Le Paludi di Arrak

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Carissimi lettori, vorrei innanzitutto ringraziare Ghostro per avermi dato l'opportunità di scrivere questa storia.
E' doveroso avvertire che, all'inizio, era stata pensata per essere una long di dieci capitoli ma, per mancanza di tempo e problematiche mie personali, non sono riuscita a finre in tempo. Di conseguenza, questo racconto sarà il primo di una trilogia di mini-long, strutturata come una campagna di Dungeons & Dragons (anche se non ha nulla della Lore di D&D): ogni racconto è una sessione autoconclusiva, che contribuisce allo sviluppo della trama generale. Per correttezza, avviso anche che Till, che farà la sua apparizione verso metà di questo capitolo, è un personaggio creato da Old Fashioned, a lui il merito della caratterizzazione. Il contest richiedeva che usassimo almeno due personaggi di altri partecipanti e uno di quelli che ho scelto è lui.

Mi rendo conto che è una cosa un po' particolare, spero apprezzerete comunque.

Buona Lettura ^^


“Siete sicuro di non voler restare per la notte?” insistette Luther, il padrone di casa, aiutando Jonah a scendere dallo sgabello su cui si era inerpicato per incidere il sigillo a protezione della casa dietro l’architrave della porta “Certo non è una reggia,” ammise, indicando con il braccio la stanza principale della sua casupola “ma è calda e asciutta. Almeno non farete una notte all’addiaccio sotto il temporale.”
“Vi ringrazio di tutto cuore, ma devo proprio rimettermi in marcia.” Il sorriso del giovane non raggiungeva i suoi occhi, ma Luther non se ne accorse o finse di non notarlo “Non posso davvero fermarmi più a lungo, mi dispiace.” Non voleva essere scortese, sapeva che rifiutare l’ospitalità della famiglia avrebbe causato loro un dispiacere, ma il marchio sulla sua spalla sinistra cominciava a bruciare: doveva allontanarsi da loro il prima possibile.
“Almeno accettate un po’ di cibo per il viaggio.” Perché non potesse rifiutare, Martha, la moglie di Luther, gli aveva sottratto il vetusto zaino che portava sulle spalle e vi stava infilando pane, formaggio, marmellata e carne salata “E’ il minimo dopo quello che avete fatto per noi, tra benedizione e raccolto. E poi guardatevi: siete così sciupato! Da quanto non facevate un pasto decente prima di oggi?” Lo sgridò. Quand’egli cercò di fermarla e riprendersi lo zaino, allontanò la sua mano con uno schiaffo: “Non v’azzardate! Come pensate di sopravvivere un altro giorno, là fuori, senza niente da mangiare?!”
Solo quando fu soddisfatta del numero di cibarie che l’aveva costretto ad accettare, a cui le sue figlie avevano aggiunto due piccoli amuleti in tessuto ricamati da loro, gli riconsegnò lo zaino. Nel farlo, gli pose le mani sulle guance e lo costrinse a chinarsi per posargli un bacio sulla fronte. Poi lo strinse in un abbraccio: “Ho visto la tristezza che grava nei tuoi occhi, povero ragazzo.” Sussurrò, affinché solo lui potesse sentirla “La tua non dev’essere una vita facile, ma ti auguro con tutto il cuore di trovare presto la pace.”
Anche le due bambine gli cinsero la vita con le braccia e lo strinsero forte, mentre il loro fratellino gli porse la mano, che strinse come quella del padre.

Nell’allontanarsi da loro, Jonah aveva gli occhi pieni di lacrime. Solo quando fu sicuro che non potessero vederlo bene in volto si girò indietro e rispose al loro saluto. A fatica, soffocò il nodo che gli stringeva la gola e s’addentrò nel bosco. Già il cielo si era oscurato e il tuono rimbombava in lontananza. Il temporale non era opera sua, ormai aveva capito che il cielo ed i suoi fenomeni erano fuori dalla sua portata, ma sentiva la sua furia crescere insieme al dolore del marchio. Non l’aspettava una nottata tranquilla, di questo poteva stare certo.

Un passo dietro l’altro, sempre più stanco, si trascinava nel bosco, Il marchio bruciava sempre di più, come se gli stesse scavando nella carne. Il suo corpo si faceva man mano più debole e le sue membra sempre più pesanti, mentre sentiva salire la febbre ed i brividi si trasformavano in spasmi sempre più dolorosi.
Tuoni e fulmini si moltiplicavano in frequenza e forza, e non passò molto tempo prima che cominciasse a piovere a dirotto. Il mantello che indossava sopra la tunica era stato spalmato di cera per renderlo impermeabile, ma non lo proteggeva contro le folate di vento gelido che sferzavano il suo corpo febbricitante. Cominciò a barcollare e la vista gli si fece debole.
Strofinandosi gli occhi, intravide un’ombra scura poco davanti a sé, in fondo ad una radura di qualche genere. Le ginocchia gli cedettero e dovette arrivarci a carponi, ma riuscì a raggiungere un punto in cui un intreccio di arbusti, rami e radici secolari aveva creato una sorta di alcova sotto cui la pioggia non filtrava. Si trascinò fino in fondo ed ebbe a malapena le forze di sfilarsi lo zaino e la spada dalla schiena prima di crollare semincosciente, sopraffatto dal dolore.



Quando riprese i sensi, alcune ore dopo, era già buio pesto.
La tempesta sferzava ancora il bosco sopra la sua testa. Anche se l’acqua non trapelava tra le fitte spire dei rovi, il vento gelido – o che lui stesso percepiva gelido a causa della febbre – filtrava dall’ingresso del suo rifugio improvvisato, e gli penetrava fin nelle ossa, aumentando il suo disagio ed il dolore. La sua esperienza gli permise di capire che la febbre aveva smesso di salire: abbastanza alta da prostrarlo e farlo soffrire, ma non tanto da ucciderlo. Le sue, pur scarse, conoscenze in materia di benedizioni erano sufficienti per salvargli vita ed anima, ma non a debellare la maledizione.
Si sentiva debole, avrebbe avuto bisogno di mangiare qualcosa, magari di accendere un fuoco per scaldarsi, ma appena cercava di muoversi, una fitta lancinante lo costringeva a desistere e rannicchiarsi su sé stesso, cercando di recuperare almeno un po’ di calore.

All’improvviso, tuttavia, un rumore che nulla aveva a che vedere con i suoni della foresta lo fece sobbalzare. A fatica, riuscì ad alzare lo sguardo e, pur con la vista appannata dalla febbre, riconobbe l’ombra scura di un uomo poderoso che si stagliava all’ingresso del suo rifugio. Una forza sovrannaturale si abbatté sul suo corpo prostrato, costringendolo a terra, ma riuscì a combatterla per sollevarsi su un gomito, pur tremando come una foglia. Dalle sue labbra livide uscì un sussurro rauco ma udibile: “Ti prego, non t’avvicinare! Va’ via!”
 


Con un grugnito di disapprovazione ad accompagnare il consueto scatto del capo, Till si scostò il ciuffo, ormai fradicio, dalla fronte. I capelli si sparsero con un suono bagnato sul resto del suo cranio rasato, strappandogli una sfilza d’imprecazioni tra i denti stretti. Con gli anni, aveva imparato a tollerare il freddo ed il cattivo tempo, ma tollerare non significava rassegnarsi ad essi e, soprattutto, non significava apprezzarli. A maggior ragione quando la tempesta si scatenava all’improvviso sulla sua testa, passando da un semplice cielo coperto ad un vero e proprio nubifragio in pochi minuti, prima che avesse tempo e modo di organizzare un riparo.
In momenti come quello, in cuor suo, arrivava quasi a desiderare che esistesse una qualche divinità. Solo per avere qualcuno da insultare e su cui scaricare la propria irritazione. Aveva tuttavia imparato a sue spese che non esistono esseri superiori: il fuoco è fuoco, l’erba è erba e la pioggia, per quanto fastidiosa, è solo pioggia. Inutile cercare di attribuirvi un significato superiore: era così e basta.
Anche se cominciava davvero ad averne abbastanza di quel temporale.

