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di Hazel92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La storia che leggerete è rimasta per molto tempo in una cartella del mio pc a prendere metaforicamente polvere. Ho pensato però che piuttosto che lasciarla lì e non essere letta da nessuno, potevo darle un'oppurtunità e ascoltare il vostro parere.
Spero vi piaccia.



CAPITOLO 1
 
Fare la scrittrice? Niente di così entusiasmante come si potrebbe pensare. Soprattutto quando hai un’agente letteraria che vuole obbligarti a scrivere un libro che tu non avevi affatto previsto di scrivere.
- Te l’ho detto, Claire – replicai per l’ennesima volta – Non ho intenzione di scrivere nessun sequel, prequel o qualsiasi altra cosa che finisca con “quel” – mi lasciai sprofondare nella poltrona del suo ufficio nel pieno centro di Manhattan.
- Senti, Violet… - odiavo quando mi si rivolgeva in quel modo. Avevo la sensazione che pensasse di parlare con una ritardata. – Forse non ti rendi conto che è una grandissima opportunità. Il tuo primo libro ha venduto milioni di copie e adesso i tuoi fan supplicano per avere un seguito o qualsiasi altra cosa che li faccia ancora immergere nel mondo che hai creato tu – mi passai una mano sulla fronte esasperata.
 - Non riesco a capire perché non vuoi neanche provarci… - Oddio. Pensai. Era sempre la stessa storia da un mese. Claire mi supplicava di scrivere qualcosa mettendo in mezzo i miei fan, ed io rifiutavo perché sapevo che i fan non c’entravano proprio un bel niente. Per carità, era vero che il mio libro aveva avuto un enorme ed inaspettato successo, ma sapevo benissimo che sotto quell’insistenza c’era la casa editrice che non vedeva l’ora di guadagnare grazie a me qualche altro gruzzoletto.
- Te l’ho già spiegato il perché, Claire. Ti prego, non farmelo ripetere di nuovo… - davvero, non ce la facevo più. Nella testa avevo talmente tante idee per dei nuovi romanzi, che tornare a concentrarmi su qualcosa che per me era nato come un libro autoconclusivo, mi sembrava una tortura.
- Pensaci su almeno – Claire aveva assunto quel tono implorante che mi dava sui nervi, così pur di non starla a sentire, la feci contenta.
- Va bene, va bene. Ti prometto che ci penserò, ma non sperarci troppo – la guardai in cagnesco, poi mi alzai dalla comodissima poltrona e la salutai.
Appena varcai la soglia del suo ufficio il mio telefono iniziò a squillare. Impiegai un’eternità a trovarlo dentro a quella borsa che sospettavo avesse vita propria e si divertisse a nascondermi gli oggetti. Quando finalmente lo trovai, notai che il numero che appariva sul display chiaramente non apparteneva a nessun mio contatto, ma chiunque mi stesse chiamando lo stava facendo dalla mia stessa città.
- Pronto? – dissi titubante. Non avevo la più pallida idea di chi potesse essere, anche se da quando avevo scritto quel libro mi era arrivata di certo più di una chiamata da numeri a me sconosciuti.
- Signorina Tilton? – la voce dall’altro lato del telefono apparteneva ad un uomo.
- Sì, sono io. Lei chi è? – domandai diffidente.
- Buongiorno, sono l’avvocato Mayer – aggrottai le sopracciglia, anche se l’uomo all’altro capo del telefono non poteva vedermi. Perché mai un avvocato mi sta chiamando? Mi chiesi. È successo qualcosa con il mio libro? Mi hanno accusata di plagio o qualcosa del genere? Ero sul punto di fare marcia indietro e tornare da Claire. Magari lei ne sapeva qualcosa.
Ma l’avvocato, notando che stavo impiegando un po’ troppo tempo per rispondere, mi richiamò all’ordine. – Signorina? È ancora lì? –
- Sì, sì…mi scusi. Allora, avvocato, qual è il motivo di questa chiamata? – in quell’ultimo anno ero diventata abbastanza brava a dialogare con persone del genere. Merito di Claire probabilmente.
- Vede, è una questione abbastanza delicata. Perciò sarebbe meglio se lei mi raggiungesse nel mio studio. Anche ora se le è possibile… -
- Non può dirmi niente al telefono? – chiesi speranzosa.
- Preferirei di no –
- Va bene – sospirai - mi dica l’indirizzo –
- 122 Park Avenue, sedicesimo piano –
- Ci vediamo tra poco, avvocato – gli dissi, poi riagganciai.
 
A bordo di uno dei tanti taxi gialli che coloravano New York, cercai di capire quale potesse essere il motivo di quella chiamata, ma mentre l’enorme ascensore in vetro mi portava al sedicesimo piano del 122 di Park Avenue, arrivai a una conclusione: non ne avevo la più pallida idea.
L’ufficio dell’avvocato Mayer al contrario di quanto immaginassi, non era particolarmente sfarzoso e la sua segretaria non era la solita trentenne di bell’aspetto. Per qualche motivo questo mi tranquillizzò. Quando anche Mayer mi raggiunse, fui contenta di trovarmi davanti un signore con i capelli e la barba brizzolati e dei piccoli occhiali che gli davano un aspetto rassicurante.
- Piacere – mi disse – Philip Mayer – gli sorrisi stringendogli la mano. – Prego, mi segua – feci come mi aveva detto, e una volta nella sua stanza mi accomodai su una delle due sedie poste davanti alla sua scrivania.
- Sa che io non ho la più pallida idea del perché sono qui, vero? – lo informai riuscendo a strappargli un sorriso.
- Purtroppo sì – lo guardai interrogativamente.
- Purtroppo? – stavo iniziando a preoccuparmi e il fatto che l’avvocato sembrasse più nervoso di me non mi aiutava di certo.
- Vede, Signorina Tilton, l’ho chiamata per una questione di eredità – per un attimo rimasi in silenzio senza dire niente, poi mi resi conto dell’assurdità che aveva appena detto.
- No, guardi, deve esserci uno sbaglio. Gli unici parenti che ho sono i miei genitori e per quanto ne so, in questo momento si stanno godendo le loro vacanze dall’altra parte del... – poi all’improvviso realizzai cosa poteva essere successo. – Oh mio dio, sono morti? – mi portai le mani davanti alla bocca terrorizzata.
- No, no signorina! I signori Tilton stanno benissimo – trassi un sospiro di sollievo, ma se l’eredità non riguardava i miei genitori, allora chi?
- L’eredità di cui sto parlando riguarda sua nonna – l’avvocato mi guardò aspettando una mia reazione.
- Nonna? – domandai. – Glielo ripeto, deve esserci uno sbaglio perché io non ho nessuna nonna – O meglio, una donna dovevo pur averla avuto ma non l’avevo mai conosciuta perché era morta da un pezzo.
- Invece sì, e il suo nome era Darlene Harrington –
- Non capisco… - iniziavo ad essere profondamente confusa. Una parte di me continuava a pensare che dovesse esserci qualche sbaglio, ma l’altra parte si rendeva conto che se quell’uomo aveva chiamato proprio me, un fondo di verità doveva pur esserci.
- Legga questo – l’avvocato mi porse un foglio ed io lo afferrai titubante.
- Che cos’è? – domandai prima di posarci gli occhi sopra.
- Farebbe meglio a leggerlo lei stessa – Mayer mi rivolse un sorriso d’incoraggiamento, così, visto che non mi sembrava di avere altra scelta, mi concentrai su quel foglio. Non ebbi bisogno di leggerlo tutto, perché immediatamente il titolo catturò la mia attenzione.
- Certificato di adozione? – chiesi con la voce tremante. Mayer si limitò ad annuire.
- Senta, capisco che sia parecchio da digerire, ma sua nonna mi ha assicurato che troverà tutte le risposte in questi fogli e nella casa che le ha lasciato… - lo guardai con gli occhi spalancati. Ero stata adottata, e mia nonna, la mia vera nonna, quella di cui non conoscevo neanche l’esistenza, aveva saputo per tutto questo tempo di me ed ora mi lasciava una casa.
- Perché? – fu l’unica cosa che riuscii a chiedere con gli occhi che mi diventavano umidi.
- Non lo so, Signorina – Mayer mi guardava come se provasse pena per me, e non mi piaceva.
- L’ha conosciuta? Mia nonna… - domandai.
- No, abbiamo sempre parlato solo per telefono – Questo si che è strano. Pensai.
- E se io non la volessi la casa? – in fondo perché avrei dovuto accettare qualcosa da qualcuno che neanche conoscevo?
- Beh, in questo caso potrebbe venderla… ma a quanto pare non ci sono altri parenti a cui potesse lasciarla – rimasi in silenzio fissando un punto imprecisato alle spalle dell’avvocato.
- Signorina Tilton… - Mayer parlò piano, quasi sottovoce. Era come se temesse che parlare a voce troppo alta mi avrebbe fatto impazzire. – So che quello che le sta succedendo non mi riguarda, ma se posso darle un consiglio…io quella casa l’andrei almeno a vedere. Magari potrebbe scoprire qualcos’altro su sua nonna, sulla sua famiglia… - lo guardai cercando di trattenere le lacrime. Non mi piaceva tutta questa storia, ma sapevo che l’avvocato aveva ragione.
- Dove si trova questa casa? – domandai con un tono gelido.
- In Pennsylvania. La località esatta è scritta qui dentro – disse indicando un cartellina piena di scartoffie. – Sua nonna non voleva che lo sapessi -  aggrottai le sopracciglia. La faccenda diventava sempre più strana.
- All’interno troverà anche le chiavi – Mayer si alzò in piedi e mi raggiunse dal mio lato della scrivania. Mi porse la cartellina ed io l’afferrai riluttante.
- Buona fortuna – mi disse semplicemente. Io gli sorrisi e poi lasciai il suo studio.
Mentre tenevo stretta al petto quella cartellina, mi resi conto che lì dentro, in un mucchio di fogli, era racchiusa la mia vera vita.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ecco il primo capitolo! Inizialmente mi ero ripromessa di pubblicare un capitolo a settimana, ma ho pensato che al momento fosse meglio farvi addentrare un po' di più nella storia, quindi... Buon secondo capitolo! Se vi va lasciate una recensione, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate :)
 

CAPITOLO 2

 
Aprirla o non aprirla, questo è il dilemma. Ormai mi rigiravo tra le mani quella cartellina da non sapevo neanche più quanto. Appena rientrata nel mio appartamento, mi ero lasciata cadere sul letto più che intenzionata a scoprire cosa contenesse, ma poi una serie di dubbi avevano preso il sopravvento.
Volevo davvero scoprire la verità? In fondo io ero felice così, perché rischiare di rovinare tutto? Anche se ormai era già tutto rovinato. Ma se la verità non mi fosse piaciuta? E come mi sarei comportata con i miei genitori? Avrei trovato una giustificazione per avermi nascosto la verità tutto questo tempo oppure li avrei odiati per sempre?
Sbuffai e mi misi a pancia in giù, sprofondando la testa nel cuscino. Avrei potuto continuare a farmi miliardi di domande, ma che lo volessi ammettere o meno, l’unico modo per porvi fine era aprire quella dannata cartella. Così mi feci coraggio e ricominciai da dove ero rimasta circa quarantacinque minuti fa. Mentre la aprivo le mani mi tremavano e mentre tiravo fuori il contenuto il cuore iniziò a battermi più veloce.
Ecco, ci siamo. Pensai mentre inspiravo profondamente.
Il primo foglio che trovai fu un’altra copia del certificato di adozione. Questa volta però vi prestai maggiore attenzione e non mi soffermai solo sul titolo. Non c’era traccia del nome dei miei veri genitori, ma era chiaro come il sole che Darren e Rebecca Tilton mi avevano adottata. Non ero la loro vera figlia, e loro non erano i miei veri genitori. O meglio, non erano i miei genitori biologici. Ma perché non mi avevano mai detto niente? E soprattutto, sapevano dell’esistenza di mia nonna? Scrollai la testa e nonostante le lacrime che minacciavano di uscire, mi feci coraggio ed andai avanti. Mentre sfogliavo i fogli, qualcosa di pesante cadde sul materasso. Un mazzo di chiavi. Dovevano essere le chiavi della casa che mia nonna mi aveva lasciato. Sembravano nuove, come se le avesse fatte fare a posta per me per poi spedirle direttamente all’avvocato Mayer.
Dopo un paio di scartoffie inutili, trovai i dettagli sulla proprietà. Oltre a ribadire il fatto che la casa sarebbe diventata mia nel momento in cui mia nonna fosse deceduta, trovai anche l’indirizzo e il nome della città. Si chiamava Woodthon e fino a quel momento non l’avevo mai sentita nominare. Non contenta di quelle poche informazioni, afferrai il mio fedele portatile e la cercai su Google Maps. Trovai pochissime foto, che di certo non la rendevano allettante. Era un paesino sperduto quasi al confine con lo stato di New York, e per una come me che era abituata al caos e alla sovrappopolazione della grande mela, quelle casette in legno ad almeno duecento metri di distanza l’una dall’altra erano un colpo al cuore. Non avrei mai potuto vivere in un posto del genere. Sarei morta di noia oppure uccisa da un vicino di casa inquietante e avrebbero ritrovato il mio corpo solo settimane dopo. In preda alla sconsolatezza fui tentata di chiamare la mia amica Alison e raccontarle tutto, ma poi decisi che sarebbe stato meglio contattarla una volta che avessi capito qualcosa in più su tutta quella storia.
Feci per alzarmi dal letto e prendermi qualcosa da bere, ma in quel momento mi resi conto di una cosa. Sì, sapevo di essere stata adottata, ma quando? Io non avevo nessun ricordo riguardante altri genitori, il che voleva dire che dovevo essere stata adottata quando ero molto piccola. Ripresi il foglio dell’adozione e controllai la data: 10 Maggio 1999. 
Non è possibile. Pensai. Doveva esserci per forza uno sbaglio…
Se almeno il giorno del mio compleanno era giusto, voleva dire che il 10 Maggio del 1999 avevo già compiuto quattro anni, e per quanto da così piccoli non si riescano a trattenere tantissimi ricordi, non potevo aver dimenticato completamente la mia vera famiglia o chiunque mi avesse cresciuta fino a quel momento. In fondo chi mi diceva che prima dell’arrivo dei Tilton, avessi vissuto con i miei veri genitori? Magari mi avevano abbandonata quando ero in fasce e i Tilton mi avevano presa da qualche orfanotrofio. In ogni caso però, avrei comunque dovuto ricordare qualcosa. Perché invece non era così?
Scossi la testa e decisi che fosse arrivato il momento di berci su, e non mi riferivo ad un bicchiere d’acqua. Stappai la bottiglia di vino rosso che tenevo nella cucina ormai da un bel po’ e che mi era stata regalata da qualche ricco amico di Claire. Finora avevo deciso di conservarla per un’occasione speciale, ma in fondo quale occasione migliore di questa? Mica capita tutti i giorni di sapere che sei stata adottata e di non ricordare un accidenti di quella che era stata la tua vita prima di allora.
Dopo essermi scolata già il terzo bicchiere di vino, presi il cellulare e controllai l’ora. I miei genitori erano in vacanza in Europa. Ero stata proprio io a regalargli quel viaggio ed era una coincidenza davvero molto strana il fatto che fossero partiti proprio quando avrei avuto bisogno di loro. Se c’era qualcuno che poteva darmi delle risposte, di certo erano loro.
 
