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Lista capitoli: Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 - LA NASCITA DELLO STATO LIBERO *** Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - IL TASSO E LA VOLPE *** Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - L'ATTACCO A GROTE MUREN *** Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - INCONTRO AL PASSO DI GAEL *** Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - INFERNO BIANCO *** Capitolo 6: *** EPILOGO - A LA VICTOIRE ***
Capitolo 1 *** CAPITOLO 1 - LA NASCITA DELLO STATO LIBERO ***
“Senza
aristocrazia,
lo Stato è un vascello senza timone.”
(Napoleone
Bonaparte)
CAPITOLO 1
LA NASCITA DELLO STATO LIBERO
Come un fulmine a ciel sereno.
Una
tempesta impossibile da fermare.
Prima
ancora che la notizia potesse uscire dai confini di Eirinn per bocca degli
esploratori o delle spie straniere, un esercito di messaggeri a cavallo
percorse come uno sciame di locuste ogni strada, ogni sentiero. E una mattina, con
una coordinazione quasi sconvolgente, sulle bacheche per gli annunci ufficiali
di tutte le maggiori città dell’Impero e delle altre nazioni vicine comparve un
annuncio.
A chiunque legga questo messaggio,
Abitanti
di Erthea.
Vi
parlo a nome degli abitanti della vecchia provincia di Eirinn, dell’Impero di Saedonia.
Con
il favore di Gaia ed il sostegno dei governanti locali abbiamo sconfitto le
forze imperiali di stanza nel Castello e preso il pieno controllo della
provincia.
Tutti
coloro che hanno condiviso i nostri ideali e appoggiato la nostra impresa sono
al nostro fianco, ed ognuno di loro è pronto a fare la sua parte nella nascita
e nello sviluppo della nostra nuova nazione.
Per
questo motivo, annuncio ufficialmente la nascita dello Stato Libero di Ende, il quale a partire da questo giorno agirà come
nazione indipendente e sovrana in accordo con la volontà del suo popolo.
Tutte
le distinzioni di razza e ceto sociale sono state abolite, e coloro che hanno
commesso dei crimini nei confronti della nostra gente e siano caduti nelle
nostre mani, o si siano consegnati spontaneamente, saranno presto sottoposti al
giudizio della legge dinnanzi ad un regolare processo.
Con
il presente proclama intendiamo affermare l’assenza di qualunque volontà aggressiva
nei confronti dei nostri vicini.
Quale
segno di buona volontà, tutti i contratti e gli accordi commerciali
precedentemente vigenti tra le industrie locali e soggetti stranieri, siano
essi referenti a privati cittadini o entità nazionali, saranno immediatamente
ripristinati, fatti salvi quelli che dovranno essere rinegoziati con il nuovo
governo, e i cui tenutari saranno prontamente informati entro il prossimo mese
lunare.
Allo
stesso modo in cui ribadiamo la nostra volontà nell’astenerci a prendere parte
ad un qualunque conflitto di aggressione, afferiamo tuttavia anche la nostra
ferma determinazione a fare tutto quanto è nelle nostre capacità per affrontare
qualsiasi minaccia dovesse levarsi contro di noi.
Abbiamo
preso la spada per affermare il nostro diritto di essere padroni della nostra
patria, delle nostre case e del nostro destino, senza ingerenza alcuna di parte
di nazioni straniere e senza alcuna volontà di consegnare queste terre nelle
mani di un qualunque nemico dell’Impero.
Con
gli auspici di Gaia e la benedizione della Trinità tutta, possa questo giorno
essere ricordato come la nascita di una pacifica e serena collaborazione tra la
nostra patria ed il resto di Erthea.
Il
Primo Ministro e capo di governo dello Stato Libero,
Daemon
Haselworth
Dalla piazza della grande città di Maligrad la notizia passò di bocca in bocca, di casa in
casa, fino ad arrivare nel cuore del palazzo imperiale che dominava la città.
Sua
Altezza Imperiale Arnold Ademar XVI,
centoventicinquesimo sovrano di Saedonia, era
soprannominato dal suo popolo e da tutti i suoi vicini Giudice di Erthea,
perché una sua decisione era capace di cambiare il destino del mondo, tali
erano il potere e l’influenza dell’impero che governava.
A
distanza di cinque secoli, il mito di Saedonia come
nazione che oltre ad aver dominato metà del continente aveva guidato gli umani
alla vittoria sul Signore Oscuro riecheggiava ancora come un tuono, scolpito
nel marmo e dipinto in oro sulle pareti della reggia.
La
sala del trono dove Sua Maestà sedeva, il più delle volte in solitudine immerso
nei propri pensieri, era dominata dalla gigantesca statua d’oro di un leone
rampante che torreggiava alle spalle dello scranno regale, anch’esso scolpito
in modo da raffigurare le fauci spalancate del maestoso felino.
Perché
così come c’era un solo re della foresta, così, si diceva, esisteva un solo re
tra gli uomini.
Nonostante
avesse abbondantemente superato i cinquant’anni Re Ademar
appariva ancora come un uomo nel pieno del suo vigore, forte e risoluto come il
giorno della sua incoronazione.
Come
amava ripetere lui stesso l’età l’aveva reso più saggio, ma mai in vita sua era
stato impulsivo o sprovveduto, non per niente il popolo lo aveva soprannominato
l’Imperatore Stratega.
«Vostra
Maestà.» disse il Barone Flavio Marcello, capo del senato e suo stimato
consigliere, entrando nella stanza con una copia dell’annuncio in mano.
«So
già tutto, amico mio.»
«Questo
è un fatto di una gravità inaudita. Prima d’oggi non era mai successo che dei
ribelli reclamassero il dominio di una parte del nostro impero in modo tanto
sfacciato. Un simile affronto non può assolutamente restare impunito.»
«Contieni
la tua foga, Marcello. Longinus era un incapace, ma
la Quindicesima era una delle nostre legioni migliori, e il Generale Ron un veterano di molte battaglie. Se il proclama e le
voci dicono il vero, i ribelli li avrebbero spazzati via in meno di un mese.
Solo questo fatto direi che suggerisce di tenere un atteggiamento prudente.»
«Comprendo
la vostra preoccupazione Maestà, ma mi sento in dovere di riaffermare la
gravità di questa situazione. Eirinn è da sempre una delle nostre province più
importanti. Nel corso degli anni abbiamo combattuto senza sosta, prima con il
Regno e poi con l’Unione, per conservarne il dominio. Le sue miniere e i suoi
giacimenti sono ciò che tiene in vita il nostro esercito e la nostra economia.
Senza il suo ferro per le armi e il suo argento per le zecche, con cosa
sosterremo la ribellione orientale e il mantenimento della tregua con il
Principato?»
«Forse
non è così grave come tu la dipingi, amico mio. Il proclama non dice forse che
tutti i contratti commerciali saranno rispettati? Potrebbe costarci un po’ di
più, ma non è meglio questo che sacrificare chissà quanti soldati per piegare
un popolo che si è sempre mostrato insofferente al nostro dominio?»
«Questi
non sono tempi facili, Divino Imperatore. I venti di ribellione soffiano
ovunque a Saedonia. Scendere a patti con quei ribelli
sarebbe come ammettere la nostra debolezza. Per non parlare del fatto che
riconoscere l’esistenza di una nazione nata da una rivolta di schiavi potrebbe
dare adito a nuove insurrezioni, proprio in un momento in cui l’Impero ha più
bisogno che mai del lavoro degli schiavi.»
Ademar
girò lo sguardo verso il grande mosaico sulla parete alla sua destra che
rappresentava gli sterminati domini dell’Antico Impero, prima che crisi di
governo, imperatori incapaci e sconfitte militari costringessero i suoi
predecessori a spezzettarlo in tanti stati minori, un lento stillicidio che ora
sembrava essere ricominciato.
«Quando
ho stretto la mano di mio padre mentre moriva, gli ho promesso che avrei
riportato l’Impero alla gloria del passato. E invece, da quando siedo su questo
trono, non ho fatto altro che trascinarmi da una crisi all’altra. E ora, guarda
in che situazione siamo. Connelly si mangia i miei confini, i baroni d’oriente
mi ringhiano contro, e ora un pugno di ribelli si porta via in pochi giorni una
delle nostre province più importanti. E in tutto ciò non posso neanche sperare
in chi verrà dopo di me, dal momento che il mio unico figlio è un completo
idiota. Che sia dunque il mio destino di essere ricordato come l’ultimo
imperatore ad aver guidato Saedonia?»
«Non
dovete parlare così, Maestà. Ho servito due imperatori prima di voi, e vi prego
di credermi se vi dico che voi svettate come un gigante a confronto di vostro
nonno e vostro padre. Loro sono stati grandi, ma voi avete tutto per esserlo
ancora di più, e l’avete dimostrato in più occasioni.»
«Le
tue parole mi lusingano Marcello, ma sappiamo bene tutti e due che la tua
opinione non ha molti sostenitori in senato. Non sono state forse le mie
riforme a provocare la rivolta dei Baroni, o la mia volontà di porre fine alla
guerra con Connelly che ha consegnato al principato la città di Tagrea?»
«Ma
il popolo vi ama, Maestà. Loro lo sanno che è merito vostro se per la prima
volta da cinquant’anni l’Impero è in pace con tutti i suoi vicini.»
«Già,
ma a quale prezzo? Saedonia in questo momento è un
leone ferito, che ruggisce e si dimena per fingere di essere ancora forte come
un tempo.»
«E
se vogliamo che quel leone torni a governare sul mondo, è necessario che dia
prova una volta per tutte della sua forza. Per questo mi sento in dovere di
consigliarvi di risolvere al più presto questa crisi. Anche perché al momento
non possiamo sapere come reagirà l’Unione. Medici non è tipo da agire in
maniera impulsiva, ma i membri del suo consiglio appartengono quasi tutti alla
fazione interventista, e certamente non si lasceranno scappare l’occasione di
poter mettere le mani su Eirinn e le sue risorse.»
In
quel momento un servitore aprì la porta della sala annunciando l’arrivo del
Capitano Montgomery, che chiedeva con insistenza di essere ricevuta.
«Non
ha perso tempo.» sorrise divertito il sovrano. «Falla passare.»
L’attendente
non fece neanche in tempo a spostarsi, e con il passo sicuro di un nobile e il
portamento fiero di un soldato la giovane Aria si presentò al cospetto
dell’Imperatore, inginocchiandosi rispettosamente una volta giunta ai piedi del
trono. Con lei al suo fianco, come sempre, il suo fidato attendente, un
uomo-uccello alto e magro più o meno della sua stessa età, le cui ali color
terra, per quanto arruffate e spiumate, brillavano ancora di una luce
particolare.
In
pochi si sarebbero permessi di introdurre un mostro alla presenza del sovrano,
ma Aria era troppo orgogliosa di Zypax e troppo
affezionata a lui per rinunciare alla sua compagnia.
«È
passato un po’ di tempo, mia cara.»
«Vostra
Altezza, suppongo non vi sia bisogno che io vi dica il motivo per cui sono
qui.»
«Naturalmente.
Io e il Barone ne stavamo parlando proprio adesso.»
«Datemi
l’ordine, e io vi do la mia parola che sconfiggerò i ribelli. Muovendoci adesso
potremo arrivare ai confini della provincia giusto in tempo per quando i
valichi montani saranno liberi dalla neve.»
«Cos’è
tutta questa tracotanza?» disse irritato Marcello. «Nessuno ti ha nominata
comandante di qualsivoglia spedizione. E comunque che ci fa qui questo animale?
Solo perché appartieni alla famiglia reale di Eirinn non significa che puoi
fare quello che vuoi.»
«Quelle
terre una volta appartenevano alla mia famiglia.» rispose la ragazza lanciando
un’occhiata obliqua al vecchio senatore. «Le conosco meglio di chiunque altro.
E per quanto riguarda Zypax, è al mio servizio da
prima che iniziassi a frequentare l’accademia. Non c’è al mondo guerriero più
abile e devoto di lui. Mi ha salvato la vita in innumerevoli occasioni, e come
me ha versato sangue per la gloria e la prosperità dell’Impero. Ritengo col
dovuto rispetto che abbia diritto di stare alla presenza di Sua Maestà tanto
quanto voi.»
«Adesso
calmatevi tutti e due.» disse bonariamente il sovrano alzando il braccio
«Ammiro la tua determinazione Aria, e sono sicura che sarai in pensiero per tuo
padre e tuo fratello.»
«È
così, Vostra Maestà. Mio padre come sapete al momento non gode di buona salute,
e mio fratello Victor malgrado il suo impegno potrebbe non essere in grado di
gestire questa crisi da solo.»
«Forse
non è il caso di essere così pessimisti. Come stavo dicendo anche al mio
scorbutico amico Marcello, i ribelli non sembrano intenzionati a portare la
loro lotta al di fuori dei confini della provincia.»
«Come
sicuramente sapete, il reunionismo è forte in tutti i
domini del vecchio Granducato. Data la situazione, non posso escludere che
qualcuno dei consiglieri di mio fratello riesca a convincerlo a dichiarare
guerra ai ribelli nel tentativo di restituire ai Montgomery il controllo anche
della parte occidentale del nostro antico territorio.»
«Sarebbe
un tradimento in piena regola!» tuonò Marcello. «Quei territori sono stati
regolarmente ceduti all’Impero dai vostri antenati come forma di compensazione
per i debiti che il Granducato aveva accumulato con la famiglia reale. L’Eirinn
Occidentale appartiene a noi!»
«Ne
sono consapevole, e lo è anche mio padre. Se lui fosse nel pieno delle sue
forze non mi preoccuperei. Ma Victor è impulsivo e malconsigliato, soprattutto
da nostro zio Philippe.»
«Non
era stato esiliato?» chiese l’Imperatore
«Victor
ha annullato la sentenza che nostro nonno gli aveva inflitto. È stato uno dei
suoi primi atti da quando ha assunto le funzioni di governante dopo
l’aggravarsi della malattia di nostro padre. Ora comanda l’esercito granducale
assieme al Generale Lefde.»
L’Imperatore
rimase in silenzio per alcuni istanti, passandosi sulla mano sul viso e
sfregandosi la punta della barba ingrigita dall’età.
«Alla
luce di quello che mi dici capisco la tua inquietudine, ma purtroppo al momento
non posso fare niente per te. In questo momento buona parte del nostro esercito
è impegnato a combattere contro i Baroni ribelli, e le poche legioni che
rimangono sono obbligate dalle circostanze a presidiare i luoghi in cui si
trovano attualmente.»
«In
questo caso, vi prego di permettermi almeno di recarmi all’est per dare il mio
contributo. Se i ribelli dovessero essere sconfitti, a quel punto le legioni
impegnate nella guerra potrebbero essere ridestinate al sud per riconquistare
la provincia perduta.»
«Stiamo
combattendo con Severus e gli altri baroni da più di
dieci anni senza ottenere risultati, e questa ragazzina pensa di poter vincere
la guerra in pochi mesi? Quanta arroganza!»
«Basta,
Marcello. Sembri molto sicura di te, giovane Montgomery. In questo caso,
considerati messa alla prova. Ti nomino comandante in terza dell’esercito
orientale.»
«Ma,
Maestà…!?»
«Se
con il tuo contributo riusciremo finalmente a sconfiggere i ribelli non solo
prometto di ridestinare parte di quelle truppe alla riconquista di Eirinn, ma
prenderò anche in considerazione l’idea di nominarti comandante della
spedizione.»
«Vi
ringrazio infinitamente, e prometto che non tradirò la Vostra fiducia. Vi
porterò io stessa la testa del Barone Severus.»
Quindi,
fatto un ultimo inchino, la giovane lasciò la stanza assieme al suo servitore.
Marcello aveva i nervi a fior di pelle, ma quando la rabbia si fu un po’
calmata non poté fare a meno di apprezzare l’astuzia con cui l’Imperatore aveva
apparentemente gestito la questione.
«Molto
saggio, Vostra Maestà. Inviando quella scalmanata all’est vi siete assicurato
che non commetta qualcuna delle sue proverbiali sciocchezze, senza contare che
qualora dovesse fallire nel suo compito la poca considerazione di cui gode
nell’esercito si sgretolerà una volta per tutte.»
«Dicono
che l’età renda più saggi amico mio, ma a quanto vedo questo concetto non si
applica a te.»
«Maestà?»
«Tu
la sottovaluti, Marcello. Tutti voi la sottovalutate. Si è diplomata
all’Accademia Militare con un anno di anticipo, e alla scuola ufficiali ha
messo in riga i suoi stessi professori. Nemmeno Adrian, il figlio di Longinus, era stato capace di tanto. Ricordo ancora quando
suo padre mi supplicò letteralmente di fare uno strappo alla legge così da
permetterle di ereditare il controllo del Granducato al posto di suo fratello.»
«È
chiaro che la tenete in altissima considerazione. Dunque perché avete rifiutato
la richiesta?»
«Perché
c’è solo una cosa peggiore di un idiota su un trono. Un genio su un trono.»
rispose il sovrano con una strana luce negli occhi, e stringendo un po’ più
forte la mano attorno allo scettro imperiale. «Fai preparare un piedistallo e
un piatto d’argento.»
«Per
quale motivo?»
«Per
quando quella ragazza mi porterà la testa di Severus.»
Non era facile essere un elfo ad
Erthea.
In
un mondo che amava la legge, l’ordine e i confini non c’era posto per un popolo
di raminghi nomadi, in perenne spostamento e sempre pronti a piantare le loro
tende ovunque vi fossero foreste vergini per cacciare o ricchi pascoli per i
loro cavalli.
Le
vaste terre che occupavano –un’inezia se rapportato a quelle che i loro
antenati attraversavano da un capo all’altro quando gli umani ancora vivevano
nelle case di paglia– erano state il prezzo che Saedonia
e la Volkova avevano dovuto pagare per ottenere il
loro supporto durante le Guerre Sacre. Il loro contributo di abili arcieri,
cavallerizzi ed esploratori era stato determinante nell’arrestare
l'apparentemente inarrestabile avanzata verso est delle armate del Signore
Oscuro, e consapevoli di ciò non avevano fatto sconti nel momento di avanzare
le proprie richieste.
Non
erano sicuramente i domini sterminati dei loro avi, ma almeno da quel momento
in poi avevano potuto tornare ad essere sé stessi, preservando i loro riti e le
loro culture.
Ma
anche se un elfo poteva dirsi libero in quelle terre, bastava mettere piede in
qualunque altra nazione per essere nuovamente guardati con diffidenza e
soggetti ad ogni sorta di pregiudizio, in modo meno sprezzante ma di sicuro non
troppo diverso dai mostri.
Così
se ne stavano per conto loro cacciando, coltivando e spendendo serenamente la
loro lunga vita, lontani dalle questioni degli umani, divisi in tantissime
tribù che raramente si incontravano persino tra di loro, se non in occasione
dei raduni annuali nelle terre sacre o per dirimere dispute dinnanzi al
Consiglio degli Anziani.
Ovviamente
non tutti i clan erano uguali, anche se a quelli più grandi e potenti piaceva
pensare e dire il contrario.
Capitava
così che quando si trattava di nominare un rappresentante, un esploratore o una
spia per qualche incarico pericoloso alcuni clan erano più sfavoriti di altri
nella scelta.
«Si
può sapere dov’è finita Natuli?» sbottò il Grande
Capo Sawané della tribù Nara «Ho ordinato di
richiamarla dalla caccia giorni fa.»
«Abbiamo
mandato esploratori in tutti i suoi abituali territori di caccia, ma nessuno è
riuscito a trovarla. Così ieri ho detto ai miei migliori guerrieri di andare a
cercarla nella foresta della morte.»
«Dai,
non scherziamo.» disse un altro dei capifamiglia. «Nessuno sarebbe così pazzo
da avventurarsi da solo lì dentro.»
«Ti
sei scordato che stiamo parlando di Natuli?»
Proprio
in quel momento un trittico di conigli demoniaci, animaletti capaci di sbranare
un lupo in pochi secondi, piombò all’interno della tenda sollevando una nube di
polvere; tutti i presenti scattarono in piedi per la paura, solo per accorgersi
dopo qualche attimo che erano già morti stecchiti, legati per le zampe
posteriori e pronti per lo spiedo.
«Allora?
Si può sapere cosa c’è di così urgente per venirmi a disturbare durante la
caccia?»
Che
Natuli fosse tanto bella quanto suscettibile era una
cosa nota a tutti, non solo nella sua tribù, ma il suo rivolgersi in modo tanto
irrispettoso persino agli alti rappresentanti della sua gente faceva andare ogni
volta su tutte le furie i capifamiglia, e più in generale chiunque fosse
costretto ad avere a che fare con lei.
Sawané
fu l’unico a non scomporsi, forse perché era l’unico che ormai si fosse
rassegnato ad accettare quella testa calda così com’era.
«Lasciateci
soli.» ordinò, venendo subito obbedito
«Ebbene?
Spero davvero che sia una cosa importante. Stavo dietro a quel tarkana da tre giorni, e ormai l’avevo quasi preso.»
«Anche
se sono tuo padre, vorrei che tu ricordassi che resto pur sempre il capo di questa
tribù. Pertanto mi aspetto che…»
«Che
mi rivolga a te con il dovuto rispetto, e bla, bla, bla. La conosco questa
filastrocca. Avanti, fuori la voce, così poi posso andare a farmi un bagno.»
«Immagino
che perfino tu avrai sentito cosa è successo a Saedonia.
Il Consiglio degli Anziani è molto preoccupato dalla comparsa di questa specie
di nazione di mostri. Secondo alcuni potrebbe essere presagio della comparsa di
un nuovo Signore Oscuro.»
«Quei
vecchi bacucchi pensano di vivere ancora all’epoca delle Guerre Sacre. Succede
qualcosa appena fuori dal normale, e subito gridano al cataclisma imminente.»
«Sii
più rispettosa, figlia mia. Il Consiglio più di chiunque altro ha a cuore il
benessere del nostro popolo.»
«Se
fosse così non ci costringerebbero a passare quasi metà dell’anno in questa
fossa mefitica a due passi dalla Foresta della Morte, lasciando alle loro tribù
i pascoli migliori. Non sono altro che un branco di arraffoni che pensano solo
a sé stessi.»
«Ora
stai esagerando! Non ti permetto di parlare in questo modo del Consiglio!»
«Non
ti scaldare, che poi ti fa male alla salute. Quanti anni hai, seicento? Al tuo
posto starei attento a questi scatti d’ira.»
«Se
davvero ci tieni alla mia salute, allora una volta tanto cerca di comportarti
come si conviene ad un futuro capotribù. Ormai hai quasi duecento anni, è ora
che tu la smetta di fare la matta nelle foreste, o di far scappare tutti i tuoi
pretendenti.»
«Ecco,
lo sapevo.» disse la ragazza gonfiando le guance. «Mai una volta che si possa
evitare l’argomento.»
«Ma
davvero non ti vergogni di quello che fai, razza di figlia degenere? Il povero Damian cammina ancora zoppo! Che ti è saltato in mente di
farlo combattere contro una tigre nera?»
«Ha
detto lui che mi avrebbe seguito ovunque fossi andata, io l’avevo avvertito.»
Il
vecchio capo fece un paio di respiri profondi, ringraziando gli dèi che nessuno lo avesse visto dare di matto per
l’ennesima volta; non c’era niente da fare, per quanto cercasse ogni volta di
darsi un contegno e rimanere calmo, parlare con sua figlia riusciva sempre a
farlo uscire di testa.
«Ad
ogni modo, per tornare al discorso di prima, il Consiglio ha deciso di inviare
qualcuno nella nuova nazione per tenere d’occhio i ribelli e fare rapporto.
L’incarico come puoi immaginare è stato affidato alla nostra tribù.»
«E
tu hai deciso di inviare me. Lo sai che non sono tagliata per queste cose.
Politica, diplomazia e discrezione non sono esattamente il mio forte. Anzi,
diciamo pure che le detesto.»
«Non
ha importanza. A quanto si dice in giro questo Haselworth non fa distinzioni
tra umani e non-umani nello scegliersi i collaboratori. Per quanto non
propriamente adatte ad una principessa tu possiedi molte qualità che potrebbero
fargli comodo. Basterà che tu ti metta in mostra, cosa che invece ti riesce
molto bene.»
Natuli
sbruffò contrariata, prendendo ad avvolgersi attorno al dito una ciocca dei
lunghi capelli argentei.
«L’hai
detto tu stessa figlia mia. La nostra è una piccola tribù. Dobbiamo cogliere
ogni occasione possibile per accrescere il nostro prestigio. E forse un giorno,
quando prenderai il mio posto, i Nara potranno finalmente porsi sullo stesso
piano delle Cinque Grandi Tribù, e ottenere un proprio posto nei vasti
altipiani dell’ovest.»
«Tu
sogni, papà. L’ordine delle cose non si può alterare. Lo so io, lo sai tu, e
presto lo capirà anche questo Daemon.»
«Natuli…»
«D’accordo,
d’accordo. Lo farò. Quando dovrei partire?»
«Il
prima possibile. Abbiamo già inviato un messaggio ai nostri agenti a Faria. Raggiungerai i territori controllati dai ribelli
attraverso il confine del Granducato, passando dalla fortezza di GroteMuren.»
«Allora
sarà il caso che vada a fare i bagagli. Accidenti, che rottura.»
Gli abitanti di Connelly amavano i
giochi, e non c’era città piccola o grande in cui non ci fosse un’arena.
E
quella di Rosada, il secondo maggior porto
commerciale della nazione, era una delle più grandi, con un intero settore
riservato esclusivamente ai moltissimi mercanti e funzionari stranieri che ogni
giorno di ogni mese dell’anno visitavano la città per vendere e comprare.
«Vecchio
Yusuf!»
«Said,
ragazzo mio!»
«È
passato molto tempo. Sono felice di trovarvi in buona salute.»
«Per
i capelli di Gaia, guarda come sei cresciuto. Sembra solo ieri che eri un
ragazzino scalmanato che correva a destra e a sinistra per il bazar di Khariya, e guardati adesso.»
«Voi
esagerate, maestro. Non sono così importante e ricco. Non certo quanto voi,
almeno.»
«Attento
ragazzo, la modestia spesso non paga negli affari.»
«Comunque,
ammetto di essere un po’ confuso. Quando vi ho scritto proponendovi di
incontrarci per un saluto non avrei mai pensato che avreste scelto in un posto
simile.»
«Sei
a Connelly, ragazzo mio. Qui tutto, che si tratti di affari, guerra o proposte
di matrimonio, si discute non nella stanza di un palazzo, ma sulle gradinate di
un’arena. In realtà non amo molto questo posto e ci vengo molto poco, ma per il
mio discepolo preferito questo ed altro. Quindi forza, accomodati. Ho fatto
riservare i posti migliori. La battaglia inizia tra pochi minuti, intanto
serviti pure. Ci sono carne, vino, birra e frutta. E se vuoi qualcos’altro,
devi solo alzare una mano e chiedere agli inservienti.»
«Vi
trattate sempre molto bene a quanto vedo.»
«Non
mi lamento. Ma ora parlami un po’ di te. Ho sentito dire che ti occupi di
tessuti.»
«È
così. Tratto soprattutto seta di ragno delle caverne.»
«Bestie
pericolose. Tra gli avventurieri, la produzione e i trasporti ti costerà una
fortuna.»
«Abbastanza,
ma i guadagni compensano abbondantemente le spese. Ho trovato un gruppo di
avventurieri in gamba e una covata di ragni che produce un filo di ottima
qualità. Non posso ovviamente dirvi dove, sapete com’è. La concorrenza.»
Il
vecchio mercante esplose in una risata compiaciuta.
«Tranquillo,
ti capisco e ti approvo. Siamo mercanti tutti e due, dopotutto. Quindi sei qui
per trattare una vendita? Quando sei arrivato da Torian?»
«Due
giorni fa, ma non resterò molto a lungo. Giusto il tempo di concludere l’affare
e intendo ripartire subito, stavolta via terra.»
«Vorrei
tanto che i miei affari fossero floridi quanto i tuoi.»
«Avete
problemi?»
«Puoi
dirlo forte. Fin da quando mio nonno era un bambino, le rotte commerciali via
terra erano l’unico modo in cui questi barbari occidentali potevano rifornirsi
di merci provenienti dall’oriente, ma ora la situazione è completamente
cambiata.»
«Vi
riferite all’accordo che la Principessa ha stabilito con gli Jormen?»