Con quei pensieri in testa s’addentrò a passo deciso nel bosco, l’orecchio teso a captare ogni fruscio e le mani pronte a correre sull’elsa della spada.
Non impiegò neppure un secondo ad estrarla nel voltarsi di scatto, quando un rumore improvviso alle sue spalle lo fece sussultare. Quella volta, però, non ebbe bisogno di usarla: dagli arbusti a lato del sentiero fece capolino una volpe, seguita a ruota da due volpacchiotti. La famigliola proseguì per la sua strada senza degnarlo di un secondo sguardo e lui rinfoderò la spada scrollando le spalle.
Nel voltarsi, però, il ciuffo gli era di nuovo finito in faccia e dovette scostarlo di nuovo con uno scatto nervoso del capo. Così facendo, si rese conto che il sentiero sfociava in una piccola radura, sulla quale s’affacciava un intreccio di radici tanto fitto da formare una sorta di caverna.
“Se esistesse un dio, non c’è dubbio che le bestemmie lo spronerebbero senz’altro a fare meglio!” borbottò tra sé, avviandosi verso quell’anfratto, che sembrava tutt’altro che comodo, ma almeno aveva l’aria d’essere asciutto.
Più s’avvicinava, però, più la sensazione che qualcosa non andasse si faceva più forte. Il suo istinto, corroborato da anni di abitudine, gli gridava a gran voce di allontanarsi. In qualche modo avvertiva che, sul fondo oscuro di quel groviglio di rovi, avrebbe trovato qualcosa di malvagio e perverso. Al contempo, tuttavia, sentiva una sorta di bisogno atavico, del tutto irrazionale, di avvicinarsi, quasi che affacciarsi su quel pertugio fosse un suo dovere. Di nuovo, si scostò il ciuffo bagnato dal viso con il solito scatto nervoso, scacciando con esso tutti quei pensieri: “Bah.” Sbottò “Se anche lì dentro ci fosse qualcosa, se è viva si può uccidere, e se è morta non può far danni.”
In effetti, là dentro, qualcosa c’era. Anzi, c’era qualcuno.
Un qualcuno che, non appena Till fece per affacciarsi all’ingresso dell’anfratto, gli rivolse un avvertimento sinistro: “Ti prego, non t’avvicinare! Va’ via!”
Poiché ormai aveva intuito di non essere solo in quell’angolo di bosco, Till non si scompose più di tanto: “Chi c’è?” Si limitò a chiedere, quasi più per curiosità che altro, dato che una voce tanto sottile e rauca poteva appartenere solo ad un malato o a un ferito grave. Di fatti, l’unica risposta che ottenne fu una tosse violenta e profonda. A quel punto, Till voleva vederci chiaro. Gli bastò schioccare le dita per accendere una delle piccole torce che si portava dietro, per poi addentrarsi con circospezione sotto i rami e le radici.

L’antro che si era creato era abbastanza alto che Till avrebbe potuto starci seduto senza difficoltà, e non molto profondo. Gli bastò fare tre passi per trovarsi faccia a faccia con il latore di quel tetro avviso. Gli bastò una rapida occhiata per capire che, qualunque cosa avesse, non poteva essere contagioso: lo sconosciuto, un uomo alto quasi quanto lui e magro come un chiodo, se ne stava rannicchiato a terra, avvolto in un vetusto mantello grigio, senza nessuno dei marchi che contraddistinguevano i portatori di qualsiasi morbo. Se anche si fosse ammalato di recente, la sua pelle era pallida e sudata, ma priva di pustole, piaghe, e di qualsiasi altro sintomo a lui noto. Non era, quindi, per timore di contagiarlo che aveva cercato di tenerlo alla larga.
Restava da capire se stesse fingendo per attirarlo in una trappola di qualche genere. Anche se, più lo guardava e più gli sembrava che la sua sofferenza fosse sincera, l’esperienza gli aveva insegnato a non fidarsi delle prime impressioni.
Decise di tastare il terreno: “Che ti succede?” Domandò, mentre la mano libera raggiungeva un pugnale ben nascosto dalle falde della giubba “Sei ferito, per caso?”
Lo sconosciuto fece uno sforzo evidente per alzare il capo e, incrociandone lo sguardo, Till non vi scorse neppure un’ombra di malizia. Solo un profondo, inesprimibile, dolore s’annidava sul fondo delle sue iridi verdi, lucide di febbre: “Ti prego…” sussurrò “Non avvicinarti…”
“Continui a ripeterlo.” Sbottò Till “Ma perché?”
“Lui… potrebbe farti del male.”
“Chi sarebbe questo ‘lui’?”
Il giovane fece per rispondere ma, appena schiuse le labbra, fu colpito da un attacco di tosse tanto violento da farlo piegare in due. Nonostante la tosse, Till lo vide cercare di parlare, ma questa volta dalle sue labbra pallide fuoriuscì un fiotto di sangue ed egli crollò a terra, in preda di forti spasmi.
A quel punto, il guerriero aveva visto abbastanza: “Va bene.” Disse, mentre si scostava di nuovo il ciuffo dalla fronte “Qualunque cosa tu abbia è chiaro che non stai fingendo. Certo, potresti essere un incantatore di un qualche genere, ma ormai ne ho viste d’ogni sorta e, ormai, me ne sarei accorto.”
Incastrò la torcia nel terreno e prese la borraccia che gli pendeva al fianco. Strisciando sulle ginocchia, raggiunse il giovane e gli sollevò il capo da terra. Non c’era da stupirsi che stesse tremando: quel poveraccio bruciava di febbre.
“Bevi.” Lo spronò, accostandogli il recipiente alle labbra “Ne hai bisogno.”
Quello, però, cercò di scostare il viso, ma ormai era troppo debole anche solo per un gesto così piccolo. “Se è per quel ‘lui’ di cui dicevi prima,” insistette Till “non devi preoccuparti: non ho mai incontrato nulla che non potessi uccidere.”

Stremato dal dolore, Jonah aveva un bisogno quasi disperato di qualsiasi genere d’assistenza quell’uomo così cupo e massiccio fosse disposto ad offrirgli. Se l’esperienza gli aveva insegnato a tenere a distanza chiunque per evitare di mettere a rischio le loro vite, gli bastò incrociare lo sguardo di quegli occhi di ghiaccio per avere l’assoluta certezza che dicesse la verità. Chiunque fosse, aveva visto cose che lui, forse, non avrebbe potuto mai immaginarsi. In cuor suo, sentì di potersi fidare e cedette alle sue brusche premure. Schiuse le labbra e prese, obbediente, un sorso dalla sua borraccia.
L’acqua era fresca e pura, quasi un balsamo sulle sue labbra, riarse dalla febbre, sembrò cancellare del tutto il sapore ferrigno del sangue. Riuscì a berne un altro paio di sorsi prima di fare un cenno col capo, per indicare che ne aveva abbastanza.
Anche quel misero sforzo aveva prosciugato le sue già deboli forze. Alzando gli occhi verso il suo inaspettato soccorritore, vide solo una macchia nera, a cui riuscì a rivolgere un flebile: “Grazie.” Prima di perdere di nuovo i sensi.
 


Un fuocherello vivace crepitava alle spalle di Till, diffondendo un calore piacevole nell’alcova, mentre il possente guerriero aggiustava il mantello del suo sconosciuto compagno più stretto attorno al suo corpo sottile. Il giovane era molto pallido, pur vicino al fuoco, ancora tremava e sussultava per degli spasmi occasionali. Gli aveva poggiato la testa sul suo zaino, per farlo stare un poco più comodo, ma sembrava ancora molto sofferente. Era bastato sfiorargli la fronte con il palmo per capire che aveva la febbre alta, anche se non al punto da metterlo in immediato pericolo di vita, gli aveva trovato un punto molto più caldo tra il collo e la spalla, ma non c’era traccia di medicazioni o altro che potesse indicare una ferita infetta. Dal bagaglio del giovane aveva recuperato una pezzuola, che espose alla pioggia per bagnarla prima di stenderla sulla sua fronte arroventata, per dargli un po’ di sollievo. A parte un lieve gemito, però, non ottenne altra reazione. Qualunque fosse la causa, era sprofondato in uno stato di profonda incoscienza.
Se non altro, il suo respiro era regolare e stabile, e ormai gli sembrava improbabile che potesse peggiorare, quindi decise di lasciarlo riposare. Chiunque fosse quel, ‘lui’ di cui il giovane continuava a parlare, sempre che non fosse un fantasma generato dal suo delirio, avrebbe trovato pane per i suoi denti se avesse deciso di farsi vivo.

