Runaway Lyssa

di Loony_is_in_love
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Act 1 “Initial Injury”

Eccole lì, che ti guardano dai loro occhi di carta su copertine di ristampe che avranno fatto il giro del mondo, perfettamente perfette, visibilmente almeno due spanne più alte di te anche quando costrette in fogli A4.
Lì, che ti fissano, e chissà quanti altri rifiuti della società stanno fissando dai loro piedistalli nelle edicole di tutto il mondo, con le labbra a cuoricino e i seni prosperosi.
Sembrano fissarti come a sfida, come a dirti che il loro sguardo di inchiostro -convenevolmente- plastificato si è posato su più parti del mondo di quante i tuoi sogni indotti dall’olanzapina potranno mai sperare di visitare.
Loro sono lì e tu sei dietro un bancone di merda in una stazione del gas in mezzo al cazzo di nulla, il cervello ad un movimento sbagliato dallo scoppiarti nella scatola cranica.

Chiudi gli occhi, forse per la prima volta in tutta la giornata, le cornee ti bruciano così tanto che potrebbe davvero essere la verità; le modelle sui giornaletti pornografici finalmente lontani dalla tua vista, lontano dagli occhi, lontano dal cuore, non era forse così che ti diceva tua madre quando spostava la giara di dolciumi racimolati ad Halloween sulla credenza più alta della cucinetta nella casa di campagna?
Era tutto più facile quando la tua unica preoccupazione era trovare una sedia alta abbastanza da permetterti di ficcarci una mano e scappare con quante più caramelle le tue dita potessero tenere strette.

Avranno visto anche più cazzi di te probabilmente.

È decisamente l’ora di una sigaretta, ti dici in fine, arraffando la giacca di Jeans che riposa sullo sgabello accanto alla cassa, sei ferma a mettere le radici dietro il bancone dalle tre di notte, te la meriti.

L’aria innaturalmente statica e immota della Valle ti ingloba come una fontana di acqua demineralizzata, gelatinosa e opprimente attorno alla tua figura che spicca in contrasto ai tuoi dintorni sgargianti come una macchia di inchiostro dentro un enorme bricco di latte, accendi una sigaretta, spiegazzata e danneggiata dall’acqua che negli ultimi tre giorni non ha fatto altro che gocciolarti dal soffitto del monolocale in cui vivi, senza fermarsi nonostante le innumerevoli volte in cui sei andata a bussare all’appartamento di sopra, senza mai ricevere risposta.

In un angolo becero della tua mente speri l’affittuario vi stia morendo lì dentro, che sia agonizzante a terra in una pozza del suo stesso sangue; è l’unica scusa che saresti disposta ad accettare a questo punto.
L’acciarino sfrigola nell’aria immota della periferia dell’Uncanny Valley, il pensiero di fondo agli antipodi del cervello che esulta alla vaga speranza qualcuno possa aver lasciato una pompa di gas staccata dalla sua asta da qualche parte in quella merdosissima stazione dimenticata da Dio.
Ma l'accendino smette di sfavillare e la cartina tra le tue labbra prende dolcemente fuoco mentre il tuo cervello ha già dismesso l'idea di uccidersi in favore di quella di licenziarsi.
Quel supplizio non ne vale la candela -buffo modo di metterla a parole- e per di più non ti pagano abbastanza.
Fumi con calma, assaporando le boccate di quell’aria malsana che aleggia lì.
Con gli occhi stanchi dalla nottata passata in bianco cogli pigramente l’arrivo del bus.
Le 11 e 35 segna il tuo Casio scassato, l’orario di attacco della tua collega.
You se ne esce dalla vettura trafficando con la sacca di yuta che la contrassegna, cacciandoci dentro il braccio, fino al gomito, arrancando come un cerbiatto ai primi passi.
Quella visione non fallisce mai al portarti un sorriso alle labbra, You è una brava persona, un po’ ingenua, poco attenta all’igiene personale -cavolo l’hai visto che metteva da parte una gomma da masticare iniziata per tenerla “per dopo”- ma non di meno un’anima buona.
Alzi un braccio, tutto sforacchiato e livido degli errori della tua adolescenza, un saluto rassicurante alla collega che ti approccia.
«Ehi ciao scusa il ritardo.» comincia, senza mai davvero smettere di ribaltare come un calzino il povero indumento che subisce i suoi abusi.
«Nessun ritardo Mentina, mi hai beccato in pausa paglia.» You ti affianca, finalmente tirando fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette senza marca, almeno non una di quelle che conosci, la Uncanny Valley è un posto bizzarro -una iperbole se la metti così- e perfino i brand del suo tabacco paiono rispecchiare questi standard, è per questo che le tue sono di “importazione” se così possiamo definire il fuggire di tanto in tanto fuori dalla Valle solo per fare rifornimento di tabacco No Name.
«Dai però!» La tua attenzione viene improvvisamente ricatapultata alla persona accanto a te, mentre curiosa guardi oltre le sue spalle, dentro il pacchetto che fissa entrambe completamente vuoto.
Ridacchi, quasi sarcastica, come se la tua risata non potesse trasmettere altra emozione mentre già pentendotene porgi quel tuo piccolo tesoro di “mondo esterno” alla persona alla tua destra.
«Grazie, davvero, è una giornataccia…» Da quello che puoi percepire non pensavi lo fosse, You profuma, non terribilmente, effetto profumo, ma di pulito, il che vuol dire che deve essere riuscita a farsi una doccia, una rarità per i ritardatari.
«Come mai?» chiedi, più per ingannare la noia che per cortesia, per quanto lapalissiano nella Uncanny Valley non succedono mai cose davvero eclatanti, almeno non a te, piccole stranezze terribilmente inquietanti -come il gatto con la bombetta che aveva cercato di pagare il biglietto per l’autobus appena qualche giorno fa- ma mai avvenimenti davvero significativi.
«Cazzo sei pure docciata.» You sospira, si stringe nelle spalle e accende la stecca di tabacco rollata a mano.
«Non lo so ho incontrato un tipo inquietante sul bus, era davvero… Terrificante.»
«Wow, perché è così starno non trovare gente per bene e perfettamente normale qui, che evento fuori dall’ordinario.» È più forte di te, il sarcasmo ti ristagna in bocca come una seconda lingua, denso e a volte anche acido.
«Stronza -Bofonchia You- dai smettila, credo mi abbia seguito fino a qui…» conclude guardandosi attorno snervata.
Non hai visto nessun’altro scendere ma non puoi esserne cento per cento sicura, la tua mente è ancora annebbiata e parecchio confusa dalle ore piccole e dagli psicofarmaci a stomaco vuoto.
«Non mi sembra di aver visto nessuno scendere con te.» Fai presente, consumando avidamente l’ultimo tiro della sigaretta morente.
«Davvero? oddio meglio.» Un po’ ti dispiace, per tutti e due, per You e per il poveretto che probabilmente tanto strano manco era ma che nel cervellino paranoico della tua collega doveva sicuramente essere apparso altamente disturbante.
«Eddai poveretto, magari era innocuo.» La sgridi infatti, gettando il mozzicone a terra e calpestandolo con la suola delle tue sneakers, osservando il cadavere della tua salute venire lentamente inglobato dall’asfalto, finendo nel loop indefinito di chissà quale realtà.
Ah le gioie della Uncanny Valley, almeno l’inquinamento qui non è un problema, strade deformi ma certamente pulite.
«Avresti dovuto vederlo, aveva gli occhi enormi e gialli, non li ha battuti nemmeno una volta da quando sono salita! e mi fissava, e oddio aveva così tanti denti in bocca.» You rabbrividisce visibilmente, attaccandosi alla sigaretta come se fosse un ciuccio per confortarsi.
A dirla tutta lo sconosciuto non sembrava nulla di inusuale per la Valle, magari un po’ destabilizzante ma nulla di preoccupante, insomma, non l’aveva ne approcciata ne molestata, tanto male non doveva essere.
«You non essere ipocrita, se ti sei accorta che non batteva le palpebre vuol dire che lo hai fissato pure tu per tutto il viaggio, magari lo hai addirittura spaventato.»
«Non capisci! S O R R I D E V A.» You scandisce le lettere una per una, come per far andare a segno il suo messaggio.
«Ancora peggio! poverino l’avrai messo in imbarazzo, sempre credere alle vittime ma ammettiamolo hai forti tendenze paranoiche, ti ricordi quella volta che mi hi chiamato piangendo perché credevi che i ladri volessero entrarti in casa?»
La tua interlocutrice avvampa e abbassa lo sguardo, gettandoti addosso una espressione imbarazzata che non fa altro che farti ridere.
«Avevi detto non ne avremmo più parlato…»
«Era un procione nella spazzatura, hai confuso dei ladri con un procione.»
You si sgonfia come un palloncino bucato, accasciandosi al muro della stazione di servizio.
«Si bhe se si ripresenta lo mando da te!»
Ridi, sempre con quella tua strana risatina brutta tanto simile a chiodi scossati.
«Il procione o il tipo del bus?» You ti tira uno schiaffo alla spalla, scuotendo il capo e gettando il mozzicone a sua volta.
«Dai su, sto con te per un’altra oretta, prendo il bus delle 13, giusto in caso qualche procione voglia attaccare bottone con te.»

E così effettivamente era stato, il procione/stramboide che ti aveva descritto You era venuto fuori chiamarsi John Doe, un ragazzino tra i venti e i trent’anni, non particolarmente alto ma -effettivamente- alquanto… destabilizzante, non sapevi aggrappare bene le mani sulla sensazione che ti aveva trasmesso quando con gli occhi a cuoricino ci aveva palesemente provato con la tua collega, solo per essere -gentilmente ma sicuramente in maniera definitiva- rifiutato.
Non sembrava malvagio però, magari non canonicamente appagante alla vista ma comunque un essere umano non da meno.
Non era nemmeno stato particolarmente insistente, se ne era semplicemente andato con la coda -o con tutta quella enorme matassa di capelli sarebbe stato meglio dire- tra le gambe, come un cucciolo bastonato, ed in un angolo gelido del tuo freddo cuoricino un po’ ti era dispiaciuto.
Ma un no è pur sempre un no, e l’altra parte dell’organo congelato che ti alberga nel petto era stata immensamente fiera di You che era stata in grado di parlare per se stessa e farsi valere.

