Dell'oscurità

di __0Chia0__
(/viewuser.php?uid=1186685)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Infanzia ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Frattura ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Gatti e tranquillanti ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - Lampo di cuore in campo di mente ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Era notte fonda. No, era mattino presto.

Shiho Miyano scendeva le scale il più velocemente possibile. Aveva pensato di prendere l'ascensore, ma, proprio per quell'ora così insolita, il rischio di incontrare individui sconvenienti era, incredibilmente, alto. Anche se non era affatto strano, considerando il luogo dove si trovava. Certo, una come lei, lì, c'entrava ben poco. E il vero problema era che loro se ne sarebbero subito resi conto.

Le restava solo l'ultimo piano da scendere.

Poi, sarebbe stata al piano terra. Un breve corridoio e sarebbe arrivata all'entrata, la parte del percorso che più la spaventava. Se aveva avuto una sfacciata -e, decisamente, rara- fortuna, arrivando, adesso non credeva che sarebbe riuscita di nuovo a scamparla senza dover passare accanto a nessuno. Per quanto detestasse ammetterlo, odiava recarsi lì da sola, in special modo di notte, l'orario di più intenso via vai della "divisione operativa".

Ultima rampa.

Soprattutto, si impediva di pensare che quella situazione potesse divenire permanente. Il rapporto periodico andava consegnato dal loro gruppo di lavoro ogni due settimane, tutte le settimane solo a seguito di rilevanti scoperte, mentre il supervisore del progetto andava contattato appena si scoprivano nuovi sviluppi. Gin, tuttavia, non era il tipo da disturbare per un banale passo avanti, di cui, probabilmente, pensava la scienziata, non avrebbe potuto capire il rilievo. Whisky era, in teoria, a capo dei ricercatori, per una mera questione di anzianità, ed era, pertanto, suo dovere consegnare il rapporto alla base dell'Organizzazione, ma capitava, come quel giorno, che delegasse, per "motivi inderogabili", i compiti più importanti a Sherry, il vero genio della ricerca, la prima a iniziare e l'ultima a finire di lavorare, ogni, singolo, giorno.

Shiho esitò ad aprire la porta che dava sull'atrio. Fece un respiro profondo e indossò la maschera di indifferenza che le veniva tanto bene, mentre uno scalpiccio di passi su per le scale le dava la spinta necessaria per abbassare la maniglia.

Poteva percepire qualcuno alla fine del corridoio. Fortunatamente, nella parte opposta alla sua.

L'atrio, come qualsiasi altro edificio dell'Organizzazione, era decisamente oscuro, tanto più di notte. Il pavimento era di marmo nero, le pareti erano state tinteggiate di nero, il soffitto era di un grigio tanto scuro da rendere fioca la debole luce che, in modo ridicolo, voleva rischiarare l'ambiente. Shiho non si sarebbe stupita se, un giorno, i suoi colleghi avessero sviluppato delle lenti che permettessero di vedere al buio, così da permettere di spegnere, definitivamente, le illuminazioni.

Era sempre più vicina all'uscita. Mancavano pochi passi. E non aveva incontrato nessuno.

«Che fortuna incontrarti, Sherry».

Shiho si fermò di colpo. Fortuna? Di certo non per lei. Saranno state le quattro del mattino, doveva tornare ancora a casa ed essere, di nuovo, in laboratorio per le nove, visto che aspettavano i risultati degli ultimi esperimenti alle nove e trenta. Non sarebbe riuscita a dormire per più di quattro ore, quella notte.

«Almeno domani potremo evitare inutili rallentamenti».

Oggi, avrebbe voluto correggerlo. Tra poche ore.

Conosceva quella voce. Ritmo cadenzato, tono basso, timbro terrorizzante, sempre più vicino. E conosceva anche troppo bene le storie che si raccontavano in giro, per non trattarlo con il dovuto rispetto.

Suo malgrado, si girò a guardarlo.

«Gin», disse solo. «Se riguarda la ricerca, forse sarebbe meglio informare Whisky e non me».

Lui ghignò, avvicinandosi, pericolosamente vicino. «Tutti sanno che c'è una sola mente nel vostro gruppo. E quella mente non è sicuramente Whisky».

Sherry si guardò intorno circospetta. Nessun altro, oltre a loro due. Non sapeva se interpretarlo come un buon segno. «Non proprio tutti», sussurrò lei. Effettivamente, pochi collegavano il nome in codice al volto della ragazzina. Gin, al contrario, era inconfondibile: lunghi capelli color platino, occhi verdi dardeggianti e un ghigno da fermare il sangue.

«Non dirmi che hai paura di quella donna».

Shiho scosse le spalle. Forse aveva davvero paura di qualcuno, in quel momento. Ma non di Whisky.

«Soprattutto non ora che è morta».

Un brivido gelido le attraversò la schiena. Questo poteva portare solo una conseguenza per la quale Gin dovesse parlarle. No, essere sola con un assassino non era, chiaramente, un buon segno.

Non sapeva come fosse morta Whisky né perché. Qualsiasi parola da parte sua sarebbe potuta essere, potenzialmente, un rischio. Rimase impassibile.

«La nostra relazione era strettamente professionale, legata alla ricerca. Nient'altro», non mentiva e non dava particolari informazioni che avrebbero potuto comprometterla. Pareva la risposta perfetta. Forse troppo.

«Buono a sapersi», la prese in giro. «Vedremo di fare un controllo in merito. D'altronde, i capi delle ricerche sono membri molto importanti per l'Organizzazione», si chinò su di lei, occhi negli occhi, a poche misere spanne di distanza, parlando, con tono di voce sempre più sottile. «Non potremmo mai rischiare di lasciarli troppo liberi, nella loro vita privata».

Il cuore di Shiho batteva, decisamente, troppo veloce e troppo forte. Una tachicardia quasi pericolosa, si disse. Le ciocche bionde l'avrebbero toccata se solo si fosse spinta avanti di pochi centimetri. Fu la prima a distogliere lo sguardo. Poteva sfidare il suo -da poche ore- diretto superiore, prolungare quello scambio, dare prova del suo carattere, farsi rispettare. Eppure si sentiva, profondamente, stanca, non solo per le poche ore di sonno che si concedeva e che la aspettavano da lì a poco. In quel momento, le pareva più saggio lasciar correre, senza sfrecciare una delle sue solite battute, pur sapendo che se ne sarebbe pentita, poche ore più tardi.

Gin si rimise dritto all'improvviso. La mano sinistra scivolò all'interno del suo trench -Shiho si chiese, per un attimo, se non fosse tutto un bluff, per divertirsi, prima di ucciderla- e le mostrò un badge. Completamente nero.

La ragazza, in trance, infilò una mano nella tasca del cappotto scarlatto. Gli consegnò il suo vecchio tesserino, grigio, con il suo volto sopra riportato, prendendo quello nuovo. Accettandolo. Diventando ancora più complice di quella banda di assassini.

«Specialmente le menti che sono in grado di portarci lontano. Talvolta, il passato ci ha dimostrato che possono essere un tantino volubili, non è vero?»

La piccola Miyano tornò a osservarlo, truce. I buoni propositi sembravano svaniti nel nulla. Sentì la rabbia crescere, quando la reazione di Gin fu divertita. Fece un cenno con la testa e si voltò, dirigendosi nella stessa direzione da cui era venuto. Era stata davvero una casualità? Shiho si affrettò a dirigersi verso l'uscita. Poi si accorse di essere la sola a camminare. Il cuore le si fermò nel petto.

«Buonanotte, Sherry».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I - Infanzia ***


Capitolo I

Infanzia

«Papà, papà, guarda, che cielo brutto!»

«È dicembre, Akemi. Si sta facendo buio».

«Ma le nuvole sono tutte nere!».

Atsushi guardò sovrappensiero in direzione della figlia. Sembrava, effettivamente, che stesse per arrivare una tempesta. Ed Elena non era ancora rientrata. Riportò l'attenzione sul computer, con la mente altrove. Mancavano pochi giorni alla data stimata per il parto e, al passare di ogni minuto, si sentiva sempre più sciocco per averla lasciata uscire da sola, anche se espressamente richiesto da qualche folle superiore. Sua moglie non aveva voluto rivelargli dove stesse andando, né per incontrare chi. “Ho ricevuto una telefonata oggi pomeriggio. È richiesta la mia sola presenza e no, non puoi guidare per me. È una questione di lavoro, Atsushi”, gli aveva solo detto, con un cenno del capo, verso Akemi. Lapidaria. Fredda. Senza dargli possibilità di controbattere. Odiava quando si rivolgeva a lui in questo modo.

Lo schermo del computer diventò nero. Atsushi non si sarebbe nemmeno accorto di aver dato un pugno al bancone della cucina, se Akemi non avesse sobbalzato, emettendo un gemito. I due si guardarono.

Non era giusto. Atsushi era capo del progetto tanto quanto Elena e meritava di presenziare a qualsiasi incontro lo riguardasse. Era suo dovere farlo. Soprattutto, era l'unico dei due che ci avesse lavorato negli ultimi mesi. Certo, Elena poteva tenersi al passo con gli sviluppi e studiare la composizione, ma le aveva vietato di recarsi in laboratorio e di maneggiare sostanze chimiche, potenzialmente tossiche. Lui era il braccio. Lui era la mente. Lui aveva il compito di proteggerle. Tenerle al sicuro, a casa. Anche a costo di litigare ogni giorno e ogni notte. Fuori era troppo pericoloso.

Distolse in fretta gli occhi dalla figlia. Si sentiva malissimo. Per diversi motivi. Per aver lasciato andare sua moglie, una sera di fine dicembre, in un luogo sconosciuto, a incontrarsi con un esponente di un'Organizzazione di assassini. Della quale, per di più, erano membri da diversi anni. Per aver abbandonato la figlia che Elena, incosciente, portava con sé. Per aver spaventato Akemi, per via del suo stupido impulsivo orgoglio.

«Scusa, piccola. Non sono arrabbiato. È solo…» pensò ad Elena. A Shiho. «vedrai che la mamma sarà presto a casa», tentò di convincersi, ad alta voce.

«Lo so. Dobbiamo festeggiare Natale insieme».

Atsushi si passò una mano sulla fronte. «Hai iniziato i compiti?»

«Sì, papà».

«Sei riuscita a fare tutto?»

«Sì, papà».

Era tanto buona, Akemi. Tanto innocente. Tanto bambina. Troppo. Non piaceva all'Organizzazione. Le loro insegnanti l'avevano espressamente detto, a colloquio con i genitori. Non sarebbe riuscita a stare al passo con i loro ritmi di spiegazione, in ben poco tempo. Disegnare e guardare fuori dalla finestra non si addiceva a quanto pretendevano quelle megere.

«Non chiedi mai niente, né a me, né alla mamma. Le maestre sono brave?»

Akemi fece una smorfia, improvvisamente non più sorridente. Era così poco tipico suo. «Sono cattivissime».

«Ma spiegano bene?»

«Non so. Ho sempre avuto solo loro. Tra poco arriverà la pagella».

«Capisci quello che dicono? Riesci a seguire le lezioni? O sono troppo difficili?»

«Sono noiose».

Atsushi si sentiva frustrato. Stava andando contro gli accordi presi con Elena. Avrebbero dovuto discuterne tutti insieme. Ma si sentiva tradito e tradire, a sua volta, non gli dava soddisfazione, eppure gli pareva una giusta ripicca. Con Akemi, però, non sapeva rapportarsi in modo serio. Era facile giocare con lei e farla ridere, quanto a discutere… era impresa ardua, almeno per lui. Per Elena, invece, era tutto così semplice… Anche in questo ambito, lo superava.

Chiuse il computer. Forse, allontanarsi da una dimensione troppo adulta avrebbe aiutato. Accennò un sorriso.

«Non è questo il punto. Molti doveri sono noiosi, ma dobbiamo comunque rispettarli. La scuola è molto importante, Akemi. La tua, sai, è… speciale. Una sorta di élite. L'anno scorso sei andata benissimo. Quest'anno, però, mamma e papà sono stati convocati dalle maestre, lo sai. Le maestre non sono molto contente delle tue prestazioni».

Akemi, se possibile, lo guardò ancora peggio. E lui si chiese perché aveva voluto accollarsi un peso del genere. «Sarete delusi, allora. Io no. Sono cattive, cattive, cattive e non ci tengo a fare bella figura con loro», si alzò, pestando i piedi con forza, mentre si dirigeva verso le scale. «Avete ancora una speranza, però! Shiho potrebbe essere la figlia perfetta che tanto desiderate!»

Gli si era formato un nodo alla gola. Quella sera stava andando tutto male. Sentì Akemi chiudersi in camera, poi un ronzio dal PC. Erano già passate tre ore da quando era venuto meno ai suoi doveri.

Non gli interessava il quoziente intellettivo delle sue bambine. Quello di Akemi era pienamente nella norma e non ne avrebbe voluto uno straordinario per nessuna. Anzi, forse, questa “delusione” sarebbe pure stata in grado di farle uscire da quel gruppo di malviventi fuori di testa. Una bambina che non è in grado di distinguere noioso da giusto non sarebbe interessata all'Organizzazione. Gli avrebbero, presto, chiesto di mandarla a studiare in un altro istituto, uno normale, che non avesse a che vedere con loro. Probabilmente l'onta di cui avevano macchiato le loro figlie non le avrebbe mai abbandonate, ma avrebbe permesso loro di vivere una vita pressoché comune. Almeno, si disse Atsushi, se avessero capito i limiti oltre i quali non avrebbero dovuto spingersi. In nessun caso. Per nessun motivo.

La porta della camera da letto di Akemi era decorata con fiocchi rosa e orsetti. La sua divisa scolastica era, totalmente, nera.

«Non è adatta per quel mondo», disse a bassa voce tra sé e sé. «Ma, d'altronde, esiste qualcuno che lo sia?»

Akemi avrebbe voluto addobbare la casa per Natale, ma Atsushi l'aveva impedito. Non potevano permettersi ulteriori imbarazzi di fronte ai colleghi dell'Organizzazione, qualora si fossero presentati non invitati, come già capitato.

