(im)possibile

di _ A r i a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** alla fine la luce torna sempre ***
Capitolo 2: *** fantasmi dal passato ***
Capitolo 3: *** scheletri nell'armadio ***
Capitolo 4: *** i ricordi tornano a galla ***
Capitolo 5: *** l'impossibile diventa possibile ***
Capitolo 6: *** il male dove non te l'aspetti ***
Capitolo 7: *** la fine non esiste ***



Capitolo 1
*** alla fine la luce torna sempre ***




(im)possibile

Il bus diretto a Tokyo si è fermato per una pausa in un’area di sosta lungo l’autostrada. L’autista ha comunicato che sarebbero rimasti lì per un’ora e poi sarebbero dovuti ripartire.
Keigo è sgusciato fuori dal suo posto solitario in fondo all’autobus ed è entrato nella stazione di servizio senza togliersi il cappuccio da sopra il capo. Ha notato alcuni dei – pochi – passeggeri che condividono il viaggio con lui aggirarsi tra le corsie di dolciumi e power bank per cercare di rendere le ore d’attesa meno gravose ma si è limitato a ignorarli, scendendo invece in fretta le scale che portano ai bagni.
«Aspettami nell’area comune. Vedo di sbrigarmi», commenta senza voltarsi. Un secondo dopo è già scattato in avanti.
Ha lasciato l’istituto in fretta e furia e non ha avuto nemmeno il tempo di darsi una sistemata. Si butta sotto un getto d’acqua calda per una doccia rapida, lava i capelli e poi si cambia alla svelta. Mette una t-shirt sotto alla felpa pulita, ma almeno non sono i maglioni pesanti in cui ormai da mesi si avvolge tra le nevi ghiacciate. Si passa il getto caldo del phon tra i capelli dorati e umidi – sono in disordine come sempre, ma almeno adesso rispetto a prima sembrano un po’ meno un disastro – e infila alla rinfusa i vestiti che si è tolto nello zaino, unico baluardo che è riuscito a recuperare prima di lasciarsi alle spalle gli ultimi tre anni di vita. Tira un sospiro leggero, ma alla fine si decide a tornare verso l’area comune.
La porta dei bagni sbatte alle sue spalle, ma Keigo cerca di non farci caso. Si ferma davanti ai lavandini, posa lo zaino accanto a sé e ne approfitta per guardarsi un momento allo specchio.
Come aveva ipotizzato, ha un aspetto orrendo. Avvicina per un momento una mano al volto, tracciando con le dita il segno violaceo delle occhiaie. I capelli continuano a essere nelle solite pessime condizioni.
Keigo si lascia sfuggire un nuovo sospiro sconsolato. Questa non è la vita che ha condotto fino a settantadue ore prima. Gli sembra di essere tornato indietro di tre anni, e la cosa gli lascia addosso un miscuglio eterogeneo di emozioni: rabbia, paura, felicità.
Per la verità, se adesso qualcuno gli chiedesse come si sente, probabilmente non saprebbe cosa rispondere.
Keigo scuote brevemente la testa, abbassando lo sguardo. Si sciacqua in fretta la faccia con l’acqua gelata, per poi aprire una tasca esterna e tirare fuori spazzolino e dentifricio; dopo aver armeggiato un po’ col tubetto, quando solleva di nuovo il capo, vede che il suo riflesso è comparso nello specchio.
«Ci ho messo tanto?», s’informa, mentre un sorriso beffardo gli compare sul volto. Ha paura, perché dopo tanto tempo gli sembra di provare nuovamente quel sentimento che gli fa battere il cuore in petto veloce come le ali di un colibrì.
«Meno della metà del tempo disponibile», gli comunica, con quella voce che in un istante riempie il bagno e la sua testa – e, oh, come gli era mancata quella sensazione.
Keigo annuisce brevemente.
«Okay. Ricapitoliamo», conclude, prima di infilarsi lo spazzolino in bocca.

Il tempo può scorrere in maniera insopportabilmente lenta quando sei un fantasma.
Enji, ormai, l’ha capito da tempo. Negli ultimi tre anni si è limitato a vegliare con attenzione e costanza sulla sua famiglia. Ha visto i ragazzi crescere, Rei riprendersi lentamente la sua vita e, adesso, ciascuno di loro è ormai pronto ad andare avanti. Da giorni la vecchia casa di Tokyo è invasa da scatoloni in vista dell’imminente trasferimento di Rei a Kyoto. Ha ottenuto un incarico prestigioso, e più Enji la osserva più si convince che non veda l’ora di cominciare a lavorare in quella nuova città.
Anche Natsuo e Fuyumi ora lavorano. Loro resteranno a Tokyo, dove hanno delle carriere già brillantemente avviate.
Infine c’è Shoto, che ha cominciato l’università e sembra aver trovato finalmente la sua strada. Ora che Enji è condannato a quella tortura eterna, in cui è pronto per andare avanti ma non gli è concesso farlo perché qualcuno l’ha trattenuto lì, osservare la sua famiglia è tutto ciò che può ancora permettersi. Inutile dire che sia immensamente fiero di ciascuno di loro.
A Tokyo è una mattina mite di gennaio, nel cielo terso si staglia un sole che rende l’aria tiepida e piacevole. Rei è uscita per una passeggiata in direzione del porto e Shoto è in università, ma quella mattina Enji ha seguito i passi di Fuyumi.
Sua figlia è una maestra in una piccola scuola elementare della capitale. Approfittando del bel tempo, quella mattina ha deciso di accompagnare i suoi alunni nel giardino della scuola per passare lì la ricreazione. Fuyumi osserva con attenzione ciascuno di loro, ed Enji nota che come sempre i suoi occhi sono pieni di dolcezza.
Una bambina col cappottino rosa corre a passo spedito nella sua direzione. «Maestra! Maestra!», la chiama a gran voce, tirandole un lembo della giacca quando finalmente la raggiunge. «Guarda! Momo mi ha strappato via la sciarpa!»
Fuyumi si china subito per essere alla stessa altezza della bambina, rivolgendole il più dolce dei suoi sorrisi. «Davvero? Fammi vedere…», le propone, rassettandole la giacca e posandole nuovamente il cappello di lana in testa, coprendo i corti capelli castani raccolti in due codini ai lati del capo.
La bambina sembra subito rassicurata dai gesti di Fuyumi, al punto da sorriderle felice. La scena è così tenera che, per un momento, anche sul volto di Enji compare un sorriso mentre si limita a osservare, restando a qualche metro di distanza.
Almeno finché non sente una voce giungere alle sue spalle.
«Sapevo che ti avrei trovato qui…»
Enji non ha bisogno di voltarsi per sapere di chi si tratta. Trattiene a stento un ringhio tra i denti, per poi cominciare ad allontanarsi con delle grandi falcate.
L’altra persona, però, non sembra affatto intenzionata a lasciarlo andare. «Vieni sempre a passare le tue giornate qui, non è vero?», gli domanda, seguendolo.
Enji infila nervosamente le mani in tasca. «Che diavolo vuoi, Tomie?», sbotta, voltandosi solo in quel momento in direzione della donna.
Sono passati tre anni, ma Tomie non sembra essere cambiata affatto. Stessi capelli color menta acida, stesso aspetto allampanato, stesso sguardo perso, lontano. Non c’è da sorprendersi che sia una delle poche persone in grado di vedere Enji anche se ormai non fa più parte del mondo dei vivi.
Tomie si stringe nel giaccone pesante che indossa, come se le fosse venuto un brivido di freddo improvviso. «Ho avuto una visione», confessa, lo sguardo che saetta nervoso dall’asfalto del marciapiede alla strada davanti a sé. «Si tratta di Keigo–»
Enji si arresta di colpo, fulminando la donna con lo sguardo. «Per me Keigo è morto tre anni fa», taglia corto, sprezzante.
Tomie sembra in difficoltà sotto quello sguardo solo per mezzo secondo. Sobbalza appena sul posto, ma l’istante successivo si già rimessa alle calcagna di Enji. «Sono preoccupata», insiste, tenace. «Da quando Ryou l’ha portato in quell’istituto tre anni fa non mi ha più rivolto la parola. Ho scoperto delle cose, su quel posto… temo che Keigo possa essere in pericolo, e tu sei l’unico a cui dà ascolto…»
«Allora non hai capito», ringhia Enji, voltandosi nuovamente verso la donna. «Ti ricordo che se sono bloccato qui è solo merito di tuo figlio. Adesso perdonami, Tomie, ma ho l’eternità da buttare tra momenti in cui osservo la vita delle persone a me care senza poter interferire ed altri in cui il tempo scorre ma non so nemmeno come.»
L’istante successivo Enji è già svanito, lasciando Tomie attonita sul marciapiede.

Lo scroscio di applausi nel momento in cui termina di discutere la sua tesi gli infonde l’emozione più forte che abbia provato negli ultimi tre anni.
Keigo osserva con un sorriso raggiante il suo uditorio. Seduti in prima fila ci sono Kaina, Jin e Himiko, che applaudono ed esultano. Sembrano incredibilmente fieri di lui.
E, forse, per una volta in vita sua anche Keigo si sente fiero di sé. Sente di aver messo tutto se stesso in quella tesi, e che non avrebbe potuto scegliere un argomento diverso. Forse era anche il momento giusto, come per piantare un paletto nel percorso della sua vita e dire “ecco, sei passato da qui, adesso devi solo andare avanti”.
Ha terminato i suoi studi alla facoltà di Parapsicologia con una dissertazione che ha come fulcro la presenza di entità sovrannaturali nella vita comune e la loro capacità di influenzare l’esistenza di chi può percepirli. Ovviamente, c’è molto di autobiografico nelle sue parole: non vede Enji da tre anni, ma non ha dimenticato come per lui sia stato in grado di calarsi su un balcone dal piano di sopra, delle innumerevoli volte in cui si è cacciato nei guai, qualcuno ha minacciato di fargli del male o ha rischiato di morire. Sa solo che, in quei momenti, non gli importava di nulla, avrebbe fatto di tutto per lui e, forse, le cose non andrebbero in maniera molto diversa se dovesse incontrarlo di nuovo adesso. Questo, però, è impossibile, Keigo ormai lo sa bene: dopo che lo ha trattenuto contro la sua volontà, Enji l’ha abbandonato su quella terrazza e non l’ha cercato più. Keigo non stenta a dubitare che, ovviamente, Enji continuerà volentieri a evitarlo.
La voce di Ryou lo riporta alla realtà. Keigo sposta i suoi grandi e luminosi occhi dorati su di lui nel momento in cui lo sente alzarsi dalla sedia.
«La commissione ha deciso di assegnare al candidato la votazione di centodieci con lode», comunica, con la solita voce pacata e imperturbabile.
Dall’uditorio si solleva una nuova acclamazione. Jin e Himiko si scambiano uno sguardo sorpreso, per poi voltarsi nuovamente verso Keigo e applaudire ancora.
«Questa era l’ultima discussione per oggi. Adesso, se volete, potete accomodarvi nella stanza qua accanto, dove è stato preparato un piccolo rinfresco», conclude la voce di Ryou.
Keigo lo avverte a malapena. In quel momento, sente il cuore incredibilmente leggero. Vedere i suoi amici così felici per lui applaudirlo in prima fila fa scintillare ancora di più i suoi occhi. Il ragazzo sorride, pieno d’entusiasmo, mentre sente una mano serrarsi attorno al suo braccio.
È Ryou, ovviamente. Si è dileguato in fretta dal gruppo dei suoi colleghi e, adesso, è lì accanto a lui come sempre. «Complimenti. Sei stato bravissimo», gli mormora all’orecchio, prima di scivolare al suo fianco e immergersi nella folla che quel giorno colma l’aula.
Keigo sente il cuore frullare veloce nel petto. Ormai conosce Ryou da anni, eppure quando si trova vicino a lui si sente ancora come se lo incontrasse per la prima volta.
Finalmente Keigo si decide a scendere dal podio. Là sotto trova ad aspettarlo i suoi amici.
Prima che possa accorgersene, Himiko gli posa in testa una corona d’alloro.
«Grande, Keigo! Finalmente ce l’hai fatta anche tu!», esulta Jin, saltellandogli attorno.
Keigo si lascia sfuggire una risatina leggera, le dita che accarezzano le foglie d’alloro. «Ah, grazie, ragazzi», mormora, strizzando gli occhi per la gioia.
«Beh, non credere che sia finita qui», gli fa notare Himiko, abbracciandolo da dietro. «Adesso bisogna festeggiare.»

È una mattina come tante altre per Touya.
Ci sono ancora i piatti della sera prima da lavare nell’acquaio. E quelli della colazione. E di due giorni fa.
Sapeva che andare a vivere da solo avrebbe portato delle responsabilità, tuttavia non ha tenuto conto della propria pigrizia.
Ecco perché ora sono le sei di mattina, tra due ore inizierà la prima lezione di giornata dell’università e lui non ha nemmeno una tazza pulita per il caffè. Beh, quel noioso giorno d’inverno ha proprio deciso di partire in salita.
Almeno finché poco dopo due braccia gli cingono la vita.
Istintivamente Touya permette all’altra persona di aiutarlo a voltarsi, e lascia che poco dopo gli posi un bacio leggero sulle labbra.
Touya sorride, passando una mano tra i capelli arruffati dell’altro. «Già sveglio?», domanda, sorpreso.
«Non credere che non mi avrebbe fatto piacere dormire ancora un po’. Diciamo… per tre giorni di fila», ammette Tenko, senza allontanare il volto da quello di Touya. «Sfortunatamente però stamattina ho lezione anch’io.»
Touya scuote la testa. «Tks, quest’università… prima o poi finirà per ucciderci», commenta ironico, lasciando che Tenko appoggi la testa sulla sua spalla.
Convivere non sarà esattamente la cosa più facile del mondo, valuta tra sé Touya, ma almeno è felice di poter condividere quell’esperienza con Tenko.

Shouta è sveglio da due ore ma tornerebbe già volentieri a dormire.
Sia chiaro, non che non provi gratitudine per il proprio lavoro o altro. Tra i propri meriti e, ahimé, le defezioni di altri colleghi, adesso a occuparsi di quel commissariato è lui.
Quando entra in ufficio ha già un caffè da asporto – bello lungo e denso – in mano, ritirato al bar prima di recarsi lì. Senza di quello, cominciare la giornata sarebbe davvero difficile.
Vede Kan sbucare da una porta laterale e avvicinarsi a lui con veloci falcate e vorrebbe diventare invisibile all’istante. Oh, no, pensa, osservando la pila di fogli tra le mani del collega, non scartoffie di prima mattina.
«Buongiorno, commissario Aizawa», lo saluta, con la solita voce bassa ma energica. «Ho giusto qui alcuni verbali da controllare per lei–»
«Ottimo, me li puoi lasciare sulla scrivania», taglia corto Shouta. L’ultima cosa di cui desidera occuparsi al momento sono degli inutili e noiosissimi verbali.
Una volta entrato nel suo ufficio, Shouta si siede alla scrivania. Aspetta che Kan sia uscito, chiudendo la porta alle proprie spalle con fin troppa forza, per poi estrarre finalmente il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
La chat con Hizashi è silenziosa da almeno un mese, il che è ridicolo. Non conosce persona più chiassosa e loquace del proprio partner, per cui quella scomparsa improvvisa lo insospettisce e non poco.
Sono giorni che pensa a cosa sarebbe meglio fare. Ogni volta pensa per ore a quale sarebbe il messaggio giusto da inviare, riflette, sta lì, compone, salvo poi finire ogni volta per cancellarlo.
Ci prova anche quella mattina, come sempre d’altronde. Ciao, Hizashi, come stai? Ti andrebbe di vederci?
Shouta resta a fissare le lettere sullo schermo per un tempo indefinibile, almeno fino a quando smette anche quel giorno di essere convinto di ciò che ha scritto. Ti andrebbe di vederci? Che razza di domanda è? A che titolo gliela potrebbe porre? Perché sono andati a letto insieme un paio di volte? Perché fino a pochi mesi prima era certo che stessero per intraprendere una relazione?
Come se cambiasse qualcosa, poi. Hizashi è sparito da mesi, loro due non hanno più avuto alcun genere di contatto e, si dice Shouta, forse era esattamente questo ciò che desiderava Hizashi. Sparire dalla circolazione e, di conseguenza, anche dalla sua vita.
Per cui, se davvero il desiderio di Hizashi è quello di sparire, allora perché mai dovrebbe ostinarsi a cercarlo?
Shouta scuote la testa, cancella il messaggio e lascia cadere con pesantezza il telefono sulla scrivania. Sconfortato, recupera uno dei verbali e comincia a leggerlo.

Quando sei un fantasma, il tempo scorre in maniera sorprendentemente buffa, come se si divertisse a farsi beffa di te.
Un attimo prima sei nella casa che per anni hai condiviso con tua moglie e la osservi mentre si aggira tra pile di scatoloni. Le stanze sono ormai vuote, tutti i mobili sono già stati trasferiti a Kyoto tranne un paio di pezzi essenziali – il frigorifero, il materasso.
Un attimo dopo ti trovi nel bel mezzo di una strada buia e deserta, probabilmente in un posto dimenticato dal resto del mondo. È una strada tortuosa, all’apparenza anche piuttosto malridotta, come se nessuno sia più passato di lì da anni.
Deve trovarsi in prossimità della montagna, perché quello che lo circonda è senza dubbio un bosco, e sia a terra che tra le fronde degli abeti persiste ancora della neve.
Enji non ha la più pallida idea del perché si sia ritrovato lì, almeno finché non vede l’auto andare fuori strada.
L’impatto è così violento da stroncare il guardrail a protezione della curva, mentre il veicolo finisce giù per una scarpinata.
Enji osserva attonito per alcuni momenti il punto in cui ha visto l’auto svanire nelle tenebre della notte, come se non riuscisse a realizzare ciò che è appena accaduto.
Poi, finalmente, si decide ad avvicinarsi. Nelle sue condizioni deve solo desiderare di farlo, e l’istante successivo si trova diversi metri più in basso rispetto al suo precedente punto d’osservazione. Lì la boscaglia sembra far posto a una piccola radura, l’erba alta e smeraldina ha accolto il veicolo, che ora giace capovolto e ammaccato, il tettino sul terreno e le ruote rivolte verso il cielo.
La macchina sembra abbandonata lì con la stessa casualità di una cartaccia, il motore ancora rovente. Enji si avvicina, tra finestrini frantumati ridotti ormai a schegge di vetro che si sono amalgamate col terriccio, e osserva la persona seduta al posto di guida.
Finisce per inorridire nel momento in cui si rende conto di sapere esattamente di chi si tratta. In effetti, ci ha parlato per l’ultima volta a malapena dodici ore prima.
«Tomie?», domanda, incredulo, osservando il sangue che cola dalla ferita alla testa della donna.
Enji solleva solo per un attimo il capo, ma tanto gli basta per accorgersi che Tomie è lì.
In piedi, con le scarpe che affondano nell’erba umida.
Impossibile, è la prima cosa che riesce a pensare. L’ho appena vista lì, dentro l’auto…
Poi capisce.
Una luce calda e avvolgente inizia a brillare, poco distante da loro. Enji la conosce bene, sono diverse le volte in cui in passato gli è apparsa davanti, eppure finora non l’ha mai attraversata. L’ultima volta l’ha quasi fatto, non aveva davvero più alcun motivo per restare, eppure Keigo l’ha trattenuto contro il suo volere, costringendolo a quell’eterno vagare in cui è ancora intrappolato.
Tomie procede senza esitazioni verso quella luce – ed Enji la capisce, sa quanto il desiderio di attraversarla possa essere totalizzante.
«Tomie? Tomie, riesci a sentirmi? Riesci a vedermi?», prova a chiamarla Enji, ancora una volta, tuttavia la donna non sembra riuscire a percepirlo in alcun modo.
Tomie è ormai arrivata in prossimità della luce, quando succede qualcosa di strano.
Una visione. Enji ne ha avute altre in passato, quella in cui ha visto Rei venire minacciata e quella in cui, invece, a essere in pericolo era Shoto.
Adesso, però, le cose vanno in maniera diversa.
Enji vede chiaramente il volto terrorizzato di Keigo. L’istante successivo, il ragazzo cade all’indietro, nel vuoto.
Enji percepisce qualcosa di strano, come una sorta di brivido che gli corre lungo la schiena – il che è assurdo, visto che è un fantasma e non può più avvertire sensazioni umane come quella. Cerca, tuttavia, di ridestarsi in fretta.
«Che significa, Tomie? Hai detto che Keigo è in pericolo, di cosa si tratta?», la chiama ancora Enji, disperato. «Aiutami a salvarlo! Tomie! Tomie!»
A nulla servono i tentativi di Enji di attirare l’attenzione della donna. Poco dopo Tomie passa dall’altra parte, senza che lui possa impedirglielo in alcun modo.
La luce si spegne con un ultimo, accecante bagliore finale. Perfino Enji è costretto a chiudere gli occhi. Quando li riapre, Tomie è svanita nel nulla, lasciandolo da solo nel bel mezzo di una radura buia.

È da poco passata mezzanotte quando la porta della camera di Keigo viene aperta lentamente.
Kaina ha chiesto alla signora della portineria un paio di chiavi di riserva non appena ha ricevuto la notizia con una telefonata da parte della polizia.
Keigo è sepolto nel letto con la testa sotto alla trapunta pesante, sembra essere profondamente addormentato. Ha lasciato la luce dell’abat-jour sul comodino accesa, e quel lume fioco rischiara appena la stanza.
Kaina si avvicina con prudenza al letto, sedendosi piano su di esso. Sente lo sguardo della signora che le ha dato le chiavi fisso su di sé, e per quanto la infastidisca e gradirebbe volentieri mandarla a quel paese si costringe a trattenersi per il momento, perché, si dice, ora come ora ha questioni ben più importanti di cui occuparsi.
Posa una mano sulla spalla di Keigo, cercando di non essere troppo brutale mentre lo scuote. Dorme così bene che svegliarlo è quasi un peccato, tuttavia sa che non può fare altrimenti.
«Keigo, avanti, svegliati», lo esorta, paziente.
Per tutta risposta, Keigo si lascia sfuggire un lungo mugolio. È disteso su un fianco, ma dopo che Kaina ha insistito per un po’ finisce per mettersi supino sul materasso.
«Mhh. Che c’è?», chiede, la voce impastata di sonno.
Kaina lo fissa, lo sguardo colmo d’apprensione. «Si tratta di Tomie. Ha avuto un incidente», gli comunica, con voce gentile.
«Un incidente?», domanda ancora Keigo, perplesso, mentre si stropiccia le palpebre con le mani.
«Keigo… Tomie è morta», gli rivela Kaina, senza riuscire a non sentire un peso enorme gravarle sul petto.
Gli occhi dorati di Keigo si aprono incerti sul mondo. Non si sente esattamente nelle proprie condizioni di salute migliori, tuttavia si costringe a mettersi seduto sul letto. Poggia la schiena contro la testiera, gli occhi ancora socchiusi. Sente la testa girare in maniera vorticosa, tuttavia si dice che non è il momento di curarsi di questo.
«Come sarebbe a dire che è morta?», chiede, ma la verità è che quella frase non suona affatto come una domanda. È piatta, impassibile, quasi indifferente. Forse non è neppure sorpreso che sua madre sia morta. Ha passato tutta l’infanzia e l’adolescenza a crederla morta, in più non la sentiva più da letteralmente tre anni. Si erano riavvicinati quando gli aveva confessato di poter parlare a sua volta coi morti, ma prima di allora era stata un’estranea e, da quando Ryou l’ha portato in Hokkaido, era tornata a esserlo. Senza contare che, ormai, ha perso il conto di tutte le volte in cui la morte è venuta a trovarlo, gli è passata accanto senza sfiorarlo ma portandogli via sempre qualcosa di caro. Questa, in fondo, non è che una delle tante. Alla fine, piuttosto che essere sconvolto, Keigo ci è quasi abituato.
Kaina posa di nuovo una mano sulla spalla del ragazzo. Non sa bene come interpretare il silenzio di Keigo, ma immagina che stia cercando di metabolizzare la notizia.
«Te la senti di andare sul luogo dell’incidente?», gli propone la donna, cercando di essere il più delicata possibile.

«Grazie per il passaggio», mormora Rei, stringendo piano tra le mani la propria cintura di sicurezza.
«Figurati.» Shouta tiene lo sguardo dritto sulla strada davanti a sé. «Quando è arrivata la notizia in commissariato ho pensato subito a te. Ero certo che ti interessasse saperlo.»
«È così», ammette Rei, prima di spostare il capo di lato. I suoi occhi si perdono oltre il finestrino, cercando di seguire il paesaggio che si rincorre man mano che procedono lungo quella vecchia strada tortuosa: boscaglia a non finire, oltre ad alcuni cumuli di neve al suolo.
Ha conosciuto quella persona tre anni prima, in occasione delle indagini sulla morte di Enji. Quando Aizawa si è presentato a casa sua, poco dopo la mezzanotte, per informarla di quanto accaduto, Rei gli ha chiesto spontaneamente di poterlo accompagnare sul luogo dell’incidente. Così eccoli lì adesso, nell’abitacolo di un'auto che viaggia veloce nel cuore della notte, tra le tenebre e la neve, i fari che rischiarano appena la strada.
Il viaggio prosegue lasciando i due immersi in un silenzio denso, quasi soffocante. Rei non ha bisogno di chiederglielo, sa già che Shouta – esattamente come lei – è tornato con la mente ai giorni dell’indagine, e forse anche prima, a quel passato ormai andato perduto per sempre. Sarebbe bello se le cose potessero tornare come un tempo, tuttavia Rei ormai sa fin troppo bene che ciò non potrà mai accadere.
Una volta arrivati, Shouta si decide finalmente a rallentare cautamente. Sul posto ci sono già diversi mezzi di soccorso – un’ambulanza, due vetture della polizia – ma, per quello che Rei ha potuto capire, lì non c’è nessuno che abbia veramente bisogno del loro aiuto.
L’auto si ferma, e da essa escono fuori Shouta e Rei.
«Rei?» La voce sorpresa di Enji si perde nel vento, senza che nessuno riesca a udirla.
Sua moglie è davvero l’ultima persona che si aspettava di vedere lì, in quel posto desolato. Indossa un cappotto pesante color avorio, e cerca di tenere più stretto possibile il colletto attorno alla gola, per ripararsi dalle temperature gelide della notte. Lo sguardo vaga cautamente tra i vari elementi della scena, e osservando la sua bellezza delicata a Enji sembra di vedere di nuovo la ragazza che aveva conosciuto anni prima.
Gli occhi di Rei si posano quasi subito sul guardrail divelto. «È là sotto?», s’informa, inclinando appena il volto di lato.
Shouta accende una torcia, sporgendosi oltre il baratro su cui si trovano. «Già», conferma, accigliato. «Certo che ha fatto proprio un bel volo…»
«Come pensi che sia andata?», gli chiede Rei, stringendosi le braccia attorno al corpo.
Shouta spegne la torcia, avvicinandosi nuovamente a lei. «Aveva bevuto troppo? Suicidio? È presto per dirlo», commenta, scrollando appena le spalle.
«Che idiozia», bofonchia Enji. «Non c’è nulla di chiaro nella dinamica di questo incidente.»
Rei scuote la testa con decisione. «Suicidio? E che motivo avrebbe avuto?», gli fa notare, pragmatica. «In più guarda i segni di frenata a terra. Non cercheresti di fermarti se stai provando a buttarti giù da un burrone.»
«Bravissima, Rei», mormora ancora Enji, come se la donna potesse sentirlo.
Shouta si gratta la base del collo, a disagio. «Un animale le ha attraversato la strada e ha cercato di evitarlo? Ci aveva ripensato?», ipotizza, sebbene sembra che stia più che altro brancolando nel buio. «Probabilmente con un paio di controlli ne sapremo qualcosa in più…»
Le parole di Aizawa, tuttavia, finiscono per restare sospese a mezz’aria. Lo sguardo di Rei, Shouta ed Enji si sposta infatti ben presto sulle tre persone che stanno raggiungendo a piedi il luogo dell’incidente.
C’è una ragazza bionda che Enji non ha mai visto prima di allora. Le altre due persone, invece, le riconosce senza troppi sforzi: una di loro è Kaina, la coda di capelli rosa e blu che dondola sopra il capo mentre il corpo è avvolto in un pesante giaccone nero.
E poi c’è lui.
Keigo.
Sono passati tre anni dall’ultima volta in cui Enji l’ha visto. Dopo quella notte in cima al palazzo, in cui il ragazzo l’ha trattenuto sulla terra contro la sua volontà, impedendogli di attraversare la luce, Enji non l’ha più cercato, troppo in collera con lui.
Eppure, ora che se lo ritrova davanti, non può fare a meno di restare a osservarlo.
I capelli dorati e perennemente in disordine sono sempre gli stessi, tuttavia c’è qualcosa di diverso in quel ragazzo – Enji non riesce a comprendere di che cosa si tratti, e questo lo fa innervosire terribilmente. Forse sono le occhiaie violacee sul suo volto, che cozzano in maniera tremenda con la pelle pallida, oppure è quell’aspetto emaciato, che Enji è sicuro non abbia mai avuto. Ha perso qualche chilo, e le guance sembrano un po’ più scavate.
Sembra quasi navigare nella giacca di jeans nera che indossa – quella con l’imbottitura bianca, la stessa di sempre. Tra le mani stringe nervosamente la tracolla di una borsa che ha portato con sé, ma a catturare l’attenzione di Enji, come sempre, sono i suoi occhi.
Gli occhi dorati e splendenti di Keigo, ora sbarrati.
Chi lo osserva dall’esterno probabilmente lo scambia senza troppa cura per un ragazzo terrorizzato che ha appena ricevuto la notizia della morte di sua madre e che ora fissa il vuoto, sconvolto. Enji, tuttavia, sa bene che lo sguardo di Keigo non è per nulla perso.
Sta fissando lui.
«Keigo–», prova a chiamarlo Enji, cauto.
Per tutta risposta, riceve uno sguardo carico d’ira. Se Enji avesse ancora sangue a scorrergli nelle vene, probabilmente adesso lo sentirebbe gelare.
«Keigo», lo chiama stavolta la voce dolce e gentile di Rei, e l’espressione del ragazzo sembra farsi appena meno dura.
«Dov’è?», domanda il ragazzo a bruciapelo, senza smettere di fissare sconvolto Enji nemmeno per un secondo. «Voglio vederla.»
Aizawa esita per un momento, probabilmente sta valutando se lasciargli vedere il cadavere di Tomie in quel momento sia la cosa migliore da fare o meno. Alla fine, però, sembra decidersi per la prima.
«Vieni», concede infine, facendogli strada.
Per tutti i vari rilievi del caso, la polizia ha approntato in fretta un sentiero che scende lungo il burrone fino alla piccola radura sottostante. Shouta accende nuovamente la torcia, andando avanti per primo. Keigo si limita a seguirlo, ma non sembra neppure star facendo caso a dove mette i piedi. È un miracolo che riesca ad arrivare in fondo alla discesa senza inciampare.
Quando mettono finalmente piede nella radura, proseguire diventa più facile. Keigo cammina a passo di marcia, l’erba e il fango che gli inzaccherano gli scarponcini.
Il cadavere è già stato estratto dalla carcassa dell’auto – o perlomeno da ciò che ne rimane. Si trova su una barella di metallo, all’interno di un sacco bianco. Aizawa ci si avvicina, e aspetta che Keigo, Kaina e la ragazza bionda che è con loro lo raggiungano prima di abbassare la zip e svelare il corpo senza vita.
È senza dubbio Ukai Tomie. La pelle diafana ora ha quasi un colore grigiastro, e le palpebre sono abbassate sopra gli occhi – come se stesse dormendo –, tuttavia i capelli color menta sono troppo particolari per non renderla riconoscibile.
Kaina si lascia sfuggire un singhiozzo, mentre la ragazza bionda sembra quasi indifferente. Keigo ha ancora quell’espressione sconvolta sul volto, tuttavia ha abbassato lo sguardo sul cadavere di sua madre solo per un momento, per poi puntarlo nuovamente davanti a sé, dall’altro lato della barella, lì dove si trova Enji.
«Keigo, dobbiamo parlare», lo chiama Enji, fissandolo con attenzione.
Aizawa richiude la zip del sacco, mentre il cadavere di Tomie viene portato via.
«Ho bisogno di restare un momento da solo», comunica Keigo, continuando a fissare un punto nel vuoto in cui per tutti tranne che per lui non c’è proprio un bel nulla.
«Certo», gli concede Kaina, permissiva, prima di lasciargli ancora un’ultima stretta attorno alla spalla, per poi allontanarsi insieme ad Aizawa e alla ragazza bionda.
Keigo aspetta ancora per qualche secondo per accertarsi che se ne siano andati, poi si avvia in fretta verso una macchia di boscaglia. «Dov’è? Dove diavolo è?», domanda, le mani che si muovono nervosamente attorno alla tracolla.
«Se n’è andata. Ho cercato di fermarla ma è stato come se non riuscisse a sentirmi. Mi dispiace, Keigo», confessa, cominciando subito a seguirlo. «Non è stato un incidente, Keigo.»
«Oh, no, non di nuovo», sbotta nervosamente il ragazzo, incamminandosi in fretta nella direzione opposta a quella presa da Kaina e gli altri per essere certo che nessuno lo senta.
«Ascoltami, ragazzino», insiste Enji, perentorio. «Ci sono troppe cose che non tornano, e anche Rei è d’accordo con me sul fatto che…»
«Oh, insomma, basta!», gli urla contro Keigo, fermandosi di botto e voltandosi nella sua direzione. È su un sentiero in salita, gli scarponcini che affondano nella terra umida. «Si può sapere che diavolo vuoi da me? Sparisci per tre anni, poi torni e pretendi che sia di nuovo tutto come prima?»
«Che c’è, ti sei dimenticato che è per colpa tua se sono rimasto bloccato qui?», gli rinfaccia Enji, mentre comincia a innervosirsi.
«Sai perfettamente che l’ho fatto per scoprire quale fosse il legame tra di noi!», replica, trattenendosi a stento dal gridare. «In ogni caso, mia madre è morta in un incidente e non c’è nulla che possa cambiare la realtà dei fatti. Io sono andato avanti con la mia vita, e non ho alcuna intenzione di dare di nuovo retta a te. Oh, e vaffanculo, Enji!»
Il ragazzo riprende a salire lungo il sentiero, sparendo alla vista di Enji prima che il fantasma possa provare di nuovo a fermarlo.

Keigo non riesce a chiudere occhio per tutta la notte.
Se ne sta con la schiena premuta alla testiera del letto, le gambe strette al petto dalle braccia e lo sguardo esausto perso nel vuoto.
Per quanto lui e Tomie non avessero effettivamente più alcun legame, era pur sempre sua madre. Più il tempo passa, e più Keigo continua ad avere la soffocante percezione di essere circondato solamente da morte.
Ha lasciato Tokyo nella speranza di trovare qualcuno come lui, qualcuno capace di vedere i fantasmi di chi non c’è più. Un dono, ma anche una maledizione, no?
Sono circa le quattro di notte quando sente qualcuno bussare alla porta della sua camera del dormitorio. Il rumore delle nocche sul legno sembra riuscire a ridestarlo a malapena, gli occhi che lentamente tornano a mettere a fuoco i contorni della stanza.
Il ragazzo scende dal letto e attraversa silenziosamente la camera. Quando si ritrova davanti alla porta la apre senza prima domandare chi ci sia dall’altra parte, anche perché, a essere onesti, è piuttosto certo di conoscere già la risposta.
Una volta che si ritrova davanti quegli occhi che ormai conosce fin troppo bene, si lascia sfuggire un piccolo sospiro esausto. «Si può sapere dove diavolo eri finito?», domanda, appoggiandosi pesantemente alla porta.
«Quelli del primo anno hanno deciso bene di organizzare una festa nel bel mezzo del dormitorio», ammette Ryou, ancora visibilmente seccato dalla cosa. Ben presto, però, la sua espressione torna ad addolcirsi non appena posa di nuovo lo sguardo sul ragazzo. «Sono corso qui non appena ho saputo. Mi dispiace tantissimo, Keigo.»
Le dita di Keigo si spingono istintivamente in avanti, stringendo la camicia bianca di Ryou. L’uomo interpreta il gesto come un permesso a procedere, così poco dopo si spinge in avanti, chiudendosi la porta alle spalle e cercando le labbra di Keigo con le proprie.
Keigo chiude gli occhi, ricambiando il bacio e correndo a frizionare con le dita i corti capelli bianchi alla base della nuca di Ryou. Ormai ci è abituato da tempo, e sa già quale sarà il prossimo passo: stringe le braccia attorno al collo dell’uomo, dopodiché spicca un piccolo balzo, circondandogli la vita con le gambe.
Ryou attraversa in fretta la stanza, continuando a baciarlo e a tenerlo stretto a sé, almeno finché non raggiunge il letto. Adagia comodamente il corpo di Keigo sul materasso, per poi distendersi su un fianco accanto a lui.
Keigo sente le dita di Ryou scivolare sopra la sua felpa, e la cosa gli fa sfuggire un nuovo sospiro. «Stasera non me la sento…», confessa, desolato.
Ryou non sembra per nulla deluso. Posa un bacio sulla fronte del ragazzo, per poi avvolgere i loro corpi nelle lenzuola. «Non sei costretto a fare nulla che non desideri, lo sai», commenta, circondandogli la vita con le braccia. «Come stai? Non pensavo neppure di trovarti sveglio, sarai distrutto…»
«Non lo so», ammette, sistemando meglio il capo sul cuscino. «Non riesco a chiudere occhio. Pensavo che avrebbe fatto più male, invece sento solo una sorta di enorme vuoto nel petto…»
Ryou gli prende di nuovo il volto tra le mani, posandogli un altro bacio dolcissimo sulle labbra. «Ora sono qui. Possiamo provare a dormire insieme, se vuoi», propone, senza allontanare il volto da quello del ragazzo.
Keigo sembra apprezzare la proposta. Si accoccola volentieri contro il corpo di Ryou, nascondendo il volto nell’incavo del suo collo.

È notte fonda. Touya non riesce a dormire.
Tenko si è addormentato con la testa sul suo petto, e Touya non ha cuore di muoversi, poiché teme che altrimenti potrebbe svegliarlo. Così si limita ad allungare un braccio in direzione della scrivania, recupera il tablet e lo sblocca, aprendo i social e cominciando a scorrere la pagina della sezione home.
Uno dei primi post che incontra è quello di un giornale locale, che riporta la notizia di un incidente stradale in cui ha perso la vita il conducente. Dall’anteprima dell’articolo si vede la foto del veicolo, ormai quasi completamente del tutto accartocciato su se stesso, solo che a Touya sembra comunque di riconoscerlo, così clicca sul link e una nuova schermata si apre.
Touya legge in fretta l’articolo finché i suoi occhi non si fermano sul nome della vittima, Ukai Tomie.
La madre di Keigo.
Touya solleva lo sguardo, restando per un momento a fissare attonito un punto nel vuoto della sua stanza buia.

Keigo arriva a Tokyo solo la mattina successiva.
Kaina apre la porta dell’appartamento, un gesto che Keigo ormai le ha visto fare per anni, e la porta si schiude sul luogo in cui ha trascorso la maggior parte della sua esistenza.
La luce fredda e grigia del mattino illumina il tavolino rotondo del soggiorno, le sedie con lo schienale alto, le tende verdine. Sono tre anni che non mette piede là dentro, eppure gli sembra che non sia cambiato niente.
Kaina chiude la porta a chiave, tuttavia Keigo non resta ad aspettarla: si avvia in fretta verso camera sua – neppure lì è cambiato niente, forse c’è solo molta più polvere di un tempo sulle mensole coi libri.
Keigo lascia cadere a terra lo zaino con i pochi effetti personali che ha portato con sé prima di lasciare l’istituto, per poi buttarsi pesantemente sul letto.
Si rifugia sotto la trapunta pesante. In quel momento ha solo voglia di dormire per molto tempo.



fantasmajpg

note
... and we are so back, gente!
è passato più di un anno da quando ho postato l'epilogo della mia ultima long qui. e finalmente torno, con una storia lunga e impegnativa, che mi ha tenuta occupata per dieci mesi di lavoro (in realtà sette ma vbb) e che finalmente condivido col mondo, anche se non ho ancora capito se fossi pronta a farlo o meno, dopo tutto questo tempo in cui l'ho custodita gelosamente.
va anche detto che a un certo punto non ero convinta che il progetto sarebbe mai riuscito a vedere la fine. sono rimasta bloccata per tipo tre mesi, e ho iniziato a sospettare che questa sarebbe stata l'ennesima storia destinata a restare incagliata nella palude limacciosa delle storie incomplete. però a un certo punto è successo che qualcuno mi ha ricordato che sono una persona fortunata perché sono meno sola di quanto credessi, e diciamo che questa è stata un po' la spinta che mi ha permesso di arrivare alla fine della storia. ci sono due persone in particolare che vorrei ringraziare, e anche se non farò i loro nomi so che capiranno il riferimento.
ma parliamo della storia. è un'au, e sì, c'è un riferimento specifico dietro (se l'avete colto good for you), ma lo lascerò imprecisato anche perché ho cambiato diverse cose rispetto alla versione originale sia nella parte centrale che nel finale. ma non vi posso dire altro uu
per il resto, diciamo che anche se è un primo capitolo che dovrebbe essere introduttivo (ho cercato di presentare un po' tutti i personaggi principali) è piuttosto lungo. non vi preoccupate, i capitoli successivi sono anche peggio.
(se vi state chiedendo chi sia ryou, diciamo che ci sono due risposte possibili. se non siete in pari con il manga: ottimo, fate finta che sia un oc! se siete in pari col manga: okay, forse potreste aver capito di chi si tratta, in caso vi chiederei di evitare spoiler nelle recensioni altrimenti mi linciano. il fatto è che ho letto robe su ao3 e poi mi è tipo imploso il cervello, va bene?)
per il resto che dire. penso che scrivere una storia che avesse la morte tra i temi principali sia stato catartico per me, e forse questo è un altro dei motivi per cui sono così legata a tutta la long. adesso è arrivato il momento di affidarla a chiunque la leggerà, e spero che possa averne cura quanto me.
penso di aver detto tutto, ci vediamo presto con il prossimo capitolo!

aria

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Capitolo 2
*** fantasmi dal passato ***





Il mattino successivo Aizawa entra in ufficio con le idee più confuse del giorno precedente.
Al termine del viaggio di ritorno era esausto. Ha riaccompagnato Rei a casa, dopodiché se n’è tornato nel proprio appartamento, tuttavia, una volta toccato il materasso, nonostante la stanchezza non è riuscito a chiudere occhio, la mente già al lavoro sulle ricerche da fare una volta arrivato in commissariato, la mattina successiva.
In effetti ci sono fin troppe cose che non tornano in merito all’incidente della notte precedente, ma una parte di lui ha sperato che non fosse così.
Sarebbe bello se le cose fossero semplici – solo che non è mai semplice, la vita.
Quando, alle tre di notte, aveva girato la chiave nella serratura, aveva trovato Nejire ad aspettarlo in cucina.
«Scusa per il ritardo. Ho avuto un’emergenza al lavoro», si era giustificato, sfilandosi la giacca.
La ragazza aveva un’espressione tremendamente assopita, i capelli turchini che le ricadevano ribelli sul volto. «Si figuri», l’aveva rassicurato. «Si è addormentata nel suo letto. Ci ha messo un po’ a prendere sonno, era preoccupata perché non la vedeva tornare.»
Shota aveva annuito, comprensivo. Poco dopo si era affrettato a recuperare il portafogli dalla tasca dei pantaloni, consegnando alla ragazza il suo compenso per l'incarico da babysitter – aggiungendo un piccolo extra per le ore di straordinario e il disturbo. Dopodiché era rimasto ad aspettare, osservando Nejire infilarsi la giacca. I due si erano salutati in silenzio, poi la ragazza aveva aperto la porta, richiudendosela attentamente alle spalle una volta uscita.
Non appena se n’era andata, Shouta aveva attraversato in fretta il corridoio fino a raggiungere la cameretta di Eri.
L’unica luce presente nella stanza era l’abat-jour accesa sul comodino, che rischiarava appena l’ambiente con un delicato alone dorato. In effetti, come gli aveva detto Nejire, Eri era nel letto, i capelli azzurri che facevano a malapena capolino da sotto le trapunte pesanti. Il respiro della bambina era calmo e regolare, e sul viso aveva l’espressione beata di chi dorme un sonno profondo.
Shouta si era inginocchiato ai piedi del letto, accarezzando con cura la fronte della bambina, facendo attenzione a non svegliarla: c’erano tante cose di cui si rammaricava, e una di queste era non essere stato lì presente, quella notte, a vegliare su di lei mentre si addormentava.
Era stato consapevole fin da prima dell’adozione che il suo lavoro non avesse dei veri e propri orari e che, dunque, avrebbe dovuto mettere in conto la possibilità di non tornare in tempo la sera per darle la buonanotte, tuttavia la lista delle cose di cui si sentiva in colpa nei confronti di quella bambina si era allungata notevolmente, di recente, e senza troppi dubbi al primo posto svettava il non essere capace di spiegarle che fine avesse fatto Hizashi.
Perché il punto è che non lo sapeva neppure lui, dannazione.
Shouta aveva osservato il sonno sereno di Eri ancora per qualche minuto, per poi decidersi finalmente ad alzarsi e a lasciare la stanza, attraversando il corridoio e giungendo finalmente in camera sua. Una volta lì, però, non era riuscito a prendere sonno: era rimasto tutta la notte con gli occhi spalancati a fissare il soffitto, disteso nel letto, i pensieri in merito all’incidente di Tomie che si accavallavano a quelli sull’improvvisa e inspiegabile sparizione di Hizashi.
Quella mattina ha accompagnato Eri all’asilo come tutti i giorni, la manina della bambina stretta attorno al suo mignolo – ogni volta Shouta resta intenerito a pensare a quanto siano piccole le dita di Eri. L’ha osservata mentre correva ridendo allegra lungo il cortile della scuola per raggiungere i suoi compagni, si è girata solo una volta per rivolgergli il suo solito sorriso gentile e salutarlo con un piccolo cenno della mano a cui Shouta ha ricambiato, poi è tornata subito a voltarsi in avanti, e Aizawa ha tenuto lo sguardo fisso sullo zainetto a forma di ranocchia sulle sue spalle fino a che non l’ha vista sparire tra la folla. Quando è stato certo che fosse entrata, si è voltato, allontanandosi dai cancelli della scuola e avviandosi verso la macchina per andare in commissariato.
Ora che è finalmente arrivato, sta cercando di fare il punto della situazione sui fatti di ieri. Su una grossa lavagna trasparente ha disposto alcune delle foto che i colleghi hanno scattato la notte precedente per i rilievi, e con un pennarello bianco annota alcune informazioni che gli sembrano necessarie. Shouta sente lo sguardo di Tomie, intrappolata in uno scatto mentre era ancora in vita, fisso su di sé che lo osserva e lo giudica, e si sente quasi in soggezione a causa di questo.
Shouta fa dondolare tra le dita il pennarello, mentre con la mente si perde per l’ennesima volta tra i propri pensieri. La verità è che è certo che, se Hizashi fosse lì in quel momento, gli sarebbe tutto subito più chiaro. Prima di essere il suo compagno di vita, Hizashi è stato – e lo è tuttora – suo amico e suo collega. Insieme hanno risolto una marea di casi, solo che da quando è scomparso Shouta sente di non riuscire più a riflettere bene come un tempo. Ha sempre la testa impegnata in mille domande, non riesce a non chiedersi perché, perché se si conoscono da così tanti anni è svanito nel nulla da un giorno all’altro, senza avvisare, senza dirgli niente, senza nemmeno lasciargli un biglietto in cui gli spiegasse i motivi della sua scelta. È una decisione che Shouta non riesce a capire, né conoscendolo si sarebbe mai aspettato qualcosa del genere da Hizashi. Proprio perché lo conosce, però, è certo che ci sia un motivo dietro a quell’assenza improvvisa, per cui il suo primo impulso è stato quello di non cercarlo e di dargli del tempo, certo che avesse preso la decisione migliore per entrambi. Solo che più i giorni scorrono e più la mancanza e il silenzio si fanno soffocanti, e Shouta non riesce a fare a meno di domandarsi se la decisione che ha preso sia davvero quella giusta.
Shouta è così assorto che finisce per non accorgersi neppure che Emi si è avvicinata a lui.
«La ricerca che mi avevi chiesto», lo informa, porgendogli dei fogli. «Va tutto bene?»
Shouta cerca di rimettere in fretta a fuoco la realtà. «Mh? Sì, sì…», commenta, osservando il frutto delle ricerche di Emi. «Ero solo un po’ soprappensiero, niente di che.»
Mentra Shouta ha lo sguardo fisso sui fogli Emi inclina appena la testa di lato, dubbiosa, senza che lui possa vederla. Tuttavia, decide di non insistere, limitandosi ad allontanarsi.
Nel frattempo, Rei fa il suo ingresso all’interno del commissariato. Indossa la stessa lunga giacca color avorio della notte precedente, mentre i capelli candidi sono sistemati in un’acconciatura raffinata.
Enji la segue, osservandola con apprensione. Era certo che quella mattina si sarebbe recata in commissariato, per cui si è limitato ad andarle appresso, così da poter scoprire qualcosa di più sull’incidente nella migliore delle ipotesi.
Mentre Rei passa, tutti gli agenti seduti alle loro scrivanie sollevano lo sguardo dai pc e la salutano, pieni di ammirazione. Enji osserva la scena, non senza una certa dose di fierezza. Nel corso degli anni sua moglie si è distinta come una dei più brillanti magistrati della città. Ora che sta per partire per Kyoto, è certo che anche lì verrà apprezzata il suo valore.
Rei sorride cordiale e ricambia i saluti che le vengono rivolti, mentre continua a camminare con passo delicato ma sicuro, come se avesse già bene in mente la sua meta – ed Enji è certo che sia esattamente così.
Rei svolta a sinistra ed entra così in una grande stanza, dove Enji individua subito Aizawa, fermo davanti a una grossa lavagna trasparente. Shouta rivolge uno sguardo perplesso in direzione della donna.
«Rei, che ci fai da queste parti?», le chiede, e nella voce Enji non rintraccia alcun genere di ostilità, bensì solo una sincera apprensione. «Credevo che fossi impegnata con il trasloco.»
«Sì, ma prima voglio vederci chiaro in questa storia, ci sono diverse cose che non mi tornano», ammette, passandosi una mano tra i capelli con fare casuale. «Allora, ci sono novità?»
Shouta si stringe brevemente nelle spalle. «Sì. Poco fa sono arrivati i tabulati telefonici della vittima», spiega, porgendo a Rei i fogli che ha in mano. «Stavo dando un’occhiata per cercare di capire se potesse emergere qualcosa di interessante…»
Le dita di Rei si serrano con grazia attorno ai fogli. La donna si sistema pensierosa una ciocca di capelli mentre osserva quei dati, accigliandosi un poco non appena con lo sguardo scivola su un dettaglio curioso.
«Qui c’è scritto che il cellulare di Tomie si è agganciato a due celle in particolare ieri, e in entrambi i casi è rimasta in quel punto per diverso tempo», nota, sollevando lo sguardo dai fogli per cercare gli occhi di Aizawa. «Al primo ripetitore è rimasta collegata per circa venti minuti, mentre al secondo quasi un’ora. Siamo riusciti a risalire a quali posti corrispondono?»
«Sì», le rivela Shouta. «Il primo è quello di un centro studi non troppo distante dal luogo dell’incidente, il secondo invece è un’area di sosta a metà strada tra i due posti.»
«Un centro studi?», domanda Enji, perplesso.
Rei riflette, restando per qualche istante a fissare un punto davanti a sé. «Adesso dobbiamo capire perché si trovasse lì», commenta, assorta.

