Karakuri Pierrot

di _Alcor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scintilla ***
Capitolo 2: *** Ignizione ***
Capitolo 3: *** Propagazione ***
Capitolo 4: *** Flash over ***
Capitolo 5: *** Incendio generalizzato ***
Capitolo 6: *** Estinzione ***
Capitolo 7: *** Raffreddamento ***



Capitolo 1
*** Scintilla ***





Scintilla.

[Yuuki Shinomiya]





When you wanna cry, somehow you can only sneer
Deep down, you hate yourself so so so much
think about it
you only live to manipulate others
Poor you, Blue Fairy
Here is a “revenge tragedy” for you
{Bullet, Royal Scandal}





L’insegna dello Skill Issue getta un bagliore giallognolo sulla strada.

Attraverso di corsa e mi fermo alla vetrina. Lo zainetto mi rimbalza sulla schiena e le pedine dei giochi da tavolo all’interno si rimescolano; speriamo che non si siano aperte le scatole, altrimenti chi li sente quei quattro.

All’interno solo un paio di luci rischiarano i tavolini circolari, su cui sono già state messe le sedie rovesciate in attesa che la barista passi lo straccio per terra. Giro i tacchi, la strada è un viottolo scuro senza nemmeno mezza macchina parcheggiata. In lontananza i fari della zona delimitata dalla Kaiser rischiarano la notte a giorno, come se i problemi si celassero solo nelle ombre…

Supero le porte scorrevoli, l’odore di detergenti mi pizzica il naso.

Kaito è seduto al solito posto accanto alla macchinetta del caffè, con la faccia spalmata sul bancone e i capelli grigi arruffati sembra un orso colto nel mezzo del letargo. La manica della giacchetta nera è stata strappata per metà e un paio di brandelli tremano sotto il getto del condizionatore, la maglietta bianca sottostante sembra integra.

Passo accanto alla vetrina delle brioches, vuota e tirata a lucido; la luce della sala con il biliardo è spenta, invece, dalla porta che dà sulla cucina arriva il ronzio dell’affettatrice. Aspetto che il macchinario si spenga e metto la mano a coppa intorno alle labbra. «Yuu al rapporto!»

«Dammi un attimo! Ho quasi fatto con la chiusura,» urla Takane dalla cucina. Non ripete il solito rimprovero, ma ormai l’ho imparato a memoria: se qualche regolare vi vede, tenterà di entrare per ordinare qualcosa e io ho appena finito di pulire tutto.

Kaito fa scivolare il busto verso l’espositore di stecche di liquirizia, alza il capo e sbadiglia. Ha tracce di sangue secco fino al mento, il labbro spaccato si sarà aperto di nuovo. Si fa ridurre uno straccio troppo spesso.

Lo raggiungo, accompagnata dal ticchettare degli stivaletti, e gli piazzo una mano sulla schiena. «Rissa?»

Tira le labbra in un sorrisetto soddisfatto. «Ho incrociato una cacciatrice di leggende metropolitane. Sapevi che online mi chiamano–» Gli batto una delle stecche di liquirizia sulla bocca, arriccia il naso. «Oi.»

Abbasso la voce. «Sei il sicario peggiore del mondo, fratellino.»

Mi punta il dito contro il petto. «Sono nato venti minuti prima di te. Sono il maggiore.»

«E insisti a menarti con ogni teppistello che ti saluta.» Spacchetto la stecca e le do un morso, tasto i pantaloni per un paio di krone con cui pagare. Poggio sul bancone un fazzoletto appallottolato, il portachiavi in edizione limitata di Erion, ali del corvo ancora impacchettato e una moneta da due krone.

Mi intasco altre nove stecche.

La testa di capelli scuri e ciuffetti rosa di Takane emerge dalla cucina. «Yuu, ho già chiuso la cassa.»

«Che vuoi che sia un po’ di evasione fiscale tra fratelli?» Con quello che facciamo di lavoro, è già un miracolo non avere la Kaiser attaccata al culo.

Spingo la liquirizia fino a farla sparire tutta in bocca, è come avere sassi sotto i denti, mastico a fatica. Takane borbotta qualcosa a bassa voce e torna in cucina a far sbatacchiare chissà quali utensili; mando giù, il groppone scende troppo lento.

Kaito allunga la zampa sul portachiavi, il pupazzetto ammantato di piume nere ondeggia a destra e sinistra. Gli occhietti nascosti sotto la frangetta di plastica brillano di una sfumatura rosata. «Che è?»

«Regalo per Kojo, non romperlo.»

«Non è il suo compleanno.» Arriccia il naso e conta con le dita della mano libera. Aggiunge a mezza voce: «che giorno è oggi?»

«No, ma è merch del suo personaggio preferito. In edizione limitata. In previsione del film di Astral Paladins con lei protagonista…»

Lascio cadere la frase a metà ma gli occhi di Kaito rimangono vacui.

Sospiro. «A Kojo piace.»

«Ma è inutile.»

La sua capacità di mettersi dal punto di vista altrui è inesistente come al solito. Gli batto le nocche sulla fronte e sfilo il portachiavi impacchettato dalla sua mano, lo faccio sparire nella tasca dei pantaloni. «Questo è il motivo per cui a te regalo i cerotti. Sai a che ora arrivano lei e Takao?»

L’orso alza le spalle. «Kojo salta, il vecchio le ha dato una missione.» Si frega una delle mie stecche di liquirizia e la spacchetta. Il piacevole rumore di plastica stropicciata mi accarezza le orecchie. «Roba di infiltrazione o furto, non ne capisco bene.»

Da sola? È incauto. Premo la lingua contro il palato, con lavori del genere potrei anche cavarmela, ma è la mia specialità quella. Kojo non passa inosservata praticamente mai.

L’orso scrolla le spalle. «Si vede che era una missione semplice.»

La porta della cucina si spalanca, mocio alla mano Takane si tira dietro il secchio dell’acqua. «Dovete parlarne ad alta voce qui?»

Che sorellina paranoica! Ma fa bene a esserlo.

Essere disattenti è una condanna a morte.





La registrazione delle telecamere di sicurezza si blocca quando l’assassino sparisce dall’inquadratura. Di Kojo rimangono solo poche macerie smosse dallo scontro e una chiazza di sangue sul pontile turistico, il cadavere è affondato tra le acquee.

Muovo in cerchio il mouse, la barra di riproduzione è piena. Non c’è altro, lo strazio è durato a malapena un minuto e dodici secondi. Almeno… almeno non ha sofferto più di così.

Mi allontano dal portatile, le mani di Takane illuminate dalla luce bluastra dello schermo tremano. Posso occuparmi io di chiamare gli altri, lei avrà bisogno del tempo per digerirla. Sono la maggiore per un motivo.

Tiro fuori il telefono. «Chiamo per dire di smettere di cercare.»

Takane non risponde, gli occhi fissi su quel maledetto ultimo frame. Sono io che mi occupo di queste cose, perché papà non ha mandato me? Mi allontano dallo schermo e digito il suo numero, se quello stronzo non osa nemmeno sentirsi in colpa–

Ci sono due squilli, risponde. «Spectre?» Chi cazzo se ne frega dei nomi in codice in questo momento.

A Takane sfugge un debole singhiozzo, irrigidisco le spalle e mi metto una mano sul fianco. Non le sono usciti suoni così penosi nemmeno negli anni dell’addestramento, quando ci spaccavano in due di fatica. E glieli sento fare ora.

Indurisco la voce. «Pa’, Kojo ha fallito la missione.»

«Capisco. È tutto?»

Stronzo. «Non tornerà a casa.»

Premo il tasto rosso, la chiamata si chiude senza far rumore. Abbasso il telefono e lo stringo come se potessi spaccarlo di netto.

Non avrei dovuto reagire così, non servo a nessuno così… ma non so con chi prendermela.





[.note a margine]

Un sottotitolo alternativo accurato sarebbe speedrunniamo le cinque fasi dell’elaborazione del lutto di Kübler-Ross. La storia si ricollega e espande la trama dell’Ottantesima vittima di Mixxo. Vediamo come vaa.

Grazie per essere arrivati alla fine c:

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Capitolo 2
*** Ignizione ***





Ignizione.

[Yuuki Shinomiya]





Sono passati cinque giorni dalla morte di Kojo e papà non ci ha ancora dato il via libera per agire.

Stacco la puntina dalla bacheca di sughero, la planimetria di chissà quale edificio scivola sulla scrivania insieme agli altri appunti. Sono tutte informazioni che sono già state sistemate in file più ordinati e salvati nel cloud di famiglia per usi futuri.

Le appallottolo e lancio nel bidone accanto al letto sfatto, la palla batte sul bordo ma scivola fuori, rotola davanti al comodino. Il portachiavi di Erion, ali del corvo è ancora lì sopra, impacchettato nella carta trasparente e circondato da sette stecche di liquirizia. Ne spacchetto una e la prendo tra i denti, non sa di niente.

Ne strappo un pezzo e lo mando giù, che cliché.

Sulla bacheca rimane solo il vecchio selfie scattato a Marton, allungo la mano ma la chiudo senza fare niente. Non me ne riesco a liberare. Al tempo avevo tredici anni ed ero circondata su entrambi i lati da amici con le facce spolverate di brufoli, lo scatto mi aveva colto a metà di una risata isterica per colpa di chissà quale commentino idiota di Gareth.

Nessuno si era accorto che la sera prima avevo sparato per la prima volta a un essere umano. E mancato, ma mamma mi è rimasta accanto per assicurarsi che non fallissi.

Stringo la stecca rimanente e stendo le labbra in un sorriso, giusto per non dimenticarmi come farlo; non è perfetto ma ci sono abbastanza persone disattente nel mondo da non accorgersi la differenza tra uno sincero e uno no.

Tiro fuori dalla tasca degli short l’articolo di cinque giorni fa sugli attacchi robot che hanno sconvolto la città e lo appendo con una puntina gialla. Il foglio è spiegazzato, sbiadito da diverse macchie di bagnato; ci passo una mano sopra per stenderlo.

Il necrologio a lato elenca i nomi delle settantanove vittime: solo una manciata di loro sono mercenari pagati per tenere al sicuro la città o forze di sicurezza della Kaiser, i più sono civili coinvolti per caso negli scontri.

Non c’è il nome di Kojo Shinomiya tra di loro, ma le persone che vivono ai margini della società come noi non meritano di essere ricordate.

La ferita sulla palpebra sinistra prude, faccio due passi indietro e passo i polpastrelli sui punti di seta che chiudono il taglio fino allo zigomo. La pelle è secca e ruvida di sangue rappreso, stamattina mi sono dimenticata di metterci l’unguento oftalmico sopra.

«I disattenti muoiono giovani,» borbotto, finisco di mangiare la stecca.

Il foglio solitario attaccato alla puntina mi dice pochissimo: gli attacchi sono iniziati da due settimane, sono stati registrati almeno tre robot in movimento allo stesso tempo in punti diversi della città.

Progettare solo uno di quegli affari infernali avrà preso anni e fondi considerevoli, non è un lavoro per un privato qualsiasi. Ci avranno lavorato esperti di robotica, intelligenza artificiale, fornitori di materiali e chissà chi altro. Avranno un tale traccia cartacea alle loro spalle che sarà impossibile non risalire a chi li ha creati.

Questo se si tratta di creature che provengono dal nostro mondo.

Sfilo l’elastico blu dal polso e raccolgo i capelli in una coda, un odore acre mi pizzica il naso. Serro le labbra per soffocare il disgusto. Sono io? Alzo il braccio e avvicino il naso all’ascella, mi ritraggo come schiaffeggiata. Sono io.

Prima di continuare serve una rinfrescata. Accarezzo la foto sulla bacheca e imito il sorriso della bambina in primo piano: mi si appoggia alle labbra come una maschera troppo piccola per essere indossata.

Sta stretto.





Mi chiudo la porta del bagno alle spalle; il vapore vortica, si confonde con il bianco del corridoio. Tampono i capelli gocciolanti con l’asciugamano di tela, la canotta mi si è appiccicata alla schiena bagnata e dà fastidio, però ci voleva una doccia calda per calmare i nervi.

