Uro, Cavaliere di Nemesi

di Doctor Nowhere
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Talpa Sbilenca ***
Capitolo 2: *** Ancor Risuona Sconsolato Pianto ***
Capitolo 3: *** Caduto in basso ***
Capitolo 4: *** Il Tempio di Hestia ***
Capitolo 5: *** Regina del Dolore ***
Capitolo 6: *** Rivalsa senza Vittoria ***
Capitolo 7: *** Il Proibito delle Profondità ***
Capitolo 8: *** Fiamme Bianche ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** La Talpa Sbilenca ***


Uro trascinò gli zoccoli tra le sterpaglie, al limite del sentiero, in quel poco di ombra che offriva la foresta. A ogni passo, il fodero della spada tintinnava. Il frinire monotono delle cicale riempiva l’aria e nugoli di moscerini volavano tutto intorno a lui. Agitò la mano per scacciarli, ma quelli a malapena si scansarono, e continuarono a ronzare imperterriti.

Gettò indietro la testa e si grattò il mento bovino. Ma come facevano gli altri Cavalieri, in Cidonia, a marciare con tutta l’armatura? Lui moriva di caldo con solo i bracciali e le gambiere!

Una folata di vento fece sbatacchiare il suo mantello rosso.

Lo stomaco gli brontolò. Era arrivata l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. La scelta era tra attingere alla riserva o fermarsi alla taverna a pochi passi di distanza.

Accarezzò la scarsella, e le dracme tintinnarono. Non aveva proprio una gran voglia di carne secca. E tutto sommato se lo poteva permettere un pranzo più sostanzioso.

La taverna era un grosso casolare di due piani, fatto di legno ormai mezzo marcito.

Sull’insegna svettava un animale peloso che portava abiti umani e spessi occhiali, traballante e con una bottiglia nella zampa destra. Sotto c’era scritto, con lettere nere su sfondo giallo, “La Talpa Sbilenca”. Uro grugnì una mezza risata. Quel coso era mille volte più simile a un topo che a una talpa.

Poco distante, una stalla rozza quanto il resto, e lì davanti sedeva uno di quei piccoletti con la barba. Com’è che si chiamavano? Nani, ecco. Quello in particolare, un tappetto lurido con capelli e barba rossicci, se ne stava seduto su una botte, con le gambe ciondolanti a due spanne da terra, un cappello di paglia calcato sugli occhi e una lunga pipa da cui si levava un sottile filo di fumo. Difficile dire se dormisse o se fosse solo tanto perso nei suoi pensieri da non notare il nuovo arrivato. Non che fosse importante. Uro non aveva un cavallo da affidargli.

Il porticato di legno che dava al locale cigolò sotto i suoi passi. Dall’interno provenivano voci ovattate, tintinnii di bicchieri e bottiglie, qualche risata. Non molta gente, comunque.

Sbatté gli zoccoli, per far cadere almeno un po' del fango essiccato. Alzò le mani a sollevare il cappuccio, fece scivolare le corna dagli appositi strappi e lo lasciò ricadere sulla schiena.

Poggiò la mano pelosa sulla porta, che si aprì con un irritante cigolio.

Ogni brusio si interruppe.

C’erano una mezza dozzina di tavoli circolari, ma solo un paio erano occupati. Due uomini che giocavano a carte, quattro avventori di varia stazza coi piatti mezzi vuoti e un vecchio barbogio che mangiava con un librone aperto davanti. Tutti intenti a fissarlo, alcuni con gli occhi stretti dal sospetto, altri aperti dalla curiosità. Il vecchiardo aveva la bocca spalancata, ma probabilmente era perché si era paralizzato poco prima di trangugiare un boccone. Aveva ancora a mezz’aria il cucchiaio di minestra.

“E tu che razza di mostro saresti?” bofonchiò l’oste, un nano calvo dalla folta barba bruna.

Uro incrociò le braccia: “Un minotauro.”

Il nano tirò sul col naso, sputò, e centrò in pieno una sputacchiera dall’altra parte del bancone: “Mino-che?”

“Minotauro, oste” disse una donna al tavolo da quattro. Aveva i capelli bianchi raccolti in una coda, il volto segnato da rughe, e sedeva in modo tale da avere una perfetta visuale sull’ingresso: “Vengono dai Regni di Cidonia, ma sono rari anche lì. Avevo visto qualche raffigurazione, ma dal vivo…”

“E che mangiate?” il nano si gettò un panno sulla spalla: “Biada o cibo vero?”

“Carne.” disse Uro “Cruda.”

Il nano scrollò le spalle: “Beh, meno lavoro per mia moglie.” si trascinò sul tavolo con le mani. Uro sbatté le palpebre. Gli mancavano le gambe. Gli era parso che fosse in piedi dietro al bancone, invece non aveva proprio nulla dalla vita in giù.

La donna dai capelli bianchi continuava a fissarlo, con un sopracciglio aggrottato e uno strano sorrisetto sulle labbra. Uro arricciò il naso. Che voleva, quella?

L’oste raggiunse una porta laterale e la aprì con una testata: “Lagertha!” urlò a pieni polmoni: “Piglia una bistecca in cantina e ficcala su un piatto così com’è.”

“Ma che dici?” provenne una voce femminile dall’interno: “Così poi si piglia le malattie, i vermi!”

Uro roteò gli occhi, e si diresse verso un tavolo. Quello all’angolo, più isolato. Seduto lì, fra l’altro, la vecchia per guardarlo avrebbe dovuto girarsi all’indiero.

“E che ne so io, qui c’è un mezzo toro che la vuole così” sbottò il nano: “E comunque, rispetto a come la fai tu, la bistecca, forse forse sono meglio i vermi!”

“Daven, figlio di un cane! Guarda che poi facciamo i conti!”

Il nano scrollò le spalle, si sollevò sulle braccia, si voltò e riprese a spazzare il bancone. Appesa al muro alle sue spalle c’era una grossa ascia bipenne, con diverse tacche sulle lame, ma ancora molto affilata.

“Ehi” uno dei due giocatori di carte tirò una gomitata all’altro: “Sei tu di mazzo. Muoviti.”

La vita riprese nel locale. Il cucchiaio del vecchio si immerse di nuovo nel piatto, le palpebre socchiuse dietro gli occhiali, concentrate sulla pagina ingiallita: “Tra le proprietà della Mandragola si – slurp – si ricorda l’estrema pericolosità del suo pianto, che sarebbe in grado di...”

“Verso Est, eh?” mormorò uno al tavolo da quattro: “E quanto tempo durerebbe?”

Uro si passò una mano sull’orecchio taurino. Sempre così tanto rumore.

“Alla salute!”

“Se non si estrae – slurp – con la dovuta attenzione…”

“Ehi! È il mio bicchiere quello!”

“Lascia, mischio io, che te non sei bravo!”

“Vedrete, non vi pentirete di aver fatto affari con David l’Onesto!”

Menzogna.

Uro drizzò la testa. Qualcuno aveva mentito.

Di sicuro non poteva essere il vecchio studioso, tutto intento a sorseggiare la sua minestra con un insopportabile risucchio. Uno dei giocatori, forse? Se ne stavano lì, assorti nel gioco… no, improbabile.

Il minotauro digrignò i denti. No, doveva essere stato uno dei quattro.

Oltre alla donna dai capelli bianchi, al tavolo sedevano due uomini e una creaturina verde, un goblin. Degli uomini uno era alto e massiccio, aveva la testa rasata e lo sguardo assente, l’altro era più nella media, aveva una ciocca bianca nei capelli altrimenti neri e una benda sull’occhio destro. Il guercio protese la mano, l’indice che strisciava sul pollice nell’inconfondibile segno dei soldi: “Rimane solo una questione, mi pare…”

“Venti scudi d’oro, di cui la metà anticipati.” la donna lasciò cadere sul tavolo una saccoccia tintinnante: “Come da accordi.”

“Come da accordi!” ripeté il goblin con voce stridula.

Il minotauro si grattò il mento. Qualunque cosa ci fosse sotto, non lo convinceva.

“A lei signore!” un piatto con un’abbondante bistecca cruda si posò sul suo tavolo, servito da un nano con capelli e barba biondi raccolti in lunghe trecce.

Uro mugugnò e annuì. Ora, per quanto riguardava quei quattro…

“Ma allora è davvero un mezzo toro” commentò il cameriere con voce femminea “E anche bello muscoloso…”

“Tieni gli occhi al loro posto, Lagertha!” le urlò contro Daven.

Il minotauro aggrottò un sopracciglio. Come?

“Oh, taci!” rispose a tono il, no, la nana e accarezzò il braccio peloso di Uro “Quando mai mi ricapita di vedere una bestia così?”

Uro si ritrasse ed emise un mezzo ruggito. Ma perché non si levava?

“Focoso” ridacchiò la nana: “Mi piace. Ma davvero mangiate carne cruda voialtri?”

“Lagertha, in nome di Odino!” strepitò il locandiere: “Non disturbare i clienti!”

La moglie fece una smorfia, ma finalmente si allontanò. Il minotauro si grattò la testa sotto il corno. In effetti, gliel’avevano detto che le femmine dei nani avevano la barba… scosse la testa. Non era il momento di distrarsi! A che punto era rimasto?
La donna dai capelli bianchi aveva lasciato il tavolo, erano rimasti solo gli altri tre.

“Quindi, capo, adesso tagliamo la corda?” il goblin voltò la testa da una parte all’altra: “Dieci scudi non sono affatto male come bottino!”

Uro abbassò lo sguardo sulla carne.

“No, Spina” mormorò una voce più aspra: “Restiamo finché non torna la nostra gentile cliente”

“Perché?” bofonchiò un vocione profondo: “Abbiamo i soldi. Possiamo andarcene.”

Delle dita tamburellarono sul tavolo: “Magog… secondo te perché qualcuno dovrebbe pagare venti scudi d’oro per essere accompagnata in un viaggio di neanche due settimane tra andata e ritorno?”

“Eh…” un mugugno, seguito da un piccolo tonfo. Uro sollevò appena gli occhi. Quello grosso giocherellava con un’enorme clava.

Il minotauro afferrò la carne e l’addentò. Il sale gli pizzicò la lingua. Delizioso.

“L’unica spiegazione” continuò l’Onesto “È che sia in cerca di qualcosa, qualcosa…” si passò la lingua sulle labbra: “Che vale ben più di venti monete.”

Spina batté le mani: “Uuuuh. Un tesoro, un tesoro!”

L’uomo colpì il tavolo: “Silenzio, idiota! Vuoi annunciarlo a tutto il mondo?”

Il goblin guaì: “Scusa, capo”

“Quindi noi troviamo il tesoro…” mormorò Magog: “E poi?”

“Imbecille.” David sospirò: “E poi ci teniamo tutto per noi!”

I due lacchè esultarono.

Uro puntò gli zoccoli e trascinò indietro la sedia. Aveva sentito abbastanza. E l’Occhio Indagatore non si era attivato. Non avevano mentito sulle loro intenzioni.

Si ficcò in bocca quel che restava della bistecca e la ingoiò in un sol boccone. Si alzò e passò la mano sul tavolo, per pulirla dal sangue.

Camminò fino al tavolo delle tre canaglie e si scrocchiò le dita.

“Che vuoi?” David l’Onesto si piegò in avanti: “Cerchi rogne, bestione?”

“Avete intenzione di rapinare una donna innocente” Uro sfoderò la spada: “Io giungo a portare la punizione di Nemesi, che mai ignora il sangue versato.”

La bocca dell’umano si aprì in un grande sorriso: “Amico, devi aver capito male” la sua mano si ritirò sotto il tavolo: “Noi non faremmo mai una cosa del genere…”
Menzogna.

Uro si portò l’elsa alle labbra e sussurrò: “Divina Nemesi, riempimi con la Tua giusta ira, perché io possa diventare strumento della Tua giustizia.”

Le fiamme sacre della dea della vendetta divamparono e avvolsero tutta la lama di fuoco rosso sangue.

Il goblin urlò e cadde all’indietro. Il guercio estrasse un pugnale, e lo scagliò contro il minotauro. Uro lo deviò con la spada.

Magog si alzò e gli scaraventò contro il tavolo con un solo movimento. Uro, preso in pieno, cadde all’indietro, e la spada gli scivolò via.

Grugnì.

Spina gli saltò addosso, brandendo un’accetta con entrambe le mani: “Muori, bastardo!”

Uro sollevò il tavolo e parò l’ascia del goblin. Si sporse e lo colpì con un manrovescio. L’esserino verde rimbalzò via, con un acuto: “Aaaaah!” di dolore.

Il minotauro piantò gli zoccoli e si rialzò.

Magog e David lo fronteggiarono, il primo con la sua clava, l’altro con una spada corta.

Lo zoccolo di Uro raschiò sul pavimento. Si lanciò contro Magog, ma all’ultimo scartò di lato, e l’enorme mazza si schiantò a vuoto alle sue spalle.

Il bestione si voltò. Quel bandito era enorme, lo superava di tutta la testa. Il minotauro gli assestò un montante sul mento, e Magog barcollò.

David balzò fuori da dietro il gigante e si lanciò in un affondo, poi un altro, e un altro ancora. Uro indietreggiò. La sua schiena urtò contro il bancone.

“Ora non puoi più scappare, mostro!” gridò l’umano, proprio davanti a lui, e tirò indietro la lama per caricare il colpo fatale.

Uro gli schiacciò il piede sotto lo zoccolo.

Il guercio urlò e crollò a terra gemente. La piccola spada rimbalzò sul pavimento.

“Capo!” strepitò Spina.

Uro allungò il braccio e afferrò il goblin per la collottola.

“No, no, aspetta!” gridò il piccoletto: “Pietà! Pietaaaaaah…”

Il minotauro lo scaraventò dall’altra parte della locanda. Il goblin si schiantò sul tavolo del vecchio studioso, e si rovesciò addosso tutta la brodaglia.

Uro soffiò dal naso. Rimaneva solo quello grosso.

Magog dondolò la clava. Un’arma formidabile, senza dubbio. Ma lenta.

Uro muggì con ardore, poi caricò. Incornò il gigante e lo spinse avanti, avanti, avanti, fino a che non si schiantò contro la parete. Tempestò di pugni il petto del brigante. Anche Magog gli assestò dei colpi sulla schiena, ma dovette usare le mani, era troppo vicino per usare la clava.

Il minotauro si ritrasse, afferrò le spalle del bestione e tirò verso il basso. La faccia di Magog cozzò contro il ginocchio del minotauro a metà strada dal pavimento.

Il bandito si afflosciò a terra, costretto a reggersi sulle braccia, boccheggiante.

Uro tirò il fiato. Si diresse verso l’angolo dov’era caduta la sua spada.

“Bravo!” Lagertha alzò i pugni: “Erano anni che non vedevo una rissa così! Bravissimo!”

“Starai scherzando, donna!” strepitò suo marito, che aveva impugnato la grossa ascia: “Mi hanno sfasciato tutto! E adesso chi lo ripaga tutto ‘sto sfacelo?”

Uro levò in alto la lama e di nuovo le fiamme di Nemesi si accesero.

Un sibilo improvviso gli sfiorò l’orecchio, e un dardo si conficcò nella parete davanti a lui.

“Fermo lì!”

Uro si voltò. Sulla soglia della taverna si stagliava la donna, intenta a ricaricare la balestra.

