non è tollerata. Lettura della mente, spionaggio, interrogatori sono alla base del loro addestramento. In che modo credi che lui sia riuscito a fregarli tutti?”

Perché è un uomo eccezionale, avrebbe risposto solo il giorno prima. Ma ora le cose le erano dolorosamente chiare.

“Luxei ha manipolato la sua mentre affinché fosse ammesso all’enclave.” proseguì Xau “In seguito, ha imposto a tutti noi e a se stesso un sigillo sul ricordo dei nostri intenti, sigillo che si è sciolto poco tempo fa, perché questo è l’anno giusto. Ma senza il sigillo, Iruvàn non è al sicuro in quel covo di spie. Capisci perché è così adirato? Luxei avrebbe dovuto essere qui e riprendere a proteggere la sua mente fino all’arrivo del nostro momento.”

“Quale momento?”

“La Celebrazione dell’Umanità. È in quel giorno che agiremo.”

“Perché?”

Xau sbuffò e sul suo volto comparve quella usuale espressione che sembrava dire non sai proprio niente tu, ma era falsa e forzata: non aveva voglia di scherzare con lei, aveva i pensieri altrove, chissà se era in contatto con Leu, chissà se Leu, in quel preciso istante, poteva vedere il seme del dubbio appena spuntato sul volto della sua «terza sorella».

“È meglio che non ti dica altro. Fidati di Iruvàn. Se non ti ha spiegato tutto, è perché ogni persona che sa è un punto debole in più. Soprattutto adesso che siamo in pericolo.”

Chissà se Leu poteva udire quella domanda.

“E tu ti fidi di lui?”

“Certo che sì!”

“Allora perché hai accettato di svolgere un compito che ti fa paura?”

“Non ho paura.”

Troppo veloce nel negare. Troppo irruento, per essere il rigido Xau.

“Ne hai eccome. Sarò anche l’ultima ruota del carro, ma so leggere i sentimenti quando li incontro. Soprattutto se li conosco bene. Tu hai una paura fottuta, ed io voglio sapere di cosa, perché è la prima volta che ti vedo spaventato da quando ti conosco.”

Lui scrollò le spalle, come a scacciare di dosso un peso.

“Xau!”

Meirem gli afferrò il volto tra le mani e lo costrinse a guardarla negli occhi: aveva la pelle liscia come la seta e le gote calde, le sembrò all’improvviso fragile, indifeso.

“Non voglio lavorare con Yurlan, d’accordo?”

“Perché?”

“Non ci sono altre parole nel tuo repertorio oggi?”

“E a te sembra il momento per le schermaglie fraterne?”

A Xau sfuggì un pallido sorriso.

“È Persuasore di Sensi. Lavora per i Giudici. Sai che cosa fanno i Persuasori di Sensi al servizio dei Giudici?”

Lei scosse la testa: della Persuasione dei Sensi sapeva solo che serviva per togliere alle Maledizioni la percezione del dolore nel momento della condanna a morte, ma, in un mondo ideale, pensava che avrebbero dovuto trovarsi al fianco di feriti ed ammalati per alleviare le loro sofferenze.

“Interrogano e ottengono confessioni.”

“Nel senso che le estorcono?”

“Esatto. I Persuasori di Sensi sono ricercatissimi come torturatori e Yurlan non fa eccezione. Dice che è una buona copertura, finché i tempi non cambieranno. Ma io ho sempre avuto l’impressione che… che un po’ se ne compiacesse, ecco. Per questo non mi piace lavorare con lui. E poi… se Luxei ha fatto le cose come Iruvàn sostiene, perché dovremmo ammazzare anche il messaggero? Magari non ha la più pallida idea della storia in cui si è messo, magari per quel disgraziato è solo lavoro. Non mi piace, Meirem. Non mi piace…”

Xau non lo diceva apertamente ma dalle sue parole traspariva un pensiero per lei inaccettabile: quello che Iruvàn stesse sbagliando, stesse condannando a morte due uomini non per necessità, bensì spinto dall’ira e dal desiderio di vendetta. Fino a quel momento, le era parso impossibile che qualcuno potesse anche solo dubitare di lui e provò l’istinto di schierarsi in sua difesa.

Ma la persona che aveva davanti era Xau, il suo amico, il suo fratello.

Per un attimo le parve che il pavimento le ondeggiasse sotto i piedi.

“Mi gira la testa.” disse.