Dal soggiorno arriva il brusio del televisore acceso. Kaito è seduto sul divano ed è incurvato sul tavolino basso, dove ha rovesciato l’intero contenuto della cassetta del pronto soccorso. Dà una manata che fa cadere il rotolo di bendaggi sul tappeto, agguanta il disinfettante e lo rovescia sul dorso della mano martoriata, il liquido bruno scivola sulle nocche scorticate e macchia i piccoli frammenti luccicanti piantati nella pelle.

È vetro, fantastico. Faccio il giro del divano, butto l’asciugamano sul bracciolo e pesco le pinzette nascoste da un pacchetto di antidolorifici. «Dai qua.»

Kaito arriccia un angolo della bocca. «‘sti cancheri,» mastica un’imprecazione ma allunga il braccio, obbediente come un cagnolino. Gli stringo il polso per tenerlo fermo, anche se non si muoverà. Non lo fai mai quando gli puliamo le ferite.

Punto il primo frammento di vetro e lo stringo tra le pinzette.

La televisione sta dando una replica del bollettino delle riparazioni di Marton: un nonnino dall’aria fin troppo arzilla agita il bastone alle spalle dell’inviata, i figli lo trattengono a fatica. Puntano i piedi per trascinarlo fuori dall’inquadratura, ma il cameraman si sposta per seguirli.

Foto della vecchia università sfondata da uno sperone di roccia si susseguono al municipio, di cui è rimasto in piedi solo la facciata che dava sulla piazza. Poi il giardino naturale, l’orgoglio di Marton, ridotto a una distesa di cenere. La narrazione non la sto neanche ad ascoltare.

Tanto la favoletta è sempre quella, le riparazioni della periferia della città proseguono a rilento. Il centro città, dove sette mesi fa è apparso il drago demoniaco che ha distrutto tutto, è per ora irrecuperabile. Gli esseri umani che vi entrano sviluppano mutazioni nel giro di poche ore dall’esposizione, già un’altra persona si è tramutata in un mostro. E prima o poi lo faranno tutti i contaminati che sono stati costretti a rimanere dentro la zona di alienazione.

Fortuna che la Kaiser ha preso in mano la progettazione delle misure di prevenzione e reazione all’apparizione di creature interdimensionali.

Come avremmo fatto altrimenti.

Kaito stende le dita della mano, la pelle spaccata si muove e perdo di vista il frammento irregolare che stavo puntando. «Stai facendo di nuovo quell’espressione.»

«Quale?»

«Quella da la vita fa schifo.»

Accarezzo la possibilità di piantargli le pinzette nella pelle. «Non lo fa?» Il bastardello si confonde tra i lembi sanguinanti delle nocche, aguzzo gli occhi e lo stringo. «Il mio bel viso sarà deturpato da una cicatrice per un bel po’, sai quanto ti rende riconoscibile una cicatrice cartoonesca sull’occhio?»

«Non potrai più farti passare per me quando combini qualcosa, gran perdita.»

«È una tragedia! Metà dei volti nei bassifondi non mi danno fastidio perché credono sia te.»

«Poteva andare peggio.»

È morta nostra sorella da nemmeno cinque giorni, avrei accettato il non poter lavorare più in questo campo più che sapere che il suo cadavere sta venendo mangiato dai pesci. Mi si attorciglia lo stomaco. «Tipo?»

Scrolla le spalle. «Potevi perdere l’occhio.»

Mi sfugge una risata nasale, i punti su palpebra e guancia tirano la pelle. «Mi aspettavo una battuta, non la dura verità.» Getto il frammento sporco di sangue e disinfettante sul tavolo insieme ai suoi compagni. Prendo le bende.

La televisione è passata a un’immagine aerea di Marton, la distesa di case circonda un fiore aguzzo di pietra che copre il centro: la zona di alienazione. Anche dall’alto si vede la spessa barriera che la Kaiser ha eretto intorno al disastro per impedire ai contaminati di uscire e ai pazzi di entrarci.

E finché non si sa come risolvere il problema, gli sfollati sani saranno divisi tra qui a Yrff e la vicina Welt. Gli irriducibili che non si son voluti trasferire temono i ladri che potrebbero approfittare delle case vuote per razziare i pochi beni rimasti.

Stringo il bendaggio e ritiro le mani. «Quando pensi che papà ci lascerà agire?»

Kaito alza le spalle. «Quando ci sarà qualcosa da guadagnarci. Cercare di intercettare uno di quei robot è stupido, specie vista la probabilità di perderci un braccio o la vita.» Apre e chiude il pugno per saggiare la medicazione.

«Lo so anch’io.»

«E allora attendi ordini. Fatti riaddestrare come Takane, intanto, non lo so.» Prende fiato, ammorbidisce il tono. «Non siamo noi quelli con il distintivo, vabbe’ che ormai averlo non conta più un cazzo… ma hai altri due fratelli minori che contano su di te.»

Siamo passati da cinque a quattro.

«Hai ragione.» Batto le mani sulle cosce e mi alzo. Recupero dallo scaffale sotto la televisione un paio di volantini come malacopia e una biro, se non mi faccio qualche schema a mano rischio di non infilare mezzo pensiero. Saluto l’orso con un cenno.

Vado nell’ufficio, quello che Takao da bambino continuava a chiamare war room.

La voce di Kaito mi segue. «Fai schifo a medicare la gente!»

«La prossima volta t’arrangi!»

La porta si apre prima che stringa la maniglia, papà esce e se la chiude alle spalle. Aggiusta la cravatta grigia e distoglie lo sguardo, ma lo vedo stringere le labbra in una smorfia di disapprovazione.

Non ha ancora commentato il fatto che gli ho buttato il telefono in faccia.

«Fra quanto ti tolgono i punti?» chiede.

«Tre giorni, hanno detto.»

«Bene.» Con la giacca elegante e i capelli castani tenuti in ordine dal gel sembra più un dirigente che il capofamiglia di un gruppo di sicari. «Dopo che avrai recuperato, dovremo sistemare l’errore di Kojo. Il manufatto che doveva recuperare sembra che sia finito–»

«Potevi mandare me fin dall’inizio.»

Papà stringe gli occhi, sospira. «È cercando di preservarla dalle difficoltà che le hai impedito di essere abbastanza capace.» Abbassa gli occhi sull’orologio da polso. «Correggi il tuo comportamento entro tre giorni, o dovremo mettere in discussione il tuo ruolo in questa famiglia.»

Il suo viso si vela, i dettagli della porta tremolano come se fossi stata improvvisamente immersa nell’acqua. Qualcosa mi arpiona la gola e minaccia di far uscire un suono che non deve scapparmi. Non lo farò ora, avrò tempo dopo.

«Cosa devo correggere?» lo sfido.

Mi supera. Neanche mi degna di una risposta, stronzo.

Stringo la maniglia e apro, le casse vicino all’entrata gracchiano sibili violenti. Mi ricorda quando l’aria viene tagliata dai coltelli di mamma.

Si è pure dimenticato di spegnere il computer prima di uscire. Premo l’interruttore della luce.

«A-aspetta.»

Mi congelo sul posto, i respiri lacerati dal dolore di Kojo riempiono il silenzio. Mamma è seduta allo schermo principale della scrivania, rigida come un palo e con le mani raccolte sul grembo.

La prospettiva della telecamera di sicurezza fa sembrare Kojo più piccola di quello che era. In ginocchio sul pontile turistico, tende la mano tremante contro la massa che la sovrasta. L’assassino è altissimo, produce uno strano fruscio metallico ad ogni movimento. È armato di una spada che brucia di un bianco pallido, è un’arma stupida in un mondo come il nostro dove qualcuno potrebbe cecchinarlo da cinquecento metri di distanza.

Fa un movimento rapido, neanche sembra colpirla. Il sangue le schizza dal collo, copioso, copre il robot di una macchia irregolare. Kojo si sbilancia indietro, sbatte sgraziatamente sul pontile e scivola in acqua.

Fili di rosso vengono portati via dalla corrente. Un minuto e dodici secondi di strazio, ma finalmente si è interrotto.

Mamma si sporge e fa ripartire il video. Kojo corre in direzione della fabbrica, spara alle sue spalle.

Distolgo lo sguardo, la schiena di mamma rimane salda e dritta. La luce dello schermo ne illumina gli occhi arrossati, ha a malapena iniziato a mostrare i primi cenni di rughe. Pare non essersi accorta della mia presenza, ma non sopravvivi così a lungo se sei il tipo da distrarti in casa tua.

Non dovresti deprimerti così.

«Ti hanno tolto i punti?» mormora dal nulla.

Scuoto la testa. «Lo faranno tra poco. Han detto che l’occhio non è stato danneggiato.»

«Ottimo.»

Kojo viene spinta al muro da un’esplosione, Kojo agonizza per terra. Kojo muore di nuovo, da sola.

Mamma tamburella le dita sulla gamba, l’unico tic nervoso che le ho mai visto lasciarsi scappare in casa. «Ha fatto troppi errori.»

Ho la gola chiusa, la voce rifiuta di uscire come dovrebbe. «Era una situazione da cui solo tu saresti stata in grado di spuntarla.» Non è una gran difesa.

Mamma si appoggia allo schienale e mi rivolge un’occhiata di sfuggita. «Avrebbe dovuto scegliere una vita normale, se non era adatta per sopravvivere in questo mondo. Se tu, Yuu, volessi–»

Alzo la mano; serra le labbra, gli occhi scuri le tremano.

Kojo crolla penosamente nell’acqua, come una bambola a cui hanno tagliato i fili. Scegliere una vita normale ora? Non saprei nemmeno come le persone normali vivono. Anche se di certo non riguardano ripetutamente lo snuff film dove loro figlia viene uccisa.

Le sorrido. «Mi stai dicendo che non sono adatta? Mi fai male.» Prendo il mouse e chiudo la registrazione, lo strazio si quieta.

Mi mette una mano sulla spalla, come a cercare conferma che sono davanti a lei, viva e tangibile.

Gli Shinomiya sono spettri che si confondono tra le persone normali, e come tutti gli spettri, prima o poi spariranno senza lasciare traccia.

Ma non ho intenzione di farlo ora.

La stringo in un abbraccio.





[.note a margine]

La bozza del prossimo capitolo è pronta, quindi sono lievemente avanti con la tabella di marcia rispetto al mio solito cronico yolo. Ma dal quattordici avrò personal stuff che mi terrà occupata per non so esattamente quanti giorni, quindi metto le mani avanti per dire che probabilmente non riuscirò a tenere il ritmo di un capitolo alla settimana.

Poi magari ci riesco lo stesso.

Grazie per essere arrivati in fondo o7

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Capitolo 3
*** Propagazione ***





Propagazione.

[Yuuki Shinomiya]





Un odore di fumo e agrumi impregna i capelli di mamma, è già tornata al lavoro dopo quello che è successo.

Si stacca. Il mio abbraccio le ha lasciato una macchia umida sulla spalla della giacca bianca, allunga la mano ai miei capelli e passa il pollice su una ciocca bagnata. La frequenza dei suoi respiri si è regolarizzata, qualsiasi pensiero le stesse dando fastidio l’ha rimesso sotto controllo.

Nessuno parla in questa famiglia, si gira intorno alle emozioni degli altri in punta di piedi con la speranza di non pestare nervi scoperti. Il malcapitato si arrangia a rimettere in ordine i suoi problemi da solo.

«Asciugateli.» Mi lascia, preferisco un rimprovero a vederla bloccata così.

Puntello il gomito contro lo schienale della poltroncina e mi sostengo il viso. «Siamo in piena estate, piuttosto me li bagnerei di nuovo.»

«Tu contraddici per il gusto di farlo.» Mamma si lascia cadere di schiena, lo sguardo scivola al file video. «Povera la persona con cui avrai una relazione.»

L’anteprima rappresenta uno stralcio della strada, il file viene da una delle telecamere di sorveglianza dei capannoni Tiamat. Riconosco la viuzza sulla nona e il pontile turistico, raggiungerli di nuovo sarà facile ma dopo cinque giorni la maggior parte delle tracce saranno già sparite.

Altro che obbedire agli ordini, avrei dovuto fregarmene e fare quel che volevo.