Passarono alcune ore di tranquillità.
I rami intrecciati isolavano bene dalla pioggia, e il fuoco, ancora ben vivo seppur più basso, manteneva l’ambiente gradevole. Till si era assopito da un po’, ormai, quando un non ben definito senso d’allarme lo richiamò alla coscienza.
Nella penombra dell’alcova, la figura inerte del giovane era sovrastata da un’aura minacciosa.
Una figura indistinta, più una perturbazione dell’ambiente che un’entità corporea, che sembrava svilupparsi proprio da quel corpo incosciente, ora del tutto inerte, come abbandonato.
Allarmato, Till fece per alzarsi, almeno per controllare che stesse ancora respirando, ma qualcosa lo respinse. Gli parve che l’entità sembrasse sforzarsi d’acquisire una forma più precisa, ne percepiva la tensione, la rabbia addirittura, ma restava evanescente, come l’aria deformata dal calore di una fiamma.
Ad un certo punto, gli sembrò d’intravedere degli occhi che lo scrutavano minacciosi e scattò in avanti, cercando di trafiggere la figura con la spada, ma anche quell’impressione labile che ne aveva avuto scomparve con un ringhio, quello sì, molto concreto, ma senza lasciare alcuna traccia.

Il giovane giaceva ancora immobile, come se non si fosse reso conto di nulla, del tutto inconsapevole dell’accaduto. Chinandosi su di lui, Till s’accorse che le sue membra erano più rilassate, non più scosse dagli spasmi violenti che lo avevano tormentato fino a quel momento, e la temperatura s’era abbassata un poco. Sembrava dormire tranquillo.
Qualunque cosa fosse quell’essere, sempre che fosse reale, gli parve evidente che agiva al di fuori dalla sua volontà, come se ne avesse una propria, indipendente. Poteva essere il ‘lui’ da cui lo sconosciuto aveva cercato di tenerlo lontano?
Gliel’avrebbe chiesto il mattino dopo, magari, una volta che si fosse svegliato. In quel momento, però, pensò che fosse meglio lasciarlo riposare. Forse era la prima vera notte di sonno che passava da chissà quanto.
Ad ogni modo, qualunque cosa fosse successa, non lo riguardava, e avrebbe potuto tranquillamente ignorarlo, ma qualcosa di quell’esperienza lo aveva scosso e sentiva il bisogno di saperne di più, se non altro per potersi, all’occorrenza, difendere dato che le armi convenzionali sembravano inutili in quel frangente.
Decise, comunque, di demandare il tutto alla mattina dopo.
Con uno scatto deciso della mano, ravvivò la fiamma, perché potesse continuare a bruciare per il resto della notte, e ritornò nel suo cantuccio, dove riprese sonno anche prima del previsto.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Gentili lettori, perdonatemi per aver saltato l'aggiornamento settimana scorsa. Purtroppo, ero KO con l'influenza.
Adesso che sto meglio, dovrei riuscire ad aggiornare un capitolo a settimana. Grazie di tutto cuore per chi è passato a leggere e, soprattutto, a chi si è fermato per lasciare un commento. Siete gentilissimi!


Buona Lettura! ^^

Furono i raggi di Sole che filtravano dal fitto tetto delle fronde a svegliare Till, il mattino dopo.
Non era la prima volta che si trovava a dormire sulla nuda terra, e si trovò anche più riposato del previsto. I rami ed i rovi avevano schermato bene l’alcova dalla pioggia e il fuoco aveva fornito tutto il calore necessario, mentre il picchiettare delle gocce sulle foglie aveva offerto un gradevole sottofondo al suo riposo.
Nello sgranchirsi le membra, gettò un occhio al di là della brace per valutare le condizioni dello sconosciuto, ma non trovò grandi cambiamenti. Giaceva ancora dove lo aveva lasciato la sera prima, avvolto nel mantello e con le membra del tutto abbandonate, come un burattino a cui avessero tagliato i fili. Il respiro era lento e regolare, come di chi dorme un sonno profondo dopo essere rimasto del tutto privo di forze. Un’impressione corroborata dalla posizione del capo, reclinato su una spalla come se il collo non fosse in grado di sostenerlo, con l’impacco che era scivolato a terra, rivelando un viso provato dalla sofferenza e di un pallore innaturale, ma del tutto privo dei segni della febbre.
Nell’osservarlo, Till si sorprese a provare un certo coinvolgimento nei suoi confronti. Nulla di speciale, né di troppo intenso. Forse, se fosse stato prono a moti d’animo di quel genere, avrebbe potuto definirlo come una sorta di tenerezza che la condizione del giovane gli suscitava. Un non meglio specificato istinto di protezione, qualcosa dentro di lui gli diceva che, qualunque cosa sarebbe accaduta nel suo prossimo futuro, lo riguardava direttamente e quel giovane avrebbe avuto un ruolo fondamentale nei suoi giorni a venire.
Till storse il naso: non era abituato a sentirsi legato a qualcuno, specie in modo tanto repentino, eppure, gli sembrava una cosa del tutto naturale, come se davvero non avrebbe potuto essere altrimenti.
Un bisogno altrettanto naturale iniziò a farsi sentire con un’urgenza sempre più pressante, riportandolo al mondo reale. Distolto dalle sue riflessioni, Till si scostò il ciuffo dalla fronte con uno scatto del capo e si avviò all’esterno per dare sollievo a quel bisogno e, magari, recuperare anche qualcosa da mangiare.

La pioggia aveva rinfrescato l’ambiente, e il bosco emanava un sentore di fresco e di pulito che lo spinse a trarre un respiro profondo, espandendo l’ampio torace per riempirsi i polmoni delle fragranze di pino ed erba intrisa di rugiada. Constatò che si trattava di una frescura gradevole, di quelle che preannunciavano una serena giornata di sole, e questo lo mise in una disposizione d’animo migliore rispetto alla notte precedente. Dopo tanti anni di carriera come soldato di ventura, ancora mal sopportava il freddo e l’umidità, soprattutto. Dopo il nubifragio della sera prima, una giornata serena sarebbe stata una piacevole alternativa.
Allettato da quella prospettiva, Till stava rassettandosi i calzoni quando un sommovimento nel sottobosco alle sue spalle attrasse la sua attenzione. Dal frusciare delle felci si materializzò un fagiano grosso quasi quanto la sua testa, che si fermò a un braccio di distanza e sopravvento.
A quella distanza, per lui, agguantarlo e spezzargli il collo sarebbe stato uno scherzo ma, prima che riuscisse a muoversi, una volpe s’avventò di colpo sul volatile e scomparve nella boscaglia, defraudandolo del suo pasto.
D’istinto, Till prese ad inseguirla, con l’intenzione di riprendersi il maltolto anche a costo di usare la forza. Rincorse l’animale fino alle pendici di un grosso faggio, dove dovette arrestarsi di colpo.
La volpe che glielo aveva sottratto – un grosso maschio, vedeva ora – era attesa da una di poco più piccola, la femmina, che aveva alle calcagna due volpacchiotti, forse gli stessi che aveva intravisto la sera prima.
‘Poco male.’ Pensò, con un’alzata di spalle ‘E’ la vita che perpetua la vita.’
Decise di lasciar perdere il fagiano, ragionando che, tutto sommato, le volpi avevano forse più diritto di lui di cacciare nel bosco dove abitavano, e s’avviò in cerca di altro cibo.
Poco mancò che v’inciampasse dentro ma, quando in mezzo al fogliame vide un uovo di dimensioni ragguardevoli, non esitò a raccoglierlo.
Non assomigliava a nulla che avesse mai visto in vita sua: più che un vero e proprio guscio era coperto da una sorta di lamina iridescente, in cui riuscì ad intravedere il proprio riflesso. Soppesandolo tra le mani, dedusse che ne avrebbe ricavato un pasto abbondante per sé e anche per lo sconosciuto, se avesse avuto fame al suo risveglio.
“Chissà se è commestibile.” Si domandò, studiandolo con attenzione come in cerca di una qualsiasi minaccia nascosta. Al di là della colorazione insolita e delle dimensioni, tuttavia, sembrava in tutto e per tutto un uovo normalissimo, quindi scrollò le spalle e se lo mise sottobraccio: “Tanto, cotto è buono tutto.” Commentò tra sé, avviandosi in direzione del rifugio dove aveva passato la notte.