 

Il telefono squillò quattro volte prima che il dottor Miyano rispondesse. Poche battute e la cornetta era già tornata al suo posto. Lo scienziato pazzo non bussò, prima di entrare nella stanza della figlia. Le ordinò di cambiarsi e di indossare abiti adeguati. Non le diede spiegazioni. Avrebbe voluto lasciarla a qualcuno, ma non avevano parenti, né amici. Le tolse dai capelli, con fastidio, un cerchietto viola, sul momento di uscire di casa. Le prese la mano, con la solita gentilezza, mascherata con un atteggiamento di irritazione, e la condusse nella sua auto. Poco prima di chiudere per lei la portiera, sorrise leggermente. Era un sorriso stanco. Un sorriso colpevole. Un sorriso che chiedeva perdono.

«Sappiamo come comportarci, adesso, vero, piccola?»

Akemi annuì, piano, triste. «Silenzio, rigore, discrezione».

Atsushi le accarezzò una guancia. «E se te lo chiedono loro?»

«Fedeltà e lealtà».

 

Quando Shiho Miyano aprì, per la prima volta, gli occhi sul mondo, nevicava. Non che se lo potesse ricordare. Non lo venne nemmeno mai a sapere, per molti anni. Quando Akemi tentava di rinvangare i suoi primi anni di vita, Shiho assumeva un cipiglio infastidito, incrociava le braccia e guardava da un’altra parte. Seppur entrambe lo negassero, la separazione a cui l’Organizzazione le avrebbe costrette da piccole e da adulte sarebbe, sempre, stata una barriera di fraintendimenti e parole non dette, per diversi argomenti.

Il medico dei membri di medio e alto rango era un uomo di mezz’età, con nome in codice Sake. Specializzato in chirurgia, cardiologia e medicina interna, ben poco volentieri si occupava di tutti i potenti pazienti che gli capitavano sottomano, per qualsiasi questione capitasse. I parti, tra loro, erano più frequenti di quanto avrebbe voluto. Con qualche scusa, per fortuna, riusciva sempre a delegare tali spiacevoli eventi a qualche sottoposto. D’altronde, non era un ginecologo. La donna che, però, gli si era presentata quella sera, era accompagnata da una sua terribile conoscenza, a cui non avrebbe potuto fuggire. Vermouth, sempre giovane e micidiale, gli aveva rivolto un sorriso agghiacciante, con una sigaretta accesa tra le dita, senza curarsi del divieto appeso all’entrata.

«Sake, che fortuna che tu sia in servizio, proprio questa sera. Vedi, sto accompagnando una mia conoscenza, Elena Miyano. Forse l’hai sentita chiamare Hell Angel, un soprannome bizzarro, non credi? I pesciolini si divertono a creare dei nomi in codice tutti loro, negli ultimi tempi…»

Sake non ritenne opportuno intervenire. Dal sogghigno ironico della donna, intuiva che i suoi sentimenti erano l’esatto opposto del riguardo che lasciava trasparire.

Vermouth schioccò la lingua sul palato, beffarda. «La nostra mammina è importante per un progetto che mi sta a cuore, Sake. Sarebbe un vero peccato, se Elena dovesse avere delle complicanze e, chissà, dovesse restare lontana dal lavoro per un po’. Sarebbe anche terrificante se venisse affidata a un inesperto dottorino appena laureato e sia lei che la figlia morissero tragicamente. Sarebbe una vera disgrazia,» rise, voltandogli le spalle. «Assolutamente inammissibile».

Sake aveva inteso il volere di quella bionda ripugnante, dietro le affascinanti apparenze. Desiderava che uccidesse la partoriente, e magari anche la progenie, mascherando il tutto come un incidente. Quella sera, Sake stesso decise di assistere al parto. Non gli era mai capitato di avere così a cuore il destino di una totale sconosciuta: se Hell Angel si era davvero guadagnata un tale odio da parte di Vermouth, non poteva che essere una brava persona. I nemici della sua più acerrima nemica erano suoi alleati, potenziali amici. Amici che Sake non aveva potuto avere nemmeno una volta, all'interno dell'Organizzazione.

 

Era notte, quando Shiho pianse per la prima volta. Fu un parto difficile, anche pericoloso, ma breve, di poche ore. Elena era da sola. Atsushi non venne fatto entrare, quando arrivò con Akemi. Sake, bruscamente, gli disse di restare nella sala d'aspetto, che non volevano altre scocciature, e gli intimò di non rallentarlo, se non voleva che la moglie morisse. Un'esagerazione, certo, solo per farsi ubbidire in fretta.

Più che sufficiente per mandare in crisi il povero sventurato. Atsushi, tenuto a mantenere un portamento dignitoso, non poteva lasciar trapelare il suo tormento interiore. Poteva solo pentirsi e maledirsi. Camminò, avanti e indietro, lungo la sala d’aspetto, per diverse volte. Invidiava, in quel momento, la compostezza di sua figlia, seduta su una poltrona troppo grande e alta per lei, con la schiena drittissima. Forse in allerta, ma composta, almeno. Molto meglio di lui. Si sedette su un divanetto, guardando di soppiatto una signora sulla sessantina, elegantissima, accomodata in un angolo, illuminato da una fioca luce bianca. Leggeva una rivista, apparentemente, del tutto disinteressata a lui, eppure Atsushi era convinto di aver avuto i suoi occhi su di sé da quando erano arrivati. Magari era solo la tensione, tentava di dirsi, oppure il fastidio provocato dal monotono e fastidioso piano bar in sottofondo. Si sentiva esplodere, morire, aveva voglia di urlare, avrebbe potuto strangolare -almeno, ascoltando il suo stato d’animo- il medico da strapazzo che non gli aveva detto nulla su sua moglie né su sua figlia e tutto ciò era incrementato dalla odiata piatta musica jazz che gli forava le orecchie. Gli tremava una gamba. Le persone attorno a lui erano automi, orribili robot senza emozioni, pensava, mentre non sentiva nemmeno un respiro da sua figlia, ma solo il girare le pagine della distinta signora, estranea al suo fastidio. Quando un camice bianco fece irruzione nella stanza, sperò fosse per placare la sua agonia. Purtroppo, la dottoressa, dai lunghi capelli scuri, che coprivano quasi il viso, non si volse verso di lui. «Signora».

La donna bionda alzò appena gli inespressivi occhi grigi. «Dica».

«Il dottore riferisce che siamo pronti a dimettere Sua figlia in tutta sicurezza».

«Devo dedurre che non ci sono le complicazioni temute?»

«Affatto, signora. Se lo desidera, entro dieci minuti, Le faremo trovare i documenti compilati».

La donna chiuse la rivista. «Supponevo che prima di avvertirmi avreste preparato tutto».

La ragazza fu scossa da un tremito. «Le assicuro che sarà tutto pronto al suo arrivo».

«Ne sono certa,» sussurrò.

La quiete venne restaurata solo quando la porta si chiuse. Atsushi, tuttavia, continuava a sentire un alone negativo nell'angolo della stanza, che, pochi minuti prima, era assente. Tutto ad un tratto, aveva assunto la stessa posa statuaria di Akemi. Per tentare di scacciare quella percezione, si rivolse alla bambina, alla sua sinistra. «Se sta continuando a nevicare come quando eravamo in macchina, domani ci sveglieremo con il paesaggio tutto bianco innevato».

Akemi gli teneva ancora il broncio, per quanto successo poco prima. «Domani dobbiamo festeggiare Natale. Mamma tornerà a casa?»

Atsushi sentì salire la rabbia. Si era già battuto molte volte su questo tema e detestava ripetersi: niente discussioni familiari, in pubblico. Ogni debolezza mostrata è un pericolo. Qualsiasi permesso concesso a chi si ama è una eccessiva forma di libertà. Per di più, quella donna era, orribilmente, spaventosa.

E si chiedeva se Elena sarebbe davvero tornata a casa. Se potesse uscire di lì e dire: “È andato tutto bene”.

«La mamma dovrà stare in ospedale per qualche giorno, Akemi».

«Ma come? Niente festa? E i regali?»

«Basta così,» ruggì, beccandosi uno sguardo indecifrabile dalla donna in nero lì presente. Fatto ciò, questa si alzò, senza emettere un suono. Lasciò la rivista in un mucchio impilato e si mise un lungo cappotto nero, in qualche modo familiare allo scienziato. «Buonanotte,» salutò, mentre la porta si chiudeva dietro una abbozzata figura oscura.

 

Elena pianse molto, per Shiho. Akemi era stata una neonata vivace, rumorosa, anche piuttosto stancante, dalle urla fastidiose, acute, mai davvero tristi o sofferenti. Sua sorella era l’esatto opposto. Il suo pianto squarciava qualcosa nel petto di sua madre, senza che potesse dire perché. 

Atsushi non condivideva l’opinione di sua moglie. La piccola creaturina, dai grandi occhi azzurri, che amava far ridere, era una gioia sempre maggiore. Forse non gioiva in ogni occasione, ma il suo prezioso sorriso sdentato gli scioglieva il cuore e i suoi versetti erano più belli della musica classica -la sua preferita. Di tanto in tanto, metteva a girare un disco di Mozart o di Vivaldi e cullava la neonatina. Erano i momenti che preferiva in assoluto. Simulava un lento, quando Elena li filmava, oppure, mentre questa suonava il “Rondo alla Turca” al pianoforte, Atsushi si divertiva a giocare ad acchiapparella con Akemi, un poco più restia, dalla nascita della sorella, a lasciarsi interessare e coinvolgere dalle distrazioni del papà. Ogni tanto, se erano di buon umore, mettevano il “Bel Danubio Blu” e il signor Miyano invitava la sua signora a ballare un valzer.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II - Frattura ***


Capitolo II 

Frattura

 

«Elena, stiamo sbagliando. Dai retta a me. Shiho-chan è già forte e indipendente: lo vedi anche tu, non piange mai, è dura. Possiamo, ragionevolmente, discutere con l’Organizzazione, per fare in modo che la lascino con noi qualche mese o anno in più, ma abbiamo sempre saputo che non avremmo potuto tenerle solo per noi, se gli fossero interessate. Lo sapevo io e lo sapevi tu nel momento in cui abbiamo firmato il contratto».

Il laboratorio era buio pesto. I contorni si distinguevano a malapena, grazie alla debole luce del computer dell’ufficio, su cui la coniuge Miyano batteva, senza sosta, per rifinire il rapporto periodico. Sembrava non prestare attenzione alcuna alle parole del marito. Negli ultimi tempi, preferivano non discutere del destino della loro piccola figlia, a casa, per evitare di intristire Akemi. A dir la verità, tentavano di non parlarne affatto. L'avevano fatto diverse volte, a causa delle email e, infine, lettere di richiamo ricevute, ma finivano sempre per litigare. Se Atsushi puntava per una via più moderata, Elena si rifiutava di raggiungere un punto di incontro con la banda di assassini. Secondo lei, avrebbero dovuto ignorare le loro richieste. Voleva obbligarli a venire a prenderle la bambina a casa, se la volevano così tanto, e dovevano persuaderla faccia a faccia, oppure strappargliela dalle mani. Era oltraggioso scrivere due righe in cui si pretendeva di rapire una figlia di pochi mesi a una madre e a un padre, solo perché a quei loro stupidi test infantili aveva dato risultati “non solo superiori alla media, ma, addirittura, strabilianti” e dei tecnici da strapazzo, che avevano osato piazzare elettrodi sulla sua creatura, la pensavano così. Non temeva troppo le ripercussioni. Fino a quel momento, nessuno li aveva importunati in laboratorio. Anzi, Gin era stato più assente rispetto al solito.

Elena sbuffò. Molte volte si era battuta, insistendo sul loro diritto di avere, al minimo, un colloquio in merito. Mai, però, aveva voluto chiederne uno.

In quel frangente, invece, ignorava sia i malviventi, sia suo marito, con suo grande fastidio.

Atsushi scosse il capo, incrociando le braccia. «Fai finta di non capire».

 

Pisco visitava di sovente la famiglia Miyano. Il loro progetto lo interessava, particolarmente, e impegnava molto volentieri il suo denaro nella loro ricerca, sapendo che i due brillanti coniugi erano i capi. Inoltre, da quando la casa era abitata anche da quel piccolo prodigio appena nato, aveva trovato una nuova attrattiva, a giustificare la sua inaspettata presenza. Erano passati pochi mesi dalla nascita della minore e questa già pronunciava le prime parole. Molto di rado l'Organizzazione poteva vantare un nuovo acquisto tanto promettente. Non poteva lasciarsela sfuggire.

Pisco stesso si mise in contatto con Ano kata, il quale fu lapidario. La telefonata durò molto poco. Dopo aver dato le generalità della bambina, Ano kata, apparentemente già a conoscenza degli straordinari riscontri dati da Shiho ad alcuni test, di cui Pisco non sospettava l'esistenza, in modo sbrigativo, si informò circa l'atteggiamento dei genitori. Pisco non mancava, certo, di notare l'atteggiamento remissivo dei genitori nel mostrargliela. Elena, tra i due, era la più ostile. Dopo questa breve risposta, passarono dei secondi silenziosi. Pisco quasi pensò che la chiamata fosse terminata. Poi, Ano kata parlò.

«Bisogna convincerli».

Ma Hell Angel stava diventando un problema. Sembrava non volesse sentire ragioni. Le email furono cancellate e le lettere bruciate. Anche i progressi nella ricerca erano esigui. Iniziò a essere più brusca e oscura nei modi. Il cambiamento era tanto innaturale da fare diffondere voci ambigue.

Atsushi tentava di conciliare. Se, in precedenza, appena entrati nel gruppo, era parso il più duro e autoritario della coppia, adesso, a furia di sorrisi di scuse, era in balia della consorte. Si sentiva scoraggiato, sia in famiglia, sia al lavoro. Iniziò a sabotarsi. Voleva giungere all’infelicità. Scatenava dissapori con Elena per una richiesta disumana, che lo faceva deprimere, ogni notte. Otteneva risultati troppo buoni. Appena erano positivi, li buttava. Gli sembrava ragionevole.