Xau fece spallucce.

“Deve essere per effetto della Persuasione del Cuore. La tua mente va in contraddizione con le reazioni dell’istinto. Capita.”

Lo affermò con freddezza, come si enuncia una legge matematica.

“Io non sono sotto l’effetto della Persuasione del Cuore!” sbottò lei “Iruvàn per me è… ”

“Ma sì, ma sì.” Xau spazzò l’aria con la mano “Non è successo niente, Meirem. Le cose andranno come devono andare.”

 

Quel giorno.

Iruvàn non avrebbe mai dimenticato quel giorno.

Luxei aveva sepolto le sue memorie in profondità più e più volte, ma tornavano sempre a galla, ed andava bene così.

“Nascondi, non cancellare. Il ricordo di Sheun non lo devi cancellare mai. Senza di lui, non posso diventare quel che chiedi. Senza mio rancore, non sarò mai l’uomo che vi serve.”

Iruvàn e Sheun erano stati più che fratelli: nati nella stessa strada, nello stesso mese, cresciuti insieme, non c’era stato momento, prima di quel dannato giorno, in cui Irùvan si ricordasse solo.

Sheun era sempre stato un bambino intelligente, per questo, probabilmente, nessuno aveva collegato la sua capacità di ritrovare le cose ad un potere soprannaturale. Poi però c’era stato il furto in casa della vedova e lui aveva indicato con esattezza dove il ladro aveva nascosto il bottino: la gente si era spaventata, la voce era arrivata ai Persuasori, e la tragedia gli era piombata addosso.

A quel tempo, Iruvàn non aveva chiaro che cosa significasse essere una Maledizione: il paese era piccolo e sperduto, neppure gli adulti, benché si riempissero la bocca di miti e leggende terribili, sapevano davvero come funzionasse la Grande Legge. Così si limitarono a tenere Sheun chiuso in casa, in attesa di un giudizio di cui ignoravano la portata. Iruvàn si arrampicava sul tetto, passava per la cappa del camino, ed andava a tenergli compagnia.

“Da quanto sapevi di essere magico?”

“Tu sai arrampicarti sul tetto, io vedo dove sono le cose che si perdono: che differenza c’è?”

“Che arrampicarsi sul tetto è una cosa che sanno fare anche altri: ciò che fai tu è… unico.”

“Invece magari lo sanno fare in tanti e non lo dicono, perché hanno paura.”

“Allora perché lo hai detto?”

“La signora era disperata. Ho pensato che dovevo. Se puoi fare una cosa utile per qualcuno e non la fai, beh… non è bello.”

“Però invece di esserti riconoscenti ti hanno rinchiuso.”

“…”

“Sheun, perché non scappiamo?”

“Non ho fatto nulla di male.”

“È vero. Lo capiranno e ti chiederanno scusa.”

“Però ho paura, Iruvàn… ”

“Ti difenderò io.”

“Dalla paura?”

“Da tutto.”

“Non si può difendere da tutto.”

“Ma non hai fatto nulla di male.”

“È vero.”

“E però hai paura.”

“Sì.”

Sheun era stato condannato a morte pubblicamente, nella piazza del paese.

Solo più tardi, diventando un Persuasore, Iruvàn era venuto a sapere quanto quel gesto fosse stato una violazione di tutte le regole che i Persuasori stessi si erano dati: avevano ammazzato un ragazzino sotto gli occhi dei suoi genitori e dei suoi amici, senza utilizzare un confine; il Persuasore di Cesura gli aveva semplicemente porto un pugnale e gli aveva ordinato di tagliarsi la gola. Davanti a tutti. Lo avevano fatto perché in quell’angolo sperduto di mondo la paura non aveva messo sufficienti radici, il potere era distante, e la Grande Legge una specie di lontana favola.

E Iruvàn quel giorno aveva guardato in faccia tutti e tre: la paura, il potere e la legge, ed aveva giurato di distruggerli.

Aveva creduto di doverlo fare da solo: non aveva chiesto lui a Luxei di aiutarlo, era stato Luxei a tendere la mano per primo, era stato Luxei a chiedere aiuto, e chiedendolo si era assunto una responsabilità.

Come poteva tirarsi indietro e fingere di non aver allungato quella mano?

Non poteva.

Erano reciprocamente incatenati e sarebbero affondati insieme, trascinando a fondo anche coloro che Luxei aveva irresponsabilmente coinvolto.

