Ago e filo di seta

di xwaterice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


- Io verrò con lei, dottore.


Fissò l’uomo davanti a lui intensamente, il tono della voce tinto di una durezza sconosciuta persino a se stesso. I cavalli scalpitavano impazienti sulle pietre ancora umide, figlie di una pioggerella fredda e un cielo colmo di nuvole. S’intravedevano appena dei batuffoli ambrati che emergevano dall’orizzonte, pronti ad annunciare il tramonto. Una carrozza attendeva il dottore Debois a qualche passo dal vialetto che conduceva al suo studio, un baule era già stato sistemato sul postiglione e il cocchiere sedeva già a cassetta.


Doveva essere duro. Doveva imporsi, ma solo nei riguardi di se stesso e nessun altro, ché ormai sentiva di aver imbrattato l’animo dell’attendente che non sarebbe più stato, dell’amico di una vita ed ancor di più dell’innamorato respinto ubriaco di lei, vestitosi delle stesse tenebre di quella rovinosa sera. Faticava a riconoscersi in quell’essere, perché solo questo poteva dire di esser stato. Meritava dunque di non essere più nessuno, perché, André Grandier, in quei giorni di aprile, non sapeva davvero più chi lui fosse. 


Vagabondava tra l’alcol e i pensieri pregni del passato, svolgeva le sue consuete mansioni a palazzo Jarjayes e sempre più spesso accoglieva di buon grado le commissioni che sua nonna avrebbe dovuto svolgere in città, proponendosi di sua sponte, così da sollevare l’anziana e le altre cameriere dalla fatica degli spostamenti. In realtà voleva solo trascorrere il minor tempo possibile tra quelle mura, ché pure tra quelle sentiva di non aver più diritto di vivere, mangiare e dormire. E forse voleva anche risparmiare alla donna, e chiunque altro, l’occasione di notare qualche cambiamento in lui. Fingere di vederci bene era un peso a cui non poteva più mostrare indifferenza, e non voleva la pena e la pietà di nessuno.


In una di quelle occasioni, mentre ritornava a cavallo da Montmartre, il vociare acuto e agitato di un gruppetto di bambini ammucchiati ai lati di una fontanella arrugginita aveva attirato la sua attenzione. Li aveva raggiunti, smontando da cavallo in fretta, ed era sobbalzato alla visione di uno dei bambini accasciato in terra, con le manine serrate alla gola e gli occhietti nocciola impauriti, il volto terribilmente pallido e quasi violaceo. D’istinto lo aveva afferrato dalle braccia e fatto sedere, e aveva poi chiesto ai compagni di gioco di sostenergli la schiena, così che lui potesse tirargli fuori la lingua ed impedirgli di soffocare. Raccolto il piccolo, che lentamente riprendeva a respirare tra le sue braccia, si era poi fatto indicare il medico più vicino da quelle parti ed aveva così fatto la conoscenza di Laurent Olivier Debois, un uomo appena oltre la mezza età dai capelli scuri e dalla folta barba rossiccia, retto e generoso. 


Era nato un patto silenzioso tra i due: il medico preparava nuovi unguenti per alleviare i fastidi che accusava all’occhio destro e lui, conclusi i suoi doveri giornalieri, accompagnava e poi riportava a cavallo altra povera gente del popolo che necessitava delle sue cure e non poteva permetterselo; spesso si fermava ad aiutarlo con le carte da compilare, le erbe da comperare, gli strumenti da pulire, le consegne da fare… e le giornate gli erano parse persino più brevi. 


Era venuto poi a conoscenza dell’imminente partenza del dottore verso Pais-de-Calais; sarebbe stato via qualche settimana, sotto richiesta di un suo vecchio compagno di studi che teneva care le sue ricerche in merito alla chirurgia dei grandi vasi e del cuore e che, in quel momento, necessitava del suo aiuto. Un’alluvione aveva scosso la quiete di quel villaggio che ora naufragava in bilico tra la vita e la morte e l’uomo non aveva atteso un istante per disporre al meglio la sua partenza. 


