Crusade of The Crimson Eye: The Hellsing's Reckoning

di ntnmeraviglia
(/viewuser.php?uid=514417)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scheda OC ***
Capitolo 2: *** The Becoming ***
Capitolo 3: *** The Metamorphosis ***
Capitolo 4: *** The Betrayal's Genesis ***
Capitolo 5: *** The Unforgiving Choices ***



Capitolo 1
*** Scheda OC ***


Salve a tutti! In questo "capitolo bonus" troverete i volti degli original characters coinvolti in questa storia. So che molti lettori preferiscono immaginare da sé gli aspetti dei nuovi personaggi, e va benissimo così! Io li allego qui solo nel caso in cui vi interessasse sapere il punto di vista dell'autrice. Sentitevi liberissimi di skippare la scheda, qualora non vi risultasse utile!
P.S: Mi scuso se alcune foto risultano fuori dal foglio, ma EFP è strano e mi si è sminchiato tutto AHAHAH  
  •  Alexis. 
Credits:  ☾˒ꇙꉔꋬꋪ꒒ꏂ꓄꓄˓☽ on Pinterest.
  • Leone.
Credits: nayeon on Pinterest.
 
  • Isaac.
Credits: Erika Mari on Pinterest. Prestavolto: Aizawa Shouta da My Hero Academia.
  • Izaya.
Credits: Raina on Pinterest. Prestavolto: Toji Fushiguro da "Jujutsu Kaisen".
 
  • Caspian.
​Credits: Purtroppo non sono riuscita a trovare l'artista, comunque dovrebbe essere creditata nella fanart, che ho pescato da Pinterest. Prestavolto: Caspian da "Brawlhalla".
  • Schneewittchen.
​Credits: 🍎𝝅 on Pinterest. OC inserito come omaggio alla mia sorellina! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** The Becoming ***


Ad Annecy faceva sempre freddo, mica era una novità. Ma l’inverno del ‘77 fu particolarmente rigido ed insopportabile, tanto da rendere pressoché impossibile la solita movida francese di cui le strade brulicavano durante tutto il resto dell’anno.
Quasi centomila abitanti, e nessuno in giro quella sera. Ogni tanto si sentiva il rombo di qualche auto; ogni tanto i passi rapidi di qualche anima che non vedeva l’ora di tornare a casa. Ma nessuno che avesse effettivamente voglia di godersi la sera stellata.
Isaac si chiese se quello sarebbe stato il suo giaciglio di morte: un vicolo puzzolente, con le croste di piscio al muro e coi ratti che rosicchiavano resti di pizza abbandonati da qualcuno.
Si chiese perché era toccata proprio a lui quella sorte. Si chiese perché proprio lui non meritava di essere salvato. Doveva aver commesso diversi imperdonabili crimini nella sua precedente esistenza, e ora forse gli toccava pagare pegno con la vita di merda che conduceva. Dieci anni di ragazzetto, e la morte per ibernazione come unica prospettiva.
Tutto era cominciato quando era venuto al mondo: sballottato tra diverse braccia fin dal primo secondo, strillando e piangendo col cordone ombelicale ancora attaccato alla slabbrata matrice stanca da cui era uscito.
Tua madre ti ha dato via perché non ti voleva, Isaac”, gli diceva sempre suor Amélie. “Lei era una poco di buono, una sciagurata, una donnaccia. Non ti ha voluto. Non ti ha amato. Devi essere grato che il Signore ti ha portato sulla nostra via, caro. Tu sei Isacco, figlio di Abramo a cui Iddio parlò. Sei benedetto, ragazzo”. Per cui, fin da quando aveva memoria e coscienza, il piccolo e dolce trovatello aveva appreso il sostanziale concetto che sua madre, che l’aveva partorito, non l’aveva voluto e senza di lui se la spassava alla grande.
Poco male. Suor Amélie l’aveva sostituita egregiamente: era una donna perbene, con una vera vocazione. Amava Isaac come figlio suo, era il suo preferito in assoluto tra tutti i bambini dell’orfanotrofio. Otto giorni dopo la sua nascita si era premurata personalmente di farlo circoncidere come da tradizione, e da allora non l’aveva mollato un attimo.
Mai. Mai, mai, mai. Era con lui quando studiava, quando mangiava, quando giocava in cortile. Era con lui quando andava in bagno, vegliando su di lui mentre faceva pipì. Era con lui quando dormiva: si infilava sotto le sue coperte, gli accarezzava le gambe, gli baciava le guance.

« Non mi piace questo gioco… » Isaac mugugnò infastidito. Lo fece a voce bassa, come se temesse un altro sculaccione come l’ultima volta che si era ribellato. « Per favore, suor Amélie, posso andare in cortile ora…? »

« Ci vorrà solo un attimo… » Amélie aveva il cuore che le martellava nel petto come un tamburo a percussione, mentre toccava il pene dal prepuzio escisso del suo bambino. Il suo nucleo vergine si lubrificò istantaneamente, eccitato dal contatto carnale proibito. « Non senti dei brividini, Isaac? Non ti piace che la mamma ti tocchi così? »

« No, non mi piace. E tu non sei mia madre. »

Il ceffone che ricevette fece schizzare Isaac oltre i piedi del letto, obbligandolo a cascare sulle ginocchia e a parare la caduta coi palmi delle mani, che si graffiarono inevitabilmente nell’impatto.
Il labbro inferiore subì l’urto, stracciandosi e colando sangue. La guancia pulsò.

« Vergogna! Disgraziato! Dopo tutto quello che ho fatto per te, è questo il ringraziamento?! Insolente! Ingrato! Ora ti rimetto in riga io, impertinente. »

La donna fu meschina, lo attaccò alle spalle. Gli spogliò la schiena senza lasciargli tempo di ribellarsi, e lo bacchettò a sangue. Lo colpì così forte da farlo contorcere di dolore, e mica una volta sola. Due, tre, quattro, dieci, quindici, venti. Sfogò la frustrazione di essere stata rifiutata su quel corpicino straziato, ora aperto in diverse ferite rossastre da cui gocciolava altro sangue.

« Basta! Basta, per favore! »

« No! Devi imparare che ci sono delle conseguenze severe alle azioni disdicevoli! »

Ogni scocco di sferzata corrispondeva ad un grido ed una lacrima. E più si proseguiva fino alla follia, e più il desiderio di Isaac di porre fine per sempre alla tortura diventava violento ed irrefrenabile. 
Muori. Muori, muori, muori, muori. Muori, scrofa di merda. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio”. Il pensiero divenne così ossessivo da concretizzarsi: bastò un calcio a sgambettare la vecchia e le sue cosce che ormai non la reggevano più come un tempo. Amélie venne stordita dalla caduta, ed Isaac ne approfittò: si mise a cavalcioni su di lei, afferrò il cuscino – lo stesso del letto su cui stava venendo molestato poc’anzi, per intenderci – e lo pressò con forza brutale sul viso scolpito di rughe della suora. Una forza primordiale, animalesca, selvaggia, che non credeva di possedere in quelle piccoli esili braccia. Lo scalpitare frenetico della donna non stimolò alcuna pietà in quegli occhi dalle sfumature bronzee ora iniettati di sangue e violenza: Isaac digrignò i denti fino a scheggiarseli, e continuò a spingere il morbido ammasso di piume sulle vie respiratorie di Amélie, e ne ebbe abbastanza solo quando quest’ultima smise di ribellarsi, abbandonandosi sul pavimento.
Di lì a qualche secondo, la rabbia svanì e subentrò la paura. L’aveva soffocata davvero? Era svenuta o l’aveva stecchita?
Il suo respiro cominciò ad appesantirsi, il fardello della colpa a fletterglisi sul cuore. Un bambino devoto come lui, cresciuto con Dio al suo fianco, era davvero colpevole di un omicidio?
Isaac venne intontito dalle sue paure: esse si irradiarono del suo corpo, presero controllo dei suoi pensieri, e lo costrinsero a non farne parola con nessuno. Nonostante la schiena dolente e bruciante come roccia lavica, si obbligò a trascinarsi fuori dall’orfanotrofio, nonché unico luogo al mondo che poteva definire casa.
Ed ecco come ci era finito lì, ridotto ad eremita. In quell’occasione, aveva avuto spiacevole modo di notare che la brava gente francese non aveva molto a cuore i vagabondi; anzi, direi per niente. Isaac era diventato letteralmente invisibile: tutti gli passavano di fianco, ma nessuno che si interessasse di lui. Del perché fosse solo, di dove fossero i suoi genitori, del motivo per cui fosse evidentemente denutrito e sporco di sangue.
E dopo tre giorni trascorsi con il cibo dei cassonetti e l’acqua delle pozzanghere, ci si era messa anche quella brutta febbre. Il freddo era gelido, pungente: gli era penetrato al di sotto della carne, lacerando i tessuti e finendogli dritto nelle ossa; inoltre, la pioggia del giorno prima aveva contribuito ad aggravare il suo stato di salute.
Quella era la sua punizione per essere stato ingrato, per aver ucciso. La verità è che avrebbe dovuto sopportare le cinghiate, avrebbe dovuto sopportare che quella donna lo toccasse; avrebbe dovuto esserne felice, magari. Lieto. Avrebbe dovuto trovarlo piacevole, persino.

« Gesù… ti prego… non voglio morire… » disperato, si pentì davanti a Dio, ritrovandosi a sussurrare deliranti Ave Maria e Padre Nostro uno dietro l’altro, nella speranza che il Signore avesse pietà di lui.
Ma il tempo passava: la sera stava per cedere il posto alla notte, e lui era ancora accasciato contro il muro incrostato, coi soliti ratti a fargli compagnia, senza che nulla fosse cambiato.

« Ehi, tu! » quella voce ovattata gli pervenne quando aveva già chiuso gli occhi, pronto ad abbandonarsi alla morte. Isaac ritornò dal cammino eterno, schiudendo le palpebre con fatica. « Sei morto? »

« … Gesù…? »

« … Non sarai morto, ma forse sei drogato. Non sono Gesù! Magari! » un ragazzino dai capelli ramati, un paio d’occhi verdi brillanti, una spruzzata di lentiggini sulle guance ed un curioso cerotto che gli copriva il dorso del naso. Quello era il grande salvatore che Gesù gli aveva mandato? Non sembrava molto serio, né tanto presente a sé stesso. « Sei un po’ giovane per essere un clochard, no? »

« … Ho… freddo… »

« Ci credo. Guarda che guance rosse, secondo me hai la febbre. » il giovanotto sembrò indeciso sul da farsi. Era solo uscito per comprare le sigarette a suo nonno, ed un ritorno in coppia sarebbe stato quantomai sgradito. Eppure… provò della tenerezza. Dell’empatia. Lui non era come i gentiluomini francesi, che pensavano solo ai sigari e alle donne: quel bambino morente non era affatto invisibile per lui. « Dai, coraggio, vieni con me. Ti porto a casa mia, almeno finché non ti rimetti. »

Si caricò Isaac, lasciando che questi si accasciasse totalmente contro di lui: a stento si reggeva in piedi, povera anima. « Sono Pip, comunque. In realtà mi chiamo Philippe, ma io preferisco Pip. »

« … Isaac… »

« Okay, Isaac. Non sei molto loquace, eh? »

La non-risposta di Isaac funse, paradossalmente, da sentenza definitiva per Pip, che comprese il mutismo altrui e ne ebbe gran rispetto. Poi, a piccoli passetti, i due si diressero presso l’abitazione dei Bernadotte, non molto lontana da lì.
 
☞ Isaac, dodici ore all’adozione.

 
–––––


« Guarda… queste sono le cose che hanno le femmine… sono le tette! »

« Fa’ vedere! Voglio vederle anche io! »

« Sai, io ho una sorella più grande, e ogni volta che si spoglia guardo le sue tette dal buco della serratura. Se mi date dieci lire a testa, vi faccio venire tutti a casa mia e le guardiamo insieme! »

« Sì, sì, per favore! Domani ti porteremo i soldi, promesso! »

Roma, Città del Vaticano, 1984. Erano da poco trascorse le cinque, ed il sole prendeva il suo lento passo verso il tramonto.
Un branco di ragazzini, con non più di un decennio di vita, se ne stava riunito in un piccolo cortile, sparpagliati tutti su un’unica panchina. Il loro consueto turno di catechismo giornaliero era finito da poco, e ora arrivava il loro momento preferito della giornata: quello delle riviste osé. Tutti cercavano di arraffarsi affannosamente la visione di un pezzettino di culo, un’occhiata birbante al sensuale frutto della donna: quella rivista venne strappata di mano in mano, sballottata di qua e di là, perché gli uomini italiani sapevano apprendere molto presto la nobile arte dell’oggettificazione del corpo femminile, e tutti ne volevano un assaggio.

« Non vi fate beccare, però! » colui che aveva tutta l’aria di essere il leader di quel testosteronico ammasso – il guardone con la sorella più grande, per intenderci – ammonì il resto del gruppo, invitandoli a limitarsi con gli schiamazzi. « Se Anderson ce la sequestra, non voglio saperne niente! Io non c’entro, e non provate a spifferargli che ve l’ho procurata io! »

Già, Alexander Anderson faceva paura. Era un bravo prete, e i suoi ragazzini erano come figli per lui. Ma tutti sapevano quanto intenso fosse il suo amore per il Signore Iddio, e quanto fermamente credesse nella sua parola. Certo non avrebbe ammesso che delle simili porcherie girassero nel suo territorio; non lì, non nella Santissima Tredicesima Divisione Iscariota, non con Angel Dust Anderson cane da guardia di Dio in circolazione.
E tanto meno avrebbe gradito che uno dei piccoli futuri aiutanti di Cristo estorcesse danaro in cambio di incestuosa mercificazione. Sarebbe stato inaccettabile, per lui; ma, vuoi per fortuna o per caso, per il momento non sembrava nei paraggi: un colosso enorme come quello, grande e grosso, con la voce gracchiante come un gigante, sicuramente l’avrebbero notato.
In compenso, comunque, avevano qualcun altro alle calcagna.

« Dio non avrà pietà dei vostri peccati. »

La voce provenne da un fantasma… o quello che aveva tutta l’aria di esserlo. In realtà, si trattava solo di un bambino: un bambino dai capelli nerissimi, che gli piovevano sulla fronte e gli ottenebravano il viso; un bambino dagli occhi fulvi, empi come privati dell’anima; un bambino dalla silhouette inquietante: alto e slanciato, magro come un fuscello, forse troppo per la sua età. Ma, soprattutto, ciò che davvero allarmava di quell’individuo misterioso – da dove era spuntato, poi? – era il suo sguardo truce. Inesorabile, solenne: freddo come quello del più esperto dei serial killer.
Agghiacciò l’ilarità della combriccola, ammutolendola.

« Di nuovo tu?! Brutto cretino, quand’è che impari a farti i fatti tuoi?! Se non la smetti di darci fastidio, ti mando mio padre! Ti riempirà di botte! »

« Così come San Pietro non sarà misericordioso con voi quando non vi aprirà le porte del Paradiso, anche la mia clemenza verrà meno. Come cieco seguace di Dio, ho il compito di esorcizzare il peccato e distruggerlo con la polvere e col sangue. Mandami tuo padre, tua madre, e anche tutto il Reggimento dei carabinieri a cavallo, se vuoi. Ma non scamperai alla tua dannazione. »

La fronte del piccolo maniaco cominciò ad imperlarsi di lucente sudore. Davvero Dio era così arrabbiato con lui…? Solo per un paio di tette?
E Izaya – questo era il nome del “cieco seguace di Dio” –, cos’era? L’angelo della morte mandato in Terra a giustiziarlo con l’eterno castigo?
No… no, quello era solo un matto. Non era la prima volta che si aggirava da quelle parti, e non era nemmeno iscritto al loro corso di catechismo; forse non poteva permetterselo, quel poveraccio senza dignità. Bazzicava lì attorno solo per dare fastidio, era così evidente! Il Signore non avrebbe mai scelto uno sfigato del genere come suo messaggero.
Per cui, il capogruppo riacquistò sicurezza, esordendo con una sonora risata di scherno che aveva come unico obiettivo quello di mortificare Izaya, di minimizzare i suoi intenti; di umiliarli e scoraggiarne l’entità.

« Hah! Che coglione! E che pensi di fare, sentiamo? Scriverai una lettera a Gesù e gli farai la spia?! »

Il riso divenne non solo più ridondante, ma anche contagioso per il resto del gruppo, dai cui volti sparì ogni preoccupazione. Si sentirono nuovamente protetti dietro la spavalderia del loro amico, percependo il branco come unica cupola di salvezza in cui rifugiarsi.
Trascorse qualche secondo, non più di una decina. Poi, le risate sparirono, e vennero immediatamente rimpiazzate da delle urla di puro orrore. Un corpo tonfò per terra, ed un lago di sangue si propagò. Un vero spettacolo: liquido rosso cremisi che diramò nelle crepe della terra, tornando alla natura e riconciliandosi con Dio. Amen! Izaya fu fierissimo del lavoro svolto.

« Questo lo tengo io. » pronunciò, inorgoglito, infilandosi comodamente in tasca l’orecchio insanguinato che aveva appena strappato alla sua cartilagine d’origine con l’agiato ausilio di un coltellino svizzero. « Lo porterò a Cristo come simbolo della sua provvidenza che si fa uomo. »

« AIUTO, AIUTATEMI! FA MALE! FA MALE, CAZZO! STO MORENDO! STO MORENDO! » il malcapitato si contorse. Strillò, si inzuppò del suo stesso zampillo che provò a contenere posizionando ambedue le mani ad altezza carne esportata, senza ottenere alcunché.

« No, no! Non esagerare, non stai morendo. Stai solo perdendo un po’ di sangue, tutto qui. Giusto, ragazzi? L’avete visto tutti, non l’ho ucciso. »

Nessun verdetto dall’improvvisata giuria, perché quest’ultima se l’era già data a gambe immediatamente dopo la recisione. Erano scappati tutti, quei vigliacchi, nessuno escluso; spariti nel nulla, volatilizzati assieme alla loro preziosa rivista, portando via irreparabilmente con sé la visione di qualcosa di oscuro e sconvolgente, che non gli avrebbe fatto chiudere occhio per un bel po’.

« In nome di Dio, che diamine è successo qui?! »

Ecco, ora qualcuno sarebbe finito nei guai. E Izaya comprese subito che sarebbe toccato a lui: gli bastò vedere come Enrico Maxwell, membro di grado più alto dell’Iscariota nonché – caricuccia da niente – vescovo del Vaticano, si era precipitato a sorreggere quello stronzetto sbraitante come una femminuccia, cercando di fermargli la fuoriuscita di sangue. Ma certo, prestiamogli soccorso come se non fosse lui stesso il colpevole di quanto gli era accaduto!
Perché tutti se ne preoccupavano? Era finito a rantolare perché se l’era cercata: aveva preso in giro la parola del Signore con le sue sporcizie da maiale in crisi prepuberale e con l’ormone impazzito. Meritava quel trattamento e forse anche di peggio.

« Cos’è, ti sei ingoiato la lingua?! Dimmi che è successo! »

« L’ho punito per essersi comportato in maniera disonorevole ed indecorosa, signor Maxwell. »

« Ti sembra tutto normale, quindi?! Mozzare l’orecchio a qualcuno come niente fosse! Se c’è una persona che deve infliggere punizioni, qui, quello sono io. » a Maxwell piaceva tantissimo riempirsi la bocca di parole. Ricalcare sovente di avere prestigio e potere nella gerarchia ecclesiastica era la sua più grande passione. Tuttavia, risultava decisamente manchevole nell’esercitare concretamente la suddetta autorevolezza: quel tipo accasciato a terra, ci fosse stato Maxwell al posto di Izaya, se la sarebbe cavata al massimo con una bacchettata sulle mani, cosa tutto sommato corretta e proporzionata al genere di reato. Stiamo pur sempre parlando di poco più di un bambino che beneficia della visione di un paio di seni; niente di perseguibile od allarmante al punto tale da costargli un orecchio.
Be’, era evidente che il vescovo ed il “cieco servo di Dio” non la pensavano allo stesso modo in merito alla gravità degli antefatti. « Ora basta, ne ho abbastanza di te! Non è la prima volta che ci causi problemi, o che ferisci gli altri bambini! »

« Ma io volevo solo—…! »

« Santo cielo, qui è tutto pieno di sangue… vieni, ragazzo, ora ti portiamo in ospedale. »

Maxwell si caricò l’infortunato in braccio. L’ambulanza arrivò poco dopo in codice rosso, e tutto ciò che ad oggi sappiamo del fattaccio è che, almeno, il nuovo Van Gogh dei tempi non morì dissanguato.
In ogni caso, a conti fatti, era impensabile che Izaya rimanesse impunito.

« Ci andrà di mezzo la nostra reputazione, Anderson! » diceva Maxwell al suo fidatissimo secondo al comando, pensandolo con tutto sé stesso: il suo schiaffare le mani contro la scrivania d’ebano ne era una prova schiacciante. « L’Iscariota è un’organizzazione rispettabile, che combatte duramente tutte le forme di eresia che potrebbero minacciare o macchiare l’onore della nostra Chiesa. Cosa penserebbero di noi se lasciassimo correre?! Penserebbero che abbiamo paura persino di punire un ragazzino, ecco cosa. »

« È tutta una questione di reputazione, quindi. » Anderson, ancora una volta, si dimostrò ostile alle futili priorità del suo superiore. Scosse la testa, sospirando seccato: quand’è che Maxwell aveva cominciato ad essere così deludente? « Ti sfugge che si tratta di un ragazzino, appunto, e tu non l’hai nemmeno lasciato parlare. Magari aveva i suoi buoni motivi. Io vedo del potenziale, invece. Intravedo della devozione che potrebbe rivelarsi vincente. »

« Oh, ma per favore! Tu hai il cuore troppo tenero, credi a me. »

Piuttosto opinabile come affermazione: stiamo pur sempre parlando di una vera e propria macchina da guerra. Alexander Anderson aveva ucciso e fatto a brandelli senza pensarci due volte; Alexander Anderson aveva strappato vite senza guardare negli occhi né chiedere scusa, senza rimorsi né pentimenti, in nome della grande missione a cui quotidianamente adempiva.
Il “cuore tenero” a cui Maxwell faceva riferimento era semplice giudizio, il buon vecchio buonsenso che non passa mai di moda; niente che il vescovo potesse minimamente comprendere, comunque.

« E ora che fai? » domandò il prete quattrocchi, nel momento in cui vide il suo giovanissimo interlocutore attaccarsi al telefono, tenendo la cornetta nella mano destra.

« Non è ovvio? Chiamo la polizia. »

« Davvero non necessario, Maxwell. »

« Invece è molto necessario. »

Niente da fare. Il capo era lui, e la decisione finale gli spettava: Anderson poteva farci ben poco. Accostò al muro quella propria considerevole stazza, dando un’occhiata all’esterno. La finestra dell’ufficio di Maxwell dava proprio sul cortile, e il ragazzino incriminato stava ancora lì: sedeva su una delle panchine, pensieroso, evidentemente confuso. Non capiva dove avesse sbagliato: perché una chiesa lo castigava per essere stato esemplarmente devoto e fedele?
No, proprio non lo capiva. E poi, sollevò lo sguardo, notando in lontananza una coppia di occhi verdi che lo osservavano oltre il riflesso luccicante di un paio di occhiali.
Izaya era sicuro che Anderson, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso, e tanto gli bastava per sentirsi apposto con la coscienza, e, soprattutto, con il Creatore. Non importava delle conseguenze.
 
☞ Izaya, otto minuti all’arresto.