In fine le tredici erano arrivate in fretta e con loro presto sarebbe giunto anche il tuo autobus, tempo di smantellare baracca e burattini, girarti un altro drum e salutare la tua collega.
Meglio così, ti sembra ti faccia tutto male, gli occhi ti bruciano e la testa ha incominciato a pulsarti, il caffe in circolo piano piano sempre meno efficace contro la crescente stanchezza che ti sta mangiando le ossa, non vedi l’ora di tornare a casa, nonostante la bacinella al centro della cucina e lo snervante Plip che produce di tanto in tanto. 
Hai giusto il tempo di uscire e raggiungere la fermata, i capelli crespi per l’aria della Valle, prima di notare una figura familiare appoggiata alla fermata.
John -se non ricordi male- se ne sta ricurvo seduto sulla panchina in metallo sotto la tettoia, lo sguardo perso ed un po’ triste.
Non hai una gran voglia di approcciarlo, consolarlo sembra un’idea compassionevole ma il tuo mal di testa e il tuo generale cattivo umore crescente sembrano frenarti.
Siedi nella panchina opposta lo stesso, troppo stanca per reggerti ulteriormente in piedi, il tipo del bus non sembra farci caso, ancora immerso in chissà quale pensiero, non sai come riesca a farlo ma quel sorriso inquietante ti sembra sempre più triste.
Accendi il tuo drum, portando l’accendino alla bocca e sfregando la rotella, premendo il regolatore del gas.
Lo sconosciuto grida, un urletto effemminato di almeno due ottave troppo alto per non essere doloroso alle tue orecchie, si ritrae sulla panca e ti fissa ad occhi sgranati, visibilmente terrorizzato.
Dire che il tuo cuore ti salta in gola è un eufemismo, le tue mani scattano prese da uno spasmo di paura lasciando cadere l’accendino a terra e bruciandoti il pollice in concomitanza.
«Cazzo!» gridi, portandoti il dito leso alle labbra, urtando la sigaretta nel processo e destinandola allo stesso destino dell’accendino ai tuoi piedi, l’asfalto sotto di te si apre in un istante, inghiottendo entrambi gli oggetti.
«Scusi non volevo spaventarla, ah… maledizione la mia paglia; davvero mi spiace.» te ne esci con una frase un po’ sconnessa, mezza scusa mezza imprecazione.
Ma non importa, mentre contempli l’asfalto china alla ricerca degli oggetti ormai perduti lo sconosciuto continua a fissarti, oddio non davvero sconosciuto, ma comunque.
«Non importa, solo, non l’aspettavo.» bofonchia, atono, senza che tu possa guardarlo in faccia intenta come sei.
«Sarebbe inquietante il contrario.» scherzi, forse un po’ troppo scortese.
«No! non in quel senso!» Si affretta infatti a precisare John, la solita espressione snervante sul viso in qualche modo ancora più inquieta.
«Ehi ehi tigre, tranquillo, era una battuta -lo rassicuri- Anzi, scusi, era un po’ cattiva.»
John tace, annuisce e abbassa il capo.
Sembra triste, molto.
«Mi spiace per la sigaretta -asserisce improvvisamente, di punto in bianco dopo un silenzio che sembra essere durato ore, uno di quelli che ti aspettavi sarebbe continuato per sempre, la chiusura di una conversazione di passaggio- non fumo non posso riparare al danno.» conclude, ancora intento a fissarti.
Adorabile, strano che ti fissi, ma comunque adorabile.
«Ah non si preoccupi, me ne posso fare un altra, ah no mannaggia l’accendino…» il tuo cervello fa la matematica della situazione per un attimo, contemplando l’idea di correre dentro alla stazione alle tue spalle ed arraffarne uno a caso prima che passi il bus, non è furto se poi te lo detraggono dalla paga no?
«Quello ce l’ho.» ti precede l’estraneo.
«Non fuma ma ha un accendino? Bizzarro.» ridacchi, il sorriso sulle labbra troppo dolce per dare davvero un peso alle tue parole.
John arrossisce e si tocca una ciocca ribelle di capelli nerissimi, avvinghiandola nervoso ad una delle… quattro dita? Weird…
«Era- Era per una amica, non…» sorridi, socchiudendo gli occhi falsamente inquisitori che gli hai lanciato.
«Battuta, di nuovo, grazie sarebbe molto gentile.» John si affretta a ficcare una mano nella tasca della felpa nera che indossa come un scialle e ne produce un accendino bizzarro, rosso sangue ricoperto di macchie più scure, sembra che si muovano nel tuo palmo aperto che gli hai offerto e su cui ha poggiato l’oggetto.
«Figo -complimenti- peccato si chiami Pietro suppongo.» scherzi, estraendo dal pacchetto di tabacco una delle sigarette “Da baratto” che ti eri già preparata.
John inclina la testa e ti guarda -sorridente- ma confuso.
«Gli accendini vanno nominati?» domanda, genuinamente stupito.
Non puoi fare a meno che ridacchiare, «No stella, Pietro torna in dietro, è una battuta, per le cose che vuoi non ti vengano fregate.» spieghi dolcemente, riporgendogli l’oggetto una volta adempiuto il suo dovere.
John lo guarda, prima l’oggetto poi la mano che glielo sta porgendo, risalendo lungo tutto il braccio con quel suo sguardo ridotto a spillo, pensoso.
«Veramente no… non si chiama Pietro» John alza lo sguardo un po’ imbarazzato, piantandolo nei tuoi occhi per solo qualche istante «Si chiama Carlo -inizia incerto- Carlo puoi tenerlo.» bofonchia pianissimo, come se incerto su ciò che sta dicendo.
La tua risposta sembra spaventarlo nuovamente, poi rassicurarlo mentre ad occhi più morbidi ti osserva ridere come una stupida, una di quelle risate brutte e sceme che ti vengono fuori solo se genuine, con qualche grugnito di tanto in tanto.
«Mi chiamo Alyssa comunque, Alyssa Rorschach, ma mi basta Lyssa.» ti presenti, porgendogli la mano libera dal drum.
Lo sconosciuto si affretta a stringerla, la mano innaturalmente bollente.
All’improvviso un suono statico ti penetra il cranio facendoti storcere leggermente il naso.
«Ma puoi chiamarmi John Doe.» termina, stringendo bizzarramente la tua mano nella sua.
«Piacere…» Mormori, il dolore dell’allucinazione uditiva appena avuta snervante e persistente, l’accendino ancora pesante nella tua mano.
In lontananza appare il tuo bus, appena dietro una collinetta alta abbastanza da nasconderlo quasi completamente.
«Prende questo?» Domandi, John ancora intento a fissarti, è starna come cosa ma non ti lascia addosso una sensazione spiacevole, è sorprendentemente sorpassabile come abitudine inquietante.
«Io- ah io non lo so…» Ti risponde, preso in contropiede, voltandosi verso la stazione di gas e fissando qualcosa di indefinito al suo interno.
«Bhe temo debba decidere in fretta, l’autista non è una donna molto paziente.»
Tu ti alzi per precauzione, giusto in caso la nerboruta che guida il 122 decida di tirare dritto solo perché non l’hai fermata, il mozzicone ormai consunto della tua sigaretta ancora tra le labbra, ne trai l’ultimo tiro possibile, percependo il sapore distinto della plastica bruciata del filtro, gettandolo a terra subito dopo, la faccia un po’ disgustata.
John è ancora seduto, di nuovo triste.
«No io… io credo resterò…» mormora, come un bambino piccolo molto triste per qualcosa che non puoi sapere.
«Okay Doe, come preferisce, è stato un piacere, grazie ancora per l’accendino.» inizi a congedarti, l’autobus nuovamente in vista rispuntato dietro l’asfalto bollente della Valle.
«AH! aspetta, tu- lei, lavora qui?» ti chiede di punto in bianco John, quasi afferrandoti un braccio ma ripensandoci e bloccandosi appena in tempo, la mano artigliata sospesa in aria.
«Si, il turno di notte, passi a trovarmi se vuole chiacchierare, si muore di noia lì dentro.» e detto ciò, lanciatogli un ultimo sorriso gentile ed un cenno con la mano mentre già stai salendo sul bus te ne vai.

«Lo farò…» mormora John dopo molti minuti, ormai distante dalle tue orecchie.



NdA: Precedentemente pubblicato sul mio vecchio profilo (Runaway tina o May non ricordo più) non mi aspetto qualcuno conosca questo strano fandom, io mi sono semplicemente innamorata di Doe e della sua stranezza.
Per quanto riguarda la storia invece non vi saranno particolari descrizioni della protagonista (Es: colore dei capelli/occhi, etnia, colore della pelle -a parte alcuni casi in cui ci si riferisce alla sua salute e viene descritta come “pallida” ma ovviamente non mi sto riferendo alla sua etnia e al colore della sua carnagione.- tuttavia Lyssa è un personaggio a se stante, con un suo vissuto e una sua storia alle spalle, Lyssa è una ex tossicodipendente, ai fini della storia è necessario tenere in mente che il suo fisico RISPECCHIA TALE STILE DI VITA.
Ultimo avvertimento bimb* bell*: NON abusate di sostanze stupefacenti, non è divertente, ti distrugge la vita, e se addirittura Alyssa è stata intelligente abbastanza da rendersene conto credo possano capirlo tutti.
<3 baci e abbracci 
Loony

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


La sveglia strilla, causandoti almeno due arresti cardiaci.
Devi cambiarla, devi farlo da due anni ormai ma i soldi per comprarne una nuova non sembrano mai arrivarti.
Ti saresti svegliata lo stesso anche senza l'ausilio di quell'aggeggio infernale dal momento che appena pochi istanti dopo il rumore del "divertimento speciale" dei tuoi vicini si rende improvvisamente manifesto, come ieri notte, allo stesso esatto orario.
Maledetti conigli.
Il display sul tuo comodino segna le 2:00 di notte, è vero che il tuo turno inizia alle 3:00 e che casa tua dista nemmeno un quarto d'ora di autobus dalla stazione ma ti piace fare le cose con calma.
Attivi la macchina del caffè, la treccia protettiva che ha -per l'appunto- protetto i tuoi capelli dalle tue pessime abitudini notturne giace sulla tua spalla agonizzante, mezza fatta mezza no.
indossi i vestiti della scorsa notte, e l'odore di chiuso è pesante all'interno del monolocale, tirare le finestre non ti farà male, tanto abiti in alto e la scala anti incendio non da direttamente sulla finestra della tua cucina.
La brezza della notte ti scarmiglia i capelli ulteriormente, sottraendo altre ciocche all'ormai rassegnata presa dell'elastico.
È un bel momento di pace, mentre attendi che la macchinetta del caffè spunti la lucina arancione e ti segnali si sia scaldata a sufficienza, è un vecchio rottame quella macchinetta, uno dei regali di nozze dei tuoi genitori, ma sa di casa e antico, una sensazione che nella Uncanny Valley ti manca da morire.

Ti lavi i denti e la faccia, attendendo la tua lentissima macchinetta del anteguerra, e proprio quando finisci di gettarti addosso gli indumenti del giorno, una semplice maglietta nera di una band e un paio di jeans slavati e strappati, la macchinetta del caffè fa Click e l'acqua smette di gorgogliare nel serbatoio, attacchi la cialda e pressi l'ancia al beccuccio, posizionando la tazzina sbeccata sotto l'imbuto in ferro.
Adori quando va tutto per il verso giusto.
È vero, ti piove ancora in casa -giusto devi anche ricordarti di svuotare la bacinella- ma per lo meno il tuo caffè sa di buono e l'aria della Valle quella notte non è poi così inusuale e bizzarra, è fresca è pungente, come a concederti un po' di respiro.
Ti faresti anche una doccia, ma è solo il secondo giorno e non hai voglia di asciugarti i capelli, li tieni legati proprio per non doverli lavare troppo spesso.
Ma sì, sei comunque meglio di You per lo meno -non che ciò ti consoli particolarmente- tu hai la decenza di mettere il deodorante -la maggior parte delle volte, ma questo lei non deve saperlo.-

Sì, va bene così, i sogni ficcati sotto al tappeto iniziano a marcire nella discarica delle tue speranze sepolte ma va bene così, una vita è pur sempre degna di essere vissuta ti ripeti, mentre sorseggi un caffè che sa di una casa ormai lontana, con le lacrime a rigarti le guance scavate.

____

Sono appena le 2:17 quando esci di casa, sigaretta in bocca e occhi gonfi di lacrime, l'aria fredda della Valle ti farà bene, ti asciugherà i sentieri umidi sulle guance e possibilmente ti rischiarerà anche i pensieri; non hai preso nessuna medicina oggi, a volte ti piace provare a saltarle, per vedere se effettivamente ce la puoi fare senza, è un atteggiamento stupido e ormai troppe volte ti sei riprovata che non ce la puoi fare eppure ti piace farlo; cammini nel confortante silenzio di un paio di cuffiette scariche, non ti da fastidio, ti piace la musica ma anche il silenzio ha il suo perché secondo te, il silenzio della Valle ha una musicalità tutta sua, inquieto e rassicurante allo stesso tempo.
Il silenzio della tua patria era denso e sensuale, una cacofonia di dichiarazioni mai dette, di istinti a cui si è ceduto, Alyssa, Lyssa.
Hai anche tu fatto parte di quel silenzio per la gloriosa durata di qualche ora, nella fuga dal tuo paese, istinto braccato e colto.

Le luci in lontananza dell'insegna luminosa sfarfallante della stazione ti accolgono nel loro abbraccio al vapore di mercurio, una sensazione familiare che ti permette di bearti della tua condizione di esistenza; non vola una mosca nell'aria statica, non un suono di macchina in lontananza; è una giornata come tutte le altre.
L'orologio digitale che si alterna lampeggiando al costo della benzina ti informa che sono appena le 2:36 pertanto rallenti il passo, cacciando le mani nella felpa e giocherellando col contenuto delle tue tasche.
Non vuoi avvicinarti troppo, Dio ti salvi se Meg riesce a vederti dalla vetrina, sai ti trascinerebbe dentro e ti staccherebbe le orecchie a suon di discorsi, gossip su gossip a non finire.
Preferisci la tranquillità della notte, il freddo della sera inoltrata.
Il tuo passo è rallentato talmente tanto che ormai sei ferma in mezzo al marciapiede, ponderi le tue opzioni valutando l'idea di tirare fuori il pacchetto di tabacco nuovamente, d'altronde la tua salute non è mai stato null'altro per te che un qualcosa con cui giocare.
Eri pronta a morire prima, lo sei anche ora, lo sei ancora per meglio dire.
Non importa a quanto ammonti il mucchietto di frasi motivazionali strappate giorno per giorno dal calendario "Self love" appeso al muro della tua cucina.
Giusto.
Oggi, come buffamente anche ieri, ti sei dimenticata di strappare la frase del giorno.
Secondo Strike, ti canticchi mentalmente.