Mi stringe la mano, è forte e non ammette fughe. «Yuu, rimani con me.»

«Dove vuoi che vada?» Le faccio l’occhiolino, i punti tirano. «Ho ancora i capelli bagnati.»

«I tuoi pensieri vanno in un posto da cui temo non potrò recuperarti.» L’espressione di mamma emana tanto calore quanto malinconia. «Non voglio perdere una seconda figlia così presto, lo capisci?»

Annuisco.

«Tutte le persone che ho visto con il tuo sguardo, ora sono sottoterra.» Si alza, ma non mi lascia. Passa il pollice dell’altra mano sul sopracciglio tagliato dalla ferita, si ferma prima di sfiorare i punti. «Finché il tuo cuore sanguina, non possiamo lasciarti mettere a rischio.»

Non ci sono vie di fuga o battute per sfuggirle. Incontro i suoi occhi, il meglio che posso fare con lei è farmi vedere sicura. «Non ho intenzione di morire ora.»

«Non è la tua intenzione che conta.» Mi tira un colpetto sulla fronte e lascia andare. «Non quando stai evitando Takane, sembri sul punto di litigare con tuo padre ogni volta che lo vedi e… hai quello sguardo.»

Hanno parlato di me prima che io arrivassi. Strano, mi aspettavo che il loro primo pensiero sarebbe stato risolvere il vuoto lasciato dall’aver perso un operativo specializzato. Perdere tempo con il mio umore è un po’ troppo umano da parte di papà.

Mi mordo l’interno della guancia, negare non servirebbe a nulla in questo contesto. «Non posso prendere bene quello che è successo. Kojo era famiglia.»

«Lo è tuttora, Kojo rimane.»

Ognuno ha bisogno delle proprie fiabe per tirare avanti, ma capirà che l’unico rimasto su questa terra con noi è il suo assassino.

Mi picchietto la gola, lì dove il suo collo è stato tagliato dalla lama. «Terrò la testa sulle spalle e studierò con calma il briefing che papà ha preparato, visto che dovrò portare io a termine quella missione.»

Mamma mi mette una mano sulla spalla. «Non oggi. Va' a imparare il canto delle rose, è un po’ che non ti sento suonare il violino.»

Una marcia funebre per un funerale che non faremo.

«Certo. È una bella canzone, perché no?» Riderei se non avessi la gola stretta in una morsa. «…vado da Gareth a impararla.»

L’implicito è bello chiaro: non fare niente finché non cambi registro. Ma non l’ascolterò questa volta.





Scendo dall’autobus e mi faccio da parte, un paio di studenti con le tracolle sulla spalla spintonano per salire e tornare finalmente a casa. Sono un esercito di panda dalla schiena curva sotto il peso di notti insonni, poracci. La sessione estiva non si ferma neanche per attacchi robot a quanto pare.

Costeggio la banchina e scendo al marciapiede, l’astuccio del violino stretto tra le dita.

Una rete di metallo costeggia l’arco per accedere al quartiere universitario, la struttura bianco-sporco è crollata come se le colonne avessero perso la capacità di reggerla all’improvviso.

Le vetrine di bar e copisterie sono state sostituite di fresco, ma le tracce lasciate dai proiettili e dai colpi di spada termica costellano i muri. Qui c’è stato un disastro, ma sarebbe più facile elencare i posti dove non c’è stato un casino negli ultimi tempi. Mi fermo al semaforo, il borbottio dei motori e l’odore di smog mi culla.

Casa di Gareth è in fondo alla via, vicino al covo degli artisti, c’è da sperare che lo scontro non si sia spinto così lontano e abbia danneggiato altre infrastrutture. Abbasso la manica della giacchetta, sul polso il piccolo pezzo di nastro di carta grigio non si è ancora staccato. Mi serve una botta di fortuna per poter contattare Meg senza che i miei lo sappiano, e questa è l’unica occasione che avrò in tempi brevi.

Fortunatamente, gli unici che potrebbero seguirmi senza farsi notare sono Takane e Takao.

Scatta il verde.

Allungo il passo e rallento solo al murale della Taverna, farfalle dalle ali che sfumano dal nero all’azzurro notte si librano in uno sfondo di balocchi. Tra i dettagli, si può intravedere la figura maschile di un uomo. Mi fermo e lo inquadro con la fotocamera, attendo che si metta a fuoco per scattare.

Alle mie spalle un paio di ragazzetti in bicicletta tagliano la strada fuori dalle strisce, una macchina grigio metallizzata inchioda prima di prenderli sotto. Il conducente agita il braccio con il telefono fuori dal finestrino. Cerco tra gli alberi, tra i riflessi delle finestre ma non c’è niente di sospetto.

Ho fatto bene a non aspettare.

Cammino a passi leggeri verso la mia destinazione, strappo con un colpo deciso il nastro dal polso e lo attacco al lampione davanti al covo degli artisti. «Ora tocca aspettare un messaggio di Meg.»

Al di là della vetrina, il locale è pieno di fazzoletti rossi, gialli e blu. L’animatrice con le braccia cariche di tele passa tra i bambini seduti per terra, imito il suo sorriso entusiasta e mi infilo su per le scale che danno sulla porta dell’appartamento di Gareth.

Suono al campanello. Si offenderà del fatto che non l’ho chiamato in anticipo per avvisare che sarei andata a trovarlo? La spia del citofono si accende di verde.

«Yuu…» Lo sbadiglio gli si incastra a metà in gola. «Che ti è successo alla faccia–»





Le luci di decine di faretti disegnano linee tremolanti nell’acqua e si riflettono sui profili delle navi ormeggiate. Imposto il cellulare in silenzioso, il messaggio da un numero sconosciuto dice solo galleria ferroviaria, nove e trenta. Raro che Meg riutilizzi così presto un luogo di ritrovo.

La notifica di un messaggio rischiara lo schermo. Kaito. Dove sei?

Un gatto rosso si sporge da dietro una delle basse colonne che costeggiano il limitare della banchina. Mi gira intorno alle gambe e accarezza il polpaccio con la coda soffice.

Un altro messaggio, sempre Kaito. Oi, non fare la testa di cazzo.

Blocco il cellulare e lo caccio in tasca. Passo indice e medio sul musetto del ruffiano rosso. «Tu sei troppo abituato agli esseri umani.»

La base operativa della Kaiser si erge a una manciata di isolati di distanza. Gli edifici arroccati uno sull’altro sembrano incurvarsi sopra il resto della città per giudicarla con i loro centinaia di occhietti luminosi.

Un miagolio rompe la quiete, il ruffiano si struscia contro la gamba di nuovo e fa le fusa. Trattengo l’istinto di rimproverarlo. «Non ho niente questa volta. Che mi hai preso, per Takane?»

Sbatte le palpebre e si stiracchia. Giusto, colpa mia che mi ci metto a parlare come se volesse capirmi: i gatti fanno quello che pare a loro.

Mi avvio verso i capannoni della Tiamat, lo sguardo del micio mi rimane puntato addosso mentre seguo la curva della banchina. Sulla destra si apre un’ampia via delimitata da edifici grigi, in lontananza reti metalliche di un paio di metri delimitano la zona che è stata danneggiata dallo scontro tra Kojo e il robot.

Sul tetto del capannone una figura longilinea si muove, con tutta probabilità si tratta del mercenario assunto per tenere al sicuro i macchinari da eventuali nuovi attacchi. Fino a cinque giorni fa solo una guardia notturna faceva le ronde e non era nemmeno armata.

Anche se Kojo avesse implorato aiuto, non c’era nessuno che avrebbe potuto salvarla. Mando giù il boccone amaro, sono qui per trovare un indizio sul bastardo che l’ha uccisa o per poter capire cos’ha pensato nei suoi ultimi momenti.

Tiro fuori una torcia e punto il fascio di luce sul muro del capannone alla ricerca della telecamera di sicurezza che ha registrato i suoi ultimi momenti. Passo all’asfalto, lo scorro fino al bordo. Non c’è traccia di sangue, deve essere già stato lavato via o sparito con i lavori di riparazione.

Piazzo i piedi sul limitare del pontile, la schiena alla distesa infinita del mare e gli occhi al capannone. Non va bene, non è la prospettiva giusta. Mi inginocchio e chiudo gli occhi.

La figura del robot mi sovrasta, alto e slanciato, le centinaia di aghi di cui è composto vibrano a ogni momento e riempiono il silenzio di un ronzio. La spada – quella che mi ha tagliato il collo – brucia di bianco.

La paura quasi non la sento. Ho le ossa a pezzi per le botte subite, non sto crollando in un sonno agitato solo perché l’adrenalina e la voglia di riscatto mi mordono.

Non ci sono soccorsi che mi potrebbero salvare.

Dischiudo gli occhi e getto un’occhiata alle acque che lambiscono il pontile, la tomba dove Kojo è stata gettata ed è sparita.

Mi trema il respiro.

Il mercenario in cima al capannone è sparito, starà continuando a fare il suo lavoro. Mi lascio cadere di schiena.

L’acqua mi accoglie con uno scroscio, è tiepida e mi infradicia i vestiti. Nel cielo, la via delle lacrime – le duecentomila stelle apparse all’improvviso dopo il disastro della vicina Marton – brillano più delle luci intense della città.

Le onde mi lambiscono i fianchi, mi attaccano i capelli alla guancia. Se voglio vedere davvero le ultime cose che Kojo ha visto… mi lascio sprofondare, l’acqua salata mi entra negli occhi e li appanna. La superficie del mare è confusa.

Trattengo il fiato.

Chissà che sensazione dà l’acqua salata in una ferita aperta.

Ferita che avrebbe perso sangue, tinto la visuale di rosso. Accenno un sorriso amaro, per quanto mi possa sforzare, non potrò mai capire come si è sentita Kojo prima di morire. L’unica cosa che mi è rimasta è davvero trovare il robot che l’ha uccisa e smantellarlo con le mie mani, poi sarà il turno del suo creatore.

Attendo con la bocca chiusa sott’acqua finché il peso sui polmoni non diventa insopportabile. Do un colpo di fianchi e corro verso la superficie.

Spacco l’acqua.





Entro nel vialetto di una delle case secondarie, di quelle dove non teniamo nemmeno equipaggiamento di riserva. Il posto serve più che altro per quando qualcuno ha bisogno di crollare e farsi una dormita, ma non ha le forze di trascinare le ossa stanche fino alla base.

Ho smesso di grondare acqua da tempo, ma lascio ancora a terra le occasionali goccioline.

Le prime luci dell’alba stanno schiarendo il cielo, tiro fuori le chiavi dalla tasca ed esito. Da sotto la porta arriva la luce debole dell’entrata, qualcuno è dentro e ha lasciato giusto quella lampadina accesa.

Uno degli altri ha usato recentemente l’appartamento? La posizione è compromessa? Passo in rassegna gli impegni recenti della famiglia, ma mamma lavora come al solito e papà non passa mai di qui, l’unico che potrebbe fare un errore del genere è quell’orso di Kaito.

Premo la lingua contro il palato. Non c’è traccia di scasso, la porta non è stata sfondata, manomessa e le finestre esterne sembrano al loro posto. Non ho la forza per fare il giro della casa, tirerò un colpo nel naso a chiunque sia dentro e poi lo lascerò fuori da qui.

Potrei perfino scomodare la polizia di Yrff per questo, alla fine sono una cittadina anch’io. Qualcosa di utile dovranno farlo.

Infilo la chiave nella toppa e giro, la luce dell’entrata mi acceca. Un lenzuolo copre metà terreno, appoggiato alla porta che dà sul salotto c’è l’orso, la schiena al muro e gli occhi chiusi. Potrei chiamare la polizia comunque, sono in tempo per evitarlo.

Tiro dritto verso la scala.

«Piantala.»

Mi blocco. «Cosa?»

Kaito stende le gambe e caccia uno sbadiglio che mette in mostra le tonsille. «Tornare a casa dopo un’escursione marittima notturna non è ciò che ti fa passare inosservata.»

«Stavo riflettendo su come recuperare il corpo,» replico, piccata. «Vorrei seppellirla prima che diventi gonfia d’acqua.»

«Trova la sua stella nel cielo e falla finita, a Kojo non frega niente se è un cadavere ora.»

