Elves

di Immiriel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. La caduta di Doru Araeba ***
Capitolo 2: *** Un veleno invisibile ***
Capitolo 3: *** L'onore di un fabbro ***
Capitolo 4: *** Nïdhwal ***
Capitolo 5: *** Canto ai caduti ***
Capitolo 6: *** Il Cavaliere che più non fu ***
Capitolo 7: *** Danza di spade ***



Capitolo 1
*** Prologo. La caduta di Doru Araeba ***


NdA: Ho scelto Firnen come nome per una bambina perché prima di leggere l'ultimo libro ho dato un occhio all'indice e vedendo il titolo del capitolo "Firnen" ho pensato si trattasse di un nome femminile e ne sono rimasta convintissima fino a che non ho letto quella parte😆

Leum volava veloce come una freccia elfica, senza curarsi delle fiamme che lambivano ferocemente le guglie dei palazzi, delle urla dei sofferenti sotto di lui e della pioggia sferzante. Lacrime roventi, lacrime di drago gli scorrevano lungo le squame e subito venivano spazzate via dal vento impetuoso. Un solo pensiero gli attraversava la mente: Devo trovarla per lui. Devo proteggerla. È quello che mi ha chiesto. Devo proteggerla.

Ahorin era appena caduto nelle ombre e Leum non aveva potuto fare nulla per evitarlo. Il Rinnegato l'aveva ucciso con una lama avvelenata per poi fuggire incespicando tra le rovine, una mano premuta sullo squarcio che la lama di Ahorin aveva aperto nel suo stomaco di traditore.

Mentre Ahorin agonizzava, gli occhi stralunati e il viso pallido come marmo, Leum aveva cercato di aggrapparsi alla sua coscienza con tutte le forze, ma quella gli era sfuggita come un soffio di vento impossibile da afferrare a mani nude.
Le sue ultime parole erano state chiare e inequivocabili: «Proteggi mia figlia, Leum. Non lasciarla morire qui, ti prego...»

I sussurri che avevano seguito queste parole si erano fatti sempre più deboli, la luce nei suoi occhi sempre più spenta e mentre si scambiavano l'ultimo addio Ahorin era caduto nelle ombre.
Dapprima Leum aveva sentito solo il vuoto, era immerso in un silenzio estraneo. Poi la consapevolezza di ciò che aveva appena perso gli era piombata addosso come una cascata ghiacciata mentre con il suo muso squamoso cercava di scuotere inutilmente il corpo del suo Cavaliere.
Una parte di Leum se ne era andata per sempre. La metà della sua mente, quella metà che non l'aveva mai abbandonato era morta. E non sarebbe tornata.

La sua coscienza era stata appena mutilata irrimediabilmente. Il solo sforzo di non soccombere al dolore lo aveva immobilizzato e un subdolo pugnale gelido sembrava essersi insinuato improvvisamente nello spazio che fino a qualche secondo prima era riempito della calda presenza rassicurante e familiare di Ahorin. Non avrebbe nemmeno potuto dare al suo Cavaliere un'adeguata sepoltura.

Leum aveva inclinato il lungo collo sinuoso ruggendo di rabbia e di dolore per poi spiccare il volo sbattendo le ampie ali verde smeraldo, sforzandosi di non guardarsi indietro. Aveva volato verso la cittadella e quando aveva intravisto il Rinnegato che aveva ferito a morte Ahorin una furia cieca lo aveva sopraffatto. Piegando le ali membranose era sceso in picchiata ringhiando e aveva spalancato le fauci per poi dilaniare le carni del traditore, ma la semplice vendetta non avrebbe mai potuto risarcirlo di quanto aveva perduto.

E adesso era solo. Inequivocabilmente solo per tutto il tempo che gli rimaneva da vivere. Ma avrebbe davvero potuto chiamarla vita senza Ahorin al suo fianco?

Ora il suo unico scopo era diventato quello di proteggere Firnen. Ma dove poteva essere? Come avrebbe potuto trovarla in quel caos di morte e distruzione, di fuoco e di urla?

I Rinnegati stavano vincendo. Ormai erano pochi i Cavalieri con la forza di opporsi, era solo questione di tempo. Doveva trovarla e fuggire da Vroengard il prima possibile.

Sbattendo le grandi ali da una parte all'altra contro il vento, il fuoco e la pioggia sorvolò la città cercando di ignorare i Cavalieri che combattevano tra di loro.
Un pensiero lugubre lo fece esitare: forse la piccola era già morta, forse non l'avrebbe mai trovata. Scacciò quella possibilità, fiducioso che Firnen fosse riuscita a nascondersi in un rifugio sicuro. Ma come avrebbe fatto a trovarla in quell'inferno?

Non aveva altra scelta. I Rinnegati o i loro draghi senza nome avrebbero potuto scoprirlo e ucciderlo all'istante, ma se avesse indugiato ancora le possibilità di trovare Firnen viva si sarebbero presto azzerate.
Esitante, espanse un tentacolo di coscienza verso l'esterno mentre si allontanava dalla fortezza e dalle sue torri avviluppate dalle fiamme. Si assicurò che i nemici fossero troppo impegnati nello scontro per notarlo e iniziò a setacciare Doru Araeba da parte a parte, il cuore che gli batteva nel petto come rombi di tuono.

Sotto le ali membranose si distendeva il panorama raccrappicciante dei compagni trucidati senza pietà nell'isola che fino a quel momento era stato un nido sicuro per i Cavalieri e i loro draghi. Vroengard non era mai stato un luogo ospitale per gli elfi e gli altri due-zampe che non fossero anche Argetlam: le coste frastagliate e a strapiombo, la vegetazione rada e asciutta e i versanti ripidi del vulcano spento che svettava sull'isola le conferivano un aspetto rozzo e brutale. Le mani degli elfi e degli uomini erano intervenute una sola volta, quando Vroengard era stata scelta per diventare l'ultimo baluardo dei Cavalieri all'estremo ovest di Alagaësia.

Stava per perdere ogni speranza quando percepì un fievole, familiare battito di vita proprio sotto di lui.
Il cuore gli si riempì di gioia. Cercò di comunicare a Firnen un pensiero rassicurante, ma trovò la sua mente sbarrata da un'alta muraglia impenetrabile. Ahorin le aveva insegnato bene. La bambina doveva aver percepito la presenza familiare di Leum, ma probabilmente era troppo sconvolta e spaventata per permettere a qualcuno di entrare nei suoi pensieri.

Leum atterrò sollevando una nuvola di polvere. Ripiegò le ali e allungò il muso verso quello che sembrava un piccolo fagotto. Quanto erano piccoli i cuccioli d'elfo!

Firnen era rannicchiata tra le macerie di quello che restava di un'abitazione distrutta dall'incendio. La piccola guardò l'imponente drago come se le fosse apparsa una visione e subito corse verso di lui per abbracciarne il muso. Guardando quegli occhi, Leum si rese conto che erano della stessa tonalità di verde delle sue squame. Non l'aveva mai notato.

Le iridi gemmee del drago scandagliarono la figura esile della piccola elfa alla ricerca di eventuali ferite, ma a parte le punte bruciacchiate della sua treccia d'ebano Firnen sembrava illesa.

Leum emise un sospiro di sollievo e sfiorò la mente della bambina con la sua voce profonda: Firnen, stai bene?

Lei annuì incerta: «Dov'è mio padre?»

Il drago aggirò la domanda mentre una nuova fitta di dolore gli riempiva il petto. Non era in grado di affrontare la questione a viso aperto, non in quel momento: Mi ha chiesto di portarti via di qui. È troppo pericoloso.

Firnen si sciolse bruscamente dall'abbraccio e lo scrutò con una severità che stonava sul suo viso infantile: «No! Gli altri stanno ancora lottando! Non puoi abbandonare così la battaglia. Mio padre ha bisogno di te».

Leum scacciò la vergogna che provava sbuffando una nuvoletta di fumo. Un drago codardo che fuggiva con la coda tra le zampe. Ecco come lo avrebbero ricordato. Ma non gli importava. Aveva fatto una promessa al suo compagno di cuore e di mente e niente gli avrebbe impedito di infrangerla, nemmeno l'orgoglio.

Si acquattò al suolo sfiorando il terreno con l'ampio ventre per permettere a Firnen di salire più facilmente sul suo dorso: Fai come ti dico, cucciola d'elfo. Non abbiamo molto tempo.

Firnen strinse i piccoli pugni con determinazione: «Vai da lui. Io vi aspetterò qui. Ti prometto che resterò nascosta».

Le grida e i clangori della battaglia sembrarono risuonare più vicini che mai. Leum allungò il collo in quella direzione con impazienza per poi ruotarlo nuovamente verso la bambina. Anche Firnen si era voltata in direzione del fragore del combattimento.

Leum intravide una luce strana negli occhi di smeraldo della piccola, che d'un tratto si erano fatti più scuri mentre scrutavano qualcosa di invisibile al di là delle rovine, oltre la cittadella. Una lacrima solitaria rotolò sul suo zigomo: «Non lo faresti mai. Non lo lasceresti qui da solo...»

In quel momento il drago seppe che Firnen aveva capito. Sua madre, la compagna di Ahorin, era caduta nelle ombre in una delle precedenti battaglie solo l'anno prima e adesso la bambina avrebbe dovuto affrontare la morte di un altro genitore. La guerra era crudele.

Fatti coraggio, piccola. Torniamo a casa.

Le sfiorò una spalla con affetto e le trasmise un po' delle energie magiche che gli erano rimaste mentre lei si arrampicava sulla zampa cercando di soffocare i singhiozzi.

Improvvisamente la terra tremò e Leum udì un boato assordante rimbombargli nelle orecchie. Firnen perse la presa e scivolò sulle squame del drago per poi atterrare sulla nuda terra con agilità felina, le mani premute sulle orecchie appuntite per attutire il rombo dell'esplosione.

Leum si voltò e il suo sangue di drago gli si gelò nelle vene. Vide nuvole di fuoco e di luce innalzarsi fino al cielo e espandersi in tutte le direzioni ad una velocità impossibile da eguagliare neanche con il vento a favore. Capì che non c'era scampo. Doveva trattarsi di una qualche esplosione magica, una fonte di potere scaturita da chissà dove.

Ahorin, sto arrivando.

In un ultimo atto disperato Leum spalancò le ali e le calò sulla bambina come a formare una strana, gigantesca crisalide. Sperò con tutto se stesso che la figlia del suo compagno di cuore e di mente si salvasse e riservò ad Ahorin il suo ultimo pensiero.

Sentì il lampo di luce che lo investiva e lo accecava mentre un potere magico di proporzioni ineguagliabili gli penetrava nel corpo, gli distruggeva le squame e gli squarciava le carni e le ossa.

Poi non sentì più.

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Capitolo 2
*** Un veleno invisibile ***


Firnen riprese conoscenza e aprì lentamente gli occhi. La testa le doleva in modo insopportabile, ma riuscì comunque a raccogliere le forze e a riprendere il controllo del suo corpo intorpidito. Si trovava sulla nuda terra, lo poteva capire dal terriccio arido che le pizzicava la guancia.

La sua mente era annebbiata, non riusciva a pensare lucidamente. Aveva la spiacevole sensazione di avere dimenticato qualcosa di tremendamente importante, ma non sapeva cosa.

Provò a muovere le dita di una mano e si rese conto che erano umide. Quando le avvicinò per annusare il liquido un odore ferroso e pungente le impregnò le narici. Sangue.

Si portò una mano alla testa e capì che molto probabilmente quel sangue era suo perché i suoi capelli erano umidicci e le ciocche tutte appiccicate. Si sentiva ancora intontita, ma almeno adesso comprendeva il motivo del dolore alla testa.

Lo stato confusionale in cui la bambina si trovava non rese facile far riemergere alla memoria le parole di potere, così pronunciò l'incantesimo con la dovuta cautela e scandendo ogni parola con accurata lentezza. La ferita si rimarginò e subito si sentì meglio.

Ora che il dolore era scemato aveva spostato la sua attenzione verso ciò che la circondava. Una... stanza di ghiaccio?

Senza credere ai propri occhi si avvicinò carponi per sfiorare una delle pareti con un dito e scoprì con sorpresa che era tutt'altro che fredda al tatto. Niente ghiaccio, quindi, ma una superficie spessa, dura e lucente.

I raggi tenui del sole mattutino attraversavano le pareti senza difficoltà, ma le immagini di ciò che si trovava al di fuori dalla stanza giungevano deformate e confuse agli occhi di Firnen. Alzò il mento e guardò in alto: a sovrastarla vi era un'immensa cupola di limpido cristallo trasparente.

Fu a quel punto che Firnen inziò ad avere paura. E fu proprio la paura a ricordarle che si trovava a Vroengard, l'isola dei Cavalieri dei draghi. La sottile coltre che ancora annebbiava la sua mente scomparve del tutto. I Rinnegati erano giunti a Vroengard per poi dare alle fiamme Doru Araeba. Era scoppiata una battaglia. Una fitta gli attraversò il petto: suo padre, Ahorin, era morto. Era stato Leum a dirglielo... lui era ancora vivo! L'aveva ritrovata per riportarla a casa, in salvo nella Du Weldenvarden, ma una fonte di potere magico scaturito da chissà dove aveva provocato una terribile esplosione e poi... il nulla. Non c'era nient'altro da ricordare. Dov'era finito Leum? E che cos'era quella strana stanza in cui si trovava?

Le pareti trasparenti la circondavano da ogni lato senza lasciare una via di fuga. Non vi era nessuna porta, nessun passaggio. Come era finita lì dentro? Un'altra domanda a cui non riusciva a dare una risposta. Come un'eco lontana ricordò le parole che suo padre era solito ripetere ai giovani Cavalieri che addestrava: Prima o poi vi ritroverete in situazioni in cui vi sarà impossibile ricondurre l'accadere alla logica. Forse era uno di quei casi in cui pensare con razionalità non sarebbe servito più di tanto. Doveva semplicemente trovare una via di fuga il prima possibile senza porsi troppe domande.

Ritrovata la sua risolutezza Firnen si avvicinò alla parete e la analizzò scrupolosamente, accorgendosi che alcune zone sembravano essere meno spesse di altre. In quei punti la luce riusciva a penetrare maggiormente e i contorni di ciò che si trovava all'esterno, seppur deformati dallo strano materiale, erano ben visibili. Firnen raccolse le energie, appoggiò il palmo della mano proprio in quel punto ed esclamò: «Jierda!»

Nulla. Firnen arretrò di qualche passo mordendosi un labbro per la frustrazione. Poi si riavvicinò alla parete, richiamò ogni briciola di potere magico e ripetè l'incantesimo. Il cristallo sotto il suo palmo emise un debole scricchiolio, ma nemmeno una piccola crepa sembrava averne intaccato la superficie.

Firnen sedette a terra, esausta. Quell'ultimo tentativo l'aveva sfiancata definitivamente. Pensò di dormire per recuperare un po' di energie e ritentare l'incantesimo, ma dentro di sè sapeva che difficilmente una bambina stanca e ferita avrebbe potuto riuscire in un'impresa simile. Quel materiale misterioso era estremante resistente. Si trattava forse di diamante? Se si trattava davvero di diamante, le possibilità di risucire a infrangerlo rasentavano lo zero. Se solo Leum fosse stato lì con lei! I draghi, in situazioni di estrema necessità, erano capaci di compiere incantesimi in grado di piegare le leggi della natura. Forse lui sarebbe riuscito a creare un varco per liberarla, ma Firnen non poteva concedersi il lusso di aspettare di essere salvata. Non aveva idea di dove potesse trovarsi Leum e il fatto che l'ossigeno prima o poi sarebbe finito era un motivo in più per uscire di lì il prima possibile.