 
–––––


Leone odiava suonare il pianoforte con tutto sé stesso. Suonare era il simbolo ultimo dell’orrore perpetuo a cui era forzato; l’emblema della noia, della sua illimitata insofferenza.
Era tutto frutto di qualcosa che non gli apparteneva. Da quando sua madre aveva cominciato a farsi sbattere da quello zoppo ultracentenario, si era infighettita da fare schifo. Lei, che era sempre stata poco più che una zingara; lei, che tutta la sua vita l’aveva trascorsa a rubare dalle tasche di quelli più ricchi di lei; lei, che aveva messo al mondo una creatura senza ricordarsi nemmeno con chi l’avesse concepita… ora si atteggiava a gran signora, e si era ficcata in testa di imborghesire anche il suo unico figlio.
E quindi lo costringeva a suonare, a leggere, a prendere il tè con il latte come i parassiti altolocati delle grandi città. Addirittura, pretendeva che imparasse il portoghese! Già trasferirsi in Brasile solo per raggiungere il vecchio dal cazzo rachitico – chissà perché diavolo se ne stesse segregato dall’altra parte del mondo, poi – era stata una follia. Leone, che aveva il sangue e l’anima tedeschi, che aveva i crauti nelle vene e la sua amata Kartoffelsuppe al posto del midollo osseo, proprio non riusciva a capire perché avrebbe dovuto sforzare così tanto il suo cervello ad imparare una nuova lingua per cui non nutriva la minima attrattiva.
Sbuffò con stizzosa frustrazione, osservando disgustosamente lo sparito davanti a sé. Le note lo facevano vomitare: la musicalità, invece di allietargli i sensi, gli dava il voltastomaco.

« Allora, Leone. Cosa hai imparato oggi? Vuoi farmi sentire un po’ di Wagner? »

« Ma certo, papà. » con l’odiosa imposizione di definire “padre” un uomo che era molto più verosimile in vesti di nonno, Leone sistemò per bene gli spartiti sul cavalletto, affinché ne avesse una visuale completa. Prese un bel respiro, poggiando poi con leggiadria le dita sui tasti, pronto a deliziare tutti con armoniose e melodiose sinfonie.
O almeno, così si aspettava suo “padre”. Ciò che ottenne, tuttavia, fu ben diverso da quanto si aspettava: il giovanotto cominciò a prendere i tasti a schiaffi, producendo suoni senza senso e cacofonie che facevano male alle orecchie. Era la sua piccola forma di ribellione: il suo modo di dimostrare quanto gli facesse schifo lui, il suo pianoforte ed il siparietto di famigliola felice a cui veniva obbligato ogni santo giorno.

« Leone, sei un maleducato! Eppure non mi sembra di averti insegnato questi modi sgarbati! »

« Lascia fare, cara. Leone avrà tempo di imparare, non sono arrabbiato con lui. » che bravo, il Colonnello: anche benevolente e generoso col figlio bastardo della donna che, occasionalmente, si portava a letto. Come se a Leone fosse importato qualcosa, anche l’avesse fatto arrabbiare sul serio; anzi, a dirla tutta, si può tranquillamente dire che il suo obiettivo fosse proprio quello.
Inoltre, Colonnello di cosa? Di che esercito, o che fazione? Incredibile pensare che il piccolo – non – pianista si fosse ritrovato a vivere in casa di quell’uomo senza saperne assolutamente niente. « Direi che devi ancora esercitarti. Allora, per favore, rimani qui a suonare ancora per un’ora. Vedi, una persona sta venendo qui, e dobbiamo discutere di qualcosa di importante. Di lavoro, ecco. Non posso e non voglio essere disturbato, ci siamo capiti? »

« Hm. » aveva smesso di ascoltarlo dopo le prime tre parole; sempre ammesso che anche a quelle avesse prestato un minimo di attenzione.
Dato che, davvero, non gliene fregava assolutamente un beneamato delle “questioni di lavoro” – non sapeva nemmeno quale fosse, del resto – del suo patrigno, Leone se ne rimase su quello sgabello ancora per un po’. Ogni tanto strimpellava qualcosa, ma pur sempre emettendo striduli rumori più simili a schiamazzi che a suoni.

« Dio, che noia… » borbottò, soffiando annoiato ancora una volta. Si dondolò al sedile, smettendo anche solo di provarci: era disattento, svogliato, indifferente al fascino della musica.

« Ti annoi, ragazzo? »

Che strana voce. Era quasi un sibilo, come quello di un serpente: un beffardo fruscio, come una pungente carezza alle orecchie. Quando la avvertì, Leone si voltò come innatamente attratto da essa, ritrovandosi tuttavia dinnanzi ad un’insopportabile incongruenza.
Un panciuto individuo in completo elegante bianco lo fissava insistentemente. I suoi occhi erano del color dell’ambra, sottili e caleidoscopici come quelli di un rettile; erano così penetranti che ne si avvertiva facilmente l’intensità anche al di là degli occhiali che gli scivolavano sul naso.
Leone non fu affatto spaventato da quello sconosciuto, nemmeno quando lo vide sogghignare perversamente come un matto senza apparente motivo. Anzi; semmai, ne fu allettato. Sedotto, stimolato.
Finalmente qualcosa di diverso, qualcosa di potenzialmente divertente.

« Sì, a morte. Odio suonare. »

« Hm… permetti? »

L’ospite non attese esattamente una risposta: semplicemente, avanzò laddove il giovane stava seduto, e lo affiancò. Leone era sinceramente preoccupato che lo sgabello non avrebbe sorretto il peso di entrambi, e che il legno che li sobbarcava si sarebbe spezzato inesorabilmente; e come dargli torto. Quel tipo era un vero ciccione senza esclusione di colpi.
Ed anche qui, un’ulteriore incongruenza: la finezza ed il garbo quasi femminile con cui cominciò a suonare erano estremamente contraddittori rispetto alla sua stazza da porco. Eppure lui, con disinvoltura, portò quelle dita paffute coperte da dei guanti bianchi ai tasti, e semplicemente li premette in ordine sparso, così veloce che gli occhi arzilli e verdissimi di Leone faticavano a stargli dietro. Una rapidità meccanica, quasi come quella di un robot.

« Ah! Uno dei miei drammi musicali preferiti… Das Rheingold. L’entrata degli dei nel Valhalla. » si pronunciò, dopo aver eseguito una sonata da manuale con trasporto passionale e romantico, insensatamente idilliaco. « È inebriante. Non trovi? »

« Wow, sei forte. Io non sono mai riuscito ad andare oltre la prima riga. Tu dov’è che hai imparato? »

« È difficile essere uno come me e non conoscere i pezzi di Wagner. Specie per il lavoro che facciamo io e tuo padre. »

« Quello non è mio padre. »

Quell’uomo sovrappeso aveva una costante e particolare attenzione per i dettagli, anche i più insignificanti. E non gli sfuggì il disprezzo con cui quel ragazzino aveva rigettato ogni parentela col Colonnello. L’immediatezza che c’era stata nel sottolineare quel piccolo, essenziale appunto.
Interessante. Molto, molto interessante.

« Ah! Maggiore, è qui. » il Colonnello li raggiunse, accompagnato, al solito, dal suo bastone da passeggio, che gli supportava le ossa stanche e martirizzate dalla guerra. « Vedo che ha incontrato il piccoletto di casa. Spero che non sia stato scortese come al solito. »

« Affatto. Anzi, è un ragazzo molto talentuoso. Ha un finissimo gusto musicale, lo sa? Dovrebbe esserne orgoglioso. »

« Ma certo, ma certo… ci accomodiamo di là? »

« Con piacere. Gradirei molto una bella tazza di cioccolata, se possibile. Con tanto zucchero. »

Le grosse cosce del Maggiore finalmente liberarono il seggiolino, e Leone tornò ad essere l’unico ad occuparlo. Le sue iridi verdi come gemme di smeraldo luccicavano vispe, e seguirono ogni movimento del grasso ospite con rigorosa attenzione, quasi maniacale, studiando in dettaglio ognuno di essi.

« Mi chiamo Leone, comunque. » enunciò quest’ultimo, poco prima che l’altro si esiliasse definitivamente dalla stanza. Si fermò sulla porta, ma non si prese la briga di voltarsi ad incontrare lo sguardo invadente del ragazzo.

« È stato un piacere conoscerti, Leone. »

Senza aggiungere altro, sparì; ad accompagnarlo, quel solito sghignazzo velenoso che non si sforzava nemmeno troppo di nascondere.
Leone si entusiasmò, individuando intrinsecamente in quell’uomo un punto di svolta che attendeva da svariati anni di totale annichilimento del corpo e dello spirito.

Ma che grassone simpatico!”, convenne tra sé.
 
☞ Leone, dieci anni al rito di iniziazione.
 


–––––


« Mi raccomando, bambini, fate i bravi. Formate delle coppie e tenetevi la mano, mettetevi in fila indiana e seguitemi. Non allontanatevi mai da me! »

« Sì, maestra! »

Alexis aveva organizzato quella gita nei minimi dettagli. I suoi bambini si erano impegnati molto durante il corso dell’anno, ed una bella ricompensa se la meritavano proprio; inoltre, quello era il loro ultimo anno di scuole elementari. Cosa c’era di meglio di una piccola escursione fuori porta per coronare al meglio un ciclo scolastico così importante?
Londra era grigia, e a maggio del ‘93 faceva ancora freddo. Forse era arrivato il momento per gli scolari di sottrarsi alla loro uggiosa routine, fosse stato anche solo per qualche giorno.
La scelta della destinazione non fu casuale. L’insegnante scelse un paese caldo e soleggiato, sciamante di vita; un luogo in cui, da sempre, si sentiva a casa: l’Italia.
Roma, più nello specifico: ai Musei Vaticani.
Alexis Indra era la più giovane docente del circolo, e i colleghi non la vedevano di buon occhio. La ritenevano poco professionale; inesperta, ingenua, incapace. Non credevano che avesse il sangue freddo sufficiente ed i nervi abbastanza saldi da tenere a bada un mucchio di mocciosi con una quindicina d’anni in meno di lei.
Eppure, lei li aveva amati dal primo momento. Certo, erano stati un ripiego, non poteva certo negarlo: quando si era laureata in storia dell’arte ed aveva conseguito il dottorato di ricerca in scienze museologiche, non aveva avuto esattamente come primo obiettivo quello di insegnare.
Aveva sognato molto più in grande. Ma poi, si sa, alla vita alle volte piace sbarrare porte ed indirizzare a discutibili alternative: e nonostante fosse stata disperata all’inizio dinnanzi all’unica soluzione di dover scaricare nel cesso tutte le ambizioni ed i sacrifici fatti, tutto sommato non era andata poi così male.
E comunque, andare a Roma era uno dei vantaggi di quel lavoro. Una città radiosa, ricca di storia e cultura; e poi, lei e la sua classe avevano imparato a conoscere qualche volto noto del Vaticano, ai quali si rivolgeva spesso per l’organizzazione delle sue occasionali scampagnate.
Forse era stata la sua fede ad aiutarla, in tal senso. Di ragazze devote come Alexis, di quei tempi, non se ne vedevano poi così tante; una vera e propria rarità, si può dire. Ancor più se si tratta di una vera cristiana da manuale, dedita ed osservante ai valori cattolici della Chiesa — ma inglese!
Quantomeno inusuale, dato che ben il 49% dei cristiani del Regno Unito sono protestanti, mentre i cattolici rappresentano solo il 9% della popolazione.

« Guardate, bambini, che meraviglia… il Giudizio Universale. » le bastava poco per rimanere col fiato mozzato. Quell’opera di Michelangelo l’aveva vista mille volte, sia sui libri che guardandola dritta negli occhi, ma riusciva sempre ad emozionarla ogni volta. Provò una gioia ancestrale difficile da spiegare, che quasi rasentava la sublimazione. Spesso si chiedeva come fosse possibile che qualcuno potesse rimanere indifferente dinnanzi a tanta magnificenza: quando, di tanto in tanto, le capitava di scorgere della noia negli occhi dei suoi alunni, era una vera sofferenza per lei. « Questa meraviglia è di Michelangelo Buonarroti. Ci troviamo davanti ad una rappresentazione della seconda venuta di Cristo e del giudizio finale ed eterno di Dio di tutta l'umanità. I morti risorgono, e si avviano verso il loro destino, giudicati da Cristo circondato dai santi. Complessivamente ci sono oltre trecento figure, quasi tutti uomini e angeli originariamente raffigurati come nudi; in un secondo tempo, molte furono parzialmente ricoperte da drappeggi dipinti, alcuni dei quali sono rimasti anche dopo varie puliture e restauri.
I lavori durarono più di quattro anni, tra il 1536 e il 1541. Pensate, Michelangeloiniziò a lavorarci venticinque anni dopo aver completato il soffitto della Cappella Sistina, e aveva quasi sessantasette anni al termine dell’opera. Inizialmente aveva accettato l'incarico da papa Clemente VII, ma fu completato sotto papa Paolo III, le cui più forti visioni riformatrici probabilmente influirono sul trattamento finale. Vedete, questo è un capolavoro unico nel suo genere, studiato in ogni minimo dettaglio: la composizione, che trae ispirazione soprattutto dalla Divina Commedia di Dante, sconvolge le leggi della prospettiva e delle proporzioni come le aveva sviluppate e fissate il Rinascimento. La parte superiore della parete ospita Cristo Giudice circondato dalla Vergine, dagli apostoli, dai patriarchi e dai santi. Discendendo, sono raffigurati i martiri, i beati, le vergini, poi la risurrezione dei morti annunciata dagli angeli che suonano le trombe. E infine, Caronte che con la sua barca conduce i dannati ai piedi del Giudice dell'Inferno. Nella parte inferiore, invece, possiamo notare—… »

« Lei sa proprio tutto, miss Indra. Ogni volta mi stupisce. »

Una voce dolce come il miele, carezzevole come la tenera mano di una madre… Alexis l’avrebbe riconosciuta tra mille, e tra mille l’avrebbe scelta sempre.

« Padre Anderson! » l’attenzione della donna smise di rivolgersi al dipinto, ai Musei, ai bambini. Era sparito tutto, e tutto aveva perso di essenza ed importanza: ora erano solo lei ed il più ligio e rispettoso servo di Dio. I sentimenti che le infuocavano il petto ogni volta che incontrava lo sguardo di Alexander Anderson erano così intensi da toglierle il fiato. Così come tutti i peccati, si sentiva inebriata da essi, frastornata dalla loro intensità: le cosce le tremavano, il cuore le si dimenava, e quei suoi occhi gemmati scintillavano come perle lucenti.
Che stupida che era. Permetteva al demonio di tentarla, di sedurla col frutto proibito. Provare concupiscenze tanto oscene, bramare la carne di un uomo di Cristo in quel modo… era francamente imperdonabile. E allora, passava la vita a combattere i suoi impulsi, a trattenere le sue voglie; del resto, anche la limitazione in nome del Creatore faceva parte del cristianesimo. « È sempre un piacere vederla. »

« Per me è lo stesso. Mi spiace averla interrotta, ma rimango sempre affascinato dalla sua eloquenza. Lei parla dell’arte sacra con un tale trasporto che quasi mi emoziona. I suoi ometti sono proprio fortunati: lei è una splendida insegnante. »

« Oh, la smetta… mi mette in imbarazzo. »

« No, dico sul serio. »

Alexis era terrorizzata dalla sfacciataggine con cui, se non tenuta doverosamente a freno, avrebbe attentato alla castità del prete senza troppi complimenti.
Lei lo amava. E soffriva all’idea che quell’amore, esistente nelle sua forma più pura ed incontaminata, fosse in realtà un demoniaco travestimento di Satana. E se la tentazione è il metro attraverso cui Dio giudica il valore delle anime umane, nonché la bilancia che Dio onnipotente usa per soppesare gli spiriti, allora lei non poteva permettersi il lusso di dimostrarsi cedevole.
Intimidita dalle sue stesse venerazioni, la donna piantò lo sguardo verdognolo sulle piastrelle del pavimento.

« Ora… è meglio che vada, Padre. Sa com’è, i bambini si danno alla pazza gioia quando sono da soli. Potrebbero combinare qualche pasticcio. »

« Ah, non lo dica a me! So bene a cosa si riferisce. Buona lezione, allora, miss Indra. »

Con un garbato chino del capo, tipico di un individuo distinto e signorile come lui, Anderson la lasciò libera di proseguire coi suoi sproloqui, senza badare molto allo stato d’animo della persona a cui aveva appena voltato le spalle. Nemmeno aveva notato quanto fosse consumata, quella giovane, e di quanto dolore le causasse lo straziante fardello di essere costretta a continue rinunce per il resto della sua vita.
Alexis anelò avvilita, prima di appellarsi nuovamente alla classe.

« Allora, bambini, dove eravamo rimasti? »

☞ Alexis, sette mesi alla metamorfosi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** The Metamorphosis ***


« Ti avverto, Pip. Se bari di nuovo… cazzo, stavolta giuro su Dio che ti faccio un buco in mezzo agli occhi. »

« Mai barato, fratello. Non è colpa mia se sei una sega. »

Mai fidarsi di un mercenario che ti guarda negli occhi assicurandoti di non nascondere alcuna carta dentro la manica. E Isaac, che da ben sette anni aveva a che fare quotidianamente con un branco di soldati prezzolati, lo sapeva bene.
I Bernadotte l’avevano accolto in casa loro quando aveva dieci anni; quel giorno ne compiva diciassette. Di acqua sotto i ponti ne era passata molta, e ora persino un trovatello dalle mani sporche di sangue poteva ritenersi parte di una famiglia. Anzi, forse l’omicidio che ancora portava sulle spalle non era che una marcia in più: una vocazione, per così dire.
O almeno, così la definì quell’uomo anziano anni addietro: un uomo che Isaac, ai tempi, non riusciva a comprendere; né lui, e né tanto meno i suoi strambi discorsi sulla glorificazione della morte. Ne carpì l’immensa saggezza solo al momento in cui la falce, che lui stesso aveva servito per tutta la vita, si dimostrò pronta a ghermire anche lui, cibandosi del suo spirito e riducendo il suo corpo ad un logoro contenitore di mangime per i vermi.

« Non ti sforzare, nonno. » Isaac lo chiamava nonno, relegandogli un titolo familiare che di fatto non aveva. Il sangue che pulsava nelle loro vene non era il medesimo, e mai lo sarebbe stato. « Così peggiorerai le cose. »

« E chi se ne frega. » il più longevo dei superstiti Bernadotte parlava a fatica. Tossiva e grugniva in continuazione: sputava grumi di muco e saliva sporca cercando invano di ripulirsi i polmoni, ciancicava come se da un momento all’altro dovesse ingoiarsi la lingua. Tuttavia, riusciva comunque a sprigionare dignitosa sapienza persino in giaciglio eterno. « Se ho chiamato te e non Pip, è perché ti devo parlare. Quindi sta’ un po’ zitto e ascoltami. Isaac, quando sei arrivato qui… cazzo, ho pensato subito che fossi un mollaccione. Solo uno smidollato poteva essere così tanto divorato dai sensi colpa da ammalarsene. Sono ancora convinto… » qui ci fu un altro gracchio di tosse, e per poco non ci si soffocava. « … Che, ai tempi, quella brutta febbre fu consapevole. Ti stavi autoinfliggendo una punizione per aver ucciso, e questo mi disgustava. Mi ricordavi mio figlio da piccolo… e anche Pip, da piccolo. Entrambi hanno avuto delle remore, si erano fatti prendere dalla paura per molto, moltissimo tempo. Un terzo rammollito non avrei saputo accettarlo. Ma poi… mi hai stupito, ragazzo. La riconoscenza nei nostri confronti per averti accolto ti ha spinto a voler diventare come noi… come me. Hai una mira notevole, e non hai mai smesso di voler imparare. Ti sei allenato duramente anche quando le condizioni ti erano avverse, e ora sei diventato a tutti gli effetti un degno erede dei Bernadotte. Mi hai reso orgoglioso. »

« Grazie, nonno. Per me è un—… »

« Placati con le smancerie. Non ho finito. » Isaac non se la legò al dito. Innanzitutto, perché si trovava al cospetto di una persona praticamente più morta che viva, e certamente non sarebbe stato opportuno andargli a contestare l’educazione. E poi, la scortesia era pressoché un’usanza di famiglia: suo nonno non s’era mai espresso in smielate dimostrazioni d’affetto, né in svenevoli moine da due soldi. E andava bene così. Come già detto, anche in punto di morte aveva dato prova di orgoglio ed amor proprio, mantenendo il cuore di ghiaccio di cui aveva sempre fruito in oltre settantacinque anni di vita. « Io sto morendo, giovane. Sto morendo, e non posso farci niente. Da un momento all’altro potreste rimanere soli, e io voglio andarmene sapendo che Wild Geese è al sicuro… che voi due siete al sicuro. Dovrai controllare Pip, dovrai essere tu il capo. Lui è bravo, ma… è meno freddo. Gli capita di farsi condizionare dalle sue emozioni: è troppo sensibile, e questo lo porterà a mala strada. Inoltre, basta che veda un pelo di passera e non capisce più niente. No, non è adatto a comandare… devi farlo tu. Hai capito? Dimmi che lo farai. »

« … Lo farò, nonno. Te lo prometto. »

Mentì. Mentì affinché suo nonno potesse morire in pace, senza il rimpianto di aver lasciato dietro di sé qualcosa di non detto; ma la sua volontà non venne esattamente rispettata. Di fatto, a seguito della tragedia, Wild Geese acquisì una doppia leadership… la qual cosa funzionò distintamente, ed avrebbe continuato a farlo ancora per molto. Pip ed Isaac erano fratellastri, ma era incredibile quanto simile fosse il loro modo di pensare, quanto conformi le loro idee seppur non fossero fatti della stessa carne.
Perché scapicollarsi per il timone, quando entrambi potevano condurre la nave senza cercare di sovrastarsi l’un l’altro?
Eppure, un timore primordiale albergava perpetuamente i meandri della mente del giovane figlio di nessuno. Perché egli, in cuor suo, sapeva bene che nessuna squadra ha senso senza un unico comandante a cui la ciurma può abbandonarsi: i problemi, prima o poi, sarebbero arrivati anche per loro.

« Qual è la posta oggi? »

« Hm… »

Un ventunenne ed un diciassettenne seduti allo stesso tavolo in terrazza, col vento che gli spazzolava i capelli, impegnati in un’amichevole – per così dire – partitella a poker. Entrambi avevano acquisito dalle nuove strampalate mode la smania dei capelli lunghi, e guai ad avvicinarci un paio di forbici. Ma portarli sciolti e fluenti rappresentava una gran noia, oltre che un problema per il loro lavoro: si sparpagliavano sul viso, e a causa della scarsa visuale rischiavano di rimanerci secchi. E così, li portavano legati: Isaac, con la sua chioma nera come la notte, si limitava ad un codino pasticciato senza troppe pretese. Pip, invece, che aveva sempre voglia di avere gli occhi delle belle donne su di sé, teneva quella massa ramata domata da una lunga treccia, che sicuramente non passava inosservata. Quantomeno inusuale, specie per un uomo.

« Trovato. Se vinco io, mi dirai finalmente cos’è che ti ha detto il nonno il giorno della sua morte. »

Grave. Isaac, che fino a poco prima si guardava distrattamente le carte, ora andava irrigidendosi, ed i suoi occhi fulvi scattarono alla figura ostentatamente indifferente del suo fratellastro.
Un tacere bilaterale per una manciata significativa di secondi. Il sibilo del tabacco bruciante delle loro sigarette strette tra i denti come unico suono percepibile.

« E se vinco io? »

« Non lo so, dimmelo tu. »

« Bo’. Pagami un paio di puttane. »

« D’accordo, andata. »

Philippe non era mai riuscito a strappare dalla bocca di suo fratello le segretissime oralità del testamento di suo nonno. Un po’ assurdo, dato che era lui il Bernadotte di sangue: non era mai riuscito a mandare giù il boccone amaro, e, di tanto in tanto, sentiva la pungente necessità di tirare in ballo la faccenda.
Fosse stato per Isaac, gli avrebbe confidato tutto nell’attimo stesso che aveva messo piede fuori dalla stanza del vecchio malconcio. Ma non sarebbe stato peggio? A dirla tutta, stava solo cercando di proteggerlo da quello che, sicuramente, sarebbe stato solo un inutile ed insopportabile dolore.

