La Lettrice del Fuoco - CA Cap. IV

di EmmaJTurner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fuggitivi e Ricercati ***
Capitolo 2: *** Bastoni, Bastardi e Balsìk ***
Capitolo 3: *** Giù nella Nebbia ***
Capitolo 4: *** Fiore di Campo ***
Capitolo 5: *** Atropa Belladonna ***
Capitolo 6: *** Esoterico e Dintorni ***
Capitolo 7: *** Una Donzella da Salvare ***
Capitolo 8: *** Polvere di Fata ***
Capitolo 9: *** Scarsi Tentativi di Evasione ***
Capitolo 10: *** Passo del Vento ***
Capitolo 11: *** Verso Nord ***
Capitolo 12: *** La Lettrice del Fuoco ***
Capitolo 13: *** Pigne e Pignoleti ***



Capitolo 1
*** Fuggitivi e Ricercati ***


Spazio dell’Autrice

Dovrei farlo? Dovrei pubblicare prima di sapere dove andrò a parare con questa Parte IV, quanto sarà lunga e quante informazioni ci saranno dentro? No. Non dovrei. Eppure eccoci qui: il primo febbraio di un anno bisesto (quindi funesto) mi pareva un giorno adatto per fare questo azzardo. 

E dunque, senza promesse e senza indugi, qui il primo capitolo della Lettrice del Fuoco. Fatemi sapere cosa ne pensate :)






Fuggitivi e Ricercati


Ricercata BOTANICA

alta con capelli bruno-rossi

occhi scuri, pelle olivastra.

Viaggia con un bambino 

che risponde al nome di Theodore.

200 nk per la donna

1000 nk per il bambino


Meli strappò il volantino dall’albero e lo fece in pezzi. Era il terzo in due giorni. 

“Ricercata! Come una delinquente!” borbottò Meli sottovoce, guardando i brandelli di carta giallastra volteggiare fino a raggiungere le foglie morte che coprivano il suolo ghiacciato ai suoi piedi.

Erano in fuga da due settimane. Da quando avevano lasciato Pecul non avevano osato avvicinarsi a un centro abitato, e i recenti volantini con le loro facce sopra le avevano dato ragione di tale accortezza. Di giorno camminavano per chilometri; di notte dormivano — dopo essersi assicurati che nulla di viscido o peloso vi soggiornasse dentro — in spelonche che Meli conosceva da quando era bambina, scaldandosi solo con i mantelli di lana, falò improvvisati e due scaldapietre ormai sempre più scariche. E oltre a tutte le difficoltà conseguenti al viaggiare in incognito con un bambino che aveva poca familiarità con il muoversi nei boschi — lentezza, vesciche, ruzzoloni quasi fatali giù per i sentieri infangati — gobellini e rubasogni sbucavano da ogni cespuglio, l’inverno era alle porte e ora, con quei stramaledetti volantini affissi in tutti i distretti limitrofi, ci si mettevano pure i cacciatori di taglie. E chissà, forse persino la Guardia Cittadina.

Meli guardò Theo intento a raccogliere foglie di acetosella lungo il declivio boscoso. Non si era accorto del volantino, e Meli si tranquillizzò. Con lui cercava di mantenere un atteggiamento positivo, perché guidati solo da angoscia e disperazione non sarebbero durati a lungo tra le braccia implacabili della stagione invernale. Dovevano avere qualcosa a cui aggrapparsi con la speranza che presto tutto sarebbe finito per il meglio. A che cosa? Meli non lo sapeva. Non ancora. Sperava di trovarlo presto, però.

Theo aveva i pantaloni macchiati e lacerati su entrambe le ginocchia, ricordo di una scivolata con capriola giù lungo un pendio, e un nuovo piccolo taglio sul sopracciglio ottenuto dopo un’avventura troppo entusiasta dentro un cespuglio di more. Stava pizzicando le piantine di acetosella una per una con espressione concentrata, scegliendo quelle con il colore verde più brillante proprio come Meli gli aveva insegnato. Un moto di inspiegato affetto scaldò il petto della donna, che si sentì meglio e peggio allo stesso tempo. Aveva salvato quel ragazzino dalla morte — forse due volte — e ora considerava quella piccola vita una sua responsabilità.

“Andiamo. Dobbiamo arrivare al rifugio prima che faccia notte” gli disse, gentile.

Theo fece un colpo di tosse, annuì e in due balzi le arrivò accanto. Dal suo bagaglio uscì un miagolio lamentoso. Polpetta, contro ogni aspettativa, era ancora vivo e ronfava beato nello zaino di Theo. Finora era stato utile solo a fare da scaldacollo peloso al ragazzino e a mangiarsi gli scarti della magra cacciagione che riuscivano a mettere insieme grazie a trappole e fionda; non aveva messo in fuga nessuna donna-rapace demoniaca. Le strigi, in realtà, ora si vedevano di rado. Era un segnale positivo? Voleva dire che nessun nuovo cancello era stato aperto? Meli non ne era certa.

In balia di pensieri nefasti e affondando con gli scarponi nella terra soffice e pregna d’acqua, Meli guidava la piccola spedizione donna-bambino-gatto verso quello che si augurava fosse un posto sicuro. Si trovavano ad un’altitudine più bassa rispetto a Pecul; quella zona della Catena era coperta di un rado bosco di betulle, alberi  giovani che avevano ripopolato le aree bruciate dagli incendi di vecchie battaglie; i sottili tronchi bianchi creavano un particolare contrasto cromatico con il fitto tappetto di foglie rosse del corniolo nano. L’aria profumava di terra bagnata, di muschio e di neve.

Arrivarono al rifugio, una vecchia stazione di vedetta dei tempi della guerra; nei decenni di abbandono la natura l’aveva reclamata, avvolgendola in spire di edera e erbacce, ma restava comunque una validissima alternative per ripararsi dalle intemperie. 

Con notevole sforzo Meli spalancò la porta marcescente aviluppata dal fogliame. La cabina consisteva in un’unica stanza quadrata dalle pareti di pietra con una porta e feritoie su tutti e quattro i lati. Non una reggia, ma almeno avrebbero potuto accendere il fuoco: il camino c’era e sembrava sufficientemente sgombro. Il fumo avrebbe tradito la loro presenza, ma Meli dubitava che i cacciatori di taglie li avrebbero cercati lassù, nel cuore della notte, a novembre. 

E se anche fosse, pensò Meli facendo scorrere i polpastrelli sulla superficie serica del bastone prima di appoggiarlo contro il muro, ci troverebbero pronti.

Si sistemarono per la notte, che ormai calava con sempre più preoccupante rapidità. Mentre Theo dormiva avvolto nel mantello davanti al camino acceso, Meli estrasse un bastone che aveva raccolto qualche giorno prima e continuò ad abbozzarlo col coltello. I movimenti ripetitivi la aiutavano a rilassare la mente e la concentrazione sul lavoro le impediva di addormentarsi.

Theo si agitò nel sonno e tossì. La tosse era iniziata la quinta notte. Dapprima un suono secco, stizzoso; nei giorni seguenti pieno e catarroso. Meli sapeva che non avrebbero potuto dormire all’addiaccio ancora per molto. Dopo tutto quello che aveva passato, ci mancava solo che il ragazzino crepasse di ipotermia.

Spinse il pollice sul retro della lama e un pezzo di corteccia cadde tra le sue gambe. Il bastone era un regalo per Theo.

Così la smetterà di rischiare l’osso del collo usando rami marci per scendere dai sentieri ripidi. O di rubare il mio per frugare tra le foglie morte alla ricerca di funghi.

O almeno, così si diceva; in realtà desiderava fare qualcosa di carino per lui e sperava, con quel regalo, di restituirgli almeno un po’ della spensieratezza che ogni bambino avrebbe dovuto avere alla sua età. 

Per un po’ i pensieri si ricorsero e le si aggrovigliarono nella testa appesantita dalla stanchezza. Il peso della preoccupazione, del freddo e delle notti insonni cominciava ad accumularsi, e sapeva che non avrebbero potuto continuare a nascondersi nei boschi ancora per molto, non in quella stagione. Dovevano trovare un posto sicuro, caldo e con del cibo decente per passare indenni l’inverno. Ma dove? Chi poteva tenerli al sicuro? Pensò a Reika. Chissà che fine aveva fatto. Aveva anche pensato di scrivere a Aiden; ma per dirgli cosa? Che le serviva un cavaliere dall’armatura scintillante a proteggerla dalle cazzate che aveva fatto? Che aveva il cuore più grande del cervello? Assolutamente no. E poi temeva che i messaggi venissero intercettati, che lo ricollegassero a lei e che finisse male… come con Logan. A Logan in realtà cercava di non pensare, ma amare supposizioni si infilavano negli interstizi della coscienza contro la sua volontà. Era stato arrestato? Catturato? Il dubbio di essere stata la causa di conseguenze gravi o irreversibili per la vita privata dell’ammazzamostri le annodava lo stomaco.

Il bastone era a buon punto. La corteccia esterna era stata rimossa e le asperità più evidenti raschiate via a colpi di lama. Per completarlo avrebbe dovuto lisciarlo e oliarlo, ma non aveva gli strumenti adatti; quindi, per il momento, sarebbe andato bene così. 

Meli avvolse il bastone in un avanzo di stoffa e lo posò a terra accanto a sé. Stirò le dita contratte dallo sforzo e rilassò le spalle. I pensieri si fecero pesanti e confusi. La donna si massaggiò gli occhi stanchi.

Quando qualcosa di appuntito le toccò la faccia, Meli si svegliò di soprassalto. A pochi centimetri dalla sua faccia c’era Polpetta con la zampina sollevata, unghie sguainate, pronto a schiaffeggiarla di nuovo. Meli, confusa, sbatté gli occhi e si mise seduta. Senza accorgersene era scivolata a terra e si era addormentata; il collo le doleva e per la posizione scomoda e era gelata per via del fuoco che languiva. Con la sensazione di avere tutte le ossa rotte si alzò, ravvivò le fiamme e allungò le membra indolenzite. 

Polpetta aveva abbassato la zampa e si era messo a fissare la porta. Meli stava per insultarlo per averle graffiato la faccia quando notò che le orecchie membranose scattavano in diverse direzioni: stava captando qualcosa. Corrucciata, la donna seguì lo sguardo del felino. 

E udì, quasi impercettibile, uno scricchiolare di foglie. Qualcosa si era mosso proprio fuori dalla cabina. 

Meli si irrigidì; gli ultimi sprazzi di sonno sparirono all’istante e lasciarono il posto ad un’attenzione vigile e ansiosa. C’era qualcuno, lì fuori?

Rimase con le orecchie tese pregando che Theo non tossisse proprio in quel momento. Ma non si udì nient’altro e, dopo quelle che parvero ore, Polpetta si rilassò, arcuò la schiena e andò ad accoccolarsi soddisfatto contro la faccia di Theo.

Ma Meli non riuscì più a scrollarsi di dosso la strisciante sensazione di non essere soli; inquieta e sudaticcia, non dormì fino alle prime luci dell’alba, quando Theo si svegliò per darle il cambio. 

***

“L’ho preso!”.

La voce entusiasta le strappò un sorriso. Nonostante fosse distrutta dalla stanchezza, Meli si interessò con garbo a pazienza al leprotto striminzito che Theo era riuscito a stendere con la fionda. Doveva ammettere che era abile — più di lei — e che stava migliorando giorno dopo giorno.

Era tarda mattinata e la comitiva stava — troppo lentamente, per i gusti di Meli — scendendo di quota. Erano usciti dal rifugio con il sole già alto e, nonostante i misteriosi rumori notturni, nessuno aveva cercato di aggredirli. Meli cominciava a sospettare che fosse stata la stanchezza a farle immaginare tutto. 

La nuova meta era il Lago del Soc, più a valle. La discesa era accompagnata da un gradevole innalzarsi della temperatura — il gelo assassino si era placato in favore di un generico freddo che non minacciava più di staccare loro le dita dei piedi — e da un cambio di scenario: betulle e larici avevano lasciato spazio a querce e castagni, e le cascatelle ghiacciate erano ora sonori ruscelli. La pausa dalla morsa del gelo era una consolazione considerevole per Meli, nonostante fossero ora molto più vicini ai centri abitati e dovessero di conseguenza stare più attenti a evitare gli altri viaggiatori. La tosse di Theo continuava imperterrita.

Il ragazzino si caricò la preda in spalla e si avviò impettito giù per il sentiero; Meli lo seguì docile. Era ancora frastornata dalla notte insonne e una spirale di pensieri angosciati minacciava di trascinarla giù. Doveva scacciarla e pensare positivo. 

Peccato che pensare positivo non fosse mai stato il suo forte. Anzi; di ogni situazione le veniva naturale pensare alla più funesta conseguenza possibile in modo da essere sempre preparata al peggio. Questa inclinazione le aveva parato il culo in diverse occasioni, quindi non l’aveva mai considerata un difetto di carattere. Finora.

Ormai allo stremo delle forze mentali, Meli notò un ciuffo di pimpinella a lato del sentiero e decise che quella sarebbe stata una distrazione sufficiente.

“Theo, aspetta. Guarda qui”.

Strappò una minuscola foglia seghettata e la porse al ragazzino. “Questa è erba pimpinella. È commestibile. Assaggia”.

Theo non si mosse. Meli comprese la sua diffidenza e mise in bocca la foglia per dimostrargli che non c’era nulla da temere. “Per me, sa di noci”.

Titubante, Theo allungò le dita e accettò una seconda foglia di pimpinella dal palmo di Meli. Se la mise in bocca e masticò piano. “Non sa affatto di noci” sentenziò dopo un attimo. “Sa di… centriolo”.

Meli rise. “Esatto. La pimpinella ha un gusto diverso in base a chi la mangia. Ci sono le persone noci, e ci sono le persone cetriolo”.

Theo, una serie di colpi di tosse, chiese: “E io sono una persona cetriolo?”.

“Sembrerebbe di sì” rispose Meli con tono leggero.

Theo tossì ancora e ci rimuginò su per un bel po’. Il suo fiato si perdeva in nuvolette opache nell’aria gelida.

“Può una persona cetriolo diventare una persona noce?” chiese infine, la voce seria e gli occhi fissi sul sentiero.

Meli intuì che quella domanda ne nascondesse in realtà un’altra che non aveva nulla a che fare con il sapore delle erbe spontanee. 

“Sì, è possibile" rispose cauta.

“E come?”.

Meli si prese qualche secondo per pensare. “Non sempre è sufficiente, ma a volte basta cambiare modo di pensare”.

“Cioè?”.

Meli raccolse un nuovo rametto di pimpinella carico di foglie dentellate e lo tenne tra di loro. “Pensa al sapore del cetriolo” disse. Attese che il bambino fosse pronto. “Adesso assaggia. Che gusto senti?”.

Dopo aver preso e messo in bocca una foglia, Theo rispose: “Di cetriolo”.

“Ora concentrati invece sul sapore delle noci. Immaginalo sulla punta della lingua. E assaggia di nuovo”.

Scettico, Theo masticò una nuova foglia. Spalancò gli occhi. “Adesso sa di noci!”.

Meli sorrise. “Esatto. Due foglie identiche, della stessa pianta, hanno un sapore diverso. Cosa è cambiato?”.

Theo la guardò dubbioso. “Quello che… ho pensato?”.

Meli annuì ma, lungi dal voler ingannare una mente intelligente, aggiunse: “Non ho intenzione di mentirti, Theo. Non funziona così per tutto. Una fragola saprà sempre da fragola, non importa quando io mi impegni per farla diventare un mirtillo. La pimpinella è solo una metafora. Sai che cos’è una metafora?”.

“Una cosa che significa qualcos’altro”.

“Sì. E come le fragole, alcune cose della nostra vita così sono e così resteranno per sempre, e a nulla servono i nostri sforzi per renderle diverse. Altre invece, se ci impegniamo abbastanza, possiamo cambiarle. Alcune cose possono sembrarci completamente diverse, dopo un cambio di pensiero”.

“Come la pimpinella”.

“Come la pimpinella”.

Ci fu un momento di meditabondo silenzio. Theo stava chiaramente riflettendo su qualcosa di doloroso e difficile da tradurre in parole. Meli non lo forzò. Se e quando fosse stato pronto per confidarsi con lei, lo avrebbe fatto. Desiderò allungare una mano per stringergli una spalla in segno di conforto, ma desistette. Quando non era sopraffatto dalle emozioni, Theo era spaventato dal contatto fisico e trasaliva a ogni tentativo di carezza. Un riflesso condizionato dalle percosse ricevute dalle persone che avrebbero dovuto amarlo e proteggerlo.

Impotente e incerta su cosa gli avesse insegnato davvero con quella manfrina sui sapori e sui cambiamenti della vita, Meli sospirò. 

“Procediamo”.

Theo annuì e sollevò il mento. Il suo sguardo era determinato. E sereno.

“Sì. Andiamo”.








 

Spazio dell’Autrice 2

Ho finito la revisione de “I Fiori di Sambuco” (Parte I). Non è ancora esattamente come la vorrei (è troppo breve) ma intanto va bene così. In caso qualcuno volesse rileggersela e farmi sapere cosa funziona e cosa no, sono apertissima alle critiche. Sì, c’è un personaggio nuovo, e un altro che sparisce; ricompariranno entrambi, auspicabilmente, nella parte IV :)

Per chi interessa ho revisionato anche Aconito che vanta ora uno splendido nuovo mostro nel primo capitolo e qualche zuccherosità in più qua e là <3 Ci sono ancora refusi e ripetizioni ma mi sto facendo aiutare da un Beta per rifinirlo per bene.

Grazie a tutti e a presto! (SPERO)
Emma

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Capitolo 2
*** Bastoni, Bastardi e Balsìk ***


Bastoni, Bastardi e Balsìk

“No, aspetta. Perché andiamo di qua?”.

L’espressione interrogativa di Theo era corredata di guance a chiazze rosa e di labbra screpolate dal freddo. Si era accorto che stavano tornando al passo di Costoi e non quello per Berg.

“Scendiamo a Andarèz” dichiarò Meli. Lo aveva deciso quella mattina. La tosse di Theo stava peggiorando, e non potevano affrontare altre notti ghiacciate con l’angoscia di essere aggrediti nel sonno nel bel mezzo del nulla. 

Theo sollevò le sopracciglia. “Ma avevi detto…”.

“So cosa avevo detto. E ho detto anche che saresti stato al sicuro con me, giusto?”.  

Theo assentì timidamente. Poi fu scosso da un colpo di tosse.

“Appunto. Tenerti al sicuro implica che non puoi morire di polmonite. Dobbiamo trovare un posto dove poter stare al chiuso, al caldo e con pasti regolari e decenti”.

Dove potessero trovare un posto del genere, Meli non lo sapeva. Ma Dag forse sì. E poi Andaréz era una città grande: c’era una maggiore possibilità di poter entrare inosservati mescolandosi al continuo viavai di viaggiatori e mercanti. Una volta laggiù, avrebbe pensato a qualcosa.

Ci sarebbero voluti tre giorni per scendere a valle evitando i paesini lungo il percorso. In poche ore raggiunsero il fiume che portava al lago di Soc, riempirono le borracce e pranzarono seduti lungo la riva con quel poco che era rimasto dall’ultimo bottino di caccia. Il bosco era sereno attorno a loro, e piacevolmente vuoto: niente viandanti né mostri, solo gli uccelli con i loro melodiosi richiami e il rassicurante fluire dell’acqua. Perfino le anguane si erano finalmente levate dalle scatole, ritiratesi nel loro letargo invernale.

Esaurito il pranzo frugale, Meli slegò dallo zaino un fagotto di stoffa marrone.

“Questo” disse Meli porgendo l’oggetto a Theo “è per te”.

Il ragazzino afferrò il fagotto e lo svolse con sospetto. Quando il panno cadde a terra, rivelando il bastone intagliato, lo fissò per qualche secondo. Poi scoppiò in un pianto dirotto.

Meli, ragionevolmente nel panico, balbettò qualche confusa spiegazione; Theo cercava di rispondere tra le lacrime, ma i singhiozzi inghiottivano le parole e non si capiva un accidenti.

“Grazie” riuscì infine a dire il bambino. “È bellissimo”.

A disagio ma rincuorata di non aver fatto un errore madornale, Meli lo lasciò sfogare finché ne ebbe bisogno. Non era abituato a ricevere regali, dedusse la donna; ma dopo il primo impatto turbolento il bastone si rivelò un successone. Era troppo lungo per Theo per tirare di scherma, ma perfetto per combattere all’orientale come Meli aveva imparato da bambina. Gli insegnò le quattro figure base dello stile e il bambino assorbì ogni informazione come una spugna felice.

Per tutto il giorno Theo usò il bastone per camminare, cercare funghi, scostare foglie e esercitarsi sulle nuove mosse che aveva imparato. La sua risata cristallina si univa ai cinguettii dei pettirossi che svolazzavano tra i rami sfuggendo ai fallimentari agguati di Polpetta. Quell’entusiasmo instillò in Meli un’ondata di energia positiva. Avrebbero potuto farcela. Sarebbero arrivati a Andarèz. Avrebbero trovato qualcuno disposto ad aiutarli a risolvere quell’enorme disastro — concernente l’apertura illegale di antichi cancelli, l’accusa infondata di terrorismo interno e una ragazzina inquietante con la brutta abitudine di cambiare aspetto.

Carica di quella prospettiva positiva, Meli accelerò il passo.

***

La notte li colse prima di aver raggiunto la meta — una vecchia grotta sotto il Lutei, nascosta dal sentiero — e si ritrovarono a camminare nella luce soffusa di una timida mezzaluna. Il crepuscolo era passato da quasi un’ora, e il freddo intirizziva le dita dei piedi.

Passarono dei floridi cespugli sempreverdi. Al fruscio delle foglie si mescolarono voci sottili che bisbigliavano nel buio. Dapprima piano, poi più insistenti, ma sempre lontane, come sott'acqua, ai lati del campo uditivo.

Intimorito, Theo le strattonò il mantello. “Che cosa…?”.

“Shhh. Non fare rumore”.

Theo tacque, ma non mollò la presa. Meli gli afferrò la mano e in silenzio lo invitò a camminare davanti a lei.

Nel buio, i bisbigli continuavano. Erano parole inintelligibili, musicali, che provocavano brividi di piacere lungo la nuca. Come ombre dotate di brillanti occhi gialli, creature con pelle color dell’inchiostro si mossero suadenti tra gli alberi immersi nell’oscurità. Meli fremette, chinò il capo in segno di saluto e, senza concedere troppa attenzione ai misteriosi osservatori, avanzò a passo sicuro lungo il sentiero.

Presto, così come era arrivato, il basso vociare svanì, e lo scricchiolio delle foglie sotto i loro passi tornò ad essere l’unico suono udibile. Erano di nuovo soli nel limpido silenzio della notte invernale. 

“Che cos’è stato? Non volevo fare rumore… scusami” sussurrò Theo contrito.

Meli rispose con voce ferma. “Non scusarti. Abbiamo appena passato una colonia di balsìk”.

“Oh”.

“Non averne paura. Sono creature pacifiche. Vivono qui da molti anni e non disturbano, se non disturbati”.

“Avevano gli occhi luccicanti come quelli di Polpetta” sentenziò Theo dopo una breve riflessione.

Meli sorrise nel sentire la timida meraviglia nella voce del bambino. “Hai ragione; riescono a vedere nel buio. E hanno anche grandi antenne pelose con le quali possono sentire ogni cosa”.

“E perché bisbigliano?”.

“Bisbigliano sempre. In questo modo manifestano la loro presenza e si dichiarano non ostili. Per questo li ho salutati” spiegò Meli. “Ma se volessero attaccare, non sentiresti nulla: verresti solo inghiottito dall’oscurità”.

Theo scrollò le spalle in un brivido a metà tra la paura e l‘eccitazione.

“Che cosa mangiano?”.

Meli si ritrovò senza una risposta. Le preferenze alimentari di quelle creature oscure andavano al di là delle sue conoscenze. “Non ne sono certa. Escono solo di notte — non sopportano la luce — quindi… animali notturni, credo”.

Theo continuò con le domande entusiaste e il chiacchiericcio del torrente fece loro compagnia lungo la discesa verso il lago. Doveva mancare poco ormai, si disse Meli, forse giusto un paio di-

Una freccia le sfiorò il braccio e andò a conficcarsi nel tronco alle sue spalle. Ignorando lo strillo di terrore, Meli agguantò Theo per il cappuccio e lo nascose dietro di sé. Valutò di fuggire, ma sarebbe stato come giocare a tiro a segno. Evitò anche di mettersi in posizione con il bastone, perché tutta l’ abilità del mondo con quell’arma non avrebbe potuto nulla contro dardi letali scagliati dal buio. Ingoiando la rabbia e la paura, scelse la via della diplomazia.

“Fermi! Fermi! Ci arrendiamo”.

Si udì uno scalpiccio di passi; ombre goffe e massicce si mossero nell’oscurità, ma nessun'altra freccia volò nella loro direzione. Meli lo considerò un buon segno.

La sagoma di una balestra si delineò tra gli alberi alla flebile luce lunare, seguita dalla figura slanciata di un uomo. No, non un uomo.

Un elfo oscuro.

Con gli occhi truccati di nero, le orecchie a punta e i lunghi capelli d’inchiostro, l’elfo era quasi indistinguibile dal buio che lo circondava. Avanzò con passi leggeri, tenendola sotto scacco con la freccia puntata.

Meli alzò le mani in segno di resa. “Abbassa l’arma”.

“Non sei in posizione di dare ordini, mi pare”.

Due uomini emersero dagli alberi ai lati dell’elfo; uno estrasse una gemmaluce gialla e Meli poté finalmente dare un volto a queste nuove simpatiche conoscenze.

I due uomini erano muscolosi, con lunghi mantelli di lana marrone; uno con una cicatrice che gli deturpava la bocca; l’altro con capelli a spazzola sparati in tutte le direzioni. L’elfo era alto, esile, e incazzato. Il pensiero di Meli corse inesorabilmente a un altro elfo incazzato, e considerò che forse era un tratto caratteristico della specie. 

“Il bambino. Mostracelo” ordinò l’elfo.

Dovrai passare sul mio cadavere, decise Meli. Ma non lo disse. Non sembravano tipi da figure retoriche, quei tre; ci mancava solo che la prendessero alla lettera.

Tre uomini armati contro una donna e un bambino: il cervello di Meli lavorò strenuamente alla ricerca di una soluzione mentre dissimulava la paura dietro un’espressione di pietra. Theo, nascosto sotto il mantello della donna, tremava; Meli sentiva le sue piccole dita terrorizzate artigliarle la cintura.

“Mostracelo” incalzò l’aggressore con le orecchie a punta, indicando con la balestra in modo eloquente.

Non vedendo ancora vie d’uscita, Meli ritenne che obbedire fosse l’opzione più indolore. Afferrò gentilmente la spalla di Theo e lo espose alla luce gialla della fluorite.

“È lui” confermò uno dei due uomini dopo averlo studiando per pochi secondi. “Quello del volantino. 1000 navok”.

“Perfetto. Prendetelo” ordinò l’elfo. Doveva essere lui il capo di quella banda sgangherata, dedusse Meli. Un feroce disprezzo la fece vibrare da capo a piedi; il sangue le arrivò al cervello e cominciò a batterle nelle orecchie. Intensificò la presa sulla spalla di Theo.

“E la donna?” domandò dubbioso il tizio con i capelli a spazzola, a cui non era sfuggita l’espressione di odio puro sulla faccia di lei.

“Mmh. 200 navok sono ridicoli, ma sempre meglio di niente. Prendete pure lei, se non è troppo d’intralcio”.

Meli stabilì di essere d’intralcio. Oh, sarebbe stata il più grosso intralcio del mondo.

Serrò le dita sul bastone, ma non lo sollevò da terra. Impugnarlo come un’arma in quel momento le avrebbe garantito solo una freccia dritta in mezzo agli occhi. No: prima di combattere doveva togliere di mezzo quella balestra del cazzo.

“No!” singhiozzò, a sorpresa, Theo. Si liberò dalla stretta di Meli e si piazzò tra i contendenti a braccia aperte. “Lei non c’entra niente, lasciatela stare!”. Piangeva ed era scosso da tremiti. Meli sbatté gli occhi stordita da quell’azzardata dimostrazione di coraggio.

I tre cacciatori di taglie scoppiarono a ridere.

“Che fai, ti sei innamorato della stronza che ti ha rapito, moccioso?” sghignazzò l’uomo con la cicatrice.

Theo continuava a singhiozzare. Meli strinse gli occhi e tornò a concentrarsi sull’elfo con la balestra. Quello, metà divertito e metà infastidito dalla ridicola esibizione emotiva a cui stava assistendo, sbuffò. 

“Su, prendetelo” ordinò. 

Polpetta scelse proprio quel momento per balzare fuori dallo zaino e lanciarsi nel bosco; colto di sorpresa dal movimento improvviso, l’elfo fece scattare la balestra verso il nuovo obiettivo peloso.

Fu sufficiente.

In due passi Meli gli fu addosso e con il bastone scagliò a terra la balestra ancora carica; il dardo partì e si conficcò da qualche parte nell’oscurità. 

L’elfo imprecò e fece per estrarre qualcosa, ma Meli lo colpì forte sotto il mento con la base del bastone e poi lo finì con una stoccata precisa alla giugulare. L’elfo crollò a terra. Non era morto, probabilmente; di sicuro però aveva avuto giorni migliori.

Fece per voltarsi ma un uomo la bloccò da dietro; una mano le serrò la bocca e un’altra le afferrò il polso sinistro. Meli agì senza pensare: scartò di lato verso il braccio che le cingeva il viso e abbassò la testa fino a sgusciare via sotto l’ascella dell’aggressore; sfilò il polso imprigionato con uno strattone e con la destra assestò un colpo violento, dal basso verso l’alto, ai genitali dell’uomo. Mentre l’aggressore si piegava sulle ginocchia con un rantolo di dolore, Meli agguantò Theo e lo spinse tra gli alberi bui. 

“Corri!”.

Si lanciarono a perdifiato nel bosco, scivolando su radici umide e foglie fangose. A causa della gemmaluce gli occhi di Meli si erano disabituati all’oscurità e non vedeva un accidenti. Perlomeno i loro inseguitori avrebbero avuto lo stesso problema; una buona cosa, si disse, quando non vuoi essere cecchinato da una freccia.

Un rumoroso scalpitare li seguiva a breve distanza. I tre cacciatori di taglie non avevano nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire la preda e stavano guadagnando terreno con preoccupante rapidità.

Correndo a rotta di collo tra i castagni — rischiando di slogarsi una caviglia ad ogni passo — nella mente di Meli si delineò un’aborto di idea. “Theo!” farfugliò ansimando. “A sinistra, risali il torrente”. 

Theo, che era piccolo ma correva come un demonio, seguì fedelmente le istruzioni. Presto si ritrovarono su un sentiero conosciuto e, insieme al mormorio del ruscello, un quieto bisbigliare si levò dagli alberi, udibile solo alle orecchie abbastanza attente per coglierlo.

Pregando che non fosse stata un’idea del cazzo, Meli cacciò Theo dentro un cespuglio di rododendro, dove si acquattarono immobili. Meli sollevò appena la testa per spiare i loro inseguitori.

L’alone giallo della gemmaluce, impugnata dall’energumeno con la cicatrice, si avvicinava dondolando sempre di più. Presto li avrebbe raggiunti.

Tutt’attorno a loro i bisbigli si fecero intensi e stratificati.

I balsìk non disturbano, se non disturbati.

Le parve di vedere muoversi qualcosa, tra gli alberi bui, ma non ne era certa. I suoi occhi stavano solo ora tornando a abituarsi all’oscurità. 

Un levarsi di imprecazioni li avvertì che i cacciatori erano ormai vicinissimi. Meli e Theo attesero col cuore in gola mentre i bisbigli dei balsìk crescevano di intensità fino a diventare un ronzio fastidioso. Theo cercò di guardare cosa stava succedendo, ma Meli gli ricacciò giù con decisione la testolina riccia.

Infine, la gemmaluce gialla rischiarò i cespugli. I tre uomini apparvero; si guardavano attorno furiosi. Meli trattenne il respiro.

Il ronzio era sparito.

I balsìk si avventarono sulla luce come falene scomposte, aggredendo coloro che la portavano. Con gli occhi spalancati davanti a quell’agitarsi di luci e ombre, Meli represse un brivido di orrore nell’udire il rumore di carne strappata seguito da lancinanti urla di dolore.

Sarà oggi il giorno in cui scoprirò se la dieta dei balsìk comprende anche elfi e esseri umani…? Si augurò di no.

La colluttazione fu intensa ma breve. Le creature notturne avevano attaccato in massa, coordinate e letali come api, e in qualche modo avevano fatto sparire — o disintegrato? — la gemmaluce. I tre farabutti erano ora a terra nel buio pesto. Vivi o morti? Meli non si sarebbe trattenuta per indagare.

I balsìk, lentamente, tornarono a confondersi con le ombre dense del bosco. La notte si riempì di nuovo di dolci mormorii diffusi.

Ragionevolmente certa che il peggio fosse passato, Meli strisciò fuori dal cespuglio, si alzò e ingoiò l’urlo che le salì alle labbra quando si ritrovò faccia a faccia con un mostro.

Il balsìk aveva grandi orecchie pelose, simili a antenne di lepidottero, poste in cima alla testa umanoide. Gli occhi erano distanziati, piccoli e luminosi, incastonati in un viso paffuto incorniciato da una massa di capelli ricci. Capelli, pelle e antenne erano completamente neri, quasi blu. Solo gli occhi aguzzi brillavano gialli nell’oscurità.

“Sono delle farfalle!” sussurrò Theo incantato. Meli pensò che l’emozione della corsa a perdifiato doveva avergli fatto dimenticare il buon senso di essere paralizzato dal terrore. Ma aveva ragione: due ali dall’aspetto vellutato erano ripiegate sulla schiena della creatura, facendola sembrare a tutti gli effetti un inquietante ibrido tra un bambino grassottello e una falena pelosa.

Il balsìk dischiuse la piccola bocca nera. Ne uscì un sussurro vibrato e dolcissimo. Stava cercando di parlarle? Sconcertata, Meli restò immobile. Non capiva la sua lingua.

La creatura tacque e scosse la testa; le larghe antenne pelose accarezzarono l’aria in un silenzioso ondeggiare. 

Per qualche istante nessuno parlò. Il balsìk, col suo viso senza espressione, era insondabile. Meli stava elaborando un modo grazioso per ringraziare e prendere congedo quando quello — o quella? O forse non esistevano generi, tra i balsìk, e tutti erano similmente androgini? — prese fiato e enunciò con voce ronzante:  “Bambino. Cancello. Magia di sangue?”.

Meli sollevò le sopracciglia. La tonalità delle parole le aveva fatto intuire che quella del balsìk fosse una domanda, quindi balbettò: “Ah. Eh, sì. Un cancello è stato aperto con la magia di sangue. E questo… questo è il bambino che è stato…” le venne il voltastomaco al pensiero di utilizzare la parola usato, “rapito per risvegliare il solco. Uno dei bambini, in verità. Tanti sono spariti”.

Gli occhietti gialli della creatura si spalancarono per poi assottigliarsi. “Chi?”.