Capì che le rimaneva una sola possibilità. La più semplice, in effetti: scavare a mani nude una via d'uscita. Si era appena rimboccata le maniche che improvvisamente sentì le sue membra irrigidirsi in modo innaturale. Passò un attimo in cui non potè fare altro che trattenere il respiro. L'attimo dopo, non era più lei a respirare. Qualcuno lo faceva per lei. Non era lei ad aver alzato il braccio per sfiorare la superficie della parete con il palmo. Qualcuno o qualcosa lo faceva per lei, stava muovendo il suo corpo al suo posto. Con immenso terrore Firnen sentì la propria voce scandire un'unica parola, la stessa che aveva utilizzato senza successo per formulare il precedente incantesimo: «Jierda!»

Un immenso flusso di potere le attraversò il corpo e si scagliò contro la parete, che si frantumò come creta davanti ai suoi occhi increduli. Percepì la fonte di potere sbiadire e sfumare, un calore bruciante che poco a poco si tramutava nella fiammella tenue di una candela, per poi spegnersi del tutto. Fu allora che riuscì a controllare nuovamente il suo corpo. Cadde a terra con un tonfo. Le braccia e le gambe le formicolavano come se una scossa elettrica ne avesse pervaso ogni centimetro.

Firnen inspirò ed espirò nel tentativo di calmare il battito del suo cuore, rimanendo immobile a fissare il varco che l'incantesimo aveva appena creato. L'assurdità dell'evento le impediva di trovare un senso a ciò che le stava accadendo. Per la prima volta si chiese se stesse sognando. No, non era un sogno, ma ciò che aveva vissuto non poteva nemmeno essere reale. Non si può prendere il controllo del corpo di una persona mentre è cosciente, neppure con la magia, ma se era successo per davvero... poteva accadere nuovamente, in qualsiasi momento, senza che lei potesse fare alcunché per impedirlo.

Si consolò al pensiero che anche se qualcuno aveva preso effettivamente il controllo del suo corpo, quel qualcuno era riuscito a liberarla, dunque non doveva trattarsi di un nemico. Quella nuova consapevolezza le fece recuperare un po' di lucidità. Non aveva senso rimuginare su quello che era appena successo. Ripensò alle parole di suo padre: la logica non era decisamente dalla sua parte, quel giorno. In tal caso, sapeva già cosa avrebbe dovuto fare. Fuggire il più lontano possibile. Trovare Leum. Tornare a casa. Piangere suo padre. Dimenticare.

Con cautela uscì dalla stanza sorpassando i detriti sparsi a terra. Il paesaggio che fino a poco prima della battaglia era un luogo verde, lussureggiante e pieno di vita, dopo l'esplosione si era tramutato in un mare di cenere. La terra emetteva fumi ocra e del color del carbone e la luce del sole era filtrata da un'atmosfera ostile, irrreale. Anche l'aria era malsana e acre e il suo odore pungente. Firnen arricciò il naso e subito dopo fu colta da un eccesso di tosse. L'istinto le stava urlando di andare via da quel posto, il prima possibile.

Avanzò ancora di qualche passo prima di voltarsi verso la stanza che l'aveva tenuta prigioniera fino a quel momento e ancora una volta rifiutò di credere ai propri occhi. Non era affatto una stanza a forma di cupola. Era un drago. Era Leum. Non si era mai allontanato da lei, dopo l'esplosione. L'aveva protetta con il suo corpo calando le ali su di lei e in qualche modo era riuscito a mutare sè stesso con la magia, un materiale abbastanza resistente da peretterle di sopravvivere. Lo aveva pensato poco prima, dopotutto: la magia dei draghi è in grado di piegare le leggi della natura.

«No...»
Firnen si accartocciò su sè stessa, incapace di sopportare altro dolore. Ora non le rimaneva più nessuno. Prima sua madre, poi suo padre e infine Leum. Ognuno di loro era caduto nel vuoto. Nimue e Ahorin per proteggere il regno degli elfi dal Traditore, Leum per proteggere lei.
Firnen si avvicinò tremando al corpo immenso di Leum e si accovacciò contro una delle sue zampe. Pianse le lacrime che le rimanevano e quando fu allo stremo delle forze si addormentò profondamente.

Cadde in un sonno popolato di sogni strani e inafferrabili. Nel sogno c'erano delle voci che giungevano da lontano, un posto che non poteva che essere remoto e distante. Provò a urlare per farsi sentire, per farsi trovare, ma non riuscì ad articolare alcun suono. Si sentiva la bocca secca e le membra doloranti. Qualcuno si stava avvicinando, le parlava, la avvolgeva in una coperta, la sollevava e la trasportava da qualche parte stringendola contro il suo corpo tiepido e donandole un po' del suo calore. Era davvero un sogno, o si trattava della realtà? Fino a poco prima, quando si trovava nella stanza di ghiaccio e una qualche entità aveva preso il controllo del suo corpo, si era fatta la domanda opposta: era davvero la realtà, oppure aveva sognato? Era stanca di porsi quella domanda. Decise che non aveva più importanza e finalmente si abbandonò in quell'abbraccio.


 

La luce soffusa del sole filtrava attraverso un piccolo oblò spandendo un bagliore dorato e tenue. Quei raggi scaldarono la pelle di Firnen come una carezza, danzando sulla superficie liscia delle sue guance e rinvigorendo a poco a poco i suoi sensi.

La prima cosa che Firnen notò fu il profumo pungente del mare, una miscela salina mista ad aria fresca che impregnò le sue narici ridestandola del tutto. Poteva sentire il rumore cadenzante delle onde che si infrangevano contro lo scafo accompagnandolo nel suo dolce cullare, mentre il distante gracchio dei gabbiani completava quella melodia salmastra. Li immaginò librarsi nel cielo limpido e subito fu colta da un'improvvisa malinconia.

«Oh, ti sei svegliata. Come ti senti?»

Firnen si voltò verso la voce e solo allora notò un elfo che sedeva su una piccola poltrona di broccato proprio accanto al suo giaciglio. L'uomo aveva un viso saggio e compassionevole e lunghi capelli lucenti come argento liquido. Teneva una mano appoggiata elegantemente sul bracciolo della poltrona mentre con l'altra reggeva un libro antico, la copertina di cuoio visibilmente consumata dal tempo in contrasto con le dita affusolate.

«Dove mi trovo?»

«Su una delle poche imbarcazioni rimaste alla flotta elfica. Scometto però che questa risposta non ti soddisfi del tutto. La domanda corretta avrebbe dovuto essere: dove stiamo andando?»

L'elfo sorrise, richiuse il libro e proseguì senza aspettare una risposta: «Siamo diretti a Narda, la città umana più vicina a Vroengard. Poco prima di attraccare modificheremo i nostri lineamenti con la magia per confonderci tra gli esseri umani e da lì risaliremo la costa. Raggiungeremo Osilon entro due settimane ed Ellesmèra entro tre al massimo, anche se...»

Firnen tossì e si portò una mano al viso. Quando la guardò, vide che era macchiata di sangue scuro. Il volto dell'elfo si adombrò mentre ripuliva la mano della bambina con un panno umido: «Temo che questo risponda alla mia prima domanda. Ti chiami Firnen, vero?»

«Come lo sai? Chi sei?»

«Sono una vecchia conoscenza di tuo padre... e anche di Leum».

A quelle parole Firnen sentì la sua gola stringersi in una morsa e le lacrime rischiarono di annebbiarle la vista. Non voleva piangere, non voleva...

«Bene, Firnen» l'elfo la guardò intensamente con quei suoi occhi saggi e tristi: «Ho bisogno che mi racconti ogni cosa che riesci a ricordare della battaglia che si è svolta a Doru Araeba. Pensi di riuscirci?»

Firnen annuì lentamente. Gli raccontò tutto ciò che ricordava: l'allarme suonato dalla torre campanaria che aveva annunciato l'arrivo dei Rinnegati, il momento in cui aveva incontrato Leum, l'esplosione e la strana prigione che aveva pensato essere ghiaccio o cristallo...

Lui ascoltò in silenzio con un'espressione grave e attenta mentre le onde continuavano a infrangersi rumorosamente mutando in spuma. Tacque per qualche secondo, poi disse, in tono assorto: «Non ci sono altri sopravvissuti oltre a te. Ti abbiamo trovata riversa a terra accanto a una struttura che inizialmente ha provocato non poco scompiglio tra i nostri ranghi. Si trattava di Leum, non è così?»

«Sì...»

Firnen aveva quasi paura a pronunciare quelle parole, perchè dando loro voce avrebbe reso la realtà ancora più inequivocabile: «Leum mi ha salvata. Si è tramutato in quello strano materiale e mi ha protetta dall'esplosione».

Non aveva potuto nemmeno dire loro addio. In pochi attimi li aveva perduti entrambi... Che cosa le sarebbe successo ora? Dove avrebbe vissuto, ora che non esisteva più un posto che potesse chiamare casa?

«Proprio come immaginavo. Mi domando, però, come tu sia riuscita ad uscirne. Abbiamo prelevato qualche campione e anche il frammento più piccolo del corpo di Leum si è rivelato resistente a qualsiasi incantesimo».

Firnen schiuse le labbra per raccontargli l'accaduto, ma all'ultimo momento esitò. Ciò che era successo era al di là della sua comprensione e non era sicura di volerne parlare con qualcuno. Non ancora. Così si limitò a dire: «con la magia».
 
L'elfo alzò un sopracciglio arcuato: «Sei stata tu a pronunciare l'incantesimo?»

«Sì»

Tecnicamente, dopotutto, era stato il suo corpo a compiere quella magia. Lui non indagò oltre, ma Firnen notò che la stava osservando con rinnovato interesse, più con curiosità che con scetticismo. Cercò di deviare l'attenzione dell'elfo da quell'argomento: «Da cosa è stata provocata l'esplosione?»

«Purtroppo il tuo racconto ha confermato i miei timori. Si tratta di un'incantesimo proibito e distruttivo sia per la persona che lo pronuncia che per tutti e tutto ciò che si trova nel suo raggio d'azione. Waíse neíat. Non essere...»

L'elfo tacque e Firnen non mancò di notare il tremore delle sue mani strette in pugni e il biancore delle nocche. Si trattava di rabbia per la morte dei Cavalieri e dei draghi o era forse stato ferito in battaglia?

L'uomo inspirò profondamente e quando tornò a parlare l'ombra nelle sue iridi sembrò svanire, tanto che Firnen dubitò di averla intravista: «Lo stregone che compie questa magia cessa di esistere negando la propria esistenza. Ogni cellula che compone quel corpo si tramuta nell'inverso di ciò che è: la materia si trasforma in nulla provocando un'esplosione estremamente potente e distruttiva».

Firnen rimase a bocca aperta di fronte a quelle parole. Un'incantesimo del genere andava al di là di ogni immaginazione: «E... chi può aver tentato di evocare una magia simile?»

«Non lo sappiamo... ma è certo che passeranno molti anni prima che gli alfakyn rimettano piede sull'isola. Quell'incantesimo... non ha solo distrutto Doru Araeba e ucciso ogni essere senziente che vi si trovasse. Ha alterato la struttura dell'isola stessa, proprio come farebbe un ve...»

Proprio in quel momento Firnen fu colta da un altro eccesso di tosse. Un sottile rivolo scarlatto scese sul suo mento: «...come un veleno» concluse la bambina con voce roca.

«Esatto. Sei fuori pericolo, ma non sono riuscito a purificare del tutto il tuo corpo dalla tossina. Forse, con il tempo...»

«Gli altri stanno bene?»

L'elfo inclinò leggermente la testa di lato: «Gli altri?»

«L'equipaggio» precisò Firnen «le persone che hanno perlustrato l'isola e che mi hanno trovata».

«Si sono esposti ai gas emanati dell'isola solo per qualche ora. Non ci saranno danni permanenti».

Firnen annuì con sollievo. Non avrebbe sopportato che anche coloro che l'avevano trovata e portata in salvo soffrissero e pagassero le conseguenze del loro coraggio. Già era difficile accettare il sacrificio di Leum, di suo padre e di tutti i Cavalieri e i draghi che avevano combattuto con valore la loro ultima battaglia...

Un brivido freddo attraversò la spina dorsale di Firnen. Nessun sopravvissuto. Solo in quel momento comprese appieno l'orrore di quella rivelazione. Quanti draghi rimanevano in Alagaësia? Quanti Cavalieri?

Firnen interruppe il flusso di quei pensieri con una domanda, la domanda che riassumeva ogni suo timore: «Dov'è Vrael?»

Guardò l'elfo sperando di scorgere in lui una piccola fiammella di speranza o la più tenue volontà di combattere. Non trovò nulla di tutto questo.

«Nel momento in cui i Rinnegati hanno attaccato Vroengard anche Ilirea è caduta. Vrael è morto, ora è Galbatorix a sedere sul trono dei Broddring».

L'uomo si chinò e prese la mano della bambina nella sua in un gesto di conforto semplice, ma rassicurante. Il suo sguardo calmo eppure sofferente avvolse Firnen in un abbraccio silenzioso.

Rimasero così per qualche attimo, poi lui si alzò con un movimento fluido: «Presto saremo al sicuro, te lo prometto. Ora devi scusarmi, ma hai bisogno di riposo e io devo fare rapporto a sua maestà».

Si era avviato verso la porta muovendosi con l'eleganza tipica della loro razza, ma la bambina non mancò di notare nuovamente l'ombra della sofferenza celata al di là dei movimenti aggraziati e del volto altrimenti perfetto.

Firnen lo fermò: «Aspetta, non ti ho chiesto il tuo nome!»

L'elfo sorrise e poco prima di richiudere la porta della cabina dietro di sé, disse semplicemente: «Oromis».

NdA: Una piccola curiosità: il materiale in cui si è tramutato Leum è lo stesso della tomba di Brom!
Se preferite Wattpad potete leggere questa ff anche lì: https://www.wattpad.com/story/352063054-elves
A presto!

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Capitolo 3
*** L'onore di un fabbro ***


Non mancava molto all'alba. Il sentiero si era trasformato in una poltiglia fangosa e una nebbia densa e delle stesse cupe sfumature del cielo plumbeo avvolgeva e soffocava le forme allungate degli alberi, i rami ancora grondanti di acqua piovana. Dopo la tempesta, a dominare la radura rimaneva solo il silenzio.

Un bambino vestito di abiti consunti percorreva il sentiero zoppicando vistosamente mentre una smorfia di dolore ne trasfigurava il viso. Gli occhi azzurri simili a opali congelati o ad acqua limpida erano l'unica cosa di lui che era stata risparmiata dallo sporco. Era in viaggio da oltre una settimana e la sua casa era ancora lontana, così lontana...

Solo una settimana prima Gynliae era ad Ilirea con i suoi genitori. Suo padre e sua madre avevano combattuto valorosamente nelle ultime battaglie contro Galbatorix ed erano stati invitati a un banchetto da re Evandar in persona insieme ad altri soldati e signori elfici.

Nessuno avrebbe mai sospettato che proprio quella notte il disastro si abbattesse su Ilirea e sul popolo elfico. I pochi Cavalieri rimasti, insieme a uno sparuto gruppo di potenti stregoni, avevano appena portato a termine una missione di importanza cruciale: erano riusciti a scovare due Rinnegati e i loro draghi, riuscendo a ucciderne uno e a mettere in fuga l'altro.