La luce del giorno è insopportabile.
Keigo continua a tirarsi la trapunta sopra la testa, eppure in qualche modo quell’odioso lucore grigiastro riesce a raggiungerlo lo stesso.
Pensava che restare avvolto in quella sorta di bozzolo che ha formato con le coperte gli sarebbe stato d’aiuto in qualche modo, e la sua speranza era quella che anche i suoi pensieri finissero per diventare più ovattati. Ovviamente, non ha funzionato.
Continua a sentire ininterrottamente da ieri sera una sorta di ronzio nella testa, più o meno da quando ha visto il corpo senza vita di sua madre. Gli sembra di aver trascorso le ultime ore immerso in un frullatore, sono successe troppe cose tutte insieme e non gli viene in mente alcun modo per metterle in ordine.
In  casa c’è un silenzio assordante, ma forse è meglio così. Kaina dev’essere uscita presto quella mattina per andare al lavoro, così adesso è finalmente rimasto da solo dopo quelle ore confuse e frenetiche.
Il che è un bene. Può finalmente mettere ordine nella sua testa. Finora c’è stato solo quel vortice senza senso.
La laurea, la festa con Jin e Himiko, lui che torna in camera stremato quando è ormai tardissimo, Kaina che viene a svegliarlo nel cuore della notte per dirgli che Tomie è morta, lui che osserva il cadavere di sua madre disteso su una barella di metallo, Enji che torna nella sua vita. E poi buio, buio, buio.
Keigo strizza con forza le palpebre, cercando di ignorare la fitta di dolore che gli invade la testa. Sembra ricordarsi solo in quel momento che non ingerisce cibo degno di essere definito tale da almeno due giorni – la mattina precedente non è riuscito a fare colazione per l’ansia in vista della seduta di laurea, e dei festeggiamenti con i ragazzi ricorda solo l’alcol. Tanto meglio, si dice, in effetti il suo stomaco non sembra dell’idea di accettare alcun genere di alimento.
Al primo conato si porta una mano alle labbra, credendo di poter riuscire a gestire la cosa. Al secondo, però, è costretto a lanciare in fretta le coperte dalla parte opposta del letto per poter schizzare in bagno.
Non ci vuole molto prima che si ritrovi chinato a terra sulle piastrelle blu del bagno, piegato in due e dolorante mentre vomita. Nemmeno lui sa esattamente cosa stia rimettendo nel water, visto che in effetti non assume cibo solido da quasi quarantotto ore, ben presto tuttavia si rende conto che quasi certamente quella è la reazione del suo corpo allo stress degli eventi delle ultime ore.
Keigo si passa una mano sulla fronte imperlata di sudore. In quel momento si sente così tremendamente patetico, ed è quasi un sollievo in effetti che in casa non ci sia nessun altro a parte lui.
Si rimette in piedi a fatica, tirando lo sciacquone del water e arrancando a stento fino al lavandino. Si sciacqua le labbra con un po’ di acqua fresca, la stessa che poco dopo lascia scorrere anche sui suoi polsi.
Mentre chiude il rubinetto lancia di sfuggita uno sguardo alla propria immagine riflessa nello specchio. Non che avesse bisogno di una conferma per sapere di avere un aspetto orribile: il volto è terribilmente pallido, lo sguardo è segnato da occhiaie violacee e i capelli sono tutti arruffati.
Beh, si è alzato dal letto pochi minuti prima, ha appena vomitato e la notte precedente ha appreso la notizia della morte di sua madre, forse per una volta è perdonato se non è esattamente nel pieno delle sue forze.
Keigo si lascia sfuggire un sospiro stanco, decidendosi finalmente a lasciare il bagno. Si trascina faticosamente di nuovo fino in camera, lasciandosi cadere in maniera sgraziata sul letto, la faccia che affonda nel cuscino mentre cerca in qualche modo di portare ancora la coperta fin sopra i capelli.
Inspira a fondo col naso, l’odore di pulito della federa che gli invade le narici e in qualche modo riesce a calmarlo. Si ritrova a pensare che sarebbe bello, in effetti, se potesse rimanere lì sotto per sempre, al caldo e al sicuro, lontano dalle sue responsabilità.
Keigo chiude gli occhi, mentre sul suo volto compare un’espressione beata. Sta quasi cominciando a pensare che potrebbe persino addormentarsi di nuovo così.
Almeno finché non sente un tonfo sordo provenire dalla cucina.
In cuor suo, Keigo sa già di cosa si tratta, e una parte di lui preferirebbe di gran lunga continuare a restarsene là sotto alle coperte. Questo, però, non risolverebbe in alcun modo le cose, Keigo lo sa bene.
Alla fine, Keigo si lascia sfuggire uno sbuffo spazientito, scalciando le coperte in fondo al letto e tirandosi di nuovo in piedi, uscendo dalla camera e avviandosi infastidito verso il soggiorno.
Una volta giunto lì trova a terra un mucchio di corrispondenza che non sembra essere mai stata aperta. Keigo scuote brevemente la testa, chinandosi a raccogliere la posta – e cercando di ignorare il capogiro che avverte in quel momento.
«Preferivo quando facevi sfarfallare le luci, sai?», commenta, lasciando cadere nuovamente la posta sul tavolo. «E comunque questa era roba di mia madre, non mia.»
Enji, proprio come la notte precedente, resta per un momento immobile a osservare il ragazzo. Lo trova pallido come uno straccio, e le occhiaie sembrano non volerne sapere di sparire dal suo viso. Nonostante tutto, non riesce a non sentirsi tremendamente preoccupato per lui.
«Stai bene?», si decide finalmente a domandargli, e finisce per essere lui stesso il primo a sorprendersi nel modo in cui la sua voce sia suonata incredibilmente soffice. «Hai un aspetto…»
«Orribile? Sì, lo so, ti ringrazio», commenta Keigo, sarcastico. «Temo che sia per via del fatto che ieri ho visto il corpo morto di mia madre davanti agli occhi, sai?»
Enji si morde le labbra, dandosi mentalmente dell’idiota. «A proposito di stanotte, ci tenevo a dirti che mi dispiace sul serio per quello che è successo», ammette, fissando il ragazzo con sguardo colpevole. «Dev’essere difficile per te…»
Keigo si limita a scuotere brevemente la testa. «Alla fine era solo una persona senza vita», taglia corto, lo sguardo che per un momento vaga in direzione della finestra. «Per anni è stata praticamente un’estranea per me, quindi questa non è che l’ennesima occasione in cui la morte finisce per passarmi accanto.»
Enji annuisce brevemente, per poi cercare di mettere in ordine le idee. «Ho bisogno di vedere l’ultimo posto in cui ha vissuto», ammette, cercando di non suonare troppo rude. «Forse lì potrebbe esserci qualcosa di utile.»
«Mh…» Keigo riflette per qualche istante. «Mia madre e Kaina non abitavano più qui insieme da almeno tre anni, ovvero da quando sono andato via insieme a Ryou. Lei, a differenza di Kaina, non aveva accettato la mia decisione e la cosa ha scatenato anche degli attriti tra di loro. La posta continuava ad arrivare qui perché Kaina le aveva permesso di mantenere l’indirizzo, ma da quello che ho capito si era trasferita in un appartamento a Ueno dato che l’affitto era basso. Già, aveva perso anche il lavoro…»
«Ottimo», commenta Enji, mentre individua tra le parole del ragazzo l’informazione che gli serve. «Dobbiamo andare lì.»
«Adesso…?», domanda Keigo, sorpreso.
«No, quando, tra due mesi?», replica Enji, sarcastico.
Keigo sposta nuovamente lo sguardo in direzione della finestra, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro. «No, è che… questo pomeriggio c’è il funerale di mia madre», ammette, e per un momento la sua voce suona così lontana…
Enji si sente nuovamente uno stupido. Non pensava che, dopo tre anni, tornare a parlare con Keigo sarebbe stato così difficile. E non c’entra nemmeno quanto è successo quella notte sul tetto, è solo che… di colpo, sembra essere diventato tutto complicato.
«Oh…», mormora soltanto, senza riuscire ad aggiungere nient’altro.
Tra i due, quello a tornare in sé più in fretta sembra essere Keigo. Il ragazzo scuote brevemente la testa, dopodiché prova ad accennare un piccolo sorriso. «Però se vuoi posso darti l’indirizzo», propone, conciliante.

Chiamare il posto a Ueno in cui Tomie ha vissuto negli ultimi tempi appartamento è fin troppo cortese, Enji se ne rende conto dal primo momento in cui si ritrova là dentro.
Le dimensioni degli ambienti sono estremamente ridotte. Di base è un bilocale che, oltre al bagno, comprende una stanza in cui Tomie doveva fare un po’ tutto: cucinare, mangiare, fare ricerche, dormire.
Una delle prime impressioni che Enji finisce per avere è che, viste le condizioni in cui Tomie ha lasciato l’appartamento, decisamente non programmava di non farvi ritorno – motivo in più per poter escludere con maggior decisione il suicidio dalle ipotesi investigative. Sui fornelli ci sono ancora le pentole con cui si è preparata forse uno degli ultimi pasti, e sul tavolo alcune stoviglie da lavare.
Sul divano è abbandonata una coperta dall’aspetto pesante, e l’uomo si trova a provare pena al pensiero che, probabilmente, Tomie si era ridotta a dormire su quei cuscini scomodi.
Non ci sono elementi che stonano in modo particolare, nulla che attiri più di tanto l’attenzione di Enji. Sembra tutto incastonarsi, trovare il proprio aspetto nell’impolverato quadro d’insieme: la credenza con il vasellame, le spugne dalla superficie abrasa nell’acquaio, una lattina di birra lasciata aperta e bevuta per metà vicino al piatto coi residui di cibo.
Eccetto che per un piccolo, curioso dettaglio.
Sul tavolo, infatti, Tomie ha lasciato un faldone dall’aspetto voluminoso. Enji vede che ci sono alcuni fogli che sporgono da sotto la copertina di cartone rigido, solo che sono coperti e non riesce a leggere cosa vi sia scritto sopra.
In realtà questo non è un ostacolo che un fantasma non possa superare. Enji si lascia sfuggire un piccolo sospiro, dopodiché non deve far altro che desiderare che il faldone cada a terra e, l’istante successivo, il fascicolo vola verso il suolo, impattando contro le piastrelle bianche del pavimento e aprendosi, alcuni fogli che subito scivolano fuori.
È in quel momento che Enji si accorge che, oltre ai fogli, il faldone contiene anche una miriade di foto.
Non appena si rende conto di cosa immortalano, sul suo volto compare un’espressione terrorizzata.

È strano trovarsi davanti alla tomba di sua madre.
Probabilmente rientra in quel genere di esperienze che devi affrontare, a un certo punto della vita, ma anche se lo sai cerchi comunque di evitare in tutti i modi di pensarci, perché tanto sei convinto che arriverà il più tardi possibile.
Poi una mattina ti svegli, scopri che lei non c’è più e finisci per vivere in questa specie di realtà paradossale.
Keigo sente di star vivendo quelle ultime ore come una sorta di esperienza extracorporea. È come se fosse un’entità estranea, un po’ come Enji, che osserva quelle scene dall’alto, senza riuscire in alcun modo a lasciare un segno tangibile della propria presenza sul mondo che gli scorre intorno.
La giornata non è delle più terse, e in un certo senso a Keigo quello sembra proprio il clima adatto per un funerale. Il vento freddo che gli pizzica le guance, il cielo plumbeo con le nuvole cariche di pioggia, il rumore di tuoni in lontananza che segna l’avvicinarsi di un temporale.
Dopo il funerale il cimitero si è svuotato piuttosto in fretta. Kaina è rimasta con lui più a lungo di chiunque altro, ma alla fine è dovuta tornare al lavoro. Keigo l’ha sentita stringergli la spalla con fare simpatetico, ma non ha provato alcuna sorta di rancore nel vederla allontanarsi: va bene così, era la cosa giusta da fare.
Adesso che Keigo si sente finalmente solo, per un momento gli sembra perfino di riuscire a provare un po’ di pace, cosa che non avrebbe creduto possibile per almeno qualche altro giorno. All’apparenza l’unico a tenergli compagnia è quel vento gelido che continua a soffiare tra le lapidi.
E anche questo va bene così, davvero. Forse è esattamente ciò che gli ci voleva per mettere un po’ di ordine tra i pensieri, una buona volta per tutte.
S’inginocchia a terra, le dita di una mano che affondano nel terreno freddo e umido. Di nuovo, questa gli sembra la cosa giusta da fare in quel momento, come se fosse un ultimo contatto tra lui e sua madre. L’erba gli bagna i jeans, probabilmente li macchierà anche di verde, ma in quel momento non riesce a curarsene.
Chiude gli occhi, inspirando a fondo. In quel momento sente un’altra folata di vento gelido scuotere il suo corpo, e la sensazione che prova è tremendamente intensa.
Si sente vivo come non gli capitava da anni.
Keigo riapre gli occhi di scatto, mentre le dita serrate a pugno tornano a dischiudersi e il terriccio cade nuovamente verso il suolo. Quello è forse il suo modo di dire addio a Tomie. Se c’è da sentire qualcos’altro, Keigo non riesce a percepirlo.
Cerca di rialzarsi in fretta, scrollando via il fango dalla mano e dai jeans inzaccherati. Gli sfugge un piccolo sospiro, poi, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al sepolcro di sua madre, si decide finalmente a voltargli le spalle, avviandosi verso l’uscita del cimitero.
Per tutto il tempo, Keigo continua ad avvertire l’inquietante sensazione di essere osservato, come se due occhi fossero sempre fissi su di lui. Strano, però, gli sembra di non aver visto nessuno aggirarsi da quelle parti.
È un’impressione piuttosto angosciante, per cui Keigo cerca di affrettarsi lungo il tragitto. Abbandona la stradina di terra ed erba che serpeggia tra le lapidi, e solo nel momento in cui avverte nuovamente il familiare scricchiolio dei sassolini che inondano il viale che conduce all’ingresso del cimitero sotto agli scarponcini si sente un po’ più tranquillo. Si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, per poi riprendere a camminare, stavolta più lentamente.
È in quel momento che, però, sente arrivare una voce alle sue spalle.
«Keigo!», lo chiama infatti qualcuno – e Keigo non stenta a riconoscerlo, sa già di chi si tratti prima ancora di voltarsi.
Una parte di lui vorrebbe ignorarlo, solo che sa che non può farlo, nel silenzio del cimitero deserto non può fingere di non averlo sentito. Così alla fine si volta, stringendo nervosamente tra le mani la tracolla della borsa che ha portato con sé, mentre rimane tra i due cipressi vicino a cui si è fermato.
Ovviamente non si è sbagliato, e la voce è – in effetti – quella di Touya. Vede il ragazzo affrettarsi mentre cerca di raggiungerlo, una mano che si agita in segno di saluto nella sua direzione e l’accenno di un sorriso sul volto. Nota anche che, all’apparenza, l’altra mano è stretta attorno al collo del maglione di un ragazzo che si sta letteralmente trascinando appresso.
«Touya?», finisce per domandare Keigo. Per quanto abbia riconosciuto la sua voce, infatti, è comunque sorpreso di vederlo da quelle parti.
Quando lo raggiunge, Touya si decide finalmente ad allentare la presa attorno al maglione dell’altro ragazzo – che pare piuttosto sollevato dalla cosa.
Sotto lo sguardo confuso di Keigo, Touya trae alcuni respiri profondi, cercando di riprendersi dopo la breve corsa. «Ehi», esordisce, mentre continua a sorridergli con fare gentile. «Ho saputo dell’incidente e… ci tenevo a farti le condoglianze.»
Keigo espira piano, e Touya non riesce a non notare come i suoi occhi dorati siano stanchi e segnati dalle occhiaie. «Ti ringrazio», mormora soltanto, forse nel tentativo di sminuire il tumulto che sente dentro di sé.
Più guarda Keigo e più Touya si convince che ci sia qualcosa di strano in lui, e i suoi gesti e le parole non riescono proprio a convincerlo del contrario. Ciononostante, si limita comunque a continuare a sorridergli – alla fine ha appena perso sua madre, è normale che sia quantomeno sconvolto.
Touya sembra ricordarsi solo in quel momento di non essere da solo. Scuote la testa, e Keigo nota che sul volto gli compare un’espressione tremendamente buffa. «Oh, già, quasi dimenticavo», ammette, voltandosi verso la persona al suo fianco. «Non so se lo conosci già, ma volevo presentarti Tenko.»
Keigo si acciglia. È certo che quella non sia la prima volta che vede quel ragazzo: i capelli bianchi e gli occhi rossi hanno un’espressione familiare, così come quell’espressione imbronciata che ha in volto mentre tiene le braccia conserte strette al petto. Probabilmente sta cercando di assumere un aspetto infastidito, eppure Keigo finisce quasi per esserne intenerito.
«Piacere», commenta, allungando una mano nella sua direzione. «È una mia impressione o ci siamo già visti da qualche parte?»
Tenko ricambia debolmente la sua stretta. «Piacere…», mormora, osservandolo con fare dubbioso.
«Probabile», valuta Touya, osservando soddisfatto lo scambio tra i due. «Tenko frequentava il nostro stesso liceo. Ci siamo conosciuti ad una festa organizzata da degli amici in comune.»
Keigo annuisce. Sì, in effetti è possibile che possa averlo incrociato qualche volta, mentre camminava lungo i corridoi della sua vecchia scuola. «E immagino che stiate insieme», commenta, lo sguardo che si sposta in fretta dall’uno all’altro.
Touya sembra quasi essere stato colto in contropiede, ma alla fine sorride. Appoggia la testa sulla spalla di Tenko, e l’altro ragazzo gli circonda la vita con un braccio. «Già», ammette. «Da un po’ di tempo viviamo anche insieme. Andiamo entrambi all’università, ingegneria ambientale io, programmazione lui. Quest’anno abbiamo ottenuto tutti e due la borsa di studio, così a breve ci trasferiremo a Praga.»
Mentre ascolta il suo discorso, Keigo si ritrova a riflettere che, nonostante tutto, è felice che Touya sia riuscito ad andare avanti con la sua vita. Vede Tenko strofinare la punta del naso contro il collo dell’altro ragazzo, e pensa che lo solleva sapere che Touya abbia trovato qualcuno che lo ami davvero.
«Sono felice per voi», commenta, stringendo la tracolla della borsa tra le mani. «Ora scusatemi, ma devo proprio andare…»
Keigo riprende ad allontanarsi in fretta, mentre nell’aria risuona di nuovo l’eco di un tuono. Nonostante tutto, non riesce a smettere di sentirsi osservato.

Mentre torna a casa scoppia un acquazzone tremendo.
Nel momento in cui s’infila nel tunnel coperto che conduce al portone d’ingresso del suo palazzo, Keigo non riesce a non farsi sfuggire un sospiro dalle labbra. Si sfila il cappuccio della felpa dal capo, è fradicio dalla testa ai piedi, non vede l’ora di salire in casa e cambiarsi con dei vestiti asciutti.
I suoi passi riecheggiano lungo il tunnel, gli scarponcini umidi di pioggia lasciano una scia d’impronte bagnate al loro passaggio. La verità è che vedere di nuovo Touya gli ha fatto un effetto strano: alla fine è una persona con cui, nel bene e nel male, ha condiviso una parte della sua vita. Rispetto ad alcuni dei ragazzi che ha conosciuto all’istituto, Keigo sa di potersi ritenere fortunato: le poche persone a conoscenza del suo dono – Kaina e Touya – l’hanno accettato e capito.
Almeno finché non ha incontrato Ryou.
Keigo scuote brevemente la testa, affrettandosi verso l’ingresso. È in quel momento che avverte di non essere solo nel tunnel.
«Sono stato a casa di tua madre.» La voce di Enji vibra attraverso le pareti di cemento, Keigo sente che il fantasma si sta avvicinando rapidamente a lui – e non gli sembra affatto tranquillo. «Sul tavolo c’era un fascicolo.»
«Ah, sì? Ma non mi dire», commenta Keigo con fare disinteressato, infilando le mani nelle tasche della giacca. Affretta il passo, ha un sospetto su ciò che Enji possa aver scoperto e non ha alcuna voglia di parlarne.
«Un fascicolo che conteneva delle foto», insiste Enji, e Keigo riflette che sono poche le volte in cui l’ha sentito così furioso prima d’ora – Enji è irascibile e collerico, sì, ma questa volta c’è qualcosa di diverso. Nella rabbia la voce rimane bassa, e questo lo rende più temibile. «Delle foto in cui eri sottoposto a delle scariche di elettroshock.»
Stavolta Keigo si ferma. Si trova nei pressi di una delle finestre circolari che offre una vista sul cortile sottostante. Piuttosto che ricambiare lo sguardo di Enji – sa perfettamente che non riuscirebbe a sostenerlo, in quel momento – resta a osservare l’acero che viene funestato dalla pioggia.
In realtà Enji è preoccupato. Lo è da quando ha notato le occhiaie violacee sul volto pallido di Keigo, la notte dell’incidente, e lo è ancora di più adesso che ha visto quelle foto. Vorrebbe solo capire, perché ciò che si è trovato davanti lo ha spaventato a morte, e sa che di sicuro c’è una spiegazione, deve esserci…
«Chi è stato a farti del male?», domanda, e la sua voce suona dolce, tremendamente in apprensione.
Keigo, però, non risponde. Serra la mano attorno alla tracolla della borsa e contrae la mascella, mentre lo sguardo fisso sul cortile s’incupisce.
Quel silenzio, però, è fin troppo eloquente per Enji. Sente una rabbia più accecante salirgli in petto, e stavolta fa fatica a trattenersi. «È stato Ryou?», gli chiede ancora, il tono della voce che s’alza di intensità.
Le sue parole riescono finalmente a scatenare una reazione in Keigo, solo che non è affatto quella che Enji si aspettava. Il ragazzo infatti si volta verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. «E se anche fosse?», domanda sprezzante. «E comunque non ho fatto nulla contro la mia volontà.»
Enji non sembra per nulla rassicurato dalle sue parole. «Keigo, questa non è una cosa qualunque. È una roba seria, e pericolosa», cerca di farlo ragionare, cautamente. «Perché l’hai fatto?»
«Guarda che l’ha fatto con tutti noi», replica Keigo, con fare sardonico. «E comunque ha detto che ci avrebbe aiutato a capire l’origine dei nostri poteri.»
Enji serra con decisione le braccia al petto. «Ah, quindi per te è normale lasciarsi usare come delle cavie da laboratorio?», commenta, seccato.
Keigo si stringe nelle spalle. «Io non sapevo niente dei miei poteri, e pensavo che trattenerti qui mi avrebbe aiutato a capire…», si giustifica, lo sguardo che torna a fuggire oltre il vetro.
«Beh, non mi pare che sia servito a molto», taglia corto Enji, il tono della voce che torna a indurirsi. «Per colpa del tuo gesto egoista mi hai condannato a restare nel mondo dei vivi senza darmi la possibilità di andarmene… ogni giorno vedo la mia famiglia andare avanti senza di me, senza che io possa in qualche modo comunicare con loro…»
«Pensi di essere l’unico a sentirsi solo?» Keigo si volta nuovamente nella sua direzione, e stavolta urla anche lui, la voce che trema e alcune lacrime che per un momento minacciano di cadergli giù dagli occhi. «Come pensi che mi senta io, che vedo un fantasma e non posso parlarne con nessuno per paura del loro giudizio? Almeno dopo che Ryou mi ha portato all’istituto ho conosciuto persone come me, persone che possiedono un dono e possono capire come mi sento. Himiko percepisce le presenze, non può vederle come me ma almeno sa se un fantasma si trova nella sua stessa stanza. Jin ha un’empatia fuori dall’ordinario, sente in maniera nitida lo stato d’animo di chiunque lo circondi. A volte penso che tutto ciò di cui avessi bisogno fosse esattamente questo, ovvero qualcuno in grado di capirmi
Stavolta è Enji a distogliere lo sguardo. La verità è che no, non ha mai preso in considerazione i sentimenti di Keigo in merito a tutta quella storia, e non ha pensato che potesse sentirsi solo quanto lui.
Quando solleva nuovamente lo sguardo, si accorge che Keigo è tornato a fissare in cortile. Il ragazzo ha un’espressione tristissima sul volto, ed Enji non riesce a fare a meno di sentirsi mortificato.
«Rei ha scoperto che il giorno dell’incidente il cellulare di Tomie si è agganciato alla cella telefonica dell’istituto», gli confessa, quasi in un tentativo di farsi perdonare.
Keigo torna a voltarsi verso di lui, e stavolta sembra sinceramente sorpreso. «Io non l’ho vista lì», ammette, ed Enji intuisce dalla sua espressione smarrita e confusa che stia cercando un dettaglio, un singolo appiglio della memoria che possa aiutarlo a rintracciare la presenza di sua madre pochi giorni prima in quel luogo.
«Se Tomie era effettivamente venuta a conoscenza degli esperimenti di Ryou, è probabile che sia venuta fin lì per affrontarlo», commenta Enji, cercando di rimettere insieme i pezzi.
«Pensi che sia stato Ryou…?», domanda Keigo. Enji nota che il ragazzo ha lo sguardo vacuo, e per un momento teme che sia sul punto di svenire.
«Keigo, cos’hai? Ti senti male?», gli chiede subito, in apprensione.
Il ragazzo afferra la soglia in cemento accanto a sé per cercare stabilità. «No, è che… non posso credere di aver buttato tutto questo tempo… non può avermi ingannato per tre anni…», mormora, sconvolto.

L’aria di maggio era calda e soffocante.
L’ultimo pensiero di Keigo, in quei giorni, era lo studio. Eppure, tra Touya e sua madre, il mondo sembrava essersi messo d’accordo pur di spingergli a forza la testa sui libri in vista degli esami di fine anno.
Anche quel pomeriggio, come tutti gli altri negli ultimi tempi, erano entrati all’Owl mentre il sole cocente era ancora alto nel cielo. Keigo aveva ansimato, cercando disperatamente la frescura del condizionatore acceso nel locale.
«Dio, Touya, devi smetterla di costringermi ogni giorno a fare questa traversata infernale», si era lamentato, lasciandosi cadere sulla sedia di uno dei tavolini. «Prima o poi mi ritroverai sciolto sull’asfalto.»
Il suo compagno di studi l’aveva ignorato, posando lo zaino sul tavolino e, dopo averlo aperto, cominciando a estrarre vari libri e quaderni. «Se questa è una delle tue scuse per non studiare sappi che non funzionerà, Keigo», l’aveva ammonito, inflessibile.
A Keigo era sfuggito un lungo lamento, mentre aveva lasciato cadere la testa pesantemente sul tavolo. Tomie, nel frattempo, si era avvicinata a loro, posando sul tavolino del cibo e alcune bevande. «Ah, Touya, è una fortuna che ci sia tu», aveva commentato, sorridendo riconoscente al ragazzo. «Se non fosse per te mio figlio non avrebbe speranze con gli esami finali.»
«Non essere così dura, Tomie», si era sminuito il ragazzo. «In realtà Keigo va piuttosto bene a scuola, ma con matematica la storia è diversa…»
Matematica. Solo sentire quella parola aveva fatto sfuggire a Keigo un altro gemito di protesta. Il ragazzo aveva sollevato la testa – quanto bastava per incontrare con lo sguardo i suoi dolci preferiti, i danesi alla crema. Subito i suoi occhi si erano illuminati, e una mano era scattata in avanti per afferrarne in fretta uno. Se l’era portato alle labbra, prendendone avidamente un morso e lasciandosi invadere dal suo sapore delizioso appena era finito in bocca.
Tomie aveva lasciato una spinta contro la spalla di Keigo, incurante dei mugolii deliziati di suo figlio o delle deboli proteste che, era certa, adesso avrebbe provato a sollevare. «Ingordo», l’aveva rimproverato, osservandolo con biasimo. «Comunque vedi di dare retta a Touya e studiate per questi benedetti esami. Se t’impegni puoi raggiungere un buon risultato, lo sai.»
Tomie aveva rivolto un ultimo sguardo riconoscente in direzione di Touya, per poi affrettarsi a tornare dietro al bancone.
Keigo, dal canto suo, si era appoggiato allo schienale della sedia con aria imbronciata, sbocconcellando il suo dolce e ignorando le briciole che gli cadevano sulla salopette di jeans e sulla t-shirt. Non sopportava l’idea che Touya e sua madre avessero stretto quella tacita alleanza che, ai suoi occhi, appariva soltanto come un modo per metterlo ancora di più in difficoltà. Aveva posato il dolce sul piattino, afferrando il bicchiere di succo all’ace – anche quello era il suo preferito, dannazione – e prendendone un piccolo sorso mentre osservava Touya in cagnesco.
Il ragazzo, come al solito, non sembrava affatto infastidito dalle sue occhiatacce, anzi piuttosto a giudicare dal sorriso sul suo volto si stava divertendo parecchio. Touya aveva scosso brevemente il capo, per poi cominciare a sfogliare il libro alla ricerca degli esercizi che aveva intenzione di proporre a Keigo quel giorno.
«Dai, muoviti, apri il quaderno», lo aveva esortato, recuperando una penna dall’astuccio.
Keigo si era lasciato sfuggire nuovamente un lungo sospiro, ma alla fine aveva assecondato Touya, sollevando la copertina rossa del suo quaderno. Probabilmente quella non era affatto una scena nuova per la clientela del locale.
Keigo l’aveva notato fin dal primo momento in cui era entrato. Anche quel giorno il cliente abituale dell’Owl era lì.
Passava l’intero pomeriggio seduto a uno dei tavolini, leggendo il quotidiano del giorno e sorseggiando caffè amarissimo. Keigo era rimasto subito affascinato da quel tipo, e ormai l’aveva osservato così tante volte da essere certo di conoscere ogni dettaglio di lui: gli occhiali dalla sottile montatura nera che metteva solo per leggere, il fatto che fosse sempre vestito in maniera impeccabile, le dita affusolate che giravano con lentezza ogni singola pagina, il modo elegante in cui si portava la tazzina di caffè alle labbra. C’era qualcosa di magnetico, in quell’uomo dagli occhi rossi e i corti capelli bianchi, al punto che ogni volta Keigo rimaneva incantato a osservarlo per un tempo indefinibile.
Keigo aveva lanciato un’ultima occhiata furtiva al cliente, per poi abbassare di nuovo lo sguardo sul quaderno e trascrivere l’esercizio che Touya gli stava dettando.

Come se non bastasse, oltre allo studio per gli esami in quel periodo si era aggiunto anche l’impegno con il locale.
Gli faceva piacere aiutare sua madre con l’Owl, questo andava detto. Servire cappuccini e tramezzini era decisamente più avvincente che destreggiarsi con le equazioni di secondo grado, almeno per lui.
Quella sera aveva visto Tomie particolarmente stanca, così le aveva proposto di occuparsi lui della chiusura del locale. Lei, nel frattempo, sarebbe potuta andare a casa a riposarsi, e Keigo le aveva assicurato che la cosa non gli pesasse.
Ora che stava abbassando la saracinesca del locale, però, qualche dubbio aveva cominciato a tormentare la sua mente. Forse accettare di restare lì fino a tardi non era stata esattamente una mossa brillante, soprattutto visto che anche quel pomeriggio aveva studiato con Touya e la mattina successiva lo attendeva una giornata di lezioni – e a seguire le ennesime ripetizioni supplementari, già. Ultimamente, in effetti, la sua vita si stava rivelando più stressante del previsto.
In ogni caso, anche quella sera era finita. Adesso non doveva far altro che tornare a casa e ficcarsi sotto le coperte. Al resto ci avrebbe pensato domattina, si era detto.
Quando si era voltato, però, si era ritrovato a sobbalzare. Credeva di essere da solo, e soprattutto non si aspettava che il cliente abituale lo stesse aspettando là fuori – sbagliava o era andato via ore prima?
«Ryou! Mi hai fatto prendere un colpo…», aveva ammesso, portandosi una mano al petto.
L’uomo aveva sorriso. Keigo aveva scoperto il suo nome quando, un pomeriggio, era stato lui a servirgli il solito caffè amaro. La conversazione tra loro era nata in maniera assolutamente spontanea, e a dir la verità Keigo era stato felice di parlare con lui. Ryou non era soltanto una persona interessante da osservare. Anche le sue parole, il modo in cui esprimeva un’opinione o argomentava un discorso, era a dir poco affascinante.
«Perdonami, Keigo, non era mia intenzione spaventarti», aveva confessato, staccandosi col corpo dalla barriera in ferro a cui s’era appoggiato. «In realtà ti stavo aspettando.»
«Aspettavi me? A quest’ora? Perché?», aveva domandato Keigo, confuso.
Ryou si era avvicinato a lui, carezzandogli una guancia con la mano. «Ti andrebbe di venire in un posto insieme a me? Dovrei parlarti di una questione importante…», aveva mormorato, fissandolo intensamente negli occhi.
Keigo aveva sentito il suo volto avvampare di colpo.
Non aveva la più pallida idea del perché avesse accettato. Eppure gli aveva detto di sì, senza battere ciglio.
Probabilmente era per via del magnetismo che quell’uomo emanava. Keigo iniziava a sospettare che, se gliel’avesse chiesto, si sarebbe buttato da una scogliera per lui.
Ryou aveva una berlina sportiva estremamente veloce. Keigo aveva serrato nervosamente le dita attorno alla cintura di sicurezza, terrorizzato mentre la vettura continuava a sfrecciare tra impervi tornanti di montagna.
A un certo punto si erano fermati proprio in prossimità di una curva. Ryou aveva spento il motore ed era sceso dall’auto, e Keigo, dopo un momento d’esitazione, si era limitato a seguirlo.
Da lassù Tokyo appariva in tutto il suo splendore. La città era costellata da una miriade di piccole luci, e a osservare quel panorama dall’alto sembrava che fosse tutto così microscopico, i palazzi, la gente, le preoccupazioni…
«Wow», aveva mormorato Keigo, estasiato. «È bellissimo…»
«Sono felice che ti piaccia», aveva commentato Ryou, avvicinandosi a lui. «In realtà venivo spesso in questo posto con mio fratello.»
Keigo si era voltato verso di lui, sorpreso. «Non sapevo che avessi un fratello…», aveva ammesso, accigliandosi.
Ryou aveva sorriso osservando l’espressione dubbiosa del ragazzo. «È morto tanto tempo fa, ormai», gli aveva confessato, la voce che sembrava essere diventata distante come quella di chi accarezza un vecchio ricordo. «A volte però vorrei che fosse ancora qui…»
Keigo lo aveva osservato con fare guardingo. «A che ti riferisci?», gli aveva domandato, con circospezione.
Ryou aveva continuato a sorridere in direzione di Keigo. «Quando è morto, io… ho visto il suo fantasma», aveva ammesso, quasi sentendosi sollevato nell’averlo detto ad alta voce.
Keigo aveva scosso la testa con decisione. Sapeva che non avrebbe dovuto fidarsi. Non sapeva come, ma evidentemente doveva essersi sparsa in giro la voce che lui e Tomie potevano vedere i morti, o perlomeno era arrivata alle orecchie sbagliate. Ci mancava solo che la gente cominciasse ad avvicinarsi a lui e a sua madre per trattarli come dei fenomeni da baraccone. Si era avviato nuovamente verso l’auto, ma senza alcuna intenzione di salirvi. «Senti, grazie per la passeggiata, questo posto era davvero bello. Adesso scusami ma devo tornare a casa, non disturbarti a riaccompagnarmi, vado a piedi…», aveva bofonchiato, prendendo a camminare lungo una vecchia stradina polverosa e piena di ciottoli.
«Aspetta, Keigo! È la verità!» Ryou gli era corso appresso, afferrandolo piano per il polso. «È vero, mi sono messo sulle tue tracce e su quelle di tua madre perché ho scoperto che possedete questo dono, ma desideravo trovarvi proprio perché anche io sono come voi! Posso anche parlare con loro, ma riesco a farlo solo se non hanno già attraversato la porta dell’inferno!»
Alla menzione della porta dell’inferno, Keigo si era deciso finalmente a fermarsi. Nessuno, a parte lui e Tomie, era a conoscenza di quella storia. Pertanto, se Ryou gliene aveva parlato, probabilmente la sua storia era vera.
Keigo si era girato con aria dubbiosa in direzione dell’uomo. «Per cui… tuo fratello è rimasto?», aveva domandato, cercando di scoprire cautamente qualcosa di più.
«No», aveva ammesso Ryou, scuotendo brevemente la testa. «L’ho visto con i miei occhi attraversare la porta dell’inferno. Però… non siamo soli, Keigo. Ho scoperto che esiste un posto, qui in Giappone, in cui sono accolte tutte le persone che come noi possiedono un dono. Se tu lo desiderassi, io potrei portarti lì…»
Un posto in cui si trovavano delle persone come lui? Qualcuno che fosse finalmente in grado di capirlo? A Keigo tutto ciò sembrava un sogno. Da quando Enji era piombato nella sua vita, aveva scoperto di essere in grado di fare cose di cui non si sarebbe mai creduto capace. Solo che non sapeva perché ci riuscisse. L’idea di scoprirlo, in effetti, suonava così incredibilmente allettante, nelle sue orecchie…
Keigo aveva scosso brevemente il capo. «Ho bisogno di rifletterci», aveva concluso, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro. «Adesso puoi riaccompagnarmi a casa, per favore?»
«Certamente», aveva concesso Ryou, in tono benevolo.
L’uomo aveva porto una mano nella sua direzione. Keigo si era limitato ad afferrarla, e Ryou l’aveva condotto verso la macchina.

«Cosa…? No! Perché?!»
«Non posso lasciarti andare, Enji… non finché non avrò capito perché siamo legati.»
«Lasciami andare, Keigo! Lasciami andare!»
Keigo era rimasto lì, in cima a quel tetto e sotto al diluvio, anche dopo che Enji se n’era andato. Aveva osservato attonito il punto in cui lo aveva visto svanire, ancora incredulo per ciò che era riuscito a fare.
Lo aveva trattenuto. Gli aveva impedito di attraversare la porta dell’inferno. Non sapeva neppure di essere in grado di fare una cosa del genere.
Ora che era rimasto lì da solo, non aveva idea di che cosa fare. Si era limitato a lasciare quel palazzo, per poi cominciare a vagare senza meta.
O almeno, all’apparenza vagava senza meta. In realtà, la sua mente sapeva esattamente dove stesse andando.
Aveva attraversato tutta Tokyo a piedi, fino a quando non era giunto nei pressi di una villa lussuosa. Una volta lì, aveva superato in fretta i cancelli all’ingresso, per poi percorrere il viale che conduceva al portone.
Dopo aver sentito il suono del campanello, Ryou era andato quasi subito ad aprire. Quando aveva spalancato la porta d’ingresso, si era ritrovato Keigo fermo lì sulla soglia, fradicio di pioggia dalla testa ai piedi e col volto segnato dalle lacrime.
«Keigo! Cos’è successo?», gli aveva domandato subito, in apprensione.
«L’ho trattenuto… non so come ho fatto… io…», aveva biascicato, confuso.
Prima che Ryou potesse provare a chiedergli qualcos’altro per cercare di capire, Keigo si era spinto in avanti. Aveva afferrato il volto di Ryou con entrambe le mani, posando un bacio dal sapore disperato sulle sue labbra.
In un primo momento, Ryou era rimasto completamente spiazzato. Ben presto, però, aveva fatto scorrere una mano tra i capelli bagnati di Keigo, attirandolo maggiormente a sé e approfondendo il bacio mentre chiudeva la porta.
Keigo aveva abbassato le palpebre, abbandonandosi completamente al tocco delle mani di Ryou. Aveva sentito l’uomo sollevarlo da terra afferrandolo per i fianchi, e si era ritrovato a mugugnare quando si era accorto che l’aveva spinto contro una parete per baciarlo.
La verità era che aveva trattenuto Enji perché lo amava. Se gli avesse lasciato attraversare la porta, avrebbe perso tutti i ricordi che lo legavano a lui.
E Keigo non poteva permetterlo.
«Ti prego, portami con te», aveva ansimato, mentre le labbra di Ryou erano scese a baciargli il collo. «Quel posto di cui mi hai parlato, quello per quelli come noi… ti prego, portami lì…»
Ryou aveva sollevato lo sguardo su di lui, osservandolo benevolo mentre Keigo gli circondava il collo con le braccia. «Certamente, tesoro…», gli aveva assicurato, con dolcezza.
A Keigo era venuto da sorridere. Poco dopo aveva lasciato che Ryou tornasse a baciarlo, posando le labbra sulle sue.

È una lezione particolarmente noiosa.
Jin si è rifugiato in ultima fila, così che nessuno si accorga se schiaccia un pisolino. Ha le braccia incrociate sopra il banco e ci ha nascosto in mezzo la testa, e pensa che quella sarà un’altra giornata tranquillissima.
Almeno finché non sente una borsa venire poggiata pesantemente sul banco e qualcuno sedersi accanto a lui.
Jin solleva lo sguardo di scatto, spaventato. Non appena i suoi occhi incontrano la figura di Keigo, non può che essere sorpreso.
«Keigo? Che ci fai qui?», bisbiglia, per non farsi notare dalla professoressa che sta andando avanti con la sua lezione. «Credevo che saresti rimasto a Tokyo ancora per qualche giorno…»
Keigo scuote brevemente la testa. «Non potevo. C’erano troppi ricordi lì, la situazione si stava facendo insostenibile…», commenta, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro. «Comunque, hai visto Ryou in giro? Ho bisogno di parlargli di una cosa importante.»
Jin non sembra particolarmente sorpreso da quella domanda, forse perché – come altri studenti – è a conoscenza della loro relazione. «No», ammette, scrollando le spalle. «Da quel che ne so io ha preso un permesso per qualche giorno…»

La porta si chiude cautamente alle sue spalle, i vetri che tintinnano lievemente.
Enji posta lo sguardo in ansia su Keigo, non pensava che ci avrebbe messo così poco. «Allora?», domanda, trepidante.
«Non c’è.» Keigo scrolla brevemente il capo, per poi cominciare a passeggiare sotto il portico d’ingresso dell’istituto. «Da quello che si dice in giro è sparito già da qualche giorno.»
Enji sembra seccato. In effetti è stato uno sciocco, avrebbe dovuto prevedere una mossa del genere da parte di Ryou. «Dovevamo aspettarcelo. Dopo aver ricevuto la notizia di Tomie avrà atteso il momento giusto per tagliare la corda», commenta, rassegnato. «Comunque, adesso che si fa?»
Keigo si volta nella sua direzione, rivolgendogli uno sguardo furbo. «Come che si fa? Entriamo nel suo studio senza farci vedere e cerchiamo di scoprire qualcosa, no?», replica, mentre sul volto gli compare un sorriso complice. «Mi sa che sei un po’ arrugginito, Enji.»