«Quella
ragazzina testarda. Nessuno avrebbe scommesso un soldo su di lei. Invece nel
giro di due anni ha raggiunto l’armistizio con l’Impero e messo fine alle
scorrerie dei pirati nel mare del sud, e tutto questo senza mobilitare un solo
soldato. Come hai scoperto tu stesso le rotte marine ora sono molto più sicure
e veloci di quelle terrestri. E così ora io mi ritrovo a guadagnare la metà di
quello che facevo solo qualche anno fa.»
«Ho
parecchi amici nel settore dei traporti via mare. Potrei mettere una buona
parola per voi.»
«Ti
ringrazio figliolo, ma la verità è che questo mondo non fa più per me. Sono
vecchio. Il mio modo di fare affari ormai è superato, ed è tempo di fare spazio
a giovani intraprendenti e volenterosi come te. Ora sto pensando di investire
le mie ricchezze altrove, magari in quella nuova nazione di cui parlano tutti.»
«Vi
riferite allo Stato Libero?»
«Quando
ne ho sentito parlare per la prima volta non ci volevo credere. Con tutte le
leggi tese a garantire all’Impero il monopolio sui minerali e la pessima
gestione Eirinn era un pessimo posto per fare affari, ma il nuovo sovrano
sembra avere le idee molto chiare. Ha privatizzato le miniere e aperto agli
investitori stranieri. Ora chiunque può investire nella nazione, a condizione
di offrire le dovute garanzie di solvibilità. Pensa che garantiscono un
interesse del quattro percento annuo sui capitali investiti nei settori
agricoli e silvicoli, e addirittura del sette percento sulle quote di
partecipazione delle miniere.»
«Siete
certo che si tratti di un investimento sicuro? Sono una provincia ribelle. In
teoria potrebbero vedersi piombare addosso l’esercito imperiale in qualunque
momento.»
«È
quello che pensavo anch’io, fino a quando non ho scoperto che persino i
mercanti imperiali hanno iniziato a fare investimenti laggiù. Inoltre ho saputo
che c’è chi-sappiamo-noi a fungere da intermediario tra gli investitori e il sovrano
stesso. Con lui come garante, possiamo essere certi che i nostri interessi non
saranno mai messi in pericolo, indipendentemente da quello che dovesse capitare
allo Stato Libero.»
Il
giovane Said sorrise: «In questo caso, suppongo che d’ora in poi saremo soci in
affari.»
«Come?»
«Ricordate
che ho detto che devo ripartire via terra? In realtà è lì che sto andando. È
stato proprio chi sappiamo noi a contattarmi proponendomi di entrare in affari
con lo Stato Libero.»
«E
che cosa se ne fanno quei barbari della seta pregiata?»
«Non
cercano la seta, ma i carapaci dei ragni. Sono molto resistenti e costano poco,
quindi sono perfetti per costruire armature efficaci, leggere e a basso costo.»
«Che
idea bizzarra. A chi sarà venuta?»
«Credo
al nuovo ministro degli interni. Forse ne avete sentito parlare, è quell’Adrian
Longinus che ha fatto parlare di sé quando studiava
all’accademia militare.»
«Il
figlio del vecchio governatore!?»
«Proprio
lui. Al servizio dello stesso uomo che ha ucciso suo padre.»
«Se
è così, credo che possiamo stare tranquilli. Una volta l’ho conosciuto. Quello
non scommette mai sul cavallo sbagliato.»
«In
questo caso, che ne dite di fare un accordo? Io commercio esclusivamente via
mare, ma lo Stato Libero non si può certo raggiungere con le navi. Sto per
stringere un accordo con un mio conoscente dell’Unione che possiede un
magazzino a Michkarn dove intendo stoccare la merce,
ma poi sarà necessario trasportarla al nord seguendo le rotte via terra. Se
volete, potete occuparvene voi. Mi sentirei molto più sicuro ad affidare il mio
investimento a voi piuttosto che ad uno sconosciuto.»
«Parli
seriamente!?» disse il vecchio con gli occhi lucidi e l’espressione attonita.
«Assolutamente.
Sarà un modo per ringraziarvi per tutto quello che mi avete insegnato.»
Una
stretta di mano, un bacio sulla guancia, un brindisi, e l’accordo era fatto.
«Grazie,
ragazzo. Non lo dimenticherò.»
«Grazie
a voi, maestro. Sarà un piacere fare affari con voi.»
In
quel momento il boato della folla preannunciò l’arrivo nell’arena dei
contendenti che avrebbero preso parte all’evento più atteso della giornata, una
grande battaglia tutti contro tutti che avrebbe visto scontrarsi tra di loro
dieci tra i combattenti più forti della città.
Ovviamente
si trattava esclusivamente di mostri, tra i quali un gigantesco minotauro, un nerboruto orco, una sensuale lamia, un letale
leopardo e persino una piccola yeti.
«Volete
fare una scommessa?» disse un allibratore avvicinandosi ai due mercanti.
«L’orco lo paghiamo tre volte la puntata.»
«Una
quota interessante.» disse Yusuf. «Ci sto. E tu ragazzo?»
«A
quanto lo date lo yeti?»
«Figliolo,
sei già diventato così ricco che i soldi ti fanno schifo?»
«Sul
serio, lo yeti quanto lo pagate?»
«Lo
yeti lo diamo a dieci. Al tuo posto darei retta al tuo vecchio.»
«Allora
scommetto duemila goldie sullo yeti.»
Sia
l’allibratore che Yusuf tentarono di far cambiare idea a Said, che però si
mostrò irremovibile.
«Forse
dovrei riconsiderare la tua offerta, ragazzo. Simili azzardi possono portare un
mercante alla rovina.»
Il
principe-vescovo lasciò cadere il fazzoletto dando inizio alla sfida, e con una
certa sorpresa da parte di molti degli spettatori tutti i combattenti, invece
di dare vita ad una serie di duelli uno contro uno, si coalizzarono istantaneamente
contro un unico avversario, ovvero proprio la piccola yeti.
Questa
non si scompose, e sembrava che solo il fissare i suoi avversari fosse
abbastanza per farli esitare, malgrado fosse l’unica tra di loro a non brandire
alcun genere di arma.
La
lamia aprì le danze con un rapido assalto, ma la yeti schivò saltando e con un
singolo pugno in testa la mise subito a nanna tra le esclamazioni della folla.
A
quel punto gli altri attaccarono tutti insieme, ma quella furia scatenata era
talmente agile e sfuggente da riuscire ad evitare tutti i loro attacchi
saltando come un grillo da una parte all’altra, con una tale precisione che i
suoi avversari in alcuni casi finirono per colpirsi tra di loro.
Alla
fine rimasero solo l’orco e il minotauro, il primo
armato con una clava e il secondo con un’ascia bipenne.
Essendo
incontri in cui non era previsto che qualcuno ci rimettesse la vita le armi
erano spuntate, ma quei due bestioni erano così forti che ogni loro colpo
andato a vuoto incrinava il terreno sollevando nuvole di polvere.
Quasi
che stesse prendendo in giro i suoi avversari la yeti continuò a schivare i
loro attacchi senza reagire, fino a quando, una volta sicura che entrambi si
fossero stancati a dovere, passò all’azione. Prima schivò l’ascia del minotauro, quindi usandola come un trampolino decollò come
un uccello, piombando dell’orco e mettendolo al tappeto con un colpo a piedi
uniti dritto sul muso; mentre il suo avversario doveva ancora cadere a terra
usò il suo pancione come un tappeto elastico, arrivando veloce come una saetta
addosso al minotauro e colpendolo con un pugno così
forte da fargli saltare un dente.
La
folla esplose in un urlo di acclamazione mentre la piccola yeti alzava le
braccia al cielo in segno di vittoria, gridando e saltellando come una bambina
all’uscita da scuola.
«Che
mi venga un colpo, come facevi a saperlo che quello scricciolo avrebbe vinto?»
«Bastava
notare come gli altri lottatori la guardavano. Era chiaro che avevano paura di
lei. Siete stato voi ad insegnarmi che bisogna sempre tenere d’occhio lo stato
d’animo di chi si ha davanti. E poi…»
«E
poi?»
«Mai
fidarsi delle quote degli allibratori.»
Connelly era una nazione che da sempre
preferiva la politica e la diplomazia alla guerra, ma anche lì c’erano gli
orfani.
E
anche se a differenza di quanto succedeva in altre nazioni gli orfanotrofi erano
finanziati dallo Stato era difficile fare fronte a tutte le spese senza il
sostegno di qualche mecenate o nobile caritatevole.
Ma
il piccolo orfanotrofio attiguo al tempio minore Gaia Misericordiosa di Rosada non aveva bisogno né degli uni né degli altri,
perché aveva già chi da molto tempo si prendeva cura dei suoi ospiti.
Nel
momento in cui Sapi aveva capito di poter guadagnare
un sacco di soldi divertendosi nell’arena si era immediatamente gettata anima e
corpo nei combattimenti, diventando in poco tempo la stella più famosa di tutta
la regione.
Sorella
Esther, che si era presa cura di lei fin dal giorno in cui l’avevano portata
all’orfanotrofio, aveva tentato per un po’ di tenerla lontana da quel mondo
così pericoloso per una ragazzina così giovane, salvo poi smettere di
preoccuparsi nel momento in cui aveva capito che per Sapi
battersi nell’arena era come passare il pomeriggio al parco giochi.
«Sorella
Esther, sorella Esther! Guardate, ho vinto ancora!»
«Sei
stata bravissima Sapi. Però mi avevi promesso che ti
saresti riposata. Ormai combatti quasi tutti i giorni.»
«Non
vi preoccupate, non mi stanco mica. Anzi, è così divertente. E poi così posso
sdebitarmi per tutto quello che avete fatto per me.»
Nel
sentire la calda mano della chierica che le accarezzava la testa i peli di Sapi divennero dritti per l’emozione. Poteva essere
cresciuta, ma dentro restava la stessa bambina di sempre.
«Ogni
volta che riguardo resto senza parole. Ricordo ancora il giorno in cui sei
arrivata qui da noi. Eri una bambina sola e spaventata, e ci hai messo dei mesi
anche solo per rivolgere la parola a me o a qualcuno dei tuoi compagni. E
invece guardati adesso.»
Mentre
Sapi recuperava le energie divorando dei biscotti
appena sfornati sorella Esther recuperò un piccolo forziere da uno scomparto
segreto nel muro della cucina, che una volta aperto si rivelò essere pieno fin
quasi all’orlo di monete d’oro.
«Allora?»
chiese speranzosa la yeti. «Ci siamo riuscite?»
«Direi
proprio di sì. Con tutti questi soldi riusciremo a tirare avanti per un bel
po’, e ora ne abbiamo abbastanza da poter aprire quel piccolo negozio di cui
abbiamo tanto parlato. Grazie ad esso, finalmente saremo in grado di mandare
avanti l’orfanotrofio con le nostre sole forze.»
Sapi
sembrava quella di sempre, ma ormai sorella Esther la conosceva abbastanza bene
da capire quando la sua protetta preferita aveva qualcosa che la turbava.
«Devi
dirmi qualcosa, tesoro?»
«Voi
e le altre sorelle siete sempre state molto buone con me, e vi devo moltissimo.
È anche per questo che ho voluto raccogliere tutti questi soldi per voi. Ora
però sento di dover andare via.»
«Vuoi
tornare dal ragazzo che ti ha salvata, vero?»
«Gli
avevo promesso che lo avrei aiutato quando avesse avuto bisogno di me, e ora
quel momento è arrivato. Dopo quello che ha fatto avrà tanti nemici, ma ora io
posso proteggerlo. Però, andare via da qui…»
Ancora
una volta sorella Esther le mise dolcemente una mano sulla testa, facendo
diventare rosse le sue candide guance.
«Sapevamo
tutti che non poteva durare per sempre. Ormai sei diventata grande Sapi, e devi fare quello che ti dice il cuore. Ma sappi che
dovunque tu andrai, noi saremo sempre qui ad aspettarti.»
Per
fortuna con gli anni Sapi aveva imparato a
controllare la sua forza, altrimenti avrebbe finito per stritolare sorella
Esther con il suo abbraccio.
«Grazie,
sorella.»
«Ci mancherai, Sapi. Buona
fortuna.»
Note dell’Autore
Salve
a tutti!
Dopo
un mese, come promesso, eccomi qui con il Terzo Volume della mia light novel con protagonista Napoleone Bonaparte.
È
stato un mese molto impegnativo, e anche se non ho avuto molto tempo in qualche
modo sono riuscito a rimanere entro la tabella di marcia completando il volume
prima del suo rilascio qui su EFP.
La
storia da questo punto in poi procederà in modo molto spedita, almeno rispetto
a quanto visto finora, in un susseguirsi di “saghe” che vedranno di volta
Daemon confrontarsi con vari avversari e vicissitudini che si troveranno loro
malgrado sulla sua strada verso il successo.
Ancora
una volta la pubblicazione seguirà la sua andatura classica, con un capitolo
ogni due settimane.
Capitolo 2 *** CAPITOLO 2 - IL TASSO E LA VOLPE ***
“Non abbandonarsi
alla rabbia è l’illusione degli iracondi,
non provare pauraquella dei codardi.”
CAPITOLO 2
IL TASSO E LA VOLPE
Da molto tempo ormai le arpie avevano
dimenticato come si volava.
Coloro
che erano abbastanza fortunate da non passare tutta la loro vita chiuse in una gabbia
a produrre uova, se volevano conservare la libertà dovevano passare
inosservate, nascoste spesso in eremi sperduti in cima alle montagne.
Quello
che nei tempi antichi era motivo d’orgoglio di e vanto era diventato una
condanna, e potersi librare nei cieli sfoggiando le loro splendide ali si era
trasformato in un tabù, qualcosa da temere e da scoraggiate.
Così
le piume si erano arruffate, diradate, e ormai era impossibile trovare un’arpia
che riuscisse a fare qualcosa di più che planare per brevi tratti, a condizione
ovviamente di tuffarsi da grandi altezze.
Prima
di finire anche lei in una gabbia Xylla era stata una
ragazza energica e piena di vita, che amava sfidare la sorte ed esibire fiera
le sue superbe ali dorate.
Peccato
che fosse stata una di quelle sue planate avventate a far scoprire ai
cacciatori di schiavi l’esistenza del suo villaggio.
Da
un momento all’altro aveva visto la sua terra natale bruciare, le sue compagne
troppo vecchie o troppo giovani trucidate perché reputate inutili, mentre lei
con le poche sfortunate rimaste in vita si era vista trasformare in un animale
da cova, costretta con la forza e le minacce a deporre incessantemente uova che
andavano poi ad esaltare le cene di qualche nobile depravato.
Non
stupiva quindi che tutto ciò avesse fatto di lei un’anima vuota, che si nutriva
di odio, e che trovava insopportabile il solo fatto di condividere la stessa
stanza con un umano.
Hera,
Martha e le altre, dopo essere state liberate, avevano trovato un loro posto, e
ora stavano cercando molto faticosamente di lasciarsi alle spalle l’orrore al
quale in un modo o nell’altro erano sopravvissute.
Ma
lei no.
Lei
non ci riusciva.
Il
fuoco che le bruciava dentro sembrava inestinguibile.
Così
passava le giornate camminando senza sosta per le strade della città attorno al
Castello, sempre pronta ad attaccare briga con chiunque non le andasse a genio,
umano o mostro che fosse.
Detestava
quel posto, ma sapeva di non averne un altro in cui andare, e nel poco tempo in
cui era stata lì aveva causato talmente tanti problemi che ormai nessuno,
nemmeno le sue amiche, voleva avere più a che fare con lei.
Una
mattina stava camminando nella zona del mercato, tornato attivo e brulicante di
vita come non accadeva da diversi anni, con l’espressione vuota ed il passo
incerto di chi procede per inerzia, senza un vero scopo.
Se
solo non fosse stata distratta dalle tenebre che aveva dentro, si sarebbe
accorta che quei tre soldati della Guardia Nazionale seduti attorno al tavolo
di una taverna a godersi il sole, l’aria fresca e il sidro stavano parlato di
comuni uova di haradveni, un grosso volatile del Maharadi.
«Sul
serio!? Hai mangiato una di quelle uova?»
«Non
una sola, tre!»
«Non
ci credo, per me ci stai raccontando una balla.»
«E
invece è la pura verità. C’era questo mercante, ricco sfondato. Io ero uno dei
suoi stallieri. Aveva pagato una montagna di soldi per quell’animale. Una
mattina sono arrivato e le uova erano lì, pronte per la cucina. Il tizio che
doveva prenderle era ubriaco fradicio, così me le sono prese, le ho portate a
casa, e mi ci sono fatto una bella frittata.»
«Roba
da matti. Anche con il nostro nuovo salario non basterebbe la paga di mese per
permettersene anche solo una.»
«Dicci
allora, com’era? Dicono che abbiano un sapore paradisiaco.»
«Bah,
niente di eccezionale. Le chiamano benedizioni di Gaia, ma alla fine erano solo
degli ovetti insipidi. Ho dovuto metterci una montagna di spezie perché
diventassero a malapena decenti.»
Xylla
si avvicinò ai tre soldati con lo sguardo basso, le penne arruffate e i denti
serrati.
«Solo
degli ovetti insipidi, hai detto? Hai una qualche idea di quello che noi
abbiamo subito per produrre quegli ovetti insipidi?»
«Come!?
Ma di che cosa stai…».
La Sala Grande del Castello era molto
cambiata nel giro di pochi mesi.
Una
grande tavola rotonda con tredici posti aveva sostituito il pomposo scranno
d’oro del precedente Governatore, e appeso al muro, invece dello stendardo
imperiale, vi era ora il grande vessillo rosso, bianco e blu dello Stato
Libero.
Daemon
si guardò attorno ad osservare i membri del suo governo, tutte persone di
fiducia scelte guardando unicamente al talento e alle competenze piuttosto che
al lignaggio o alla specie di appartenenza.
«Alzate
tutti la mano destra.» disse, venendo obbedito. «Noi giuriamo di rispettare la
costituzione dello Stato Libero, di agire e di decidere nell’interesse dei suoi
abitanti, e di non abusare mai del potere conferitoci.»
«Lo
giuro.» dissero tutti insieme
«Dichiaro
aperta questa seduta dell’assemblea legislativa. Come da prassi, vorrei che
prima di tutto ognuno di voi facesse rapporto circa lo stato dei vostri attuali
incarichi. Cominciamo con i governatori delle tre prefetture. Rutte?»
Il
vecchio sindaco, ora governatore dell’intera regione di Dundee, si alzò
prendendo la parola.
«Lo
smantellamento del ghetto è quasi completato, mentre la costruzione della nuova
area abitativa nei pressi delle miniere procede secondo i tempi previsti, e
alcuni edifici sono già stati assegnati. In base alle nostre previsioni,
l’intero villaggio dovrebbe diventare pienamente abitabile entro la fine del
mese.»
«La
situazione dell’ordine pubblico?»
«Niente
da segnalare. Tutti i cittadini stanno cooperando tra di loro nell’interesse
collettivo. Se posso permettermi, solo l’anno scorso l’avrei ritenuto
impossibile. Mostri e umani che collaborano in modo tanto stretto, vecchi
schiavi che trattano alla pari con i loro vecchi padroni.»
«Attento,
Governatore.» sorrise Adrian dallo scranno di fronte. «Questi termini ora sono
aboliti.»
«Chiedo
scusa, è che ancora fatico a rendermene conto. Non siamo mai stati un popolo
schiavista, e molti di noi non condividevano il fanatismo dell’Impero. Ma senza
che ce ne rendessimo conto stavamo iniziando ad abituarci a questa situazione.
La Rivoluzione ci ha aperto gli occhi, e ci ha ricordato come vogliamo vivere
davvero.»
«Questo
è stato solo un primo passo.» disse Daemon. «Dovranno succedere ancora molte
cose prima che umani e mostri possano realmente considerarsi cittadini liberi e
uguali anche tra di loro, ma non si può certamente cambiare il mondo in pochi
mesi. Ora però, continuiamo. Passiamo alla situazione di Basterwick.»
A
prendere la parola fu Tielde, un piccolo proprietario
terriero che la gente di Basterwick aveva nominato
come proprio rappresentante in luogo al deposto Van Lobre.
«Posso
confermare che l’epidemia è stata completamente debellata, e la situazione a Basterwick è tornata alla normalità. Sia l’attività dei
campi che tutte le altre filiere produttive si sono rimesse pienamente in moto.
Voglio aggiungere che i soldati della Guardia Nazionale ci sono stati di grande
aiuto, e questo ha portato molti giovani ad arruolarsi come volontari.»
«La
Guardia Nazionale che ha sostituito le legioni e le milizie cittadine è stata
una gran bella idea, se posso permettermi.» disse Oldrick,
ora nelle vesti di Generale d’Armata di detta Guardia. «In questo modo abbiamo
offerto uno sbocco ai miliziani di lungo corso prima che si potessero
abbandonare al brigantaggio. È anche un modo per offrire una prospettiva a
molti giovani e schiavi emancipati senza particolari talenti.»
«L’esercito
è da sempre una carriera appetibile per chi non ha prospettiva nella vita o ha
visto crollare quelle che aveva prima.» disse Daemon. «Ovviamente mantenere un
esercito ha un costo, ma sempre meglio che avere le strade piene di vagabondi e
disoccupati. Ora, lo stato del Castello. Zorech?»
«Niente
da segnalare sia al villaggio che alla fortezza.»
Zorech
sembrava ancora un pesce fuor d’acqua nelle vesti di governatore della più
importante delle tre prefetture; era stato Daemon in persona a proporlo per
quel ruolo, che lui aveva accettato solo dopo molte esitazioni.
Si
trattava di un incarico più di rappresentanza che di altro, ma forse era solo
un modo per Daemon per dimostrare una volta di più quanto rispetto nutrisse nei
confronti di colui che gli aveva fatto da padre affidandogli un posto nel suo
gruppo di reggenza.
«Veniamo
alla nostra situazione economica. Mary, che notizie hai per noi?»
Anche
Mary aveva ancora qualche problema a concepire realmente la posizione in cui si
trovava, per quanto da quando Daemon le aveva affidato l’incarico di ministro
delle finanze avesse dimostrato in svariate occasioni di essere più che capace
di rivestire quel ruolo.
«Il
tesoro che tu e Adrian avete recuperato ci è stato molto utile. Grazie ad esso
siamo stati in grado di pagare buona parte dei debiti che la vecchia provincia
aveva accumulato nel corso degli anni e stabilizzare le nostre finanze.»
«E
per quanto riguarda i commerci» intervenne Borg, che paradossalmente con quel
suo vestirsi sempre in modo così appariscente sembrava l’unica persona non
fuori luogo tra tutte quelle sedute attorno a quel tavolo «Sarete felici di
sapere che sono pienamente ripresi sia con le nazioni del sud che con l’Impero,
e i posti lasciati vuoti da chi non ha voluto o potuto rinnovare i contratti
sono stati occupati da altri.»
«È
così. Il signor Borg sta facendo un lavoro davvero straordinario.»
«Mai
quanto il tuo, ragazza mia. Credevo che Daemon esagerasse nel tessere le tue
lodi, ma invece devo ricredermi. Io trovo i potenziali investitori, ma sei tu
che conduci le trattative.»
Era
una cosa assai rara che Borg si complimentasse con qualcuno in modo tanto
sincero, e anche se non tutti erano felici di averlo come membro di quel
consiglio i suoi meriti e i suoi talenti erano indiscutibili, soprattutto ora
che facevano il paio con quelli di Mary.
«C’è
altro da riferire?»
«Ecco,
in effetti sì.» disse la ragazza quasi con timore. «Il fatto è che ho ricevuto
un’offerta da una compagnia mercantile dell’Unione. Hanno bisogno di pece per
la costruzione delle navi, ma piuttosto che investire vorrebbero prendere
direttamente in affitto uno dei nostri pozzi su cui avere il controllo
esclusivo stipulando un contratto decennale. In cambio oltre al pagamento
dell’affitto si offrono di assumere manodopera locale.»
«Ritieni
che sia un buon accordo?»
«Io…
io credo di sì.»
«E
allora che bisogno avevi di venire da me?»
«Cosa!?»
«A
costo di risultare ripetitivo, voglio ribadirlo un’altra volta. Voi tutti non
siete qui perché mi state simpatici, ma perché ho fiducia nelle vostre capacità
e nel vostro giudizio. Non siamo più sotto una monarchia, e non c’è più un re
che ha l’ultima parola su ogni cosa. Voi siete qui per aiutarmi a rimettere in
piedi questa nazione e renderla prospera. Pertanto, fintanto che siete disposti
ad assumervi la responsabilità delle vostre azioni, non avete bisogno della mia
approvazione per prendere una decisione. Sono stato chiaro?»
«Sì.
Certo. Ti chiedo scusa.»
«A
proposito, come sta andando l’emporio a Dundee?»
«Bene.
La signora Bonbi sta facendo un ottimo lavoro, e i
clienti sono soddisfatti. Se continua così, presto potrò aprire un altro
negozio anche qui al Castello.»
«Evidentemente
sei un’ottima maestra, oltre che un bravo ministro. Ora però passiamo ad altre
questioni. Lo stato delle miniere.»
«Eccomi
qua.» disse Passe. «Tutti i campi, i pozzi e le miniere sono in piena attività.
I ragazzi lavorano alacremente, la sera mangiano come maiali e la mattina dopo
riprendono il lavoro ancora più motivati. Niente da segnalare anche ai campi
dei taglialegna e alla segheria.»
«Assicurati
che Grog e gli altri non esagerino con i bagordi. Ora che non sono più schiavi
devono imparare a gestirsi sia nel lavoro che nel divertimento. Non ha senso
riempirsi la pancia un giorno per poi dover digiunare il successivo.»
«Faccio
quello che posso, ma a quanto pare hanno ancora problemi a capire di essere
diventati uomini liberi.»
«A
volte ci si dimentica che essere liberi comporta anche dei doveri.»
«Visto
che ti piace parlare Adrian, perché non fai rapporto anche tu? Come ministro
degli interni, cosa puoi dirmi sullo stato delle nostre risorse alimentari?»
«I
campi sono stati tutti ripuliti e sistemati, e presto inizieranno a germinare.
Piuttosto che perdere del tutto il controllo sulle loro terre o finire a
processo per i loro crimini, Van Lobre e gli altri
latifondisti hanno accettato di continuare ad amministrare i loro vecchi
possedimenti per conto dello stato. Ma questo non risolve i nostri problemi
alimentari.»
«Sì,
lo so. Un conto è nutrire degli schiavi il minimo indispensabile perché non
muoiano di fame, un conto è garantire loro un congruo apporto alimentare.»
«C’è
anche un altro problema.» disse Mary «Per far fronte alla carenza di denaro e
abituare gli schiavi emancipati al possesso di beni propri li stiamo pagando
per il loro lavoro in cibo e altri beni di prima necessità, ma questo
inevitabilmente sta intaccando le nostre risorse alimentari. Per ora stiamo
compensando acquistando grano e altri alimenti da fuori, ma riuscire a non
andare in passivo con i conti diventa sempre più difficile.»
«Per
non parlare dell’esercito.» disse Oldrick.
«Quarantacinquemila bocche da sfamare non sono poche, e con questo ritmo di
arruolamento presto supereremo quota cinquantamila. A nessuno importa niente se
un barbone muore di fame per strada, ma se quel barbone diventa un soldato poi
occorre nutrirlo.»
«Tralasciando
il fatto che passare da un’economia basata sullo schiavismo ad una fondata sul
lavoro di privati cittadini non è mai facile né indolore, sappiamo bene tutti
che questa provincia ha sempre avuto un problema con le risorse alimentari.»
«La
nostra terra è ricca di miniere, pascoli e montagne. Ma povera di terreni
fertili in cui seminare.»
«Non
è del tutto vero, Rutte. La terra in realtà è molto fertile. Basta guardare la
densità dei boschi o la facilità con cui il grano cresce per rendersene conto.
Il problema è che i terreni sono spesso troppo ripidi per poterci coltivare
sopra. E a tal proposito, ho pensato ad una possibile soluzione che ora vorrei
sottoporre all’attenzione di questo consiglio.»
Daemon
fece un cenno a due attendenti in piedi accanto alla porta, che srotolarono sulla
parete una grande illustrazione raffigurante una specie di struttura a gradoni.
«Che
cosa sono?» chiese Passe «Terrazze?»
«Ho
sentito dire che questo sistema sarebbe già in uso a Xi-Zian.