Un pensiero fulmineo aveva così iniziato a pungolare la mente, o forse più il cuore, di André. Un pensiero sciocco, decisamente poco consono ad un guercio come lui che forse, con molte probabilità, sarebbe potuto diventare cieco anche dall’unico occhio che gli era rimasto. Un’idea di quelle che forse hanno solo i folli, o gli stolti, ma che pure lo attraeva come fosse il canto di una sirena.


Ed ora era lì, appena oltre l’uscio di quello studio che per lui era diventato come una seconda casa, i battiti accelerati ed il respiro appena più pesante. Strinse i pugni abbandonati lungo i fianchi ed inspirò, lentamente, socchiudendo le palpebre per assaporare meglio quell’istante. Ansia e coraggio si tennero per mano, riunendosi in semplici e ferme parole.


- L’accompagnerò come suo assistente, o qualsiasi cosa io possa e debba essere.


Perché doveva farlo ora, ora che aveva fatto a brandelli tutto quanto. Ora che gli erano rimaste solo le taverne e l'alcol, i liquori ed i rimpianti, le parole non dette, i gesti di troppo, l'indignazione e la vergogna verso se stesso addosso. Ed ancora vino, borgogna fradicia nelle vene. Ora che per Oscar non era e non meritava d'esser più nessuno. Voleva servire la medicina, proprio lui che a quella scienza avrebbe potuto implorare solo pietà, in ginocchio, chiedendo che gli venisse risparmiato anche solo un rivolo di luce. Eppure, sentiva che fosse la cosa giusta, lui che impulsivo era stato mai. 


- Desidero aiutare il prossimo con ogni mezzo a mia disposizione, con tutta volontà che ho. Lo desidero davvero, dottore.


Perché aveva sentito dentro di sé una forza immensa quando quel bambino che aveva salvato dalla morte, con il volto ancora rigato dalle lacrime, si era stretto a lui abbracciandolo come se fosse la sua persona più cara al mondo. E la sua mano non l'aveva più lasciata, mentre il medico controllava che respirasse bene e non avesse alcun corpo estraneo in gola. Perché era indicibile la sensazione che aveva provato quando i pazienti del dottore riaprivano gli occhi dopo ore di terrore e agonia, e lo ringraziavano per aver compiuto un miracolo. E ringraziavano anche lui, solo per essergli stato accanto in quell’inferno.


Io verrò con lei, dottore.
Perché in questi giorni ho sentito di nuovo la vita dentro di me, dopo che io stesso ho spento e annerito la mia Luce, strappandola come se avessi lacerato la mia stessa pelle insieme a quei fili di lino. In questo momento sento che solo aiutando il prossimo posso provare a ritrovare me stesso. Ed io desidero davvero ritornare ad essere degno di chiamarmi André Grandier. L’unico posto a cui so di appartenere in questo mondo è accanto ad Oscar. Non importa come, o in che forma, io ritornerò da lei. Farò in modo di meritarmelo, anche se forse non perdonerò mai me stesso. Io verrò con lei, dottore, ma partirò solo per poter ritornare.

André abbassò lo sguardo per un istante, incurvando appena le labbra. Un po’ rideva di se stesso, tra sé e sé, come se le parole appena pronunciate lo avessero svuotato della fermezza delle sue intenzioni. Una calma apparente, reduce di un peso che lo inchiodava da giorni. Uno tra i tanti, pensò, ma l’unico ed il solo su cui al momento poteva agire.


Una stretta sulla spalla destra lo scosse poi dai suoi pensieri. Non c’era compassione in quel gesto, era più come una carezza amica, forte e sincera. I due uomini si guardarono dritto negli occhi, rischiarati dai raggi dell’ultimo quarto di sole mentre sfuggiva, in un fortunato istante, dalla fitta morsa delle nuvole, filtrando tra i lunghi rami dei cipressi che costeggiavano la via principale.


