Terzo Atto

di AncientDust
(/viewuser.php?uid=1155843)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I - Settembre ***
Capitolo 2: *** Parte II -Settembre ***
Capitolo 3: *** Parte III - Gennaio ***
Capitolo 4: *** Parte IV - Gennaio ***
Capitolo 5: *** Parte V - Febbraio ***
Capitolo 6: *** Parte VI - Marzo ***
Capitolo 7: *** Parte VII - Aprile ***
Capitolo 8: *** Parte VIII - Aprile ***
Capitolo 9: *** Parte IX - Aprile ***
Capitolo 10: *** Parte X - Maggio ***



Capitolo 1
*** Parte I - Settembre ***


____________________

GOOD OMENS

- TERZO ATTO -

____________________________

 

 

 

Prima del Principio

- Caduta -

 

Fiamme.

Pozze di fuoco nell’oscurità. Aria incendiata innalzata in colonne.

Un rogo senza fine.

La creatura si trascina. Ali spezzate, piume candide che bruciano.

Una sensazione sconosciuta. Ingiusta.

Dolore.

La creatura si contorce, si allunga, muta.

Prega, senza essere udita.

Ali annerite si ritraggono, lucide squame si tracciano al loro posto. Denti ricurvi crescono fra fauci dilatate in grida impossibili, che si perdono fra molte altre.

La creatura spasima, si avvolge su sé stessa. Muore e rinasce.

Dimentica il suo nome.

Silenzio.

La vista si abitua al buio, rivelando l’Abisso.

Meteore precipitano nel cielo vuoto e rovinano al suolo. Resti dilaniati giacciono nella polvere e da quella si risollevano.

La creatura striscia, avanza fra braci e pietre coperte dalla cenere.

Senza meta. Disperandone una.

Mancanza.

Qualcosa di importante è perduto. Gli è stato portato via.

La creatura lo rivuole indietro, ma non sa cosa cerca. Non sa dove.

Non è rimasto niente.

Caos.

Una furia riemerge dalle profondità, terribile nella sua luce.

Splende, eppure non rischiara. Immense ali pallide spalancate nell’ombra e una corona nera.

Impone la sua autorità. Richiama a sé.

La creatura è accecata. Si ritrae.

Cerca un rifugio che non può trovare.

Paura.

La Luce predica con parole di collera. La terra trema alla sua voce.

Spettri miserabili si riuniscono al suo cospetto.

Venite. Venite a me.

un nuovo Regno è da costruire.

La creatura avvilisce.

Nel pensiero, il suo nuovo nome prende forma. Battesimo dell’Inferno.

Crawly.

 

 

***

_______________________________

 

Prologo

_______________________________

 

 

Per iniziare, ogni partita necessita che i pezzi vengano disposti sulla scacchiera. I bianchi da un lato, i neri dall’altro. I bianchi muovono per primi.

Niente di strano fin qui, persino i bambini sanno come funziona.

I pezzi vengono messi in posizione, ognuno nella propria casella, ignari di quello che gli accadrà. Se la mossa successiva sarà buona o meno, se mangeranno o verranno mangiati; tutto ciò che distinguono è il loro piccolo mondo a scacchi e quello che vi succede sopra.

La realtà funziona più o meno allo stesso modo.

Un equilibrio di opposti, in contrasto perpetuo sulla scacchiera del mondo. Condizione necessaria, per quanto spiacevole, per motivi fin troppo complessi per poter essere ben descritti e compresi da chiunque.

Ineffabile, lo descriverebbe qualcuno; con un termine tutto sommato corretto, anche se forse un po’ semplicistico.

La partita in questione, tuttavia, non susciterebbe lo stesso sorprendente effetto senza una curiosa variabile, decisamente non presente nella sua più monotona controparte da tavolo: il libero arbitrio.

È così che tutto prende vita, che il gioco diventa davvero interessante. Che la stasi si anima, permettendo sviluppi inaspettati. Una piccola ingegnosa variabile, che sovverte ogni altra regola e ne crea sempre di nuove. Ancora e ancora.

E così può succedere che i pezzi bianchi e quelli neri si mescolino, che non si schierino nel modo prestabilito, o che non lo facciano affatto. Si può assistere a movimenti normalmente non consentiti, spesso non privi anche di una certa apprezzabile creatività.

A volte spuntano pezzi del tutto nuovi, non previsti, e altri invece cambiano strada facendo. Potrebbe verificarsi qualunque cosa, nel bene o nel male, fuori o dentro le direttive iniziali.

Difficile dire quanto potrebbe durare una partita così. Ore? Millenni? Forse anche in eterno.

Magari con qualche piccolo aiuto.

Certo, tutto questo potrebbe sembrare disordinato, ad un occhio disattento; forse anche inutilmente complesso. In effetti, sarebbe molto più facile e adeguato tendere a un immobile ideale di perfezione formale; a un immutabile ordine universale.

Ma la verità è che nulla che sia veramente vivo può essere semplice e privo di cambiamento. Ogni elemento è indispensabile a questo fine, persino il peggiore, per quanto ciò possa sembrare crudele. E in favore del gioco della realtà, dell’esistenza stessa, tutto deve essere concesso.  

O quasi.

Perciò serve qualcuno che soprintenda la partita; che prepari la scacchiera, posizionando con cura i pezzi, perché dopotutto non può esserci gioco senza giocatore.

 

***

_________________________________

Parte I

 

- Settembre -

 

Crowley sedeva in un angolo del locale.

La tazza di caffè ormai freddo in una mano, lo sguardo perso al di là del vetro.

Osservava le ombre del tardo pomeriggio allungarsi sulla strada e sfumare i propri contorni, mentre le luminarie dei negozi iniziavano ad accendere Soho delle luci colorate della sera.

Gruppi di persone calpestavano l’asfalto avanti e indietro: stanche, allegre, prese dai propri affari, alcune irritate e bercianti al telefono, altre che portavano a passeggio il cane. Qualche auto scorreva pigramente fra i pedoni. Di fronte, all’interno della libreria, un angelo affaccendato sbucava ogni tanto da dietro le ampie finestre, spostando scatoloni e pile di libri nel tepore delle abat-jour.

Crowley ormai aveva imparato quella routine. Quella vita che scorreva tranquilla, con spietata indifferenza, come se niente fosse. Perché in effetti, niente era cambiato, se non per lui. Se non per il fatto che l’angelo nella libreria era quello sbagliato, e lui era l’unico per cui questo aveva importanza.

Si era seduto lì ad osservare, ad aspettare. Per giorni, forse settimane, non avrebbe saputo dirlo con certezza; il tempo ormai si confondeva. Si era appiattito, sospeso nel momento in cui le porte dell’ascensore si erano chiuse davanti ai suoi occhi, senza che potesse impedirlo.

All’inizio, dopo quella mattina infernale, aveva guidato. Era salito sulla Bentley e aveva schiacciato l’acceleratore; la destinazione non era importante. Aveva visto scorrere la città, la periferia, poi le campagne; e dopo, altre città, zone industriali, paesi, colline, boscaglie, scogliere.

Senza mai fermarsi, seguendo semplicemente la strada. Seguendo tutte le strade.

Ma per quanto volesse fuggire lontano, alla fine, senza rendersene conto, si era ritrovato di nuovo a Londra; davanti alla dannata libreria. Un centro di gravità implacabile che continuava a risucchiarlo verso di sé. Un fottuto, odioso, buco nero.

A quel punto aveva deciso di bere.

Era tornato nel suo appartamento a Mayfair, trovandolo abbandonato. A Shax non era mai piaciuto stare sulla terra, e ora non aveva certo più motivo per restare ad abitarci.

Crowley, invece, ne ricordava diversi di motivi, chiusi nel mobile-bar del suo salotto e altrettanti al fresco nella dispensa. E, come immaginava, li aveva ritrovati tutti al loro posto, come quando li aveva lasciati.

Quindi si era buttato su una poltrona e aveva bevuto, provando a non pensare a niente, a dimenticare. Ma non aveva funzionato. Probabilmente, nemmeno tutto l’alcol del pianeta sarebbe riuscito nell’intento.

Allora aveva ceduto alla rabbia. Forse perché era ubriaco, o magari perché non c’era molto altro che potesse fare. Aveva distrutto ogni cosa, una per una. Fino a che di quel maledetto posto, prima vanto del più assoluto ordine, non erano rimasti che pezzi in frantumi sul pavimento di marmo, e qualche stupida pianta a tremare in un angolo.

La vecchia del piano di sotto aveva chiamato la polizia. Per il frastuono avrà pensato ad un’incursione dei ladri, o chissà che altro, e due agenti erano venuti a bussare.

Crowley li aveva rimandati indietro, senza nemmeno aprire la porta d’ingresso. Nelle loro teste vuote, prese forma l’assoluta certezza di aver trovato solo innocui operai a lavoro per una ristrutturazione. Oltre che l’improvvisa e inspiegabile urgenza di tornare a casa, per lucidare con la lingua, e meticolosa attenzione, ogni singola fuga fra le piastrelle del pavimento del bagno.

Di nuovo indisturbato, per un po’ Crowley era rimasto lì, maceria fra le macerie, con la schiena appoggiata a un tramezzo. Una patetica parodia di essere umano e un’imbarazzante esempio di demone; l’avanzo risputato di sé stesso.

Poi quella necessità, quell’attrazione gravitazionale era tornata a catturarlo e aveva iniziato a tirare. Così, aveva infilato la porta dell’appartamento ed era uscito.

Camminando in preda alla persecuzione, senza però riuscire a contrastarla, le sue gambe lo avevano riportato a Soho, alla libreria. Sempre alla dannata libreria. E lì si era messo ad aspettare.

Non era entrato.

Ora che la potestà era cambiata, non avrebbe più potuto neanche volendo, almeno non senza prima essere invitato. Ma, nonostante quella stramba scrivana di ultima classe 1, che ora la presiedeva, fosse abbastanza tonta da poter essere raggirata con relativa semplicità, Crowley non aveva neanche provato a bussare.

Non avrebbe più messo piede lì dentro. No, non lo avrebbe sopportato.

Era entrato invece nel Caffè di fronte e si era seduto. Si era seduto e basta. E così il giorno dopo e quello dopo ancora. Scontento spettatore di un’insignificante spicchio di mondo.

Nel mentre, una speranza sleale gli scavava all’interno della testa, come un tarlo affamato.

Magari, prima o poi, l’angelo avrebbe avuto nostalgia dei suoi libri polverosi, o avrebbe avuto voglia di una crème brûlèe o di quel ristorantino giapponese che gli piaceva tanto, e lui lo avrebbe visto varcare di nuovo la soglia di quell’ascensore.

Lo avrebbe visto. E dopo?

Forse il tarlo doveva aver scavato un po’ troppo a fondo, perché Crowley non aveva alcuna idea di cosa avrebbe fatto se quella remota eventualità si fosse verificata. Probabilmente sarebbe solo rimasto a guardare, da lontano; proprio come aveva sempre fatto. Si erano osservati per seimila anni, lui e l’angelo, ma non si erano mai visti davvero. E ora che sapeva come stavano le cose, non sarebbe riuscito ad avvicinarlo di nuovo.

Per quanto dissimulare fosse sempre stata la sua specialità, qualcosa che da demone aveva dovuto imparare, lo squarcio che gli si era aperto dentro non faceva altro che allargarsi, giorno dopo giorno; doloroso e crudele. E lui cominciava a sentirsi stanco.

Forse avrebbe dovuto lasciar perdere.

Fuori si era quasi fatto buio. Materializzò una banconota da cinque sterline e la lasciò sul tavolino, accanto al caffè che non aveva bevuto. Scivolò fra le sedie ormai vuote del locale, grato del tacito accordo di reciproca reticenza – forse leggermente aiutato da un miracolo – che pareva mantenersi fra lui e la proprietaria. La quale si limitò a fissarlo di sottecchi per un momento, mentre ripuliva il ripiano del bancone, giusto poco prima che lui afferrasse la maniglia dell’ingresso e facesse tintinnare la campanella.

L’aria umida dell’esterno gli riempì il naso, mentre raggiungeva il punto del marciapiede in cui aveva parcheggiato la Bentley.

Dormire. Ecco cosa avrebbe fatto adesso.

Un sonno bello lungo era quello che gli ci voleva. Magari due, trecento anni. Puro, semplice, rilassante oblio; proprio come diceva quel tale, in un libro che aveva sfogliato una volta:

È il sonno, ozio delle anime, oblio dei mali. 2

Crowley sperò che fosse vero.

Guidò a radio spenta e a massima velocità, schiacciando la frustrazione insieme all’acceleratore, su per Regent Street, fino al lussuoso complesso che ospitava i resti del suo appartamento; il viale illuminato da freddi lampioni di design.

Prese le scale di asettico marmo grigio, certo di non incrociare nessuno, e raggiunse il piano. Quando varcò la soglia non si scomodò nemmeno ad accendere la luce. Attraversò il corridoio buio, sentendo cocci e frammenti scricchiolare sotto le suole.

Gli sarebbe bastato un banale miracolo demoniaco per risistemare tutto, ma non voleva farlo. In qualche modo quel caos lo faceva sentire a suo agio. Era la giusta tana in cui ritirarsi, in cui abbandonare i resti di sé stesso.

Miracolò invece una bottiglia di rosso, da un grumo di vetri che incrociò strada facendo, e la scolò tutta d’un fiato, senza sentirne il sapore. Poi sfilò gli occhiali e li lanciò da qualche parte alle sue spalle, entrando in camera.

Anche il letto era distrutto; le piume dei cuscini ricoprivano il pavimento e il materasso sfondato. Piccole parentesi bianche, sparse fra brandelli scuri di quelle che erano state lenzuola di seta.

Crowley strisciò stancamente nell’oscurità che gli apparteneva e cercò una nicchia. Si avviluppò su sé stesso, arrotolandosi fra piume così simili ad altre, ora troppo lontane, e si addormentò sperando nell’oblio.

 

***

_________________________________

 

1 Ho deciso di riferirmi a Muriel al femminile, per comodità e chiarezza di scrittura. Non me ne vogliate.

2 Questo passaggio è della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, canto VIII, reso in un italiano più moderno e  scorrevole per la lettura.

 

NOTE DELL'AUTRICE:

Un saluto e un ringraziamento a chi è giunto qui, e ha letto l’inizio di quello che sarà tendenzialmente un delirio personale.

L’attesa della terza stagione mi sta consumando, perciò ho deciso di cimentarmi anch’io a scriverne la mia versione, per provare a placare me stessa, e forse può far piacere anche a qualcun altro leggere.

So che questo incipit può sembrare caotico, ma giuro che non sarà sempre così.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte II -Settembre ***


_______________________________

 

Parte II

 

 

 

- Settembre -

 

Aziraphale camminava spedito.

Il suono dei passi inghiottito dal corridoio vuoto, tanto limpido da pungere lo sguardo.

Risalire in Paradiso risultava ogni volta un processo fastidioso, che gli richiedeva qualche momento per ambientarsi a quella luminosità così assoluta. A quella luce…aggressiva, che filtrava ogni cosa. Priva di calore, avrebbe anche aggiunto una parte di lui.

Un’altra parte, invece, insisteva a metterlo in guardia. Probabilmente, qualcosa doveva essersi guastato nella sua natura di angelo, e quello non era altro che un sintomo.

Temeva che sarebbe successo, prima o poi. Aveva vissuto troppo come umano, fra gli umani. Provando le loro abitudini, vestendo come loro, mangiando come loro, a volte pensando come loro. Fraternizzando. Intrecciando con loro la propria esistenza.

Con loro, certo, e non solo.

Scacciò il pensiero con uno scatto del capo. C’era molto da fare.

Dischiuse il plico che teneva fra le mani, mentre varcava la prima coppia di colonne che delimitava la Sala di Ricerca. Una distesa di piccole scrivanie bianche si srotolava in avanti, fino a dove poteva arrivare la vista, e oltre. Per ognuna di esse, un Archivista seduto al lavoro. Il fruscio ritmico di fogli spostati a scandire, nel silenzio, un tempo altrimenti congelato.

Aziraphale avanzò verso il Globo, che fluttuava pigro al centro del colonnato. Attorno ad esso, una mezza dozzina di altri angeli era intenta a controllare e posizionare lucenti punti di interesse.

Porse loro la manciata di appunti, che si allontanarono dal fascicolo e si disposero in una piccola pila ordinata a mezzaria.

«Altri quattordici da segnare nell’emisfero settentrionale, per cortesia, Sehntiel.»

L’angelo che rispondeva al nome di Sehntiel, voltò la testa bionda e scattò sull’attenti al suono della sua voce. «Signor Arcangelo Supremo, Signore.», accennò un saluto rigido, «Solo quattordici nel sopralluogo, Signore?» aggiunse, con un’impronta di delusione.

Aziraphale tirò un sospiro. «Non c’è bisogno di tale formalità, te lo dico sempre.» lo corresse, ma senza troppa speranza. Non ricordava nemmeno più quante volte glielo avesse ripetuto.

Sehntiel non mostrò di averlo udito. Esaminava gli appunti con le sopracciglia aggrottate.

«Signore, mi perdoni. “327.549.626 e “327.549.632” non sono idonee? Secondo i parametri dovrebbero avere tutte le qualità adeguate per-»

«No, non le hanno.» lo interruppe lui, già esasperato.

«È per questo che insisto sull’importanza di eseguire i controlli di persona.» chiosò, anche se avrebbe preferito che almeno qualcuno degli scrutinatori provasse a seguire le direttive che si era premurato di fornire loro. Non sarebbe stato risolutivo, certo, ma di sicuro avrebbe alleggerito il lavoro.

Tuttavia, sembrava che tale realtà fosse molto lontana dal concretizzarsi spontaneamente.

«E non definirle in questo modo, con dei…numeri, come se fossero pacchi postali. Te ne prego.»

Sehntiel parve confuso. «Pacchi postali, Signore?»

«Non ha importanza.», Aziraphale stropicciò le palpebre fra due dita, «Adleine e Marguerite, sono i loro nomi. La prima ha solo undici anni, mentre la seconda è una segretaria di quarantasei, che ha subito un’isterectomia lo scorso anno. Sarebbe un po’ troppo sospetto se fosse lei la designata, non trovi?»

Sehntiel lo fissò, gli occhi scoloriti sbarrati e inespressivi, presumibilmente in attesa di un continuo che fornisse senso alla frase appena ascoltata. Era evidente che non comprendesse affatto quale fosse il problema.

Aziraphale diede fondo alla propria pazienza e contrasse le labbra in un sottile sorriso di circostanza.

«Molto bene. Non preoccuparti. Segna solo le prime quattordici, per piacere, e poi assicurati di inviare dei Custodi il prima possibile. Del resto mi occupo io.»

«Sarà fatto, Arcangelo Supremo, Signore.»

Il mio nome è Aziraphale, pensò, afflitto, mentre una manciata di nuovi punti luminosi prendeva spazio sulla superficie del Globo ad un gesto di Sehntiel.

Titoli, qualifiche, numeri, norme, doveri. Stanze spoglie e scartoffie. Questo colmava la sua esistenza ora, questo era. E quella luce, così fredda. A volte Aziraphale si sentiva raggelare, come se qualcosa si stesse insinuando dentro di lui.

Forse era il modo in cui ci si sentiva quando la Grazia iniziava a scivolare via. Quello che si provava a Cadere. Gli parve assurdo di aver avuto contatti con un demone per più di seimila anni, e di non averlo mai chiesto.

Rivolse una preghiera silenziosa all’Onnipotente, desiderando che non stesse accadendo proprio adesso. Ora che c’era tanto da fare. Ora che aveva un compito così importante, fondamentale, che avrebbe potuto fare la differenza.

Proprio ora, che aveva lasciato indietro ogni cosa a cui avesse mai tenuto, per fare ciò che riteneva giusto.

Non era sempre stato quello che si considererebbe un esempio impeccabile di angelo: spesso aveva ceduto – se così si può dire – a comportamenti poco consoni e piccoli vizi. Aveva anche dubitato del Paradiso, ma non aveva mai, mai, rinnegato la sua morale. E non aveva perso la Fede. Questo poteva essere sufficiente ai Suoi occhi?

Una sorta di oppressione lo cingeva, schiacciandolo tra quei pensieri.

Esausto, si accasciò sulla sedia della propria scrivania, sepolta sotto torri di fascicoli. Dal bordo, sbucava timido un angolo trasparente della scatola dei suggerimenti, dimenticata e vuota. Nessuno l’aveva usata, neanche una volta.

La sua mente vagò ancora dove non avrebbe voluto, ma dove del resto andava sempre.

Crowley.

Di certo lui avrebbe saputo consigliarlo. Forse, avrebbe anche saputo fare le cose meglio di quanto non stesse riuscendo lui. E sarebbe stato tutto più semplice ora, se solo avesse accettato di tornare in Paradiso. Di lavorare insieme, come del resto avevano sempre fatto.

Se solo avesse accettato. Sciocco, sciocco demonio.

Aziraphale scosse di nuovo la testa, tentando disperatamente di focalizzarsi altrove.

In quel momento, avrebbe dato qualunque cosa per poter assaporare una tazza di tè caldo. E magari sfogliare un bel libro, seduto su una poltrona, nella sua libreria. Il profumo della carta stampata nelle narici, un vinile che gratta sotto la punta del grammofono, i rumori della strada in sottofondo.

La libreria

«Signore?»

Uno degli archivisti, un’espressione spaesata stampata sul volto rotondo, gli stava allungando un’altra cartella rigonfia di fogli. «È il prossimo gruppo selezionato in attesa di controllo, Signore. Continente Orientale.»

Aziraphale afferrò il pacchetto, fingendo un entusiasmo e una serenità che non possedeva. «Oh, ti ringrazio… ehm…»

«Ophale, signore. Archivista Scrivano di 36ª classe.»

«Ma certo. Ti ringrazio, Ophale.», tirò l’ennesimo sorriso, «Ottimo lavoro.»

Almeno, grazie ai sopralluoghi, poteva tornare sulla Terra e sfuggire per un po’ a quell’oppressione. Forse avrebbe anche potuto ritagliarsi un momento per il tè, dopo aver finito. Solo una breve pausa, minuscola, insignificante, niente di più.

«Aziraphale, mio caro!»

La voce lenta e rigorosa del Metatron proruppe dall’ingresso della Sala, alle sue spalle. Aziraphale guizzò in piedi come se una molla lo avesse scagliato dal sedile. La cartella e il suo contenuto rovinarono a terra. Ophale, di fianco, trasalì e indietreggiò con reverenza.

Il Metatron avanzò senza fretta, le braccia dietro la schiena, osservando in giro con il compiacimento che, sulla Terra, talvolta veniva riservato ai cantieri di edifici in costruzione – o almeno a quelli che parevano ben progettati.

Un piccolo contingente di Arcangeli, molto meno bendisposti, seguiva i suoi passi. Aziraphale accennò un inchino formale, che il Metatron respinse con un garbato gesto della mano.

«Noto con piacere, che il lavoro procede meravigliosamente. Non mi aspettavo niente di meno da te, sempre tanto ligio e scrupoloso.»

«Vi ringrazio per questa fiducia.» pigolò Aziraphale, mentre raccoglieva i fogli sparsi, «Ma, in verità, andiamo piuttosto a rilento. Se solo riuscissi, ecco, ad istruire come si deve qualche squadra per effettuare i sopralluoghi, potrei distribuire una parte molto gravosa della ricerca. La quale, per ora, sono costretto a svolgere da solo…»

Aziraphale sapeva bene che, andando avanti così, non sarebbero mai riusciti a trovarla in tempo; nemmeno se lui e tutti gli altri avessero lavorato senza sosta. Cosa che già facevano, in effetti.

Mentre parlava, vide Michael sollevare le sopracciglia e increspare i lineamenti, in un perfetto esempio di pura irritazione. Il Metatron, invece, annuiva affabile.

«Ma certo, ma certo. Qualunque cosa ti serva.»

«Il fatto è…», Aziraphale si tormentò le mani, rigirando l’anello intorno al mignolo, «che da parte loro sto riscontrando, come dire, una certa resistenza ad assimilare le nuove informazioni necessarie. E quasi tutti ignorano anche i più basilari meccanismi della vita umana.»

Il Metatron gli posò una mano sulla spalla, che risultò inaspettatamente pesante. Poi allungò gli angoli delle labbra in un sorriso indulgente, che le pieghe degli occhi, però, non seguirono.

«È per questo che sei tanto prezioso per la buona riuscita dell’operazione, mio caro. Ti ho scelto perché nessuno conosce l’umanità meglio di te; a parte forse, beh, l’Onnipotente.» rivolse un’occhiata ammiccante agli altri Arcangeli, i quali per lo più si mantennero impassibili.

Aziraphale si irrigidì, sentendo l’affanno della responsabilità soffocare ogni altra cosa dentro di lui.

«Sono onorato di aver ricevuto l’incarico. E, proprio perché ne comprendo l’importanza,» schiarì la voce, cercando di assumere un tono più deciso, «so che la mia conoscenza servirà a poco, se nessuno sarà disposto a starmi a sentire.»

«Farò in modo che ti prestino ascolto.» lo rassicurò il Metatron.

Tuttavia, Aziraphale non si sentiva affatto confortato. Non si trattava solo dei problemi con la ricerca. Continuava a esserci qualcosa di sbagliato; una contraddizione palese, eppure volutamente ignorata da tutti. E poi quella luce fredda, che gli si arrampicava addosso come un’edera infestante.

Michael fece un passo avanti, le punte delle dita giunte, già preparate a puntualizzare.

«Forse, Arcangelo Supremo, sono le tue nuove disposizioni ad essere un tantino troppo stravaganti, non credi? Come il fatto di aver aggiunto delle impure alle liste di osservazione. Le non più…vergini.» specificò, con una smorfia di nauseata disapprovazione.

Qualcuno fra gli altri Arcangeli borbottò fra i denti il proprio sconcerto. Altri si limitarono a corrugare la fronte. Sandalphon mostrò con sdegno la croce dorata che gli divideva a metà il ghigno.

«Nella situazione attuale, non possiamo più basarci su dettami vecchi di millenni come questo.» replicò Aziraphale, seccato, «Limitare la ricerca ad un parametro simile sarebbe pura follia.»

Un bagliore di collera baluginò nelle iridi di Michael.

«Un tempo, caro traditore, l’unica follia sarebbe stata la tua. Ma d’altronde, hai ancora la mente infettata da quel demone.» sputò.

Si fissarono, lo spazio che li divideva vibrò di energia. Il fruscio ritmico di carte e fascicoli si arrestò bruscamente, sospeso in un moto di apprensione generale.

Il Metatron scivolò sorridente in quella tensione, placido come l’acqua di un ruscello. Le mani chiuse sulle loro spalle a congiungere le sponde opposte.

«Via, Michael, non c’è bisogno di essere scortesi. I tempi sono cambiati. E ho piena fiducia nei metodi del nostro nuovo Arcangelo Supremo», spostò lo sguardo, divenuto metallico, verso Aziraphale, «e nella sua sincera lealtà.»

Un momento di silenzio soffocante, poi, come se nulla fosse e senza che mutasse la consueta cordialità nel tono, il Metatron allargò lo spazio fra di loro e si fece avanti, rivolgendosi a tutta la sala. Come un genitore amorevole, ma intransigente. Impensabile da contrariare.

«Il Secondo Avvento è un avvenimento di grande importanza per il Paradiso. Ciò che aspettiamo da sempre e che sancirà un nuovo inizio, per tutti noi e per le anime della Terra. Per questo è necessario collaborare con efficienza e lavorare con metodo.» la sua voce risuonava in ogni angolo, benché la mantenesse bassa. Tutti prestavano totale attenzione.

«L’unica priorità è trovare la futura Madre prima che lo facciano i reietti del Piano di Sotto.», continuò severo, «E mi aspetto il massimo impegno, da ognuno di voi.» una lunga occhiata rigorosa sancì la fine del discorso. Poi tornò a ridacchiare allegro, da sotto la barba candida. «Molto bene, ora hop-hop! Rimettetevi al lavoro.»

Nello stesso modo improvviso in cui avevano smesso, centinaia di teste riabbassarono il naso sulle scrivanie, riprendendo i propri compiti. Tante piccole api operose, ognuna nella sua angusta cella bianca.

Aziraphale si sentì scosso da un paio di pacche sulla schiena. Il Metatron era tornato a rivolgere l’attenzione su di lui.

«L’ordine vale anche per te, Supremo. Non credo che ora avrai ulteriori problemi.» lo congedò con fare asciutto, poi fece cenno al drappello di Arcangeli, avviandosi con loro verso il corridoio.

Aziraphale indugiò. Sapeva bene che le domande non erano ben viste in Paradiso. Sapeva che era bastato questo a provocare la caduta di molti, compreso Crowley.

Un angelo non può dubitare, mai. Un angelo obbedisce alla volontà superiore, con Fede incondizionata. Questa era la regola. Ma c’era qualcosa che non andava e che non poteva più essere ignorata. E c’era una domanda sulla punta della sua lingua.

«S-se potessi…un’ultima cosa.» balbettò.

Il Metatron si volse indietro, mentre Aziraphale lo raggiungeva con piccoli passi rigidi. Gli si accostò, ormai deciso a varcare quel confine.

«So che non dovrei chiedere ma, ecco, non riesco a capire.» mormorò, come se un tono basso potesse ridurre il rischio di ciò che stava facendo, rendendolo inudibile, quasi un segreto, «Se è l’Onnipotente in persona a designare la Madre prescelta…come del resto è stato anche l’ultima volta…allora, perché tenerci all’oscuro? Perché costringerci a questa irragionevole ricerca?»

Il Metatron lo scrutò, di nuovo metallico; spaventoso in quella freddezza, che contrastava così tanto con l’aspetto mite che aveva scelto per manifestarsi.

Aziraphale vacillò appena. «N-non è mia intenzione dubitare. Ma se sapessimo, avremmo potuto già iniziare a proteggerla. E non è facile trovare qualcuno fra miliardi di persone.»

Per un istante, la conseguenza che aveva paventato sembrò concretizzarsi nell’espressione grave del Metatron. Chiedere non era consentito. Ogni cosa, in fondo, avveniva per una ragione, la quale era di competenza di Dio, non di un comune angelo come lui.

Ma poi da quello sguardo immoto sfuggì qualcosa di inaspettato, un fugace riflesso di un timore gemello al suo, e il Metatron rispose.

«Vedi, c’è una macchia su di noi, Aziraphale, sul nostro operato qui in Paradiso.» rivolse alla sala una smorfia di ribrezzo mentre lo diceva, come se quella macchia di cui parlava gli fosse ben visibile, spiccata sul bianco candido dell’ambiente. «Gli eventi recenti, la mancata Apocalisse, il tradimento e la fuga di Gabriel. Le consuetudini sono state stravolte.» proseguì, la voce piena di rimprovero.

Aziraphale ascoltava, le palpebre strette, così come le dita, intrecciate fra di loro nell’inquietudine crescente. Perché sapeva che quella macchia c’era; la percepiva, e sentiva di portarla anche su di sé, a discapito dei vestiti immacolati.

Un moto di colpa lo investì in pieno petto, e il Metatron sembrò coglierlo.

Si avvicinò al suo orecchio, sussurrando, facendo in modo di non essere udito da altri, in un gesto di complicità inattesa, «Abbiamo perso la Sua fiducia, Aziraphale, e con essa la sua Parola. Ma non è tutto perduto. Dobbiamo dimostrare di essere ancora degni strumenti del Suo volere, che desideriamo riconquistarla.», si allontanò di nuovo, l’espressione come una maschera di vuoto. Gli occhi penetranti che esaminavano i suoi, intenti a saggiare ogni turbamento.

«Questa che ci viene offerta è una prova, che non possiamo fallire.», continuò, «Non c’è molto tempo e, sotto il nuovo Duca Infernale, i dannati sono diventati più efficienti e organizzati. Devi trovarla prima di loro e riferirlo a Me.» rimarcò quell’ordine stringendogli un’altra volta la mano sulla spalla; un tocco deciso, come le sue parole, che non ammetteva remore.

«So che non mi deluderai.»

Aziraphale rimase in silenzio, incapace di tirare fuori le parole utili ad una risposta. Si limitò ad annuire, in preda allo sconcerto, lo sguardo del Metatron ancora premuto addosso, mentre si congedavano.

Perciò era questo che aveva ereditato. Un’istituzione allo sbando, senza Guida, e una prova quasi impossibile, sul cui successo si reggeva il destino di ogni cosa. Ma peggio di tutto: era solo.

Solo come non era mai stato. Incerto persino di sé stesso.

