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Lista capitoli: Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 - L'AQUILA DI EIRINN *** Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - IL PRIMO PASSO *** Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - OLTRE IL LIMITE *** Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - LO STUDIOSO *** Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - INTO THE WILD ***
Capitolo 1 *** CAPITOLO 1 - L'AQUILA DI EIRINN ***
“In guerra, mezze misure e indecisione
sono garanzia di
fallimento.”
(Napoleone
Bonaparte)
CAPITOLO 1
L’AQUILA DI EIRINN
Dai tempi delle Guerre Sacre Erthea non aveva mai
visto un conflitto così lungo come quello che vedeva contrapposti le forze
imperiali e i gruppi separatisti capeggiati dai Baroni.
Da dieci anni i
territori orientali dell’impero erano una polveriera, un immenso campo di
battaglia in cui si consumava una interminabile guerra civile.
Tutto era
cominciato con l’ascesa al trono dell’attuale imperatore, che aveva ben pensato
di risolvere la spaventosa crisi economica che aveva portato l’Impero sull’orlo
della bancarotta promulgando una serie di pesanti riforme fiscali.
Come se non
bastasse l’Imperatore aveva dimostrato di voler cambiare radicalmente il modo
in cui lo Stato gestiva la cosa pubblica, riportando il potere nelle mani del
senato ai danni di governatori ed amministratori delle province più lontane e remote,
che negli ultimi duecento anni si erano visti accordare privilegi sempre
maggiori.
E la gente di
tutto ciò era stata molto felice, perché non solo una volta tanto erano stati i
nobili a subire i colpi peggiori dalle nuove tassazioni, ma una legge apposita
aveva impedito a questi ultimi di rifarsi delle perdite andando a loro volta ad
aumentare la tassazione locale sui territori che amministravano.
Sfortunatamente,
in politica le cose di rado vanno come si vorrebbe, e un nobile ingordo
abituato a godere appieno delle sue ricchezze e del suo potere può diventare un
nemico pericoloso, anche per un sovrano.
Forse Sua Maestà
aveva sovrastimato l’ammirazione che il popolo aveva iniziato a provare per
lui, o forse si era persuaso a credere che le sue riforme lo avrebbero messo al
sicuro dalle critiche per ciò che le circostanze lo avevano costretto a fare.
Perché un abitante
di Saedonia può sopportare le tasse, la povertà e la
fame, ma non sarà mai disposto a rinunciare alla cosa più importante che possiede:
il suo orgoglio di cittadino del più grande impero mai visto.
La cessione di una
parte dei territori occidentali a Connelly con la fine della Guerra del Flor e la fine della Guerra Fredda con l’Unione al prezzo
di svariati milioni di goldie erano umiliazioni che in pochi erano disposti ad
accettare.
E i nobili
dell’est, le terre più lontane, isolate e sperdute del grande Impero, erano
stati abili a mascherare le loro ambizioni in una sorta di guerra santa contro
un sovrano accusato di essere un incapace, che aveva svenduto il suo impero ed
il suo popolo ai suoi peggiori nemici.
In fin dei conti
era lì che, secondo le leggende, il Signore Oscuro aveva fatto la sua comparsa,
e secondo gli abitanti di quelle terre era stato solo grazie al sacrificio dei
loro antenati se l’Impero era sopravvissuto.
Non c’era voluto
molto perché quella che era nata come una semplice zuffa tra i feudatari locali
e il governo centrale si tramutasse in una vera e propria rivolta che da dieci
anni insanguinava le foreste, le montagne e le valli dell’est.
E la mente dietro
a tutte le sconfitte patite fino a quel momento dalle legioni era una sola,
quella di Julius Severus, dodicesimo Barone di Glasnet.
Uomo ricchissimo e
dal lignaggio illustre, apparteneva alla più nobile e rispettata aristocrazia
militare dell’Impero, una di quelle famiglie di cui i bambini leggevano le
gesta sui libri di scuola.
Non era solo un
feudatario colto e molto potente, ma anche un brillante stratega, ed era forse
l’unico tra i Baroni ribelli a credere sinceramente nelle menzogne che i suoi
sodali si raccontavano per mascherare le loro vere intenzioni.
Sette generali si
erano succeduti al comando delle cinque legioni che da un decennio tentavano di
stroncare la ribellione, ma nonostante ciò la situazione nel corso del tempo
non si era minimamente sbloccata.
Città e regioni
venivano perse e riconquistate in continuazione, talvolta nel giro di poche
settimane, ma la capitale della rivolta Glasnet e il
suo castello restavano lontani, come un miraggio irraggiungibile.
Da alcuni mesi il
comando era passato al Generale Flavio Tibullo. Era
un militare di lungo corso, stimato da Sua Maestà, che si era fatto una reputazione
come ammiraglio della flotta imperiale combattendo i pirati.
Ma era
essenzialmente un uomo di mare, incarnazione di un’aristocrazia di guerra
legata a idee antiquate, e che seguiva alla lettera il tipico approccio
imperiale alle battaglie: numeri soverchianti, rullo compressore e avanzamento
brutale, a prescindere dalle perdite.
Una cosa del
genere poteva andare bene per avere la meglio su eserciti stranieri o quando si
aveva a che fare con le flotte pirata, ma mal si sposava con una situazione
come quella dell’est. Ogni volta che una regione cadeva, i baroni e i loro
eserciti semplicemente si ritiravano in quelle più vicine, formando nuove
barriere difensive che dovevano essere nuovamente sfondate, con conseguente
enorme dispendio di truppe e risorse.
E intanto le linee
di rifornimento si allungavano, a differenza di quelle del nemico, non si
riusciva a contenere le perdite, il terzo o quarto assalto si impantanavano,
arrivava l’inverno, si era costretti alla ritirata, il nemico rioccupava in
parte o totalmente i territori persi, e si ricominciava daccapo la primavera
successiva.
Aria era
consapevole di dove stesse andato e dei moltissimi problemi che avrebbe dovuto
affrontare, ma di certo non si aspettava una situazione così drammatica.
Dopo dieci anni le
legioni imperiali avevano riconquistato meno della metà dei territori ribelli,
e da almeno due l’offensiva si era di fatto arenata al limitare della regione
di Falderad.
La vecchia
strategia dell’attaccare a testa bassa ormai aveva smesso di portare anche i
successi più limitati; le truppe erano stanche, gli ufficiali demotivati, e la
convinzione che non si potesse sperare di avanzare oltre si stava facendo
strada anche tra i più ottimisti.
Il secondo in
comando si chiamava Oreste Flaminio, e da qualche anno era diventato uno
straniero nella sua patria, da quando la sua città natale Tagrea
era stata ceduta a Connelly.
Per fortuna la sua
famiglia a differenza di altri nobili della stessa regione aveva preferito
l’esilio alla sottomissione al Principato, altrimenti oltre ad una bellissima
città l’Impero avrebbe perso anche una delle menti militari più brillanti che
Aria avesse mai conosciuto.
Ma era solo il
capo di una famiglia nobile minore, e per di più della provincia, pertanto
nonostante i molti anni spesi sui campi di battaglia lui per primo sapeva che
quella posizione era il massimo al quale avrebbe mai potuto aspirare.
Quando parlava con
lui o incrociava il suo sguardo Aria quasi si vergognava al pensiero che lei un
giorno avrebbe potuto salire al ruolo di Generale, mentre Oreste non sarebbe
mai potuto essere più che un semplice Comandante, perennemente agli ordini di
qualcuno con più titoli ma assai meno qualità di lui.
«Quanti talenti
abili come il vostro sono andati persi per colpa del classismo dell’Impero?»
E Oreste non era
il solo; nei pochi mesi trascorsi al fronte, Aria aveva conosciuto non meno di
cinque giovani ufficiali altrettanto capaci, ma costretti dal proprio lignaggio
a vestire i panni di semplici subalterni, spesso alle dipendenze di superiori
che capivano di guerra come lei capiva di ricamo.
Aria apparteneva
ad un mondo in cui anche ai nobili di più basso rango era possibile aspirare a
raggiungere la vetta della piramide, a condizione di avere le qualità
necessarie per riuscirci, e per lungo non era riuscita a spiegarsi perché anche
nell’Impero non potesse essere così.
Ricordava ancora
come si era sentita il momento in cui, durante l’accademia militare, aveva
capito che il rispetto che tutti le portavano non derivava dai suoi meriti, ma solo
dal cognome che portava, e che anche se fosse stata l’ultima della classe le
cose non sarebbero state diverse.
Quindi si era
imposta di essere la migliore in tutto quello che faceva; le manifestazioni
esagerate di stima e le amicizie interessate la facevano arrabbiare come se non
più di prima, ma almeno quando si guardava allo specchio poteva dire a sé
stessa di meritare quei complimenti, per quanto ipocriti potessero essere.
Anche per questo
non capiva perché essere nobili di prestigio o appartenere a qualche famiglia
reale fosse l’unico requisito per poter aspirare ad una carriera promettente;
perché una persona non poteva essere gratificata in funzione di quanto impegno
metteva in ciò che faceva?
Ma anche se
l’Imperatore sembrava stare facendo del suo meglio per permettere anche a
piccoli nobili e perfino borghesi arricchiti di ritagliarsi la loro fetta negli
ambienti politici, l’esercito con tutte le sue tradizioni restava un monolito
impossibile da scalfire.
Anche per questo,
una volta finiti gli studi, aveva scelto quella strada, piuttosto che tornare a
casa e prendere il comando dell’esercito come avrebbe voluto suo padre.
Dall’ammissione
della schiavitù alla corruzione tra i nobili, nel corso degli anni la sua
patria aveva fatto proprie troppe cose dell’Impero che non le piacevano; e
visto che Saedonia ed Eirinn ormai erano legati
indissolubilmente, le cose sarebbero solo peggiorate se non fosse stato
l’Impero a cambiare.
Anche lei come
l’Imperatore era convinta che bisognasse procedere gradualmente, soprattutto in
un posto allergico ai cambiamenti come l’esercito, così all’inizio si era
ripromessa di non fare niente di avventato.
Ma ora le cose
erano diverse.
Ora non si
trattava più solo di provare a cambiare le cose; ora in gioco c’era il destino
della sua patria.
Di colpo tutti
quei propositi avevano perso importanza; tutto quello che contava era risolvere
la questione coi baroni il prima possibile e rivolgere subito tutte le
attenzioni al sud, prima che suo fratello malconsigliato dal loro zio facesse
qualcosa di irreparabile.
Ma come fare?
Come fare per
scardinare un modo di pensare e condurre la guerra vecchio di cinquecento anni
che nessuno aveva voglia di rimettere in discussione?
Alla fine aveva
capito che c’era solo una cosa da fare.
Ma prima di
commettere un atto del genere, di cui conosceva bene le conseguenze, voleva
tentare tutte le strade; non tanto perché temeva per sé stessa, quanto
piuttosto per non coprire di vergogna la sua famiglia, per non parlare
dell’Imperatore, che non sarebbe stato da biasimare qualora avesse deciso di
rimangiarsi la sua promessa.
Quando poi,
gettando il cuore oltre l’ostacolo, aveva manifestato le sue intenzioni alle
persone giuste, era rimasta stupita da come la maggior parte di esse, a
cominciare da Oreste, non solo non l’avessero dissuasa, ma si fossero mostrate
d’accordo con lei, ammirandola per aver trovato il coraggio di fare ciò che
loro avevano solo osato immaginare.
Così, alla fine,
aveva preso la sua decisione.
Ma prima di
passare ai fatti, voleva fare un ultimo tentativo.
Una volta a
settimana il Generale Tibullo convocava il consiglio
di guerra cui prendevano parte i suoi consiglieri e i comandanti delle cinque
legioni al suo comando coi rispettivi subalterni.
«Generale, vi
prego. Questa strategia non ci sta portando da nessuna parte, serve solo a
farci perdere tempo e a sacrificare per niente i nostri soldati.»
«Sto iniziando
davvero a stancarmi delle vostre rimostranze, Capitano Montgomery. Siete qui
solo da qualche mese e già pretendete di sapere tutto?»
«Il nemico
controlla il territorio. Lo conoscono e lo sfruttano molto meglio di noi. Ogni
volta che avanziamo loro abbandonano le posizioni più esposte per
riposizionarsi su quelle più favorevoli, l’offensiva si arena, noi siamo
costretti a ritirarci, e anche quando la sorte ci arride guadagniamo al massimo
poche miglia. Se vogliamo avere qualche speranza dobbiamo essere noi a dettare
le condizioni, non loro.»
«Generale, forse
dovrebbe ascoltarla.» disse Oreste. «La sua strategia potrà sembrare bizzarra,
ma ha senso.»
Forte del sostegno
del suo superiore, Aria incalzò.
«I Baroni si
dicono uniti, ma in fin dei conti sono solo un gruppo di individualisti che
pensa prima di tutto i difendere i propri possedimenti. Quando non avanziamo,
ognuno di loro tiene i propri soldati vicino a sé nei rispettivi feudi. Da dove
ci troviamo ora abbiamo la possibilità di lanciare offensive contro tutte le
regioni che stanno tra noi e Glasnet. Un attacco
coordinato lungo svariate direttrici, e non daremo ai nostri nemici tempo e
modo di organizzare una difesa comune. A quel punto il Barone Severus resterebbe con solo con le truppe dei feudi
orientali a sua disposizione, che anche messe insieme sarebbero pari alle
nostre.»
«Dividere le mie
legioni? Mi auguro che stiate scherzando! Non si è mai sentita una cosa del
genere! Dovrei mettere le mie forze in mano a qualche nobile da quattro soldi
figlio di un banchiere o di qualche mercante arricchito? Faremo come si è
sempre fatto. Uniremo le nostre forze, avanzeremo e sconfiggeremo chiunque si
metterà sulla nostra strada. Solo così si ottiene la vera gloria.»
«Solo così si è
certi della sconfitta, piuttosto! Ormai l’estate sta finendo, e questa sarà la
nostra ultima offensiva! Se falliamo dovremo aspettare l’anno prossimo, e queste
legioni servono altrove!»
«Adesso basta,
Capitano! Non mi importa se è stato l’Imperatore a mandarvi qui!Un’altra parola e vi farò sollevare seduta
stante dal vostro incarico!»
Allora, si disse
la ragazza, non c’era davvero altro da fare.
«Speravo di non
dover arrivare a tanto, ma a quanto pare non mi lasciate scelta.»
Ad un suo cenno
uno degli ufficiali fece un segnale, e subito dopo una decina di soldati
entrarono nella tenda con le armi spianate circondando il Generale e i suoi
fedelissimi.
«Che significa!?»
«Generale Tibullo, comandante dell’esercito. Generali Dario e Glabro,
comandanti della Quarta e Sesta legione. Da questo momento vi dichiaro
sollevati dai vostri incarichi, e con il consenso del Generale Oreste assumo il
comando di questa operazione. Sarete posti agli arresti nei vostri alloggi fino
al termine delle operazioni, quindi sarà Sua Maestà a decidere di voi.»
«Maledetta! Questo
è alto tradimento! Arrestatela subito!»
Ma nessuno gli
obbedì. Del resto, a parte i detti Glabro e Dario, tutti gli altri Generali
avevano già le idee molto chiare su chi era più meritevole della loro lealtà.
«Portateli via.»
«Non potete farlo!
Finirete tutti sul ceppo del boia! Lasciatemi!»
Tutti i Generali
si affrettarono a lasciare la tenda per confrontarsi coi propri uomini e
calmare gli animi, lasciando sola il nuovo comandante e il suo secondo.
«Spero che tu sia
consapevole di quali saranno le conseguenze per tutti noi.»
«Hai la lista che
ti avevo chiesto?»
«Stiamo già
provvedendo. Entro stasera avremo arrestato tutti gli ufficiali che li
sostenevano.»
«E le truppe?»
«Non preoccuparti,
ci seguiranno. Ormai hanno imparato a conoscerti. E comunque sanno di non
rischiare niente fintanto che obbediscono agli ordini.» poi l’attempato
generale ammiccò «A condizione ovviamente che questa operazione porti i
risultati sperati.»
«Convoca un nuovo
consiglio di guerra per domani mattina. E da ordine di cominciare a smantellare
il campo.»
«Ai vostri ordini,
Comandante.»
Il Barone Severus era così affezionato alla propria folta barba rossa
che ogni mattina passava delle ore a prendersene cura.
I suoi soldati ci
scherzavano sempre sopra, e dicevano che se un giorno il Generale si fosse
mostrato in pubblico con la barba incolta allora voleva dire che la sconfitta
era imminente.
Dirigere e fare
andare d’accordo un’accozzaglia di nobili più interessati a sé stessi che alla
causa non era un compito facile, ma era anche per questo che il Consiglio dei
Baroni aveva scelto lui come comandante supremo: chi meglio di un veterano della
guerra con Connelly che si era visto strappare i propri successi con quella
pace vergognosa poteva difendere meglio gli interessi dei separatisti e guidare
le loro forze in battaglia?
Severus sapeva meglio di
chiunque altro che quella non era una guerra come le altre. Era una guerra di
logoramento, in cui l’unico modo per vincere era spingere l’Impero a ritenere
il proseguimento delle azioni abbastanza dispendioso da non voler procedere
oltre.
E poi?
Il Consiglio si
era fatto tante di quelle fantasie negli anni che avere un’idea chiara di cosa
avrebbero effettivamente chiesto quando l’Imperatore avesse accettato di
negoziare era quasi impossibile.
Qualcuno parlava
apertamente di secessione, qualcun altro proponeva un vassallaggio
semi-indipendente; per ora Severus si accontentava di
concludere la guerra il prima possibile, e qualcosa dentro di lui gli diceva
che non ci sarebbe voluto molto.
Ormai era un
decennio che quel conflitto si trascinava stancamente da un anno per l’altro, e
dalle voci che giungevano dalla capitale si capiva che il Senato non era più
disposto a perdere milioni di goldie in quell’impresa senza futuro.
La volontà
dell’Imperatore di togliere il potere ai governatori per darlo ai nobili di Maligrad piuttosto che a sé stesso gli si stava ritorcendo
contro.
Bisognava solo
resistere un altro po’, forse solo un altro inverno.
Poi, tutto d’un
tratto, il momento decisivo sembrò essere finalmente arrivato.
Qualche giorno
prima un messaggero aveva portato la notizia che l’esercito imperiale aveva
iniziato a smantellare il campo, segno che il suo comandante era determinato
con quell’ultima offensiva a completare l’avanzata, o quantomeno a portarla il
più avanti possibile, senza alcuna intenzione di tornare sui propri passi in
caso di fallimento.
Tutte le mattine
prima di colazione, e al pomeriggio durante la pausa per il tè, il Generale
teneva un consiglio di guerra con i suoi due sottoposti, i Colonnelli Ofelia e Primus, per fare il punto delle campagne e pianificare le
prossime mosse.
«Buongiorno,
signori.» disse con la sua solita voce squillante e risoluta
«Buongiorno, pad… volevo dire, buongiorno Signor Generale.» disse
rispettosamente Primus «E permettetemi di essere il
primo ad augurarvi buon compleanno.»
«Apprezzo il
pensiero, ma era meglio se evitavi. Serve solo a ricordarmi che sto
invecchiando.»
«Buone notizie,
Generale.» disse Ofelia mentre il padre infilava gli occhiali per dare
un’occhiata ad alcuni rapporti. «Il nuovo carico di armi è arrivato questa
notte. La distribuzione ai soldati è già in corso, e sarà completata entro
oggi.»
«Ottimo. Ci
vogliono bene in Volkova.»
«Il Gran Re è
sempre contento quando qualcuno dà dei dispiaceri all’Imperatore.»
Il generale notò
poi che i segnalini sulla grande mappa delle
operazioni erano stati spostati rispetto al pomeriggio del giorno prima, e ne
chiese conto ai suoi due figli.
«Un rapporto
arrivato stanotte ci ha informati che il nemico ha iniziato ad avanzare lungo
la Via Franchigia.» disse Ofelia
«Quanti sono?»
«Due legioni.
Probabilmente le altre sono rimaste indietro ad ultimare lo smantellamento del
campo. Le stiamo tenendo d’occhio, avremo un nuovo rapporto entro stasera.»
«Che notizie dai
Baroni Melk e Ortis?»
«Hanno lasciato i
rispettivi domini con i loro eserciti e si stanno muovendo come ordinato.»
rispose Primus «Se il tempo non li rallenta
arriveranno alla Valle di Falken entro quattro
giorni.»
Non era la prima
volta che la valle diventava il campo di battaglia dell’ennesimo scontro tra le
truppe dei Baroni e l’esercito imperiale, e Severus
trovava quasi riprovevole che anche dopo tutte quelle sconfitte il nemico si
intestardisse a voler passare da lì. Tutto perché era la via più rapida verso
il cuore del dominio ribelle.
«A quanto pare
sarà un’altra facile vittoria.»
«Non essere troppo
sicuro di te, figliolo. Ogni battaglia è unica, e non è detto che le cose
vadano sempre allo stesso modo. Inviate dispacci anche ai Baroni Eraclio e Udrecht. Che radunino le loro forze e si preparino ad una
eventuale avanzata.»
«Vi aspettate una
resistenza superiore?» chiese Ofelia
«Non voglio
correre rischi.»
Da buon soldato il
Barone Severus detestava le occasioni formali, ma non
poteva certo rifiutarsi di presenziare al ricevimento per il proprio
compleanno.
Quella sera nel
palazzo di Glasnet si era radunata quasi tutta la
meglio nobiltà ribelle, o almeno quella che non doveva preoccuparsi di
difendere i propri feudi dall’ennesima avanzata dell’esercito imperiale.
Per la prima volta
dopo tanto tempo regnava l’ottimismo, la convinzione che se fossero riusciti a
resistere ancora uno, massimo due anni, allora finalmente le loro
rivendicazioni sarebbero state ascoltate.
Nella sala da
ballo, ognuno degli invitati spendeva il tempo come più gli aggradava, chi
danzando, chi conversando, chi dando fondo alle pietanze.
L’ospite d’onore
cercava di svicolare ad ogni possibile occasione, intrattenendosi a parlare
solo con altri ufficiali e condottieri; Ofelia, in uniforme e con la spada alla
cintura, risultava accattivante e minacciosa allo stesso tempo; Primus metteva a frutto le sue doti di inguaribile
sciupafemmine corteggiando una giovane dietro l’altra.
Sembravano esserci
tutte le premesse per una serata incantevole e serena, allietata dalla musica,
dal cibo e dalla spensieratezza.
E invece, per
molti di loro quello sarebbe stato l’ultimo momento felice della loro vita.
Il primo a notare
l’arrivo dell’esploratore capo, esausto, coperto di fango e pioggia e con
l’espressione sconvolta, fu lo stesso Severus, che
aspettava solo l’occasione buona per poter svicolare.
Pochi minuti dopo Primus venne interrotto dalla sorella nel bel mezzo di una
danza.
«Nostro padre ha
convocato il consiglio d’urgenza. Dobbiamo andare subito.»
Ma intanto la
notizia aveva già fatto il giro degli invitati, ed era una notizia di quelle
capaci di sconvolgere anche la persona meno interessata alle sorti della
guerra.
«Le armate del
Baroni Melk e Ortis sono state intercettate lungo la
strada per Falken.» disse il messaggero dopo che il
Generale e i suoi figli si furono appartati in una stanzetta accanto alla sala
da ballo. «Il nemico li ha sorpresi in ordine di marcia e li ha sbaragliati. Il
Barone Melk è finito in mani nemiche, il Barone Ortis
invece è caduto in battaglia.»
In un colpo solo
la ribellione aveva perso due dei suoi capi più autoritari e simbolici.
Ma la cosa davvero
sconvolgente era il modo in cui quella sconfitta era maturata.
Già non era
normale che un’armata procedesse separatamente, ma in mille e più anni di
storia le campagne militari erano sempre state decise da un’unica battaglia,
con due generali uno di fronte all’altro alla testa dei rispettivi eserciti.
Da quando in qua
un Generale imperiale aveva così tanta fiducia nei suoi uomini da affidare loro
non solo il compito di marciare separatamente, ma addirittura di attaccare per
conto proprio?
«A che punto è Virilus? Ci sono notizie di lui?»
Il Barone Virilus era il signore delle terre in cui sorgeva la Valle
di Falken, ed era anche il più caro amico e
collaboratore del Generale, uno degli iniziatori assieme a lui della rivolta a
cui altri si erano successivamente aggiunti.
«A quest’ora
dovrebbe aver già raggiunto la valle.» disse Ofelia
«Mandategli subito
un messaggero per avvisarlo dell’accaduto. Ditegli che deve fortificare la
valle con tutto quello che ha. E ditegli che lo raggiungeremo entro cinque
giorni.»
«Sissignore.»
«Inviate
messaggeri in ogni provincia. Voglio tutti i Baroni qui a Glasnet
domani sera per un consiglio generale.»
Mandati via gli
ospiti Severus andò quindi a dormire, lasciando
ordini perentori di svegliarlo qualora fossero arrivate altre notizie
importanti.
Ma una notizia
importante arrivò solo la mattina dopo, mentre il Generale e i suoi figli
facevano colazione; ed era una notizia che non avrebbero mai voluto ricevere.
«Il Barone Virilus è morto, Generale! Il nemico lo ha sorpreso a Falken nella notte, mentre stavano ancora approntando le
difese!»
«Ma com’è stato
possibile!?» sbraitò Primus, ormai convinto come la
sorella di trovarsi in un brutto sogno. «Gli ultimi rapporti dicevano che il
nemico era ad almeno trenta miglia di distanza dalla valle! Come hanno fatto ad
arrivare lì così in fretta?»
«Devono aver
marciato anche di notte.» disse cupamente Severus.
«Ed essendo solo due legioni la loro avanzata è stata molto più agile.»
I loro peggiori
incubi stavano diventando realtà.
In dieci anni le
legioni imperiali non erano mai andate oltre la Valle di Falken,
né erano riuscite ad uccidere nessuno dei capi della rivolta. Questo nuovo
comandante, chiunque fosse, aveva ottenuto in tre giorni quello che i suoi
predecessori non avevano ottenuto in un decennio.
E non era ancora
finita.
Come Severus temeva la lealtà di molti Baroni era tutto fuorché
certa; fu così che prima ancora di mezzogiorno molti altri esploratori giunsero
con la notizia che pressoché tutti i Baroni delle regioni più occidentali si
stavano arrendendo uno dopo l’altro senza neanche combattere, lasciando
l’esercito imperiale libero di avanzare senza ostacoli lungo tre diversi
fronti.
Quella sera, al
consiglio generale tra tutti i comandanti ribelli, oltre al padrone di casa
c’erano appena cinque Baroni seduti al tavolo; Lady Ottavia, Lord Dias, e i Generali Vorenus, Brenicus e Abelardo.
«Inutile prenderci
in giro, amici miei. La situazione è drammatica. Quasi tutte le province più a
ovest sono cadute o si sono arrese, e al momento il nemico avanza senza
incontrare praticamente resistenza.»
«Sono solo un
branco d’idioti se si illudono che l’Imperatore avrà pietà di loro.» disse Vorenus. «Quando abbiamo preso in mano la spada sapevamo
bene che questa strada poteva portarci solo alla vittoria o al patibolo.»