Debois non aveva detto nulla. Era rimasto in silenzio ad ascoltare, ad osservare. 
Lo comprendeva, in fondo, perché forse quel ragazzo dall’iride che fiammeggiava di verde non era molto diverso da lui; e sapeva che, davvero, guarire qualcuno ridandogli una possibilità di vita creduta persa talvolta è come ricevere in dono uno spicchio di vita stessa. Non sentiva di avere alcun diritto di sfumare quel guizzo d’innocente – e forse sconsiderata - euforia che aveva intravisto in quel ragazzo, tanto più simile a lui che al figlio che aveva perso in guerra. E non voleva nemmeno fermarlo, dopo tutto. 


- Figliolo…


- Lo so. – lo interruppe - Prometto che non le sarò d’intralcio. Lo ha visto da sé, mi posso rendere utile anche se la mia vista non è delle migliori. Non ne ho mai fatto mistero, dopotutto…


Anticipò l’ovvio, ché non era necessario fingere né girarci intorno… almeno in questa realtà.


- Va bene. Non credo di avere nulla in contrario.

- Davvero?

L’uomo annuì. Frugò all’interno della tasca della sua giacca, tirò fuori un involucro con all’interno un panno bianco di cotone e poi lo svolse velocemente aiutandosi con l’altra mano. Era una lente rotonda, più spessa e del tutto diversa da quelle d’uso ordinario: due vetri giustapposti, il primo concavo e l’altro che si adattava ad esso di curvatura opposta, inclinati anteriormente. Erano tenuti insieme da un cerchio di metallo spesso e da un’unica stanghetta frontale da agganciare al capo.[1]

- Te li avrei fatti consegnare prima di mettermi in viaggio, purtroppo sono riuscito a terminarli solo oggi. Non risolverai il tuo problema con degli occhiali, André, ma forse con questa – gliela porse, sorreggendola con cautela – la visione degli oggetti quantomeno vicini sarà più nitida. Almeno per leggere… ed assistermi al meglio.

- Io…


André era visibilmente commosso. Trattenne le lacrime che già sentiva bruciacchiargli gli occhi e, con voce spezzata, riuscì appena ad articolare delle parole. Era grato per quella premura così inaspettata, come se non riuscisse a realizzare che qualcuno credesse davvero in lui, nonostante tutto. In quell’istante sentì di non essere più solo, dannatamente solo, dopo molto tempo. Indossò la lente, cercando di incastrarla velocemente tra i suoi capelli. Fu sorpreso dal peso che tutto ad un tratto sentì sul suo naso. Strizzò gli occhi più volte per mettere a fuoco, ma rimandò ad un secondo momento ogni considerazione.


- Ora andiamo, siamo già in ritardo e lì fuori c’è molto da fare.


Annuì. Il dottore si allontanò per raccogliere ciò che era rimasto sulla sua scrivania, strumenti e medicinali e probabilmente altre utilità più che bagagli pieni di indumenti. André aveva con sé una sola sacca da viaggio, con delle camicie, culottes e qualche tozzo di pane. Lo aiutò a caricare il tutto sul postiglione, insieme al cocchiere che gli sembrò visibilmente annoiato dall’attesa. Partirono, infine, accompagnati dal rumore delle ali degli uccelli che si spiegavano in volo sovrapposto allo scricchiolio delle ruote sul terreno lastricato.

Con lo sguardo rivolto oltre il vetro, mentre il sole si addormentava dietro le coltri dell’orizzonte, il pensiero di André volò a palazzo Jarjayes, da sua nonna, la quale – immaginò – sarebbe stata ancora sveglia e briosa come un’allodola, con le mani impastate di farina, latte e uova, mentre con la sua vocina imperiosa disponeva le indicazioni per la cena, la colazione e l’intera giornata a venire. Sorrise al pensiero e si chiese se ella avesse letto la lettera che aveva lasciato sul mobiletto di castagno adiacente al suo letto, accanto al rosario. Qualche riga, le spiegazioni che occorrevano per non darle molta pena. Avrebbe capito, forse…


Si voltò di scatto verso il medico, intento a leggere uno dei suoi manuali. Un velo di preoccupazione gli adombrava il volto, anche se egli cercava di non darlo a vedere.