«Sei un fratello maggiore terribile.»

«Almeno io non faccio preoccupare Takane.» Si tira su e molla la coperta a terra. «Quando è schiattato quel tuo amico hai fatto la stessa storia.»

«Non mi sono buttata in acqua a cercarlo.»

«Gli è crollato un edificio in testa, grazie al cazzo, Yuu! Se non sei pronta a vedere la gente morire, dovresti–»

«Hai visto la registrazione, no? Devo spiegarti cosa non mi piace in quella morte?» Sbatto il pugno a martello contro il muro, il dolore è immediato e mi risale il braccio. «Ha continuato a pensare alla missione prima di essere sgozzata. Poteva mollare il manufatto di papà e fuggire.» Mi si stringe la gola. L’intero punto non è vivere un altro giorno? «Sono arrabbiata con lei.»

«Allora perché sembri sul punto di piangere?»

Il velo sugli occhi cade, una lacrima che si perde nelle gocce che ho lasciato a terra. Segue un’altra, e un’altra ancora. Bagnano i punti, la ferita brucia. «Senti.» Ho ancora controllo della mia voce. «Le lacrime di frustrazione sono contemplate.»

Kaito annuisce, neanche troppo sorpreso. «Ordino il take-out?»

«Voglio mangiare pesce.»

«Fritto misto sia. Prendo anche le patatine. Chiamo gli altri due per cena?»

Colazione. Annuisco. Se posso convincerli che ho sto bene mi lasceranno in pace in tempo per l’incontro con Meg oggi. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, il mio viaggetto notturno l’ha fritto.

Sospiro, non me la sono resa per niente facile.

«Pronto?» Kaito ha il suo all’orecchio, la voce calda ed energica. «Sì, vorrei ordinare cinque fritti misti e…»

Quattro.

Dovresti ordinare per quattro.

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Capitolo 4
*** Flash over ***





Flash over.

[Yuuki Shinomiya]





Artiglio il bracciolo del divano e alzo la testa, la gamba di non so quale dei miei fratelli mi tiene ancorata giù, un’altra mi preme contro il fianco. Odore di fritto vecchio appesta l’aria. Sbatto le palpebre, un velo sfoca la torre di contenitori di alluminio sul tavolino, in cima fazzoletti appallottolati e un paio di posate di plastica minacciano di sbordare giù.

Se mi è andata bene avrò dormito un’ora.

Passo i polpastrelli sulle palpebre gonfie, i punti tirano. Non vedo l’ora di cavarli, mancano solo due giorni.

Al mio fianco, Takane è appiattita contro lo schienale del divano da Kaito, che ha passato le braccia sotto le sue ascelle per stringerla neanche fosse un bambinone con il suo peluche. Si sarà assopito dopo che lei è andata a dormire perché altrimenti sarebbe stato scalciato sul pavimento senza pietà.

Butto la sua gamba giù dal mio grembo e mi alzo, l’orologio digitale sopra la libreria segna le otto. Nessuna traccia del quarto fratello Shinomiya, ma lui sarà stato furbo e sarà salito su a dormire in un letto.

Faccio un paio di cerchi con le spalle, i muscoli indolenziti gridano pietà.

Apro uno dei cassetti sotto gli scaffali, caccio la mano nel casino di fogli e robaccia gettata alla rinfusa lì dentro. Non dubito che papà abbia telecamere ovunque nascoste pure qui dentro, quindi non posso permettermi mosse avventate per ora. Pesco una penna nera dal mucchio e torno al tavolino, un messaggio scritto su uno dei fazzoletti dovrebbe bastare per ora.

Cerco nel mucchio di carta sporca di unto e di ketchup il tovagliolo che ho evitato di usare a colazione, lo stendo e lascio un breve Vado a comprarmi un telefono nuovo, Yuu. Ci poggio la penna sopra.

Takane caccia un lamento sottovoce, tira un colpo di tallone a Kaito che gli prende il ginocchio. L’orso manco trattiene il respiro. Mi alzo e passo loro accanto.

I capelli scuri di Takane sono una matassa spettinata e unticcia, gli angoli degli occhi arrossati tradiscono un paio di lacrime. Dischiude le labbra, ma non ho idea di cosa stia sussurrando. Non sembra un sogno felice.

Sarebbe così facile rubare il loro cellulare e accedere al cloud con le informazioni che mi servono, ma così facendo guadagnerei a malapena un paio d’ore prima che il resto della famiglia intuisca esattamente i miei prossimi movimenti.

«Dovrei mettere la testa a posto per voi, eh.» Le accarezzo la testa, una goccia sfugge alle ciglia di Takane e scivola sul ponte del naso. Ha vent’anni, è poco più piccola di me, non dovrei trattarla come una bambina.

Viene difficile non farlo.

Esco dalla porta d’ingresso, la luce del sole mi abbaglia. Ho dimenticato l’unguento per la palpebra di nuovo, forse me la sto cercando un po’ il rischio di un’infezione.

«Che disastro.»

Imbocco la strada e costeggio la fila di casette bianche tutte uguali; prima dell’incontro con Meg ci vorrà ancora un po’, tanto vale andarsi a comprare un telefono nuovo per davvero.

Tasto il colletto della maglia, le tasche dei pantaloni dove c’è solo il portafoglio, controllo le suole delle scarpe: niente.

Figurati se la cena-colazione sarà bastata a calmarli, mi avranno nascosto qualche localizzatore addosso per non rischiare di perdermi d’occhio. E se non lo trovo, mi toccherà cambiarmi i vestiti di questo passo.

È una soluzione così scontata che l’avranno presa in conto anche loro.

Mi fermo all’incrocio con la via che porta al quartiere commerciale e pesco il portafoglio dalla tasca, frugo tra gli scomparti e tolgo ogni tessera. Un localizzatore-sticker copre la foto sulla carta d’identità, a malapena si vedono ciuffetti di capelli grigi e uno spicchio del mio collo. Sfrego l’unghia contro il bordo nero dell’adesivo: a malapena si arriccia.

«Che bastardi che siete, ragazzi.»

Sottile com’è il circuito che lo fa funzionare, posso sognarmi di strapparlo via con la forza. Si spaccherebbe.

Se succede qualcosa al localizzatore diranno che ho qualcosa da nascondere. Se lascio la mia carta d’identità nella tasca di un passante mi aprirò solo a domande scomode. Se lo getto nel bidone, stessa cosa.

Mi mordo il labbro, mi hanno giocato. Rimetto tutto dentro e caccio il portafoglio in tasca, ho un’oretta per comprare il cellulare e trovare una scusa plausibile al perché passerò dalla vecchia tratta ferroviaria.

Fattibile…

Chi voglio prendere in giro, se voglio lavorare devo far sparire le mie tracce.





Una doppia fila di faretti tappezza i muri della galleria, rischiarano a giorno le traverse spaccate dei binari e gli innumerevoli graffiti colorati arroccati l’uno sopra l’altro. Se non fosse per gli stili differenti, non sarebbe chiaro dove finisce un’opera e ne inizia un’altra.

Lo scricchiolio dei sassi sotto le suole copre i miei respiri, il sacchetto di plastica con il cellulare appena comprato dondola dal polso e rimbalza contro il mio fianco. Meg è una figura sottile con la schiena appoggiata al muro e il viso chino sullo schermo di un telefono, i lembi frastagliati della sciarpa blu elettrico le arrivano alle gambe e coprono parte dei pantaloni striati di nero, rosa fosforescente e azzurro.

Questa donna pare uscita direttamente da un concerto di musica alternativa, eppure è la stessa persona che tiene in mano il flusso di informazioni di tutta la città. Nessuno fa qualcosa senza che lei lo sappia.

Mi fermo a un paio di falcate di distanza, a dividerci c’è una riproduzione stilizzata di un drago che emerge dal profilo di una città. Dalle zanne colano macchie verdastre e gli artigli scavano i grattacieli.

Gli occhi aguzzi di Meg mi squadrano.

Sta aspettando una mia mossa, va bene. «Mi serve il nome del creatore di quegli affari.»

Lo scroscio dell’acqua arriva dal suo telefono, un sorriso sarcastico le piega un angolo della bocca. «Niente fortuna dal bagno?»

Lo sa già, ovviamente. Mi scappa una risata. «Il bagno mi ha schiarito le idee, e so che con te farei prima.»

«Peccato che non ci hai pensato subito.» Si stacca dal muro e fa un passo, lo schermo è una ripresa dall’alto del pontile turistico. Mi vedo gettarmi di schiena nell’acqua, diventare una macchia sbiadita e sparire tra il verde. La registrazione riparte.

Alzo le spalle. «Meglio tardi che mai.»

«Dura la vita da indipendente.»

Una folata porta il profumo della salsedine, le arruffa i ciuffi neri che ricadono sugli occhi elettrici.

Questa non è una conversazione. Sta elencando tutto quello che sa già della mia situazione. Dal mio bagno notturno al fatto che sono stata tagliata dal lavoro per ora, l’ha intuito dalle mie azioni o l’ha saputo direttamente dalla bocca di uno Shinomiya?

Nessuno arriva dal fondo della galleria, i sassi non scricchiolano sotto i passi di qualcuno alle mie spalle. Per lo meno i miei fratelli non sono già pronti a saltarmi addosso.

Meg piega le labbra in un sorriso aguzzo. «Facciamo che oggi il servizio è gratuito perché devi andare a prenderti le effettive informazioni da sola.» Mi lancia una chiavetta usb che prendo al volo. «Se posso permettermi, fatti un giro di alleati. Considerando da dove viene il colpevole, sai già dove andare a parare.»

Me la rigiro tra le mani, ci saranno cartine, routine e altre cose basilari da sapere del posto in cui mi devo infiltrare. «Vuoi anticipare da dove devo recuperarli?»

Meg alza le spalle. «Togli gli assi dalla manica, lì non piacciono i bari.»

Assi dalla manica e bari, sta parlando di una bisca? L’unico posto dove si pratica giochi d’azzardo e potrebbero esserci informazioni simili è il Gamble Night. Il locale creato da mostri da altri mondi.

Premo il palmo sull’occhio ferito e tiro indietro i capelli. Mi sta mandando a rubare da loro, ovvio che le informazioni non se l’è presa da sola, porca puttana. Sono fottuta.

Prendo un respiro, risolviamo un problema per volta. Tiro fuori la carta d’identità e premo sul localizzatore, il flebile suono delle componenti elettroniche che cedono dura un instante.





Lo stridio dei freni mi trapana le orecchie.

L’autobus sobbalza, sbatto la tempia contro il finestrino e finisco proiettata contro il sedile di fronte. Il dolore porta via i rimasugli di sonno, passo la lingua sulle labbra e mi sistemo sullo schienale imbottito.

Una macchia verde acqua atterra accanto a noi, fiamme voraci ne lambiscono la figura umanoide e scaldano il finestrino. Un urlo si alza da più avanti e l’essere soprannaturale spicca un balzo oltre l’autobus, seguito da una fila di uomini armati della Kaiser con le loro armature tecnologiche. Uno di loro si ferma davanti al parabrezza e fa cenno di non muoversi, poggia la mano sul fianco del casco che gli ricopre il viso.

Il fuoco verde atterra su una delle case a schiera; le fiamme attecchiscono sul tetto, si espandono a macchia d’olio.

Uno studente due file più avanti si alza e corre al finestrino opposto, pianta le mani sul vetro. «È un emerso!» Agita il pugno chiuso, abbaia al conducente: «Ohi, nonno! Fai retromarcia!»

Che culo, ci mancava solo il pazzo da un altro mondo per coronare la giornata.

«Devo aspettare le indicazioni!» l’autista gli urla di rimando.

«Ad aspettare ci troviamo una bomba in faccia, io non resto qui.» Marcia fino alle porte. «Fammi uscire!»

«Ma datti una calmata, fuori di qui ti fai ammazzare e basta.»

Qualcuno singhiozza, una nonna stringe la nipote al petto. La bambina le abbraccia il collo e passa gli occhioni sui presenti, quasi non si rendesse conto cosa stia succedendo. Sfrega il viso sul cardigan della donna per sfuggire al mio sguardo.