Appena tornate dobbiamo parlare.
 
Inviai quest’sms a mia madre e immaginai quale avrebbe potuto essere la sua reazione appena avesse letto il messaggio.
Con la testa che iniziava a girarmi, tornai nella mia camera da letto. Fortunatamente il mio appartamento non era così grande. Se avessi dovuto camminare troppo con molta probabilità sarei finita a terra prima di raggiungere il letto. Mi piaceva quell’appartamento, ed anche se non era propriamente mio dal momento che pagavo l’affitto, per me era come se lo fosse. Lo avevo arredato secondo i miei gusti, alternando uno stile moderno ad uno più vintage. Appena iniziato ad arredarlo, avevo avuto dei piccoli ripensamenti su questa scelta, ma alla fine il risultato finale mi aveva pienamente soddisfatta. L’unica pecca, ma l’arredamento non c’entrava niente, era che a volte mi sentivo un po’ sola. Avevo pensato spesso di prendermi un gatto, ma poi avevo desistito in quanto a causa del mio lavoro dovevo assentarmi anche per giorni interi, e non mi sembrava giusto ne abbandonarlo in casa, ne sballottarlo da ogni parte del paese. Così, eravamo rimasti io e i miei libri, e con questi di certo non mi annoiavo mai.
Mi infilai svogliatamente il pigiama, e mi misi sotto le coperte senza neanche struccarmi. Non ero nelle condizioni fisiche e mentali di avventurarmi in bagno. La testa era completamente offuscata e gli occhi faticavano a restare aperti, così decisi di non opporre resistenza e mi lasciai andare. In fondo dopo una giornata del genere pensavo di meritarmelo, no?
Chiusi gli occhi e mi rilassai, sperando che durante il sonno i fantasmi di una vita sconosciuta non venissero a farmi visita.
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
La suoneria assordante del telefono mi riportò indietro dal mondo dei sogni. Mugugnai qualcosa mentre afferravo il cellulare e me lo portavo all’orecchio senza vedere chi mi stesse cercando.
- Pronto – dissi con la voce ancora impastata dal sonno.
- Finalmente! – il tono squillante di Asher mi costrinse ad allontanare di qualche centimetro il cellulare. La testa mi faceva malissimo e di certo la voce del mio amico che mi rimbombava nel cervello non mi avrebbe aiutata a stare meglio.
- Che vuoi Asher? – chiesi svogliatamente.
- Buongiorno anche a te, Violet! – feci un verso di disapprovazione, ma lo lasciai parlare. – Sono le due del pomeriggio e vorrei ricordarti che questa sera c’è il party della casa editrice per cui entrambi lavoriamo – spalancai di colpo gli occhi e rimasi in silenzio – Te ne eri dimentica, vero? – il suo tono di voce lasciava intendere che ormai si era rassegnato con me e la mia memoria decisamente poco funzionante.
- A che ora è? – chiesi mentre mi alzavo velocemente dal letto rischiando di perdere l’equilibrio a causa della testa che mi girava.
- Alle sei… - Accidenti! Pensai. Mi ero completamente dimenticata di quella festa, tanto che non avevo comprato neanche qualcosa di adatto da mettermi. Era un evento importante, in cui avrebbero presenziato tutti i pezzi grossi della Martin&White, più gli autori dei bestseller del momento e qualche altro dipendente. Asher avrebbe presenziato in quanto mio grafico e social media manager. Era stato lui ad occuparsi della copertina del mio romanzo ed era stato lui a gestire le pagine social e il sito web relativi al mio libro. Era piuttosto giovane, ma se avevo raggiunto tutto quel successo era anche merito suo.
- Bene, ho quattro ore per fare tutto. Posso farcela, no? –
- Normalmente ti risponderei di no, perché considerando il fatto che hai dormito fino alle due, non oso immaginare che cosa hai fatto ieri sera… - alzai gli occhi al cielo. Sei completamente fuori strada, Asher. – Ma se durante la notte ti sei improvvisamente trasformata in Jesse Quick, allora sì, puoi farcela – era giunta l’ora delle citazioni nerd, ma in quel momento non ero proprio in vena.
- Ciao Asher! – tagliai corto e riagganciai il telefono. Quattro ore potevano sembrare un’infinità di tempo, ma considerando che dovevo farmi una doccia, smaltire la sbornia, trovare un vestito, tornare a casa e sistemarmi trucco e capelli, allora no, quattro ore non erano proprio per niente un’infinità di tempo.
Portai a compimento le prime due fasi in circa un’ora, poi saltai sul primo taxi giallo a disposizione e mi precipitai da Macy’s. Se c’era un posto dove avrei trovato sicuramente qualcosa, era di certo quello. A casa ovviamente avevo già dei vestiti eleganti che avevo utilizzato per altri eventi, ma avevo bisogno di un abito tutto nuovo per quell’occasione. Beh ok, che ne avessi bisogno non era del tutto vero, diciamo che più che altro avevo bisogno di comprare qualcosa di nuovo.
Senza pensarci due volte salii direttamente al piano dove avrei trovato i vestiti eleganti. Ce n’erano di tutti i tipi e per tutte le occasioni. Come mi succedeva quando entravo in una libreria, sarei potuta rimanere lì per tutta la vita, ma purtroppo dovevo svolgere la mia missione il più velocemente possibile.
Provai una serie di vestiti uno più bello dell’altro, ma alla fine optai per un due pezzi. Il sopra era un semplice top nero a collo alto, mentre il sotto era una gonna lunga fino alle caviglie che in vita era color nero, ma mano a mano sfumava fino a un intenso rosso accesso.
Tornai a casa quando mi rimaneva all’incirca un’ora per fare tutto, ma fortunatamente riuscii a prepararmi in tempo. La Martin&White aveva mandato una macchina a prendermi, e alle sei in punto ero davanti il Rockfeller Center. Non osavo immaginare quanto gli fosse costato organizzare un evento lì, ma in fondo se erano una delle più grandi case editrici attuali, i soldi non dovevano essere un problema. Quando scesi dall’auto venni accecata dai flash dei paparazzi che si erano appostati lungo il red carpet davanti all’entrata dell’edificio. Alzai una mano in segno di saluto e rallentai leggermente l’andatura per permettergli di scattarmi qualche foto. Non lo facevo per vanità, ma se mi fossi dimostrata ostile, il giorno dopo sul web o sui giornali sarebbe stato pieno di gente pronta ad insultarmi, a dire che non ero grata per quello che avevo. Invece lo ero, lo ero eccome. Almeno fino a qualche ora fa…
La mia vita mi piaceva così com’era, perché qualcuno aveva dovuto sconvolgerla? Avevo ventuno anni e già ero riuscita a realizzare il sogno della mia vita: diventare una scrittrice. Mi sarei accontentata di riuscire a pubblicare il mio romanzo, e invece era addirittura diventato un bestseller mondiale. Sembrava che qualcuno stesse anche pensando di basarci un film. Perciò, che potevo desiderare di più?
Quando varcai la soglia, venni accompagnata fino al piano in cui si sarebbe svolto il party. Ovviamente ero già salita sul Rockfeller Center, ma questa era tutta un’altra cosa. Quel posto era stato allestito in modo impeccabile, e le luci dei grattacieli di Manhattan che lo circondavano lo rendevano ancora più speciale. Anche gli interni erano stati allestiti e lungo un tavolo bianco, così lucido che sembrava brillare, era stato allestito un buffet che faceva venire l’acquolina in bocca solo a guardarlo. La terrazza esterna però era il pezzo forte. Quando uscii fuori, fui contenta di trovare subito Asher. Era la prima faccia conosciuta che incontravo da quando avevo messo piede lì dentro.
- Ce l’hai fatta! – esclamò venendomi incontro.
- A quanto pare sì. Come sta andando la festa? Ci sono altre facce conosciute? – domandai.
- Per quanto mi riguarda l’unica è la tua. E questo è il motivo per cui lui… - disse indicando il bicchiere che teneva in mano – è diventato il mio migliore amico –
- Champagne? – domandai anche se conoscevo già la risposta.
- Ovviamente – mi rispose Asher alzando un sopracciglio. Alla Martin&White non si facevano mancare proprio niente, e a questo punto nemmeno io. Al primo cameriere che mi passò accanto rubai il mio bicchiere di bollicine dorate. In realtà non mi piaceva particolarmente lo Champagne, ma per sopravvivere a quelle serate serviva per forza un aiutino.
Mentre sorseggiavo dal mio bicchiere, squadrai Asher da capo a piedi. Lui ovviamente se ne accorse.
- Che c’è? – mi domandò quasi allarmato.
- Niente, è che non sono abituata a vederti conciato così – anche in ufficio la maggior parte delle volte, il mio amico veniva con indosso magliette o felpe che facevano riferimento a qualche fandom. – Se non fosse per gli occhiali e i capelli, quasi non ti riconoscerei – scherzai. I capelli di Asher sempre spettinati, erano diventati famosi in tutto l’ufficio.
- Ah ah – mi prese in giro. – Alla mia ragazza piacciono così come sono –
- Oh, lo so benissimo  - la ragazza di Asher altro non era che la mia migliore amica.
- A proposito, dov’è Alison? – domandai. Era qualche giorno che non avevo sue notizie, e con tutto quello che mi era successo non avevo avuto proprio il tempo di chiamarla.
- Al laboratorio. A quanto pare stanno lavorando a qualcosa di super importante e supersegreto – lo guardai con un sorriso un po’ triste. Sapevo che Alison passava la maggior parte delle giornate chiusa nel laboratorio di ricerca in cui lavorava. Era sempre stata una stacanovista, e per quanto sia io che Asher l’ammirassimo, a volte questa sua dedizione al lavoro ci faceva sentire un po’ trascurati.
- Coraggio – gli dissi lasciandogli una pacca sulla spalla – non sarà per sempre così – non ne ero del tutto convinta a dir la verità, ma che potevo dirgli? Se Alison avesse continuato così, prima o poi persino Asher si sarebbe stancato, ma non spettava a me mettere il dito nella piaga. E poi in fondo mi sentivo anche un po’ in colpa. Ero stata io a farli conoscere, anche se non di proposito. Io ed Alison ci conoscevamo dal liceo, ed eravamo sempre state molto unite, nonostante fossimo molto diverse, il che si poteva dedurre anche dai nostri lavori attuali. Lei studiava biologia e lavorava in un laboratorio di ricerca, io invece avevo frequentato dei corsi di scrittura creativa e adesso facevo la scrittrice. Letteratura e scienza, due opposti che però si completavano a vicenda. Alison ed Asher si erano conosciuti agli eventi legati al mio libro e se pur all’inizio la loro relazione mi aveva alquanto sorpresa, adesso li vedevo bene insieme.
La donna di scienza e l’informatico. Se avessero mai avuto dei figli sarebbero stati dei mostri d’intelligenza. Mi faceva paura già solo immaginarli.
- Ci buttiamo sul buffet? – suggerii. Iniziavo a morire di fame.
- Ottima idea – concordò Asher.
Durante la serata ci separammo di tanto in tanto, giusto il tempo di dialogare con qualcun altro e non passare da asociali, cosa che in realtà eravamo. Chiacchierai con il nipote del signor Martin, che mi fece tantissimi complimenti per il mio successo, e mi chiese addirittura di firmargli un autografo per la figlia. Già, il mio libro spopolava tra le teenager, ma in fondo era sempre stato questo il mio scopo. Non avevo mai preteso di scrivere libri al livello di Dan Brown o Stephen King, io scrivevo young adult, e gli adolescenti erano il mio target principale.
Alla fine della serata, i miei piedi imploravano pietà ed anche il mio cervello aveva decisamente bisogno di una pausa, anche se tornare a casa probabilmente avrebbe significato tornare a pensare all’adozione e tutto il resto. In ogni caso, prima o poi avrei dovuto farci i conti.
Io ed Asher scendemmo insieme dal Rockfeller, poi io salii sulla macchina che mi era stata assegnata, mentre lui prese un taxi.
Non ero una grandissima fan di quelle serate, ma in questo caso era servita a distrarmi. Adesso però, come una Cenerentola moderna, dovevo far ritorno alla realtà.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
La mattina trovai sul cellulare una serie di chiamate da parte dei miei genitori più qualche messaggio.
 
Che è successo? Appena puoi chiamaci.
 
Violet, tutto bene? Di cosa devi parlarci?
 
Tesoro? Ci stai facendo preoccupare…

 
Ma solo io conoscevo l’esistenza del fuso orario? Sospirai e provai a chiamare mia madre. Dopo un paio di squilli tuttavia riagganciai. Non potevo chiamarli così, avevo bisogno di prepararmi un discorso. Cosa gli avrei detto? Avrei raccontato tutta la verità? Ed era davvero saggio affrontare il discorso via telefono? Ma in fondo non potevo aspettare che tornassero per avere delle risposte.
Presi in mano la cartellina e tirai fuori le chiavi di quella casa che sembravano chiamarmi. L’idea di andare in quel posto da un lato mi terrorizzava, ma dall’altra la curiosità mi spingeva ad andare. E poi poteva anche essere una scusa per prendermi una pausa dalla vita frenetica di New York…
Magari sarei anche riuscita a scrivere qualcosa di decente, che si trattasse di quello che mi chiedeva Claire o meno.
In ogni caso, non potevo prendere e andarmene senza dire niente a nessuno, così quando il telefono prese a squillarmi e il volto di mia madre comparve sullo schermo, non esitai a rispondere.
- Ciao mamma… - la salutai con poco entusiasmo.
- Violet! Finalmente… - dall’altra parte del mondo doveva essere notte, ma era evidente che lei e mio padre non avevano chiuso occhio aspettando mie notizie. Questo mi fece sorridere. Darren e Rebecca Tilton potevano anche non essere biologicamente correlati a me, ma erano loro che mi avevano cresciuta ed io gli volevo bene.
- Di cosa volevi parlarci? Noi torneremo tra cinque giorni, ma se vuoi possiamo parlare ora… - mi morsi il labbro inferiore, in preda all’ansia. Certo, parlare dal vivo sarebbe stato meglio, ma come si dice…tolto il dente, tolto il dolore.
- Mettimi in vivavoce, mamma – volevo che anche mio padre ascoltasse.
- Ok tesoro, ti stiamo ascoltando entrambi – mi sentivo quasi in colpa. Se i miei genitori erano le brave persone che conoscevo, questa conversazione li avrebbe sconvolti. Poi però mi ricordai che quella a cui era stata sconvolta l’esistenza ero io, e che loro mi avevano nascosto la verità per tutti questi anni.
- Bene – dissi – volevo parlarvi perché mi chiedevo per quale motivo non mi avete mai messa al corrente del fatto che sono stata adottata – ecco, lo avevo detto. Dall’altro capo del telefono per una manciata di secondi sentii solo silenzio, tanto che pensai mi avessero riattaccato.
- Come lo hai saputo? – il primo a reagire era stato mio padre. La sua voce era un misto di ansia e tristezza.
- Non ha importanza – replicai. – Rispondete alla mia domanda – forse ero un po’ brusca, ma poco mi importava.
- Abbiamo firmato un accordo di riservatezza – strabuzzai gli occhi. Bene, questa non me l’aspettavo. – Non potevamo dirtelo, per questo non lo abbiamo mai fatto – se era vero, beh aveva senso.
- Chi vi ha fatto firmare questo accordo? – mi accorsi che la voce mi tremava leggermente.
- Tua nonna… - non ci avrei messo la mano sul fuoco, ma ero quasi sicura che mia madre stesse piangendo mentre parlava con me, ed io stavo per seguirla a ruota. Una cosa però non mi tornava. Perché ritornava sempre mia nonna e invece non si parlava mai dei miei genitori?
- E che sapete dirmi dei… - era difficile chiedere a quelli che consideravi i tuoi genitori, notizie sui tuoi veri genitori che probabilmente ti avevano abbandonato senza alcuno scrupolo. – Sapete qualcosa dei miei genitori biologici? –
- No – rispose mio padre – Tua nonna, Darlene, non ci ha mai voluto dire niente su di loro – aggrottai le sopracciglia. Quella donna, Darlene, mi sembrava sempre più misteriosa. C’erano talmente tante cose che avrei voluto sapere, ma a questo punto non ero più certa che i miei genitori potessero darmi le risposte. Avevo l’impressione che l’unica ad avere tutte le risposte fosse proprio mia nonna. C’era solo un piccolo problema: era morta.
- Violet? – dovevo essere rimasta in silenzio più tempo di quello che immaginavo.
- Si – sospirai – sono ancora qui –
- Ci dispiace che tu lo abbia saputo così… - disse mia madre.
- Oppure siete dispiaciuti che lo abbia saputo e basta? –
- Violet, sai che se avessimo potuto te lo avremmo detto. C’erano delle clausole davvero rigide nel contratto che abbiamo firmato quando ti abbiamo presa con noi. Ci era sembrato strano anche all’epoca, ma ti volevamo così tanto che non ci è importato… - iniziai a singhiozzare. Sapevo che mi avevano sempre voluto bene, ma nonostante la loro spiegazione, in parte continuavo ad essere arrabbiata con loro.
- Avete mai pensato di dirmelo? –
- Certo! – esclamò mia madre – Ogni giorno. Non c’è stato giorno in cui non ci siamo chiesti se avessimo dovuto dirti la verità o meno – Però alla fine non lo avete fatto. Pensai.
- Perché io non ricordo niente? – chiesi bruscamente.
- Eri molto piccola… - tentò di spiegarmi mio padre.
- Non così tanto – replicai. – Avevo quattro anni… - per un po’ i miei riuscirono solo a balbettare qualcosa. Era evidente che non avevano idea di cosa rispondermi.
- Sarebbe meglio parlarne faccia a faccia – sentenziò alla fine mio padre.
- Io voglio parlarne ora – mi opposi.
- Violet, non è una buona idea… - mia madre era sempre quella più ragionevole in famiglia, e infatti avevo sempre pensato di aver preso da mio padre, ma mi resi conto che adesso non sapevo neanche più da chi avessi preso la mia personalità o le caratteristiche fisiche.
- Bene – sbottai – vorrà dire che lo scoprirò da sola. Quando tornerete potrei non essere a New York – ero sorpresa quasi quanto loro della decisione che avevo appena preso.
- E dove dovresti andare? – erano allarmati.
- In Pennsylvania -  dissi – mia nonna mi ha lasciato una casa, ed io intendo andarci – prima che potessero dissuadermi in qualche modo, li interruppi. – Non mi farete cambiare idea. Ci sentiamo… - riattaccai il telefono e poi lo spensi.
Inspirai profondamente e cercai di calmarmi. Avevo appena avuto la peggiore conversazione della mia vita, e in più non avevo avuto tutte le informazioni che volevo. Almeno una cosa però mi faceva sentire leggermente meglio. Qualcuno aveva costretto Darren e Rebecca Tilton a non dirmi la verità, e questo mi faceva essere un po’ meno in collera con loro. Avevo già troppi problemi, non potevo sprecare energia ad odiarli.
Adesso che avevo deciso di partire per Woodthon, mi restava solo una cosa da decidere. Come ci sarei andata? Pensai all’eventualità di prendere il treno, ma ovviamente non c’erano fermate nei pressi di quella cittadina sperduta. Così decisi di prendere un volo per Pittsburgh che sarebbe partito quello stesso pomeriggio, e una volta lì avrei dovuto trovare un modo per raggiungere Woodthon.
Preparai la valigia in tempi record, tralasciando qualsiasi cosa che fosse troppo elegante. Dubitavo che mi sarebbe servita in quel posto. Oltre alle cose fondamentali, come vestiti, scarpe e tutto ciò che riguardava il bagno, infilai anche un paio di libri da leggere. Avevo l’impressione che mi sarei annoiata parecchio e non potevo di certo passare tutto il tempo a scrivere.
Una volta sistemato tutto, mi misi al computer e scrissi un e-mail alla mia agente.
 
Ciao Claire,
 
non temere sono ancora viva. In questi giorni sono stata piuttosto impegnata, ed è per questo che ho deciso di prendermi una pausa da New York. Una lontana parente mi presta la sua casa in Pennsylvania per un po’ ed ho deciso di approfittarne.
Chissà, magari riuscirò a farti contenta e a scrivere un “-quel”!
Non so ancora quanto resterò, ma tranquilla ti terrò aggiornata.
 
A presto,
 
VT

 
Anche questa era fatta. Mangiai qualcosa al volo e una volta pronta, chiamai il portiere del mio palazzo per chiedergli di chiamarmi un taxi. Quando scesi giù, lo trovai già fuori ad aspettarmi. L’autista caricò la mia valigia, ed io salii a bordo insieme alla mia borsa e al mio fedele portatile.
Era tutto pronto, potevamo partire.
Mentre il taxi sfrecciava tra le strade di New York diretto all’Aeroporto JFK, iniziavo già a sentire la mancanza di quella grande metropoli che per anni era stata casa mia. Magari sarei rimasta a Woodthon solo qualche giorno, o magari no… Tutto dipendeva da quello che avrei trovato. Le chiavi di una casa sconosciuta, erano lì che tintinnavano nella mia borsa. Per la prima volta, osservandole, mi resi conto che avevo paura. Sì, avevo una destinazione, ma la verità era che avevo appena iniziato un viaggio verso l’ignoto.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ciao a tutti! Volevo ringraziare tutti coloro che stanno leggendo la mia storia, sia chi lo fa silenziosamente, sia chi ha perso qualche minuto del suo tempo per lasciare una recensione. I primi 4 capitoli sono stati di introduzione ma da questo iniziamo ad addentrarci un po' di più nella vera storia.
Buona lettura! 



CAPITOLO 5
 
All’incirca cinque ore dopo la mia partenza da New York, ero finalmente arrivata a Woodthon. Atterrata a Pittsburgh avevo scoperto che non c’era nessun dannatissimo mezzo di trasporto che mi portasse direttamente lì, così avevo preso un autobus fino ad una cittadina a circa un’ora di distanza, e lì avevo affittato una macchina. Avevo rischiato di perdere la vita un paio di volte, dal momento che l’illuminazione era scarsa ed io non guidavo da un bel po’. Insomma, chi ha bisogno di una macchina a New York quando puoi andare in giro in taxi o prendere la metro? Ma per fortuna guidare era un po’ come andare in bicicletta, una volta imparato, era difficile scordarlo.
All’ingresso della cittadina trovai l’immancabile cartello che recitava “Benvenuti a Woodthon”. Storsi il naso e continuai per la mia strada. Una strada molto buia per giunta. Ero arrivata fin lì, ma adesso non avevo la più pallida idea di dove si trovasse la casa. In preda alla disperazione mi accasciai sul volante. Ero stanca, avevo fame e in quel momento avrei tanto voluto essere a New York invece che nel bel mezzo del nulla.
Sobbalzai quando sentii qualcuno picchiettare sul vetro della mia auto. C’era una ragazza spiaccicata contro il vetro che mi sorrideva. Non sembrava minacciosa, così abbassai lentamente il finestrino.
- Ciao! – mi salutò. – Scusa se ti ho spaventata, ma ti ho vista così e ho pensato che avessi bisogno d’aiuto… - la guardai qualche secondo come un ebete, non ero abituata a questo interessamento gratuito.
- Beh, in realtà sì – le dissi. – Dovrei arrivare qui… - le mostrai l’indirizzo della casa. Per un attimo ebbi la sensazione che la sconosciuta avesse sussultato alla vista dell’indirizzo, ma era tornata immediatamente a sorridermi.
- Devi continuare dritto per un altro centinaio di metri – iniziò a spiegarmi – poi, vedi quel campanile? – annuii. – Ecco, quando arrivi lì gira a destra, poi continua dritto e alla seconda a destra, no aspetta, la prima a destra, giri e… - la interruppi. Mi ero già persa solo a parole. Controllai l’orario sul cruscotto della macchina. Fantastico, è anche tardi! Le mie previsioni sul vicino di casa inquietante che mi avrebbe uccisa, diventavano sempre più plausibili.
- Aspetta, cambio di programma. C’è un hotel da qualche parte? Magari a mezzo metro da qui? – chiesi speranzosa.
- Sì, certo. È proprio dietro l’angolo… -
- Perfetto, grazie per l’aiuto – mi resi conto di non sapere il nome di quella sconosciuta – Tu sei? –
- Mary – mi rispose lei sorridente. – Tu invece, sicura di non essere di qui? – notai che mi stava squadrando.
- Assolutamente, mai stata prima. Comunque io sono Violet – al sentire il mio nome la ragazza si lasciò sfuggire un gridolino.
- Ecco perché mi sembrava di conoscerti! Tu sei la scrittrice Violet Tilt… - per la seconda volta in meno di cinque minuti la interruppi di nuovo.
- Shhh – le intimai di stare zitta. Non volevo essere etichettata da subito come la scrittrice famosa piombata nella cittadina sperduta di Woodthon. A dir la verità non pensavo di trovare anche qui qualcuno che mi conoscesse, ma solo adesso mi ero resa conto di quanto giovane fosse Mary. Doveva avere sedici, al massimo diciassette anni, il che la faceva rientrare perfettamente nel mio target. – Adesso devo andare, ti ringrazio davvero tanto per l’aiuto e ti sarei grata se potessi aiutarmi ancora non dicendo a nessuno chi sono – Mary annuì.
- Va bene, ma prima che tu riparta voglio un autografo –
- Promesso – la salutai e mi avviai verso il piccolo hotel che mi aveva indicato. Speravo che avessero anche una cucina perché avevo davvero bisogno di mettere qualcosa sotto i denti.
Come era prevedibile, non era stato difficile trovare una stanza, e per mia fortuna quel piccolo hotel aveva anche un ristorante. Nonostante l’ora la proprietaria riuscì a rimediarmi qualcosa dalla cucina e benché avessi insistito, non mi fece pagare.
Finalmente a stomaco pieno, salii nella stanza che mi era stata assegnata. Era spaziosa, ma quello era l’unico punto a favore. L’arredamento era decisamente troppo vecchio, soprattutto per una che veniva da New York.
Quando presi il cellulare in mano mi resi conto di avere un paio di messaggi dai miei genitori e una chiamata persa di Alison. Decisi di rispondere prima ai messaggi. Anche se non gli avevo detto la mia posizione esatta, non voleva dire che dovessi lasciarli perennemente in ansia chiedendosi che fine avessi fatto.  Poi chiamai la mia migliore amica.
- Dottoressa Morales – le dissi scherzando.
- Violet! – esclamò lei appena sentì la mia voce. – Si può sapere cos’è questa storia che sei in Pennsylvania? – avrei dovuto immaginarlo. Claire doveva averlo detto ad Asher, ed Asher lo aveva detto ad Alison.  
- È una lunga storia, Ali – e neanche la conoscevo tutta ancora – Sei da sola? – non volevo che anche Asher sapesse tutto, non ora almeno.
- Sì, Asher si è addormentato guardando un film che tra l’altro ha scelto lui – scoppiai a ridere immaginandomi la faccia della mia migliore amica. Anche se il suo tono era scocciato, sapevo che in fondo anche lei trovava divertente la situazione.
- Allora, vuoi dirmi che succede? – sospirai. Volevo davvero raccontare tutto ad Alison, ma sapevo che dal momento in cui lo avrei fatto, tutto sarebbe diventato reale. O almeno, ancora più reale di quanto già non fosse. In fondo mi trovavo in un hotel che probabilmente non veniva ristrutturato da una cinquantina d’anni.
- Sono stata adottata – silenzio. Ultimamente mi succedeva spesso di lasciare le persone senza parole.
- Oh mio Dio – fu l’unica cosa che riuscì a dire. Per quanto la situazione non fosse affatto divertente, la sua reazione mi fece scappare un sorriso. Era bello vedere come reagiva qualcun altro che come te non avrebbe mai immaginato quello che mi era successo.
- Come stai? – mi domandò poi. Domanda difficile.
- Non lo so – ammisi – A volte mi sembra di stare bene e altre continuo a ripetermi che è solo un brutto sogno. Credo di dover metabolizzare un altro po’… - E forse stare in quella cittadina mi avrebbe aiutata.
- Beh, penso sia normale. Insomma, non mi sono mai trovata nella tua situazione però penso che ci metterei un bel po’ a metabolizzare anche io – mi misi a ridere.
- Sì, come no. Ti ricordo che la scienziata tra le due sei tu. Molto probabilmente troveresti una spiegazione scientifica anche a questo e comportandoti in maniera del tutto razionale e a dir la verità anche un po’ inumana, finiresti per accettare la notizia senza farti troppi problemi – scherzai.
- Oddio, do davvero questa impressione? –
- Sì, Ali. E fidati, non è solo un’impressione – entrambe ci mettemmo a ridere e in quel momento mi fu più chiaro il perché avessi chiamato la mia migliore amica. Sapevo che sarebbe riuscita in qualche modo ad alleggerire il peso che mi portavo dietro in quei giorni.
- Ancora non mi hai detto cosa ci fai in Pennsylvania però – mi fece notare. Mi morsi nuovamente il labbro inferiore. Per qualche motivo quella era la parte che mi veniva più difficile raccontare. Però non potevo chiamare Alison e raccontarle solo un pezzo della storia. Dovevo dirle tutta la verità.
- A quanto pare, la mia vera nonna viveva qui e sapeva della mia esistenza. Perciò quando è morta, la sua casa è finita in eredità a me –
- Porca miseria – esclamò Alison. – La tua vita si è appena trasformata in un romanzo -  già, ed era abbastanza ironico, no?
- Ma adesso dove sei? Nella casa di tua nonna? –
- No – le spiegai. – Prendimi pure per fifona, ma questo posto sembra veramente dimenticato da Dio, e non mi andava di entrare per la prima volta in quella casa con questo buio. Per quanto ne so potrebbero anche aver staccato la corrente – Alison scoppiò a ridere.
- Non fare tanto la spavalda, guarda che neanche tu saresti impazzita di gioia alla vista di questo posto. Infatti mi sono rifugiata in un hotel… - dissi fingendomi offesa.
- Magari io ed Asher faremo un giro e verremo a trovarti. Dove hai detto che sei esattamente? – non lo avevo detto in realtà.
- Woodthon – dissi semplicemente.
- Mai sentita – replicò Alison.
- Sì, beh, non sei l’unica. Anzi, visto che ti diverti tanto a prendermi in giro, divertiti a cercarla su Google. Poi ne riparliamo… -
- Ok, darò un’occhiata. Senti, Asher si è svegliato…sento degli strani versi provenire dal soggiorno – mi misi a ridere. Poverino, gliene diceva di tutti i colori. – Se hai bisogno non esitare a chiamarmi, ok? –
- Va bene – risposi. – Grazie Ali –
- Figurati – poi riagganciammo ed io tornai alla mia vita solitaria in quel di Woodthon.
La mattina seguente sarei andata in quella maledetta casa e a dir la verità ero un po’ spaventata. Non sapevo cosa aspettarmi, anche se in fondo non avevo la più pallida idea di cosa volessi o mi aspettassi di trovarci. Avevo l’impressione che all’improvviso la mia vita fosse diventata un gigantesco punto interrogativo. Fino a pochi giorni fa sapevo chi ero, da dove venivo e cosa volevo. Adesso mi sembrava di non sapere più niente e non facevo che ripetermi una domanda: come sarebbe stata la mia vita se avessi sempre vissuto a Woodthon?

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6
 
Durante la notte non riuscii quasi a chiudere occhio. Quando mi spostavo in altre città, non avevo mai problemi a prendere sonno, ma lì era diverso. Non era il letto in sé il problema, ma il silenzio assordante di quella città. Forse era assurdo, ma il rumore della auto o il vociare della gente che ero abituata a sentire a New York, mi davano più sicurezza, ed anche quando mi ero spostata si era sempre trattato di grandi città, mai di paesini come Woodthon. E poi beh, sicuramente avevo anche un po’ d’ansia. Inspirai profondamente mentre mi guardavo allo specchio della mia stanza d’albergo. Puoi farcela. Mi dissi. Qualunque cosa avessi scoperto potevo sopportarlo, e sarei riuscita ad ambientarmi in quella cittadina. In fondo ero pur sempre originaria di lì, no?
 
Mi preparai senza perdere troppo tempo, pagai il mio soggiorno e afferrai al volo una ciambella dalla sala colazione. L’avrei mangiata strada facendo. Impostai la mia destinazione sul telefono, che quel giorno sembrava avere più campo rispetto alla sera precedente, e partii.
Dopo all’incirca due minuti, la voce metallica della signora del navigatore, mi comunicò che ero giunta a destinazione. Prima di scendere dall’auto mi fermai un attimo ad osservare quella casa. Non aveva niente di particolare, era la solita casetta in legno tipica americana. Le pareti erano di un tenue color azzurro. Aveva un giardino davanti, che evidentemente non era stato molto curato nell’ultimo periodo, e un piccolo portico antecedente alla porta d’ingresso. Beh, quantomeno è carina. Mi dissi. Poteva anche andarmi peggio.
Raggiunta l’entrata, tirai fuori dalla borsa le chiavi e con le mani che mi tremavano le infilai nel buco della serratura. Dopo un paio di giri forzati, la porta, con un lieve cigolio, finalmente si aprì. Trascinandomi il trolley dietro, entrai titubante, come se avessi paura di disturbare qualcuno. Pensai a quanto sarebbe stato più bello entrare lì e trovare mia nonna ad accogliermi, invece davanti a me c’era solo una casa vuota, impolverata ed anche un po’ triste. Poteva essere triste una casa? Evidentemente sì. E non intendevo triste perché non mi piacesse l’arredamento, l’essere triste era una conseguenza dell’essere vuota, dell’essere stata abbandonata. Fin da quando ero piccola avevo questa malsana abitudine di affezionarmi alle cose materiali, e nonostante avessi appena messo piede lì dentro, mi sembrava già di essermi affezionata a quella casa. E poi…non so, qualcosa me la faceva sentire familiare. Come se ci fossi già stata. Pensai. Era possibile? In fondo prima dei miei quattro anni potevo aver fatto qualsiasi cosa dal momento che non ricordavo niente.
Prima di chiudermi la porta alle spalle cercai l’interruttore della luce. Fortunatamente non l’avevano staccata. Tirai su le serrande e una ventata di polvere mi investì provocandomi dei colpi di tosse. Oddio, avrei dovuto ripulire tutto da capo a fondo. Sospirai, e mi presi qualche secondo per osservare meglio il posto in cui mi trovavo. Il salone era spazioso anche se c’erano un po’ troppi mobili per i miei gusti. Tuttavia andava bene così, era esattamente come ci si poteva aspettare la casa di una nonna. Dal salone c’era una porta che dava sulla cucina, ma più che visitare la casa, in quel momento la mia intenzione era rivolta ad altro. Sparse qua e là, su alcuni mobili che arredavano il salone, c’erano delle cornici. Presa dalla curiosità afferrai la prima che trovai. Era una grande cornice in argento e al centro c’era una foto in bianco e nero. Sentii gli occhi diventarmi umidi. Quelli erano i miei nonni. Finalmente avevano un volto. La foto era leggermente rovinata, ma qualcosa in loro mi colpì immediatamente. Io gli somigliavo, soprattutto a mia nonna. Darlene Harrington e suo marito indossavano degli abiti formali, e posavano stando in piedi l’uno accanto all’altra tenendosi per mano. Erano giovani, e a giudicare dagli abiti, la foto doveva risalire agli anni quaranta.  Osservandoli, mi chiesi quale fosse il nome di mio nonno, e se Harrington fosse il suo cognome o quello da nubile di mia nonna. Tuttavia quest’ultima opzione mi sembrava poco plausibile. Tirai su con il naso e mi concentrai su un’altra foto. Questa ritraeva mia nonna da sola. La foto era a colori e doveva essere stata scattata non troppi anni fa. Le rughe sul viso di mia nonna e i capelli bianchi, non lasciavano molti dubbi circa all’età che avrebbe potuto avere. Tuttavia, la trovai comunque bellissima. Mi spostai davanti a un ampio comò in legno, e quando il mio sguardo cadde sulla foto di un giovane e affascinante uomo dai capelli neri e gli occhi grigi, il mio cuore saltò un battito. Titubante presi la foto tra le mani e la guardai più da vicino. Era possibile che… Stavo davvero guardando mio padre? Il mio vero padre?
Portai la foto con me e mi sedetti sul divano impolverato. Ci somigliamo così tanto… Notai. Per tutta la vita mi ero chiesta da chi avessi preso quel particolare colore degli occhi, ed ora avevo la risposta tra le mie mani.
Come si chiamava? Che fine aveva fatto? Mi aveva abbandonata?
Subito una raffica di domande si manifestò nella mia testa. Volevo sapere tutto di lui, volevo conoscerlo. Sapevo che probabilmente conoscerlo dal vivo sarebbe stato impossibile, ma se almeno avessi avuto qualcuno che mi parlasse di lui… Perché mia nonna non mi aveva contattata prima di morire? All’improvviso iniziai a provare rabbia verso di lei. Chissà da quanto tempo sapeva di me e nonostante ciò, nonostante fossi sua nipote, probabilmente l’unica, aveva preferito non dirmi nulla e continuare a farmi vivere nella mia perfetta vita fatta di menzogne. Se solo mi avesse cercata prima, adesso non sarei stata seduta qui da sola a piangere stringendo in mano una fotografia di un uomo di cui non sapevo neanche il nome. Perché? Era l’unica cosa che riuscivo a pensare.
Mi riscossi quando sentii qualcuno bussare alla mia porta. Mi asciugai gli occhi frettolosamente e mi alzai in piedi di scatto. Chi poteva mai essere?
Cercando di non fare rumore mi avvicinai alla porta e guardai dallo spioncino. Davanti a me c’era una signora di una certa età che teneva in mano un vassoio. Beh, non mi sembrava un’assassina spietata, così decisi di aprirle.
- Buongiorno! – mi salutò raggiante. Ma perché in quel posto erano tutti così felici?
- Salve… - risposi dubbiosa.
- Mi chiamo Miranda, e sono la tua vicina di casa – mi spiegò. – Abito in quella casa là – disse indicandomi l’abitazione alle sue spalle. Non eravamo poi così lontane.
- Oh, piacere di conoscerla. Io sono Violet… - la donna mi sorrise e mi porse il vassoio.
- Tieni, ieri sera ho sfornato dei biscotti e ho pensato di portartene qualcuno – Wow. Pensai. Era il secondo gesto di gentilezza gratuita che ricevevo ed ero arrivata lì da neanche un giorno.
- Grazie mille! – esclamai sinceramente grata. – Almeno so che non morirò di fame – Miranda sembrò accigliarsi a quella mia affermazione.
- Non hai niente da mangiare? – mi chiese preoccupata.
- Beh, no…sono appena arrivata e non ho avuto il tempo né di fare scorte né di ripulire–
- La povera Darlene è morta giusto una settimana fa, ma ultimamente non era molto in forze per dedicarsi alla casa – una lampadina si accese nel mio cervello.
- La conosceva bene? Darlene… - domandai speranzosa. Se quella donna conosceva mia nonna, allora probabilmente poteva aiutarmi anche con il resto della storia della mia famiglia.
- Oh sì, come no. Ci vedevamo quasi tutti i giorni. Sai, era molto sola e anch’io lo sono, quindi ci facevamo compagnia a vicenda – Bene, sapevo che Miranda poteva aiutarmi, ma non volevo che mi svelasse tutto ora. Avevo paura ancora una volta che quello che avrei sentito non mi sarebbe piaciuto, e per un po’ volevo continuare a sognare.
- Hai affittato la casa con tutti i mobili? – sussultai a quella domanda. Miranda poteva anche conoscere mia nonna, ma non aveva idea di chi fossi. Mi dispiaceva mentirle, ma se le avessi detto chi ero non mi sarei più liberata di lei e della sua curiosità, così decisi di continuare a farle credere quello che pensava.
- Beh sì…sono un’amante del vintage – mentii. In fondo ultimamente andava di moda… Miranda sembrò credermi, e dopo poco mi salutò. Portai il vassoio in cucina, che rispetto al soggiorno era decisamente piccola, ma aveva tutto il necessario. Assaggiai un biscotto, che era davvero delizioso, e poi tornai alle mie foto. Ce ne erano un altro paio che ritraevano sempre i miei nonni insieme a mio padre. Tuttavia non c’era traccia né di me ne di mia madre. Era davvero strano, a meno che i miei genitori non si fossero mai sposati ed io fossi una figlia indesiderata. Mia madre poteva essere rimasta incinta molto giovane e questo ai miei nonni non era piaciuto, per questo non c’erano nostre foto in quella casa. Non eravamo mai stati una vera famiglia… Ciò avrebbe anche potuto spiegare perché in seguito fossi stata adottata. La donna che mi aveva messa al mondo forse non riusciva ad occuparsi di me da sola, così mi aveva abbandonata. Aveva senso in fin dei conti, ma era davvero triste pensare che quella fosse la mia storia, la storia della mia famiglia. No, deve esserci un’altra spiegazione. Cercai di convincermi.
Salii al piano di sopra, con la speranza di trovare lì qualche nostra foto. Niente. C’erano due camere: una doveva essere stata la stanza di mio padre, e l’altra era quella dei miei nonni. In nessuna delle due trovai mie foto né di mia madre. Sospirai rassegnata e decisi che prima di continuare le ricerche, mi conveniva dare una ripulita a quel posto dal momento che avrei dovuto viverci. Così mi armai di pazienza e di un bel po’ di detersivi e stracci vari che avevo trovato in un piccolo sgabuzzino, ed iniziai a pulire da cima a fondo quella casa. In quel momento mi mancava terribilmente il mio piccolo appartamento di New York. Pulirlo era una passeggiata, mentre lì… ci avrei messo una vita.
 
Dopo circa tre ore avevo finito di sistemare la casa. Ero esausta e morivo di fame. Controllai l’orologio. Cavolo! Era tardi, non avrei mai trovato un supermercato aperto. Ma qualcosa dovevo pur mangiare...qualcosa che non fossero i biscotti di Miranda magari. Decisi comunque di fare un tentativo, così montai in macchina e partii alla ricerca di un qualsiasi posto che vendesse cibo. Trovai due supermercati, ma erano entrambi chiusi. Stavo quasi per rinunciare, quando vidi un locale che sembrava aperto. L’insegna recitava: “Sinclair’s”. Aveva tutta l’aria di essere un pub. Beh, buono a sapersi, almeno la sera avrei saputo cosa fare se non mi fosse andato di restare a casa.
Varcai l’ingresso lentamente e non appena misi a fuoco il locale, mi trovai subito addosso gli occhi del ragazzo dietro al bancone.
- Siamo chiusi – mi disse bruscamente tornando poi a concentrarsi sui bicchieri che stava lucidando. Okay, mi rimangiavo tutto quello che avevo detto finora sugli abitanti di questa città. Non erano tutti gentili e felici.
- Bene, come non detto – replicai in tono piatto. – È stato un piacere – aggiunsi poi ironicamente lanciandogli un’occhiataccia. Il ragazzo alzò lo sguardo verso di me inarcando un sopracciglio, ma non disse nulla. Che maleducato! Pensai. Come faceva a lavorare in pub con quel caratteraccio? Comunque non volevo dargli soddisfazione, così mi voltai e feci per andarmene.
- Aspetta! – una voce maschile mi fermò, ma dubitavo fortemente che si trattasse del barista musone. Mi voltai e trovai davanti a me un ragazzo dai capelli biondo cenere e gli occhi azzurri.
- Volevi mangiare? – mi chiese sorridente.
- Sì, ma non ti preoccupare. Mi è già stato detto chiaramente che siete chiusi – dissi lanciando l’ennesima occhiataccia a quel tipo. Alle mie parole lo vidi accennare un sorriso, ma fece finta di non avermi sentita. Oh, lo trova anche divertente!
- Sì, beh, non farci caso. Mio cugino ha un caratteraccio… - cugino? Non si assomigliavano per niente. Mi era bastato poco per capire che avessero due caratteri completamente diversi, ma era ancora più lampante il fatto che non si somigliassero per niente neanche fisicamente. A parte il colore dei capelli e degli occhi, che il barista musone aveva completamente neri, lui era più alto e muscoloso, mentre il ragazzo davanti a me era piuttosto mingherlino.
- Io sono Bryan – disse porgendomi la mano. – E lui è Max – gli rivolsi un sorriso tirato.
- Violet – risposi afferrando la mano di Bryan.
- Allora, Violet… il nostro amico e cuoco Eddy sta preparando una fantastica pizza. Sicura di non volerla assaggiare? – Oddio, io amavo la pizza, ma l’idea di dover mangiare in presenza di quel musone non mi faceva certo impazzire. Come se volesse rispondere per me, il mio stomaco prese a brontolare.
- Va bene – cedetti. 
- Grande! – esclamò Bryan.  - Siediti pure lì – disse indicandomi il bancone di fronte a Max. Guardai in direzione di Bryan, che dovette notare il mio sguardo scocciato. – Oppure no… - aggiunse titubante. Tuttavia mentre il biondo si recava in cucina io mi sedetti proprio davanti al muso lungo di Max. Non volevo dargliela vinta.
- Posso avere una coca? – gli domandai. Senza dirmi niente mi riempì il bicchiere e lo poggiò sul bancone davanti a me.
- Ecco – disse semplicemente.
- Grazie – risposi io.
- Prego – Che conversazione interessante! Per fortuna dalla cucina spuntò nuovamente Bryan che portava con sé degli spicchi di pizza margherita appena sfornata.
- Buon appetito – mi disse mentre io già addentavo il primo spicchio. Era buonissima!
- Allora…sei nuova di qui? – annuii mentre mandavo giù un boccone.
- Bryan guarda che se lo sa Fel che ci stai provando, ti uccide… - arrossii mentre un ragazzo usciva dalla cucina e ci raggiungeva zoppicando. Doveva essere Eddy…
- Idiota! – gli rispose Bryan. – Guarda che non ci sto provando. Sto solo cercando di essere gentile al contrario di qualcun altro… - quasi mi strozzai quando lo vidi lanciare un’occhiataccia a Max.
- Essere gentile non fa parte del mio lavoro – rispose il barista musone.
- Ma tenerti i clienti sì – replicai io.
- Visto? La ragazza sa il fatto suo… - non badai ad Eddy, ma sostenni lo sguardo di Max. Non riuscii a decifrare il suo sguardo, ma avevo l’impressione che mi stesse studiando, come se stesse cercando di capire che tipo di persona fossi.
- Quindi, prima che Eddy ci interrompesse – riprese Bryan – stavamo dicendo, sei qui di passaggio? – Vorrei saperlo anche io. Pensai.
- Sì, anche se non so quanto mi fermerò. Ho preso una casa in affitto… - una volta che avevo iniziato con quella bugia, dovevo continuare a dire a tutti la stessa cosa.
- Perché sei venuta a Woodthon? – mi voltai verso il musone stupita da quella domanda. Aveva usato un tono piatto, come se avesse paura che facendomi quella domanda avrei potuto pensare che gli importasse qualcosa di me.
Lo guardai dritto negli occhi neri e prima di rispondergli alzai le spalle – Diciamo che…sono stata attirata qui -.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
 
Erano passati un paio di giorni dal mio arrivo a Woodthon e finalmente stavo iniziando ad ambientarmi. Beh, se starsene chiusa in casa significava ambientarsi… La verità era che stavo cercando di abituarmi a quel posto facendo un passo alla volta e allo stesso tempo avevo la sensazione che anche gli abitanti di quella cittadina avessero bisogno di abituarsi a me.
Le volte in cui avevo messo piede fuori casa mi ero sempre sentita osservata e sebbene in certe situazioni fossi abituata ad essere al centro dell’attenzione, quella era tutta un’altra cosa. Insomma, un conto era essere alla presentazione del tuo libro, e un’altra era essere la nuova arrivata in città di cui tutti parlavano. Evidentemente ero l’evento più sensazionale che ci fosse stato a Woodthon negli ultimi tempi.  L’unico altro essere umano con cui mi ero relazionata abbastanza volentieri era Miranda. La mia anziana vicina di casa era alla evidente ricerca di qualcuno con cui parlare, cosa che a volte mi dava sui nervi, ma dall’altra mi faceva tenerezza e non riuscivo ad avercela sul serio con lei. Inoltre era stata fin da subito gentile con me, ed iniziavo anche a sentirmi un po’ in colpa quando cercavo di carpirle delle informazioni sulla mia famiglia.
Avevo scoperto il nome di mio nonno: Charles Harrington. Il che aveva confermato che Harrington era il suo cognome e non quello da nubile di mia nonna. Adesso dovevo solo scoprire il nome di mio padre, ma una cosa era certa… il mio cognome sarebbe stato Harrington. Violet Harrington. Non suonava neanche così male…
Tuttavia, nonostante la curiosità, preferivo non fare troppe domande a Miranda per non insospettirla. Perciò, nonostante le mie ricerche andassero un po’ a rilento, stranamente avevo capito che non mi importava. Stava quasi iniziando a piacermi vivere lì.
In casa avevo nascosto tutte le fotografie in una scatola, poiché far credere a qualcuno che ti avessero venduto la casa con tutti i mobili era abbastanza semplice, ma fargli credere che ti era stata venduta lasciando anche tutte le foto? Non ci sarebbe cascata neanche Miranda. Speravo che il primo giorno che aveva bussato alla mia porta, non avesse notato le cornici, ma in caso contrario, non ne aveva mai fatto cenno.
Quel giorno, dopo uno scambio di messaggi con i miei genitori che mi avevano decisamente messa di cattivo umore, decisi di andare io stessa a bussare alla sua porta.
- Violet! – esclamò raggiante come al solito.
- Ciao, ti disturbo? – domandai titubante.
- No,no figurati! Entra, su… tanto stavo per prendermi una pausa, oggi la mia vena artistica sembra ostruita… - la osservai meglio e solo allora mi accorsi che era completamente sporca di vernice. Alcune macchie sembravano più vecchie, altre invece erano decisamente fresche. La mia vicina di casa era una pittrice?
La seguii all'interno e rimasi a bocca aperta rendendomi conto che più che dentro una casa, sembrava di essere in un atelier. Le pareti erano tappezzate da quadri di diverse misure, mentre il resto della casa era affollato da tele dipinte e non, appoggiate in ogni angolo. Su un cavalletto al centro della stanza invece c'era il quadro a cui evidentemente Miranda si stava dedicando quel giorno.
- Wow! Sei una pittrice… - ero sinceramente colpita.
- Puoi dirlo forte! Li vedi tutti questi quadri? – mi chiese indicandomeli con una mano – Non ho neanche mai provato a venderli. Io dipingo per me stessa, mica per gli altri…ed è questo che secondo fa di me una pittrice - Sorrisi alla sua risposta. Era bello che lei si considerasse una vera pittrice nonostante i suoi quadri non fossero famosi. Io faticavo ancora oggi a considerarmi una scrittrice, eppure la situazione mia e di Miranda non era poi così diversa. Entrambe producevamo una forma d'arte, solo che lei usava i colori e i pennelli, mentre io usavo le parole e la tastiera di un computer.
- A cosa stai lavorando? – domandai avvicinandomi alla tela.
- Oh, è una sorpresa! – esclamò. – Parlo dei miei quadri solo una volta finiti – ero davvero curiosa di sapere cosa stesse dipingendo, ma già da ora riuscivo ad immaginare un paesaggio roccioso, realizzato usando soprattutto colori freddi. Mi chiesi se si trattasse di Woodthon oppure di un altro luogo, magari immaginario. Anche la pittura in fondo, come la scrittura, poteva essere un mezzo per creare nuovi mondi, di solito migliori del nostro.
Mi riscossi quando sentii il peso dello sguardo di Miranda su di me. La guardai leggermente a disagio.
- Che c’è? – le chiesi dubbiosa.
- Il tuo viso – mi rispose lei sospirando. Istintivamente mi accarezzai il volto con una mano. Cosa aveva il mio viso che non andava? – Per la prima volta dopo tanti anni, mi ha fatto tornare la voglia di realizzare un ritratto… - Oh. Sentii le mie guance infuocarsi.
- Non arrossire! – mi rimproverò Miranda. – Quando si ha un viso così bello non si può non sapere di averlo. Saresti cieca altrimenti, e dubito fortemente che quegli occhi argentati ti impediscano di vedere quanto sei bella – dire che ero rimasta senza parole era ben poco. Miranda aveva ragione, sapevo di avere un aspetto gradevole, ero abituata a ricevere complimenti, eppure il modo in cui si era espressa la mia vicina di casa mi aveva provocato delle sensazioni nuove. Anche se si era riferita al mio aspetto estetico, mi aveva fatta sentire bella anche dentro, e questo non mi succedeva da un po’.
- Vuoi che posi per te? – lo chiesi senza neanche pensarci. Non avevo mai posato per nessuno, e nessuno mi aveva mai ritratta, neanche gli artisti di strada. Ero stata tentata più volte di farmi ritrarre, ma stare immobile davanti a uno sconosciuto, magari con le persone che si fermavano ad osservarti, era troppo imbarazzante. Con Miranda però credevo che ci sarei riuscita.
- Lo faresti? – i suoi occhi si erano illuminati di una luce nuova ed anche se avessi voluto non avrei più potuto tirarmi indietro. Annuii timidamente e lei si precipitò davanti al cavalletto sostituendo la tela a cui stava lavorando con una del tutto nuova.
- E il tuo quadro? – domandai.
- Oh non importa, posso sempre continuarlo in un altro momento… - Miranda mi guidò in un angolo della sua casa, in cui stranamente le pareti erano rimaste vuote. Mi fece accomodare su un divanetto con alle spalle una grande vetrata che dava sul cortile all’entrata della casa, poi mi sistemò i lunghi capelli castani su una spalla e si posizionò davanti alla tela.
- Perfetto, perfetto…tu guarda verso di me, ma se ti stanchi dimmelo, va bene? – annuii e cercando di mantenere la posizione che mi aveva assegnato Miranda, provai a mettermi il più comoda possibile. Chissà per quanto tempo sarei dovuta rimanere così…
Miranda passava con precisione il pennello sulla tela, alternando grandi passate a tratti più brevi nei punti che immaginai richiedessero più precisione. Ero tremendamente curiosa di vedere come stesse venendo il mio ritratto, ma sapevo che la mia vicina non me lo avrebbe mostrato finché non fosse stato ultimato.
Di tanto in tanto mi muovevo leggermente, giusto per stirare i muscoli, ma quando Miranda mi chiedeva se ero stanca, rispondevo di no.
Ad un certo punto sentii qualcuno girare le chiavi nella serratura della porta. Mi irrigidii all’istante. Chi poteva essere? Miranda non mi aveva mai parlato di un marito o dei figli, ma pensandoci bene non voleva dire per forza che vivesse da sola. Lei tuttavia sembrò non farci caso, e mi chiesi se non avesse problemi di udito. Poi fece un nome…
- Max! – chiamò. – Vieni qui, voglio mostrarti una cosa – il cuore iniziò a battermi più velocemente. Fa che non sia quel Max. Fa che non sia quel Max. Sperai con tutta me stessa che le mie preghiere venissero esaudite, ma ovviamente non fu così. Forse sarei dovuta andare più spesso in chiesa. Entrò nella sala da pranzo camminando lentamente e dando a entrambi il tempo di squadrarci a vicenda. Il suo sguardo sicuro vacillò leggermente alla mia vista mentre i suoi passi rallentarono ulteriormente. Era completamente vestito di nero, fatta eccezione per la t-shirt bianca che indossava sotto la giacca di pelle. Che ci faceva qui? Non potei fare a meno di chiedermi. Sperai che non fosse imparentato in alcun modo con Miranda, e questa come se mi avesse letto nel pensiero, mi spiegò il motivo della sua presenza in casa.
- Violet, ti presento Maxwell Sinclair – deglutii continuando a sostenere il suo sguardo – Ogni tanto o lui o sua sorella vengono qui a portarmi un po’ di cose. Io ormai sono troppo vecchia per andare in giro a Woodthon – e così il barista musone era in realtà un buon samaritano. Miranda gli aveva appena rovinato la reputazione.
- Max, hai già conosciuto Violet? – non mi sfuggì l’occhiolino che gli rivolse Miranda. Oh mio Dio! Sentii le guance ritornarmi improvvisamente rosse.
- Sì, ci siamo già conosciuti – per quanto si sforzasse di non darlo a vedere, ero sicura che la sua voce avesse tremato impercettibilmente. Quindi non ero l’unica in imbarazzo…
- Guarda – continuò la mia vicina indicando prima il quadro e poi me – ha un viso così perfetto che mi ha fatto tornare la voglia di fare autoritratti. Non trovi anche tu che sia perfetta? – Oddio, questo era troppo.
- Devo andare – saltai in piedi senza dare il tempo a Max di rispondere – mi sono appena ricordata di dover fare una cosa – Non avrei potuto essere più vaga. Pensai dandomi mentalmente della cretina.
- Il ritratto lo continuiamo un altro giorno, ok? – salutai con un gesto della mano e mi precipitai fuori da quella casa. Avevo appena vissuto uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita. Come avrebbe detto Asher, la mia vicina di casa mi shippava con Max! Con che coraggio adesso avrei rimesso piede dentro al suo locale? E se tornando da Miranda me lo fossi trovato nuovamente lì davanti? Che situazione imbarazzante!
- Violet, aspetta! – mi pietrificai sul posto. Che cavolo voleva adesso quel musone? Mi voltai con calma inspirando profondamente. Rimasi ad aspettare che mi raggiungesse senza proferire una parola. Se mi aveva chiamata era lui quello con qualcosa da dirmi, no? Incrociai le braccia davanti al petto e lo guardai tenendo un sopracciglio alzato.
- Non sapevo che ti avrei trovata qui… - sembrava in difficoltà, ma non importava. Ancora non lo avevo perdonato del tutto per come mi aveva trattata nel suo locale.
- La prossima volta appenderò dei manifesti in giro per Woodthon, così non rischierai di incontrarmi – il suo sguardo si indurì immediatamente. Ok, forse ho esagerato. Pensai mordendomi imbarazzata il labbro.
- Sai, avevo quasi pensato di scusarmi per l’altro giorno, ma ci ho ripensato – mi guardò severamente negli occhi e di nuovo mi sentii come se mi stesse studiando. – La donna che viveva qui prima di te era molto più simpatica – rimasi con la bocca aperta. Ero sul punto di rispondergli, ma poi rimasi in silenzio. Anche lui conosceva mia nonna? O prima di me in questa casa aveva vissuto qualcuno di cui non sapevo l’esistenza?
- Conoscevi Darlene? – chiesi quasi urlando. Ormai il barista musone mi aveva già dato le spalle e camminava allontanandosi da me.
Dopo poco sentii il rombo di una moto che sfrecciava via. Maledizione!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8 

 
Ottavo giorno di esilio a Woodthon.  
Negli ultimi giorni i miei unici contatti sono stati con un'anziana donna di nome Miranda. Fa la pittrice e sta lavorando ad un mio autoritratto. Niente più notizie di Maxwell Sinclair dal nostro ultimo incontro.  
Provo sentimenti contrastanti per questo. Per quanto detesti la sua presenza, vorrei rivederlo. Ho bisogno di sapere se conosceva mia nonna. Magari farò un salto al Sinclair's.  
Per quanto riguarda le indagini sulla mia famiglia ho una buona e una cattiva notizia. La buona è che ho scoperto il nome di mio padre: Ian Harrington.  
La cattiva è che è morto.  
 
-V 

 
Inviai quest’e-mail ad Alison, poi sprofondai sul grande divano che arredava la sala da pranzo sospirando. Avevo iniziato a scriverle in quel modo due giorni fa, e per qualche motivo mi era più facile farlo parlando così. Mi comportavo come se fossi una sorta di prigioniera e questo mi fece sorridere.
 
Da quando avevo scoperto di mio padre, il mondo mi era crollato addosso. Era assurdo, perché neanche lo conoscevo, ma proprio il fatto che ora che avevo scoperto la verità sulle mie origini, non avrei mai potuto conoscere il mio vero padre mi rendeva particolarmente triste. Ovviamente lo avevo scoperto tramite Miranda. Ero nel suo soggiorno, a posare per lei, quando senza che le avessi chiesto niente ha iniziato a parlare di un certo Ian.  
- A pensarci bene – aveva detto – è stata l’ultima persona a cui ho fatto un ritratto prima del tuo arrivo… - avevo iniziato ad incuriosirmi, così le avevo chiesto chi fosse quest'uomo. 
- Oh, era il figlio di Darlene, la donna che abitava lì prima di te – lo aveva detto con nonchalance, perché naturalmente non aveva idea del mio interesse. Avevo cercato di non far trasparire emozioni dal mio viso, dal momento che per fare il mio autoritratto aveva bisogno di osservarmi molto. Tuttavia ero certa che nella mia espressione qualcosa fosse cambiato. Miranda non ci fece troppo caso, mi ricordò soltanto di tenere la testa alzata e lo sguardo fermo, rivolto verso di lei.  
-Era?- domandai con la voce tremante. 
-Povera anima – mi rispose l'anziana pittrice senza arrestare i movimenti della sua mano. Avevo notato che quando dipingeva sembrava cadere in una sorta di trance. - è morto quando era ancora troppo giovane. Un incidente d'auto... poi mi dicono perché non guido – Miranda scosse la testa, presa da chissà quale considerazione su quanto fosse prudente o meno portare la macchina. Non so perché decisi di rimanere lì a posare. Pensandoci bene, alla vista di Maxwell Sinclair ero scappata, mentre quando avevo scoperto che mio padre era morto ero rimasta lì, come una statua di cera.  
Ripensando a quel momento, mi chiesi cosa intendesse Miranda per "troppo giovane". La mia tesi su dei genitori troppo giovani e una ragazza madre che non poteva tenermi con se si avvalorava o erano solo coincidenze? 
Mi lasciai sfuggire una risata amara e mi dissi che probabilmente quella cittadina mi stava facendo impazzire. Avevo bisogno di un assaggio di vita Newyorkese, e quale modo migliore di farmi stressare da Claire? 
Da quando ero arrivata a Woodthon avevo palesemente ignorato ogni sua e-mail, ma forse era arrivato il momento di risponderle. In alcune chiedeva ovviamente se avessi fatto progressi con il libro, mentre in altre semplicemente mi sbraitava contro perché ero sparita. Inutile dire che non avevo scritto neanche mezza riga del romanzo che voleva lei, tuttavia decisi di mentire e farle credere che prima di iniziare a scrivere qualcosa stavo raccogliendo le idee. La verità era che non ne avevo neanche una. Schiacciai sul tasto “invia” e spedii l’e-mail. In quel momento mi resi conto che non avevo la più pallida idea di che giorno fosse. Stare lì mi aveva fatto perdere completamente la cognizione del tempo.  Eravamo in mezzo alla settimana, o nel weekend? Mi sono proprio ridotta male. Pensai. A New York era praticamente impossibile perdere la cognizione del tempo. La vita lì era talmente frenetica che era impossibile perdersi come succedeva qui a Woodthon. Controllai il giorno e l’ora sul computer. Erano le cinque del pomeriggio di un banalissimo Giovedì, e questo voleva dire che Claire era ancora nel pieno della sua attività nella grande mela. La conferma non tardò ad arrivare, infatti pochi minuti dopo il mio telefono prese a squillare e sullo schermo comparve la faccia perennemente angosciata della mia agente. Come faceva quella donna a vivere sempre con quell’ansia addosso? Sospettavo che prima o poi le sarebbe venuto un infarto. 
- Ciao Claire – risposi svogliatamente. 
- Chi non muore si rivede, eh? – ignorai la sua provocazione e lasciai che si sfogasse con me. O meglio, contro di me. 
- Ti sembra il modo di comportarti? Insomma, mi mandi una e-mail con quattro parole in croce e poi mi ignori per tutta la settimana seguente. Pensi che io mi diverta a non sapere che fine fanno i miei autori? Guarda che non sei l’unica sotto pressione… - aveva parlato senza prendere mai fiato e mi chiesi come diavolo facesse.  
- Mi dispiace, Claire – dissi. – Non volevo metterti in una brutta posizione, ma avevo bisogno di staccare un po’ la spina –  
- È successo qualcosa, Violet? – il suo tono si era addolcito e per quanto la maggior parte delle volte Claire sembrasse più un robot che un essere umano, sapeva essere comprensiva anche lei. 
- A dir la verità sì, sono successe un bel po’ di cose, ma non ti preoccupare. Sto bene… - queste ultime due parole erano uscite dalla mia bocca senza che me ne accorgessi, ma mi fecero riflettere. Avevo passato gli ultimi tempi a crogiolarmi e autocommiserarmi, ma a pensarci bene, non stavo così male. Sì, certo, la mia vita rimaneva un enorme punto interrogativo, ma c’erano ancora delle cose belle a cui potevo aggrapparmi. Una era sicuramente la scrittura, l’altra erano i miei amici, e poi… e poi c’erano i miei genitori: Darren e Rebecca Tilton. Improvvisamente mi sentii in colpa verso di loro. Mi ero comportata male. Lì per lì mi ero attaccata al fatto che mi avessero nascosto la verità per tanti anni, ma non mi ero soffermata a pensare che in ogni caso loro erano stati dei bravissimi genitori. Certo, anche noi avevamo avuto i nostri alti e bassi, ma non mi avevano mai fatto mancare niente. Anzi, forse con me si erano impegnati ad essere dei genitori ancora migliori di quanto non lo sarebbero stati con la loro vera figlia, proprio perché io in realtà non lo ero, non secondo i nostri DNA. Sorrisi amaramente e decisi che si meritavano il mio perdono.  
- Claire? – dissi dopo qualche secondo di silenzio. 
- Si? – probabilmente la mia agente credeva che fossi una squilibrata. 
- Ti dispiace se ci risentiamo in un altro momento? Devo fare una telefonata importante –  
- Certo, ma questa volta non sparire! – le diedi la mia parola, poi riattaccammo. 
 
Mentre componevo il numero di mia madre, mi accorsi di quanto mi fosse mancato parlare con lei. Avevamo sempre avuto un buon rapporto, e avevo sempre pensato che fosse perché in realtà eravamo molto simili. Il che era strano visto che la maggior parte delle mie amiche al liceo si lamentavano di avere una madre che non le capiva. In genere noi figlie femmine tendevamo ad essere più legate a nostro padre e ad avere un rapporto conflittuale con le nostre madri. Per me non era del tutto così. Ero stata abbastanza fortunata da avere un ottimo rapporto con entrambi i miei genitori, ma ovviamente riuscivo a confidarmi e parlare di più con mia madre. Adesso era strano pensare che tutto ciò non dipendesse da un legame genetico, ma fosse più probabilmente solo fortuna.  
 
Il telefono non squillò a lungo prima di sentire la voce di mia madre. Immaginai che stesse sempre attaccata al telefono in attesa di una mia chiamata e questo mi fece sentire ancora più in colpa. Ma forse mi stavo dando troppa importanza. Avevo paura che fosse arrabbiata con me, invece iniziammo a parlare come se nulla fosse successo. Mi scusai per il mio comportamento, anche se lei sosteneva che non avessi bisogno di farlo, e poi parlammo ancora una volta di quello che mi avevano già raccontato, solo con più calma.  
A quanto pareva, i miei non riuscivano ad avere figli. Erano in lista d’attesa per un’adozione, ed ormai avevano quasi perso le speranze finché non ricevettero una chiamata in cui gli veniva detto che c’era una bambina di quattro anni di cui nessuno poteva occuparsi.  
- L’assistente sociale ti portò da noi e ci disse che se ti volevamo avremmo dovuto firmare un accordo di riservatezza che ci impediva di dirti la verità sulla tua adozione. Io e tuo padre all’inizio eravamo perplessi, ma tu eri così indifesa e bellissima, che ci innamorammo subito di te – mentre mia madre parlava scoppiai a piangere. Lei per qualche motivo questa volta riuscì a non farlo.  
- Pensavamo che sarebbe stato complicato per te accettarci come nuova famiglia, ma a quel punto l’assistente sociale ci prese da parte e ci fece una rivelazione –  
- Che rivelazione? – chiesi allarmata mentre cercavo di interrompere le lacrime. 
- Tu… avevi perso la memoria. Non ci disse con precisione cosa ti fosse successo, solo che avevi subito un forte trauma e non ricordavi più niente – ecco la spiegazione che stavo aspettando. Ecco perché nonostante fossi stata adottata a quattro anni non ricordassi assolutamente nulla della mia vita precedente. Diventava tutto sempre più complicato. Proprio quando pensavo di aver accettato la cosa, allora ecco che arrivava un’altra rivelazione sconvolgente. 
- Violet? – vedendo che non rispondevo, mia madre si preoccupò. 
- Sì, ci sono. Io… stavo assimilando la notizia. Insomma, sospettavo ci fosse qualcosa che ancora non sapevo, una spiegazione al mio non ricordare niente, ma… - lasciai la frase in sospeso, non sapevo come continuare.  
- Mi dispiace, tesoro. C’è un’altra cosa però che devi sapere… - inspirai lentamente cercando di prepararmi alla prossima bomba che avrebbe sganciato mia madre. – Nell’accordo c’era un’altra clausola. A quanto pare tua nonna, voleva che approfittassimo della tua situazione per far finta di essere i tuoi genitori, di esserlo sempre stati –  
- Non capisco… - ero confusa. – Perché ha voluto che vi spacciaste per i miei genitori senza dirmi mai la verità e poi proprio lei ha voluto che scoprissi tutto? –  
- Vorremmo saperlo anche noi – apprezzai la sincerità di mia madre. Non doveva essere stato facile neanche per loro. Se Derren e Rebecca Tilton erano le brave persone che conoscevo, essere stati costretti a mentirmi per tutti questi anni, per poi scoprire che era stato tutto inutile, doveva essere stato davvero un brutto colpo.  
- Mamma – continuai poi – Il posto in cui mi trovo si chiama Woodthon. Ho sbagliato a non dirvelo prima e se volete potete venire a trovarmi – avevo cambiato discorso perché dentro di me sapevo che mia madre non aveva altre informazioni utili da darmi. Tutto quello che sapeva me lo aveva sicuramente già detto.  
- Grazie, tesoro. Io e tuo padre tuttavia crediamo che in questo momento per te sia meglio restare un po’ di tempo da sola. Hai bisogno di scoprire la tua storia, da dove vieni, e devi farlo tu. Noi ti saremmo solo d’intralcio… - tentai di ribattere, ma mia madre fu irremovibile.  
Alla fine tra un singhiozzo e l’altro ci salutammo, con la promessa che d’ora in poi li avrei aggiornati ad ogni mia scoperta. Tuttavia preferii non dirle per il momento che il mio vero padre era morto.  
Chiusa la conversazione, rimasi a guardarmi intorno spaesata. Rivivere la conversazione con Miranda, parlare con Claire e poi con mia madre mi aveva disorientata. Era come se mi fossi divisa in tre persone diverse: Violet Tilton, la ragazza con la famiglia perfetta; la scrittrice famosa in mezzo mondo e Violet Harrington, la ragazza che non sapeva da dove veniva né dove stava andando. Beh, quantomeno non a lungo termine. Dove sarei andata di lì a qualche minuto lo sapevo bene. Avevo tutta l'intenzione di rifugiarmi al Sinclair's. Oddio, il fatto che lo avessi definito rifugio, era alquanto strano. Un rifugio era un posto in cui ti sentivi al sicuro, no? Ma era anche un posto in cui potersi nascondere quando volevi scappare da qualcosa o qualcuno. Certo, quello non era esattamente il caso del Sinclair's dal momento che il barista non era esattamente tra le persone che avrei voluto vedere in quel momento, ma se avevo imparato qualcosa in quei giorni era che non si poteva avere tutto dalla vita.  
Mentre mi preparavo, ripassai mentalmente quello che avevo scoperto stando a Woodthon: 
1) Il mio vero cognome era Harrington; 
2) Mio padre (Ian Harrington) era morto in un incidente d'auto quando era troppo giovane; 
3) In casa di mia nonna c'erano foto sue, di mio nonno e di suo figlio, ma neanche una mia o di mia madre. Questo creava un alone di mistero che andava spazzato via al più presto; 
4) Beh, il quattro era ancora un "Ci sto lavorando" o "ho bisogno di più informazioni". 
Come ho fatto a ritrovarmi in questo casino? Questa era l'unica domanda che riuscivo a farmi costantemente. Per quanto mi dicessi che stavo bene, avevo bisogno di non pensare, andare al Sinclair's era la soluzione migliore in quel momento. Uscii e montai sulla mia macchina provvisoria. In pochi minuti mi ritrovai davanti al locale. Ecco, questa era una delle cose positive di vivere a Woodthon: eri sicuro di non trovare mai traffico.    
                                                                                                                            
Al bancone trovai Max, intento a servire drink in un locale che ancora non era molto pieno. Tuttavia poco mi importava che quello non fosse l’orario più adatto a bere alcolici. Almeno non per una che non ci era abituata.  
Mi sedetti davanti a lui, e lo fissai. Lui ricambiò lo sguardo, ma non mi sfuggì il modo in cui mi guardò. Probabilmente aveva capito che c’era qualcosa che non andava in me. Il come lo avesse capito era un'altra storia. Tuttavia non mi disse o chiese niente. Si limitò a fare il suo lavoro, e per la prima volta apprezzai il suo essere un musone.  
- Cosa ti porto? – mi chiese semplicemente. 
- La cosa più forte che hai -. 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

Vi è mai capitato di avere un mal di testa talmente forte da percepirlo anche durante il sonno? Ecco, a me sì. Avevo sperato fosse solo frutto di un sogno, e invece no. La testa mi faceva così male che non riuscivo neanche rigirarmi nel letto. Che tra l’altro sembrava più duro del solido, ma probabilmente era solo un effetto collaterale del mal di testa.
Quand’era stata l’ultima volta che mi ero ridotta così? Ah, sì. Al liceo. Dopo quell’esperienza avevo giurato che non mi sarei mai più risvegliata in queste condizioni, e invece eccomi qua. Reduce da una sbronza, con un mal di testa insopportabile. Cercai di ricordare cosa avessi fatto la sera precedente, ma i miei ricordi finivano più o meno due drink dopo essere arrivata al Sinclair’s. Perché quel musone aveva lasciato che mi riducessi così? Ma infondo lui faceva solo il suo lavoro, che motivo aveva per preoccuparsi di me? Ero una cliente qualunque. Anzi, magari ci aveva pure preso gusto ad osservarmi mentre mi mettevo in ridicolo. Perché sicuramente mi ero messa in ridicolo.
Mi stiracchiai e lentamente aprii gli occhi. Un momento! Non appena lo feci mi accorsi subito che qualcosa non andava. Ero reduce da una sbronza, sì, ma non ero arrivata al punto di non riconoscere casa mia. Beh, casa di mia nonna. Dove diavolo ero finita?
Il mio primo istinto fu quello di controllare se avessi ancora i vestiti addosso. Bene, c’erano. Il che voleva dire che quantomeno non ero andata a letto con qualche sconosciuto, e dubitavo che in caso contrario si fosse preso la briga di rivestirmi. Adesso rimaneva da capire dove fossi. Dal colore delle pareti e dall’arredamento non c’erano dubbi che si trattasse della stanza di un ragazzo. Chi si sarebbe mai preso il disturbo però di accogliermi ubriaca in casa sua senza avere niente in cambio? Uno sconosciuto mi sembrava alquanto improbabile, perciò, se si trattava di qualcuno che invece conoscevo il campo si ristringeva di molto. Le persone che avevo conosciuto a Woodthon si contavano sulle dita di una mano, e se a queste sottraevo coloro che sicuramente non frequentavano il Sinclair’s mi rimanevano solo tre opzioni.
Il primo a cui pensai fu Bryan. Era stato fin da subito il più gentile nei miei confronti, perciò se c’era una persona disposta a portarsi a casa una specie di zombie, quello doveva essere lui. Poi però mi ricordai della battuta fatta da Eddy. Bryan aveva una fidanzata e da quanto avevo capito anche molto gelosa. Quindi non mi restava che escluderlo e passare alla mia seconda opzione: Eddy. Era simpatico e mi dava anche l’impressione di essere uno che non perdeva tempo con le ragazze, tuttavia avevamo scambiato si e no qualche parola, perciò, a meno che non fosse stato il suo amico a costringerlo a portarmi con se, neanche questa opzione mi sembrava valida.
A questo punto mi rimaneva solo un’opzione: Maxwell Sinclair.
No, no, no no. Oddio no! Nell’esatto momento in cui il mio cervello aveva preso in considerazione quella possibilità, era automaticamente andato nel pallone. Reset. Game over.
Iniziai a prendere in considerazione il fuggire dalla finestra. Insomma, magari sarei risultata maleducata, ma al diavolo! Non avevo nessuna intenzione di affrontare Maxwell Sinclair, farmi fare la radiografia dal suo sguardo e magari beccarmi pure una ramanzina. No, grazie.
In quel momento però cominciai a sentire delle voci. Una soprattutto, femminile, riuscivo a sentirla distintamente.
- E dai Max, devo solo prendere il carica batterie che ho lasciato in camera tua! – Accidenti! Pensai. Di chiunque si trattasse, stava venendo qui.
- Ti ho detto che non puoi entrare ora – ecco, burbero come sempre. Non avevo più alcun dubbio di essere in casa di quel barista musone. Tuttavia una volta tanto ero d’accordo con lui. L’idea di uscire dalla finestra diventava sempre più allettante. Mi avvicinai al davanzale e l’aprii. Fantastico! Non avevo pensato che potessi essere al secondo piano.
- Oh, avanti Maxy! Mi serve! – Maxy? Chi era che lo chiamava così? Una fidanzata? Mi sembrava strano. Se io fossi stata la sua fidanzata e lui mi avesse impedito di entrare nella sua camera mi sarei imbestialita, altro che Maxy!
Poi i passi diventarono più veloci e più vicini e prima che Maxwell Sinclair potesse dire o fare qualcosa, la porta si aprì. Io rimasi imbambolata ancora in parte affacciata alla finestra, e la ragazza di fronte a me fece altrettanto, rimanendo a fissarmi. Ci riprendemmo nello stesso momento.
- Violet? –
- Mary? – ero sorpresa di essermi ricordata il suo nome.
- Voi due vi conoscete? – sulla porta era comparso Max che ci osservava con uno sguardo dubbioso. – Che stai facendo? – mi domandò poi vedendomi alla finestra.
- Volevo suicidarmi – replicai ironicamente guadagnandomi una sua occhiataccia.
- Oh mio Dio! – esclamò a quel punto Mary che ovviamente non aveva prestato attenzione al nostro breve scambio di battute e continuava a fissarmi come se avesse appena visto un fantasma.
- Mio fratello esce con la mia scrittrice preferita! –
- Scrittrice? –
- Fratello? – domandammo in contemporanea.
- Devo subito raccontarlo ad Ivy! Chissà come mi invidierà! –
- NO! – urlammo insieme io e Maxwell. Mary si girò a guardarci come se avessimo appena fatto chissà che cosa.
- Ooook – disse. – Niente Ivy, ma posso sapere almeno che succede? –
- Niente, non succede niente – rispose brusco suo fratello. Lo guardai aggrottando le sopracciglia. Se pensava che rispondendo in modo brusco sarebbe riuscito a frenare la curiosità di una diciassettenne, si sbagliava di grosso.
- Ieri sera ho bevuto un po’ troppo, così tuo fratello mi ha gentilmente scortata fin qui –
- E non poteva scortarti a casa tua? – Mary ci osservava tenendo le braccia conserte, come se fosse una poliziotta.
- Ho perso le chiavi al locale – suo fratello aveva assunto la stessa posa, ma la sua espressione era più un “voglio proprio vedere cosa ti inventi”.
- Ed ora come farai ad aprire la porta di casa tua? – Oddio. Quando l’avevo incontrata per strada sembrava più simpatica.
- La mia vicina di casa ne ha una copia, ma ieri sera era troppo tardi per andarla a disturbare – Mary mi osservò qualche secondo poi decise di smetterla con l’interrogatorio. Quasi sicuramente ancora era convinta che io e suo fratello andassimo a letto insieme o qualcosa del genere, ma decise di lasciarci perdere o più probabilmente di farci credere che se la fosse bevuta. Qualcosa del tipo: “Poveri scemi. Farò finta di avergli creduto, ma mica me la sono bevuta. Ormai ho diciassette anni!”.
- Beh, direi che adesso posso prendere il mio caricabatterie. Però Violet, ti ricordo che hai promesso di autografarmi il libro, e visto che ora non ce l’ho qui dovremo rivederci – feci per risponderle, ma lei non me ne diede il tempo, passando a parlare con il fratello – Dirò alla mamma di organizzare qualcosa. Ciaoooo – la ragazzina schizzò via appena recuperato quel dannatissimo caricabatterie, lasciando me e quel musone di suo fratello senza parole e in pieno imbarazzo.
- Ehm – dissi schiarendomi la voce – cosa intendeva esattamente con “dirò alla mamma di organizzare qualcosa”? –
- Niente di piacevole, sicuramente. Ma in ogni caso non sei obbligata a venire – annuii abbassando la testa. Avrei voluto chiedergli cosa fosse successo la sera precedente, come ero finita lì, se avevo detto o fatto qualcosa di imbarazzante, invece non dissi nulla.
- Mi dispiace per mia sorella – alzai lo sguardo - Sa essere una rompiscatole a volte –
- Figurati – risposi -  Almeno lei non da perennemente l’impressione che le sia appena morto il gatto – lo presi in giro.
- Non mi piacciono i gatti – sul suo viso era spuntato un accenno di sorriso.
- Ma dai, chi lo avrebbe mai detto – risposi ironicamente. Lui mi guardò alzando un sopracciglio.
- Ti davo l’impressione di essere uno a cui piacciono i gatti? –
- No, per niente. È proprio questo il punto. A me piacciono i gatti, e parecchio anche. A te no – gli spiegai. – Chissà quante cose non abbiamo in comune Maxwell Sinclair – lui scosse la testa.
- Meno di quante immagini  -

