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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** alla fine la luce torna sempre ***
Capitolo 2: *** fantasmi dal passato ***
Capitolo 3: *** scheletri nell'armadio ***
Capitolo 4: *** i ricordi tornano a galla ***
Capitolo 5: *** l'impossibile diventa possibile ***
Capitolo 6: *** il male dove non te l'aspetti ***
Capitolo 7: *** la fine non esiste ***
Capitolo 1 *** alla fine la luce torna sempre ***
(im)possibile
Il bus
diretto a Tokyo si è fermato per una pausa in
un’area di sosta lungo l’autostrada.
L’autista ha comunicato che sarebbero rimasti lì
per un’ora e poi sarebbero dovuti ripartire.
Keigo è sgusciato fuori dal suo posto solitario in fondo
all’autobus ed è entrato nella stazione di
servizio senza togliersi il cappuccio da sopra il capo. Ha notato
alcuni dei – pochi – passeggeri che condividono il
viaggio con lui aggirarsi tra le corsie di dolciumi e power bank per
cercare di rendere le ore d’attesa meno gravose ma si
è limitato a ignorarli, scendendo invece in fretta le scale
che portano ai bagni.
«Aspettami nell’area comune. Vedo di
sbrigarmi», commenta senza voltarsi. Un secondo dopo
è già scattato in avanti.
Ha lasciato l’istituto in fretta e furia e non ha avuto
nemmeno il tempo di darsi una sistemata. Si butta sotto un getto
d’acqua calda per una doccia rapida, lava i capelli e poi si
cambia alla svelta. Mette una t-shirt sotto alla felpa pulita, ma
almeno non sono i maglioni pesanti in cui ormai da mesi si avvolge tra
le nevi ghiacciate. Si passa il getto caldo del phon tra i capelli
dorati e umidi – sono in disordine come sempre, ma almeno
adesso rispetto a prima sembrano un po’ meno un disastro
– e infila alla rinfusa i vestiti che si è tolto
nello zaino, unico baluardo che è riuscito a recuperare
prima di lasciarsi alle spalle gli ultimi tre anni di vita. Tira un
sospiro leggero, ma alla fine si decide a tornare verso
l’area comune.
La porta dei bagni sbatte alle sue spalle, ma Keigo cerca di non farci
caso. Si ferma davanti ai lavandini, posa lo zaino accanto a
sé e ne approfitta per guardarsi un momento allo specchio.
Come aveva ipotizzato, ha un aspetto orrendo. Avvicina per un momento
una mano al volto, tracciando con le dita il segno violaceo delle
occhiaie. I capelli continuano a essere nelle solite pessime
condizioni.
Keigo si lascia sfuggire un nuovo sospiro sconsolato. Questa non
è la vita che ha condotto fino a settantadue ore prima. Gli
sembra di essere tornato indietro di tre anni, e la cosa gli lascia
addosso un miscuglio eterogeneo di emozioni: rabbia, paura,
felicità.
Per la verità, se adesso qualcuno gli chiedesse come si
sente, probabilmente non saprebbe cosa rispondere.
Keigo scuote brevemente la testa, abbassando lo sguardo. Si
sciacqua in fretta la faccia con l’acqua gelata, per poi
aprire una tasca esterna e tirare fuori spazzolino e dentifricio; dopo
aver armeggiato un po’ col tubetto, quando solleva di nuovo
il capo, vede che il suo
riflesso è comparso nello specchio.
«Ci ho messo tanto?», s’informa, mentre
un sorriso beffardo gli compare sul volto. Ha paura, perché
dopo tanto tempo gli sembra di provare nuovamente quel sentimento che
gli fa battere il cuore in petto veloce come le ali di un
colibrì.
«Meno della metà del tempo disponibile»,
gli comunica, con quella voce che in un istante riempie il bagno e la
sua testa – e,
oh, come gli era mancata quella sensazione.
Keigo annuisce brevemente.
«Okay. Ricapitoliamo», conclude, prima di infilarsi
lo spazzolino in bocca.
Il tempo può scorrere in maniera insopportabilmente lenta
quando sei un fantasma.
Enji, ormai, l’ha capito da tempo. Negli ultimi tre anni si
è limitato a vegliare con attenzione e costanza sulla sua
famiglia. Ha visto i ragazzi crescere, Rei riprendersi lentamente la
sua vita e, adesso, ciascuno di loro è ormai pronto ad
andare avanti. Da giorni la vecchia casa di Tokyo è invasa
da scatoloni in vista dell’imminente trasferimento di Rei a
Kyoto. Ha ottenuto un incarico prestigioso, e più Enji la
osserva più si convince che non veda
l’ora di cominciare a lavorare in quella nuova
città.
Anche Natsuo e Fuyumi ora lavorano. Loro resteranno a Tokyo, dove hanno
delle carriere già brillantemente avviate.
Infine c’è Shoto, che ha cominciato
l’università e sembra aver trovato finalmente la
sua strada. Ora che Enji è condannato a quella tortura
eterna, in cui è pronto per andare avanti ma non gli
è concesso farlo perché qualcuno
l’ha trattenuto lì, osservare la sua famiglia
è tutto ciò che può ancora
permettersi. Inutile dire che sia immensamente fiero di ciascuno di
loro.
A Tokyo è una mattina mite di gennaio, nel cielo terso si
staglia un sole che rende l’aria tiepida e piacevole. Rei
è uscita per una passeggiata in direzione del porto e Shoto
è in università, ma quella mattina Enji ha
seguito i passi di Fuyumi.
Sua figlia è una maestra in una piccola scuola elementare
della capitale. Approfittando del bel tempo, quella mattina ha deciso
di accompagnare i suoi alunni nel giardino della scuola per passare
lì la ricreazione. Fuyumi osserva con attenzione ciascuno di
loro, ed Enji nota che come sempre i suoi occhi sono pieni di dolcezza.
Una bambina col cappottino rosa corre a passo spedito nella sua
direzione. «Maestra! Maestra!», la chiama a gran
voce, tirandole un lembo della giacca quando finalmente la raggiunge.
«Guarda! Momo mi ha strappato via la sciarpa!»
Fuyumi si china subito per essere alla stessa altezza della bambina,
rivolgendole il più dolce dei suoi sorrisi.
«Davvero? Fammi vedere…», le propone,
rassettandole la giacca e posandole nuovamente il cappello di lana in
testa, coprendo i corti capelli castani raccolti in due codini ai lati
del capo.
La bambina sembra subito rassicurata dai gesti di Fuyumi, al punto da
sorriderle felice. La scena è così tenera che,
per un momento, anche sul volto di Enji compare un sorriso mentre si
limita a osservare, restando a qualche metro di distanza.
Almeno finché non sente una voce giungere alle sue spalle.
«Sapevo che ti avrei trovato qui…»
Enji non ha bisogno di voltarsi per sapere di chi si tratta. Trattiene
a stento un ringhio tra i denti, per poi cominciare ad allontanarsi con
delle grandi falcate.
L’altra persona, però, non sembra affatto
intenzionata a lasciarlo andare. «Vieni sempre a passare le
tue giornate qui, non è vero?», gli domanda,
seguendolo.
Enji infila nervosamente le mani in tasca. «Che diavolo vuoi,
Tomie?», sbotta, voltandosi solo in quel momento in direzione
della donna.
Sono passati tre anni, ma Tomie non sembra essere cambiata affatto.
Stessi capelli color menta acida, stesso aspetto allampanato, stesso
sguardo perso, lontano. Non c’è da sorprendersi
che sia una delle poche persone in grado di vedere Enji anche se ormai
non fa più parte del mondo dei vivi.
Tomie si stringe nel giaccone pesante che indossa, come se le fosse
venuto un brivido di freddo improvviso. «Ho avuto una
visione», confessa, lo sguardo che saetta nervoso
dall’asfalto del marciapiede alla strada davanti a
sé. «Si tratta di Keigo–»
Enji si arresta di colpo, fulminando la donna con lo sguardo.
«Per me Keigo è morto tre anni fa»,
taglia corto, sprezzante.
Tomie sembra in difficoltà sotto quello sguardo solo per
mezzo secondo. Sobbalza appena sul posto, ma l’istante
successivo si già rimessa alle calcagna di Enji.
«Sono preoccupata», insiste, tenace. «Da
quando Ryou l’ha portato in quell’istituto tre anni
fa non mi ha più rivolto la parola. Ho scoperto delle cose,
su quel posto… temo che Keigo possa essere in pericolo, e tu
sei l’unico a cui dà ascolto…»
«Allora non hai capito», ringhia Enji, voltandosi
nuovamente verso la donna. «Ti ricordo che se sono bloccato
qui è solo merito di tuo figlio. Adesso perdonami, Tomie, ma
ho l’eternità da buttare tra momenti in cui
osservo la vita delle persone a me care senza poter interferire ed
altri in cui il tempo scorre ma non so nemmeno come.»
L’istante successivo Enji è già
svanito, lasciando Tomie attonita sul marciapiede.
Lo scroscio di applausi nel momento in cui termina di discutere la sua
tesi gli infonde l’emozione più forte che abbia
provato negli ultimi tre anni.
Keigo osserva con un sorriso raggiante il suo uditorio. Seduti in prima
fila ci sono Kaina, Jin e Himiko, che applaudono ed esultano. Sembrano
incredibilmente fieri di lui.
E, forse, per una volta in vita sua anche Keigo si sente fiero di
sé. Sente di aver messo tutto se stesso in quella tesi, e
che non avrebbe potuto scegliere un argomento diverso. Forse era anche
il momento giusto, come per piantare un paletto nel percorso della sua
vita e dire “ecco, sei passato da qui, adesso devi solo
andare avanti”.
Ha terminato i suoi studi alla facoltà di Parapsicologia con
una dissertazione che ha come fulcro la presenza di entità
sovrannaturali nella vita comune e la loro capacità di
influenzare l’esistenza di chi può percepirli.
Ovviamente, c’è molto di autobiografico nelle sue
parole: non vede Enji da tre anni, ma non ha dimenticato come per lui
sia stato in grado di calarsi su un balcone dal piano di sopra, delle
innumerevoli volte in cui si è cacciato nei guai, qualcuno
ha minacciato di fargli del male o ha rischiato di morire. Sa solo che,
in quei momenti, non gli importava di nulla, avrebbe fatto di tutto per
lui e, forse, le cose non andrebbero in maniera molto diversa se
dovesse incontrarlo di nuovo adesso. Questo, però,
è impossibile, Keigo ormai lo sa bene: dopo che lo ha
trattenuto contro la sua volontà, Enji l’ha
abbandonato su quella terrazza e non l’ha cercato
più. Keigo non stenta a dubitare che, ovviamente, Enji
continuerà volentieri a evitarlo.
La voce di Ryou lo riporta alla realtà. Keigo sposta i suoi
grandi e luminosi occhi dorati su di lui nel momento in cui lo sente
alzarsi dalla sedia.
«La commissione ha deciso di assegnare al candidato la
votazione di centodieci con lode», comunica, con la solita
voce pacata e imperturbabile.
Dall’uditorio si solleva una nuova acclamazione. Jin e Himiko
si scambiano uno sguardo sorpreso, per poi voltarsi nuovamente verso
Keigo e applaudire ancora.
«Questa era l’ultima discussione per oggi. Adesso,
se volete, potete accomodarvi nella stanza qua accanto, dove
è stato preparato un piccolo rinfresco», conclude
la voce di Ryou.
Keigo lo avverte a malapena. In quel momento, sente il cuore
incredibilmente leggero. Vedere i suoi amici così felici per
lui applaudirlo in prima fila fa scintillare ancora di più i
suoi occhi. Il ragazzo sorride, pieno d’entusiasmo, mentre
sente una mano serrarsi attorno al suo braccio.
È Ryou, ovviamente. Si è dileguato in fretta dal
gruppo dei suoi colleghi e, adesso, è lì accanto
a lui come sempre. «Complimenti. Sei stato
bravissimo», gli mormora all’orecchio, prima di
scivolare al suo fianco e immergersi nella folla che quel giorno colma
l’aula.
Keigo sente il cuore frullare veloce nel petto. Ormai conosce Ryou da
anni, eppure quando si trova vicino a lui si sente ancora come se lo
incontrasse per la prima volta.
Finalmente Keigo si decide a scendere dal podio. Là sotto
trova ad aspettarlo i suoi amici.
Prima che possa accorgersene, Himiko gli posa in testa una corona
d’alloro.
«Grande, Keigo! Finalmente ce l’hai fatta anche
tu!», esulta Jin, saltellandogli attorno.
Keigo si lascia sfuggire una risatina leggera, le dita che accarezzano
le foglie d’alloro. «Ah, grazie,
ragazzi», mormora, strizzando gli occhi per la gioia.
«Beh, non credere che sia finita qui», gli fa
notare Himiko, abbracciandolo da dietro. «Adesso bisogna
festeggiare.»
È una mattina come tante altre per Touya.
Ci sono ancora i piatti della sera prima da lavare
nell’acquaio. E quelli della colazione. E di due giorni fa.
Sapeva che andare a vivere da solo avrebbe portato delle
responsabilità, tuttavia non ha tenuto conto della propria
pigrizia.
Ecco perché ora sono le sei di mattina, tra due ore
inizierà la prima lezione di giornata
dell’università e lui non ha nemmeno una tazza
pulita per il caffè. Beh, quel noioso giorno
d’inverno ha proprio deciso di partire in salita.
Almeno finché poco dopo due braccia gli cingono la vita.
Istintivamente Touya permette all’altra persona di aiutarlo a
voltarsi, e lascia che poco dopo gli posi un bacio leggero sulle labbra.
Touya sorride, passando una mano tra i capelli arruffati
dell’altro. «Già sveglio?»,
domanda, sorpreso.
«Non credere che non mi avrebbe fatto piacere dormire ancora
un po’. Diciamo… per tre giorni di
fila», ammette Tenko, senza allontanare il volto da quello di
Touya. «Sfortunatamente però stamattina ho lezione
anch’io.»
Touya scuote la testa. «Tks,
quest’università… prima o poi
finirà per ucciderci», commenta ironico, lasciando
che Tenko appoggi la testa sulla sua spalla.
Convivere non sarà esattamente la cosa più facile
del mondo, valuta tra sé Touya, ma almeno è
felice di poter condividere quell’esperienza con Tenko.
Shouta è sveglio da due ore ma tornerebbe già
volentieri a dormire.
Sia chiaro, non che non provi gratitudine per il proprio lavoro o
altro. Tra i propri meriti e, ahimé, le defezioni di altri
colleghi, adesso a occuparsi di quel commissariato è lui.
Quando entra in ufficio ha già un caffè da
asporto – bello lungo e denso – in mano, ritirato
al bar prima di recarsi lì. Senza di quello, cominciare la
giornata sarebbe davvero difficile.
Vede Kan sbucare da una porta laterale e avvicinarsi a lui con veloci
falcate e vorrebbe diventare invisibile all’istante. Oh, no, pensa,
osservando la pila di fogli tra le mani del collega, non scartoffie di prima mattina.
«Buongiorno, commissario Aizawa», lo saluta, con la
solita voce bassa ma energica. «Ho giusto qui alcuni verbali
da controllare per lei–»
«Ottimo, me li puoi lasciare sulla scrivania»,
taglia corto Shouta. L’ultima cosa di cui desidera occuparsi
al momento sono degli inutili e noiosissimi verbali.
Una volta entrato nel suo ufficio, Shouta si siede alla scrivania.
Aspetta che Kan sia uscito, chiudendo la porta alle proprie spalle con fin troppa forza,
per poi estrarre finalmente il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
La chat con Hizashi è silenziosa da almeno un mese, il che
è ridicolo. Non conosce persona più chiassosa e
loquace del proprio partner, per cui quella scomparsa improvvisa lo
insospettisce e non poco.
Sono giorni che pensa a cosa sarebbe meglio fare. Ogni volta pensa per
ore a quale sarebbe il messaggio giusto da inviare, riflette, sta
lì, compone, salvo poi finire ogni volta per cancellarlo.
Ci prova anche quella mattina, come sempre d’altronde. Ciao, Hizashi, come stai? Ti
andrebbe di vederci?
Shouta resta a fissare le lettere sullo schermo per un tempo
indefinibile, almeno fino a quando smette anche quel giorno di essere
convinto di ciò che ha scritto. Ti andrebbe di vederci?
Che razza di domanda è? A che titolo gliela potrebbe porre?
Perché sono andati a letto insieme un paio di volte?
Perché fino a pochi mesi prima era certo che stessero per
intraprendere una relazione?
Come se cambiasse qualcosa, poi. Hizashi è sparito da mesi,
loro due non hanno più avuto alcun genere di contatto e, si
dice Shouta, forse era esattamente questo ciò che desiderava
Hizashi. Sparire dalla circolazione e, di conseguenza, anche dalla sua
vita.
Per cui, se davvero il desiderio di Hizashi è quello di
sparire, allora perché mai dovrebbe ostinarsi a cercarlo?
Shouta scuote la testa, cancella il messaggio e lascia cadere con
pesantezza il telefono sulla scrivania. Sconfortato, recupera uno dei
verbali e comincia a leggerlo.
Quando sei un fantasma, il tempo scorre in maniera sorprendentemente
buffa, come se si divertisse a farsi beffa di te.
Un attimo prima sei nella casa che per anni hai condiviso con tua
moglie e la osservi mentre si aggira tra pile di scatoloni. Le stanze
sono ormai vuote, tutti i mobili sono già stati trasferiti a
Kyoto tranne un paio di pezzi essenziali – il frigorifero, il
materasso.
Un attimo dopo ti trovi nel bel mezzo di una strada buia e deserta,
probabilmente in un posto dimenticato dal resto del mondo. È
una strada tortuosa, all’apparenza anche piuttosto
malridotta, come se nessuno sia più passato di lì
da anni.
Deve trovarsi in prossimità della montagna,
perché quello che lo circonda è senza dubbio un
bosco, e sia a terra che tra le fronde degli abeti persiste ancora
della neve.
Enji non ha la più pallida idea del perché si sia
ritrovato lì, almeno finché non vede
l’auto andare fuori strada.
L’impatto è così violento da stroncare
il guardrail a protezione della curva, mentre il veicolo finisce
giù per una scarpinata.
Enji osserva attonito per alcuni momenti il punto in cui ha visto
l’auto svanire nelle tenebre della notte, come se non
riuscisse a realizzare ciò che è appena accaduto.
Poi, finalmente, si decide ad avvicinarsi. Nelle sue condizioni deve
solo desiderare
di farlo, e l’istante successivo si trova diversi metri
più in basso rispetto al suo precedente punto
d’osservazione. Lì la boscaglia sembra far posto a
una piccola radura, l’erba alta e smeraldina ha accolto il
veicolo, che ora giace capovolto e ammaccato, il tettino sul terreno e
le ruote rivolte verso il cielo.
La macchina sembra abbandonata lì con la stessa
casualità di una cartaccia, il motore ancora rovente. Enji
si avvicina, tra finestrini frantumati ridotti ormai a schegge di vetro
che si sono amalgamate col terriccio, e osserva la persona seduta al
posto di guida.
Finisce per inorridire nel momento in cui si rende conto di sapere
esattamente di chi si tratta. In effetti, ci ha parlato per
l’ultima volta a malapena dodici ore prima.
«Tomie?», domanda, incredulo, osservando il sangue
che cola dalla ferita alla testa della donna.
Enji solleva solo per un attimo il capo, ma tanto gli basta per
accorgersi che Tomie è lì.
In piedi, con le scarpe che affondano nell’erba umida.
Impossibile,
è la prima cosa che riesce a pensare. L’ho appena
vista lì, dentro l’auto…
Poi capisce.
Una luce calda e avvolgente inizia a brillare, poco distante da loro.
Enji la conosce bene, sono diverse le volte in cui in passato gli
è apparsa davanti, eppure finora non l’ha mai
attraversata. L’ultima volta l’ha quasi fatto, non
aveva davvero più alcun motivo per restare, eppure Keigo
l’ha trattenuto contro il suo volere, costringendolo a
quell’eterno vagare in cui è ancora intrappolato.
Tomie procede senza esitazioni verso quella luce – ed Enji la
capisce, sa quanto il desiderio di attraversarla possa essere
totalizzante.
«Tomie? Tomie, riesci a sentirmi? Riesci a
vedermi?», prova a chiamarla Enji, ancora una volta, tuttavia
la donna non sembra riuscire a percepirlo in alcun modo.
Tomie è ormai arrivata in prossimità della luce,
quando succede qualcosa di strano.
Una visione.
Enji ne ha avute altre in passato, quella in cui ha visto Rei venire
minacciata e quella in cui, invece, a essere in pericolo era Shoto.
Adesso, però, le cose vanno in maniera diversa.
Enji vede chiaramente il volto terrorizzato di Keigo.
L’istante successivo, il ragazzo cade all’indietro,
nel vuoto.
Enji percepisce qualcosa di strano, come una sorta di brivido
che gli corre lungo la schiena – il che è assurdo,
visto che è un fantasma e non può più
avvertire sensazioni umane come quella. Cerca, tuttavia, di ridestarsi
in fretta.
«Che significa, Tomie? Hai detto che Keigo è in
pericolo, di cosa si tratta?», la chiama ancora Enji,
disperato. «Aiutami a salvarlo! Tomie! Tomie!»
A nulla servono i tentativi di Enji di attirare l’attenzione
della donna. Poco dopo Tomie passa dall’altra parte, senza
che lui possa impedirglielo in alcun modo.
La luce si spegne con un ultimo, accecante bagliore finale. Perfino
Enji è costretto a chiudere gli occhi. Quando li riapre,
Tomie è svanita nel nulla, lasciandolo da solo nel bel mezzo
di una radura buia.
È da poco passata mezzanotte quando la porta della camera di
Keigo viene aperta lentamente.
Kaina ha chiesto alla signora della portineria un paio di chiavi di
riserva non appena ha ricevuto la notizia con una telefonata da parte
della polizia.
Keigo è sepolto nel letto con la testa sotto alla trapunta
pesante, sembra essere profondamente addormentato. Ha lasciato la luce
dell’abat-jour sul comodino accesa, e quel lume fioco
rischiara appena la stanza.
Kaina si avvicina con prudenza al letto, sedendosi piano su di esso.
Sente lo sguardo della signora che le ha dato le chiavi fisso su di
sé, e per quanto la infastidisca e gradirebbe volentieri
mandarla a quel paese si costringe a trattenersi per il momento,
perché, si dice, ora come ora ha questioni ben
più importanti di cui occuparsi.
Posa una mano sulla spalla di Keigo, cercando di non essere troppo
brutale mentre lo scuote. Dorme così bene che svegliarlo
è quasi un peccato, tuttavia sa che non può fare
altrimenti.
«Keigo, avanti, svegliati», lo esorta, paziente.
Per tutta risposta, Keigo si lascia sfuggire un lungo mugolio.
È disteso su un fianco, ma dopo che Kaina ha insistito per
un po’ finisce per mettersi supino sul materasso.
«Mhh.
Che c’è?», chiede, la voce impastata di
sonno.
Kaina lo fissa, lo sguardo colmo d’apprensione. «Si
tratta di Tomie. Ha avuto un incidente», gli comunica, con
voce gentile.
«Un incidente?», domanda ancora Keigo, perplesso,
mentre si stropiccia le palpebre con le mani.
«Keigo… Tomie è morta», gli
rivela Kaina, senza riuscire a non sentire un peso enorme gravarle sul
petto.
Gli occhi dorati di Keigo si aprono incerti sul mondo. Non si sente
esattamente nelle proprie condizioni di salute migliori, tuttavia si
costringe a mettersi seduto sul letto. Poggia la schiena contro la
testiera, gli occhi ancora socchiusi. Sente la testa girare in maniera
vorticosa, tuttavia si dice che non è il momento di curarsi
di questo.
«Come sarebbe a dire che è morta?»,
chiede, ma la verità è che quella frase non suona
affatto come una domanda. È piatta, impassibile, quasi
indifferente. Forse non è neppure sorpreso che sua madre sia
morta. Ha passato tutta l’infanzia e l’adolescenza
a crederla morta, in più non la sentiva più da
letteralmente tre anni. Si erano riavvicinati quando gli aveva
confessato di poter parlare a sua volta coi morti, ma prima di allora
era stata un’estranea e, da quando Ryou l’ha
portato in Hokkaido, era tornata a esserlo. Senza contare che, ormai,
ha perso il conto di tutte le volte in cui la morte è venuta
a trovarlo, gli è passata accanto senza sfiorarlo ma
portandogli via sempre qualcosa di caro. Questa, in fondo, non
è che una delle tante. Alla fine, piuttosto che essere
sconvolto, Keigo ci è quasi abituato.
Kaina posa di nuovo una mano sulla spalla del ragazzo. Non sa bene come
interpretare il silenzio di Keigo, ma immagina che stia cercando di
metabolizzare la notizia.
«Te la senti di andare sul luogo
dell’incidente?», gli propone la donna, cercando di
essere il più delicata possibile.
«Grazie per il passaggio», mormora Rei, stringendo
piano tra le mani la propria cintura di sicurezza.
«Figurati.» Shouta tiene lo sguardo dritto sulla
strada davanti a sé. «Quando è arrivata
la notizia in commissariato ho pensato subito a te. Ero certo che ti
interessasse saperlo.»
«È così», ammette Rei, prima
di spostare il capo di lato. I suoi occhi si perdono oltre il
finestrino, cercando di seguire il paesaggio che si rincorre man mano
che procedono lungo quella vecchia strada tortuosa: boscaglia a non
finire, oltre ad alcuni cumuli di neve al suolo.
Ha conosciuto quella persona tre anni prima, in occasione delle
indagini sulla morte di Enji. Quando Aizawa si è presentato
a casa sua, poco dopo la mezzanotte, per informarla di quanto accaduto,
Rei gli ha chiesto spontaneamente di poterlo accompagnare sul luogo
dell’incidente. Così eccoli lì adesso,
nell’abitacolo di un'auto che viaggia veloce nel cuore della
notte, tra le tenebre e la neve, i fari che rischiarano appena la
strada.
Il viaggio prosegue lasciando i due immersi in un silenzio denso, quasi
soffocante. Rei non ha bisogno di chiederglielo, sa già che
Shouta – esattamente come lei – è
tornato con la mente ai giorni dell’indagine, e forse anche
prima, a quel passato ormai andato perduto per sempre. Sarebbe bello se
le cose potessero tornare come un tempo, tuttavia Rei ormai sa fin
troppo bene che ciò non potrà mai accadere.
Una volta arrivati, Shouta si decide finalmente a rallentare
cautamente. Sul posto ci sono già diversi mezzi di soccorso
– un’ambulanza, due vetture della polizia
– ma, per quello che Rei ha potuto capire, lì non
c’è nessuno che abbia veramente bisogno del loro
aiuto.
L’auto si ferma, e da essa escono fuori Shouta e Rei.
«Rei?»
La voce sorpresa di Enji si perde nel vento, senza che nessuno riesca a
udirla.
Sua moglie è davvero l’ultima persona che si
aspettava di vedere lì, in quel posto desolato. Indossa un
cappotto pesante color avorio, e cerca di tenere più stretto
possibile il colletto attorno alla gola, per ripararsi dalle
temperature gelide della notte. Lo sguardo vaga cautamente tra i vari
elementi della scena, e osservando la sua bellezza delicata a Enji
sembra di vedere di nuovo la ragazza che aveva conosciuto anni prima.
Gli occhi di Rei si posano quasi subito sul guardrail divelto.
«È là sotto?»,
s’informa, inclinando appena il volto di lato.
Shouta accende una torcia, sporgendosi oltre il baratro su cui si
trovano. «Già», conferma, accigliato.
«Certo che ha fatto proprio un bel volo…»
«Come pensi che sia andata?», gli chiede Rei,
stringendosi le braccia attorno al corpo.
Shouta spegne la torcia, avvicinandosi nuovamente a lei.
«Aveva bevuto troppo? Suicidio? È presto per
dirlo», commenta, scrollando appena le spalle.
«Che idiozia», bofonchia Enji. «Non
c’è nulla di chiaro nella dinamica di questo
incidente.»
Rei scuote la testa con decisione. «Suicidio? E che motivo
avrebbe avuto?», gli fa notare, pragmatica. «In
più guarda i segni di frenata a terra. Non cercheresti di
fermarti se stai provando a buttarti giù da un
burrone.»
«Bravissima, Rei», mormora ancora Enji, come se la
donna potesse sentirlo.
Shouta si gratta la base del collo, a disagio. «Un animale le
ha attraversato la strada e ha cercato di evitarlo? Ci aveva
ripensato?», ipotizza, sebbene sembra che stia più
che altro brancolando nel buio. «Probabilmente con un paio di
controlli ne sapremo qualcosa in più…»
Le parole di Aizawa, tuttavia, finiscono per restare sospese a
mezz’aria. Lo sguardo di Rei, Shouta ed Enji si sposta
infatti ben presto sulle tre persone che stanno raggiungendo a piedi il
luogo dell’incidente.
C’è una ragazza bionda che Enji non ha mai visto
prima di allora. Le altre due persone, invece, le riconosce senza
troppi sforzi: una di loro è Kaina, la coda di capelli rosa
e blu che dondola sopra il capo mentre il corpo è avvolto in
un pesante giaccone nero.
E poi c’è lui.
Keigo.
Sono passati tre anni dall’ultima volta in cui Enji
l’ha visto. Dopo quella notte in cima al palazzo, in cui il
ragazzo l’ha trattenuto sulla terra contro la sua
volontà, impedendogli di attraversare la luce, Enji non
l’ha più cercato, troppo in collera con lui.
Eppure, ora che se lo ritrova davanti, non può fare a meno
di restare a osservarlo.
I capelli dorati e perennemente in disordine sono sempre gli stessi,
tuttavia c’è qualcosa di diverso in quel ragazzo
– Enji non riesce a comprendere di che cosa si tratti, e
questo lo fa innervosire terribilmente. Forse sono le occhiaie violacee
sul suo volto, che cozzano in maniera tremenda con la pelle
pallida, oppure è quell’aspetto emaciato, che Enji
è sicuro non abbia mai avuto. Ha perso qualche chilo, e le
guance sembrano un po’ più scavate.
Sembra quasi navigare nella giacca di jeans nera che indossa
– quella con l’imbottitura bianca, la stessa di
sempre. Tra le mani stringe nervosamente la tracolla di una borsa che
ha portato con sé, ma a catturare l’attenzione di
Enji, come sempre, sono i suoi occhi.
Gli occhi dorati e splendenti di Keigo, ora sbarrati.
Chi lo osserva dall’esterno probabilmente lo scambia senza
troppa cura per un ragazzo terrorizzato che ha appena ricevuto la
notizia della morte di sua madre e che ora fissa il vuoto, sconvolto.
Enji, tuttavia, sa bene che lo sguardo di Keigo non è per
nulla perso.
Sta fissando lui.
«Keigo–», prova a chiamarlo Enji, cauto.
Per tutta risposta, riceve uno sguardo carico d’ira. Se Enji
avesse ancora sangue a scorrergli nelle vene, probabilmente adesso lo
sentirebbe gelare.
«Keigo», lo chiama stavolta la voce dolce e gentile
di Rei, e l’espressione del ragazzo sembra farsi appena meno
dura.
«Dov’è?», domanda il ragazzo a
bruciapelo, senza smettere di fissare sconvolto Enji nemmeno per un
secondo. «Voglio vederla.»
Aizawa esita per un momento, probabilmente sta valutando se lasciargli
vedere il cadavere di Tomie in quel momento sia la cosa migliore da
fare o meno. Alla fine, però, sembra decidersi per la prima.
«Vieni», concede infine, facendogli strada.
Per tutti i vari rilievi del caso, la polizia ha approntato in fretta
un sentiero che scende lungo il burrone fino alla piccola radura
sottostante. Shouta accende nuovamente la torcia, andando avanti per
primo. Keigo si limita a seguirlo, ma non sembra neppure star facendo
caso a dove mette i piedi. È un miracolo che riesca ad
arrivare in fondo alla discesa senza inciampare.
Quando mettono finalmente piede nella radura, proseguire diventa
più facile. Keigo cammina a passo di marcia,
l’erba e il fango che gli inzaccherano gli scarponcini.
Il cadavere è già stato estratto dalla carcassa
dell’auto – o perlomeno da ciò che ne
rimane. Si trova su una barella di metallo, all’interno di un
sacco bianco. Aizawa ci si avvicina, e aspetta che Keigo, Kaina e la
ragazza bionda che è con loro lo raggiungano prima di
abbassare la zip e svelare il corpo senza vita.
È senza dubbio Ukai Tomie. La pelle diafana ora ha quasi un
colore grigiastro, e le palpebre sono abbassate sopra gli occhi
– come se stesse dormendo –, tuttavia i capelli
color menta sono troppo particolari per non renderla riconoscibile.
Kaina si lascia sfuggire un singhiozzo, mentre la ragazza bionda sembra
quasi indifferente. Keigo ha ancora quell’espressione
sconvolta sul volto, tuttavia ha abbassato lo sguardo sul cadavere di
sua madre solo per un momento, per poi puntarlo nuovamente davanti a
sé, dall’altro lato della barella, lì
dove si trova Enji.
«Keigo, dobbiamo parlare», lo chiama Enji,
fissandolo con attenzione.
Aizawa richiude la zip del sacco, mentre il cadavere di Tomie viene
portato via.
«Ho bisogno di restare un momento da solo»,
comunica Keigo, continuando a fissare un punto nel vuoto in cui per
tutti tranne che per lui non c’è proprio un bel
nulla.
«Certo», gli concede Kaina, permissiva, prima di
lasciargli ancora un’ultima stretta attorno alla spalla, per
poi allontanarsi insieme ad Aizawa e alla ragazza bionda.
Keigo aspetta ancora per qualche secondo per accertarsi che se
ne siano andati, poi si avvia in fretta verso una macchia di boscaglia.
«Dov’è? Dove diavolo
è?», domanda, le mani che si muovono nervosamente
attorno alla tracolla.
«Se n’è andata. Ho cercato di fermarla
ma è stato come se non riuscisse a sentirmi. Mi dispiace,
Keigo», confessa, cominciando subito a seguirlo.
«Non è stato un incidente, Keigo.»
«Oh, no, non di nuovo», sbotta nervosamente il
ragazzo, incamminandosi in fretta nella direzione opposta a quella
presa da Kaina e gli altri per essere certo che nessuno lo senta.
«Ascoltami, ragazzino», insiste Enji, perentorio.
«Ci sono troppe cose che non tornano, e anche Rei
è d’accordo con me sul fatto
che…»
«Oh, insomma, basta!», gli urla contro Keigo,
fermandosi di botto e voltandosi nella sua direzione. È su
un sentiero in salita, gli scarponcini che affondano nella terra umida.
«Si può sapere che diavolo vuoi da me? Sparisci
per tre anni, poi torni e pretendi che sia di nuovo tutto come
prima?»
«Che c’è, ti sei dimenticato che
è per colpa tua se sono rimasto bloccato qui?»,
gli rinfaccia Enji, mentre comincia a innervosirsi.
«Sai perfettamente che l’ho fatto per scoprire
quale fosse il legame tra di noi!», replica, trattenendosi a
stento dal gridare. «In ogni caso, mia madre è
morta in un incidente e non c’è nulla che possa
cambiare la realtà dei fatti. Io sono andato avanti con la
mia vita, e non ho alcuna intenzione di dare di nuovo retta a te. Oh, e
vaffanculo,
Enji!»
Il ragazzo riprende a salire lungo il sentiero, sparendo alla vista di
Enji prima che il fantasma possa provare di nuovo a fermarlo.
Keigo non riesce a chiudere occhio per tutta la notte.
Se ne sta con la schiena premuta alla testiera del letto, le gambe
strette al petto dalle braccia e lo sguardo esausto perso nel vuoto.
Per quanto lui e Tomie non avessero effettivamente più alcun
legame, era pur sempre sua madre. Più il tempo passa, e
più Keigo continua ad avere la soffocante percezione di
essere circondato solamente da morte.
Ha lasciato Tokyo nella speranza di trovare qualcuno come lui, qualcuno
capace di vedere i fantasmi di chi non c’è
più. Un
dono, ma anche una maledizione, no?
Sono circa le quattro di notte quando sente qualcuno bussare alla porta
della sua camera del dormitorio. Il rumore delle nocche sul legno
sembra riuscire a ridestarlo a malapena, gli occhi che lentamente
tornano a mettere a fuoco i contorni della stanza.
Il ragazzo scende dal letto e attraversa silenziosamente la camera.
Quando si ritrova davanti alla porta la apre senza prima domandare chi
ci sia dall’altra parte, anche perché, a essere
onesti, è piuttosto certo di conoscere già la
risposta.
Una volta che si ritrova davanti quegli occhi che ormai conosce fin
troppo bene, si lascia sfuggire un piccolo sospiro esausto.
«Si può sapere dove diavolo eri
finito?», domanda, appoggiandosi pesantemente alla porta.
«Quelli del primo anno hanno deciso bene di organizzare una
festa nel bel mezzo del dormitorio», ammette Ryou, ancora
visibilmente seccato dalla cosa. Ben presto, però, la sua
espressione torna ad addolcirsi non appena posa di nuovo lo sguardo sul
ragazzo. «Sono corso qui non appena ho saputo. Mi dispiace
tantissimo, Keigo.»
Le dita di Keigo si spingono istintivamente in avanti, stringendo la
camicia bianca di Ryou. L’uomo interpreta il gesto come un
permesso a procedere, così poco dopo si spinge in avanti,
chiudendosi la porta alle spalle e cercando le labbra di Keigo con le
proprie.
Keigo chiude gli occhi, ricambiando il bacio e correndo a frizionare
con le dita i corti capelli bianchi alla base della nuca di Ryou. Ormai
ci è abituato da tempo, e sa già quale
sarà il prossimo passo: stringe le braccia attorno al collo
dell’uomo, dopodiché spicca un piccolo balzo,
circondandogli la vita con le gambe.
Ryou attraversa in fretta la stanza, continuando a baciarlo e a tenerlo
stretto a sé, almeno finché non raggiunge il
letto. Adagia comodamente il corpo di Keigo sul materasso, per poi
distendersi su un fianco accanto a lui.
Keigo sente le dita di Ryou scivolare sopra la sua felpa, e la cosa gli
fa sfuggire un nuovo sospiro. «Stasera non me la
sento…», confessa, desolato.
Ryou non sembra per nulla deluso. Posa un bacio sulla fronte del
ragazzo, per poi avvolgere i loro corpi nelle lenzuola. «Non
sei costretto a fare nulla che non desideri, lo sai»,
commenta, circondandogli la vita con le braccia. «Come stai?
Non pensavo neppure di trovarti sveglio, sarai
distrutto…»
«Non lo so», ammette, sistemando meglio il capo sul
cuscino. «Non riesco a chiudere occhio. Pensavo che avrebbe
fatto più male, invece sento solo una sorta di enorme vuoto
nel petto…»
Ryou gli prende di nuovo il volto tra le mani, posandogli un altro
bacio dolcissimo sulle labbra. «Ora sono qui. Possiamo
provare a dormire insieme, se vuoi», propone, senza
allontanare il volto da quello del ragazzo.
Keigo sembra apprezzare la proposta. Si accoccola volentieri contro il
corpo di Ryou, nascondendo il volto nell’incavo del suo collo.
È notte fonda. Touya non riesce a dormire.
Tenko si è addormentato con la testa sul suo petto, e Touya
non ha cuore di muoversi, poiché teme che altrimenti
potrebbe svegliarlo. Così si limita ad allungare un braccio
in direzione della scrivania, recupera il tablet e lo sblocca, aprendo
i social e cominciando a scorrere la pagina della sezione home.
Uno dei primi post che incontra è quello di un giornale
locale, che riporta la notizia di un incidente stradale in cui ha perso
la vita il conducente. Dall’anteprima dell’articolo
si vede la foto del veicolo, ormai quasi completamente del tutto
accartocciato su se stesso, solo che a Touya sembra comunque di
riconoscerlo, così clicca sul link e una nuova schermata si
apre.
Touya legge in fretta l’articolo finché i suoi
occhi non si fermano sul nome della vittima, Ukai Tomie.
La madre di Keigo.
Touya solleva lo sguardo, restando per un momento a fissare attonito un
punto nel vuoto della sua stanza buia.
Keigo arriva a Tokyo solo la mattina successiva.
Kaina apre la porta dell’appartamento, un gesto che Keigo
ormai le ha visto fare per anni, e la porta si schiude sul luogo in cui
ha trascorso la maggior parte della sua esistenza.
La luce fredda e grigia del mattino illumina il tavolino rotondo del
soggiorno, le sedie con lo schienale alto, le tende verdine. Sono tre
anni che non mette piede là dentro, eppure gli sembra che
non sia cambiato niente.
Kaina chiude la porta a chiave, tuttavia Keigo non resta ad aspettarla:
si avvia in fretta verso camera sua – neppure lì
è cambiato niente, forse c’è solo molta
più polvere di un tempo sulle mensole coi libri.
Keigo lascia cadere a terra lo zaino con i pochi effetti personali che
ha portato con sé prima di lasciare l’istituto,
per poi buttarsi pesantemente sul letto.
Si rifugia sotto la trapunta pesante. In quel momento ha solo voglia di
dormire per molto tempo.
note
... and we
are so back, gente!
è passato più di un anno da quando ho postato
l'epilogo della mia ultima long qui. e finalmente torno, con una storia
lunga e impegnativa, che mi ha tenuta occupata per dieci mesi di lavoro
(in realtà sette ma vbb) e che finalmente condivido col
mondo, anche se non ho ancora capito se fossi pronta a farlo o meno,
dopo tutto questo tempo in cui l'ho custodita gelosamente.
va anche detto che a un certo punto non ero convinta che il progetto
sarebbe mai riuscito a vedere la fine. sono rimasta bloccata per tipo
tre mesi, e ho iniziato a sospettare che questa sarebbe stata
l'ennesima storia destinata a restare incagliata nella palude
limacciosa delle storie incomplete. però a un certo punto
è successo che qualcuno
mi ha ricordato che sono una persona fortunata perché sono
meno sola di quanto credessi, e diciamo che questa è stata
un po' la spinta che mi ha permesso di arrivare alla fine della storia.
ci sono due persone in particolare che vorrei ringraziare, e anche se
non farò i loro nomi so che capiranno il riferimento.
ma parliamo della storia. è un'au, e sì,
c'è un riferimento specifico dietro (se l'avete colto good
for you), ma lo lascerò imprecisato anche perché
ho cambiato diverse cose rispetto alla versione originale sia nella
parte centrale che nel finale. ma non vi posso dire altro uu
per il resto, diciamo che anche se è un primo capitolo che
dovrebbe essere introduttivo (ho cercato di presentare un po' tutti i
personaggi principali) è piuttosto lungo. non vi
preoccupate, i capitoli successivi sono anche peggio.
(se vi state chiedendo chi sia ryou, diciamo che ci sono due risposte
possibili. se non siete in pari con il manga: ottimo, fate finta che
sia un oc! se siete in pari col manga: okay, forse potreste aver capito
di chi si tratta, in caso vi chiederei di evitare spoiler nelle
recensioni altrimenti mi linciano. il fatto è che ho letto
robe su ao3 e poi mi è tipo imploso il cervello, va bene?)
per il resto che dire. penso che scrivere una storia che avesse la
morte tra i temi principali sia stato catartico per me, e forse questo
è un altro dei motivi per cui sono così legata a
tutta la long. adesso è arrivato il momento di affidarla a
chiunque la leggerà, e spero che possa averne cura quanto me.
penso di aver detto tutto, ci vediamo presto con il prossimo capitolo!
aria
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Capitolo 2 *** fantasmi dal passato ***
Il mattino
successivo Aizawa entra in ufficio con le idee più confuse
del giorno precedente.
Al
termine
del viaggio di ritorno era esausto. Ha riaccompagnato Rei a casa,
dopodiché se n’è tornato nel proprio
appartamento,
tuttavia, una volta toccato il materasso, nonostante la stanchezza non
è riuscito a chiudere occhio, la mente già al
lavoro
sulle ricerche da fare una volta arrivato in commissariato, la mattina
successiva.
In
effetti
ci sono fin troppe cose che non tornano in merito
all’incidente
della notte precedente, ma una parte di lui ha sperato che non fosse
così.
Sarebbe
bello se le cose fossero semplici – solo che non è
mai
semplice, la vita.
Quando,
alle tre di notte, aveva girato la chiave nella serratura, aveva
trovato Nejire ad aspettarlo in cucina.
«Scusa
per il ritardo. Ho avuto un’emergenza al lavoro»,
si era giustificato, sfilandosi la giacca.
La
ragazza
aveva un’espressione tremendamente assopita, i capelli
turchini
che le ricadevano ribelli sul volto. «Si figuri»,
l’aveva rassicurato. «Si è addormentata
nel suo
letto. Ci ha messo un po’ a prendere sonno, era preoccupata
perché non la vedeva tornare.»
Shota
aveva annuito, comprensivo. Poco dopo si era affrettato a recuperare il
portafogli dalla tasca dei pantaloni, consegnando alla ragazza il suo
compenso per l'incarico da babysitter – aggiungendo un
piccolo
extra per le ore di straordinario e il disturbo. Dopodiché
era
rimasto ad aspettare, osservando Nejire infilarsi la giacca. I due si
erano salutati in silenzio, poi la ragazza aveva aperto la porta,
richiudendosela attentamente alle spalle una volta uscita.
Non
appena se n’era andata, Shouta aveva attraversato in fretta
il corridoio fino a raggiungere la cameretta di Eri.
L’unica
luce presente nella stanza era l’abat-jour accesa sul
comodino,
che rischiarava appena l’ambiente con un delicato alone
dorato.
In effetti, come gli aveva detto Nejire, Eri era nel letto, i capelli
azzurri che facevano a malapena capolino da sotto le trapunte pesanti.
Il respiro della bambina era calmo e regolare, e sul viso aveva
l’espressione beata di chi dorme un sonno profondo.
Shouta
si
era inginocchiato ai piedi del letto, accarezzando con cura la fronte
della bambina, facendo attenzione a non svegliarla: c’erano
tante
cose di cui si rammaricava, e una di queste era non essere stato
lì presente, quella notte, a vegliare su di lei mentre si
addormentava.
Era
stato
consapevole fin da prima dell’adozione che il suo lavoro non
avesse dei veri e propri orari e che, dunque, avrebbe dovuto mettere in
conto la possibilità di non tornare in tempo la sera per
darle
la buonanotte, tuttavia la lista delle cose di cui si sentiva in colpa
nei confronti di quella bambina si era allungata notevolmente, di
recente, e senza troppi dubbi al primo posto svettava il non essere
capace di spiegarle che fine avesse fatto Hizashi.
Perché il punto
è che non lo sapeva neppure lui, dannazione.
Shouta
aveva osservato il sonno sereno di Eri ancora per qualche minuto, per
poi decidersi finalmente ad alzarsi e a lasciare la stanza,
attraversando il corridoio e giungendo finalmente in camera sua. Una
volta lì, però, non era riuscito a prendere
sonno: era
rimasto tutta la notte con gli occhi spalancati a fissare il soffitto,
disteso nel letto, i pensieri in merito all’incidente di
Tomie
che si accavallavano a quelli sull’improvvisa e inspiegabile
sparizione di Hizashi.
Quella
mattina ha accompagnato Eri all’asilo come tutti i giorni, la
manina della bambina stretta attorno al suo mignolo – ogni
volta
Shouta resta intenerito a pensare a quanto siano piccole le dita di
Eri. L’ha osservata mentre correva ridendo allegra lungo il
cortile della scuola per raggiungere i suoi compagni, si è
girata solo una volta per rivolgergli il suo solito sorriso gentile e
salutarlo con un piccolo cenno della mano a cui Shouta ha ricambiato,
poi è tornata subito a voltarsi in avanti, e Aizawa ha
tenuto lo
sguardo fisso sullo zainetto a forma di ranocchia sulle sue spalle fino
a che non l’ha vista sparire tra la folla. Quando
è stato
certo che fosse entrata, si è voltato, allontanandosi dai
cancelli della scuola e avviandosi verso la macchina per andare in
commissariato.
Ora
che
è finalmente arrivato, sta cercando di fare il punto della
situazione sui fatti di ieri. Su una grossa lavagna trasparente ha
disposto alcune delle foto che i colleghi hanno scattato la notte
precedente per i rilievi, e con un pennarello bianco annota alcune
informazioni che gli sembrano necessarie. Shouta sente lo sguardo di
Tomie, intrappolata in uno scatto mentre era ancora in vita, fisso su
di sé che lo osserva e lo giudica, e si sente quasi in
soggezione a causa di questo.
Shouta
fa
dondolare tra le dita il pennarello, mentre con la mente si perde per
l’ennesima volta tra i propri pensieri. La verità
è
che è certo che, se Hizashi fosse lì in quel
momento, gli
sarebbe tutto subito più chiaro. Prima di essere il suo
compagno
di vita, Hizashi è stato – e lo è
tuttora –
suo amico e suo collega. Insieme hanno risolto una marea di casi, solo
che da quando è scomparso Shouta sente di non riuscire
più a riflettere bene come un tempo. Ha sempre la testa
impegnata in mille domande, non riesce a non chiedersi perché,
perché se si conoscono da così tanti anni
è
svanito nel nulla da un giorno all’altro, senza
avvisare,
senza dirgli niente, senza nemmeno lasciargli un biglietto in cui gli
spiegasse i motivi della sua scelta. È una decisione che
Shouta
non riesce a capire, né conoscendolo si sarebbe mai
aspettato
qualcosa del genere da Hizashi. Proprio perché lo conosce,
però, è certo che ci sia un motivo dietro a
quell’assenza improvvisa, per cui il suo primo impulso
è
stato quello di non cercarlo e di dargli del tempo, certo che avesse
preso la decisione migliore per entrambi. Solo che più i
giorni
scorrono e più la mancanza e il silenzio si fanno
soffocanti, e
Shouta non riesce a fare a meno di domandarsi se la decisione che ha
preso sia davvero quella giusta.