« Hah! Beccati questa, stronzetto! » dopo quasi due ore di giocata taciturna, occhiate furfanti e tentativi non sempre fruttuosi di chiudere la mano, Pip si sentì baciato dalla fortuna. Piazzò sul tavolo un bel tris di Q, affiancato da una coppia di 2. « Scusami tanto, fratellino, ma questo è un full! Coraggio, ora mantieni la tua promessa. Sputa il rospo! »

« … Scusami tu, Pip. Scala reale massima. »

« Che cosa?! Non posso crederci! Sei uno stronzo, hai imbrogliato! »

« Mai barato, fratello. Non è colpa mia se sei una sega. » Isaac scimmiottò le stesse parole del fratellone, sghignazzandosela compiaciuto, senza un accenno di modestia; anzi, semmai, con un pizzico di sana e spietata crudeltà, nel tipico meccanismo di giocosa supremazia tra consanguinei. Peccato che non lo fossero davvero. « Tieniti pronto ad offrirmi quelle puttane, mi raccomando. »

Pip era fortunato, perché non avrebbe sborsato un centesimo per assumere i servigi di nessuna prostituta. Il giovane orfanello era solito piazzare scommesse assurde ed alquanto disdicevoli, senza tuttavia riscattarne effettivamente i golosi premi.
Piuttosto, si limitò semplicemente a sgranchirsi un po’ le gambe, allontanandosi dal tavolo da gioco; gettò ciò che ne rimaneva del mozzicone ardente, lo pestò col tacco del proprio stivale di cuoio strappato. Si chiuse in bagno, ed il cigolio fischiante della manovella del lavabo rimbalzò tra le mura. Raccolse dell’acqua con le mani, e la utilizzò per sciacquare faccia e capelli.

« C’è mancato poco… » borbottò, prima d’esalare un sospiro di sollievo. Quando poi si sfilò dalla manica l’asso di cuori che aveva scrupolosamente nascosto a Pip, constatò inorgoglito di averla fatta franca ancora una volta.
Quel segreto sarebbe rimasto con lui fin dentro la tomba, poteva giurarci.

 

Isaac, nove anni al reclutamento.

 

–––––

 

I giorni di prigionia furono inferno sulla terra. Un costante ed infinito susseguirsi di secondi nulli, che divennero minuti, che divennero ore, finché non si trasformarono in giorni.
Cinque, per l’esattezza. Izaya trascorse cinque giorni e quattro notti in un claustrofobico cubo cinto di mura incrostate di muffa, con le sbarre mangiucchiate dalla ruggine.
Gli avevano dato un cesso, non si erano proprio risparmiati con la scortesia. E questo perché quel particolare detenuto non era visto come un vero e proprio essere umano, ma come uno scarto. Un reietto senza un soldo, senza una famiglia; uno spirito solo, vagante alla ricerca di chissà cosa. Infruttuoso per la società e troppo poco ricco perché qualcuno se ne curasse: Izaya, ben presto, cadde nel baratro della disperazione, conscio del laido destino a cui era condannato. Se un membro così rispettato dell’alto clero italiano – ancor più del Vaticano – si era preso la briga di farlo incarcerare personalmente, allora poteva soltanto significare che la sua colpevolezza era tanto grave ed irreparabile da dover scomodare persino i nobili servi di Dio in persona. Non una sola anima al mondo si sarebbe adoperata con altrettanta intensità per tirarlo fuori.
Era così ovvio. Si sarebbero dimenticati di lui, e l’avrebbero lasciato marcire in quella fetida cella, diventando un tutt’uno con il mucido e con il sudicio ossidato.
Nessuno si sarebbe preoccupato di salvarlo.

« Ragazzo? » una voce cosparsa di batuffoli di ovatta, quasi incomprensibile. Izaya la credette frutto di uno dei suoi soliti vaneggiamenti divini, e scelse di ignorarla. « Ragazzo, mi senti? Sei vivo? »

Quell’insistenza non era abituale nei vaneggiamenti, no. Di solito andavano via alla svelta come erano arrivati; ora, invece, piuttosto che sparire, il richiamo divenne sempre più distinto e cristallino, come se lì con lui ci fosse concretamente qualcuno e la sua mente non gli stesse giocando alcuno scherzo. Cosa che, conoscendosi, era alquanto difficile da credere.
Ma la curiosità era irrefrenabile, e lo costrinse ad aprire gli occhi nonostante lo scetticismo.
Fu una scelta saggia. Le fosche iridi del giovane ripresero vita, risplendendo come le ali di una lucciola: si trovava davanti ad un vero e proprio miracolo, un’apparizione celeste.
Ancora una volta, Dio non l’aveva abbandonato.

« Padre Anderson! »

« Sei uno straccio, ragazzo. Che ti danno da mangiare? »

« Non molto, a dirla tutta. Oggi hanno dimenticato il pranzo. »

« Cielo… sono desolato. Questo è proprio un postaccio. » un Anderson piuttosto contrariato si sfilò dagli occhi verdi i piccoli occhiali tondi, lucidandoli con un lembo di tunica. Come si poteva biasimarlo? I modi con cui quel ragazzo veniva trattato erano fuori dalla grazia di Cristo; ergo, contro ogni possibile approvazione clericale. Ancor più inaccettabile, per cui, che fosse stato proprio un autorevole affiliato della Chiesa ad esiliarlo a quella infima posizione di miseria.

« Lei che ci fa qui, Padre? Credevo che nessuno si sarebbe ricordato di me. »

« Io non dimentico facilmente una potenziale faccia amica. Com’è che ti chiami tu? »

« Izaya. »

« Hm… e da dove vieni? Chi sono i tuoi genitori? »

« Non lo so, mai conosciuti. Vivo di strada da quando sono al mondo. »

« E questo spiega l’odore. » del resto, l’acutissimo tanfo che impregnava quel maialaio di prigione non poteva essere solo frutto di sudiciume biologico da parete. Mancava davvero poco che gli si incenerissero i peli del naso, assieme a quelli della barba bionda come il miele. « Potremmo chiamarti Izaya senza famiglia. Come Remì. »

« Remì…? »

« Remì sans famille. Non l’hai mai letto? »

« Io non so leggere, signore. »

« Avrei dovuto immaginarlo… » un silenzio imbarazzante rimbombò tra quelle quattro mura, ma Izaya non parve curarsene, né avvertirne il peso. Non è che fosse proprio una cima, né culturalmente ne socialmente parlando. « Comunque, sono venuto qui per un motivo ben preciso. Vedi, io mi trovo fortemente in disaccordo con il provvedimento che il vescovo Maxwell ha preso nei tuoi confronti. L’ho trovato immotivato, oltre che eccessivo. Inoltre, non ti ha dato modo di spiegare le tue ragioni, quindi io mi trovo qui oggi per ascoltarle. Voglio che tu mi dica perché hai aggredito quel ragazzino. »

« Oh… » ecco, ora sì che avvertiva la difficoltà, il vero brivido della paura. Ai suoi occhi, Anderson era la personificazione di Cristo, Dio fattosi uomo per eccellenza. Non voleva; anzi, non poteva commettere errori. Non con la divina provvidenza che, miracolosamente, gli offriva una seconda opportunità. Così, facendosi piccolo come ogni servo del cielo che si rispetti, cascò sulle ginocchia, congiungendo le mani in segno di preghiera. « Possa Dio avere pietà del mio corpo da peccatore! Non avevo alcuna intenzione nociva, posso giurare innanzi al sacro altare! Non volevo uccidere. Io volevo solo… punire, e ferire gravemente. »

« Punire? Perché? »

« Perché quei ragazzini insultavano il buon nome del Vaticano. Macchiavano la sacra Chiesa con disgustose carnalità finalizzate a moneta. Sono una brava persona, un buon cristiano! Proprio per questo, ho ritenuto fondamentale proteggere il nome di Cristo dal peccaminoso seme mortale. Amen! Signore, ti prego, perdona i miei mezzi scellerati… »

Il sacerdote si riscoprì folgorato da quel fiume in piena di parole. Positivamente sbalordito da una fede tanto pura ed incontaminata, specialmente per un giovanotto di così tenera età. Quanti anni aveva? Nove? Dieci, al massimo. Lui, nel suo primo decennio di vita, ancora si infilava le dita nel naso. Izaya, invece, sembrava nato con un dono, con la predisposizione vocativa adatta a renderlo un perfetto candidato per l’Iscariota.

« Il corpo dei preti armati ha proprio bisogno di uno come te. »

« Come…? »

« Okay, ora ascoltami. Devi resistere un’altra notte, solo un’altra notte. Devo smuovere un po’ di cose, parlare con qualcuno… ma ti assicuro che entro domani sarai libero. Ti verrò a prendere personalmente, e sarai reclutato come discepolo incondizionato di Dio. »

« Io non… non capisco. »

« Non serve che tu capisca ora. Mi raccomando, resisti, non morire. »

Anderson trascinava con sé una curiosa ed invalicabile aura di mistero. Terrificante per alcuni, bizzarramente attraente per altri: Izaya era tra quelli. Si sentì pervaso da una gioia embrionale che raramente il suo animo in pena aveva provato, come quella di un cucciolo da canile in strepitante attesa di essere adottato.
Quella notte non chiuse occhio, perché le immagini ed i sogni della sua nuova vita al servizio di Cristo gli affollavano la mente, schiamazzando vivaci, impedendogli anche solo di pensare ad addormentarsi.
Il giorno dopo, alle prime luci dell’alba – potevano essere al massimo le sei del mattino –, il giovane scattò in piedi come un soldato richiamato all’attenti, davanti alle sbarre, afferrandole con veemenza. Guardò oltre di esse, verso la libertà, con un sorriso tanto largo da raggiungere i lobi coi vertici.
E attese. Attese fedelmente fino alle sette. E poi alle otto, alle nove, alle dieci. A mezzogiorno, alle due, alle quattro. E più le ore passavano più il sorriso si affievoliva e la speranza lo abbandonava.
Anderson gli aveva mentito? L’aveva illuso di avere grandi piani per lui, per poi lavarsi le mani di tanto incomodo?
Quando la certezza dell’ennesimo fallimento si concretizzò, Izaya si rannicchiò contro il muro, portandosi le gambe al petto, piagnucolando. Singhiozzò così tanto che il tempo si distorse, e ne perse la cognizione. Quando smise, quando sentì quello stridio di chiavi contro la serratura, era già buio.

« Ehi, tu, piantala di frignare. Puoi uscire, sei libero. »

La guardia lo afferrò e lo scortò fuori come se non avesse alcuna voglia di essere lì; ed effettivamente era proprio così. Era sera, il turno era quasi finito, e quello stupido ragazzino non aveva alcuna importanza per lui, né ne nutriva il minimo rispetto.
Una volta fuori, Izaya si ritrovò circondato da un cielo grigio senza stelle. Privato delle manette, venne immediatamente raggiungo dal grosso colosso occhialuto, che era curiosamente accompagnato da due piccolette in abitini clericali.

« Scusa, ho fatto più tardi del previsto. Queste sono le tue nuove sorelle, Heinkel e Yumiko. Ci tenevano a conoscerti, quindi le ho portate con me. »

Ora non solo aveva un papà, ma anche delle sorelline. Delle lacrime non vi fu più nemmeno l’ombra, ed il segno bagnato del loro passaggio sparì come per magia: Izaya era al settimo cielo.

« Ciao, bimbe. Mi chiamo Izaya. » il nuovo arrivato si avvicinò alle due, tendendo loro la mano. Sperava di toccarle, di sentire la loro voce, come se dubitasse che esistessero davvero e che fossero lì per lui.
Ahimè, ciò che tuttavia ottenne in rimando fu esattamente il contrario: le due aspiranti suore evitarono ogni contatto, fisico e visivo, rintanandosi dietro Anderson e stringendogli la tunica coi piccoli pugnetti.

« A piccoli passi, Izaya. Avrete tempo per socializzare. Forza, ora seguimi. Ti porto a casa. »

Grazie, Dio”, pensò. “La tua misericordia è grande. Grazie per avermi dato finalmente una casa”.

L’Iscariota era la sua nuova famiglia.

Izaya, otto anni alla dichiarazione di guerra.

 

–––––
 

Leone non aveva mai sopportato gli inutili schiamazzi. La confusione lo irritava, l’assenza di quiete gli impediva di formulare pensieri e tenere la mente lucida; e lui, che era un soldato scelto, fedelissimo del grande capo nonché sua personale guardia del corpo, proprio non poteva permetterselo.
Ormai non era più un pallido undicenne che faticava a riprodurre le melodie di Wagner. Ora era un uomo fatto e finito: un ventenne con l’algidismo nel cuore ed il totale vuoto della sfera sentimentale negli occhi.
Difficile credere che lui fosse l’unica creatura umana in quella vampirica combriccola. Eppure, era la verità: Leone li aveva subiti come compagni, ma non nutriva alcuna stima di loro; per nessuno di loro. Non meritavano il loro posto nel Letzte Batallion, non meritavano di stare al cospetto di colui che aveva reso possibile la loro infima esistenza.
Erano esseri disonorevoli, miserabili traditori della loro umanità. Vampiri. Vampiri volontari, vampiri che avevano scelto di essere vampiri.
Uomini che diventavano mostri senza vergogna. Il fetore di quegli aborti mancati impregnava ogni stanza, e Leone ne aveva il voltastomaco.
Ma lui non era lì per loro. Loro erano… moscerini. Piccoli e fastidiosi insetti che gli svolazzavano ad un sospiro dalla punta del naso; tipici disturbatori a cui si rivolgono manate seccate durante una cena a lume di candela, mentre cerchi di concentrarti sul tuo partner.
Ecco, loro erano i guastafeste della sua costante cena a tu per tu. Ed il partner era il Maggiore.
Il Maggiore era l’unico essere vivente al mondo per cui Leone concepisse illimitato ed inviolato rispetto. Il suo magnifico intelletto l’aveva affascinato dal primo momento, quando era stato a casa sua in Brasile, a suonare Das Rheingold. E da allora, non se l’era più tolto dalla testa: l’aveva seguito ed amato fino a consumarsene. Un’adorazione perversa, platonica, idilliaca, che identificava in quell’uomo sovrappeso una sorta di aura divinatoria — pur mantenendo la sua impeccabile umanità, tuttavia.
E questo lo faceva eccitare. Il Maggiore era deliziosamente vulnerabile, fragile ed indifeso come qualsiasi essere umano. No, lui non aveva ceduto alla gustosa tentazione di conquistare l’immortalità, non si era lasciato ammaliare dalle patetiche promesse di forza sovrumana e strambe abilità ultrasensoriali. Lui era rimasto coi piedi per terra, perché la sua vera arma era una mente da fine stratega; loro due erano esseri umani, fatti di carne, sangue, organi e muscoli.
Ed ecco perché erano predestinati. Ecco perché erano anime affini. Ecco perché Leone non avrebbe potuto sottomettersi ad altri al di fuori di lui.
Lui, lui, sempre lui. Aveva sottoposto il proprio corpo a massacranti addestramenti al fine di affinare le tecniche necessarie ad essere un eccellente guardaspalle, per lui. Aveva accettato di buon grado un destino che con estrema plausibilità lo vedeva morto, per lui. Aveva ucciso, ed avrebbe continuato a farlo, per lui. Un uomo di cui non sapeva nulla: né il nome, né l’età, né tanto meno i retroscena della sua vita, ma che, paradossalmente, sentiva di conoscere in ogni minimo dettaglio, meglio di sé stesso.
E quel giorno… quel giorno, finalmente, Leone avrebbe chiuso i conti col passato. Quel giorno, avrebbe ripulito l’armadio dai propri scheletri.
Quel giorno, la sua anima diventava proprietà ufficiale del Maggiore.

« Sei emozionato, eh?~ » il Deus Ex Machina era fin troppo affollato, per essere un enorme dirigibile. Come al solito, il giovane crucco dal caschetto plumbeo – un taglio che gli incorniciava perfettamente il viso dai tratti gentili, tutto al contrario della sua indole artica: un volto così muliebre da stentare a credere che fosse quello di uomo – venne importunato, stavolta dal più giovane, almeno all’apparenza, dei suoi sgraditissimi colleghi. Il maresciallo Schrödinger gli gironzolò attorno, un passettino alla volta: le sue orecchie feline si mossero giocosamente, ed il suo volto fanciullesco si ornò di un ghigno indisponente. « Incontrerai tuo padre! »

« Non rivolgermi la parola, batterio. »

« Non essere cattivo con me, Leo! Guarda che non sto più nella pelle per te! Oggi, se sarai fortunato, il Maggiore si accorgerà finalmente quanto sei innamorato di lui! Aw~! Così dolce! »

Il tempo della sopportazione delle chiacchiere era finito già da un pezzo, ancor prima di cominciare. Per cui, Leone non ebbe né indugi né ripensamenti quando estrasse una lama Wasp dal retro dei pantaloni, infilzando il collo immacolato del ragazzo micio. Quello però non era un normale pugnale: quella era un’arma letale per esecutori professionisti. Una chicca rara, che celava un piccolo trucchetto: una volta pugnalato l’avversario con quell’arnese, quest’ultimo iniettava aria compressa nella ferita, distruggendo i tessuti dall’interno causa pressione. Va da sé che non solo quella gola venne significativamente lacerata, ma l’involucro di pelle che la ricopriva si squarciò, e saltò in aria ogni singolo legamento nervoso e muscolare.
Il corpicino minuto di Schrödinger non ebbe scampo, e tonfò al suolo stecchito. O meglio, aveva le sembianze di un morto, ma Leone sapeva bene che non lo era davvero. Quei vomitevoli scherzi della natura erano duri a morire, ahimè.

« L’avevo detto che era una cattiva idea. Lo sappiamo, ormai: col mangiatore di crauti non si può nemmeno scherzare un po’! »

« Tu sei lesionato nel cervello! Schrödie…? Stai bene? »

Ecco il resto dell’allegra comitiva. Schrödinger raramente agiva da solo quando c’era da dar noia al prossimo; piuttosto, sarebbe più corretto dire che dietro ogni molestia ai danni degli affiliati dei Millenium, si nascondeva una spumeggiante triplice coalizione.
Un terzetto intollerabile; formato forse dagli individui più detestabili per Leone.
Il primo ad intervenire a seguito del folle gesto fu Caspian. O così diceva di chiamarsi, ma chissà qual era la verità: quei bastardi si mentivano l’un l’altro guardandosi dritti negli occhi; si baciavano le labbra per poi spararsi in testa. Anche avesse mentito, non sarebbe stata una sorpresa.
Caspian era un tipo sbarazzino, sempre sovraccarico di un’energia la cui origine era inspiegabile per tutti. Il suo era un grado militare di scarso livello, poco più di un soldato semplice, ma trovava comunque il modo di far sentire sempre la propria presenza. Un malpelo tutto lentigginoso, vestito come la versione pederasta e caricaturale del conte Dracula. Vendersi l’anima per un paio di canini assetati di sangue non l’aveva reso poi così affascinante come sperava.
E poi c’era Schneewittchen, quella che aveva raccolto dal pavimento ciò che ne rimaneva del malcapitato Schrödinger. O almeno, così aveva richiesto di essere appellata; quella favola le era sempre piaciuta tanto: la dolce principessa ed i suoi adorabili amichetti affetti da nanismo!
Peccato che lei non avesse assolutamente nulla di Biancaneve. I capelli neri originali erano stati rimpiazzati da una pioggia di crini ramati; non cantava per incantare le tenere creaturine del bosco, e non aveva né nani né principi.
E, soprattutto, Biancaneve non era parte del regime nazionalsocialista, né un maresciallo; e né tanto meno un vampiro artificiale da usare in guerra.

« Se l’è cercata. Ora levatevi dai piedi, tutti e tre. Non ho voglia di giocare con voi mocciosi. »

« Ahi, ahi… cos’è questo baccano? »

Leone riconobbe il sibilo del serpente. Era come il fischio del padrone: lui, da buon fido segugio, venne attratto dal richiamo, e tutto il resto sparì. Ignorò deliberatamente i ringhi stizzosi che la rossa gli stava rivolgendo, così come si infischiò della pozza ematica del catboy diffusasi ai suoi piedi.

« Maggiore. » il giovane scattò sull’attenti. « Niente di preoccupante. Piccola disputa coi sottoposti. »

« Devi cercare di rimanere concentrato, ragazzo mio. Questa è un’occasione che non ti concederò una seconda volta, lo sai. » il Maggiore assottigliò le ambre incastonate tra le sue palpebre, mantenendo indisturbatamente il malevolo sogghigno. Portò poi una mano paffuta alle guance del suo devoto, smacchiandogliele dal sangue di Schrödinger zampillato su quelle gote pallide.
Si sporcò i guanti color canuto. La cosa non lo disturbò, anzi. Il contrasto del bianco vergine col fluido cremisi lo faceva impazzire. « Siamo quasi arrivati. Sii pronto. »
Sarebbe stato pronto, altroché. Sarebbe stato, per sempre, tutto ciò che il Maggiore gli avrebbe chiesto di essere.
Il dirigibile si svuotò dei principali membri del Letzte Batallion dopo poco. Il Maggiore marciava a passo indolente, pigro, conforme alla sua stazza; dietro di lui, oltre a Leone, altri due balordi individui.
Da un lato, il Doc: la mano che operava per soddisfare ogni capriccio del comandante supremo. Quell’esercito di vampiri artificiali l’aveva creato lui di sana pianta, e chissà quanti altri esperimenti da scienziato pazzo erano passati sotto i suoi ferri, a scapito del grande sperpero di vite umane di cui era fautore.
Tanto per cambiare, Leone lo detestava; ma più visceralmente rispetto agli altri. Tolto che lo riteneva nient’altro che una casalinga isterica, sia nell’aspetto che nel portamento, egli sprigionava lealtà fasulla da ogni poro. A lui il Maggiore faceva comodo, altroché! Gli permetteva liberamente di praticare ogni genere di tortura chirurgica su ogni genere di creatura, senza impedimenti o restrizioni. Ed ecco spiegato il motivo di tanta adorazione: null’altro che convenienza. Leone ne era disgustato.
Dall’altra parte, invece, il Capitano. Più di due metri d’uomo – uomo, non umano – dal volto parzialmente coperto, da cui spiccavano solo un paio di sgargianti occhi vermigli. Lui sì che attraeva a sé rispetto e fiducia, persino da parte del più giovane collega tedesco: il Capitano non aveva mai parlato. Mai. Mai detta una singola parola. Lui non chiacchierava, né si lamentava, né spettegolava. Lui eseguiva ciecamente senza discussioni.
In ogni caso, bastò guardarsi poco attorno per cogliere la grandezza del Maggiore — e non intendo certo quella fisica. Tutto ciò che ne era rimasto del Nazismo era nelle sue mani, e solo uno sciocco avrebbe potuto dubitare del suo operato ineccepibile.
Uno sciocco come il Colonnello.

« Voi, stupidi… » era troppo decrepito per quel mestiere. La divisa, ormai, gli calzava semplicemente ridicola addosso; il suo corpo era deperito, il suo volto scavato e logorato dalla vecchiaia, ed i pochi capelli che gli erano rimasti erano scoloriti e privi della bellezza di un tempo. Si reggeva in piedi per miracolo. Forse avrebbe dovuto fare largo alla gioventù…
… Ah, al diavolo. Quel ragazzino obeso aveva l’aria di un completo psicopatico, e lui, in qualità di alto ufficiale, doveva intervenire; oltre che essere messo al corrente delle insanie che gli passavano per la testa. « Che cosa state combinando?! »

« Non posso assolutamente risponderle, Colonnello. Si tratta di ordini segreti del nostro defunto Führer. »

« Non darti tante arie solo perché ti chiamano Zugführer! » mosso dalla giusta dose di violenza ed una spruzzata di invidia sociale, il Colonnello non si trattenne: colpì il grassone con un cazzotto tanto brutale da asfaltarlo al suolo. E poi, non contento, usò il suo ormai intramontabile bastone da passeggio per percuoterlo ancora, martirizzando quel corpo panciuto e sfogando su di esso le frustrazioni di un’intera carriera. « Perché non trasformi anche noi in vampiri, eh?! Perché mai?! Rispondimi! Rispondimi, mostro! »

Avrebbe potuto continuare all’infinito. Ma l’infinito non esiste, ed il suo momento di gloria terminò in fretta; più precisamente, nel momento esatto in cui un proiettile perforante ed esplosivo, rapido come una saetta, si conficcò nel pregiatissimo legno del bastone e ridusse quella frusta improvvisata in mille pezzi.
Intontito da quanto accadutogli, il Colonnello si guardò intorno, alla ricerca del responsabile. Nonostante tutti i vari orrori a cui erano state sottoposte, le sue pupille stanche riuscivano ancora a sgranarsi di puro stupore. Gli accadde anche quella volta.

