Napoleon of Another World! (Volume 4 - La Gloria è Effimera se non è Duratura)

di Cj Spencer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 - L'AQUILA DI EIRINN ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - IL PRIMO PASSO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - OLTRE IL LIMITE ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - LO STUDIOSO ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - INTO THE WILD ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 - L'AQUILA DI EIRINN ***


“In guerra, mezze misure e indecisione

sono garanzia di fallimento.”

(Napoleone Bonaparte)

CAPITOLO 1

L’AQUILA DI EIRINN

 

 

Dai tempi delle Guerre Sacre Erthea non aveva mai visto un conflitto così lungo come quello che vedeva contrapposti le forze imperiali e i gruppi separatisti capeggiati dai Baroni.

Da dieci anni i territori orientali dell’impero erano una polveriera, un immenso campo di battaglia in cui si consumava una interminabile guerra civile.

Tutto era cominciato con l’ascesa al trono dell’attuale imperatore, che aveva ben pensato di risolvere la spaventosa crisi economica che aveva portato l’Impero sull’orlo della bancarotta promulgando una serie di pesanti riforme fiscali.

Come se non bastasse l’Imperatore aveva dimostrato di voler cambiare radicalmente il modo in cui lo Stato gestiva la cosa pubblica, riportando il potere nelle mani del senato ai danni di governatori ed amministratori delle province più lontane e remote, che negli ultimi duecento anni si erano visti accordare privilegi sempre maggiori.

E la gente di tutto ciò era stata molto felice, perché non solo una volta tanto erano stati i nobili a subire i colpi peggiori dalle nuove tassazioni, ma una legge apposita aveva impedito a questi ultimi di rifarsi delle perdite andando a loro volta ad aumentare la tassazione locale sui territori che amministravano.

Sfortunatamente, in politica le cose di rado vanno come si vorrebbe, e un nobile ingordo abituato a godere appieno delle sue ricchezze e del suo potere può diventare un nemico pericoloso, anche per un sovrano.

Forse Sua Maestà aveva sovrastimato l’ammirazione che il popolo aveva iniziato a provare per lui, o forse si era persuaso a credere che le sue riforme lo avrebbero messo al sicuro dalle critiche per ciò che le circostanze lo avevano costretto a fare.

Perché un abitante di Saedonia può sopportare le tasse, la povertà e la fame, ma non sarà mai disposto a rinunciare alla cosa più importante che possiede: il suo orgoglio di cittadino del più grande impero mai visto.

La cessione di una parte dei territori occidentali a Connelly con la fine della Guerra del Flor e la fine della Guerra Fredda con l’Unione al prezzo di svariati milioni di goldie erano umiliazioni che in pochi erano disposti ad accettare.

E i nobili dell’est, le terre più lontane, isolate e sperdute del grande Impero, erano stati abili a mascherare le loro ambizioni in una sorta di guerra santa contro un sovrano accusato di essere un incapace, che aveva svenduto il suo impero ed il suo popolo ai suoi peggiori nemici.

In fin dei conti era lì che, secondo le leggende, il Signore Oscuro aveva fatto la sua comparsa, e secondo gli abitanti di quelle terre era stato solo grazie al sacrificio dei loro antenati se l’Impero era sopravvissuto.

Non c’era voluto molto perché quella che era nata come una semplice zuffa tra i feudatari locali e il governo centrale si tramutasse in una vera e propria rivolta che da dieci anni insanguinava le foreste, le montagne e le valli dell’est.

E la mente dietro a tutte le sconfitte patite fino a quel momento dalle legioni era una sola, quella di Julius Severus, dodicesimo Barone di Glasnet.

Uomo ricchissimo e dal lignaggio illustre, apparteneva alla più nobile e rispettata aristocrazia militare dell’Impero, una di quelle famiglie di cui i bambini leggevano le gesta sui libri di scuola.

Non era solo un feudatario colto e molto potente, ma anche un brillante stratega, ed era forse l’unico tra i Baroni ribelli a credere sinceramente nelle menzogne che i suoi sodali si raccontavano per mascherare le loro vere intenzioni.

Sette generali si erano succeduti al comando delle cinque legioni che da un decennio tentavano di stroncare la ribellione, ma nonostante ciò la situazione nel corso del tempo non si era minimamente sbloccata.

Città e regioni venivano perse e riconquistate in continuazione, talvolta nel giro di poche settimane, ma la capitale della rivolta Glasnet e il suo castello restavano lontani, come un miraggio irraggiungibile.

Da alcuni mesi il comando era passato al Generale Flavio Tibullo. Era un militare di lungo corso, stimato da Sua Maestà, che si era fatto una reputazione come ammiraglio della flotta imperiale combattendo i pirati.

Ma era essenzialmente un uomo di mare, incarnazione di un’aristocrazia di guerra legata a idee antiquate, e che seguiva alla lettera il tipico approccio imperiale alle battaglie: numeri soverchianti, rullo compressore e avanzamento brutale, a prescindere dalle perdite.

Una cosa del genere poteva andare bene per avere la meglio su eserciti stranieri o quando si aveva a che fare con le flotte pirata, ma mal si sposava con una situazione come quella dell’est. Ogni volta che una regione cadeva, i baroni e i loro eserciti semplicemente si ritiravano in quelle più vicine, formando nuove barriere difensive che dovevano essere nuovamente sfondate, con conseguente enorme dispendio di truppe e risorse.

E intanto le linee di rifornimento si allungavano, a differenza di quelle del nemico, non si riusciva a contenere le perdite, il terzo o quarto assalto si impantanavano, arrivava l’inverno, si era costretti alla ritirata, il nemico rioccupava in parte o totalmente i territori persi, e si ricominciava daccapo la primavera successiva.

Aria era consapevole di dove stesse andato e dei moltissimi problemi che avrebbe dovuto affrontare, ma di certo non si aspettava una situazione così drammatica.

Dopo dieci anni le legioni imperiali avevano riconquistato meno della metà dei territori ribelli, e da almeno due l’offensiva si era di fatto arenata al limitare della regione di Falderad.

La vecchia strategia dell’attaccare a testa bassa ormai aveva smesso di portare anche i successi più limitati; le truppe erano stanche, gli ufficiali demotivati, e la convinzione che non si potesse sperare di avanzare oltre si stava facendo strada anche tra i più ottimisti.

Il secondo in comando si chiamava Oreste Flaminio, e da qualche anno era diventato uno straniero nella sua patria, da quando la sua città natale Tagrea era stata ceduta a Connelly.

Per fortuna la sua famiglia a differenza di altri nobili della stessa regione aveva preferito l’esilio alla sottomissione al Principato, altrimenti oltre ad una bellissima città l’Impero avrebbe perso anche una delle menti militari più brillanti che Aria avesse mai conosciuto.

Ma era solo il capo di una famiglia nobile minore, e per di più della provincia, pertanto nonostante i molti anni spesi sui campi di battaglia lui per primo sapeva che quella posizione era il massimo al quale avrebbe mai potuto aspirare.

Quando parlava con lui o incrociava il suo sguardo Aria quasi si vergognava al pensiero che lei un giorno avrebbe potuto salire al ruolo di Generale, mentre Oreste non sarebbe mai potuto essere più che un semplice Comandante, perennemente agli ordini di qualcuno con più titoli ma assai meno qualità di lui.

«Quanti talenti abili come il vostro sono andati persi per colpa del classismo dell’Impero?»

E Oreste non era il solo; nei pochi mesi trascorsi al fronte, Aria aveva conosciuto non meno di cinque giovani ufficiali altrettanto capaci, ma costretti dal proprio lignaggio a vestire i panni di semplici subalterni, spesso alle dipendenze di superiori che capivano di guerra come lei capiva di ricamo.

Aria apparteneva ad un mondo in cui anche ai nobili di più basso rango era possibile aspirare a raggiungere la vetta della piramide, a condizione di avere le qualità necessarie per riuscirci, e per lungo non era riuscita a spiegarsi perché anche nell’Impero non potesse essere così.

Ricordava ancora come si era sentita il momento in cui, durante l’accademia militare, aveva capito che il rispetto che tutti le portavano non derivava dai suoi meriti, ma solo dal cognome che portava, e che anche se fosse stata l’ultima della classe le cose non sarebbero state diverse.