Più facile a dirsi che a farsi.
Lo studio di Ryou si trova nel bel mezzo dell’istituto. Lungo i corridoi è un continuo viavai di studenti e insegnanti, tutti diretti verso l’aula della loro prossima lezione.
Keigo stringe nervosamente tra le dita la tracolla della sua borsa, spostando il capo di lato ogni volta che qualcuno passa nelle vicinanze. La speranza è che nessuno lo noti, o che quantomeno nessuno lo trovi troppo sospetto.
«È qui?» Enji lo fissa tenendo le braccia incrociate al petto, impaziente.
«Sì.» Keigo estrae il cellulare dalla tasca della giacca, avvicinandoselo all’orecchio – fingere di essere impegnato in una conversazione telefonica è l’idea migliore che gli è venuta in mente nella speranza di passare inosservato. «Mi raccomando, cerca di fare in fretta…»
Enji si lascia sfuggire un piccolo grugnito, ma alla fine si decide a oltrepassare la porta dello studio di Ryou.
La prima cosa che nota è che è tutto maniacalmente in ordine: sulla scrivania ci sono solo pochi fogli, tutti impilati in maniera impeccabile. Nella libreria non c’è nemmeno un volume fuori posto, e i cuscini del divano sembrano essere stati rassettati da poco. Se deve trovare qualche elemento interessante, però, non gli sembra di rintracciare lì nessun elemento che rispetti quel criterio.
Enji sbuffa, infilando nervosamente le mani nelle tasche della giacca. La verità è che non gli piace quel posto, non gli piace quella situazione, non gli piace un bel niente. Non ha mai sopportato Ryou, con quell’aspetto da perfetto damerino, gli abiti di alta sartoria, le camicie coi colletti inamidati e la colonia costosa sempre addosso. Lui è sempre stato un tipo più schietto, più diretto, anche per via del suo lavoro.
E comunque, adesso che sa cosa ha fatto a Keigo quel tipo gli piace ancora meno.
Lo sguardo infastidito di Enji continua a saettare da una parte all’altra dello studio senza esito. «Qui non c’è un bel niente», decreta, lanciando una breve occhiata verso la porta.
«Controlla sullo schedario», gli suggerisce Keigo. La cosa assurda è che, anche se non ce l’ha davanti, Enji riesce a immaginarlo perfettamente: lo sguardo evasivo, l’espressione agitata. Per quanto possa negarlo, Enji sa bene quanto certe cose lo mettano a disagio. «Lì dovrebbero esserci delle chiavi.»
Enji sposta lo sguardo alla sua sinistra. In effetti, accanto alla finestra da cui entra luce in abbondanza c’è un vecchio schedario di metallo. Ci si avvicina con delle ampie falcate, scrutandolo con attenzione.
Sopra, come gli ha anticipato Keigo, ci sono effettivamente diversi mazzi di chiavi, contenuti in quello che sembra un piatto di terracotta. «Okay, le ho trovate», annuncia, ma senza essere troppo convinto.
«Cercane una in particolare», continua Keigo – e di nuovo, a Enji sembra di averlo lì davanti a sé per la maniera accurata in cui lo vede nella sua mente, gli occhi che saettano freneticamente da una parte all’altra del corridoio, il modo ansioso in cui finge di mormorare al telefono. «Ha un portachiavi fatto con un cordoncino rosso intrecciato.»
Enji corruga la fronte. Lì ci sono parecchi tipi di chiavi differenti, eppure, per quanto si affanni nella ricerca, non gli sembra di riuscire a rintracciare niente che rispecchi ciò che Keigo gli ha descritto. «Non la vedo», annuncia infine, arrendendosi.
«Merda.» Keigo impreca tra i denti. «È la chiave della sua macchina. Se manca vuol dire che l’ha presa e adesso è chissà dove…»
Enji attraversa nuovamente la porta dello studio di Ryou, tornando finalmente a poter osservare Keigo. Forse non si è neppure accorto che è di nuovo in corridoio con lui, perché al momento ha il capo voltato di lato e osserva un punto nel vuoto fuori dalla finestra. Ha un’aria corrucciata, ed Enji lo nota sistemarsi una ciocca di capelli dorati dietro l’orecchio – il gesto che fa sempre quando ha bisogno di riflettere.
«Certo che ne sai di cose su Ryou», valuta Enji, infilando nuovamente le mani nelle tasche. «Voi due siete diventati parecchio intimi…»
Keigo si gira nella sua direzione, rivolgendogli un sorriso scaltro. «Vuoi sapere se ci sono andato a letto?», gli chiede a bruciapelo, osservandolo con fare malizioso.
Per un momento, Keigo resta a osservare deliziato l’espressione di totale imbarazzo che si dipinge sul volto di Enji.
Poco dopo, però, torna a fissare il corridoio davanti a sé, l’espressione sul suo viso che si fa nuovamente seria. «Ad ogni modo, la risposta è sì», ammette, senza un’inflessione particolare nella voce. «Abbiamo una relazione, da un anno a questa parte.»
Enji sembra piuttosto infastidito dalla cosa. «Ah, beh. Sesso ed elettroshock. Avvincente», commenta, seccato.
Keigo si volta nuovamente verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. «L’ho baciato per la prima volta poco dopo che sei scomparso. Immagino tu sappia perché», conclude, ed Enji non riesce a non percepire una sorta di fastidio nella sua voce.
Enji socchiude le labbra. Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma Keigo l’ha lasciato come al solito a corto di parole.
Poco dopo, prima ancora che possa provare a fermarlo, Keigo scatta in avanti, lasciandoselo alle spalle.

«So dove Ryou tiene di solito la macchina. Seguimi.»
Keigo non aggiunge altro durante il tragitto. Enji continua a riflettere, chiedendosi cos’abbia detto di così sbagliato e se ci sia un modo per cercare di rimediare, tuttavia non riesce a darsi una risposta.
Si sono infilati in una fitta boscaglia, ed Enji osserva Keigo procedere a passo sicuro davanti a sé, come se conoscesse perfettamente quei sentieri che serpeggiano tra i faggi. In particolare c’è una piccola stradina di terra umida, quella che stanno seguendo, che sembra pendere leggermente verso il basso.
Enji nota che sono arrivati davanti a un vecchio cancello di legno. Keigo gli dà una piccola spinta, e quello si spalanca subito.
Le fronde degli alberi sono così basse che a Enji sembra che cerchino di sfiorare il volto di Keigo, di ghermirgli la giacca. Alla loro sinistra c’è un piccolo lago, su cui si riflette timidamente il panorama della zona circostante.
È quasi completamente buio quando arrivano lì dove dovrebbe esserci la rimessa dell’auto di Ryou. Un vento freddo spira tra i rami e fa danzare alcune foglie a terra, mentre se alza lo sguardo verso il cielo a Enji sembra di intravedere una pallida luna.
C’è un vecchio capanno di legno, all’apparenza abbandonato e mai ultimato. Effettivamente là sotto c’è abbastanza posto per una macchina.
Solo che, prevedibilmente, l’auto di Ryou non è lì.
«Non c’è», commenta Keigo, piuttosto deluso. «A quest’ora potrebbe essere ovunque, magari ha perfino lasciato il paese…»
«Non credo. Guarda i segni degli pneumatici a terra», gli fa notare Enji. «Queste tracce sono fresche. Significa che non deve essere andato via da qui da molto.»
Keigo si acciglia, pensieroso. «D’accordo, ma anche se fosse come facciamo a trovarlo?», domanda, portandosi una mano al mento per riflettere – in quel gesto che ormai per Enji è così tipico di Keigo. «Non abbiamo la più pallida idea di dove possa essere…»
Enji segue solo in parte il discorso di Keigo. Le parole del ragazzo cominciano lentamente a scemare, nel momento in cui si accorge di star avendo una nuova visione.
All’inizio gli sembra che sia esattamente la stessa che ha avuto la notte della morte di Tomie. Vede di nuovo il volto spaventato di Keigo, e poco dopo il ragazzo precipita nel vuoto.
Stavolta, però, c’è un dettaglio in più.
Dopo la scena in cui Keigo cade all’indietro, Enji vede se stesso. Ha a sua volta un’espressione terrorizzata, e sembra guardare in direzione del punto oltre cui Keigo è volato verso il basso.
Cosa significa? Ha visto chi ha buttato giù il ragazzo? Sarà lui a fargli del male?
Poco dopo è la voce di Keigo a riportarlo alla realtà. «Enji, che succede…? Va tutto bene?», lo chiama piano, con cautela.
«Eh?» Enji scuote appena il capo, cercando di ridestarsi. Torna lentamente a mettere a fuoco ciò che lo circonda, il bosco, la rimessa, Keigo. Il ragazzo lo osserva attentamente, ha un’espressione preoccupata in volto.
Enji si lascia sfuggire un sospiro, scrollando le spalle. «Sì, tutto a posto. Ci sono», gli assicura, muovendo un poco le mani nelle tasche della giacca per restare concentrato. «Probabilmente è diretto verso Tokyo. Lì c’è pur sempre casa sua, e finché la polizia non lo indaga formalmente è un buon posto in cui rifugiarsi. Senza contare che è più facile nascondersi in una metropoli, finisci per confonderti in mezzo ai suoi abitanti, e poi c’è pur sempre la possibilità che abbia ancora qualcuno che possa aiutarlo, lì.»
Keigo annuisce, quel ragionamento sembra aver convinto anche lui. Enji nota che pare aver già dimenticato il suo momento d’assenza, e non può che sentirsene sollevato.

«La macchina di tua madre è volata giù da un burrone in circostanze da chiarire. A casa sua c’era un faldone con le prove degli esperimenti che Ryou svolge sugli studenti dell’istituto. Poco prima dell’incidente, il cellulare di Tomie si è agganciato alla cella telefonica del centro studi, il che vuol dire che si trovava lì. Ryou è misteriosamente sparito, nessuno sa dove sia. Noi stiamo tornando a Tokyo per cominciare a cercarlo da lì.»
Mentre parla, Enji continua a tenere lo sguardo fisso sullo specchio. Sente che Keigo lo osserva, e non si perde nemmeno mezzo secondo del suo discorso.
Il ragazzo si sciacqua in fretta i denti. Pulisce lo spazzolino, dopodiché lo ripone nuovamente all’interno dello zaino, assieme al dentifricio.
Keigo si volta in direzione di Enji, mettendosi di nuovo lo zaino in spalla. «Beh, è pur sempre un punto di partenza», commenta, speranzoso. «Okay, adesso faremo meglio a tornare a bordo del bus. L’ultima cosa che voglio è restare bloccato in un’area di servizio del cavolo nel bel mezzo del nulla.»
Keigo si sistema il cappuccio della felpa sul capo, per poi decidersi finalmente a salire di nuovo le scale. Attraversa ancora una volta gli scaffali pieni di cibarie, ma li supera senza esitazioni, dirigendosi spedito verso la porta. Una volta uscito, il vento freddo della notte torna a colpirgli il volto, e in quel momento a Keigo viene da sorridere, mentre si sente vivo come non gli capitava da tempo.
Una volta tornato a bordo del bus, occupa nuovamente un posto in fondo al veicolo, senza togliersi il cappuccio dalla testa – tutte precauzioni, per come la vede lui: loro sono partiti alla ricerca di Ryou, ma per quel che ne sanno potrebbe essere benissimo l’uomo a braccarli.
Quando l’autobus riparte, Keigo prova a schiacciare un pisolino, e mentre dorme affonda la faccia nello zaino che tiene stretto a sé, usandolo come cuscino.
Enji non riesce a fare a meno di osservarlo. Mentre dorme Keigo ha un’aria adorabile, e sul suo volto si è formato l’accenno di un sorriso.
L’autostrada scorre pigramente intorno a loro, la luce dei lampioni che piano piano lascia posto all’alba. Nella mente di Enji si affaccia il ricordo di quella visione: il pensiero di poter fare del male al ragazzo lo tormenta, eppure non riesce a capire come questo possa essere possibile. È rimasto lì perché desidera proteggerlo, dopotutto.
Eppure, non gli ha ancora parlato di ciò che ha visto. Continua a pensare che per ora sia meglio così, Keigo ha già troppe preoccupazioni, è inutile dargliene delle altre prima che non sia chiaro per primo a lui il significato della visione.
Enji allunga istintivamente una mano, carezzando il volto di Keigo. L’autobus procede lento e i passeggeri sono tutti profondamente addormentati, ma se anche qualcuno si fosse voltato ciò che avrebbe visto sarebbe stato un soffio di vento che faceva ondulare i capelli dorati del ragazzo.


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note
allora, prima di tutto tre cose che mi sono dimenticata di dire nelle note del capitolo scorso.
1. il nome di ryou. perché si chiama così? risposta: non lo so. basically era un nome che mi suonava bene horikoshi mannaggia a te diccelo ogni tanto come si chiamano i pg
2. perché i capelli di tomie sono verde menta se nell'anime si vede che hanno lo stesso colore di quelli di keigo? perché quando ho iniziato a scrivere la long quell'episodio non era ancora andato in onda e mi sono basata unicamente sulle vibes che mi davano i disegni del manga. avrei potuto correggere a posteriori ma alla fine ho preferito lasciare così.
3. l'interazione tra enji e keigo nel primo capitolo. probabilmente sarà sembrata super ooc, soprattutto considerando il rapporto che c'è canonicamente tra i personaggi, però giuro che ha senso! andando avanti con la storia diventerà tutto più chiaro, promesso.
bene, chiarite queste cose possiamo andare avanti. in realtà sul capitolo in sé non ho molto da dire, se non che come avevo annunciato nelle note dello scorso aggiornamento questo è decisameeente più lungo 10k parole tipo? rip. forse c'è una parte che può lasciare un po' confusi, ovvero quella con il cambio repentino di tempo verbale: è voluto, perché trattandosi di ricordi avevo biogno di creare un distacco che facesse capire che erano fatti antecedenti a quelli della storia in sé. è un espediente che ho usato anche più avanti nella ff, spero che non sia troppo disorientante! owo
ah, non so se avete notato ma l'ultima scena di questo capitolo si ricollega ovviamente alla prima di quello precedente. sì, in effetti è una sorta di un enorme flashback considerando che all'interno ci sono degli altri flashback, possiamo definire questi ultimi metaflashback...?
ad ogni modo, per questo capitolo è tutto. spero che la storia vi stia piacendo!
aria   

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Capitolo 3
*** scheletri nell'armadio ***





«Sei sicuro che sia okay stare qui?»
La serratura scatta con un rumore breve e secco, e la porta si schiude piano su un ambiente piuttosto familiare.
«Kaina è in ferie. Sarà fuori città per alcuni giorni, da quello che ho capito è andata a far visita ad alcuni lontani parenti di mia madre per informarli della sua morte.» Lo sguardo di Keigo si muove pigramente osservando quel luogo in cui ha trascorso i primi diciotto anni della sua vita. Sono da poco passate le otto del mattino. Dopo che l’autobus su cui ha viaggiato per tutta la notte è finalmente giunto in stazione, Keigo ha subito raggiunto senza esitazioni il piccolo appartamento di Kaina, confortato dalla consapevolezza che non l’avrebbe trovata. A quell’ora, per di più, l’enorme condominio più vicino alla periferia che ai quartieri eleganti della città è pressoché deserto, tutti i suoi inquilini sono ormai usciti di casa diretti a scuola o sul luogo di lavoro. Meglio così, si ritrova a valutare Keigo. Sente che quel silenzio avvolgente è esattamente ciò di cui ha bisogno in quel momento.
«E per la verità non ho nemmeno un altro posto in cui andare», aggiunge, mentre il portone d’ingresso si richiude alle sue spalle. Enji l’ha già seguito all’interno, e ne approfitta per dare un’occhiata in giro: è incredibile come quell’appartamento finisca per sembrargli ogni volta immutabile nel tempo, ma ancora di più stamattina non riesce a fare a meno di restare sorpreso nel notare come Kaina si sia impegnata a lasciare tutto in ordine prima della partenza. Non gli sembra di notare niente fuori posto, non c’è nemmeno un foglio dimenticato per sbaglio sul tavolo del soggiorno.
Si distrae solo per un secondo, ma quando torna a cercare Keigo con lo sguardo si accorge che il ragazzo non è più nel soggiorno: ha attraversato in fretta la stanza fino ad arrivare in camera sua, dove ha abbandonato senza cura lo zaino a terra e adesso si è lasciato cadere pesantemente sul letto, la faccia premuta contro il materasso.
Enji si limita a raggiungerlo, osservandolo con aria apprensiva.
«Sono esausto», ammette il ragazzo, rotolando finché non si ritrova disteso correttamente, la schiena che si accomoda al meglio mentre si copre il volto con un braccio. «Non riesco a ricordare quando è stata l’ultima volta in cui ho dormito nel vero senso della parola. E no, quello pseudo pisolino che ho schiacciato in autobus non vale…»
Enji si lascia sfuggire un sorriso, intenerito da quella scena. «Puoi provare a farlo adesso, se vuoi», concede, mentre Keigo si dibatte brevemente tra le lenzuola fino a quando non riesce a coprire per bene il suo corpo. «È ancora presto, per qualche ora puoi riposare tranquillo.»
Enji si ritrova a domandarsi se sia mai stato così indulgente con Keigo prima d’ora o se quella sia solo la conseguenza della visione che ha avuto. Non riesce a darsi una risposta, sa solo che se quello è il prezzo da pagare per l’espressione rilassata che in quel momento è comparsa sul volto del ragazzo, allora ne vale totalmente la pena.
«Nel frattempo ne approfitto per verificare alcune cose…», fa per comunicargli, ma si arresta nel momento in cui si accorge che Keigo si è già profondamente addormentato, il respiro regolare che danza sul suo volto.
Enji si lascia sfuggire un piccolo sospiro, concedendo una carezza sulla fronte del ragazzo. L’istante successivo è già svanito nel nulla.

Una settimana.
Questo è tutto il tempo che Rei è riuscita a farsi concedere dal questore. Una settimana, dopodiché quel caso – quel caso che lei ha chiesto di aprire, quel caso in cui è stata lei a far notare le incongruenze – verrà archiviato per sempre. E lei potrà finalmente trasferirsi a Kyoto e cominciare la sua nuova vita lì.
Avrebbe potuto voltare le spalle a ciò che ha visto quella notte tra i boschi innevati e partire subito, ma forse il suo senso di giustizia è troppo forte per essere messo a tacere. C’è anche una profonda componente personale in quel caso, lo sa bene – non può certo ignorare infatti che, in passato, la vita di Tomie si sia già intrecciata con la sua mentre indagava sulla morte di Enji –, ma a questo preferisce non dare troppo peso.
Fukukado Emi continua ad osservarla di sottecchi, le mani infossate nelle tasche dei jeans mentre mastica distrattamente un chewing gum. Rei è rimasta delusa quando Aizawa ha declinato la sua proposta di andare assieme al deposito in cui è custodita l’auto di Tomie, ma da quanto ha capito Shota doveva accompagnare Eri a scuola. Quando si tratta della famiglia, Rei è sempre pronta a fare un passo indietro.
«È questa?», s’informa Emi, osservando perplessa l’auto ormai ridotta a un cumulo di lamiere davanti a loro.
Rei annuisce brevemente. «Sì», conferma, mentre cerca di dare un senso a ciò che vede davanti agli occhi. Il parabrezza è completamente in frantumi, schegge di vetro che si sono depositate sui sedili anteriori e sul pianale, la carrozzeria perlopiù accartocciata su se stessa, soprattutto il cofano, che ha prima impattato contro il guard rail per poi schiantarsi sul terreno della radura in cui è stata ritrovata la vettura.
Enji osserva le due donne ferme al centro dello spiazzo di fronte all’officina meccanica in cui è stata portata l’auto di Tomie – o perlomeno ciò che ne rimane – dopo l’incidente. Dopo aver lasciato Keigo a casa di Kaina, il suo primo pensiero è stato raggiungere Rei, ed è così che si è ritrovato in quel luogo.
Emi incrocia le braccia, stringendosi nel suo giubbotto imbottito. «Che brutta fine… non riesco a capire come a qualcuno possa venire in mente di buttarsi giù da un precipizio come quello», commenta, un’espressione accigliata in volto.
«Continuo a essere convinta che non si sia trattato di un incidente», ammette Rei, la giacca avorio che le svolazza attorno mentre si muove vicino alla macchina. «Per esempio non credo che i segni di frenata che abbiamo visto sull’asfalto li abbia lasciati l’auto della vittima.»
Emi sembra confusa per qualche secondo, ma alla fine pare aver compreso ciò che Rei le sta dicendo. «Secondo lei c’era un’altra macchina che ha spinto giù quella della vittima e che ha lasciato quei segni di frenata per non finire a sua volta per precipitare nel burrone?», chiede, gli occhi che s’illuminano di entusiasmo per quell’improvvisa deduzione.
«Non so, è solo un’ipotesi… però guarda qui», commenta Rei, richiamando l’attenzione dell’altra donna sul retro dell’auto. Emi la raggiunge in fretta, ed  Enji si limita a seguirla.
Quando finalmente le si ferma accanto, Emi nota che Rei le sta indicando un punto in particolare della carrozzeria, che corrisponde al parafanghi posteriore destro. «Non trovi anche tu che ci sia qualcosa di strano?»
Emi assottiglia lo sguardo, fino a quando non riesce a notare che, in effetti, in un punto la carrozzeria è graffiata, come se qualcosa – o qualcuno – si fosse effettivamente scontrato contro l’auto che stanno osservando. «Ci sono dei residui di vernice», rileva Emi, sistemandosi una ciocca di capelli acquamarina dietro l’orecchio. «Possiamo provare a prelevarla e vedere se riusciamo a trovare un riscontro.»
Enji annuisce, incrociando le braccia al petto. Non è particolarmente convinto da quell’ipotesi investigativa, ma non può fare a meno di restare colpito dalle doti di osservazione di sua moglie.
Rei sorride, lasciandosi sfuggire un breve cenno d’assenso del capo. In fin dei conti è grata che lì con lei ci sia Emi e non Shouta: le sembra di aver trovato una ragazza sveglia e in gamba, e soprattutto una persona che non scarta a priori le sue ipotesi, cosa che forse Aizawa avrebbe fatto. «È un inizio», commenta lei, speranzosa.

Il problema degli asili è che c’è troppa confusione.
Shouta l’ha sempre pensato, ma ora che accompagna Eri a scuola ogni mattina non può che accorgersene sempre di più. Ha sempre preferito la quiete al caos, leggere un libro nel silenzio di un pomeriggio assolato è quanto di più rilassante riesca a immaginare. Solo che non rinuncerebbe mai a Eri, a prendersi cura di lei, a sentire la sua manina stretta nella sua mentre la accompagna lungo il viale costeggiato da alberi dalle foglie aranciate che conduce all’ingresso dell’edificio.
C’è un viavai di genitori e bambini che affolla il cortile. Hanno tutti delle espressioni allegre, si salutano augurandosi una buona giornata e poi ognuno si avvia verso le proprie attività, gli adulti che si recano al lavoro e i più piccoli che vengono presi in custodia dalle maestre che si occuperanno di loro.
A osservarli bene, Shouta ed Eri sembrano dei pesci fuor d’acqua. Lui ha l’aria perennemente stanca, lei invece scruta il mondo con i suoi grandi occhi rosso ciliegia curiosi ma sempre un po’ impauriti.
È una mattinata fredda e uggiosa, e sono terribilmente in ritardo. Shouta vorrebbe raggiungere una delle istitutrici, che vede non troppo distante da loro ferma sulla soglia che li attende, una mano poggiata sul metallo verniciato di rosso che incornicia i vetri della porta d’ingresso, ma sente che c’è qualcosa che non va, un’esitazione insolita da parte di Eri. Shouta abbassa lo sguardo apprensivo sulla bambina e nota che i suoi occhioni sono pieni d’incertezza, la manina stretta tra le dita dell’uomo che sembra quasi tremare.
Shouta si lascia sfuggire un piccolo sospiro. «Eri, che succede?», le domanda, con voce premurosa.
Lei solleva lo sguardo e lo osserva, le labbra che tremolano appena. La manina di Eri si serra attorno a un lembo della giacca di Shouta e lo tira leggermente a sé. Quello è un gesto che ormai Shouta conosce fin troppo bene, per cui si limita ad accovacciarsi a terra con un movimento fluido, ritrovandosi così alla stessa altezza della bambina.
«Come mai Hizashi non mi accompagna più a scuola?», chiede Eri, con la sua voce piccola e dolce. «Prima mi portava sempre lui…»
Shouta soffia piano, cercando di trovare le parole giuste. «In questo periodo non lo vedo spesso nemmeno io», ammette, e in quel momento vorrebbe sapere dove diavolo si è cacciato Hizashi solo per andare lì e strangolarlo, perché detesta dover spiegare quella situazione – c’è, per di più, un modo giusto per affrontarla? – a Eri. «Ti sarai accorta che è da un po’ che non passa neanche a casa…»
«Perché?», gli domanda ancora la bambina, mentre resta in equilibrio prima su un piede e poi sull’altro producendo un piccolo scalpiccio sul selciato. «Ho fatto qualcosa di male io…?»
Shouta sente il cuore frantumarsi in mille pezzi nel petto. Hizashi, giuro che se ti trovo, io… «No, tesoro», si affretta a rassicurarla, carezzandole con una mano i capelli azzurri che quel giorno le ha legato in due lunghi codini che pendono giù dalla testa. «Tu sei bravissima, non avere mai dubbi su questo. Hizashi manca da un po’ per problemi suoi, ma vedrai che torna presto, tranquilla.»
Le parole di Aizawa sembrano aver rassicurato almeno un poco Eri. La bambina accenna un sorriso nella sua direzione, le guance rosse come mele caramellate. Shouta le sistema il cappottino lilla che indossa e poco dopo la vede avviarsi finalmente verso la maestra che la sta ancora aspettando all’ingresso.
Quella scena risale ormai a qualche ora prima, eppure Shouta continua a sentirsene perseguitato. Non può sopportare il pensiero di aver caricato le spalle di Eri con una preoccupazione così opprimente. Quando ha deciso di prendersi cura di lei l’ha fatto col desiderio di restituirle quella gioia che così a lungo le era stata negata, e adesso invece ha il terrore di star trasferendo su di lei le sue stesse ansie.
Shouta si lascia sfuggire un lungo sospiro, scuotendo la testa mentre osserva lo schermo del pc. È difficile restare concentrati quando si hanno per la testa certi pensieri.
Rei ed Emi rientrano in quel momento dal loro sopralluogo, seguite a breve distanza dal fantasma di Enji. Ha preferito declinare la proposta di Rei di accompagnarla a visionare l’auto di Tomie per passare del tempo con Eri, ma visto com’è andata inizia a chiedersi se non abbia perfino peggiorato le cose.
«Novità?», s’informa Rei, posando la borsa sulla scrivania accanto alla sua, al momento deserta.
Shouta scrolla pesantemente le spalle. «Sì», ammette, ruotando il pc in modo che lo schermo sia visibile anche a Rei. «Ho fatto un po’ di ricerche sul centro studi dove si era agganciato il cellulare di Tomie, ed è venuto fuori che si tratta di una facoltà di parapsicologia.»
Rei inarca le sopracciglia. «Parapsicologia?», ripete, confusa.
«Letteralmente è una disciplina che si propone di studiare con metodi scientifici fenomeni anomali tra cui poteri metapsichici e sopravvivenza alla morte», spiega Shouta, giocherellando con una matita tra le dita mentre parla.
Quel discorso fa correre un piccolo brivido lungo la schiena di Rei. «Di certo non un argomento molto felice», commenta, osservando la pagina web che Shouta le sta mostrando.
«Che però non dovrebbe essere totalmente estraneo a Tomie», le fa notare Shouta. «Per avere l’elenco di insegnanti e alunni di questo posto ci vorrà un po’, ma nel frattempo ho fatto un giro sul loro sito e ho scoperto un paio di cose interessanti. Per esempio, tra i soci fondatori di questo posto c’è un certo Shigaraki Ryou, che è anche uno dei maggiori finanziatori.»
Sullo schermo del pc appare una foto di Ryou, ed Enji trattiene a stento l’impulso di far esplodere il dispositivo. Adesso che sa cosa ha fatto quell’uomo a Keigo non vede l’ora di incontrarlo di persona per dargli la lezione che si merita.
Rei osserva con aria perplessa la foto che le ha mostrato Aizawa. Gli sembra di aver già sentito nominare quell’uomo, probabilmente proprio da Tomie, solo che è passato davvero troppo tempo e fatica a delineare i contorni della vicenda.
«Il nome non mi è nuovo…», ammette, poggiando una guancia sul palmo della mano mentre legge assorta le descrizioni idilliache su quel curioso indirizzo di studi.
Enji potrebbe quasi tirare un sospiro di sollievo. Se Rei è arrivata a Ryou, probabilmente comincerà a indagare su di lui. Non ha dubbi che la donna riuscirà a trovarlo, e a quel punto forse Keigo sarà finalmente al sicuro.
Shouta inarca un sopracciglio, perplesso. «Non è tutto», riprende, avvicinando la propria sedia a quella di Rei e tornando alla home page del sito web. «Il giorno in cui il telefono di Tomie si è agganciato alla cella telefonica dell’istituto si sono tenute delle sedute di laurea. Sul sito ci sono alcune foto degli studenti che hanno preso parte alla cerimonia, e ce n’è una in particolare su cui si è soffermata la mia attenzione…»
Shouta smette di far scorrere le varie foto, e quella su cui si ferma non lascia scampo ad alcun dubbio: al centro dell’immagine c’è Keigo, l’espressione sorridente e gli occhi chiusi, una corona di alloro posato sul capo. Enji avverte quasi un tuffo al cuore nell’osservare Keigo così spensierato, solo pochi giorni prima.
«Keigo?», mormora Rei, sorpresa. «Studiava lì…?»
«A quanto pare…», commenta Shouta, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla finestra. «Forse Tomie era andata lì per partecipare alla laurea del figlio, anche se non l’ho vista comparire in nessuna delle foto presenti sul sito–»
«Aspetta un momento», lo interrompe Rei, come folgorata da un’illuminazione improvvisa. «Adesso mi sembra di ricordare. Tomie non era più in contatto con il figlio da anni. Possibile che c’entri qualcosa questo Ryou?»
Sul volto di Shouta compare un’espressione perplessa. «Non lo so», ammette, desolato. «Ma anche se fosse come potremmo accertarlo?»
Rei fissa con aria vacua lo schermo del computer, almeno finché qualcosa in particolare le balza alla mente. «Forse ho un’idea…», commenta, voltandosi verso Aizawa. Spera di vedere il proprio sguardo ricambiato, invece Shouta le sembra distante.
Da qualche minuto, infatti, l’uomo ha notato un dettaglio che l’ha incuriosito oltre il vetro, lungo la strada che scorre sotto il commissariato. Rimane assorto ancora per qualche istante, poco dopo però si decide finalmente a scattare in avanti.
Recupera la giacca dallo schienale della sedia e se la infila mentre si sta già avviando verso l’uscita della stanza. «Scusami…», farfuglia, notando a malapena l’espressione perplessa di Rei, tuttavia non si ferma per offrirle ulteriori spiegazioni, preferendo invece cominciare a scendere in fretta giù per le scale.
Mentre si mangia una rampa di scalini di marmo dopo l’altra, Shouta non dà retta a nessuno. Lungo la strada incontra alcuni colleghi, qualcuno cerca perfino di attaccare bottone con lui, tuttavia in quel momento è così concentrato e determinato nel suo obiettivo che nessuno di loro riesce a impensierirlo.
Una volta arrivato finalmente in strada, Shouta si concede a malapena un istante per riprendere fiato, tuttavia il suo sguardo sta già saettando da un lato all’altro della strada alla ricerca di ciò che poco prima ha intravisto dall’ufficio. Non appena individua la persona che sta cercando, si muove subito nella sua direzione con delle ampie falcate.
«Hitoshi!», lo chiama, cercando di attirare la sua attenzione.
Sentendosi il proprio nome, il ragazzo si volta nella sua direzione, ma non appena si accorge che si tratta di Shouta si ritrova a sbarrare gli occhi violetti. Dura solo un momento, perché l’istante successivo si gira come se non fosse successo niente, tornando a osservare la strada davanti a sé e prendendo a camminare con un passo più svelto.
Shouta resta sorpreso da quella reazione, ma decide di non lasciarsi spiazzare. Si affretta ancora di più, fino a quando non riesce a posare una mano sulla spalla di Hitoshi che, stavolta, si ferma.
Il ragazzo, messo alle strette, si volta finalmente nella sua direzione. Shouta, però, si accorge che tiene lo sguardo basso, evitando accuratamente di fissarlo negli occhi.
«Ehi…», comincia, mentre riprende un po’ di fiato. «Che ci fai qui? L’università non è dall’altra parte della città?»
Gli occhi di Hitoshi saettano da una parte all’altra del marciapiede – si posano ovunque, pur di non ricambiare quelli di Shouta. «Sì, ma oggi non c’era lezione», commenta, evasivo.
«Sempre che sia vero», sbuffa Shouta, posando le mani sui fianchi. «Comunque, si può sapere che fine hai fatto? Sono due giorni che non torni a casa.»
Hitoshi si strofina nervosamente una mano sulla base del collo, e Shouta riconosce quel gesto come la consueta manifestazione che il ragazzo si lascia sfuggire quando è a disagio. «Sono rimasto a dormire da un amico…», si giustifica, gli occhi che per un momento incontrano quelli di Shouta. «Cos’è, un reato?»
«No, ma avresti dovuto avvertirmi!» Per un momento Shouta allarga le braccia, spazientito, poco dopo però cerca subito di recuperare la consueta pacatezza. «Ascoltami… se tu sapessi che fine ha fatto Hizashi me lo diresti, vero?»
Per tutta risposta, riceve dal ragazzo un’occhiata diffidente. «Perché dovrei sapere dov’è?», gli chiede di rimando, inclinando la testa di lato.
Shouta resta immobile sul posto, senza riuscire ad aggiungere nient’altro. Già, perché dovrebbe? La verità è che la scomparsa di Hizashi gli sta facendo perdere lucidità, e probabilmente l’indagine sull’incidente di Tomie non lo aiuta affatto a recuperarla.
Hitoshi approfitta di quel silenzio improvviso per togliersi da quella situazione. «Senti, adesso devo andare», taglia corto, sollevando il cappuccio della felpa sopra i capelli. «Ci vediamo stasera.»
Shouta schiude le labbra per cercare di richiamarlo, ma non ne esce alcun fiato.
L’istante successivo Hitoshi svolta un angolo della strada, svanendo nel nulla.

Un’altra cosa noiosa di cui nessuno ti avvisa quando vai a vivere da solo? La spesa.
Touya detesta fare la spesa. Cerca di andarci con Tenko ogni volta che può, perché almeno così riesce a renderlo un momento più spensierato, solo che oggi se ne è dovuto occupare da solo perché il suo fidanzato è impegnato con lo studio.
Ah, maledette responsabilità. Touya si lascia sfuggire un sospiro sconsolato.
Fare la spesa comporta avere un’idea di cosa mangiare a pranzo e a cena, e – cazzo – è una roba tremendamente stressante. Casa loro è disseminata di contenitori di cartone di cibo takeaway arrivato direttamente dal loro ristorante cinese preferito – come qualsiasi appartamento abitato da studenti universitari, almeno nella maggior parte dei casi – e non gli sembra che sia una cosa così terribile. Anche perché è certo che andare al supermercato con Tenko corrisponde a riempire il carrello di schifezze random, per cui alla fine non è poi così diverso.
Perciò gli tocca essere responsabile, soprattutto nel momento in cui apre il frigo e lo trova deserto in maniera drammatica. Ed è all’incirca per questo motivo se adesso sta tornando a casa con due buste della spesa in mano – e giura a se stesso che ha cercato di comprare quanto più cibo salutare possibile.
Quando arriva davanti al portone d’ingresso del suo palazzo gli sembra quasi un miracolo. Posa a terra le buste di tela, mentre cerca in tasca il mazzo di chiavi.
In quel momento, però, sente qualcuno alle sue spalle chiamarlo.
«Ciao, Touya», lo saluta una voce delicata e femminile.
Il ragazzo non riesce a non sobbalzare per la sorpresa. Poco dopo si volta, le chiavi ancora in mano.
«Dottoressa Himura?», domanda, cercando una spiegazione logica per ciò che vede davanti a sé. «Come mai da queste parti?»
Rei si avvicina a Touya, uscendo dalla penombra e raggiungendolo sotto la tettoia del portico in cui si trova. «Avrei bisogno di chiederti alcune cose», confessa, rivolgendogli un sorriso gentile.
«Certo. Posso invitarla a salire di sopra?», propone subito lui, con fare cortese. «Le offro del tè.»
L’appartamento in cui Touya vive con Tenko si trova al terzo piano, l’ultimo del palazzo. Non c’è l’ascensore, e mentre sale su per le scale affannandosi a trasportare anche la spesa Touya continua a scusarsi con Rei per l’inconveniente, anche se lei gli ha già ripetuto diverse volte che non c’è alcun problema.
Una volta arrivati davanti alla porta, Touya fa girare le chiavi nella serratura pregando tra sé che la casa non sia in condizioni troppo pietose.
«Sono a casa!», si annuncia a gran voce, sperando che Tenko lo senta.
Rei entra poco dopo il ragazzo, tallonata a breve distanza da Enji, che l’ha seguita fin lì. La prima cosa che nota è una stanza, a destra rispetto all’ingresso, dove la porta è rimasta aperta. Dal punto in cui si trova riesce a vedere un ragazzo seduto a terra, le gambe incrociate, intento a trafficare con quelli che le sembrano essere componenti di un pc che deve essere stato smontato. Il ragazzo la osserva, con un’aria stralunata in volto.
«Ciao», lo saluta lei, cordiale.
«Salve…», azzarda lui, senza smettere di perdere – agli occhi di Rei – quell’aria tremendamente allampanata.
Touya chiude la porta di casa, per poi raggiungere in fretta Rei. «Tenko, ti presento la dottoressa Himura. Lui è il mio fidanzato», spiega brevamente, passandosi una mano tra i capelli. «Per il tè ci spostiamo di qua!»
Rei lascia che il ragazzo le faccia strada fino in cucina, per poi accomodarsi quando lui la invita a prendere posto.
Dopo che Touya ha messo il bollitore sul fuoco, restano in silenzio per un po’. Rei si guarda attorno, cerca di farsi un’idea della vita di Touya da quando si sono visti l’ultima volta – sono passati ben tre anni da allora. Le pareti della cucina sono bianche – in realtà quel colore è lo stesso per quasi tutta la casa, tranne nella camera in cui prima ha visto Tenko, dove ha notato una vernice ocra intenso – e in giro regna un generale disordine, ma le sembra una cosa normale considerata la giovane età dei ragazzi. Sul frigorifero ci sono diverse foto – in alcune Touya è con degli amici, in molte con Tenko.
Nel frattempo Touya sta sistemando la spesa, ci sono cose che finiscono in frigo e altre nella credenza. Rei lo osserva, e non può fare a meno di notare quanto quel ragazzo le sembri coscienzioso.
Alla fine Rei giunge le mani sopra il tavolo, decidendosi a parlare. «È da molto che tu e Tenko state insieme?», domanda, col suo solito sorriso gentile in volto.
«Quasi due anni», ammette Touya, infilando le mani in tasca. «All’inizio eravamo solo amici. Abbiamo preso un appartamento insieme per pagare meno di affitto, sa no, ogni tanto troviamo un lavoretto per mantenerci ma alla fine siamo pur sempre studenti. Poi, beh, da cosa nasce cosa…»
Rei nota che, quando parla di Tenko, le labbra di Touya si piegano in un sorriso luminoso. In quel momento il bollitore si mette a fischiare, e Touya si affretta a toglierlo dal fuoco.
Il ragazzo le versa l’acqua calda nella tazza che le ha offerto, e Rei lo ringrazia cortese. «Quindi tu e Keigo vi siete lasciati da un po’», commenta, giocherellando con la bustina del tè e immergendola meglio nell’acqua.
Non appena sente il nome di Keigo, il sorriso di Touya si fa un po’ più triste. «Con Keigo era già finita prima ancora di cominciare», confessa, lo sguardo che per un momento si fa distante. «Come mai mi chiede di lui? Gli è successo qualcosa?»
A Rei viene da sorridere per come di colpo la voce di Touya si sia fatta apprensiva. «No, non preoccuparti», si affretta a rassicurarlo. «In realtà sto facendo qualche indagine sulla morte di sua madre.»
«Non si è trattato di un incidente?», le domanda il ragazzo, dubbioso.
«È quello di cui sto cercando di accertarmi», gli spiega lei, conciliante. «In realtà non potrei parlarti di questo, perché è un elemento delle indagini e in teoria è un’informazione riservata, ma abbiamo scoperto che poche ore prima dell’incidente il telefono di Tomie si è agganciato alla cella telefonica nei pressi dell’istituto che Keigo frequenta.»
Sul volto di Touya compare un’espressione accigliata. «È strano… per quanto ne so Keigo non aveva più rapporti con sua madre – beh, non aveva più rapporti con nessuno, in realtà», commenta, portandosi una mano alle labbra mentre riflette. «L’ultima volta che l’ho visto è stata un paio di giorni fa, al funerale di Tomie. Aveva un aspetto emaciato, e quel pomeriggio ho pensato che fosse perché aveva appena perso sua madre, ma adesso comincio a credere che non sia così.»
Rei lo fissa, confusa. «Che vuoi dire?», domanda, un’espressione perplessa che compare sul suo volto.
Touya si alza improvvisamente dalla sedia. «Aspetti un secondo», mormora, prima di sbucare in fretta in corridoio. Rei lo vede inginocchiarsi ai piedi di una cassettiera e aprirne l’ultimo cassetto, da cui estrae una pila di fogli.
Poco dopo torna in cucina, porgendo a Rei i documenti che ha recuperato. «Tomie mi aveva lasciato una copia di alcune ricerche che aveva fatto tre anni fa», spiega, mentre torna ad accomodarsi sulla sedia di fronte a quella della donna. «Ryou aveva cominciato a bazzicare l’Owl da qualche mese, e a Tomie non era mai piaciuto – beh, nemmeno a me, a dir la verità. Così aveva cercato qualche informazione in più sul suo conto, e questo è ciò che ne è uscito fuori.»
Rei inizia a esaminare quei fogli, senza però riuscire a dare un senso alle parole che scorrono sotto ai suoi occhi. «Cos’è?», domanda, confusa.
«La tesi di laurea di Ryou. Riporta gli esiti di alcuni esperimenti non propriamente leciti condotti nel corso degli anni su svariati pazienti», spiega, puntellando un gomito sul tavolo e posando una guancia sul palmo della mano.
L’attenzione di Rei si sofferma su un passaggio in particolare del documento, dove due lettere sono state sottolineate con un evidenziatore azzurro. «Touya, guarda queste iniziali… U.T.... potrebbero essere quelle di Tomie?», suggerisce, e in quel momento sente di aver avuto l’intuizione giusta.
Touya si china verso Rei, osservando il foglio su cui si è fermata. «È possibile», concede, ammirato. «Questo cosa significa? Ryou era già a conoscenza del dono di Tomie, prima ancora di entrare a far parte della vita di Keigo tre anni fa?»
In quel momento, a Enji viene da sorridere. Ancora una volta, non può fare a meno di constatare le brillanti doti deduttive di Rei.

È pomeriggio inoltrato quando Enji torna finalmente nell’appartamento di Kaina.
Si aspetta quasi di trovare Keigo ancora profondamente addormentato, per questo all’inizio fa per dirigersi a passo spedito verso la camera del ragazzo.
È costretto tuttavia a fermarsi quasi subito, nel momento in cui scorge con la coda dell’occhio una figura muoversi in cucina.
«Sei sveglio…» Sul volto di Enji compare un sorriso sollevato. «Come ti senti?»
Keigo è seduto sul davanzale della finestra. Indossa un paio di jeans e un maglione un po’ largo da sotto il quale Enji vede sbucare le scapole del ragazzo. Tra le mani stringe una tazza da cui sale una nuvoletta di vapore, e questo gli fa sospettare che si sia preparato una tisana calda da bere in sua assenza. La cosa che più lo rassicura, però, è vedere come il volto del ragazzo abbia riacquistato un po’ di colore e le occhiaie si siano fatte meno pronunciate.
«Meglio», ammette Keigo, accennando un sorriso nella sua direzione. «Scoperto qualcosa?»
«Sì.» Enji annuisce, mentre cerca di mettere in ordine tutti gli sviluppi della mattinata. «Tra le altre cose, Rei è stata a casa di Touya per parlare con lui.»
L’espressione serena sul volto di Keigo svanisce all’istante non appena sente nominare l’altro ragazzo. «Touya? C-che cavolo c’entra Touya con tutta questa storia…?», domanda, gli occhi dorati che si fanno grandi come tazze da tè.
Enji sospira. In effetti aveva messo in conto che la reazione di Keigo potesse essere quella. «Rilassati, Keigo. È pur sempre una delle persone a cui eri più legato prima di lasciare Tokyo», gli fa notare, pragmatico. «In ogni caso, lui e Rei hanno parlato dei dubbi che Tomie aveva su Ryou, per cui immagino che ora la polizia inizierà a indagare concretamente su di lui. Ci penseranno loro a trovarlo.»
Keigo annuisce brevemente, tornando a osservare la tazza con la tisana. «Ottimo», commenta, soffiando sopra la superficie della tisana e facendola increspare.
Per un momento Enji riesce quasi a sentirsi ottimista. Se Rei riuscirà ad incriminare Ryou, forse potrà tenere Keigo fuori dai guai, e così la visione non si realizzerà. È una speranza flebile, ma Enji sente di volersi aggrappare a essa con tutte le sue forze.
Poco dopo, però, Keigo si volta nuovamente nella sua direzione.
«Sai, ci ho riflettuto», ammette, la voce del ragazzo che arriva in maniera improvvisa alle orecchie di Enji. «Penso che dovremmo andare a casa di mia madre. C’è da recuperare il fascicolo che hai trovato, sarebbe un elemento utile contro Ryou… e poi credo di dovere andare lì, sento che in qualche modo mi aiuterà a ricongiungermi con lei.»
Enji resta in silenzio per qualche secondo, soprappensiero. Se davvero vuole tenere Keigo il più lontano possibile da questa storia, non è di certo così che ci riuscirà. Tuttavia, osservando il sorriso speranzoso del ragazzo sa già che non potrà dirgli di no.
Alla fine si lascia sfuggire un sospiro stanco. «D’accordo», concede, remissivo.