L’uomo che portava il messaggio, il giovane messaggero.

Non erano vittime di Iruvàn.

 

Meirem bussò alla porta.

Si sentiva a disagio in quel posto, le sembrava troppo grande, troppo ricco: eccessivo. Eppure, emanava un senso di profondo abbandono. Era una di quelle vecchie ville di campagna andate in malora perché nessuno se ne era più preso cura, apparteneva ad un ramo estinto della famiglia del Persuasore che si era presentato come Xeiratog. Si fermò a riflettere su quanto fosse frequente che i Persuasori appartenessero all’alta società: la teoria affermava che per entrare in un’enclave non fosse necessaria nient’altro che la predisposizione ad apprendere l’arte, che si diventava Persuasori perché selezionati da Persuasori, e nel caso di Iruvàn sembrava essere stato effettivamente così… ma questo non le impediva di pensare che i selezionatori stessi concentrassero le loro attenzioni più volentieri tra i palazzi che tra le baracche.

“Puoi entrare, Meirem.”

Iruvàn riusciva sempre a distinguere ciascuno di loro anche solo dal rumore dei passi: le piaceva pensare che si trattasse di una forma di cura e attenzione, ma più probabilmente era stato costretto ad affinare i propri sensi per sopravvivere in un contesto in cui ogni perdita di controllo sul proprio ambiente poteva metterlo in pericolo.

“Ti posso parlare?”

Lo trovò solo, affacciato ad una finestra da cui ormai si vedeva solo il buio della notte. La stanza era ingombra di mobili coperti da teli polverosi e le candele accese, con le loro fiammelle guizzanti, erano l’unico oggetto che sembrava vivo in quel luogo popolato di muffe e fantasmi.

“Non mi devi chiedere il permesso.”

Le sorrise, e per un attimo Meirem trovò i suoi dubbi stupidi ed ingiusti. Però gli occhi di Iruvàn non sorridevano: tutto in lui gridava.

“Voglio andarci io. Voglio accompagnare io Yurlan.”

“Non ci serve. Esporre due persone è già abbastanza.”

“Voglio andarci al posto di Xau.”

“Non puoi. Non hai il suo potere. Come hai ben sentito, un contatto diretto con l’Oltrefrattura potrebbe servirci per ricattare... il traditore.” non pronunciò il nome di Luxei, e la sua fronte si contrasse “Dobbiamo fare le cose con cura, capire chi sa e quanto sa. Loro due sono le persone giuste.”

Meirem ripensò alle parole di Xau e prese coraggio.

“Xau non vuole uccidere nessuno.”

“E tu invece si?”

La guardò dritta negli occhi e lei si sentì rimpicciolire. Sì, pensava, certo che sì, te l’ho detto tante volte che sono disposta a uccidere per la nostra causa, è ovvio che sono disposta, se tu me lo chiedi. Ma le parole non le arrivavano alle labbra.

“Nessuno imporrà a Xau di fare qualcosa che non vuole.”

Ma tu puoi decidere che lo voglia. Il tuo potere lo può fare. Dove sta il confine?

“Meirem…” Iruvàn le si avvicinò e le passò una mano tra i capelli “Tu sei il mio braccio destro, la mia difesa e quella di tanti altri come te. Mi servi qui.” la baciò sulla fronte e sussurrò piano nel suo orecchio “Se un giorno avrò davvero bisogno che tu uccida per me, so che ti troverò pronta. Ma quel giorno non è oggi…”

Dio, perché desiderava solo essere stretta tra le sue braccia? Quell’uomo poteva chiederle ogni cosa, ottenere ogni cosa, e lei in cambio avrebbe voluto solo continuare a rimanergli accanto.

 

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Capitolo 22
*** L'interrogatorio ***


Lafargau era la città più grande che Yèlveran avesse mai visto, nella sua vita adulta. Ormai stavano attraversando le terre dell’est, con le loro ricche campagne, i fiumi placidi e navigabili, i boschi amichevoli, il clima dolce e centri abitati vivaci e popolosi collegati tra loro da una rete di strade sicure. Da quel punto in poi, il viaggio sarebbe stato semplice: in due giorni via carro sarebbero stati a Baozdega, il porto fluviale, e da lì avrebbero raggiunto Feuzte in battello.

Yèlveran era sorpreso della rapidità con cui il panorama era cambiato: oltrepassare i Monti di Vetro equivaleva davvero a varcare una porta tra due mondi diversi.