Shouta
è così assorto che finisce per non accorgersi
neppure che Emi si è avvicinata a lui.
«La
ricerca che mi avevi chiesto», lo informa, porgendogli dei
fogli. «Va tutto bene?»
Shouta
cerca di rimettere in fretta a fuoco la realtà.
«Mh?
Sì, sì…», commenta,
osservando il frutto
delle ricerche di Emi. «Ero solo un po’
soprappensiero,
niente di che.»
Mentra
Shouta ha lo sguardo fisso sui fogli Emi inclina appena la testa di
lato, dubbiosa, senza che lui possa vederla. Tuttavia, decide di non
insistere, limitandosi ad allontanarsi.
Nel
frattempo, Rei fa il suo ingresso all’interno del
commissariato.
Indossa la stessa lunga giacca color avorio della notte precedente,
mentre i capelli candidi sono sistemati in un’acconciatura
raffinata.
Enji
la
segue, osservandola con apprensione. Era certo che quella mattina si
sarebbe recata in commissariato, per cui si è limitato ad
andarle appresso, così da poter scoprire qualcosa di
più
sull’incidente nella migliore delle ipotesi.
Mentre
Rei
passa, tutti gli agenti seduti alle loro scrivanie sollevano lo sguardo
dai pc e la salutano, pieni di ammirazione. Enji osserva la scena, non
senza una certa dose di fierezza. Nel corso degli anni sua moglie si
è distinta come una dei più brillanti magistrati
della
città. Ora che sta per partire per Kyoto, è certo
che
anche lì verrà apprezzata il suo valore.
Rei
sorride cordiale e ricambia i saluti che le vengono rivolti, mentre
continua a camminare con passo delicato ma sicuro, come se avesse
già bene in mente la sua meta – ed Enji
è certo che
sia esattamente così.
Rei
svolta
a sinistra ed entra così in una grande stanza, dove Enji
individua subito Aizawa, fermo davanti a una grossa lavagna
trasparente. Shouta rivolge uno sguardo perplesso in direzione della
donna.
«Rei,
che ci fai da queste parti?», le chiede, e nella voce Enji
non
rintraccia alcun genere di ostilità, bensì solo
una
sincera apprensione. «Credevo che fossi impegnata con il
trasloco.»
«Sì,
ma prima voglio vederci chiaro in questa storia, ci sono diverse cose
che non mi tornano», ammette, passandosi una mano tra i
capelli
con fare casuale. «Allora, ci sono
novità?»
Shouta
si
stringe brevemente nelle spalle. «Sì. Poco fa sono
arrivati i tabulati telefonici della vittima», spiega,
porgendo a
Rei i fogli che ha in mano. «Stavo dando
un’occhiata per
cercare di capire se potesse emergere qualcosa di
interessante…»
Le
dita di
Rei si serrano con grazia attorno ai fogli. La donna si sistema
pensierosa una ciocca di capelli mentre osserva quei dati,
accigliandosi un poco non appena con lo sguardo scivola su un dettaglio
curioso.
«Qui
c’è scritto che il cellulare di Tomie si
è
agganciato a due celle in particolare ieri, e in entrambi i casi
è rimasta in quel punto per diverso tempo», nota,
sollevando lo sguardo dai fogli per cercare gli occhi di Aizawa.
«Al primo ripetitore è rimasta collegata per circa
venti
minuti, mentre al secondo quasi un’ora. Siamo riusciti a
risalire
a quali posti corrispondono?»
«Sì»,
le rivela Shouta. «Il primo è quello di un centro
studi
non troppo distante dal luogo dell’incidente, il secondo
invece
è un’area di sosta a metà strada tra i
due
posti.»
«Un
centro studi?», domanda Enji, perplesso.
Rei
riflette, restando per qualche istante a fissare un punto davanti a
sé. «Adesso dobbiamo capire perché si
trovasse
lì», commenta, assorta.
La
luce del giorno è insopportabile.
Keigo
continua a tirarsi la trapunta sopra la testa, eppure in qualche modo
quell’odioso lucore grigiastro riesce a raggiungerlo lo
stesso.
Pensava
che restare avvolto in quella sorta di bozzolo che ha formato con le
coperte gli sarebbe stato d’aiuto in qualche modo, e la sua
speranza era quella che anche i suoi pensieri finissero per diventare
più ovattati. Ovviamente, non ha funzionato.
Continua
a
sentire ininterrottamente da ieri sera una sorta di ronzio nella testa,
più o meno da quando ha visto il corpo senza vita di sua
madre.
Gli sembra di aver trascorso le ultime ore immerso in un frullatore,
sono successe troppe cose tutte insieme e non gli viene in mente alcun
modo per metterle in ordine.
In
casa c’è un silenzio assordante, ma forse
è meglio
così. Kaina dev’essere uscita presto quella
mattina per
andare al lavoro, così adesso è finalmente
rimasto da
solo dopo quelle ore confuse e frenetiche.
Il
che
è un bene. Può finalmente mettere ordine nella
sua testa.
Finora c’è stato solo quel vortice senza senso.
La
laurea,
la festa con Jin e Himiko, lui che torna in camera stremato
quando
è ormai tardissimo, Kaina che viene a svegliarlo nel cuore
della
notte per dirgli che Tomie è morta, lui che osserva il
cadavere
di sua madre disteso su una barella di metallo, Enji che torna nella
sua vita. E poi buio, buio, buio.
Keigo
strizza con forza le palpebre, cercando di ignorare la fitta di dolore
che gli invade la testa. Sembra ricordarsi solo in quel momento che non
ingerisce cibo degno di essere definito tale da almeno due giorni
– la mattina precedente non è riuscito a fare
colazione
per l’ansia in vista della seduta di laurea, e dei
festeggiamenti
con i ragazzi ricorda solo l’alcol. Tanto meglio, si dice, in
effetti il suo stomaco non sembra dell’idea di accettare
alcun
genere di alimento.
Al
primo
conato si porta una mano alle labbra, credendo di poter riuscire a
gestire la cosa. Al secondo, però, è costretto a
lanciare
in fretta le coperte dalla parte opposta del letto per poter schizzare
in bagno.
Non
ci
vuole molto prima che si ritrovi chinato a terra sulle piastrelle blu
del bagno, piegato in due e dolorante mentre vomita. Nemmeno lui sa
esattamente cosa stia rimettendo nel water, visto che in effetti non
assume cibo solido da quasi quarantotto ore, ben presto tuttavia si
rende conto che quasi certamente quella è la reazione del
suo
corpo allo stress degli eventi delle ultime ore.
Keigo
si
passa una mano sulla fronte imperlata di sudore. In quel momento si
sente così tremendamente patetico, ed è quasi un
sollievo
in effetti che in casa non ci sia nessun altro a parte lui.
Si
rimette
in piedi a fatica, tirando lo sciacquone del water e arrancando a
stento fino al lavandino. Si sciacqua le labbra con un po’ di
acqua fresca, la stessa che poco dopo lascia scorrere anche sui suoi
polsi.
Mentre
chiude il rubinetto lancia di sfuggita uno sguardo alla propria
immagine riflessa nello specchio. Non che avesse bisogno di una
conferma per sapere di avere un aspetto orribile: il volto è
terribilmente pallido, lo sguardo è segnato da occhiaie
violacee
e i capelli sono tutti arruffati.
Beh,
si
è alzato dal letto pochi minuti prima, ha appena vomitato e
la
notte precedente ha appreso la notizia della morte di sua madre, forse
per una volta è perdonato se non è esattamente
nel pieno
delle sue forze.
Keigo
si
lascia sfuggire un sospiro stanco, decidendosi finalmente a lasciare il
bagno. Si trascina faticosamente di nuovo fino in camera, lasciandosi
cadere in maniera sgraziata sul letto, la faccia che affonda nel
cuscino mentre cerca in qualche modo di portare ancora la coperta fin
sopra i capelli.
Inspira
a
fondo col naso, l’odore di pulito della federa che gli invade
le
narici e in qualche modo riesce a calmarlo. Si ritrova a pensare che
sarebbe bello, in effetti, se potesse rimanere lì sotto per
sempre, al caldo e al sicuro, lontano dalle sue
responsabilità.
Keigo
chiude gli occhi, mentre sul suo volto compare un’espressione
beata. Sta quasi cominciando a pensare che potrebbe persino
addormentarsi di nuovo così.
Almeno
finché non sente un tonfo sordo provenire dalla cucina.
In
cuor
suo, Keigo sa già di cosa si tratta, e una parte di lui
preferirebbe di gran lunga continuare a restarsene là sotto
alle
coperte. Questo, però, non risolverebbe in alcun modo le
cose,
Keigo lo sa bene.
Alla
fine,
Keigo si lascia sfuggire uno sbuffo spazientito, scalciando le coperte
in fondo al letto e tirandosi di nuovo in piedi, uscendo dalla camera e
avviandosi infastidito verso il soggiorno.
Una
volta
giunto lì trova a terra un mucchio di corrispondenza che non
sembra essere mai stata aperta. Keigo scuote brevemente la testa,
chinandosi a raccogliere la posta – e cercando di ignorare il
capogiro che avverte in quel momento.
«Preferivo
quando facevi sfarfallare le luci, sai?», commenta, lasciando
cadere nuovamente la posta sul tavolo. «E comunque questa era
roba di mia madre, non mia.»
Enji,
proprio come la notte precedente, resta per un momento immobile a
osservare il ragazzo. Lo trova pallido come uno straccio, e le occhiaie
sembrano non volerne sapere di sparire dal suo viso. Nonostante tutto,
non riesce a non sentirsi tremendamente preoccupato per lui.
«Stai
bene?», si decide finalmente a domandargli, e finisce per
essere
lui stesso il primo a sorprendersi nel modo in cui la sua voce sia
suonata incredibilmente soffice. «Hai un
aspetto…»
«Orribile?
Sì, lo so, ti ringrazio», commenta Keigo,
sarcastico.
«Temo che sia per via del fatto che ieri ho visto il corpo
morto
di mia madre davanti agli occhi, sai?»
Enji
si
morde le labbra, dandosi mentalmente dell’idiota.
«A
proposito di stanotte, ci tenevo a dirti che mi dispiace sul serio per
quello che è successo», ammette, fissando il
ragazzo con
sguardo colpevole. «Dev’essere difficile per
te…»
Keigo
si
limita a scuotere brevemente la testa. «Alla fine era solo
una
persona senza vita», taglia corto, lo sguardo che per un
momento
vaga in direzione della finestra. «Per anni è
stata
praticamente un’estranea per me, quindi questa non
è che
l’ennesima occasione in cui la morte finisce per passarmi
accanto.»
Enji
annuisce brevemente, per poi cercare di mettere in ordine le idee.
«Ho bisogno di vedere l’ultimo posto in cui ha
vissuto», ammette, cercando di non suonare troppo rude.
«Forse lì potrebbe esserci qualcosa di
utile.»
«Mh…»
Keigo riflette per qualche istante. «Mia madre e Kaina non
abitavano più qui insieme da almeno tre anni, ovvero da
quando
sono andato via insieme a Ryou. Lei, a differenza di Kaina, non aveva
accettato la mia decisione e la cosa ha scatenato anche degli attriti
tra di loro. La posta continuava ad arrivare qui perché
Kaina le
aveva permesso di mantenere l’indirizzo, ma da quello che ho
capito si era trasferita in un appartamento a Ueno dato che
l’affitto era basso. Già, aveva perso anche il
lavoro…»
«Ottimo»,
commenta Enji, mentre individua tra le parole del ragazzo
l’informazione che gli serve. «Dobbiamo andare
lì.»
«Adesso…?»,
domanda Keigo, sorpreso.
«No,
quando, tra due mesi?», replica Enji, sarcastico.
Keigo
sposta nuovamente lo sguardo in direzione della finestra, lasciandosi
sfuggire un piccolo sospiro. «No, è
che… questo
pomeriggio c’è il funerale di mia
madre», ammette, e
per un momento la sua voce suona così lontana…
Enji
si
sente nuovamente uno stupido. Non pensava che, dopo tre anni, tornare a
parlare con Keigo sarebbe stato così difficile. E non
c’entra nemmeno quanto è successo quella notte sul
tetto,
è solo che… di colpo, sembra essere diventato
tutto
complicato.
«Oh…»,
mormora soltanto, senza riuscire ad aggiungere nient’altro.
Tra
i due,
quello a tornare in sé più in fretta sembra
essere Keigo.
Il ragazzo scuote brevemente la testa, dopodiché prova ad
accennare un piccolo sorriso. «Però se vuoi posso
darti
l’indirizzo», propone, conciliante.
Chiamare
il posto a Ueno in cui Tomie ha vissuto negli ultimi tempi appartamento
è fin troppo cortese, Enji se ne rende conto dal primo
momento
in cui si ritrova là dentro.
Le
dimensioni degli ambienti sono estremamente ridotte. Di base
è
un bilocale che, oltre al bagno, comprende una stanza in cui Tomie
doveva fare un po’ tutto: cucinare, mangiare, fare ricerche,
dormire.
Una
delle
prime impressioni che Enji finisce per avere è che, viste le
condizioni in cui Tomie ha lasciato l’appartamento,
decisamente
non programmava di non farvi ritorno – motivo in
più per
poter escludere con maggior decisione il suicidio dalle ipotesi
investigative. Sui fornelli ci sono ancora le pentole con cui si
è preparata forse uno degli ultimi pasti, e sul tavolo
alcune
stoviglie da lavare.
Sul
divano
è abbandonata una coperta dall’aspetto pesante, e
l’uomo si trova a provare pena al pensiero che,
probabilmente,
Tomie si era ridotta a dormire su quei cuscini scomodi.
Non
ci
sono elementi che stonano in modo particolare, nulla che attiri
più di tanto l’attenzione di Enji. Sembra tutto
incastonarsi, trovare il proprio aspetto nell’impolverato
quadro
d’insieme: la credenza con il vasellame, le spugne dalla
superficie abrasa nell’acquaio, una lattina di birra lasciata
aperta e bevuta per metà vicino al piatto coi residui di
cibo.
Eccetto
che per un piccolo, curioso dettaglio.
Sul
tavolo, infatti, Tomie ha lasciato un faldone dall’aspetto
voluminoso. Enji vede che ci sono alcuni fogli che sporgono da sotto la
copertina di cartone rigido, solo che sono coperti e non riesce a
leggere cosa vi sia scritto sopra.
In
realtà questo non è un ostacolo che un fantasma
non possa
superare. Enji si lascia sfuggire un piccolo sospiro,
dopodiché
non deve far altro che desiderare
che il faldone cada a terra e, l’istante successivo, il
fascicolo
vola verso il suolo, impattando contro le piastrelle bianche del
pavimento e aprendosi, alcuni fogli che subito scivolano fuori.
È
in quel momento che Enji si accorge che, oltre ai fogli, il faldone
contiene anche una miriade di foto.
Non
appena si rende conto di cosa immortalano, sul suo volto compare
un’espressione terrorizzata.
È
strano trovarsi davanti alla tomba di sua madre.
Probabilmente
rientra in quel genere di esperienze che devi affrontare, a un certo
punto della vita, ma anche se lo sai cerchi comunque di evitare in
tutti i modi di pensarci, perché tanto sei convinto che
arriverà il più tardi possibile.
Poi
una
mattina ti svegli, scopri che lei non c’è
più e
finisci per vivere in questa specie di realtà paradossale.
Keigo
sente di star vivendo quelle ultime ore come una sorta di esperienza
extracorporea. È come se fosse
un’entità estranea,
un po’ come Enji, che osserva quelle scene
dall’alto, senza
riuscire in alcun modo a lasciare un segno tangibile della propria
presenza sul mondo che gli scorre intorno.
La
giornata non è delle più terse, e in un certo
senso a
Keigo quello sembra proprio il clima adatto per un funerale. Il vento
freddo che gli pizzica le guance, il cielo plumbeo con le nuvole
cariche di pioggia, il rumore di tuoni in lontananza che segna
l’avvicinarsi di un temporale.
Dopo
il
funerale il cimitero si è svuotato piuttosto in fretta.
Kaina
è rimasta con lui più a lungo di chiunque altro,
ma alla
fine è dovuta tornare al lavoro. Keigo l’ha
sentita
stringergli la spalla con fare simpatetico, ma non ha provato alcuna
sorta di rancore nel vederla allontanarsi: va bene così, era
la
cosa giusta da fare.
Adesso
che
Keigo si sente finalmente solo, per un momento gli sembra perfino di
riuscire a provare un po’ di pace, cosa che non avrebbe
creduto
possibile per almeno qualche altro giorno. All’apparenza
l’unico a tenergli compagnia è quel vento gelido
che
continua a soffiare tra le lapidi.
E
anche
questo va bene così, davvero. Forse è esattamente
ciò che gli ci voleva per mettere un po’ di ordine
tra i
pensieri, una buona volta per tutte.
S’inginocchia
a terra, le dita di una mano che affondano nel terreno freddo e umido.
Di nuovo, questa gli sembra la cosa giusta da fare in quel momento,
come se fosse un ultimo contatto tra lui e sua madre. L’erba
gli
bagna i jeans, probabilmente li macchierà anche di verde, ma
in
quel momento non riesce a curarsene.
Chiude
gli
occhi, inspirando a fondo. In quel momento sente
un’altra
folata di vento gelido scuotere il suo corpo, e la sensazione che prova
è tremendamente intensa.
Si
sente vivo come non gli capitava da anni.
Keigo
riapre gli occhi di scatto, mentre le dita serrate a pugno tornano a
dischiudersi e il terriccio cade nuovamente verso il suolo. Quello
è forse il suo modo di dire addio a Tomie. Se
c’è
da sentire qualcos’altro, Keigo non riesce a percepirlo.
Cerca
di
rialzarsi in fretta, scrollando via il fango dalla mano e dai jeans
inzaccherati. Gli sfugge un piccolo sospiro, poi, dopo aver lanciato
un’ultima occhiata al sepolcro di sua madre, si decide
finalmente
a voltargli le spalle, avviandosi verso l’uscita del cimitero.
Per
tutto
il tempo, Keigo continua ad avvertire l’inquietante
sensazione di
essere osservato, come se due occhi fossero sempre fissi su di lui.
Strano, però, gli sembra di non aver visto nessuno aggirarsi
da
quelle parti.
È
un’impressione piuttosto angosciante, per cui Keigo cerca di
affrettarsi lungo il tragitto. Abbandona la stradina di terra ed erba
che serpeggia tra le lapidi, e solo nel momento in cui avverte
nuovamente il familiare scricchiolio dei sassolini che inondano il
viale che conduce all’ingresso del cimitero sotto agli
scarponcini si sente un po’ più tranquillo. Si
lascia
sfuggire un sospiro di sollievo, per poi riprendere a camminare,
stavolta più lentamente.
È
in quel momento che, però, sente arrivare una voce alle sue
spalle.
«Keigo!»,
lo chiama infatti qualcuno – e Keigo non stenta a
riconoscerlo,
sa già di chi si tratti prima ancora di voltarsi.
Una
parte di lui vorrebbe
ignorarlo, solo che sa che non
può
farlo, nel silenzio del cimitero deserto non può fingere di
non
averlo sentito. Così alla fine si volta, stringendo
nervosamente
tra le mani la tracolla della borsa che ha portato con sé,
mentre rimane tra i due cipressi vicino a cui si è fermato.
Ovviamente
non si è sbagliato, e la voce è – in
effetti
– quella di Touya. Vede il ragazzo affrettarsi mentre cerca
di
raggiungerlo, una mano che si agita in segno di saluto nella sua
direzione e l’accenno di un sorriso sul volto. Nota anche
che,
all’apparenza, l’altra mano è stretta
attorno al
collo del maglione di un ragazzo che si sta letteralmente trascinando
appresso.
«Touya?»,
finisce per domandare Keigo. Per quanto abbia riconosciuto la sua voce,
infatti, è comunque sorpreso di vederlo da quelle parti.
Quando
lo
raggiunge, Touya si decide finalmente ad allentare la presa attorno al
maglione dell’altro ragazzo – che pare piuttosto
sollevato
dalla cosa.
Sotto
lo
sguardo confuso di Keigo, Touya trae alcuni respiri profondi, cercando
di riprendersi dopo la breve corsa. «Ehi»,
esordisce,
mentre continua a sorridergli con fare gentile. «Ho saputo
dell’incidente e… ci tenevo a farti le
condoglianze.»
Keigo
espira piano, e Touya non riesce a non notare come i suoi occhi dorati
siano stanchi e segnati dalle occhiaie. «Ti
ringrazio»,
mormora soltanto, forse nel tentativo di sminuire il tumulto che sente
dentro di sé.
Più
guarda Keigo e più Touya si convince che ci sia qualcosa di
strano in lui, e i suoi gesti e le parole non riescono proprio a
convincerlo del contrario. Ciononostante, si limita comunque a
continuare a sorridergli – alla fine ha appena perso sua
madre,
è normale che sia quantomeno sconvolto.
Touya
sembra ricordarsi solo in quel momento di non essere da solo. Scuote la
testa, e Keigo nota che sul volto gli compare un’espressione
tremendamente buffa. «Oh, già, quasi
dimenticavo»,
ammette, voltandosi verso la persona al suo fianco. «Non so
se lo
conosci già, ma volevo presentarti Tenko.»
Keigo
si
acciglia. È certo che quella non sia la prima volta che vede
quel ragazzo: i capelli bianchi e gli occhi rossi hanno
un’espressione familiare, così come
quell’espressione imbronciata che ha in volto mentre tiene le
braccia conserte strette al petto. Probabilmente sta cercando di
assumere un aspetto infastidito, eppure Keigo finisce quasi per esserne
intenerito.
«Piacere»,
commenta, allungando una mano nella sua direzione.
«È una
mia impressione o ci siamo già visti da qualche
parte?»
Tenko
ricambia debolmente la sua stretta.
«Piacere…», mormora, osservandolo con
fare dubbioso.
«Probabile»,
valuta Touya, osservando soddisfatto lo scambio tra i due.
«Tenko
frequentava il nostro stesso liceo. Ci siamo conosciuti ad una festa
organizzata da degli amici in comune.»
Keigo
annuisce. Sì, in effetti è possibile che possa
averlo
incrociato qualche volta, mentre camminava lungo i corridoi della sua
vecchia scuola. «E immagino che stiate insieme»,
commenta,
lo sguardo che si sposta in fretta dall’uno
all’altro.
Touya
sembra quasi essere stato colto in contropiede, ma alla fine sorride.
Appoggia la testa sulla spalla di Tenko, e l’altro ragazzo
gli
circonda la vita con un braccio. «Già»,
ammette.
«Da un po’ di tempo viviamo anche insieme. Andiamo
entrambi
all’università, ingegneria ambientale io,
programmazione
lui. Quest’anno abbiamo ottenuto tutti e due la borsa di
studio,
così a breve ci trasferiremo a Praga.»
Mentre
ascolta il suo discorso, Keigo si ritrova a riflettere che, nonostante
tutto, è felice che Touya sia riuscito ad andare avanti con
la
sua vita. Vede Tenko strofinare la punta del naso contro il collo
dell’altro ragazzo, e pensa che lo solleva sapere che Touya
abbia
trovato qualcuno che lo ami davvero.
«Sono
felice per voi», commenta, stringendo la tracolla della borsa
tra
le mani. «Ora scusatemi, ma devo proprio
andare…»
Keigo
riprende ad allontanarsi in fretta, mentre nell’aria risuona
di
nuovo l’eco di un tuono. Nonostante tutto, non riesce a
smettere
di sentirsi osservato.
Mentre
torna a casa scoppia un acquazzone tremendo.
Nel
momento in cui s’infila nel tunnel coperto che conduce al
portone
d’ingresso del suo palazzo, Keigo non riesce a non farsi
sfuggire
un sospiro dalle labbra. Si sfila il cappuccio della felpa dal capo,
è fradicio dalla testa ai piedi, non vede l’ora di
salire
in casa e cambiarsi con dei vestiti asciutti.
I
suoi
passi riecheggiano lungo il tunnel, gli scarponcini umidi di pioggia
lasciano una scia d’impronte bagnate al loro passaggio. La
verità è che vedere di nuovo Touya gli ha fatto
un
effetto strano: alla fine è una persona con cui, nel bene e
nel
male, ha condiviso una parte della sua vita. Rispetto ad alcuni dei
ragazzi che ha conosciuto all’istituto, Keigo sa di potersi
ritenere fortunato: le poche persone a conoscenza del suo dono
–
Kaina e Touya – l’hanno accettato e capito.
Almeno
finché non ha incontrato Ryou.
Keigo
scuote brevemente la testa, affrettandosi verso l’ingresso.
È in quel momento che avverte di non essere solo nel tunnel.
«Sono
stato a casa di tua madre.» La voce di Enji vibra attraverso
le
pareti di cemento, Keigo sente che il fantasma si sta avvicinando
rapidamente a lui – e non gli sembra affatto tranquillo.
«Sul tavolo c’era un fascicolo.»
«Ah,
sì? Ma non mi dire», commenta Keigo con fare
disinteressato, infilando le mani nelle tasche della giacca. Affretta
il passo, ha un sospetto su ciò che Enji possa aver scoperto
e
non ha alcuna voglia di parlarne.
«Un
fascicolo che conteneva delle foto», insiste Enji, e Keigo
riflette che sono poche le volte in cui l’ha sentito
così
furioso prima d’ora – Enji è irascibile
e collerico,
sì, ma questa volta c’è qualcosa di
diverso. Nella
rabbia la voce rimane bassa, e questo lo rende più temibile.
«Delle foto in cui eri sottoposto a delle scariche di
elettroshock.»
Stavolta
Keigo si ferma. Si trova nei pressi di una delle finestre circolari che
offre una vista sul cortile sottostante. Piuttosto che ricambiare lo
sguardo di Enji – sa perfettamente che non riuscirebbe a
sostenerlo, in quel momento – resta a osservare
l’acero che
viene funestato dalla pioggia.
In
realtà Enji è preoccupato. Lo è da
quando ha
notato le occhiaie violacee sul volto pallido di Keigo, la notte
dell’incidente, e lo è ancora di più
adesso che ha
visto quelle foto. Vorrebbe solo capire, perché
ciò che
si è trovato davanti lo ha spaventato a morte, e sa che di
sicuro c’è una spiegazione, deve
esserci…
«Chi
è stato a farti del male?», domanda, e la sua voce
suona dolce, tremendamente in apprensione.
Keigo,
però, non risponde. Serra la mano attorno alla tracolla
della
borsa e contrae la mascella, mentre lo sguardo fisso sul cortile
s’incupisce.
Quel
silenzio, però, è fin troppo eloquente per Enji.
Sente
una rabbia più accecante salirgli in petto, e stavolta fa
fatica
a trattenersi. «È stato Ryou?», gli
chiede ancora,
il tono della voce che s’alza di intensità.
Le
sue
parole riescono finalmente a scatenare una reazione in Keigo, solo che
non è affatto quella che Enji si aspettava. Il ragazzo
infatti
si volta verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. «E se
anche
fosse?», domanda sprezzante. «E comunque non ho
fatto nulla
contro la mia volontà.»
Enji
non
sembra per nulla rassicurato dalle sue parole. «Keigo, questa
non
è una cosa qualunque. È una roba seria, e
pericolosa», cerca di farlo ragionare, cautamente.
«Perché l’hai fatto?»
«Guarda
che l’ha fatto con tutti noi», replica Keigo, con
fare
sardonico. «E comunque ha detto che ci avrebbe aiutato a
capire
l’origine dei nostri poteri.»
Enji
serra
con decisione le braccia al petto. «Ah, quindi per te
è
normale lasciarsi usare come delle cavie da laboratorio?»,
commenta, seccato.
Keigo
si
stringe nelle spalle. «Io non sapevo niente dei miei poteri,
e
pensavo che trattenerti qui mi avrebbe aiutato a
capire…»,
si giustifica, lo sguardo che torna a fuggire oltre il vetro.
«Beh,
non mi pare che sia servito a molto», taglia corto Enji, il
tono
della voce che torna a indurirsi. «Per colpa del tuo
gesto
egoista mi hai condannato a restare nel mondo dei vivi senza darmi la
possibilità di andarmene… ogni giorno vedo la mia
famiglia andare avanti senza di me, senza che io possa in qualche modo
comunicare con loro…»
«Pensi
di essere l’unico a sentirsi solo?» Keigo si volta
nuovamente nella sua direzione, e stavolta urla anche lui, la voce che
trema e alcune lacrime che per un momento minacciano di cadergli
giù dagli occhi. «Come pensi che mi senta io, che
vedo un
fantasma e non posso parlarne con nessuno per paura del loro giudizio?
Almeno dopo che Ryou mi ha portato all’istituto ho conosciuto
persone come me, persone che possiedono un dono e possono capire come
mi sento. Himiko percepisce le presenze, non può vederle
come me
ma almeno sa se un fantasma si trova nella sua stessa stanza. Jin ha
un’empatia fuori dall’ordinario, sente in maniera
nitida lo
stato d’animo di chiunque lo circondi. A volte penso che
tutto
ciò di cui avessi bisogno fosse esattamente questo, ovvero
qualcuno in grado di capirmi.»
Stavolta
è Enji a distogliere lo sguardo. La verità
è che
no, non ha mai preso in considerazione i sentimenti di Keigo in merito
a tutta quella storia, e non ha pensato che potesse sentirsi solo
quanto lui.
Quando
solleva nuovamente lo sguardo, si accorge che Keigo è
tornato a fissare in cortile. Il ragazzo ha
un’espressione
tristissima sul volto, ed Enji non riesce a fare a meno di sentirsi
mortificato.
«Rei
ha scoperto che il giorno dell’incidente il cellulare di
Tomie si
è agganciato alla cella telefonica
dell’istituto»,
gli confessa, quasi in un tentativo di farsi perdonare.
Keigo
torna a voltarsi verso di lui, e stavolta sembra sinceramente sorpreso.
«Io non l’ho vista lì»,
ammette, ed Enji
intuisce dalla sua espressione smarrita e confusa che stia cercando un
dettaglio, un singolo appiglio della memoria che possa aiutarlo a
rintracciare la presenza di sua madre pochi giorni prima in quel luogo.
«Se
Tomie era effettivamente venuta a conoscenza degli esperimenti di Ryou,
è probabile che sia venuta fin lì per
affrontarlo»,
commenta Enji, cercando di rimettere insieme i pezzi.
«Pensi
che sia stato Ryou…?», domanda Keigo. Enji nota
che il
ragazzo ha lo sguardo vacuo, e per un momento teme che sia sul punto di
svenire.
«Keigo,
cos’hai? Ti senti male?», gli chiede subito, in
apprensione.
Il
ragazzo
afferra la soglia in cemento accanto a sé per cercare
stabilità. «No, è che… non
posso credere di
aver buttato tutto questo tempo… non può avermi
ingannato
per tre anni…», mormora, sconvolto.
L’aria
di maggio era calda e soffocante.
L’ultimo
pensiero di Keigo, in quei giorni, era lo studio. Eppure, tra Touya e
sua madre, il mondo sembrava essersi messo d’accordo
pur di
spingergli a forza la testa sui libri in vista degli esami di fine anno.
Anche
quel
pomeriggio, come tutti gli altri negli ultimi tempi, erano entrati
all’Owl mentre il sole cocente era ancora alto nel cielo.
Keigo
aveva ansimato, cercando disperatamente la frescura del condizionatore
acceso nel locale.
«Dio,
Touya, devi smetterla di costringermi ogni giorno a fare questa
traversata infernale», si era lamentato, lasciandosi cadere
sulla
sedia di uno dei tavolini. «Prima o poi mi ritroverai sciolto
sull’asfalto.»
Il
suo
compagno di studi l’aveva ignorato, posando lo zaino sul
tavolino
e, dopo averlo aperto, cominciando a estrarre vari libri e quaderni.
«Se questa è una delle tue scuse per non studiare
sappi
che non funzionerà, Keigo», l’aveva
ammonito,
inflessibile.
A
Keigo
era sfuggito un lungo lamento, mentre aveva lasciato cadere la testa
pesantemente sul tavolo. Tomie, nel frattempo, si era avvicinata a
loro, posando sul tavolino del cibo e alcune bevande. «Ah,
Touya,
è una fortuna che ci sia tu», aveva commentato,
sorridendo
riconoscente al ragazzo. «Se non fosse per te mio figlio non
avrebbe speranze con gli esami finali.»
«Non
essere così dura, Tomie», si era sminuito il
ragazzo.
«In realtà Keigo va piuttosto bene a scuola, ma
con
matematica la storia è diversa…»
Matematica.
Solo sentire quella parola aveva fatto sfuggire a Keigo un altro gemito
di protesta. Il ragazzo aveva sollevato la testa – quanto
bastava
per incontrare con lo sguardo i suoi dolci preferiti, i danesi alla
crema. Subito i suoi occhi si erano illuminati, e una mano era scattata
in avanti per afferrarne in fretta uno. Se l’era portato alle
labbra, prendendone avidamente un morso e lasciandosi invadere dal suo
sapore delizioso appena era finito in bocca.
Tomie
aveva lasciato una spinta contro la spalla di Keigo, incurante dei
mugolii deliziati di suo figlio o delle deboli proteste che, era certa,
adesso avrebbe provato a sollevare. «Ingordo»,
l’aveva rimproverato, osservandolo con biasimo.
«Comunque
vedi di dare retta a Touya e studiate per questi benedetti esami. Se
t’impegni puoi raggiungere un buon risultato, lo
sai.»
Tomie
aveva rivolto un ultimo sguardo riconoscente in direzione di Touya, per
poi affrettarsi a tornare dietro al bancone.
Keigo,
dal
canto suo, si era appoggiato allo schienale della sedia con aria
imbronciata, sbocconcellando il suo dolce e ignorando le briciole che
gli cadevano sulla salopette di jeans e sulla t-shirt. Non sopportava
l’idea che Touya e sua madre avessero stretto quella tacita
alleanza che, ai suoi occhi, appariva soltanto come un modo per
metterlo ancora di più in difficoltà. Aveva
posato il
dolce sul piattino, afferrando il bicchiere di succo all’ace
– anche quello era il suo preferito, dannazione – e
prendendone un piccolo sorso mentre osservava Touya in cagnesco.
Il
ragazzo, come al solito, non sembrava affatto infastidito dalle sue
occhiatacce, anzi piuttosto a giudicare dal sorriso sul suo volto si
stava divertendo parecchio. Touya aveva scosso brevemente il capo, per
poi cominciare a sfogliare il libro alla ricerca degli esercizi che
aveva intenzione di proporre a Keigo quel giorno.
«Dai,
muoviti, apri il quaderno», lo aveva esortato, recuperando
una penna dall’astuccio.
Keigo
si
era lasciato sfuggire nuovamente un lungo sospiro, ma alla fine aveva
assecondato Touya, sollevando la copertina rossa del suo quaderno.
Probabilmente quella non era affatto una scena nuova per la clientela
del locale.
Keigo
l’aveva notato fin dal primo momento in cui era entrato.
Anche
quel giorno il cliente abituale dell’Owl era lì.
Passava
l’intero pomeriggio seduto a uno dei tavolini, leggendo il
quotidiano del giorno e sorseggiando caffè amarissimo. Keigo
era
rimasto subito affascinato da quel tipo, e ormai l’aveva
osservato così tante volte da essere certo di conoscere ogni
dettaglio di lui: gli occhiali dalla sottile montatura nera che metteva
solo per leggere, il fatto che fosse sempre vestito in maniera
impeccabile, le dita affusolate che giravano con lentezza ogni singola
pagina, il modo elegante in cui si portava la tazzina di
caffè
alle labbra. C’era qualcosa di magnetico, in
quell’uomo
dagli occhi rossi e i corti capelli bianchi, al punto che ogni volta
Keigo rimaneva incantato a osservarlo per un tempo indefinibile.
Keigo
aveva lanciato un’ultima occhiata furtiva al cliente, per poi
abbassare di nuovo lo sguardo sul quaderno e trascrivere
l’esercizio che Touya gli stava dettando.
Come
se non bastasse, oltre allo studio per gli esami in quel periodo si era
aggiunto anche l’impegno con il locale.
Gli
faceva
piacere aiutare sua madre con l’Owl, questo andava detto.
Servire
cappuccini e tramezzini era decisamente più avvincente che
destreggiarsi con le equazioni di secondo grado, almeno per lui.
Quella
sera aveva visto Tomie particolarmente stanca, così le aveva
proposto di occuparsi lui della chiusura del locale. Lei, nel
frattempo, sarebbe potuta andare a casa a riposarsi, e Keigo le aveva
assicurato che la cosa non gli pesasse.
Ora
che
stava abbassando la saracinesca del locale, però, qualche
dubbio
aveva cominciato a tormentare la sua mente. Forse accettare di restare
lì fino a tardi non era stata esattamente una mossa
brillante,
soprattutto visto che anche quel pomeriggio aveva studiato con Touya e
la mattina successiva lo attendeva una giornata di lezioni –
e a
seguire le ennesime ripetizioni supplementari, già.
Ultimamente,
in effetti, la sua vita si stava rivelando più stressante
del
previsto.
In
ogni
caso, anche quella sera era finita. Adesso non doveva far altro che
tornare a casa e ficcarsi sotto le coperte. Al resto ci
avrebbe
pensato domattina, si era detto.
Quando
si
era voltato, però, si era ritrovato a sobbalzare. Credeva di
essere da solo, e soprattutto non si aspettava che il cliente abituale
lo stesse aspettando là fuori – sbagliava o era
andato via
ore prima?
«Ryou!
Mi hai fatto prendere un colpo…», aveva ammesso,
portandosi una mano al petto.
L’uomo
aveva sorriso. Keigo aveva scoperto il suo nome quando, un pomeriggio,
era stato lui a servirgli il solito caffè amaro. La
conversazione tra loro era nata in maniera assolutamente spontanea, e a
dir la verità Keigo era stato felice di parlare con lui.
Ryou
non era soltanto una persona interessante da osservare. Anche le sue
parole, il modo in cui esprimeva un’opinione o argomentava un
discorso, era a dir poco affascinante.
«Perdonami,
Keigo, non era mia intenzione spaventarti», aveva confessato,
staccandosi col corpo dalla barriera in ferro a cui s’era
appoggiato. «In realtà ti stavo
aspettando.»
«Aspettavi
me? A quest’ora? Perché?», aveva
domandato Keigo, confuso.
Ryou
si
era avvicinato a lui, carezzandogli una guancia con la mano.
«Ti
andrebbe di venire in un posto insieme a me? Dovrei parlarti di una
questione importante…», aveva mormorato,
fissandolo
intensamente negli occhi.
Keigo
aveva sentito il suo volto avvampare di colpo.
Non
aveva
la più pallida idea del perché avesse accettato.
Eppure
gli aveva detto di sì, senza battere ciglio.
Probabilmente
era per via del magnetismo che quell’uomo emanava. Keigo
iniziava
a sospettare che, se gliel’avesse chiesto, si sarebbe buttato
da
una scogliera per lui.
Ryou
aveva
una berlina sportiva estremamente veloce. Keigo aveva serrato
nervosamente le dita attorno alla cintura di sicurezza, terrorizzato
mentre la vettura continuava a sfrecciare tra impervi tornanti di
montagna.
A
un certo
punto si erano fermati proprio in prossimità di una curva.
Ryou
aveva spento il motore ed era sceso dall’auto, e Keigo, dopo
un
momento d’esitazione, si era limitato a seguirlo.
Da
lassù Tokyo appariva in tutto il suo splendore. La
città
era costellata da una miriade di piccole luci, e a osservare quel
panorama dall’alto sembrava che fosse tutto così
microscopico, i palazzi, la gente, le preoccupazioni…
«Wow»,
aveva mormorato Keigo, estasiato. «È
bellissimo…»
«Sono
felice che ti piaccia», aveva commentato Ryou, avvicinandosi
a
lui. «In realtà venivo spesso in questo posto con
mio
fratello.»
Keigo
si
era voltato verso di lui, sorpreso. «Non sapevo che avessi un
fratello…», aveva ammesso, accigliandosi.
Ryou
aveva
sorriso osservando l’espressione dubbiosa del ragazzo.
«È morto tanto tempo fa, ormai», gli
aveva
confessato, la voce che sembrava essere diventata distante come quella
di chi accarezza un vecchio ricordo. «A volte però
vorrei
che fosse ancora qui…»
Keigo
lo aveva osservato con fare guardingo. «A che ti
riferisci?», gli aveva domandato, con circospezione.
Ryou
aveva
continuato a sorridere in direzione di Keigo. «Quando
è
morto, io… ho visto il suo fantasma», aveva
ammesso, quasi
sentendosi sollevato nell’averlo detto ad alta voce.
Keigo
aveva scosso la testa con decisione. Sapeva che non avrebbe dovuto
fidarsi. Non sapeva come, ma evidentemente doveva essersi sparsa in
giro la voce che lui e Tomie potevano vedere i morti, o perlomeno era
arrivata alle orecchie sbagliate. Ci mancava solo che la gente
cominciasse ad avvicinarsi a lui e a sua madre per trattarli come dei
fenomeni da baraccone. Si era avviato nuovamente verso
l’auto, ma
senza alcuna intenzione di salirvi. «Senti, grazie per la
passeggiata, questo posto era davvero bello. Adesso scusami ma devo
tornare a casa, non disturbarti a riaccompagnarmi, vado a
piedi…», aveva bofonchiato, prendendo a camminare
lungo
una vecchia stradina polverosa e piena di ciottoli.
«Aspetta,
Keigo! È la verità!» Ryou gli era corso
appresso,
afferrandolo piano per il polso. «È vero, mi sono
messo
sulle tue tracce e su quelle di tua madre perché ho scoperto
che
possedete questo dono, ma desideravo trovarvi proprio perché
anche io sono come voi! Posso anche parlare con loro, ma riesco a farlo
solo se non hanno già attraversato la porta
dell’inferno!»
Alla
menzione della porta dell’inferno, Keigo si era deciso
finalmente
a fermarsi. Nessuno, a parte lui e Tomie, era a conoscenza di quella
storia. Pertanto, se Ryou gliene aveva parlato, probabilmente la sua
storia era vera.
Keigo
si
era girato con aria dubbiosa in direzione dell’uomo.
«Per
cui… tuo fratello è rimasto?», aveva
domandato,
cercando di scoprire cautamente qualcosa di più.
«No»,
aveva ammesso Ryou, scuotendo brevemente la testa.
«L’ho
visto con i miei occhi attraversare la porta dell’inferno.
Però… non siamo soli, Keigo. Ho scoperto che
esiste un
posto, qui in Giappone, in cui sono accolte tutte le persone che come
noi possiedono un dono. Se tu lo desiderassi, io potrei portarti
lì…»
Un posto in cui si trovavano
delle persone come lui? Qualcuno che fosse finalmente in grado di
capirlo?
A Keigo tutto ciò sembrava un sogno. Da quando Enji era
piombato
nella sua vita, aveva scoperto di essere in grado di fare cose di cui
non si sarebbe mai creduto capace. Solo che non sapeva perché
ci riuscisse. L’idea di scoprirlo, in effetti, suonava
così incredibilmente allettante, nelle sue
orecchie…
Keigo
aveva scosso brevemente il capo. «Ho bisogno di
rifletterci», aveva concluso, lasciandosi sfuggire un piccolo
sospiro. «Adesso puoi riaccompagnarmi a casa, per
favore?»
«Certamente»,
aveva concesso Ryou, in tono benevolo.
L’uomo
aveva porto una mano nella sua direzione. Keigo si era limitato ad
afferrarla, e Ryou l’aveva condotto verso la macchina.
«Cosa…?
No! Perché?!»
«Non
posso lasciarti andare, Enji… non finché non
avrò capito perché siamo legati.»
«Lasciami
andare, Keigo! Lasciami andare!»
Keigo
era
rimasto lì, in cima a quel tetto e sotto al diluvio, anche
dopo
che Enji se n’era andato. Aveva osservato attonito il punto
in
cui lo aveva visto svanire, ancora incredulo per ciò che era
riuscito a fare.
Lo
aveva
trattenuto. Gli aveva impedito di attraversare la porta
dell’inferno. Non sapeva neppure di essere in grado di fare
una
cosa del genere.
Ora
che
era rimasto lì da solo, non aveva idea di che cosa fare. Si
era
limitato a lasciare quel palazzo, per poi cominciare a vagare senza
meta.
O
almeno, all’apparenza vagava senza meta. In
realtà, la sua mente sapeva esattamente dove stesse andando.
Aveva
attraversato tutta Tokyo a piedi, fino a quando non era giunto nei
pressi di una villa lussuosa. Una volta lì, aveva superato
in
fretta i cancelli all’ingresso, per poi percorrere il viale
che
conduceva al portone.
Dopo
aver
sentito il suono del campanello, Ryou era andato quasi subito ad
aprire. Quando aveva spalancato la porta d’ingresso, si era
ritrovato Keigo fermo lì sulla soglia, fradicio di pioggia
dalla
testa ai piedi e col volto segnato dalle lacrime.
«Keigo!
Cos’è successo?», gli aveva domandato
subito, in apprensione.
«L’ho
trattenuto… non so come ho fatto…
io…», aveva biascicato, confuso.
Prima
che
Ryou potesse provare a chiedergli qualcos’altro per cercare
di
capire, Keigo si era spinto in avanti. Aveva afferrato il volto di Ryou
con entrambe le mani, posando un bacio dal sapore disperato sulle sue
labbra.
In
un
primo momento, Ryou era rimasto completamente spiazzato. Ben presto,
però, aveva fatto scorrere una mano tra i capelli bagnati di
Keigo, attirandolo maggiormente a sé e approfondendo il
bacio
mentre chiudeva la porta.
Keigo
aveva abbassato le palpebre, abbandonandosi completamente al tocco
delle mani di Ryou. Aveva sentito l’uomo sollevarlo da terra
afferrandolo per i fianchi, e si era ritrovato a mugugnare quando si
era accorto che l’aveva spinto contro una parete per baciarlo.
La
verità era che aveva trattenuto Enji perché lo amava. Se gli
avesse lasciato attraversare la porta, avrebbe perso tutti i ricordi
che lo legavano a lui.
E
Keigo non poteva permetterlo.
«Ti
prego, portami con te», aveva ansimato, mentre le labbra di
Ryou
erano scese a baciargli il collo. «Quel posto di cui mi hai
parlato, quello per quelli come noi… ti prego, portami
lì…»
Ryou
aveva
sollevato lo sguardo su di lui, osservandolo benevolo mentre Keigo gli
circondava il collo con le braccia. «Certamente,
tesoro…», gli aveva assicurato, con dolcezza.
A
Keigo era venuto da sorridere. Poco dopo aveva lasciato che Ryou
tornasse a baciarlo, posando le labbra sulle sue.
È
una lezione particolarmente noiosa.
Jin
si
è rifugiato in ultima fila, così che nessuno si
accorga
se schiaccia un pisolino. Ha le braccia incrociate sopra il banco e ci
ha nascosto in mezzo la testa, e pensa che quella sarà
un’altra giornata tranquillissima.
Almeno
finché non sente una borsa venire poggiata pesantemente sul
banco e qualcuno sedersi accanto a lui.
Jin
solleva lo sguardo di scatto, spaventato. Non appena i suoi occhi
incontrano la figura di Keigo, non può che essere sorpreso.
«Keigo?
Che ci fai qui?», bisbiglia, per non farsi notare dalla
professoressa che sta andando avanti con la sua lezione.
«Credevo
che saresti rimasto a Tokyo ancora per qualche
giorno…»
Keigo
scuote brevemente la testa. «Non potevo. C’erano
troppi
ricordi lì, la situazione si stava facendo
insostenibile…», commenta, lasciandosi sfuggire un
piccolo
sospiro. «Comunque, hai visto Ryou in giro? Ho bisogno di
parlargli di una cosa importante.»
Jin
non
sembra particolarmente sorpreso da quella domanda, forse
perché
– come altri studenti – è a conoscenza
della loro
relazione. «No», ammette, scrollando le spalle.
«Da
quel che ne so io ha preso un permesso per qualche
giorno…»
La
porta si chiude cautamente alle sue spalle, i vetri che tintinnano
lievemente.
Enji
posta
lo sguardo in ansia su Keigo, non pensava che ci avrebbe messo
così poco. «Allora?», domanda,
trepidante.
«Non
c’è.» Keigo scrolla brevemente il capo,
per poi
cominciare a passeggiare sotto il portico d’ingresso
dell’istituto. «Da quello che si dice in giro
è
sparito già da qualche giorno.»
Enji
sembra seccato. In effetti è stato uno sciocco, avrebbe
dovuto
prevedere una mossa del genere da parte di Ryou. «Dovevamo
aspettarcelo. Dopo aver ricevuto la notizia di Tomie avrà
atteso
il momento giusto per tagliare la corda», commenta,
rassegnato.
«Comunque, adesso che si fa?»
Keigo
si
volta nella sua direzione, rivolgendogli uno sguardo furbo.
«Come
che si fa? Entriamo nel suo studio senza farci vedere e cerchiamo di
scoprire qualcosa, no?», replica, mentre sul volto gli
compare un
sorriso complice. «Mi sa che sei un po’
arrugginito,
Enji.»
Più
facile a dirsi che a farsi.
Lo
studio
di Ryou si trova nel bel mezzo dell’istituto. Lungo i
corridoi
è un continuo viavai di studenti e insegnanti, tutti diretti
verso l’aula della loro prossima lezione.
Keigo
stringe nervosamente tra le dita la tracolla della sua borsa, spostando
il capo di lato ogni volta che qualcuno passa nelle vicinanze. La
speranza è che nessuno lo noti, o che quantomeno nessuno lo
trovi troppo sospetto.
«È
qui?» Enji lo fissa tenendo le braccia incrociate al petto,
impaziente.
«Sì.»
Keigo estrae il cellulare dalla tasca della giacca, avvicinandoselo
all’orecchio – fingere di essere impegnato in una
conversazione telefonica è l’idea migliore che gli
è venuta in mente nella speranza di passare inosservato.