Si tormentò le mani strette in grembo, mentre osservava il Metatron e il suo seguito allontanarsi e sparire oltre le colonne bianche. Intorno a lui erano rimasti soltanto i consueti fruscii dell’alveare in attività. E quella luce. Così estranea e fredda, che lo avviluppava, uncinandosi alla sua essenza.

Incatenandolo.

Chiuse gli occhi e sospirò, anelando anche solo per un istante il sollievo dell’ombra.

 

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:

Sono riuscita a pubblicare questo secondo capitolo relativamente presto (ringraziando il ponte di Halloween e il fatto che era praticamente già scritto), ma probabilmente in futuro i tempi saranno un po’ più dilatati. Anche se spero di mantenere una cadenza settimanale. Ora comunque si inizia ad entrare più nel vivo della storia, ma averto già da ora che più avanti ci saranno tematiche spinose che potrebbero urtare la sensibilità di qualcuno.

Grazie dei commenti, di qualunque tipo di feedback o anche di aver semplicemente letto. Ero un po’ indecisa sul pubblicare, come al mio solito, ma se posso intrattenere anche solo una persona, vale la pena.

Baci, e alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte III - Gennaio ***


NOTE: Salve, salve. Oggi piccola nota iniziale per specificare un paio di cose veloci.

Prima cosa: ho deciso di utilizzare il maschile come neutro per riferirmi alla maggior parte degli angeli e dei demoni presenti, tranne che per Muriel e Shax per cui ho optato per il femminile, questo per maggiore chiarezza e scorrevolezza del testo e preferenza di caratterizzazione. È comunque una mia scelta arbitraria e personale.

Seconda cosa: la storia per ora manterrà un rating arancione, ma probabilmente, per certi temi trattati, in seguito potrebbe trasformarsi in rosso.

Terza cosa: la storia è abbastanza lunga e già in gran parte semi-scritta o abbozzata, perciò perdonate la lentezza di questi capitoli iniziali, ma sono introduttivi.

Buona lettura!

 

_______________________________

 

Parte III

 

 

 

- Gennaio -

 

Una vibrazione.

Un’altra.

Un’altra ancora.

Crowley dischiuse una fessura tra le palpebre e assaggiò l’aria con la lingua forcuta. Un tenue bagliore lampeggiava sui muri, nell’oscurità della stanza. Richiuse gli occhi, privo di interesse, infilando la testa tra le spire. Stringendosi ancora in quel poco tepore accogliente che era riuscito a ritagliarsi, nel tentativo di riafferrare un avanzo dell’oblio da cui era stato strappato.

La vibrazione continuò per un po’. Smise. Poi riprese. E smise di nuovo.

Crowley la ignorò; o almeno, cercò di farlo. Fuori, una pioggia delicata picchiettava placida nel silenzio; doveva essere notte inoltrata.

«Potresti anche degnarti di rispondere.»

Una voce stizzita, ovattata attraverso il piccolo l’altoparlante del cellulare, ruppe definitivamente quella realtà di inerzia, a stento conquistata. Crowley sibilò il suo sdegno con la lingua fra i denti, sbirciando appena da sotto le scaglie di una spira.

Stagliata contro il muro, nell’alone rischiarato dalla luce dello schermo, prese forma l’ombra di una figura.

«Perciò ti sei rintanato di nuovo qui.» constatò la voce, con distacco.

Qualcosa di calpestato crocchiò nella semioscurità. L’ombra si spostò, sputando una mezza imprecazione; poi una fiammella verde rame si accese nella stanza, illuminando una smorfia arrogante e due occhietti pungenti, già intenti a saettare in giro con biasimo.

«Non credevo che ti saresti adeguato allo stile del Piano di Sotto, Crowley. Ti facevo un tipo più ordinato.»

«Va via, Shax.» replicò lui, atono.

Voltò la testa affilata, celandosi apatico in un’ansa del suo ventre sottile. L’ultima cosa che cercava era la conversazione; ancora meno, se l’indesiderato interlocutore in questione saltava fuori all’improvviso da qualche sgradevole provincia ultraterrena.

«Sono Duca Infernale adesso.» gracchiò Shax.

«Se pensi che mi freghi ancora qualcosa delle vossstre gerarchie del cazzo, sei fuori strada.»

Crowley strisciò fra brandelli di letto, lenzuola e piume, in cerca di un incavo ancora più buio e nascosto in cui rintanarsi. Se avesse potuto scavare nella terra lo avrebbe fatto; sarebbe andato giù, in profondità, senza fermarsi, fino a raggiungere un luogo in cui non vi fosse stato più nulla da poter vedere o sentire. Ma, sfortunatamente, oltre il pavimento ora avrebbe trovato solo lo squallido appartamento di qualcun altro.

Shax soffiò, sull’orlo dell’irritazione. «Vorrei ricordarti che, tecnicamente, questo posto nemmeno ti appartiene più.»

«E, tecnicamente, io non lavoro più per voi. Ho chiuso. Quindi, qualunque sia il dannato motivo per cui sei qui, non mi interesssa.»

«Non giocare con il fuoco, Crowley.» la voce di Shax si era inasprita; graffiò, come artigli su un vetro.

«Ti ho lasciato stare, ho lasciato che ti crogiolassi nel tuo patetismo e nei tuoi sciocchi passatempi umani. E di certo non perché sono di buon cuore.» schioccò la lingua sul palato, velenosa, «L’ho fatto solo perché ho una vaga stima del tuo lavoro passato. Ma rimani pur sempre un traditore

Crowley scivolò piano da sotto i resti del copriletto, avanzando come un nastro di velluto sul pavimento ingombro. «Perciò sssei venuta per punirmi? Rinchiudermi da qualche parte?»

Si avvicinò alla fonte della luce verdognola, sfilandosi piano da una pelle e vestendone un’altra; dividendo il sostegno del ventre serpentino su due gambe nuovamente umane, foderate dal tessuto dei pantaloni.

Materializzò un paio dei suoi occhiali e li inforcò, mentre colmava con gli ultimi passi la distanza che li divideva. La stanza era diventata più angusta, ora che si trovava in piedi; la sentì stretta addosso.

«Sono lusingato che tu ti sia scomodata apposta per me, Shax. Ma se pensi che non mi ribellerò, sei di nuovo fuori strada.» la fronteggiò, mostrando i denti, ostentando sprezzo; fissandola da dietro le lenti, in quegli occhietti appuntiti, che riflettevano la luce nella semioscurità come quelli di una donnola inquadrata dai fari di un’auto.

Come prima regola, nella sua lunga esistenza, Crowley aveva sempre avuto il non attirare i problemi. Mantenere la testa bassa quando necessario, farsi notare quando opportuno, mentire il giusto, dileguarsi con tempismo; e mai, mai, mai sfidare apertamente chi poteva essere una minaccia. Era quel tipo di mossa stupida che di certo non lo avrebbe visto protagonista, in tempi normali.

Tuttavia quelli non erano tempi normali, non più. E la frustrazione che sentiva dentro stava assumendo sempre di più i contorni del rancore e della mancanza di buonsenso.

Shax lo osservò, accennando un ghigno derisorio; una fila di dentini affilati le sbucò dal bordo del labbro. Sul volto, l’espressione di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico.

«Facciamo così: tu ascolti quello che ho da dire, collaboriamo, e poi potrei persino decidere di lasciarti in tranquillità; a marcire in questo buco, se ti fa piacere.», un piccolo sentiero di rughe le si evidenziò fra le sopracciglia, incurvate da falsa benevolenza, «In nome dei vecchi tempi, che ne dici?» gli porse la mano tesa, sotto un sorriso ora dilatato, luccicante di spilli nel buio.

La scelta non sembrava essere tra le opzioni, men che meno la negoziazione. E quando l’Inferno voleva collaborazione, non c’era mai niente di buono all’orizzonte.

Crowley si sentì di nuovo incastrato.

Forse lo era, e lo sarebbe sempre stato, nonostante avesse speso l’eternità a pretendere di no; a fuggire e dimenarsi come un bambino, in nome di un capriccio di libertà effimera che continuava a dissolverglisi davanti. Impietoso fumo negli occhi.

Le strinse la mano, cedendo al contatto solo per l’attimo necessario e mal celando il risentimento.

Non ci si può fidare di un demone, ovviamente; questo entrambi lo sapevano bene. Ma funzionava così tra loro: accordi transitori, cavilli, inganni; ombre di lame taglienti puntate alla schiena.
Magari avrebbe guadagnato qualche altro anno di tregua, o forse no. Non sapeva nemmeno se gli importava davvero, o se avesse ancora senso.

In ogni caso, Shax ne sembrò compiaciuta.

«Molto bene. Ora che abbiamo finito con i convenevoli…», materializzò due piccole poltrone Chesterfield e si accomodò su una, accavallando le gambe. Poi gli indicò l’altra con un cenno sbrigativo, mentre la fiammella verde continuava a fluttuare pigra da un lato, fra i due sedili.

Crowley non assecondò l’invito.

«Dimmi cosa vuoi e basta. Non ho intenzione di fare salotto.»

Quella situazione si stava protraendo fin troppo e sentiva il nervosismo salire, insieme ad una scomoda consapevolezza. C’erano solo due ragioni per cui Shax avrebbe potuto considerare rilevante il contributo di uno come lui: la sua maggiore conoscenza della Terra e… i suoi trascorsi con l’angelo.

Anzi, Arcangelo adesso.

Supremo Pezzo Grosso, di sicuro già invischiato in ogni sorta di casino. Impegnato in imponenti opere di bene, intento a farsi in quattro per rivoluzionare da solo incrollabili ordinamenti celesti millenari, e chissà che altro. Il tutto sempre con il suo tipico ingenuo ottimismo.

Quel pensiero gli si incastrò in gola.

Shax contrasse le labbra sottili, corrette dal rossetto, indifferente. «Come preferisci.» lisciò la pelle nera della poltrona con le dita, poi proseguì «In realtà, credo che troverai parecchio interessante quello che ho da dire.»

«Arriva al punto.»

«Beh, di recente ho avuto conferma di certe voci. Pare che su, ai Piani Alti, abbiano deciso di mettere in scena il loro atto conclusivo. Secondo Avvento, ne avrai di certo sentito parlare; e sai che significa guerra.» assaporò con evidente gusto l’ultima parola, facendola passare fra i dentini luccicanti e sulla lingua, come un delizioso confetto.

«Guerra che, chiaramente, intendo vincere

Crowley si rese conto di aver artigliato lo schienale della Chesterfield.

Non poteva essere.

Aziraphale amava il mondo; lo amava così com’era, e gli piacevano anche gli esseri umani, con i loro vizi, le imperfezioni, le contraddizioni e, in fondo, anche i lati oscuri. Avevano sventato un’apocalisse soltanto qualche anno prima, insieme. Non poteva aver acconsentito all’attuazione di una nuova fine dei tempi. Era ridicolo. Dovevano averlo ingannato, costretto, o qualcosa di simile.

O forse… forse no.

Magari era lui ad essersi sempre sbagliato, ad aver visto qualcosa che non c’era. Proprio come era successo con la loro amicizia, il loro legame. Un’illusione.

Un angelo rimane sempre un angelo dopotutto; debellare il male, in tutte le sue forme, era insito nel suo essere; e le sfumature esistono solo per chi cade in basso. Una verità da sempre scacciata, che ora lo colse come una pugnalata.

«Vedo che ho attirato la tua attenzione.»

Shax intrecciò le dita in grembo, compassata. «Penso che, a questo punto, avrai capito perché sono qui. Siamo noi questa volta ad essere in svantaggio strategico e, riguardo lo sventare Grandi Piani, tu sei l’esperto.»

Crowley si sporse in avanti, stringendo più forte il bordo della poltrona; ricacciando indietro il nodo che gli si era arrampicato su per la gola. «E, dimmi, cosa ti fa pensare che io abbia intenzione di aiutarti?» replicò, esibendo la massima asprezza possibile.

Shax sollevò alte le sopracciglia perfettamente disegnate. «Non credo che tu voglia finire confinato per l’eternità nell’Abisso.» indicò verso di lui con una lunga unghia laccata, che poi spostò su di sé, «Come del resto neanche io.»

Una pausa sottolineò quella che, secondo lei, doveva essere l’evidenza, mentre rivolgeva il palmo verso l’alto, allargando gli artigli. «Non vedo perché non dovremmo lavorare insieme.»

Ostentava una complicità che non avevano mai condiviso, e con fin troppa irritante naturalezza. Il che fece innervosire Crowley molto più di quanto avrebbe voluto ammettere. Non avevano niente in comune, non avevano mai condiviso nulla, se non l’accidentale e infelice condizione demoniaca.

Avrebbe preferito crepare piuttosto che passare l’eternità con loro in quella fogna di dannati, ma questo non significava che li avrebbe aiutati a rendere tutta l’esistenza un’altra fogna, solo più grande e ventilata.

«Evidentemente, Shax, ti sfugge che non ho mai agito a favore di nessuna fazione. Noi non siamo dalla stessa parte.»

Gli occhi di Shax si accesero di collera per un istante; le iridi strette fra le palpebre.

«E chi c’è dalla tua parte, Crowley?», la sua voce era diventata sottile e tagliente, «Il tuo caro angelo non sembra essere più molto interessato a te. Anzi, in effetti, quello che mi sfugge davvero è perché ti abbia lasciato qui da solo. Sembravate così affezionati

Crowley si irrigidì. Il rivestimento della Chesterfield si lacerò sotto la sua presa, le dita conficcate nell’imbottitura.

Shax sorrise malevola, deliziata di aver colpito nel segno.

«Cos’è, non gli hanno permesso di portarsi il diavoletto domestico su in Paradiso?»

Si alzò dal sedile, avvicinandosi morbida come un piccolo predatore, «Forse si è reso conto che il collare angelico non si intonava con i tuoi occhi da serpente? O magari sei tu che non hai voluto indossarlo.» si avvicinò ancora, lo sguardo fisso che rifletteva il verde della fiammella, «Hai capito di essere stato solo un patetico randagio da recuperare e rieducare, non è così?», sussurrò, «Un’altra piccola opera di carità.»

Crowley sibilò a denti stretti, incapace di formulare una risposta. Tremava di rabbia, eppure era bloccato; sagome di angosce volutamente ignorate, a cui non desiderava dare un nome, gli si stavano avvolgendo addosso, stringendo su ferite ancora non rimarginate.

Shax sbuffò. «Oh, andiamo. Non fare quella faccia. Del resto dovevi aspettartelo, quelli come noi vengono sempre lasciati indietro.», schioccò la lingua con amarezza, «Dobbiamo faticare per farci strada, per non affondare ancora di più. Per prendere ciò che ci spetta

Gli girò intorno mentre parlava. Crowley poteva sentire i suoi artigli allungarsi su di lui, sicuri di averlo in pugno. Ma non le avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi afflitto, di godere delle sue debolezze. Raccolse l’ultimo brandello di certezza che possedeva, e vi si aggrappò con tutto sé stesso, come a uno scoglio; ultimo baluardo della sua dignità.

«Preferisco affondare qui da solo, che prendere ancora stupidi ordini da qualcuno.» ringhiò, gelido.

Se davvero doveva esserci il Giudizio Universale, allora lo avrebbe affrontato da demone libero.

Si guardarono per un momento, in un silenzio spinoso, eloquente di ribrezzo reciproco. Poi Shax si allontanò di qualche passo, attirando a sé la fiammella. La piccola luce verde fluttuò e si fermò davanti al suo petto, disegnandole in viso ombre dure e lugubri.

«L’Inferno è la tua parte, Crowley; l’unica che potrai mai avere. E, quando lo capirai, sai come trovarmi.» gli offrì un’ultima occhiata astiosa, poi afferrò la luce e scomparve, lasciando di nuovo spazio al buio della stanza.

Per un po’ Crowley non si mosse, la presa ancora salda sullo schienale. Incapace di lasciare quel supporto divenuto necessario, ora che sentiva il sostegno delle sue gambe esili soccombere, sotto un peso sempre più gravoso.

Fu con lentezza che si lasciò scivolare sul pavimento, accasciandosi ai piedi della piccola poltrona.

Sfilò le lenti e sospirò, nell’aria pesante di quel silenzio ritrovato, ora avvelenato dai pensieri. La pioggia batteva ancora piano sui vetri delle finestre.

Rivolse gli occhi al cielo, oltre il soffitto, a quel Dio che lo aveva condannato. L’ennesima domanda silenziosa, la richiesta disperata di un senso che non riusciva più a trovare. Di una spiegazione a ragioni che non comprendeva e che, forse, non avrebbe mai potuto accettare.

Ma nessuna risposta sarebbe arrivata, neanche questa volta.

 

 

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:

Mi scuso per la depressione di questi capitoli di Crowley, ma sono necessari per lo sviluppo del personaggio (giuro). Anche se ammetto di aver comunque un po’ sofferto a scrivere di Shax che gli rivolgeva cattiverie.

E in merito a questo, spero di non essere andata troppo OOC con lei, ma avevo bisogno che fosse minacciosa, ora che si trova al comando; e non ho neanche troppo faticato ad immaginarla così, più consapevole, evoluta per il suo nuovo ruolo. Mi sono soprattutto ispirata al modo in cui è riuscita a farsi invitare nella libreria alla fine della seconda stagione, utilizzando i timori profondi di Maggie, riuscendo a fiutare le sue debolezze. Un potere molto da demone classico, in realtà, ma che nella serie non è mai stato molto sfruttato, e che quindi ho deciso di utilizzare come caratteristica peculiare per lei.

Per il resto, grazie per essere arrivati sin qui, per aver letto, per i feedback e tutto il resto (sempre tutto super gradito). Baci, e al prossimo capitolo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Parte IV - Gennaio ***


_______________________________

 

Parte IV

 

 

 

- Gennaio -

 

Le porte meccaniche dell’autobus scivolarono ai lati, lungo i cardini. Beth scese sul marciapiede, sotto un cielo plumbeo, ancora debolmente rischiarato dal crepuscolo.

Prese una boccata di aria gelida, pungente di smog, lieta di aver abbandonato il caldo soffocante che c’era all’interno del mezzo. Attraversò Charing Cross Road su gambe molli, come una sonnambula, mentre tentava di scrollarsi di dosso il torpore che l’aveva avvolta durante il tragitto. Doveva essersi appisolata, perché le sembrava di aver fatto un sogno.

Un sogno strano.

Tentò di riportarlo alla mente, ma più ci provava e più quello sfuggiva, lasciando dietro di sé solo una sensazione indefinita.

Ancora assorta, si strinse nella spessa sciarpa di lana e, lasciandosi trascinare dai piedi, si infilò nei vicoli illuminati di Soho. Catene di luci colorate giocavano nei riflessi delle pozzanghere che la pioggia aveva lasciato sul terreno. Ultimo, e alquanto tenace, residuo delle decorazioni delle festività ormai passate.

Svoltò in Whickber Street, mentre l’umidità le pizzicava la punta del naso; superò il pub e la libreria, puntando all’ingresso laccato di blu del Caffè. Aveva solo bisogno di riprendersi un po’, e poi magari sarebbe anche riuscita a studiare qualcosa, prima del lavoro.

Sapeva che, con tutta probabilità, si sarebbe solo seduta per un’ora a fissare libri e appunti, senza riuscire nemmeno a metterli a fuoco; ma pensarlo le diede la piacevole illusione di sentirsi organizzata, e di saper rendere produttivo il suo tempo.

Spinse la porta e la campanella tintinnò al suo ingresso. L’interno, fragrante di biscotti e caffè, era ancora abbastanza affollato dagli ultimi clienti tardivi di quel pomeriggio buio.

Come un naufrago alla vista della terraferma, Beth avanzò verso il bancone e vi si appoggiò, accennando un saluto. Dall’altro lato del piano, Nina ricambiò cordiale, senza smettere di asciugare delle tazze con uno strofinaccio.

«Latte macchiato, cannella, non troppo zucchero, molta schiuma. Ti porto anche qualcos’altro?» esordì, prima ancora che le fosse rivolta qualunque richiesta, cadenzando l’elenco con un movimento dello strofinaccio a mezz’aria.

Beth scosse la testa. «Oggi solo caffè, per favore. Meglio se doppio.»

Si stupiva ancora di come Nina riuscisse a ricordare – tra l’altro con sconvolgente precisione – gli ordini abituali di tutti quelli che varcavano la sua porta per più di un paio di volte.

La vide prelevare una delle tazze, dalla pila che aveva appena sistemato, e tendere sul viso un piccolo sorriso pratico, ma comprensivo. Uno di quelli che, di solito, avendo a che fare ogni giorno con dei clienti si matura per abitudine.

«E caffè doppio sia.»

Beth sfilò la lunga sciarpa dal collo, poi coprì uno sbadiglio con il dorso della mano.

«Dormito poco di nuovo?»

«Quasi per niente.» esalò, quasi abbandonandosi sul bancone, «Stamattina ho staccato tardi e poi avevo le lezioni. Se non mi riprendo, rischio di addormentarmi su un cliente.» scansò fiaccamente una ciocca di capelli dalla fronte, riflettendo sul fatto che, tutto sommato, qualcuno di loro nemmeno se ne sarebbe accorto se fosse accaduto. Ripose la sciarpa, arrotolandola malamente nella borsa. «Credo di essermi persino appisolata sull’autobus prima.» concluse, rimarcando la gravità della situazione; lei non dormiva mai sui mezzi pubblici.

Nina sollevò le sopracciglia in una smorfia sardonica, simulando un certo sconcerto. «Beh, data la situazione, ti darò anche un paio di Eccles Cake. Un po’ di zucchero a volte fa miracoli.»

Beth ridacchiò un ringraziamento e le porse le sterline, vagando già intorno con lo sguardo, nell’attesa, in cerca di un tavolino libero in cui sistemarsi.

Ma qualcosa, un’ombra nella coda dell’occhio, si allungò dal bordo della sua visuale; come inchiostro sciolto nell’acqua. Prese un respiro più profondo, a palpebre strette, lo stomaco chiuso da un senso di vuoto improvviso, maledicendo la stanchezza che iniziava a giocare brutti scherzi.

Durò solo un istante, e quando osservò di nuovo, non c’era nulla di strano; nessun’ombra, solo persone, sedie, tavolini e… poi lo notò.

L’uomo solitario.

Era proprio lui, seduto in fondo al locale, al suo solito posto.

Occhiali scuri, tinta accesa, giacca nera e tutto il resto. Se ne stava nel suo consueto silenzio, un gomito appuntito poggiato all’indietro sullo schienale, lo sguardo di vetro rivolto fuori, verso la strada. Quanti mesi erano passati dall’ultima volta che lo aveva visto? Tre, quattro? Non ricordava.

Si sporse sul bancone.

«Nina?»

«Mhm.»

«Quel tipo, è tornato.» bisbigliò, puntandolo appena con lo sguardo, «Se ne sta di nuovo lì, seduto nell’angolo.»

«Intendi Mr. Occhiali-da-sole

Beth annuì, continuando a sbirciare verso di lui. Nina inserì il filtro nella macchina del caffè, senza mostrarsi particolarmente impensierita.

«È qui da stamattina, in realtà. Non una parola, come al solito. Gli ho portato la sua tazza da sei espresso, anche se presumo che avrebbe preferito bere qualcosa di più forte.»

«Ma è sparito per mesi, e ora torna così, come se niente fosse. Non pensi che sia strano?»

Si rese conto che, prima di allora, non aveva mai prestato troppa attenzione alla cosa. Frequentava il Caffè solo da quando si era trasferita, ma, da che ricordava, lui era sempre stato lì; una presenza costante, quasi parte integrante dell’ambiente. E poi da un giorno all’altro, semplicemente, non più.

Era senza dubbio di un tipo stravagante, uno che non passa inosservato, eppure non si era mai chiesta dove fosse finito.

Nina le porse un piattino di Eccles Cake.

«Magari se n’è andato a fare un viaggio. Uno di quelli in cui parti per superare una rottura.”

Beth arricciò il labbro. Se così era, non sembrava aver superato gran che; pareva più qualcuno appena tornato da un funerale.

«Ma penso comunque che ogni cosa che abbia a che fare con lui sia strana, lo sai.», continuò Nina, riponendo sulla mensola un grosso barattolo di latta, «Con lui, e anche con la libreria qua di fronte.» indicò con la testa la direzione incriminata, con la stesso tono disinvolto di chi si lamenta dell’ovvietà del quotidiano; come di un vicino troppo rumoroso, o che non segue scrupolosamente la raccolta differenziata.

Del resto, le numerose stranezze che si accumulavano in quella strada erano familiari a tutti; parte della routine, qualcosa a cui non badare troppo.

O almeno così era stato fino a quel momento.

Perché ora, per la prima volta, Beth si ritrovò a pensare che ci fosse davvero qualcosa che non andava per il verso giusto. Anche se non riusciva a capire perché.

«Già, la libreria anche il vecchio proprietario, se n’è andato all’improvviso.», rammentò, «E la nuova ragazza che ci lavora: ti ricordi quando è venuta a prendere il tè, e poi è rimasta impalata come una bambola per più di mezz’ora a fissare la tazzina?» 

Nina ridacchiò. «A Londra non capita spesso di dover convincere qualcuno che il tè si beve.»  

Beth ignorò la battuta. Una consapevolezza nuova aveva iniziato a martellarle in testa; facendo riaffiorare alla memoria cose su cui, per qualche motivo, non si era mai soffermata.

«Non mi avevi anche raccontato di aver visto un fulmine colpire proprio quel tizio, qui davanti, nel mezzo della strada?» controllò di nuovo l’uomo nell’angolo, come se potesse vedere un altro fulmine attraversare la vetrina e prenderlo in pieno, giusto in quel momento.

Nina alzò le spalle. «Online ho letto che capita più spesso di quanto si creda.»

«Nel bel mezzo della città? Non è pieno di parafulmini, o cose del genere?» replicò, scettica.

Vide Nina estrarre la brocca di caffè dalla macchina e versare il liquido fumante nella tazza; una smorfia perplessa sul viso. «Sai, tesoro, sto cominciando a pensare che forse avrei dovuto prepararti una camomilla.»

Beth non rispose.

Di nuovo, quella sensazione l’aveva presa allo stomaco; un vuoto brusco, come quando si manca un gradino scendendo le scale. E il suo sguardo tornò all’uomo, immobile in modo quasi irreale. Le luci della strada riflesse sulle lenti scure degli occhiali.

Non sapeva molto di lui. Giusto l’evidenza e qualcosa che le avevano raccontato.

Sapeva il suo nome: Crowley – proprio come il Mr. Crowley di quella canzone. Sapeva che guidava un’auto d’epoca e che beveva fin troppo, caffè o alcol che fosse. E non era difficile intuire che doveva essere depresso.

Nina le aveva detto che prima girava sempre in compagnia del precedente libraio, Mr. Fell, che Beth aveva solo scorto di sfuggita un paio di volte. Entrambi, in qualche modo, avevano contribuito a far avvicinare lei e Maggie. Poi c’era stato una specie di strano incidente alla libreria, che né Nina, né Maggie, né Mrs. Sandwich – o nessun’altra delle persone presenti – erano mai riuscite a descrivere per bene. La mattina dopo, Mr. Fell se n’era andato, e la libreria era passata di gestione.

Non aveva molti altri dettagli, se non che i due, probabilmente, non dovevano essersi lasciati troppo bene. E da quel momento, Mr. Crowley era diventato l’uomo solitario che lei conosceva.

O meglio, che non conosceva.

Durante il giorno, di solito, se ne stava seduto nel Caffè a fissare la strada, la sera a volte si spostava al pub o nella sua auto, a bere. Beth lo aveva visto stare lì anche tutta la notte. Possibile che non avesse niente da cui valesse la pena tornare? Una famiglia, degli amici, una casa.

Una casa doveva pur avercela, rifletté, ma probabilmente preferiva non rimanerci.

“È una storia triste.” aveva detto a Nina, quando ne avevano parlato, e lei aveva assentito, senza approfondire, aggiungendo solo: “Ma del resto, chi non ne ha una?” e, al momento, quello era sembrato ad entrambe un ottimo modo per concludere l’argomento.

Talmente buono, in verità, che non lo avevano mai più ripreso. Neanche quando poi quel tipo era scomparso, e nessuno lo aveva più visto in giro.

Quella era una piccola strada, animata da una comunità abbastanza unita, per quanto fosse nel centro di una grande città, e qualcuno si sarebbe dovuto chiedere che fine avesse fatto una presenza così abituale. Almeno per assicurarsi che non si fosse buttato giù dal London Bridge.

Eppure, non ci avevano fatto caso. Nemmeno Nina o Maggie, che lo conoscevano. Neanche lei stessa, in realtà.

Beth pensò che fosse un fatto quantomeno insolito. Era come se le cose scivolassero intorno a quel Mr. Crowley, estranee alla sua esistenza e lui alla loro.

«Si raffredderà se non lo bevi.»

Nina le avvicinò la tazza di caffè, interrompendo quel flusso di pensieri. «Anche se forse ti servirebbe di più una bella dormita. Perché non chiedi a Mrs. Sandwich di lasciarti un po’ di respiro stasera?»

Beth scosse la testa, cercando di mascherare il disagio.

«Ma no, non-» e ancora quel vuoto, un singhiozzo doloroso in mezzo al petto. Rigirò la tazza fra le dita, riprendendo fiato, e iniziando a considerare che Nina probabilmente aveva ragione. Eppure non riusciva a smettere di pensare che qualcosa, in tutta quella faccenda, non andasse affatto; qualcosa che richiedeva la sua attenzione.

Magari la mancanza di sonno stava iniziando a farla impazzire.

Aveva visto una cosa del genere in un film, una volta: si iniziava con gli attacchi di panico, la paranoia, le allucinazioni e poi si finiva per piantare un coltello nel petto di qualcuno.

Bevve un sorso di caffè. Stranita da quella confusione improvvisa che gli stava affollando la testa. Nina la osservava, la fronte increspata oltre le sopracciglia sollevate; ora sembrava davvero preoccupata.

«Sicura di stare bene?» chiese.

Beth accennò un sorriso. «Si, si, è solo… solo un po’ di stanchezza, ma niente che non si possa gestire con della caffeina.» mentì, mostrando la tazza come prova inconfutabile che il problema fosse in via di risoluzione, «Adesso mi vado a sedere, bevo questo e mi riprendo. Non preoccuparti.» goffo tentativo, più di autoconvincimento che di altro. Ma non le sembrava il caso di allarmarla per quello che, di fatto, era il risultato della sua pessima gestione degli orari.

Al massimo, se fosse finita sul serio per accoltellare qualcuno, avrebbe potuto contare sull’infermità mentale. Già si vide ironicamente in prima pagina sui tabloid: “Follia da mancanza di sonno in un caffè a Soho.” e di fianco una sua foto narcolettica, con un coltellino da burro insanguinato svettante in una mano e la faccia affondata in una brioche.

Di fronte a lei, Nina sospirò, ignara delle sue bizzarre elucubrazioni. Non sembrava troppo convinta, ebbe tuttavia la gentilezza di non insistere oltre.

«Okay. Ma se dovessi aver bisogno di qualcosa, non farti problemi.»

Beth annuì, ringraziandola. Prese tazza e piattino e si allontanò incerta dal bancone, dirigendosi verso i tavolini.

Aveva fatto solo qualche passo, quando le sembrò che il brusio delle chiacchiere aumentasse, sovrastando ogni altro rumore; come se qualcuno avesse goffamente messo mano ad un mixer del volume. Tutte quelle parole gli si riversarono nella testa come un torrente, in un lungo istante di fastidio, che la portò a domandarsi di cosa, in effetti, avessero tanto da parlare quelle persone.

Isolata, nel fondo della piccola sala, la capigliatura rossa dell’unico individuo silenzioso spiccava fra una dozzina di altre teste.

Parlare, pensò Beth.

Non aveva mai visto nessuno parlare con lui, con quell’uomo solitario; neanche una volta. Per questo lo aveva soprannominato così. Eppure, non aveva veramente riflettuto sul significato; era così e basta, una qualità intrinseca, proprio come si dà per stabilito che l’acqua è bagnata e l’aria invisibile.

Quello era: una persona solitaria; che, in qualche modo, doveva esserlo per legge naturale.

Si chiese come fosse possibile una cosa del genere, mentre avanzava negli stretti spazi fra la gente seduta. Trovò un posto libero, ma non lo occupò, colpita dall’ennesima ondata di vuoto. Era sgradevole, eppure diverso da un tipico malessere o un attacco d’ansia. Era come… una mancanza.

Una mancanza insopportabile.

Stordita, indugiò in piedi un momento, di fronte alla sedia vuota. In qualche modo, le sembrò di sapere da dove provenisse quella sensazione. Non c’era nulla di logico, eppure, per la prima volta da quando era scesa dall’autobus, si sentì sicura di qualcosa.

Si voltò di nuovo verso l’angolo in fondo, e al tavolino con il suo unico occupante; e lì diresse i suoi passi.