Quella notte gli Atalvard avevano cantato meravigliosamente, il bagliore delle lanterne incantate a guidare il loro cammino. Gynliae e sua madre Galiel li avevano seguiti tenendosi per mano e intonando i loro canti, le voci che si univano a quelle di altri alfakyn giubilanti. La frenesia delle danze, le melodie dei flauti argentei, le poesie e i giochi, i cibi esotici, il vino color porpora e i profumi inebrianti: Gynliae era rimasto estasiato e rapito dalla bellezza dei festeggiamenti.

Eppure, appena oltre le basse mura di marmo bianco, tra gli alberi del bosco che circondava Ilirea in un abbraccio rigoglioso e materno si nascondevano il Traditore e il fedele Morzan, pronti a sferrare il loro attacco e a scatenare distruzione e morte.

Gynliae ricordò gli avvenimenti con un brivido. L'attacco era arrivato dall'alto come una pioggia di meteoriti incandescenti: nessuno aveva potuto contrastare il fuoco del drago nero di Galbatorix. Le lingue di fiamma avevano avviluppato decine di elfi e pochi secondi dopo di loro non rimanevano che le ceneri. Shruikan era atterrato sulle zampe posteriori con un fracasso assordante che aveva mandato in pezzi il sentiero di pietra candida sferrando unghiate possenti contro chiunque gli capitasse a tiro, una furia rovente negli occhi di ghiaccio.

Il Traditore  era sceso teatralmente dalla groppa del suo drago sfoderando una spada dalla lama pallida. Gynliae l'aveva riconosciuta all'istante: era Portatrice di Luce, l'arma di Vrael. Galbatorix, il cui volto era solcato da un sorriso crudele, stava sfoggiando quella lama unicamente per gettare scompiglio e confusione tra gli elfi, come a urlare loro in faccia che l'invincibile Vrael era caduto e che quello era il suo trofeo di guerra, strappato dalle mani senza vita dell'elfo morente. E non aveva tardato molto a trasformare il suo ghigno in parola: «Vrael è morto, Doru Araeba è distrutta!»

Gynliae non aveva visto e sentito altro, perché sua madre lo aveva preso in braccio iniziando a correre verso le porte della città. Gynliae si era aggrappato disperatamente a lei nascondendo il viso nell'incavo del suo collo mentre alcuni Cavalieri e altri soldati elfici si scagliavano contro il Traditore, le spade sguainate e i volti deformati da una rabbia cieca. E ciò che era accaduto dopo... Non voleva nemmeno pensarci.

Il piccolo elfo sussultò quando sentì una mano stringergli la spalla. Come poteva non essersi accorto che qualcuno si stava avvicinando?

Era una mano grande, forte, e non aveva la minima intenzione di lasciarlo andare. Un brivido percorse la sua schiena mentre alzò gli occhi chiari su quell'ombra silenziosa, i nervi tesi fino allo spasimo.

«Rilassati. Non lo vedi che sono un alfa come te? Non voglio farti del male».

Il fatto che tu non voglia non significa che qualcuno non ti abbia ordinato di farlo, si ritrovò a pensare lui con sospetto.

L'elfa doveva essersi accorta della sua ostilità, perché subito dopo parlò nell'Antica Lingua, legando così le sue parole ad un giuramento vincolante: «Giuro che non ti farò del male. Non sono al servizio di Galbatorix, voglio solo aiutarti».

La voce dell'elfa era molto diversa da quelle a cui il bambino era abituato. La sua gente poteva vantare una voce limpida e soave, non rauca e raggrinzita come quella di un vecchio. Eppure sapeva di non potersi sbagliare: nessun umano, nemmeno il Traditore, avrebbe potuto imitare l'accento esotico e musicale del suo popolo.

La figura calò il cappuccio rivelando il volto prima celato. Il viso dell'elfa era affilato ed elegante, ma solcato da una fitta rete di rughe profonde. I lunghi capelli erano d'argento.

«Come ti chiami?»

Il bambino restò impassibile. Tese i muscoli delle gambe, pronto a scattare al minimo accenno di pericolo.

«Allora? Il drago ti ha mangiato la lingua?»

Il piccolo elfo alzò lo sguardo e le pupille nere dardeggiarono come punte di freccia in direzione di quel volto vetusto. La vecchia accennò un sorriso e con voce più dolce aggiunse: «Fai bene a non fidarti di nessuno di questi tempi, ma se non fossi così giovane e ignorante sapresti sicuramente riconoscermi e ci saremmo già incamminati per questo lurido sentiero, in marcia per la Du Weldenvarden. Non vuoi forse tornare a casa anche tu?»

La vecchia elfa sbuffò e tornò a parlare nell'Antica Lingua: «Mi chiamo Rhunön. Negli ultimi secoli non ho fatto altro che forgiare le spade di ogni Shur'tugal in Alalgaësia. E mai ne forgerò più! Non ho mai tradito la nostra causa e giuro sulla spada di Vrael che non ti lascerò sgattaiolare via finché non sarai al sicuro nella Du Weldenwarden. Soddisfatto?»

Il bambino non poté nascondere tutto il suo stupore: davanti a lui c'era una leggenda vivente! Non c'era uomo, donna o bambino che non conoscesse quel nome. Era una spada di Rhunön che Gynliae aveva ardentemente desiderato fin da quando aveva imparato a reggersi sulle proprie gambe ed era sempre con quella spada in mente che aveva sognato di uccidere il Traditore.

Alla fine dischiuse le labbra e pronunciò una sola parola: «Gynliae». Dopo tanti giorni trascorsi nel silenzio la sua stessa voce gli risuonava estranea.

«I tuoi genitori?»

Gynliae arricciò le labbra in una smorfia e iniziò a fissarsi gli stivali sbrindellati. Quando parlò, fu con un sussurro: «sono morti ad Ilirea».

L'elfa lo studiò, gli occhi velati da un'ombra. Poi sembrò riscuotersi e mormorò: «Waíse heill». Un fastidioso formicolio gli risalì lungo il piede sinistro e la gamba, su fino al ginocchio. Le ferite che da giorni lo facevano zoppicare e arrancare si rimarginarono a una velocità impressionante.

«Non sono mai stata un granché nelle arti guaritrici, ma per ora dovrebbe bastare»

Gynliae ringraziò silenziosamente la sua benefattrice. Ora che il dolore era scemato, ogni passo non sarebbe più stato una tortura. Aveva provato a medicarsi da solo con qualche semplice incantesimo curativo, ma era così esausto e affamato che da diversi giorni non riusciva ad attingere al suo potere magico.

Gynliae pensò che l'elfa gli avesse letto nel pensiero, perché aveva appena aperto una sacca di cuoio da cui tirò fuori un involto. La carta stropicciata rivelò alcune fette di pane stantie che Gynliae afferrò al volo per poi addentarle con gusto bofonchiando a Rhunön un ringraziamento.

«Sono la prima persona che incontri da quando sei scappato da Ilirea?»

«Sì» confermò Gynliae masticando avidamente.
«Ho visto alcuni Urgali l'altro giorno, su al valico, ma mi sono nascosto bene»

Improvvisamente ci fu un fruscio. L'elfa raddrizzò la schiena ingobbita e tese le orecchie, in ascolto. Rimase in quella posizione per qualche secondo, poi sembrò tranquillizzarsi: «Sarà stato uno scoiattolo. La guerra fa brutti scherzi ai nervi»

Gynliae non poteva che essere d'accordo con Rhunön. Nell'ultima settimana si era ritrovato a sobbalzare ad ogni minimo rumore della foresta e gli incubi lo tormentavano al punto di non riuscire a chiudere occhio.

La vecchia elfa si guardò attorno con circospezione ed estrasse dal fodero una corta lama trasparente. Gynliae strabuzzò gli occhi ammirato mentre Rhunön gli faceva cenno di stargli accanto.

«Finché non avremo superato i primi pini della Du Weldenvarden non saremo al sicuro. Sei stato abbastanza intelligente da viaggiare di notte, continueremo a fare così».

In realtà viaggiava di notte perché gli era insopportabile l'idea di chiudere gli occhi e rimanere ignaro di chi o cosa si acquattava nell'oscurità in attesa di attaccarlo, ma non obiettò.

Si ritrovò a pensare a sua madre, a suo padre, ai loro volti sorridenti, ma quelle immagini furono subito sostituite da qualcosa di orribile e innominabile. I suoi genitori erano stati uccisi e lui era solo nel mondo, solo come non lo era mai stato prima.

Rhunön lo prese per mano, come a rammentargli che ora non era più così. Gli aveva letto ancora nel pensiero? Istintivamente controllò che la sua mente fosse ancora protetta visualizzando una pesante muraglia di pietra, ma si accorse che il suo viso era rigato di lacrime e che probabilmente era stato proprio quello a tradirlo e rivelare il suo stato d'animo.

Gynliae continuò a piangere silenziosamente, si aggrappò forte alla mano rugosa dell'elfa e insieme si incamminarono verso la Du Weldenvarden.
 


Il sentiero si inerpicava davanti a Gynliae aprendosi su un anfiteatro irregolare di erba umida intrisa di rugiada. Una nebbia sottile danzava tra gli alberi quasi spogli rivelando lentamente i contorni dei larici le cui radici, testimoni di innumerevoli stagioni passate, si intrecciavano nel suolo fangoso. Il silenzio era rotto solo dal lieve fruscio del vento tra le foglie e dal richiamo lontano di una civetta solitaria.

Rhunön e Gynliae avanzavano con cautela, il suolo morbido che si adattava al loro passo leggero. Gli stivali dei due elfi scrosciavano sulle pozzanghere infrangendo il biancore latteo delle nuvole riflesse nell'acqua mentre l'odore della terra bagnata e della fitta vegetazione permeava l'aria mescolandosi alla freschezza della sera.

Rhunön intanto scrutava l'ambiente circostante con occhi attenti. Fece cenno a Gynliae di avvicinarsi: «Ragazzo, sali su quell'albero e dimmi cosa vedi. La Du Weldenvarden non dovrebbe essere lontana».
Gynliae annuì in risposta e si arrampicò con agilità lungo il tronco dell'albero aggrappandosi saldamente alla corteccia umida. Raggiunse i rami più alti, dove le fronde si diradavano permettendo al giovane elfo di godere del panorama mozzafiato di un lussureggiante tappeto arboreo.

All'orizzonte, oltre la radura e il rado boschetto che si stendeva ai loro piedi, si profilava la foresta della Du Weldenvarden. Gli alberi erano altissimi e maestosi proprio come Gynliae li ricordava: emergevano fieri dal terreno, guardiani immortali del regno elfico.

Una volta un nano che aveva incontrato ad Ilirea gli aveva detto che secondo le antiche leggende i pini della Du Weldenvarden e la catena dei monti Beor erano reliquie del tempo in cui i Giganti camminavano su questa terra, tuttavia Gynliae sapeva che l'imponenza della foresta era dovuta alla celebrazione del Dagshelgr e ai canti intessuti di magia che ogni anno gli elfi intonavano per rendere la foresta ancora più imponente e rigogliosa.

La voce asciutta di Rhunön lo riportò alla realtà: «Gynliae, hai deciso di stabilirti là sopra? Dovrai costruire un nido bello grosso se vuoi che ci entriamo tutti e due».

Ha decisamente un brutto caratteraccio, pensò Gynliae soffocando una risata.

«Sto arrivando!»

Il bambino fece capolino dalle fronde, diede un'occhiata verso il terreno e giudicando l'altezza non eccessiva si preparò a saltare giù piegando le ginocchia per darsi lo slancio. Il suo corpo vibrò di adrenalina quando il vuoto gli si aprì nello stomaco, poi atterrò molleggiando sulle gambe.

«Ahi» si lamentò Gynliae scrollando le caviglie.

«Sei impazzito? Guarda che non facevo sul serio quando ho detto che potevi costruire un nido. A meno che tu non abbia davvero un paio d'ali, s'intende».

«È stato divertente!»

Se c'era una cosa che a Gynliae piaceva di lei era che il suo fare rozzo e spigliato le impediva di trattarlo come avrebbe fatto qualsiasi altro adulto. L'elfa sbuffò spazientita: «Ebbene?»

«Non sbagliavi. La foresta è vicina»

«Quanto manca ai primi pini?»

«Non più di qualche ora, se proseguiamo di questo passo»

Rhunön sembrò soddisfatta, così i due elfi camminarono lungo il sentiero a passo sostenuto. Man mano che si avvicinavano alla Du Weldenvarden il profumo di resina e di muschio si faceva più intenso mentre gli alberi diventavano sempre più alti e fitti. Gynliae e Rhunön quasi non si rivolsero parola lungo quel tratto di strada: avevano fretta di raggiungere la foresta e quella smania si faceva sempre più forte ad ogni passo, giacché entrambi percepivano il richiamo della terra natale ormai vicina, così come la promessa di rifugio e di sicurezza che si materializzava nelle forme dei pini tanto familiari.

Giunti al margine della foresta si inoltrarono tra i primi pini e subito Gynliae si sentì alleggerire del peso che dalla battaglia di Ilirea aveva stretto il suo cuore in una morsa. Il regno degli uomini era ormai alle sue spalle, oltre le barriere invisibili che proteggevano la foresta, perciò non avrebbe più potuto nuocergli. Sono a casa, finalmente a casa, si ritrovò a pensare, incredulo della sua stessa fortuna. Se solo avesse potuto condividere quella gioia con i suoi genitori...

Per la prima volta guardò Rhunön con occhi che riflettevano tutta la gratitudine che provava nei confronti di quella vecchia elfa scorbutica.
«Grazie» sussurrò Gynliae, imbarazzato. L'elfa rispose con uno sguardo interrogativo, ma notando la commozione del bambino capì e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi.

Decisero di stabilire lì il loro accampamento per la notte. L'elfa creò un giaciglio rudimentale ammucchiando foglie e muschio in un morbido tappeto, poi innescò con un incantesimo un piccolo fuoco che subito iniziò a sprigionare fiamme crepitanti. Gynliae intanto si allontanò per raccogliere qualche bacca e ritornò al campo qualche minuto dopo con la tunica ricolma di more e nocciole. Fu un pasto frugale, ma le more sul pane offerto da Rhunön erano dolci, mature e così piene di succo che Gynliae dovette pulirsi il mento a ogni morso.

Sedettero accanto al fuoco per scaldarsi al suo tepore, la danza delle fiamme che gettava ombre sui loro visi e guizzi nei loro occhi.
Gynliae notò che Rhunön aveva appoggiato a terra il fodero della sua lama trasparente, la stessa che il bambino aveva intravisto qualche giorno prima quando aveva incontrato l'elfa per la prima volta.

Gynliae allungò la mano in direzione della spada come fanno i bambini quando aspettano di ricevere in dono una leccornia: «Posso?»

Dopo un attimo di esitazione Rhunön gli passò la spada e l'elfo la estrasse con dovuta cautela, quasi con reverenza. La ammirò con tanto d'occhi, desideroso di scrutare ogni dettaglio di quella lama che pareva catturare i bagliori del fuoco: «Qual è il suo nome?»

«Albitr. Non esiste spada simile in tutta Alagaësia, te lo garantisco» disse Rhunön con orgoglio.

«Sembra fatta di luce...» Gynliae sospirò e a malincuore restituì Albitr alla sua padrona.

Rhunön impugnò l'elsa, ruotò il polso e le stelle parvero danzare sulla superfice liscia della lama. Sorrise agli occhi ammirati del giovane elfo: «Non lasciarti ammaliare dall'aspetto esteriore delle cose. Le spade come Albitr portano in sé una storia di vittorie e di gloria, ma anche di morte, così come ogni cicatrice racconta di coraggio e allo stesso tempo di dolore».