Il minotauro digrignò i denti: “Non intrometterti”

“Oh, e perché non dovrei?” la vecchia rialzò l’arma: “Dopotutto un gigantesco testone mezzo uomo mezzo somaro ha appena messo fuori gioco la mia scorta!”

David l’Onesto si appoggiò al bancone e si tirò su. Il goblin gli corse incontro e lo aiutò a zoppicare verso l’entrata.

“La tua scorta voleva tenderti una trappola” disse Uro: “Ti ho appena salvato la vita”

La donna alzò gli occhi al cielo, scosse la testa e si fece da parte, per permettere ai tre di fuggire. Uro soffiò. Beh, poteva credergli o no, non faceva nessuna differenza.

Le tre canaglie ruzzolarono fuori dalla porta. Doveva sbrigarsi, o sarebbe stato impossibile raggiungerli.

“Senti, donna” disse: “Non ho motivo di lottare contro di te. Guarda” indicò con la spada fiammeggiante le monete d’oro sparse per terra: “Non voglio i tuoi soldi, puoi riprenderteli.”

Il nano sbatté il manico dell’ascia sul bancone: “Ehi, ehi, ehi, razza di disgraziati! Questa è una locanda perbene, non un tugurio qualsiasi! Pagatemi i danni, altrimenti…”

Uro fremette, poi si ricompose. Non aveva tutti i torti. Era un innocente, dopotutto, e gli aveva recato un danno. Afferrò la sua scarsella, prese un paio di dracme d’oro e le lanciò all’oste, che le afferrò al volo.

“Dovrebbero bastare” disse Uro “Ora vado.”

Daven morse una moneta: “Bah. La gioventù di oggi. Quando ero avventuriero io...”

“Ma sta’ zitto!” sbuffò Lagertha: “Se volessi contare le volte che ti abbiamo raccattato sbronzo e pesto dai pavimenti delle osterie non ti basterebbero le dita neanche se avessi ancora i piedi!”

Il nano intascò le monete e brontolò: “Tre volte maledetto il giorno che ti ho chiesto di sposarmi!”

Uro scosse la testa. Non aveva tempo da perdere.

Uscì a grandi passi dalla locanda.

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Capitolo 2
*** Ancor Risuona Sconsolato Pianto ***


L’ampia strada si estendeva sia verso destra che verso sinistra, ma già dopo pochi passi si perdeva nella boscaglia. Uro roteò la spada fiammeggiante. Dove potevano essere scappati?

Il nano dai capelli rossi stava sempre sulla sua botte. Il minotauro gli si avvicinò: “Ehi. I tre che sono appena usciti. Dove sono andati?”

Quello si tolse la pipa di bocca e sbuffò un refolo di fumo.

“Sono tre” ripeté Uro: “Uno grosso, un tipo con la benda sull’occhio e un goblin. Da che parte sono andati?”

Il nano si passò la lingua sui baffi e sputò per terra: “E perché dovrei dirtelo?”

“Sono banditi. Devo impedire che facciano del male a qualcuno. Sono un Cavaliere e sacerdote di Nemesi!”

Il nano tirò su il mento: “Cavaliere di che?”

Il minotauro strinse i pugni: “Nemesi. Dea della vendetta. Colei che mai ignora il sangue versato, colei che dà a ciascuno ciò che si merita!”

“Mai sentita” il rosso alzò la tesa del cappello di paglia e sollevò lo sguardo sul minotauro: “Lo sai che la tua spada sta andando a fuoco, sì?”
“Oh, vattene ai corvi” disse a mezza voce Uro. Si chinò per terra e fiutò. Troppi odori diversi per farsi un’idea precisa. Però non potevano essere andati lontano, non con il piede frantumato di David.

“Ah. Un Cavaliere di Nemesi, dunque” gli giunse da dietro la voce della donna: “Avrei dovuto riconoscere la boria e la più totale incapacità di farsi i fatti propri.”

Uro si tirò in piedi: “Se manca dell’oro, o lo hanno intascato quei furfanti o è sparso sul pavimento.”

“Non è questo il punto.”

Il Cavaliere alzò gli occhi al cielo e si voltò.

La donna stava appoggiata alla porta, con le braccia conserte e la fronte corrugata. Dai suoi abiti pendevano una dozzina di sacchetti e scarselle. Al lato della cinta pendeva la balestra. Portava qualcosa a tracolla, sulla schiena. “Ora, grazie a te, dovrò affrontare un pericoloso viaggio da sola.”

Uro picchiettò il terreno con lo zoccolo. Ma qual era il suo problema? “Meglio sola che con quei criminali. Se non ti è chiaro, volevano ucciderti.”

La donna affondò la fronte nella mano: “Uccidermi. Quei tre.” emise una risatina, poi scosse la testa: “Ma mi sembra che abbiamo cominciato col piede sbagliato, noi due. Proviamo a ripartire: io mi chiamo Amalia, dell’Impero Saturniano.”

Uro alzò le spalle: “Buon per te”

La vecchia sollevò un sopracciglio: “Sarebbe buona educazione presentarsi, quando una signora rivela il suo nome”

Il minotauro sbuffò “Uro. Sai già da dove vengo, mi pare.”

“Uro” mormorò lei. Si soffermò sul suo volto taurino e sulle corna: “Appropriato. E dimmi, Uro… cosa ci fa un Cavaliere di Nemesi così lontano dai Regni di Cidonia?”

Il minotauro abbassò la lama. Le fiamme si spensero: “Non mi aspettavo che il nostro ordine fosse noto al di fuori della nostra terra.”

“Alla maggior parte della gente no” disse Amalia: “Ma io non sono la maggior parte della gente” si resse il mento con una mano, e col dito si picchiettò sulla guancia: “E dimmi… come mai una creatura tanto rara ha scelto di unirsi a un ordine minore? Scommetto che Ares e Poseidone avrebbero impiegato ben volentieri un minotauro nei loro ranghi… forte e senza cervello, proprio come piace a loro.”

Uro soffiò.

La donna inclinò la testa: “E che ci fai così lontano dalla tua terra, mi domando…”

Il minotauro strinse gli occhi: “Ma quante domande fai?”

La donna sorrise, un sorrisetto astuto e smaliziato: “Beh, basta che rispondi a questa: la tua missione, qualunque essa sia, ti permetterebbe di fare un piccolo ritardo, diciamo di un paio di settimane?”

Uro rinfoderò la spada e incrociò le braccia: “Dipende dal motivo del ritardo”

“Come ti ho detto, hai messo in fuga la mia scorta” disse Amalia: “E non sarà facile trovarne un’altra in questa zona. Non vorrai costringermi ad affrontare il viaggio da sola?”

“Bah” disse Uro “I Cavalieri di Nemesi non perdono il loro tempo andando a caccia di tesori. Il nostro compito…”

“È punire i malvagi, raddrizzare i torti e vendicare gli innocenti” cantilenò la donna: “Sì, ho avuto modo di apprendere il vostro codice d’onore”

Il minotauro le voltò le spalle: “E allora dovresti sapere che non puoi convincermi a seguirti nella tua spedizione comprandomi!”
Un altro risolino scaltro: “L’oro non ti interessa, lo so. Ma se ti dicessi che sono diretta a un posto dove è rinchiusa una povera donna incapace di trovare riposo persino nella morte?”

Il Cavaliere girò la testa e puntò uno dei suoi occhi verso la donna. Amalia fece scivolare la tracolla, e rivelò un liuto. Pizzicò le corde, dando vita a note un po' stridule, e rigirò i chiodi all’estremità dell’impugnatura. Si sedette sul legno, e iniziò a suonare una melodia triste.

Uro incrociò le braccia. Le note fluivano lente, era come se penetrassero nella sua pelle. Gli si strinse il cuore. Strizzò gli occhi e si scrollò tutto. Non si sarebbe certo fatto fregare da una musica da quattro soldi.

Amalia iniziò a cantare:

 

“Ancor risuona sconsolato pianto

Di lei che Disgrazia prese per mano

Di Klitandra la catastrofe canto

Che visse al tempo di Achis, gran sovrano…”

 

Il nano seduto sul barile singhiozzò. Uro si strofinò un occhio: “Basta così!”

La donna continuò a pizzicare le corde: “Che succede, Cavaliere? La storia non è ancora cominciata e già ti mette a disagio?”

“Niente affatto” disse Uro “È che… non riesco a capire niente, con la rima e tutto. Raccontala normalmente!”

Il rosso arricciò il naso e mugugnò: “Guastafeste!”

Amalia fece una smorfia: “Sia come vuoi. Non sarà altrettanto avvincente, ma il pubblico ha sempre ragione” sollevò le mani dal liuto: “Dunque, secondo la leggenda tutto è avvenuto all’incirca un secolo fa, al tempo di Achis, l’ultimo re di Ugsag.”

Uro si accarezzò il mento: “Ugsag…” ripeté. Era un nome che aveva già sentito, di sfuggita.

La cantastorie annuì: “È stato l’ultimo regno a governare la terra che calpestiamo in questo momento. Io sono diretta a quella che era la capitale” con l’indice disegnò dei cerchi nell’aria: “Ma ci arriveremo tra poco. Re Achis, mentre viaggiava con il suo corteo, udì una dolcissima voce che cantava in lontananza. Era un canto troppo bello per ignorarlo. Così abbandonò il suo seguito e si inoltrò nella foresta e lì incontrò…”

“La donna della leggenda.” mormorò Uro: “Kitandra.”

“Klitandra” corresse Amalia: “Ma esatto. Non appena la vide se ne innamorò perdutamente. E subito le chiese di sposarlo, anche se lei era una semplice popolana. Lei accettò, e tornarono alla sua corte. Ebbero anche un figlio, Nahor, e credettero di poter essere felici. Ma una cortigiana che per lungo tempo aveva sperato di poter sposare il re, folle per l’invidia, assassinò il sovrano e, per tormentare la donna che l’aveva surclassata, rinchiuse Klitandra in una prigione in cui nemmeno la morte potesse giungere a portarle sollievo.”

Uro sbuffò: “E come ci sarebbe riuscita?”

“A quanto dice il mito, la cortigiana era una seguace di uno dei Proibiti”

Il nano sputò per terra: “Ha! Ci avrei scommesso che c’entrava un Proibito!”

Uro si grattò la nuca.

“Eccerto” andò avanti imperterrito il rosso: “Dalle mie parti si dice che quando ti succede una disgrazia devi tirare una moneta. Se esce testa, è perché di mezzo ci sta uno di quei dei corrotti. Se invece esce croce, allora è solo scalogna.”

“Chi ti ha chiesto niente?” sbuffò Uro: “Lo sappiamo cosa sono i Proibiti”

Il nano incrociò le braccia, imbronciato: “Non si può neanche fare conversazione!”

Il minotauro scosse la testa: “Stavamo dicendo… Klitandra rinchiusa eccetera eccetera. E il figlio?”

Amalia si accarezzò una ciocca di capelli sfuggita alla sua coda: “Nahor? Ecco, la leggenda non dice molto di quello che gli è successo. Secondo alcune interpretazioni è morto, secondo altre è prigioniero insieme alla madre. Comunque, non è ancora finita.”

Suonò un’altra cascata di note, più lugubre. Un brivido corse lungo la schiena di Uro. Il minotauro strinse le labbra, per non mostrare il minimo segno di disagio.

“La cortigiana usurpò il trono di Achis, e governò il regno con crudeltà e malizia. La corruzione e l'empio culto dilagarono nella corte. Quando gli dei videro quello che stava accadendo, scagliarono una terribile maledizione sul palazzo. La malvagia donna fu trasformata in un mostro, affinché l’aspetto riflettesse la sua empia natura. Quanti avevano piegato il ginocchio davanti a lei furono spazzati via.

 

Il regno fu maledetto ed infranto

Ivi mai più cresceran vite o grano

E ancor risuona sconsolato pianto

Di lei che Disgrazia prese per mano”

 

“Brava!” il nano tirò su col naso e batté le mani: “Bis!”

Uro si concesse una risatina sarcastica: “E quale sarebbe la morale? Non innamorarti di un re altrimenti seguiranno rovina e distruzione?”

“Eh” Amalia allargò le braccia: “L’interpretazione del significato di storie annacquate da decenni di dicerie non è affar mio. Allora, Cavaliere di Nemesi, verrai con me o no? La povera Klitandra non troverà pace da sola, e se dovesse succedermi qualcosa lungo la via chissà quanto ci vorrà prima che qualcun altro decida di imbarcarsi in questa cerca…”

Uro spostò il peso da uno zoccolo all’altro: “Non mi hai ancora detto perché ci tieni tanto ad addentrarti in una foresta così pericolosa solo per scoprire se una vecchia storia è vera o no.”

La donna si portò una mano al collo e sollevò una collana nascosta sotto i vestiti “Non sei il solo a servire un dio, minotauro” la sganciò e la diede a Uro.

C’era un ciondolo, all’estremità, una medaglietta circolare. Era d’argento, e al centro vi era raffigurata una fiaccola che emanava raggi, sorretta da una mano.

Amalia sorrise: “Io appartengo al culto di Veritas, il Custode dei Segreti. Il nostro dio ci chiede di scandagliare il mondo in lungo e in largo per riportare alla luce le verità nascoste. Alcuni di noi studiano le leggi della natura, altri indagano sui crimini degli uomini. Io… raccolgo storie inquinate dal tempo e cerco di togliere il marciume. Allora, verrai con me o no?”

Veritas. Il minotauro aggrottò le ciglia. No, non gli diceva niente. Però aveva sentito che fuori da Cidonia venivano adorati dei totalmente diversi.

Restituì la medaglia: “Che razza di dio della verità ha bisogno dei suoi servitori per indagare?”

Amalia alzò le spalle: “Non lo so. Che razza di dea della vendetta ha bisogno dei suoi seguaci per somministrare la sua idea di giustizia?”

Uro soffiò. Era troppo brava con le parole, per i suoi gusti. Però per tutto il tempo in cui aveva parlato l’Occhio Indagatore non si era mai attivato. Quindi era sincera. E davvero poteva esserci una donna prigioniera da più di cento anni. Se non era un torto da riparare quello…

“E va bene, cantastorie” disse “Ci sto. Ma non mettiamoci più tempo di quanto sia strettamente necessario.”

“Magnifico!” disse la donna, poi si rivolse al nano: “Signor Olaf, le dispiacerebbe andarmi a prendere il mio asino? Ha sentito il mio nuovo compagno di viaggio, dobbiamo metterci subito in cammino. Nemesi ci fulminerà se osiamo perdere un solo secondo!”

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Capitolo 3
*** Caduto in basso ***


La spada di Uro si aprì una via nella fitta vegetazione. Il minotauro grugnì. Si passò una mano sulla fronte pelosa. Faceva un caldo degno della fucina di Hefesto. E tutti quei piccoli arbusti li rallentavano parecchio. Si morse il labbro e si sistemò la cinta di cuoio.

Quella foresta era un fruscio continuo. Le piante si muovevano anche senza che soffiasse un solo alito di vento. Potevano essere animali, certo. Ma non ci credeva molto.

E poi c’era quell’odore, pungente e unico.

Uro allargò le narici. Quel fetore li accompagnava da quando avevano lasciato la taverna. Non era la barda e non era il suo asino carico di strani bagagli. Eppure, ogni volta che erano controvento, quella traccia lo colpiva dritto nel naso.

Un raglio alle sue spalle lo fece sobbalzare.