Quindi si era imposta di essere la migliore in tutto quello che faceva; le manifestazioni esagerate di stima e le amicizie interessate la facevano arrabbiare come se non più di prima, ma almeno quando si guardava allo specchio poteva dire a sé stessa di meritare quei complimenti, per quanto ipocriti potessero essere.

Anche per questo non capiva perché essere nobili di prestigio o appartenere a qualche famiglia reale fosse l’unico requisito per poter aspirare ad una carriera promettente; perché una persona non poteva essere gratificata in funzione di quanto impegno metteva in ciò che faceva?

Ma anche se l’Imperatore sembrava stare facendo del suo meglio per permettere anche a piccoli nobili e perfino borghesi arricchiti di ritagliarsi la loro fetta negli ambienti politici, l’esercito con tutte le sue tradizioni restava un monolito impossibile da scalfire.

Anche per questo, una volta finiti gli studi, aveva scelto quella strada, piuttosto che tornare a casa e prendere il comando dell’esercito come avrebbe voluto suo padre.

Dall’ammissione della schiavitù alla corruzione tra i nobili, nel corso degli anni la sua patria aveva fatto proprie troppe cose dell’Impero che non le piacevano; e visto che Saedonia ed Eirinn ormai erano legati indissolubilmente, le cose sarebbero solo peggiorate se non fosse stato l’Impero a cambiare.

Anche lei come l’Imperatore era convinta che bisognasse procedere gradualmente, soprattutto in un posto allergico ai cambiamenti come l’esercito, così all’inizio si era ripromessa di non fare niente di avventato.

Ma ora le cose erano diverse.

Ora non si trattava più solo di provare a cambiare le cose; ora in gioco c’era il destino della sua patria.

Di colpo tutti quei propositi avevano perso importanza; tutto quello che contava era risolvere la questione coi baroni il prima possibile e rivolgere subito tutte le attenzioni al sud, prima che suo fratello malconsigliato dal loro zio facesse qualcosa di irreparabile.

Ma come fare?

Come fare per scardinare un modo di pensare e condurre la guerra vecchio di cinquecento anni che nessuno aveva voglia di rimettere in discussione?

Alla fine aveva capito che c’era solo una cosa da fare.

Ma prima di commettere un atto del genere, di cui conosceva bene le conseguenze, voleva tentare tutte le strade; non tanto perché temeva per sé stessa, quanto piuttosto per non coprire di vergogna la sua famiglia, per non parlare dell’Imperatore, che non sarebbe stato da biasimare qualora avesse deciso di rimangiarsi la sua promessa.

Quando poi, gettando il cuore oltre l’ostacolo, aveva manifestato le sue intenzioni alle persone giuste, era rimasta stupita da come la maggior parte di esse, a cominciare da Oreste, non solo non l’avessero dissuasa, ma si fossero mostrate d’accordo con lei, ammirandola per aver trovato il coraggio di fare ciò che loro avevano solo osato immaginare.

Così, alla fine, aveva preso la sua decisione.

Ma prima di passare ai fatti, voleva fare un ultimo tentativo.

Una volta a settimana il Generale Tibullo convocava il consiglio di guerra cui prendevano parte i suoi consiglieri e i comandanti delle cinque legioni al suo comando coi rispettivi subalterni.

«Generale, vi prego. Questa strategia non ci sta portando da nessuna parte, serve solo a farci perdere tempo e a sacrificare per niente i nostri soldati.»

«Sto iniziando davvero a stancarmi delle vostre rimostranze, Capitano Montgomery. Siete qui solo da qualche mese e già pretendete di sapere tutto?»

«Il nemico controlla il territorio. Lo conoscono e lo sfruttano molto meglio di noi. Ogni volta che avanziamo loro abbandonano le posizioni più esposte per riposizionarsi su quelle più favorevoli, l’offensiva si arena, noi siamo costretti a ritirarci, e anche quando la sorte ci arride guadagniamo al massimo poche miglia. Se vogliamo avere qualche speranza dobbiamo essere noi a dettare le condizioni, non loro.»

«Generale, forse dovrebbe ascoltarla.» disse Oreste. «La sua strategia potrà sembrare bizzarra, ma ha senso.»

Forte del sostegno del suo superiore, Aria incalzò.

«I Baroni si dicono uniti, ma in fin dei conti sono solo un gruppo di individualisti che pensa prima di tutto i difendere i propri possedimenti. Quando non avanziamo, ognuno di loro tiene i propri soldati vicino a sé nei rispettivi feudi. Da dove ci troviamo ora abbiamo la possibilità di lanciare offensive contro tutte le regioni che stanno tra noi e Glasnet. Un attacco coordinato lungo svariate direttrici, e non daremo ai nostri nemici tempo e modo di organizzare una difesa comune. A quel punto il Barone Severus resterebbe con solo con le truppe dei feudi orientali a sua disposizione, che anche messe insieme sarebbero pari alle nostre.»

«Dividere le mie legioni? Mi auguro che stiate scherzando! Non si è mai sentita una cosa del genere! Dovrei mettere le mie forze in mano a qualche nobile da quattro soldi figlio di un banchiere o di qualche mercante arricchito? Faremo come si è sempre fatto. Uniremo le nostre forze, avanzeremo e sconfiggeremo chiunque si metterà sulla nostra strada. Solo così si ottiene la vera gloria.»

«Solo così si è certi della sconfitta, piuttosto! Ormai l’estate sta finendo, e questa sarà la nostra ultima offensiva! Se falliamo dovremo aspettare l’anno prossimo, e queste legioni servono altrove!»

«Adesso basta, Capitano! Non mi importa se è stato l’Imperatore a mandarvi qui! Un’altra parola e vi farò sollevare seduta stante dal vostro incarico!»

Allora, si disse la ragazza, non c’era davvero altro da fare.

«Speravo di non dover arrivare a tanto, ma a quanto pare non mi lasciate scelta.»

Ad un suo cenno uno degli ufficiali fece un segnale, e subito dopo una decina di soldati entrarono nella tenda con le armi spianate circondando il Generale e i suoi fedelissimi.

«Che significa!?»

«Generale Tibullo, comandante dell’esercito. Generali Dario e Glabro, comandanti della Quarta e Sesta legione. Da questo momento vi dichiaro sollevati dai vostri incarichi, e con il consenso del Generale Oreste assumo il comando di questa operazione. Sarete posti agli arresti nei vostri alloggi fino al termine delle operazioni, quindi sarà Sua Maestà a decidere di voi.»

«Maledetta! Questo è alto tradimento! Arrestatela subito!»

Ma nessuno gli obbedì. Del resto, a parte i detti Glabro e Dario, tutti gli altri Generali avevano già le idee molto chiare su chi era più meritevole della loro lealtà.

«Portateli via.»

«Non potete farlo! Finirete tutti sul ceppo del boia! Lasciatemi!»

Tutti i Generali si affrettarono a lasciare la tenda per confrontarsi coi propri uomini e calmare gli animi, lasciando sola il nuovo comandante e il suo secondo.

«Spero che tu sia consapevole di quali saranno le conseguenze per tutti noi.»

«Hai la lista che ti avevo chiesto?»

«Stiamo già provvedendo. Entro stasera avremo arrestato tutti gli ufficiali che li sostenevano.»

«E le truppe?»

«Non preoccuparti, ci seguiranno. Ormai hanno imparato a conoscerti. E comunque sanno di non rischiare niente fintanto che obbediscono agli ordini.» poi l’attempato generale ammiccò «A condizione ovviamente che questa operazione porti i risultati sperati.»

«Convoca un nuovo consiglio di guerra per domani mattina. E da ordine di cominciare a smantellare il campo.»

«Ai vostri ordini, Comandante.»

 

Il Barone Severus era così affezionato alla propria folta barba rossa che ogni mattina passava delle ore a prendersene cura.

I suoi soldati ci scherzavano sempre sopra, e dicevano che se un giorno il Generale si fosse mostrato in pubblico con la barba incolta allora voleva dire che la sconfitta era imminente.

Dirigere e fare andare d’accordo un’accozzaglia di nobili più interessati a sé stessi che alla causa non era un compito facile, ma era anche per questo che il Consiglio dei Baroni aveva scelto lui come comandante supremo: chi meglio di un veterano della guerra con Connelly che si era visto strappare i propri successi con quella pace vergognosa poteva difendere meglio gli interessi dei separatisti e guidare le loro forze in battaglia?