Non avendo mai visto un uovo di drago in vita sua, Till non poteva certo essere in grado di riconoscerlo nel momento in cui se l’era ritrovato tra le mani.
Se, però, si fosse soffermato sul posto in cui l’aveva raccolto solo qualche minuto in più, l’individuo che, in seguito al suo passaggio, si ritrovò a mettere a soqquadro tutta la zona sarebbe stato ben felice di fornirgli qualche delucidazione in merito. In un crescendo di disperazione l’uomo, una persona all’apparenza normalissima, con una fulva chioma rossiccia e un fioretto dall’apparenza dismessa alla cintura, continuò a rovistare nel sottobosco per diverso tempo.
Quando, alla fine, si rese conto che non avrebbe trovato quello che stava cercando, sedette sconsolato con la testa tra le mani. Dato che non aveva ancora trovato un altro esemplare della sua specie che vi soffiasse sopra il Respiro della Vita, quell’uovo era comunque sterile, ma dovevano passare ancora molte lune prima che riuscisse a crearne un altro, e le speranze di perpetuare la sua stirpe si riducevano con il passare del tempo.
Sconsolato, Pyronyxious ver Donar Sulfura Solarynth, drago sotto spoglie di uomo, si prese la testa tra le mani, scuotendola senza sosta per lo sconforto.
 


All’interno, l’uovo misterioso aveva un colore del tutto normale e il profumo che emanava mentre sfrigolava nella padella, con un po’ d’erba cipollina e qualche fungo a guarnirlo, era tanto invitante da far brontolare lo stomaco di Till.
Anche il giovane sconosciuto non rimase indifferente. Mentre la frittata iniziava ad assumere un bel colore dorato, lo vide muoversi nel suo giaciglio e, a poco a poco, riaprì gli occhi.
Sbatté le palpebre, come se fosse confuso nel vederlo ancora lì, ma doveva ricordare abbastanza dalla sera prima, perché gli rivolse un timido cenno di saluto, a cui Till rispose alzando una mano, senza distogliere gli occhi dal fuoco.

Jonah si sentì ridestare da un vivace crepitio di fiamme e da un profumo intenso che aleggiava nei pressi di dove era disteso. Sentiva i muscoli ancora doloranti e le articolazioni lasse, impossibili da muovere. Non poteva dire di non aspettarselo: l’attacco della sera prima era stato intenso, uno dei peggiori negli ultimi mesi, i postumi non avrebbero potuto essere più lievi.
A fatica, riuscì ad aprire gli occhi e, dopo qualche istante, riconobbe l’uomo che l’aveva accudito la sera prima. Trovarlo ancora lì, per giunta incolume, fu una sorpresa enorme, ma ne fu felice. Per qualche motivo a lui ignoto, si sentiva tranquillo in sua presenza, in un certo senso, era come se fosse sempre stato lì con lui. La sua corporatura massiccia e la postura, leggermente incurvata per adattarsi alle dimensioni anguste del loro rifugio improvvisato ma solida, quasi fosse un monolite d’ossidiana anziché un essere umano in carne ed ossa, gli sembravano familiari come se lo conoscesse da una vita, e non da pochi istanti in cui si erano intravisti, poche ore prima.
Con uno sforzo immenso, rispetto alla dimensione del gesto, riuscì a sollevare appena una mano per salutarlo, e l’altro gli rispose allo stesso modo.
I suoi occhi chiarissimi erano illuminati, senza tuttavia riceverne calore, dalle fiamme, che sembravano assorbirne del tutto l’attenzione. La sua voce colse Jonah del tutto di sorpresa, dunque, quando si sentì domandare: “Come ti senti?” Un tono asciutto, pacato, come se gli stesse chiedendo del tempo, ma non privo di un genuino interesse nei suoi confronti.
Il giovane fece per rispondere ma aveva la gola molto secca, e venne sopraffatto dalla tosse. Prima ancora che se ne rendesse conto, con un’agilità affatto scontata per una figura tanto possente, l’altro gli si fece vicino, sovrastandolo con la sua mole. Senza dire nulla, gli sollevò la nuca con una mano e lo aiutò a prendere qualche sorso d’acqua dalla propria borraccia.
Quando ebbe bevuto a sufficienza, Jonah alzò lo sguardo ad incontrare quello gelido del suo inaspettato soccorritore. Si sorprese nel sentirsi al contempo in soggezione e rassicurato da quella presenza tanto cupa e massiccia. Come se in qualche modo fossero destinati ad incontrarsi.
“Grazie.” Sussurrò, con il poco fiato che riuscì a raccogliere.
L’altro gli rivolse un secco cenno del capo, prima di tornare a sedersi dall’altro capo del fuoco. Alla luce delle fiamme, Jonah notò che aveva tre piccole pietre incastonate sul sopracciglio sinistro: una rossa, una grigia ed una ocra. Per qualche motivo, basto che vi posasse sopra lo sguardo per avvertire una scarica di dolore che gli trafisse il marchio, costringendolo a rannicchiarsi per il dolore.
Allertato da quel movimento improvviso, l’altro aveva già messo mano all’impugnatura della spada, e s’affrettò a rassicurarlo: “Non preoccuparti. Non succede nulla.”
Till alzò un sopracciglio sospettoso: “Non è che quell’affare poi mi salta addosso appena giro le spalle?”
Sorpreso, Jonah sobbalzò: “L’hai visto?”
L’altro, però, si limitò a scrollare le spalle: “Non l’ho proprio visto. L’ho percepito, se così si può dire.”
Strofinandosi il collo con le dita, il giovane annuì: “Se si è manifestato, o ha provato a farlo in qualche modo, e sei ancora qui, allora non hai nulla da temere. Se avesse potuto nuocerti, l’avrebbe fatto in quel momento.”
“Ne sei sicuro?” Lo incalzò il guerriero, sospettoso “Come faccio a sapere che non mi stai ingannando?”

A malincuore, Jonah si risolse ad abbassare il colletto della tunica, scoprendo il collo e parte della spalla destra. Till dovette sporgersi per vederlo bene ma, alla luce del fuoco, vide uno strano segno che si stagliava sulla carnagione lattea del giovane come fosse incastonato nella carne. Troppo spesso per essere un tatuaggio e troppo scuro per essere una cicatrice, sembrava quasi che avessero grattato via la pelle per inciderlo. Sembrava infiammato come appena fatto, ma al contempo antico, come fosse lì da sempre. Si trovò ad aggrottare le sopracciglia, per cercare d’indovinarne la forma: gli apparve un groviglio di linee curve, intrecciate come rovi che tentavano di avvilupparsi attorno al collo del giovane, per soffocarlo.
“Che cos’è?” Si ritrovò a chiedere, ancora prima di rendersene conto.
Lo sguardo negli occhi verdi dell’altro si fece, se possibile, ancora più triste: “Il marchio del demone.” Rispose, pronunciando le parole a fatica, come se farlo gli causasse un enorme dolore “Lo ha fatto quando si è legato a me, anni fa, contro la mia volontà.” Dovette soffermarsi a riprendere fiato, e s’abbandonò sul suo giaciglio improvvisato, sopraffatto, con la mano che ancora stringeva la spalla. Le parole gli uscirono come un torrente, senza che fosse in grado di porvi freno: “Credevo fosse un mendicante. Sono un devoto della Chiesa di Shuva, avevo appena intrapreso il percorso per diventare paladino… il mio Credo m’imponeva di curarlo e così ho fatto. Mi si è avventato contro… Da quel giorno non fa che darmi il tormento. Ha fatto molto male a molte persone, senza che potessi impedirlo…” La voce gli morì in gola, e s’accasciò a terra, sconvolto dai ricordi.