« Leone…? »

« È meglio che ti fermi, Colonnello. Se esageri con gli scherzi, ti faccio fuori. »

« Maledetto rifiuto… dopo tutto quello che ho fatto per te! Dopo averti accolto nella mia casa! Dopo che ti ho cresciuto come un figlio! Quali diavolo sono i vostri obiettivi?! Che cosa pensate di farci con un esercito di vampiri armati?! »

Fu allora che il Maggiore si risollevò decorosamente dalla botta ricevuta. E quest’ultima non andò nemmeno vicina a scalfire quello sguardo infernale, le cui pupille dorate crocifissero il Colonnello con l’intensità di mille aghi affilati.

« Per assaporare all’infinito il dolce piacere della guerra. Per la guerra che stiamo vivendo e per quella che verrà. »

Diceva tutto senza in realtà dire nulla, e solo gli spiriti eletti avevano la possibilità di comprendere parole tanto agghiaccianti.
Leone, umilmente, si sentiva il primo tra essi, e lo confermò anche quando il Deus ripartì più pesante di prima, caricato degli ultimi superstiti non vampirizzati del Regime.

« Mi dispiace di essere intervenuto, signore. » il tono pacato con cui s’esprimeva e la dolcezza con cui in quel momento stava tamponando il naso gocciolante sangue del Maggiore, contrastava nettamente la sua solita verve iraconda e coercitiva. « Non potevo sopportare che un individuo meschino come lui si prendesse certe libertà. »

« Lascia fare, mio caro Leone… » soffiò maligno il corpulento Zugführer, mentre le narici gli venivano man mano riempite d’ovatta per contenere l’emorragia. « Avrai tempo e modo di mostrargli finalmente chi sei. E ci esenterai da questa spina nel fianco. »

Il filo del passato stava per essere reciso ed il ponte del futuro attraversato. Non si torna più indietro, Leone.
 

Leone, quattordici ore alla dichiarazione di guerra.

 

–––––
 

Vivere per un quarto di secolo le era bastato per arrivare ad una conclusione tristemente definitiva: gli uomini non le piacevano. O almeno, non quelli comuni.
Semplicemente, non la capivano. Il loro desiderio sessuale era più forte di qualsiasi altra cosa: trattasi di maschi svogliati, senza nessuna intenzione di accasarsi né di pensare all’eventualità di un matrimonio, o di una famiglia.
Scopare, fottere; incontrare qualcuna ed usarne il frutto proibito per sborrare. La loro vita si riduceva a quello e nient’altro. E Alexis, la cui fede in Cristo le primeggiava nel cuore, fungeva da deterrente per quello specifico esemplare di virilità: se la davano a gambe non appena vedevano sfumarsi tra le dita un’occasione ghiotta di fornicazione come sabbia al vento.
E se da un lato era una gran fortuna, dall’altro era un dolore atroce: Dio le aveva insegnato l’incommensurabile valore della capanna, della Vergine benedetta dalla gravidanza. Ed il suo corpo, che da tempo immemore aveva assimilato quei concetti, scalpitava alla smaniosa ricerca di una gestazione. Ma senza nozze non poteva permettersi rapporti; se non aveva rapporti, non poteva certo sperare di rimanere incinta così, in uno schiocco di dita — quello era un privilegio concesso dal Signore solo una volta in tempi remotissimi, ed anche solo auspicare a ricevere lo stesso miracolo conferito alla Madonna sarebbe stato profondamente blasfemo.
Ed ecco come si era ritrovata alla ricerca di un appuntamento, e di un uomo dai solidi principi cristiani a cui affidarsi. Insomma, doveva pur esserci qualcuno disposto a sposarla: era giovane, bellissima, una casta donna d’altri tempi. Il suo unico difetto, era che la sua esasperata religiosità l’avrebbe costretta ad un connubio matrimoniale infelice, ad un’eternità grama.
Perché l’amore che voleva davvero non poteva averlo. Si sarebbe prima accontentata e poi rassegnata: Padre Anderson, l’unico uomo che era stato in grado di farla palpitare di desiderio, era largamente fuori dalla sua portata.
Nonostante la perfezione del sacro pastore fosse notoriamente inarrivabile ed ineguagliabile, Alexis si convinse di dare qualche opportunità qui e là.

« Alexis, devo proprio dirtelo… sei la donna più bella che abbia mai visto. E non sei solo bella… sei anche spiritosa, intelligente, sensibile. »

« Ti ringrazio. Sei molto dolce. » un sorriso timido le incurvò le labbra, ed il suo sguardo verdeggiante le si allineò ai piedi. Non era sicura che fosse sincero: chissà con quante altre aveva sviolinato a quel modo prima di lei. Ciononostante, quel tipo, tale Arthur, era il meglio che era riuscita a pescare dalla melma londinese dai venticinque ai trentadue: un ragazzo perbene, di buona famiglia. Certo, era di statura mediamente ridotta e disponeva una dentatura abbastanza irregolare, ma tutto sommato non era poi così sgradevole.

« Sono stato davvero bene. Posso darti uno strappo a casa? »

« Certo, perché no. »

Il viaggio in auto rasentò l’oscenità. Arthur cominciò a sfrecciare con una McLaren sportiva di ultima generazione; oltre ad aver pagato una cena profumata, ora si pavoneggiava con la sua stupida auto di lusso, senza sapere di non avere alcun effetto su una donna come Alexis. Una cristiana cattolica aborrisce lo sperpero di denaro, l’edonismo spicciolo, l’ostentazione di ricchezza che è solo materiale e non spirituale.
Ancor più quando, invece di stabilirsi a casa sua come preannunciato, la destinazione deviò a favore di un’isolata strada secondaria.

« Dove vai…? » domandò la donna, disorientata, mentre il veicolo si accostava sulla destra. Intorno a loro, il nulla più totale.
Al posto di una risposta concreta, ottenne una mano ossuta e mingherlina a sfiorarle il ginocchio. Poi, quella sgradita carezza si trasformò in una presa, che le si artigliò alle cosce, risalendone la lunghezza, infischiandosi dell’ostacolo dato dalla gonna. Ma fu quando ebbe raggiunto il centro pulsante della donna, quando un paio di dita curiose tentarono di insinuarsi sotto l’elastico delle mutande, che Alexis ebbe la forza per scollarselo definitivamente di dosso, spintonandolo nuovamente al sedile guidatore. « Ma che ti salta in mente?! Ti ha dato di volta il cervello? »

« Dai, non fare la preziosa… non dirmi che facevi sul serio con quell’assurdità di voler rimanere vergine fino al matrimonio? »

« Certo che facevo sul serio! Che razza di uomo sei?! Dovresti almeno chiedermi scusa! »

« Hah! Solo per aver pensato a questa stronzata, le scuse dovresti farmele tu. Guarda, posso farti passare la voglia di fare la santarellina in un secondo. Vuoi sentire quanto è duro il mio cazzo? »

Francamente, no. Non voleva sentirlo. Ripugnata e furiosa, si sganciò la cintura e saltò fuori dalla macchina, cominciando ad avanzare incalzante verso… be’, casa sua, anche se non sapeva bene dov’è che si stesse dirigendo. Quello stronzo l’aveva portata in mezzo al nulla, e ora le toccava brancolare nel buio cercando di orientarsi al meglio delle sue capacità.

« Ehi! Dove credi di andare?! Non la sai la strada di casa tua! Dai, salta di nuovo su! »

« Preferisco perdermi per sempre che stare con te un minuto di più. »

« Tch… fottiti, allora, zoccola che non sei altro. Spero che ti stuprino a sangue mentre trovi la via. »

L’orgoglio maschile era stato ferito, e gli effetti furono prevedibilmente nefasti. Arthur la mollò lì, non solo esprimendosi in orribili manifestazioni della sua frustrazione, ma sgasandole anche in faccia coi fumi tossici delle sue lussuosissime quattro ruote. Si sa: più grande è la macchina, più piccolo è l’uccello — e, diciamocelo, ce n’eravamo fatti tutti un’idea.
Tuttavia, ciò non confortò Alexis, anzi. Cominciava davvero a credere che Dio si facesse beffe di lei: non solo seminava sul suo cammino solo uomini estremamente disagiati, ma le aveva sottratto anche l’unico che lei amava davvero, facendolo suo messaggero in Terra.
Qualche lacrima cominciò a rigarle il viso leggermente imbrunito dal belletto. Il pianto la distrasse, ed il suo andazzo divenne sempre più confuso ed insensato: ben presto le strade cominciarono a diventare tutte uguali, labirintiche, senza apparente via di fuga.
La notte la inghiottì, la paura cominciò a serpeggiarle nello stomaco aggrovigliato e contuso… specialmente quando avvertì un paio d’occhi inchiodarlesi addosso insistentemente. Se ne sentì perforata prima ancora di vederli; voltandosi un paio di volte, tuttavia, non ottenne riscontro. No, non c’era niente alle sue spalle… forse la mente le giocava brutti scherzi.
Era vero, niente di oscuro o tenebroso dietro di lei.
Ma davanti sì.

« Dio… » com’è facile credere, preferiva evitare di nominare Iddio invano. Ma con lo spavento che si prese quando quella longilinea figura in rosso le si parò davanti come una presenza inquietante, proprio non riuscì a trattenerlo. Le sfuggì dalle labbra a seguito di un rumoroso sussulto. « … Posso aiutarla? »

« Forse sono io che dovrei aiutare lei, miss. »

« Prego…? »

« Una giovane in pena che vaga tutta sola… alla mercé di qualunque malintenzionato con cattive intenzioni… » qui il volto in penombra dello sconosciuto parve ornarsi e brillare con un ghigno perverso. Alexis notò la particolarità dei suoi canini: appuntiti e lucenti come spilli d’argento. « … Cosa le è successo, mia cara? Lei piange, ed io mi struggo. »

« Questo non è affare che la riguardi. » l’ennesimo maschio con il durello? No, grazie. Non ne aveva proprio bisogno. Le sue iridi ancor punte di lacrime si incupirono, deformandole il volto in un’espressione stizzita. « Mi lasci passare, ora. »

« Hai il ciclo, vero? »

Quella domanda proprio non se l’aspettava, così come non si aspettava il repentino mutamento d’espressione e tonalità di voce del losco individuo. Se dapprima aveva tentato – con risultati oltremodo scadenti – di ostentare galanteria ed ingannevoli lusinghe, egli ora aveva assunto una sorta di aura famelica, oltre ad aver omesso il lei. Difficile da spiegare. Difficile da credere, specialmente quando dall’oscurità quell’essere avanzò verso di lei, rivelando un paio di rubini scarlatti al posto degli occhi.

« … Come dice…? » Alexis badò bene ad abbassare la cresta. Più lui le si accostava, più lei indietreggiava; delle perle di lucido sudore cominciarono ad addobbarle la fronte.
Sì, effettivamente in quel momento aveva delle grumose perdite sanguinolente tra le gambe. Ma lui come faceva a saperlo?

« L’odore di una donna col ciclo lo riconoscerei tra mille… oh, sì… dolce, squisito mestruo. È un profumo inebriante. Hm… mi eccita. E mi fa venire tanta sete. »

Un completo psicopatico. Era evidente che la giovane non fosse più al sicuro: l’augurio di stupro fattole dal buon Arthur, Dio lo fulmini, stava via via sempre più concretizzandosi.
Era il momento di filarsela senza ulteriori indugi. Alexis cominciò a correre, il più in fretta che poté: le gambe si affannarono da sole, con frenesia. Il cuore le si inceppò in gola, l’adrenalina le pompò in vena e sentì quasi di poter scoppiare.
Ma non bastò. Quel tale le si parò davanti come teletrasportatosi, e lei gli finì letteralmente tra le braccia. Egli la afferrò per un polso e per un fianco, e se la tenne stretta: la sua presa era ferrea come una morsa, come se fosse dotato di una forza non appartenente al genere umano.
Le sfiorò il volto con la punta del naso, annusandola come cane da tartufo. Percorse la linea della mascella con l’umida lingua, lasciando dietro di sé una scia di bava che la tratteggiò fino alla tempia.

« Hm… deliziosa… » mormorò, assaporando il suo sudore, beandosi delle sue paure. « Sei perfetta per me. »

Dio abbia in gloria e custodisca per sempre l’anima disperata di quella povera donna. Alexis non ebbe modo di divincolarsi: non capì esattamente cosa le accadde, ma un dolore tormentoso le infiammò il collo. Come uno squarcio. Come un morso furente. Come un’eterna dannazione.
Strillò fino a lacerarsi le corde vocali. Le sue pupille divennero vitree, svuotate delle loro sfumature smeraldine. Ed in quel momento, senza accorgersene, Alexis morì.
E venne al mondo di nuovo.


Alexis, la metamorfosi.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** The Betrayal's Genesis ***


« Milady, per quanto concerne il discorso vampiri artificiali… credo di aver trovato la soluzione. »

Sir Integral Fairbrook Wingates Hellsing era vittima dei suoi pensieri da un po’ di tempo. Nella sua vita si era ritrovata ad affrontare situazioni di difficoltà continuamente, senza mai permettersi il lusso di inerzia. Del resto, stiamo parlando del capo supremo dell’Organizzazione Hellsing: padrona del più longevo dei vampiri, protettrice del Regno Unito e della Chiesa Anglicana, cane della Regina. Ed essere tutte quelle cose comportava una serie apparentemente infinita di rischi e responsabilità.
Fino ad allora, non aveva avuto alcun problema a gestire sé stessa e gli altri; anzi, possiamo tranquillamente dire che fosse un talento naturale nell’impartire ordini con freddezza e carisma. Tuttavia, ora le cose si complicavano vertiginosamente, senza che riuscisse più a controllarle. Da quando in qua quei mostri avevano assunto la capacità di autogenerarsi?
Lady Hellsing aveva a che fare col mondo dei vampiri da tutta la vita, e credeva di saperne abbastanza da poter affermare fuori ogni ragionevole dubbio che il loro unico metodo di riproduzione fossero i morsi, e che certamente non prolificavano in laboratorio.
E ora, invece, spuntavano fuori orde di artefatti, cavie di chissà quale mente strampalata. Forse, addirittura più pericolosi della loro già sufficientemente temibile versione congenita.
Va da sé che l’associazione anti-vampiro per eccellenza si ritrovò improvvisamente più al centro del mirino del solito. Integra, che aveva sempre conosciuto i suoi limiti, aveva ponderato a lungo sul da farsi, arrivando alla spiacevole conclusione di aver bisogno di più personale. Più uomini, più armi, più roccaforti, più protezione; era coinvolta in un pasticcio grosso, in cui il solo Alucard, nonostante la sua forza sovrumana, si dimostrava insufficiente.

« Ti ascolto, Walter. »

L’odore pungente di sigaro cubano impregnò lo studio della Lady di ferro. Era un odore ricorrente, un aroma che pizzicava le narici, raramente accostabile ad una donna. Ma lei, ovviamente, non era una donna qualsiasi.
Vortici di fumo denso si librarono nell’atmosfera. La combustione di quel forte tabacco sibilava ininterrotta, e scaglie grige di cenere piovvero sulla scrivania d’ebano, senza tuttavia rovinarla, poiché sir Integra tendeva ad esprimere la sua femminilità nella cura a dir poco maniacale dei suoi effetti personali.

« Mi sono permesso di assumere dei mercenari professionisti. »

Walter C. Dornez era un segugio fedele, la figura che più di tutte si avvicinava a quella di un padre, per Integra. Leale, ligio, sempre obbediente; di un’anzianità che, solo a vederla, attrae a sé sapienza e sagacia. Proprio tutto ciò che un maggiordomo di tutto rispetto dovrebbe essere.
Nonostante la sua impeccabile abilità ed esperienza in tal senso, tuttavia, l’unica superstite degli Hellsing ebbe da storcere il naso a quell’audace affermazione. Per la prima volta, dubitò dell’effettivo beneficio di una sua scelta.

« Mercenari? E che ce ne facciamo? Non so nemmeno se possiamo fidarci, quelli lavorano solo per denaro. »

« Non ho assoldato dei semplici mercenari, ma veri e propri professionisti. Posso assicurarle che finché vengono pagati e sono sotto contratto, i Wild Geese non tradiscono mai. In questo momento così delicato abbiamo bisogno di quanti più uomini possibile, Milady. »

« Hm. » la donna parve concedersi del tempo per riflettere sul da farsi: con lucidità ed autorità, senza mai dimostrarsi preoccupata. Non una goccia di sudore lungo la sua fronte, non una ruga di tensione scolpita su quel volto olivastro. Gli occhiali tondi le adornavano il setto nasale, riflettendo i colori della notte, ricoprendo per buona parte un paio di inflessibili iridi delle stesse sfumature. « Va bene, faremo come dici. Ma dovrò valutarli, prima. »

Walter capì le esigenze della sua grande signora, comprendendone la perspicacia: in un’Istituzione tanto prestigiosa non potevano certo finirci cani e porci, senza la minima supervisione.
Ma i Wild Geese non era gente qualunque. Forse non esattamente i più brillanti soldati della vecchia Europa, né tanto meno i più benpensanti, o raffinati, o significativamente acculturati.
Ma le palle le avevano, e tanto bastava per il loro estremamente testosteronico mestiere.

« Allora, capo? Si può sapere di che si tratta? Da quando mettiamo piede in questi covi di bastardi borghesi con la puzza sotto il naso? »

« E sono pure inglesi! Puah! Mi viene proprio voglia di sputare sul loro sudicio tappeto ricamato! »

« Sì, giusto! »

I loro ragazzi sapevano essere davvero selvaggi, quando ci si mettevano d’impegno: Isaac e Pip lo sapevano bene. Il compito più arduo, in quella situazione, sarebbe stato tenerli a bada: sedare potenziali rivolte, sgrezzare un po’ – per quanto possibile – i loro impervi istinti.
Niente di più difficile, dato che i primi comunisti incazzati erano loro due.

« Calma, ragazzi, non c’è bisogno di agitarsi. » Philippe era il più grande, oltre che l’unico Bernadotte di sangue. Ci teneva molto, sì: Wild Geese aveva l’impronta primordiale della sua famiglia, come un marchio di fabbrica. Dunque, ritenne necessario prendere subito le redini della questione, prima che fosse troppo tardi. « L’affare sembra buono, ascoltiamo quello che hanno da dire. »

« Perché dovremmo essere il passatempo di qualche riccone annoiato? »

« No, non sarà così. » Dato che il pugno di ferro – per così dire – di Pip si era rivelato inconcludente, toccò ad Isaac provare a ristabilire l’ordine. Lui aveva qualche anno in meno rispetto al suo fratellastro, ma di cose, nella vita, ne aveva viste ugualmente. E forse, nonostante non fosse frutto diretto di sborrate Bernadottiane, possedeva una maggiore caparbietà: insomma, sapeva farsi ascoltare. « La lettera che ci hanno spedito è stata molto chiara e diretta. Non so in che altro modo dirvelo, quindi andrò dritto al sodo: a quanto pare, siamo stati chiamati per annientare dei mostri. »

La reazione generale fu tanto prevedibile quanto paradossale, date le circostanze. Dapprima, un gelido silenzio calò tra i presenti, che si scambiarono occhiate di attonita perplessità. Poi, un riso di gruppo scacciò via il malumore e le preoccupazioni: sì, certo, i mostri! Cosa avrebbero dovuto fare, quindi? Cacciare le streghe o i fantasmi?!

« Ah-ah, certo! Questa sì che è bella, capo. Dai, raccontane un’altra. »

« Vi sta dicendo la verità. » la voce austera di una donna mise fine a quel gran baccano, intrufolandosi fra gli schiamazzi con somma eleganza. Integra Hellsing era l’assoluta regina di quel luogo preda di eventi e creature sovrannaturali, e tutti lo capirono al volo con un semplice sguardo. « I vostri nemici sono vampiri immortali che succhiano sangue umano. La nostra missione è conficcare dei pali di legno nel loro cuore, portare aglio e acqua santa, decapitarli, bruciarli, e spargere le loro ceneri ad un crocevia. Leggete Bram Stoker per saperne di più. »

Anche ironica e pungente, la glaciale Miss Hellsing.
E chi l’avrebbe mai detto. Del resto, incutere timore era ciò che le riusciva meglio; questo, comunque, non impedì al giovane Isaac di adoperare un po’ di sane buone maniere. Era pur sempre un romanticissimo provenzano.

« Miss Hellsing, anzitutto la ringrazio per essersi affidata a noi. Io e mio fratello saremo lieti di poterle dare una mano, qualsiasi sia la mansione. »

« Quindi se ti chiedessi di lustrarmi le scarpe lo faresti senza battere ciglio? O di pulirmi il cesso, magari? » Integra si mostrò irritata dalla galanteria altrui, e da quel noiosissimo accento francese da ostriche e champagne. Quel tipo non era molto più di uno scarto puzzolente, eppure sembrava crogiolarsi in un atteggiamento infighettito che non gli apparteneva. Isaac, dal canto suo, che stava solo cercando di essere educato in presenza di una bella e potente signora come lei, si sentì piccolo e merdoso come uno scarafaggio. « Credevo di aver assunto dei mercenari, non degli sguatteri. »

« No, no, certo, ha ragione. Devo essermi espresso male. »

« Bando alle ciance. Ciò che davvero mi importa, è che voi siate pronti a qualsiasi evenienza, e che siate preparati anche contro esseri non facenti parte di questo mondo. »

« Senta, cara signora, io ho la netta sensazione che lei ci stia pigliando per il culo. » una voce si levò, aspra e polemica, scura e roca come solo quella di un uomo incazzato poteva essere. Era evidente che i vari membri del Wild Geese non avevano ancora assimilato perfettamente il senso della definizione “esseri non facenti parte di questo mondo”. « I vampiri non esistono, né nient’altro di queste sciocchezze. »

« Molto bene. Allora, guardate coi vostri stessi occhi. »

Un braccio slanciato e longilineo si tese in direzione opposta a quella degli scettici mercenari. Integra indicò qualcosa che, silenziosamente, s’era insinuata in stanza senza essere notata; né percepita, né vista e né sentita. Una figura umana — o presunta tale. Umanoide, perlomeno… anche se di umanità, tra i connotati di quel viso pallido e tra quei canini puntuti e sporgenti, c’era ben poco; inoltre, anche il suo sguardo ne era totalmente privo.
In ogni caso, almeno all’apparenza, sembrava una giovane donna. Una giovane donna a braccia conserte, evidentemente innervosita dalla presenza estranea, ed avente tutta l’aria di non voler essere lì.

« La donna che vedete lì piantata è un vostro nemico, un vampiro. Ora ce l’avete davanti. »

« Eh…? Ma come? Una ragazza così sarebbe un vampiro? »

« Pip… dai, lascia perdere. »

« No, aspetta, dico sul serio. » i moniti del suo fratellino non furono sufficienti: Pip abbandonò momentaneamente il suo ruolo di leadership condivisa. Mosso da una connaturata indiscrezione al pari di quella di un poppante, volle verificare a distanza ravvicinata quanto appena riferitogli: quindi, si accostò all’appena interpellata, approcciandola con cautela. « Ehm… non è che potresti… uh, non so, dimostrarci in qualche modo che sei davvero un vampiro? »

« Non sono qui per esibirmi come un fenomeno da baraccone. Non sono un giullare. »

« Coraggio, Alexis, fa’ vedere cosa sai fare. Sfogati pure. » non solo l’intervento di Integra non piacque affatto alla sua interlocutrice, ma ancor meno le piacque la sua successiva precisazione. « È un ordine. »

Alexis impazziva di rabbia all’idea di ricevere ordini da quegl’infimi. Da dei mostri e dai loro padroni; e, ancor peggio, da dei protestanti. Traditori di Cristo, sporchi rinnegatori della sacra Chiesa. Come mai avrebbe potuto portar loro la minima deferenza?
Il sangue le ribollì nelle vene, nonostante fosse ghiacciato dalla morte. Lei non era come quella sempliciotta nuova arrivata: l’agente Seras, la nuova conquista vergine di quel bastardo. Se quella lì doveva ad Alucard la salvezza, ebbene, Alexis non provava la minima gratitudine; per lui meno che per tutti gli altri.
Stupido figlio di puttana. Le aveva rovinato la vita.
Il sol pensiero le infiammò le pupille, dapprima di un verdognolo smorto, colorandole di un agghiacciante rosso cremisi. E poi, le bastò scoccare un dito indice contro il primo idiota che si ritrovò davanti: in quel caso, la malasorte toccò proprio a Pip Bernadotte. Quelle piccole sferzate erano come pugni infuocati: velocissimi, impercettibili, e per poco non gli spezzò tutte le ossa. Philippe, gocciolando sangue dal naso, si accasciò al pavimento, sviscerato delle forze.
Forse, ogni tanto, avrebbe dovuto dar retta ai consigli del piccoletto di casa.