Sono passati sei mesi dall’inizio di tutto ma i civili non si sono ancora abituati a questa “normalità”.

Faccio i pochi passi che mi dividono dallo studente, un ragazzino biondo e scarno, non ho tanto margine di movimento per non fargli male ma si può fare.

Oltre il parabrezza uomo di latta della Kaiser parla concitato al ricevitore, ma non sta ricevendo notizie positive. Il casinista da un altro mondo è parecchio mobile se non hanno ancora deciso in che direzione mandarci.

Lo studente mi piazza la mano sulla spalla e tenta di spostarmi.

Gli sorrido. «Dai, c’è una bambina. Fatti vedere un po’ più coraggioso.»

«Non voglio farti male, lasciami uscire.»

«Ti vuoi far ammazzare, lo abbiamo capito.» Che per quel che mi riguarda mi va benissimo, ma se qualcuno ha ricordi precisi di avermi visto in un autobus in direzione per l’uscita della città mi fa comodo. Mi servi vivo. «Siediti.»

Lo studente indica l’incendio in piena regola che si sta mangiando le abitazioni. «Non voglio finire così!» Gli operativi hanno superato le altalene in fiamme dentro uno dei giardini e prendono posizioni.

Una camionetta grigia sfreccia nell’altra corsia e parcheggia poco oltre noi, ne scendono altri uomini di latta della Kaiser coperti da armature tecnologiche da capo a piede, i caschi così grossi che celano persino la forma del mento. Uno si stacca dal gruppo e corre in cima all’autobus, fa ampi gesti delle mani per indicare una traversa a sinistra.

L’autobus torna in moto prima che me ne accorga. Sfreccia avanti e quasi tira sotto i due davanti a noi, dal cielo un lampo rosa taglia l’aria. Saetta addosso alla sagoma in fiamme e lo travolge prima che i soldati possano detonare un solo colpo.

Il motore sgasa, il conducente svolta senza nemmeno rispettare lo stop. Batto una mano sul petto dello studente che è rimasto impalato con gli occhi strabuzzati. «Prego.»

Mi avvicino alla bambina che guarda con apprensione la nonna che è scoppiata a piangere, forse per il sollievo.

«Ho fatto qualcosa di male?» mormora.

La donna scuote la testa, gli orecchini grossi come noci le dondolano avanti e indietro. «Nono, va tutto bene Belle.» Le bacia la fronte. «Scusa la nonna.»

Non dovrei disturbare, ma appoggio la mano sul sedile e porgo un fazzoletto. «Ehi, state bene? Possiamo fare qualcosa per voi?»

La donna accetta il fazzoletto e tampona l’angolo degli occhi, scuote la testa. «Ho solo bisogno di un momento.»

Tiro le labbra in un sorriso di cortesia. «Qual è la vostra fermata?»

La bambina allunga la testa. «Quella del parco degli schermitori, ci saranno i burattini che raccontano la storia di Caelum!» Alza le braccia e quasi pare voler scavalcare la nonna per travolgermi con le sue informazioni. «Li ho visti quando avevo…» Mi mostra tre dita alzate. «Grande così, il pupazzo del linno era enorme! Più della macchina di papà!»

Linno? Sarà un personaggio della fiaba. Ignoro il ciarlare della bambina per un attimo, il parco degli schermitori è una riserva al limitare della città, l’autobus dovrebbe raggiungerlo anche con il cambio di strada forzato.

A quel punto la prossima corsa per Marton sarà entro mezz’oretta. E a me basta una manciata di testimoni che mi abbiano visto aspettarlo, così una volta che i miei fratelli si metteranno a cercarmi andranno in direzione sbagliata per il tempo necessario per infiltrarmi al Gamble Night.

La nonna mette una mano sulla testa di Belle. «Tesoro, non disturbare la signorina.»

«Will.» La correggo, con il nome falso che do solitamente. «In realtà dovrò aspettare anch’io la coincidenza là. Volete fermarvi a bere qualcosa di caldo al chiosco del parco? Offro io.»

«Figurati.»

«Insisto.» Alzo la voce apposta. «E il ragazzone coraggioso là davanti ti recupererà un pugno di caramelle grosso così, Belle. Che ne dici?»

Gli occhioni della bambina si illuminano, lo studente accanto all’autista mi lancia un’occhiata. Sbuffa. «Tutto sommato ci vorrebbero pure a me.»

Un lampo rosato ricopre il cielo di una cupola cristallina per il tempo di un respiro prima di andare in pezzi; non ricordavo che le armi della Kaiser fossero così scenografiche.

La bambina mi tira un lembo della maglia. «Sei una criminale, Will?»

«Isabelle Huang!» la rimprovera la nonna.

Scoppio a ridere.

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Capitolo 5
*** Incendio generalizzato ***





Incendio generalizzato.

[Yuuki Shinomiya]





Afferro la rete metallica e mi isso sul muretto di pietra che circonda il parco degli schermitori. Il linno, un serpentone di cartapesta color ottone, occupa gran parte del palco. Tre sgherri, vestiti di stracci rugginosi e dai volti coperti, lo tengono sollevato con altrettante aste; il quarto, seduto ai piedi della scalinata di fronte a un microfono, ruota un bastone della pioggia.

Le casse gracchiano uno scroscio metallico, il linno si arrotola su sé stesso e apre le fauci: rivoli di fumo chiaro scivolano giù dal palco, dritti nell’erba che lo circonda. Raggiungono l’esercito di bambini seduti ad assistere alla storia.

Chissà quale di quelle teste è Belle.

Un brivido mi risale la schiena, ho le mani deboli e l’impressione sgradevole di non riuscire a reggermi. Le ore di sonno in arretrato si stanno facendo sentire.

Lo studente di prima – Ronan? – supera il cancello d’entrata e si rifugia sotto la pensilina dell’autobus alle mie spalle. «Che schifo ‘sto caldo,» borbotta.

Ma dove lo sente il caldo? Rimpiango di non aver messo una canottiera.

Butta lo zaino sulla panchina, allarga il colletto della maglia rossa e si arrotola i pantaloni della divisa fino alle ginocchia. «Quando è la corsa per il centro?»

Dopo quella per Marton di sicuro.

Salto giù dal muretto. «Già torni indietro, huh.»

«Avrei fatto meglio a seguire l’ennesimo corso della protezione civile più che saltare la scuola. Mi sarei evitato di quasi morire e di spendere cinque krone in caramelle.» Ronan calcia l’aria come un bambino capriccioso.

«Sbaglio o Belle ti ha chiesto solo un pan ranocchio? Tu hai preso il rest–»

«La prossima volta, se vuoi fare un regalo a una sconosciuta, non farlo con i soldi degli altri!»

«Tu non hai rifiutato.»

«Io non sono stronzo.» Sfrega la scarpa sull’asfalto e si china sul cartello con gli orari delle linee. «Il trentasei è tra un’ora, ma andiamo!»

«Ti dà così fastidio farmi compagnia?» Inclino il busto indietro e lancio un’occhiata al palco. Un cavaliere ammantato di rosso ci sale sopra, pianta il piede e sfodera una spada a due mani piena di dettagli che luccicano sotto la luce. I bambini gridano di gioia.

Altro che spettacolo di burattini, sembra il set di un tokusatsu.

Ronan si lascia cadere sulla panchina, tira fuori dalla cartella una bottiglia imperlata di condensa e il cellulare. Mancano solo un paio di cuffiette per avere la trinità dei segnali che dicono: non parlarmi.

Stendo le braccia al cielo e mi stiracchio, la chiavetta nella tasca dei pantaloni pesa più di un’arma da fuoco. Ho aspettato sei giorni, posso attendere un paio d’ore in più. Un brivido di freddo mi risale la schiena, mi gira la testa.

Aver dormito poco sta facendo sentire i suoi effetti.

Il cavaliere in rosso pianta la spada dentro il linno, il serpentone crolla a terra.





Piazzo le scarpe nello scomparto sotto il cubicolo e salgo sul materasso grigio lucido che ricopre il pavimento, l’aria condizionata è talmente bassa che mi sorprendo di non trovare un pinguino davanti alla postazione pc.

Sbatto il gomito contro la scaffalatura su cui sono sistemati cuscini, il dolore mi strappa un gemito sottovoce. Si sta stretti qui dentro ma per una cinquantina di krone avrò vitto, alloggio e privacy per due giorni: gli internet café sono il paradiso.

Lancio le chiavi della stanza accanto alla tastiera del computer e infilo lo zaino, con il cartellino del prezzo ancora attaccato, tra il muro e il case. Apro la cerniera: i contorni di un sacchetto di plastica sbordano fuori, lo schiaccio di lato e prendo il malloppo di fogli arricciati che ho stampato poco fa.

Centottanta pagine di dossier sul Gamble Night, offerte gratuitamente dalla gentilissima Meg. Le appoggio sulla scrivania e mi siedo; sfilo il cellulare dalla tasca, lo punto al viso come uno specchietto. I ciuffi color cioccolato vanno in ogni direzione, il taglio corto mi lascia il collo fresco, sembro un ragazzino che non ha ancora toccato la fase della pubertà.

Praticamente Ronan.

Passo la mano sulla nuca per dare una direzione ai ciuffi. La cicatrice sulla palpebra è arrossata e gonfia, sono riuscita a togliermi i punti da sola con un bisturi monouso. Sfioro la ferita, mi lancia una fitta di dolore tale da farmi girare la testa.

Che idea del cazzo che ho avuto.

Poggio il telefono a terra e sfoglio il malloppo fino alla pianta dell’edificio: cinque piani, di cui due sotterranei. La ripartizione degli spazi è nello standard, sicuramente è un luogo piacevole da frequentare come cliente.

Bar al piano terra, casinò al primo, stanze private al secondo… ogni planimetria è corredata da un riassunto dei servizi specifici offerti. Non mi sorprendo che guadagnino tanto; c’è fin troppa gente al mondo attratta da bellezze esotiche, vendere la compagnia di mostri provenienti da altri mondi è destinato ad attirare tanti portafogli.

Mi si appannano gli occhi, li stropiccio con il pugno chiuso. Una fitta di dolore mi strappa un gemito soffocato; la palpebra pulsa, ondate di calore e gelo si mischiano.

Giro pagina degli appunti. Il primo piano sotterraneo contiene un’arena per combattimenti, il luogo perfetto per mettere in mostra le abilità dei mostri. L’altro piano sotterraneo è una collezione di stanze piccole ma arredate per accogliere persone.

Dubito che venga affittato a clienti, senza uno straccio di luce naturale com’è, sembra più adatto per tenere prigionieri. O rifugiati che non vogliono essere trovati.

Scuoto la testa. «Non sono qui per mettermi nelle faide tra Gamble e Kaiser.»

Salto alle pagine successive, trovo schede corredate di foto e nomi dei dipendenti. La maggior parte ha a malapena qualche frase di descrizione, poteri e data di quando sono comparsi sul nostro piano di esistenza.

L’ultimo scatto ritrae una ragazza dalle orecchie a punta e i capelli legati in una morbida coda bassa, il sorriso enigmatico è stato catturato in una foto mossa. Accanto al suo viso c’è scritto solo: MYRA, VIGILANTISMO.

È un volto nuovo, sarà apparsa da pochissimo se è Meg è riuscita a dirmi solo questo.

Mollo i fogli sul tavolino.

Ci saranno una trentina di mostri riuniti dentro quel posto, come non siano ancora stati assaltati dalla Kaiser e messi dentro con il pretesto di una misura cautelare è sorprendente in sé. Puntello il gomito contro il ginocchio e mi sostengo il viso.

«C’è da dire che attaccarli apertamente sarebbe incauto. Gli operativi Kaiser sono in grado di affrontare due-tre mostri contemporaneamente, ma se si trovassero trenta di quelli a collaborare… la città diventerebbe una nuova Marton.»

Una distesa di cenere con un numero incalcolabile di morti.

Informazioni del genere ce le avrebbe fatte pagare a peso d’oro in condizioni normali. Meg non mi ha dato tutto questo gratis, sta guadagnando qualcosa da questa situazione. «Considerando da dove viene il colpevole… ha detto. Lei sa già chi è stato, altrimenti non saprebbe che l’informazione è contenuta al Gamble.»