In questo modo diventerebbe possibile coltivare anche lungo i fianchi di una
montagna o sui pendii di una vallata.»
«Si
può fare davvero?» chiese Mary
«Suppongo
di sì, a condizione di creare un efficace sistema di approvvigionamento idrico
per garantire l’irrigazione e permettere l’eliminazione delle acque in eccesso.
E se i campi così ottenuti dovessero venire assegnati agli schiavi emancipati
affinché li coltivino a beneficio dell’intera nazione avremmo anche molti meno
disoccupati.»
«Sembra
un progetto molto ambizioso. Sicuro che saremo in grado di metterlo in pratica?»
«Cos’è
che dico sempre in questi casi, Generale?»
«L’immaginazione
governa il mondo.» replicò Oldrick con un sorriso
compiaciuto
«Tutto
si può fare se si ha la giusta determinazione. E c’è anche un’altra cosa di cui
vorrei parlarvi. Come sapete tutti siamo una nazione essenzialmente
esportatrice, e vendiamo a molte nazioni minerali, pietre e altre materie
prime, ma se escludiamo le segherie non possediamo alcuna industria. Se
riuscissimo a costruire nuovi poli industriali destinati alla lavorazione di
quello che produciamo dalla terra le nostre entrate aumenterebbero
considerevolmente, e saremmo anche tutelati contro eventuali embarghi che
qualcuno potrebbe attuare contro di noi.»
«Servirebbero
operai specializzati.» obiettò Adrian «E attualmente noi ne abbiamo pochi.»
«Non
serve che siano molti, basta che sappiano insegnare il mestiere. Lo scopo
primario di questa manovra è prima di tutto combattere la disoccupazione. Il
problema di trasformare degli schiavi in liberi cittadini è che poi ti ritrovi
con più forza lavoro di quanta effettivamente te ne serva. La via delle armi è
una possibile soluzione, ma creare un’armata troppo grande sarebbe visto come
una minaccia dai nostri vicini.»
«Ho
capito, quindi si tratta di prendere due piccioni con una fava.» disse Mary.
«Ampliamo e differenziamo la nostra economia, e nel frattempo creiamo lavoro.»
«Ma
formare un operaio altamente specializzato richiede del tempo, altrimenti si
rischia di produrre merce di cattiva qualità.»
«Mi
stupisci, Borg. Tu per primo dovresti sapere che immettere merce di seconda
scelta ma in grande quantità in un mercato stagnante come quelli dell’Impero o
dell’Unione spesso garantisce introiti ancora maggiori di quelli che verrebbero
dal vendere merce pregiata. Verrà il tempo in cui ci renderemo appetibili anche
a clientele più sofisticate, per ora accontentiamoci di guadagnare il più
possibile. Allora? Siete d’accordo con me?»
Non
ci fu neanche bisogno di chiamare una votazione.
«Allora
la proposta è approvata. Cominceremo con il produrre utensili in metallo e
abiti da lavoro. Adrian, tu sceglierai il terreno per edificare il nuovo polo
industriale. Borg, tu trova i compratori. Mary, reperisci le risorse
necessarie. Parla con gli investitori, e se necessario offri quote di
partecipazione a garanzia.»
Il
resto della riunione proseguì senza ulteriori interruzioni, fino a quando tutti
non ebbero riferito ciò che avevano da dire sui rispettivi incarichi.
«Molto
bene. Per oggi basta così. Ci riuniremo nuovamente tra due settimane, ed entro
allora mi aspetto già i primi resoconti circa i due nuovi progetti. Questa
riunione è aggiornata.»
Attigua alla Sala Grande c’era la
sala da bagno dove il vecchio governatore era solito fare i suoi pediluvi, che
Daemon aveva fatto riconvertire a proprio ufficio.
Anche
lì, tutto era stato riadattato in funzione del nuovo ruolo che la stanza doveva
ricoprire: il pomposo seggio con sgabello e poggiapiedi era stato sostituito da
una scrivania semplice ma ben costruita, le pareti ridipinte, e accanto alla
grande finestra stava ora un’asta con appesa la bandiera dello Stato Libero.
«Non
dovresti essere alla caserma?» disse Daemon entrando e trovando Scalia seduta
al divanetto per gli ospiti accanto al camino
«Non
ho niente da fare, mi annoio a stare lì.»
«Credevo
che ti saresti trovata a tuo agio in mezzo a tante giovani reclute da
addestrare.»
«Non
ho pazienza coi novellini, lo sai. Lascio che se ne occupi Jack.»
«Ho
saputo che vai spesso in biblioteca. Mi fa piacere. Vuol dire che alla fine ci
sono riuscito a farti amare i libri.»
«In
realtà, come ho detto, più che altro è perché mi annoio. Voglio dire, Grog ora
sovrintende alle miniere, il vecchio Passe è in quel tuo consiglio di reggenza,
Jack addestra le reclute, Lori e le altre tengono in ordine il palazzo. In tutto
questo, il mio ruolo quale sarebbe? Se tu mi lasciassi tornare a lavorare…»
«Tu
mi servi qui, Scalia. Infatti, temo che presto o tardi verrà il momento in cui
la tua abilità con la spada ci sarà nuovamente utile.»
«Credi
che qualcuno prima o poi ci attaccherà?»
«Ti
mentirei se dicessi che non è una possibilità. I cambiamenti epocali non sono
mai processi indolore. La Rivoluzione ha portato qualcosa che non si era mai
visto prima in questo mondo, e molti potrebbero considerare la nostra stessa
esistenza come una minaccia.»
«Ma
tutti quegli accordi commerciali non servono forse a garantire la pace?»
«Sono
un ponte. Una mano protesa per dimostrare la nostra buona volontà. Sta ai
nostri nemici scegliere se stringerla o meno. Ma dobbiamo essere pronti a
tutto, ed è per questo che stiamo costruendo un esercito regolare.»
«A
questo proposito, sono venuta anche per parlarti di una cosa. È successo un
guaio in città.»
Daemon
sospirò: «Xylla, giusto?»
«Da
quando l’abbiamo liberata non ha fatto altro che causare problemi. Per fortuna
mi trovavo a passare da quelle parti e sono riuscita a fermarla, altrimenti
quel tipo ci avrebbe rimesso ben più di un occhio. Pare che li abbia attaccati
senza alcun motivo.»
«Non
posso giustificare quello che fa, ma ho cercato di essere comprensivo con lei.
Quello che ha passato sarebbe stato terribile per chiunque. E ora dov’è?»
«L’abbiamo
chiusa in cella nell’attesa che si calmasse. Ora però anch’io penso che
andrebbero presi provvedimenti, prima che succeda qualcosa di irreparabile.»
«D’accordo,
proverò a parlarle.»
Scalia
però sembrava avere qualcos’altro che la turbava: «Daemon, stavo pensando…»
«Sì?»
«Ecco,
non mi piace discutere le tue azioni. Dopotutto sei tu che ci hai dato la
libertà. Però, il fatto è che alcuni di noi hanno… diciamo qualche perplessità
riguardo ad alcune delle tue scelte.»
Il
giovane la guardò come ad un libro aperto.
«Parla
pure.»
«Quando
ci hai spronati a ribellarci hai detto che tutti quelli che ci avevano fatto
del male avrebbero pagato per i loro crimini. Però ecco, molti proprietari
terrieri, molti schiavisti… persino alcuni ufficiali della milizia. Se
escludiamo alcuni, molte di quelle persone non sono mai state punite.»
«Ti
sbagli Scalia. Li stiamo punendo. Severamente, anche.»
«Come!?»
«Pensa
a Van Lobre, o al Barone Mecht.
Non hanno più terre, né titoli, né proprietà. Tutto quello che possono fare è
osservare impotenti mentre in qualità di fiduciari amministrano terre che un
tempo erano loro, e che adesso sono proprietà dello Stato e affidate agli
stessi schiavi che un tempo maltrattavano. E che dire dei miliziani che si sono
arresi? Hanno dovuto scegliere tra la prigione o l’arruolamento nella Guardia
Nazionale, e se vorranno continuare a vivere non avranno altra scelta che
combattere, con noi e per noi. Non pensi che per gente come loro, abituata a
vedervi come nient’altro che oggetti, questa sia la peggiore punizione
possibile?»
Scalia
fu costretta ad ammettere che c’era della logica nelle parole di Daemon, e
anche se non era ancora del tutto convinta accettò quella spiegazione,
promettendo di spargerla anche tra coloro che nutrivano i suoi stessi dubbi.
In
quel momento arrivarono altre tre ospiti, una delle quali non mancò di
provocare in Scalia un fastidioso nodo allo stomaco.
«E
tu che ci fai qui, tettona?» ringhiò la ragazza
all’indirizzo di Isabela. «Sappi che non ho sentito la tua mancanza.»
«Il
sentimento è reciproco, piccola sputafuoco.»
«Isabela,
basta così.» la ammonì Sylvie prima di rivolgersi a Daemon. «È un piacere
rivedervi, Messer Haselworth.»
«Bentornata,
Eminenza. Avete fatto presto.»
Lei
sorrise, quindi si fece passare dalla sua discepola una scatoletta di legno
contenente un rotolo sigillato che porse a Daemon.
«Da
questo momento, prendo ufficialmente servizio come Vescovo di questa nazione, e
mi affido completamente alle vostre cure. Spero che la nostra cooperazione sia
serena e duratura, nel migliore interesse del vostro popolo e a gloria
imperitura della nostra Madre Gaia.»
«Sono
sorpreso che il Conclave abbia dato il suo consenso. Pensavo ci avrebbero
scomunicati senza tante cerimonie.»
«L’hanno
fatto. Io ho solo fatto presente che non c’è una legge che impedisca ad un
Vescovo di essere assegnato ad una nazione scomunicata, fintanto che i suoi
abitanti obbediscono devotamente alla legge di Gaia.»
«Tra
l’essere una nazione nata da una rivolta di schiavi e le riforme che abbiamo
promulgato, ero abbastanza sicuro che non gli sarei andato a genio. Ma se siete
qui per tentare di farmi cambiare idea vi avviso che sarà inutile. La laicità
dello Stato e la libertà religiosa sono due cardini fondamentali su cui intendo
costruire questa nazione.»
«Potete
stare tranquillo. A differenza di molti miei colleghi non ho alcun interesse ad
immischiarmi in questioni inerenti alla politica o alla gestione del potere. Il
mio scopo è solo quello di portare la parola di Gaia a tutti coloro che la
vogliono ascoltare.»
«Se
ci fossero più persone come voi, forse oggi la gente avrebbe tutt’altra
opinione di coloro che governano la Chiesa.»
Nella mia vita precedente non avevo
mai fatto sconti a nessuno quando si era trattato di mantenere la disciplina
sia nell’esercito che nell’ordine pubblico.
Avevo
fatto costruire una ghigliottina in ogni grande città dell’Impero, e avevo
l’abitudine di punire severamente ogni più piccolo sgarro commesso dai miei
uomini sia in guerra che in tempo di pace.
Spesso
mi era stato detto che forse a volte tendevo a calcare troppo la mano, ma
indipendentemente dai miei trascorsi da soldato ero sempre stato educato a
ritenere il rispetto delle regole una virtù che non ammetteva eccezioni, da
imporre anche con la forza se necessario.
Seguendo
questo ragionamento Xylla sarebbe dovuta finire sulla
forca già da diverso tempo, ma avevo deciso di essere paziente.
Un’arpia,
per quanto spiumata, era una risorsa di cui non intendevo privarmi.
Le
avevo lasciato del tempo nella speranza che riuscisse come le sue compagne a
fare pace con il passato e ricominciare daccapo, ma ormai era chiaro che le
sarebbe stato impossibile liberarsi di quella furia aggressiva che si portava
dentro.
E
se non potevo controllarla, tanto valeva scatenarla, possibilmente nella giusta
direzione.
«Comincio
a pensare che ti piaccia stare qui.» dissi entrando nella sua cella. «Cos’è, la
terza volta in poche settimane che finisci qui dentro?»
Era
incredibile come degli occhi così lucenti, degni davvero di una principessa di
sangue nobile, potessero esprimere un tale odio verso tutto e tutti.
«Ho
cercato di essere comprensivo con te, ma tu mi rendi le cose difficili. A
differenza dei guai che hai combinato fino adesso, questa non è una cosa che si
può risolvere solo con del denaro. Quel soldato era un elemento importante del
nostro esercito, e ha combattuto al mio fianco fin dalla Battaglia del Colle.»
Lei
si girò a guardarmi; era dai tempi del Ponte di Arcole che non mi sentivo
tremare i polsi al solo incrociare lo sguardo con qualcuno.
«Che
cosa vuoi da me?» strillò, talmente forte da essere sentita probabilmente fino
in cima alle torri
«Guardati
attorno. Lo vedi? Sei rimasta sola. Persino le tue compagne ti hanno voltato le
spalle. Sono state traumatizzate tanto quanto te da ciò che avete subito,
eppure loro sono riuscite a voltare pagina. Perché per te è così difficile?»
«Sono
solo delle sciocche traditrici! Io non mi mischierò mai con gli umani! Mai!»
«Ma
non hai altra scelta, e tu lo sai. Non c’è niente per te fuori da questa
nazione. Quello che sto costruendo qui servirà a dare a tutti voi un mondo in
cui essere liberi. Niente più schiavitù. Niente più gabbie. Niente più bestie
umane che ti usano come animale da cova. Le tue amiche lo hanno capito, e ora
stanno cercando di aiutarci. E tu, che potresti contribuire più di tutte loro
messi insieme, invece sprechi la tua forza e il tuo talento a scatenare risse
nelle taverne e a provocare disordini. Un giorno o l’altro però potresti
incontrare qualcuno più forte di te, e allora non ci sarà nessuno pronto a
toglierti dai guai.»
«Tanto
meglio! Almeno così sarà finita!»
Un’arpia
era mediamente dalle due alle quattro volte più forte di un essere umano, e una
loro artigliata era capace di aprirti in due. Ma c’era un punto, alla base del
collo, che se stretto con una forza anche minima le lasciava completamente
indifese, impedendogli di muoversi e togliendogli quasi completamente il
respiro.
Per
un attimo in lei rividi me stesso quel giorno nella grotta, di fronte a Borg;
un piccolo, fragile insetto alla mercé di un animale più grande, grosso e
cattivo di lui.
E
probabilmente l’espressione con cui Xylla mi guardò
in quelli che per lei, lo sapevo, erano attimi interminabili, era la stessa con
cui io avevo fissato a suo tempo quel maiale.
«Che
succede? Non hai appena detto che non ti dispiace l’idea di morire? Ma se
davvero la pensi così, come la spieghi la paura che vedo adesso nei tuoi
occhi?»
Aspettai
fino a quando non iniziò a sbavare, quindi lasciai la presa permettendole di
respirare di nuovo.
Non
mi preoccupai di allontanarmi per sfuggire alla sua furia; se avesse potuto mi avrebbe
ucciso immediatamente, ma era così debole che a stento riusciva a restare
sveglia.
«Pensi
di essere una dura e fingi che quello che hai passato non sia riuscito a
spezzarti. Io però vedo solo una ragazzina troppo codarda per avere il fegato
di morire e troppo superba per riuscire ad ammetterlo.»
Quindi
mi scoprii il collo, rivelando il segno che Borg mi aveva lasciato quel giorno;
lo stesso che io aveva appena lasciato su di lei.
«Anche
io ho visto l’inferno. Ma a differenza tua ho scelto di combattere.»
«Che
cosa dovrei fare?» mi domandò, in lacrime e a denti stretti
Era
il momento di affondare il colpo.
«L’odio
che ti porti dentro è un male che ti sta divorando. E se non riesci a
gettartelo alle spalle, allora sfruttalo. Non lasciare che sia lui a dominare
te. E se è il sangue che desideri, posso dartene quanto ne vuoi. Metterò sulla
tua strada talmente tanti stronzi che meritano solo di morire che finirai per
perdere il conto di quanti ne ucciderai. E quando un giorno, forse, avrai fatto
pace con i tuoi demoni, allora potrai cominciare a fare qualcosa di buono della
tua vita.»
La
vita mi aveva insegnato che una persona che si lascia guidare solo dalla rabbia
e dalla furia è destinata all’autodistruzione.
A
volte però certe persone hanno bisogno di guardare l’inferno per capire cosa
vogliono essere, e se preferiscono annegarci dentro o lasciarselo alle spalle
prima che sia troppo tardi.
Se
la rabbia era l’unica cosa capace di dare a Xylla e
ad altri come lei uno scopo, mi dicevo, tanto valeva servirsene.
E
se alla fine non fosse riuscita a capire che la via dell’odio conduce solo alla
rovina, affari suoi; per il momento mi bastava che usasse le sua capacità per
qualcosa di utile.
«Se
combatterò per te, mi prometti che nessun’altro dovrà passare quello che
abbiamo passato noi?»
«Hai
la mia parola. Questo piccolo Paese è solo il primo passo, molto presto i
nostri ideali saranno legge in tutto questo mondo. E allora nessuno a parte te
avrà più diritto di decidere della tua vita.»
«Ma
hai detto che non avresti mai attaccato nessuno.»
«Io
ho detto solo che non avrei colpito per primo. Ma per esperienza posso dirti
che le Rivoluzioni come la nostra, una volta iniziate, non si fermano fino a
quando tutto ciò che esisteva prima di loro non è stato spazzato via. È solo
una questione di tempo, ma prima o poi qualcuno abbastanza saggio da capirlo e
abbastanza stupido da pensare di poterlo impedire cercherà di fermarci. E
allora, la parola passerà di nuovo alle armi.»
Capitolo 3 *** CAPITOLO 3 - L'ATTACCO A GROTE MUREN ***
Nota
dell’Autore
Quando
si dice “fare un errore che più stupido non si può”
Questo
è quello che succede quando si cerca di fare troppe cose tutte insieme.
Da
bravo idiota mi sono accorto solo adesso di aver dimenticato di pubblicare
questo capitolo, passando dal secondo direttamente al quarto.
Mi
scuso con tutti quelli che si saranno sicuramente accorti di questo buco e
spero che mi darete modo di rimediare.
Cj Spencer
“In politica,
la stupidità non è un handicap.”
CAPITOLO 3
L’ATTACCO A GROTE MUREN
Stando alle parole di poeti,
scrittori e artisti, Faria era semplicemente la più
incantevole città che il mondo avesse mai visto.
Nemmeno
la potente Maligrad o la comunque stupenda capitale
di Connelly, Hadowald, le reggevano il confronto.
Le
sue alte mura sembravano scolpite nel marmo, una scintillante collina bianca
che si innalzava al centro di una pianura coperta di campi e prati perennemente
in fiore.
Anche
ora che i domini della famiglia Montgomery si erano praticamente dimezzati la
capitale del Granducato non smetteva di affascinare chiunque la visitasse.
Il
vecchio Berthold Montgomery, ultimo granduca di una
dinastia che faceva risalire le proprie origini al leggendario eroe Sigmund,
era un cultore della bellezza ed un mecenate generoso, uno di quei sovrani
illuminati che credevano che nello splendore delle arti risiedesse la vera
grandezza di una nazione.
Ma
ormai tutti sapevano che non gli restava molto da vivere.
Perché
non importa quanti canali fognari e terme fai costruire, quante paludi fai bonificare,
se sei sulla sua lista la lebbra trova sempre il modo di raggiungerti.
Da
diversi anni ormai il Granduca viveva come un recluso, prigioniero nelle sue
stanze, con il grande balcone rivolto verso le montagne a ovest come unico
occhio aperto sul mondo esterno.
Non
che si vergognasse del suo aspetto, – infatti non aveva mai voluto indossare
una maschera – ma semplicemente perché aveva paura di infliggere a qualcun
altro la sua stessa maledizione.
L’unica
persona che poteva avvicinarsi a lui senza timori era il suo secondogenito,
Victor, che molto piccolo si era ammalato in forma molto blanda riuscendo
facilmente a superarla, e diventandone quindi sicuramente immune.
Ma
a fare visita al padre Victor non ci andava spesso, perché per quanto fosse
ormai il facente funzioni di governatore i suoi veri interessi erano altrove.
Se
non altro non aveva gusti particolarmente difficili.
Servette
e domestiche in cerca di qualche soldo o un boccone di cibo in più, popolane
ingenue o nobildonne ambiziose: tutto gli andava bene fintanto che poteva
soddisfare la sua lussuria.
Le
guardie e gli inservienti erano talmente abituati a vedere ogni giorno un volto
nuovo uscire dalle sue stanze, il più delle volte in lacrime, da non farci
quasi più caso; così come in molti avevano iniziato a ignorare le grida ed i
gemiti più che eloquenti che a qualsiasi ora del giorno e della notte
provenivano da oltre quella porta.
Il
vecchio Lefde, Conte di Hoope
e comandante dell’esercito occidentale, faceva quello che poteva per assecondare
la volontà del suo amico e signore e servire al meglio il figlio garantendo il
bene di Eirinn e del casato dei Montgomery; ma ogni volta gli bastava passare
cinque minuti con Victor per capire perché Berthold
avesse fatto tutto quello che era in suo potere per fare in modo che fosse Aria
a prendere il suo posto.
«Mio
Signore.» disse una mattina bussando alla porta, e cercando di ignorare ciò che
sentiva. «Scusate il disturbo, ma è una cosa urgente.»
La
porta si aprì improvvisamente, e una cameriera con la veste strappata passò
accanto al vecchio generale correndo via in lacrime.
«Che
c’è?» brontolò il giovane alzandosi dal letto e versandosi dell’acqua, senza
preoccuparsi di nascondere le sue doti virili. «Avevo appena cominciato a
divertirmi.»
«Mi
dispiace Mio Signore, ma la faccenda è molto seria.»
«E
allora avanti, parla.»
«Forse
sarebbe meglio discuterne in un luogo più opportuno. Mi sono permesso di far
convocare un consiglio.»
«Che
palle. D’accordo, arrivo.»
Vestitosi
di tutto punto con gli stivali da cavallerizzo, i guanti da scherma, il
soprabito in pelliccia di volpe e il medaglione d’argento con l’ascia e la
bilancia, Victor seguì il suo generale nella sala delle udienze, accomodandosi
svogliatamente sul trono mentre i suoi ministri e generali si alzavano dagli
scranni per porgergli omaggio.
Philippe,
fratello minore di Berthold e Conte di Hatlen che sedeva allo scranno di Primo Ministro, non
provava altro che disprezzo nei confronti del nipote, che con la sua nascita lo
aveva privato del titolo di successore, ma il suo amore per Eirinn era tanto
grande che era pronto anche ad essere il suo attendente pur di riuscire a fare
il bene del proprio Paese.
Era
stata proprio la sua volontà di servire nel modo migliore la propria nazione ed
i suoi interessi a portarlo alla rovina, dopo che suo padre lo aveva scoperto
in atteggiamenti un po’ troppo amichevoli con svariati gruppi di fanatici reunionisti.
Per
sua fortuna Victor non era saggio e avveduto quanto i suoi predecessori, così
convincerlo a revocare l’esilio e riprenderlo al proprio servizio era stato un
gioco da ragazzi.
«La
notizia è confermata.» esordì il Generale Lefde
aprendo la riunione «Mercanti di Eirinn e non solo hanno iniziato a fare affari
con l’ovest. I ribelli hanno allestito una zona franca al forte di GroteMuren e nei vicini villaggi
di Hemlin e Todlen, di qua
e di là del confine.»
«Ho
sentito dire che pagano grano e cereali una volta e mezza il prezzo normale di
mercato.» scherzò il Barone Falkin, uno dei più
grandi proprietari terrieri della nazione. «Forse potrei farci un pensierino
anch’io.»
«Se
tenete alla vostra lingua Barone, vi suggerisco di evitare frasi come questa.»
«Sua
eccellenza ha ragione.» intervenne Philippe. «Eravamo stati molto chiari. Era
proibito a chiunque fare affari di qualunque tipo con i ribelli.»
«Si
trattava di un’intimazione che valeva solo per privati e affiliati alla nostra
gilda.» obiettò Falkin. «Le gilde commerciali
straniere non sono tenute a rispettarla. L’unico risultato che abbiamo ottenuto
promulgando quel divieto è stato spingere molti dei nostri mercanti ad
abbandonare la gilda nazionale in favore di quelle straniere. Alcuni hanno
perfino aderito alla gilda istituita appositamente dai ribelli.»
«E
se non sbaglio siete stato voi, Conte di Hatlen, a proporre
quel divieto.» puntò il dito il Conte Van Udren «Come
intendete assumervene la responsabilità?»
«L’ho
fatto e ne sono fiero!» si difese Philippe. «Per nessun motivo deve passare il
messaggio che si possono fare affari con dei ribelli! E se i nostri mercanti
sono talmente avidi da aggirare le leggi solo per riempirsi le tasche, allora
non c’è altra scelta che ricorrere a soluzioni drastiche.»
«Spero
per voi che stiate scherzando!» strillò Lefde «Quelle
terre non ci appartengono più. Inviarvi truppe sarebbe come dichiarare guerra
all’Impero.»
«Però
l’Impero non sta facendo niente per tentare di riprendersele. Anzi, sembra
quasi che non gli importi nulla.»
«Mio
Signore…»
«Ben
detto, Vostra Eccellenza. Inoltre voglio ricordare al nostro Generale Lefde che in quanto stato vassallo siamo pienamente
autorizzati ad agire nell’interesse dell’Impero, purché ci venga accordata
l’autorizzazione in tal senso.»
«E
chi dovrebbe autorizzarci? Il Governatore Longinus
che amministrava la provincia è già cibo per vermi.»
«Come
Primo Ministro del mio adorato fratello ho passato anni a raffrontarmi con le
autorità imperiali, abbastanza da sapere che la loro macchina amministrativa
per gestire casi come questo è molto lacunosa. Fino a quando dichiarassimo di
agire nell’interesse dell’Imperatore, e a meno che lui non ce lo vieti
espressamente, sarà pienamente legittimo da parte nostra servirci del nostro
esercito per riportare quelle terre sotto il controllo di Maligrad.»
«Questi
sono solo dei cavilli burocratici, e voi lo sapete.» protestò il vecchio Conte
di Nolgern «Se facciamo una cosa del genere l’Impero
ci salterà alla gola, e potremmo perdere per sempre quella poca libertà che ci
è rimasta.»
«Quindi
devo presumere che siate pronti a stare seduti senza fare niente mentre le
terre dei nostri avi vengono insozzate da una banda di mostri ribelli?»
Philippe
si girò verso Victor, che assisteva al dibattito senza intervenire ma con
un’espressione che diventava sempre più inquietante.
«È
un’occasione più unica che rara, nipote mio. Se saremo in grado di risolvere
questa crisi, potrebbe essere il primo passo per riottenere almeno in parte la
sovranità sull’intero territorio della nostra nazione.»
Seguirono
attimi di teso silenzio, con i sostenitori dell’una e dell’altra fazione che si
fissavano minacciosamente.
«Sono
passati tre mesi da quando quei bifolchi si sono presi ciò che non gli
appartiene, e sembra che all’Imperatore la cosa non interessi minimamente.»
disse con un sorriso raggelante. «È ora di fare il nostro lavoro di devoti
servitori.»
«Mio
Signore!?»
«Saggia
decisione, nipote mio. Datemi l’ordine, e i miei soldati marceranno contro il
nemico.»
«No
zio, per te ho in mente qualcos’altro. Il tuo compito invece sarà di informare
l’Imperatore delle nostre intenzioni. Prepara un documento ufficiale.»
«Come
desiderate.»
«Mio
Signore, ve ne prego. Riflettete bene su questa decisione. Il villaggio di Todlen dove si svolgono molte trattative è popolato da
nostri sudditi, e anche a GroteMuren
si trovano molti nostri mercanti.»
«Tanto
peggio per loro.» disse acido Philippe. «Così tutti impareranno cosa succede a
chi fa amicizia con il nemico.»
«La
mia decisione è definitiva. Generale Lefde, prepara i
tuoi uomini. In quanto comandante dell’armata occidentale sarai tu ad occuparti
della cosa. Tu e il tuo esercito scaccerete i ribelli dalle nostre terre,
quindi assalterete GroteMuren
aprendo la via verso l’ovest. Mi aspetto una vittoria rapida, totale e
gloriosa.»
«…
Io… farò come ordinate, Mio Signore.»
«Allora
direi che è tutto. Gentili signori, arrivederci.» e il giovane erede se ne
tornò ad occuparsi degli affari propri.