«Mi raccomando, cerca di fare in fretta…»
Enji
si lascia sfuggire un piccolo grugnito, ma alla fine si decide a
oltrepassare la porta dello studio di Ryou.
La
prima
cosa che nota è che è tutto maniacalmente in
ordine:
sulla scrivania ci sono solo pochi fogli, tutti impilati in maniera
impeccabile. Nella libreria non c’è nemmeno un
volume
fuori posto, e i cuscini del divano sembrano essere stati rassettati da
poco. Se deve trovare qualche elemento interessante, però,
non
gli sembra di rintracciare lì nessun elemento che rispetti
quel
criterio.
Enji
sbuffa, infilando nervosamente le mani nelle tasche della giacca. La
verità è che non gli piace quel posto, non gli
piace
quella situazione, non gli piace un bel niente. Non ha mai sopportato
Ryou, con quell’aspetto da perfetto damerino, gli abiti di
alta
sartoria, le camicie coi colletti inamidati e la colonia costosa sempre
addosso. Lui è sempre stato un tipo più schietto,
più diretto, anche per via del suo lavoro.
E
comunque, adesso che sa cosa ha fatto a Keigo quel tipo gli piace
ancora meno.
Lo
sguardo
infastidito di Enji continua a saettare da una parte
all’altra
dello studio senza esito. «Qui non c’è
un bel
niente», decreta, lanciando una breve occhiata verso
la
porta.
«Controlla
sullo schedario», gli suggerisce Keigo. La cosa assurda
è
che, anche se non ce l’ha davanti, Enji riesce a immaginarlo
perfettamente: lo sguardo evasivo, l’espressione agitata. Per
quanto possa negarlo, Enji sa bene quanto certe cose lo mettano a
disagio. «Lì dovrebbero esserci delle
chiavi.»
Enji
sposta lo sguardo alla sua sinistra. In effetti, accanto alla finestra
da cui entra luce in abbondanza c’è un vecchio
schedario
di metallo. Ci si avvicina con delle ampie falcate, scrutandolo con
attenzione.
Sopra,
come gli ha anticipato Keigo, ci sono effettivamente diversi mazzi di
chiavi, contenuti in quello che sembra un piatto di terracotta.
«Okay, le ho trovate», annuncia, ma senza essere
troppo
convinto.
«Cercane
una in particolare», continua Keigo – e di nuovo, a
Enji
sembra di averlo lì davanti a sé per la maniera
accurata
in cui lo vede nella sua mente, gli occhi che saettano freneticamente
da una parte all’altra del corridoio, il modo ansioso in cui
finge di mormorare al telefono. «Ha un portachiavi fatto con
un
cordoncino rosso intrecciato.»
Enji
corruga la fronte. Lì ci sono parecchi tipi di chiavi
differenti, eppure, per quanto si affanni nella ricerca, non gli sembra
di riuscire a rintracciare niente che rispecchi ciò che
Keigo
gli ha descritto. «Non la vedo», annuncia infine,
arrendendosi.
«Merda.»
Keigo impreca tra i denti. «È la chiave della sua
macchina. Se manca vuol dire che l’ha presa e adesso
è
chissà dove…»
Enji
attraversa nuovamente la porta dello studio di Ryou, tornando
finalmente a poter osservare Keigo. Forse non si è neppure
accorto che è di nuovo in corridoio con lui,
perché al
momento ha il capo voltato di lato e osserva un punto nel vuoto fuori
dalla finestra. Ha un’aria corrucciata, ed Enji lo nota
sistemarsi una ciocca di capelli dorati dietro l’orecchio
–
il gesto che fa sempre quando ha bisogno di riflettere.
«Certo
che ne sai di cose su Ryou», valuta Enji, infilando
nuovamente le
mani nelle tasche. «Voi due siete diventati parecchio
intimi…»
Keigo
si
gira nella sua direzione, rivolgendogli un sorriso scaltro.
«Vuoi
sapere se ci sono andato a letto?», gli chiede a bruciapelo,
osservandolo con fare malizioso.
Per
un momento, Keigo resta a osservare deliziato l’espressione
di totale imbarazzo che si dipinge sul volto di Enji.
Poco
dopo,
però, torna a fissare il corridoio davanti a sé,
l’espressione sul suo viso che si fa nuovamente seria.
«Ad
ogni modo, la risposta è sì», ammette,
senza
un’inflessione particolare nella voce. «Abbiamo una
relazione, da un anno a questa parte.»
Enji
sembra piuttosto infastidito dalla cosa. «Ah, beh. Sesso ed
elettroshock. Avvincente», commenta, seccato.
Keigo
si
volta nuovamente verso di lui, fulminandolo con lo sguardo.
«L’ho baciato per la prima volta poco dopo che sei
scomparso. Immagino tu sappia perché», conclude,
ed Enji
non riesce a non percepire una sorta di fastidio nella sua voce.
Enji
socchiude le labbra. Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma Keigo
l’ha lasciato come al solito a corto di parole.
Poco
dopo, prima ancora che possa provare a fermarlo, Keigo scatta in
avanti, lasciandoselo alle spalle.
«So
dove Ryou tiene di solito la macchina. Seguimi.»
Keigo
non
aggiunge altro durante il tragitto. Enji continua a riflettere,
chiedendosi cos’abbia detto di così sbagliato e se
ci sia
un modo per cercare di rimediare, tuttavia non riesce a darsi una
risposta.
Si
sono
infilati in una fitta boscaglia, ed Enji osserva Keigo procedere a
passo sicuro davanti a sé, come se conoscesse perfettamente
quei
sentieri che serpeggiano tra i faggi. In particolare
c’è
una piccola stradina di terra umida, quella che stanno seguendo, che
sembra pendere leggermente verso il basso.
Enji
nota
che sono arrivati davanti a un vecchio cancello di legno. Keigo gli
dà una piccola spinta, e quello si spalanca subito.
Le
fronde
degli alberi sono così basse che a Enji sembra che cerchino
di
sfiorare il volto di Keigo, di ghermirgli la giacca. Alla loro sinistra
c’è un piccolo lago, su cui si riflette
timidamente il
panorama della zona circostante.
È
quasi completamente buio quando arrivano lì dove dovrebbe
esserci la rimessa dell’auto di Ryou. Un vento freddo spira
tra i
rami e fa danzare alcune foglie a terra, mentre se alza lo sguardo
verso il cielo a Enji sembra di intravedere una pallida luna.
C’è
un vecchio capanno di legno, all’apparenza abbandonato e mai
ultimato. Effettivamente là sotto c’è
abbastanza
posto per una macchina.
Solo
che, prevedibilmente, l’auto di Ryou non è
lì.
«Non
c’è», commenta Keigo, piuttosto deluso.
«A
quest’ora potrebbe essere ovunque, magari ha perfino lasciato
il
paese…»
«Non
credo. Guarda i segni degli pneumatici a terra», gli fa
notare
Enji. «Queste tracce sono fresche. Significa che non deve
essere
andato via da qui da molto.»
Keigo
si
acciglia, pensieroso. «D’accordo, ma anche se fosse
come
facciamo a trovarlo?», domanda, portandosi una mano al mento
per
riflettere – in quel gesto che ormai per Enji è
così tipico di Keigo. «Non abbiamo la
più pallida
idea di dove possa essere…»
Enji
segue
solo in parte il discorso di Keigo. Le parole del ragazzo cominciano
lentamente a scemare, nel momento in cui si accorge di star avendo una
nuova visione.
All’inizio
gli sembra che sia esattamente la stessa che ha avuto la notte della
morte di Tomie. Vede di nuovo il volto spaventato di Keigo, e poco dopo
il ragazzo precipita nel vuoto.
Stavolta,
però, c’è un dettaglio in
più.
Dopo
la
scena in cui Keigo cade all’indietro, Enji vede se stesso. Ha
a
sua volta un’espressione terrorizzata, e sembra guardare in
direzione del punto oltre cui Keigo è volato verso il basso.
Cosa
significa? Ha visto chi ha buttato giù il ragazzo?
Sarà lui a fargli del male?
Poco
dopo
è la voce di Keigo a riportarlo alla realtà.
«Enji,
che succede…? Va tutto bene?», lo chiama piano,
con
cautela.
«Eh?»
Enji scuote appena il capo, cercando di ridestarsi. Torna lentamente a
mettere a fuoco ciò che lo circonda, il bosco, la rimessa,
Keigo. Il ragazzo lo osserva attentamente, ha un’espressione
preoccupata in volto.
Enji
si
lascia sfuggire un sospiro, scrollando le spalle.
«Sì,
tutto a posto. Ci sono», gli assicura, muovendo un poco le
mani
nelle tasche della giacca per restare concentrato.
«Probabilmente
è diretto verso Tokyo. Lì
c’è pur sempre
casa sua, e finché la polizia non lo indaga formalmente
è
un buon posto in cui rifugiarsi. Senza contare che è
più
facile nascondersi in una metropoli, finisci per confonderti in mezzo
ai suoi abitanti, e poi c’è pur sempre la
possibilità che abbia ancora qualcuno che possa aiutarlo,
lì.»
Keigo
annuisce, quel ragionamento sembra aver convinto anche lui. Enji nota
che pare aver già dimenticato il suo momento
d’assenza, e
non può che sentirsene sollevato.
«La
macchina di tua madre è volata giù da un burrone
in
circostanze da chiarire. A casa sua c’era un faldone con le
prove
degli esperimenti che Ryou svolge sugli studenti
dell’istituto.
Poco prima dell’incidente, il cellulare di Tomie si
è
agganciato alla cella telefonica del centro studi, il che vuol dire che
si trovava lì. Ryou è misteriosamente sparito,
nessuno sa
dove sia. Noi stiamo tornando a Tokyo per cominciare a cercarlo da
lì.»
Mentre
parla, Enji continua a tenere lo sguardo fisso sullo specchio. Sente
che Keigo lo osserva, e non si perde nemmeno mezzo secondo del suo
discorso.
Il
ragazzo
si sciacqua in fretta i denti. Pulisce lo spazzolino,
dopodiché
lo ripone nuovamente all’interno dello zaino, assieme al
dentifricio.
Keigo
si
volta in direzione di Enji, mettendosi di nuovo lo zaino in spalla.
«Beh, è pur sempre un punto di
partenza», commenta,
speranzoso. «Okay, adesso faremo meglio a tornare a bordo del
bus. L’ultima cosa che voglio è restare bloccato
in
un’area di servizio del cavolo nel bel mezzo del
nulla.»
Keigo
si
sistema il cappuccio della felpa sul capo, per poi decidersi finalmente
a salire di nuovo le scale. Attraversa ancora una volta gli scaffali
pieni di cibarie, ma li supera senza esitazioni, dirigendosi spedito
verso la porta. Una volta uscito, il vento freddo della notte torna a
colpirgli il volto, e in quel momento a Keigo viene da sorridere,
mentre si sente vivo come non gli capitava da tempo.
Una
volta
tornato a bordo del bus, occupa nuovamente un posto in fondo al
veicolo, senza togliersi il cappuccio dalla testa – tutte
precauzioni, per come la vede lui: loro sono partiti alla ricerca di
Ryou, ma per quel che ne sanno potrebbe essere benissimo
l’uomo a
braccarli.
Quando
l’autobus riparte, Keigo prova a schiacciare un pisolino, e
mentre dorme affonda la faccia nello zaino che tiene stretto a
sé, usandolo come cuscino.
Enji
non
riesce a fare a meno di osservarlo. Mentre dorme Keigo ha
un’aria
adorabile, e sul suo volto si è formato l’accenno
di un
sorriso.
L’autostrada
scorre pigramente intorno a loro, la luce dei lampioni che piano piano
lascia posto all’alba. Nella mente di Enji si affaccia il
ricordo
di quella visione: il pensiero di poter fare del male al ragazzo lo
tormenta, eppure non riesce a capire come questo possa essere
possibile. È rimasto lì perché
desidera
proteggerlo, dopotutto.
Eppure,
non gli ha ancora parlato di ciò che ha visto. Continua a
pensare che per ora sia meglio così, Keigo ha già
troppe
preoccupazioni, è inutile dargliene delle altre prima che
non
sia chiaro per primo a lui il significato della visione.
Enji
allunga istintivamente una mano, carezzando il volto di Keigo.
L’autobus procede lento e i passeggeri sono tutti
profondamente
addormentati, ma se anche qualcuno si fosse voltato ciò che
avrebbe visto sarebbe stato un soffio di vento che faceva ondulare i
capelli dorati del ragazzo.
note
allora, prima di tutto tre cose che mi sono dimenticata di dire nelle
note del capitolo scorso.
1. il nome di ryou. perché si chiama così?
risposta: non lo so. basically era un nome che mi suonava bene horikoshi mannaggia a
te diccelo ogni tanto come si chiamano i pg
2. perché i capelli di tomie sono verde menta
se
nell'anime si vede che hanno lo stesso colore di quelli di keigo?
perché quando ho iniziato a scrivere la long quell'episodio
non
era ancora andato in onda e mi sono basata unicamente sulle vibes che mi davano
i disegni del manga. avrei potuto correggere a posteriori ma alla fine
ho preferito lasciare così.
3. l'interazione tra enji e keigo nel primo capitolo. probabilmente
sarà sembrata super ooc, soprattutto considerando il
rapporto
che c'è canonicamente tra i personaggi, però
giuro che ha
senso! andando avanti con la storia diventerà tutto
più
chiaro, promesso.
bene, chiarite queste cose possiamo andare avanti. in realtà
sul
capitolo in sé non ho molto da dire, se non che come avevo
annunciato nelle note dello scorso aggiornamento questo è decisameeente
più lungo 10k parole tipo? rip.
forse c'è una parte che può lasciare un po'
confusi,
ovvero quella con il cambio repentino di tempo verbale: è
voluto, perché trattandosi di ricordi avevo biogno di creare
un
distacco che facesse capire che erano fatti antecedenti a quelli della
storia in sé. è un espediente che ho usato anche
più avanti nella ff, spero che non sia troppo disorientante!
owo
ah, non so se avete notato ma l'ultima scena di questo capitolo si
ricollega ovviamente alla prima di quello precedente. sì, in
effetti è una sorta di un enorme flashback considerando che
all'interno ci sono degli altri flashback, possiamo definire questi
ultimi metaflashback...?
ad ogni modo, per questo capitolo è tutto. spero che la
storia vi stia piacendo!
aria
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Capitolo 3 *** scheletri nell'armadio ***
«Sei
sicuro che sia okay stare qui?»
La serratura scatta con un rumore breve e secco, e la porta si schiude
piano su un ambiente piuttosto familiare.
«Kaina è in ferie. Sarà fuori
città per
alcuni giorni, da quello che ho capito è andata a far visita
ad
alcuni lontani parenti di mia madre per informarli della sua
morte.» Lo sguardo di Keigo si muove pigramente osservando
quel
luogo in cui ha trascorso i primi diciotto anni della sua vita. Sono da
poco passate le otto del mattino. Dopo che l’autobus su cui
ha
viaggiato per tutta la notte è finalmente giunto in
stazione,
Keigo ha subito raggiunto senza esitazioni il piccolo appartamento di
Kaina, confortato dalla consapevolezza che non l’avrebbe
trovata.
A quell’ora, per di più, l’enorme
condominio
più vicino alla periferia che ai quartieri eleganti della
città è pressoché deserto, tutti i
suoi inquilini
sono ormai usciti di casa diretti a scuola o sul luogo di lavoro. Meglio così,
si ritrova a valutare Keigo. Sente che quel silenzio avvolgente
è esattamente ciò di cui ha bisogno in quel
momento.
«E per la verità non ho nemmeno un altro posto in
cui
andare», aggiunge, mentre il portone d’ingresso si
richiude
alle sue spalle. Enji l’ha già seguito
all’interno,
e ne approfitta per dare un’occhiata in giro: è
incredibile come quell’appartamento finisca per sembrargli
ogni
volta immutabile nel tempo, ma ancora di più stamattina non
riesce a fare a meno di restare sorpreso nel notare come Kaina si sia
impegnata a lasciare tutto in ordine prima della partenza. Non gli
sembra di notare niente fuori posto, non c’è
nemmeno un
foglio dimenticato per sbaglio sul tavolo del soggiorno.
Si distrae solo per un secondo, ma quando torna a cercare Keigo con lo
sguardo si accorge che il ragazzo non è più nel
soggiorno: ha attraversato in fretta la stanza fino ad arrivare in
camera sua, dove ha abbandonato senza cura lo zaino a terra e adesso si
è lasciato cadere pesantemente sul letto, la faccia premuta
contro il materasso.
Enji si limita a raggiungerlo, osservandolo con aria apprensiva.
«Sono esausto», ammette il ragazzo, rotolando
finché
non si ritrova disteso correttamente, la schiena che si accomoda al
meglio mentre si copre il volto con un braccio. «Non riesco a
ricordare quando è stata l’ultima volta in cui ho
dormito
nel vero senso della parola. E no, quello pseudo pisolino che ho
schiacciato in autobus non vale…»
Enji si lascia sfuggire un sorriso, intenerito da quella scena.
«Puoi provare a farlo adesso, se vuoi», concede,
mentre
Keigo si dibatte brevemente tra le lenzuola fino a quando non riesce a
coprire per bene il suo corpo. «È ancora presto,
per
qualche ora puoi riposare tranquillo.»
Enji si ritrova a domandarsi se sia mai stato così
indulgente
con Keigo prima d’ora o se quella sia solo la conseguenza
della
visione che ha avuto. Non riesce a darsi una risposta, sa solo che se
quello è il prezzo da pagare per l’espressione
rilassata
che in quel momento è comparsa sul volto del ragazzo, allora
ne
vale totalmente la pena.
«Nel frattempo ne approfitto per verificare alcune
cose…», fa per comunicargli, ma si arresta nel
momento in
cui si accorge che Keigo si è già profondamente
addormentato, il respiro regolare che danza sul suo volto.
Enji si lascia sfuggire un piccolo sospiro, concedendo una carezza
sulla fronte del ragazzo. L’istante successivo è
già svanito nel nulla.
Una settimana.
Questo è tutto il tempo che Rei è riuscita a
farsi
concedere dal questore. Una settimana, dopodiché quel caso
– quel caso che lei
ha chiesto di aprire, quel caso in cui è stata lei
a far notare le incongruenze – verrà archiviato
per
sempre. E lei potrà finalmente trasferirsi a Kyoto e
cominciare
la sua nuova vita lì.
Avrebbe potuto voltare le spalle a ciò che ha visto quella
notte
tra i boschi innevati e partire subito, ma forse il suo senso di
giustizia è troppo forte per essere messo a tacere.
C’è anche una profonda componente personale in
quel caso,
lo sa bene – non può certo ignorare infatti che,
in
passato, la vita di Tomie si sia già intrecciata con la sua
mentre indagava sulla morte di Enji –, ma a questo preferisce
non
dare troppo peso.
Fukukado Emi continua ad osservarla di sottecchi, le mani infossate
nelle tasche dei jeans mentre mastica distrattamente un
chewing
gum. Rei è rimasta delusa quando Aizawa ha declinato la sua
proposta di andare assieme al deposito in cui è custodita
l’auto di Tomie, ma da quanto ha capito Shota doveva
accompagnare
Eri a scuola. Quando si tratta della famiglia, Rei è sempre
pronta a fare un passo indietro.
«È questa?», s’informa Emi,
osservando
perplessa l’auto ormai ridotta a un cumulo di lamiere davanti
a
loro.
Rei annuisce brevemente. «Sì», conferma,
mentre
cerca di dare un senso a ciò che vede davanti agli occhi. Il
parabrezza è completamente in frantumi, schegge di vetro che
si
sono depositate sui sedili anteriori e sul pianale, la carrozzeria
perlopiù accartocciata su se stessa, soprattutto il cofano,
che
ha prima impattato contro il guard rail per poi schiantarsi sul terreno
della radura in cui è stata ritrovata la vettura.
Enji osserva le due donne ferme al centro dello spiazzo di fronte
all’officina meccanica in cui è stata portata
l’auto
di Tomie – o perlomeno ciò che ne rimane
– dopo
l’incidente. Dopo aver lasciato Keigo a casa di Kaina, il suo
primo pensiero è stato raggiungere Rei, ed è
così
che si è ritrovato in quel luogo.
Emi incrocia le braccia, stringendosi nel suo giubbotto imbottito.
«Che brutta fine… non riesco a capire come a
qualcuno
possa venire in mente di buttarsi giù da un precipizio come
quello», commenta, un’espressione accigliata in
volto.
«Continuo a essere convinta che non si sia trattato di un
incidente», ammette Rei, la giacca avorio che le svolazza
attorno
mentre si muove vicino alla macchina. «Per esempio non credo
che
i segni di frenata che abbiamo visto sull’asfalto li abbia
lasciati l’auto della vittima.»
Emi sembra confusa per qualche secondo, ma alla fine pare aver compreso
ciò che Rei le sta dicendo. «Secondo lei
c’era
un’altra macchina che ha spinto giù quella della
vittima e
che ha lasciato quei segni di frenata per non finire a sua volta per
precipitare nel burrone?», chiede, gli occhi che
s’illuminano di entusiasmo per quell’improvvisa
deduzione.
«Non so, è solo un’ipotesi…
però
guarda qui», commenta Rei, richiamando l’attenzione
dell’altra donna sul retro dell’auto. Emi la
raggiunge in
fretta, ed Enji si limita a seguirla.
Quando finalmente le si ferma accanto, Emi nota che Rei le sta
indicando un punto in particolare della carrozzeria, che corrisponde al
parafanghi posteriore destro. «Non trovi anche tu che ci sia
qualcosa di strano?»
Emi assottiglia lo sguardo, fino a quando non riesce a notare che, in
effetti, in un punto la carrozzeria è graffiata, come se
qualcosa – o qualcuno
– si fosse effettivamente scontrato contro l’auto
che
stanno osservando. «Ci sono dei residui di
vernice», rileva
Emi, sistemandosi una ciocca di capelli acquamarina
dietro l’orecchio. «Possiamo provare a
prelevarla e
vedere se riusciamo a trovare un riscontro.»
Enji annuisce, incrociando le braccia al petto. Non è
particolarmente convinto da quell’ipotesi investigativa, ma
non
può fare a meno di restare colpito dalle doti di
osservazione di
sua moglie.
Rei sorride, lasciandosi sfuggire un breve cenno d’assenso
del
capo. In fin dei conti è grata che lì con lei ci
sia Emi
e non Shouta: le sembra di aver trovato una ragazza sveglia e in gamba,
e soprattutto una persona che non scarta a priori le sue ipotesi, cosa
che forse Aizawa avrebbe fatto. «È un
inizio»,
commenta lei, speranzosa.
Il problema degli asili è che c’è
troppa confusione.
Shouta l’ha sempre pensato, ma ora che accompagna Eri a
scuola
ogni mattina non può che accorgersene sempre di
più. Ha
sempre preferito la quiete al caos, leggere un libro nel silenzio di un
pomeriggio assolato è quanto di più rilassante
riesca a
immaginare. Solo che non rinuncerebbe mai a Eri, a prendersi cura di
lei, a sentire la sua manina stretta nella sua mentre la accompagna
lungo il viale costeggiato da alberi dalle foglie aranciate che conduce
all’ingresso dell’edificio.
C’è un viavai di genitori e bambini che affolla il
cortile. Hanno tutti delle espressioni allegre, si salutano augurandosi
una buona giornata e poi ognuno si avvia verso le proprie
attività, gli adulti che si recano al lavoro e i
più
piccoli che vengono presi in custodia dalle maestre che si occuperanno
di loro.
A osservarli bene, Shouta ed Eri sembrano dei pesci fuor
d’acqua.
Lui ha l’aria perennemente stanca, lei invece scruta il mondo
con
i suoi grandi occhi rosso ciliegia curiosi ma sempre un po’
impauriti.
È una mattinata fredda e uggiosa, e sono terribilmente in
ritardo. Shouta vorrebbe raggiungere una delle istitutrici, che vede
non troppo distante da loro ferma sulla soglia che li attende, una mano
poggiata sul metallo verniciato di rosso che incornicia i vetri della
porta d’ingresso, ma sente che c’è
qualcosa che non
va, un’esitazione insolita da parte di Eri. Shouta abbassa lo
sguardo apprensivo sulla bambina e nota che i suoi occhioni sono pieni
d’incertezza, la manina stretta tra le dita
dell’uomo che
sembra quasi tremare.
Shouta si lascia sfuggire un piccolo sospiro. «Eri, che
succede?», le domanda, con voce premurosa.
Lei solleva lo sguardo e lo osserva, le labbra che tremolano appena. La
manina di Eri si serra attorno a un lembo della giacca di Shouta e lo
tira leggermente a sé. Quello è un gesto che
ormai Shouta
conosce fin troppo bene, per cui si limita ad accovacciarsi a terra con
un movimento fluido, ritrovandosi così alla stessa altezza
della
bambina.
«Come mai Hizashi non mi accompagna più a
scuola?»,
chiede Eri, con la sua voce piccola e dolce. «Prima mi
portava
sempre lui…»
Shouta soffia piano, cercando di trovare le parole giuste.
«In
questo periodo non lo vedo spesso nemmeno io», ammette, e in
quel
momento vorrebbe sapere dove diavolo si è cacciato Hizashi
solo
per andare lì e strangolarlo, perché detesta
dover
spiegare quella situazione – c’è, per di
più,
un modo giusto per affrontarla? – a Eri. «Ti sarai
accorta
che è da un po’ che non passa neanche a
casa…»
«Perché?», gli domanda ancora la
bambina, mentre
resta in equilibrio prima su un piede e poi sull’altro
producendo
un piccolo scalpiccio sul selciato. «Ho fatto qualcosa di
male
io…?»
Shouta sente il cuore frantumarsi in mille pezzi nel petto. Hizashi, giuro che se ti trovo,
io…
«No, tesoro», si affretta a rassicurarla,
carezzandole con
una mano i capelli azzurri che quel giorno le ha legato in due lunghi
codini che pendono giù dalla testa. «Tu sei
bravissima,
non avere mai dubbi su questo. Hizashi manca da un po’ per
problemi suoi, ma vedrai che torna presto, tranquilla.»
Le parole di Aizawa sembrano aver rassicurato almeno un poco Eri. La
bambina accenna un sorriso nella sua direzione, le guance rosse come
mele caramellate. Shouta le sistema il cappottino lilla che indossa e
poco dopo la vede avviarsi finalmente verso la maestra che la sta
ancora aspettando all’ingresso.
Quella scena risale ormai a qualche ora prima, eppure Shouta continua a
sentirsene perseguitato. Non può sopportare il pensiero di
aver
caricato le spalle di Eri con una preoccupazione così
opprimente. Quando ha deciso di prendersi cura di lei l’ha
fatto
col desiderio di restituirle quella gioia che così a lungo
le
era stata negata, e adesso invece ha il terrore di star trasferendo su
di lei le sue stesse ansie.
Shouta si lascia sfuggire un lungo sospiro, scuotendo la testa mentre
osserva lo schermo del pc. È difficile restare concentrati
quando si hanno per la testa certi pensieri.
Rei ed Emi rientrano in quel momento dal loro sopralluogo, seguite a
breve distanza dal fantasma di Enji. Ha preferito declinare la proposta
di Rei di accompagnarla a visionare l’auto di Tomie per
passare
del tempo con Eri, ma visto com’è andata inizia a
chiedersi se non abbia perfino peggiorato le cose.
«Novità?», s’informa Rei,
posando la borsa sulla scrivania accanto alla sua, al momento deserta.
Shouta scrolla pesantemente le spalle.
«Sì»,
ammette, ruotando il pc in modo che lo schermo sia visibile anche a
Rei. «Ho fatto un po’ di ricerche sul centro studi
dove si
era agganciato il cellulare di Tomie, ed è venuto fuori che
si
tratta di una facoltà di parapsicologia.»
Rei inarca le sopracciglia. «Parapsicologia?»,
ripete, confusa.
«Letteralmente è una disciplina che si propone di
studiare
con metodi scientifici fenomeni anomali tra cui poteri metapsichici e
sopravvivenza alla morte», spiega Shouta, giocherellando con
una
matita tra le dita mentre parla.
Quel discorso fa correre un piccolo brivido lungo la schiena di Rei.
«Di certo non un argomento molto felice», commenta,
osservando la pagina web che Shouta le sta mostrando.
«Che però non dovrebbe essere totalmente estraneo
a
Tomie», le fa notare Shouta. «Per avere
l’elenco di
insegnanti e alunni di questo posto ci vorrà un
po’, ma
nel frattempo ho fatto un giro sul loro sito e ho scoperto un paio di
cose interessanti. Per esempio, tra i soci fondatori di questo posto
c’è un certo Shigaraki Ryou, che è
anche uno dei
maggiori finanziatori.»
Sullo schermo del pc appare una foto di Ryou, ed Enji trattiene a
stento l’impulso di far esplodere il dispositivo. Adesso che
sa
cosa ha fatto quell’uomo a Keigo non vede l’ora di
incontrarlo di persona per dargli la lezione che si merita.
Rei osserva con aria perplessa la foto che le ha mostrato Aizawa. Gli
sembra di aver già sentito nominare quell’uomo,
probabilmente proprio da Tomie, solo che è passato davvero
troppo tempo e fatica a delineare i contorni della vicenda.
«Il nome non mi è nuovo…»,
ammette, poggiando
una guancia sul palmo della mano mentre legge assorta le descrizioni
idilliache su quel curioso indirizzo di studi.
Enji potrebbe quasi tirare un sospiro di sollievo. Se Rei è
arrivata a Ryou, probabilmente comincerà a indagare su di
lui.
Non ha dubbi che la donna riuscirà a trovarlo, e a quel
punto
forse Keigo sarà finalmente al sicuro.
Shouta inarca un sopracciglio, perplesso. «Non è
tutto», riprende, avvicinando la propria sedia a quella di
Rei e
tornando alla home page del sito web. «Il giorno in cui il
telefono di Tomie si è agganciato alla cella telefonica
dell’istituto si sono tenute delle sedute di laurea. Sul sito
ci
sono alcune foto degli studenti che hanno preso parte alla cerimonia, e
ce n’è una in particolare su cui si è
soffermata la
mia attenzione…»
Shouta smette di far scorrere le varie foto, e quella su cui si ferma
non lascia scampo ad alcun dubbio: al centro dell’immagine
c’è Keigo, l’espressione sorridente e
gli occhi
chiusi, una corona di alloro posato sul capo. Enji avverte quasi un
tuffo al cuore nell’osservare Keigo così
spensierato, solo
pochi giorni prima.
«Keigo?», mormora Rei, sorpresa.
«Studiava lì…?»
«A quanto pare…», commenta Shouta,
alzandosi in
piedi e avvicinandosi alla finestra. «Forse Tomie era andata
lì per partecipare alla laurea del figlio, anche se non
l’ho vista comparire in nessuna delle foto presenti sul
sito–»
«Aspetta un momento», lo interrompe Rei, come
folgorata da
un’illuminazione improvvisa. «Adesso mi sembra di
ricordare. Tomie non era più in contatto con il figlio da
anni.
Possibile che c’entri qualcosa questo Ryou?»
Sul volto di Shouta compare un’espressione perplessa.
«Non
lo so», ammette, desolato. «Ma anche se fosse come
potremmo
accertarlo?»
Rei fissa con aria vacua lo schermo del computer, almeno
finché
qualcosa in particolare le balza alla mente. «Forse ho
un’idea…», commenta, voltandosi verso
Aizawa. Spera
di vedere il proprio sguardo ricambiato, invece Shouta le sembra
distante.
Da qualche minuto, infatti, l’uomo ha notato un dettaglio che
l’ha incuriosito oltre il vetro, lungo la strada che scorre
sotto
il commissariato. Rimane assorto ancora per qualche istante, poco dopo
però si decide finalmente a scattare in avanti.
Recupera la giacca dallo schienale della sedia e se la infila mentre si
sta già avviando verso l’uscita della stanza.
«Scusami…», farfuglia, notando a
malapena
l’espressione perplessa di Rei, tuttavia non si ferma per
offrirle ulteriori spiegazioni, preferendo invece cominciare a scendere
in fretta giù per le scale.
Mentre si mangia una rampa di scalini di marmo dopo l’altra,
Shouta non dà retta a nessuno. Lungo la strada incontra
alcuni
colleghi, qualcuno cerca perfino di attaccare bottone con lui, tuttavia
in quel momento è così concentrato e determinato
nel suo
obiettivo che nessuno di loro riesce a impensierirlo.
Una volta arrivato finalmente in strada, Shouta si concede a malapena
un istante per riprendere fiato, tuttavia il suo sguardo sta
già
saettando da un lato all’altro della strada alla ricerca di
ciò che poco prima ha intravisto dall’ufficio. Non
appena
individua la persona che sta cercando, si muove subito nella sua
direzione con delle ampie falcate.
«Hitoshi!», lo chiama, cercando di attirare la sua
attenzione.
Sentendosi il proprio nome, il ragazzo si volta nella sua direzione, ma
non appena si accorge che si tratta di Shouta si ritrova a sbarrare gli
occhi violetti. Dura solo un momento, perché
l’istante
successivo si gira come se non fosse successo niente, tornando a
osservare la strada davanti a sé e prendendo a camminare con
un
passo più svelto.
Shouta resta sorpreso da quella reazione, ma decide di non lasciarsi
spiazzare. Si affretta ancora di più, fino a quando non
riesce a
posare una mano sulla spalla di Hitoshi che, stavolta, si ferma.
Il ragazzo, messo alle strette, si volta finalmente nella sua
direzione. Shouta, però, si accorge che tiene lo sguardo
basso,
evitando accuratamente di fissarlo negli occhi.
«Ehi…», comincia, mentre riprende un
po’ di
fiato. «Che ci fai qui? L’università non
è
dall’altra parte della città?»
Gli occhi di Hitoshi saettano da una parte all’altra del
marciapiede – si posano ovunque, pur di non ricambiare quelli
di
Shouta. «Sì, ma oggi non c’era
lezione»,
commenta, evasivo.
«Sempre che sia vero», sbuffa Shouta, posando le
mani sui
fianchi. «Comunque, si può sapere che fine hai
fatto? Sono
due giorni che non torni a casa.»
Hitoshi si strofina nervosamente una mano sulla base del collo, e
Shouta riconosce quel gesto come la consueta manifestazione che il
ragazzo si lascia sfuggire quando è a disagio.
«Sono
rimasto a dormire da un amico…», si giustifica,
gli occhi
che per un momento incontrano quelli di Shouta.
«Cos’è, un reato?»
«No, ma avresti dovuto avvertirmi!» Per un momento
Shouta
allarga le braccia, spazientito, poco dopo però cerca subito
di
recuperare la consueta pacatezza. «Ascoltami… se
tu
sapessi che fine ha fatto Hizashi me lo diresti, vero?»
Per tutta risposta, riceve dal ragazzo un’occhiata
diffidente.
«Perché dovrei sapere
dov’è?», gli
chiede di rimando, inclinando la testa di lato.
Shouta resta immobile sul posto, senza riuscire ad aggiungere
nient’altro. Già,
perché dovrebbe?
La verità è che la scomparsa di Hizashi gli sta
facendo
perdere lucidità, e probabilmente l’indagine
sull’incidente di Tomie non lo aiuta affatto a recuperarla.
Hitoshi approfitta di quel silenzio improvviso per togliersi da quella
situazione. «Senti, adesso devo andare», taglia
corto,
sollevando il cappuccio della felpa sopra i capelli. «Ci
vediamo
stasera.»
Shouta schiude le labbra per cercare di richiamarlo, ma non ne esce
alcun fiato.
L’istante successivo Hitoshi svolta un angolo della strada,
svanendo nel nulla.
Un’altra cosa noiosa di cui nessuno ti avvisa quando vai a
vivere da solo? La spesa.
Touya detesta
fare la spesa.
Cerca di andarci con Tenko ogni volta che può,
perché
almeno così riesce a renderlo un momento più
spensierato,
solo che oggi se ne è dovuto occupare da solo
perché
il suo fidanzato è impegnato con lo studio.
Ah, maledette
responsabilità. Touya si lascia sfuggire un
sospiro sconsolato.
Fare la spesa comporta avere un’idea di cosa mangiare a
pranzo e a cena, e – cazzo
– è una roba tremendamente stressante. Casa loro
è
disseminata di contenitori di cartone di cibo takeaway arrivato
direttamente dal loro ristorante cinese preferito – come
qualsiasi appartamento abitato da studenti universitari, almeno nella
maggior parte dei casi – e non gli sembra che sia una cosa
così terribile. Anche perché è certo
che andare al
supermercato con Tenko corrisponde a riempire il carrello di schifezze
random, per cui alla fine non è poi così diverso.
Perciò gli tocca essere responsabile, soprattutto nel
momento in
cui apre il frigo e lo trova deserto in maniera drammatica. Ed
è
all’incirca per questo motivo se adesso sta tornando a casa
con
due buste della spesa in mano – e giura a se stesso che ha
cercato di comprare quanto più cibo salutare possibile.
Quando arriva davanti al portone d’ingresso del suo palazzo
gli
sembra quasi un miracolo. Posa a terra le buste di tela, mentre cerca
in tasca il mazzo di chiavi.
In quel momento, però, sente qualcuno alle sue spalle
chiamarlo.
«Ciao, Touya», lo saluta una voce delicata e
femminile.
Il ragazzo non riesce a non sobbalzare per la sorpresa. Poco dopo si
volta, le chiavi ancora in mano.
«Dottoressa Himura?», domanda, cercando una
spiegazione
logica per ciò che vede davanti a sé.
«Come mai da
queste parti?»
Rei si avvicina a Touya, uscendo dalla penombra e raggiungendolo sotto
la tettoia del portico in cui si trova. «Avrei bisogno di
chiederti alcune cose», confessa, rivolgendogli un sorriso
gentile.
«Certo. Posso invitarla a salire di sopra?»,
propone subito
lui, con fare cortese. «Le offro del tè.»
L’appartamento in cui Touya vive con Tenko si trova al terzo
piano, l’ultimo del palazzo. Non c’è
l’ascensore, e mentre sale su per le scale affannandosi a
trasportare anche la spesa Touya continua a scusarsi con Rei per
l’inconveniente, anche se lei gli ha già ripetuto
diverse
volte che non c’è alcun problema.
Una volta arrivati davanti alla porta, Touya fa girare le chiavi nella
serratura pregando tra sé che la casa non sia in condizioni
troppo pietose.
«Sono a casa!», si annuncia a gran voce, sperando
che Tenko lo senta.
Rei entra poco dopo il ragazzo, tallonata a breve distanza da Enji, che
l’ha seguita fin lì. La prima cosa che nota
è una
stanza, a destra rispetto all’ingresso, dove la porta
è
rimasta aperta. Dal punto in cui si trova riesce a vedere un ragazzo
seduto a terra, le gambe incrociate, intento a trafficare con quelli
che le sembrano essere componenti di un pc che deve essere stato
smontato. Il ragazzo la osserva, con un’aria stralunata in
volto.
«Ciao», lo saluta lei, cordiale.
«Salve…», azzarda lui, senza smettere di
perdere
– agli occhi di Rei – quell’aria
tremendamente
allampanata.
Touya chiude la porta di casa, per poi raggiungere in fretta Rei.
«Tenko, ti presento la dottoressa Himura. Lui è il
mio
fidanzato», spiega brevamente, passandosi una mano tra i
capelli.
«Per il tè ci spostiamo di qua!»
Rei lascia che il ragazzo le faccia strada fino in cucina, per poi
accomodarsi quando lui la invita a prendere posto.
Dopo che Touya ha messo il bollitore sul fuoco, restano in silenzio per
un po’. Rei si guarda attorno, cerca di farsi
un’idea della
vita di Touya da quando si sono visti l’ultima volta
– sono
passati ben tre anni da allora. Le pareti della cucina sono bianche
– in realtà quel colore è lo stesso per
quasi tutta
la casa, tranne nella camera in cui prima ha visto Tenko, dove ha
notato una vernice ocra intenso – e in giro regna un generale
disordine, ma le sembra una cosa normale considerata la giovane
età dei ragazzi. Sul frigorifero ci sono diverse foto
– in
alcune Touya è con degli amici, in molte con Tenko.
Nel frattempo Touya sta sistemando la spesa, ci sono cose che finiscono
in frigo e altre nella credenza. Rei lo osserva, e non può
fare
a meno di notare quanto quel ragazzo le sembri coscienzioso.
Alla fine Rei giunge le mani sopra il tavolo, decidendosi a parlare.
«È da molto che tu e Tenko state
insieme?», domanda,
col suo solito sorriso gentile in volto.
«Quasi due anni», ammette Touya, infilando le mani
in
tasca. «All’inizio eravamo solo amici. Abbiamo
preso un
appartamento insieme per pagare meno di affitto, sa no, ogni tanto
troviamo un lavoretto per mantenerci ma alla fine siamo pur sempre
studenti. Poi, beh, da cosa nasce cosa…»
Rei nota che, quando parla di Tenko, le labbra di Touya si piegano in
un sorriso luminoso. In quel momento il bollitore si mette a fischiare,
e Touya si affretta a toglierlo dal fuoco.
Il ragazzo le versa l’acqua calda nella tazza che le ha
offerto,
e Rei lo ringrazia cortese. «Quindi tu e Keigo vi siete
lasciati
da un po’», commenta, giocherellando con la bustina
del
tè e immergendola meglio nell’acqua.
Non appena sente il nome di Keigo, il sorriso di Touya si fa un
po’ più triste. «Con Keigo era
già finita
prima ancora di cominciare», confessa, lo sguardo che per un
momento si fa distante. «Come mai mi chiede di lui? Gli
è
successo qualcosa?»
A Rei viene da sorridere per come di colpo la voce di Touya si sia
fatta apprensiva. «No, non preoccuparti», si
affretta a
rassicurarlo. «In realtà sto facendo qualche
indagine
sulla morte di sua madre.»
«Non si è trattato di un incidente?», le
domanda il ragazzo, dubbioso.
«È quello di cui sto cercando di
accertarmi», gli
spiega lei, conciliante. «In realtà non potrei
parlarti di
questo, perché è un elemento delle indagini e in
teoria
è un’informazione riservata, ma abbiamo scoperto
che poche
ore prima dell’incidente il telefono di Tomie si è
agganciato alla cella telefonica nei pressi dell’istituto che
Keigo frequenta.»
Sul volto di Touya compare un’espressione accigliata.
«È strano… per quanto ne so Keigo non
aveva
più rapporti con sua madre – beh, non aveva
più
rapporti con nessuno,
in
realtà», commenta, portandosi una mano alle labbra
mentre
riflette. «L’ultima volta che l’ho visto
è
stata un paio di giorni fa, al funerale di Tomie. Aveva un aspetto
emaciato, e quel pomeriggio ho pensato che fosse perché
aveva
appena perso sua madre, ma adesso comincio a credere che non sia
così.»
Rei lo fissa, confusa. «Che vuoi dire?», domanda,
un’espressione perplessa che compare sul suo volto.
Touya si alza improvvisamente dalla sedia. «Aspetti un
secondo», mormora, prima di sbucare in fretta in corridoio.
Rei
lo vede inginocchiarsi ai piedi di una cassettiera e aprirne
l’ultimo cassetto, da cui estrae una pila di fogli.
Poco dopo torna in cucina, porgendo a Rei i documenti che ha
recuperato. «Tomie mi aveva lasciato una copia di alcune
ricerche
che aveva fatto tre anni fa», spiega, mentre torna ad
accomodarsi
sulla sedia di fronte a quella della donna. «Ryou aveva
cominciato a bazzicare l’Owl da qualche mese, e a Tomie non
era
mai piaciuto – beh, nemmeno a me, a dir la verità.
Così aveva cercato qualche informazione in più
sul suo
conto, e questo è ciò che ne è uscito
fuori.»
Rei inizia a esaminare quei fogli, senza però riuscire a
dare un
senso alle parole che scorrono sotto ai suoi occhi.
«Cos’è?», domanda, confusa.
«La tesi di laurea di Ryou. Riporta gli esiti di alcuni
esperimenti non propriamente leciti
condotti nel corso degli anni su svariati pazienti», spiega,
puntellando un gomito sul tavolo e posando una guancia sul palmo della
mano.
L’attenzione di Rei si sofferma su un passaggio in
particolare
del documento, dove due lettere sono state sottolineate con un
evidenziatore azzurro. «Touya, guarda queste
iniziali… U.T....
potrebbero essere quelle di Tomie?», suggerisce, e in quel
momento sente di aver avuto l’intuizione giusta.
Touya si china verso Rei, osservando il foglio su cui si è
fermata. «È possibile», concede,
ammirato.
«Questo cosa significa? Ryou era già a conoscenza
del dono
di Tomie, prima ancora di entrare a far parte della vita di Keigo tre
anni fa?»
In quel momento, a Enji viene da sorridere. Ancora una volta, non
può fare a meno di constatare le brillanti doti deduttive di
Rei.
È pomeriggio inoltrato quando Enji torna finalmente
nell’appartamento di Kaina.
Si aspetta quasi di trovare Keigo ancora profondamente addormentato,
per questo all’inizio fa per dirigersi a passo spedito verso
la
camera del ragazzo.
È costretto tuttavia a fermarsi quasi subito, nel momento in
cui
scorge con la coda dell’occhio una figura muoversi in cucina.
«Sei sveglio…» Sul volto di Enji compare
un sorriso sollevato. «Come ti senti?»
Keigo è seduto sul davanzale della finestra. Indossa un paio
di
jeans e un maglione un po’ largo da sotto il quale Enji vede
sbucare le scapole del ragazzo. Tra le mani stringe una tazza da cui
sale una nuvoletta di vapore, e questo gli fa sospettare che si sia
preparato una tisana calda da bere in sua assenza. La cosa che
più lo rassicura, però, è vedere come
il volto del
ragazzo abbia riacquistato un po’ di colore e le occhiaie si
siano fatte meno pronunciate.
«Meglio», ammette Keigo, accennando un sorriso
nella sua direzione. «Scoperto qualcosa?»
«Sì.» Enji annuisce, mentre cerca di
mettere in
ordine tutti gli sviluppi della mattinata. «Tra le altre
cose,
Rei è stata a casa di Touya per parlare con lui.»
L’espressione serena sul volto di Keigo svanisce
all’istante non appena sente nominare l’altro
ragazzo.
«Touya? C-che cavolo c’entra Touya con tutta questa
storia…?», domanda, gli occhi dorati che si fanno
grandi
come tazze da tè.
Enji sospira. In effetti aveva messo in conto che la reazione di Keigo
potesse essere quella. «Rilassati, Keigo. È pur
sempre una
delle persone a cui eri più legato prima di lasciare
Tokyo», gli fa notare, pragmatico. «In ogni caso,
lui e Rei
hanno parlato dei dubbi che Tomie aveva su Ryou, per cui immagino che
ora la polizia inizierà a indagare concretamente su di lui.
Ci
penseranno loro a trovarlo.»
Keigo annuisce brevemente, tornando a osservare la tazza con la tisana.
«Ottimo», commenta, soffiando sopra la superficie
della
tisana e facendola increspare.
Per un momento Enji riesce quasi a sentirsi ottimista. Se Rei
riuscirà ad incriminare Ryou, forse potrà tenere
Keigo
fuori dai guai, e così la visione non si
realizzerà.
È una speranza flebile, ma Enji sente di volersi aggrappare
a
essa con tutte le sue forze.
Poco dopo, però, Keigo si volta nuovamente nella sua
direzione.
«Sai, ci ho riflettuto», ammette, la voce del
ragazzo che
arriva in maniera improvvisa alle orecchie di Enji. «Penso
che
dovremmo andare a casa di mia madre. C’è da
recuperare il
fascicolo che hai trovato, sarebbe un elemento utile contro
Ryou… e poi credo di dovere
andare lì, sento che in qualche modo mi aiuterà a
ricongiungermi con lei.»
Enji resta in silenzio per qualche secondo, soprappensiero. Se davvero
vuole tenere Keigo il più lontano possibile da questa
storia,
non è di certo così che ci riuscirà.
Tuttavia,
osservando il sorriso speranzoso del ragazzo sa già che non
potrà dirgli di no.
Alla fine si lascia sfuggire un sospiro stanco.
«D’accordo», concede, remissivo.
Keigo esita un po’ davanti alla porta
dell’appartamento.
Le chiavi erano tra gli effetti personali di sua madre che la polizia
ha restituito a Kaina dopo l’incidente. Ha visto Kaina
infilare
la busta in un mobile all’ingresso quella sera stessa, dopo
la
consegna, quando sono tornati a casa, e da allora è certo
che
nessuno dei due abbia trovato il coraggio di frugare là
dentro.
Il mazzo di chiavi ha un peso quasi familiare tra le dita. Keigo ci
giocherella, facendolo sobbalzare nella sua mano. Ha notato che
c’è anche un portachiavi, una piccola palla da
biliardo
blu con sopra il numero due.
È fermo sullo zerbino da un po’, lo sguardo
puntato verso il basso. Enji, ovviamente, se n’è
accorto.
«Tutto okay?», prova a domandargli, sperando di non
mettergli più pressione.
«Sono un po’ agitato…»,
ammette il ragazzo,
lasciandosi sfuggire un sorriso teso. «La verità
è
che non so neanch’io che cosa mi aspetto di trovare qua
dentro.»
Enji vorrebbe dirgli qualcosa per incoraggiarlo, ma non sa se questo
potrebbe peggiorare la situazione, così alla fine si limita
a
rimanere in silenzio.
Poco dopo, fortunatamente, Keigo si lascia sfuggire un piccolo sospiro,
chiude gli occhi per un attimo e poi infila la chiave nella serratura.
È un movimento che dura mezzo secondo, ma che
chissà per
quale assurda ragione sembra protrarsi per un tempo infinito. Alla fine
la serratura scatta con un clangore cupo che riecheggia nella tromba
delle scale.