«Vorrei sapere
perché hanno aspettato tanto per scagliarci contro questo Generale.» disse
Abelardo «Sappiamo almeno di chi si tratta?»
«Ho sentito delle
voci secondo cui ci sarebbe una donna alla guida dell’esercito.» disse Brenicus «La figlia del Granduca di Eirinn, a quanto dicono.»
«Che cosa
facciamo, Severus? Ormai l’esercito imperiale è quasi
giunto ai confini della mia provincia.»
«Tranquilla Octavia, non ti abbandoneremo. Vi prometto che non
procederanno oltre nella loro avanzata.»
«A cosa stai
pensando?» chiese Dias
«Il nemico
attualmente sta avanzando lungo tre direttrici. Ma tutte le strade che stanno
percorrendo convergono qui. E questo è un passaggio obbligato, visto che da qui
si controlla il ponte che passa sull’Asmar. Senza
questo ponte il nemico dovrebbe spingersi molto più a nord per poter
oltrepassare il fiume, perdendo tempo. Questa pianura sarà ideale per lo
scontro. La foresta impedirà l’accerchiamento, e da questa collina domineremo
il campo di battaglia.»
«Se tengono
quest’andatura saranno lì in meno di una settimana.» disse Abelardo «Saremo in
grado di organizzare le difese in così poco tempo?»
«Abbiamo già a
disposizione trentacinquemila uomini. Siamo in inferiorità numerica, ma non
sarebbe certo la prima volta. Vorenus, quanto tempo
ti ci vorrebbe per radunare le tue forze?»
«I miei
quindicimila soldati come sai sono quasi tutti volontari e coscritti. Visto che
tra poco ci sarà la vendemmia li avevo mandati a casa per occuparsi dei campi.
Per richiamarli, riarmarli e portarli a ovest…»
«Puoi farcela ad
essere lì entro una settimana?»
«Sicuramente.»
«Allora è tutto
nelle tue mani, amico mio. Noi andremo lì, prenderemo possesso della pianura e
ci prepareremo alla battaglia. È vitale che tu ci raggiunga in tempo.»
«Conta su di me,
non ti deluderò.»
«E voialtri,
preparatevi. Voglio fino all’ultimo soldato disponibile. Se necessario armate
anche gli schiavi e promettetegli la libertà in caso di vittoria. Io l’ho già
fatto con i miei. Dobbiamo vincere solo quest’ultima battaglia. Se riusciamo a
sopravvivere anche a questo, allora vorrà dire che Gaia è davvero al nostro
fianco, e a quel punto neanche l’Imperatore potrà più negalo.»
La valle dell’Asmar, era il punto in cui la catena montuosa di Galath che segnava il confine nordorientale tra l’Impero e
il Granducato di Eirinn si diradava in un susseguirsi di vaste pianure,
intervallate lungo il corso del fiume da campi coltivati e fitte foreste.
Era un fiume
impetuoso, difficile da oltrepassare, quindi ogni attraversamento di grandi
dimensioni era un tesoro da difendere a tutti i costi.
Dal colle che
dominava il campo di battaglia Severus poteva vedere
alle sue spalle il grande ponte di pietra da cui erano passati e a sinistra il
piccolo villaggio di Hoselveck.
Come previsto
dagli esploratori le tre armate erano confluite nella pianura tramite
altrettante strade da est, nord e sud, arrivando con sconvolgente coordinazione
attorno a mezzogiorno del settimo giorno e fissando il loro campo a circa due
miglia di distanza.
I soldati erano
sicuramente esausti per la lunga marcia, che doveva essere stata interrotta
solo per combattere o per brevi momenti di riposo, e lo scoppio di un temporale
era stato per il nemico un motivo ulteriore più che valido per posticipare la
battaglia al giorno dopo.
Tanto meglio, si
era detto Severus, visto che Vorenus
in questo modo avrebbe avuto sicuramente tutto il tempo per arrivare con i
rinforzi.
Al sorgere del
sole, al termine di una notte che il Generale spese dormendo il più piacevole
sonno della sua vita, le due parti si posizionarono sul campo di battaglia
pronte allo scontro.
Severus aveva disposto le
sue truppe su due linee, con i veterani davanti al centro al comando del figlio
e i soldati più giovani schierati subito dietro, guidati da sua figlia. Il
Generale Abelardo comandava l’ala sinistra, mentre sulla destra era schierata
la cavalleria di Brenicus, inclusi duemila dei
famigerati cavalieri nordici, in cui Severus riponeva
grandi speranze. Le riserve coscritte dei Baroni Octavia
e Dias completavano lo schieramento.
L’esercito
imperiale rispondeva con una formazione a dir poco atipica, nella quale quello
che saltava immediatamente all’occhio era che il comandante nemico aveva
schierato solo quattro legioni, rendendo la differenza numerica assai più
contenuta rispetto a quanto previsto.
Effettivamente per
tutto quel tempo i rapporti degli esploratori avevano parlato sempre di sole
quattro legioni in movimento –la quarta, la quinta, l’ottava e la nona
rispettivamente–, mentre la settima sembrava come scomparsa nel nulla. E le
cosa ovviamente inquietava Severus, che temendo di
vedersela comparire dal nulla da un momento all’altro aveva preferito tenersi
da parte più riserve del solito, pronte ad essere schierate appena fosse stato
necessario.
Aria dal canto suo
aveva schierato la nona legione a sinistra, la quinta e la sesta al centro, la
cavalleria tra il centro ed il fianco e la nona a sinistra. Concludeva il tutto
una nutrita schiera di ausiliari e mercenari a fare da riserve.
«Perché ha
schierato i veterani della quarta su un fianco e le reclute della nona dalla
parte opposta?» si chiese giustamente Severus. «Se la
nostra cavalleria dovesse riuscire a sfondare, quel fianco sarebbe esposto.»
C’era sicuramente
qualcosa sotto, tant’è che il Generale rinunciò subito all’idea di dare inizio
alla battaglia con una prima carica di cavalleria leggera come era sua
abitudine.
Narrare lo scontro
tra eserciti che si affrontavano secondo la dottrina militare di Saedonia non era sicuramente il sogno di un novellista;
niente assalti di barbari che si lanciavano come una mandria di bufali contro
le ordinate linee imperiali, accolti da lanci di frecce e decimati dalle armi
da assedio, niente cariche eroiche che assestavano il colpo di grazia.
Era uno scontro
logorante e faticoso, con due linee di fanti che si affrontavano in formazione
serrata fino a che una delle due cedeva alla pressione e si ritirava, cedendo
il posto a quella subito dietro. Il primo comandante che esauriva le linee, o
la cui cavalleria andava in rotta permettendo a quella avversaria di attaccare
il fianco, o le cui ali cedevano lasciando il centro sguarnito aveva perso.
Tutto qui. Al
massimo ci si poteva mettere un po’ di strategia per cercare di massimizzare i
propri sforzi, ma alla fine era essenzialmente l’esperienza a determinare il
vincitore.
Ma evidentemente,
pensava Severus, la signorina Montgomery doveva aver
saltato quella lezione all’accademia, altrimenti avrebbe schierato i veterani
della quarta al centro invece che su di un lato.
Alle nove del
mattino la battaglia ebbe inizio.
E contrariamente a
come era abitudine per i vecchi comandanti –ad eccezione di Severus
ovviamente– fu la cavalleria ad aprire le danze, avanzando al trotto seguita
appresso dalla nona e dalla sesta e formando così una sorta di punta di freccia
puntata contro il fianco dello schieramento nemico.
Anche il resto
dell’esercito imperiale si mosse di lì a breve, in una sorta di linea obliqua
con il fianco destro più avanzato di quello sinistro sinistro,
una grossa fetta di ausiliari a supporto di quest’ultimo e la restante parte,
sicuramente veterani, a chiudere il varco al centro.
Neanche un pazzo
avrebbe portato avanti il suo intero esercito senza tenersi da parte almeno un
po’ di riserve; Aria, pensò Severus, doveva essere
molto intraprendente o molto incosciente per commettere una tale imprudenza.
Ableardo comandò ai suoi
uomini di restare fermi ad aspettare l’urto, facendo scagliare raffiche di
frecce appena i nemici furono abbastanza vicini. Nel momento in cui il trotto
divenne una carica i soldati alzarono le lance, e anche se ci voleva ben altro
per impensierire i cavalli e i cavalieri imperiali quel muro acuminato riuscì a
restare compatto, assorbendo l’impatto della cavalleria e successivamente
quello della fanteria senza sfaldarsi e impegnando il nemico nel corpo a corpo.
I veterani della
Quarta Legione rischiavano però di essere una gran brutta gatta da pelare
persino per Ableardo e i suoi uomini, così quando la
sua linea non sembrò in grado di contrastare l’assalto senza perdere terreno Severus ordinò ad Ofelia di andare a dar loro supporto con
metà del centro.
La manovra, pur
non riuscendo nel tentativo di prendere il nemico sul fianco, sortì però
l’effetto sperato, e pian piano la linea imperiale sembrò perdere coesione,
prima arrestandosi e quindi iniziando persino a cedere, arretrando di alcuni
metri.
Per evitare che
gli ausiliari veterani potessero portare supporto e nel mentre chiudere anche
il varco apertosi nel centro, il vecchio Generale ordinò anche a Primus di avanzare; e il giovane, che non aspettava altro,
si scagliò assieme ai suoi uomini contro il nemico come un toro infuriato,
dando prova ancora una volta del suo coraggio e del suo talento come guerriero.
«Per il momento
abbiamo arrestato l’avanzata. Continuiamo a spingere.»
«Cosa facciamo sul
fianco destro?»
Da quella parte le
truppe imperiali avevano gradualmente rallentato l’avanzata, forse perché
spaventate dal fatto che sia al centro che sulla destra i loro compagni
apparivano in difficoltà.
«Non sono una
minaccia per ora, e stanno marciando in formazione serrata con i picchieri in
prima fila. Attaccarli adesso non farebbe altro che danneggiare la nostra
cavalleria. Inoltre da dove si trovano possono bloccare facilmente un attacco
sui fianchi del centro. Dite a Brenicus di restare
fermo.»
Peccato che Brenicus fosse un tipo irruento e focoso tanto quanto i
suoi cavalieri, che non ci pensava minimamente a rinunciare alla sua parte di
gloria in quell’epico scontro.
Così, alla vista
delle legioni che dopo aver perso tutto lo slancio sembrarono iniziare persino
ad arretrare, non ci pensò due volte a fare un’altra delle sue famose mattate.
«Suonate la
carica!»
«Ma Generale, non
abbiamo ricevuto ordini.»
«Al diavolo gli
ordini, basta un ultimo colpo e quella massa di rammolliti scapperanno come
tanti conigli! All’attacco, miei prodi! Il nemico è davanti a noi!»
Naturalmente Severus non fu per nulla felice di vedere tutti i cavalieri
del suo esercito partire all’attacco senza autorizzazione, lasciando il fianco
destro completamente sguarnito.
«Maledetta testaccia di legno!»
L’arrivo di una
simile carica avrebbe fatto scappare chiunque, ma pur essendo in buona parte
giovani reclute con poca esperienza, incredibilmente, le truppe imperiali
rimasero salde.
I picchieri
piantarono saldamente le armi nel terreno, formando una selva di punte contro
cui molti cavalli andarono ad impalarsi assieme ai loro cavalieri. Quindi, una
volta assorbito adeguatamente l’urto, le tre linee che procedevano una dietro
l’altra si aprirono come un ventaglio, creando una sacca in cui Brenicus e i suoi uomini, pur riuscendo a non essere
circondati, si ritrovarono a venire attaccati su tre lati.
Ma i cavalieri
nordici non si erano guadagnati la loro fama di diavoli a cavallo senza una
ragione; la loro esperienza, nonché apparente assenza di paura permise loro,
malgrado la situazione, non solo di resistere, ma addirittura ad un certo punto
perfino di prevalere, iniziando a spingere con forza il nemico sempre più
indietro fin quasi alle sue posizioni di partenza.
Sarebbe bastato
che una sola delle tre unità impegnate in combattimento andasse in rotta per
lasciare Aria e il suo stato maggiore pericolosamente scoperti. Ma nonostante
ciò la giovane Montgomery non sembrava intenzionata a spostarsi su posizioni
più sicure, rimanendo immobile ad osservare lo svolgersi della battaglia
circondata dai suoi uomini.
«Ha fegato. Questo
glielo concedo.»
La situazione si
era quindi capovolta, coi ribelli che spingevano e le legioni imperiali che
cercavano di mantenere la posizione.
E proprio in
questo momento arrivò una notizia più che gradita.
«Generale, alcuni
abitanti del villaggio dicono di aver visto truppe in arrivo da nord-est!»
«Finalmente Vorenus è arrivato. Inviategli un messaggero. Appena arriva
deve attaccare subito ilfianco destro nemico.»
«Sì, Generale!»
«È un’occasione
perfetta, Severus. Mandiamo avanti le riserve.»
«Niente affatto, Dias.»
«Ma…»
«C’è ancora una
legione là fuori di cui non sappiamo niente. Per quanto ne sappiamo potrebbe
sbucare fuori ovunque e in qualunque momento.»
«I nostri
esploratori non ci hanno riferito niente.» disse Octavia.
«Potrebbero persino essere a miglia da qui.»
«Non intendo
restare a corto di uomini se prima non avrò una chiara idea di cosa posso
aspettarmi. Si tratta solo di pazientare qualche altra ora, finché non arriverà
Vorenus.»
Così la situazione
rimase sostanzialmente in stallo, con le forze ribelli incapaci di assestare il
colpo finale e le legioni troppo provate dall’avanzata e dallo scontro
prolungato per riguadagnare terreno.
Severus dal canto suo non
sapeva come comportarsi; la logica suggeriva di sfruttare il momento e mandare
avanti le riserve per spingere ulteriormente, ma l’istinto d’altro canto gli
diceva di aspettare, preoccupato com’era che quella testa matta di cui aveva
sentito così tanto parlare avesse qualcos’altro in serbo per loro.
Purtroppo neanche
nei suoi incubi peggiori avrebbe potuto prevedere quello che Aria aveva in
mente.
Anche se la Volkova finanziava generosamente le attività dei ribelli, e
gli stessi Baroni non erano sicuramente dei poveracci, armare ed equipaggiare
decine di migliaia di uomini di certo non costava poco.
Capitava così
molto spesso che gli eserciti ribelli fossero equipaggiati in modo molto
disomogeneo, a volte riutilizzando le stesse uniformi imperiali a cui venivano
semplicemente staccate le insegne.
Ecco quindi che
specialmente per dei contadini poco abituati a veder passare dei soldati fosse
facile scambiare una vera legione imperiale per soldati alleati, soprattutto se
non portava insegne.
La verità era che Vorenus e i suoi uomini, già il giorno prima, erano stati
sorpresi, assaliti e spazzati via nel bel mezzo della marcia; la Settima
Legione si era mossa con una velocità mai vista prima, guadando il fiume più a
nord e spostandosi attraverso i boschi per piombare sul nemico quando questi
meno se l’aspettava.
Che i contadini e
la gente del posto li avessero confusi per truppe ribelli dirette verso la
battaglia era solo una coincidenza molto fortuita e molto gradita, che ebbe
l’unico effetto di palesare quanto stava accadendo quando ormai era troppo
tardi.
«Non è Vorenus!» esclamò Severus alla
vista dei nuovi arrivati che apparsi da oltre il colle si apprestavano ad
attraversare il ponte. «È il nemico!»
Prima ancora che
si potesse pensare di fare qualcosa la Settima Legione aveva già oltrepassato
il fiume e si preparava ad entrare in battaglia.
Tutto quello che Severus poté fare fu ordinare a metà delle sue riserve di
correre subito in aiuto del fianco sinistro prima che questi potesse venire
attaccato alle spalle. Effettivamente la manovra riuscì e la situazione rimase
tutto sommato sotto controllo, ma la cosa davvero drammatica era che ora la
principale via di fuga in caso di sconfitta era stata tranciata.
E purtroppo non
servì molto prima che anche i soldati in battaglia se ne rendessero conto, con
tutte le inevitabili conseguenze; alla baldanza fece posto la paura, la fiducia
nella vittoria divenne timore di sconfitta.
Così la situazione
si capovolse nuovamente, e con la sola eccezione della cavalleria di Brenicus tutto il resto del fronte ribelle ricominciò a
indietreggiare, mentre le truppe imperiali diventavano sempre più audaci.
Se non altro quasi
tutti i soldati ribelli erano veterani, che conoscevano la posta in gioco e che
erano disposti a combattere fino alla morte se necessario, ben sapendo cosa
poteva succedere a chi veniva catturato se quel giorno il comandante nemico
fosse stato di cattivo umore.
La battaglia
rischiava di congelarsi, tornando ad essere uno scontro di attrito in cui era
la volontà a prevalere.
Occorreva un colpo
risolutivo.
Che puntualmente
arrivò.
Arrivò nella forma
di due grandi unità di cavalleria, che apparvero quasi dal nulla sul campo di
battaglia alla destra di Severus sotto il comando di
Oreste in persona.
Il Generale non
poteva saperlo, ma quelle unità si erano staccate dall’armata già da diversi
giorni, e seguendo alla lettera gli ordini avevano compiuto un lungo giro,
portandosi a est del campo di battaglia giungendo sul posto persino prima
dell’arrivo dei due eserciti; e una volta qui avevano atteso, ben nascoste
dietro ad un colle boscoso, l’ordine di attaccare.
Ad uno squillo di
trombe, gli oltre mille cavalieri si scagliarono prepotentemente sia contro la
cavalleria di Brenicus, colpendola alle spalle, che
addosso alle poche riserve rimaste a disposizione di Severus,
travolgendole prima che potessero provare a reagire.
A quel punto, le
conseguenze furono rapide e inevitabili.
Sempre più
spaventati e confusi, tutti i settori dello schieramento imperiale persero
coesione, lottando disperatamente non più per vincere ma solo per cercare di
salvarsi fino a ritrovarsi isolate le une dalle altre.
Sulla sinistra, le
riserve subirono un aggiramento da parte della Settima Legione, finendo a
lottare schiena contro schiena con loro compagni fino a ritrovarsi
completamente accerchiati.
A sinistra, la
cavalleria continuò a lottare strenuamente, ma incalzata da tutte le direzioni
subì uno stillicidio che si trasformò in fuga disperata nel momento in cui i
soldati videro Brenicus tirato giù da cavallo e
finito a colpi di lancia.
Solo il centro
resisteva, ispirato da Primus, e sembrava che
nonostante tutto quella parte del fronte potesse resistere un altro po’, magari
ispirando con il suo esempio anche tutti gli altri.
Non fosse altro
che a quel punto, quasi a voler chiudere la questione una volta per tutte, Aria
fece una cosa che nessun altro generale prima di lei aveva fatto negli ultimi
duecento anni; sguainata la sciabola, sventolando contemporaneamente la
bandiera imperiale e il vessillo di famiglia, si lanciò personalmente alla
carica.
Primus e i suoi uomini
vennero travolti e tranciati come erbacce dalla falce, e fu Aria in persona a
decapitare con un colpo preciso il comandante avversario per poi puntare dritta
verso il cuore dello schieramento nemico.
Isolato, con il
suo esercito disperso o in rotta, con negli occhi l’immagine del figlio morto
in combattimento, il vecchio Generale non ebbe altra scelta. Nello stesso
momento in cui Dias si piantava il pugnale nel petto
e Octavia ingeriva il contenuto del suo anello, la
bandiera ribelle venne ammainata, e prima ancora che la carica di Aria potesse
raggiungerli Severus e la sua guardia avevano già
deposto le armi.
E così, la
Battaglia di Hoselveck era conclusa.
Un’operazione
durata dieci giorni aveva messo fine ad una guerra civile che andava avanti da
dieci anni.
Il simbolo della Famiglia
Montgomery era un’aquila bifronte. Per questo, nel giro di pochi giorni, in
ogni angolo dell’impero tutti avrebbero parlato solo di lei: dell’Aquila dell’Eirinn.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Come promesso
eccomi di ritorno a circa un mese di distanza con il quarto volume di questa
mia light novel.
Ho voluto
aspettare più tempo di quanto inizialmente previsto per mettermi in pari con la
pubblicazione della versione inglese su wattpad,
pertanto da ora in poi le storie dovrebbero essere rilasciate in contemporanea.
Con questo quarto
volume la storia mette definitivamente il turbo, gli eventi inizieranno a
susseguirsi con una certa rapidità e si andrà nel vivo dell’azione nel vero
senso della parola.
A onor del vero, a circa metà di questo volume vi sarà una
importante digressione che potrebbe aprire la strada a degli sviluppi
inaspettati, ma ve ne parlerò meglio al momento opportuno.
Era la bevanda dei
ricchi e dei colti, costosissima da importare e da comprare, e la lontana terra
di Maharadi aveva costruito la propria ricchezza sul
suo commercio.
Ma Daemon era
diverso.
Lui apprezzava
un’altra bevanda, più densa e scura, originaria del Torian;
era amara, ma in modo spiacevole, ma a lui non importava, e anzi diceva che più
era forte e più gli dava sollievo, perché gli permetteva di stare sveglio a
lungo ad occuparsi dei suoi molti compiti.
La gente
dell’Impero e non solo trovava quella roba così sgradevole al gusto da non
averle mai neanche dato un nome, così gliene aveva dato uno lui.
«Chi ha preparato
questo caffè, una salamandra ubriaca?» protestò sorseggiandone un po’ nel bel
mezzo della riunione. «D’accordo che lo apprezzo forte, ma così è praticamente
bruciato.»
Non che qualcuno
gli stesse prestando attenzione; erano tutti troppo impegnati a discutere tra
di loro.
Una settimana dopo
la vittoria di Mistvale la situazione era
sostanzialmente congelata; il nemico, che nel mentre aveva anche ricevuto
rinforzi, era ancora trincerato a GroteMuren, e non sembrava avere alcuna intenzione di andarsene
da lì.
I contatti con
l’esterno ormai erano ridotti al solo ponte sullo Jesi, ma il perdurare dello
stato di guerra pesava in modo sempre più pesante sui commerci e sulla fiducia
dei mercanti per il futuro dello Stato Libero.
Occorreva una
soluzione, ed era proprio su questo che anche dopo sette giorni di discussioni
l’Assemblea non riusciva ancora a mettersi d’accordo, con gli interventisti da
una parte capitanati da Oldrick e gli attendisti
dall’altra raccolti attorno a Mary.
Ormai la sala
delle riunioni del municipio di Basterwick era
diventata un’arena per i combattimenti.
«Non riesco a
capire perché proprio voi, lady Wallace, vi ostiniate a voler lasciare le cose
come stanno.» disse Oldrick «In quanto ministro
dell’economia dovreste essere la prima a comprendere la gravità della
situazione.»
«Questo non
giustifica ciò che volete fare.» disse Rutte. «Invadere Eirinn sarebbe una
follia!»
«E che cosa
dovremmo fare? Aspettare che ci attacchino di nuovo?»
«Sono d’accordo
con il Governatore Tielde.» disse Lyrney,
avvocato e Ministro della Giustizia. «Quella scheggia impazzita di Victor la
conosciamo tutti. Se suo padre ha fatto di tutto per non doverlo designare come
successore ci sarà pure un motivo.»
«Una cosa è sicura,
questa situazione non può continuare.» disse Borg. «La tensione politica e
l’indecisione sono più dannose della guerra, e i mercanti amano questo Paese
soprattutto perché qui le decisioni si prendono in fretta. Se aspettiamo ancora
molti di loro se ne andranno.»
«State parlando di
un’invasione in piena regola!» esclamò Zorech con
insolita veemenza. «Non importa come la vogliate definire, la sostanza non
cambia.»
«Messer Zorech ha ragione.» disse Mary. «Abbiamo creato tutto
questo con la speranza di dare a tutti i nostri amici un futuro migliore. Ma la
guerra non porta un futuro migliore, solo lutti e miseria.»
«Non l’abbiamo
voluta noi questa guerra, ragazza mia. D’altronde se non facciamo niente, lo
Stato Libero potrebbe cessare di esistere. Vuoi davvero tornare indietro a
quello che c’era prima? Io no di certo.»
«Il ministro Passe
ha ragione.» disse Adrian. «E anche se condivido il tuo pensiero Mary, quello
in cui viviamo non è il mondo delle favole. Non siamo stati noi ad iniziare
questa guerra, ma possiamo decidere come farla finire.»
«Abbiamo
dimostrato la nostra forza. Ora sanno che possiamo difenderci. Forse se
accettassimo di negoziare…»
«Negoziare? Con
Victor?» disse Tielde «Se avesse voluto negoziare
l’avrebbe già fatto, invece solo ieri sono arrivati alla fortezza altri duemila
uomini. Mi sembra chiaro che si sta preparando a riprovarci.»
«E noi lo
respingeremo ancora e ancora, se sarà necessario.» disse Rutte «Ma se
attacchiamo Eirinn diventeremo noi gli invasori. Questo andrebbe contro a tutto
ciò che è scritto nella nostra dichiarazione di indipendenza. Noi difendiamo il
diritto alla libertà, non lo minacciamo.»
«Il problema è che
quando si ha a che fare con chi non vuole sentire ragioni, la violenza è
l’unica risposta possibile.» rispose funereo Adrian. «D’altra parte non
rispondere ad un’invasione così plateale e in spregio ad ogni trattato ci
farebbe apparire deboli.»
«Eirinn tutto
sommato è un pesce piccolo.» incalzò Oldrick «Vi
ricordo che abbiamo l’Unione a sud e l’Impero a nord. Mostrarsi indolenti
sarebbe come ammettere che qualsiasi atto di aggressione contro di noi non
avrebbe alcuna conseguenza. Se passa questo messaggio, presto altri potrebbero
decidere di fare la loro mossa.»
Daemon, che per
tutto quel tempo non aveva aperto bocca, si alzò in piedi, e a quel punto tutti
si zittirono.
«La guerra è un
inferno. Ma è anche una maledizione. Gaia, nella sua infinita saggezza, ne ha
fatto un trionfo dell’orrore proprio perché in caso contrario gli uomini si
divertirebbero troppo a praticarla. E l’ultima cosa che volevo quando ho dato
vita alla Rivoluzione era vedere la nostra nazione trascinata in un conflitto
che non ha voluto. D’altronde però ci sono delle occasioni in cui l’utilizzo
della forza è giustificato, e talvolta garantire il bene di una nazione
significa anche annichilire chi ha dimostrato di essere una minaccia per lei.»
«Daemon…» disse Zorech come se non volesse credere a ciò che stava sentendo
«La vittoriosa
difesa della nostra terra ha dimostrato a tutti la nostra forza. Ora è tempo di
mostrare la nostra risolutezza. Manderemo un messaggio forte e chiaro, e tutti
d’ora in poi sapranno che attaccarci o minacciarci avrà delle conseguenze.»
«Sei davvero
sicuro che non ci sia altra soluzione?»