- Dottore?



Lui continuò a sfogliare i suoi fogli, senza levare lo sguardo verso il giovane.


- Sì, André?


- Grazie.


Riuscì a dirlo finalmente, senza riserve, appellandosi alla speranza che ogni minuto sentiva squarciare il guscio di ghiaccio che gli mordeva lo spirito, sopendo, irrequieto, il fuoco bollente che quella sera non aveva saputo domare, vergognoso e vile. 


Ma se come il ghiaccio a contatto col fuoco cambia forma ma non la sua natura, lui ora voleva essere acqua. Limpida, quieta, fresca.


Guardando la Senna che s’increspava in lontananza, immaginò Oscar passeggiare sulle spiagge della Normandia, illuminata dallo stesso crepuscolo arancio [2] che tingeva il cielo di Parigi. I riccioli biondi bagnati dagli spruzzi salmastri di quelle onde che, come lei, turbinavano e s’infrangevano le une con le altre per poi tornare ad essere più immense di prima.


Si abbandonò contro lo schienale, stringendo da sotto il mantello il suo diario, all’altezza del cuore.


Aspettami, Oscar.
Io ti aspetterò per sempre, semmai vorrai ritornare da me.
Anche tutta la vita.



[1] con molta, moltissima fantasia intendiamole come la cosa più vicina alle nostre moderne lenti progressive.
[2] menzione alla mia “crepuscolo arancio”, da cui ho anche ripreso una metafora.

 


Note: questa piccola storia ha in totale due capitoli, il secondo l’ho già scritto e lo pubblicherò a breve (giusto il tempo di rivederlo). Anticipo solo che non mi discosterò poi molto dagli eventi canonici dell’anime… grazie mille per la lettura!

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Capitolo 2
*** II ***


Il vento vorticava veloce e gelido su Parigi, punteggiata dalle luci di una notte di mezza luna avvolta da un centinaio di stelle. O almeno così la immaginava. Lui di quel panorama riusciva appena a vedere dei rigagnoli indistinti che si riversavano dall’alto sulla Senna, come a riempirla dello stesso spettacolo del cielo. Camminava lentamente, le spalle alzate e il volto nascosto dal bavero del suo mantello scuro. Infilò le mani nelle tasche della sua giacca ed inspirò più volte, ricacciando velocemente il freddo dalle narici.

La carrozza lo aveva lasciato in prossimità dell’abbazia di Saint Germain des Près dopo ore di viaggio passate in solitudine, immerso nello sgomento e nello strazio che aveva vissuto in quei sei giorni a Bourthes.
Sentiva ancora i rantoli e i gorgoglii provenire dal petto di quegli uomini, quelle donne, quei bambini ricolmi di fango in ogni viscere che avevano in corpo. L’acqua era vita ma sapeva essere anche indocile e feroce, nemica tanto quanto la stessa accogliente terra che pure li aveva scossi e percossi.

C’era stato molto da fare ma ben poco da salvare, in verità. Le giornate erano trascorse nella frenesia del tempo che mai, mai aveva concesso una tregua ai caduti e ai superstiti di quella tragedia. Non c’era stato tempo per pensare ed ancor meno per comprendere la realtà che gli si era presentata davanti, straniante come se a stento gli fosse sembrata reale e tangibile, tanto più simile alle intemperie che aveva letto solo nei libri.

C’era un mondo che moriva mentre altrove la vita procedeva quieta, come se nulla fosse; anche l’oro straripava da Versailles mentre il popolo francese periva di febbre e fame, come se nulla fosse. Ed anche lui, come se nulla fosse, era ritornato alla sua vita. Qualunque essa sarebbe stata a partire da domani.