Till rimase per qualche istante in silenzio, riflettendo su quanto aveva appreso.
Non aveva mai sentito di demoni che prendessero, in toto o parzialmente, possesso di esseri umani, ma non aveva nemmeno mai voluto approfondire più di tanto la materia. Ad ogni modo, il suo istinto, corroborato da quella sensazione di naturalezza che lo accompagnava dalla sera prima, gli suggeriva che poteva fidarsi di quel povero disgraziato, per quanto strana fosse la sua storia. C’era, comunque, in quel segno che gli aveva mostrato, qualcosa che non riusciva a spiegare e che lo spingeva a propendere per il fatto che gli aveva raccontato la verità, per quanto assurda gli potesse sembrare.
“Va bene.” Concluse, scostandosi il ciuffo dalla fronte con le dita “Ti credo.”
Rasserenato, Jonah trasse un sospiro di sollievo: “Grazie per la tua fiducia... Perdonami, non ho nemmeno chiesto il tuo nome.”
“Till.” Rispose il guerriero, tendendo la mano oltre il fuoco, che sembrò aprirsi per lasciarla passare “Dalle Montagne del Nord.”
Jonah strinse la mano del guerriero nella propria: “Io sono Jonah, dalle Terre dell’Est. Sono in viaggio verso la città di Irladÿs.”
Till alzò un sopracciglio: “Vai al Tempio di Shuva?”
Sentendosi rincuorato, il giovane sorrise: “Sei anche tu un credente?”
“No.” Lo raggelò l’altro, secco “Non ho mai avuto motivo di credere che esista una qualche entità superiore e, se dovesse essercene una, sono convinto che si faccia bellamente i cazzi suoi senza curarsi di noi.”
Con sua grande sorpresa, anziché rifilargli un predicozzo sulla dannazione eterna e la mancanza di Fede, il giovane accolse le sue parole con un cenno del capo, senza smettere di sorridere: “Grazie per essere stato sincero. Lo apprezzo molto, davvero.”
“Non vuoi farmi una predica sulla Vera Fede, la Purezza e quant’altro?”
“Non sta a me giudicare.” Si tirò, a fatica, un po’ su con il gomito “Ora, non posso certo dire di conoscerti. So solo che non avevi motivo di fidarti di me, ma ti sei avvicinato, mi hai offerto da bere dalla tua borraccia e ti sei occupato di me mentre ero incosciente. Mi basta questo per capire che, a modo tuo, sei una brava persona. In cosa credi… o non credi è affar tuo.”
Till diede un grugnito d’assenso: “Ecco. In questo caso credo che la frittata sia pronta e che sia ora di toglierla dal fuoco.” Tolse la padella e versò la frittata, ora di un bel colore dorato, in una scodella di terracotta che aveva visto giorni migliori.
“Vuoi favorire?” Chiese, porgendola al giovane.
“Volentieri.” Rispose l’altro, tirandosi a sedere. Recuperò il suo zaino e tirò fuori alcune delle provviste che gli avevano regalato i contadini il giorno prima: un trancio di carne salata e del formaggio semi stagionato.

Li porse al guerriero che, da una qualche parte nascosta della giubba, estrasse un coltellaccio con cui fece le porzioni. Mangiarono in silenzio, come vecchi compagni d’armi.
Nonostante l’uovo di provenienza incerta, la frittata si rivelò ottima: leggera e saporita, anche un po’ filante. Finito di mangiare, Till mostrò a Jonah i resti del guscio, ma nemmeno il giovane devoto di Shuva fu in grado di riconoscerlo.
Gettarono i resti del pasto nella brace e il guerriero vi passò sopra il palmo per generare una fiamma azzurrognola, che incenerì tutto senza lasciare traccia. Jonah, che stava raccogliendo i suoi pochi averi, lo guardò incuriosito ma si trattenne dal fare domande, intuendo che non sarebbero state gradite.
Fu Till a uscire per primo dall’angusto rifugio, seguito dal giovane.
Una volta fuori, sistemarono le proprie armi e gli scarsi bagagli, per poi incamminarsi insieme all’interno del bosco.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Carissimi voi che state leggendo, vi chiedo scusa per aver impiegato tanto ad aggiornare: purtroppo (o per fortuna) ho iniziato un nuovo lavoro e sono stata molto presa in queste ultime settimane. Mi scuso per avervi fatto attendere tanto.
Spero che questo capitolo ricco di eventi compensi almeno in parte l'attesa.

Buona Lettura ^^



Camminavano immersi nello stesso silenzio che li aveva accompagnati durante il pasto. Ognuno del tutto a proprio agio con l’altro come se si conoscessero da una vita intera e non solo da poche ore. Ognuno grato in cuor proprio per la mancanza di curiosità dell’altro e lieto di non sentirsi rivolgere domande inutili o scomode.
Till, che non aveva mai visitato quelle zone, lasciò che a fare da guida fosse Jonah, che invece sembrava sapere benissimo dove andare. Del resto, a pensarci bene, sarebbe stato strano il contrario: persino uno lontano dalla Chiesa come lui aveva sentito dire che nel tempio di Irladÿs fosse custodita un’importante reliquia, appartenuta ad un qualche patriarca dal nome impronunciabile, un devoto di Shuva non poteva non conoscerne l’ubicazione. Aveva anche notato, però, che il suo giovane compagno di viaggio aveva una tendenza innaturale ad incespicare ed inciampare, anche laddove non sembrava ci fossero ostacoli. Ogni tanto, addirittura, cadeva. Standogli dietro, aveva anche notato il suo strano modo di camminare: avanzava con le spalle curve, come se portasse un peso eccessivo, che il suo misero bagaglio non bastava a giustificare. Non sembrava esserci una spiegazione logica a questi avvenimenti ma, per rispetto alla discrezione che lui stesso riceveva e perché, comunque, non erano affari che lo riguardassero, il guerriero si guardava bene dal chiederlo.
Dal canto proprio, Jonah era ormai avvezzo a quegli impedimenti e aveva imparato a mascherarli, facendoli sembrare frutto della propria goffaggine anziché di origine sovrannaturale. Ormai gli era chiaro: lui non voleva che andasse a Irladÿs. Per quanto il suo scontento gli confermasse che andarci era la decisione giusta, sapeva bene che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per rendergli il viaggio il più difficile possibile. Per qualche motivo, però, la presenza di Till sembrava intimorirlo. Attraverso il marchio, riusciva a percepire la sua rabbia impotente, che gli scaricava addosso con fitte improvvise e lancinanti. Per sua fortuna, Till aveva lasciato che lo precedesse e dargli le spalle gl’impediva di mostrargli le proprie smorfie di dolore. Altrimenti, il guerriero avrebbe capito subito che qualcosa non andava, e non voleva attirare la sua attenzione sulla propria condizione.

Il bosco iniziò a diradarsi e la vegetazione a modificarsi.
Al posto delle alte conifere, degli ippocastani e delle querce, cominciarono a vedere dei salici e dei pioppi, a cui iniziarono ad affiancarsi dei canneti man mano che cominciavano ad apparire i primi acquitrini.
“Ci avviciniamo allo Shivlach.” Spiegò Jonah “Irladÿs si trova sulla sponda opposta.”
Till gli rivolse un grugnito d’assenso: “Quanto manca, secondo te?”
“A quanto mi hanno detto, non più di tre ore di marcia, ma dovremo attraversare le paludi di Arrak, e potremmo metterci di più.”
“Allora direi che è il caso di fermarci a mangiare qualcosa, intanto che abbiamo ancora la terra sotto i piedi.”
“Mi sembra un’ottima idea.” Assentì Jonah, iniziando a sfilarsi la borsa dalle spalle.
Sedettero su un piccolo spiazzo erboso e, ancora una volta, divisero tra loro quel poco che avevano senza bisogno di chiedere, come due vecchi compagni d’armi.