«Mi dispiace,
Mary. So che per te non deve essere una decisione facile, e non ti biasimo se
non sei d’accordo con me. Ma è la nostra sopravvivenza ad essere a rischio, e
non solo perché Victor potrebbe attaccarci ancora da un momento all’altro. Come
ha detto Borg, questa guerra potrebbe distruggere la nostra economia. Eirinn è
la nostra porta verso l’oriente. Anche se non dovessero attaccarci ancora,
saremo destinati alla rovina se quelle rotte commerciali non dovessero essere
riaperte al più presto. Per questo, chiedo all’Assemblea di autorizzare
l’inizio di una campagna militare contro Eirinn.»
«Eirinn è un
alleato dell’Impero.» disse mestamente Rutte. «Se lo attacchiamo sarebbe come
dichiarare guerra allo stesso Ademar.»
«Vi ricordo che
quella che occupiamo è una terra che formalmente appartiene proprio all’Impero.
Francamente dubito che i nostri rapporti con loro potrebbero essere peggio di
così. Dico bene, Daemon?»
«Dici benissimo, Tielde. Sappiamo tutti che prima o poi l’Impero si muoverà
contro di noi, ed è molto probabile che questa decisione li spingerà ad agire.
Ma come ho detto, a volte proteggere una nazione significa anche dover correre
dei rischi. Allora? Qual è la vostra decisione?»
Per la prima volta
in cinque mesi la votazione non si concluse con una decisione unanime, anche se
alla fine fu solo Zorech ad esprimere un voto
contrario.
«Vi ringrazio per
la vostra fiducia. Voglio precisare che non è mia intenzione reclamare terre
che non siano già nostre, e qui davanti a voi mi impegno a cessare le ostilità
nel momento in cui il nemico deciderà di negoziare.»
«C’è solo un
problema.» disse Adrian. «Victor e il suo esercito controllano ancora GroteMuren, e l’impegno che ci
abbiamo messo per ammodernare quella fortezza ora ci si ritorce contro.»
«Ha ragione.»
disse Oldrick. «Rischiamo di subire perdite
considerevoli fin da subito attaccando la fortezza frontalmente, visto che il
Passo di Gael sarà sicuramente ancora troppo bloccato
per oltrepassarlo agilmente.»
«Qualcosa ci
inventeremo. Nel frattempo voglio quanto prima un resoconto dettagliato dello
stato delle nostre forze. Contate fino all’ultimo uomo di cui disponiamo, e
assicuratevi che tutti abbiano armamenti e vettovaglie a sufficienza.
Naturalmente il bando su saccheggi e razzie resterà valido, e chiunque
trasgredirà pagherà con la forca.»
Chiusa nella sua cella, Athreia aveva
avuto tanto tempo per pensare.
E i suoi non erano
certo pensieri felici.
Anche se si
sforzava di credere che ciò che le era stato detto non poteva essere vero, le parole
di Scalia su quanto accaduto su quella montagna le martellavano incessantemente
la testa togliendole la fame, il sonno e la ragione.
Come era solita
fare in situazioni come quella cercava di mantenere il controllo con la
meditazione o l’esercizio, ma nessuna di queste cose era facile da fare chiusa
in un buco dove a stento riusciva a muovere qualche passo.
Se non altro
origliando i discorsi delle guardie aveva capito, o forse aveva voluto
convincersi di aver capito che sua sorella era sopravvissuta anche alla
battaglia di Mistvale, e questo serviva a darle
almeno un motivo per voler restare in vita.
Ma i giorni
passavano, e sembrava che a nessuno importasse più niente di lei.
Poi una sera la
porta della cella si aprì; in un primo momento pensò fossero la guardia e il
secondino che le portavano da mangiare e non interruppe nemmeno la propria
meditazione, salvo accorgersi che il passo di uno dei due era troppo leggero
per appartenere a quel canide scontroso e al suo amico cinghiale.
«Lei viene con me.
E naturalmente tu non ne sai niente, sono stato
chiaro?»
«Sì Daemon, non
preoccuparti.»
Come se stesse
accompagnando un’amica piuttosto che una prigioniera Daemon guidò Athreia fuori
dalle prigioni.
«Ormai ti sarai
ripresa, suppongo.» disse il ragazzo montando a cavallo «E se vuoi un
consiglio, evita di fare scherzi. Dovresti averlo capito che sarebbe inutile,
inoltre ci sono pattuglie e soldati ovunque, quindi non andresti lontano.»
E Athreia,
accondiscendente in un modo che sorprese perfino lei, fece come le era stato
detto, accodandosi al suo carceriere nella loro silenziosa marcia verso le
porta della città. In giro non si vedeva anima viva, e attorno a loro tutto era
immerso nel silenzio della notte.
«Abbiamo imposto
il coprifuoco dopo il tramonto. Non avevo voglia di dare troppe spiegazioni a
Scalia o a qualche altro di quei rompiscatole dei miei consiglieri. Ma anche se
qualcuno dovesse vederti, finché sei con me puoi stare tranquilla.»
E in effetti
nessuno, neanche i soldati che facevano la guardia alle porte, fecero domande,
permettendo al loro comandante di andarsene portandosi dietro la prigioniera
senza dire una parola.
Lasciata la città
procedettero a passo abbastanza sostenuto verso ovest; una galoppata come
quella normalmente per Athreia sarebbe stata una cosa da nulla, ma i molti
giorni chiusa in prigione e la convalescenza pesavano sul suo fisico.
«Basta così.»
disse quindi Daemon dopo qualche ora. «Riposiamoci fino al sorgere del sole.»
«Posso ancora
continuare.» disse la centaura con aria quasi risentita
«Non chiedere
troppo a te stessa. Inoltre non mi va di trascinarti appresso. Sei piuttosto
pesante, lo sai?»
Con l’abilità che
solo qualcuno abituato a vivere nella natura selvaggia poteva avere Daemon
montò un accampamento, e una volta acceso il fuoco mise a scaldare un po’ di
cibo preso fuori dalla bisaccia della sella.
«Meglio se mangi
qualcosa.» disse il ragazzo notando che la sua ospite esitava a consumare le
verdure che le aveva messo a disposizione. «Domani dobbiamo inerpicarci su per
le montagne.»
Fu solo a quel
punto che Athreia ebbe il coraggio di fare la fatidica domanda.
«Dove mi state
portando?»
«C’è una cosa che
voglio che tu veda.»
«Non importa cosa
mi farete vedere o cosa mi direte. Io non intendo tradire i miei compagni.»
«Cosa ti fa
pensare che voglia questo da te?»
«Ho sentito i
discorsi delle guardie. Umani e mostri che combattono insieme. È evidente che
avete un grande potere di persuasione. Ma io so in cosa e in chi riporre la mia
lealtà. Sono un soldato dell’esercito imperiale, e tale resterò fino al termine
dei miei giorni.»
Daemon la guardò
negli occhi, e per la prima volta dalla morte di suo padre Athreia si sentì
pervadere da uno strano senso di soggezione.
«Sei mai stata
fuori dell’Impero?»
«Cosa!? … Beh, no…
Da bambina ho visitato le terre libere degli elfi.»
«E tra di voi
c’erano dei centauri provenienti da altre nazioni?»
«Impossibile.
Proveniamo quasi tutti dalla stessa regione. I pochi di noi che non sono
originari della Vanlia sono nativi di altre province
dell’Impero. Perché me lo chiedete?»
«Era solo
curiosità.»
Quindi, appena
finito il suo pasto, Daemon si coricò.
«Farai il primo
turno di guardia. Svegliami fra tre ore.»
Athreia non
riusciva davvero a capire come facesse quel ragazzo si fidasse di lei fino a
questo punto; forse confidava nella sua paura del bind, o forse era solo un
completo sciocco.
Aveva perfino
lasciato la spada in bella vista accanto al giaciglio; le sarebbe bastato
allungare una mano per prenderla, tagliargli la gola e scappare.
E invece fece
proprio quello che le era stato chiesto; dopo aver mangiato, montò
diligentemente la guardia ben oltre l’ora designata, tanto che quando Daemon si
svegliò ormai cominciava ad albeggiare.
«Avresti dovuto
chiamarmi.»
«Non avevo sonno.
Ho dormito molto in cella.»
Daemon preparò
quindi quella sua strana bevanda amara a base di chicchi tostati e tritati
messi a infuso nell’acqua bollente.
«Vuoi assaggiare?
Ti avviso che è parecchio forte.»
E lo era davvero,
tanto che ad Athreia bastò un sorso per sentire il cerchio alla testa e le
orecchie che tremavano.
«Come fate voi
umani a bere questa roba?»
«In realtà per
adesso da queste parti la bevo solo io. Ma sto cercando di diffonderla
nell’esercito. Come hai notato è ottima per tonificare il corpo e tenere la
mente lucida.»
Ora Athreia
cominciava a capire come mai quel ragazzo all’apparenza così normale fosse
stato capace di soverchiarli in modo tanto plateale. Il modo in cui si
preoccupava per i suoi soldati e tutti i suoi sudditi, e il rispetto che loro
avevano per lui, non erano normali, soprattutto per un governante umano.
«Con il dovuto
rispetto, ma non sembrate davvero una persona che ha preso il comando di una
nazione solo da qualche mese.»
«Chissà.» ammiccò
il ragazzo. «Magari in una vita precedente sono stato un generale. O perfino un
imperatore, chi può dirlo?»
Athreia non era
particolarmente devota, ma le veniva quasi da domandarsi se non potesse essere
vero.
Dopo aver smontato il campo Daemon e
Athreia si rimisero in cammino, incamminandosi come predetto lungo un sentiero
che li portò nel cuore delle montagne, lì dove il bosco si faceva meno fitto
lasciando posto a grandi pascoli.
«Ci siamo quasi.»
disse Daemon dopo alcune ore di cammino indicando poco lontano un agglomerato
di case rannicchiato alla base di un costone di roccia.
«Che cos’è?»
«Un ritrovo di
pastori. Un tempo lo usavano durante l’alpeggio estivo, ma adesso è
abbandonato.»
«Eppure a vederlo
da qui si direbbe ancora abitato.»
«Infatti lo è. Tra
poco capirai.»
Ma ciò che Athreia
vide una volta che finalmente furono arrivati fu tale da lasciarla senza
parole.
Il villaggio era
effettivamente abitato, tanto che molte case erano state risistemate, ma i suoi
abitanti non erano esseri umani.
Centauri.
Quel posto era
pieno di suoi simili.
Dovevano essere
almeno duecento di tutte le età, specie e provenienza, dai puledri delle steppe
settentrionali ai massicci colossi dell’estremo ovest, che giocavano,
conversavano e lavoravano assieme come se fosse stata la cosa più naturale del
mondo.
I primi ad
accorgersi dei nuovi arrivati furono un tre bambini che si esercitavano nella
guerra sul vasto prato antistante il villaggio, e che corsero sorridendo verso
di loro agitando le loro spade e lance giocattolo.
«Master Daemon!
Siete tornato!»
«Salve, ragazzi.
Sono felice di rivedervi.»
«Ci avete portato
qualcosa di buono?»
«Mi dispiace, oggi
no. Prometto di portavi qualcosa la prossima volta. Ma voi però non la finite
mai di prendervi a legnate?»
«Vogliamo
diventare forti e imparare a combattere! Così quando saremo grandi potremo
batterci al vostro fianco!»
«Ammiro la vostra
determinazione. La mia speranza è che per quando voi sarete cresciuti le guerre
saranno solo un brutto ricordo. Ma ciò non significa che non dobbiate diventare
forti, cosicché un giorno possiate proteggere i vostri amici e tutto il vostro
popolo.»
«Lo faremo di
sicuro!»
«Master Daemon,
chi è questa signorina?» chiese l’unica bambina del gruppo. «Anche lei si
fermerà qui con noi? Il vecchio Lasik ha appena
finito di risistemare un’altra casa, ci sarà sicuramente posto anche per lei.»
«Non abbiamo
ancora deciso. Ma le ho parlato di questo posto e voleva vederlo. Ora però
tornate a giocare.»
Athreia era
talmente senza parole da non riuscire ad aprire bocca, e più si aggirava per il
villaggio più aumentava il suo stupore.
«Come immaginerai
i centauri non sono esattamente i benvenuti qui. Ho creato questo insediamento
per dare loro un posto dove stare, e nel mentre introduco alcuni di loro
nell’apparato amministrativo per abituare gli altri mostri alla loro presenza.»
«Ma perché sono
qui? Voglio dire, perché un centauro dovrebbe voler venire in un posto come
questo?»
D’un tratto
Athreia si sentì chiamare, e giratasi vide un attempato centauro dall’aria
gentile venirle incontro trascinandosi appresso una slitta piena di tronchi
appena tagliati.
«Lady Athreia,
siete davvero voi. Incredibile, siete identica a vostra madre. Scusate, forse
non vi ricordate di me. Mi chiamo Lasik, ero il
luogotenente di vostro nonno molto tempo fa.»
«Mi ricordo di
voi. Siete scomparso nel nulla molti anni fa, quando ero solo una bambina.
Dicevano che eravate morto.»
«Ci sono andato
vicino. Mi hanno catturato durante le dispute di confine. Sono stato portato
nell’Unione, dove sono stato per molto tempo schiavo in una piantagione del
sud.»
«Schiavo!?»
«Sì, lady Athreia.
Quasi tutti coloro che ora abitano qui erano schiavi. Quando abbiamo saputo che
lo Stato Libero era pronto ad accogliere anche noi, siamo scappati e ci siamo
rifugiati qui. Master Daemon ci ha dato questo posto e ci ha restituito la
libertà.»
«Ma non è
possibile. Io sapevo che i centauri non potevano essere schiavizzati. Gli umani
ci considerano loro pari.»
«Nell’Impero forse
sì, ma altrove è diverso. Nell’Unione, a Torian e
persino in Volkova noi centauri siamo considerati
mostri né più né meno di qualunque altra specie, e come tali possiamo essere
ridotti in schiavitù. Una volta chi poteva fuggiva a Connelly o nell’Impero, ma
ormai è diverso tempo che entrambe le nazioni rifiutano di accoglierci.
Comunque sono felice di rivedervi. Quando abbiamo saputo di cosa era successo
sul Passo di Gael ho temuto per la vostra vita.
Vedrete che vi troverete bene qui, Messer Daemon ha sempre posto per chi ha del
talento, dico bene?»
«Hai detto
benissimo, amico mio. Grazie per occuparti di questa gente in modo così
premuroso.»
«Grazie a voi, per
averci restituito la dignità.»
Quando dopo poco Lasik se ne andò portandosi dietro il suo pesante fardello,
Athreia sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
«Capisci ora
perché ti avevo chiesto se fossi mai stata fuori dall’Impero?»
«Questo… questo è
crudele. Mi fate vedere queste cose così da farmi dubitare di ciò su cui ho
basato tutta la mia vita.»
«Non definirei
l’aprire gli occhi a qualcuno sulle bugie che gli sono state raccontate per
anni crudele. E se proprio vuoi saperlo, molti abitanti di questo villaggio
vengono proprio dall’Impero. Non ti domandi il perché?»
Athreia però era
ancora troppo sconvolta e atterrita per avere anche solo la forza di pensarci.
«L’Impero forse
non considera i centauri allo stesso livello di tutti gli altri mostri, ma di
certo vi ha sempre visti come nient’altro che efficaci macchine da guerra. Un
soldato o un legionario che rimanga ferito, invalido, o che semplicemente non
sia reputato in grado di servire nell’esercito può comunque sperare di trovare
un altro scopo nella vita o percepire un generoso sussidio. Ma un centauro che
non può combattere non ha alcun valore. Se non fai parte o non hai mai fatto
parte di un’unità militare di qualunque tipo non hai diritto a possedere una
casa, della terra, e tanto meno ad avere una tua attività. Tutto quello che ti
è concesso fare è metterti al servizio di un umano, che potrà disporre di te a
suo piacimento. E non pensare che i feriti o gli invalidi se la passino meglio;
il sussidio che percepiscono basta a malapena per sopravvivere, e ti lascio
immaginare quanto sia facile per loro trovare un lavoro. E tutto questo senza
contare che i centauri non hanno il diritto di voto, ad esclusione di quello
per l’elezione dei propri rappresentanti nei governi municipali, che però
devono essere sempre approvati dal governatore. Ora dimmi sinceramente in cosa
tutto questo differisca dall’essere uno schiavo.»
Era più di quello
che Athreia poteva sopportare, e nascondendo il volto tra le mani la ragazza
corse via perdendosi ben presto tra i vicoli.
Tutto quello che
ottenne vagabondando su e giù senza sapere dove andare fu ritrovarsi faccia a
faccia con decine di suoi simili che felici e sorridenti si godevano la loro
ritrovata libertà, e che al suo passaggio la osservavano quasi con
compatimento.
La stessa bambina
di poco prima la vide mentre, esausta e atterrita, si abbandonava contro il
muretto di una malga poco fuori il villaggio, bagnando con le proprie lacrime
l’erba ai suoi piedi.
«Non piangere,
signorina.» le disse offrendole una mela. «Vedrai che tutto si sistemerà. Ora
sei libera.»
Ma cosa voleva
dire essere liberi?
Per tutta la vita
Athreia era stata sicura di esserlo.
Poteva andare dove
voleva, ma il suo destino era mai stato davvero nelle sue mani?
Essere un soldato
non era forse l’unico scopo che la sua vita avesse mai avuto? C’era mai stata
una volta in cui si fosse chiesta se avesse voluto essere qualcos’altro?
No, per il
semplice fatto che non gliene era stata data l’occasione.
Credeva che quella
vita le piacesse per il semplice fatto che era stata educata a ritenere che per
un centauro non vi fosse altra aspirazione all’infuori della guerra, la sola
cosa per cui la vita era degna di essere vissuta.
Ma quelle persone
erano diverse. Alcuni, bastava guardali, erano stati loro stessi dei guerrieri,
ma in quel villaggio lontano dalla guerra sembravano aver trovato uno scopo
diverso.
Ora erano felici.
E lei invece, lo era? O lo era mai stata?
Tutto d’un tratto
le tornavano in mente tutti gli sguardi ostili, i gesti di insofferenza, le
palesi mancanze di considerazione che aveva sempre fatto finta di non vedere,
convincendosi che si trattasse di singoli casi che non rispecchiavano ciò che
gli umani davvero pensavano della sua specie.
Un verso stridulo
e insopportabile, reso più forte dall’eco delle montagne tutto attorno, le
trapanò la testa facendola quasi svenire.
Tutti nel
villaggio lo sentirono, ma solo in pochi capirono di cosa si trattava; e
Daemon, con la sua esperienza da cacciatore, era uno di questi.
«Maledizione,
ditemi che sto sbagliando.»
Invece purtroppo i
suoi sospetti trovarono conferma quando da dietro la cima più alta comparve una
specie di enorme drago, con il corpo ricoperto di scaglie blu e l’addome di un
colore rosso opaco, diretto proprio verso il villaggio.
«Lo sapevo, è una viverna! Lasik, suona la campana!
Portate tutti nelle grotte!»
«E voi cosa
farete?»
«Io cercherò di
allontanarla da qui! Fate come vi ho detto!»
Purtroppo quella viverna volava con tale velocità che in molti non fecero in
tempo a mettersi in salvo venendo raggiunti, uccisi e in molti casi mangiati.
Per fortuna quella
bestia non si concentrò sul villaggio, preferendo piuttosto accanirsi su coloro
che si trovavano all’esterno, magari isolati e senza posti vicini dove potersi
nascondere; peccato solo che anche Athreia e la bambina fossero tra questi.
«Mettiti in salvo,
piccola!»
Athreia ai mise
quindi a correre a zigzag nella speranza di attirare l’attenzione della viverna, che però sfortunatamente preferì subito rivolgere
le sue attenzioni alla bambina, talmente spaventata da restare pietrificata per
la paura mentre quel mostro le veniva addosso con le fauci spalancate.
A quel punto, la
centaura fece la prima cosa che l’istinto le suggerì: proteggere un’innocente.
Caricando come un
toro, colpì quel bestione cinque volte più grande di lei sulla guancia con
tutta la forza che aveva un attimo prima che potesse ghermire la bambina,
riuscendo a sbilanciarlo e a scaraventarlo al suolo in un turbinio di polvere.
Questo
effettivamente distolse una volta per tutte l’attenzione della viverna dalla bambina che si decise finalmente a mettersi
in salvo, ma ebbe anche l’effetto di fare infuriare la creatura.
Athreia recuperò
perciò da terra un forcone e tentò di difendersi, scoprendo però ben presto che
avere un corpo così massiccio e imponente a volte poteva rivelarsi un ostacolo,
specie quando si cercava di schivare colpi d’ala, frustate di coda, o affondi
di mascelle fulminei come quelli di un serpente.
Oltretutto quella
dannata bestia aveva scaglie dure come la roccia, e per quanto Athreia ci
provasse non c’era verso di riuscire a ferirla.
«Sprechi il tuo
tempo!» gridò Daemon arrivando a darle manforte armato di arco e lanciandole l’unica
spada che era riuscito a trovare. «Gli unici punti deboli sono gli occhi,
l’interno della bocca e il ventre.»
«Quindi che
facciamo?»
«Dobbiamo riuscire
a farla ribaltare.»
La fortuna era che
quella bestiaccia cadendo doveva essersi rotta un’ala, perché il suo tentativo
di spiccare nuovamente in volo si risolse in un saltello sgraziato.
Iniziò quindi una
specie di gioco dell’acchiapparella, con la viverna
che lanciava artigliate, codate e affondi di denti in tutte le direzioni e le
sue due prede che le giravano attorno, schivando tutti i colpi alla ricerca di
un varco.
Il lavoro di
squadra alla fine sembrò ripagare, perché ad un certo punto la viverna a forza di girare su sé stessa iniziò ad andare nel
pallone, barcollando come se fosse ubriaca e diventando sempre meno precisa nei
suoi attacchi.
Intravista
un’apertura Athreia non stette a pensarci troppo lanciandosi in un attacco a
dir poco azzardato, che infatti la mise per un istante a tu per tu con la bocca
spalancata della creatura. Ma nonostante la sua stazza la centaura prima schivò
l’assalto e quindi, mettendoci tutta la forza che aveva, colpì la parte
terminale dell’ala che la viverna usava per
puntellarsi al suolo, facendole perdere l’equilibrio e riuscendo finalmente a
farla ribaltare.
Daemon colse
subito l’attimo e si arrampicò sul corpo del mostro, riuscendo faticosamente a
restare in equilibrio.
«Bonne nuit, salope!» urlò prima di
piantarle venti centimetri di lancia dritta nel cuore.
La creatura lanciò
un ultimo, terrificante urlo di dolore prima di esalare l’ultimo respiro ed
accasciarsi senza vita sull’erba, che iniziò subito a tingersi di rosso.
«Sembra che ce
l’abbiamo fatta.» disse Daemon riprendendo fiato. «In qualche modo.»
«Devo ricredermi
sul vostro conto. Credevo foste bravo solo a dare ordini da lontano, invece
sapete anche come combattere.»
«E tu invece tieni
fede alla reputazione delle Furie.»
«Ad ogni modo,
credevo che le viverne vivessero solo sulle montagne più alte.»
«Nella catena del Khoral ce ne sono parecchie, ma è la prima volta che si
spingono così a valle. Deve esserci stata una moria di prede considerevole nel
corso dell’ultimo inverno.»
Cessato il
pericolo gli abitanti del villaggio iniziarono timidamente ad uscire dai loro
nascondigli, e alla vista della viverna ormai senza
vita circondarono i loro salvatori riempiendoli di ringraziamenti.
«Messer Daemon, vi
dobbiamo tutti la vita. Avete fatto per noi più di chiunque altro.»
«Non è con me che
dovete congratularvi Lasik, ma con Athreia. Senza di
lei non penso che ne sarei uscito vivo.»
Quella era la
prima volta che Athreia veniva ringraziata per il proprio lavoro da qualcuno
che non fosse un membro del suo gruppo, e vedersi celebrata in quel modo fu una
sensazione stranissima.
«Quindi, ora siamo
al sicuro?»
«Voi si.» disse
mestamente il ragazzo. «Ma temo di non poter dire lo stesso per altri.»
«Che intendete
dire?» chiese Athreia
«Le viverne sono
monogame, e si spostano sempre in coppia. Questa era la femmina, quindi il
maschio deve essere da qualche altra parte.»
«E dove potrebbe
essere?»
«Purtroppo c’è un
solo posto nei dintorni abbastanza popoloso da poter attirare l’attenzione di
una creatura tanto grossa e affamata.»
Daemon si fece
quindi portare in tutta fretta il suo cavallo.
«Quella viverna è venuta da nord. Anche ipotizzando che il maschio
si trovi ancora al nido probabilmente è solo questione di ore prima che arrivi
al Castello. Devo andare lì, avvertirli e organizzare le difese.»
«E io cosa farò?»
domandò Athreia quasi con timore
«Tu resterai qui.
Per il momento questa sarà la tua casa. Per qualsiasi cosa, chiedi a Lasik.» e senza aggiungere altro se ne andò, lasciando la
centaura da sola in compagnia dei suoi simili e dei suoi dubbi.
In tutta la mia carriera di cacciatore non
avevo mai avuto a che fare con una viverna, più che
altro perché ci tenevo alla pelle e non mi andava di rischiarla combattendo con
uno di quegli scherzi di madre natura.
Mi era capitato
spesso di vederle da lontano, e negli anni mi ero ben guardato dall’avvicinarmi
troppo a uno dei loro nidi o ai loro territori di caccia.
Tra stambecchi,
camosci e altri mammiferi d’alta montagna non gli era troppo difficile trovare
da mangiare, per non parlare delle carcasse, ma avrei dovuto prevedere che
l’ultimo inverno doveva aver spinto verso valle anche le loro abituali fonti di
cibo.
Avevo passato
molto tempo a studiare quelle bestie, e anche se non ne avevo mai cacciata una
sapevo più o meno come andavano approcciate e quale fosse il loro comportamento
abituale. Vista la loro stazza tendevano a prediligere luoghi in cui vi fosse
un’alta concentrazione di prede, e dal momento che ingurgitavano praticamente
di tutto anche un villaggio all’occorrenza poteva diventare un bersaglio
invitante.
Come se non
bastasse con buona parte dell’esercito già mobilitato in vista dell’invasione
non era stato per niente facile mettere insieme abbastanza uomini e
attrezzature per ciò che avevo in mente, ma nelle giuste circostanze un abile
mago vale quanto un’intera compagnia di soldati comuni.
E fortunatamente il
maschio se la prese più comoda del previsto, arrivando in vista del Castello
solo all’alba del giorno successivo.
L’esca era già
pronta: dieci delle migliori vacche di razza contiana.
Il solo pensiero di doverle sacrificare per fare da cena ad un drago malriuscito
mi faceva uscire dai gangheri, ma meglio dieci vacche che qualche centinaio tra
soldati e civili.
Per sicurezza
avevamo portato tutti gli abitanti nei sotterranei, ma l’odore che quei manzi
mandavano era così forte che la viverna semplicemente
non seppe resisterci, fiondandosi sulla piazza d’armi del castello e iniziando
a ingoiarli praticamente interi uno dopo l’altro.
Era così presa dal
suo banchetto che non si accorse di nulla.
«Adesso!»
Al mio comando
Sylvie sbucò fuori dal suo nascondiglio in cima alla torre, già avvolta da
un’aura luminosa.
«Holy Chain!»