«Posso sedermi?»

L’uomo sembrò non notarla subito; ci volle qualche secondo perché le si rivolgesse. L’immobilità infranta come un incantesimo. Lo vide corrugare la fronte al di sopra degli occhiali rotondi e incurvare le labbra, come se non avesse capito la domanda; ma prima che lei potesse ripetere, assentì piano con la testa.

Beth si accomodò, appoggiando davanti a sé tazza e piattino.

Trovò curioso come, nell’economia del turbine di strane sensazioni di quel pomeriggio, infastidire un quasi sconosciuto le sembrasse tanto naturale.

Lui la fissò da dietro le lenti, senza abbandonare il cipiglio confuso.

«Ci conosciamo?» chiese. La voce ruvida, laconica, ma non scortese.

Beth prese un sorso di caffè. «No, non proprio.» rivolse lo sguardo verso la strada, al di là del vetro, fra le luci calde dei negozi e le loro vetrine ingombre, che coloravano il freddo della sera; e le persone, che passeggiavano strette nei cappotti pesanti, incorniciate da sbuffi di respiri condensati.

«Però la vista è piacevole da qui, non è vero?»

Anche lui tornò ad osservare oltre il vetro, sospirando appena. «Si, immagino che sia così.»

Beth posò di nuovo la tazza. «Sono Beth, comunque. Lavoro qui vicino.» tese la mano, accennando un sorriso. Per qualche motivo, priva di qualunque imbarazzo.

Lui esitò un istante, poi ricambiò la stretta; inaspettatamente delicato, a discapito della sua apparenza burbera.

«Crowley.»

 

 

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:

Salve, salve.

Spendo giusto due parole, perché questo è il primo capitolo con un personaggio nuovo, uno tra quelli che ho ideato per questa storia. Spero non faccia troppo storcere il naso a chi non apprezza le new entry, ma sono convinta che ogni storia abbia bisogno dei suoi attori per esplorare strade interessanti (o anche depresse, nel come mio caso).

Con il prossimo capitolo, che sto scrivendo (giuro), si entra finalmente nel vivo della trama esaurita che sta prendendo forma nella mia testa bucata, quindi sono finite le cose introduttive e finalmente inizierà del movimento.

La canzone che cito è ovviamente Mr. Crowley di Ozzy Osbourne, ma insomma, non penso serva specificarlo. Aggiungo inoltre che mi piacciono gli indizi criptici, perciò prometto che qualunque cosa non chiara si trova lì per un motivo, e avrà senso prima o poi.

Detto questo, grazie davvero, per aver letto e per i feedback preziosi che mi sono arrivati. 🖤✨

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Parte V - Febbraio ***


 

NOTA: Da questo capitolo in poi saranno trattate tematiche che potrebbero urtare la sensibilità religiosa, perciò metto le mani avanti e avverto preventivamente.

Buona lettura.

 

_______________________________

 

Parte V

 

 

 

- Febbraio -

 

Il monastero si stagliava immobile sulla curva della collina, fra alberi dai rami addormentati, sotto il sole pallido di quella mattina invernale.

Era una costruzione modesta, ciò che restava di un piccolo complesso medievale, in gran parte aggiuntato da parti più moderne. Una parentesi fuori dal tempo, nascosta nella campagna fra gli Appennini, a monte di un paesino di una manciata di anime. Quel genere di luogo che ostenta la sua semplicità con tale insistente disinvoltura, da far affiorare quasi del sospetto.

Del resto, il miglior modo di celare qualcosa è tenerla sotto gli occhi di tutti, nella convenzionalità del quotidiano. Come già era successo a Tadfield, giusto qualche anno prima. E se il diavolo si nasconde nei dettagli, di certo lo stesso poteva fare Dio. Bastava solo avere l’intraprendenza per notarli.

La facciata di pietra dell’ingresso principale si faceva sempre più vicina, mentre Aziraphale avanzava, immerso in quelle riflessioni, sul largo sentiero di terra battuta cinto da grovigli di arbusti.

Dall'inizio di quella estenuante ricerca, aveva perso il conto di quante fossero le presunte "sante" che si era trovato a dover esaminare, e di altrettanti finti miracoli, strane coincidenze, false gravidanze o fenomeni inspiegabili. Tutti proverbiali buchi nell’acqua.

Tuttavia, questa era la prima volta in cui la notizia di queste stranezze non aveva viaggiato sull'onda anomala della rete, dilagando ovunque sugli schermi dei dispositivi e nei programmi televisivi, alla consueta velocità impossibile che caratterizzava questo genere di cose.

Si trattava di un fenomeno più anacronistico, contenuto, del genere vecchio stile con cui Aziraphale sentiva di possedere maggiore dimestichezza. E, proprio per questo motivo, meritevole di una genuina diffidenza. Per quanto, forse, sarebbe stato fin troppo banale trovare la Madre designata fra le mura di un posto come quello.

In ogni caso, avrebbe potuto scoprire la verità solo effettuando un’indagine.

Sorrise appena fra sé, mentre il ricordo del viaggio a Edimburgo riemergeva dalla sua memoria, facendo una piccola capriola calda nel suo petto. Gli piacevano quel genere di cose, i misteri; gli rammentavano le avventure dei romanzi che amava leggere. Ma sembravano questioni così lontane da lui adesso, legate ad una spensieratezza che non gli apparteneva quasi più; spenta dalle nuove incombenze e dalle preoccupazioni, dietro una nuova austerità da Arcangelo che gli si era incollata addosso.

Una serenità perduta lungo la strada di quei mesi solitari, come la maggior parte delle sue emozioni.

Proprio come il sollievo, che avrebbe dovuto provare alla prospettiva di aver forse trovato ciò che cercava, e che invece era sostituito da una consistente angoscia, per quello che avrebbe comportato.

Il Secondo Avvento iniziava ad assumere i contorni definiti di un fatto concreto e in compimento, non più solo un’astrazione. Qualcosa di necessario, importante, colmo delle possibilità di speranza in cui lui sentiva di avere fiducia, in cui voleva e doveva credere. Eppure, anche spaventoso; terribile nella sua ineluttabilità.

Perché in fondo sapeva che non tutti in Paradiso avevano abbandonato l’idea della guerra. Un’idea contro la quale si affaticava con tutte le sue forze fin dal primo momento, in nome di quel dovere di protezione che sentiva di avere verso il mondo; ma che non era sicuro di riuscire ad estirpare, malgrado il suo intento di fare la differenza.

Dato che, probabilmente, era l’unico per cui questa differenza avesse una qualche importanza.

E, a volte, la sua fiducia vacillava, anche se non desiderava ammetterlo. Inghiottita in quella opprimente responsabilità, dall’incertezza; schiacciata sotto il peso di paure che si incastravano piano, un pezzetto alla volta, nella sua essenza.

Una in particolare, la più bruciante.

Talmente ingestibile da essere stata relegata in un minuscolo anfratto della sua mente, in bilico sul confine di ciò che ancora non era nemmeno disposto a considerare. Ma che martellava comunque, incessante; che lo prendeva alla gola, ogni volta che trovava un’apertura, anche solo un piccolo cedimento, in quel muro che si era fabbricato per non perdere la ragione.

Il Giudizio.

Quella minaccia a lungo paventata, che ora aleggiava silenziosa su ogni testa, pronta a calare d’improvviso come una ghigliottina. E, nonostante sapesse quanto fosse imprevedibile il procedere degli eventi, non poteva impedirsi di pensare a cosa ne sarebbe stato dei demoni, in quel giorno designato.

A cosa ne sarebbe stato di Crowley.

Continuava a ripetere a sé stesso di affidarsi alla giustezza dei Piani Divini; che lui aveva ottenuto il perdono, la restaurazione al suo status di angelo, sebbene lo avesse rifiutato; e questo doveva pur contare qualcosa. Doveva.

Ma non poteva esserne certo. D’altronde era già accaduto una volta, quando la rovina della Caduta lo aveva trascinato giù, insieme a tutti gli altri.

Spesso Aziraphale lo biasimava per non aver accettato l’offerta del Metatron, per essere stato così testardo; così sciocco, e sconsiderato. E anche egoista, a lasciarlo da solo a gestire l’ingestibile, quando avrebbero potuto essere… insieme.

Ma biasimava di più sé stesso, per non aver insistito, per non essere riuscito a convincerlo, a portarlo via con sé. E, dentro, disperava. Tormentato da quell’ultimo mortificante momento che avevano condiviso; sentendo ancora il suo respiro sulla pelle e la stretta delle sue mani aggrappate al bavero della giacca.

A volte, lo sfiorava il pensiero di tornare indietro. Eppure non aveva più avuto il coraggio di riavvicinarlo, né di rimettere piede a Soho, o nella libreria. Forse perché, nel profondo, sapeva che poi non sarebbe più riuscito ad andarsene, a tornare ai doveri; e non poteva esserci spazio per l’egoismo nel cuore di un angelo, non mentre tutto il creato si trovava in bilico sul precipizio.

Altre volte, rifletteva sul fatto che avrebbe potuto essere lui, alla fine, a decadere. A cedere a quella pressione che lo divorava ogni giorno, alla gelida indifferenza della luce del Paradiso, che gli si insinuava fin dentro le ossa e che apriva nel suo petto voragini di mancanza.

Anche se, ironicamente, questo lo faceva sentire meglio, alla prospettiva che lui e Crowley forse si sarebbero ritrovati di nuovo, alla conclusione di tutto, per quanto nella dannazione.

Rabbrividì, destato dal tocco gelido del vento. Ingoiò quei pensieri come una pietra, a palpebre chiuse, cercando di ricacciarli in un angolo remoto, lontano dalla consapevolezza cosciente, arrancando sul quel sentiero solitario.

Un angelo ha fede, si ripeté.

Un angelo ha fede.

E c’era ancora un compito da svolgere.

Il respiro pesante si condensava in agitate nuvolette di vapore davanti al suo viso, mentre raggiungeva un grigio portone a vetri opachi, che mal si sposava con le porzioni di muro antico. L’intera struttura sembrava avvolta dal più assoluto silenzio, nonostante fosse da poco passato l’orario delle preghiere mattutine in favore di quello della colazione.

Ancora ansante, Aziraphale si lisciò le pieghe dell’abito talare – miracolato per l’occasione – e pigiò il pulsante di un citofono che, come tutto il resto, non produsse che un suono muto.

Attese. Le dita gelate istintivamente andarono a sistemare un farfallino non presente, incontrando invece la rigida striscia del collarino.

Il travestimento era semplice e funzionale, quel tanto che bastava a permettergli di avere il giusto aspetto per indagare indisturbato; per il resto, avrebbe contato su qualche piccolo miracolo. Tuttavia, pensò a malincuore che il nero non era un colore che amava indossare.

Non passò molto prima che sentisse la serratura scattare e il portoncino aprirsi. Ne sbucò una suora minuta, né giovane né anziana, con larghi occhiali da vista, appesi su un corto naso a uncino. Uno sguardo interrogativo dietro le lenti.

Aziraphale si schiarì la voce, esibendo un piccolo sorriso cordiale.

«Ehm… Buongiorno, sorella.» esordì, in un perfetto italiano, mentre accompagnava l’invocazione del miracolo con un leggero gesto della mano, occultata fra le pieghe della veste.

La suora passò dalla confusione allo sbigottimento in un battito di palpebre.

«V-vicario.», balbettò, cercando di riportare alla mente qualcosa che non le apparteneva, «Lei aveva…»

«Avevo avvertito per telefono della mia visita, ricorda?» suggerì cortese Aziraphale. Non gli piaceva manipolare le persone, ma l’urgenza del suo compito aveva reso un minimo necessarie anche quel tipo di misure.

«Ma certo, ma certo.» assentì lei, convinta, facendogli cenno di entrare.

Aziraphale varcò la soglia. Sfregò le mani tra loro nel tentativo di scaldarle, grato della temperatura più confortevole dell’interno. La suora lanciò un’ultima occhiata fuori, prima di chiudere.

«È arrivato a piedi da solo, con questo freddo?»

«Mi piace passeggiare.» ammise.

E quella non era una menzogna. Avendone la possibilità, non perdeva mai l’occasione di evitare un po’ più a lungo i corridoi spogli del Paradiso, in favore di una passeggiata sulla terra; per quanto impietoso potesse essere il clima.

Lei gli rivolse un’espressione apprensiva.

«Venga. Le preparo un caffè, o magari preferisce un infuso caldo? Li facciamo noi, con le erbe che coltiviamo.» spiegò, una punta di candido orgoglio nella voce.

«Un infuso sarebbe meraviglioso.» convenne Aziraphale, sempre più grato. Una fin troppo trascurata parte di lui, già pregustava il tepore dolce della bevanda sulla lingua.

La suora lo guidò attraverso la sala d’ingresso, e poi fuori, lungo un passaggio porticato, i cui archi si aprivano su un piccolo chiostro romanico. Nel centro, un vecchio pozzo di pietra svettava, fra le aiuole macchiate di gramigna sbiadita dall’inverno. Da un lato, i ponteggi metallici di un’impalcatura di sostegno si arrampicavano su una porzione di muro pericolante. Ancora un connubio di antico, moderno e decadenza che, per qualche motivo, Aziraphale non riusciva a trovare gradevole.

Rientrarono quasi subito, attraverso una delle numerose porticine laterali, in uno stretto corridoio semibuio, impregnato dell’odore forte di erbe e mele. Un leggero tramestio giungeva attutito da una delle stanze vicine.

«Le sorelle sono ancora in refettorio, per la colazione.» spiegò la sua accompagnatrice, spingendo la maniglia dell’ennesima porta a vetri. Al di là, si allargava un’ampia cucina dal mobilio essenziale e abbastanza vissuto, eppure mantenuto in un perfetto ordine. Un lungo tavolo ingombrava quasi tutto lo spazio centrale, coperto da una quadrettata tovaglia di plastica; al di sopra, dall’alto del muro bianco, un crocifisso sorvegliava la stanza.

La piccola suora lo invitò a sedersi, mentre colmava d’acqua un bollitore, e Aziraphale non se lo fece ripetere, accomodandosi su una delle sedie intorno al tavolo. Lisciò le pieghe della veste, pensando che quello era il momento giusto per iniziare a capire.

«Sorella, come già le avevo accennato, ehm, sempre per telefono, sono qui per parlare con una ragazza. Una vostra novizia.»

«Oh.» sussurrò lei, arrestando per un istante il suo affaccendarsi, «Ha saputo di quella povera anima.»

Sospirò, abbozzando un segno della croce sul petto. Poi si avvicinò al tavolo, con un piattino colmo di biscotti alle mandorle e un’espressione turbata dietro gli occhiali.

«Pensavo fosse il Monsignore a occuparsene.»

«Me ne occupo anch’io, ora.» la tranquillizzò Aziraphale, occhieggiando i biscotti senza prenderne, «Ho parlato con diverse persone giù in paese, tra cui la sua famiglia. E mi sono state raccontate delle cose, diciamo, piuttosto insolite, anche se solo i genitori sembrano a conoscenza dell’accaduto e della condizione attuale. Mi sbaglio?»

La suora tornò ai fornelli, ancora agitata. «Non è bene che si sappia, ovviamente. Ci è stato chiesto di continuare a tenerla qui, finché…beh…» non terminò la frase. Prelevò invece un barattolo dalla credenza e colmò un infusore con il suo contenuto.

«Povera ragazza. È così devota. Per questo la famiglia ce l’ha affidata. Però la sua mente, sa, è sempre stata instabile. Non vede le cose come tutti gli altri, spesso è… confusa. Ed è così giovane.» sospirò di nuovo, la piccola croce che teneva al collo ora stretta fra le dita, «Ma siamo tutti figli di Dio, dopotutto. Meritiamo di ricevere il perdono per i nostri sbagli.»

Aziraphale assentì a bocca chiusa. Nella sua testa vagò per un istante il ricordo di un perdono amaro di fiele, e di una chioma rossa, che si allontanava sulla strada oltre i vetri di un ingresso.

Si morse il labbro; la mano sinistra, come sempre, che tornava a tormentare nervosa la destra, e l’anello intorno al mignolo.

Lasciò che il silenzio riempisse per un po’ lo spazio della conversazione, mentre osservava la suora versare l’acqua del bollitore in una tazza. E, dall’alto della sua scomoda posizione, la figura sul crocifisso osservava lui, in un giudizio muto e imperscrutabile. Aziraphale pensò a quanto sarebbe stato tutto più semplice, se avesse potuto chiedere a quella figurina intagliata dove avesse intenzione di rinascere.

Si schiarì la voce prima di parlare di nuovo, nel tentativo di mascherare i pensieri dietro un tono pacato.

«Mi scuso per la franchezza, sorella, ma cosa mi sa dire invece del padre del bambino?» chiese, intanto che lei tornava al tavolo porgendogli l’infuso fumante, «Sapete se è della zona, o se la ragazza lo conosceva o meno? Magari qualcuno di cui ha parlato.»

La suora scosse la testa. «Oh no, non si sa chi sia. E, come le ho già detto, lei è confusa, non sa bene quello che dice. Il medico ha detto che certi problemi posso aumentare, quando si è nel suo stato.»

Aziraphale corrugò le sopracciglia, portando la tazza alle labbra. «Ed esattamente, cos’è che dice?»

Prese un sorso bollente, pungente di zenzero sulla lingua. Non era dolce come sperava, ma il calore che scivolava giù per la gola risultava piacevole, dopo tutto quel freddo.

La sua interlocutrice spostò lo sguardo altrove, la mano di nuovo chiusa intorno alla catenina; la bocca stretta in una linea sottile, nella difficoltà di pronunciare qualcosa di scomodo, che uscì infine timido, come un bisbiglio.

«Dice… che è stato un dono di Dio.»

 

***

 

I loro passi echeggiavano nel silenzio del corridoio, mentre superavano una lunga fila di stanze chiuse. Si fermarono solo una volta arrivati in fondo, di fronte all’ultima piccola porta scura.

La suora accostò le nocche al legno e bussò un paio di volte, prima di abbassare la maniglia e affacciarsi all’interno, nello spiraglio appena aperto.

«Eleonora, cara, c’è qui una persona che vorrebbe parlarti.»

I cardini cigolarono quando la porta venne spalancata del tutto, rivelando una stanzetta spoglia, ma abbastanza luminosa e accogliente. Pochi mobili, qualche libro colorato sugli scaffali e un grosso coniglio di peluche, pendente sul ripiano del comò.

Una figurina in bianco, sedeva composta sul bordo di un letto dalla coperta fatta a mano. I capelli che toccavano le spalle, non coperti dal canonico velo, e un rosario stretto fra le dita, davanti al rigonfiamento già abbastanza pronunciato della gravidanza.

Aziraphale indossò la solita espressione cordiale e mosse qualche passo cauto, per mostrarsi senza intimorire. Premura che, tuttavia, non sembrò granché necessaria, quando alla sua vista la ragazza allargò l’espressione in un inatteso sorriso estatico; lo sguardo limpido spalancato nella sua direzione, in contemplazione di qualcosa poco al di sopra della sua testa.

«C’è così tanta luce intorno a te.» cinguettò, in un tono svagato.

Quantomeno insolito, pensò Aziraphale, muovendo un altro passo avanti; le mani allacciate sul petto e un interesse crescente dietro la fronte increspata.

La suora lo precedette. Si avvicinò alla ragazza e le sfiorò la spalla, nel tentativo di richiamare la sua attenzione. «Cara, il Vicario vorrebbe farti qualche domanda.»

Ma lei non si distolse, persa nella sua osservazione misteriosa, a occhi fissi e labbra dischiuse. «Così luminoso…» disse, corrucciando appena l’arco delle sopracciglia, «Non avevo mai visto nessuno così luminoso, prima. Devi essere… un angelo

Aziraphale trasalì, fra le sbarre del suo contegno.

Questo era decisamente insolito. La cosa più simile a un indizio di qualunque altra a cui si fosse avvicinato negli ultimi sette mesi.

Preso da un fremito nuovo, quasi di agitazione, aprì la bocca e la richiuse, esitante, in cerca delle giuste parole da mettere in fila, mentre la suora gli lanciava un’occhiata eloquente da dietro la cornice degli occhiali. La sentì ribadire un mortificato “è confusa, non sa cosa dice”, bisbigliato fra i denti, mentre si allontanava da lei per tornare al suo fianco.

«N-non si preoccupi, sorella, lasci fare a me.» la rassicurò Aziraphale che, superato lo sbigottimento iniziale, cercava di costringersi a recuperare anche il giusto scetticismo, necessario per una buona investigazione.

Avanzò con calma. Spostò un piccolo sgabello vicino al bordo del letto e vi si sedette, in modo da poterle parlare senza incombere dall’alto, come l’avvoltoio che gli sembrava di essere, infagottato in quella cupa talare.

«Sei qui per me.» riprese la ragazza, e non sembrò una domanda, quanto piuttosto un’affermazione.

«Sono qui per te, cara, si.» rispose Aziraphale.

«Sapevo che saresti arrivato. L’ho visto in un sogno.»

«E fai spesso sogni così? Sogni più strani degli altri?»

La ragazza annuì. Confusa o meno, forse poteva non essere così ignara di ciò che diceva, dopotutto.

«Giù in paese, alcune persone mi hanno detto che le hai aiutate, che gli hai parlato cose che poi si sono avverate. Che hai operato dei miracoli

«Ho solo raccontato quello che Dio mi fa vedere.» rispose lei candida, stringendosi nelle spalle e inclinando la testa da un lato, in un atteggiamento fin troppo bambinesco, che discordava notevolmente con la pancia che le sporgeva tra le pieghe del vestito.

«Mi è stato anche detto che sei uscita di nascosto dal monastero, e che hai… infranto il tuo voto

La ragazza sembrò irrigidirsi; scosse piano la testa e strinse il rosario, scorrendone uno a uno i grani tra le dita, lo sguardo sempre più fisso nel vuoto.

Aziraphale sospirò. Si sporse e abbassò ancora di più la voce, tirando fuori il tono più indulgente che la sua natura angelica gli permetteva.

«È così, cara? Sei uscita per incontrarti con qualcuno?» ripeté, «Non c’è nulla di male, davvero, a me puoi dirlo.»

Per la prima volta, la ragazza lo guardò davvero. Le pupille si spostarono, mettendosi a fuoco sulle sue; poi la testa si mosse ancora, da una parte e dall’altra, in un rinnovato e apatico cenno di diniego.

«Io non esco mai.», rispose, stringendo il rosario contro il petto, «Ma Dio mi viene a trovare, qualche volta.»

Aziraphale frugò in quegli occhi alienati, senza scorgere menzogna. Percepiva amore, percepiva la sua fede, eppure c’era anche qualcos’altro; qualcosa di strano, di nascosto, che non riusciva a identificare.

Le offrì un piccolo sorriso premuroso, anche se già poteva sentire angoscia e frenesia iniziare a contorcersi, in lotta, fra le sue costole.

Poteva… Poteva essere lei?

Troppe coincidenze, troppi indizi, troppi dubbi, ma ragionevoli probabilità. E se così era, allora le ricerche erano arrivate alla fine, e l’Avvento era più imminente che mai.

Deglutì saliva che parve sabbia, sentendosi improvvisamente stanco, al pensiero dell’impegno che ancora lo attendeva. Perché la ricerca non era altro che la chiave di violino sul pentagramma, il primo segno su uno spartito bianco ancora da scrivere.

E penna e inchiostro erano fra le sue mani adesso; mani inquiete che tremavano appena, strette intorno alle ginocchia, in quella realtà colma di note stonate.

 

 

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Salve, salve.

Fuoriesco dalla mia tana buia con questo nuovo capitolo, il primo che entra nel vivo della trama probabilmente, e anche il più difficile che ho scritto fino ad ora. Trovo maggiormente complesso da scrivere Aziraphale rispetto a Crowley, soprattutto per come sto cercando di far evolvere il personaggio. Per fortuna con il prossimo si va di nuovo dal caro demonio e posso (forse) scrivere più serenamente. 

Mi rendo conto che ci sono cose molto confuse e strane in questa storia, ma confido nel fatto che siano ben chiare tutte quelle cose che devono esserlo per ora, e per quanto riguarda le altre si dovrà aspettare che la trama prosegua. Purtroppo (o per fortuna, chi può dirlo) adoro indizi e misteri, e spero, oltre alla confusione, di essere riuscita ad intrigare almeno un po’.

Per il resto, grazie di aver letto e grazie in anticipo per qualunque tipo di feedback, alla prossima! ✨🖤

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Parte VI - Marzo ***


_______________________________

 

Parte VI

 

 

 

- Marzo -

 

Crowley mandò giù l’ultimo sorso del suo caffè.

Sedeva al solito tavolino nell’angolo, attualmente ingombro di un mucchio di roba confusa. Un mare in tempesta di fogli sparsi, libri, penne colorate riversate da un astuccio e nel mezzo, come una zattera, un piattino di biscotti, con un solo naufrago sopravvissuto.

Al capo opposto del tavolino, la causa di tutto quel disordine era assorta nella sua lettura e masticava distrattamente il fondo di una matita. L’espressione corrucciata, dietro la montatura squadrata degli occhiali.

Crowley sollevò perplesso un sopracciglio e scostò il lembo di un foglio a quadretti, facendo spazio nel caos per appoggiare la tazza vuota.

Era una situazione ricorrente nell’ultimo periodo. Una curiosa variazione alla routine che si era scavata uno spazio nelle sue giornate; volente o nolente che lui fosse.

Una presenza che, per qualche motivo, pareva infischiarsene dei limiti suggeriti dai suoi miracoli demoniaci. E che ad un certo punto era spuntata dal nulla, riempiendo il tavolo di cose, il silenzio di chiacchiere e la sua testa di distrazioni; richiamandolo da quell’isolamento in cui aveva deciso di voler sprofondare.

Una compagnia inaspettata a cui, in tutta onestà, aveva iniziato ad abituarsi.

E forse, una ben nascosta parte di lui, avrebbe potuto persino ammettere che non gli dispiaceva. Magari per il fatto che quella ragazza si trascinava sempre dietro libri e appunti incasinati, o per il modo in cui inforcava gli occhiali da lettura sul naso, o per come sorseggiava il latte macchiato, che poi le lasciava una ridicola striscia di schiuma e cannella sul labbro superiore.

C’era una familiarità in quei gesti che lo amareggiava, ma da cui non riusciva a sottrarsi. Perché delle volte, il fruscio delle pagine sfogliate e l’odore di biscotti ingannavano la sua mente, facendogli credere che ci fosse qualcun altro seduto dall’altra parte del tavolo. E questo lo faceva sentire pervaso da una crudele serenità; sospeso in un limbo illusorio di possibilità mancate.

Almeno finché non tornava a guardare la realtà.

Ed era in quei momenti che la voragine nel suo petto si riapriva, bruciando come l’Inferno. Così si ritrovava a darsi dell’idiota, per essere caduto ancora in quel perverso masochismo che, per qualche assurda ragione, non faceva altro che assecondare: sedendosi al Caffè, osservando quella dannata libreria ogni giorno, aspettando come un perfetto imbecille una fine del mondo che non poteva impedire, e un angelo che evidentemente non aveva più intenzione di mettere piede in quella stramaledetta strada. Forse nemmeno per dare un ultimo addio ai suoi tanto amati libri polverosi.

Eppure, sempre in quei momenti, quasi come se sapesse cosa gli stava passando per la testa, quella ragazza cominciava a parlargli, distogliendolo dai pensieri; circondandolo di una quotidianità tutta umana che non gli apparteneva, ma accogliente, e da cui era facile lasciarsi trasportare. E per la quale, in fondo, aveva un debole.

Perché, per quanto ingestibili e fastidiosi, gli esseri umani sapevano anche essere piacevolmente imprevedibili. E affascinanti, nel loro affaccendarsi nelle piccole cose; nell’inventiva e nell’impegno che mettevano nel cercare di far quadrare le loro scarse vite, o nel trovare risposte ai propri interrogativi. Ignari di ciò che si agitava sopra le loro teste e sotto i loro piedi, a boriosi cieli e gironi di distanza.

E ignari anche dell’Epilogo generale che si avvicinava.

Un’inconsapevolezza che Crowley avrebbe volentieri fatto sua, se avesse potuto, e che riusciva quasi a sfiorare in quei momenti. In uno stordimento forse meno efficace e duraturo dell’alcol, ma senza gli sgradevoli effetti collaterali.

Tirò un sospiro, mentre, dall’altro lato della strada, l’ingresso a vetri della libreria si spalancava all’uscita di uno sporadico cliente. Lo scrutò con una punta di apprensione allontanarsi lungo il marciapiede, in un odioso atto involontario, che lo portava sempre ad accertarsi che quell’angioletto svampito non avesse concesso l’acquisto di nessun libro.

Cosa che, comunque, fino a quel momento aveva visto accadere solo una volta, e risolto con prontezza e un blando schiocco di dita. Il libro era tornato su uno scaffale e uno splendido escremento di uno Scottish Terrier aveva preso il suo posto, nel sacchetto degli acquisti del malcapitato. L’ennesima patetica idiozia che si era ritrovato a fare, ma tutto sommato anche una delle più divertenti dell’ultimo periodo.

Un altro passatempo che trovava dilettevole, era infastidire gli avventori della casa di incontri di Mrs. Sandwich; dove quella ragazza, Beth, lavorava.

Soprattutto alcuni insistenti e sgradevoli habitué di cui lei a volte si soffermava a raccontare, e che tendevano a bazzicare un po’ troppo i dintorni anche durante il giorno. Per lo più innocui mascalzoni e tristi ometti, in realtà, ma non per questo meno soddisfacenti nelle reazioni ai suoi piccoli scherzi demoniaci. Una pozzanghera non vista là, un costoso smartphone scivolato di qua; dei pantaloni accidentalmente calati, a mostrare l’eloquente superficie di un paio di mutande con disegni imbecilli stampati sul davanti. In un’occasione aveva anche fatto volare via un parrucchino, e Beth aveva ridacchiato da dietro il bordo della sua tazza di latte macchiato.

Sciocchezze casuali, trucchi infantili da demonietto, ma senz'altro un buono svago, in quella pietosa attesa.

Magari quegli zotici se li sarebbe ritrovati tutti quanti nell’Abisso, dopo il Giudizio; e in questo modo avrebbe potuto affermare di essersi portato avanti con il lavoro, malgrado la prospettiva fin troppo generosa dell’Eternità. Un ghigno amaro gli sfuggì dalle labbra, mentre considerava che, piuttosto che finire così, avrebbe preferito gustarsi una bella tisana all’acqua santa.

E, in un attimo, il suo pensiero vagò, prendendo forma in un eccentrico thermos a motivi tartan; un regalo di tanti anni prima. Una gentilezza di angelo dai contorni nitidi e precisi nella sua memoria, come se non fosse passato nulla di più di qualche istante. E, insieme, una frase.

Vai troppo veloce per me, Crowley.

Troppo veloce.

E convenne che fosse vero; talmente tanto, in effetti, che alla fine si era impietosamente schiantato contro un muro.

Si rabbuiò e il tavolino si scosse, mentre due piccole mani scavavano tra i fogli, distribuendo nuovo scompiglio sulla superficie già incasinata. Un paio di penne rotolarono a terra, non viste.

«Accidenti, ma dov’è finito?»

Beth espirò rumorosamente, alzandosi dalla sedia; la matita incastrata sopra l’orecchio e gli occhiali storti sul naso, in un assetto da ricerca già spazientito.

Crowley incurvò le labbra, chiedendosi chi diamine utilizzasse ancora “accidenti” come imprecazione di quei tempi. Schioccò appena le dita e le penne tornarono nell’astuccio.

Lei afferrò il biscotto superstite e lo addentò con frustrazione, frugando le pagine una per una con lo sguardo, ora fattosi sottile, come se intendesse ottenere una confessione su dove fosse il loro complice scomparso. Poi sbuffò di nuovo.

«Mi sembrava di averlo messo più o meno… ah, eccolo lì.» si sporse sul tavolino, allungandosi in direzione del foglio a quadretti di prima, accanto alla tazza vuota.

Crowley lo prese con due dita e glielo porse, sbirciando un “Prima guerra di indipendenza scozzese (1296-1328)” scritto in stampatello chiaro e rotondo, dal quale partivano una manciata di frecce attaccate a riquadri colorati.

Malcelò la smorfia di disappunto che anche solo il ricordo del quattordicesimo secolo gli provocava, e osservò la ragazza riprendere posto e tornare ad affaccendarsi, aggiungendo un paio di date su un nuovo schema, altrettanto colorato e inutilmente decorato.

Schioccò la lingua, perplesso, prelevando un altro dei fogli dal mucchio e osservandone le tabelle curate che incorniciavano le parole.