 

«Elena! Non farmi dire quello che rischiamo, opponendoci in questo modo, senza riserve. La ricerca», continuò, alzando la voce, spazzando via i fogli alla destra della moglie, «è sul punto di essere fermata. Non possiamo continuare e nemmeno comportarci come se fossimo indispensabili, qua. Quante pagine hai scritto? Due, tre? Preferisci che le nostre figlie crescano da sole, in totale balia di quei mostri, oppure che possano contare sulla nostra presenza, forse non costante, ma almeno a distanza?»

Elena era assente.

 

Teneva in braccio Shiho. Era il suo primo compleanno, ma la mamma non sembrava molto entusiasta. Akemi voleva, a tutti i costi, prendere sulle spalle la sorellina, eppure Elena preferiva stringerla lei, quasi gelosa. Nell’ultimo periodo, era diventata un pelo paranoica. Era già abituata agli strani controlli a cui i medici e gli esperti dell’Organizzazione sottoponevano i nuovi nati e gli infanti, avendo visto farli, quasi allo stesso modo, alla sua bimba maggiore, tuttavia le visite prescritte per Shiho erano più numerose. Oltretutto, almeno una volta a settimana era costretta a lasciarla all'asilo nido e, tornando a prenderla, le sembrava di trovarla cambiata. Mentre a casa era trattata da neonata, com'era giusto che fosse, circondata di giochi e di amore, dopo quel periodo di lontananza, si metteva molto seria a disegnare strane immagini, rigorosamente con il pastello o il pennarello nero, che variavano da figure geometriche a inquietanti mostri informi (troppo chiari per la sua età). Atsushi, il più positivo della coppia, si abbassava accanto a sua figlia per insegnarle i nomi dei solidi più semplici, oppure le sostituiva il foglio scarabocchiato con un depliant di moda o del supermercato. In questo caso, Shiho tornava, subito, a ridere, sfogliandolo e distruggendone le pagine. Diventava, di nuovo, la loro dolce bambina.

Ogni tanto, si chiedeva se non fosse una buona idea scrivere delle lettere per la sua piccolina in rosso. O, meglio, registrare delle cassette. Una per ogni anno di età sarebbe stato l’ideale. Un regalo di compleanno a distanza, quando gliela avrebbero strappata via. Un ricordo per colmare lo spazio immenso che le avrebbe separate. Se di spazio si poteva parlare, tra vita e morte.

 

Il silenzio poteva spaccare i timpani.

Elena emise un filo di voce: «Atsushi».

Suo marito, tremando appena, si appoggiò al muro del laboratorio. Elena lasciò che il computer andasse in stand-by. I due si osservarono attraverso la schermata nera e lucida. Si conoscevano perfettamente. Elena non avrebbe ceduto e mai Atsushi avrebbe agito contro il suo volere. Costasse quel che costasse.

«Non gli consegnerò nessuna parte di me di mia spontanea volontà. E le mie figlie sono più preziose di qualunque cosa mi appartenga. Hanno più valore di qualsiasi mia parte del corpo».

 

Quando entrambi i suoi genitori erano a lavoro, Akemi restava a scuola tutto il giorno, finché non la venivano a prendere, in macchina. Odiava, profondamente, quel posto. Non era riuscita a farsi nemmeno un amico e, durante le lezioni, preferiva disegnare, piuttosto che risolvere problemi noiosi. Alla fine, aveva passato il suo secondo anno di scuola elementare in linea con gli altri tetri alunni. In ogni caso, aveva deciso, con l’approvazione di mamma e papà, di cambiare istituto, l’anno successivo. Avrebbe frequentato una quinta elementare, invece di una quarta, facendo i necessari test di ingresso. Magari avrebbe trovato delle amiche normali e, finalmente, sarebbe tornata a casa da scuola a piedi, insieme agli altri bambini, che invidiava, quando vedeva camminare a gruppi da soli, per strada.

 

Un’esplosione ruppe la notte silenziosa.

 

Quel giorno, mamma e papà non andarono a prenderla.

Capitava di frequente che dovesse restare con le maestre dell’Organizzazione fino a sera, tanto che la sottoponevano a compiti integrativi, quando sembrava non aver nulla da fare. Tuttavia, i distinti signori Miyano non mancavano di passare prima dell’ora di cena. Erano già le nove di sera di una oscura giornata di febbraio e Akemi era preoccupata. A quell’ora, le insegnanti, in servizio fino alle sette e mezza in punto, avevano lasciato l’istituto e consegnato l’alunna a due sorveglianti di un magazzino poco distante. La signorina Hirotima, che la chiamava, a tutte le lezioni, per leggere i brani di antologia, le aveva preso la mano, stranamente gentile, durante la strada verso l’edificio e l'aveva condotta, con una certa accortezza, in una stanzetta, grigia e semplice, al piano interrato. Akemi era stata fatta accomodare, senza troppo complimenti, su un divanetto scomodo e polveroso, e, da quel momento, non si era più mossa.

Dopo un tempo indefinito, almeno per lei, una donna di mezz’età, in sovrappeso e con una brutta faccia bitorzoluta, scorbutica le aveva imposto di sistemarsi in un cubicolo, privo di finestre, per la notte. La mattina successiva avrebbe dovuto farsi trovare puntuale a scuola. Ci sarebbe andata con le sue gambe, ripercorrendo il percorso che le aveva mostrato la maestra.

Akemi sapeva che le stavano nascondendo qualcosa. Riusciva a sentire anche la verità che nessuno, fino a quel momento, aveva voluto dirle. «Dove sono la mia mamma e il mio papà?»

La signora non le rispose.

Akemi, così, si unì a quel gruppo di ragazzi che andavano e tornavano da scuola a piedi e in gruppetti, come aveva desiderato. Eppure, contrariamente alle sue aspettative, rimpiangeva, con tutto il cuore, i tempi in cui i genitori le davano un bacio in macchina, all’entrata e all’uscita, poco lontani da scuola. Probabilmente, le sarebbe piaciuto di più se avesse potuto trascorrere i pomeriggi a casa sua, con la sua famiglia, e non chiusa in quattro tristi mura.

 

Elena fu scossa, all'improvviso, da un forte tremore. Il marito buttò all'aria le carte sulla scrivania, per abbracciarla più forte possibile. I loro cuori battevano allo stesso ritmo impazzito, le loro lacrime scendevano alla stessa velocità, senza tregua. «Atsushi, amore, ti prego, fai che non sia oggi, Akemi-chan… Shiho-chan…»

«Va tutto bene, tesoro, adesso…» un singhiozzo lo interruppe, «dobbiamo… solo trovare una via di uscita».

Ma Elena non sembrava pensarla allo stesso modo. Lo strinse con tutte le sue forze, trattenendolo, schiacciando il volto nell'incavo del suo collo. «Pensavo di avere più tempo… Il rapporto andava consegnato domani… Amore, perdonami, perdonami, perdonami, è colpa mia».

«Non è colpa tua, amore mio. Sono stato io a trascinarci in questo».

«Le nostre bambine… cosa gli faranno?»

Atsushi guardò il soffitto, chiudendo gli occhi. «Le cresceranno. Avranno ottimi insegnanti. Akemi vivrà la sua vita».

«Ma Shiho?»

«Sarà meglio di noi. Finirà quanto abbiamo iniziato».

«La uccideranno».

«È già morta, Elena, lo sai».

 

Akemi piangeva a dirotto, emettendo gemiti senza trattenersi, il giorno del funerale di Elena e Atsushi. L'orfanotrofio dell'Organizzazione era ancora peggio della scuola, per quanto stentasse a crederci. Non vedeva Shiho da giorni e la sua impotenza l'avrebbe mandata su tutte le furie, se non fosse stata troppo triste per farlo.

Temeva il futuro come mai prima aveva fatto. Non era più stata a casa sua, dall’incidente. Sentiva una infinita nostalgia dei suoi genitori, in particolare, e con loro della normalità, che comportava la sua stanza tinteggiata di rosa, i suoi peluche e il suo orsetto preferito, con il papillon fucsia, che la sua mamma le aveva fatto con un pezzo di stoffa. Voleva i suoi album di disegno e desiderava giocare, di nuovo, ad acchiapparella con il suo papà, che le strappava, sempre, un sorriso.

Non aveva mai pensato alla morte, prima di allora. Credeva che i suoi genitori non l'avrebbero abbandonata, per nulla al mondo. Ascoltando la funzione, pensava di essere nel posto sbagliato. Le poche persone che le davano un abbraccio o un buffetto sulla guancia dovevano aver capito male, come lei, d'altronde. Poi, però, la trascinarono all’interramento.

Tornata all’Orfanotrofio, dopo aver visto le bare dei suoi genitori calare nella tomba di famiglia -orribilmente anonima-, una sorvegliante la riportò, direttamente, nella sua stanza. Di punto in bianco, la fece voltare con uno strattone. Aveva le guance solcate di lacrime e le sembrava di respirare a fatica. Era così da giorni. Uno schiaffo -il primo mai ricevuto- le arrivò dritto sulla guancia. «Smettila,» ringhiò. «È finito. Non puoi più permetterti questi pianti inutili, alla tua età. Da quanto mi hanno riferito, tua sorella già non ci pensa più».

Akemi sentì il sangue arrivarle alla testa. «Sarà perché non è umana quella e non prova emozioni!»

La punizione era stata meritata, quella volta.

Non si era mai sentita così cattiva.

 

«No, no, no, è viva, respira, mangia, beve, piange, parla già, si muove, ride».

 

Shiho non ricordava i suoi genitori. Di loro, aveva solo qualche fotografia, dei nastri con la voce di sua madre, uno per compleanno, degli articoli di giornale e qualche videocassetta, che, però, teneva Akemi. Esisteva anche una tomba, a cui da sola non sarebbe riuscita ad arrivare. A malapena sapeva in quale cimitero fossero sepolti.

I suoi primi anni di vita erano un totale oblio. Restavano vivi pochi momenti, nella sua memoria, e del tutto incomprensibili.

Se, di tanto in tanto, era attirata verso qualche colore o passatempo, pensando che a sua mamma o a suo papà sarebbe piaciuto, ciò non vuol dire che perdesse tempo a invocarli o piangere la loro scomparsa. Stentava quasi a riconoscere di essere nata da un uomo e da una donna, i quali, in circostanze migliori, avrebbe chiamato mamma e papà. Da piccola, si sentiva un po' persa, a dir la verità. Molto diversa, rispetto agli altri.

Se un insegnante faceva qualche battuta sui genitori o un altro bambino o ragazzo si lamentava delle regole troppo strette imposte dai loro tutori biologici, Shiho incrociava le braccia e guardava in basso. Nella sua mente, ripeteva la tavola periodica o, quando ancora non studiava la chimica ad alto livello, una poesia. Era fortunata ad avere una sorella premurosa, la quale le scriveva una lettera appena possibile e le inviava CD, disegni e cartoline di ogni viaggio. Ci metteva un po' e la corrispondenza era saltuaria, ma non dubitava mai della presenza di Akemi. Se la sentiva accanto, in un angolo del suo cuore.

Di tanto in tanto, chiedeva se potesse vederla o, almeno, chiamarla al telefono. In genere, glielo impedivano. Allora, prendeva un libro e si metteva a studiarlo. Si convinceva che la sua priorità era conoscere. Voleva scoprire il più possibile, più di tutti. Il resto era trascurabile.

 

«Respira, ma non le batte il cuore».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III - Gatti e tranquillanti ***


Capitolo III

Gatti e tranquillanti

 

Il Giappone non le era mancato. Come si può provare nostalgia di un mondo che non si conosce? Shiho non aveva radici.

L’America era stata una lunga parentesi, ma sapeva, da sempre, che avrebbe avuto un inizio e un fine preciso. Appena atterrata, era una nanerottola di appena pochi anni. Non ricordava di chi si prendeva cura di lei, a quell’epoca. Era troppo impegnata ad assimilare i cambiamenti nella sua corta vita e a riempirsi di tutto ciò che la circondava. Gli occhietti blu si voltavano ovunque, per assorbire il cielo azzurro, il prato verde, il nuovo quaderno rosso e il nero delle persone attorno a lei. Iniziava a riconoscere i diversi suoni dolci degli uccellini e il gracchiare dei corvi. Scopriva con gaiezza il profumo dei libri e delle lenzuola pulite, l’odore dell’erba appena tagliata, la puzza dello spesso smog (chiaramente, trovava qualche proprietà in comune con la sua amica nebbia, con cui spesso vedeva lo smog accompagnarsi, il quale era, però, decisamente, più nocivo) e delle sigarette (anche queste pericolose, bastava notare i denti più scuri di chi le fumava e le loro dita tendenti al giallognolo, come se non bastasse l’odore pestilenziale lasciato sui vestiti). Non era una sciocca e, guardandosi attorno, si rese presto conto di appartenere a una coltre ben peggiore del fumo e dei gas di scarico delle automobili. Era un velo impalpabile, ma presente addosso a tutti quelli come lei. Quelli tenevano molto alla sua istruzione. Le loro aspettative diventavano le sue. Avevano gli stessi obiettivi. Shiho, in un certo senso, era grata per quella attenzione. La aiutava a distrarsi. E a migliorarsi. Perché lei non sarebbe morta e non avrebbe abbandonato sua sorella, per lasciarla respirare da sola. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, per evitarlo.

 

Shiho imparò presto cosa comportava, per una come lei, vivere e studiare all’estero. Scoprì quanto dei ragazzini potessero essere più crudeli di un adulto e quali frasi velenose fossero in grado di appannare il suo sguardo.

«La tua mamma si è spaventata talmente tanto quando ti ha vista che ti ha abbandonata».

«Sei così brutta! Ma ci vedi, con quegli occhi?».

«Spostati, inquini l’aria».

«Secchiona sfigata».

«Dove sono i tuoi genitori, cinese?»

«Sono tutti morti».

Con l’abitudine, si rese conto che i commenti iniziavano a non toccarla più. La spronavano solo a concentrarsi di più sul suo obiettivo. Se proprio si sentiva troppo debole, prendeva la pastiglietta blu e bianca che loro le propinavano ogni mattina. Era utile, in certi casi. Era l’unico modo in cui riuscisse a calmarsi. Appena prendeva la pillola, entrava in uno stato di pura catarsi: le paure sparivano e gli spintoni non facevano male. Rideva dell’accanimento dei bulli, così “disgustati” dalla sua diversità, nemmeno tanto evidente. Le apparivano solo più stupidi, insulsi e ignoranti. Erano invidiosi del suo successo. Perché, sebbene tutti frequentassero dei corsi “speciali”, nessuno la equipaggiava, nessuno superava le classi con la sua stessa velocità, nessuno poteva tenerle testa in uno scontro tra menti. Era la stella della scuola.