Meli, esausta, confusa e esagitata dal recente inseguimento, riversò su quell’essere tutte le ansie che la tormentavano da giorni. “Chi è stato? Una mutaforma. Una ragazzina con occhi rossi e un caschetto di capelli bianchi. Legge nel pensiero. Era da sola, ma potrebbe avere dei complici” elencò.

Aveva parlato di squadra, laggiù al sesto livello. 

Nonostante tu sia uno schifoso ammazzamostri, saresti stato una buona aggiunta alla mia squadra…”.

Il balsìk fece un verso acuto che Meli stabilì essere di disappunto. Le venne in mente che forse era stata una cattiva idea condividere quelle informazioni. E se i balsìk fossero stati in combutta con la mutaforma? E se i suoi complici fossero le creature senzienti del piccolo popolo? 

Troppo tardi, si disse Meli, irrigidendosi.

“Cercare. Informazioni” disse invece il lepidottero.

“Cercare… io? Voi? Voi cercherete informazioni?”.

Il balsìk, le antenne fruscianti, annuì una sola volta.

Dopo un istante di vuoto, una corrente di energia positiva le scaldò le vene. “Sì. Sì! Per favore. Stiamo cercando aiuto. Tutto l’aiuto possibile. Il podes- i capi umani non ci hanno creduto. Ci credono terroristi. Credono che siamo stati noi. Ma non è vero”. Le parole le uscivano in un fiume di angoscia e incredula speranza.

Iniziò a raccontare del dungeon mentre il balsìk la fissava impassibile. Dopo un po’ Meli si chiese che cosa quella creatura stesse effettivamente capendo. Conosceva la parola terrorista? E come faceva a sapere che non stava mentendo, e che non era stata lei a usare la magia di sangue su Theo per aprire il cancello? Forse percepiva che in lei non scorreva nemmeno una goccia di potere magico? Esasperata e confusa dai suoi stessi pensieri, Meli si zittì.

Un piacevole ronzio si levò dal balsìk. I suoi compagni, celati dell’oscurità, risposero al richiamo. Meli comprese di essere stata congedata. Fece cenno a Theo e insieme si districarono dalla bassa foresta di rododendri. Erano già sul sentiero quando le venne in mente una cosa importante. Due, in realtà.

“Aspetta” disse, rivolta al buio. “Grazie per averci salvato la vita. E questi tre… sono morti?”.

Due occhi gialli si accesero su di lei. “Non. Disturbare”.

Ritenendo che fosse meglio non indagare oltre, Meli annuì. “Grazie; e in caso servisse come posso, err, contattarvi di nuovo?”.

“Noi. Tu. Trovare”. 

Poi nient’altro: il buio tornò a essere buio, e i sussurri si levarono di nuovo, placidi e sereni, nella natura circostante.

Incerta sul significato di quell’ultima sciarada —Noi troveremo te” o “Tu troverai noi”? — Meli prese per mano Theo e scavalcò i tre aggressori forse-cadaveri accasciati in mezzo alle foglie ghiacciate.

Stavano per rimettersi sul sentiero quando un miagolio li bloccò sui loro passi.

“Polpetta!”.

Theo le lasciò la mano e si chinò a salutare il gatto che si stava già strusciando contro le sue ginocchia. Theo lo sollevò e lo soffocò in un abbraccio stretto stretto. “Sei stato coraggiosissimo contro gli uomini cattivi” sentenziò con grande serietà. Il gatto, imperturbabile, si lasciò manovrare e chiudere di nuovo dentro lo zaino.

Pensando che l’intera vita di Polpetta fosse un incredibile inanellarsi di coincidenze fortuite che nulla avevano a vedere con il coraggio, Meli si accinse a risolvere l’ultima rogna di quella notte sgradevole: dove fare campo. Erano ancora distanti dalla meta e, anche a causa dei recenti avvenimenti, non avevano alcun desiderio di dormire nel bosco. In comune accordo decisero di proseguire a camminare fino all’alba; solo allora si concessero una pausa, facendo a turno per sorvegliare l’ingresso di una piccola grotta sotto il Lutei, rifugio originario di quella porzione di viaggio.

Il cielo aveva già tinto di rosa le montagne mentre Meli si rigirava incessantemente nel duro giaciglio di foglie secche. Aveva confessato il più grave reato della storia recente a una creatura di un’altra specie; e quella le aveva creduto prima di qualsiasi altro essere umano. Per quanto bizzarra e spaventosa, quella consapevolezza la fece sentire meglio. Qualcuno, almeno, sapeva la verità.

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Capitolo 3
*** Giù nella Nebbia ***


Spazio dell’autrice

Niente capitolo romantico per San Valentino ma giuro che arriverà (è già scritto!). Buona lettura!




Giù nella Nebbia

La val di Pola li accolse nel suo usuale abbraccio di nebbia. Uno dei motivi per cui Meli odiava scendere a valle in quella stagione: tutto era aviluppato da un impenetrabile mare bianco-grigiastro che puzzava di palude.

Camminarono nella nebbia fitta e gelida, solo a tratti tagliata da sparuti raggi di sole, per due interi giorni. Non riuscirono a cacciare nulla; si nutrirono di frutta secca e dell’acqua ghiacciata dei torrenti. La sera si appisolavano dandosi il cambio — dopo aver atteso che i loro mantelli, appesantiti dall’umidità, si asciugassero davanti al fuoco — sempre con un orecchio vigile per anticipare eventuali aggressori. Gli eccessi di tosse di Theo si fecero più frequenti e intensi. All’alba del terzo giorno il bambino ormai bruciava di febbre e Meli imprecava contro la cattiva sorte.

“Tieni duro” gli diceva. “Siamo quasi arrivati”.

L’ultimo tratto di bosco pianeggiante lo fece con il bambino sulle spalle e lo zaino appeso al petto. La nebbia ghiacciata le solleticava la pelle del viso. Non sentiva le ultime due dita dei piedi da ore e ogni muscolo del corpo le bruciava invocando pietà.

“Andaréz è vicina ormai. Ce la facciamo” gli ripeteva, più a convincere sé stessa — considerato che Theo stava galleggiando nel delirio della febbre e le rispondeva solo con mugugni inintelligibili.

Ma erano ancora lontani dalla meta quando il sole del terzo giorno calò dietro le montagne. La nebbia fittissima aveva cancellato ogni cosa nel raggio di tre metri, e Meli si era rassegnata a affiancare la strada maestra per non rischiare di perdersi nel nulla bianco e vischioso che nascondeva perfino gli alberi.

Con le ossa irrigidite dal gelo, devastata dalla stanchezza e incapace di indicare la distanza effettiva che mancava alla città, Meli ritenne necessario fare una sosta. Con delicatezza lasciò scivolare a terra Theo, facendo attenzione a tenerlo avvolto nel mantello, e gli si inginocchiò accanto. Il ragazzino aprì a fatica gli occhi appannati. Aveva le guance caldissime color rosa acceso.

“Dove siamo?” sussurrò.

“Siamo quasi arrivati” mentì Meli rassicurante.

Sulla strada principale — una lingua di pietre piatte con i binari per il passaggio di due carrozze affiancate — risuonò il rumore ritmato di zoccoli al galoppo.

Nonostante la visibilità rasente lo zero, Meli si posizionò davanti a Theo proprio nel momento in cui un cavallo di posta sfrecciò loro davanti. Il postino nemmeno lì notò e continuò la sua corsa nella nebbia.

Il rumore di zoccoli si spense in lontananza. Tornò il silenzio, denso e impenetrabile come la nebbia tutto attorno a loro.

Meli si fece forza. Dopo averlo rassicurato di nuovo sulla breve distanza da percorrere, prese Theo per mano, si caricò entrambi gli zaini in spalla e proseguì il cammino.

Finalmente, quando ormai era certa che sarebbero morti di freddo e stanchezza — e l’idea di una veloce morte per ipotermia cominciava a essere perfino allettante — due luci gialle annunciarono l’arrivo alla meta, e le mura della città emersero dalla foschia.

***

Entrare a Andaréz si rivelò una faccenda più complicata del previsto. Capoluogo di regione, murata e circondata dall’acqua del fiume opportunamente dispiegato sui cinque lati a pentagono, Andaréz non era uno dei paesini di montagna che Meli era solita frequentare, ma la città simbolo dei Domini di Terra: vi risiedeva il governatore in persona, la più alta carica politica della Repubblica, insieme a più di diecimila anime. In mezzo alle quali, Meli sperava, si sarebbero potuti nascondere in piena vista.

Aveva pianificato di entrare di giorno, nel bel mezzo del viavai di persone; ma ormai era notte inoltrata e il cancello era sorvegliato da due guardie fastidiosamente puntigliose su insignificanti dettagli come “chi sei, cosa vuoi e perché vuoi entrare in città”.

Valutò a lungo, celata dalla nebbia fuori dall’alone giallo delle fluoriti che illuminavano l’ingresso, le diverse possibilità. Ma non ce n’erano: non era a conoscenza di passaggi secondari meno sorvegliati, non sapeva gli orari del cambio della guardia, non se la sentiva di rischiare di corrompere qualcuno e non aveva modo di far arrivare un biglietto all’unica persona fidata che conosceva in città.

Nel frattempo altri due cavalli di posta le passarono davanti e furono opportunamente fermati e interrogati dalle guardie al cancello. 

Pur sapendo quanto fosse imprudente, stava per cedere e avvicinarsi a una guardia per contrattare un ingresso senza nome — nella speranza che il volantino con la sua faccia sopra non fosse già arrivato laggiù, la qual cosa avrebbe significato arresto immediato — quando udì delle voci sommesse. Un viaggiatore ammantato di nero, dopo aver discusso brevemente con le guardie, stava uscendo dalla città.

Con l’indice davanti al viso fece cenno a Theo di non fiatare. Rimasero immobili e osservarono la figura misteriosa incamminarsi lungo la strada maestra con passi silenziosi. Passò loro accanto senza scorgerli. 

Meli stava per riprendere a respirare quando l’incappucciato scattò con la testa nella loro direzione. La mano della botanica corse al coltello da erbe. Li aveva sentiti? Erano stati attentissimi a non fare nessun rumore… No, capì Meli con angoscia crescente, notando subito dopo un luccichio minaccioso sotto il cappuccio abbassato: non li aveva sentiti. Li aveva fiutati. 

Un vampiro.

Sotto il mantello fradicio Meli estrasse il coltello. Era esausta e senza forze, ma si sarebbe difesa se fosse stato necessario. Non aveva dei paletti di frassino con sé — li aveva dati tutti a sua sorella — ma era ragionevolmente certa di avere della verbena in polvere da qualche parte nello zaino. Se solo fosse riuscita a prenderla…

La figura incappucciata si avvicinò a passi lenti e misurati. Nella fioca luce dei lampioni in lontananza, Meli riusciva solo a scorgere il lucore dei monili che le addobbavano il viso.

Soltanto quando arrivò a pochi metri di distanza Meli si accorse che il volto sotto quel cappuccio nero le era stranamente familiare: un viso piccolo, a cuore, con due enormi occhi con profonde occhiaie e un nasino all’insù da cui pendeva un anello d’argento.

La vampira di Darren. 

Era la vampira con i dreadlocks biondi a cui aveva dato l’artemisia al secondo livello del dungeon, quello con la foresta maledetta. L’aspetto era lo stesso che Meli ricordava: i tatuaggi neri sul collo, il viso magro forato di piercing, l’espressione di acuta diffidenza negli occhi infossati. Dei capelli biondi, annodati e sporchi, si vedevano solo pochi ciuffi ispidi che spuntavano da sotto il cappuccio.

La vampira la studiò con una sospettosa curiosità che divenne ancora più evidente quando registrò la presenza di Theo. Un lampo di consapevolezza le passò negli occhi: l’aveva riconosciuta.

“Mi ricordo di te; sei la botanica di Darren” disse infatti.

Dubbiosa se quella buona memoria fosse da considerarsi positiva o negativa, Meli annuì. Le dita erano ancora strette attorno al manico del coltello. 

“Quello è il bambino del dungeon?”.

“I miei affari sono miei e di nessun altro” rispose Meli.

La vampira strinse gli occhi in due fessure cattive. “C’è un volantino con la tua faccia sopra appeso a ogni bacheca della regione” commentò aspramente. “Quindi i tuoi affari sono di interesse di molte persone, al momento”.

Meli si irrigidì. La notizia era giunta fino a Andaréz, quindi. Non aveva speranza di entrare in città senza aiuto. E se poco prima fosse andata dalla guardia per un tentativo di corruzione, a quell’ora sarebbe già stata designata pendaglio da forca. Non una bella prospettiva.

“È una situazione complicata” rispose Meli, più cauta.

La vampira la fissò sospettosa. “Dicono che hai rapito il ragazzino. Dicono che hai aperto un cancello”.

“Noon shono shtato rapito” ribatté offeso Theo in un biascichio delirante.

“Come ho detto, è una situazione complicata” ripeté Meli, tesa.“E quelle che hai sentito sono tutte stronzate”.

La succhiasangue la studiò con rinnovata attenzione. Forse stava cercando di far incastrare quello che di lei sapeva dal dungeon con le voci che circolavano di recente. Meli aveva sentito dire che i vampiri potevano odorare le bugie, oltre che gli incantesimi. Sperò che fosse vero.

La vampira osservò il bambino, e poi di nuovo lei. “Stai cercando di entrare in città”.

Meli strinse i denti e non rispose.

“Posso aiutarti” si offrì la vampira con tono stizzoso. Non sembrava per nulla allettata da quella prospettiva. 

Aiutarla? Una succhiasangue? “Non voglio il tuo aiuto” rispose Meli meccanicamente e, in un moto di naturale autodifesa, tirò Theo dietro di sé.

Alla vampira non sfuggì il tono gelido né il tentativo di proteggere il ragazzino. Arricciò le labbra come un predatore e ringhiò offesa, mostrando i canini aguzzi e bianchissimi.

“Buona fortuna, allora” sbottò, e fece per andarsene.

Meli si pentì subito della sua precipitosità. Theo era malato e non poteva passare un’altra notte all’addiaccio. Quella offerta dalla succhiasangue era forse la sua ultima possibilità di non avere la morte di un minorenne sulla coscienza.

“Aspetta!”. 

Disperata, esausta, e contro il suo stesso giudizio, Meli fece due passi avanti e le sfiorò un braccio per invitarla a rimanere. La vampira trasalì e ringhiò di nuovo a quel contatto non richiesto.  

Spaventata, Meli ritrasse la mano: non le sarebbe piaciuto vedersela strappare via da un morso.

Aleggiò un silenzio imbarazzato.

Meli inspirò profondamente. E scelse di esporsi. “Non so se posso fidarmi di te. Come faccio a sapere che non ci venderai alla Guardia o a qualche delinquente? Perché mai dovresti aiutarci?” chiese sottovoce.

La vampira fece una smorfia schifata, come se le costasse una fatica immane dire quello che stava per dire. “Tu mi hai aiutato quando ne avevo bisogno”.

Meli si mise subito sulla difensiva. “Cos’è, un passo del codice d’onore dei vampiri? Sotto a non poter entrare senza invito e sopra a fuggire a gambe levate davanti a uno spicchio d’aglio?”. Non era il momento di fare del sarcasmo, ma Meli proprio non ce la faceva a fidarsi di quella creatura zannuta. Il sospetto naturale che provava nei confronti dei vampiri era più forte dello stato di assoluta necessità in cui si trovava.

“No, è tra l’obbligo di dormire in una bara di legno di abete e di evitare la luce del sole per mantenere la pelle liscia e senza imperfezioni” ribatté quella con la stessa ironia pungente. “Senti. Non mi interessa consegnarti alla tua giustizia. Il tuo mondo non mi riguarda più. Ma ogni aiuto disinteressato va ricambiato in egual misura: questo è il codice del mio clan. Un codice al quale non potrei sottrarmi nemmeno se volessi. E l’aglio mi faceva schifo anche prima di diventare quello che sono ora. Sa di piedi”.

Meli trasecolò; non rise, ma la tentazione fu tanto forte da farle fremere la mascella. Il sarcasmo inaspettato aveva aperto una breccia che prima non c’era. Le due donne rimasero a studiarsi per qualche istante. Erano più simili di quanto apparisse alla vista…?

“Dormi davvero in una bara?” indagò Meli con tono più accomodante.

“No. Mi viene il torcicollo. Davvero un cancello è stato aperto?”.

“Sì, ma non sono stata io. Puoi guardarti allo specchio?”.

“Preferisco non rispondere a questa domanda”.

La botanica annuì lentamente. “Ci sta”.

Si fissarono ancora un po’, caute come due gatte col pelo irto, ma sempre meno aggressive col passare dei minuti.

Infine Meli prese un respiro profondo e guardò la vampira negli occhi. Erano di un azzurro scuro e intenso come un cielo temporalesco. Con un enorme slancio di volontà, uno sforzo fisico quasi doloroso, Meli mise da parte le paure, i sospetti, i pregiudizi. Lo fece per Theo, e solo per lui. 

Con un grosso nodo alla gola, disse: “Per favore: aiutaci”.

***

Valutarono ogni opzione, ma cedettero presto all’evidenza: non era possibile far entrare Meli e Theo senza un aggancio dall’interno. 

La botanica sospirò. C’era una sola persona a Andaréz di cui si fidava a sufficienza da chiedere aiuto. L’aveva tenuta come ultima disperata possibilità, perché non aveva alcun desiderio di metterla in pericolo… ma ormai doveva accettarlo: era disperata.

Scrisse il messaggio con la sua migliore calligrafia — che non era mai stata buona nemmeno nei pochi anni di scuola che aveva frequentato — e con le mani sudate lo consegnò alla vampira alla quale fece promettere di tornare subito con una risposta.

La vampira lesse l’indirizzo in cima al messaggio e storse il naso.

“Un bordello?”.

Meli considerò il tono di quel commento, proveniente da una creatura che probabilmente viveva in una topaia puzzolente con i suoi confratelli succhiasangue, quantomeno inopportuno.

“Sì, un bordello” confermò impaziente. “Quello del civico 42, mi raccomando, non del 46; chiedi di Dag e usa il nome che ho scritto qui sul fondo: Fiore di Campo. Capirà che sono io”.

La vampira piegò il biglietto e lo celò sotto il mantello. “Con questo considero ripagato il mio debito” sentenziò.

Meli si morsicò la lingua. “Grazie…?”

“Astrid”.

“Io sono Melissa”.

La vampira ammantata di nero le lanciò un’ultima occhiata, si voltò verso la città e svanì nella nebbia.

Dopo quella che a Meli parve un’eternità, Astrid tornò con un biglietto che profumava di cannella. C’era una sola parola scritto di sbieco in inchiostro rosso.

Arrivo.

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Capitolo 4
*** Fiore di Campo ***


Fiore di Campo

Solo quando Theo fu lavato, idratato, imbottito di antipiretici e infilato come un cotechino sotto strati e strati di coltri e pellicce nella stanza più calda che ci fosse a disposizione, Meli si permise il lusso di tirare un sospiro di sollievo. 

La febbre stava calando. Sarebbe stato bene. 

La celletta d’amore in cui Dag li aveva infilati a forza prima di sparire al piano inferiore era piccola e senza finestre, ma accogliente. Addossato al muro c’era un unico letto con lenzuola rosse; un camino in mattoni a vista, la tinozza di acqua lurida dove Meli si era appena lavata via settimane di schifo, due sedie e un tavolino rotondo dove bruciava un olio floreale che spandeva tutt'intorno un aroma così dolce da pizzicare i peli del naso. La stanza ne era impregnata: probabilmente, si disse Meli, per nascondere gli olezzi di sudore e altri liquidi corporei che di solito la impestavano. Erano le pareti però le vere protagoniste di quella cella d’amore: pitture murali decisamente esplicite occhieggiavano da tutti e quattro i lati della stanza.

Cercando di ignorare i volti sfigurati dall’estasi dei soggetti dipinti, Meli stava seduta su una sedia scomoda davanti alle fiamme del camino. Sorseggiava una tazza di camomilla, i muscoli rilassati dopo il bagno caldo, e ripensava a quanto era appena successo.

Dagmaris era apparsa alle nebbiose porte della città con l’incedere di una dea, un mantello dorato, una risata fragorosa e una scollatura decisamente inappropriata per la stagione in corso. Aveva civettato con entrambe le guardie — un uomo e una donna che conosceva per soprannome, cognome e nome di battesimo —  fino a stordirle e permettere così alla comitiva illegale di superare inosservata il cancello. Li aveva guidati poi nelle strade male illuminate di Andaréz fino a raggiungere il decimo quartiere, dove si era fermata soddisfatta davanti al numero 42: La Lucciola Felice, la casa di malaffare di cui era la fortunata proprietaria.

Astrid, la vampira, li aveva accompagnati fino a lì, aveva lanciato un’occhiata dubbiosa all’insegna col grosso fallo intagliato sopra e si era dileguata nei vicoli per tornare, supponeva Meli, alla sua casa comune vampiresca. Ora che ci ripensava, si accorse di non averla nemmeno ringraziata; si augurò di rivederla per farlo a dovere. Si stupì dei suoi stessi pensieri. Lei, che sperava di rivedere una succhiasangue? Inaudito. 

Proprio quando si accingeva a pensare a un’altra persona che si augurava di rivedere presto, la porta della camera venne spalancata. Un effluvio di limone e cannella invase la stanza sovrastando il profumo dell’olio bruciato.

“Splendore!”.

Meli non fece in tempo ad appoggiare la camomilla che venne agguantata e tirata in piedi da due braccia morbide tintinnanti di braccialetti. Un corpo statuario aderì al suo, avvolgendola in un abbraccio che le fece uscire l’aria dai polmoni.

“Dag, soffoco!”.

Una volta guadagnata la libertà da quello strumento di morte profumato di agrumi che erano le tette di Dagmaris, Meli fece un passo indietro e guardò l’amica in viso.

Gli anni non avevano scalfito la sua bellezza. Solo uno sguardo attento avrebbe notato il modo in cui la cipria scura si raccoglieva nelle sottili rughe accanto agli occhi, truccati con una linea allungata fino allo zigomo. Le palpebre, luccicanti di polvere d’oro, erano pesanti sulle iridi scure e i capelli d’ebano le ricadevano sulle spalle nude una cascata di onde sinuose. La stessa fine polvere d’oro che portava sugli occhi le impreziosiva la pelle scoperta sul seno e sul collo, facendola luccicare come… be’, come una lucciola.

Dagmaris le sorrise. “Ciao, Fiore di Campo. Si può sapere che mi combini?”.

Meli ricambiò mesta. “Quando tempo hai?”.

“Per te? Tutta la notte, splendore. Tutta la notte”.

Le raccontò tutto dall’inizio. Ci mise un bel po’ perché alcuni dettagli ormai cominciavano a sfuggire anche a lei e si ritrovò a interrompersi e a riprendere il filo più volte. Dove aveva visto le prime strigi? E in che mese era spuntato il viandante soggiogato dal Parassita? Passò poi a raccontare dei bambini scomparsi, di Darren, della mutaforma e del cancello. Dagmaris, seduta rilassata sullo schienale, ascoltava con attenzione rigirandosi i braccialetti ai polsi.

“... e questo è quanto” concluse infine Meli. Prese un sorso di camomilla: aveva la gola secca da quanto aveva parlato. 

Seguì un silenzio carico di riflessioni in cui le due donne si limitarono a ascoltare il crepitio delle fiamme. Nel frattempo, ignaro di tutto, Theo dormiva nel suo bozzolo di pellicce con un Polpetta vibrante accanto alla testa.

“E questo ammazzamostri, questo Logan, adesso dov’è?”.

Di tutte le domande che poteva fare, proprio questa? Cercando di mantenere un’espressione neutra, Meli disse che non ne aveva idea, ma che sperava stesse bene. 

“Mmh. Mi sembra una pedina importante in questa scacchiera di orrori che mi hai presentato. Possiamo trovarlo, se credi. Vuoi?”.

Meli strinse la tazza tra le mani. “S-sì? Potresti davvero?”.

Dagmaris rise di gusto lanciandosi una ciocca di capelli dietro le spalle screziate d’oro. “Se posso? Mi offendi, splendore. Io conosco tutti. Un tipo alternativo come il tuo? Lo posso far trovare in un battibaleno. E nessuno farebbe domande; non a me”.

Meli conosceva Dagmaris da quando lei era una bamboccia senza i peli sotto le ascelle e Dag una splendida diciottenne con il profumo più dolce del mondo. Non erano parenti, ma sua nonna — che ai quei tempi la trascinava dappertutto “accussì la impara” — era stata un’assidua frequentatrice di bordelli e la piccola Melissa si era più volte ritrovata ad attendere nell’atrio con “le lucciole”, uomini e donne che facevano il mestiere più vecchio del mondo. Dagmaris l’aveva subito presa in simpatia, acconciandole i capelli crespi e rassicurandola che le urla provenienti dai piani di sopra non erano nulla di cui preoccuparsi. Aveva cominciato a chiamarla Fiore di Campo per proteggere la sua vera identità dai quei frequentatori dalle inclinazioni perverse che avrebbero potuto cercarla al di fuori del bordello — non che sua nonna avrebbe mai permesso a nessun malintenzionato di avvicinarsi a lei — e poi perché, in un giorno in cui Meli era particolarmente piagnucolosa, le aveva spiegato le proprietà medicinali della melissa selvatica, un fiore resistente e bellissimo “che cresce e si adatta dappertutto. Un vero fiore di campo. Come te”.

Per Meli, che all’epoca aveva il viso impolverato e il moccio al naso, quelle erano state le cose più carine che avesse mai sentito dire sul suo conto. Fu subito conquistata, e da quel giorno fu sempre felice di fare tappa a Andaréz per vedere “Dag e le sue amiche lucciole”.

La simpatia si era trasformata in un un sincero affetto tra sorelle quando Meli era cresciuta e si era ritrovata a sostituire la nonna come “spacciatrice ufficiale” di belladonna per i ragazzi e le ragazze del bordello. Da quando aveva rilevato l’Emporio si erano viste sempre meno, ma Meli sapeva che in Dag avrebbe sempre trovato una persona a cui affidare la vita; era la sua protettrice, una madre surrogata, la sorella maggiore che non aveva avuto. Occupava senza dubbio il primo posto della ristrettissima cerchia delle “Persone Che Mi Piacciono”.

Dag le fece qualche altra domanda. Era turbata da quelle rivelazioni, ma non aveva messo in dubbio nemmeno una volta la veridicità del racconto. Meli lo apprezzò: non avrebbe avuto le forze per combattere anche contro gli amici. 

Le chiese di descriverle Logan nel dettaglio: il suo aspetto, dove viveva o soggiornava, i luoghi che frequentava, eventuali amici o conoscenti. Meli si accorse di sapere ben poco della vita privata di Logan. Dagmaris ascoltò attenta mentre giocherellava con le acuminte unghie finte, di metallo dorato, che portava infilate come anelli sull’ultima falange delle dita; Meli sospettò che si potessero usare come armi. Finita la scarna descrizione — nerofumo da elfo oscuro ma niente orecchie a punte, capelli neri, occhi chiari, maniere non proprio da aristocratico ma eloquio discreto — l’amica le assicurò che avrebbe inviato solo i suoi fidatissimi per un lavoro pulito e senza domande. In teoria Logan non era ricercato — o, perlomeno, Meli non aveva ancora visto nessun volantino con la sua faccia incazzata sopra — ma mantenere un profilo basso sarebbe comunque stato preferibile.

Pronta ad andarsene, Dagmaris si alzò. Le curve color nocciola, messe bene in mostra dalla tunica succinta che indossava, luccicarono dorate alla luce delle fiamme.

Meli si alzò a sua volta. “Sicura che posso stare qui? Non… ti creerò problemi? Con la Guardia o che so io?”.

“Luce di miei occhi. Abbiamo avuto delinquenti peggiori di te nascosti in queste cellette d’amore, e il Capitano della Guardia è un cliente affezionato. Rilassati. Sei al sicuro qui”.

Meli annuì. “E… con l’ammazzamostri… Logan… discrezione. Ti prego. Non voglio che gli accada nulla di male”. Le costò dirlo, ma non riuscì proprio a trattenersi. 

Il sorriso di Dagmaris sbocciò lento e sensuale dalle labbra dipinte di rosso; i suoi occhi scuri erano, però, pieni di affetto. “So essere discreta quando voglio. Al tuo ammazzamostri non accadrà nulla, te lo prometto”.

Le fece l’occhiolino e se ne andò chiudendo la porta con delicatezza.

Meli, rimasta sola, recuperò l’ormai fredda tazza di camomilla e la buttò giù tutto d’un sorso. La sola idea di poter rivedere Logan la metteva in agitazione. Non voleva farsi troppe illusioni, però: non era davvero sicura che Dagmaris avesse tutto il potere che millantava. E poi Logan poteva essere irraggiungibile, in galera, oppure… 

Non si arrischiò con altri oppure. Non ne aveva il coraggio.

Esausta, appoggiò la tazza sul tavolino. Rimase per un attimo imbambolata a guardare Theo dormire. Vederlo finalmente al caldo e al sicuro le provocò uno strano senso di realizzazione. 

Facendo attenzione e non svegliarlo si infilò sotto le coperte. Polpetta, infastidito, si alzò, miagolò, stirò la schiena e tornò a raggomitolarsi nel medesimo punto sul cuscino.

Meli studiò per un po’ le pitture murali erotiche che decoravano la celletta, raffiguranti le diverse specialità offerte dai dipendenti de La Lucciola Felice. Non voleva dormire. Temeva di fare incubi, sempre gli stessi, a cui se n’erano aggiunti di nuovi riguardanti un certo ammazzamostri attualmente sparito dalla circolazione.

Si arrese a galleggiare in un fastidioso dormiveglia e fu lieta, il mattino seguente, di sentire Dag che veniva a svegliarla con la colazione.

***

Passarono esattamente trentotto ore prima che Meli cedesse all’evidenza: chiusa dentro quelle quattro mura sarebbe impazzita. Theo dormiva e guariva; Polpetta dormiva e basta; alla botanica non restava che camminare avanti e indietro nel soffocante profumo floreale intrappolata tra i propri pensieri e i gemiti ansanti degli occupanti delle cellette accanto. No, non poteva farcela. Implorò Dagmaris di trovare un modo di farle vedere la luce del sole per almeno un paio d’ore al giorno; avrebbe accettato qualunque soluzione.

Dag le aveva sorriso enigmatica. “Un modo ci sarebbe. Anche se non credo ti piacerà”.

Fu lei stessa a farle i capelli. Le sciolse le trecce e le coprì gli ultimi rimasugli di rosso hennè con una crema puzzolente che le tinse i capelli di un profondo color castagna. Le truccò gli occhi con una mistura di antimonio e nerofumo e le spalmò sul corpo una quantità generosa di crema scintillante. Le porse poi un vestito che definire indecente sarebbe stato riduttivo e le spruzzò addosso un profumo così dolce da farla starnutire. Infine, come tocco finale, le sistemò una maschera nera di cartapesta a coprirle la metà superiore del volto. A volte le lucciole la indossavano; non per nascondere la propria identità ma per il sensuale alone di mistero che evocava. 

La trasformazione fu completa. Quando Meli si guardò allo specchio quasi non si riconobbe. 

I capelli, sciolti in onde scure, le scendevano sulla schiena fino a farle il solletico sui gomiti. Gli occhi marroni erano enormi, le labbra rosse e piene, le spalle nude ricoperte di polvere sfavillante. La tunica gialla le lasciava scoperte le gambe fino a metà coscia e un bustino dello stesso colore le assottigliava la vita in modo innaturale.

Era una vera lucciola, indistinguibile dalle altre decine che lavoravano con e per Dagmaris.

Si lisciò la gonna. Non era solita portare abiti di quel tipo e non era a suo agio con la profondità della scollatura, ma dedusse che le tette strizzate fuori dal corsetto fossero un dettaglio imprescindibile del travestimento. Non osò lamentarsene.

“Un ottimo lavoro” ammise.

“Avevi dubbi, splendore?”.

No, non aveva avuto alcun dubbio. Era comunque bizzarro guardarsi allo specchio e incontrare lo sguardo di una sconosciuta.

Dopo aver lasciato un bigliettino per Theo in caso si fosse svegliato e affisso un cartello con su scritto “occupato” alla porta della cella numero 15, Meli chiuse la stanza a chiave e seguì Dagmaris giù per le scale.

Al piano terra c’era un gran via vai di persone e un vociare di risate e ubriachezza molesta. La Lucciola Felice fungeva anche da osteria e da albergo per un semplice motivo: Dag non era tipa da tralasciare nessuna possibile fonte di guadagno. Meli, dopo tante ore di aria viziata e olezzo di fiori, inspirò con gratitudine l’odore di vino, sudore, fumo e cibo caldo. Le fiammelle di poche candele illuminavano appena le pareti damascate color rosso cupo e alleggerite da decine di specchi; tavolini rotondi di legno scuro erano circondati da divanetti e sedie imbottite. Dalle finestre si vedevano i vicoli bui invasi dalla foschia e dalla porta regolarmente aperta e richiusa entrava una brezza gelida.

Sedute in un tavolino all’angolo, la botanica ringraziò Dagmaris per quel piccolo sprazzo di libertà. La donna la liquidò con un gesto della mano e le assicurò che nessuno sarebbe venuto a importunarla: aveva già avvertito gli altri della “nuova” che si stava ambientando. Quando la lasciò sola per risolvere una bega con un cliente squattrinato, un uomo venne a prendere la sua ordinazione. Lunghi capelli neri e ondulati gli ricadevano sul torace nudo ricoperto di polvere dorata, e i suoi unici vestiti erano un paio di pantaloni scuri e due cinghie di cuoio incrociate a X sul petto muscoloso.

Meli, sforzandosi di non fissare in modo sconveniente, chiese un vinmoro e la zuppa del giorno; e solo mentre l’ampia schiena dorata della lucciola si allontanava Meli si chiese a cosa servissero quei legacci di pelle. Probabilmente per arrampicarsi su quella montagna di uomo, si disse.

Da dietro l'anonimato della maschera nera Meli lasciò scorrere lo sguardo sui diversi avventori del locale. Lucciole di ambo i sessi ammiccavano sensuali; alcune con il viso nascosto da una maschera come quella di Meli, altre libere di strusciarsi sui clienti senza quell’intralcio; tutte però esibivano ampi sprazzi di pelle nuda coperta di polvere d’oro. Due splendide gemelle con occhi a mandorla parlottavano al tavolo dietro al suo; al lato opposto tre Guardie in divisa fumavano erba e sghignazzavano sotto i baffi arcuati — Meli evitò accuratamente di guardare troppo a lungo nella loro direzione — e poi maghi, sirene, semidriadi, kon, umani, elfi. Dappertutto teste cospiratrici si avvicinavano tra loro condividendo sorrisi segreti, mentre mani maliziose si infilavano dentro le giacche e sotto i farsetti.

Un uomo con i capelli d’argento se ne stava appollaiato sulle cosce muscolose di una lucciola con la barba. La faccia non le era nuova. Quando riconobbe lo stemma viola cucito sul fronte della casacca, la bocca di Meli si piegò in una smorfia divertita.

Anvedi un po’ il procuratore distrettuale…

“Sei libera, tesoro?”.

Meli alzò il viso verso la voce. Era un gentiluomo di mezza età con baffi arancioni e un cappello a tesa larga.

“Spiacente, già impegnata. Aspetto qualcuno".