Gynliae notò il velo di tristezza sceso sul volto dell'elfa. Parlò con una certa esitazione: «È per questo motivo che hai giurato di non forgiare più spade per i Cavalieri?»

Lo sguardo dell'elfa era fisso sul terreno: «La spada che Galbatorix ha sguainato contro l'Ordine dei Cavalieri era Islingr, Portatrice di Luce. L'avevo forgiata per Vrael con la convinzione che sarebbe stata un baluardo della giustizia, ma il tradimento di Galbatorix ha macchiato quella lama con l'infamia e la vergogna».

Gynliae avvertì la tensione nell'aria: «E questo giuramento... lo hai fatto per proteggere il tuo cuore o per punire i Cavalieri?».

Gli occhi di Rhunön erano colmi di risentimento antico e, Gynliae poteva scommetterci, lucidi di lacrime. Si pentì immediatamente di averle rivolto quella domanda indiscreta e stava per porgere le sue scuse quando Rhunön finalmente parlò: «Entrambi, ragazzo. La forgiatura è un atto intimo, e vedere le mie creazioni diventare strumenti del male è una ferita che ancora sento bruciare come fuoco di drago. Ho giurato di non piegare più il mio talento alla causa dei Cavalieri. Per cosa, poi? Molti di loro si sono rivelati traditori o vigliacchi senza onore».

Rhunön cullò Albitr con reverenza come fa una madre con il figlio neonato: «Questa è stata la mia ultima creazione. Un lavoro su commissione, in realtà, ma la sua padrona non è ancora venuta da me a reclamarla e ammetto che la mia speranza è che non si presenti mai più alla mia porta. Odierei separarmi da Albitr più che dall'ossigeno che respiro».

Il giovane elfo rimase in silenzio, sopraffatto da quelle parole intrise di emozione. Rhunön contemplò Albitr un'ultima volta per poi riporla con cura nel fodero. Quando l'ultimo segmento di lama scomparve al suo interno a Gynliae parve che Albitr avesse trascinato con sé ogni traccia di luce.

Rhunön notò il fulgore negli occhi di Gynliae e sembrò riscuotersi: «Sei un ragazzo sveglio. Non creerò mai più strumenti di morte, ma forse, un giorno, potrei insegnarti a forgiare una spada come questa».

Gynliae, stupito, chinò il capo con rispetto:
«Sarebbe un onore, Rhunön-elda».

Lei gli rivolse un cenno compiaciuto. I capelli d'argento dell'elfa incorniciavano il suo viso come un'aureola, alleggerendone i tratti severi: «La forgiatura è un'arte antica e rispettabile. Richiede disciplina, pazienza e un profondo legame con il materiale che si sta modellando. Non è un mestiere per tutti».
Poi diresse al giovane un'occhiata obliqua, tornando al tono di sempre: «Non avevo mai preso un apprendista prima d'ora. Vedi di non farmene pentire, ragazzo».

Gynliae non si fece intimidire dall'ammonimento. In quei pochi giorni passati con la vecchia elfa aveva imparato che sotto la scorza di risposte taglienti e pungente sarcasmo si nascondeva un cuore gentile. Le rispose accennando un sorriso, ma dentro di sé era estasiato dalla prospettiva di imparare l'arte della forgia da una leggenda come lei.

Il fuoco crepitava ancora, unico rumore a infrangere la quiete notturna. Poco dopo i due elfi si addormentarono profondamente sotto le fronde scure della foresta elfica. Gynliae ancora non lo sapeva, ma quella notte il suo wyrda si era legato indissolubilmente a quello di Rhunön e un giorno le mani dell'elfo avrebbero modellato il destino in forma di spada.

NdA: eh sì, si tratta proprio della spada di una certa indovina ricciuta. Un grazie a stefy_81 per il supporto e anche a FioreDelDeserto1999 che invece mi legge su Wattpad. A presto!

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Capitolo 4
*** Nïdhwal ***


Nda: ho unito alcuni capitoli per organizzare meglio la storia dato che i prossimi saranno tutti sulle 2000-3000 parole. Qui ho unito il il capitolo intitolato Aiedail all'ultimo che ho pubblicato.

Nel corso dei giorni successivi Firnen esplorò la nave elfica con gli occhi curiosi di ogni bambino. Inizialmente aveva preferito riposare e piangere i suoi cari nella penombra della sua cabina, ma al terzo giorno Oromis l'aveva costretta ad uscire con la scusa di farle respirare un po' di aria fresca. Le aveva presentato tutti i membri dell'equipaggio, che si erano rivelati estremamente gentili e sollevati nell'apprendere che stava bene e che era sufficientemente in salute.

C'erano ancora momenti in cui la bambina veniva colta da fastidiosi attacchi di tosse che la lasciavano senza fiato, ma Firnen era pienamente consapevole che quello era un prezzo quasi infimo da pagare rispetto a ciò che l'isola aveva riscosso al resto dei suoi abitanti.

Firnen era rimasta affascinata dalla maestosità e dell'eleganza della nave, una leggiadra imbarcazione dai contorni sinuosi che incarnava l'arte elfica nella sua forma più pura. Solcava il mare con grazia, come sospinta da un'incantesimo che pervadeva l'aria di una vibrazione frizzante, una magia invisibile forse intessuta nella struttura stessa della nave. Le vele rilucevano d'argento e di oro nelle ore del crepuscolo, ali leggere che si gonfiavano nel vento conducendoli verso l'orizzonte.

Contemplando le onde che si estendevano a perdita d'occhio Firnen riusciva persino a dimenticare, anche se solo per qualche attimo, gli eventi drammatici accaduti a Vroengard. Il capitano, Edeviel, era un elfo alto e dagli occhi scuri come una notte senza luna. Le aveva detto che il nome della nave era Aiedail, Stella del mattino, e le aveva mostrato il grande timone finemente intarsiato al centro del quale emergeva la figura di un drago in miniatura sullo sfondo di un cielo punteggiato di piccoli astri.

Spesso Firnen aveva attraversato i ponti di legno levigato in compagnia di Oromis, che in quelle occasioni era lieto di raccontare alla bambina storie di draghi e di antichi tesori perduti. Firnen ascoltò avidamente gli aneddoti dell'elfo, storie che evocavano un tempo di pace che nella sua breve vita non aveva ancora potuto conoscere e apprezzare. Il Cavaliere diventò una presenza rassicurante e piacevole in quei pomeriggi passati a conversare e Firnen iniziò ben presto a considerare Oromis con profonda ammirazione e rispetto. Era proprio durante una di quelle conversazioni che Firnen aveva scoperto che Oromis era non solo un Cavaliere dei draghi, ma anche il Maestro che decenni addietro aveva addestrato suo padre Ahorin e Leum.

Intorno a loro gli elfi si muovevano silenziosamente, figure eteree immerse nelle loro attività quotidiane che lavoravano con una precisione conferita da secoli di pratica nella navigazione. Passeggiando sul ponte Firnen si convinse persino di sentire l'aura antica di Aiedail, un'aura profonda quanto lo stesso oceano. Da millenni la sua razza si era stabilita nella Du Weldenvarden, ma gli elfi non avevano mai dimenticato il fascino per il mare e Aiedail appariva alla bambina come la personificazione di quell'amore.

Un giorno un elfo dell'equipaggio aveva recitato alcuni versi del Du Silbena Datia, un poema che decantava proprio la passione elfica per l'oceano e le sue meraviglie. Al suono della sua voce cristallina tutti gli elfi avevano interrotto ogni faccenda per ascoltare rapiti il canto del compagno:

 
Oh, mare tentatore sotto l'azzurro cielo,
la tua distesa scintillante mi brama e mi chiama.
Veleggerei per sempre nel sole e nel gelo, ma c'è un'elfica fanciulla che mi ama e mi chiama.
A sé mi attira con le sue trecce bionde.
Ahimè, il mio cuore langue fra la terra e le onde.

Quel giorno il tramonto stese un meraviglioso manto rosa screziato d'arancio. Firnen si sporse sul parapetto per osservare l'oceano, i capelli d'ebano che ondeggiavano al ritmo della brezza. La luce solare ormai morente si rifletteva sull'acqua assumendo tonalità fugaci che si compenetravano in guizzi luminescenti, simili al brillio di piccole pietre preziose. Si lasciò trasportare dai giochi di luce, immaginando di trovarsi sulle sponde del lago Ardwen, nei pressi della città elfica di Silthrim.

Ad un tratto Firnen notò che la superficie dell'acqua era increspata da sussulti irregolari. Strinse gli occhi per scrutare meglio le profondità marine, accorgendosi che gli spruzzi stavano diventando sempre più intensi e frequenti. Di quale animale poteva trattarsi? Avvertendo una crescente inquietudine mista a curiosità la bambina espanse un flebile tentacolo di coscienza verso l'animale, ma subito si ritrasse istintivamente di fronte a quell'immensità oscura, proprio come si fa quando ci si avvicina troppo alle fiamme. Le sembrò di essersi sporta da un precipizio senza fine, di averne fissato il vuoto e di aver lasciato irrimediabilmente cadere dentro di esso una parte del proprio essere.

Firnen si allontanò subito dal parapetto indietreggiando di qualche passo. Non fece in tempo a dire una sola parola che il suono del corno di allarme echeggiò nell'aria diffondendo un'unica nota squillante. La bambina alzò lo sguardo sul nido di vedetta e vide un'elfa che, abbassato il corno, gridò un'unica parola: «Nïdhwal!»

Nïdhwal, serpente marino. Non era affatto un animale. Firnen aveva letto qualcosa al riguardo durante uno dei pomeriggi d'inverno passati nell'immensa biblioteca di Doru Araeba. Erano estremamente rari da avvistare ed erano considerati una sorta di cugini alla lontana dei draghi, tanto da venire soprannominati "draghi di mare". Quando aveva chiesto a Leum di parlargliene, il drago le aveva raccontato che i Nïdhwal erano creature intelligenti in grado di sfruttare il potere della mente per immobilizzare le proprie prede. Inoltre si pensava possedessero un organo simile a un Eldunarì, anche se gli elfi ipotizzavano che avesse funzioni diverse rispetto a quello dei draghi.

Tutti gli elfi dell'equipaggio accorsero sul ponte in un vortice frenetico di passi ed esclamazioni. Firnen vide Oromis dirigersi al centro del tumulto e discutere concitatamente con alcuni dei suoi compagni, tra cui Edeviel. Gli altri si disposero a mezzaluna intorno a loro, in attesa di ordini. Uno di loro incoccò una freccia, pronto a far scattare la corda in direzione della bestia che ancora rimaneva sul filo dell'acqua.

Oromis lo fermò: «Compagno, abbassa il tuo arco. I Nïdhwal sono creature rare e antiche. Dobbiamo fare il possibile per non nuocergli in alcun modo».

L'elfo allentò la corda di controvoglia, un'espressione tesa sul volto glabro: «Oromis-elda, dovremmo almeno cercare di allontanarci in fretta. I Nïdwhal sono creature volubili e quando affamati non disdegnano neppure di cibarsi dei propri simili».

Firnen si mescolò alla calca incurante del pericolo e lieta che fossero tutti troppo impegnati a discutere per notarla. Vedere un Nïdwhal! Chissà se nella vita avrebbe avuto un'altra occasione simile. Di certo non poteva sprecarla.

Probabilmente mi spediranno sottocoperta entro breve, pensò con una punta di amarezza. Non era una sprovveduta, ma la guerra l'aveva temprata più di quanto necessario e il suo spirito indomito non aiutava più di tanto.

Edeviel si diresse con passo deciso verso il parapetto, gli occhi scuri fissi sulle acque increspate. Si rivolse al vecchio Cavaliere: «Ha ragione. Potrebbe decidere di attaccare in qualsiasi momento. Dobbiamo allontanarci subito se non vogliamo ingaggiare battaglia».

Molti elfi proruppero in cenni di approvazione. Firnen notò che Oromis, la fronte aggrottata per la concentrazione, era tra coloro che sembravano non condividere quel piano. I suoi dubbi vennero subito confermati: «Fuggire potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio. I Nïdhwal, così come i draghi e ogni altro predatore, amano il brivido della caccia. Se ci poniamo come prede rischiamo di risvegliare il suo istinto di cacciatore».
 
Il serpente marino si avvicinò ulteriormente e le sue spire si fecero piu chiare sotto la superficie dell'acqua. In quel momento la nave fu scossa come da un rombo di terremoto. Gli elfi si aggrapparono ai corrimano per mantenere l'equilibrio mentre Edeviel correva svelto verso il timone: «Oromis, non abbiamo scelta! Ammainare le vele!»

 
Aiedail scivolava leggera nonostante le onde agitate dell'oceano. Oromis si affacciò sul ponte della nave, gli occhi fissi sull'orizzonte infuocato dal tramonto. Il Nïdwhal li inseguiva con costanza, ma senza alcuna urgenza. Gli elfi erano rimasti interdetti dal comportamento insolito dell'animale: il serpente li inseguiva da un intero giorno eppure non sembrava intenzionato ad attaccarli.
Nel momento in cui Edeviel aveva ordinato di ammainare le vele la nave elfica era sfrecciata via riuscendo a distanziare in breve tempo l'enorme serpente marino, ma la creatura sembrava guidata da una determinazione implacabile e continuava a inseguirli, attratto dalla nave come una falena lo è dalla luce.
 
Glaedr!

A quel richiamo mentale il suo compagno sfiorò la sua coscienza e subito si sentì rincuorato della presenza del drago. Negli anni il loro legame si era perfezionato a tal punto che ormai non avevano bisogno delle parole per comunicare. Così Oromis riversò nella mente del drago i ricordi degli ultimi eventi, comprese le circostanze misteriose in cui Firnen si era salvata, l'incantesimo compiuto da Leum per proteggerla dall'esplosione che aveva distrutto e avvelenato Vroengard e in ultimo l'inseguimento del Nïdhwal.
 
I due si scambiarono qualche commento sull'esito della guerra e con sorpresa del Cavaliere, il drago, che nelle ultime settimane aveva rischiato di annegare nel dolore a causa dell'estinzione inevitabile della sua razza, parlò con rinnovato vigore: Ci vorrà del tempo prima che la trama degli avvenimenti che hanno squassato Alagaësia si districhi agli occhi delle creature che abitano questa terra, ma non tutto è perduto...
 
Oromis era dello stesso avviso: È come se gli ingranaggi primordiali che muovono Alagaësia si fossero inceppati d'un tratto. La guerra, la fine dei Cavalieri e dei draghi. Le razze magiche che hanno nutrito e fatto prosperare Alagaësia si sono indebolite sempre di più perché l'Ordine è stato avvelenato dal tradimento e dalla sete di potere. Il regno di Galbatorix non segna l'inizio di una nuova era, ma il principio della fine che porterà a un'età più prospera e giusta. 
 
Oromis avvertì un'onda di affetto provenire dal drago, che si materializzò nelle sue parole: E tu come stai, Oromis? Non abbiamo più parlato di quanto accaduto...
 
Nelle ultime settimane il Cavaliere aveva cercato di pensare il meno possibile alle torture infertegli da Kialandí e Formora, i due Rinnegati che lo avevano catturato per cercare di estorcergli informazioni sull'Ordine e piegarlo al volere del Re Nero. Ora che la guerra era giunta alla sua conclusione, però, i ricordi della prigionia giungevano sempre più vividi alla sua memoria, per quanto cercasse di relegarli in un remoto angolo della sua mente. 
 