«E
pertanto, avendo constatato l’assenza di una qualunque risposta risolutiva alla
crisi attualmente in atto, e dovendo io supporre che la Maestà Vostra si trovi
nelle condizioni di non poter agire come vorrebbe, anche al fine di tutelare
l’incolumità e l’inviolabilità dei nostri confini, le circostanze attuali mi
costringono ad agire preventivamente, e di svolgere devotamente i miei doveri
di servitore fedele della famiglia imperiale. Ho già ordinato di mobilitare le
mie truppe, e se non altrimenti comandato mi accingo a scendere in guerra
contro i traditori e i ribelli che si sono indebitamente impossessati del
potere al Castello e in tutta la provincia. Sul mio onore di erede dei
Montgomery, io giuro solennemente di riportare il vessillo del leone dorato a
sventolare sulle torri del Castello, e di consegnare personalmente alla
giustizia umana e divina coloro che hanno commesso un sitale atto di tradimento
nei confronti di Vostra Maestà. Con gli auspici di Madre Gaia e la Vostra
Benedizione, confido di potervi scrivere quanto prima per comunicarvi la
liberazione della provincia di Eirinn e il suo ritorno sotto il controllo dei
suoi legittimi governanti. Firmato, il facente funzioni di Granduca di Eirinn,
Victor Montgomery. Questo è chiaramente un imperdonabile atto di
insubordinazione!» sbottò Marcello dopo che ebbe finito di leggere la lettera.
«Aria
ci aveva avvertiti, in fin dei conti. Non dirmi che sei davvero sorpreso che si
sia arrivati a questo.»
«Sappiamo
bene che è solo un pretesto. Ora i Montgomery tenteranno di sfruttare questa
occasione per riottenere il controllo delle terre che ci avevano ceduto
trecento anni fa.»
«Ma
è chiaro che quel ragazzo è troppo ingenuo e sprovveduto per aver avuto una
pensata del genere. Dietro c’è sicuramente quella serpe di Philippe.»
L’imperatore
si alzò dal trono e si affacciò ad una delle finestre della sala; la città
sotto di lui era bellissima e brulicante di vita come sempre, come se niente
potesse turbarne la prosperità e la quiete.
Ma
Ademar era il primo a sapere che si trattava solo di
una facciata, una sottile patina di marmo che poggiava su pericolanti basi
d’argilla.
«Vostra
Maestà, non possiamo permetterlo. Dobbiamo ordinare a quella testa matta di
fermarsi e…»
«Niente
affatto. Lasciamolo fare.»
«Maestà…»
«Su
una cosa hanno ragione. Se non facessi niente sarebbe visto come un segnale di
debolezza. E ce ne sono troppi qui che non aspettano altro che di vedermi fallire.»
«E
che cosa faremo qualora dovessero vincere? Se l’intera Eirinn dovesse tornare
sotto il controllo dei Montgomery chi ci garantisce che saranno disporci a
restituirci l’occidente?»
Era
un aspetto di cui non si poteva non tenere conto. Chi vince le guerre in fin
dei conti è sempre dalla parte della ragione, e se fosse stato l’esercito del
Granducato a sconfiggere i ribelli pretendere un ritorno almeno ufficioso di
quelle terre sotto la piena sovranità dei Montgomery sarebbe stata una
richiesta più che legittima.
«Dobbiamo
far capire in qualche modo che siete ancora voi a gestire questa crisi. Se
qualcuno inviato da Vostra Maestà si recasse lì facendosi carico di occuparsi
dei ribelli in vostro nome il Granduca sarebbe costretto a ricordarsi sempre per
chi sta combattendo.»
«E
chi dovrei mandare? Tutti i nostri migliori generali sono occupati altrove.
Dovrei inviare qualche burocrate della capitale o qualche raccomandato che non
ha la minima idea di come funzionino le cose laggiù? Mi farebbe solo fare
brutta figura.»
«In
realtà io stavo pensando ad un’unità militare di qualche tipo. Qualcosa di
piccole dimensioni, facilmente schierabile, ma con la forza necessaria per fare
la differenza.»
L’imperatore
abbassò un momento lo sguardo, quindi si girò nuovamente verso il suo
consigliere.
«Mi
viene in mente una sola unità che corrisponda alla tua descrizione.»
«Invierò
immediatamente una lettera.» rispose Marcello con il medesimo sorriso di
complicità.
GroteMuren non era mai stato un forte di particolare importanza,
ma si trovava in una posizione favorevole al centro della stretta valle che
attraversando la parte più meridionale della catena del Khoral
collegava tra di loro l’oriente e l’occidente dell’antico Granducato di Eirinn.
Era
stato costruito, si diceva, ai tempi delle tensioni tra i due rami della
famiglia poco prima della crisi che avrebbe segnato la perdita dei domini
occidentali a favore dell’Impero, e da più di cento anni versava in un quasi
completo stato di abbandono, rifugio per ladruncoli e sbandati.
I
rivoluzionari lo avevano occupato subito dopo aver preso il potere, facendone
assieme al ponte sullo Jesi e ad un altro piccolo forte nel passo a nord
l’unico punto di contatto tra lo Stato Libero e il resto del mondo.
Al
suo interno si poteva commerciare, discutere e richiedere autorizzazioni a
proseguire oltre, visto che per poter accedere a tutti gli effetti nello Stato
Libero erano necessari documenti che venivano elargiti con molta parsimonia.
Anche
i due villaggi di qua e di là del confine, Hemlin a
ovest e Todlen a est, facevano parte del meccanismo,
visto che in essi avveniva il primo riconoscimento di chi accedeva al forte,
cosa che aveva portato benefici ad entrambi garantendo un costante andirivieni
di forestieri pieni di soldi.
Natuli
detestava trovarsi in ambienti così caotici – una delle poche cose che la
accumunavano alla maggior parte degli elfi – e per tutto il viaggio dai
territori del nord fino ai confini della nuova nazione non aveva fatto altro
che rimuginare sul modo migliore per concludere in fretta il proprio lavoro e
tornarsene a casa.
Se
non altro erano vere le storie che aveva sentito sul fatto che non facevano
distinzioni. Al momento di ottenere il permesso di proseguire verso il forte
nessuno le aveva chiesto conto del suo essere un elfo, addirittura zittendo e
negando l’accesso ad uno stupido mercante di Patria che aveva fatto allusioni
sulle sue orecchie a punta prima che potesse farlo tacere lei stessa con un
cazzotto.
Il
suo entusiasmo iniziale si era però spento nel momento in cui, una volta giunta
al forte, malgrado il permesso che le era stato rilasciato le fu impedito di
oltrepassare la porta ovest.
«Come
devo fare per andare avanti?» aveva chiesto all’unico altro elfo che aveva
incontrato, un senza-clan – come venivano chiamati quelli che lasciavano le
terre natali per mescolarsi con gli umani – che vendeva paccottiglia nell’atrio
dell’edificio principale.
«Buona
fortuna. Fanno passare pochissime persone, e danno sempre la precedenza agli
schiavi in fuga. Io sono due settimane che aspetto l’autorizzazione. Altrimenti
devi dimostrare di poter essere d’aiuto, o di avere un qualche talento di cui
non possono fare a meno.»
In
tutto questo caos fatto di mercanti, affaristi, mercenari in cerca di un
impiego, schiavi emancipati e anche qualche malintenzionato toccava al povero
Septimus, nelle vesti di comandante del forte, mantenere l’ordine.
Daemon
gli aveva affiancato alcuni burocrati e notai, oltre ad accordargli un buon
numero di truppe, ma per quanto fosse abituato a gestire tanti problemi tutti
insieme sentiva di essere ormai vicino perdere la testa.
Praticamente
passava la quasi totalità del tempo nel suo ufficio, uscendone solo per dormire
qualche ora o sedare vari problemi di ordine pubblico.
«Comandante,
il ministero dell’economia sta ancora aspettando la lista dei mercanti in
arrivo questa settimana.»
«Dite
a Mary che gliela manderemo entro domani.»
«Comandante,
l’ambasciatore di Torian non ha ancora ricevuto il
suo accredito.»
«È
arrivato solo tre giorni fa, può aspettare ancora un po’.»
«Comandante,
quei mercenari di Maharadi hanno fatto di nuovo
casino alla taverna.»
«Li
avevamo avvertiti. Revocategli l’autorizzazione e buttateli fuori.»
«Comandante,
c’è un gruppo di conigli che insiste per avere l’accesso prioritario, ma
dall’amministrazione dicono che non hanno con sé documenti che provino la loro
natura di schiavi.»
«Comandante…»
«Basta,
non ne posso più!»
Per
fortuna aveva una pessima mira, altrimenti il calamaio che aveva tirato sarebbe
volato dalla finestra andando a colpire qualcuno nel cortile.
«Daemon,
giuro che questa me la paghi! Che ti è saltato in mente di mandarmi qui? Io
sono un soldato, non un burocrate! Io li odio i burocrati!»
«Ma
vi pare normale? Non ho fatto certo la Rivoluzione per essere intombato in un
ufficio, sepolto sotto un mare di scartoffie! Se vuole qualcuno che si occupi
delle scartoffie che lo chieda a Mary!»
Non
era raro che la campana della torre suonasse, anche solo per attirare
l’attenzione delle guardie su qualche rissa o momento di tensione nella
tendopoli sviluppatasi nel tempo davanti al forte, così in un primo momento
nessuno se ne preoccupò.
Il
problema fu quando, a stretto giro, un gran numero di persone iniziò ad
accalcarsi davanti alle porte premendo per entrare.
«Comandante!»
gridò un messaggero entrando nell’ufficio coperto di
polvere. «Un esercito nemico si sta dirigendo qui!»
«Che
cosa!? Che esercito?»
«Dalle
insegne deve trattarsi dell’armata occidentale di Eirinn. Hanno già attaccato Todlen, e al massimo entro mezz’ora raggiungeranno il
forte!»
«Maledizione!
Allarme generale, posti di combattimento! Fate uscire tutti i civili e
portateli a Hemlin!»
In
un primo momento Natuli pensò che la cosa migliore da
fare fosse unirsi ai civili in fuga e approfittarne per sparire, salvo poi
capire che quella poteva essere una buona occasione per mettersi in mostra.
Non
che le andasse tanto di rischiare la pelle in una guerra di cui non le
importava nulla, ma prima e meglio avesse portato a termine la sua missione,
più in fretta sarebbe potuta tornare a casa.
«Accidenti.
Che rottura.» brontolò andandosi a nascondere sotto un telo mentre tutti gli
altri scappavano.
Nel
frattempo l’esercito nemico aveva fatto la sua comparsa, e stava prendendo
posizione ad alcune centinaia di metri dal forte.
Ad
occhio e croce dovevano essere un migliaio al massimo, con pochissima
cavalleria e la maggior parte delle sue forze costituita da fanteria leggera,
ideale per un assalto rapido; con loro avevano anche scale e corde, ma nessuna
arma da assedio, quasi che non si aspettassero di dover faticare per prendere
la fortezza.
«Usiamo
i cannoni, comandante?» chiese uno dei sottoposti di Septimus
«Non
possiamo. Le fondamenta non sono state ancora rinforzate a sufficienza, e le
mura si sbriciolerebbero al primo colpo.»
Daemon
aveva accennato ad una nuova arma capace di soppiantare archi e balestre nei
combattimenti a distanza, ma visto che non era stata ancora completata non vi
era altra scelta che ricorrere ai vecchi metodi.
«Arcieri
e balestrieri, pronti a scoccare! E aspettate il mio ordine!»
Nello
schieramento opposto, il Generale Lefde si concesse
qualche attimo per osservare il forte, constatando non senza una certa
ammirazione come i ribelli avessero fatto un ottimo lavoro nel rimetterlo in
sesto.
Aveva
lo sguardo e l’atteggiamento di qualcuno che non voleva trovarsi lì,
consapevole di come le sue azioni fossero destinate ad avere conseguenze
irreparabili.
Ma
era un soldato di Eirinn, ed aveva fatto un giuramento da cui non poteva
tirarsi indietro.
Mestamente,
fece un cenno al suo vice.
«Prima
linea, avanzare!» e circa un terzo dell’esercito partì all’attacco.
Il
modo di combattere degli eserciti di Erthea differiva molto da nazione e
nazione. Le legioni imperiali davano molta importanza alla disciplina e
all’impiego di ampie formazioni serrate, in cui si combatteva spalla a spalla;
l'esercito di Eirinn, oltre a preferire picche, grandi spade e solide armature
a piastre agli scudi e alle lance corte imperiali, aveva un approccio molto più
individualista, in cui ci si spalleggiava gli uni con gli altri ma ogni soldato
doveva in pratica saper badare a sé stesso.
E
un approccio simile non rendeva facile il lavoro degli arcieri, le cui frecce
spesso andavano a vuoto cadendo tra un nemico e l’altro senza colpire nessuno.
Septimus
attese fino a quando i nemici non furono molto vicini, quindi diede l’ordine di
sparare e la battaglia iniziò ufficialmente.
Quelli
che portavano scale e corde vennero presi di mira per primi e caddero in gran
numero, ma anche se altri presero il loro posto i difensori riuscirono in un
primo momento a tenere le mura inviolate.
Anche
i nemici ovviamente avevano degli arcieri, oltretutto molto bravi, che ad ogni
gragnola di frecce riuscivano ad eliminare uno o due soldati dello Stato
Libero, cosicché dopo alcuni minuti l’esercito di Eirinn iniziò a guadagnare
terreno, pur pagando a caro prezzo ogni metro conquistato.
Natuli
dal suo nascondiglio poteva tenere d’occhio abbastanza bene lo svolgersi della
battaglia, e ne approfittò per farsi un’idea delle capacità di entrambi gli
eserciti.
«Dilettanti.»
fu tutto quello che le venne da dire
Quindi,
una volta deciso che aveva visto abbastanza, passò all’azione.
Agile
e veloce come un gatto sfrecciò accanto a Septimus e ai suoi uomini senza che
questi quasi la notassero, sfilò l’arco ad uno di loro e trapassò tre soldati
nemici in piena fronte prima ancora di toccare terra dopo essere saltata giù
dalle mura.
Una
volta all’esterno raccolse il cavallo di un ufficiale e un pugnale da una
guardia morta, cominciando ad andare su giù per il campo di battaglia mietendo
vittime come una vera e propria dea della guerra, con un’abilità e un’agilità
tali che i soldati di Eirinn non riuscivano in alcun modo ad ostacolarla.
«Ma
quella chi è?» domandò uno degli uomini di Septimus
«Non
ne ho idea, ma è la nostra occasione! Soldati, riprendete a sparare! E state
attenti a non colpire quell’elfa!»
Lo
scontro a quel punto divenne ancora più caotico, con i difensori che
scagliavano frecce a ripetizione e gli attaccanti più preoccupati di avere a
che fare con Natuli che di continuare il loro assalto
alla fortezza. La stessa elfa si ritrovò ad un certo
punto in una situazione complicata, dal momento che i suoi movimenti erano così
fulminei e imprevedibili che gli uomini di Septimus trovavano difficile
scoccare senza rischiare di colpirla.
Dopo
pochi minuti l’assalto inevitabilmente perse di slancio, e nel caos generatosi
non una singola scala raggiunse le mura di GroteMuren.
«Basta
così. Suonate la ritirata.»
«Ma
Generale, abbiamo ancora molti uomini.»
«Questo
era solo un test, Abel. Un modo per mettere alla prova la loro forza. Ora
sappiamo che non vanno sottovalutati, e di certo non basteranno poche migliaia
di uomini per riuscire a sconfiggere questo esercito. Fai come ti ho detto e
torniamo a casa.»
«Sì,
Generale.»
Al
suono del corno gli attaccanti iniziarono a ripiegare in ordine verso i propri
compagni, e per non esasperare la situazione sia Septimus che Natuli decisero di lasciarli andare senza infierire o
provare ad inseguirli.
Quindi,
una volta che se ne furono andati, tornò a regnare una quiete assoluta, rotta
solo dal gracchiare dei corvi che iniziarono subito a banchettare con i caduti.
Tutti
sapevano cosa quell’attacco, per quanto fugace e non troppo drammatico, aveva
significato.
La
pace era già finita.
«Allora?»
disse Natuli cavalcando fin sotto le mura. «Adesso me
lo permettete di entrare sì o no?»
Anche se l’Impero si sforzava di
mantenere un’aura di civiltà celando la polvere sotto il tappeto, in molti
sapevano che in realtà le rivolte nei ghetti accadevano più spesso di quanto si
pensasse.
E
sotto questo aspetto il grande ghetto della regione costiera di Gadra, che da solo forniva la quasi totalità degli schiavi
impiegati a bordo delle flotte militari e civili dell’Impero, era uno dei più
problematici.
Ogni
schiavo aveva il suo valore; formare un bravo rematore o un marinaio
qualificato richiedeva tempo, e in questi casi ricorrere a sistemi drastici per
imporre la disciplina non era mai considerata una buona idea. Gli schiavi lo
sapevano, e così capitava spesso che alzassero la testa per chiedere razioni di
cibo migliori, qualche ora in meno di lavoro o la possibilità di passare più
tempo a terra.
Di
solito in questi casi si tentava un dialogo proprio per evitare morti inutili,
ma gli eventi di Ende avevano cambiato tutto, e gli
ordini dall’alto erano cambiati. L’ordine nei ghetti doveva essere mantenuto
con ogni mezzo, perché l’ultima cosa che l’Imperatore voleva era che qualcuno
si mettesse in testa di seguire l’esempio dello Stato Libero.
E
in questi casi c’era qualcosa di peggio che dover affrontare l’esercito
imperiale.
Le
chiamavano le Furie di Vanlia, dal nome della remota
regione del nord da cui provenivano.
Implacabili.
Inarrestabili.
Si
diceva che il rumore dei loro zoccoli era l’ultima cosa che avresti sentito
nella tua vita se te li ritrovavi contro.
Ufficialmente
non facevano parte dell’esercito, ma erano in pratica i suoi cani sciolti; i mastini
che facevano il lavoro sporco dell’Imperatore.
La
loro velocità gli permetteva di arrivare dovunque in poco tempo, e per questo
erano sempre in movimento, pronti ad andare lì dove veniva loro ordinato.
Sopprimere
rivolte, assistere le truppe regolari in qualche battaglia senza nome, o
occuparsi di briganti e contrabbandieri che insozzavano le strade più
importanti dell’Impero erano i loro compiti.
Erano
solo poche centinaia, ma valevano più di un intero esercito.
L’unità
esisteva da tempi che si perdevano nelle pagine della storia, e fin dalla sua
istituzione era stata guidata sempre alla stessa famiglia. Da circa cinque anni
al comando le Furie c’erano due sorelle, la maggiore Athreia,
spadaccina con pochi eguali, e la minore Medea, provetta arciera.
Il
loro secondo in comando era il vecchio Stavros, un veterano dell’unità nonché
amico di lunga data del loro compianto padre, che voleva bene a quelle due
ragazze come a delle figlie vegliando costantemente su di loro.
E
di motivi per preoccuparsi Stavros ne aveva parecchi. Perché Medea, ma
soprattutto Atrheia erano le degne figlie del loro
padre, e non ci pensavano nemmeno a restare al sicuro nelle retrovie mentre i
loro compagni rischiavano la vita in battaglia.
Proprio
come quella notte.
Due
settimane prima gli schiavi si erano impossessati di alcune armi, avevano
cacciato le guardie e alzato le catene che bloccavano l’accesso alla baia
interna attorno alla quale sorgeva il campo.
Dopo
che la piccola guarnigione locale aveva tentato senza successo di sopprimere la
rivolta in un assalto che però non aveva portato a niente si era presa la
decisione di aspettare, con la certezza che senza provviste e in sovrannumero i
ribelli si sarebbero presto arresi.
Ma
i giorni erano passati senza che vi fosse alcuna traccia di resa, e ormai
mancava poco al momento in cui le correnti marine avrebbero iniziato a scorrere
in senso contrario, chiudendo alle flotte mercantili le porte verso le rotte
meridionali per i successivi tre mesi.
Gli
schiavi ribelli lo sapevano, ed erano sicuri che come le altre volte i mercanti
pur di non perdere i loro guadagni avrebbero fatto pressioni sul governatore
per risolvere la questione.
Ma
stavolta era diverso.
Il
governatore e il suo generale, Ottone, non erano più disposti ad accettare questa
situazione.
E
per essere sicuri che la cosa venisse risolta in modo rapido e definitivo senza
però mettere in pericolo i propri uomini avevano richiesto direttamente
all’Imperatore di inviare sul posto le Furie.
Benché
non fossero molto a loro agio nel combattere di notte, appena arrivati sul
posto si erano immediatamente scagliati contro il ghetto con la forza e
l’impeto di una valanga inarrestabile, sì da cogliere i ribelli impreparati e
averne ragione ancor più facilmente.
Subire
una loro carica al galoppo significava essere sicuri di non vedere un altro
giorno; al loro passaggio la terra tremava, e i loro corpi temprati dalle
battaglie sembravano invulnerabili alle frecce o alle lance.
Come
sempre, Medea e sua sorella Athreia guidavano la
carica, la prima scagliando frecce lunghe come giavellotti che trafiggevano
fino a quattro nemici in un colpo solo, la seconda vibrando fendenti tanto
precisi da disarmare e immobilizzare gli avversari senza neanche doverli
uccidere.
Quello
che duemila uomini dell’esercito imperiale non erano riusciti a fare in
quindici giorni le Furie di Vanlia lo fecero in venti
minuti, e prima dell’alba la rivolta era domata.
«Sorella,
stai bene?» disse Medea vedendo un rivolo di sangue sgorgare da una ferita
sulla groppa di Athreia, tingendo di rosso la sua
elegante pelliccia color nocciola
«È
solo un graffio. Uno di loro mi ha ferita di striscio con la lancia.»
«Dovresti
essere meno impulsiva. Io e gli altri abbiamo fatto fatica a starti dietro.»
«Non
morirò certo per una cosetta del genere.»
«Dico
sul serio, sorella. Lo so che vuoi dare l’esempio, ma prima o poi potresti
farti male seriamente.»
Al
che Athreia le appoggiò una mano sulla testa.
«E
dire che tra le due dovrei essere io quella sempre preoccupata. Sono la sorella
maggiore dopotutto.»
«Smettila,
dai. Non sono una bambina.» provò a protestare Medea, facendosi però tradire
dalla coda che ondeggiava furiosamente.
Questa
sincera manifestazione d’amore fraterno dovette interrompersi per l’arrivo del
Generale Ottone, che ovviamente aveva aspettato fino all’ultimo prima di farsi
vedere.
«Allora?
Avete risolto?»
«La
ribellione è sedata, gli schiavi si sono arresi.» disse Athreia
«Perfetto,
allora il vostro compito qui è finito. Ora ce ne occupiamo noi.»
«Secondo
gli ordini ricevuti dall’Imperatore abbiamo ridotto le vittime al minimo
indispensabile.»
«Quelli
erano i vostri ordini, non i miei. Ho avuto anche troppa pazienza con questi
parassiti.» quindi il generale si rivolse a due suoi ufficiali. «Trovate i capi
della rivolta e mozzate loro un piede se sono rematori, o il naso e le orecchie
se sono marinai. Quindi portatemi tre bestie prese a caso per ognuno di loro, e
ordinate loro di sceglierne una da far giustiziare. Questo gli farà passare la
voglia di alzare ancora la testa.»
«Aspettate,
così è troppo brutale!»
«Medea!
Però mia sorella ha ragione, non c’è bisogno di essere così drastici.»
«Abbiamo
avuto cinque rivolte in tre anni, ora basta! L’Imperatore ha detto chiaramente
che fatti come quello di Eirinn non devono più accadere, e io ho tutta
l’intenzione di rispettare la sua volontà. Quanto a voi, potete andarvene anche
subito.»
Medea,
che non aveva l’autocontrollo della sorella, era quasi sul punto di rispondere
per le rime a quel pallone gonfiato, ma Athreia fu
lesta a fermarla e convincerla a venire via con lei prima che potesse fare
qualcosa di stupido.
«Perché
l’hai fatto, sorella?»
«Il
nostro compito era solo quello di sopprimere la rivolta. Il ripristino
dell’ordine all’interno del ghetto non è cosa che ci competa.»
«Però
quelle persone…»
«Noi
siamo soldati, Medea. Possiamo solo obbedire agli ordini.»
In
quel momento le raggiunse il vecchio Stravos, scuro
in volto e con in mano l’ascia ancora coperta di sangue.
«Ci
sono feriti?» chiese Athreia
«Niente
di irreparabile. Qualche graffio, e Zagan che
probabilmente perderà un occhio. Comunque è appena arrivato un messaggero. A
quanto pare l’Impero ha ancora bisogno di noi.»
«Dove
dobbiamo andare?»
«Ad
Eirinn.»
Athreia
sospirò: in qualche modo era sicura che prima o poi sarebbe successo.
«Per
stanotte riposeremo nella prateria qui vicino. E domattina all’alba partiremo.»
«Sissignora.»
A
quel punto i tre si avviarono verso i loro compagni, cercando di ignorare le
grida strazianti che iniziavano a sollevarsi alle loro spalle squarciando il
buio della notte.
Capitolo 4 *** CAPITOLO 4 - INCONTRO AL PASSO DI GAEL ***
“Quando mi fisso
su un obiettivo
gli ostacoli possono solo farsi da parte”
CAPITOLO 4
INCONTRO AL PASSO DI GAEL
Subito dopo essere stato informato
dell’assalto al forte Daemon convocò immediatamente tutti i suoi ministri per
discutere la situazione.
Nell’aria
c’era agitazione, e più di qualcuno era preoccupato, ma in realtà quasi nessuno
si mostrò eccessivamente sorpreso per ciò che era accaduto.
In
qualche modo tutti sapevano che non sarebbe potuta durare.
Daemon
lo aveva detto senza tanti giri di parole il giorno in cui si erano riuniti per
la prima volta, proprio allo scopo di spegnere facili entusiasmi e riportare
tutti alla cruda realtà.
«Non
possiamo escludere che prima o poi qualcuno tenti di rubarci la libertà che ci
siamo conquistati.» aveva detto. «E quando accadrà dovremo essere pronti a
difenderci.»
Quel
momento era infine arrivato.
Troppo
presto per qualcuno, più tardi del previsto per qualcun altro.
Lo
Stato Libero era nato, ora era necessario difenderlo.
Per
fortuna nulla era stato lasciato nelle mani del caso.
L’istituzione
di un esercito, gli investimenti massicci in armamenti e scorte di emergenza,
oltre alla costruzione di alcune roccaforti in punti strategici del Paese erano
tutte precauzioni che erano state prese proprio al fine di prepararsi ad una
simile eventualità.
Dopo
aver rassicurato tutti che nessuno sarebbe stato trascurato furono prese le
prime decisioni, a cominciare dall’ordine pubblico.
Venne
istituita la legge speciale che limitava l’accesso al cibo, garantendo a tutti
il necessario sostentamento contenendo però speculazione e sprechi. Furono
anche implementati i poteri dei prefetti di polizia per mantenere l’ordine e
assicurare a tutti i villaggi un corridoio di sicurezza per mettersi in salvo
nel più vicino centro fortificato in caso di necessità.
Poi
fu il turno dell’aspetto economico.
Quasi
tutti i mercanti che negli ultimi tre mesi avevano iniziato a fare affari con
lo Stato Libero avevano contatti nel mercato nero, ed erano più che capaci di
muovere soldi e merci anche in tempo di guerra sfruttando canali segreti e
sotterfugi. Furono ricevuti i capi delle gilde, che si impegnarono a proseguire
negli affari in cambio di un aggiustamento ai profitti per compensare i rischi.
Nessuno
era felice all’idea di svendersi a quelle sanguisughe, ma era l’unico modo per
mantenere attivi i commerci.
Naturalmente
per poter continuare a commerciare doveva esserci qualcosa da vendere, quindi
fu dato l’ordine che tutte le attività restassero aperte, a cominciare dalle
miniere e dalla cura dei campi.
Infine
vennero riassegnati e riposizionati i battaglioni, con i veterani della
Rivoluzione che sarebbero andati ad occupare le posizioni più esposte, a
presidio di GroteMuren e
sull’impervio Passo di Gael, i soli due punti di
collegamento tra l’est e l’ovest dell’antica Eirinn.
Secondo
Oldrick presidiare il passo sarebbe stato solo uno
spreco di risorse, perché era semplicemente impossibile per un esercito in armi
attraversarlo agilmente, perennemente coperto com’era dalla neve e dal
ghiaccio.