L’uomo si toccò il cappello piumato e tentò la sua fortuna al tavolo accanto, dove trovò non una, ma ben due signorine molto ben disposte nei suoi confronti. Li osservò contrattare e salire ridendo al piano di sopra.

Il cameriere sexy tornò con il suo ordine. Indugiò un po’ in piedi accanto al tavolo, poi si presentò come Davon; alle domande che seguirono Meli mentì con navigata spudoratezza. Chiacchierarono e risero per un po’, condividendo pezzi di vita che in realtà non esistevano; Davon finì persino per sedersi di fronte a lei, sensuale e ammiccante con i suoi occhi di ambra sotto le lunghe ciglia nere. Scaldata dal vino e dalle attenzioni inaspettate, Meli considerò che, se quello era lo standard del servizio offerto da La Lucciola Felice, non si sarebbe sorpresa nello scoprire che Dagmaris fosse in realtà milionaria.

Quando lui le propose di concludere la serata nella sua celletta dell’amore, Meli rifiutò con garbo. Non che non ne fosse tentata: Davon era maestoso e con quelle spalle larghe prometteva una notte assolutamente interessante. Ma… c’erano due ma. Primo, non sapeva se quella possibilità fosse contemplata nel codice di condotta del bordello — le lucciole potevano sollazzarsi tra loro? Lo avrebbe chiesto a Dag appena possibile, era curiosa — e secondo… non ne aveva voglia. Per tutta la serata, mentre Davon aveva flirtato amabilmente studiandola con i suoi occhi d’ambra, Meli non era riuscita a levarsi dalla mente un altro paio di occhi.

Sto diventando paranoica, si accusò stizzita. Bevette un altro sorso di vinmoro e si ingozzò del cibo ormai freddo.

***

Quattro giorni dopo la tosse di Theo si era trasformata in un catarro gradevolmente fluido e giallognolo. Meli continuava a dormire poco e male e a concedersi due ore giornaliere di libertà vigilata. Polpetta, imperturbabile ai disagi dei padroni, faceva la polpetta su ogni superficie disponibile della celletta dell’amore.

Di un certo mezzelfo incazzato ancora nessuna traccia. Dag la aggiornava ogni sera con le informazioni che le arrivavano dai suoi fidatissimi. Nessuno lo aveva visto.

Nel frattempo, pioveva. Meli guardava fuori dalla finestra nella speranza di intravedere almeno un pezzo di cielo stellato sopra l’acqua che batteva contro il vetro, ma capì presto che era una speranza futile. Fece per alzarsi tornare a chiudersi nella sua celletta quando qualcosa le sfiorò la spalla nuda.

“Ancora sola?”.

Un kon, alto e sottile, la fissava con pupille verticali incastonate negli occhi gialli. Un mantello nero con cappuccio nascondeva le squame nere ai lati della testa e del collo. Sul pavimento la coda da lucertola vibrava impaziente.

Meli si ritrasse. Era la terza sera di fila che quell’individuo la importunava. Davon l’aveva avvertita subito che quello era uno che allungava le mani. 

“Il mio cliente mi aspetta di sopra” troncò lei.

“Pagherò il doppio della cifra che ha offerto”.

“Mi sta aspettando”. 

Il kon restò piantato dov’era, tra il tavolo e il muro, bloccandole la via di fuga. “Comincio a pensare che tu sia una lavativa” ghignò, afferrandole una ciocca di capelli tra le dita squamose. “Devo avvisare la tua padrona…?”.

“Io…”.

“Te l’ha detto: è già impegnata”. La voce di Davon risuonò calma ma perfettamente udibile nel vivace ciarlare del locale. Il kon lasciò ricadere la mano e si voltò stizzito.

“Sono un cliente pagante. Ho avuto tutte le donne di questo posto. Voglio anche questa”.

“Sì, e quasi tutte si sono lamentate delle tue prestazioni. Lascia andare questa lucciola dal suo cliente. La sta aspettando”.

Fece un minaccioso passo avanti. La stazza di Davon fu forse un fattore più persuasivo delle parole, perché il kon indietreggiò e Meli riuscì a sgusciare fuori dal tavolo. La donna lanciò un ringraziamento silenzioso al collega e si affrettò su per le scale.

Quando arrivò al secondo piano capì subito di non essere sola. Il kon incappucciato l’aveva seguita: ne udiva i passi lungo il corridoio buio dietro di sé. Finse di non accorgersene e con discrezione estrasse il coltello che quando era vestita da lucciola teneva nascosto nell’incavo tra i seni. 

Arrivò alla sua camera e la superò. Non avrebbe mai rivelato la stanza in cui si nascondeva Theo. Scelse una camera a caso che non avesse il cartello “occupato” e ci si posizionò davanti fingendo di armeggiare con la chiave. Fece per inserirla nella serratura quando il kon l’afferrò per l’avambraccio e la tirò a sé.

Meli affondò il coltello.

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Capitolo 5
*** Atropa Belladonna ***


Spazio dell’autrice

Siete pronti a morire?




 

Atropa Belladonna

Si lanciò di peso contro l’aggressore, la lama mirata al petto. Il coltello affondò negli strati di stoffa fino ad arrivare alla carne, ma non abbastanza in profondità. Il kon gemette di dolore mentre Meli estraeva l’arma per colpire ancora.

Una presa d’acciaio le bloccò entrambi i polsi e fu sbattuta contro la porta. Intrappolata con il coltello a mezz’aria e il corpo schiacciato contro quello dell’aggressore, Meli ringhiò frustrata e sollevò lo sguardo pronta a combattere per la vita.

Il coltello le scivolò e cadde a terra con un tintinnio che risuonò forte nel corridoio male illuminato.

Non era il kon. Sotto il cappuccio nero, senza il solito trucco e con il viso scavato dalla preoccupazione, c’era Logan.

***

Achillea millefoglie: erbacea perenne dalle caratteristiche foglie frastagliate, con piccoli fiori bianchi disposti a ombrello, chiamata anche sanguisorba o erba del soldato, che si distingue come ottimo cicatrizzante utile a ridurre il sanguinamento in caso di piccole ferite. E prontamente applicata sul petto lacerato di Logan, ammazzamostri redivivo, che aveva avuto la pessima idea di approcciare Meli in un corridoio buio senza previa presentazione.

“Si può sapere che cazzo ti è venuto in mente ad apparire così?” lo accusò bisbigliando mentre faceva pressione sulla ferita aperta sotto la clavicola. “Potevo ammazzarti!”.

“Ti ho sottovalutato” gemette lui con una smorfia di dolore. 

Quando con occhi spalancati dal terrore si era accorta dell’equivoco, la donna aveva trascinato il mezzelfo dentro la celletta numero 15, aveva chiuso la porta a chiave e gli aveva strappato di dosso il mantello e la camicia insanguinata. Lo aveva poi obbligato sulla sedia, si era tolta la maschera e aveva frugato nello zaino alla ricerca di un emostatico e di una garza pulita. Theo, strafatto da una doppia dose di biancospino, dormiva indisturbato.

L’unguento di achillea fece il suo dovere e l’emorragia si fermò. Con mani tremanti e sguardo fisso sul torace nudo di Logan, Meli tirò su col naso. Non aveva nessuna intenzione di piangere come una ragazzina, ma un flusso di emozioni contrastanti le arrivava addosso in onde sempre più potenti e difficili da ignorare.

“Dag non mi ha detto che ti avevano trovato” esordì con voce tremula.

“Dag è la tizia con gli artigli d’oro?” chiese lui. Gemette di nuovo quando Meli tolse la garza sporca di sangue e cominciò a ripulire la pelle attorno alla ferita prima di applicarne una nuova.

“Sì. Dagmaris. È la proprietaria, e una vecchia amica. Tieni premuto qui”. 

Logan tenne ferma la nuova garza. “Pensavo ti avesse avvisato”.

Non fidandosi della propria voce Meli scosse la testa, si raddrizzò e tornò a frugare nello zaino alla ricerca di ago e filo. Per qualche istante ci fu solo il rumore del fuoco e delle fusa di Polpetta. Logan si guardò attorno. 

“Interessante scelta di decorazione d’interni”.

Meli apprezzò il tentativo di sdrammatizzare. Si schiarì la voce. “È lo standard del settore. Non frequenti molti bordelli?”.

“Non molti, in effetti”.

“Non sai cosa ti perdi” mormorò. Ripensò al kon che l’aveva messa all’angolo.

Logan lo intuì subito. “Ho visto il konjun; non potevo intervenire davanti a tutta quella gente”. Il tono era sferzante e sofferente.

“E hai pensato bene di farmi un agguato?”.

“Pensavo notassi che non ho coda né squame” replicò infastidito. 

“Era buio”.

“... e non credevo fossi armata: dove diavolo lo tenevi quel coltello?”.

“Una ragazza ha i suoi trucchi”.

Recuperati gli attrezzi del mestiere tornò a chinarsi su di lui e cominciò a mettere i punti per riunire i lembi della ferita. Il petto di Logan, glabro e guizzante di muscoli, era segnato di cicatrici. Meli alcune le conosceva già — riconobbe gli artigli del nekorai — ma altre le erano estranee e le ricordarono quanto poco sapesse in realtà di quel misterioso ammazzamostri che in pochi mesi le aveva ribaltato l'esistenza.

Senza pensare sfiorò una cicatrice in rilievo accanto alla ferita che stava ricucendo. Logan fremette sotto il suo tocco, ma non disse nulla. Meli inspirò e fece per parlare, ma si accorse che lui non la stava guardando in faccia. Si ricordò allora di essere ancora vestita da lucciola.

Un gentiluomo avrebbe perlomeno evitato di fissarle le tette; ma Logan non era un gentiluomo e stava studiando con estremo interesse le curve screziate d’oro che erompevano dalla sommità del corpetto.

La donna fece una smorfia. “Smettila di guardarle come se non avessi mai visto un paio di zinne in vita tua” lo ammonì.

“Me le stai sbattendo in faccia” replicò lui galante.

Gli diede una sberla in testa. “Finiscila”.

Obbediente, Logan sollevò lo sguardo e lo inchiodò sul suo viso. Gli occhi grigioverdi erano onesti, trasparenti, e Meli ebbe l’impressione che apprezzassero quello che vedevano lì almeno quanto le rotondità strette nel corsetto.

Rimasero così per qualche attimo di troppo, indugiando l’uno sul viso dell’altra, comunicando senza parole il conforto di essere di nuovo insieme. Quel silenzioso scambio di sguardi provocò una strana sensazione allo stomaco di Meli.

Le parole uscirono prima che potesse fermarle. “Non credevo saresti venuto” ammise a bassa voce. “Non pensavo volessi… avere a che fare con me, dopo quello che è successo”. Le lacrime tornarono a pizzicarle gli occhi. Le scacciò con il palmo della mano. 

“Dopo la cazzata che hai fatto, intendi?”.

Nonostante gli occhi lucidi gli scoccò un’occhiataccia. Non aveva torto, purtroppo. 

“Sì”.

“Come diavolo ti è venuto in mente di portarti via il moccioso?”.

“Non lo sto trattenendo contro la sua volontà. Mi ha pregato di portarlo via” tagliò corto lei, abbassando la voce a sua volta. “Non ne parliamo adesso, potrebbe svegliarsi”.

Logan la fissò minaccioso; Meli capì che quella discussione era solo rinviata e che anche stavolta si sarebbe presa una cospicua dose di insulti.

Era pronta a assumersi le conseguenze delle sue colpe da sola. Non avrebbe obbligato nessuno a seguirla in quel disastro. Logan era vivo, stava bene — a parte un insignificante taglio sul petto che sarebbe guarito in qualche giorno — e questo bastava a metterle il cuore in pace. 

“Posso farlo da sola. Non sei obbligato a…”

“Puoi fare cosa, esattamente?”.

Bella domanda.

“È ancora in fase di definizione” sibilò lei, cercando di mantenere l’ago più stabile possibile nonostante il mescolio di emozioni che le ribolliva dentro.

Logan le bloccò bruscamente la mano. Perplessa, Meli lo guardò in viso. Gli stava facendo male?

“Sono arrivato a Pecul qualche giorno dopo la tua partenza” cominciò lui. “La porta del negozio era stata scardinata e dentro era tutto sottosopra. Ho pensato…”. La voce gli si affievolì, inalò e riprese: “I vicini mi hanno assicurato che la Guardia non ti aveva trovato; eri già sparita quando sono arrivati. Ti ho cercato, ma non ho le capacità dei ranger di seguire le tracce. Non avevo idea dei tuoi piani o dei posti in cui sei solita nasconderti, quindi sono rimasto senza una pista” spiegò monocorde. “Poi, due giorni fa, uno degli uomini della tua amica mi ha cercato. Parlava di una botanica. Ho sperato che fossi tu e… eccomi qui”.

Ero preoccupato per te. Questo dicevano i suoi occhi trasparenti. Nonostante il tono volutamente freddo, un senso di disperazione era trapelato dalle sue parole. L’aveva cercata. Era stato in ansia per lei quanto lei lo era stata per lui. Meli non seppe cosa fare di questa nuova informazione e si limitò a fissarlo con un’espressione da pesce morto, occhi lucidi e tutto. Pensò al suo negozio distrutto, a quanto avesse rischiato, a quanto aveva perso… e a quanto aveva ritrovato.

Logan si schiarì la voce e guardò altrove. Meli si riscosse e tornò alla sua opera di alta sartoria.

“Ahi”.

“Scusa”.

Finirono di sistemare la ferita con una stretta benda attorno al petto. Il silenzio che li avvolgeva era carico di qualcosa, ma non era spiacevole.

Polpetta emise un miagolio sommesso.

Logan alzò gli occhi al cielo. “Pure il gatto? Davvero?”.

“Lascialo in pace. Finora si è rivelato più utile del previsto”.

Mentre Logan si rivestiva — Meli notò che non aveva i soliti abiti né le armi — gli raccontò dei cacciatori di taglie e dei rumori misteriosi fuori dalla cabina di vedetta. Non sembrò affatto contento. 

Lui le fece un rapido resoconto di cosa gli era successo dopo l’incidente delle cambiali false alla banca di Berg: era scappato dalla Guardia, ma era stato beccato e arrestato fuori dalla città dopo essersi separato da Reika. 

Meli rabbrividì. Chi veniva catturato e gettato nelle prigioni zoldesi non aveva mai belle storie da raccontare. Gli chiese come aveva fatto a scappare; lui le rispose che aveva le “conoscenze giuste”. 

La sola idea che un tipo asociale come Logan potesse avere le "conoscenze giuste” era ridicola.

Gli raccontò quindi dei balsìk. Logan ascoltò con interesse e le confermò che le creature del piccolo popolo erano in grado di sentire l’odore degli incantesimi, e che avevano probabilmente annusato l’incanto di sangue su Theo. Ma come sapevano del cancello? 

“Le voci corrono anche interspecie. E le creature del piccolo popolo vanno pazze per i pettegolezzi”.

Meli ripensò all’imp che aveva infestato l’Abbazia. Anche lui amava i pettegolezzi. Chissà se aveva trovato la sua Impessa.

Poi le venne un dubbio atroce. 

“Aspetta. Dimmi qualcosa che solo il vero Logan potrebbe sapere”.

L’ammazzamostri sbuffò. “Ora? Dopo tutto quello che ci siamo già detti? Un po’ tardi per assicurarsi che sia davvero io e non una ragazzina mutaforma sciroccata”.

“Sì, ora. La prossima volta sarò brava e te lo chiederò prima”.

Logan la fissò con un sopracciglio inarcato per capire se fosse seria. Quando comprese che sì, lo era, prese un respiro e rifletté qualche istante. Poi si leccò le labbra e disse: “Non sei stata invitata a ballare alla Festa della Transumanza”.

Meli, per nulla impressionata, schioccò la lingua. “D’accordo, sei tu. E adesso sono contenta di averti pugnalato”.

Un mugugno li avvertì che il tempo era scaduto. Theo si stava svegliando. 

Quando vide l’ammazzamostri, Theo spalancò gli occhi. Dopo un timido saluto — ricambiato da un cenno di capo — Theo si girò verso Meli.

“Questo significa che stiamo partendo per la missione?”.

Meli ebbe un brutto presentimento. “Quale missione?”.

Come se stesse enunciando l’ovvio, Theo disse: “Arrestare la strega rossa. Scacciare i mostri. Salvare il mondo”.

Meli si sentì morire di fronte a tanto candore. Lanciò all’ammazzamostri un’occhiata che era un avvertimento — guai a te se dici qualcosa di stupido e rassicurò Theo che Logan era lì per aiutarli e che insieme avrebbero valutato con attenzione come procedere. Non una menzogna, ma Meli si sentì comunque una persona deplorevole. Logan era sì lì per aiutarli — forse — ma non di certo per salvare il mondo.

Theo annuì. I suoi occhi erano accesi di entusiasmo e aveva in viso un bel colorito sano.

“C’è qualcosa da mangiare?” chiese.

“C’è qualche avanzo della roba che Dag ci ha portato stamattina. Ma qualcosa mi dice che passerà di nuovo” aggiunse scoccando a Logan un’occhiata in tralice.

Theo si mise a piluccare gli avanzi seduto al tavolino. Polpetta, speranzoso, fissava ogni boccone di spezzatino dalla sedia di fronte.

Come evocata dalla sola menzione del suo nome, Dagmaris bussò alla porta con la cadenza che avevano accordato e entrò in un effluvio di cannella e agrumi. Squadrò la piccola comitiva e si presentò a Logan, che passò subito a interrogare con cipiglio severo e mani sui fianchi. Voleva sapere tutto di lui — soprattutto, intuì Meli dopo qualche domanda fin troppo invadente, se era davvero degno della fiducia della sua Fiore di Campo. 

Le risposte borbottate di Logan erano caute ma all’apparenza sincere. Fu così che Meli scoprì che era cresciuto a Porto Venia, figlio di una mezzelfa oscura che lavorava come serva per un ricco mercante locale — il che lo rendeva elfo solo per un quarto — che aveva lasciato la città all’età di sette anni per andare a vivere con la colonia di elfi oscuri di Jonl; che da ragazzo aveva frequentato l’Istituto di Morovi, al di là della Catena, finché non era stata buttato fuori per incendio colposo. Lavorava come ammazzamostri da allora, fuori e dentro Zolden.

“Parenti, amici, conoscenti stretti?” continuò la donna senza mai distogliere lo sguardo dalla preda.

“I parenti di mia madre sono a Jonl. I miei amici amano la discrezione”.

“Sei stato catturato, però. Ti hanno interrogato?”.

“Non ne hanno avuto occasione” rilanciò Logan con tono definitivo.

Dagmaris arricciò le labbra in un sensuale bocciolo rosso. Meli conosceva quell’espressione: era convinta. Logan aveva passato la prima ispezione.

Non era conclusa, però. Con un rapido movimento di polso Dag sganciò uno dei suoi bracciali d’oro. “Conosci l’atropa belladonna, ammazzamostri?”.

Logan si mise subito sulla difensiva. “So che ci si ammazza la gente”.

Dagmaris avanzò minacciosa, lo sguardo languido e denso come miele. “Vero. Ma non è il suo unico utilizzo. In piccole dosi la belladonna può essere usata anche come rilassante e… afrodisiaco”.

“Dag, non è necessario…” cercò di intromettersi Meli. Sperò che Theo non si spaventasse troppo. Il bambino aveva finito di mangiare e stava seguendo la conversazione con enormi occhi timorosi.

“Ti sto avvisando solo perché sei amico di Fiore di Campo. Altrimenti non sono solita usare tale gentilezza”.

Dal bracciale uscì un profumo di una dolcezza profonda, sgradevole, di resina e ambra, tabacco e vaniglia nera. Quando l’odore le arrivò alla testa, Meli barcollò; il battito cardiaco rallentò di colpo e i contorni degli oggetti si fecero opachi davanti ai suoi occhi.

Anche Logan non sembrava passarsela bene. Respirava a bocca aperta, le pupille dilatate. Fece un passo avanti e poi uno indietro, instabile sulle gambe.

Dag gli si avvicinò. Era più alta di lui e, grazie alle curve esagerate e alla massa di capelli neri, sembrava anche più imponente. Gli accarezzò la linea della mandibola con un’unghia dorata, poi gli prese il mento tra le dita artigliate. “Ascoltami bene. Fiore di Campo è sotto la mia protezione. So quello che è successo e le prospettive da qui in poi sono pessime. Quindi niente giochetti, niente voltagabbana”.

Dagmaris strinse le unghie sulla pelle di Logan, il quale ormai ansimava con gli occhi sbarrati. 

Gli si avvicinò e abbassò la voce. “Altrimenti verrò a cercarti. E ti troverò. Non saprai nemmeno cosa ti ha colpito” gli sussurrò sulle labbra.

Lo lasciò andare, fece scattare il bracciale e, dopo un bacio soffiato in direzione di Meli, se ne andò chiudendo la porta. Il profumo nauseante di vaniglia bruciata restò ad aleggiare nell’aria.

Meli si affrettò verso Logan. Aveva il collo paonazzo, la bocca secca e, probabilmente, una dolorosa erezione. 

Gli toccò la spalla. Lui la guardò, ma ci mise un po’ a metterla a fuoco. 

“Vuoi sederti? Gli effetti della belladonna ci metteranno qualche minuto a svanire”.

“Cosa… come…”.

“Dagmaris non è una che va per il sottile” si scusò, accompagnandolo verso la sedia. “L’afrodisiaco che ha usato è praticamente infallibile. Ha imparato l’arte dalle donne del sud; non avevi nessuna possibilità di resisterle, non da così vicino. Siediti qui. Theo, tu come stai?”.

Theo disse che stava bene e continuò a osservare la scena con una certa apprensione. Polpetta, in piedi sul tavolo, stava leccando il piatto.

Offrì un bicchiere d’acqua a Logan che bevve avido e poi scosse la testa come a voler rimettere il cervello al suo posto. I suoi occhi cominciavano a spannarsi e il respiro a tornare regolare.

“Fiore di Campo?” s’informò dopo un secondo sorso d’acqua. La voce era rauca.

“Mi chiama così da quando sono bambina”.

“Perché?”.

“Perché la melissa è un fiore di campo”.

“Il nome Melissa non ci azzecca un cazzo con la tua personalità”.

“Stai forse insinuando che non sono dolce come il miele?” replicò lei cercando di alleggerire la tensione. 

L’ammazzamostri si prese tutta la calma del mondo per squadrarla dalla testa ai piedi. Ancora scosciata, truccata, e ricoperta di polvere d’oro, Meli non abbassò lo sguardo.

“No” rispose infine lui. “Ma è già stato appurato che nascondi un pungiglione da qualche parte”. Nel dirlo si sfiorò la ferita sotto la clavicola e, strategicamente, sopra il cuore.

Decisa a nascondere il disagio che le si stava arrampicando addosso, Meli abbassò lo sguardo sul seno e le cosce nude. “Sotto questi vestiti posso nascondere ben poco”.

“Mi sono accorto anche di questo”.

La donna alzò gli occhi al cielo. Cominciava a fare caldo in quella stanza. “D’accordo, mi pare che ormai tu stia benone. Theo, hai mangiato abbastanza? Vuoi dell’altro?”.

Il bambino scosse la testa. Disse che era stanco e che il profumo di vaniglia gli aveva fatto venire mal di testa. Solo allora Meli notò che anche lui aveva gli occhi appannati. Una terribile consapevolezza, a lungo rifiutata, si fece strada nel suo cuore. 

Lo aiutò a rimettersi a letto e gli rimboccò le coperte. Con solo il viso roseo che spuntava da sotto le coltri, Theo fissò Logan. 

“Come mai ci hai messo così tanto a trovarci?” domandò.

Logan, sorpreso, non rispose subito. Meli vide che si stava impegnando a trovare una spiegazione adatta alle orecchie di un bambino e che non suonasse come una bestemmia seguita da “la tua stronza qui è sparita dalla circolazione senza lasciare una cazzo di traccia”.

“Mel è stata brava a tenervi nascosti e al sicuro. Un po’ troppo brava”.

Theo fece un mm-mh di approvazione. Poi, speranzoso, chiese: “Verrà anche Reika?”.

Quando vide che era di nuovo senza parole, Meli gli corse in aiuto. “Non lo sappiamo. Ma sono sicura che anche lei sta bene. È preparata e molto forte”.

“È vero. Ha un’ascia e anche una balestra” ragionò Theo, tranquillizzato. “Noi cos’abbiamo?”.

Al momento non avevano granché. Logan era stato alleggerito di ogni effetto personale quando era stato arrestato dalla Guardia. Non aveva né spada né equipaggiamento di sorta. I vestiti da viaggio li aveva barattati lungo la strada con la promessa di far fuori il fantasma che viveva nella soffitta di un contadino, solo per scoprire che in realtà l’unica cosa che ululava nella suddetta soffitta era il garzone si dava da fare con la figlia del buonuomo. I vestiti, dopo il conseguente litigio furibondo, aveva comunque potuto tenerseli.

“Quando partiamo?” incalzò il bambino. 

“Prima devi guarire. Poi decideremo insieme”.

“Sto bene adesso” si impuntò; ma cedette a uno sbadiglio e le palpebre cominciavano a cedere sugli occhi castani.

“Torna a dormire. È tardissimo”. Mezzanotte doveva essere passata da un pezzo, ormai. Nottata impegnativa, quella.

Quando il respiro lento confermò che Theo si era addormentato, Meli e Logan, seduti ai due lati del minuscolo tavolino, discussero a bassa voce sul da farsi. 

L’ammazzamostri rimaneva ferreo sulla sua idea: dovevano riportare indietro il bambino e sparire dalla circolazione fino al decadere delle accuse a loro carico. Prima o poi un altro cancello sarebbe stato aperto, e la rogna sarebbe passata a qualcun altro. Con una stretta al cuore, Meli ripensò alla belladonna e agli occhi appannati di Theo. No, non poteva riportarlo a casa, disse. E l’idea di aspettare nascosti nel fango che altri bambini venissero rapiti e usati non la faceva sentire bene per niente.

Logan lanciò un’occhiata al bambino. Era chiaro che serbava ancora molte altre domande — e insulti — ma non era il momento giusto per parlare di certe cose.

Tentarono di organizzare un piano d’azione, ma stabilirono presto di essere troppo sfiniti per poter pianificare alcunché. Le parole lasciarono spazio a un accogliente silenzio. Meli si alzò per buttare un altro pezzo di legno nel camino. Rimase lì accovacciata con gli occhi fissi sulle fiamme.

“Da quanto non dormi?”.

Meli ridacchiò nervosa: nemmeno il trucco pesante era riuscito a nascondere le occhiaie viole, le guance incavate e lo sguardo spiritato dovuto ai troppi giorni di ansia folle. 

“Da un po’” ammise. “Non è stato facile darsi alla macchia. Non con…” fece cenno verso il bambino addormentato sul letto.

Logan, sempre seduto al tavolo, indugiò con una domanda sulle labbra. Ma non la fece. Invece, si alzò. 

“Prendi il letto. Io dormo per terra” ordinò lui.

“Ma…”.

Litigarono bisbigliando, ma Logan era inamovibile e Meli terribilmente stanca. L’ammazzamostri le diede le spalle con un grugnito quando lei cominciò a disfare i lacci del corsetto. Solo quando lei fu al sicuro sotto le coperte accanto a Theo Logan stese il mantello sul pavimento in una sorta di giaciglio al lato del letto. Meli gli disse di prendere anche il suo, di mantello, per usarlo come cuscino.

Dopo una serie di borbottii lamentosi — il pavimento troppo duro, il profumo floreale troppo intenso, la deprecabile situazione generale — il mezzelfo si addormentò di botto. Appena ne udì il respiro regolare, Meli non riuscì a trattenere un sorriso. Si rannicchiò di lato, si rilassò e, per la prima volta da settimane, si abbandonò a un sonno senza incubi.





 

Spazio dell’autrice 2

Doppio capitolo questa settimana per due motivi: 1, sto scrivendo alla velocità di un treno in corsa verso il precipizio; 2, non VEDO L’ORA di sapere cosa ne pensate di QUESTO, forse il capitolo più atteso xD Ditemi ogni cosa, voglio sapere tutto quello che avete provato leggendo dell’attesa riunione tra i nostri due scapestrati.

Dedico questo capitolo romantico a Krisma, la mia Alpha Reader, che ha la pazienza di leggersi tutte le versioni dei capitoli prima della pubblicazione (versione A, B, e volte pure C e D): senza di lei non riuscirei a scrivere un solo rigo <3 Ti voglio bene.

A presto con il seguito!
Emma

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Capitolo 6
*** Esoterico e Dintorni ***


Spazio dell’autrice

Avviso (innocuo) ai lettori: questo capitolo è lungo quasi il doppio di un mio capitolo standard… ma non me la sono sentita di spezzarlo in due. Brace yourself e abbiate pazienza — e se avete consigli su cosa tagliare, fatemelo sapere!

Prima di iniziarlo vi consiglio la lettura del capitolo revisionato della Parte I intitolato “Botanica, Spacciatrice di Erbe” se vi interessa la backstory di un personaggio che farà qui una breve apparizione. Non è fondamentale, comunque. Però è divertente ritrovare i Logan e Meli litigherelli dell’inizio :D



 

CAPITOLO 6 - Esoterico e Dintorni

Un ululato agghiacciante svegliò Meli di soprassalto.

“Che cazzo è stato?” domandò Logan. Meli non poteva vederlo nel buio, ma era certa che l’ammazzamostri si fosse alzato a sedere con la spada sguainata — se ne avesse avuta una.

La botanica ascoltò con attenzione per qualche secondo, poi si rilassò. “Sono i tizi della 16. Lo fanno così”.

Un altro grido da fantasma squarciò il silenzio; seguito, stavolta, da un ansimare spezzato e un regolare thud thud thud.

“Speriamo che finiscano in fretta. Ieri sono andati avanti per ore” concluse la donna tornando a raggomitolarsi sotto le scoperte. Theo, ormai abituato a quella routine, non si era nemmeno svegliato.

Gli ansiti angosciati continuarono per qualche minuto. 

“Questo non è scopare, è un esorcismo” borbottò Logan inorridito.

Con un ultimo urlo strozzato i rumori della camera a fianco si acquietarono. Meli, ormai sveglia, rimase accoccolata nel buio. 

Il camino era spento, la stanza gelida fuori dalle coltri di lana. Tese le orecchie nel rinnovato silenzio. I rumori di passi e di risolini complici in corridoio le dissero era mattina presto: i clienti della notte uscivano scompigliati, quelli del turno del mattino entravano smaniosi.

“Qual è il piano per questa nuova splendida giornata in fuga dalle autorità, ammazzamostri?”.

Logan le rispose con un mugugno insoddisfatto. Poi, acido, aggiunse: “Mi pare che tu sia un po’ troppo di buon umore per la situazione del cazzo in cui ci troviamo”.

Aveva ragione. Ma per la prima volta in settimane Meli aveva dormito benissimo; si sentiva positiva, carica e speranzosa. 

Dopo essersi lamentato del gatto che durante la notte gli aveva camminato sul petto e morsicato i gomiti, Logan le ricordò di essere disarmato e senza un soldo, e che prima di fare qualunque cosa avrebbe dovuto rifornirsi dall’unica armeria disposta a fargli credito.

“Qui in città?”.

“Sì”.

“Dove?”.

“Un giro di mercato nero”.

“Una persona fidata?”

“Sì”.

“Quanto fidata?”.

“Le affiderei la vita”.

Quel le, che sottintendeva una personalità al femminile, le fece rizzare le orecchie e smuovere qualcosa nel petto. Se pochi istanti prima era stata certissima di dirgli di arrangiarsi a comprare la sua ferraglia, adesso provava il forte desiderio di vederla con i suoi occhi, questa persona di cui Logan sembrava fidarsi ciecamente.

“Vengo anch’io”.

Logan sbuffò. “Come, addobbata da lucciola?”.

“Non fare lo spiritoso. E servirà un travestimento anche per te”.

“Non c’è la mia faccia sui volantini”.

“Non ufficialmente, ma ti hanno già arrestato una volta. Non ti lascio andare da solo”.

Quella dichiarazione bisbigliata rimase ad aleggiare nel silenzio buio della celletta. Meli si pentì del tono perentorio — e quasi… possessivo? — ma ormai era fatta.

“D’accordo” cedette infine Logan. “Troveremo un modo”.

***

Meli sollevò il piccolo specchio a mano e si studiò l’acconciatura. Dag aveva fatto di nuovo un ottimo lavoro. 

I capelli erano intrecciati sulla nuca in un elaborato chignon, mentre ciocche arricciate col ferro le incorniciavano la fronte e i lati del collo. Il trucco era leggero, alla moda, con un finto neo sul mento e una sfumatura di rosa su entrambe le guance. 

Si lisciò l’abito color prugna. Era troppo stretto per lei: i lacci del corsetto erano allentati sul davanti per permetterle di respirare. La gonna ampia la faceva sentire esageratamente ingombrante e le maniche larghe di pizzo bianco le davano il prurito. 

Ma non diede voce alle sue lamentele: quello era l’abito che Dag le aveva fornito e Meli lo aveva accettato senza fare domande — preferiva non sapere da dove veniva. Si sistemò sulla testa un cappellino di feltro con tesa ripiegata e ornato di piume; una collana di perle e un ventaglio rosa completavano l’insieme.

Posò lo specchio e si voltò verso Logan.

L’ammazzamostri, già senza trucco nero, e si era tirato indietro i capelli mettendo in mostra la mandibola sbarbata. Indossava una giacca scura con un fazzoletto di seta annodato sotto il mento — che nascondeva la cicatrice del nekorai — e un paio di pantaloni di velluto a coste infilati dentro gli stivali di pelle.

Stava… bene. Meli impedì ai propri pensieri di indugiare ulteriormente sulla mandibola nuda di Logan.

Lui si accorse che lo stava guardando. Finì di sistemarsi i polsini di pizzo e la studiò con altrettanta attenzione, ma non fece commenti.

Theo si lamentò che ormai era guarito e che voleva uscire anche lui. Fu stroncato subito dallo sguardo inflessibile di tutti gli adulti e i gatti presenti. Sapevano che prima o poi avrebbero dovuto farlo uscire di lì, ma era un problema che si sarebbero posti dopo aver risolto gli altri dodicimila che li tenevano per la gola.

“Starai qui con Dagmaris oggi. Noi torneremo tra un paio d’ore al massimo” lo rassicurò Meli.

Accettando la sconfitta con un broncio dignitoso, Theo tornò ad aggredire la colazione.

Un bussare tamburellante li avvertì che Dagmaris era tornata.

“Oh, siete pronti”. Dopo aver accuratamente richiuso la porta Dagmaris consegnò loro i pezzi mancanti del travestimento: un paio di mantelli e un cappello per Logan. Poi mise fianco a fianco i due compagni e girò loro attorno, studiando e sistemando pizzi, bottoni, capelli e cravatte.

Infine, soddisfatta, si fermò ad ammirarli con un pugno sotto il mento. “Siete davvero carini”.

Meli alzò gli occhi al cielo. “Non importa se siamo carini. Pensi che ci riconosceranno?”.

“Se non attirerete l’attenzione su di voi, probabilmente no. Tieni giù il mento — così, ecco — e usa il ventaglio per nascondere il viso. Devi sembrare una timida e morigerata signorina altoborghese”.

Logan sbuffò una risata e Meli gli rifilò una gomitata nelle costole.