Torno alla prima pagina; il file da recuperare è il 290610 contenuto nell’archivio dentro l’ufficio del proprietario al secondo piano, proprio accanto alle suite private.

«Stiamo scherzando?» Mi lascio cadere di schiena sul materasso, stringo le dita sulla carta fino a farla accartocciare e tiro un sospiro. «Chi usa schedari fisici di questi tempi!?»

Sento la puzza di trappola, ma l’alternativa di prendermela con calma mi piace ancora meno. Non so se a cedere sarà prima il mio fisico o i miei fratelli a trovarmi, entrambe le prospettive non mi allettano. Passi risuonano nel corridoio, serro le labbra e rimango in ascolto. Superano la porta della camera.

Lancio un’occhiata alla mensolina dei cuscini, l’interruttore della luce è a distanza di braccio. Lo spengo e piazzo il malloppo di fogli sul grembo, devo recuperare il sonno perduto prima di pensare un piano di azione.

Chiudo gli occhi.





L’insegna del Gamble Night è un miscuglio di neon rossi e blu che si illuminano a intermittenza, reprimo l’ennesimo brivido di freddo. Ho preso un antinfiammatorio, ma la sensazione di debolezza nelle ossa non vuole saperne di andarsene.

Non c’è traccia di fila o un buttafuori all’entrata, per ora non si permettono di essere schizzinosi con i clienti.

Supero le porte scorrevoli, un ragazzo in infradito e pantaloncini da spiaggia sciabatta sul tappeto dall’aria costosa. Passa il guardaroba e sparisce oltre una porta di vetro, seguito dall’occhio critico dell’inserviente che sta aiutando un paio di ragazze a liberarsi delle loro giacche eleganti.

Recupera un paio di grucce libere, la manica della camicia scivola giù e rivela il polso chiazzato da cicatrici a forma di petali. Il tipo ha le pupille verticali, come un gatto. Stringo la cinghia della borsa dove ho infilato il piccolo thermos con infusore, di questo non mi posso liberare se voglio sperare che il piano A vada in porto.

Tiro dritto per la porta e la spalanco, l’odore di agrumi e qualcosa dalla tinta dolciastra mi pizzica il naso. Diversi fari illuminano il palco dove un paio di musicisti accompagnano la cantante. Con uno svolazzo della mano, frammenti di cristallo appaiono dal nulla intorno a una giovane dai lunghi capelli legati in una coda bassa.

Myra.

Con uno schiocco delle dita i frammenti si condensano in un paio di gru origami, battono le ali e si librano sui tavolini in ombra occupati da gente di ogni genere.

Un sassofono si lancia in un assolo, la superficie delle creaturine si accende di un bagliore e prende fuoco. Lingue scoppiettanti che vanno dal verde al blu danzano sopra i presenti, indugiano sulle teste delle cameriere vestite da maggiordomi. Myra disegna un paio di cerchietti con il dito, le luci del palco scintillano sulle fibbie dorate della sua giacca.

I fuochi si riuniscono intorno a lei.

Nausea improvvisa mi stringe lo stomaco, la soffoco.

Lancio uno sguardo al lungo bancone, dove una barista solitaria sonnecchia in piedi. In fondo alla sala c’è un leggero via vai, diviso in due flussi. Uno sale verso la sala d’azzardo, l’altro scende verso l’arena: il mio prossimo obiettivo.

Punto verso quella direzione.

Una delle cameriere con un vassoio pieno di bicchieri vuoti si stacca dai tavolini, mi faccio di lato per lasciarla passare ma mi posa la mano sul braccio. Ha un viso giovane, capelli neri con una solitaria ciocca rossa che incornicia il viso.

Una delle poche non-mostro che lavora qui dentro, se ricordo bene i documenti.

Mi lascia. «Signora?»

Stendo le labbra in un sorriso e rimango in ascolto. Se non sbaglio è anche minorenne, non dovrebbe lavorare dentro a quest’ora. Non che mi riguardi.

La cameriera esita, cerca le parole. «È la prima volta che viene qui?»

«Mi hai bloccato per chiedermi questo?»

Sono piuttosto convinta che non sia la domanda che voleva farmi davvero, ma chiedere sei ubriaca? sarebbe troppo scortese anche per un posto del genere. Mi si legge troppo in faccia che non sto bene.

Ciocca rossa annuisce. «Oggi offriamo un infuso di cedro, miele e,» tentenna, aggiunge una parola musicale che non ho mai sentito prima. «Sono stati piantati e fatti crescere qui, ma sono originari di una terra lontana di nome Cyrrium. È consigliato per chi rimane ad ascoltare Myra cantare.»

Non canta così male da dover drogare i vostri clienti, sapete?

Faccio un cenno del capo. «Allora seguirò il tuo consiglio…»

La cameriera mi indica un tavolo vuoto piuttosto lontano dal palco, corre a consegnare il vassoio pieno alla barista senza aspettare di vedermi muovere. Mi siedo, sprofondo nella poltroncina morbida.

Questo posto non ha routine particolari a cui si attiene. Funziona con il minimo indispensabile di personale, quindi gran parte dell’orario di apertura è speso a gestire il flusso di clienti tra le varie sale.

Se voglio sfruttare una loro distrazione per trafugare le informazioni che mi servono, devo creare la distrazione.

Ciuffo rosso mi compare accanto, posa sul tavolino una tazza con un filo di liquido ambrato e scagliette dorate. Ci rovescia dentro un infuso rossastro fino a un dito di distanza dal bordo. Uno dei fuochi fatui danza sopra la testa della ragazza, si cristallizza una streghetta che si posa sul bordo della tazza. Mostra il pollice.

Bizzarro.

Alzo gli occhi, Myra ha fatto l’occhiolino nella nostra direzione. Continua a cantare con uno sguardo degno di un uccellino che stende le proprie ali per farsi ammirare; c’è qualcosa di candido nella gioia che sta sprigionando solo perché ha gli occhi dei presenti addosso.

Se fosse un’egocentrica e basta sarebbe più semplice.

Poso la borsetta con il thermos tra i piedi e prendo il cucchiaino. Essere puntata da due membri del Gamble appena entrata è sospetto.

Temo che non sia solo paranoia la mia.

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Capitolo 6
*** Estinzione ***





Estinzione.

[Yuuki Shinomiya]





La streghetta di cristallo si lascia cadere giù dal bordo della tazza e afferra il cucchiaino con entrambe le mani: le braccia le tremano, pianta i piedi e spinge.

Il fuocherello blu che le brucia sottopelle si ravviva, brilla come le fiamme che danzano intorno al palco. La punta del manico disegna un arco e sbatte contro la tesa del suo largo cappello.

Ciocca Rossa fa un cenno del capo e sparisce tra i tavoli. Speriamo che non debba scendere giù all’arena quando faccio partire la distrazione.

La streghetta inarca la schiena e infila il cucchiaino nella tazza; mischia, le scaglie di cedro vorticano nell’infuso rosso. Non stonerebbe vederla nello spettacolo con il serpentone di oggi, con l’unica differenza che lei non è un effetto speciale.

Salta giù dal piattino e rimane in attesa.

L’intruglio getta fili di vapore sottili, ne bevo un sorso; il retrogusto piccante mi intorpidisce la lingua e scalda la gola. Non sento per niente il miele, ma quello è colpa mia.

La streghetta si toglie il cappello e fa un inchino, si accartoccia su se stessa con uno scricchiolio leggero. La fiammella blu sottostante sfugge dai bordi irregolari del cristallo, attecchisce fino a ricoprirla.

Una scintilla scoppietta. Si riunisce ai fuochi fatui che danzano sotto la direzione della voce di Myra.

Bevo un altro sorso, un calore piacevole si spande dallo stomaco lungo tutto il corpo: scioglie il dolore alle ossa e rende la testa leggera. Scintillii confusi mi accecano, scie sottili collegano ogni fuoco fatuo in tre grandi orbite regolari, al centro di esse la cantante brilla come un sole.

Poso la tazza sul piattino.

È davvero drogata, merda.

Ogni persona seduta ai tavolini sprizza gemme di colore dal petto che cadono a terra e si frantumano in polvere brillante dopo un paio di secondi. Mi stringo il petto, ma da me non esce nulla di simile.

La musica cala, solo la pianola accompagna i vocalizzi sussurrati di Myra che chiude la mano a pugno. Le orbite tracciate nell’aria vanno in pezzi e i fuochi si spengono come se qualcuno ci avesse soffiato contro.

Si allontana dal microfono. La luminescenza che la avvolge cala fino a diventare una coperta di luce che la avvolge, per lo meno non è più accecante. Passo il polpastrello sul bordo della tazza, non posso nemmeno definirla sinestesia. È come se potessi percepire a pelle che quella ragazza non appartiene a questa dimensione.

Perché servire un intruglio simile?

Un coro di applausi spezza il silenzio. Myra ondeggia il braccio e fa una riverenza teatrale verso il pubblico. Appena il suono si placa, si gira verso i musicisti. Il sassofonista tende la mano alta, uno dopo l’altro il gruppo si scambia il cinque.

I sorrisi sul palco sono degni di una band di vecchi amici.

Lei scende giù dai gradini, il gruppetto rimasto si rimescola per compattare la formazione. Il pianista, dal viso tappezzato di crepe come una vecchia statua, regola il microfono sopra la sua pianola e attacca una canzone a cappella.

È una lingua che non ho mai sentito prima, suoni duri si accavallano uno sopra l’altro ma sembra nostalgica. Un lamento per qualcosa che è stato perso da troppo tempo.

La figura scintillante di Myra passa tra i tavolini e si ferma al bancone del bar, dirimpetto alla barista sonnacchiosa. Puntella i gomiti sul bancone, la lunga coda di capelli oscilla alle sue spalle.

La poveretta dietro il bancone annuisce, non saprei dire se è un riflesso condizionato dal sonno o se la sta seguendo davvero il discorso. Incrocio gli occhi di Myra mi che fa un occhiolino e continua a parlare come se fosse la cosa più normale del mondo.

È davvero troppo a suo agio con l’essere fissata.

Sposto la frangia dalla fronte e sfioro la palpebra con il pollice, il taglio è leggermente gonfio sotto le dita, ma non mi lancia la solita fitta di dolore. Lo traccio, è insensibile dalla cima che spacca il sopracciglio fino allo zigomo. Pianto l’unghia sulla guancia, una lieve sensazione di prurito è il massimo che avverto.

Sfioro la borsetta tra i miei piedi.

Forse mi hanno consegnato l’arma per poterli sfidare.





Piccoli faretti rischiarano le scale che portano agli altri piani, stringo la borsetta al petto. Non si intona per niente con il maglioncino che mi sono messa, ma era l’unica abbastanza elegante che riuscisse a contenere il thermos senza deformarsi.

Una coppia mi supera e si ferma all’ascensore, lei intreccia le braccia intorno a quello di lui. Si accosta al suo orecchio, sprazzi di luce danzano tra i due per il tempo di un battito di ciglia e vanno in pezzi. Non ho fatto caso al suo viso, ma sarà una dipendente del posto.

E lo scemo si è fatto stregare… Ognuno si diverte come vuole.

Una zaffata di bruciato copre l’odore di agrumi che regnava sul pub.

Scendo le scale, ormai la voce del pianista è un mormorio distante spezzato da continui ruggiti. Un gruppetto di ragazzi in abiti da spiaggia è riunito all'entrata dell’arena, trafficano con i cellulari e si scambiano manciate di gettoni viola fluorescenti.

La rampa per scendere ancora più in basso è sbarrata da una corda rossa. Là sotto ci sono i “mostri” rifugiati, quelli che il Gamble sta nascondendo dalla Kaiser per chissà quale motivo.

Se la loro sicurezza venisse messa in dubbio per un istante, non dubito che tutti gli addetti ai lavori si riunirebbero per assicurarsi di risolvere il problema al più presto. Così da lasciarmi i pochi minuti necessari per salire, fotografare il file che mi serve e sparire.