«In
una guerra non si lascia niente al caso, Oldrick.
Credevo che lo sapessi. È ovvio che l’attacco al forte è stata solo una prova.
E anche volendo dare retta alle voci che dipingono Victor come un’idiota
patentato, il Generale Lefde che comanda l’esercito
occidentale del Granducato è uomo assai più avveduto. Ora che ha testato le
nostre difese a GroteMuren,
è logico supporre che farà lo stesso anche al Passo di Gael.
E noi dobbiamo farci trovare pronti.»
Finita
la riunione, e accompagnato da Scalia, Daemon volle anche conoscere l’elfa che con le sue prodezze aveva contribuito alla
difesa di GroteMuren, e
che dopo la battaglia era stata portata al Castello sotto scorta per
incontrarlo.
«Quindi
sei tu il capo qui?»
«Più
o meno. Tu invece sei?»
«Natuli.»
«Anzitutto
voglio ringraziarti per il tuo contributo. Senza di te avrebbero potuto esserci
molte più vittime nell’attacco. Mi hanno detto che vorresti avere accesso allo
Stato Libero. Posso chiederti perché?»
«Mi
è sembrato un posto come un altro per fare un po’ di soldi.»
«Un
elfo che parla di soldi.» commentò Scalia. «Se non lo vedessi non ci crederei.»
«Mettila
come vuoi. Voi avete tanti nemici, e io so come prendermene cura. Allora? Vi
servo oppure no?»
I
due si fissarono vicendevolmente negl’occhi come se cercassero di studiarsi, e
Scalia fu sorpresa nel vedere come l’elfa non
battesse ciglio di fronte allo sguardo penetrante del fratello, capace
solitamente di far tremare le gambe anche ai più coraggiosi.
Quindi,
arrivò il verdetto.
«Indubbiamente
ci sai fare sotto molti aspetti. D’accordo, puoi
restare, ma ad una condizione. Dovrai servire nel nostro esercito. Stiamo
creando un reparto di arcieri a cavallo, dovrai addestrarli e prenderne il
comando. Ti occuperai anche di addestrare tutti i nostri reparti di arcieri.»
«Per
me va bene.»
Nessuno,
neanche i pochi che avevano dimostrato abilità comparabili a quelle di Natuli, aveva mai fatto carriera così velocemente, e la
cosa lasciò sia Scalia che tutti gli altri presenti parecchio sorpresi. Ma ciò
nonostante non si levò una sola obiezione.
«Allora
siamo d’accordo. Septimus, occupatene tu. Da questo momento conferisco a Natuli il ruolo di Capitano dei Cacciatori a Cavallo.»
«Come
desideri.»
Detto
questo Daemon si congedò e si diresse verso il proprio ufficio, sempre seguito
da Scalia.
«Daemon,
sei sicuro che sia una buona idea? È sicuramente abile, ma affidarle di punto
in bianco un incarico così importante…»
«È
una spia.» rispose il ragazzo come se fosse la cosa più naturale del mondo
«Cosa!?»
«Ha
nascosto il tatuaggio, ma è ovvio che non sia una senzaclan
come vuole farci credere. Gli elfi si agitano per ogni cosa fuori dalle righe
che avviene in questo continente, e noi siamo fuori dalle righe sotto molti
punti di vista. L’avranno mandata qui per sorvegliarci ed essere sicuri che non
siamo una minaccia.»
«Ma
se l’hai capito subito, perché le hai affidato quel comando!?»
«Lo
hai sentito anche tu il rapporto di Septimus. Hai mai visto un arciere migliore
di lei? Se non avessi ricompensato adeguatamente il suo talento avrebbe capito
che l’avevamo smascherata.»
«Però,
permettere ad una spia di prendere parte alle riunioni e ai consigli di guerra,
soprattutto in un momento come questo… Non sarebbe stato più saggio arrestarla
o espellerla?»
«Avrebbero
mandato qualcun altro, qualcuno più abile di lei a passare inosservato. E
comunque il suo talento è troppo prezioso per farne a meno. Ora non pensiamoci
più. Come hai detto tu, abbiamo cose più importanti di cui occuparci.»
Ad
attendere i due nell’ufficio c’era una vecchia conoscenza che entrambi non
vedevano da parecchio tempo.
«Eilon.» disse Scalia. «Che bello rivederti.»
«È
un piacere anche per me, Scalia.» rispose il vecchio volatile «Vi siete
sistemati bene.»
«Felice
di rivederti amico mio. Come vanno le cose a Dundee?»
«Molto
bene. Devo ringraziarti. Con i soldi che ci hai prestato siamo riusciti ad
aprire una fucina tutta nostra.»
«È
stato un piacere. Le tue abilità di fabbro e forgiatore del resto meritavano un
ambiente di lavoro migliore delle squallide fornaci delle miniere.»
«Non
dico che quel periodo mi manchi, però devo ammettere che ogni tanto mi sento
quasi a disagio. Ora non dobbiamo più fare economia di utensili o preoccuparci
che la fornace possa saltare in aria perché non viene riparata. Queste vecchie
piume ormai erano abituate alle fiammate.»
«Avrei
voluto rincontrarti in circostanze migliori. Ma se sei qui, presumo che tu
abbia delle novità per me.»
Al
che Eilon dirottò la loro attenzione sulla voluminosa
scatola di legno appoggiata sul tavolino: «Puoi contarci.»
Nel
momento in cui Daemon aprì il contenitore, i suoi occhi si accesero come quelli
di un felino.
«Allora?
Che te ne pare?»
«Sono
davvero senza parole. È identico al progetto che ti avevo lasciato.»
«Non
è stato facile, ma lo sai. Io sono il migliore.»
Scalia
non ci provò neanche a chiedere che cosa fosse, anche se quella forma particolare
qualche sospetto glielo faceva venire.
«Compatto,
robusto, e leggero quanto basta. Avete fatto qualche test?»
«Certamente.
Tutti brillantemente superati. Nessuna incrinatura, nessuna traccia di
sofferenza del metallo. Il meccanismo qualche volta tende a bloccarsi, ma con i
pezzi che abbiamo a disposizione non potevamo fare di meglio.»
«Un
limite che avevo preso in considerazione. Suppongo che per adesso dovremo
accontentarci. Quanti pensate di poterne costruire?»
«I
primi trenta sono già pronti. Dì solo una parola, e potremo arrivare a cento
prima della prossima luna.»
«Allora
mettetevi subito al lavoro. Temo che ne avremo bisogno molto presto. Nel
frattempo, io mi occuperò dell’addestramento.»
Il fallimento dell’assalto a GroteMuren non provocò grande
sorpresa a Faria, giacché nessuno si aspettava
realmente che qualcuno che era stato capace di conquistare una provincia in
meno di un mese potesse essere sconfitto con così poco.
Tuttavia,
una simile disfatta imponeva come prima cosa di aumentare la disponibilità di
soldati, così subito dopo il ritorno della prima spedizione si era iniziato a
fare i dovuti preparativi bandendo una coscrizione in massa e l'arruolamento di
gruppi mercenari.
In
realtà le casse nazionali erano tutt’altro che piene in quel periodo, ma c’era
la convinzione –per alcuni più che per altri– che i frutti della riconquista
avrebbero ampiamente coperto i costi.
Gli
Jormen erano sostanzialmente ladri e predoni, barbari
dell’estremo nord orientale che saccheggiavano le coste prendendo quello che
volevano, e che proprio per questo non disdegnavano di combattere per chiunque
potesse permettersi i loro servizi.
La
banda di Ignes era una delle poche che si potevano
reclutare anche nel profondo entroterra, visto che solitamente gli Jormen non stavano mai troppo lontani dal mare e dalle loro
famigerate navi.
Nessuno
guardando Ignes avrebbe mai pensato che lei potesse
essere il temuto Ferro Cremisi, la
cui ascia aveva macellato così tanti nemici da essersi colorata di rosso.
Portava le trecce e si vestiva come una ragazzina, ma guardarla negli occhi
avrebbe terrorizzato anche il più impavido dei generali, tanto erano freddi, e
in battaglia agitava quell’arma più grossa di lei come fosse di carta.
La
sua fama era tale che nessuno osava protestare per la natura piuttosto
eterogenea della sua banda, che annoverava al suo interno un buon numero di
mostri fuggiaschi e schiavi liberati.
«Sua
Altezza il Granduca vi ringrazia per i vostri servigi.» disse Philippe, in
piedi accanto al trono dal quale Victor presenziava l’incontro con tutti i capi
mercenari assoldati per l’occasione. «Con il vostro aiuto, schiacceremo i
ribelli e reclameremo il controllo della provincia di Eirinn.»
«Bando
alle ciance e parliamo di cose serie.» tagliò corto Ignes
«Quand’è che si combatte?»
«Stiamo
ancora finendo di riorganizzare il nostro esercito.» intervenne Lefde, anch’egli presente. «Ci vorranno ancora alcune
settimane.»
«Tutto
questo spiegamento di forze per un pugno di ribelli? Pagatemi il doppio e vi
risolvo il problema da sola.»
«La
vostra fama vi precede Ferro Cremisi, ma vi invito alla prudenza. Questi
ribelli non assomigliano a niente che abbiate visto finora. Il loro comandante
è una persona estremamente arguta, che ha addestrato i suoi soldati molto
bene.»
Invisibile
a tutti, nascosta dietro una colonna sulla balconata che sovrastava la sala
delle udienze, un’ombra ammantata assisteva all’incontro. Victor ne incrociò lo
sguardo un attimo prima che scomparisse, piegando le labbra in un moto di
stizza.
«Tuttavia,
il risultato non cambierà.» disse «Quella che ci aspetta è una grande vittoria,
e posso assicurarvi che tutti voi avrete la vostra parte in gloria e bottino.
Eirinn sa essere molto generosa con chi la serve fedelmente.»
«La
fedeltà e la gloria lasciamole fuori.» fu la replica piccata di Ignes «A noi importa solo del denaro, e voi ce ne avete
promesso tanto. Per il vostro bene spero che non fosse una promessa campata in
aria.»
«Bada
a come parli, selvaggia!» sbottò Philippe perdendo la pazienza. «Ti ricordo che
ti stai rivolgendo al Granduca di Eirinn!»
«Mi
piace la tua schiettezza.» rispose invece Victor. «Non c’è persona più
affidabile di quella la cui lealtà può essere comprata, dopotutto. Tranquilla, questa
impresa porterà a tutti voi più guadagni di quanti ne possiate immaginare.
Avete la mia parola.»
In
quel momento le porte in fondo alla stanza si aprirono, e prima ancora che il
banditore potesse annunciare i nuovi venuti una coppia di giovani centaure in
armatura giunse alla presenza del giovane Granduca.
Nessuno
dei presenti le aveva mai viste, ma tutti immaginarono subito di chi dovesse
trattarsi; ragion per cui né Philippe né tantomeno Victor furono felici di
vederle.
«Salute
a Voi, Granduca Montgomery.» disse la più anziana dopo che entrambe ebbero
fatto un inchino. «Mi chiamo AthreiaYpsilanti, e sono il comandante delle Furie di Vanlia. Su richiesta di Sua Maestà l’Imperatore, da questo
momento ci mettiamo al vostro servizio per assistervi nella campagna contro i
ribelli che hanno occupato la provincia dell’Eirinn Occidentale.»
«Il
vostro supporto è inatteso e molto gradito lady Ypsilanti,
ma al momento abbiamo a nostra disposizione tutte le truppe di cui potremmo
aver bisogno.» disse Philippe, la cui espressione però raccontava tutt’altra
storia. «Senza contare che nelle nostre attuali condizioni non ci possiamo
permettere di assoldare altre truppe.»
«Ehi
cavallone, non starete cercando di rubarci il lavoro?» disse Ignis andandole
vicino e fissandola con aria di sfida, e questo malgrado Athreia
e sua sorella fossero alte il doppio di lei
«Noi
non siamo mercenari.» disse offesa Medea «Siamo un’unità scelta appartenente
all’esercito imperiale.»
«Calmati,
Medea. Sua Maestà ci ha inviato qui per manifestarvi la propria vicinanza e
riaffermare il suo appoggio alla vostra impresa per liberare la provincia dal
controllo dei ribelli. Obbediremo a voi in quanto signore di queste terre, ma
intendiamo rispettare l’ordine ricevuto dal nostro Imperatore. Se non volete il
nostro aiuto noi non combatteremo, ma questo non significa che verremo meno ai
nostri doveri.»
I
denti di Philippe scricchiolavano per quanto forte li stava serrando.
Era
fin troppo chiaro per quale motivo l’Imperatore avesse mandato lì quei
maledetti centauri. E visto che le Furie si occupavano notoriamente di
sopprimere rivolte nessuno avrebbe potuto accusare Sua Maestà di aver agito in
maniera pregiudizievole.
«Lo
chiamano aiuto, ma in realtà ci stanno solo mettendo il guinzaglio.» disse tra
sé e sé Lefde, non senza un certo sollievo.
«Suvvia,
non è il caso di scaldarsi tanto.» rispose Victor, con una maturità e una calma
tali da lasciare i due uomini senza parole. «Se Sua Maestà ci invia degli aiuti
sarebbe sciocco non servirsene. In fin dei conti, noi stiamo agendo in sua
vece. Siete le benvenute, voi e la vostra unità. E giacché vi trovate qui,
avremmo già il compito giusto da affidarvi.»
«Siamo
a vostra disposizione.»
«Abbiamo
saggiato la forza dei nostri nemici con un rapido attacco alla fortezza di GroteMuren, e purtroppo abbiamo
dovuto constatare che quei ribelli sono più organizzati di quanto credessimo.
Pertanto prima di passare all’offensiva vera e propria vorremmo vagliare tutte
le possibili soluzioni.»
Al
che il giovane Montgomery richiamò l’attenzione di tutti sul gigantesco arazzo
appeso sulla parete alla sua sinistra, raffigurante il vecchio Granducato ai
tempi del suo massimo splendore.
«Come
sicuramente saprete, la valle in cui si trova GroteMuren è l’unico punto di collegamento tra l’est e l’ovest
della vecchia Eirinn abbastanza grande da potervi transitare agilmente con un
grande esercito. Ma c’è anche un’altra strada, più impervia e pericolosa, a
nord della fortezza.»
«Ne
ho sentito parlare. È il Passo di Gael.»
«Un
assalto frontale contro GroteMuren
ci costerebbe sicuramente perdite considerevoli. Ma se riuscissimo a far
transitare una piccola forza attraverso il passo fin oltre la catena del Khoral, potremmo essere in grado di tagliare le linee di
rifornimento nemiche. A quel punto, la conquista del forte diventerebbe una
questione molto più facile.»
«Sì,
capisco.»
«Purtroppo
per noi, anche questo Daemon è arrivato alla medesima conclusione. Ci hanno
appena comunicato che i ribelli hanno iniziato a fortificare il passo.
Pertanto, sarebbe necessario mettere alla prova anche qui le loro difese, per
capire quanto questa operazione possa risultare fattibile.»
«Quindi
vorreste affidare questo incarico a noi?»
«La
vostra è un’unità piccola, ma molto potente. Perfetta per un ambiente angusto
come il passo. Di fronte alla forza di una vostra carica i ribelli potrebbero
persino abbandonare il campo immediatamente, aprendoci subito la strada verso
l’ovest.»
«In
questo caso Granduca, potete iniziare subito a pianificare l’offensiva. Perché
potete stare certo che libereremo il passo prima ancora che i ribelli possano
accorgersi di noi.»
«Ero
sicuro che saremmo andati d’accordo. Vi farò sapere quando potremo dare il via
all’operazione. Nel frattempo, Eirinn vi accoglie come alleati e come amici.
Seguite il mio ciambellano, vi condurrà nei vostri alloggi.»
«Vi
ringrazio, Vostra Eccellenza.»
Dire
che Philippe e Lefde erano senza parole sarebbe
riduttivo.
Ma
se Lefde per un attimo volle illudersi che il figlio
del suo vecchio amico stesse finalmente iniziando a capire cosa voleva dire
essere l’erede dei Montgomery, a Philippe che gli stava accanto non sfuggì il
ghigno che si materializzò sul volto del ragazzo nel momento in cui le due
centaure gli diedero le spalle; e la cosa lo soddisfò enormemente.
L’ultimo piano dell’ala nobile del
palazzo era proibito a chiunque; nessuno doveva vedere ciò che il vecchio Berthold Montgomery era diventato.
Non
che se ne vergognasse; semplicemente sapeva quanto fosse importante il modo di
apparire per un sovrano, specialmente per una famiglia come la sua che portava
sulle spalle il peso di una nazione in crisi d’identità, alla perenne ricerca
di una figura forte a cui aggrapparsi.
Il
popolo stesso ignorava quale fosse il vero motivo che aveva costretto il
Granduca a rinunciare il proprio ruolo in favore del figlio; si era parlato di
un problema di salute non meglio specificato. Inevitabile quando si aveva a che
fare con una malattia che la gente comune considerava una punizione divina.
Da
qualche mese la lebbra aveva portato via al Granduca perfino la vista. Ma ormai
egli conosceva il suo palazzo così bene da poterlo percorrere in lungo e in
largo senza alcun bisogno di vedere, stando sempre ben attento a scegliere quei
percorsi in cui non avrebbe corso il rischio di incontrare qualcuno.
Così,
quando ne aveva le forze, se ne andava in giro, ascoltando le voci dei servi e
delle guardie, e presenziando talvolta alle udienze al sicuro del colonnato che
sovrastava il salone.
«Non
credo ci sia bisogno di farvi rapporto, giacché vi siete sentito in dovere di
assistere all’incontro.» disse Victor chiudendo la porta delle stanze del padre
«Stai
prendendo una strada pericolosa, figlio mio.» disse la figura appena visibile
dietro le tende del letto parlando con voce roca e gracchiante «L’Impero potrà
anche essere più debole che in passato, ma è ancora capace di azzannare
chiunque osi sfidarlo.»
«E
dunque noi dovremmo continuare a piegare la testa di fronte ad un leone vecchio
e morente? È davvero tutto qui il vostro orgoglio?»
«Attento
a ciò che dici. Anche se ho giurato fedeltà all’Imperatore, il mio cuore e il
mio spirito sono sempre stati rivolti al bene di Eirinn. E se pensi che abbia
dimenticato cosa significa essere parte di questa famiglia ti sbagli di
grosso.»
«Davvero?
Perché onestamente a me sembra il contrario, e il vostro comportamento lo
dimostra. Questa è la migliore occasione per noi di riprenderci ciò che ci
appartiene, e voi vorreste che ce la lasciassimo sfuggire.»
Victor
non aveva il coraggio di dirlo apertamente, ma sospettava a torto che vi fosse
proprio lo zampino di suo padre dietro l’arrivo delle Furie. Non occorreva un
genio del resto per capire che si trattava di un espediente per ricordare a lui
e a Philippe a nome di chi stavano combattendo.
«Se
avessimo avuto a che fare con il vecchio imperatore sarei stato il primo a
suggerirti di agire in questo modo. Era solo un vecchio incapace prigioniero
dei suoi vizi. Ma suo fratello Harnold che ora siede
sul trono è tutta un’altra cosa. È furbo e perspicace. E anche se ora ha molti
problemi a cui pensare, sbagli a ritenere che ignorerebbe ciò che tu e Philippe
volete fare. Eirinn un giorno sarà di nuovo unita e libera, ma quel momento non
è ancora arrivato.»
«Quel
momento non arriverà mai finché ci sarà gente come voi a governare. Non è forse
per questo che avete mandato Aria a studiare all’accademia imperiale? Per
legare ancora di più il nostro destino a quello dell’Impero, proprio ora che
potremmo finalmente liberarci da questa umiliante condizione di vassalli?»
«Guardami.
Il mio corpo sta marcendo, e probabilmente sarò morto prima di un anno. Credi
davvero che se pensassi che le tue azioni potrebbero ridarci la libertà non ti
darei la mia benedizione, se non altro per poter assistere alla rinascita di
Eirinn prima di esalare il mio ultimo respiro? Molti moriranno se compi questo
passo, e la loro morte potrebbe non portare a niente. Sei davvero disposto a
sacrificare i tuoi soldati, il tuo regno, forse persino la tua vita in nome di
un obiettivo che potrebbe essere oltre la tua portata?»
«È
qui che vi sbagliate, padre. Io non sono un codardo come voi. Io non ho paura
di sporcarmi le mani, e lascerei morire cento, mille, anche un milione di
uomini sotto il mio comando per restituire ad Eirinn il posto che merita.
Perciò restate seduto qui e osservate mentre porto a compimento ciò a cui voi e
i vostri antenati non siete mai andati nemmeno vicini.»
Non avevo mai pensato che la pace
fosse destinata a durare a lungo, così come avevo sempre saputo che il mio
impero, come tutti gli altri esistiti in chissà quanti altri mondi, poteva
essere costruito solo con il sangue.
Del
resto sapevo di non avere molto tempo, e in cuor mio avevo sperato che le cose
si mettessero in moto il prima possibile.
Erano
passati quasi quattro mesi da quel fatidico giorno in cui tutto aveva avuto
inizio, e l’arrivo del Re dei Demoni si avvicinava sempre di più.
Non
era un caso se fin dal primo momento avevo investito pesantemente nel
rafforzamento dei nostri confini occidentali, facendo ristrutturare GroteMuren e selezionando i
mostri più resistenti al freddo per destinarli al Passo di Gael.
Perché sapevo che la prima mossa ai nostri danni sarebbe venuta proprio da
Eirinn.
Ovviamente
mi ero documentato su chi mi sarei trovato di fronte, e grazie ai rapporti
consegnatimi dalle spie che avevo inviato in ogni dove in quasi tutta l’Erthea
Occidentale, mi ero fatto un’idea abbastanza precisa di Victor Montgomery.
Per
farla breve, non mi preoccupavo minimamente, poiché avevo capito con chi avevo
a che fare; con il classico edonista viziato, come ce n’erano tanti tra gli
aristocratici di qualunque regno, che scambiava la nobiltà per il talento, alla
costante ricerca di un modo per dimostrare la propria forza.
Tipi
così ne avevo incontrati a centinaia nella mia precedente vita, e li conoscevo
abbastanza bene da sapere cosa potermi aspettare da loro.
Stesso
discorso per Philippe, una serpe dalla lingua biforcuta che usava l’amor di
patria come scusa per giustificare la sua ambizione, di sicuro competente nel
comando ma così poco avveduto da risultare prevedibile nelle sue scelte.
Il
problema semmai era il Generale Lefde, del quale non
riuscivo a farmi un’idea precisa. Da una parte lo vedevo come un altro di quei
veterani ubriachi di onore cavalleresco che mai si sognerebbero di contraddire
gli ordini del proprio signore, anche se in disaccordo con lui, dall’altro
avevo sentito solo elogi nei confronti del suo talento come generale.
Come
se non bastasse tutto pesava sulle mie spalle, e ormai da parecchi giorni a
stento trovavo il tempo di dormire.
Nella
mia vecchia vita potevo permettermi di demandare ad altri le questioni
logistiche e burocratiche, ma anche se mi stavo adoperando per creare una
classe dirigente che potesse assistermi nessuno dei miei subalterni possedeva
ancora le qualità necessarie a stare al passo con me.
E
con una guerra alle porte, ecco che le responsabilità per me si erano
moltiplicate: studiare le mappe, organizzare i presidi, occuparsi dei
rifornimenti, assegnare gli ufficiali, programmare le marce erano tutte cose
che ricadevano sulle mie spalle.
E
anche se ora ero tornato giovane, anch’io avevo dei limiti.
Ero
arrivato alla mia terza notte trascorsa quasi completamente in bianco ad esaminare
pratiche e redigere documenti, avevo in corpo più caffè che sangue, e se avessi
avuto a portata di mano uno schioppo penso che avrei sparato alla prima persona
che avessi incontrato per quanto ero stanco e nervoso.
Per
non scoppiare del tutto decisi di fare una pausa e concedermi due passi.
Il
Castello era immerso nel buio e nel silenzio più assoluti, e fatte salve le
sentinelle, quasi tutte più addormentate di me, non incontrai nessuno finché
non raggiunsi i giardini.
«Scalia.»
dissi quando la vidi in piedi davanti alla fontana delle sirene. «Cosa ci fai
in piedi a quest’ora?»
«Potrei
farti la stessa domanda.»
«Avevo
del lavoro da fare, ma ho voluto fare una pausa.»
«Tu
lavori troppo, fratellino. Se continui così prima o poi ti ammalerai.»
«Non
posso farci niente. Ora che siamo in guerra le incombenze si sono
moltiplicate.»
«Quindi
è inevitabile?»
«Temo
di sì. A quanto pare Victor ha speso fino all’ultimo soldo delle casse di
Eirinn per arruolare quanti più mercenari possibili. Non sarà una battaglia facile.»
«Quando
abbiamo accettato di seguirti sapevamo che avremmo dovuto combattere
strenuamente per conquistare e conservare la libertà, ma sinceramente speravo
che la pace potesse durare un po’ più a lungo.»
Beata
ignoranza.
Come
se i cambiamenti, specie se così epocali, potessero compiersi senza dover
versare fiumi di sangue.
«Credi
che ce la faremo a vincere?»
«In
guerra non esistono certezze. Possiamo solo fare del nostro meglio, e sperare
che sia sufficiente. Però sì, possiamo vincere. Del resto siamo arrivati troppo
lontano per arrenderci ora, non credi?»
Ufficialmente
Scalia era un soldato come gli altri, e non aveva alcuna carica all’interno del
mio governo.
Non
perché non la reputassi capace di fare la sua parte; non volevo che qualcuno mi
accusasse di fare dei favoritismi.
Ma
ora più che mai avevo bisogno di lei, del suo coraggio, della sua forza, e
anche della sua testardaggine. Anche a costo di farle rischiare la vita sul
campo di battaglia.
«Pensavo
di farlo domani mattina, ma a questo punto direi di approfittarne adesso.»
dissi porgendole una spilla da ufficiale. «Sto creando una unità speciale, che
possa muoversi sul campo di battaglia in piena autonomia, e vorrei che fossi tu
a comandarla con il grado di Capitano.»
«Capitano!?
Io!?»
«Tutti
ti hanno vista combattere durante la Rivoluzione. I veterani ti conoscono, le
reclute ti ammirano. Inoltre i soldati lotteranno con più convinzione se
sapranno che a guidarli è la figlia del famoso Generale Zorech.
Volevo proporre questa posizione anche a nostro padre, ma come sai lui non
vuole avere più niente a che fare con la guerra e con le armi.»
Effettivamente
ci avevo provato in tutti i modi a convincere Zorech
a prestarci il suo talento, ma quel vecchio ottuso e idealista evidentemente
era ancora tormentato dagli incubi di ciò che aveva visto e fatto durante le
Guerre Sacre.
Persino
per un ruolo ininfluente e marginale come quello di Governatore del Castello
avevo faticato non poco per riuscire a convincerlo.
Con
Scalia non dovetti neanche insistere.
«Non
sono sicura di essere ciò di cui hai bisogno.» disse prendendo la spilla. «Ma
ti prometto che farò del mio meglio.»
«Ne
sono sicuro. Ma sia chiara una cosa, voi sarete comunque parte dell’esercito.
Potrete muovervi per conto vostro, ma dovrete comunque obbedire ai miei ordini
qualora ve ne dia.»
«Non
preoccuparti. Prometto che non farò niente di avventato.»
«Lo
spero. Perché d’ora in poi temo che le battaglie si faranno sempre più dure.»
Un
movimento improvviso in un cespuglio vicino ci fece sobbalzare entrambi, e un
attimo dopo mi ritrovai a venire travolto da una specie di piccola ombra che mi
si avvinghiò addosso con la forza di un orso.
«Fratellone!
Quanto tempo è passato!»
«Sapi!?»
L’ultima
volta che avevo ricevuto una sua lettera era stato ancora prima dell'inizio
della Rivoluzione.
E
anche se già solo da quello che negli anni mi aveva scritto avevo capito da
tempo che doveva essere molto cambiata rispetto a come la ricordavo, per un
attimo mi sembrò di avere davanti una completa estranea.
L’unico
modo in cui potei essere sicuro che fosse davvero lei era il suo aspetto,
com’era naturale del resto: era risaputo che gli yeti mantenevano per tutta la
vita l’aspetto di preadolescenti, così da rimanere piccoli e robusti e
sopportare meglio il gelo delle montagne in cui vivevano.