Keigo esita un po’ davanti alla porta dell’appartamento.
Le chiavi erano tra gli effetti personali di sua madre che la polizia ha restituito a Kaina dopo l’incidente. Ha visto Kaina infilare la busta in un mobile all’ingresso quella sera stessa, dopo la consegna, quando sono tornati a casa, e da allora è certo che nessuno dei due abbia trovato il coraggio di frugare là dentro.
Il mazzo di chiavi ha un peso quasi familiare tra le dita. Keigo ci giocherella, facendolo sobbalzare nella sua mano. Ha notato che c’è anche un portachiavi, una piccola palla da biliardo blu con sopra il numero due.
È fermo sullo zerbino da un po’, lo sguardo puntato verso il basso. Enji, ovviamente, se n’è accorto.
«Tutto okay?», prova a domandargli, sperando di non mettergli più pressione.
«Sono un po’ agitato…», ammette il ragazzo, lasciandosi sfuggire un sorriso teso. «La verità è che non so neanch’io che cosa mi aspetto di trovare qua dentro.»
Enji vorrebbe dirgli qualcosa per incoraggiarlo, ma non sa se questo potrebbe peggiorare la situazione, così alla fine si limita a rimanere in silenzio.
Poco dopo, fortunatamente, Keigo si lascia sfuggire un piccolo sospiro, chiude gli occhi per un attimo e poi infila la chiave nella serratura. È un movimento che dura mezzo secondo, ma che chissà per quale assurda ragione sembra protrarsi per un tempo infinito. Alla fine la serratura scatta con un clangore cupo che riecheggia nella tromba delle scale.
La porta si apre con un cigolio pesante. Enji dà un’occhiata in giro, e gli sembra che tutto sia rimasto come l’ha lasciato, il disordine disseminato in ogni angolo, i piatti abbandonati sul tavolo.
Keigo scende i gradini d’ingresso osservando quello stesso spettacolo, mentre una sensazione soffocante inizia a farsi strada nel suo petto. Si domanda se in quei tre anni si sia mai chiesto che fine avesse fatto sua madre, e si ritrova a valutare che probabilmente la risposta è no. Ora che si trova lì, c’è qualcosa che lo ferisce in quello squallore – anche se forse sono solo i suoi stessi sensi di colpa.
La porta si chiude alle loro spalle. Enji resta indietro di qualche passo, vuole lasciare a Keigo il tempo di fare pace con qualsiasi sensazione stia provando in quel momento. Lo vede fermarsi accanto al divano, le dita che accarezzano incerte la coperta di tweed a quadri dove probabilmente Tomie si avvolgeva per dormire la notte ed è quasi sopraffatto dalla tenerezza di quella scena.
Keigo ha gli occhi lucidi, ma decide di non pensarci per il momento. «Allora», comincia, spostando brevemente lo sguardo attraverso lo spazio modesto dell’appartamento. «Dove hai detto che dovrebbe essere questo fascicolo?»
Enji ripercorre con la mente tutti gli spostamenti che ha compiuto la prima volta che è entrato là dentro. «Era sul tavolo, ma l’ho fatto cadere a terra per vedere cosa contenesse», spiega, stringendosi nelle spalle.
Keigo fa il giro attorno al tavolo, ma poco dopo sul suo volto compare un’espressione corrucciata. «Non c’è niente, qui», ammette, deluso.
Enji gli rivolge un’occhiata stupita. «Come sarebbe a dire?», domanda, scendendo in fretta le scale e raggiungendo il ragazzo.
Una volta lì, però, è costretto a constatare che Keigo ha ragione: del fascicolo che ha visto l’altra volta non c’è traccia. Enji s’inginocchia a terra, osservando il punto esatto in cui ha visto i fogli cadere.
«Come pensi che sia possibile?», gli chiede Keigo, incrociando le braccia al petto.
Enji non lo sa. Vorrebbe saperlo… ma l’unica cosa che gli viene in mente è un sospetto. Si alza in piedi e attraversa in fretta l’appartamento, mentre Keigo lo osserva sparire in una stanza in fondo a sinistra.
«Vieni a vedere», lo sente chiamare poco dopo.
Keigo si limita a raggiungerlo, dubbioso. Sembrerebbe che Enji si sia infilato in un piccolo bagno. Keigo nota che, per entrare, ci sono alcuni scalini da salire.
«L’unica stanza non interrata dell’appartamento», valuta il ragazzo, mentre si ferma al fianco dell’altro.
Enji stende un braccio davanti a sé, indicandogli un punto preciso con il dito. «Guarda», lo esorta ancora, concentrato.
Gli occhi di Keigo seguono la direzione che Enji gli sta indicando fino a che non si posano su una finestra. Il vetro è infranto, probabilmente è stato rotto con il grosso sasso che ora giace a terra, e in questo modo dev’essere stato un gioco da ragazzi irrompere là dentro senza chiavi ed evitare di forzare la serratura.
«La finestra dà sulla strada», commenta Keigo, voltandosi verso Enji. «Dici che è stato Ryou?»
«Chi altri avrebbe avuto motivo di entrare qui?», gli chiede Enji di rimando, osservandolo con fare seccato.
Lo sguardo di Keigo torna a posarsi sulla finestra rotta, gli occhi che fissano le schegge di vetro sul davanzale.

Il tramonto tinge il cielo di Ueno di un delicato colore rosato.
Keigo sta tornando verso la stazione. È arrivato fin lì con i mezzi pubblici, e ora dovrà prendere una nuova corsa per tornare indietro.
La verità è che si sente frustrato. Ogni volta pensa di star per fare un passo in avanti, salvo poi rivelarsi l’ennesimo buco nell’acqua. Quei documenti, poi, sarebbero stati davvero utili, invece sono arrivati troppo tardi – di nuovo.
Enji si volta a osservare il ragazzo. Lo sguardo di Keigo è puntato verso il basso, e dalle labbra del ragazzo continuano a sfuggire sospiri amareggiati.
«Ehi, vedrai che troveremo qualcos’altro», commenta, cercando di confortarlo.
Keigo si volta a osservarlo, ma sul volto ha un’aria rassegnata – così insolita per lui, si ritrova a valutare Enji. «Già… anche se comincio a essere a corto di idee su come procedere», ammette, le labbra che si piegano in un sorriso appena accennato.
Enji sembra sul punto di aggiungere qualcosa, ma in quel momento il cellulare di Keigo inizia a squillare. Il ragazzo sembra sorpreso, così recupera il telefono dalla tasca dei pantaloni mentre rallenta il passo lungo il marciapiede – salvo essere superato da un fiume in piena di passanti.
Non appena si ritrova a leggere il numero sullo schermo, un’espressione sorpresa compare sul volto di Keigo.
«Chi è? Ryou?», lo incalza Enji, in apprensione.
«Peggio», commenta Keigo. Il ragazzo alza gli occhi al cielo, con fare esasperato, ma alla fine si limita a rispondere. «Pronto?»
«Keigo! Hai risposto, per fortuna», esclama una voce fin troppo agitata. «Dove sei? Stai bene?»
«Sì, Touya, sto bene», gli assicura, riprendendo a camminare in direzione della stazione. «Sono a Ueno, ma ora sto tornando a casa. Vuoi che t’invii un piccione viaggiatore quando arrivo?»
«Smettila di fare il cretino. E poi che cavolo ci fai a Ueno?», insiste Touya, cocciuto. «Se proprio vuoi saperlo, mi sono preoccupato perché oggi è venuta a casa mia quel magistrato che abbiamo conosciuto anni fa e mi ha fatto delle domande su di te…»
«Sì, lo so», taglia corto Keigo, senza riuscire a non roteare gli occhi.
«Come sarebbe a dire che lo sai?» Dall’altra parte segue un breve silenzio. «Ah, già… la tua ombra.»
Keigo deve trattenersi con tutto se stesso per non sbuffare sonoramente. Di colpo gli sembra di essere tornato indietro a tre anni prima, a quel pomeriggio di maggio, quando seduti sul molo aveva confessato a Touya la sua intenzione di seguire Ryou per scoprire qualcosa di più sui suoi poteri. Touya, in quello, era sempre stato sulla stessa lunghezza d’onda di Tomie: non si era mai fidato di Ryou e, soprattutto, continuava a ripetergli che la cosa migliore da fare fosse lasciar andare Enji. Era stato questo il motivo per cui avevano litigato, rompendo… beh, qualsiasi cosa ci fosse stata prima. Col senno di poi, Keigo si vede costretto ad ammettere che, almeno in merito a Ryou, Touya aveva ragione.
Keigo serra le labbra, spazientito. «Mi hai chiamato solo per dirmi questo, Touya?», s’informa, sperando di mettere un punto a quella conversazione il prima possibile.
Prima di continuare, Touya sembra esitare per un momento. «No… volevo dirti anche che, per qualsiasi cosa, io ci sono. Tu lo sai questo, vero?», aggiunge, e le sue parole sembrano sincere.
Keigo resta in silenzio per qualche secondo, forse alcuni ricordi del passato stanno tornando a galla nella sua memoria. «Lo so…», si limita ad assicurargli. «Ti ringrazio. Adesso scusami, ma devo proprio andare.»
«Non sparire di nuovo nel nulla!», lo esorta Touya dall’altro capo del telefono, poco prima che Keigo possa interrompere la comunicazione.
Enji osserva Keigo mentre infila di nuovo il telefono in tasca e riprende a camminare a passo spedito. Può fingere per tutto il tempo che vuole, ma si vede che, in fin dei conti, a Touya ci tiene ancora, o perlomeno all’amicizia che li legava.
Enji vorrebbe farglielo notare, ma in quel momento il telefono di Keigo riprende a squillare. Il ragazzo lo recupera in fretta, con un’espressione infastidita.
«Di nuovo Touya? Che si è dimenticato?», s’informa Enji, divertito.
Sul volto di Keigo, nel frattempo, è scomparsa ogni traccia di disturbo, sostituita da un’espressione sorpresa e un po’ impaurita, gli occhi spalancati.
«È Ryou», confessa, con un filo di voce.
Enji si ritrova a condividere il suo stupore, tuttavia cerca di tornare in fretta in sé. «Che aspetti? Rispondi!», lo esorta, deciso.
Keigo osserva ancora per un momento il numero che lampeggia sul display. Si ritrova a deglutire a vuoto, ma alla fine si decide ad accettare la chiamata, avvicinandosi il telefono all’orecchio. «Pronto?», domanda, cercando di mantenere la voce ferma.
«Keigo. Sembra passata un’eternità dall’ultima volta che ci siamo parlati», valuta Ryou, col solito tono calmo e mellifluo. Keigo riesce quasi a vederlo davanti a sé, mentre si allenta con un gesto casuale il nodo della cravatta. «Che fine hai fatto?»
Keigo fatica a restare concentrato, sembra che Ueno abbia cominciato a vorticargli attorno. «Potrei farti la stessa domanda», commenta, le labbra che si piegano in un sorriso sveglio. «Sono tornato in istituto ma, quando ho chiesto di te, nessuno ha saputo dirmi dove fossi.»
«Sì, mi hanno riferito. Purtroppo mi sono dovuto allontanare per qualche giorno, sai, avevo delle commissioni in sospeso da recuperare», spiega, e a Keigo sembra di nuovo di immaginare ogni suo movimento, la lingua che schiocca contro il palato, la mano che si muove nell’aria con un gesto noncurante. «Tu sei ancora in istituto?»
«No. Sono rientrato a Tokyo», confessa, mentre cerca di tenere lo sguardo fisso su un punto ben preciso – il palo di un lampione, dalla parte opposta della strada – per sfuggire a quella sensazione di nausea che, ormai da qualche minuto, lo sta attanagliando. «Pensavo che tenermi a distanza dai vecchi ricordi mi avrebbe aiutato, ma non riuscivo a concentrarmi sulle lezioni.»
Dall’altra parte segue un brevissimo silenzio. «Capisco…», commenta Ryou, con fare assorto. «Beh… in realtà anch’io sono a Tokyo.»
Enji e Keigo si ritrovano a scambiarsi un’occhiata sorpresa. «S-sul serio?», domanda il ragazzo, incredulo. «Dove sei? Avrei così tanta voglia di vederti…»
Ryou si ritrova a soffocare una risata. Poco dopo, dal telefono di Keigo sale il suono di una notifica. «Ti ho appena mandato un messaggio con l’indirizzo», ammette, e la voce è di nuovo quella imperturbabile di sempre. «Ti aspetto.»

Quando Keigo arriva a destinazione è ormai scesa la sera.
Si trova davanti a un hotel di lusso in una delle zone più eleganti di tutta Tokyo. Come al solito, Ryou non sembra aver badato a spese.
La strada all’esterno è parecchio trafficata. Decine di taxi continuano a sfrecciare senza sosta a gran velocità, mentre i marciapiedi sono affollati da passanti che si avviano verso una serata al karaoke o si affrettano a tornare a casa – o in albergo, nel caso dei turisti – per riposarsi dopo una giornata stancante.
Keigo osserva il grattacielo davanti a sé – nel buio della notte le vetrate sembrano scintillare di un nero intenso – per poi posare ancora una volta lo sguardo sul messaggio che Ryou gli ha inviato. Nonostante tutto, fatica ancora a credere che quello sia davvero il posto giusto.
Alla fine tira un respiro profondo, blocca lo schermo del telefono e, dopo aver lasciato scivolare il cellulare nella tasca dei pantaloni, si decide ad avviarsi verso l’ingresso.
Sente il cuore in tumulto nel petto. Quella situazione lo spaventa, sì, tuttavia che modo ha di sfuggirvi?
La hall dell’hotel è caratterizzata da un’illuminazione fredda. L’arredamento è elegante e moderno, e i colori predominanti sono indubbiamente il nero e il grigio. In un certo senso, anche questo finisce per ricordargli Ryou.
Alla reception c’è una ragazza giovane, non avrà nemmeno trent’anni. Ha i capelli rossi e corti e, non appena lo vede, gli rivolge un sorriso luminoso, socchiudendo gli occhi. Keigo le passa davanti senza che lei provi in alcun modo a fermarlo – il che lo fa arrivare alla conclusione che Ryou deve averla avvertita del suo arrivo.
Keigo sale in ascensore e, continuando a seguire le istruzioni di Ryou, preme il tasto dell’ultimo piano. La corsa è rapida, e nel frattempo Keigo ne approfitta per osservare attraverso le pareti di vetro dell’ascensore lo skyline notturno farsi sempre più distante, le luci dei grattacieli che diventano piccoli puntini lampeggianti.
L’ascensore arriva all’ultimo piano con un trillo vivace. Keigo s’infila nel corridoio a sinistra e inizia a percorrerlo, notando che anche lì imperversa la stessa luce bianca e fredda dell’ingresso, così come i colori asettici. Lungo tutto il corridoio corre una vetrata di un colore nerastro che si affaccia sulla vita che, diversi piani più in basso, continua a scorrere.
La camera è l’ultima in fondo al corridoio, la 696. Quando ci si ritrova davanti, Keigo esita ancora un momento prima di bussare. Il suo cuore ha continuato a battere all’impazzata, e adesso sembra essere letteralmente sul punto di scoppiare. Trattiene il fiato e, alla fine, lascia alcuni piccoli colpi alla porta.
L’uscio si schiude quasi immediatamente. Dietro di esso Keigo intravede Ryou, impeccabile come al solito.
Lo sguardo che Ryou posa su di lui è adorante. L’uomo richiude delicatamente la porta alle spalle del ragazzo, mentre gli rivolge un sorriso leggero.
Keigo si avvicina a lui, chiudendo gli occhi per un momento e lasciandosi sfuggire un sospiro.
«Mi sei mancato…», confessa, la voce che scivola fuori dalle sue labbra in tono stanco.
Ryou gli accarezza ua guancia, osservandolo con fare apprensivo. «Anche tu», ammette, con fare suadente.
L’istante successivo Keigo si lascia cadere verso di lui, mentre Ryou annulla la distanza tra di loro. Cattura subito le labbra del ragazzo in un bacio lento e intenso, che costringe Keigo a chiudere gli occhi.
Keigo cinge il collo di Ryou con le braccia, per poi spiccare un piccolo balzo e stringergli le gambe attorno alla vita. Nel frattempo le dita di Ryou s’intrecciano tra i suoi capelli, così da attirarlo maggiormente a sé e approfondire quel bacio famelico.
Ryou si incammina attraverso la stanza. Per quel poco che Keigo è riuscito a intravedere nella penombra, un piccolo corridoio all’ingresso lascia ben presto spazio a un’ampia camera da letto.
La giacca di Keigo cade a terra, mentre le dita di Ryou si affrettano a sfilargli anche il maglione. Keigo solleva le braccia verso l’alto per aiutare Ryou a spogliarlo, e poco dopo sente le mani dell’uomo percorrergli il petto nudo con bramosia.
Il letto si trova di fronte a un’ampia vetrata, dalla quale giunge il leggero lucore bluastro della notte. Una volta che si trova davanti al materasso, Ryou vi distende comodamente sopra il corpo di Keigo, per poi sovrastarlo subito dopo.
Keigo sente le lenzuola di raso scorrere lungo la sua schiena. Slaccia in fretta i bottoni della camicia candida di Ryou, lasciandola cadere in un punto indefinito della stanza.
Mentre le labbra di Ryou scendono a baciargli il collo, Keigo si lascia sfuggire un piccolo gemito. Gli occhi del ragazzo si posano dalla parte opposta della stanza, dove per un momento gli sembra di vedere Enji, fermo accanto al muro, un’espressione sconvolta in volto. Keigo serra le dita attorno ai corti capelli bianchi alla base della nuca di Ryou, lo sguardo lascivo che continua a dardeggiare Enji.
Dura solo un secondo, però. Il battito di ciglia successivo, infatti, quella su cui le sue iridi dorate si sono posate torna a essere solo una parete scura.
Keigo circonda il collo di Ryou con le braccia, mentre continua a fissare la parete.

Enji appare nella stanza quando è ormai notte fonda.
Keigo è disteso nel letto, e sembra essere profondamente addormentato. I vestiti del ragazzo sono sparsi in giro per la stanza, e da sotto il lenzuolo di raso azzurro spunta la sua schiena nuda. Di Ryou nessuna traccia, almeno non in camera: la luce del bagno è accesa, ed Enji sente arrivare da quella stanza un rumore di acqua che scorre.
Ottimo. Probabilmente si starà facendo una doccia, il che fa guadagnare loro qualche minuto.
Enji si avvicina in fretta al letto, chinandosi leggermente verso il basso per essere più vicino al ragazzo.
«Keigo! Su, forza, svegliati!», lo chiama, concitato.
Il ragazzo riapre lentamente gli occhi, lasciandosi sfuggire un mugolio assonnato. Cerca di mettere a fuoco per qualche secondo il mondo intorno a lui, poi la sua espressione si fa di colpo più lucida.
Keigo si tira su, mettendosi a sedere sul letto. Il faldone. Alla fine sono lì per quello.
«Quando sono entrato ho provato a dare un’occhiata in giro, ma non mi è sembrato di vederlo da nessuna parte», ammette, pensieroso.
Poco dopo Enji lo vede scostare le lenzuola e rimettersi in piedi. Infila in fretta il maglione e i boxer, mentre si guarda attorno con fare circospetto.
«Dobbiamo sbrigarci», commenta Enji, incrociando le braccia al petto. «Non abbiamo molto tempo e…»
«Todoroki Enji. Certo che ne è passato di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti.»
Enji e Keigo si ritrovano a sobbalzare nello stesso momento. Nessuno dei due si è accorto che l’acqua ha smesso di scorrere da un pezzo.
Ryou li osserva dalla soglia del bagno, di nuovo vestito di tutto punto. Finisce di infilare un bottone nell’asola del polsino della camicia mentre sul suo volto compare un’espressione gelida.
«Ryou…», lo chiama piano Keigo, mentre cerca di farsi venire in mente qualcosa di plausibile per giustificare quella scena.
Ryou si avvicina a lui, rivolgendogli uno sguardo indulgente. «Stai di nuovo lasciando che la tua ombra abbia troppa influenza su di te», commenta, carezzandogli una guancia. «Mi hai deluso, Keigo… ma non preoccuparti, non sono arrabbiato con te.»
Enji fulmina l’uomo con lo sguardo. «Io so cosa hai fatto», sibila, la voce resa minacciosa dalla rabbia, mentre trattiene a stento un ringhio tra i denti.
Ryou si volta nella sua direzione, fissandolo con aria divertita e inarcando le sopracciglia in un’espressione di scherno. «Io non ho fatto proprio niente. Hai delle prove di quanto affermi?», s’informa, con la tranquillità di chi conosce già la risposta.
Enji lo fissa in cagnesco, furioso. No, non ce le ho le prove, bastardo, ma giuro che le troverò, fosse l’ultima cosa che faccio.
Il sorrisetto sul volto di Ryou – che Enji prenderebbe volentieri a pugni – non fa che allargarsi avvertendo che dall’altra parte non arriva nessuna risposta. «Come sospettavo», riprende socchiudendo le palpebre, soddisfatto. «A questo punto temo di essere costretto a chiedervi di lasciare la camera.»
Keigo finisce di rivestirsi in fretta, per poi avviarsi verso l’uscita. Mentre passa accanto a Ryou si scambiano un’ultima occhiata intensa, ma nessuno dei due osa proferire anche solo una parola.
La porta della stanza si richiude, i grandi occhi dorati di Keigo che osservano in silenzio la scena.

La serratura scatta, e la porta d’ingresso dell’appartamento si apre, lasciando entrare Hitoshi all’interno.
Una figura è seduta sul davanzale della finestra, intenta a osservare la vista che da lì viene offerta. Ha lo sguardo assorto, perso nello scorcio del porto con le sue grosse navi che riesce a intravedere.
«Sono tornato», annuncia Hitoshi, lasciando ciondolare una busta di carta davanti al viso. «Ho preso gli involtini primavera nel tuo ristorante cinese preferito.»
L’uomo si volta nella sua direzione, i capelli dorati che ondeggiano leggermente seguendo il movimento della sua testa.
«Sono contento», commenta Hizashi, l’accenno di un sorriso che gli compare sul volto. «Dai, mangiamo.»



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note
due cose al volo. in questo capitolo ho finito di introdurre tutti i personaggi e sì, shouta e hizashi avevano intrapreso l'iter di affido per eri e hitoshi, che non sono fratelli ma vengono da due situazioni disagiate. quanto a touya no, in questa storia non è un todoroki semplicemente perché mi rimaneva più comodo così ai fini della trama perché sì, okay?
also, a partire da questo capitolo ho cominciato a distanziarmi un po' dalla trama originale. va detto che dopo il pezzo con touya e rei mi sono bloccata per mesi, per cui abbiate clemenza.
penso di non avere altro da dire. spero che la storia vi stia piacendo, ci vediamo a dicembre con il prossimo capitolo!
aria

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Capitolo 4
*** i ricordi tornano a galla ***





La porta d’ingresso si apre e le prime luci dell’alba inondano l’appartamento.
Keigo arranca stancamente verso la camera da letto. Lascia cadere la tracolla a metà strada, quando è ancora in soggiorno, senza preoccuparsi troppo del botto che ne scaturisce – dopotutto, sa bene che in quel momento nessuno oltre lui è in casa.
Enji lo raggiunge poco dopo. Si ferma sulla soglia della stanza, come a volersi appoggiare allo stipite della porta, e osserva il ragazzo, che nel frattempo si è buttato con fare rassegnato sul materasso, la testa che ciondola giù di lato verso il pavimento.
«Che si fa?», gli domanda Enji, e per una volta anche lui si sente incerto su come procedere.
Keigo si lascia sfuggire un sospiro profondo, lo sguardo che continua a rimanere perso chissà dove. «Non possiamo rimanere qui», si decide finalmente ad ammettere, dopo un lungo e denso silenzio. «Ryou conosce casa di Kaina, e non voglio esporla a rischi inutili.»
Enji incrocia le braccia al petto, osservando intensamente il ragazzo. «Qual è il piano, allora?», gli chiede, in un tono che non suona duro, bensì incuriosito.
Sul volto di Keigo compare un’espressione corrucciata. Poco dopo infila una mano nella tasca della giacca, fruga per qualche istante fino a quando non estrae il cellulare, per poi portarlo all’altezza del viso.
«Forse una soluzione c’è», confessa, sbloccando il telefono e aprendo la rubrica dei contatti, che resta per un po’ a fissare mordendosi il labbro inferiore. «Solo che è l’ultima a cui sarei voluto ricorrere...»

È una di quelle mattine che cominciano lentamente, immerse nel silenzio e nella calma più totale. Sono quelle che Aizawa preferisce, in realtà.
Shouta tiene la tazza di caffè stretta tra le mani, lo sguardo perso oltre la finestra gli restituisce un cielo di un azzurro grigiastro, come se fosse rimasto intrappolato nel loop dell’alba. I soliti pensieri, le solite preoccupazioni – Hizashi, Hizashi… – si mischiano col vapore caldo, divenendo se possibile ancor più impalpabili.
Eri è seduta accanto a lui e, a differenza sua, sembra essere decisamente più concentrata sulla colazione. I suoi occhioni scintillano di contentezza mentre afferra un altro frollino, per poi inzupparlo subito nel latte caldo della sua tazza, le gambe che ben lontane dal toccare terra dondolano a mezz’aria mentre anche i due codini ai lati del capo si ritrovano ad ondulare.
In un certo senso, questo è un po’ un sollievo per Shouta: considerando quanto gli era sembrata inquieta Eri quella mattina davanti all’asilo, l’accenno di spensieratezza che ora gli sembra di vedere sul volto della bambina, nel sorriso spensierato che le è comparso sulle labbra, gli fa sperare che forse la situazione con Hizashi potrebbe averla turbata meno in profondità di quanto si fosse ritrovato a temere.
Eri si porta il biscotto alle labbra e ne prende un piccolo morso, e in quel momento dal corridoio giunge chiaro il rumore di una porta che si chiude.
Non passa inosservato né a Shouta né a Eri, e per un momento l’atmosfera in cucina sembra essersi cristallizzata, come se tutto si fosse bloccato nella posizione assunta poco prima.
A Shouta non è sfuggito neppure quel rumore, poche ore prima, quando intorno alle sei il portone d’ingresso è stato aperto, per poi richiudersi con un clangore pesante.
Poco dopo, Hitoshi fa il suo ingresso in cucina. Solite occhiaie pronunciate, soliti capelli tremendamente in disordine. Ha già indosso la giacca e la borsa con i libri dell’università, segno che sta per uscire di casa da un momento all’altro.
«Buongiorno…», saluta con fare evasivo, mentre recupera dal tavolo una brioche confezionata e la apre in fretta, per poi infilarla subito in bocca.
Shouta non si scompone, osservandolo di sottecchi. «Ti ho sentito rientrare stamattina presto», ammette, sollevando lo sguardo sul ragazzo.
Hitoshi si permette di sobbalzare appena solo un secondo, per poi cercare di ostentare subito dopo una sicurezza che non gli appartiene. «Sono rimasto a dormire a casa di un amico», spiega, dopo aver buttato giù il boccone di brioche.
Shouta inarca un sopracciglio, nient’affatto persuaso dalle parole del ragazzo. «Mi pare di ricordare che avevi detto che saresti tornato a casa per cena», commenta, portandosi il caffè alle labbra e prendendone un piccolo sorso.
Stavolta Hitoshi si fa trovare più pronto. «Si era fatto tardi, così ho pensato che non fosse un problema fermarsi lì per la notte», si giustifica, sostenendo con decisione lo sguardo di Aizawa. «Adesso scusatemi, ma io devo proprio andare…»
Eri solleva il capo verso Hitoshi, osservandolo con aria confusa. «Non fai colazione con noi?», domanda, sorpresa.
Per un momento, le labbra di Hitoshi si piegano in un sorriso dolce. «No, principessa», conferma, mentre le passa teneramente una mano tra i capelli, arruffandoglieli appena. «Anzi, farò meglio ad andare, sono già in ritardo per le lezioni…»
L’istante successivo, Hitoshi si è già fiondato fuori dalla stanza. Non appena il portone d’ingresso si richiude alle sue spalle, nella cucina piomba nuovamente un silenzio asfissiante.
Eri abbassa lo sguardo sulla tazza, gli occhioni rossi che si riflettono nel latte bianco mentre l’accenno di sorriso di poco prima è svanito dal suo volto.

La notte cala sulla città come un velo nero che ammanta ogni cosa, palazzi, strade, lo scorcio del porto non troppo distante e la piccola falce di luna che si specchia nel mare.
C’è più movimento di un tempo, o almeno così sembra a Keigo. Al momento si trova in cima a un edificio basso, un palazzo di un paio di piani, ma da lì riesce comunque a osservare la scena che si sta svolgendo sotto di lui: è stato allestito un piccolo palco, tra i capannoni della zona industriale, e una band rock locale si sta esibendo mentre, poco più in basso, una piccola folla si dimena e canta a squarciagola.
Si alza un soffio di vento gelido, e Keigo è costretto a stringersi un po’ più forte nella giacca pesante che indossa, mentre infila le mani nelle tasche. Alle sue spalle, avverte i passi di qualcuno che si sta avvicinando a lui.
«Me la ricordavo più tranquilla la zona», commenta, il fiato che per il freddo si condensa in piccole nuvolette di vapore.
Finalmente l’altra persona lo raggiunge, fermandosi al suo fianco. Prima di parlare, Touya si prende un lungo momento per osservarlo, come se lo vedesse adesso per la prima volta dopo tanto tempo, forse per imprimere ogni dettaglio dell’altro nella sua memoria oppure, semplicemente, ancora incredulo di averlo trovato davvero lì.
«Hanno aperto un centro sociale qua vicino, ogni tanto organizzano qualcosa», si decide a spiegare, dopo essere rimasto in silenzio per diversi secondi e aver sbattuto un paio di volte le palpebre per l’incredulità. «Confesso che sono rimasto molto sorpreso nel ricevere la tua chiamata.»
A Keigo sfugge un sorriso nervoso, ed Enji non può fare a meno di notarlo. Ha seguito il ragazzo fin lì, ovviamente, e sa quanto gli sia costato chiedere aiuto a Touya – una questione d’orgoglio, certo, ma anche tutte quelle parole mai dette tra i due.
Keigo punta lo sguardo a terra, dondolando un po’ sui talloni. «Sono nei guai, Touya», si decide finalmente ad ammettere, continuando con fare ostinato a non ricambiare il contatto visivo con l’altro.
Touya, invece, fissa intensamente il ragazzo. Enji lo vede sbarrare gli occhi, il corpo che in maniera istintiva si tende in direzione dell’altro. «I-in che senso nei guai? Sei ferito o…?», si affretta a domandare, in apprensione.
Keigo china il capo all’indietro, lo sguardo che adesso fissa il cielo terso della sera. «No, no, è solo che… sospetto che in realtà quello di mia madre sia stato un omicidio, e che dietro ci sia Ryou», spiega, il tono di voce che per un momento si fa incredibilmente amaro. «Non posso restare da Kaina. Ryou conosce quel posto, e non voglio che sia in condizione di fare del male anche a lei.»
Touya sembra calmarsi per un momento. Qualcosa nel suo cervello dev’essersi acceso, perché poco dopo pare più calmo, come intrappolato in un pensiero. «Quando la dottoressa Himura è stata a casa mia, allora… aveva ragione. C’è lui dietro a tutta questa storia», deduce, gli occhi che vengono attraversati da un guizzo di consapevolezza. Poco dopo, però, tornano a velarsi di amarezza. «Avresti dovuto darmi retta, tre anni fa. Quel tipo non ha mai voluto il tuo bene.»
Enji sbuffa spazientito, infilando le mani nelle tasche del giaccone. «Non abbiamo tempo per perderci in rimpianti e sentimentalismi», commenta, pragmatico.
Keigo annuisce brevemente, d’accordo con lui. «Adesso non è questo il punto, Touya», cerca di fargli notare, conciliante. «Ho bisogno di sapere se hai un posto dove ospitarmi, almeno finché le acque non si saranno calmate. Avrei preferito non tirarti di nuovo in mezzo ai miei casini, ma… onestamente non ho nessun altro a cui chiedere.»
A quelle parole, Touya sembra calmarsi di colpo. Resta di nuovo per qualche istante bloccato a osservare Keigo, come se stesse cercando di rimettere a fuoco il mondo intorno a sé. «S-sì…», ammette alla fine, all’apparenza ancora un po’ stordito. «Al telefono ti ho detto di venire qui perché c’è ancora la vecchia rimessa delle barche abbandonata dove mi allenavo a suonare il basso… è piena di polvere, ma penso che per qualche giorno possa andare bene.»
Keigo stringe le labbra, osservando un punto fisso davanti a sé – come durante la telefonata con Ryou, cercando di non andare alla deriva – mentre riflette. La vecchia rimessa. L’aveva quasi dimenticata. Ci sono fin troppi ricordi che lo legano a quel posto, in un mix dal retrogusto dolceamaro. C’è anche un’implicazione che non gli è sfuggita, il fatto che Touya gli abbia proposto la rimessa come soluzione perché a casa sua c’è Tenko. Conclusione logica, ovvio, solo che in un certo senso trova strano come Touya ci tenga a tenere separati presente e passato.
Alla fine Keigo si volta verso Touya, rivolgendo l’accenno di un sorriso nella sua direzione. «Direi che è perfetta», commenta, incoraggiante.

La rimessa è esattamente come Keigo se la ricordava. Passando da una piccola veranda che s’affaccia sul mare – al momento, con tutte le luci spente, ogni cosa è immersa in un’oscurità densa e profonda – si arriva davanti alla porta di ferro con i vetri impolverati. Touya è attento a girare le chiavi nella serratura cercando di non fare troppo rumore, ma alla fine ci riesce e i due entrano in fretta all’interno, seguiti a ruota da Enji.
Nel buio, le navi riposano quiete, impilate le une sopra altre su dei cavalletti metallici, le chiglie rivolte verso l’alto. Non c’è bisogno di illuminarle per capire che devono essere rimaste lì, in quella posizione, da parecchio tempo, ormai.
Keigo tiene ancora le mani in tasca, lo sguardo che saetta da una parte all’altra del capanno, cercando di capire quanti dettagli siano rimasti invariati nel tempo. «Cos’è questa storia che non vieni più qui per suonare?», s’informa, perplesso.
Touya prosegue in testa al gruppo, avanzando col passo svelto di chi conosce bene il posto in cui si trova. «Ho venduto il basso», spiega, con fare distratto. «C’è stato un periodo, all’inizio, in cui io e Tenko non ce la cavavamo granché con le spese, ci servivano soldi e così… mi è sembrata la decisione più giusta.»
La voce di Touya si perde sul fondo dell’edificio. Keigo lo vede accucciarsi a terra e armeggiare con un oggetto che, all’inizio, fatica a riconoscere.
«È un peccato», ammette Keigo, e stavolta il suo tono sembra sinceramente rammaricato. Poco dopo si passa con aria casuale una mano tra i capelli dorati. «Te la cavavi bene.»
«Già», commenta brevemente Touya. D’improvviso il rumore della spina di un apparecchio elettronico che viene infilata in una presa di corrente riecheggia nel silenzio, e una luce tenue s’irradia da una piccola stufetta, rischiarando appena l’ambiente. «Questa dovrebbe bastare a scaldarti almeno un po’. Non è molto, ma almeno è qualcosa.»
Keigo nota che a terra, accanto alla stufetta, c’è un materasso con una coperta pesante. Senza pensarci ci si lascia cadere seduto sopra, esausto.
Touya resta per qualche istante a osservare in silenzio Keigo, il modo in cui socchiude gli occhi, il sospiro di sollievo che gli sfugge dalle labbra. Sembra quasi bere ogni singolo movimento dell’altro ragazzo, e un sorriso intenerito gli compare sul volto.
«Ti porterò da mangiare tutti i giorni, pranzo e cena. C’è un piccolo frigorifero, laggiù, quindi se avanza qualcosa puoi metterlo tranquillamente lì», spiega, con un leggero cenno della mano per farsi capire meglio. «Puoi restare qui per tutto il tempo che vuoi.»
Keigo solleva lo sguardo su di lui, sorpreso. «Sul serio?», domanda, incredulo. «Voglio dire, sei sicuro che questa cosa non finirà per crearti dei guai? Come…?»
Touya si china nella sua direzione, senza dargli il tempo di finire la frase. «Ehi», lo chiama, paziente. «Per me non è un problema ospitarti qui. Dico davvero.»
Keigo sposta in fretta il capo di lato, a disagio. Gli sembra passata un’eternità dall’ultima volta in cui lui e Touya si sono ritrovati intrappolati così, fisicamente vicini l’uno all’altro. Ma in che cavolo di situazione è finito?
Touya raddrizza la schiena, per poi cominciare ad avviarsi verso l’uscita. «Per qualsiasi cosa puoi chiamarmi, ovviamente», commenta, come se non fosse successo nulla. «Buonanotte. Cerca di riposare un po’...»
Keigo esita per qualche istante, incerto. Alla fine, però, cerca nuovamente con lo sguardo la figura dell’altro.
«Touya», lo richiama, la voce che rimbalza all’infinito sulle pareti della rimessa.
«Mh?», domanda il ragazzo, confuso.
Keigo stringe tra le dita la tracolla della borsa, rivolgendogli l’accenno di un sorriso. «Grazie. Per tutto», mormora, riconoscente.
Touya gli sorride di rimando, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «Aspetta a ringraziarmi», commenta, con una spontaneità disarmante. «E comunque, lo faccio con piacere.»
Nel momento in cui la porta si chiude con un clangore pesante, Keigo sa di essere rimasto da solo. Si stende sopra al sacco a pelo, la testa affollata da mille pensieri.
«E adesso?», s’informa Enji, lo sguardo rivolto all’acqua nera del porto.
«Adesso aspettiamo», conclude Keigo, in tono deciso.

È tarda sera. Aizawa sbatte le palpebre diverse volte, cercando di tenersi sveglio.
È rimasto l’unico ancora in commissariato. Tutti i suoi colleghi, ormai, sono a casa da un pezzo. Le lampade delle scrivanie intorno a lui sono tutte spente, e l’unica fonte di luce nei paraggi è lo schermo del suo pc.
Sta analizzando da ore tutto ciò che hanno in mano sulla morte di Tomie, ma il fatto è che, sostanzialmente, gli elementi a loro disposizione sono pari a zero.
Shouta si strizza le palpebre tra pollice e indice, lasciandosi sfuggire un sospiro di pura frustrazione. Gettarsi a capofitto sul lavoro è un ottimo modo per non pensare al casino che trova una volta arrivato a casa, ma non ha mai avuto intenzione di ignorare i suoi problemi. Per di più, ormai gli pare chiaro che stasera non riuscirà a tirare fuori un ragno dal buco, così alla fine si arrende all’evidenza. Spegne il pc, si alza dalla sua postazione e, dopo aver recuperato la giacca, si avvia verso l’uscita.
Il fine settimana è arrivato anche per lui.

La domenica è un giorno diverso da tutto il resto della settimana.
C’è più luce, più vita, ma la cosa più sorprendente è senza dubbio l’odore.
La domenica ha un profumo che tutti gli altri giorni possono solo sognare.
Varia di casa in casa, e di solito è una miscela deliziosa di lenzuola fresce di bucato, caffè caldo e manicaretti di ogni genere. Il profumo della domenica a casa Todoroki è da sempre quello dell’acqua calda aromatizzata dalle spezie per il brodo che bolle nella pentola che si fonde a quello di pulito della tovaglia bianca del corredo buono.
Per Enji è strano assistere a quel rituale da spettatore, senza potervi prendere parte, sebbene gli sia capitato già in passato, nel corso di quegli ultimi tre anni, di passare da casa – casa sua – e vedere la vita dei suoi familiari andare avanti. Quel giorno, però, la formula abituale ha subito un cambiamento, perché il pranzo di famiglia si sta svolgendo a casa di Fuyumi.
La ragazza si destreggia tra le pentole con un’abilità sorprendente, mentre con un braccio è impegnata a sorreggere sua figlia.
Insieme a lei in cucina c’è anche Rei, che osserva la scena in silenzio ma con un sorriso intenerito sul volto.
Fuyumi recupera un cucchiaio e lo immerge nell’acqua, portandolo subito dopo alle labbra e prendendone un piccolo sorso.
«Sono felice che tu abbia accettato l’invito», ammette Fuyumi, spostando lo sguardo in quello speculare di sua madre, alcune ciocche di capelli bianchi sfumati di rosso che sfuggono al controllo dello chignon ordinato sulla sua nuca. «Puoi assaggiarlo anche tu? Ho paura che sia troppo salato.»
Rei accetta con garbo il cucchiaio che la figlia le sta porgendo. «Scherzi? Non mi sarei persa il pranzo di famiglia per nulla al mondo. Mi spiace solo che non si sia potuto fare a casa nostra come al solito, ma ormai hanno portato via praticamente tutto, sarebbe stato un problema metterci comodi», spiega, pacata. «Il brodo è perfetto.»
Fuyumi sorride rassicurata. Sta quasi per voltarsi di nuovo verso i fornelli, quando Yuki allunga le manine verso la nonna. Rei lascia che la bambina le tocchi il viso, rivolgendole un sorriso pieno di tenerezza, e questo scatena una risatina irresistibile da parte di Yuki.
Fuyumi osserva la scena piena di commozione, ed Enji è certo di provare lo stesso sentimento in quel momento.
Se solo in passato fosse stato meno rigido, avrebbe potuto godersi molti più momenti del genere insieme alla sua famiglia. Peccato che l’avessero ucciso tre anni prima, già.
Il clima sereno della cucina viene sferzato da delle risate improvvise, mentre gli scalpiccii rapidi dei passi di due persone si rincorrono per tutto il salone. Kaede sfreccia a tutta velocità davanti alla porta, seguito a breve distanza dalla sorella gemella Mitsuki che, da quello che Enji riesce a capire, si sta lamentando perché il fratello le ha sottratto qualcosa.
Fuyumi si limita ad alzare per un momento gli occhi al cielo, esasperata. «Natsuo, possibile che tu non riesca a tenere buoni i tuoi figli per mezzo secondo?», s’informa, agitando minacciosamente un mestolo a mezz’aria.
A quelle parole, Natsuo compare sulla soglia della cucina, appoggiandosi con una mano allo stipite. «Giuro… che io ci provo», commenta, cercando di riprendere fiato. «Solo che loro… sono più veloci di me.»
Sul volto di Fuyumi compare un’espressione buffissima, e c’è da star certi che stia per scoppiare e dirne quattro a suo fratello da un momento all’altro. Rei finisce per lasciarsi sfuggire una risata leggera, la situazione è davvero troppo esilarante per trattenersi.
A salvare Natsuo dall’ira di sua sorella, per fortuna, ci pensa la porta di casa, che proprio in quel momento si apre. Lo sguardo di Kaede e Mitsuki scatta nello stesso istante in direzione dell’ingresso, gli occhi che s’illuminano di entusiasmo.
«Zio Shoto!», esclamano all’unisono, per poi scattare e correre a salutare il nuovo arrivato.
Rei posa una mano sulla spalla di Fuyumi. «Inizia a mettere tutto nei piatti e a portarli in tavola», le suggerisce, affabile.
Fuyumi annuisce, sorridendole dolcemente, per poi tornare a concentrarsi sulle varie pentole.
Rei, nel frattempo, raggiunge gli altri in soggiorno. Shoto non è riuscito a muoversi di mezzo passo dall'ingresso, intrappolato dall’entusiasmo contagioso dei gemelli. Perlomeno, ha cominciato a togliersi la giacca, la sciarpa ancora stretta tra le mani.
«Ultimamente fa molto freddo», esordisce Rei, le dita che s’intrecciano a quelle del figlio attorno alla sciarpa. «Ti stai coprendo a dovere?»
Shoto solleva lo sguardo su di lei, sorpreso. «Mamma…», la chiama piano, la voce bassa e delicata come al solito.
In quel momento, Natsuo riappare in soggiorno. «Alla buon’ora!», commenta, mentre i gemelli si sono ancorati ai suoi fianchi. «Sei l’ultimo arrivato, stavamo aspettando te per mangiare.»
«Scusate», si affretta a giustificarsi il ragazzo. «Sto preparando un esame ed ero certo che non ci avrei messo molto per finire un capitolo. Non mi ero accorto di che ore si fossero fatte.»
Fuyumi sbuca fuori dalla cucina, portando alcune ciotole tra le mani. «Ah, Shoto, appena in tempo!», esclama, solare. «Su, venite: è pronto e ben caldo!»
In men che non si dica, i gemelli si lanciano verso i loro posti a tavola, seguiti subito da tutti gli altri.
La tavola della domenica a casa Todoroki è apparecchiata per nove persone: oltre a Rei, Fuyumi, Natsuo e Shoto, infatti, al pranzo si uniscono anche il marito di Fuyumi, impiegato presso una grande azienda che si occupa di informatica, e la fidanzata di Natsuo, che lo conosce dai tempi dell’università. Gli ultimi tre posti, ovviamente, sono riservati ai bambini: Kaede e Mitsuki sulle sedie – troppo alte per le loro gambine, così ne approfittano per muoverle con un ritmo spasmodico – e Yuki nel seggiolone.
Più Enji li osserva, e più non riesce a fare a meno di notare quanto i figli di Natsuo e Fuyumi assomiglino ai rispettivi genitori, non solo fisicamente ma anche nel carattere: se i gemelli hanno gli stessi capelli corti e candidi e il carattere estroverso del padre, Yuki, con la sua chioma nivea e ramata al tempo stesso, è più timida e silenziosa, proprio come sua madre.
Il pranzo procede con una generale convivialità. Gli invitati gradiscono il cibo delizioso preparato da Fuyumi mentre scambiano amabilmente quattro chiacchiere tra loro.
Shoto finisce di bere il brodo, per poi lasciar cadere le bacchette nella ciotola vuota. «In realtà sono sorpreso che tu oggi sia qui con noi, mamma», ammette, pensieroso. «Mi era parso di capire che fossi in partenza questa settimana.»
Rei gli sorride dal posto a capotavola. «Ho deciso di occuparmi di un ultimo caso prima di partire, ma non credo che ci metterò ancora molto», spiega, accompagnando le parole con un gesto elegante della mano.
Fuyumi sembra illuminarsi mentre solleva lo sguardo dalla sua ciotola. «Si tratta di quell’incidente lungo la strada che porta alla montagna?», s’informa, perspicace. «Ho sentito la notizia al tg. Comunque, come mai proprio questo caso? Non credevo che ci fosse una dinamica particolare dietro…»
Rei recupera il tovagliolo di stoffa dalle gambe, tamponandosi appena le labbra. «Conoscevo la vittima», spiega, decidendo di non sbilanciarsi troppo sui dettagli. «Ci aveva aiutati tre anni fa durante le indagini sull’omicidio di vostro padre.»
A Enji non sfugge come il silenzio sia calato di colpo sulla sala da pranzo dopo la semplice menzione della sua morte. Quello all’apparenza più infastidito sembra essere Natsuo, che poggia il bicchiere sul tavolo con troppa irruenza.
«Papà. Ancora papà», commenta, seccato. «È incredibile come, anche dopo la sua morte, continui ancora a influenzare la vita di questa famiglia.»
«Natsu…!», lo apostrofa Fuyumi, quasi sul punto di sedersi sull’orlo della sedia per la trepidazione.
«Oh, andiamo, Fuyumi, non prendiamoci in giro», riprende Natsuo, in tono grave. «Il fatto che sia stato ammazzato non fa automaticamente di lui un eroe. Pretendi davvero che dimentichi il trattamento gelido che ci ha riservato per anni? O, peggio, quanto abbia soffocato Shoto con le sue aspettative?»
Fuyumi sembra trattenere a stento le lacrime. Cerca disperatamente un appiglio, qualcosa a cui aggrapparsi – non è decisamente questa la piega che sperava prendesse il loro pranzo di famiglia –, ma quando pensa di aver trovato le parole giuste e sta per parlare di nuovo, qualcuno la precede.
«Natsuo.» La voce di Rei risuona calma ma decisa in un silenzio innaturale. «È vero, Enji non è stato né un buon padre né un buon marito. Tuttavia ha amato ognuno di voi, di questo puoi essere certo. Per quanto riguarda la sua morte, è stato ucciso mentre svolgeva il suo lavoro, per cui non vedo cosa ci sia di male in questo.»
Nonostante le parole di Rei, Natsuo non sembra essere persuaso. «Non potete pensarla tutti allo stesso modo», commenta, incredulo. «Parlate di lui come se fosse un santo… Shoto, almeno tu, dopo tutto quello che ti ha fatto passare…!»
Shoto posa lo sguardo prima su Rei e poi su Natsuo. «Io ho fiducia nella mamma», commenta, pacato. «Se pensa che la cosa giusta da fare sia occuparsi di questo caso, allora sono d’accordo con lei.»
Natsuo si lascia sfuggire un mugolio frustrato, mentre sul volto di Rei compare l’accenno di un sorriso.
Enji, invece, di colpo si sente di troppo in quel soggiorno, così si limita a svanire.