Spiccava in ogni disciplina. La sua specialità erano quelle scientifiche, certo, ma dimostrava grande bravura anche nella composizione scritta, nelle lingue e negli sport. Le parole di una bambina erano superiori a quelle di un adolescente, provavano maturità e interesse per la vita politica e per la cronaca, sapevano suscitare emozioni o sostenere opinioni con fermezza. Di pomeriggio, frequentava diversi corsi sportivi (a dir la verità, non per sua scelta, ma per     quella degli “uomini in nero”, come si riferiva a loro, nella sua mente). Aveva imparato diverse lingue, eppure non capiva a cosa le sarebbero servite. Era stata protagonista di molti spettacoli, a teatro. In molteplici sport era la prima, tanto che li abbandonava spesso, dopo aver imparato i primi rudimenti. Aveva fatto nuoto, tennis, ginnastica artistica, pattinaggio, arti marziali. Le erano piaciuti tutti, però non li praticò mai, con dedizione, se non per un anno o due, al massimo. Un giorno, un'insegnante di matematica la raccomandò al corso di scacchi della scuola. Shiho non ne era molto entusiasta. Le sembrava uno sport banale e atipico. Noioso. Senza movimento. Andò alla prima lezione per obbligo. Le regalarono una scacchiera tascabile, per invogliarla a tornare. Con il passare dei giorni, non poteva fare a meno di notare le numerose analogie tra lei e quel gioco. Era sottovalutato e non molto comune. Era speciale. Complesso. All’apparenza non era impegnativo, ma, nella pratica, necessitava di più concentrazione di quanta Shiho fosse abituata a impiegare per evitare di farsi male, praticando gli altri sport. Studiare le aperture, il mediogioco e i finali la spronava. Per una volta, era messa alla prova, verso qualcosa che, di per sé, non era innato nella sua natura e non era imposto da quelle sagome scure. Se eccelleva, era solo grazie alla sua dedizione e diligenza. Decise di iscriversi e abbonarsi alla congregazione, quando, andando per la terza volta a lezione, a piedi, incrociò un gattino bianco e nero. Questo la seguì per tutto il tragitto e la stette ad aspettare all’uscita. Shiho, nel frattempo, si era anche procurata un biscotto per lui. Sulla strada del ritorno, gli parlò un po’. Si sentiva, leggermente, sciocca, mentre aspettava una risposta impossibile. Il gatto le divenne fedele. La aspettava fuori casa, la accompagnava alla fermata dell’autobus e alle lezioni pomeridiane. Lei, quando erano soli, osava rivolgergli qualche parola. Non aveva altri con cui confidarsi. Qualcuno, comunque, dovette sentirla. La voce si diffuse in fretta nell’istituto. Una volta, tornò a casa con un livido sulla guancia, inflitto da uno dell’ultimo anno. Da allora, la accompagnavano a scuola in macchina. Poche settimane dopo, Shiho aveva, ormai, imparato tutto quello che poteva trarre da quella scuola e venne trasferita. Non rivide più il gattino. Sperava solo che stesse bene.

 

Ebbe modo anche di conoscere l’amicizia, un sentimento caldo nel petto, che provi al solo vedere un viso noto.

Avrà avuto sette o otto anni, quando Shiho, tornando dalle scuole superiori, salì sulla solita vettura nera e, all'interno, ci trovò un'altra bambina. Inizialmente, le due si scrutarono diffidenti. La giovane Miyano stette qualche secondo più del normale in piedi fuori dall'auto. Forse avevano sbagliato. Dal momento che l'autista non la sgridò, si trovò costretta a salire sul sedile posteriore. Sebbene, per una volta, avesse, apparentemente, a che fare con una sua coetanea, si sentiva distante anni luce da quella bimba, che, per quanto ne sapeva, poteva frequentare ancora la scuola primaria. Se gli adolescenti la escludevano per la sua età e nazionalità, pure un bambino dell’Organizzazione, che, presumibilmente, era abituato a diverse etnie, l'avrebbe trovata troppo diversa per accettarla. A meno che avessero entrambi le stesse capacità. In quel caso, si sarebbero trovati in competizione, prima o poi. Comunque, Shiho era sicura di essere la più piccola in tutta la scuola e non aveva sentito voci sull'arrivo di un'altra bambina. Probabilmente, erano sulla stessa macchina per un motivo di necessità.

La ragazzina accanto a lei, di certo, era una gran curiosona. Da quando si era seduta, con lo zaino rosso tra le gambe, l’altra non aveva cessato, nemmeno per un momento, di osservarla. Le rivolgeva sguardi con la coda dell'occhio e attraverso lo specchietto del guidatore. Per quel giorno, non trovò il coraggio di rivolgerle la parola. Shiho venne lasciata nel condominio dove, in quel periodo, aveva in uso una stanza e l'auto sfrecciò via, senza attendere di vederla entrare in casa.

La settimana dopo, la bambina era ancora lì. Shiho, come la prima volta, attese un attimo, interdetta, temendo di essere redarguita per aver sbagliato veicolo, per, poi, sedersi accanto a lei.

Quella volta, si permise anche lei di darle qualche occhiata in più. Nel complesso, era graziosa, con un sottile visetto circondato da riccioli biondo cenere. Aveva l'espressione serena di chi conta sull'appoggio affidabile di qualcuno. Di chi tornava in un porto sicuro, a seguito di una giornata di lezioni, più o meno faticose, vantando un buon voto. O, almeno, quelle erano le espressioni dei suoi compagni più grandi a fine scuola.

Forse era stata davvero una buona giornata per lei, oppure, consultandosi con qualcuno (doveva essere normale, nelle famiglie più fortunate), le era stato assicurato che non ci sarebbe stato nulla di male a scambiare qualche convenevole con quella sconosciuta.

«Ciao. Sei giapponese?»

Shiho si voltò a osservarla. Le sembrava un modo maleducato per cominciare una conoscenza. Inoltre, ci stava già troppo male per le sue origini. «Sì».

«E hai un nome giapponese?»

Shiho inclinò un sopracciglio. «Sì».

«Posso sapere il tuo nome?»

Improvvisamente, Shiho si ricordò che non erano sole. Per fortuna, l'autista sembrava non prestare loro attenzione.

«Shiho», sussurrò piano.

La ragazzina annuì.

Shiho si sentiva in posizione di chiaro svantaggio. «E tu come ti chiami?»

«Elin».

Non era un nome tipicamente giapponese, eppure la bimba aveva degli occhi grigi, leggermente, a mandorla. «Per caso sei anche tu del Giappone?»

Elin sorrise leggermente. «Tutti lo siamo, almeno un po'».

Non era una gran risposta. Anche Shiho era per metà inglese, eppure non era stata così vaga.

«Cosa fai oggi pomeriggio? Potremmo andare a giocare al parco, un giorno di questi».

Shiho guardò di sbieco la sua cartella. «Non posso. Devo studiare».

Elin fece una smorfia. «Beh, mica lo farai sempre».

«In pratica, sì».

«Che noia».

Shiho corrugò la fronte. «A me piace».

Elin aveva un anno in più di Shiho, ma non frequentava ancora l'istituto superiore. In ogni caso, si vantava che avrebbe cominciato presto e sarebbero andate nella stessa scuola, molto probabilmente. Per Shiho la faceva un po' troppo semplice, però non se la sentì di discutere.

In genere, era Elin a condurre la conversazione. Sapeva parlare per due e anche per tre. A tono basso e lento, ma in continuazione. Shiho interveniva talmente poco da convincersi che il suo intervento era inutile per l’altra bambina. Pronunciava solo frasi spezzate di argomenti che le interessavano ben poco, ad esempio le bambole o le barbie. Shiho aveva una sola bambola di pezza, dalla provenienza sconosciuta, a cui non associava né un nome né una personalità né delle preferenze. Era solo un insieme di stoffa e plastica. Quando si esprimeva in questi modi troppo realistici (secondo la più grande, pessimistici), Elin sbuffava e le diceva che era proprio simile a suo fratello maggiore. Shiho deduceva che non fosse proprio inteso per essere un complimento. Allora taceva e guardava fuori dal finestrino, ma Elin, in realtà, non si infastidiva mai davvero, anzi, gradiva quel carattere un po’ testardo e un po’ troppo, per i suoi gusti, risoluto, che collegava all’amato consanguineo, sempre molto protettivo, nei suoi confronti. Quindi, tornava a blaterare, senza ascoltarsi neanche, finché Shiho non tornava a fare battute e intervenire. L’ironia della bimba richiamava il sarcasmo della mamma e del fratello, che a lei, però, non veniva naturale. Iniziò, ben prima di Shiho, a considerarla parte della sua famiglia, parte integrante e insostituibile. Pur sapendo che, probabilmente, la loro amicizia sarebbe durata soltanto pochi mesi.

Elin sapeva dove abitava Shiho, perché era la prima a rientrare. La distanza, tra le due, non era molta, alla fine. Una o due volte si trovarono a un parco, a metà strada tra i loro appartamenti, per giocare con le bambole, ma, quando Shiho ricevette qualche brutto commento da dei bulletti americani, con gestacci e minacce, improvvisamente, sospesero gli incontri pomeridiani. Anche se la più piccola proponeva di vedersi in un locale o di frequentare uno sport insieme, dicendosi indifferente a quei battibecchi stupidi, Elin rifiutava. Shiho iniziò a credere che si vergognasse di lei o non volesse andare nei guai, a causa sua. Capì cos’è la delusione.

Un sabato pomeriggio, però, Elin andò, inaspettatamente, a trovarla, con la sua bambola, Titian. Era, forse, la prima sorpresa nella vita della piccola e non poteva sperare in niente di meglio. Le due bambine si abbracciarono davvero, per la prima volta. E l’ultima.

Shiho la accolse, mettendo a posto, alla bell’e meglio, i libri di chimica avanzata e la tavola periodica. Aveva ricevuto delle lezioni di buone maniere e galateo, tuttavia, queste, di solito, prevedevano un preavviso, per riordinare la casa e le idee. Adesso, era tutto un po’ improvviso. Come la loro amicizia, d’altronde. Si sedettero sul divano, chiacchierando del più e del meno. Elin voleva, a tutti i costi, fare qualcosa, per cui Shiho preparò la scacchiera sul tavolino dove mangiava. Tagliò per ciascuna una fetta della torta al cioccolato della tata -e, per fortuna, avanzata- e versò due bicchieri di aranciata. Di meglio, non poteva permettersi. Elin, in ogni caso, non sembrava badare a quelle piccolezze. Vedendola sovrappensiero, Shiho le cedette il bianco. Iniziare per prima era, sempre, un buon vantaggio. Dubitava, però, che l’altra sapesse sfruttarlo appieno. Dopo la classica apertura in e4, Shiho partì con la difesa francese. La partita si sviluppava in maniera piuttosto classica, mentre discutevano del loro strumento preferito.

A un certo punto, Shiho sollevò il naso dalla scacchiera. «Come li hai convinti a farti portare qui?»

Elin mosse, distrattamente, un pedone. Poi, in grembo, le mani tornarono ad abbracciare la sua bambola. «Non potrei dirtelo,» disse, sospirando. «L'ho chiesto alla mia mamma. Aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per farmi smettere di piangere. Sono stata molto triste, negli ultimi giorni. Non ho frequentato le lezioni. Fortunatamente, mia mamma ha un immenso senso del… dovere? Insomma, hai capito. Mantiene la parola data. Quindi, eccomi qui!»

La rossiccia sorrise appena. «Sono contenta di contare così tanto per te».

Shiho, poi, catturò il pedone in f5 con un cavallo. Appena Elin riprese con l’alfiere, Shiho mosse la torre. Era in vantaggio di un pedone. Elin, poco concentrata, si portò la bambola, simile a lei, vicino al viso. La cullava come una neonata vera. «So di averti raccontato di feste di compleanno a casa di amici e di gruppi pomeridiani, dove ero al centro dell'attenzione. In realtà, mi escludono sempre tutti. Un po' perché sono piccola, un po' perché ho un cognome giapponese».

Shiho alzò, di scatto, lo sguardo verso di lei. «L’avevo intuito. Dagli occhi».

Elin si accigliò. «Io non sembro asiatica. Non ho gli occhi a mandorla. Mamma me lo dice sempre, è contenta che le assomiglio».

«Se ti osservi attentamente allo specchio, lo puoi notare nel taglio degli occhi e nella tonalità della pelle. Hai anche un leggero accento straniero. Tua mamma non è giapponese?»

La biondina scosse il capo, rivolgendo le pupille chiare alle sue ginocchia. «Mio papà lo era».

Shiho notò le lacrime nei suoi occhi. Non volle infierire. Oltretutto, stava già vincendo la partita, dopo solo una quindicina di mosse. «Se non ti piacciono gli scacchi, mia sorella mi ha consigliato un altro gioco, l'ultima volta che l'ho sentita. Si chiama just dance. Bisogna imitare il balletto su un filmato. Non l'ho ancora provato, però ci dovrebbero essere dei video su internet».

Elin annuì, alzandosi. «Non sapevo avessi una sorella».

Shiho inclinò la testa, un pelo imbarazzata. «Le parlo raramente».

Elin sorrise, sinceramente, con gli occhi non più offuscati dalle lacrime. «Abbiamo più cose in comune di quanto pensassi! Anch'io ho un fratello che non mi chiama mai!»

Però almeno lei aveva una mamma.

«Com’è avere una sorella?»

La piccola Miyano alzò le spalle. «Bello. Ti dà consigli di moda e quant’altro».

L’altra rise, abbracciando la bambola. «Wow! Mio fratello è già tanto se si ricorda quando compio gli anni. Allora, balliamo?»

Shiho annuì, felice. «Lin, ti sfido! Prova a battermi!»