Una vera e propria
rete di luce comparve dal nulla sopra la piazza, piombando sulla viverna e schiacciandola al suolo; qualsiasi altra creatura
non sarebbe riuscita neanche a muoversi vista la potenza e l’efficacia di
quell’incantesimo, ma quel mostro era talmente grosso e forte che sembrava solo
una questione di tempo prima che riuscisse a liberarsi.
«Non diamole il
tempo di reagire!»
Zypax e gli altri ragazzi
delle fonderie avevano lavorato tutta la notte per finire di inastare sui loro
affusti i nuovi cannoni da dodici libbre e portarli fino a lì da Dundee, e
quella sarebbe stata un’ottima occasione per collaudarli.
Ad un mio cenno
gli artiglieri si affrettarono a lasciare i loro nascondigli, e in pochi
secondi quella bestiaccia si ritrovò dieci bocche da fuoco nuove di zecca
puntate contro da ogni direzione.
La prima scarica
di cannonate non sortì grande effetto, ma già alla seconda i proiettili cominciarono
a perforare le sue scaglie d’acciaio riempiendo il suo corpo di buchi.
Quando questa storia sarà finita dovrò fare due
chiacchiere con Oldrick. Sono ancora troppo lenti nel
caricamento.
In un certo senso
avevo sempre desiderato di capire meglio le viverne, ed era un peccato che
nessuno fosse mai riuscito a trovare il modo di addestrarle. Per questo l’idea
di ucciderne una, per quanto necessario, non mi faceva impazzire.
Quasi non mi
sorprese che anche dopo aver ricevuto almeno un centinaio di colpi, sforacchiata
in ogni dove, quella creatura trovasse ancora la forza di agitarsi nel
tentativo di liberarsi dall’incantesimo vincolante o di aggredire qualcuno dei
cannoni.
Speravo di poter
risolvere la questione senza dover ricorrere nuovamente alla magia, ma a quel
punto non mi sembrò giusto prolungare ancora la sua agonia.
«Lady Valera,
tocca a voi!»
Vorrei dire che il
vortice di fuoco che quella ragazza evocò e che mise fine ad ogni velleità di
resistenza del nostro nemico mi lasciò indifferente, ma sarebbe una bugia.
Per quanto mi
fossi abituato a vedere di cosa fosse capace la magia di quel mondo, i poteri
di Sylvie erano talmente grandi che ogni volta restavo senza parole.
Il suo BurningBlaze fu così potente da
far annerire persino le pietre della piazza, e quando quella specie di inferno
di fiamme si estinse la viverna era ormai ridotta in
uno stato pietoso, una bestia agonizzante che aspettava solo il colpo di
grazia.
«Scusa amico,
niente di personale. Ma sei venuto a caccia nel posto sbagliato.»
«Fermatevi!»
Quella voce così
perentoria mi fermò subito prima che estraessi la spada, ma fu solo quando lei
mi passò davanti che realizzai di chi fosse.
«Cosa ci fai qui, Xylla? Dovresti essere nei sotterranei.»
«Ma non vi
vergognate a ridurre in questo stato un animale tanto bello?»
«Era una questione
di vita o di morte. Non puoi ragionare con le viverne.»
«Ti sbagli.»
Quando la vidi
avvicinarsi, seppur con precauzione, al muso di quella bestia ferita e
abbrustolita, ma non per questo meno pericolosa, mi aspettai di vederla finire
mangiata da un momento all’altro.
«Buono, bello. Lo
vedi? Va tutto bene. Non voglio farti del male.»
Invece la viverna, dopo qualche momento di agitazione, sembrò
calmarsi, prendendo ad uggiolare come un cagnolino ubbidiente mentre Xylla la accarezzava.
«Che mi prenda un
colpo.» dissi con sincero stupore «Xylla, voi arpie
potete parlare con le viverne!?»
«Sono secoli che
condividiamo con loro le cime più impervie di questo mondo. Abbiamo imparato a
capirci gli uni con gli altri.»
Di colpo mi venne
in mente un’idea che chiunque, a cominciare dal vecchio me stesso, avrebbe
potuto considerare a buon diritto assolutamente folle.
«Lady Sylvie,
potete curare questa viverna?»
«Cosa!? Ma, Messer
Daemon…»
«Vi prego,
fidatevi di me. Se ho ragione, con il suo aiuto e quello di Xylla
salveremo moltissime vite.»
Tutti a GroteMuren, dall’ultima delle reclute fino allo stesso Victor,
erano consapevoli che quella calma surreale venutasi a creare nella zona attorno
al forte fin da subito dopo la disfatta di Mistvale
era solo apparente.
Era come se
nessuno volesse arrischiarsi a fare il primo passo.
I ribelli,
consapevoli di quanto potesse essere pericoloso assaltare un forte che loro
stessi avevano provveduto a rendere quasi inespugnabile, avevano semplicemente
ripreso il pieno controllo della regione, mentre dall’altra parte del fronte le
truppe di Eirinn negli ultimi dieci giorni erano aumentate costantemente di
numero.
Ma era uno stallo
che non poteva durare, ed era sul modo in cui doveva finire che tra Victor e i
suoi consiglieri non c’era comunione di vedute. Al punto che alla fine Lefde si era risolto a fare qualcosa che mai avrebbe
pensato di dover un giorno fare.
«Come ti permetti,
maledetto insolente?»
Il Generale non si
scompose neanche quando Victor gli tirò contro il proprio calice, restando
immobile a prendersi il colpo che tinse di rosso l’acciaio della sua armatura.
«Dovrei farti
impiccare! Non solo abbiamo perso, ma ti avanza pure da fare una richiesta del
genere?»
L’oggetto della
contesa era la pergamena che il Generale aveva appena appoggiato sul tavolo, e
al giovane Montgomery era bastato leggerne le prime righe per uscire
letteralmente di testa.
«Capisco la vostra
rabbia Mio Signore, ma ciò nonostante vi chiedo umilmente di firmare quel
documento.»
«Voi mi state
chiedendo di autorizzarvi ad assumere il comando assoluto del nostro esercito,
in pratica esautorando me stesso dal ruolo di comandante supremo?»
«Questa è
insubordinazione in piena regola!» disse Philippe. «Fin dai tempi di Gearld Montgomery, il ruolo di comandante supremo è sempre
appartenuto solo ed esclusivamente al Granduca.»
«Con il dovuto
rispetto Conte di Hatlen, nessuno dei venerabili
antenati di Sua Eccellenza ha mai avuto a che fare con un nemico del genere.
Daemon Haselworth è un avversario come non se ne sono mai visti nella storia
del nostro Paese. E avversari straordinari richiedono misure straordinarie.»
«Mi state dicendo
che non mi considerate in grado di misurarmi con lui? È questo che intendete?»
Se solo il vecchio
Generale avesse potuto dire apertamente quello che pensava…
«Voi siete il
nostro sovrano, Mio Signore. In questa ora buia, tutti noi cerchiamo la vostra
luce per trovare riparo dalle tenebre che ci minacciano. Ma da questo momento
in poi ogni battaglia potrebbe essere l’ultima. Qualsiasi cosa succeda, io
voglio poter essere sicuro che Sua Eccellenza sarà in grado di mettersi al
sicuro. La mia vita sarebbe un piccolo prezzo da pagare per la salvezza di
Eirinn, ma la perdita del Granduca significherebbe la fine di questa nazione.
Qualora ci dovessimo trovare ancora in una situazione come quella accaduta a Mistvale sarà necessario che il comandante dell’armata
possa contare su di una catena di comando solida e preparata, che tenga
indietro il nemico in modo da dare a Voi il tempo di mettervi in salvo.»
Detto questo il
Generale si sfilò il pugnale intarsiato poggiandolo sul tavolo.
«Voi siete il Mio
Signore, e a Voi io devo il massimo rispetto e obbedienza. Ma in tutta
coscienza non posso e non voglio dover scegliere tra la fedeltà alla Vostra
famiglia e quella verso la nostra patria. Pertanto, se ritenete di non poter
accogliere la mia richiesta, allora sono pronto a rassegnare qui e ora le mie
dimissioni. Se lo richiederete, vi offrirò anche la mia stessa vita.»
Philippe guardava
il nipote come se non desiderasse altro che vederlo dare a Lefde
l’ordine di piantarsi quella lama nel cuore.
Invece Victor
digrignò i denti, fissando il Generale con sguardo che sapeva di furente
rassegnazione; quindi, versata un po’ di cera sulla pergamena, vi batté
rabbiosamente il proprio anello ducale.
«Vi ringrazio, Mio
Signore.»
«Spero tu sia
consapevole che in caso di sconfitta userò questo documento per accendere la
tua pira.»
«Avete la mia
parola che darò fino all’ultima goccia di sangue per la nostra patria.»
Sistemata la
questione venne il momento di fare il bilancio della situazione.
«Ormai abbiamo
quasi completamente riassorbito le perdite subite a Mistvale.
Onestamente non capisco perché vi ostiniate a non voler lanciare una nuova
offensiva, Generale Lefde.»
«Ci vuole ancora
un po’ di tempo. I nuovi soldati per la maggior parte sono giovani reclute e
coscritti. Dobbiamo finire di impartire loro un addestramento almeno basilare,
altrimenti tanto varrebbe mandarli in battaglia nudi e disarmati.»
«Ogni giorno che
passa è un giorno in più che diamo al nemico per rafforzarsi.» disse Victor.
«Quel Daemon è maledettamente preparato, ormai l’ho capito. Se non lo
incalziamo, chissà cos’altro potrebbe scatenare contro di noi.»
«Purtroppo la
battaglia ci ha dato la prova che le voci sul suo conto non erano affatto
esagerate, Mio Signore. Attaccare in maniera avventata come abbiamo fatto a Mistvale finirebbe solo per indebolire ulteriormente il
nostro esercito.»
«Tuttavia, le
perdite fino ad ora si contano solo tra i mercenari e i reparti meno esperti. I
nostri veterani e le unità meglio addestrate sono ancora sostanzialmente
intatte. Quindi sono d’accordo con mio zio sul fatto che sarebbe sciocco
rimandare la nuova offensiva solo per dare a queste reclute qualche giorno di
addestramento in più. Se è l’esperienza che gli serve, sul campo di battaglia
ne avranno quanta ne vogliono.»
«Parole sagge, Mio
Signore.» disse Philippe. «Generale Lefde, abbiamo
aspettato tutti questi giorni senza muoverci solo perché ci avete convinti ad
aspettare i nuovi rinforzi, ma ora il tempo è scaduto. È giunto il momento di
attaccare di nuovo.»
Nonostante la
forza datagli dalla nuova posizione appena ottenuta Lefde
sapeva di non poter tirare troppo la corda, almeno in una situazione così
apparentemente favorevole.
Anche perché,
proprio in quel momento, giunse un messaggero recando una notizia tutto sommato
attesa fin troppo a lungo.
«Truppe nemiche in
movimento, Mio Signore.»
«Quanti sono?»
«All’incirca
trentamila, Generale Lefde.»
«È quasi
incredibile con quanta facilità riescano a compensare le perdite che subiscono.
Immagino abbiano mobilitato fino all’ultimo soldato disponibile.»
Sembrava un
esercito perfino troppo grande per cingere d’assedio un singolo forte, ma Lefde non volle nemmeno pensare a quale poteva essere il
motivo dietro ad un simile spiegamento di forze.
«Il nemico si è
indubbiamente impegnato molto nel rinforzare questo castello.» disse
illustrando il suo piano «Le mura sono solide, il pozzo è pieno e protetto da
eventuali infiltrazioni. Io suggerisco di rafforzare le nostre posizioni qui,
qui e qui. Queste tre piazzeforti tra noi e Mistvale
sono collegate al forte tramite la Via Imperiale. Haselworth dovrà per forza
conquistarle tutte per poter assediare GroteMuren senza doversi guardare costantemente le spalle. Se le
usiamo come baluardi da cui coordinare assalti mirati alle sue truppe possiamo
logorare un po’ per volta il suo esercito in preparazione della
controffensiva.»
Le ultime parole
famose.
«Generale! Mio
Signore!» gridò un secondo messaggero «Il nemico ci ha attaccati!»
«Arrivi tardi, lo
sappiamo già. Trentamila unità in arrivo da Basterwick.»
«No Mio Signore,
non intendevo quello! L’attacco è avvenuto a est, ad Eirinn! Todlen è caduta!»
Nota dell’Autore
Salve a tutti!
Ecco qui dunque il secondo capitolo del
Quarto Volume.
Come avrete notato questi capitoli sono
mediamente più lunghi rispetto a quelli dei volumi 1, 2 e 3, ma per evitare
buchi narrativi ho preferito evitare di condensarli troppo o tagliare più di
quanto avessi già fatto.
Già con il Volume 5 dovremmo tornare ad una
lunghezza meno marcata.
«Stai scherzando, spero!» gridò Philippe
all’indirizzo del povero messaggero. «Ripeti quello che hai detto!»
«Purtroppo è tutto
vero, Signor Conte. Una forza nemica ha attaccato all’improvviso il villaggio
di Todlen due ore fa, alle prime luci dell’alba. La
guarnigione che difendeva il villaggio è stata colta completamente alla
sprovvista.»
«Ma come accidenti
hanno fatto? Il Passo di Gael è ancora bloccato, e
nessuna delle piazzeforti ha segnalato nulla! Da dove diavolo sono passati?»
«In quanti erano?»
chiese Victor
«Non lo so, Mio
Signore. Ci sono piombati addosso all’improvviso, mentre io stavo dormendo. Non
li abbiamo neanche sentiti arrivare. Si sono avventati sui miei compagni come
belve scatenate. Li hanno letteralmente sbranati. Poco prima che il villaggio
cadesse il Capitano mi ha ordinato di venire a fare rapporto, e temo di essere
l’unico sopravvissuto.»
«È proprio come
temevo.» disse funereo Lefde
«Che intendi
dire?»
«Trentamila uomini
sono troppi, anche per assediare un forte ben protetto come questo.
Quell’esercito non è qui solo per riconquistare GroteMuren. Intendono marciare contro Eirinn.»
Una simile
prospettiva fece gelare il sangue a Victor e a suo zio, mettendoli di fronte al
peggiore scenario possibile; avevano intrapreso quella campagna per
riconquistare le terre dei loro antenati, e ora rischiavano di perdere le
proprie.
Le piazzeforti che l’esercito di Eirinn
aveva costruito per proteggere la strada verso GroteMuren potevano resistere a comuni assalti degli eserciti
convenzionali, ma non c’era niente che potessero fare per opporsi ai cannoni.
E per essere certi
che non potessero coordinare le difese o supportarsi a vicenda Daemon aveva
ordinato ai suoi luogotenenti Septimus, Jack e Richard di attaccare le tre
fortezze nello stesso momento, in un assalto coordinato che non aveva lasciato
scampo.
In realtà nessuno
dei tre aveva preso materialmente parte alla battaglia, perché nel mentre
Daemon aveva raccomandato a ciascuno di loro di trovare dei bravi subalterni a
cui demandare le operazioni sul campo, limitandosi a coordinare le operazioni
stando in mezzo agli uomini senza però rischiare troppo.
«Un sottufficiale
o un soldato possono essere sostituiti facilmente.» aveva detto loro Daemon
quando avevano protestato per questa decisione. «Ma un ufficiale, o peggio
ancora il comandante di un’intera divisione, sono insostituibili.»
Poteva sembrare un
discorso cinico, considerare una vita più preziosa di un’altra, ma tutti e tre
avevano passato abbastanza tempo in guerra da aver capito che la morte di un
comandante significava spesso anche quella di molti degli uomini sotto il suo
comando. Era quindi necessario che i generali fossero sempre al sicuro, perché
dalle loro decisioni dipendevano le vite di chi non poteva o voleva decidere al
loro posto.
Poche cannonate
erano bastate per fare a pezzi i terrapieni e le palizzate di tronchi, e gli
assalti frontali con il supporto dell’artiglieria e degli arcieri avevano fatto
il resto.
L’attacco
coordinato era iniziato da meno di tre ore quando un messaggero entrò nella
tenda di comando per fare rapporto al resto del Consiglio di Guerra.
«Anche la terza piazzaforte
si è arresa.»
«Quante perdite
abbiamo subito?»
«In tutte le
divisioni poco meno di un centinaio, Messer Daemon.»
«Poteva andare
molto peggio senza i cannoni.» disse Adrian «Lefde è
davvero all’altezza della sua fama. Anche con il poco tempo a disposizione e
quelle due palle al piede al seguito è riuscito comunque ad approntare delle
difese considerevoli.»
Oldrick non sembrava a
suo agio, grattandosi la zucca pelata con evidente fastidio: «Non mi va che i
miei cannoni vengano usati senza che ci sia io a gestirli.»
«L’attacco
coordinato era indispensabile.» rispose Daemon. «Non potevamo permettere alle
tre piazzeforti di supportarsi l’un l’altra. Ma tranquillo, riavrai presto il
tuo comando dell’artiglieria.»
«Quindi ora
punteremo direttamente a GroteMuren?»
chiese Scalia
«Naturalmente.»
«Ammetto che la
cosa non mi entusiasma.» disse Adrian. «Con tutta la fatica che ci è costata la
sua sistemazione.»
«Forse non sarà
necessario. Voglio dire, dopo questa ulteriore sconfitta potrebbero persino
decidere di ritirarsi.»
«Che si ritirino è
praticamente certo, soprattutto se come penso la nostra manovra nelle retrovie
ha avuto successo. Senza più niente a fargli da copertura e con le linee di
approvvigionamento interrotte sarebbero pazzi a non farlo. Anche perché il
forte è pensato per sostenere una guarnigione di qualche migliaio di soldato,
non certo un intero esercito.»
«Potremmo provare
a muoverci immediatamente, magari con un po’ di fortuna potremmo impedire loro
di allontanarsi.» disse Oldrick
«Anche se il
nostro attacco è stato improvviso e molto rapido sarei sorpreso se qualcuno non
avesse fatto in tempo a lasciare le piazzeforti.» osservò Adrian «Stesso
discorso per gli attacchi alle retrovie. No, io penso che o si stanno
preparando a ripiegare o l’avranno persino già fatto.»
«Il problema è che
avranno sicuramente lasciato qualcuno al forte per tenerci occupati e
rallentarci il cammino, così da avere più tempo possibile per riorganizzarsi.»
Daemon sorseggiò
un po’ di caffè, respirando a fondo come a voler cercare di distendere i nervi:
«Inviate messaggeri a tutte e tre le divisioni. Devono raggrupparsi e
prepararsi a ripartire. Entro stasera dobbiamo essere sotto le mura del forte.»
«Lasciare il forte!?» esclamò Victor
«Non abbiamo altra
scelta, Mio Signore. Questo forte poteva essere utile per coordinare le nostre
operazioni, ma non è sufficiente per garantire una difesa adeguata. Non al
nostro intero esercito perlomeno. E ora che il nemico ci ha attaccati anche
alle spalle sarebbe folle rimanere qui ad aspettare di essere accerchiati.»
«Ti rendi conto di
quello che stai proponendo? Dovremmo lasciare quella marmaglia libera di
invadere il nostro Paese?»
«Lo so anch’io che
si tratta di una decisione difficile, e mi dispiace di doverlo fare. Ma
l’alternativa sarebbe restare qui ad aspettare di morire di fame, e intanto il
nemico potrebbe ancora dilagare per Eirinn tenendoci nel mentre chiusi in
questa tomba.»
Dal momento che
Philippe non sembrava propenso a dargli retta Lefde
non ebbe altra scelta che ricordargli fin da subito il documento che il giovane
Granduca aveva appena firmato.
«Sono costretto a
rammentarvi che Sua Eccellenza mi ha affidato il comando assoluto
dell’esercito. Questo significa anche che l’ultima parola sulle operazioni da
seguire spetta a me, anche qualora non siate d’accordo con le mie decisioni.»
Philippe si
aspettava che Victor si opponesse, invece ancora una volta il ragazzo si mostrò
insolitamente collaborativo, cessando ogni ulteriore obiezione.
«Avete sentito il
comandante? Prepariamoci a ripiegare.»
«Ma…»
«Vi ringrazio, Mio
Signore.»
«Ma tieni sempre a
mente quello che ti ho detto. O la testa di Haselworth infilzata su una picca
abbellirà l’ingresso del palazzo, o al suo posto ci sarà la tua.»
Si iniziò quindi
ad allestire subito tutto il necessario per la partenza; ma proprio quando si
pensava che le cose non potessero andare peggio arrivò la notizia che tutte e
tre le piazzeforti erano cadute, e che il nemico si stava ormai preparando a
marciare verso il forte.
«La situazione è drammatica.
È probabile che le truppe che hanno attaccato le retrovie non siano in numero
sufficiente da impensierirci, ma non possiamo offrire la schiena al nemico in
questo modo. Sarebbe come invitarlo a saltarci addosso.»
«Quindi cosa si
fa?» chiese provocatoriamente Philippe
«Non abbiamo
scelta. Qualcuno deve restare qui a coprirci la ritirata.»
Abel, che
attendeva in silenzio in un angolo della stanza, fece subito un passo avanti.
«Generale. Con il
Vostro permesso, vorrei offrirmi volontario.»
Quasi che si
aspettasse la reazione del suo secondo, Lefde non ci
provò neanche a tentare di dissuaderlo.
«Conosci i rischi,
vero? Nella migliore delle ipotesi sarete catturati, nella peggiore…»
«Farò tutto quello
che sarà necessario, Generale. Senza di voi, Eirinn non avrà alcun futuro.»
Era passato
talmente tanto tempo dall’ultima volta che Lefde
aveva combattuto che aveva dimenticato quanto odiasse la sensazione che gli
provocava l’essere costretto a vedere giovani soldati come Abel mandati a
morire al suo posto.
Alla fine si
decise di lasciare a GroteMuren
un presidio di seicento soldati, quanti bastavano per garantire la protezione
del forte per almeno una settimana.
Ma anche se ora
c’era in gioco la salvezza del loro Paese il Generale non poteva accettare
l’idea che quel ragazzo dall’avvenire così brillante, affidatogli direttamente
da un caro amico, andasse incontro alla morte senza alcun motivo.
Così attese che
fossero loro due da soli, quando ormai era tutto pronto per la partenza.
«Cinque giorni.
Cinque giorni sono quello che ci serve per oltrepassare Mablith
e attestarci su nuove posizioni. Tu devi promettermi che resisterete ad ogni
costo, ma anche che alzerete bandiera bianca e vi arrenderete all’alba del sesto
giorno.»
«Ma, Generale…»
«Ti prego,
figliolo. Anni fa ho dovuto comunicare a tua madre la morte di tuo padre. Non
voglio doverle comunicare anche la tua.»
Abel aveva sognato
per tutta la vita di potersi dimostrare all’altezza di suo padre, un uomo che
era vissuto ed era morto senza mai venire meno al codice della cavalleria che
regolava la vita di ogni vero nobile di Eirinn.
Ma ciò nonostante
promise di obbedire all’ordine, e quando, qualche ora dopo, il resto
dell’armata ebbe lasciato il forte, radunò tutti i suoi compagni per prepararli
allo scontro.
«Soldati. Nei
prossimi cinque giorni combatteremo la battaglia più importante di tutta la
vostra vita. È vitale che questo forte resista per cinque giorni all’avanzata
nemica. Se dovessimo cadere prima di allora, l’esercito nemico potrebbe
prendere i nostri compagni alle spalle e infliggere loro gravi perdite. Questo
dovrebbe darvi un’idea di quale sia la posta in gioco. Entro queste mura, e
nell’arco dei prossimi giorni, si deciderà il destino della nostra patria. Il
destino di Eirinn. Il che significa che in questo stesso momento quel destino è
riposto unicamente in voi e nel vostro coraggio. So che quasi tutti vi siete
offerti volontari per questo incarico, e quindi sono più che sicuro che ognuno
di voi sia determinato a fare il proprio dovere fino alla morte. E sarei un
bugiardo se vi dicessi che in questo momento le nostre possibilità di
sopravvivenza sono alte. Di sicuro le notizie circa la benevolenza che il
comandante nemico riserva a coloro che si arrendono, o peggio ancora che
scelgono di unirsi a lui tradendo la propria patria siano giunte anche a voi.
Ma proprio perché mi fido di ognuno di voi so che non prenderete nemmeno in
considerazione questa possibilità. Noi combatteremo. Noi resisteremo.
Spenderemo fino all’ultima goccia di sangue se necessario. E se il destino
infine deciderà di chiamarci a sé, moriremo con la convinzione di aver fatto
fino all’ultimo il nostro dovere. Per Eirinn!»
«Per Eirinn!»
Almeno, pensò Abel
dinnanzi ai suoi uomini nuovamente motivati, avrebbe potuto contare su compagni
fidati e pronti a tutto.
Non intendeva
venire meno alla promessa che aveva fatto, ma avrebbe tenuto duro comunque fino
alla fine.
O almeno, questa
era la convinzione a cui lui e tutti gli altri cercavano di aggrapparsi, e che
venne messa a dura prova nel momento in cui l’esercito nemico fece infine la
sua comparsa all’orizzonte, propagandosi a macchia d’olio e avvolgendo in poco
tempo il forte in un abbraccio senza via di scampo.
Abel aveva
ordinato di issare la bandiera del Granducato in cima all’edificio principale
del forte cosicché tutti, amici e nemici, potessero vederla.
«Sono davvero
tanti.» disse Yvette, la sua vice nonché vecchia amica, osservando assieme a lui
dalle mura i nemici allestire l’accampamento.
La cosa più
spaventosa, naturalmente, erano i cannoni, che ad ogni battaglia sembravano
aumentare di numero, e che ora erano talmente tanti da occupare da soli
un’intera collinetta.
Sia Abel che
Yvette erano troppo giovani per poter aver preso parte alle dispute di confine
con l’Unione al fianco dell’Impero come i loro genitori, ma più in generale
prima d’ora non si era mai visto un qualsiasi esercito fare un uso così
massiccio dell’artiglieria, riuscendo oltretutto a migliorarla così tanto per
efficienza e praticità.
Si pensava che i
cannoni fossero troppo ingombranti, imprecisi e pericolosi per poter avere una
qualche utilità superando catapulte, trabucchi altre armi d’assedio, eppure
questo Daemon era riuscito in poco tempo a farne un’arma affidabile e temibile,
capace di decidere le sorti di una battaglia.
«Che ci provino
pure.» disse Abel tentando di ostentare sicurezza. «Pianta a stella, mura basse
e inclinate, fondamenta rinforzate. Useremo le migliorie che hanno apportato al
forte contro di loro.»
Dopo qualche ora
dall’arrivo del nemico un cavallo bianco uscì dall’accampamento e percorse al
trotto la terra di nessuno fin sotto le mura sventolando una bandiera bianca.
«Soldati di Eirinn!
Siamo qui per reclamare quello che appartiene al nostro popolo! Siete
completamente circondati! Ma non vogliamo spargere sangue innocente! Ammainate
la vostra bandiera, arrendetevi ora e vi do la mia parola che sarete trattati
con il massimo rispetto!»
«Voi siete qui per
invadere la nostra terra!» fu la pronta risposta di Abel. «E combatteremo fino
all’ultimo uomo per impedirvelo!»