La porta si apre con un cigolio pesante. Enji dà
un’occhiata in giro, e gli sembra che tutto sia rimasto come
l’ha lasciato, il disordine disseminato in ogni angolo, i
piatti
abbandonati sul tavolo.
Keigo scende i gradini d’ingresso osservando quello stesso
spettacolo, mentre una sensazione soffocante inizia a farsi strada nel
suo petto. Si domanda se in quei tre anni si sia mai chiesto
che
fine avesse fatto sua madre, e si ritrova a valutare che probabilmente
la risposta è no. Ora che si trova lì,
c’è
qualcosa che lo ferisce in quello squallore – anche se forse
sono
solo i suoi stessi sensi di colpa.
La porta si chiude alle loro spalle. Enji resta indietro di qualche
passo, vuole lasciare a Keigo il tempo di fare pace con qualsiasi
sensazione stia provando in quel momento. Lo vede fermarsi accanto al
divano, le dita che accarezzano incerte la coperta di tweed a quadri
dove probabilmente Tomie si avvolgeva per dormire la notte ed
è
quasi sopraffatto dalla tenerezza di quella scena.
Keigo ha gli occhi lucidi, ma decide di non pensarci per il momento.
«Allora», comincia, spostando brevemente lo sguardo
attraverso lo spazio modesto dell’appartamento.
«Dove hai
detto che dovrebbe essere questo fascicolo?»
Enji ripercorre con la mente tutti gli spostamenti che ha compiuto la
prima volta che è entrato là dentro.
«Era sul
tavolo, ma l’ho fatto cadere a terra per vedere cosa
contenesse», spiega, stringendosi nelle spalle.
Keigo fa il giro attorno al tavolo, ma poco dopo sul suo volto compare
un’espressione corrucciata. «Non
c’è niente,
qui», ammette, deluso.
Enji gli rivolge un’occhiata stupita. «Come sarebbe
a
dire?», domanda, scendendo in fretta le scale e raggiungendo
il
ragazzo.
Una volta lì, però, è costretto a
constatare che
Keigo ha ragione: del fascicolo che ha visto l’altra volta
non
c’è traccia. Enji s’inginocchia a terra,
osservando
il punto esatto in cui ha visto i fogli cadere.
«Come pensi che sia possibile?», gli chiede Keigo,
incrociando le braccia al petto.
Enji non lo sa. Vorrebbe saperlo… ma l’unica cosa
che gli
viene in mente è un sospetto. Si alza in piedi e attraversa
in
fretta l’appartamento, mentre Keigo lo osserva sparire in una
stanza in fondo a sinistra.
«Vieni a vedere», lo sente chiamare poco dopo.
Keigo si limita a raggiungerlo, dubbioso. Sembrerebbe che Enji si sia
infilato in un piccolo bagno. Keigo nota che, per entrare, ci sono
alcuni scalini da salire.
«L’unica stanza non interrata
dell’appartamento», valuta il ragazzo, mentre si
ferma al
fianco dell’altro.
Enji stende un braccio davanti a sé, indicandogli un punto
preciso con il dito. «Guarda», lo esorta ancora,
concentrato.
Gli occhi di Keigo seguono la direzione che Enji gli sta indicando fino
a che non si posano su una finestra. Il vetro è infranto,
probabilmente è stato rotto con il grosso sasso che ora
giace a
terra, e in questo modo dev’essere stato un gioco da ragazzi
irrompere là dentro senza chiavi ed evitare di forzare la
serratura.
«La finestra dà sulla strada», commenta
Keigo,
voltandosi verso Enji. «Dici che è stato
Ryou?»
«Chi altri avrebbe avuto motivo di entrare qui?»,
gli chiede Enji di rimando, osservandolo con fare seccato.
Lo sguardo di Keigo torna a posarsi sulla finestra rotta, gli occhi che
fissano le schegge di vetro sul davanzale.
Il tramonto tinge il cielo di Ueno di un delicato colore rosato.
Keigo sta tornando verso la stazione. È arrivato fin
lì
con i mezzi pubblici, e ora dovrà prendere una nuova corsa
per
tornare indietro.
La verità è che si sente frustrato. Ogni volta
pensa di
star per fare un passo in avanti, salvo poi rivelarsi
l’ennesimo
buco nell’acqua. Quei documenti, poi, sarebbero stati davvero
utili, invece sono arrivati troppo tardi – di nuovo.
Enji si volta a osservare il ragazzo. Lo sguardo di Keigo è
puntato verso il basso, e dalle labbra del ragazzo continuano a
sfuggire sospiri amareggiati.
«Ehi, vedrai che troveremo
qualcos’altro», commenta, cercando di confortarlo.
Keigo si volta a osservarlo, ma sul volto ha un’aria
rassegnata
– così insolita per lui, si ritrova a valutare
Enji.
«Già… anche se comincio a essere a
corto di idee su
come procedere», ammette, le labbra che si piegano in un
sorriso
appena accennato.
Enji sembra sul punto di aggiungere qualcosa, ma in quel momento il
cellulare di Keigo inizia a squillare. Il ragazzo sembra sorpreso,
così recupera il telefono dalla tasca dei pantaloni mentre
rallenta il passo lungo il marciapiede – salvo essere
superato da
un fiume in piena di passanti.
Non appena si ritrova a leggere il numero sullo schermo,
un’espressione sorpresa compare sul volto di Keigo.
«Chi è? Ryou?», lo incalza Enji, in
apprensione.
«Peggio», commenta Keigo. Il ragazzo alza gli occhi
al
cielo, con fare esasperato, ma alla fine si limita a rispondere.
«Pronto?»
«Keigo! Hai
risposto, per fortuna», esclama una voce fin
troppo agitata. «Dove
sei? Stai bene?»
«Sì, Touya, sto bene», gli assicura,
riprendendo a
camminare in direzione della stazione. «Sono a Ueno, ma ora
sto
tornando a casa. Vuoi che t’invii un piccione viaggiatore
quando
arrivo?»
«Smettila di
fare il cretino. E poi che cavolo ci fai a Ueno?»,
insiste Touya, cocciuto. «Se
proprio vuoi saperlo, mi sono preoccupato perché oggi
è
venuta a casa mia quel magistrato che abbiamo conosciuto anni fa e mi
ha fatto delle domande su di te…»
«Sì, lo so», taglia corto Keigo, senza
riuscire a non roteare gli occhi.
«Come sarebbe
a dire che lo sai?» Dall’altra parte
segue un breve silenzio. «Ah,
già… la tua ombra.»
Keigo deve trattenersi con tutto se stesso per non sbuffare
sonoramente. Di colpo gli sembra di essere tornato indietro a tre anni
prima, a quel pomeriggio di maggio, quando seduti sul molo aveva
confessato a Touya la sua intenzione di seguire Ryou per scoprire
qualcosa di più sui suoi poteri. Touya, in quello, era
sempre
stato sulla stessa lunghezza d’onda di Tomie: non si era mai
fidato di Ryou e, soprattutto, continuava a ripetergli che la cosa
migliore da fare fosse lasciar andare Enji. Era stato questo il motivo
per cui avevano litigato, rompendo… beh, qualsiasi cosa ci
fosse
stata prima. Col senno di poi, Keigo si vede costretto ad ammettere
che, almeno in merito a Ryou, Touya aveva ragione.
Keigo serra le labbra, spazientito. «Mi hai chiamato solo per
dirmi questo, Touya?», s’informa, sperando di
mettere un
punto a quella conversazione il prima possibile.
Prima di continuare, Touya sembra esitare per un momento. «No… volevo dirti
anche che, per qualsiasi cosa, io ci sono. Tu lo sai questo, vero?»,
aggiunge, e le sue parole sembrano sincere.
Keigo resta in silenzio per qualche secondo, forse alcuni ricordi del
passato stanno tornando a galla nella sua memoria. «Lo
so…», si limita ad assicurargli. «Ti
ringrazio.
Adesso scusami, ma devo proprio andare.»
«Non sparire
di nuovo nel nulla!», lo esorta Touya
dall’altro capo del telefono, poco prima che Keigo possa
interrompere la comunicazione.
Enji osserva Keigo mentre infila di nuovo il telefono in tasca e
riprende a camminare a passo spedito. Può fingere per tutto
il
tempo che vuole, ma si vede che, in fin dei conti, a Touya ci tiene
ancora, o perlomeno all’amicizia che li legava.
Enji vorrebbe farglielo notare, ma in quel momento il telefono di Keigo
riprende a squillare. Il ragazzo lo recupera in fretta, con
un’espressione infastidita.
«Di nuovo Touya? Che si è dimenticato?»,
s’informa Enji, divertito.
Sul volto di Keigo, nel frattempo, è scomparsa ogni traccia
di
disturbo, sostituita da un’espressione sorpresa e un
po’
impaurita, gli occhi spalancati.
«È Ryou», confessa, con un filo di voce.
Enji si ritrova a condividere il suo stupore, tuttavia cerca di tornare
in fretta in sé. «Che aspetti?
Rispondi!», lo
esorta, deciso.
Keigo osserva ancora per un momento il numero che lampeggia sul
display. Si ritrova a deglutire a vuoto, ma alla fine si decide ad
accettare la chiamata, avvicinandosi il telefono
all’orecchio.
«Pronto?», domanda, cercando di mantenere la voce
ferma.
«Keigo. Sembra
passata un’eternità dall’ultima volta
che ci siamo parlati»,
valuta Ryou, col solito tono calmo e mellifluo. Keigo riesce quasi a
vederlo davanti a sé, mentre si allenta con un gesto casuale
il
nodo della cravatta. «Che
fine hai fatto?»
Keigo fatica a restare concentrato, sembra che Ueno abbia cominciato a
vorticargli attorno. «Potrei farti la stessa
domanda»,
commenta, le labbra che si piegano in un sorriso sveglio.
«Sono
tornato in istituto ma, quando ho chiesto di te, nessuno ha saputo
dirmi dove fossi.»
«Sì,
mi hanno riferito.
Purtroppo mi sono dovuto allontanare per qualche giorno, sai, avevo
delle commissioni in sospeso da recuperare»,
spiega, e a
Keigo sembra di nuovo di immaginare ogni suo movimento, la lingua che
schiocca contro il palato, la mano che si muove nell’aria con
un
gesto noncurante. «Tu
sei ancora in istituto?»
«No. Sono rientrato a Tokyo», confessa, mentre
cerca di
tenere lo sguardo fisso su un punto ben preciso – il palo di
un
lampione, dalla parte opposta della strada – per sfuggire a
quella sensazione di nausea che, ormai da qualche minuto, lo sta
attanagliando. «Pensavo che tenermi a distanza dai vecchi
ricordi
mi avrebbe aiutato, ma non riuscivo a concentrarmi sulle
lezioni.»
Dall’altra parte segue un brevissimo silenzio. «Capisco…»,
commenta Ryou, con fare assorto. «Beh… in
realtà anch’io sono a Tokyo.»
Enji e Keigo si ritrovano a scambiarsi un’occhiata sorpresa.
«S-sul serio?», domanda il ragazzo, incredulo.
«Dove
sei? Avrei così tanta voglia di
vederti…»
Ryou si ritrova a soffocare una risata. Poco dopo, dal telefono di
Keigo sale il suono di una notifica. «Ti ho appena mandato un
messaggio con l’indirizzo», ammette, e
la voce è di nuovo quella imperturbabile di sempre.
«Ti aspetto.»
Quando Keigo arriva a destinazione è ormai scesa la sera.
Si trova davanti a un hotel di lusso in una delle zone più
eleganti di tutta Tokyo. Come al solito, Ryou non sembra aver badato a
spese.
La strada all’esterno è parecchio trafficata.
Decine di
taxi continuano a sfrecciare senza sosta a gran velocità,
mentre
i marciapiedi sono affollati da passanti che si avviano verso una
serata al karaoke o si affrettano a tornare a casa – o in
albergo, nel caso dei turisti – per riposarsi dopo una
giornata
stancante.
Keigo osserva il grattacielo davanti a sé – nel
buio della
notte le vetrate sembrano scintillare di un nero intenso –
per
poi posare ancora una volta lo sguardo sul messaggio che Ryou gli ha
inviato. Nonostante tutto, fatica ancora a credere che quello sia
davvero il posto giusto.
Alla fine tira un respiro profondo, blocca lo schermo del telefono e,
dopo aver lasciato scivolare il cellulare nella tasca dei pantaloni, si
decide ad avviarsi verso l’ingresso.
Sente il cuore in tumulto nel petto. Quella situazione lo spaventa,
sì, tuttavia che modo ha di sfuggirvi?
La hall dell’hotel è caratterizzata da
un’illuminazione fredda. L’arredamento è
elegante e
moderno, e i colori predominanti sono indubbiamente il nero e il
grigio. In un certo senso, anche questo finisce per ricordargli Ryou.
Alla reception c’è una ragazza giovane, non
avrà
nemmeno trent’anni. Ha i capelli rossi e corti e, non appena
lo
vede, gli rivolge un sorriso luminoso, socchiudendo gli occhi. Keigo le
passa davanti senza che lei provi in alcun modo a fermarlo –
il
che lo fa arrivare alla conclusione che Ryou deve averla avvertita del
suo arrivo.
Keigo sale in ascensore e, continuando a seguire le istruzioni di Ryou,
preme il tasto dell’ultimo piano. La corsa è
rapida, e nel
frattempo Keigo ne approfitta per osservare attraverso le pareti di
vetro dell’ascensore lo skyline notturno farsi sempre
più
distante, le luci dei grattacieli che diventano piccoli puntini
lampeggianti.
L’ascensore arriva all’ultimo piano con un trillo
vivace.
Keigo s’infila nel corridoio a sinistra e inizia a
percorrerlo,
notando che anche lì imperversa la stessa luce bianca e
fredda
dell’ingresso, così come i colori asettici. Lungo
tutto il
corridoio corre una vetrata di un colore nerastro che si affaccia sulla
vita che, diversi piani più in basso, continua a scorrere.
La camera è l’ultima in fondo al corridoio, la
696. Quando
ci si ritrova davanti, Keigo esita ancora un momento prima di bussare.
Il suo cuore ha continuato a battere all’impazzata, e adesso
sembra essere letteralmente sul punto di scoppiare. Trattiene il fiato
e, alla fine, lascia alcuni piccoli colpi alla porta.
L’uscio si schiude quasi immediatamente. Dietro di esso Keigo
intravede Ryou, impeccabile come al solito.
Lo sguardo che Ryou posa su di lui è adorante.
L’uomo
richiude delicatamente la porta alle spalle del ragazzo, mentre gli
rivolge un sorriso leggero.
Keigo si avvicina a lui, chiudendo gli occhi per un momento e
lasciandosi sfuggire un sospiro.
«Mi sei mancato…», confessa, la voce che
scivola fuori dalle sue labbra in tono stanco.
Ryou gli accarezza ua guancia, osservandolo con fare apprensivo.
«Anche tu», ammette, con fare suadente.
L’istante successivo Keigo si lascia cadere verso di lui,
mentre
Ryou annulla la distanza tra di loro. Cattura subito le labbra del
ragazzo in un bacio lento e intenso, che costringe Keigo a chiudere gli
occhi.
Keigo cinge il collo di Ryou con le braccia, per poi spiccare un
piccolo balzo e stringergli le gambe attorno alla vita. Nel frattempo
le dita di Ryou s’intrecciano tra i suoi capelli,
così da
attirarlo maggiormente a sé e approfondire quel bacio
famelico.
Ryou si incammina attraverso la stanza. Per quel poco che Keigo
è riuscito a intravedere nella penombra, un piccolo
corridoio
all’ingresso lascia ben presto spazio a un’ampia
camera da
letto.
La giacca di Keigo cade a terra, mentre le dita di Ryou si affrettano a
sfilargli anche il maglione. Keigo solleva le braccia verso
l’alto per aiutare Ryou a spogliarlo, e poco dopo sente le
mani
dell’uomo percorrergli il petto nudo con bramosia.
Il letto si trova di fronte a un’ampia vetrata, dalla quale
giunge il leggero lucore bluastro della notte. Una volta che si trova
davanti al materasso, Ryou vi distende comodamente sopra il corpo di
Keigo, per poi sovrastarlo subito dopo.
Keigo sente le lenzuola di raso scorrere lungo la sua schiena. Slaccia
in fretta i bottoni della camicia candida di Ryou, lasciandola cadere
in un punto indefinito della stanza.
Mentre le labbra di Ryou scendono a baciargli il collo, Keigo si lascia
sfuggire un piccolo gemito. Gli occhi del ragazzo si posano dalla parte
opposta della stanza, dove per un momento gli sembra di vedere Enji,
fermo accanto al muro, un’espressione sconvolta in volto.
Keigo
serra le dita attorno ai corti capelli bianchi alla base della nuca di
Ryou, lo sguardo lascivo che continua a dardeggiare Enji.
Dura solo un secondo, però. Il battito di ciglia successivo,
infatti, quella su cui le sue iridi dorate si sono posate torna a
essere solo una parete scura.
Keigo circonda il collo di Ryou con le braccia, mentre continua a
fissare la parete.
Enji appare nella stanza quando è ormai notte fonda.
Keigo è disteso nel letto, e sembra essere profondamente
addormentato. I vestiti del ragazzo sono sparsi in giro per la stanza,
e da sotto il lenzuolo di raso azzurro spunta la sua schiena nuda. Di
Ryou nessuna traccia, almeno non in camera: la luce del bagno
è
accesa, ed Enji sente arrivare da quella stanza un rumore di acqua che
scorre.
Ottimo. Probabilmente si starà facendo una doccia, il che fa
guadagnare loro qualche minuto.
Enji si avvicina in fretta al letto, chinandosi leggermente verso il
basso per essere più vicino al ragazzo.
«Keigo! Su, forza, svegliati!», lo chiama,
concitato.
Il ragazzo riapre lentamente gli occhi, lasciandosi sfuggire un mugolio
assonnato. Cerca di mettere a fuoco per qualche secondo il mondo
intorno a lui, poi la sua espressione si fa di colpo più
lucida.
Keigo si tira su, mettendosi a sedere sul letto. Il faldone. Alla
fine sono lì per quello.
«Quando sono entrato ho provato a dare un’occhiata
in giro,
ma non mi è sembrato di vederlo da nessuna parte»,
ammette, pensieroso.
Poco dopo Enji lo vede scostare le lenzuola e rimettersi in piedi.
Infila in fretta il maglione e i boxer, mentre si guarda attorno con
fare circospetto.
«Dobbiamo sbrigarci», commenta Enji, incrociando le
braccia
al petto. «Non abbiamo molto tempo e…»
«Todoroki Enji. Certo che ne è passato di tempo
dall’ultima volta che ci siamo visti.»
Enji e Keigo si ritrovano a sobbalzare nello stesso momento. Nessuno
dei due si è accorto che l’acqua ha smesso di
scorrere da
un pezzo.
Ryou li osserva dalla soglia del bagno, di nuovo vestito di tutto
punto. Finisce di infilare un bottone nell’asola del polsino
della camicia mentre sul suo volto compare un’espressione
gelida.
«Ryou…», lo chiama piano Keigo, mentre
cerca di
farsi venire in mente qualcosa di plausibile per giustificare quella
scena.
Ryou si avvicina a lui, rivolgendogli uno sguardo indulgente.
«Stai di nuovo lasciando che la tua ombra abbia troppa
influenza
su di te», commenta, carezzandogli una guancia. «Mi
hai
deluso, Keigo… ma non preoccuparti, non sono arrabbiato con
te.»
Enji fulmina l’uomo con lo sguardo. «Io so cosa hai
fatto», sibila, la voce resa minacciosa dalla rabbia, mentre
trattiene a stento un ringhio tra i denti.
Ryou si volta nella sua direzione, fissandolo con aria divertita e
inarcando le sopracciglia in un’espressione di scherno.
«Io
non ho fatto proprio niente. Hai delle prove di quanto
affermi?»,
s’informa, con la tranquillità di chi conosce
già
la risposta.
Enji lo fissa in cagnesco, furioso. No, non ce le ho le prove,
bastardo, ma giuro che le troverò, fosse l’ultima
cosa che faccio.
Il sorrisetto sul volto di Ryou – che Enji prenderebbe
volentieri
a pugni – non fa che allargarsi avvertendo che
dall’altra
parte non arriva nessuna risposta. «Come
sospettavo»,
riprende socchiudendo le palpebre, soddisfatto. «A questo
punto
temo di essere costretto a chiedervi di lasciare la camera.»
Keigo finisce di rivestirsi in fretta, per poi avviarsi verso
l’uscita. Mentre passa accanto a Ryou si scambiano
un’ultima occhiata intensa, ma nessuno dei due osa proferire
anche solo una parola.
La porta della stanza si richiude, i grandi occhi dorati di Keigo che
osservano in silenzio la scena.
La serratura scatta, e la porta d’ingresso
dell’appartamento si apre, lasciando entrare Hitoshi
all’interno.
Una figura è seduta sul davanzale della finestra, intenta a
osservare la vista che da lì viene offerta. Ha lo sguardo
assorto, perso nello scorcio del porto con le sue grosse navi che
riesce a intravedere.
«Sono tornato», annuncia Hitoshi, lasciando
ciondolare una
busta di carta davanti al viso. «Ho preso gli involtini
primavera
nel tuo ristorante cinese preferito.»
L’uomo si volta nella sua direzione, i capelli dorati che
ondeggiano leggermente seguendo il movimento della sua testa.
«Sono contento», commenta Hizashi,
l’accenno di un
sorriso che gli compare sul volto. «Dai, mangiamo.»
note
due cose al volo. in questo capitolo ho finito di introdurre tutti i
personaggi e sì, shouta e hizashi avevano intrapreso l'iter
di
affido per eri e hitoshi, che non sono fratelli ma vengono da due
situazioni disagiate. quanto a touya no, in questa storia non
è
un todoroki semplicemente perché mi rimaneva più
comodo
così ai fini della trama perché
sì, okay?
also, a partire da questo capitolo ho cominciato a
distanziarmi
un po' dalla trama originale. va detto che dopo il pezzo con touya e
rei mi sono bloccata per mesi, per cui abbiate clemenza.
penso di non avere altro da dire. spero che la storia vi stia piacendo,
ci vediamo a dicembre con il prossimo capitolo!
aria
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Capitolo 4 *** i ricordi tornano a galla ***
La porta
d’ingresso si apre e le prime luci dell’alba
inondano l’appartamento.
Keigo arranca stancamente verso la camera da letto. Lascia cadere la
tracolla a metà strada, quando è ancora in
soggiorno,
senza preoccuparsi troppo del botto che ne scaturisce –
dopotutto, sa bene che in quel momento nessuno oltre lui è
in
casa.
Enji lo raggiunge poco dopo. Si ferma sulla soglia della stanza, come a
volersi appoggiare allo stipite della porta, e osserva il ragazzo, che
nel frattempo si è buttato con fare rassegnato sul
materasso, la
testa che ciondola giù di lato verso il pavimento.
«Che si fa?», gli domanda Enji, e per una volta
anche lui si sente incerto su come procedere.
Keigo si lascia sfuggire un sospiro profondo, lo sguardo che continua a
rimanere perso chissà dove. «Non possiamo rimanere
qui», si decide finalmente ad ammettere, dopo un lungo e
denso
silenzio. «Ryou conosce casa di Kaina, e non voglio esporla a
rischi inutili.»
Enji incrocia le braccia al petto, osservando intensamente il ragazzo.
«Qual è il piano, allora?», gli chiede,
in un tono
che non suona duro, bensì incuriosito.
Sul volto di Keigo compare un’espressione corrucciata. Poco
dopo
infila una mano nella tasca della giacca, fruga per qualche istante
fino a quando non estrae il cellulare, per poi
portarlo all’altezza del viso.
«Forse una soluzione c’è»,
confessa,
sbloccando il telefono e aprendo la rubrica dei contatti, che resta per
un po’ a fissare mordendosi il labbro inferiore.
«Solo che
è l’ultima a cui sarei voluto
ricorrere...»
È una di quelle mattine che cominciano lentamente, immerse
nel
silenzio e nella calma più totale. Sono quelle che Aizawa
preferisce, in realtà.
Shouta tiene la tazza di caffè stretta tra le mani, lo
sguardo
perso oltre la finestra gli restituisce un cielo di un azzurro
grigiastro, come se fosse rimasto intrappolato nel loop
dell’alba. I soliti pensieri, le solite preoccupazioni
–
Hizashi, Hizashi…
– si mischiano col vapore caldo, divenendo se possibile ancor
più impalpabili.
Eri è seduta accanto a lui e, a differenza sua, sembra
essere
decisamente più concentrata sulla colazione. I suoi occhioni
scintillano di contentezza mentre afferra un altro frollino, per poi
inzupparlo subito nel latte caldo della sua tazza, le gambe che ben
lontane dal toccare terra dondolano a mezz’aria mentre anche
i
due codini ai lati del capo si ritrovano ad ondulare.
In un certo senso, questo è un po’ un sollievo per
Shouta:
considerando quanto gli era sembrata inquieta Eri quella mattina
davanti all’asilo, l’accenno di
spensieratezza che ora
gli sembra di vedere sul volto della bambina, nel sorriso
spensierato che le è comparso sulle labbra, gli fa sperare
che
forse la situazione con Hizashi potrebbe averla turbata meno in
profondità di quanto si fosse ritrovato a temere.
Eri si porta il biscotto alle labbra e ne prende un piccolo morso, e in
quel momento dal corridoio giunge chiaro il rumore di una porta che si
chiude.
Non passa inosservato né a Shouta né a Eri, e per
un
momento l’atmosfera in cucina sembra essersi cristallizzata,
come
se tutto si fosse bloccato nella posizione assunta poco prima.
A Shouta non è sfuggito neppure quel rumore, poche ore
prima,
quando intorno alle sei il portone d’ingresso è
stato
aperto, per poi richiudersi con un clangore pesante.
Poco dopo, Hitoshi fa il suo ingresso in cucina. Solite occhiaie
pronunciate, soliti capelli tremendamente in disordine. Ha
già
indosso la giacca e la borsa con i libri
dell’università,
segno che sta per uscire di casa da un momento all’altro.
«Buongiorno…», saluta con fare evasivo,
mentre
recupera dal tavolo una brioche confezionata e la apre in fretta, per
poi infilarla subito in bocca.
Shouta non si scompone, osservandolo di sottecchi. «Ti ho
sentito
rientrare stamattina presto», ammette, sollevando lo sguardo
sul
ragazzo.
Hitoshi si permette di sobbalzare appena solo un secondo, per poi
cercare di ostentare subito dopo una sicurezza che non gli appartiene.
«Sono rimasto a dormire a casa di un amico»,
spiega, dopo
aver buttato giù il boccone di brioche.
Shouta inarca un sopracciglio, nient’affatto persuaso dalle
parole del ragazzo. «Mi pare di ricordare che avevi detto che
saresti tornato a casa per cena», commenta, portandosi il
caffè alle labbra e prendendone un piccolo sorso.
Stavolta Hitoshi si fa trovare più pronto. «Si era
fatto
tardi, così ho pensato che non fosse un problema fermarsi
lì per la notte», si giustifica, sostenendo con
decisione
lo sguardo di Aizawa. «Adesso scusatemi, ma io devo proprio
andare…»
Eri solleva il capo verso Hitoshi, osservandolo con aria confusa.
«Non fai colazione con noi?», domanda, sorpresa.
Per un momento, le labbra di Hitoshi si piegano in un sorriso dolce.
«No, principessa», conferma, mentre le passa
teneramente
una mano tra i capelli, arruffandoglieli appena. «Anzi,
farò meglio ad andare, sono già in ritardo per le
lezioni…»
L’istante successivo, Hitoshi si è già
fiondato
fuori dalla stanza. Non appena il portone d’ingresso si
richiude
alle sue spalle, nella cucina piomba nuovamente un silenzio asfissiante.
Eri abbassa lo sguardo sulla tazza, gli occhioni rossi che si
riflettono nel latte bianco mentre l’accenno di sorriso di
poco
prima è svanito dal suo volto.
La notte cala sulla città come un velo nero che ammanta ogni
cosa, palazzi, strade, lo scorcio del porto non troppo distante e la
piccola falce di luna che si specchia nel mare.
C’è più movimento di un tempo, o almeno
così
sembra a Keigo. Al momento si trova in cima a un edificio basso, un
palazzo di un paio di piani, ma da lì riesce comunque a
osservare la scena che si sta svolgendo sotto di lui: è
stato
allestito un piccolo palco, tra i capannoni della zona industriale, e
una band rock locale si sta esibendo mentre, poco più in
basso,
una piccola folla si dimena e canta a squarciagola.
Si alza un soffio di vento gelido, e Keigo è costretto a
stringersi un po’ più forte nella giacca pesante
che
indossa, mentre infila le mani nelle tasche. Alle sue spalle, avverte i
passi di qualcuno che si sta avvicinando a lui.
«Me la ricordavo più tranquilla la
zona», commenta,
il fiato che per il freddo si condensa in piccole nuvolette di vapore.
Finalmente l’altra persona lo raggiunge, fermandosi al suo
fianco. Prima di parlare, Touya si prende un lungo momento per
osservarlo, come se lo vedesse adesso per la prima volta dopo tanto
tempo, forse per imprimere ogni dettaglio dell’altro nella
sua
memoria oppure, semplicemente, ancora incredulo di averlo trovato
davvero lì.
«Hanno aperto un centro sociale qua vicino, ogni tanto
organizzano qualcosa», si decide a spiegare, dopo essere
rimasto
in silenzio per diversi secondi e aver sbattuto un paio di volte le
palpebre per l’incredulità. «Confesso
che sono
rimasto molto sorpreso nel ricevere la tua chiamata.»
A Keigo sfugge un sorriso nervoso, ed Enji non può fare a
meno
di notarlo. Ha seguito il ragazzo fin lì, ovviamente, e sa
quanto gli sia costato chiedere aiuto a Touya – una questione
d’orgoglio, certo, ma anche tutte quelle parole mai dette tra
i
due.
Keigo punta lo sguardo a terra, dondolando un po’ sui
talloni.
«Sono nei guai, Touya», si decide finalmente ad
ammettere,
continuando con fare ostinato a non ricambiare il contatto visivo con
l’altro.
Touya, invece, fissa intensamente il ragazzo. Enji lo vede sbarrare gli
occhi, il corpo che in maniera istintiva si tende in direzione
dell’altro. «I-in che senso nei guai? Sei ferito
o…?», si affretta a domandare, in apprensione.
Keigo china il capo all’indietro, lo sguardo che adesso fissa
il
cielo terso della sera. «No, no, è solo
che…
sospetto che in realtà quello di mia madre sia stato un
omicidio, e che dietro ci sia Ryou», spiega, il tono di voce
che
per un momento si fa incredibilmente amaro. «Non posso
restare da
Kaina. Ryou conosce quel posto, e non voglio che sia in condizione di
fare del male anche a lei.»
Touya sembra calmarsi per un momento. Qualcosa nel suo cervello
dev’essersi acceso, perché poco dopo pare
più
calmo, come intrappolato in un pensiero. «Quando la
dottoressa
Himura è stata a casa mia, allora… aveva ragione.
C’è lui dietro a tutta questa storia»,
deduce, gli
occhi che vengono attraversati da un guizzo di consapevolezza. Poco
dopo, però, tornano a velarsi di amarezza.
«Avresti dovuto
darmi retta, tre anni fa. Quel tipo non ha mai voluto il tuo
bene.»
Enji sbuffa spazientito, infilando le mani nelle tasche del giaccone.
«Non abbiamo tempo per perderci in rimpianti e
sentimentalismi», commenta, pragmatico.
Keigo annuisce brevemente, d’accordo con lui.
«Adesso non
è questo il punto, Touya», cerca di fargli notare,
conciliante. «Ho bisogno di sapere se hai un posto dove
ospitarmi, almeno finché le acque non si saranno calmate.
Avrei
preferito non tirarti di nuovo in mezzo ai miei casini, ma…
onestamente non ho nessun altro a cui chiedere.»
A quelle parole, Touya sembra calmarsi di colpo. Resta di nuovo per
qualche istante bloccato a osservare Keigo, come se stesse cercando di
rimettere a fuoco il mondo intorno a sé.
«S-sì…», ammette alla fine,
all’apparenza ancora un po’ stordito. «Al
telefono ti
ho detto di venire qui perché c’è
ancora la vecchia
rimessa delle barche abbandonata dove mi allenavo a suonare il
basso… è piena di polvere, ma penso che per
qualche
giorno possa andare bene.»
Keigo stringe le labbra, osservando un punto fisso davanti a
sé
– come durante la telefonata con Ryou, cercando di non andare
alla deriva – mentre riflette. La vecchia rimessa.
L’aveva quasi dimenticata. Ci sono fin troppi ricordi che lo
legano a quel posto, in un mix dal retrogusto dolceamaro.
C’è anche un’implicazione che non gli
è
sfuggita, il fatto che Touya gli abbia proposto la rimessa come
soluzione perché a
casa sua c’è Tenko. Conclusione
logica, ovvio, solo che in un certo senso trova strano come Touya ci
tenga a tenere separati presente
e passato.
Alla fine Keigo si volta verso Touya, rivolgendo l’accenno di
un
sorriso nella sua direzione. «Direi che è
perfetta»,
commenta, incoraggiante.
La rimessa è esattamente come Keigo se la ricordava.
Passando da
una piccola veranda che s’affaccia sul mare – al
momento,
con tutte le luci spente, ogni cosa è immersa in
un’oscurità densa e profonda – si arriva
davanti
alla porta di ferro con i vetri impolverati. Touya è attento
a
girare le chiavi nella serratura cercando di non fare troppo rumore, ma
alla fine ci riesce e i due entrano in fretta all’interno,
seguiti a ruota da Enji.
Nel buio, le navi riposano quiete, impilate le une sopra altre su dei
cavalletti metallici, le chiglie rivolte verso l’alto. Non
c’è bisogno di illuminarle per capire che devono
essere
rimaste lì, in quella posizione, da parecchio tempo, ormai.
Keigo tiene ancora le mani in tasca, lo sguardo che saetta da una parte
all’altra del capanno, cercando di capire quanti dettagli
siano
rimasti invariati nel tempo. «Cos’è
questa storia
che non vieni più qui per suonare?»,
s’informa,
perplesso.
Touya prosegue in testa al gruppo, avanzando col passo svelto di chi
conosce bene il posto in cui si trova. «Ho venduto il
basso», spiega, con fare distratto.
«C’è stato
un periodo, all’inizio, in cui io e Tenko non ce la cavavamo
granché con le spese, ci servivano soldi e
così…
mi è sembrata la decisione più giusta.»
La voce di Touya si perde sul fondo dell’edificio. Keigo lo
vede
accucciarsi a terra e armeggiare con un oggetto che,
all’inizio,
fatica a riconoscere.
«È un peccato», ammette Keigo, e
stavolta il suo
tono sembra sinceramente rammaricato. Poco dopo si passa con aria
casuale una mano tra i capelli dorati. «Te la cavavi
bene.»
«Già», commenta brevemente Touya.
D’improvviso
il rumore della spina di un apparecchio elettronico che viene infilata
in una presa di corrente riecheggia nel silenzio, e una luce tenue
s’irradia da una piccola stufetta, rischiarando appena
l’ambiente. «Questa dovrebbe bastare a scaldarti
almeno un
po’. Non è molto, ma almeno è
qualcosa.»
Keigo nota che a terra, accanto alla stufetta, c’è
un
materasso con una coperta pesante. Senza pensarci ci si lascia cadere
seduto sopra, esausto.
Touya resta per qualche istante a osservare in silenzio Keigo, il modo
in cui socchiude gli occhi, il sospiro di sollievo che gli sfugge dalle
labbra. Sembra quasi bere ogni singolo movimento dell’altro
ragazzo, e un sorriso intenerito gli compare sul volto.
«Ti porterò da mangiare tutti i giorni, pranzo e
cena.
C’è un piccolo frigorifero, laggiù,
quindi se
avanza qualcosa puoi metterlo tranquillamente lì»,
spiega,
con un leggero cenno della mano per farsi capire meglio.
«Puoi
restare qui per tutto il tempo che vuoi.»
Keigo solleva lo sguardo su di lui, sorpreso. «Sul
serio?»,
domanda, incredulo. «Voglio dire, sei sicuro che questa cosa
non
finirà per crearti dei guai? Come…?»
Touya si china nella sua direzione, senza dargli il tempo di finire la
frase. «Ehi», lo chiama, paziente. «Per
me non
è un problema ospitarti qui. Dico davvero.»
Keigo sposta in fretta il capo di lato, a disagio. Gli sembra passata
un’eternità dall’ultima volta in cui lui
e Touya si
sono ritrovati intrappolati così, fisicamente vicini
l’uno
all’altro. Ma
in che cavolo di situazione è finito?
Touya raddrizza la schiena, per poi cominciare ad avviarsi verso
l’uscita. «Per qualsiasi cosa puoi chiamarmi,
ovviamente», commenta, come se non fosse successo nulla.
«Buonanotte. Cerca di riposare un po’...»
Keigo esita per qualche istante, incerto. Alla fine, però,
cerca nuovamente con lo sguardo la figura dell’altro.
«Touya», lo richiama, la voce che rimbalza
all’infinito sulle pareti della rimessa.
«Mh?», domanda il ragazzo, confuso.
Keigo stringe tra le dita la tracolla della borsa, rivolgendogli
l’accenno di un sorriso. «Grazie. Per
tutto»,
mormora, riconoscente.
Touya gli sorride di rimando, infilando le mani nelle tasche dei
pantaloni. «Aspetta a ringraziarmi», commenta, con
una
spontaneità disarmante. «E comunque, lo faccio con
piacere.»
Nel momento in cui la porta si chiude con un clangore pesante, Keigo sa
di essere rimasto da solo. Si stende sopra al sacco a pelo, la testa
affollata da mille pensieri.
«E adesso?», s’informa Enji, lo sguardo
rivolto all’acqua nera del porto.
«Adesso aspettiamo», conclude Keigo, in tono deciso.
È tarda sera. Aizawa sbatte le palpebre diverse volte,
cercando di tenersi sveglio.
È rimasto l’unico ancora in commissariato. Tutti i
suoi
colleghi, ormai, sono a casa da un pezzo. Le lampade delle scrivanie
intorno a lui sono tutte spente, e l’unica fonte di luce nei
paraggi è lo schermo del suo pc.
Sta analizzando da ore tutto ciò che hanno in mano sulla
morte
di Tomie, ma il fatto è che, sostanzialmente, gli elementi a
loro disposizione sono pari a zero.
Shouta si strizza le palpebre tra pollice e indice, lasciandosi
sfuggire un sospiro di pura frustrazione. Gettarsi a capofitto sul
lavoro è un ottimo modo per non pensare al casino che trova
una
volta arrivato a casa, ma non ha mai avuto intenzione di ignorare i
suoi problemi. Per di più, ormai gli pare chiaro che stasera
non
riuscirà a tirare fuori un ragno dal buco, così
alla fine
si arrende all’evidenza. Spegne il pc, si alza dalla sua
postazione e, dopo aver recuperato la giacca, si avvia verso
l’uscita.
Il fine settimana è arrivato anche per lui.
La domenica è un giorno diverso da tutto il resto della
settimana.
C’è più luce, più vita, ma
la cosa più sorprendente è senza dubbio
l’odore.
La domenica ha un profumo che tutti gli altri giorni possono solo
sognare.
Varia di casa in casa, e di solito è una miscela deliziosa
di
lenzuola fresce di bucato, caffè caldo e manicaretti di ogni
genere. Il profumo della domenica a casa Todoroki è da
sempre
quello dell’acqua calda aromatizzata dalle spezie per il
brodo
che bolle nella pentola che si fonde a quello di pulito della tovaglia
bianca del corredo buono.
Per Enji è strano assistere a quel rituale da spettatore,
senza
potervi prendere parte, sebbene gli sia capitato già in
passato,
nel corso di quegli ultimi tre anni, di passare da casa –
casa sua
– e vedere la vita dei suoi familiari andare avanti. Quel
giorno,
però, la formula abituale ha subito un cambiamento,
perché il pranzo di famiglia si sta svolgendo a casa di
Fuyumi.
La ragazza si destreggia tra le pentole con
un’abilità
sorprendente, mentre con un braccio è impegnata a sorreggere
sua
figlia.
Insieme a lei in cucina c’è anche Rei, che osserva
la scena in silenzio ma con un sorriso intenerito sul volto.
Fuyumi recupera un cucchiaio e lo immerge nell’acqua,
portandolo subito dopo alle labbra e prendendone un piccolo sorso.
«Sono felice che tu abbia accettato
l’invito»,
ammette Fuyumi, spostando lo sguardo in quello speculare di sua madre,
alcune ciocche di capelli bianchi sfumati di rosso che sfuggono al
controllo dello chignon ordinato sulla sua nuca. «Puoi
assaggiarlo anche tu? Ho paura che sia troppo salato.»
Rei accetta con garbo il cucchiaio che la figlia le sta porgendo.
«Scherzi? Non mi sarei persa il pranzo di famiglia per nulla
al
mondo. Mi spiace solo che non si sia potuto fare a casa nostra come al
solito, ma ormai hanno portato via praticamente tutto, sarebbe stato un
problema metterci comodi», spiega, pacata. «Il
brodo
è perfetto.»
Fuyumi sorride rassicurata. Sta quasi per voltarsi di nuovo verso i
fornelli, quando Yuki allunga le manine verso la nonna. Rei lascia che
la bambina le tocchi il viso, rivolgendole un sorriso pieno di
tenerezza, e questo scatena una risatina irresistibile da parte di Yuki.
Fuyumi osserva la scena piena di commozione, ed Enji è certo
di provare lo stesso sentimento in quel momento.
Se solo in passato fosse stato meno rigido, avrebbe potuto godersi
molti più momenti del genere insieme alla sua famiglia.
Peccato
che l’avessero ucciso tre anni prima, già.
Il clima sereno della cucina viene sferzato da delle risate improvvise,
mentre gli scalpiccii rapidi dei passi di due persone si rincorrono per
tutto il salone. Kaede sfreccia a tutta velocità davanti
alla
porta, seguito a breve distanza dalla sorella gemella Mitsuki che, da
quello che Enji riesce a capire, si sta lamentando perché il
fratello le ha sottratto qualcosa.
Fuyumi si limita ad alzare per un momento gli occhi al cielo,
esasperata. «Natsuo, possibile che tu non riesca a tenere
buoni i
tuoi figli per mezzo secondo?», s’informa, agitando
minacciosamente un mestolo a mezz’aria.
A quelle parole, Natsuo compare sulla soglia della cucina,
appoggiandosi con una mano allo stipite. «Giuro…
che io ci
provo», commenta, cercando di riprendere fiato.
«Solo che
loro… sono più veloci di me.»
Sul volto di Fuyumi compare un’espressione buffissima, e
c’è da star certi che stia per scoppiare e dirne
quattro a
suo fratello da un momento all’altro. Rei finisce per
lasciarsi
sfuggire una risata leggera, la situazione è davvero troppo
esilarante per trattenersi.
A salvare Natsuo dall’ira di sua sorella, per fortuna, ci
pensa
la porta di casa, che proprio in quel momento si apre. Lo sguardo di
Kaede e Mitsuki scatta nello stesso istante in direzione
dell’ingresso, gli occhi che s’illuminano di
entusiasmo.
«Zio Shoto!», esclamano all’unisono, per
poi scattare e correre a salutare il nuovo arrivato.
Rei posa una mano sulla spalla di Fuyumi. «Inizia a mettere
tutto
nei piatti e a portarli in tavola», le suggerisce, affabile.
Fuyumi annuisce, sorridendole dolcemente, per poi tornare a
concentrarsi sulle varie pentole.
Rei, nel frattempo, raggiunge gli altri in soggiorno. Shoto non
è riuscito a muoversi di mezzo passo dall'ingresso,
intrappolato
dall’entusiasmo contagioso dei gemelli. Perlomeno, ha
cominciato
a togliersi la giacca, la sciarpa ancora stretta tra le mani.
«Ultimamente fa molto freddo», esordisce Rei, le
dita che
s’intrecciano a quelle del figlio attorno alla sciarpa.
«Ti
stai coprendo a dovere?»
Shoto solleva lo sguardo su di lei, sorpreso.
«Mamma…», la chiama piano, la voce bassa
e delicata
come al solito.
In quel momento, Natsuo riappare in soggiorno. «Alla
buon’ora!», commenta, mentre i gemelli si sono
ancorati ai
suoi fianchi. «Sei l’ultimo arrivato, stavamo
aspettando te
per mangiare.»
«Scusate», si affretta a giustificarsi il ragazzo.
«Sto preparando un esame ed ero certo che non ci avrei messo
molto per finire un capitolo. Non mi ero accorto di che ore si fossero
fatte.»
Fuyumi sbuca fuori dalla cucina, portando alcune ciotole tra le mani.
«Ah, Shoto, appena in tempo!», esclama, solare.
«Su,
venite: è pronto e ben caldo!»
In men che non si dica, i gemelli si lanciano verso i loro posti a
tavola, seguiti subito da tutti gli altri.
La tavola della domenica a casa Todoroki è apparecchiata per
nove persone: oltre a Rei, Fuyumi, Natsuo e Shoto, infatti, al pranzo
si uniscono anche il marito di Fuyumi, impiegato presso una grande
azienda che si occupa di informatica, e la fidanzata di Natsuo, che lo
conosce dai tempi dell’università. Gli ultimi tre
posti,
ovviamente, sono riservati ai bambini: Kaede e Mitsuki sulle sedie
– troppo alte per le loro gambine, così ne
approfittano
per muoverle con un ritmo spasmodico – e Yuki nel seggiolone.
Più Enji li osserva, e più non riesce a fare a
meno di
notare quanto i figli di Natsuo e Fuyumi assomiglino ai rispettivi
genitori, non solo fisicamente ma anche nel carattere: se i gemelli
hanno gli stessi capelli corti e candidi e il carattere estroverso del
padre, Yuki, con la sua chioma nivea e ramata al tempo stesso,
è
più timida e silenziosa, proprio come sua madre.
Il pranzo procede con una generale convivialità. Gli
invitati
gradiscono il cibo delizioso preparato da Fuyumi mentre scambiano
amabilmente quattro chiacchiere tra loro.
Shoto finisce di bere il brodo, per poi lasciar cadere le bacchette
nella ciotola vuota. «In realtà sono sorpreso che
tu oggi
sia qui con noi, mamma», ammette, pensieroso. «Mi
era parso
di capire che fossi in partenza questa settimana.»
Rei gli sorride dal posto a capotavola. «Ho deciso di
occuparmi
di un ultimo caso prima di partire, ma non credo che ci
metterò
ancora molto», spiega, accompagnando le parole con un gesto
elegante della mano.
Fuyumi sembra illuminarsi mentre solleva lo sguardo dalla sua ciotola.
«Si tratta di quell’incidente lungo la strada che
porta
alla montagna?», s’informa, perspicace.
«Ho sentito
la notizia al tg. Comunque, come mai proprio questo caso? Non credevo
che ci fosse una dinamica particolare dietro…»
Rei recupera il tovagliolo di stoffa dalle gambe, tamponandosi appena
le labbra. «Conoscevo la vittima», spiega,
decidendo di non
sbilanciarsi troppo sui dettagli. «Ci aveva aiutati tre anni
fa
durante le indagini sull’omicidio di vostro padre.»
A Enji non sfugge come il silenzio sia calato di colpo sulla sala da
pranzo dopo la semplice menzione della sua morte. Quello
all’apparenza più infastidito sembra essere
Natsuo, che
poggia il bicchiere sul tavolo con troppa irruenza.
«Papà. Ancora papà»,
commenta, seccato.
«È incredibile come, anche dopo la sua morte,
continui
ancora a influenzare la vita di questa famiglia.»
«Natsu…!»,
lo apostrofa Fuyumi, quasi sul punto di sedersi sull’orlo
della sedia per la trepidazione.
«Oh, andiamo, Fuyumi, non prendiamoci in giro»,
riprende
Natsuo, in tono grave. «Il fatto che sia stato ammazzato non
fa
automaticamente di lui un eroe. Pretendi davvero che dimentichi il
trattamento gelido che ci ha riservato per anni? O, peggio, quanto
abbia soffocato Shoto con le sue aspettative?»
Fuyumi sembra trattenere a stento le lacrime. Cerca disperatamente un
appiglio, qualcosa a cui aggrapparsi – non è
decisamente questa
la piega che sperava prendesse il loro pranzo di famiglia –,
ma
quando pensa di aver trovato le parole giuste e sta per parlare di
nuovo, qualcuno la precede.
«Natsuo.» La voce di Rei risuona calma ma decisa in
un
silenzio innaturale. «È vero, Enji non
è stato
né un buon padre né un buon marito. Tuttavia ha
amato
ognuno di voi, di questo puoi essere certo. Per quanto riguarda la sua
morte, è stato ucciso mentre svolgeva il suo lavoro, per cui
non
vedo cosa ci sia di male in questo.»
Nonostante le parole di Rei, Natsuo non sembra essere persuaso.
«Non potete pensarla tutti allo stesso modo»,
commenta,
incredulo. «Parlate di lui come se fosse un santo…
Shoto,
almeno tu, dopo tutto quello che ti ha fatto
passare…!»
Shoto posa lo sguardo prima su Rei e poi su Natsuo. «Io ho
fiducia nella mamma», commenta, pacato. «Se pensa
che la
cosa giusta da fare sia occuparsi di questo caso, allora sono
d’accordo con lei.»
Natsuo si lascia sfuggire un mugolio frustrato, mentre sul volto di Rei
compare l’accenno di un sorriso.
Enji, invece, di colpo si sente di troppo in quel soggiorno,
così si limita a svanire.
Enji torna alla rimessa delle barche quando è ormai
pomeriggio.
Si guarda un po’ attorno, e all’inizio si allarma
non
individuando la figura di Keigo sul materasso, la coperta che
è
stata abbandonata là sopra in disordine. Poi,
però, la
sua attenzione viene catturata da un movimento alla sua sinistra, e
Keigo è lì.