Enji torna alla rimessa delle barche quando è ormai pomeriggio.
Si guarda un po’ attorno, e all’inizio si allarma non individuando la figura di Keigo sul materasso, la coperta che è stata abbandonata là sopra in disordine. Poi, però, la sua attenzione viene catturata da un movimento alla sua sinistra, e Keigo è lì.
Il ragazzo si è seduto sopra a delle casse di legno. Tiene le gambe strette al petto, e guarda l’acqua lambire il molo dalla finestra accanto a sé con aria assorta.
Enji lo raggiunge in fretta, e nel frattempo Keigo si accorge finalmente della sua presenza, spostando lo sguardo su di lui.
«Novità?», gli domanda, speranzoso.
Enji scuote la testa, fermandosi accanto a lui. «Purtroppo no», ammette, sistemandosi dal lato opposto della finestra.
Keigo si lascia sfuggire un lungo sospiro mortificato, affondando il volto nel collo alto del maglione. «Così non risolviamo niente», commenta, seccato. «Stiamo dando a Ryou un vantaggio troppo grande, di questo passo non lo troveremo mai più… senza contare che avevo pensato di andare a casa sua, chissà, magari il faldone l’ha nascosto lì, solo che se continuo a non potermi muovere da questo posto…»
«Non penso che sia così ingenuo da averlo lasciato lì», valuta Enji, pragmatico. «Voglio dire, deve pur aver considerato che, semmai la polizia fosse arrivata a lui, avrebbero perquisito casa sua…»
Keigo sospira di nuovo, ed Enji sente le parole morire nella sua gola.
«Che hai?», gli chiede, dubbioso. «Non sono abituato a vederti senza il tuo inguaribile ottimismo…»
«È che… è frustrante.» Keigo circonda le gambe con le braccia, spostando di nuovo lo sguardo sullo sciabordio delle onde nel porto. «Vorrei poter fare qualcosa, e invece continuo a restarmene qui con le mani in mano. Mi sento così inutile…»
«Ehi, ragazzino.» Enji si sporge leggermente nella sua direzione, aspettando che Keigo abbia spostato lo sguardo su di lui prima di continuare. «Vedrai che non riuscirà a farla franca. Lo prendiamo, promesso.»
Keigo gli rivolge un sorriso appena abbozzato, prima di tornare a osservare con aria assorta lo scenario fuori dalla finestra.
«Credo che sia colpa di questo posto», ammette, la voce che si fa distante. «Continua a far tornare a galla un sacco di ricordi…»


Ai tempi del liceo, Keigo aveva sempre avuto attorno un sacco di amici.
Touya invece no.
Era sempre stato l’outsider della classe, quello che si vestiva solo di nero e a cui piacevano cose strane. La cosa, a Touya, non era mai pesata: a lui bastava potersene stare in santa pace a suonare il basso alla vecchia rimessa di suo zio, la sera dopo le lezioni.
Si era sempre limitato a osservare Takami Keigo a debita distanza, certo che loro due non avrebbero mai avuto niente da spartire. Keigo era raggiante ed estroverso, per qualche strano motivo – no, Touya sapeva esattamente perché: era per via di quel suo magnetismo – era riuscito a rientrare nelle grazie del gruppetto dei ragazzi popolari della scuola, tutti snob e figli di gente ricca, gli stessi che si divertivano a deridere Touya e gli altri come lui. A ricreazione li vedeva sempre insieme a chiacchierare ed era certo che si frequentassero anche dopo l’orario scolastico.
Poi, però, all’inizio dell’ultimo anno, era cominciato a cambiare qualcosa. Keigo si era fatto più schivo e taciturno, il volto pallido e in apparenza sempre stanco. I suoi “amici” avevano cominciato a evitarlo, lasciandolo sempre più solo.
A Touya aveva fatto una gran pena.
Keigo gli piaceva da un bel po’ di tempo, e in un certo senso aveva pensato che quel suo momento di fragilità sarebbe potuta essere una buona scusa per avvicinarli.
La prima volta gli aveva rivolto la parola con la scusa più banale del mondo. Keigo stava imprecando da cinque minuti buoni contro il lucchetto con cui aveva chiuso la catena della sua bici. Touya gli si era avvicinato, la tracolla dello zaino tenuta in equilibrio su una spalla sola.
«Lascia, ti do una mano», gli aveva proposto, conciliante.
Ci aveva messo mezzo secondo a sbloccare il lucchetto. Keigo non gli aveva detto un granché – un po’ un flop quel primo approccio, a ripensarci –, dopodiché aveva inforcato la bicicletta e se n’era andato via.
Touya si era quasi arreso, certo che dopo quel giorno non avrebbero avuto altre occasioni in cui parlare, invece il giorno dopo Keigo l’aveva intercettato in corridoio, ringraziandolo per il pomeriggio precedente.
Dopo quella volta, avevano cominciato a parlarsi un po’ più spesso. Touya gli aveva raccontato un po’ della sua vita, del basso, della rimessa di suo zio. A conti fatti, era arrivato alla conclusione che Takami Keigo fosse semplicemente una persona con un disperato bisogno di una mano tesa nella sua direzione in un periodo difficile.
Poi, un giorno, Keigo non si era presentato a scuola. A Touya era sembrata una cosa strana, di solito Keigo non mancava mai, per nessuna ragione. Nel frattempo il loro legame era diventato più stretto – una strana forma di amicizia, se così si poteva definire –, così aveva provato a chiamarlo al cellulare, senza tuttavia ricevere alcuna risposta. Molto strano.
Alla fine si era presentato a casa sua. Una mossa un po’ azzardata, forse, ma non gliene erano venute altre in mente. L’aveva accolto Kaina, la donna con cui Keigo era cresciuto nel corso degli anni, e gli aveva detto che il ragazzo si trovava sul tetto.
Keigo, effettivamente, era lì. Avvolto in una trapunta rossa, per proteggersi dal freddo vento invernale, lo sguardo perso tra le luci delle antenne in cima ai palazzi.
Touya si era seduto accanto a lui, osservandolo in silenzio.
«Ti devo dire una cosa», aveva confessato, in un mormorio spaventato. «Solo che ho paura che non mi crederai.»
Touya aveva puntellato il gomito sopra al ginocchio, posando il mento sul palmo della mano. «Tu dimmela», l’aveva esortato, pacato. «Poi ti dirò se ci credo o meno.»
Keigo aveva preso un respiro tremante. Quando si era voltato nella sua direzione, Touya aveva notato le occhiaie scure che gli segnavano il viso.
«Come la prenderesti se ti dicessi che vedo i morti?», aveva domandato, sputando fuori la domanda tutta d’un fiato. Era seguito un momento di silenzio, in cui Touya però non aveva aggiunto niente. «N-nel senso… non è una cosa che succede da sempre. È iniziata poco tempo fa, non so nemmeno io perché. P-probabilmente non avrei dovuto dirtelo, adesso penserai che sono pazzo e non vorrai più saperne niente di me…»
«Ti credo.»
La risposta di Touya era stata così repentina da spiazzare Keigo. Il ragazzo l’aveva fissato con un’espressione esterrefatta, incredulo di aver sentito bene.
«C-che?», aveva balbettato, titubante.
«Ti credo», aveva ripetuto Touya, con lo stesso tono deciso di poco prima. Si era avvicinato al ragazzo, osservandolo intensamente. «Immagino che non sia affatto una cosa facile. Ma l’affronteremo insieme, promesso.»
Aveva visto i grandi occhi dorati di Keigo scintillare di un sentimento tanto intenso quanto pericoloso: speranza. L’istante successivo, Touya l’aveva visto sporgersi in avanti, per poi sentirlo posare le labbra sulle sue.
Era stato un bacio così breve che, per un momento, Touya aveva pensato di esserselo immaginato. Keigo, però, era ancora lì accanto a lui, e questo gli aveva fatto sperare che forse non fosse stato un errore, che forse non si fosse pentito di averlo baciato.
Touya aveva infilato le dita tra i capelli dorati di Keigo, avvicinandolo a sé e posando di nuovo le labbra sulle sue, stavolta approfondendo il bacio. Keigo aveva ridacchiato contro le sue labbra, e a Touya era sembrato di sentire di nuovo il suo cuore leggero, dopo tanto tempo.

Nel corso delle indagini sull’omicidio di Todoroki Enji, il fantasma che Keigo aveva cominciato a vedere, Touya era sempre rimasto al fianco dell’altro ragazzo, cercando di aiutarlo quando era possibile.
Quando avevano scoperto il nome dell’assassino, Enji era corso verso casa di sua moglie Rei per salvarla, seguito da Keigo. Touya, invece, se n’era tornato alla rimessa per le barche.
Fuori era scoppiato un temporale. Touya aveva lanciato uno sguardo ai vetri della porta d’ingresso, su cui la pioggia continuava a battere impietosa, per poi lasciarlo cadere nuovamente sulle corde del basso, spostando le dita in una posizione differente e provando un altro accordo.
Un fulmine doveva essere caduto poco distante da lì, perché l’aria era stata riempita da un boato assordante e per un attimo il cielo era parso illuminato a giorno.
Era stato in quel momento che la porta si era aperta. Touya aveva sollevato la testa all’istante, ma solo per vedere la figura di Keigo comparire sulla soglia.
Era bagnato dalla testa ai piedi. Keigo aveva attraversato in fretta la rimessa, chinandosi una volta raggiunto Touya e sedendosi accanto a lui.
«Ce l’abbiamo fatta», gli aveva comunicato, ancora elettrizzato per via dell’adrenalina in circolo dopo gli eventi delle ultime ore.
Prima che Touya potesse dirgli qualsiasi cosa, Keigo gli aveva afferrato il volto con entrambe le mani, baciandolo con trasporto. Touya aveva chiuso gli occhi, lasciando scivolare lo strumento di lato e distendendosi sul materasso, con Keigo che si era sistemato sopra di lui.
Quella notte avevano fatto l’amore, ed era stato bellissimo.

Dopo l’arresto dell’assassino di Enji, Touya aveva pensato che tutto sarebbe tornato alla normalità.
Ovviamente, non era stato così.
Enji non se n’era andato. Era rimasto, perché – apparentemente – adesso ad essere in pericolo non era più sua moglie ma suo figlio, Shoto.
Per di più, si era aggiunto quello strano tizio che bazzicava la caffetteria di Tomie, Ryou. A Touya non piaceva, con quei suoi modi affettati e i vestiti costosissimi e inamidati. Aveva l’impressione, la percezione che dietro al suo comportamento ci fosse qualcosa di più, anche se all’inizio non era stato in grado di capire di che si trattasse.
Touya non sopportava nemmeno un po’ il modo in cui Keigo diventava quando orbitava intorno a Ryou. All’epoca aveva pensato che fosse semplicemente gelosia, ma col tempo si era ritrovato a valutare che forse si era trattato di qualcosa di più. Come se Ryou fosse diventato il centro dell’universo, come se pendesse dalle sue labbra, come se non riuscisse a vedere l’influenza che aveva su di lui.
Poi, senza che Touya fosse riuscito a prevederlo in alcun modo, Ryou aveva fatto la sua mossa.
Era un pomeriggio di giugno, eppure sembrava pieno inverno, col cielo grigio e il vento che sferzava la città con raffiche violente. Si stava avvicinando un temporale, non ci voleva un genio per capirlo.
Lui e Keigo avevano appuntamento al molo dove si incontravano di solito. Touya era arrivato per primo, così, nell’attesa, si era seduto a guardare le onde rincorrersi e gli scafi delle barche urtare contro il porto.
Quando Keigo era arrivato, gli aveva circondato il collo con le braccia da dietro, posandogli un bacio su una guancia. Era indubbiamente di buon umore – e, okay, Keigo lo era quasi sempre, ma quel giorno decisamente troppo.
«Ehi», aveva esordito, raggiante. «Ho delle novità.»
Touya gli aveva lanciato uno sguardo distratto. «Spara», gli aveva concesso, monocorde.
La verità era che non riusciva a ricambiare in alcun modo l’entusiasmo di Keigo. Da quando Ryou aveva cominciato a frequentare l’Owl, Touya aveva sentito l’altro ragazzo allontanarsi sempre di più da lui. Tutto quell’entusiasmo, adesso, non gli faceva presagire niente di buono.
Keigo si era seduto a gambe incrociate accanto a lui. Se aveva percepito il suo insolito tono di voce, doveva aver deliberatamente deciso di ignorarlo. «Ryou mi ha confessato che anche lui vede i morti», gli aveva raccontato, la voce bassa di chi sta spifferando un segreto che tuttavia traboccava di entusiasmo, oltre a essere perfettamente udibile anche sopra al frastuono del vento. «Dice che c’è un posto per le persone come me, e che lui potrebbe portarmi lì.»
Era stato in quell’esatto momento che Touya aveva sentito il crac. In quei mesi aveva costruito quell’equilibrio fragilissimo, assieme a Keigo, e le parole di Ryou adesso rischiavano di distruggere tutto.
«Ah», si era limitato a mormorare, sentendo di colpo la gola secca.
Keigo aveva inarcato un sopracciglio. «Si può sapere che cavolo ti prende?», aveva domandato, confuso.
Touya non ci aveva visto più. Si era voltato nella sua direzione, fissandolo con rabbia. «Possibile che non ci arrivi?», aveva sbottato, spazientito. «Non ti sembra che sia una coincidenza un po’ troppo perfetta che, nel momento in cui scopri di avere dei poteri e tua madre, anche lei con un dono, torna a far parte della tua vita, all’improvviso compaia questo tipo che toh!, può vedere anche lui gli spiriti? Svegliati, Keigo, Ryou ti sta riempiendo di balle.»
Keigo aveva arricciato le labbra, in un’espressione frastornata. «Che motivo avrebbe di mentirmi?», aveva domandato, incredulo. «Se anche lui possiede il mio stesso dono…»
«Oh, ma per favore.» Touya si era rimesso in piedi, nervoso. «Mente per manipolarti, ovviamente! E non riesco a capire perché non te ne accorgi.»
«Però pensaci, Touya», aveva insistito Keigo con tenacia. «Forse… forse così potrei scoprire l’origine dei miei poteri…»
«Oppure ti sta mentendo e basta!», l’aveva interrotto Touya, urlando sopra ai fischi e ai ruggiti del vento. «Senti, tutta la roba dei fantasmi è stata assurda fin dall’inizio, ma adesso… adesso è davvero troppo. Io… non penso di poter andar avanti con questa storia. Forse è meglio se la chiudiamo qui.»
Touya si era incamminato lungo il molo, lasciandosi alle spalle gli occhi dorati di Keigo che lo osservavano smarriti.


Touya fa dondolare nervosamente la matita tra le dita.
Da quando Keigo è riapparso nella sua vita, le cose sono tornate a essere complicate come un tempo. Sono giorni che quei ricordi continuano ad assillarlo, senza dargli tregua.
Alla fine si arrende, lasciandosi cadere in avanti, la testa che affonda tra le pagine del libro che avrebbe dovuto studiare. Tranne per il trascurabile dettaglio che la concentrazione, in quei giorni, non smette di sfuggirgli, come se stesse cercando di afferrare il vento.
Touya sposta il capo di lato, la guancia che si posa morbida sulla pagina mentre con la mano recupera il telefono accanto a sé per controllare l’ora. Non sa neppure come sia successo, eppure sono le sette di sera passate.
Keigo. Il pensiero gli balza alla mente con una rapidità disarmante, tanto che forse, in un’altra circostanza, Touya ne sarebbe quasi impaurito. Una volta al giorno passa dalla rimessa delle barche di suo zio per lasciare all’altro ragazzo qualcosa da mangiare, e adesso gli sembra decisamente il momento di darsi una mossa e portargli la cena.
Touya si alza dalla sedia in maniera quasi repentina, tuttavia è costretto a rallentare quando poco dopo, una volta arrivato in corridoio, intercetta Tenko, che sta uscendo dal bagno.
Il suo ragazzo lo osserva con aria stralunata. «Dove stai andando?», domanda, confuso, notando che l’altro sembra intenzionato a uscire.
Touya recupera la giacca dall’appendiabiti e comincia a infilarla. «Mi sono ricordato di dover fare una commissione», mente – e fa una gran fatica a non mordersi le labbra.
La verità è che tutta quella situazione non gli piace. Detesta l’idea di dover mentire al suo ragazzo, ma quali alternative ha? Dirgli ehi, sto ospitando il mio ex nella vecchia rimessa al porto di mio zio e adesso gli sto portando qualcosa da mangiare? Gli basterebbe chiedergli di venire con lui e poi il quadretto dell’assurdo sarebbe completo. Non ha mai potuto nemmeno proporre a Tenko di ospitare Keigo a casa loro perché quella convivenza sarebbe stata semplicemente troppo complicata. Così è costretto a mentirgli ogni volta, restando bloccato sempre di più in quella spirale di menzogne.
Tenko inarca un sopracciglio, ancora più dubbioso. «A quest’ora?», gli fa notare, perplesso.
Touya vorrebbe imprecare, ma alla fine riesce a trattenersi, facendo appello a tutto il suo autocontrollo. Si china appena in avanti, una mano che si posa sulla guancia di Tenko. «Vedo di fare in fretta», gli assicura, conciliante, prima di lasciargli un bacio leggero a fior di labbra.
Prima che Tenko possa provare a ribattere, Touya scivola fuori dalla porta d’ingresso, lasciando l’altro ragazzo sull’uscio, ancora interdetto.

È ormai scesa la sera sul porto. Il cielo, che si è tinto di una tonalità blu cobalto, fa da sfondo a uno scenario pacifico, il trambusto del giorno che ora sembra essere più ovattato mentre alcune navi ancorate alla fonda nella penombra assomigliano a grandi giganti di ferro che riposano.
Touya arriva sotto il porticato della rimessa quando sono ormai passate le nove. In una mano tiene una busta di carta, le dita ben salde attorno ai manici.
La porta d’ingresso si schiude con il solito frastuono, mentre gli occhi di Touya stanno già saettando attraverso la rimessa, alla ricerca di Keigo. «Ho portato la cena», annuncia, muovendo appena la busta a mezz’aria e producendo un lieve fruscio.
Vede Keigo quasi subito, intercettando con un’occhiata la figura del ragazzo. È appollaiato sul davanzale di una delle finestre, lo sguardo che fino a poco prima era perso nel vuoto.
Keigo annusa l’aria, chiudendo per un momento gli occhi. «È odore di gyoza di pollo quello che sento?», domanda, nella voce un misto di speranza e sicurezza di chi sa di non sbagliare.
Finalmente Touya si ferma davanti a lui, facendogli dondolare la busta davanti alla faccia. «Direttamente dal tuo ristorante preferito», commenta, posando una mano sul fianco con fare soddisfatto.
Sempre che i tuoi gusti non siano cambiati. Sempre che io me ne sia ricordato, vorrebbe aggiungere Touya, limitandosi tuttavia a rimanere in silenzio.
Keigo gli sottrae in fretta la busta di mano, estraendone subito il contenuto. L’istante successivo ha già aperto la confezione per affondarci dentro le bacchette, gli occhi che scintillano di entusiasmo.
Touya lo osserva in silenzio, incantato. C’è qualcosa di magnetico nel modo in cui Keigo si porta il primo raviolo alla bocca, le guance che si gonfiano, gli occhi che si chiudono e quel trillo di pura gioia che non può fare a meno di lasciarsi sfuggire.
«Ad ogni modo, che razza di olfatto hai?», si decide a domandargli Touya, scuotendo leggermente la testa per l’incredulità.
Keigo gli lancia un’occhiata incuriosita per un momento. «Non posso sbagliare quando si tratta di cose che mi piacciono», spiega, come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo, mentre con le bacchette recupera un altro gyoza. «Ah, era da una vita che non mangiavo qualcosa di così buono!»
Touya si siede accanto a lui sul davanzale, senza smettere di osservarlo mentre continua a mangiare. È così bello, con quell’espressione felice sul volto. «Stasera prima di uscire Tenko sembrava strano», ammette, assorto. «Mi chiedo se non stia cominciando a sospettare qualcosa.»
Keigo abbassa le bacchette, sollevando lo sguardo sull’altro ragazzo. «Lo sapevo, ti sto mettendo in difficoltà con questa storia», commenta, rammaricato.
«Ma no!» Touya si china verso di lui, senza riuscire a trattenersi. «Te l’ho detto, per me non è un problema ospitarti qui! E poi… ora che ti ho ritrovato non posso immaginare di perderti di nuovo…»
Accade tutto nel tempo di un battito di ciglia. Touya si sporge in avanti, posando le labbra su quelle di Keigo, ma non dura che un momento perché, poco dopo, Keigo gli rifila una spinta contro la spalla, allontanandolo da sé.
«Ma che diavolo ti è saltato in mente?!», impreca Keigo, fulminandolo con lo sguardo.
Touya sbatte un paio di volte le palpebre, confuso. «Io… penso di essere ancora innamorato di te, Keigo», confessa, fissandosi per un momento i palmi delle mani. «Credevo che fosse lo stesso anche per te…»
«Beh, non è così! Senza contare che sei fidanzato con un’altra persona, adesso!» Keigo gli si avvicina, il tono di voce che si abbassa, minaccioso. «E sbaglio o sei stato tu a lasciarmi, tre anni fa?»
Sul volto di Touya compare un’espressione mortificata. «M-mi dispiace. Io…», cerca di giustificarsi, senza sapere tuttavia cosa dire in quella situazione.
Keigo, nel frattempo, si è allontanato da lui. «Senti, ti ringrazio per l’ospitalità ma penso che non sia più il caso che io rimanga qui», commenta seccamente, chinandosi vicino al materasso per recuperare le poche cose che ha portato con sé e che ha lasciato là sopra, infilandole alla rinfusa nella borsa.
Poco dopo si rialza, sistemandosi la tracolla sulla spalla e avviandosi con delle ampie falcate verso l’uscita. Enji, che ha assistito a tutta la scena, si limita a seguirlo in silenzio, lanciando prima però un ultimo sguardo in direzione di Touya.
«Keigo, aspetta!», prova a richiamarlo, allungando una mano davanti a sé che, però, finisce solo per ghermire l’aria.
Le sue parole cadono nel vuoto. Poco dopo Keigo esce dalla rimessa, sbattendo con veemenza la porta dietro di sé.
Touya resta immobile, lo sguardo fisso nel punto in cui lo ha visto sparire.



fantasmajpg



note
per una certa personcina: se stai leggendo (probabilmente no ma vbb), sappi che questo è il massimo della dabihawks che riuscirai mai a scucirmi, per cui assaporatela per bene.
per tuttə ə altrə: salve! primo capitolo di dicembre, yeah. confesso che non avevo alcuna voglia di editarlo, immagino non sia difficile capire perché.
però parliamo delle cose belle, dai. cioè, ma quanto sono carini i todoroki sì il passato è edulcorato ma dettagli tutti insieme? per quanto riguarda i vari figli/partner diciamo che questo è un mio headcanon, e non escludo di riprenderlo in una storia futura.
(ah, mi stavo dimenticando una cosa: come ho detto in questa storia touya non fa parte della todofam perché sì, per cui se vi sembra ooc probabilmente è solo perché si è risparmiato un sacco di traumi, o perlomeno questo è il touya che immagino io senza tutti i drammi)
also sì, c'è un altro flashback. è il penultimo, un altro è nel prossimo capitolo però giuro che poi dopo sono finiti.
a proposito del prossimo capitolo, eheh, non vedo l'ora di pubblicarlo! tra l'altro, se fate bene i conti, forse riuscite anche a immaginare quando uscirà e no, non è decisamente una data casuale...
okay, ho detto tutto. grazie come sempre a chi sta leggendo, e a presto!
aria

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Capitolo 5
*** l'impossibile diventa possibile ***





«Shouta ha capito qualcosa.»
Hitoshi butta in mezzo l’argomento con fare casuale, mentre il soggiorno è immerso in un silenzio assordante. È rimasto di nuovo lì per tutta la notte, e adesso dalla finestra che si affaccia sul porto stanno osservando l’alba che sorge.
Hizashi inclina la testa nella sua direzione, scrutandolo con attenzione. Tiene tra il pollice e l’indice una bottiglia di birra – la stessa che ha offerto a Hitoshi, qualche ora fa –, prima fresca e dissetante, ora tristemente calda. «Cosa te lo fa pensare?», domanda, cauto, l’espressione che tuttavia resta quella tranquilla di poco prima.
Il ragazzo si stringe nelle spalle. «Non lo so. Ha cominciato a farmi domande strane», ammette, mentre sposta lo sguardo di lato come se stesse cercando d’inseguire qualche ricordo lontano. «Qualche giorno fa è letteralmente sgusciato fuori dal commissariato per inseguirmi. E l’altra mattina, a colazione, era… boh. Sospettoso.»
Hizashi annuisce brevemente. Poco dopo sposta lo sguardo verso lo scorcio del porto, dove la vita continua a scorrere placida e indisturbata.
«Credo che voi due dovreste parlare», commenta Hitoshi, mentre beve un sorso di birra dalla sua bottiglia. «Non so per quanto tempo ancora potrò portare avanti questa storia.»
Le parole di Hitoshi restano sospese nella stanza, mentre nel porto alcune navi continuano ad attraccare e altre a salpare.

«Sarà meglio tornare a casa di Kaina. Se Ryou non ha fatto la sua mossa fino a questo momento, probabilmente è perché non ha intenzione di agire – dopotutto non abbiamo nulla contro di lui e lo sa. Parlerò io con Kaina, ma non penso che ci saranno problemi.»
Keigo gli ha detto quelle parole subito dopo essersi lasciato la rimessa e Touya alle spalle, dopodiché si è chiuso in un silenzio ostinato e ha continuato a camminare per tutta la notte. Enji si è limitato a seguirlo in silenzio, temendo che, se si fosse arrischiato a parlare, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
Arrivano a casa di Kaina che è ormai l’alba. L’appartamento è deserto, e le prime luci del giorno s’infrangono sulle pareti conferendo alle stanze un tenue lucore.
Quando Keigo aveva deciso di rivolgersi a Touya era stato chiaro con lui: non aveva altre soluzioni, per cui era prevedibile che, alla fine, sarebbero tornati al punto di partenza.
Keigo lascia che la porta d’ingresso si richiuda pesantemente alle sue spalle, per poi dirigersi subito verso camera sua. Enji, invece, resta per un po’ interdetto sulla soglia. È successo tutto così in fretta che quasi fatica a non perdere il filo di quegli avvenimenti.
«Enji.»
La voce di Keigo sembra un sospiro carezzevole, tanto che per mezzo secondo Enji crede di essersela sognata. Quando tuttavia realizza di averla sentita davvero, si affretta a raggiungere la camera del ragazzo, in apprensione.
Una volta giunto sulla soglia della camera, a Enji viene quasi da tirare un sospiro di sollievo. Keigo è lì, seduto sul bordo del letto, intento a osservarlo intensamente con quei suoi grandi occhi dorati. Per un momento ha avuto il terrore che avrebbe trovato Ryou con la lama di un coltello rivolta alla gola del ragazzo, forse però sta semplicemente diventando troppo paranoico.
Keigo gli rivolge un piccolo sorriso incoraggiante, per poi assestare qualche colpetto alla porzione di materasso accanto a sé. «Vieni qui», lo incoraggia, con la stessa voce soffice di poco prima.
Enji non riesce a non assecondarlo. Si è accorto che gli sta capitando sempre più spesso, soprattutto da quando il ragazzo ha ricominciato a far parte della sua vita. Così si avvicina lentamente, per poi sedersi piano nel punto che Keigo gli ha indicato, non molto distante da lui.
Keigo azzarda un sorriso soddisfatto. Poco dopo, Enji lo vede abbassare le palpebre, un’espressione concentrata che compare sul suo volto.
«Keigo, che stai…», fa per richiamarlo Enji, confuso.
«Shh. Va tutto bene», gli assicura Keigo, imperturbabile. «Voglio mostrarti una cosa che ho imparato all’istituto.»
Enji vorrebbe chiedergli ancora spiegazioni, le parole però gli muoiono in gola. Poco dopo, infatti, sente che c’è qualcosa di diverso: è come se il suo corpo fosse diventato di colpo più pesante, più reale, e può dirlo dal modo in cui ora gli sembra di applicare effettivamente attrito sul materasso.
Keigo riapre lentamente gli occhi, come se avesse timore di constatare che qualcosa non sia andato per il verso giusto. Allunga una mano verso quella di Enji con fare esitante, e quando alla fine vi posa un dito sul dorso, ciò che sente sotto il suo tocco è pelle.
L’espressione di Enji diventa completamente incredula. Solleva la mano, tenendola davanti a sé, e Keigo lascia coincidere i loro palmi, che, ancora una volta, si sfiorano.
«Questo… questo è impossibile…», mormora Enji, sbigottito.
Sul volto di Keigo c’è un sorriso delicato. Il ragazzo si alza in piedi, ma solo per riaccomodarsi poco dopo sulle gambe di Enji. Le sue mani circondano il volto dell’uomo, incatenando i loro sguardi. «A volte l’impossibile diventa possibile», commenta, seducente.
Poco dopo Enji sente il ragazzo posare le labbra sulle sue. Sa che dovrebbe respingerlo, dirgli che tutto questo è sbagliato.
Il punto è che non vuole.
Keigo lo bacia lentamente, come se avesse agognato quel momento per anni e ora volesse imprimere per sempre nella memoria ogni centimetro di quelle labbra – ed Enji si ritrova a valutare che forse, in fondo, è davvero così. Affonda con le dita tra i capelli dorati del ragazzo, stringendolo più a sé e approfondendo il bacio, cercando la lingua dell’altro e trovandola subito.
Keigo si sfila il maglione e lo lascia cadere a terra, le labbra che si separano da quelle di Enji per un solo istante, tornando a incatenarsi subito, come se adesso che finalmente si sono trovate non riuscissero più a stare distanti. Poco dopo il ragazzo serra le mani attorno al giaccone pesante di Enji, sfilandolo e abbandonandolo mollemente sul materasso. Per Enji quella è una sensazione strana: è stato abituato, nel corso di quegli ultimi tre anni, a portare sempre gli stessi indumenti, quelli che aveva la notte in cui gli avevano sparato. Non aveva mai pensato che ci fosse la possibilità, un giorno, di sentirli di nuovo scivolare via dalla sua pelle.
Quando Keigo gli sfila anche il maglione, lasciando vagare le mani sul suo petto nudo, Enji sente come una vertigine attraversargli il cervello. Afferra con decisione il ragazzo, facendolo distendere comodamente con la schiena premuta contro il materasso, sistemandosi tra le sue gambe. Con lentezza esasperante scende a baciargli il collo, e finisce per sorridere soddisfatto contro la sua pelle candida quando sente i primi ansiti affiorare sulle labbra del ragazzo. Continua a baciarlo senza sosta, gli sembra impossibile riuscire a smettere, e nel frattempo le sue dita si decidono a esplorare la pelle di Keigo. Dal viso scende a carezzargli la gola, per poi proseguire ancora, verso il petto. Quando tuttavia il suo tocco incontra qualcosa di freddo è costretto a fermarsi, sorpreso.
«E questo?», domanda, separandosi appena dalle labbra del ragazzo.
Gli occhi di Enji cadono su quello che dev’essere un ciondolo. Non l’aveva mai notato fino a questo momento, probabilmente Keigo doveva averlo tenuto sotto i vestiti. Una catena dorata sorregge un pendente dalla forma apparentemente circolare, che tuttavia a un’occhiata più attenta risulta essere piuttosto irregolare. Linee brevi e spezzate s’inseguono senza sosta, formando quello che a tutti gli effetti sembra un percorso.
«Regalo di Ryou», ammette Keigo, mentre anche il suo sguardo si posa sul ciondolo. «Quando me l’ha dato ha detto una cosa del tipo che la nostra mente è il più pericoloso dei labirinti.»
Enji osserva nuovamente il ciondolo. Un labirinto. Adesso ha senso, in effetti.
L’uomo chiude gli occhi per un momento, prendendo un breve sospiro. Poco dopo tira la catena, spezzandola con un gesto deciso ma accertandosi di non fare del male al ragazzo, a cui sfugge comunque un gemito per la sorpresa.
Enji lancia via la collana, che finisce per perdersi in un punto imprecisato della stanza. L’istante successivo si china nuovamente sulle labbra del ragazzo. «Fanculo Ryou e tutte le sue stronzate», decreta, mentre riprende a baciarlo con trasporto.
Keigo chiude gli occhi, ammaliato e totalmente devoto, mentre le mani di Enji corrono ad afferrare i suoi fianchi.


Quella notte era scoppiato un temporale tremendo.
I minuti successivi al momento in cui le pallottole lo avevano raggiunto in pieno petto a Enji erano parsi scorrere in maniera diversa, più densa.
Avevano ragione i suoi colleghi. Non sarebbe dovuto andare lì da solo. Avrebbe dovuto aspettare dei rinfurzi, ma dannazione, la pista del suo informatore era troppo allettante per non abboccare. Stava dietro al traffico di quegli stupefacenti da mesi, ora che forse gli era capitata finalmente l’occasione giusta per mettere fine al commercio di quella roba che, in alcuni casi, aveva causato anche la morte di diversi ragazzi molto giovani, non poteva di certo restarsene con le mani in mano.
Solo che non aveva minimamente calcolato che potessero essere in due.
Oltre a lui, il presunto complice aveva sparato anche a quell’uomo che Enji aveva inseguito fin sul tetto sotto la pioggia battente. Enji aveva visto il suo fantasma separarsi dal corpo e dirigersi verso la luce intensa che, da qualche minuto a quella parte, aveva iniziato a brillare non troppo distante da loro. L’uomo l’aveva attraversata senza esitazione.
Enji era stato a un passo dal fare altrettanto, dopotutto c’era qualcosa, in quella luce, da cui non riusciva a fare a meno di sentirsi attirato. Nel momento in cui era stato sul punto di varcare la soglia, però, aveva avuto la prima visione, quella in cui aveva visto qualcuno sparare a Rei.
Ed era rimasto.
Mentre si era imposto di restare aveva avvertito un dolore lancinante, più immane di qualsiasi ferita si fosse mai procurato quando era ancora in vita. Poi, con la stessa rapidità con cui era apparsa, ogni cosa era svanita, lasciando nuovamente il tetto di quell’edificio in balìa della pioggia e delle tenebre.
Quando alcuni suoi colleghi, tra cui Aizawa, erano giunti sul tetto per accertarsi della sua morte e di quella dello spacciatore, Enji si era accorto con orrore che non riuscivano a vederlo. Per di più, il suo assassino se l’era già data a gambe, senza neppure che Enji fosse riuscito a vederlo in volto, e dai primi rilievi la polizia aveva ipotizzato che lui e lo spacciatore si fossero ammazzati a vicenda, dei colpi esplosi con imprudenza e una faccenda finita in tragedia.
Enji avrebbe voluto gridare di rabbia e frustrazione. No, cazzo, c’era una terza persona che l’aveva seguito fin lì, possibile che nessuno se ne fosse accorto?!
Era stato allora che aveva cominciato a vagare senza meta per la città.
Keigo aveva fatto di nuovo tardi in piscina. Quella, per lui, era la normalità.
Sul suo telefono c’erano diverse chiamate perse di Kaina, oltre ad alcuni messaggi dei suoi amici, ma si era convinto a controllare tutto solo una volta arrivato a casa.
Il custode aveva preso l’abitudine di lasciargli le chiavi, perché ormai lo conosceva da anni e aveva capito di potersi fidare di lui. A Keigo piaceva rimanere lì oltre l’orario di chiusura: si tuffava, s’immergeva sotto la superficie dell’acqua e restava lì, cullato nel silenzio di quel luogo che gli sembrava essere l’unico in cui riuscisse a pensare.
Quella sera, però, si sarebbe voluto maledire volentieri, perché – merda – mentre se ne stava perso nei suoi pensieri sott’acqua sulla città si era abbattuto un acquazzone decisamente intenso.
Come se non bastasse, casa di Kaina era dalla parte opposta rispetto alla piscina e lui era in bicicletta.
Ottimo.
Keigo non aveva visto molte altre soluzioni, così s’era messo a pedalare sotto il diluvio, sperando di metterci il meno possibile.
Le strade erano pressoché – prevedibilmente – deserte, e questo l’aveva rincuorato, dandogli la speranza di fare ancor più in fretta.
Poi, però, si era ritrovato con la strada sbarrata di colpo.
Un tipo era uscito da quello che gli era parso essere un vicolo cieco. Per evitarlo, Keigo aveva sterzato tutto di lato, finendo però così per cadere a terra, sull’asfalto bagnato.
«Ma che cazzo fai?!», gli aveva urlato contro, furioso.
Enji si era fermato sul posto, incredulo. Possibile che avesse trovato finalmente qualcuno in grado di vederlo? E che fosse davvero quel ragazzino?
«Tu… mi vedi», aveva mormorato, ancora incerto.
Keigo si era rimesso in piedi a fatica, fissando quel tipo quasi con disgusto. «Tu sei pazzo», aveva decretato, scuotendo la testa, prima di rimettersi in sella alla sua bici e schizzare in fretta e furia via da lì.
Enji avrebbe voluto fermarlo, invece era rimasto lì, immobile sotto una pioggia che non poteva più toccarlo, mentre l’aria veniva squarciata da un nuovo tuono.

Il ragazzino si chiamava Takami Keigo. Enji l’aveva imparato piuttosto in fretta.
Il giorno successivo l’aveva ritrovato. Era entrato nel suo liceo, per poi apparirgli in classe.
Keigo l’aveva visto, di fronte alla lavagna, e il suo volto era diventato bianco come un lenzuolo quando si era accorto che no, nessuno degli sguardi dei suoi compagni si posava su quell’estraneo.
La professoressa l’aveva chiamato per interrogarlo. Keigo si era alzato a fatica dal suo banco, pallido e tremante.
Aveva visto la figura dello sconosciuto avvicinarsi a lui, e ancora una volta nessuno dei suoi compagni di classe aveva fatto una piega – ragazzi, se questo è uno scherzo l’avete architettato proprio bene, avrebbe voluto dire loro.
«Hai capito, adesso? Loro non possono vedermi», aveva mormorato lo strano tizio della notte precedente.
Keigo aveva perso i sensi. Quando era rinvenuto, l’aveva fatto solo qualche minuto dopo.
L’avevano fatto sedere su una sedia in corridoio, dietro alla scrivania del bidello, e gli avevano lasciato un tè caldo nel bicchiere di plastica del distributore automatico. Il tipo strano era ancora lì, che lo fissava intensamente.
Keigo aveva scosso debolmente il capo, per poi allungarsi verso il tavolo e recuperare il tè. Non aveva però fatto in tempo a bere nemmeno un sorso, prima di finire per strozzarsi.
Sul tavolo c’era il giornale di quella mattina. E, in prima pagina, era riportato l’articolo in cui si parlava della morte in una sparatoria, la notte precedente, di in un ispettore della polizia.
Quello nella foto era lo stesso uomo che aveva cominciato a seguirlo, a partire da qualche ora prima.
«Che vuol dire?», gli aveva domandato, mentre nell’aria riecheggiava il suono della campanella.
«Non lo so», aveva ammesso Enji – quello il nome dell’uomo, ora Keigo lo sapeva. «Ma tu sei l’unico che riesce a vedermi. E io ho bisogno del tuo aiuto.»
E Keigo, alla fine, l’aveva aiutato davvero. Insieme avevano investigato fino a scoprire chi fosse il suo assassino – un suo ex collega corrotto –, lo stesso che aveva sparato a Rei, una volta che la donna, anche lei impegnata in un’indagine parallela per capire chi avesse ammazzato suo marito, era giunta a quello stesso nome.
Fortunatamente, Rei se l’era cavata senza conseguenze troppo gravi. In quel momento, Enji aveva creduto che il suo tempo sulla terra si fosse concluso. Aveva visto di nuovo quella luce, così calda, così attraente, ed era stato di nuovo a un passo dall’attraversarla, quando aveva avuto una nuova visione.
Questa volta, ad apparirgli in pericolo era stato suo figlio Shouto. Così era rimasto di nuovo.
Keigo, nel frattempo, era tornato alla sua monotona e noiosa vita. Nel corso delle indagini ne erano successe di tutti i colori: aveva stretto quello strano legame con Touya e, direttamente dal passato, Tomie era tornata a far parte della sua vita.
La verità, però, era che nel tempo che aveva trascorso accanto a Enji, Keigo s’era sentito vivo come mai prima di allora. E, adesso che se n’era andato, gli sembrava tutto così incredibilmente piatto.
Quel pomeriggio era disteso sul letto di camera sua, senza avere niente da fare. L’estate si stava avvicinando, e quel giorno faceva un caldo assurdo. Kaina era al lavoro, Tomie all’Owl e Touya gli aveva detto di avere un impegno, così lui era rimasto a casa da solo. Si stava annoiando terribilmente, ma non gli veniva in mente nessun modo in cui risolvere la situazione.
Almeno finché non aveva visto Enji attraversare la soglia della sua stanza.
Keigo si era ritrovato a trasecolare, sobbalzando sul materasso. «Tu che ci fai qui?», aveva domandato, incredulo. «Ero convinto che te ne fossi andato…»
«No. Ho avuto una nuova visione», aveva ammesso Enji, la voce turbata. «C’è qualcuno che vuole fare del male a mio figlio e–»
Keigo l’aveva interrotto, schioccando le dita. «Non dire altro», aveva commentato, alzandosi in fretta dal letto mentre le sue labbra si erano piegate in un sorriso. «Mi cambio un attimo e poi cominciamo a lavorare.»
Era stato come se, di colpo, i colori fossero tornati nel suo mondo che nel frattempo era diventato tutto grigio. Keigo s’era sfilato la t-shirt, e non era riuscito a nascondere un sorriso scaltro quando aveva visto Enji voltarsi dandogli le spalle, con fare pudico.

Insieme, erano riusciti a risolvere anche quella. Shouto era sano e salvo, ed Enji si era sentito col cuore in pace al pensiero di aver tolto ancora una volta dal pericolo la sua famiglia.
Era tornato sul tetto, quello dove aveva perso la vita, e come la prima volta proprio lì gli era apparsa la luce. Adesso si sentiva pronto, non avrebbe dovuto far altro che attraversarla, lasciandosi il mondo dei vivi alle spalle.
Nel frattempo, come la prima volta in cui era salito fin lì, era scoppiato un temporale, ma non ci aveva dato peso. Enji aveva cominciato a incamminarsi verso la luce, tuttavia, quando aveva cercato di muovere il primo passo, il piede non s’era spostato di un millimetro.
Sul volto di Enji era comparsa un’espressione incredula e quasi spaventata. Si era guardato attorno, cercando di capire cosa avesse causato quel suo stato d’immobilità, ma solo quando aveva lanciato un’occhiata alle proprie spalle aveva capito di cosa si fosse trattato.
Sulla cima del palazzo, infatti, era comparso Keigo. Il ragazzo aveva un’espressione concentrata, lo sguardo fisso sulla figura di Enji, ed era stato questo a fargli capire che era stato lui a trattenerlo.
«Keigo, che stai facendo?! Lasciami andare!», aveva gridato nella sua direzione, sgomento.
Keigo, però, era sembrato irremovibile. «No», aveva replicato semplicemente, senza perdere la concentrazione.
L’incredulità, adesso, aveva lasciato il posto alla rabbia. «Cosa…? No! Perché?!», aveva domandato ancora, senza riuscire a darsi una spiegazione.
In quel momento, la luce che aveva visto poco prima era svanita. Se possibile, Enji aveva sentito la furia dentro di sé accrescere ancora di più.
Keigo, invece, gli era sembrato calmo e lucido. Nel momento in cui la luce s’era spenta, aveva stretto tra le mani la tracolla della sua borsa. «Non posso lasciarti andare, Enji… non finché non avrò capito perché siamo legati», aveva spiegato, quasi come se quello fosse un concetto estremamente ovvio.
Enji, invece, non capiva. Il suo tempo nel mondo dei vivi era scaduto da un bel po’, ormai. Perché allora Keigo si ostinava a trattenerlo ancora lì?
«Lasciami andare, Keigo! Lasciami andare!» Enji ricordava di averglielo urlato dietro, senza tuttavia riuscire a smuovere in alcun modo il ragazzo. A quel punto aveva gridato, in preda a una frustrazione opprimente, prima di svanire nel nulla, lasciando Keigo da solo, sotto al diluvio.
Come dopo il loro primo incontro, un tuono aveva squarciato l’aria.


Disteso sul letto, Enji osserva il soffitto.
Accanto a lui, Keigo gli si rannicchia vicino, nascondendo il viso nell’incavo tra il collo e la spalla dell’uomo e strofinando la punta del naso sulla sua pelle.
Enji non può vedere la sua espressione, eppure riesce a immaginarla perfettamente: le palpebre calate in una totale beatitudine, gli occhi dorati che probabilmente scintillano, le labbra piegate in un sorriso.
Keigo si lascia sfuggire un piccolo mugolio. «A che stai pensando?», domanda, il respiro che danza sulla pelle dell’altro.
«Al nostro primo incontro», ammette Enji, ritrovandosi a sua volta a sorridere.«Quella notte sei caduto in maniera rovinosa…»
«Colpa tua.» Keigo soffoca una risata mentre si sistema su un fianco, puntellando un gomito sul materasso e poggiando una guancia sul palmo della mano per osservare Enji negli occhi. «Almeno adesso so perché sono riuscito a vederti fin dal primo minuto. Io e te eravamo destinati a incontrarci, in un modo o nell’altro. Ora ne sono certo…»
Enji non riesce a fare a meno di sorridere intenerito. Posa una mano sulla guancia del ragazzo, attirandolo a sé mentre rapisce le sue labbra in un nuovo bacio. È come se, ora che le ha fatte sue per la prima volta, gli sia diventato impossibile separarsene.
Poco dopo si allontana da lui quel tanto che basta per permettergli di riprendere fiato. «Come ti senti?», gli domanda, sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Stremato.» Keigo si lascia sfuggire un lungo sospiro mentre si distende supino sul letto, coprendosi con fare melodrammatico gli occhi con un braccio, sebbene la luce del mattino che dalla finestra scivola nella camera filtri comunque attraverso le sue ciglia dorate. «In questo momento sento che potrei dormire per una settimana di fila…»
«Beh, non abbiamo tutto questo tempo», ammette Enji. Nel momento in cui si rende conto di quanto le sue parole siano vere, scosta di lato il lenzuolo, sedendosi sul materasso. «Però ancora qualche ora di sonno puoi concedertela. Almeno fino al ritorno di Kaina.»
Le dita di Keigo si serrano attorno al lenzuolo, sollevandolo fino al proprio mento. Al ragazzo non è passato inosservato il modo in cui il tono di Enji si sia fatto di colpo più indulgente, e la cosa gli fa sfuggire un sorriso. «E tu?», domanda, curioso.
«Andrò in commissariato.» Enji si alza finalmente in piedi. «Voglio vedere se sono riusciti ad andare un po’ avanti con le indagini. Chissà, magari hanno qualche informazione che potrebbe essere utile anche a noi…»
«Così?», domanda Keigo, inarcando le sopracciglia. «Per quanto mi piaccia l’idea di averti sempre nudo davanti agli occhi, dubito di essere pronto a condividere questa visione con Ryou, nel malaugurato caso in cui dovessimo imbatterci in lui…»
Enji si volta nella sua direzione, osservandolo in preda al più totale imbarazzo, e Keigo non riesce a trattenere un sorriso malizioso.
L’istante successivo, l’uomo si china a raccogliere i propri vestiti da terra. Mentre lo osserva rivestirsi, Keigo non riesce a non provare un briciolo di malinconia.
Una volta sistemata nuovamente la giacca sulle spalle, Enji torna a voltarsi verso il ragazzo. «Meglio?», commenta, sarcastico.
Keigo si mette a sedere sul letto, le labbra che si piegano in un accenno di sorriso. «Adesso devo farti tornare incorporeo», ammette, inclinando appena il capo di lato. «Prima però possiamo darci un ultimo bacio?»
Enji esita per un momento, incerto. Perché non riesce a dirgli di no? Alla fine, tuttavia, cede ancora una volta, chinandosi verso il ragazzo e posando le labbra sulle sue, mentre gli accarezza una guancia con le dita.
È un bacio lento, eppure così ricco di desiderio – Enji sente il corpo di Keigo tendersi verso di lui quasi con disperazione. Quando, poco dopo, il ragazzo è costretto a separarsi da lui per riprendere fiato, sembra farlo a malincuore.
«Vedi di tornare presto», gli intima Keigo, sebbene quella suoni più come una preghiera.
«Non sentirai la mia mancanza per più tempo del dovuto, promesso», gli assicura Enji, le dita che ancora una volta s’intrecciano tra i suoi capelli dorati.
Keigo sembra finalmente persuaso da quelle parole. Torna a sedersi più composto sul materasso, dopodiché chiude di nuovo gli occhi, come la prima volta. Lentamente Enji sente la propria consistenza tornare a essere quella a cui, da tre anni a questa parte, è ormai abituato.
Keigo riapre gli occhi, ma lo fa solo per pochi istanti. Poco dopo, infatti, le palpebre tornano ad abbassarsi sulle sue iridi dorate, mentre la schiena si distende nuovamente sul materasso.
Enji è quasi sorpreso nel constatare che si sia già addormentato, eppure il petto si alza e s’abbassa seguendo il ritmo dei respiri regolari tipici del sonno. Si ritrova a sorridere incantato, le dita che si avvicinano alla fronte del ragazzo per carezzarla e che, come al solito, non fanno altro che spostare un sottilissimo filo d’aria.
Rincuorato, Enji si dice che è arrivato il momento di andare. Fa a malapena in tempo a voltarsi, tuttavia, prima di essere colpito da una strana vertigine.
L’istante successivo è svanito, lasciando Keigo da solo all’interno della stanza, ancora profondamente addormentato.