«Non abbiamo
voluto noi questa guerra, né siamo stati noi ad iniziarla! Gli unici che dovete
biasimare solo gli stessi che vi hanno ordinato di restare qui a farvi uccidere
mentre loro si mettevano in salvo! Non è nostra intenzione reclamare quello che
non ci appartiene, ma proprio come voi siamo pronti a tutto pur di difendere la
nostra patria! Avete tempo fino a domani all’alba per arrendervi, altrimenti
attaccheremo!»
Quando di lì a breve il sole tramontò, la
vastità dell’esercito che cingeva d’assedio GroteMuren divenne ancor più evidente e minacciosa nella forma
di una vera e propria foresta di fuochi accesi tutto intorno al forte.
Oltre al campo
principale i ribelli avevano allestito anche un gran numero di piccoli
accampamenti e posti di guardia per chiudere ogni possibile via di fuga, e
forse era proprio per incutere timore che avevano deciso di accendere tutti
quei falò.
E come promesso,
al sorgere del sole, l’assalto ebbe inizio.
I cannoni ribelli
scatenarono contro il forte una pioggia di proiettili, che pur non riuscendo ad
apportare danni significativi alle spesse mura nuove di zecca furono il
preambolo all’arrivo della fanteria.
L’attacco arrivò
da varie direzioni e fu molto violento, ma chiunque avesse riprogettato e
ricostruito quel forte aveva fatto in modo che si potesse percorrere i
camminamenti sulle mura in modo veloce ed agevole.
In questo modo per
Abel fu facile concentrare i suoi uomini di volta in volta nei punti in cui
maggiormente serviva, mentre dalla apposite postazioni situate a distanze
regolari e ben protette da ulteriori barriere le catapulte e le altre armi
d’assedio scaricavano senza sosta palle infuocate e dardi contro gli
assalitori.
Ogni tanto il
giovane rivolgeva i propri occhi all’orizzonte, e ogni volta poteva scorgere in
lontananza una figura in sella ad un cavallo, appostata sul colle più alto e
circondata da un piccolo esercito di mostri grandi e grossi, che da distanza di
sicurezza osservava lo svolgersi della battaglia tramite uno strano tubo che
rifletteva i raggi di sole.
Il primo giorno
l’assalto venne respinto, e così il secondo.
Al terzo giorno
invece sembrò che il muro di cinta esterno dovesse cedere da un momento
all’altro sotto il peso incessante delle cannonate, ma alla fine seppur ad un
prezzo considerevole gli assediati ebbero nuovamente la meglio, e al calare del
sole erano ancora padroni dell’intera fortezza.
Ma anche quando le
armi tacevano e la notte si impadroniva della valle non c’era pace per Abel e i
suoi uomini, che oltre alla tensione dovevano sopportare anche il profumo a dir
poco invitante che proveniva dagli accampamenti nemici e che faceva contorcere
lo stomaco. Un modo pietoso ma anche parecchio subdolo per spingere qualcuno a
mettere in discussione la propria risolutezza.
Yvette, che poteva
sfilare ad un uomo la corazza senza che questi se ne accorgesse, si offrì di
andare a compiere un’esplorazione oltre le mura, nella speranza di reperire
informazioni e magari pianificare qualche sabotaggio.
«Potrebbe essere
molto pericoloso.»
«Pericoloso? Ti
ricordo che siamo chiusi dentro un forte, assediati da un intero esercito. E
comunque, chi tra noi due era il migliore quando da bambini giocavamo a
nascondino? Fidati, me la caverò.»
Anche se era il
suo superiore non c’era modo per Abel di vincere in un confronto dialettico con
Yvette, così alla fine le diede il permesso di andare.
Con il favore
delle tenebre la ragazza scivolò silenziosa come un gatto lungo la terra di
nessuno, e rubata un’uniforme riuscì ad intrufolarsi senza problemi nel
principale accampamento nemico.
Nell’aria c’erano
allegria e buonumore, tutti cantavano e mangiavano come se fossero stati nel
bel mezzo di una festa piuttosto che di un assedio.
Allora, pensò,
erano vere le voci secondo cui non esistevano distinzioni in base alla razza;
c’erano uomini e mostri che mangiavano e conversavano insieme attorno ai falò, ufficiali
mostri con subalterni umani e viceversa, e persino una giovane chierica che
impartiva benedizioni a chiunque le chiedesse, umani e mostri che fossero.
«Ehi tu!»
Quando sentì quel
vocione alle sue spalle per un attimo pensò di essere stata colta sul fatto.
«Parli con me?»
chiese alla persona che l’aveva chiamata, una ragazza a prima vista della sua
stessa età con lunghi capelli marroni, corna e coda di drago e la pelle
ambrata.
Non sapeva come si
chiamasse, ma Yvette ricordò di averla vista più volte durante le battaglie
tentare di aprirsi la strada verso il forte, incurante delle frecce che le
piovevano addosso.
Il satiro e la
piccola yeti che sedevano con lei non sembravano passarsela troppo bene,
tenendosi entrambi le pance gonfie e gemendo di dolore.
«Ci hanno appena
portato questo grosso cinghiale dalle cucine, ma a quanto pare questi due sono
già sazi, e io non penso di poterne mangiare un altro tutto da sola. Ti
andrebbe di farmi compagnia?»
«Ma, veramente
io…»
«Avanti, non fare
complimenti. Lo hanno persino farcito con le castagne.»
Temendo che un
rifiuto avrebbe potuto risultare sospetto Yvette alla fine accettò l’invito,
anche perché il pensiero di poter finalmente mangiare della carne dopo tanti
giorni non le dispiaceva per niente.
«Non ti ho mai
vista. Sei nuova?» le chiese la ragazza-drago tra un boccone e l’altro
«Io… sì. Mi sono
appena arruolata.»
«Ah, sei una
coscritta. E da dove vieni?»
«Da Basterwick.»
«Sapevo che mio
fratello… volevo dire, che il Comandante ha ordinato di arruolare quante più
persone possibili per questa spedizione. Ma se ha ordinato di arruolare anche persone
giovani come te significa che è determinato ad andare fino in fondo.»
«Dunque,
invaderemo davvero il Granducato?»
«Non ci hanno
lasciato scelta. Noi non abbiamo fatto del male a nessuno. Vogliamo solo vivere
in pace, essere liberi e padroni della nostra vita. E se per riuscirci dobbiamo
combattere, siamo pronti a farlo. Nessuno di noi vuole tornare ad essere uno
schiavo.»
«Sì, lo capisco.
Non ho mai condiviso la pratica della schiavitù, e trovo legittimo che gli
schiavi rivendichino il loro diritto alla libertà. Però, invadere un’altra
nazione…»
«Anche io avevo
qualche dubbio. Ma mio fratello dice che se non lo facciamo loro continueranno
ad essere una minaccia. Dobbiamo far capire a tutti quale sarà il prezzo da
pagare per chi ci attaccherà. Ma Daemon dice anche che è pronto a fermarsi in
qualunque momento se i nostri nemici smetteranno di minacciarci, quindi sta a
loro decidere se farlo o meno.»
«Però, se invadiamo
la loro terra è difficile che possano riconoscere le nostre rivendicazioni. Del
resto l’abbiamo appena visto, un’aggressione ne genera sempre un’altra.»
Al che la
ragazza-drago si grattò la testa sbuffando rumorosamente.
«Io non ci capisco
niente di queste cose. Ma tutti noi ci fidiamo di Daemon e del suo giudizio. Se
lui dice che facendo così avremo la pace, non abbiamo motivo per non credergli.
In fin dei conti, fino ad ora ci ha sempre guidati nel modo migliore.»
Un improvviso
schiamazzare spinse Yvette a girarsi, giusto in tempo per scorgere il passaggio
di un giovane dallo sguardo magnetico salutato a gran voce da tutti quelli che
incontrava, ai quali rispondeva con sorrisi e cenni del capo.
«È lui?» chiese
«Proprio lui. Il
mio fratellino.»
«Non ho mai visto
un generale muoversi con tanta disinvoltura tra i suoi uomini, per di più senza
una scorta. Non ha paura che possano esserci degli assassini?»
«Qui tutti daremmo
la vita per lui. Se qualcuno provasse a toccarlo non vivrebbe abbastanza a lungo
per pentirsene. E poi mio fratello sa difendersi benissimo anche da solo.»
Quando Daemon se
ne andò Yvette usò una scusa per allontanarsi a sua volta, seguendolo di
nascosto fino alla tenda di comando dove lo attendevano un vecchio soldato con
la benda, un uomo-cavallo, un leone, e un biondino dagli occhi di ghiaccio.
Provare a
sgattaiolare all’interno era fuori discussione, ma per sua fortuna il piantone
era così stanco che non si accorse di lei, permettendole di scivolare in una
zona buia e mettersi in ascolto.
«Si può sapere dov’è finito Septimus?
Sapeva di questa riunione.»
«Sta ancora
facendo il calcolo delle perdite.» rispose Richard «Finora la sua divisione è
quella che ha pagato il prezzo più alto.»
«D’accordo, allora
inizieremo senza di lui. Qual è la situazione?»
«Fino a questo
momento abbiamo avuto quasi duecento morti, e più del doppio dei feriti.» disse
Jack «Purtroppo come temevamo l’artiglieria non si sta rivelando di grande
aiuto, mentre di contro i nemici hanno imparato subito a servirsi dei sistemi
difensivi del forte.»
«Quale ironia.»
disse Adrian. «Ci siamo dannati tanto per rendere GroteMuren imprendibile e ora la cosa ci si ritorce
contro.»
«È chiaro che
abbiamo sottovalutato la risolutezza del nemico.»
«Questa storia potrebbe
costarci parecchi uomini.» disse Oldrick. «Se li
prendiamo per fame prima o poi dovranno cedere.»
«Non sappiamo
quante scorte Lefde e Victor abbiano lasciato lì
dentro. Per quanto ne sappiamo potrebbero resistere per settimane. Mi spiace
dirlo, ma a questo punto un giorno guadagnato vale molto di più di qualche
centinaio di caduti.»
In quel momento
Septimus fece finalmente la sua comparsa.
«Era ora. Ti
stavamo aspettando.»
«Scusa il ritardo
Daemon, ma la situazione era più seria di quanto pensassi.»
La benda che gli
avvolgeva la testa rendeva evidente che tutte le intimazioni affinché evitasse
di mettersi eccessivamente in pericolo erano rimaste inascoltate, ma Daemon
ormai sembrava essersi rassegnato alla cosa e non disse nulla.
«Quanti caduti hai
avuto alla fine?»
«Centodue. E non
siamo riusciti a portare nemmeno un soldato in cima alle mura o l’ariete nei
pressi delle porte. Che novità ci sono riguardo a quelle nuove armi di cui ci
avevi parlato?»
«Dovrebbero
arrivare in serata, o al più tardi domani mattina.»
«A questo punto
forse conviene aspettare che siano qui.» disse Richard. «Se quello che ci hai
detto è vero dovrebbero essere in grado di chiudere la questione.»
«In realtà non
avrei voluto farne uso. Come vi ho accennato sono armi molto pericolose e distruttive.
Un loro utilizzo potrebbe nuocere alla nostra immagine, che deve essere il più
possibile immacolata se vogliamo che la popolazione di Eirinn non ci sia
ostile.»
«Se perdiamo
troppi uomini però potremmo essere comunque costretti a usarle in seguito.»
«Sono d’accordo
con Adrian.» disse Richard «A volte è necessario forzare la mano per ottenere
un risultato. Non dico di spazzarli via, ma forse fargli capire che non abbiamo
paura di usare le maniere forti potrebbe bastare a farli finalmente arrendere.»
Daemon camminò per
un po’ avanti e indietro, guardando ora la mappa ora i suoi consiglieri.
«D’accordo, faremo
così. Se il convoglio arriverà stanotte, domani useremo le nuove armi per
aprirci la strada fino alla conquista del muro esterno, quindi cesseremo
l’attacco. Se sono furbi a quel punto si arrenderanno piuttosto che restare
chiusi lì dentro a farsi massacrare.»
Un’improvvisa
esplosione, come non se n’erano mai sentite, interruppe la riunione, e la sua
onda d’urto fu così potente da far tremare la tenda. Usciti all’esterno, Daemon
e gli altri videro un’alta colonna di fiamme e fumo levarsi in lontananza, in
una zona separata del campo.
«Daemon!»
«Scalia! Che è
successo?»
«Uno dei depositi
di polvere da sparo è esploso. Stiamo cercando di contenere l’incendio.»
«Quanto è grave?»
«Ci sono almeno
tre morti e decine di feriti. Abbiamo anche perso alcuni cannoni.»
Tutti convennero
che non poteva essersi trattato di un incidente, visto che tutti sapevano
quanto fosse pericolosa la polvere da sparo e come fosse assolutamente proibito
tenere fuochi accesi nei pressi dei depositi.
«Siamo stati
sabotati.» disse Oldrick «Faccio subito perquisire il
campo.»
«Sarebbe inutile.
Se ne saranno sicuramente già andati. Per fortuna le nuove armi non erano ancora
arrivate. Ma aumentate la sorveglianza attorno agli altri depositi e agli altri
luoghi sensibili.»
«Sì, Daemon.»
«Sono tenaci,
bisogna dargliele atto. Ma domani gli faremo capire che il tempo dei giochi è
finito.»
«Ho sentito il botto fino a qui.» disse
Abel al ritorno dell’amica «Presumo che tu c’entri qualcosa, giusto?»
«Avrei voluto fare
di più, ma per poco non mi hanno scoperta. Temo che al massimo otterremo di
ridurre un po’ la potenza dei loro cannoni.»
«È già qualcosa.»
Yvette però non
sembrava contenta dei risultati raggiunti, e se ne restava appoggiata alla
parete a fissare il pavimento con aria pensierosa.
«Qualcosa non va?»
«Staremo davvero
facendo la cosa giusta?»
«Stiamo difendendo
la nostra patria da un’invasione. Che cosa c’è di più giusto e nobile di
questo?»
«Loro non ci
avrebbero attaccati se non lo avessimo fatto noi per primi. Il loro comandante
non sembra una cattiva persona. Finora ha sempre mostrato compassione per tutti
coloro che ha incontrato. Forse se avessimo cercato di parlare invece di
ricorrere subito alle armi…»
«Non sta a noi
prendere queste decisioni. Abbiamo dei governanti che si occupano di queste
cose. In quanto soldati noi siamo tenuti a eseguire i loro ordini.»
«Eppure gli
abitanti di questa provincia non hanno avuto dubbi quando hanno deciso che chi
li governava non era degno del ruolo che ricopriva. Ora che comandano loro, l’Eirinn
Occidentale sembra più prospera e felice che mai. Poi arriviamo noi e gli
diciamo che no, devono tornare ad essere ciò che erano prima. È giusto secondo
te?»
Al che Yvette
scostò una ciocca dei suoi lunghi capelli castani, rivelando le orecchie
leggermente appuntite e coperte da un sottile strato di morbida pelliccia.
«La mia trisavola
era una mezzosangue, e i miei antenati sono originari di Basterwick.
Se fossero rimasti qui quando questa provincia è stata ceduta all’Impero, forse
anch’io sarei stata una schiava. Posso davvero dire che se fosse stato così ora
non mi troverei in mezzo a loro?»
Anche Abel a quel
punto abbassò lo sguardo, dilaniato tra ciò che sentiva intimamente e ciò che
gli diceva il suo orgoglio di soldato.
«Solo altri due
giorni. Ho promesso al Generale che avremmo resistito per cinque giorni.
Dopodiché, se lui mi garantirà di non fare del male ai civili, ci arrenderemo.»
Yvette accolse la
notizia quasi con sollievo.
«Allora cerchiamo
di dare il meglio di noi stessi in questi ultimi due giorni.»
Il giorno dopo però l’attacco sembrò non
arrivare, nonostante il nemico avesse preso posizione come al solito a poca
distanza dal forte in assetto di guerra.
Abel, Yvette e
tutti gli altri difensori radunati sulle mura non sapevano cosa pensare, almeno
fino a quando non videro i ribelli portare in prima linea otto strani cannoni,
piccoli di dimensioni ma molto più grossi di quelli che usavano abitualmente.
Li portarono
vicino, molto più vicino di quanto non facessero di solito, -così tanto che con
giusto qualche metro in più sarebbero finiti nel raggio d’azione degli arcieri–
puntandoli non in direzione del forte ma verso l’alto.
«Non ho mai visto
niente del genere.» disse Abel
«Devono essere le
nuove armi di cui parlavano.»
Di sicuro i
proiettili dovevano essere molto più pesanti del normale, tanto da dover essere
portati e infilati all’interno da due soldati contemporaneamente per mezzo di
una catena provvista di tenaglia.
Quando furono
tutti caricati, una specie di asta di legno a forma di L con un peso al centro
venne messa all’interno di ciascun cannone da alcuni addetti che fecero dei
segni ai serventi perché alzassero ancora di più il tiro. Quindi, dopo che
ebbero finito, l’asta di legno fu rimossa e vennero accese due micce, una per
il cannone e una per il proiettile.
«Attenzione, si
preparano a sparare!»
Lo scoppio fu più
simile ad un fuoco d’artificio che ad una cannonata, producendo colonne
fiammeggianti che salite nel cielo ricaddero con una parabola sui ballatoi
delle mura.
Ma la cosa più
spaventosa fu che nel momento in cui toccarono il suolo i proiettili produssero
vere e proprie esplosioni, sparando in ogni direzione letali raffiche di
piccoli proiettili, fiamme e detriti che fecero decine di morti.
«Presto, mettetevi
tutti al riparo!» gridò Abel inviando tutti verso le casematte
Ben protette dallo
sbarramento dei propri cannoni le truppe ribelli avanzarono rapidamente in
direzione del forte portando scale, rampini e anche un ariete.
Il fuoco era così
intenso che gli assediati furono letteralmente intrappolati nei rifugi fino a
quando i cannoni non dovettero cessare il fuoco per evitare di colpire i propri
alleati; e a quel punto ormai i ribelli erano praticamente ai piedi delle mura.
«Respingiamoli!
Tutti in posizione, lanciate fino all’ultima freccia!»
Ma evidentemente i
ribelli avevano sottovalutato la forza di volontà dei loro nemici; la loro
resistenza fu brutale e all’ultimo sangue, senza cedere di un passo, con il
risultato che nonostante tutto gli attaccanti non riuscirono ad aprirsi la
strada, subendo nel corso della prima ondata un tale numero di perdite che il
loro assalto finì per perdere d’impeto.
Sembrava quasi che
Abel e i suoi potessero davvero farcela ancora una volta, almeno fino a quando
il giovane generale nemico, vedendo i suoi uomini ad un passo dalla rotta, non
decise di scendere in campo a sua volta per spronarli.
«Non arretrate!»
gridò correndo a prendere personalmente l’ariete «Continuate ad attaccare!
Ormai ci siamo quasi!»
Spronati dal suo
esempio e infervorati dall’incessante carica suonata dai trombettieri i ribelli
reagirono, ritrovando il coraggio e riprendendo l’assalto in maniera più coesa.
«L’ariete è qui
sotto! Presto sfonderanno la porta!»
«Non c’è altra
soluzione… ritirata, ritirata! Ripiegare nella cinta interna!»
I ribelli però
ormai erano indemoniati, e quando si capì che il portone non avrebbe resistito
a lungo la ritirata si tramutò in una fuga disperata verso la salvezza.
Abel e Yvette
cercavano di mantenere l’ordine, ma persino loro si fecero per un attimo
prendere dal panico quando i ribelli fecero infine irruzione da ogni dove
mentre l’evacuazione verso il forte interno era ancora in corso, perennemente
spronati dai loro capo che guidava l’assalto.
A quel punto,
Yvette fece la prima cosa che le venne in mente per demoralizzare il nemico.
«Dammi
quell’arma!» strillò strappando la balestra ad un compagno in fuga.
Prese la mira al
meglio che poteva e scoccò.
Neanche Ivanon, il leggendario arciere delle Guerre Sacre, avrebbe
saputo fare di meglio; il dardo colpì proprio al centro del petto trapassando
la corazza, e il comandante nemico cadde al suolo con gli occhi sbarrati senza
quasi accorgersi di cosa fosse successo.
«Il Generale
Septimus è stato ferito!»
A quel punto
c’erano solo due possibilità: o i suoi uomini andavano nel panico e fuggivano o
si scatenavano per vendicarlo.
Per fortuna di
Abel, Yvette e i loro uomini a verificarsi fu la prima opzione; i soldati
ribelli usarono il poco autocontrollo rimastogli per erigere un muro di scudi
attorno al loro comandante, e appena questi fu portato via iniziarono a ripiegare
fino a ritirarsi del tutto.
Questo tuttavia
non migliorò la situazione generale; la cinta esterna era ormai perduta, e con
le perdite subite nel corso di quell’attacco era impensabile sperare di poterla
riprendere.
Ma in realtà ciò
che toglieva ad Abel e Yvette ogni goccia di ottimismo era la sensazione di
aver appena fatto qualcosa di cui si sarebbero presto pentiti.
Quando Daemon entrò nella tenda-ospedale
aveva uno sguardo che nessuno ricordava di avergli mai visto addosso, e che
divenne se possibile ancor più fosco nel momento in cui raggiunse il giaciglio
di Septimus.
Il cerusico aveva
estratto la freccia e applicato i medicamenti, lasciando il posto a Sylvie e
alle sue arti magiche quando si era capito che la medicina convenzionale non
poteva fare altro.
«Come sta?»
«È stato molto
molto fortunato.» disse Oldrick «Se non fosse stato
per la corazza di ragno la freccia gli avrebbe trapassato il petto.»
«Lady Sylvie,
ditemi che se la caverà.»
«È presto per
dirlo, purtroppo. Il polmone è perforato, e suo cuore batte a malapena. Posso
solo infondere la mia magia dentro di lui mentre tento di curare la ferita, ma
dipenderà tutto dalla sua forza di volontà.»
In quel momento il
ragazzo aprì debolmente gli occhi, incrociando subito quelli del suo migliore
amico.
«Daemon…» disse
allungando la mano tremante verso di lui
«Sono qui,
Septimus. Non muoverti. Sei gravemente ferito.»
«Mi… mi dispiace.
Io… non ho resistito… ho fatto di nuovo di testa mia…»
«Te l’ho sempre
detto che sei un gran testardo. Ma è merito tuo se abbiamo preso il muro
esterno. Quindi ora riposa. La tua parte l’hai fatta. Ora lascia che ce ne
occupiamo noi.»
Septimus abbozzò
un sorriso prima che la stanchezza e soprattutto il dolore, insopportabile
malgrado gli anestetici, non lo facessero svenire.
«Oldrick.»
«Sì?»
«Convoca tutti.»
La notizia di quanto accaduto a Septimus
si sparse nel campo prima ancora che venisse convocata la riunione del
Consiglio di Guerra.
Le notizie erano
incontrollate e contraddittorie, anche perché l’accesso alla sua stanza era
proibito a chiunque; l’unica cosa che si sapeva era che fino a quando Lady
Valera fosse rimasta nella tenda voleva dire che Septimus era ancora vivo.
C’erano rabbia e
frustrazione e nell’aria, nonché un senso generale di rivalsa, e non solo perché
da sempre mirare deliberatamente ai comandati era considerata un’azione vile e
disonorevole: Septimus era un buon generale, un soldato valoroso, ma
soprattutto un compagno di bevute e un amico affidabile.
E tra tutti
nessuno sembrava più ansioso di dispensare la giusta vendetta per l’accaduto di
Daemon, che per la prima volta aveva negli occhi non la luce della guida, ma il
fuoco inesauribile della rabbia.
Eppure nessuno,
neanche chi lo conosceva meglio, avrebbe mai potuto immaginare cosa avesse
deciso di fare per mettere fine una volta per tutte all’assedio.
Dopo che ebbe
finito di parlare, sembrò quasi che un vento gelido avesse spazzato l’interno
della tenda congelando ogni cosa.
«E questo è tutto.
Mi auguro che sarete tutti d’accordo con me.»
Paradossalmente
era Scalia la più sconvolta di tutti: «Daemon, io… Io capisco perfettamente
come tu ti senta. Anche noi siamo arrabbiati e volgiamo vendicare Septimus. Ma
quello che tu proponi è… non trovo un’altra espressione, Daemon, è spietato.»
«Per una volta la
penso come lei.» disse Adrian.
«Chi commette
un’azione del genere deve essere pronto a pagarne le conseguenze.»
«Un conto è
esigere una doverosa vendetta, ma qualcuno potrebbe pensare che questo sia
troppo. E onestamente non me la sentirei di dargli torto.»
«Hai sempre agito
in modo assennato e basandoti sulla ragione, Daemon.» disse Jack. «Non smettere
adesso. In tutte le scelte ci vuole criterio, lo dici spesso.»
«Al diavolo il
criterio. A volte è necessario mandare dei segnali.»
«Septimus è anche
amico nostro.» disse Oldrick. «E anche noi vogliamo
che i nostri nemici paghino per quello che gli hanno fatto, però…»
Daemon si alzò
dalla sedia con tale violenza da far quasi ribaltare il tavolo.
«Non ho più
intenzione di perdere un singolo soldato in questa maledetta valle! Ho cercato
di essere ragionevole! Ho offerto loro in più occasioni una resa onorevole e
l’hanno rifiutata! Adesso basta!»
Qualcuno dei
presenti quasi non credette che quello fosse lo stesso Daemon che avevano
sempre conosciuto.
Difficile dire
perché a quel punto nessun’altro levò una parola di protesta, né tentò
ulteriormente di opporsi alla sua decisione.
Una cosa però era
certa; quella fu la prima volta in cui tutti, nessuno escluso, ebbero paura di
lui.
Quella notte, un messaggio rimbombò come
un tuono in tutta la valle, un messaggio che non lasciava spazio
all’interpretazione.
L’assalto finale
sarebbe cominciato alle sei in punto, e sarebbe andato avanti fino alla
completa obliterazione del nemico, o fino a quando la bandiera di Eirinn che
sventolava in cima al forte non fosse stata ammainata.
Inutile dire che
quella notte per gli assediati fu lunghissima e drammatica.
I soldati erano
divisi; qualcuno voleva arrendersi ritenendo di aver già fatto ben più di
quanto chiunque avrebbe potuto aspettarsi da loro, qualcun altro –la
maggioranza– voleva invece continuare a battersi.
Si discusse, ci si
accapigliò, si sfiorò la rissa; Yvette sapeva di essere la responsabile
dell’improvviso cambio di atteggiamento dei ribelli, ma la sua proposta di
offrirsi come vittima sacrificale per placare le ire del nemico in cambio di
una resa senza ulteriori spargimenti di sangue trovò l’opposizione di tutti.
In fin dei conti,
ci si diceva, aveva fatto l’unica cosa che si potesse fare per salvare la vita
dei suoi uomini, e non c’era onore che tenesse quando in ballo c’era la
sopravvivenza.
Alla fine si
decise di resistere fino a mezzanotte, fino alla scadenza del quinto giorno; a
quel punto ci si sarebbe potuti arrendere e uscire dal forte a testa alta,
sapendo di aver fatto fino all’ultimo il proprio dovere.
Si aspettavano un
attacco più violento del solito, sospinto dall’esasperazione e dalla voglia di
vendicarsi; ma mai si sarebbero potuti immaginare quello che il comandante
nemico aveva preparato per loro.