Severus sapeva meglio di chiunque altro che quella non era una guerra come le altre. Era una guerra di logoramento, in cui l’unico modo per vincere era spingere l’Impero a ritenere il proseguimento delle azioni abbastanza dispendioso da non voler procedere oltre.

E poi?

Il Consiglio si era fatto tante di quelle fantasie negli anni che avere un’idea chiara di cosa avrebbero effettivamente chiesto quando l’Imperatore avesse accettato di negoziare era quasi impossibile.

Qualcuno parlava apertamente di secessione, qualcun altro proponeva un vassallaggio semi-indipendente; per ora Severus si accontentava di concludere la guerra il prima possibile, e qualcosa dentro di lui gli diceva che non ci sarebbe voluto molto.

Ormai era un decennio che quel conflitto si trascinava stancamente da un anno per l’altro, e dalle voci che giungevano dalla capitale si capiva che il Senato non era più disposto a perdere milioni di goldie in quell’impresa senza futuro.

La volontà dell’Imperatore di togliere il potere ai governatori per darlo ai nobili di Maligrad piuttosto che a sé stesso gli si stava ritorcendo contro.

Bisognava solo resistere un altro po’, forse solo un altro inverno.

Poi, tutto d’un tratto, il momento decisivo sembrò essere finalmente arrivato.

Qualche giorno prima un messaggero aveva portato la notizia che l’esercito imperiale aveva iniziato a smantellare il campo, segno che il suo comandante era determinato con quell’ultima offensiva a completare l’avanzata, o quantomeno a portarla il più avanti possibile, senza alcuna intenzione di tornare sui propri passi in caso di fallimento.

Tutte le mattine prima di colazione, e al pomeriggio durante la pausa per il tè, il Generale teneva un consiglio di guerra con i suoi due sottoposti, i Colonnelli Ofelia e Primus, per fare il punto delle campagne e pianificare le prossime mosse.

«Buongiorno, signori.» disse con la sua solita voce squillante e risoluta

«Buongiorno, pad… volevo dire, buongiorno Signor Generale.» disse rispettosamente Primus «E permettetemi di essere il primo ad augurarvi buon compleanno.»

«Apprezzo il pensiero, ma era meglio se evitavi. Serve solo a ricordarmi che sto invecchiando.»

«Buone notizie, Generale.» disse Ofelia mentre il padre infilava gli occhiali per dare un’occhiata ad alcuni rapporti. «Il nuovo carico di armi è arrivato questa notte. La distribuzione ai soldati è già in corso, e sarà completata entro oggi.»

«Ottimo. Ci vogliono bene in Volkova

«Il Gran Re è sempre contento quando qualcuno dà dei dispiaceri all’Imperatore.»

Il generale notò poi che i segnalini sulla grande mappa delle operazioni erano stati spostati rispetto al pomeriggio del giorno prima, e ne chiese conto ai suoi due figli.

«Un rapporto arrivato stanotte ci ha informati che il nemico ha iniziato ad avanzare lungo la Via Franchigia.» disse Ofelia

«Quanti sono?»

«Due legioni. Probabilmente le altre sono rimaste indietro ad ultimare lo smantellamento del campo. Le stiamo tenendo d’occhio, avremo un nuovo rapporto entro stasera.»

«Che notizie dai Baroni Melk e Ortis?»

«Hanno lasciato i rispettivi domini con i loro eserciti e si stanno muovendo come ordinato.» rispose Primus «Se il tempo non li rallenta arriveranno alla Valle di Falken entro quattro giorni.»

Non era la prima volta che la valle diventava il campo di battaglia dell’ennesimo scontro tra le truppe dei Baroni e l’esercito imperiale, e Severus trovava quasi riprovevole che anche dopo tutte quelle sconfitte il nemico si intestardisse a voler passare da lì. Tutto perché era la via più rapida verso il cuore del dominio ribelle.

«A quanto pare sarà un’altra facile vittoria.»

«Non essere troppo sicuro di te, figliolo. Ogni battaglia è unica, e non è detto che le cose vadano sempre allo stesso modo. Inviate dispacci anche ai Baroni Eraclio e Udrecht. Che radunino le loro forze e si preparino ad una eventuale avanzata.»

«Vi aspettate una resistenza superiore?» chiese Ofelia

«Non voglio correre rischi.»

 

Da buon soldato il Barone Severus detestava le occasioni formali, ma non poteva certo rifiutarsi di presenziare al ricevimento per il proprio compleanno.

Quella sera nel palazzo di Glasnet si era radunata quasi tutta la meglio nobiltà ribelle, o almeno quella che non doveva preoccuparsi di difendere i propri feudi dall’ennesima avanzata dell’esercito imperiale.

Per la prima volta dopo tanto tempo regnava l’ottimismo, la convinzione che se fossero riusciti a resistere ancora uno, massimo due anni, allora finalmente le loro rivendicazioni sarebbero state ascoltate.

Nella sala da ballo, ognuno degli invitati spendeva il tempo come più gli aggradava, chi danzando, chi conversando, chi dando fondo alle pietanze.

L’ospite d’onore cercava di svicolare ad ogni possibile occasione, intrattenendosi a parlare solo con altri ufficiali e condottieri; Ofelia, in uniforme e con la spada alla cintura, risultava accattivante e minacciosa allo stesso tempo; Primus metteva a frutto le sue doti di inguaribile sciupafemmine corteggiando una giovane dietro l’altra.

Sembravano esserci tutte le premesse per una serata incantevole e serena, allietata dalla musica, dal cibo e dalla spensieratezza.

E invece, per molti di loro quello sarebbe stato l’ultimo momento felice della loro vita.

Il primo a notare l’arrivo dell’esploratore capo, esausto, coperto di fango e pioggia e con l’espressione sconvolta, fu lo stesso Severus, che aspettava solo l’occasione buona per poter svicolare.

Pochi minuti dopo Primus venne interrotto dalla sorella nel bel mezzo di una danza.

«Nostro padre ha convocato il consiglio d’urgenza. Dobbiamo andare subito.»

Ma intanto la notizia aveva già fatto il giro degli invitati, ed era una notizia di quelle capaci di sconvolgere anche la persona meno interessata alle sorti della guerra.

«Le armate del Baroni Melk e Ortis sono state intercettate lungo la strada per Falken.» disse il messaggero dopo che il Generale e i suoi figli si furono appartati in una stanzetta accanto alla sala da ballo. «Il nemico li ha sorpresi in ordine di marcia e li ha sbaragliati. Il Barone Melk è finito in mani nemiche, il Barone Ortis invece è caduto in battaglia.»

In un colpo solo la ribellione aveva perso due dei suoi capi più autoritari e simbolici.

Ma la cosa davvero sconvolgente era il modo in cui quella sconfitta era maturata.

Già non era normale che un’armata procedesse separatamente, ma in mille e più anni di storia le campagne militari erano sempre state decise da un’unica battaglia, con due generali uno di fronte all’altro alla testa dei rispettivi eserciti.

Da quando in qua un Generale imperiale aveva così tanta fiducia nei suoi uomini da affidare loro non solo il compito di marciare separatamente, ma addirittura di attaccare per conto proprio?

«A che punto è Virilus? Ci sono notizie di lui?»

Il Barone Virilus era il signore delle terre in cui sorgeva la Valle di Falken, ed era anche il più caro amico e collaboratore del Generale, uno degli iniziatori assieme a lui della rivolta a cui altri si erano successivamente aggiunti.

«A quest’ora dovrebbe aver già raggiunto la valle.» disse Ofelia

«Mandategli subito un messaggero per avvisarlo dell’accaduto. Ditegli che deve fortificare la valle con tutto quello che ha. E ditegli che lo raggiungeremo entro cinque giorni.»

«Sissignore.»

«Inviate messaggeri in ogni provincia. Voglio tutti i Baroni qui a Glasnet domani sera per un consiglio generale.»

Mandati via gli ospiti Severus andò quindi a dormire, lasciando ordini perentori di svegliarlo qualora fossero arrivate altre notizie importanti.

Ma una notizia importante arrivò solo la mattina dopo, mentre il Generale e i suoi figli facevano colazione; ed era una notizia che non avrebbero mai voluto ricevere.

«Il Barone Virilus è morto, Generale! Il nemico lo ha sorpreso a Falken nella notte, mentre stavano ancora approntando le difese!»

«Ma com’è stato possibile!?» sbraitò Primus, ormai convinto come la sorella di trovarsi in un brutto sogno. «Gli ultimi rapporti dicevano che il nemico era ad almeno trenta miglia di distanza dalla valle! Come hanno fatto ad arrivare lì così in fretta?»