« Quella è un mostro! Non riuscivo né a vederla né a sentirla! Mi ha fatto girare la testa con un dito! »

« Già, sì, davvero stupefacente. » ora che la draculina aveva canalizzato nel verso giusto le energie ostili che le avvelenavano l’anima, poteva dirsi acquietata; almeno, per il momento. I suoi occhi vispi tornarono a tinteggiarsi di verde. « Posso andare, ora? Questa mandria di imbecilli non è nemmeno divertente. »

« Accomodati. » Lady Hellsing la lasciò andare, perché, francamente, aveva fin troppe cose a cui pensare. Alexis era semplicemente un subordinato indisciplinato, niente che una donna come lei non potesse gestire. Tuttavia, in quel momento, la priorità era altrove. « Molto bene, devo dedurre che voi due siate gli addetti ai lavori di quest’allegra combriccola. » si riferì, naturalmente, ad Isaac e Pip, schierati in prima linea. Essi preferirono non esprimersi a parole, comunque, accontentandosi di un reciproco annuire. Francamente, avevano poca voglia di inimicarsi altre donne di quell’oscuro matriarcato. « Uno dei due si occuperà della mia personale salvaguardia; l’altro si muoverà di pari passo con Alucard. Non scomodatevi a domandarvi chi sia, perché tanto avrete celere risposta stando in nostra compagnia. Come preferite dividervi? »

« Be’, non saprei… forse potrei occuparmi io della sua protezione, signora. Isaac è molto in gamba quando si tratta di tenere le redini delle truppe. »

« Sì, sì, assolutamente. » in verità, qualsiasi ruolo fosse stato appioppato ad Isaac, lo avrebbe lasciato pressoché indifferente. Lo avrebbe accettato, ovviamente, senza perdersi in inutili capricci: del resto, l’importante era riempirsi le tasche, e, possibilmente, non rimanerci secco. Per cui, assecondò le disposizioni del Bernadotte più anziano senza l’ombra di ripensamenti.

« Hm, capisco… » li tenne in bilico per diversi secondi, senza pronunciarsi né in positivo né in negativo. Nell’attesa straziante, portò alle labbra uno dei suoi gustosi sigari al sapor di mare caraibico; lo accese, prendendosi il suo tempo, tornando a guardarli solo quando fu certa di poter sfoderare il suo sogghigno più indisponente. « Il fatto è che io non mi fido affatto del vostro giudizio. Quindi, farò esattamente l’opposto delle vostre volontà: treccia lunga e benda, tu affiancherai Alucard. Capellone, tu vieni con me. »

Un risvolto inaspettato, quantomeno: ai ragazzi di Wild Geese venne data dimostrazione, ancora una volta, dell’imprevedibilità di quella donna.
Ebbene, Isaac fu costretto a separarsi dal suo braccio destro: seguì Integra tacitamente, a capo chino, pregno d’un vago disagio. Lei lo condusse chissà dove, senza fiatare, e si fermò solo quando, agli estremi di un lungo corridoio, incrociò un’elegante silhouette a lui estranea.

« Lui è Walter. Ti spiegherà due o tre cosette che devi sapere su questo luogo. Ti darà anche delle armi. Dico bene, Walter? »

« Ovviamente, Milady. Farò un lavoro coi fiocchi. Giusto, signor…? »

« Isaac Bernadotte. Sì, comunque; giustissimo. »

« Splendido. Ti sarà insegnato a difendere il mio letto, sarà il tuo compito principale finché non ci crepi. Ormai i tempi sono cambiati, e la prudenza non è mai troppa. »

« Sissignora. »

« Piantala con le lecchinerie. Sono più giovane di te, chiamami Integra e basta. »

Ah, ma che diavolo. Quella lì era proprio incontentabile, eh?
 

Isaac, cinque mesi a Millenium.

 

–––––

 

La sete di guerra divenne incontenibile, tanto da essere ad un passo dallo scatenarsi.
Colui che muoveva i fili del gioco era pronto a giocare: era ansioso, era trepidante, era in fibrillazione. Il sogno vissuto nel ‘42 stava per riproporsi in grande stile, ancora più efferato, ancora più sanguinoso, ancora più distruttivo.
Chiamati ad intervenire prima che quella follia costasse altra vita innocente – esattamente come nel ‘42, tra l’altro –, ovviamente, Hellsing ed Iscariota. E non solo si riunirono i rappresentanti di due tra le più alte cariche dello Stato, ma anche l’Autorità londinese per eccellenza: Elizabeth Alexandra Mary, Elisabetta II; la regina del Regno Unito.
Ogni associazione aveva il suo portavoce, ed ogni portavoce il suo secondino. Enrico Maxwell, incaricato dal Vaticano, aveva ben pensato di risparmiare ai convocati la presenza talvolta molesta del suo personale gigante da guerra, Alexander Anderson.
In compenso, proprio sotto consiglio di quest’ultimo, aveva portato l’ultimo arrivato: Izaya sans famille. Nonostante fossero trascorsi ben otto anni dal suo reclutamento, Maxwell aveva ancora qualche difficoltà a digerirlo; o, forse, a gestirlo. Quel ragazzo era dotato di un’energia così caotica da spaventarlo, persino più di quanto facesse Anderson: se da un lato si trattava indubbiamente del membro dei preti armati più visceralmente devoto, dall’altro si aveva a che fare con un vero e proprio inquisitore moderno.
E bastava guardarlo negli occhi per capirlo: trattasi di un giovane fascio di muscoli, tenuti stretti in una tunica clericale color prugna, con un paio di crocifissi pendentigli al collo. Il suo volto, così come da bambino, era ottenebrato da un compatto velo di capelli nerissimi; la differenza sostanziale, da allora, risiedeva nell’intensità dello sguardo. Impetuoso, inarrestabile, omicida: Izaya era una furia incontrollata, equipaggiato solo di armi rigorosamente confacenti alla Santa Inquisizione medioevale.
Ed ecco spiegato perché, seppur in presenza della Regina, egli stanziava deliberatamente dietro il suo superiore seduto alla tavola rotonda, con un’artiglieria di tutto rispetto in bella vista. Reggeva in mano una forca, poggiandone il peso ferroso sulla sua spalla massiccia: un noto strumento di tortura medievale, ottima per recidere con facilità anche la testa più ostinata.
Abbarbicata alla schiena tramite imbragatura, invece, teneva una balestra. Modello originale, come non se ne vedevano da secoli. Non è che gli capitasse di adoperarla chissà quanto, comunque, data la lentezza con la quale si ricaricava di frecce… ma, insomma, la sua sola presenza scenica era sufficiente per averla sempre con sé.
Per Integra, invece, c’era il solito Walter a farle da guardaspalle, che forse sarà stato meno membruto, nel fior degli anni e rampante del suo corrispettivo Iscariota, ma non aveva nulla da invidiargli sul piano della prestanza.
Strano che non ci fosse Isaac al suo posto: eppure, era stato assunto proprio per quel ruolo specifico.
Chissà dove si era cacciato.
In ogni caso, il motivo per cui erano stati urgentemente radunati era sotto gli occhi di tutti. Appresa la seccatura di nome Millenium, sarebbe stato assurdo voltare la faccia e fare finta di niente; non con il pericolo che si rischiava. Riproporre un Terzo Reich era fuori discussione, ma il vero grattacapo era un altro: chi era la mente dietro tutto, e quali obiettivi lo spingevano ad azioni tanto folli?
Ebbene, la risposta arrivò spontaneamente. Arrivò su un paio di gambe, plasmatasi nel corpo esile e stranamente sottile di un ragazzino. Un ragazzino dai capelli biondi come il miele, con due curiose orecchie da gatto a capeggiarglieli.
In parole povere, un intruso. Sgradito e malaccetto.

« Salve, signori! Permettetemi di presentarmi. Io sono—… »

Il preambolo dell’adorabile gattino fu messo ben presto a tacere. Izaya, che aveva i sensi scattanti come quelli di una lepre, trovò quell’occasione più che ghiotta per sfoderare il suo arsenale. Una freccia in canna ce l’aveva, del resto: così, non esitò a puntargli la balestra contro, e certamente non avrebbe atteso il nullaosta di Maxwell per stenderlo.

« Oh, ma che bella arma~! » soffiò l’estraneo, mellifluo e docile. Sghignazzò felice, conscio che, anche qualora quel tipo gli avesse piantato una freccia nel cuore, sarebbe potuto tornare lì tutto intero in uno schiocco di dita. Perché lui era ovunque e da nessuna parte. « Vi prego di mantenere la calma! Sono qui in veste di messaggero. Non ho alcuna intenzione di combattere. » Avanzò ancora, finché non si trovò in prossimità del grande tavolo. Vi poggiò qualcosa che aveva retto tra le mani per tutto il tempo: un ammasso di ferraglia, che solo in seguito venne identificata dai presenti come una sorta di radiolina videocomandata. « Signori e signore dell’Inghilterra e del Vaticano, vi chiedo un attimo di attenzione! C’è un messaggio importante da parte del nostro comandante, il Maggiore. »

Munitosi di un telecomando compatibile col mezzo – un gran bel pezzo di tecnologia, per l’epoca –, l’infiltrato procedette a compiere quanto appena comunicato.
Non con poche difficoltà. La modernità sapeva essere davvero tosta, quando ci si metteva!

« Che succede? Non si vede nulla. »

« Per favore… ti supplico, Maggiore… Leone, ascoltami, non farlo! Abbi pietà di me! »

« Maresciallo Schrödinger! Non si vede nulla! »

Un vociare gracchiò fuori da quella scatoletta. Inizialmente confuso, torbido: le voci non erano distinguibili, non era chiaro a chi appartenessero. L’unica cosa indubbia, era che il Maggiore, nel grosso salone da cui registrava il suo videomessaggio, non era solo: a precedere le sue parole, un agghiacciante sottofondo di lamentii.

« Ah, perfetto. Ora si vede. » una volta che il segnale fu captato a dovere, l’ingombrante sagoma del Maggiore fu sotto gli occhi di tutti. Per alcuni, quel volto rotondo ed occhialuto, adornato dal solito ghigno rettiliano, era già tristemente noto. Per altri, invece, si trattava di un’esaltante novità.

« Oh… OH! AHAH! AHAHAHAH! » Izaya mollò la mira demoniaca che aveva tenuto su Schrödinger per tutto il tempo, trovando interesse altrove. La sua grassa risata di scherno rintronò tra le mura, mettendo già abbastanza in imbarazzo colui che aveva avuto l’idea geniale di portarselo dietro. Ancor più quando lo vide salire con le zampe sul tavolo, gattonando fino a ritrovarsi faccia a faccia con lo schermo.

« Izaya, per l’amor di Dio! Sei in presenza della Regina! » Maxwell lo ammonì, ma senza alcun riscontro rilevante. Che non sapesse farsi rispettare, comunque, non era poi tanto una novità.

« Quindi il grande nemico saresti tu?! »

« Be’, credo proprio di sì, giovanotto. Con chi ho il piacere di parlare? »

« Sono Izaya, uno dei preti armati di Anderson. Il grande nemico in tutti i sensi, eh?! Sai che sei proprio una palla di lardo? Sei enorme! Occupi tutto lo schermo, Cristo sia lodato! Potrei strapparti via la testa dal collo in un istante, grassone. E mi dovrei pure abbassare! Cosa sei, il nano da giardino di Hitler? »

« Maggiore, mi permetta di intervenire. Dobbiamo davvero lasciare a questo rifiuto altra libertà di esprimersi in maniera così oltraggiosa? »

« Lascia fare, mio caro ragazzo. » il Maggiore placò immediatamente gli spiriti bollenti del suo prediletto. Egli, non inquadrato e rimasto in background assieme ai guaiti poc’anzi citati, era parecchio suscettibile alle offese, in special modo se rivolte al suo padrone. Leone sarebbe stato pronto a fungergli da scudo anche per la minaccia più insignificante; anche se, a dirla tutta, il Maggiore non vedeva altro che ilarità nelle manifestazioni d’odio rivoltegli. « Izaya, qui, è un simpatico uomo di Dio. Niente di cui dovremmo preoccuparci. »

« Scendi subito dal tavolo, ho detto! »

All’ennesimo monito dello spazientito ed intimidito vescovo – il quale, come al solito, pareva badare molto di più a salvare la faccia, piuttosto che agli eventi attorno a sé –, Izaya si decise a starlo a sentire, ritornando più o meno diligentemente al suo posto.

« Qual è il tuo obiettivo? » intervenne, senza fronzoli e dritta al sodo; in pieno stile Integral Fairbrook Wingates Hellsing. Stava faticosamente cercando di smaltire una sofferenza recente, e le ferite ancora fresche fanno più fatica a rimarginarsi. Non avrebbe agevolato quell’ammasso di trippa in abito da sera ad infliggergliene altre. « Rispondi. Quali sono i propositi del tuo folle progetto? »

« Mia cara fräulein, questa è una domanda sciocca. » le iridi ambrate del serpente si assottigliarono, nascondendosi nel riflesso vitreo e malevolo dei suoi occhiali. Miss Hellsing parlava di obiettivi, eh? Perché perdere tempo in facezie simili, quando si può godere del fascino del caos, dell’orgasmica goduria della distruzione? « La risposta definitiva, fräulein, è che noi non abbiamo alcun obiettivo recondito. A questo mondo esistono solo dei tipi incorreggibili, ai quali non importa l’obiettivo, ma solo il mezzo. In altre parole, dei tipi proprio come noi! Noi siamo le S.S. del Terzo Reich! Quante persone pensi che abbiamo ucciso finora? Tu chiami “folli” i nostri progetti… d’accordo, perfetto! Allora provate a fermarmi, voi che vi definite sani di mente. Il mio nemico siete voi, Hellsing; il Regno Unito, ed Alucard in persona! Sapete, noi non siamo abituati a rassegnarci facilmente. »

Il Maggiore era incredibile. Sapeva essere ammaliante ed intimidatorio al contempo; incisivo senza mai essere volgare, impassibile e deliziosamente pungente.
I suoi sottoposti di Millenium, dietro le quinte, lo osservavano rapiti, acquisendo forza e determinazione dalle sue parole colte. Per gran parte di loro, che a stento sapeva leggere e scrivere e che faceva della violenza gratuita il proprio stile di vita, quell’ampollosa dichiarazione di guerra fu tanto incomprensibile quanto affascinante.
Ma c’era chi, invece, decifrava. Assorbiva, armonizzava, imprimeva a fuoco nella mente. Leone aveva il cuore che gli batteva fino a rasentare la gola, gli occhi verdi che scintillavano: trovava la verità imprescindibile in quei vaneggiamenti di lucida follia, il senso della vita in ciò che nemmeno lontanamente si avvicinava al concetto di normalità.
Lo venerava. E lo amava, perversamente e disperatamente, come si ama Dio.

« Leone… per favore, guardami… » le sgradevolissime implorazioni del suo patrigno, tuttavia, spezzarono la magia. Non gli piacque distrarsi dal meraviglioso spettacolo di cui era stato onorato: per cui, nel voltarsi verso il prigioniero, legato ed imbavagliato, ad un passo dal trasformarsi in carne fresca per i neo-vampiri del Letzte Battallion, quel piglio dapprima vispo ed entusiasta tramutò in gelida apatia.

« Non mi interrompa mentre ascolto la dichiarazione di guerra del Maggiore, Colonnello. Suvvia, non stia a fare tanti capricci, tra un po’ è il suo momento. Sia gentile, attenda ancora un po’. »

« Ti prego… figlio mio, ascoltami… » chissà perché, ora che era così vicino alla morte, manifestava tanto affetto e tenerezza per il suo figliuolo bastardo. « Non devi dimostrare niente… non devi dimostrare di essere forte. Tu sei un bravo ragazzo, io lo so, ti ho cresciuto! La tua… la tua mamma non vorrebbe certo vederti così, vero? Quel porco del cazzo ti ha fatto il lavaggio del cervello, lo capisci?! Coraggio, figliolo, slegami… non vuoi davvero che finisca così. Io lo so. Ti prego… ricominceremo daccapo, insieme! Faremo finta che non è successo nulla, va bene? Leone… Leone… »

Il giovane ritenne a dir poco ripugnante tutto quello smoccolare. Non erano parole sincere, ma un patetico tentativo di aver salva la vita dettato dalla paura; ma, comunque, anche ci fosse stato un briciolo di onestà in quella pantomima, forse il Colonnello si sopravvalutava. Davvero credeva che Leone fosse dov’era a causa di qualche lacuna pregressa nel loro disfunzionale rapporto padre – figlio?
Certo che se ne dava di importanza, per essere un vecchiaccio buono solo a diventare macinato.

« Non tollererò ulteriori mancanze di rispetto nei confronti del grande Zugführer, la persona che tu in primis avresti dovuto servire. Ma, del resto, comprendo che disponi non solo di un cervellino limitato, ma anche di un ammasso di ossa secche sparpagliate lungo il corpo, che ti renderebbero inutile persino come spasso per Alucard. Certo che potresti provare a conservare uno sputo di dignità… almeno nei tuoi ultimi istanti di vita, che diamine! E smettila di piagnucolare. Non lo sopporto. »

Fu allora che, seccato dal piagnisteo, ma soprattutto incapace di sopportare ulteriori stucchevoli suppliche un secondo di più, Leone si decise ad agire prima del previsto. Si sfilò dal retro dei calzoni un’elegantissima Walther PPK, pistoletta semiautomatica piccola ma letale, facente parte della dotazione di base di ogni soldato delle S.S. Con la precisione di un ninja e la freddezza di un demone, esplose un proiettile proprio tra gli occhi del suo patrigno, stecchendolo sul colpo.

« Signori, prego. Pasteggiate pure. » col permesso di Leone, decine — no, centinaia di vampiri artificiali arruolati da Millenium si avventarono sul corpo morto del fu Colonnello, facendone a brandelli la carne, abbeverandosi del suo sangue, divorandolo sino alle ossa.

« Non lasciate il lavoro a metà. Non voglio che rimanga niente di lui. »

Asserì, perentorio, incurante della mostruosità disumana che avveniva sotto i suoi occhi; a causa sua, ai danni dell’uomo che l’aveva cresciuto.
Poco male. Il Maggiore sarebbe stato orgoglioso di lui.
 

Leone, rito di iniziazione.

 

–––––

 

Vivere da vampiro equivaleva a percorrere ogni giorno un loop senza fine, fatto di casse da morto e assenza di sole. Alexis si chiese se, mangiati vivi dal fuoco infernale, anche ai peccatori fosse riservato un trattamento altrettanto infimo. Sinceramente, credeva di no: l’eternità crudele che era toccata a lei avrebbe spaventato anche Lucifero.
Erano trascorsi sei lunghissimi mesi. Ebbe modo di scoprire che la sua era stata solo sfortuna, in quella triste e fredda notte londinese: aveva incontrato l’uomo sbagliato al momento sbagliato. Il vampiro affamato che le aveva strappato la vita succhiandogliela via dal collo, in realtà, non aveva alcun intento primario di renderla un suo simile e portarsela comodamente a casa come un souvenir. Credeva che, una volta gustato il lauto pasto, ella sarebbe mutata in un banale ghoul, di cui liberarsi senza chissà che sforzi. Insomma, coi tempi che corrono, come mai avrebbe potuto prevedere di trovarsi al cospetto di una pura verginella perfetta per l’oratorio?
Se non altro, anche il grande Alucard era finito vittima della disdetta. Tuttavia, ormai il danno era stato fatto: seppur inconsapevolmente, aveva prodotto una draculina, e stava a lui prendersene cura ed allevarla come frutto della sua ingordigia.
Fosse stato facile. Persino uno come lui, che qualche secolo l’aveva vissuto, incontrava per la prima volta serie avversità nel tortuoso cammino della dominazione di una sua legittima serva — o meglio, quella legittima serva.
Alexis era un tornado. Si dimenava al suo controllo come un’anguilla impazzita, rifiutandosi di accettare ed abbracciare una volta per tutte la sua nuova natura. Lui, Integra e tutta la casata degli Hellsing in generale erano bersaglio della sua furia cieca, implacabile, forsennata.
Naturalmente, tutto quell’ardore non lo spaventava affatto. Anzi; semmai, lo stimolava. Solleticato e stuzzicato, ormai sembrava punzecchiarla di proposito, beandosi delle sue reazioni completamente spropositate.
Anche perché, oh, lui lo sapeva bene: Alexis rimaneva comunque una sua asservita, incapace di sottrarsi alle volontà del vampiro d’appartenenza.
Non importava quanto inaccettabile e frustrante fosse per lei.

« Oggi sei più in forma del solito, hm~? » quella tetra presenza in total red aveva assistito a tutta la sfuriata di Alexis contro i poveri malcapitati mercenari; dall’inizio alla fine, gustandosi l’esemplare esibizione come fosse stato al cinema. Gli mancavano giusto i popcorn. Beffardo ed ostentatamente derisorio, sgusciò fuori dalla parete con nonchalance: ah, quanto gli piaceva dar sfoggio delle sue egregie doti trascendentali. Liquefarsi e trapassare i muri era la sua specialità; insieme ad intralciare la strada altrui con la propria imponente stazza, s’intende. « Non mi piace come ti rivolgi alla mia padrona, signorina. »

« A me non piace che tu mi stia tra i piedi. Eppure. » davvero, non aveva alcuna voglia di stargli dietro; tanto meno di essere molestata o importunata come al solito. Era di pessimo umore – sai che novità –, e l’idea di intrattenersi in un’amabile conversazione col suo carnefice le dava il voltastomaco.
Così, incurante del passaggio bloccato, provò a divincolarsene, sgusciandogli di lato. Prevedibilmente, però, Alucard le concesse solo qualche metro di libertà, prima di teletrasportarlesi davanti con la solita fulmineità.

« Fammi indovinare. Non hai voglia di chiacchierare col tuo master? »

« No. Se vuoi saperlo, ho una gran voglia di prenderti a calci nel culo. »

« Che boccaccia cattiva che hai. E ingrata, anche! Dopo che sono stato così generoso da donarti l’immortalità… proprio non me lo merito questo trattamento. Sai, il minimo che tu possa fare per sdebitarti, è lasciarmi assaggiare di nuovo il tuo dolce, succulento sangue. È da quella fatidica notte di sei mesi fa che non ne assaporo qualche goccia, e, francamente, comincio a sentirne la mancanza. Tu no~? »

Il Re dei vampiri aveva un dono naturale per il sadismo. Il ghigno che gli tinse il volto aveva qualcosa di malefico: come se quei denti aguzzi fossero intrisi di veleno, pronto a scagliarsi contro di lei ad ogni parola pronunciata.
Alexis sentì la lama metaforicamente infilzata nella sua schiena rigirarsi su sé stessa, infossandosi nella ferita già inflitta, torcendole le budella. Quel gran figlio di buona donna aveva anche la faccia tosta di pigliarla per il culo: le faceva rivivere quel momento, lo timbrava nella sua mente ogni volta che esso accennava a sbiadire.
E faceva male. Così tanto che nemmeno Dio, con tutta la sua misericordia, avrebbe potuto darle salvazione.