«Qualcosa non le piace, Mr. Crowley?» chiese lei, senza smettere di scrivere.

Crowley abbandonò un gomito all’indietro, poggiandosi storto sullo schienale. «È che non vedo il punto di tutta questa fatica.» disse ruvido, agitando appena la pagina a mezz’aria, «Non ci sono già i libri su cui studiare?»

Beth alzò lo sguardo, accigliata. «Gli schemi mi aiutano a memorizzare.», si interruppe, «O almeno spero tanto che lo facciano.»

Crowley aggrottò la fronte. Sull’effettiva utilità di tutto quel lavoro aveva dei dubbi, ma non si poteva negare che fosse esteticamente gradevole da vedere, con tutte quelle cornicette ingarbugliate.

Scorse con lo sguardo una delle scritte che spiccavano, cerchiata di arancione: “William Wallace – Stirling Bridge (1297)”. Soffiò con sdegno e rimise giù il foglio.

«Comunque, non capirò mai tutto questo interesse per un periodo storico così terribilmente noioso e sporco. E anche Wallace, non era poi un tipo così interessante.»

Beth sorrise ironica, scuotendo appena la testa, mentre tracciava l’ultima linea di un riquadro viola fluo. «Lo dice come se lo conoscesse di persona.»

In realtà non è che lo avesse proprio conosciuto, in effetti; lo aveva incrociato, forse un paio di volte. Abbastanza, tuttavia, per sapere che non aveva molto a che fare con la sua controparte hollywoodiana, o con la sua tanto decantata nomea romantica.

E, alla fine, aveva anche visto la sua testa infilzata su una picca, lasciata in bella mostra sul London Bridge finché il teschio non era stato sbiancato dal sole, nell’ennesima adorabile usanza di quei tempi. Per fortuna, almeno si era evitato l’esecuzione. Non aveva mai trovato appassionanti gli sventramenti.

Beth posò la penna.

«Comunque, forse è vero. Sto andando troppo a rilento.» disse, lanciando un’occhiata sconsolata agli appunti, «Di questo passo, dovrò di nuovo rimandare questo cavolo di diploma1. Ed è ridicolo, considerando che sono già abbastanza in ritardo, a ventun anni suonati.»

Ormai è tardi per ogni cosa, pensò Crowley. Ma quello che gli uscì dalla bocca suonò molto diverso.

«Perché non ti prendi una pausa, ragazzina? Va a divertirti, a fare qualcos’altro, invece di ammuffire qui. Per questa roba c’è sempre tempo.» mentì, accennando con la mano un gesto di rifiuto verso la costola di un libro che sporgeva dal bordo del tavolino.

Distese una gamba di lato, in una posa sempre più scomposta, a simulare una rilassatezza che non possedeva. Poi portò indietro un ciuffo di capelli ribelle, mentre lanciava un’occhiata stanca fuori, di nuovo alla libreria.

«C’è tutto il tempo del mondo.» ripeté, mormorando fra i denti. O almeno quello che ne rimane.

Del resto era questo che i demoni sapevano fare meglio: mentire e fingere. Non si sfugge alla propria natura. Ed è molto più facile che dover dire la verità.

«È che vorrei poter andare all’università. Studiare qualcosa di interessante. Magari trovare anche un lavoro più interessante.», proseguì lei, con una voce più piccola del solito e un tono scoraggiato che non le aveva mai sentito, «A volte ho come la sensazione di essere incastrata, da cose che non dipendono da me.»

Forse in tempi diversi, Crowley le avrebbe risposto qualcosa del tipo “sei incastrato se ti fai incastrare”, ma adesso si ritrovò ad assentire in silenzio, trattenendo per sé un amareggiato anch’io.

Non era mai stato gran che capace a offrire supporto, comunque; non che all’Inferno servisse impararlo.

Tornò a guardarla e, per la prima volta, si chiese quale sarebbe potuto essere il Giudizio per qualcuno come lei, così ostinatamente normale. Il grigio più neutro che avesse mai visto, nella sua vita dedita alla considerazione delle sfumature.

Ma non ebbe tempo di trovare una risposta, perché Nina imperversò, senza troppe cerimonie, poggiando un vassoio sul tavolino, o meglio, sul caos che le lo ricopriva.

«Rifornimento per la studiosa.» affermò, con un sorrisetto.

Consegnò due nuove tazze fumanti e prelevò quelle vuote, mentre Beth le rivolgeva la stessa espressione di qualcuno a cui è appena stato lanciato un salvagente. Afferrò subito la sua tazza e ringraziò; e anche Crowley borbottò un grazie, a cui Nina reagì con una smorfia sardonica, non priva di un certo compiacimento.

«Non ti stancare troppo su quei libri.» raccomandò infine a Beth, allontanandosi di nuovo verso il bancone.

«Non c’è pericolo.» rispose lei, la tazza stretta a scaldare le mani, «Tanto ormai ho capito come va per oggi. Tutte queste date non hanno intenzione di entrarmi in testa.» prese un sorso della sua bevanda e la condensa le appannò le lenti degli occhiali; poi ridacchiò, sotto i baffi di schiuma.

«Se mia nonna potesse sapere che non so a memoria le gloriose imprese di indipendenza della sua Scozia, », disegnò con un gesto un semicerchio a mezz’aria, ad enfatizzare il concetto, «probabilmente mi ucciderebbe. Ma io non ci ho mai neanche messo piede.»

«Non è male come posto.», rifletté Crowley, «Piacevole, se impari a ignorare l’umido e il freddo.»

«Ci è stato spesso?»

«Giusto qualche volta.» minimizzò, alzando le spalle.

Beth abbandonò il mento sul palmo della mano e guardò fuori, verso la strada; persa per qualche momento nei suoi pensieri, mentre persone e auto si avvicendavano. Il vapore della bevanda calda si srotolava piano, in piccole volute, nell’aria davanti a lei.

«Sa, la famiglia di mia nonna aveva una fattoria lì, nelle campagne vicino Linlightgow. Dovettero venderla dopo la guerra, per trasferirsi qui a Londra. E lei me ne parlava ogni volta con rimpianto.», scostò indietro un ricciolo che le era ricaduto sugli occhiali, «Diceva che d’estate il verde riempiva incontaminato ogni direzione, fino all’orizzonte; e che si rischiava di perdersi completamente, allontanandosi troppo da casa.», si interruppe, osservando dubbiosa la schiuma sulla superficie del suo latte macchiato, «Certo, ora con i ripetitori del Wi-Fi e altra roba simile, non credo sia più possibile sperimentare una cosa così. Ma, chissà, magari la fattoria c’è ancora, da qualche parte. Sempre se non ci hanno costruito sopra un supermercato.»

Crowley ascoltava in silenzio, indugiando distrattamente con le dita sul bordo della sua tazza; già sprofondato nella placidità della nuova conversazione. E anche Beth sembrava assorta; bevve un altro sorso e tolse con una nocca il filo di schiuma rimastole sul labbro, prima di continuare.

«Quella fattoria è stata della mia famiglia per generazioni. Credo l’avesse fatta costruire la bis-bis-bis-bis-nonna di mia nonna, o una cosa del genere. E c’era questa storia assurda che si tramandavano, di come la sua antenata fosse riuscita ad acquistare il terreno grazie all’aiuto di due spiriti.», ora la sua voce si era accesa di entusiasmo, e un sorrisetto le tirava una guancia.

«Era una notte buia e nebbiosa, le tombe erano immobili nel cimitero e i morti silenziosi.» recitò, con tono solenne e lo sguardo ammiccante stretto fra le palpebre, «Mia nonna cominciava sempre così la storia, e anche se un po’ mi faceva paura, la adoravo. Soprattutto la parte in cui uno degli spiriti beveva del veleno e rimpiccioliva.»

A Crowley quasi sfuggì di mano il caffè.

Una situazione conosciuta si fece spazio nella sua mente, emergendo dalla memoria. Decisamente troppo simile per essere una coincidenza. Possibile che stesse parlando di lei, di quella ragazza a Edimburgo che trafugava i cadaveri, quasi duecento anni prima?

La stessa ragazza a cui lui aveva impedito di ammazzarsi, e per la quale si era beccato ben dieci anni di isolamento e tormenti annessi all’Inferno. La stessa che, a quanto pare, aveva mantenuto la parola, prendendo davvero una fattoria; vivendo la sua vita. E avendo persino dei discendenti.

L’ultima dei quali, contro ogni logica probabilità, ora gli sedeva davanti.

«Cosa?» farfugliò. Ma avrebbe più che altro voluto chiedere come; magari aggiungendo un’imprecazione poco elegante, ma decisamente appropriata alla situazione.

«Si, lo so, è una sciocchezza, ovviamente. Solo una favola per bambini. Non so nemmeno perché ne sto parlando.» si affrettò a giustificare Beth, imbarazzata, fingendo di tornare a interessarsi degli appunti, «Comunque, mi piacerebbe scoprire se la fattoria è ancora lì; e perché no, anche visitare quel cimitero. Giusto… per curiosità.», nascose il naso dietro il bordo della tazza, «Magari potrei andarci quest’estate, dopo gli esami. Se riesco a superarli.»

Crowley scolò il caffè tutto d’un fiato, cercando di mandare giù anche lo sconcerto. E fu grato che lo sguardo strabuzzato che doveva aver assunto fosse nascosto dalle lenti, anche se la ragazza pareva mantenere l’attenzione altrove.  

Si schiarì la voce. «Per caso sai come si chiamava, questa tua antenata?»

Beth sembrò confusa dalla domanda. «Si, beh, è buffo in realtà, perché ho il suo stesso nome: Elspeth. Abbastanza comune nella mia famiglia.», contrasse le labbra in una smorfia, «È una specie di variante di Elisabeth, ma un po’ strana da queste parti; perciò preferisco Beth, che è più semplice da ricordare.»

Elspeth.

Non c’erano più dubbi, era proprio lei. E Crowley si chiese che razza di ineffabile scherzo del destino fosse quello. Un commiato prima della fine? Uno strambo giochino? O magari un’altra punizione, per essersi intromesso nel corso degli eventi, così da mostrargli quanto fossero insignificanti le scelte individuali di fronte ai Grandi Piani. Davanti agli Esili, ai Giudizi, ai Diluvi, e a tutte le pompose sentenze che schiacciano tutto sotto di sé, senza lasciare niente.

«Va tutto bene, Mr. Crowley?», lo richiamò Beth, «Non avrà mica visto degli spiriti anche lei?» scherzò.

Crowley si abbandonò di nuovo sullo schienale. «Non più di quanti ne abbia visti tu.» rispose, concedendosi un ghigno. Se solo non ci fosse stato un cappio stretto intorno al loro collo, avrebbe trovato quella situazione parecchio divertente.  

Una suoneria cinguettò placida un paio di volte e Beth tirò fuori dalla tasca lo smartphone; osservò per qualche istante lo schermo, poi arricciò il naso. «Forse ora preferirei gli spiriti, a quelli con cui ho appuntamento stasera.», gli rivolse un’occhiata eloquente e ridacchiò, «Ma il lavoro è lavoro.»

Il lavoro è lavoro.

Un ritornello che si era ripetuto spesso anche lui, nel corso del tempo. Di fatto, una trappola ben dissimulata.

«Bene.», esclamò Beth, ficcando di nuovo il telefono in tasca, «Penso che a questo punto mi lascerò tentare dal suo consiglio di prima, Mr. Crowley. È ancora presto, e fuori c’è persino un po’ di sole. Un’occasione imperdibile.», ammiccò, ironica, «Che ne dice di una passeggiata?»

«Una passeggiata?» ripeté Crowley.

«Si, esatto. Le andrebbe?»

 

*

 

Non sapeva come, ma alla fine si era lasciato convincere.

E ora si ritrovava fuori dall’ingresso del Give me coffee or give me death, con l’aria fredda che gli pizzicava le guance e qualche pigro raggio di sole che riverberava negli occhi, costringendolo a risistemarsi meglio gli occhiali scuri sul naso. Era in effetti una bella giornata, per essere un pomeriggio di fine inverno a Londra. Chissà perché non se ne era reso conto prima.

Di fianco a lui, Beth si arrotolò la solita sciarpa blu intorno al collo. «Devo solo restituire un momento dei l-», si interruppe, «Beh, insomma, faccio subito.»

Crowley la osservò attraversare in fretta la strada e infilarsi nella libreria, accompagnata dal familiare tintinnio della campanella d’ingresso.

Sospirò, muovendo qualche passo scomposto verso la Bentley, parcheggiata come sempre sul marciapiede lì accanto, e si appoggiò al tettuccio.

L’ultima volta che aveva aspettato in quel punto, non era stata affatto una bella giornata.

«Ancora qui a fare il cucciolo smarrito, eh?»

E infatti.

«Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro l’ultima volta, Shax.», soffiò, «Quale parte di non intendo collaborare non hai compreso, esattamente?»

«La parte in cui ti comporti da idiota.»

Gli si avvicinò, impettita in un tailleur rosso vinaccia, le labbra strette in un taglio sottile; e Crowley fu investito dal profumo aspro che la accompagnava sempre, come di fiori appassiti.

«Ormai sappiamo che la nascita è fissata per quest’anno, ma la Madre non si trova e ai Piani Alti c’è fin troppo silenzio.»

«E cosa dovrei farci?» disse, appoggiandosi contro la portiera a braccia incrociate.

«Lui non è contento, Crowley. Non lo è affatto.» sussurrò lei, la preoccupazione malcelata nella voce.

«Nemmeno io sono entusiasta, se è per questo, eppure non ne faccio un dramma universale.»

Shax contrasse il viso in una smorfia contrariata. «Non credo ci sia molto da scherzare. Se non porto dei risultati, al Piano di Sotto presto rotoleranno delle teste. E sai bene che insieme alla mia, ci sarà anche la tua.», lo fissò, gli occhietti a spillo stretti fra le palpebre, «Il tuo ammutinamento non è stato molto apprezzato, e questa volta non credo che te la caverai con un informale bagnetto nell’acqua Santa.»

Crowley sentì un brivido gelido scivolargli lungo la schiena.

Che fine aveva fatto la regola di non attirare i guai? Dov’erano finiti i piani ben congeniati, le strategie, il buonsenso? E l’astuzia, di cui si vantava di essere padrone?

Tutto perso nell’apatia di quei mesi, nella perdita di senso; nella rinuncia e in quell’infantile negazione della realtà, che ormai lo accompagnavano. Eppure, non riuscì più ad ostentare la noncuranza che avrebbe voluto, riscoprendosi ancora in grado di provare paura.

Paura di Lui.

Shax gli rivolse un verso stizzito. «Se sei ancora qui a goderti il sole, è soltanto perché potresti essere utile. Perciò sii utile, Crowley. Dammi qualcosa che posso usare.», tirò ancora di più le labbra, fino a che non scomparvero, «Se non per l’Inferno, fallo almeno per la tua vecchia pelle di serpente. E anche per la mia.»

Crowley corrugò la fronte, cinico. «Da quando ti importa cosa mi succede, Shax?»

Lei spostò lo sguardo altrove, sistemandosi il bordo della giacchetta con le dita munite di artigli laccati. «Te l’ho già detto. Ho una vaga stima del tuo lavoro passato.» rispose secca.

Un breve silenzio calò fra loro; una parentesi di timore condiviso, di vuoto fra i rumori della vita che proseguiva tutto intorno. Forse persino un barlume di genuina intesa, del tutto inusuale fra demoni. E Crowley considerò che, a quel punto, il mondo doveva essere proprio sul punto di finire.

Si passò una mano sulla fronte, come per cercare di schiarire i pensieri. Forse avrebbe potuto davvero darle qualcosa; un’indicazione innocua, blanda, insignificante, ma abbastanza per placare un po’ la Satanica Ira che incombeva.

«Gli ospedali.» mugugnò infine.

«Come?»

«Tenete d’occhio gli ospedali e le cliniche. È lì che nasce la maggior parte dei bambini, al giorno d’oggi.» ripeté.

Shax sembrò apprezzare. Nonostante fosse una totale banalità, a quanto pareva era stata troppo poco sulla terra per poterla considerare. E si aprì in un sorrisetto che, per quanto avesse sempre l’aspetto di un ghigno malevolo, possedeva effettivamente una sfumatura di riconoscenza.

«È il massimo che avrai da me.» precisò Crowley, mentre, dall’altra parte della strada, la campanella della libreria tintinnava di nuovo, e l’estremità della sciarpa blu di Beth spuntava dall’ingresso a vetri.

Ma Shax era già sparita, lasciando dietro di sé solo uno sgradevole residuo di profumo e, forse, la vaga sensazione di aver commesso un errore.

 

 

***

 

_______________________________

 

1 L’ho definito “diploma” per renderlo più comprensibile, ma mi sto riferendo all’A-level, ovvero più o meno il corrispettivo inglese della nostra maturità. In Inghilterra (come da noi in realtà) gli anni scolastici obbligatori terminano a sedici anni, e il loro corrispettivo del liceo dura circa gli ultimi quattro di questo periodo; successivamente si possono frequentare altri due anni facoltativi e preparatori per l’università, al termine dei quali si prende un diploma Advanced Level. Di solito, quindi, a diciotto anni si terminano gli studi pre-universitari, un anno prima che da noi, anche se si possono recuperare successivamente se lo si desidera, esattamente come da noi si può recuperare la maturità (perdonate eventuali imprecisioni, ma volevo dare una breve spiegazione).

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Ebbene, la storia non è morta. È solo che ci sono gli impegni che si intromettono, e io sono anche schifosamente lenta a scrivere. Però ci tengo molto e in un modo o nell’altro verrà di sicuro portata a termine.

In tutto nel progetto sono in cantiere circa quindici capitoli, perciò è stata appena superata la prima parte e le cose cominciano a delinearsi con più chiarezza. Non fatevi ingannare dalla situazione vagamente più rilassata di questo capitolo, perché non mi piace mantenere la positività per molto (sorry).

So che i personaggi nuovi fanno storcere il naso a molti, ma io trovo interessante muovere un po’ le acque e cercare diverse prospettive di trama, e spero di riuscire a renderli giustamente apprezzabili.

Come al solito, grazie per essere arrivati fin qui e se vi va di farmi sapere se avete apprezzato (o magari no) qualcosa. Spero di non far aspettare così tanto per il seguito, ma va come va, del resto.

Bye Bye

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Parte VII - Aprile ***


 

_______________________________

 

Parte VII

 

 

 

- Aprile -

 

 

Non erano molte le cose che Muriel sapeva davvero.

Di certo sapeva come redigere dei documenti; sapeva come leggerli, come catalogarli in perfetto ordine e come interpretare ogni postilla e cavillo della burocrazia celeste.

Del resto, lo aveva fatto per seimila anni.

E gestire i documenti di un archivio non era molto diverso dal gestire dei libri, tutto sommato, nonostante questi ultimi fossero indubbiamente più piacevoli e offrissero molta più varietà di contenuti. Perciò, ormai poteva affermare con una certa sicurezza di saper anche organizzare una libreria; di sapere come disporre tutto per bene sugli scaffali, per rendere facile e veloce la ricerca e, perché no, anche come ordinare le altezze e colori delle copertine in modo gradevole.

Un'altra cosa che Muriel sapeva era come preparare il tè, anche se si trattava di un apprendimento piuttosto recente. Complice la gentilezza e l'aiuto di Maggie, che si era messa con pazienza a mostrarle tutti i giusti passaggi; spiegandole che c'è una temperatura ideale per l'acqua – a seconda della tipologia scelta di tè –, un esatto tempo di infusione, un quantitativo corretto di dolcificante, e tante altre cose interessanti sulle miscele, sulla cui memorizzazione però aveva ancora da lavorare.

Nell'ultimo periodo aveva persino imparato a comprendere meglio gli umani e i loro comportamenti, sebbene non si sentisse troppo padrona della questione. Aveva spesso intrattenuto amichevoli conversazioni con gli altri negozianti della strada, con i clienti della libreria e qualche volta persino con delle persone al Caffè di Nina, e le sembrava di migliorare un po’ ogni volta.

Eppure, sentiva di sapere con assoluta certezza solo una cosa: che le piaceva vivere sulla terra, come non le era mai piaciuto nient’altro.

In Paradiso non c'erano tutti quei colori, quelle luci, quella varietà. Tutta quella vita e quelle energie che si muovevano e cambiavano sempre; che a volte disorientavano e le facevano sentire la testa pesante, magari un po' confusa, ma che la riempivano anche di curiosità e di voglia di scoprire cose nuove, o di apprezzare quelle già conosciute.

E Muriel le amava tutte.

C’erano i libri, il tè e quei fantastici dischi di musica, e il tepore delle abat-jour alla sera, che illuminavano di caldo conforto gli scaffali della libreria. C’erano le coperte morbide, i biscotti al burro e le decorazioni di Natale (Oh, quanto le aveva adorate!); e poi le vetrine dei negozi, le anatre al Saint James Park, le pozzanghere dopo la pioggia e il vento che trascinava le foglie. E non era più sola, perché c’erano Maggie e Nina, e tante altre persone diverse con cui parlare ogni giorno, anche solo in quella piccola realtà tutta umana che era Whickber Street.

E anche se ancora non erano molte le cose che comprendeva bene o che aveva sperimentato, non se ne dispiaceva, perché c’era sempre la possibilità di conoscerne di nuove.

O almeno così era stato fino a quella mattina.

C’era infatti un baule. Un vecchio baule di legno con la chiusura in ottone, proprio sotto la scala.

In realtà, prima di allora Muriel non si era nemmeno resa conto che quello fosse effettivamente un baule; credeva si trattasse solo di un altro strano basso scaffale, o qualcosa di simile, considerando le pile di libri e di altri oggetti che vi erano sempre stati sopra e che ne ricoprivano la superficie.

Ma il suo personale programma di riordino – che, con la dovuta placidità angelica, durava ormai da diversi mesi – aveva infine raggiunto anche quel piccolo spazio occultato sotto i gradini, rimasto fino a quel momento trascurato. Ai libri e agli oggetti erano quindi state trovate nuove e più comode sistemazioni, e il baule, ora sgombro e spolverato, aveva potuto mostrare la sua vera natura; oltre che una piccola targhetta ossidata sul coperchio, con incisa la parola Memorie in un grazioso corsivo svolazzante.

Un ritrovamento imprevisto, come quelli di cui aveva letto nei romanzi e che di solito davano il pretesto per l’inizio di una nuova storia. E il petto le si era subito riempito di frizzante esaltazione, immaginandone il misterioso contenuto.

Il baule, tuttavia, era chiuso.

Totalmente, completamente sigillato, deciso a non rivelare i suoi segreti; sebbene sulla superficie non vi fosse traccia di alcun lucchetto o serratura. E a nulla erano serviti i suoi tentativi di aprirlo, miracoli compresi.

Era perciò già da qualche minuto, ormai, che sedeva sconsolata sull’ultimo gradino della scala a chiocciola, senza sapere cosa fare. Sbirciando, di tanto in tanto, il coperchio di legno scheggiato attraverso le sbarre del corrimano, forse nella speranza di vederlo aprirsi spontaneamente, prima o poi. Ma quello se ne stava solo lì, indifferente, immobile nella sua posizione; come del resto, era giusto che un baule inanimato facesse.

L’orologio a pendolo suonò otto severi rintocchi, mentre, per la prima volta, Muriel si sentiva davvero rattristata dal non sapere qualcosa.

Sospirò, riflettendo sul fatto che forse anche alla libreria c’erano cose a cui non le era permesso accedere, proprio come negli Archivi in Paradiso. Cose che il Signor Aziraphale aveva dovuto lasciare indietro, ma che non voleva fossero toccate da altri.

Cose davvero importanti, pensò Muriel. Considerando che nemmeno le prime rarissime edizioni dei libri di profezie erano state protette a quel modo.

Si sentì improvvisamente in difetto, per aver desiderato di conoscere un qualcosa di così riservato e prezioso. E nella sua testa proruppe grave quel monito, ultimamente un po’ dimenticato, che la redarguiva sulla natura demoniaca della troppa curiosità.

Scattò in piedi, le mani allacciate contro il petto e le guance avvampate da un filo di vergogna, in un moto di ansia involontario che la prendeva sempre quando credeva di aver fatto qualcosa di sbagliato. Ma, grazie al Cielo, nulla di irreparabile era ancora accaduto.

Prese un lungo respiro e lisciò il profilo della gonna, recuperando il giusto contegno.

Se quel baule era così importante, allora se ne sarebbe presa cura; lo avrebbe custodito per il Signor Aziraphale, tenendolo al sicuro fino a quando lui non fosse tornato. Questo si disse e, dopo una rapida occhiata al sottoscala, convenne che la prima cosa da fare sarebbe stata trovare un posto migliore dove riporlo.

Si abbassò, per non sbattere la testa contro un gradino e, risoluta, ne afferrò un’estremità, trascinandolo a fatica appena fuori dalla sua nicchia. E lì si fermò, sbuffando contrariata, con le mani sui fianchi.

Era evidente che il baule fosse troppo pesante per essere spostato in quel modo, e stava quasi per operare un piccolo miracolo, quando notò un angolino bianco che sbucava proprio da sotto il bordo, nella scia che si era creata fra la polvere sulle assi del pavimento.

Sembrava l’estremità di un foglio.

Lo raccolse, sfilandolo con attenzione per evitare che si strappasse, e si rese conto che non era un foglio, bensì una fotografia.

Muriel sapeva cos’era una fotografia. Era stata Nina a spiegarglielo alcuni mesi prima, quando ne aveva trovate a decine stipate in alcune cartelle e altrettante ordinate all’interno di una fila di grossi tomi in pelle nera, riposti in uno degli scaffali più in alto. Tuttavia, le fotografie in questione erano state tutte datate con cura e indicavano sempre il luogo in cui erano state scattate, e spesso anche qualche nota, a differenza di quella che ora si ritrovava in mano.

L’immagine era scura e un po’ graffiata, ma erano ben distinguibili due figure conosciute: una del Signor Aziraphale e l’altra del demone Crowley, apparentemente intenti a passarsi qualcosa di mano. Non era una bella foto, pensò, almeno non come quelle che aveva visto raccolte nei tomi; sembrava scattata di fretta e con poca cura, ed era anche un po’ sfocata, ma in qualche modo risultava comunque bella a vedersi.

Forse perché quello ritratto sembrava un bel momento, e anche se l’unico a sorridere era il Signor Aziraphale, persino il Signor Demone appariva meno scontroso del solito; quasi contento, avrebbe osato dire.

Si ritrovò a sorridere di rimando, stringendo la fotografia fra le mani e chiedendosi perché mai si trovasse sotto quel baule. Forse vi era caduta per errore.

Aveva appena iniziato a ragionare su dove poterla riporre, quando dalla strada risuonò il rombo rauco e familiare di un motore. E Muriel si illuminò, colta da un’improvvisa soluzione. Mise la foto nel taschino del gilet e corse fra gli scaffali, e poi rapida oltre l’ingresso della libreria, lasciando la campanella a tintinnare impazzita dietro di sé.

«Signor Crowley!»

Lo vide scivolare fuori dalla portiera, con uno dei suoi soliti bizzarri movimenti un po’ disfatti, e avviarsi come sempre in direzione del Caffè di Nina.

«Signor Crowley, aspetti!» chiamò di nuovo, mentre trotterellava attraverso la strada, fino alla lucida auto nera. E lui le rivolse le orbite scure degli occhiali, un sopracciglio appuntito appena sollevato al di sopra.

«Torna in libreria, angioletto.», pronunciò stancamente, «Non devi parlare con me. Ricordi? Sono un demone

«Lo so, lo so. Ma c’è una cosa che vorrei darle.» sfilò la fotografia dal taschino e gliela porse, fremente di gioia, esibendo il sorriso più largo che riuscì a produrre.

Lui la prese in punta di dita, mentre il sopracciglio aguzzo si faceva ancora più alto e la fronte gli si corrugava in tante piccole onde. La scrutò in silenzio, con il suo liscio sguardo di vetro, e il labbro gli tremò appena.

Muriel sorrise ancora più forte, stringendo le mani contro il petto, incapace di trattenere l’entusiasmo che sentiva agitarsi al di sotto. «L'ho trovata poco fa, pensi un po' sotto un baule!» trillò, felice.

«E infatti ho pensato: strano posto per riporre una cosa del genere. Eppure avevo capito che le foto si conservassero in appositi contenitori... com'è che si chiamano? Accidenti, mi sfugge sempre il nome giusto.» ponderò appena un istante, dondolandosi fremente sui talloni, «Ecco si, album, si chiamano album! Ce ne sono davvero tanti nella libreria, ma sono quasi tutti pieni di paesaggi, o scorci di città, o a volte qualche ritratto; tutti catalogati e datati in perfetto ordine, sia chiaro. Ma questa è l'unica foto che ho trovato a non avere un posto, né una data o nessun'altra indicazione, vede?

«Ed è veramente strano, perché tutto nella libreria è conservato con meticolosa attenzione, malgrado ci sia un po’ di disordine. Infatti è per questo che sto sistemando da, beh… ehm, comunque, proprio un attimo fa stavo guardando la fotografia e riflettevo su dove metterla, e poi l’ho sentita arrivare e ho pensato ma certo!», riprese fiato, «C'è anche lei nell’immagine, perciò magari le potrebbe far piacere averla e… tenerla, ovviamente, certo. Dato che adesso il Signor Aziraphale se n'è andato e-»

«Ho capito, angioletto.» disse lui, piatto, interrompendo bruscamente quel flusso di pensieri che avevano iniziato a viaggiarle sulla lingua ad una velocità sempre più vertiginosa.

E anche Muriel si bloccò insieme ad essi, mortificata. Le braccia tirate lungo i fianchi e le dita ancora strette contro i palmi dall’agitazione. Lo aveva fatto di nuovo, si era persa in troppe parole. E parlare troppo faceva sempre innervosire le persone; era una delle prime cose che aveva imparato, già da molto prima di scendere sulla Terra.

Sbatté le palpebre un paio di volte, a respiro trattenuto, in attesa; cercando di decifrare l’espressione insondabile barricata dietro quegli scuri cerchi di vetro che aveva davanti, aspettandosi l’arrivo di un rimprovero.

Ma il Signor Demone non fece niente del genere. Guardò la foto ancora per qualche momento, poi la ripose nella tasca della giacca, con un gesto un po’ malfermo, e l’angolo della sua bocca si tirò in un ghigno appena accennato.

«Grazie.» aggiunse infine, ma nella sua voce c’era qualcosa di strano. Come una nota stonata.

Muriel si aprì di nuovo in un piccolo sorriso incerto.

Le piaceva il Signor Crowley.

Per quanto fosse un demone, non era per niente come di solito venivano descritti i demoni; era gentile e mai veramente malvagio, anche se un po’ scontroso e malinconico. E le piaceva anche quel suo modo bizzarro di muoversi, il colore acceso dei suoi capelli, e la parlata strascicata che aveva di solito, dal tono tagliente e a volte un po’ sibilante. Quello che non le piaceva, invece, era la nebbia scura che lo avvolgeva sempre, e quella distanza irraggiungibile in cui celava lo sguardo; quel freddo distacco che non permetteva a nessuno di avvicinarsi.

Soprattutto da quando il Signor Aziraphale se n’era andato.

Per questo gli aveva portato la fotografia; voleva fare qualcosa di buono, anche se ora non era più troppo sicura di aver fatto bene. Forse sperava in una reazione migliore, ma in fondo lei non era mai stata istruita per operare sul campo, come facevano gli angeli più importanti; aveva sempre solo redatto e catalogato parole, nella solitudine del suo ufficio. E non era molto brava a comunicare.

Strinse un po’ inquieta la stoffa del gilet, e fece per dire qualcosa, ma le uscì solo un balbettio confuso.

Una folata di vento tiepido imperversò nella strada, e nello spazio fra loro, agitando le pieghe della sua gonna tartan e qualche ciuffo vermiglio sulla fronte del Signor Demone, che lui riportò subito indietro con la mano affusolata.

«Bene.» disse lui, schiarendo la voce, «Ora torna dentro, prima che qualcuno ti veda a fraternizzare con uno come me.», accennò con la testa verso l’ingresso della libreria, «Sai che al Piano di Sopra non vanno matti per queste cose.»

Muriel annuì un po’ sconsolata.

In realtà avrebbe voluto poterlo invitare a prendere un tè qualche volta, e chiedergli di tutte le cose che sapeva; della Terra, degli esseri umani e di ciò che aveva visto in quei secoli in cui vi aveva vissuto. Avrebbe voluto dirgli che la libreria era ancora aperta per lui, se avesse avuto il desiderio di tornarci; e avrebbe voluto anche fargli sapere che le dispiaceva di aver preso il posto del Signor Aziraphale, e che capiva cosa voleva dire sentirsi soli.