Il ragazzo si è seduto sopra a delle casse di legno. Tiene
le
gambe strette al petto, e guarda l’acqua lambire il molo
dalla
finestra accanto a sé con aria assorta.
Enji lo raggiunge in fretta, e nel frattempo Keigo si accorge
finalmente della sua presenza, spostando lo sguardo su di lui.
«Novità?», gli domanda, speranzoso.
Enji scuote la testa, fermandosi accanto a lui. «Purtroppo
no», ammette, sistemandosi dal lato opposto della finestra.
Keigo si lascia sfuggire un lungo sospiro mortificato, affondando il
volto nel collo alto del maglione. «Così non
risolviamo
niente», commenta, seccato. «Stiamo dando a Ryou un
vantaggio troppo grande, di questo passo non lo troveremo mai
più… senza contare che avevo pensato di andare a
casa
sua, chissà, magari il faldone l’ha nascosto
lì,
solo che se continuo a non potermi muovere da questo
posto…»
«Non penso che sia così ingenuo da averlo lasciato
lì», valuta Enji, pragmatico. «Voglio
dire, deve pur
aver considerato che, semmai la polizia fosse arrivata a lui, avrebbero
perquisito casa sua…»
Keigo sospira di nuovo, ed Enji sente le parole morire nella sua gola.
«Che hai?», gli chiede, dubbioso. «Non
sono abituato
a vederti senza il tuo inguaribile ottimismo…»
«È che… è
frustrante.» Keigo circonda
le gambe con le braccia, spostando di nuovo lo sguardo sullo sciabordio
delle onde nel porto. «Vorrei poter fare qualcosa, e invece
continuo a restarmene qui con le mani in mano. Mi sento così
inutile…»
«Ehi, ragazzino.» Enji si sporge leggermente nella
sua
direzione, aspettando che Keigo abbia spostato lo sguardo su di lui
prima di continuare. «Vedrai che non riuscirà a
farla
franca. Lo prendiamo, promesso.»
Keigo gli rivolge un sorriso appena abbozzato, prima di tornare a
osservare con aria assorta lo scenario fuori dalla finestra.
«Credo che sia colpa di questo posto», ammette, la
voce che
si fa distante. «Continua a far tornare a galla un sacco di
ricordi…»
Ai tempi del liceo, Keigo aveva sempre avuto attorno un sacco di amici.
Touya invece no.
Era sempre stato l’outsider della classe, quello che si
vestiva
solo di nero e a cui piacevano cose strane. La cosa, a Touya, non era
mai pesata: a lui bastava potersene stare in santa pace a suonare il
basso alla vecchia rimessa di suo zio, la sera dopo le lezioni.
Si era sempre limitato a osservare Takami Keigo a debita distanza,
certo che loro due non avrebbero mai avuto niente da spartire. Keigo
era raggiante ed estroverso, per qualche strano motivo – no,
Touya sapeva esattamente perché: era per via di quel suo
magnetismo – era riuscito a rientrare nelle grazie del
gruppetto
dei ragazzi popolari della scuola, tutti snob e figli di gente ricca,
gli stessi che si divertivano a deridere Touya e gli altri come lui. A
ricreazione li vedeva sempre insieme a chiacchierare ed era certo che
si frequentassero anche dopo l’orario scolastico.
Poi, però, all’inizio dell’ultimo anno,
era
cominciato a cambiare qualcosa. Keigo si era fatto più
schivo e
taciturno, il volto pallido e in apparenza sempre stanco. I suoi
“amici” avevano cominciato a evitarlo, lasciandolo
sempre
più solo.
A Touya aveva fatto una gran pena.
Keigo gli piaceva da un bel po’ di tempo, e in un certo senso
aveva pensato che quel suo momento di fragilità sarebbe
potuta
essere una buona scusa per avvicinarli.
La prima volta gli aveva rivolto la parola con la scusa più
banale del mondo. Keigo stava imprecando da cinque minuti buoni contro
il lucchetto con cui aveva chiuso la catena della sua bici. Touya gli
si era avvicinato, la tracolla dello zaino tenuta in equilibrio su una
spalla sola.
«Lascia, ti do una mano», gli aveva proposto,
conciliante.
Ci aveva messo mezzo secondo a sbloccare il lucchetto. Keigo non gli
aveva detto un granché – un po’ un flop
quel primo
approccio, a ripensarci –, dopodiché aveva
inforcato la
bicicletta e se n’era andato via.
Touya si era quasi arreso, certo che dopo quel giorno non avrebbero
avuto altre occasioni in cui parlare, invece il giorno dopo Keigo
l’aveva intercettato in corridoio, ringraziandolo per il
pomeriggio precedente.
Dopo quella volta, avevano cominciato a parlarsi un po’
più spesso. Touya gli aveva raccontato un po’
della sua
vita, del basso, della rimessa di suo zio. A conti fatti, era arrivato
alla conclusione che Takami Keigo fosse semplicemente una persona con
un disperato bisogno di una mano tesa nella sua direzione in un periodo
difficile.
Poi, un giorno, Keigo non si era presentato a scuola. A Touya era
sembrata una cosa strana, di solito Keigo non mancava mai, per nessuna
ragione. Nel frattempo il loro legame era diventato più
stretto
– una strana forma di amicizia, se così si poteva
definire
–, così aveva provato a chiamarlo al cellulare,
senza
tuttavia ricevere alcuna risposta. Molto
strano.
Alla fine si era presentato a casa sua. Una mossa un po’
azzardata, forse, ma non gliene erano venute altre in mente.
L’aveva accolto Kaina, la donna con cui Keigo era cresciuto
nel
corso degli anni, e gli aveva detto che il ragazzo si trovava sul tetto.
Keigo, effettivamente, era lì. Avvolto in una trapunta
rossa,
per proteggersi dal freddo vento invernale, lo sguardo perso tra le
luci delle antenne in cima ai palazzi.
Touya si era seduto accanto a lui, osservandolo in silenzio.
«Ti devo dire una cosa», aveva confessato, in un
mormorio
spaventato. «Solo che ho paura che non mi crederai.»
Touya aveva puntellato il gomito sopra al ginocchio, posando il mento
sul palmo della mano. «Tu dimmela»,
l’aveva esortato,
pacato. «Poi ti dirò se ci credo o meno.»
Keigo aveva preso un respiro tremante. Quando si era voltato nella sua
direzione, Touya aveva notato le occhiaie scure che gli segnavano il
viso.
«Come la prenderesti se ti dicessi che vedo i
morti?»,
aveva domandato, sputando fuori la domanda tutta d’un fiato.
Era
seguito un momento di silenzio, in cui Touya però non aveva
aggiunto niente. «N-nel senso… non è
una cosa che
succede da sempre. È iniziata poco tempo fa, non so nemmeno
io
perché. P-probabilmente non avrei dovuto dirtelo, adesso
penserai che sono pazzo e non vorrai più saperne niente di
me…»
«Ti credo.»
La risposta di Touya era stata così repentina da spiazzare
Keigo. Il ragazzo l’aveva fissato con
un’espressione
esterrefatta, incredulo di aver sentito bene.
«C-che?», aveva balbettato, titubante.
«Ti credo», aveva ripetuto Touya, con lo stesso
tono deciso
di poco prima. Si era avvicinato al ragazzo, osservandolo intensamente.
«Immagino che non sia affatto una cosa facile. Ma
l’affronteremo insieme, promesso.»
Aveva visto i grandi occhi dorati di Keigo scintillare di un sentimento
tanto intenso quanto pericoloso: speranza.
L’istante successivo, Touya l’aveva visto sporgersi
in avanti, per poi sentirlo posare le labbra sulle sue.
Era stato un bacio così breve che, per un momento, Touya
aveva
pensato di esserselo immaginato. Keigo, però, era ancora
lì accanto a lui, e questo gli aveva fatto sperare che forse
non
fosse stato un errore, che forse non si fosse pentito di averlo baciato.
Touya aveva infilato le dita tra i capelli dorati di Keigo,
avvicinandolo a sé e posando di nuovo le labbra sulle sue,
stavolta approfondendo il bacio. Keigo aveva ridacchiato contro le sue
labbra, e a Touya era sembrato di sentire di nuovo il suo cuore
leggero, dopo tanto tempo.
Nel corso delle indagini sull’omicidio di Todoroki Enji, il
fantasma che Keigo aveva cominciato a vedere, Touya era sempre rimasto
al fianco dell’altro ragazzo, cercando di aiutarlo quando era
possibile.
Quando avevano scoperto il nome dell’assassino, Enji era
corso
verso casa di sua moglie Rei per salvarla, seguito da Keigo. Touya,
invece, se n’era tornato alla rimessa per le barche.
Fuori era scoppiato un temporale. Touya aveva lanciato uno sguardo ai
vetri della porta d’ingresso, su cui la pioggia continuava a
battere impietosa, per poi lasciarlo cadere nuovamente sulle corde del
basso, spostando le dita in una posizione differente e provando un
altro accordo.
Un fulmine doveva essere caduto poco distante da lì,
perché l’aria era stata riempita da un boato
assordante e
per un attimo il cielo era parso illuminato a giorno.
Era stato in quel momento che la porta si era aperta. Touya aveva
sollevato la testa all’istante, ma solo per vedere la figura
di
Keigo comparire sulla soglia.
Era bagnato dalla testa ai piedi. Keigo aveva attraversato in fretta la
rimessa, chinandosi una volta raggiunto Touya e sedendosi accanto a lui.
«Ce l’abbiamo fatta», gli aveva
comunicato, ancora
elettrizzato per via dell’adrenalina in circolo dopo gli
eventi
delle ultime ore.
Prima che Touya potesse dirgli qualsiasi cosa, Keigo gli aveva
afferrato il volto con entrambe le mani, baciandolo con trasporto.
Touya aveva chiuso gli occhi, lasciando scivolare lo strumento di lato
e distendendosi sul materasso, con Keigo che si era sistemato sopra di
lui.
Quella notte avevano fatto l’amore, ed era stato bellissimo.
Dopo l’arresto dell’assassino di Enji, Touya aveva
pensato che tutto sarebbe tornato alla normalità.
Ovviamente, non era stato così.
Enji non se n’era andato. Era rimasto, perché
–
apparentemente – adesso ad essere in pericolo non era
più
sua moglie ma suo figlio, Shoto.
Per di più, si era aggiunto quello strano tizio che
bazzicava la
caffetteria di Tomie, Ryou. A Touya non piaceva, con quei suoi modi
affettati e i vestiti costosissimi e inamidati. Aveva
l’impressione, la percezione
che dietro al suo comportamento ci fosse qualcosa di più,
anche
se all’inizio non era stato in grado di capire di che si
trattasse.
Touya non sopportava nemmeno un po’ il modo in cui Keigo
diventava quando orbitava intorno a Ryou. All’epoca aveva
pensato
che fosse semplicemente gelosia,
ma col tempo si era ritrovato a valutare che forse si era trattato di
qualcosa di più. Come se Ryou fosse diventato il centro
dell’universo, come se pendesse dalle sue labbra, come se non
riuscisse a vedere l’influenza che aveva su di lui.
Poi, senza che Touya fosse riuscito a prevederlo in alcun modo, Ryou
aveva fatto la sua mossa.
Era un pomeriggio di giugno, eppure sembrava pieno inverno, col cielo
grigio e il vento che sferzava la città con raffiche
violente.
Si stava avvicinando un temporale, non ci voleva un genio per capirlo.
Lui e Keigo avevano appuntamento al molo dove si incontravano di
solito. Touya era arrivato per primo, così,
nell’attesa,
si era seduto a guardare le onde rincorrersi e gli scafi delle barche
urtare contro il porto.
Quando Keigo era arrivato, gli aveva circondato il collo con le braccia
da dietro, posandogli un bacio su una guancia. Era indubbiamente di
buon umore – e, okay, Keigo lo era quasi sempre, ma quel
giorno decisamente troppo.
«Ehi», aveva esordito, raggiante. «Ho
delle novità.»
Touya gli aveva lanciato uno sguardo distratto.
«Spara», gli aveva concesso, monocorde.
La verità era che non riusciva a ricambiare in alcun modo
l’entusiasmo di Keigo. Da quando Ryou aveva cominciato a
frequentare l’Owl, Touya aveva sentito l’altro
ragazzo
allontanarsi sempre di più da lui. Tutto
quell’entusiasmo,
adesso, non gli faceva presagire niente di buono.
Keigo si era seduto a gambe incrociate accanto a lui. Se aveva
percepito il suo insolito tono di voce, doveva aver deliberatamente
deciso di ignorarlo. «Ryou mi ha confessato che anche lui
vede i
morti», gli aveva raccontato, la voce bassa di chi sta
spifferando un segreto che tuttavia traboccava di entusiasmo, oltre a
essere perfettamente udibile anche sopra al frastuono del vento.
«Dice che c’è un posto per le persone
come me, e che
lui potrebbe portarmi lì.»
Era stato in quell’esatto momento che Touya aveva sentito il crac.
In quei mesi aveva costruito quell’equilibrio fragilissimo,
assieme a Keigo, e le parole di Ryou adesso rischiavano di distruggere
tutto.
«Ah», si era limitato a mormorare, sentendo di
colpo la gola secca.
Keigo aveva inarcato un sopracciglio. «Si può
sapere che cavolo ti prende?», aveva domandato, confuso.
Touya non ci aveva visto più. Si era voltato nella sua
direzione, fissandolo con rabbia. «Possibile che non ci
arrivi?», aveva sbottato, spazientito. «Non ti
sembra che
sia una coincidenza un
po’ troppo perfetta
che, nel momento in cui scopri di avere dei poteri e tua madre, anche
lei con un dono, torna a far parte della tua vita,
all’improvviso
compaia questo tipo che toh!,
può vedere anche lui gli spiriti? Svegliati, Keigo, Ryou ti
sta riempiendo di balle.»
Keigo aveva arricciato le labbra, in un’espressione
frastornata.
«Che motivo avrebbe di mentirmi?», aveva domandato,
incredulo. «Se anche lui possiede il mio stesso
dono…»
«Oh, ma per favore.» Touya si era rimesso in piedi,
nervoso. «Mente per manipolarti, ovviamente! E non riesco a
capire perché non te ne accorgi.»
«Però pensaci, Touya», aveva insistito
Keigo con
tenacia. «Forse… forse così potrei
scoprire
l’origine dei miei poteri…»
«Oppure ti sta mentendo e basta!»,
l’aveva interrotto
Touya, urlando sopra ai fischi e ai ruggiti del vento.
«Senti,
tutta la roba dei fantasmi è stata assurda fin
dall’inizio, ma adesso… adesso è
davvero troppo.
Io… non penso di poter andar avanti con questa storia. Forse
è meglio se la chiudiamo qui.»
Touya si era incamminato lungo il molo, lasciandosi alle spalle gli
occhi dorati di Keigo che lo osservavano smarriti.
Touya fa dondolare nervosamente la matita tra le dita.
Da quando Keigo è riapparso nella sua vita, le cose sono
tornate
a essere complicate come un tempo. Sono giorni che quei ricordi
continuano ad assillarlo, senza dargli tregua.
Alla fine si arrende, lasciandosi cadere in avanti, la testa che
affonda tra le pagine del libro che avrebbe dovuto studiare. Tranne per
il trascurabile dettaglio che la concentrazione, in quei giorni, non
smette di sfuggirgli, come se stesse cercando di afferrare il vento.
Touya sposta il capo di lato, la guancia che si posa morbida sulla
pagina mentre con la mano recupera il telefono accanto a sé
per
controllare l’ora. Non sa neppure come sia successo, eppure
sono
le sette di sera passate.
Keigo. Il
pensiero gli balza
alla mente con una rapidità disarmante, tanto che forse, in
un’altra circostanza, Touya ne sarebbe quasi impaurito. Una
volta
al giorno passa dalla rimessa delle barche di suo zio per lasciare
all’altro ragazzo qualcosa da mangiare, e adesso gli sembra
decisamente il momento di darsi una mossa e portargli la cena.
Touya si alza dalla sedia in maniera quasi repentina, tuttavia
è
costretto a rallentare quando poco dopo, una volta arrivato in
corridoio, intercetta Tenko, che sta uscendo dal bagno.
Il suo ragazzo lo osserva con aria stralunata. «Dove stai
andando?», domanda, confuso, notando che l’altro
sembra
intenzionato a uscire.
Touya recupera la giacca dall’appendiabiti e comincia a
infilarla. «Mi sono ricordato di dover fare una
commissione», mente – e fa una gran fatica a non
mordersi
le labbra.
La verità è che tutta quella situazione non gli
piace.
Detesta l’idea di dover mentire al suo ragazzo, ma quali
alternative ha? Dirgli ehi,
sto ospitando il mio ex nella vecchia rimessa al porto di mio zio e
adesso gli sto portando qualcosa da mangiare?
Gli basterebbe chiedergli di venire con lui e poi il quadretto
dell’assurdo sarebbe completo. Non ha mai potuto nemmeno
proporre
a Tenko di ospitare Keigo a casa loro perché quella
convivenza
sarebbe stata semplicemente troppo complicata. Così
è
costretto a mentirgli ogni volta, restando bloccato sempre di
più in quella spirale di menzogne.
Tenko inarca un sopracciglio, ancora più dubbioso.
«A quest’ora?», gli fa notare, perplesso.
Touya vorrebbe imprecare, ma alla fine riesce a trattenersi, facendo
appello a tutto il suo autocontrollo. Si china appena in avanti, una
mano che si posa sulla guancia di Tenko. «Vedo di fare in
fretta», gli assicura, conciliante, prima di lasciargli un
bacio
leggero a fior di labbra.
Prima che Tenko possa provare a ribattere, Touya scivola fuori dalla
porta d’ingresso, lasciando l’altro ragazzo
sull’uscio, ancora interdetto.
È ormai scesa la sera sul porto. Il cielo, che si
è tinto
di una tonalità blu cobalto, fa da sfondo a uno scenario
pacifico, il trambusto del giorno che ora sembra essere più
ovattato mentre alcune navi ancorate alla fonda nella penombra
assomigliano a grandi giganti di ferro che riposano.
Touya arriva sotto il porticato della rimessa quando sono ormai passate
le nove. In una mano tiene una busta di carta, le dita ben salde
attorno ai manici.
La porta d’ingresso si schiude con il solito frastuono,
mentre
gli occhi di Touya stanno già saettando attraverso la
rimessa,
alla ricerca di Keigo. «Ho portato la cena»,
annuncia,
muovendo appena la busta a mezz’aria e producendo un lieve
fruscio.
Vede Keigo quasi subito, intercettando con un’occhiata la
figura
del ragazzo. È appollaiato sul davanzale di una delle
finestre,
lo sguardo che fino a poco prima era perso nel vuoto.
Keigo annusa l’aria, chiudendo per un momento gli occhi.
«È odore di gyoza di pollo quello che
sento?»,
domanda, nella voce un misto di speranza e sicurezza di chi sa di non
sbagliare.
Finalmente Touya si ferma davanti a lui, facendogli dondolare la busta
davanti alla faccia. «Direttamente dal tuo ristorante
preferito», commenta, posando una mano sul fianco con fare
soddisfatto.
Sempre che i tuoi gusti
non siano cambiati. Sempre che io me ne sia ricordato,
vorrebbe aggiungere Touya, limitandosi tuttavia a rimanere in silenzio.
Keigo gli sottrae in fretta la busta di mano, estraendone subito il
contenuto. L’istante successivo ha già aperto la
confezione per affondarci dentro le bacchette, gli occhi che
scintillano di entusiasmo.
Touya lo osserva in silenzio, incantato. C’è
qualcosa di
magnetico nel modo in cui Keigo si porta il primo raviolo alla bocca,
le guance che si gonfiano, gli occhi che si chiudono e quel trillo di
pura gioia che non può fare a meno di lasciarsi sfuggire.
«Ad ogni modo, che razza di olfatto hai?», si
decide a
domandargli Touya, scuotendo leggermente la testa per
l’incredulità.
Keigo gli lancia un’occhiata incuriosita per un momento.
«Non posso sbagliare quando si tratta di cose che mi
piacciono», spiega, come se si trattasse della cosa
più
ovvia del mondo, mentre con le bacchette recupera un altro gyoza.
«Ah, era da una vita che non mangiavo qualcosa di
così
buono!»
Touya si siede accanto a lui sul davanzale, senza smettere di
osservarlo mentre continua a mangiare. È così
bello, con
quell’espressione felice sul volto. «Stasera prima
di
uscire Tenko sembrava strano»,
ammette, assorto. «Mi chiedo se non stia cominciando a
sospettare qualcosa.»
Keigo abbassa le bacchette, sollevando lo sguardo sull’altro
ragazzo. «Lo sapevo, ti sto mettendo in difficoltà
con
questa storia», commenta, rammaricato.
«Ma no!» Touya si china verso di lui, senza
riuscire a
trattenersi. «Te l’ho detto, per me non
è un
problema ospitarti qui! E poi… ora che ti ho ritrovato non
posso
immaginare di perderti di nuovo…»
Accade tutto nel tempo di un battito di ciglia. Touya si sporge in
avanti, posando le labbra su quelle di Keigo, ma non dura che un
momento perché, poco dopo, Keigo gli rifila una spinta
contro la
spalla, allontanandolo da sé.
«Ma che diavolo
ti è saltato in mente?!», impreca Keigo,
fulminandolo con lo sguardo.
Touya sbatte un paio di volte le palpebre, confuso.
«Io…
penso di essere ancora innamorato di te, Keigo», confessa,
fissandosi per un momento i palmi delle mani. «Credevo che
fosse
lo stesso anche per te…»
«Beh, non è così! Senza contare che sei
fidanzato
con un’altra persona, adesso!» Keigo gli si
avvicina, il
tono di voce che si abbassa, minaccioso. «E sbaglio o sei
stato tu a
lasciarmi, tre anni fa?»
Sul volto di Touya compare un’espressione mortificata.
«M-mi dispiace. Io…», cerca di
giustificarsi, senza
sapere tuttavia cosa dire in quella situazione.
Keigo, nel frattempo, si è allontanato da lui.
«Senti, ti
ringrazio per l’ospitalità ma penso che non sia
più
il caso che io rimanga qui», commenta seccamente, chinandosi
vicino al materasso per recuperare le poche cose che ha portato con
sé e che ha lasciato là sopra, infilandole alla
rinfusa
nella borsa.
Poco dopo si rialza, sistemandosi la tracolla sulla spalla e avviandosi
con delle ampie falcate verso l’uscita. Enji, che ha
assistito a
tutta la scena, si limita a seguirlo in silenzio, lanciando prima
però un ultimo sguardo in direzione di Touya.
«Keigo, aspetta!», prova a richiamarlo, allungando
una mano
davanti a sé che, però, finisce solo per ghermire
l’aria.
Le sue parole cadono nel vuoto. Poco dopo Keigo esce dalla rimessa,
sbattendo con veemenza la porta dietro di sé.
Touya resta immobile, lo sguardo fisso nel punto in cui lo ha visto
sparire.
note
per una certa personcina:
se
stai leggendo (probabilmente no ma vbb), sappi che questo è
il
massimo della dabihawks che riuscirai mai a scucirmi, per cui
assaporatela per bene.
per tuttə ə altrə: salve! primo capitolo di dicembre, yeah. confesso
che non avevo alcuna voglia di editarlo, immagino non sia difficile
capire perché.
però parliamo delle cose belle, dai. cioè, ma
quanto sono carini i todoroki sì il
passato è edulcorato ma dettagli
tutti insieme? per quanto riguarda i vari figli/partner diciamo che
questo è un mio headcanon, e non escludo di riprenderlo in
una
storia futura.
(ah, mi stavo dimenticando una cosa: come ho detto in questa storia
touya non fa parte della todofam perché sì, per
cui se vi sembra ooc probabilmente è solo perché
si è risparmiato un sacco di traumi, o perlomeno questo
è il touya che immagino io senza tutti i drammi)
also sì, c'è un altro flashback. è il
penultimo, un altro è nel prossimo capitolo
però
giuro che poi dopo sono finiti.
a proposito del prossimo capitolo, eheh, non vedo l'ora di pubblicarlo!
tra l'altro, se fate bene i conti, forse riuscite anche a immaginare
quando uscirà e no, non è decisamente una data
casuale...
okay, ho detto tutto. grazie come sempre a chi sta leggendo, e a presto!
aria
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Capitolo 5 *** l'impossibile diventa possibile ***
«Shouta
ha capito qualcosa.»
Hitoshi butta in mezzo l’argomento con fare casuale, mentre
il
soggiorno è immerso in un silenzio assordante. È
rimasto
di nuovo lì per tutta la notte, e adesso dalla finestra che
si
affaccia sul porto stanno osservando l’alba che sorge.
Hizashi inclina la testa nella sua direzione, scrutandolo con
attenzione. Tiene tra il pollice e l’indice una bottiglia di
birra – la stessa che ha offerto a Hitoshi, qualche ora fa
–, prima fresca e dissetante, ora tristemente calda.
«Cosa
te lo fa pensare?», domanda, cauto, l’espressione
che
tuttavia resta quella tranquilla di poco prima.
Il ragazzo si stringe nelle spalle. «Non lo so. Ha cominciato
a
farmi domande strane», ammette, mentre sposta lo sguardo di
lato
come se stesse cercando d’inseguire qualche ricordo lontano.
«Qualche giorno fa è letteralmente sgusciato fuori
dal
commissariato per inseguirmi. E l’altra mattina, a colazione,
era… boh. Sospettoso.»
Hizashi annuisce brevemente. Poco dopo sposta lo sguardo verso lo
scorcio del porto, dove la vita continua a scorrere placida e
indisturbata.
«Credo che voi due dovreste parlare», commenta
Hitoshi,
mentre beve un sorso di birra dalla sua bottiglia. «Non so
per
quanto tempo ancora potrò portare avanti questa
storia.»
Le parole di Hitoshi restano sospese nella stanza, mentre nel porto
alcune navi continuano ad attraccare e altre a salpare.
«Sarà meglio tornare a casa di Kaina. Se Ryou non
ha fatto
la sua mossa fino a questo momento, probabilmente è
perché non ha intenzione di agire – dopotutto non
abbiamo
nulla contro di lui e lo sa. Parlerò io con Kaina, ma non
penso
che ci saranno problemi.»
Keigo gli ha detto quelle parole subito dopo essersi lasciato la
rimessa e Touya alle spalle, dopodiché si è
chiuso in un
silenzio ostinato e ha continuato a camminare per tutta la notte. Enji
si è limitato a seguirlo in silenzio, temendo che, se si
fosse
arrischiato a parlare, non avrebbe fatto altro che peggiorare la
situazione.
Arrivano a casa di Kaina che è ormai l’alba.
L’appartamento è deserto, e le prime luci del
giorno
s’infrangono sulle pareti conferendo alle stanze un tenue
lucore.
Quando Keigo aveva deciso di rivolgersi a Touya era stato chiaro con
lui: non aveva altre soluzioni, per cui era prevedibile che, alla fine,
sarebbero tornati al punto di partenza.
Keigo lascia che la porta d’ingresso si richiuda pesantemente
alle sue spalle, per poi dirigersi subito verso camera sua. Enji,
invece, resta per un po’ interdetto sulla soglia.
È
successo tutto così in fretta che quasi fatica a non perdere
il
filo di quegli avvenimenti.
«Enji.»
La voce di Keigo sembra un sospiro carezzevole, tanto che per mezzo
secondo Enji crede di essersela sognata. Quando tuttavia realizza di
averla sentita davvero, si affretta a raggiungere la camera del
ragazzo, in apprensione.
Una volta giunto sulla soglia della camera, a Enji viene quasi da
tirare un sospiro di sollievo. Keigo è lì, seduto
sul
bordo del letto, intento a osservarlo intensamente con quei suoi grandi
occhi dorati. Per un momento ha avuto il terrore che avrebbe trovato
Ryou con la lama di un coltello rivolta alla gola del ragazzo, forse
però sta semplicemente diventando troppo paranoico.
Keigo gli rivolge un piccolo sorriso incoraggiante, per poi assestare
qualche colpetto alla porzione di materasso accanto a sé.
«Vieni qui», lo incoraggia, con la stessa voce
soffice di
poco prima.
Enji non riesce a non assecondarlo. Si è accorto che gli sta
capitando sempre più spesso, soprattutto da quando il
ragazzo ha
ricominciato a far parte della sua vita. Così si avvicina
lentamente, per poi sedersi piano nel punto che Keigo gli ha indicato,
non molto distante da lui.
Keigo azzarda un sorriso soddisfatto. Poco dopo, Enji lo vede abbassare
le palpebre, un’espressione concentrata che compare sul suo
volto.
«Keigo, che stai…», fa per richiamarlo
Enji, confuso.
«Shh. Va tutto bene», gli assicura Keigo,
imperturbabile.
«Voglio mostrarti una cosa che ho imparato
all’istituto.»
Enji vorrebbe chiedergli ancora spiegazioni, le parole però
gli
muoiono in gola. Poco dopo, infatti, sente che c’è
qualcosa di diverso: è come se il suo corpo fosse diventato
di
colpo più pesante, più reale, e può
dirlo dal modo
in cui ora gli sembra di applicare effettivamente attrito sul materasso.
Keigo riapre lentamente gli occhi, come se avesse timore di constatare
che qualcosa non sia andato per il verso giusto. Allunga una mano verso
quella di Enji con fare esitante, e quando alla fine vi posa un dito
sul dorso, ciò che sente sotto il suo tocco è pelle.
L’espressione di Enji diventa completamente incredula.
Solleva la
mano, tenendola davanti a sé, e Keigo lascia coincidere i
loro
palmi, che, ancora una volta, si sfiorano.
«Questo… questo è
impossibile…», mormora Enji, sbigottito.
Sul volto di Keigo c’è un sorriso delicato. Il
ragazzo si
alza in piedi, ma solo per riaccomodarsi poco dopo sulle gambe di Enji.
Le sue mani circondano il volto dell’uomo, incatenando i loro
sguardi. «A volte l’impossibile diventa
possibile»,
commenta, seducente.
Poco dopo Enji sente il ragazzo posare le labbra sulle sue. Sa che
dovrebbe respingerlo, dirgli che tutto questo è sbagliato.
Il punto è che non
vuole.
Keigo lo bacia lentamente, come se avesse agognato quel momento per
anni e ora volesse imprimere per sempre nella memoria ogni centimetro
di quelle labbra – ed Enji si ritrova a valutare che forse,
in
fondo, è davvero così. Affonda con le dita tra i
capelli
dorati del ragazzo, stringendolo più a sé e
approfondendo
il bacio, cercando la lingua dell’altro e trovandola subito.
Keigo si sfila il maglione e lo lascia cadere a terra, le labbra che si
separano da quelle di Enji per un solo istante, tornando a
incatenarsi subito, come se adesso che finalmente si sono trovate non
riuscissero più a stare distanti. Poco dopo il ragazzo serra
le
mani attorno al giaccone pesante di Enji, sfilandolo e abbandonandolo
mollemente sul materasso. Per Enji quella è una sensazione
strana: è stato abituato, nel corso di quegli ultimi tre
anni, a
portare sempre gli stessi indumenti, quelli che aveva la notte in cui
gli avevano sparato. Non aveva mai pensato che ci fosse la
possibilità, un giorno, di sentirli di nuovo scivolare via
dalla
sua pelle.
Quando Keigo gli sfila anche il maglione, lasciando vagare le mani sul
suo petto nudo, Enji sente come una vertigine attraversargli il
cervello. Afferra con decisione il ragazzo, facendolo distendere
comodamente con la schiena premuta contro il materasso, sistemandosi
tra le sue gambe. Con lentezza esasperante scende a baciargli il collo,
e finisce per sorridere soddisfatto contro la sua pelle candida quando
sente i primi ansiti affiorare sulle labbra del ragazzo. Continua a
baciarlo senza sosta, gli sembra impossibile riuscire a smettere, e nel
frattempo le sue dita si decidono a esplorare la pelle di Keigo. Dal
viso scende a carezzargli la gola, per poi proseguire ancora, verso il
petto. Quando tuttavia il suo tocco incontra qualcosa di freddo
è costretto a fermarsi, sorpreso.
«E questo?», domanda, separandosi appena dalle
labbra del ragazzo.
Gli occhi di Enji cadono su quello che dev’essere un
ciondolo.
Non l’aveva mai notato fino a questo momento, probabilmente
Keigo
doveva averlo tenuto sotto i vestiti. Una catena dorata sorregge un
pendente dalla forma apparentemente circolare, che tuttavia a
un’occhiata più attenta risulta essere piuttosto
irregolare. Linee brevi e spezzate s’inseguono senza sosta,
formando quello che a tutti gli effetti sembra un percorso.
«Regalo di Ryou», ammette Keigo, mentre anche il
suo
sguardo si posa sul ciondolo. «Quando me l’ha dato
ha detto
una cosa del tipo che la nostra mente è il più
pericoloso
dei labirinti.»
Enji osserva nuovamente il ciondolo. Un labirinto. Adesso
ha senso, in effetti.
L’uomo chiude gli occhi per un momento, prendendo un breve
sospiro. Poco dopo tira la catena, spezzandola con un gesto deciso ma
accertandosi di non fare del male al ragazzo, a cui sfugge comunque un
gemito per la sorpresa.
Enji lancia via la collana, che finisce per perdersi in un punto
imprecisato della stanza. L’istante successivo si china
nuovamente sulle labbra del ragazzo. «Fanculo Ryou e tutte le
sue
stronzate», decreta, mentre riprende a baciarlo con trasporto.
Keigo chiude gli occhi, ammaliato e totalmente devoto, mentre le mani
di Enji corrono ad afferrare i suoi fianchi.
Quella notte era scoppiato un temporale tremendo.
I minuti successivi al momento in cui le pallottole lo avevano
raggiunto in pieno petto a Enji erano parsi scorrere in maniera
diversa, più densa.
Avevano ragione i suoi colleghi. Non sarebbe dovuto andare
lì da solo. Avrebbe dovuto aspettare dei rinfurzi, ma dannazione,
la pista del suo informatore era troppo allettante per non abboccare.
Stava dietro al traffico di quegli stupefacenti da mesi, ora che forse
gli era capitata finalmente l’occasione giusta per mettere
fine
al commercio di quella roba che, in alcuni casi, aveva causato anche la
morte di diversi ragazzi molto giovani, non poteva di certo restarsene
con le mani in mano.
Solo che non aveva minimamente calcolato che potessero essere in due.
Oltre a lui, il presunto complice aveva sparato anche a
quell’uomo che Enji aveva inseguito fin sul tetto sotto la
pioggia battente. Enji aveva visto il suo fantasma separarsi dal corpo
e dirigersi verso la luce intensa che, da qualche minuto a quella
parte, aveva iniziato a brillare non troppo distante da loro.
L’uomo l’aveva attraversata senza esitazione.
Enji era stato a un passo dal fare altrettanto, dopotutto
c’era
qualcosa, in quella luce, da cui non riusciva a fare a meno di sentirsi
attirato. Nel momento in cui era stato sul punto di varcare la soglia,
però, aveva avuto la prima visione, quella in cui aveva
visto
qualcuno sparare a Rei.
Ed era rimasto.
Mentre si era imposto di restare aveva avvertito un dolore lancinante,
più immane di qualsiasi ferita si fosse mai procurato quando
era
ancora in vita. Poi, con la stessa rapidità con cui era
apparsa,
ogni cosa era svanita, lasciando nuovamente il tetto di
quell’edificio in balìa della pioggia e delle
tenebre.
Quando alcuni suoi colleghi, tra cui Aizawa, erano giunti sul tetto per
accertarsi della sua morte e di quella dello spacciatore, Enji si era
accorto con orrore che non riuscivano a vederlo. Per di più,
il
suo assassino se l’era già data a gambe, senza
neppure che
Enji fosse riuscito a vederlo in volto, e dai primi rilievi la polizia
aveva ipotizzato che lui e lo spacciatore si fossero ammazzati a
vicenda, dei colpi esplosi con imprudenza e una faccenda finita in
tragedia.
Enji avrebbe voluto gridare di rabbia e frustrazione. No, cazzo, c’era una
terza persona che l’aveva seguito fin lì,
possibile che nessuno se ne fosse accorto?!
Era stato allora che aveva cominciato a vagare senza meta per la
città.
Keigo aveva fatto di nuovo tardi in piscina. Quella, per lui, era la
normalità.
Sul suo telefono c’erano diverse chiamate perse di Kaina,
oltre
ad alcuni messaggi dei suoi amici, ma si era convinto a controllare
tutto solo una volta arrivato a casa.
Il custode aveva preso l’abitudine di lasciargli le chiavi,
perché ormai lo conosceva da anni e aveva capito di potersi
fidare di lui. A Keigo piaceva rimanere lì oltre
l’orario
di chiusura: si tuffava, s’immergeva sotto la superficie
dell’acqua e restava lì, cullato nel silenzio di
quel
luogo che gli sembrava essere l’unico in cui riuscisse a
pensare.
Quella sera, però, si sarebbe voluto maledire volentieri,
perché – merda
– mentre se ne stava perso nei suoi pensieri
sott’acqua
sulla città si era abbattuto un acquazzone decisamente
intenso.
Come se non bastasse, casa di Kaina era dalla parte opposta rispetto
alla piscina e lui era in bicicletta.
Ottimo.
Keigo non aveva visto molte altre soluzioni, così
s’era
messo a pedalare sotto il diluvio, sperando di metterci il meno
possibile.
Le strade erano pressoché – prevedibilmente
–
deserte, e questo l’aveva rincuorato, dandogli la speranza di
fare ancor più in fretta.
Poi, però, si era ritrovato con la strada sbarrata di colpo.
Un tipo era uscito da quello che gli era parso essere un vicolo cieco.
Per evitarlo, Keigo aveva sterzato tutto di lato, finendo
però
così per cadere a terra, sull’asfalto bagnato.
«Ma che cazzo
fai?!», gli aveva urlato contro, furioso.
Enji si era fermato sul posto, incredulo. Possibile che avesse trovato
finalmente qualcuno in grado di vederlo? E che fosse davvero quel
ragazzino?
«Tu… mi vedi», aveva mormorato, ancora
incerto.
Keigo si era rimesso in piedi a fatica, fissando quel tipo quasi con
disgusto. «Tu sei pazzo», aveva decretato,
scuotendo la
testa, prima di rimettersi in sella alla sua bici e schizzare in fretta
e furia via da lì.
Enji avrebbe voluto fermarlo, invece era rimasto lì,
immobile
sotto una pioggia che non poteva più toccarlo, mentre
l’aria veniva squarciata da un nuovo tuono.
Il ragazzino si chiamava Takami Keigo. Enji l’aveva imparato
piuttosto in fretta.
Il giorno successivo l’aveva ritrovato. Era entrato nel suo
liceo, per poi apparirgli in classe.
Keigo l’aveva visto, di fronte alla lavagna, e il suo volto
era
diventato bianco come un lenzuolo quando si era accorto che no, nessuno
degli sguardi dei suoi compagni si posava su quell’estraneo.
La professoressa l’aveva chiamato per interrogarlo. Keigo si
era alzato a fatica dal suo banco, pallido e tremante.
Aveva visto la figura dello sconosciuto avvicinarsi a lui, e ancora una
volta nessuno dei suoi compagni di classe aveva fatto una piega
–
ragazzi, se questo
è uno scherzo l’avete architettato proprio bene,
avrebbe voluto dire loro.
«Hai capito, adesso? Loro non possono vedermi»,
aveva mormorato lo strano tizio della notte precedente.
Keigo aveva perso i sensi. Quando era rinvenuto, l’aveva
fatto solo qualche minuto dopo.
L’avevano fatto sedere su una sedia in corridoio, dietro alla
scrivania del bidello, e gli avevano lasciato un tè caldo
nel
bicchiere di plastica del distributore automatico. Il tipo strano era
ancora lì, che lo fissava intensamente.
Keigo aveva scosso debolmente il capo, per poi allungarsi verso il
tavolo e recuperare il tè. Non
aveva però fatto in
tempo a bere nemmeno un sorso, prima di
finire per
strozzarsi.
Sul tavolo c’era il giornale di quella mattina. E, in prima
pagina, era riportato l’articolo in cui si parlava della
morte in
una sparatoria, la notte precedente, di in un ispettore della polizia.
Quello nella foto era lo stesso uomo che aveva cominciato a seguirlo, a
partire da qualche ora prima.
«Che vuol dire?», gli aveva domandato, mentre
nell’aria riecheggiava il suono della campanella.
«Non lo so», aveva ammesso Enji – quello
il nome
dell’uomo, ora Keigo lo sapeva. «Ma tu sei
l’unico
che riesce a vedermi. E io ho bisogno del tuo aiuto.»
E Keigo, alla fine, l’aveva aiutato davvero. Insieme avevano
investigato fino a scoprire chi fosse il suo assassino – un
suo
ex collega corrotto –, lo stesso che aveva sparato a Rei, una
volta che la donna, anche lei impegnata in un’indagine
parallela
per capire chi avesse ammazzato suo marito, era giunta a quello stesso
nome.
Fortunatamente, Rei se l’era cavata senza conseguenze troppo
gravi. In quel momento, Enji aveva creduto che il suo tempo sulla terra
si fosse concluso. Aveva visto di nuovo quella luce, così
calda,
così attraente, ed era stato di nuovo a un passo
dall’attraversarla, quando aveva avuto una nuova visione.
Questa volta, ad apparirgli in pericolo era stato suo figlio Shouto.
Così era rimasto di nuovo.
Keigo, nel frattempo, era tornato alla sua monotona e noiosa vita. Nel
corso delle indagini ne erano successe di tutti i colori: aveva stretto
quello strano legame con Touya e, direttamente dal passato, Tomie era
tornata a far parte della sua vita.
La verità, però, era che nel tempo che aveva
trascorso
accanto a Enji, Keigo s’era sentito vivo come mai prima di
allora. E, adesso che se n’era andato, gli sembrava tutto
così incredibilmente piatto.
Quel pomeriggio era disteso sul letto di camera sua, senza avere niente
da fare. L’estate si stava avvicinando, e quel giorno faceva
un caldo assurdo. Kaina era al
lavoro, Tomie all’Owl e Touya gli aveva detto di avere un
impegno, così lui era rimasto a casa da solo. Si stava
annoiando
terribilmente, ma non gli veniva in mente nessun modo in cui risolvere
la situazione.
Almeno finché non aveva visto Enji attraversare la soglia
della sua stanza.
Keigo si era ritrovato a trasecolare, sobbalzando sul materasso.
«Tu che ci fai qui?», aveva domandato, incredulo.
«Ero convinto che te ne fossi andato…»
«No. Ho avuto una nuova visione», aveva ammesso
Enji, la
voce turbata. «C’è qualcuno che vuole
fare del male
a mio figlio e–»
Keigo l’aveva interrotto, schioccando le dita. «Non
dire
altro», aveva commentato, alzandosi in fretta dal letto
mentre le
sue labbra si erano piegate in un sorriso. «Mi cambio un
attimo e
poi cominciamo a lavorare.»
Era stato come se, di colpo, i colori fossero tornati nel suo mondo che
nel frattempo era diventato tutto grigio. Keigo s’era sfilato
la
t-shirt, e non era riuscito a nascondere un sorriso scaltro quando
aveva visto Enji voltarsi dandogli le spalle, con fare pudico.
Insieme, erano riusciti a risolvere anche quella. Shouto era sano e
salvo, ed Enji si era sentito col cuore in pace al pensiero di aver
tolto ancora una volta dal pericolo la sua famiglia.
Era tornato sul tetto, quello dove aveva perso la vita, e come la prima
volta proprio lì gli era apparsa la luce. Adesso si sentiva
pronto, non avrebbe dovuto far altro che attraversarla, lasciandosi il
mondo dei vivi alle spalle.
Nel frattempo, come la prima volta in cui era salito fin lì,
era
scoppiato un temporale, ma non ci aveva dato peso. Enji aveva
cominciato a incamminarsi verso la luce, tuttavia, quando aveva cercato
di muovere il primo passo, il piede non s’era spostato di un
millimetro.
Sul volto di Enji era comparsa un’espressione incredula e
quasi
spaventata. Si era guardato attorno, cercando di capire cosa avesse
causato quel suo stato d’immobilità, ma solo
quando aveva
lanciato un’occhiata alle proprie spalle aveva capito di cosa
si
fosse trattato.
Sulla cima del palazzo, infatti, era comparso Keigo. Il ragazzo aveva
un’espressione concentrata, lo sguardo fisso sulla figura di
Enji, ed era stato questo a fargli capire che era stato lui a
trattenerlo.
«Keigo, che
stai facendo?! Lasciami andare!», aveva gridato
nella sua direzione, sgomento.
Keigo, però, era sembrato irremovibile.
«No», aveva replicato semplicemente, senza perdere
la concentrazione.
L’incredulità, adesso, aveva lasciato il posto
alla rabbia. «Cosa…?
No! Perché?!», aveva domandato
ancora, senza riuscire a darsi una spiegazione.
In quel momento, la luce che aveva visto poco prima era svanita. Se
possibile, Enji aveva sentito la furia dentro di sé
accrescere
ancora di più.
Keigo, invece, gli era sembrato calmo e lucido. Nel momento in cui la
luce s’era spenta, aveva stretto tra le mani la tracolla
della
sua borsa. «Non posso lasciarti andare, Enji… non
finché non avrò capito perché siamo
legati»,
aveva spiegato, quasi come se quello fosse un concetto estremamente
ovvio.
Enji, invece, non capiva. Il suo tempo nel mondo dei vivi era scaduto
da un bel po’, ormai. Perché allora Keigo si
ostinava a
trattenerlo ancora lì?
«Lasciami
andare, Keigo! Lasciami andare!»
Enji ricordava di averglielo urlato dietro, senza tuttavia riuscire a
smuovere in alcun modo il ragazzo. A quel punto aveva gridato, in preda
a una frustrazione opprimente, prima di svanire nel nulla, lasciando
Keigo da solo, sotto al diluvio.
Come dopo il loro primo incontro, un tuono aveva squarciato
l’aria.
Disteso sul letto, Enji osserva il soffitto.
Accanto a lui, Keigo gli si rannicchia vicino, nascondendo il viso
nell’incavo tra il collo e la spalla dell’uomo e
strofinando la punta del naso sulla sua pelle.
Enji non può vedere la sua espressione, eppure riesce a
immaginarla perfettamente: le palpebre calate in una totale
beatitudine, gli occhi dorati che probabilmente scintillano, le labbra
piegate in un sorriso.
Keigo si lascia sfuggire un piccolo mugolio. «A che stai
pensando?», domanda, il respiro che danza sulla pelle
dell’altro.
«Al nostro primo incontro», ammette Enji,
ritrovandosi a
sua volta a sorridere.«Quella notte sei caduto in maniera
rovinosa…»
«Colpa tua.» Keigo soffoca una risata mentre si
sistema su
un fianco, puntellando un gomito sul materasso e poggiando una guancia
sul palmo della mano per osservare Enji negli occhi. «Almeno
adesso so perché sono riuscito a vederti fin dal primo
minuto.
Io e te eravamo destinati a incontrarci, in un modo o
nell’altro.
Ora ne sono certo…»
Enji non riesce a fare a meno di sorridere intenerito. Posa una mano
sulla guancia del ragazzo, attirandolo a sé mentre rapisce
le
sue labbra in un nuovo bacio. È come se, ora che le ha fatte
sue
per la prima volta, gli sia diventato impossibile separarsene.
Poco dopo si allontana da lui quel tanto che basta per permettergli di
riprendere fiato. «Come ti senti?», gli domanda,
sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Stremato.» Keigo si lascia sfuggire un lungo
sospiro
mentre si distende supino sul letto, coprendosi con fare melodrammatico
gli occhi con un braccio, sebbene la luce del mattino che dalla
finestra scivola nella camera filtri comunque attraverso le sue ciglia
dorate. «In questo momento sento che potrei dormire per una
settimana di fila…»
«Beh, non abbiamo tutto questo tempo», ammette
Enji. Nel
momento in cui si rende conto di quanto le sue parole siano vere,
scosta di lato il lenzuolo, sedendosi sul materasso.
«Però
ancora qualche ora di sonno puoi concedertela. Almeno fino al ritorno
di Kaina.»
Le dita di Keigo si serrano attorno al lenzuolo, sollevandolo fino al
proprio mento. Al ragazzo non è passato inosservato il modo
in
cui il tono di Enji si sia fatto di colpo più indulgente, e
la
cosa gli fa sfuggire un sorriso. «E tu?», domanda,
curioso.
«Andrò in commissariato.» Enji si alza
finalmente in
piedi. «Voglio vedere se sono riusciti ad andare un
po’
avanti con le indagini. Chissà, magari hanno qualche
informazione che potrebbe essere utile anche a
noi…»
«Così?»,
domanda Keigo, inarcando le sopracciglia. «Per quanto mi
piaccia
l’idea di averti sempre nudo davanti agli occhi, dubito di
essere
pronto a condividere questa visione con Ryou, nel malaugurato caso in
cui dovessimo imbatterci in lui…»
Enji si volta nella sua direzione, osservandolo in preda al
più
totale imbarazzo, e Keigo non riesce a trattenere un sorriso malizioso.
L’istante successivo, l’uomo si china a raccogliere
i
propri vestiti da terra. Mentre lo osserva rivestirsi, Keigo non riesce
a non provare un briciolo di malinconia.
Una volta sistemata nuovamente la giacca sulle spalle, Enji torna a
voltarsi verso il ragazzo. «Meglio?», commenta,
sarcastico.
Keigo si mette a sedere sul letto, le labbra che si piegano in un
accenno di sorriso. «Adesso devo farti tornare
incorporeo»,
ammette, inclinando appena il capo di lato. «Prima
però
possiamo darci un ultimo bacio?»
Enji esita per un momento, incerto. Perché non riesce a
dirgli
di no? Alla fine, tuttavia, cede ancora una volta, chinandosi verso il
ragazzo e posando le labbra sulle sue, mentre gli accarezza una guancia
con le dita.