La mattina dopo la
valle era sovrastata da un cielo plumbeo che annunciava pioggia, e un insolito
vento freddo proveniente da nord rendeva l’aria umida e pesante.
I nuovi cannoni
erano stati avvicinati fin quasi a sfiorare le mura esterne del forte; alle
loro spalle l’intero esercito ribelle assisteva quasi in formazione da parata,
come spettatori in procinto di assistere al più spaventoso degli spettacoli.
Daemon, che per
tutta la notte non aveva chiuso occhio, camminava avanti e indietro davanti a
tutti, tenendo le braccia incrociate dietro la schiena e controllando
continuamente l’orologio.
Da Scalia a Oldrick a Jack, perfino Adrian sembravano sperare con tutto
loro stessi che quella bandiera venisse finalmente ammainata. Ma ciò non
accadde; e allo scoccare fatale della sesta ora, negli occhi di tutti apparve
il più cupo sconforto.
Ma non in quelli
di Daemon.
«Fuoco.»
C’è una sola
parola in grado di descrivere ciò che al suo comando iniziò a piovere sulla
testa dei soldati di Eirinn; l’inferno.
Fu come se i
cancelli di Belion si fossero aperti sopra GroteMuren facendo piovere su di
esso una valanga di metallo, fuoco, sangue… e morte.
Un’esplosione ne
seguiva un’altra, e poi un’altra ancora, ad un ritmo incessante e quasi
inconcepibile; i cannoni non sparavano all’unisono, e questo, oltre a rendere
impossibile prevedere l’arrivo delle granate, risultava in un continuo
susseguirsi di colpi.
Neanche i rifugi
sulle mura poterono resistere a lungo contro un simile bombardamento, quindi
l’unica cosa da fare fu ritirarsi all’interno del torrione centrale.
Ci si aspettava
che a quel punto i ribelli sfruttassero il momento per avanzare rapidamente,
prendere il controllo anche della cinta esterna e quindi lanciare l’assalto
finale.
Invece no.
Continuarono a
sparare.
Ancora, ancora, e
ancora.
Per minuti, ore.
Sembrava che avessero deciso di radere quel posto al suolo con tutto quello che
c’era dentro.
«Non c’è speranza!
– Arrendiamoci! – Se restiamo qui ci seppelliranno tutti! – Non voglio morire!»
«Non cedete,
soldati! Dobbiamo resistere! Pensate alla vostra patria! Pensate alle vostre
famiglie! Non possiamo permettere che questo succeda anche a loro!»
«Abel, attento!»
Abel non si
accorse di nulla fino a quando non si sentì spingere violentemente via, un
attimo prima di vedere la sua migliore amica scomparire dietro un’intera
porzione dell’edificio che crollando su di lei riempì ogni cosa di rumore,
polvere e detriti.
«Yvette!»
«Capitano, dateci
degli ordini! – Capitano! – Che state facendo? – È inutile Capitano, è morta! –
Che cosa facciamo? – Capitano, attenzione!»
Il torrione centrale del forte era
robusto, forse la parte meglio fortificata e più resistente dell’intera
struttura.
Ma le nuove armi,
i mortai come li aveva chiamati Daemon, erano così potenti e distruttivi che
bastarono pochi colpi perché iniziasse a crollare su sé stesso.
Secondo Daemon
danneggiare il muro di cinta interno o lo stesso torrione erano danni
collaterali facilmente riparabili, soprattutto visto che le mura esterne invece
erano rimaste sostanzialmente intatte.
Ciò non toglie
però che ben presto più di qualcuno iniziò a domandarsi se fosse davvero
necessaria tutta quella ferocia.
Sapi sembrava sul
punto di piangere.
Scalia era così
nervosa da non riuscire a stare ferma.
Oldrick, Jack e Richard
erano ammutoliti.
Adrian e Natuli osservavano la scena con invidiabile distacco.
Qualcuno pensava
che tutto ciò fosse sbagliato, qualcun altro che fosse inevitabile, qualcun
altro ancora che anche quello significava fare la guerra.
Ma nessuno
disobbedì.
L’ordine era
chiaro, e prima di ritirarsi nella sua tenda Daemon ci tenne a ribadirlo: far
tuonare i cannoni fino a quando la bandiera non fosse stata ammainata.
E così l’attacco
continuò.
Incessantemente.
Inesorabilmente.
Pian piano, molti
soldati iniziarono a tornare verso gli accampamenti, chi per noia, chi perché
semplicemente incapace di sostenere una cosa del genere.
Al tramonto ormai
erano rimasti solo i serventi e pochi irriducibili.
La bandiera era
ancora lì, ridotta ormai ad uno straccio bruciacchiato attaccato all’asta per
un solo angolo, ma sventolava ancora.
Un colpo centrò
quello che restava del tetto del torrione, e la vista di quel pezzo di tela
bianco e blu scaraventato in cielo dall’esplosione spinse qualcuno a ritenere
che quello era troppo.
«Daemon.» disse
Adrian scostando quasi con timore i lembi della tenda.
Lui non si voltò
neanche a guardarlo, restandosene incurvato sul tavolo a studiare le sue mappe.
«Che c’è?»
«Credo che così
possa bastare.»
Seguì un
lunghissimo silenzio, rotto dal rimbombare incessante dei cannoni.
«D’accordo. Basta
così. Entro domani voglio una stima dei danni. Se trovate dei superstiti,
curateli.»
«Sarà fatto. Ah, a
proposito.»
«Sì?»
«Septimus è fuori
pericolo. Ho parlato adesso con Lady Valera.»
«… Ho capito. Puoi
andare…»
Adrian fece in
tempo a fare giusto qualche passo perché da dentro la tenda iniziasse a
giungere un improvviso baccano, simile a quello di una rissa da taverna,
intervallato da singhiozzi e urla rabbiose.
Nota dell’Autore
Salve a tutti e
Buona Pasqua!
Lo so sono un po’
in ritardo rispetto alla mia solita ora, ma tra i preparativi per la festa e il
cambio dell’ora mi sono ritrovato con tante cose da fare.
Rimediamo subito.
Questo capitolo è
parecchio lungo, ma non volevo spezzarlo, anche per via degli eventi importanti
che accadono al suo interno e che avranno un impatto importante sul prosieguo
della storia.
I prossimi due
invece saranno una sorta di esperimento, che potrebbero essere il preludio a
qualcosa di nuovo, ma la decisione al riguardo sarà esclusivamente vostra.
Mablith era la prima
grande città del Granducato che si incontrava una volta lasciate le montagne
procedendo verso est.
Un luogo pacifico
e non abituato alla guerra, tanto da non avere nemmeno delle mura o altri
sistemi difensivi.
D’altro canto fin
dal momento della separazione dei suoi territori Eirinn aveva sempre scelto la
via dell’assoluta neutralità, e anche nel corso della trentennale Guerra di
Confine con l’Unione mai una volta era stata minacciata di invasione –anche se
questo non aveva impedito a reparti dell’esercito di combattere al fianco
dell’Impero come unità ausiliarie–.
Il suo stato di
vassallo era puramente formale, e a parte il non poter iniziare campagne
militari senza il permesso dell’Imperatore o il divieto di cambiare alcune
leggi poteva decidere autonomamente della propria politica.
Certo, il suo
suolo era uno dei più fertili che si fossero mai visti e ci cresceva qualunque
cosa, ma né Saedonia, con le sue vaste praterie
centrali, né l’Unione, stato agricolo per eccellenza, avevano problemi in tal
senso, quindi nessuno riteneva che i suoi campi o i suoi boschi valessero una
guerra.
Per questi e altri
motivi l’esercito ducale aveva deciso che Mablith
doveva essere sacrificata all’avanzata nemica, ma a dispetto degli ordini
ricevuti buona parte dei cittadini aveva deciso di non abbandonare la città,
anche per via delle voci rassicuranti in merito alla nobiltà d’animo del
comandante nemico.
L’arrivo delle
truppe dello Stato Libero fu indubbiamente qualcosa di maestoso, che lasciò a
bocca aperta gli abitanti radunatisi per l’occasione lungo la via principale.
Non sembrava
nemmeno di vedere un esercito ribelle: i soldati erano ordinati e disciplinati,
indossavano tutti o quasi le stesse uniformi, brandivano armi uguali per tutti,
e marciavano al passo dei tamburi sventolando orgogliosamente le proprie
bandiere.
Dopo aver
stabilito il campo alla periferia della città, Daemon volle andare ad
incontrare il sindaco insieme ad alcuni dei suoi compagni.
«Vi garantisco che
non abbiamo intenzioni ostili verso la vostra comunità. I miei uomini hanno
l’ordine di non razziare e di tenersi lontani dal centro abitato. Manterremo
solo una piccola forza di sicurezza e alcune pattuglie, inoltre useremo i vecchi
magazzini del sale come depositi per i nostri rifornimenti.»
«Noi non vogliamo
problemi, Messer Haselworth. Ma abbiamo ricevuto notizie molto inquietanti in
merito all’assedio di GroteMuren.»
L’autocontrollo
con cui Daemon aveva iniziato a comportarsi fin dal giorno dopo la fine della
battaglia contrastava con il modo in cui aveva ridotto la sua tenda quella
notte. Era quasi come se sfogandosi avesse gettato fuori tutta la frustrazione
e tutta la rabbia accumulate in quei cinque famigerati giorni, tornando ad
essere la stessa guida fredda ma cortese che tutti ricordavano.
E la cosa
inquietava un po’ alcuni dei suoi amici, a cominciare da Scalia.
«Purtroppo le
circostanze ci hanno costretti a ricorrere a misure estreme. E anche se potrà
sembrarvi ipocrita, voglio dirvi che mi dispiace che sia andata a finire in
quel modo. Se vi può consolare abbiamo appurato che quasi tutti gli occupanti
del forte appartenevano all’armata orientale del Conte di Hatlen,
quindi non dovrebbero esservi dei vostri concittadini tra di loro.»
Il sindaco guardò
in basso come se avesse paura.
«Voglio essere
onesto con voi, Messer Haselworth. Io e la mia comunità vi dobbiamo molto. Le relazioni
economiche che lo Stato Libero aveva intessuto hanno fatto la fortuna anche di Mablith. Ma non posso non pensare che anche se nessuno dei
nostri figli è perito a GroteMuren
molti di essi fanno comunque parte dell’esercito. E immagino che voi e i vostri
uomini non siate qui per fare amicizia.»
«Mi spiace, ma
tutto quello che posso promettervi è che cercheremo di ridurre al minimo le
vittime. Noi non abbiamo alcuna intenzione di portare avanti questa guerra più
del necessario. Se il Granduca accetterà di negoziare la cessazione delle
ostilità e il raggiungimento di una pace duratura, siamo pronti a fermarci in
qualsiasi momento.»
«In questo caso
temo sarà molto difficile. Se solo il vecchio Granduca fosse ancora padrone di
questo Paese non ci saremmo ridotti in questa situazione. Victor è giovane e
ambizioso, ma soprattutto è malconsigliato da quel sobillatore di suo zio. Fino
a che uno dei due sarà al potere non ci sarà spazio per la diplomazia.»
«Vi prometto che
resteremo qui solo il tempo strettamente necessario. Giusto qualche giorno, in
attesa che arrivino i rifornimenti e i nostri esploratori facciano rapporto
sullo stato del nemico. Nel frattempo, se qualcuno dei vostri concittadini
vorrà unirsi a noi o contribuire in qualche modo alla spedizione, sarà il
benvenuto.»
Dopo aver discusso
qualche altra cosa Daemon tornò nel suo alloggio, chiedendo di non essere
disturbato se non in caso di necessità.
Chi lo conosceva
poteva vedere benissimo che per quanto cercasse di far finta del contrario, ciò
che era accaduto a GroteMuren
lo aveva profondamente segnato.
«Sono così
preoccupata per il mio fratellone.» disse Sapi con
un’espressione insolitamente abbacchiata. «Non l’ho mai visto così triste.»
«Forse dovremmo
provare a parlargli.»
«Per dirgli cosa?»
rispose Jack. «Lo conosci meglio di tutti noi Scalia, lo sai bene che sarebbe
inutile.»
«È solo colpa
mia.» disse Septimus sfiorandosi rabbiosamente il braccio legato al collo «Se
non fossi stato così stupido e avventato…»
«No, ragazzo.»
sospirò Oldrick. «La colpa temo sia di tutti.»
«Che vuoi dire?»
chiese Sapi
«Il problema è che
senza rendercene conto, per tutto questo tempo non abbiamo fatto altro
idealizzare Daemon. E così ci siamo dimenticati che anche lui in fin dei conti
è solo un ragazzo, per quanto speciale possa essere. E in quanto tale anche lui
ogni tanto può essere dominato dal dolore, dall’ira e dalla sete di vendetta.»
«Temo che sia
stato un trauma anche per lui, sapere di non poter sempre essere padrone delle
proprie azioni.» disse Adrian. «Dovrà farci i conti. E purtroppo è una cosa che
può fare unicamente da solo.»
«Chiedo scusa, lor
signori.» disse in quel momento una strana voce senile alle spalle del gruppo.
«Per caso è qui che posso incontrare Messer Haselworth?»
Se ancora ci pensavo, mi sentivo bruciare
di rabbia.
Ma cosa mi era
successo?
Come avevo potuto
comportarmi in modo così infantile e sconsiderato?
Per un attimo mi
ero sentito come quel giorno di tanti mesi prima, quando avevo gonfiato di
botte quell’idiota di Doug fermandomi giusto in tempo per evitare di
ammazzarlo.
Solo che stavolta
le conseguenze delle mie azioni rischiavano di essere molto più drammatiche.
Mi ero ripromesso
di non commettere mai più gesti impulsivi e farmi sempre guidare dalla logica,
perché avevo capito sulla mia pelle quanto gravi potessero essere le
conseguenze dell’abbandonarsi alle passioni.
E invece mi era
bastato vedere Septimus disteso su quel pagliericcio con un buco nel petto per
perdere letteralmente la testa, e la cosa peggiore è che non ne capivo il
motivo.
Come se quella
fosse la prima volta che vedevo un amico morire davanti ai miei occhi.
Un amico!? Non scherziamo! Io non ho amici! Quelle persone
non sono che strumenti utili al mio scopo!
Ma allora perché
ancora adesso ripensare a quella scena mi faceva salire la rabbia?
Era come se ogni
tanto il vecchio Daemon cercasse di emergere e influenzare il mio modo di
pensare, e la cosa mi faceva innervosire a tal punto da volermi prendere a
schiaffi.
È proprio il colmo. Essere arrabbiati con una parte di
sé!
Ogni volta che mi
trovavo in situazioni come quella non potevo non immaginarmi Faucheur intento a godersi lo spettacolo con quel suo fare
sornione.
Immergermi nel
lavoro era l’unico modo per cercare di riordinare le idee e pensare al futuro;
anche se la gente di Erthea era abituata tanto quanto quella del mio vecchio
mondo alla barbarie della guerra la mia reputazione era destinata a risentire
parecchio per quanto accaduto a GroteMuren.
Se volevo conservare
la lealtà e la fiducia della gente non potevo più permettermi azioni simili,
perlomeno non nell’immediato.
In quel momento
ero così confuso e stressato che mi sarebbe bastato un niente per esplodere. E
qualcuno pensò che potesse essere una buona idea farmi piombare tra capo e
collo una vecchia conoscenza di cui non sentivo la mancanza.
«Daemon, scusa il disturbo.» disse Jack
entrando nella tenda
«Spero sia
importante. Avevo detto di lasciarmi tranquillo.»
«Scusa, ma c’è uno
strano tizio che chiede di vederti. Dice di conoscerti.»
«Di chi si
tratta?»
Prima che il
cavallo potesse rispondere alle sue spalle giunsero inequivocabili schiamazzi e
grida rabbiose, seguite da un’imprecazione irripetibile e da gemiti di dolore.
Sentendo
quell’ultima voce, Daemon sembrò non voler credere alle proprie orecchie.
«Ditemi che è uno
scherzo.»
Il ragazzo seguì
quindi il suo subalterno in cortile, giusto in tempo per assistere alla scena
tragicomica di Scalia che, rossa d’imbarazzo, veniva trattenuta a stento da Richard
dall’infierire ulteriormente su di un attempato gentiluomo di mezza età
dall’aria svampita.
«Che cosa pensavi
di fare, razza di vecchio maniaco?»
«Annotazione. La
teoria secondo cui la coda dei draghi sarebbe una zona particolarmente
sensibile è decisamente fondata.»
«Professore! Che
cosa ci fate voi qui?»
«Daemon, tu
conosci questo pervertito?»
«Più o meno.»
L’anziano signore
allora si rimise faticosamente in piedi, togliendosi polvere e terriccio dal
vestito doppiopetto.
«Ragazzo mio. È un
piacere rivederti. E mi scuso per l’inconveniente con voi, signorina. Purtroppo
tendo spesso a dimenticarmi di pensare prima di agire.»
«Questo è un vizio
che prima o poi potrebbe costarvi caro, amico mio.» disse Daemon
«Per un attimo
pensavo che quel momento fosse arrivato. La tua amica ha confermato la mia
teoria sulla forza bruta dei draghi.»
«Ringrazia che mi
hanno fermato, o ti avrei usato per pulire per terra!»
Anche Daemon una
volta aveva imparato a proprie spese cosa voleva dire toccare la coda a Scalia,
quindi non se la sentiva di essere troppo severo nel giudicare il professore.
«Jack, per favore
fai portare del tè per il professore.»
Scalia e gli altri
non riuscirono a credere ai propri occhi quando videro il loro amico fare
accomodare il nuovo arrivato nella sua tenda, chiedendo ancora una volta di non
essere disturbato.
«Questo riporta
alla memoria eventi agrodolci.» commentò il professore mentre Daemon gli
serviva un semplice ma profumato tè di erbe selvatiche. «Non sai quante volte
ho provato a replicare la ricetta senza mai riuscirci.»
«Allora, volete
dirmi cosa ci fate a Eirinn? Pensavo foste ritornato nell’Unione.»
«Mi conosci. Lo
sai che non riesco a stare troppo a lungo in un solo posto. Questo mondo è così
vasto, e ci sono così tante cose da vedere, che restare chiuso tutto il tempo
in una pomposa aula universitaria sarebbe un vero spreco.»
Daemon sorrise:
«Sono passati quasi tre anni, ma non siete per niente cambiato.»
«Al contrario di
te. Avevo capito che fossi un tipo particolare, ma non mi sarei mai aspettato
una cosa del genere.»
Come se quel
delicato aroma di campo avesse avuto il potere di addolcire i pensieri e
distendere l’anima, entrambi finirono così per percorrere quasi con nostalgia
il viale dei ricordi.
Una volta ogni sei mesi si svolgeva a
Dundee il grande mercato delle merci esotiche che richiamava in città una folla
incredibile tra mercanti e compratori, di ogni appartenenza e ceto sociale.
Dal canto suo,
ogni anno Daemon metteva da parte le merci migliori proprio in vista del grande
mercato, visto che anche nel suo settore si potevano fare ottimi affari.
Era anche
un’ottima occasione per fare nuove conoscenze e stringere amicizie.
«Gli affari vanno
a gonfie vele, a quanto vedo.» disse un bonario signore di mezza età dall’aria
rispettabile
«Sindaco Luparl, buongiorno.»
Il vecchio Luparl, intagliatore da sempre, era uno degli uomini più
rispettati della città, che la sua famiglia aveva praticamente fondato ed
abitava fin dai tempi del vecchio Granducato.
«Di questo passo
diventerai ricco come un re.»
«Non mi posso
lamentare. Dopotutto questi mercanti dell’est hanno tanti soldi e l’occhio non
abbastanza allenato.»
«Ben detto. Ad
ogni modo, speravo proprio di incontrarti. Avrei un favore da chiederti.»
«Se posso,
volentieri.»
«Mi è arrivata una
richiesta dal sindaco di Zolle, oltre il ponte. Si tratterebbe di accompagnare
uno studioso per una spedizione nei boschi, o qualcosa del genere.»
«Uno studioso?»
«Un certo Hinkel. Professor Jacob Hinkel.»
«Lo conosco di
fama. È un naturalista. Insegna all’Università di Mickarn.»
«Dicono anche sia
stato uno dei mentori del presidente. Ad ogni modo arriverà qui la settimana
prossima, e volevo chiederti di accompagnarlo nella sua spedizione.»
«Ci sono molte
guide esperte nel villaggio e nei dintorni. Non sarebbe meglio parlare con
qualcuna di loro?»
«In nome della
dea, assolutamente no. Sono solo un branco di bifolchi illetterati. Tu non hai
niente da invidiare a quei caproni, e a differenza loro sai come rapportarti
con le persone rispettabili.»
«Io non saprei. Mi
onora che abbiate una così alta opinione di me, ma ho molto da fare
ultimamente.»
«Ti prego.» lo
supplicò letteralmente il signor Luparl. «Prometto
che la paga sarà più che adeguata al tempo che perderai. La situazione per i
commerci sta iniziando a migliorare seriamente solo adesso, se capitasse
qualcosa di brutto al professore, chi può dire cosa potrebbe succedere?»
Daemon si guardò
un momento attorno, quasi che stesse cercando una scusa buona per rifiutare la
richiesta.
«D’accordo. Lo
farò.»
«Ti ringrazio,
ragazzo. Dal profondo del cuore.»
«Ma sia chiara una
cosa, solo per qualche giorno. La stagione della caccia sta per entrare nel
vivo.»
«Certamente, senza
alcun dubbio. Hai la mia parola. Manderò subito una lettera al sindaco di
Zolle.»
Daemon aveva sentito dire che il professor
Jacob Hinkel fosse un tipo un po’ bizzarro, come
tutti i luminari del resto, ma ciò che si trovò di fronte al momento fatidico
lo lasciò quasi basito.
Non era né grasso
ne magro, semmai giusto un po’ paffuto, come tutti i naturalisti e gli studiosi
da salotto, con una vistosa pelata malamente nascosta da un elegante cappello.
«Tutta questa
accoglienza per un umile professore?» disse, quasi divertito, mentre scendeva
dalla carrozza.
«Professor Hinkel, benvenuto a Dundee. Io sono Luparl,
il sindaco di questa comunità. E questi è…»
«Daemon. Daemon
Haselworth.»
«Daemon sarà la
Vostra guida, professore. È un cacciatore di grande talento, e conosce le
foreste della regione meglio di chiunque altro.»
Al che il
professore si avvicinò al ragazzo, fissandolo con evidente curiosità.
«Così giovane, e
già così stimato. Mi sento quasi onorato di avere una persona come voi a
guidarmi per questi boschi.»
«Farò del mio
meglio, professore.»
Nel mentre il
cocchiere e il valletto stavano cercando di scaricare il due pesanti bauli
legati sul tetto della carrozza; avevano appena finito col primo, quando messo
un piede in fallo il cocchiere si fece sfuggire dalle mani il secondo, che
apertosi rumorosamente sparse in ogni dove il suo contenuto di barattoli,
ampolle e libri di ogni forma e dimensione.
«Che fate,
sciocchi? Quelli sono campioni e volumi preziosissimi! Ve lo detraggo dal
pagamento!»
Daemon alzò gli
occhi al cielo, sospirando. Non aveva ancora iniziato, e già non vedeva l’ora
che finisse.
Servì quasi un’ora per caricare quel
povero mulo di tutto l’armamentario, e vani furono i tentativi di Daemon di
avvisare che forse non era il caso di portarsi dietro un simile bagaglio, visto
il tipo di sentieri che avrebbero attraversato.
«Impossibile.» aveva
risposto il professore «È tutto equipaggiamento indispensabile.»
Lasciata la città,
Daemon e il professore si addentrarono nelle foreste a ovest, lungo un sentiero
battuto che però finirono ben presto per abbandonare su richiesta del vecchio
erudito, il quale finì ben presto per farsi rapire interamente dalla
meraviglia, prendendo a scribacchiare senza sosta un quadernetto.
Tutto sembrava
attirare il suo interesse, e più di una volta durante il tragitto Daemon
dovette ammonirlo di tenere d’occhio il suo cavallo per non rischiare di andare
a sbattere da qualche parte, o peggio ancora di perdersi.
«Cerchi di
mantenere sempre il contatto visivo. Questa foresta è tutt’altro che sicura.»
«Potete stare
tranquillo, signor Haselworth. A vedermi non si direbbe, ma ho visitato luoghi
assai più pericolosi di questo.»
«Con tutto il
rispetto, ma mi viene difficile crederlo.»
Dopo solo qualche
ora dovettero fermarsi, visto che ormai il terreno si era fatto così
accidentato che sarebbe stato imprudente avventurarvisi con il mulo carico.
«Da qui in poi
meglio procedere a piedi.»
Se non altro, a
dispetto dell’età, del fisico non troppo atletico e della palandrana tutt’altro
che pratica che indossava, il professore sembrava davvero a suo agio a
camminare per terreni impervi, e riuscì senza troppi affanni a stare dietro
alla sua guida per tutto il tragitto.
Procedendo a piedi
raggiunsero un terrazzamento poco più in alto, abbastanza vicini da poter
tornare agilmente sui propri passi ma abbastanza lontani perché gli animali non
si sentissero minacciati dalla loro presenza e dal rumore dei cavalli.
Mentre Daemon
sorvegliava i dintorni il professore si mise subito al lavoro, e armato di
retino prese a catturare quanti più ragni, insetti e piccoli rettili o anfibi
che poteva, catalogandoli con cura e riponendoli nei pochi barattoli che era
riuscito a caricare sullo zaino che si era portato dietro.
Ad ogni nuova
cattura, metteva mano alla lente che portava come un fiore all’occhiello della
giubba, concedendosi lunghe e dettagliate osservazioni che non mancava di
scandire ad alta voce, quasi che si stesse rivolgendo a degli astanti invisibili
che pendevano dalle sue labbra.
Daemon osservava
stando in disparte, solo apparentemente distratto, ma in realtà con tutti i
sensi protesi al massimo, pronti a cogliere ogni più piccola minaccia.
La situazione
tuttavia era tranquilla, così tanto che il giovane cominciava quasi ad
annoiarsi; gli era già capitato di condurre qualcuno nei boschi, ma mai nessuno
che apparisse allo stesso tempo così fuori posto e così a proprio agio come il
professor Hinkel.
«Vado a fare un
giro di controllo. Voi per favore restate qui. Questa zona della foresta è
relativamente sicura, ma è sempre meglio essere prudenti.»
Il professore era
talmente preso dal suo lavoro che si limitò ad un cenno della mano, e per
qualche minuto seguitò a prendere appunti sulla sua ultima scoperta comodamente
seduto su una roccia.
Poi però, una
variopinta farfalla gli volò proprio davanti agli occhi, attirandolo come un
topo col formaggio.
«Aspetta piccola.
Fatti dare un’occhiata più da vicino.»
Retino alla mano,
e senza pensarci due volte, il professore le corse dietro per un tempo
impossibile da quantificare, addentrandosi sempre più nel fitto degli alberi;
l’inseguimento si concluse solo quando l’anziano docente, messo un piede in
fallo, rotolò come una ruota giù da un breve pendio.