Avrebbe voluto dire tante cose, ma così come aprì di nuovo la bocca, così la richiuse, senza che nulla ne fosse uscito. Perché era vero, in Paradiso non apprezzavano che ci fossero questo genere di scambi. Gli angeli sono angeli e i demoni sono demoni, del resto.

Il bene non si mescola con il male.

E questa era sicuramente una ragione valida, anche se iniziava a sembrarle forse un po’ troppo rigida. Ma un angelo di 37esima classe come lei, di certo non aveva il diritto di poter sindacare su questioni del genere. Non era niente di più che una semplice archivista, e sarebbe stato meglio per lei tornare ai suoi compiti, a ciò che conosceva meglio.

Si morse il labbro.

«A-allora, arrivederci.» balbettò, accennando un timido saluto con la mano. E fece per tornare sui suoi passi, verso l’altro lato della strada.

«Hey, angioletto.» la richiamò lui, prima che si voltasse, «Sei stata brava.»

E Muriel sentì tornare un piccolo calore nel petto e un sorriso tirargli le guance.

Certo, non erano molte le cose che sapeva, e ancora meno quelle che capiva per bene, ma forse, per una volta, era riuscita a non combinare un guaio.

 

 

 

***

 

_______________________________

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Esco così, un po’ a sorpresa, un po’ a caso, con un aggiornamento. In realtà questa doveva essere una parte di un capitolo composto da più POV, ma quando ho iniziato a vedere che diventava troppo lungo ho deciso di spezzare (perciò forse vi beccate la prossima parte in una tempistica meno biblica).

Comunque si, lo so, sembra tutto un po’ di transizione, ma ho bisogno di certi dettagli per preparare il campo agli avvenimenti successivi, e poi non potevo non scrivere un pochino anche di Muriel, perché la adoro. Per il resto, non c’è bisogno di dire che le cose stanno iniziando ad andare in m*rda, MA non potete neanche immaginare quanto.

Ringrazio tutt* come sempre e torno a ritirarmi nel mio antro, bye!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Parte VIII - Aprile ***


 

_______________________________

 

 

Parte VIII

 

 

 

- Aprile -

 

 

L'aria era fresca e profumata quella mattina, e un bel sole si affacciava sul cortile del chiostro.

Eleonora canticchiava placida, seduta su un muretto sotto gli archi del portico. Davanti a lei il piccolo prato, che, a dispetto dell'incuria, era sempre più rigoglioso e punteggiato dai colori vivaci dei fiori spontanei.

Aziraphale apprezzava le visite al monastero, soprattutto ora che si erano fatte frequenti, dato l'approssimarsi del momento della nascita. Al principio pensava che fosse merito dell’inizio della primavera, ma la verità era che quando andava a trovare quella ragazza si sentiva meno solo, malgrado le conversazioni non fossero proprio del tipo convenzionale.

Ma il poter parlare con qualcuno, senza dover fingere o dissimulare, era diventato un piacevole spiraglio di sollievo, in quel groviglio di angosce e doveri che lo attanagliava. Una parvenza di tranquillità, spettro di quella passata negli anni alla libreria, che gli era mancata molto più di quanto volesse ammettere.

E, forse, era anche per questo che aveva continuato ad occuparsi di lei personalmente e quasi in esclusiva, sebbene questo gli comportasse molto più lavoro; la ricerca, infatti, non si era fermata. La motivazione ufficiale che aveva addotto ai Piani Alti, tuttavia, era che non desiderava turbarla più del dovuto, con della confusione o altri volti nuovi, data la sua già delicata condizione mentale. Almeno finché non vi fosse una chiara certezza sul suo ruolo.

Non una menzogna comunque, semmai una parziale verità. Considerando che non aveva ancora compreso cosa la turbasse e cosa no. Quella ragazza sembrava solo costantemente persa; fluttuante fra la realtà e una dimensione invisibile e misteriosa, irraggiungibile per chiunque altro.

Aziraphale la osservò attraverso le arcate inondate di sole, mentre superava con gli ultimi passi l’angolo del portico che li divideva. Era del tutto assorta a tormentare qualcosa fra le mani; le gambe che ciondolavano al ritmo del motivetto canticchiato a labbra chiuse. Sotto i suoi piedi, tra i fili d’erba, brillavano dei riflessi dorati.

«Come va oggi, mia cara?» chiese, prima di accomodarsi anche lui sul muretto.

Lei non rispose. Non rispondeva mai a quel genere di domande. Ma, per qualche motivo, ad Aziraphale risultava difficile saltare la parte dei convenevoli in una conversazione. Fu però in grado, ora, di riconoscere l’oggetto a cui lei stava dedicando tante attenzioni. Era una piccola colomba bianca; una statuina, probabile residuo delle decorazioni di Pasqua, circondata da quel che rimaneva di una raggiera di punte dorate. La ragazza ne stringeva e torceva il profilo tra le dita, finché, con uno scatto deciso, uno dei raggi non si staccò dalla schiena della colomba, per poi scivolare giù sul prato, fra altri a cui era toccata la stessa sorte.

Aziraphale corrugò le sopracciglia, e un solco di contrariata perplessità si fece strada sulla sua fronte. Era ormai abbastanza abituato a quel tipo di stranezze da parte sua, ma questa forse sforava un po’ troppo nello sconveniente.

«Oh, cara. Posso chiedere perché lo stai facendo?»

Eleonora interruppe la sua litania solitaria, ma non si scompose, né si distrasse dalla sua occupazione. «Devo liberarla.» disse, come se fosse la risposta ovvia ad una domanda del tutto sciocca, «Non può mica riuscire a volare così.»

E, in effetti, il ragionamento non faceva una piega, se si trascurava giusto la mancanza di qualche altro dettaglio essenziale. Come, ad esempio, delle ali funzionanti.

Un nuovo impietoso scatto di plastica spezzata e un’altra punta rotolò via, baluginando appena d’oro sotto i raggi del sole. Aziraphale sospirò, trattenendo fra sé una risatina scoraggiata. Non era certo considerabile convenzionale che la futura nuova Madre di Dio passasse la mattinata a spennacchiare l’aureola di una colomba pasquale. Ma, del resto, non erano molte le cose realmente convenzionali che aveva visto succedere in seimila anni sulla Terra. Anche senza contare di essere stato testimone del piccolo Anticristo che rinnegava il suo satanico Padre.

Pensò tuttavia, con amarezza, che c’era qualcun altro che avrebbe di sicuro trovato ironica la faccenda, e che ne avrebbe riso lautamente, snudando il ghigno appuntito, in quel suo modo amichevolmente malevolo che Aziraphale aveva sempre finto di non apprezzare.

Intrecciò le mani in grembo, un po’ avvilito, occhieggiando verso il cortile, mentre altri secchi scricchiolii di quell’aureola martoriata giungevano alle sue orecchie. Nel prato, alcuni steli di bulbocastano e di gramigna si piegarono placidi ad un alito di vento. E una delle punte dorate cadde proprio vicino ai suoi piedi. Lui la raccolse e la osservò, rigirandola piano fra le dita, come in passato usava fare con le monete, e un inatteso velo di nostalgia gli annebbiò la vista.

«Sai, fino a qualche tempo fa, mi piaceva fare giochi di magia. Prestidigitazione. Con monete e altri piccoli oggetti come questo.» disse, dando voce ai pensieri, con un accenno di malinconico orgoglio che gli gonfiava il petto. «Facevo trucchi con le carte, con i fazzoletti, e persino cose più pericolose come la “Cattura del proiettile”. Anche se in quel caso con, uhm… diciamo una speciale assistenza esterna.»

Schiarì la gola, le mani che ora si stringevano al tessuto dell’abito attorno alle ginocchia, e la vista che vagava, fra i colori accesi del prato e quelli più sbiaditi della memoria. 

«Sapevo anche far comparire una colomba dal cappello; una di quelle vere.» ci tenne a precisare, accennando alla statuina, e il labbro gli si piegò in una smorfia. «Beh, in verità c’è stata una volta in cui per la colomba non è andata troppo bene.», rise appena, imbarazzato, al ricordo di quel povero volatile schiacciato nella manica della sua giacca, «Niente di irreparabile, comunque.» si affrettò ad aggiungere.

Non sapeva per quale motivo gli stessero tornando in mente quelle cose, né perché ne stesse parlando. Ma la ragazza sembrò interessata; tanto da sospendere la mutilazione della malcapitata miniatura e spostare lo sguardo verso di lui. Un paio di stralunati occhi castani che lo fissavano, in attesa. Pieni della stessa aspettativa pressante – e vagamente intimidatoria – che Aziraphale prima di allora aveva visto assumere solo ai bambini.

«V-vuoi… vuoi che ti mostri un piccolo trucco?»

Lei non disse nulla, ma tenne gli occhi attenti inchiodati su di lui. Cosa che Aziraphale decise di interpretare come una probabile risposta affermativa.

«Ehm, molto bene.»

Si schiarì di nuovo la voce, cercando di assumere la degna solennità che la professione del mago esigeva, e mostrò il sottile raggio dorato con un gesto teatrale. Sperando, dentro di lui, di non essere troppo arrugginito, mentre lo nascondeva chiudendolo fra le dita.

«Vedi, il segreto sta tutto nelle parole magiche.» sussurrò, muovendo una mano sull’altra a simulare un incantesimo. «Ora l’oggetto c’è, ma basta dire: banana, pesce, gorilla, stringa, giusto un tocco di noce moscata e…» congiunse appena le mani, facendolo scivolare in quella opposta, e occultandolo dietro l’indice. Poi soffiò sul pugno chiuso e, srotolando piano le dita, lo aprì di nuovo.

«…sparito!» ammiccò, mentre la ragazza scrutava incantata il palmo vuoto. Di certo, era il pubblico più appassionato che avesse mai avuto. «E adesso dove sarà andato a finire?»

Aziraphale finse di guardarsi intorno dubbioso, giusto per qualche momento, poi sollevò le sopracciglia, «Oh, ma guarda un po’!»

Le accostò la mano all’orecchio e, con un rapido guizzo delle dita, ritirò fuori il piccolo raggio, che brillò placido alla luce, “magicamente” ricomparso. E non fu l’unico a brillare, perché gli occhi della ragazza si erano fatti più grandi, e un sorriso si era aperto al di sotto.

E anche Aziraphale sorrise; per la prima volta da diverso tempo, una gioia che sentì vera. Ampia sul viso e calda nel petto.

Era un angelo, certo, e in quanto tale poteva fare davvero della magia, ma per assurdo i miracoli non gli avevano mai dato la stessa soddisfazione di un gioco di prestigio ben eseguito.

Erano un qualcosa di fuori dal mondo e, in qualche modo, sembravano meno reali; facendo sentire anche lui meno reale e fuori dal mondo. Un estraneo, solo un visitatore che si è intrattenuto troppo a lungo, quando invece di quel mondo gli sarebbe piaciuto farne parte.

Proprio come era stato quella volta nel ’41, su quel palco del West End; quando, stretto fra la paura e l’emozione, con dei baffi disegnati e un mantello scadente, per un po’ era stato solo Mr. Fell.

Il Meraviglioso Mr. Fell.

Un mago come tanti, in piedi, ansioso e con le mani sudate, di fronte al suo pubblico. Solo un’anima come tante, che tentava di sfuggire al grigiore alla guerra, e un cuore di libraio, grato che i suoi libri fossero stati salvati.

Non un angelo, non un Principato. Niente Inferno, né Paradiso; fazioni o ostilità. Solo un aspirante prestigiatore e il suo assistente. Un amico che ricambia un favore ricevuto.

E, per un momento, si chiese come sarebbe potuto essere vivere una vita così, colma delle possibilità dell’umano libero arbitrio; di poter decidere sul serio. Fuori dalle giurisdizioni angeliche, fuori dai doveri. Qualcosa su cui, in realtà, non aveva mai veramente osato riflettere prima.

Poi si sentì tirare una manica.

Eleonora era tornata seria, anche se l’ombra del sorriso di prima ancora le sopravviveva negli occhi; la piccola colomba stretta in mano, ormai spogliata di tutte le punte di plastica dorata che erano state dell’aureola.

«Vieni. Adesso dobbiamo farla volare.» dichiarò, con l’autorità e il cipiglio di un maggiore dell’aeronautica, e scese dal muretto, trotterellando nel prato un po’ impacciata dall’ingombro della pancia e stringendosi in un cardigan color crema, le cui estremità ormai non riuscivano più a chiudersi.

Aziraphale, le andò dietro, nel timore di vederla inciampare. Lei però raggiunse senza problemi il piccolo pozzo chiuso al centro del chiostro, a passi decisi nell’erba. Poggiò la statuina sul bordo e restò in attesa, ad osservare. Sembrava davvero aspettarsi di vederla volare via da un momento all’altro.

«Cara…» esordì rammaricato Aziraphale quando l’ebbe raggiunta, frugando tra le parole in cerca di quelle giuste da dire, «Temo che, ecco, averla “liberata” potrebbe non essere sufficiente.»

Nonostante tutto, non ebbe cuore di far presente l’ovvio, ovvero che una colomba finta difficilmente sarebbe stata in grado di spiccare il volo in autonomia. Almeno, non senza l’intervento di un miracolo.

«Magari, potrei darle un piccolo aiuto.» propose, già pronto a schioccare le dita. Esaudire i capricci forse non rientrava del tutto nei suoi doveri di custodia, ma, in fondo, non ci trovava nulla di male.

L’intento venne tuttavia bloccato sul nascere, da un perentorio diniego.

«Niente magia.» dichiarò lei, scuotendo la testa, «Deve solo volerlo

Aziraphale si irrigidì. La mano che aveva sollevato tremò appena, e tornò in basso, a stringere una piega dell’abito.  

Volere qualcosa non basta per ottenerla.

Fu questo il primo pensiero che lo attraversò, mentre la gola gli si stringeva di amarezza. E, insieme, il penoso ricordo di un paio di lenti scure, inforcate su un naso adunco. Un muro di vetro freddo, innalzato per l’ultima volta, a nascondere uno sguardo che forse non avrebbe più rivisto; ad allontanare una presenza che non lo avrebbe più accompagnato, e un legame che non avrebbe più condiviso. E poi la mente vagò su Soho, sulla libreria, e su tutto quello che gli mancava di quei giorni, e che avrebbe così tanto rivoluto indietro.

Volere qualcosa non basta, si ripeté.

Ma non disse nulla, ricacciando come sempre indietro quei pensieri; vergognandosi di quei desideri, e di quella negatività che non era da lui. Un atteggiamento così poco da angelo, e ancor meno da Arcangelo; che per definizione dovrebbe essere saldo, positivo. Da cui ci si aspetterebbe fede incrollabile e fiducia. Che dovrebbe essere una guida.

Eppure, non si era mai sentito così perso da quando era salito su quell’ascensore. E la sua fiducia vacillava sempre più spesso, rimpiazzata da un vuoto che si allargava un po’ ogni giorno. Accanto a lui, la ragazza sospirò, rivolgendogli un’espressione grave, quasi triste.

«Credevo fosse pronta, ma non è così. Vero, Aziraphale?», sussurrò, «Non ancora.»

E Aziraphale si chiese se stessero ancora parlando della stessa cosa, mentre quegli occhi lo fissavano in un giudizio severo, che fece fatica a sostenere. Come due voragini spalancate sulle profondità della terra, che scrutavano oltre ombre e pensieri. E gli sembrò di essere spogliato di tutto; nudo e inerme, come al principio. Un’essenza esposta al vento, con tutte le sue mancanze.

Ma fu solo la sensazione di un momento, un brivido lungo la schiena, che se ne andò proprio com’era venuto, placandosi insieme a quello sguardo castano già tornato limpido e svagato.

«Ti va di raccogliere dei fiori?» cinguettò allora la ragazza. E, come se niente fosse stato, si allontanò di nuovo nel prato, abbassandosi con qualche difficoltà per cogliere un paio di margherite.

Aziraphale era rimasto fermo, con le mani strette alla stoffa e la schiena rigida; stordito da un assurdo connubio di spavento e conforto, che gli aveva asciugato la lingua e reso molli le ginocchia. Incapace di spiegarsi ciò che era appena accaduto.

Si mosse, come un sonnambulo, solo per aiutarla a rialzarsi, e vedersi consegnare un disordinato mazzolino di tarassaco, dai petali giallo acceso.

«Vieni.» lo invitò, per la seconda volta in quella mattinata; e lui si lasciò condurre, seguendola fino all’angolo del chiostro dove il muro pericolante era sorretto dalle impalcature. Dietro un piccolo cespuglio di ortica, su un lettino di fiori un po’ appassiti, c’era una bambola di pezza; una di quelle fatte a mano, con i capelli lana intrecciata. Sugli occhi di bottoni, due azzurri fiorellini di veronica.

Eleonora si inginocchiò per posare il mazzolino di margherite lì accanto, e lo esortò a fare lo stesso con il suo.

«Cosa…» provò Aziraphale, ma la domanda gli terminò in gola quando si rese conto di non sapere, in tutta onestà, cosa chiedere. Si abbassò, titubante; non del tutto sicuro di voler assecondare anche questa nuova fantasia, nel bilancio di una mattinata che già stava prendendo una piega più bizzarra del solito. Ma lasciò comunque a terra i fiori.

Lei aggiustò il giaciglio che accoglieva la bambola, togliendo qualche petalo appassito, e spostando una chiocciola che stava banchettando con una foglia.

«L'ha punta un'ape, sai? Un’ape viola.» disse, con il solito tono monocorde, indicando la bambola, «E ora è morta.»

«Oh, mi… dispiace tanto.» si corrucciò Aziraphale. Malgrado l’assurdità della situazione, un velo di tristezza lo aveva colto a quelle parole; e anche una punta di timore. «È qualcosa che hai sognato?» chiese.

Si rivolse alla ragazza, che accennò prima un piccolo diniego a testa bassa, per poi annuire, in silenzio; gli occhi sempre fissi in contemplazione di quel capezzale fiorito. E una brutta sensazione lo colse; il dubbio che questa volta non fosse un semplice gioco. Che lei stesse cercando di comunicare qualcosa; una disgrazia già avvenuta o imminente, che forse poteva essere evitata. Se solo fosse riuscito a capire.

«Qualcuno è in pericolo, cara?»

Non ottenne risposta. Solo il sommesso mugolio di una canzone canticchiata, dal motivo familiare. E Aziraphale sospirò di frustrazione, mentre la ragazza prendeva da terra una margherita, iniziando a toglierne i petali uno a uno; apparentemente già dimentica della conversazione in corso.

«Eleonora, tesoro, se è successo qualcosa è importante che tu me lo dica.» la incalzò, cercando di mantenere un tono saldo e pacato, il più possibile rassicurante; che fu però subito tradito da un improvviso moto di consapevolezza. Erano in un prato, dopotutto.

Prese quindi a scrutare con ansietà – e forse scioccamente – le piccole api che si spostavano placide tra i fiori, pronto a scovare una qualche minaccia. Ma nessuna di esse sembrava esulare dal canonico motivo a righe gialle e nere, né pareva interessarsi alla loro presenza. Si limitavano a spostarsi da una corolla all’altra, pesanti di polline. Aziraphale saggiò l’aria, e non percepì che gli odori freschi e pungenti della primavera; niente che tradisse la presenza di demoni nelle vicinanze.

Forse non era davvero altro che una sciocchezza, un eccesso di preoccupazione, ma non riuscì comunque a sentirsi tranquillo. Le sfiorò la spalla, nel tentativo di riottenere la sua attenzione.

«È qualcuno che conosci? Del monastero, o del paese?»

E la ragazza si bloccò. Smise di canticchiare e alzò la testa, premendo di nuovo lo sguardo su di lui. Cupo e severo; insostenibile, come quello che gli aveva rivolto accanto al pozzo, poco prima, e che sembrava quasi non appartenerle.

«Io conosco tutti.» disse. E gli lasciò fra le mani i resti della margherita, con solo due petali rimasti ai fianchi opposti del capolino. «Fai tante domande, Aziraphale, ma non chiedi mai ciò che vorresti sapere davvero.»

«Cosa? Io n-non…» balbettò lui, sopraffatto dalla confusione. Allentò il collarino della talare, rendendosi conto d’improvviso quanto lo sentisse stretto, con il bordo rigido che segnava la pelle.

In effetti, non lo sopportava. Come non tollerava più quell’oppressione che gli strisciava addosso da mesi e il freddo che si insinuava nelle crepe delle sue convinzioni; e quella mancanza che sentiva sempre e che, piano, lo consumava. E, nella foschia dei propri pensieri, si sentì perso.

«I-io… vorrei sapere cosa fare.» sussurrò.

La ragazza sembrò raddolcirsi. Scosse la testa e sorrise, poggiando le mani sulle sue. «Non sono io a dovertelo dire, non credi? Sei un angelo, dopotutto.»

E Aziraphale si chiese, in quel caos che lo trascinava, se quelle parole fossero o meno un rimprovero.

«Ho sbagliato… sono sbagliato, vero? Cadrò, come è successo agli altri.» farfugliò, con gli occhi che pizzicavano di lacrime.

«A volte cadere è solo un altro modo per salire.»

Aziraphale la guardò senza capire. Senza sapere perché avesse dato voce a quell’incertezza, né perché si sentisse tanto esposto e disorientato. Nulla aveva più senso, nemmeno il prato o la terra sotto i suoi piedi. E, per un attimo, gli sembrò di essere sospeso. Poi il cortile tornò a ridefinire i propri contorni. Il tepore della primavera accarezzava le guance e i fiori dondolavano placidi. Solo profumi accesi e ronzii delicati; un piccolo giardino in cui la natura si stiracchiava sotto il sole.

Eleonora lo scrutava ancora, ma con aria diversa, vagamente interrogativa; come se fosse confusa quanto lui. Considerò con una punta di delusione le sue mani vuote, poi si volse appena e colse un’altra margherita, ricominciando a canticchiare, mentre ne staccava un petalo dopo l’altro.

«… Everyday, it’s a gettin’ closer… »

 

 

 

 

***

 

_______________________________

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Salve, salve.

Ebbene, la lentezza nello scrivere mi contraddistingue sempre. Complici speciali le feste, la salute che non collabora e un capitolo che da breve siparietto (quale doveva essere) è degenerato in una roba di troppe pagine. Ma tant'è.

Inoltre Aziraphale è abbastanza estenuante da caratterizzare, molto più contorto e rigido di Crowley, e che perciò mi richiede sempre un'attenzione speciale nel costruire ogni riga e renderne coerente l'evoluzione. Altrettanto si può dire del personaggio di Eleonora, che è un po' l'elemento imprevedibile e sovrannaturale. Lascio a voi le conclusioni e le opinioni, comunque.

In ogni caso, spero di non aver deluso e di non avervi reso troppo confusi, ma invece un po' curiosi, del delirio che si prospetta. Mi piacciono i simbolismi, perciò sappiate che nemmeno i fiori sono messi a caso.

Il prossimo capitolo è già in stesura, ma è forse il più lungo che ho mai tirato fuori, perciò ci sarà da attendere. Per il resto vi ringrazio dei bei commenti e dei feedback che mi scaldano sempre il cuoricino, o semplicemente di essere passati a leggere. Alla prossima! ✨

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Parte IX - Aprile ***


DISCLAIMER: Tematiche delicate.

_______________________________

 

 

Parte IX

 

 

 

- Aprile -

 

 

«Sai... sai che ti dico?»

Ed agitava l’indice in avanti, le palpebre strette nello sforzo di mettere insieme un pensiero coerente; la stabilità un po’ precaria sulle gambe nude. Un calzino a righe mezzo infilato al piede e l’altro ancora stretto in mano, che pendeva giù verso la moquette.

«Ti dico che ti amo. Ecco, , prop… proprio così.» e annuì, convinto, concordando con le sue stesse parole come se qualcun altro gliele avesse appena suggerite. I capelli scarmigliati e la camicia che gli cadeva storta addosso, tuttavia, non contribuivano a fornirgli la credibilità necessaria. Non che lui, comunque, ne sembrasse in qualche modo consapevole.

«Io ti amo.», continuò, «Cazzo, se ti amo, Betty. E un giorno di cues… di quesct…» ponderò un momento, alla ricerca della collaborazione della propria lingua, mentre provava a infilare anche il secondo calzino. Un tentativo temerario, considerando che nemmeno da sobrio Beth lo aveva mai visto riuscire a fare due cose insieme. E infatti, gli bastarono pochi istanti in bilico su un solo piede per perdere l’equilibrio e finire addosso alla cassettiera, rovesciando l’abat-jour che vi era appoggiata sopra. Imprecò, biascicando, mentre la rimetteva al suo posto, ma ne lasciò comunque il paralume storto.

«Stavo dish… dicendo:» si ricompose, o almeno tentò di farlo, continuando a utilizzare il ripiano della cassettiera come sostegno, ma fingendo di non averne alcun bisogno, «un giorno… un giorno di questi, io mando tuuutto a fanculo. Sissignore. Lascio quella merda di lavoro, e non… non torno più a casa.»

Beth sbuffò, seduta sul bordo del letto, mentre riallacciava la chiusura del reggiseno. Esausta spettatrice di quel siparietto deprimente, che ancora una volta si ripeteva puntuale.

«Lascia stare, Ed. Sei ubriaco.»

Una smorfia contrariata, forse anche un po’ delusa, si fece strada sulla faccia di Ed. «E che importa? Guarda che sono serio.» biascicò, gesticolando a vuoto con il calzino che gli era rimasto appeso in mano.

Sempre la stessa storia, pensò Beth; in bilico sul filo sottile della stanchezza. Quel filo che, in quel momento, tracciava il confine fra ciò che restava della sua capacità di essere comprensiva e l’impulso di buttarlo fuori dalla porta in mutande.

Lo osservò di traverso, malgrado fosse consapevole che l’indulgenza alla fine avrebbe avuto la meglio, come del resto sempre succedeva.

Edward Corby, tutto sommato, non era nemmeno tra i clienti peggiori che le erano capitati. Trentasette anni, un principio di stempiatura, due figli in un matrimonio senza dialogo e uno squallido lavoro d’ufficio giù a Southwark di cui potersi lamentare. Un tipo normale, mediamente tranquillo, ma infelice; sempre preoccupato, non molto sveglio, e con anche alcune difficoltà di partenza, a cui Beth cercava di ovviare con il giusto tatto.

Di base, era uno di quelli che magari avrebbe avuto bisogno di andarsene in psicoterapia, da uno psicologo vero, per poter risistemare la sua vita e i suoi casini, ma che non considerava adeguato dover pagare qualcuno per sfogare le proprie emozioni. O almeno, non se la parcella non comprendeva anche qualche altro tipo di servizio.

E Beth in fin dei conti riusciva anche a capirlo, perché era ovvio che la prospettiva di un po’ di immediata dopamina e di qualche tempo senza troppi pensieri, apparisse più allettante del dover affrontare i problemi.

Per non parlare del risolverli.

Per questo cercava di fare del suo meglio, aggiungendo al bisogno quel che poteva, che fosse del compatimento spicciolo, o un tentativo di conforto. Benché questo le mettesse spesso addosso una certa malinconia, oltre al peso di una responsabilità per cui di certo non aveva le competenze giuste.

Quello che però faticava davvero a sopportare, erano le volte in cui anche l’alcol faceva parte dell’equazione. Fornendo quel tipo di situazione sfiancante che nessuno, a suo avviso, meriterebbe di dover gestire, soprattutto alle quattro e mezzo del mattino e dopo una giornata piena.

Infilò stancamente la vestaglia e incrociò le braccia, offrendogli uno sguardo spazientito. «Ed, lo sai che Mrs. Sandwich non vuole che veniate ubriachi qui. Ti ho fatto entrare solo perché sei tu, ma non può diventare un'abitudine. Te l’ho già detto l’ultima volta.»

Lui scosse la testa, scacciando via con la mano il suo rimprovero, come se fosse una mosca fastidiosa. «Naaah, ma che dici. E comunque era solo… solo qualche birra, dai. Sono ancora pervfhettamente lucido. Vedi?» dichiarò, allargando le braccia, ed esibendo i lembi della camicia tenuti insieme da un solo bottone, allacciato all’asola sbagliata. Poi indietreggiò, incespicando in una delle proprie scarpe, che era rimasta abbandonata sul pavimento.

Beth sbuffò ancora, maledicendo quella nottata che non voleva saperne di terminare, e gli si avvicinò, raccogliendo ogni rimasuglio della sua pazienza. Gli slacciò prima quell’unico bottone storto e poi iniziò ad infilare gli altri, uno per uno, nelle giuste asole, mentre lui strascicava qualche debole protesta, cercando di mantenersi più o meno dritto in piedi.

«Perché non… non ce ne andiamo via, eh? Io e te.», riprese ad un certo punto, calandole un po’ la spallina della vestaglia e accennando una carezza maldestra al di sotto; un sorrisetto ebete sul viso. «Mollo tutto e andiamo via, che dici? Come in quei film vecchi, in bianco e nero.»

«Torna da tua moglie, Ed.» rispose laconica, scansandosi da quelle attenzioni e passando ad aggiustargli anche i bordi del colletto, giusto per rendergli un minimo di decenza. Lui non replicò, limitandosi a rivolgerle uno sguardo sconsolato, diluito nello stordimento dell’alcol, ma non per questo meno penoso. L’ennesimo che Beth si trovava a dover sostenere quella notte, e che sperava fosse anche l’ultimo della giornata. Sospirò fra i denti, con l’amarezza che si faceva strada sulla lingua.

L'unica cosa che aveva davvero imparato facendo quel lavoro, era quanto le persone fossero realmente infelici. E quanto a loro volta causassero altra infelicità a chi gli stava intorno. Una gigantesca trappola di generale malcontento, nella quale quasi tutti giravano in tondo come topi; alcuni troppo agitati per fermarsi un momento a riflettere, o per cercare di capire come uscirne, e altri che invece facevano finta di niente, che si limitavano per lo più a lamentarsi, accettando passivi il proprio destino.

E Edward era di sicuro uno di questi ultimi, che di lì a qualche ora si sarebbe pentito della sbornia, facendo colazione con caffè e pillole per il mal di testa; e che poi sarebbe andato pigramente a lavoro, come sempre, dimentico delle sciocchezze dette qualche ora prima nella penombra di quelle quattro mura.

Dal canto suo, Beth si sentiva più che altro stanca, e l'unica prospettiva che aveva albergato nella sua mente nelle ultime ore era quella di una doccia calda e di un letto, dove poter solo dormire in santa pace quel poco che poteva, prima di doversi alzare di nuovo. E per far sì che questo avvenisse, Ed doveva levare le tende il prima possibile.

Perciò gli raccattò i pantaloni, che lui infilò in modo un po’ goffo, gli rincalzò la camicia all’interno, gli strinse la cintura e lo aiutò persino con i lacci delle scarpe, dato che sembrava aver perso le basi della normale coordinazione occhio-mano. Poi gli appese la cravatta al collo, e gli consegnò giacca e tutto il resto in un grumo indistinto, senza troppe cerimonie, direttamente sulla soglia della stanza. Nel mentre, lui l’aveva guardata in silenzio, come un bambino che fino all’ultimo spera di avere il permesso per non andare a scuola.

«Tu comunque pensaci, eh.» disse infine, quando Beth lo spinse gentilmente fuori dalla porta.

«Si, si, certo.», assecondò, «Attento ai gradini quando scendi. E, Ed,» lo fermò, facendolo voltare, e frugò nella tasca della sua giacca, «queste le tengo io.» disse, agitandogli davanti il mazzo di chiavi dell’auto. «Te le restituisco la prossima volta, va bene? Per ora prendi la metro.» Ci mancava soltanto che avesse un incidente. Giusto un altro per cui non si sarebbe mai perdonata.

Lui annuì con espressione spenta, senza obiettare, e forse senza nemmeno aver ben capito; poi accennò un saluto e si allontanò verso il piano di sotto, ciondolando per le scale. Beth aspettò di sentire lo scatto del portoncino d’ingresso che si chiudeva, poi si lasciò andare contro lo stipite della porta. Sbadigliò e stiracchiò il collo, prima di provare a tirare fuori l’ultimo barlume di buona volontà necessaria per raccogliere i resti della giornata e muoversi di nuovo.

Anche oggi è andata, pensò, con un certo sollievo. Anche se, in effetti, non le sarebbe dispiaciuta una di quelle pillole per il mal di testa.

Il corridoio era silenzioso e vuoto; quasi inquietante, con quell’orribile carta da parati a fiori bordeaux e la luce un po’ smorta delle lampade; malgrado qualcun altro forse l’avrebbe definita soffusa.