“Dannazione!” urlò. Il cuore gli batteva fortissimo nel petto. “Cantastorie, non puoi far star zitto quel tuo stupido animale?”

“Bada a come parli!” Amalia accarezzò il grigio muso del somaro: “Apuleio ha un animo sensibile, potresti ferirlo!”

Il minotauro alzò gli occhi al cielo: “Vedi di farlo stare zitto, o perderò la pazienza!”

“Che modi!” sogghignò lei “Voi Cavalieri di Nemesi non dovreste proteggere e accudire tutti gli innocenti? Porta un po’ di rispetto per il mio Apuleio, che non ha mai fatto del male a una mosca!”

L’asino batté lo zoccolo per terra, come ad approvare le parole della barda.

Il collo di Uro si gonfiò. Quella donna! Si costrinse a fare un lungo respiro. Doveva sopportarla solo finché non fossero arrivati a quella maledetta reggia di Achis.

Diede un calcio a un sasso. C’era qualcosa, sotto quel verde. Si chinò. Tra gli irregolari ciuffi d’erba c’era ancora qualche rimasuglio di terreno scavato e ordinato. Era un sentiero. Almeno, lo era stato.

“Forza, in piedi!” disse Amalia, dietro di lui “La fatica tempra, e tu sei giovane e vigoroso”

Uro scosse la testa e poggiò la mano per alzarsi. Le sue dita sfiorarono un’irregolarità nel terreno. Una piccola rientranza?

Strinse gli occhi. Non era una semplice rientranza, era un’impronta. Difficile identificarla, ma non sembrava proprio quella di un animale selvatico.

Il Cavaliere di Nemesi portò il naso sul terreno e fiutò. L’odore era… quello. Il tanfo che lo tormentava.

“Ehi, che succede?” chiese la cantastorie “Hai trovato qualcosa?”

Uro scattò in piedi.

Intorno a loro c’erano rami e foglie spezzati. Un ramo di un cipresso era spaccato. Sul taglio era ancora esposto il verde sotto la corteccia. Era recente.

Più avanti il terreno si faceva fangoso e le orme risaltavano di più.

Uro si coprì la fronte col braccio per proteggersi dalla luce del Sole e strinse gli occhi.

Erano trascinate, e molto confuse. Chi le aveva lasciate si muoveva in fretta, forse aveva fatto avanti e indietro più volte. Si volse verso quelle più isolate. Erano impronte molto piccole, lasciate da una creatura che camminava senza scarpe e aveva una zampa con tre dita.

“Il goblin della locanda!” mormorò Uro: “È qui. E se c’è lui, potrebbero esserci anche i suoi compari, nei paraggi.”

“Cosa?” disse Amalia “Ma…”

Uno sbrilluccichio nel fogliame, più avanti. Il minotauro muggì. Questa volta non l’aveva immaginato, ne era certo.

Una sagoma guizzò nella macchia di foresta. Eccolo!

Uro rinsaldò la presa sulla spada.

“Aspetta!” disse la seguace di Veritas.

“Non puoi fermare la giustizia di Nemesi!” gridò il Cavaliere, e si lanciò in avanti. Li aveva sconfitti una volta, lo avrebbe fatto di nuovo.

“Alla fine mi hai visto, bestione” sghignazzò l’esserino verde: “Ma non ti servirà a nulla, se non mi prendi!”

Il piccoletto corse nel fogliame. Il minotauro lo inseguì con grandi falcate.

Trenta piedi di distanza. Venticinque. Venti!

Il goblin scartò a destra: “Sei lento! Lento!”

Gli zoccoli di Uro si trascinarono nel terreno. Il Cavaliere si arrestò, poi riprese a correre nella nuova direzione.

Tutt’attorno era verde. Alberi e cespugli fino a perdita d’occhio. Dov’era il goblin? Uro grugnì. Lo aveva perso!
Si abbassò a fiutare per terra, e ritrovò il suo odore pungente.

“Che succede, mostro?” il piccoletto si sbracciò dalla distanza: “Sei già stanco? Troppo lardo su quelle zampe?”

Uro soffiò, trascinò uno zoccolo sul terreno e riprese a correre.

Trentacinque piedi. Trenta. Venti. Quindici. Era quasi a portata…

Il goblin si gettò in uno spiazzo più aperto, una radura, dove si ergevano le sagome dei suoi due compari. Bene, c’erano tutti. Nessuna pietà per i malfattori!

“Per Nemesi!” gridò, e balzò in avanti. All’atterraggio risuonarono piccoli schiocchi e il terreno sotto i suoi piedi franò. Il minotauro cadde nel vuoto, la spada gli sfuggì di mano, la luce del Sole venne inghiottita dalle pareti del buco.

Uro atterrò di schiena e muggì di dolore.

Rialzò la testa. Era precipitato in un buco profondo almeno dieci piedi. La sua spada sporgeva dal bordo della fossa, ben oltre la portata delle sue mani.

Spina il goblin fece capolino dall’alto: “Guarda, guarda. Sei proprio caduto in basso, eh?” rise sguaiato. Comparve anche Magog. E infine, David l’Onesto, appoggiato a una stampella improvvisata.

“Lo sapevo che ci sarebbe cascato!” il guercio mostrò i denti giallastri in un crudele sorriso: “Che idea geniale che ho avuto!”

Il piccoletto verde sbuffò: “Complimenti, Spina” borbottò tra sé: “Sei stato bravissimo a fare da esca” tamburellò con le dita su un piccolo cannocchiale: “E grazie anche per averlo seguito e spiato nell’ultima settimana. Non so come avrei fatto senza di te!”

David si chinò su di lui: “Come dici?”

Spina si fece ancora più piccolo: “Niente, capo”

“La vecchia non può essere troppo lontano” David si spazzò la spalla: “Prendetela e portatela qui!”

I suoi due complici annuirono e si allontanarono.

L’umano si sedette, la gamba ferita distesa oltre il bordo della buca “Sai, bestia” disse: “Ci saremmo presi i risparmi della vecchia, questo sì, ma tu… se non ti fossi messo di mezzo, non ti avremmo fatto niente.”

Uro incrociò le braccia: “A quanto ricordo, non mi avete fatto neanche un graffio comunque. Ed eravate tre contro uno.”

“Ci hai solo colti alla sprovvista!” esclamò David: “Altrimenti non te la saresti cavata così a buon mercato!”

Menzogna. Come se ci fosse bisogno dell’Occhio Indagatore per capirlo. Il minotauro ridacchiò: “Lo vedo. Infatti avete avuto bisogno di una trappola. Fatemi uscire e affrontatemi, se avete il coraggio.”

David strinse i pugni “Tu, maledetto…!” il suo volto si distese, e il suo unico occhio si volse avido verso la spada “Però sai che questa è proprio una bell’arma? Sai, adesso sono indeciso se venderla al mercato o se tenerla per me”
Uro batté lo zoccolo sul terreno “Non osare toccarla! Non sei degno di sfiorare una lama benedetta da Nemesi!”

“Che esagerazione!” l’umano afferrò l’elsa, e la sollevò. Gli comparve un ghigno soddisfatto, ma subito si spense. Mosse la lama a destra e a sinistra: “Ma che…”

L’aria sfrigolò, e un filo di fumo si sollevò dalle dita del brigante, che gettò via la spada e si afferrò la mano: “Ahia! Scotta!”

“Ha!” il Cavaliere si portò le mani ai fianchi: “Nemesi sa difendere ciò che è suo.”

“Ah sì?” il brigante strinse il suo unico occhio: “Beh, allora non sarà un problema se ti lasciamo qui in balia degli animali selvatici, giusto, mostro? Hai la tua dea a difenderti, no?”

Un fruscio, dal fogliame. David si ricompose, puntò la stampella per terra e si tirò in piedi: “Oh, mia cara signora Amalia, che piacere rivederla! Si è goduta il suo viaggio nella foresta?”

“Non c’è male” la donna e il suo asino comparvero in cima alla fossa. Amalia si sistemò una ciocca di capelli: “Certo, l’umidità non è il massimo per la mia schiena, e ho avuto compagni di viaggio più loquaci, ma a parte questo non posso proprio lamentarmi!”

Uro strinse i pugni. L’avevano catturata! Ed era stata colpa sua, che non era riuscito a proteggerla. L’insolenza della vecchia non toglieva il fatto che fosse innocente. Qualunque cosa le avessero fatto quei bastardi, la colpa sarebbe ricaduta su di lui che non l’aveva impedito!

“Ma davvero” David l’Onesto si accarezzò la barbetta incolta “Sapete, sarò onesto davvero, per una volta: mi aspettavo che ci sorpassaste senza troppi problemi. Contavo di farvi cadere nella trappola al ritorno dalla vostra piccola spedizione.”

“La donna e l’asino mi hanno rallentato” bofonchiò Uro.

“Non è affatto vero” disse Amalia: “È lui che marcia con la velocità di un megalonice. Non è vero, Apuleio?”

Il somaro sbuffò e annuì.

“L’importante è che ci abbiate dato il tempo di scavare la nostra trappola” tagliò corto David.

Magog sbuffò: “Parli come se l’avessimo scavata tutti e tre”

Il suo capo gli tirò una gomitata: “Si chiama ‘divisione del lavoro’, imbecille!”

La donna congiunse la punta delle dita: “Bene, signori, visto che siamo in vena di chiacchiere, e visto anche che io e…” indicò il minotauro sotto di lei “Beh, lui, siamo ormai alla vostra mercé, potreste dirmi esattamente quali sarebbero le vostre intenzioni?”

Il bestione scrocchiò le dita: “Adesso ti svuotiamo le tasche e poi ci prendiamo l’asino!” il goblin strisciò il pollice sul filo della sua accetta: “Prima ci prendiamo l’asino e poi ti svuotiamo le tasche!”

I due si scambiarono uno sguardo, poi volsero la testa verso l’umano. Magog sollevò un dito “Capo… mi è venuto un dubbio. Venivano prima le tasche o la cosa dell’asino?”

David l’Onesto affondò la testa nella mano “Non cambia letteralmente nulla, idioti!”

Amalia tossicchiò “Avrei una controproposta per voi.”

L’umano sollevò il suo sopracciglio.

Amalia chinò la fronte “Sapete, sono molto affezionata al mio caro Apuleio” gli accarezzò il muso, e l’animale borbottò soddisfatto “Prendetevi pure tutti i bagagli, ma lasciatemi il mio asino, e in cambio…”
“In cambio?” ripeté Spina.

Amalia sorrise: “In cambio… beh, vi interesserebbe trovare l’immenso tesoro perduto del re Achis?”

“Tesoro?” dissero all’unisono i tre briganti.

“Certo” disse Amalia “Il leggendario tesoro, quello che stavo cercando” Menzogna “Un’intera stanza straboccante di oro, gioielli e pietre preziose!” Menzogna.

I tre briganti si scambiarono sguardi avidi. Avevano praticamente l’acquolina in bocca. David si fece avanti: “E tu… tu potresti portarci a questo tesoro?”

“Posso fare di più” Amalia estrasse una pergamena arrotolata “Posso darvi una mappa che vi condurrà lì senza errore” Menzogna, com’era prevedibile. Uro aggrottò un sopracciglio. Che aveva in mente?

Il brigante umano allungò un braccio, ma Amalia sollevò la pergamena al di fuori della sua portata, e la afferrò con entrambe le mani: “Fermo lì. Una sola mossa e strappo la pergamena in pezzi talmente piccoli che ci metterete anni a ricomporla!”

Magog sollevò la clava “Tu, maledetta...” David parò la mano davanti a lui “Fermo, bestia!”

“Ma capo!” gemette Spina “Come facciamo a portare tutto quel bottino senza l’asino?”

David sorrise ad Amalia e sollevò un dito: “Solo un momento, mia cara”

Lei alzò le spalle “Non ho fretta”

I tre briganti si riunirono a capannello.

“Razza di imbecilli” sussurrò David: “È ovvio che ci prendiamo anche l’asino. Adesso le prometto quello che vuole sentire, e appena abbiamo la mappa mi rimangio tutto. Voi fate silenzio e lasciate fare a me!”

Si volse verso Amalia, e sfoderò il suo sorriso più smagliante “Va bene, mia cara, lo prometto” si portò una mano sul petto: “Croce sul cuore. In cambio della mappa, tu potrai andartene con il tuo animale” Menzogna.

Uro pestò gli zoccoli: “Non ascoltarlo, cantastorie! Sta mentendo, sta mentendo!”

Amalia lo liquidò con un gesto della mano “Uomo di poca fede” porse la pergamena “Io mi fido di voi, messer David. Prego, controllate pure la mappa, se c’è qualcosa che non comprendete chiedetemi e vi spiegherò tutto”

Il brigante prese il foglio e strappò il sigillo. I suoi due compari gli si fecero intorno.

David srotolò la pergamena e la aprì. Il foglio emise un lampo di luce, poi i briganti si accasciarono al suolo uno sopra l’altro con tre sordi tonfi.

Uro inarcò le sopracciglia e ritrasse la testa: “Che stregoneria è questa?”

Amalia ridacchiò: “Una semplice pergamena incantata con un Incantesimo del Sonno” si mise le mani sui fianchi e si sporse sulla buca “Ancora convinto di avermi salvato, alla locanda?”

Uro fece una smorfia: “Sbrigati a farmi uscire, così potrò finalmente giustiziare quei tre fuorilegge”

La donna fece segno di no con l’indice “Ecco, proprio di questo volevo parlarti. Non ho problemi a tirarti fuori dalla buca, ma voglio in cambio la tua parola di Cavaliere che non torcerai un capello a questi tre.”

Uro strinse i pugni: “Ma… ma sono criminali. Rapinatori, briganti! E io ho giurato a Nemesi…”

“Lo so” disse lei, gli occhi stretti in due fessure: “Ma ora giurerai a me di non toccarli”

Uro sostenne lo sguardo.

Amalia si accarezzò il mento: “Voi di Cidonia lo rispettate il Debito di Vita, vero?”

“Sì.”Il minotauro strinse i pugni. “Un Cavaliere e sacerdote di Nemesi non può esigere Debiti di Vita dalle persone che salva, ma se è lui a essere salvato deve onorarlo per un anno e un giorno.”

La cantastorie annuì: “Ottimo. Io mi offro di salvare la tua vita da questi briganti. Ma tu devi darmi la tua parola che non gli torcerai un capello”

Il Cavaliere sferrò un pugno al muro di terra che lo teneva imprigionato: “Ma lasciarli in vita significa…”
“Mettiamola giù così” lo interruppe lei “Se questi tre ti uccidono, non potrai più servire Nemesi in alcun modo.”

Uro si sedette, e si passò una mano sulla nuca. Aveva giurato di perseguire il male in ogni sua forma, anche a costo della sua vita. Però… però la prima parte del giuramento, quella più importante, era di proteggere gli innocenti. E se davvero c’era una donna che da cento anni era prigioniera, era suo dovere liberarla. Anche a costo di lasciare in vita della feccia.

Soffiò: “E va bene. Giuro che non ucciderò questi tre briganti. Lo giuro davanti a Nemesi, colei che mai ignora il sangue versato!”

“Ora ci siamo” Amalia annuì, armeggiò intorno a una delle bisacce di Apuleio ed estrasse una corda arrotolata “Dammi giusto un momento per legare questa a un albero. Ah, e non dimenticare qui la tua bella spada. Ho la sensazione che se dovessimo tornare, non saremmo esattamente i benvenuti.”