 


Man mano che proseguivano, la vegetazione continuò a diradarsi fino a scemare in canneti e piante acquatiche, mentre gli acquitrini si facevano sempre più ampi e frequenti, divisi solo da stretti sentieri fangosi. Più avanzavano, tuttavia, più l’impressione che ci fosse qualcosa di molto sbagliato nell’ambiente che li circondava si faceva sentire.
Fu Jonah a portare per primo la mano all’elsa della spada che portava sulle spalle, bloccandosi all’improvviso in mezzo al sentiero.
“Cosa c’è?” L’apostrofò Till, stringendo a propria volta la mano sulle ossa che costituivano l’impugnatura della sua arma.
“Shh.” Lo zittì l’altro “Senti?”
Il guerriero tese l’orecchio: “No. Non sento niente.”
“Appunto. Siamo in una palude: dovremmo essere circondati da nugoli d’insetti, o quantomeno sentirli. Per non parlare delle rane.”
“Hai ragione.” Confermò Till, sfoderando la spada “C’è decisamente qualcosa che non va.”
Non visto, Jonah trasse un lieve sospiro di sollievo: il rumore di fondo o, meglio, la sua assenza gli era sovvenuto solo in un secondo momento. Il primo, vero, segnale d’allarme era il marchio che aveva smesso di fare male. Lui arretrava solo in presenza di minacce dirette all’incolumità del suo portatore: gli serviva vivo e, se voleva che lo restasse, doveva permettergli di operare al massimo delle sue funzioni. Si sarebbe limitato a non interferire o, se proprio, a metterlo in difficoltà al punto che si trovasse a un passo dalla morte, quando sarebbe stato più facile sopraffarlo.
Per sua fortuna, Till aveva capito subito, non aveva davvero voglia di spiegargli tutto quel retroscena.

 


Avanzarono in quel silenzio irreale per alcune miglia, quando, all’improvviso, un rumore li fece sobbalzare.
Fu una specie di piccola esplosione, niente che avessero mai sentito prima.
Si scambiarono un rapido sguardo e corsero verso la fonte del rumore. Avvicinandosi, iniziarono a distinguere lo sciabordio dell’acqua agitata e le grida di quello che sembrava un ragazzino che, a fatica, cercava di tenere a bada una decina di esseri mostruosi.

Al posto dell’epidermide, avevano una sorta di corteccia da cui pendevano alghe in vari stadi di putrefazione, le zampe anteriori erano chele unite da una sorta di membrana mucillaginosa. Alcuni avevano degli abbozzi di arti deformi che spuntavano, simili a zampe d’insetto, dal tronco.
Uno di loro, per inseguire il ragazzo, era strisciato fuori dall’acqua, e videro che il suo corpo terminava con una pinna caudale. Strisciando, lasciava dietro di se una sorta di bava collosa, da cui esso stesso sembrava districarsi con difficoltà.
Pur essendo privi di orecchie, in qualche modo dovevano averli sentiti arrivare, perché i più vicini si voltarono di scatto verso di loro, spalancando le fauci. Le loro bocche viscide erano prive di zanne, ma s’intravedevano diverse file di uncini alla base della gola.
Emisero in simultanea una specie di sibilo distorto, appena udibile per gli umani, ma che provocò un subitaneo ribollire di tutte le acque circostanti.
“Per le piaghe putrescenti di Shuva!” Imprecò Till, balzando in posizione di guardia.
Al suo fianco, Jonah era talmente sgomento da non aver neppure realizzato che l’altro avesse bestemmiato. Anche lui, però, aveva ormai sguainato la spada ed era pronto ad usarla.
Istintivamente, senza bisogno di accordarsi a voce, si posero schiena contro schiena, i muscoli tesi e pronti a scattare.

Il primo si fece sotto, balzando fuori dall’acqua con la bocca spalancata. Jonah lo tagliò in due con un fendente. I resti si contorsero a terra per qualche istante, spargendo altra di quella bava mucillaginosa. Till, a sua volta, ne aveva decapitato un altro con un tondo.
Dalle loro bocche, gli esseri emettevano una specie di risucchio che, anche a distanza, era sufficiente per far perdere loro l’equilibrio e attirare arti o lembi di vestiario verso le loro fauci, dove gli uncini avevano preso a roteare come macine.
Sentirono di nuovo quello scoppio, e videro che il ragazzo aveva in mano uno strumento strano, una specie di bastone fumante, mentre uno di quegli esseri aveva la testa spappolata.
Non ebbero tempo, tuttavia, di soffermarvisi, perché subito vennero attaccati da uno sciame di bestie inviperite. Era evidente che, più dei loro compagni subivano danni, più la loro ferocia aumentava, come se fossero membra di un unico corpo.
“E’ una colonia!” Gridò Till, il primo a rendersene conto “Non ragionano come singoli, ma in gruppo.”
Jonah, che pure non aveva ben chiare, in quel momento, le implicazioni della cosa, annuì.

Scoprirono, loro malgrado, che quella che all’inizio avevano scambiato per corteccia, era in realtà un esoscheletro abbastanza robusto da proteggerli dai colpi di spada. Esso non era, tuttavia, uniforme: aveva delle scaglie che si separavano per permettere al corpo di articolare i movimenti, e lasciava scoperto addome, testa e collo, dove erano vulnerabili.
A colpi di spada riuscirono a farsi strada attraverso gli assalitori, complice anche il fatto che la bava fuoriuscita dai cadaveri intrappolava anche quelli vivi, che faticavano a liberarsi.
“Prendi il ragazzo!” Gridò Jonah a Till “Io vi copro le spalle!”
Senza farsi troppi problemi, il guerriero afferrò l’adolescente sotto le ascelle e se lo carico sottobraccio come una bisaccia, incurante delle sue proteste.
Dietro di loro, il giovane devoto di Shuva menava colpi a due mani. La maggior parte andavano a segno e, anche quelli che non colpivano i mostri, riuscivano quantomeno a tenerli a distanza. Più ne colpiva, però, più ne arrivavano, attratti dal movimento e dai versi dei compagni. Rischiavano di trovarsi circondati.
Fu Till ad avere il lampo di genio.
Mentre correva, si chinò verso il ragazzino: “Ehi, tu! Non è che per caso hai un acciarino?”
Gli rispose una voce stridula e seccata: “Cosa ti fa pensare che possa averne uno?”
“Ce l’hai o no?”
“Sì, ce l’ho.”
“Dammelo.”
Glielo strappò di mano, suscitando altre proteste a cui non diede ascolto, e lo strinse nel pugno. La debole fiammella prese ad ardere come una fiaccola.
Le bestiacce, abituate a vivere nelle acque torbide della palude, non reagirono bene al calore e alla luce. Quelli che si trovavano davanti a loro cominciarono a indietreggiare di colpo, ammassandosi gli uni sugli altri e ribaltandosi, in un contorcersi dissennato di membra e code appiccicose. Agitandosi, producevano altra bava, che rallentava in modo significativo quelli che arrivavano in loro soccorso, cercando di avventarsi su Jonah.
Quell’espediente permise ai tre di guadagnare terreno ma, all’improvviso, si ritrovarono sull’argine del fiume, con le bestie ad incalzarli.