Forse, avrebbe dovuto chiedere ad Akemi dove si trovasse quei passatempi. Di sicuro, a scuola sconsigliavano tutte quelle perdite di tempo. Era un gioco che non valutava né l’intelligenza, né la fantasia, né la forma fisica vera e propria. Eppure, si era divertita più che mai. La sua compagna, inoltre, si dimostrò una avversaria esperta e temibile, molto combattiva. E, sebbene un filmato non possa giudicare, probabilmente, la battaglia era finita in un pareggio. Shiho, comunque, era troppo stravolta, alla fine, per pensarci. Dover prendere in braccio una bambina più grande l’aveva quasi fatta cadere! Però, che gran risate… Nemmeno con sua sorella ne faceva di quel genere.

Era tutto finito, quando un brutto ceffo in completo scuro era venuto a prendere la “signorina”. Shiho lo stava odiando, profondamente.

«Devo andare. Il tempo è passato così in fretta! Ah, dimenticavo. Non ci vedremo la settimana prossima. Torno in Giappone, ma solo per qualche giorno. Io… Devo andare a un funerale».

Shiho non disse niente. Provava nostalgia da tutta la vita. Era tanto abituata a sentirsi incompleta, da non saper consolarla.

«Mi mancherai, Lin».

«Anche tu, Shiho».

 

Nel dicembre di quell'anno, Shiho passò a pieni voti la maturità e, felicissima, si iscrisse all'università di medicina ad Harvard. Nel frattempo, avrebbe condotto corsi di chimica e tecnologia farmaceutiche e biologia. Nel corso di pochi anni, l’Organizzazione desiderava di vederla laureata in più facoltà. Erano trascorsi pochi giorni dall'esame finale alla scuola superiore, quando Shiho si trasferì. Non rivide più Elin.

La piccola Miyano amava, in particolare, i laboratori. Avrebbe potuto trascorrere lì tutti i  pomeriggi. Un giorno, l'avrebbe fatto. Quando, però, ti viene imposto qualcosa, ti piace, subito, un po' meno. I tirocini ebbero luogo in diversi settori di ricerca dell'Organizzazione. Shiho ebbe modo, così, di abituarsi ai ritmi serrati di lavoro, senza particolari problemi. I tutor erano, in genere, personaggi gentili, che conducevano il loro lavoro con una velata serenità. Sherry, in seguito, si rese conto, con disappunto, che, per essere tanto tranquilli, quasi in modo irritante, visti a posteriori, dovevano far parte, per forza, di dei settori poco importanti. Dopotutto, nessuno di loro aveva un nome in codice. Allo stesso tempo, era piuttosto logica la sua presenza là: era una bambina di cui, ancora, bisognava valutare l’affidabilità e l’abilità sul campo. Aveva da imparare tutti i rudimenti e le procedure, per raggiungere il livello preteso. Le prime preparazioni erano, sicuramente, semplici, ma appaganti, per Shiho. Paradossalmente, erano più soddisfacenti di quanto sarebbero mai stati gli straordinari traguardi di Sherry. Sebbene la scienziatina fosse relegata a esercizi, che la escludevano dalle sperimentazioni, un giorno, ascoltando una discussione tra il suo tutor e un suo sottoposto, a proposito del loro farmaco, in via di definizione, gli consigliò, a fronte di un caso collaterale di sepsi*, di servirsi dell’etomidato, un anestetico intravenoso abbastanza raro. In questo modo, spiegò, avrebbero avuto il tempo necessario per trattare il paziente, evitandogli la morte, da cui non erano riusciti a salvare la loro ultima cavia. Forse, in associazione al loro nuovo anestetico, una dose troppo elevata di etomidato avrebbe potuto portare al decesso, dove non si fosse verificata la sepsi, perciò andava analizzata, soprattutto, la miscela racemica, eventualmente modificata, meno attiva della più usata soluzione acquosa di glicole propilenico. Non dubitava che si potesse trovare una composizione per unire i due anestetici, per formarne uno migliore. Dopo un veloce sguardo smarrito da parte del sottoposto, il tutor ordinò che si facesse proprio come aveva detto lei. Quando Shiho concluse le ore prescritte, la ricerca stava evolvendo velocemente. Ricordava con gioia l’orgoglio dello scienziato, che, affettuoso, l'aveva ringraziata, augurandole un futuro radioso.

«Sono sicuro che farai grandi cose».

Per un certo periodo, Shiho soggiornò con una ragazza adolescente. Frequentava la facoltà di biologia e, alcune volte, si vedevano a lezione, però non si salutavano un pubblico: nessuno doveva sapere che si conoscevano. Era un tipo un po' dissoluto, secondo Shiho. Ray (forse un diminutivo, magari un nome inventato) portava i capelli corti, senza frangia, tinti di un nero pece (a volte, si lamentava della ricrescita castana, ben poco visibile, per la coinquilina) e aveva delle strane orecchie, leggermente a punta, simili a quelle di un felino. Ray usciva tutti i venerdì sera e tornava a notte inoltrata, spesso alticcia o ubriaca. In quelle occasioni, chiedeva a Shiho di proteggerla dalla sua tutor, la quale sembrava intimorirla, seppur questo non le impedisse di contravvenire alle regole. La giovane Miyano trovava strana l’attenzione riservata a quella ragazza, all’apparenza, poco speciale. Se faceva già parte di un gruppo di lavoro, doveva esserci un motivo a lei sconosciuto.

A causa di Ray, Shiho provò, per la prima volta, il terrore assoluto.

Era una paura paralizzante, indescrivibile. Sapeva già cosa fosse la banale preoccupazione, il timore di tutti i giorni. Aveva avuto paura, almeno per qualche tempo, dei bulli maneschi. Era stata in ansia ai primi esami e, le prime volte in laboratorio, sentiva sottopelle la tremarella delle punizioni, corporali o verbali, per un suo eventuale errore. Sapeva che gli uomini in nero attorno a lei erano cattive persone, molto severe, a volte violente, pure con lei, che gli serviva e collaborava, e, dunque, aveva sviluppato un sesto senso, una sorta di presentimento, per capire quando la circondavano e a quale distanza. Era una sensazione intrinseca, che incute timore, come quella gente, eppure, non era paragonabile al panico che sentì quella fatidica notte. Perché quella donna non poteva che essere ancora molto lontana, nel momento in cui Shiho, mentre studiava a tarda ora, avvertì, nitidamente, lo scorrere tetro e rallentato del suo stesso sangue. Era nuovo. All’inizio, nemmeno se ne preoccupò molto.

Spesso, circa una volta a settimana, venivano a controllare se stessero bene. Già da tempo Shiho era autonoma, ai loro occhi, perlomeno in casa. L’assenza di Ray non aveva mai stupito nessuno. Probabilmente, anche lei era seguita in ogni suo spostamento, a sua insaputa. Shiho pensò che il sorvegliante di turno fosse fuori dalla porta. Abbandonò la sua scrivania e girò la chiave nella toppa della porta d’ingresso. Si stupì a vedere il corridoio vuoto, attraverso lo spioncino. Notò anche che c'era un corvo, sul balcone. Si sedette sul divano, in attesa. Per fortuna, rifletté in seguito, non era in piedi, mentre quell’energia si avvicinava all’appartamento. Boccheggiava, con una mano sul petto dolorante. L’odio puro e feroce veniva verso di lei. Gli aveva addirittura aperto la porta, invitandolo a entrare. Invitandolo a ucciderla. Shiho non voleva morire. Aveva promesso di non farlo, per Akemi, però, non vedeva altro futuro per sé.

La cattiveria è, talvolta, nascosta sotto la più bella e ingannevole maschera.

Vermouth aveva scrutato con scetticismo la figlia minore di Hell Angel, seduta su uno scolorito divano, a gambe e braccia incrociate. Quella bambina, sulla soglia dell’adolescenza, iniziava a mostrare i primi segni della pubertà. La vita si stava affievolendo, il seno iniziava ad abbozzarsi e il viso sembrava assumere una piega piacevole, simile a quella di Elena. I particolari capelli fulvi coprivano, in parte, i suoi occhi blu, un pelo assottigliati, presi da Atsushi, unico sangue giapponese nelle sue vene. Aveva un’aria più adulta di molti altri suoi coetanei dell’Organizzazione, tuttavia, poteva ancora rivelarsi un fiasco. Sebbene Vermouth nutrisse un astio innato, ereditato attraverso i geni materni, non aveva motivo di nuocerle. Poi, stava cercando qualcun altro. Spaventarla un po’ le sembrava accettabile. Si accese una sigaretta.

«Dov’è?»

Shiho, che tentava di nascondere le dita tremanti, guardò di sottecchi la bionda, con addosso un sofisticato completo nero di Coco Chanel. Quegli occhi verdi volevano incenerirla.

L’aveva riconosciuta subito. L’attrice Sharon Vineyard era su tutti gli schermi e i giornali facevano a gara, per ottenere qualche informazione sulla sua vita privata. Shiho aveva appena scoperto una bomba. Una persona così famosa era parte della sua stessa Organizzazione. Era da non credere. «Chi?»

«La tua coinquilina, Miyano».

Sapeva il suo nome. Naturalmente, avrebbe dovuto pensarci prima: per fare un tale effetto, doveva essere importante. La pronuncia perfetta del cognome e il taglio a mandorla degli occhi rendevano chiaro che fosse giapponese. Perché Ray l’aveva messa in una situazione del genere? Come avrebbe potuto aiutarla? Se avesse mentito, pur con la sua affinata abilità di recitazione, sarebbe stata scoperta. Lo sapeva, dentro di sé.

«Non è a casa».

Vermouth emise una risatina gelida, del tutto priva di divertimento. «Questo posso vederlo anche da sola, mocciosa. Ti ho chiesto dove è andata».

Shiho si raddrizzò. «Non me lo ha detto».

La bionda diede un tiro alla sigaretta. Il fumo si diffondeva, fastidiosamente, nel salone. «Allora, non sono stata chiara, tesoro».

Vermouth si infilò la mano all’interno della giacca. Quando la estrasse, impugnava una rivoltella. Gliela puntò contro. «Devo sapere dov’è finita quella puttanella».

Shiho osservò la canna puntata alla sua fronte. Proteggere Ray era impossibile, a questo punto. Prova l'impulso irrefrenabile di parlare. Doveva sopravvivere. «Di solito, va in una discoteca qua vicino, a piedi. Non so quale sia né come si chiami».

Vermouth fece uno spregevole sorriso soddisfatto. «Good girl. Hell Angel sarebbe orgogliosa di te».

 

La mattina dopo, Shiho scoprì come ci si sente a tradire. Quel senso di colpa era il più acuto che avesse mai provato. Ray aveva un brutto livido sul collo e un taglio sulla fronte. Nessun corso universitario avrebbe potuto farle evitare la colazione in cucina con lei, quella volta.

«Mi dispiace per quello che ti ha fatto».

La ragazza scosse le spalle. «Poteva andarmi peggio».

«Ho provato a coprirti, davvero». Poteva fare di meglio.

«Non fa niente. Prima o poi, l’avrebbe scoperto comunque».

«Chi è, in realtà?»

Ray la guardò di sbieco. «È un nome in codice. Sai chi sono? Quelli pericolosi e influenti».

Shiho annuì. Conosceva, all’incirca, la scala gerarchica dell’Organizzazione e anche i settori di base. Aveva sentito diverse storie dell’orrore sulla “divisione operativa”, alle quali, però, non sapeva se credere. Certe volte, sua sorella citava un certo Pisco, disponibile, a quanto pareva, a pagare a entrambe le scuole. Era una sorta di tutore legale, almeno per Akemi. Si chiedeva, allora, che fine avessero fatto i risparmi dei loro genitori, se dovevano, interamente, basarsi sulle finanze di quei tipi loschi.

«Lei è Vermouth. Da quello che mi ha detto su di te, sembra ce l’avesse con i tuoi genitori. Spero tu non debba averci a che fare. Già con me è una stronza, con te preferisco non pensarci».

I suoi genitori. Hell Angel.

Ci vide sfocato. La colpa non era attribuibile alle lacrime.

La prima volta che Shiho tornò a casa con gli occhiali, Ray disse che sembrava piuttosto buffa, una sorta di secchiona dei film. Le consigliò di comprare le lenti a contatto quanto prima possibile. Le avrebbe insegnato a metterle, come, tempo prima, le aveva spiegato, in tono pratico e meno teorico rispetto ai libri, cosa doveva aspettarsi dalle mestruazioni. E dai maschi. Anche dalle ragazze, dalle presunte amiche e dai nemici. Le aveva dato pure lezioni di autodifesa.

Shiho, tuttavia, ci restò male a quel commento, in particolare perché pure Akemi si era espressa in questi termini, diverse volte, raccontandole, al telefono, dell'ultima serie TV che stava guardando. Lo riteneva sciocco. Dopo due mesi, Shiho metteva le lenti a contatto tutte le mattine, prima di uscire. Le modelle sui magazine di moda non portano occhiali da vista.

 

Poco dopo, era, improvvisamente, diventata adulta. Oddio, aveva tredici anni, quindi, per molti, era considerabile alla stregua di una bambina. Non per l’Organizzazione. Aveva tutte le lauree necessarie, per iniziare il suo lavoro. Aveva un intuito migliore di molti altri scienziati con anni di esperienza. Sarebbe stata il fiore all'occhiello dei loro laboratori. Perdere, ulteriormente, tempo era inutile. Era il momento di aprire alla discendente dei Miyano, su cui si erano prodigati tanto, le porte sulla loro vita oscura.

Mettendo piede in Giappone, questa volta, per restarci, a tempo indeterminato, Shiho entrava in un mondo che la spaventava. Sentiva che, presto, sarebbe stata assorbita da tutto quel nero. Abbandonava in America la sua innocenza.