L'accendino di John ti pesa nella mano guantata, la plastica è ancora stranamente calda contro le falangi scoperte, sensazione bislacca che inizialmente avevi dimesso con una scrollata di spalle e l'ipotesi che quel bizzarro calore indugiante altro non fosse che il rimanente tepore delle dita del suo ex possessore.
Ora però sono passate ore ed ore dall'ultima volta che lo sconosciuto l'ha toccato, eppure il calore gentile dell'oggetto vi era rimasto, immutato.
Scuoti la testa e ruoti le spalle indurite ed indolenzite dalla tua solita postura storta e sbilenca, inizia ad accusare il colpo delle medicine mancate, è sempre così, i primi a manifestarsi sono i pensieri in disordine, cose a cui non ha senso pensare che ti guizzano alla mente come ranocchie in uno stagno, troppo torbido per vederne il fondale, troppo basso per affondarvici.
Hai bisogno di fumare, ora, odi quando la tua testa inizia a disseminarti nel tuo stesso labirinto di pensieri.
Devi importi un obbiettivo, ripeti come ti ripeteva la tua psicologa, un obbiettivo facile e raggiungerlo, linea retta, no zig zag.
Prendi il tabacco, la cartina -sempre stupidamente ferma al centro del marciapiede- il filtro.
Hai tutto.
Avresti dovuto prendere le medicine, pensi, sarebbe stato tutto più facile se le avessi prese, almeno quelle per la concentrazione, scrolli le spalle, ficchi il filtro tra le labbra secche e cacci la mano in tasca per cercare il burro cacao.
L'inverno ti è arrivato alle spalle cogliendoti di sorpresa e le giornate si sono fatte improvvisamente fredde nella valle, non che lavorare il turno di notte aiuti, passi le prima ore di luce sotto le coperte con le tapparelle serrate e vestiti e calzini sulle lucine luminose delle spie di prese ed elettrodomestici, non hai davvero l'opportunità di goderti il bacio amorevole dei raggi solari sulla pelle.
Soffia un refilo di vento e la cartina che tieni tra le dita della mano sinistra si stropiccia, producendo un suono simpatico alle tue orecchie.
Vero devi rollare.
Questa volta ti spicci a farlo, cacci una quantità indefinita di tabacco nella valle della cartina e inizi a girarla frettolosamente, cercando come una stupida il filtro che tieni tra le labbra per una buona manciata di secondi.
A lavoro completo l'accendi, con lo stesso accendino con cui avevi giocato per tutto il tempo, ancora piacevolmente caldo.
Hai ancora le labbra secche.

Il tempo di accorgertene che alle tua spalle, a pochi centimetri dal marciapiede su cui stai ferma da almeno dieci minuti sfreccia la prima vettura di tutta la notte.
Il 122 sfreccia per la strada creando un vuoto d'aria che ti getta tutti i capelli in faccia, i fanali nella notte traballanti e indistinti.
Ferma alla fermata della stazione del gas, in lontananza riesci a sentire anche il suono degli ingranaggi delle porte che si aprono.
Dalla vettura non scende nessuno, ma in cuor tuo sai quello sia l’autobus che avrebbe dovuto portarti a lavoro.
Alzi pigramente gli occhi cerchiati di nero, e l’insegna verde fluo ti osserva di rimando informandoti amaramente siano già le 2 e 51.

Allunghi il primo passo dopo l'interminabile "pausa di riflessione" che ti sei concessa appena intravista la stazione, scricchiolando i sassolini dell'asfalto sotto le tue converse sporche.
È una giornata fredda, come d’altronde anche ieri, sì, l’inverno era decisamente alle porte e tu troppo presa dal sopravvivere non dovevi nemmeno essertene accorta.
Guardi ancora alla stazione, al suo interno riesci ad intravedere Meg aggirarsi per gli scaffali frettolosa ed indaffarata, ti piace meno di You ma è simpatica anche lei, molto espansiva ma gentile, calda osi dire.

Il mozzicone nelle tue mani protesta mentre aspiri l’ennesimo tiro, si accende e si contorce nelle tue dita; e tu sospiri ed esali, continuando la tua lenta processione al patibolo, hai evitato Meg già ieri, non puoi farlo anche oggi; per lo meno non dovrai fare il giro dal retro, puoi marciare nella stazione a testa alta e dall’entrata principale.

Sotto i tuoi piedi scricchiola l’inconfondibile suono della plastica calpestata, e il tuo proposito di sentire come sta Meg svanisce nel giro di due nanosecondi.
Da sotto la suola consunta ti osserva il viso perfetto di una delle tante donnine nude sulle riviste che vendete.
Le lunghe ciglia languide le coprono la maggior parte degli occhi affusolati, un lussuoso e studiato look che le adombra gli occhi.
Ti chiedi perché nascondere gli occhi, ti chiedi come ciò possa essere attraente.
Il contatto visivo non è sensuale?
Non capisci certe cose tu, non hai mai capito davvero come funziona il sesso e men che meno hai mai capito come funziona la sensualità.

Ti domandi come ci sia finita lì.
Ti chiedi se qualcuno la stia cercando ora, o se l’abbandonarla fosse stato un atto di vergogna.
Ti domandi come mai la valle non l’abbia inghiottita, come mai sia rimasta a riposare in attesa di un nuovo proprietario che non sarebbe mai arrivato.
Ti chini e la raccogli, perché non sai bene che altro fare e lasciarla lì, da sola, nuda, davanti a possibili occhi indiscreti ti sembra qualcosa di crudele.

Provi a gettarla nuovamente, aspettando la valle faccia il suo dovere, ma il giornaletto atterra solo di piatto, con un tonfo di carta e plastica; ti chini di nuovo, questa volta scartando il giornale e stropicciando entrambi a mani separate, getti a terra prima uno poi l’altro.
A questo giro l’asfalto si apre pigramente risucchiando i due oggetti e lasciandoti sola.

Ridi, e ti domandi se sia quello allora il comune denominatore della spazzatura, l’essere stata usata, scartata e stropicciata.
Ridi e tiri un calcio all’asfalto, perché ti va o forse solo perché il senso di rabbia che ti è cresciuto nel petto ha bisogno di uno sfogo e non ti viene in mente null’altro.
Ne tiri un altro ed un altro ancora; non importa perché tu lo stia facendo.
Ti importa solo la sensazione di tristezza che ti dilania l’anima.

Mentre calci l’asfalto, proprio lì, nella periferia del tuo sguardo offuscato dalle lacrime cogli una macchia indistinta muoversi.
Ti fermi e guardi, con le labbra socchiuse e gli occhi gonfi; e il naso rosso e il mascara un disastro, ti fermi e guardi, ti sembra sia sparito qualcuno dietro la macchinetta automatica delle bevande; non ti importa che qualcuno assista al tuo mental break down, non ti interessa nemmeno quello possa essere un futuro cliente ormai perduto.
Non ti importa nulla.
Strusci il viso sulla manica della felpa, tirando su col naso e singhiozzando gli ultimi gemiti addolorati che ti raspano in petto alla ricerca della libertà.

Sei rotta, scartata e stropicciata.
Usata.

E non capisci come mai il pavimento della Uncanny Valley non apra le sue fauci sotto di te inghiottendoti per sempre.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Il turno di notte rendeva il tuo lavoro strano, lo rendeva eccitante ed eccentrico, lo caricava di un qualcosa che, sebbene di seconda mano, ti dava l’energia di presentartici ogni giorno -meglio dire ogni notte- alla medesima ora, quasi mai in ritardo. 
Oggi c’è differenza però, oggi hai pianto ben due volte prima di attaccare.
Meg è già sulla soglia a tamburellare il piede a terra, carica di una energia contagiosa ma snervante.

«Bonjour Lyssa!
Che hai fatto ieri?» Meg ingrana la quinta e parte all’attacco, cinguetta le sue domande non davvero interessata ma comunque vagamente curiosa.
«Giorno Meg, ho dormito, nulla di eclatante, tu?.»
Non le dirai come stai, e lei probabilmente non te lo chiederà, forse per timore forse per menefreghismo; non ti importa saperlo, vorresti solo poter mettere in pausa la tua esistenza e darti venti meritatissimi minuti di silenzio, raggomitolata su te stessa o stesa a quattro di bastoni sul pavimento, in qualsiasi posizione purché non sia eretta.

Ma lo sai che la prima vera nottata di sacrosanto riposo la farai in una bara, e tu per ora respiri.

«Ieri sono tornata assieme a Gerard, è tornato a casa piangendo e ubriaco, dovevi vederlo è stato dolcissimo, mi ha detto che mi ama.
E poi-» smetti di ascoltare alla prima cazzata sparata dalla tua collega, storcendo la bocca e forse anche il naso, sicuramente scuoti il capo ma tanto Maggie è troppo intenta a rimettere a posto la sua pettorina per rendersene conto; a proposito di rendersi conto di ciò che ci accade attorno, sei finita nello spogliatoio, Meg ti ha trascinata -e tu l’hai seguita istintivamente- dentro la stazione del gas, poi dietro al bancone -sempre continuando a rintronarti di chiacchiere vuote- ed alla fine dentro la stanzetta per lo staff.

Cerchi di non farti troppe domande, senza medicine sei ancora più imbranata e nervosa del solito e l’accoppiata: collega mezza nuda e nervosismo non ha mai giocato a tuo favore.
Non che importi, Meg è etero, etero e stupida visto che è tornata assieme a quella red flag su due gambe di Gerard, ma tu non sei nessuno per ficcarti nelle relazioni degli altri, a malapena riesci a capire se sei asessuale o semplicemente timida, figuriamoci se puoi avocare per le relazioni altrui.
Insomma il punto è che non importa, a te Meg non piace, eppure ti senti nervosa e inadatta così stupidamente immobile.
Pertanto ficchi le mani congelate nelle tasche della giacca di pelle, beandoti della sua confortevole pesantezza, pesa 4 chili da sola, è uno dei tuoi indumenti preferiti, ti ancora alla realtà come pochi altri sanno fare, è calda ed era di tuo padre.

Lanci la borsa nel fiume, capire che in essa vi sono ancora anche i tuoi documenti ed il tuo portafogli è un pensiero troppo complesso per l’ora.
Pensi solo alle siringhe sparse e alle mini size dei tuoi liquori preferiti.
Qualcuno sta ridendo con te, non di te, solo con te, una risata familiare e allegra.


«Lyssa stai bene?» 
La luce sopra di voi sibila, pianti gli occhi su Maggie e non vedi più le sponde del fiume nei suoi occhi azzurri.
«Sì, sì scusa ti stavo ascoltando, ho solo fatto le ore piccole.»
«Non avevi detto di aver dormito tutto ieri?»
Lo sguardo inquisitorio di Maggie è uno sguardo penetrante, colpevolizzante, ti senti attaccata mentre la tua collega decisamente piccata scuote il capo e continua a guardarti negli occhia alla ricerca di una scusa valida.
Questo è uno dei motivi per cui Meg è numerosi gradini sotto You nella tua piramide della simpatia sebbene con le due la tua cerchia di conoscenze inizi e si concluda.
Non puoi iniziare a dire ora ai tuoi colleghi che ti sfondi di Olanzapina, non puoi dire che il sonno che ti procuri con i farmaci ti spoglia completamente da ogni forza mentale possibile ed immaginabile, non sai nemmeno se sia legale ingerire così tante pasticche in un colpo solo -figuriamoci se credi sia anche solo vagamente salutare-, non puoi perdere questo lavoro, almeno non finché non ne hai un altro.
Pertanto sorridi falsa e mastichi un: “Devo aver dormito male” stretto tra i denti e avvelenato dall’odio.
Meg non se lo beve -strano- e con l’insistenza irritante che la caratterizza fa la cazzata del secolo: ti afferra i polsi e li gira verso l’alto.
Ovviamente non vi sono fori nuovi ma lo schiaffo all’orgoglio è già partito ed atterrato.
Strappi dalla presa della tua collega il braccio smilzo e getti una gamba in un primo passo minaccioso verso di lei.
«Levati dal cazzo Meg.» Sibili, come un serpente a sonagli pronto all’attacco, pronta a saltarle alla giugulare.
Meg sembra rinsavire, e lo stupore sembra sostituirsi in fretta all’amarezza del non essere stata ascoltata.

Ti guarda all’improvviso, con quell’espressione sgranata di chi sa di aver appena fatto un buco nell’acqua grande come una casa.
«Io-» inizia.
«Sparisci.
Il tuo turno è finito.»

Meg raccoglie le sue cose, timbra il suo cartellino e fugge senza nemmeno guardarti in faccia. 
Sai dovrai chiederle scusa tu, Meg è troppo orgogliosa per farlo, o forse è solo troppo ottusa per vedere il danno che le sue accuse fanno. 
Speri John passi a trovarti sia una giornata piena, da sola, con la notte buia che ti aspetta famelica al di fuori delle vetrine della stazione ti senti debole.
Lavori lì da quattro mesi, quattro mesi e Maggie pensa di sapere già tutto di te, ha visto i buchi -e a quel tempo anche i lividi in fase di guarigione- e, con la classica attitudine della crocerossino di stampo manipolatorio aveva deciso saresti stata sotto il suo controllo - e scrutinio- costante.
Non c’è giorno che non ti scriva; che non ti cerchi.
Grazie a Dio non sa dove abiti.

Tiri fuori il telefono, lo accendi e aspetti il suo lentissimo reboot.
Le 3:10.
Controlli le notifiche, ti distrai più che puoi nel disperato tentativo di zittire le vocine che reclamano a gran voce ciò di cui Meg ti ha accusato.
La campana sopra la porta tintinna strappandoti ai tuoi pensieri.
Il tuo sguardo punta rapidamente il cliente appena entrato.
È la donna di ieri, una signora sui 40 entrata per comprare un pacchetto di Malore rosse, ti aveva detto essere di passaggio, da quello che avevi capito doveva essere camionista.

Drizzi la schiena e indossi il miglior sorriso di cortesia tu riesca a sfoggiare.
«Sera.» mormori «Malore rosse?»
La donna ormai giunta al bancone ti pare stupita.
«Come fa a saperlo?»
Sorridi, scuotendo il capo e volgendoti alla parete di sigarette alle tue spalle «Sono quelle che ha preso ieri.»

Cavolo, sapevi di non essere particolarmente riconoscibile ma dannazione era successo appena ieri.
La donna ti guarda confusa, come se avessi cresciuto nel giro di qualche minuto una seconda testa.
«Ieri?» domanda soltanto, allungandoti una banconota stropicciata.
«Sì, ieri, mentre sostava per andare alla Weirton.» la donna impallidisce e ti fissa insistentemente.
«Me l’ha detto lei…» tenti di stemperare il silenzio angosciato che vi è calato addosso.
«È la prima volta che entro qui.»
Dalla mano ti viene strappato il pacchetto di sigarette.
Si volta a fissarti molte volte mentre cerca di percorrere il tragitto dal bancone alla porta, fuggendo.

Le persone che ti circondano raramente si rendono conto tu sia una ex tossicodipendente.
Ma questo ti sembra un po’ too much.
Sei rimasta imbalsamata come un’imbecille, con la mano ancora tesa -vuota come il tuo cervello in questo momento- non sai come prenderla.
Grazie a Dio ti squilla il telefono.
“Numero sconosciuto” recita il display, e lo sai che te l’aspettavi, e dentro di te giuri sul Cristo che se è il call center di ieri alla medesima ora dai di pazzo.
Lo schermo lampeggia ancora e le cifre del numero estraneo danzano davanti ai tuoi occhi ad intermittenza, come a sfida, a minaccia.
Rispondi titubante, terrorizzata, curiosa; la voce metallica dall’altro capo del device scatta e comincia il discorso già sentito.

Getti il cellulare e lanci un gridolino.
Come se il metallo che lo riveste avesse improvvisamente preso fuoco; a mani stupide e gelatinose cerchi a tentoni il tasto rosso col telefonino rivolto verso il basso.
Dagli speaker riecheggia per ancora qualche tormentato minuto la voce statica di “Cortana” per poi -finalmente- piombare nel silenzio.

È una coincidenza.
Un call center insistente ed una donna pazza; perché devi per forza essere tu quella schizzata nelle situazioni strane?
3:27 AM Wednesday 8th November ti informa il tuo cellulare.
Ieri.
Oggi è ieri.
E non “Oggi è lo ieri di domani” cazzo di frase motivazionale style; no no, oggi l’hai letteralmente già vissuto: Ieri.

Apri il registratore di cassa, frenetica, affondi la mano negli scontrini e ne tiri fuori una manciata generosa.
7 Novembre, 7 Novembre, 7 Novembre, 6 novembre, 3 novembre, 6 Novembre, 8 Novembre.
Bingo.
Scorri col dito fino all’orario e la piccola speranza che ti era nata in petto si congela e muore di ipotermia.
8 Novembre 2:40 AM.
Non ce ne sono altri.
Ti senti la nausea, vedi con la coda dell’occhio la tua siluette barcollare sullo schermo della CCTV inchiodato al soffitto “8th Nov.” sfarfalla a lato dello schermo -come a scherno- torcendo il coltello nella ferita della tua confusione.

Nella notte senti il rombo di un camion di passaggio, il tuo stomaco si contorce.

Abbracci la tazza e senti l’ultimo conato farsi strada nella tua gola secca.
Il suono dello sciacquone fa ben poco per ancorarti alla realtà che ti circonda, anzi, dei due ti senti ancora più confusa mentre ti sciacqui la bocca e ti strofini le mani umide sul viso sudato; il gorgogliare della tazza ti sembra starti trascinando giù per lo scarico con sé.
L’asciugatore a getto d’aria -hai dovuto googlearlo per imparare come diavolo si chiama l’aggeggio infernale affisso al muro del bagno- parte producendo un frastuono infernale, da qualche parte nel tuo cervello riaffiorano come cadaveri in acqua le immagini di un vetrino da cultura batterica, della muffa ripresa e pubblicata su Weirdagram; l’immagine di uno di quegli attrezzi che si chiude come un paio di fauci spalancate, rivoli di sangue.
Ritrai le mani in fretta, rabbrividendo profondamente.
Ti asciughi il resto dell’acqua sui vestiti, procurandoti una sensazione odiosa quando i pelucchi sfusi del maglione sgualcito che indossi ti si appiccicano alla pelle bagnata.
Ti senti uno straccio.
Nulla di nuovo ma non puoi continuare a ingurgitare antidolorifici come ciliegie.

Opti per una pausa nicotina.
Esci dal bagno con una pedata sulla porta, raggiri il bancone e afferri la tua giacca, un mucchietto di post-it sparsi ed una penna, passi sotto la visuale delle telecamere di sicurezza, assicurandoti di batterti una pacca sul culo e fare il dito medio alla lente di vetro che ti osserva come una formica in una teca; giusto in caso qualcuno alla fine quei nastri se li riguardi per davvero.
La campanella sulla porta tintinna mentre ti lascia fuggire dallo stomaco dell’edificio che presiede, la prima cosa di cui hai bisogno è una bella boccata d’aria congelata, te ne riempi i polmoni prima di accenderti la sigaretta.
Crolli come un sacco di patate in una sottospecie di squat, trafficando con taccuino e penna:

1-Donna 40 fumo (camion)
2-Uomo 20 cibo (moto)
3-Uomo 50 gas (?)

Ti sembrava più intelligente nella tua testa rispetto a come ti sembra ora fissato su carta, le poche parole che sei riuscita a scrivere sul blocco note non ti sembrano per nulla utili ora che accozzate l’una dietro l’altra.
No, non è vero, servono a farti capire se stai impazzendo o meno.

L’aria gelida ti passa le dita secce tra i fili dei tuoi capelli, scarmigliandoli e gettandoteli sul viso; in lontananza vedi il cielo farsi sempre più scuro fino a scomparire in un abisso nero e privo di stelle.
A volte ti capita di sentirti come in una scatola da scarpe, in una di quelle con cui da bambina tornavi a casa con le creature più disgustose e disparate la piccola foresta fuori la proprietà di famiglia potesse ospitare, conti le stelle sulla tua testa -buchi nel coperchio- e ti chiedi per quanto dovresti arrampicarti sulle pereti per finalmente usarli come via di fuga.
La stella polare -o per lo meno quella che credi sia la stella polare- sfavilla sotto i tuoi occhi, come se sentitasi presa in causa; sorridi, tirando dalla sigaretta tra le tue dita, un profondo brivido a scuoterti fin dentro le ossa.

Rientri vagamente più tranquilla di prima; fumare fa davvero miracoli per i tuoi nervi, sei giunta a molte conclusioni nella breve pausa tra l’accensione di una sigaretta ed il suo ultimo disperato precipitare verso le fauci già spalancate dell’asfalto sottostante.
Hai capito che: -Prima di tutto- se anche oggi fosse ieri non è un dramma, insomma stai pensando ciò mentre cerchi di infilare il latte nello sportello frigo che riordina in maniera bizzarra e totalmente casuale i prodotti al suo interno, le stranezze della Valley dovrebbero esserti già finite sotto pelle dopo tutti questi anni (?) -perché erano anni quelli che avevi speso nell’Uncanny Valley, vero?-  devi solo fare ciò che fai tutti i giorni, andare avanti a testa bassa, non farti domande, sparire nella massa, confonderti con le anomalie della citta che abiti, l’ennesima macchiolina nella massa indefinita di anormali. 

Loro sono diversi, tu sei indifesa.
Hai una certa familiarità con le creature che vivono nella valle, per lo meno sai che ce ne sono di ogni tipo e genere, quelle ostili sono forse le più diffuse ma sicuramente non le più facili da incontrare, quelle se ne stanno per i fatti loro, non interagiscono con larghi gruppi di persone, tendono a cacciare prede sole e piccole -tu in pratica ma con il tempo ti sei fatta la pellaccia, ed è ormai da molto che qualcuno non ti infastidisce- ma adesso stiamo parlando di un glitch, di un malfunzionamento di una intera città, si è ripetuto un giorno, nulla di preoccupante, ti fa strano tu ne sia rimasta estranea ma non ti turba più come prima -anzi, forse la cosa che ti turba più di tutte è proprio il fatto che tu sia stata nuovamente esclusa da qualcosa di gruppo-.

Osservi la tua lista e poi l’orario sulla CCTV, 4:20 -lol, nice- più o meno l’orario del tuo prossimo cliente; ti volti a fissare la porta, cercando di ricordare il dispiegarsi della conversazione che -secondo i tuoi calcoli- stai per avere.
Quasi come per magia la porta si apre e proprio il ragazzotto che ti aspettavi entra dentro alla stazione.
Ti trattieni a malapena dal farti le congratulazioni, mantieni la faccia più neutrale - e ovviamente cortese, sei ancora una dipendente a contatto con il pubblico- possibile, accogliendo il tuo “nuovo” cliente.
«Buona sera signore, posso aiutarla?» -ew fare la cortese ti disgusta proprio- 
Il ragazzino ti guarda e annuisce ma non a te, lo fa a ritmo di musica prima di spostarsi le enormi cuffione da sopra le orecchie.
«Scusa sorella non ho capito.»
Sorridi, perché tu questa conversazione l’hai già sentita ed in un certo qual modo -a quanto pare- prevedere le mosse degli altri, anzi, già saperle, suscita una incredibile ilarità in te.
«Le ho chiesto se posso fare qualcosa per lei.»

La nottata segue il suo bizzarro dispiegarsi ripetuto, nulla fuori dall’ordinario -letteralmente- ma più essa prosegue più il tuo istinto di sopravvivenza smette di dormire quiescente sotto la scusa di una banale anomalia e comincia ad agitarsi irrequieto al pensiero persistente tu non dovresti essere lì.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


You scende dal bus, e tu la stai già aspettando fuori dalla stazione come un cane attende il padrone.
Sei ad un passo dal correrle incontro, ma ti trattieni.
Non vuoi fottere lo spazio tempo solo perché non sei in grado di recitare la tua parte, ma il tuo cervello -per qualche strana ragione- ti dice che alla fine non importa, che puoi perculare la realtà finché ti pare.
You ti viene incontro.
-Non dirlo.-
«Ehi ciao scusa il ritardo.» 
-Da copione.-
«Nessun ritardo Mentina, mi hai beccato in pausa paglia.» -Cazzo hai una buona memoria.-
You ti affianca, tira fuori il pacchetto di sigarette senza marca -Spoiler alert: è vuoto.-
«Dai però!» 
-Non dirlo, aspetta due minuti.-
«Il tipo strano sul bus.»
-Cazzo!-
You fa un’espressione strana e divertita al contempo, si volge verso di te e sussulta alla sigaretta che già le stai porgendo.
«Quale tipo strano?» è rilassata.
E tu sei a tanto così dal secondo episodio maniacale della nottata.

You non ti sta ascoltando, lo capisci da come ti tiene la mano sulla schiena, come ti carezza, come ti guarda con gli occhi feriti e pieni di pietà nei tuoi confronti.
Non hai bisogno di pietà; vuoi solo che qualcuno ti ascolti, ti senta, ti capisca.
«You ti prego devi ascoltar-»
«No Lyssa, ora lo devi fare tu, adesso chiamo Meg e ti faccio venire a prendere, devi riposare e stare lontana da stimoli troppo forti, sei in un attacco maniacale, va tutto bene.»
Vorresti urlare e calciare qualcosa, non solo perché anche You non riesce a capirti ma soprattutto perché non hai intenzione di pregare Meg per un passaggio a casa.
«Ti prego…» tenti ancora, questa volta più debolmente.
«Ti prego io Lyssa.
Dormi e prendi le tue medicine, non farlo a stomaco vuoto, mangia qualcosa e non vomitarle.
Non bere, mi preoccupo per te.
ti prego.»
Alla fine lasci stare, perché non ha senso discutere con l’unica persona al mondo che ti vuole bene.
Se You dice che stai dando di matto allora forse è vero, forse è così e tu ovviamente non te ne rendi conto.
Vorresti solo fosse lei a portarti a casa.

Meg tamburella con le dita sul volante in cuoio «Aly sono solo preoccupata, è difficile superare ostacoli così grandi -si sta riferendo alla disintossicazione- completamente da soli.» -inizia!- ti da fastidio anche solo sentirla parlare in questo momento, ti da più fastidio l’esserti dovuta piegare a chiederle un passaggio.
«Te lo domanderò schietta e diretta.» Eccola che parte.
Ti droghi ancora?
Ci sei ricaduta?
Bevi?
Ti fai ancora di quella merd-

«Sei davvero sola al mondo?»

Il cuore ti piomba nello stomaco come un macigno.

«Insomma, You ha dovuto chiamare me…»

C’è una donna alle tue spalle, alta e bella, la borsa nel fiume.
State ridendo
.

Senti il bisogno di fumare, fuma anche Meg, la sigarettina stretta stretta tra le due dita della mano che poggia sul volante.
«Posso fumare?» Meg ti guarda preoccupata, ti odia, e tu la odi di rimando, sospira.
«Si certo.»
Lo fai, e mentre aggrappi le mani all’accendino e le fiamme incominciano a danzarti d’innanzi al viso un pensiero ti squarcia il cranio lasciandoti paralizzata.
Per la testa ti passa l’idea John Doe possa non essere mai esistito.
Per quanto ne sai, è l’unica incongruenza del tuo loop.
«Ferma l’auto!»
«Cosa?»
«Ferma l’auto mi sono ricordata, devo- ferma l’auto ho da fare!» Meg sterza e accosta sul ciglio della strada, una nuvola di polvere alle vostre spalle.
«Lyssa aspe-»
Non la ascolti nemmeno, ti stai già slacciando la cintura.
«Alyssa!» Afferri la maniglia, senti qualcosa scattare, la portiera è bloccata.
«Maggie, devo-»
«No, non stai bene, torna a casa, mangia qualcosa, prendi le tue medicine e riposati, se devi andare da qualche parte ci andrai dopo, ti ci porto io tranquilla.
Ti prego.»

Meg sta ansimando, tiene una mano sul volante e l’altra sul tuo polso, non sai nemmeno quando te l’abbia preso.
Riallacci la cintura.

Sono le 12 e 12.
Meg solitamente dorme a quell’ora, lo riesci a vedere scritto sul suo viso, lo capisci dalle occhiaie, dal pigiama che spunta da sotto il cappotto abbottonato di fretta, dallo chignon fatto male.
«Grazie… per essermi venuta a prendere.» Maggie sorride, col volto stanco, ti poggia una mano sulla coscia stringendoti dolcemente il ginocchio.
«Nessun problema; ti voglio bene.»
Ti tocchi la punta del naso ed esprimi un desiderio
Non ti odia, e non la odi nemmeno tu, sei solo sola e non sai come gestirlo.
«Scusa per prima.»
E ridi, perché alla fine è divertente, è divertente perché non saprai mai chi delle due l’ha detto.
Sai solo che Meg ti segue.

La casa ti inghiotte nell’oscurità in cui ti sei gettata volontariamente.
«Vuoi che salga con te?»
«No, no non importa; sto già meglio, prendo le medicine e vado a dormire.»

Dalle tue mani pendono ancora le chiavi tintinnanti.
Un portachiavi con una fiches verde vomito.
7 mesi
.

Dalle tapparelle aperte filtra la luce del sole di mezzogiorno, uno spiraglio di luce d’oro che cade riverso sul tavolino da caffe.
L’unica cosa che ti passa per la testa è la voglia matta di buttarti sotto la doccia, sotto l’acqua bollente finché la tua pelle non sarà diventata rossa e irritata.
Lanci le chiavi sul tavolino, seguono le scarpe che lasci a caso in mezzo al casino che si è già formato lì all’ingresso, la giacca, lo zaino, la felpa, la maglia, lasci una scia di indumenti per tutto il tragitto uscio-bagno.
Sei già davanti alla porta della doccia quando finalmente ti ritrovi nuda.

L’acqua ci mette almeno dieci minuti per passare da fredda a calda, ogni istante è un soldo in meno dal tuo portafogli ma non ti importa più di tanto, non ora.
Il vapore ti ustiona, l’acqua picchia aggressiva sulla tua pelle congelata, struscia tra i tuoi capelli sudici, ti senti annegare nella nebbia che invade la minuscola stanzetta.
Sarebbe una gioia morire così.
Ci metti sempre meno di cinque minuti per lavarti -profumi di melagrana e cannella- ma oggi non ce la fai a fare tutto di fretta, ti senti rallentata, lenta; passi le mani sul tuo corpo, come se lo facessi per la prima volta, è una sensazione bizzarra quella di esistere.
Tocchi il tuo ventre, vuoto e concavo.
Sei magra come la fame -come un’eroinomane.-
Pelle, pelle, costole, neo…
Come sarebbe a dire neo?
Neo, neo, e ancora neo.
Corrughi la fronte, cercando di guardarti sotto il petto come una cogliona, abbandoni il tentativo e provi a passarti nuovamente sul corpo mani più attente, appena sotto la curva del tuo seno inesistente.
Hai sempre avuto tre nei appena sopra il costato, perfettamente distanziati tra di loro, da adolescente avevi addirittura pensato di tatuarci un paio di short da mare proprio al centro.
Il triangolo delle bermuda.
Li hai sempre avuti, questo è vero, ma solitamente sul lato destro del tuo corpo.
Quello che stai accarezzando è il sinistro.
Non ce la puoi fare, ridacchi e ti lasci cadere la testa a ciondolare tra le tue spalle, non hai le forze di badare all’ennesima stranezza di “oggi”.
Siedi nella doccia, non sai per quanto, poco a dire la verità, dieci, massimo quindici minuti, il tempo per l’acqua di diventare fredda.

Riemergi in salotto vestita da fuori, profumata e vagamente più serena.
Il calendario appeso in cucina ti attrae come luce per una falena, il flacone di farmaci abbandonato sul frigo, lo stappi e ne trangugi due, a secco.
7 novembre
“Davanti ad un bivio domandatevi sempre: Questa scelta mi fa crescere o regredire? Scegliete sempre la crescita.”
-James Hollis

Che frase del cazzo; tu sei ad una rotonda, e tutto quello che fai sembra portarti sempre allo stesso punto del cazzo.
Strappi il numero enorme, rivelando il successivo.
8 Novembre.
“Non aver paura di cercare la verità”

Ridi, apri il frigo e tracanni una lattina di coca-cola zero, il post it in mano.
Ti passa per la testa di dargli fuoco, e assieme ad essa capitombola nel tuo cervello -nuovamente- l’immagine di John Doe.

Resti ferma per molti minuti, in piedi al centro del tuo salottino semi buio, mordicchiando il bordo della lattina e gocciolando sul pavimento già danneggiato dall’acqua che ti piove dal soffitto.

Questa è l’ultima goccia -ah ah, simpatica-
Chiavi e sigarette, scappi di casa; con i capelli ancora bagnati e senza ben sapere dove andare, dove naufragare.
Sai solo che tra le mani tieni l’accendino di Doe.
Non è salito sul 122 con You questa mattina, e se lo ha fatto non ha fatto nulla di inquietante per farla spaventare, per ora è l’unica anomalia di quel tuo glitch, lo devi trovare, devi sapere se esiste, se te lo sei inventata, se sei impazzita.
Il suo accendino è ancora caldo nel tuo palmo, ti tiene salda alla realtà come nemmeno le medicine riescono a fare.
13:02
Strizzi gli occhi e scuoti la testa, dove eri ieri alle 13 e 02?
Avevi aspettato You, avevi visto John fallire miseramente nel suo intento di provarci con You, lo avevi visto alla fermata, avevate parlato, ti aveva regalato l’accendino.
Alla fermata, devi tornare alla fermata.
Il primo passo cade naturale, il secondo lo segue, rapido, sempre più veloci tra di loro, sei partita in direzione della stazione e senza nemmeno rendertene conto stai correndo.
Il tragitto da 15 minuti ti sembra durare un’ora, ti sembra infinito, ti sembra di venire assorbita dall’asfalto ad ogni falcata, ti sembra che la Valle si apra sotto i tuoi piedi assorbendo ad ogni falcata un brandello delle tue energie.
Arrivi ansimante.
Lontana dalle luci della stazione in pieno giorno, all’interno riesci a scorgere la figura ricurva di You, sta servendo alla cassa.
Ansimi, il fiatone e i capelli congelati attaccati al viso, ti mordi le labbra.
Sono ancora secche e screpolate da ieri notte. 

Il tempo di pensare al burro cacao che giace assieme alla tua giacca sul pavimento del tuo appartamento, che alle tue spalle, a pochi centimetri dal marciapiede su cui ti sei fermata ansante come una scema, sfreccia il 122.
Corre lungo la strada creando un vuoto d'aria, gettandoti tutti i capelli in faccia.
Ferma alla fermata della stazione del gas, in lontananza riesci a sentire anche il suono degli ingranaggi delle porte che si aprono.
Dalla vettura scende una figura, tutta nera, e se non fosse per la matassa di capelli notevole non saresti riuscita a credere alla tua sfacciata fortuna.

John scende dal bus, guardandosi prima indietro, alle porte da cui è appena sceso, poi attorno, vagamente smarrito.
Sembra un cucciolo di cerbiatto, i grandi occhi gialli visibili anche da lontano, proprio come gli occhi di un animale investito dai fanali caldi di un auto, non sai chi sia John in metafora.

____
Allunghi il primo passo.
Ti blocchi.

John si muove furtivo, gli occhi dalla sclera giallastra fissi sul suo obbiettivo.
Oltrepassa tutto il piccolo spiazzo suddiviso malamente in parcheggi e pompe della benzina, fino a raggiungere la vetrina sporca della stazione di servizio, non entra, aspetta dietro le siepi mezze morte sopravvissute fino ad ora per miracolo.

Sta palesemente spiando You, probabilmente come ha fatto sul bus “ieri” e come invece ha deciso di fare oggi attraverso la vetrina, non sembra particolarmente inquietato dal fatto che il giorno si sia ripetuto, probabilmente nemmeno se ne è reso conto, probabilmente ne è stato non vittima ma sintomo.
Magari qualcuno cambia atteggiamento ma non si ricorda di aver già vissuto quella giornata.

In ogni caso You aveva ragione, John Doe era uno stalker, ma non riesci a trovare nel tuo cuore la cattiveria necessaria per trovare la nozione rivoltante.
Non sei una santa, ne lo sei mai stata, per quanto inquietanti possano essere le sue tendenze tu non sei nessuno per giudicarlo.
Ad essere completamente sinceri non sai nemmeno fino a quale estensione giungano questi suoi atteggiamenti, magari è solo timido -anzi, se la conversazione di ieri non è stata solo frutto di un tuo febbricitante incubo, sei sicura lo sia- magari ha conosciuto You qualche giorno fa e non ha saputo come approcciarla nuovamente, finendo per seguirla, non per forza stalkerandola.

Negli atteggiamenti di Doe trasuda una certa inquietudine, ma non riesci a toglierti dalla testa il suo viso sconsolato, le parole gentili e l’accendino che ancora ti brucia in tasca.

Meglio non dire nulla comunque, meglio non attrarre su di te l’attenzione, se John non è uno stalker allora non c’è nulla di male nel conoscerlo un po’meglio; è vero, tu non sei nessuno per giudicarlo ma il tuo generale istinto di sopravvivenza più spesso che di rado ti grida di fare l’ipocrita il più possibile.
Predica bene razzola male.
Resta poi il fatto che tu in questo momento ti trovi ad un impasse: conosci il suo nome e cognome, e hai un suo oggetto in tasca.
Non sei sicura di poterti permettere di essere accusatrice di stalking.
 
Sembri pure una matta ora come ora; con i capelli fradici in pieno novembre.

Eppure hai il suo accendino.
“Ieri” eri sicura di aver prodotto degli scontrini dalla cassa, ne eri sicura eppure oggi non li avevi trovati, cacci una mano nei jeans spiegazzati e sporchi e proprio in quell’istante ti rendi conto che la cosa rigida nella tasca sinistra che per tutta la giornata ti ha scavato nella pelle ad ogni movimento e che fino ad ora non avevi badato è il tuo accendino.
Giallo fluo mezzo trasparente, pieno solo a metà, lo stesso che teoricamente ora dovrebbe riposare in qualsiasi posto finisca la spazzatura che la valle inghiotte, lo stesso che hai visto precipitare nelle fauci del nulla.

Non sei pronta per l’ennesimo attacco isterico.

Alzi lo sguardo, come alla ricerca degli occhi innaturalmente grandi di Doe, come per chiedergli involontariamente qualcosa ma non è più dove il tuo sguardo l’ha abbandonato l’ultima volta.
È sulla soglia della stazione.

Ti muovi senza pensarci, perché a dire la verità tutt’oggi è stato un enorme conseguirsi di idee non pensate fino in fondo, ti scaraventi sul retro della stazione, spalancando la porta di servizio che troppe volte ti ha vista fuggire per pause sigaretta in solitudine.

La porta in metallo da sul lungo corridoio che precede gli spogliatoi angusti dello staff, alla tua sinistra due camere di scarico in cui hai sempre avuto il timore di mettere piede; cammini risoluta fino alla sala comune, quella che affaccia sul retro del bancone, da lì puoi sentire tutto.

«Hey.» La voce di John risuona vagamente ovattata dietro la porta di lamiere scadente.
«Oh… ciao, come posso aiutarti?» You risponde serena, altro sintomo che Doe non doveva proprio averlo notato sul bus; anzi che Doe nemmeno c’era sul bus che aveva preso se tu lo avevi intercettato scendere da quello delle 13.
«Come ti chiami?»
«You; vedi è sul cartellino» la voce della tua collega resta serena, vagamente nervosa ma non sai se attribuire ciò allo “sconosciuto” o alla sua generale timidezza.
«È un bellissimo nome, il mio è-»
A malapena trattieni un grido, mentre un suono terribile e penetrante ti trapassa il cranio.
Dovrai leggere gli effetti collaterali delle medicine che ingoi come caramelle se altri mal di testa del genere continuano a ricorrere.
«O-okay…»
«Fai qualcosa dopo il lavoro?»
Yuck, troppo diretto John, troppo diretto.
Per lo meno non ha commentato l’odore di You come ieri, ad essere completamente sinceri nemmeno sai come ma ti sembra di percepire qualcosa di sostanzialmente diverso in John, in tutta la valle in verità.
È qualcosa che non comprendi a pieno, qualcosa che ti fa salire la nausea e girare la testa.

La campana sulla porta d’entrata suona e improvvisamente ti rendi conto di esserti persa le ultime battute della conversazione, il silenzio pregno della musichetta snervante della stazione ora nuovamente sovrano.
Non hai intenzione di rimanere rinchiusa nella stanzetta per lo staff, non quando You ti ha espressamente spedita a casa a riposare, ma non vuoi nemmeno tornare a casa, non hai la più pallida idea di ciò che dovresti fare, non sai proprio nulla.

____
Fanculo ci dormirai sopra.
Sì, fanculo John, fanculo You e -soprattutto- fanculo Maggie.
Ma più di tutti fanculo te stessa.
Sei una maledetta schizzata, ecco cosa sei, sei una schizzata che si è fatta di troppa roba nella sua breve ed inutile vita e ora ne subisce gli effetti, probabilmente hai sognato tutto, hai sognato la conversazione con John e hai fatto la cleptomane con un accendino randomico e il mistero si risolve da solo.
Nemmeno sai quale sia il suo nome, sei riuscita a farti venire un mal di testa allucinante proprio quando si stava presentando a You perdendoti quel particolare.
Si si, ti eri fatta di troppi acidi in vita tua, i clienti ripetuti te li eri inventati.

O magari la valle davvero aveva ripetuto un giorno, e chi cazzo se ne frega, il tuo primo giorno nella valle una casa ha cercato di mangiarti; il glitch di un giorno è difficilmente la cosa più stana mai successa qui.
Si si, fanculo tu ci dormi sopra e sti cazzi.

Il letto lo raggiungi strisciando i piedi, le ore piccole si fanno finalmente sentire, dovrai trangugiarti comunque almeno tre sonniferi ma probabilmente non ti sveglierai nel bel mezzo della notte -oddio del giorno in teoria-

Pertanto, proprio ciò fai.
Ti scoli i sonniferi e crolli a letto.

Wednesday 8th November 2:00 AM
Dio bestia





NdA: Rieccomi! Come se non avessi appena postato lo scorso capitolo 5 minuti fa alle 3 e 07 di notte! Ci tenevo a precisare che il mio stile di scrittura solitamente non implica bestemmie e/o insulti e parolacce ma questa ff è un modo per uscire dalla mia comfort zone, in realtà tutto questo account è un modo per farlo, anche solo pubblicare le mie storie è un modo per mettermi in gioco; pertanto se mi lasciate una recensione mi fa sempre piacere!! Mi fa piacere sapere cosa ne pensate, se avete critiche da muovere, complimenti, ipotesi, desideri su come dovrebbe proseguire non esitate a scrivermi, apprezzo ogni parola che trovate il tempo di scrivere.
Grazie mille per la lettura e alla prossima!
Baci 
Loony

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Act 2 “Haemoglobin

Avete presente quei momenti in cui vi sembra di aver ceduto ai vostri pensieri intrusivi?
Ecco quella giornata era iniziata così e per qualche assurda ragione -nonostante i tuoi sforzi- sembrava non voler cambiare piega.
La sveglia suona, i tuoi vicini scopano ed il tuo caffè è perfetto.
Che giornata del cazzo.

Il pensiero intrusivo che accende -letteralmente- la miccia della piega che prenderà la tua giornata è quello di dare fuoco alla pagina -nuovamente- strappata dal calendario in cucina, lo fai senza nemmeno pensarci.
“Davanti ad un bivio domandatevi sempre: Questa scelta m-
La carta si contorce, brucia tra le tue mani come i disegni sull’accendino che le ha dato fuoco, la usi per accenderti una sigaretta, una serie di gesti che non hanno alcun senso ma che fai lo stesso.
Ma sì, chi se ne frega; non ti importa, non mentre le lingue di fuoco che si riflettono nei tuoi occhi ti attraggono al loro calore.
Quel cadavere motivazionale finirà giù per lo scarico del lavello, mentre tu fumi ed il caffè si raffredda.
Ridacchi allegra, l’idea di bruciare anche il secondo foglio nella tua mente disordinata.
“Non aver paura di cercare la verità”
Muore dinnanzi al tuo viso divertito.
Il prossimo, il prossimo.

Allunghi la mano, la carta cede sotto l’insistenza delle tue dita, strappi la pagina.
9 Novembre
“A volte non devi perdonare l’altro ma te stesso.”
-Aiko Hashimoto


La carta non brucia eppure ti ritrai come se ustionata.
C’è una donna nel fiume, le sirene, il nastro della polizia.
Stai piangendo.


Stai piangendo.
Improvvisamente non è più divertente.

Due giorni uguali al precedente non sono un loop ma la sensazione nulla di tutto ciò che fai sia importante ti ristagna nello stomaco con una certezza che ti convince due giorni siano più che abbastanza.

Non hai voglia di andare a lavoro, non se dovrai andarci per il resto della tua vita; bloccata in un maledettissimo mercoledì notte 
È così da te, è così da te essere così sfacciatamente sfigata.
Avresti potuto ficcarti in qualsiasi giornata della tua infanzia felice ma no!
Tu dovevi per forza finire bloccata in un cazzo di mercoledì della tua stupida vita da adulta incastrata in mezzo alle tue stupide cazzo di responsabilità da adulta.
Ridi, quasi -nuovamente- sull’orlo dell’isteria, sull’orlo delle lacrime, non sai se di gioia o di tristezza.
Perdona te stesso un cazzo.
Preferisci marcire per il resto della tua esistenza nel rimorso e nella vergogna piuttosto che perdonarti.

A lavoro ti ci devi presentare lo stesso, se il tuo capo non ha accettato “problemi di salute mentale” come motivazione per un giorno di pausa dubiti fortemente accetterebbe “Nulla ha più senso, la realtà si sta sgretolando viviamo tutti in un loop, ricordatevi di investire nell’oro!” come spiegazione definitiva alla tua assenza. 
C’è anche da dire che due giorni di fila non fanno un loop, pertanto dovresti comunque prestare attenzione a quello che fai, te lo ripeti mentre inforchi le scarpe da ginnastica slabbrate ma dentro di te lo sai che invece è proprio così; che due volte di fila -almeno secondo le tue budella- facciano proprio un loop.

Di qualcosa tuttavia si deve pur morire, e certamente trovi una certa ilarità nel pensare finirai per morire di lavoro piuttosto che di overdose.
Come è misteriosa la vita.
Esci di casa sbattendoti dietro la porta, non prima di esserti trangugiata le medicine e il caffè rimasto, se vuoi iniziare a capirci qualcosa di questa storia meglio ricominciare a prendere le medicine, una mente lucida è esattamente ciò che ti serve ora -credi, speri; spero.-

Il tragitto casa-lavoro è sempre lo stesso, ma “oggi” forse per la prima volta in… probabilmente in da sempre vi presti per davvero attenzione.
È un percorso rettilineo, con qualche minima variazione di direzione, costeggia una strada principale che se ti puntassero una pistola alla tempia e ti chiedessero di nominare non sapresti com salvarti la vita.
La strada si snoda affiancata da larghi marciapiedi costeggiati da palazzi spaiati tra di loro e vagamente storti, è il percorso che compie anche il tuo fidatissimo 122, giusto per renderti impossibile non vederlo sfrecciarti accanto ogni volta che in ritardo hai preferito correre fino alla stazione a piedi, il pensiero mai corretto di “Tanto faccio prima io”.
Alla tua sinistra, dall’altra parte della strada, ad appena pochi metri dall’entrata principale del tuo palazzo, con l’insegna a neon luminosa vi è un coffee shop, non te ne eri mai resa conto, strano dato che lo avevi anche preso come punto di riferimento la prima volta che eri uscita di casa dopo il trasloco; più che il bar in generale avevi preso come riferimento l’insegna: un enorme rubinetto che ad alternarsi di scricchiolanti lucine si apre e si chiude per versare alcune gocce vermiglie; è una strana scelta di marketing pensi; più in là, sempre alla tua sinistra, vi è un palazzo altissimo ricoperto da edere e tubi di chissà quale metallo arrugginito, è grazioso, era stato il primo complesso in cui avevi guardato alla ricerca di una casa, ma i prezzi erano troppo alti e gli appartamenti disponibili troppo grandi, li avevi visitati lo stesso, giusto per essere sicura non stessi facendo la cazzata della tua vita rinunciandovi.
La sensazione che ti aveva attanagliato era stata terribile, una sensazione inspiegabile di vuoto e solitudine incolmabile.
Troppo grandi, li avevi poi definiti con il proprietario, un sorriso di cortesia sul viso e quella sensazione di solitudine ancora ancorata alle spalle.
 
Sorpassi il tabacchino alla tua destra, altro punto fisso del tuo tragitto, oggi non vi entri, hai tutte le cartina che ti servono e i filtri non ti mancano; proseguendo idealmente verso -e poi oltre- la stazione del gas vi è solo strada sterrata, già adesso, a pochi passi dal tua appartamento iniziano a diradarsi i palazzi tutto attorno alla strada, non riesci a capire se sia organica come transizione, quella da civiltà a nulla più totale, ma più ci pensi più ti fa male la testa, pertanto smetti.
Qualcuno in lontananza suona il clacson e tu sobbalzi leggermente, non hai mai visto qualcuno farlo nella Valle ma certamente ne hai sentiti; sempre in lontananza, sempre nelle strade oltre la schiera di palazzi che ti circonda; non ci fai caso, sta mattina hai trovato le cuffie staccate dalla presa di corrente, puoi giurare sulla tua vita tu le abbia collegate ieri ma non ne sei manco così certa, il silenzio non ti dispiace.