Till riusciva a tenerli a distanza con la fiamma dell’acciarino, ma, poiché questa stava diminuendo d’intensità, si vide costretto a restituirlo al ragazzo e sfoderare la spada.
“Quell’affare che usi, funziona ancora?” Domandò Jonah, senza però voltarsi a guardarlo.
“Sì, ma mi occorre tempo per ricaricarlo.” Rispose la voce stridula dell’adolescente “E posso lanciare solo un colpo per volta.”
“Allora resta dietro di noi.” Gli ordinò “Sporgiti solo per attaccare e vedi di andare a colpo sicuro. Noi li teniamo impegnati.” Nel dirlo, però, scambiò con Till uno sguardo eloquente: quegli affari erano troppi, e ne stavano arrivando altri. Presto, ne sarebbero stati sopraffatti, ma non avrebbero ceduto senza combattere.
Mentre caricava il suo strumento, il ragazzo avvertì un rumore strano alle proprie spalle. Voltandosi a guardare, s’accorse che l’acqua del fiume aveva iniziato a ribollire, mentre una grossa sagoma scura si faceva sempre più nitida sotto la superficie.
“Ragazzi…” Chiamò, con una voce che non era decisamente di un ragazzo “Ragazzi…”
I due si girarono di scatto e, quello che videro li lasciò entrambi a bocca aperta.

Dal letto del fiume emerse una creatura bislacca.
Era del tutto glabra, la pelle liscia di un colore indefinito tra il marrone ed il grigio, con macchie più scure e una lunga coda che sembrava quella di un girino. Aveva quattro zampe palmate e semi trasparenti, ciascuna dotata di quattro dita, con cui scavalcò senza troppa difficoltà i tre esseri umani. Gli occhi azzurri erano privi di palpebre e dalla testa spuntavano sei branchie esterne, ricoperte da filamenti rosa scuro, fitti come i rami di un albero. La sua andatura era dinoccolata e dondolante, addirittura goffa, come se non fosse abituato a muoversi fuori dall’acqua. Nonostante le dimensioni considerevoli – al garrese era alto almeno tre metri – l’essere era talmente leggero da non lasciare impronte al proprio passaggio.
D’istinto, Till e Jonah si strinsero spalla contro spalla, pronti ad attaccare, ma il nuovo arrivato li ignorò del tutto, concentrandosi invece sui mostri che li stavano attaccando. Si frappose fra i tre umani e le bestie, e si fermò un momento a guardarli. Le branchie si flessero fino a richiudersi, per poi riaprirsi del tutto, come un battito di ciglia. Poi, l’essere spalancò la bocca, rivelando una cavità priva di denti, e s’avventò sulla compagine di mostruosità che si dimenavano di fronte a lui. Sotto gli occhi sgomenti dei due guerrieri e dell’adolescente, ne aspirò in bocca una decina, inghiottendoli quasi senza masticarli. Deglutito quel primo boccone, continuò pacifico a nutrirsi degli altri, mentre quelli che non erano stati intrappolati dalla bava strisciavano negli acquitrini da cui erano arrivati il più in fretta possibile. Quando la creatura ebbe finito di pascersi, non ne era rimasto nessuno.

Sazio, e con il ventre più tondo rispetto a quando era uscito dall’acqua, l’essere girò su sé stesso, sfiorando i due uomini con l’immensa coda ma senza loro nuocere, e si avviò per tornare da dove era arrivato. Si lasciò scivolare nel fiume ma, questa volta, non s’immerse del tutto.
Rimase con gli occhi a pelo d’acqua e rimase a fissarli, le branchie si aprirono e richiusero, di nuovo.
L’adolescente si voltò verso Till e questi, a sua volta, si girò verso Jonah il quale, sentendosi due paia d’occhi addosso, tre, inclusi quelli della creatura, decise di riporre la spada e di avvicinarsi con le mani aperte verso l’essere, dimostrando di non essere una minaccia.
L’essere lo lasciò avvicinare senza nuocergli, anzi, parve sporgersi un poco perché l’uomo potesse posargli una mano sul muso. Le branchie scattarono di nuovo, e parve sorridere.
“E’ amichevole?” Domandò Till, sospettoso.
Senza togliere la mano dalla testa della creatura, Jonah annuì: “Credo che sia il Guardiano del fiume.”
Alle spalle di Till, l’adolescente chiese: “Sei il Guardiano del fiume?”
Le branchie della creatura si mossero in quello che parve un cenno d’assenso, e l’essere si sporse dall’acqua, come per invitarli a salirgli sul capo.
“Credo voglia darci un passaggio.” Si spinse a indovinare Jonah, che già stava salendogli sopra.
“Sei sicuro che non voglia affogarci e poi, magari, mangiarci?” Il tono di Till era diffidente, ma già l’uomo aveva riposto l’arma e stava avviandosi verso il fiume.
Jonah si chinò verso di lui per porgergli una mano ed aiutarlo a salire: “Non credo. Insomma, guardalo: è grosso come un palazzo. Se avesse voluto farci del male lo avrebbe già fatto.”
“Sì, hai ragione.” Confermò il guerriero, che si sporse poi a propria volta per aiutare l’adolescente a salire.
La pelle della creatura era liscia, e anche un po’ viscida, ma calda e asciutta. I tre non ebbero difficoltà a mettervisi comodi. Una volta che si furono sistemati, l’essere iniziò a nuotare, usando le quattro zampe come remi e la coda come timone, si muoveva sinuoso lungo il corso del fiume, con le branchie immerse nell’acqua ma la sommità della testa all’esterno, perché i suoi passeggeri non si bagnassero.



 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Carissimi, mi dispiace aver lasciato passare tanto tempo dallo scorso aggiornamento.
Purtroppo, una serie infinita di problemi familiari, impegni di lavoro e di studio non mi hanno lasciato il tempo sufficiente per mettere la testa sulle storie da aggiornare.
Ad ogni modo, ecco l'ultimo capitolo di questa storia. Vi avviso che non sarà una vera e propria conclusione: essendo stata scritta per un contest ispirato a Dungeons & Dragons ho scelto di strutturarla come se fosse una sessione, che termina qui, in previsione della prossima.
Ebbene sì, ve lo anticipo fin d'ora: ci sarà un seguito.

Nel frattempo, ringrazio di cuore tutti voi che avete voluto dedicare un po' di tempo a questo racconto, in ispecie tutti voi che avete lasciato un commento e avete atteso con pazienza gli aggiornamenti. Vi ringrazio davvero di cuore.

Buona lettura ^^

 
Le tre ore di marcia che li separavano da Irladÿs si ridussero della metà a dorso del Guardiano, che li depositò con cura su uno spiaggione a circa un miglio dalle porte della città. Venne loro spontaneo rivolgergli un saluto, a cui rispose con un rapido movimento di branchie prima di ruotare su sé stesso e scomparire negli abissi del fiume, lasciandosi dietro una scia di bolle.  