“Ecco, questo è esattamente quello che non devi fare” commentò Dagmaris costernata — ma sotto sotto divertita — dai modi rozzi dell’amica. Le sistemò un’ultima volta il cappello più in basso sulla fronte e, dopo averle rassettato il fazzoletto di pizzo che nascondeva la scollatura, diede la sua benedizione: potevano affrontare la città di Andaréz alla luce del giorno.

Alla luce del giorno per modo di dire: il cielo era coperto di nuvole cariche di pioggia e una nebbiolina infida risaliva dagli angoli delle strade. Ma per Meli, chiusa nel fetore di fumo e oli floreali da quasi una settimana, poter sentire l’aria ghiacciata di dicembre sulla pelle fu una liberazione.

Erano ancora davanti alla porta fallica de La Lucciola Felice quando si accorse che Logan le stava offrendo il gomito. “Un vero gentiluomo” commentò divertita. Si appese al braccio con una mano guantata.

Logan roteò gli occhi e non la degnò di una risposta.

Camminando in silenzio, Meli lo scrutò da dietro il ventaglio. Con il cappello piumato calato sulla fronte e il fazzoletto al collo, Logan pareva quasi un uomo rispettabile. Quasi, perché negli occhi e nelle movenze restava per Meli il circospetto predatore che aveva fatto a pezzi innumerevoli bestie nei sotterranei di Darren e che era volato giù avvinghiato a un Parassita dal belvedere di un’abbazia incastonata nella montagna.

Però si mimetizzava tra la gente “normale” meglio di quanto pensasse; questo doveva concederglielo.

Dal decimo quartiere bastava attraversare il quarto per arrivare al cuore della città, dove la Piazza dei Signori si estendeva in un piastrellato di marmo bianco tra la cattedrale di Santa Bertilla e il palazzo del Podestà, un edificio pacchiano con logge classicheggianti in pietra bianca e statue di santi ad ogni angolo. Tutta la piazza era attorniata in realtà da un un tripudio di palazzi in discutibile stile neozoldino e portici colonnati con volta a botte. 

Da Piazza dei Signori ci si collegava a Via della Miracolata, la via principale di Andarèz che, dritta come un fuso, attraversava tutta la città. La strada lastricata era gremita di persone, un colorato e rumoroso avvicendarsi di signorotti locali occupati a discutere delle rendite dei territori oltremare, giovani servette con le borse della spesa, vecchie nobildonne loquaci e gli occhi svelti; e ancora mercanti, mendicanti, borseggiatori, venditori di caldarroste e vino speziato — il cui caldo profumo arrivava a ondate alle narici di Meli. Un prete in piedi su uno sgabello leggeva a voce alta dei passi dell’Apocalisse; una vecchia sirena con un occhio solo, seduta su un mucchio di cenci al bordo della strada, interpretava le linee della vita per due navok o per i ricordi d’infanzia prima dei tre anni. Un volantino caduto a terra annunciava a tutti l’attesissimo evento della sagra dello gnocco presso il settimo quartiere.

Meli e Logan si infilarono nel flusso di persone.

“Perché passiamo per il centro?” stava dicendo Meli con una certa apprensione, il viso celato dietro il ventaglio.

“Più gente abbiamo attorno, meno sarà facile notare proprio noi”.

“Mi sembra un’idea del cazzo, se permetti”.

“Attenta a come parli, signorina elegante e timorata di Dio”.

Meli sbuffò.

“E meno sospiri e più sfarfallamenti di ciglia, prego”.

Combattendo l’istinto naturale di alzare gli occhi al cielo, Meli fece presente il suo scontento affondando le unghie nel braccio di Logan; inutilmente, considerati i morbidi guanti di daino di lei e gli strati di vestiti eleganti che lui indossava.

“Credi di essere più bravo di me anche in questo?” gli sussurrò con un sorriso falsissimo.

“Non lo credo. Lo so”.

Si spostarono a lato della strada per far passare una carrozza con cavalli ornati di piume e finimenti dorati. Spiando le signorine eleganti sedute all’interno, seminascoste dalle tendine di pizzo, Meli dovette ammettere a sé stessa che lì, in mezzo ai colonnati di pietra e al vociare delle vie affollate, era fuori dal suo elemento. 

“Facciamo in fretta. Non mi piace stare qui”.

“Ti ricordo che tutta questa situazione è solo colpa tua. Io ti avevo detto che annunciare l’esistenza della… cosa era una pessima idea. Se mi avessi ascoltato ora non saremmo qui a fare questa sceneggiata”.

Meli alzò il viso verso di lui e sfarfallò le ciglia. “Sì, è tutta colpa mia se un bambino è ancora vivo” lo rimbeccò con un sorriso acido.

“Un bambino che non avresti dovuto portarti appresso. Devi ancora spiegarmi che diavolo ti è saltato in mente” bisbigliò lui arrabbiato.

Meli si sentì sprofondare. Era arrivata l’ora della verità. Per fortuna erano in pubblico e Logan avrebbe dovuto tralasciare buona parte degli insulti. Tornò a guardare la strada davanti a sé. 

“Suo padre lo picchiava” mormorò.

Logan sbuffò. “Quindi? Un sacco di ragazzini vengono battuti e vengono su bene”.

“Come te? Ah, lo vedo”. 

Logan non apprezzò quell’allusione a una sua eventuale infanzia turbolenta. Il che fece pensare a Meli di averci azzeccato in pieno. Si pentì subito di quel commento indelicato.

“Scusami”. Meli abbassò la voce e si affrettò a spiegare: “Non potevo lasciarlo. Ricordi cosa ha detto la… ragazzina in rosso? Che il sangue faceva così schifo che il can- la cosa nemmeno lo assorbiva. E la belladonna, ieri notte… ha avuto effetto anche su di lui. L’ho visto. Aveva gli occhi appannati”.

“E allora?”.

“E allora la belladonna agisce solo su individui che hanno già raggiunto la maturità sessuale. Oppure…”.

La gola le si serrò; all’improvviso, continuare a parlare diventò fisicamente doloroso. Non era un’idea nuova: era una teoria che aveva elaborato diversi giorni prima, ma che aveva sempre scartato con tutte le sue forze — pensieri troppo bui per essere confessati ad alta voce. Adesso, però…

“Oppure?” la incalzò lui irritato.

Meli si raddrizzò e a voce bassissima rispose: “Oppure coloro che… hanno perso… l’innocenza contro la loro volontà”.

Aspettò che la consapevolezza di quella informazione si insinuasse nella mente arrabbiata di Logan. Quando accadde, la sua espressione di pietra tremò e cedette. L’ammazzamostri abbassò lo sguardo.

“Che schifo”. 

“Non posso riportarlo indietro”.

Camminarono in silenzio per qualche minuto. Aver condiviso quell’orrenda supposizione con qualcuno sembrò averne allergerito un poco il peso. Logan non aveva insistito con l’idea di liberarsi di Theo; sembrava aver compreso la gravità della situazione. Seppure sempre devastata all’idea del dolore inflitto al bambino da coloro che avrebbero dovuto amarlo e proteggerlo, Meli si sentì un po’ meglio: aveva fatto la cosa giusta a portarlo via con sé. 

Imboccarono una laterale di sinistra e continuarono lungo la via tra botteghe e palazzi residenziali. Entrarono in un androne dove ingressi di negozi si aprivano su entrambi i lati.

Arrivarono davanti ad un locale con una porta di legno nero e cesti di chincaglierie esotiche esposti all’esterno. La targa appesa diceva Da Lyn. Esoterico e Dintorni.

“Aspettami qui”.

“Qui? Perché?”.

“Ci metterò un minuto. Lasciami… intercedere”.

Meli lasciò ricadere la mano e osservò Logan fase pressione su tre punti precisi della porta nera, la quale si aprì senza un suono e lo inghiottì.

Inspiegabilmente a disagio per essere rimasta sola, Meli finse di interessarsi agli oggetti in esposizione mentre tendeva le orecchie per origliare. Stava studiando la forma di un teschio di pixie trafitto da un chiodo arrugginito quando udì una voce femminile.

“Logan! Mi hai fatto prendere un colpo”. La voce era rauca, rasposa; la voce di una vecchia dedita ai vizi del fumo e dell’alcol.

“Come cazzo ti sei conciato? Sembri uno di quei damerini al ballo di Mezzinverno”.

Seguì un borbottio sommesso che Meli non riuscì a seguire. Aspettò parecchio prima di sentire un sonoro “Che?!” e poi di nuovo un mormorio concitato.

Inquieta, lasciò vagare lo sguardo sulla merce. Registrò il cartello Qui ricarica gemmeluce e l’etichetta Prendi tre paghi due su un cesto pieno di paletti di frassino. Ne stava valutando l’acquisto quando la porta si aprì. La testa dotata di cappello piumato di Logan le fece cenno di entrare.

Meli lo seguì all’interno del negozio immerso nella penombra e permeato da un curioso odore di legno, polvere e… pelliccia muffita? Ritrovandosi di colpo davanti gli occhi terrorizzati di un cervo imbalsamato, Meli pensò di averci azzeccato. Abbassò la testa per evitare le corna dell’animale e proseguì nello stretto spazio tra i mucchi di caos che si ergevano da entrambi i lati. Armi e amuleti erano gettati alla rinfusa dentro bauli; c’erano sedie di vimini accatastate l’una sull’altra, attaccapanni carichi di borse, abiti e mantelli; feticci umanoidi con gli occhi vuoti e veri capelli umani appiccicati sulla fronte. Ossa di dimensioni enormi erano appese al soffitto mentre insetti infilzati sotto vetro decoravano le pareti; corna di rosperonte e artigli di strige erano ammucchiati nelle scansie insieme a barattoli polverosi con etichette in una lingua sconosciuta. 

Attenta a non toccare nulla Meli superò la carcassa mummificata di un bigaaso con le fauci spalancate e, stordita dalla confusione — Zeno al posto suo avrebbe già avuto un attacco apoplettico — si affiancò a Logan.

“Lei è Lynette”.

Certa di trovarsi di fronte una vecchia megera con i denti gialli e l’artrite, Meli rimase sconcertata dal… nulla. Non c’era nessuno in quella baraonda polverosa. Per un istante pensò che l’ammazzamostri fosse impazzito del tutto e che avesse cominciato a discutere con i fantasmi, quando la voce rasposa parlò di nuovo.

“Sul tavolo”.

Meli fece due passi avanti seguendone il suono. E quasi inciampò dalla sorpresa, perché Lynette era tutto il contrario di ciò che si era aspettata di vedere.

Per cominciare, era alta un palmo. E sì, era una femmina, ma non era vecchia — non nel modo umano di intendere la vecchiaia, almeno. Aveva riccioli color lavanda e indossava un corto vestito di petali gialli. La sua pelle chiarissima emetteva un alone dorato. Stava seduta sul bordo di un boccale di peltro sul tavolo ingombro di oggetti, con le gambe nude accavallate e un’espressione arcigna sul minuscolo viso.

Lynette era una fatina.

“Oh, guarda un po’. La terrorista” disse la fata.

Meli rimase a bocca aperta. Non era cosa comune vedere una fata in città, e meno comune ancora era sentirla sputare sentenze dal bordo di un boccale di idromele. Era lei il contatto fidato di Logan? Meli nascose il suo sconcerto meglio che poté. 

La fatina scavallò le gambe e si sporse verso i nuovi arrivati. Due ali di farfalla dagli intricati disegni viola e oro si aprirono con eleganza sulla sua schiena. “Quindi sei tu la famosa botanica” sentenziò dopo averla studiata a lungo.

Meli lanciò un’occhiata interrogativa a Logan, che la ignorò bellamente e disse invece alla fata: “Sono qui per le armi”.

La fatina si voltò verso di lui. “Cosa cerchi?”.

“Tutto. Non ho più niente. La Guardia mi ha ripulito dopo avermi arrestato”.

Logan raccontò a Lynette quello che Meli già sapeva. Aggiunse solo dei dettagli su una particolare spada d'argento e un set di stiletti con manico in madreperla che sembravano importanti ai due interlocutori. Finito il tragico resoconto, Lynette incrociò le braccia al petto.

“Mi stai dicendo quindi che vorresti le mie armi senza pagare?”.

“Ti pagherò. Solo, non oggi”.

“Sai cosa fanno le fate agli spergiuri”.

“Non ho giurato, infatti”.

La fatina, a braccia incrociate sul bordo del boccale di idromele, lo fissò torva. Poi guardò Meli, roteò gli occhi e si librò in aria. Un alone di polvere brillante rimase dove poco prima era seduta.

“Su. Di qua. E mi devi un enorme favore, hai capito?”. 

Si avventurarono più a fondo nella penombra della bottega, dove casse, bauli e cesti di vimini erano ammucchiati fino al soffitto. Armi di ogni genere erano accatastate alla rinfusa insieme a mucchi di stoffa, boccette misteriose, pupazzi inquietanti e gemmeluce spezzate. 

Mentre Logan rinveniva, soppesava e roteava spade diverse, Lynette svolazzò accanto alla faccia di Meli. La fatina odorava di iris, vecchi mobili e alcol scadente.

“Sei tu quella che cercano, quindi. Per il bambino, ufficialmente. Ufficiosamente, per il cancello”.

Scombussolata, Meli sbatté gli occhi. Sa del cancello…?

“Rilassati. Non è stato quel cretino lì a dirmelo. Le fate percepiscono le modifiche dei flussi magici nel territorio. E un cancello aperto crea un bel casino nel flusso. Sapevamo da tempo di queste aperture non autorizzate”.

“Lo… sapevate?” trasecolò la donna.

“Oh sì. Fate, demoni, imp, driadi, anguane, balsìk. Lo sanno tutti. Le voci corrono veloci. Amiamo i pettegolezzi”.

“E perché non lo denunciate alle autorità?”.

La fatina scoppiò a ridere. “Le autorità? Lo sanno già, sciocca. Tengono tutto nascosto per evitare il panico generale, una guerra civile, o peggio. Vogliono risolvere la cosa senza che nessuno lo sappia. Anche se non hanno la minima idea di come fare, probabilmente… Per questo ti danno la caccia”.

“Non sono stata io ad aprirlo”.

“Oh, so anche questo. Il livello di magia in te è ridicolo: non potresti far saltare un borzocco. È stata una mutaforma, mi è stato riferito”.

Meli era senza parole. Enorme segreto sti gran cazzi.

“Se lo sanno tutti, non posso essere l’unica ad aver visto quella tizia!”.

La fatina si strinse nelle spalle. “Probabilmente no. Ma gli esseri umani non si interessano della mia gente. E comunque pare che ben pochi restino in vita dopo aver visto quello che hai visto tu” aggiunse con indifferenza.

Meli pensò ai bambini trovati morti nei fiumi o schiavizzati nei bordelli. Le passò ogni voglia di chiacchierare.

Dopo lunghe e ponderate analisi Logan concluse la sua selezione. Andò al bancone con le braccia cariche di una varietà di cose affilate, due cinture, una collana e un mantello che aveva tutta l’aria di essere stato abbandonato lì da un mendicante.

“Sono quasi quattrocento navok di roba” calcolò la fata.

“Uno sconto per un amico?”.

“Sconto un corno. Mi devi ancora centocinquanta per quella pistola”.

Andarono avanti un po’ a bisticciare. Meli, dopo essersi ripresa a fatica dalla precedente conversazione, decise che era l’ora di intervenire.

“Posso pagare io”.

Sia Logan che Lynette la guardarono stralunati.

“Non è necessario…” cominciò Logan.

“Ce li hai in contanti?” tagliò subito la fata.

Meli recuperò le monete da un minuscolo portafoglio di cotone nascosto in una tasca della gonna. Porse i navok alla fata che li contò facendoli levitare davanti a sé.

“... questi sono solo ottantasette”.

“È tutto quello che ho con me. Ma posso proporti un pagherò”.

“Le scartoffie delle vostre banche non hanno valore per me”.

“Non parlo di soldi. Una Rosa Eterna”.

A Meli si strinse il cuore a solo pronunciare quel nome. Pregò di non aver fatto un’enorme cazzata.

I minuscoli occhietti di Lynette dapprima si spalancarono, poi si fecero avidi e sottili.

“Stai dicendo la verità? Una vera Rosa Eterna dall’Abbazia?”.

“Sì”.

“Come è possibile? Quelle rose sono controllate dai monaci giorno e notte”.

“Ci siamo trovati all’Abbazia in un momento… propizio”.

La fatina la scrutò sospettosa. Guardò anche Logan, che confermò con un cenno di assenso.

“Quando?”.

“Ne sto facendo una talea. Se tutto va bene, e se sopravviverò a questo disastro, per la prossima primavera ne avrò una pianta mia in fioritura”.

Lynette era molto tentata e vicina a cedere; lo si poteva vedere da come si mordicchiava le labbra e brillava più intensamente. Una Rosa Eterna per una creatura del piccolo popolo era un oggetto di inestimabile valore, magico e simbolico oltre che monetario.

La fata ci rifletté ancora qualche istante, poi tese una minuscola manina dorata in direzione di Meli.

“Una Rosa Eterna, la prossima primavera, in cambio delle armi qui sul bancone”.

“Una Rosa Eterna vale come tutto quello che hai qui dentro” osò Meli.

Lynette strinse gli occhietti, ma non negò. 

“D’accordo. Qualora vi servisse altro, sono qui. Ma devi prometterlo”.

Non servì che calcasse il tono sull’ultima parola, come non servì che le ripetesse la frase con cui aveva già minacciato Logan. Anche Meli sapeva cosa facevano le fate agli spergiuri. 

Prima che Logan potesse fermarla, Meli prese la manina tesa tra due dita e disse: “Una Rosa Eterna, a primavera, in cambio del tuo aiuto. Lo prometto”.

Ci fu un attimo di silenzio sospeso. Lynette brillò più forte e Meli sentì una scossa partire dalle dita e arrivarle al petto. 

“Molto bene” concluse circospetta la fatina. Sembrava incredula da quanto era appena successo. Spezzò il contatto, fece sparire i navok ancora galleggianti per aria e si girò verso l’ammazzamostri. “Bravo, Logan. È sempre bene avere amici ricchi. Ricchi e imprudenti”.

Logan le disse qualcosa in una lingua che Meli non capì, ma avrebbe potuto scommettere che fosse qualcosa di poco lusinghiero.

L’ammazzamostri indossò il mantello logoro, agganciò una spada alla cintura e si nascose addosso una serie di pugnali, stiletti e coltelli. 

Si accordarono per il ritiro del resto della merce nei giorni successivi.

“Quando vuoi, mi trovi qua. Bevo, conto i soldi e vendo merda illegale a altri scappati di casa come te”.

Meli cominciava a capire come mai quella fatina e Logan andassero tanto d’accordo. Erano uguali.

Uscirono dal negozio con la testa pesante e il portafogli leggero. Superato l’androne tornarono a imbastire la loro scenetta teatrale, con le braccia allacciate e i visi vicini nascosti dagli oggetti di scena.

“Non dovevi farlo” le disse appena furono per strada. Meli capì dal suo tono che oscillava tra l’essere colpito per l’audacia e preoccupato per l’avventatezza.

“Le armi ci servono. E io mantengo le promesse”.

“In questo caso, dovrai per forza”.

Meli pensò alla piccola scossa al cuore che aveva provato mentre stringeva la mano alla fatina. Oh sì. Avrebbe dovuto. 

“Capisco perché siete amici”.

“Sono quasi certo che non sia un complimento”.

Meli si strinse nelle spalle. Forse, in effetti, non lo era.

Arrivarono all’affollata via principale. Si mescolarono a un gruppo di suore in tunica verde e a diverse coppie di signori ben vestiti. Logan era molto più sicuro di sé ora che aveva una spada al fianco. Pareva persino più alto. 

Erano quasi arrivati alla piazza quando Meli si accorse di un una testa bianca a capo della colonna di suore. Una chioma di capelli candidi e intrecciati e, sotto di essa, un viso giovane, abbronzato e familiare… con occhi neri che incrociarono i suoi.

Meli fece scattare il ventaglio e si voltò verso Logan. “Dobbiamo levarci da qui!” bisbigliò con urgenza.

Allarmato, il mezzelfo si fermò e si guardò attorno. “Che succede? La Guardia?”.

“No, c’è una persona che conosco. Mi ha visto!”.

“Ti ha visto? Ma porca di…”.

“Sssh e coprimi!”.

Meli si spostò a lato strada, agguantò Logan per i fianchi e lo usò come scudo umano. Eilei, sacerdotessa dell’Ordine del Cardo di Costoi e ex amica d’infanzia di Meli, stava squadrando la folla con occhi rapaci. 

“Chi?”.

“La suora. Quella con i capelli bianchi. Ci sta guardando — non ti girare, perdio!”.

“Cosa fa?”.

Meli spiò da sopra la spalla dell’uomo. “Mi sta cercando. Deve aver capito che ero io. Si avvicina”.

Logan non attese. La avvolse con un braccio protettivo e la sospinse verso l’altro lato della strada, lontano dalla piazza. Camminarono a passo sicuro mescolandosi al viavai di persone e si infilarono in una laterale piuttosto affollata. Meli si appiattì con la schiena addossata al muro di mattoni e Logan si posizionò strategicamente di fronte a lei, i visi coperti dai cappelli piumati.

Attesero. 

L’aveva riconosciuta? L’avrebbe denunciata? Tanta fatica per essere beccata da quella sfigata di Eilei, tra tutti?! 

Presa dai pensieri furiosi, Meli si accorse troppo tardi di quanto fosse vicino il viso di Logan al suo.

Troppo vicino, considerò, esagitata. Ed era rispettabile il modo in cui l’aveva intrappolata contro il muro, con un gomito accanto al volto per nasconderlo ai passanti? Non conosceva le ultime mode in fatto di etichetta della classe borghese, ma era quasi certa che non lo fosse — rispettabile. Lo sguardo le cadde sulla bocca socchiusa di lui. Per un folle istante, Meli pensò che l’avrebbe inchiodata lì sul muro e baciata.

Non accadde, ovviamente. Era Logan, perdio; che le veniva in mente?

Logan la fissò accigliato. “Perché hai quella faccia?”.

Meli, accaldata e rossa in viso, aprì la bocca e la richiuse. “Niente” squittì infine.

Rimasero così a lungo: in quieta e minacciosa allerta, lui; a fingere di non essere stata appena travolta da una valanga di sensazioni improbabili, lei. Per tutto il tempo Meli si sforzò di guardare ovunque a parte il viso di Logan a un palmo dal suo. Si sentiva strana e accaldata sotto gli strati di abiti costosi. 

Doveva essere stato l’incanto della fatina. Sì. Doveva essere quello.

“Le suore sono entrate nella cattedrale”.

Ah. Giusto. Eilei. Non avrebbe mai pensato di incontrarla a Andaréz. Ma Natale era vicino, in effetti; probabilmente si trovava in città per celebrare il Mezzinverno e l’Avvento con il resto della comunità religiosa. 

“Bene. Andiamocene di qui” concluse Meli con fin troppa impazienza. 

Spinse via Logan da sé — il suo torace piacevolmente solido sotto le dita — Dio, cosa le veniva in mente — e scrutò la folla prima di rimettersi in marcia.

La mano di Logan la riagguantò subito e la obbligò a rallentare. Meli accettò di nuovo il suo braccio e vi si appese con emozioni contrastanti.

Rientrarono a La Lucciola Felice dopo essersi scambiati poche altre parole di circostanza. Logan era impassibile come sempre: se gli ultimi avvenimenti avevano scosso qualcosa in lui, si guardava bene dal mostrarlo.

Trovarono Theo come lo avevano lasciato: in salute e con un broncio annoiato. Fu molto felice di vederli e li subissò subito di domande.

“Dove siete stati? Cosa avete preso? Mi fai vedere?”.

Meli lasciò Logan a destreggiarsi con le chiacchiere relative all’artiglieria. In quel momento le sue preoccupazioni erano altrove. Nello specifico, come soffocare la ridicola sbandata che stava pericolosamente mettendo radici nel suo cervello.

Non ascoltò nulla riguardo coltelli, spade e stiletti avvelenati, ma registrò una specifica domanda entusiasta di Theo.

“Allora, quando partiamo?”.

Attese la risposta di Logan. Lo vide arrabattarsi per trovare un modo carino per dire al bambino che non aveva nessuna intenzione di impelagarsi in una quest per salvare il mondo. Non lo trovò.

“Non è una missione adatta a un bambino” disse solo.

Ma Theo, piccola volpe, lesse tra le righe. Spalancò gli occhi. “Non avete intenzione di andare!”.

Logan non negò l’accusa e ebbe perfino la decenza di mostrarsi mortificato. Theo si voltò verso Meli, che aveva ancora in faccia un’espressione atterrita.

“Anche tu…! Ma dobbiamo…! Dobbiamo trovarla! Dobbiamo sconfiggerla!”. 

“Theo, devi capire che…” cominciò Meli senza avere la minima idea di dove sarebbe andata a parare.

“Non volete fare niente!” sbottò il ragazzino. Lacrime di rabbia cominciarono a rigargli le guance. “Noi… il cancello… do-dobbiamo…”.

La voce di Theo scemò fino a spezzarsi del tutto, e un sonoro singhiozzare riempì la celletta. Meli si portò una mano al petto: aveva percepito con dolorosa chiarezza il proprio cuore spezzarsi in due. Guardò Logan: anche la sua consueta imperturbabilità stava vacillando.

Meli si avvicinò al ragazzino. Desiderava abbracciarlo, ma si trattenne.

“Theo. Noi non siamo soldati, né maghi. Non abbiamo le capacità necessarie per… salvare il mondo” mormorò con voce dolce, prendendo in prestito la medesima espressione che lui aveva usato il giorno precedente.

Theo la guardò. Aveva il naso rosso e lacrime in bilico sulle lunghe ciglia.

“Se non lo facciamo noi, nessuno lo farà”.

Sbem.

Meli non trovò la forza di ribattere. Cercò sostegno da parte di Logan, ma anche lui, per la prima volta, pareva insicuro della sua posizione.

Theo intentò allora un discorso di grande carica emotiva, ma presto i balbettamenti e i singhiozzi ebbero il sopravvento. La tensione si spezzò del tutto quando Polpetta si rotolò ai piedi di Theo per farsi coccolare. Il bambino tirò su col naso e si chinò ad accarezzarlo.

Un silenzio mesto avvolse i presenti. Meli si sentì pesante e fragile come un vaso di vetro sull’orlo del baratro. Desiderò poter rubare il dolore dagli occhi lucidi di Theo e di metterlo sulle proprie spalle. 

Ma non era possibile.

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Capitolo 7
*** Una Donzella da Salvare ***


Spazio dell’autrice

Pubblico questo GRAN CAPITOLO oggi perché oggi è il mio compleanno. Non diciamo quanti, ma è un bel numero tondo tondo :) Divertitevi e godetevi ogni riga! Vi adoro tutti.




 

Una Donzella da Salvare

“Che situazione di merda”.

Logan ebbe la decenza di non ricordarle — di nuovo — che quella situazione di merda era frutto del suo libero arbitrio. Lo stava pensando, però: glielo leggeva nel fastidiosissimo sopracciglio inarcato mentre fingeva di guardare fuori dalla finestra, il profilo pallido contro le pareti damascate rosso cupo del bordello. Era ancora vestito da gentiluomo, con il fazzoletto di seta al collo e i capelli tirati indietro; Meli invece si era dovuta strizzare di nuovo nel suo abito da lucciola, con maschera nera e nudità opportunamente dorate.

Il chiacchiericcio e le risate rimbalzavano maliziose tra le ombre delle candele e le pareti di specchi de La Lucciola Felice; in accordo con Dag erano scesi alla taverna al piano terra per racimolare del cibo e lasciare a Theo lo spazio per sbollire il suo legittimo rancore. Un’ora d’aria al massimo, basso profilo, niente cazzate e datevi da fare. Così aveva detto. Su cosa avesse inteso esattamente con “datevi da fare”, Meli lo ignorava; ma dalle coppiette intente a scambiarsi saliva sui divanetti tutt’attorno a loro, un’idea se la stava facendo.

“Mangiamo e leviamoci dalle palle” mugugnò Meli decisa a non soffermarsi su qualunque pensiero che riguardasse eventuali scambi di fluidi corporei.

Alzò una mano per farsi notare da una lucciola qualsiasi. Fu Davon a voltarsi, muscoloso e splendido alla luce fioca delle candele. Le si avvicinò. Solo dopo averle concesso un sorriso ammaliante notò Logan; la lucciola studiò il mezzelfo dall’alto in basso con espressione indifferente e tornò subito a dare la sua attenzione a Meli. Si assicurò che stesse bene dopo l’approccio aggressivo del kon della sera precedente. Meli trovò quella premura sorprendentemente dolce.

“Sto benissimo, grazie. Sei stato di grande aiuto. Non so come avrei fatto senza di te” lo ringraziò, sincera.

“Quando vuoi, zucchero”.

Logan si agitò sulla sedia come punto da una vipera.

Devon si chinò sulla botanica; il movimento dei lunghi capelli neri le fece arrivare addosso una gradevole nuvola di profumo. “E se qualcun altro dovesse infastidirti…” nel dirlo lanciò un’occhiata eloquente all’ammazzamostri, il quale nel frattempo stava cincischiando con un coltello da tavola con espressione per nulla amichevole. “... chiamami”.

Devon se ne andò in cucina. Colpita, sorpresa e senza pudore, Meli lasciò scivolare lo sguardo sull’invitante linea della schiena stretta dalle cinghie di cuoio.

“Da quando sei una donzella in difficoltà?”.

Meli si voltò verso Logan. Era corrucciato.

“Che c’entra? Mi ha aiutato. Ho ringraziato”.

“Non ti serviva aiuto. Quel kon lo avresti dissanguato in mezzo al corridoio”.

“Questo Davon non lo sa e non serve che lo sappia”.

“Davon?”.

“Davon. È il suo nome”.

“L’avevo capito" replicò Logan. C’era una vena di irritazione nella sua voce.

Stava per rispondergli di smetterla di fare il geloso quando un manipolo di soldati della Guardia Cittadina si riversò rumorosamente nel locale. Meli si irrigidì sul divanetto. Non era la prima volta che incontrava delle guardie al bordello, ma quel giorno c’era qualcosa di diverso, qualcosa che la mise in allarme. Erano in cinque, con le giubbe gialle, spada al fianco e archibuso sulla schiena. Fece l’errore di incrociare lo sguardo con uno di essi, il quale la osservò attento prima di accomodarsi a un tavolo poco lontano e ordinare un giro di vinmoro.

A Meli quello sguardo fece venire la pelle d’oca.

Logan fu abile a nascondere il “oh merda” che gli balenò negli occhi quando si accorse dei soldati, ma non fu abbastanza veloce. La stessa guardia che aveva notato Meli registrò ora la presenza del gentiluomo che l’accompagnava, e iniziò a lanciare occhiate interessate nella loro direzione. 

Non c’era più tempo per cazzeggiare. Al momento non sembravano intenzionati ad arrestarli, ma ormai li avevano notati e fuggire al piano di sopra sarebbe sembrato troppo sospetto. Restava solo una cosa da fare.

Col cuore il gola Meli scattò in piedi e aggirò il minuscolo tavolino che la separava dall’ammazzamostri.

“Non una parola” gli sibilò. Poi lo artigliò per le spalle e gli montò sopra a gambe aperte.

Se anche Logan avesse voluto dire qualcosa, la protesta gli morì in gola quando si ritrovò il seno di Meli davanti alla faccia.

La donna gli afferrò il bavero della giacca con entrambe le mani e avvicinò il viso al suo. “Dobbiamo farlo sembrare credibile” lo supplicò.

Per quanto assurdo, in quella posizione avrebbe potuto ottenere due cose: primo, e più urgente, nascondere il viso scoperto di Logan alla vista dei soldati che, a furia di vederselo davanti, avrebbero potuto riconoscerlo; secondo, trasformare due persone potenzialmente sospette in due comunissimi avventori de La Lucciola Felice grazie a una realistica dinamica prostituta-cliente. Penombra e alcol avrebbero fatto il resto nel confondere quella guardia troppo zelante. O almeno così, con moderata angoscia, sperava Meli.

Logan, uomo sempre sul pezzo, ci mise un secondo più del solito a registrare la situazione. Poi le sue mani si posizionarono sui fianchi della compagna, gli avambracci appoggiati alle cosce scoperte dagli spacchi della tunica, e strinsero con calcolata intenzione. Guardò Meli negli occhi e fece un impercettibile cenno di assenso.

Dopo un attimo di incertezza assoluta su come procedere, Meli si abbassò e strusciò le labbra contro quelle di lui, sentendosi sensuale come una lontra morta. Ignorò il calore improvviso che le risalì dal ventre e combatté con tutte le forze la consapevolezza di quanto fosse piacevole quel contatto. Doveva essere metodica. Fredda. Professionale.

Lasciò andare la giacca e scivolò con le mani dietro il collo di lui infilando le dita tra i capelli neri. Erano insospettabilmente morbidi. Li tirò piano in modo da angolare il viso in una posizione più comoda per entrambi. Approfondì il bacio facendo una leggera pressione.

Un brivido la colpì dritto in mezzo alle gambe quando lui schiuse la bocca e le accarezzò le labbra con la lingua.

Meli si paralizzò. Il cuore aveva saltato un battito.

Professionale stocazzo.

“Che diamine fai?” gli sussurrò.

“Lo sto rendendo credibile” gli soffiò di rimando lui. “Baci come una dodicenne”.

Gli morsicò il labbro inferiore per vendicare l’offesa. Il mezzelfo gemette di dolore. Meli lo ignorò. Se lo meritava.

“Ci stanno guardando?” chiese lei, pratica nonostante la calura.

“Non lo so. Ho i tuoi capelli in faccia”.

Meli si spostò un poco di lato per garantirgli la visuale al di là della sua chioma indomata. Scese sulla mandibola sfiorandola appena con una scia di baci leggeri. Fu grata della maschera rigida che le impediva di rendere quel contatto troppo intimo.

Scese lungo il collo, scostando appena il fazzoletto di seta. Logan sussultò.

“La guardia senza baffi guarda verso di noi” la informò l’ammazzamostri con voce roca. Le sue mani, che nel frattempo erano scese fino al ginocchio, stavano ora risalendo bollenti sulle cosce nude. Meli credette di andare a fuoco.

“Non lì” ansimò lei. Logan fermò le mani vaganti prima che raggiungessero zone pericolose. 

“Niente baci sul collo” rimbrottò allora lui, iroso.

Con le mani di Logan in un luogo sicuro — attorno al corpetto che le stringeva la vita — e fingendo di non stare andando in autocombustione, Meli gli prese il viso tra le mani e sfiorò di nuovo le labbra con le proprie. Non un vero bacio, ma lì nella penombra nessuno avrebbe potuto accorgersene. Per quanto tempo sarebbero dovuti andare avanti con la sceneggiata? Quanto tempo avevano intenzione di stare lì, quelle guardie? Le braccia di Logan si strinsero attorno a lei, obbligandola a un completo contatto tra corpi. Meli non riusciva più a concentrarsi; il buon senso le stava scivolando via a ogni sfioramento di labbra e battito di cuore. E quando aveva cominciato a fare così caldo? Dio, che situazione di…

“Li avete trovati poi, i ragazzini?”.

Meli e Logan si immobilizzarono. Le voci dei soldati, biascicate ma perfettamente udibili, erano arrivate fino a loro nel cicaleccio del locale.