«Annotazione.»
borbottò rimettendosi in piedi. «Solo lo stolto guarda il cielo senza prestare
attenzione a ciò che ha sotto gli stivali.»
Il tempo di
levarsi la terra dai vestiti, e si rese ben presto conto di essersi perso.
Tutto attorno a
lui non c’erano altro che alberi e silenzio, e della sua guida o di qualunque
altra cosa che potesse aiutarlo a capire dove fosse finito neanche l’ombra.
«Perfetto, dalla
padella nella brace. Ma quando imparerò a non farmi distrarre dalla prima farfalla
che mi passa davanti?»
Provò a seguire i
propri passi per tornare da dove era venuto, ma quella foresta era così fitta e
uniforme che non fosse stato per la pendenza avrebbe pensato di trovarsi sempre
nello stesso posto.
Il suo peregrinare
senza sosta lo condusse in una nuova radura, e mentre cercava vanamente di
riconoscere qualche elemento un frusciare di fronde gli fece rizzare ogni
singolo pelo del corpo.
«Chi va là? Vi avviso,
non ho un buon sapore.»
Dal fogliame sbucò
una piccola scimmia dal superbo manto nero, che ignorando completamente il
paffuto professore rivolse invece tutte le sue attenzioni ad un vicino cespuglio
di fragoline selvatiche.
«Ma tu sei una
scimmia nera di montagna. Quale fortuito incontro. Credevo che in questo
periodo dell’anno viveste molto più in alto.»
Subito prese fuori
il taccuino e iniziò a buttare giù uno schizzo, dimenticandosi completamente del
contesto in cui si trovava.
«Aspetta!» esclamò
quando la piccola scimmia, forse intimorita dalle attenzioni di quel buffo
umano, se la diede a gambe. «Mi mancano giusto alcuni dettagli!»
Stavolta però
l’istinto naturale di correre dietro all’oggetto della sua curiosità costò al
professore ben più di un ruzzolone, perché fatti giusto pochi passi si ritrovò
a tu per tu con un’altra scimmia nera; con l’unica differenza che questa, oltre
ad essere sei o sette volte più grossa, non sembrava per nulla contenta di
vedere il suo piccolo molestato a quel modo.
«Per la chioma di
Gaia! No, no. Aspetta! Non gli stavo facendo niente di male!»
La scimmia stava
quasi per caricarlo, quando un sasso lanciato con incredibile potenza colpì un
albero poco distante. Un attimo dopo Daemon era in piedi tra il professore e la
scimmia, rivolto verso quest’ultima con aria di aperta sfida.
L’animale ringhiò,
a prima vista ancora intenzionato a scagliarsi all’attacco.
«Che aspettate?
Uccidetela!»
E invece, Daemon
lasciò cadere a terra l’arco, proprio quando la scimmia iniziava la sua carica
contro di lui.
Poi, un istante
prima di essere travolto, gridò; fu un grido bestiale, animalesco, che lasciò
il professore dapprima sbigottito, e subito dopo senza parole, nel momento in
cui vide la scimmia arrestare l’attacco e fermarsi, sovrastando il giovane con
tutta la sua imponenza. Con gli anni Daemon si era fatto un giovane di ottima
costituzione, ma quella bestia lo faceva comunque sembrare un moscerino.
All’improvviso il
ragazzo prese a urlare, sbracciare, battersi i pugni sul petto e sul terreno
come un indemoniato, il tutto senza mai fuggire il contatto visivo con la
scimmia.
«Che state
facendo?» biascicò terrorizzato il professore constatando che l’animale, dopo
un momento di esitazione, aveva ben presto iniziato ad imitarlo. «Così la
farete solo infuriare ancora di più.»
Ma Daemon non gli
diede ascolto, anzi divenne sempre più scalmanato e plateale, arrivando ad un
certo punto a strappare erba e a lanciarla addosso alla sua avversaria.
Il professor Hinkel si aspettava da un istante all’altro di vedere quel
bestione aprire in due la sua guida con una singola smanacciata; invece ben
presto la scimmia sembrò perdere convinzione, diventando quasi timorosa. Le sue
ostentazioni di forza scemarono, fino a che, ricevuto un ultimo urlo di Daemon
letteralmente ad un palmo dal naso, girò i tacchi e si ritirò in tutta fretta,
recuperando al volo il suo piccolo prima di scomparire tra gli alberi.
«Beh… dovrò
ricordarmi di annotarlo nei miei appunti.»
«Quale parte di
“restate qui” non vi era chiara, esattamente?»
Nonostante tutto
gli porse la mano, aiutandolo a rialzarsi.
«Ammetto di non
aver mai visto niente del genere. Ero sicuro che ci avrebbe fatti fuori
entrambi.»
«Le femmine di
scimmia di montagna sono molto aggressive quando proteggono i piccoli, ma se
percepiscono che la minaccia non vale il rischio di uno scontro preferiscono
scappare piuttosto che combattere.»
«Devo confessare
che sulle prime ero un po’ scettico riguardo al vostro conto, ma più vi sto
vicino e più mi rendo conto di essermi sbagliato.»
«Felice di
sentirvelo dire. Ora però meglio spostarsi. Per ora ci ha rinunciato, ma meglio
non sfidare la sua pazienza.»
Al che i due si
misero in cammino, con l’idea di raggiungere i cavalli e cercare un’altra zona
in cui fare sosta, anche in previsione del trascorrere la notte.
«Ad ogni modo, se
sono gli animali che volete qui ne troverete in gran quantità. Il problema è
che molti sono anche più pericolosi della scimmia che avete appena incontrato.
Lupi rossi, cinghiali di montagna. Da qualche tempo, in questa regione si è
stabilito persino un tarkana.»
Il professore
trasalì.
«Un tarkana avete detto!? Grosso?»
«Il più grosso che
si sia mai visto. O almeno questo è ciò che hanno detto i pochi che l’hanno
incontrato e che l’hanno potuto raccontare. E no, non chiedetemi di cercarlo.
Ci tengo troppo alla vita.»
«State tranquillo,
non è il genere di creatura nella quale muoia dalla voglia di imbattermi.»
Nel mentre però la
camminata sembrava andare un po’ per le lunghe, e anche se Hinkel
non si poteva certo considerare un drago in orientamento aveva la netta
sensazione che non stessero andando nella direzione verso cui avevano lasciato
i cavalli.
«Scusate, se
posso. Siete sicuro che sia la strada giusta? Credevo che dovessimo andare
verso il basso per raggiungere ai cavalli.»
«Non stiamo
andando a prendere i cavalli.» rispose allora Daemon quasi sussurrando, con un
tono di voce completamente diverso dal precedente che inquietò non poco il
vecchio docente.
C’era qualcosa che
non andava.
«Non fermatevi.»
disse ancora il ragazzo prima che il professore potesse pensare di rallentare
il passo. «Continuate a camminare.»
«Che… che sta
succedendo?»
«Ci stanno
seguendo.»
«Che cosa!? Chi!?»
«Sul costone di
roccia, alla sinistra del sentiero, nel punto più in alto.»
Cercando di essere
discreto, il professore girò lentamente lo sguardo in quella direzione, facendo
appena in tempo a scorgere un’ombra che un istante prima di essere inquadrata
scompariva dietro il bordo.
«Chi sono?»
«Macaire. Ce n’è
un altro sopra le nostre teste, tra gli alberi. E ce ne saranno sicuramente
altri nei paraggi.»
«Sono… banditi?»
«Peggio, sono
anche mostri. Attaccano spesso ricchi viaggiatori e chiunque sorprendano nella
foresta per raccogliere denaro e materiali. Ma è strano che siano qui, visto
che solitamente bazzicano intorno al Castello.»
«Madre Gaia, forse
sarebbe meglio tornare ai cavalli.»
«Sarebbe inutile,
oltre che pericoloso. O li hanno già dispersi, o più probabilmente i loro
compagni li stanno tenendo d’occhio. Continuiamo a camminare in questa
direzione, per separarli dai loro compagni. Attaccarli adesso sarebbe inutile,
e se ci mettiamo a correre ci salterebbero addosso. Non devono sospettare che
ci siamo accorti di loro.»
Su consiglio della
sua guida, Jacob finse di immergersi nuovamente nel suo lavoro, ma era così
agitato che a stento riusciva a contenere l’impulso di guardarsi continuamente
le spalle.
Nel mentre Daemon
aveva tutti i muscoli in tensione, e come avesse avuto gli occhi di una mosca
seguitava a sorvegliare tutto intorno senza quasi muovere la testa.
«Guardi,
professore.» disse fermandosi all’improvviso «Quel coleottero su quella roccia
è un esemplare unico, tipico di questa regione.»
«Eh… Cosa… Dove…?»
Il giovane felino
maschio armato di coltellaccio piombò sul professore nell’istante in cui questi
si piegò, venendo però intercettato a mezz’aria da Daemon con un calcio
tremendo e scaraventato via colpendo l’albero da cui era sceso con forza tale
da rimanere esanime a terra.
La sua complice
appostata poco distante corse subito in suo aiuto, puntando però direttamente
Daemon e tentando di affettarlo con le sue unghie affilate da lince; il
cacciatore schivò il primo assalto, la sgambettò facendola cadere, e prima che
potesse rialzarsi le saltò addosso, usando la corda dell’arco come una garrota
e togliendole l’aria quel tanto che bastava da farla svenire.
Quando il
professore, che non si era quasi accorto di niente, si girò, i due assalitori
erano già entrambi fuori combattimento.
«Non smettete mai
di sorprendermi.»
«Questi erano i
primi. I loro compagni arriveranno presto. Dobbiamo andarcene subito.»
«Andarcene? E
dove?»
Proprio in quel
momento, rumori in lontananza preannunciarono l’arrivo del prossimo gruppo.
«Ovunque ma non
qui! Venite!»
Preso il professore
per un braccio, e gettata al vento ogni discrezione, Daemon si mise a correre.
Sfortunatamente il
povero Jacob tra l’età e il fisico non era certo un maratoneta, e dopo poche
decine di metri già non ce la faceva più.
«Io… non credo di
riuscire ad andare oltre…»
Non restava altro
da fare che provare a combattere, ma occorreva trovare un luogo adatto dove
nascondere il professore.
«Presto, entrate
qui!» disse spingendolo a forza dentro un piccolo pertugio tra due grosse
rocce, grande a malapena per poterci stare rannicchiati.
Messo al sicuro il
suo protetto, Daemon si posizionò davanti all’apertura come un cane da guardia
a difesa del suo padrone, l’arco in una mano e il laccetto di sicurezza del
lungo coltello già allentato.
L’assalto iniziò
nel giro di pochi secondi, preannunciato da furiose grida di battaglia e un
crescente rumore di passi di corsa; visto che ormai erano stati scoperti, non
aveva più senso mantenere una approccio furtivo.
Il primo a sbucare
dalla macchia fu un nerboruto orco dalla pelle rossa, che come un toro
scatenato caricò a testa bassa verso Daemon brandendo una coppia di asce
bipenne; ma non fece neanche a tempo ad arrivare a dieci passi dal suo
bersaglio, perché il giovane gli trafisse il ginocchio con una singola freccia facendolo
letteralmente franare a terra con un tonfo fragoroso.
Comprendendo la
pericolosità del nemico, gli altri quattro decisero di scagliarsi all’attacco
tutti insieme, piombando su Daemon da varie direzioni e ingaggiando con lui un
feroce corpo a corpo. Tra di loro, l’unico volto familiare era quello del loro
leader e vicecomandante della banda, Mytra.
Il professor Hinkel osservava il combattimento dal sicuro del suo
rifugio, senza che nessuno si fosse apparentemente accorto della sua presenza.
E proprio perché nessuno sembrava più fare caso a lui, riuscì per primo ad
accorgersi di un’altra figura, appostata su di un albero poco distante, che si
apprestava a colpire Daemon con una piccola balestra.
«Attento!»
Senza pensarci
troppo uscì dal suo nascondiglio, spostando il giovane quel tanto che bastava
per toglierlo dalla traiettoria del dardo, venendo fortunatamente solo ferito
di striscio al collo a sua volta dallo stesso.
«Professore!»
«Niente di grave,
è solo un graffio.»
Constatato di aver
mancato il bersaglio il tiratore fece per ricaricare, e a quel punto Daemon non
ebbe altra scelta che trafiggerlo in mezzo agl’occhi.
«Urzi!» esclamò in lacrime la leonessa vedendo il suo
compagno cadere giù dal ramo, morto stecchito.
Completamente
fuori di sé dalla rabbia, si scagliò contro Daemon con ancora più furia cieca,
mettendo ben presto il ragazzo all’angolo.
Dal canto suo il
giovane era consapevole di aver fatto qualcosa di irreparabile, e ormai parlare
era inutile. Non restava che provare a scappare.
Messa una mano
alla cintura recuperò tre piccole sfere di pelle con attaccata una miccia, che
accese sfregandole tutte insieme sulla fibbia metallica.
«Copritevi la
faccia!» intimò al dottore, alzandosi il bavero per fare altrettanto.
Le tre sfere
scoppiarono con un potentissimo botto pochi istanti dopo essere state
scagliate, liberando una fitta polvere color rosso sangue che travolse la
leonessa e i suoi compagni, facendoli crollare a terra tra urla di dolore, occhi
arrossati e nasi in fiamme.
Avere l’occhio e
il fiuto di un animale era sicuramente un vantaggio, ma in certe condizioni
poteva diventare una condanna: e una miscela di peperoncino sminuzzato e
polvere da sparo era più di quanto un mostro con dei sensi anche solo
leggermente più sviluppati potesse sopportare.
Anche dopo che la
nube si fu diradata, Mytra e i suoi uomini
impiegarono parecchio tempo a riacquistare la vista, mentre dovettero versarsi
addosso tutta l’acqua che avevano per calmare i dolori laceranti al naso.
«Troviamoli!»
In tutta la catena del Khoral,
tra miniere abbandonate e grotte naturali, non era difficile trovare un buon
nascondiglio, e anche se non era comune per lui visitare quella parte di
foresta Daemon ne conosceva due o tre ben riparati che potevano fare al caso
loro.
Non potendo
spostarsi velocemente o agilmente a causa del suo attempato compagno di
viaggio, la sua scelta era infine ricaduta su di una piccola caverna scavata
nella roccia sulla sommità di un ripido pendio, da dove si poteva tenere
d’occhio i dintorni restando nel contempo ben nascosti dalle fronde.
«Qui dovremmo
essere al sicuro. Il terreno sassoso confonde le tracce, e se qualcuno si
avvicinasse ce ne accorgeremmo in un attimo.»
Il professore però
non lo seguiva, perché distratto da uno sciabordio incessante che sembrava
venire dal fondo buio della caverna.
«Che cos’è questo
rumore?»
«Un fiume
sotterraneo. Scorre sotto i nostri piedi, e sbuca nella foresta ad un paio di
miglia da qui.»
Jacob si stava
quasi convincendo che il peggio potesse essere passato, quando si vide
afferrare vigorosamente per il bavero e sollevare di peso.
«Ma voi chi
accidenti siete?»
«Che cosa
intendete dire?» replicò lui sudando freddo.
«Qui non si tratta
di assaltare un riccone per rapinarlo. Quei Macaire volevano farvi la pelle. E
ora vorranno farla anche a me, visto che per proteggervi ho dovuto uccidere uno
dei loro. Si può sapere perché vi vogliono morto?»
«Io… io non ne ho
idea, lo giuro. Non sono neanche mai stato da queste parti in vita mia.»
Forse c’era un’altra
possibile spiegazione.
«I Macaire sono
soprattutto predoni, ma Mytra e i suoi seguaci non
fanno complimenti quando si tratta di schiavisti o trafficanti. Siete implicato
in qualcosa del genere?»
«Assolutamente no.
Al contrario semmai. Sono l’unico docente dell’università ad avere dei semiumani
al mio servizio come assistenti.»
La situazione
negli ultimi minuti era stata così tesa che Daemon non aveva fatto caso al
pallore che si era materializzato sul volto del suo protetto, e fu solo quando
il professore, una volta lasciato libero, crollò malamente sul pavimento umido
che il giovane si accorse che qualcosa non andava.
«Vi sentite male?»
«Non… non lo so…
di colpo, mi sento stanchissimo…»
A Daemon cadde
immediatamente l’occhio sul graffio sul collo.
«Aspettate un
attimo.»
Avvicinatosi,
annusò attentamente, percependo un forte odore di cacao.
«Radice di darenia.»
Se prima era solo
pallido, nel sentire il nome di quel fiore il professore divenne letteralmente
bianco.
«Quindi si tratta
di…»
«Sarpide.»
«Ma… com’è
possibile!? Dovrei essere già morto.»
Ed era vero. Il sarpide era micidiale perché agiva nell’arco di pochi
secondi, ma c’era un’eccezione a questa sentenza altrimenti inevitabile.
«Voi soffrite
della malattia dello zucchero?»
«Cosa!? … Beh, sì…
Sfortunatamente sono giorni che non prendo le mie medicine. Le ho dimenticate
in una locanda e non le ho più ricomprate.»
«Meglio per voi
che non l’abbiate fatto. Avere molto zucchero nel sangue attenua tantissimo
l’effetto velenoso del sarpide.»
«Davvero!? Non
l’avevo mai sentita questa cosa. Quindi, vuol dire che sono salvo?»
«Non del tutto. Il
sarpide uccide molto in fretta, ma con la stessa
velocità viene anche espulso se la vittima non muore. L’importante è tenere
alto il livello dello zucchero per il tempo che sarà necessario.»
«E come si può
fare?»
«I modi ci sono.
Non dovrebbe essere troppo difficile. Andrò a cercare tutto il necessario. Voi
aspettatemi qui senza fare rumore, respirate lentamente e cercate di non fare
sforzi. Tornerò in pochissimo tempo.»
Nota dell’Autore
Salve a tutti!
Eccoci con un nuovo
capitolo, in perfetto orario!
All’inizio della
release di questo Volume 4 vi avevo pronosticato qualcosa di un po’ fuori dall’ordinario,
ebbene eccolo qui.
Questo capitolo e
il prossimo infatti costituiranno una specie di esperimento.
L’idea infatti è
quella di aprire, un domani, una ulteriore storia, una sorta di raccolta di spinoff incentrati sui personaggi secondari della storia,
che amplifichi le loro storie e aiuti a dare vita ad un universo più completo e
dettagliato senza pesare sulla trama principale.
La vicenda che
vede protagonisti Daemon e il Professor Hinckel
doveva essere il primo di questi racconti spinoff, ma
ho deciso di modificarla un po’ ed inserirla nel tessuto della storia
principale proprio per portarla alla vostra attenzione.
A seconda del
vostro gradimento, in futuro potrei cercare di dare vita ad altre storie
simili.
Il tempo di coprire l’ingresso alla grotta
con delle ramaglie e delle fronde, e Daemon era di nuovo in mezzo alla foresta.
Qualcuno avrebbe
considerato imprudente andarsene a spasso tra gli alberi con un gruppo di
Macaire inferociti alle costole, ma se non era occupato a fare da balia ad un
ciccione rumoroso Daemon sapeva come rendersi invisibile.
Dopo aver
sistemato una semplice trappola al lazo e inciso il tronco di un albero,
lasciando una borraccia a raccogliere la linfa che gocciolava fuori da una
cannula, il giovane prese a raccogliere meticolosamente erbe, fiori e foglie,
infilando tutto quello che gli serviva nella bisaccia alla cintura.
«Ecco, questo è
l’ultimo.» disse cogliendo alcuni fiori di edera bianca.
Nel frattempo la
borraccia aveva accumulato alcuni centimetri di liquido, e proprio mentre la
recuperava Daemon percepì poco lontano il rumore della trappola che scattava;
raggiuntala, trovò ad attenderlo una bella lepre grassa, rimasta bloccata per
una zampa.
«Scusa piccola. Niente
di personale.»
Era già pronto a
vibrare il colpo di grazia, quando un flebile odore gli scivolò strisciante tra
le narici, facendo scattare un allarme nel suo cervello.
«Non ci credo.»
disse a denti stretti, girandosi alle proprie spalle. «Non può averlo fatto
davvero.»
Doveva tornare.
Subito. Immediatamente.
Girati gli occhi
alla sua preda si apprestò a lasciarla andare, ma prima di farlo volle farle
una piccola incisione sull’orecchio, che subito tamponò per evitare la
fuoriuscita di sangue.
«Spero solo che
funzioni.» disse vedendola scappare via verso fondovalle.
Tornato sui propri
passi, corse a perdifiato lungo il crinale in direzione del rifugio, mentre
quell’odore pungente si faceva sempre più forte.
La barriera di
frasche e rami era ancora al suo posto, e da dietro di essa una nuvoletta
grigia si alzava placidamente verso l’alto, disperdendo tutto attorno puzza di
fumo.
«Per tutti gli
dei!»
Il professore
credeva accendendo un fuoco di fare cosa gradita al suo guardiano facendogli
trovare un giaciglio caldo al suo ritorno; invece, lo vide piombare su di lui
come un demonio, rosso di rabbia, che pareva volesse saltargli addosso per
strozzarlo.
«Che state
facendo! Spegnetelo subito!»
«Cosa!? Ma io…»
Ma Daemon non fece
neanche a tempo a scalciarci sopra una generosa dose di terra prima che i suoi
sensi di cacciatore lo spingessero a girarsi preoccupato verso l’uscita.
«Troppo tardi…»
disse digrignando i denti, e senza indugi scagliò una torcia contro le ramaglie
creando un muro di fuoco.
Giusto in tempo,
perché nel giro di pochi secondi si iniziarono ad udire schiamazzi e grida
infervorate, accompagnate da evidenti tentativi da parte di figure indistinte
di aprirsi una via tra le fiamme.
Solo allora Hinkel capì la portata della sciocchezza che aveva fatto.
«Il fumo…»
«Esattamente. Tra
quello e l’odore, mi sorprende che non vi abbiano trovato prima.»
«Volete dire che…
siamo in trappola?»
Daemon guardò in
basso, pensieroso.
«Forse no.
Venite.»
Al che il giovane
condusse il suo protetto in profondità nella grotta, fino ad una grossa
voragine che si apriva nel pavimento, e dal quale giungeva fragoroso
quell’incessante sciabordio.
Il professore
quasi vomitò provando a sbirciare oltre il bordo, riuscendo a malapena a
distinguere l’acqua più in basso.
«Non starete
pensando di…»
«Voi non soffrite
di vertigini vero?»
«Ecco… veramente…»
Un tomahawk gli mancò l’orecchio per pochi centimetri, ma per
sua fortuna Daemon ebbe il tempo di girarsi e fulminare alla gola con una
singola freccia il garuda spiumato che gli stava
correndo contro.
«Scegliete!
Possiamo tentare la sorte nel fiume o consegnare il nostro scalpo ai Macaire!»
«Beh, se la
mettete così…»
In realtà al
professore servirono tre tentativi per convincersi a saltare, cosa che fece
solo dopo aver trovato la forza di chiudere gli occhi e lasciarsi cadere.
Daemon aspettò di
vederlo piombare nel fiume prima di prepararsi a saltare a sua volta, ma prima
che potesse riuscirci Mytra gli piombò addosso come
una furia, la sua bella pelliccia castano chiara annerita e bruciacchiata in
più punti.
«Che cosa volete
da quell’uomo?» provò a chiedere sfoderando il pugnale. «Che ha fatto per
meritarsi un simile odio?»
La leonessa non
rispose, ma anzi tentò di attaccare di nuovo. Prima che la cosa andasse troppo
per le lunghe assumendo oltretutto contorni molto pericolosi, Daemon pensò bene
di battere in ritirata.
«Scusa, ma ora non
ho proprio tempo da dedicarti!» disse scagliando a terra una piccola sfera
d’argilla riempita con una mistura di fosforo, polvere ferrosa e pietra focaia.
Mytra venne
letteralmente travolta da un’esplosione luminosa che quasi le fece sanguinare
gli occhi, ancora provati dal peperoncino di poco prima, e per la seconda volta
quando fu in grado di vedere di nuovo il suo avversario era scomparso nel
nulla.
«Andate pure,
maledetti!» gridò infuriata all’indirizzo della voragine. «Se non vi uccide il
fiume, ci penserà lui!»
In quel fiume Daemon ci aveva pescato un
paio di volte, ma non ci aveva mai nuotato. Nonostante ciò, non ricordava di
averlo mai visto così impetuoso come quella volta.
Sballottato come
una bambola a destra e a sinistra, cercava furiosamente di rimanere a galla e
di non andarsi a sfracellare contro qualcuna delle rocce che affioravano qua e
là da oltre la superficie.
Nel mentre,
guardava in ogni direzione alla ricerca del professore, e per ogni secondo che
passava si convinceva di averlo praticamente costretto a suicidarsi; perché se
lui stava facendo tutta quella fatica, come era possibile che un cinquantenne
con problemi di linea e le gambe a grissino potesse cavarsela?
In pochi minuti il
torrente sbucò all’esterno, immergendosi nel fitto degli alberi, ma ogni
tentativo di aggrapparsi a qualche ramo o roccia risultò inutile.
Poi, quando stava
quasi per cedere alla fatica, qualcosa lo afferrò per la collottola.
«Vi ho preso!» esclamò
il professore, appollaiato in equilibrio su un tronco caduto che si protendeva
da una sponda all’altra.
Quindi, con una
forza insospettabile, Hinkel riuscì a sollevare
Daemon fuori dall’acqua, permettendogli di raggiungere finalmente a riva.
«Temevo di dovervi
ripescare dal fondo.» ansimò il ragazzo. «E invece siete stato voi a ripescare
me.»
«Per fortuna la
buonanima di mio padre ci teneva che imparassi a nuotare.»
Entrambi quindi si
guardarono attorno, tentando di capire dove potessero essere finiti.
«Voi avete idea di
dove siamo?»
«Fuori dalla
portata dei Macaire, e questo è già un progresso. Ora però dobbiamo trovare al
più presto un nuovo rifugio.»
«Un rifugio?
Perdonatemi, ma date le circostanze non sarebbe meglio approfittarne per
allontanarsi il più possibile da quegli esagitati?»
«Niente affatto.
Per prima cosa tra poco sarà notte, e fradici come siamo non sopravvivremmo mai
all’addiaccio. E in secondo luogo, voi avete ancora il sarpide
in circolo, che presto o tardi vi ucciderà se non facciamo qualcosa.»
Il giovane
cacciatore puntò quindi lo sguardo verso l’alto, imitato dal professore; nuvole
nere come la notte avanzavano a grandi passi scendendo dalle montagne,
preannunciate da folate di vento che fecero tremare entrambi di freddo.
«Quel temporale
sarà qui in pochi minuti. Se non saremo al più presto al chiuso, nessuno dei
due vedrà la prossima alba.»
Daemon non scherzava.
Prima ancora che
il sole fosse tramontato, un temporale come pochi se ne vedevano da quelle
parti in estate si abbatté furioso sulla foresta, scaricando cateratte d’acqua
che tramutarono in pochi minuti i sentieri in torrenti.
Fortunatamente,
poco distante si trovava un’altra grotta, composta da una sola, enorme camera a
volta, ma con un’entrata così stretta da passare completamente inosservata.
Una volta dentro e
murato l’ingresso, Daemon accese rapidamente un fuoco, cosicché potessero
entrambi riscaldarsi e asciugarsi i vestiti.