Le leggende narravano che le regioni del nord-ovest fossero avvolte da un’influenza nefasta, che le Maledizioni avessero rubato l’acqua e il nutrimento alla terra e che il vento soffiasse direttamente dal cuore oscuro della Frattura, ma Heze gli aveva detto che, per quanto la Frattura fosse un fenomeno geograficamente inspiegabile, la siccità dei Monti di Vetro si spiegava invece benissimo: la colpa era del mirdev, un materiale così poco permeabile che impediva alle acque sotterranee di risalire in superficie: per quello le sorgenti si aprivano tutte sul versante est, dove la sua presenza diminuiva. Quanto al vento, era dovuto alla conformazione delle montagne, e lui che ci era stato davvero poteva dichiarare che, vicino alla Frattura, di vento non ce n’era: al contrario, era la sua assenza a rendere quel luogo ancora più inquietante.

Heze sapeva un sacco di cose: nonostante Yèlveran avesse trascorso metà della propria vita a studiare, lui riusciva sempre a stupirlo con qualche storia mai sentita o con le descrizioni vivide ed entusiaste dei luoghi che aveva visitato. Più il loro viaggio si avvicinava alla fine, più pensava a quanto quel ragazzo onesto e solare gli sarebbe mancato.

Erano arrivati in città nel primo pomeriggio, ma concordarono di trascorrere la notte là, così avrebbero dormito comodi e Heze avrebbe avuto tutto il tempo per trovare un passaggio per il mattino successivo; del resto, era una pessima giornata per camminare: già dalla sera precedente aveva cominciato a piovere e i loro abiti erano completamente bagnati.

Si fermarono in una locanda affacciata sulla piazza principale, ben più grande di quelle incontrare nella valle del Lungo, ma più anonima, dove, per una volta, neppure Heze conosceva nessuno. Questo non gli impedì di socializzare rapidamente con diversi avventori, dato che quel posto era veramente affollato: la Celebrazione dell’Umanità aveva messo in cammino molte persone e persino per dormire dovettero accettare di dividere una stanza con altri viaggiatori.

Mentre Heze contrattava per un passaggio fino a Baozdega (cosa che, a quanto pareva, era meno scontata dello sperato), Yèlveran se ne stava seduto un po’ in disparte, godendosi gli abiti asciutti e una tisana calda che odorava di sottobosco, quando si accorse che un uomo lo stava osservando. Gli bastò incrociare i suoi occhi per rendersi conto di essere in pericolo: conosceva quel tipo di sguardo, poteva leggerci la stessa concentrazione che era stata insegnata a lui, le stesse barriere tenute alte per difendere la propria mente dagli altri.

Perché era lì? Perché lo fissava?

La risposta gli balenò in testa in un attimo e sentì il cuore accelerare i battiti.

Veniva certamente da Koudad: era uno dei due Persuasori inviati là (mantieni la calma, darai nell’occhio, respira), avevano trovato la bambina e suo padre (hanno rotto il confine. Possibile?), avevano letto i loro ricordi (conoscono il mio viso, sanno di Heze), li avevano ammazzati entrambi, non c’è pietà per chi si rende complice di una maledizione (mantieni il distacco, dividi i pesi, respira), erano lì per loro, li stavano cercando (Oddio!).

La tazza gli tremava tra le mani. La ripose con lentezza, si alzò con la cautela di chi cerca di non svegliare qualcuno che dorme, mosse il panchetto senza fare alcun rumore, ma in quello stesso istante sentì la voce alle proprie spalle.

“Non fiatare e vieni con me” la punta di un coltello premette sulla sua schiena “Fai quel che ti dico e nessuno si farà male.”

Come aveva fatto a non accorgersi di niente? L’uomo che aveva appena parlato gli si era avvicinato come un fantasma. O era stato lui a perdersi nei suoi pensieri e permetterglielo?

Vide il Persuasore alzarsi a sua volta e venirgli incontro.

Heze.

Doveva proteggere Heze.

Individuò la sua testa rossa tra la folla, incrociò il suo sguardo, le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono.

Scappa.

Vide gli occhi dell’amico rimandargli un’espressione interrogativa, poi, in un attimo, lo vide curvarsi su se stesso e accasciarsi in ginocchio.

Yèlveran si immaginò gridare, ma la mano del suo aggressore gli aveva appena tappato la bocca.