L’unico sottofondo ancora udibile era il russare sommesso di Mrs. Sandwich che, come al solito, doveva essersi addormentata sulla poltrona al piano di sotto. E poi un leggerissimo brusio, come di chiacchiere ovattate, che proveniva dal bagno, in fondo all’altro capo del corridoio. Beth si fece forza, e avanzò scalza sulla moquette per raggiungerne la porta, dando giusto un paio di bussate distratte prima di entrare.

L’interno era più affollato di quanto si aspettasse, considerando che ormai doveva essere quasi l’alba. Erano Penny e Violet a parlottare distrattamente, sedute in un angolo, ancora mezze svestite. E le offrirono appena un cenno fiacco, quando la videro comparire sulla porta, mentre dall’altro lato, Nim era intenta a pettinarsi davanti al grande specchio ovale.

Il pavimento le si incollava umido sotto i piedi nudi, come se fosse stato lavato da poco, e l’aria era così colma di profumo, che si faceva fatica a respirare. Un mix infelice di quelle fragranze dolciastre che Beth detestava, e che si arrampicavano impietose su per le narici, tanto forti da far girare la testa. Una su tutte, quella più speziata di Nim, che tuttavia non riusciva a non trovare anche confortevole, in qualche modo.

Le si avvicinò, accostandosi ai lavandini, e l’altra la occhieggiò con rimprovero dal proprio riflesso. «Sei di nuovo l’ultima.» la apostrofò, mentre il lungo drappo nero dei capelli le scorreva fra le dita, e sotto ogni colpo della spazzola.

«Lo so.» borbottò Beth in fiacca risposta, cercando di distogliersi da quel movimento ipnotico, e dal principio di una conversazione che era decisamente troppo esausta per poter sostenere.

Sfilò la vestaglia e la lasciò appallottolata su un portasciugamani, con un gesto sciatto. Anche senza guardare, poteva immaginare le sopracciglia folte di Nim sollevarsi critiche dietro di sé; anzi, se possibile, era certa di poterne percepire quasi il rumore.

Quello che sentì davvero, però, fu un breve sbuffo rassegnato.

«Bene.», iniziò lei, «Sai già come la penso, e immagino che non vuoi sentirtelo ripetere. Spero solo che questa volta tu ti sia fatta pagare per bene da quell’idiota di Ed, per tutto questo tempo extra che gli dedichi. Ti ricordo, dato che tendi a dimenticartelo, che qui offri un servizio, non sei Madre Teresa

Ci fu una pausa scomoda, e per un momento si guardarono in tralice attraverso lo specchio; entrambe consapevoli che quella speranza era già stata disattesa.

Poi Nim sollevò alto un sopracciglio, nascondendo in parte la predica dietro una delle sue migliori espressioni beffarde. «A meno che tu non stia puntando alla santità. Perché, nel caso, hai decisamente scelto il lavoro sbagliato.» aggiunse, e le diede un piccolo colpetto affettuoso con la spalla, quel tanto che bastò perché si sbilanciassero entrambe, barcollando appena all’interno della cornice dello specchio. Cosa che strappò a Beth un vago mezzo sorriso.

«Solo un’altra fra le tante scelte sbagliate, allora.» disse.

Quella replica, tuttavia, suonò forse più sincera e amareggiata di quanto non volesse, perché l’altra scosse la testa, per poi stringerla in un tentativo sbilenco di abbraccio, con la spazzola ancora in mano.

«Ed ha di nuovo tirato fuori le sue stronzate da ubriaco, vero?» storse il naso sarcastica, senza aspettare una risposta a quella che per lei, evidentemente, doveva essere una domanda retorica, «Diventi sempre di cattivo umore quando succede.», le sfregò un paio di carezze sulla spalla, in un accenno maldestro di consolazione, poi sciolse quel contatto, con la medesima leggerezza con cui lo aveva iniziato, e tornò a occuparsi dei propri capelli.

Beth rimase ad osservarla, con il residuo di un brivido sulla pelle, mentre Nim tirava su una lunga coda d’inchiostro, aiutandosi con qualche forcina tenuta fra le labbra scure.

Che diamine.

Doveva essere per la stanchezza, o magari quel profumo troppo forte, o quel cavolo di mal di testa che aveva iniziato ad aumentare, ma per un attimo, Beth si chiese come sarebbe stato avvicinarsi a quelle labbra, e baciare qualcuno che le piaceva davvero, per una volta.

Solo per una volta.

Forse sarebbe stato strano, ma anche familiare; magari soddisfacente. E, di sicuro, sarebbe stato un disastro. Quel tipo di stronzata che rovina ogni cosa e da cui non si torna indietro. Che azzera il punteggio di una vita intera, lasciandosi dietro solo il rimpianto di aver ignorato il buonsenso.

Perché lei e Nirmala si conoscevano da tanto; da troppo. Perché erano state vicine di casa, compagne di scuola, poi amiche, sorelle, coinquiline, e persino colleghe, in quel lavoro fatto di compromessi. Perché erano state ogni cosa, eppure non erano mai state niente di più. E forse era così che doveva rimanere, in un equilibrio sottile che non andava disturbato.

Anche se c’erano ancora delle volte in cui questo a Beth pesava. Delle piccole, idiote parentesi come quella, in cui la frustrazione si faceva sentire risalendo dal fondo dello stomaco, nonostante la ragione la ricacciasse sempre di nuovo giù, dove i pensieri sconsiderati erano lasciati a sedimentare, abbandonati insieme ai sentimenti.

Eppure né il tempo, né l’abitudine, o la rassegnazione erano riusciti a cambiare quello che si trovava lì in fondo. E forse nulla ci sarebbe mai riuscito davvero.

«Comunque, ti informo che la doccia è di nuovo intasata.» riprese Nim, ora agganciando due vistosi orecchini di perline colorate ai lobi, «Perché “qualcuno” qui lascia sempre andare i propri riccioli d’oro nello scarico.», alzò appena un po’ la voce per farsi sentire dalle altre due, accennando con la testa verso la chioma bionda di Penny, la quale borbottò una protesta scocciata dall’altro angolo del bagno. Nim la ignorò, per buona misura, limitandosi a piegare appena il labbro con sdegno e continuando il suo discorso come se nulla fosse.

«Si è allagato tutto, di nuovo, e abbiamo passato più di mezz’ora ad asciugare. Per fortuna siamo riuscite ad arginare l’acqua prima che arrivasse al corridoio, e Mrs. Sandwich non se n’è accorta.», arricciò l’espressione in una curva furfante, la stessa che sfoderava sempre da bambina e che non era mai cambiata, nonostante gli anni.

Certe cose, del resto, non cambiano.

«Ma in compenso siamo ancora qua.», continuò, seccata, poi sbuffò. «Domani chiamerò il signor Miles per farla sistemare, ma per ora ti conviene evitare di-» e si bloccò, aggrottando la fronte, le mani ancora impegnate con un gancio di uno degli orecchini. «Tutto a posto?»

Beth si scosse, distogliendo lo sguardo altrove. «Si, io… niente doccia, capito.» balbettò.

Lo specchio le restituì il proprio riflesso mezzo nudo, stordito e decorato di occhiaie. Doveva essere sembrata molto stupida, e forse anche un po’ inquietante, mentre la fissava imbambolata a quel modo. Prese un asciugamano pulito dal mobile e lo appoggiò sul ripiano, cercando di dissimulare il disagio.

«Non importa. Vuol dire che la farò a casa.» disse, un po’ robotica, aprendo il rubinetto e affondando le mani nell’acqua gelida, «Però almeno un po’ mi rinfresco, per riacquisire un aspetto più umano.»

Nim incurvò le labbra, dubbiosa, e la squadrò, appoggiandosi all’altro lavandino. «Per quello ti servirebbe dormire, cara mia. Una pratica per te sconosciuta.», stava ancora mantenendo il tono scherzoso, ma la sua espressione era diventata d’un tratto severa. E esitò, masticando un pensiero tra i denti per qualche minuto, prima di parlare di nuovo.

«Beth… so che non vuoi mai starmi a sentire ma, sarò sincera, hai davvero una faccia terribile.»

«Già. Beh, sei sempre così incoraggiante.» brontolò, nel fallimentare tentativo di mantenere vivo un sarcasmo già morto.

«Sai cosa voglio dire.», adesso era del tutto seria, «Sono preoccupata. Si vede che sei esausta, e poi non ti accorgi di quanto sei distratta?»

«Ho solo un po’ di mal di testa.» protestò Beth, fiaccamente. Già sapeva dove voleva andare a parare quel tipo di discorso, e sapeva anche quanto fosse ragionevole. Per questo detestava doverlo affrontare, soprattutto nei momenti in cui era difficile riuscire negare l’evidenza. E questo Nim lo sapeva bene.

«Non parlo solo di ora, Beth. Sei sempre strana. E devo ricordarti che l’altro giorno hai quasi messo Fester in lavatrice?»

Beth sbuffò. «Non è colpa mia se si mette a poltrire nella cesta dei panni. E riesce anche a mimetizzarsi bene.»

Nim non replicò, sollevò invece un muto cipiglio d’accusa, fin troppo eloquente e sufficientemente irritante, che suonò più chiaro di qualunque frase potesse essere pronunciata ad alta voce.

«Comunque me ne sono accorta in tempo.» concluse Beth, aspra. Prese una manciata d’acqua e ci affondò il viso, sperando che bastasse per sfuggire un po’ a quello sguardo pungente che le premeva addosso, e a schiarire i pensieri.

Calò un breve silenzio teso, poi anche Nim sbuffò, e Beth sentì le perline dei suoi orecchini tintinnare di nuovo.

«Viene Matt a prendermi oggi. Torniamo a casa con lui.» la sentì dire, infine.

Matt. Il suo nuovo ragazzo. In tutta onestà, non riusciva a ricordare se fosse lui il rapper o se lo era quello di prima. O forse quello prima ancora, con le palpebre sempre a mezz’asta e i capelli rasati a forma di fulmine sulla nuca. In ogni caso, non aveva molta importanza, tanto al massimo fra due settimane il “Matt” attuale sarebbe stato di nuovo rimpiazzato. A Nim non piaceva fissarsi troppo con qualcuno, si stufava facilmente, e Beth ormai aveva perso il conto dei tizi ed ex clienti con cui si frequentava.

Afferrò di nuovo l’asciugamano, mentre annuiva un assenso poco convinto. Non era entusiasta di assistere alle loro effusioni dal sedile posteriore e di sorbirsi quindici minuti di probabile musica orribile. Ma accorciare la strada che la separava da casa e dal calore di una doccia vera, era comunque abbastanza allettante.

Penny e Violet, ora vestite, dovevano aver annusato la tensione che aleggiava nella stanza, perché accennarono un saluto sbrigativo e sgattaiolarono fuori dalla porta. Nim le salutò distrattamente, senza spostarsi, né smettendo di guardare lei di traverso; le braccia incrociate sul petto, e il fondoschiena foderato dai leggings premuto contro il bordo del lavandino. E Beth comprese che il rimprovero non era affatto terminato.

«Immagino di non essere più in tempo per fuggire come hanno fatto loro, giusto?», chiese ironica.

Nim prese un respiro più profondo, come per invocare il supporto della pazienza. «Beth, sul serio. Stai esagerando.», la ammonì, «Te l’ho già detto, non so nemmeno più quante volte: se qui fai così tardi, ti devi anche riposare. E invece spesso a malapena torni a casa. Che vuoi fare, andare fuori di testa? O magari ammazzarti prima del tempo?»

Beth abbassò lo sguardo, trovando d’improvviso interessante il pavimento, pur di non incrociare il biasimo nei suoi occhi. Non le piaceva vederla preoccuparsi, ma era tutto così strano nell’ultimo periodo.

Lei si sentiva strana.

Insofferente, come se un orologio invisibile martellasse nella sua testa di continuo, ripetendole di sbrigarsi, di dover fare qualcosa; malgrado non sapesse di preciso che cosa. Era solo certa che il tempo sprecato sarebbe andato perso per sempre e, spesso, aveva come la sensazione che scivolasse via fin troppo in fretta, senza che riuscisse a farci niente di buono.

Stupido a pensarci adesso, in realtà. Un’ossessione banale, eppure sempre presente, costante e dolorosa, che pungeva ad ogni scatto di lancetta.

Forse aveva solo bisogno di fare qualcosa di diverso; di uscire dalla routine che le si era costruita intorno, suo malgrado. O semplicemente, non aveva più tanta voglia di stare a casa quando c’era il “Matt” di turno a scodinzolare in giro, facendo anche finta che le andasse bene. O stava cadendo lentamente in qualche contorto baratro di esaurimento nervoso.

Doveva essere così che si sentivano i topi agitati; quelli che continuavano a sbattere contro le pareti del labirinto, senza riflettere, in cerca di un’uscita che con tutta probabilità neanche c’era. E magari stava diventando proprio uno di loro.  Ma adesso era troppo stanca anche per pensarci.

Strinse appena le palpebre, all’infierire di una nuova fitta alla tempia, e non confessò niente di tutte quelle cose, preferendo una ben più semplice e comoda minimizzazione.

«È vero, hai ragione.», disse, «Ho del sonno arretrato. Troppo, forse. Ma non c’è bisogno che ti preoccupi. Sto bene.», calcò con particolare attenzione quella bugia. Una di quelle ripetute così spesso, che ormai iniziava persino a crederci. «Devo solo resistere un altro mesetto, fino agli esami. Tutto qui.» e alzò le spalle.

«Come no.», sbottò Nim, «Così poi alla fine mi toccherà raccoglierti con un cucchiaino.»

Ci fu l’ennesima pausa, pesante di parole non dette e ansie trattenute. E Beth fu certa di sentire un sottile fondo di rabbia scricchiolare sotto i loro piedi. Poi Nim parlò di nuovo, sforzandosi di mostrarsi più calma.

«Ascolta… io sono davvero molto contenta che tu abbia ripreso a studiare, e tutto il resto, Beth, credimi. Ma non puoi continuare in questo modo.» si staccò dal lavandino, avvicinandosi, e le riportò dietro l’orecchio un ciuffo sfuggito, «Guardati. Possibile che fai la crocerossina con tutti, e poi non riesci ad avere un po’ di pietà per te stessa?»

Beth si scansò, contrariata; l’asciugamano umido ancora stretto in mano. «Io non faccio la “crocerossina”

«No? E allora dimmi cos’è che fai», e iniziò a contare alzando le dita, «con Ed, che viene sempre a piagnucolare coccole come un gatto randagio; o Joseph, quello triste perché ha divorziato sei mesi fa, o quell’altro, il damerino, che era stato appena licenziato. O anche il ragazzo nuovo del ristorante italiano, in fondo alla strada, quello che ti ha chiesto di fargli superare la “timidezza”. Com’è che si chiamava?»

«Fred.» mormorò Beth, a mezza bocca.

«Già, Fred. E questo senza contare quel tizio cupo con cui te ne stai sempre al Caffè.» concluse, incrociando di nuovo le braccia.

«Che c’entra, lui era… sempre solo.», protestò Beth, presa alla sprovvista da quella chiamata in causa, «Gli faccio compagnia quando capita, e andiamo d’accordo. E poi mi aiuta a studiare.»

Nim strinse le labbra in una perfetta manifestazione di compatimento. «Certo, ti aiuta a fare i compiti, prendete caffè e biscotti, fate le passeggiate al parco… magari ti insegna anche ad andare in bici senza rotelle.» e alzò gli occhi, esasperata, «Beth, lui non è tuo padre, okay? So che lo vorresti, ma se ti dà retta è solo perché probabilmente gli fa comodo.»

Beth non rispose. Si morse il labbro, cercando di mandare giù il peso di quelle parole, ma la gola si era stretta di mortificazione.

Si guardarono. Nirmala non era certo il tipo che si faceva problemi a dire le cose come stavano; dava sempre libero sfogo ai suoi pensieri, anche quando non risultava piacevole. Tuttavia, raramente questo superava il confine invisibile della cattiveria. E, forse, questa volta si rese conto di aver esagerato, di aver superato quel limite, perché emise un sospiro pesante e le sfiorò il braccio, in cerca di un contatto riparatore.

«Beth, quello che sto cercando di dire è che ti lasci sempre coinvolgere troppo. Le altre persone non sono una tua responsabilità, e i clienti devono rimanere clienti. Ti devono pagare e poi devono andarsene, quando finisce il tempo prestabilito. Magari alcuni ti fanno credere di aver bisogno di te, che puoi essere d’aiuto e tutte queste stronzate, ma non è vero. Finisci solo per sprecare un sacco di energie e farti sfruttare.»

«Quindi, perché vada bene dovrei portarmeli a casa come fai tu?», replicò Beth, scansandosi di nuovo dal tocco della sua mano, gli occhi ormai stretti in due fessure, «Illuderli e sfruttare io loro, finché non mi annoio?»

L’aveva fatto; aveva risposto a una cattiveria con un’altra cattiveria. E se ne pentì appena un momento dopo, quando vide Nim fare un passo indietro, tornando ad appoggiarsi al bordo del lavandino.

Si fronteggiarono in silenzio per dei secondi che parvero dilatarsi, ma lo spazio fra loro non sembrava acceso di risentimento, quanto più di un certo dispiacere.

«Sei veramente una stronza.» disse infine Nim, accompagnando quelle parole con un minuscolo sorriso rassegnato, e forse anche un po’ deluso. Poi corrugò il mento, sotto la piega del labbro. «E io che mi preoccupo pure per te.»

«Lo so.», anche Beth tirò un accenno di sorriso, grata di quel vago ritorno all’ironia. Anche se sapeva che era solo una toppa per arginare la falla in corso; una delle tante, nell’ultimo periodo. «Mi dispiace.» aggiunse poi.

«Anche a me.» convenne Nim, e si passò i palmi sulle cosce, sospirando. Lo sguardo perso per qualche istante in un punto indefinito davanti a sé.

«Bene.», disse poi, «Ora che sappiamo di essere entrambe sull’orlo di una crisi, facciamo così: domani ce ne stiamo a casa. Ci svegliamo tardi, poi ordiniamo una pizza e ci guardiamo un film. Che ne dici?»

A Beth sfuggì un verso amaro. Certo. Loro due, Fester e Matt. Tutti insieme sul divano, magari, come nella più squallida delle sitcom. Davvero un ottimo piano.

«Ci penso, va bene? È che domani ho le prime esercitazioni per i test…» non era la verità, ma questa volta non si sentiva proprio in vena di fare il terzo incomodo. Si allontanò, andando a recuperare i jeans e la maglietta appesi all’attaccapanni, evitando di guardarla. E, alle sue spalle, gli orecchini di perline tintinnarono di nuovo.

«Okay, fa come ti pare. Ci rinuncio. Mi dichiaro ufficialmente sconfitta dalla tua testa dura.»

Beth la vide infilare la giacca e prendere la sua borsa dal pavimento. «Vestiti, dai. Ti aspetto di sotto.» disse piatta, avvicinandosi all’uscita; poi appoggiò la mano sul pomello, ma non lo girò. Invece si voltò di nuovo, con l’apprensione ancora stampata sul volto, «Ti prego, cerca solo di… prenderti più cura di te, okay?» e uscì, richiudendosi la porta alle spalle.

 

***

 

Quando Beth arrivò in fondo alle scale, Mrs. Sandwich si era svegliata e bofonchiava una lamentela sulle correnti d’aria, mentre raggiungeva la porta d’ingresso rimasta aperta. Si rese conto di lei solo quando furono entrambe vicino alla soglia.

«Oh, mancavi ancora tu, cara.» esclamò, con l’espressione assonnata, i boccoli un po’ ammaccati e uno sbaffo di trucco sullo zigomo; le dita paffute e smaltate già agganciate alla maniglia.  

«A domani, Mrs. Sandwich.» si congedò in fretta Beth, infilandosi nello spiraglio della porta, e lasciando la donna ad accennare un saluto sbadigliato e qualche raccomandazione confusa, prima che la richiudesse.

Fuori era ancora quasi del tutto buio e tremendamente umido, come solo Londra alle cinque del mattino sapeva essere; qualche velo stracciato di nebbia a offuscare qua e là gli angoli fra i palazzi e sfumare i contorni delle luci dei lampioni. Dall’altro lato della strada, sotto la vetrata della libreria, Nim sedeva sul cofano di una Mini blu metallico, con una non proprio sobria Union Jack stampata sul tettuccio.

Aveva una sigaretta accesa in una mano e l’altra affondata nella felpa di quello che doveva essere Matt. Un tipo alto, in tuta sportiva e ricci scuri, che sporgevano dal bordo del cappuccio. Sembrava belloccio, benché da quella angolazione e con la poca luce, non si riuscissero a distinguere al meglio i lineamenti. Le loro teste erano vicine e Nim aveva un sorrisetto malizioso tirato sulla guancia; poi aspirò una boccata dalla sigaretta e si sporse di più, soffiando un filo di fumo sulle labbra di lui, sfiorandole con le sue.

Beth spostò lo sguardo altrove. Si strinse nel tepore del maglione e deglutì malcontento, muovendosi a passi svelti verso di loro, con la testa ancora appesantita. E non aveva percorso neanche metà della distanza, quando si fermò. L’attenzione catturata da qualcosa, l’ombra di una sagoma, e poi come un lampeggiare di fari, nel bordo della sua visuale. Ma la piccola via era deserta e non c’era nessun’altra auto, a parte la Mini parcheggiata poco più avanti.

Rimase ferma nel mezzo della strada, mentre un malessere improvviso le aggrediva lo stomaco; una sensazione sgradevole, come di déjà-vu e di… paura.

Un brivido, che scivolava gelido lungo la schiena, e un sapore strano, ferroso, che si faceva strada sulla lingua. E la testa pulsava, al ritmo di un battito divenuto agitato. Prese un respiro più profondo, che tuttavia non le bastò per convincersi a percorrere quel paio di metri che le mancavano, maledicendo la stanchezza, o qualunque altra cavolo di cosa le stesse succedendo.

Appena Nim la notò, scansò il ragazzo con un altro piccolo sorriso e scivolò giù dal cofano, atterrando morbida sulle scarpe da ginnastica. Prese un’ultima boccata dalla sigaretta, prima di gettarne a terra il mozzicone, e aprì la portiera, senza però salire all’interno.

«Che fai, non vieni?» disse.

Beth non si mosse. I piedi incollati all’asfalto come se ci stessero sprofondando dentro, mentre nel petto il panico scemava, lasciando spazio a uno strano intorpidimento. Una malinconia viscosa e sonnolenta, che strisciava fra gli anfratti umidi di nebbia della strada, e si arrampicava addosso, restando appiccicata.

Un pizzicore le risalì su per la radice del naso, e la luce del lampione si fece d’un tratto più sfocata, quando si rese conto che c’erano delle lacrime che scendevano lungo la sua guancia. Le trascinò via e osservò il bagnato rimastole sulle dita rimandare piccoli riflessi nella penombra, senza capire.

Si sentì chiamare di nuovo, ma la voce di Nim le arrivò ovattata, lontana come un eco. Quando le rivolse di nuovo lo sguardo, la vide che aspettava, poco più in là; una mano appoggiata al bordo del tettuccio e un’espressione interrogativa sul viso che iniziava a tradire una piega spazientita. E, per qualche motivo, l’idea di dover salire su quell’auto le sembrò d’improvviso più sgradevole di prima.

L’altra, stufa di quell’attesa, richiuse malamente lo sportello e si avvicinò con una manciata di passi concitati. «Mi dici qual è il problema?» sbuffò, con gli orecchini e la coda che oscillavano, agitati dal movimento.

Beth, di nuovo, non rispose; l’attenzione che frugava ancora nelle ombre, sostando negli spazi di un respiro irregolare. La verità era che non lo sapeva. C’era qualcosa, qualcosa di sbagliato, o almeno c’era stato; ma più ci rifletteva e meno le sembrava che avesse senso. Forse una specie di strano attacco di panico, un’allucinazione, o magari era così stanca da iniziare ad avere gli incubi ad occhi aperti. Frugò nel proprio smarrimento, alla ricerca di una risposta da dare, e una rinnovata fitta alla tempia le fece sfuggire una smorfia.

«Beth, sicura di stare bene?»

«Si, io… è solo…», farfugliò, tirando appena su col naso e spostando lo sguardo intorno, nel tentativo di non far notare gli occhi umidi. Deglutì. «Credo di avere bisogno di prendere un po’ d’aria.», riuscì infine a dire, «Voi… voi intanto andate a casa.»

Nim la guardò incredula, un sentiero di confusione tracciato sulla fronte, fra le linee nere delle sopracciglia. «Stai scherzando? È quasi l’alba e c’è un’umidità da fare schifo.», aspettò per qualche momento una spiegazione che non arrivò, poi tirò un sospiro corto ed esasperato.

«Ascolta, se è per prima…» iniziò, ma non fece in tempo a terminare la frase, perché, dietro di lei, la testa ricciuta di Matt sbucò dal finestrino della Mini, grugnendo un’imprecazione e sbattendo il palmo contro la carrozzeria metallizzata. «Quindi, vi spicciate? Non sono mica un dannato tassista.»

Nim si voltò prima verso di lui, poi tornò a guardarla, a disagio, tenendo il resto di ciò che voleva dire sospeso nella linea silenziosa delle labbra. Beth provò a tirare sul viso un’espressione neutra, che non tradisse l’urgenza che aveva di allontanarsi, né la rinnovata amarezza che le stava stringendo la gola. Anche se forse, in fondo, una parte di lei avrebbe voluto poterle parlare di quello strano malessere, e degli incubi che faceva, delle angosce, delle ombre nella coda dell’occhio; di tutte le cose strane che le stavano succedendo nell’ultimo periodo, e anche di tutte quelle che non era mai riuscita a dirle. Ma non era il momento giusto.

«Vai, non farlo aspettare.» disse solo, accennando con la testa verso l’auto e il suo proprietario.

Nim non sembrò troppo convinta, ma doveva essere impaziente di tornarsene a casa, e forse anche sufficientemente stufa, da non riuscire ad opporsi con più energia, o da chiedere ulteriori spiegazioni. Si guardò intorno, come per ponderare, poi si limitò a chiedere un «Sei sicura?», preceduto da un impercettibile sbuffo dal naso.

Beth annuì. «Ci vediamo a casa.»

Le offrì un ultimo sguardo che voleva essere di saluto, allontanandosi su gambe rigide, e aveva già svoltato l’angolo che immetteva in Whickber Street, quando sentì la portiera dell’auto chiudersi e il brontolio dell’accensione del motore. Superò il Dirty Donkey Pub senza vederlo, la testa ancora un po’ annebbiata e le mani strette alla cinghia della tracolla. Si infilò nel vicolo appena dietro, accasciandosi con la schiena contro il muro, a palpebre chiuse.

Inspirò ed espirò, cercando di placare i residui sgradevoli di malessere, che continuavano ad agitarglisi nel fondo dello stomaco. E le ritornò in mente quello che le aveva detto Nim.

Che vuoi fare, andare fuori di testa?

Forse, era già troppo tardi per evitarlo, considerando come stavano andando le cose. Che diamine pensava di fare, comunque? Non sapeva nemmeno se tutta quella fatica sarebbe davvero servita a qualcosa. E, con tutta probabilità, quei cavolo di esami non li avrebbe neanche passati. Sarebbe rimasta incastrata a seguire sempre la stessa routine per chissà quanto tempo ancora. Ferma, nella sua angusta casella, fino a che qualcun altro non avesse tirato il dado per lei; troppo incapace o inadeguata per poter avanzare da sola.

E, senza che potesse farci niente, pianse, sul confine di quella nottata interminabile. Ma questa volta erano lacrime volontarie, che sapevano di frustrazione; e quasi trovò pateticamente ironico il momento, rendendosi conto di essere circondata da bidoni della raccolta differenziata.

«Diavolo, e io che pensavo di aver avuto una brutta giornata.» strascicò all’improvviso una voce familiare, incastrandosi fra i suoi pensieri.

Più in là, nella penombra del vicolo, un’inconfondibile figura sottile se ne stava sbracata su un gradino, nell’andito di un portone; nero su nero. Le lenti rotonde degli occhiali che riflettevano la poca luce presente, proprio come il vetro della bottiglia mezza vuota che teneva fra le dita.

Dopotutto, i bidoni della spazzatura non erano gli unici ad aver assistito a quel crollo di nervi.

Beth tirò su col naso, trascinando via le lacrime dalle guance con il bordo della manica, nel goffo tentativo di ricomporsi. «Mr. Crowley?» domandò, con la voce un po’ arrochita, malgrado lo avesse già riconosciuto. «Oggi non è venuto al Caffè. Credevo fosse rimasto a casa.»

Lui emise una risatina soffocata. «A casaqui… dall’altra parte del mondo… in fondo che differenza fa?», schioccò la lingua sul palato, «Tanto se il fottuto cielo decide di cadere, lo fa ovunque nello stessso momento, no

Beth notò che sibilava molto più del solito, e convenne a quella frase, annuendo appena fra i residui delle lacrime. Trovava assurdo come quella nottata perseverasse nel farla interagire con degli ubriachi. E il tutto cominciava ad assomigliare quasi a una commedia; una di quelle davvero squallide, che più che far ridere fanno pena.

«Tu piuttosto…» riprese Mr. Crowley, indicandola con il collo della bottiglia, ma perse il resto della frase per strada, prima di riuscire a pronunciarla. Ponderò per un po’, prese un sorso svogliato e si sollevò dal cantuccio d’ombra in cui era rintanato, rimettendosi in piedi, anche se non senza una certa difficoltà. Poi si avvicinò, sbandando sulle gambe, fino a che non  trovò un soddisfacente appoggio sul coperchio di un bidone grigio, da cui sporgeva l’angolo gonfio di un sacco di plastica.

«Comunque…», riprese, «c'ero prima io qui a comphcompg… insomma, a lagnarmi.» incurvò le labbra, fra le rughe sarcastiche di una smorfia che sapeva fin troppo di alcol, e di sufficiente amarezza. La puntò di nuovo, roteando in aria l’indice che sporgeva oltre la bottiglia; le sopracciglia appuntite tanto sollevate sopra il bordo delle lenti che sembravano tenute su da due mollette. «E ho una certa precedenza di anzianità su di te, ragazzina, perciò…» e si fermò un istante, in cerca delle parole giuste da mettere in fila, «perciò… vedi di sssmettere, okay? Non… non mi è mai piaciuto vedere i bambini che piangono.»

Beth si accigliò. «Bambini?», si guardò stupidamente intorno per qualche secondo, un po’ spaesata, prima di riuscire a realizzare, «Ma io ho più di vent’anni.»

«Fa lo stesso. Vent’anni… non sono niente.» sbuffò lui, imbronciandosi.

«Non mi sembra che lei sia poi così tanto più vecchio, Mr. Crowley.» protestò, ma in realtà quell’improbabile siparietto generazionale la stava divertendo.

«Ti stupiresti.» rispose. Poi, apparentemente dal nulla e con un piccolo gesto fluido, tirò fuori un lembo di stoffa scuro e lucido, «Tieni.» disse, porgendoglielo.

Beth si ritrovò, con una certa sorpresa, davanti a quello che a tutti gli effetti sembrava un fazzoletto di seta. E, quando lo prese, in un angolo sentì persino sotto le dita il rilievo di un ricamo contorto. «Mi rimangio quello che ho detto. Questo è decisamente qualcosa di antiquato.»

«Può darsi.», convenne, «Ma quelli di carta sono… schifezze da girone infernale.» biascicò lui, scansando quelle parole con un gesto e fissando con disgusto un punto indefinito del terreno. Si infilò una mano fra i capelli, tirando indietro ciuffi rossi sfuggiti da una piega ormai scompigliata, e prese un altro sorso di alcol. Poi le rivolse di nuovo i cerchi scuri delle lenti, le labbra piegate come se avesse appena ricordato qualcosa.

«Lo… lo sapevi che non la vendono più questa roba al giorno d’oggi?» disse, sollevando appena la bottiglia per mostrargliela.

Beth lo guardò perplessa, smettendo di soffiarsi il naso. «Non vendono più l’alcol?»

«Si… cioè, no.», farfugliò, «Quello… quello certo che lo vendono. Ma che domande fai?» esibì una smorfia contrariata, poi scosse la testa, riacciuffando il discorso, «Quello che volevo dire è… che è assurdo come cambiano i tempi. Fino a qualche decennio fa lo potevi trovare ovunque. Ovunque davvero, come… come se niente fosse.», sbuffò, «Persino… persino ai bambini lo davano a volte. Anche se ho sempre pensato che quello fosse un po’ eccessivo, in effetti.» bofonchiò, tirando verso l’alto le spalle come le sopracciglia, e bevve di nuovo.

Beth non era più troppo sicura di riuscire a seguire quella conversazione. Ma, a questo punto, le venne il sospetto di non trovarsi davanti a una semplice sbronza. «Cosa ha preso, Mr. Crowley?» chiese, trascinando via anche le ultime tracce di pianto con il fazzoletto.