Apri le note del telefono e ne crei una nuova, l’idea più intelligente che ti è venuta in mente di fare è quella di documentare per orario e avvenimento tutto ciò che ti succede attorno; l’unica anomalia che ti vine in mente per ora è John, lo sconosciuto che hai incontrato ieri -ieri l’altro?- ma non sei sicura lo sia per davvero.
Il 122 ti sfreccia accanto, sono le 2 e 51, lo segni sul cellulare, osservando l’orologio della stazione di servizio che hai raggiunto senza nemmeno rendertene conto, Meg è una variabile imprevedibile dei tuoi piani, con You hai avuto un riscontro ma Meg il primo giorno del presupposto loop, l’hai evitata come la peste.

Questa volta ti dici sia meglio provare ad entrare, provare a parlare e vedere se anche lei fa parte del loop, cerchi di riportarti alla mente la conversazione che avete fatto ieri, ti ricordi di Gerard, che sono tornati assieme, ti ricordi qualcosa riguardante fiori, scuse e ubriacature ma nulla di più, lo scrivi lo stesso, promettendoti le presterai più attenzione questa volta  -promettendoti anche di evitare la scenata di ieri- alle tue spalle senti le porte scorrevoli del bus richiudersi molti metri più indietro di te, le osservi istintivamente, come se ti aspettassi ne uscisse qualcuno. 
La fermata è vuota e silenziosa, l’autobus riparte e tu vieni lasciata sola a contemplare la nube di polvere che si lascia alle spalle.
Cerchi di spremerti il cervello ma non riesci a ricordarti di aver visto John scendere ieri, hai la chiara immagine del ragazzo scendere dal bus, guardarsi attorno spaesato ma non riesci a capire quando e come sia successo, hai una immagine che non sai dove inserire nei tuoi ricordi.

Non vuoi procurarti il primo attacco di panico della giornata, ti è bastato quello di ieri per il giornaletto.
Il giornaletto.
Ti volti nuovamente, questa volta a fronteggiare la stazione, il pavimento d’asfalto è intonso oggi.
Bingo, prima anomalia.
La segni frettolosamente sul telefono: “Giornaletto zozzo, manca, da controllare dentro, 2:57” ficchi il cellulare in tasca e inspirando profondamente ti dai la forza di gettarti dritta dritta nelle fauci del leone.

Meg è nuovamente già sulla soglia a tamburellare il piede a terra, la stessa energia contagiosa e snervante di ieri ad irradiarsi dal suo corpo tonico e ben curato.
Meg è una bellissima ragazza, una di quelle che nel tempo libero posta i “What I eat in a day” più clean e disgustosamente vegani che tu riesca ad immaginare -almeno così te la figuri tu-

«Bonjour Lyssa! -cinguetta- Che hai fatto ieri?» Ti sembra uguale a ciò che ti ha detto ieri, ma d’altronde questa non più essere una prova schiacciante, Meg ti saluta sempre così, la quinta ingrana e pronta all’attacco.
«Hey Meg.» le offri, non sai cosa dirle, ieri ti è bastata come esperienza, non vuoi ti accusi di nuovo di esserci ricascata.
«Sono andata a fare la spesa.»
«Oh dai, hai comprato gli integratori che ti ho suggerito? sei pallida tesoro, devi rimetterti in forze.» Questa non te la ricordavi, ma d’altronde ieri tu non si andata a fare la spesa -e manco ieri l’altro se è per questo, è da un bel po’ in realtà che non la fai- la spesa era solo stata la prima cazzata che ti era passata per la testa.
«Tu che hai fatto?» domandi lesta, avida di risposte e di cambiare argomento.
Meg si illumina.
«Ieri sono tornata assieme a Gerard, è tornato a casa piangendo e ubriaco, dovevi vederlo è stato dolcissimo, mi ha detto che mi ama.
E poi mi ha portato dei fiori, è proprio un amore.» Eccola lì, precisa, uguale uguale alla conversazione -almeno credi- che ti ha fatto ieri, ridacchi, vagamente soddisfatta di te stessa, Maggie lo interpreta come in risposta alla sua affermazione e ti sorride calda, intenta a rimettere a posto la sua pettorina avete raggiunto lo spogliatoio -questa volta con la tua cognizione- la stanzetta per lo staff puzza di chiuso e umido come ieri ma d’altronde anche come sempre.

Maggie si denuda di nuovo, e tu ondeggi sul posto un po’ imbarazzata come sempre.
«Sei molto carina oggi» Non sai perché lo hai detto, ti sembra la cosa giusta da dire per ciò che ha fatto ieri per te; il viaggio in macchina, la sua preoccupazione, il genuino bene che ti vuole che di tanto in tanto le scorgi dietro agli occhi, eppure non ti sembra la cosa più giusta da dirle mentre è in mutande davanti a te -e siete sole-.
Maggie non se la prende a male però, ti guarda sorpresa per poi addolcire lo sguardo.
«Anche tu tesoro.» mormora, una mano sul tuo braccio ancora coperto dalla giacca pesante.
«È così bello vederti stare bene.» le sorridi imbarazzata, l’istinto di grattarti il naso dalla timidezza ti attanaglia la bocca dello stomaco e dopo alcuni tentativi inutili di resistervi cedi.
«Torna dal tuo principe azzurro -red flag su due gambe- ci penso io a rimettere a posto tutto.» esordisci alla fine, una offerta di pace per una lite che non è mai avvenuta, Maggie si infila i pantaloni e ti abbraccia stretta stretta.
«Grazie mille tesoro, sei un amore.»

Meg esce in un turbinio di braccia e baci lanciati in tua direzione, la saluti anche tu, un sorriso stanco sul viso e la pettorina col tuo nome addosso come una sentenza all’ergastolo, come sparisce oltre l’angolo, verso il parcheggio dove ha probabilmente lasciato l’auto, estrai nuovamente il telefono; le 3:10.
Controlli le notifiche, occhieggiando di tanto in tanto la data che continua a ripetere Wednesday 8th November, come se potesse cambiare da un momento all’altro; oltre le porte scorrevoli suona un clacson, vicinissimo, così improvviso da farti saltare sul posto, Meg sta uscendo dal parcheggio, un sorriso tutto denti e la mano fuori dal finestrino a sventolare in saluto verso la tua generale direzione, ridi come una scema, correndo alla porta e facendo la scenetta stupida della ragazza che sventola il fazzoletto all’amato in partenza. 
Senti la risata di Maggie fin dentro al locale.

Qualcuno accanto a te ride con vuoi, è la donna di ieri e ieri l’altro la signora sulla quarantina in viaggio sul camion fermo a fare benzina direzione Weirton, Malboro rosse, pacchetto rigido.
Fai finta di non saperlo, sorridi gentile e ridacchi ancora.
«Ci scusi siamo due sceme.»
«Siete meravigliose, deve essere difficile lavorare di notte.»
Sospiri ed entri con la signora. 
«Neanche troppo sa, si incontra gente molto interessante; come posso aiutarla.» ti accoccoli dietro al bancone sullo sgabello inutilmente alto e scomodo.
«Malboro rosse; rigide.» sorridi e ti volti a prenderle.
«Che fa di bello da queste parti?» chiedi mentre la donna ti passa una banconota da 6 euro e tu frughi nel registratore di cassa.
«Lavoro per l’agenzia di consegne LSG, sto andando alla Weirton, sono solo di passaggio.»
Ridi, mascherandolo a sorriso genuino mentre le porgi resto e scontrino.
«Ah ma dai, buon viaggio allora.»
La donna sorride e saluta, tu lo appunti al telefono.

Ti squilla tra le mani, “Numero sconosciuto” butti giù d’istinto -maledetto call center- e riprendi la lista che ti stavi appuntando come te l’eri appuntata ieri su di un post-it:

1-Donna 40 Malboro rosse rigide, paga con una banconota da 6, è gentile e simpatica, ride per Meg, camion, direzione Weirton.
2-Uomo 20 cibo (moto)
3-Uomo 50 gas (?)
Il camion delle donna riparte, il rumore in lontananza.

Sono le 3:24 hai meno di un ora al prossimo cliente, il ragazzino tutto cuffie, te la prendi con calma; passi sotto la visuale delle telecamere di sicurezza, ti batti una pacca sul culo e fare il dito medio alla lente, giusto perché ormai è tradizione.
Afferri gli scatoloni da riordinare e inizi a lavorare per davvero.

La parte peggiore è sicuramente il frigorifero che si riordina da solo e in maniera completamente bizzarra e casuale ma in ogni caso riesci a cavarci i piedi
La campanella sulla porta tintinna mentre incastri l’ultimo cartone di latte e chiudi lo sportello con astio, l’oggetto improvvisamente nello scaffale del frigo più lontano da te.
Bastardo.
L’orario sulla CCTV recita: 4:20 -lol, nic- ehi aspe questa l’hai già fatta- 
Il ragazzotto che ti aspettavi è entrato dentro alla stazione.
Ti sorridi mentalmente, gettando la scatola di cartone vuota a terra e dirigendoti verso il bancone.
«Buona sera, posso aiutati?» 
Il ragazzino ti guarda e annuisce come da copione a tempo di musica.
«Scusa sorella non ho capito.»
«Posso fare qualcosa per te?»

Il cliente successivo lo becchi mentre sei in pausa sigaretta, intenta a scrivere con una mano sulle note del tuo cellulare.
 1-Donna 40 Malboro rosse rigide, paga con una banconota da 6, è gentile e simpatica, ride per Meg, camion, direzione Weirton.
2-Ragazzo 20 ha una moto da cross, comprato: Patatine piccanti, Red Bull, gomme da masticare e 21 di benzina 
3-Uomo 50 gas (?)

È un uomo bello, oltre la cinquantina, pelato, veste sportivo ma elegante, un po’ casual, tiene un microfono cellulare all’orecchio e sta parlando con qualcuno, ti indica e poi indica la stazione, un’espressione di domanda gentile sul viso, annuisci e getti il mozzicone a terra, ficcando il cellulare nella tasca dei pantaloni.
L’uomo entra e tu lo segui pochi passi più indietro, chiude la chiamata e si volta a guardarti, un sorriso cortese sul viso.
«Non volevo disturbarti in pausa.» Scuoti le spalle e con loro la testa «Non si preoccupi avevo finito, come posso aiutarla?» prevedibilmente ti paga un pieno per la sua auto, prende la ricevuta e se ne va augurandoti una buona serata.

1-Donna 40 Malboro rosse rigide, paga con una banconota da 6, è gentile e simpatica, ride per Meg, camion, direzione Weirton.
2-Ragazzo 20 ha una moto da cross, comprato: Patatine piccanti, Red Bull, gomme da masticare e 21 di benzina 
3-Uomo 50 pieno di benzina, simpatico, non me lo aspettavo. 

Il tuo lavoro qui è finito -lol- 

La campana sulla porta tintinna.




NdA: Damn I'm on fire, scherzi a parte ho già un mucchio di capitoli pronti qua e là e mi farebbe davvero piacere sentire da voi cosa ne pensate di questa storia, ad essere completamente sincera non mi aspettavo qualcuno la leggesse visto che il Fandom è quello che è (soprattutto in Italia, ancora più niche) e nulla, fatemi sapere cosa ne pensate di questa storia, sempre più confusa e distorta!
Baci 
Loony

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Eccolo lì, la tua variabile impazzita preferita, nervoso come un teenager al ballo della scuola.
John Doe se ne sta sull’uscio del locale, le mani artigliate strette tra di loro, entra vagamente titubante, pigolando un “Buona sera” per nulla convinto e cominciando a percorrere le file di scaffali, gli occhi gialli puntati su nulla in particolare.
Tu lo osservi, poggiata pigramente coi comiti sul balcone, lo osservi come un falco osserva un gattino che gironzola in un prato, la tua preda.

Ad essere completamente sinceri non riesci a pensare che quell’imbranato ragazzo -uomo?- possa essere -e con ogni probabilità sia- uno stalker, ti sembra così impacciato mentre prende una scatola di croccantini per cani, se la rigira tra le mani per qualche secondo e poi la rimette a posto quasi facendosela sfugge dalla presa, rosso e sudaticcio.

È vestito come ieri, con la medesima felpa drappeggiata come una sciarpa sulle braccia pallide.