 

* Per sepsi si intende la disfunzione di un organo, potenzialmente letale, di fronte a una infezione.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo IV - Lampo di cuore in campo di mente ***


Capitolo IV

Lampo di cuore in campo di mente

 

Shiho incontrò Whisky, per la prima volta, in laboratorio. A pensarci, le sembrava che quella donna non esistesse al di fuori di lì. Le occasioni in cui la vide altrove si potevano contare sulle dita di una mano. Lavorava per vivere (o, meglio, per sopravvivere, in ogni senso) e viveva per lavorare (perché non può essere altrimenti, se la tua vita dipende da quello). Per quanto si sapesse, non aveva legami con nessuno. Era una donna altera, piuttosto incostante, di certo dotata di un notevole intuito. Aveva concluso da un anno quello che si può definire il “grande capolavoro” di uno scienziato dell’Organizzazione ed era stata dirottata sul progetto denominato, comunemente, Silver Bullet, un po’ perché la ricerca era ferma da anni, un po’ a titolo di onorificenza e un po’ perché andava tenuta impegnata. A dir la verità, Rum non riteneva che fosse adatta a quel compito, ma ben poco gli importava della sorte di Whisky. Era con una certa curiosità sadica e malsana che si chiedeva se chi causa morte e sofferenza sia in grado di favorire la vita. Nonostante ciò, una donna, con le sue capacità, avrebbe potuto vedersela da sola, pure con un compito poco adatto a lei. Loro, di sfide, ne affrontavano tutti i giorni -la loro vita era in pericolo a ogni missione. Quegli scienziati, nella sicurezza del loro laboratorio, erano visti di malocchio da tutti.

L'addestramento di Whisky non la rendeva abbastanza degna, sufficientemente pura, per l'alto progetto che conduceva. Per questo, Ano kata aveva destinato Shiho a quel dipartimento. Lei, comunque, non poteva immaginare che ci fosse un motivo preciso, al di là dei suoi studi.

Atterrata all’aeroporto di Narita, la ragazzina aveva trovato, ad aspettarla, una donna con un cappello nero, a tesa larga, che le copriva, completamente, gli occhi. Shiho, recuperato il suo bagaglio, l'aveva oltrepassata, dirigendosi verso le uscite. Sul tragitto, mentre osservava, distratta, il cielo azzurro, fuori dalle finestre, lasciò cadere, all'apparenza, per sbaglio, una cartelletta di pelle, estraendola dalla borsa. Piagandosi sulle ginocchia, per raccoglierla, disse, in inglese, con voce sufficientemente alta da farsi sentire, nei dintorni più prossimi: «Oh, che sciocca, devo fare più attenzione».

Era un segnale.

Come riprese a camminare, sentì un periodico ticchettio di décolleté dietro di sé. Tutto andava secondo i piani. Fermandosi, appena fuori dall'edificio, per allacciarsi una stringa, si lasciò superare. Shiho prese un respiro profondo, guardandosi attorno. L'emozione era stata tanta, nei giorni precedenti alla sua partenza. Avrebbe dovuto abituarsi a incontrare persone della sua stessa etnia, adattarsi a un clima diverso, a una lingua che non usava quasi mai per parlare e a tradizioni nuove, che avrebbero dovuto essere già le sue, ma le erano, perlopiù, estranee. Ray, solo due sere prima, per augurarle un buon futuro, le aveva offerto la sua prima birra. Non le era piaciuta. Il viaggio in aereo, poi, le era sembrato molto più lungo di quanto fosse stato in realtà. Il cuore le batteva violento nel petto e lo sguardo, rivolto, per ogni minuto, fuori dal finestrino, era inquieto.

Rialzandosi da terra, sentì scivolare via parte della sua ansia. Il primo passo era fatto. Aggirò una folla di turisti e tenne il passo dietro la donna dell'Organizzazione. Quando questa aprì la portiera della sua auto, le indicò con lo sguardo un'altra macchina, nera, a pochi passi di distanza. Arrivata lì, un uomo mise la sua valigia nel bagagliaio e le fece cenno di salire dietro. “Come quando andavo all'università”, pensò, per calmarsi. A un semaforo rosso, l'autista le porse una busta con il suo nome. Le indicazioni erano brevi e concise. Doveva presentarsi, tre giorni dopo, in un laboratorio farmaceutico di periferia. In allegato, era riportato l'elenco dei pullman della zona. Vista la sua tenera età, sarebbe stata facilmente scambiata per una studentessa. “Oh, certo. Non corro più il rischio di essere presa a pugni perché sono giapponese”.

 

Shiho si fermò davanti all'ufficio e attese. Il suo orologio da polso segnava le sette e cinquanta: era in anticipo di dieci minuti. Nervosa, si lisciò il tessuto della gonna a pieghe e aggiustò il cappotto pesante sulle spalle.

All’entrata, si era rivolta a una donna grassoccia e scorbutica della reception, la quale, senza rivolgerle alcuna cortesia, l’aveva spedita in un corridoio qualsiasi, ma deserto, dopo aver azionato un pannello, permettendo il passaggio. La porta che le aveva indicato presentava una targhetta, con scritto “Whisky”. Shiho conosceva abbastanza l’Organizzazione da sapere che iniziare la propria carriera sotto un nome in codice era già di per sé un riconoscimento importante. In altre parole, aveva tredici anni e un enorme macigno sulle spalle, tanto da sfidare Atlante* in un prova di resistenza. Malgrado ciò, riusciva ad allontanare la mente a sufficienza, per mantenere un contegno dignitoso, forse, grazie a una pastiglietta di incoraggiamento. “Le prime impressioni fanno tutto,” si ripeteva di continuo.

Stava per iniziare a spazientirsi, quando un ritmico ticchettio (causato da tacchi bassi, larghi: tipici delle donne in carriera che, pur non rinunciando alla loro femminilità, vogliono restare comode) la distrasse dalla monotonia. A produrlo era una donna alta, molto magra, dal viso allungato e scarno. Una cascata di capelli neri le oscurava gli occhi scuri, contornati da diverse rughe di espressione. La bocca era piegata in un broncio che la abbruttiva, evidenziando le pieghe sul viso. Avanzava in modo sicuro, con uno sguardo scrutatore, quasi feroce, accusatorio, capace di mettere a disagio dopo una singola occhiata. «Shiho Miyano?»

L’interessata annuì, raddrizzando le spalle e alzando il mento, intenzionata ad apparire sicura. Solo la sua superiore avrebbe potuto pronunciare il suo nome con tanta sicurezza, trovandola lì.

Whisky la raggirò, attenta a starle molto lontana. «Bene, iniziamo subito. Il tempo stringe e detesto avere a che fare con i novellini».

Shiho represse l’ondata di fastidio. Sapeva che un nome in codice non l’avrebbe trattata in modo gentile, eppure il distacco dai tutor universitari, che, fin dal primo incontro, avevano apprezzato le sue qualità e il suo atteggiamento maturo, trattandola come tutti gli altri sottoposti adulti, era evidente e irritante. Quando la donna attivò la porta scorrevole del suo ufficio, inserendo un codice e passando un badge nero, Shiho la seguì, in fretta, prima di restare chiusa fuori. Whisky stava appendendo la giacca e indossando un camice bianco. L’interno era un vero e proprio laboratorio privato. La ragazzina osservò, curiosa, le varie provette, divise secondo un ordine preciso, etichettate con cura. Gli strumenti sembravano quasi nuovi, pulitissimi, come i numerosi scaffali, ricolmi di documenti, libri e raccoglitori.

Whisky, truce, le si rivolse con tono monocorde. «Il mio gruppo di ricerca lavora al progetto denominato SBB938. Se ti dimostrerai all’altezza, potrai entrare a farne parte. Le discipline di base sono le tecnologie biomediche, la biologia molecolare e l’ingegneria genetica. Un approccio multidisciplinare è inevitabile, vista la portata della nostra ricerca. Ci sono diverse sezioni, con compiti specifici, che, al bisogno, possono lavorare sullo stesso oggetto. Abbiamo una divisione di ricerca e innovazione, ovvero quella in cui rientrano le menti più brillanti, a sua volta distinta in altri campi minori; ce ne sono altre dedite alla raccolta di dati, specialmente quelli riguardanti effetti collaterali su soggetti sani, oppure all’interferenza dell’SBB938 con altri farmaci, allergie e patologie specifiche; esiste, inoltre, una ridotta componente che studia un modo perché il nostro trattamento possa curare questi disturbi, seppur non sempre sia possibile integrare questi progetti, per cui vengono dirottati a terzi. Molto importante è la sezione tossicologica, che, attualmente, è stata estesa, per verificare l’affidabilità dell’ultimo prototipo. Io, chiaramente, dirigo questi rami, sovrintendendo, in particolar modo, la divisione dei ricercatori, i quali, come avrai capito, sono i membri più importanti, di cui bisogna testare la fedeltà con attenzione. Ano kata ha richiesto il tuo inserimento tra queste menti. Considerati una privilegiata, Miyano, perché, per me, non saresti nemmeno una degna pulisci provette, nel mio progetto».

Shiho sentì le mani prudere. Poteva aspettarselo, anche se nemmeno i suoi insegnanti delle superiori la avevano tanto sottovalutata, per la sua età all’anagrafe. Di solito, la guardavano a malapena.

La donna riprese, non notando la reazione della ragazzina o, semplicemente, ignorandola. «Il nepotismo in questa classe è poco rilevante, Miyano. Non ci saranno favoritismi, né aiuti di alcun tipo. Il nostro livello non accetta esitazioni né errori, richiedo la massima precisione da parte di tutti. Ti è chiaro?»

La tredicenne strinse le labbra, sibilando, tra i denti: «Non ho capito cosa riguarda la ricerca, precisamente».

Whisky la guardò dall’alto al basso. «Principalmente, il ringiovanimento. Verrai informata in seguito dei dettagli».

Shiho impallidì. Il suo masso era più gravoso di quanto pensasse. Con scarso successo, tentò di nascondere il suo stupore. Era davvero possibile andare contro le leggi del tempo? Le pareva… non impossibile, ma strano. Soprattutto, le sembrava sorprendente essere assegnata a un settore così rilevante, quando era ancora alle prime armi. Si aspettavano così tanto da lei o era solo un modo per valutarla? All’improvviso, capiva perché Whisky facesse tanto la sostenuta. Teneva le redini a un cavallo invisibile.

Le parole successive erano trasportate come dal vento. «Gli orari sono poco rilevanti, qui. Ognuno di noi deve essere pronto a sacrificare tutto per l'Organizzazione, senza esitazioni e senza rimpianti. Non c'è spazio per i “se” e per i “ma”. Non voglio sentire dubbi o domande. Ciò che conta è l'obbedienza assoluta e la dedizione totale. La fedeltà e la lealtà devono essere i primi valori in ognuno di noi. Capito?»

Shiho fece un cenno d’assenso. Quelle storielle le venivano propinate da sempre e non ci aveva mai dato grande peso. Di rado si era trovata in contrasto con loro, ribellarsi non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello.

La donna la scrutò per qualche secondo, con occhi inquisitori, per, poi, porre l'attenzione su un'alta pila di fogli sul bancone. Li indicò con un dito. «Questi sono per te. Sono tutti i progressi fatti finora nella ricerca. Studiali entro cinque giorni. Voglio un rapporto, quando avrai finito. Puoi andare».

 

Sobbarcata da una montagna di fogli e fascicoli, una tredicenne minuta e troppo giovane per quei luoghi raggiunse, barcollando, una postazione di lavoro libera. Si liberò del peso con un sospiro. Girò la testa a destra e sinistra, sentendo tutti gli occhi su di sé, ma senza trovare nessuno voltato verso di lei. Decise di ignorare quella sensazione fastidiosa, con cui avrebbe fatto i conti in un altro momento. Stando in piedi, divise le carte per datazione. I primi documenti erano redatti da persone che non conosceva. Li allontanò, prestandogli poca attenzione. La pila più alta risaliva a circa quindici anni prima. Con fretta malcelata, cercò la fine del primo rapporto periodico, firmato da due scienziati. I loro nomi le erano ben noti, eppure le loro voci, il loro profumo, persino i loro volti le erano sconosciuti. Qualsiasi cosa li riguardasse le era estranea. Non aveva radici, perché non aveva genitori, né una vera e propria famiglia.

Passò i polpastrelli sulle loro firme. Elena Miyano aveva una scrittura elegante, ma con pochi fronzoli, invece Atsushi scriveva in stampatello minuscolo, in modo molto piccolo.

Era solo una fotocopia.

 

Shiho si accomodò su un tavolino traballante. Era tardi e solo una decina di sedie erano occupate. Come primo giorno, stava andando bene. Più o meno. 

Facendo la coda, un ragazzo del laboratorio le aveva consigliato caldamente di evitare il ramen e di condire il riso con delle salse in bustine monouso e delle verdure. Lo aveva ringraziato e, un pelo impacciata, aveva fatto come consigliato. Dopotutto, non era male, anche se le bacchette non erano il suo forte. Sfortunatamente, forchette e coltello non sembravano contemplati. 

La ragazzina, da lontano, poteva osservare, durante il pasto, gli altri membri del suo team, disseminati, da soli o in gruppi da due o tre, per l'intera sala. Erano quasi tutti uomini maturi, tanto simili tra loro da poter essere confusi. Sembrava quasi che mirassero proprio a mimetizzarsi. C'erano solo altre due donne, oltre alla nuova arrivata: la più lontana era una trentenne, giovane, ma con l'alterigia e l'acidità di chi è costretto a lavorare con degli incapaci; l'altra scienziata, invece, era più grande: aveva, probabilmente, una cinquantina d'anni, anche se ne dimostrava, almeno, una decina in più. Quando Shiho posò lo sguardo su di lei, questa le rivolse un sottile sorriso. Imbarazzata, la piccola ricambiò, voltandosi in fretta. Era il primo gesto di gentilezza ricevuto da diversi giorni, constatò, con il cuore pesante. Con la coda dell'occhio, notò il ragazzo che, prima, le aveva consigliato il riso. Dopo di lei, doveva essere la recluta più giovane. Al terzo posto, c'era la scienziata acida.

Shiho sobbalzò, quando un vassoio si posò davanti a lei. Sollevando il naso dal piatto, trovò una zazzera scura e due nocciola occhi a mandorla sorridenti. «Non volevo spaventarti. Posso?»

Tentando di nascondere lo stupore, disse, in fretta: «Oh, sì, certo».

Il ragazzo di poco prima le sorrise, tendendo una mano. «Ciao. Tu devi essere la nuova arrivata. Piacere, Daisuke Ito».

Shiho ricambiò la sua stretta, attonita. «Shiho Miyano».