«Devono aver marciato anche di notte.» disse cupamente Severus. «Ed essendo solo due legioni la loro avanzata è stata molto più agile.»

I loro peggiori incubi stavano diventando realtà.

In dieci anni le legioni imperiali non erano mai andate oltre la Valle di Falken, né erano riuscite ad uccidere nessuno dei capi della rivolta. Questo nuovo comandante, chiunque fosse, aveva ottenuto in tre giorni quello che i suoi predecessori non avevano ottenuto in un decennio.

E non era ancora finita.

Come Severus temeva la lealtà di molti Baroni era tutto fuorché certa; fu così che prima ancora di mezzogiorno molti altri esploratori giunsero con la notizia che pressoché tutti i Baroni delle regioni più occidentali si stavano arrendendo uno dopo l’altro senza neanche combattere, lasciando l’esercito imperiale libero di avanzare senza ostacoli lungo tre diversi fronti.

Quella sera, al consiglio generale tra tutti i comandanti ribelli, oltre al padrone di casa c’erano appena cinque Baroni seduti al tavolo; Lady Ottavia, Lord Dias, e i Generali Vorenus, Brenicus e Abelardo.

«Inutile prenderci in giro, amici miei. La situazione è drammatica. Quasi tutte le province più a ovest sono cadute o si sono arrese, e al momento il nemico avanza senza incontrare praticamente resistenza.»

«Sono solo un branco d’idioti se si illudono che l’Imperatore avrà pietà di loro.» disse Vorenus. «Quando abbiamo preso in mano la spada sapevamo bene che questa strada poteva portarci solo alla vittoria o al patibolo.»

«Vorrei sapere perché hanno aspettato tanto per scagliarci contro questo Generale.» disse Abelardo «Sappiamo almeno di chi si tratta?»

«Ho sentito delle voci secondo cui ci sarebbe una donna alla guida dell’esercito.» disse Brenicus «La figlia del Granduca di Eirinn, a quanto dicono.»

«Che cosa facciamo, Severus? Ormai l’esercito imperiale è quasi giunto ai confini della mia provincia.»

«Tranquilla Octavia, non ti abbandoneremo. Vi prometto che non procederanno oltre nella loro avanzata.»

«A cosa stai pensando?» chiese Dias

«Il nemico attualmente sta avanzando lungo tre direttrici. Ma tutte le strade che stanno percorrendo convergono qui. E questo è un passaggio obbligato, visto che da qui si controlla il ponte che passa sull’Asmar. Senza questo ponte il nemico dovrebbe spingersi molto più a nord per poter oltrepassare il fiume, perdendo tempo. Questa pianura sarà ideale per lo scontro. La foresta impedirà l’accerchiamento, e da questa collina domineremo il campo di battaglia.»

«Se tengono quest’andatura saranno lì in meno di una settimana.» disse Abelardo «Saremo in grado di organizzare le difese in così poco tempo?»

«Abbiamo già a disposizione trentacinquemila uomini. Siamo in inferiorità numerica, ma non sarebbe certo la prima volta. Vorenus, quanto tempo ti ci vorrebbe per radunare le tue forze?»

«I miei quindicimila soldati come sai sono quasi tutti volontari e coscritti. Visto che tra poco ci sarà la vendemmia li avevo mandati a casa per occuparsi dei campi. Per richiamarli, riarmarli e portarli a ovest…»

«Puoi farcela ad essere lì entro una settimana?»

«Sicuramente.»

«Allora è tutto nelle tue mani, amico mio. Noi andremo lì, prenderemo possesso della pianura e ci prepareremo alla battaglia. È vitale che tu ci raggiunga in tempo.»

«Conta su di me, non ti deluderò.»

«E voialtri, preparatevi. Voglio fino all’ultimo soldato disponibile. Se necessario armate anche gli schiavi e promettetegli la libertà in caso di vittoria. Io l’ho già fatto con i miei. Dobbiamo vincere solo quest’ultima battaglia. Se riusciamo a sopravvivere anche a questo, allora vorrà dire che Gaia è davvero al nostro fianco, e a quel punto neanche l’Imperatore potrà più negalo.»

 

La valle dell’Asmar, era il punto in cui la catena montuosa di Galath che segnava il confine nordorientale tra l’Impero e il Granducato di Eirinn si diradava in un susseguirsi di vaste pianure, intervallate lungo il corso del fiume da campi coltivati e fitte foreste.

Era un fiume impetuoso, difficile da oltrepassare, quindi ogni attraversamento di grandi dimensioni era un tesoro da difendere a tutti i costi.

Dal colle che dominava il campo di battaglia Severus poteva vedere alle sue spalle il grande ponte di pietra da cui erano passati e a sinistra il piccolo villaggio di Hoselveck.

Come previsto dagli esploratori le tre armate erano confluite nella pianura tramite altrettante strade da est, nord e sud, arrivando con sconvolgente coordinazione attorno a mezzogiorno del settimo giorno e fissando il loro campo a circa due miglia di distanza.

I soldati erano sicuramente esausti per la lunga marcia, che doveva essere stata interrotta solo per combattere o per brevi momenti di riposo, e lo scoppio di un temporale era stato per il nemico un motivo ulteriore più che valido per posticipare la battaglia al giorno dopo.

Tanto meglio, si era detto Severus, visto che Vorenus in questo modo avrebbe avuto sicuramente tutto il tempo per arrivare con i rinforzi.

Al sorgere del sole, al termine di una notte che il Generale spese dormendo il più piacevole sonno della sua vita, le due parti si posizionarono sul campo di battaglia pronte allo scontro.

Severus aveva disposto le sue truppe su due linee, con i veterani davanti al centro al comando del figlio e i soldati più giovani schierati subito dietro, guidati da sua figlia. Il Generale Abelardo comandava l’ala sinistra, mentre sulla destra era schierata la cavalleria di Brenicus, inclusi duemila dei famigerati cavalieri nordici, in cui Severus riponeva grandi speranze. Le riserve coscritte dei Baroni Octavia e Dias completavano lo schieramento.

L’esercito imperiale rispondeva con una formazione a dir poco atipica, nella quale quello che saltava immediatamente all’occhio era che il comandante nemico aveva schierato solo quattro legioni, rendendo la differenza numerica assai più contenuta rispetto a quanto previsto.

Effettivamente per tutto quel tempo i rapporti degli esploratori avevano parlato sempre di sole quattro legioni in movimento –la quarta, la quinta, l’ottava e la nona rispettivamente–, mentre la settima sembrava come scomparsa nel nulla. E le cosa ovviamente inquietava Severus, che temendo di vedersela comparire dal nulla da un momento all’altro aveva preferito tenersi da parte più riserve del solito, pronte ad essere schierate appena fosse stato necessario.

Aria dal canto suo aveva schierato la nona legione a sinistra, la quinta e la sesta al centro, la cavalleria tra il centro ed il fianco e la nona a sinistra. Concludeva il tutto una nutrita schiera di ausiliari e mercenari a fare da riserve.

«Perché ha schierato i veterani della quarta su un fianco e le reclute della nona dalla parte opposta?» si chiese giustamente Severus. «Se la nostra cavalleria dovesse riuscire a sfondare, quel fianco sarebbe esposto.»

C’era sicuramente qualcosa sotto, tant’è che il Generale rinunciò subito all’idea di dare inizio alla battaglia con una prima carica di cavalleria leggera come era sua abitudine.

Narrare lo scontro tra eserciti che si affrontavano secondo la dottrina militare di Saedonia non era sicuramente il sogno di un novellista; niente assalti di barbari che si lanciavano come una mandria di bufali contro le ordinate linee imperiali, accolti da lanci di frecce e decimati dalle armi da assedio, niente cariche eroiche che assestavano il colpo di grazia.

Era uno scontro logorante e faticoso, con due linee di fanti che si affrontavano in formazione serrata fino a che una delle due cedeva alla pressione e si ritirava, cedendo il posto a quella subito dietro. Il primo comandante che esauriva le linee, o la cui cavalleria andava in rotta permettendo a quella avversaria di attaccare il fianco, o le cui ali cedevano lasciando il centro sguarnito aveva perso.

Tutto qui. Al massimo ci si poteva mettere un po’ di strategia per cercare di massimizzare i propri sforzi, ma alla fine era essenzialmente l’esperienza a determinare il vincitore.