“Quelli del Salto del Lupo? Sì, li ha trovati Fosca con un ranger”.

“Morti?”.

“Ah! Stecchiti. Uno era senza un braccio. Le strigi si sono prese uno spuntino per merenda”.

Meli trovò molto difficile continuare a darsi da fare con il sottofondo di uomini adulti che ridevano e gozzovigliavano discutendo di bambini assassinati. Con le labbra a un soffio da quelle di Logan si mise ad artigliare i bottoni della giacca elegante. Una furia latente si fece strada dentro di lei.

Logan se ne accorse. La presa delle sue braccia si fece subito più salda — di fatto, intrappolandola addosso a lui. A voce bassa le ricordò la raccomandazione di Dagmaris: “Niente cazzate”.

I soldati continuarono a parlare con più discrezione.

“Il ranger ha fiutato bene” disse uno.

“È l’unica cosa che sanno fare, quei cazzari” si intromise un’altro.

“Ha fiutato troppo” ribatté un altro ancora. “Si è accorto del—”

Qualcuno doveva aver tirato un pugno al proprietario dell’ultima voce, perché la fine della frase fu sostituita da un mugugno soffocato e dolorante.

“Dov’è adesso?" chiese una voce diversa.

“In gattabuia, dove merita di stare”.

Meli guardò Logan. Il Salto del Lupo era a pochi chilometri da lì. Se erano spariti dei bambini, significava che un altro cancello era stato aperto? E di cosa si era accorto il ranger che aveva fiutato troppo

Continuò a accarezzare distrattamente i capelli di Logan mentre tendeva le orecchie nella speranza di cogliere altri dettagli utili, ma i discorsi dei soldati scivolarono verso argomenti di scarso interesse — i prossimi festeggiamenti di Mezzinverno, la nebbia di merda e i prezzi sempre più alti dell’alcol. Fecero due giri di vinmoro e si alzarono in uno sferragliare di armi e armature.

“Ehi, tu”.

Merda. Era una voce che aveva già sentito — una delle voci che aveva origliato fino a un attimo prima. Meli serrò la presa tra i capelli di Logan e lo tirò a sé, facendo scontrare la sua faccia con il proprio petto. Logan mugugnò di dolore, ma Meli lo ignorò e sollevò lo sguardo sulla guardia senza baffi che l’aveva appena interrogata. 

“Sì?” chiese soave.

“Non ti ho mai visto prima qui”.

Nonostante il panico cercò di suonare sensuale e entusiasta. “Sono nuova”. 

“Sei libera domani alle due?”.

Non era affatto la domanda che si aspettava. Rimase in silenzio un secondo di troppo; Logan, il viso affondato nel suo seno, le diede un pizzicotto sulla gamba per ricordarle di reagire.

“Sì!” trillò. “Sì, sono libera. Certo”.

“Venticinque per tutto?”.

“S-sì. Venticinque. Perfetto”.

“Ottimo. A domani”.

Frastornata, osservò il manipolo di soldati pagare, salutare la ragazza al bancone e uscire dal locale.

“Se ne sono andati” sussurrò. Sentiva il cuore battere all’impazzata.

Logan mugugnò qualcosa e Meli si ricordò che lo stava ancora soffocando contro le sue tette. Lo liberò di scatto.

L’ammazzamostri cercò di esibire la solita espressione stizzita, ma un leggero rossore sugli zigomi lo tradiva. Aveva polvere d’oro sul naso e sulla fronte.

Meli cominciò a strofinargliela via con un senso di imbarazzo montante.

“Scusami. Era l’unico modo”.

“Non mi sto lamentando”.

Meli ridacchiò nervosa. “Immagino che ci siano modi peggiori di nascondersi dalle autorità competenti, in effetti”.

Possibile che il soldato della Guardia li avesse approcciati solo con l'intenzione di fare un giro sulla nuova attrazione del bordello, e non perché li avesse sospettati di criminalità organizzata? Sperò che fosse così. Il che comunque portava a un problema, ovviamente: cosa avrebbe fatto il giorno seguente, ore due? Decise che ci avrebbe pensato in seguito. In caso estremo avrebbe potuto fingere un attacco acuto di sifilide.

In quel momento Devon arrivò al loro tavolo con le sbobbe che avevano ordinato. Fece un sorriso complice a Meli — ancora avvinghiata al suo cliente — e se ne andò. 

Logan continuò a fissare Davon con stizzito sospetto finché non sparì dalla vista. Quasi in un riflesso involontario, le mani dell’ammazzamostri erano tornate a stringerle i fianchi.

Con suo sommo orrore — in seguito avrebbe dato la colpa alle troppe emozioni per quella inaccettabile mancanza di giudizio — Meli si sentì dire: “Non ci sono stata con lui”. 

Si fustigò subito per quella scivolata inopportuna. Che cosa le veniva in mente? Cosa mai poteva interessare a Logan di...

Logan tornò a guardarla. Sentiva il suo respiro solleticarle il mento da quanto era vicino. “Perché no? Sembra il tuo tipo”.

“Perché…”.

…avrei pensato a te tutto il tempo.

Meli spalancò gli occhi e deglutì forte. Da quanto tempo quella consapevolezza si annidava negli antri bui della sua testa? E cosa doveva farci, con quella consapevolezza, adesso che era fisicamente abbarbicata addosso al diretto interessato? Sconvolta dai suoi stessi pensieri, cominciò ad agitarsi.

“Non sono affari tuoi” rispose.

“Io non ti ho chiesto niente. Hai cominciato tu”.

“La tua faccia parla da sola”.

“Dovrebbe interessarmi con chi vai a letto?”.

“No”.

“Infatti non mi interessa”.

“Ottimo”.

“Ottimo”.

Meli trovò estremamente difficile credere a quello di cui si stavano accusando l’una sulle labbra dell’altro, ansimanti e rossi in viso, gli occhi foschi e i corpi appiccicati come lumache. 

Doveva mettere fine a quella follia prima che prendesse una piega troppo pericolosa per entrambi.

“Puoi… puoi lasciarmi andare adesso”.

Lui parve recuperare un po’ di sobrietà. La aiutò a scendere dalle sue gambe e la guardò rifugiarsi all’angolo del divanetto imbottito di fronte a lui. Mangiarono senza guardarsi negli occhi in un silenzio colpevole e moderatamente imbarazzante. 

Schermati dalla gaia confusione del locale tentarono poi di analizzare quello che avevano origliato dalle guardie, ma decisero di rinviare la conversazione a un luogo più consono. Dopo qualche altro minuto di silenzio, Logan annunciò che il kon era tornano.

Meli alzò lo sguardo dalla sua zuppa e incrociò gli occhi gialli del losco individuo della sera precedente. Imprecò mentalmente. Non c’era modo che potessero avere un po’ di pace quel giorno.

Logan osservò il tizio parlare con la ragazza al bancone mentre lanciava occhiate lucertolose nella loro direzione.

“Cosa vuoi fare?”.

La donna si strinse nelle spalle. “Mi ingegnerò. Come hai detto tu stesso: non sono una donzella che ha bisogno di essere salvata”.

Logan sembrò offeso che quella frase venisse usata contro di lui. Si prese qualche istante per fissarla con ostentata irritazione; infine, lentamente, disse: “No. Non sei una donzella. Ma anche una guerriera ha bisogno di qualcuno che le guardi le spalle, di tanto in tanto”.

Fingendo che quella dichiarazione non l’avesse colpita come una freccia dritta al cuore, Meli prese un sorso di vino e quasi ci si strozzò.

Tossendo e deglutendo per non morire soffocata, chiese: “È una dichiarazione d’amore, questa, ammazzamostri?”.

Lui la guardò con espressione indignata. “Ritiro tutto. Arrangiati”. Si alzò facendo stridere le gambe della sedia sul pavimento e fece per andarsene.

Tutto sommato divertita, Meli si alzò a sua volta e lo seguì. “Ti sei offeso? Dove vai? Vieni qui”.

Non riuscirono nemmeno a raggiungere le scale che il kon si materializzò dietro di loro. 

“Hai finito con questa qui?” chiese il lucertolone, le O e le S sibilanti del marcato accento kon.

Logan, provocato dalla voce sconosciuta, si girò di scatto. “Non ho finito” sbottò. D’improvviso si piegò in avanti e caricò Meli su una spalla come un sacco di patate.

“Ma che…!” strillò lei.

Nonostante fosse tutto incredibilmente ridicolo, Meli restò al gioco, piagnucolando e battendo i pugni tra le ovazioni e le risate degli altri avventori del locale. Il kon li guardò furioso, ma non tentò di seguirli.

Mentre salivano le scale in quella posizione assai scomoda, Meli udì Logan borbottare fra sé. Tra le cose che colse, c’era: “Non ho finito proprio per niente”.

***

Insonne sui mantelli stesi sul pavimento, Meli rifletteva.

Primo: su quello che aveva origliato dai soldati della Guardia. Cosa avevano trovato? Cosa avevano visto? Le prudevano le mani dalla voglia di andare a Salto del Lupo per scoprire cosa succedeva laggiù, ma non sarebbe stato prudente: un solo passo falso e li avrebbero arrestati a vista.

Secondo: su come risolvere il pasticcio dell’appuntamento galante con la suddetta guardia; organizzare uno scambio di persona? Fingere un malore? Avrebbe dovuto chiedere aiuto a Dagmaris in quel frangente. 

E, terzo: sull’enorme sbandata che si stava prendendo per il mezzelfo a cui, solo per quella notte, aveva magnanimamente ceduto il proprio letto. 

Meli rabbrividì dall’imbarazzo. Che le era preso? Quando era cominciata? Adesso che non aveva le sue mani addosso riusciva a ragionare meglio, ma preferiva comunque non ripensare a quanto era successo. Non riusciva a capacitarsene. Era ridicolo e insensato.

E, cosa non meno grave… era quasi certa che la sbandata fosse ricambiata. Il che aggiungeva un nuovo strato di complessità alla situazione del cazzo in cui si trovavano: ad esempio, il fatto che ora stesse ripensando alla sua lingua impertinente e non a pianificare una strategia per tirarsi fuori da quell’impiccio.

Quel bacio era stato…

Le venne un gran caldo. Si impedì di pensare ancora a quel bacio. 

Maledetto ammazzamostri.

Quattro colpi tonfi, dal ritmo conosciuto, risuonarono alla porta. Logan si svegliò subito; Meli, riscossa dalle elucubrazioni indecenti, si alzò e raggiunse l’ingresso. Quando aprì il battente, gli occhi scuri di Dagmaris pregavano di perdonarla.

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Capitolo 8
*** Polvere di Fata ***


Polvere di Fata

Alla flebile luce rossastra del corridoio, Meli vide la lama troppo tardi: la guardia che teneva Dagmaris in ostaggio fece irruzione nella celletta insieme a tre colleghi con archibusi spianati.

Meli indietreggiò; un soldato le puntò al petto l’archibuso e le ringhiò di non dire una parola o le avrebbe riempito la pancia di piombo.

Logan fu in piedi in un secondo, coltello in pugno, ma si immobilizzò alla vista del luccichio metallico delle armi da fuoco. 

“Prendeteli tutti e tre” ordinò la guardia che tratteneva Dag con il coltello.

Tutti e tre. Sapevano di Theo. Non erano solo stati beccati, quindi: qualcuno li aveva traditi.

Impanicata, Meli guardò l’amica con una domanda silenziosa negli occhi. Dag, il mento alto già rigato di sangue, ricambiò con occhi supplicanti. La sua bocca si mosse senza fare un suono: Non io.

Meli non si mosse nemmeno verso il bastone appoggiato al muro. Non potevano combattere in quella cella minuscola, e non potevano rischiare che colpi vaganti colpissero Theo. Aspettandosi di essere ammanettata e trascinata via, Meli rimase immobile col cuore in gola. 

Il manrovescio la colpì a sorpresa, così forte da farla barcollare. Si portò una mano alla guancia dolorante, ma un altro pugno allo stomaco le mozzò il fiato. Crollò in ginocchio, con la faccia che bruciava e un ronzio minaccioso nelle orecchie. Stava per svenire.

Logan stava urlando qualcosa. Meli alzò lo sguardo appannato su di lui. Due uomini lo stavano tenendo fermo, ma a fatica; si dimenava come un cane rabbioso e la stava guardando con una luce selvaggia negli occhi.

“Giù le mani da lei!” lo sentì ruggire Meli; ma era come se venisse da un altro mondo, ovattato, lontano. Irraggiungibile. 

Qualcosa di duro le colpì la nuca. E tutto fu buio.

***

Quando Meli si svegliò aveva male dappertutto. Sangue secco le incrostava la bocca e un dolore pulsante dietro la testa le impediva di pensare. Era seduta su qualcosa di piatto, umido e freddo. Cercò di muoversi e si accorse di essere incatenata con le braccia dietro la schiena. Anche le caviglie erano serrate da pesanti manette di ferro. Il buio completo, l’umidità e l’odore di muffa le suggerirono che si trovava in una prigione sotterranea.

Rabbrividì. Indossava solo la tunica che usava per dormire e già sentiva gli arti congelati. Se l’avessero lasciata lì un giorno di troppo sarebbe crepata di freddo ben prima che potessero interrogarla. Perché era per quello che erano lì, adesso ne era certa. Se avessero voluto ammazzarla lo avrebbero fatto nel bordello.

Dov’era Logan? Dov’era Theo? Dag stava bene? Che cosa—

Meli strizzò gli occhi di fronte alla luce verde che si accese all’improvviso davanti a lei. Accecata per qualche secondo, socchiuse una palpebra quel tanto che le bastava per riconoscere il pavimento lastricato della cella, le linee verticali delle sbarre e, al di là di esse, un corridoio dove una figura scura la stava osservando.

“Ah, eccoti qui. Non sei morta. Meglio così; il Capitano sarà contento”.

La figura sparì portandosi via la luce per qualche minuto. Tornò accompagnata da un uomo massiccio che teneva in mano una lampada a olio. Indossava la stessa casacca gialla della Guardia, ma una doppia fascia viola attorno allo stemma della Repubblica sul petto lo identificava come Capitano.

Il Capitano della Guardia di Andarèz era un uomo alto e nerboruto, con barba e baffi brizzolati e una luce per nulla rassicurante negli occhi. Appese la lampada a un gancio sul muro e osservò la prigioniera senza lasciar trapelare alcuna emozione. Meli si sentì minacciata dalla sua sola presenza.

“Melissa Sottoriva, Cassandriola”.

Nome, cognome e matronimico. Merda.

“C’è un’accusa di terrorismo interno a tuo carico. Insieme a una di rapimento di minore e una di attività magiche illecite”.

Meli si morse la lingua per impedirsi di dire qualcosa di stupido. Ad esempio: stronzate.

“Scelta poco furba, quella di entrare in città. O pensavi di riuscire a passare inosservata sotto il naso della Guardia?”.

Meli non rispose. Sarebbe stato inutile e dannoso sprecare fiato per rispondere a domande retoriche.

L’uomo sembrò dello stesso avviso. Le si avvicinò, la afferrò per la tunica e la mise bruscamente in piedi. Le catene sferragliarono sul pavimento di pietra.

“Adesso io e te faremo una piacevole chiacchierata, d’accordo? E se sarai brava e risponderai alle mie domande, forse non ti spezzerò le braccia”.

Meli deglutì e fece un impercettibile cenno con il mento. 

“Brava ragazza. E adesso dimmi: chi sa del cancello?”.

Eccolo, il vero motivo per cui era lì. Era arrivato il momento di parlare.

“Solo io”.

“E il tuo amico? Non mentirmi, tanto arriverò anche a lui”.

A quella minaccia Meli non osò opporre resistenza.

“Anche lui lo sa. E il bambino”.

“Altri?”.

Meli pensò a Dag, Aiden e Reika, ma non osò. Il Capitano si accorse della sua indecisione; la afferrò per la spalla e le diede uno scossone.

“Parla!”.

“Le fate! Le fate lo sanno. Sentono il flusso magico, o qualcosa del genere…”.

“Non me ne fotte un cazzo delle fate. Ci sono altre creature senzienti che sanno che dei cancelli sono stati aperti?”.

Cancelli, dunque. Plurale. Meli strinse i denti e, quasi certa che le fate rientrassero nell’elenco delle creature senzienti stilato nel Trattato delle Specie, aggiunse solo: “No”.

Il Capitano inalò pesantemente e la lasciò andare. 

Meli prese fiato. Le doleva la spalla dove l’aveva strattonata.

“Jilt. Esci”.

Il soldato semplice, in attesa silenziosa nel corridoio, sobbalzò. 

“Ma…”.

“Esci!”.

Meli sudò freddo. Cosa voleva farle, il Capitano della Guardia, che nemmeno i suoi uomini avrebbero potuto assistere?

Non appena il sottoposto sparì, con un cigolio e un tonfo, al di là di una porta che non potevano vedere, il Capitano la prese per il collo e la sbatté al muro. A bassa voce, chiese: “Cosa sai del sangue di drago?”

***

Meli sapeva molte cose del sangue di drago. Ingrediente raro e richiestissimo, ottenerlo era difficile essendo i draghi creature fastidiosamente sfuggenti e inclini al sarcasmo. Era considerato un'ottima — se non la migliore — base per gli antidoti e gli unguenti curativi, nonché molto efficace per eseguire tutta una serie di incantesimi che prevedevano l’utilizzo di sangue di qualche tipo. Ma qualcosa le disse che non era la risposta accademica quella che, con una mano stretta attorno alla sua gola, il Capitano delle Guardie stava esigendo da lei.

“No-non capisco la domanda”.

“Il sangue dei due draghi predestinati. Cosa sai?”.

Ancora più confusa disse, sincera: “Non so niente”.

L’uomo la colpì in faccia con il dorso della mano. “Non mentire, stronza. Tu sei la figlia di Cassandra. Devi sapere qualcosa. O tu o una delle tue cazzo di sorelle”.

Le sue sorelle? Erano in pericolo? L’espressione di panico la tradì.

Gli occhi del capitano si fecero sottili e crudeli. “Ah, non sei tu la sorella giusta allora… chi è? Parla!” minacciò strattonandola per i capelli.

“Non… ne ho idea!” piagnucolò Meli accecata dal dolore.

Una feroce mano guantata tornò a farle pressione sul collo. “Non sono autorizzato ad ammazzarti, ma lo farò se non collabori. Lo farò sembrare un incidente”.

“Giuro che non so niente!”.

Il tono terrorizzato dovette suonare sincero, perché la pressione sulla carotide si allentò un poco. Dopo qualche attimo, l’uomo la lasciò andare.

“Jilt!”.

La guardia di poco prima rientrò sollecita. “Sì, Capitano?”.

“Portami quell’altro. Ho come l’impressione che rompendo qualche osso a lui, a questa signorina qui si sbloccherà la lingua…”

Pochi minuti dopo, con un fracasso di ferraglia, insulti e percosse, un Logan ammaccato e ammanettato fu scaraventato nella cella da due guardie zelanti, le quali, dopo aver ancorato i cappi di Logan al muro e eseguito un solerte saluto militare, sparirono di nuovo.

Logan si alzò in piedi. Con il cuore che le batteva nelle orecchie, Meli cercò nel suo viso la conferma che stesse bene — relativamente bene, perlomeno — ma lui non la degnò di uno sguardo.

Tornò un silenzio di piombo.

“Logan Morovi, Vernaiol” scandì, lento, il Capitano.

Vernaiol, “figlio di schiava”. E nessun cognome: gli era stato assegnato il nome dell’Istituto dove era stato iscritto. Niente di nuovo per Meli, ma sentirlo le fece comunque un brutto effetto.

“Tu sei stato più difficile da trovare nei documenti; le nullità come te si nascondono bene nelle scartoffie. Nato a Porto Venia, figlio di una serva stuprata dal padrone, venduto ai parenti e cresciuto fuori dalla Catena. Rientrato di recente nel Paese con l’autoprofessato impiego di ammazzamostri”.

Logan non diede alcun segno di interesse a quella descrizione. Il Capitano gli si avvicinò fino a incombere su di lui, più alto di tutta la testa e grosso il doppio.

“Allora, ammazzamostri. Cosa vuoi raccontarmi?” cominciò con tono fintamente cordiale.

Con somma sorpresa di Meli, Logan rispose subito. “Del sangue di drago”.

***

Si scoprì che Logan aveva fatto fruttare il periodo di tempo in cui erano rimasti separati. Aveva dato la caccia ai ladruncoli e ai tagliagole dell’intera regione e ricavato — talvolta, estorto — informazioni da ogni squinternato pezzo di feccia disponibile a parlare per qualche soldo e uno sputo di alcol. Aveva così scoperto che il duo “La botanica e l’ammazzamostri” di cui si parlava sembrava avesse a che fare con un vecchio rituale mai sentito riguardo il sangue di due draghi predestinati. Ora, come i draghi c’entrassero con questi due sfigati, le versioni variavano: c’era chi diceva che i due fossero in realtà dei draghi innamorati sotto mentite spoglie; c’era chi diceva che altro non fossero che due abili ladri, e che il sangue l’avevano rubato dall’antro di un vero drago di montagna; e c’era chi, infine, giurava che tutta la faccenda fosse il frutto della fantasia perversa di un mago pazzoide che si era inventato tutto per vendere a peso d’oro due fiale di vino scadente. 

“... ma che questa storia sia vera o no, non è il sangue di drago la questione. È chi lo cerca” concluse Logan con circospezione. Aveva la voce spezzata e respirava a fatica.

Gli occhi del Capitano si assottigliarono. “So chi lo cerca”.

“Non servirà nominarla, allora”.

Nominarl-la. Una lei. La mutaforma? La mutaforma cercava il sangue di drago? Per fare cos—

Meli cercò di nascondere l’improvviso stordimento. Sapeva già per fare cosa. 

Cancelli. Plurale.

“Una bella storiella, ammazzamostri. Una bella storiella di cui, però, ero già a conoscenza. Quello che io voglio sapere è: dove cazzo si trova, questo dannato sangue di drago? Perché molti indizi portano a voi due sfaccendati”.

“Noi non lo abbiamo” dichiarò Logan con voce ferma.

“Non lo avete” ripeté il soldato, portando una mano dietro la schiena. “Continuate a ripeterlo, ma io non ne sono affatto convinto”.

Nel pugno chiuso stringeva ora quello che Meli riconobbe come uno yara, un cilindro di legno che sporgeva da entrambe le estremità del pugno. Arma piccola e discreta, scolpita per adattarsi alle dita di chi la portava, veniva usata per colpire o esercitare pressione su punti vitali del corpo dell'avversario. Un’arma perfetta per fare molto male senza lasciare il segno.

“Allora, signorina” cominciò il Capitano con voce suadente “finiamo la nostra chiacchierata?”.

Prima che Meli potesse rispondere alcunché il capitano sferrò un colpo al diaframma di Logan, che crollò in ginocchio senza fiato; il Capitano afferrò poi l’ammazzamostri per i capelli e gli puntò lo yara in un punto preciso tra la clavicola e la gola.

“No!” urlò Meli.

“No, cosa?” ringhiò il Capitano aumentando la pressione. Logan, con gli occhi serrati e i denti stretti, mugolò di dolore.

“Non…”.

“Capitano!” chiamò una voce dal corridoio.

Il Capitano lasciò andare il prigioniero con un sospiro esasperato. “Che diavolo vuoi, Jilt? Lo sai che non mi piace essere disturbato quando interrogo i prigionieri”.

“Sì, Capitano, lo so, e mi dispiace molto per averla interrotta, so quanto ci tiene. Ma si tratta di… lei, signore”.

“Lei…?”.

“Lei”.

“Lei cosa, Jilt?!” sbraitò il Capitano dopo una bestemmia.

“Oh, è tornata. È di sopra, la sta aspettando”.

Il Capitano serrò la mandibola e, per un istante, sembrò indeciso. Poi riagganciò lo yara alla cintura e diede la schiena ai prigionieri. 

“Tieni d’occhio questi due. Torno subito”.

Ma prima che potesse uscire dalla cella, Logan parlò. “Se cercate il sangue di drago per impedire a lei di averlo…”.

Il Capitano si voltò appena. “Questo non ti riguarda”.

“... siamo d’accordo. Non dovrebbe averlo”.

Il Capitano li scrutò in tralice con un guizzo di interesse; allo stesso tempo, però, non lasciò trapelare se quell’interesse fosse positivo o negativo per l’immediato benessere degli astanti. 

“Se avete tirato fuori quel ragazzino da Darren, di sicuro avete visto qualcosa che non dovevate vedere” dichiarò infine. “Questo basterà a farvi rinchiudere qui sotto a vita. Jilt, la porta”.

Logan si agitò rabbioso contro la restrizione delle catene, ma non aggiunse altro. Il Capitano uscì dalla cella, prontamente richiusa, e sparì al di là del corridoio buio.

***

Sotto la sorveglianza impettita di Jilt, Logan e Meli rimasero in silenzio a elaborare quanto appena successo — e a riprendersi dalle randellate ricevute. Dopo un po’ l’ammazzamostri cercò con lo sguardo l’attenzione di Meli. La donna, con un cenno del mento, chiese “cosa?”. Senza un suono, Logan sillabò “evasione”.

Le sopracciglia di Meli schizzarono in alto, scettiche; ma poi si ricordò che Logan era già scappato almeno una volta da una prigione simile a quella. Annuì lentamente.

Lo vide abbassare il mento e frugare nello scollo aperto della camicia. Stava cercando di afferrare con i denti qualcosa che portava al collo. Dopo un paio di tentativi falliti, Meli gli si avvicinò e gli chiese con gli occhi cosa doveva fare. 

“Spezza la perla” sillabò lui in silenzio.

Meli aggrottò la fronte. Come tutti i piani di Logan finora, le parve una cazzata senza senso. Glielo disse con un eloquente arricciamento del naso.

“Hai idee migliori?” rispose lo sguardo irritato dell’ammazzamostri. Meli sbuffò e dovette ammettere che no, non ne aveva.

“E allora fidati di me” insisté imbronciato.

Meli eseguì. Si chinò fino a raggiungere il petto di Logan con la bocca, frugando tra il collo aperto della camicia fino a raggiungere la pelle nuda.

“Ehi, voi due! Che state facendo? Allontanatevi subito!”.

Meli ignorò gli strepiti della guardia finché non trovò quello che stava cercando: una collana composta da uno spesso filo di cotone e tre perle blu. Prese una delle perle tra i denti e strinse fino a spaccarla in una nuvola di polvere. Sapeva di gesso e le impastò la lingua.

Per un po’ non accadde assolutamente nulla. Meli guardò Logan con espressione dubbiosa, ma lui le fece un cenno rassicurante. 

La guardia continuò a minacciarli a vuoto; poi, senza un suono di avvertimento, una gemmaluce apparve sulla destra, emanando un alone giallo e tondeggiante. Nessuno la portava, però: pareva galleggiare in aria.

La guardia sguainò la spada.

“Ma che diamine…?”

La palla di luce veleggiò fino al soldato, che indietreggiò spaventato dimenando l’arma contro il nulla. Dopo un istante l’uomo cadde a terra in un clangore di armatura.

La luce si affievolì, sfarfallò attraverso la sbarre e arrivò davanti a Meli che, con occhi sgranati dalla sorpresa, si accorse che non era affatto una gemmaluce.

Era Lynette. 

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Capitolo 9
*** Scarsi Tentativi di Evasione ***


Scarsi Tentativi di Evasione

“È arrivata la cavalleria, citrulli!” annunciò Lynette con voce rauca da vecchia alcolizzata e scostandosi i capelli lilla dalla piccola spalla nuda.

La fata svolazzò verso il basso e si posò con grazia sui ferri che trattenevano le caviglie di Meli. Infilò le braccine nella serratura e con evidente esperienza fece ruotare e cliccare i meccanismi interni fino a liberarla dai ceppi. 

Basita, Meli ci mise un po’ ad elaborare una domanda sensata. Si voltò verso Logan. “La perla… agisce da segnale?”.

“Sì. È programmata magicamente per avvertire una persona specifica quando viene spezzata; e Lynette è il mio… contatto di sicurezza”.

Guardarono la fatina al lavoro con entrambe le braccia immerse nella serratura. Clic. Clic. Clic. Clunk. Le caviglie di Meli furono liberate dal peso dei ceppi.

“Mi viene da dire che non è la prima volta che lo usi”.

“Non lo è, infatti”.

Lo sguardo di Meli cadde sul soldato a terra poco fuori la cella. “Che ha fatto alla guardia?”.

“La polvere di fata è un discreto narcotizzante. Abbiamo meno di trenta minuti” sentenziò la fatina mentre si librava per andare ad armeggiare con le manette che intrappolavano i polsi dietro la schiena di Meli. Poi fece lo stesso con Logan. Clic. Clic. Clic. Clunk.

“Voilà. La comodità di avere un’amica fata, eh?”. Con le manine sui fianchi sopra la gonna vaporosa, Lynette era il ritratto della soddisfazione.

Meli si massaggiò i polsi doloranti e aiutò Logan a mettersi in piedi. Non aveva una bella cera: era pallido e sudato.

“Riesci a camminare?” gli chiese. 

Logan la guardò con la sua solita espressione di altezzoso fastidio, ma era velata di dolore e gli riuscì meno bene del solito. 

“Ce la faccio”.

“Che ti hanno fatto?”.

“Non ha importanza”.

“Logan. Siamo in una prigione sotterranea della Guardia Cittadina. Devo sapere se sei il punto debole della squadra”.

Troppo spossato per essere offeso, l’ammazzamostri prese un respiro. “Posso combattere se necessario. Ma non ti nascondo che preferirei uscire da questo buco prima che si accorgano che siamo riusciti a liberarci”.

Meli colse il sottinteso e si disse d’accordo. Lynette nel frattempo aveva recuperato le chiavi dalla cintura della guardia priva di sensi e le aveva fatte svolazzare fino a loro. Le usarono per uscire dalla cella. Dopo un attimo di indecisione Meli trascinò il corpo della guardia dietro le sbarre. Afferrò la lanterna a olio — avrebbe potuto usarla come arma di emergenza — e fece scattare la serratura.

“Mi sembra una buona idea” approvò Lynette mentre svolazzava imperturbabile verso il fondo del corridoio illuminandolo con il suo bagliore dorato. Meli e Logan la seguirono con la lanterna. Superata la prima porta si ritrovarono in uno stretto corridoio con una serie di porte sulla sinistra e una fila di lampade a olio sulla destra.

Il cervello di Meli correva veloce. Chi li aveva traditi? Sapeva che non era stata Dag. La conosceva da troppo tempo e non aveva un movente: nessuna somma di denaro sarebbe stata allettante a sufficienza per una che gestiva uno dei bordelli più lussuosi della capitale e indossava armi d’oro massiccio. Poteva essere stato uno dei suoi uomini? Uno dei fidatissimi che si era rivelato più volubile del previsto, magari…?

Meli scosse la testa. Non era quello il momento di arrovellarsi sulla questione. C’erano due problemi più pressanti da risolvere: primo, uscire da quel buco di merda; secondo…

“Dobbiamo trovare Theo”.

Logan aprì la bocca per ribattere, ma qualcosa nell’espressione di Meli gli fece cambiare idea.

“Non abbiamo idea di dove sia ora” disse solo, cauto.

“Hai visto dove l’hanno portato?”.

“No. Io e te siamo stati portati qui sotto mentre il bambino e la lucciola sono rimasti su alla Barricata. Ma sono passate ore; ormai potrebbero essere ovunque”.

La Barricata era la base operativa della Guardia Cittadina ad Andaréz, un severo edificio a pianta quadrata con quattro torri, armeria, stalle, prigioni sotterranee — il luogo ameno in cui si trovavano in quel momento — e alloggi per un buon numero di soldati; una fortezza militare vera e propria all’interno delle mura della città. Se anche Theo si fosse ancora trovato all’interno dell’edificio, come avrebbero potuto trovarlo e portarlo via dalle grinfie di un intero esercito?

Meli aveva una brutta sensazione addosso, e non era il gelo del pavimento umido contro i piedi nudi.

“Muoviamoci” borbottò, i nervi a fior di pelle.

In quel momento, una delle porte sulla sinistra si aprì con un cigolio. Ne emersero due figure che Meli riconobbe di colpo. E la cosa doveva essere reciproca, perché la figura più alta fece una smorfia schifata.

"Mi pareva di averla già sentita questa puzza".

***

A parlare era stata Astrid, la vampira di Darren, che al momento stava sorreggendo al fianco un uomo dall’aspetto moribondo. Un uomo che, nonostante il viso seminascosto dai capelli arruffati, Meli aveva riconosciuto: era lo stesso ranger con cui avevano combattuto la foresta-pianta-occhio gigante.

"Cosa ci fai tu qui?!" Meli urlò bisbigliando con un tono tendente all'isterico.

Astrid passò i suoi stizzosi occhi azzurri da lei a Logan. "Mi sembra evidente cosa faccio qui".

Meli guardò il ranger appeso al collo della vampira. Aveva tutta l’aria di uno che aveva passato una notte di troppo alla mercé dei soldati della Guardia, con un occhio tumefatto e sangue rappreso che gli incrostava mezza faccia. 

"Ah!” si intromise Lynette annuendo solenne. “Evasione. Noi stesso motivo, sì".

La vampira scoccò un’occhiata alla fatina. Meli rimase basita per un paio di secondi, poi la sua mente sovraccarica fece il primo collegamento utile.

“Mi hai riconosciuto dall’odore?”.

“Mmh. Puzzi di ansia e senso di colpa come quando ti ho trovato fuori da Andaréz”.

Meli sbatté gli occhi confusa. Se la vampira era stata in grado di riconoscere e seguire la sua puzza, allora forse…? Una speranza insperata le sbocciò nel petto.

“Ti ricordi il bambino con cui ero allora? Saresti in grado di ritrovare anche lui? Dall’odore?”.

Astrid fece una smorfia. “Il mio debito è estinto. E, come vedi, sono impegnata; non sono qui per aiutare te”.

“Non è il momento di discutere” si intromise Logan insofferente. “Tutti fuori”.

Il novello quintetto si infilò nell’unica uscita a destra in fondo al corridoio con le lanterne. Sbucarono in una sala rettangolare che Meli non aveva mai visto — dovevano averla passata mentre era priva di sensi — in cui aleggiava un brutto odore di metallo. Il motivo fu presto evidente: una guardia era a terra con una brutta ferita insanguinata tra il collo e la spalla. Non era difficile immaginare di chi fosse opera. 

La testa di Meli scattò verso la vampira.“L’hai ammazzato?” sibilò.

Astrid corrugò la fronte. “Che ti frega?”.

“Non mi sembra saggio lasciarci dietro una scia di cadaveri dell’esercito della Repubblica!”.

“Si dà il caso che—”.

“Finitela!” sbottò Logan a bassa voce. Superò il forse-cadavere e spinse Meli verso il fondo della sala dove, dopo un'apertura ad arco, una scala a chiocciola si attorcigliava verso l’alto.

“Su e fuori” ordinò.

“Io non me ne vado senza Theo” si impuntò Meli. “Dobbiamo scoprire se è ancora qui”.

“Non è il momento di—”.

“Ssh! Sta arrivando qualcuno”.

Si udiva, in effetti, un gaio fischiettare e un suono di passi sugli scalini di pietra; fischiettare che si interruppe di botto quando la guardia si ritrovò davanti l’improbabile gruppo di fuggitivi.