«Per fortuna gli
ingredienti sono ancora utilizzabili.» commentò triturando tutte le erbe, le
radici e i fiori che aveva raccolto in un mortaio di fortuna.
Mentre finiva il
proprio lavoro, il giovane passò a Hinkel la sua
borraccia invitandolo a berne il contenuto; il professore obbedì, assaggiando
un liquido talmente dolce da risultare quasi imbevibile.
«Che cos’è?»
«Linfa d’acero.
Terrà alto lo zucchero nel sangue, almeno fino a quando non farà effetto questo
impiastro.»
Il preparato in
questione, una volta finito, prese l’aspetto di una melma scura dall’aria molto
poco invitante, che Daemon avvolse attorno all’unico pezzo di carne secca
rimastogli, per poi offrirlo al suo protetto.
«È amaro come
poche altre cose al mondo, ma mangiatelo tutto.»
Hinkel obbedì,
constatando che non si trattava affatto di un’esagerazione; il sapore forte
della carne a malapena rendeva il tutto tollerabile, tanto che il professore
esitò a lungo prima di decidersi finalmente ad ingoiare.
«Suppongo che
fosse una sorta di antidoto.» disse tracannando la poca linfa rimasta, nel
tentativo di togliersi di bocca quell’orribile sapore.
«Come ho già detto
il sarpide uccide in maniera quasi istantanea, ma
viene anche espulso molto velocemente qualora non riesca a fare effetto. Questo
impiastro impedirà al corpo di assorbire il veleno, inoltre velocizzerà
l’espulsione. Fossi in voi mi preparerei ad una notte piuttosto movimentata.»
«Bontà divina, la
possibilità di uscire vivo da questa avventura fuori dal mondo vale di sicuro
qualche corsa al gabinetto.»
Quanto a Daemon,
anche lui sentiva il bisogno di riempirsi lo stomaco, e non avendo più carne
secca dovette arrangiarsi con quello che c’era; fu così che il professore lo
vide acchiappare un paio di grossi ramarri e mangiarseli abbrustoliti,
accompagnandoli con un infuso di erbe selvatiche per rendere il sapore un po’
più sopportabile.
«Scusate la
franchezza, ma sembrate molto atipico, anche per un cacciatore abituato a
vivere in queste terre così selvagge.»
«Lo prenderò come
un complimento.»
«Ma lo è. Ho avuto
molte guide nel corso dei miei viaggi, ma nessuna di loro aveva una conoscenza
del territorio pari alla vostra. Inoltre dimostrate competenze che esulano da
quelle di un comune cacciatore. Erboristeria, primo soccorso, persino qualche
nozione di alchimia. Dovete aver avuto un grande maestro.»
«In realtà sono
autodidatta, se escludiamo le poche cose che mi hanno insegnato a scuola.»
L’atmosfera si era
decisamente rasserenata, tanto che al professore venne quasi da ridere nel
momento in cui iniziò a sentire alcuni inquietanti movimenti di stomaco.
«Ora scusatemi, ma
credo che farò la prima di quelle corse al gabinetto di cui parlavate. Spero
solo che ci sia un posticino appartato in questa grotta.»
La pioggia continuò a cadere impetuosa per
tutta la notte, fermandosi e lasciando il posto al sereno solo poco prima
dell’alba.
Al sorgere del
sole, la foresta era traboccante di rugiada, e un fortissimo ma piacevole odore
di muschio riempiva ogni cosa; il terreno aveva già assorbito buona parte
dell’acqua piovuta per ore, diventando scuro e pesante.
«Il villaggio di Nevria è ad una decina di miglia a est.» disse Daemon
mentre seguitavano a camminare tra gli alberi. «Di questo passo, saremo lì
prima del tramonto.»
«Per fortuna, quei
Macaire così ostinati sembrano essersi finalmente arresi.»
Anche Daemon si
era accorto della cosa, ma a differenza del suo protetto non riusciva a
sentirsi del tutto tranquillo.
«Che succede?»
esclamò il professore quando Daemon, bloccatosi, gli fece segno di fare
altrettanto. «Altri Macaire?»
In effetti d’un
tratto si erano uditi dei rumori di qualcuno in avvicinamento, e Hinkel prese a girarsi nervosamente in ogni direzione,
mettendo davanti a sé il grosso bastone che aveva rimediato lungo il cammino.
«Ero certo che
avresti capito.»
«Felice di
constatare che alle mie lezioni sulla dispersione di tracce tu non abbia
dormito.» disse Drufo saltando giù da un ramo «Però
potevi anche inventarti qualcosa di meglio. Sai quanta fatica ho fatto per
seguire i segni lasciati da quella lepre, e quindi anche i tuoi?»
«Ho dovuto pensare
in fretta. Per fortuna posso contare sul migliore cacciatore sulla piazza.»
Passato il momento
delle presentazioni, venne quello di tornare alle cose serie.
«Hai trovato segni
dei Macaire?»
«Vi hanno seguiti
per un po’ dopo che siete usciti dal fiume, ma poi si sono fermati.»
«Me ne sono
accorto. Effettivamente è piuttosto strano.»
«Strano!?» disse
un incredulo e preoccupato Drufo. «Davvero non ti sei
accorto di niente?»
«Di che stai
parlando?»
«Ritiro quello che
ho detto circa il tuo addestramento.»
Drufo condusse quindi
Daemon e il professore in un anfratto poco distante, dove i due si ritrovarono
di colpo a tu per tu con uno scenario a dir poco macabro: il terreno, coperto
di aghi di pino e foglie morte, era letteralmente disseminato di prede, alcune
mangiucchiate altre quasi completamente scarnificate, così tante che neanche il
più ingordo dei leoni sarebbe stato capace di mangiarle tutte.
«Per la veste di
Zion.» esclamò Hinkel
Di fronte a quello
spettacolo Daemon rimase sconvolto, domandandosi come avesse fatto a non notare
le altre tracce in cui dovevano essersi sicuramente imbattuti.
«Ma questo è un
basilisco.» disse il professore apprestandosi ad un mucchietto di resti
completamente triturati. «Le sue ossa sono tra le più resistenti dell’intero
mondo animale, eppure sono state quasi sgretolate.»
«C’è una sola
bestia capace di fare una cosa del genere.» bisbigliò Daemon.
Poi, come se
qualcosa lo avesse improvvisamente scosso, il cacciatore si girò alle proprie
spalle, con tutti i sensi protesi e il pugno stretto attorno all’arco.
«L’avete sentito
anche voi?»
«Che succede?»
chiese Jacob, che ovviamente non aveva il loro sesto senso
«È qui. Ci ha
fiutati.»
«E presto ci sarà
addosso.» decretò funereo Drufo.
Capendo di chi e
cosa si stava parlando, il professore si sentì gelare il sangue.
«Forse, dovremmo
scappare finché possiamo.»
«Impossibile. Se
corriamo o gli diamo le spalle, ci salta addosso e ci dilania.»
«E comunque.»
disse Daemon. «Non possiamo permettergli di avvicinarsi troppo al villaggio, o
sarà una strage.»
«E allora… che
cosa facciamo?»
«L’unica cosa
possibile. Combattiamo.»
Lavorando insieme,
Daemon e Drufo usarono rami, tronchi e pietre per
trasformare quella piccola porzione di foresta in una stanza degli orrori, con
buche piene di pali, trappole a pressione e altre diavolerie simili; in ultimo,
accesero tutto intorno un gran numero di fuochi, immediatamente coperti di
foglie umide, riempiendo in questo modo l’aria di un fumo acre e denso.
«Siete sicuri che
servirà a qualcosa?» domandò Hinkel di fronte a
quest’ultima trovata. «A quanto ne so, il fiuto dei tarkana
non è così scadente da farsi ingannare da questo fetore.»
«Non è il suo naso
che vogliamo colpire, ma i suoi occhi.» disse Drufo «I
tarkana hanno un fiuto e un udito eccezionali, ma una
pessima vista. Oltretutto i loro occhi sono molto sensibili. Il fumo li
irriterà, così gli confonderemo le idee.»
Un ruggito
improvviso e spaventoso interruppe ogni discorso, spingendo tutti a girarsi in
una stessa direzione.
«Arriva!»
Un attimo dopo gli
alberi sembrarono come cedere il passo a quella poderosa creatura, che apparve
dal nulla sopraggiungendo a grandi balzi e fermandosi proprio davanti ai tre
compagni.
Anche se tarkana era il loro nome ufficiale, il nome con il quale
erano maggiormente noti era quello di orsi corazzati, benché a parte una vaga
somiglianza non avessero nulla in comune con detti animali.
«Avanti
bestiaccia! Vieni a prenderci se ne sei capace!»
Borg aveva un diavolo per pelo mentre,
nell’area di carico e scarico del magazzino, constatava l’ennesima flessione
settimanale negli introiti.
«E questo cosa
sarebbe?» sbraitò vedendo che il carro appena arrivato era mezzo vuoto. «Con
questa roba non ci copro neanche i costi di trasporto!»
«Mi dispiace,
signore. Ma quel tarkana si aggira ancora lungo i
sentieri a ovest. Siamo costretti a passare dalle strade più battute. E i
controlli, i dazi, le tangenti…»
Il maiale allora
esplose.
«Il tarkana, il tarkana! Ogni volta
tirate fuori questo tarkana! E che sarà mai? Forse se
avessi delle vere guardie invece che dei debosciati che rubano lo stipendio,
questo problema sarebbe già stato risolto!»
Rust cercava di far
finta che il suo capo non ce l’avesse anche con lui stando due passi indietro,
e per questo fu il primo ad accorgersi dell’arrivo di un ospite inatteso e non
particolarmente gradito.
«Che ci fai qui? Il
capo non è dell’umore migliore.»
Daemon non rispose
continuando a camminare, e allora il coboldo gli mandò incontro due dei suoi
uomini che il ragazzo, benché visibilmente malandato e appesantito da una
grossa sacca, mandò al tappeto con pochi colpi.
«Adesso mi sono
stufato di te, moccioso! Vieni qua che ti cambio i connotati!»
Rust gli si lanciò
addosso brandendo il suo guanto artigliato, e attirando così sulla zuffa
l’attenzione di tutti i presenti. Ma il suo avversario non batté ciglio, e
schivati i suoi attacchi replicò con un singolo potente colpo di taglio dietro
il collo che lo spedì dritto nel mondo dei sogni.
«Se volevi un
appuntamento, bastava chiederlo. Ho sempre tempo per il mio investimento a
lungo termine preferito.»
«Non lavoro più per
te, o te ne sei dimenticato?»
«Sarà. Allora?
Cosa posso fare per te?»
«Ho passato gli
ultimi due giorni a correre in giro per tutta la foresta inseguito da un gruppo
di Macaire inferociti, ansiosi di fare la pelle ad un vecchio professore. Non
so cosa volessero o perché ce l’avessero con lui, ma so per certo chi li ha
mandati. Tu.»
«Cosa te lo fa
pensare?» chiese Borg facendo spallucce
«Perché sei
l’unico con le conoscenze necessarie ad entrare in contatto con loro, e lo
sappiamo entrambi. Più di una volta ti sei servito di loro per fargli svolgere
lavori sporchi.»
«Interessante
osservazione. C’è solo un problema. Che motivo potrei avere avuto? Ti sembro
forse il tipo che si dannerebbe tanto per un qualunque professoruncolo
umano?»
«Certo che no. È
ovvio che anche tu sei stato assoldato da qualcuno. E ora mi dirai di chi si
tratta.»
Lo sguardo arcigno
che Borg assunse per un istante, nascondendolo subito dietro il suo saccente
sorriso, rivelò senza alcun dubbio che Daemon ci aveva visto giusto.
«Anche ammesso che
tu possa aver ragione, dovresti conoscermi. Lo sai che io non vengo mai meno ad
un affare, a prescindere da chi sia il cliente.»
I due si fissarono
dritti negl’occhi, mentre attorno a loro la tensione si tagliava col coltello.
«Stiamo
negoziando?» sibilò Daemon
«Tu che cosa
dici?»
Passarono altri
interminabili istanti, fino a che il giovane non gettò a terra il contenuto
della propria sacca, dinnanzi al quale persino Borg restò senza parole.
«Questo credo che
basti.»
Dinnanzi a loro
non c’era solo la risoluzione di tanti problemi che a Borg stavano facendo
ormai perdere il sonno, ma anche il genere di trofeo di caccia che ogni nobile
di Erthea avrebbe pagato oro per avere.
«Figlio di… Ma
come hai fatto?»
«Allora? Lo
facciamo questo accordo?»
Come era stato informato del ritorno del
professor Hinkel, il Sindaco Luparl
si precipitò di corsa nella sua stanza alla locanda, trovando inaspettatamente
due miliziani a sorvegliare la porta.
«Che significa?»
chiese. «Perché siete qui?»
«Ordine del comandante
Beek.»
Colpito, ma non
più di tanto, il sindaco si fece forte della sua autorità e ottenne di essere
lasciato entrare.
«Professore.»
disse, trovando l’erudito intento a rendersi nuovamente presentabile con un
cambio d’abito. «Siano ringraziati gli dei, per fortuna state bene.»
«E lo devo tutto alla
mia guida, signor sindaco. Se non fosse stato per lui, a quest’ora il mio
scalpo farebbe mostra di sé sulla lancia di qualcuno di quei mostri.»
«I Macaire sono un
problema da anni in questa regione, ma non avevano mai assalito qualcuno in
questo modo, con il chiaro intento di uccidere.»
«Fossero stati
solo i Macaire. Per poco non rischiavo di diventare la cena di un tarkana. Ma quel cacciatore e il suo servo sono stati a dir
poco strepitosi. Ma visto che quel satiro non era il mio servo, appena mi ha
visto tornare insieme a lui quel vostro comandante di milizia ha pensato che
fosse una buona idea farmi chiudere qui dentro, guardato a vista dai suoi
gorilla.»
«Vogliate
perdonarlo, il Comandante Beek alle volte è fin
troppo zelante nel suo lavoro. Comunque, in realtà mi erano giunte voci circa
dei movimenti strani tra i Macaire, ma prima che potessi avvisarvi eravate già
partiti. E poi…»
Il sindaco abbassò
il capo, come mortificato.
«E poi cosa?
Sapete qualcosa che dovrei sapere anch’io?»
«No, è solo che…
ecco, non mi piace accusare ingiustamente, però…»
«Visto e
considerato che stavo quasi per lasciarci le penne, credo di essermi guadagnato
il diritto di sapere.»
«Il fatto è che ho
ricevuto dei rapporti abbastanza strani dai doganieri sul ponte. Voci di
individui sospetti che negli scorsi giorni avrebbero passato il confine con
salvacondotti rilasciati dallo Stato di Elordia.»
Sentendo quel nome
il professore si accigliò.
«Benwood. Avrei dovuto immaginarlo. Ha sempre osteggiato il Presidente,
fin da prima della sua elezione. Avrà pensato di colpire me per fare un danno a
lui.»
«Forse è un bene
che abbiate quelle guardie fuori dalla porta. Chissà cos’altro potrebbero
tentare quegli agenti nemici ora che il loro piano è fallito. Ad ogni modo, mi
assicurerò che possiate rientrare nell’Unione in tutta sicurezza.»
Un bussare alla
porta mise entrambi in allerta, ma la comparsa di Daemon, seppur visibilmente
provato dalle fatiche degli ultimi giorni, li rasserenò.
«Daemon.» esclamò
il sindaco. «Di sicuro sarai stato meglio, ma nonostante tutto sono felice di
rivederti vivo.»
«Mi associo
all’amico sindaco. Sembrate davvero un fantasma.»
Il giovane si
guardò un momento attorno, senza proferire parola.
«Professore, il
padrone della locanda vi ha fatto preparare la cena.» disse con sguardo severo
e voce calma. «Le guardie vi scorteranno al piano di sotto.»
«Ma, veramente, io
non avrei neanche tutta questa fame.»
«Vi prego. Io e il
sindaco dobbiamo parlare in privato.»
Di fronte a quegli
occhi e a quel tono di voce il professore si sentì di nuovo uno scolaretto
irrispettoso, e come tale in silenzio obbedì lasciando la stanza.
«Date le circostanze,
sono felice di averti scelto per questo incarico. E ho sentito che hai anche
eliminato quel tarkana. Davvero notevole.»
«Potete anche
smetterla con la commedia, signor sindaco. Borg ha già vuotato il sacco.»
Sulla faccia del
sindaco si intravide un sussulto, ma la sua espressione calma e controllata non
parve risentirne.
«Posso sapere di
cosa stai parlando?»
«Del fatto che
tramite Borg vi siete servito dei Macaire perché uccidessero il professore,
dicendo loro che si trattava di un famoso schiavista dell’Unione. Proprio il
genere di persona che i Macaire sono più che felici di uccidere.»
«Dimentichi che
sono stato proprio io a chiederti di proteggere il professore. Perché avrei
dovuto affidargli una scorta se avessi tentato di ucciderlo?»
«Perché nessuno
potesse accusarvi di non aver preso tutte le precauzioni necessarie a tutelare
la sua incolumità. Come avete detto voi, la mia reputazione mi precede in
questa provincia. Ovvio che vi aspettavate che ci lasciassi la pelle anch’io,
così da non avere testimoni scomodi. Ed effettivamente un paio di volte ci sono
andato vicino, il che capirete non mi mette di buonumore.»
In quel momento la
porta si aprì di nuovo e le due guardie di poco prima si ripresentarono nella stanza,
con Beek al seguito.
«Avrete molto da
spiegare Signor Sindaco, e per il vostro bene spero che abbiate una buona risposta
per le accuse del moccioso.»
«Io non le
chiamerei neanche accuse, sono solo un mucchio di fandonie. Tanto per
cominciare, perché avrei dovuto fare una cosa del genere? Mi ero assunto
personalmente l’incarico di garantire l’incolumità del professore, quindi sarei
stato il primo a dover rispondere della sua morte.»
«I Macaire sono
conosciuti e temuti anche nell’Unione. Se fosse emerso che l’omicidio era opera
loro, non avreste avuto problemi a trovare un modo per discolparvi.»
Quindi venne il
momento dell’accusa peggiore.
«Quanto al perché,
è presto detto. Mi è bastato fare qualche domanda in giro. Voi oggi in pubblico
criticate apertamente la dottrina reunionista, ma in
verità voi stesso da giovane avete fatto parte di una società segreta che
perseguiva questo scopo. I Cacciatori dell’Ovest. Il vostro motto era Una volta era, e sarà per sempre.»
«Lo è ancora.»
replicò il sindaco, stavolta con malcelato astio. «E anche se fossi un reunionista? La nostra guerra era contro l’Impero, non
contro l’Unione. Anzi, tutti sanno che l’Unione versava fondi considerevoli ai
gruppi reunionisti per provocare disordini nei
territori di confine. Che motivo avrei avuto di attentare alla vita di un
illustre cittadino di una nazione che ci era amica?»
«Per lo stesso
motivo per cui vi siete sempre battuti. La riunificazione di Eirinn e la sua
liberazione dall’Impero. I reunionisti più fanatici
credono di poter riportare Eirinn ad essere una nazione indipendente, ma voi
non siete così ingenuo. Sapete benissimo che allo stato delle cose l’Impero non
si può sconfiggere, per quanto indebolito e decadente possa essere. D’altro
canto però, una Eirinn riunificata che divenisse un membro dell’Unione avrebbe
sicuramente maggiore libertà di quanta possa mai sperare di averne adesso.»
«Volevate
sfruttare la tensione provocata dalla morte di una persona molto cara al
Presidente per provocare una nuova guerra, giusto?» intervenne Beek
«Anche se il clima
di guerra fredda tra l’Impero e l’Unione è ormai passato l’inimicizia è ancora
molto forte lungo il confine.» continuò Daemon. «E con l’Impero che ha dismesso
o riassegnato buona parte delle sue legioni, confidavate che a qualche fanatico
sarebbe bastato un pretesto per provocare un nuovo conflitto. D’altronde è
fatto risaputo che l’Unione aspira da sempre ad annettersi questa regione.»
Luparl ostentava
sicurezza, ma i muscoli tirati del viso e la fronte imperlata di sudore
tradivano il suo nervosismo.
«Siete solo un
povero ingenuo. Non avete ancora capito che all’Unione non importa nulla
dell’Oriente? Tutto quello che vogliono è mettere le mani sull’Occidente e
sulle sue miniere. Se il vostro piano per chissà quale motivo fosse riuscito,
avreste ottenuto solo di dividere Eirinn ancora di più.»
Finalmente, il
sindaco si degnò di alzare gli occhi, fissando i suoi due accusatori con fare
calmo e padrone di sé.
«Tutto molto
affascinante, signor Haselworth. C’è solo un piccolo problema. Anche se avessi
fatto quello di cui mi accusate, non vedo alcuna prova a mio carico. A mio
carico ci sono solo la parola di un maiale e le farneticazioni di bifolco. Io
non confesserò niente.»
Era vero. Il sindaco
Luparl era la persona più rispettata e apprezzata di
Dundee, in buoni rapporti non solo con le autorità locali ma persino col
governatore.
«In realtà.» disse
Daemon come mortificato, cambiando nel mentre completamente espressione. «Io
speravo che lo faceste. A questo punto, sarebbe la vostra unica speranza.»
«Come?»
«Per quanto questo
piano avesse scarse possibilità di riuscire, è chiaro che non potete averlo
organizzato da solo. Altri vi avranno aiutato, sia qui che nell’Unione. Se
accettaste di collaborare nello svelare i nomi dei cospiratori, con la
reputazione che avete potreste appellarvi al governatore per ottenere clemenza.
I Macaire invece non saranno altrettanto generosi. Sono sicuro che mentre
parliamo Borg vi sta già vendendo a loro per proteggersi. E considerando che
per salvare il professore ho dovuto uccidere alcuni di loro, non credo vi
perdoneranno per averli manipolati in questo modo.»
Ogni parola di
Daemon era come un chiodo sulla bara, e per quando il giovane ebbe finito di
parlare la maschera del sindaco si era ormai sgretolata.
Sul tavolo della
stanza il professore aveva lasciato un affilato tagliacarte.
Luparl lo afferrò,
puntandolo minacciosamente verso il ragazzo e i tre soldati, che subito a loro
volta misero mano alle armi.
«Non fate idiozie
Signor Sindaco.» gli intimò Beek. «È finita.»
«Non è finita per
niente. Una volta era, e sarà per sempre!» e detto questo si tagliò la gola.
«Non dico di condividere ciò che il
Sindaco Luparl ha fatto, ma non me la sento di
giudicarlo. A modo suo, voleva solo il meglio per la sua patria.»
«Suona strano
detto da voi, professore. Le sue macchinazioni vi sono quasi costate la vita.»
«Mi chiedo se
sapendo cosa era destinato a succedere di lì a breve avrebbe comunque scelto di
portare avanti il suo piano. Lui voleva un’Eirinn libera dall’Impero, ed è ciò
che tu, ragazzo mio, alla fine hai ottenuto.»
Il professore
sorrise: «Quando ci siamo lasciati ho detto che vedevo in te qualcosa di
grande, ragazzo mio. Ma mai mi sarei aspettato di vederti arrivare così
lontano.»
«Il fato ha voluto
così.»
«A proposito, poi
cos’è successo ai Macaire? Spero che da allora abbiate fatto pace.»
«Sono rimasti
coinvolti in una faccenda delicata. Brutta storia. Forse un giorno ve ne
parlerò.»
Dopo aver svuotato
piacevolmente una seconda tazza di infuso, venne per il professore il momento
di congedarsi.
«È stato un
piacere rivederti. Immagino però che avrai ben altro da fare che perdere tempo
con un vecchio fossile come me. Mi ha fatto piacere rivederti, e ti auguro ogni
bene. Spero veramente che la tua impresa si concluda per il meglio. Questo
mondo ha bisogno del cambiamento che vuoi portare.»
Daemon esitò un
momento, fermando il professore quando questi era già sul punto di lasciare la
tenda.
«Aspettate. In
realtà c’è una cosa che vorrei chiedervi.»
«Ovvero?»
«Come avete detto
voi, sto cercando di costruire qualcosa di buono da tutto questo. E ho avuto
modo di sperimentare e apprezzare le vostre sterminate conoscenze. Immagino che
siate molto ferrato anche negli studi storici e culturali.»
«Non mi considero
un luminare, ma me la cavo.»
«Il fatto è che
sia la nostra patria che questa nazione abbondano di antiche rovine, e ad oggi
noi conosciamo ancora molto poco della storia antica di questo mondo. Pensavo
potesse essere una buona idea mettere insieme una squadra di dotti studiosi che
possano sollevare il velo sui molti misteri che ancora circondano il passato di
Erthea, e sarei onorato se voi decideste di farne parte.»
«Io!?» rispose il
professore tornando a sedersi «Dici sul serio?»
«Credo che Erthea
abbia trascurato anche troppo a lungo la propria eredità. C’è così tanto che
possiamo imparare dal nostro passato. Non posso promettervi grossi stanziamenti
come quelli a cui sarete abituato all’università di Mickarn,
ma vi garantirei assoluta libertà investigativa. Basterebbe che vi faceste
carico di scavare, indagare e catalogare ogni rovina o reperto in cui doveste
imbattervi.»
Come se stesse
cercando di prendere il professore per la gola Daemon gli versò una nuova tazza
di infuso.
«Mi piacerebbe
anche istituire una scuola superiore nello Stato Libero. Solo perché ora siamo
in guerra non significa che dobbiamo trascurare le giovani generazioni. Ci sono
tanti ragazzi volenterosi che potrebbero dare il loro contributo al benessere
della nostra patria, se solo potessero contare su di una buona formazione. Se
ve la sentite, potreste assumere la direzione della scuola e aiutarmi a
reperire altri docenti.»
Daemon conosceva
il professore abbastanza bene da sapere quanto le situazioni un po’ complicate
e che richiedevano capacità di adattamento lo attirassero.
«Tu lo sai
immagino che il Circolo non vede di buon occhio chi conduce ricerche storiche
senza la loro autorizzazione.»
«Noi siamo una
nazione scomunicata. Del giudizio e delle disposizioni del Conclave non può
importarcene di meno. E poi se non mi sbaglio voi non vi siete mai fatto troppi
problemi nello sfidare l’autorità di quegli zeloti.»
Era come se i due
navigassero sulla stessa lunghezza d’onda, intendendosi alla perfezione.
«Forse è davvero
giunto per me il momento di appendere gli stivali al chiodo e concedere a
queste vecchie ossa un po’ di meritato riposo. In fin dei conti un po’ mi
mancava l’ambiente accademico, e l’idea di formare così tante promettenti
giovani menti non mi dispiace.»
«Vi ringrazio,
professore.»
«Ma ad una
condizione.»
«Dite pure.»
«Ci sono tante
cose che non vanno nel nostro mondo, e se con il mio lavoro potrò aiutarti a
migliorarle sarò ben felice di aiutarti.Ma devi promettermi che tutto questo non resterà solo
un bel sogno. Dovrai impegnarti con tutto te stesso a creare questo mondo nuovo
e migliore di cui mi stai parlando.»
«Avete la mia
parola.»
«In questo caso,
sarà un piacere lavorare con te.»