Il Persuasore lo guardò in tralice.

“Non so ancora quale sia la tua arte, ragazzino, ma non ci provare: ho molta più esperienza di te.”

 

Heze non riusciva a capire cosa stesse accadendo: li avevano portati in un casolare disabitato, li avevano separati, lo avevano sbattuto in una stanzetta, gli avevano legato i polsi alla grata della finestra e quell’uomo misterioso con un occhio scuro e un occhio chiaro se ne stava in piedi sulla porta chiusa guardandolo con indifferenza. Da qualche parte tra il petto e l’addome sentiva ancora i residui del dolore atroce che lo aveva fatto piegare in due e reso incapace di reagire. Magia, avrebbe detto solo il mese prima: adesso, invece, cercava di comprendere che tipo di Persuasione fosse stata usata contro di lui.

“Passerà presto.” disse lo sconosciuto, senza partecipazione.

“Sei un Persuasore?”

“No.”

Come a doverlo dimostrare, mostrò entrambi i polsi scoperti.

“Ma il tuo compagno lo è.”

“Evidentemente. A meno che tu non creda di aver avuto un malore accidentale proprio nel momento in cui due persone stavano cercando di prendervi prigionieri.”

“Dov’è il mio amico?”

“Nella stanza accanto, a fare due chiacchiere tra Persuasori senza la presenza di profani.”

“Che volete da noi? Che vi abbiamo fatto?”

“Tu nulla, suppongo. Ma ho bisogno di scoprire quello che sai.”

Heze ebbe un brivido. Forse stava accadendo proprio ciò che aveva temuto Yèlveran: forse volevano capire quanto fosse coinvolto nella liberazione della Maledizione per decidere cosa fare di lui. Forse volevano guardare nella sua testa. Ma l’uomo che aveva di fronte non era un Persuasore. Allora forse il suo complice stava leggendo i ricordi di Yèlveran…

“Voglio farti un paio di domande. Come si chiama l’uomo che accompagni?”

“Perché non lo chiedi a lui?”

“Perché in qualsiasi interrogatorio le stesse domande si fanno a entrambi.”

Parlava con un distacco spiazzante: era come se stesse recitando un copione.

“Non mi ha voluto dire il suo nome. Pare che tra maghi si usi così…”

“Prima hai usato il termine corretto: non fingerti più ignorante di come sei, dammi retta. È molto importante che io abbia chiaro il tuo livello di coinvolgimento in questa storia. Per il tuo bene.”

“Suona molto minaccioso.”

“Lo è.”

Si avvicinò di qualche passo e i suoi lineamenti nella penombra si fecero più definiti. Giovane: doveva avere l’età di Yèlveran o poco più, viso allungato, pallidissimo, mani sottili e nervose, che tradivano la freddezza della voce.

“Senti.” si sedette in terra davanti a lui, incrociando le gambe “Sei finito in una storia più grossa di te, ma forse posso evitare di ucciderti, se mi permetti di capire.”

Evitare di ucciderti. Forse.

Heze aveva corso molti rischi e temuto spesso per la propria vita, ma quella era la prima volta che sentiva parlare così candidamente della propria morte. Eppure, il tempo di digerire quella frase e il suo pensiero era saltato altrove. Quei due non erano lì per i fatti di Koudad: cercavano Yèlveran. No, non lui. Il messaggio che portava alla capitale, quello per cui aveva tutta l’urgenza del mondo, ma di cui non conosceva il contenuto.

“Come si chiama l’uomo che ti ha ingaggiato a Villanuova?” Heze esitò e il tizio dagli occhi spaiati fece un gesto di noncuranza con la mano “Ma sì, non lo sai. Meglio così. Mi è sufficiente che tu me lo descriva e che mi dica esattamente cosa ti ha chiesto di fare.”

Descriverglielo.

Prima ancora di decidere se fosse opportuno assecondare quella richiesta o meno, Heze si rese conto di fare fatica a richiamare alla memoria quell’evento. Certo, qualcuno gli aveva affidato un incarico. Gli aveva anche offerto molto denaro. Lo aveva pagato un anticipo. Che faccia aveva? Quando si erano visti, e dove? La sua mente era come avvolta dalla nebbia. Ricordava solo il suo incontro con Yèlveran, il resto era buio.

Sgranò gli occhi, stordito, e si trovò di fronte quelli dell’altro, sul cui volto si era dipinto un piccolo sorriso vagamente sollevato.

“Meno male!” cantilenò “È stato corretto. Almeno in questo, è ancora la brava persona che ricordo.”

 

Yèlveran temeva quell’uomo.

Aveva occhi notturni e sadici.

Aveva usato la Persuasione dei Sensi su Heze.

Aveva il potere di fargli del male.

“Dunque sei un Persuasore di Confini.” constatò “Qual è il tuo nome?”

Silenzio.

“Ti ho chiesto qual è il tuo nome.”

Luxei glielo aveva ripetuto tante volte: non rivelare il tuo nome ad un altro Persuasore, non permettergli di leggere la tua mente, non far sapere da dove vieni, nascondi il passato, chiudi la serratura.

Sentì un dolore cupo crescere da qualche parte nel suo corpo.

Doveva innalzare tutte le barriere che aveva imparato a costruire, e lo doveva fare in fretta.

Luxei… secondo te si possono confinare le Persuasioni?”

Cosa intendi col confinare le Persuasioni?”

Intendo che… Beh, se le Persuasioni agiscono sulla mente, dovrebbe essere possibile installare un confine intorno alla propria mente. O a quella degli altri…”

Questo presuppone essere in grado di visualizzare la mente.”

O essere in grado di visualizzare cosa la mente fa.”

La trovo una teoria piuttosto ambiziosa, ma se diventi bravo abbastanza, non è escluso che tu possa provarci. Hai un potere molto forte, e noi Persuasori abbiamo un terribile difetto: ci affidiamo alle nostre teorie, e tendiamo a chiamare impossibile tutto il resto. Ma a volte non è impossibile, è solo difficile.”

Luxei… se un giorno qualcuno riuscisse a confinare le Persuasioni, non pensi che potrebbe farlo anche con le Maledizioni? Io, non credi che potrei…”

Yèlveran, per favore.” (la mano di Luxei sui suoi capelli, la calma di Luxei nella sua testa) “Chiudi la serratura. Non invitare i fantasmi. Tieni i pensieri qui.”

“Sei notevole. Chi ti ha insegnato a resistere alla Persuasione dei Sensi?”

Il dolore, appena iniziato, era svanito.

“È stato Luxei?”

Sulle labbra del Persuasore comparve un sorriso subdolo e Yèlveran si rese conto che la sua reazione a quel nome doveva averlo tradito. Era troppo concentrato sul proteggersi per tenere sotto controllo anche le espressioni del volto.

“Come se la passa il buon vecchio Luxei? Non lo vedo da quindici anni…”

Chi era quell’uomo? Se conosceva Luxei, era lì per il messaggio. Eppure era stato attento, aveva viaggiato nel modo più anonimo possibile, non si era mai esposto. A meno che i fatti di Koudad… o persino prima, a Marvino…?

Pensò ad Heze.

In cosa lo aveva trascinato.

E perché Luxei lo aveva ingaggiato esponendolo a quel rischio? Heze era solo un ragazzo che si era faticosamente riguadagnato il diritto ad avere una vita. Non era giusto…

“Qualcosa ti turba, mio caro… e non è ciò che può farti il mio potere. Domanda pure, ti risponderò.”

Yèlveran tacque.

“Puoi anche ostinarti a non parlare: mi dai comunque delle informazioni. Soprattutto perché, se ti concentri sul nascondermi le tue emozioni, non puoi proteggerti dal dolore. Non è forse così? Non puoi controllare tutto, né riuscirci per sempre. Ed io ho un sacco di tempo…”

Aveva ragione. Per quanto si fosse addestrato a chiudere la mente alla Persuasione dei Ricordi, per quanto a volte fosse riuscito persino a resistere alla Cesura di Garlan, il tempo era il peggiore dei nemici, e poi…

E poi c’era la paura.

Paura del desiderio che quell’uomo aveva di fare del male.

Conosceva quel tipo di manipolazione: infliggere dolore per ottenere sottomissione, intimidire per annullare la volontà altrui. La violenza come forma di potere. Le Famiglie. Suo padre.

“Ti dico un po’ di cose io, d’accordo? Sei un comperso di Luxei, un suo allievo, forse. Sì, probabilmente un allievo, sei così giovane… Per questo ti sei prestato al suo gioco: non si dice di no ad un addestratore, giusto? Ti ha chiesto di portare un messaggio per lui, ma tu non ne conosci il contenuto. Ha usato la tecnica del Ricordo Sepolto e tu hai collaborato. Deve essere molto difficile rifiutare le richieste di un uomo carismatico come Luxei. Magari fai tutto questo per guadagnarti la sua approvazione, mentre lui ti sta solo strumentalizzando. Credimi, sapeva benissimo a quale pericolo saresti andato incontro e non se ne è curato.”

Si chinò alla sua altezza e lo fissò dritto negli occhi: Yèlveran avvertì di nuovo quel dolore crescere, si sentiva già al limite delle sue forze.

“Ora, come vedi ho il quadro molto chiaro, dunque so di non poter pretendere da te informazioni che non hai. Ti sto chiedendo solo cose semplici: il tuo nome, dove Luxei ti ha chiesto di andare, e soprattutto, da chi. Tutto qua. È facile, no?”

L’intenzione.

Visualizzare e confinare la sua intenzione.

Era un’intenzione molto chiara: non voleva davvero le informazioni, non erano la sua priorità. Voleva apertamente fare del male.

Che colore ha il desiderio di far male? Come si muove? Che consistenza ha? Che odore?

Visualizzare. Visualizzare.

“Cosa stai facendo?”

Gli occhi del Persuasore si erano accesi di collera e di interesse insieme.

“Tu… Che razza di tecnica è…?”

Yèlveran non udì la domanda.

Vedeva solo quel desiderio crudele e distorto che doveva tenere distante da sé.

Confinare la ferocia del mondo.

 

Xau si era affacciato in tempo per sentire le ultime battute di quel dialogo a senso unico.

Non gli piaceva per niente come stavano andando le cose, non voleva essere in quella situazione e soprattutto non voleva vedere come sarebbe finita.

Il ragazzo eshkarti non sapeva un accidente, di Luxei non ricordava neppure il viso, ma era evidentemente legato al giovane Persuasore: non sarebbe scappato da solo. Quindi il piano di permettergli di fuggire con la sua beata inconsapevolezza era già fallito prima di iniziare.

E Yurlan che diavolo stava facendo?

Avrebbe dovuto solo confermare che il messaggero agiva per conto di Luxei, e poi ucciderlo. Invece si stava divertendo ad allestire uno dei suoi perversi interrogatori, lo stava manipolando, minacciando e torturando, pur sapendo che alla fine lo avrebbe ammazzato lo stesso.

Il prigioniero non aveva detto una parola: aveva due grandi occhi trasparenti, spaventati e al tempo stesso distanti, come concentrati a guadare qualcosa che non era là. Teneva i pugni stretti e tremava: legato a quella sedia, di fronte all’incombenza di Yurlan, sembrava minuscolo. Non doveva avere nemmeno la sua età e non somigliava affatto a tutti i Persuasori che gli era capitato di incontrare nella vita.

L’idea di uccidere un uomo così indifeso gli dava il voltastomaco.

E di cosa lo stava accusando, Yurlan? Di cercare di resistere alla Persuasione dei Sensi? Ma che altro doveva fare?

“Mi hai proprio stufato, piccolo testardo!”

Il Persuasore si avvicinò alla sua vittima, gli afferrò una mano e gli torse un dito fino a spezzargli l’osso. Lui gridò e strinse le palpebre trattenendo le lacrime.

“Vedi? Non ho bisogno di usare la mia arte per farti soffrire. Esistono sistemi molto meno eleganti per sciogliere la lingua di quelli come te! Hai altre nove dita: vediamo quante ne devo rompere prima di sapere chi sei e da chi vai!”

L’uomo biondo sussurrò qualcosa, ma le sue labbra tremavano così tanto che la voce era impercettibile.

“Non ti ho sentito bene.” sibilò il suo carnefice.

Lui prese un paio di corti respiri, in un faticoso tentativo di calmarsi.

“Non posso…” mormorò.

Yurlan afferrò di nuovo la sua mano.

“Basta, finiscila!” sbottò Xau “Non è questo che dovevamo fare, e il ragazzo di là non sa un cazzo!”

Era pronto a affrontare le conseguenze del proprio intervento, ma Yurlan non gli prestò quasi attenzione: i suoi occhi si piantarono invece in quelli del prigioniero, nei quali doveva aver letto qualcosa che gli era piaciuto. Era dannatamente bravo a leggere anche le più piccole espressioni del volto, lo aveva sempre fatto anche con lui e suo fratello: non aveva mai avuto bisogno di apprendere la Persuasione dei Ricordi per impedire agli altri di mentirgli…

“Ma bene! Abbiamo un sentimentale qua!” disse sinistramente.