Stessi
capelli azzurrini, stessa pelliccia bianca, stesso naso piccolo. E purtroppo
per le mie ossa, stessa forza ciclopica, che nessuno le aveva mai insegnato a
dosare.
«Ma
si può sapere come hai fatto ad entrare qui? Che accidenti combinano le
guardie?»
«Ciao
zietta. Sono felice di rivedere anche te.»
«Chi
hai chiamato zietta, sottospecie di sgorbietto peloso?»
C’erano
poche cose che Scalia detestasse più di qualcuno che le rinfacciava la sua età;
certo, se paragonata all’età media dei draghi era poco più di una ragazzina, ma
ciò non toglie che fosse abbastanza vecchia da poter essere la mia bisnonna.
Ma
chiaramente la nuova Sapi, che all’opposto fatto
salvo il carattere sembrava ancora la bambina che avevamo conosciuto otto anni prima,
era troppo ingenua e innocente per capirlo.
«Allora,
mi vuoi dire cosa ci fai qui?»
«Sono
venuta a mantenere la mia promessa. Ti avevo detto che un giorno sarei tornata
per aiutarti a realizzare il tuo sogno. Così quando ho saputo quello che avevi
fatto non ci ho pensato due volte e sono venuta qui.»
E
così, il primo investimento della mia seconda vita aveva finalmente fruttato.
Ero
stato io a convincere Sapi a mettere a frutto la
straordinaria forza bruta della sua specie nell’arena, così da farle apprendere
qualche rudimento di lotta e renderla ancora più capace di cavarsela sul campo
di battaglia.
Ora
sapevo che quel suggerimento non solo era stato seguito alla lettera, ma i
risultati erano andati ben al di là delle più rosee aspettative… e la mia cassa
toracica era lì a testimoniarlo.
«Mi
dispiace Sapi, ma temo che tu sia arrivata qui in un
pessimo momento. La pace è già finita, e presto saremo di nuovo in guerra.»
«Ma
io posso aiutarti, fratellone. Te l’ho detto che ho imparato a combattere. Prometto
che farò la mia parte.»
Esattamente
quello che mi aspettavo da lei e per cui avevo coltivato il nostro rapporto, ma
occorreva comunque salvare le apparenze.
«Se
proprio vuoi aiutarci, allora puoi restare. Per il momento però voglio che mi
resti vicino. Avrai molto presto l’occasione per dimostrare quanto vali.»
«Daemon,
non starai pensando seriamente di mandare in battaglia questo scricciolo.»
«Fidati
Scalia, sa combattere meglio di quanto credi. E comunque non andrà in
battaglia, almeno fino a quando non lo dirò io. Giusto?»
«Sì,
te lo prometto. Farò tutto quello che mi dirai. Sono così felice di essere di
nuovo insieme a te, fratellone.»
Nel
frattempo ormai era sorto il sole, così tutti e tre ci dirigemmo al refettorio.
E
dal momento che Tecla aveva la pessima abitudine di venire a fare rapporto nei
pochi momenti tranquilli che avevo a disposizione, ci comparve davanti proprio
mentre stavamo facendo colazione.
«L’esercito
di Eirinn si è messo in movimento. Si sono divisi in due armate che avanzano
contemporaneamente.»
«Dove
si trovano?»
«Un’armata
ha preso possesso di Todlen, l’altra sembra
intenzionata ad imboccare il Passo di Gael. Al
comando di questa seconda armata c’è il Conte di Hatlen,
e ne fanno parte anche molti mercenari. Tra di loro ci sono anche almeno
duecento centauri.»
«Centauri.»
disse Scalia contenendo a stento l’impulso di sputare per terra. «Se esistono
gli dei inferi, devono aver pensato ad un supplizio eterno solo per loro.»
«Le
nostre forze dove sono?» chiesi io
«Il
Generale Adrian ha raggiunto ieri sera GroteMuren e implementato le difese.»
«Le
fortificazioni sul Gael?»
«Terminate.»
Con
un gesto attirai l’attenzione di Septimus, strappandolo con suo enorme sollievo
all’ennesima provocazione sensuale di Giselle che non perdeva occasione per
mettere in mostra la sua nuova mercanzia davanti a lui.
«Convoca
il consiglio di guerra per mezzogiorno. E dì alla mia nuova unità di cominciare
a prepararsi. Lo Stato Libero sta per incominciare la sua prima guerra.»
Il Passo di Gael
era chiamato anche Vetta degli Dei, perché era il valico situato più in alto
dell’intera catena del Khoral.
Era
chiamato anche Valle della Bianca Vetta, dal momento che la neve che come un
sudario copriva il fianco del Monte Gael non si
scioglieva mai neanche nel cuore dell’estate, incombendo minacciosa su chiunque
si avventurasse in quella vallata pianeggiante e molto stretta, scavata nella
roccia e nel ghiaccio.
Al
termine di tre giorni e tre notti di marcia Philippe e i suoi uomini erano
arrivati quasi in cima al passo, fissando il loro campo nel cuore dell’ultimo
scampolo di foresta a poca distanza dai bordi del ghiacciaio.
Anche
se ormai era praticamente estate il freddo era spaventoso, e penetrava in ogni
cellula del corpo minacciando di congelarti vivo.
Dopo
qualche ora di sonno, Philippe convocò i capi mercenari per discutere il piano.
«I
ribelli si sono trincerati a tre miglia da qui, nel cuore del ghiacciaio, e
hanno eretto barriere di legno. Le Furie di Vanlia apriranno
la strada spazzando via la prima linea dei ribelli, seguiti a ruota dal resto
dei mercenari che infliggeranno il colpo di grazia aprendo al
strada al resto dell’esercito. Nel momento esatto in cui la vittoria sarà a
portata di mano invierò un messaggero a Todlen dando
al Generale Lefde e a mio nipote il via libera per
avanzare, e stringeremo GroteMuren
in una manovra a tenaglia.»
Era
sempre la stessa storia. Mercenari e gregari facevano il lavoro sporco, e i
soldati regolari sfilavano vittoriosi nelle regioni conquistate al seguito dei
loro signori.
Non
ci si poteva fare niente, e sia Athreia che Ignes lo sapevano bene; quella era la sorte di chi faceva
della guerra al servizio di qualcuno il proprio mestiere.
«Ehi
cavallona, cercate di non ammazzarne troppi.» disse Ignes
al termine della riunione. «A differenza vostra, noi veniamo pagati a scalpi.»
Non
era abitudine di Athreia provocare o litigare, quindi
si limitò a promettere di non “interferire con le legittime pretese dei suoi
compagni d’armi” e chiuse il discorso.
«Quel
tipo, il Generale. Non mi piace per niente.» disse Medea andando incontro alla
sorella «È chiaro che ci considera solo dei mostri qualunque.»
«Noi
siamo mostri, sorellina. Noi possiamo anche dimenticarcene, ma loro no.»
«Abbiamo
combattuto al fianco degli umani nelle Guerre Sacre. L’Impero ci considera
cittadini a tutti gli effetti. Cos’altro dobbiamo fare per meritare il loro
rispetto?»
Athreia
aveva imparato a non farsi più certe domande, ma Medea era così onesta e nobile
che semplicemente non riusciva a capire per quale motivo certi umani, anche
dopo cinquecento anni, ancora non riuscissero a considerare i centauri come dei
loro pari.
«Qual
è la situazione?» chiese la sorella maggiore a Stavros, di ritorno dalla sua
esplorazione
«È
come ha detto il nobile Philippe. I ribelli hanno allestito delle difese poco
più a ovest, soprattutto palizzate di legno alte un paio di metri intervallate
da dei varchi.»
«Tutto
qui?» commentò Medea. «Pensano davvero che basti così poco per fermarci?»
«D’altronde
non credo si possa fare molto di più in un posto del genere. Forse pensano che
il ghiaccio sul terreno ci ostacolerà. Scopriranno a loro spese che ci vuole
altro per impensierire i nostri zoccoli.»
Quello
che nessuno dei tre né chiunque altro nel campo sapeva era che, subito dopo la
fine della riunione, Philippe aveva convocato nella tenda di comando il capo
dei suoi esploratori.
«È
sicuro che quel Daemon si trovi qui?»
«Assolutamente.
I miei uomini lo hanno visto salire sul passo accompagnato da una mezzosangue,
un giovane ufficiale e alcuni soldati.»
«Allora,
sai cosa fare. Aspettate il mio segnale.»
«Come
desiderate.»
Di lì a qualche ora arrivò finalmente
l’ordine di avanzare e le Furie di Vanlia si misero
in movimento, seguite a stretto giro dal resto dei mercenari.
Avanzarono
piano, per non sprecare le energie, e ben presto la roccia sotto di loro si
tramutò in uno spesso strato di ghiaccio e neve.
Ma
come aveva detto Stavros ci voleva ben altro per spaventarli; i loro zoccoli
erano come artigli, duri e ruvidi, capaci di fare presa su qualunque tipo di
terreno.
I
ribelli –praticamente tutti mostri– nel frattempo avevano preso posizione,
schierando lancieri e picchieri lungo i varchi per bloccare l’avanzata del
nemico e proteggere i loro compagni posizionati dietro le loro barricate di
fortuna.
Poche
volte Athreia e i suoi compagni avevano visto delle
difese così scarne, e probabilmente sarebbe bastato un singolo assalto per
spianare quei fragili reticoli di legno e travolgere tutto quello che vi stava
oltre.
In
un primo momento nessuno fece caso al fatto che gli arcieri ribelli posizionati
oltre le barricate non impugnassero archi, ma piuttosto una specie di strane
lance in legno e metallo, corte e tozze, terminanti in un foro da cui spuntava
una lama lunga e stretta.
Ci
fu un istante di quiete assoluta, poi gli araldi suonarono nei loro corni
facendo vibrare le montagne.
«Carica!»
Di
solito la sola vista delle Furie lanciate all’assalto era sufficiente a far
scappare i loro nemici in preda al panico.
Ma
evidentemente i ribelli non erano avversari comuni, o forse erano solo molto
bene addestrati, e restarono fermi al loro posto, mentre alle spalle della loro
prima linea a ridosso delle barriere era un continuo movimento di ufficiali che
andavano avanti e indietro ordinando a squarciagola di mantenere la posizione.
In
pochi secondi i centauri dimezzarono la distanza che li separava dal nemico,
acquistando sempre più velocità man mano che avanzavano.
«In
posizione!»
Udendo
quell’ordine, la prima linea infilò quelle strane lance oltre le barricate,
puntandole dritte in avanti come a voler cercare di formare un’acuminata
barriera di punte.
«Pensano
che questo possa bastare? Travolgiamoli!»
Quando
mancavano poche decine di metri le furie alzarono le armi, preparandosi a
colpire; sarebbero passati sulle barricate e sui nemici dietro di esse come su
un tappeto, lasciando dietro di sé nient’altro che distruzione.
Un urlo rimbombò come un tuono nel cuore dello
schieramento ribelle.
«Fuoco!»
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti, e ovviamente Buon Natale!
Siamo
arrivati al Terzo dei Sei capitoli di questo Volume 3.
Da
qui in poi come si può intuire sarà un susseguirsi di eventi che si svolgeranno
attraverso vari archi, destinati solitamente a durare 2 o 3 volumi a seconda
della loro importanza.
Già
da ora abbiamo fatto la conoscenza con il primo vero villain,
ovvero Victor, la cui importanza seguirà un andamento altalenante ma che rivestirà
sempre comunque un ruolo di primo piano nello svolgersi delle vicende.
Un frastuono spaventoso sovrastò
quello dei centauri nel mezzo della carica e l’aria secca della montagna si
riempì del puzzo nauseante della polvere da sparo, mentre la barricate
scomparivano dietro una densa coltre di fumo bianco.
Athreia
e i suoi compagni inizialmente non capirono neanche cosa li avesse colpiti,
fatto sta che da un momento all’altro decine di loro caddero rovinosamente
sulla neve, tingendola di rosso per la gran quantità di sangue versato.
Quelli
che venivano subito dietro istintivamente provarono a fermarsi per non
travolgere i loro compagni, ma nonostante i loro zoccoli poderosi non era
facile arrestare una carica su di un terreno ghiacciato, e così anche molti di
loro caddero provocando ancora più caos.
Ben
presto la cortina fumogena si diradò, giusto in tempo perché Athreia e i pochi che ancora non avevano arrestato la carica
potessero vedere i tiratori nemici alzarsi e indietreggiare, pronti
per venire sostituiti da dei loro compagni armati nello stesso modo.
«Fuoco!»
La
seconda raffica fu ancora più letale, perché ormai molte Furie si erano quasi
fermate diventando dei facili bersagli, e infatti in questo caso i morti furono
molti di più.
Alla
fine, inevitabilmente, la carica si fermò e nessun centauro raggiunse le
palizzate, dalle quali nonostante tutto continuarono ad arrivare ad un ritmo
incessante raffiche di proiettili. La cosa terribile era che i nemici miravano
principalmente alla metà equina dei corpi dei centauri, spesso lasciata
scoperta o poco protetta, riuscendo così a far perdere loro l’equilibrio e
provocando un letale effetto domino. E una volta che un centauro cadeva non era
facile per lui rimettersi in piedi, rimanendo vulnerabile.
Medea,
che non indossava alcun tipo di protezione, provò a scoccare alcune frecce
riuscendo anche ad uccidere un paio di tiratori, ma ciò ebbe il solo effetto di
spingere i nemici a concentrare il fuoco contro di lei.
«Medea,
attenta!» urlò la sorella, non riuscendo tuttavia ad impedire che un proiettile
la colpisse ad un braccio.
«Comandante,
se restiamo qui ci massacreranno!» disse Stavros proteggendosi con lo scudo e
cercando nel contempo di soccorrere alcuni compagni feriti
Non
c’era altra scelta.
Dovevano
ritirarsi.
«Arretrare!
Arretrare!»
La
ferrea disciplina dell’unità impedì che il ripiegamento si trasformasse in una
fuga precipitosa, ma diede anche ai ribelli la scusa per non cessare un momento
di sparare fino a quando le Furie non giunsero oltre la portata delle loro armi
infernali.
Ovviamente
alla vista delle famigerate Furie di Vanlia che si
ritiravano senza neanche aver realmente combattuto i mercenari, nonostante gli
incitamenti di Ignes, neanche ci provarono ad
avanzare a loro volta, e quella che si pensava dovesse essere una rapida
cavalcata verso la vittoria divenne un colossale fallimento.
Quando
le armi finalmente tacquero sul terreno erano rimasti dieci morti e il doppio
dei feriti, che vennero portati via dopo aver concordato una tregua di due ore.
La
prima battaglia, per quanto riguardava le forze di Eirinn, si concludeva nel
modo peggiore.
Anche se dal mio punto di vista gli
eserciti di Erthea non erano altro che una massa di cavernicoli che
combattevano ancora con spade, lance e scudi era impensabile affrontare un’orda
di centauri alla carica con centoventi fucili di scarsa qualità e altrettanti
mediocri moschettieri.
Una
volta mentre leggevo un libro che mio fratello Giuseppe mi aveva mandato in
dono dalla collezione privata dei Reali di Spagna avevo letto di una battaglia
avvenuta in estremo oriente più di duecento anni prima, all’alba dell’arte
delle armi da fuoco.
Un
uomo –un genio o un folle, a mio parere– era riuscito nell’impresa di fermare
una carica semplicemente disponendo i suoi uomini dietro delle barriere di
legno e ordinando loro di sparare in successione disponendosi su tre file.
Per
chi non ha mai visto un fucile in vita sua l’effetto psicologico del vedersi
arrivare addosso un’incessante scarica di proiettili doveva essere sicuramente
qualcosa di spaventoso, forse anche di più di venire colpiti a cannonate.
Ora
sapevo che era così.
Ma
non è tutto oro quel che luccica, e come al solito toccò a me, l’unico realista
della comitiva, fare la parte dell’uccello del malaugurio.
«Sarebbe
tutta qui la leggendaria forza dei centauri?» disse Scalia subito dopo la fine
dello scontro. «Grandi guerrieri, ma fammi il piacere. Grandi buoni a niente.»
Le
volevo bene, ma alle volte trovavo questa sua baldanza ed eccessiva sicurezza
decisamente insopportabili.
«Forse,
ma non illudiamoci che finisca così. Questo era solo l’inizio.»
«Pensi
che ci riproveranno?» chiese Septimus
«Senza
dubbio. Avete visto le loro bandiere? Il centauro rampante su sfondo verde?
Erano le Furie di Vanlia. Ci vuole ben altro per
impensierire guerrieri così valorosi.»
«Che
vengano pure, fratello. Li accoglieremo alla stessa maniera.»
«Non
è così facile. Tanto per cominciare, questa semplice schermaglia ci è costata
quasi la metà delle munizioni che avevamo portato con noi.»
Per
non parlare del fatto che, contrariamente a quanto aveva detto Eilon, molte armi si erano inceppate o erano proprio
scoppiate in mano ai soldati, rivelandosi tutt’altro che perfette.
«Inoltre,
anche il più stupido dei comandanti non commette due volte lo stesso errore. La
prima volta ci hanno sottovalutati, alla seconda saranno più preparati.»
«Quando
pensi che torneranno all’attacco?»
«Credo
di averne già un’idea. E come saprai già amico mio, in guerra è chi attacca a
dettare i tempi. Stanotte le lune saranno in fase calante, ma le stelle
riflettendosi sulla neve e sul ghiaccio forniranno tutta la luce necessaria. E
probabilmente ne approfitteranno sperando di coglierci stanchi o addormentati.»
«Hai
qualche idea su come poterli respingere?»
Se
avessi avuto a disposizione qualche cannone non sarebbe stato un problema, ma
il poco tempo e l’altitudine mi avevano impedito di portarli con me.
Oltretutto
il nemico non ci avrebbe messo molto a comprendere che le nostre armi da fuoco
per il momento erano solo un fuoco di paglia, che oltre a spaventare e fare
scena non servivano a molto altro, tanto scarsi erano i loro i risultati
pratici in battaglia.
«Forse
c’è una soluzione. Sapi?»
«Sì,
fratellone?»
«Mi
servirà il tuo aiuto.»
«Tutto
quello che vuoi.»
«Sarebbe tutta qui la leggendaria
forza dei centauri?»
Athreia
sapeva di meritare lo scherno, e restava immobile con lo sguardo basso a
sopportare i commenti sarcastici di Philippe.
«Da
guerrieri della vostra fama mi sarei aspettato molto di più, ma è bastato un
po’ di rumore e qualche strana arma per farvi scappare a gambe levate.»
«Non
avevamo mai visto armi del genere. Ci hanno colti alla sprovvista.»
«La
vittoria in questa battaglia è vitale per garantire il successo della nostra
operazione. Ogni cosa era stata preparata accuratamente. Ora invece dovrò
inviare un messaggero a mio nipote per informarlo che il nostro piano non sarà
portato a termine secondo i tempi previsti.»
«Forse
non è stato tutto inutile, Generale. Ora sappiamo cosa abbiamo di fronte.»
Athreia
fischiò, e Stavros entrò nella tenda tenendo in mano la propria corazza, sul
cui petto era ben visibile una vistosa ammaccatura.
«Molti
dei nostri soldati che sono stati colpiti da quelle strane armi hanno segni
come questo sulle corazze. All’inizio ho pensato che mirassero alle nostre
parti equine per farci cadere più facilmente, ma probabilmente anche loro
sapevano di non poter trapassare le nostre protezioni. Ora che lo sappiamo,
sarà sufficiente proteggerci meglio per rendere le loro armi del tutto
inefficaci.»
«In
questo caso torneremo subito all’attacco. Stanotte.»
«Forse
sarebbe meglio aspettare domani mattina. È probabile che il nemico si aspetti
un attacco durante la notte, e potrebbero tentare di tenderci qualche altra
trappola approfittando del buio.»
«Dovreste
essermi grata invece di replicare, Capitano. Se entro l’alba il passo sarà in
mano nostra il piano non subirà alcun ritardo, e nessuno verrà mai a sapere del
vostro fallimento. Cosa direbbe Sua Maestà se sapesse che i suoi fidati
centauri sono stati respinti da un pugno di ribelli senza aver nemmeno
combattuto?»
Athreia
digrignò i denti e serrò i pugni, ma sapeva di non poter fare niente; il mandato
dell’Imperatore la poneva alle totali dipendenze di Victor e dei suoi generali,
quindi era tenuta ad obbedire ai loro ordini.
«Il
piano di battaglia rimane lo stesso. Voi aprirete la strada, e i mercenari vi
seguiranno. Potete andare.»
Appena
uscita dalla tenda Athreia andò a visitare i propri
feriti.
«Qualche
graffio e poco altro.» sentenziò Kassia, il medico
dell’unità. «La maggior parte potrà tornare a combattere molto presto.»
«Mi
dispiace chiedervi di tornare subito a combattere amici miei, ma temo di avere
ancora bisogno di voi. Il Generale ha deciso di lanciare un nuovo attacco già
questa notte.»
«Non
preoccuparti comandante. Non sarà una cosa del genere a fermarci.»
«Ben
detto! Tu dacci l’ordine, e saremo pronti a caricare di nuovo!»
«E
stavolta li spazzeremo via.»
Almeno
l’entusiasmo non ne aveva risentito, malgrado avessero perso più compagni nelle
ultime due ore che negli ultimi due anni.
Ma
anche se era abbastanza sicura che il secondo attacco sarebbe stato molto
diverso, Athreia volle prendere una ulteriore
precauzione.
«Medea,
voglio che stanotte tu resti qui con Kassia e gli
altri feriti più gravi.»
«Cosa!?
Perché!? Kassia dice che posso combattere.»
«La
tua ferita non è una cosa da niente, e anche se combattessi non potresti farlo
al meglio delle tue capacità.»
Medea
non sopportava quando Athreia faceva la parte della
sorella iperprotettiva, ma nel momento in cui, su sua richiesta, non riuscì a
tendere completamente l’arco per via del dolore capì che forse per una volta
era più saggio darle ascolto.
«Non
temere, ci saranno altre occasioni. Questa guerra è solo all’inizio. Ti basterà
un po’ di riposo e potrai di nuovo a galoppare al mio fianco.»
«D’accordo.
Però tu promettimi di stare attenta.»
Al calare delle tenebre, il passo e
le montagne circostanti si tinsero del magico colore delle stelle, rifulgendo
di una tenue luce azzurra.
Athreia
e i suoi compagni avanzarono lentamente, per ritardare il più possibile il
momento in cui il nemico si sarebbe accorto di loro dandogli pochissimo tempo
per reagire.
Quando
giunsero in vista delle stesse barricate su cui la loro prima offensiva si era
infranta le trovarono deserte, con giusto un paio di sentinelle che montavano
la guardia senza luci magiche né torce.
Forse
credevano anche loro al mito secondo cui i centauri al buio erano quasi ciechi,
–in realtà semplicemente ci vedevano solo un po’ meno, come gli umani del
resto– o forse semplicemente non si aspettavano un nuovo attacco così presto.
«Adesso!
Carica!»
Preceduti
da una prima fila di compagni coperti dalle più pesanti corazze e da grandi
scudi rinforzati le Furie partirono all’assalto sollevando un fitto pulviscolo
di neve.
Le
sentinelle si diedero alla fuga giusto in tempo per non venire travolte, e con
la caduta della prima fila di barricate gli assalitori arrivarono già in vista
dell’accampamento nemico.
«Non
diamogli tregua! Non devono avere il tempo di organizzarsi!»
Tra
loro e il campo ben presto ci fu solo una vasta zona pianeggiante, puntellata
da altre barricate che andarono giù come bastoncini sotto la potenza della loro
carica inarrestabile.
Colti
alla sprovvista i ribelli si affrettarono ad erigere un muro di scudi e di
lance, ma era evidente che non sarebbe mai bastato per fermare un simile
uragano.
Il
ghiaccio tremava come se avesse dovuto rompersi da un momento all’altro… e così
accadde.
Senza
apparente motivo il terreno crollò improvvisamente sotto gli zoccoli dei
centauri, svelando sotto la coltre di neve e di ghiaccio profondi crepacci che
inghiottirono molti di loro, soprattutto quelli che a causa delle corazze non
si mostrarono l’agilità necessaria a mettersi in salvo.
Persino
Athreia per poco non precipitò in una voragine,
riuscendo a salvarsi solo perché Stavros che galoppava dietro di lei fu rapido
ad afferrarla.
Perché
quella in cui le Furie erano capitate era una depressione del ghiacciaio
caratterizzata dalla presenza di grosse crepe che nel corso del tempo erano
state ricoperte da svariati metri di neve, talmente spessa e compatta da poter
sopportare senza difficoltà grossi pesi.
Ma
allora, si diceva Athreia, com’era stato possibile
che la copertura si fosse frantumata proprio in quel momento?
La
risposta le apparve forte e chiara nel momento in cui ricordò di aver visto, un
attimo prima che il terreno crollasse, svariati paletti di legno che sbucavano
in vari appunti dalla neve.
«Hanno
spaccato e danneggiato la coltre di neve cosicché crollasse appena ci fossimo
passati sopra.» disse Stavros
«Ma
come potevano sapere dove fossero i crepacci?»
Loro
non potevano saperlo, ma era tutto merito di Sapi;
niente di più facile per un’appartenente ad una specie che per sua stessa
natura aveva sempre vissuto in simbiosi con la neve e con il ghiaccio.
A
quel punto la carica si era fermata, e i ribelli, tutt’altro che impreparati,
balzarono fuori da dietro alcuni avvallamenti assalendo le Furie da entrambi i
lati armati di lunghe lance.
«All’attacco!»
gridò Verus aprendo la strada «E attenti a dove
mettete i piedi!»
Confusi
ma non domati, Athreia e i suoi fecero quadrato, riuscendo
incredibilmente a reggere l’urto ed impegnando i ribelli in un furioso corpo a
corpo.
E
fu proprio per via dell’inaspettata resistenza del nemico che Daemon,
assistendo alla battaglia dall’alto di una collinetta, non riusciva a spiegarsi
il mancato arrivo di una seconda ondata.
«Non
capisco. Nonostante abbiamo arrestato la carica sono riusciti comunque ad
iniziare uno scontro, ma se aspettano ancora perderanno l’occasione per
spingere. Per quale motivo non mandano qualcuno ad aiutarli?»
«Forse
pensano che non riusciranno a resistere abbastanza.» ipotizzò Septimus
«D’altronde si sa che ad Eirinn non vi è molta stima per l’Impero, e le Furie
di Vanlia sono in tutto e per tutto parte
dell’esercito imperiale.»
«È
questo il punto. La loro fama è risaputa, e potevano aspettarsi che in qualche
modo si sarebbero distinti in combattimento. Perché mandarli avanti con il
rischio che possano prendersi tutta la gloria?»
Un
atroce sospetto si accese da un momento all’alto nella testa del giovane
generale, che una volta balzato in piedi iniziò a guardarsi nervosamente
attorno fino a scorgere, con la coda dell’occhio, degli strani bagliori sulla
montagna.
«Maledizione,
avrei dovuto capirlo prima! Ordinate la ritirata, subito!»
«Cosa!?»
Purtroppo
era già troppo tardi.
Nel
momento in cui un fuoco d’artificio si alzò nel cielo notturno dal cuore
dell’accampamento nemico, gli esploratori di Eirinn presenti sulla collina
accesero le micce dei barilotti esplosivi con cui avevano imbottito in fianco
della montagna.
Dapprima
tutti udirono una serie di esplosioni, solo parzialmente mascherate dal fragore
della battaglia, poi, preceduto da un cupo suono messaggero di morte, una
enorme massa di neve si staccò dalle pendici del Monte Gael
scendendo verso il basso nella forma di una delle più spaventose valanghe che
si fossero mai viste.
«Presto,
mettiamoci al riparo! Raggiungiamo quell’altura lassù!»
«Ma
Daemon, e i nostri compagni là sotto?»
«Non
possiamo fare niente per loro, Scalia! Se restiamo qui moriremo tutti!»
La
battaglia infuriava con tale violenza che sull’altopiano nessuno si accorse di
niente fino a quando non arrivò il primo, violentissimo spostamento d’aria.
Nessuno
fece in tempo a mettersi in salvo; la valanga, scendendo, travolse ogni cosa,
inghiottendo senza speranza tutto ciò che incontrò sul suo cammino e unendo
coloro che fino ad un attimo prima si erano combattuti l’un l’altro nella
medesima, terrificante morte.