Quando il mondo inizia a riformarsi attorno a lui, Enji impiega qualche istante per capire cosa sia successo.
La prima cosa che nota è il fitto mantello di foglie brune a terra. Devono essere cadute da tempo, ma qualcosa le ha rese scivolose, forse la piogga o magari dell’altro.
Capendo di avere lo sguardo puntato verso il basso, Enji prova a sollevare la testa. Avverte quasi subito un capogiro, che lo costringe a portarsi una mano alla tempia mentre cerca di fare ugualmente mente locale.
Quelli che vede attorno a sé sono alberi, dai fusti altissimi e possenti, i cui rami spogli si allungano tetri verso il cielo, come braccia esili che tentano inutilmente di ghermire l’aria.
Deve trovarsi in un bosco. È una consapevolezza piuttosto ovvia, ma è comunque felice di esserci arrivato.
Provando a spostare lo sguardo davanti a sé, nota che, poco distante dal punto in cui si trova, c’è un lago di vaste dimensioni.
Infine lo vede.
La figura di un uomo di spalle si staglia a pochi passi da lui. Indossa un lungo ed elegante soprabito nero e tiene le mani in tasca, mentre sulla nuca s’intravedono bene dei capelli corti e candidi come la neve.
«Ci rivediamo, Todoroki Enji», commenta una voce profonda dal tono insolitamente allegro che, per sua sfortuna, Enji conosce fin troppo bene.
«Ryou.» Enji sente un groviglio di emozioni attorcigliarsi nello stomaco, ma una – rabbia – la distingue nitidamente. Osserva il luogo attorno a sé, guardingo. «Che posto è questo?»
A giudicare dalla luce grigiastra che vede nel cielo, probabilmente è ancora mattina. Questo significa che si trovano nello stesso fuso orario? Forse sì, perché sebbene la polizia non stia formalmente indagando su di lui sono comunque arrivati al suo nome, per cui se espratriasse sarebbe sospetto – anche se Ryou non dovrebbe essere a conoscenza di essere tra gli indiziati, giusto?
Nonostante ancora non lo veda in faccia, Enji riesce perfino a sentire il rumore soffuso del sogghigno sveglio che si forma sulle sue labbra. «Questo non è importante», commenta, sminuendo le parole di Enji con un cenno leggero della mano, come se stesse cercando di scacciare una mosca fastidiosa. Avrebbe dovuto prevederlo, dopotutto la persona davanti a lui non era certo uno sprovveduto tale da cadere in un tranello tanto semplice. «Piuttosto, come sta il nostro Keigo? Immagino che sarà molto provato…»
Enji aggrotta le sopracciglia. «Che intendi dire?», domanda, diffidente.
Ryou si volta nella sua direzione, senza trattenere un sogghigno divertito. «Trattenerti qui gli è costato un dispendio di energie considerevole», spiega, come se stesse sciorinando una delle sue lezioni. «Non hai notato la sua stanchezza?»  
Ovvio che l’ha notata. Le occhiaie violacee – che spiccano come lividi sulla pelle pallida – che ha intravisto sul viso di Keigo fin dal loro primo incontro dopo quei tre anni, il perenne bisogno di sonno, il ragazzo che crolla profondamente addormentato salvo poi, al risveglio, non sentirsi affatto riposato. Enji aveva ipotizzato che si trattasse dello stress in seguito alla morte di Tomie, eppure… se Ryou avesse ragione? Se anche la spossatezza di Keigo fosse colpa sua?
Ryou sembra piuttosto compiaciuto del suo silenzio. «Ma come, allora devo supporre che Keigo non te ne abbia parlato?», continua, senza attendere la sua risposta – in fondo la conosce già. «Sai, quando vi ho visto insieme ho sospettato che avesse intenzione di farti tornare tangibile, però mi sono detto che no, non poteva averci pensato sul serio. Dopotutto l’avevo avvertito che, così facendo, avrebbe soltanto accorciato la propria durata vitale, sarebbe davvero sciocco da parte sua...»
A quelle parole, Enji si ritrova a trattenere il fiato. Il rumore che gli sfugge dev’essere piuttosto affilato, perché apparentemente Ryou riesce a sentirlo. In quel momento, infatti, il sorriso sul volto del medium si fa ancora più malevolo.
«L’ha già fatto», deduce, le iridi cremisi che dardeggiano Enji divertite. «E raccontami, com’è scopare con lui? Piacevole come lo ricordo io?»
Enji, stavolta, non ci vede più dalla furia. Poco dopo Ryou si ritrova ad accasciarsi a terra, le dita che artigliano il terreno umido.
«Dimmi, Ryou, sei a conoscenza del fatto che nel cervello umano si trovano degli impulsi elettrici?», commenta, infilando le mani in tasca, mentre stavolta è sulle sue labbra che si forma un sogghigno. «Questa è all’incirca la sensazione che si prova durante un elettroshock, pezzo di merda
Nonostante il dolore, Ryou riesce a malapena a soffocare una risata. «Oh, come siamo permalosi…», commenta, divertito.
Enji si china nella sua direzione, fulminandolo con lo sguardo. «Stai mentendo», soffia, furioso.
«Potrei», ammette, le iridi cremisi che sostenengono senza esitazione quelle turchesi. «Però diciamocelo chiaramente, che motivo avrei di farlo?»
Stavolta Enji non riesce a replicare. Fa cessare le scariche elettriche nel cervello di Ryou, mentre si volta in fretta, lo sguardo perplesso che si perde tra gli alberi allampanati.
Ryou, nel frattempo, si rimette in piedi. Spolvera via la terra dai propri abiti con alcuni gesti decisi ma composti, mentre sposta nuovamente lo sguardo sul fantasma, sogghignando vittorioso. «Direi che non abbiamo altro da dirci», conclude, soddisfatto.
Enji si gira verso di lui, ma il battito di ciglia successivo sta già svanendo.
L’ultima cosa che vede è il ghigno sulle labbra di Ryou.

La realtà torna a essere densa attorno a lui, ed Enji si accorge di trovarsi in mezzo a un fiume di gente.
Gli basta guardarsi attorno – grattacieli che svettano imponenti, pubblicità che scorrono sugli schermi a led, luci violette che tormentano gli occhi dei passanti – per capire che si trova nel bel mezzo dell’incrocio di Shibuya, il bosco e Ryou persi chissà dove.
Se quel bastardo pensa di scamparla così, però, si sbaglia di grosso.
Enji serra la mascella, con tutte le intenzioni di fargliela pagare.


Il getto caldo della doccia investe Tenko. Il ragazzo si friziona ancora una volta la cute, rimuovendo gli ultimi residui di shampoo mentre viene circondato sempre di più da nuvolette di vapore.
Poco dopo chiude l’acqua, aprendo l’anta di vetro della doccia e scivolando lentamente fuori. Si avvolge un asciugamano intorno alla vita, mentre con un altro si tampona i capelli umidi.
Tenko si volta e fa per osservare la propria immagine riflessa nello specchio appannato, invece sulla soglia del bagno trova ad attenderlo Touya, le braccia conserte e la schiena appoggiata allo stipite della porta, sebbene la sua posizione tradisca un certo nervosismo.
Touya solleva una mano, sventolando davanti al volto del suo ragazzo una bustina trasparente, all’interno della quale s’intravedono nitidamente due pastiglie rosse.
«Che cazzo è ‘sta roba?», domanda, veemente.



fantasmajpg



note
buon compleanno, hawks!
quando ho deciso di cominciare a pubblicare il 2 novembre, mantenendo un ritmo costante (come penso sia orma chiaro), mi sono fatta uno schemino mentale per capire quando sarebbe uscito ogni capitolo. nel momento in cui mi sono accorta che il 28 dicembre sarebbe uscito proprio questo, beh, mi sono ritrovata a gioire, inutile negarlo.
ebbene sì, finalmente ce l'abbiamo fatta: questi due hanno capito di amarsi. spero che non dia l'idea di "cosa troppo improvvisa", e anche per questo ho inserito i flashback: volevo far capire che, in realtà, enji e keigo si conoscono da tre anni, e se il secondo s'è innamorato quasi subito, per il primo è stata una cosa più graduale, che ora è diventata più intensa sia perché ha messo da parte i rancori che nutriva nei confronti del ragazzo da quando, quella notte, non gli ha lasciato attraversare la luce, sia per via della visione che lo fa stare in apprensione.
a proposito dei flashback: li abbiamo ufficialmente finiti. di nuovo, spero che non vi abbiano confus
ə troppo ^^
parlando dell'incontro di enji e ryou: era ora che fosse impartita una lezione al nostro villain. ovviamente, però, non siamo che all'inizio.
concludiamo infine con la scena shigadabi: tenetela a mente, potrebbe essere più importante del previsto.
con questo è tutto. spero che la storia vi stia piacendo e ne approfitto per darvi appuntamento al prossimo aggiornamento. see you next year! (duh)
aria

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Capitolo 6
*** il male dove non te l'aspetti ***





Quando Hitoshi rientra a casa, è ancora mattino presto.
Infila le chiavi nella toppa cercando di non fare troppo rumore, per poi far scattare piano la serratura. Spinge il portone in avanti quel poco che basta per infilarsi nell’appartamento, per poi voltarsi in fretta a sigillare nuovamente l’ingresso con la stessa accortezza che ha impiegato per entrare.
Si sente un idiota per tutte le precauzioni che sta prendendo, e forse quella non è nemmeno la definizione giusta. È un po’ come se fosse un ladro in casa propria, ed è tutto così assurdo e ridicolo che gli viene da scuotere la testa per la frustrazione.
Ormai è quasi del tutto sicuro di essersela cavata anche stavolta, così ruota nuovamente su se stesso e fa per attraversare il corridoio e dirigersi in camera da letto – adesso ha proprio bisogno di farsi una lunga e rigenerante dormita, in effetti.
Nel momento in cui sta per tirare un sospiro di sollievo, tuttavia, si ritrova a sobbalzare sul posto. Shouta è in piedi ad aspettarlo, a pochi passi di distanza dalla soglia di casa, le braccia conserte.
«Mi hai fatto prendere un colpo!» Hitoshi vorrebbe urlare, ma sa che probabilmente, vista l’ora, a pochi passi di distanza da loro Eri sta riposando quieta nella sua cameretta. Per questo mantiene la voce bassa, sebbene sia comunque evidente il suo tono sorpreso, mentre posa una mano contro la parete e annaspa riprendendo fiato.
«Buongiorno anche a te.» Shouta lo ignora, lanciando un’occhiata al suo orologio da polso. «Hai passato di nuovo tutta la notte fuori.»
«Già. Ero in giro con degli amici e non mi ero accorto che si fosse fatto così tardi», biascica, stringendosi nelle spalle. «Adesso sono stanchissimo, forse faccio in tempo a dormire ancora per un’ora…»
Hitoshi riesce a malapena a resistere all’impulso di infilarsi il cappuccio della felpa: di solito lo fa sentire più sicuro, ma sa che sarebbe strano, dopotutto sono in casa. Cerca di avviarsi nuovamente lungo il corridoio, sperando che Shouta possa farsi bastare quella spiegazione – anche se, in cuor suo, sa già che non sarà così. Primo perché non può continuare a rifilargli ogni volta la stessa scusa con appena qualche variazione, e secondo perché è un poliziotto e le bugie è abituato a riconoscerle per mestiere.
Non fa in tempo a passargli davanti, infatti, che lo sente afferrarlo per il polso.
«È da quando abbiamo parlato fuori dal commissariato che ti comporti in maniera strana», commenta, e Hitoshi sa che nella sua mente c’è già un quadro abbastanza chiaro della situazione. «Mi è bastato nominare per mezzo secondo Hizashi perché tu diventassi evasivo, scostante. Hai detto che non sapevi dove fosse, ma il tuo comportamento mi fa sospettare tutt’altro. Hitoshi, che mi stai nascondendo? Dimmi la verità!»
Hitoshi si sente nel panico più totale. Prende a dimenarsi dalla presa di Shouta, finché, con uno strattone deciso, riesce a liberarsi.
«Oh, insomma, basta!», sbotta, esausto. Forse ha alzato troppo la voce, ma adesso non riesce a curarsene. «Questa è una cosa che dovete risolvere tra di voi. Vedete di non tirarmi più in mezzo.»
Non appena Hitoshi finisce di pronunciare quelle parole, si affretta finalmente ad attraversare il corridoio, fino a raggiungere la porta della propria camera da letto e serrandola con decisione dietro di sé.
Shouta, invece, resta immobile sul posto, le labbra socchiuse in un’espressione confusa.

È ormai mattina quando Enji riesce finalmente a tornare a casa di Keigo.
Quella testa di cazzo di Ryou gli ha giocato uno dei suoi scherzetti nient’affatto divertenti, facendolo apparire nel bel mezzo della caotica Shibuya, ben distante dalla grigia e desolante periferia dell’appartamento di Kaina.
La verità è che Enji è furioso. Prosegue a passo di marcia attraverso il tunnel coperto che collega il viale esterno al palazzo, anche se non sa bene cosa stia facendo. Vuole parlare con Keigo, ma non ha idea se sia ancora lì.
Per una volta sembra che la sorte sia dalla sua parte. Proprio in quel momento, infatti, vede il ragazzo uscire dal portone d’ingresso. Appena lo vede Keigo sembra illuminarsi, tanto che comincia a raggiungerlo quasi trotterellando. Mentre si avvicina, però, notando l’espressione di Enji il suo sorriso comincia lentamente ad affievolirsi.
«Che succede…?», domanda, con voce insicura, quando ormai si trova a pochi passi da lui.
Enji gli passa accanto senza nemmeno fermarsi, in preda a una rabbia accecante. «Avresti dovuto dirmi che rendermi corporeo ti avrebbe fatto del male», commenta, lapidario, continuando stoicamente a fissare un punto davanti a sé – ovunque, pur di non incontrare i suoi occhi. 
Per un momento Keigo resta fermo sul posto, confuso. «Come fai a sapere…», fa per domandare, le parole che tuttavia gli muoiono in gola mentre un lampo di consapevolezza gli attraversa il volto. «Hai visto Ryou?!»
Enji decide di ignorare come il tono di Keigo sia mutato da incerto a sicuro nel giro di pochi secondi. «Non è questo che conta, adesso», cerca di sminuire, seccato.
«Conta eccome, invece!» Keigo si affretta ad andargli appresso ma, notando che Enji non sembra avere alcuna intenzione di rallentare, alla fine è costretto a pararsi davanti a lui pur di farlo fermare. «Enji, che cazzo! Stiamo parlando del possibile assassino di mia madre!»
Enji sa che ha ragione, ma in quel momento si rifiuta di riconoscerlo. «Vedi di non rigirare la frittata», lo fulmina, rivolgendogli un’occhiata torva. «Quando avevi intenzione di dirmelo? Una volta esaurite tutte le tue energie o direttamente sul letto di morte?»
Keigo serra nervosamente le dita attorno alla tracolla della sua borsa. «Era un rischio ponderato», ammette, e stavolta è il suo sguardo a fuggire lontano da quello di Enji, mentre un sorriso gli fa capolino sul viso. «E comunque per me ne è valsa completamente la pena. Lo rifarei altre mille volte, se proprio vuoi saperlo…»
A quelle parole, l’espressione di Enji si addolcisce un poco. Si china appena verso il basso, i suoi occhi turchesi che finalmente incontrano quelli dorati di Keigo. «Non avresti dovuto farlo comunque», insiste, ma la durezza sembra essere sparita dalla sua voce. «Non ho mai voluto ferirti…»
Keigo sorride con dolcezza, la mano che istintivamente si avvicina al volto di Enji, come se volesse accarezzarlo. «Lo so, ma sapevo quello che stavo facendo, e non c’è mai stato un vero rischio», gli assicura, pacato. L’espressione sul suo volto ora sembra essere di nuovo rilassata. «Ora possiamo parlare del fatto che hai visto Ryou?»
Enji cede, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro. «È stato lui a evocarmi, quando tu avevi appena preso sonno», spiega, rassegnato – in fin dei conti, neppure lui sa cosa sia successo esattamente. «È stato tutto molto veloce. E strano
Mentre riflette, Keigo si porta una mano al mento. «Almeno sei riuscito a notare qualche elemento utile che possa aiutarci a capire dove si trova?», domanda, speranzoso.
Enji ci pensa per qualche istante, sebbene in realtà sia già piuttosto sicuro della risposta. «Credo che fosse in un bosco», ammette, assorto. «Non troppo distante dal punto in cui si trovava mi pare di aver visto un lago.»
Keigo annuisce brevemente. «Probabilmente è tornato in istituto», spiega, sollevando lo sguardo in direzione di Enji. «Ryou aveva una casa, poco distante da lì. Nel bel mezzo del bosco che circonda la zona, a pochi passi dalle sponde del lago. È capitato che mi ospitasse lì, un paio di volte.»
Enji vorrebbe fargli notare che sarebbe strano, da parte di Ryou, svelargli così apertamente dove si trova, soprattutto considerando che probabilmente sa già che la polizia sospetta di lui. Potrebbe perfino fare una battuta sul fatto che Keigo sia stato a casa sua, infastidito da qualcosa che un tempo non sarebbe stato in grado di riconoscere, mentre adesso sa che si tratta di un sentimento ben preciso – gelosia. Sfortunatamente, però, c’è quel pensiero fisso che continua a tormentarlo e che, ancora una volta, offusca tutto il resto.
La visione.
Enji avanza incerto fino alla vetrata che si affaccia sull’esterno. Si appoggia alla sporgenza in cemento, il cortile alle sue spalle. «Ma chi voglio prendere in giro?», domanda, amareggiato. «Come posso prendermela con te quando sono io il primo ad averti nascosto qualcosa?»
Keigo tiene lo sguardo fisso su di lui, e a Enji il peso del suo giudizio sembra la colpa giusta da pagare. «Di che parli?», s’informa, confuso.
«Non ti ho detto tutta la verità», ammette finalmente, e non appena quelle parole scivolano fuori dalle sue labbra sente come se il macigno che per giorni gli ha appesantito la coscienza fosse svanito di colpo. «La notte dell’incidente ho avuto una visione. Ho visto te, gli occhi spalancati per la paura, e poco dopo stavi cadendo nel vuoto. Quando siamo andati nel bosco a cercare l’auto di Ryou, ho avuto di nuovo quella visione, solo che c’era un pezzo in più. Ti ho visto di nuovo precipitare, ma stavolta dalla parte opposta c’ero io.»
Keigo resta per un po’ in silenzio. Enji non ha coraggio di alzare lo sguardo su di lui, certo di essersi attirato addosso di colpo tutto l’odio del ragazzo, così continua a tenere gli occhi bassi, fissi a terra.
Poco dopo però avverte le mani di Keigo avvicinarsi al suo volto, ed Enji si ritrova a sollevare di scatto il capo per la sorpresa. Quando incontra l’espressione del ragazzo, per poco non sussulta alla vista del sorriso dolcissimo che gli sta rivolgendo.
«E me l’hai tenuto nascosto per tutto questo tempo perché temi che sarai tu a farmi del male?», domanda, esterrefatto. «Oh, Enji, tu non potresti mai farmene...»
Enji resta profondamente colpito da quelle parole, i suoi occhi color mare si fanno grandi come tazze da tè. Keigo, invece, si limita a continuare a sorridere, abbassando le palpebre e chinandosi in avanti, la fronte così vicina a quella di Enji che, se l’altro avesse ancora un corpo, probabilmente adesso si sfiorerebbero. Enji si ritrova ad imitare il ragazzo, socchiudendo le palpebre mentre le labbra vengono solcate da un sorriso. È così pacifica, quella vicinanza, che di colpo gli sembra di percepire un calore piacevole intorno a sé, come se fosse immerso in una sensazione di benessere. Se solo potesse, vorrebbe avere la capacità di poter prolungare quel momento così intimo all’infinito nel tempo.
Peccato che il destino abbia all’apparenza altri piani in serbo per loro.
Proprio in quell’istante, infatti, il telefono di Keigo comincia a squillare.
Riaprendo gli occhi, Enji nota l’espressione seccata che attraversa il volto di Keigo mentre recupera il telefono dalla tasca della giacca. Gli basta leggere il nome di chi lo sta chiamando, però, ed ecco che l’irritazione si tramuta in sgomento.
«Non ci credo…», commenta, allibito.
Enji sta per chiedergli cosa sia a turbarlo tanto quando Keigo, con un tocco sullo schermo, accetta la chiamata, bruciandolo sul tempo.
«Si può sapere che cazzo vuoi?», sbotta, seccato. «Certo che hai una gran bella faccia tosta a chiamarmi…»
«Aspetta, Keigo, non riattaccare! È una cosa importante!» Dall’altra parte del telefono, Enji riconosce chiaramente la voce piuttosto in affanno di Touya. «Forse ho scoperto qualcosa che ha a che fare con l’incidente di tua madre!»

Quando apre la porta dell’appartamento, Touya sembra quasi fare capolino da dietro di essa.
Keigo ha trascorso i secondi successivi al momento in cui ha suonato il campanello immobile sul pianerottolo, le braccia conserte. Ora che l’altro ragazzo è comparso davanti a lui Enji nota che l’espressione con cui Keigo lo sta fissando è dura, inflessibile.
È innegabile che tra i due ormai i rapporti siano sempre più complicati, in particolare dopo l’ultima volta che si sono visti, e forse sono destinati a non trovare mai una soluzione.
Touya pare sul punto di tirare un sospiro di sollievo. «Speravo che alla fine saresti venuto…», ammette, restando saldamente aggrappato alla porta.
Keigo, almeno in apparenza, sembra non aver dato alcuna importanza alle parole del ragazzo. «Lui dov’è?», taglia corto, imperturbabile.
Il sorriso che si era affacciato sul volto di Touya svanisce con la stessa repentinità con cui era apparso. Già, lui. Enji riconosce che, se Keigo alla fine ha accettato di recarsi lì, l’ha fatto solo perché ha avuto la certezza che non sarebbero stati da soli.
Touya si lascia sfuggire un leggero sospiro. «In sala», commenta, rassegnato, indicando col pollice la direzione da prendere all’interno della casa.
Senza ulteriori indugi, Keigo scivola dentro l’appartamento, passando accanto a Touya senza rallentare e non degnandolo nemmeno di uno sguardo, gli occhi puntati sul corridoio dritto davanti a sé. Enji si limita a seguirlo, lanciando giusto un’occhiata fugace alle proprie spalle mentre prosegue e l’unica cosa che riesce a scorgere è la figura di Touya, voltato di spalle, che chiude mestamente la porta.
Keigo svolta quasi subito in una stanza che trova alla propria sinistra, la prima che incontra lungo il corridoio. La cosa che nota subito è che là dentro l’illuminazione è decisamente scarsa: le persiane sono chiuse, e a rischiarare appena l’ambiente c’è solo una lampada, poggiata su un tavolino vicino all’ingresso. Il risultato è che le pareti bianche sembrano di un colore indefinibile tra il crema e il marrone, in un gioco di luci e ombre a modo suo affascinante.
Keigo individua pressoché subito Tenko. È seduto con le gambe incrociate su un divano verde bottiglia dall’aspetto piuttosto distrutto. Il fidanzato di Touya è esattamente come se lo ricordava: capelli arruffati, aria allampanata. Quando lo sente entrare nella stanza, Tenko si volta nella sua direzione rivolgendogli uno sguardo quasi interrogativo – anche se, probabilmente, Touya deve averlo avvertito del suo arrivo. Keigo lo osserva con una certa compassione: c’è qualcosa, in quel ragazzo, che lo fa sembrare quasi una creatura indifesa, dallo sguardo smarrito al maglione, dello stesso colore brillante dei fili d’erba, in cui sembra quasi nuotare per quanto sia largo per lui.
«Ciao», azzarda Keigo, il tono che resta piuttosto neutrale.
«Ciao…», risponde Tenko, con quel suo modo di parlare piatto e quasi apatico.
Enji osserva Keigo per qualche istante. Chissà se sta valutando di raccontare a quel ragazzo che il suo fidanzato ha cercato di baciarlo, nemmeno due giorni fa.
Parlando di Touya, proprio in quel momento compare sulla soglia della stanza, lo sguardo che saetta svelto tra Keigo e Tenko. «Prego, accomodati», lo esorta, ignaro.
Stavolta Keigo lo asseconda, prendendo posto su una delle sedie di fronte al divano, rimasta leggermente scostata rispetto al tavolo poco distante. Enji si accomoda a sua volta su una sedia, mentre Touya si affretta a sistemarsi accanto a Tenko sul divano.
«Allora.» Keigo giunge le mani in grembo, e da come le stringe tra loro Enji nota che è piuttosto agitato. «Di cosa volevi parlarmi?»
Tenko si agita un po’ sul posto, come se fosse turbato al pensiero di intavolare quella discussione. «Ecco…», prova a esordire, ma il suo sguardo continua a saltare nervosamente da una delle mattonelle color cioccolato del pavimento all’altra. Sembra calmarsi un poco solo quando Touya gli posa una mano sulla spalla e la accarezza con dolcezza – i due si scambiano un’occhiata e si rivolgono un sorriso. A quel punto Tenko torna a voltarsi in direzione di Keigo. «Dopo che ci siamo incontrati al funerale ho fatto un po’ di ricerche sul tuo conto. Touya mi ha detto che per un po’ siete stati insieme e volevo capire se mi potessi fidare di te. Senza offesa.»
Keigo gli rivolge un cenno noncurante con la mano. Tenko interpreta la cosa come una conferma, da parte del ragazzo, di non essere rimasto affatto infastidito da quella rivelazione, così rincuorato va avanti.
«Touya mi aveva detto anche che avevi frequentato per anni un centro per gente… strana», spiega, torturandosi le mani e osservandole intensamente mentre parla. «Così sono andato lì per cercare di scoprire qualcosa. Solo che, mentre ero in quel posto, è successa una cosa che non mi aspettavo…»
Mentre Tenko parla, Touya recupera qualcosa dal tavolino accanto a loro. Nella penombra Keigo non riesce a capire bene che cosa sia ma, per quel che riesce a intravedere, gli sembra che si tratti di una bustina trasparente.
Tenko si lascia sfuggire un sospiro tremolante. «C’era un tizio che vendeva questa roba… e non lo so perché, ma ho pensato che prenderla fosse la cosa giusta da fare», ammette, prendendo coraggio e sollevando lo sguardo in direzione di Keigo.
Touya passa la bustina a Keigo e, ora che ce l’ha in mano, riesce a distinguere meglio ciò che contiene: è una pastiglia. La superficie è liscia e traslucida, e sembra possedere un’intenso colore rossastro.
Keigo riesce a immaginare cosa possa aver spinto Tenko ad appropriarsene – più che altro il desiderio di dimostrare a Touya che il tuo ex è solo un drogato –, ma non ha ancora capito cosa abbia a che fare tutta quella storia con la morte di Tomie.
Keigo si volta in direzione di Touya, rivolgendogli uno sguardo di biasimo. «Mi stai chiedendo se mi drogo?», domanda, caustico.
Touya non batte ciglio. «Non lo penserei mai», replica, impassibile.
Enji, invece, inizia a capire perché Touya abbia pensato che fosse giusto metterlo a conoscenza di quell’informazione. Osservando meglio la pasticca, infatti, non può fare a meno di trasalire sul posto. «Keigo, guardala bene», gli suggerisce, in un sussurro.
Keigo si avvicina di malavoglia la bustina ancora una volta al viso, cercando di carpire qualche dettaglio che, apparentemente, dev’essergli sfuggito a una prima occhiata. Quando, d’improvviso, la soluzione si fa chiara nella sua mente, si ritrova a strabuzzare gli occhi.
«La crimson?!», domanda incredulo, voltandosi in direzione di Enji.
Già, la crimson. Se Enji si ferma a pensarci, probabilmente è cominciato tutto da lì. Tre anni prima, la crimson era una nuova droga sintetica appena sbarcata nel mondo dello spaccio. Si era diffusa rapidamente soprattutto tra i giovani benestanti della città, poiché era nelle discoteche più lussuose che circolava con maggiore facilità. Come buona parte delle sostanze psicoattive, tuttavia, se assunta in dosi massicce provocava gravi e dannosi effetti collaterali. Enji aveva cominciato a indagare su quel traffico di stupefacenti dopo le morti sospette di alcuni giovani. Era stato l’ultimo caso su cui aveva indagato, quello per cui l’avevano ammazzato e per cui aveva rischiato di essere uccisa anche Rei.
«Ma com’è possibile?», gli chiede ancora Keigo, confuso. «Credevo che la produzione si fosse interrotta in seguito all’arresto dei responsabili…»
Enji scuote la testa, assorto. Lo credeva anche lui, dannazione, ma se adesso quella pasticca è arrivata nelle loro mani vuol dire che, evidentemente, non è così che sono andate le cose. «Deve esserci sfuggito qualcuno», deduce, mentre trattiene a stento un ringhio di rabbia tra i denti. «Probabilmente avevano ancora della merce da parte e hanno aspettato che si calmassero le acque per farla tornare a circolare.»
Keigo fa ondeggiare la bustina davanti a sé, osservandola accigliato. «È diversa, però», nota, sorpreso. «Vedi? È come se all’interno ci fosse disegnata una… lucertola?»
Enji si china leggermente verso il ragazzo, le braccia conserte ben strette al petto. «Devono averla raffinata», ipotizza, con ancor più indignazione.
Keigo annuisce brevemente, per poi lanciare uno sguardo distratto in direzione del divano. Si accorge solo in quel momento che Tenko lo sta osservando con un’aria quasi impaurita.
Touya, invece, sembra piuttosto irritato. «Lui è qui, non è vero?», domanda, astioso.
Keigo lo ignora, focalizzando invece tutta la sua attenzione su Tenko. Agita la bustina nella sua direzione, tenendola ben salda tra le dita. «Chi te l’ha venduta?», chiede, concentrato.
Tenko stringe nelle spalle. «Non ho idea di chi fosse, ma ho sentito alcuni ragazzi chiamarlo Iguchi», spiega, laconico.
Enji osserva Keigo, che sembra perso in chissà quale ragionamento. «Lo conosci?», s’informa, chinando leggermente il capo di lato.
«Di sfuggita», ammette, ancora distratto. «Non ci ho mai parlato molto, ma ho presente chi sia.»
A Enji sfugge un cenno d’assenso mentre si porta una mano alle labbra, pensieroso. «Chiedigli se il tipo gli ha lasciato un recapito», decreta, risoluto.
Keigo sposta il capo verso Tenko. «Ce l’hai il suo numero?», ripete, cercando di non suonare troppo brusco.
Tenko annuisce con fare assente. Poco dopo recupera il telefono dalla tasca dei pantaloni e, dopo averlo sbloccato, lo passa all’altro ragazzo.
Keigo tiene lo smartphone dalla superficie candida con accortezza tra le mani, quasi come se temesse di vederlo cadere da un momento all’altro. Si alza in piedi in fretta, appoggiandosi appena al tavolo alle sue spalle mentre apre la chat – in cui non compare ancora nessun messaggio – col contatto nella rubrica di Tenko salvato come Iguchi.
«Okay, che scrivo?», domanda Keigo, e a Enji sembra di avvertire una punta di panico nella sua voce.
«Cosa vuoi scrivere?», replica Enji di rimando, come se per lui quella domanda fosse assolutamente superflua.
Keigo si lascia sfuggire un piccolo sbuffo. «Beh, scusa, sai com’è, non è che passo le mie giornate a chiedere droga alla gente…», commenta, in tono concitato.
«Okay, okay, ho capito.» Enji fa capolino da sopra la spalla del ragazzo. «Prova con: “Nel pacchetto dell’altra sera c’era davvero un bel regalo! Pensi che se ne possano trovare degli altri?”. È la cosa più basica del mondo, ma dovrebbe funzionare lo stesso.»
Le dita di Keigo battono in fretta sulla tastiera e, poco dopo, il messaggio è pronto per essere spedito. Non passano che pochi secondi dall’invio quando, prontamente, arriva la risposta.
«Che dice?», lo incalza Touya, che nel frattempo si è alzato a sua volta in piedi per la tensione.
«“Dei nuovi articoli dovrebbero arrivare questa settimana”.» Keigo legge ad alta voce, accigliato.
«Significa che a breve andrà a rifornirsi», spiega Enji, risoluto. «Bene, ora non ci resta che trovarlo e seguirlo finché non ci porterà da chi produce la roba.»

Al momento di andare, Touya accompagna nuovamente Keigo alla porta.
Enji nota che Keigo sta già per avviarsi verso le scale, se non che è costretto a fermarsi quando vede l’altro ragazzo accostare appena la porta, come a voler tenere nascosto quel discorso a chi si trova all’interno dell’appartamento.
Lo sguardo di Touya è fermo, deciso. «Lasciami venire con te», afferma – e quella sembra tutto fuorché una proposta.
Keigo lo osserva con aria di scherno, come se non avesse preso sul serio le sue parole nemmeno per un secondo. «Non se ne parla», ribatte, categorico.
«Keigo, ti prego! Questa storia sembra parecchio pericolosa!», insiste, con cocciutaggine. «Ti conosco, lo so che finirai per metterti nei guai…»
A Keigo sfugge un verso beffardo, le labbra che si piegano in un sorriso amaro mentre alza gli occhi al cielo. Non dura molto: poco dopo infatti torna a osservare Touya con aria torva.
«Quando partite?», lo interrompe, sprezzante.
Per un momento Touya resta spiazzato, preso in contropiede. «Dopodomani», confessa poi, afferrando in fretta quelle parole inespresse rimaste sospese a mezz’aria – lui, Tenko, la borsa di studio e il trasloco in Europa –, la sua espressione che si fa quasi triste. «Keigo, per favore…»
Per tutta risposta, Keigo si stringe nelle spalle. «Beh, buon viaggio allora», conclude, evasivo.
Poco dopo si è già avviato in fretta giù per le scale, con Enji che come al solito non può far altro che seguirlo. Si volta indietro solo una volta, intercettando l’espressione affranta sul volto di Touya, per poi raggiungere il ragazzo qualche rampa più in basso.

Se Keigo dovesse trovare un pregio in Shuichi Iguchi, probabilmente sarebbe la discrezione.
Seguirlo non è esattamente la cosa più facile del mondo. Sapendo che aveva un ordine da ritirare, la conclusione più credibile era che si sarebbe dovuto recare a Tokyo per incontrarsi con il suo fornitore, così lui ed Enji si sono appostati nello snodo nevralgico della stazione di Shinjuku, in un’area in cui confluiscono anche gli autobus che arrivano da altre città.
Fortunatamente, l’intuizione si è rivelata essere giusta. Iguchi è sceso dal pullman al capolinea, il cappuccio grigio della felpa calato sulla testa per cercare di restare quanto più anonimo possibile nel mezzo della folla, dopodiché si è infilato in un vagone della metropolitana.
Il tragitto, a dir la verità, è stato piuttosto breve. Poco dopo, infatti, Iguchi è riemerso in superficie, tuffandosi in un mare di folla e di grattacieli.
Di tanto in tanto, Iguchi continua a voltarsi, come a volersi guardare le spalle. Keigo non ha idea se abbia l’impressione di essere seguito o la sua sia solo una paranoia, di certo però non si può dire che non sia un tipo scrupoloso.
Alla fine, Keigo si accorge che si stanno allontanando dalle vie principali e più caotiche, e stanno imboccando invece una zona dall’aspetto residenziale. Villette a schiera di un bianco accecante, dalla facciata elegante per mescolarsi nello stile raffinato di Ginza, si susseguono senza sosta l’una dietro l’altra.
«Posto insospettabile, non c’è che dire», valuta Enji, lo sguardo attento fisso davanti a sé.
Keigo non può che essere d’accordo con lui. Quello non è esattamente il primo posto che gli verrebbe in mente se dovesse pensare a un traffico di stupefacenti, ma in fin dei conti ha ormai capito, grazie alle sue esperienze sul campo con Enji, che dietro certe apparenze spesso si cela tutt’altro.
Keigo conficca più a fondo le unghie nella corteccia sotto le sue dita. È una fortuna che il viale in cui si trovano sia alberato, così hanno trovato facilmente un nascondiglio da cui osservare la scena senza essere visti. Iguchi si è fermato davanti a una delle case, è salito su per i gradini d’ingresso e infine ha suonato il campanello, rimanendo in attesa che qualcuno venisse ad aprirgli la porta. Al momento è ancora fermo sotto al portico di legno all’entrata dell’abitazione, le braccia dietro la schiena e lo sguardo puntato a terra.
Keigo socchiude le palpebre, riducendo gli occhi a due fessure per cercare di vedere meglio. «Ecco», bisbiglia di colpo. «Sta succedendo qualcosa.»
Ha ragione, Enji lo vede. La porta si apre appena con un piccolo scatto, dopodiché un braccio esile e pallido si allunga dall’interno della casa. Una mano fa cadere in quella di Iguchi un pacchetto, lui rivolge un cenno d’assenso a chiunque si sia ritrovato di fronte e un secondo dopo se ne sta già scendendo di nuovo giù per le scale.
Keigo vede Iguchi imboccare la direzione opposta rispetto a quella in cui si trovano lui ed Enji – ipotizzando che, probabilmente, tornerà verso la metropolitana. «E adesso?», domanda, perplesso.
«Ci basterà avvicinarci alla casa», spiega Enji, risoluto. «Arriviamo al campanello, leggiamo il nome che c’è sopra e sapremo finalmente chi è la persona che stiamo cercando.»
Keigo annuisce. Il piano gli sembra semplice e senza rischi, il che è un bene. Sta quasi per uscire allo scoperto dal suo nascondiglio, quando d’improvviso si rende conto di una cosa che, fino a quel momento, gli era sfuggita.
Dopo che Iguchi se n’è andato, la porta non si è mai richiusa.
Una figura minuta compare sul portico. È una ragazza, a osservarla Enji non gli darebbe più di vent’anni. Ha i capelli biondi raccolti in due chignon ai lati del capo, e un paio di occhiaie violacee che spiccano sulla pelle pallida. Si guarda un po’ attorno, gli occhi dorati che saettano da una parte all’altra del viale mentre si stringe le braccia attorno al corpo, come se sentisse freddo nonostante il cardigan beige di lana – troppo grande per lei, sembra quasi affondarci dentro – che indossa. C’è qualcosa, in quella ragazza e nell’aria stanca sul suo volto, che suggerisce a Enji di averla già vista, solo che non saprebbe dire né quando né dove.
A quanto pare, però, non è nuova neppure a Keigo. Il ragazzo sobbalza sul posto, impallidendo di colpo, per poi voltarsi di scatto.
Quel mutamento repentino, ovviamente, non passa inosservato a Enji. «Keigo, che…?», fa per domandare, confuso.
«È Himiko!», spiega lui, in un sussurro – Enji lo osserva, immobile sul posto, e gli sembra quasi che stia trattenendo il respiro. «Frequenta l’istituto anche lei.»
In quel momento un ricordo balza alla memoria di Enji. Ecco chi è quella ragazza. L’ha vista la notte in cui Tomie è morta, quando insieme a Kaina ha accompagnato Keigo sul luogo dell’incidente.
Ciononostante, Enji continua a essere perplesso. «E che diavolo ci fa una come lei in un posto del genere?», s’informa, diffidente.
Keigo si ritrova a deglutire a vuoto, non avendo nemmeno uno straccio d’idea su come tirarsi fuori da quella situazione senza essere visto dalla ragazza. «I suoi genitori sono piuttosto benestanti», ammette, lanciando un’occhiata circospetta alle sue spalle. «Me l’ha confidato il primo anno, quando eravamo compagni di stanza. Loro non credono nel suo dono e hanno sempre avuto paura che potesse in qualche modo procurare vergogna alla loro famiglia, così l’hanno iscritta all’istituto, sperando che, tenendola lontana da Tokyo, avrebbero evitato di incappare in episodi spiacevoli.»
Sebbene ritenga piuttosto inopportuno da parte di Keigo dimenticare un dettaglio del genere nel bel mezzo di un’indagine come la loro e non possa che provare repulsione per i genitori di quella ragazza, Enji non riesce a fare a meno di restare colpito da un’altra informazione. «Siete stati compagni di stanza solo per un anno?», domanda, sorpreso. «In che razza di istituto c’è così tanta disponibilità da riuscire a cambiare alloggio–»
«È stato Ryou a farmi assegnare una stanza singola quando abbiamo cominciato a frequentarci», lo interrompe Keigo, intuendo dove voglia andare a parare. «Ora, Enji, per quanto io trovi assolutamente adorabile il tuo essere geloso, penso che al momento sia meglio concentrarsi su come andarcene di qui prima che…»
In quel momento, però, il capo di Himiko ruota in direzione dell’albero che, finora, li ha abilmente celati. Sul volto della ragazza compare un cipiglio corrucciato, come se stesse cercando di afferrare un pensiero particolarmente sfuggente. «Keigo…?», domanda, incerta.
Nel momento in cui è sul punto di allontanarsi di lì più in fretta che può, Keigo è costretto a fermarsi sul posto. Leggendo il suo labiale, Enji nota che si lascia sfuggire un’imprecazione – merda – prima di decidere a voltarsi, mentre un sorriso raggiante torna a dipingersi sul suo volto.
«Himiko! Che sorpresa!», cerca di dissimulare, ostentando una sicurezza che, in quel momento, sa bene di non avere. «Passavo da queste parti per delle commissioni. Così è qui che abiti…»
«Già. O meglio, i miei genitori abitano qui.» La ragazza si stringe nelle spalle. «Comunque, visto che sei qui perché non entri?»
Enji può quasi sentire Keigo maledirsi nella testa per aver deciso di andare fin lì. «Oh, ti ringrazio, ma vedi, è che sono così di fretta…», prova a giustificarsi, le dita che si serrano attorno alla tracolla della borsa.
Himiko si acciglia, all’apparenza sembra che qualcosa continui a non tornarle. «Dai, ti offro giusto un tè», insiste lei, con la sola intenzione di essere cordiale.
Keigo non può rifiutare ancora, lo sa. Così, alla fine, si lascia sfuggire un sospiro, le braccia che lentamente cadono lungo i fianchi mentre comincia ad avviarsi verso la casa della ragazza.
Enji fa per seguirlo ma, proprio in quel momento, gli torna alla mente lo stralcio di una conversazione tra lui e Keigo, avvenuta non molto tempo prima.
Himiko percepisce le presenze, non può vederle come me ma almeno sa se un fantasma si trova nella sua stessa stanza.
Enji si ferma all’istante, mentre Keigo continua ad avanzare. C’è la possibilità che, seguendo il ragazzo direttamente all’interno della casa, finirebbe per metterlo nei guai.
Deve trovare un altro modo per raggiungerlo.

Più Keigo osserva l’interno della casa di Himiko e meno ciò che ha attorno gli ricorda la ragazza.
In fin dei conti, da quel che lei gli ha detto quella è solo la casa dei suoi genitori, e in qualche modo ha senso: le pareti bianche così asettiche, l’ordine maniacale, lo stile di arredamento raffinato.
Himiko è sparita in cucina, assicurandogli che sarebbe tornata in fretta. Poco dopo, infatti, Keigo la vede riapparire, mentre stringe tra le mani un vassoio su cui ha sistemato una caraffa di tè freddo, alcuni bicchieri di vetro e dei tovagliolini di carta. Per provare a mascherare la sensazione di panico che prova al momento, Keigo indirizza un nuovo sorriso gentile in direzione della ragazza, mentre stringe nervosamente la tracolla della borsa.
Himiko lo osserva con aria stralunata. «Beh, che fai lì impalato?», domanda, sorpresa. «Su, accomodati.»
Keigo finisce per seguire un po’ troppo alla lettera le parole di Himiko, il peso del suo corpo che precipita rapido verso il basso fino a quando non si adagia sui cuscini del divano sotto di sé. La schiena, invece, rimane rigida, senza appoggiarsi alla spalliera dietro di sé.
Himiko deve aver notato quel nuovo comportamento strambo, ma se davvero l’ha fatto non sembra darci peso. Scrolla appena le spalle, lasciandosi sfuggire un sospiro e chiudendo gli occhi per un momento, dopodiché si accomoda a sua volta, sedendosi su una poltrona di fronte al divano, per poi afferrare la caraffa e cominciare a versare il tè nei bicchieri.
Del tè freddo non è esattamente la bevanda che Keigo si aspettava di vedersi offrire in pieno inverno, ma visto in che situazione si è andato a cacciare mettersi a sollevare polemiche in merito gli sembra l’ultima delle sue priorità al momento. Ciò che lo preoccupa maggiormente, invece, è dove si sia cacciato Enji: è grato del fatto che non l’abbia seguito, con ogni probabilità dato che si trova in casa di una persona che può percepire i fantasmi entrare di gran carriera dalla porta d’ingresso con uno spirito al seguito non sarebbe stata un’idea poi così geniale, solo che non averlo accanto a sé lo fa sentire pieno di insicurezze. Dove cavolo è finito? Come ne usciamo da qui?
Himiko gli porge il bicchiere col tè, e Keigo si limita ad accettarlo. Sa che deve provare a dire qualcosa, se restasse in silenzio per tutto il tempo sarebbe decisamente sospetto. «Ehm, ecco… che ci fai fuori dall’istituto?», domanda, mordendosi la lingua un secondo dopo che quelle parole gli sono uscite di bocca. Himiko, infatti, gli lancia un’occhiata dubbiosa, come se non capisse dove voglia andare a parare. «Voglio dire… l’ultima volta che ci siamo visti eri ancora lì. Non sapevo che avessi intenzione di allontanarti.»
Stavolta sembra averla persuasa un po’ di più. La ragazza recupera il proprio bicchiere, per poi sistemarsi un po’ più comoda sulla poltrona, eppure a Keigo continua a sembrare a disagio, come se avesse la percezione costante di essere fuoriluogo in quell’ambiente: si siede sul bordo del cuscino, non si appoggia mai allo schienale – come se fosse pronta a schizzare via da lì da un momento all’altro. «Sono tornata a casa un paio di giorni per riposarmi. Le lezioni stavano diventando una vera palla», ammette, dopo un breve silenzio. «Comunque i miei genitori saranno di ritorno tra poco.»
In quel momento, Enji compare nel soggiorno. È passato dal retro della casa – c’è una piccola porta che dà sull’uscio, e non gli è sembrata una cattiva idea. Vede che gli occhi di Keigo si posano all’istante su di lui, e per un attimo è quasi confuso quando vi ravvisa un velo di terrore.
Poco dopo, però, quella paura si fa subito più chiara. Himiko si porta una mano alla tempia, come avvertendo un improvviso capogiro, mentre strizza forte gli occhi, cercando di rimanere presente a se stessa.
Lo sta percependo. Enji lo sa, così com’è consapevole del pallore sul volto di Keigo. Deve cercare di fare in fretta, altrimenti non farà altro che metterlo ancor più nei guai.
Enji attraversa in fretta il soggiorno, per poi cominciare a salire le scale che portano al piano superiore. Spera solo che la sua intuizione sia giusta, e che Keigo riesca a intrattenere Himiko per il tempo necessario.
Quando le sembra che la sensazione di vertigine stia scemando, Himiko prova ad alzare di nuovo la testa, lentamente. Il mondo torna poco alla volta a essere a fuoco, e riaprendo gli occhi trova Keigo ancora lì, seduto sul suo divano, che le sorride incoraggiante.
«Scusa…», farfuglia lei, portandosi il bicchiere alle labbra e bevendo un piccolo sorso di tè. «Tu invece come te la passi? Jin mi ha detto che un giorno ti ha visto a lezione, poi però sei sparito di nuovo…»
Le dita di Keigo si serrano nervosamente intorno al bicchiere. È così tanto in ansia che la pelle, caldissima, finisce per creare un alone che inizia a contrastare la superficie fredda del vetro. «Già», ammette, continuando a sfoggiare quel sorriso imperturbabile che spera lo possa proteggere ancora per un po’. «Ho ancora un po’ di cose da risolvere qui a Tokyo, ma appena le avrò sbrigate tutte tornerò, vedrai.»