Non avrebbe voluto mostrarsi fragile di fronte al suo drago e accendere la sua preoccupazione per lui, ma sapeva che celargli la verità dei fatti sarebbe stato inutile, se non controproducente: il loro legame era troppo intimo e stratificato per mentirgli senza che il drago se ne accorgesse: La mia mente e il mio corpo sono menomati, Glaedr. Le convulsioni mi assalgono senza preavviso, ma sono sempre meno frequenti. Forse, con il tempo...
 
Glaedr parlò infondendo ai suoi pensieri un flusso di energia magica che lo rinvigorì: Siamo sopravvissuti. È questo ciò che conta. Se le tue gambe non reggeranno ti donerò le mie ali e se invece sarà la tua mente a vacillare ti sosterrò con la mia magia. Non ti lascerò annaspare nella disperazione. Ne riemergeremo insieme.
 
Oromis fu pervaso dalla riconoscenza e ringraziò il suo drago. Finché sarebbero stati uniti la speranza non lo avrebbe abbandonato. Oromis si accomiatò interrompendo il flusso di pensieri e si voltò ancora verso il Nïdhwal, le cui spire ora parevano più vicine che mai.
 
Chiamò Edeviel e pochi attimi dopo l'elfo era al suo fianco. Alla vista del serpente che si avvicinava sempre di più il volto del capitano impallidì. Oromis, d'altro canto, animato dalle parole incoraggianti di Glaedr, diede mostra di una risolutezza imperturbabile: «ci raggiungerà entro qualche minuto» constatò piattamente.
 
«Cosa dovremmo fare, Oromis-elda?»
 
Fu allora che il Cavaliere percepì un'immenso potere magico proprio alla sua sinistra. Una fonte di luce intrappolata che scalpitava di uscire e propagarsi in tutte le direzioni. Proveniva da qualcosa, da qualcuno. Il serpente li stava forse inseguendo perchè aveva percepito la presenza di qualcosa di anomalo a bordo di Aiedail?
 
Si voltò. Firnen stava in perfetto equilibrio sul corrimano, sbracciandosi per attirare il Nïdhwal in quella direzione.
 
«Sono qui!» gridò la piccola elfa nell'Antica Lingua.
 
Edeviel a quel punto non fu più in grado di nascondere il nervosismo che incrinava la sua voce: «Che cosa sta facendo quella bambina? Qualcuno la porti giù di lì!»
 
«No!» ribatté il Cavaliere. Si rivolse anche agli altri elfi accorsi sul ponte di Aiedail: «che nessuno si muova. Mantenete le posizioni».
 
Oromis corse verso la piccola elfa: «Firnen, sai cosa vuole da noi il Nïdhwal?»
 
Firnen scese dal corrimano e lo guardò risoluta: «Non ci farà del male! Vorrebbe solo parlare con me».
 
Oromis rimase interdetto da quell'affermazione inaspettata: «come fai ad esserne certa?»
 
«È stato lui a dirmelo»
 
Il Cavaliere era sicuro del fatto che Firnen stesse omettendo un dettaglio importante, ma nel frattempo una nuova consapevolezza lo invase, come se un velo invisibile gli avesse celato una verità che ora si stagliava limpida davanti ai suoi occhi centenari. 
 
Si maledisse per non essersene reso conto prima. Come aveva fatto a non pensarci, proprio lui che era un Cavaliere? Ora gli era ben chiaro da dove provenisse il potere magico che sentiva fluire nel corpo dell'elfa. 
 
La creatura emerse innalzando zampilli di acqua salata che piovvero sul ponte della nave come gocce di pioggia. La testa del Nïdhwal era simile a quella di un drago e sormontata da due corna allungate e sottili, ma il suo muso era più poderoso e massiccio.
 
Le pupille nere del serpente scandagliarono il ponte della nave e d'un tratto le membra di Oromis si irrigidirono impedendogli qualsiasi movimento. L'incantesimo che i Nïdhwal erano soliti usare per bloccare le loro prede agì senza che gli elfi potessero fare nulla per sfuggirgli. Oromis sperò con tutto il cuore che la sua intuizione fosse giusta, che il Nïdhwal fosse davvero solo curioso come diceva Firnen, che non avesse intenzione di sbranare lui e i suoi compagni uno per uno e che li avesse immobilizzati solo per evitare che gli elfi dell'equipaggio scoccassero le loro frecce e scagliassero le lance contro di lui. Con grande sollievo il Cavaliere vide che l'unica a non essere intrappolata dalla magia del serpente era proprio la piccola elfa.
 
La bambina risalì sul corrimano con un balzo, alzò una mano verso il muso squamoso dell'animale e lo sfiorò con i polpastrelli. Il Cavaliere non poteva vedere il viso di Firnen, ma era impossibile non notare il tenue bagliore che emanava dalla sua pelle candida. Quel corpicino era troppo piccolo per contenere tanto potere, così l'energia magica non poteva fare altro che straripare e rendersi visibile in un'aura di luce condensata. 
 
Era grazie a quel potere nascosto che Firnen era riuscita ad infrangere il materiale in cui Leum si era tramutato? Che cos'era accaduto davvero a Vroengard?
 
Oromis rimase immobile come una statua di marmo mentre elfa e Nïdhwal comunicavano silenziosamente. Pochi attimi dopo Firnen ritrasse la mano e il serpente alzò il lungo collo squamoso per poi scivolare negli abissi come se niente fosse. Le membra di Oromis si sciolsero dalla tensione mentre Firnen osservava il mare nel punto in cui il Nïdhwal si era immerso. Il bagliore che appena prima la circondava era svanito e il suo sguardo era distante, perso tra le onde increspate che sembravano aver inghiottito il serpente nelle oscurità marine.
 
L'incantesimo che aveva immobilizzato anche gli altri elfi si sciolse: sui loro volti erano dipinte espressioni di incredulità, confusione e sollievo, le stesse emozioni che Oromis immaginava riflesse sul suo stesso viso. 
 
«Anche a Vroengard è accaduto qualcosa di simile?»
 
L'elfa esitò, ma poi annuì. In quel momento Edeviel li raggiunse e fece per parlare quando Oromis lo fermò con un gesto della mano: «Ha bisogno di riposare. Lascia che la accompagni alla sua cabina. Parleremo dopo».
 
Edeviel capì che lo sguardo fermo e autorevole del Cavaliere non ammetteva repliche e tornò dai suoi compagni, alcuni dei quali si stavano ancora sciogliendo gli arti intorpiditi dall'incantesimo del Nïdhwal.
 
La notte si addensava rapidamente avvolgendo Aiedail in un manto scuro. Oromis tornò da Edeviel, radunò l'equipaggio e dopo aver risposto evasivamente alle loro domande li fece giurare di non rivelare a nessuno quanto accaduto. 
 
Quando tornò esausto alla sua cabina sedette alla scrivania, intinse il pennino nell'inchiostro e iniziò a scrivere una lettera rivolta alla sovrana degli elfi per aggiornarla sugli ultimi avvenimenti. Aveva scritto una manciata di righe quando la porta della sua cabina scricchiolò rivelando la figura esile di Firnen. Come era accaduto solo qualche ora prima, la sua pelle risplendeva, ma questa volta Oromis notò anche una luce diversa nei suoi occhi smeraldini. 
 
Si avvicinò e comprese con sgomento che quelli non erano gli occhi di una bambina e nemmeno quelli di un'elfa. Le menti dei due si sfiorarono e Oromis fu sopraffatto dallo stupore e meraviglia: «Lo sospettavo... ma non immaginavo fossi proprio tu. Hai parlato con il Nïdhwal e hai aiutato Firnen ad infrangere la parete, non è così?»
 
Quella che era Firnen, e che allo stesso tempo non lo era, annuì: «La notte è giovane, ma abbiamo molte cose di cui parlare, Oromis-elda».
 
Gli ingranaggi inceppati di cui aveva parlato con Glaedr avevano iniziato inaspettatamente a muoversi prima del previsto. Il Cavaliere riacquisì la consueta compostezza e chiuse a chiave la porta della cabina per poi pronunciare sottovoce l'incantesimo che avrebbe impedito a chiunque di ascoltare le loro parole. Nel frattempo Aiedail si inoltrava nell'oscurità della notte, scivolando tra le onde come una freccia scagliata nel buio.
 
NdA: e qui si conclude l'introduzione a questa storia: il primo atto, diciamo così. Il prossimo capitolo avrà un timeskip di ben dieci anni. 

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Capitolo 5
*** Canto ai caduti ***


L'acciaio incandescente bruciò come fuoco liquido, un inferno in miniatura pronto ad essere plasmato. Il giovane elfo afferrò un paio di pinze e con fare esperto spostò l'acciaio dalla forgia all'incudine. Intanto si era armato di martello, un arnese rozzo e solido che in tanti anni di lavoro mai l'aveva tradito. Calò il martello sul metallo, acciaio su acciaio, i muscoli del braccio che guizzavano e si contraevano mentre l'incudine iniziava a cantare la sua melodia stridula e cadenzante.

Quello del fabbro era un lavoro duro e lo aveva reso forte fin dal momento in cui, quando ancora era un bambino, gli era stato messo tra le mani quello stesso martello. Gli anni di apprendistato lo avevano reso più robusto della maggior parte degli elfi, che di norma avevano spalle strette e corpi snelli e affusolati.

Gynliae si fermò solo un momento per asciugarsi la fronte dalle goccioline di sudore che rischiavano di cadergli sugli occhi, per poi riprendere il suo lavoro con ancora più energia. Continuò a colpire con insistenza la sagoma d'acciaio che presto avrebbe preso la forma di una spada lunga da combattimento.

Nella mente del ragazzo l'immagine della lama ultimata emerse chiaramente: un'arma elegante la cui sommità curvava dolcemente in un artiglio di acciaio affilato e letale, la scanalatura decorata di antiche rune propiziatrici e l'elsa che terminava con il pomolo argentato e arricchito da una pietra preziosa.

A commissionarla era stato lord Yidrë, un valoroso comandante che aveva combattuto nella battaglia di Ilirea. La mascella di Gynliae si serrò. La battaglia di Ilirea. Non voleva nemmeno pensarci. Da quella battaglia, così come dal disastro che aveva distrutto Doru Araeba, erano ormai passati dieci anni. Dieci anni da quando l'umano traditore Galbatorix sedeva sul trono di quella che un tempo era Ilirea e che ora si chiamava Urû'baen, dieci anni dalla sconfitta degli alfakyn.

Gynliae ricordò che era proprio dopo la morte della sua amata che il lord era impazzito di rabbia e una furia omicida lo aveva portato a trucidare alcuni dei più fervidi sostenitori di Galbatorix. Yidrë non conservava alcuna memoria dell'avvenimento: i soldati di Evandar lo avevano trovato riverso a terra privo di sensi, circondato come in uno strano rito dai corpi macellati dei suoi nemici.

Il sole era già basso all'orizzonte quando Rhunön tornò alla forgia. Era un'elfa vecchia quanto la Du Weldenvarden: il suo viso era solcato da rughe fitte e profonde quanto quelle della corteccia di un albero, era alta di statura, ma aveva spalle curve simili a quelle di un umano giunto alla fine dei suoi giorni vigorosi. Le mani erano ancora forti, ma raggrinzite e nodose. I capelli dell'elfa erano l'unica parte rimasta intatta della sua antica bellezza: una chioma lunga e argentea, la stessa sfumatura che caratterizzava anche il taglio corto e scarmigliato di Gynliae.

Mentre si avvicinava all'incudine Rhunön si infilò un paio di spessi guanti di cuoio: «Ragazzo, se batti ancora un po' il martello su quella lama, diventerà sottile quanto un fairth».

Gynliae immerse quella che ora era una lama in un secchio d'acqua per poi porla all'elfa. Si scostò in silenzio in attesa del suo giudizio.

Rhunön sollevò la lama all'altezza degli occhi e la analizzò con fare scrupoloso sia di piatto che di taglio. La soppesò e la rigirò mentre Gynliae osservava vigile ogni suo movimento. Rhunön aveva modi bruschi che altri elfi avrebbero sicuramente definito sgarbati, ma ogni abitante di Ellesméra la rispettava profondamente, Gynliae più di ogni altro.

Dopo un'attesa che gli sembrò infinita l'elfa parlò: «Sì, è un po' sottile per i miei gusti, ma credo che a uno come Yidrë piacerà. L'hai temprata bene. Entro venti, venticinque anni al massimo forse potrai dire di forgiare spade buone quanto le mie... Cos'è quella faccia? Pensavi di superarmi in così poco tempo? Hai ancora da imparare molto, ragazzo».

Gynliae aveva inarcato impercettibilmente le sopracciglia, ma Rhunön non era tipo da lasciarsi sfuggire il più minimo dettaglio, sia sulle lame che sui visi delle persone.

L'elfo sorrise: «In realtà, Rhunön, non hai mai parlato così bene di un mio lavoro. È per questo che sono sorpreso».

Negli anni in cui era stato suo apprendista Gynliae aveva forgiato mille spade, daghe, coltelli e stiletti, armature e cotte di maglia, picche e martelli da guerra, ma raramente Rhunön ne era stata soddisfatta. Gynliae era un fabbro tutt'altro che mediocre, ma la sua era un'insegnante severa e quasi impossibile da accontentare. Eppure quella stessa insegnante aveva appena ammesso che in pochi decenni il suo allievo l'avrebbe eguagliata.

«Beh» iniziò Rhunön con il suo solito tono ironico: «prima o poi dovevi pur migliorare».
Gynliae però sapeva che in fondo era fiera di lui.

La mattina seguente Gynliae si svegliò particolarmente presto. Il suo era stato un sonno agitato, ma non ricordò nulla di quanto sognato quella notte. Colto da un'improvvisa inquietudine scese alla forgia con gli occhi ancora pieni di sonno.

Rhunön era già al lavoro. Gynliae si sedette in un angolo del laboratorio e osservò l'elfa con interesse. Si era appena rimboccata le maniche della veste fino ai gomiti e sfiorava la lama che lui aveva forgiato il giorno prima con delicatezza, quasi temesse di spezzarla con il solo tocco delle dita.

Un attimo dopo la sua maestra iniziò a cantare un incantesimo lungo e complesso, un'antica formula che Gynliae non era ancora riuscito a padroneggiare, ma che sapeva essere essenziale per conferire alle lame elfiche l'eccezionale resistenza di cui erano dotate.

Qualche minuto dopo il canto roco di Rhunön si fece più lento e debole, infine le sue parole si confusero con il silenzio. L'elfa brandì la spada ormai ultimata con soddisfazione. L'elsa era semplice e disadorna eccetto che per il pomolo, che Yidrë aveva richiesto di arricchire con una grossa ametista dal taglio ovale.

«Ci pensi tu a consegnarla?» domandò Rhunön.

«Certo»

Gynliae si avvicinò per esaminare il lavoro completo. Era un'arma così bella che fece dimenticare all'elfo che le spade erano, prima di ogni altra cosa, un letale strumento di morte.

«Non potrai trattenerti a lungo, o farai tardi alla commemorazione»

Gynliae annuì, distratto dai riflessi violetti della pietra preziosa.

«So cosa ti passa per la testa» soggiunse Rhunön con un tono indagatore: «verrà il giorno in cui sarai pronto a forgiare una lama tutta tua e temo che quel momento sarà prima di quanto vorrei».

Gynliae non comprese le sue parole. Il Re Nero sedeva stabilmente sul trono di quella che un tempo era Ilirea da ormai dieci anni e da quel momento in avanti la regina Islanzadi si era limitata a nascondere il suo popolo nei meandri più profondi della foresta, innalzando alte barriere magiche per proteggerne i confini.

L'elfo finse un tono disinvolto: «Non c'è nessuna guerra alle porte, Rhunön. Galbatorix ci teme ancora, sono sicuro che ci lascerà in pace»

Gli occhi di Rhunön si infiammarono di antica rabbia mentre gli puntava un dito nodoso al petto: «Il Traditore si è preso tutto. Tutto! Prima o poi verrà a reclamare anche la nostra foresta. Ma prima che ciò accada tenteremo qualcosa».

Gynliae indietreggiò istintivamente, ma notò che nell'espressione della vecchia elfa c'era anche qualcosa di diverso. Speranza? O semplice ostinazione? Gynliae non sapeva dirlo.

«Tenteremo qualcosa» ripetè lei, più a se stessa che al giovane elfo.

Rhunön afferrò una cotta di maglia e un paio di tenaglie e tornò alle sue faccende. Gynliae capì che non era il caso di insistere. L'elfa covava un risentimento così profondo nei confronti del Re Nero che a volte era meglio lasciarle il tempo di rabbonirsi con qualche sana ora di duro lavoro.

Così, Gynliae ripose la spada nell'elegante fodero di cuoio che aveva realizzato appositamente per il lord e uscì di casa, desideroso di respirare un po' di aria fresca.

Gynliae era in ritardo. Spalancò la porta, il cuore che sembrava volergli uscire dal petto dopo la corsa forsennata. Eppure Rhunön lo aveva avvertito poco prima che varcasse la soglia del laboratorio!

Non potrai trattenerti a lungo, o farai tardi alla commemorazione.

Afferrò una camicia pulita e si cambiò velocemente. Si precipitò fuori in fretta e furia e cercò di ravviarsi i capelli spettinati passandosi le mani tra le ciocche.

Quel giorno il popolo elfico avrebbe ricordato le vittime della guerra che dieci anni prima aveva portato alla fine dei Cavalieri e alla presa al potere di Galbatorix.

Gli abitanti di Ellesméra si riunivano ogni anno per onorare le vittime e piangere i propri cari perduti: la regina teneva un discorso mentre il popolo sceglieva alcuni rappresentanti che avrebbero cantato un nuovo albero come simbolo di rinascita dopo la disfatta.

Quell'anno erano gli orfani di guerra ad essere stati scelti e nelle settimane precedenti Gynliae aveva preso sul serio la questione impegnandosi a studiare i canti magici che gli aveva indicato Rhunön, ma cantare il legno era una magia estremamente complessa e Gynliae, che aveva dedicato l'ultimo decennio all'incudine e al martello, non si era mai concentrato troppo nello studio delle innumerevoli branche della magia.

A dire il vero Rhunön lo aveva istruito personalmente e riusciva a destreggiarsi nelle arti magiche basilari con sufficiente abilità, ma spesso l'elfa doveva ricorrere alle minacce per distoglierlo dalla forgia e convincerlo a dedicarsi almeno per una manciata di ore ad un libro di incantesimi abbandonato sulla scrivania parecchie settimane addietro.

Gynliae svoltò con ampie falcate imboccando una via che lo avrebbe condotto nei pressi del palazzo di Tialdarì, la residenza della regina e della sua corte.

Lungo la strada incontrò alcuni ritardatari che, pensò Gynliae, potevano permettersi di indugiare considerando che non avrebbero dovuto cantare l'albero della rinascita davanti a tutta la popolazione di Ellesméra. A quel pensiero affrettò il passo e sbucò in uno spiazzo erboso circondato da alti pini. Alcuni elfi - i più giovani, notò - si erano arrampicati tra le fronde aghiformi per conquistarsi la vista migliore e stavano accovacciati sui rami robusti.

Sgomitando nella folla che si faceva sempre più fitta e provocando diverse smorfie contrariate tra i suoi concittadini, Gynliae riuscì a raggiungere Hunithie, un elfo pallido come gesso e con un sottile naso aquilino che gli conferiva un elegante volto rapace: «Dov'eri finito?» gli intimò sottovoce «sei arrivato appena in tempo».

«Commissioni per Rhunön» disse Gynliae a mo' di scusa mentre con la coda dell'occhio vide Ydrë avvicinarsi agli scranni riservati ai nobili con Maydias, l'arma da lui forgiata, stretta al fianco. Per l'occasione aveva scelto un farsetto dello stesso viola dell'ametista che decorava il pomolo della spada nuova di zecca.

Oltre a loro due altri giovani elfi si erano riuniti alla base del palco. Li conosceva entrambi: Ilion era figlio di Ydrë ed orfano di madre, Arien invece era un ragazzo allegro i cui genitori erano stati entrambi Cavalieri rispettati.

Ilion si avvicinò con aria boriosa: «Ho saputo che sei stato tu a forgiare l'arma di mio padre. Quando l'ho saputo gli ho detto che secondo me Rhunön lo ha ingannato. Abbiamo pagato per una sua spada, non per una delle tue».

Non aveva idea del perché Ilion lo trovasse così antipatico. Era sempre stato così, fin da quando aveva memoria. Replicò stancamente alla sua provocazione: «Sì, sì, come dici tu. Perché non ti decidi a starmi lontano?»

Ilion gli rivolse uno sguardo sprezzante e si allontanò senza una parola.

«Dovevamo essere in cinque» lo informò Hunithie con tono risentito: «Credi che riusciremo a cantare l'albero con una persona in meno?»

Gynliae bofonchiò un "non so" in risposta. Non aveva bisogno che Hunithie gli mettesse altra pressione addosso e dopo il commento di Ilion i suoi nervi erano già a fior di pelle.

Fu in quel momento che la regina fece il suo ingresso accompagnata dalla corte e da Blagden, un corvo parlante candido come neve. Era stato re Evandar a conferire inavvertitamente al corvo le sue particolari abilità oracolari, conseguenza inaspettata dopo un incantesimo che in teoria avrebbe dovuto donargli solamente una lunga vita.

Islanzadi camminava altera verso il palco, le spalle coperte da un morbido mantello di piume di cigno e i capelli lunghi e neri, ali di corvo che sembravano aver derubato Blagden del suo colore. Gli elfi si scostarono per lasciare passare la loro regina portando una mano al petto nel consueto segno di rispetto rivolto ai reali.

A chiudere il corteo vi era una giovane elfa dagli occhi smeraldini che teneva per mano la piccola principessa Arya. Rhunön gli aveva raccontato che quella ragazza era l'unica sopravvissuta all'esplosione magica che aveva distrutto Doru Araeba e impedito a qualsiasi essere vivente di stabilirsi nuovamente a Vroengard. Anche i suoi genitori erano morti in guerra e a conferma di ciò Gynliae la vide dirigersi verso di lui e gli altri orfani.

Il bagliore di potere irradiato dalla sua pelle diafana non era normale, così come non lo era il timore reverenziale che Gynliae provò nei suoi confronti. L'elfa gli sembrò una creatura inafferrabile ed estranea, diversa da ogni altro alfakyn.

Firnen si unì al gruppo accennando un saluto a cui gli orfani risposero con movimenti del capo garbati, ma rigidi: Gynliae capì che anche loro si sentivano a disagio in sua presenza. Lei sembrò ignorare l'atteggiamento retrivo dei suoi compagni e si mantenne in disparte, riservando la sua attenzione al corteo composto da Islanzadi e dagli altri nobili che nel frattempo avevano raggiunto la pedana dalla quale la regina avrebbe pronunciato la sua arringa.

Si vociferava che la madre di Firnen fosse una parente alla lontana di Islanzadi, ma nonostante questo la regina aveva deciso di affidarla alle cure di qualcun altro quando dieci anni prima era arrivata a Ellesméra inspiegabilmente illesa. Si diceva poi che Leum, il drago di suo padre, le avesse salvato la vita. Il modo in cui ciò era accaduto era rimasto un mistero. Inizialmente quel punto di domanda aveva provocato accese discussioni in seguito alle quali gli elfi avevano espresso il loro verdetto imputando la salvezza di Firnen alla dea fortuna.

Quando la voce misurata della regina ruppe il silenzio Gynliae si riscosse dai suoi pensieri: «Popolo di Ellesméra. Nel decimo anno dalla fine della guerra, ci ritroviamo qui per commemorare i nostri caduti. Quante vite sono state strappate a causa dell'avarizia di un solo uomo! Quanta sofferenza e dolore subiti dalla nostra gente per colpa di Galbatorix! Piangiamo la fine dell'Ordine più nobile sulla terra, piangiamo la fine dei draghi e dei loro Cavalieri! Oggi siamo qui insieme, alfakyn, per guarire le ferite dei nostri cuori.»

Ad un cenno della regina Gynliae e gli altri orfani iniziarono a declamare le parole di potere. Si inginocchiarono e affondarono le mani nell'erba umida con le fronti aggrottate per la concentrazione. Il canto, flebile e basso, aveva iniziato ad aumentare di intensità lentamente per poi sovrastare ogni altra cosa. Le voci dei ragazzi si intrecciavano l'una all'altra avvinghiandosi come serpenti danzanti mentre gli altri elfi osservavano rapiti un tronco sottile irrobustirsi sempre di più e crescere, crescere, crescere...

Gynliae, che aveva chiuso gli occhi, aveva la sensazione che il tempo si fosse fermato. Udiva solo le voci dei suoi compagni unite alla sua... Cinque voci... No, sei voci... sei voci? Qualcuno stava cantando insieme a loro, una voce profonda e antica che rimbombò nella mente dell'elfo come un'eco ammaliante e spaventosa al tempo stesso.

Gynliae si lasciò guidare da quel richiamo ancestrale e sconosciuto, continuò a cantare e a perdersi nella melodia e nelle parole di potere dell'incantesimo fino a che il rumore di centinaia di mormorii eccitati lo riportarono alla realtà come un secchio d'acqua gelida.

Un'onda anomala di sbigottimento sembrava essersi infranta sul popolo di Ellesméra: intorno a lui gli elfi bisbigliavano o esclamavano stupefatti. Gynliae si voltò verso Hunithie in cerca di una risposta a quel fracasso, ma lui guardava dritto davanti a sé, gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse di fronte a un albero di pino talmente alto da toccare il cielo.

«Q-quello sarebbe il nostro albero?» chiese Hunithie con un balbettio rivolgendosi a nessuno in particolare.

«E io che mi preoccupavo che non ce l'avremmo fatta!» disse il figlio di Ydrë con un ghigno soddisfatto.

«Wyrda!» aggiunse Blagden gracchiando.

Gynliae si guardò intorno e notò che Firnen era l'unica a non mostrare alcuna sorpresa di fronte a quanto era appena accaduto. Al contrario, la ragazza sembrava spaesata, come se si fosse appena risvegliata da un lungo sonno.

Ad un tratto dalla folla emerse un elfo che si sorreggeva puntellando a terra un lungo bastone di legno. L'uomo si avvicinò alla ragazza, le sussurrò qualcosa all'orecchio e Firnen sembrò riscuotersi d'un tratto. Insieme si mescolarono alla folla e per un secondo, un solo secondo, la pelle diafana della ragazza risplendette come alabastro.

Qualche minuto dopo la calca di curiosi aveva iniziato a dissiparsi, ma i mormorii eccitati degli elfi non erano ancora cessati. Rhunön nel frattempo aveva raggiunto Gynliae esibendo il suo cipiglio più corrucciato e borbottando tra sé e sé: «Si può sapere cosa barzûl è successo?»

Gynliae aveva scosso la testa con decisione: «Non ne ho idea. Era come se qualcuno ci stesse aiutando».

«Chiunque sia stato, non avrebbe dovuto intromettersi» disapprovò lei «anche se ammetto che è stato divertente. La fronte di Islanzadi era così corrucciata che non mi sarei stupita se anche le piume del suo mantello avessero iniziato ad arricciarsi all'improvviso»

«Non era un alfa» bisbigliò Gynliae, immune all'ironia dell'elfa.

«Cosa?»

«Non poteva essere un elfo»

«Certo che no, Gynliae, devono essere stati almeno una decina. E anche ben addestrati negli incantesimi non verbali, direi»

L'elfo aggrottò la fronte. Incantesimi non verbali?
Gli alfakyn più esperti in effetti potevano usare la magia senza pronunciare le parole di potere, ma Gynliae aveva sentito quella voce. Estranea, distante, eppure pur sempre una voce vivida e reale così come poteva udire gli altri elfi attorno a lui: «Intendevo dire che non è stato uno di noi. Era qualcosa di totalmente diverso»

Rhunön scacciò la questione con un gesto della mano: «E chi altri potrebbe essere stato?»

«Anche Firnen se ne è accorta, ne sono sicuro. Sembrava smarrita al punto di non sapere dove si trovasse o cosa fosse appena successo.»

Rhunön lo osservò con rinnovato interesse, ma chiaramente non lo stava ascoltando: «La ragazza di Doru Araeba? Conoscevo suo padre, Ahorin. Era un Cavaliere straordinario. La sua era un'ottima spada, una bella lama verde foresta come le scaglie del suo drago...»

Le parole dell'elfa giunsero ovattate alle orecchie di Gynliae... Non riusciva a capire. Perché nessun altro sembrava essersi accorto di quella voce?

Si guardò intorno. La regina era ancora là, circondata da alcuni consiglieri che avanzavano ipotesi più o meno plausibili nel tentativo di spiegare l'accaduto o forse nella speranza di attirare l'attenzione della sovrana.

Blagden voleva basso sopra le loro teste declamando altri Wyrda! gracchianti di tanto in tanto. Gynliae ebbe un brivido e pensò a quel giorno a Ilirea, quando aveva intravisto alcuni avvoltoi volare in quello stesso modo sopra i cadaveri con cui avrebbero presto banchettato.

Frammenti sparsi di memoria gli si riversarono nella testa, un vortice caotico, confuso e orribile. Era uno di quei momenti. Ecco, poteva vedere una lunga freccia nera attraversare l'occhio di suo padre, poteva udire le urla strazianti dei feriti, poteva sentire sulle labbra il sapore del sangue e della terra e le mani di sua madre che cercavano di tenerlo stretto a sé mentre una folla in fuga di umani, elfi e nani lo spingeva sempre più lontano da lei...

Ora la voce misteriosa non appariva più così interessante. Voleva solo rientrare a casa, gettarsi sotto le coperte e dormire per il resto della giornata.

Gynliae si tastò la fronte. Era gelida, goccioline di sudore freddo gli colavano sugli occhi. Deglutì. Quando parlò, la sua voce sembrò non appartenergli: «Andiamo via».

Quando incrociò lo sguardo di Rhunön un lampo di comprensione attraversò il viso rugoso dell'elfa. Sapeva che avrebbe capito perché quando i ricordi del passato iniziavano a tormentarlo l'elfa se ne accorgeva immediatamente. In quei momenti gli occhi di Rhunön si addolcivano e lo scrutavano con la stessa intensità e benevolenza con cui si erano posati su un bambino zoppicante e smilzo come un giunco dieci anni addietro.

Rhunön gli porse una mano e Gynliae vi si aggrappò come era accaduto il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta: «Sei più pallido della lama di Vrael. Vieni, torniamo a casa».

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Capitolo 6
*** Il Cavaliere che più non fu ***


Nei giorni successivi la storia dell'imponente albero cantato dai cinque giovani rimase il principale argomento di conversazione fra gli elfi, ma Gynliae non vi badò troppo perché da quel momento non riuscì a chiudere occhio.

Non appena la sua coscienza si assopiva le immagini della battaglia di Ilirea si affrettavano a travolgerlo senza dargli tregua: si svegliava urlando in preda al panico con la schiena madida di sudore freddo.

La prima notte Rhunön gli aveva preparato un decotto al faelnivr che lo aveva rilassato abbastanza da poter riposare almeno qualche ora, al risveglio però si era comunque sentito esausto e sfibrato come se avesse corso da Ceunon alla capitale dei nani in una sola notte.

Qualche giorno dopo Gynliae aveva deciso di insonorizzare la sua stanza con un incantesimo. Sapeva che l'elfa lo avrebbe rimproverato se lo avesse scoperto, ma non voleva dargli altre preoccupazioni e quando il mattino seguente gli aveva dato il buongiorno con allegria, convinta che anche il ragazzo avesse finalmente dormito senza l'ombra di un incubo a tormentarlo, Gynliae sentì un vuoto allargarsi nel suo petto.

Nonostante ciò l'elfo si dedicò alla forgia con anima e corpo strappando qualche complimento ad una Rhunön meno sagace del solito e molto più accondiscendente.

Gynliae lavorava incessantemente e con un'urgenza che gli era estranea, al punto che un giorno Rhunön gli chiese se per caso avesse intenzione di armare da solo un intero esercito da scagliare contro Galbatorix. Aveva replicato con un sorriso nervoso, convinto che l'elfa avesse capito che qualcosa non andava.

Una settimana dopo la commemorazione Rhunön lo obbligò a uscire dal laboratorio e prendersi qualche giorno libero.

«Non vorrai licenziarmi!» aveva esclamato l'elfo fingendosi contrariato e stiracchiando le labbra in un ghigno malizioso: «e poi sono l'unica persona che sei in grado di sopportare».

«Vero» concesse lei «ma è da una settimana che non mi lasci avvicinare alla forgia. Vuoi che mi arrugginisca?»

«Non permetterei mai che la mia maestra faccia la stessa fine di una comune arma umana» disse Gynliae rassegnato mentre porgeva guanti di pelle e martello a Rhunön.

«Bene, allora vai a fare quello che fanno gli elfi della tua età, qualsiasi cosa sia. Non voglio vedere la tua faccia fino al calar del sole».

«In realtà c'è qualcosa che dovrei fare...» iniziò lui cauto «il giorno in cui ho consegnato la spada a Ydrë, mi ha chiesto di parlare con te del fatto che vorrebbe che Oromis incantasse l'ametista di Maydias, la spada che ho forgiato per lui. Mi ha detto che i Cavalieri conoscono un incantesimo per immagazzinare l'energia magica nelle pietre preziose»

«Oromis ha problemi più urgenti del compiacere un lord» ribatté lei battendo il martello su una lamina metallica.

Qualcuno li interruppe bussando vigorosamente alla loro porta. Quel giorno non aspettavano clienti. Rhunön roteò gli occhi, si diresse verso l'uscio con fare seccato e spalancò la porta con malagrazia.

«Barzûl» esclamò la donna all'ospite che Gynliae non poteva ancora vedere «cosa ci fai qui?»

Fu la voce beffarda di un uomo a rispondere: «Come sempre la tua accoglienza non è delle migliori, Rhunön-elda».

Gynliae allungò il collo con curiosità. Non aveva mai sentito nessuno rivolgersi a lei in quel modo irriverente. Di solito il suo popolo tendeva a ignorare il carattere rude e pungente di Rhunön e tutti si rivolgevano a lei con il massimo rispetto.

L'elfo si avvicinò all'uscio, notando per prima cosa l'altezza modesta e l'aspetto denutrito del loro ospite. Il suo era il volto di un uomo ancora giovane, ma la sua pelle scottata dal sole iniziava a mostrare i primi segni del tempo. I ricci capelli bruni ricadevano disordinati lasciando intravedere un paio di orecchie inequivocabilmente rotonde. Un umano.

Gli occhi vispi e color nocciola dell'uomo incontrarono quelli azzurri di Gynliae: «Sei cresciuto molto dal nostro ultimo incontro. Ti ricordi di me? Eka ai fricai un Shur'tugal»
L'uomo alzò un pugno mostrando un anello sormontato da uno zaffiro e vergato con il Yawë, un pegno conferito solo ai più preziosi amici degli elfi.

«Brom!»

L'umano annuì mentre Gynliae si avvicinava con deferenza: era l'ultimo Cavaliere umano rimasto in vita oltre a Galbatorix e a Morzan.

L'ultima volta che Gynliae aveva visto Brom erano passati solo pochi mesi dalla battaglia di Ilirea. Era giunto alla soglia del laboratorio di Rhunön strappandosi i capelli e gemendo per la perdita della sua compagna di cuore e di mente, Saphira. Aveva implorato Rhunön di forgiare per lui una nuova spada con cui decapitare il Re Nero, purtroppo però lei aveva già pronunciato il suo giuramento e a malincuore aveva dovuto negare al Cavaliere il suo aiuto.

Negli anni successivi l'elfa aveva continuato a lavorare alla forgia per insegnare a Gynliae il mestiere e perché l'amore per la sua arte era tutto fuorché svanito, ma era solo da qualche mese, quando l'abilità con il martello di Gynliae era diventata più che soddisfacente, che il laboratorio di Rhunön aveva ricominciato a prendere vita e a popolarsi di clienti. Era sempre Gynliae a forgiare le armi, mentre lei si limitava a supervisionare il suo lavoro correggendolo quando necessario, cantando gli incantesimi protettivi sulle armi plasmate dal giovane e forgiando oggetti innocui o difensivi come cotte di maglia, elmi e armature.

Rhunön invitò Brom a sedersi e fece un cenno eloquente al'elfo. Gynliae colse il messaggio e fece per varcare la soglia di casa quando Brom lo fermò: «Il ragazzo può restare. Ho chiesto udienza alla regina, ma ciò che ho avuto da dire non le è piaciuto. Coloro che conoscevo un tempo sono morti o non hanno alcuna intenzione di opporsi al volere di Islanzadi. Per essere un amico degli elfi, il vostro popolo non ha fatto che rifiutarmi, ultimamente».

Brom parlò senza risentimento, ma la sua voce era venata da una sottile ironia. Rhunön lo incoraggiò a continuare e lui annuì con gratitudine: «So che odi i giri di parole, quindi andrò subito al sodo. Negli ultimi mesi ho reclutato alcuni uomini che hanno combattuto contro Galbatorix nella guerra dei Cavalieri. Abbiamo formato un gruppo abbastanza solido, ma per ora abbiamo agito solo nell'ombra. La nostra rete di spie è sufficientemente estesa da essersi infiltrata alla corte di Urû'baen e il mese scorso uno dei miei subordinati ha fatto una scoperta incredibile.»

Brom si leccò le labbra e fece un lungo sospiro: «Galbatorix ha nascosto tre uova di drago nella sua fortezza, Rhunön. Riesci a crederci?»

Se Gynliae per poco non cadde dalla sedia, la reazione di Rhunön fu più pacata: «Sei sicuro che non sia solamente un pettegolezzo? Questa tua spia... ha visto le uova?»

«Non di persona. Ha ucciso uno dei maghi di Galbatorix, ma prima di ciò è riuscita ad abbattere le difese della sua mente. Ha carpito da lui alcune informazioni interessanti. Non molte, in realtà, ma sufficienti da farmi credere che le tre uova esistano. Oh, grazie, Gynliae» disse al ragazzo mentre lui gli porgeva una tazza di tè fumante. Brom lo sorseggiò con gusto: «Se c'è una cosa che mi è mancata di Ellesméra, è l'ottimo tè che preparate voi elfi» appoggiò la tazza, che a contatto con il tavolo scandì un'unica nota ovattata.

«Dunque, la spia è riuscita a vedere alcune immagini delle uova nella mente del mago e abbiamo anche un'idea di quale possa essere l'ala del castello dove Galbatorix le custodisce, anche se non ne siamo ancora certi. Questo però non cambia i fatti...»

Brom guardò i due elfi che lo ascoltavano rapiti. Pronunciò le parole successive con vigore: «Dobbiamo impadronirci della uova e organizzare la resistenza. Ho bisogno del supporto degli elfi per reclutare stregoni e guerrieri. Islanzadi si è rifiutata di concedermi il suo aiuto perché crede che sia un inganno di Galbatorix, ma sono sicuro che altri non saranno dello stesso avviso».

Brom tacque e osservò i due elfi con sguardo fermo. Rhunön abbozzò una smorfia: «Dopo la morte di Evandar la regina si è rifugiata nel suo dolore e ha permesso che la nostra razza si ritraesse come un granchio nelle profondità della Du Weldenvarden. Abbiamo abbandonato Alagaësia al suo destino. Gli alfakyn si sono indeboliti dalla fine dei Cavalieri, ma avremmo dovuto tentare di più. Voi umani siete deboli e mortali, eppure credo che gli alfakyn abbiano ancora molto da imparare dalla vostra razza. Farò qualsiasi cosa in mio potere per sostenere la tua causa, Brom.»

L'uomo annuì con gratitudine: «Sapevo di non sbagliare a rivolgermi a te, Rhunön-elda. Ho ragione di credere che anche lo Storpio Che È Sano troverà questa storia estremamente interessante».

A quel punto Gynliae non riuscì più a trattenere l'entusiasmo e si alzò di scatto: «Lascia che mi unisca alla spedizione!»

Brom si girò verso di lui: «Apprezzo il tuo coraggio, ma per i canoni della tua specie sei ancora un ragazzino».

Gynliae notò con la coda dell'occhio il tentennamento della vecchia elfa, ma non si fece intimidire: «So tirare di scherma. Non me la cavo male con la magia...»

«Come quasi tutti gli elfi di Ellesméra...» osservò Brom schiettamente: «prima di gettarti in una probabile missione suicida dovrai dimostrare di fare molto più che cavartela».

«Sono d'accordo» aggiunse Rhunön aggrottando la fronte.

Il ragazzo si costrinse ad assentire mentre Brom finiva di sorseggiare il suo tè: «Andrò subito a Tel'naeir. Vorrei che tu mi accompagnassi, Rhunön, in modo da discutere della questione anche con Oromis e Glaedr. Ora la priorità è ottenere il loro appoggio. Chissà, forse loro due potranno convincere anche la regina».

Rhunön annuì. Prima di varcare la soglia riservò a Gynliae uno sguardo indecifrabile, poi Rhunön e il Cavaliere uscirono di casa parlottando fittamente, lasciando Gynliae ai suoi pensieri.

Tre uova di drago. La scoperta di Brom cambiava ogni cosa. Con tre Cavalieri dalla loro parte anche gli elfi si sarebbero convinti di poter tenere testa a Galbatorix. Animato da una nuova risolutezza Gynliae afferrò la prima spada che gli capitò a tiro e si diresse verso il campo di addestramento in cui erano soliti allenarsi gli elfi di Ellesméra.

Quando Rhunön fece ritorno la luna era già alta nel cielo, uno spicchio aggraziato a vegliare sul firmamento notturno e sul canto dei gufi nascosti tra le fronde silvane.

Gynliae riposava vicino al caminetto acceso leccandosi le ferite. Quel pomeriggio aveva lottato contro Ilion ed era riuscito a respingerlo senza troppi sforzi, ma quando si erano fatti avanti elfi più esperti ed anziani Gynliae non aveva potuto fare molto contro la loro esperienza centenaria finendo per collezionare una variegata quantità di lividi violacei. Rhunön si abbandonò su una morbida poltrona color vinaccia.

«Brom è rimasto a Tel'naeir?»

La voce dell'elfa rivelò tutta la sua stanchezza: «No, è partito poco fa. Mi ha chiesto di porgerti i suoi saluti».

«Capisco. Rhunön, io...»

Lei lo guardò, le ombre guizzanti delle fiamme che danzavano sul volto vetusto: «So già cosa stai per chiedermi, ragazzo, quindi sbrigati a sputare il rospo».

Gynliae iniziò a mordicchiarsi nervosamente l'interno della guancia: «Oggi parlavo sul serio, quando ho detto a Brom di portarmi con lui.»

L'elfo attese paziente il verdetto osservando come ipnotizzato i giochi delle fiamme: «Sei giovane. Così tanto in effetti, che chiunque mi darebbe della pazza se sentisse ciò che sto per dirti. Non ho intenzione di impedirti di unirti a Brom, se è questo che desideri, ma non ti lascerò partire senza un'adeguata preparazione.»

Un velo di antico dolore evidenziò le rughe profonde di Rhunön. Gynliae sapeva quanto le fosse costato pronunciare quelle parole. Rhunön era quasi sempre brusca ed irritabile, ma dietro quella scorza d'acciaio si celava l'animo di una donna ferita nella mente e nello spirito, mai completamente guarita dopo la caduta dei Cavalieri. Aveva paura di perderlo, ma allo stesso tempo capiva i suoi sentimenti e il suo desiderio di rivalsa.

«Mi impegnerò di più nello studio e mi allenerò con la spada ogni giorno. Al ritorno di Brom, sarò pronto.»

Gynliae era sicuro di potere tenere a bada anche quattro o cinque umani contemporaneamente, ma d'altro canto era consapevole che per una spedizione così delicata e pericolosa Brom non poteva permettersi errori e che probabilmente avrebbe finito per scegliere elfi molto più anziani e potenti di lui.

«Oggi ho spiegato ad Oromis che vorresti partecipare alla missione e ha espresso il desiderio di incontrarti. Ha anche detto che le tue abilità di fabbro potrebbero rivelarsi utili. Sei atteso domattina a Tel'naeir».

A Gynliae sembrò di essere appena stato colpito da uno schiaffo in pieno viso: «Mi prendi in giro?»

L'ultimo dei Cavalieri rimasti fra gli alfakyn aveva chiesto espressamente di vederlo. Cosa avrebbe dovuto aspettarsi? Che Oromis avesse intenzione di sottoporlo a un qualche tipo di prova? In quale modo il Cavaliere intendeva servirsi della sue capacità come fabbro?

Alla reazione sbalordita dell'elfo Rhunön stirò le labbra sottili in un sorriso divertito, poi si alzò per ritirarsi nei suoi appartamenti: «Non rivelare a nessuno quanto hai udito oggi. L'idea di Brom era comunicare il suo messaggio a quanti più alfakyn possibili, ma siamo giunti alla conclusione che la cosa migliore è tenere un basso profilo finché non otterremo l'appoggio di Islanzadi».

Gynliae annuì e augurò la buonanotte a Rhunön, ancora scosso per la piega inaspettata presa dagli eventi. Si coricò pensando a cosa lo avrebbe aspettato a Tel'naeir.

Glaedr e Oromis, l'ultimo fra i Cavalieri, erano sopravvissuti quasi per miracolo alle torture dei Rinnegati, però le ferite li avevano segnati nel profondo e da quel momento in avanti si erano ritirati a vita privata, preferendo la tranquillità e la solitudine della foresta alle case cantate nel legno della capitale elfica.

Gynliae non li aveva mai incontrati di persona, ma da quando dieci anni prima era arrivato a Ellesméra scalpitava ogni volta che sentiva sbattere le ali del drago dorato e in quelle occasioni si precipitava fuori dal laboratorio di Rhunön sperando di intravederlo nel cielo. Così come il resto della sua specie sentiva di condividere con i draghi un legame profondo, anche se con la loro fine la magia degli elfi aveva iniziato ad affievolirsi.

L'eccitazione gli impedì di addormentarsi per diverse ore. Alla fine le sue palpebre si chiusero e la sua coscienza iniziò a galleggiare nello stato tra il sonno e la veglia tipico della sua razza. Per la prima volta dal giorno della commemorazione, il suo fu un sonno senza sogni.

Nda: Eccomi! So che l'uovo di zaffiro verrà effettivamente recuperato molti anni dopo, ma mi piaceva l'idea di inserire Brom nella mia storia e non vi preoccupate, rimarrò il più possibile fedele agli eventi della trama originale aggiungendo qualche missing moment sulla nascita dei Varden. Vi sarà tutto più chiaro più avanti :) nel frattempo vi mando un abbraccio virtuale e ci tengo a ringraziare tutti i lettori che si sono aggiunti su Wattpad, chi ha aggiunto la storia alle seguite qui su EFP e soprattutto un grazie gigante a stefy per il suo supporto. A presto!

 

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Capitolo 7
*** Danza di spade ***


Il vento sibilava sempre più impetuosamente man mano che Gynliae si inerpicava sul terreno roccioso della rupe evitando con ampie falcate i massi franati dalle pareti scoscese. I pini, ora più radi, cedevano il passo a un paesaggio privo dell'incanto esotico della Du Weldenvarden, ma che Gynliae trovava comunque magnifico perché caratterizzato da un fascino più selvaggio, rapace.
 
Finalmente l'elfo intravide l'ampio spiazzo erboso sul quale sorgeva la casa di Oromis, una tipica abitazione elfica cantata nel legno di pino. Glaedr, accoccolato lì accanto, aprì le palpebre e si stiracchiò, le scaglie che risplendevano nel sole mattutino. Per un attimo Gynliae ne rimase abbagliato mentre il mastodontico drago dorato si ridestava dal suo sonno e allungava il collo verso di lui per scrutarlo con gli occhi ambrati.
 
«Glaedr-elda, atra esterní ono thelduin. È un onore per me incontrarti».
 
Gynliae si portò indice e medio alle labbra e accennò un inchino. Glaedr non aprì la mente alla sua, limitandosi a rivolgergli un cenno garbato con l'ampio muso.
 
In quel momento una voce argentina risuonò nell'aria: «Benvenuto a Tel'naeir. Ti stavamo aspettando».
 
Gynliae si voltò e vide Firnen sull'uscio dell'abitazione di Oromis. Cosa ci faceva lì? La ragazza si avvicinò al drago e lui le sfiorò affettuosamente la fronte con il muso: «Buongiorno anche a te, Glaedr».
 
Dopo pochi attimi durante i quali Gynliae immaginò che Glaedr avesse risposto alla ragazza, Firnen rise e disse con finto tono di rimprovero: «Glaedr, sei l'ultimo a poter giudicare la pesantezza del passo altrui!»
 
Poi si rivolse nuovamente all'elfo: «Temo che tu lo abbia svegliato». Gynliae non sapeva se essere offeso o divertito: per essere così grosso Glaedr aveva il sonno particolarmente leggero.
Il ragazzo sorrise incerto mentre si domandava che legame potesse esserci tra Firnen e il drago dorato. Non erano molti gli elfi che potevano rivolgersi in termini tanto familiari all'ultimo degli Antichi.
 
Il drago sbuffò una nuvoletta di fumo e tornò al suo pisolino arrotolando la coda intorno all'immenso corpo, proprio come avrebbe fatto un gatto. 
Gynliae si fece distrarre dalla maestosità di Glaedr per qualche attimo, poi si riscosse e ripeté il saluto elfico: «Atra esterní ono thelduin. Il mio nome è Gynliae.»
 
Lei lo sorprese afferrando la sua mano sinistra e muovendola su e giù: «Gli umani si salutano così, lo sapevi? Sono Firnen». 
 
Gynliae inclinò appena le labbra in un sorriso, sollevato che la ragazza non condividesse il fare altezzoso che caratterizzava molti dei nobili di Ellesméra: «Davvero? È un modo davvero strano per presentarsi»
 
Dopo aver pronunciato quelle parole, però, fu colto dalla stessa sensazione alienante che aveva provato alla commemorazione quando Firnen si era avvicinata. La mano ancora stretta nella presa sicura dell'elfa, Gynliae si sentì smarrito, un vaso scheggiato tra le fauci di una qualche divinità antica. Ricordò che anche gli altri orfani erano sembrati tesi quando la ragazza si era unita a loro. Perché Firnen sembrava così... diversa?
Gynliae avrebbe voluto chiederle se anche lei aveva udito quella voce... ma non osava. L'aveva davvero sentita o era solo un frutto della sua immaginazione? A disagio, spostò il peso da un piede all'altro.
Lei doveva aver intuito il suo turbamento perché ritrasse la mano bruscamente e si irrigidì, gli occhi velati da un'emozione che Gynlie non riuscì a decifrare: «Oggi Oromis avrebbe voluto valutare le tua abilità di spadaccino, ma Islanzadi ha richiesto la sua presenza a corte. Ti porge le sue scuse e vorrebbe che tornassi qui anche domani, alla stessa ora».
 
L'elfo abbassò lo sguardo e cercò di nascondere la delusione dietro a un'espressione neutra: «Capisco...»
 
Quando rialzò gli occhi notò che Firnen lo stava scrutando con curiosità: «Vuoi aiutare Brom a recuperare le uova, vero? Oromis mi ha detto che se le tue abilità si riveleranno soddisfacenti verrai con noi.»
 
Gynliae inarcò un sopracciglio: «Noi?»
 
«Sì. Andrò con Brom ad Urû'baen, ma lì le nostre strade si separeranno. Io e Oromis stiamo cercando una persona e sospettiamo che si trovi proprio nella capitale. Devo trovarla e convincerla a tornare con noi ad Ellesméra.»
 
Gynliae si domandò chi mai fosse la persona che i due elfi stavano cercando e per quale motivo, ma l'abitudine alla cortesia elfica lo aiutò a tenere a freno la lingua.
 
«Verrà anche Oromis-elda?»
 
Firnen scosse la testa: «Non sarebbe saggio per lui abbandonare la Du Weldenvarden. Se riuscirete a recuperare le uova i nuovi Cavalieri avranno bisogno di un Maestro. Non possiamo permettere che Oromis venga catturato da Galbatorix o che, peggio ancora, venga asservito al suo volere. Preferirebbe cadere nel vuoto.»
 
Al solo pensiero, Gynliae ebbe un brivido. Firnen aveva ragione: volenti o nolenti, Oromis e Glaedr erano obbligati a rimanere nascosti nella foresta.
 
«Oromis deve fidarsi molto di te, se ti ha affidato questo compito»
 
L'elfo vide un lampo di orgoglio attraversare gli occhi smeraldini della ragazza: «Immagino di sì... Non voleva che io partissi senza una guida che conoscesse il territorio dell'Impero, così quando Brom è venuto a Tel'naeir per parlargli della sua scoperta ha pensato che potessi unirmi a lui, quanto meno per il viaggio di andata.»
 
«Conosci Oromis da molto?» chiese Gynliae per soddisfare la propria curiosità.
 
«Non mi hai posto la domanda giusta, Gynliae. Le nostre vite sono lunghe e io sono troppo giovane per affermare di conoscerlo da molto tempo...»
 
Firnen sorrise lievemente: «...ma fu Oromis a occuparsi di me dopo la morte dei miei genitori, così come Rhunön ha accolto te nella sua casa dopo la battaglia di Ilirea, quindi immagino di conoscerlo meglio di molti altri.»
 
La conversazione languì e Gynliae pensò che fosse giunto il momento di congedarsi, quando Firnen lo stupì: «Ormai sei qui» ovviò lei rivolgendogli uno sguardo sfidante: «ti va di duellare?»
 
«Certo» rispose lui con malcelato entusiasmo.
 
«Vedo che non hai portato con te una spada, ma a questo possiamo rimediare facilmente».
 
Un fabbro che si scorda la spada anche se casa sua ne è ricolma, si rimproverò Gynliae, e le sue orecchie a punta si tinsero di porpora.
 
Firnen gli fece cenno di attendere e sparì per qualche secondo nella casa. Tornò portando con sè un spada che Gynliae riconobbe all'istante: era Naegling, la spada di Oromis creata da Rhunön e forgiata infonendo in essa le sfumature bronzee e dorate di Glaedr. In quel momento il drago alzò il muso e la ragazza si girò verso di lui. Gynliae attese che i due terminassero quello scambio silenzioso mentre l'adrenalina nel suo corpo aumentava in vista dell'incontro imminente.
 
La ragazza estrasse la sua spada dal fodero che teneva legato alla cintura e la porse all'elfo.
 
«Glaedr preferisce che sia io a usare "l'artiglio di Oromis", come lo chiama lui, quindi immagino che almeno per oggi questa sia l'unica soluzione».
 
Gynliae annuì. Il fatto che Glaedr permettesse a Firnen di combattere con Naegling gli confermò che sia il drago che il Cavaliere dovevano avere molto a cuore la ragazza. La ringraziò e osservò la lama con occhio esperto. Era una spada sottile ed elegante che Gynliae giudicò perfetta per la figura esile di Firnen. Naegling era più massiccia e pesante, ma l'elfa sembrava maneggiarla ugualmente con destrezza.
 
Avvicinò le dita alla lama e sussurrò la formula che avrebbe creato su di essa un'impercettibile barriera protettiva. In questo modo avrebbero evitato di ferirsi gravemente durante l'incontro. Firnen fece lo stesso e si allontanò di qualche iarda prima di prendere posizione. Il ragazzo espirò e vuotò la mente. Non dubitava che Firnen avrebbe riferito ogni sua impressione ad Oromis, così cerco di dare il meglio di sé.
 
Gynliae e Firnen si studiarono reciprocamente, il silenzio che gravava nell'aria e la tensione palpabile come quella di una scossa elettrica. 
Fu lui ad attaccare per primo. Balzò in avanti facendo sibilare la sua lama puntando alla spalla sinistra di Firnen. Con un movimento repentino l'elfa alzò la spada e parò senza sforzo il suo fendente, poi piroettò su sé stessa e Gynliae si ritrovò a barcollare all'indietro per evitare l'arco dorato disegnato in aria da Naegling.
 
Non erano molti i ragazzi della sua età che potessero sperare di competere con lui. L'apprendistato come fabbro gli aveva conferito un fisico forte e resistente, difficile da scalfire. Nonostante questo, Firnen gli diede del filo da torcere e lo tenne impegnato per tutta l'ora successiva.
 
Si rivelò una spadaccina svelta e dallo stile di combattimento votato all'intuizione più che sulla strategia, su cui invece contava Gynliae. Lui era decisamente più forte eppure lei compensava quell'abisso con movimenti così rapidi da risultare impercettibili perfino agli occhi di un elfo.
 
Le spade si incrociavano con violenza, ma senza alcun clangore: la magia protettiva che circondava le lame si limitava a ondeggiare e a produrre un suono ovattato.
 
Dopo una serie di fendenti ben assestati Gynliae riuscì a superare la guardia della ragazza e a farla arretrare di qualche passo, però nella maggior parte dei casi era lui a dover indietreggiare sotto i suoi colpi e anche se l'elfa attutiva le stoccate prima di ogni impatto Naegling gli lasciò diversi lividi sulle spalle, sulle gambe e sul petto. In alcune occasioni si era convinto di averla messa alle strette, ma nel momento in cui pensava di avere la vittoria in pugno Firnen riusciva sempre a sfuggirgli e a ribaltare la situazione. 
 
Firnen continuava a volteggiare intorno a lui a una velocità disarmante e dopo qualche tempo i muscoli iniziarono a dolergli, il braccio che sorreggeva la spada che si faceva sempre più pesante.
 
Un'ora dopo i due ragazzi rinfoderarono le lame. Gynliae cadde sulle ginocchia, una cortina di sudore gli annebbiava la vista e il respiro era accelerato, innaturale. Inspirò profondamente alla ricerca di aria mentre il battito del suo cuore rallentava poco a poco. La camicia fradicia era stata abbandonata da tempo sul ramo di un albero lasciando nudo il petto di Gynliae che ora luccicava di goccioline argentate.
 
Firnen invece non aveva un capello fuori posto. Niente nel suo aspetto poteva far intuire che per oltre un'ora avesse combattuto ad armi pari con l'elfo. Gynliae era sicuro che anche lei avesse dato tutta sé stessa nella lotta eppure appariva nel pieno delle forze, come se quell'ora non fosse passata. Non sapeva spiegarselo. 
 
L'elfa si avvicinò con la grazia tipica della loro razza e gli appoggiò una mano sul petto. Gynliae trasalì, improvvisamente consapevole del profumo delicato emanato dalla sua pelle candida. Percepì un flusso caldo di energia magica inondarlo e percorrere ogni centimetro del suo corpo. Un attimo dopo il suo battito si calmò, la fronte ora asciutta dove appena prima gocciolava il sudore. Si sentiva riposato come dopo un lungo sonno ristoratore. La quantità di energia che Firnen aveva riversato nell'elfo era enorme, eppure anche dopo quell'incantesimo Gynliae non vide nemmeno un'ombra di affaticamento sul suo volto.
 
L'elfa recise il flusso magico e sparì silenziosamente nella casa di Oromis. Poco dopo era già di ritorno porgendo a Gynliae un bicchiere colmo d'acqua fresca. L'elfo la ringraziò riconoscente e ne vuotò il contenuto in un sorso.
 
«Hai combattuto bene» commentò lei mentre l'elfo le restituiva il bicchiere.
 
«Non quanto te» abbozzò lui, ancora sbalordito per l'eccezionale resistenza dell'elfa.
 
Firnen si voltò in direzione del drago: «E tu cosa ne pensi, Glaedr?»
 
Si era completamente dimenticato della sua presenza. A quanto pare Glaedr aveva finito per rinunciare al suo pisolino per assistere all'incontro. La sua voce roboante penetrò nella mente di Gynliae: Avete ancora molta strada da percorrere, cuccioli d'elfo, ma non è stato un combattimento spiacevole.
 
«Ti ringrazio, ebrithil» sussurrò Gynliae con deferenza. Era la prima volta che il drago gli si rivolgeva personalmente e non potè evitare di bearsi di quella mente antica e potente che sfiorava la sua. In qualche oscuro recesso della coscienza di Glaedr, l'elfo riusciva percepiva gli echi ancestrali e intrisi del potere e della sapienza della razza dei draghi.
 
Gynliae si voltò nuovamente verso Firnen, ma lei sembrava stranamente assente, gli occhi a mandorla fissi in un punto poco sopra la testa del ragazzo.
 
Sta parlando con qualcuno, pensò Gynliae incuriosito. Dopo pochi attimi lei sospirò e disse: «Temo di essere attesa altrove. Possiamo percorrere insieme la strada per Ellesméra, se ti fa piacere».
 
Gynliae annuì e si alzò agilmente spazzalandosi i palmi sui pantaloni: «Volentieri. Ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato oggi, Firnen. In futuro spero di incrociare ancora la mia spada con la tua».
 
Lei, sovrappensiero, si sfiorò il mento con le dita: «Tu hai usato la mia spada ed io quella di Oromis, perciò si potrebbe dire che le nostre lame non si sono ancora incrociate, dopotutto».
 
«Meglio per me» soggiunse Gynliae con lo stesso sorriso sghembo che fino a quel momento aveva riservato solo a Rhunön: «se consideri non valido l'incontro di oggi, allora posso evitare di considerarlo una sconfitta».
 
I due salutarono Glaedr e si allontanarono seguendo il sentiero erboso, inoltrandosi sempre di più nella foresta. Camminarono nella boscaglia fino a che non giunsero alle porte della capitale, poi Firnen salutò l'elfo e imboccò una strada diversa, la stessa che Gynliae aveva percorso qualche giorno prima per giungere al palazzo di Tialdarì.

NdA: Sono tornata! Ecco il nuovo capitolo. La cosa snervante è che ho anche altri capitoli pronti, però non sono in ordine. Argh. Il prossimo è quasi finito, ma non sono ancora del tutto soddisfatta. Scusate la mia lentezza esasperante.

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