« Non ti pare di avermi già rovinato la vita a sufficienza?! Perché non mi lasci in pace e basta?! »

« Perché mi eccita vederti così furiosa. Mi chiedo cosa ti porterà mai a fare, tutto questo sublime odio. »

Alucard era viziato, e continuamente desideroso di qualcosa che lo divertisse. Del resto, anche la vita eterna aveva le sue noie, e l’unica cosa che oramai fungeva da passatempo a quell’anima stanca, era un potenziale pericolo. Se questo comportava alimentare la fiamma ardente, gettare benzina sul fuoco… be’, chi era lui per tirarsi indietro?
Pregna di disprezzo e sconfortatamente conscia di non potergli arrecare alcun male, Alexis preferì ignorarlo, cercando di deviarlo — per l’ennesima volta. Del resto, cos’è che poteva fare? L’inerzia a cui la sua condizione di draculina la costringeva era dilaniante.

« Hai pensato a quello che ti ho detto, bambolina? » stavolta, Alucard non si disturbò ad interromperle il tragitto. Tanto sapeva bene che, con quel quesito spinoso, avrebbe egualmente attirato la sua attenzione; seppur nel peggiore dei modi. Sghignazzò sardonico, constatando di aver ragione ancora una volta quando percepì il passo della giovane, assestato e tutt’altro che indolente, arrestarsi di punto in bianco. « Se hai così tanta voglia di uccidermi, c’è un unico modo. Ci hai riflettuto? Saresti pronta ad uccidere qualcuno e cibarti del suo sangue? Accetteresti di abbandonare per sempre la tua umanità, tanto dedita e devota al Padre Celeste? Hai il mio permesso, piccola, fa’ pure. Oh, mi piacerebbe molto vederti all’opera, sentire la tua anima nera scindersi irrimediabilmente dalla mia… ma, ahimè temo che tu non sia poi così determinata e coraggiosa come millanti di essere. Un gran bel peccato… »

Il vero tasto dolente? Era tutto vero: Alexis non faceva altro che conferire a quella bestia altro materiale per tormentarla, perché ancora non aveva avuto il fegato di adempiere al rito di distacco. Bere il sangue di qualcun altro per evolvere in un vampiro indipendente non avrebbe fatto altro che confermare la sua oramai insidiatasi natura mostruosa, ed il sol pensiero anche erroneo la raccapricciava. Eppure, non v’era altro modo per sfuggire a quell’inferno.
Ponderò per qualche secondo, per poi decretare che quelle parole, ingiuriose e volutamente provocatorie, non meritassero responsi di alcun genere.
Tranne uno, immancabile:

« Stammi lontano, Alucard. » asserì a zanne e pugni stretti, prima di ritirarsi nella sua umida, buia, deprimente bara del cazzo.

E ci rimase a lungo, così tanto da dimenticarsi dell’andamento del tempo, che si distorse come se non fosse mai esistito davvero. Non seppe dire con esattezza quanto a lungo stette lì dentro, supina, a braccia incrociate tra il petto e le spalle: ore, giorni, o forse intere settimane, e sarebbe stata felice di trascorrerci persino il resto dei suoi giorni. Non certo perché fosse particolarmente piacevole; ma se serviva a risparmiarle le aspre allusioni di Alucard, allora avrebbe reso il suo giaciglio artico un residence di lusso.
Ahimè, non ne ebbe modo.

« Alzati, Alexis. » una voce gracchiante e anziana interruppe il suo placido sonno. Alexis, scoperchiato il confortevole buio pesto, venne investita da un fastidioso fascio di illuminazione artificiale, che non le piacque affatto.

« Che diavolo vuoi, Walter?! » sbottò ella, indispettita, soffiando come un felino sulla difensiva. Proprio non riusciva a spiegarsi il motivo per cui una persona come Walter, con cui aveva scambiato sì e no una trentina di parole al massimo, la consultasse.

« Alzati, ho detto. Ti devo parlare. »

« Senti, se ti manda Alucard—… »

« Se Alucard avesse avuto qualcosa da dirti, sarebbe venuto personalmente. Sono io che ti devo parlare. Forza, esci da qui dentro. »

Inusuale, a dir poco. Che diavolo c’era di così impellente da doverle nientemeno dischiudere la bara? Alexis si convinse che, si fosse trattato di un comune rimprovero, il maggiordomo non si sarebbe tanto scomodato; per cui, a rigor di logica, doveva esserci per forza qualcosa di grosso sotto.
Attratta dall’ignoto ed al contempo intimamente timorosa di approfondirlo, si decise a svelare l’arcano.

« Be’? Cos’è che vuoi da me? »

« Ho un amico che vorrei presentarti. » il tono di Walter si fece intenzionalmente più flebile, come se stesse avendo cura di preservare una certa privacy. Ciò che stava per dire doveva giungere all’udito della vampira e a quello di nessun altro.

« Un amico…? »

« Sì. A lui farebbe proprio comodo un vampiro come te, generato da un morso; per di più, quello di Alucard. Ne sarà entusiasta. »

« Non ti capisco, Walter. »

« Non posso rivelarti troppo, non so ancora se posso fidarmi di te. Tuttavia, non mi è sfuggita l’ostilità che nutri contro Integra, Hellsing, e, soprattutto, Alucard. Io posso aiutarti. » indifferente alla perplessità distorta sull’altrui cereo viso, l’attempato braccio destro di Integra sfilò dalla tasca del gilet un taccuino, su cui prese a trascrivere frettolosamente quello che aveva tutta l’aria di essere un indirizzo. « Questo è l’indirizzo. Conservalo bene, e non farlo vedere a nessuno. »

« Di che tipo di amico stai parlando? Mi stai incitando ad andarmene? A tradire Hellsing…? »

« Oh, no, io non ti sto incitando a fare niente. Ti ho solo fornito un’informazione come un’altra. Ascoltami bene: quando vai da lui, digli che sono stato io a mandarti. Digli che sai di Millenium, e che vuoi anche tu una fetta della torta. »

« Una fetta della torta…? » a costo di fare la figura della cretina, Alexis si dimostrò disorientata persino al cospetto di un palese linguaggio in codice. E Walter, dal canto suo, che aveva a disposizione esigue quantità di tempo da perdere, vi badò poco.
Tuttavia, sebbene la frettolosità non gli mancasse, non aveva fatto i conti con chi, nonostante la notte inoltrata, non fosse ancora in visita a Morfeo.
Non se n’era nemmeno accorto, ma era stato ascoltato da orecchie indiscrete.

« Va’ da lui il prima possibile. Cerca di non destare sospetti, ma ricorda: se Integra, Alucard o i Bernadotte ti beccano, tu da me non hai sentito niente. Hai capito? »

« Come ti pare, Walter, ma non credo che il tuo amico potrà ricevermi in ogni caso. Sono una draculina di Alucard, o te lo sei scordato? Saprebbe dove sono in qualsiasi momento. »

« Allora, forse, è giunto il momento di tagliare il cordone ombelicale. Nutriti di altro sangue, spezza le sue catene, e sarai finalmente libera. È un passaggio inderogabile per ogni vampiro, non puoi sottrarti per sempre. »

« Già, certo. Per voi suini protestanti, magari, pescare qualcuno a caso dalla strada e farlo fuori rappresenta la normalità, ma per i veri credenti come me non è così. »

« Sei la draculina più strana che abbia mai visto. » nella sua lunga vita, mai gli era capitato tra le mani un caso tanto anomalo. Una vampira sfuggente, che ancora tratteneva a sé valori umanissimi, come la spiritualità e la devozione. « Infatti non dev’essere una scelta casuale, comunque. Scava dentro di te e trova qualcuno a cui tieni davvero. Più potente sarà il sentimento, maggiore sarà la forza che ne acquisirai. »

L’intenzione iniziale fu quella di pulirsi il culo con gli stupidi discorsetti criptici di Walter. Perché mai avrebbe dovuto dargli retta? In che modo lui o il suo “amico” avrebbero potuto aiutarla?
No, lei non si sarebbe piegata a quella barbarie; non si sarebbe lasciata risucchiare da quell’atroce circolo vizioso: sangue in cambio di sangue, carne in cambio di carne. Si aggrappava con le unghie e con i denti alla lancinante sensazione di repulsione che la pervadeva ogni qualvolta che lo considerava, poiché era tutto ciò che, nonostante tutto, la facesse sentire un po’ più umana degli altri.
Ma cos’era peggio? Lasciarsi andare alla deplorevole natura vampirica ed essere libera; o rimanere un po’ più umana, ma un po’ più schiava?
Alexis ebbe di che arrovellarsi il cervello durante la notte, una volta distesasi nuovamente nella sua claustrofobica cuccia di velluto. “Se ti decidi, va’ via di qui, e non tornare mai più”, s’era raccomandato Walter. “Il mio amico sarà pronto ad accoglierti quando lo vorrai”.
Gli uomini non avevano fatto altro che deluderla, angosciarla, costringerla, deriderla. Era arrivato il momento che almeno uno di loro, quello che più in assoluto le aveva fatto del male, pagasse. Pagasse per essere divenuto un’empia creatura senza Dio, e per averle imposto lo stesso.

« Maestra…? »

Era un bel mattino; un mattino beato, assolato, tinteggiato dei colori dell’autunno. Un mattino come un altro, per Londra, scaglionato di umani svogliatamente in cammino verso l’inizio della loro tediosa routine settimanale.
Alexis, oramai, non era più parte di quella specie, nonostante si ostinasse a mescolarsi ad essa. Sicuramente, comunque, non passava inosservata: si aggirava furtivamente attorno alla struttura in cui insegnava da ore, aspettando di rivedere la sua vecchia classe che gioiosamente varcava l’ingresso scolastico. Erano gli ultimi ricordi che aveva della vita perduta che le era tristemente scivolata via dalle mani, e voleva ripercorrerli; coccolarsi un po’ coi frammenti felici di un’esistenza lieta, prima di abbandonarli per sempre una volta sporcatasi le mani di sangue.
Incappucciata per assicurarsi di non essere abbrustolita dai raggi solari, non era poi così diversa da un qualsivoglia predatore sessuale da stereotipo. Ciononostante, per sua fortuna – o sfortuna, date le intenzioni –, c’era qualcuno la cui purezza d’animo era così forte da non contemplare l’ombra di malizia.

« Daisy! » Alexis la riconobbe subito, a cavallo della sua piccola bici rosa. Quando aveva accettato il ruolo di docente, si era ripromessa di non avere preferenze: per lei, ogni bambino sarebbe stato uguale all’altro, meritevoli del suo affetto nella stessa misura. Ebbene, forse quella piccoletta aveva fatto eccezione senza che nemmeno se ne accorgesse. Non aveva mai visto una bambina tanto graziosa ed educata, oltre che creativa ed atipicamente intelligente per la sua età. Aveva perso il conto di quanti disegnini le aveva dedicato: senza dubbio si trattava di una delle persone a cui aveva voluto più bene negli ultimi anni. « Che bello rivederti, piccola. Come stai? »

« Io sto bene! Sono stata in vacanza e mi sono divertita molto! Ho fatto il bagno senza braccioli, lo sai? »

« Wow, che brava! Ricordo quanta paura avevi di nuotare. Sono molto contenta che tu ci sia riuscita. »

« Maestra, ma perché te ne sei andata? Non mi hai salutato, mi hai fatto piangere. La preside ha detto che eri malata, ma invece stai bene! » Daisy si ricordò di nutrire dei rancori nei confronti della sua insegnante preferita, e si ricordò anche di tenerle il broncio come ripromesso. Tuttavia, le bastò darle una rapida occhiata meno superficiale, per sentirsi in dovere di rimangiarsi tutto. « … Ma forse stai male ancora? Sei bianca e magra! Sembri un vampiro. »

« … Già. Ma i vampiri non esistono. Lo sai, no? »

« Era per dire! Che cos’hai, maestra? La febbre? »

« Sì, è una brutta febbre. Infatti forse è meglio che vada, non vorrei contagiarti. » tutto ciò che le rimaneva era nascondersi. Dissimulare le sue vergogne, celandole nelle fitte ombre del suo mantello sgualcito, che le adombrava i tratti stanchi. « Tu fa’ sempre la brava, mi raccomando. Io… tornerò, magari. Quando guarirò. »

« Aspetta! Voglio farti vedere una cosa, maestra. »

Palpitante di quel tipico contagioso entusiasmo infantile, la giovanissima alunna afferrò con gli indici le ambedue estremità delle sue labbra, allargando la bocca. Rivelò così la sua dentatura altalenante, con qualche fosso gengivale ben visibile, e che sembrava voler sfoggiare.

« Stamattina mi è caduto il penultimo dentino! Spero che la fatina mi porti qualche monetina anche stavolta. Guarda, mi esce ancora il sangue! Bleah! »

Daisy se la ridacchiò burlesca, non troppo disturbata dal sapore ferroso che le irrorava la lingua.
Non si poté dire lo stesso di Alexis. Le macchie ematiche sui dentini della piccina erano a dir poco arrapanti: dilatò le cornee, respirò affannosamente, salivò eccessivamente fino a quasi sbavare.
Quel sangue stimolò la sua fame. Sangue fresco, di morbida carne puerile. Per un momento, venne sopraffatta dai suoi bassi istinti, quelli per cui si fustigava tanto, e le carte in tavola si rimescolarono.
L’Alexis del passato avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere i suoi pargoli; anche sacrificare la propria vita senza pensarci due volte. Ma quell’Alexis, il demone in cui Alucard l’aveva trasformata… aveva solo idee disumane ad albergarle la mente.
Del resto, lei un’umana non lo era più.

« Senti, Daisy… » il suo timbro materno si snellì, divenendo insolitamente tenebroso. A stento conteneva le zanne, bagnate di bava famelica. « Ti va di seguirmi? Voglio farti vedere una cosa, in un bel posto. »

« Oh! Mi piacerebbe, maestra, ma ora devo entrare in classe. Facciamo un’altra volta? »

« Ci vorrà solo un minuto. Prometto che arriverai in perfetto orario. »

Ma sì, un piccolo strappo alla regola, che male avrebbe mai fatto? Un lieve ritardo le sarebbe stato perdonato, se questo fosse stato giustificato dalla maestra; per cui, non ebbe poi chissà quali titubanze nell’accettare il curioso invito.
Pedalata dopo pedalata, la piccola studentessa capitò, senza averne coscienza, in un vialetto adiacente alle strutture cittadine; una via secondaria, poco frequentata persino in pieno giorno.

« Che ci facciamo qui…? » ella domandò, avvertendo un’inspiegabile inquietudine correrle lungo la spina dorsale. Sì che era giovane, ma la sconsideratezza apparteneva agli stolti, e lei non lo era. « Non mi piace molto… torniamo indietro, maestra? »

Alexis si scappucciò, lasciando che tutti i suoi sensi vampirici si attivassero, che si impadronissero del suo contenitore mortale. Fu questione di una frazione di secondo, e Daisy non ebbe nemmeno il tempo di strillare aiuto. La sua bici rosa tonfò al suolo: il cestello si staccò dalla matrice, ed i cerchioni continuarono a roteare per alcuni secondi.
Anche lei cadde, sprofondando nella sua stessa pozza di sangue. Alexis era stata attenta ad ferirla mortalmente prima di morderla, cosicché non subisse la trasformazione a cui sarebbe andata inevitabilmente in contro. E non per pietà, ma per non avere un problema scomodo di cui occuparsi dopo.
Proprio come avrebbe fatto Alucard. Quando la fame fu saziata, il liquido cremisi della bambina che aveva amato come una figlia la ricoprì totalmente: i vestiti ne erano zuppi, così come la sua pelle di porcellana dagli angoli della bocca in giù. E lentamente, come appena liberatasi di uno demonio cancerogeno, tornò in sé, quando fu troppo tardi per rimediare al disastro.

« Mio Dio… » il denso vermiglio dei suoi occhi sfumò via, cedendo il posto al solito verde spento; gli artigli neri come ali di corvo, sotto i quali giacevano brandelli di carne infantile, si ritrassero, così come gli affilati canini, che avevano assorbito fino all’ultima goccia del succoso e tanto agognato nutrimento. « Che ho fatto… che ho fatto… »

Le flotte di lacrime che le scolpirono le guance non furono sufficienti a lavar via il peccato appena commesso, né ad assopire il suo tormentoso dolore.
Alexis raccolse il gracile corpo esangue, orribilmente gelido tanto quanto il suo. Pianse ancora, gridò di disperazione, acuita dall’amara consapevolezza di aver fatto tutto con le sue stesse mani.
Baciò i capelli dorati di Daisy, pregò perché la sua bella anima venisse presa in custodia dal Signore, e che Egli potesse concederle l’assoluzione su cui un mostro come lei non poteva neanche fantasticare.
Si era avventurata oltre i portoni di Hellsing per spezzare il legame col suo padrone, per sottrarre ad Alucard il dominio che esercitava senza consenso. Ci era riuscita. Ma a quale prezzo? A cos’era servito liberarsi di lui?
Solo a realizzare che, in fondo, non erano così diversi. E se è vero che gli opposti si attraggono e i simili si respingono, l’unica cosa che le rimaneva da fare era assomigliargli il più possibile.
Almeno avrebbero combattuto ad armi pari, quando l’avrebbe ucciso.

Alexis, genesi del tradimento.

 

–––––



Come in ogni altro luogo di potere, anche Millenium disponeva delle sue gerarchie interne.
E se il Maggiore era al vertice della piramide, il secondo piano in ordine di importanza era disposto per le guardie del corpo e gli indispensabili in battaglia: il Doc, il Capitano, Leone.
Tutti gli altri, invece, stavano sotto. Con lievi differenze di grado tra marescialli, sergenti e luogotenenti, ma niente che valesse la pena circostanziare.
Ed infine, c’erano loro: i soldati semplici. Ultime ruote del carro, erano poco più che pedine di una partita a scacchi dei piani alti. Ne prendevano parte orde di vampiri artificiali senza particolari propensioni, né esclusive predilezioni; senza arte, né parte.
Caspian era tra essi. Ai tempi dell’arruolamento non doveva aver fatto colpo su chi contava, ed era finito ad annoiarsi a morte dritto in fondo alla lista.
Ma il Brasile doveva avergli portato fortuna.

« Ci credi?! Il Maggiore mi ha finalmente dato una chance! » chissà come mai era stato scelto tra tanti altri. Al grande capo servivano vittime facili e sacrificabili per sondare il terreno; qualcuno di volenteroso e pimpante, che si dirigesse spontaneamente verso la falce. Ma Caspian, inguaribile ottimista, preferì credersi una spanna sopra gli altri. « Che ficata! Mi divertirò un mondo. »

« Cerca di non esagerare con l’euforia! » la Biancaneve dei nazisti si dimostrò piuttosto impensierita. Temeva che il suo caro amico, tanto ramato quanto lei, si sarebbe lasciato annebbiare dall’esaltazione, finendo per sottovalutare il pericolo. « Ti ricordo che sei solo in panchina. Tubalcain potrebbe aver bisogno di aiuto… sei la sua scorta, insomma. »

« Sì, ma pensa se quel cretino ci crepa… entrerei in gioco io! Capisci cosa voglio dire? »

« Cosa vuoi dire? »

« Che devi farmi bello, dolcezza. Tra poche ore potrei incontrare Alucard, e Dio solo sa cosa farei per farmi un bel giretto su quel corpo millenario prima di farlo fuori. Coraggio, non c’è tempo da perdere. »

È chiaro che le priorità di una buona fetta del Letzte Battallion erano notevolmente lontane da quelle del loro capo. Non tutti erano Leone, e forse andava bene così.
Del resto, in un certo senso, erano ragazzi come altri. Caspian non faceva altro che giocare, piazzando la propria vita in palio come una banale scommessa: la cognizione di essere creature d’oltretomba, per qualche motivo, conferiva loro un’aura di invincibilità auto imposta, che portava automaticamente con sé la presunzione di poterla spuntare anche nella più critica delle condizioni.
Non sapevano cos’era la morte. Non conoscendola, la sfidavano instancabilmente, ridendole in faccia, non temendola.
Eppure, vi andavano involontariamente in contro ad ogni passo compiuto in quell’ade di caos e belligeranza.

« Secondo me sei perfetto. » Schneewittchen, prima dell’altrui gloriosa entrata in scena, badò bene di sistemargli la capigliatura ribelle. Senza dubbio, era molto più fisicamente incantevole di quanto fosse mai stato abile in combattimento. « Tu che ne dici? »

« Sì, concordo con te. »

« Mi raccomando, Caspian… cerca di non morire. »

« Ma figurati! Piccola, non stare in pena per me. Vedrai che farò un figurone! E Alucard cascherà ai miei piedi, parola mia. »

La giovane si rasserenò, rivolgendogli un sorriso complice. Non aveva mai visto tanta vanità in un sol uomo.
Rassicurarsi le fu agevole, finanche quando lo vide evacuare il Deus Ex Machina per unirsi a Tubalcain nel luogo a loro designato. Del resto, loro non erano portati per morire.
Caspian, a prescindere della sua frivolezza, sarebbe tornato sano e salvo. Perché loro erano i vincenti, nati per trionfare.

Caspian, due ore al duello.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** The Unforgiving Choices ***


Il piacevole torpore di una doccia calda come Dio comanda gli ricordava i bei tempi andati, quelli in cui sguazzava felicemente nel liquido amniotico e galleggiava nel morbido abbraccio della placenta materna.
E spesso si ritrovava a chiedersi se sua madre, chiunque ella fosse, si fosse mai accarezzata il pancione mentre lo portava in grembo. Se avesse mai gioito dei suoi calcetti, o rigurgitato durante i primi mesi di attesa.
Isaac la odiava e la amava al contempo. E ne era tormentato, proprio come il fu Catullo – la cui esistenza, per inciso, gli era totalmente ignota –, che aveva vissuto diversi secoli prima di lui, ma che due o tre cosette sull’amore le conosceva.
Dato l’abbandono, una verità assodata ed innegabile da cui sarebbe stato sciocco sottrarsi, non poteva che detestarla. Tuttavia, una parte recondita di sé nutriva utopiche speranze: magari era stata costretta; da circostanze nefaste, o da uomini svuotati di Dio.
Come al solito, si arrovellava il cervello con pensieri a cui non riusciva a dare né voce né risposte. E lo fece mentre raschiava via con le dita il vapore appiccicaticcio incollatosi allo specchio, cosicché potesse guardarsi negli occhi.

« Che coglione. » non gli piaceva quel che vedeva, e se ne rimproverò. Lui, che era a capo di una squadra di assassini professionisti, e che il lusso di tante debolezze non poteva proprio concederselo, ora sembrava solo un patetico fallito.
Sbuffò. Le ciocche corvine lasciate libere a grondare avevano sgocciolato su tutto il pavimento, creando una fastidiosissima patina di bagnato.
Ecco, ora gli toccava pure mettersi a pulire. “Coglione”, si ribadì.

« Allora è vero che sei molto più portato per le pulizie che per gli omicidi. »

La ramazza con cui stava improvvisandosi spazzino gli scivolò dalle mani, ed Isaac dovette mordersi la lingua per trattenere le imprecazioni. E se lo fece, era solo per decoro; quello che Integra, appena arrivatagli alle spalle, tanto gli rimproverava.

« … Mi è preso un colpo, Integra. »

« Sei la mia guardia del corpo e ti lasci terrorizzare così facilmente da un attacco a sorpresa? Ottimo. Sai, questo mi fa dormire sogni tranquilli. »

Inutile negarlo: non ebbe le palle di rispondere. Forse perché, in fondo, la Lady di ferro aveva ragione, e lui lo sapeva. Si ritrovò, dunque, non solo umiliato per il colpo basso subito, ma anche profondamente frustrato.
Ormai aveva trascorso quattordici giorni da impiegato dei nobili Hellsing. Quattordici giorni in cui di lavoro ce n’era stato poco, e di azione ancor meno; in compenso, però, c’era stata assai difficoltà nel gestire i rapporti con il capo.
La bella padrona di casa pareva proprio odiarlo, ed il giovane mercenario non se ne spiegava le ragioni. Al solito, tendeva ad accollarsi la colpa: troppo inefficiente, troppo invertebrato, troppo francese. Qualunque fosse il motivo, certamente non era all’altezza di una donna come lei.
Una vincente, un’impavida senza paura.