André aveva dato il massimo di sé, pur non avendo competenze, né tanto meno conoscenze, in campo medico. Conosceva le basi dell’anatomia e della fisiologia, tutt’al più, apprese durante le lezioni impartite a lui e ad Oscar da ragazzi. Si era limitato a mobilizzare i feriti, portarli al sicuro ed offrire loro le cure ed il calore necessari. Con i bambini si era intrattenuto spesso, raccontando loro delle favole o le avventura di una certa soldatessa che galoppava su un cavallo bianco. Aveva bene imparato a dosare e miscelare le erbe, a fare alcuni semplici bendaggi. Talvolta Debois si era premurato di spiegargli qualcosa, al termine delle giornate meno impegnative, più come un resoconto di quanto si fosse fatto e perché. Aveva osservato, tanto, e ascoltato bene.

- Ematemesi, il vomito rosso. Emottisi, la tosse rossa. Anche il sangue ha le sue diverse sfumature di colore, il suo movimento e la sua origine. Non ti innamorare di alcuna diagnosi. Nemmeno il corpo umano è innamorato della vita, André.

Aveva imparato a stimare quell’uomo, e più volte aveva rivisto il volto di suo padre sovrapporsi al suo quand’egli lo chiamava per nome. Si era anche immaginato porgergli le tavole e gli strumenti per intagliare il legno, così come consegnava garze e cotone al dottore.

La lente realizzata appositamente per lui gli aveva permesso di avere una visione migliore da lontano e ancor di più da vicino, qualora avesse inclinato la lente ancora più in avanti; tuttavia, non mancava che l’orizzonte si sdoppiasse e annerisse, costringendolo ad allontanarsi ed interrompere le sue attività. Sentirsi responsabile della vita di qualcuno, seppur in un ruolo marginale, lo aveva fatto sentire più inadeguato che mai e sempre più spesso si era dato del folle.

Che avrebbe perso la vista, lui ne era davvero sicuro anche se nessuno – Lassonne compreso – si era mai pronunciato con certezza a riguardo.

Eppure, quella vita sospesa tra il sangue, il fango e la morte mentre la gente davanti a lui s’aggrappava con tutte le forze alla vita, lo aveva accesso giorno dopo giorno di una fiamma immensa, inestinguibile. Ed un’altra idea gli aveva così attraversato la mente: un’uniforme da soldato semplice, la Guardia Metropolitana di Parigi.

Non avrebbe speso quei suoi ultimi giorni di luce a crogiolarsi nel baratro senza far nulla. Non sarebbe diventato un eroe, ma sarebbe morto pur di stare al suo fianco. Oscar non aveva di certo bisogno della sua protezione, questo lo sapeva. Gli era rimasta solo la dignità di uomo, fedele amica di sempre.

Si era dunque congedato da quel ruolo improvvisato ed aveva ringraziato Debois per ogni cosa, ogni premura e pensiero, anche se le parole nei suoi confronti non sarebbero mai state abbastanza per esprimere la sua immensa gratitudine. Era salito sulla prima carrozza disponibile ed era così rientrato in tarda notte, con un nuovo senso di irrequietezza e di vuoto che s’aggrovigliavano nel petto.

Continuò a camminare per qualche minuto, svoltò l’angolo alla sua sinistra e si diresse verso La Bonne Table, la solita taverna di sempre. Un fiume di topi gli tagliò la strada, appena qualche passo prima dell’ingresso del locale.

Entrò velocemente e si ritrovò immerso in una coltre di fumo ed alcol che impregnavano l’intera stanza, stivata di gente che formicolava tra i tavoli barcollando sui propri passi, chi cadeva ormai stordito in terra e chi urlava a squarcia gola assurdità senza pudore.

Raggiunse il bancone, sistemò la sua sacca da viaggio sporca e rattoppata ai piedi dello sgabello su cui sedeva e ordinò un boccale di birra. Non beveva da un po’ di tempo oramai. Tuttavia, quella sera gli sembrò impensabile non farlo.

Alle sue spalle il vociare di alcuni uomini si fece più intenso. Sentì la porta spalancarsi e urtare bruscamente contro il muro, lasciando entrare una folata d’aria fredda che spense le candele sui tavoli più vicini.

- Hey! Dateci da bere, io e miei valorosi amici lavoriamo da tutto il giorno!