È piuttosto facile intuire quale sia la camera di Himiko.
Tra le porte in legno di ciliegio e vetri satinati perfettamente sigillate, infatti, ce n’è una sulla quale è appeso un cartello minaccioso che invita chiunque si avvicini a tenersi lontano da lì. Enji, ovviamente, non si lascia intimorire, così passando attraverso la porta si ritrova all’interno della stanza.
Appena entrati là dentro si ha la percezione di essere in una stanza che non ha niente a che vedere col gusto elegante del resto della casa. Le pareti sono di un color indaco intenso. Sui muri sono appesi poster di band di cui Enji non ha mai sentito parlare, ma a giudicare dall’aspetto dei musicisti potrebbe ipotizzare che facciano musica stile punk.
La camera, in realtà, è un vero e proprio casino. Il letto è in disordine, così come l’armadio e la scrivania. Sembra che là dentro sia passato un tornado, pochi minuti prima.
L’armadio è stato lasciato aperto, e diversi vestiti mancano dalle grucce. A giudicare dalla montagna di abiti disposti alla rinfusa sul materasso, probabilmente Himiko deve averli gettati lì. Sulla scrivania, invece, ci sono fogli pieni di appunti, libri aperti e un pc spento. Sopra la scrivania ci sono delle mensole con altri libri e, sulla stessa parete, Enji nota delle fotografie. Avvicinandosi meglio per poterle osservare, nota che, in alcune di esse, c’è anche Keigo: compare sempre insieme a un altro ragazzo – che Enji è certo di non aver mai visto prima – e, ovviamente, a Himiko. I tre, nelle foto, sono sorridenti e appaiono piuttosto felici.
Per un momento, osservando il sorriso di Keigo, Enji sente la propria espressione addolcirsi: sembra così genuinamente felice con quei ragazzi, così come raramente gli è capitato di vederlo.
È quasi sul punto di dimenticarsi perché si trovi lì, quando un rumore improvviso al piano di sotto finisce per catturare la sua attenzione.

La porta d’ingresso si apre, e Keigo finisce per sobbalzare sul posto.
«Sono a casa!» Una donna, in cui Keigo riconosce gli stessi capelli biondo cenere di Himiko, attraversa l’atrio, portando tra le braccia una busta di carta, dove probabilmente è stata riposta la spesa. Non appena arriva in sala, notando che ci sono degli ospiti, i suoi occhi sembrano illuminarsi.
Keigo prova a rivolgerle un sorriso gentile. «Buongiorno, signora», la saluta, sperando di suonare affabile.
La donna, per tutta risposta, si volta in direzione della figlia, senza perdere quello sguardo pieno di entusiasmo. «Himiko! Non sapevo che avessi invitato qualcuno!», commenta lei, deliziata.
Himiko si agita appena sulla poltrona, a disagio. «Beh, in realtà non l’ho fatto…», prova a difendersi, mentre continua a tenere lo sguardo basso a terra. «Comunque mamma, ti presento Keigo. È un mio compagno d’istituto.»
L’espressione raggiante sul volto della donna sembra smorzarsi all’istante. «Ah», commenta soltanto, le braccia che sorreggono la spesa che s’afflosciano un po’ verso il basso. «Quando hai fatto vieni in cucina a darmi una mano a mettere via la spesa. C’è della roba che va in frigorifero.»
A Keigo, quella, sembra un’occasione perfetta da cogliere al volo per andarsene via di lì. Si china leggermente in avanti, posando il bicchiere sul tavolino di fronte a sé, per poi rimettersi in piedi, cercando di far sembrare quel gesto estremamente naturale. «Oh, non c’è problema», spiega infatti, sforzandosi di apparire tranquillo. «In realtà, come ho detto a Himiko stavo passando di qui per delle commissioni quando sua figlia mi ha incrociato. Ad ogni modo, mia zia abita praticamente dalla parte opposta della città e mi aspetta per pranzo, per cui sarà meglio che mi affretti a riprendere la strada di casa.»
La madre di Himiko si stringe nelle spalle. «È un peccato», valuta, ma non sembra per nulla convinta delle sue parole.
Keigo, ovviamente, non ci dà peso. «È stato un piacere conoscerla. Grazie per l’ospitalità! Signora…», si congeda, continuando a comportarsi in maniera amabile come sempre.
La donna gli rivolge un cenno del capo e un sorriso incerto. Himiko, nel frattempo, si è alzata dalla poltrona, e poco dopo si avvia verso la porta insieme a Keigo.

Dopo aver accompagnato Keigo alla porta, Himiko si lascia sfuggire un piccolo sospiro.
Per un momento, quando Keigo è entrato in casa sua, le è sembrato quasi di poter vivere nell’illusione che quello fosse un posto normale. Ora che lui se n’è andato, invece, non le rimane che la solita angoscia che quel posto le trasmette.
Percorre a ritroso il corridoio tenendo la testa bassa, lo sguardo fisso sul pavimento. Si costringe a sollevare di nuovo il capo solo quando arriva davanti alla soglia della cucina, ma sa già che gli occhi di sua madre sono inchiodati su di lei.
«Che voleva quel tipo?», le domanda, severa.
Istintivamente, Himiko cerca con le dita una ciocca di capelli che è sfuggita dal codino, giocherellandoci nervosamente mentre tenta di sistemarla. «Non lo so», commenta, in tono distaccato. «Non sono nemmeno sicura di volerlo sapere…»
Poco dopo, Himiko inizia a salire le scale che conducono al piano superiore. Quando se ne accorge, sua madre inarca un sopracciglio, perplessa.
«Guarda che ero seria quando ti ho chiesto di darmi una mano!», le urla dietro, appoggiandosi con le mani al bancone della cucina.
Himiko la ignora. Una volta arrivata di sopra si dirige in fretta verso la sua camera, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo sordo una volta arrivata.
Appena la ragazza entra, Enji la vede tirare un profondo sospiro. Chiude gli occhi per un attimo, poi, appena li riapre, scatta in avanti.
Himiko attraversa la stanza, fino a raggiungere la scrivania. Una volta lì ci s’inginocchia davanti, aprendo un cassetto mentre recupera qualcosa dalla tasca. Non può fare a meno di pensare a quanto Iguchi sia un idiota: gli ha detto mille volte di non arrivare fino a casa sua, eppure lui continua a farlo.
Himiko scuote la testa, osservando l’interno del cassetto. Poco dopo ci lascia cadere dentro qualcosa, per poi spingerlo nuovamente indietro.
Prima che il cassetto si richiuda, Enji si sporge leggermente in avanti, riuscendo appena in tempo a identificarne il contenuto: i suoi occhi vi si posano sopra solo per un momento, tuttavia è certo che quelle che ha intravisto sono pasticche di crimson. Enji non riesce a fare a meno di sobbalzare sul posto, incredulo.
Himiko si porta una mano alla tempia, esitante. Le sembra di avvertire di nuovo quella sensazione di vertigine, come poco prima in soggiorno.
Quando si volta, però, l’unica cosa che le sembra di vedere è la tenda della sua finestra che ondeggia leggermente.

Appena esce da casa di Himiko, Keigo si lascia sfuggire un sospiro tremolante.
Ancora non sa come ha fatto a cavarsela senza troppi danni, né chi deve ringraziare per questo. In compenso, ora che la tensione che sentiva addosso si è decisamente allentata, gli sembra di riuscire a respirare di nuovo in modo corretto.
Si mette ad attraversare il viale alberato, facendo la stessa strada che ha seguito all’andata. Mentre cammina, vede Enji riapparire in fondo alla via, così inizia a correre per cercare di raggiungerlo.
«Allora?», gli domanda, nel momento in cui finalmente se lo ritrova davanti. «Trovato qualcosa?»
Enji lo osserva incuriosito, ma se pensa di chiedergli delle spiegazioni non lo dà a vedere. «Sì», ammette, lanciando un’occhiata fugace alla casa da cui è appena uscito. «La tua amica ha letteralmente un cassetto pieno di crimson.»
Per un momento Keigo abbassa lo sguardo a terra, turbato. Possibile che Himiko, una delle persone con cui ha legato di più negli ultimi anni, abbia davvero a che fare con un traffico di stupefacenti? E che tutta quella storia sia collegata all’incidente di sua madre?
Enji torna a posare lo sguardo sul ragazzo, in apprensione. «Tu come stai?», s’informa, rivolgendogli un accenno di sorriso.
Keigo si costringe ad alzare la testa, i suoi occhi dorati che cercano quelli dell’altro. «Bene», risponde, anche se sa che quella non è del tutto la verità. «Adesso che si fa?»
Enji prende come sempre in fretta la situazione in mano. «Anzitutto ce ne andiamo da qui», commenta in tono deciso, mentre si guarda attorno alla ricerca del percorso più breve per tornare alla fermata della metropolitana. «Non so te, ma al momento non vedo l’ora di mettere quanta più strada possibile tra me e questo posto. Poi, una volta che saremo lontani, penso che sia il caso di fare il punto della situazione. Ho come l’impressione che ci siano parecchie cose di cui dobbiamo parlare.»

Enji riesce a rilassarsi solo quando stanno finalmente attraversando il tunnel che conduce al palazzo di Kaina.
Da quando hanno lasciato la casa di Himiko, Keigo non gli ha rivolto parola. Per tutto il tragitto di ritorno si è chiuso in un silenzio ostinato, e ora l’unico rumore che riecheggia nell’aria è l’eco dei loro passi.
Keigo tiene le mani infilate nelle tasche del giaccone. Ha mille pensieri che gli ronzano per la testa, e riordinarli tutti è un’impresa davvero complessa.
«La droga è sempre girata, in istituto.» È la frase con cui, alla fine, Keigo rompe quel silenzio che a Enji sembra essere durato un’eternità, mentre stanno ancora camminando. «Lo sapevano tutti e non fregava a nessuno. Conosco diversa gente che assumeva delle dosi regolarmente, sperando di aumentare le proprie capacità.»
Enji rallenta, osservando sorpreso il ragazzo. Anche Keigo si ferma, mentre ricambia intensamente il suo sguardo.
«Io mi sono sempre tenuto lontano da quella roba. Non ho mai pensato che potesse servirmi in qualche modo, e poi ho visto troppa gente morire per la crimson tre anni fa. Non avrei mai potuto», precisa, in tono grave.
Enji si limita ad annuire. Conosce Keigo abbastanza bene da sapere quanto siano vere quelle parole. Inoltre, non ha mai dubitato di lui.
Keigo alza gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Il problema è che non avrei mai pensato che dietro a tutta questa storia ci fosse Himiko», ammette, un sorriso amaro che gli compare sul volto. «Cazzo, siamo amici da tre anni e non mi sono mai accorto di niente…»
Enji scuote lievemente la testa. «No, il problema è la crimson», replica, indulgente. «Pensavamo che quella merda avesse smesso di girare tre anni fa, invece adesso è di nuovo qui. Però dimmi una cosa, Keigo: tu ce la vedi la tua amica a mandare avanti da sola il traffico di crimson?»
Per come affonda le mani all’interno delle tasche del giaccone, adesso Keigo sembra quasi sul punto di bucarle. «Per quanto sia affidabile il mio giudizio, considerando che non la ritenevo neppure in grado di nascondere della droga in casa…», commenta, amareggiato. «Comunque no, probabilmente la Himiko che conosco io non ne sarebbe stata in grado. Perché? A chi stai pensando?»
La risposta di Enji non tarda ad arrivare. «A Ryou, ovviamente», spiega, col tono di chi sta esprimendo un’ovvietà. «Pensaci: probabilmente c’è sempre stato lui dietro, fin dall’inizio. Dopotutto, siamo sempre stati convinti che ci fosse sfuggito qualcuno della banda. È stato sveglio: ha aspettato che le acque si fossero calmate, dopodiché ha fatto ripartire lo spaccio. Si è servito di Himiko per stabilizzare la formula della crimson, e da lì in poi dev’essere stato tutto in discesa per lui.»
Mentre proseguono con la conversazione, lo sguardo di Keigo si fa sempre più triste. «Però che c’entra tutta questa storia con la morte di mia madre…?», domanda, smarrito.
Enji infila le mani nelle tasche della giacca, scrollando appena le spalle. «Beh, ho un’ipotesi anche per questo», ammette. «Sappiamo che Tomie era in possesso di un faldone che conteneva le prove di tutti gli esperimenti alquanto discutibili di Ryou, e che il giorno dell’incidente era in istituto, stando ai suoi tabulati telefonici. Suppongo che inizialmente volesse solo parlare con Ryou di quello che aveva scoperto, anche se immagino che i toni non fossero affatto pacifici. Poi, però, dev’essere successo qualcosa e non so come ma Tomie ha trovato da qualche parte le scorte di crimson di Ryou. Non dev’essere stato difficile per lei riconoscere che fosse proprio la crimson, considerando che tre anni prima ci aveva già dato una mano nel corso della prima indagine…»
Keigo si ritrova ad annuire. Finalmente gli sembra di star cominciando a capire la direzione di quel discorso. «Mia madre era già intenzionata a denunciare Ryou per via dei suoi esperimenti», commenta, intuitivo. «Dopo aver visto la crimson sarà stata ancor più motivata a farlo.»
«Solo che, semplicemente, Ryou non poteva permetterglielo», riprende Enji, colpito dalla deduzione del ragazzo. «A quel punto deve aver pensato che sbarazzarsi di lei fosse l’unico modo che aveva per passarla liscia. Successivamente ha anche fatto sparire il faldone da casa di Tomie, per essere ancor più sicuro che nessuno sospettasse della sua colpevolezza.»
Keigo resta per un po’ in silenzio, lo sguardo puntato a terra. Se Enji lo conosce bene come crede, sa che in questo momento sta elaborando tutte quelle informazioni.
Quando il ragazzo solleva di nuovo lo sguardo, nei suoi occhi vede una scintilla determinata. «Come procediamo?», s’informa, deciso.
«Dobbiamo mettere a conoscenza la polizia di quello che abbiamo scoperto», decreta Enji, sicuro. «Ho l’impressione che potrebbero essere delle informazioni piuttosto interessanti per loro.»

Il portone del palazzo si apre, e la prima cosa che Touya vede davanti a sé è la macchina ferma accostata accanto al marciapiede.
Il portabagagli è ancora aperto – d’altronde scendendo ha portato con sé le ultime cose, uno zaino che ha in spalla e la valigia con le cose principali per il viaggio –, sebbene sia già stracolmo di borse e quant’altro.
Tenko si è già accomodato sul sedile del passeggero anteriore. Ha lasciato la portiera aperta e i suoi piedi poggiano ancora sull’asfalto, mentre ha un gomito puntellato sul ginocchio e il mento premuto sul palmo della mano. Touya nota che lo sta osservando attentamente, sebbene il suo sguardo sembri quello assente di sempre.
«Allora? Andiamo?», lo incalza, per quanto il suo tono non suoni poi così trepidante – è più un’attesa rassegnata, come quella di chi sa perfettamente cosa succederà da qui in avanti.
Touya si gira per un’ultima volta a osservare il portone del palazzo in cui ha vissuto nel corso di quei tre anni e che ora sta lasciando, alla volta di Praga. Quello stesso portone che aveva varcato anche Keigo, pochi giorni prima, ma da cui era anche uscito senza tornare più.
È come se fosse già passata un’eternità. Vederlo lì, a vagare per quelle stanze che fino a quel momento aveva condiviso solo con Tenko sembra già un ricordo lontano, ormai. E Touya sa che, come il passato, anche quell’attimo non tornerà più indietro.
Alla fine Touya torna a guardare davanti a sé, dove c’è la macchina con i bagagli, mentre si decide a chiudere il portone alle proprie spalle.
Davanti a loro hanno un lungo viaggio da compiere.

«Grazie per essere venuta subito.»
Nell’ufficio c’è un’atmosfera buia, rischiarata solamente dalla luce fioca della lampada da scrivania. Tra le fessure delle stecche di metallo della tenda che copre la finestra si riesce a intravedere il cielo scuro della sera e alcuni lampioni già accesi nella strada sottostante.
«Figurati. Avevo appena staccato dal lavoro, per cui nessun problema.» Kaina si passa una mano tra i capelli rosa e blu, un gomito poggiato sulla scrivania e la testa inclinata di lato per osservare la persona che è con lei nella stanza. «Allora. Di cosa volevi parlarmi?»
Rei sistema alcuni fascicoli che ha con sé, per poi spostare lo sguardo sull’altra donna. «Prima di tutto ci tenevo a farti le condoglianze per Tomie», spiega, in tono delicato. «Mi sono resa conto che, con tutto quello che è successo, non abbiamo avuto modo di parlarne prima.»
Kaina si stringe nelle spalle. «Io e Tomie ci conoscevamo dai tempi del liceo», spiega, la voce che assume una nota stanca, come se tornare indietro coi ricordi a quei tempi le causasse uno sforzo notevole. «Probabilmente sono stata l’unica amica che lei abbia mai avuto. Nel corso degli anni ci siamo allontanate, soprattutto per via dei suoi problemi di salute, ma ho avuto la fortuna di potermi prendere cura di Keigo, visto che Tomie non aveva parenti a cui affidarlo. Gli ultimi tempi si era ripresa, però.»
Rei rivolge a Kaina un sorriso di pura dolcezza. «Ascoltami, ho bisogno di chiederti una cosa», la informa, con accortezza. «Quando abbiamo eseguito i rilievi sulla macchina di Tomie abbiamo rinvenuto sulla carrozzeria una vernice non compatibile né con l’urto né con la sua auto. Ho provato a cercare ma non ho trovato nessuna segnalazione di tamponamenti…»
Kaina scuote la testa, portandosi una mano alla tempia. «Rei, ti fermo subito», la interrompe, cercando di non essere troppo brusca. «Stiamo parlando del parafango posteriore destro, giusto?»
Rei corruga appena la fronte, colta di sorpresa. «Come fai a saperlo?», domanda, incredula.
«Poche settimane fa Tomie era stata tamponata da un tipo davanti a lei mentre era in fila a un semaforo», spiega Kaina, mentre si muove appena sulla sedia. «Io e lei non ci sentivamo molto, nell’ultimo periodo, ma l’avevo chiamata proprio quel giorno e ricordo che lei mi aveva parlato di questa cosa. Non hai trovato denunce solo perché il tipo l’aveva pregata di rinunciare alla constatazione sia perché era di fretta e sia per evitare rincari dell’assicurazione e Tomie, come sempre troppo buona, l’aveva assecondato.»
Rei si lascia sfuggire un sospiro leggero, appoggiandosi di peso allo schienale alle proprie spalle.
Anche quella pista si è rivelata un buco nell’acqua. Adesso deve ricominciare di nuovo da capo, anche se non sa più a quale elemento aggrapparsi.

Le onde si infrangono con forza contro il molo, schizzi di schiuma che vengono sollevati nell’aria mentre il cielo della sera si è già fatto buio.
Il porto è puntellato dalle piccole luci dei lampioni, come costellazioni sulla terraferma. Nel vento c’è l’odore salmastro del mare, e sembra quasi rendere l’atmosfera più elettrica.
A Keigo è sempre piaciuto passeggiare vicino all’oceano – ricorda gli anni di scuola, quando sedersi sulla banchina a osservare le navi attraccare e salpare era quasi il suo rifugio. Adesso c’è un vento freddo che gli pizzica le guance, ma tutto sommato non è poi così fastidioso.
Keigo si stringe un po’ di più nel suo giaccone, cercando di trovare del calore. Enji, nel frattempo, continua a camminargli accanto, osservando attentamente il ragazzo.
Il piano è semplice. Quella sera, al porto, ci sarà un concerto per il quale è prevista una grossa affluenza di pubblico – quasi come se mezza Tokyo si fosse data appuntamento per radunarsi lì. Ovviamente, data la portata dell’evento, è stato previsto anche un ingente dispiegamente delle forze di polizia, con quasi l’intero organico concentrato attorno al molo principale.
Nel pomeriggio, Keigo ha mandato un messaggio a Himiko per invitarla al concerto. Se ogni cosa andrà per il verso giusto, questa notte riusciranno a risolvere quella faccenda una volta per tutte.
«Quando dovete incontrarvi?», s’informa Enji, ansioso.
«Manca ancora mezz’ora. Io e Himiko abbiamo appuntamento sotto al palco.» Keigo infila le mani nelle tasche della giacca. «Rilassati, Enji. Andrà tutto bene.»
Se possibile, Enji finisce per agitarsi ancora di più, lo sguardo che si sposta nervosamente da una parte all’altra del porto. «Non possiamo permetterci errori. Da quello che stiamo per fare dipende la riuscita di tutta l’indagine», commenta, severo. Poco dopo il suo sguardo torna a posarsi sul ragazzo, addolcendosi appena. «Tu come stai?»
Keigo gli rifila un’occhiata stralunata. «In che senso come sto?», domanda, sorpreso.
«Non lo so. Stavo ripensando a quando siamo stati a casa di Touya.» Enji si stringe appena nelle spalle. «Mi eri sembrato un po’ turbato, in quell’occasione.»
Un’onda s’infrange a pochi passi da loro. I due proseguono svelti, in silenzio. Enji può quasi sentire il rumore dei pensieri che sciamano nella mente di Keigo.
Il ragazzo solleva il capo poco dopo, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. «Qualsiasi cosa ci sia stata tra me e Touya in passato, ormai è acqua passata», spiega, remissivo, per poi voltarsi verso Enji e rivolgergli un sorriso malizioso. «E poi ormai nella mia vita c’è qualcun altro, mettiamola così.»
Enji distoglie lo sguardo da quello del ragazzo, mentre un’espressione imbarazzata – irresistibile, a detta di Keigo – gli compare in volto.
Nel frattempo, continuano ad avanzare verso il porto. Mentre proseguono, le luci in lontananza si fanno sempre più vicine.
«Vediamo di non distrarci», bofonchia Enji, cercando di ritrovare in fretta la concentrazione. «Se conosco abbastanza bene Aizawa, in questo momento si sarà rifugiato al pub del porto. Dobbiamo sbrigarci.»
Keigo annuisce, senza aggiungere altro. Poco dopo, i due cercano di affrettare il passo.

Aizawa non ha mai sopportato trascorrere del tempo in mezzo alla folla.
Hizashi è sempre stato quello più portato tra loro per roba del genere. È per questo che, di solito, in occasione di grandi eventi ha sempre cercato di farsi assegnare a una zona in coppia con lui, così che la serata potesse trascorrere più in fretta.
Solo che Hizashi è sparito, gli ricorda una vocina maligna nella sua testa, e deve fare appello a tutte le sue forze per non lasciarsi sfuggire un mugolio di sconforto.
Almeno Rei l’ha raggiunto al porto. Shouta sospetta che un po’ sia lì perché, in fondo, prova pena per lui, o al massimo perché pensa che, restando seduti assieme al tavolino di quel pub, riusciranno a colmare almeno per qualche ora il senso di solitudine dentro di loro – ogni tanto Shouta quasi dimentica che tre anni fa quella donna ha perso suo marito. È che ha affrontato quel lutto con grande dignità, e adesso sembra quasi essere un ricordo distante.
Il fatto è che Rei stona tremendamente con l’ambiente che ha attorno. Lei e la sua candida giacca elegante decisamente non s’abbinano a quel locale, la cui clientela è composta quasi unicamente da marinai che, vagando di porto in porto, si fermano lì per bere qualcosa di fresco durante una breve pausa. La donna se ne sta con le spalle poggiate allo schienale della sedia che occupa, le gambe accavallate e le braccia incrociate al petto mentre lo osserva con un cipiglio dubbioso.
Shouta sa che, in effetti, ciò che le sta offrendo quella sera non è di sicuro la sua versione migliore, eppure si rende conto che forse non resta poi molto altro. L’uomo che amava è scomparso nel nulla da un giorno all’altro, senza dargli alcuna spiegazione, e ormai l’unica consolazione che gli è rimasta è abbandonarsi all’alcol, di tanto in tanto.
Probabilmente Rei deve averlo compreso. La donna si lascia sfuggire un piccolo sospiro rassegnato, mentre Shouta prende un altro sorso di birra dalla sua bottiglia.
«Il termine che il giudice mi aveva assegnato per l’indagine su Tomie è scaduto», spiega, e dal suo tono di voce si percepisce tutta la sua delusione. «Non ho più elementi utili su cui lavorare. Domani andrò da lui per comunicargli che la sua morte è stata solo un incidente, e poi partitò per Kyoto.»
Shouta posa la bottiglia sul tavolo, spostando lo sguardo sulla finestra che dà sul porto. Spera solo che là fuori non accada niente di troppo grave, l’ultima cosa che desidera sono delle rogne pure per quel servizio d’ordine. «Beh, vedila così, Rei», commenta, lo sguardo ancora perso tra le luci del molo lì vicino. «Avevi chiesto il trasferimento perché, dopo tre anni, desideravi cominciare una nuova vita. Adesso, finalmente, potrai farlo.»
«Sì, ma ci sono troppe cose che non tornano…», insiste Rei, testarda. La donna puntella i gomiti sul tavolo, posando il mento sul dorso di una mano, lo sguardo che punta leggermente verso il basso mentre la sua mente continua a riflettere senza sosta.
Aizawa sa che ha ragione. Quelle indagini sono state in salita fin dall’inizio, ma adesso non hanno davvero più nessuna pista da battere. Forse per Rei sarebbe più facile arrendersi, anche se Shouta si rende conto che non può platealmente dirle di farsene una ragione.
«Magari in futuro salterà fuori qualcosa di nuovo», prova allora, cercando una via più diplomatica. «In quel caso, sta’ certa che sarai la prima persona a essere informata, in qualsiasi parte del mondo dovessi trovarti.»
Rei sta per dirgli qualcosa, e Shouta non ha idea se la sua intenzione sia quella di ringraziarlo o se voglia continuare a crucciarsi su quella storia, alla fine però la donna resta in silenzio.
In quel momento la porta del pub si apre. Keigo si guarda attorno con aria un po’ spaesata, mentre Enji individua praticamente subito Rei.
È strano, per lui, vedere Rei e Keigo nello stesso posto e nel medesimo momento. È come se adesso, sotto quel tetto, stessero coesistendo il suo passato e presente.
Rei è la prima a posare lo sguardo su Keigo. È ironico a dirsi, tuttavia mentre osserva il ragazzo sembra quasi che abbia visto un fantasma.
«Keigo…?», domanda, incredula.
Sentendo la voce di Rei, anche Aizawa si volta in direzione del ragazzo. Appena individua la sua figura, la sua espressione muta in qualcosa a metà tra lo stupore e il terrore di dover sentire una nuova storia delirante – e che probabilmente gli causerà dell’altro lavoro.
Keigo non riesce a non sentirsi un po’ in soggezione in tutta quella situazione, tuttavia cerca di farsi coraggio. Stringe la tracolla della borsa tra le dita, dopodiché comincia ad avvicinarsi al tavolo di Rei e Shouta, mentre Enji continua a seguirlo senza mai perderlo di vista.
«Commissario Aizawa», comincia, quando finalmente li raggiunge. «Ho bisogno di parlarle dell’incidente di mia madre. Ho scoperto un elemento che credo varrebbe la pena di analizzare.»
Shouta alza gli occhi al cielo. Perché capitano tutte a me?, vorrebbe chiedere, ma alla fine sta per rassegnarsi e rivolgersi al ragazzo quando Rei lo batte sul tempo.
«Prego, accomodati pure», lo anticipa infatti la donna, invitandolo a prendere posto sulla sedia che gli sta indicando.
Keigo la asseconda, sebbene Rei finisca comunque per notare quanto rimanga rigido su quella seggiola. Lei gli rivolge un sorriso, sperando di rassicurarlo.
Non sa se abbia funzionato, però il ragazzo prova comunque a continuare. «Commissario Aizawa, è a conoscenza del fatto che la crimson è tornata a circolare?», domanda, anche se sembra conoscere già la risposta.
Shouta e Rei si scambiano un’occhiata sorpresa. Di che sta parlando quel ragazzino? «Come fai a esserne certo?», s’informa lui, sporgendosi appena nella sua direzione.
Keigo si stringe nelle spalle. «Toga Himiko è una mia compagna di corsi in istituto», spiega, ora più convinto. «Le pasticche sono in camera sua, nella casa dei genitori a Ginza, in un cassetto del comodino sotto alla scrivania.»
Aizawa inarca un sopracciglio, dubbioso. «E questo chi te l’ha detto? Il tuo solito informatore segreto?», lo canzona, caustico.
Keigo lo ignora – d’altronde Shouta è sempre stato scettico in merito al suo dono. «Beh, mi pare che in passato vi abbia aiutato a risolvere dei casi o sbaglio?», fa notare loro, piccato, per poi voltarsi verso Rei, l’espressione che subito si addolcisce. «Himiko non può essersi fatta carico di tutto questo da sola. Penso che dietro all’intero traffico di stupefacenti ci sia Shigaraki Ryou.»
Gli occhi di Rei si spalancano per un momento per la sorpresa. Poco dopo, il suo sguardo si sposta in quello di Shouta, mentre si osservano con aria d’intesa. «Ryou è una delle persone informate sui fatti che avrei voluto interrogare dopo la morte di Tomie, solo che non è stato possibile visto che sia l’istituto che il luogo dell’incidente non sono nella nostra zona di competenza», ammette, ed Enji riconosce nel suo sguardo quel luccichio entusiasta che vi compare ogni volta che un’intuizione geniale le salta alla mente. «Se davvero è legato alle morti per crimson qui a Tokyo le cose cambiano, abbiamo tutto il diritto di fermarlo e interrogarlo.»
Shouta annuisce, sapendo già quali saranno le prossime mosse. «Chiamo in centrale e chiedo se c’è una pattuglia che può eseguire un controllo a casa di questa ragazza», conclude, con perspicacia.
«Vedo di farti rilasciare subito un mandato», concorda Rei, mentre recupera il cellulare dalla borsa. Sposta lo sguardo sul ragazzo seduto accanto a sé, rivolgendogli un sorriso gentile. «Keigo, grazie.»
Keigo si limita a scrollare appena le spalle. Nel frattempo Enji continua a osservare tutta la scena, non senza una certa fierezza.

Il palco del concerto è illuminato dai bagliori scintillanti di alcuni faretti a led.
Fasci dalle tonalità fluorescenti, dal fucsia al verde, colpiscono il pubblico, che canta e si scatena mentre la band punk rock continua a suonare.
Farsi strada tra la folla è una vera e propria impresa. Keigo ci prova, ottenendo spintoni in qualunque direzione cerchi di muoversi. Pensandoci meglio, quella di dare appuntamento a Himiko là in mezzo non è stata poi un’idea così geniale.
Sta quasi iniziando a credere che non la troverà più quando, finalmente, la individua. I capelli biondi sono raccolti nei consueti chignon ai lati del capo, mentre un insolito trucco scuro le contorna gli occhi e le tinge le labbra. Il look total black – una t-shirt che lascia scoperte spalle e clavicole, una gonna corta con un merletto leggero sull’orlo e un paio di anfibi – la rende perfettamente amalgamata con gli altri fan, ma Keigo nota sul suo volto un’espressione entusiasta che raramente vi ha visto comparire. Keigo sente le proprie labbra incresparsi in un piccolo sorriso, così, confortato, comincia ad avvicinarsi a lei.
Appena la raggiunge, posa una mano sulla sua spalla. Himiko, sorpresa, si ritrova a sobbalzare, tuttavia nel momento in cui si volta e vede chi è stato a chiamarla il suo viso torna ad accendersi di gioia.
«Ehi! Sei arrivato, finalmente!», esclama, mentre agita le mani per salutarlo e lo smalto – nero, ovviamente – sulle sue unghie scintilla sotto le luci del palco.
Keigo scrolla appena le spalle. «Già, scusa per il ritardo…», commenta, osservandola con aria rammaricata. «Hanno cominciato da tanto?»
Himiko gli prende la mano, gli occhi che luccicano. «No, sono al primo pezzo!», lo rassicura lei, elettrizzata. «Dai, divertiamoci!»
E Keigo si diverte davvero. Insieme a Himiko balla e canta a squarciagola, e per tutto il tempo gli sembra che le preoccupazioni dell’ultimo periodo si siano fatte più lontane. Gli pare di essere tornato ai primi mesi dopo il suo ingresso in istituto, quando aveva legato con Jin e Himiko e, per la prima volta, aveva sentito di essere circondato da persone in grado di comprenderlo.
Le canzoni si susseguono una dietro l’altra, e lentamente la band arriva alla fine della setlist. Sul palco sale un altro gruppo, stavolta la musica è più calma, così Keigo ne approfitta per parlare un po’ con Himiko.
«È stato pazzesco, vero?», le domanda, raggiante.
«Sì!», concorda lei, saltellando sul posto. «Tu come ti senti?»
Sul volto di Keigo compare una smorfia di dolore. «Uhm, non un granché, in realtà», ammette, chinando leggermente la testa di lato in direzione di una delle casse. «Il volume della musica è altissimo, sta cominciando a girarmi la testa…»
La mano di Himiko si stacca dalla transenna a cui era gelosamente ancorata – erano arrivati in prima fila, dopotutto –, mentre osserva preoccupata il ragazzo. «Vuoi fare due passi?», propone, cortese. «Magari un po’ d’aria fresca ti fa bene.»
Keigo annuisce piano. «Mi sembra una buona idea…», si ritrova ad acconsentire, la voce che esce dalle sue labbra in un sussurro.
L’espressione di Himiko si fa determinata. La ragazza comincia subito a cercare la via più breve per sbucare fuori da quella calca e, non appena la trova, s’incammina in fretta su di essa, portando Keigo con sé tenendolo per mano.
Una volta riemersi dalla folla, a Keigo sembra di tornare a respirare. Quella dei capogiri è stata una scusa solo in parte, in realtà: in mezzo a tutta quella gente c’era così tanto calore che stava cominciando a mancargli l’aria sul serio. In compenso, ora che si sono allontanati dal palco può andare avanti con il piano.
Le onde continuano a funestare il porto, il vento freddo che soffia forte e fa agitare le barche attraccate ai moli. Keigo inspira a fondo e si riempie i polmoni di aria salmastra, mentre Himiko si stringe le braccia attorno al corpo, tremando leggermente.
«Dove stiamo andando…?», prova a domandare lei, titubante.
Keigo, però, resta in silenzio. Continua a camminare lungo il molo tenendosi sull’orlo della banchina – se mettesse un solo piede in fallo finirebbe nell’acqua gelida –, le mani infilate nelle tasche del giaccone, lo sguardo fisso di fronte a sé mentre sulle labbra c’è ancora l’accenno di un sorriso.
È in quel momento che Enji lo raggiunge, fermandosi al suo fianco.
Himiko, ancora terrorizzata al pensiero di vedere Keigo cadere nell’oceano, si ritrova a vacillare, mentre una sensazione di vertigine che conosce fin troppo bene torna a farle visita.
«K-Keigo, che sta succedendo…?», cerca di chiedere la ragazza, mentre si porta una mano alla tempia.
Keigo ed Enji si voltano a guardarla, restando in silenzio.
Lo sguardo di Himiko saetta da un punto all’altro del molo, in cerca di spiegazioni. D’improvviso, un sospetto le attraversa la mente, facendole spalancare gli occhi. «L-La tua ombra è q-qui, n-non è vero…?», domanda, la voce che le esce a fatica dalle labbra.
«So tutto, Himiko», commenta Keigo, mentre resta a osservarla impassibile, le mani ancora in tasca. «Ci sei tu dietro allo spaccio della crimson
Lo sguardo sgranato di Himiko è attraversato da un lampo di terrore. «N-Non so di cosa stai parlando…», mente, debolmente.
Keigo lancia un’occhiata in direzione di Enji. Lo spettro comprende al volo, così comincia ad avvicinarsi alla ragazza.
Himiko cade a terra in ginocchio, serrando strette le palpebre. Le sfugge un mugolio dolorante, mentre si ritrova perfino ad ansimare.
«Chi altro è coinvolto in questa storia?», insiste Keigo, inquisitorio. «Dimmi la verità, Himiko!»
Enji muove un altro passo verso la ragazza, e Himiko si prende la testa tra le mani, disperata.
«Basta, basta!», implora, sfinita.
In quel momento, quella tensione crescente viene interrotta.
«Fermi!», grida la voce di una persona che, di colpo, irrompe sulla scena.
Lo sguardo dei presenti scatta subito di lato, dove incontrano la figura di Aizawa, accompagnato da due colleghi. Shouta è sbucato fuori da un vicolo tra due edifici, la pistola in una mano e il cellulare nell’altra.
«Shouta, mi senti?» Dall’altro capo del telefono, Emi è immersa nel buio della camera da letto di Toga Himiko, nella casa dei suoi genitori a Ginza. Tiene il telefono premuto tra l’orecchio e la spalla, mentre con una mano impugna una torcia e nell’altra un sacchettino trasparente che, colpito dalla luce della pila, rivela le pasticche cremisi contenute al suo interno. «Abbiamo trovato la droga. Era nel cassetto, come avevi detto tu.»
Aizawa si lascia sfuggire un lieve cenno d’assenso col capo. Tiene lo sguardo fisso sulla ragazza davanti a sé, con fermezza.
«Toga Himiko, ti dichiaro in arresto per produzione e detenzione di sostanze stupefacenti», le comunica, solenne.
Il viso di Himiko si contorce in diverse espressioni, che vanno dalla rabbia alla paura.



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note
POTEVO BALLARE CON LUI MA STO QUA A PAZZIARE CO' TE
scusate sta cit la dovevo mettere nelle note del capitolo scorso ma mi sono dimenticata di farlo, poi mi è tornato in mente e ho deciso che questa cavolata non poteva andare persa nel nulla, quindi toh, la piazzo qui, tanto il senso è sempre lo stesso. al posto di lui potete metterci uno a caso tra touya e ryou, mentre te è
– abbastanza ovviamente – enji. giusto, caro il mio keigo?
anyway, torniamo a noi.
capitolo lungo, quasi 12k parole. però ehi, finalmente qualcosa comincia a muoversi! (ora ci arrivo)
intanto abbiamo avuto un mezzo litigio dei papà e tutto quello che vorrei dire loro è noo, non litigate (literally avevano appena smesso). comunque per fortuna hanno fatto pace in fretta, anche perché c'erano delle questioni più importanti di cui occuparsi.
ed eccoci, finalmente! ve l'avevo detto che la scena finale dello scorso capitolo con tenko e touya sarebbe stata importante. e infatti abbiamo scoperto che dietro alla morte di tomie potrebbe celarsi l'ultimo caso seguito da enji quando era ancora in vita. la faccenda si sta forse facendo più ingarbugliata del previsto?
btw dite la verità, ve lo aspettavate il ritorno di toga, direttamente dal capitolo uno? scommetto che avevate rimosso che fosse comparsa (anche io, tbh). e così anche lei è implicata in tutta la faccenda?
(confesso che la parte a casa di toga è stata più complessa del previsto da scrivere. inizialmente doveva essere un paragrafo unico, invece scrivendo mi sono resa conto che c'erano troppi cambi di pov, così ho dovuto dividerlo. secondo me è un bene, in teoria dovrebbe dare quell'idea di frammentarietà che fa aumentare la suspence, però boh, magari è tutto solo nella mia testa)
però sono sincera, vedere enji e keigo indagare insieme è una delle mie cose preferite di tutta la storia. si può dire che l'ho cominciata quasi solo per questo? forse sì lol.
questo capitolo segna anche la conclusione della sottotrama di tenko e touya. posso essere sincera? sono sollevata una cosa in meno di cui occuparsi, yeah
ci sono stati anche un sacco di incontroni, tipo quelli di rei con kaina e keigo. in particolare, quest'ultimo dà una svolta decisiva a tutta la vicenda. ora che toga è stata fermata, forse le cose prenderanno in fretta una nuova piega. tenetevi pronti, perché nel prossimo capitolo succederanno un sacco di cose e la verità verrà a galla, anche perché, beh, è l'ultimo. eh sì, ci siamo.
come sempre grazie a chi sta leggendo e see you soon! (ah, btw: buon anno!)

aria

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Capitolo 7
*** la fine non esiste ***





Shouta chiude la porta della sala interrogatori alle proprie spalle con un sospiro esausto.
Stanno torchiando quella ragazza, Toga Himiko, da ore, ormai, senza tuttavia ottenere alcun risultato. Si è chiusa in un silenzio ostinato, e Aizawa sa perfettamente di non poterle estorcere alcuna informazione – se questo non bastasse, a tenerglielo a mente c’è il fastidioso avvocato che la accompagna.
Quello di cui ha bisogno al momento è un caffè forte. E un miracolo, probabilmente, ma per il momento decide di accontentarsi del primo. Così si avvia verso il distributore in corridoio, l’andatura un po’ ciondolante.
La verità è che è stanco. In quel momento preferirebbe volentieri starsene a casa sotto le coperte, piuttosto che a interrogare una ragazzina che non vuole saperne di dirgli la verità. Vorrebbe avere il conforto di sapere Eri addormentata nella stanza accanto alla sua, invece tutto ciò che lo circonda al momento sono le scrivanie dei suoi colleghi.
Di notte il commissariato sembra essere leggermente più tranquillo rispetto al resto del giorno, ma forse è solo perché c’è più silenzio: gli agenti in servizio sono in numero ridotto, e se ne stanno tutti seduti alle loro postazioni mentre battono a ritmo cadenzato le dita sulle tastiere dei loro pc. Anche quello, però, è un rumore sommesso, come se non volessero infrangere una regola non scritta per cui dal crepuscolo all’alba vige uno stato di quiete.
Shouta raggiunge il distributore di caffè e ci si appoggia pesantemente con una mano, mentre l’altra rovista nella tasca dei pantaloni fino a che non trova la chiavetta, in dotazione a tutti gli agenti. Shouta la infila, preme il tasto del caffè espresso, dopodiché la macchinetta inizia a emettere una vibrazione profonda, e quasi si sente in colpa di star violando il silenzio in cui sono immersi i suoi colleghi.
Shouta lancia uno sguardo di lato, lasciandosi sfuggire un sospiro, per poi spostarlo nuovamente sul distributore, il caffè che lentamente scivola nel bicchiere di plastica.
In quel momento, Emi compare in cima al corridoio. Non appena individua Aizawa, comincia a camminare più in fretta nella sua direzione, i capelli acquamarina che si agitano alle sue spalle come in tempesta.
«C’è una persona che chiede di te», gli comunica, passando alle sue spalle. «L’ho fatta accomodare nel tuo ufficio.»
Aizawa si volta a guardarla con un’espressione contrariata in volto. «Adesso?», domanda, incredulo. «Sono nel bel mezzo di un interrogatorio…»
«Ha detto che si trattava di una questione urgente!», replica Emi, mentre continua a camminare lungo il corridoio, le braccia che tengono stretti al petto i fogli di alcune pratiche.
Shouta scrolla le spalle, con fare arrendevole. Quella notte sembra non voler finire più. Il bip della macchinetta lo avverte che il suo caffè è pronto, così ne approfitta per recuperarlo. Mentre si avvia lungo il corridoio, Shouta miscela lo zucchero con la palettina, per poi prenderne un piccolo sorso.
Continuando ad avanzare verso il suo ufficio, Aizawa si ritrova a scuotere la testa. Gli riesce difficile immaginare cosa ci possa essere di più importante del suo interrogatorio, soprattutto adesso che sono a un passo dalla soluzione di un caso che era sembrato semplice solo al primo sguardo. Sotto braccio ha ancora la cartellina gialla al cui interno ha inserito i documenti del caso Ukai, ma considerando che l’alternativa sarebbe stata lasciarli in sala interrogatori – alla completa mercé di Toga Himiko e del suo avvocato – è ben lieto di averla portata con sé.
Nel momento in cui arriva davanti al suo ufficio, Shouta abbassa la maniglia e apre la porta di scatto, pronto già a chissà quale noiosissima perdita di tempo, invece per poco non gli viene un colpo.
Hizashi.
Il suo compagno ha voltato la testa in direzione della porta quando l'ha sentito aprirla, e adesso Shouta sente gli occhi dell’altro puntati su di sé. I capelli biondi gli sfiorano le spalle allo stesso modo dell’ultima volta in cui lo ha visto, e sul suo volto c’è un sorriso dall’aria leggermente colpevole.
«Ciao, Shouta», lo saluta, la voce calma – ma è la sua, quella di sempre.
Aizawa resta immobile sulla soglia per un momento. Alla fine, però, riesce a chiudere la porta alle proprie spalle, per poi scattare in avanti verso Hizashi. Si accomoda sulla sedia accanto alla sua, poggiando distrattamente il caffè – di colpo berlo è diventata l’ultima delle sue priorità – e la cartellina sulla scrivania.
«Che ci fai qui…?» Che fine hai fatto per tutto questo tempo? Dove sei stato fino a questo momento? In realtà c’è un’infinità di domande che Shouta vorrebbe fargli, e alla fine gli sembra di essere partito dalla più stupida di tutte. «Credevo che ti fosse successo qualcosa…»
Hizashi sposta lo sguardo di lato, il sorriso sulle sue labbra che si fa più amaro. «No, sto bene», ammette, in tono affranto.
Shouta sente che c’è qualcosa che non va, solo che non riesce a capire di cosa si tratti. Si china leggermente in avanti, prendendo le mani dell’altro nelle sue. «E allora cos’è successo?», gli chiede ancora, comprensivo.
Hizashi continua a non ricambiare il suo sguardo, e Shouta lo conosce troppo bene, sa che se si comporta così è perché c’è qualcosa che lo turba. Istintivamente accarezza con le dita il dorso delle mani dell’altro, come per incoraggiarlo.
Quando finalmente Hizashi solleva il capo, Shouta scorge nei suoi occhi qualcosa che raramente vi ha intravisto – incertezza.
«Ho avuto paura», confessa, la voce che s’incrina appena mentre si costringe a mantenere un  debole sorriso.
Sul volto di Shouta compare un’espressione confusa. «Paura di cosa…?», domanda, il pollice che traccia arabeschi sulla pelle dell’altro.
Hizashi si lascia sfuggire un sospiro tremante, le labbra ancora piegate in quel sorriso amaro mentre lo sguardo combatte per non sottrarsi a quello di Shouta. «All’inizio è stato Shirakumo», spiega, remissivo. «All’epoca eravamo ancora in accademia, volevamo entrare tutti e tre in polizia quando ci fu quell’incidente, ricordi?»
Shouta si limita ad annuire, così Hizashi prosegue. «In quel momento è stato uno sprone, ci siamo gettati sulle nostre carriere con ancor più convinzione. Andando avanti, però, quella scia di morte non ha mai smesso di accompagnarci – Toshinori, Enji, pensa a quanti colleghi abbiamo già perso…»
Shouta lo osserva perplesso, la fronte corrucciata. «Non capisco», ammette, interdetto. «Dove vuoi arrivare…?»
Hizashi si appoggia stancamente allo schienale alle proprie spalle, continuando a sorridere tristemente. «Finché eravamo solo noi due andava tutto bene. Poi, però, le cose sono cambiate», continua, la testa che si piega appena di lato. «Eri e Hitoshi sono entrati a far parte della nostra vita, ed è stata la cosa più bella che ci sia mai capitata. Solo che, in quel momento, io ho avuto paura, Shouta, paura di lasciarli di nuovo da soli. Perché il nostro è un mestiere difficile, la mattina ci alziamo per andare al lavoro ma non abbiamo alcuna garanzia che a fine giornata torneremo a casa sani e salvi. Ed ero terrorizzato al pensiero di parlartene, perché tu ami i ragazzi più di ogni altra cosa e, semplicemente, non mi sentivo pronto ad affrontare questo discorso con te. È per questo che sono sparito…»
Shouta sobbalza, osservandolo sorpreso. «Avevi paura di deludermi…?», domanda, incredulo.
Hizashi si limita ad annuire brevemente, per poi spostare lo sguardo in direzione della finestra dell’ufficio di Aizawa. «Hitoshi sapeva dove mi trovavo. Ogni tanto veniva a trovarmi, ma sono stato io a chiedergli di non dirti niente su dove fossi. Avevo bisogno di stare da solo per un po’, capire cosa pensassi davvero. Mi spiace di averlo messo in difficoltà con te», confessa, lasciandosi sfuggire stavolta un sorriso beffardo.
Sul volto di Shouta, invece, compare un’espressione sollevata. Per settimane non ha avuto idea di che fine avesse fatto Hizashi, e ora che ce l’ha davanti e gli ha confessato tutta la verità si sente uno stupido per non esserci arrivato prima e aver immaginato invecce tutti gli scenari peggiori possibili. Shouta scuote appena la testa, sporgendosi ancora un po’ verso Hizashi e circondandogli una guancia con la mano.
Hizashi solleva lo sguardo per la sorpresa, ma ad attenderlo non trova altro che le iridi nere e pacate di Aizawa.
«Perché non me ne hai parlato prima?», chiede, ma nella sua voce non c’è alcun tono inquisitorio. «Avremmo affrontato questa cosa insieme, come tutto, come sempre...»
L’espressione sul volto di Hizashi si fa finalmente rilassata. Shouta si china in avanti, e mentre bacia le sue labbra si sente come un marinaio che vede di nuovo terra, dopo aver passato un lungo periodo in alto mare.
«C’è una sospettata che mi attende, di là», gli confessa Shouta, quando si separa appena da lui. «Mi concedi l’onore di condurre quest’interrogatorio assieme a te?»