« Hai ragione, starò più attento. » si scusò rispettosamente. Pur avvertendo disprezzo dall’altro lato, egli rimase composto e non divenne mai aggressivo: non gli importava un beneamato del proprio orgoglio ferito. Integra meritava stima, e l’avrebbe ottenuta anche se si fosse messa a pisciargli addosso. « Posso fare qualcosa per te? Non ti ho sentita entrare, altrimenti mi sarei fatto trovare vestito. »

« Non è importante. » Integral Fairbrook Wingates Hellsing ne aveva viste di cose nella vita, tra le più atroci e ripugnanti. Di sicuro non sarebbero stati un paio di muscoli ignudi a sconvolgerla, tanto meno ad umettarla. « Sono venuta solo per avvertirti che oggi riceverai il tuo arsenale. Walter ti ha procurato delle Heckler&Koch USP Match calibro .45. Naturalmente, vanno caricate con proiettili d’argento. Quindi, per l’amor del cielo, vedi di buttare quella robaccia scadente che tu e tuo fratello avete il coraggio di definire “armi”. »

« Ma certo, d’accordo. Grazie, andrò da lui appena mi sarà possibile. »

« Molto bene. »

Arrivederci e grazie, non c’era altro da aggiungere. Il passo celere di Integra, sempre così scattante ed inarrestabile, stava già trascinandosi alla porta, quando qualcosa di curioso attirò la sua attenzione. Senz’altro doveva trattarsi di un avvenimento bizzarro, quantomeno: del resto, non erano poi molte le cose che, solitamente, catturavano il suo interesse.

« Che hai fatto alla schiena? » il suo minuzioso riconoscimento dei dettagli era eccezionale, tanto quanto il suo fiuto per l’insolito. Ovviamente, non le era sfuggita la carne sfregiata del suo sottoposto, costellata di cicatrici grigiastre, dai toni smorti, come se gli parassitassero la schiena da chissà quanti anni.
Isaac, dal canto suo, ebbe qualche istante di smarrimento. Certo quella domanda non se la sarebbe aspettata; da nessuno, men che meno da lei.

« Oh… » provò immensa vergogna per il suo sgradevole corpo svestito. Un asciugamano stretto in vita gli copriva il sesso, sì; ma Isaac, in quel momento, si sentiva più nudo di un verme, con tutte le sue disgustose fragilità in bella vista. « Non è niente. »

« No, non ci provare. » l’altrui dissimulare intestardì miss Hellsing ancora di più. « Non c’è alcun bisogno di essere discreti. Siamo entrambi adulti, no? Forza, dimmi cos’è successo. »

Stavolta, furono i nervi di Isaac quelli in procinto di cedere. Fortuna che la rigida disciplina da soldato impartitagli dall’ormai defunto capofamiglia Bernadotte lo rendeva naturalmente ammaestrabile, conferendogli l’autocontrollo indispensabile a non perdere di giudizio nemmeno quando era costretto a parlare di sé.

« Nessuno di noi qui ha avuto un infanzia felice, credo. » volle liquidarla così, perché non riusciva a pensare a qualcosa di più doloroso di aprire lo scrigno dei ricordi del suo passato, che per tutta la vita aveva faticosamente tentato di distruggere. Cancellare tutto in uno schiocco di dita, cestinare gli orrori e gli scheletri. Solo allora, forse, si sarebbe sentito meno schifosamente vulnerabile.

« Né io né nessun altro all’interno di questa organizzazione abbiamo preso quattro scudisciate sulla schiena. »

« Non è così grave, sono solo bacchettate. »

« Solo…? »

« Sì. Insomma, tutti i bambini fanno i capricci. Venivo punito perché mi comportavo male, tutto qua. Non è così grave. »

Per qualche istante, Integra si intontì. Quel ragazzo era riuscito a lasciarla senza parole… non una cosa da tutti, perlomeno. Una strana mescolanza di rammarico ed empatia le irrorò la mente, e non solo perché dovevano essergli capitate cose tutt’altro che gradevoli negli anni – teoricamente – più spensierati della vita. Ciò che la colpì di più, fu la tendenza del suo subordinato a minimizzare gli ignoti fattacci, e a giustificarli con eventuali comportamenti indocili e ribelli.
Dimenticandosi, forse, che era solo un bambino.

« Capisco… » a seguito di un lungo, gravoso tacere reciproco, Lady Hellsing constatò che ogni considerazione avuta luogo tra le sue meditazioni non avrebbe dovuto trovare la via delle parole.
Piuttosto, si congedò; stavolta, in via definitiva. E lo fece perché, in qualche modo, ebbe riguardo del suo dolore, e volle prendersene cura non infierendo ulteriormente.
Da allora, quel che s’era tristemente consolidato in un vincolo lavorativo di evidente conflittualità, cominciò a distendere le sue tensioni, disciogliendo le freddezze e spazzando via l’increscioso sprezzo. Paradossalmente, i rapporti tra i due, invece di raffreddarsi oltre, si rafforzarono. Non che Isaac avesse mai nutrito delle ostilità, comunque: egli aveva sempre covato un solenne rispetto nei confronti dell’austera padrona; la quale, finalmente, riuscì ad umanizzarlo, vedendolo non più come uno sterile assassino da cui guardar bene dal fidarsi, ma come un uomo.
Praticamente un coetaneo, forse cresciuto troppo in fretta; come lei. Che portava in spalla il peso di un puerile omicidio; come lei. Forse avevano più cose in comune di quante avrebbe mai immaginato.

« Integra, sei qui? » esattamente otto giorni dopo l’episodio delle cicatrici, l’ovvietà del cambio di rotta arrivò al suo culmine. Isaac, normalmente, evitava di presentarsi senza preavviso all’ufficio di Integra; a meno che non fosse strettamente necessario. Come in quel caso.
Tamburellò delicatamente le nocche contro il pregiato legno di cui l’uscio era ricoperto, senza tuttavia riscuotere né consensi, né tanto meno responsi di alcun genere. Allora, riprovò una seconda volta, con maggiore insistenza. Nuovamente, silenzio stampa. « Integra, sto entrando. »
La decisione fu presa non proprio a cuor leggero. Ma lui, santa miseria, era o non era la sua guardia del corpo? Pertanto, era annoverato specificamente tra i suoi compiti di base intervenire repentinamente, qualora sussistesse anche solo un vago sospetto di pericolo.
E lui ce l’aveva. Forse era paranoico, ma un controllino non avrebbe fatto male a nessuno; anzi, era molto più probabile che facesse del bene, piuttosto.
Con sua sorpresa, una volta spalancata la porta, non si trovò al cospetto del sanguinoso disastro che aveva ipotizzato; e menomale, aggiungerei. Lo studio era semplicemente vuoto.
Andarla a cercare in lungo e in largo per l’intero colosso residenziale Hellsing sarebbe stato controproducente, un inutile spreco di tempo. Ritenne più saggio, invece, attenderla lì. Tanto, si trattava senz’altro di un’attesa esigua; forse aveva fatto capatina al bagno. Non ci avrebbe messo molto, no?
No. Previsione errata.

« Bo’, va be’… tornerò più tardi. » convenne tra sé, dopo aver speso inutilmente ben quindici minuti col culo posato sulla poltroncina di velluto verde innanzi alla scrivania.
Ritornando in piedi, tuttavia, tutte le intenzioni di sgomberare quell’area solitaria si vanificarono. Notò di scorcio, a bordo di uno dei tanti scaffali che riempivano le pareti, un’ordinatissima ed immacolata pila di vinili. Attratto da essi come una calamita, ebbe modo di apprezzare anche il grosso giradischi d’epoca che stanziava proprio lì di fianco: non un filo di polvere su quella raffinata collezione, la quale, in qualche strano modo, riusciva a riflettere la personalità della proprietaria solo guardandola.
Qui, il giovane si concesse un capriccio: qualcosa che non avrebbe dovuto fare, e che in ogni contesto sarebbe risultato a dir poco indecoroso. Ma che fece lo stesso.
Sfilò via un disco dalla meticolosa pila. Queen, Killer Queen. Lo fece ancora; God Save the Queen, Sex Pistols. Seguitò Bowie, procedendo poi con un pizzico di folk dato da Bob Dylan.
Si stupì della varietà. Tutto molto britannico, certo, ma con un inconsueto velo ribelle che non s’aspettava di poter accostare alla Lady di ferro.

« Bella e rivoltosa, eh…? » Integra sprigionava fascino; ed Isaac, più la conosceva, più ne rimaneva stregato, senza che potesse fare alcunché per impedirlo.
E proprio quando credeva di averle viste tutte, ecco che venne un'altra volta attirato altrove. Ricompose i preziosi beni musicali fedelmente a come li aveva trovati, indietreggiando solo di un paio di passi per giungere alla presenza dell’imponente scrittoio d’ebano. Quei sigari cubani erano troppo succulenti ed incustoditi per potersi trattenere dal darci un’occhiata: erano scuri, profumati, compatti e sicuramente molto saporiti.
Che avrebbe dato per fumarsene uno; lui, che da ragazzino era disposto a raccattare dalla strada mozziconi abbandonati a metà, pestati giornalmente da milioni di scarpe indifferenti di cui Annecy era colma oltre ogni limite, pur di aspirare un po’ di inebriante nicotina.

« Che fai qui dentro…? »

Il momento di gloria volse al termine nel peggiore dei modi. Il tabacco solido che stava sfregando tra i polpastrelli gli cascò dalle mani per lo spavento: cercò prontamente di raccoglierlo e di richiudere la scatola che lo conteneva in origine, apparendo tuttavia molto più goffo che fulmineo.

« Scusa… scusa, non volevo rovistare, me ne stavo andando. » si preoccupò di essere, ancora una volta, malvisto; come gli era accaduto praticamente sempre nel corso della vita. « Non stavo rubando niente, te lo giuro, potessi morire ora. »

« Lo so che voi francesi non rubate. È troppo poco romantico. » incredibile ma vero, quella era una battuta vera e propria, addirittura accompagnata da un accenno di sghignazzo divertito. Data la rarità del momento, si poteva pure soprassedere sulla natura velatamente ingiuriosa di quelle parole. « Se ti interessa tanto, puoi accenderne uno. »

« Sul serio…? »

« Ma sì, fa pure. Tanto ne ho un’infinità. »

Isaac accettò di buon grado la proposta, come fosse stato un ordine. La boccata di fumo nero che gli gonfiò i polmoni, a quel punto, fu ubriacante a dir poco: mai, in vita sua, avrebbe creduto di inalare qualcosa di così sublimemente dolce ma piccato al contempo; di una delicatezza intensa, una ricercatezza potente.
Sapeva di mare. Sapeva di bella vita.

« Che roba… dovresti vedere la merde » si censurò, optando per un francese che non lasciava grossi dubbi all’interpretazione. « che fumo io — scusa il francese. Tutt’altra storia. »

« Sarà. A me cominciano a stomacare. » cionondimeno, Integra sfilò comunque un ennesimo sigaro dalla custodia, più per convulsione che per desiderio effettivo. « Be’, allora? Cos’è che facevi qui? »

« Oh… ero venuto a portarti il solito rendiconto settimanale in merito alla questione dei vampiri artificiali, ho anche aggiunto qualcosa su come se la sta cavando Pip con Alucard e Seras. »

« Poi qualcosa è andato storto, pare. »

« Già… non ho potuto fare a meno di notare i vinili sulla mensola. Sono rimasto colpito, è musica di un certo livello. »

« Quindi tu sei un intenditore? »

« No, no, per niente. Ma non serve aver frequentato il conservatorio per capire che, forse, quella che se ne intende tra noi due sei tu. »

« Allora dovresti passare più spesso dal mio ufficio. Magari parleremo di musica. »

Un sorriso fiero, tinteggiato di un lieve imbarazzo dai tratti quasi adolescenziali, gli ornò il volto leggermente barbuto. “Volentieri”, mormorò.
E, volentieri, accadde. Dapprima fu solo un timido approccio, che li rivide in occasioni extra-lavorative la sera dopo e quella appresso ancora. Poi ricapitò per le successive settimane, a giorni alterni o tutti i giorni, fino a trasformarsi in una piacevole abitudine.

« I Queen mi ricordano mio nonno. Si prendeva delle incazzature assurde, giuro. » la stanza era diventata una cappa di fumo. Fumo dolce di sigari tropicali; quelli di Integra, che ormai condivideva col suo secondino come fosse stata la normalità. A fare da sfondo a quel salotto musicale, un sentore di Another One Bites the Dust: distinguibile, ovviamente, ma che non interferiva nella loro conversazione. Per qualche motivo, entrambi ci tenevano a non perdersi nemmeno una parola dell’altro. « Odiava Freddie Mercury con tutto sé stesso. Gli dava della checca continuamente, era estenuante. »

« Be’, sarà stato contento del suo AIDS. »

« Purtroppo non è vissuto a sufficienza per scoprirlo. Ma sì, si sarebbe spanciato dalle risate. »

« Per rispettare la memoria di tuo nonno, io cambierei. Va’, scegli quello che ti pare. »

Sì che erano in confidenza, ma il grande capo era pur sempre il grande capo, e non si risparmiava mai dal dispensare direzioni a destra e a manca. E dato che il suo ruolo era eseguire, lo fece anche quella volta: si approssimò al giradischi, spulciando la raccolta alla ricerca del disco giusto.
Quello d’atmosfera, quello decisivo. E dopo un’attenta analisi, Isaac decretò che Heroes era il disco perfetto.

« Buona scelta. »

« Dai, vieni. » orientò un braccio verso la sua bella interlocutrice. Esso, per quanto teso e massiccio fosse, era pregno di finezza, di tenerezza; come se stesse indirizzandosi a lei col solo intento di carezzarla.

« Prego…? »

« Balliamo un po’. »

« Sì, certo. Sei un po’ ubriaco, mi sa. »

« Ubriaco per quel sorso di brandy inglese da fighetti che mi hai dato prima? Pare proprio che tu non mi conosci affatto, miss Hellsing. »

Integra osservò quelle falangi affusolate a lei protese, trovandole stranamente invitanti. Per quanto tendesse ad irrigidirsi in circostanze di intimità fisica come quella, si sentì allo stesso tempo cullata dalla musica, libera di ammorbidirsi. Per una volta, non era Integral Fairbrook Wingates Hellsing, regina suprema dell’Organizzazione di cui portava il nome, padrona del vampiro millenario più famoso di tutti i tempi ed affiliata diretta della Chiesa anglicana; ma solo Integra. Integra che si regalava un momento di spensieratezza, assieme ad un sottoposto; o meglio, un amico.

« E comunque… è “mi conosca”, non “mi conosci”. » solo a seguito di quella precisazione pungente, accettò l’invito.
Unirono le mani, ed Isaac la prese per la vita: i loro corpi aderirono timorosamente, e lasciarono che Heroes li conducesse goffamente.

« Non sono molto bravo a ballare, ora che ci penso… »

« Lo vedo. »

A scapito delle premesse, però, ben presto i loro movimenti rozzi si aggraziarono, divenendo fluidi e ravvivati; vivaci e dinamici, quasi disordinati, ma tuttavia incastrati perfettamente. Isaac fece roteare la sua dama attorno al suo braccio un paio di volte; il cuore gli prese a martellate il petto, sempre più forte, fino a ridondargli nella gola. Il suo corpo avvertì il primordiale impulso di stringerla a sé, di lambirla teneramente.
Quando scelse di seguire il proprio istinto, era troppo tardi per tirarsi indietro. Gli occhi fulvi di lui si fusero ai cerulei di lei; si mescolarono, si unirono. Le sfiorò una guancia olivastra con la bocca, lasciandosi percepire a malapena. Integra ebbe un sussulto confuso, ma non sembrò intenzionata a ripudiare, ad aborrire, a respingere. E gli diede adito di spingersi oltre: tracciò un percorso sul volto di lei, meravigliosamente scolpito, che ebbe come tappe la mascella, il mento, le estremità delle labbra, fino ad approdare proprio a queste ultime, ed il bacio che vi dedicò fu vergine, virtuoso: come se lei fosse fatta di cristallo, e lui temesse di romperla.
Per lui, l’ultima donna da considerarsi importante nella vita l’aveva fustigato a sangue. Per lei, l’ultimo uomo da considerarsi importante nella vita era defunto da tempo, e l’aveva lasciata nelle mani di un demone dai canini affilati e di uno zio troppo avido per aver cura della nipotina.
Magari, avevano proprio bisogno l’uno dell’altra. Isaac le ghermì i fianchi, la tenne stretta, perché la paura che gli sfuggisse via come ogni cosa bella della vita lo terrorizzava. Integra, istintivamente percependo i suoi timori, tenne le mani sul suo volto ispido, trasmettendo sollievo al bambino tremolante ancora rinchiuso dentro di lui.

« Ora però dovresti andare. » fu miss Hellsing a spezzare l’incantesimo, come ripresasi di punto in bianco da uno stato di trance, temendo di lasciarsi trasportare troppo. Peraltro, erano ancora in una posizione gerarchica fin troppo diversa, e lei non se n’era affatto dimenticata.
Tirò il freno a mano. Come sempre. « Sono un po’ stanca. È meglio andare a dormire. »

« Sì… sì, hai ragione, scusa. » i suoi arti le scivolarono via dalle anche. Seguirono una manciata di secondi silenziosi, colmi di colpevolezza e cose non dette; di tristi imposizioni, di paure, di pulsioni represse. Filtrato dalla finestra, il chiaro di luna gli illuminò il cammino a ritroso, che portò Isaac sulla via della porta. « Allora… buonanotte, Integra. »

« Buonanotte, Isaac. »

Isaac, ventotto giorni alla scelta imperdonabile.

 



–––––



Vedere sempre le stesse facce non era poi tanto una novità, per Millenium. Il grande scontro era alle porte, e la tanto agognata guerra infuocata tra creature mortali e demoni infernali marciava inesorabile al suo punto di non ritorno. Va da sé che, a conti fatti, il tempo dei reclutamenti era finito da un pezzo: i membri stretti del Letzte Batallion, con la sua omogenea alternanza di marescialli e sottufficiali, era più che al completo.
O meglio, questo era ciò che il Maggiore aveva creduto fino a quel momento. Malgrado ciò, quando gli giunse all’orecchio la comunicazione del suo viscido infiltrato riguardo ad un possibile nuovo elemento, discendente diretto del morso di Alucard, si rimproverò di essere stato tanto sciocco da porsi dei limiti; specie in una situazione come quella, così elettrizzante per lui, e che non smetteva mai di stupirlo.
Le carte in tavola necessitavano una rimescolata. Avere una draculina in squadra sarebbe stato il coronamento del suo lucido delirio, l’apice che fino ad allora non aveva raggiunto; praticamente, un’estensione della sua nemesi, il motivo per cui tutto aveva avuto inizio.
Lasciarsela scappare sarebbe stata una pura e semplice idiozia. Decisamente non nel suo stile.

« Mah. Non mi sconfinfera proprio l’idea, no. » Schneewittchen non aveva propriamente il dono dell’espansività. Aveva un paio di colleghi a cui teneva, e che forse poteva ritenere “amici”; tanto bastava.
L’arrivo di quella nuova era previsto per quel giorno, e lei non poteva fare a meno di esternare le proprie apprensioni in merito; non che fosse più di tanto ascoltata, comunque.

« Io sono contento, invece. » Caspian si pronunciò anche se non direttamente interpellato, come spesso gli capitava di fare. « Sono stanco di vedere sempre i soliti brutti musi. Una faccia nuova ci farà bene. »

Non tutta la combriccola, ora disposta ai piedi del Deux, si espresse in merito. A molti di loro – c’erano proprio tutti, mancavano giusto i pezzi grossi – non fregava un bel mucchio di niente di chi o cosa finisse della mischia. Tanto peggio per loro. Le amicizie, quando sei strascico vivente di ciò che rimane del Nazismo, non sono esattamente una priorità.
Loro avevano soltanto l’onere di darle un’occhiatina, prima di spedirla dal Maggiore. Se si fosse presentata armata, o assetata di sangue? Il loro obiettivo era proteggere il grande capo e la sua grande mente. Ecco perché erano lì.
La nuova recluta, comunque, non tardò ad arrivare.

« Mi manda Walter. Sto cercando il Maggiore. » i presenti si scambiarono fugaci occhiate; strabuzzarono gli occhi, sbatterono le palpebre ripetutamente. La donna che era stata loro descritta come erede del re dei vampiri gli sembrò tutt’altro che intimidatoria: il suo viso era troppo pulito, i suoi lineamenti troppo docili. Era davvero così doveroso accoglierla tra loro? Nessuno la prese sul serio, e molti cominciarono a riconsiderare l’impeccabilità delle scelte del grassone. « Voi sareste? »

« Piano con le domande, gattina. » Zorin Blitz faceva paura. Era una bestia erculea, tutta tatuata, tutt’altro che femminile. Impugnava con estrema disinvoltura un’enorme falce, che probabilmente pesava il doppio di lei. Se dapprima se la teneva comodamente poggiata su di una spalla, ora la puntava minacciosamente al candido, sottile, quasi angelico collo di porcellana altrui. Un collo che ispirava morsi, adornato da un paio di fossi rossastri, sfregio dell’azzanno ricevuto tempo addietro; la ferrosa punta scintillante si accinse alla pelle di Alexis, fermandosi quel tanto che bastava a non lacerarla. « Identificati. »

« Il vostro capo non vi ha comunicato che avreste avuto visite? »

« Non provare a giocare con me, piccola. Non sei nella condizione adatta. »

« Tu non giocare con me. »

« Ehi, ehi… calma, signorine, non scannatevi. » Jan Valentine si intromise tra i due fuochi, autoproclamandosi finissimo conoscitore del gentil sesso; e, di conseguenza, l’unico in grado di placare le due belle litiganti. Per qualche motivo, il concetto di lotta tra donne gli faceva venire una gran voglia di menarselo. « Dolcezza, non puoi venire a casa nostra e fare come vuoi tu. Capisci? Fatti guardare più da vicino… » il più giovane della coppia di fratelli vampiri si concesse brighe e libertà che non gli erano dovute. Una sua mano, ossuta e colorita, afferrò il mento di lei; lo sollevò, voltandolo di qua e di là, squadrandolo accuratamente da ogni angolazione. « Che bella topina… sei sicura che il Maggiore non ti abbia scelto perché ha voglia di farsi un giro su di te? Sinceramente, lo capirei. »

« Levami le mani di—… »

« Sì, brava, ribellati un po’. Mi piace addomesticare le bambine cattive come te. Ti faccio vedere una cosa che sicuramente apprezzerai. »

Per l’ennesima volta, Alexis dovette gestire un durello imposto, non richiesto: quel perfetto sconosciuto gracchiò via la lampo dei suoi pantaloni, lasciando che questi gli ricadessero morbidi lungo le cosce. Tirò fuori la sua vomitevole carne eretta, afferrandosela saldamente dalla base e porgendogliela come un pacco regalo. L’olezzo rivoltante di feromoni maschili impregnò le narici ultra sensitive dei vampiri lì riuniti.

« Dai, toccalo un po’. Non fare la timida, non ti morde. »

Oh, certo; l’avrebbe toccato eccome. I bei tempi d’innocenza e virtù erano, purtroppo, andati per sempre: il mostro che era diventata non avrebbe più tollerato le prepotenze degli uomini, le loro ingiunzioni, i loro sporchi cazzi. Lo sguardo della nuova arrivata si infiammò, pennellandosi di ogni sfumatura della morte: quel miserabile era la personificazione di ciò che più odiava.
Un uomo che aveva volontariamente venduto la propria umanità; un uomo che, senza né pudore e né rimpianti, si sentiva invincibile, tanto da non temerla pur sapendo la sua ragguardevole provenienza.
Basta uomini. Anzi, no — basta uomini buoni solo a rovinarle la vita, a nausearla, a confonderla, a raggirarla.