Mi appiattisco al muro e passo accanto al gruppetto che neanche mi rivolge uno sguardo. Una gabbia esagonale prende il centro della sala, l’interno pulsa di luce. Aguzzo gli occhi: un ragazzo rotea la lancia e devia un’ondata di fiamme lanciata da un essere umanoide ricoperto da una folta criniera marrone. Quel tizio è due volte lui.

Diverse file di poltroncine circondano lo spettacolo. Tra di esse spicca un trono, dove sta stravaccato un tipo ricoperto dalla stessa aura di Myra. Sotto la luce intravedo una figura maschile con il viso nascosto da un cappello, avrà la stessa corporatura di Kaito occhio e croce.

Sarà il campione, speriamo si sbrighi a scendere in campo. Mi siedo su una delle poltroncine accanto all’entrata.

Criniera inarca la schiena e placca l’altro ragazzo contro la gabbia di metallo, gli prende la testa tra le mani e gli tira una ginocchiata secca contro la fronte. La lancia cade con un tonfo sordo, rilascia scariche elettriche.

Non riesco proprio a capire perché i feticisti del brivido amino spettacoli simili. Quelli che vengono messi in mostra qui dentro sono gli stessi poteri che hanno devastato Marton, solo perché sono clienti paganti non significa che non subiranno mai attacchi simili. Gente che ha paura come Ronan è molto più facile da comprendere.

Gli inservienti dell’arena, circondati da aure brillanti, si muovono per le file di poltroncine a conversare con chi li chiama. Scambiano manciate di gettoni viola, sorridono e sembrano in tutto e per tutto normali dipendenti.

Criniera afferra la lancia del suo avversario come una mazza e gli tira un colpo al viso, il ragazzo si china e gli prende le gambe. Lo spinge a terra con un urlo animalesco.

Quasi quasi scommetto su di lui, ha una faccia simpatica.





Faccio roteare sulle nocche l’ultimo gettone viola che mi è rimasto. Mi sono giocata buona metà dei soldi che mi sono portata dietro in meno di due puntate, la favoletta sul fatto che le prime volte in un casinò il cliente torna a casa con modeste vincite è falsa.

C’è da dire che io ho tentato la fortuna con combattimenti clandestini…

La barella con l’ultimo sconfitto dell’arena sparisce dentro una porta secondaria, il tizio sul trono salta giù. Alza il cappellino e ghigna verso il grosso orso squamato rinchiuso dentro la gabbia. Gli va incontro.

Il campione della zona ha finalmente deciso di dare spettacolo, e ciò significa che tutti gli occhi saranno sul combattimento.

Apro la borsa e tiro fuori il thermos, svito il tappo. Il sottile velo di plastica che tiene il composto dentro l’infusore separato dal reagente si strappa, inclino a malapena la borraccia.

Un sibilo freddo scivola fuori dalla bottiglia e mi accarezza le mani, la pelle prude malgrado sia ancora anestetizzata dalla roba strana che mi hanno propinato al pub. Tolgo il tappo e appoggio il thermos sotto la poltroncina.

Chiudo la borsa, esco di lì e risalgo le scale. Ci vorranno cinque minuti prima che la reazione riversi il gas lacrimogeno casalingo ovunque nell’arena. Mi dispiace per chi ne subirà gli effetti, ma la stanza è abbastanza grande da assicurare che nessuno abbia complicanze troppo gravi.

Probabilmente.

Compreso il tempo per risolvere il problema lacrimogeno, verificare lo stato dei clienti coinvolti, quelli degli ospiti nascosti al piano più inferiore e chissà che altre magagne hanno…

Con una stima pessimistica, ho dieci minuti per entrare negli uffici del capo. Raggiunto il piano terra continuo a salire, il tripudio di luci che arriva dal varco che porta al casinò è accecante. Socchiudo gli occhi e tiro dritto.

Arrivata in cima alla rampa spalanco la porta che dà su un lungo corridoio con le suite, dalle maniglie di un paio di esse pende il cartello NON DISTURBARE in caratteri eleganti.

Secondo la piantina, l’ufficio del capo è la settima camera sulla sinistra. La apro: una scrivania con poche carte in ordine occupa gran parte della stanza, dietro di essa ci sono un paio di schedari metallici a ridosso del muro.

Mi chiudo la porta alle spalle, ci appoggio la schiena sopra. Non hanno ancora dato l’allarme… Non è il momento di pensarci.

Giro intorno alla coppia di poltroncine che mi impiccia la strada, dalla finestra chiusa arrivano le luci bianche della città. ‘sto posto manca di un paio di piantine per ravvivare l’atmosfera, non c’è nemmeno qualche testa impagliata di dubbio gusto attaccata al muro.

Passo l’indice sulle etichette degli schedari, i documenti partono da cinque anni fa almeno. Il Gamble è aperto da sei mesi, che ci fanno con documentazione così vecchia?

Tiro la maniglia del cassetto centrale che scivola fuori senza fare resistenza, ci sono decine di fascicoli etichettati corredati di nomi. Scorro i ventisette, ventotto, ventinove. Rallento.

Ventinove, zero, sei, dieci: eccolo! Lo sfilo; è sottilissimo, non so come possa contenere tutte le informazioni necessarie sui robottoni e i loro creatori. È già tanto se c’è la lista completa di nomi dei coinvolti nella loro creazione, anche se avrei preferito avere le informazioni su dove abitano attualmente.

Una fototessera mi scivola tra i piedi, il viso arcigno di papà mi squadra dal basso verso l’alto. La raccolgo e butto l’occhio al nome del fascicolo.

Accordo Koller-Shinomiya.

Non era quello che avevo chiesto a Meg. Mi mordo la guancia, ovvio che non mi ha fatto pagare nulla per le informazioni. Si è limitata a mandarmi esattamente dove i suoi committenti volevano che finissi.





Il fascicolo contiene la vecchia ubicazione del manufatto che Kojo doveva rubare, una trascrizione di una conversazione telefonica tra Clare Koller e papà, la foto del robot colto nell’atto di sgozzare mia sorella e quella della giovane scienziata.

Capelli scarmigliati biondi su occhi affilati verde-acqua, lo stemma della Kaiser fa bella mostra di sé sul camice. I robot che hanno massacrato la città sono stati creati da una dei protettori della quiete, ovviamente.

Ricaccio la foto di papà nel fascicolo, il sapore acido in fondo alla gola non vuole sapere di andarsene. L’ho già riletto tre volte ma le parole lì sopra non cambiano. Kojo doveva rubare un einheri, che cazzo significa nemmeno mi importa, e il robot di Koller doveva intralciarla. Se fosse riuscita nell’impresa la famiglia avrebbe iniziato una collaborazione stretta alle dipendenze di quella donna, e ne avremmo tratto tutti vantaggio.

Ha fatto ammazzare la figlia per un test e Meg mi ha spinto qui perché lo scoprissi. Mi sfrego il braccio sugli occhi, trattengo un ringhio frustrato.

Un bagliore innaturale mi scintilla all’angolo degli occhi, una leggera risata spezza il silenzio. «I sicari sono proprio di un’altra pasta, huh.»

Davanti alla porta dischiusa dell’ufficio, Myra accenna un saluto con la mano. Ha una stazza minuta, potrei spingerla via e correre fuori… ma visto come può far apparire costrutti di cristallo dal nulla, temo che mi troverei un frammento in gola prima di fare un passo.

Dalla finestra non se ne parla, siamo al secondo piano.

Mi schiarisco la gola. «Mi sono persa– vabbe’, non ci credo nemmeno io.»

Myra nasconde il sorriso dietro il pugno, le spalle le tremano per una risata silenziosa. Felice di averla almeno fatta sorridere, magari sarà più clemente con la scarica di botte che sta per arrivarmi addosso. Infilo il fascicolo nel cassetto e lo chiudo.

Anche se, c’è buona possibilità che chi mi abbia mandato qui siano gli stessi capi del Gamble. «Non cerchi di scappare?» mi incalza.

Scuoto la testa, non ora che ha la guardia così alta. «Sono una persona normale rispetto a te. Non posso volare fuori dalla finestra e non posso placcarti per passare.»

«Peccato, sembri aver bisogno di un abbraccio.» Myra si mette un dito sulla guancia. «Cos’hai scoperto?»

«Mi prendi per il culo?»

«Linguaggio.»

«Ah, mi scusi.» Mi metto una mano sul petto. «Mi sta prendendo in giro?»

«In verità no.»

Secondo le informazioni di Meg questa si crede un’eroina che può fare la differenza. Se potessi fare leva su ciò…

Sospiro. «Ho scoperto quello che i tuoi capi volevano che sapessi. Mi lasci passare o hai intenzione di bloccarmi qui?»

«Con quella febbre non dovresti andare da nessuna parte.» Si abbraccia i gomiti, il lieve bagliore che la avvolge si arriccia in volute concentriche. Non si sposta dalla porta. «Avevi gli occhi appannati prima di bere il bocciolo della volontà. Non preferiresti andare a riposare?»

Piego le labbra in un sorriso. «Perché no, ma lasciami scavare la fossa da sola, eh. Voglio essere comoda nell’aldilà.»

Esita, gli occhi passano dalla confusione all’orrore. Fa una smorfia indignata. «Non voglio ucciderti.» Aggiunge a mezza voce: «io proteggo le persone.»

«E dire che averti in giro avrebbe fatto comodo mentre mia sorella veniva sgozzata.»

Il silenzio cala nella stanza come una martellata pesante, mi punta addosso uno sguardo pietoso. «Mi dispiace.» La voce è sottile.

Se non sfrutto questo momento di esitazione, non avrò altre occasioni. La spingo di lato. Braccia esili mi avvolgono le spalle, le tiro una manata dal basso verso l’alto sul naso. Mostro o meno, questo fa male a tutti.

Mi stringe come se non fosse successo nulla, preme il viso contro l’incavo del mio collo e si lascia sfuggire un leggero gemito di dolore. Mi arriva addosso un’ondata di profumi floreali contrastanti. Faccio forza per scrollarmela di dosso, ma non cede nemmeno di un millimetro.

Mi accarezza la testa. «Avrai qualcuno che sentirebbe la tua mancanza.»

Trattengo una risata, mi pizzicano gli occhi.

Catturata da una nemica che vuole assicurarsi che io stia bene, il mondo è finito sottosopra.

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Capitolo 7
*** Raffreddamento ***





Raffreddamento.

[Yuuki Shinomiya]





Stendo le gambe addormentate oltre il pontile turistico, le duecentomila stelle della via delle lacrime scintillano nell’acqua scura e a malapena illuminano la base del faro spento. Una pulsazione mi batte le tempie al ritmo del mio cuore, troppo leggera per essere un mal di testa. Sfioro la superficie del mare con la punta delle scarpe: l’increspatura si allarga, cancella gli astri e spezza a metà la luna piena. Piombo nel buio.

Alzo il naso al cielo, due semisfere circondate da un anello di detriti sono ciò che rimane del nostro satellite. Fischio, non esce neanche un lieve sospiro dalla mia gola. Dopo aver bevuto quella roba perfino i miei sogni sono degni di un trip di acidi.

Incrocio le braccia dietro la testa e mi lascio cadere di spalle, l’asfalto accoglie la mia schiena con la morbidezza di un letto.

Il mio corpo è al sicuro nell’infermeria del Gamble Night, ben lontano da tutte le persone che stanno patendo le conseguenze del gas lacrimogeno. Myra ha intimato che riposassi per riprendermi, ma non sarebbe il primo gruppo che prende qualcuno in ostaggio sotto falsi pretesti.

Sassolini scricchiolano sotto le suole di un paio di anfibi, la figura di Kojo mi sovrasta e piega il busto su di me, i capelli legati in una coda alta e le iridi nascoste da un paio di occhiali in bilico sul naso. Un sorriso gentile – così innaturale, così comprensivo – le increspa le labbra. Mi siede accanto.

Strizzo gli occhi, qualcosa punge nel fondo della gola. Spero di svegliarmi presto.





Sussulto, la pila di contenitori di plastica accatastata sul mio stomaco vola giù dal lettino, sbatte contro una delle tante torri di libri che affollano il pavimento. Ho un bicchiere di plastica tinto di verde in mano e in bocca la sensazione viscida di aver mandato giù un pugno di alghe amare. Un rigurgito di stomaco mi risale la gola, insieme al sapore di sale.