Ma evidentemente, pensava Severus, la signorina Montgomery doveva aver saltato quella lezione all’accademia, altrimenti avrebbe schierato i veterani della quarta al centro invece che su di un lato.

Alle nove del mattino la battaglia ebbe inizio.

E contrariamente a come era abitudine per i vecchi comandanti –ad eccezione di Severus ovviamente– fu la cavalleria ad aprire le danze, avanzando al trotto seguita appresso dalla nona e dalla sesta e formando così una sorta di punta di freccia puntata contro il fianco dello schieramento nemico.

Anche il resto dell’esercito imperiale si mosse di lì a breve, in una sorta di linea obliqua con il fianco destro più avanzato di quello sinistro sinistro, una grossa fetta di ausiliari a supporto di quest’ultimo e la restante parte, sicuramente veterani, a chiudere il varco al centro.

Neanche un pazzo avrebbe portato avanti il suo intero esercito senza tenersi da parte almeno un po’ di riserve; Aria, pensò Severus, doveva essere molto intraprendente o molto incosciente per commettere una tale imprudenza.

Ableardo comandò ai suoi uomini di restare fermi ad aspettare l’urto, facendo scagliare raffiche di frecce appena i nemici furono abbastanza vicini. Nel momento in cui il trotto divenne una carica i soldati alzarono le lance, e anche se ci voleva ben altro per impensierire i cavalli e i cavalieri imperiali quel muro acuminato riuscì a restare compatto, assorbendo l’impatto della cavalleria e successivamente quello della fanteria senza sfaldarsi e impegnando il nemico nel corpo a corpo.

I veterani della Quarta Legione rischiavano però di essere una gran brutta gatta da pelare persino per Ableardo e i suoi uomini, così quando la sua linea non sembrò in grado di contrastare l’assalto senza perdere terreno Severus ordinò ad Ofelia di andare a dar loro supporto con metà del centro.

La manovra, pur non riuscendo nel tentativo di prendere il nemico sul fianco, sortì però l’effetto sperato, e pian piano la linea imperiale sembrò perdere coesione, prima arrestandosi e quindi iniziando persino a cedere, arretrando di alcuni metri.

Per evitare che gli ausiliari veterani potessero portare supporto e nel mentre chiudere anche il varco apertosi nel centro, il vecchio Generale ordinò anche a Primus di avanzare; e il giovane, che non aspettava altro, si scagliò assieme ai suoi uomini contro il nemico come un toro infuriato, dando prova ancora una volta del suo coraggio e del suo talento come guerriero.

«Per il momento abbiamo arrestato l’avanzata. Continuiamo a spingere.»

«Cosa facciamo sul fianco destro?»

Da quella parte le truppe imperiali avevano gradualmente rallentato l’avanzata, forse perché spaventate dal fatto che sia al centro che sulla destra i loro compagni apparivano in difficoltà.

«Non sono una minaccia per ora, e stanno marciando in formazione serrata con i picchieri in prima fila. Attaccarli adesso non farebbe altro che danneggiare la nostra cavalleria. Inoltre da dove si trovano possono bloccare facilmente un attacco sui fianchi del centro. Dite a Brenicus di restare fermo.»

Peccato che Brenicus fosse un tipo irruento e focoso tanto quanto i suoi cavalieri, che non ci pensava minimamente a rinunciare alla sua parte di gloria in quell’epico scontro.

Così, alla vista delle legioni che dopo aver perso tutto lo slancio sembrarono iniziare persino ad arretrare, non ci pensò due volte a fare un’altra delle sue famose mattate.

«Suonate la carica!»

«Ma Generale, non abbiamo ricevuto ordini.»

«Al diavolo gli ordini, basta un ultimo colpo e quella massa di rammolliti scapperanno come tanti conigli! All’attacco, miei prodi! Il nemico è davanti a noi!»

Naturalmente Severus non fu per nulla felice di vedere tutti i cavalieri del suo esercito partire all’attacco senza autorizzazione, lasciando il fianco destro completamente sguarnito.

«Maledetta testaccia di legno!»

L’arrivo di una simile carica avrebbe fatto scappare chiunque, ma pur essendo in buona parte giovani reclute con poca esperienza, incredibilmente, le truppe imperiali rimasero salde.

I picchieri piantarono saldamente le armi nel terreno, formando una selva di punte contro cui molti cavalli andarono ad impalarsi assieme ai loro cavalieri. Quindi, una volta assorbito adeguatamente l’urto, le tre linee che procedevano una dietro l’altra si aprirono come un ventaglio, creando una sacca in cui Brenicus e i suoi uomini, pur riuscendo a non essere circondati, si ritrovarono a venire attaccati su tre lati.

Ma i cavalieri nordici non si erano guadagnati la loro fama di diavoli a cavallo senza una ragione; la loro esperienza, nonché apparente assenza di paura permise loro, malgrado la situazione, non solo di resistere, ma addirittura ad un certo punto perfino di prevalere, iniziando a spingere con forza il nemico sempre più indietro fin quasi alle sue posizioni di partenza.

Sarebbe bastato che una sola delle tre unità impegnate in combattimento andasse in rotta per lasciare Aria e il suo stato maggiore pericolosamente scoperti. Ma nonostante ciò la giovane Montgomery non sembrava intenzionata a spostarsi su posizioni più sicure, rimanendo immobile ad osservare lo svolgersi della battaglia circondata dai suoi uomini.

«Ha fegato. Questo glielo concedo.»

La situazione si era quindi capovolta, coi ribelli che spingevano e le legioni imperiali che cercavano di mantenere la posizione.

E proprio in questo momento arrivò una notizia più che gradita.

«Generale, alcuni abitanti del villaggio dicono di aver visto truppe in arrivo da nord-est!»

«Finalmente Vorenus è arrivato. Inviategli un messaggero. Appena arriva deve attaccare subito il  fianco destro nemico.»

«Sì, Generale!»

«È un’occasione perfetta, Severus. Mandiamo avanti le riserve.»

«Niente affatto, Dias

«Ma…»

«C’è ancora una legione là fuori di cui non sappiamo niente. Per quanto ne sappiamo potrebbe sbucare fuori ovunque e in qualunque momento.»

«I nostri esploratori non ci hanno riferito niente.» disse Octavia. «Potrebbero persino essere a miglia da qui.»

«Non intendo restare a corto di uomini se prima non avrò una chiara idea di cosa posso aspettarmi. Si tratta solo di pazientare qualche altra ora, finché non arriverà Vorenus

Così la situazione rimase sostanzialmente in stallo, con le forze ribelli incapaci di assestare il colpo finale e le legioni troppo provate dall’avanzata e dallo scontro prolungato per riguadagnare terreno.

Severus dal canto suo non sapeva come comportarsi; la logica suggeriva di sfruttare il momento e mandare avanti le riserve per spingere ulteriormente, ma l’istinto d’altro canto gli diceva di aspettare, preoccupato com’era che quella testa matta di cui aveva sentito così tanto parlare avesse qualcos’altro in serbo per loro.

Purtroppo neanche nei suoi incubi peggiori avrebbe potuto prevedere quello che Aria aveva in mente.

Anche se la Volkova finanziava generosamente le attività dei ribelli, e gli stessi Baroni non erano sicuramente dei poveracci, armare ed equipaggiare decine di migliaia di uomini di certo non costava poco.

Capitava così molto spesso che gli eserciti ribelli fossero equipaggiati in modo molto disomogeneo, a volte riutilizzando le stesse uniformi imperiali a cui venivano semplicemente staccate le insegne.

Ecco quindi che specialmente per dei contadini poco abituati a veder passare dei soldati fosse facile scambiare una vera legione imperiale per soldati alleati, soprattutto se non portava insegne.

La verità era che Vorenus e i suoi uomini, già il giorno prima, erano stati sorpresi, assaliti e spazzati via nel bel mezzo della marcia; la Settima Legione si era mossa con una velocità mai vista prima, guadando il fiume più a nord e spostandosi attraverso i boschi per piombare sul nemico quando questi meno se l’aspettava.

Che i contadini e la gente del posto li avessero confusi per truppe ribelli dirette verso la battaglia era solo una coincidenza molto fortuita e molto gradita, che ebbe l’unico effetto di palesare quanto stava accadendo quando ormai era troppo tardi.