Non ci fece caso, nemmeno sentì quelle parole pronunciate, probabilmente, con entusiasmo ed euforia. Il clangore della risata che seguì poi, però, gli arrivò forte e chiaro. Si chinò sul suo liquido ambrato, sorreggendosi appena con i gomiti mentre chiudeva e schiudeva ripetutamente i pugni di entrambe le mani, infossando di tanto in tanto le unghie sui palmi. Non voleva davvero sentire né vedere nessuno.

Sarebbe dovuto rientrare a palazzo Jarjayes prima o poi, almeno per rinfrescarsi e dare delle nuove spiegazioni a sua nonna. Quella povera donna… avrebbe finito per lasciarle un’altra lettera data la tarda ora. D’altro canto, doveva ancora ingegnarsi ed inventare qualcosa, qualsiasi cosa, per presentarsi in caserma come recluta. Sarebbe stato complicato, pensò, arruolarsi ed ancor di più essere tra i sottoposti del nuovo Comandante della Compagnia B.

Mandò giù un sorso di birra e all’improvviso sentì una mano posarsi con forza al centro della schiena, costringendolo a tossire e voltarsi di scatto. Alla sua sinistra comparve un volto amico, conosciuto appena la settimana prima. L’uomo rise a gran voce e si accomodò accanto a lui, con due birre in mano.

- Sempre la solita faccia da funerale?

Rise anche lui, mentre finiva di asciugarsi le labbra con la manica. Lo ricordava bene quell’uomo dai capelli neri e col fazzoletto rosso legato al collo, sempre pronto a fare festa e a botte con gli altri ragazzi del suo gruppo.

- Sempre la solita noiosa ronda notturna, Alain?

- Come ogni sera, amico. Era da un po’ che non ti si vedeva in giro… ma vedo che non hai perso le vecchie abitudini. – riempì il boccale di André, a sua detta fin troppo vuoto.

- Bevi, questo giro lo offro io. Mi sto proprio annoiando in questo posto squallido… non c’è mai niente da fare per le strade di Parigi!

- Potresti lavorare, per esempio.

- Io sto lavorando, André o come ti chiami! Tu, piuttosto, dovresti trovare altro da fare invece di sbronzarti ogni sera. – mandò giù un lungo sorso, tutto d’un fiato. – Non mi hai ancora detto cosa fai nella vita o da dove vieni.

- Mio padre era un falegname. – disse, con voce bassa – Per quanto riguarda il resto, non c’è proprio niente di importante da sapere.

In effetti, non c’era davvero nulla che potesse dire o raccontare. Cosa facesse nella vita e da dove venisse erano due domande che si era fatto spesso e a cui, in quel momento, non avrebbe comunque potuto rispondere. Non che lo volesse fare, poi.

Abbassò lo sguardo, rigirando lentamente il suo boccale con la mano destra.

- Come vuoi tu. In ogni caso, un posto più divertente in cui potremmo andare lo conoscerei…

Alain si alzò di scatto e lo guardò dritto in volto, cacciando un occhiolino che fece ben intendere all’altro le sue intenzioni. Ma lui non ne voleva proprio sapere, soprattutto quella sera.

Abbozzò un mezzo sorriso, ignorando le lamentele dell’amico mentre lui tirava fuori delle monete e si preparava ad andare via. Si voltò verso l’intera taverna e la sua attenzione venne presto catturata da una serie di giacche blu ammucchiate su un’unica sedia, spostata al lato del tavolo al centro della stanza.

Sgranò gli occhi e gli s’illuminò lo sguardo, come se avesse trovato la risoluzione a tutti i suoi problemi. La trovata perfetta che cercava si era palesata davanti a lui con il nome di Alain De Soisson.

- Ascolta Alain. – si girò verso il soldato e si fece avanti, raccogliendo ogni briciola di coraggio.
- Ho bisogno che tu mi faccia un favore.

Anche l’amico strabuzzò gli occhi in sorpresa. Non sapeva davvero più cosa aspettarsi da quell’uomo che seppur silenzioso e malinconico, nonché dannatamente diverso da lui, gli rimandava comunque un senso di genuina fiducia e calma. Un bravo ragazzo, forse anche troppo.