Premo il palmo sulle labbra, che schifo ma meglio questo che essere malata.

Mazzi di teste d’aglio, fasci di fiori lilla e funghi fosforescenti pendono da una trave del soffitto, la parete di fondo è ricoperta da scaffalature piene di barattoli di vetro. Un paio di occhi verdi con il nervo ottico ancora attaccato galleggiano dentro una caraffa coperta con un grosso tappo di sughero.

Questa dovrebbe essere un’infermeria.

L’alchimista, una ragazza dalle guance ancora piene di grasso infantile, batte l’unghia dell’indice sul legno della libreria. Canticchia sottovoce, i toni duri e leggermente raschiati mi ricordano quelli del pianista dalla faccia crepata.

Il calderone di ghisa alle sue spalle gorgoglia, piccole bolle colorate si alzano. Scoppiano a mezz’aria, un odore fruttato mi pizzica il naso. Ero convinta che quell’affare fosse a ridosso del muro opposto, con braccine così scheletriche come sarà riuscita a spostarlo?

La porta al di là del secondo lettino si apre, butta giù un paio di scope accatastate lì accanto che sbattono a terra. L’alchimista fa un versetto particolarmente acuto, oscilla la mano davanti ai barattoli.

Kaito infila la testa dentro e sussulta, si tappa il naso. Fa slalom tra file di roba accatastata, abbassa la testa per passare sotto una tenda di foglie verdi e si lascia cadere sul piccolo triangolo di materasso ancora libero.

Mi poggio il bicchiere tinto tra le gambe, le nocche di Kaito mi battono sulla tempia. «Qui dentro non c’è niente.»

Faccio una risata. «Non c’è. Ci assomigliamo anche in questo.»

Appoggia le mani dietro sé, un paio di libri volano giù e sbattono. La canzoncina dell’alchimista ha un acuto per un attimo, prima di tornare a ripetere lo stesso ciclo di note. «Non parlarmene. Sono finito a Marton nel tentativo di inseguirti.»

«Ci sei finito solo tu?»

«Lo so, lo so. Dovevo ascoltare Takao quando diceva che non faresti errori così palesi, anche sé rincoglionita dallo stress.»

Serro le labbra. Ho fatto errori però, fin troppi e sono ancora viva. Perché Kojo non ha ricevuto la stessa gentilezza? Il canticchiare dell’alchimista viene rotto dal pop di una delle bollicine, mi passo una mano tra i capelli e schiarisco la gola.

«Takao si aspettava la parte dove mi sono infilata nel covo degli emersi per cercare informazioni?»

Kaito incrocia le gambe sotto le chiappe. «È un po’ presto per te per fare battute simili.»

Gonfio il petto, grata del salvagente che mi ha lanciato. «Tu fai rissa con chiunque ti capita a tiro, e io non posso?»

Arriccia il naso, lo spettro di un sorriso nervoso gli piega le labbra. «Ti auguro che la sceneggiata da bambina petulante funzioni, Takane non era felice.»

L’alchimista prende un contenitore di vetro quadrato pieno di muschio blu, lo stappa e annusa. Lo getta nel calderone, vetro compreso. Si rigira il tappo tra le dita e lo fa cadere nel liquido bollente con un altro pop leggero.

Sospiro. «Ho combinato un casino.»

«A giudicare dal riassunto dell’elfa, il primo ad aver fatto casino è stato papà. Dovevamo rimanere tipo… neutrali. Che ci si guadagna a diventare cani della Kaiser?»

Troppo, e probabilmente non sto prendendo in considerazione tutto quello che papà può aver tenuto in conto prima di fare l’accordo con Clare Koller. Mi abbraccio i gomiti. «La seconda ad aver fatto casino è Meg, quando non mi ha specificato che gli alleati che dovevo farmi erano quelli con le informazioni.»

«Almeno non sono arrabbiati.»

«Arrabbiati no, ma ho ricevuto una lavata di capo da una tizia formato barattolo prima che mi sbattessero qui. Non sono sicura che fosse un’allucinazione.»

Le spalle di Kaito tremano per una risata inespressa, serra le labbra e prende due grossi respiri. «Se avessi saputo che per fermarti bastava abbracciarti forte l’avrei fatto prima.» Gli scappa un soffio nasale. «Fortuna che qui hanno le telecamere, mi sarei perso l’immagine gloriosa del procione di casa che viene trascinata per i corridoi. Magari ti avesse preso a sacco di patate!»

Almeno uno di noi due si diverte.

Decine di barattoli lucidi circondano il terreno intorno al calderone, ce n’è perfino uno simile al contenitore di vetro che l’alchimista ha buttato nella sbobba. Non mi pareva che ci fossero, prima…

Kaito si tira un paio di manate sul petto. «Comunque mamma è tornata a casa sulle sue gambe dopo aver parlato con il capo di questa baracca, sembra che potremo risolvere il casino un passo per volta. In cambio di collaborazione, chiuderanno un occhio su tutto.»

Di base sono stata l’ostaggio per costringere la mia famiglia a mettersi contro la corporazione più importante attuale. L’avrei affrontata lo stesso ma loro dovevano essere liberi di decidere se mettersi in mezzo o meno.

Ho la gola arida. «Papà?»

Il sorriso si congela. «Che vuoi che ti dica?»

«Tu avevi idea?»

«No. Non l’avrei lasciata andare da sola.»

Kojo lo sapeva? Ho paura di chiederlo ad alta voce, mi si stringe il cuore ogni volta che penso che non ha nemmeno ha provato a scappare pur di finire la missione. Se scoprissi che ci è andata incontro volontariamente…

La porta dell’infermeria si chiude, mamma ha la mano ancora sulla maniglia. Dalla giacchetta aperta spunta la linea di una fondina ascellare, si passa il pollice sulle labbra sporche di rosso fresco. Supera il casino di roba accatastata senza quasi prestarci attenzione, il ticchettare delle sue scarpe sembra infinitamente più pesante della canzoncina ripetitiva dell'alchimista.

Mi mette una mano sulla testa. «Non dovrai continuare la missione di Kojo.»

«Ricevuto.»

«Hai imparato il canto delle rose?»

Manco iniziato. «Ci sto lavorando…»

«Fai presto, dovrai suonarlo per tua sorella e tuo padre.»

Una marcia funebre per loro due? Un peso mi abbandona le spalle. «Va bene.»

Kaito spinge l’accozzaglia di roba che riempie il letto di lato e si fa a destra per lasciarle spazio, mamma gli si siede accanto.

Le indico le labbra. «Quello è sangue t–?»

«Non è mio.» Intreccia le dita sul grembo. «Yuu, a che ti serve essere docile ora?»

L’assassino di Kojo è già morto, l’altro è protetto da un’azienda che non posso distruggere da sola. Neanche io sono così fuori di testa da non rendermi conto quanto sto pesando sulle spalle di tutti. «Sono stanca.»

Annuisce. Mamma sporge la mano e passa il pollice lì dove la cicatrice spacca il sopracciglio, scende fino allo zigomo. Ha gli occhi arrossati, appesantiti da una stanchezza mentale più che fisica.

Sospira. «Non ho le capacità che aveva vostro padre, non è pensabile che continuate a lavorare come sicari. Vorrei… che valutaste di fare altro.»

La fa facile. «Non conosco altro.»

«È il momento di iniziare a conoscerlo.» Mamma mi passa il pollice sulla fronte, il tocco è leggero come le ali di una farfalla. «Il Gamble chiederà la mia attenzione per smantellare i robot di Koller, tu Yuu non potrai essere coinvolta in alcun modo.»

Non sembra neanche la stessa persona che ci metteva davanti al pericolo, dicendo queste esperienze vi fortificheranno.

Mi mordo la guancia. «Che c’è? Non ho la tua fiducia?»

Annuisce. «Ci sono altri modi per aiutarci che non ti mettono sul campo di battaglia. È il massimo che posso concederti.»

Non ammette proteste.





Mi chiudo la porta di casa alle spalle e allungo la mano sull’interruttore, la lampadina del corridoio sfarfalla un paio di volte. Le chiacchiere spensierate della televisione accesa arrivano dal soggiorno.

Stringo la cinghia dello zaino e tiro dritto verso l’ufficio, adocchio Kaito addormentato a testa in giù sul divano, il viso ricoperto di lividi illuminato dalla luce bianca del telegiornale serale. Tre giorni che manco e c’è giusto lui ad accogliermi al ritorno, il Gamble li ha proprio messi al lavoro.

Meglio così, non so neanche di cosa dovrei parlare.

La porta dell’ufficio è spalancata a differenza del solito, la luce del corridoio rischiara la manciata di vetri che costellano il terreno. Non hanno nemmeno pulito… Accendo l’interruttore: lo schermo del computer è stato sfondato da qualcosa di grosso, i pochi pezzi irregolari rimasti attaccati hanno tracce di sangue incrostato.

La scrivania e il resto del mobilio è intoccato, almeno non hanno lasciato il corpo. Non ci vuole nulla ad arrivare in cucina per prendere una scopa, ma ho le gambe pesanti. Non ho il briciolo di voglia per fare i pochi passi che servono.

Vado alla scrivania, il vetro si spezza sotto le suole. Poggio a terra lo zaino e tiro fuori l’ennesimo blocco di informazioni. Fortunatamente ho potuto restringere il campo a una manciata di progetti di cui girano già le prove che siano tutto fuorché etici.

Sfoglio i dati sul progetto CHIMERA. Roba avviata quasi tre anni fa; una delle ricercatrici coinvolte – una certa Jaiden Enright – è sparita da un giorno all’altro. Volatilizzata nell’aria come se non fosse mai esistita.

Kaito caccia uno sbadiglio così forte che rimbomba persino qui. Tiro fuori la foto della poveretta, è una ragazza dai capelli castani e gli occhi vispi, il tipo che potrei vedere bene a fare l’influencer su qualche social. Mi passo una mano tra i capelli, il colore dei ciuffi è abbastanza simile…

Passi strascicati arrivano alla porta, l’orso si sporge dall’entrata. «Di tutti i posti dove potevi metterti–»

Sporgo il busto indietro per dargli un’occhiata migliore. «Mi aiuta a riflettere.»

«O ad avere voglia di spararti in bocca.» Passa accanto al vetro che costella il pavimento e mi mette una mano sulla spalla, puzza di sudore da fare schifo. «Hai voglia di dare fuoco a tutti i progetti della Kaiser o cosa?»

«Non ci sei lontano.»

Giro pagina, le cavie volontarie variano di età, sesso ed etnia senza alcuna regola. Uno di loro dev’essere un bambino di massimo sedici anni.

«Nemmeno Myra vuole la Kaiser distrutta, Yuu.»

«Ora la chiami per nome, non l’elfa.» Trattengo una risata. «Sono passati solo tre giorni.»

Mi tira un colpetto dietro la nuca che mi proietta avanti, la mano è pesante come un badile. «In tre giorni si impara il nome di una collega, eh.»

Gli rivolgo un sorriso sghembo.

Sii normale.

Sii paziente.

Distruggere l’intera Kaiser per il bene di interrompere la carriera di una sola persona è un pensiero inutilmente distruttivo, quando il loro operato garantisce che la popolazione possa continuare ad avere un barlume di normalità.

Ma non mi importa.

Posso diventare anche il drago che sventrerà la città se mi permetterà di avere giustizia.





[.note a fine pagina]

Karakuri è finita ma la trama non è ancora conclusa. Sorpresa \o/

Diciamo che questa storia era tanto il prologo di una long più lunga, quanto un esperimento di scrittura per cimentarmi con diverse minisfide. Non sono soddisfatta di come ho gestito neanche metà delle suddette sfide, ma ehi.

Manca ancora una long più corposa da scrivere, e concluderò la trama che ho aperto l’anno scorso con Template. Non so quando inizierò a scriverla perché ho genuinamente bisogno di un mental break dopo essermi messa nella testa di una personalità come quella di Yuuki.

Ma è stato divertente, a suo modo. Soprattutto descrivere ambienti.

Grazie infinite a tutti quelli che sono arrivati in fondo e mi hanno aiutato a correggere il tiro con i vari capitoli. Y’all are precious.

_Alcor

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