«Non è Vorenus!» esclamò Severus alla vista dei nuovi arrivati che apparsi da oltre il colle si apprestavano ad attraversare il ponte. «È il nemico!»

Prima ancora che si potesse pensare di fare qualcosa la Settima Legione aveva già oltrepassato il fiume e si preparava ad entrare in battaglia.

Tutto quello che Severus poté fare fu ordinare a metà delle sue riserve di correre subito in aiuto del fianco sinistro prima che questi potesse venire attaccato alle spalle. Effettivamente la manovra riuscì e la situazione rimase tutto sommato sotto controllo, ma la cosa davvero drammatica era che ora la principale via di fuga in caso di sconfitta era stata tranciata.

E purtroppo non servì molto prima che anche i soldati in battaglia se ne rendessero conto, con tutte le inevitabili conseguenze; alla baldanza fece posto la paura, la fiducia nella vittoria divenne timore di sconfitta.

Così la situazione si capovolse nuovamente, e con la sola eccezione della cavalleria di Brenicus tutto il resto del fronte ribelle ricominciò a indietreggiare, mentre le truppe imperiali diventavano sempre più audaci.

Se non altro quasi tutti i soldati ribelli erano veterani, che conoscevano la posta in gioco e che erano disposti a combattere fino alla morte se necessario, ben sapendo cosa poteva succedere a chi veniva catturato se quel giorno il comandante nemico fosse stato di cattivo umore.

La battaglia rischiava di congelarsi, tornando ad essere uno scontro di attrito in cui era la volontà a prevalere.

Occorreva un colpo risolutivo.

Che puntualmente arrivò.

Arrivò nella forma di due grandi unità di cavalleria, che apparvero quasi dal nulla sul campo di battaglia alla destra di Severus sotto il comando di Oreste in persona.

Il Generale non poteva saperlo, ma quelle unità si erano staccate dall’armata già da diversi giorni, e seguendo alla lettera gli ordini avevano compiuto un lungo giro, portandosi a est del campo di battaglia giungendo sul posto persino prima dell’arrivo dei due eserciti; e una volta qui avevano atteso, ben nascoste dietro ad un colle boscoso, l’ordine di attaccare.

Ad uno squillo di trombe, gli oltre mille cavalieri si scagliarono prepotentemente sia contro la cavalleria di Brenicus, colpendola alle spalle, che addosso alle poche riserve rimaste a disposizione di Severus, travolgendole prima che potessero provare a reagire.

A quel punto, le conseguenze furono rapide e inevitabili.

Sempre più spaventati e confusi, tutti i settori dello schieramento imperiale persero coesione, lottando disperatamente non più per vincere ma solo per cercare di salvarsi fino a ritrovarsi isolate le une dalle altre.

Sulla sinistra, le riserve subirono un aggiramento da parte della Settima Legione, finendo a lottare schiena contro schiena con loro compagni fino a ritrovarsi completamente accerchiati.

A sinistra, la cavalleria continuò a lottare strenuamente, ma incalzata da tutte le direzioni subì uno stillicidio che si trasformò in fuga disperata nel momento in cui i soldati videro Brenicus tirato giù da cavallo e finito a colpi di lancia.

Solo il centro resisteva, ispirato da Primus, e sembrava che nonostante tutto quella parte del fronte potesse resistere un altro po’, magari ispirando con il suo esempio anche tutti gli altri.

Non fosse altro che a quel punto, quasi a voler chiudere la questione una volta per tutte, Aria fece una cosa che nessun altro generale prima di lei aveva fatto negli ultimi duecento anni; sguainata la sciabola, sventolando contemporaneamente la bandiera imperiale e il vessillo di famiglia, si lanciò personalmente alla carica.

Primus e i suoi uomini vennero travolti e tranciati come erbacce dalla falce, e fu Aria in persona a decapitare con un colpo preciso il comandante avversario per poi puntare dritta verso il cuore dello schieramento nemico.

Isolato, con il suo esercito disperso o in rotta, con negli occhi l’immagine del figlio morto in combattimento, il vecchio Generale non ebbe altra scelta. Nello stesso momento in cui Dias si piantava il pugnale nel petto e Octavia ingeriva il contenuto del suo anello, la bandiera ribelle venne ammainata, e prima ancora che la carica di Aria potesse raggiungerli Severus e la sua guardia avevano già deposto le armi.

E così, la Battaglia di Hoselveck era conclusa.

Un’operazione durata dieci giorni aveva messo fine ad una guerra civile che andava avanti da dieci anni.

Il simbolo della Famiglia Montgomery era un’aquila bifronte. Per questo, nel giro di pochi giorni, in ogni angolo dell’impero tutti avrebbero parlato solo di lei: dell’Aquila dell’Eirinn.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Come promesso eccomi di ritorno a circa un mese di distanza con il quarto volume di questa mia light novel.

Ho voluto aspettare più tempo di quanto inizialmente previsto per mettermi in pari con la pubblicazione della versione inglese su wattpad, pertanto da ora in poi le storie dovrebbero essere rilasciate in contemporanea.

Con questo quarto volume la storia mette definitivamente il turbo, gli eventi inizieranno a susseguirsi con una certa rapidità e si andrà nel vivo dell’azione nel vero senso della parola.

A onor del vero, a circa metà di questo volume vi sarà una importante digressione che potrebbe aprire la strada a degli sviluppi inaspettati, ma ve ne parlerò meglio al momento opportuno.

A presto!^_^

Cj Spencer

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 - IL PRIMO PASSO ***


 

“Un governante dovrebbe mantenere le promesse

solo quando gli portano un guadagno.”


 

CAPITOLO 2

IL PRIMO PASSO

 

 

Tutti i nobili amavano il tè.

Era la bevanda dei ricchi e dei colti, costosissima da importare e da comprare, e la lontana terra di Maharadi aveva costruito la propria ricchezza sul suo commercio.

Ma Daemon era diverso.

Lui apprezzava un’altra bevanda, più densa e scura, originaria del Torian; era amara, ma in modo spiacevole, ma a lui non importava, e anzi diceva che più era forte e più gli dava sollievo, perché gli permetteva di stare sveglio a lungo ad occuparsi dei suoi molti compiti.

La gente dell’Impero e non solo trovava quella roba così sgradevole al gusto da non averle mai neanche dato un nome, così gliene aveva dato uno lui.

«Chi ha preparato questo caffè, una salamandra ubriaca?» protestò sorseggiandone un po’ nel bel mezzo della riunione. «D’accordo che lo apprezzo forte, ma così è praticamente bruciato.»

Non che qualcuno gli stesse prestando attenzione; erano tutti troppo impegnati a discutere tra di loro.

Una settimana dopo la vittoria di Mistvale la situazione era sostanzialmente congelata; il nemico, che nel mentre aveva anche ricevuto rinforzi, era ancora trincerato a Grote Muren, e non sembrava avere alcuna intenzione di andarsene da lì.

I contatti con l’esterno ormai erano ridotti al solo ponte sullo Jesi, ma il perdurare dello stato di guerra pesava in modo sempre più pesante sui commerci e sulla fiducia dei mercanti per il futuro dello Stato Libero.

Occorreva una soluzione, ed era proprio su questo che anche dopo sette giorni di discussioni l’Assemblea non riusciva ancora a mettersi d’accordo, con gli interventisti da una parte capitanati da Oldrick e gli attendisti dall’altra raccolti attorno a Mary.

Ormai la sala delle riunioni del municipio di Basterwick era diventata un’arena per i combattimenti.

«Non riesco a capire perché proprio voi, lady Wallace, vi ostiniate a voler lasciare le cose come stanno.» disse Oldrick «In quanto ministro dell’economia dovreste essere la prima a comprendere la gravità della situazione.»

«Questo non giustifica ciò che volete fare.» disse Rutte. «Invadere Eirinn sarebbe una follia!»

«E che cosa dovremmo fare? Aspettare che ci attacchino di nuovo?»

«Sono d’accordo con il Governatore Tielde.» disse Lyrney, avvocato e Ministro della Giustizia. «Quella scheggia impazzita di Victor la conosciamo tutti. Se suo padre ha fatto di tutto per non doverlo designare come successore ci sarà pure un motivo.»

«Una cosa è sicura, questa situazione non può continuare.» disse Borg. «La tensione politica e l’indecisione sono più dannose della guerra, e i mercanti amano questo Paese soprattutto perché qui le decisioni si prendono in fretta. Se aspettiamo ancora molti di loro se ne andranno.»