La porta della sala interrogatori si spalanca di nuovo, e stavolta alle spalle di Shouta entra anche Hizashi.
L’avvocato di Toga Himiko sobbalza sul posto, quasi strabuzzando i suoi piccoli occhi neri dietro le lenti spesse degli occhiali. «C-credevo che avrebbe condotto questo interrogatorio da solo…», fa per protestare, interdetto.
Aizawa si accomoda sulla sedia che ha occupato fino a poco prima, sporgendosi appena verso l’altro lato del tavolo. «L’ispettore Yamada è un mio collega e ha tutto il diritto di trovarsi qui in questo momento», replica, mentre rivolge un’occhiata torva all’avvocato.
Il difensore di Himiko sembra rabbrividire, a disagio, tuttavia nessuno ci fa caso.
Hizashi si siede accanto a Shouta, aprendo il fascicolo che gli ha lasciato. «Allora, Himiko… diciamo che la tua situazione non è così buona», commenta, osservando alcuni fogli. «Hanno trovato un bel po’ di pasticche di crimson a casa tua, quindi direi che per l’incriminazione per detenzione di stupefacenti non si possa fare molto.»
«Le cose però potrebbero andare in maniera diversa se tu ci aiutassi fornendoci alcune informazioni», prosegue Shouta, incrociando le braccia al petto. «Potresti ottenere uno sconto di pena, magari.»
«Himiko, non sei costretta a dire loro niente…», le fa notare l’avvocato, con voce tremolante.
«Avvocato, basta!» Himiko si volta in direzione dell’uomo, con aria esasperata. «I miei genitori l’hanno mandata qui non per difendere me, ma per tutelare il buon nome di famiglia. Sa qual è il problema? Che io la voglio dire, la verità.»
Gli occhi di Himiko tornano a fissarsi in quelli di Aizawa. «È vero. La crimson che avete trovato in camera mia mi appartiene. L’ho prodotta io, per l’esattezza», ammette, giungendo le mani sopra il tavolo. «La formula precedente comprendeva un’imprecisione. Io l’ho sistemata, migliorando il prodotto finale.»
Shouta sostiene con fermezza lo sguardo della ragazza. In quel momento ci sono solo lui e la sospettata, nient’altro conta all’interno della stanza. «Chi ti ha chiesto di migliorare la formula, Himiko?», domanda, in tono solenne.
L’avvocato sembra accaldato e sul punto di svenire, ma a Himiko non importa.
In quel momento, sul suo volto c’è un’aria tranquilla e determinata.

Rei è seduta a una delle scrivanie del commissariato.
Al momento, l’agente che di solito la occupa non è in servizio, così si è limitata a sistemarsi lì mentre aspetta.
Aizawa sta interrogando la ragazza che hanno fermato e, in attesa di qualche nuovo elemento, a lei non resta altro da fare che starsene lì da sola.
Lo sguardo di Rei vaga tra le postazioni che, a quell’ora, sono quasi tutte deserte. Enji l’ha seguita fin lì dal porto, e ora la osserva mentre sul volto le compare un’aria assorta.
In quel momento, Fukukado Emi le si avvicina, con aria corrucciata.
«Ah, dottoressa», la chiama, allungando distrattamente una busta da lettera nella sua direzione. «Stamattina è arrivata questa per lei.»
Rei inarca le sopracciglia, scettica. «Alla buon’ora», commenta, in tono caustico. «E dire che avevo anche specificato che si trattava di una cosa urgente…»
Emi si sporge oltre la spalla di Rei per spiare mentre la donna legge. «Che cosa sono?», domanda, curiosa.
«I risultati degli esami tossicologici di Ukai Tomie», spiega, stringendo i fogli tra le dita e esaminandoli attentamente. «Li avevo richiesti una settimana fa, subito dopo l’incidente, eppure a quanto pare sono arrivati solo adesso…»
Rei è costretta a fermarsi di colpo mentre parla. C’è un valore, infatti, che non può in alcun modo passare inosservato sotto il suo sguardo.
E in quel momento Rei capisce che quello è il tassello mancante che stavano cercando.
«Non è possibile…», mormora, incredula.
Enji scorre velocemente a sua volta i fogli, ritrovandosi a sbarrare gli occhi non appena comprende cos’ha scoperto sua moglie.
Rei si alza in maniera repentina dalla scrivania, avviandosi lungo il corridoio. «Avverti Aizawa», prega, rivolta a Emi. «Ci serve una volante, subito.»
Enji, nel frattempo, lascia il commissariato, svanendo nel nulla.


Keigo.
Il nome del ragazzo è tutto ciò a cui Enji riesce a pensare mentre il mondo riprende forma attorno a lui.
Man mano che i contorni tornano a essere definiti, si rende conto di trovarsi in un luogo che non ha mai visto prima d’ora.
Sembra essere una baita di montagna, almeno dalla struttura in legno, tuttavia l’arredamento è più moderno di quel che ci si aspetterebbe. C’è una cucina di colore bianco ghiaccio – freddo, asettico – all’apparenza moderna e dotata di ogni genere di fornitura, ma quel che ruba l’attenzione è senza dubbio il camino di pietra che impreziosisce il soggiorno.
Alle spalle di Enji c’è un’enorme vetrata spalancata, dalla quale scivola all’interno dell’abitazione una brezza leggera. Se si volta a osservare il panorama, lo attende una vista mozzafiato su un bosco che lentamente dirada verso un lago che, dalla posizione in cui si trova, sembra risplendere d’argento alle prime luci dell’alba che s’affacciano dietro le montagne.
«Dove siamo?», si ritrova a domandare Enji, prima ancora di rendersi conto che le parole gli sono sfuggite dalle labbra.
«Casa di Ryou.» Keigo si trova accanto a un divano, e a Enji sembra di riuscire a inquadrarlo solo nel momento in cui finalmente lo sente parlare. Dal punto in cui si trova al momento, fermo sulla soglia della vetrata, riesce a vedere il ragazzo soltanto di spalle: segue i suoi movimenti mentre afferra con le dita un fazzoletto di seta, rimasto abbandonato sopra un cuscino, ripiegandolo ordinatamente.
Nelle ultime ore, mentre era in commissariato, Enji ha perso di vista il ragazzo. Probabilmente è saltato sul primo autobus diretto verso la zona, ecco perché adesso è già lì.
«Himiko ha confessato», spiega, lanciando un’occhiata nervosa attorno a sé. «La notizia del suo arresto dev’essere arrivata all’orecchio di Ryou, così avrà mangiato la foglia per poi decidere di scappare in fretta e furia. Di sicuro starà cercando di cancellare le sue tracce.»
Lo sguardo rammaricato di Keigo si posa sul divano. «A giudicare dal disordine che ha lasciato dietro di sé, sembra essere parecchio di corsa. In ogni caso, non penso che sia andato via da molto tempo», commenta, pensieroso. «Il posto più vicino da qui è l’istituto. Forse la crimson è sempre stata lì.»
L’espressione di Enji sembra rilassarsi un poco. «Perfetto», valuta, risoluto. «Allora non ci resta altro da fare che raggiungerlo e fermarlo prima che salga su un volo diretto dall’altra parte del mondo.»
Keigo si decide a ricambiare lo sguardo di Enji, le labbra che si piegano in un accenno di sorriso. «Tu vai, intanto», lo esorta, la voce che scivola fuori in un sussurro. «Smaterializzandoti direttamente lì arriverai prima, così non rischieremo che Ryou ci sfugga nel frattempo. Io vedo di raggiungerti più in fretta che posso, promesso.»
Enji esita, incerto. «Sei sicuro…?», domanda, osservando attentamente il ragazzo.
Keigo annuisce piano, il sorriso sulle sue labbra che si fa più deciso. «Certo», lo rassicura, cordiale.
Alla fine, Enji decide di fidarsi del ragazzo.
Ancora non lo sa, ma quello sarà il suo più grande rimpianto.
Poco dopo Enji svanisce nel nulla, mentre lo sguardo di Keigo si posa sul caminetto.

L’istituto ha un aspetto spettrale.
Enji è già stato lì, eppure adesso, negli ultimi istanti di tenebra – quelli più bui – prima dell’alba e senza un anima viva in giro, è ancora più inquietante.
Trova perfino la porta d’ingresso spalancata, altro dettaglio piuttosto angoscioso.
Le luci dell’atrio sono accese, ma non sembra esserci movimento nei paraggi. Enji si guarda un po’ intorno, finché non nota una porta socchiusa che dà su un sottoscala.
Enji ci si avvicina in fretta, sbirciando mentre rimane sulla soglia. Non si vede un granché, l’ambiente è piuttosto buio ed è rischiarato a malapena da alcune lampade dall’aspetto rudimentale appese alla parete, tuttavia da quello che riesce a scorgere gli sembra che ci siano delle scale che scendono verso il basso.
A Enji non resta che dirigersi al piano inferiore. Quella situazione non gli piace per nulla, tuttavia al momento non ha altra scelta.
Alla fine delle scale trova ad attenderlo un altro ambiente tremendamente macabro. Le pareti hanno una tonalità di turchese piuttosto scura, ma ciò che non si può fare a meno di notare entrando là dentro è il tavolaccio di metallo al centro della stanza. Ci sono delle cinghie di cuoio all’altezza in cui, se una persona si trovasse sdraiata là sopra, si troverebbero i suoi polsi e le caviglie.
In quel momento, Enji capisce di aver già visto quel posto. È lo stesso in cui erano state scattate le fotografie che ha visto a casa di Tomie.
Il tavolo dell’elettroshock. Lo stesso su cui è stato disteso anche Keigo. Enji avverte un moto minaccioso di rabbia accrescere sempre di più dentro di sé.
La sua attenzione, tuttavia, viene distolta da quel tavolo non appena un rumore imprevisto gli giunge alle orecchie. Enji sposta lo sguardo di lato, verso un angolino in cui una luce sfarfallante – ed è sicuro di non essere lui a farla tremolare, stavolta – rischiara a malapena un armadietto.
Ryou si volta appena, lanciandogli un’occhiata in tralice da sopra una spalla. «Todoroki Enji», soffia, in un sibilo malevolo. «Vorrei dirti che è un piacere rivederti, ma mentirei.»
Enji lo osserva con sguardo severo, per niente intimorito. «È finita, Ryou», commenta, un’espressione dura sul volto. «La polizia è arrivata a te. Sanno che ci sei tu dietro a tutta questa storia. Stanno venendo a prenderti.»
Ryou torna a puntare lo sguardo dritto davanti a sé, ignorando le parole dell’altro. «Oh, ma davvero?», chiosa, sarcastico. «Beh, è un peccato allora che io me ne stia andando.»
Solo in quel momento Enji riesce finalmente a vedere cosa diavolo stia combinando Ryou. L’uomo stringe tra le mani un barattolo di vetro, e ne sta riversando il contenuto in una busta trasparente. Senza troppe sorprese, là dentro c’è una miriade di pasticche di crimson – su uno degli scaffali dell’armadio ci sono già altri tre barattoli vuoti, e questo dà a Enji un’idea piuttosto chiara di come quel bastardo avesse ben architettato il traffico.
Ryou, però, non ha tempo da perdere con le occhiate giudicanti di Enji, così, dopo aver svuotato anche l’ultimo barattolo, ha già recuperato il sacchetto con tutta la crimson, per poi voltare le spalle al fantasma e avviarsi di nuovo su per le scale.
Enji, ovviamente, lo segue. Osserva Ryou attraversare l’atrio dell’istituto, scendere giù per la scalinata d’ingresso e incamminarsi lungo il vialetto esterno, i sassolini che scricchiolano appena sotto i passi affrettati delle sue scarpe eleganti.
Enji lo vede fermarsi solo quando raggiunge una vettura sportiva dall’aspetto costosissimo, la vernice nera lucida che risplende sotto i lampioni che corrono lungo tutto il perimetro esterno dell’istituto. Ryou sale in macchina, gira le chiavi nel quadro ma il motore non parte. Ci riprova due, tre, quattro volte, però l’esito non cambia.
Ryou solleva lo sguardo, osservando Enji con astio. Il fantasma è lì davanti alla macchina, lo vede perfettamente attraverso il parabrezza, e sa che è lui a controllare l’energia elettrica della batteria, impedendo al motore di avviarsi.
«Arrenditi. Non andrai da nessuna parte», insiste Enji, non senza una certa soddisfazione, mentre infila le mani nelle tasche della giacca.
Ryou trattiene un ringhio tra i denti, ma non si dà per vinto. Non riuscirà a scappare via in auto come avrebbe voluto, però può ancora mettere un po’ di distanza tra sé e l’istituto. Così scende dalla vettura, abbandonando sul sedile del passeggero la busta con la crimsonal diavolo, l’importante è fuggire da lì –, per poi proseguire a piedi.
Enji continua a seguirlo. Ryou s’infila in un bosco, ed è sorprendente come riesca a muoversi con agilità anche mentre i rami tentano in tutti i modi di ghermirlo. L’oscurità, poi, non aiuta certo ad avanzare lungo il percorso, né il terreno irregolare – Enji lo avverte di colpo farsi in discesa.
Uscendo dal fitto del bosco dopo diversi minuti d’affanno, i due si ritrovano su una strada, la lunga lingua scura d’asfalto che corre tra abeti centenari e vertiginosi tornanti di montagna. Ryou prova a percorrerla a piedi, attraversando un ponte che passa sopra un torrente dalle acque agitate.
È allora che uno sparo squarcia l’aria.
Enji si ritrova senza accorgersene a trattenere il fiato, mentre Ryou, colpito di striscio a una gamba, si accascia al suolo, dolorante.
Alle sue spalle, Enji avverte alcuni rumori che riesce a distinguere nitidamente, anche grazie ad anni di esperienza in polizia – un gridolino di sorpresa e forse un poco di paura, un’arma che con il contraccolpo vola via dalla mano e rotola lungo l’asfalto.
Enji si volta lentamente, ed è costretto a sbarrare gli occhi per il terrore.
«Pezzo di merda!»
Keigo trema, e quello che sta provando in questo momento dev’essere un insieme di rabbia, tristezza e spavento. Enji non ha la più pallida idea di dove si sia procurato quella pistola, probabilmente a casa di Ryou – e si maledice, dannazione, non avrebbe mai dovuto lasciarlo da solo.
«Keigo…» Enji cerca di richiamarlo piano, ma sa che al momento l’attenzione del ragazzo non è rivolta a lui.
«Come hai potuto?!», grida ancora Keigo, trattenendo a stento le lacrime. «Io mi fidavo di te! Credevo che mi amassi!»
Ryou si volta verso il ragazzo, sfoderando il suo sorriso più ammaliante nonostante le fitte al polpaccio si facciano sempre più insopportabili – anche se è tutto inutile, ormai, quel trucchetto ha smesso di avere effetto su di lui da tempo. «Keigo, tesoro… cerca di ragionare…», mormora, suadente. «Minacciava di denunciare tutto alla polizia. Sarebbe stata una tragedia, lo capisci?»
Keigo sente le lacrime rigargli le guance. «Era mia madre, dannazione!», urla, singhiozzando.
«Non importa!» Il tono di Ryou adesso si fa più concitato. «Non potevo permettere che i ragazzi finissero in mezzo alla strada.»
Enji è piuttosto certo che, nel momento in cui Ryou ha deciso di far fuori Tomie, la sua prima preoccupazione non sia stato esattamente il corpo studentesco dell’istituto, tuttavia decide che quello non è il momento migliore per farlo notare.
«Cosa le hai fatto, mostro?», domanda invece, osservando Ryou con rabbia.
L’uomo si ritrova a deglutire a vuoto. «Le ho dato della crimson», ammette, tremante – ed Enji riflette che quella è la prima volta in cui gli sembra di vederlo avere paura. «È venuta a cercarmi durante il rinfresco, il giorno delle lauree. Mi ha fermato una prima volta, facendomi vedere le foto e minacciando di fare un casino. Io ho minimizzato, dicendole che nessuno avrebbe dato retta a una pazza come lei, dopodiché sono tornato dagli altri alla cerimonia. Pensavo che se ne fosse andata, invece ha cominciato a gironzolare per l’edificio. Non so come sia arrivata alla sala dell’elettroshock, fatto sta che lì ha trovato la crimson. Dopo è tornata di sopra, l’ho vista e l’ho portata di nuovo in una stanzetta in disparte. Ha detto che aveva visto la droga, mi ha sbattuto in faccia un paio di pasticche che aveva preso come prova e ha detto che non l’avrei fatta franca. Io ero nel panico… avevo una dose di crimson con me, così l’ho polverizzata e gliel’ho offerta in un drink con la scusa di invitarla a festeggiare perché finalmente si sarebbe sbarazzata di me. Lei ha bevuto, soddisfatta, e poco dopo ha lasciato l’istituto. Non è servito nient’altro, è bastato l’effetto degli stupefacenti a mandarla fuori strada.»
Mentre il racconto di Ryou va avanti, il pianto sulle guance di Keigo non fa che aumentare. «C-come hai potuto…», mormora ancora, la schiena scossa dai singhiozzi. «Era mia madre…»
Enji si avvicina al ragazzo, portandosi istintivamente alle sue spalle. «Shh. Va tutto bene, Keigo», mormora, le labbra così vicine al suo collo. «Stai tranquillo, è tutto finito…»
Le sue parole sembrano ottenere il risultato desiderato. Sente il ragazzo tirare un piccolo sospiro, mentre i suoi muscoli si rilassano lentamente.
Poco dopo, però, tutti i suoi sforzi vengono resi vani.
«Sì, Keigo, dagli ascolto…», mormora Ryou, ancora a terra.
In quel momento, Enji vorrebbe solo potergli urlare contro Idiota, che diavolo ti viene in mente? Non vedi che stavo riuscendo a calmarlo?! Così non farai altro che…
Enji non riesce nemmeno a portare a termine il pensiero. Lo sguardo di Keigo torna a puntarsi su Ryou, con decisione.
Tutto quello che succede nei secondi successivi Enji lo vive al rallentatore. Keigo fa per avvicinarsi di nuovo alla pistola e, d’impulso, Enji stende la mano in avanti cercando di spostarla. Muovere gli oggetti è un’azione facile per i fantasmi, ormai ha perso il conto di quante volte lo abbia già fatto.
Stavolta, però, qualcosa non va per il verso giusto.
Anziché la pistola, a cambiare improvvisamente traiettoria è il corpo di Keigo, che vola giù, oltre la struttura del ponte, con un urlo agghiacciante.
È solo in quel momento che, troppo tardi, Enji capisce.
La visione.
Quel luogo, il ponte… è lo stesso che ha visto la notte dell’incidente di Tomie. Quelli alle spalle di Keigo, fin dal principio, non sono stati nient’altro che gli stralli della struttura.
Ha fatto di tutto per sfuggirle ma, alla fine, è stato proprio lui a farla realizzare.
Sotto lo sguardo terrorizzato di Enji, il corpo di Keigo viene inghiottito dal vuoto.
«Keigo!», lo chiama, disperato.
Ryou, a terra e ferito, sembra quasi divertito da tutta quella situazione, tanto che una risata strozzata gli sale alle labbra.
Enji si lancia attraverso la carreggiata, affacciandosi oltre il parapetto. In quel momento avverte le sirene di una volante della polizia arrivare sul luogo, ma non riesce a curarsene.
Fortunatamente, il ragazzo non è precipitato in acqua. Dopo la caduta, Enji ha avvertito un tonfo sordo, e adesso vede che Keigo è atterrato su quella che pare essere la struttura di un ponteggio per dei lavori di messa in sicurezza del viadotto. Sembra, però, privo di conoscenza – ed Enji sente di nuovo un tumulto attanagliargli il petto.
«Fermo!» Aizawa scende dall’auto in maniera repentina, la pistola puntata verso Ryou per intimargli di non contraddirlo.
No, adesso non è lui che conta! Il mio ragazzo…
Enji vorrebbe gridare, ma sa già che non lo sentirebbero.
Lo sportello del passeggero anteriore si apre più lentamente, lasciando scendere Hizashi. I suoi occhi vagano osservando la scena che si è ritrovato davanti, Ryou a terra, la pistola, il ponte. Lo sguardo di Hizashi si posa infine sul parapetto, a cui si avvicina intuendo almeno in parte la dinamica dell’accaduto.
L’ispettore si affaccia, mentre accanto a lui Enji continua ad avere gli occhi sbarrati per la paura. Hizashi guarda giù, verso il basso, e si ritrova a trasecolare vedendo il corpo immobile di Keigo.
«Shouta! Chiama un’ambulanza!» Hizashi si volta verso il collega. «C’è Keigo!»
«Keigo?», domanda Shouta, incerto, tuttavia ha già estratto il cellulare dalla tasca dei pantaloni e composto il numero di emergenza. «Pronto, serve un’ambulanza sulla statale due, al chilometro…»
Le parole di Aizawa arrivano ovattate alle orecchie di Enji. Hizashi scavalca il parapetto del ponte, cominciando a scendere giù per quella struttura temporanea fino a raggiungere Keigo. Enji lo segue, in preda a un’apprensione cieca.
«Keigo…» Hizashi lo chiama piano, ha quasi paura di scuoterlo con troppa violenza.
«Ti prego, Keigo, svegliati…», mormora Enji, inginocchiandosi accanto a lui.
Poco dopo, il ragazzo riapre gli occhi di scatto, ansimando.
Enji si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, stremato.


«Quindi, ricapitoliamo.»
Mentre parla, Aizawa continua a camminare lungo il corridoio.
«Il colpo di pistola è partito per errore a Ryou, che ha finito per ferirsi a una gamba, mentre tu sei caduto dal ponte sporgendoti troppo oltre il parapetto. È corretto?»
Keigo lancia un’occhiata verso il pavimento, ritrovandosi a osservare piccole piastrelle verde giada. «Sì, è andata così», conferma, le dita che si stringono attorno alla tracolla della sua borsa.
È un miracolo che, nonostante quel volo assurdo, non abbia riportato che pochi graffi qua e là. Adesso sono in ospedale, dove lo hanno portato per accertamenti, eppure l’unica medicazione che gli hanno applicato è una fasciatura attorno alla mano.
«Bene.» Aizawa si ferma a metà del corridoio, portandosi le braccia dietro la schiena. «Se le cose stanno così, non ho altre domande da farti.»
Sul volto di Keigo compare un sorriso esitante. Sa che Aizawa sta fingendo di credere alla sua versione dei fatti, sebbena abbia capito perfettamente quale sia la verità. Lo fa perché non vuole metterlo nei guai, e Keigo gliene è grato.
Aizawa si congeda da lui augurandogli una pronta guarigione, per poi imboccare a ritroso il tratto di corridoio che hanno percorso assieme.
Keigo, invece, dopo aver osservato il commissario allontanarsi, torna a puntare lo sguardo davanti a sé, attirato dallo sfarfallio del neon di una lampada – e sa perfettamente che non si tratta di un calo di tensione elettrica.
Enji è lì, seduto su una panca di metallo, con le braccia conserte strette al petto e l’espressione più immusonita che Keigo abbia mai visto sul suo volto.
Il ragazzo si affretta a raggiungerlo, sedendosi accanto a lui. Sente il sorriso sul suo volto farsi più disteso, come se la tensione delle ultime ore stesse cominciando finalmente a sciogliersi.
«È tutta colpa mia», esordisce Enji, cupo. «Ho fatto di tutto per tenerti lontano dal pericolo. Pensavo che così ti avrei salvato, invece ti ho quasi ucciso.»
«Io non la vedo così.» Keigo solleva i suoi enormi occhi dorati su di lui, ed Enji vi trova una spensieratezza che mancava da tempo. «Hai allontanato quella pistola da me per impedirmi di sparare. L’hai fatto perché non volevi che diventassi un assassino. Hai cercato di proteggermi, a modo tuo.»
Gli occhi turchesi di Enji si ritrovano a fissare il ragazzo colmi di stupore. Il sorriso sul volto di Keigo, per tutta risposta, si fa ancora più ampio mentre abbassa le palpebre in un’espressione divertita.
Il ragazzo avvicina la fronte alla sua, e ancora una volta Enji ha l’impressione che possano toccarsi, la luce sopra di loro che continua a tremolare.


Sono passati alcuni giorni dall’arresto di Ryou, e a Tokyo sembra essere tornato a splendere il sole.
Quella è, a tutti gli effetti, ancora una fredda mattina d’inverno, eppure Keigo pare troppo distratto per avvertire il gelo.
«Sei preoccupato?»
Keigo solleva di scatto lo sguardo da terra, un’espressione confusa che gli compare in volto. Per tutta risposta, Rei gli rivolge un sorriso dolce, dal sapore materno.
È stata la dottoressa Himura a proporgli di accompagnarlo in procura, quel giorno. Rei, dopotutto, parteciperà all’interrogatorio di Ryou, visto che si è occupata in prima persona del caso di Tomie.
Enji sta seguendo i due a qualche passo di distanza, le mani infilate nelle tasche della giacca. Continua a provare una strana sensazione ogni volta che vede Rei e Keigo insieme, ma è qualcosa di piacevole, come un calore che lo avvolge dall’interno.
Keigo serra nervosamente le dita attorno alla tracolla della borsa, un sorriso che fa capolino sul suo volto sebbene l’espressione continui a rimanere tesa. «Un po’», ammette, trattenendo a stento un risolino. «Continuo a pensare a tutte le cose che possono andare per il verso storto…»
I due salgono su per i gradini d’ingresso, per poi infilarsi all’interno della procura e imboccare la scala che porta al primo piano.
«Vedrai che andrà tutto bene», cerca di rassicurarlo Rei, posandogli una mano sulla spalla con fare cordiale. «Alla fine si tratta solo di un’interrogatorio di convalida. Aspettami con Aizawa e gli altri nel mio ufficio, sarò da voi prima di quanto immagini.»
Rei rivolge un ultimo sorriso incoraggiante in direzione del ragazzo, per poi avviarsi lungo il corridoio.
Enji lancia uno sguardo intenso verso Keigo. Ha l’impressione che riescano a capirsi senza parlare, come sempre. Poco dopo si affretta a raggiungere sua moglie, con la certezza di sapere che il ragazzo è in buone mani.
Rei apre una porta di legno dall’aspetto monumentale, e si ritrova in una stanza dalle pareti verde pino e il soffitto altissimo. C’è un tavolo imponente, sul quale sono state depositate pile di documenti e scartoffie, che si estende quasi per l’intera lunghezza della stanza. Dal lato opposto all’ingresso, il giudice ha già fatto accomodare Ryou e il suo avvocato.
«Buongiorno», esordisce Rei, poggiando il trench in panno bianco sull’appendiabiti per poi prendere posto a sua volta.
«Direi che possiamo cominciare», decreta il giudice, con un sorriso bonario.
Rei gli rivolge un lieve cenno del capo, per poi spostare lo sguardo su Ryou. «Signor Shigaraki, lei è accusato di produzione, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, oltre che dell’omicidio di Ukai Tomie», riepiloga, mentre apre la cartellina con il fascicolo dell’indagine che ha portato con sé. «Cos’ha da dire in merito?»
Sul volto di Ryou compare un sorriso beffardo che Enji sarebbe ben lieto di cancellargli a suon di pugni. Nel frattempo, l’avvocato dell’uomo si schiarisce la voce.
«A questo proposito, signor giudice», interviene quest’ultimo, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo con quello di Rei. «Il mio assistito vorrebbe dichiararsi colpevole del primo reato, ma innocente per quanto riguarda il secondo.»
Enji non è sorpreso. Immaginava che, ovviamente, avrebbero cercato di evitare la pena più consistente. Tutto ciò, però, non fa che accrescere il suo disgusto nei confronti di Ryou.
Rei sposta lo sguardo sull’avvocato, con un’espressione confusa. «Nell’auto dell’imputato è stata rinvenuta una quantità notevole di pasticche di crimson», fa notare, interdetta. «La stessa droga che, secondo il referto autoptico, Ukai Tomie ha assunto poco prima del decesso.»
«Dettaglio ininfluente, signor giudice», insiste l’avvocato, senza scomporsi. «Non ci sono prove che attestino che, a far assumere alla signora Ukai questa droga, sia stato il mio assistito, a meno che non ci vogliamo basare su una confessione che non ha alcun valore giuridico.»
L’uomo parla col tono calmo di chi sa di non poter essere contraddetto, e sul volto di Ryou c’è ancora il sorriso sfrontato di poco prima. Ed Enji sa che no, non può riuscire a sopportarlo ancora a lungo.
All’improvviso, sotto ai paralumi verdi delle lampade da scrivania disposte su tutto il tavolo, le luci cominciano a sfarfallare. Rei, il giudice e l’avvocato si ritrovano a osservare il fenomeno con aria perplessa.
Ryou, invece, ha un’espressione terrorizzata.
Non si è accorto della presenza di Enji, non l’ha minimamente visto entrare. Il fantasma lo osserva con le mani infilate in tasca, un sogghigno sul volto.
«Chi non muore si rivede, bastardo», commenta, malevolo.
Ryou si ritrova ad ansimare, la luce che prende a lampeggiare sempre più velocemente. Alla fine chiude gli occhi, portandosi le mani alle tempie.
«Basta! Basta, confesso!», esclama, rassegnato. «Sono stato io! Ho dato io alla Ukai quella droga.»
La luce delle lampade torna a essere fissa, mentre i presenti osservano Ryou con espressioni diverse – il giudice sembra confuso, l’avvocato disperato e Rei soddisfatta.
Enji, invece, si sente di colpo più leggero.

Un’esclamazione di esultanza accompagna lo schioppo del tappo che vola via dalla bottiglia.
Lo studio di Rei è proprio come Enji se lo ricordava, non sembra cambiato di una virgola nel corso degli anni – le pareti blu di Prussia, la scrivania con tutte le pratiche ordinatamente sistemate, i divanetti all’ingresso. Quel giorno si è riunito lì un folto gruppetto di persone – ci sono Shouta e Hizashi con Eri e Hitoshi, Emi e, naturalmente, Keigo. I presenti si passano tra loro calici di spumante, e l’atmosfera generale è di grande allegria.
Dopotutto, c’è più di una cosa da festeggiare.
Se, infatti, l’occasione è principalmente quella di celebrare la fine dell’indagine, tutti sanno bene cosa questo stia implicitamente a significare.
«Congratulazioni, Rei.» Aizawa è il primo a parlare, lo sguardo che si posa con ammirazione sulla donna. «Adesso potrai partire per Kyoto a cuor leggero.»
Rei abbassa per un momento lo sguardo sulla scrivania, le labbra piegate in un sorriso. «Oh, sapete che niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza l’impegno di tutti voi», commenta, modesta, tornando a osservare i presenti. «Però sì, è vero. Dopo aver risolto questo caso, sento di aver finalmente chiuso un capitolo importante della mia vita. Chissà, forse questo è stato il mio modo per offrire l’ultimo saluto a Enji.»
Shouta rotea gli occhi, ma non lo fa con malizia – forse la sua è solo esasperazione. «Enji», bofonchia, rassegnato. «La sua presenza è sempre stata così ingombrante che a volte sembra che non se ne sia mai andato davvero dal commissariato.»
Enji non ha bisogno di voltarsi verso Keigo per sapere che sulle labbra del ragazzo è comparso un sorriso imbarazzato.
«Beh, però in fin dei conti è vero», si ritrova a convenire Hizashi. «Se non fosse per la sua indagine sulla crimson, probabilmente oggi non saremmo arrivati a questo risultato.»
Shouta incassa la testa nelle spalle, con fare arrendevole. «E va bene», cede allora, sollevando il calice in aria. «Allora facciamo che il prossimo brindisi lo dedichiamo a lui.»
La proposta raccoglie consensi entusiasti tra i presenti, che si ritrovano ad annuire con decisione. Poco dopo si limitano a imitare Aizawa, alzando anche i loro bicchieri.
«A Enji», pronuncia, con fare solenne. «Senza il quale non saremmo riusciti a risolvere questo caso e che continua a tormentare la nostra esistenza.»
«A Enji», ripetono tutti, in un coro commosso.
«Testa di cazzo», commenta Enji, alle spalle di Shouta.
Seduto vicino a Keigo su uno dei due divanetti c’è Hitoshi, impegnato a tenere Eri sulle gambe. Lei, divertita e confusa, continua a fargli domande su quello che sta succedendo a cui lui cerca di rispondere, un po’ impacciato. Lo zainetto a forma di ranocchia è a terra, lì vicino a loro.
Alle parole di Enji, Keigo non riesce a trattenere un sorriso. Mentre gli altri bevono, gli sguardi dei due sono l’uno solo per l’altro.


Eri corre allegra davanti a sé, mentre Hitoshi fa fatica a starle dietro.
La risata della bambina riempie l’aria, e Shouta si chiede quando sia stata l’ultima volta che l’ha vista così spensierata.
È sera e lui, Hizashi e i ragazzi stanno facendo una passeggiata in città. Intorno a loro ci sono i locali che iniziano a riempirsi di clienti per la cena, le luci dei lampioni che cominciano ad accendersi lungo la strada e si riflettono nel fiume.
«È tutto perfetto», valuta Hizashi, con quell’aria da eterno bambino meravigliato che ha fatto innamorare Shouta di lui.
Shouta si ferma, e Hizashi si sente tirare indietro, la mano di Aizawa ancora stretta attorno al suo polso. Sta per dirgli qualcosa, ma prima che possa riuscirci le labbra di Shouta sono sulle sue, intrappolandole in un bacio intenso.
«Adesso lo è», precisa Aizawa, sentendosi sereno come non gli capitava da tanto tempo.
Sul volto di Hizashi compare un sorriso delicato. Ti amo, vorrebbe dirgli. Ti amo anch’io, finirebbe di sicuro per rispondergli Shouta.
I due riprendono a camminare, affrettandosi a raggiungere Hitoshi ed Eri.

«Questo era l’ultimo.»
Lo sguardo di Rei si ritrova a vagare in quello che per lunghi anni fino a poche ore fa è stato il soggiorno di casa sua. Ha appena portato in macchina l’ultimo pacco con le cose che ancora non aveva spedito a Kyoto, quello stretto necessario che ha tenuto con sé in quei pochi giorni d’indagini a Tokyo.
Keigo è davanti a lei, e la osserva sorridente. Ha proposto con piacere a Rei di aiutarla con gli scatoloni, così adesso si ritrova in quella casa che la donna per anni ha condiviso col marito.
Gli occhi di Rei si posano con dolcezza e riconoscenza sul ragazzo. «Ora che farai?», domanda, premurosa.
Keigo porta le braccia dietro alla schiena, dondolando un po’ sui talloni. «L’istituto è stato chiuso», ammette, chinando appena la testa di lato. «Era inevitabile, dopo tutti gli scandali che sono usciti fuori trovare dei finanziatori disposti a supportare il progetto era un po’ un suicidio. Nei giorni scorsi sono stato a prendere la mia roba e per il momento mi sto appoggiando da Kaina. Adesso… probabilmente cercherò di riaprire l’Owl. Sento che, in un certo senso, lo devo a mia madre.»
Rei annuisce, colpita. «È una splendida idea», si ritrova a valutare, con stupore.
Keigo accenna un altro sorriso nella sua direzione, e Rei si sporge in avanti, abbracciando il ragazzo.
È una stretta così tenera e materna che, per un momento, Keigo è colto di sorpresa, imbarazzato. Le braccia di Rei, però, sono troppo gentili, così poco dopo si è già sciolto e cerca un po’ impacciato di restituirle l’abbraccio come può.
«Lo sai che per qualsiasi cosa io ci sono sempre, sì?», gli domanda la donna, passando una mano tra i suoi capelli dorati.
«Certo…», le assicura lui, posando una guancia sulla sua spalla.
Rei scioglie lentamente l’abbraccio. Quando si separa dal ragazzo, fruga per un momento nella tasca della giacca, per poi recuperare qualcosa e porgergliela.
«Queste sono per te», spiega, lasciando cadere il mazzo di chiavi nelle mani di Keigo. «Sono di questa casa. Ci ho pensato a lungo, e mi sono detta che piuttosto che lasciarla a qualche sconosciuto, è giusto che sia tu ad averla. Hai fatto così tanto per me ed Enji, e sono certa che anche lui sarebbe d’accordo.»
Keigo le rivolge uno sguardo pieno d’imbarazzo, mentre dopo un primo istante in cui non è riuscito a far altro che restare immobile cerca di restituirle le chiavi. «No, Rei, non posso accettare», balbetta, incredulo. «È d-davvero troppo…»
Rei posa gentilmente le dita su quelle del ragazzo, facendogliele richiudere attorno alle chiavi. «No, non lo è», lo rassicura lei, col suo tono pacato.
Keigo rivolge uno sguardo intenerito alla donna, che gli lascia una carezza leggera sulla guancia. Rei gli dedica ancora un sorriso sereno, per poi infine aprire per l’ultima volta il portone di casa, richiudendolo mentre abbandona alle proprie spalle quegli anni di vita a Tokyo.
Il portone si chiude, e da dietro di esso Keigo vede comparire Enji.
Ha assistito a tutto il saluto tra i due, e si trova a valutare che, come al solito, anche stavolta Rei ha preso la decisione giusta: non esiste al mondo persona più meritevole di Keigo di abitare in quell’appartamento.
«Ha ragione lei», commenta infatti, chinando appena il capo verso il portone.
Lo sguardo di Keigo si sposta di lato, coperto da un velo di malinconia. «Dunque ci siamo…», valuta, esitante.
Enji sa cosa sia a turbare il ragazzo – ne sono consapevoli entrambi, in realtà. Ormai il suo tempo nel mondo dei vivi sta per scadere, e sono giunti ai saluti finali.
«Beh, sapevamo che questo momento sarebbe arrivato», gli fa notare Enji, stringendosi nelle spalle mentre gli rivolge un sorriso incoraggiante.
Keigo si avvicina a lui, socchiudendo le palpebre. «Cerchiamo almeno di salutarci come si deve, allora», propone, con voce suadente.
Prima che Enji possa chiedergli cosa intende, sente il proprio corpo guadagnare nuovamente densità. Osserva il ragazzo con un’espressione sorpresa, credeva che non sarebbe più ricorso a quell’espediente, ma Keigo non gli lascia il tempo di rivolgergli una parola, perché l’istante successivo gli ha già gettato le braccia al collo, posando le labbra sulle sue.
Enji si ritrova a chiudere gli occhi, pieno di meraviglia. Affonda le dita tra i capelli del ragazzo, stringendolo a sé mentre approfondisce il bacio, spingendo Keigo con la schiena contro la parete.
«Non mi lasciare», sente mugugnare il ragazzo, tra un bacio e l’altro. «Ti prego, non mi lasciare…»
Enji sente che c’è qualcosa di diverso, questa volta. Nelle parole di Keigo, nel modo in cui le sue dita s’aggrappano ai vestiti, avverte una cieca disperazione.
«Devo andare, lo sai…», sussurra, prendendogli il viso tra le mani.
«I-io non ce la faccio senza di te…», replica ancora Keigo, con la voce rotta.
A Enji sembra di non aver mai visto il ragazzo così vicino al pianto come in quel momento. «Sì che ce la fai», lo rassicura, scostandosi appena da lui ma continuando a tenerlo vicino a sé. «Sei riuscito a sopravvivere in questi tre anni senza di me o sbaglio?»
«Sì, ma guarda dov’ero finito!», insiste il ragazzo, sconfortato, lasciandosi sfuggire una risata triste. «In una sorta di comune per gente con i superpoteri…»
«Ehi, Keigo.» Enji gli prende il volto tra le mani, cancellando i segni di lacrime dalle guance e afferrandogli il mento tra pollice e indice per fargli sollevare il capo. «Guardami. Sei una delle persone più intelligenti e coraggiose che conosca. Puoi riuscire a fare tutto ciò che desideri. Io ho piena fiducia in te.»
Il ragazzo ricambia il suo sguardo, gli occhi dorati che tremolanti si aggrappano ai suoi come alla ricerca di un’ancora.
«Enji…», mormora piano, un sospiro che gli sfugge dalle labbra mentre le palpebre tornano ad abbassarsi sui suoi occhi.
Enji gli passa per un’ultima volta il pollice sulle labbra, facendo appena in tempo prima di tornare di nuovo inconsistente.
Keigo gli volta piano le spalle, lasciandosi sfuggire un singhiozzo mentre stringe le braccia attorno al corpo. «Vai, adesso», lo esorta, debolmente. «Vai, perché altrimenti non ce la faccio a lasciarti andare.»
Enji allunga istintivamente una mano verso il ragazzo, cercando di sfiorarlo, ma tutto ciò che le sue dita si ritrovano a stringere è solo aria. Va bene così, in fondo, si dice tra sé. Dopotutto, non potrebbe essere altrimenti.
Enji chiude gli occhi, svanendo e lasciando per l’ultima volta quella casa.
Quando Keigo torna a voltarsi, è rimasto da solo nell’appartamento.
Fuori, un tuono squarcia l’aria mentre comincia a piovere. Come la prima volta, si ritrova a valutare Keigo.
Le lacrime continuano a scendergli dagli occhi, mentre le sue labbra si piegano in un sorriso.


Enji si ritrova sul tetto dove ha perso la vita, tre anni prima.
Non fa in tempo ad arrivare lì che un temporale si abbatte sulla città. Come quella notte, come la prima notte.
La luce è lì, dove l’ha vista per la prima volta, dopo la sua morte. È calda e accogliente come sempre, ed Enji sa che non vuole più scappare via da lei.
Non si è mai chiesto che cosa ci sia ad aspettarlo oltre di essa. Se potesse scegliere, probabilmente sarebbe bloccato all’infinito in un istante, mentre lui e Keigo sono distesi su un letto e tiene il ragazzo tra le braccia.
Keigo. Enji non sa come, ma non ha dubbi che lui e il ragazzo sapranno ritrovarsi di nuovo, in qualche modo. Sono destinati a incontrarsi in ogni universo, ormai ne è certo.
Finalmente, Enji attraversa quella luce, pronto ad andare.

Nella vita, la fine non esiste.
Nelle storie, invece, sì.

✽✽✽

È una giornata tiepida di primavera. Dalla vetrina del bar, la luce del sole entra all’interno del locale e s’infrange sulle sue ciglia dorate.
Keigo si passa una mano sulla fronte. Alla fine ce l’ha fatta, è riuscito a riaprire l’Owl e adesso se ne occupa dedicandosi anima e cuore all’attività.
Tutto sommato, gli affari stanno anche andando bene. C’è sempre un viavai di clienti, e sente che non ha niente di cui lamentarsi, davvero.
Pulisce con un panno il bancone del bar, sereno. È metà mattinata, a quest’ora sono quasi tutti a scuola o al lavoro, così lui può tirare un sospiro di sollievo e godersi un momento di calma prima della prossima ora di punta.
Di colpo, la sua attenzione viente attirata dallo sfarfallio di una luce, in una delle lampade sospese sopra al bancone. Resta per un attimo interdetto, come accarezzando un dolce ricordo.
Probabilmente dovrebbe cambiare quella lampadina, già.
Poco dopo, la campanella sopra la porta trilla, annunciando l’arrivo di un gruppo di nuovi clienti.
Keigo scuote la testa scacciando un pensiero, per poi affrettarsi a raggiungere i clienti mentre rivolge loro un sorriso.



fantasmajpg



note
Fine.
ah, mi sembra incredibile essere riuscita finalmente ad arrivare alla conclusione di questa storia. è stato un viaggio lunghissimo, la storia è stata in stesura per dieci mesi, se poi ci aggiungiamo i tre di pubblicazione arriviamo a circa un anno. in effetti, era più o meno questo periodo quando, l'anno scorso, finivo di scrivere il primo capitolo. un percorso impegnativo, non c'è che dire.
non so se la risoluzione della parte investigativa sia stata troppo affrettata, ma la verità è che sono una frana con queste cose.
per quanto riguarda enji e keigo, invece, lo confesso: avrei preferito molto di più lasciarli per sempre insieme, ma mi rendo conto che questa fosse l'unica soluzione sensata possibile.
un po' mi spiace che la storia sia "floppata", dall'altra parte però vbb dai, non fa niente, ormai è andata.
adesso sinceramente penso che mi prenderò una pausa dal sito. un po' perché i mesi passati dietro a questa long hanno prosciugato le mie energie, un po' perché al momento sto lavorando a qualcosa che non ho intenzione di postare.
grazie a chiunque abbia letto e seguito questa long, spero che vi sia piaciuta! ♡

aria

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