Tutto
si risolse nel giro di pochi minuti, poi nella zona tornò a dominare uno
sconcertante silenzio.
Al sorgere del sole, la portata del
disastro che aveva colpito entrambi gli eserciti si palesò in tutto il suo
orrore.
Il
suolo si era alzato di almeno tre metri, tanto che il colle su cui Daemon e i
pochi che erano riusciti a seguirlo si erano messi al riparo era ora allo
stesso livello della zona circostante.
Subito
ci si mise al lavoro nel tentativo di trovare qualcuno vivo, ma tutto quello
che iniziò ad emergere dalla neve furono corpi senza vita.
Venne
trovato anche Verus, morto anche lui, e per Septimus
fu molto doloroso trovare la forza per chiudergli gli occhi. Si erano
conosciuti brevemente poco prima che scoppiasse la Rivoluzione, e nel poco
tempo che avevano trascorso fianco a fianco erano quasi riusciti a diventare
amici.
«Tutti
questi morti.» disse Scalia sull’orlo delle lacrime «I nostri amici. I nostri
compagni. Perché doveva succedere proprio adesso?»
«Ho
paura che non sia stato un incidente.»
«Cosa!?»
«Non
ho ragione, Daemon?»
«Temo
che sia così. Si è trattato di una scelta volontaria. Hanno fatto venire giù la
valanga nella speranza di seppellirci tutti.»
«Ma…
ma c’erano anche i loro compagni! Non posso credere che qualcuno sia disposto
ad arrivare a tanto pur di vincere una battaglia.»
«Per
qualcuno i soldati non sono altro che pezzi su una scacchiera, da mandare al massacro
senza remore se necessario. E se poi non fanno nemmeno parte del tuo
esercito, sacrificarli ti crea ancor meno problemi.»
Sapi
era sconvolta tanto quanto Scalia, e andava in giro per tutta la zona saggiando
la neve sotto le zampe; era stato merito suo se si era potuto mettere in atto
quel piano, e ora stava sempre a lei e al suo rapporto simbiotico con il gelo
la speranza di poter trovare qualcuno ancora in vita.
«Qui
sotto c’è qualcuno che respira!» esclamò ad un certo punto, mettendosi subito a
scavare.
Tutti
quelli che potevano accorsero subito a dare una mano, e qualcuno quasi storse
il naso quando ad emergere dalla neve furono il capo calvo e la lunga barba
intirizzita dal gelo del vicecomandante delle Furie. Per chissà quale miracolo
anche nel bel mezzo della valanga era riuscito a non perdere la presa con Athreia, che aveva tenuta stretta a sé proteggendola come
poteva.
Il
suo corpo era ferito e congelato, ed era chiaro che pur di riuscire a salvare
la sua protetta, che giaceva priva di sensi ma ancora viva vicino a lui, aveva
scelto di sacrificare la propria vita.
«Vi
prego… abbiate pietà di lei…» disse, esalando l’ultimo respiro prima che
qualcuno potesse provare ad aiutarlo
Malgrado
quella scena straziante in molti non erano sicuri di voler aiutare un nemico
che prima dell’arrivo della valanga aveva ferito e ucciso un gran numero di
loro.
«Septimus,
trova una slitta per trasportarla. E tu Sapi, tirala
fuori da lì.»
«Subito.»
«Daemon,
ma che fai? Lei è un nemico.»
«Forse,
ma è una vittima tanto quanto noi. Se la abbandoniamo qui in cosa saremmo
diversi da quelli che ci hanno fatto cadere una montagna addosso pur di
vincere?»
Scalia
si fece un esame di coscienza e tacque, dando anche una mano a Sapi nel tirare fuori la centaura mezza morta da sotto la
neve; era talmente grossa che fu necessario destinare a lei una intera slitta
per il trasporto dei feriti.
«Generale,
ci sono movimenti nel campo nemico.» fece rapporto Tecla. «Si stanno preparando
ad avanzare.»
«Non
abbiamo scelta. Ritiriamoci.»
«E
i nostri amici ancora qua sotto?»
«Non
possiamo fare niente, Scalia. Non abbiamo modo di opporci ad un esercito così
numeroso, né abbiamo tempo di allestire nuove difese più a valle. Dobbiamo
allontanarci da qui finché possiamo.»
«Ma
tutti questi corpi…»
«Resteranno
qui dove sono. Più cadaveri lasceremo, più tempo impiegheranno a capire che non
siamo tutti morti.»
«Daemon…»
«Lo
so che è disumano Scalia, ma in questo momento ci serve ogni secondo che
riusciremo a guadagnare. Ti prometto che appena potremo torneremo qui per
onorarli come meritano. Per ora possiamo solo allontanarci il più in fretta
possibile.»
Così,
raccolto in fretta e furia tutto ciò che poteva essere portato via, a
cominciare dai feriti e dalle nuove armi ideate da Daemon, l’esercito dello
Stato Libero scese dal passo con un animo molto diverso da quello con cui vi
era salito.
Teoricamente
scendevano da lassù imbattuti, visto che il nemico non li aveva sconfitti in
uno scontro aperto ma solo ricorrendo ad uno spietato stratagemma, ma questo
non importava. Quello che importava era che il nemico avanzava, e presto
sarebbe entrato nella loro terra.
La ritirata dalle montagne si
concluse a Basterwick, la grande città più vicina
alla linea del fronte.
L’atmosfera
era tesa, e non solo nella sala delle udienze del palazzo del governatore dove
Daemon aveva riunito il suo consiglio di guerra.
Inebriati
dall’odore di libertà e dalla soddisfazione di essersi finalmente liberati del
dominio imperiale, nonché da tutto il benessere che le nuove politiche
economiche stavano portato alla nazione, i cittadini avevano finito per
dimenticare che là fuori c’era chi non aveva alcuna intenzione di lasciare
impunita la Rivoluzione.
Qualcuno
si domandava se non fosse ancora possibile tornare indietro, confidando nel
fatto che ad incombere su di loro non era l’esercito imperiale, ma quello di
Eirinn: fratelli di una stessa stirpe.
Alla
riunione mancavano solo Oldrick e Adrian, visto che
entrambi si trovavano ancora a GroteMuren, ma la prima cosa che Daemon fece appena iniziata la
riunione fu deliberare l’immediato abbandono del forte.
«Difendere
GroteMuren poteva andare
bene fintanto che mantenevamo il controllo dei nostri territori, ma con la
caduta del passo possiamo considerare il confine orientale perduto. Devono
ritirarsi ora finché possono.»
«E
abbandonare il forte così?» chiese Septimus «Senza combattere?»
«Un
forte si può riconquistare, un soldato morto non si riporta in vita. E ora ci
serviranno tutti quelli che abbiamo a disposizione. A che punto sono le
consegne dei nuovi armamenti?»
«I
magazzini sono pieni.» disse Borg. «Potresti dare una spada, un arco, una
lancia ad ogni uomo, donna e bambino di questo Paese e resterebbero ancora
delle scorte.»
«Artiglieria?»
«Abbiamo
appena finito di costruire sedici nuovi cannoni da dodici libbre.» disse Eilon «Li stiamo già portando qui dalle fonderie delle
miniere.»
«Non
sarebbe stato meglio costruire quelle nuove armi?» domandò Scalia. «Sono
sembrate molto efficaci nella prima battaglia sul passo.»
«Saranno
anche piccole, ma non sono per niente facili da realizzare e assemblare. Per
costruire le duecento che vi abbiamo consegnato abbiamo dovuto lavorare giorno
e notte per mesi.»
«E
come se non bastasse sono rimaste quasi tutte lassù, sepolte sotto la neve.»
disse mestamente Septimus «Speriamo solo che i nostri nemici non le trovino, o
che non sappiano come usarle.»
«Ormai
non ha senso piangere sul latte versato. Concentriamoci piuttosto su quello che
possiamo fare. Useremo Basterwick come nuovo centro
di comando per coordinare le operazioni difensive.»
«Non
sarebbe più sicuro ripiegare verso il Castello?»
«Scalia
ha ragione, è più in profondità nel nostro territorio, e chiudere le valli
sarebbe abbastanza facile.»
«Avete
guardato fuori dalla finestra? Basterwick e i suoi
campi sono la nostra principale fonte di cibo, e come se non bastasse il grano
deve ancora essere mietuto. Volete davvero lasciare tutta questa roba in mano
al nemico?»
Sia
Scalia che Septimus abbassarono gli occhi, vergognandosi di non aver calcolato
una cosa tanto ovvia.
«Non
possiamo lasciare il nemico libero di devastare e razziare i nostri raccolti.
Oltretutto i terrazzamenti più a ovest non sono ancora pronti, e non è detto
che lo saranno in tempo per la prossima semina. Se perdiamo questo grano, anche
riuscendo a respingere l’invasione il prossimo inverno ci ritroveremo alla
fame. Dobbiamo fermare il nemico qui, o lo Stato Libero morirà prima ancora di
aver compiuto un anno di vita.»
«Quali
sono i tuoi ordini?» chiese allora Septimus
«Mobilitiamo
tutti. Voglio ogni singolo soldato a nostra disposizione. Lasceremo a difesa
del ponte e del passo a nord solo le unità strettamente indispensabili. Nel
frattempo condurremo azioni di disturbo per rallentare il nemico e guadagnare
tempo. Ho già dato ordini in tal senso.»
Poi,
i pensieri di tutti tornarono su quanto era appena successo al Passo di Gael.
«Abbiamo
già una prima stima dei caduti?»
«All’ultimo
appello hanno risposto in seicento, di cui solo quaranta della prima linea. I
feriti sono centocinque, i morti e i dispersi quasi duemila.»
«I
nostri compagni giacciono sepolti sotto metri di neve, e invece quella cavalla
maledetta si è salvata.» disse Scalia. «Gli dei a volte sanno essere davvero
ingiusti.»
«Lei
come sta?»
«Era
meno grave di quanto sembrasse.» disse Mary. «Il suo compagno le ha davvero
salvato al vita sacrificando la propria. Per adesso è
ancora sedata, ma dovrebbe svegliarsi entro qualche ora.»
«In
attesa di capire cosa farne l’abbiamo chiusa in prigione. E abbiamo preso anche
alcune precauzioni. Ad ogni modo ora ne siamo certi. È davvero Athreia.»
«Il
comandante che sopravvive alla sua armata… Bel lavoro, Septimus. Per il momento
lasciamola dov’è.»
«Agli
ordini.»
Quando gli esploratori riportarono la
notizia che il forte di GroteMuren
era stato abbandonato, il Generale Lefde non poté non
provare un senso di rispetto nei confronti del comandante nemico.
Troppe
volte si era sentito di generali e sovrani che per ottuso senso di principio avevano
mandato i loro soldati alla morte in battaglie inutili o dall’esito segnato
prima ancora di cominciare.
Invece
questo Daemon dimostrava una volta di più di essere un pragmatico; non si
curava dell’onore o del giudizio di nobili come Victor, ma badava unicamente
all’aspetto pratico e a cosa fosse più giusto fare.
Una
volta occupato il forte e stabilito il presidio lui e Victor avevano atteso
l’arrivo di Philippe, che era arrivato tre giorni dopo con l’esercito
praticamente intatto.
«E
così queste sarebbero le nuove armi di cui parlava il tuo messaggero.» disse
Victor osservando l’oggetto in questione, l’unico che lo zio fosse riuscito a
recuperare intatto da sotto la neve.
«Ancora
non abbiamo ben chiaro come siano riusciti a crearle o come funzionino.
Sembrano una specie di cannoni in miniatura, in grado di essere trasportati e
usati da una sola persona.»
«Tattiche
insolite, armi mai viste.» disse Lefde «Questo tipo
sfida ogni logica.»
«Eppure,
eccoci qua.» disse Victor. «Vincitori e con la strada spianata verso la
riconquista della nostra terra.»
«Ma
cosa è successo esattamente su quella montagna?» domandò Lefde
con evidente sospetto
«Semplicemente,
una valanga si è staccata nel bel mezzo dello scontro, portandosi via le Furie
e quasi tutto l’esercito nemico.»
«E
tu ovviamente non c’entri niente con tutto questo,
dico bene?»
«Chiamiamolo
pure un atto divino.» fu la sentenza soddisfatta di Victor. «Ora sappiamo che
persino il cielo è al nostro fianco in questa impresa.»
Nessuno
là dentro pensava realmente che si fosse trattato di un caso o di un qualche
intervento divino, ma se a Victor piaceva pensarlo il Generale Lefde si era rassegnato al fatto che ormai la situazione
andava oltre il suo controllo.
«Abbiamo
un’idea delle perdite subite dal nemico?»
«In
due giorni abbiamo tirato fuori dalla neve non meno di duecento cadaveri, per
non parlare di quelli trascinati a valle e ripescati dal torrente che scende
dal passo. Per quanto ne sappiamo là sotto potrebbe essere rimasto perfino il
comandante nemico.»
«Ne
dubito. I suoi compagni non sembrano avveduti come lui, e non avrebbero
compiuto una mossa saggia come abbandonare il forte e ripiegare a ovest.»
Victor
la pensava diversamente: «Una mossa codarda, vorrai dire.»
«A
quest’uomo non importa dell’onore. Basa le sue scelte unicamente sulla logica e
il risultato pratico. E se posso permettermi mio signore, sono proprio questo
genere di avversari quelli di cui bisognerebbe avere più paura.»
«Sarà
anche bravo, ma le guerre non si possono fare senza soldati.» commentò
Philippe. «E lui in una sola notte ne ha perse diverse migliaia. Abbiamo un
esercito di quasi ventimila uomini e quasi altrettanti mercenari. Secondo le
notizie più recenti i ribelli dispongono al massimo di trentamila soldati, e
quasi tutti sono reclute che non hanno mai visto una battaglia.»
«Anche
i cani piccoli possono abbattere un bisonte, se sono guidati da un cacciatore
esperto.»
«E
allora, noi cacceremo il cacciatore.» sentenziò Victor.
«Se
posso Mio Signore, suggerirei di aspettare prima di avanzare ancora. Una parte
del nostro esercito sta ancora arrivando da est agli ordini del mio secondo, il
Capitano Abel, e non sarà qui prima di quattro giorni.»
«E
dare a quei ribelli il tempo di rinforzarsi?» rispose Philippe «Bisogna colpire
il ferro finché è caldo. Basterwick è ad un tiro di lancia.
Una rapida avanzata, un assalto deciso, e avremo tolto al nemico quasi tutte le
sue riserve di cibo.»
Poco
lontano dalla tenda di comando, nell’area dedicata alle esercitazioni con
l’arco, Medea stava facendo a pezzi tutti i bersagli crivellandoli di colpi,
ignorando stoicamente il dolore che ancora rendeva imprecisi i suoi tiri.
Nei
suoi occhi, solo rabbia.
Alla
fine la spalla cedette, e la giovane dopo aver esaurito l’ennesima faretra
distruggendo, oltre al bersaglio, anche l’albero dietro di esso, quasi cadde in
ginocchio.
«Questo
atteggiamento non ti porterà da nessuna parte.» disse, amorevolmente ma con
fermezza, una voce alle sue spalle.
«Mia
sorella è morta, Kassia. E io non mi sentirò
soddisfatta fino a quando non avrò ucciso fino all’ultimo di quei ribelli.»
«Morire
sul campo di battaglia è il destino di un centauro. È stato così per i tuoi
genitori, per i miei, e per quelli di tutti i nostri compagni. Noi siamo nati
per questo.»
Il
loro padre aveva usato le stesse parole il giorno in cui avevano sepolto la
mamma; Medea all’epoca era ancora così piccola che a stento ricordava il suo
viso, ma ciò nonostante poteva ancora sentire nelle orecchie quel dolcissimo
canto.
Si
era chiesta spesso come qualcuno potesse ucciderenemici sul campo di battaglia e la sera far
addormentare le sue figlie con una voce tanto bella.
Dopo
la sua morte era stata Athreia a cantarle la stessa
canzone per farla addormentare, e ormai quelle parole così dolci erano incise a
fuoco nella sua mente, tanto che spesso si ritrovava a fischiettarle senza
accorgersene.
«Ora
sei tu il nostro comandante, Medea. E anche se siamo rimasti in pochi, è tuo
compito guidarci in battaglia con la stessa determinazione e lo stesso coraggio
che hai sempre avuto, come tua sorella, tuo padre e tuo nonno hanno già fatto.
E se Gaia lo vorrà, verrà presto il momento in cui potremo vendicare Athreia, Stavros e tutti i nostri amici.»
L’ultima cosa che Athreia
aveva pensato un attimo prima che quella montagna di neve la travolgesse fu che
presto avrebbe incontrato i suoi dei, pronti a giudicarla.
Invece,
quando riaprì gli occhi, era ancora in questo mondo, distesa su un pagliericcio
all’interno di una piccola stanza, grande a malapena da permetterle di
rimettersi in piedi e muovere qualche passo.
Anche
se non c’era un solo punto del corpo che non le facesse male capiva di essere
stata curata, perché ovunque presentava cerotti e bendaggi, il più fastidioso
dei quali era una vistosa fasciatura, piuttosto stretta, che le avvolgeva il
collo.
Dal
momento che a sorvegliare la porta c’erano due mostri capì di essere finita in
mano al nemico prima ancora di realizzare di trovarsi nella cella di qualche
sotterraneo, domandandosi se altri suoi compagni fossero stati fortunati quanto
lei.
Le
due guardie, interpellate a tal proposito, non la degnarono di alcuna
attenzione, e dal modo in cui ogni tanto la guardavano si capiva cosa
provassero nei suoi confronti.
Non
li biasimava; anche se non aveva mai passato molto tempo in compagnia dei
mostri era fin troppo consapevole di cosa pensassero della sua specie.
«Il
marchio dei traditori non si cancella facilmente.» disse ad un certo punto una
voce carica d’odio mentre, rivolta verso la finestrella opposta alla porta,
cercava di capire dove si trovasse
«Mi
ricordo di te. C’eri anche tu sulla montagna.»
«Se
c’è un dio disposto ad ascoltarti, dovresti ringraziarlo. Nessuno di noi
penserebbe mai di disobbedire agli ordini di mio fratello, e sembra che lui
abbia trovato un qualche motivo per volerti tenere in vita.»
«Cosa
ne è stato dei miei soldati?»
«Tu
sei l’unica che abbiamo trovato. Molti nostri compagni, inclusi parecchi miei
amici, non sono stati altrettanto fortunati.»
Quando
il dolore in altre parti del corpo iniziò a svanire, Athreia
avvertì distintamente un fastidio dietro al collo che invece non voleva saperne
di acquietarsi. Se si toccava in quel punto, aveva come l’impressione di
sentire una specie di piccola gobba che prima non aveva.
«Ci
siamo presi la libertà di inserirti una Pietra del Servo.» disse Scalia quasi
ghignando, e godendosi l’espressione attonita della centaura.
Quindi,
per provarle che non stava scherzando, usò una pietra di comando per farle
passare qualche secondo d’inferno, letteralmente.
«Dimmi,
che effetto fa essere al nostro stesso livello?»
«Non
era necessario.» rispose Athreia, a cui era costato
parecchia fatica far finta che quel tormento, per quanto breve, non l’avesse
scalfita.
«Lo
sai, mi fai quasi pena. Voi centauri a suo tempo avete tradito i vostri
compagni per diventare i cani da guerra degli umani. Pensavate che vi avrebbero
considerati loro pari solo perché avete combattuto insieme contro il Signore
Oscuro e i vostri stessi fratelli. E invece per loro resterete sempre dei
mostri, da sacrificare e gettare via alla prima occasione.»
«Che
intendi dire?»
«Davvero
non lo immagini? Mio fratello dice che quella valanga non è caduta per caso.
Sono stati i tuoi amici a farcela precipitare addosso nella speranza di
ucciderci tutti, e hanno usato voi come esca.»
Scalia
rise nel vedere lo sgomento apparire negli occhi della prigioniera: «Dalla tua
espressione direi che non te l’aspettavi.»
«Tu
stai mentendo. Non è possibile.» ma sembrava che nemmeno Athreia
credesse alle sue stesse parole.
«Gli
umani vi usano, i mostri vi odiano. Devo farvi i complimenti. Quella scelta che
avete fatto cinquecento anni fa vi ha ripagati alla grande.»
Scalia
avrebbe continuato volentieri ad infierire, ma un servo del palazzo venne a
portarle una notizia.
«Capitano,
il nobile Daemon ha convocato il Consiglio di Guerra. È richiesta la vostra
presenza nella sala delle riunioni.»
Athreia
sussultò, essendo riuscita a capire solo l’ultima parte del messaggio: «Che sta
succedendo?»
«Siamo
alla resa dei conti. Spero che tu non ti sia fatta degli amici nell’esercito di
Eirinn, perché stavolta Daemon non sembra intenzionato ad andarci leggero.»
Nella breve storia dello Stato Libero
non era mai successo che venisse convocato l’intero Consiglio di Guerra, perché
di solito c’era sempre qualcuno impegnato altrove in altre attività.
Ma
ora era diverso.
Ora
era in corso un’invasione in piena regola.
C’erano
tutti: il Generale Adrian, comandante dell’Grande Armata Rivoluzionaria, i Capitani
di divisione Oldrick, Jack e Septimus, Scalia, e
persino Natuli. L’ultimo arrivato era Richard,
originario del Principato di Patria, da poco nominato comandante della Prima Divisione
fanteria pesante; un leone, di nome e di fatto.
«Credo
che la situazione sia chiara a tutti.» esordì Daemon facendo autocritica. «La
battaglia sul passo, oltre a costituire una sostanziale sconfitta, ha aperto ai
nostri nemici le porte della nazione. E per quanto possa servire, mi assumo la
piena responsabilità per quanto accaduto a Gael. Non
sono stato abbastanza lungimirante da capire quanto il Conte di Hatlen fosse determinato a vincere.»
«Non
c’è niente di cui doversi scusare, ragazzo.» disse Richard grattandosi
nervosamente la criniera. «Come schiavo guerriero ho combattuto in quasi tutte
le battaglie degli ultimi trent’anni tra Patria e il Sultanato, ma non ho mai
conosciuto nessun generale così pazzo da farsi venire in mente una cosa del
genere.»
«Comunque
ciò che conta è che abbiamo perso molti uomini, e quel che è peggio abbiamo
dovuto abbandonare GroteMuren
in mano al nemico.» disse Adrian, calmo ma visibilmente preoccupato. «Dubito
che i danni che siamo riusciti a provocare nel poco tempo che avevamo
sortiranno qualche effetto.»
«Abbiamo
raccolto ogni singolo soldato che avevamo, ma anche così solo la Prima Armata
del Generale Adrian è al completo.» disse Oldrick.
«Le altre, oltre ad essere composte in buona parte da reclute, sono state in
parte spezzate per assicurare la difesa dei confini.»
«Quindi
non possiamo ritirarci per non perdere i nostri raccolti, e non possiamo
avanzare per carenza di soldati.» disse Jack. «Comincio a domandarmi se sia
stata una buona idea.»
«Assolutamente
sì!» sbottò Scalia. «Preferisco morire libera e con la spada in mano che da
schiava e in catene. E sono sicura che anche gli altri la pensano così.»
«Ritirarsi
senza combattere è una cosa da perdenti.» osservò acidamente Natuli. «D’altra parte però non è che andare a cavalcare
dritta verso la morte sia una prospettiva allettante.»
«Nessuno
di noi morirà.» disse Daemon. «Ma Scalia ha ragione, sapevamo tutti a cosa
andavamo incontro. Del resto se non ci dimostriamo in grado di difendere il
nostro Paese nessuno ci prenderà sul serio. In un certo senso questa situazione
ci aiuta. Se respingiamo questa invasione sarà la prova che lo Stato Libero è
in grado di difendersi, e chiunque altro ci penserà due volte prima di venire a
darci fastidio.»
«Siamo
tutt’orecchi, Daemon.» disse Oldrick. «Cosa
suggerisci di fare?»
Daemon
stette a lungo a fissare le varie carte disseminate sul tavolo, mugugnando
riflessioni incomprensibili con le mani dietro la schiena.
«Ci
posizioneremo qui. Sul più orientale di questi due colli.»
«Ha
senso.» osservò Adrian. «È la collina più alta della zona. Da lì si possono
quasi vedere i bastioni di GroteMuren,
sempre ammesso di non avere la visuale offuscata dalla maledetta nebbia che
copre sempre quella zona.»
«Ti
garantisco che tu osserverai GroteMuren da molto vicino. Infatti, mentre io e gli altri
prenderemo posizione, tu dovrai recarti al forte con una piccola ambasceria.»
«Per
quale motivo?»
Daemon
lo fissò in modo enigmatico, uno di quegli sguardi che persino Adrian era incapace
di sostenere senza sentirsi tremare le gambe.
«Non
è ovvio? Per discutere i termini della nostra resa.»
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!^^
Spero
che abbiate passato delle belle vacanze.
Da
parte mia a differenza di quanto avevo sperato non ho avuto molte occasioni per
continuare a scrivere, con il risultato che anche alla luce di alcuni impegni
che mi aspettano da qui in poi la stesura dei nuovi capitoli potrebbe risultare
particolarmente rallentata.
Pertanto
metto subito le mani avanti dicendo che al termine del Volume 3 (mancano ancora
2 capitoli, quindi un altro mese circa) la pausa prima dell’uscita del Volume 4
potrebbe risultare un po’ più lunga del solito, attorno alle 4 settimane.
Spero
di riuscire a recuperare almeno in parte il tempo perduto, ma nel caso tenete
per buono quello che vi ho detto.
Quando arrivò la notizia che un
piccolo drappello di ribelli al seguito di un ambasciatore si stava avvicinando
al forte sventolando la bandiera bianca, Victor avrebbe voluto che fossero
presi, decapitati, e le loro teste rispedite indietro.
Ma
lui, come gli fece ricordare Lefde, era un nobile che comandava un esercito
formalmente al servizio dell’Impero, e in quanto tale non poteva venire meno
alla legge dell’ospitalità che imponeva di ascoltare sempre le proposte di pace.
Quello
che sorprese un po’ tutti, ma forse neanche poi così tanto, fu scoprire chi
fosse l’ambasciatore inviato dai ribelli per parlamentare.
«Lord
Longinus. Finalmente ci conosciamo. Ho sentito parlare molto di voi.»
Victor
quasi rise facendolo accomodare al posto degli ospiti dello stesso ufficio da
dove Adrian era dovuto scappare appena una settimana prima.
«E
io di voi, Granduca Montgomery. Spero che vostro padre sia in buona salute, e
che vorrete portargli i miei rispetti quando lo incontrerete.»
«Non
mancherò. Ricordo quando venivate a visitare la mia famiglia, ai tempi in cui
la vostra regnava con saggezza su queste terre.»
«Vorrei
solo che questo nostro incontro dopo così tanto tempo fosse avvenuto in
circostanze migliori. Ma vediamo se possiamo fare qualcosa per migliorare
questa situazione.»
«Sono
tutt’orecchi.»
«Anzitutto
ci tengo a ribadire che mi trovo qui in veste di comandante della Prima Armata
della Guardia Nazionale e Ministro degli Interni dello Stato Libero. Ciò che
dirò e quello che sarò autorizzato a fare sarà entro le funzioni che mi sono
state conferite.»
«Conferite
da chi?»
«Dal
popolo dello Stato Libero, solo e unico proprietario delle terre che
amministriamo in suo nome.»
Victor
per poco non scoppiò a ridere: «Il popolo? E da quando il popolo conta
qualcosa?»
«Nello
Stato Libero il popolo è sovrano. Il popolo ha deciso di alzare la testa contro
l’usurpatore, e sempre il popolo una volta che la Rivoluzione ha prevalso ha
scelto noi per amministrare la nazione e proteggere la libertà che ha
conquistato. E noi siamo pronti a qualsiasi cosa per adempiere a questo
incarico.»
Quella
che poteva sembrare quasi come una minaccia venne subito stemperata nel momento
in cui Adrian, quasi sorridendo, si fece passare dei documenti da uno dei suoi
segretari.
«Pertanto,
al fine di risolvere questa disputa senza ulteriori spargimenti di sangue, il
popolo dello Stato Libero tramite il nostro rispettabile Primo Ministro e
Comandante Supremo dell’esercito mi ha incaricato di discutere con voi i
termini per una cessazione delle ostilità.»