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Capitolo 4
*** Il Tempio di Hestia ***


Uro aggiunse un ciocco di legno al fuoco, che divampò con rinnovato vigore. Il Cavaliere si concesse un sorriso soddisfatto e tornò a sedersi accanto al muro senza soffitto. Appoggiò la testa. Cosa aveva distrutto quella casa e tutti gli edifici vicini? Il tempo e l’incuria? O era stata la furia della tanto discussa Regina-mostro?

Al di là delle fiamme, Amalia pizzicava le corde del suo liuto, la fronte corrugata. Suonava due o tre note, si fermava, le ripeteva, a volte ne cambiava qualcuna e segnava qualcosa con un carboncino su un foglio che teneva tra le gambe.

Poco distante, in un angolo sotto quel poco che restava del tetto, Apuleio dormiva, in piedi, con uno zoccolo sollevato e i bagagli sparsi intorno.

Il minotauro allungò una gamba per sistemare una pietra che era rotolata via dall’anello intorno alle fiamme: “Dici che quei tre ci daranno ancora problemi?”

La barda suonò più volte la stessa nota con le labbra strette, poi alzò lo sguardo su di lui: “Mmh? Ah, David e i suoi? Non credo proprio. Ho preso le mie precauzioni.”

Il minotauro si accarezzò il mento: “C’entra qualcosa quella polvere che hai sparso mentre camminavamo?”

Amalia annuì: “Cenere Mimetica. Perfetta per cancellare ogni traccia del nostro passaggio. Non abbiamo niente di cui preoccuparci, a meno che tu non senta l’irrefrenabile bisogno di muggire alla Luna o di fare qualcos’altro di ugualmente stupido.”

Uro fece una smorfia e scrollò la testa.

Un alito di vento fece tremare la fiamma. Il minotauro si strinse nel mantello. Dondolò la testa. Si morse il labbro: “Perché hai voluto risparmiarli?”

“Mmh?”

Il minotauro arricciò il naso: “Sono ancora là fuori. Se tu non mi avessi fermato, sulle strade ci sarebbero tre pericoli in meno.”

La cantastorie scrollò le spalle: “Con tutti quelli che ci sono, tre come loro non faranno molta differenza. Li hai visti, sono tre idioti.” ridacchiò “Onestamente, se qualcuno è così fesso da farsi fregare da loro, un po' se lo merita di farsi rapinare.”

Uro batté lo zoccolo: “Non c’è niente da ridere! Se quei tre dovessero uccidere qualcuno, il suo sangue ricadrebbe anche su di te e su di me. Avremmo potuto fermarli, e non lo abbiamo fatto!”

La donna sospirò: “Se fosse così, ci hai mai pensato che se invece salvassero qualcuno sarebbe anche merito nostro?”

Il minotauro sollevò un sopracciglio.

Amalia continuò: “Se avessero, da qualche parte, dei fratelli, o magari dei figli o delle figlie, che dipendono da quel poco che riescono a razziare in giro? Chi siamo noi per stroncare le loro vite solo per un piccolo diverbio che abbiamo avuto?”

“Piccolo diverbio?” sbottò Uro: “Stavano per rubare il tuo tanto prezioso mulo, se non te ne sei accorta. Avrebbero potuto ucciderti!”

La barda gettò in aria le mani: “E allora sterminiamoli tutti! Tutti quanti!” la sua voce era aspra, pungente: “Ma ti avviso, serviranno parecchi Fanatici di Nemesi per ripulire le strade dalla feccia da quattro soldi come loro. Voi quanti siete in tutto nel vostro ordine? Una cinquantina, un centinaio? Migliaia non basterebbero per lo scopo!”

Uro batté il pugno contro il terreno. Quella donna! Impudente e irrispettosa! Fece un respiro profondo. Non avrebbe dovuto sopportarla a lungo, giusto il tempo di arrivare a quella maledetta fortezza, terminare quella cerca e poi…

Sgranò gli occhi. No, non era così. Ormai era legato a lei dal Debito di Vita. Era al suo servizio per un anno intero.

“Che succede?” chiese lei “Qualcosa non va?”

Uro mugugnò: “Che hai intenzione di farmi fare?”

“Mmh?” fece Amalia, tornata a volgere tutta la sua attenzione al liuto.

Il Cavaliere si strinse in sé stesso: “Per il Debito di Vita che ti devo. Visto che mi sono votato a Nemesi puoi disporre dei miei servigi solo per un anno. Cosa vuoi che faccia per te?”

“Una bella domanda” mormorò lei: “Ci devo pensare”

Strimpellò una cascata di note allegre. D’un tratto sollevò le sopracciglia e schioccò la lingua: “Senti… Perché ti sei unito ai Cavalieri di Nemesi?”

Il minotauro si accarezzò la base del collo: “Perché ti interessa?”

La barda sorrise, perfida: “Ho deciso di comporre una canzone su di te e le tue valorosissime imprese”

Uro inspirò e gettò fuori uno sbuffo lungo e forte.

“Dai” ridacchiò lei “Senti qui”. Suonò una cascata di note, una melodia goffa e divertente:

 

“Per le corna un toro puoi afferrare
Ma col minotauro non ci provare!
Di Uro il Possente vi canto la storia
Furia di Nemesi, degno di gloria…”

 

Sogghignò: “Che te ne pare come introduzione? Posso metterci così tante belle cose… ad esempio, quando oggi sei caduto in una fossa e hai avuto bisogno di una barda per essere tirato fuori. Oppure… oppure…” alzò lo sguardo e si accarezzò il mento, con un’espressione di finta pensierosità: “Eh, purtroppo non mi viene in mente niente. Dai, raccontami. Sono sicura che avrai un sacco di aneddoti degni di essere cantati nelle taverne!”

Uro grugnì.

“Orsù, Cavaliere, non essere timido. Quanti gattini hai salvato dagli alberi?” ghignò la cantastorie “Quanti carretti bloccati hai disincastrato? Quante povere anime hai salvato da un temibile galletto scappato dal recinto?”

Uro corrugò la fronte e strinse i pugni: “Sei molto fortunata” soffiò “Che tra te e me ci sia il mio Debito di Vita…”

“Allora facciamo un patto” Amalia gli strizzò l’occhio “Se tu mi racconti la tua storia, io ti abbuono il tuo anno di servizio e considero il tuo debito completamente ripagato.”

Uro aggrottò un sopracciglio: “Mi libereresti così facilmente?”

La donna alzò i palmi delle mani: “Non ho interesse a tenerti come mio servitore. E a dirla tutta, la tua compagnia mi annoia. Solo una cosa” sollevò l’indice “Non tentare di raggirarmi. Noi del Culto di Veritas non avremo il vostro Occhio Indagatore, ma siamo comunque molto perspicaci in fatto di menzogne.”

Uro raddrizzò la schiena: “Ripetimi un attimo… cos’è che vuoi sapere? Perché mi sono unito ai Cavalieri di Nemesi?”

La barda annuì: “Tutta la storia. Con più dettagli possibile.”

Il minotauro si accarezzò le guance. Sarebbe diventato lo zimbello di tutto il Regno. Ma Nemesi insegnava a non curarsi delle malelingue. E prima si levava di torno quella vecchia, meglio era.

“Va bene” si sfregò le mani contro le cosce: “Ma se vuoi raccontare la mia storia, che sia la verità” strinse gli occhi “Non mi importa delle tue prese in giro da quattro soldi, ma non azzardarti a mentire sul mio conto”

La donna roteò gli occhi e sollevò la sua collana d’argento: “Ti ricordi, no, quale dio servo?”

Uro sbuffò.

Chiuse gli occhi e trasse un lungo respiro.

Si schiarì la gola: “Non sono bravo a raccontare” mormorò “Ma farò del mio meglio”. Fu scosso da un brivido. “I Cavalieri di Nemesi mi hanno trovato al Tempio di Hestia quando avevo circa otto anni.”

“Aspetta” Amalia aggrottò le sopracciglia: “Non posso dire di essere esperta di Cidonia, ma… Hestia non era la dea del focolare domestico? Servita da un ordine di sacerdotesse che si assicurano che il suo sacro fuoco non si spenga mai? Che ci facevi nel suo Tempio?”

“Beh” il minotauro incrociò le braccia “Hai detto bene, ma non hai detto tutto. Hestia è soprattutto la dea dell’accoglienza. Chiunque può trovare rifugio nel suo Tempio. In particolare… gli orfani.”

“Oh” Amalia abbassò gli occhi.

“Madre Tecla mi ha raccontato che, come molti bambini, sono stato trovato di fronte alle porte del Tempio quando ero piccolo. Io non lo ricordo, ovviamente. Ricordo solo…”

Il rumore dei suoi passi pesanti sul pavimento di marmo. L’odore dolce e pungente che si spargeva nell’aria quando, durante le feste, le sacerdotesse gettavano erbe aromatiche nello scoppiettante fuoco sacro. E, una notte, il boato dei fulmini quando cercava di addormentarsi, il pianto degli altri bambini che riempiva la grande stanza, e poi la ninnananna delle sacerdotesse che li cullava e li calmava.

Uro scosse la testa. “Scusa” mormorò “Stavo dicendo… quasi tutti gli orfani accolti al Tempio erano umani. Di… diversi… c’eravamo io, un centauro, Ippolito, una driade chiamata Dafne, e un satiro di nome Piko, ma che tutti chiamavano Pik. Il piccolo Pik”

Si massaggiò la nuca: “Ora, gli altri bambini…” scosse la testa: “Al tempo c’era una guerra tra umani e non-umani. Al Tempio di Hestia tutti erano i benvenuti… in teoria. Cioè, non saprei dire come se la cavava Dafne, lei non la vedevo molto, perché stava nella parte del Tempio riservata alle femmine.” sospirò “So che a Ippolito lanciavano sempre sassi e sporcizia dal primo piano, perché non riusciva a salire le scale.”

Si incurvò, e si sorresse il mento: “Ma con Pik… erano proprio crudeli, con Pik. Lui era debole, mingherlino, zoppicava. Aveva pure un corno spezzato, non so come se lo sia rotto. Era il bersaglio perfetto. Lo prendevano per il corno che era rimasto, gli rubavano il cibo, lo spingevano… e lui sopportava tutto senza dire una parola.”

Afferrò una manciata di legnetti e li buttò nell’ormai esile fuoco: “Per quanto mi riguarda… beh, avevano troppa paura per provare a prendersela con me. Più che altro mi parlavano alle spalle. Non sapevano che io avevo orecchie migliori delle loro, e sentivo tutto. Ma non mi importava.” il suo pugno tremò “Non mi importava se dicevano che puzzavo, non importava se ridevano perché facevo fatica a scendere le scale.” deglutì “Non mi importava se mi chiamavano mostro! In qualche modo…” una lacrima si affacciò sul suo occhio, ma la ricacciò indietro “In qualche modo, ognuno per i fatti suoi, siamo andati avanti. Finché…”

Trasse un respiro spezzato: “A un certo punto è arrivato al Tempio questo ragazzo piuttosto grande, Kallistos. Avrà avuto almeno dieci, dodici anni, e si è subito fatto molti… amici. Ce l’aveva con i satiri. E non si limitava alle parole.” si conficcò le unghie nella gamba “Ogni volta che aveva l’occasione, non appena una delle Madri voltava le spalle, Kallistos e i suoi circondavano il piccolo Pik e iniziavano a colpirlo. E le poche volte che Pik ha provato a chiedere aiuto, loro hanno detto che il satiro era un bugiardo, che si era inventato tutto”

Ringhiò: “Kallistos era dannatamente bravo a fare l’innocentino. Ogni volta sembrava cadere dalle nuvole, era come se davvero non ne sapesse niente. Se non lo avessi visto con i miei occhi, forse ci sarei cascato anche io.”

Si grattò dietro l’orecchio: “Beh, un pomeriggio eravamo nei giardini fuori dal Tempio. A giocare, in teoria. Io me ne stavo per i fatti miei, all’ombra di un ulivo. C’era Madre Tecla a sorvegliarci, ma è arrivato un visitatore, un uomo con un grande mantello rosso, e lei è andata ad accoglierlo. Kallistos non aspettava altro.”

Contorse le mani: “Erano in tre, insieme a lui. Hanno afferrato Pik e lo hanno trascinato dietro un angolo dove Madre Tecla non poteva vedere. Uno lo ha imbavagliato con della stoffa per impedirgli di urlare. Kallistos e gli altri lo hanno massacrato. A un certo punto quello sputava sangue!”

Abbassò il capo: “Io non volevo averci niente a che fare. Ho provato a ignorarli, mi sono detto che non erano affari miei. Ma a un certo punto i mugugni disperati di Pik mi hanno costretto a guardare. Kallistos aveva in mano un pugnale, un maledetto pugnale! Lo volevano ammazzare, in nome di Zeus! Allora sono corso in suo aiuto.”

Si morse il labbro: “Un paio li ho stesi coi pugni. Quello che teneva fermo Pik è scappato. L’ultimo era Kallistos, ma… beh”

Aprì il mantello e sollevò la cinta sul petto. La pallida cicatrice svettava sulla pelle ustionata su cui il pelo aveva smesso di crescere. Amalia trattenne il fiato.

Uro aprì le labbra in un sorriso amaro: “Diciamo che anche se ero forte, non ero per niente addestrato. Il mio urlo ha attirato l’attenzione di Madre Tecla e dello straniero. Io ero lì, mi premevo le mani sulla ferita, ruggivo incapace di parlare… Pik, era crollato svenuto.” soffiò “Kallistos ha tirato fuori la sua migliore interpretazione, si è messo a dire che li avevamo attaccati, che si erano dovuti difendere. Madre Tecla mi ha guardato con…” si morse le labbra “Si è coperta la bocca come se stesse per urlare, aveva gli occhi grandi, umidi. Pieni di paura.”

Le mani presero a tremargli: “Non sapevo cosa fare, cosa dire, cosa pensare. Non sarei mai stato convincente quanto Kallistos. E poi, io ero un mostro. Ma non potevo sopportare quello sguardo.” si afferrò la testa: “Per un momento, ho desiderato di morire…”

Fece un respiro profondo. Poi un altro. Aveva la fronte madida di sudore. L’asciugò col dorso della mano.

Il fuoco crepitò, debole, ridotto agli ultimi istanti di vita. Con quella tenue luce era impossibile decifrare il volto di Amalia.

“Poi…” il minotauro si umettò le labbra “Ho visto lo straniero estrarre una spada, e quella ha preso fuoco. Ho pensato che avrebbe esaudito la mia preghiera silenziosa e che mi avrebbe ucciso. Invece mi ha tolto le mani dalla ferita e ci ha poggiato sopra la punta della lama”

Sussultò. Un brivido lo percorse, al ricordo di quel dolore lancinante. “L’ultima cosa che ho visto è stato lo straniero che rovesciava a terra Kallistos con un colpo di piatto della lama, e che gridava che era un bugiardo. Poi ho perso i sensi. Quando mi sono risvegliato ero in un letto, e al mio capezzale c’era lui, lo straniero.”

“Un Cavaliere di Nemesi, immagino” Amalia giocherellò con la ciocca di capelli.

Uro annuì: “Ha detto che aveva parlato con il piccolo Pik. E che ho dimostrato molto coraggio a difendere un innocente”

Amalia si accarezzò il mento, lo sguardo perso nel vuoto: “Sì, avevo sentito che i Cavalieri di Nemesi a volte cercano reclute negli orfanotrofi.”