“Che diavolo…!”.

Lynette gli fu subito addosso; la guardia crollò in avanti ancora prima di riuscire a scendere tutti i gradini. Meli la afferrò al volo e la accompagnò a terra con delicatezza in modo che lo sferragliare di armatura non allertasse tutta la Barricata del loro scarso tentativo di evasione. Il soldato, con un lieve sorriso sulle labbra, già dormiva strafatto di polvere di fata.

Astrid, ammirata, sollevò le sopracciglia. “Oh. Questo è utile”.

Lynette si lisciò i ricci lilla con un certo compiacimento. “Finalmente qualcuno che apprezza”.

Logan borbottò qualcosa che suonava come assolutamente ridicolo e si affrettò a spingere tutti su per la stretta scala a chiocciola. Sbucarono in un pianerottolo con tre porte. 

“Da dove sei entrata?” chiese l’ammazzamostri alla vampira.

“Porta a sinistra. C’è un passaggio nascosto nelle stalle”.

“Andiamo”.

Meli non si mosse. Si sentiva i piedi di piombo. Non sarebbe scappata dalla Barricata finché non avesse avuto la certezza che Theo non si trovasse più tra quelle mura. 

“Theo potrebbe essere ancora qui da qualche parte. Astrid…”.

“Non ti devo niente. Addio”.

“Aspetta! Io…”.

Meli rifletté velocemente su cosa avrebbe potuto offrire alla vampira in cambio del suo aiuto. Guardò ovunque nel corridoio di pietra nella speranza di raccattare un’idea ma, disperata, si accorse che non le veniva in mente nulla.

Astrid, già con una mano sulla porta che le avrebbe garantito la fuga e la libertà, alzò un sopracciglio impaziente.

Logan prese un profondo, esasperato sospiro. 

“Il ranger ha perso molto sangue” si intromise poi con voce neutra. “Gli servirà un guaritore non appena uscirai di qui. E non potrai trovarlo in città dopo essere scappata da sotto il naso della Guardia”.

Meli non colse subito dove Logan stava andando a parare con quelle considerazioni; Astrid invece sì.

“Tu puoi curarlo, ammazzamostri” disse la vampira con sdegno.

“Posso, sì”.

Non fu necessario illustrare il patto a parole. Dopo qualche attimo di riflessione Astrid roteò gli occhi e sbuffò frustrata. "D'accordo. Troviamo il dannato bambino”.

Meli, incredula, si voltò verso Logan con un'accozzaglia di emozioni nel petto. Lui le lanciò a malapena uno sguardo, ma era uno sguardo carico di qualcosa

Mentre la vampira borbottava imprecazioni con gli occhi chiusi e il nasino ingioiellato all’insù, Meli si avvicinò all’ammazzamostri e gli sfiorò un braccio.

“Grazie” gli sussurrò con calore.

"Non farmene pentire" replicò lui.

“Il rischio c’è” rispose la botanica con una sorprendente leggerezza di spirito. Certo, cominciavano a farsi un po' troppi debiti con creature pericolose, ma a quello ci avrebbe pensato in seguito. 

Astrid aprì gli occhi.

“È ancora qui. Il bambino si trova nella Barricata”.

***

Astrid li guidò nel labirinto di sale e corridoi della fortezza militare come un segugio da punta. Incontrarono due guardie, entrambe opportunamente abbattute da un soffio di polvere soporifera — Lynette sembrava divertirsi un mondo a vedere i malcapitati cadere come cachi maturi — e passarono tre stanze diverse prima di trovare quella giusta, una minuscola camera da letto adibita anche a deposito bagagli, ingombra degli oggetti più disparati.

Trovarono Theo raggomitolato sotto un mantello non suo, con gli occhi lucidi di pianto e il visetto esangue. Meli gli tappò la bocca prima che potesse urlare. Il bambino, dopo averla riconosciuta nella penombra, le si avvinghiò al collo così forte da mozzarle il respiro.

“Sapevo che saresti venuta a prendermi”.

Meli avrebbe voluto rispondergli che sarebbe andata a prenderlo in capo al mondo, ma non era certa che fosse la verità. Era troppo emozionata, e esausta, e confusa. Si limitò a stringerlo a sua volta.

Il bambino si staccò e si pulì il moccio al naso con la manica. Aggrottò la fronte. “Chi sono queste persone? E quella… è una fata?”.

“Ehm. È una storia lunga”.

“E questo non è il momento di raccontarla” disse Logan.

“Esatto” interloquì Astrid. “Leviamoci dalle palle”.

Meli stava per dirsi d’accordo quando notò un oggetto familiare sul mucchio di roba ammassata nello stanzino.

“Il mio zaino!”.

“Ah sì! E ci sono anche le armi, e i vestiti, e…” Theo, entusiasta, cominciò a raccattare gli oggetti menzionati e a consegnarli ai legittimi proprietari. Sembrava che la Guardia avesse portato via dalla celletta numero 15 ogni indizio del loro passaggio; il che significava che tutti i loro averi erano lì.

Quanto mai grata di rivedere i suoi abiti, Meli si infilò i pantaloni e la giacca di lana sopra la sottile camiciola bianca. Dopo aver rubato un paio di calzini spaiati si infilò gli scarponcini stringati e si sistemò il mantello verde muffa sulle spalle. Apprezzò il calore del tessuto ruvido sulla nuca come mai prima di allora.

Logan si rivestì altrettanto in fretta, nascondendo le armi sotto il mantello logoro che aveva acquistato da Lynette. 

Meli arraffò dei vestiti più caldi per Theo e vide Astrid rubacchiare delle armi. Calcolò che ormai dovevano essere passati oltre trenta minuti da quando erano usciti dalla cella sotterranea. Forse la prima guardia addormentata si stava svegliando proprio in quel momento. Dovevano sbrigarsi. 

Si voltò verso Astrid.

“Cosa dicevi, delle stalle?”.

***

Era notte quando emersero in silenzio da una porta celata nel muro di legno dietro i covoni di fieno. Erano stati schifosamente fortunati: avevano incrociato solo un’altra guardia, messa subito fuori combattimento da un sospiro e una risatina dorata di Lynette. Non era stato sparso sangue innocente né era ancora stato dato l’allarme: per Meli, due grandi vittorie quel giorno.

Camminarono svelti nelle vie semivuote, ingobbiti e circospetti, fino ad arrivare all’ingresso ovest della città. Un freddo umido che odorava di neve ripulì i polmoni di Meli dal fetore di letame delle stalle militari. Con la pioggia dei giorni precedenti la nebbia si era un poco diradata; sopra di loro, tra le nubi, pezzi di cielo stellato assistevano indifferenti alle loro tribolazioni. A sud-est, una promessa di alba rischiarava il cielo dietro i picchi innevati.

Dopo un ultimo sfarfallio di polvere di fata ai soldati all’ingresso di Andaréz, il disordinato gruppo di fuggiaschi, ormai allo stremo delle forze fisiche e mentali, varcò l’ultima soglia e uscì dalla città.













 

EXTRA - Da qualche parte alla Barricata

“Sono spariti. Scomparsi nel nulla. Scomparsi come dei cazzo di fantasmi, Dag”.

“Non è colpa mia se la sicurezza alla Barricata fa pietà”.

“Non prenderti gioco di me! I miei uomini erano feriti a morte o così confusi da non ricordare un cazzo di niente. Chi cazzo li ha aiutati a uscire? Santa Lucilla del Granpasso? Cristina Nostra Signora?”.

“Non ne ho idea. Lo avrei fatto io se avessi potuto”.

“Per questo lo sto chiedendo a te!”.

“Non alzare la voce con me, Caius”.

“Non alzare la voce? Non alzare la voce? Oh, non credere che io abbia finito con te. Mi hai tenuto nascoste di proposito informazioni di vitale importanza per la Repubblica. Sapevi che la botanica che stava da te era ricercata. Sapevi che il figlio del podestà era con lei. Ho dovuto minacciare per evitare di farti sbattere in galera con la tua amichetta e non è detto che la voce non si spargerà. E sai in che lago di merda ci troviamo; la Gilda dei maghi e la Procura intera mi stanno col fiato sul collo da mesi per quella faccenda”.

“Il tuo lago di merda non mi riguarda. Io non ho giurato fedeltà al Governatore né ai suoi tirapiedi”.

“Certo che ti riguarda; tutto ciò che mi riguarda, ti riguarda. È questo il nostro accordo”.

“Non si vende la famiglia per nessun accordo. Se fosse stato per me, non l’avresti mai saputo. Ma non immaginavo di avere un ratto schifoso dentro La Lucciola. Una serpe in seno! Provvederò a trovare la spia e a fargli rimpiangere questa infelice scelta di vita”.

“È solo grazie alla tua spia che sono riuscito a fare un passo avanti in questa matassa di merda”.

“Un passo avanti, davvero? E cosa hai scoperto, sentiamo?”.

“... non posso parlarne”.

“Stronzate! Lo sanno anche i cani, ormai: qualcuno sta aprendo cancelli illegali in ogni angolo della regione”.

“Non è solo questo il problema!”.

“...”

“...”

“Non vuoi parlarne; bene. Tu proteggi i tuoi; io proteggo i miei”.

“Dag…”.

Dag un cazzo. È Mia Signora per te”.

“Non—”

“NO. Caius. Non ascolterò una parola di più. La fiducia è reciproca, ma la mia fedeltà è immobile. Non mi vendo al miglior offerente — e non pensarci neanche di fare la battuta che—”.

“Certo che a volte te le vai a cercare…”.

“È inutile parlare con te”.

“No, Dag — Mia Signora — dove stai andando…!”.

 

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Capitolo 10
*** Passo del Vento ***


Passo del Vento

Si avventurarono per forse tre chilometri nella vallata boscosa attorno ad Andaréz, allontanandosi il più possibile dal fiume e dalla strada maestra in direzione nord-ovest. I primi raggi del sole, sorto alle loro spalle, facevano luccicare la brina incrostata sulle foglie rigide e morte ai lati del sentiero.

Si fermarono per riprendere fiato accanto a un castagno dove stesero a terra il ranger ferito e si rifocillarono col poco cibo che Meli aveva a disposizione nello zaino. I richiami degli uccelli del mattino rimbalzavano tra i rami spogli del castagneto, sereno e immoto alla luce rosa dell’alba invernale.

Logan mantenne la parola. Nonostante fosse lui stesso in discutibili condizioni fisiche, richiamò a sé la concentrazione magica necessaria per sistemare il taglio sulla testa del ranger, riassestargli una caviglia rotta e due costole incrinate. Dieci minuti dopo una pozione rinvigorente gli fece tornare in faccia un colorito accettabile. Gli restavano l’occhio gonfio e gli ematomi violacei su addome e braccia, ma l’emergenza era passata. Senza parlare Meli allungò una boccetta azzurra anche a Logan, che la ringraziò con un cenno del mento.

Completate le cure, il ranger si svegliò.

“Ce la fai ad alzarti?”.

“Dagli un minuto, Logan, non sa nemmeno dove si trova”.

“Non possiamo restare così vicino alle mura. L’esercito starà già pattugliando ogni centimetro quadrato della città e relativi dintorni”.

“Ho detto un minuto, infatti”.

“Smettetela”. La vampira zittì i bisticci di Meli e Logan e si chinò sul compagno ferito. Gli mormorò qualcosa e gli occhi scuri del ranger si scaldarono di comprensione e affetto.

“Sto bene” le rispose il ranger con voce bassa e morbida. “Grazie, Astrid”.

La vampira sorrise con una sincerità e un calore che Meli non aveva mai visto sulla faccia zannuta di un succhiasangue.

Il ranger si rivolse poi ai compagni di fuga e ringraziò ufficialmente i suoi salvatori. Gale — così si presentò — era un uomo sulla quarantina gentile nel parlare e misurato nei modi, il che rafforzò nella mente di Meli lo stereotipo del ranger sempre onesto e beneducato nonostante l’aspetto sciatto da rubagalline. 

Poi la consapevolezza la colpì come una mazza.

“Sei tu il ranger di Salto del Lupo. Sei stato assoldato dalla Guardia per ritrovare i bambini scomparsi”. Era ovvio, a pensarci. Peccato che non avesse avuto molto tempo per pensare nelle ore precedenti.

Gale annuì. “Sono io”.

“Hai visto il cancello”.

“Ho visto il solco ancora carico di magia di sangue. Era evidente che fosse stato aperto e richiuso da poco”.

“I bambini…?”.

“Non c’era più niente da fare”.

Meli rifletté per un istante e decise che era troppo difficile scegliere quali informazioni condividere e quali tenere private. Tanto ormai… 

“C’era un cancello aperto in fondo al dungeon di Darren. Magia di sangue anche laggiù”.

Gale, per un attimo colto di sorpresa, passò con lo sguardo da lei, a Logan, a Lynette; fece un basso fischio di ammirazione quando arrivò a Theo.

“Il ragazzino di Darren! Lo avete tirato fuori. E mi sembra che stia benone”.

“Sto bene adesso, grazie, signore” rispose educato Theo.

“Questo significa che…”.

“Che i cancelli aperti sono più d'uno” disse Meli. “Che la Guardia lo sa, ma imprigiona e zittisce chiunque li abbia visti. Che una ragazzina mutaforma sta girando per la regione per trovare sangue di innocente e…”.

“... che tutti noi siamo in pericolo, adesso” concluse Logan.

“Una mutaforma?” chiese il ranger.

“Sì. Mingherlina, capelli bianchi, occhi rossi, matta da legare” riassunse Meli mentre ficcava gli avanzi nello zaino e richiudeva le cinghie con rabbia.

“È lei ad aprire i cancelli?”.

“Sì. A Darren, perlomeno, è stata lei. L’abbiamo vista”.

“Ha aperto un cancello da sola?”.

“Sì”.

“… è inaudito. Perché l’ha fatto?”.

Meli si strinse nelle spalle. “Lo sa il demonio perché. È pazza, se vuoi la mia opinione”. Chiuso lo zaino, si alzò e se lo lanciò sulle spalle.

Il ranger tacque perplesso. Era chiaro che stava tentando di elaborare tutte le informazioni che gli erano piovute addosso. Con un sospiro e un lamento tentò di alzarsi; Astrid lo trattenne. “Non sei ancora in grado di fare sforzi” lo rimbeccò.

“È assolutamente in grado” la contraddisse Logan. “Lynette!” urlò subito dopo. “Ce la facciamo, perdio?”.

“Non mettermi fretta!” gli urlò quella di rimando da qualche parte nelle fronde sopra le loro teste. La fatina era volata fino alla cima del castagno per fare da vedetta. Era lassù da almeno cinque minuti, in effetti; dopo qualche istante tornò giù con un aggraziato sfarfallio d’ali.

“La Guardia risale il fiume e la strada; ma c’è un gruppo anche nella nostra direzione” annunciò rasposa.

Logan non cambiò espressione, ma il suo tono suonò tagliente. “Grandioso. Dobbiamo andarcene”. 

“Dove?” chiese la vampira.

“Al momento? Via da qui”.

Theo balzò in piedi e si mise accanto a Meli. Lynette si stiracchiò e incrociò le braccia al petto. 

Anche il ranger, aiutato da Astrid, si alzò. Osservò per qualche secondo il gruppo malconcio, il cielo e entrambe le direzioni del sentiero quasi invisibile che avevano seguito fino a lì.

“Saliamo per Passo del Vento” propose. “La vegetazione di latifoglie è più fitta e le foglie cadute nasconderanno il nostro passaggio fin quasi al valico. Il tempo è dalla nostra: l’aria è secca e soffia da ovest; non pioverà almeno per qualche giorno, ma poi si butterà in neve anche a valle. Se saliamo abbastanza in fretta, la Guardia di Andaréz sarà bloccata dal maltempo, ammetterà la sconfitta e tornerà indietro. Non si avventura mai a altitudini troppo elevate: non ha l’equipaggiamento né la preparazione adeguata”.

“Chiameranno i rinforzi locali dai distretti di montagna”.

“È vero. Infatti dopo aver passato il valico ci servirà un posto dove nasconderci e…”. La voce sfumò in silenzio.

E niente. Non avevano niente, nessun piano, nessuna idea. Una masnada mal assortita di criminali in fuga senza obiettivo.

“... riflettere” concluse per lui Meli.

“Riflettere” ripeté il ranger.

“Passo del Vento sia” riassunse Logan, pratico. “In marcia”.

Furono due giorni intensi. Risalirono il bosco di larici e castagni sui sentieri meno battuti fino a raggiungere il brullo versante sud della Catena. Sbattuti dal vento feroce riuscirono a valicare il Passo, rischiando di ammazzarsi a più riprese sul ghiaione sassoso che portava alla valle adiacente. Gale e Astrid guidavano la comitiva; Logan aiutava Theo a superare i passaggi più ostici; Lynette, con i capelli scompigliati dalla bora, minacciò più volte di tornarsene al suo negozio in città — le fate potevano materializzarsi a discrete distanze — ma rimase nonostante le lamentele. Intirizziti e straniti dal continuo ululare del vento scesero in fretta il versante nord fino a raggiungere di nuovo la quiete boschiva. 

Con la pelle del viso dolorante dallo sferzare dell’aria fredda e nelle narici l’odore familiare della resina di sempreverde, Meli riuscì a scuotere via un poco di apprensione e ad ascoltare di nuovo i propri pensieri. 

Dag, le aveva detto Logan, era stata rilasciata non appena erano arrivati alla Barricata. I soldati avevano discusso animosamente tra loro, lasciandosi sfuggire qualcosa come “il Capitano ci taglia le palle se la scopre qui”. Cosa significasse Meli non lo sapeva; sapeva però che di Dag si fidava. Logan tentò di metterla in guardia da quella fede viscerale, ma non riuscì a smuoverla. 

“Potrebbe averci venduto”.

“Non conosci Dagmaris”.

E quella era stata la fine della conversazione.

Però ci aveva riflettuto. “Il Capitano della Guardia è un cliente affezionato” le aveva detto l’amica il giorno in cui, con un Theo sull’orlo di una polmonite, era arrivata al bordello.

Quanto affezionato, esattamente, Dag?

Fu distratta dal richiamo di Gale che li invitava a procedere verso sinistra lungo un sentiero coperto di aghi di pino. Tutti lo seguirono senza fiatare.

Gale aveva preso con naturalezza il ruolo di leader del gruppo. Perfino Logan e Lynette seguivano le sue indicazioni con fede cieca. Nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione i suggerimenti di un ranger riguardo una peregrinazione nei boschi: quelli come lui sapevano cosa fare e dove andare, lo sentivano sulla punta delle dita e sui peli dietro la nuca. I ranger avevano una viscerale connessione con la terra e il cielo che li rendeva estremamente capaci e efficienti in contesti di sopravvivenza all’aperto; questa era una verità risaputa e nessuno avrebbe osato affermare il contrario. Gale in particolare si era rivelato un compagno di avventure di prim’ordine per gli standard di Meli. Era competente, prudente, assertivo, silenzioso ma sempre di buon umore. Se Meli avesse dovuto descriverlo in una sola parola, avrebbe scelto “equilibrato”.

Arrivarono a un falsopiano di abeti rossi. Dopo aver studiato il cielo e accarezzato fastidiosamente a lungo un ammasso di humus imputridito, Gale disse: “Ci fermiamo qui per la notte”.

“Il sole è ancora alto” ribatté Meli. Si fidava, sì; non per questo era meno una scassacazzo.

“Queste impronte non mi piacciono” spiegò Gale indicando delle invisibili tracce sul terreno. “Non sono fresche, ma non mi arrischierei. E poi qui vicino c’è un torrente: possiamo pescare qualcosa e riempire le riserve d’acqua”.

Cosa avrebbe potuto rispondere? Il ranger li aveva portati sani e salvi al di qua del Passo del Vento senza incappare mai né in un agguato militare né in un troll di montagna. Meli annuì e si accinse a preparare il campo per la notte nella rientranza rocciosa che le fu indicata.

Mangiarono con calma seduti attorno a un falò, per la prima volta abbastanza sereni da scambiare qualche chiacchiera e un sorriso. Gale, munito di balestra rubata alla Barricata, aveva accoppato una coppia di conigli; Astrid aveva pescato delle trote a mani nude. Ne fecero una cena decente insieme alle piccole rape di raperonzolo scovate da Meli lungo il pendio roccioso.

“Non mangi, tu?”.

Meli si bloccò dall’addentare la coscia di lepre che teneva tra le dita unte. Era stato Theo a parlare, e stava ora offrendo un raperonzolo a Astrid. 

La vampira sorrise gentile e gli rispose che era a posto così, grazie. Theo si ritirò e gli occhi chiari di Astrid furono oscurati da un alone di tristezza. Quando si accorse di essere osservata scoccò a Meli un’occhiata torva e tornò a simulare un’espressione insofferente.

Discussero della strada da prendere l’indomani. Gale propose di risalire la valle verso nord e rimanere in bassa quota per evitare il gelo assassino. Avrebbero dovuto aggirare Aroi e i paesini limitrofi, ma si sarebbero allontanati a sufficienza da Andaréz. Alla prima neve, però, un riparo caldo e asciutto sarebbe diventato d’obbligo. Meli non amava quella specifica valle della Catena, ma si disse d’accordo.

Dal nulla, Theo emise un lamento infelice. “Polpetta! È rimasto alla Lucciola!”.

Meli mandò giù il ciuffo di raperonzolo che stava masticando prima di rispondere. “Sono certa che sta bene”.

“Chi è Polpetta?” chiese Lynette.

“Il nostro gatto” rispose il bambino. “Ci ha salvato da dei bastardi che volevano farci del male”. 

Si lanciò quindi in un entusiasmante resoconto del combattimento avvenuto con i “bastardi” — Meli li aveva chiamati in quel modo forse un po’ troppe volte e Theo era un bambino che imparava in fretta — che li avevano attaccati lungo la strada per Andarèz. Raccontò anche dei balsik; Gale gli fece delle domande interessate e la conversazione migrò verso le pratiche alimentari delle creature del piccolo popolo. Lynette disse che lei mangiava solo fiori, funghi e miele, tutto rigorosamente crudo e scondito. Astrid buttò lì che anche lei preferiva il suo cibo poco cotto. Gale scoppiò a ridere e le scompigliò i capelli in cima alla testa. La vampira chinò il viso e fece un piccolo sorriso; probabilmente, se avesse potuto, sarebbe anche arrossita. 

Con stupore di Meli, la serata continuò lieta. Non parlarono dei cancelli illegali e dei soldati sulle loro tracce. Logan era rimasto in silenzio per gran parte della serata, limitandosi ad ascoltare e a rispondere a monosillabi se interrogato. La qual cosa non la sorprendeva affatto, pensò la botanica con un moto di divertimento. L’ammazzamostri indossava di nuovo il trucco nero degli elfi oscuri — doveva averlo acquistato da Lynette — e sembrava di nuovo sé stesso: sicuro, acido e implacabile come quando lo aveva conosciuto. Solo, ora, nel suo sguardo dimorava anche una complicità solida e serena, accresciuta dal vissuto condiviso. Meli si chiese a cosa stesse pensando. 

“Starà bene con Dagmaris? Sei sicura?”.

Theo la scrutava attento. Meli si riscosse e ci mise un attimo a capire a cosa il bambino si riferisse con quella domanda.

“Polpetta è un gatto molto intelligente, troverà di sicuro un posto dove stare” rispose infine, gentile.

Theo annuì piano, giocherellando con un pezzo di carbone sfuggito al cerchio di pietre del falò. “Credo che gli mancheremo”.

“Sì, questo lo credo anch’io”.

Meli guardò il ragazzino con un rinnovato calore nel cuore. Poi si alzò e prese i due bastoni appoggiati a terra. Ne lanciò uno a Theo.

“Su, avanti. Fammi vedere cosa ti ricordi”.

Entusiasta, Theo si mise in posizione di duello nello spiazzo tra gli alberi di fronte all’accampamento. Ripassarono le forme base del combattimento con bastone e due mani all’orientale — laterale di piatto, affondo di punta, mezza rotazione verso l’alto e verso il basso — poi passarono a nuove tecniche.

“Prima colpisci il torace proprio qui, a sinistra, sotto la gabbia toracica; poi, senza spostare le mani, metti tutto il peso sul secondo colpo di destra, che deve arrivare al collo dell’avversario. Poi fai fare al bastone un mezzo giro sopra la tua testa — così, esatto — e fai un passo verso destra. Così riesci a sferrare il terzo colpo di piatto proprio sulla gola, vedi?”.

Theo ascoltava e eseguiva le istruzioni con grande serietà. Meli gli fece ripetere l’esercizio finché non fu soddisfatta di forma e destrezza. Sentiva, però uno sguardo giudicante bruciarle addosso. Si voltò stizzita.

“Che c’è?”.

“I passi sono sbagliati” rispose Logan pronto.

“E allora facci vedere tu come si fa, sapientone”.

Logan le scoccò un’occhiataccia, si alzò e afferrò il bastone che Meli gli porgeva. Si mise in posizione con un movimento fluido. 

“Sinistra, destra e poi ancora destra per uscire dalla linea dell’avversario” spiegò, dimostrando con movimenti lenti. Eseguì la figura in velocità e in un’unica stoccata il bastone di Theo volò a terra. Il bambino rimase impalato con la bocca a forma di O.

Logan allungò il bastone a Meli, che lo prese accigliata. Per un attimo, le loro dita si sfiorarono.

Theo volle riprovare i nuovi passi; quando cominciò a sbadigliare alle correzioni di Meli fu chiaro che era giunta l’ora di andarsene a dormire.

Mentre si preparavano per la notte Meli pensò che era soddisfatta di come stava gestendo la propria indifferenza nei confronti di Logan. Si era impegnata a stargli distante e a non pensare a… pericolose inclinazioni. Lui, d’altro canto, pareva fare lo stesso. Ed era un bene: ci mancava solo una complicata relazione fisica da gestire insieme a quel gran casino in cui si erano cacciati. 

Per questo quando, un’ora dopo, si ritrovò a dormire contro di lui, schiena contro schiena, sul pavimento esiguo e irregolare della grotta dove avevano fatto campo, si convinse che non c’era alcun problema. Assolutamente nessuno.

Astrid e Lynette facevano la guardia all’ingresso. Astrid perché non aveva bisogno fisico di dormire — Meli aveva ceduto alla curiosità e gliel’aveva chiesto — Lynette perché le fate cadevano solo in microsonni di pochi minuti per volta, come certi animali. Quindi le due passavano la notte a chiacchierare del più e del meno o a tenersi una quieta compagnia. Meli vedeva il loro fiato disperdersi in nuvolette di condensa contro il cielo nero.

L’aria odorava di neve, il che significava che il giorno seguente avrebbero dovuto accelerare il passo. Meli aveva in mente io un posto in cui avrebbero potuto nascondersi. Su a nord, in fondo alla valle… un posto in cui aveva giurato di non mettere più piede.

***

Le strigi volavano in tondo. Meli urlò senza suono. Tentò di muoversi ma, come ogni volta, era inchiodata a terra da una forza invisibile. 

Una donna-uccello sbatté le grandi ali fino a lei; i grossi artigli ricurvi le pesarono sul petto. Prima che potesse beccarle gli occhi, però, qualcosa le sfiorò la spalla.

Meli si svegliò con una mano gentile che la scuoteva. Si voltò e si ritrovò davanti il viso incerto di Logan, illuminato appena da una gemmaluce quasi scarica. Sbatté gli occhi e, col cuore ancora martellante nel petto dallo spavento, si sentì invadere da una consapevolezza densa come melassa, dolce e terribile: per la prima volta in vita sua qualcuno l’aveva salvata dalle strigi dei suoi incubi. Senza permettersi di ragionarci oltre, rotolò e infilò la testa contro il collo di Logan. Inspirò forte per trattenere le lacrime e l’odore caldo di lui le riempì le narici.

L’uomo sospirò e la strinse a sé con un braccio.

Meli restò così accoccolata a lungo, pensando solo a ricacciare indietro il pianto che la minacciava con un grosso bozzo in gola. Contrariata da quel crollo emotivo, ammise a se stessa che erano stati giorni difficili e aveva bisogno di conforto e calore più di quanto le piacesse ammettere.

Quando infine il senso di angoscia le scivolò via dal cuore, si accorse che Logan stava distrattamente arrotolando tra le dita una ciocca di capelli sfuggita alle trecce; la sentiva tirare piano lo scalpo.

L’imbarazzo le piombò addosso tutto insieme. Le venne un caldo pazzesco. Si scostò un poco e deglutì. 

“Scusami” disse a bassa voce.

“Non scusarti. Ancora le strigi?”.

“Sì”.

Lo guardò in viso. La sua espressione era neutra, ma aveva una luce morbida nello sguardo. Non la stava giudicando per quella esibizione di debolezza.

Logan si lasciò scivolare via la ciocca dalle dita e tornò a posare la testa sul giaciglio di fortuna. “Dormi. Ti sveglierò, se capiterà ancora”.

Meli fece un cenno di assenso. Si rannicchiò lì accanto e tentò di rilassarsi.

Assolutamente impossibile.

Dopo diversi minuti di inutili tentativi di prendere sonno, riaprì gli occhi. Logan la stava guardando. Meli sentì le guance scaldarsi.

“Cosa c’è?” gli chiese in un bisbiglio.

Logan non rispose. Meli restò in attesa. Udiva il respiro regolare di Gale e Theo dietro di sé. Fuori dalla grotta, tra il frusciare dei pini, un gufo bubolava. 

“C’è un problema che sto cercando di risolvere” mormorò infine il mezzelfo. I suoi occhi non si staccarono da quelli di Meli.

“Ah, sì?”. Meli, che temeva di aver intuito dove si stesse andando a parare con quel discorso, non osò indagare la natura del problema. Chiese invece: “E… come sta andando?”.

“Male”.

Meli abbassò lo sguardo e stirò le labbra in un sorriso involontario. “Sempre ottimista, tu”.

Silenzio. Meli aspettò, ma Logan non sembrava intenzionato a continuare. Ormai, però, i dadi erano tratti.

“Questo tuo problema… è molto grave?”.

Logan esitò. “Abbastanza, sì”.

“Cosa succede se non riesci a risolverlo?”.

“Cose terribili, di certo”.

Confusa da una turbinio di pensieri irruenti, Meli allungò una mano per liberare una perla blu della collana di Logan che si era annodata a una ciocca di capelli.

“Terribili, addirittura?” soffiò, incerta.

Di nuovo, Logan non rispose.

Meli alzò il viso. Logan la fissava con gli occhi chiari appena increspati da vaga preoccupazione e un alone di divertimento.

“Terribili, sì”.

Meli deglutì. E decise che se i dadi erano tratti, tanto valeva scommettere.

“Siamo in due” ammise. “Con… il problema, intendo. Terribili conseguenze e… tutto il resto”.

Per un attimo Logan la guardò stranito. Poi strinse la mandibola, inspirò dal naso e fece un sospiro esagerato. Si girò supino a guardare il soffitto.

Dopo un po’, Meli udì di nuovo la sua voce sussurrata nel buio.

“Siamo nella merda, lo sai?”.

In finto tono colloquiale, Meli replicò: “Non mi sembra nulla di nuovo”.

***

Meli si svegliò accaldata. Ci mise qualche secondo ad accorgersi —  con orrore — di essere raggomitolata addosso al fianco di Logan, il quale a sua volta la teneva stretta a sé con entrambe le braccia. Sentendo la faccia bollente, cercò di sfilarsi piano per non svegliarlo.

Non ci riuscì. 

“Mmh?” mugugnò lui nel dormiveglia, flettendo i muscoli e intrappolandola ancora di più tra le sue spire. A sentire quel suono basso e vibrante a Meli venne ancora più caldo.

“Lasciami andare” gli sussurrò.

Logan si svegliò di colpo e la liberò come se si fosse scottato. 

Si alzarono senza guardarsi, spettinati e stando attentissimi e non toccarsi nemmeno per sbaglio. 

Lynette li accolse fuori dalla grotta col sorriso sornione di chi la sapeva lunga.

“Il buongiorno si vede dal mattino”.

Meli incassò la testa nelle spalle. Aveva sentito quello che si erano detti quella notte? Probabilmente sì. 

“Non volevamo svegliarvi. Eravate troppo carini” aggiunse Astrid.

Sicuramente sì.

Non era successo altro dopo il loro scambio rivelatore. Logan era rimasto ostinatamente a fissare il soffitto finché Meli non aveva ceduto al sonno, e dovevano essersi abbracciati mentre dormivano. E ora eccoli lì, rossi di imbarazzo come due ragazzini beccati a pomiciare dietro i cespugli.

Gale, almeno, ebbe la decenza di restare professionale.

“Buongiorno. Colazione?”.

Meli mangiò gli avanzi di una zuppa fredda e raccattò tutta la sua roba mentre gli altri discutevano su come procedere.

“Dobbiamo trovare un posto dove andare entro due giorni” le riassunse Gale, pratico, quando fu pronta. “Il tempo peggiora, le nostre tracce saranno troppo facili da seguire sulla neve e non mi entusiasma l’idea di restare bloccato in una tormenta con queste temperature. Proposte?”.

Ci fu uno scambio di sguardi. Nessuno propose nulla.

Meli sospirò. 

“Conosco un posto”.







Spazio Autrice

Ciao a tutti! Che diciamo di questo capitolo? :D Ci siamo sbottonati? Siamo felici? Abbiamo ancora un po’ di magagne da risolvere, ma intanto la ship è in partenza…

Non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 11
*** Verso Nord ***


Verso Nord

Il viaggio proseguì tra piacevoli battibecchi sulle abitudini alimentari della fauna invernale locale e lezioni di botanica sulla riproduzione sessuata dei funghi.

Theo chiacchierava allegro, imparando ogni giorno nuove specie di piante commestibili e sequenze di combattimento con bastone all’orientale. Il chiacchiericcio continuo metteva a dura prova la pazienza di Logan, che lo ascoltava con l’espressione rigida di un santo al martirio e, quando proprio non ce la faceva più, se la filava con la scusa di fare da vedetta qualunque cosa volesse dire.

Quindi Theo, ugualmente contento, si aggregava a un altro membro del gruppo e continuava a ciarlare. Un pomeriggio si era attardato con Meli ad ammirare una rosetta basale di alliaria quando chiese: “Sai che Astrid è una vampira?”.

La botanica, che stava illustrando i tre utilizzi culinari delle foglie a cuore di quella particolare specie botanica, quasi si strozzò. Alzò la testa e lanciò un’occhiata a Gale e Astrid, ormai già una ventina di metri davanti a loro.

Theo continuò a cianciare indisturbato. “Per questo non mangia. E in effetti ha i denti molto lunghi. Beve il sangue di Gale una volta al mese, ma non lo trasforma in vampiro. Può decidere lei quando usare il veleno e quando no, lo sapevi? Io non lo sapevo”.

Meli lo sapeva. Lo aveva scoperto il giorno prima quando Gale si era seduto con la schiena contro un albero e aveva offerto la gola a Astrid. La vampira si era inginocchiata accanto a lui e gli aveva posato con delicatezza i denti sul collo, affondando i canini sulla delicata pelle esposta. Gale non aveva emesso un suono. Aveva invece chiuso gli occhi e cominciato a respirare a ritmo lento e intenzionale, come in meditazione. 

Meli era rimasta a fissarli inorridita e affascinata, con addosso la brutta impressione di star spiando una scena privata. Era un momento così… intimo. Romantico, in un certo senso. Il ranger si era offerto alla compagna in un modo così rilassato e naturale, così certo che nulla di male sarebbe accaduto. Quei canini sul collo… Meli rabbrividì alla sola idea.

Il veleno di vampiro, iniettato con il morso dei canini affilati, avrebbe dovuto trasformare invariabilmente la preda in un nuovo succhiasangue. E invece no: Astrid riusciva in qualche modo a trattenersi e a non imporre a Gale la maledizione del vampirismo. Viveva con lui una sorta di simbiosi: lui le concedeva il proprio sangue come nutrimento, lei lo aiutava e lo proteggeva nei loro vagabondaggi. Il ranger non assumeva nemmeno la dose raccomandata di verbena che, entrando in circolo subito dopo l’assunzione, avrebbe ridotto al minimo il rischio di contagio.

Follia pura.

Astrid aveva sfilato i denti e si era leccata via il sangue dalle labbra. Con un panno pulito aveva fermato l’emorragia dai due buchi sul collo del compagno ed era rimasta a vegliarlo accarezzandogli piano i capelli. Gale aveva continuato a respirare ad occhi chiusi, mormorando una vecchia canzone. Confusa, Meli aveva distolto lo sguardo.

“Però è simpatica, no?” continuò Theo imperterrito. “E anche Gale. E Lynette mi fa sempre ridere. Sono tutti buoni con me, Meli. Non me lo merito”.

Dopo aver superato l’imbarazzo dei ricordi del giorno precedente e riattaccato insieme i pezzi del cuore che le era esploso nel petto in quel momento, Meli rispose rigida: “Ti meriti il mondo e niente di meno, Theo. Non pensare mai il contrario”.

Il bambino si strinse nelle spalle e strofinò tra le dita una foglia dentellata. Un gradevole profumo di aglio si spanse nell’aria.

“Il posto in cui stiamo andando… com’è?”.

Il posto di Meli era su su a nord, dopo il passo delle Due Sorelle e il Ghiroi. Non aveva voluto dare troppe informazioni ai suoi compagni di viaggio al riguardo; aveva solo garantito che fosse un luogo sicuro, caldo e nascosto che avrebbero potuto usare come base per ripararsi dalla perturbazione in arrivo.

“Ti piacerà” risolse Meli.

“Staremo insieme?”.

“Sì”.

“Allora sarà bello”.

La botanica guardò il bambino lasciare l’alliaria e trotterellare svelto fino a raggiungere i compagni di viaggio. Si stava apprestando a seguirlo quando percepì un movimento alla propria destra.

“Non puoi illuderlo per sempre”. 

Meli roteò gli occhi. 

“Sei sempre di grande conforto, Logan”.

L’ammazzamostri apparve come un’ombra dalla pineta e si affiancò alla donna. Insieme ripresero a camminare lungo il sentiero.

“Da quanto eri lì a spiarci?” gli domandò.

“Da un po’. Il ragazzino non la finiva più”.

Meli scosse la testa, prese un respiro e chiese: “Di cosa lo starei illudendo, sentiamo?”.

“Che potrà restare sempre con te. Si sta affezionando”.

Forse resterà sempre con me, pensò la donna. Non lo disse; Logan, maledetto, lo capì lo stesso.

“E anche tu ti stai affezionando. Ma non puoi portartelo via come se fosse figlio tuo” continuò il mezzelfo.

Di nuovo, Meli pensò che forse poteva. Desiderava che Theo fosse al sicuro, sereno e felice. Avrebbe potuto combattere per questo.

“Non posso nemmeno riportarlo da dove è venuto. Non dopo quello che sappiamo” ribatté. “Si merita un po’ di affetto dopo quello che ha passato, anche se niente e nessuno potrà mai restituirgli gli anni che ha perso”.

Logan mugugnò contrariato.

“E poi non si può scegliere a chi affezionarsi, no?” continuò la donna. Scoccò un’occhiata significativa a Logan, il quale alzò gli occhi al cielo e decise saggiamente di rimanere zitto.

“Comunque hai ragione, non posso portarmelo via e basta. Troverò una soluzione per Theo dopo che avremo capito come risolvere l’altra spinosa situazione”.

“Non c’è niente che noi possiamo fare per risolvere quella situazione”.

Meli guardò il cielo lattiginoso. “C’è, invece”.

Logan le lanciò un’occhiata in tralice. “Non possiamo salvare il mondo, Mel”.

“E forse potremmo farlo, invece. Ci ho pensato. Trovare la mutaforma. Dimostrare che non siamo stati noi a aprire quei cancelli, che c’è tutta una narrazione nascosta…”.

“Parli come quei pazzi che credono che la luna sia un complotto dei poteri forti”.

“...con la sottile differenza che quello che io sto dicendo è la verità” ribatté Meli scocciata.

“Lo sappiamo solo noi, che è la verità”.

“Scommetto che lo sa molta più gente, ormai. Tutto il piccolo popolo ne è informato, intanto”.

“E che facciamo, un esercito di fate?”.

Be’. A vedere Lynette, non è un’opzione che mi sento di scartare”.

Logan fece uno dei suoi rari, sfuggenti sorrisi. Meli sentì un fastidioso sfarfallamento da qualche parte sotto il diaframma.

“I balsìk” aggiunse stoica “mi hanno detto che mi avrebbero trovata, o che io avrei potuto trovare loro, in caso di bisogno. Loro potrebbero sapere qualcosa”.

“Non so se ci sono colonie di balsìk in questa parte della valle”.

“Non lo so nemmeno io. Possiamo tentare, però”.

Logan, evidentemente scettico, non rispose. Per un po’ non parlarono più e ognuno si perse nei propri pensieri. L’unico rumore era il morbido affondare degli scarponi sugli aghi di pino e l’ovattato chiacchiericcio di Theo più avanti.

“E se anche riuscissimo a trovarla?” domandò Logan. “Cosa facciamo poi? La ammazziamo?”.

Meli si prese qualche istante per riflettere. Ripensò a Theo; ai bambini rapiti, sfruttati e lasciati cadaveri nei fiumi; all’Elementale di fuoco, alle strigi, al nekorai e all’infinità di altri mostri che quei cancelli schifosi avrebbero potuto vomitare fuori se la mutaforma avesse continuato il suo folle operato.

“È una possibilità” rispose, secca.

***

Il cielo si stava già scurendo quando decisero di fare sosta per la notte vicino a un torrente. L’aria era secca e gelida. Carica di neve, preannunciava Gale: “Domani al massimo; più probabilmente già stanotte”.

E quella sera, attorno a un scricchiolante falò dentro la spelonca che sarebbe stata la loro dimora per la notte, parlarono finalmente dei cancelli. Gale fece domande sulla mutaforma, su come aveva aperto il cancello di Darren, su cosa ne era uscito, e come erano riusciti a fuggire.

Meli raccontò monocorde addolcendo i dettagli più sanguinolenti. Di tanto in tanto lanciava occhiate a Theo per assicurarsi che rivivere quei momenti di orrore non fosse troppo traumatico per lui.

Il ranger fece qualche altra domanda sul podestà e si chiuse in un silenzio riflessivo. 

“Non è una faccenda da poco” disse infine. “È molto, molto grave che il governo ci stia tenendo all’oscuro da queste aperture illecite. È vero che si scatenerebbe il panico, ma non vedo come lasciare che qualcuno massacri bambini innocenti senza fare nulla sia preferibile. È ora una nostra responsabilità rendere nota la questione a quante più persone possibili; è doveroso che i genitori sappiano la verità su cosa è successo o potrebbe succedere ai loro figli”.

Theo alzò il viso speranzoso.

Il ranger si voltò verso Astrid. “Dobbiamo chiedere a tuo fratello e agli altri”.

Astrid storse il naso. “Non penso che questa faccenda interessi al mio clan”.

“Dovrebbe. Mandiamo un messaggio anche a loro. Mandiamo un messaggio a tutti quelli che conosciamo. Se il governo vuole fingere che nulla stia accadendo, dobbiamo renderglielo impossibile”.

A Meli fu chiaro che Astrid non avrebbe potuto negare qualcosa a Gale nemmeno sotto tortura. La guardò borbottare contrariata per un po’ e infine dirsi d’accordo.

Lynette intervenne per aggiungere che tutto il piccolo popolo ne era informato da mo’ e che le autorità cercavano di affossare tutta la faccenda per evitare il panico generale o, al peggio, una guerra civile.

Vampiri, balsìk, fate. Cominciamo a avere un’armata di tutto rispetto, pensò Meli con un moto di implacabile ironia.

“Scriverò anche agli stregoni e alle Lettrici che conosco giù a ovest” continuò Gale, meditabondo. Non sembrava per nulla interessato a lasciar cadere l’argomento.

Alla parola Lettrici Meli si incupì. La cosa non sfuggì a Logan, che stava ascoltando lo scambio da un angolo della grotta con le braccia conserte e un'espressione contrariata in faccia. Le fece un cenno interrogativo. Lei scosse la testa.

“Ditelo a chi vi pare; avvisateli però che queste informazioni li mettono a rischio di essere associati a un gruppo di terroristi” ammonì Meli.

Gale annuì e continuò a elaborare ipotesi e soluzioni. Sembrava aver preso molto a cuore la questione. Probabilmente perché lui, quei bambini, li aveva visti morti… Meli lo ascoltò in silenzio. Era spaventata e affascinata dalla determinazione del ranger di venire a capo di quel disastro. E anche Theo, seppur non osando intervenire, pendeva dalle sue labbra.

“È nostra responsabilità” stabilì infine il ranger. 

Meli non ritenne necessario sottolineare che lui fosse l’unico, in quel gruppo scampagnato, a possedere la caratura morale necessaria per pronunciare una frase del genere.

“Domani saremo al rifugio indicato da Melissa; da lì potremmo elaborare un piano d’azione” continuò. 

Meli vide Logan stringere la mandibola. Attese la replica acida, ma non arrivò.

Finirono la scarsa cena e Meli e Theo si misero a provare una nuova sequenza di combattimento nel ristretto spazio della spelonca. Logan si intromise anche stavolta, correggendo la posizione di guardia e facendo volare di nuovo il bastone di Theo.

Astrid, che li stava osservando seduta con i gomiti sulle ginocchia, scoppiò a ridere. 

“La fai facile così, ammazzamostri”.

La vampira si alzò e si avvicinò ai duellanti. Si mise di fronte a Logan, si piegò sulle gambe e gli concesse un sorriso di sfida. “Prenditela con quelli della tua stazza”.

Logan colse subito la minaccia. Alzò il bastone e si mise sulla difensiva. “Niente veleno”.

Astrid soffiò snudando i canini appuntiti. “È un insulto che tu l’abbia anche solo pensato”.

Si avventò su di lui caricando il braccio destro. Logan scartò di lato per evitare gli artigli laccati. Astrid colpì il vuoto e fece una piroetta per tornare a fronteggiare l’avversario. I due si studiarono circospetti.

Nel frattempo Gale si era avvicinato a Meli. “Ah! Questa sarà divertente” esclamò mettendosi le mani sui fianchi.

“Due navok che Logan la mette a terra” annunciò Lynette.

Il ranger arricciò le labbra. “Mmh. Non saprei. Astrid è agguerrita. Punto due su di lei”.

Quattro monete d’argento apparvero galleggiando tra di loro.

“Andata”.

Meli tornò a guardare i duellanti. Conosceva le abilità di Logan, ma Astrid era feroce e era una vampira. Non avrebbe scommesso sul risultato di quello scontro.

Logan attaccò per primo. Il colpo del bastone si scontrò con l’avambraccio di Astrid, che resse il colpo senza spostarsi di un millimetro. La vampira afferrò l’arma e sferrò un calcio al fianco dell’ammazzamostri. Logan liberò il bastone dalla presa dell’avversaria e lo fece roteare in aria. Mirò alla testa. La vampira si abbassò rapida e si gettò su di lui, atterrandolo.

Logan usò l’arma a due mani per sferrarle un colpo violento alla gola e districarsi dalla sua presa. Astrid, rimasta a terra, ghignò.

“Sei più veloce di quel che pensavo, mezzelfo”.

“Sei più forte di quel che pensavo” grugnì lui.

Astrid si rimise in piedi e attaccò. I duellanti, furibondi, se le diedero di santa ragione per qualche minuto. Sembrava che avessero un bel po’ di furia repressa da sfogare.

“Sono rabbiosi” commentò Meli, stupita da tanta ferocia. 

Gale si strinse nelle spalle. “Astrid probabilmente vede Logan come un membro del clan da sottomettere con la forza; così avviene tra i vampiri. E poi dice che è da Darren che vuole togliergli quell’espressione di merda dalla faccia. Parole sue, eh, non mie”.

“E Logan è incazzoso di suo” commentò Lynette seguendo avidamente le movenze dei due. “Ha immagazzinato rabbia per anni e adesso basta un niente per farlo scoppiare”.

Meli, che non aveva mai smesso di seguire lo scontro con un moderato grado di angoscia, non commentò oltre. 

Dopo aver assestato un colpo di bastone particolarmente feroce, Logan indietreggiò. Astrid, a pochi passi di distanza, scosse la testa e si aggiustò la mandibola lesa.

I due duellanti si fissarono ansimando.

“Parità?” propose il mezzelfo, esausto.

“Parità” concesse col fiatone la vampira.

Si fecero un cenno di mutuo rispetto e abbassarono le armi.

“Aaaah non siete divertenti” si lamentò Lynette, facendo sparire con uno schiocco di dita i navok della scommessa.

Trattenendosi dal correre da Logan per assicurarsi che stesse bene, Meli guardò i due tornarsene ammaccati ma soddisfatti verso di loro. Gale si complimentò con Astrid, Lynette insultò Logan per la mancata vincita. 

Infine tutti quanti, più stanchi di prima ma con un estraneo senso di familiarità nel cuore, si prepararono per la notte.

Durante il giorno Meli e Logan erano campioni nel fingere di essere completamente disinteressati l’uno all’altra: si cercavano appena con lo sguardo, si scambiavano qualche battuta sarcastica e tutto finiva lì.

Di notte la cosa si faceva più difficile.

Meli odiava la sensazione di allerta continua di voler sapere dove lui si trovasse in ogni momento, eppure non riusciva a farne a meno. Si sentiva attirata a lui da una forza lenta e inesorabile; e più la combatteva, più sentiva di scivolare giù per il crepaccio.

Dopo aver preparato il campo, e fingendo ogni volta che fosse una fortuita casualità, finivano per sdraiarsi l’uno accanto all’altra; si scambiavano uno sguardo carico di non detti e si limitavano a giacere immobili nella notte silenziosa. Il mattino si ritrovavano spesso molto più vicini di come si erano addormentati, ma facevano finta di nulla. Nessuno degli altri ormai faceva più caso a loro.

Quella mattina non fu diverso. Meli rinvenne da un sonno senza sogni e si accorse di avere un braccio di traverso sul petto di Logan. Rimase lì per un po’, immobile, a rubare quegli attimi di complicità segreta mentre guardava il proprio braccio alzarsi e abbassarsi piano nel ritmo regolare del respiro dell’ammazzamostri.

Avevano un nome, quegli attimi rubati? Quei piccoli gesti innocenti, quegli scambi di sguardi, quel cercarsi e di continuo ritrovarsi? E se anche avessero avuto un nome, avrebbero avuto il coraggio di usarlo ad alta voce? 

Logan si svegliò. Meli ritirò il braccio e si alzò come se nulla fosse accaduto. 

Si affacciò fuori dalla grotta. La neve, infine, era arrivata. Il bosco era un incanto candido e silenzioso mentre grossi fiocchi bianchi cadevano dal cielo opaco. Camminarono tutto il giorno sotto la nevicata. La neve scricchiolava sotto i passi e il suono delle loro voci rimbalzava in modo diverso, più attutito e pacato, contro il silenzio etereo del paesaggio. Meno incantevoli erano le dita dei piedi insensibili dentro gli scarponi e i mantelli inzuppati e pesanti di acqua gelida.

“Si può sapere quanto manca al tuo stramaledetto posto?” rimbrottò Astrid dopo ore.

Meli osservò il cielo candido. Un fiocco di neve volteggiò e finì a posarsi sul suo naso.

“Se ci sbrighiamo potremmo arrivare entro sera”.

La vampira fece un suono stizzito e non si lamentò oltre.

Come promesso, prima che il cielo bianco virasse al grigio, e prima che le dita dei piedi si staccassero definitivamente per ipotermia, giunsero a destinazione.

“Siamo arrivati” annunciò Meli.

Aveva smesso di nevicare. In fila lungo il sentiero, i sei compagni di viaggio si fermarono nel bel mezzo di un bosco di betulle e querce perfettamente immobile.

“Siamo arrivati dove? Non c’è un cazzo di niente qui” brontolò subito Astrid.

Lynette, rannicchiata dentro il cappuccio alzato del mantello di Logan per proteggersi dal gelo, alzò la testolina di capelli lilla.

“No. Qualcosa c’è” disse.

Meli sapeva dove guardare. Identificò un filo di fumo e lo indicò ai compagni, che la seguirono fuori dal sentiero per aggirare un rilievo di terra ricoperto di neve. Dall’altro lato della collinetta, quasi invisibile, c’era una porta di legno: l’ingresso di un’abitazione interrata. Il senso di familiarità la colpì prepotente mentre avanzava nella neve fino all’uscio malconcio. Bussò due volte. Alla terza la porta si aprì di una spanna e un occhio sospettoso si fissò su di loro.

Quando riconobbe Meli, la figura misteriosa spalancò la porta. Si trattava di una donna alta, vestita poveramente con strati e strati di scialli grigi e marroni. Aveva in testa un bitorzoluto cappello di lana che però non riusciva a contenere il vistoso cespuglio di capelli crespi, grigi sulla sommità e bruno-rossicci sulle punte. La pelle del viso era sottile come carta e ricoperta di lentiggini. Due occhi nocciola, scaltri ma in qualche modo assenti, si piantarono sulla faccia di Meli.

“Ce ne hai messo di tempo” esordì la donna con voce gracchiante. “Entra, sciagurata”.

La donna sparì all’interno dell’abitazione, lasciando Meli e i compagni a lanciarsi occhiate titubanti nel paesaggio innevato. Infine la botanica fece agli altri un cenno stanco e insieme varcarono il rettangolo buio.

L’ambiente interno era in penombra e permeato da un odore caldo e intenso di zuppa e zenzero cotto. I dettagli emergevano uno a uno man mano che gli occhi si adattavano alla semioscurità. L’abitazione era incavata dentro la piccola collina; sulle pareti storte di pietre incassate si allungavano e si aggrovigliavano le radici degli alberi che crescevano in superficie. Alla loro sinistra un tavolo e un camino troneggiavano nella piccola cucina, dove un fuoco scoppiettava allegro; paioli di rame e un’innumerevole quantità di stoviglie erano allineati sulle scansie al muro e appesi decorativamente all’architrave e alla canna fumaria che saliva fino al soffitto tondeggiante: il fumo che avevano visto poco prima usciva da lì.

Davanti a loro un elaborato telaio mostrava la parte inferiore di uno scialle intessuto a metà. Mucchi di lana ancora da cardare giacevano a terra tutt’attorno a una poltrona rivestita di pellicce.

L’unica fonte di luce naturale era una finestra accanto alla porta da cui erano entrati; innumerevoli candele e gemmeluce posizionate strategicamente facevano il resto. Un’altra porta si apriva alla loro destra; Meli sapeva che da quella parte si passava alle camere da letto, alla dispensa e a una piccola stalla.

La botanica si voltò verso la donna vestita di scialli che la stava fissando a braccia conserte.

“Chi è questa gente?” incalzò quella.

“Questi sono…”, Meli si interruppe per pensare ad una definizione adatta, “i miei compagni di viaggio” dichiarò infine.

“Non possono stare qui. Sono foresti”.

Meli prese un respiro. L’odore di cibo speziato le fece contorcere lo stomaco dalla fame.

“Non abbiamo altro posto dove andare”.

“Dovevi pensarci prima di mollarmi qui da sola per andare in quello stupido negozio. Non è più casa tua, questa”.

Non sono tornata a casa. Chiedo asilo per un breve periodo. Cibo caldo e un tetto sopra la testa. Possiamo pagare”.

La donna sollevò un sopracciglio. “Non voglio i tuoi soldi”.

“Cosa vuoi?”.

“Una storia”.

Meli sbuffò. “Di quelle ne abbiamo a iosa”.

La donna si sistemò lo scialle che le era scivolato dalla spalla e li fissò uno a uno. Non era la stessa sensazione di frugamento nel cervello che avevano subìto dalla mutaforma, ma allo stesso tempo si percepiva che non era un semplice guardare.

“D’accordo” disse infine la donna. “Intanto potete restare. Per stanotte. Poi si vedrà se le vostre storie valgono qualcosa”.

Meli gettò un’occhiata avida ai due pentoloni che sobbollivano appesi sul braciere. La padrona di casa fece un cenno annoiato con la mano.

“E prendete da mangiare. Avete un aspetto orribile”.

Sistemati attorno al tavolo si misero a mangiare solerti in un tintinnio di stoviglie e cucchiai. Theo, finita la prima scodella di zuppa, fu il primo a ricordare le buone maniere. “Grazie per il cibo, signora. È molto buono”.

“Prego. Sono felice di sapere che tra di voi c’è almeno una persona con la buona creanza di ringraziare”.

Astrid, che ovviamente non stava mangiando, arricciò il naso. “Certo, certo. Ma si può sapere tu chi sei?”.

La donna raddrizzò le spalle e sollevò il mento con fare regale. Meli si trattenne da alzare gli occhi al cielo.

“Il mio nome è Cassandra. Sono una Lettrice del Fuoco”.





Spazio dell'Autrice
Vi stavate chiedendo quando saremmo arrivati a giustificare il titolo di questa Parte IV...? Eccoci qua :D Cosa mi dite di questo ridicolo gruppo di eroi? Riusciaranno a salvare il mondo? E i due nostri imbecilli innamorati? Aaaah io li amo. Ci stiamo avvicinando a gran carriera verso la fine di questa quarta parte, e poi mi prenderò la consueta pausa per elaborare la quinta, che potrebbe essere la conclusiva. Siete un po' tristi? Io sì :')
A prestissimo, grazie a chi segue, a chi legge e a chi lascia un commento <3 A presto!

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Capitolo 12
*** La Lettrice del Fuoco ***


La Lettrice del Fuoco

La magia a Zolden era classista.

Molti bambini nascevano con la giusta Vibrazione; ma tale talento doveva essere coltivato per poterci fare qualcosa di utile. La magia si studiava come si studiava la pittura a olio: con impegno, costanza e genitori danarosi a sufficienza da poter spedire i pargoli in un qualche sperduto Istituto di montagna provvisto di libri e insegnanti di ruolo. 

Niente soldi, niente istruzione, niente magia.

Ne risultava una società magicamente squilibrata, con talento potenziale in ogni classe sociale, ma sviluppato solo in concomitanza di rilevanti flussi di cassa.

Le Lettrici invece seguivano un percorso a parte. Le Lettrici non diventavano tali per talento di nascita: per poter vantare il titolo era necessario vivere e superare un evento traumatico durante la prima infanzia. Alcune bambine, si erano notato, sviluppavano una certa inclinazione a prevedere il futuro. “Prevedere”, in realtà, era un termine che Meli si rifiutava di usare. Indovinare, forse. Inventare di sana pianta in seguito a un grave trauma e continue minacce, più probabilmente.

Queste presunte chiaroveggenti non erano rare a Zolden. Vivevano in luoghi isolati, vicino agli alberi sacri, e vendevano i loro servizi in cambio di soldi, oggetti, storie o ricordi.

Una di queste era Cassandra.

La madre di Meli.

Un mormorio si levò dai suoi compagni di viaggio.

“Una Lettrice? Questo cambia tutto! Può dirci dove—” esclamò Gale agitando le mani così tanto da far quasi cadere la scodella.

“Io non posso dirvi niente finché non avrò udito le vostre storie” lo stroncò subito Cassandra; non riuscì però a nascondere il sorrisetto compiaciuto per la reazione che le sue parole avevano suscitato.

“Siamo troppo stanchi per le storie, adesso” tentò Meli.

“Niente storia, niente letto”.

Meli fissò la madre con innegabile astio. Il cappellino di lana le pendeva floscio da un lato. Sospirò. 

“Chi comincia?”.

Riuscirono a cavarsela con un breve aneddoto sull’infanzia di Gale al di là della Catena, il quale permise loro di guadagnarsi una notte al caldo. Il ranger avrebbe voluto interrogarla subito, ma la Lettrice non cedette.

“Non ora” dichiarò. “È notte ormai. Andatevene a dormire. Di là troverete letti e coperte; accendete pure il camino. Domani parleremo”.

Furono cacciati oltre la porta di destra. Li accolse una stanza affollata di letti malconci, un focolare impolverato e un distinguibile olezzo di pecora bagnata. 

Meli, infastidita oltre misura, appoggiò il suo zaino per terra, si sedette su un materasso sfondato e si mise a fissare con occhi vacui la parete di pietra. Aveva male ai piedi e un inizio di mal di testa. Se sperava di poter avere un attimo di pace, però, si sbagliava: Theo le si sedette accanto e le chiese come funzionavano le storie.

La botanica fece un sospiro e recitò: “Le Lettrici dicono che i ricordi del passato servono a riequilibrare quanto viene rivelato del futuro. Più una storia è vera, sofferta e personale, più ha valore. Le Lettrici si nutrono di storie come api di nettare; le mantengono giovani e acute e permettono loro di avere visioni più vivide. O così dicono”.

Gale, rimasto in piedi vicino alla porta, si rivolse a lei. “Perché non hai detto che conoscevi una Lettrice? Questo risolve tutto: potrà dirci dove si trova la mutaforma e come fermare questa follia”.

“Non risolveremo un bel niente” ribatté Meli. “Mia madre è una ciarlatana”.

Le sopracciglia di Astrid schizzarono verso l’alto. “Tua madre?”.

Logan ci mise un secondo a assorbire l’informazione. Passato l’attimo di smarrimento, si voltò verso Lynette.

Seduta sull’orlo di una mensola, la fatina si strinse nelle spalle. “Le Lettrici non emettono la Vibrazione. Non posso dire se è una veggente vera oppure no”.

“Potremmo provare a farci leggere qualcosa lo stesso” tentò Gale. “Potrebbe comunque essere d’aiuto”.

Meli, nonostante tutto, apprezzò l’ottimismo. Ci voleva qualcuno deciso a non lasciarsi abbattere da cinismo e disperazione.

“Possiamo tentare” rispose Meli, modulando lo scetticismo nella voce ad appena un accenno. Sapeva che sarebbe stato assolutamente inutile, ma non se la sentiva di stroncare così la poca speranza che avevano. E perlomeno quella risposta accomodante avrebbe chiuso l’argomento per la serata: non aveva più voglia di parlare di storie, letture o Lettrici. Avrebbe preferito non parlarne mai più, in effetti; ma ahimé ora era incastrata in quel buco sotterraneo con sua madre e i suoi vaneggiamenti.

Ci fu un rumoreggiare di abiti e bagagli. Le persone che necessitavano di una buona notte di sonno si divisero i quattro letti; Astrid, insonne ma esausta, si sedette ai piedi di quello di Gale; Lynette si raggomitolò in un consunto portagioie di legno sulla mensola sopra la testa di Meli. La botanica le passò uno strofinaccio ragionevolmente pulito da usare come coperta.

“Dovremo impegnarci assai per poter passare qui tutto l’inverno a furia di storie” bofonchiò Meli combattendo per dare la forma a un cuscino troppo floscio.

Logan, nel letto accanto al suo, stava fissando con sospetto una radice che pendeva dal soffitto. “Siamo al sicuro qui?”.

“Fidati, se al mondo esistesse un qualsiasi altro posto preferibile a questo, ci sarei andata” replicò Meli. Picchiò per l’ultima volta il cuscino e vi adagiò la testa dolorante. 

***

La mattina seguente Meli vagava nel bosco innevato alla ricerca di legno sacro. Come quando aveva dieci anni. Ed era irritata a morte di essere obbligata a fare la servetta di sua madre. Come quando aveva dieci anni.

Soprattutto perché la suddetta madre trovava sempre il modo di apparire accanto a lei con l’unico scopo di infastidirla ancora di più. Poco dopo, infatti, le si affiancò in silenzio. Per un po’ camminarono ignorandosi a vicenda. I loro passi scricchiolavano affondando nella neve.

“So cosa sta succedendo” iniziò Cassandra con studiata teatralità. “So perché siete qui”.

Meli le scoccò un’occhiataccia. “Allora sai già se puoi aiutarci o no”.

“Io non posso. Il fuoco può. Sarà lui a rispondere alle vostre domande”.

Il fuoco.

Meli si rivide a dodici anni, legata in una radura, con le strigi che giravano in tondo contro il cielo azzurro. Scosse la testa per cancellare quella immagine. 

Sua madre le scoccò un’occhiata. "Se da bambina ti fossi impegnata di più anche tu avresti potuto ereditare il dono. Invece preferivi girare con quella vecchia pazza".

“Davvero vuoi parlare ancora di questo?”.

Nessuna risposta. Meli continuò a parlare.“E quella vecchia pazza era tua madre, nonché mia nonna. E avrei fatto qualunque cosa piuttosto di fare la tua vita, rinchiusa sottoterra come uno scarafaggio”.

“Potevi essere giovane per sempre. Potevi aiutare le persone. Ma ormai è tardi”.

“Aiutare le persone? Inventando baggianate generiche su perseveranza, vento da ovest e boccioli in primavera?”.

“Non rivolgerti a me in questo modo insolente”.

Meli avrebbe voluto rispondere “Non sono più una bambina, ti parlo come mi pare!” ma sapeva che sarebbe suonata esattamente come una bambina. Di dieci anni. Invece disse, con tono estremamente maturo e razionale: “Vaffanculo”.

L'interlocutrice alzò le mani al cielo. “Ah! Non si è mai potuto parlare con te”.

Meli la ignorò. Erano arrivate all’albero sacro. 

Gli alberi sacri — di solito querce, frassini o biancospini — erano facili da riconoscere: erano massicci e crescevano lontano dagli altri, circondati da un anello di pietre o nuda terra che segnalava il percorso compiuto a ogni solstizio dalle danze sfrenate delle fate. Meli lo individuò dal dislivello dello strato di neve.

Fece un passo all’interno del cerchio con i sensi in allerta. Non era pericoloso entrarvi se non c’era un rito in corso, ma a Meli quei luoghi avevano sempre fatto un certo effetto. Percepì la magia accarezzarle i capelli.

“Sbrighiamoci”.

Tranciarono pochi rami spessi e ne formarono una fascina. Sua madre invocò perdono con una breve litania in dialetto locale mentre Meli legava la legna in cima allo zaino. 

Uscirono dal cerchio e si avviarono verso casa. Con la coda dell’occhio Meli vide qualcosa di grosso muoversi tra gli alberi. Un animale con un mantello candido chiazzato di grigio e un paio di imponenti corna arrotolate sul capo. Una lince cornuta. 

Meli e l’animale si studiarono in silenzio. Poi la lince balzò via e sparì nella neve.

***

I preparativi per la lettura erano, secondo Meli, esageratamente lunghi e laboriosi. Sua madre rassettò casa da cima a fondo, pulì il camino dai resti di cenere e fece bruciare un mazzolino di salvia e rosmarino per ingraziarsi gli spiriti.

Quando tutto fu pronto e l’odore di aromatiche divenne insopportabile, Cassandra si portò una mano al petto, li guardò tutti e con tono melodrammatico annunciò: “Cominciamo”.

Il gruppo di fuggitivi che affollava la piccola cucina, chi seduto al tavolo, chi in piedi con atteggiamento sprezzante, rimase in attesa di istruzioni.

“Davvero sai leggere il futuro?” chiese Theo.

La risposta di Meli fu più veloce di quella della madre: “No. Le Lettrici possono dare un’interpretazione di ciò che sanno del presente e spingerti a intraprendere una strada piuttosto di un’altra, ma la lettura si ferma qui. Non c’è un vero futuro. Non c’è preveggenza”.

Cassandra lanciò un’occhiataccia alla figlia. “Certo che posso leggere il futuro” scandì, tornando a rivolgersi a Theo. “Ogni mese decine di uomini, donne e creature vengono da me con questa medesima richiesta”.

“Il fatto che tu abbia molti clienti non significa che tu sia in grado di fare quello che dici” rimbrottò la figlia.

“Se fossi una ciarlatana non pensi che qualcuno si sarebbe lamentato?”.

“Penso che tu sia molto brava a essere una ciarlatana”.

Madre e figlia si squadrarono in cagnesco.

Gale si intromise con tono accomodante: “Ti siamo grati per la concessione che ci fai con i tuoi poteri, Lettrice. Possiamo procedere?”.

“Prima, una storia”.

Gli ospiti si guardarono a disagio. Nessuno si fece avanti.

“Su, su. Condividere una storia con una Lettrice ne allenta il peso sullo spirito, giovando anche chi la racconta” li incoraggiò. “È di buon auspicio condividere i propri ricordi con me”.

Meli fece una smorfia. 

Theo alzò timidamente una mano. “Posso andare io?”.

Cassandra fece un cenno benevolente. Theo prese fiato e cominciò a raccontare. Era la storia di come da piccolo aveva scoperto l’esistenza di una radura nascosta scendendo un torrente in secca estiva. 

“Ci sono degli alberi bellissimi, e un sacco di muschio morbido dove sdraiarsi. E una specie di laghetto pieno di pesci minuscoli” narrò entusiasta. “Un giorno mi sono arrampicato su un albero altissimo e ho visto un nido con delle uova blu dentro. Non l’ho toccato perché dentro le uova ci sono i cuccioli degli uccelli, così mi ha detto Marlene, e io non volevo farle cadere. Quindi le ho solo guardate senza toccarle. Dalla cima dell’albero ho visto il tramonto. Tutto diventa rosa, al tramonto. È stato molto bello. Poi sono sceso e sono tornato a casa. La mamma mi ha sgridato perché sono tornato tardi e le ho prese, ma io pensavo al mio posto bello e non mi ha fatto tanto male”.

Quando avrebbe ancora potuto spezzarle il cuore, quel bambino? Meli strinse i pugni e ricacciò indietro la rabbia all’idea che ogni ricordo bello di Theo fosse macchiato dagli abusi dei genitori. Decise che sarebbe morta piuttosto di riportarlo a quella famiglia disgraziata.

Theo finì la sua storia. “Ci vado sempre quando il fiume è senza acqua. Se volete vi posso portare l’estate prossima. È un segreto però: non dovete dirlo a nessuno”.

Il bambino si voltò verso Meli con un sorriso beato in volto. La donna gli sorrise a sua volta e gli strinse la manina nella sua.

Per un istante, il viso attento di Cassandra si rasserenò e si distese. Parve ringiovanita di qualche anno. Meli diede la colpa alla penombra della stanza.

“Benissimo. Grazie per la tua storia, piccolo Theo” disse la Lettrice. “Possiamo cominciare”.

Cassandra sistemò il legno sacro nel camino in una piramide ordinata. Disse qualche parola e avviò le fiamme con la pietra focaia. Li avvertì che per procedere con la lettura era necessario porre una domanda; ne seguì un parapiglia di idee confuse. 

“Come salviamo il mondo?” chiese Theo.

“Come possiamo impedire lo spargimento di altro sangue innocente?” propose Gale.

“Come farmi i cazzi miei senza essere inseguito da tutta la Guardia Cittadina?” suggerì placido Logan.

Meli scoccò a Logan un’occhiata tra l’irritato e il divertito. “Come fermiamo la ragazzina mutaforma e chiudiamo quei dannati cancelli?”.

Cassandra alzò entrambe le mani. “Fermi fermi fermi. Una domanda. Il fuoco è molto specifico nelle sue risposte”.

Il gruppo discusse, litigò e infine propese per una soluzione accettata quasi all’unanimità. La comunicarono alla Lettrice.

“Molto bene”. Cassandra si alzò e afferrò un mazzetto di origano essiccato. Lo avvicinò alla fiamma di una candela e, una volta acceso, lo posizionò nel mezzo della pira di legno sacro. Il fuoco, di un rosso troppo vivo, divampò a una velocità allarmante.

Cassandra, in ginocchio davanti al fuoco, ordinò: “Fai ora la tua domanda, ranger”.

Gale scandì la domanda ad alta voce: “Come impedire l’apertura di nuovi cancelli, chiudere quelli già violati, e fermare la strage di bambini innocenti?”. 

Con un tono così basso da essere udibile solo a Meli, Logan aggiunse “senza rimetterci la pelle, magari?”.

La Lettrice gettò qualcosa nelle fiamme. Il fuoco sfrigolò e si contorse. Il fumo prese un odore aromatico di erba e nocciola. In un lampo, il legno venne divorato dalle fiamme sanguigne e si trasformò in un mucchio di tizzoni. Cassandra afferrò una pala piatta e la infilò con grande attenzione sotto le bronse ancora bollenti.

Le lasciò scivolare sul tavolo lasciando intatta la loro posizione originale. Incuriositi, tutti allungarono il collo verso l’artistica composizione di ceneri ardenti.

Cassandra studiò le ceneri sfrigolanti con la massima concentrazione, facendo solo ogni tanto mugugni di approvazione. 

“Il fuoco dice molte cose”.

“Cose buone?” osò sperare Theo, fissando dubbioso un tizzone che crepitava di fronte a lui.

“Ci sono dei segni fausti. E dei segni infausti” annunciò la Lettrice allargando le braccia. “Siete pronti?”.

Annuirono. Erano pronti.

“L’Ovest è propizio” esordì la donna. La sua voce, carica di dramma, era scesa di un’ottava. “Vedete queste curve?” chiese indicando una sorta di S creata dalla fuliggine. “Intimano il ritorno quando ci sarà luogo a cui tornare. Se invece ancora non vi è un luogo a cui tornare, allora è da favorire la rapidità”.

“Che diamine vuol dire?” bofonchiò Astrid.

“Silenzio” tuonò Cassandra. Scoccò un’occhiataccia alla vampira e continuò la lettura. 

“Questo agglomerato invece è un segno infausto: la luce è immersa nella terra. Sciagura e miseria. Il cerchio qui, però, indica che è propizio essere perseveranti nella miseria: per riuscire nella più sfavorevole delle condizioni è necessario attenersi alla determinazione della propria volontà”.

Il gruppetto si scambiò occhiate dubbiose.

La Lettrice continuò a indicare mucchietti di cenere identici gli uni agli altri. “Segno neutro: confida nell’uomo saggio. Indagare i perché è importante; aggirando l’ostacolo, il fiume trova la via verso il mare. Segno fausto: la fanciulla si sposa. Dopo l’inverno arriva la primavera”.

Silenzio. Meli fissò il rosso acceso di un tizzone brillare sempre meno fino a spegnersi.

“Direi che è molto chiaro” annuì la Lettrice soddisfatta. Contò sulle dita sette responsi: “L’Ovest è propizio. Perseveranza nella miseria. La luce è immersa nella terra. Confida nell'uomo saggio. Il fiume trova la via verso il mare. La fanciulla si sposa. Dopo l’inverno arriva la primavera”.

Li trascrisse su un pezzo di pergamena che consegnò a Gale. Insieme studiarono quelle poche frasi vergate con calligrafia incerta.

Ci fu un lungo silenzio.

Dando voce ai pensieri di tutti, Astrid sbottò: “E questo che cazzo vorrebbe dire?”.

Cassandra alzò il mento con sdegno. “Il responso del fuoco deve essere valutato e interpretato da coloro che hanno posto la domanda. La Lettrice fa da sacro tramite con il mondo degli spiriti, ma il futuro è nelle mani di chi lo usa nel presente”.

Meli udì Astrid borbottare sottovoce “Mi sembra una stronzata”.

La botanica le fece un cenno d’intesa. “Perché lo è”.

Scuotendo la testa bionda, Astrid roteò gli occhi al cielo e fece una smorfia che avrebbe potuto assomigliare a un sorriso.

Cassandra si lanciò un drappeggio dello scialle sopra la spalla. “Il fuoco ha parlato. Ora sta a voi interpretare e agire di conseguenza” sbottò offesa.

Meli e Astrid si scambiarono un’occhiata con un eloquente sopracciglio inarcato.

Cominciarono le interpretazioni.

L’Ovest è propizio sembra indicare che dobbiamo muoverci in quella direzione” propose pratico Gale.

Theo aveva la fronte aggrottata. “Cosa significa proppizio?”

“A meno che il fiume che va verso il mare non indichi che la direzione è a est, verso il mare, superati gli ostacoli” si intromise Astrid.

“Con il perseverare nella miseria direi che ci siamo” aggiunse Logan.

Meli strinse forte le labbra per trattenere un risolino. “Propizio significa favorevole, Theo”.

Lynette osservava il biglietto tra le mani del ranger dalla spalla di Astrid. “La luce è immersa nella terra è un simbolo positivo nella tradizione delle fate, indica la vita che viene dalle radici”.

“È un’immagine negativa per la nostra tradizione però. La luce viene intrappolata dalle tenebre del sottosuolo e non riesce a uscire” replicò Gale. “E chi poi sarebbe l’uomo saggio?”.

“Un prete?”.

“Un santone?”.

“Il Governatore?”.

“Ma se andiamo a ovest il fiume cosa c’entra?”.

“E se andiamo verso il mare perché mai l’ovest dovrebbe essere propizio?”.

“Il fiume è simbolo di perseveranza” spiegò Meli con un sospiro “significa che con pazienza e dedizione si può superare qualsiasi ostacolo e raggiungere l’obiettivo. Perseveranza è una parola che al fuoco piace un sacco, da quel che ricordo…”.

“E chi si dovrebbe sposare, scusa?” chiese Astrid.

Lo sguardo di Meli incrociò involontariamente quello di Logan. “È un simbolo anche questo” ribadì scocciata. “Indica eventi positivi”.

“A me piacciono i matrimoni” li informò Lynette. “Si balla sempre, ai matrimoni”.

Gale si grattò il collo. “Anche dopo l’inverno arriva la primavera sembra un responso positivo”.

“Perlomeno significherebbe che qualcuno di noi arriverà a vederla, la prossima primavera” commentò Logan monocorde.

Cassandra li lasciò discutere per una ventina di minuti, poi fece intendere con un gran ramazzare per terra che avrebbe preferito essere lasciata sola.

“Non abbiamo capito bene cosa dobbiamo fare, signora Lettrice” tentò timidamente Theo.

Cassandra, scopa in mano, lo squadrò. “Potete fare un’altra lettura, se volete. Domani. Nel frattempo mi pagherete vitto e alloggio, ovviamente. Adesso via da qui, che devo ripulire. Sciò, sciò”.

Con un fracasso di sedie spostate, la brigata liberò il tavolo coperto di bronse e si diresse, più confusa di quando era arrivata, verso le lussuose stanze da letto che li attendevano per la notte. 








Spazio dell'autrice
In questo capitolo abbiamo più lore e spiegoni di quanto mi faccia sentire a mio agio, ma portate pazienza. Siamo al penultimo episodio di questa Parte IV e qualcosa doveva essere detto :D Spero sia stato comunque coinvolgente e interessante. Fatemi sapere!

 

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Capitolo 13
*** Pigne e Pignoleti ***


Pigne e Pignoleti

“Non abbiamo alcun indizio utile, è questa la verità” disse Logan.

Gale, seduto a letto con le schiena contro il muro, incrociò le braccia al petto. Fuori, la bufera ululava e scuoteva gli alberi che scricchiolavano sopra le loro teste.

“Se non prevedi di contribuire positivamente a questa conversazione, ammazzamostri, quella è la porta” disse Gale con tono pacato. Dopo quasi tre ore di discussione notturna del Gran Piano d’Azione, perfino lui era arrivato al limite della pazienza.

Logan, in piedi accanto al camino della camera da letto, fece una smorfia. “Non intendo solo per trovarla. Tu non c’eri giù a Darren, non hai visto di cosa è capace. E non lavora da sola; ci vorrebbe come minimo una squadra di maghi per tirare giù lei e i suoi seguaci, per non parlare dei maledetti cancelli”.

“Sappiamo che sta cercando il sangue di drago” si intromise Meli. “Se lo trovassimo noi prima di lei, probabilmente sarebbe già una vittoria”.

“È introvabile” rincarò Logan. “E lo so perché ci ho già provato”.

“Ora abbiamo alleati inaspettati, però”.

Logan la squadrò. “Balsìk, vampiri, ranger e fate? Bella squadra” commentò scettico.

Lynette lo fulminò con lo sguardo e si lisciò i capelli con fare altezzoso.

“La signora ha detto che possiamo fare un’altra lettura. Possiamo chiedere cose diverse” suggerì Theo. “Ad esempio dove si trova il sangue di drago”.

“Non servirebbe a nulla” replicò Meli. “Nessuna di quelle risposte ha alcun senso”.

Theo abbassò il visetto abbacchiato e Meli si pentì del tono aggressivo. 

Gale inspirò. “Siamo stanchi. E siamo comunque bloccati qui fino alla fine della tormenta. Prendiamoci qualche giorno per riposare e pensarci su”.

Nei giorni seguenti fecero altre due letture, ma i responsi non differirono granché. Sempre miseria, sempre luce, primavera e l’onnipresente perseveranza. Chiesero anche perché la mutaforma avesse tanto interesse a riempire il mondo di mostri disgustosi, ma la risposta era stata di una vaghezza esasperante: vendetta, violenza, ineluttabilità e una serie di altri sinonimi altisonanti. Come preannunciato da Gale, il cattivo tempo, con tanto di bufera di neve e vento ululante, non accennò a smettere. Bloccati sottoterra, i sei fuggitivi continuarono a barattare l’ospitalità con le loro storie, piccoli lavori di manutenzione e magre battute di caccia. Lynette raccontò di quando era stata cacciata dalla sua comunità di fate per distribuzione illegale di iperico, un decente antidepressivo; Gale del suo primo incarico come ranger a dodici anni. La terza sera fu il turno di Logan. La sua storia, tagliente e concisa, aveva ronzato nelle orecchie di Meli per tutta la notte successiva.

“Da bambino vivevo a Porto Venia. Mia madre era una meticcia, mezza elfa, che lavorava come serva di un mercante del luogo. Il padrone la picchiava e la violentava. Picchiava anche me, quasi tutti i giorni. Avevo sette anni quando è riuscita a farmi mandare via tramite alcuni suoi parenti. Mi hanno iscritto all’Istituto; dopo gli studi sono tornato in città per ritrovarla. Ma era già morta. Non l’ho più rivista”.

Meli aveva ascoltato con gli occhi fissi sul pavimento e una rabbia pulsante contro le tempie. Immaginare Logan come un bambino indifeso di sette anni o come un adolescente privato della madre le faceva venire voglia di piangere e urlare insieme. Un passato del genere la diceva lunga sull’uomo che era diventato. 

Cassandra aveva annuito e allargato le braccia con grande melodrammaticità. Lynette, con la sua luce soffusa, era andata a posarsi sulla spalla dell’ammazzamostri in un gesto di muto affetto.

La giornata seguente fu mesta. La mattina Gale scrisse a tutte le sue conoscenze; una dozzina di persone, aveva dedotto Meli contando le buste che sarebbero state lasciate cadere casualmente da Lynette al servizio postale più vicino. Ne approfittò per aggiungere al mucchio una lettera indirizzata a Aiden con un riassunto dei recenti avvenimenti. Non la firmò, certa che il paladino avrebbe riconosciuto la sua orrenda calligrafia alla prima sbilenca A.

Lynette annodò le lettere con un fiocco e assicurò che se ci fossero state novità dal piccolo popolo in un modo o nell’altro ne sarebbero venuti a conoscenza. Poi, caricate le missive sotto la minuscola ascella, svanì in una cascata di polvere luccicante.

Meli ripensò ai balsìk. Magari l’avrebbero fatta fuori loro, quella ragazzina svitata, e tutto sarebbe potuto tornare alla tanto agognata normalità. Lei sarebbe potuta tornare al suo negozio — maledetti coloro che lo avevano sfasciato — Logan e Lynette ai rispettivi lavori, Gale e Astrid alle loro peregrinazioni, Theo…

Theo.

Theo non sarebbe potuto tornare da nessuna parte. 

“Mi annoio a morte” protestò Astrid contro il mugghiare del vento sopra il tetto di terra. Era rimasta sdraiata a letto tutto il pomeriggio e aveva un’espressione affranta. Meli, buttata a sua volta su un materasso dalla parte opposta della stanza, comprendeva il suo sentimento. Senza nemmeno poter dormire, le giornate per lei dovevano essere interminabili.

Lynette, ubriaca di grappa al sambuco dopo il faticoso trasferimento delle missive, ronfava alla grossa su un gomitolo di lana grezza; Theo era tutto intento a grattare via un ciottolo particolarmente ostinato dalla parete; Logan e Gale erano rimasti in cucina a sopportare i lamenti di sua madre.

Scorrendo per l’ennesima volta con lo sguardo i disegni delle radici attorcigliate sui massi di pietra del soffitto, Meli si impegnò a formulare una replica valida. Anche lei si annoiava.

“Quanti anni avevi quando è successo?” le uscì. Probabilmente era una domanda troppo personale. Pazienza.

Astrid torse il collo e la squadrò sospettosa. “Perché ti interessa?”.

“Non mi interessa. È per passare il tempo”.

Per qualche secondo ci fu solo il furioso soffiare del vento che faceva scricchiolare gli alberi sopra le loro teste.

“Diciassette” rispose infine la vampira. “Avevo diciassette anni quando sono stata trasmutata”.

“E quando…?”.

“Cinque anni fa”.

“Com’è successo?”.

Astrid rimase in silenzio a lungo, indecisa se condividere quelle informazioni private. Evidentemente ritenne che anche una pessima conversazione sarebbe stata meglio della noia assoluta, perché continuò: “Non c’è molto da dire. Io e mio fratello eravamo da soli; loro erano in cinque, giovani e stupidi neovampiri che volevano divertirsi. Ci avrebbero ammazzato se non fosse intervenuta una paladina che passava di lì. Ne ha uccisi quattro; ci ha salvato e se n’è andata come se niente fosse. Non ci sono pene per chi uccide i vampiri”.

Meli lo sapeva. Un vampiro, al pari di un licantropo, era un subumano agli occhi della legge. Nessuno veniva perseguito per la loro uccisione. Le venne voglia di chiederle come la faceva sentire, questa cosa. Come la faceva sentire sapere che se domani qualcuno l’avesse uccisa, nessuno avrebbe urlato all’omicidio? Si accigliò percependo un’estranea scintilla di compassione. Theo smise di grattare il muro e allungò il collo per ascoltare.

“Ci siamo quindi trasferiti nel ghetto della città, dove siamo stati tatuati e accolti dal clan locale. Ma i vampiri non possono essere legalmente assunti, quindi a parte mendicare, drogarsi e attendere il ridicolo reddito statale, non c’è molto da fare. Per fortuna poi è arrivato Gale, che ha garantito per noi all’Ufficio Impieghi e ci ha dato un lavoro. Insieme cerchiamo persone scomparse”.

Disse l’ultima frase con un tono fintamente disinteressato, ma si sentiva che la sua voce si era fatta più gentile. 

Ranger e vampiri. Non era la prima volta che Meli incontrava simili comitive sulla sua strada. I primi con la loro sensibilità dell’ambiente circostante e i secondi con il loro odorato formavano un’eccellente accoppiata di segugi. Se avessero avuto qualche indizio in più sulla mutaforma, forse avrebbero potuto trovare persino lei. Meli accantonò questa riflessione per future considerazioni.

“Tuo fratello è il vampiro con cui eravate a Darren, vero?”.

Astrid asserì.

“Dov’è adesso?”.

“A Porto Venia. È stato assunto da uno di quei contrabbandieri di spezie. Un’ottima opportunità, per quelli come noi“.

Per quelli come noi. Meli era combattuta. Voleva rispondere con qualcosa di intelligente e sensibile, ma le venivano in mente solo stupide frasi di circostanza che, ritenne, Astrid non avrebbe apprezzato. 

“Sono felice che stia bene” mugugnò a disagio fissando le volute di radici sul soffitto. Pensò alle sue sorelle. Chissà dov’erano, se anche loro stavano bene. Forse sua madre lo sapeva. Avrebbe potuto fare lo sforzo immane di chiederglielo…?

“E tu?”.

Sorpresa, Meli si riscosse. “Io cosa?”.

“Quando è successo?”.

“Quando è successo cosa?”.

“Che sei diventata così schifosamente curiosa. Sembri Theo”.

Il bambino le fece la linguaccia e tornò a lavorare sulla sua opera muraria.

Meli, offesa, si irrigidì. Le lanciò un’occhiata fugace. “Non volevo essere invadente”.

“Sto scherzando” le rispose la vampira con il sorriso nella voce. “Ma non trattarmi da menomata: non lo sono. È stata… sfortuna. Poteva capitare a chiunque”.

Meli annuì meditabonda.

Astrid inspirò e espirò a fondo. “Di certo non è una vita che augurerei a qualcuno; ma è pur sempre una vita. E col tempo si impara a farci pace”.

Quella sera fu Astrid a condividere la sua storia con il gruppo. Forse per noia, forse per la piega presa dalla conversazione del pomeriggio; si prese qualche secondo per prendere coraggio, si schiarì la voce e iniziò a raccontare del primo incontro con Gale. Un racconto dolceamaro, di gratitudine, rispetto e fiducia inattesa. Astrid cercò di suonare il più piatta possibile nel rivangare quei ricordi, ma ogni tanto la voce le si spezzava. Quando smise di parlare e nell’aria vuota rimase solo il crepitare delle fiamme, Meli si accorse di avere un nodo in gola e una crepa nell’anima.

***

Mezzinverno passò. Passò Natale, e dicembre finì. Cassandra accese dodici candele nere per celebrare la morte del vecchio anno; Meli regalò a Theo una collana di dodici pigne come buon augurio per quello in arrivo. Il bambino accettò il dono con tanto d’occhi e pianse in silenzio tutta la notte. 

Il mattino del primo gennaio il cattivo tempo si quietò un poco. La neve ormai arrivava al ginocchio e copriva ogni cosa, ma il vento si era placato e ci si poteva godere un po’ il sole sotto l’azzurro accecante del cielo.

Sul sentiero davanti alla casa-collina Theo giocava a lanciarsi bacche di rosa canina con un pignoleto selvatico. La creaturina, in piedi su un ceppo ripulito dalla neve e con la lingua tra i denti dalla concentrazione, caricava all’indietro il braccio a stecchino con l’intero peso del corpo e colpiva con una mira micidiale. Theo ridacchiava mentre tentava di evitare la sassaiola di colpi. 

“Smettila di infastidire la fauna locale, Theo” lo ammonì Meli.

“Ci stiamo divertendo!”.

“Lui pensa che tu sia una lumaca troppo cresciuta. Sta cercando di abbatterti”.

“Non sono una lumaca!”.

“Non ho detto che sei una lumaca. Ho detto che lui pensa che tu sia una lumaca”.

Theo guardò il pignoleto, poi guardò se stesso. “Non ci vede tanto bene, mi sa”.

Meli sorrise mentre Theo si beccava una bacca dritta in fronte.

“Non farti mangiare. Io vado nell’orto”.

Meli si avviò verso il retro della casetta interrata, dove sorgeva un orto in stato di semiabbandono per la stagione invernale. Una piccola costruzione di legno lì accanto ospitava le galline, ben felici di starsene al chiuso a chiocciare. 

Vagò per l’orto abbandonato. Nei giorni precedenti aveva già spalato nel tentativo di recuperare i cavoli e i radicchi sommersi sotto i cumuli di neve; afferrò la pala appoggiata al pollaio e si rimise al lavoro. Dopo mezz’ora, sudata e accaldata, aveva recuperato solo tre radicchi mosci e un borzocco infastidito da tutto quel movimento.

Udì dei passi. Ancora accovacciata nella neve, Meli alzò la testa. Un ammazzamostri a braccia conserte la studiava dall’alto.

“Ah, eccoti qui. Renditi utile”.

Gli lanciò i radicchi. Il borzocco, con il suo musetto peloso e le poderose zampe e molla, fece uno schiocco indignato e con un balzo arrivò al tetto del piccolo pollaio.

Logan scoccò un’occhiata alla bestiolina e poi tornò a rivolgersi a Meli, che nel frattempo era tornata alle sue operazioni di scavo.

“Vi somigliate”.

“Chi, io e il borzocco?”.

Logan sbuffò. “Tu e la Lettrice”.

Meli finse un’indifferenza che non provava. “Intendi che abbiamo lo stesso carattere di merda?”.

“Avete lo stesso taglio degli occhi”.

“Mmh”.

Logan non parlò per un po’. “Le strigi dei tuoi incubi” disse piano. “È stata lei, nella speranza che sviluppassi il dono”.

Sempre troppo perspicace. Troppo, troppo perspicace.

Avere una Lettrice in famiglia significava poter fare affidamento su un guadagno stabile; ciò portava i genitori più disperati alla discutibile pratica di far subire di proposito eventi traumatici alle figlie femmine nella speranza che queste acquisissero il dono. Pratica che Cassandra aveva imposto a tutte le sue figlie, legate nella radura in attesa delle strigi. Per nessuna di loro, però, quello stratagemma aveva funzionato: nessuna aveva sviluppato il dono della Lettura del Fuoco. Avevano sviluppato però una notevole idiosincrasia nei confronti della madre, che si erano affrettate ad abbandonare al suo eremo solitario non appena raggiunta un’età consona alla fuga.

“Indovinato. Vuoi un premio?” rispose Meli con un astio non voluto.

“Ora capisco perché ti è difficile stare qui”. Il tono di Logan era freddo, ma la sua espressione era gentile.

Meli sbuffò. “Siamo qui perché con l’inverno non si scherza. L’ho già provato sulla mia pelle e non voglio ripetere l’esperienza”.

“Mmh. Di certo quella profezia era una merda”.

Meli, controvoglia, sorrise. “Te l’avevo detto che mia madre era una ciarlatana”.

“L’hai detto anche di me, una volta”.

“Oh, lo penso ancora. Sei un pessimo ammazzamostri”.

“Tu una pessima bugiarda”.

“So mentire molto bene quando voglio”.

“Come quando hai lasciato intendere a quella Guardia di essere una lucciola? La vecchia muta sarebbe stata più credibile di te”.

Meli raccolse una manciata di neve e gliela tirò. “Smettila di farmi ridere”.

Logan la guardò con un’ombra di un sorriso. C’era una nota di lieto affetto nei suoi occhi. 

Meli sapeva che c’era lo stesso sentimento anche nei propri; non tentò nemmeno di nasconderlo. Si alzò e si spazzolò via la neve dai calzoni. “Quella storia che hai raccontato…”.

“Non devi dirmi che ti dispiace. È stato tanto tempo fa” la troncò subito.

Meli non si lasciò intimorire. “Non è colpa tua se non sei riuscito a salvare tua madre. Eri un bambino”.

In evidente difficoltà, Logan aprì la bocca e la richiuse; incapace di dire alcunché, volse il viso verso il bosco innevato.

“Avevi bisogno di un adulto che venisse in tuo aiuto, e quell’adulto adesso sei tu” continuò lei imperterrita. Sentiva che doveva dirglielo, che era importante. “Sei diventato l’uomo di cui da bambino avevi bisogno, e ora c’è chi ha bisogno di te. Puoi fare ancora molto per gli altri, Logan”.

L’ammazzamostri, ostinato, mantenne il viso in direzione degli alberi. I suoi occhi erano vuoti e opachi, persi in pensieri inaccessibili. Dopo un infinito silenzio, le chiese: “Il ranger vuole trovare la mutaforma. Se decidesse di partire… lo seguirai?”.

Confusa dal cambio di argomento, Meli si morsicò l’interno della guancia. “Non lo so. Lo ammiro per il suo coraggio, però… davvero, non lo so. Qui siamo al sicuro. Theo è al sicuro”.

Fece i due passi che li separavano e si riprese i radicchi ibernati. “Tu cosa pensi di fare?”.

“Sai già qual è la mia risposta”.

Sinceramente confusa, Meli sbatté gli occhi. Poi, quando capì, una nota di impertinenza le increspò le labbra in un sorriso. “Non so a cosa ti riferisci”.

“Lo sai. Non farmelo dire”.

“Non lo so. Dimmelo”.

Logan rimase serissimo; non aveva nessuna intenzione di giocare a quel sporco tira e molla.

“Lo sai. Se tu andrai, io verrò”.

Per coprirti le spalle. Per proteggerti.

Colpita dritto al cuore, Meli si impegnò per mantenere un’espressione incurante. “Questa sì che è una dichiarazione d’amore”.

Logan fece una smorfia disgustata e distolse lo sguardo. “Smettila di usare quella parola”.

“Quale? Amore?”.

“Mi viene l’ulcera solo a sentirla pronunciare”.

Osservandone il profilo rigido contro il cielo azzurro, Meli provò compassione. Allungò timidamente una mano e intrecciò le dita con le sue. Logan fu scosso da un fremito, ma non si ritrasse. 

“Andrà tutto bene”.

Logan sospirò. “Questa è davvero una delle peggiori stronzate che tu abbia mai detto”.

Meli sorrise. “Oh, insomma. Sto cercando di trovare il lato positivo della faccenda”.

“Non c’è alcun lato positivo”.

“No?”.

Fece un passo in avanti. Le loro giubbe si sfiorarono.

Logan vacillò. “Odio tutto questo”.

“Questo cosa?”.

“Questo…” prese fiato, “potere che hai su di me”.

“Non sto facendo niente”.

“È proprio questo che mi spaventa”.

Non riuscì a resistere. “Oh oh oh, l’ammazzamostri spaventato da un’innocente botanica che…”

Logan liberò la mano dalla stretta di lei, la agguantò con entrambe le braccia e la strinse contro di sé. Improvvisamente Meli dimenticò come finire la frase.

“Adesso hai perso la lingua?” la prese in giro.

Incatenata ai suoi occhi, Meli si sentì un’idiota come mai in vita sua, a perdere la voce — e il buonsenso — in quel modo patetico. Deglutì e, ignorando il profumo e il calore di quel corpo addosso al suo, rispose con un intelligentissimo: “Ehm…”.

Adesso erano vicini come lo erano stati in quel vicolo affollato di Andaréz; così vicini che i loro respiri si mescolavano in nuvolette di vapore caldo. Ma stavolta non c’erano cappelli piumati e la scusa di una finta identità a tenerli lontani. Stavolta, pensò Meli nebbiosamente mentre le labbra di Logan si avvicinavano alle sue, non c’era nessun motivo di restare lontani…

Un doloroso proiettile molle le colpì la tempia.

Meli scattò irosa. “Ma che…!”.

Il pignoleto fuggì rapido nella neve. Poco distante, un Theo dall’espressione colpevole incassò la testa tra le spalle.

“Mi spiace! Ho cercato di fermarlo, ma è stato troppo veloce” pigolò tormentandosi le mani.

In quel momento apparve svolazzando anche Lynette, che con un’occhiata inquadrò il bambino abbacchiato e i due adulti stretti attorno ai radicchi.

“Disturbo?”. 

Tempismo perfetto. Meli, esasperata, chiuse gli occhi. “Per niente. Che cosa c’è?” le chiese fallendo nel moderare il tono astioso.

“La Lettrice dice che la rosa canina la vuole entro sera. E bisogna portare dentro la legna. Ci pensate voi?”.

Dissero che se ne sarebbero occupati loro. Meli propose di andare insieme a raccogliere le bacche, ma Logan declinò con fermezza. Preferiva stare da solo, le disse. Aveva bisogno di pensare. La sua espressione era tornata insondabile.

***

Mentre riempiva il cestino dei piccoli frutti rossi di rosa canina, Meli spense il cervello. I suoi piedi si mossero da soli, lasciando impronte leggere sulla neve, portandola a attraversare i luoghi della sua infanzia.

Un piccolo stagno, d’estate pieno di girini e gracidare di rane, le si presentò davanti ghiacciato e immoto. Vi sorgeva nel mezzo un isolotto di terra e erba con un paio di cespugli e un ceppo d’albero. Da bambina Meli sedeva sul ceppo e fingeva che l’isolotto fosse una nave pirata. All’epoca non aveva ancora mai visto né il mare, né una nave, né tantomeno un pirata; basava tutte le sue avventure immaginifiche sui racconti epici di nonna Nene. Non per questo quel gioco di fantasia era meno meraviglioso.

Posò un piede sull’asse traballante che collegava la riva all’isolotto — e che, miracolosamente, dopo tutti quegli anni stava ancora lì — e raggiunse il lembo di terra. Lo attraversò tutto in sei passi, posò a terra il cestino e si sedette sul ceppo ormai troppo basso per lei.

Si concesse qualche minuto di spensieratezza, rievocando ricordi felici dei suoi anni di bambina: i giochi con le sorelle, le cacce al tesoro, gli intrugli di fiori e fango. Un’infanzia non sempre facile, ma tutto sommato costellata di piccole gioie.

Gioie che altri bambini non avrebbero più potuto vivere.

Melissa.

Il cuore le balzò in gola, facendola tornare prepotentemente al presente. Quella voce nella testa non era la sua — ma sapeva a chi apparteneva. C’era solo una razza in grado di infilarsi in quel modo nei pensieri di qualcuno. Ne vide il riflesso distorto nello stagno.

Lentamente alzò gli occhi.

Al di là della striscia d’acqua e ghiaccio, si ergeva una driade. Con viso e corpo di legno intrecciato, capelli di rami e piedi radicati nel terreno, non sarebbe stato difficile scambiarla per un albero. Un albero mobile che ti parlava nella testa, però.

Ho un messaggio per te, Melissa, continuò la driade. La sua voce era il fruscio delle foglie di primavera, era lo zampettare di scoiattoli lungo i rami. Sono giorni che ti aspetto.

Meli annuì e placò i propri pensieri per invitarla a continuare.

Non sappiamo dove si trova, ma sappiamo dove è diretta.

Nella mente di Meli apparve il viso della ragazzina con i capelli bianchi. Aveva un taglio sulla guancia e una luce spiritata negli occhi.

Non è sazia del sangue finora versato. Si muove in fretta. E l’oggetto del suo desiderio si muove verso di lei.

Due fiale rosse posate dentro un cofanetto di velluto blu. Meli provò uno spiacevole senso di inquietudine.

Un sangue troppo potente per essere usato con scopi malvagi. Troppe vite sono in pericolo.

Meli si vide passare davanti agli occhi la visione dell’intera Zolden in fiamme devastata da bestie inimmaginabili; fumo, sangue e stridii orrendi sotto il cielo nero. Poi l’immagine cambiò. Vide una cascata.

Questo è il luogo in cui avverrà lo scambio. 

Meli annuì. Lo conosceva. 

La mutaforma e il portatore del sangue si incontreranno qui entro la luna nuova. Resta poco tempo. Questo dicono i balsìk. 

Cosa dobbiamo fare? le chiese Meli. Si sentì avvolgere da uno sconforto non suo; dedusse che la driade non sapeva cosa risponderle.

Fa’ ciò che è giusto. Fa’ ciò che è buono, disse la driade.

Devo ucciderla? 

Devi liberarla.

Da cosa?

Da sé stessa.

E come?

Chiedi all’uomo saggio.

Prima che potesse chiedere Chi cazzo è l’uomo saggio?, Meli percepì un soffio di vento fresco sulle tempie. La driade stava sciogliendo la connessione mentale. Frustrata, la donna pronunciò la domanda ad alta voce.

La driade, con gli occhi neri intagliati come due fessure nelle venature della corteccia del viso, non rispose. Non poteva: non aveva la bocca. Fece invece aderire le braccia lungo il corpo e cominciò ad allungarsi e irrigidirsi in una posa assai scomoda.

Meli, impotente, la ammirò tramutarsi definitivamente in un albero. Un inutile, immobile albero.

Si prese un momento per assimilare lo shock. Poi chiuse gli occhi, li riaprì, prese fiato e si mise a correre. Scapicollò tra gli alberi e la neve alta, evitando le rocce e i cespugli di rovi. Perse metà del suo raccolto di piccoli frutti, ma decise che non era importante. Non ora.

Aveva il fiatone quando giunse davanti alla casa. Theo era ancora fuori a giocare. Anche Logan era lì, con le braccia cariche di legna da ardere. Si allarmò vedendo la sua faccia sconvolta. 

“Che è successo?”.

“Una driade. Mi ha parlato. Sanno dove si trova. Cioè, dove sta andando”.

Lynette, seduta in cima alla testa di Theo, annuì solenne. “Sempre avanti, le driadi”.

Entrarono e tutto il gruppo fu richiamato in cucina. Meli raccontò quanto era appena accaduto al meglio delle sue capacità. Non era facile spiegare una conversazione mentale, perché non si svolgeva solo a parole. Cercò di rievocare ogni sfumatura, ogni immagine e ogni sensazione che la driade le aveva trasmesso.

“La cascata della Montagna Spaccata? Sei sicura che fosse proprio quella?” si assicurò Gale.

Meli esitò. “Abbastanza, sì”.

“E prima della luna nuova, ha detto? È tra meno di una settimana”.

“Esatto”.

Ancora in stato di agitazione, Meli incrociò lo sguardo dei suoi compagni di viaggio radunati attorno al tavolo della cucina. L’aria crepitava di anticipazione. Era uno di quei momenti in cui il tempo sembrava diventare più lento e denso, come a voler ricordare agli astanti di imprimerselo per bene nella mente.

Per ultimo, guardò Theo.

Il bambino le sorrise. “Insomma, andiamo a salvare il mondo?”.

Meli si accorse che nel suo cuore la risposta c’era già da un pezzo. 


FINE PARTE IV


 

Spazio dell’Autrice

Infine, eccoci. La Parte IV è ufficialmente conclusa. È la prima volta che mi destreggio in scene con così tanti personaggi; spero di aver dato il giusto spazio a tutti. Cosa ne pensate di questa Parte IV? Siete delusi o soddisfatti? Cosa vi aspettate dalla prossima? Che personaggi vorreste rivedere? Fatemi sapere, io gioisco delle vostre opinioni e teorie per il futuro.

Come al solito, mi prenderò una pausa dalla pubblicazione per pianificare e scrivere la Parte V, che sarà l’ultima. Conto di completare e condividere con voi tutto il romanzo entro la fine dell’estate.

Grazie, intanto, di avermi fatto compagnia fino a qui <3

P.S.: Chi ha beccato la citazione di Twilight?

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