«State parlando di un’invasione in piena regola!» esclamò Zorech con insolita veemenza. «Non importa come la vogliate definire, la sostanza non cambia.»

«Messer Zorech ha ragione.» disse Mary. «Abbiamo creato tutto questo con la speranza di dare a tutti i nostri amici un futuro migliore. Ma la guerra non porta un futuro migliore, solo lutti e miseria.»

«Non l’abbiamo voluta noi questa guerra, ragazza mia. D’altronde se non facciamo niente, lo Stato Libero potrebbe cessare di esistere. Vuoi davvero tornare indietro a quello che c’era prima? Io no di certo.»

«Il ministro Passe ha ragione.» disse Adrian. «E anche se condivido il tuo pensiero Mary, quello in cui viviamo non è il mondo delle favole. Non siamo stati noi ad iniziare questa guerra, ma possiamo decidere come farla finire.»

«Abbiamo dimostrato la nostra forza. Ora sanno che possiamo difenderci. Forse se accettassimo di negoziare…»

«Negoziare? Con Victor?» disse Tielde «Se avesse voluto negoziare l’avrebbe già fatto, invece solo ieri sono arrivati alla fortezza altri duemila uomini. Mi sembra chiaro che si sta preparando a riprovarci.»

«E noi lo respingeremo ancora e ancora, se sarà necessario.» disse Rutte «Ma se attacchiamo Eirinn diventeremo noi gli invasori. Questo andrebbe contro a tutto ciò che è scritto nella nostra dichiarazione di indipendenza. Noi difendiamo il diritto alla libertà, non lo minacciamo.»

«Il problema è che quando si ha a che fare con chi non vuole sentire ragioni, la violenza è l’unica risposta possibile.» rispose funereo Adrian. «D’altra parte non rispondere ad un’invasione così plateale e in spregio ad ogni trattato ci farebbe apparire deboli.»

«Eirinn tutto sommato è un pesce piccolo.» incalzò Oldrick «Vi ricordo che abbiamo l’Unione a sud e l’Impero a nord. Mostrarsi indolenti sarebbe come ammettere che qualsiasi atto di aggressione contro di noi non avrebbe alcuna conseguenza. Se passa questo messaggio, presto altri potrebbero decidere di fare la loro mossa.»

Daemon, che per tutto quel tempo non aveva aperto bocca, si alzò in piedi, e a quel punto tutti si zittirono.

«La guerra è un inferno. Ma è anche una maledizione. Gaia, nella sua infinita saggezza, ne ha fatto un trionfo dell’orrore proprio perché in caso contrario gli uomini si divertirebbero troppo a praticarla. E l’ultima cosa che volevo quando ho dato vita alla Rivoluzione era vedere la nostra nazione trascinata in un conflitto che non ha voluto. D’altronde però ci sono delle occasioni in cui l’utilizzo della forza è giustificato, e talvolta garantire il bene di una nazione significa anche annichilire chi ha dimostrato di essere una minaccia per lei.»

«Daemon…» disse Zorech come se non volesse credere a ciò che stava sentendo

«La vittoriosa difesa della nostra terra ha dimostrato a tutti la nostra forza. Ora è tempo di mostrare la nostra risolutezza. Manderemo un messaggio forte e chiaro, e tutti d’ora in poi sapranno che attaccarci o minacciarci avrà delle conseguenze.»

«Sei davvero sicuro che non ci sia altra soluzione?»

«Mi dispiace, Mary. So che per te non deve essere una decisione facile, e non ti biasimo se non sei d’accordo con me. Ma è la nostra sopravvivenza ad essere a rischio, e non solo perché Victor potrebbe attaccarci ancora da un momento all’altro. Come ha detto Borg, questa guerra potrebbe distruggere la nostra economia. Eirinn è la nostra porta verso l’oriente. Anche se non dovessero attaccarci ancora, saremo destinati alla rovina se quelle rotte commerciali non dovessero essere riaperte al più presto. Per questo, chiedo all’Assemblea di autorizzare l’inizio di una campagna militare contro Eirinn.»

«Eirinn è un alleato dell’Impero.» disse mestamente Rutte. «Se lo attacchiamo sarebbe come dichiarare guerra allo stesso Ademar

«Vi ricordo che quella che occupiamo è una terra che formalmente appartiene proprio all’Impero. Francamente dubito che i nostri rapporti con loro potrebbero essere peggio di così. Dico bene, Daemon?»

«Dici benissimo, Tielde. Sappiamo tutti che prima o poi l’Impero si muoverà contro di noi, ed è molto probabile che questa decisione li spingerà ad agire. Ma come ho detto, a volte proteggere una nazione significa anche dover correre dei rischi. Allora? Qual è la vostra decisione?»

Per la prima volta in cinque mesi la votazione non si concluse con una decisione unanime, anche se alla fine fu solo Zorech ad esprimere un voto contrario.

«Vi ringrazio per la vostra fiducia. Voglio precisare che non è mia intenzione reclamare terre che non siano già nostre, e qui davanti a voi mi impegno a cessare le ostilità nel momento in cui il nemico deciderà di negoziare.»

«C’è solo un problema.» disse Adrian. «Victor e il suo esercito controllano ancora Grote Muren, e l’impegno che ci abbiamo messo per ammodernare quella fortezza ora ci si ritorce contro.»

«Ha ragione.» disse Oldrick. «Rischiamo di subire perdite considerevoli fin da subito attaccando la fortezza frontalmente, visto che il Passo di Gael sarà sicuramente ancora troppo bloccato per oltrepassarlo agilmente.»

«Qualcosa ci inventeremo. Nel frattempo voglio quanto prima un resoconto dettagliato dello stato delle nostre forze. Contate fino all’ultimo uomo di cui disponiamo, e assicuratevi che tutti abbiano armamenti e vettovaglie a sufficienza. Naturalmente il bando su saccheggi e razzie resterà valido, e chiunque trasgredirà pagherà con la forca.»

 

Chiusa nella sua cella, Athreia aveva avuto tanto tempo per pensare.

E i suoi non erano certo pensieri felici.

Anche se si sforzava di credere che ciò che le era stato detto non poteva essere vero, le parole di Scalia su quanto accaduto su quella montagna le martellavano incessantemente la testa togliendole la fame, il sonno e la ragione.

Come era solita fare in situazioni come quella cercava di mantenere il controllo con la meditazione o l’esercizio, ma nessuna di queste cose era facile da fare chiusa in un buco dove a stento riusciva a muovere qualche passo.

Se non altro origliando i discorsi delle guardie aveva capito, o forse aveva voluto convincersi di aver capito che sua sorella era sopravvissuta anche alla battaglia di Mistvale, e questo serviva a darle almeno un motivo per voler restare in vita.

Ma i giorni passavano, e sembrava che a nessuno importasse più niente di lei.

Poi una sera la porta della cella si aprì; in un primo momento pensò fossero la guardia e il secondino che le portavano da mangiare e non interruppe nemmeno la propria meditazione, salvo accorgersi che il passo di uno dei due era troppo leggero per appartenere a quel canide scontroso e al suo amico cinghiale.

«Lei viene con me. E naturalmente tu non ne sai niente, sono stato chiaro?»

«Sì Daemon, non preoccuparti.»

Come se stesse accompagnando un’amica piuttosto che una prigioniera Daemon guidò Athreia fuori dalle prigioni.

«Ormai ti sarai ripresa, suppongo.» disse il ragazzo montando a cavallo «E se vuoi un consiglio, evita di fare scherzi. Dovresti averlo capito che sarebbe inutile, inoltre ci sono pattuglie e soldati ovunque, quindi non andresti lontano.»

E Athreia, accondiscendente in un modo che sorprese perfino lei, fece come le era stato detto, accodandosi al suo carceriere nella loro silenziosa marcia verso le porta della città. In giro non si vedeva anima viva, e attorno a loro tutto era immerso nel silenzio della notte.

«Abbiamo imposto il coprifuoco dopo il tramonto. Non avevo voglia di dare troppe spiegazioni a Scalia o a qualche altro di quei rompiscatole dei miei consiglieri. Ma anche se qualcuno dovesse vederti, finché sei con me puoi stare tranquilla.»

E in effetti nessuno, neanche i soldati che facevano la guardia alle porte, fecero domande, permettendo al loro comandante di andarsene portandosi dietro la prigioniera senza dire una parola.