“Più profondo il dolore subito, più grande la fame di giustizia” disse Uro: “È uno dei Proverbi del nostro ordine”

“E…” mormorò Amalia “Perché hai accettato di seguirlo? Cosa ti ha spinto a farlo?”

Uro scrollò le spalle: “Onestamente… non saprei. Cioè, tante cose. Un po’ era che mi sentivo in colpa per averci messo così tanto ad aiutare il piccolo Pik… un po’ mi aveva colpito la sua capacità di vedere oltre la menzogna di Kallistos” sospirò “Ma soprattutto… la tristezza che avevo provato allo sguardo che mi ha rivolto Madre Tecla si era trasformato in rabbia, e sentivo di non poter restare nel Tempio. Non potevo incontrarla di nuovo.”

Amalia si accarezzò una tempia: “Capisco”

Uro si strinse nelle spalle: “Sei soddisfatta? Il mio debito…”

Amalia annuì: “Il tuo debito di vita è ripagato, Cavaliere di Nemesi. Non mi devi più nulla” si alzò, gli si avvicinò e gli allungò una boccetta “Tieni. È un elisir di Dolce Sonno, ti garantirà una notte tranquilla. Non vorrei che tutti questi brutti ricordi ti portassero incubi.”

Il Cavaliere si sfiorò i lati della bocca, tolse il tappo di sughero e fiutò. Un odore dolce, di frutti di bosco. Poteva fidarsi? Alzò le spalle. L’Occhio Indagatore non si era attivato, dopotutto. Bevve, e il sapore di bacche selvatiche si sparse nella sua bocca.

“Domani riprenderemo il viaggio.” disse la cantastorie “È questione di pochi giorni, ormai”

“Mmh” fece Uro.

“Ah, un’ultima cosa, se non ti dispiace. Questa storia che mi hai raccontato… quanto tempo fa è successa?”

Il minotauro alzò gli occhi al cielo: “Direi… sette anni fa.”

“Ma…” la voce di lei era scossa “Avevi detto che avevi più o meno otto anni… quindi tu adesso ne hai quindici?”

Uro annuì: “Sì… circa” Le palpebre cominciavano a farsi pesanti.

“Per la barba dell’imperatore!” I passi di Amala risuonarono nell’ombra “Te ne avrei dati almeno venti, o venticinque… sapevo che alcune razze maturano prima, ma…”

Il minotauro spalancò le labbra e sbadigliò.

“Non importa.” disse lei “Buona notte, Uro. Dormi bene.”

La testa di Uro crollò, e tutto divenne buio.

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Capitolo 5
*** Regina del Dolore ***


Le scale di pietra ingiallita erano invase da radici e cespugli, e salivano verso l’alto finché i fitti rami dei cedri non ostruivano la visuale. Con tutta la vegetazione che era cresciuta intorno era difficile dire quanto grande fosse il palazzo, ma doveva essere enorme.

Amalia si accarezzò il mento “Oh, una ziqqurat. Non la meglio conservata che io abbia mai visto, ma comunque notevole”

Uro aggrottò la fronte: “Quanto dobbiamo salire per entrare?”

“Eh” Amalia scrollò le spalle: “Mi azzarderei a dire ‘tanto’. Il palazzo reale vero e proprio dovrebbe essere in cima” sbatté le palpebre “No, scusa, in cima c’è l’altare e la zona di culto. Noi dobbiamo arrivare appena più sotto, alla sala del trono.”

Il minotauro mugugnò.

Amalia inarcò un sopracciglio: “Non dirmi che il grande Uro, Cavaliere di Nemesi, trema di fronte alla prospettiva di sudare un po' salendo delle….” fece una smorfia e sventagliò le dita delle mani “Uuuuuh…scale!”

Uro incrociò le braccia: “È la discesa il problema. Te l’ho detto.”

La donna gli diede una pacca sulla schiena :“Guarda il lato positivo. Se la Regina-mostro ti sbrana, non dovrai preoccuparti di tornare giù.”

Uro sbuffò e mosse i primi passi. Poi si arrestò: “Un momento. Il mostro è ancora vivo?”

Amalia alzò lo sguardo: “Chi può dirlo? Secondo alcune interpretazioni della leggenda sì. Un verso della Canzone di Klitandra dice la tortura della poveretta è eterna e sempre rinnovata. Per alcuni è segno che la Regina continua a vivere e a tormentare quella povera donna.” i suoi occhi si socchiusero in uno sguardo interrogativo “Perché lo chiedi? Non te lo avevo detto?”

Uro sfoderò la spada “No. E saperlo prima avrebbe fatto comodo”

“Oh…” la cantastorie lo superò nella salita. Si diede un colpo sulla fronte: “Ora ricordo, è perché mi hai chiesto di raccontarti la storia in prosa. Scusa, colpa mia… fino a un certo punto. Se avessi ascoltato la versione originale lo avresti saputo.”

Il minotauro puntò il pollice alle sue spalle: “E l’asino?”

L’animale se ne stava ai piedi delle scalinate, ad abbuffarsi di erba e foglie cadute. Non era nemmeno legato.

La barda ridacchiò: “Non preoccuparti di Apuleio. Lui starà bene. Ci aspetterà per qualche giorno, e se non dovessimo tornare… beh, se la caverà.”

Il minotauro strinse gli occhi. Quella bestia non avrebbe aspettato neanche il tramonto prima di andarsene per i fatti suoi. Ma era un problema della cantastorie, non suo.

Gli zoccoli scalpitarono sul marmo, ogni passo una lenta falcata di tre gradini. C’erano delle incisioni, ai lati della scala. Strani ghirigori mezzi coperti da licheni e zolle di terra. Chissà se avevano un significato. Forse Amalia lo avrebbe saputo, ma chi aveva voglia di sorbirsi tutta la lezione?

Superò lo strato del manto boschivo e sbucò sotto la luce del Sole. Si coprì la fronte col braccio. La palla di fuoco bruciava prossima al punto più alto del cielo. Proprio l’ora migliore per la scalata! Ansimò. Faceva un caldo bastardo. Prese il suo otre, ne bevve un sorso, poi si rovesciò un po’ d’acqua sulla mano e se la sparse sulla fronte.

Alzò la testa. La ziqqurat si ergeva maestosa, anche se invasa da piante rampicanti. Nemmeno il Tempio di Nemesi o di Hestia erano così grandi. Era composta da diversi blocchi posti a ‘strati’, uno sopra all’altro, dal più grande al più piccolo. Quanto tempo era servito per costruirla?

Lungo la scalinata, ai lati, erano disposte decine e decine di statue. Molte erano ridotte a piccoli pezzi, spaccate in più punti.

Amalia si arrestò e si chinò su un cumulo di detriti “Ecco, questo è strano”

Uro la raggiunse con pochi passi. La barda aveva raccolto una testa di pietra abbastanza ben conservata. Aveva gli occhi sbarrati e la bocca aperta in un grido da cui faceva capolino una sfilza di denti storti.

“Non so come siano abituati qui” mormorò Uro: “Ma a Cidonia noi non riempiamo i nostri templi con statue così inquietanti. Che razza di dio si sentirebbe onorato da una cosa del genere? Solo un Proibito potrebbe gradire.”

Amalia mugugnò “Neanche qui, da quanto ne so. E c’è di più” girò la testa di pietra di lato. Un pendente dorato scintillò all’unico orecchio rimasto “Ho viaggiato in lungo e in largo, ma non ho mai visto una statua agghindata con veri gioielli.” fece riflettere la luce del Sole sull’orecchino “Questo sembra oro vero. Chi lascia dell’oro all’esterno, in piena vista?”

“Aspetta” Uro si abbassò e fiutò. Erba, edera… tutto regolare. Ma c’era qualcosa di più… odore di cuoio. Rovistò tra i blocchi e sotto un braccio di pietra fece capolino una scarsella. La sollevò e il contenuto tintinnò “Decisamente non c’è nessun motivo di dare questa a una statua”

Sciolse il nodo e la rovesciò sulla sua mano. Caddero fuori un paio di monete d’oro e una decina d’argento.

Amalia ne prese una e la rigirò tra le mani. Su un lato c’era una testa incoronata, sull’altro una lancia. “Questo è un scudo d’oro. L’effige è dell’imperatore Claudivo di Saturnia…” si grattò la testa “Che è asceso al trono sì e no dieci anni fa”

Un brivido corse lungo la schiena del minotauro: “Il che può significare solo una cosa”

“Per la verità due” disse Amalia “La prima è che la Regina Mostro è in grado di trasformare le persone in pietra. La seconda che è ancora viva, al di là di ogni ragionevole dubbio.”

Uro strinse il pugno libero e le sue dita scrocchiarono: “Perché non è possibile che negli ultimi anni qualcun altro sia venuto e abbia abbattuto quell’abominio, vero?”

“Ne dubito” la barda scosse la testa “Puoi star certo che tra i menestrelli una notizia del genere sarebbe presto diventata una canzone, e una di successo. Ho passato diversi mesi a documentarmi sulle leggende e sulle voci su questo luogo. Una notizia del genere non mi sarebbe sfuggita.”

Il minotauro annuì. Si avvicinò la lama alle labbra: “Divina Nemesi, riempimi con la Tua giusta ira, perché io possa diventare strumento della Tua giustizia” le fiamme divamparono e avvolsero l’arma.

Amalia lo guardò di sottecchi “Non rischiamo di dare nell’occhio, con quella?”

Uro la guardò in tralice: “Se preferisci, puoi entrare da sola e io aspetto che tu venga sbranata, cantastorie”

“Oooh, una risposta sarcastica” la donna applaudì “Allora non sei senza speranza!”

Salirono un’altra rampa di scale, e giunsero infine al piano dove doveva trovarsi la corte.

Davanti a loro si stendeva un lunghissimo corridoio. La luce filtrava da lucernari scavati nel soffitto a distanza regolare ma, anche col Sole prossimo al punto più alto, era appena sufficiente a muoversi. Uro sollevò la sua spada per illuminare la via. Amalia estrasse da una borsa un’ampolla luminescente.

Ai loro lati si aprivano numerosi corridoi, tutti più stretti di quello che avevano imboccato, che doveva essere quello principale.

“E adesso?” sussurrò Uro “Come abbiamo intenzione di muoverci?”

La barda si accarezzò il mento: “Allora, il nostro obiettivo è raggiungere la sala del trono. Spesso vicino ci sono degli archivi, forse c’è qualche informazione che può tornarci utile. Dunque, dovrebbe essere sempre dritto di qua, poi…”
Una vibrazione, davanti a loro. Un suono, in lontananza.

Uro drizzò le orecchie. Era… una voce. Un canto.

 

“Regina del dolore, supremo tormento

Senza conoscere di riposo un solo momento

Nell’angoscia del silenzio che mai tace

Vago senza sorriso né speranza di pace”

 

“Un momento” il Cavaliere interruppe la barda: “Avevi detto che Klitandra… il re si era innamorato di lei per il suo canto, no?”

La cantastorie annuì: “È un elemento costante in tutte le versioni, sì. Perché?”

“Ascolta…” sussurrò il minotauro.

La donna si portò una mano all’orecchio. Sgranò gli occhi e si sfiorò le labbra con dita tremanti: “La leggenda era vera! Quella povera disgraziata…”

Uro si mise in guardia, e il movimento della spada fece danzare la luce intorno a lui: “Gli innocenti prima di tutto. Dobbiamo salvarla, prima di fare qualunque altra mossa” emise un leggero ringhio “O hai qualcosa da obiettare, cantastorie?”

La barda mise mano alla balestra, innestò un dardo e iniziò a girare la manovella: “Concordo in pieno con te. Cerca solo di usare prudenza. Non caricare a testa bassa come hai fatto nella giungla, o allerterai il mostro”

Uro annuì. Procedettero, lui davanti lei dietro.

 

“E chi s’avvicina, stolto e sciocco!

Ché pietra e cenere diventa al sol tocco”

 

Trattenne il respiro. Era vicina, sempre più vicina!

La voce era limpida, le note penetravano nel petto di Uro come pugnali. Così tanta sofferenza… cento anni. Cento anni!

 

“Nel regno del nulla, sola nell’eterno dolore

Nemmeno un pensiero di gioia o d’amore”

 

Strinse la presa sull’elsa. Oh, ma la responsabile avrebbe pagato, che Nemesi gli fosse testimone! Il suo sangue avrebbe inondato quella reggia abbandonata, avrebbe…

Il suo zoccolo non trovò il terreno. Crollò a terra con un tonfo, e la sua spada tintinnò sul pavimento. L’eco rimbombò in lontananza. Il canto si spense.

“Attento, credo che ci sia un gradino” mormorò Amalia dietro di lui.

Uro raccolse l’arma e si levò in piedi “Non è divertente”

“No, infatti” disse lei, la voce inespressiva: “È drammatico, se pensi che ci siamo giocati il nostro effetto sorpresa”

“Piantala!” bofonchiò il minotauro. Sollevò la spada fiammeggiante sopra la sua testa. La luce si sparse nel corridoio, sulle pareti invase da rampicanti e segnate da profonde artigliate.

Un fruscio, ma da dove era venuto? Uro drizzò le orecchie, ma non venne nessun altro suono.

Il cuore prese a battergli forte nel petto. Trasse un profondo respiro. Non doveva perdere la calma. Durante l’addestramento aveva scoperto che aveva una visuale più ampia rispetto agli umani. Non era facile prenderlo alla sprovvista… e quel mostro non poteva saperlo.

“Attento!” gridò Amalia “È sopra di noi!”

Uro si gettò per terra e lo spostamento d’aria gli fece rizzare i peli del collo. Lo aveva mancato di pochissimo!

Si rialzò con un balzo e si rimise in guardia. La creatura che fluttuava davanti a lui era una donna dai lunghi capelli rossi, la pelle bianca come il marmo e striata da nere vene varicose. Indossava una veste bianca, strappata in più punti. Dalla vita in giù era come una cupola blu acceso, simile alle meduse del mare di Cidonia, e da lì uscivano tentacoli lunghi e sottili, come piccoli fulmini azzurri. Una gorgone!

Il mostro ruggì, si sollevò nell’aria con una bracciata e scagliò i suoi tentacoli contro di lui. Uro roteò la spada, e parò gli arti mostruosi, che rimbalzarono contro la sua lama. Il mostro indietreggiò. Era il momento per incalzarlo? No, quel mostro poteva trasformarlo in pietra, se non stava attento. Meglio restare sulla difensiva.

La gorgone ringhiò, i suoi occhi fissi sulla lama di Uro. Il minotauro si concesse un sogghigno “Brucia, eh?”

Ma dov’era Amalia? Uro strinse gli occhi. Eccola, dietro al mostro, intenta a prendere la mira con la sua balestra. Il mostro si voltò, e scartò di lato. Il dardo le trapassò la spalla. Con un ruggito di dolore e ira, la creatura gettò i suoi tentacoli sulla cantastorie.

“Stai indietro!” Uro balzò su di lei “Sono io il tuo avversario, affronta me!” con la spada tranciò un fascio di tentacoli. La Regina-mostro urlò, annaspò, avanzò di diversi piedi e si schiantò contro una parete.

Uro corse da Amalia: “Tutto bene?”

La donna si appoggiò a un muro “Sì… direi di sì. Ma non possiamo affrontarla adesso, dobbiamo… riorganizzarci.”