Poi si rivolse a Xau.

“Vai a prendere quell’altro e portalo qui!”

“Ti ho appena detto che…”

Ma aveva capito benissimo e nessuna argomentazione lo avrebbe convinto.

Perché Iruvàn lo aveva mandato lì, accidenti? E perché lui non si era opposto, perché non aveva seguito il consiglio di Meirem? La risposta era semplice e frustrante: perché era un codardo. Era stato un codardo fin da ragazzo, quando si era messo sotto la protezione di persone di cui aveva il terrore sperando di tenere al sicuro la propria vita, ed era codardo adesso, mentre apriva quella porta, scioglieva la corda che teneva il giovane legato alla grata e lo trascinava alla presenza di Yurlan, condannandolo a morte.

Perché? Per politica? Per rendere giustizia a tutte le Maledizioni che erano stata ammazzate nei secoli? Per vendetta verso Luxei? Per l’orgoglio di tre Persuasori fanatici?

Lui non era Leu: lui non aveva mai desiderato far parte di quel complotto, non gli importava nulla dei giochi di potere, lui avrebbe solo voluto vivere la vita più normale che gli fosse stata possibile nella sua situazione. E non aveva mai ucciso nessuno.

Come aveva potuto Iruvàn aspettarsi che lo facesse? Era stato perverso, cinico, insensibile, aveva preteso una prova di lealtà che non avrebbe mai dovuto chiedergli. Eppure, anche in quel momento, non riusciva ad odiarlo: la sua mente subiva l’influenza della Persuasione del Cuore, ed era stato lui ad accettare che fosse così.

Lo aveva fatto per sostenere suo fratello, per non desiderare di andarsene, per non sottrarsi a quella follia.

Codardo.

Stupido codardo.

Non appena il ragazzo eshkarti si trovò di fronte alla scena e si rese conto dell’espressione di sofferenza sul volto dell’amico, scattò verso Yurlan e Xau lo afferrò trattenendolo a malapena.

“Che gli hai fatto, stronzo! Lascialo andare!”

Lui fece un sorriso sarcastico.

“Il tuo compagno, qui…” disse “non risponde alle mie domande neppure sotto tortura. Piuttosto eroico, vero? Ma sono convinto che mi basterà fare lo stesso a te per fargli subito cambiare idea…”

Il poveretto non fece in tempo a reagire che rotolò a terra urlando.

Xau incrociò lo sguardo del giovane Persuasore: i suoi occhi erano due specchi di terrore assoluto.

“Ti prego…” sussurrò.

Lo stava dicendo a lui. Gli stava chiedendo aiuto.

“Il tuo nome, dove vai e da chi.” ripeté metodicamente Yurlan, senza voltarsi, mentre il ragazzo ai suoi piedi si contorceva nel dolore.

“Ti prego… ”

A Xau sembrò come se, per un momento, quell’uomo si stesse disperatamente sforzando di riprendersi un controllo che non poteva più mantenere.

“A quanto pare non sono stato ancora abbastanza cattivo…”

Il ragazzo coi capelli rossi ansimò come se gli stesse mancando il respiro.

Xau vide gli occhi dell’altro cambiare espressione e ci lesse dentro una specie di rassegnazione arresa: di accettata fatalità.

“Smettila.” disse, e non era più una preghiera.

Era un ordine.

“Il tuo nome, dove vai e…”

La voce di Yurlan gli si inceppò nella gola.

Rimase bloccato, le labbra aperte in una smorfia distorta, con un grido muto intrappolato in bocca.

Dai suoi occhi scesero lunghe lacrime di sangue: poi il sangue schizzò copiosamente fuori dal naso e dalle orecchie, mentre il suo corpo si contraeva e si irrigidiva e infine cadeva a terra tutto d’un pezzo, come una bambola rotta.

Xau sentì una fitta acuta trapassargli la testa: la vista gli si annebbiò, l’udito scomparve, intorno a sé e dentro di sé sentiva solo dolore, un dolore totalizzante e letale.

Non voglio morire, pensò. Non voglio morire qui. Leu. Meirem.

Con la poca forza che sentiva ancora nelle gambe, si mise a correre nel buio assoluto, spinto solo dal desiderio viscerale di rimanere vivo.

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