Lasciata la città procedettero a passo abbastanza sostenuto verso ovest; una galoppata come quella normalmente per Athreia sarebbe stata una cosa da nulla, ma i molti giorni chiusa in prigione e la convalescenza pesavano sul suo fisico.

«Basta così.» disse quindi Daemon dopo qualche ora. «Riposiamoci fino al sorgere del sole.»

«Posso ancora continuare.» disse la centaura con aria quasi risentita

«Non chiedere troppo a te stessa. Inoltre non mi va di trascinarti appresso. Sei piuttosto pesante, lo sai?»

Con l’abilità che solo qualcuno abituato a vivere nella natura selvaggia poteva avere Daemon montò un accampamento, e una volta acceso il fuoco mise a scaldare un po’ di cibo preso fuori dalla bisaccia della sella.

«Meglio se mangi qualcosa.» disse il ragazzo notando che la sua ospite esitava a consumare le verdure che le aveva messo a disposizione. «Domani dobbiamo inerpicarci su per le montagne.»

Fu solo a quel punto che Athreia ebbe il coraggio di fare la fatidica domanda.

«Dove mi state portando?»

«C’è una cosa che voglio che tu veda.»

«Non importa cosa mi farete vedere o cosa mi direte. Io non intendo tradire i miei compagni.»

«Cosa ti fa pensare che voglia questo da te?»

«Ho sentito i discorsi delle guardie. Umani e mostri che combattono insieme. È evidente che avete un grande potere di persuasione. Ma io so in cosa e in chi riporre la mia lealtà. Sono un soldato dell’esercito imperiale, e tale resterò fino al termine dei miei giorni.»

Daemon la guardò negli occhi, e per la prima volta dalla morte di suo padre Athreia si sentì pervadere da uno strano senso di soggezione.

«Sei mai stata fuori dell’Impero?»

«Cosa!? … Beh, no… Da bambina ho visitato le terre libere degli elfi.»

«E tra di voi c’erano dei centauri provenienti da altre nazioni?»

«Impossibile. Proveniamo quasi tutti dalla stessa regione. I pochi di noi che non sono originari della Vanlia sono nativi di altre province dell’Impero. Perché me lo chiedete?»

«Era solo curiosità.»

Quindi, appena finito il suo pasto, Daemon si coricò.

«Farai il primo turno di guardia. Svegliami fra tre ore.»

Athreia non riusciva davvero a capire come facesse quel ragazzo si fidasse di lei fino a questo punto; forse confidava nella sua paura del bind, o forse era solo un completo sciocco.

Aveva perfino lasciato la spada in bella vista accanto al giaciglio; le sarebbe bastato allungare una mano per prenderla, tagliargli la gola e scappare.

E invece fece proprio quello che le era stato chiesto; dopo aver mangiato, montò diligentemente la guardia ben oltre l’ora designata, tanto che quando Daemon si svegliò ormai cominciava ad albeggiare.

«Avresti dovuto chiamarmi.»

«Non avevo sonno. Ho dormito molto in cella.»

Daemon preparò quindi quella sua strana bevanda amara a base di chicchi tostati e tritati messi a infuso nell’acqua bollente.

«Vuoi assaggiare? Ti avviso che è parecchio forte.»

E lo era davvero, tanto che ad Athreia bastò un sorso per sentire il cerchio alla testa e le orecchie che tremavano.

«Come fate voi umani a bere questa roba?»

«In realtà per adesso da queste parti la bevo solo io. Ma sto cercando di diffonderla nell’esercito. Come hai notato è ottima per tonificare il corpo e tenere la mente lucida.»

Ora Athreia cominciava a capire come mai quel ragazzo all’apparenza così normale fosse stato capace di soverchiarli in modo tanto plateale. Il modo in cui si preoccupava per i suoi soldati e tutti i suoi sudditi, e il rispetto che loro avevano per lui, non erano normali, soprattutto per un governante umano.

«Con il dovuto rispetto, ma non sembrate davvero una persona che ha preso il comando di una nazione solo da qualche mese.»

«Chissà.» ammiccò il ragazzo. «Magari in una vita precedente sono stato un generale. O perfino un imperatore, chi può dirlo?»

Athreia non era particolarmente devota, ma le veniva quasi da domandarsi se non potesse essere vero.

 

Dopo aver smontato il campo Daemon e Athreia si rimisero in cammino, incamminandosi come predetto lungo un sentiero che li portò nel cuore delle montagne, lì dove il bosco si faceva meno fitto lasciando posto a grandi pascoli.

«Ci siamo quasi.» disse Daemon dopo alcune ore di cammino indicando poco lontano un agglomerato di case rannicchiato alla base di un costone di roccia.

«Che cos’è?»

«Un ritrovo di pastori. Un tempo lo usavano durante l’alpeggio estivo, ma adesso è abbandonato.»

«Eppure a vederlo da qui si direbbe ancora abitato.»

«Infatti lo è. Tra poco capirai.»

Ma ciò che Athreia vide una volta che finalmente furono arrivati fu tale da lasciarla senza parole.

Il villaggio era effettivamente abitato, tanto che molte case erano state risistemate, ma i suoi abitanti non erano esseri umani.

Centauri.

Quel posto era pieno di suoi simili.

Dovevano essere almeno duecento di tutte le età, specie e provenienza, dai puledri delle steppe settentrionali ai massicci colossi dell’estremo ovest, che giocavano, conversavano e lavoravano assieme come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.

I primi ad accorgersi dei nuovi arrivati furono un tre bambini che si esercitavano nella guerra sul vasto prato antistante il villaggio, e che corsero sorridendo verso di loro agitando le loro spade e lance giocattolo.

«Master Daemon! Siete tornato!»

«Salve, ragazzi. Sono felice di rivedervi.»

«Ci avete portato qualcosa di buono?»

«Mi dispiace, oggi no. Prometto di portavi qualcosa la prossima volta. Ma voi però non la finite mai di prendervi a legnate?»

«Vogliamo diventare forti e imparare a combattere! Così quando saremo grandi potremo batterci al vostro fianco!»

«Ammiro la vostra determinazione. La mia speranza è che per quando voi sarete cresciuti le guerre saranno solo un brutto ricordo. Ma ciò non significa che non dobbiate diventare forti, cosicché un giorno possiate proteggere i vostri amici e tutto il vostro popolo.»

«Lo faremo di sicuro!»

«Master Daemon, chi è questa signorina?» chiese l’unica bambina del gruppo. «Anche lei si fermerà qui con noi? Il vecchio Lasik ha appena finito di risistemare un’altra casa, ci sarà sicuramente posto anche per lei.»

«Non abbiamo ancora deciso. Ma le ho parlato di questo posto e voleva vederlo. Ora però tornate a giocare.»

Athreia era talmente senza parole da non riuscire ad aprire bocca, e più si aggirava per il villaggio più aumentava il suo stupore.

«Come immaginerai i centauri non sono esattamente i benvenuti qui. Ho creato questo insediamento per dare loro un posto dove stare, e nel mentre introduco alcuni di loro nell’apparato amministrativo per abituare gli altri mostri alla loro presenza.»

«Ma perché sono qui? Voglio dire, perché un centauro dovrebbe voler venire in un posto come questo?»

D’un tratto Athreia si sentì chiamare, e giratasi vide un attempato centauro dall’aria gentile venirle incontro trascinandosi appresso una slitta piena di tronchi appena tagliati.

«Lady Athreia, siete davvero voi. Incredibile, siete identica a vostra madre. Scusate, forse non vi ricordate di me. Mi chiamo Lasik, ero il luogotenente di vostro nonno molto tempo fa.»

«Mi ricordo di voi. Siete scomparso nel nulla molti anni fa, quando ero solo una bambina. Dicevano che eravate morto.»

«Ci sono andato vicino. Mi hanno catturato durante le dispute di confine. Sono stato portato nell’Unione, dove sono stato per molto tempo schiavo in una piantagione del sud.»

«Schiavo!?»

«Sì, lady Athreia. Quasi tutti coloro che ora abitano qui erano schiavi. Quando abbiamo saputo che lo Stato Libero era pronto ad accogliere anche noi, siamo scappati e ci siamo rifugiati qui. Master Daemon ci ha dato questo posto e ci ha restituito la libertà.»

«Ma non è possibile. Io sapevo che i centauri non potevano essere schiavizzati. Gli umani ci considerano loro pari.»

«Nell’Impero forse sì, ma altrove è diverso. