Bicchieri di Sangue

di Angel TR
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** She Devil ***
Capitolo 2: *** Familia ***
Capitolo 3: *** Love Wins All(?) ***



Capitolo 1
*** She Devil ***


Orenda: il potere di cambiare il mondo a dispetto di un destino avverso.


Bicchieri di Sangue

#Reina_SheDevil


Aveva due occhi limpidi come specchi, grandi, contornati da lunghe ciglia da cerbiatta – e, proprio come una cerbiatta, zampettava attorno al ring e, poi, attorno all'avversario, attorno a loro.
Uomini – figli e nipoti di suo padre.
Lei amava profondamente suo padre, così come lui aveva amato lei, e, proprio per quella ragione, le aveva affidato un nome che si addicesse al ruolo che ci si aspettava da lei: Reina, “regina”. Lei amava profondamente suo padre, sì, ma doveva tristemente ammettere che era un uomo e, come tutti gli uomini, aveva dei limiti. Ronzavano come mosche attorno ai cadaveri in decomposizione e, pur di accaparrarsene un pezzettino scarno e poco succoso, si aggredivano frontalmente, sbattendo le sottili antennine. Lei non sarebbe stata così sciocca, piuttosto avrebbe giocato d’astuzia: avrebbe sfruttato il suo aspetto fresco e innocente per ingannare Jin Kazama, Lars Alexandersson e compagnia bella; per Kazuya Mishima aveva tutt'altro piano visto che il primogenito di suo padre era fatto di tutt'altra pasta rispetto agli altri.
Ci sarà da divertirsi.
Lei, a differenza dei suoi parenti maschietti dal sangue annacquato, aveva organizzato fin nei minimi dettagli un progetto. Innanzitutto, anche se suo padre l'aveva istruita per bene, Reina aveva comunque svolto delle ricerche affinché nessun particolare riguardante le sue prede le sfuggisse. In secondo luogo, invece di affrontarli direttamente – procurandosi inutili grattacapi e, in più, lasciando che l'occasione di conoscere meglio i suoi avversari le scivolasse tra le dita –, si sarebbe infiltrata come spia tra le file dei retti e giusti combattenti dell’Operazione Yggdrasil (Il tuo lato nordico si fa sentire, Lars Alexandersson! ) per avvicinarsi sia a Jin Kazama sia a Kazuya Mishima. Bingo, due piccioni in uno.
Dopo la morte di Kazumi Hachijo, in suo padre era esplosa dirompente un'ossessione per il Gene del Diavolo e aveva sognato per anni, aveva lottato per anni contro la sua stessa natura umana, per impossessarsene e potersi finalmente misurare da pari a pari con il suo primogenito e il suo primo nipote. Lei, la sua regina, avrebbe portato a compimento la sua missione, avrebbe soddisfatto il suo desiderio.
«Jin senpai!» La voce dolce, acuta, da perfetta ragazzina liceale incantata dall’allievo maggiore: chi non ci sarebbe cascato? Certamente non Jin Kazama, con quell’aura distante tipica di chi conosce le proprie debolezze e sa che fidarsi è proprio una di quelle.
Il portatore del Gene Devil socchiuse gli occhi, squadrandola. «Come conosci lo stile Mishima?» le chiese, sospettoso.
Reina gli regalò un sorriso umile. «Ah, quelle poche tecniche che a stento riesco a eseguire? Mi lusinghi! Ho solo guardato qualche video su YouTube!» liquidò la faccenda.
I suoi dolci occhioni di un castano liquido si fissarono in quelli di Jin – fiduciosi, innocenti. Per quanto avesse camminato un sentiero impervio e assaggiato le fiamme dell'inferno sulla punta della lingua, Jin restava un Kazama, un sempliciotto di campagna… ergo, avrebbe accettato la sua proposta, fidandosi di quella spiegazione ridicola (insomma, chi mai avrebbe potuto imparare le superbe tecniche Mishima da uno stupido video YouTube!?). E infatti…
Avrebbe potuto batterlo? Sì, certamente. Aveva finto di aver ricevuto un colpo che l'aveva messa KO solo perché aveva ottenuto la risposta alla domanda che l’assillava da quando suo padre le aveva rivelato l'esistenza del sangue benedetto. Dopotutto, il suo obiettivo non era dimostrare la propria superiorità – d'altronde scontata – sul ring: era capire…
Sangue Mishima, sangue Hachijo. Come una qualsiasi persona sana di mente avrebbe potuto pensare che il Gene del Diavolo fosse una maledizione? Quel potere faceva la differenza tra il vivere ai margini della società, soffocati dalla spazzatura, e lo spiccare il volo, librarsi sopra le stupide imposizioni e gli schemi massacranti dove venivano ingabbiati gli esseri umani. Reina si rifiutava di lasciarsi incatenare. D'altronde, suo padre le aveva già posato una corona sulla testa quando era nata. Lei era nata per governare, non per obbedire.
In piedi attorno alla tavola rotonda, circondata da due Mishima e altri personaggi poco rilevanti per i suoi scopi, Reina socchiudeva gli occhi a ogni briciola di informazione che le veniva sbocconcellata. Osservava i due maschi suoi parenti davanti a sé e i suoi occhi brillavano: laddove suo padre aveva solo potuto sognare di sottometterli, lei avrebbe infilato la chiave nella toppa e avrebbe trasformato il sogno in realtà.
Il sangue nelle sue vene era la toppa; la chiave era il fatale raggio demoniaco di Kazuya Mishima.
Il catalizzatore di una trasformazione è sempre la morte.
Reina si sarebbe schierata davanti al demone e avrebbe accolto il suo raggio fatale a braccia aperte. E avrebbe atteso…
Se solo le persone non l'avessero sottovalutata, avrebbe visto le fiamme di un incendio che solo il sangue Mishima poteva promettere scoppiettare ardentemente nei suoi occhi da cerbiatta; e avrebbe capito. Ma nessuno rivolse la propria attenzione alla piccola Reina dal disordinato caschetto con le punte viola, così giovane, così innocente, solo una ragazzina!
Così come nessuno poté solo osare immaginare che qualcuno come lei avesse tenuto testa nientemeno a Kazuya nella sua forma diabolica più pura. Nessuno aveva visto lo spirito folle di Heihachi Mishima in lei – forse solo Jin e Kazuya avevano intuito giusto qualcosina ma si erano presto ricreduti, avevano presto liquidato la faccenda, troppo immersi nella loro guerra personale per rendersi conto di aver fatto i conti senza l'oste, senza la regina.
Il raggio demoniaco spazzò via le forze della Yggdrasil e lei si parò davanti, aprendo le braccia, inspirando a fondo, accogliendo il potere. Ancora una volta, nessuno la vide.
Reina aveva due occhi limpidi come specchi, grandi, contornati da lunghe ciglia da cerbiatta. Ma non lasciatevi ingannare: anche i cerbiatti covano brame innominabili.
E quegli occhi arsero di brama, rossi come il sangue degli uomini.


Mmh, she the devil
She a bad lil’ bitch, she a rebel
She put foot to the pedal
It will take a lot for me to settle
Doja Cat - Paint the town red


N/D: È USCITO!?!!!!!! Posso solo urlare. Avevo intuito tutto ma vederlo sullo schermo è tutt'altra cosa. Finalmente, Bandai Namco, finalmente…
Ovviamente come non amare Reina… lei sfrutta il mondo misogino a suo favore e, con il sangue Mishima misto al gene Devil, ribalta l'ordine delle cose dove Kazumi prima di lei non era riuscita. Ahhh, scriverò qualcosa su di loro!!
Il titolo fa riferimento al modo di dire "Il sangue non è acqua". Ah, i Mishima!
Baci, Angel <3

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Capitolo 2
*** Familia ***


Ratljóst: letteralmente significa “abbastanza luce per poter navigare”/“luce di orientamento” e si estende a significati più ampi come “prendere la giusta direzione”, “seguire la giusta strada” e “sapere dove si sta andando”.

#ClanMishima_Familia


Per diventare adulto, il figlio deve uccidere il padre.
Sigmund Freud, “Il complesso di Edipo”

Mi hanno fatto bene le offese
Lo sai che non porto rancore
Anche se papà mi richiederà di cambiare cognome

Mahmood - Tuta Gold


Heihachi

A casa aveva una moglie giovane e un figlio neonato.
Suo padre, Jinpachi, ormai anziano, aveva fondato un impero: una multinazionale che operava nel settore militare e tecnologico e che aveva da tempo completamente sbaragliato la concorrenza sull'isola. Heihachi, da degno figlio, aveva iniziato a lavorare nell'impresa da giovanissimo, quando aveva volontariamente seguito le impronte del padre decidendo di iscriversi a un corso di studi che potesse formarlo a dovere. Eppure, nonostante il suo impegno costante, Heihachi restava sempre il figlio di suo padre, il sottoposto, il Mishima numero due, schiacciato dalla pressione di una gerarchia che non gli concedeva ascese. Parlarne era vietato, era simbolo di debolezza.
Quando era appena un ragazzino, suo padre gli aveva mostrato una nuova scultura all'interno del lussureggiante giardino di Villa Mishima e gli aveva spiegato: «Quelle due lanterne laggiù sono state costruite dal miglior scalpellino del Giappone». Poi, si era avvicinato e, con un poderoso colpo di mano a taglio, aveva distrutto una delle preziose lanterne. Davanti allo sguardo attonito del figlio, aveva dichiarato: «Questa è una dimostrazione del grande potere dei Mishima: quello di costruire o di distruggere».
La lezione era servita: Heihachi aveva appreso che le chiacchiere erano la lingua dei deboli. Per regnare, per imporre il proprio dominio sugli altri, bisognava usare il pugno di ferro. L'altro lato della medaglia rivelava che, in quel mondo di formalismi eccessivi, inflessibilità, sangue e sudore, bastava poco affinché il ferro si usurasse e qualcun altro prendesse il sopravvento. Un altro Mishima, un Mishima numero due. Ma se ci fosse stato un unico Mishima al mondo, allora quella classifica non avrebbe avuto ragione di esistere: ecco spiegata la solitudine dei numeri primi.
Gli occhi serafici di sua moglie Kazumi l’osservavano girare in tondo per casa come una tigre in gabbia, comunicavano senza parlare; tra le sue braccia pallide, suo figlio riposava tranquillo. Heihachi lo trovava insopportabile: lui avrebbe dovuto ergersi come un pilastro di potenza e successo all'interno della sua famiglia e, invece, loro lo vedevano comportarsi come un suddito, accettando ordini e rimproveri come un ragazzetto qualunque.
«Quando sarà il momento prenderai il mio posto» gli aveva detto una notte, al termine dell'infinita giornata lavorativa, Jinpachi, captando il suo risentimento. Quel momento, tuttavia, non arrivava mai, bensì si stagliava lontano all'orizzonte e a Heihachi pareva di correre verso la pentola d'oro accarezzata dall'ultimo raggio dell'arcobaleno.
I Mishima avevano il potere di creare e distruggere: lui aveva creato una famiglia ma suo padre, con la sua sola presenza, la stava distruggendo. Attraverso la distruzione del figlio, suo padre creava ripetutamente se stesso e il suo impero. E allora qual era più importante: il potere di creare o di distruggere?
Una sera, osservando la tigre regalata a sua moglie leccare suo figlio Kazuya con i baffi ancora sporchi di sangue dopo la caccia, come se fosse il proprio cucciolo, Heihachi si diede una risposta. Anni più tardi, avrebbe dato sempre la stessa risposta.
Distruggendolo per creare se stesso, Heihachi avrebbe dimostrato a suo padre di essere un vero Mishima.


Kazuya

A cinque anni, suo padre lo buttò giù da un dirupo: aveva scoperto che nelle sue vene scorreva lo stesso sangue di sua madre, sangue maledetto, sangue demoniaco. Per un Mishima, non c'era nulla di più importante del potere e, dunque, siccome l'esistenza stessa di Kazuya minava le fondamenta del dominio di suo padre, quest'ultimo aveva preferito eliminarlo quando era ancora una facile faccenda: era solo un cucciolo, non era ancora cresciuto e, dunque, ancora non aveva guadagnato consapevolezza di sé.
Kazuya non aveva mai urlato durante la caduta: il terrore gli aveva serrato la gola.
«Se sei mio figlio, sopravvivrai!» gli aveva sbraitato contro Heihachi, mentre scagliava il suo corpicino giù dalla dirupe.
Sono davvero figlio di mio padre, aveva realizzato con un ghigno Kazuya, anni dopo, davanti al manifesto di un Torneo che vantava come premio il possesso dell’infame Mishima Zaibatsu. Infame come il suo proprietario: si occupava di sviluppare armi e munizioni – un settore già discutibile di per sé – e, in più, si diceva che bazzicasse nel traffico illecito di organi per esperimenti genetici occulti – suo padre sapeva, aveva sempre saputo e bramava il Gene Devil come nessun altro al mondo.
Sbaragliare la concorrenza fu pressappoco un allenamento per Kazuya, nelle cui vene scorreva la benedizione del Diavolo. Solo per due momenti, in tutta la sua vita, la concorrenza tenne testa e mise in difficoltà Kazuya: il primo momento fu da attribuire al pugno di fuoco di uno statunitense. Mai nella vita avrebbe pensato che un egocentrico americano avrebbe potuto reggere i suoi colpi, eppure…
Il secondo momento durò molto più a lungo e gli costò molto di più – ma questa è tutta un'altra storia.
«Sei vivo, allora» constatò suo padre a braccia conserte, nel vederlo.
«E tu sei morto» rispose Kazuya.
Più di vent'anni dopo, Paul Phoenix, lo statunitense dai pugni di fuoco, avrebbe raccontato di quell'incontro al figlio di Kazuya Mishima con queste parole: «Kazuya possedeva una forza sovrumana, diabolica. Ridusse Heihachi in poltiglia. Ma sai, non fu questo a scioccarmi, quanto quello che gli disse. Aveva davanti il corpo privo di sensi di suo padre e prese a inveirgli contro. Sai, non giudico, ci sono davvero dei padri di merda in giro e probabilmente il vecchiaccio se lo meritava, ma fu comunque una scena da brividi.» Agitò una mano per sottolineare il concetto. «Gli disse che gli avrebbe portato via tutto quello che possedeva, compresa la Zaibatsu, e che aveva dimostrato al mondo intero che lui, il grande Heihachi Mishima, non era niente.»
Il povero ragazzo, erede di una famiglia perversa, spalancò gli occhi come due piattini da tè davanti a quella valanga di informazioni. «E poi?» chiese, innocentemente.
Gli occhi dell'americano si velarono. «Kazuya buttò suo padre da una rupe» concluse.
A cinque anni, il figlio era stato buttato giù da una rupe dal padre. A ventisei, il figlio buttò il padre da quella stessa rupe: gli aveva dimostrato di essere un vero Mishima.


Jin

Da bambino, Jin si era chiesto spesso che tipo di persona fosse suo padre. Siccome non conosceva il mondo e, di conseguenza, non era ancora pratico dell'antica arte del “leggere l'aria” – un modo di dire dei giapponesi per indicare la capacità di capire quale fosse il momento giusto per aprire o chiudere la bocca –, aveva rivolto quella curiosità verso la mamma, porgendole spesso la fatidica domanda: «E papà?»
Puntualmente, lei cambiava argomento. Era chiaro: la mamma non aveva piacere di parlare del papà.
«Tu avevi rinnegato lo stile Mishima!»
Jin batté gli occhi.
Adesso non era più un ragazzino e sapeva captare il momento giusto o sbagliato per chiudere o aprire la bocca. Anche la sua curiosità riguardo al padre era stata soddisfatta e adesso capiva perché, a volte, l'ignoranza era una benedizione.
Perché lui, mamma?
Una volta, durante il suo primo Torneo, si era chiesto a chi somigliasse di più tra i due, se era più un Mishima o un Kazama. Per tutta la sua vita, non aveva avuto dubbi: lui era un Kazama, nato e cresciuto sotto la stella degli insegnamenti della mamma. La stessa mamma, però, aveva sganciato su di lui una bomba quando gli aveva ordinato di andare da suo nonno, Heihachi Mishima. E allora Jin si era costantemente chiesto: Come sono?
Era come suo padre Kazuya, altero e superbo, il ghigno crudele a piegargli le labbra sensuali? O aveva ereditato la grazia e la dolcezza di sua madre e chiunque poteva cogliere la sua bontà d'animo? O forse non era che un miscuglio mal assemblato dei due, un pezzo di carne deforme senza alcuna identità che arrancava in un mare di incertezze e sfuggiva allo sguardo altrui per non rivelare il vuoto che aveva dentro e la consapevolezza di non poter trovare il suo posto nel mondo?
Chi era lui?
Prima della morte della mamma, pensava di saperlo: era Jin Kazama. Ma, poi, l'eredità dei Mishima l'aveva privato di quella certezza e lui, per anni, si era sentito solo molto confuso, come se stesse brancolando nel buio alla ricerca della propria identità.
Ma adesso l’ho trovata.
Fu per quello che seppe rispondere a suo padre: «Non rinnegherò più ciò che sono, non rinnegherò più la mia eredità.»
Sono un Kazama ma anche un Mishima. Questo potere serve per proteggere chi mi è caro.
«Voltagabbana; proprio un vero Mishima» commentò il padre, sputando un grumo di sangue sulle rocce bagnate dalla pioggia, prima di scagliarsi su di lui.
Di Mishima al mondo ce ne poteva essere soltanto uno ma, in quel momento, ce n'erano per lo meno tre. Jin avrebbe dovuto soddisfare il desiderio del sangue paterno un'ultima, dolorosa volta affinché la maledizione fosse spezzata; avrebbe dovuto agire da vero Mishima affinché i Mishima fossero liberi una volta per tutte.
Il padre sollevò il pugno per sferrarlo dritto verso il suo volto e il figlio fece altrettanto. E, finalmente, alla fine, il padre cadde – forse solo momentaneamente – e il figlio restò in piedi.


Lars

Solo perché era stato concepito come una sottospecie di esperimento significava forse che non aveva diritto a una vita piena e dignitosa? Lars si rifiutava di accettare una tale visione della sua prima e ultima esistenza. Ora che aveva chiaro il motivo del suo concepimento – suo padre aveva voluto “testare” quale fosse la fonte primaria del Gene Devil, incontrando una donna straniera –, ora che aveva chiaro il motivo della sua innata predisposizione al comando, alle arti marziali, all'essere seguito invece che seguire – il sangue Mishima non poteva mai essere diluito –, Lars aveva intenzione di utilizzare tutte le risorse a sua disposizione per far del bene, per contrastare la stessa famiglia alla quale apparteneva.
Purtroppo per lui, non aveva idea di quale maledizione stesse per calare su di lui nel momento stesso in cui aveva messo piede in Giappone e aveva deciso di approfondire le proprie origini paterne. Sua madre non aveva mai osato obiettare, lasciava che il figlio seguisse il proprio destino.
E suo padre?
A volte Lars guardava Jin e si chiedeva se entrambi avessero nutrito delle speranze nei confronti dell'altra persona che aveva contribuito a metterli al mondo e, da come gli occhi del ragazzo s’incendiavano quando Kazuya veniva nominato, ne deduceva proprio di sì.
Erano stati uguali, una volta – o forse lo erano ancora.
E, proprio perché uguali, le loro innocenti speranze si erano presto ammuffite e, dalla muffa, come uno sciame di moscerini, si era sollevata una nuvola d'odio, tanto odio e tanto disprezzo ma solo perché le loro aspettative erano state disattese: il naturale affetto e amore che ci si aspetta da un genitore spazzato via dal ghigno scaltro e menefreghista di chi vuole mettere alla prova la propria progenie affinché dimostri di essere veramente un Mishima. Quale altra famiglia metteva in atto pratiche del genere?
Lars non lo sapeva.
Non sapeva nemmeno quale demone l'avesse posseduto quando, quella sera di un anno fa, aveva impugnato una pistola e l'aveva puntata alla tempia di suo padre per premere il grilletto.
«Ti ammazzo, bastardo!» aveva urlato, la voce un rombo irriconoscibile, così intrisa di furia, invece che della gentilezza di cui la infondeva normalmente, da suonare aliena persino alle sue orecchie, da far tremare le mura dell'antica Villa Mishima.
Nemmeno il dolce scudo di Alisa – uno scudo che aveva eretto per Lars, per proteggerlo da suo padre e non il contrario, e il vecchio l'aveva capito, per questo aveva sghignazzato – aveva fatto presa su di lui. Aveva premuto il grilletto, aveva sparato il proiettile, eppure…
Aveva fallito. Aveva fallito laddove Kazuya, seppur dopo tre tentativi, era riuscito. E forse proprio per quel motivo la maledizione dei Mishima non si era abbattuta su di lui, come non si era abbattuta su Jin. Entrambi avevano fallito nell’uccidere i propri padri, entrambi avevano scelto, volenti o nolenti, di imboccare la via della redenzione, del cambiamento, della convivenza. Lui aveva, anche se non volontariamente, deciso di convivere con la presenza maligna di suo padre ed era per quella ragione che, insieme a Jin, avrebbe rifondato il clan Mishima, dandogli una direzione diversa.
Avrebbe dimostrato di essere un nuovo Mishima.


Reina

No, qua non troverete strane riflessioni, giri di parole, vaneggiamenti frutto di cervelli lambiccati e stressati, “uccidere il padre” e sciocchezze da maschietti pappamolle del genere.
Io non mi sono mai posta queste domande perché la mia identità non ha mai traballato, non ho mai avuto dubbi e, soprattutto, non ho mai avuto bisogno di uccidere mio padre per affermare me stessa – questa ridicola gara la lascio al cromosoma Y – perché ho convissuto con la sua presenza, guardando alla sua schiena come un traguardo da raggiungere e poi, finalmente, superare affinché lui guardasse la mia, di schiena, con orgoglio.
Io sono me stessa, sono la figlia di mio padre, sono una Mishima ma non una qualunque, sono la loro regina.
E, presto, loro si inchineranno al mio cospetto.


Di un padre e una madre
Dopo che li perderai
Ti guarderò non più da bambino
Mahmood - Stella Cadente


N/D: i Mishima, mia croce e delizia! Girano voci di una possibile story dlc e io sono qui a invocarla ad alta voce!!! Alla fine le nuove generazioni daranno la loro impronta: chi si discosterà completamente dalla tradizione e chi invece la porterà avanti ma con un nuovo twist.
Alcune frasi sono state riprese da altre mie storie per una questione di continuità.
Sono contenta delle recensioni, oddei, finalmente qualcosa si muove in questo fandom! Leggerò anche le altre storie, datemi tempo!
Baci, Angel <3
P. S. Mahmood!

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Capitolo 3
*** Love Wins All(?) ***


Odnoliub: una persona che ha un unico amore nella propria vita


#ClanMishima_LoveDoesn'tWinsAll


저기 멀리 from Earth to Mars
꼭 같이 가줄래?
그곳이 어디든, 오랜 외로움
그 반대말을 찾아서
~
Far away in the universe from Earth to Mars
Will you please go with me?
Wherever it may be, an old loneliness
In search of its antonym


Heihachi/Kazumi

Tua moglie Kazumi possiede due grandi occhi castani che sembrano scavarti nell'anima e vederti davvero, vedere l'uomo dietro lo spietato imprenditore e combattente.
E invece in quel momento erano di un rosso acceso, come il sangue degli uomini.
La guardi, sconvolto, e non la riconosci: ha la pelle bianca come la cera e due ali che paiono respiri di un drago del fuoco. «Kazumi! Che ti succede!?» urli.
In lontananza, quasi una distante litania di sottofondo, senti il pianto disperato di vostro figlio; sembra quasi che si stia sgolando con quei singulti.
Lei – o ciò che n’è rimasto – si libra e sfodera gli artigli mentre si lancia su di te.
Quando l'hai conosciuta, sei rimasto incantato dal suo animo guerriero racchiuso in quel corpo di donna costretta ad abbassare costantemente il capo nel misogino mondo giapponese. E forse la demonessa che si sta lanciando su di te è venuto a riprendersi ciò che le appartiene di diritto.
Eppure proprio tu non le hai mai negato niente.
Ma questa volta devi.
Sollevi la mano per afferrarle il collo esile; il suono delle ossa che si spezzano è assordante…

Speri di riunirti con lei, un giorno.


Lars/Alisa

Il suo viso di bambola, un tempo perfetto, era rovinato. Il lato destro era stato quasi completamente distrutto, rivelando la macchina dietro la donna: lo strato di pelle apparentemente umana, che ricopriva il delicato ed estremamente complesso intreccio di fili elettrici, era stato tirato via come una pellicola e il suo occhio ora brillava di un verde che, se un tempo era stato di un dolce smeraldo, adesso era chiaramente artificiale: troppo brillante, troppo finto, quasi sgradevole.
Alisa, Alisa, Alisa.
Lui, il responsabile di tutto, rivolse uno sguardo apparentemente vuoto e apatico alla scena – ma Lars vi colse la scintilla cinica. «Non dirmi che ti sei innamorato di lei» commentò, accennando un sorriso sghembo canzonatorio.
Le mani dell'uomo si mossero, le ginocchia si trascinarono e Lars si ritrovò a gattonare disperato, in uno stato di trance, verso il robot riverso come una bambola rotta sulle assi polverose del tempio.
«Alisa» la chiamò, in un filo di voce, incredulo. Non poteva essere… morta.
Le macchine non muoiono ma gli uomini sì, e in quel momento Lars sentì il cuore fermarsi nel petto e il respiro mozzarsi e gli occhi rifiutare ciò che vedevano e le mani correre ad afferrare i capelli alle radici per tirarli – disperazione, nera disperazione.

«Riportala in vita» supplicò.
Lee Chaolan gli rivolse un sorriso sfavillante.
«Ma certo, fratellino.»


세상에게서 도망쳐 Run on
나와 저 끝까지 가줘 My lover
나쁜 결말일까 길 잃은 우리 둘
~
Run away from the world, run on
Go to the end with me, my lover
Will it be a bad ending for us two, gone astray


Jin/Xiaoyu

Il cielo a Yakushima era terso e splendente, non una nuvola all'orizzonte. Camminavano fianco a fianco – lei con le mani esili allacciate dietro la schiena, quasi saltellando; lui a passi lenti, godendosi il momento per la prima volta dopo anni. Da quanto tempo non si concedevano una pausa solo per loro?
Chissà… se entrambi avessero potuto leggere nelle loro menti, sarebbero scoppiati a ridere nello scoprire che stavano pensando la stessa cosa?
Spero che questo momento duri per sempre.
Preghiere inutili, se le portò via il vento che iniziava a soffiare su Yakushima.
Xiaoyu tese una mano verso di lui, per un volta presente, tangibile, raggiungibile; per una volta vicino a lei, finalmente, dopo anni di infinite ricerche, anni in cui le sue gambe stanche avevano macinato chilometri a correre dietro di lui, sempre lontano, sempre distante, una figura evanescente.
A volte si era chiesta se lo conoscesse davvero, se l'avesse mai conosciuto sul serio. E se non fosse stato più quello di un tempo? E se quel Jin non fosse mai davvero esistito e fosse solamente frutto della sua immaginazione di ragazza, troppo giovane e sola e delusa dalla vita per poter anche solo concepire l'idea di un altro Jin, uno che non coincidesse con il gentile ma fermo uomo nella sua testa. Ma no, ma no, lui era ancora lì, lui era sempre stato lì, lei aveva solo dovuto portare pazienza…
Ma anche la più bella rosa diventa appassita e nessuno può aspettare tutta la vita, nemmeno Xiaoyu.
«Qui io e mia madre ci allenavamo» ruppe il silenzio Jin, improvvisamente.
Stava parlando da solo, riflettendo su un passato felice, oppure stava tentando di comunicarle qualcosa, nonostante le sue scarse abilità sociali?
Non c'era tempo per lambiccarsi il cervello: persino lei era arrivata al suo limite. Ogni fibra del suo essere sentiva che quello era il momento giusto. Non si tornava indietro.
«A volte uno scambio di colpi può essere rivelatorio» proclamò Xiaoyu, agganciando con fermezza lo sguardo perso di Jin.
Poté vedere i suoi occhi focalizzarsi finalmente su di lei, come se finalmente la vedesse dopo tutto quel tempo in cui era stato quasi assente, quasi inconsapevole della sua presenza. O forse lo era ma aveva deciso di ignorarla per altri motivi.
Xiaoyu era stanca di aspettare il resto del mondo. Ora era il suo turno.
«Già…» mormorò lui, e l'incontro cominciò.
Pugni, calci, parate; di nuovo, daccapo, come ai tempi del liceo, quando il Torneo era un pensiero entusiasmante come un altro, la promessa di tutto ciò che aveva sempre desiderato: un parco gioco tutto suo, Jin al suo fianco.
Lentamente, la tensione sul viso di Jin si attenuò e il cipiglio che gli solcava perennemente la fronte finalmente si appianò; un timido sorriso iniziò a farsi strada sulle sue labbra piene e Xiaoyu osservò quella trasformazione apparentemente banale come fosse il miracolo della vita.
«Pensavo fossi cambiato… e e invece sei ancora il ragazzo che conosco e amo da sempre» confessò.
Trattenne il fiato e persino il mondo lo trattenne con lei. Gli alberi sembrarono fermare il vento dallo scuotere le loro chiome, gli uccellini smisero di cinguettare, il vento di soffiare, l'acqua del lago di scorrere.
Jin non distolse mai lo sguardo dal suo viso e, lentamente, le dedicò un sorriso, uno tutto per lei. E, con esso, la vita sembrò scoppiare tutt'intorno e all'interno dei loro corpi.
Ma la guerra di Jin non era ancora terminata e si sa che, in battaglia, le belle tregue non possono mai durare a lungo.

Persino mentre scivolava in un sonno profondo tenne lo sguardo fisso sul viso di lei, come se l'avesse evitato per troppo tempo e adesso non volesse perderlo di vista nemmeno per un secondo.
«Tornerò, lo giuro» le promise.
E, quella volta, Xiaoyu seppe che avrebbe mantenuto la parola.


Kazuya/Jun

Solo per due momenti, in tutta la sua vita, la concorrenza tenne testa e mise in difficoltà Kazuya: il primo momento fu da attribuire al pugno di fuoco di uno statunitense. Mai nella vita avrebbe pensato che un egocentrico americano avrebbe potuto reggere i suoi colpi, eppure…
Il secondo momento durò molto più a lungo e gli costò molto di più – e questa è la storia di quel momento.
Era una donna misteriosa quella. Si teneva in disparte dalla folla, così lontana, eppure, quando sollevava i suoi occhi su di loro, sui suoi avversari, il suo viso si illuminava di una luce gentile, nonostante fossero suoi concorrenti, ostacoli sulla sua strada. Aveva uno stile preciso e pacato: non sembrava sforzarsi nemmeno per infliggere i colpi più poderosi, mantenendo sempre una calma ultraterrena, immersa nel momento. I suoi occhi scuri da cerbiatta, fissi sull'avversario, ne prendevano le misure in un baleno ma non si riempivano mai di superbia per la facilità con cui riusciva a trovare i suoi punti deboli. A ogni vittoria si inchinava, scambiava due parole con il suo rivale ed egli le rivolgeva lo sguardo di chi era stato benedetto da una dea della bontà. La donna appariva intoccabile, inavvicinabile eppure vicina a chiunque avesse bisogno di aiuto.
E allora perché io, Jun?, si era chiesto tante volte Kazuya, mentre lei lo stringeva forte a sé in un abbraccio così solido da parere voler rimettere a posto tutti i pezzi rotti del suo animo, per ricomporlo, per restituirgli l'essenza della sua fanciullezza felice, quando suo padre era ancora un uomo sano e il nonno gli dava lezioni di karate e la mamma li osservava, accompagnata dalla sua fidata tigre.
Ma nemmeno lei, con il suo sguardo sincero e determinato, e la sua aura calma da Madonna, aveva potuto nulla contro il veleno corrotto che scorreva nel sangue Mishima. E Kazuya era sparito, giù per il dirupo, e poi era tornato, più assetato di sangue di prima e lei non c'era più.
Poi aveva visto lui: aveva gli stessi occhi sinceri e determinati di sua madre ma il resto era tutto sbagliato; l'eredità dei Mishima aveva macchiato la purezza del sangue della madre e lui non era che un miscuglio mal assemblato dei due, un pezzo di carne deforme senza alcuna identità che arrancava in un mare di incertezze e sfuggiva allo sguardo altrui per non rivelare il vuoto che aveva dentro e la consapevolezza di non poter trovare il suo posto nel mondo. Come se non bastasse, dietro quella maschera da goffo cerbiatto che muoveva i primi passi nel mondo si nascondevano due occhi rossi come il sangue degli uomini: Kazuya aveva subito riconosciuto il marchio dannato del Diavolo.
Suo figlio era un meticcio, uno scherzo della natura, un pericolo, un'arma di distruzione di massa, un ostacolo sulla via del suo dominio. Quegli attimi di serenità con Jun gli erano costati cari e, persino da morta, lei cercava di tenerlo lontano dalla depravazione più nera attraverso quel corpo mal assemblato che rappresentava loro figlio.
Andava eliminato.
Ma chi dei due sarebbe rimasto alla fine? Uno scontro è tutto lì: Kazuya avrebbe dovuto essere l'ultimo e solo a restare in piedi.
E, invece…

Un tocco leggero e delicato sulla pelle ricoperta di lividi, fango e pioggia. Poi, una voce, la sua voce.
«Sei tutto solo… lascia che ci sia anch'io con te.»


Our love wins all, love wins all
Love, Love, Love, Love

IU - Love Wins All


N/D: Fonzies, se non ascolti la canzone godi solo a metà! (Non scherzo, sentitevi la canzone mentre leggete, è tutt'altra cosa!!!)
Anche qui frasi riprese da altre storie per mantenere la continuità (qui in particolare mi sono Riallacciata al capitolo precedente)
Sì, ho avuto i conati durante la stesura della flash Xiaojin (scherzo, daaaai, si sapeva, si sapeva… ). Avevo promesso una ff sui fratelli ma poi la canzone di IU mi ha vinta e, niente, eccoci con questa shottina sull’ammmmmore per chiudere con gioia dolceamara questa raccoltina scema scema. E niente, un bacio azzeccoso, si torna a scrivereeeeee, w Tekken 8!!!
Angel

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