In
base a detti termini, spiegò Adrian con invidiabile autocontrollo, le forze di
Eirinn avrebbero rinunciato ad avanzare ulteriormente invadendo i territori
dello Stato Libero, il quale si sarebbe impegnato a non intraprendere azioni di
rappresaglia per l’attacco subito né avrebbe chiesto un qualche tipo di
compensazione. Inoltre Grote Muren sarebbe stato smilitarizzato rimanendo una
semplice cittadella commerciale, con la creazione di una zona cuscinetto in
modo non dissimile a quanto accadeva lungo il confine con l’Unione.
Victor
ascoltò senza battere ciglio, ma il suo sguardo non lasciava dubbi su quale
sarebbe stata la sua risposta.
«La
vostra proposta è interessante. Ma ditemi una sola ragione per cui dovrei
accettare di negoziare. Vi abbiamo già sconfitti, le nostre truppe sono
arrivate fin qui senza subire alcuna perdita, e l’esercito che avete radunato
sulle colline a ovest di qui è poco più della metà del nostro.»
«Forse.
Questa volta però non avete una montagna da farci crollare addosso, o una unità
sacrificabile da mandare al massacro per riuscirci.»
Sentendo
quelle parole Lefde non seppe se fosse meglio chiederne conto al nipote o
biasimare la propria immaturità per essersi voluto convincere che si fosse
trattato davvero di una coincidenza.
Ma
alla fine preferì tacere, per non macchiare ulteriormente la propria coscienza.
«Ora
voi ascoltate me, Adrian. Quello che voi e i vostri compagni dovete fare è
abbassare le armi, mettervi in ginocchio e implorare e pietà. Consegnate i capi
della ribellione, a cominciare da questo Daemon di cui tanto si parla, a noi
perché siano giustiziati. E allora forse, e sottolineo forse, qualcuno di voi
potrà salvarsi. Altrimenti, vi spazzeremo via tutti dal primo all’ultimo, e
malgrado possiate pensare il contrario neppure voi sarete risparmiato, a
prescindere dal nome che portate.»
Era
evidente che non c’erano spazi per una discussione civile; e quasi che Adrian
si aspettasse si una cosa del genere, subito dopo che Victor ebbe finito di
parlare si alzò per andarsene.
«Sembra
che ci incontreremo sul campo di battaglia, dopotutto. Ma ci tengo a ricordarvi
quanto ho detto all’inizio. Noi siamo qui per fare gli interessi del popolo e
tutelare la sua libertà. E potete stare certo che faremo tutto quanto è in
nostro potere per assolvere al nostro mandato. A presto, Granduca
facente-funzione.»
L’ultima
frase colpì nel segno, tanto che Adrian ebbe appena il tempo di lasciare la
stanza prima che Victor scagliasse il proprio calice addosso alla porta.
«Ma
chi si crede di essere? Maledetto imperiale arrogante!»
«Una
simile sicurezza non è normale.» disse Lefde «Stanno sicuramente tramando
qualcosa.»
«È
solo un bravo attore.»
E
i fatti sembrarono in poco tempo dare ragione a chi, come Philippe, vedeva in
quell’ambasceria una mossa disperata per tentare di evitare una sconfitta
praticamente certa.
«Rapporto,
Mio Signore!» disse un esploratore, arrivando poco dopo il termine della cena.
«Il nemico ha abbandonato la sua posizione sul Colle di Ratcliffe.»
«Si
sono ritirati?» chiese Lefde
«No,
Generale. Hanno preso posizione sul colle immediatamente più a ovest, a nord
del villaggio di Mistvale.»
«Ha
senso. Ratcliffe è la posizione più elevata della zona, ma è molto esposta e
senza coperture in caso di attacco. Il colle dall’altro lato è più in basso, ma
da lì si controlla facilmente la strada per Basterwick.»
«Poveri
illusi. Davvero pensano di volerci affrontare?»
Era
ciò che Victor aspettava. Aveva solo diciassette anni, e stava per diventare il
più giovane granduca di Eirinn a condurre con successo una campagna militare in
un territorio formalmente straniero.
«Li
spazzeremo via. Preparatevi, partiremo prima dell’alba.»
«Mio
Signore, i nostri rinforzi non sono ancora arrivati.»
«A
cosa servono i rinforzi? Già adesso siamo quasi il doppio rispetto a loro. Ed
entro domani sera avrò gli occhi di quel bastardo di Longinus in una coppa!»
La mattina dopo, l’area era avvolta
in una fitta nebbia.
Non
era raro che succedesse, specie nei momenti appena successivi al sorgere del
sole, quando l’aria fredda della notte si saturava dei miasmi che salivano
dalle paludi in attesa che il vento del nord soffiasse via tutto rivelando il
cielo azzurro.
Quel
giorno però non c’era un soffio di vento, pertanto non c’era ragione di credere
che la nebbia si sarebbe alzata tanto presto.
Lefde
fece il possibile per ritardare la partenza, ben sapendo quando potesse essere
pericoloso combattere in simili circostanze, ma alla fine fu costretto a
sottomettersi alla volontà di Victor seguendo lui, Philippe e quasi tutto
l’esercito nella marcia oltre le mura del forte.
Servirono
appena due ore per raggiungere quello che sarebbe stato il campo di battaglia.
Come predetto dagli esploratori i ribelli nottetempo avevano abbandonato del
tutto il Colle di Ratcliffe, chiamato anche Il Montello dalla gente del posto,
per andare a riposizionarsi sull’altura immediatamente accanto, cosicché a
dividere i due eserciti vi era ora solo un avvallamento piuttosto largo
costituito dai pendii dei due colli e da una piccola zona pianeggiante. Alle
spalle delle fila ribelli la strada per Basterwick, punto di passaggio obbligato
per le truppe di Eirinn, e che i loro avversari sembravano avere tutte le
intenzioni di difendere ad ogni costo.
Nonostante
la nebbia l’esercito dello Stato Libero era ben visibile, anche perché con le
urla e gli improperi che i suoi soldati lanciavano a pieni polmoni sarebbe
stato impossibile non accorgersi di loro.
A
causa della distanza e della nebbia non era facile capire chiaramente come si
fosse disposto il nemico, ma sembrava aver assunto una classica formazione
allargata, con gli arcieri in prima linea e la fanteria pesante immediatamente
dietro. Non c’era traccia di quegli strani cannoni portatili, forse perché
erano stati tutti sepolti dalla valanga.
Per
l’occasione Victor aveva rispolverato l’armatura da battaglia dei suoi
antenati, comprendendo l’importanza di saper apparire in un momento così
solenne, ma ovviamente si guardò bene dall’allestire il suo quartier generale
in un punto troppo vicino al fronte.
Ovviamente
nessuno si sognò di ordinare l’attacco. Se dalla cima delle colline si riusciva
ancora a vedere qualcosa l’avvallamento era completamente ammantato, e solo un
pazzo avrebbe pensato di portare un esercito là sotto.
Occorreva
aspettare che la nebbia si alzasse prima di pensare di combattere. O forse no?
«Rapporto!
Abbiamo individuato una piccola unità nemica a sud!»
«Dove
si trovano?»
«Presidiano
il villaggio di Mistvale, Generale Lefde.»
«Mistvale?»
disse Philippe «Ma è a quasi cinque miglia da qui. Il suo fronte è così
esteso?»
«No,
io non credo.» rispose Lefde «Semplicemente la strada per Basterwick passa
proprio lì dietro, ed è anche il punto in cui il versante del colle è meno
ripido. Forse è un modo per tentare di proteggere il suo fianco destro.»
Anche
un ignorante completo avrebbe capito che era un’occasione perfetta. E Philippe
non si considerava certo un ignorante.
«Se
lanciamo un attacco deciso e ci impossessiamo del villaggio potremo risalire il
crinale e prendere il nemico di fianco, inoltre controllando la parte a valle
della strada gli impediremmo di ricevere eventuali rinforzi.»
Ma
Lefde non la vedeva così.
«Non
lo so, mi sembra un po’ troppo facile. Potrebbero avere delle riserve nascoste
dietro al villaggio. Per chi conosce questa regione non sarebbe un problema
nascondersi approfittando della nebbia.»
«Ormai
mi sembra chiaro che i nostri nemici sono allo stremo, e probabilmente non si
aspettavano che saremmo avanzati così presto. Altrimenti non si spiegherebbe la
decisione di rintanarsi in quel modo lasciando scoperto il fianco.»
Ancora
una volta, Victor concordò con lo zio, ordinandogli di prendere le sue truppe e
quasi tutti i mercenari, un terzo dell’intero esercito, e indirizzarlo contro
il fianco destro nemico. Lui e Lefde avrebbero tenuto occupato l’esercito
ribelle con un fitto lancio di proiettili e lanciato un attacco qualora la
nebbia si fosse alzata a sufficienza; quindi, una volta preso il controllo di
Mistvale, avrebbero condotto un’offensiva totale e spazzato via il nemico
attaccandolo su due lati.
Semplice.
Efficace. Con pochi rischi.
Di
lì a trenta minuti, una timida carica di cavalleria ribelle diede ufficialmente
il via alla battaglia, ma sia quella che tutte le successive vennero respinte
senza difficoltà erigendo muri di lance; Victor avrebbe voluto rispondere, ma
Lefde una volta tanto riuscì a persuaderlo ad aspettare che la nebbia si
alzasse o che arrivassero notizie dal fianco.
A
causa del terreno umido e della pendenza Philippe ebbe qualche problema a
portare le sue truppe ai confini di Mistvale, che oltretutto era circondato su
tre lati da un acquitrino puntellato di isolotti fangosi e palafitte, mancando
così l’occasione di cogliere il nemico del tutto impreparato.
A
difendere il villaggio e il relativo fianco vi era la 4° Divisione Fanteria
Leggera comandata da Septimus, che subito si dispose in formazione serrata
accogliendo gli assalitori con una pioggia di giavellotti per poi impegnarli in
un furioso corpo a corpo.
In
un primo momento sembrò che la forza d’urto della potente cavalleria di Eirinn
potesse avere ragione dei ribelli in pochi minuti, ma le truppe di Septimus potevano
contare su di un potente alleato.
Sapi
era così piccola e leggera, e la sua specie così abituata a muoversi su terreni
difficoltosi, che per lei lottare in mezzo alla fanghiglia e alla nebbia era
solo un ulteriore divertimento.
Perché
per lei, ormai, questo era diventato combattere: un gioco.
Non
provava piacere ad uccidere, infatti cercava di farlo il meno possibile, ma ora
era consapevole della propria forza, e sapere di poterla usare per aiutare
Daemon era sufficiente a farle venire il buonumore.
«Rapporto!
Il nemico resiste, ma facciamo progressi! Li abbiamo spinti fuori dal
villaggio, e ora combattiamo ai piedi della collina!»
«Hanno
ricevuto dei rinforzi?»
«Per
il momento no, Generale!»
«Le
nostre perdite?»
«Alcune
centinaia nell’esercito, poco più del doppio tra i mercenari! Hanno uno yeti
che sta mettendo in difficoltà le nostre forze!»
«Abbiamo
ancora dei mercenari.» replicò Victor senza battere ciglio, mentre un ufficiale
gli serviva un calice di vino. «Mandiamoli a dare una mano. Magari così
risparmieremo qualcosa.»
La
nuova ondata di mercenari, non dovendo preoccuparsi di passare inosservata o di
dover combattere negli acquitrini, si riversò sul fianco destro ribelle con
forza spaventosa, spingendo indietro il fronte di parecchie decine di metri fin
quasi ai margini della strada.
«Non
cediamo!» continuava a gridare Septimus, che combatteva come una furia al
fianco dei suoi uomini. «Dobbiamo resistere ad ogni costo!»
Ma
non era per niente facile, non con Medea che bruciante di rabbia continuava a
scagliare frecce mentre i suoi compagni, per quanto ormai in numero esiguo, con
la loro stazza e potenza sembravano sempre sul punto di riuscire a rompere lo
schieramento nemico.
Il
caso volle poi che, tra i nuovi arrivati, vi fosse qualcuno capace di tenere
testa perfino a Sapi.
«Maledetta
palla di pelo! La smetti o no di saltellare in giro?»
Per
fortuna la pelliccia che copriva le braccia e le gambe di Sapi erano più
efficaci di qualunque corazza, altrimenti il colpo di Ignes l’avrebbe tagliata
in due invece di limitarsi a farla volare via.
«Sei
davvero forte, sorellona!» fu il commento di Sapi, che servì solo a far
arrabbiare ancora di più la giovane Jormen.
«Aspetta
solo che ti tolga quello stupido sorriso dalla faccia, specie di scherzo di
natura.»
Tra
le due iniziò quindi una specie di duello privato nel cuore della battaglia, ma
per quanto forte Ignes colpisse i suoi fendenti o andavano a vuoto o, qualora
colpissero, non riuscivano a scalfire le difese di Sapi, che in alcuni casi
arrivò letteralmente ad afferrare l’ascia nemica a mani nude.
E
se tutta quella situazione rendeva Ignes sempre più furiosa, Sapi sembrava una
bambina al parco giochi.
«Credi
davvero che tutto questo sia un gioco?» strillò ad un certo punto Ignes
«Certo
che è un gioco. Non ci stiamo forse divertendo io e te?»
«Tranquilla,
mi divertirò un mondo… a schiacciarti quella maledetta testa!»
Se
gli sforzi di Sapi avevano sortito l’effetto di tenere quella specie di furia
scatenata lontana dalla battaglia nello stesso tempo la presenza di Ignes
impediva alla piccola yeti di poter dare una mano ai suoi compagni, che
malgrado la disciplina e la volontà faticavano sempre di più a tenere a bada le
soverchianti truppe di Eirinn.
Poi,
ecco arrivare l’intervento divino.
«La
nebbia! Si sta alzando!»
L’aria
andava ripulendosi, e anche se il bassopiano era ancora per buona parte coperto
era probabilmente solo una questione di minuti prima che l’intero campo di
battaglia diventasse visibile.
«È
la nostra occasione!» esclamò Victor. «Avanziamo con le nostre truppe e
schiacciamoli!»
«Mio
Signore, forse sarebbe meglio aspettare che la nebbia si alzi del tutto, o che
arrivino notizie dal Generale vostro zio.»
«Non
ho alcuna intenzione di permettere a quel pallone gonfiato di prendersi tutto
il merito di questa vittoria. Date l’ordine di avanzata!»
Cercando
di mettere a tacere l’inquietudine che non lo faceva stare tranquillo Lefde non
poté fare altro che obbedire, e precedute da un solenne rullo di tamburi buona
parte delle truppe iniziò a scendere lungo il crinale.
I
ribelli risposero tirando frecce, ma proprio a causa della nebbia che più in
basso non si era ancora alzata i loro lanci risultarono imprecisi mancando
completamente il bersaglio.
Questo
fatto rinvigorì i soldati, che spronati dagli ufficiali accelerarono sempre di
più il passo lanciandosi infine in una vera e propria carica.
Come
un’onda inarrestabile discesero dal Ratcliffe, pronti a risalire con impeto il
colle opposto.
Intanto
la nebbia si stava dissipando anche lì, spazzata via dal vento del nord che,
quando le truppe di Eirinn erano giunti quasi ai piedi della salita, aprì
finalmente la strada al sole… svelando il grande inganno.
Venti
grossi cannoni, ognuno circondato da tre serventi ed appoggiato su leggeri ma
robusti fusti di legno, attendevano il loro arrivo, apparendo dalla bruma come
spiriti infernali pronti a reclamare il loro tributo di sangue e anime.
I
comandanti non fecero nemmeno in tempo a ordinare di fermarsi.
«Fuoco!»
Il
fragore delle mitraglie che si susseguivano una dietro l’altra arrivò fino al
quartier generale di Victor e Lefde prima ancora che potessero rendersi conto
loro stessi di cosa stava accadendo; e tale fu lo sgomento che apparve nei loro
occhi alla vista di centinaia di soldati sventrati come animali in un mattatoio
che il Generale sentì il cuore fermarsi nel petto.
«Maledizione!
Li abbiamo avuti sotto il naso per tutto il tempo!»
«Come sarebbe a dire, discutere la
resa? Non starai davvero pensando di arrenderti!»
Avanti
Scalia, non è complicato. Ti facevo un po’ più sveglia di così.
«È
chiaro.» disse Adrian anticipandomi. «Si tratta di bluffare.»
«Ormai
mi sembra chiaro con chi abbiamo a che fare. Victor è un bambino che gioca a
fare la guerra, e Philippe un nobile ambizioso che si considera un grande
generale. Fintanto che ci saranno loro non dovremo preoccuparci del Generale
Lefde, che sembra invece un tipo assai più imprevedibile.»
«Quindi
questa ambasceria servirebbe a fargli credere che siamo in difficoltà?» chiese
Septimus
«In
realtà non è esattamente una recita. Siamo davvero in difficoltà, e un bravo
generale sarebbe capace di approfittarne. Ma se stimoliamo l’ego di quei due
convincendoli di poter ottenere una rapida vittoria cadranno nella nostra
trappola come pesci nella rete. Per rendere la recita ancora più credibile
abbandoneremo il colle di Ratcliffe per riposizionarci qui, dall’altra parte
della pianura.»
«Penseranno
che vogliamo difendere la strada anche a costo di lasciare una posizione più favorevole
ma anche più esposta.»
E
bravo Oldrick. Finalmente la tua capacità di ragionamento inizia a riflettere
gli anni che hai.
«Quindi
se pensano che siamo così disperati da compiere mosse del genere ci attaccheranno
sperando di chiudere i giochi con una sola battaglia.»
Ora
sapevo di aver fatto bene a promuovere Richard; era stato schiavo di un
generale molto famoso del Principato e aveva partecipato a molte battaglie
degne di nota tra Patria e Torian, era naturale che avesse finito per imparare
qualcosa.
Non
era certamente un novello Marco Antonio, ma almeno sapeva distinguere una
lancia da una picca.
«Come
ha detto Adrian questa zona è perennemente avvolta dalla nebbia, soprattutto di
primo mattino. E noi ne approfitteremo.»
«Cos’hai
in mente?» chiese Septimus
«Formeremo
un fronte il più largo possibile, che vada dal margine del bosco a nord fino
alle sponde di questo acquitrino a sud. In questo modo potremo coprire l’intero
pendio che scende verso la pianura sottostante. Questo qui, subito a sud della
palude, qualcuno sa che villaggio è?»
«È
Mistvale. Ci vivono i miei nonni. Pescano rane e crostacei nei laghetti tutto
attorno.»
«Suppongo
quindi che tu conosca bene quella zona. Allora assegnerò questo fianco a te e
alla Quarta Divisione. Occuperete il villaggio dopo aver evacuato gli abitanti
e formerete un fronte separato.»
«Sembra
una posizione abbastanza esposta.» disse Jack
«Anche
con la nebbia gli esploratori non impiegheranno molto a scoprire questo secondo
fronte. Quindi invieranno una parte del loro esercito per sgominarlo, ottenere
il controllo della strada, e tentare un aggiramento su di un fianco.
Naturalmente se ci riescono noi ci ritroveremmo in grossi guai, quindi è
necessario che questo fronte tenga duro il più a lungo possibile. Dirò a Sapi
di darvi supporto. Lei da sola dovrebbe essere più che sufficiente.»
E
sarà anche un ottimo modo per testare le sue abilità.
«Credo
di cominciare a capire. In questo modo la loro armata sarà divisa in due.»
«Esattamente
Richard. Le loro forze sono numericamente molto superiori, ma separati saranno
solo due piccole armate molto più vulnerabili. L’importante sarà fare in modo
che non possano riunirsi quando inizierà il contrattacco. Natuli.»
«Sì?»
«Vedi
questa piccola rientranza dietro il colle? È un nascondiglio perfetto. Tu e la
tua unità vi piazzerete qui ed attenderete il mio segnale, quindi aggirerete
Mistvale e assalirete alle spalle il nemico impegnato in battaglia. Saranno
sicuramente stanchi, quindi sottometterli e spingerli a ritirarsi o ad
arrendersi non sarà un grosso problema, soprattutto se a comandarli ci sarà
Philippe. Così facendo il fronte sud si ritroverà completamente isolato, lasciando
noi liberi di concentrarci sul contrattacco alla forza principale.»
«Scusa
se te lo dico, ma questo piano poggia su di una premessa assai discutibile.
Quando mai si è sentito di una carica di cavalleria, per di più composta di
arcieri, lanciata nel bel mezzo di una nebbia?»
«Temo
che abbia ragione.» disse Adrian. «Una volta lanciata una carica difficilmente
si può fermare o correggere la sua direzione. Come faranno ad attaccare se non
sapranno neanche dove si trova il nemico?»
«La
nebbia si alzerà. Si alza sempre, di solito verso mezzogiorno. Nasconderà le
nostre manovre, e una volta scomparsa ci permetterà di lanciare il
contrattacco. E in realtà è proprio sul fatto che si alzerà che io faccio
affidamento.»
«Che
intendi dire?» chiese Oldrick
«Voglio
che la tua artiglieria si posizioni proprio qui, nel cuore della vallata.
Nascosti in bella vista. Lefde potrà tenere a bada quella testa calda di Victor
per un po’, ma sono sicuro che appena la nebbia inizierà ad alzarsi riceverà
l’ordine perentorio di attaccare. I suoi soldati finiranno dritti sotto il tiro
dei tuoi cannoni senza nemmeno accorgersene. Quando saranno stati falciati a
dovere, una semplice carica sarà più che sufficiente per mandarli in rotta.»
«Ma
se saremo in mezzo alla nebbia come faremo a sapere quando prepararci a
sparare, o che il nemico sta effettivamente cadendo nella trappola?»
«Ho
pensato anche a questo. Ordinerò alle nostre truppe sul colle di fare un gran
baccano. Fintanto che ci sentirete urlare sarà la prova che tutto sta andando
secondo i piani. Inoltre il fracasso celerà eventuali rumori delle nostre unità
in manovra. Riguardo il momento in cui prepararsi a sparare, vi basterà
ascoltare i loro tamburi.»
«E
questo basterà?»
«Ovviamente
no, sorella. Non senza grosse perdite da parte nostra qualora dovessimo
risalire il colle di Ratcliffe sotto il tiro dei loro arcieri. Per questo
mentre Jack guiderà l’assalto frontale, tu e Richard avrete già portato le vostre
truppe verso nord, aggirando la valle nascosti dietro a queste alture. Anche
nel caso in cui Victor intuisca il nostro piano e tenti una disperata difesa
del Ratcliffe con le forze che gli rimangono, non potrà resistere ad un attacco
combinato su tre lati.»
«Sembra
un piano assolutamente degno di te, non fosse per il fatto che sembra basato
molto sulla fortuna.» disse Adrian. «Se le nebbia dovesse alzarsi troppo presto
tutte le nostre manovre verrebbero scoperte anzitempo, viceversa se dovesse
alzarsi troppo tardi Septimus e i suoi potrebbero non riuscire a resistere
abbastanza a lungo vanificando tutto. Sei sicuro che funzionerà?»
«Fidati,
funzionerà.»
Anche
perché ha già funzionato una volta.
Nella
mia vecchia vita più di una volta avevo visto i miei piani venire vanificati
dall’intervento della natura.
Mi
ero sempre detto che su di essa nessuno può comandare, e che se qualcosa andava
male a causa sua si poteva incolpare solo il fato.
Ma
ora sapevo di essere sempre stato nel torto.
Forse
la natura non si può controllare, ma sicuramente si può prevederla. Basta
capirne i segnali.
Anche
per questo avevo scelto di essere un cacciatore; per imparare a leggere ciò che
un tempo mi era oscuro.
Entro
la fine di quella battaglia avrei scoperto se la conquista di Basterwick era
stata solo una fortunosa coincidenza o se finalmente ero riuscito ad eguagliare
anche l’unico nemico di cui avessi sempre avuto paura.
«Voilà, le soleil de Mistvale.»
«Cosa?»
chiese Adrian mentre Daemon, sorridendo, osservava il sole
«Niente,
non farci caso. Avanti, ora è il momento. Fai il segnale.»
«Agli
ordini.»
Una
freccia infuocata lanciata in direzione sud fu il preambolo alla comparsa di
centinaia di arcieri a cavallo, che guidati da Natuli si infilarono nello
spazio tra la base del Ratcliffe e il villaggio di Misvale tagliando il fronte
nemico in due, attaccando alle spalle i soldati di Philippe e tramutandoli in
puntaspilli.
Contemporaneamente,
Jack guidò la carica attraverso il colle, cogliendo impreparate le truppe
nemiche ancora frastornate dopo essere state decimate dalle mitraglie di
Oldrick e spingendole alla fuga nel giro di pochi minuti.
Il
colpo di grazia arrivò nel momento in cui il fianco destro dell’esercito di
Eirinn venne assalito dall’attacco portato dalle forze combinate della Prima
Divisione di Richard e della Grande Guardia di Scalia.
Il
nome di quest’ultima non era stato scelto a caso; erano minotauri, orchi,
coboldi, e ognuno di loro valeva come dieci soldati, soprattutto ora che erano
stati adeguatamente addestrati.
Vedere
Scalia in mezzo a loro, per di più nel ruolo di loro comandante, poteva
sembrare strano, ma in quanto a forza bruta li superava tutti.
Erano
stati creati soprattutto per spaventare, perché per un soldato non c’è niente
di più terrificante che vedersi arrivare contro trecento energumeni che
facevano rimbombare il terreno durante la carica, maneggiando asce e spadoni
come fossero giocattoli.
Quella
era la loro prima battaglia, ma altre ne sarebbero seguite nei mesi e negli
anni a venire.
E
ogni volta, al solo sentirli nominare, tutti avrebbero ripensato a quel giorno,
alle storie che si raccontavano sulla terrificante Grande Guardia, e avrebbero
sentito un brivido alla schiena.
Lefde
tentò disperatamente di ricompattare le sue truppe, ma ormai queste avevano
abbandonato per buona parte le posizioni più elevate rendendosi vulnerabili.
L’ala
destra venne travolta prima ancora di riuscire a ridisporsi per fare fronte
alla comparsa del nemico, ed era chiaro che le poche riserve rimase a
presidiare il campo base non avrebbero resistito più di qualche minuto prima di
fare la stessa fine.
«Ritirarci?
Neanche per sogno! Non esiste che la dia vinta a questi bifolchi! Il mio
esercito può ancora combattere!»
«Mio
Signore! Di questo passo, molto presto non avremo più un esercito! Ve ne
prego!»
Per
quanto Victor si atteggiasse era impossibile negare l’evidenza, e nel momento
in cui i suoi occhi rabbiosi si sottrassero alla vista dello scempio che stava
accadendo davanti a lui Lefde lesse quel gesto come un’ammissione.
«Suonate
la ritirata! Ritornare al forte!»
Per
fortuna il nemico non infierì né incalzò il nemico in fuga, consentendo ai
superstiti di ritirarsi relativamente in ordine e senza subire troppe perdite.
Ma
nonostante tutto, qualcuno rifiutava ancora di rassegnarsi alla sconfitta.
«Medea,
non hai sentito il corno? Dobbiamo andare!»
Alla
fine Kassia e le altre Furie dovettero quasi trascinare via forzatamente il
loro comandante, che anche dopo aver esaurito le frecce seguitò a scagliare sui
nemici festanti per la vittoria tutto quello che le capitava a tiro.
«A
presto sorellona!» disse Sapi a Ignes mentre questa ripiegava assieme ai suoi
uomini. «Spero che ci incontreremo per combattere ancora!»
«Puoi
starne certa, palla di pelo! E la prossima volta colorerò la mia ascia col tuo
sangue!»
Ancora
una volta, Daemon aveva compiuto un’impresa impensabile, persino per i più
esperti soldati che militavano nel suo esercito.
Dall’alto
del suo cavallo bianco, il Comandante Supremo della Guardia Nazionale e Primo
Ministro dello Stato Libero osservava la pianura e il colle dinnanzi a lui
tappezzati di corpi, testimoni silenziosi e spaventosi della sua grande
vittoria.
«La
victorie est à nous.»
Nota dell’Autore
Eccomi
qua!
Siamo
arrivati alla fine anche di questo terzo volume.
Mi
scuso ancora per lo stupido errore che ho fatto nel corso della pubblicazione,
ma dovendo gestire più cose assieme ogni tanto capita di prendere una
cantonata, senza contare che in questo periodo sono letteralmente subissato di
incombenze^^
Come
preannunciato il quarto volume inizierà la pubblicazione tra circa un mese,
giusto in tempo per annunciare a tutti un’importante novità circa il futuro
della novel.
A
presto, e grazie come sempre a tutti coloro che continuano a seguire e a
recensire questa storia!^_^