Lui continuò a borbottare lamentele, come una caffettiera lasciata per troppo sul fuoco, senza sembrare di aver udito la domanda. «Siete veramente inm… mpossibili a volte. Si fa fatica a ssstarvi dietro.», storse il naso e fissò la bottiglia, con cipiglio dubbioso, «Ho dovuto arrangiarmi da solo, ma credo di aver sbagliato qualcosa. Lo ricordavo un po’… diverso l’ultima volta.»

Beth sbirciò l’etichetta verdognola, ora illuminata un po’ meglio dalla poca luce. Ma riuscì a leggere solo parte della scritta più grande, “Landam-” o “Laudom-”, che spiccava, in un corsivo svolazzante e abbastanza incomprensibile, nello spazio fra la presa delle dita sottili di lui. Il liquido rimasto all’interno era ambrato e limpido. Sembrava una di quelle marche eccentriche di scotch whisky da collezione, da trecento o più sterline a bottiglia, che di solito si vedevano in mostra sulle mensole dietro i banconi dei pub. Niente di troppo insolito.

«Comunque…», riprese Mr. Crowley, afflosciandosi ancora di più contro il bidone, «Non… non mi hai ancora detto perché, insomma… te ne stavi qui

Beth scorse la cinghia della tracolla fra le dita, ripensando al groviglio confuso che ancora adesso abitava la sua testa: alle discussioni, alla stanchezza, alla frustrazione e a quella specie di panico di prima, o qualunque cosa fosse.

«In realtà non lo so. È complicato.», mormorò, afflitta, non sapendo dire niente di meglio, «E lei, perché se ne stava qui?»

«È… complicato.» esalò lui, con l’ennesima smorfia ubriaca, velata di sconforto. E Beth si sentì dispiaciuta per aver chiesto, mentre oltre il vicolo, negli spazi fra i palazzi, il chiarore dell’alba iniziava ad imporsi più seriamente nel cielo.

«Credo sia arrivato il momento di tornare a casa, Mr. Crowley.» disse, scansandosi dalla parete e infilandosi il fazzoletto umido in tasca, «Dov’è che abita? La accompagno.»

Lui rise, rauco, come se avesse appena sentito un’ottima battuta. «Tu che vuoi accompagnare me? Quesssta sì che è bella.»

Ridacchiando, barcollò pericolosamente oltre i bidoni e poi fuori dal vicolo, verso Whickber Street, con una camminata molto più precaria del suo solito. E Beth si affrettò a seguirlo, un po’ indispettita, ma comunque temendo di vederlo rovinare al suolo da un momento all’altro.

«Non mi sembra di essere io quella che non si regge in piedi.»

«Naaah. Sto benisssimo.», sibilò lui, «Un po’ troppo, in effetti… questa roba deve essere proprio fasulla.» occhieggiò ancora la bottiglia con delusione, poi la lanciò noncurante dietro di sé, centrando con stupefacente precisione l’apertura di uno dei bidoni, e il rumore del vetro in frantumi ruppe per un instante la calma umidiccia della strada.

Beth si fermò, incredula, mentre Mr. Crowley continuava ad avanzare sbilenco verso il Caffè, accanto al quale, come al solito, era parcheggiata la sagoma nera della sua Bentley.

Oh, no no no.

Lo raggiunse quasi correndo, affiancandosi al suo andamento irregolare. «Non avrà mica intenzione di guidare?»

Lui arricciò una smorfia interrogativa, senza smettere di andare avanti. «Certo che oggi fai davvero un sacco di domande stupide.» disse, risistemando gli occhiali sulla curva del naso, «Guido da… beh, quasi un sssecolo, per Satana! Non vedo perché non dovrei ora.»

«Forse perché è sbronzo?» precisò Beth.

Mr. Crowley sogghignò di nuovo, mostrando un beffardo canino appuntito. «Se è per quesssto, non credo di aver mai neanche preso la patente

Beth non trovò divertente la battuta. Ormai erano arrivati alla Bentley e, senza nemmeno rifletterci, si frappose fra lui e la portiera. «Non la farò salire su quest’auto.», gli rivolse uno sguardo duro, incollando la schiena al vetro freddo del finestrino, «Perciò, a meno che non voglia rimanere qui finché Nina non riaprirà il Caffè, le consiglio di pensare ad un’alternativa.»

Si fece barriera invalicabile, irremovibile come un muro, mentre nella sua testa riaffiorava l’immagine di un’altra figura scarmigliata, ma più robusta, con la barba incolta e gli occhi gonfi, che si infilava scomposta in una vecchia Ford Fiesta bianca, con uno specchietto storto e il paraurti rattoppato da troppi giri di nastro. Poi, l’attesa di una serata estiva, interminabile e solitaria, e gli alti pantaloni scuri di un agente, sulla soglia della porta, che le chiedeva con voce mortificata se in casa ci fosse la mamma, o qualcun altro con cui parlare, mentre lei piano faceva cenno di “no” con la testa.

Non avrebbe più permesso che una cosa del genere accadesse di nuovo a qualcuno che conosceva. Non se poteva fare qualcosa per impedirlo. E nell’agitazione di quel momento, delle frasi le ronzarono pungenti nelle orecchie.

Ti coinvolgi troppo.

Lui non è tuo padre.

Mr. Crowley, intanto, la guardava interdetto da dietro le lenti; le sopracciglia che sbucavano da sopra gli occhiali e la bocca stretta in una fessura sghemba, come se fosse indeciso se essere infastidito o divertito dal ricevere quel tipo di insistente premura.

«Senti, ragazzina, non serve tutta questa… app…prensione, okay? Non con uno come me, almeno.», schioccò la lingua sul palato e si sporse, allungandosi con disinvoltura verso lo sportello.

Beth bloccò la maniglia con la mano, che ora tremava di rabbia. «Mi ha detto una cosa simile anche lui. Mio padre. Prima di uscire e di non tornare più, se non dentro una cazzo di bara.» sbottò, la voce più acuta di quanto non volesse, mentre teneva ben salda la maniglia metallica nella presa, «Quindi non mi venga a dire su cosa dovrei o non dovrei essere apprensiva.»

Lui si zittì, ciondolando appena sul posto. Sembrò rimuginare per qualche istante, serio, con le rughe che si erano fatte più evidenti sulla fronte e intorno alle guance scavate; poi piegò da un lato la testa e infilò le mani nelle tasche fin troppo strette dei pantaloni.

«Bene,», mormorò, rivolgendosi in alto, verso il cielo che lentamente stava virando alle sfumature più chiare dell’indaco, «in fondo, era da un po’ che non facevo una passeggiata all’alba.»

 

***

 

Non senza brontolare, alla fine Mr. Crowley aveva accettato che lei lo accompagnasse. Beth aveva il sospetto che avesse ceduto solo per farla stare più tranquilla, ma di certo non sarebbe riuscita a farglielo ammettere ad alta voce. Non aveva mai conosciuto nessuno così gentile e al contempo così tanto restio a riconoscere di esserlo.

Durante il tragitto, all’inizio erano rimasti in silenzio. Lei lo osservava, camminando un paio di passi indietro e assicurandosi che la sua andatura oscillante non lo portasse troppo fuori dai binari del marciapiede. Sembrava più curvo adesso, e forse anche più vecchio, come se il peso di pensieri silenziosi gli gravasse sulle spalle. Di tanto in tanto, guardava in alto, dove la luce iniziava a tingere le cime delle facciate dei palazzi di un leggero rosa, poi piegava il labbro in una smorfia sdegnata e si distoglieva, facendo grattare un sospiro ruvido sul palato.

I lampioni si erano già spenti, e il camion bianco con la striscia blu per la raccolta dei rifiuti passò lento e pigro di fronte a loro, quando uscirono dalle vie di Soho per infilarsi nella ben più larga Regent Street. Le strade iniziavano ad animarsi di qualche sporadica automobile e dei primi rumori, eppure c’era una curiosa immobilità; quella che caratterizzava sempre il momento che precedeva il sorgere del sole, come se il tempo trattenesse il respiro, nell’attesa di poter cominciare una nuova giornata.

Avevano da poco superato le vetrine spente di Hamleys, quando Mr. Crowley parlò di nuovo.

«L’ultima volta che ho camminato qui all’alba, era stata appena evitata quella fottuta fine del mondo.» biascicò, più fra sé che non a lei, e scosse la testa, facendo ondeggiare un ciuffo rosso acceso, «Pensssavo… ho pensato che poi le cose sarebbero andate meglio.», lo vide infilare una mano nella tasca della giacca e soffiare un altro sibilo fra i denti stretti, «Che idiota…»

Beth non sapeva a cosa si stesse riferendo, anche se, di certo, non doveva essere nulla di positivo. Avrebbe voluto sapere di più su quello che lo amareggiava tanto, che lo portava a bere fino a ridursi a quel modo, ad essere sempre così aspro e avvilito, o a rimanere sospeso nella sua attesa silenziosa, seduto ogni giorno al solito tavolino nel Caffè. Immobile, come se per lui il sole fosse bloccato da troppo tempo al di sotto dell’orizzonte, senza sorgere mai. E si chiese se fosse veramente sempre stato così apatico, o se magari in passato avesse anche lui fatto parte dei topi agitati. Tuttavia tenne per sé le domande e non chiese nulla, limitandosi a continuare a mettere un piede dopo l’altro lungo il marciapiede.

«Devi essere parecchio incazzata con lui.», lo sentì riprendere dopo un po’, «Con tuo… padre

Beth si morse il labbro. «In realtà lo sono di più con mia madre. Se lui beveva era perché lei se n’era andata via, lasciandoci da soli.»

Di solito non amava parlare dell’incidente, e forse prima aveva esagerato dicendo quelle cose, ma si era fatta coinvolgere troppo, come sempre. Proprio come le aveva detto Nim. E ora non sapeva nemmeno perché stesse continuando il discorso, anche se, in qualche modo, era sicura che Mr. Crowley potesse capire. Che sapesse cosa voleva dire l’essere abbandonati.

Lo guardò rivolgere i cerchi scuri delle lenti ancora verso l’alto, più a lungo di quanto non avesse fatto le altre volte. Le mani nelle tasche e un’espressione distante che non gli aveva mai visto. «Le madri sanno essere crudeli a volte.» sussurrò, rauco.

Beth alzò le spalle, la cinghia della tracolla stretta contro il petto. «Comunque, meglio così che dover stare con qualcuno che non ti vuole con sé.»

Lui non rispose. Soffocò un verso amaro e continuò ad andare in avanti, strascicando un po’ i piedi. Più sottile e tirato di prima, contratto nei contorni scuri dei suoi abiti. E non parlarono più, finché non arrivarono a destinazione.

Mr. Crowley abitava in una di quelle vie residenziali chic di Mayfair, con i lampioni di design e auto costose posteggiate accanto ai marciapiedi. Il palazzo era un grosso parallelepipedo a vetrate riflettenti, con il portone enorme, piante decorative verdissime in vasi di cemento disposte lungo il perimetro, e tutta l’aria di avere dei costi condominiali decisamente proibitivi. Un contesto che Beth trovò coerente, per quanto un po’ troppo freddo e geometrico per i suoi gusti.

Quando arrivarono, la città aveva già iniziato a rumoreggiare ad un ritmo più deciso, anche se ancora un po’ intorpidito rispetto al  pieno regime della mattina, e il sole stava ormai per sorgere.

Mr. Crowley lasciò andare un piccolo verso stanco. «Sano e salvo.» gracchiò, indicandosi il petto e ritirando fuori il tono caustico di sempre, «Contenta? Ora va a casa.», portò indietro i capelli, come per cercare di schiarirsi i pensieri, poi schioccò le dita e indicò un punto oltre la via da cui erano venuti, «Là, oltre l’isolato… c’è una fermata dell’autobus. Ne troverai uno che fa al caso tuo.»

Beth annuì, sentendo la stanchezza risalire tutta insieme, come se si fosse d’improvviso allentata la tensione che l’aveva tenuta in piedi come un burattino fino a quel momento. Lo guardò. «Si prenda cura di lei, okay?» gli disse solo, offrendogli un piccolo sorriso. Rendendosi conto dopo di aver ricevuto la stessa raccomandazione, giusto poco prima di incontrarlo.

«Già.» borbottò lui, asciutto, «Anche tu, ragazzina.», poi accennò un saluto, alzando svogliatamente una mano, e ciondolò fino al portone a vetri, che si spalancò in automatico al suo passaggio e nello stesso modo si richiuse, placido, alle sue spalle.

Beth lo osservò sparire su per le scale, poi tornò indietro sulla via, andando verso il punto che le era stato indicato. Frugò nella tasca del largo maglione e tirò fuori lo smartphone, di cui aveva praticamente dimenticato l’esistenza; sul display campeggiavano neri i numeri dell’orologio, che segnavano con un certo rimprovero le 6:09, e le notifiche colorate di fin troppi messaggi e chiamate perse, occultate dal silenzioso.

 

Beth, noi siamo arrivati. 5:23

Ho dato io da mangiare a Fester. 5:25

Perciò quando torni non lasciarti impietosire come al solito dal miagolio tragico, il veterinario ha detto che è già troppo sovrappeso. 5:25

Beth? 5:31

Ti prego torna, okay? Non farmi preoccupare. 5:37

Chiamata persa 5:56

Beth, che cazzo! 5:57

Guarda che ti faccio cercare dalla polizia. 5:58

Chiamata persa 6:01

Chiamata persa 6:02

Li sto chiamando. 6:07

Quando torni giuro che ti faccio fuori. 6:08

 

Beth sospirò, affrettandosi a digitare delle scuse, seguite da un “sto tornando”, che sperava riuscisse almeno ad arginare il disturbo inutile di una pattuglia assonnata. Poi il suo piede calpestò qualcosa. Un piccolo foglio accartocciato, sul quale si intravedevano parti di un’immagine. Lo raccolse, distendendo le pieghe con le dita. Era una foto.

Una foto vecchia, tipo Polaroid, in bianco e nero e un po’ ingiallita sui bordi, nella quale spiccava inconfondibile Mr. Crowley, con i suoi occhiali rotondi, completo scuro e fra le mani la canna di un fucile; e al suo fianco un altro uomo, più paffuto, con cilindro, panciotto e guanti da prestigiatore.

Mr. Fell, pensò Beth.

Si voltò di nuovo verso il palazzo a vetri, la cui fredda spigolosità ora era scaldata dal riflesso arancione dell’aurora.  E notò che un’altra Bentley d’epoca, nera e lucida, era parcheggiata proprio di fianco al marciapiede.

Anche se avrebbe potuto giurare che prima non c’era.

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Salve, salve.

La storia in qualche modo è rediviva. Sono lenta e indecisa, perciò abbiate pazienza.

Questo capitolo doveva essere molto più corto, e il suo ruolo era quello di dare un giusto approfondimento a Beth, ma in corso d’opera i personaggi nuovi hanno preso le redini e le cose si sono dilatate; forse un po’ troppo, non so. Spero che non risulti fastidioso a chi preferisce la presenza preponderante dei personaggi canonici, in ogni caso dal prossimo si torna ad un tranquillo (forse) pov  di Aziraphale, anche se non so quanto tempo mi ci vorrà.

Ringrazio il mio amico M. che mi ha aiutato nella revisione (dato che altrimenti da sola sarei impazzita), e ringrazio anche chi ha avuto voglia di arrivare a leggere fino a qua. Qualunque feedback è come sempre benvenuto a chiunque abbia voglia di lasciarlo. E nulla, alla prossima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Parte X - Maggio ***


DISCLAIMER: Tematiche delicate.

_______________________________

 

 

Parte X

 

 

 

- Maggio -

 

 

La testa incorporea del Metatron fluttuava al centro del ripostiglio.

Qualche fascio di luce polverosa, filtrando dal lucernario, intercettava qua e là il suo profilo opalescente con riflessi caldi di sole, che facevano quasi sembrare i suoi lineamenti meno austeri. E persino il taglio della sua bocca tradiva un leggerissimo compiacimento, fra le pieghe anziane della sua autorità.

Manteneva, però, la fronte corrugata in una serietà distante e le sopracciglia rigide, inclinate come due frecce bianche verso la radice del naso.

Aziraphale, invece, sorrideva. Dritto in piedi, nel piccolo spazio che era riuscito a ritagliarsi in quella stanzetta ingombra; con le mani nervose allacciate davanti al petto. Ben attento a non sfiorare per sbaglio i confini del cerchio angelico che aveva tracciato sul pavimento, e ancora un po’ stordito dagli ultimi accadimenti; dalla contemplazione di quel prodigio che, in fin dei conti, era la nascita di una nuova vita.

E anche se, in questo caso, sarebbe stato forse più corretto definirla “ri-nascita”, si trattava comunque di un fenomeno che riusciva tutt’ora ad affascinarlo e che, malgrado i secoli, lo lasciava sempre pervaso da una certa soggezione, ed ebbro di una gioia tiepida, che nemmeno le preoccupazioni che lo accompagnavano erano ancora riuscite a raffreddare.

Secondo la sua esperienza di angelo, in effetti, l’amore di una madre a volte poteva essere ben peggio di un’intera partita di châteauneuf-du-pape invecchiato.

«Oh, dovrebbe proprio vederlo! Così piccolo e già così vivace.» disse, senza riuscire in alcun modo a ridimensionare il proprio sorriso, «Forse è leggermente sottopeso, ma il medico ha assicurato che è del tutto normale per un bambino nato un po’ prima del termine.», schiarì la voce, alla ricerca di un tono meno acuto, «Ad ogni modo, ha degli occhietti belli vispi e due polmoni niente male, considerando la potenza sonora con cui ci ha, beh allietato fino a poco fa.», sollevò le sopracciglia, imbarazzato, preferendo tuttavia omettere di aver contribuito con un piccolo miracolo affinché quel pianto si placasse.

La Grazia non andrebbe sperperata per cose simili, ovviamente, ma non si dice forse che anche il silenzio è sacro?

«Ha anche un’incredibile testolina di capelli.», continuò poi, «E in verità non credevo che un neonato potesse già averne così tanti da subito.», si lasciò sfuggire una minuscola risata, trovando curioso il pensiero, «Credo che ne verrà fuori davvero un bel giovanotto, passati ovviamente quel paio di decenni che-», ma non terminò la frase, perché un sottile sbuffo seccato del Metatron interruppe quella sequela di entusiastiche considerazioni.

«Aziraphale, gradirei che ti concentrassi sui dettagli rilevanti, se non ti dispiace.»

«Oh, si, giusto…» balbettò lui, tentando di recuperare il punto di quel discorso deragliato, e lisciò, con i palmi un po’ sudati, delle pieghe inesistenti sulla veste talare.

«Bene, dunque, siEcco, l’ho esaminato, come mi avevate chiesto di fare, ma sfortunatamente non ho trovato nessun segno particolare su di lui. Nulla di strano o di abbastanza evidente che potesse fornire un indizio quantomeno… ehm… rilevante.» nel residuo di quello stordimento, accompagnò le parole con fin troppi gesti disordinati e, prima di proseguire, dentro di sé sperò che il Metatron non ci badasse.

«Niente di particolare neppure nel suo comportamento, temo. Ha pianto come, beh… ci si aspetterebbe da un neonato. Poi è stato allattato dalla madre, e quando ho lasciato la loro stanza si era da poco addormentato.», schiarì di nuovo la voce, «Per ora direi che è… piuttosto normale. E, non so se sia prevista ma, ancora nessuna cometa all’orizzonte.» tese di più il sorriso, a rinforzo di quel blando tentativo di leggerezza; ma se ne pentì quasi subito, constatando che il suo interlocutore non pareva affatto divertito.

Mortificato, ritirò il sorriso nuovamente dietro le labbra, prese un corto respiro e rigirò un paio di volte intorno alla falange l’anello d’oro sempre presente al suo mignolo. «Non credo che questo dovrebbe scoraggiarci, comunque. In fondo il bimbo è ancora molto piccolo. Potrebbe, diciamo, essere necessario attendere che cresca, prima che si possano capire le sue vere…  potenzialità.»

Malgrado il nervosismo, Aziraphale sentiva il peso che gli gravava sulle spalle un po’ alleggerito, con il sollievo di avere forse ancora del tempo a disposizione davanti a sé. Tempo prezioso, in cui avrebbe potuto occuparsi dei problemi con calma, come piaceva a lui; seguendo da vicino la crescita di quel bambino, istruendolo e influenzandolo giusto quel poco che sarebbe bastato, proprio come avevano tentato di fare anni prima con il piccolo Warlock Dowling. E magari sarebbe riuscito a cambiare le cose, a fare la differenza come si auspicava, prima dell’arrivo di quell’angoscioso Giudizio.

Sempre se, questa volta, si trattasse davvero del bambino giusto.

Di fronte a lui, il Metatron era rimasto in silenzio, soppesando quelle informazioni; la sua espressione lattiginosa si era irrigidita, e il suo sguardo severo scavava nel suo.

«Temo che attendere non sia possibile.», disse, «Dobbiamo essere certi della natura di questo bambino quanto prima. Non possiamo permettere che si ripeta lo stesso errore dell’ultima volta, non sei d’accordo?», la sua voce anziana era gentile come sempre, ma il tono duro e inflessibile; e nei suoi occhi si intravedeva quel luccichio di metallica ammonizione che non ammetteva repliche.

Aziraphale deglutì. «Io… No, no di certo, ovviamente… ma non vedo come si potrebbe-»

«Portalo da me

Un breve silenzio smarrito si allargò nel poco spazio libero del ripostiglio; insinuandosi fra scatole, oggetti ammassati e granelli di polvere, così come nella sua testa ingombra di pensieri. Aziraphale aggrottò la fronte, guardando scioccamente prima verso l’alto, fra le crepe del soffitto, per poi tornare sul volto placido del Metatron che sostava a mezz’aria. «Portarlo su in… Paradiso?» domandò, sperando di aver capito male.

«Oh, non preoccuparti. Se l’infante appartiene ai Cieli, come tu sostieni, si tratterà solo di una breve formalità, la conferma di cui abbiamo bisogno. Dopodiché lo riavrai quanto prima in custodia. L’incarico è ancora tuo.»

Aziraphale scosse piano la testa; il respiro incastrato da qualche parte in gola, insieme a un dubbio.

«Ma se invece non fosse…», si bloccò un istante, «N-nel caso in cui io mi fossi sbagliato, allora lui non potrebbe più tornare… indietro.»

Il Metatron sollevò l’arco appuntito delle sopracciglia, al di sopra di un’espressione evidentemente incurante. «Se ti fossi sbagliato, avremo un problema ben più urgente da affrontare del destino di un solo piccolo essere umano, non credi?»

 Aziraphale non rispose.

«Qui sono in gioco i grandi equilibri, mio caro.» continuò il Metatron, e la mole sospesa della sua testa si piegò appena in avanti, mentre parlava. «Quel bambino sarebbe inoltre ben fortunato a poter ascendere direttamente in Paradiso. È un privilegio di certo non concesso a chiunque.»

Privilegio.

La parola riverberò nella mente di Aziraphale come un’eco vagamente sgradevole, prima che riuscisse a trovare di nuovo la voce per rispondere.

«Ma è… solo un bambino. Un’anima innocente, che priveremmo di tutta la sua vita qui, sulla Terra.» protestò, malgrado forse troppo debolmente. Voltò appena la testa in direzione della porta, le dita strette a tormentarsi fra loro al pensiero di quella ragazza e del suo neonato che riposavano, ignari, a una manciata di corridoi di distanza, mentre altri decidevano per loro di destini e sorti.

Anche dall’interno di quel ripostiglio poteva ancora sentire con chiarezza l’amore che aveva saturato l’aria, e che ancora avvolgeva l’intero edificio come un velo leggero. Amore che proveniva da lei.

Aziraphale strinse le labbra, tornando a guardare il Metatron con più risolutezza. «Priveremmo anche una madre di suo figlio. E da angelo, anzi da Arcangelo Supremo, quale sono attualmente, non posso rischiare di acconsentire a una simile… cosa.» disse, ma la parola che indugiava sulla punta della sua lingua assomigliava più a “crudeltà”.

Gli occhi del Metatron si ridussero a due fessure fra le rughe. «Anche gli innocenti muoiono, Arcangelo Supremo. A volte anche prima del tempo. Dovresti saperlo meglio di me.», la sua testa incorporea incombeva come lo spettro di una minaccia, mentre la voce cortese sembrò tuonare di moniti sotterranei, «Questo, per quanto penoso, fa parte del Piano Divino; e non devo certo ricordarti che per definizione è ineffabile. Ti senti forse in grado di giudicare?»

Aziraphale boccheggiò, pur restando saldo sulle proprie gambe e su quella, se pur titubante, convinzione. «N-non potrei mai, ma-»

«Perciò vorresti barattare il destino di tutti per quello incerto di un singolo bambino? Correresti il rischio che i dannati possano ribaltare le sorti del confronto? E disubbidiresti ufficialmente, rinnegando i tuoi doveri e la tua fede nel Piano Divino, solo per questo, Aziraphale?»

Il Metatron scandì con calma e attenzione ognuna di quelle domande, e attese un istante prima di continuare, per sottolinearne la gravità, insieme alla responsabilità che comportavano. E quando riprese, la sua espressione non celò la delusione.

«Credevo fossi diventato più lungimirante con il tuo nuovo incarico. Ma a quanto pare sei stato troppo tempo sulla Terra. Avrei dovuto prevederlo.», sospirò, «Tuttavia, questa è una guerra e noi siamo soldati, con doveri precisi e ben poco tempo a disposizione, al momento.»

Aziraphale, ancora, non disse nulla. Era rimasto in silenzio, spostando lo sguardo in basso, accigliato nel turbine di timori e incertezze che gli affollavano la mente. E di nuovo sentiva il freddo strisciargli addosso.

«Hai comunque svolto un ottimo lavoro fino ad ora.», proseguì il Metatron, il biasimo malcelato dietro l’indulgenza, «Perciò, se hai delle remore, posso mandare qualcun altro a terminare l’incarico.»

Aziraphale sospirò a labbra serrate; attese un istante, poi tornò a fronteggiare il volto sospeso, accennando con la testa un rassegnato diniego.

«Ho seguito io la ragazza per tutto questo tempo. Lei mi conosce, e io conosco… le circostanze. Preferirei continuare a pensarci io.»

Avere ancora il controllo lo rassicurava.

In fondo c’era ancora tempo, e con esso c’erano anche delle possibilità. Magari sarebbe riuscito trovare un indizio in più, una risposta, o una soluzione alternativa; e anzi, probabilmente non c’era nemmeno nulla di cui preoccuparsi. E poi si era abbastanza affezionato a quella ragazza per permettere che fosse Michael, o qualcuno disinteressato come lui, ad occuparsene. Era suo compito, lo sarebbe stato fino alla fine di quella storia; e tutto si sarebbe sistemato.

«Posso ancora contare su di te, dunque?» disse il Metatron; un piccolo sorriso soddisfatto aperto fra i fili di barba candida. E Aziraphale annuì piano.

«Molto bene. Lascio la questione nelle tue mani, allora. Confido che non verrai meno ai tuoi doveri. A ciò che è giusto.», gli offrì l’ennesima occhiata metallica, indugiando su quell’ultima parola con rinnovato peso; poi, così come era comparso, svanì, trascinato via nella scia di un freddo fascio di luce.

Aziraphale rimase da solo, nel silenzio dello stanzino, a fissare il cerchio angelico tracciato sul pavimento e le sue linee bianche ormai spente.

Si chiese quanti compromessi avesse dovuto accettare il suo predecessore, e se anche per lui fosse stato penoso prendere certe decisioni. In fondo, ora sapeva che persino dietro al rigore di Gabriel e alla sua sprezzante noncuranza c’era qualcos’altro; una scintilla di trasgressione, per quanto rivolta per lo più all’egoismo.

Non erano mai stati simili, del resto, nemmeno in questo. Eppure, forse, l’ombra della fine dopotutto doveva aver spaventato anche uno come lui.

Si mosse verso la porta, e quando allungò la mano per girarne la maniglia, si rese conto che tremava.

Per quanto ne potesse dire il Metatron, Aziraphale non si era mai davvero sentito un soldato. Persino durante la Ribellione aveva cercato di mantenersi in disparte il più possibile, perché non poteva davvero accettare di combattere contro quelli che considerava ancora suoi fratelli.

E dopo, nel corso dei millenni, il suo compito era stato più che altro di vegliare e proteggere, non di andarsene in giro a dar battaglia in armatura scintillante – per quanto occasionalmente, quando era stata in tendenza, ne avesse anche indossata una – e men che meno di nuocere a chicchessia.

Un guardiano, questo era, e aveva dato via la sua spada da tanto tempo ormai, prediligendo di gran lunga brandire un buon libro o una tazza di tè in porcellana. Non era fatto per guerre o grandi piani, per l’austerità che gli si richiedeva; era tenero, forse più del dovuto, e soprattutto amava fin troppo la tranquillità. E, in fondo, non era neanche così diligente e avvezzo all’ubbidienza, come lo rassicurava pensare di essere.

Anche se, nell’ultimo periodo, aveva fatto davvero tutto ciò che era stato necessario, e anche di più, per incastrarsi in quel ruolo di Arcangelo Supremo. Si era impegnato come mai prima e aveva rinunciato a più di quanto avesse voluto. Tutto perché credeva di poter fare la differenza, di poter cambiare le cose. E ora che mancava così poco, magari avrebbe dovuto solo tranquillizzarsi e avere più fiducia nelle proprie capacità di giudizio.

Si trattava di una semplice conferma, dopotutto, perché quel bambino non poteva che essere quello giusto. Doveva esserlo.  E lui, per natura, era un ottimista.

Eppure, da qualche parte, il dubbio cresceva.

Uscì dallo stanzino e attraversò un paio di corridoi deserti misurandoli con passi rigidi, mentre i volti di scialbe icone di santi e martiri lo seguivano con i loro sguardi opachi di tempera, dalle nicchie nelle pareti bianche di intonaco, osservandolo rimestare nei propri pensieri. E Aziraphale pensò per l’ennesima volta che quel posto non gli piaceva. Aveva un non so che di sbagliato, come se qualcosa mancasse. Ma come poteva mancare qualcosa in un luogo sacro?

Assorto in quei pensieri, oltrepassò una delle poche porte antiche ancora presenti nell’edificio, di legno spesso e scricchiolante, per poi sbucare nel porticato del chiostro.

Il giardino, al di là delle arcate, era illuminato dal sole fresco di quella mattina, che non pareva influenzato dalle nuvole grigie che lui portava con sé. Si fermò a osservarlo: una piccola parentesi spontanea di verde che ormai sentiva familiare, dopo tutti quei mesi di visite.

E non poté impedirsi di pensare che a Crowley sarebbe piaciuto.

C’era grande varietà di erbe dai fiori colorati, e una certa tenacia nel loro crescere rigogliose persino tra le fessure più sfavorevoli delle pietre, là dove il lembo di prato terminava a ridosso dei limiti squadrati del cortile e sul bordo dello stretto sentiero centrale. Anche se forse, rifletté, il demone avrebbe di sicuro avuto da ridire sulle imperfezioni di certe foglie e sul poco ordine generale.

Tirò un sospiro amaro, carico di nostalgia, e aveva iniziato a muoversi oltre quando, al di là delle arcate, notò la sagoma scura di un corvo indaffarato, che se ne stava in un angolo vicino al muretto, beccando qualcosa nel prato.

Aziraphale si avvicinò, procedendo cauto lungo il perimetro e, solo quando fu a poca distanza, il corvo si distolse dai propri affari, prestandogli attenzione. Lo fissò, con le biglie umide dei suoi occhietti, nero lucido su quello opaco delle piume. E sotto le sue zampe, altro nero sbucava: un sottile nastro di scaglie, immobile e dalle spire scomposte e lacere, con il capo affusolato riverso all’indietro tra i fili d’erba. Un innocuo biacco, da quel che sembrava, o almeno ciò che ne rimaneva.

Il corvo, per nulla intimorito dalla sua presenza, piegò di lato la testa, strinse la presa, affondando di più gli artigli nella sua preda, e spalancò il becco, gracchiando forte. Un singolo verso rauco, che risuonò negli spazi vuoti del portico strappando per un momento il silenzio, e perdendosi nel ritaglio di cielo sopra il giardino. E poi, senza distogliere lo sguardo fisso di quei suoi occhietti, affondò il becco nella carne del serpentello, strappandone via un brandello da uno squarcio già aperto.

Aziraphale si rabbuiò.