« Ma che fai…? » Jan ebbe appena il tempo di domandarlo, prima che tutto gli fosse dolorosamente chiaro.
Uno strazio lancinante lo colpì ad altezza pube, che lo portò inevitabilmente ad una serie di striduli strilli di puro orrore. Frastornato, a stento intuì quanto accadutogli: tutto ciò che riuscì a distinguere si limitava al lago di sangue che si propagò sotto ai suoi piedi irrorando il pavimento, e la mancanza essenziale di qualcosa che, fino a qualche minuto prima, era sempre stato abituato a vedere lì, ciondolante tra le sue gambe.

« Ora ascoltatemi bene… » Alexis si voltò, mostrandosi maestosa a coloro che, pietrificati da quanto appena accaduto, si cucirono la bocca. Ella brandiva ancora nella mano destra il membro violaceo appena strappato alla sua carne d’origine, con gli artigli conficcati tra le pieghe della cotenna flaccida. Di sangue ne colò a fiumi, colandole lungo il braccio ed infrangendosi contro il gomito.
Un tetro silenzio inghiottì i presenti senza lasciare lische. Lamentii e turpiloqui soffusi come unico rumore percettibile: il corpo di Jan Valentine, immerso nella sua pozza, si contorceva. « Se pensate che io sia venuta qui per giocare, o per farmi prendere in giro da voi, vi sbagliate. Fatemi parlare con chi comanda qui, se non volete finire anche voi così. »

Parole dure. Minacce concrete; non avrebbe avuto paura di riservare anche agli altri lo stesso trattamento. Perché avrebbe dovuto, del resto?
Ma la credibilità di quanto detto venne smorzata più in fretta del momento di apoteosi in sé per sé: stavolta, fu il turno di Alexis di gridare in preda ad un patire feroce, poiché attaccata alle spalle. Qualcuno, appena sbucato fuori dal Deux, non s’era nemmeno scomodato a percorrere la scalinata: aveva provveduto solo a spararle.
Due proiettili, solo due. Bastarono a perforarle gli occhi, a farle esplodere i bulbi e ridurli a brandelli. Lei cascò sulle ginocchia, zampillò senza sosta, sbavò di dolore; naturalmente, non ebbe modo di vedere il bastardo che le avesse arrecato tanto male. Tutto ciò che arrivò alle sue orecchie, unico senso rilevante di cui disponeva in quel caso, fu una voce assai curiosa: melliflua e pacata, ma al contempo devastatrice, indolente, insensibile. Quasi inumana.

« Lungi da me difendere quel goblin di Jan Valentine… ma in questo luogo si esige un certo decoro. » passettino dopo passettino, Leone avanzò, un gradino alla volta. Si scansò dai piedi con poco garbo ciò che ne rimaneva del malcapitato Valentine, che nel frattempo stava penosamente e faticosamente rigenerandosi il cazzo – non perse occasione, comunque, di grugnire un confuso “va’ a farti inculare, stronzo!”, stretto tra i denti, mosso dalla frustrazione di essere stato atterrato da una donna e sbeffeggiato da un finocchio –, prima di raggiungere i pressi della sua insanguinata interlocutrice. « Vedi… il fatto è che questi spettacolini non riesco proprio a digerirli. Sottraggono tempo al Maggiore, gli tolgono il riflettore di dosso. È inaccettabile, non credi? »

« Pezzo… di… merda… » bofonchiò lei. Il suo viso si scolpì di lacrime rosso cremisi, che fuoriuscirono dai solchi neri delle sue cornee assenti.

« Già, sì, mi è stato detto un po’ di volte. Altri spunti illuminanti da approfondire? No? Immaginavo. Allora, se non c’è altro… ti scorterò personalmente dal mio padrone. Non farmi pentire di essere stato caritatevole con te. » fu solo allora che, con un inquietante mix di eleganza e gelida efferatezza, Leone si sistemò la pistola in vita, stretta nel cavallo dei propri pantaloni. Poi, rivolse sguardo saccente e, al solito, sprezzante agli attoniti spettatori rimasti. « Be’? Che state fermi a fare? Forza, muovete un po’ il culo. Luke, prendi ciò che ne rimane del tuo patetico fratello; che impari a riporre un po’ l’uccello nell’apposita gabbietta. »

Le istruzioni furono lineari, dirette, senza scampo per ulteriori, inconcludenti prolissità.
Alexis, come promesso, venne onorata dell’ingombrante presenza tanto decantata fino a quel momento: un ometto, largo e voluminoso, le apparve accomodato ad una sedia girevole, con le grosse cosce accavallate, le mani giunte, ed un tetro ghigno inciso tra le guance paffute.

« Signore, ecco l’ospite. »

« Grazie, Leone, mio caro ragazzo… saresti così gentile da concederci del tempo da soli? »

« Hm. » le verdi iridi del giovane arsero, ed un velo di gelosia serpeggiò in esse. « Ma certo. Rimango fuori, però, per qualsiasi evenienza. La ragazza sembra un po’ instabile: ha strappato il cazzo a Jan Valentine. »

« Ahah! Immagino che sia stato esilarante. Puoi andare, ragazzo mio. »

Irritato dall’insistenza, ma tuttavia sempre obbediente e servile, Leone si congedò con un breve inchino del capo, prima di allontanarsi dalla grossa aula magna, appostandosi all’ingresso di essa come sentinella.
Per un grappolo significativo di istanti, non venne pronunciato alcunché. Lui studiò il verdognolo appena rivivificatosi di lei; lei, cautamente, fece lo stesso con le caleidoscopiche ambre di lui.

« Mi dispiace per il comportamento di Leone. Avrai notato che sa essere un po’ irascibile, alle volte; non riesco proprio a tenerlo a bada, povero me! »

« Un sottoposto che salta subito al collo degli altri senza nemmeno chiedersi chi ha davanti, è un sottoposto inutile. »

« Via, via… è solo un ragazzo. Imparerà. Piuttosto, sono molto lieto che i tuoi bellissimi occhi siano tornati al loro posto. » qui, la smorfia maligna del serpente parve acuirsi. « Sono molto interessato a te, fräulein. Walter mi ha riferito grandi cose. »

« Anch’io vorrei sapere qualcosa in più su di te, in effetti. E anche su questo posto. »

« Splendido! Allora possiamo conoscerci meglio. Coraggio, parlami un po’ di te… parlami di Alucard. Che rapporto hai col tuo master? Perché sei venuta qui? »

« Non c’è molto da dire… Alucard mi ha trasformata contro la mia volontà. Mi ha obbligata a diventare misera e mostruosa tanto quanto lo è lui. Non credo che avesse intenzione di crearsi una draculina… è stato tutto un merdoso scherzo del destino. » Alexis cedette. La sua integrità vacillò ad ogni parola, crepata dal peso delle cocenti delusioni. Non avrebbe voluto smoccolare davanti a quell’omuncolo, che la guardava come carne fresca innanzi ad un lupo affamato; non avrebbe voluto rivelarsi per quella che, in fondo, era rimasta: una debole. Eppure, non riuscì a dominarsi: il pianto le bruciò lungo le guance pallide, solcandole. « E ha distrutto la mia vita. Tutto ciò che avevo è perduto… i miei sogni, le mie aspirazioni. Non mi ha lasciato più niente… e l’odio che provo per lui è l’unica cosa che mi fa sentire ancora un po’ umana. Ancora un po’ viva. Quindi, se siete qui per ucciderlo, o anche solo per provarci, posso darvi una mano. »

Gli capitava di rado, ma quando gli capitava… oh, il Maggiore si sentiva eccitato in tutti i suoi circuiti e tutti i suoi ingranaggi. Aveva tra le mani il più grande jackpot della sua lunga vita, l’asso nella manica, il jolly che gli avrebbe permesso di chiudere la mano con successo.
Inspirò pienamente. Riempì i freddi polmoni metallizzati, pregustando la dolce fragranza della morte, del rancore, della devastazione; della strage imminente, a cui s’aggiungeva un altro succulento tassello.

« Mia cara… i sentimenti che ti muovono godono di una bellezza rara. Incantevole. Sublime. Sarò più che lieto di aiutarti a compiere la tua dolce vendetta. Faremo grandi cose insieme, mia bella fräulein. »

Ma non sempre le cose vanno come ce le aspettiamo: la volubilità del destino è materia oscura, incontrollabile; persino per uno come il Maggiore.
Alexis, il suo gioiello, il suo tesoro, gli sfuggì proprio quando credette di averla in pugno. Millenium non era la sua dimensione, non era il suo posto: cosa avevano da offrirle quel grassone e la sua congrega di teppistelli? Certo, avrebbero attentato alla vita del più longevo dei vampiri, ma a quale prezzo?
Aveva ovviamente appreso i loro piani folli, del massacro di sangue e budella a cui auspicavano. Uno sperpero di vita inaccettabile. Inammissibile, insopportabile; persino per la bestia vendicativa che era divenuta.
Fuggì quella stessa notte, ritrovandosi ad un bivio: perseverare o redimersi? Tornare tra le braccia del suo carnefice era fuori discussione.
E allora, optò per l’ultimo, disperato, estremo rimedio. Si rifugiò laddove, da sempre, si sentiva a casa: a Roma. In Vaticano. Da Anderson.

 

Alexis, cinque ore al ritorno a casa.

 

–––––



È da spezzarsi il cuore la rapidità con cui, alle volte, tutto inizia e tutto finisce.
Isaac lo sapeva, certo; l’aveva sperimentato a sue spese, sulla sua pelle, come la vita non fosse solita elargire certezze a destra e a manca, e forse avrebbe dovuto aspettarsi un epilogo del genere.
Eppure, commetteva sempre lo stesso errore. Aveva riposto le sue speranze, i suoi ideali, le sue ambizioni in qualcun altro; e ora, così come tutte le altre volte, doveva gestire il rovente lavico dell’amarezza, del fallimento.
Ma c’è da fare un passo indietro. L’idillio della sua storia d’amore cominciò rovinosamente a sgretolarsi il giorno in cui Integra, sotto invito di Enrico Maxwell, si recò al Museo della Guerra Imperiale, nel cuore di Londra.
Il motivo per il quale venne sollecitata ad un colloquio così tanto confidenziale – tanto che vi presenziarono da soli, privi di accompagnatori e guardie del corpo – rimase a lungo un mistero: l’arcivescovo non si era dilungato molto nella sua lettera. Ma, data l’urgenza della convocazione, doveva essere importante.
Altrettanto arcani furono la natura ed il contenuto intrinseco della loro chiacchierata. Nessuno lo seppe, nessuno venne informato, e forse andava bene così. Ma Isaac, che tanto a lungo aveva rimirato la bellissima capofamiglia Hellsing, aveva tristemente constatato in lei un insolito sconforto da quel giorno, una perdita di lucentezza nello sguardo cobalto.

« Sei sicura di stare bene…? »

« Sto bene. » quello era uno dei motivi per cui faticava a definirsi “impegnata”, “fidanzata”, o quel diavolo che ci fosse tra loro due ora. Nonostante avesse a cuore la loro indefinita relazione e trovasse strabiliante il loro feeling mentale, di tanto in tanto aveva qualche problemino ad aprirsi con lui, ad esporsi; a mostrare anche solo la minima perplessità. E, soprattutto, all’idea di dovergli delle giustificazioni. « Sono solo un po’ stanca. »

« Capisco… » seppur non convinto, decise di non interrogarla oltre. Lei aveva tutto il diritto di parlargli se ne aveva voglia e quando ne aveva voglia, coi suoi tempi; oppure non parargli affatto. Si limitò a confortarla, per quanto possibile, tenendole le mani sulle spalle, carezzandole con cura, allungando di poco le dita sul suo collo e facendo lo stesso. « Se vuoi, ti lascio da sola. »

« No, rimani pure, mi fa bene parlare un po’. Piuttosto, com’è andata oggi in mia assenza? Qualche problema? »

« No, qui tutto tranquillo. Solo un po’ di rumore stanotte, ma niente di che. »

« Hm? Che intendi? » Integra, come se avesse appena fiutato involontariamente un potenziale pericolo, tornò ad contrarsi; persino sotto il tocco gentile di Isaac.

« Bo’, ho sentito per caso una conversazione un po’ strana tra Walter e Alexis. Lui le ha detto qualcosa riguardo un certo Millenium, e di un suo amico che avrebbe potuto aiutarla… o qualcosa del genere. Sinceramente non ci ho capito molto, ero anche mezzo addormentato, mi ero alzato solo per andare in bagno. Mi chiedo di che diavolo parlasse. »

E si chiese anche cos’è che avesse detto di tanto sconcertante, data la reazione che conseguì. La donna immobile al di sotto dei suoi palmi si ammutolì tutta d’un tratto: smisero le sue parole, e quasi smisero anche i suoi piccoli afflati, ritmati e tutti uguali. C’erano solo i suoi pensieri, uno peggiore dell’altro; uno più deleterio dell’altro. Fu quando poi si eresse, abbandonando la sua amata sedia girevole e sottraendosi a quel tocco che, date le circostanze, cominciava a farla rabbrividire, che Isaac comprese di aver irrimediabilmente compromesso tutto senza nemmeno accorgersene.

« Che succede? »

« Come lo sai? »

« Cosa come lo so…? »

« Non prendermi per il culo, ragazzino. » che fosse anagraficamente più grande di lei era irrilevante. Lei era un’adulta fatta e finita, con il macigno e le responsabilità di un’intera associazione sulle spalle; dell’intera Londra, e ora anche dei maledetti nazisti. Non aveva tempo, né voglia, di farsi ridicolizzare da nessuno. Men che meno da lui. « Come sai di Millenium? »

« Ho appena detto che l’ho sentito da Walter! Non ho idea di cosa sia! »

« Già, certo. Peccato che Walter non può in alcun modo saperne niente, dato che non ne ho mai parlato con lui; né con te, né con nessuno. Quindi, il fatto che tu lo sappia, mi dà da pensare. » strinse i denti fino a scheggiarseli, i pugni fino a sbrindellarsi la carne con le unghie.
Tradire… il più vile, spregevole, ignobile dei gesti. Di egual gravità in ogni ambito: con un superiore, con un partner, con un amico. E Integra si sentì tradita sotto tutti i fronti. « Cosa sei tu? Una spia di Maxwell o qualcosa del genere? »

« Ma che stai dicendo…? Integra, sei impazzita? Se c’è qualcuno di cui dovresti preoccuparti, quello è Walter! »

« Certo. Ora dovrei dubitare del mio maggiordomo, l’uomo che mi ha praticamente cresciuta, per credere alle strampalate teorie di uno sconosciuto? »

« Io sono uno sconosciuto per te? » più si proseguiva, più male faceva. L’idea di essere insignificante per lei, di non aver alcuna rilevanza nella sua vita, era più lugubre di qualsiasi altro insulto. L’indifferenza era la vera, unica arma per ucciderlo. « Non so cosa sia questo Millenium, ma Walter ne ha parlato come se lo conoscesse bene. E ne ha parlato con Alexis, che è notoriamente una pazza. Non ti insospettisce nemmeno un po’? Il mio lavoro è proteggerti, Integra. Io voglio solo che tu sia al sicuro. »

« Non ho bisogno di nessuno. Non ho bisogno di te. E finché non ci avrò visto chiaro in questa faccenda, sei ufficialmente sollevato dal tuo incarico. Vattene. »

Un groviglio di parole non dette gli si annodò in gola, concretizzandosi in un fascio di muscoli duro e fibroso. Come quando stai per piangere. Ed improvvisamente, sentì di avere di nuovo undici anni, e di essere stato punito a frustate e mazzate per una colpa mai commessa.
Ma ora era un adulto, e il pianto non era cosa di cui un uomo – un mercenario, per giunta – potesse macchiarsi. Evitando il rischio di rendersi ulteriormente ridicolo, eseguì con rigore il suo ultimo ordine: lasciò l’ufficio, revocando il diritto di sbattere la porta dietro di sé.
Una rabbia insensata si intrinsecò nelle sue gesta, nei suoi passi, nei suoi respiri; tanto da assomigliare ad un toro pronto alla carica contro la sua banderuola rossa. Se Integra voleva vederci chiaro nella faccenda, ebbene, anche lui avrebbe fatto lo stesso: avrebbe dimostrato la sua innocenza, a prescindere da quanto biechi e indecenti sarebbero stati i mezzi.

« Ti è andata male, eh? » le risposte che cercava giunsero da sole, su due gambe, vestite d’un completo color prugna ed abbellite di monocolo. Walter lo incalzò, mostrandosi con un’espressione strafottente, arrogante; ben lontana dall’aura diligente e scrupolosa che solitamente lo accompagnava. « Ma che bravo, sir Isaac Bernadotte… tu conosci tutti i miei preziosi segreti, non è vero? Ma sei proprio sicuro di averli scoperti tutti? »

« Gran figlio di puttana… che cosa stai tramando?! »

« Le tue intenzioni con la mia padrona sono molto nobili. Ah, l’amore… ci rende così benevolenti. E così sciocchi. Tanto da credere di poter competere con chiunque, senza conseguenze. »

« Sai cosa? Ora che ne ho la conferma, dimostrerò ad Integra che si sbaglia a fidarsi di te, e che sei solo una viscida serpe. E sai cosa fece la Madonna al serpente, simbolo del demonio fattosi uomo? Gli tagliò la testa. »

« Ah, davvero? »

« Davvero. »

Si scrutarono come se dovessero assalirsi reciprocamente da un momento all’altro. Il loro cuore pompò sangue e adrenalina a velocità sempre crescente, tanto da essere sul punto di esplodere.
Ma nessuno dei due alzò un dito. Nessun sogghigno, nessuno scherzo; soltanto un patto silenzioso appena stipulato: l’uno sarebbe soccombuto, l’altro avrebbe trionfato.
 

Isaac, ventun ore al taglio della testa.


 

–––––



La notizia della morte di Tubalcain e Caspian arrivò celere, portando con sé un implicito messaggio: il piano poteva proseguire. Alucard era stato separato dalla sua signora con successo, ed era giunto il momento di giocare la carta Rip Van Winkle.
L'impero tedesco era pronto a risorgere, e con esso tutti gli annessi e connessi; eppure, non tutti parevano fare i salti di gioia all’idea di accaparrarsi una golosa fetta di mondo.
Presa coscienza di essere nulla più e nulla meno di una pedina mossa a piacimento dalle mani paffute del Maggiore, Schneewittchen sentì di aver perso il collante che la ancorava a Millenium.
Probabilmente, i suoi tumulti erano dovuti alla proiezione su grande schermo del corpo maciullato del suo più caro amico, unico che potesse definire tale in quel branco scalmanato in cui s’era sempre sentita estranea; con tanto di tracotanti risate di sottofondo, schernenti e derisorie.
Nessuno aveva avuto pietà del soldato caduto in battaglia. Ma che razza di mostri erano, quelli? E che razza di mostro era lei? In fin dei conti, non era poi così dissimile dai suoi compagni; dai loro sguardi di sufficienza, dalle loro oltraggiose ilarità.
Del resto, erano vampiri. E i vampiri campavano di sangue e budella, non di empatia e belle parole.

« Oh, poverina. Soffri tanto della morte del tuo amichetto, nevvero? »

Proprio quando credette di essere sola, qualcuno strisciò alle sue spalle. Qualcuno che, a proposito di denigrazioni, certamente era anni luce dal comprendere il suo dolore; e che, al contrario, sarebbe stato ben lieto di usarlo contro di lei.

« Vattene via. » la Biancaneve tedesca si innervosì. La voce di Leone era petulante e costantemente prepotente, fin quasi a darle il voltastomaco. Si premurò, comunque, di asciugare le gote smorte crepate dal pianto, così da conferire al nemico un’occasione d’attacco in meno — naturalmente, era più un’utopia che una speranza vera e propria. « Non ti voglio vedere. »

« Ricordi quando ero io a non voler vedere voi schifosi, seccanti microbi? Non mi pare che allora vi sia importato qualcosa. »

« Era diverso! Lasciami in pace, ho detto! »

« Nemmeno immagini da quant’è che desideravo questo momento… quello di vedervi morti tutti, nei modi più brutali e raccapriccianti. Dilaniati e massacrati, fin quando non ne rimarrà solo uno al fianco del Maggiore. Io. »

I nervi della rossa cedettero. Non resse il marciume di quelle parole, né il delirio di onnipotenza che trasudava da esse; né, tanto meno, il fatto che un tale meticcio della peggior specie osasse cagare sopra la vita appena spentasi di Caspian.
Quando agì, sentì di essersi liberata di qualche sassolino dalla scarpa: con uno scatto che aveva del felino, affilò gli artigli, brandendoli apparentemente senza criterio contro la figura longilinea e stizzosamente rilassata del giovane. Essi riuscirono ad artigliarsi alla pelle di Leone, tanto quanto bastò ad infliggergli quattro squarci sul collo, da cui inevitabilmente presero a sgorgare perle lucide di liquido scarlatto.
Leone, dal canto suo, non fece una piega. L’ultimo dei suoi difetti era l’imprudenza; proprio per questo, preferì scansarsi un eventuale combattimento — sia per i rischi che ne derivavano, e sia perché, davvero, non aveva alcuna voglia di gestire le crisi emotive di una ragazzina piagnucolona.
Invece, preferì aiutarla a capire con chi aveva a che fare tramite mezzi di maggiore praticità ed immediatezza.

« Prima che tu possa decidere di continuare ad attaccarmi, vorrei ricordarti che ho in canna otto proiettili antivampiro. Come saprai bene, anche uno solo di questi può farti esplodere la testa in mille coriandolini come se fosse Carnevale. » si pronunciò, al solito, quieto e mansueto; calmo ed impassibile, persino mentre estraeva la piccola Walther PPK e gliela mirava torvamente contro. « Io, fossi in te, approfitterei del fatto che, pur bramandolo con tutto me stesso, non posso ucciderti. Servirai al Maggiore, in seguito, e ostacolare i suoi ingegnosi piani non è nelle mie intenzioni. Quindi, cosa facciamo ora? Giochiamo a chi si ammazza per primo? »

Il totale mutismo altrui valse come responso definitivo. Leone, fiutando la sua paura, gongolò, stampando su quelle belle labbra colorite un ghigno dalla malignità disarmante.

« Come sospettavo. » ripose la pistoletta e voltò le spalle, pronto ad andarsene. Alla fine, persino provare ad intrattenersi prendendosi gioco di quei vermi si era rivelato inverosimilmente noioso. « Ricordati, mostro... quello che è successo a Caspian è solo l'inizio. Non è una storiella, sai? Questo è il nostro futuro. »

Schneewittchen rabbrividì, come se un velo di morte le avesse appena coronato le spalle; come se, d'un tratto, il mondo fosse diventato un'immensa distesa di ghiaccio, cupa e torbida, costellata di orribili e strazianti sofferenze.
Le parole di Leone invasero il suo cervello e si insidiarono nel suo animo corrotto: depositarono il seme della discordia, che crebbe fin quasi a soffocarla.

« Non sono io ad essere un mostro... » la sua voce faticò a trovare la via della bocca, scossa com'era da singhiozzi tanto scuotenti. « ... Il mostro sei tu. »

A volte, umanità e mostruosità vanno di pari passo. E Leone, unico umano in carne ed ossa dell'intero Letzte Batallion, ne era la prova vivente.

 

–––––

 

Note autrice
Salve a tutti, cari lettori! Grazie, innanzitutto, per essere arrivati sino a questo punto, e per star leggendo queste poche righe. Sono qui solo per un piccolo avviso: ahimé, data la mia scellerata decisione di continuare con l'università - forse un demone aveva preso possesso del mio corpo quando mi sono reiscritta, boh -, ora che andiamo addentrandoci nella maledetta sessione invernale avrò molto meno tempo per scrivere. Perciò, vi chiedo di avere un po' di pazienza in più per i prossimi capitoli, che arriveranno a ritmo un po' meno frenetico rispetto al mio solito. Chiedo scusa in anticipo, e spero in futuro di poter sdebitarmi dell'attesa con capitoli di qualità che soddisferanno la vostra fame di lettori.
A presto, e buone feste a tutti! 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4064838