Lui si sedette, annuendo cordiale. «Allora, sei tu la nuova arrivata. Non pensavo che fossi così giovane, quando ci hanno avvisato del tuo arrivo! Devi sentirti almeno un po' disorientata. Se hai bisogno di qualche informazione, chiedimi pure».

Shiho sorrise appena. «Sì, effettivamente, è tutto piuttosto… strano, direi. Solo pochi giorni fa stavo pensando alla discussione di laurea e, adesso, eccomi qui», finì, indicando la sala attorno a sé.

La ragazza riuscì a scorgere un velo di sconcerto, sul volto di Ito. Dopo un colpetto di tosse, sembrava tornato alla normalità. «Caspita, posso immaginare. Iniziare la carriera sotto Whisky, partendo da zero… dev'essere dura».

Shiho sollevò le sopracciglia, curiosa. Le pareva sincero, parlando. «Com’è Whisky? Non ho capito molto, su di lei, dal nostro primo incontro, oltre alla ferrea disciplina che è richiesta da parte dei suoi sottoposti».

Daisuke le fece un occhiolino, prendendo un boccone di riso. «La quasi totalità dei capi di ricerca è uomo. Niente di personale, sono, semplicemente, più meritevoli. E longevi. Whisky è l'unica donna, per ora. Deve dimostrare di essere degna della sua posizione, davanti ai superiori, anche perché tenta di ricostruire il percorso di un progetto sepolto da più di dieci anni. Da quando i tuoi genitori sono morti, per la precisione», fece una smorfia, mordendo una zucchina. «Non stiamo facendo molti passi avanti, ultimamente. Diciamo pure che la ricerca è ferma. Totalmente. Da quasi tre mesi. Whisky è, in ogni caso, un nome in codice. Non chiedermi come se lo sia guadagnato, non ne ho la più pallida idea. Alcuni bisbigliano di esperimenti sullo scioglimento nell'acido. Roba tanto schifosa da preferire restare un pesciolino invisibile. Anche se, sinceramente, in generale, non so se aspirare a tanto, Miyano. Io, di sicuro, non ho speranze, parlo più per te», le rivolse uno sguardo ammiccante, sporgendosi in avanti con il busto.

Shiho lo squadrò dall'alto in basso, dubbiosa.

«Capirai presto che l'Organizzazione è muta solo all'apparenza. Pretende rigore. Disciplina. Sottomissione, talvolta. Fedeltà e lealtà, fino al midollo. Sacrificio. Discrezione. Silenzio. Quest'ultimo, tuttavia… diciamo che una legge non scritta permette di rompere tale dovere, purché ciò avvenga senza attirare troppa attenzione. E, sai, mi sono trovato a discutere di una ragazzina portentosa, capace di fare grandi cose… beh, perché no, capace di concludere ciò che venne iniziato quarantacinque anni fa», storse il naso, incrociando le mani. «Figlia di scienziati illustri. Con un QI mai visto negli ultimi tempi. Ho pensato che potrebbe, con facilità, svegliarsi una mattina e decidere di prendere le redini del nostro gruppo. Chissà, magari, facendo qualche ammazzatina sottobanco o nascondendo qualche risultato. Ho riflettuto che, in questo remoto caso, non accetterei una bambina a comandarmi e non mi importerebbe molto di sfidare la gerarchia e pagarne le conseguenze».

Shiho non batté ciglio. «Non mi interessa ottenere un nome in codice e neppure essere a capo dei ricercatori. Voglio solo scoprire. Nient'altro. È questo il mio lavoro».

Lui sorrise, riprendendo una postura colloquiale. «Meglio così. Sembri simpatica, sarebbe un peccato non aver più nessuno con cui parlare. Quei vecchi bastardi non sono molto loquaci», disse, indicandoli con gli occhi. «Meno di te, perlomeno. Tornando al discorso originale... Whisky deve presentare tra cinque giorni il rapporto bisettimanale -che prevedo davvero scarno- e fra venti giorni si terrà la riunione trimestrale con il supervisore del progetto, che non è affatto facile da accontentare. Non è al pari del vecchio Gin, da quanto dicono in giro, ma è il numero tre dell'Organizzazione, qualcosa dovrà saper fare. Anzi, proprio per questa disonorevole fama, potrebbe essere ancor più intransigente. Alla scorsa riunione periodica, Whisky aveva un fascicolo abbastanza corposo, seppur non al pari dei precedenti. Questa volta, non ha nulla in mano. Letteralmente. Sarebbe un caso senza precedenti. Non posso immaginare le ripercussioni. Quindi, ha sviluppato un delirio di onnipotenza alquanto fuori luogo. Pensa che, così, potrà spaventarci e farci ottenere risultati. Il che è molto stupido, perché saremo noi a subire le peggiori umiliazioni per la sua incompetenza».

La ragazzina, essendosi ormai ripresa dall’accusa dello scienziato, si portò le bacchette alla bocca, tentando di nascondere la sua imbranatezza. Avrebbe dovuto adattarsi meglio alle abitudini giapponesi. Inghiottito un boccone, lo incalzò: «Il progetto è addirittura supervisionato dal numero tre? E chi è?»

Ito ridacchiò. «Il numero tre, come dicono quelli, è una mina vagante, ad essere sinceri. Whisky spererà fino all’ultimo secondo nella deposizione di Slivowiz. Era Gin, diversi anni fa, non saprei dirti quanti. Io ero già qua, ma ero un apprendista di livello infimo. Ci fu un subbuglio assurdo, nessuno se lo aspettava. Era tosto, a quanto si dice. Misterioso, sfuggente, senza rimorso alcuno, fedele, leale, perfezionista, pianificatore nato. Incarnava tutto ciò che l’Organizzazione desidera. Non c’era, a dir la verità, una vera differenza tra il secondo e il terzo, all’epoca. Principalmente una questione di età, si pensa. Lui e Rum, su cui girano voci bizzarre, collaboravano spesso, andavano d’accordo. Secondo mio padre, c’era una sorta di “armonia”, nell’aria, all’epoca. Va bene, non era il mondo delle favole, però c’era almeno una discreta stabilità. Nessuno si faceva la guerra, né metteva veleno nel bicchiere del vicino per accaparrarsi il suo posto. Possiamo ammettere che sia dovuto anche all’incapacità e alla mancanza di resistenza a sostanze tossiche di alcuni di loro, okay. Sì, lo penso anch’io. Dovrebbero avere più intuito e attenzione, arrivati a un certo punto, no? Comunque, noi possiamo solo sognarci un mondo di quel genere. Ogni tanto, anche qua si trova qualche cadavere nei corridoi, sai? È capitato solo tre settimane prima del tuo arrivo. Arma da fuoco, un proiettile dritto in mezzo agli occhi. Con un potere saldo, questo non succederebbe. Al vecchio servirebbe un buon braccio sinistro, se mi capisci. Potrà avere un forte braccio meccanico a destra, ma senza l'altro arto resta un monco. Insomma, tu avresti paura di un handicappato? Vedi, ridi, no, nemmeno una bambina lo temerebbe, dal vivo. Se qui non fosse abitudine fare colare sangue per una sciocchezza, l’Organizzazione avrebbe già smesso, da un pezzo, di sbruffonare in giro», si interruppe, prendendo un sorso d'acqua. «Ah, che buona, sento tutta la dolce fragranza del calcare. Salutare, anticorpi, ragazzina! Me la porterei da casa, l’acqua, ma qua sono obbligati a darmela gratis. Tornando a noi, Ano kata dovrebbe aprire gli occhi. Le cose si sono fatte così turpi che le nascite, tra i nostri, sono quasi nulle, perlomeno in Giappone, la casa natia di quegli stronzi, culla delle menti più brillanti e più spietate. Non è un caso, assolutamente. Devono cambiare, se vogliono restare in piedi».

Shiho, con circospezione, appoggiò un gomito sul tavolo. «A quanto dici, hanno vita breve».

Ito sbuffò. «Un tempo, i nomi in codice erano tutti nati nell’Organizzazione. Adesso, questa regola è venuta meno e ciò la dice lunga. Finché sbandierati e disgraziati si renderanno disponibili come tagliagole e qualche scienziato mediocre, come quelli seduti laggiù, accetterà il rischio e i soprusi, in cambio di qualche soldo in più del normale, se ne infischieranno della fiducia, che, ormai, è diventata più un motto che una regola. Un giorno, l'errore sarà irrimediabile e pagheranno le conseguenze in un colpo solo», Ito, da infervorato, sembrava abbattuto. Il suo sussurro divenne appena percettibile. «Forse è giusto. Probabilmente, non ci sarò più, per vederlo, anche se mi piacerebbe farlo».

Shiho inclinò il capo. «Eppure, non sprizzi entusiasmo».

Lo scienziato fece un gesto vago con le bacchette, senza approfondire. Finì la sua porzione, dunque, guardò l’ora sull'orologio a muro, dietro di lui. Quindi, si alzò, rivolgendole un sorriso sghembo. «Abbiamo dieci minuti, prima di dover ricominciare. Io inizio ad avviarmi. Ci vediamo, piccoletta», la salutò, con un gesto della mano.

La ragazza si apprestò a seguirlo.

 

«Quella marmocchia, con i capelli fulvi, è la figlia dei Miyano».

«Ho sentito».

«Ci toglierà il lavoro».

«Ha ancora il latte in bocca, cosa vuoi che ci faccia, al massimo verrà cacciata entro qualche giorno».

«Non capisci proprio niente, non l’avrebbero mica messa qui, genio, se non fosse all'altezza. Quella gente è senza scrupoli. In un nanosecondo, passerà davanti a tutti».

«Farà ammazzare Whisky e ne prenderà il posto».

«Ma figurati, non ha manco quattordici anni. Noi abbiamo anni di esperienza alle spalle e stiamo qua a fare le gavette di quella prepotente».

«Illuso, Whisky ha un piede più di là che di qua, già da mesi. Se la tengono, è solo per addestrare un successore».

«Tacete, viene per di qua».

 

«Si scrive in giapponese».

Shiho interruppe la sua serie di appunti. Whisky la fissava da lato, a braccia conserte e con una smorfia di disappunto sulle labbra rosse.

«Scusi?» sussurrò in risposta, rivolgendo uno sguardo al computer. Era tutto nella norma.

«Oltre a non saper scrivere, sei anche sorda?» sbottò la donna, strappandole il foglio su cui stava scrivendo.

Shiho si sentì sprofondare. Aveva, inavvertitamente, sbagliato lingua. Un errore da principiante. Da bambina. Non si era mai sentita così tanto sciocca. Poteva essere un effetto collaterale dei tranquillanti? Di solito, era più attenta. Si schiarì la voce, mortificata. «Sono miei appunti, Sensei. Non avevo intenzione di consegnarli. In realtà, sono solo supposizioni, poco importanti».

Con sommo fastidio di Shiho, Whisky fece una risatina di scherno. Da quanto aveva capito, non era intelligente come le piaceva sembrare. «Non funziona così, Miyano-san», disse, sottolineando il suffisso onorifico, con cattiveria. «Non esiste niente di tuo, qui. Siete il mio gruppo di ricerca. Ogni vostro pensiero mi appartiene, dentro questo laboratorio»

«Le chiedo scusa».

«Solo perché è il tuo terzo giorno, Miyano, non ci saranno conseguenze», prese il resto dei fogli sulla scrivania. Più di tre lingue si mischiavano, in diverse file e righe. Qualche strappo e centinaia di frammenti di carta caddero a terra. «Temo, tuttavia, che dovrai perdere tempo a riscrivere tutto. E non dimenticarti di ripulire il disastro che hai fatto, ovviamente».

 

Si era vestita con cura. Vedere sua sorella, dopo tanti anni, la mandava in grande agitazione. Parlare al telefono non le piaceva e stentava a raccontare di sé, come se l'enorme distanza tra il Giappone e l'America impedisse a Shiho di esprimere in parole i suoi pensieri. Sapeva, inoltre, di non poter accennare al suo lavoro per l'Organizzazione e, da sempre, questa era stata la sua unica occupazione. Non aveva idea di cosa dirle, una volta fossero state faccia a faccia. Forse, sarebbe stato meglio lasciare fare ad Akemi. Aveva imparato che era in grado di portare avanti intere conversazioni quasi da sola. Shiho si sarebbe impegnata a incalzarla. Come faceva con Ito, d'altronde. Sapeva, però, che, prima o poi, sarebbero arrivate delle domande per lei e la prospettiva la spaventava ben più di Whisky. Aveva bisogno di tutta la fiducia in se stessa che disponeva.

Davanti allo specchio, tuttavia, riusciva solo a vedere una pallida ragazzina poco avvenente e spaventata dalla sua stessa ombra. Avrebbe imparato a convivere con quello stato di tensione, si ripeté. Con occhio critico, scrutò il suo solito caschetto da bambina. Era poco impegnativo, ma, a volte, si chiedeva se non avrebbe fatto meglio a lasciarsi crescere i capelli. O almeno la frangia. Lisciò le pieghe della gonna azzurra infeltrita, abbinata a una camicetta bianca. Era il tipico abbigliamento giapponese, tentava di convincersi. Eppure, il bianco le ricordava il camice da laboratorio e, per opposizione, il nero dei suoi incubi. Detestava queste associazioni, che mettevano in dubbio i colori con cui preferiva vestirsi.

Si passò un filo di mascara sulle ciglia e fece una passata di lucidalabbra colorato sulle labbra. Si chiese se una tipica giapponese avrebbe disapprovato e sperò, vivamente, che sua sorella non fosse cresciuta con una mentalità troppo all’antica. Non avevano mai discusso di trucco. Akemi doveva considerarla ancora una bambina.

Mancava un’ora all’appuntamento, dopo anni di lontananza. Ricordava la strana sensazione provata quando, più di tre anni prima, quella sorridente sedicenne, tentando di nascondere il disagio e l’imbarazzo, le aveva fatto una veloce visita, durante il suo viaggio-studio negli Stati Uniti. Adesso, Shiho non era più una bambina a cui regalare una bambola di peluche e nemmeno una coetanea con cui discutere di università e ragazzi, nonostante fosse già laureata in più facoltà. Mentre Akemi andava al liceo, Shiho preparava un esame dopo l’altro, per finire in fretta gli studi, e, adesso che la maggiore doveva affrontare l’università, Shiho lavorava già, con diverse specializzazioni alle spalle. Shiho temeva solo una possibile rivalità con la sorella. O dell’invidia, ben celata in dieci minuti di conversazione dietro una cornetta. Dal vivo può succedere di tutto.