“E’ andata anche meglio del previsto.” Borbottò Till mentre batteva una mano sulla schiena di Jonah, piegatosi in due per una fitta improvvisa. Ora che si stavano avvicinando al santuario, il marchio aveva ricominciato a dolergli.  
“Che cos’ha?” Chiese l’adolescente “Sta molto male?” 
“Non preoccuparti: starà meglio presto. Tu, piuttosto, che cosa farai adesso, ragazzina?” 
“A chi hai detto ‘ragazzina’? Non sono una ragazzina!” 
“Si fa presto a dimostrarlo.” Tagliò corto il guerriero che, forte della propria altezza, allungò una mano e le levò dal capo il berretto. I capelli castani erano tagliati corti ma, uniti ai suoi lineamenti delicati e al fisico snello, lasciavano pochi dubbi sul fatto che non si trattasse di un ragazzo. 
“Ridammelo subito!” Scattò la giovane, che saltò addosso a Till per riprendersi il berretto. Questi non oppose resistenza. Anzi, fu proprio lui a calcarglielo di nuovo in testa con un gesto rozzo del palmo: “Tienilo su. Fai bene: non sai mai chi potresti incontrare in giro.” 
La ragazza fece un passo indietro, sulla difensiva: “Adesso che lo sapete, cosa avete intenzione di farmi?” 
Till si scostò il ciuffo dalla fronte con un gesto secco del capo: “Niente. Da che me ne sono accorto, avrei potuto farti di tutto, se avessi voluto. Non credo che la tua stazza avrebbe potuto impedirmelo. Stessa cosa vale per lui. Te n’eri accorto anche tu, vero?” Batté di nuovo la mano sulla schiena di Jonah, che aveva in qualche modo riacquistato la posizione eretta, ma era ancora sofferente, per cui si limitò ad annuire. 
“E’ così evidente?” Chiese lei, preoccupata. 
“No.” La rassicurò Jonah, la voce provata dalla sofferenza “Ma noi ci siamo dovuti avvicinare parecchio e, nella situazione concitata in cui ci siamo trovati, puoi ben capire che non è facile mantenere una copertura. Ad ogni modo, ti posso giurare sul Sangue del Profeta che nessuno di noi due ti farà del male… Perdonami, non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami.” 
“Ceovida.” Rispose lei, un poco più tranquilla “Ma potete chiamarmi ‘Ceo’. Anzi, meglio che mi chiamate così.”  
“Piacere di conoscerti, Ceo.” Sorrise il giovane, porgendole la mano “Io sono Jonah.” 
“Till.” Si presentò il guerriero, secco, senza preoccuparsi dei formalismi “E non hai ancora risposto alla mia domanda.” 
Ormai a proprio agio, Ceo sorrise: “Diciamo che ho delle commissioni da sbrigare ad Irladÿs.” 
Jonah le impose una mano sulla fronte, recitò una breve formula e le sorrise: “Ho intenzione di trattenermi in città per qualche giorno. Se dovessi avere bisogno d’aiuto, non esitare a cercarmi.” 
“Grazie di cuore.” La ragazza s’inchinò, accomiatandosi “A tutti e due.” 
Lasciarono che s’avviasse per la sua strada, a passo svelto ed agile, e ne approfittarono per sistemare i propri equipaggiamenti, prima d’intraprendere a propria volta il sentiero che conduceva alle porte della città. 
 
† 


La vicinanza del fiume aveva permesso ad Irladÿs di diventare una cittadina fiorente, sia grazie agli scambi commerciali che al traffico di pellegrini che si recavano al Santuario di Shuva, vero cuore pulsante della città, in cui era custodita una delle Lance che aveva trafitto il Profeta nel primo Giorno del Trapasso. La presenza della reliquia l’aveva resa una vera e propria roccaforte del culto di Shuva. Secondo i dettami del Culto, la città non era stata dotata di orpelli inutili: le solide mura di granito avevano un particolare colore verdastro, con venature più scure, che sembrava riflettere le sfumature a del fiume a cui la città doveva la sua fortuna. 
Quel colore così singolare, dovuto peraltro al semplice fatto che le rocce locali erano di quella tonalità, era l’unica concessione che i costruttori avevano fatto all’estetica. Il resto era ridotto ad una rigida essenzialità, più funzionale che gradevole allo sguardo. 

Nell’avvicinarsi alla severa cinta muraria, Till sentì il bisogno di chiedere al suo compagno di viaggio: “Hai intenzione di fermarti a lungo?” 
Jonah si strinse nelle spalle: “Almeno quanto basta a visitare il tempio. Ho sentito che il custode del santuario è uno dei tre Bruciati…” 
“I tre cosa?” 
“Bruciati. Vedi, a capo della Chiesa di Shuva c’è il Vicario Penitente e, sotto di lui.” Fece una specie di scala immaginaria con le mani “I tre Bruciati, paladini che si sono distinti nella lotta contro i demoni e che il Vicario ha individuato come suoi possibili successori. Si chiamano così perché hanno dovuto affrontare la Prova del Fuoco. Hanno dovuto attraversare un fuoco reso ancora più caldo dalla magia e, sopravvivendo, hanno dimostrato la fermezza della loro fede.” 
“Che coglioni!” Sbottò il guerriero “Quanto cazzo bisogna essere stupidi per fare una cosa del genere?!”  
Con sua grande sorpresa, anziché offendersi, il giovane si mise a ridere: “E’ un punto di vista interessante, in effetti. Ad ogni modo,” Aggiunse, recuperata la serietà “pare che questo Bruciato in particolare sia un esperto nel rapporto tra demoni ed esseri umani. Una specie di esorcista, se sai cosa intendo.” 
“Conosco il genere.” 
“Ecco. Speravo che potesse aiutarmi con…” Sospirò sconsolato: ogni volta che provava a parlarne provava un dolore atroce o, come in quel caso, qualcosa gl’impediva di trovare le parole. Si strofinò il marchio con il palmo, cercando di massaggiare la muscolatura dolorante, ma senza successo. Scosse il capo, avvilito. 
Till si spinse a poggiargli addirittura una mano sulla spalla: “Per me sono tutte cazzate. Comunque, spero che tu possa trovare l’aiuto che cerchi.” 
Jonah gli rivolse un sorriso mesto, ma sincero: “Grazie, Till. Lo apprezzo, davvero.” 
Il guerriero si scostò di nuovo il ciuffo dalla fronte con il suo solito scatto del capo: “Bah. Piuttosto, sapresti dirmi nulla sulla guardia cittadina?” 
“Vuoi unirti a loro?” 
“Almeno per il momento. Ho sentito che stanno cercando… volontari, per così dire, e che la paga è buona.” 
Jonah si soffermò un attimo a pensare prima di rispondere: “A quanto ne so, a Irladÿs non c’è una vera e propria milizia cittadina. Data la presenza del santuario e quant’altro, è la Chiesa di Shuva a gestire l’ordine pubblico e garantire la difesa in fatto di attacco. Le guardie sono paladini, o comunque osservanti che seguono il percorso per diventarlo, e “volontari” - come li chiami tu – sempre stipendiati dalla Chiesa.” 
“Ah!” Fece Till, sorpreso “Quindi, bisogna essere per forza osservanti per entrare nella guarnigione?” 
“No, no.” Lo rassicurò l’altro “Ti spiego: gli osservanti ed i paladini svolgono questo servizio in cambio di vitto e alloggio, perché fa parte dei loro compiti proteggere il santuario. Quello che non rientra nei loro doveri viene affidato a laici o, come nel tuo caso, addirittura a non credenti, che vengono però pagati dalla Chiesa e non dalle autorità cittadine, in cambio della disponibilità ad ospitare il tempio e tollerare il passaggio dei pellegrini. Per questo la paga è maggiore del solito.” 
“Capisco.” Annuì il guerriero “In effetti, ha senso.” 
“Se ti può essere utile, ho un lasciapassare firmato dal Prelato della città da cui sono partito: è valido per chi lo porta e chi l’accompagna. Non è molto, ma potrebbe esserti utile per entrare nella guarnigione. Se vuoi, ti posso accompagnare.” 
“Sì, va bene. Questi invasati non tollerano volentieri chi non la pensa come loro.” Di nuovo, si tolse il ciuffo dalla fronte con il consueto gesto “Per ringraziarti, appena sistemata la burocrazia, ti offro da bere.” 
“Molto volentieri.” Sorrise l’altro, lieto di poter fare qualcosa per sdebitarsi verso quello che, ormai, iniziava a considerare un amico. 

I due proseguirono fianco a fianco, come vecchi compagni d’armi, ignari delle ombre che sembravano allungarsi attorno a loro, troppo scure e dense per essere dovute al sole ormai calante. Le zone d’ombra, tutto intorno alle mura, sembravano animate da un ribollire sinistro, invisibile all’occhio umano. Mascherati dalla brezza, afflati e sussurri gelidi si rincorrevano laddove orecchi d’uomo non potevano raggiungerli.  
Per un istante impercettibile, poco meno d’un battito di ciglia, il sole fu oscurato da quella che poteva sembrare una nube passeggera. Se la si fosse osservata da vicino, tuttavia, vi si sarebbe scorto uno sciame di creature diafane, dall’apparenza quasi umana ma dotate di corna ed ali membranose, come di pipistrelli, ma sottili e iridescenti come fossero d’insetti.  
 
- Al Prossimo Capitolo- 

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