È un bacio lento, eppure così ricco di desiderio
–
Enji sente il corpo di Keigo tendersi verso di lui quasi con
disperazione. Quando, poco dopo, il ragazzo è costretto a
separarsi da lui per riprendere fiato, sembra farlo a malincuore.
«Vedi di tornare presto», gli intima Keigo, sebbene
quella suoni più come una preghiera.
«Non sentirai la mia mancanza per più tempo del
dovuto,
promesso», gli assicura Enji, le dita che ancora una volta
s’intrecciano tra i suoi capelli dorati.
Keigo sembra finalmente persuaso da quelle parole. Torna a sedersi
più composto sul materasso, dopodiché chiude di
nuovo gli
occhi, come la prima volta. Lentamente Enji sente la propria
consistenza tornare a essere quella a cui, da tre anni a questa parte,
è ormai abituato.
Keigo riapre gli occhi, ma lo fa solo per pochi istanti. Poco dopo,
infatti, le palpebre tornano ad abbassarsi sulle sue iridi dorate,
mentre la schiena si distende nuovamente sul materasso.
Enji è quasi sorpreso nel constatare che si sia
già
addormentato, eppure il petto si alza e s’abbassa seguendo il
ritmo dei respiri regolari tipici del sonno. Si ritrova a sorridere
incantato, le dita che si avvicinano alla fronte del ragazzo per
carezzarla e che, come al solito, non fanno altro che spostare un
sottilissimo filo d’aria.
Rincuorato, Enji si dice che è arrivato il momento di
andare. Fa
a malapena in tempo a voltarsi, tuttavia, prima di essere colpito da
una strana vertigine.
L’istante successivo è svanito, lasciando Keigo da
solo
all’interno della stanza, ancora profondamente addormentato.
Quando il mondo inizia a riformarsi attorno a lui, Enji impiega qualche
istante per capire cosa sia successo.
La prima cosa che nota è il fitto mantello di foglie brune a
terra. Devono essere cadute da tempo, ma qualcosa le ha rese scivolose,
forse la piogga o magari dell’altro.
Capendo di avere lo sguardo puntato verso il basso, Enji prova a
sollevare la testa. Avverte quasi subito un capogiro, che lo costringe
a portarsi una mano alla tempia mentre cerca di fare ugualmente mente
locale.
Quelli che vede attorno a sé sono alberi, dai fusti
altissimi e
possenti, i cui rami spogli si allungano tetri verso il cielo, come
braccia esili che tentano inutilmente di ghermire l’aria.
Deve trovarsi in un bosco. È una consapevolezza piuttosto
ovvia, ma è comunque felice di esserci arrivato.
Provando a spostare lo sguardo davanti a sé, nota che, poco
distante dal punto in cui si trova, c’è un lago di
vaste
dimensioni.
Infine lo vede.
La figura di un uomo di spalle si staglia a pochi passi da lui. Indossa
un lungo ed elegante soprabito nero e tiene le mani in tasca, mentre
sulla nuca s’intravedono bene dei capelli corti e candidi
come la
neve.
«Ci rivediamo, Todoroki Enji», commenta una voce
profonda
dal tono insolitamente allegro che, per sua sfortuna, Enji conosce fin
troppo bene.
«Ryou.»
Enji sente un groviglio di emozioni attorcigliarsi nello stomaco, ma
una – rabbia
– la distingue nitidamente. Osserva il luogo attorno a
sé, guardingo. «Che posto è
questo?»
A giudicare dalla luce grigiastra che vede nel cielo, probabilmente
è ancora mattina. Questo significa che si trovano nello
stesso
fuso orario? Forse sì, perché sebbene la polizia
non stia
formalmente indagando su di lui sono comunque arrivati al suo nome, per
cui se espratriasse sarebbe sospetto – anche se Ryou non
dovrebbe
essere a conoscenza di essere tra gli indiziati, giusto?
Nonostante ancora non lo veda in faccia, Enji riesce perfino a sentire
il rumore soffuso del sogghigno sveglio che si forma sulle sue labbra.
«Questo non è importante», commenta,
sminuendo le
parole di Enji con un cenno leggero della mano, come se stesse cercando
di scacciare una mosca fastidiosa. Avrebbe dovuto prevederlo, dopotutto
la persona davanti a lui non era certo uno sprovveduto tale da cadere
in un tranello tanto semplice. «Piuttosto, come sta il nostro
Keigo? Immagino che sarà molto provato…»
Enji aggrotta le sopracciglia. «Che intendi dire?»,
domanda, diffidente.
Ryou si volta nella sua direzione, senza trattenere un sogghigno
divertito. «Trattenerti qui gli è costato un
dispendio di
energie considerevole», spiega, come se stesse sciorinando
una
delle sue lezioni. «Non hai notato la sua
stanchezza?»
Ovvio che l’ha notata. Le occhiaie violacee – che
spiccano
come lividi sulla pelle pallida – che ha intravisto sul viso
di
Keigo fin dal loro primo incontro dopo quei tre anni, il perenne
bisogno di sonno, il ragazzo che crolla profondamente addormentato
salvo poi, al risveglio, non sentirsi affatto riposato. Enji aveva
ipotizzato che si trattasse dello stress in seguito alla morte di
Tomie, eppure… se Ryou avesse ragione? Se anche la
spossatezza
di Keigo fosse colpa sua?
Ryou sembra piuttosto compiaciuto del suo silenzio. «Ma come,
allora devo supporre che Keigo non te ne abbia parlato?»,
continua, senza attendere la sua risposta – in fondo la
conosce
già. «Sai, quando vi ho visto insieme ho
sospettato che
avesse intenzione di farti tornare tangibile, però mi sono
detto
che no, non poteva averci pensato sul serio. Dopotutto
l’avevo
avvertito che, così facendo, avrebbe soltanto accorciato la
propria durata vitale, sarebbe davvero sciocco da parte
sua...»
A quelle parole, Enji si ritrova a trattenere il fiato. Il rumore che
gli sfugge dev’essere piuttosto affilato, perché
apparentemente Ryou riesce a sentirlo. In quel momento, infatti, il
sorriso sul volto del medium si fa ancora più malevolo.
«L’ha
già fatto»,
deduce, le iridi cremisi che dardeggiano Enji divertite. «E
raccontami, com’è scopare con lui? Piacevole come
lo
ricordo io?»
Enji, stavolta, non ci vede più dalla furia. Poco dopo Ryou
si
ritrova ad accasciarsi a terra, le dita che artigliano il terreno umido.
«Dimmi, Ryou, sei a conoscenza del fatto che nel cervello
umano
si trovano degli impulsi elettrici?», commenta, infilando le
mani
in tasca, mentre stavolta è sulle sue labbra che si forma un
sogghigno. «Questa è all’incirca la
sensazione che
si prova durante un elettroshock, pezzo
di merda.»
Nonostante il dolore, Ryou riesce a malapena a soffocare una risata.
«Oh, come siamo permalosi…», commenta,
divertito.
Enji si china nella sua direzione, fulminandolo con lo sguardo.
«Stai mentendo», soffia, furioso.
«Potrei», ammette, le iridi cremisi che
sostenengono senza
esitazione quelle turchesi. «Però diciamocelo
chiaramente,
che motivo avrei di farlo?»
Stavolta Enji non riesce a replicare. Fa cessare le scariche elettriche
nel cervello di Ryou, mentre si volta in fretta, lo sguardo perplesso
che si perde tra gli alberi allampanati.
Ryou, nel frattempo, si rimette in piedi. Spolvera via la terra dai
propri abiti con alcuni gesti decisi ma composti, mentre sposta
nuovamente lo sguardo sul fantasma, sogghignando vittorioso.
«Direi che non abbiamo altro da dirci», conclude,
soddisfatto.
Enji si gira verso di lui, ma il battito di ciglia successivo sta
già svanendo.
L’ultima cosa che vede è il ghigno sulle labbra di
Ryou.
La realtà torna a essere densa attorno a lui, ed Enji si
accorge di trovarsi in mezzo a un fiume di gente.
Gli basta guardarsi attorno – grattacieli che svettano
imponenti,
pubblicità che scorrono sugli schermi a led, luci violette
che
tormentano gli occhi dei passanti – per capire che si trova
nel
bel mezzo dell’incrocio di Shibuya, il bosco e Ryou persi
chissà dove.
Se quel bastardo pensa di scamparla così, però,
si sbaglia di grosso.
Enji serra la mascella, con tutte le intenzioni di fargliela pagare.
Il getto caldo della doccia investe Tenko. Il ragazzo si friziona
ancora una volta la cute, rimuovendo gli ultimi residui di shampoo
mentre viene circondato sempre di più da nuvolette di vapore.
Poco dopo chiude l’acqua, aprendo l’anta di vetro
della
doccia e scivolando lentamente fuori. Si avvolge un asciugamano intorno
alla vita, mentre con un altro si tampona i capelli umidi.
Tenko si volta e fa per osservare la propria immagine riflessa nello
specchio appannato, invece sulla soglia del bagno trova ad attenderlo
Touya, le braccia conserte e la schiena appoggiata allo stipite della
porta, sebbene la sua posizione tradisca un certo nervosismo.
Touya solleva una mano, sventolando davanti al volto del suo ragazzo
una bustina trasparente, all’interno della quale
s’intravedono nitidamente due pastiglie rosse.
«Che cazzo è ‘sta roba?»,
domanda, veemente.
note
buon compleanno, hawks!
quando ho deciso di cominciare a pubblicare il 2 novembre, mantenendo
un ritmo costante (come penso sia orma chiaro), mi sono fatta
uno
schemino mentale per capire quando sarebbe uscito ogni capitolo. nel
momento in cui mi sono accorta che il 28 dicembre sarebbe uscito
proprio questo,
beh, mi sono ritrovata a gioire, inutile negarlo.
ebbene sì, finalmente ce l'abbiamo fatta: questi due hanno
capito di amarsi. spero che non dia l'idea di "cosa troppo improvvisa",
e anche per questo ho inserito i flashback: volevo far capire che, in
realtà, enji e keigo si conoscono da tre anni, e se il
secondo
s'è innamorato quasi subito, per il primo è stata
una
cosa più graduale, che ora è diventata
più intensa
sia perché ha messo da parte i rancori che nutriva nei
confronti
del ragazzo da quando, quella notte, non gli ha lasciato attraversare
la luce, sia per via della visione che lo fa stare in apprensione.
a proposito dei flashback: li abbiamo ufficialmente finiti. di nuovo,
spero che non vi abbiano confusə troppo ^^
parlando dell'incontro di enji e ryou: era ora che fosse impartita una
lezione al nostro villain.
ovviamente, però, non siamo che all'inizio.
concludiamo infine con la scena shigadabi: tenetela a mente, potrebbe
essere più importante del previsto.
con questo è tutto. spero che la storia vi stia piacendo e
ne
approfitto per darvi appuntamento al prossimo aggiornamento. see you next year! (duh)
aria
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Capitolo 6 *** il male dove non te l'aspetti ***
Quando
Hitoshi rientra a casa, è ancora mattino presto.
Infila le chiavi nella toppa cercando di non fare troppo rumore, per
poi far scattare piano la serratura. Spinge il portone in avanti quel
poco che basta per infilarsi nell’appartamento, per poi
voltarsi
in fretta a sigillare nuovamente l’ingresso con la stessa
accortezza che ha impiegato per entrare.
Si sente un idiota per tutte le precauzioni che sta prendendo, e forse
quella non è nemmeno la definizione giusta. È un
po’ come se fosse un ladro in casa propria, ed è
tutto
così assurdo e ridicolo che gli viene da scuotere la testa
per
la frustrazione.
Ormai è quasi del tutto sicuro di essersela cavata anche
stavolta, così ruota nuovamente su se stesso e fa per
attraversare il corridoio e dirigersi in camera da letto –
adesso
ha proprio bisogno di farsi una lunga e rigenerante dormita, in effetti.
Nel momento in cui sta per tirare un sospiro di sollievo, tuttavia, si
ritrova a sobbalzare sul posto. Shouta è in piedi ad
aspettarlo,
a pochi passi di distanza dalla soglia di casa, le braccia conserte.
«Mi hai fatto prendere un colpo!» Hitoshi vorrebbe
urlare,
ma sa che probabilmente, vista l’ora, a pochi passi di
distanza
da loro Eri sta riposando quieta nella sua cameretta. Per questo
mantiene la voce bassa, sebbene sia comunque evidente il suo tono
sorpreso, mentre posa una mano contro la parete e annaspa riprendendo
fiato.
«Buongiorno anche a te.» Shouta lo ignora,
lanciando
un’occhiata al suo orologio da polso. «Hai passato
di nuovo
tutta la notte fuori.»
«Già. Ero in giro con degli amici e non mi ero
accorto che
si fosse fatto così tardi», biascica, stringendosi
nelle
spalle. «Adesso sono stanchissimo, forse faccio in tempo a
dormire ancora per un’ora…»
Hitoshi riesce a malapena a resistere all’impulso di
infilarsi il
cappuccio della felpa: di solito lo fa sentire più sicuro,
ma sa
che sarebbe strano, dopotutto sono in casa. Cerca di avviarsi
nuovamente lungo il corridoio, sperando che Shouta possa farsi bastare
quella spiegazione – anche se, in cuor suo, sa già
che non
sarà così. Primo perché non
può continuare
a rifilargli ogni volta la stessa scusa con appena qualche variazione,
e secondo perché è un poliziotto e le bugie
è
abituato a riconoscerle per mestiere.
Non fa in tempo a passargli davanti, infatti, che lo sente afferrarlo
per il polso.
«È da quando abbiamo parlato fuori dal
commissariato che
ti comporti in maniera strana», commenta, e Hitoshi sa che
nella
sua mente c’è già un quadro abbastanza
chiaro della
situazione. «Mi è bastato nominare per mezzo
secondo
Hizashi perché tu diventassi evasivo, scostante. Hai detto
che
non sapevi dove fosse, ma il tuo comportamento mi fa sospettare
tutt’altro. Hitoshi, che mi stai nascondendo? Dimmi la
verità!»
Hitoshi si sente nel panico più totale. Prende a dimenarsi
dalla
presa di Shouta, finché, con uno strattone
deciso, riesce a
liberarsi.
«Oh, insomma, basta!», sbotta, esausto. Forse ha
alzato
troppo la voce, ma adesso non riesce a curarsene. «Questa
è una cosa che dovete risolvere tra di voi. Vedete di non
tirarmi più in mezzo.»
Non appena Hitoshi finisce di pronunciare quelle parole, si affretta
finalmente ad attraversare il corridoio, fino a raggiungere la porta
della propria camera da letto e serrandola con decisione dietro di
sé.
Shouta, invece, resta immobile sul posto, le labbra socchiuse in
un’espressione confusa.
È ormai mattina quando Enji riesce finalmente a tornare a
casa di Keigo.
Quella testa di cazzo di Ryou gli ha giocato uno dei suoi scherzetti nient’affatto
divertenti, facendolo apparire nel bel mezzo della caotica Shibuya, ben
distante dalla grigia e desolante periferia dell’appartamento
di
Kaina.
La verità è che Enji è furioso.
Prosegue a passo
di marcia attraverso il tunnel coperto che collega il viale esterno al
palazzo, anche se non sa bene cosa stia facendo. Vuole parlare con
Keigo, ma non ha idea se sia ancora lì.
Per una volta sembra che la sorte sia dalla sua parte. Proprio in quel
momento, infatti, vede il ragazzo uscire dal portone
d’ingresso.
Appena lo vede Keigo sembra illuminarsi, tanto che comincia a
raggiungerlo quasi trotterellando. Mentre si avvicina, però,
notando l’espressione di Enji il suo sorriso comincia
lentamente
ad affievolirsi.
«Che succede…?», domanda, con voce
insicura, quando ormai si trova a pochi passi da lui.
Enji gli passa accanto senza nemmeno fermarsi, in preda a una rabbia
accecante. «Avresti dovuto dirmi che rendermi corporeo ti
avrebbe
fatto del male», commenta, lapidario, continuando stoicamente
a
fissare un punto davanti a sé – ovunque, pur di non
incontrare i suoi occhi.
Per un momento Keigo resta fermo sul posto, confuso. «Come
fai a
sapere…», fa per domandare, le parole che tuttavia
gli
muoiono in gola mentre un lampo di consapevolezza gli attraversa il
volto. «Hai
visto Ryou?!»
Enji decide di ignorare come il tono di Keigo sia mutato da incerto a
sicuro nel giro di pochi secondi. «Non è questo
che conta,
adesso», cerca di sminuire, seccato.
«Conta eccome, invece!» Keigo si affretta ad
andargli
appresso ma, notando che Enji non sembra avere alcuna intenzione di
rallentare, alla fine è costretto a pararsi davanti a lui
pur di
farlo fermare. «Enji, che cazzo! Stiamo parlando del
possibile
assassino di mia madre!»
Enji sa che ha ragione, ma in quel momento si rifiuta di riconoscerlo.
«Vedi di non rigirare la frittata», lo fulmina,
rivolgendogli un’occhiata torva. «Quando avevi
intenzione
di dirmelo? Una volta esaurite tutte le tue energie o direttamente sul
letto di morte?»
Keigo serra nervosamente le dita attorno alla tracolla della sua borsa.
«Era un rischio ponderato», ammette, e stavolta
è il
suo sguardo a fuggire lontano da quello di Enji, mentre un sorriso gli
fa capolino sul viso. «E comunque per me ne è
valsa
completamente la pena. Lo rifarei altre mille volte, se proprio vuoi
saperlo…»
A quelle parole, l’espressione di Enji si addolcisce un poco.
Si
china appena verso il basso, i suoi occhi turchesi che finalmente
incontrano quelli dorati di Keigo. «Non avresti dovuto farlo
comunque», insiste, ma la durezza sembra essere sparita dalla
sua
voce. «Non ho mai voluto ferirti…»
Keigo sorride con dolcezza, la mano che istintivamente si avvicina al
volto di Enji, come se volesse accarezzarlo. «Lo so, ma
sapevo
quello che stavo facendo, e non c’è mai stato un
vero
rischio», gli assicura, pacato. L’espressione sul
suo volto
ora sembra essere di nuovo rilassata. «Ora possiamo parlare
del
fatto che hai visto Ryou?»
Enji cede, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro.
«È
stato lui a evocarmi, quando tu avevi appena preso sonno»,
spiega, rassegnato – in fin dei conti, neppure lui sa cosa
sia
successo esattamente. «È stato tutto molto veloce.
E strano.»
Mentre riflette, Keigo si porta una mano al mento. «Almeno
sei
riuscito a notare qualche elemento utile che possa aiutarci a capire
dove si trova?», domanda, speranzoso.
Enji ci pensa per qualche istante, sebbene in realtà sia
già piuttosto sicuro della risposta. «Credo che
fosse in
un bosco», ammette, assorto. «Non troppo distante
dal punto
in cui si trovava mi pare di aver visto un lago.»
Keigo annuisce brevemente. «Probabilmente è
tornato in
istituto», spiega, sollevando lo sguardo in direzione di
Enji.
«Ryou aveva una casa, poco distante da lì. Nel bel
mezzo
del bosco che circonda la zona, a pochi passi dalle sponde del lago.
È capitato che mi ospitasse lì, un paio di
volte.»
Enji vorrebbe fargli notare che sarebbe strano, da parte di Ryou,
svelargli così apertamente dove si trova, soprattutto
considerando che probabilmente sa già che la polizia
sospetta di
lui. Potrebbe perfino fare una battuta sul fatto che Keigo sia stato a
casa sua, infastidito da qualcosa che un tempo non sarebbe stato in
grado di riconoscere, mentre adesso sa che si tratta di un sentimento
ben preciso – gelosia.
Sfortunatamente, però, c’è quel
pensiero fisso che
continua a tormentarlo e che, ancora una volta, offusca tutto il resto.
La visione.
Enji avanza incerto fino alla vetrata che si affaccia
sull’esterno. Si appoggia alla sporgenza in cemento, il
cortile
alle sue spalle. «Ma chi voglio prendere in giro?»,
domanda, amareggiato. «Come posso prendermela con te quando
sono
io il primo ad averti nascosto qualcosa?»
Keigo tiene lo sguardo fisso su di lui, e a Enji il peso del suo
giudizio sembra la colpa giusta da pagare. «Di che
parli?»,
s’informa, confuso.
«Non ti ho detto tutta la verità»,
ammette
finalmente, e non appena quelle parole scivolano fuori dalle sue labbra
sente come se il macigno che per giorni gli ha appesantito la coscienza
fosse svanito di colpo. «La notte dell’incidente ho
avuto
una visione. Ho visto te, gli occhi spalancati per la paura, e poco
dopo stavi cadendo nel vuoto. Quando siamo andati nel bosco a cercare
l’auto di Ryou, ho avuto di nuovo quella visione, solo che
c’era un pezzo in più. Ti ho visto di nuovo
precipitare,
ma stavolta dalla parte opposta c’ero io.»
Keigo resta per un po’ in silenzio. Enji non ha coraggio di
alzare lo sguardo su di lui, certo di essersi attirato addosso di colpo
tutto l’odio del ragazzo, così continua a tenere
gli occhi
bassi, fissi a terra.
Poco dopo però avverte le mani di Keigo avvicinarsi al suo
volto, ed Enji si ritrova a sollevare di scatto il capo per la
sorpresa. Quando incontra l’espressione del ragazzo, per poco
non
sussulta alla vista del sorriso dolcissimo che gli sta rivolgendo.
«E me l’hai tenuto nascosto per tutto questo tempo
perché temi che sarai tu a farmi del male?»,
domanda,
esterrefatto. «Oh, Enji, tu non potresti mai
farmene...»
Enji resta profondamente colpito da quelle parole, i suoi occhi color
mare si fanno grandi come tazze da tè. Keigo, invece, si
limita
a continuare a sorridere, abbassando le palpebre e chinandosi in
avanti, la fronte così vicina a quella di Enji che, se
l’altro avesse ancora un corpo, probabilmente adesso si
sfiorerebbero. Enji si ritrova ad imitare il ragazzo, socchiudendo le
palpebre mentre le labbra vengono solcate da un sorriso. È
così pacifica, quella vicinanza, che di colpo gli sembra di
percepire un calore piacevole intorno a sé, come se fosse
immerso in una sensazione di benessere. Se solo potesse, vorrebbe avere
la capacità di poter prolungare quel momento così
intimo
all’infinito nel tempo.
Peccato che il destino abbia all’apparenza altri piani in
serbo per loro.
Proprio in quell’istante, infatti, il telefono di Keigo
comincia a squillare.
Riaprendo gli occhi, Enji nota l’espressione seccata che
attraversa il volto di Keigo mentre recupera il telefono dalla tasca
della giacca. Gli basta leggere il nome di chi lo sta chiamando,
però, ed ecco che l’irritazione si tramuta in
sgomento.
«Non ci credo…», commenta, allibito.
Enji sta per chiedergli cosa sia a turbarlo tanto quando Keigo, con un
tocco sullo schermo, accetta la chiamata, bruciandolo sul tempo.
«Si può sapere che cazzo
vuoi?», sbotta, seccato. «Certo che hai una gran
bella faccia tosta a chiamarmi…»
«Aspetta,
Keigo, non riattaccare! È una cosa importante!»
Dall’altra parte del telefono, Enji riconosce chiaramente la
voce piuttosto in affanno di Touya. «Forse ho scoperto qualcosa che
ha a che fare con l’incidente di tua madre!»
Quando apre la porta dell’appartamento, Touya sembra quasi
fare capolino da dietro di essa.
Keigo ha trascorso i secondi successivi al momento in cui ha suonato il
campanello immobile sul pianerottolo, le braccia conserte. Ora che
l’altro ragazzo è comparso davanti a lui Enji nota
che
l’espressione con cui Keigo lo sta fissando è
dura,
inflessibile.
È innegabile che tra i due ormai i rapporti siano sempre
più complicati, in particolare dopo l’ultima volta
che si
sono visti, e forse sono destinati a non trovare mai una soluzione.
Touya pare sul punto di tirare un sospiro di sollievo.
«Speravo
che alla fine saresti venuto…», ammette, restando
saldamente aggrappato alla porta.
Keigo, almeno in apparenza, sembra non aver dato alcuna importanza alle
parole del ragazzo. «Lui
dov’è?», taglia
corto, imperturbabile.
Il sorriso che si era affacciato sul volto di Touya svanisce con la
stessa repentinità con cui era apparso. Già, lui.
Enji riconosce che, se Keigo alla fine ha accettato di recarsi
lì, l’ha fatto solo perché ha avuto la
certezza che
non sarebbero stati da soli.
Touya si lascia sfuggire un leggero sospiro. «In
sala»,
commenta, rassegnato, indicando col pollice la direzione da prendere
all’interno della casa.
Senza ulteriori indugi, Keigo scivola dentro l’appartamento,
passando accanto a Touya senza rallentare e non degnandolo nemmeno di
uno sguardo, gli occhi puntati sul corridoio dritto davanti a
sé. Enji si limita a seguirlo, lanciando giusto
un’occhiata fugace alle proprie spalle mentre prosegue e
l’unica cosa che riesce a scorgere è la figura di
Touya,
voltato di spalle, che chiude mestamente la porta.
Keigo svolta quasi subito in una stanza che trova alla propria
sinistra, la prima che incontra lungo il corridoio. La cosa
che
nota subito è che là dentro
l’illuminazione
è decisamente scarsa: le persiane sono chiuse, e a
rischiarare
appena l’ambiente c’è solo una lampada,
poggiata su
un tavolino vicino all’ingresso. Il risultato è
che le
pareti bianche sembrano di un colore indefinibile tra il crema e il
marrone, in un gioco di luci e ombre a modo suo affascinante.
Keigo individua pressoché subito Tenko. È seduto
con le
gambe incrociate su un divano verde bottiglia dall’aspetto
piuttosto distrutto. Il fidanzato di Touya è esattamente
come se
lo ricordava: capelli arruffati, aria allampanata. Quando lo sente
entrare nella stanza, Tenko si volta nella sua direzione rivolgendogli
uno sguardo quasi interrogativo – anche se, probabilmente,
Touya
deve averlo avvertito del suo arrivo. Keigo lo osserva con una certa
compassione: c’è qualcosa, in quel ragazzo, che lo
fa
sembrare quasi una creatura indifesa, dallo sguardo smarrito al
maglione, dello stesso colore brillante dei fili d’erba, in
cui
sembra quasi nuotare per quanto sia largo per lui.
«Ciao», azzarda Keigo, il tono che resta piuttosto
neutrale.
«Ciao…», risponde Tenko, con quel suo
modo di parlare piatto e quasi apatico.
Enji osserva Keigo per qualche istante. Chissà se sta
valutando
di raccontare a quel ragazzo che il suo fidanzato ha cercato di
baciarlo, nemmeno due giorni fa.
Parlando di Touya, proprio in quel momento compare sulla soglia della
stanza, lo sguardo che saetta svelto tra Keigo e Tenko.
«Prego,
accomodati», lo esorta, ignaro.
Stavolta Keigo lo asseconda, prendendo posto su una delle sedie di
fronte al divano, rimasta leggermente scostata rispetto al tavolo poco
distante. Enji si accomoda a sua volta su una sedia, mentre Touya si
affretta a sistemarsi accanto a Tenko sul divano.
«Allora.» Keigo giunge le mani in grembo, e da come
le
stringe tra loro Enji nota che è piuttosto agitato.
«Di
cosa volevi parlarmi?»
Tenko si agita un po’ sul posto, come se fosse turbato al
pensiero di intavolare quella discussione.
«Ecco…»,
prova a esordire, ma il suo sguardo continua a saltare nervosamente da
una delle mattonelle color cioccolato del pavimento
all’altra.
Sembra calmarsi un poco solo quando Touya gli posa una mano sulla
spalla e la accarezza con dolcezza – i due si scambiano
un’occhiata e si rivolgono un sorriso. A quel punto Tenko
torna a
voltarsi in direzione di Keigo. «Dopo che ci siamo incontrati
al
funerale ho fatto un po’ di ricerche sul tuo conto. Touya mi
ha
detto che per un po’ siete stati insieme e volevo capire se
mi
potessi fidare di te. Senza offesa.»
Keigo gli rivolge un cenno noncurante con la mano. Tenko interpreta la
cosa come una conferma, da parte del ragazzo, di non essere rimasto
affatto infastidito da quella rivelazione, così rincuorato
va
avanti.
«Touya mi aveva detto anche che avevi frequentato per anni un
centro per gente… strana»,
spiega, torturandosi le mani e osservandole intensamente mentre parla.
«Così sono andato lì per cercare di
scoprire
qualcosa. Solo che, mentre ero in quel posto, è successa una
cosa che non mi aspettavo…»
Mentre Tenko parla, Touya recupera qualcosa dal tavolino accanto a
loro. Nella penombra Keigo non riesce a capire bene che cosa sia ma,
per quel che riesce a intravedere, gli sembra che si tratti di una
bustina trasparente.
Tenko si lascia sfuggire un sospiro tremolante.
«C’era un
tizio che vendeva questa roba… e non lo so
perché, ma ho
pensato che prenderla fosse la cosa giusta da fare», ammette,
prendendo coraggio e sollevando lo sguardo in direzione di Keigo.
Touya passa la bustina a Keigo e, ora che ce l’ha in mano,
riesce
a distinguere meglio ciò che contiene: è una
pastiglia.
La superficie è liscia e traslucida, e sembra possedere
un’intenso colore rossastro.
Keigo riesce a immaginare cosa possa aver spinto Tenko ad
appropriarsene – più che altro il desiderio di
dimostrare
a Touya che il tuo ex
è solo un drogato –, ma non ha ancora
capito cosa abbia a che fare tutta quella storia con la morte di Tomie.
Keigo si volta in direzione di Touya, rivolgendogli uno sguardo di
biasimo. «Mi stai chiedendo se mi drogo?», domanda,
caustico.
Touya non batte ciglio. «Non lo penserei mai»,
replica, impassibile.
Enji, invece, inizia a capire perché Touya abbia pensato che
fosse giusto metterlo a conoscenza di quell’informazione.
Osservando meglio la pasticca, infatti, non può fare a meno
di
trasalire sul posto. «Keigo, guardala bene», gli
suggerisce, in un sussurro.
Keigo si avvicina di malavoglia la bustina ancora una volta al viso,
cercando di carpire qualche dettaglio che, apparentemente,
dev’essergli sfuggito a una prima occhiata. Quando,
d’improvviso, la soluzione si fa chiara nella sua mente, si
ritrova a strabuzzare gli occhi.
«La crimson?!»,
domanda incredulo, voltandosi in direzione di Enji.
Già, la crimson. Se Enji si ferma a pensarci, probabilmente
è cominciato tutto da lì. Tre anni prima, la
crimson era
una nuova droga sintetica appena sbarcata nel mondo dello spaccio. Si
era diffusa rapidamente soprattutto tra i giovani benestanti della
città, poiché era nelle discoteche più
lussuose
che circolava con maggiore facilità. Come buona parte delle
sostanze psicoattive, tuttavia, se assunta in dosi massicce provocava
gravi e dannosi effetti collaterali. Enji aveva cominciato a indagare
su quel traffico di stupefacenti dopo le morti sospette di alcuni
giovani. Era stato l’ultimo caso su cui aveva indagato,
quello
per cui l’avevano ammazzato e per cui aveva rischiato di
essere
uccisa anche Rei.
«Ma com’è possibile?», gli
chiede ancora
Keigo, confuso. «Credevo che la produzione si fosse
interrotta in
seguito all’arresto dei responsabili…»
Enji scuote la testa, assorto. Lo credeva anche lui, dannazione,
ma se adesso quella pasticca è arrivata nelle loro mani vuol
dire che, evidentemente, non è così che sono
andate le
cose. «Deve esserci sfuggito qualcuno», deduce,
mentre
trattiene a stento un ringhio di rabbia tra i denti.
«Probabilmente avevano ancora della merce da parte e hanno
aspettato che si calmassero le acque per farla tornare a
circolare.»
Keigo fa ondeggiare la bustina davanti a sé, osservandola
accigliato. «È diversa,
però», nota,
sorpreso. «Vedi? È come se all’interno
ci fosse
disegnata una… lucertola?»
Enji si china leggermente verso il ragazzo, le braccia conserte ben
strette al petto. «Devono averla raffinata»,
ipotizza, con
ancor più indignazione.
Keigo annuisce brevemente, per poi lanciare uno sguardo distratto in
direzione del divano. Si accorge solo in quel momento che Tenko lo sta
osservando con un’aria quasi impaurita.
Touya, invece, sembra piuttosto irritato. «Lui è
qui, non è vero?», domanda, astioso.
Keigo lo ignora, focalizzando invece tutta la sua attenzione su Tenko.
Agita la bustina nella sua direzione, tenendola ben salda tra le dita.
«Chi te l’ha venduta?», chiede,
concentrato.
Tenko stringe nelle spalle. «Non ho idea di chi fosse, ma ho
sentito alcuni ragazzi chiamarlo Iguchi», spiega, laconico.
Enji osserva Keigo, che sembra perso in chissà quale
ragionamento. «Lo conosci?», s’informa,
chinando
leggermente il capo di lato.
«Di sfuggita», ammette, ancora distratto.
«Non ci ho mai parlato molto, ma ho presente chi
sia.»
A Enji sfugge un cenno d’assenso mentre si porta una mano
alle
labbra, pensieroso. «Chiedigli se il tipo gli ha lasciato un
recapito», decreta, risoluto.
Keigo sposta il capo verso Tenko. «Ce l’hai il suo
numero?», ripete, cercando di non suonare troppo brusco.
Tenko annuisce con fare assente. Poco dopo recupera il telefono dalla
tasca dei pantaloni e, dopo averlo sbloccato, lo passa
all’altro
ragazzo.
Keigo tiene lo smartphone dalla superficie candida con accortezza tra
le mani, quasi come se temesse di vederlo cadere da un momento
all’altro. Si alza in piedi in fretta, appoggiandosi appena
al
tavolo alle sue spalle mentre apre la chat – in cui non
compare
ancora nessun messaggio – col contatto nella rubrica di Tenko
salvato come Iguchi.
«Okay, che scrivo?», domanda Keigo, e a Enji sembra
di avvertire una punta di panico nella sua voce.
«Cosa vuoi scrivere?», replica Enji di rimando,
come se per lui quella domanda fosse assolutamente superflua.
Keigo si lascia sfuggire un piccolo sbuffo. «Beh, scusa, sai
com’è, non è che passo le mie giornate
a chiedere
droga alla gente…», commenta, in tono concitato.
«Okay, okay, ho capito.» Enji fa capolino da sopra
la
spalla del ragazzo. «Prova con: “Nel pacchetto
dell’altra sera c’era davvero un bel regalo! Pensi
che se
ne possano trovare degli altri?”. È la cosa
più
basica del mondo, ma dovrebbe funzionare lo stesso.»
Le dita di Keigo battono in fretta sulla tastiera e, poco dopo, il
messaggio è pronto per essere spedito. Non passano che pochi
secondi dall’invio quando, prontamente, arriva la risposta.
«Che dice?», lo incalza Touya, che nel frattempo si
è alzato a sua volta in piedi per la tensione.
«“Dei nuovi articoli dovrebbero arrivare questa
settimana”.» Keigo legge ad alta voce, accigliato.
«Significa che a breve andrà a
rifornirsi», spiega
Enji, risoluto. «Bene, ora non ci resta che trovarlo e
seguirlo
finché non ci porterà da chi produce la
roba.»
Al momento di andare, Touya accompagna nuovamente Keigo alla porta.
Enji nota che Keigo sta già per avviarsi verso le scale, se
non
che è costretto a fermarsi quando vede l’altro
ragazzo
accostare appena la porta, come a voler tenere nascosto quel discorso a
chi si trova all’interno dell’appartamento.
Lo sguardo di Touya è fermo, deciso. «Lasciami
venire con
te», afferma – e quella sembra tutto
fuorché una
proposta.
Keigo lo osserva con aria di scherno, come se non avesse preso sul
serio le sue parole nemmeno per un secondo. «Non se ne
parla», ribatte, categorico.
«Keigo, ti prego! Questa storia sembra parecchio
pericolosa!», insiste, con cocciutaggine. «Ti
conosco, lo
so che finirai per metterti nei guai…»
A Keigo sfugge un verso beffardo, le labbra che si piegano in un
sorriso amaro mentre alza gli occhi al cielo. Non dura molto: poco dopo
infatti torna a osservare Touya con aria torva.
«Quando partite?», lo interrompe, sprezzante.
Per un momento Touya resta spiazzato, preso in contropiede.
«Dopodomani», confessa poi, afferrando in fretta
quelle
parole inespresse rimaste sospese a mezz’aria – lui, Tenko, la borsa di studio e
il trasloco in Europa –, la sua espressione che
si fa quasi triste. «Keigo, per favore…»
Per tutta risposta, Keigo si stringe nelle spalle. «Beh, buon
viaggio allora», conclude, evasivo.
Poco dopo si è già avviato in fretta
giù per le
scale, con Enji che come al solito non può far altro che
seguirlo. Si volta indietro solo una volta, intercettando
l’espressione affranta sul volto di Touya, per poi
raggiungere il
ragazzo qualche rampa più in basso.
Se Keigo dovesse trovare un pregio in Shuichi Iguchi, probabilmente
sarebbe la discrezione.
Seguirlo non è esattamente la cosa più facile del
mondo.
Sapendo che aveva un ordine da ritirare, la conclusione più
credibile era che si sarebbe dovuto recare a Tokyo per incontrarsi con
il suo fornitore, così lui ed Enji si sono appostati nello
snodo
nevralgico della stazione di Shinjuku, in un’area in cui
confluiscono anche gli autobus che arrivano da altre città.
Fortunatamente, l’intuizione si è rivelata essere
giusta.
Iguchi è sceso dal pullman al capolinea, il cappuccio grigio
della felpa calato sulla testa per cercare di restare quanto
più
anonimo possibile nel mezzo della folla, dopodiché si
è
infilato in un vagone della metropolitana.
Il tragitto, a dir la verità, è stato piuttosto
breve.
Poco dopo, infatti, Iguchi è riemerso in superficie,
tuffandosi
in un mare di folla e di grattacieli.
Di tanto in tanto, Iguchi continua a voltarsi, come a volersi guardare
le spalle. Keigo non ha idea se abbia l’impressione di essere
seguito o la sua sia solo una paranoia, di certo però non si
può dire che non sia un tipo scrupoloso.
Alla fine, Keigo si accorge che si stanno allontanando dalle vie
principali e più caotiche, e stanno imboccando invece una
zona
dall’aspetto residenziale. Villette a schiera di un bianco
accecante, dalla facciata elegante per mescolarsi nello stile raffinato
di Ginza, si susseguono senza sosta l’una dietro
l’altra.
«Posto insospettabile, non c’è che
dire», valuta Enji, lo sguardo attento fisso davanti a
sé.
Keigo non può che essere d’accordo con lui. Quello
non
è esattamente il primo posto che gli verrebbe in mente se
dovesse pensare a un traffico di stupefacenti, ma in fin dei conti ha
ormai capito, grazie alle sue esperienze sul campo con Enji, che dietro
certe apparenze spesso si cela tutt’altro.
Keigo conficca più a fondo le unghie nella corteccia sotto
le
sue dita. È una fortuna che il viale in cui si trovano sia
alberato, così hanno trovato facilmente un nascondiglio da
cui
osservare la scena senza essere visti. Iguchi si è fermato
davanti a una delle case, è salito su per i gradini
d’ingresso e infine ha suonato il campanello, rimanendo in
attesa
che qualcuno venisse ad aprirgli la porta. Al momento è
ancora
fermo sotto al portico di legno all’entrata
dell’abitazione, le braccia dietro la schiena e lo sguardo
puntato a terra.
Keigo socchiude le palpebre, riducendo gli occhi a due fessure per
cercare di vedere meglio. «Ecco», bisbiglia di
colpo.
«Sta succedendo qualcosa.»
Ha ragione, Enji lo vede. La porta si apre appena con un piccolo
scatto, dopodiché un braccio esile e pallido si allunga
dall’interno della casa. Una mano fa cadere in quella di
Iguchi
un pacchetto, lui rivolge un cenno d’assenso a chiunque si
sia
ritrovato di fronte e un secondo dopo se ne sta già
scendendo di
nuovo giù per le scale.
Keigo vede Iguchi imboccare la direzione opposta rispetto a quella in
cui si trovano lui ed Enji – ipotizzando che, probabilmente,
tornerà verso la metropolitana. «E
adesso?»,
domanda, perplesso.
«Ci basterà avvicinarci alla casa»,
spiega Enji,
risoluto. «Arriviamo al campanello, leggiamo il nome che
c’è sopra e sapremo finalmente chi è la
persona che
stiamo cercando.»
Keigo annuisce. Il piano gli sembra semplice e senza rischi, il che
è un bene. Sta quasi per uscire allo scoperto dal suo
nascondiglio, quando d’improvviso si rende conto di una cosa
che,
fino a quel momento, gli era sfuggita.
Dopo che Iguchi se n’è andato, la porta non si
è mai richiusa.
Una figura minuta compare sul portico. È una ragazza, a
osservarla Enji non gli darebbe più di vent’anni.
Ha i
capelli biondi raccolti in due chignon ai lati del capo, e un paio di
occhiaie violacee che spiccano sulla pelle pallida. Si guarda un
po’ attorno, gli occhi dorati che saettano da una parte
all’altra del viale mentre si stringe le braccia attorno al
corpo, come se sentisse freddo nonostante il cardigan beige di lana
– troppo grande per lei, sembra quasi affondarci dentro
–
che indossa. C’è qualcosa, in quella ragazza e
nell’aria stanca sul suo volto, che suggerisce a Enji di
averla
già vista, solo che non saprebbe dire né quando
né
dove.
A quanto pare, però, non è nuova neppure a Keigo.
Il
ragazzo sobbalza sul posto, impallidendo di colpo, per poi voltarsi di
scatto.
Quel mutamento repentino, ovviamente, non passa inosservato a Enji.
«Keigo, che…?», fa per domandare,
confuso.
«È
Himiko!»,
spiega lui, in un sussurro – Enji lo osserva, immobile sul
posto,
e gli sembra quasi che stia trattenendo il respiro.
«Frequenta
l’istituto anche lei.»
In quel momento un ricordo balza alla memoria di Enji. Ecco chi è quella
ragazza.
L’ha vista la notte in cui Tomie è morta, quando
insieme a
Kaina ha accompagnato Keigo sul luogo dell’incidente.
Ciononostante, Enji continua a essere perplesso. «E che
diavolo
ci fa una come lei in un posto del genere?»,
s’informa,
diffidente.
Keigo si ritrova a deglutire a vuoto, non avendo nemmeno uno straccio
d’idea su come tirarsi fuori da quella situazione senza
essere
visto dalla ragazza. «I suoi genitori sono piuttosto
benestanti», ammette, lanciando un’occhiata
circospetta
alle sue spalle. «Me l’ha confidato il primo anno,
quando
eravamo compagni di stanza. Loro non credono nel suo dono e hanno
sempre avuto paura che potesse in qualche modo procurare vergogna alla
loro famiglia, così l’hanno iscritta
all’istituto,
sperando che, tenendola lontana da Tokyo, avrebbero evitato di
incappare in episodi spiacevoli.»
Sebbene ritenga piuttosto
inopportuno
da parte di Keigo dimenticare un dettaglio del genere nel bel mezzo di
un’indagine come la loro e non possa che provare repulsione
per i
genitori di quella ragazza, Enji non riesce a fare a meno di restare
colpito da un’altra informazione. «Siete stati
compagni di
stanza solo per un anno?»,
domanda, sorpreso. «In che razza di istituto
c’è
così tanta disponibilità da riuscire a cambiare
alloggio–»
«È stato Ryou a farmi assegnare una stanza singola
quando
abbiamo cominciato a frequentarci», lo interrompe Keigo,
intuendo
dove voglia andare a parare. «Ora, Enji, per quanto io trovi
assolutamente adorabile
il tuo essere geloso, penso che al momento sia meglio concentrarsi su
come andarcene di qui prima che…»
In quel momento, però, il capo di Himiko ruota in direzione
dell’albero che, finora, li ha abilmente celati. Sul volto
della
ragazza compare un cipiglio corrucciato, come se stesse cercando di
afferrare un pensiero particolarmente sfuggente.
«Keigo…?», domanda, incerta.
Nel momento in cui è sul punto di allontanarsi di
lì
più in fretta che può, Keigo è
costretto a
fermarsi sul posto. Leggendo il suo labiale, Enji nota che si lascia
sfuggire un’imprecazione – merda –
prima di decidere a voltarsi, mentre un sorriso raggiante torna a
dipingersi sul suo volto.
«Himiko! Che sorpresa!», cerca di dissimulare,
ostentando
una sicurezza che, in quel momento, sa bene di non avere.
«Passavo da queste parti per delle commissioni.
Così
è qui che abiti…»
«Già. O meglio, i miei genitori abitano
qui.» La
ragazza si stringe nelle spalle. «Comunque, visto che sei qui
perché non entri?»
Enji può quasi sentire Keigo maledirsi nella testa per aver
deciso di andare fin lì. «Oh, ti ringrazio, ma
vedi,
è che sono così di fretta…»,
prova a
giustificarsi, le dita che si serrano attorno alla tracolla della borsa.
Himiko si acciglia, all’apparenza sembra che qualcosa
continui a
non tornarle. «Dai, ti offro giusto un
tè», insiste
lei, con la sola intenzione di essere cordiale.
Keigo non può rifiutare ancora, lo sa. Così, alla
fine,
si lascia sfuggire un sospiro, le braccia che lentamente cadono lungo i
fianchi mentre comincia ad avviarsi verso la casa della ragazza.
Enji fa per seguirlo ma, proprio in quel momento, gli torna alla mente
lo stralcio di una conversazione tra lui e Keigo, avvenuta non molto
tempo prima.
Himiko percepisce le
presenze, non può vederle come me ma almeno sa se un
fantasma si trova nella sua stessa stanza.
Enji si ferma all’istante, mentre Keigo continua ad avanzare.
C’è la possibilità che, seguendo il
ragazzo
direttamente all’interno della casa, finirebbe per metterlo
nei
guai.
Deve trovare un altro modo per raggiungerlo.
Più Keigo osserva l’interno della casa di Himiko e
meno ciò che ha attorno gli ricorda la ragazza.
In fin dei conti, da quel che lei gli ha detto quella è solo
la
casa dei suoi genitori, e in qualche modo ha senso: le pareti bianche
così asettiche, l’ordine maniacale, lo stile di
arredamento raffinato.
Himiko è sparita in cucina, assicurandogli che sarebbe
tornata
in fretta. Poco dopo, infatti, Keigo la vede riapparire, mentre stringe
tra le mani un vassoio su cui ha sistemato una caraffa di tè
freddo, alcuni bicchieri di vetro e dei tovagliolini di carta. Per
provare a mascherare la sensazione di panico che prova al momento,
Keigo indirizza un nuovo sorriso gentile in direzione della ragazza,
mentre stringe nervosamente la tracolla della borsa.
Himiko lo osserva con aria stralunata. «Beh, che fai
lì
impalato?», domanda, sorpresa. «Su,
accomodati.»
Keigo finisce per seguire un po’ troppo alla lettera le
parole di
Himiko, il peso del suo corpo che precipita rapido verso il basso fino
a quando non si adagia sui cuscini del divano sotto di sé.
La
schiena, invece, rimane rigida, senza appoggiarsi alla spalliera dietro
di sé.
Himiko deve aver notato quel nuovo comportamento strambo, ma se davvero
l’ha fatto non sembra darci peso. Scrolla appena le spalle,
lasciandosi sfuggire un sospiro e chiudendo gli occhi per un momento,
dopodiché si accomoda a sua volta, sedendosi su una poltrona
di
fronte al divano, per poi afferrare la caraffa e cominciare a versare
il tè nei bicchieri.
Del tè freddo non è esattamente la bevanda che
Keigo si
aspettava di vedersi offrire in pieno inverno, ma visto in che
situazione si è andato a cacciare mettersi a sollevare
polemiche
in merito gli sembra l’ultima delle sue priorità
al
momento. Ciò che lo preoccupa maggiormente, invece,
è
dove si sia cacciato Enji: è grato del fatto che non
l’abbia seguito, con ogni probabilità dato che si
trova in
casa di una persona che può percepire i fantasmi
entrare di gran carriera dalla porta d’ingresso con uno
spirito
al seguito non sarebbe stata un’idea poi così
geniale,
solo che non averlo accanto a sé lo fa sentire pieno di
insicurezze. Dove
cavolo è finito? Come ne usciamo da qui?
Himiko gli porge il bicchiere col tè, e Keigo si limita ad
accettarlo. Sa che deve provare a dire qualcosa, se restasse in
silenzio per tutto il tempo sarebbe decisamente sospetto.
«Ehm,
ecco… che ci fai fuori dall’istituto?»,
domanda,
mordendosi la lingua un secondo dopo che quelle parole gli sono uscite
di bocca. Himiko, infatti, gli lancia un’occhiata dubbiosa,
come
se non capisse dove voglia andare a parare. «Voglio
dire…
l’ultima volta che ci siamo visti eri ancora lì.
Non
sapevo che avessi intenzione di allontanarti.»
Stavolta sembra averla persuasa un po’ di più. La
ragazza
recupera il proprio bicchiere, per poi sistemarsi un po’
più comoda sulla poltrona, eppure a Keigo continua a
sembrare a
disagio, come se avesse la percezione costante di essere fuoriluogo in
quell’ambiente: si siede sul bordo del cuscino, non si
appoggia
mai allo schienale – come se fosse pronta a schizzare via da
lì da un momento all’altro. «Sono
tornata a casa un
paio di giorni per riposarmi. Le lezioni stavano diventando una vera
palla», ammette, dopo un breve silenzio. «Comunque
i miei
genitori saranno di ritorno tra poco.»
In quel momento, Enji compare nel soggiorno. È passato dal
retro
della casa – c’è una piccola porta che
dà
sull’uscio, e non gli è sembrata una cattiva idea.
Vede
che gli occhi di Keigo si posano all’istante su di lui, e per
un
attimo è quasi confuso quando vi ravvisa un velo di terrore.
Poco dopo, però, quella paura si fa subito più
chiara.
Himiko si porta una mano alla tempia, come avvertendo un improvviso
capogiro, mentre strizza forte gli occhi, cercando di rimanere presente
a se stessa.
Lo sta percependo.
Enji lo sa,
così com’è consapevole del pallore sul
volto di
Keigo. Deve cercare di fare in fretta, altrimenti non farà
altro
che metterlo ancor più nei guai.
Enji attraversa in fretta il soggiorno, per poi cominciare a salire le
scale che portano al piano superiore. Spera solo che la sua intuizione
sia giusta, e che Keigo riesca a intrattenere Himiko per il tempo
necessario.
Quando le sembra che la sensazione di vertigine stia scemando, Himiko
prova ad alzare di nuovo la testa, lentamente. Il mondo torna poco alla
volta a essere a fuoco, e riaprendo gli occhi trova Keigo ancora
lì, seduto sul suo divano, che le sorride incoraggiante.
«Scusa…», farfuglia lei, portandosi il
bicchiere
alle labbra e bevendo un piccolo sorso di tè. «Tu
invece
come te la passi? Jin mi ha detto che un giorno ti ha visto a lezione,
poi però sei sparito di nuovo…»
Le dita di Keigo si serrano nervosamente intorno al bicchiere.
È
così tanto in ansia che la pelle, caldissima, finisce per
creare
un alone che inizia a contrastare la superficie fredda del vetro.
«Già», ammette, continuando a sfoggiare
quel sorriso
imperturbabile che spera lo possa proteggere ancora per un
po’.
«Ho ancora un po’ di cose da risolvere qui a Tokyo,
ma
appena le avrò sbrigate tutte tornerò,
vedrai.»
È piuttosto facile intuire quale sia la camera di Himiko.
Tra le porte in legno di ciliegio e vetri satinati perfettamente
sigillate, infatti, ce n’è una sulla quale
è appeso
un cartello minaccioso che invita chiunque si avvicini a tenersi
lontano da lì. Enji, ovviamente, non si lascia intimorire,
così passando attraverso la porta si ritrova
all’interno
della stanza.
Appena entrati là dentro si ha la percezione di essere in
una
stanza che non ha niente a che vedere col gusto elegante del resto
della casa. Le pareti sono di un color indaco intenso. Sui muri sono
appesi poster di band di cui Enji non ha mai sentito parlare, ma a
giudicare dall’aspetto dei musicisti potrebbe ipotizzare che
facciano musica stile punk.
La camera, in realtà, è un vero e proprio casino.
Il
letto è in disordine, così come
l’armadio e la
scrivania. Sembra che là dentro sia passato un tornado,
pochi
minuti prima.
L’armadio è stato lasciato aperto, e diversi
vestiti
mancano dalle grucce. A giudicare dalla montagna di abiti disposti alla
rinfusa sul materasso, probabilmente Himiko deve averli gettati
lì. Sulla scrivania, invece, ci sono fogli pieni di appunti,
libri aperti e un pc spento. Sopra la scrivania ci sono delle mensole
con altri libri e, sulla stessa parete, Enji nota delle fotografie.
Avvicinandosi meglio per poterle osservare, nota che, in alcune di
esse, c’è anche Keigo: compare sempre insieme a un
altro
ragazzo – che Enji è certo di non aver mai visto
prima
– e, ovviamente, a Himiko. I tre, nelle foto, sono sorridenti
e
appaiono piuttosto felici.
Per un momento, osservando il sorriso di Keigo, Enji sente la propria
espressione addolcirsi: sembra così genuinamente felice con
quei
ragazzi, così come raramente gli è capitato di
vederlo.
È quasi sul punto di dimenticarsi perché si trovi
lì, quando un rumore improvviso al piano di sotto finisce
per
catturare la sua attenzione.
La porta d’ingresso si apre, e Keigo finisce per sobbalzare
sul posto.
«Sono a casa!» Una donna, in cui Keigo riconosce
gli stessi
capelli biondo cenere di Himiko, attraversa l’atrio, portando
tra
le braccia una busta di carta, dove probabilmente è stata
riposta la spesa. Non appena arriva in sala, notando che ci sono degli
ospiti, i suoi occhi sembrano illuminarsi.
Keigo prova a rivolgerle un sorriso gentile. «Buongiorno,
signora», la saluta, sperando di suonare affabile.
La donna, per tutta risposta, si volta in direzione della figlia, senza
perdere quello sguardo pieno di entusiasmo. «Himiko! Non
sapevo
che avessi invitato qualcuno!», commenta lei, deliziata.
Himiko si agita appena sulla poltrona, a disagio. «Beh, in
realtà non l’ho fatto…»,
prova a difendersi,
mentre continua a tenere lo sguardo basso a terra. «Comunque
mamma, ti presento Keigo. È un mio compagno
d’istituto.»
L’espressione raggiante sul volto della donna sembra
smorzarsi
all’istante. «Ah», commenta soltanto, le
braccia che
sorreggono la spesa che s’afflosciano un po’ verso
il
basso. «Quando hai fatto vieni in cucina a darmi una mano a
mettere via la spesa. C’è della roba che va in
frigorifero.»
A Keigo, quella, sembra un’occasione perfetta da cogliere al
volo
per andarsene via di lì. Si china leggermente in avanti,
posando
il bicchiere sul tavolino di fronte a sé, per poi rimettersi
in
piedi, cercando di far sembrare quel gesto estremamente naturale.
«Oh, non c’è problema», spiega
infatti,
sforzandosi di apparire tranquillo. «In realtà,
come ho
detto a Himiko stavo passando di qui per delle commissioni quando sua
figlia mi ha incrociato. Ad ogni modo, mia zia abita praticamente dalla
parte opposta della città e mi aspetta per pranzo, per cui
sarà meglio che mi affretti a riprendere la strada di
casa.»
La madre di Himiko si stringe nelle spalle. «È un
peccato», valuta, ma non sembra per nulla convinta delle sue
parole.
Keigo, ovviamente, non ci dà peso. «È
stato un
piacere conoscerla. Grazie per l’ospitalità!
Signora…», si congeda, continuando a comportarsi
in
maniera amabile come sempre.
La donna gli rivolge un cenno del capo e un sorriso incerto. Himiko,
nel frattempo, si è alzata dalla poltrona, e poco dopo si
avvia
verso la porta insieme a Keigo.
Dopo aver accompagnato Keigo alla porta, Himiko si lascia sfuggire un
piccolo sospiro.
Per un momento, quando Keigo è entrato in casa sua, le
è
sembrato quasi di poter vivere nell’illusione che quello
fosse un
posto normale. Ora che lui se n’è andato, invece,
non le
rimane che la solita angoscia che quel posto le trasmette.
Percorre a ritroso il corridoio tenendo la testa bassa, lo sguardo
fisso sul pavimento. Si costringe a sollevare di nuovo il capo solo
quando arriva davanti alla soglia della cucina, ma sa già
che
gli occhi di sua madre sono inchiodati su di lei.
«Che voleva quel tipo?», le domanda, severa.
Istintivamente, Himiko cerca con le dita una ciocca di capelli che
è sfuggita dal codino, giocherellandoci nervosamente mentre
tenta di sistemarla. «Non lo so», commenta, in tono
distaccato. «Non sono nemmeno sicura di volerlo
sapere…»
Poco dopo, Himiko inizia a salire le scale che conducono al piano
superiore. Quando se ne accorge, sua madre inarca un sopracciglio,
perplessa.
«Guarda che ero seria quando ti ho chiesto di darmi una
mano!», le urla dietro, appoggiandosi con le mani al bancone
della cucina.
Himiko la ignora. Una volta arrivata di sopra si dirige in fretta verso
la sua camera, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo sordo una
volta arrivata.
Appena la ragazza entra, Enji la vede tirare un profondo sospiro.
Chiude gli occhi per un attimo, poi, appena li riapre, scatta in avanti.
Himiko attraversa la stanza, fino a raggiungere la scrivania. Una volta
lì ci s’inginocchia davanti, aprendo un cassetto
mentre
recupera qualcosa dalla tasca. Non può fare a meno di
pensare a
quanto Iguchi sia un idiota: gli ha detto mille volte di non arrivare
fino a casa sua, eppure lui continua a farlo.
Himiko scuote la testa, osservando l’interno del cassetto.
Poco
dopo ci lascia cadere dentro qualcosa, per poi spingerlo nuovamente
indietro.
Prima che il cassetto si richiuda, Enji si sporge leggermente in
avanti, riuscendo appena in tempo a identificarne il contenuto: i suoi
occhi vi si posano sopra solo per un momento, tuttavia è
certo
che quelle che ha intravisto sono pasticche di crimson. Enji non
riesce a fare a meno di sobbalzare sul posto, incredulo.
Himiko si porta una mano alla tempia, esitante. Le sembra di avvertire
di nuovo quella sensazione di vertigine, come poco prima in soggiorno.
Quando si volta, però, l’unica cosa che le sembra
di
vedere è la tenda della sua finestra che ondeggia
leggermente.
Appena esce da casa di Himiko, Keigo si lascia sfuggire un sospiro
tremolante.
Ancora non sa come ha fatto a cavarsela senza troppi danni,
né
chi deve ringraziare per questo. In compenso, ora che la tensione che
sentiva addosso si è decisamente allentata, gli sembra di
riuscire a respirare di nuovo in modo corretto.
Si mette ad attraversare il viale alberato, facendo la stessa strada
che ha seguito all’andata. Mentre cammina, vede Enji
riapparire
in fondo alla via, così inizia a correre per cercare di
raggiungerlo.
«Allora?», gli domanda, nel momento in cui
finalmente se lo ritrova davanti. «Trovato
qualcosa?»
Enji lo osserva incuriosito, ma se pensa di chiedergli delle
spiegazioni non lo dà a vedere.
«Sì»,
ammette, lanciando un’occhiata fugace alla casa da cui
è
appena uscito. «La tua amica ha letteralmente un cassetto
pieno
di crimson.»
Per un momento Keigo abbassa lo sguardo a terra, turbato. Possibile che
Himiko, una delle persone con cui ha legato di più negli
ultimi
anni, abbia davvero a che fare con un traffico di stupefacenti? E che
tutta quella storia sia collegata all’incidente di sua madre?
Enji torna a posare lo sguardo sul ragazzo, in apprensione.
«Tu
come stai?», s’informa, rivolgendogli un accenno di
sorriso.
Keigo si costringe ad alzare la testa, i suoi occhi dorati che cercano
quelli dell’altro. «Bene», risponde,
anche se sa che
quella non è del tutto la verità.
«Adesso che si
fa?»
Enji prende come sempre in fretta la situazione in mano.
«Anzitutto ce ne andiamo da qui», commenta in tono
deciso,
mentre si guarda attorno alla ricerca del percorso più breve
per
tornare alla fermata della metropolitana. «Non so te, ma al
momento non vedo l’ora di mettere quanta più
strada
possibile tra me e questo posto. Poi, una volta che saremo lontani,
penso che sia il caso di fare il punto della situazione. Ho come
l’impressione che ci siano parecchie cose di cui dobbiamo
parlare.»
Enji riesce a rilassarsi solo quando stanno finalmente attraversando il
tunnel che conduce al palazzo di Kaina.
Da quando hanno lasciato la casa di Himiko, Keigo non gli ha rivolto
parola. Per tutto il tragitto di ritorno si è chiuso in un
silenzio ostinato, e ora l’unico rumore che riecheggia
nell’aria è l’eco dei loro passi.
Keigo tiene le mani infilate nelle tasche del giaccone. Ha mille
pensieri che gli ronzano per la testa, e riordinarli tutti è
un’impresa davvero complessa.
«La droga è sempre girata, in istituto.»
È la
frase con cui, alla fine, Keigo rompe quel silenzio che a Enji sembra
essere durato un’eternità, mentre stanno ancora
camminando. «Lo sapevano tutti e non fregava a nessuno.
Conosco
diversa gente che assumeva delle dosi regolarmente, sperando di
aumentare le proprie capacità.»
Enji rallenta, osservando sorpreso il ragazzo. Anche Keigo si ferma,
mentre ricambia intensamente il suo sguardo.
«Io mi sono sempre tenuto lontano da quella roba. Non ho mai
pensato che potesse servirmi in qualche modo, e poi ho visto troppa
gente morire per la crimson tre anni fa. Non avrei mai
potuto»,
precisa, in tono grave.
Enji si limita ad annuire. Conosce Keigo abbastanza bene da sapere
quanto siano vere quelle parole. Inoltre, non ha mai dubitato di lui.
Keigo alza gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un sospiro.
«Il problema è che non avrei mai pensato che
dietro a
tutta questa storia ci fosse Himiko», ammette, un sorriso
amaro
che gli compare sul volto. «Cazzo, siamo amici da tre anni e
non
mi sono mai accorto di niente…»
Enji scuote lievemente la testa. «No, il problema
è la
crimson», replica, indulgente. «Pensavamo che
quella merda
avesse smesso di girare tre anni fa, invece adesso è di
nuovo
qui. Però dimmi una cosa, Keigo: tu ce la vedi la tua amica
a
mandare avanti da sola il traffico di crimson?»
Per come affonda le mani all’interno delle tasche del
giaccone,
adesso Keigo sembra quasi sul punto di bucarle. «Per quanto
sia
affidabile il mio giudizio, considerando che non la ritenevo neppure in
grado di nascondere della droga in casa…»,
commenta,
amareggiato. «Comunque no, probabilmente la Himiko che
conosco io
non ne sarebbe stata in grado. Perché? A chi stai
pensando?»
La risposta di Enji non tarda ad arrivare. «A Ryou,
ovviamente», spiega, col tono di chi sta esprimendo
un’ovvietà. «Pensaci: probabilmente
c’è
sempre stato lui dietro, fin dall’inizio. Dopotutto, siamo
sempre
stati convinti che ci fosse sfuggito qualcuno della banda. È
stato sveglio: ha aspettato che le acque si fossero calmate,
dopodiché ha fatto ripartire lo spaccio. Si è
servito di
Himiko per stabilizzare la formula della crimson, e da lì in
poi
dev’essere stato tutto in discesa per lui.»
Mentre proseguono con la conversazione, lo sguardo di Keigo si fa
sempre più triste. «Però che
c’entra tutta
questa storia con la morte di mia madre…?»,
domanda,
smarrito.
Enji infila le mani nelle tasche della giacca, scrollando appena le
spalle. «Beh, ho un’ipotesi anche per
questo»,
ammette. «Sappiamo che Tomie era in possesso di un faldone
che
conteneva le prove di tutti gli esperimenti alquanto discutibili di
Ryou, e che il giorno dell’incidente era in istituto, stando
ai
suoi tabulati telefonici. Suppongo che inizialmente volesse solo
parlare con Ryou di quello che aveva scoperto, anche se immagino che i
toni non fossero affatto pacifici. Poi, però,
dev’essere
successo qualcosa e non so come ma Tomie ha trovato da qualche parte le
scorte di crimson di Ryou. Non dev’essere stato difficile per
lei
riconoscere che fosse proprio la crimson, considerando che tre anni
prima ci aveva già dato una mano nel corso della prima
indagine…»
Keigo si ritrova ad annuire. Finalmente gli sembra di star cominciando
a capire la direzione di quel discorso. «Mia madre era
già
intenzionata a denunciare Ryou per via dei suoi esperimenti»,
commenta, intuitivo. «Dopo aver visto la crimson
sarà
stata ancor più motivata a farlo.»
«Solo che, semplicemente, Ryou non poteva
permetterglielo»,
riprende Enji, colpito dalla deduzione del ragazzo. «A quel
punto
deve aver pensato che sbarazzarsi di lei fosse l’unico modo
che
aveva per passarla liscia. Successivamente ha anche fatto sparire il
faldone da casa di Tomie, per essere ancor più sicuro che
nessuno sospettasse della sua colpevolezza.»
Keigo resta per un po’ in silenzio, lo sguardo puntato a
terra.
Se Enji lo conosce bene come crede, sa che in questo momento sta
elaborando tutte quelle informazioni.
Quando il ragazzo solleva di nuovo lo sguardo, nei suoi occhi vede una
scintilla determinata. «Come procediamo?»,
s’informa,
deciso.
«Dobbiamo mettere a conoscenza la polizia di quello che
abbiamo
scoperto», decreta Enji, sicuro. «Ho
l’impressione
che potrebbero essere delle informazioni piuttosto interessanti per
loro.»
Il portone del palazzo si apre, e la prima cosa che Touya vede davanti
a sé è la macchina ferma accostata accanto al
marciapiede.
Il portabagagli è ancora aperto –
d’altronde
scendendo ha portato con sé le ultime cose, uno zaino che ha
in
spalla e la valigia con le cose principali per il viaggio –,
sebbene sia già stracolmo di borse e quant’altro.
Tenko si è già accomodato sul sedile del
passeggero
anteriore. Ha lasciato la portiera aperta e i suoi piedi poggiano
ancora sull’asfalto, mentre ha un gomito puntellato sul
ginocchio
e il mento premuto sul palmo della mano. Touya nota che lo sta
osservando attentamente, sebbene il suo sguardo sembri quello assente
di sempre.
«Allora? Andiamo?», lo incalza, per quanto il suo
tono non
suoni poi così trepidante – è
più
un’attesa rassegnata, come quella di chi sa perfettamente
cosa
succederà da qui in avanti.
Touya si gira per un’ultima volta a osservare il portone del
palazzo in cui ha vissuto nel corso di quei tre anni e che ora sta
lasciando, alla volta di Praga. Quello stesso portone che aveva varcato
anche Keigo, pochi giorni prima, ma da cui era anche uscito senza
tornare più.
È come se fosse già passata
un’eternità.
Vederlo lì, a vagare per quelle stanze che fino a quel
momento
aveva condiviso solo con Tenko sembra già un ricordo
lontano,
ormai. E Touya sa che, come il passato, anche quell’attimo
non
tornerà più indietro.
Alla fine Touya torna a guardare davanti a sé, dove
c’è la macchina con i bagagli, mentre si decide a
chiudere
il portone alle proprie spalle.
Davanti a loro hanno un lungo viaggio da compiere.
«Grazie per essere venuta subito.»
Nell’ufficio c’è un’atmosfera
buia,
rischiarata solamente dalla luce fioca della lampada da scrivania. Tra
le fessure delle stecche di metallo della tenda che copre la finestra
si riesce a intravedere il cielo scuro della sera e alcuni lampioni
già accesi nella strada sottostante.
«Figurati. Avevo appena staccato dal lavoro, per cui nessun
problema.» Kaina si passa una mano tra i capelli rosa e blu,
un
gomito poggiato sulla scrivania e la testa inclinata di lato per
osservare la persona che è con lei nella stanza.
«Allora.
Di cosa volevi parlarmi?»
Rei sistema alcuni fascicoli che ha con sé, per poi spostare
lo
sguardo sull’altra donna. «Prima di tutto ci tenevo
a farti
le condoglianze per Tomie», spiega, in tono delicato.
«Mi
sono resa conto che, con tutto quello che è successo, non
abbiamo avuto modo di parlarne prima.»
Kaina si stringe nelle spalle. «Io e Tomie ci conoscevamo dai
tempi del liceo», spiega, la voce che assume una nota stanca,
come se tornare indietro coi ricordi a quei tempi le causasse uno
sforzo notevole. «Probabilmente sono stata l’unica
amica
che lei abbia mai avuto. Nel corso degli anni ci siamo allontanate,
soprattutto per via dei suoi problemi di salute, ma ho avuto la fortuna
di potermi prendere cura di Keigo, visto che Tomie non aveva parenti a
cui affidarlo. Gli ultimi tempi si era ripresa,
però.»
Rei rivolge a Kaina un sorriso di pura dolcezza. «Ascoltami,
ho
bisogno di chiederti una cosa», la informa, con accortezza.
«Quando abbiamo eseguito i rilievi sulla macchina di Tomie
abbiamo rinvenuto sulla carrozzeria una vernice non compatibile
né con l’urto né con la sua auto. Ho
provato a
cercare ma non ho trovato nessuna segnalazione di
tamponamenti…»
Kaina scuote la testa, portandosi una mano alla tempia. «Rei,
ti
fermo subito», la interrompe, cercando di non essere troppo
brusca. «Stiamo parlando del parafango posteriore destro,
giusto?»
Rei corruga appena la fronte, colta di sorpresa. «Come fai a
saperlo?», domanda, incredula.
«Poche settimane fa Tomie era stata tamponata da un tipo
davanti
a lei mentre era in fila a un semaforo», spiega Kaina, mentre
si
muove appena sulla sedia. «Io e lei non ci sentivamo molto,
nell’ultimo periodo, ma l’avevo chiamata proprio
quel
giorno e ricordo che lei mi aveva parlato di questa cosa. Non hai
trovato denunce solo perché il tipo l’aveva
pregata di
rinunciare alla constatazione sia perché era di fretta e sia
per
evitare rincari dell’assicurazione e Tomie, come sempre
troppo
buona, l’aveva assecondato.»
Rei si lascia sfuggire un sospiro leggero, appoggiandosi di peso allo
schienale alle proprie spalle.
Anche quella pista si è rivelata un buco
nell’acqua.
Adesso deve ricominciare di nuovo da capo, anche se non sa
più a
quale elemento aggrapparsi.
Le onde si infrangono con forza contro il molo, schizzi di schiuma che
vengono sollevati nell’aria mentre il cielo della sera si
è già fatto buio.
Il porto è puntellato dalle piccole luci dei lampioni, come
costellazioni sulla terraferma. Nel vento c’è
l’odore salmastro del mare, e sembra quasi rendere
l’atmosfera più elettrica.
A Keigo è sempre piaciuto passeggiare vicino
all’oceano
– ricorda gli anni di scuola, quando sedersi sulla banchina a
osservare le navi attraccare e salpare era quasi il suo rifugio. Adesso
c’è un vento freddo che gli pizzica le guance, ma
tutto
sommato non è poi così fastidioso.
Keigo si stringe un po’ di più nel suo giaccone,
cercando
di trovare del calore. Enji, nel frattempo, continua a camminargli
accanto, osservando attentamente il ragazzo.
Il piano è semplice. Quella sera, al porto, ci
sarà un
concerto per il quale è prevista una grossa affluenza di
pubblico – quasi come se mezza Tokyo si fosse data
appuntamento
per radunarsi lì. Ovviamente, data la portata
dell’evento,
è stato previsto anche un ingente dispiegamente delle forze
di
polizia, con quasi l’intero organico concentrato attorno al
molo
principale.
Nel pomeriggio, Keigo ha mandato un messaggio a Himiko per invitarla al
concerto. Se ogni cosa andrà per il verso giusto, questa
notte
riusciranno a risolvere quella faccenda una volta per tutte.
«Quando dovete incontrarvi?», s’informa
Enji, ansioso.
«Manca ancora mezz’ora. Io e Himiko abbiamo
appuntamento
sotto al palco.» Keigo infila le mani nelle tasche della
giacca.
«Rilassati, Enji. Andrà tutto bene.»
Se possibile, Enji finisce per agitarsi ancora di più, lo
sguardo che si sposta nervosamente da una parte all’altra del
porto. «Non possiamo permetterci errori. Da quello che stiamo
per
fare dipende la riuscita di tutta l’indagine»,
commenta,
severo. Poco dopo il suo sguardo torna a posarsi sul ragazzo,
addolcendosi appena. «Tu come stai?»
Keigo gli rifila un’occhiata stralunata. «In che
senso come sto?», domanda, sorpreso.
«Non lo so. Stavo ripensando a quando siamo stati a casa di
Touya.» Enji si stringe appena nelle spalle. «Mi
eri
sembrato un po’ turbato, in
quell’occasione.»
Un’onda s’infrange a pochi passi da loro. I due
proseguono
svelti, in silenzio. Enji può quasi sentire il rumore dei
pensieri che sciamano nella mente di Keigo.
Il ragazzo solleva il capo poco dopo, tenendo lo sguardo fisso davanti
a sé. «Qualsiasi cosa ci sia stata tra me e Touya
in
passato, ormai è acqua passata», spiega,
remissivo, per
poi voltarsi verso Enji e rivolgergli un sorriso malizioso.
«E
poi ormai nella mia vita c’è qualcun altro,
mettiamola
così.»
Enji distoglie lo sguardo da quello del ragazzo, mentre
un’espressione imbarazzata – irresistibile, a
detta di Keigo – gli compare in volto.
Nel frattempo, continuano ad avanzare verso il porto. Mentre
proseguono, le luci in lontananza si fanno sempre più vicine.
«Vediamo di non distrarci», bofonchia Enji,
cercando di
ritrovare in fretta la concentrazione. «Se conosco abbastanza
bene Aizawa, in questo momento si sarà rifugiato al pub del
porto. Dobbiamo sbrigarci.»
Keigo annuisce, senza aggiungere altro. Poco dopo, i due cercano di
affrettare il passo.
Aizawa non ha mai sopportato trascorrere del tempo in mezzo alla folla.
Hizashi è sempre stato quello più portato tra
loro per
roba del genere. È per questo che, di solito, in occasione
di
grandi eventi ha sempre cercato di farsi assegnare a una zona in coppia
con lui, così che la serata potesse trascorrere
più in
fretta.
Solo che Hizashi
è sparito,
gli ricorda una vocina maligna nella sua testa, e deve fare appello a
tutte le sue forze per non lasciarsi sfuggire un mugolio di sconforto.
Almeno Rei l’ha raggiunto al porto. Shouta sospetta che un
po’ sia lì perché, in fondo, prova pena
per lui, o
al massimo perché pensa che, restando seduti assieme al
tavolino
di quel pub, riusciranno a colmare almeno per qualche ora il senso di
solitudine dentro di loro – ogni tanto Shouta quasi dimentica
che
tre anni fa quella donna ha perso suo marito. È che ha
affrontato quel lutto con grande dignità, e adesso sembra
quasi
essere un ricordo distante.
Il fatto è che Rei stona tremendamente con
l’ambiente che
ha attorno. Lei e la sua candida giacca elegante decisamente non
s’abbinano a quel locale, la cui clientela è
composta
quasi unicamente da marinai che, vagando di porto in porto, si fermano
lì per bere qualcosa di fresco durante una breve pausa. La
donna
se ne sta con le spalle poggiate allo schienale della sedia che occupa,
le gambe accavallate e le braccia incrociate al petto mentre lo osserva
con un cipiglio dubbioso.
Shouta sa che, in effetti, ciò che le sta offrendo quella
sera
non è di sicuro la sua versione migliore, eppure si rende
conto
che forse non resta poi molto altro. L’uomo che amava
è
scomparso nel nulla da un giorno all’altro, senza dargli
alcuna
spiegazione, e ormai l’unica consolazione che gli
è
rimasta è abbandonarsi all’alcol, di tanto in
tanto.
Probabilmente Rei deve averlo compreso. La donna si lascia sfuggire un
piccolo sospiro rassegnato, mentre Shouta prende un altro sorso di
birra dalla sua bottiglia.
«Il termine che il giudice mi aveva assegnato per
l’indagine su Tomie è scaduto», spiega,
e dal suo
tono di voce si percepisce tutta la sua delusione. «Non ho
più elementi utili su cui lavorare. Domani andrò
da lui
per comunicargli che la sua morte è stata solo un incidente,
e
poi partitò per Kyoto.»
Shouta posa la bottiglia sul tavolo, spostando lo sguardo sulla
finestra che dà sul porto. Spera solo che là
fuori non
accada niente di troppo grave, l’ultima cosa che desidera
sono
delle rogne pure per quel servizio d’ordine. «Beh,
vedila
così, Rei», commenta, lo sguardo ancora perso tra
le luci
del molo lì vicino. «Avevi chiesto il
trasferimento
perché, dopo tre anni, desideravi cominciare una nuova vita.
Adesso, finalmente, potrai farlo.»
«Sì, ma ci sono troppe cose che non
tornano…», insiste Rei, testarda. La donna
puntella i
gomiti sul tavolo, posando il mento sul dorso di una mano, lo sguardo
che punta leggermente verso il basso mentre la sua mente continua a
riflettere senza sosta.
Aizawa sa che ha ragione. Quelle indagini sono state in salita fin
dall’inizio, ma adesso non hanno davvero più
nessuna pista
da battere. Forse per Rei sarebbe più facile arrendersi,
anche
se Shouta si rende conto che non può platealmente dirle di
farsene una ragione.
«Magari in futuro salterà fuori qualcosa di
nuovo»,
prova allora, cercando una via più diplomatica.
«In quel
caso, sta’ certa che sarai la prima persona a essere
informata,
in qualsiasi parte del mondo dovessi trovarti.»
Rei sta per dirgli qualcosa, e Shouta non ha idea se la sua intenzione
sia quella di ringraziarlo o se voglia continuare a crucciarsi su
quella storia, alla fine però la donna resta in silenzio.
In quel momento la porta del pub si apre. Keigo si guarda attorno con
aria un po’ spaesata, mentre Enji individua praticamente
subito
Rei.
È strano, per lui, vedere Rei e Keigo nello stesso posto e
nel
medesimo momento. È come se adesso, sotto quel tetto,
stessero
coesistendo il suo passato e presente.
Rei è la prima a posare lo sguardo su Keigo. È
ironico a
dirsi, tuttavia mentre osserva il ragazzo sembra quasi che abbia visto
un fantasma.
«Keigo…?», domanda, incredula.
Sentendo la voce di Rei, anche Aizawa si volta in direzione del
ragazzo. Appena individua la sua figura, la sua espressione muta in
qualcosa a metà tra lo stupore e il terrore di dover sentire
una
nuova storia delirante – e che probabilmente gli
causerà
dell’altro lavoro.
Keigo non riesce a non sentirsi un po’ in soggezione in tutta
quella situazione, tuttavia cerca di farsi coraggio. Stringe la
tracolla della borsa tra le dita, dopodiché comincia ad
avvicinarsi al tavolo di Rei e Shouta, mentre Enji continua a seguirlo
senza mai perderlo di vista.
«Commissario Aizawa», comincia, quando finalmente
li
raggiunge. «Ho bisogno di parlarle dell’incidente
di mia
madre. Ho scoperto un elemento che credo varrebbe la pena di
analizzare.»
Shouta alza gli occhi al cielo. Perché
capitano tutte a me?, vorrebbe chiedere, ma alla fine sta
per rassegnarsi e rivolgersi al ragazzo quando Rei lo batte sul tempo.
«Prego, accomodati pure», lo anticipa infatti la
donna,
invitandolo a prendere posto sulla sedia che gli sta indicando.
Keigo la asseconda, sebbene Rei finisca comunque per notare quanto
rimanga rigido su quella seggiola. Lei gli rivolge un sorriso, sperando
di rassicurarlo.
Non sa se abbia funzionato, però il ragazzo prova comunque a
continuare. «Commissario Aizawa, è a conoscenza
del fatto
che la crimson
è tornata a circolare?», domanda, anche se sembra
conoscere già la risposta.
Shouta e Rei si scambiano un’occhiata sorpresa. Di che sta parlando quel
ragazzino? «Come fai a esserne
certo?», s’informa lui, sporgendosi appena nella
sua direzione.
Keigo si stringe nelle spalle. «Toga Himiko è una
mia
compagna di corsi in istituto», spiega, ora più
convinto.
«Le pasticche sono in camera sua, nella casa dei genitori a
Ginza, in un cassetto del comodino sotto alla scrivania.»
Aizawa inarca un sopracciglio, dubbioso. «E questo chi te
l’ha detto? Il tuo solito informatore segreto?», lo
canzona, caustico.
Keigo lo ignora – d’altronde Shouta è
sempre stato
scettico in merito al suo dono. «Beh, mi pare che in passato
vi
abbia aiutato a risolvere dei casi o sbaglio?», fa notare
loro,
piccato, per poi voltarsi verso Rei, l’espressione che subito
si
addolcisce. «Himiko non può essersi fatta carico
di tutto
questo da sola. Penso che dietro all’intero traffico di
stupefacenti ci sia Shigaraki Ryou.»
Gli occhi di Rei si spalancano per un momento per la sorpresa. Poco
dopo, il suo sguardo si sposta in quello di Shouta, mentre si osservano
con aria d’intesa. «Ryou è una delle
persone
informate sui fatti che avrei voluto interrogare dopo la morte di
Tomie, solo che non è stato possibile visto che sia
l’istituto che il luogo dell’incidente non sono
nella
nostra zona di competenza», ammette, ed Enji riconosce nel
suo
sguardo quel luccichio entusiasta che vi compare ogni volta che
un’intuizione geniale le salta alla mente. «Se
davvero
è legato alle morti per crimson
qui a Tokyo le cose cambiano, abbiamo tutto il diritto di fermarlo e
interrogarlo.»
Shouta annuisce, sapendo già quali saranno le prossime
mosse.
«Chiamo in centrale e chiedo se c’è una
pattuglia
che può eseguire un controllo a casa di questa
ragazza»,
conclude, con perspicacia.
«Vedo di farti rilasciare subito un mandato»,
concorda Rei,
mentre recupera il cellulare dalla borsa. Sposta lo sguardo sul ragazzo
seduto accanto a sé, rivolgendogli un sorriso gentile.
«Keigo, grazie.»
Keigo si limita a scrollare appena le spalle. Nel frattempo Enji
continua a osservare tutta la scena, non senza una certa fierezza.
Il palco del concerto è illuminato dai bagliori scintillanti
di alcuni faretti a led.
Fasci dalle tonalità fluorescenti, dal fucsia al verde,
colpiscono il pubblico, che canta e si scatena mentre la band punk rock
continua a suonare.
Farsi strada tra la folla è una vera e propria impresa.
Keigo ci
prova, ottenendo spintoni in qualunque direzione cerchi di muoversi.
Pensandoci meglio, quella di dare appuntamento a Himiko là
in
mezzo non è stata poi un’idea così
geniale.
Sta quasi iniziando a credere che non la troverà
più
quando, finalmente, la individua. I capelli biondi sono raccolti nei
consueti chignon ai lati del capo, mentre un insolito trucco scuro le
contorna gli occhi e le tinge le labbra. Il look total black
–
una t-shirt che lascia scoperte spalle e clavicole, una gonna corta con
un merletto leggero sull’orlo e un paio di anfibi –
la
rende perfettamente amalgamata con gli altri fan, ma Keigo nota sul suo
volto un’espressione entusiasta che raramente vi ha visto
comparire. Keigo sente le proprie labbra incresparsi in un piccolo
sorriso, così, confortato, comincia ad avvicinarsi a lei.
Appena la raggiunge, posa una mano sulla sua spalla. Himiko, sorpresa,
si ritrova a sobbalzare, tuttavia nel momento in cui si volta e vede
chi è stato a chiamarla il suo viso torna ad accendersi di
gioia.
«Ehi! Sei arrivato, finalmente!», esclama, mentre
agita le
mani per salutarlo e lo smalto – nero, ovviamente –
sulle
sue unghie scintilla sotto le luci del palco.
Keigo scrolla appena le spalle. «Già, scusa per il
ritardo…», commenta, osservandola con aria
rammaricata.
«Hanno cominciato da tanto?»
Himiko gli prende la mano, gli occhi che luccicano. «No, sono
al
primo pezzo!», lo rassicura lei, elettrizzata.
«Dai,
divertiamoci!»
E Keigo si diverte davvero. Insieme a Himiko balla e canta a
squarciagola, e per tutto il tempo gli sembra che le preoccupazioni
dell’ultimo periodo si siano fatte più lontane.
Gli pare
di essere tornato ai primi mesi dopo il suo ingresso in istituto,
quando aveva legato con Jin e Himiko e, per la prima volta, aveva
sentito di essere circondato da persone in grado di comprenderlo.
Le canzoni si susseguono una dietro l’altra, e lentamente la
band
arriva alla fine della setlist. Sul palco sale un altro gruppo,
stavolta la musica è più calma, così
Keigo ne
approfitta per parlare un po’ con Himiko.
«È stato pazzesco, vero?», le domanda,
raggiante.
«Sì!», concorda lei, saltellando sul
posto. «Tu come ti senti?»
Sul volto di Keigo compare una smorfia di dolore. «Uhm, non
un
granché, in realtà», ammette, chinando
leggermente
la testa di lato in direzione di una delle casse. «Il volume
della musica è altissimo, sta cominciando a girarmi la
testa…»
La mano di Himiko si stacca dalla transenna a cui era gelosamente
ancorata – erano arrivati in prima fila, dopotutto
–,
mentre osserva preoccupata il ragazzo. «Vuoi fare due
passi?», propone, cortese. «Magari un po’
d’aria fresca ti fa bene.»
Keigo annuisce piano. «Mi sembra una buona
idea…»,
si ritrova ad acconsentire, la voce che esce dalle sue labbra in un
sussurro.
L’espressione di Himiko si fa determinata. La ragazza
comincia
subito a cercare la via più breve per sbucare fuori da
quella
calca e, non appena la trova, s’incammina in fretta su di
essa,
portando Keigo con sé tenendolo per mano.
Una volta riemersi dalla folla, a Keigo sembra di tornare a respirare.
Quella dei capogiri è stata una scusa solo in parte, in
realtà: in mezzo a tutta quella gente c’era
così
tanto calore che stava cominciando a mancargli l’aria sul
serio.
In compenso, ora che si sono allontanati dal palco può
andare
avanti con il piano.
Le onde continuano a funestare il porto, il vento freddo che soffia
forte e fa agitare le barche attraccate ai moli. Keigo inspira a fondo
e si riempie i polmoni di aria salmastra, mentre Himiko si stringe le
braccia attorno al corpo, tremando leggermente.
«Dove stiamo andando…?», prova a
domandare lei, titubante.
Keigo, però, resta in silenzio. Continua a camminare lungo
il
molo tenendosi sull’orlo della banchina – se
mettesse un
solo piede in fallo finirebbe nell’acqua gelida –,
le mani
infilate nelle tasche del giaccone, lo sguardo fisso di fronte a
sé mentre sulle labbra c’è ancora
l’accenno
di un sorriso.
È in quel momento che Enji lo raggiunge, fermandosi al suo
fianco.
Himiko, ancora terrorizzata al pensiero di vedere Keigo cadere
nell’oceano, si ritrova a vacillare, mentre una sensazione di
vertigine che conosce fin troppo bene torna a farle visita.
«K-Keigo, che sta succedendo…?», cerca
di chiedere la ragazza, mentre si porta una mano alla tempia.
Keigo ed Enji si voltano a guardarla, restando in silenzio.
Lo sguardo di Himiko saetta da un punto all’altro del molo,
in
cerca di spiegazioni. D’improvviso, un sospetto le attraversa
la
mente, facendole spalancare gli occhi. «L-La tua ombra
è
q-qui, n-non è vero…?», domanda, la
voce che le
esce a fatica dalle labbra.
«So tutto, Himiko», commenta Keigo, mentre resta a
osservarla impassibile, le mani ancora in tasca. «Ci sei tu
dietro allo spaccio della crimson.»
Lo sguardo sgranato di Himiko è attraversato da un lampo di
terrore. «N-Non so di cosa stai
parlando…», mente,
debolmente.
Keigo lancia un’occhiata in direzione di Enji. Lo spettro
comprende al volo, così comincia ad avvicinarsi alla ragazza.
Himiko cade a terra in ginocchio, serrando strette le palpebre. Le
sfugge un mugolio dolorante, mentre si ritrova perfino ad ansimare.
«Chi altro è coinvolto in questa
storia?», insiste
Keigo, inquisitorio. «Dimmi la verità,
Himiko!»
Enji muove un altro passo verso la ragazza, e Himiko si prende la testa
tra le mani, disperata.
«Basta, basta!»,
implora, sfinita.
In quel momento, quella tensione crescente viene interrotta.
«Fermi!», grida la voce di una persona che, di
colpo, irrompe sulla scena.
Lo sguardo dei presenti scatta subito di lato, dove incontrano la
figura di Aizawa, accompagnato da due colleghi. Shouta è
sbucato
fuori da un vicolo tra due edifici, la pistola in una mano e il
cellulare nell’altra.
«Shouta, mi
senti?»
Dall’altro capo del telefono, Emi è immersa nel
buio della
camera da letto di Toga Himiko, nella casa dei suoi genitori a Ginza.
Tiene il telefono premuto tra l’orecchio e la spalla, mentre
con
una mano impugna una torcia e nell’altra un sacchettino
trasparente che, colpito dalla luce della pila, rivela le pasticche
cremisi contenute al suo interno. «Abbiamo trovato la droga. Era
nel cassetto, come avevi detto tu.»
Aizawa si lascia sfuggire un lieve cenno d’assenso col capo.
Tiene lo sguardo fisso sulla ragazza davanti a sé, con
fermezza.
«Toga Himiko, ti dichiaro in arresto per produzione e
detenzione di sostanze stupefacenti», le comunica, solenne.
Il viso di Himiko si contorce in diverse espressioni, che vanno dalla
rabbia alla paura.
note
POTEVO BALLARE CON LUI MA STO QUA A PAZZIARE CO' TE
scusate sta cit la dovevo mettere nelle note del capitolo scorso ma mi
sono dimenticata di farlo, poi mi è tornato in mente e ho
deciso
che questa
cavolata
non poteva andare persa nel nulla, quindi toh, la piazzo qui, tanto il
senso è sempre lo stesso. al posto di lui potete metterci
uno a
caso tra touya e ryou, mentre te è –
abbastanza ovviamente –
enji. giusto, caro il mio keigo?
anyway, torniamo a noi. capitolo
lungo, quasi 12k parole. però ehi, finalmente qualcosa
comincia a muoversi! (ora ci arrivo)
intanto abbiamo avuto un mezzo litigio dei papà e tutto
quello che vorrei dire loro è noo, non litigate (literally
avevano appena smesso). comunque per fortuna hanno fatto pace in
fretta, anche perché c'erano delle questioni più
importanti di cui occuparsi.
ed eccoci, finalmente! ve l'avevo detto che la scena finale dello
scorso capitolo con tenko e touya sarebbe stata importante. e infatti
abbiamo scoperto che dietro alla morte di tomie potrebbe celarsi
l'ultimo caso seguito da enji quando era ancora in vita. la faccenda si
sta forse facendo più ingarbugliata del previsto?
btw dite la verità, ve lo aspettavate il ritorno di toga,
direttamente dal capitolo uno? scommetto che avevate rimosso che fosse
comparsa (anche io, tbh). e così anche lei è
implicata in
tutta la faccenda?
(confesso che la parte a casa di toga è stata più
complessa del previsto da scrivere. inizialmente doveva essere un
paragrafo unico, invece scrivendo mi sono resa conto che c'erano troppi
cambi di pov, così ho dovuto dividerlo. secondo me
è un
bene, in teoria dovrebbe dare quell'idea di frammentarietà
che
fa aumentare la suspence, però boh, magari è
tutto solo
nella mia testa)
però sono sincera, vedere enji e keigo indagare insieme
è
una delle mie cose preferite di tutta la storia. si
può dire che l'ho cominciata quasi solo per questo?
forse
sì lol.
questo capitolo segna anche la conclusione della sottotrama di tenko e
touya. posso essere sincera? sono sollevata una cosa in meno di
cui occuparsi, yeah
ci sono stati anche un sacco di incontroni, tipo quelli di rei con
kaina e keigo. in particolare, quest'ultimo dà una svolta
decisiva a tutta la vicenda. ora che toga è stata fermata,
forse
le cose prenderanno in fretta una nuova piega. tenetevi pronti,
perché nel prossimo capitolo succederanno un sacco di cose e
la
verità verrà a galla, anche perché,
beh, è
l'ultimo. eh sì, ci siamo.
come sempre grazie a chi sta leggendo e see you soon! (ah,
btw: buon anno!)
aria
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Capitolo 7 *** la fine non esiste ***
Shouta
chiude la porta della sala interrogatori alle proprie spalle con un
sospiro esausto.
Stanno torchiando quella ragazza, Toga Himiko, da ore, ormai, senza
tuttavia ottenere alcun risultato. Si è chiusa in un
silenzio
ostinato, e Aizawa sa perfettamente di non poterle estorcere alcuna
informazione – se questo non bastasse, a tenerglielo a mente
c’è il fastidioso avvocato che la accompagna.
Quello di cui ha bisogno al momento è un caffè
forte. E
un miracolo, probabilmente, ma per il momento decide di accontentarsi
del primo. Così si avvia verso il distributore in corridoio,
l’andatura un po’ ciondolante.
La verità è che è stanco. In quel
momento
preferirebbe volentieri starsene a casa sotto le coperte, piuttosto che
a interrogare una ragazzina che non vuole saperne di dirgli la
verità. Vorrebbe avere il conforto di sapere Eri
addormentata
nella stanza accanto alla sua, invece tutto ciò che lo
circonda
al momento sono le scrivanie dei suoi colleghi.
Di notte il commissariato sembra essere leggermente più
tranquillo rispetto al resto del giorno, ma forse è solo
perché c’è più silenzio: gli
agenti in
servizio sono in numero ridotto, e se ne stanno tutti seduti alle loro
postazioni mentre battono a ritmo cadenzato le dita sulle tastiere dei
loro pc. Anche quello, però, è un rumore
sommesso, come
se non volessero infrangere una regola non scritta per cui dal
crepuscolo all’alba vige uno stato di quiete.
Shouta raggiunge il distributore di caffè e ci si appoggia
pesantemente con una mano, mentre l’altra rovista nella tasca
dei
pantaloni fino a che non trova la chiavetta, in dotazione a tutti gli
agenti. Shouta la infila, preme il tasto del caffè espresso,
dopodiché la macchinetta inizia a emettere una vibrazione
profonda, e quasi si sente in colpa di star violando il silenzio in cui
sono immersi i suoi colleghi.
Shouta lancia uno sguardo di lato, lasciandosi sfuggire un sospiro, per
poi spostarlo nuovamente sul distributore, il caffè che
lentamente scivola nel bicchiere di plastica.
In quel momento, Emi compare in cima al corridoio. Non appena individua
Aizawa, comincia a camminare più in fretta nella sua
direzione,
i capelli acquamarina che si agitano alle sue spalle come in tempesta.
«C’è una persona che chiede di
te», gli
comunica, passando alle sue spalle. «L’ho fatta
accomodare
nel tuo ufficio.»
Aizawa si volta a guardarla con un’espressione contrariata in
volto. «Adesso?», domanda, incredulo.
«Sono nel bel
mezzo di un interrogatorio…»
«Ha detto che si trattava di una questione
urgente!»,
replica Emi, mentre continua a camminare lungo il corridoio, le braccia
che tengono stretti al petto i fogli di alcune pratiche.
Shouta scrolla le spalle, con fare arrendevole. Quella notte sembra non
voler finire più. Il bip
della macchinetta lo avverte che il suo caffè è
pronto,
così ne approfitta per recuperarlo. Mentre si avvia lungo il
corridoio, Shouta miscela lo zucchero con la palettina, per poi
prenderne un piccolo sorso.
Continuando ad avanzare verso il suo ufficio, Aizawa si ritrova a
scuotere la testa. Gli riesce difficile immaginare cosa ci possa essere
di più importante del suo interrogatorio, soprattutto adesso
che
sono a un passo dalla soluzione di un caso che era sembrato semplice
solo al primo sguardo. Sotto braccio ha ancora la cartellina gialla al
cui interno ha inserito i documenti del caso Ukai, ma considerando che
l’alternativa sarebbe stata lasciarli in sala interrogatori
– alla completa mercé di Toga Himiko e del suo
avvocato
– è ben lieto di averla portata con sé.
Nel momento in cui arriva davanti al suo ufficio, Shouta abbassa la
maniglia e apre la porta di scatto, pronto già a
chissà
quale noiosissima perdita di tempo, invece per poco non gli viene un
colpo.
Hizashi.
Il suo compagno ha voltato la testa in direzione della porta quando
l'ha sentito aprirla, e adesso Shouta sente gli occhi
dell’altro
puntati su di sé. I capelli biondi gli sfiorano le spalle
allo
stesso modo dell’ultima volta in cui lo ha visto, e sul suo
volto
c’è un sorriso dall’aria leggermente
colpevole.
«Ciao, Shouta», lo saluta, la voce calma
– ma è la sua, quella di sempre.
Aizawa resta immobile sulla soglia per un momento. Alla fine,
però, riesce a chiudere la porta alle proprie spalle, per
poi
scattare in avanti verso Hizashi. Si accomoda sulla sedia accanto alla
sua, poggiando distrattamente il caffè – di colpo
berlo
è diventata l’ultima delle sue priorità
– e
la cartellina sulla scrivania.
«Che ci fai qui…?» Che fine hai fatto per tutto
questo tempo? Dove sei stato fino a questo momento?
In realtà c’è
un’infinità di domande
che Shouta vorrebbe fargli, e alla fine gli sembra di essere partito
dalla più stupida di tutte. «Credevo che ti fosse
successo
qualcosa…»
Hizashi sposta lo sguardo di lato, il sorriso sulle sue labbra che si
fa più amaro. «No, sto bene», ammette,
in tono
affranto.
Shouta sente che c’è qualcosa che non va, solo che
non
riesce a capire di cosa si tratti. Si china leggermente in avanti,
prendendo le mani dell’altro nelle sue. «E allora
cos’è successo?», gli chiede ancora,
comprensivo.
Hizashi continua a non ricambiare il suo sguardo, e Shouta lo conosce
troppo bene, sa che se si comporta così è
perché
c’è qualcosa che lo turba. Istintivamente
accarezza con le
dita il dorso delle mani dell’altro, come per
incoraggiarlo.
Quando finalmente Hizashi solleva il capo, Shouta scorge nei suoi occhi
qualcosa che raramente vi ha intravisto – incertezza.
«Ho avuto paura»,
confessa, la voce che s’incrina appena mentre si costringe a
mantenere un debole sorriso.
Sul volto di Shouta compare un’espressione confusa.