Il mostro gemette e si puntellò sulle mani per rialzarsi.

Uro sbuffò: “Ma ce lo lascerà fare?”

La barda annuì “Creerò un diversivo. Dobbiamo raggiungere la stanza del trono. Lì cercheremo qualcosa per barricarci e… potremo tirare il fiato”

La gorgone si tirò su e riprese a galleggiare nell’aria.

Amalia afferrò la boccetta luminosa dalla sua cintura “Preparati” sussurrò “Quando la lancio, chiudi gli occhi, farà tanta luce. Poi vai!”

Il mostro si gettò su di loro. La cantastorie lanciò l’ampolla per terra. Uro chiuse gli occhi. Risuonò un schianto di vetro che si frantuma, seguito da un piccolo boato.

“Vai, adesso!” urlò Amalia.

La gorgone, gemente, si era di nuovo gettata indietro, le mani premute sugli occhi. Il minotauro rinfoderò la spada, sollevò di peso la barda e si mise a correre.

Una luce veniva da più avanti, più intensa di tutte quelle nel corridoio!

Uro si mosse con ampie falcate.

“È tutto inutile!” gridò la creatura dietro di loro “Non uscirete mai vivi da qui! Le vostre carni muteranno in pietra e si sgretoleranno in queste rovine!”

Uro ansimò, ma si costrinse a non rallentare.

“Morirete per mano mia, come innumerevoli prima e dopo di voi!”

Un portale! Il minotauro ci si gettò dentro.

Depose a terra la barda. C’era un modo per chiudersi dentro? Sì, la porta di marmo.

Il minotauro ci poggiò contro la spalla e spinse con tutte le sue forze. La pietra scivolò sul terreno un pollice per volta.

“NO!” urlò la gorgone, ma era troppo tardi. La porta si chiuse, e Uro premette con tutto il suo peso.

Uno schianto, dall’altra parte, poi un altro e un altro ancora. Il mostro si gettava con tutte le sue forze contro la barriera, ma Uro non cedette.

Si concesse un mezzo sorriso. La Regina-mostro era un avversario temibile, ma in quanto a forza bruta non era paragonabile a lui!

La gorgone lanciò un ruggito di frustrazione “E sia! Se prediligete una lenta morte tra gli stenti, la avrete. Le vostre energie verranno meno, e allora non potrete arrestarmi! Badate, malcapitati avventurieri, badate bene! La vostra agonia è già principiata!”

Una risata aspra rimbombò nel corridoio, e si smorzò pian piano. Il mostro pareva essersi allontanato.

Uro si sfiorò l’orecchio, poi si allontanò dalla porta.

Amalia gemette.

Uro si chinò su di lei: “Va tutto bene?”

“Sì, sì” mormorò la donna “Credo…” si tastò il petto. Impallidì. Sollevò la maglia “Oh. No, invece. No, non va bene per niente”

Poco sotto l’ombelico della barda c’era un livido grigio.

No, non era un livido, era… pietra.

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Capitolo 6
*** Rivalsa senza Vittoria ***


La Sala del Trono era illuminata da un lucernario ottagonale. Enormi colonne reggevano il soffitto, e una grande scalinata conduceva a quello che un tempo doveva essere lo scranno del re, ma che ormai era solo l’ennesimo cumulo di detriti. Ai piedi della scalinata, al centro esatto della stanza, c’era la statua di un giovane. L’unico odore che permeava le pareti era quello stantio della muffa.

E basta. Tutto il resto era distrutto. Ammassi di ferraglia che un tempo dovevano essere stati bracieri, pile di pietre che forse un tempo erano state sedie… ma niente che potesse neanche lontanamente tornare utile.

Uro camminò avanti e indietro, col respiro affannoso: “Ci sarà qualcosa per contrastare la pietrificazione, deve esserci!” drizzò le orecchie: “Gli archivi, dicevi che c’erano gli archivi, no?”

Amalia scosse il capo: “La furia della creatura non ha risparmiato granché, in quest’ala della reggia. E poi, se anche per miracolo gli archivi si fossero salvati, beh, potrebbero volerci mesi a esaminare tutto, e…” si tastò il fianco: “Mi sembra chiaro che non ne avrei il tempo.”

“Aspetta, aspetta un momento” il minotauro sbatté le palpebre e inclinò la testa: “Vuoi farmi credere che mi avresti fatto restare qui dei mesi? Era questo il tuo piano, cantastorie?”

La donna si grattò una guancia, lo sguardo perso nel vuoto: “In realtà il mio piano era che tu mi aiutassi a gestire il problema della Regina-mostro e di Klitandra. Fatto questo, tu saresti andato per la tua strada, e io sarei rimasta qui” sospirò: “A quanto pare la mia permanenza in questa ziqqurat sarà più lunga di quanto mi sarei aspettata…”

In lontananza, riprese il triste canto di Klitandra:

 

“Scritta col sangue è la mia triste storia

Crimine senza giustizia, rivalsa senza vittoria

E perfino il ricordo del tuo dolce sorriso

Diventa ogni giorno più sbiadito e impreciso”

 

Uro si accasciò a terra. Il suo corpo era scosso da un tremito. Le sue forze lo avevano abbandonato.

Amalia gli si avvicinò: “Ehi, non preoccuparti.” gli poggiò una mano sulla spalla: “Hai ancora qualche speranza di uscire di qui. La tua spada di fuoco la intimoriva, no?”

Il Cavaliere di Nemesi si morse il labbro: “Non è questo il punto” picchiò lo zoccolo sul pavimento “Io ho giurato di difendere gli innocenti e… e non ci sono riuscito!” il cuore gli batteva forte nel petto: “Tu… tu sei irritante, mi prendi sempre in giro, però io avrei dovuto proteggerti, e ho fallito! Cosa penserà di me Nemesi?”

Amalia aprì le labbra a una risata amara: “E cosa penserà di me Veritas, dopo che mi sono lasciata sopraffare come una principiante?”

Fu scossa da uno spasmo di dolore, e la mano sulla spalla del minotauro si strinse. Le unghie di lei gli si conficcarono nella pelle.

A fatica, la cantastorie ricompose la sua espressione pacata: “Ti… ti dispiace se mi siedo vicino a te? Non mi piace l’idea di, sai, di essere sola, in questo momento.” deglutì.

Uro annuì. La donna si appoggiò con le braccia al terreno e incrociò le gambe.

La voce di Klitandra risuonava ancora, ma si era fatta troppo flebile per distinguere le parole. Il minotauro strinse i pugni. Il volto di Amalia era solcato dalle lacrime. Era così simile a Madre Tecla. Non poteva sopportare tutta quella sofferenza senza far nulla. Doveva trovare un modo per confortarla, almeno un poco. Ma come?

Sospirò. Forse l’unica cosa che poteva fare era provare a distrarla. Era pur sempre una cantastorie, no? Si passò la lingua sulle labbra: “C’è… c’è qualche storia che conosci, su questa sala? Qualcosa di interessante?”

Amalia giocherellò con una ciocca di capelli: “Beh, è abbastanza simile a come me l’ero immaginata. In cima alla scalinata c’era il trono… il fascio di luce dal soffitto potrebbe essere componente di qualche rituale magico, oppure parte di un calendario… oltre che, ovviamente, una buona fonte di illuminazione.” si accarezzò il mento “L’unica cosa che non mi torna è quella” e indicò la statua al centro della stanza.

Uro inarcò il sopracciglio. Cosa aveva di così particolare? “Beh, è conservata meglio delle altre che abbiamo visto, ha ancora dei vestiti addosso, ma… voglio dire, siamo comunque al chiuso, no? Non è stata rovinata dalla pioggia o dal vento. Non mi sembra così strano. ”

“Sicuro?” sul volto di Amalia ricomparve il suo solito sorrisetto compiaciuto “Vieni” fece per alzarsi, ma ricadde sul terreno. Ormai la pietra doveva aver ricoperto gran parte del petto, forse aveva già raggiunto le gambe.

Uro la prese tra le braccia e la portò accanto a quel povero disgraziato, ennesima vittima della Regina-mostro. Era un uomo adulto, ma non poteva avere più di vent’anni. Il naso era pronunciato, i lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo. Vestiva una casacca da viaggio, e delle scarpe di cuoio.

Amalia sfiorò i suoi vestiti: “Guarda bene. Non si è solo conservato, è stato proprio ricucito, più volte. Nel corso degli anni” il suo braccio si bloccò a mezz’aria. Il palmo della mano si ingrigì.

Uro strinse gli occhi “Aspetta…” la statua aveva qualcosa, intorno al collo. Un filo di cuoio, che scompariva tra le vesti. Il minotauro lo sollevò. Al filo era attaccata una medaglietta di rame, su cui era inciso NAHOR.

Il Cavaliere sgranò gli occhi: “Ma non era il nome…”

“Del figlio di Klitandra, sì” mormorò Amalia: “Non trovi strano che un mostro stracolmo di vendetta, che distrugge ciò che rimane di tutti coloro che pietrifica faccia un’eccezione, una sola, proprio per il figlio della donna che più di tutte voleva distruggere?”

Uro si grattò la testa “Forse… forse gioisce della sua malvagità e… e l’ha conservata per questo?”

Amalia alzò le spalle: “Può essere, ma secondo me non spiega come mai si sia presa il disturbo di ricucire le sue vesti con tanta amorevole cura. E poi, perché limitarsi a un solo trofeo? Chissà quante persone avrà trasformato in pietra nell’ultimo secolo. Perché esporne solo una?”

Uro inarcò un sopracciglio. La cantastorie non aveva torto. C’era davvero qualcosa che non tornava. Poteva… poteva forse essere una tortura per Klitandra? Essere costretta a guardare e riguardare suo figlio ridotto in quello stato… poteva essere stata lei a ricucire la casacca? Ma se era così, perché allora la povera donna non era lì, in quella stanza? Che senso aveva tenere quel che restava di Nahor da una parte e Klitandra dall’altra? No, non tornava.

“E sai cos’altro stavo pensando?” disse la donna, sempre più pesante tra le braccia di Uro: “Non è strano che la voce di Klitandra si sia interrotta proprio pochi secondi prima dell’attacco, e che sia ripresa non appena è terminato?”

Uro alzò gli occhi al soffitto: “Beh… potrebbe essere che la Regina, quando ci ha sentito arrivare, abbia costretto al silenzio la sua prigioniera e l’abbia fatta ricominciare a cantare quando…”

Amalia schioccò la lingua: “Possibile. Però… forse sarò io, ma quando ci siamo rinchiusi in questa stanza, nella voce di quel mostro ho sentito qualcosa di più della rabbia di una bestia che è rimasta a bocca asciutta. Potrei sbagliarmi, eh, ma mi è sembrato di sentire, per un istante… disperazione. Come se qualcuno fosse sconfinato in uno spazio che per lei è sacro, in cui è custodito qualcosa di incredibilmente importante per lei.”

Uro sbatté le palpebre. E questo cosa c’entrava? A meno che… sgranò gli occhi: “No! Non vorrai dire…”

Amalia ridacchiò, una risata lenta e amara: “Mi aspettavo che la leggenda non corrispondesse in tutto e per tutto alla verità. La donna che si è trasformata in quell’orribile creatura non era la regina. È Klitandra. La prigione da cui neanche la morte può darle sollievo… non è altro che l’eternità in quel corpo mostruoso e immortale.”

Il minotauro strinse i pugni. Era possibile? La vittima che aveva voluto salvare era in realtà il carnefice che voleva distruggere? “Ma come…? Voglio dire, come ha fatto a…?”

Amalia scosse la testa: “Ho qualche idea, ma nessuna certezza. L’unica che può saperlo davvero è lei”

Uro digrignò i denti e soffiò: “Se così fosse, non cambierebbe niente comunque. Per ottenere potere si è comunque votata a un Proibito. Chissà quante persone ha ucciso, in questo secolo di vita mostruosa!”

La barda gli rivolse un debole sorriso. Ormai anche il suo collo era diventato di pietra, e la maledizione avanzava a vista d’occhio sulla sua pelle: “Mi chiedo solo quanto abbia sofferto”

Uro colpì il terreno con uno zoccolo: “La sofferenza non conta nulla!” la sua voce era forte, quasi un ruggito: “Non ho sofferto anche io, nel Tempio di Hestia? Eppure mi sono rivolto alla dea della Vendetta, non a un Proibito. Sono diventato un Cavaliere, non un essere empio!” il collo gli pulsava forte: “Ho usato la mia rabbia per punire il male, non per commetterlo!”

“Certo, è così” disse la donna in un sussurro. Ormai la pietra aveva ricoperto i capelli, gli occhi e le orecchie, solo mezzo viso rimaneva di carne: “Ma… se al posto di un Cavaliere di Nemesi quel giorno fosse venuto il cultista di un Proibito? Cosa… avresti… ?” le labbra si ingrigirono e si paralizzarono.

“Cantastorie!” Uro strinse forte la donna: “Amalia!”.

Silenzio.

Il minotauro depose la statua che era stata Amalia ai piedi di quella che era stata Nahor. Chinò la testa. Le braccia gli caddero, pesantissime.

Quell’ultima cosa che aveva detto. Se quel giorno a reclutarlo al Tempio di Hestia fosse stato un seguace di un culto blasfemo… non sarebbe cambiato niente, no? Lui avrebbe rifiutato. Avrebbe saputo che era sbagliato accettare, lo avrebbe saputo. Madre Tecla glielo aveva spiegato…

Madre Tecla che quel giorno lo aveva guardato con occhi pieni di orrore, convinta, davvero convinta che fosse un mostro.

Se nessuno avesse denunciato le bugie di Kallistos, se nessuno si fosse fatto avanti a difendere la sua innocenza… cosa gli sarebbe rimasto?

Uro si trascinò fino a una colonna, ci si appoggiò e si lasciò scivolare per terra. Se nessuno gli avesse spiegato che il suo dolore poteva diventare qualcosa di buono… se nessuno gli avesse dato la possibilità di essere niente di meglio di un mostro…

A pochi passi, lo sguardo di Amalia, paralizzato nel tempo, racchiudeva la stessa curiosità di sempre. Poteva quasi sentire la sua risatina oltraggiosa mentre gli chiedeva, nel suo statuario silenzio: “E adesso? Che cosa farai?”

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Capitolo 7
*** Il Proibito delle Profondità ***


Uro sollevò la testa e riaprì gli occhi. Davanti a lui la stessa enorme stanza del trono, le stesse due statue prive di vita. Solo la luce era diversa. I raggi del Sole avevano perso intensità, le tenebre avevano iniziato a reclamare l’immensa sala.

La voce di Klitandra lo raggiungeva da oltre la porta.

Non aveva senso aspettare oltre.

Si levò in piedi, sfoderò la sua spada e le fiamme sacre l’avvolsero. In un modo o nell’altro, sarebbe finita di lì a poco.

Afferrò un incavo dell’enorme porta e tirò. Il pietrone scivolò sul pavimento.

Il minotauro tese l’orecchio. Il canto si era arrestato. La gorgone sapeva che stava arrivando.

La luce della spada si infranse contro l’oscurità, insufficiente a percorrere l’immensa lunghezza del labirintico corridoio.

“Klitandra!” chiamò a gran voce “Se in te esiste ancora solo una minima traccia di umanità, voglio parlarti!”

Un sibilo, una risata sussurrata provenne dall’oscurità e gli fece accapponare la pelle: “Conosci il mio nome. Credi forse che ti consentirà di salvarti?”