Ma non ci fu tempo per dire altro.
Si voltarono entrambi di scatto, all’improvviso.

Il suono acuto di una bottiglia scagliata contro la porta che dava sul retro riecheggiò tra le mura della stanza, seguito dallo scricchiolio dei suoi frammenti di vetro sul pavimento. In pochi e fugaci secondi la taverna fu inghiottita dalla confusione più totale. Si ritrovarono accerchiati da volti tinti di rabbia ed euforia, mentre sedie e tavoli venivano lanciati con forza contro pareti, vetrate, le loro teste e le loro membra. E poi ancora vetro, bottiglie e bicchieri su altro vetro. Furono coinvolti anche gli altri soldati, e solo dopo una buona ventina di minuti ritornò il silenzio ed il locale fu finalmente sgomberato.

Ci fu silenzio, di nuovo, quando un rivolo di sangue stillò dal dorso della mano sinistra di Alain e si sparse goccia a goccia sul pavimento, raccogliendosi in specchio d’acqua color rubino.

*****

Fu arrangiato un tavolo coperto da un telo bianco, con sopra un catino riempito di acqua tiepida e diverse lampade ad olio e candele.

- La ferita è profonda… e ci potrebbe essere ancora del vetro all’interno. Avvicinati al tavolo e permettimi di controllarla.

C’era calma nelle parole di André, anche se la velocità e il poco ordine con cui tirava fuori alcuni oggetti dalla sacca che teneva sotto il braccio sinistro tradivano un velo di agitazione.

Sollevò una sedia da terra e si accomodò. Con estrema cautela svolse sul piano di lavoro dei panni di cotone contenenti forbici, aghi e fili. Non toccò nessuno degli strumenti finché non si fu liberato della giacca, arrotolato le maniche della camicia fin sopra i gomiti e sistemato la lente sul naso.
Si lavò infine le mani, frizionando con attenzione i pollici e l’interno delle dita.

- Non dire cavolate André, è solo un taglietto!

Alain era indubbiamente annoiato ed intenzionato ad abbandonare il prima possibile quel posto, oramai divenuto una vera e propria bettola di pazzi. Non ne poteva davvero più. Era tardi e non desiderava altro che stendersi su quella fetida branda che gli faceva da letto.

Si abbassò per raccogliere il berretto e la giubba abbandonate a terra, ma fu tradito dal pizzicore di fuoco evocato da quel movimento. D’istinto si portò la mano ferita alle labbra.

- Tu non vai da nessuna parte. Siediti su quella sedia e non la toccare.

Il soldato fu colto di sorpresa dalla sua voce decisa e perentoria. Fece quanto detto, in fretta. Non aveva voglia né energie per indugiare oltre.

André deglutì lentamente e prese un lungo respiro.
Sentì il corpo farsi ligneo e pregò il Signore affinché il suo occhio non lo tradisse proprio in quel momento, mentre con tutte le sue forze si appellava a parole non ancora troppo lontane.
 
- Acqua calda, alcol o aceto. La ferita va lavata ed osservata bene. Se necessario, lavala ancora. E le mani, lava anche le tue mani.
Un frammento di vetro conficcato nel margine esterno della ferita, al di sotto dell'ultima nocca.
Il liquore versato sulla carne fresca.
 
- L'ago va passato perpendicolarmente alla cute e ai suoi lembi lesi. Ruota il polso, limitando i movimenti dell’intera mano, e lasciati guidare dalla naturale curvatura dello strumento.
Un punto. Il secondo. Il terzo. Ed ancora.
Le labbra strette fino a farsi male, lo stecchino spezzato tra i denti.
Lo stesso liquore mandato giù tutto d'un fiato.

- Gira il filo intorno alle forbici per due volte, in un unico senso, e tendi le estremità per dare forma al primo nodo. Un altro giro, nel senso opposto. Un ultimo, dello stesso senso dei due di prima.
Un taglio secco. La lingua impaniata, il sudore che si faceva strada lungo le tempie fredde. L’ultimo sospiro, l’animo più leggero.