Lo stai ancora fissando intensamente quando questo ti si avvicina con fare nervoso, scolli i gomiti dal bancone e ti rizzi in piedi, come un serpente pronto a scattare, anche John sembra notare la tua insistente attenzione, deglutisce rumorosamente, senza mai osservarti direttamente in viso.
«Mi scusi -pigola- mi chiedevo se aveste una macchinetta per il caffe dentro, quella fuori è fuori servizio.»
La macchinetta accanto al distributore automatico di bibite è rotta da almeno due mesi e non conforme alle norme di sanità pubblica da almeno vent’anni, lo sai bene, non sai però come e quando John se ne sia accorto, non da segni di averti riconosciuta, ti da del lei e non si approccia in modo diverso da come è normale approcciarsi ad uno sconosciuto.

Questa resta comunque la tua migliore occasione per avere a che fare con l’unica variante umana -più o meno- del loop, sfili le chiavi della sala staff dal cassetto sempre aperto del bancone.
«Non è per i clienti ma ce ne è una in sala staff, vieni ti ci porto.»

«Eccola qui!» trilli allegra, inserendo la spina della macchinetta staccata per “risparmiare energia” tirchi di merda.
«Ci mette un po’ a scaldarsi, allora, che ci fai di bello da queste parti?» perfetto, non troppo familiare, non troppo distaccato; l’esca perfetta.
John ti occhieggia di scatto, come se non si aspettasse gli parlassi; vagamente sudaticcio, in palese contropiede.
«Nulla!» afferma quasi sulla difensiva -suspicious as fuck my boy- «cercavo un posto dove bere un caffe.» si riprende improvvisamente, tentando di aggiustare il tiro; inarchi un sopracciglio quasi divertita.
«Nel bel mezzo della notte?» John arrossisce.
«Non posso dormire ora.»
«E non hai caffe a casa?»
«Io-» la macchinetta tintinna, troncandoti un’opportunità d’oro; ma avresti allentato la corda lo stesso, sei sicura che se John continuasse a sudare così presto o tardi finirebbe per sciogliersi completamente.
«Ah la chiavetta vero» 


Non hai la più pallida idea di come definirlo ma nell’istante in cui ti volti nuovamente verso John, la chiavetta in mano, pronta a fare un caffe John Doe è diventato John Doe.
Perché questo John non è John, cristo nemmeno sai chi sia l’uomo davanti a te, i capelli troppo ordinati, i denti troppi pochi, troppo bianchi; arretri di qualche passo, ignorando il più possibile il male agli occhi che improvvisamente ti trapassa come uno spillone in ogni bulbo oculare.

«Signorina sta bene?» ti porge una mano a cinque -cinque?- dita, senza davvero toccarti, come se potesse sostenerti a distanza.
«Io... io no, scusi sono di fretta.» John ti osserva con gli innaturali occhi falsi che indossa per occhi, un sentimento di tristezza dilaniante dietro una facciata speranzosa.
Riesci a scrutare il momento esatto in cui le tue parole gli raggiungono veramente il cervello.
Senza nemmeno ben sapere perché tu abbia proprio scelto quel tipo di parole.
«Oh. Mi perdoni non volevo disturbarla.»
«No no; io, davvero, io- sono addolorata, non so non voglio fare casini.»
Le parole ti si incastrano in gola, un conato ti sale fino all’esofago e solo per miracolo lo ributti giù, la stanza ha iniziato a vorticare, ti senti debole, poi non senti più nulla.





La sveglia suona, e poi suona ancora, la senti solo al quarto rinvio.
Wednesday 8th November 2:34 AM
Nonostante il ritardo i tuoi vicini scopano ancora, bhe beati loro.

Fai tutto di corsa, le tempie che ti esplodono non ti lasciano molto spazio per pensare a come tu ci sia effettivamente finita a letto, corri fino alla stazione, giusto in tempo per percepire il classico vuoto d’aria che il 122 in sorpasso ti lascia addosso.
2:51, non ne sei nemmeno stupita.
Ti fai coraggio, accumulando quanta più lucidità mentale il tuo cervello da solo riesca a evocare senza l’ausilio degli psicofarmaci che ovviamente sta mattina ti sei dimenticata nella fretta di correre a lavoro -капиталистические свиньи!-.
Non vuoi ripetere un altro “Incidente Meg”.
Per fortuna questa non ti sta aspettando alla porta, già pronta a staccare.
Strano.
La campana automatica tintinna come le porte scorrevoli si azionano e ti accolgono al loro interno.
Nella stazione regna un silenzio assordante, intervallato dalle ventole degli scaffali frigo, intente a ronzare nel silenzio più assoluto.
«Meg?» ti senti strana, a disagio, sfoderi il telefono e leggi per bene la data Wednesday 8th November 2:58 AM non sei impazzita, anche oggi, come ieri -ha ha bella battuta- è ieri.
Chiami di nuovo il suo nome, questa volta digitando anche il suo numero di cellulare. 

Dalla sala staff si propaga la melodia tacky di “Baby one more time”; sospiri a pieni polmoni, se non c’ha già pensato qualcun altro mo la uccidi.

«Meg, sfaticata del cazzo guarda che tu sei ancora da cartellino qui.» gridi annoiata, per dissipare la tensione che una variabile così grossa nel tuo loop ti ha creato.


Il cellulare vibra amplificato dal metallo del tavolo su cui poggia, lo schermo illuminato nella stanza buia.
Non c’è nessuno.

Ribalti la stazione del gas come un calzino, uno spettacolo molto divertente per chi ispezionerà i nastri di sicurezza, i bagni, la sala staff, le caldaie -Dio porco le caldaie- perfino lo scaffale frigo, nel petto la speranza di trovare Meg casualmente riordinata in uno scaffale a random.
Ma nulla, sei inequivocabilmente sola.

Senti di stare per avere un attacco isterico.
Meg è una variante quindi?
Oddio e se il fatto che tu abbia cambiato lo svolgimento della vostra conversazione ieri le abbia causato qualcosa?
Ma che cosa?
Ti arrovelli come una scema -cogliona tu che non hai preso i farmaci oggi- sugli stessi tre pensieri.
1- È morta
2- Ha la caghetta
3- È a casa a scopare con Gerard.

E giuri sul signore quanto è vero che ti chiami Alyssa che se è vera l’opzione tre rendi vera la numero uno con le tue stesse mani -la due è perfettamente comprensibile e scusabile-.

Il cellulare nella tasca dei tuoi pantaloni squilla, la vibrazione un’ancora di salvezza nel mare della paranoia in cui ti stai auto affogando.
«Pronto?»
Un secondo di silenzio, click «Weirdaphone, servizio clienti, io sono Cortana il tuo ass-»
Gridi, gridi più forte che puoi e scagli il cellulare a terra, spaccandolo in mille pezzi.
Non può essere vero, non ora che inizia a capirci qualcosa.

«Mi scusi.»
La donna del camion ti attende al bancone, uno sguardo preoccupato sul viso, gli occhi su di te, poi sul telefono in mille pezzi.

Ansimi, senza nemmeno volerti immaginare vista da occhi estranei.
Ti senti osservata, a dire il vero ti senti osservata da quando hai messo piede in stazione ma te ne accorgi per davvero solo ora.
La signora sicuramente lo sta facendo.
«Sa come è… Call center, sempre più fastidiosi.»
La dona non risponde.
Malboro rosse, rigide, banconota da sei, uno di resto.



Afferri la cornetta e infili le monete a manciate nello slot, il numero di casa è un gesto inusuale sulla punta delle tue falangi; ti aggrappi alla cornetta come una disperata, gli occhi strizzati.
L’auto parlante suona e inizia a squillare, qualcuno risponde dall’altro capo.
«Pronto?»
«Mamma!» lo gridi, sollevata.
«Alyssa tesoro, come stai, ci sei mancata a Natale.» l’orologio al tuo polso segna le 4 di mattina dell’8 Novembre, non hai la più pallida idea di che ore siano lì da loro -e se è per questo nemmeno giorno a quanto pare-, tralasci il conato di vomito che l’affermazione ti fa salire; l’interno della cabina un vortice di vetro e metallo; il tempo è un ammasso confuso di fili che ti si attorcigliano in testa e per qualche strana ragione senti che la nuova informazione appena ricevuta -logicamente- dovrebbe farti crollare in un panico ancora più furioso, e invece la accetti, come accetteresti la correzione su di una data qualsiasi.
«Che giorno è oggi?» «Il dodici» «No oggi è l’undici» «Ah hai ragione.»
Fine della storia, così.
«Anche voi, con il lavoro…» lasci a metà, sperando mamma possa capire le tue parole.
«Ma va tutto bene, hai bisogno?» eccola lì; la domanda fatidica, oddio non proprio, in realtà non importa, non è il colpo di grazia, stai già piangendo silenziosamente da quando il primo ramino è scivolato dalle tue dita alla cassetta delle monete.
«No, no va tutto bene, volevo solo salutare.» col culo, la verità è che la voce di tua mamma ti ha sempre calmato, fin da bambina, quando la tua unica fonte di panico era la paura di doverti cavare i dentini da latte.
Senti tuo padre in lontananza dire qualcosa, tua mamma ridere.
Ti manca quell’atmosfera, quell’aria di gioia disimpegnata, persistente, che non va inseguita o costruita con più lacrime che sorrisi.
«Ti saluta anche papà.» Sorridi, anche se sai non possano vederlo, è un bene non possono farlo, sei un macello, si preoccuperebbero il doppio se ti vedessero ora.
Sono 213 giorni che sei pulita -almeno quelli che hai potuto contare- e hai preso qualche chiletto ma l’aspetto malato e morente ti è rimasto tra le vene dei polsi.
«Dagli un bacio.» Tua madre sospira, e tu ti bei della concezione lo faccia ancora, che sia ancora lì, viva e vegeta, e nonostante tutto ancora disposta ad amarti.
«Tesoro, non credi sia arrivato il momento di tornare a casa…»
Passa una macchina sulla strada che costeggia la cabina telefonica a lato della stazione, i fanali ti inondano di luce giallastra sottraendoti al neon freddo sulla tua testa.
«Sto bene, mi piace qui.»
Tua madre sospira ancora dall’altro capo e ti fa strano riuscire a percepire attraverso solo quel singolo dato sia invecchiata, «Non è stata colpa tua Alyssa.»
«Adesso devo andare mamma, volevo solo sentirti, mi mancate, vi voglio bene.»
«Ci manchi tanto anche tu bambina ti prego-»
Riattacchi prima che possa chiudere la frase, la mano ancora salda alla cornetta e il viso basso.
Piangi ancora per qualche minuto.
Tanto il tempo a te non tocca.


Un ragazzino sui vent’anni ed un uomo d’affari, dopo di che sei lasciata a te stessa per le successive sei ore.
Non credi ci sia mai stato giorno in cui tu abbia desiderato più ardentemente di oggi di cavarti la vita.

You ti da il cambio alle 11 e 35, 5 minuti in ritardo, non ti importa, non ti è mai importato perché dovrebbe iniziare a farlo ora, proprio ora che sai non potrebbe -dovrebbe- mai più cambiare, le porgi una sigaretta, le scarmigli i capelli e tiri dritto verso casa.


I sonniferi hanno un peso diverso sulla tua lingua, almeno oggi. 
Come se oggi significasse più qualcosa.





La sveglia trilla, il cellulare si illumina mentre cerchi di capire che giorno sia -di nuovo-
Wednesday 8th November 1:58 AM il tuo cellulare è intonso.
I tuoi vicini scopano anche oggi, ma tu questa volta non hai tempo per nulla.
Nella stanza malamente illuminata dai lampioni in strada si propaga il suono macchinoso del numero composto a memoria.

«Se chiami per dirmi che sei malata ti strozzo.» 
La voce di Meg riempie l’autoparlante che tieni pressato al viso come se non farlo ti impedisse di percepire per bene tutto ciò che ti dice.
Il cuore ti si riempie di gioia.
«No zoccola, sono in anticipo, passo dal bar, vuoi un cappuccino?»
Meg ulula d’all’altra parte del telefono, probabilmente saltellando pure.
«Uhh si si, cappuccino grande due di zucchero e uno shot di sciroppo; grazie cuore ti amo tanto.»
«Hai clienti?» chiedi in un secondo, quasi terrorizzata possa metterti giù «No perché?»
«Fammi compagnia ingrata.» 
Di Gerard e delle sue red flag ne hai piene le palle ma la voce di Meg, stabile, presente, lì ti rassicura oltre ogni misura.

Non hai la più pallida idea del perché il bar dall’altro lato della strada di casa tua sia aperto alle 2:15 di notte, ma lo è sempre stato pertanto non ti fai altre domande inutili.

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