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
 
Maxwell Sinclair era un mistero. Quando pensavo di essermi fatta un'idea sul suo conto, eccolo che mi spiazzava. In realtà questo mi dava sui nervi. Non poteva essere semplicemente il barista musone che avevo conosciuto il primo giorno? Detestarlo sarebbe stato molto più facile. Invece adesso mi ritrovavo a interrogarmi, contro la mia volontà sia chiaro, su chi fosse realmente. Il barista musone o il ragazzo premuroso che si portava una quasi sconosciuta a casa perché ubriaca e non in grado di guidare? E poi si aggiungeva la sorella. Magari era anche un bravo fratello. Sospirai senza rendermene conto attirando la sua attenzione.
- Che c'è? - mi chiese. Oh, niente. Pensai. Mi sto solo rendendo conto di quanto la tua doppia personalità ti renda incredibilmente affascinante.
- La mia macchina - invece dissi.
- La tua macchina cosa? - mi domandò lui guardandomi con l'immancabile sopracciglio alzato.
- Perché è qui? - di nuovo la stessa espressione.
- Avrei dovuto far salire in moto una che non riusciva neanche a starsene in piedi? - Ecco. Mi dissi. Se tu hai pensato che lui fosse incredibilmente affascinante, lui sicuramente pensa che sei incredibilmente stupida.
Preferii non rispondere e salii dal lato del guidatore. Maxwell Sinclair salì dall’altro lato e non potei fare a meno di guardarlo interrogativamente.
- Mi serve un passaggio al Sinclair's. Ho lasciato lì la mia moto - Giusto. Restammo in silenzio per il resto del tragitto, finché non iniziai a intravedere il parcheggio del Sinclair's.
- Allora - dissi schiarendomi la voce - che cosa ho combinato ieri sera? - Max si limitò ad alzare le spalle continuando a guardare fisso davanti a sé.
- Niente scenate imbarazzanti per le quali prendermi in giro per il resto della mia vita? - Questa volta mi guardò con i suoi penetranti occhi neri.
- Vedo gente ubriaca tutti i giorni, Violet. Ormai non mi sorprende più niente...- annuii accennando un finto sorriso. Avrei dovuto essere sollevata dal fatto che non ci fosse niente che valesse la pena ricordare nel mio comportamento, eppure ero quasi arrabbiata. Neanche da ubriaca riuscivo a catturare l'attenzione di Maxwell Sinclair. Oddio, ma che mi prendeva? Per quale diavolo di motivo volevo catturare la sua attenzione? Che diamine me ne importava?
- Però - all'improvviso aveva ripreso a parlare.
- Però cosa? - lo incalzai.
- Però hai nominato spesso un certo Ian - per poco non persi il controllo del volante. Accidenti, avevo fatto il nome di mio padre e speravo di non aver detto altro.
- Ah - dissi solamente. Mentre mi fermavo nel parcheggio del locale, lanciai un'occhiata a Max, tuttavia il suo sguardo era indecifrabile. Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma i muscoli della mia bocca sembravano essersi paralizzati. In fondo che avrei dovuto dirgli? Che Ian era il mio vero padre di cui avevo scoperto l’esistenza da poco? Che era parte del motivo per cui ero andata ad ubriacarmi nel suo locale? No. Non me la sentivo di raccontargli queste cose. In fondo l’unica persona con cui mi ero confidata che non fosse strettamente coinvolta in tutta questa faccenda, era Alison. Non avevo detto niente neanche ad Asher, quindi perché avrei dovuto confidarmi con Maxwell Sinclair?
- Io devo andare – la sua voce era piatta. Non che questa fosse una cosa strana per lui, ma era… come dire? Più piatta del solito, ecco.
- Ok – lo osservai mentre apriva lo sportello e scendeva dalla mia auto. Solo allora mi riscossi e mi dissi che forse avrei dovuto aggiungere qualcosa. – Max – lo chiamai. Lui si voltò a guardarmi e per un attimo mi persi in quel nero così intenso.
- Grazie – dissi semplicemente. Lui annuì, poi si voltò e riprese a camminare verso la sua scintillante moto rigorosamente nera.
Mentre guidavo verso casa, mi resi conto di quanto quel ragazzo mi stesse incasinando la testa. Ero venuta lì per scoprire le mie origini, non per rimorchiare. Mi diedi mentalmente dell’idiota e promisi a me stessa che d’ora in poi non mi sarei fatta distrarre né da Maxwell Sinclair né da nessun altro. Mi stavo facendo tanti problemi per uno che probabilmente neanche mi sopportava e che tutto quello che aveva fatto finora lo aveva fatto solo perché era stato qualcun altro a dirglielo. Questo non voleva dire che lo avrei evitato di proposito o che non avrei mai più rimesso piede nel suo locale, perché andiamo, se non fossi più andata al Sinclair’s che altro mi restava da fare a Woodthon per divagarmi un po’? Però non mi sarei fatta più nessun film mentale e avrei fatto del mio meglio per scacciare ogni pensiero che lo riguardasse.
 
Appena rientrata dentro casa, mi precipitai sotto la doccia e guardandomi allo specchio non potei fare a meno di rimanere inorridita dal mio aspetto. Il mio primo istinto fu pensare “Oh mio Dio, Maxwell Sinclair mi ha vista in questo stato!”, ma poi mi ricordai cosa mi ero ripromessa circa cinque minuti prima di non farmi distrarre da Maxwell Sinclair. Non farti film mentali che comprendano te e lui, e di conseguenza non preoccuparti del tuo aspetto in sua presenza.
Con l’acqua fredda che mi scendeva addosso come alleata, riuscii a liberare la mente da cose futili e concentrarmi su quello che era stato il mio scopo fin dall’inizio. Non avevo così tante informazioni a disposizione, ma da qualche parte dovevo pur iniziare, no? Per fare ciò però avevo bisogno di un piano, e…come diavolo si faceva un piano? Io scrivevo fantasy, mica gialli! Però ne avevo letti un bel po’ e di certo non mi ero fatta mancare qualche bel poliziesco alla tv, così arrivai ad avere due opzioni: setacciare ospedali e stazioni di polizia della zona. Il giorno seguente avrei iniziato le mie indagini. Mi misi al computer e mi appuntai tutti gli indirizzi di ospedali nelle vicinanze. Per quanto riguardava la polizia invece, avrei cominciato dalla centrale della contea di Bradford. Woodthon era una cittadina troppo piccola per avere la sua centrale di polizia o un suo sceriffo, perciò faceva capo a quella di Bradford, che era la più vicina. Speravo solo di trovare persone disposte a darmi una mano nella mia folle ricerca. Magari sarei dovuta andare in uno di quei programmi televisivi dove le persone vanno per ritrovare i loro parenti o come nel mio caso per ricostruire la propria storia. Probabilmente avrei fatto molto prima, ma l’idea in fondo non mi allettava proprio per niente. Quella era la mia storia, il mio mistero, e lo avrei risolto da sola.
 
Mi appoggiai allo schienale della sedia, e rimasi a fissare lo schermo del computer persa nei miei pensieri. Avrei dovuto iniziare a scrivere sul serio qualcosa. Non potevo continuare a prendere in giro Claire, ma con tutto quello che mi girava per la mente come avrei fatto a trovare l’ispirazione e soprattutto la concentrazione necessaria a scrivere? Lasciai cadere la testa sul tavolo in un gesto di disperazione.
Persa nel silenzio di quella casa, non mi rendevo conto del tempo che scorreva intorno a me. Era come se chiusa lì dentro, il tempo per me si fermasse e scorresse solo per gli altri. Il che mi avrebbe fatto davvero comodo in quel momento, ma la suoneria del cellulare mi ricordò che non era così.
Il viso della mia migliore amica era comparso sullo schermo, e il mio primo pensiero fu chiedermi perché ci avesse messo così tanto a contattarmi dalla mia ultima e-mail.
- Ehilà – la salutai in un tono che lasciava intendere un “ce l’hai fatta a chiamarmi”.
- Sì, sì. Le ramanzine lasciamole a dopo – ovviamente Alison aveva già capito tutto – Hai già aperto l’e-mail? – aggrottai le sopracciglia.
- No – le risposi mentre cliccavo sull’icona della posta.
- Beh, sbrigati. Dovresti avere un e-mail di Claire – la mia amica sembrava eccitata, ed il fatto che la sua eccitazione riguardasse un e-mail da parte della mia agente mi metteva leggermente in agitazione. Aggiornai la posta e come prima e-mail comparve proprio quella che la mia amica aspettava con tanta ansia che leggessi.
- Allora? – mi incalzò – C’è? – riuscivo ad immaginarmela saltellare sul posto.
- Sì Ali, c’è. Ora se vuoi darmi il tempo di leggerla… - la mi amica si ammutolì ed io riuscii finalmente a leggerle l’e-mail. Quando arrivai alla fine rimasi per una manciata di secondi pietrificata a fissare lo schermo con gli occhi spalancati, poi mi ripresi e saltai in piedi.
- Oddio! – esclamai mentre dall’altro capo del telefono Alison urlava insieme a me – La Warner Bros vuole comprare i diritti del mio libro per farne un film! – non mi sembrava vero.
- Sì, sì, sì! Non è meraviglioso? Oddio, sono così orgogliosa di te Violet! –
- Grazie, Ali – ero felice di poter condividere con la mia migliore amica quel momento.
- Te lo meriti e poi ci voleva proprio in questo periodo una bella notizia, no? A proposito… mi dispiace tanto per tuo padre. Come stai? – avrei voluto evitare la domanda e limitarmi ad un’alzata di spalle, ma Alison non poteva vedermi, così non avevo altra scelta che rispondere.
- Così e così… mi sarebbe piaciuto conoscerlo, ma non posso farci niente – sentii Alison sospirare. Non era uno di quei sospiri che si fanno quando sei stanco o annoiato, era uno di quei sospiri che si fanno quando sei rassegnato e ti senti anche un po’ inutile.
- Beh – disse – tra una settimana sarai qua e potrai aggiornarmi meglio, ok? – giusto, l’e-mail diceva anche che era previsto un incontro con i rappresentanti della casa di produzione e a seguire una conferenza stampa per annunciare il lieto evento. Questo voleva dire che avevo pochi giorni per continuare le mie indagini qui a Woodthon e che dovevo darmi una mossa. Non sarei rimasta molto tempo a New York, ma in ogni caso avrei fatto meglio ad accelerare i tempi.
- Certo, ti racconterò tutto – promisi – Ah, e salutami Asher – ci salutammo ed io tornai a pianificare le mie tappe del giorno seguente. Mi aspettava una lunga giornata.
 
 
 
 

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