Si infilò le mary jane, in tinta con la gonna e la borsetta a tracolla, mettendosi un golfino, di un chiaro azzurro pastello. La perfezione degli accostamenti le trasmise un poco di fiducia in più.

Si chiuse la porta di casa alle spalle e attese l’autobus per cinque minuti. Akemi non le aveva offerto un passaggio e, di sicuro, era meglio così. L’Organizzazione non avrebbe apprezzato, soprattutto, perché Akemi avrebbe potuto farle visita più spesso. Meglio vedersi in anonimi e impersonali locali. O, almeno, Shiho aveva tentato di convincersi di questo.

La città che scorreva fuori dal finestrino, su cui poggiava la testa, le era del tutto estranea. Conosceva solo il suo quartiere, il supermercato appena fuori, il bar all’angolo e un locale, decisamente informale, due strade più avanti, per non parlare del suo luogo di lavoro, che, comunque, non avrebbe potuto raggiungere da sola. La caffetteria a cui l'aveva invitata Akemi era distante venti minuti di macchina da casa sua, perciò non aveva potuto fare a meno del bus, suo odiato compagno, ogni giorno, alle sei e quaranta di mattina. Sì, sì, sarà giusto. “Vuole solo il mio bene. Sa meglio di me cosa è opportuno fare, con quegli individui”. Intanto, si tormentava le cuciture del maglioncino, senza pace.

L'amarezza venne, finalmente, schiacciata da due braccia travolgenti, una cascata di capelli scuri contro il viso e un paio di commossi occhi blu. Shiho non riceveva un abbraccio da anni. Si era scordata come illumina e scalda la luce del Sole, a contatto con la pelle. 

Si estraniò. Dimenticò la cattiveria di Whisky, i commenti degli scienziati, l'ambiguità di Ito. Venne investita da quella corrente di serenità e ci si abbandonò con un sorriso. Un fiume straripante di parole la condusse a un bar, a un tavolino, a una sedia, mentre, confusa, il significato dei suoni le sfuggiva. Girò un foglio -un menù- tentando di dare un senso alle lettere. Annuì qualche volta, sperando di azzeccare il momento giusto, nella conversazione. I suoi occhi guardavano quella donna di fronte a sé e il suo cuore batteva, picchiava per la paura di separarsi da quella tranquillità, perché, semplicemente, non era mai stato meglio. Era arrivato al suo posto. Dove meritava di stare. Dove avrebbe dovuto essere sempre stato. Era nel luogo da cui, prematuro, era stato strappato. Era a casa. Sorrise.

Una voce a lei estranea ordinò una cioccolata. Un guscio con il aspetto assaggiò e commentò con entusiasmo il sapore del cibo. I suoni erano ovattati, ma assordanti. Il suo corpo seguiva il filo della conversazione, dando cenni, periodicamente, con il volto appoggiato su una mano, che era, a sua volta, unita a un braccio, con il gomito piegato sul tavolino. La coscienza della scienziata, nel frattempo, era altrove. Non avrebbe saputo dire dove, però. Era lontana da Shiho, distante da Akemi. L'anima era accanto a quella sorella, ma la mente se ne andava, confusa, non abituata a quelle sensazioni. Il cervello era stato disconnesso dal cuore, il quale, arrogante, impetuoso e incosciente, voleva spazzare via tutto ciò che aveva costruito, a fatica, in anni e anni di lavoro. Voleva distruggere la sua prudenza e lasciarla da sola a brancolare nel buio. L’intelletto, in quella situazione, si rifiutava di aiutarla. Ne ebbe paura. La sua ancora di salvezza si era sganciata dal fondale e veniva sobbalzata in giro dalla marea in tempesta, mentre il suo inconscio la ritirava. La barca, lì sopra, era sola.

«… allora si è girato e si è accorto che sua nipote si stava aggirando nella stanza delle costruzioni. Basta cambiare prospettiva, insomma, è logico, esistono diversi mezzi per considerare una situazione, non sempre il nostro primo strumento è adatto, ad esempio, anch’io, come lui…»

Shiho batté le palpebre diverse volte, guardandosi le mani curate, appoggiate al tavolo. Lo smalto azzurro era fresco. Ricordava di averlo messo poco prima di uscire. Le unghie erano corte. Sì, erano le sue mani, unite, tramite i polsi esili, alle sue braccia. Giusto, poteva anche muoverle. Con calma, ne portò una in grembo. Sollevò gli occhi sulla giovane di fronte a sé, per non destare sospetti. Akemi. Era bellissima. I lunghi capelli scuri valorizzavano gli occhi chiari, un po' allungati, simili ai suoi. Il viso sottile era sorridente. I denti dritti e bianchi, tra due labbra sottili, chiedevano solo di vedere quelli degli altri. La naturalezza dei gesti, il tono di voce dolce ed estroverso, il movimento delle ciglia erano incanti che venivano bruscamente cancellati dal telefono, dietro cui si erano sentite, per anni e anni. Il foulard, avvolto attorno al collo, era adagiato sulle spalle, portato come le attrici di Hollywood.

Per un attimo, aveva voluto buttare tutto all’aria per lei. Il suo stupido aspetto sconsiderato aveva urlato di sollevarsi contro la separazione a cui erano costrette, quella distanza imposta e odiata da entrambe. Shiho, però, sapeva che non era possibile -o, almeno, la sua mente coscienziosa ne era ben consapevole e le avrebbe vietato di agire in maniera irresponsabile. Erano solo loro due al mondo e, anche se lontane, avrebbero dovuto combattere per restarci. Seguire sogni scriteriati avrebbe portato soltanto alla loro morte. E Shiho era intenzionata a respirare ancora, finché aveva la speranza che un suo sospiro potesse raggiungere la stessa aria di Akemi. Non l’avrebbe abbandonata. Ed era una promessa infrangibile.

Sua sorella, ignara di tutto, continuava a parlare. «Sto preparando un esame molto lungo e complicato. Ho ancora un mese, spero di finire in tempo».

La tredicenne sollevò le sopracciglia, sentendo, per la prima volta, il sapore della sua cioccolata invaderle i sensi. La gustò, attenta. Era buona, stranamente solida. A malincuore, constatò che ne restava poca. Sollevando lo sguardo, si accorse che aveva appena sentito la prima frase di senso compiuto da parte di Akemi. Non si era ingannata, prima, aveva un timbro di voce dolcissimo, inebriante. Quanto al contenuto, le sembrava esagerato impiegare trenta giorni per un solo esame universitario. Si decise a intervenire, ora che la sua mente si era risintonizzata al corpo. «Che cosa riguarda?»

Akemi la guardò con gli occhi sgranati. Shiho si chiese se avesse fatto una gaffe. Magari l'aveva già detto. No, no, aveva parlato di un esame, era stata sul generico. Forse non si aspettava che le rispondesse. Anche al telefono, di solito parlava appena. «Diritto Privato Comparato. In pratica, è un ramo del diritto che si occupa di confrontare i vari sistemi giuridici di diversi Paesi. Si osservano, specialmente, le similitudini e le differenze tra le diverse leggi e Costituzioni. è molto interessante, davvero, però preferirei rivolgermi al settore penale, che, penso, mi sarà più utile, in futuro. Purtroppo, è un esame del terzo anno».

La minore delle due accavallò le gambe, sospettosa. «Non vorrei essere ripetitiva, Akemi, so che ne abbiamo già discusso, tuttavia, scegliere proprio giurisprudenza, come facoltà… Credo sia una sfida pericolosa. Riconosco che diversi avvocati servono l’Organizzazione, però devono dimostrare una fedeltà incondizionata e sono di continuo messi alla prova».

«Shiho-chan, è quello che voglio fare. Mi rendo conto del rischio, ne sono più consapevole di te. E, comunque, nessuno mi ha ancora fatto alcuna pressione, anzi, ho ricevuto diversi segni di incoraggiamento. Sembra che in pochi abbiano il coraggio di intraprendere questa carriera, sai?»

“In pochi sono così stupidi!”

Shiho inspirò, nel tentativo di mantenere la calma. «Akemi, è difficile restare ancorati all’Organizzazione, tanto più quando sei invischiato in queste pratiche,» abbassò il tono di voce, gettando un’occhiata veloce ai pochi altri clienti del locale. «Dubito che tu voglia difendere assassini e altri personaggi pericolosi, di certo colpevoli. Sapere tutte le loro malefatte, nel dettaglio, e dover sottrarre criminali alla giustizia non è il tuo volere, non oltraggiare la mia intelligenza; ti conosco abbastanza da sapere con certezza che vorresti vederli dietro le sbarre il doppio di me. E, se, adesso, forse, lo neghi, dopo te ne accorgerai».

Il sorriso affettuoso di Akemi scomparve. «Shh, smettila, Shiho-chan, e impara a usare i suffissi onorifici. Ti sei scordata ben due volte di usarli. Per te, sono Akemi Onee-chan. In Giappone, bisogna rispettare le convenzioni sociali, altrimenti, rischi di attirare sospetti. Ricordo l’informalità degli americani, ma, qui, è molto diverso. Le mancanze di rispetto sono molto criticate».

La tredicenne si appoggiò allo schienale della sedia, a braccia conserte. Si sentiva un po’ offesa. «Non è quello che ho notato a lavoro, negli ultimi giorni. Ad ogni modo, ho sentito parlare di loro. Sono, a dir poco, temibili. Bisogna stare attenti».

Akemi sollevò il mento, determinata. «Non pronunciare il nome di qualcuno contribuisce solo ad aumentarne la paura. Io non ho mai sentito nessuno di loro rivendicare alcunché. Inoltre, credo poco a quelle voci di corridoio, probabilmente ingigantite. Se devo aiutarli, devono dirmi la verità, per una volta».

L’altra sospirò. «È inutile, vero?»

La maggiore appoggiò il tovagliolo sul tavolo, evitando il suo sguardo. «Nessuno mi ha detto che avresti lavorato per loro, una volta tornata. Pensavo dovessi studiare, prima. Mi sarei opposta, per il poco che vale la mia opinione».

Sembrava preoccupata. Shiho sollevò le spalle, guardando i piatti vuoti.

Attesero in silenzio il conto. Akemi insistè per pagare. Anche mentre estraeva i soldi dal portafoglio, studiava la sorella minore di sottecchi. «Com’è lì? Ti rispettano?»

Shiho si morse una guancia. «Direi… strano. Oddio, continuo a ripetere questa parola. Sarà la terza volta in un giorno. Ad essere sincera, mi sento un po’ spaesata. Ho fatto diversi tirocini, in altri laboratori dell’Organizzazione, in America, però era diverso. Qui, è più complicato. Sei sempre osservato e ci sono regole severe da seguire,» aggrottò la fronte, pensando a Whisky. Pensò di alleggerire la dose di lamentele, per non preoccupare, inutilmente, sua sorella. «E, poi, i superiori possono essere complicati da gestire. Per altri aspetti, è piuttosto normale, in realtà. Magari, sono solo io troppo piccola e abituata ad un altro trattamento».

Akemi, rivolgendole un sorriso tenero, posò una mano sulla sua. Shiho, seppur infreddolita, rimase pietrificata, vedendosi così vicina a un’altra persona. Si sentiva compressa da due infiniti in contrasto. Erano due forze uguali e opposte. Una verso l’altra, una verso di sé. Era un sistema in equilibrio. Applicare la fisica la aiutò a non lasciarsi schiacciare. Rimase immobile. “Un punto materiale, Shiho, niente di più. Riesci anche a vedere i vettori, affascinante, vero? La forza peso, la forza normale, l’attrito, due altre… Okay, basta”.

«Mi spiace poter restare poco, oggi, Shiho-chan! Ho una lezione tra una mezz’oretta. Che ne dici, ci rivediamo settimana prossima? Magari a pausa pranzo? Dobbiamo anche organizzare qualcosa per il tuo compleanno, non manca molto. La prossima volta ti racconto di quel giorno, il migliore della mia vita. Non posso ancora crederci, siamo vicinissime ora! Niente telefonate limitate né oceani, ormai, tra di noi, finalmente».

Shiho si chiese come mai, allora, si sentiva ancora distante da sua sorella. Con la coda dell’occhio, uscendo dal locale, le parve di vedere allontanarsi una figura in nero. Ecco la barriera tra le due, sempre presente, sempre ingombrante.

Akemi la abbracciò stretta, appoggiando il viso nell'incavo del suo collo.

Shiho, inizialmente rigida, ricambiò, un po' impacciata. Doveva reprimere l’impulso di scansarla. In quel momento, l’anima era incatenata da una mente crudele, diffidente.

Chi era quella ragazza?

Ma, poi, perché, d’un tratto, di nuovo, proprio quel lato della sua mente aveva preso il sopravvento e voleva respingerla? Quando il suo cuore la guidava, si sentiva così bene… Perché, appena connetteva pensieri e situazione, nel silenzio, entrava in un conflitto da cui le pareva impossibile scappare? I sentimenti erano tanto complicati. Non riusciva a risolverli come i problemi in laboratorio, in modo razionale. Avrebbe dovuto applicare un altro metodo, come diceva Akemi… Qualche saggio di filosofia avrebbe potuto aiutarla, forse.

«Fatti valere, sorellina».

Shiho strizzò gli occhi, sentendo chiudersi le pesanti porte dell’armadio del sospetto nel suo cervello. Lasciò libero l’istinto. Lo sentì irradiarsi con veemenza nelle sue braccia, comandandogli di stringersi di più ad Akemi, isola di luce in un oceano di oscurità. Se non poteva salvare se stessa, avrebbe, almeno, preservato l’altra da quelle acque putride.

 

*Nella mitologia greca, Atlante venne punito da Zeus: fu costretto a portare sulle spalle la volta celeste, perché, durante la Titanomachia, si era schierato dalla parte dei Titani contro gli Dei dell'Olimpo.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4063676