Uro oscillò la spada, e la luce e l’ombra danzarono davanti a lui. Quindi Amalia aveva davvero ragione? O era solo un inganno della Regina-mostro? Non c’era tempo per queste domande. Doveva fidarsi del giudizio della cantastorie: “Voglio solo parlare.” ripeté, la voce lenta, nel tentativo di apparire calmo.

“E io voglio solo distruggerti, mezzo toro” rimbombò “Credi che ti lascerò scappare da qui? Hai firmato la tua condanna a morte quando hai messo piede nel mio dominio!”

Qualcosa strisciò sul soffitto. Era vicina. Uro strinse le labbra. Non andava bene. Doveva trovare il modo di costringerla a parlare. Forse poteva minacciarla di distruggere la statua di Nahor? Scosse la testa. L’avrebbe solo fatta infuriare di più. Serviva un approccio diverso.

“Oh, per Nemesi!” disse sottovoce: “E va bene. O la va o la spacca…”

Spense la fiamma e rinfoderò la spada “Non voglio farti del male.” sollevò le braccia, le mani aperte e bene in vista: “So cosa significa essere un mostro. Lo sono stato tutta la vita. Per questo vorrei che mi raccontassi la tua storia. Voglio sapere cosa ti è successo.”

Anche al buio, le sagome del corridoio erano abbastanza nitide. Era solo disarmato. Come se fosse poco.

“Oh…” venne da sopra di lui.

Gli occhi della gorgone rilucevano come tizzoni ardenti. Si sospinse con i suoi tentacoli e scese su di lui. Inclinò la testa di lato, i lunghi capelli rossi che fluttuavano come immersi nell’acqua: “Qual è il tuo nome, guerriero taurino?”

Il minotauro sollevò il mento: “Sono Uro, Cavaliere e sacerdote di Nemesi. Vengo da Cidonia, e servo la dea che mai ignora il sangue versato.”

La creatura emise un verso, a metà tra un riso e un singhiozzo: “La tua dea ha ignorato il sangue versato in questa terra per più di cento anni, Cavaliere” si poggiò con delicatezza sul pavimento, i tentacoli adagiati al suolo: “Io sono Klitandra, del popolo dei Vagabondi. Non ho un titolo di cui fregiarmi se non quello di abominio. Non ho un dio che sono fiera di servire. Nulla possiedo, se non questa vasta e solitaria fortezza, e una potenza blasfema e orripilante.” si piegò verso di lui: “Ma tutto questo già lo conosci. Quindi dimmi… cosa vuoi sapere esattamente? Di cosa vuoi disquisire, da mostro a mostro?”

Uro si accarezzò il mento: “Non conosco la tua storia. Non bene come vorrei”

“Aspetta” la gorgone sollevò un dito: “Voglio concedermi il lusso di essere onesta, con te. Sappi che hai il mio interesse, non la mia pietà. Quando questa conversazione volgerà al termine, porrò fine alla tua vita, senza nemmeno darti il tempo di estrarre la tua spada infuocata. Quindi valuta con grande attenzione le domande che mi poni.”

Uro sbuffò. Proprio in un bel vespaio si era cacciato. Si costrinse a reggere lo sguardo: “Si raccontano leggende su di te. Hanno composto una canzone, sulla tua vicenda.”

“Immaginavo” i denti aguzzi scintillarono nell’oscurità “La gente mormora, soprattutto sui fatti altrui.”

Il minotauro si asciugò la fronte sudata: “Ma quello che dicono non è corretto. Non del tutto, almeno.”

La donna-mostro inclinò la testa di lato.

Uro si sistemò il mantello: “Innanzitutto, secondo quanto ho sentito, il mostro…” deglutì “La creatura a guardia della reggia non saresti tu ma la Regina. Sarebbe stata lei a stipulare il patto con il Proibito.”

“Makat” mormorò lei: “Beh, un dettaglio abbastanza irrilevante. Dubito che susciti il tuo interesse a tal punto da giocarti la tua vita per esso.”

Il Cavaliere strinse il pugno: “In parte sì, in realtà. Io voglio capire come sono davvero andate le cose. Io so solo che re Achis si è innamorato di te, ti ha sposato e…”
“COSA?” l’urlo della gorgone rimbombò con fragore, il minotauro dovette puntellarsi per non essere sbalzato indietro.

I tentacoli del mostro si sollevarono e fremettero come serpenti sul punto di scattare: “Dicono questo?”

Uro strinse le labbra e annuì.

“E va bene” ruggì Klitandra: “Mettiti comodo, Cavaliere, perché ti racconterò la mia storia. La mia vera storia. E sarà l’ultima cosa che sentirai nella tua vita. Scegli una posa che ti piaccia, perché la manterrai per sempre!”

“D’accordo” Uro si sedette: “Ma sappi che non puoi mentirmi, Klitandra. Se cercherai di alterare la realtà con le tue parole, io lo saprò. È un potere che mi ha concesso la divina Nemesi.”

La gorgone liquidò la questione con la mano: “Non importa. Da me udirai null’altro se non la verità”

L’Occhio non si era attivato. Era un buon segno… se si tralasciava il fatto che lo avrebbe ucciso non appena avesse finito di raccontare.

Klitandra inclinò indietro la testa: “Ero felice, prima di conoscere Achis, che bruci negli Inferi! Ero un’artista di strada. Vagavo per il regno e guadagnavo di che vivere con il mio canto.” Chiuse gli occhi: “Più volte uomini ricchi e nobili mi avevano offerto di ospitarmi nei loro palazzi, ma non mi interessava. Ero un usignolo che per nulla al mondo avrebbe accettato di entrare in una gabbia, a prescindere da quanto fosse spaziosa o dorata. Però…” chinò la testa “Però quando è un re a invitarti cordialmente, e non è disposto ad accettare un no come risposta…”

Uro strinse il pugno. Era un’ingiustizia!

“Perciò” Klitandra si portò le mani alle spalle. Sul braccio sinistro, un bracciale scintillò: “Ho dovuto abbandonare le strade del regno, e venire in questa…” corrugò la fronte “Prigione con mio figlio, Nahor…”

“Aspetta!” Uro strinse gli occhi “Hai avuto Nahor… prima di venire a corte? Da quanto avevo sentito era figlio tuo e di Achis…”

La gorgone fu scossa da un tremito, poi dalle sue fauci scaturì un urlo disumano. La creatura gettò il capo all’indietro e si lasciò andare a una folle risata: “Oh… miei dei…” affondò il viso nelle mani, il suo intero corpo scosso da un tremito: “Il mio piccolo Nahor… figlio di quel porco? Mai! Sì, sono stata costretta a essere sua concubina, ma…” si fermo, sospirò e sorrise. Un vero sorriso: “No, Nahor era figlio mio, davvero mio, mio e della vita libera che sempre avrei dovuto avere.” rilassò le spalle “La gente davvero non sa quello che dice.”

“Beh” mormorò il minotauro “Sono passati cento anni…”

La gorgone si chinò di lato e si accasciò contro il muro: “E ne passeranno altri cento, e poi mille. E gli unici a conoscere la verità saranno un abominio e due statue imprigionate per sempre in questa reggia deserta.”

Uro si accarezzò la nuca. Forse iniziava a capire perché fosse così importante per Amalia e per il culto di Veritas indagare su misteri sommersi dal tempo.

“Comunque” Klitandra si riscosse: “Achis era un sovrano ricco e abituato a sentirsi dire sempre di sì. Io ero troppo assetata di libertà per vivere bene alla sua corte. Mi costringeva a cantare alle sue sconce feste finché non perdevo la voce, e poi si infuriava, mi picchiava, spesso mi strappava le vesti davanti ai suoi ospiti.” le sue labbra tremarono “Ma soprattutto minacciava di fare del male al mio Nahor. Lo teneva lontano da me e mi permetteva di vederlo solo le rare volte in cui si sentiva benevolo e soddisfatto. Avrei voluto scappare, ma come? E dove sarei potuta andare, dove avrei potuto trovare rifugio dalle sue grinfie e dai suoi sicari?”

Il Cavaliere incrociò le braccia e soffiò. Non era giusto, non era per niente giusto. Se solo qualcuno si fosse levato a fermare quel folle, se solo un seguace di Nemesi avesse udito quella storia di sofferenza! “E…” indicò la metà mostruosa della gorgone “Quindi è successo… quello?”

Lei sospirò: “Makat, la moglie di Achis, quella legittima. La regina. Bramosa di potere e, come ho avuto modo di scoprire, sacerdotessa di Dagon”

Uro sbarrò gli occhi. Dagon. Il Proibito delle Profondità, il Sussurratore di Follia, il Signore dell’Abisso.

“Makat non era gentile con me” continuò Klitandra: “Ma non arrivava a umiliarmi come suo marito. Mi ha offerto una via di fuga dalla mia gabbia. Se mi fossi sottoposta al suo rituale, disse, re Achis non avrebbe avuto più alcun potere su di me, e avrei potuto fargliela pagare.”

Aprì la mano e la trascinò sulla parete, incidendo un profondo graffio: “Sapevo che i Proibiti sono divinità malvagie che tramano inganni e distruzione, ma che altro avrei potuto fare? Ero prigioniera, mio figlio era in pericolo, ed ero impotente. Per cui ho accettato. Lei ha eseguito il rituale. E mi sono trasformata…” si sollevò dal terreno e fluttuò nell’aria, i tentacoli protesi in ogni direzione “In questo!”

Il minotauro si morse il labbro. Voleva dire qualcosa… ma le parole non vennero.

La gorgone si adagiò di nuovo al suolo: “Sistemare Achis è stata l’unica, perversa gioia che ho avuto da allora. Poi è iniziata una nuova forma di dannazione”

Sfiorò il bracciale sul suo polso, un gioiello d’argento su cui erano incise delle linee ondulate, come la superficie del mare, e che alle estremità terminava con delle zanne che premevano sulla carne: “Questo… è un empio ornamento di Dagon. Makat lo usò per imprigionarmi. Quando mi dava un ordine, io ero costretta a eseguirlo. Mi ha usato per assumere il controllo della corte e del regno. Ho cercato di sfuggirle e lei… lei…”

Un brivido corse lungo la schiena di Uro: “Ti ha costretto a trasformare tuo figlio in pietra… vero?”

I tizzoni ardenti della gorgone si inondarono di lacrime: “Non potevo resisterle! Quando tento di ribellarmi questo ornamento mi azzanna, e risuona una voce, una voce terribile… qui dentro!” si afferrò la testa: “Parla una lingua incomprensibile, e a ogni parola io mi sento schiacciare, divento incapace di respirare e di muovermi. Alla fine… alla fine…” scoppiò in lacrime “Alla fine ho obbedito, perché non c’era altro che potessi fare! Avrei preferito mille volte morire, strapparmi il cuore dal petto con le mie mani, ma Dagon non me lo lasciò fare, il bracciale mi morse e me lo impedì! Così… così ho perso il mio Nahor!”

La gorgone affondò le unghie nere e affilate nel suo stesso petto: “Non potevo lasciargliela passare liscia. Ho aspettato la mia occasione. Makat era furba, ma troppo sicura di sé e dei poteri che le aveva concesso il suo dio Proibito. Anche lei aveva bisogno di dormire. E una volta tolta di mezzo lei, la sua cerchia di cultisti non fu certo un problema, per il mostro che ero diventata”

Ridacchiò, ma la risata si spense dopo pochi secondi: “Oh, Dagon non l’ha apprezzato, neanche un po’. La stessa notte in cui mi sono sbarazzata di Makat, ho sentito di nuovo la sua voce. Distruggendo il suo culto avevo ostacolato i suoi piani. Mi ha confinata in questa reggia abbandonata, costretta a vivere per sempre, e a uccidere chiunque metta piede qui dentro. Ha detto… ha detto che se anche uno solo uscirà da qui vivo… ha detto che conosce molti modi ancora per moltiplicare la mia sofferenza. Lo sento ancora, ogni volta che cala il Sole. Solo quando trasformo qualcuno in pietra e distruggo la statua mi concede qualche ora di silenzio.”

Uro congiunse le mani davanti al volto: “Oh, Nemesi! Tutto questo… tutto questo…”

I tentacoli della gorgone si sollevarono. Sul volto della donna comparve un sorriso amaro: “Sai… Cavaliere… mi ha fatto piacere poterti raccontare la mia storia. Ho cambiato idea. Non posso lasciarti andare, ma credo che ti lascerò estrarre la tua spada. Mi sembra giusto darti la possibilità di difenderti.”

La mano del minotauro sfiorò l’elsa, ma si bloccò prima di afferrarla. Poteva vincere quello scontro? Certo che poteva. Ma… proprio non se la sentiva. Le sue dita furono scosse da un fremito. Un mostro che aveva assassinato chissà quante persone, un abominio creato direttamente da un Proibito per piagare la terra. Gli ordini del suo voto a Nemesi erano più chiari che mai. Eppure… anche se il suo desiderio di giustizia era più forte che mai, la sua furia lo aveva abbandonato.

Fece un lungo sospiro: “Mi…” mormorò “Mi puoi dare solo un momento per riflettere?”

Klitandra annuì “Sì, ma fai in fretta. Dopo il tramonto Dagon si fa più potente, e ricomincia a parlarmi. Per allora, vorrei che questa vicenda fosse conclusa, in un modo o nell’altro.”

Uro abbassò lo sguardo sui suoi zoccoli. Si accarezzò il volto di toro, e si toccò la punta del corno. Il suo dovere, in quanto Cavaliere di Nemesi, era vendicare gli innocenti, come Amalia, che era stata ingiustamente trasformata in pietra. Quindi… doveva combattere. Eppure continuava a non… a non essere giusto, quello che era successo a Klitandra. C’era ancora qualcosa di umano, in lei, qualcosa di buono.

Lui però doveva obbedienza a Nemesi, colei che esige sempre una vita colpevole per una innocente, colei che mai ignora il sangue versato. Il primo ordine di Nemesi ai suoi Cavalieri era di dare a ciascuno ciò che gli spettava.

Ma quella donna-mostro che gli si ergeva davanti, aveva davvero avuto ciò che le spettava? No, era evidente. E neppure Amalia, e Nahor, neanche loro avevano avuto ciò che meritavano. Se avesse ucciso Klitandra, non sarebbe servito a riportarli indietro. Lui era solo uno strumento di vendetta, non aveva quel potere.

“Ti sbrighi?” la gorgone fremette “Il Sole sta calando. Non ci resta molto tempo.”

“Aspetta” disse Uro: “Forse c’è un altro modo.”

 

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Capitolo 8
*** Fiamme Bianche ***


Nella Sala del Trono era ormai quasi calata l’oscurità. Gli ultimi raggi del Sole si riflettevano contro uno spicchio della parete Est sempre più piccolo. Il tempo era agli sgoccioli.

Uro segnò con la spada l’ultima linea sul pavimento. Fece qualche passo indietro. Storse il naso. La bilancia di Nemesi che aveva tracciato era venuta molto peggio di quanto si aspettasse. Storta e asimmetrica.

“C’è da auspicare che la tua dea sia disposta a transigere sulla perfezione formale” disse acida Klitandra. Avviluppò i tentacoli attorno alla statua di Nahor e la trascinò sul piatto di destra.

Uro sbuffò, conficcò la spada al centro della bilancia e si diresse verso Amalia.

La gorgone fece qualche bracciata verso l’alto: “Sei sicuro che funzioni?”