- Ben fatto, André.

*****

- Sai Alain, ho visto bambini crucciarsi decisamente meno di te. Un soldato dovrebbe pur andare fiero di qualche ferita di guerra, non ti pare?

- Non ne voglio sapere nulla di guerre, io. Mi bastano i miei problemi - Alain tirò un calcio contro il muretto in pietra alle sue spalle, poi continuò. – E comunque è tutta storta.

- Mh?

André fissava l’acqua della Senna scorrere lenta e poi svanire sotto il ponticello, raggiunto dopo aver finalmente lasciato la taverna. Il primo con le braccia abbandonate sulla balaustra, l’altro di schiena e lo sguardo volto verso la via principale.

- La tua opera d’arte, signor dottore! Potevi impegnarti di più invece di fare questa freccia che va per i fatti suoi, anzi, non sa nemmeno dove andare!

- Tu avresti potuto muoverti di meno, invece!

Risero entrambi, accompagnati dallo scrosciare dell’acqua che vorticava lenta e incessante.

Precisa o brutta che fosse, si disse André, almeno non era sanguinante ed era stata quantomeno pulita. Il medico della caserma - uno vero - avrebbe dovuto ricontrollarla e trattarla. Quella sorta di cucitura arrangiata era pur sempre meglio di nulla… ed ancora stentava a credere di averla fatta.

Tutt’ad un tratto lo sguardo fattosi improvvisamente grave di Alain lo raggiunse, veloce come una saetta. Ritornò serio. Sapeva già cosa aspettarsi.

- Perché ti vuoi arruolare, André? Fare il soldato non è questa grande cosa, dopotutto…

Lui non rispose.

Perché è l’unica cosa che posso fare per te, Oscar.
L’unica cosa, davvero.
Se diventerò un infermo che altro non può che gravare sulla vita di chi mi vuole bene, preferisco morire al buio ma sapendo di aver dato la vita per te, fino al mio ultimo respiro.
Quell’uniforme blu è davvero tutto ciò che mi rimane.


Trascorsero alcuni minuti in silenzio, senza neppure guardarsi. L’aria fredda aveva intirizzito i loro corpi e la stanchezza si era ormai fatta sentire. Quella giornata era iniziata ma sembrava davvero non terminare mai.

Alain cacciò un lungo sbadiglio e si sistemò la giubba sgualcita sulle spalle. Le ultime parole, prima di salutarlo e sparire nel buio tetro della notte.

- Ti aspetto dopodomani, alle sette in punto. Mi devi un grosso favore, Grandier.

André sorrise, alzando entrambe le mani come in un segno di scuse.

Si incamminò poi verso la direzione opposta e scese lungo i gradini che conducevano ad una nicchia in pietra al di sotto del ponticello, ad un passo dagli argini del fiume. Aveva già passato diverse serate lì, in compagnia delle bottiglie e di alcuni saggi sconosciuti.

Trovò un piccolo spazio scavato tra le pietre, toccandole e tastandone i bordi irregolari e freddi. Tirò fuori l’occhiale dalla tasca interna della sua giacca e lo nascose al suo interno, comprendo il nascondiglio con un ultimo masso.

Era ritornato. E la vista che aveva se la sarebbe dovuta fare bastare, così com’era.
 
Si lasciò andare contro il muro alle sue spalle, trascinandosi per terra.
Lacrime calde e salate iniziarono a rigargli le guance, come goccioline di rugiada sulle foglie al mattino.

Aveva cucito la carne.
Come un medico cuce l’uomo, come una sarta rammenda i vestiti.

Avrebbe ricucito anche quella camicia.
Filo per filo, lembo per lembo, bottone per bottone.

Anche se rimangono le cicatrici e nessun dolore mai si cancella.
Anche se il bianco non è più immacolato.

Si può continuare ancora a sperare.
Forse un po’ più di prima.

E mentre aspettava che i colori dell’alba svelassero il nuovo giorno, André Grandier sentì di aver finalmente ritrovato una parte di se stesso.

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