«Paura
di cosa…?», domanda, il pollice che traccia
arabeschi
sulla pelle dell’altro.
Hizashi si lascia sfuggire un sospiro tremante, le labbra ancora
piegate in quel sorriso amaro mentre lo sguardo combatte per non
sottrarsi a quello di Shouta. «All’inizio
è stato
Shirakumo», spiega, remissivo. «All’epoca
eravamo
ancora in accademia, volevamo entrare tutti e tre in polizia quando ci
fu quell’incidente, ricordi?»
Shouta si limita ad annuire, così Hizashi prosegue.
«In
quel momento è stato uno sprone, ci siamo gettati sulle
nostre
carriere con ancor più convinzione. Andando avanti,
però,
quella scia di morte non ha mai smesso di accompagnarci
–
Toshinori, Enji, pensa a quanti colleghi abbiamo già
perso…»
Shouta lo osserva perplesso, la fronte corrucciata. «Non
capisco», ammette, interdetto. «Dove vuoi
arrivare…?»
Hizashi si appoggia stancamente allo schienale alle proprie spalle,
continuando a sorridere tristemente. «Finché
eravamo solo
noi due andava tutto bene. Poi, però, le cose sono
cambiate», continua, la testa che si piega appena di lato.
«Eri e Hitoshi sono entrati a far parte della nostra vita, ed
è stata la cosa più bella che ci sia mai
capitata. Solo
che, in quel momento, io ho avuto paura, Shouta, paura di lasciarli di
nuovo da soli. Perché il nostro è un mestiere
difficile,
la mattina ci alziamo per andare al lavoro ma non abbiamo alcuna
garanzia che a fine giornata torneremo a casa sani e salvi. Ed ero
terrorizzato al pensiero di parlartene, perché tu ami i
ragazzi
più di ogni altra cosa e, semplicemente, non mi sentivo
pronto
ad affrontare questo discorso con te. È per questo che sono
sparito…»
Shouta sobbalza, osservandolo sorpreso. «Avevi paura di
deludermi…?», domanda, incredulo.
Hizashi si limita ad annuire brevemente, per poi spostare lo sguardo in
direzione della finestra dell’ufficio di Aizawa.
«Hitoshi
sapeva dove mi trovavo. Ogni tanto veniva a trovarmi, ma sono stato io
a chiedergli di non dirti niente su dove fossi. Avevo bisogno di stare
da solo per un po’, capire cosa pensassi davvero. Mi spiace
di
averlo messo in difficoltà con te», confessa,
lasciandosi
sfuggire stavolta un sorriso beffardo.
Sul volto di Shouta, invece, compare un’espressione
sollevata.
Per settimane non ha avuto idea di che fine avesse fatto Hizashi, e ora
che ce l’ha davanti e gli ha confessato tutta la
verità si
sente uno stupido per non esserci arrivato prima e aver immaginato
invecce tutti gli scenari peggiori possibili. Shouta scuote appena la
testa, sporgendosi ancora un po’ verso Hizashi e
circondandogli
una guancia con la mano.
Hizashi solleva lo sguardo per la sorpresa, ma ad attenderlo non trova
altro che le iridi nere e pacate di Aizawa.
«Perché non me ne hai parlato prima?»,
chiede, ma
nella sua voce non c’è alcun tono inquisitorio.
«Avremmo affrontato questa cosa insieme, come tutto, come
sempre...»
L’espressione sul volto di Hizashi si fa finalmente
rilassata.
Shouta si china in avanti, e mentre bacia le sue labbra si sente come
un marinaio che vede di nuovo terra, dopo aver passato un lungo periodo
in alto mare.
«C’è una sospettata che mi attende, di
là», gli confessa Shouta, quando si separa appena
da lui.
«Mi concedi l’onore di condurre
quest’interrogatorio
assieme a te?»
La porta della sala interrogatori si spalanca di nuovo, e stavolta alle
spalle di Shouta entra anche Hizashi.
L’avvocato di Toga Himiko sobbalza sul posto, quasi
strabuzzando
i suoi piccoli occhi neri dietro le lenti spesse degli occhiali.
«C-credevo che avrebbe condotto questo interrogatorio da
solo…», fa per protestare, interdetto.
Aizawa si accomoda sulla sedia che ha occupato fino a poco prima,
sporgendosi appena verso l’altro lato del tavolo.
«L’ispettore Yamada è un mio collega e
ha tutto il
diritto di trovarsi qui in questo momento», replica, mentre
rivolge un’occhiata torva all’avvocato.
Il difensore di Himiko sembra rabbrividire, a disagio, tuttavia nessuno
ci fa caso.
Hizashi si siede accanto a Shouta, aprendo il fascicolo che gli ha
lasciato. «Allora, Himiko… diciamo che la tua
situazione
non è così buona», commenta, osservando
alcuni
fogli. «Hanno trovato un bel po’ di pasticche di crimson a casa tua,
quindi direi che per l’incriminazione per detenzione di
stupefacenti non si possa fare molto.»
«Le cose però potrebbero andare in maniera diversa
se tu
ci aiutassi fornendoci alcune informazioni», prosegue Shouta,
incrociando le braccia al petto. «Potresti ottenere uno
sconto di
pena, magari.»
«Himiko, non sei costretta a dire loro
niente…», le fa notare l’avvocato, con
voce tremolante.
«Avvocato, basta!» Himiko si volta in direzione
dell’uomo, con aria esasperata. «I miei genitori
l’hanno mandata qui non per difendere me, ma per tutelare il
buon
nome di famiglia. Sa qual è il problema? Che io la voglio
dire,
la verità.»
Gli occhi di Himiko tornano a fissarsi in quelli di Aizawa.
«È vero. La crimson
che avete trovato in camera mia mi appartiene. L’ho prodotta
io,
per l’esattezza», ammette, giungendo le mani sopra
il
tavolo. «La formula precedente comprendeva
un’imprecisione.
Io l’ho sistemata, migliorando il prodotto finale.»
Shouta sostiene con fermezza lo sguardo della ragazza. In quel momento
ci sono solo lui e la sospettata, nient’altro conta
all’interno della stanza. «Chi ti ha chiesto di
migliorare
la formula, Himiko?», domanda, in tono solenne.
L’avvocato sembra accaldato e sul punto di svenire, ma a
Himiko non importa.
In quel momento, sul suo volto c’è
un’aria tranquilla e determinata.
Rei è seduta a una delle scrivanie del commissariato.
Al momento, l’agente che di solito la occupa non è
in
servizio, così si è limitata a sistemarsi
lì
mentre aspetta.
Aizawa sta interrogando la ragazza che hanno fermato e, in attesa di
qualche nuovo elemento, a lei non resta altro da fare che starsene
lì da sola.
Lo sguardo di Rei vaga tra le postazioni che, a quell’ora,
sono
quasi tutte deserte. Enji l’ha seguita fin lì dal
porto, e
ora la osserva mentre sul volto le compare un’aria assorta.
In quel momento, Fukukado Emi le si avvicina, con aria corrucciata.
«Ah, dottoressa», la chiama, allungando
distrattamente una
busta da lettera nella sua direzione. «Stamattina
è
arrivata questa per lei.»
Rei inarca le sopracciglia, scettica. «Alla
buon’ora», commenta, in tono caustico. «E
dire che
avevo anche specificato che si trattava di una cosa
urgente…»
Emi si sporge oltre la spalla di Rei per spiare mentre la donna legge.
«Che cosa sono?», domanda, curiosa.
«I risultati degli esami tossicologici di Ukai
Tomie»,
spiega, stringendo i fogli tra le dita e esaminandoli attentamente.
«Li avevo richiesti una settimana fa, subito dopo
l’incidente, eppure a quanto pare sono arrivati solo
adesso…»
Rei è costretta a fermarsi di colpo mentre parla.
C’è un valore, infatti, che non può in
alcun modo
passare inosservato sotto il suo sguardo.
E in quel momento Rei capisce che quello è il tassello
mancante che stavano cercando.
«Non è possibile…», mormora,
incredula.
Enji scorre velocemente a sua volta i fogli, ritrovandosi a sbarrare
gli occhi non appena comprende cos’ha scoperto sua moglie.
Rei si alza in maniera repentina dalla scrivania, avviandosi lungo il
corridoio. «Avverti Aizawa», prega, rivolta a Emi.
«Ci serve una volante, subito.»
Enji, nel frattempo, lascia il commissariato, svanendo nel nulla.
Keigo.
Il nome del ragazzo è tutto ciò a cui Enji riesce
a pensare mentre il mondo riprende forma attorno a lui.
Man mano che i contorni tornano a essere definiti, si rende conto di
trovarsi in un luogo che non ha mai visto prima d’ora.
Sembra essere una baita di montagna, almeno dalla struttura in legno,
tuttavia l’arredamento è più moderno di
quel che ci
si aspetterebbe. C’è una cucina di colore bianco
ghiaccio
– freddo, asettico – all’apparenza
moderna e dotata
di ogni genere di fornitura, ma quel che ruba l’attenzione
è senza dubbio il camino di pietra che impreziosisce il
soggiorno.
Alle spalle di Enji c’è un’enorme
vetrata
spalancata, dalla quale scivola all’interno
dell’abitazione
una brezza leggera. Se si volta a osservare il panorama, lo attende una
vista mozzafiato su un bosco che lentamente dirada verso un lago che,
dalla posizione in cui si trova, sembra risplendere d’argento
alle prime luci dell’alba che s’affacciano dietro
le
montagne.
«Dove siamo?», si ritrova a domandare Enji, prima
ancora di
rendersi conto che le parole gli sono sfuggite dalle labbra.
«Casa di Ryou.» Keigo si trova accanto a un divano,
e a
Enji sembra di riuscire a inquadrarlo solo nel momento in cui
finalmente lo sente parlare. Dal punto in cui si trova al momento,
fermo sulla soglia della vetrata, riesce a vedere il ragazzo soltanto
di spalle: segue i suoi movimenti mentre afferra con le dita un
fazzoletto di seta, rimasto abbandonato sopra un cuscino, ripiegandolo
ordinatamente.
Nelle ultime ore, mentre era in commissariato, Enji ha perso di vista
il ragazzo. Probabilmente è saltato sul primo autobus
diretto
verso la zona, ecco perché adesso è
già lì.
«Himiko ha confessato», spiega, lanciando
un’occhiata
nervosa attorno a sé. «La notizia del suo arresto
dev’essere arrivata all’orecchio di Ryou,
così
avrà mangiato la foglia per poi decidere di scappare in
fretta e
furia. Di sicuro starà cercando di cancellare le sue
tracce.»
Lo sguardo rammaricato di Keigo si posa sul divano. «A
giudicare
dal disordine che ha lasciato dietro di sé, sembra essere
parecchio di corsa. In ogni caso, non penso che sia andato via da molto
tempo», commenta, pensieroso. «Il posto
più vicino
da qui è l’istituto. Forse la crimson
è sempre stata lì.»
L’espressione di Enji sembra rilassarsi un poco.
«Perfetto», valuta, risoluto. «Allora non
ci resta
altro da fare che raggiungerlo e fermarlo prima che salga su un volo
diretto dall’altra parte del mondo.»
Keigo si decide a ricambiare lo sguardo di Enji, le labbra che si
piegano in un accenno di sorriso. «Tu vai,
intanto», lo
esorta, la voce che scivola fuori in un sussurro.
«Smaterializzandoti direttamente lì arriverai
prima,
così non rischieremo che Ryou ci sfugga nel frattempo. Io
vedo
di raggiungerti più in fretta che posso, promesso.»
Enji esita, incerto. «Sei sicuro…?»,
domanda, osservando attentamente il ragazzo.
Keigo annuisce piano, il sorriso sulle sue labbra che si fa
più deciso. «Certo», lo rassicura,
cordiale.
Alla fine, Enji decide di fidarsi del ragazzo.
Ancora non lo sa, ma quello sarà il suo più
grande rimpianto.
Poco dopo Enji svanisce nel nulla, mentre lo sguardo di Keigo si posa
sul caminetto.
L’istituto ha un aspetto spettrale.
Enji è già stato lì, eppure adesso,
negli ultimi
istanti di tenebra – quelli più bui –
prima
dell’alba e senza un anima viva in giro, è ancora
più inquietante.
Trova perfino la porta d’ingresso spalancata, altro dettaglio
piuttosto angoscioso.
Le luci dell’atrio sono accese, ma non sembra esserci
movimento
nei paraggi. Enji si guarda un po’ intorno, finché
non
nota una porta socchiusa che dà su un sottoscala.
Enji ci si avvicina in fretta, sbirciando mentre rimane sulla soglia.
Non si vede un granché, l’ambiente è
piuttosto buio
ed è rischiarato a malapena da alcune lampade
dall’aspetto
rudimentale appese alla parete, tuttavia da quello che riesce a
scorgere gli sembra che ci siano delle scale che scendono verso il
basso.
A Enji non resta che dirigersi al piano inferiore. Quella situazione
non gli piace per nulla, tuttavia al momento non ha altra scelta.
Alla fine delle scale trova ad attenderlo un altro ambiente
tremendamente macabro. Le pareti hanno una tonalità di
turchese
piuttosto scura, ma ciò che non si può fare a
meno di
notare entrando là dentro è il tavolaccio di
metallo al
centro della stanza. Ci sono delle cinghie di cuoio
all’altezza
in cui, se una persona si trovasse sdraiata là sopra, si
troverebbero i suoi polsi e le caviglie.
In quel momento, Enji capisce di aver già visto quel posto.
È lo stesso in cui erano state scattate le fotografie che ha
visto a casa di Tomie.
Il tavolo dell’elettroshock. Lo stesso su cui è
stato
disteso anche Keigo. Enji avverte un moto minaccioso di rabbia
accrescere sempre di più dentro di sé.
La sua attenzione, tuttavia, viene distolta da quel tavolo non appena
un rumore imprevisto gli giunge alle orecchie. Enji sposta lo sguardo
di lato, verso un angolino in cui una luce sfarfallante – ed
è sicuro di non essere lui a farla tremolare, stavolta
–
rischiara a malapena un armadietto.
Ryou si volta appena, lanciandogli un’occhiata in tralice da
sopra una spalla. «Todoroki Enji», soffia, in un
sibilo
malevolo. «Vorrei dirti che è un piacere
rivederti, ma
mentirei.»
Enji lo osserva con sguardo severo, per niente intimorito.
«È finita, Ryou», commenta,
un’espressione
dura sul volto. «La polizia è arrivata a te. Sanno
che ci
sei tu dietro a tutta questa storia. Stanno venendo a
prenderti.»
Ryou torna a puntare lo sguardo dritto davanti a sé,
ignorando
le parole dell’altro. «Oh, ma davvero?»,
chiosa,
sarcastico. «Beh, è un peccato allora che io me ne
stia
andando.»
Solo in quel momento Enji riesce finalmente a vedere cosa diavolo stia
combinando Ryou. L’uomo stringe tra le mani un barattolo di
vetro, e ne sta riversando il contenuto in una busta trasparente. Senza
troppe sorprese, là dentro c’è una
miriade di
pasticche di crimson
–
su uno degli scaffali dell’armadio ci sono già
altri tre
barattoli vuoti, e questo dà a Enji un’idea
piuttosto
chiara di come quel bastardo avesse ben architettato il traffico.
Ryou, però, non ha tempo da perdere con le occhiate
giudicanti
di Enji, così, dopo aver svuotato anche l’ultimo
barattolo, ha già recuperato il sacchetto con tutta la crimson, per poi
voltare le spalle al fantasma e avviarsi di nuovo su per le scale.
Enji, ovviamente, lo segue. Osserva Ryou attraversare l’atrio
dell’istituto, scendere giù per la scalinata
d’ingresso e incamminarsi lungo il vialetto esterno, i
sassolini
che scricchiolano appena sotto i passi affrettati delle sue scarpe
eleganti.
Enji lo vede fermarsi solo quando raggiunge una vettura sportiva
dall’aspetto costosissimo, la vernice nera lucida che
risplende
sotto i lampioni che corrono lungo tutto il perimetro esterno
dell’istituto. Ryou sale in macchina, gira le chiavi nel
quadro
ma il motore non parte. Ci riprova due, tre, quattro volte,
però
l’esito non cambia.
Ryou solleva lo sguardo, osservando Enji con astio. Il fantasma
è lì davanti alla macchina, lo vede perfettamente
attraverso il parabrezza, e sa che è lui a controllare
l’energia elettrica della batteria, impedendo al motore di
avviarsi.
«Arrenditi. Non andrai da nessuna parte», insiste
Enji, non
senza una certa soddisfazione, mentre infila le mani nelle tasche della
giacca.
Ryou trattiene un ringhio tra i denti, ma non si dà per
vinto.
Non riuscirà a scappare via in auto come avrebbe voluto,
però può ancora mettere un po’ di
distanza tra
sé e l’istituto. Così scende dalla
vettura,
abbandonando sul sedile del passeggero la busta con la crimson –
al diavolo,
l’importante è fuggire da lì
–, per poi proseguire a piedi.
Enji continua a seguirlo. Ryou s’infila in un bosco, ed
è
sorprendente come riesca a muoversi con agilità anche mentre
i
rami tentano in tutti i modi di ghermirlo.
L’oscurità,
poi, non aiuta certo ad avanzare lungo il percorso, né il
terreno irregolare – Enji lo avverte di colpo farsi in
discesa.
Uscendo dal fitto del bosco dopo diversi minuti d’affanno, i
due
si ritrovano su una strada, la lunga lingua scura d’asfalto
che
corre tra abeti centenari e vertiginosi tornanti di montagna. Ryou
prova a percorrerla a piedi, attraversando un ponte che passa sopra un
torrente dalle acque agitate.
È allora che uno sparo squarcia l’aria.
Enji si ritrova senza accorgersene a trattenere il fiato, mentre Ryou,
colpito di striscio a una gamba, si accascia al suolo, dolorante.
Alle sue spalle, Enji avverte alcuni rumori che riesce a distinguere
nitidamente, anche grazie ad anni di esperienza in polizia –
un
gridolino di sorpresa e forse un poco di paura, un’arma che
con
il contraccolpo vola via dalla mano e rotola lungo l’asfalto.
Enji si volta lentamente, ed è costretto a sbarrare gli
occhi per il terrore.
«Pezzo di
merda!»
Keigo trema, e quello che sta provando in questo momento
dev’essere un insieme di rabbia, tristezza e spavento. Enji
non
ha la più pallida idea di dove si sia procurato quella
pistola,
probabilmente a casa di Ryou – e si maledice, dannazione, non
avrebbe mai dovuto lasciarlo da solo.
«Keigo…» Enji cerca di richiamarlo
piano, ma sa che
al momento l’attenzione del ragazzo non è rivolta
a lui.
«Come hai potuto?!», grida ancora Keigo,
trattenendo a
stento le lacrime. «Io mi fidavo di te! Credevo che mi
amassi!»
Ryou si volta verso il ragazzo, sfoderando il suo sorriso
più
ammaliante nonostante le fitte al polpaccio si facciano sempre
più insopportabili – anche se è tutto
inutile,
ormai, quel trucchetto ha smesso di avere effetto su di lui da tempo.
«Keigo, tesoro… cerca di
ragionare…»,
mormora, suadente. «Minacciava di denunciare tutto alla
polizia.
Sarebbe stata una tragedia, lo capisci?»
Keigo sente le lacrime rigargli le guance. «Era mia madre, dannazione!»,
urla, singhiozzando.
«Non importa!» Il tono di Ryou adesso si fa
più
concitato. «Non potevo permettere che i ragazzi finissero in
mezzo alla strada.»
Enji è piuttosto certo che, nel momento in cui Ryou ha
deciso di
far fuori Tomie, la sua prima preoccupazione non sia stato esattamente
il corpo studentesco dell’istituto, tuttavia decide che
quello
non è il momento migliore per farlo notare.
«Cosa le hai fatto, mostro?», domanda invece,
osservando Ryou con rabbia.
L’uomo si ritrova a deglutire a vuoto. «Le ho dato
della crimson»,
ammette, tremante – ed Enji riflette che quella è
la prima volta in cui gli sembra di vederlo avere paura.
«È venuta a cercarmi durante il rinfresco, il
giorno delle
lauree. Mi ha fermato una prima volta, facendomi vedere le foto e
minacciando di fare un casino. Io ho minimizzato, dicendole che nessuno
avrebbe dato retta a una pazza come lei, dopodiché sono
tornato
dagli altri alla cerimonia. Pensavo che se ne fosse andata, invece ha
cominciato a gironzolare per l’edificio. Non so come sia
arrivata
alla sala dell’elettroshock, fatto sta che lì ha
trovato
la crimson.
Dopo è
tornata di sopra, l’ho vista e l’ho portata di
nuovo in una
stanzetta in disparte. Ha detto che aveva visto la droga, mi ha
sbattuto in faccia un paio di pasticche che aveva preso come prova e ha
detto che non l’avrei fatta franca. Io ero nel
panico…
avevo una dose di crimson
con
me, così l’ho polverizzata e gliel’ho
offerta in un
drink con la scusa di invitarla a festeggiare perché
finalmente
si sarebbe sbarazzata di me. Lei ha bevuto, soddisfatta, e poco dopo ha
lasciato l’istituto. Non è servito
nient’altro,
è bastato l’effetto degli stupefacenti a mandarla
fuori
strada.»
Mentre il racconto di Ryou va avanti, il pianto sulle guance di Keigo
non fa che aumentare. «C-come hai
potuto…», mormora
ancora, la schiena scossa dai singhiozzi. «Era mia
madre…»
Enji si avvicina al ragazzo, portandosi istintivamente alle sue spalle.
«Shh. Va tutto bene, Keigo», mormora, le labbra
così
vicine al suo collo. «Stai tranquillo, è tutto
finito…»
Le sue parole sembrano ottenere il risultato desiderato. Sente il
ragazzo tirare un piccolo sospiro, mentre i suoi muscoli si rilassano
lentamente.
Poco dopo, però, tutti i suoi sforzi vengono resi vani.
«Sì, Keigo, dagli ascolto…»,
mormora Ryou, ancora a terra.
In quel momento, Enji vorrebbe solo potergli urlare contro Idiota, che diavolo ti viene in
mente? Non vedi che stavo riuscendo a calmarlo?! Così non
farai altro che…
Enji non riesce nemmeno a portare a termine il pensiero. Lo sguardo di
Keigo torna a puntarsi su Ryou, con decisione.
Tutto quello che succede nei secondi successivi Enji lo vive al
rallentatore. Keigo fa per avvicinarsi di nuovo alla pistola e,
d’impulso, Enji stende la mano in avanti cercando di
spostarla.
Muovere gli oggetti è un’azione facile per i
fantasmi,
ormai ha perso il conto di quante volte lo abbia già fatto.
Stavolta, però, qualcosa non va per il verso giusto.
Anziché la pistola, a cambiare improvvisamente traiettoria
è il corpo di Keigo, che vola giù, oltre la
struttura del
ponte, con un urlo agghiacciante.
È solo in quel momento che, troppo tardi, Enji capisce.
La visione.
Quel luogo, il ponte… è lo stesso che ha visto la
notte
dell’incidente di Tomie. Quelli alle spalle di Keigo, fin dal
principio, non sono stati nient’altro che gli stralli della
struttura.
Ha fatto di tutto per sfuggirle ma, alla fine, è stato
proprio lui a farla realizzare.
Sotto lo sguardo terrorizzato di Enji, il corpo di Keigo viene
inghiottito dal vuoto.
«Keigo!»,
lo chiama, disperato.
Ryou, a terra e ferito, sembra quasi divertito da tutta quella
situazione, tanto che una risata strozzata gli sale alle labbra.
Enji si lancia attraverso la carreggiata, affacciandosi oltre il
parapetto. In quel momento avverte le sirene di una volante della
polizia arrivare sul luogo, ma non riesce a curarsene.
Fortunatamente, il ragazzo non è precipitato in acqua. Dopo
la
caduta, Enji ha avvertito un tonfo sordo, e adesso vede che Keigo
è atterrato su quella che pare essere la struttura di un
ponteggio per dei lavori di messa in sicurezza del viadotto. Sembra,
però, privo di conoscenza – ed Enji sente di nuovo
un
tumulto attanagliargli il petto.
«Fermo!» Aizawa scende dall’auto in
maniera
repentina, la pistola puntata verso Ryou per intimargli di non
contraddirlo.
No, adesso non
è lui che conta! Il mio ragazzo…
Enji vorrebbe gridare, ma sa già che non lo sentirebbero.
Lo sportello del passeggero anteriore si apre più
lentamente,
lasciando scendere Hizashi. I suoi occhi vagano osservando la scena che
si è ritrovato davanti, Ryou a terra, la pistola, il ponte.
Lo
sguardo di Hizashi si posa infine sul parapetto, a cui si avvicina
intuendo almeno in parte la dinamica dell’accaduto.
L’ispettore si affaccia, mentre accanto a lui Enji continua
ad
avere gli occhi sbarrati per la paura. Hizashi guarda giù,
verso
il basso, e si ritrova a trasecolare vedendo il corpo immobile di Keigo.
«Shouta! Chiama un’ambulanza!» Hizashi si
volta verso il collega. «C’è
Keigo!»
«Keigo?», domanda Shouta, incerto, tuttavia ha
già
estratto il cellulare dalla tasca dei pantaloni e composto il numero di
emergenza. «Pronto, serve un’ambulanza sulla
statale due,
al chilometro…»
Le parole di Aizawa arrivano ovattate alle orecchie di Enji. Hizashi
scavalca il parapetto del ponte, cominciando a scendere giù
per
quella struttura temporanea fino a raggiungere Keigo. Enji lo segue, in
preda a un’apprensione cieca.
«Keigo…» Hizashi lo chiama piano, ha
quasi paura di scuoterlo con troppa violenza.
«Ti prego, Keigo, svegliati…», mormora
Enji, inginocchiandosi accanto a lui.
Poco dopo, il ragazzo riapre gli occhi di scatto, ansimando.
Enji si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, stremato.
«Quindi, ricapitoliamo.»
Mentre parla, Aizawa continua a camminare lungo il corridoio.
«Il colpo di pistola è partito per errore a Ryou,
che ha
finito per ferirsi a una gamba, mentre tu sei caduto dal ponte
sporgendoti troppo oltre il parapetto. È corretto?»
Keigo lancia un’occhiata verso il pavimento, ritrovandosi a
osservare piccole piastrelle verde giada. «Sì,
è
andata così», conferma, le dita che si stringono
attorno
alla tracolla della sua borsa.
È un miracolo che, nonostante quel volo assurdo, non abbia
riportato che pochi graffi qua e là. Adesso sono in
ospedale,
dove lo hanno portato per accertamenti, eppure l’unica
medicazione che gli hanno applicato è una fasciatura attorno
alla mano.
«Bene.» Aizawa si ferma a metà del
corridoio,
portandosi le braccia dietro la schiena. «Se le cose stanno
così, non ho altre domande da farti.»
Sul volto di Keigo compare un sorriso esitante. Sa che Aizawa sta
fingendo di credere alla sua versione dei fatti, sebbena abbia capito
perfettamente quale sia la verità. Lo fa perché
non vuole
metterlo nei guai, e Keigo gliene è grato.
Aizawa si congeda da lui augurandogli una pronta guarigione, per poi
imboccare a ritroso il tratto di corridoio che hanno percorso assieme.
Keigo, invece, dopo aver osservato il commissario allontanarsi, torna a
puntare lo sguardo davanti a sé, attirato dallo sfarfallio
del
neon di una lampada – e sa perfettamente che non si tratta di
un
calo di tensione elettrica.
Enji è lì, seduto su una panca di metallo, con le
braccia
conserte strette al petto e l’espressione più
immusonita
che Keigo abbia mai visto sul suo volto.
Il ragazzo si affretta a raggiungerlo, sedendosi accanto a lui. Sente
il sorriso sul suo volto farsi più disteso, come se la
tensione
delle ultime ore stesse cominciando finalmente a sciogliersi.
«È tutta colpa mia», esordisce Enji,
cupo. «Ho
fatto di tutto per tenerti lontano dal pericolo. Pensavo che
così ti avrei salvato, invece ti ho quasi ucciso.»
«Io non la vedo così.» Keigo solleva i
suoi enormi
occhi dorati su di lui, ed Enji vi trova una spensieratezza che mancava
da tempo. «Hai allontanato quella pistola da me per impedirmi
di
sparare. L’hai fatto perché non volevi che
diventassi un
assassino. Hai cercato di proteggermi, a modo tuo.»
Gli occhi turchesi di Enji si ritrovano a fissare il ragazzo colmi di
stupore. Il sorriso sul volto di Keigo, per tutta risposta, si fa
ancora più ampio mentre abbassa le palpebre in
un’espressione divertita.
Il ragazzo avvicina la fronte alla sua, e ancora una volta Enji ha
l’impressione che possano toccarsi, la luce sopra di loro che
continua a tremolare.
Sono passati alcuni giorni dall’arresto di Ryou, e a Tokyo
sembra essere tornato a splendere il sole.
Quella è, a tutti gli effetti, ancora una fredda mattina
d’inverno, eppure Keigo pare troppo distratto per avvertire
il
gelo.
«Sei preoccupato?»
Keigo solleva di scatto lo sguardo da terra, un’espressione
confusa che gli compare in volto. Per tutta risposta, Rei gli rivolge
un sorriso dolce, dal sapore materno.
È stata la dottoressa Himura a proporgli di accompagnarlo in
procura, quel giorno. Rei, dopotutto, parteciperà
all’interrogatorio di Ryou, visto che si è
occupata in
prima persona del caso di Tomie.
Enji sta seguendo i due a qualche passo di distanza, le mani infilate
nelle tasche della giacca. Continua a provare una strana sensazione
ogni volta che vede Rei e Keigo insieme, ma è qualcosa di
piacevole, come un calore che lo avvolge dall’interno.
Keigo serra nervosamente le dita attorno alla tracolla della borsa, un
sorriso che fa capolino sul suo volto sebbene l’espressione
continui a rimanere tesa. «Un po’»,
ammette,
trattenendo a stento un risolino. «Continuo a pensare a tutte
le
cose che possono andare per il verso storto…»
I due salgono su per i gradini d’ingresso, per poi infilarsi
all’interno della procura e imboccare la scala che porta al
primo
piano.
«Vedrai che andrà tutto bene», cerca di
rassicurarlo
Rei, posandogli una mano sulla spalla con fare cordiale.
«Alla
fine si tratta solo di un’interrogatorio di convalida.
Aspettami
con Aizawa e gli altri nel mio ufficio, sarò da voi prima di
quanto immagini.»
Rei rivolge un ultimo sorriso incoraggiante in direzione del ragazzo,
per poi avviarsi lungo il corridoio.
Enji lancia uno sguardo intenso verso Keigo. Ha l’impressione
che
riescano a capirsi senza parlare, come sempre. Poco dopo si affretta a
raggiungere sua moglie, con la certezza di sapere che il ragazzo
è in buone mani.
Rei apre una porta di legno dall’aspetto monumentale, e si
ritrova in una stanza dalle pareti verde pino e il soffitto altissimo.
C’è un tavolo imponente, sul quale sono state
depositate
pile di documenti e scartoffie, che si estende quasi per
l’intera
lunghezza della stanza. Dal lato opposto all’ingresso, il
giudice
ha già fatto accomodare Ryou e il suo avvocato.
«Buongiorno», esordisce Rei, poggiando il trench in
panno
bianco sull’appendiabiti per poi prendere posto a sua volta.
«Direi che possiamo cominciare», decreta il
giudice, con un sorriso bonario.
Rei gli rivolge un lieve cenno del capo, per poi spostare lo sguardo su
Ryou. «Signor Shigaraki, lei è accusato di
produzione,
detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, oltre che
dell’omicidio di Ukai Tomie», riepiloga, mentre
apre la
cartellina con il fascicolo dell’indagine che ha portato con
sé. «Cos’ha da dire in merito?»
Sul volto di Ryou compare un sorriso beffardo che Enji sarebbe ben
lieto di cancellargli a suon di pugni. Nel frattempo,
l’avvocato
dell’uomo si schiarisce la voce.
«A questo proposito, signor giudice», interviene
quest’ultimo, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo
con
quello di Rei. «Il mio assistito vorrebbe dichiararsi
colpevole
del primo reato, ma innocente per quanto riguarda il secondo.»
Enji non è sorpreso. Immaginava che, ovviamente, avrebbero
cercato di evitare la pena più consistente. Tutto
ciò,
però, non fa che accrescere il suo disgusto nei confronti di
Ryou.
Rei sposta lo sguardo sull’avvocato, con
un’espressione
confusa. «Nell’auto dell’imputato
è stata
rinvenuta una quantità notevole di pasticche di crimson»,
fa notare, interdetta. «La stessa droga che, secondo il
referto
autoptico, Ukai Tomie ha assunto poco prima del decesso.»
«Dettaglio ininfluente, signor giudice», insiste
l’avvocato, senza scomporsi. «Non ci sono prove che
attestino che, a far assumere alla signora Ukai questa droga, sia stato
il mio assistito, a meno che non ci vogliamo basare su una confessione
che non ha alcun valore giuridico.»
L’uomo parla col tono calmo di chi sa di non poter essere
contraddetto, e sul volto di Ryou c’è ancora il
sorriso
sfrontato di poco prima. Ed Enji sa che no, non
può riuscire a sopportarlo ancora a lungo.
All’improvviso, sotto ai paralumi verdi delle lampade da
scrivania disposte su tutto il tavolo, le luci cominciano a
sfarfallare. Rei, il giudice e l’avvocato si ritrovano a
osservare il fenomeno con aria perplessa.
Ryou, invece, ha un’espressione terrorizzata.
Non si è accorto della presenza di Enji, non l’ha
minimamente visto entrare. Il fantasma lo osserva con le mani infilate
in tasca, un sogghigno sul volto.
«Chi non muore si rivede, bastardo»,
commenta, malevolo.
Ryou si ritrova ad ansimare, la luce che prende a lampeggiare sempre
più velocemente. Alla fine chiude gli occhi, portandosi le
mani
alle tempie.
«Basta! Basta, confesso!», esclama, rassegnato.
«Sono stato io! Ho dato io alla Ukai quella droga.»
La luce delle lampade torna a essere fissa, mentre i presenti osservano
Ryou con espressioni diverse – il giudice sembra confuso,
l’avvocato disperato e Rei soddisfatta.
Enji, invece, si sente di colpo più leggero.
Un’esclamazione di esultanza accompagna lo schioppo del tappo
che vola via dalla bottiglia.
Lo studio di Rei è proprio come Enji se lo ricordava, non
sembra
cambiato di una virgola nel corso degli anni – le pareti blu
di
Prussia, la scrivania con tutte le pratiche ordinatamente sistemate, i
divanetti all’ingresso. Quel giorno si è riunito
lì
un folto gruppetto di persone – ci sono Shouta e Hizashi con
Eri
e Hitoshi, Emi e, naturalmente, Keigo. I presenti si passano tra loro
calici di spumante, e l’atmosfera generale è di
grande
allegria.
Dopotutto, c’è più di una cosa da
festeggiare.
Se, infatti, l’occasione è principalmente quella
di
celebrare la fine dell’indagine, tutti sanno bene cosa questo
stia implicitamente a significare.
«Congratulazioni, Rei.» Aizawa è il
primo a parlare,
lo sguardo che si posa con ammirazione sulla donna. «Adesso
potrai partire per Kyoto a cuor leggero.»
Rei abbassa per un momento lo sguardo sulla scrivania, le labbra
piegate in un sorriso. «Oh, sapete che niente di tutto questo
sarebbe stato possibile senza l’impegno di tutti
voi»,
commenta, modesta, tornando a osservare i presenti.
«Però
sì, è vero. Dopo aver risolto questo caso, sento
di aver
finalmente chiuso un capitolo importante della mia vita.
Chissà,
forse questo è stato il mio modo per offrire
l’ultimo
saluto a Enji.»
Shouta rotea gli occhi, ma non lo fa con malizia – forse la
sua
è solo esasperazione. «Enji», bofonchia,
rassegnato.
«La sua presenza è sempre stata così
ingombrante
che a volte sembra che non se ne sia mai andato davvero dal
commissariato.»
Enji non ha bisogno di voltarsi verso Keigo per sapere che sulle labbra
del ragazzo è comparso un sorriso imbarazzato.
«Beh, però in fin dei conti è
vero», si
ritrova a convenire Hizashi. «Se non fosse per la sua
indagine
sulla crimson,
probabilmente oggi non saremmo arrivati a questo risultato.»
Shouta incassa la testa nelle spalle, con fare arrendevole.
«E va
bene», cede allora, sollevando il calice in aria.
«Allora
facciamo che il prossimo brindisi lo dedichiamo a lui.»
La proposta raccoglie consensi entusiasti tra i presenti, che si
ritrovano ad annuire con decisione. Poco dopo si limitano a imitare
Aizawa, alzando anche i loro bicchieri.
«A Enji», pronuncia, con fare solenne.
«Senza il
quale non saremmo riusciti a risolvere questo caso e che continua a
tormentare la nostra esistenza.»
«A Enji», ripetono tutti, in un coro commosso.
«Testa di cazzo», commenta Enji, alle spalle di
Shouta.
Seduto vicino a Keigo su uno dei due divanetti c’è
Hitoshi, impegnato a tenere Eri sulle gambe. Lei, divertita e confusa,
continua a fargli domande su quello che sta succedendo a cui lui cerca
di rispondere, un po’ impacciato. Lo zainetto a forma di
ranocchia è a terra, lì vicino a loro.
Alle parole di Enji, Keigo non riesce a trattenere un sorriso. Mentre
gli altri bevono, gli sguardi dei due sono l’uno solo per
l’altro.
Eri corre allegra davanti a sé, mentre Hitoshi fa fatica a
starle dietro.
La risata della bambina riempie l’aria, e Shouta si chiede
quando
sia stata l’ultima volta che l’ha vista
così
spensierata.
È sera e lui, Hizashi e i ragazzi stanno facendo una
passeggiata
in città. Intorno a loro ci sono i locali che iniziano a
riempirsi di clienti per la cena, le luci dei lampioni che cominciano
ad accendersi lungo la strada e si riflettono nel fiume.
«È tutto perfetto», valuta Hizashi, con
quell’aria da eterno bambino meravigliato che ha fatto
innamorare
Shouta di lui.
Shouta si ferma, e Hizashi si sente tirare indietro, la mano di Aizawa
ancora stretta attorno al suo polso. Sta per dirgli qualcosa, ma prima
che possa riuscirci le labbra di Shouta sono sulle sue, intrappolandole
in un bacio intenso.
«Adesso lo è», precisa Aizawa,
sentendosi sereno come non gli capitava da tanto tempo.
Sul volto di Hizashi compare un sorriso delicato. Ti amo, vorrebbe
dirgli. Ti amo
anch’io, finirebbe di sicuro per rispondergli
Shouta.
I due riprendono a camminare, affrettandosi a raggiungere Hitoshi ed
Eri.
«Questo era l’ultimo.»
Lo sguardo di Rei si ritrova a vagare in quello che per lunghi anni
fino a poche ore fa è stato il soggiorno di casa sua. Ha
appena
portato in macchina l’ultimo pacco con le cose che ancora non
aveva spedito a Kyoto, quello stretto necessario che ha tenuto con
sé in quei pochi giorni d’indagini a Tokyo.
Keigo è davanti a lei, e la osserva sorridente. Ha proposto
con
piacere a Rei di aiutarla con gli scatoloni, così adesso si
ritrova in quella casa che la donna per anni ha condiviso col marito.
Gli occhi di Rei si posano con dolcezza e riconoscenza sul ragazzo.
«Ora che farai?», domanda, premurosa.
Keigo porta le braccia dietro alla schiena, dondolando un po’
sui
talloni. «L’istituto è stato
chiuso», ammette,
chinando appena la testa di lato. «Era inevitabile, dopo
tutti
gli scandali che sono usciti fuori trovare dei finanziatori disposti a
supportare il progetto era un po’ un suicidio. Nei giorni
scorsi
sono stato a prendere la mia roba e per il momento mi sto appoggiando
da Kaina. Adesso… probabilmente cercherò di
riaprire
l’Owl. Sento che, in un certo senso, lo devo a mia
madre.»
Rei annuisce, colpita. «È una splendida
idea», si ritrova a valutare, con stupore.
Keigo accenna un altro sorriso nella sua direzione, e Rei si sporge in
avanti, abbracciando il ragazzo.
È una stretta così tenera e materna che, per un
momento,
Keigo è colto di sorpresa, imbarazzato. Le braccia di Rei,
però, sono troppo gentili, così poco dopo si
è
già sciolto e cerca un po’ impacciato di
restituirle
l’abbraccio come può.
«Lo sai che per qualsiasi cosa io ci sono sempre,
sì?», gli domanda la donna, passando una mano tra
i suoi
capelli dorati.
«Certo…», le assicura lui, posando una
guancia sulla sua spalla.
Rei scioglie lentamente l’abbraccio. Quando si separa dal
ragazzo, fruga per un momento nella tasca della giacca, per poi
recuperare qualcosa e porgergliela.
«Queste sono per te», spiega, lasciando cadere il
mazzo di
chiavi nelle mani di Keigo. «Sono di questa casa. Ci ho
pensato a
lungo, e mi sono detta che piuttosto che lasciarla a qualche
sconosciuto, è giusto che sia tu ad averla. Hai fatto
così tanto per me ed Enji, e sono certa che anche lui
sarebbe
d’accordo.»
Keigo le rivolge uno sguardo pieno d’imbarazzo, mentre dopo
un
primo istante in cui non è riuscito a far altro
che restare
immobile cerca di restituirle le chiavi. «No, Rei, non posso
accettare», balbetta, incredulo. «È
d-davvero
troppo…»
Rei posa gentilmente le dita su quelle del ragazzo, facendogliele
richiudere attorno alle chiavi. «No, non lo
è», lo
rassicura lei, col suo tono pacato.
Keigo rivolge uno sguardo intenerito alla donna, che gli lascia una
carezza leggera sulla guancia. Rei gli dedica ancora un sorriso sereno,
per poi infine aprire per l’ultima volta il portone di casa,
richiudendolo mentre abbandona alle proprie spalle quegli anni di vita
a Tokyo.
Il portone si chiude, e da dietro di esso Keigo vede comparire Enji.
Ha assistito a tutto il saluto tra i due, e si trova a valutare che,
come al solito, anche stavolta Rei ha preso la decisione giusta: non
esiste al mondo persona più meritevole di Keigo di
abitare
in quell’appartamento.
«Ha ragione lei», commenta infatti, chinando appena
il capo verso il portone.
Lo sguardo di Keigo si sposta di lato, coperto da un velo di
malinconia. «Dunque ci siamo…», valuta,
esitante.
Enji sa cosa sia a turbare il ragazzo – ne sono consapevoli
entrambi, in realtà. Ormai il suo tempo nel mondo dei vivi
sta
per scadere, e sono giunti ai saluti finali.
«Beh, sapevamo che questo momento sarebbe
arrivato», gli fa
notare Enji, stringendosi nelle spalle mentre gli rivolge un sorriso
incoraggiante.
Keigo si avvicina a lui, socchiudendo le palpebre. «Cerchiamo
almeno di salutarci come si deve, allora», propone, con voce
suadente.
Prima che Enji possa chiedergli cosa intende, sente il proprio corpo
guadagnare nuovamente densità. Osserva il ragazzo con
un’espressione sorpresa, credeva che non sarebbe
più
ricorso a quell’espediente, ma Keigo non gli lascia il tempo
di
rivolgergli una parola, perché l’istante
successivo gli ha
già gettato le braccia al collo, posando le labbra sulle sue.
Enji si ritrova a chiudere gli occhi, pieno di meraviglia. Affonda le
dita tra i capelli del ragazzo, stringendolo a sé mentre
approfondisce il bacio, spingendo Keigo con la schiena contro la parete.
«Non mi lasciare», sente mugugnare il ragazzo, tra
un bacio
e l’altro. «Ti prego, non mi
lasciare…»
Enji sente che c’è qualcosa di diverso, questa
volta.
Nelle parole di Keigo, nel modo in cui le sue dita
s’aggrappano
ai vestiti, avverte una cieca disperazione.
«Devo andare, lo sai…», sussurra,
prendendogli il viso tra le mani.
«I-io non ce la faccio senza di te…»,
replica ancora Keigo, con la voce rotta.
A Enji sembra di non aver mai visto il ragazzo così vicino
al
pianto come in quel momento. «Sì che ce la
fai», lo
rassicura, scostandosi appena da lui ma continuando a tenerlo vicino a
sé. «Sei riuscito a sopravvivere in questi tre
anni senza
di me o sbaglio?»
«Sì, ma guarda dov’ero
finito!», insiste il
ragazzo, sconfortato, lasciandosi sfuggire una risata triste.
«In
una sorta di comune per gente con i superpoteri…»
«Ehi, Keigo.» Enji gli prende il volto tra le mani,
cancellando i segni di lacrime dalle guance e afferrandogli il mento
tra pollice e indice per fargli sollevare il capo. «Guardami.
Sei
una delle persone più intelligenti e coraggiose che conosca.
Puoi riuscire a fare tutto ciò che desideri. Io ho piena
fiducia
in te.»
Il ragazzo ricambia il suo sguardo, gli occhi dorati che tremolanti si
aggrappano ai suoi come alla ricerca di un’ancora.
«Enji…», mormora piano, un sospiro che
gli sfugge
dalle labbra mentre le palpebre tornano ad abbassarsi sui suoi occhi.
Enji gli passa per un’ultima volta il pollice sulle labbra,
facendo appena in tempo prima di tornare di nuovo inconsistente.
Keigo gli volta piano le spalle, lasciandosi sfuggire un singhiozzo
mentre stringe le braccia attorno al corpo. «Vai,
adesso»,
lo esorta, debolmente. «Vai, perché altrimenti non
ce la
faccio a lasciarti andare.»
Enji allunga istintivamente una mano verso il ragazzo, cercando di
sfiorarlo, ma tutto ciò che le sue dita si ritrovano a
stringere
è solo aria. Va
bene così, in fondo, si dice tra sé.
Dopotutto, non potrebbe
essere altrimenti.
Enji chiude gli occhi, svanendo e lasciando per l’ultima
volta quella casa.
Quando Keigo torna a voltarsi, è rimasto da solo
nell’appartamento.
Fuori, un tuono squarcia l’aria mentre comincia a piovere.
Come la prima volta, si ritrova a valutare Keigo.
Le lacrime continuano a scendergli dagli occhi, mentre le sue labbra si
piegano in un sorriso.
Enji si ritrova sul tetto dove ha perso la vita, tre anni prima.
Non fa in tempo ad arrivare lì che un temporale si abbatte
sulla città. Come
quella notte, come la prima notte.
La luce è lì, dove l’ha vista per la
prima volta,
dopo la sua morte. È calda e accogliente come sempre, ed
Enji sa
che non vuole più scappare via da lei.
Non si è mai chiesto che cosa ci sia ad aspettarlo oltre di
essa. Se potesse scegliere, probabilmente sarebbe bloccato
all’infinito in un istante, mentre lui e Keigo sono distesi
su un
letto e tiene il ragazzo tra le braccia.
Keigo. Enji
non sa come, ma
non ha dubbi che lui e il ragazzo sapranno ritrovarsi di nuovo, in
qualche modo. Sono destinati a incontrarsi in ogni universo, ormai ne
è certo.
Finalmente, Enji attraversa quella luce, pronto ad andare.
Nella
vita, la fine non esiste.
Nelle
storie, invece, sì.
✽✽✽
È una giornata tiepida di primavera. Dalla vetrina del bar,
la
luce del sole entra all’interno del locale e
s’infrange
sulle sue ciglia dorate.
Keigo si passa una mano sulla fronte. Alla fine ce l’ha
fatta,
è riuscito a riaprire l’Owl e adesso se ne occupa
dedicandosi anima e cuore all’attività.
Tutto sommato, gli affari stanno anche andando bene.
C’è
sempre un viavai di clienti, e sente che non ha niente di cui
lamentarsi, davvero.
Pulisce con un panno il bancone del bar, sereno. È
metà
mattinata, a quest’ora sono quasi tutti a scuola o al lavoro,
così lui può tirare un sospiro di sollievo e
godersi un
momento di calma prima della prossima ora di punta.
Di colpo, la sua attenzione viente attirata dallo sfarfallio di una
luce, in una delle lampade sospese sopra al bancone. Resta per un
attimo interdetto, come accarezzando un dolce ricordo.
Probabilmente dovrebbe cambiare quella lampadina, già.
Poco dopo, la campanella sopra la porta trilla, annunciando
l’arrivo di un gruppo di nuovi clienti.
Keigo scuote la testa scacciando un pensiero, per poi affrettarsi a
raggiungere i clienti mentre rivolge loro un sorriso.
note
Fine.
ah, mi sembra incredibile essere riuscita finalmente ad arrivare alla
conclusione di questa storia. è stato un viaggio
lunghissimo, la
storia è stata in stesura per dieci mesi, se poi ci
aggiungiamo
i tre di pubblicazione arriviamo a circa un anno. in effetti, era
più o meno questo periodo quando, l'anno scorso, finivo di
scrivere il primo capitolo. un percorso impegnativo, non c'è
che
dire.
non so se la risoluzione della parte investigativa sia stata troppo
affrettata, ma la verità è che sono una frana con
queste
cose.
per quanto riguarda enji e keigo, invece, lo confesso: avrei preferito
molto di più lasciarli per sempre insieme, ma mi rendo conto
che
questa fosse l'unica soluzione sensata possibile.
un po' mi spiace che la storia sia "floppata", dall'altra parte
però vbb dai, non fa niente, ormai è andata.
adesso sinceramente penso che mi prenderò una pausa dal
sito. un
po' perché i mesi passati dietro a questa long hanno
prosciugato
le mie energie, un po' perché al momento sto lavorando a
qualcosa che non ho intenzione di postare.
grazie a chiunque abbia letto e seguito questa long, spero che vi sia
piaciuta! ♡
aria
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