Il minotauro sollevò la cantastorie. Piegò le ginocchia sotto tutto quel peso. “No, per niente” strascicò gli zoccoli verso il simbolo sacro “Ma se mi sbaglio possiamo sempre farci a pezzi fra qualche minuto.” appoggiò la statua, con tutta la cura possibile, accanto a quella del ragazzo.

Trasse un profondo sospiro: “Se per caso dovesse funzionare, però… ci sarà un prezzo da pagare. E quello spetterà a te.”

La gorgone si mise le mani sui fianchi: “Te l’ho già detto. Se significa salvare il mio Nahor, sono disposta a pagarlo. Qualunque esso sia.”

Uro alzò la testa, e incontrò gli occhi luminosi di lei: “E sei disposta a rinunciare alla tua vita?”

La donna-mostro fece una smorfia: “Ai miei occhi, l’eternità di questa vita, se così si può chiamare, non vale un solo giorno di quella di mio figlio”

L’Occhio Indagatore non si era attivato. Era la cosa più vicina a una confessione di pentimento che potesse ottenere. Poteva solo sperare che per Nemesi fosse sufficiente. Il Cavaliere annuì: “Avevo bisogno di sentirmelo ripetere”

Raccolse la sua spada e si posizionò al centro del simbolo, sul fulcro della bilancia, uno zoccolo da una parte, uno dall’altra. Emise un lungo sospiro, sciolse le spalle e rilassò il collo: “Sono pronto.”

La gorgone nuotò nell’aria, a comporre un cerchio sopra la testa del minotauro: “Ripetimi ancora una volta perché dovrebbe funzionare.”

Uro chinò il capo: “Non te lo nascondo, è un’interpretazione che si distacca molto dal canone che mi hanno insegnato, e per questo potrebbe facilmente essere un errore, però…”

La statua di Amalia era voltata nella sua direzione, sul suo volto pietrificato svettava ancora il suo sorrisetto compiaciuto.
“Nemesi dà sempre a ciascuno ciò che si merita. I Cavalieri l’hanno sempre inteso come punizione, ma se avesse anche un altro significato? Se occhio per occhio non valesse solo per strappare e ripagare, se potesse anche voler dire… donare?L’unica cosa di cui sono certo è che, per avere anche solo una minima possibilità di funzionare, deve esserci un pegno, un costo. Nemesi non si muove per niente. Ora, sei pronta?”

Klitandra si accarezzò la tempia “Inizio a sentire i sussurri. Se non funziona, sarò costretta a saltarti addosso in preda alla furia” e si adagiò sul piatto vuoto.

Uro sollevò la spada e protese il braccio sinistro. Da lì non si tornava indietro.

Portò la lama sulla prima vena del braccio e incise un taglio perpendicolare. Il dolore lo travolse e lo fece barcollare per un istante. Un fiotto di sangue sgorgò sul pavimento, sul simbolo della dea della vendetta. Uro strinse forte l’elsa e levò in alto la spada: “Divina Nemesi, che mai ignori il sangue versato, ascolta la mia supplica! Una donna, divenuta un’arma nelle crudeli mani di un Proibito, cerca la redenzione attraverso la Tua sacra giustizia!”

Schizzi di sangue gli imbrattarono gli zoccoli e la veste. Uro strinse le labbra: “Ella accetta il Tuo giudizio, e offre la sua vita in cambio di quella delle sue vittime. Saggia Nemesi, che dai a ognuno ciò che si merita, riconosci la sua sofferenza!”

L’ultimo raggio del Sole abbandonò la sala. Klitandra digrignò i denti, strinse forte gli occhi, si afferrò la testa con entrambe le mani e si piegò in avanti. Non c’era più tempo!

Il minotauro abbassò la voce: “Ti prego, mia signora. Quando ero nel mio momento più buio, uno dei Tuoi servitori ha impedito che io diventassi un mostro. Sono arrivato troppo tardi per fare lo stesso con Klitandra, sono nato troppo tardi per impedire i suoi crimini… ma, se mi aiuti, non sarò giunto troppo tardi per salvarla.”

Alzò lo sguardo. Il braccio della gorgone stretto nella morsa del gioiello d’argento sanguinava. Sulla destra le due statue si ergevano immobili. Una lacrima solcò il volto taurino: “Per salvare tutti loro. Ma io non ho il potere di farlo. Io non posso sciogliere la maledizione di un Proibito. Devi essere Tu. Ti prego… ti prego…”

La gorgone emise un grido. Afferrò il pavimento, i muscoli tesi di sofferenza. Il suo volto si contorse in una smorfia che non aveva più nulla di umano. Era troppo tardi? Se lo avesse attaccato… sarebbe riuscito a difendersi, col braccio in quelle condizioni?

La spada si accese di un fuoco bianco e brillante. Non era mai stata così luminosa! Le fiamme si propagarono lungo le linee scavate nel terreno, fino ai due bracci della bilancia, le due statue e Klitandra, e li avvolsero tutti nel loro abbraccio. La luce crebbe, abbagliante e fortissima, e costrinse Uro a chiudere gli occhi.

Un boato scosse la terra, Uro perse l’equilibrio e cadde carponi.

Un urlo furioso risuonò tutto intorno, una voce abissale, tremenda. Il minotauro lasciò cadere la spada e si coprì le orecchie.

Poi, tutto tacque.

Uro si levò sugli zoccoli. Il sangue per terra era sparito, come se non ci fosse mai stato. Si tastò il braccio. Dove si era tagliato la carne, al posto della ferita era impressa a fuoco la bilancia che reggeva un occhio su ogni piatto, simbolo di Nemesi. Ma il dolore era scomparso. Voleva dire… voleva dire…

Dei colpi di tosse, a destra. Due figure si mossero a tentoni nell’oscurità.

“Amalia!” gridò il minotauro.

“Nahor!” chiamò una debole voce di donna. Klitandra!

Era distesa per terra, avvolta nel suo straccio bianco, da cui sporgevano le gambe umane. Il suo respiro era lento, flebile.

Suo figlio corse al suo fianco, si inginocchiò accanto a lei e resse la sua testa “Mamma!”

“Oh, mio dolce Nahor” sospirò lei “Avevo ormai perso le speranze di poter udire ancora la tua voce. Perdonami… per tutto ciò che ti ho fatto…”

Il ragazzo singhiozzò: “Non dire niente, mamma, conserva le forze!”

Lei gli sorrise, poi il suo sguardo si posò sul minotauro: “Grazie, nobile Cavaliere. Grazie”

Uro strascicò uno zoccolo: “In realtà non sono nobile. Sono stato allevato in un orfanotrofio…”

Gli arrivò una gomitata in pieno petto “Stattene zitto, ogni tanto!” sussurrò Amalia.

Klitandra emise un flebile sospiro: “Nahor… adesso dovrò pagare il prezzo per le mie colpe.” gli carezzò il viso “Però sappi che veglierò sempre su di te. Sii libero, figlio mio. Libero, in ogni istante… della tua… vita” la mano ricadde a terra, e la sua testa si rovesciò all’indietro.

“Mamma!” Nahor la strinse forte a sé “Mamma!”

Amalia poggiò una mano sul braccio di Uro “Diamogli un momento da solo”

Uro annuì, e si allontanarono di qualche passo.

“Comunque…” riprese lei: “Sei stato bravo”

Uro si grattò il collo taurino: “Ho solo compiuto la volontà di Nemesi.”

Amalia roteò gli occhi: “E impara ad accettare un complimento, testone!”

Il minotauro incrociò le braccia: “Non farmi pentire di averti riportato in vita, cantastorie.”

La barda scrollò le spalle: “Tecnicamente non sono mai morta, ma è un discorso spinoso” si prese una ciocca di capelli tra le dita “Quindi… hai scoperto se c’era davvero un Proibito dietro alla caduta del regno di Achis?”

Uro sbuffò: “C’era innanzitutto la prepotenza del re. Però sì, nella trasformazione di Klitandra era invischiato il culto di Dagon.”

“Dagon…” la barda si accarezzò il mento “Beh, sappi che non ti libererai di me finché non mi avrai raccontato tutto, nei minimi dettagli”.

Uro sorrise. Beh, avrebbe dovuto prevederlo.

“Scusate…”

I due si voltarono. Nahor era dietro di loro, la testa bassa e le braccia nascoste dietro la schiena “Io… non so bene cosa fare, adesso. Mia madre vi ha ringraziato, Cavaliere, quindi presumo che sia a voi che devo la vita…”

Uro sollevò la mano “Ho solo svolto il mio dovere di servitore di Nemesi. Non mi devi niente.”

Il ragazzo si portò una mano sul cuore “Vi sarò sempre grato, Cavaliere. Consentitemi di presentarmi come si deve, io sono Nahor, del popolo dei Vagabondi.”

Il minotauro chinò il capo: “Io sono Uro, Cavaliere e sacerdote di Nemesi, da Cidonia. E la più grande spina nel fianco che io abbia mai avuto, qui, si chiama Amalia, del culto di Veritas, dell’Impero Saturniano.”

“È un piacere fare la vostra conoscenza” Nahor si morse un labbro: “Perdonatemi, so di dovervi già molto, ma sono costretto a chiedervi un altro favore” fece un passo di lato e indicò il punto dove giaceva Klitandra.

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Uro pose l’ultima fascina sulla catasta. Fece qualche passo indietro. Qualche manciata di legnetti e un albero abbattuto, messi insieme in un angolo della ziqqurat. Non il massimo come pira.

I primi raggi del Sole fecero capolino oltre il manto della foresta che li circondava.

Il minotauro si passò una mano sulla nuca e si voltò verso Nahor: “Sei sicuro di volerla fare qui? Per me non è un problema portare tutta questa roba fino in cima. Se non ricordo male, la cantastorie diceva che era quello il punto dove si facevano i riti…”

Il ragazzo sollevò il corpo senza vita di Klitandra “Ti ringrazio, Cavaliere, ma preferisco così. Noi Vagabondi non preghiamo i nostri dèi in grandi edifici. E poi” depose sua madre in cima alla legna raccolta “Quale mortale può essere così arrogante da pensare di poter costruire un santuario più maestoso della volta celeste?”

Amalia, seduta sulla pietra poco distante, si sfiorò il mento: “Una riflessione affascinante. E dimmi, Nahor, davvero preferite bruciare i vostri corpi, piuttosto che seppellirli?”

Il giovane sollevò le spalle e aprì le labbra in un sorriso amaro: “Noi non costruiamo città, non possediamo case. Vaghiamo senza una meta. Non sapremmo che farcene di un luogo dove onorare i defunti.” si chinò e baciò la fronte di Klitandra. Si raddrizzò. Aveva gli occhi lucidi: “C’è anche un’altra cosa. Attraverso il fuoco, noi liberiamo lo spirito dei nostri cari dalla prigione della carne, così che possa viaggiare senza quel peso che non gli è più necessario” singhiozzò “Almeno, mia madre mi diceva così…”

Uro alzò le spalle. Contenti loro… “Possiamo procedere, allora?”

La cantastorie alzò un dito: “Solo un istante. Nahor, non vorrei essere irrispettosa. Nei vostri funerali, come vedete la musica? È qualcosa che gradite o la considerate sacrilega?”

“Oh” Nahor si portò un pugno sulle labbra “Vi prego, Amalia, suonate. Non osavo chiedervelo, ma…” deglutì “Mia madre adorava la musica. Sono certo che apprezzerebbe moltissimo.”

La donna annuì, e imbracciò il suo liuto. Fece un cenno con la testa a Uro: “Vai pure”

Le note della barda aleggiarono e pervasero l’atmosfera, lente e dolci.

Il Cavaliere estrasse la spada e l’avvicinò alle labbra: “Divina Nemesi–”

Le fiamme divamparono. Uro sbatté le palpebre. Non aveva finito la preghiera… che strano. E le fiamme erano tornate rosse, come sempre. Chissà perché. Si riscosse. Non c’era tempo di farsi domande. Conficcò la lama nella pira funebre, ai piedi del corpo.

Fece un passo indietro e si inginocchiò: “Riposa in pace, Klitandra, del popolo dei Vagabondi. I tuoi dèi ti accolgano, e ti perdonino.”

La voce di Amalia si unì alla melodia, un canto sommesso, senza parole. Una canzone funebre per quella donna che tanta sofferenza aveva subito e che tanta sofferenza aveva sparso. Le fiamme avvolsero il suo corpo, e il fumo nero salì al cielo, sparso e portato chissà dove dal vento.

Uro si levò in piedi e voltò le spalle alla pira.

Nahor si asciugò le lacrime: “Addio, mamma…” tentò di dire qualcosa in più, ma gli uscì solo un gemito.
Le note di Amalia rallentarono e sfumarono. L’unico rumore fu lo scoppiettare delle fiamme.

La barda ripose il liuto: “Dimmi Nahor… tu non hai un posto dove andare, vero?”

Nahor annuì.

La barda gli tese la mano: “Beh, puoi unirti a noi, finché non trovi una carovana della tua gente, o qualcosa di meglio da fare della tua vita.”

Uro inarcò un sopracciglio: “Un momento, cantastorie, cosa vuoi dire? Tu non avevi in programma di rinchiuderti in questa reggia e studiare tutto ciò che conteneva?”

Amalia alzò le spalle: “Cambiare idea è lecito, no? Scriverò una lettera al più vicino Tempio di Veritas, provvederanno a mandare qualcuno con più tempo libero di quanto ne abbia io adesso.”

Il minotauro incrociò le braccia: “Non erano questi i nostri patti. Una volta risolta la questione dovevamo separarci, ricordi?”

Amalia si alzò e gli diede una gomitata: “Suvvia, suvvia, Uro il Possente, Furia di Nemesi. Cosa direbbe la tua divina signora se tu ora abbandonassi a sé stesso questo ragazzo innocente, che proprio per merito tuo è tornato alla vita? Non sarebbe come lasciare a metà la tua opera di giustizia?”

Uro prese fiato, ma non gli venne nulla da dire. Maledetta, l’aveva incastrato un’altra volta. Soffiò “E va bene! Ma farete meglio a non rallentarmi nella marcia”

“Non preoccuparti” Amalia strizzò l’occhio a Nahor “Parla parla, ma poi è più lento di me. Non avrai problemi a tenere il suo passo.”

Il ragazzo fece un inchino “Grazie, miei salvatori.”
Il minotauro sbuffò: “Se vuoi venire con noi, finiscila con queste formalità. Non le sopporto.”

Sul volto di Nahor comparve un piccolo sorriso.

Uro si stiracchiò. Il Sole era sorto, ma con tutto il lavoro della pira non aveva quasi chiuso occhio quella notte: “Ho bisogno di dormire qualche ora. Partiremo da qui dopo mezzogiorno, cerchiamo di sfruttare qualche ora di luce per viaggiare.”

“E dove andiamo?” chiese Nahor.

Uro si coprì il marchio di fuoco che aveva ricevuto con il bracciale di metallo: “Dovunque ci porti la volontà di Nemesi!”

Amalia ridacchiò: “Che è un modo molto poetico per dire che non ne hai la minima idea”

Uro sbatté lo zoccolo sulla pietra della ziqqurat: “Taci!”

Lei gli strizzò l’occhio: “E tu dì alla tua dea che oltre alla spada di fuoco ti serve anche una lingua più pronta con gli insulti. Magari te la darà, se è quello che ti meriti.”

 

FINE

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