Scacciò via il corvo, forse con più risentimento di quanto richiedesse la situazione, e rimase ad osservare i resti del rettile con un dispiacere inatteso, che andava oltre quello per la sua sfortunata sorte. Sospirò, pensando che magari avrebbe potuto impiegare un piccolo miracolo per rianimarlo. Nessuno se ne sarebbe accorto e, in fondo, non ci sarebbe stato niente di male a interferire in qualcosa di così trascurabile.

Ma non fece in tempo a mettere in pratica alcunché, perché da qualche parte al di là del chiostro si erano d’improvviso alzate delle voci. Molto più forti di quanto fosse consuetudine in un luogo come quello.

Allarmato, abbandonò il portico e si affrettò oltre porte e corridoi, nel labirinto del monastero, mentre le voci crescevano man mano, unite a urla e singhiozzi. Arrivato all’inizio del dormitorio, fu intercettato da suor Adele che si precipitava nella direzione opposta, tanto che quasi si scontrarono.

«Cosa succede, per l’amor del cielo

«Oh, Vicario.», la donna si riassestò la montatura degli occhiali, scivolata più in giù sulla radice del naso, «Forse lei può riuscire a calmarla.» concitata, accennò con la testa verso l’angolo del corridoio che aveva appena superato, «Nel frattempo io riporto qui il medico.» aggiunse e, senza dare altre spiegazioni, lo superò a passi svelti, sparendo oltre l’arco di una porta. Aziraphale non indugiò e svoltò l’angolo, frugando nell’aria tracce di una qualche minaccia demoniaca che però non riuscì a percepire.

Quello che invece trovò, fu un manipolo di suore agitate sulla soglia di una stanza, e in mezzo a loro la ragazza che si dimenava, in lacrime, trattenuta da un paio delle sorelle più corpulente. Biascicava parole sconnesse, fra un singhiozzo e l’altro, con il viso arrossato e i capelli scompigliati che le restavano incollati sulle guance umide.

«Sta’ calma, da brava.» fece una delle suore che la tenevano, «Se continui ad agitarti così, ti si apriranno i punti.»

«Tra poco arriverà il dottore e starai meglio, cara.» disse un’altra, ma non c’era gentilezza nella sua voce, quanto più un certo fastidio.

Suor Margherita, la più anziana, borbottava a bassa voce da un lato, scuotendo appena la testa. Tirata in un’espressione di inequivocabile rimprovero, si accennava qualche sporadico segno della croce con la mano rugosa.

Aziraphale si infilò a fatica in quella confusione, facendosi spazio fra le tonache per raggiungere la ragazza, che era sempre più in preda a una furia disperata.

Prima di quel momento, non l’aveva mai vista abbandonare la sua alienata placidità, e ora sembrava fuori di sé, mentre si agitava e scalciava con tanta foga che le cuciture delle maniche della sua camicia da notte si stavano strappando, lì dove le dita delle due suore stringevano di più il tessuto. E con sconcerto notò che un sottile filo di sangue le scendeva lungo la caviglia, oltre l’orlo bianco del vestito.

«Oh, buon Dio, lasciatela stare!» ordinò Aziraphale, «Non vedete che le state facendo male?»

Le due che tentavano ancora di tenerla ferma lo fissarono contrariate per un istante, ma allentarono la presa e la ragazza si gettò su di lui, aggrappandosi alle pieghe del suo abito come ad un salvagente.

«Aziraphale…», biascicò, «aiutami

Lui la strinse appena, nel tentativo di tranquillizzarla, e le passò una mano sulla testa, portandole indietro alcune ciocche di capelli. Eleonora lo guardò con gli occhi gonfi e le ciglia incollate dalle lacrime, il corpo scosso dal pianto. «Lui… lui non c’è. Non… non vogliono… dirmi dove...»

Aziraphale sbirciò all’interno della piccola stanza, scrutando fra i pochi mobili e suppellettili presenti, e le lenzuola bianche raggrumate in disordine in un angolo del letto vuoto. Poi rivolse uno sguardo indurito al gruppetto di sorelle che li circondavano. «Posso sapere che accidenti sta succedendo? E dov’è il suo bambino?»

Seguì un breve silenzio esitante, mentre il respiro della ragazza pian piano si faceva meno convulso. Poi una suora paffutella e con le palpebre spioventi, che Aziraphale aveva incrociato prima solo un altro paio di volte, fece un passo avanti con un’espressione costernata, tenendosi le mani fra loro.

«Vicario, credevamo che lei lo sapesse. Quel bambino non può certo rimanere qui. Come da disposizioni del Monsignore, poco fa è venuto qualcuno a portarlo via.»

«Portarlo via?», ripeté Aziraphale, «E perché mai? Dove altro dovrebbe stare, se non qui con…», esitò, «…sua madre

Un nodo gli aveva stretto la gola, quando si rese conto di quanto suonasse disonesta quella frase detta proprio da lui. E al contempo, sentì montare dentro di sé una certa indignazione. La suora paffuta esitò,  come se stesse valutando se rispondere o meno; scambiò un paio di sguardi dubbiosi con le altre sorelle, poi schiarì la voce. «Forse questo dovrebbe chiederlo alla Superiora

Aziraphale piegò il labbro. «Oh, ci può scommettere che lo farò.»

In quel momento, dal fondo del corridoio un rumorio di passi anticipò il ritorno della figura minuta di suor Adele e del medico, che la seguiva a poca distanza, sulle sue gambe invece fin troppo lunghe. Quest’ultimo non disse nulla e non si guardò nemmeno troppo intorno, infilò solo l’ago di una siringa in una boccetta dal tappo argentato, e ne aspirò il liquido trasparente; poi le diede un paio di colpetti con l’indice e si avvicinò.

«La tenga ferma, ci vorrà solo un attimo.» disse, sbrigativo.

Aziraphale portò la ragazza dietro di sé, mentre lo sdegno saliva ancora di più dal fondo del suo stomaco, alla vista del luccichio dell’ago che puntava verso di loro.

«Cosa crede di fare lei con quello

«Non si preoccupi, è solo un sedativo. Così dormirà tranquilla per qualche ora.»

«Oh, non credo proprio, mio caro.», Aziraphale fronteggiò l’uomo giusto per un istante, impettito e a labbra serrate, prima di schioccare le dita. «Nessuno di voi farà più un bel niente, fino a che non avrò parlato con la Superiora e non avrò capito cosa sta succedendo qui, intesi?» ordinò, con l’indice ben puntato in avanti, «E voglio che le riportiate subito qui il suo bambino.»

Il medico sbatté le palpebre e mutò il suo sguardo in uno decisamente più inebetito, tenendo la siringa ancora sospesa a mezz’aria fra le dita; poi la riabbassò, annuendo docile, e si allontanò tornando da dove era venuto. Dietro di lui, il manipolo di suore, infagottate nelle tonache nere, seguì placidamente l’esempio, come una fila di brave formiche. Tutte tranne sorella Adele, che invece rimase ferma, in attesa, con gli occhi fissi dietro le lenti spesse degli occhiali.

«Lei prenda un telefono e avverta i genitori della ragazza. Presumo che nessuno lo abbia ancora fatto, o sbaglio?» e a quelle parole, anche lei ubbidì, sparendo oltre l’angolo del corridoio.

Era la prima volta che Aziraphale eseguiva su qualcuno un miracolo di controllo così invasivo, e si stupì quasi di sé stesso, oltre che dell’inaspettata efficacia riscontrata. Quel tipo di cose, in effetti, non sempre funzionavano a dovere; inoltre erano una prerogativa da demone, che non si addicevano affatto al modo di agire che lui considerava consono per un angelo.

In quel momento, tuttavia, si sentiva abbastanza arrabbiato da poter rimandare la controversia a una riflessione successiva.

Lisciò con i palmi il tessuto del suo abito e sistemò il collarino con un impercettibile verso compiaciuto, poi si voltò verso la ragazza, che era rimasta accanto a lui, come stordita.

«Vieni cara, non devi più preoccuparti adesso. Ci penso io.»

La condusse di nuovo in camera, accompagnandola a sedere sul letto, e lei lo guardò in silenzio, mentre si accertava, con un altro piccolo miracolo, che stesse bene.

«Non credevo che avrei trovato modi tanto barbari di questi tempi moderni, e in un monastero poi.» sbuffò, contrariato, riflettendo però sul fatto che, in effetti, non è che avesse poi tutta questa esperienza in merito ai monasteri. A parte, forse, quel fortunato decennio che aveva trascorso fra le biblioteche e gli archivi di Montecassino, alla fine dell’XI secolo.

La ragazza, dal canto suo, continuava a rimanere in silenzio, senza smettere di puntare i buchi neri delle pupille nelle sue. Aziraphale non sapeva dire se fosse preoccupata, ma si affrettò comunque a confortarla. «Mi assicurerò che te lo riportino quanto prima, non temere.»  

Lei però non rispose e non mutò la sua immobilità. Se ne stava lì, fissa su di lui in modo quantomeno innaturale, come se stesse scrutando qualcosa di invisibile; e, malgrado avesse ancora il viso arrossato e i segni umidi delle lacrime sulle guance, quando finalmente parlò la sua voce aveva un tono fermo e distante, che nulla aveva a che fare con quello disperato di poco prima.

«Se non loro, sarai comunque tu a portarmelo via. Non è così, Aziraphale

C’era un’accusa in quel suo sguardo che Aziraphale non riuscì a sostenere. Come se lei sapesse esattamente quello che sarebbe dovuto accadere, quello che gli era stato ordinato di fare. Come se potesse vedere ben oltre il suo travestimento da Vicario, oltre l’umano contorno da paffuto libraio inglese, persino oltre la rigorosa uniforme da Arcangelo che si era costretto a indossare, dietro la quale rimanevano incertezze, paure, e un paio di ali bianche forse un po’ arrugginite.

Rimase in piedi di fronte a lei, sotto il peso schiacciante di quel giudizio, mentre i pensieri gli si affollavano nella testa, rovesciandosi l’uno sull’altro come onde in una tempesta.

«Cos’è che farai?» gli chiese di nuovo la ragazza; calma aliena e impronta d’abisso in quella sua voce da bambina, e le palpebre appena più strette su un’espressione indecifrabile. «Non puoi più rimandare ora. Devi decidere.»

Aziraphale annaspò, fra domande sospese e possibili risposte. Fra convinzioni e dubbi che si incartavano fra loro, sempre in bilico sull’orlo di un confronto che continuava a evitare. Ed esitò, sotto la pressione di quello sguardo, mentre le parole del Metatron gli riaffioravano alla mente.

Confido che non verrai meno ai tuoi doveri. A ciò che è giusto.

Mai come in quel momento gli era mancata la libreria, con i suoi pomeriggi placidi, l’aria accogliente e quel suo apparente disordine, così lontano dai freddi burocratismi, dal caos sgradevole e dalle rigidità; zona quieta fra Paradiso e Inferno, in cui poter brindare al mondo con un buon vino, o magari organizzare un ballo così deliziosamente superfluo, sotto la luce dei cristalli di un lampadario.

Si vergognò di quella nostalgia, di quelle debolezze fin troppo umane, eppure in fondo sentì anche pungere la sicurezza di un piccolo fuoco interno. E quelle parole del Metatron, che continuavano ad agitarglisi nelle mente, acquisirono più chiarezza, delineandosi in nuovi contorni.

Ciò che è giusto, si ripeté.

Se solo non ci fossero stati gli ordini, e le pressioni di una guerra scomoda che minacciava sempre di scoppiare, Aziraphale non avrebbe avuto alcun dubbio su quali fossero i suoi doveri da angelo, e soprattutto su cosa ritenere giusto. Rischiare la vita di un neonato, di sicuro non vi rientrava.

E pensò a Crowley, e a tutte le volte in cui lo aveva visto osare; andare oltre regole e ordini per trovare una soluzione alternativa, per seguire le sue convinzioni, a discapito delle convenzioni e a volte anche delle conseguenze. Ma non c’era lui adesso a spingerlo fuori dagli schemi, a mitigare l’ansia della disubbidienza. Doveva decidere da solo cosa fare.

La ragazza continuava a osservarlo, in attesa, e gli sembrò quasi incuriosita, mentre lui le restituiva uno sguardo ora più deciso, lasciando spazio a una nuova risolutezza.

Schiarì la voce. «Non farò nulla che non ritengo giusto.», affermò, «E perciò nessuno porterà più via il tuo bambino, te lo prometto. Anche se dovessi far valere le mie ragioni davanti a tutto il concilio e… a Lei in persona.», deglutì, ma restò saldo, stringendo le dita chiuse contro i palmi, «Sono un guardiano dopotutto.»

Un piccolo sorriso si allargò sulle labbra della ragazza. «Lo sei.» disse, e si sporse dal bordo del letto, prendendo una mano fra le sue, e lasciandogli qualcosa fra le dita: un oggettino irregolare. «Chissà, forse è pronta a volare adesso.»

Aziraphale aprì la mano e guardò, dove la miniatura di plastica della piccola colomba si inseriva nella conca del suo palmo. Era la stessa di qualche tempo prima, con le ali leggermente cosparse di polvere dorata, e con ancora i fori dei raggi sradicati dell’aureola ben visibili sul dorso.

«Io non… non sono sicuro di capire cosa…», balbettò.

La ragazza sorrise di nuovo. «Non posso aiutarti a capire, devi farlo da solo. Ma ora posso mostrarti la verità, se lo desideri.» piegò leggermente la testa da un lato, catturando un riflesso di luce che si incastrò con precisione nel cerchio della sua iride, mostrandone ogni increspatura, e le sfumature castane che si stratificavano le une sulle altre, come sulla corteccia di un vecchio albero.

Aziraphale annuì, stordito, e la ragazza prese di nuovo la sua mano con delicatezza; poi i contorni della piccola stanza sbiadirono, dilavandosi come inchiostro annacquato, fino a scomparire. Al loro posto, sfuggente e limpido come un sogno, si delineò un ambiente nuovo.

C’era una specchiera dal ripiano ingombro, con una fila di lampadine in alto sulla cornice e la vernice un po’ sbeccata agli angoli. Un grosso gatto grigio con gli occhi cerchiati vi sedeva sopra, fra boccette, scatole e una gran quantità di altre cose ammucchiate che Aziraphale non riuscì per bene a identificare. Poi il mobile si scosse e il gatto saltò giù, spaventato, rovesciando alcuni di quei piccoli oggetti e gettando a terra un libro, che si aprì nella caduta, atterrando scomposto sulle pagine ripiegate.

Sulla copertina, un po’ ingiallita, c’erano le figure incorniciate di quelle che riconobbe come due carte dei tarocchi: a destra il mago, a sinistra l’appeso. Nel bordo in alto, in semplice stampatello nero, il titolo recitava: “Il castello dei destini incrociati”. *

Si avvicinò, cercando di osservare meglio, ma in un attimo il libro svanì, strappato alla sua attenzione. Al suo posto comparve il familiare ingresso della libreria; con la porta laccata che spiccava, lucida nella notte e con un tenue bagliore caldo che filtrava dell’interno, attraverso i riquadri delle vetrate. Poi un’ombra oscurò la luce della luna, e Aziraphale indietreggiò sul marciapiede rivolgendo il naso all’insù, mentre osservava quella nuvola brulicante coprire l’intera volta cielo, e le stelle sostituite da baleni fiammeggianti.

E in un attimo, fu giorno, e nel chiarore grigiastro dell’alba, i resti della libreria in rovina si ergevano nel mezzo della desolazione di una città scomparsa, mentre fiocchi di cenere scendevano placidi dal cielo. Poi, come era già accaduto prima, anche quella vista scomparve, e lui si ritrovò altrove.

Nella penombra, una scaffalatura di metallo, con qualche pianta dalle foglie avvizzite che pendevano rigide oltre il bordo dei vasi. Era un corridoio che conosceva, anche se lo aveva visto una sola volta. Crowley, pensò, agitando lo sguardo speranzoso in sua ricerca, ma di lui non c’era traccia. Poi un buio denso strisciò lungo le pareti e inghiottì anche quel poco chiarore presente, e Aziraphale rimase cieco nell’oscurità.

In quel nulla soffocante, gli sembrò quasi che qualcuno lo chiamasse da molto lontano, come lo strascico di un’eco appena udibile. Ma quando si voltò nella direzione in cui gli sembrava che provenisse, vide emergere dal buio intorno a lui i profili sottili di lampioni spenti e l’asfalto di un’altra strada, e d’improvviso una luce forte lo abbagliò, cancellando forme e contorni per l’ennesima volta. Aziraphale sollevò il braccio per proteggersi gli occhi e, senza avere il tempo di comprendere alcunché, quando lo riabbassò si ritrovò al monastero, in quella stessa stanzetta in cui era iniziato.

Ma non era più come prima. Un sole diverso e rossastro filtrava dalla finestra, e Eleonora sedeva ai piedi del letto, proprio di fronte alla porta, su coperte e lenzuola accuratamente rimboccate. Se ne stava in attesa e con lo sguardo perso in avanti, come la prima volta in cui l’aveva vista.

Poi qualcuno entrò.

Una delle suore e insieme a lei un uomo; un prelato, in talare nera, fascia violacea in vita, e con una fila di dentini stretti e lucidi in mostra sotto il taglio di un labbro sottile, appena ombreggiato da una barba rasata con cura. In mano teneva un coniglio bianco di peluche dalle orecchie cadenti; lo stesso coniglio, si rese conto Aziraphale, che era sempre stato sul ripiano del comò, impolverato e abbandonato. E fu proprio l’uomo sconosciuto a posizionarlo lì, in quello che era sempre stato il suo solito posto, prima di sedersi sul bordo del letto e congedare con un gesto la suora che lo aveva accompagnato.

La porta si richiuse con uno scatto secco e l’uomo si sporse verso la ragazza, scostandole i capelli per scoprirle il collo. Lei si ritrasse, le mani sulle ginocchia, stringendosi un po’ di più nell’angolo al bordo del letto, e gli rivolse uno sguardo smarrito.

«Non temere, cara, sono un Monsignore. Seguo la volontà di Dio.» le sussurrò l’uomo all’orecchio, indicando il crocifisso appeso al muro, «E così farai anche tu, da brava.» poi sollevò l’orlo del suo abito nero e si slacciò la cintura.

E Aziraphale pregò di non assistere oltre.

 

***

 

Ne aveva viste di cose spiacevoli da quando si trovava sulla terra. Troppe, forse.

Guerre, disastri, crudeltà, ingiustizie. Gli esseri umani erano creature particolari e alquanto logoranti da questo punto di vista. Il libero arbitrio li rendeva capaci di macchinazioni contorte ed estremi inimmaginabili, nel bene e nel male, spesso persino concentrati nella medesima persona.

La regola ufficiale era sempre stata quella di non interferire. Di supervisionare, lasciando che gli eventi scorressero come dovevano, e di offrire guida e consiglio a chi li richiedeva; a meno che gli ordini non fossero di contrastare intenti demoniaci già in moto, cosa che con Crowley, nel corso dei secoli, per lui si era fortunatamente ridotta a una mera formalità, per lo più ininfluente nei vasti bilanci del mondo.

Aziraphale poteva quindi affermare di aver quasi sempre rispettato la regola della non interferenza. Ovviamente, non senza le dovute trascurabili eccezioni e con una difficoltà che era andata crescendo con l’avanzare delle epoche, man mano che il suo coinvolgimento verso il genere umano cresceva; ma era comunque riuscito a mantenere un certo adeguato distacco. Cosa che considerava ad oggi un funzionale compromesso.

Ma era diverso questa volta.

Non solo per l’affezione che sentiva ormai di avere nei confronti di quella ragazza, quanto per la responsabilità che lui aveva nella vicenda; per la consapevolezza di aver sbagliato, di non aver visto qualcosa che era sempre stata lì, proprio sotto il suo naso. Di aver fallito nel suo incarico da Arcangelo e in quello di custode, avendo tra l’altro quasi acconsentito a operare l’assassinio di un bambino innocente.

Troppo distratto, troppo preso dalle sue futili nostalgie e malinconie per rendersi conto. Troppo ansioso di riuscire nel proprio compito per prestare davvero attenzione, per cogliere i dettagli e indagare con più cura.

Stupido, sciocco, Aziraphale.

Si era così concentrato sulla fretta di voler rendere le cose migliori, da lasciarsi convincere dalla prima vera stranezza incontrata; non accorgendosi di essersi reso ottuso tanto quanto gli altri angeli che era solito biasimare.

E sperò davvero che non fosse già troppo tardi per sistemare le cose, mentre lo spettro dell’immagine di quel cielo in battaglia e della libreria distrutta lo tormentava, come una promessa ingrata, monito di quel fallimento.

Ma avrebbe trovato il modo di rimediare, in fondo c’era ancora tempo. C’era sempre tempo. E doveva innanzitutto occuparsi di una cosa.

Con collera angelica, i suoi passi ora risuonavano sul pavimento di quel corridoio troppo vuoto, mentre avanzava con ampie falcate e pugni serrati verso l’ufficio della Superiora. E con lo stesso risentimento, la porta si spalancò al suo passaggio senza che nemmeno ne sfiorasse la maniglia.

Non si stupì di trovare un interno grigio, poco illuminato e poco accogliente, proprio come tutto il resto del monastero, e arredato con il solito squallido connubio di mobilio antico e moderno. Vecchie sedie prive di cuscini, una piccola scrivania in formica munita di computer e qualche schedario in metallo addossato alla parete. Sul muro spoglio, qualche icona e un crocifisso un po’ sbeccato che osservava dall’alto. Un ambiente anonimo, e in qualche modo ostile, proprio come l’espressione che la donna dietro la scrivania gli offrì, appena lo vide varcare la soglia.

«Voi…» soffiò Aziraphale, avanzando all’interno della stanza, ma troppe erano le parole che avrebbe voluto dire, e per la maggior parte gli rimasero impicciate nella lingua, «…dovreste vergognarvi.» disse solo, infine, corrugando il labbro, «Vi siete approfittati di una ragazza vulnerabile. E avete persino avuto il coraggio di darle la colpa.»

La Superiora si alzò dalla sedia, piccata; gli occhietti scuri pungenti e un solco profondo tracciato fra le virgole appena accennate delle sopracciglia. «Le assicuro che non so di cosa-»

«Oh no.», la interruppe Aziraphale, «Non ci provi nemmeno. Lei sa perfettamente di cosa sto parlando.»

La donna ammutolì, irrigidendo l’espressione, e un lampo di sorpresa balenò appena nel suo sguardo, barricato dietro il muro di austerità.

«Avete raccontato ai suoi poveri genitori che era scappata di notte, che aveva infranto il suo voto, e chissà quante altre baggianate, presumo.», strinse le palpebre nel più assoluto sdegno, poi puntò il dito verso la porta che aveva appena oltrepassato, «Quelle persone si fidano di voi, vi considerano una guida, un supporto, un esempio da seguire. E ve l’avevano affidata.»

La Superiora lo fissò impassibile, come se nulla di ciò che le stava dicendo la turbasse minimamente. E, mentre sentiva l’avversione salire dal fondo dello stomaco, Aziraphale infine comprese quale fosse il problema di quel luogo, cos’era quel qualcosa che mancava.

Quel monastero era solo un guscio vuoto, dentro non c’era più alcuna Grazia.

«Vicario, lei si sta agitando per nulla.» disse pacata la Superiora, unendo le mani in grembo, «Ci deve essere stato sicuramente un malinteso. Noi agiamo solo per il bene dei nostri fedeli e, ovviamente, anche delle nostre novizie.»

Aziraphale serrò la mascella. «Perciò vi approfittate soltanto di quelle di loro che non si rendono conto di ciò che gli accade?», guardò il crocifisso appeso al muro, «Mi meraviglio che ancora vi riteniate suoi portavoce.»

Per qualche istante di irritato silenzio, solo il ticchettio del piccolo orologio sulla scrivania riempì la stanza. Poi la Superiora strinse le labbra raggrinzite e si sporse sulla scrivania, allineando il profilo di una penna con quello di un’agenda, sulla quale stava scrivendo fino a poco prima, e lisciandone il bordo della copertina con la punta delle dita.

«Quello che sta insinuando è molto grave.» disse, senza guardarlo, «Lei è nuovo qui e forse non si rende bene conto della situazione.» e si interruppe, tornando a scrutarlo con gli occhietti scuri intenti a valutare, prima di continuare, «Ma il Monsignore è molto influente. Di sicuro potrete trovare un accordo. Non le piacerebbe, ad esempio, una collocazione più consona alle sue capacità? Migliore di quella di semplice vicario parrocchiale?»

«Mia cara,», rispose Aziraphale, sempre più infastidito, «francamente, non ho alcun tipo interesse nelle sue proposte. Possiedo già una collocazione più consona di quanto lei possa immaginare. E, a tal proposito…» schioccò le dita e la talare scura che indossava lasciò il posto a un morbido completo beige, con gilet, camicia candida e orologio al taschino; il tutto sotto lo sguardo atterrito della Superiora, che indietreggiò di un mezzo passo, urtando contro il bordo della propria sedia.

«Ah, molto meglio. Non sopportavo davvero più quell’abito da avvoltoio.» constatò Aziraphale, sollevato, muovendo un po’ le spalle all’interno del tessuto e aggiustando i lembi del farfallino. Non era il suo completo, ma per il momento poteva accontentarsi. «E ora, riguardo a questo Monsignore. Gradirei che mi dicesse il suo nome e dove posso trovarlo.»

 

***

 

Il salotto di Monsignor Jean-Louis Abeille era pretenzioso e sovrabbondante.

Malgrado l’incredibile ampiezza, che da sola avrebbe potuto già eguagliare quella di un appartamento medio nel centro di Londra, l’eccessiva quantità di mobilio pomposo e oggetti presenti lo rendeva oltremodo soffocante. Doppia fila di tende, tappeti persiani, onorificenze e riconoscimenti incorniciati posizionati ovunque, una discreta collezione di quadri e piccoli oggetti d’arte dal gusto sufficientemente pacchiano, e una vistosa libreria finto rinascimentale in quercia, piena zeppa di libri antichi, che sarebbero potuti stare di sicuro meglio altrove.

Aziraphale prese un sorso di tè e cercò di sistemarsi meglio sul sedile; aveva sempre trovato scomodi quei divanetti francesi, per quanto il tessuto damascato della tappezzeria non gli dispiacesse. La tazzina in cui stava bevendo, inoltre, doveva appartenere a un servito personalizzato, perché il disegno di un’ape campeggiava sulla porcellana al centro del piattino, fra contorti arabeschi dorati.

Vescovo Abeille, pensò Aziraphale.

Il suo francese era forse un po’ arrugginito, ma non abbastanza da fargli avere ancora dubbi su chi fosse l’ape viola di cui gli aveva parlato Eleonora. Lei aveva provato a dirglielo, ad avvertirlo, ma lui non aveva capito. Aveva preferito non indagare oltre; considerando solo alcuni segnali e ignorandone altri, illudendosi di star svolgendo al meglio e senza intoppi il proprio compito.

Come del resto era già accaduto altre volte in passato, gli era mancata la capacità di andare fuori dagli schemi.

Sfiorò con le dita il taschino del panciotto, dove aveva riposto la piccola miniatura della colomba, e prese un respiro risoluto, mentre l’imponente orologio nell’angolo accompagnava la sua attesa, rintoccando sonoramente il mezzogiorno. E aveva appena preso l’ultimo sorso del suo tè, quando la porta del salotto si aprì.

Lo stesso uomo di mezza età che aveva osservato in quella specie di visione, ora gli stava davanti, rigido in piedi nel suo rivestimento talare nero e viola, con gli occhi slavati interdetti e le labbra serrate a taglio, che questa volta però non lasciavano in mostra quelle file di dentini sgradevoli che aveva invece sfoggiato in quell’occasione.

«Chi diavolo è lei?»

«Oh, nessun diavolo.» rispose Aziraphale, riponendo con cura tazzina e piattino sul tavolino davanti a sé, «Una sfortuna per lei, in realtà. Avrebbero di sicuro da proporle ottimi accordi.»

Monsignor Abeille avanzò nella stanza visibilmente seccato. «Mi spiace, ma non prendo appuntamenti qui a casa mia, e non accetto interviste che non siano prima state approvate dal mio segretario.» si fermò a pochi passi da lui, e occhieggiò la tazzina vuota sul tavolino, corrugando appena le sopracciglia.

Aziraphale si alzò dal divano, riassestò i lembi del panciotto e gli offrì un piccolo – e affatto sentito – sorriso cortese. «Potrei aver approfittato della gentilezza di quella brava donna che mi ha accolto alla porta, e mi sono fatto portare un tè, nell’attesa.  Sa era un po’ che non ne bevevo di così pregiato. Ultimamente non ho avuto molte occasioni.»

Il Monsignore lo guardò sempre più in preda alla confusione e, accennando un gesto, gli indicò la porta. «Devo chiederle di andarsene.»

«Oh, me ne andrò di certo. Non apprezzo granché il suo gusto nell’arredamento, men che meno la sua compagnia.», Aziraphale aggrottò la fronte, scorrendo con una smorfia di disappunto i dintorni, e soffermandosi poi su di lui, «Ma prima vorrei parlare un momento con lei della sua condotta

«La mia cosa

«Sa, per qualcuno come lei, che ha scelto di vestire certi abiti e ricoprire il suo specifico ruolo, dovrebbe essere sottinteso che sia assolutamente sbagliato importunare giovani ragazze indifese.», spiegò Aziraphale con calma, «Senza contare tutti i successivi sotterfugi per insabbiare l’accaduto.»

Il Monsignore trasalì appena, ma recuperò subito il contegno, offrendogli un’espressione gelida. «Lei è un altro di quegli avvoltoi, non è così? Cosa vuole, favori? O magari un giusto risarcimento per il disturbo?»

«Temo di non aver bisogno di niente di tutto questo. Voglio solo assicurarmi che lei comprenda quanto siano state sbagliate le sue azioni, e soprattutto che la cosa non si ripeta mai più.»

«Mi sta forse minacciando?» disse Abeille, fra i denti, «Lei non deve avere molto ben chiara la mia posizione

Aziraphale sollevò alte le sopracciglia, del tutto sdegnato. «Beh,», rispose, «come lei non deve aver ben chiara la mia

E in un istante ogni cosa fu inondata di luce accecante, mentre la sua sagoma oltrepassava i limiti della forma umana, riempiendo tutta la stanza; liberando ali e un’essenza antica colma di angelico ammonimento, che riverberò spaventosa nell’aria, facendo vibrare le cornici alle pareti e i vasi sui ripiani.

Monsignor Abeille impallidì. Indietreggiò terrorizzato, inciampando prima in una poltrona, poi rovesciando una lampada, e rannicchiandosi infine tremante in un angolo, con gli occhi quasi fuori dalle orbite. E quando una chiazza umida si allargò sotto di lui sul tessuto del tappeto, Aziraphale ritenne sufficiente il suo operato. La luce nella stanza tornò normale e lui si aggiustò meglio il farfallino intorno al collo.

«Mi auguro che abbia compreso.», disse asciutto, «Ora mi aspetto che lasci in pace quella ragazza e il suo bambino, e che si occupi di rimediare, per quanto possibile, a tutti i torti che ha procurato.»

Abeille boccheggiò, con le lacrime agli occhi, ma non emise alcun suono.

«Non credo di aver compreso la sua risposta.» lo ammonì Aziraphale, e lo osservò con un sottile compiacimento mentre  annaspava, provando di nuovo a tirare fuori la voce per rispondere, senza tuttavia riuscirci, per poi optare per un convulso cenno di assenso con la testa.

«Molto bene.» si allontanò, lasciandosi quel patetico residuo di uomo alle spalle. Afferrò la maniglia della porta, ma non la girò, indugiando sul posto ancora un istante, e invece schioccò le dita.

«Dimenticavo di farle i complimenti per la sua libreria. Potrei aver preso in pegno giusto qualche libro, ma di sicuro non le dispiacerà.» sorrise fra sé e, senza voltarsi, uscì dal salotto.

 

***

 

_______________________________

 

 

NOTA: *Qui mi riferisco alla vecchia edizione italiana del libro ("Il castello dei destini incrociati" - I.Calvino) che ha per l'appunto queste specifiche caratteristiche di copertina e non alla versione inglese. 

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Salve, salve.

Giungo sempre un po’ a sorpresa (e con imbarazzante ritardo) con un capitolo nuovo di questo mio personalissimo delirio, che ormai sta iniziando a tirare fuori le prime svolte consistenti di trama dopo una preparazione abbastanza infinita.

Non so, in tutta sincerità, quando riuscirò a venirmene fuori con il seguito, ma è già in scrittura perciò prima o poi di sicuro riuscirò a finirlo.

Se volete farmi sapere qualche opinione, teoria o anche tirarmi immaginari cavoli marci in un’eventuale recensione, sarò ben felice di riceverla (cavoli compresi), per il resto ringrazio chiunque sia arrivato a leggere fin qui, e alla prossima.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4067163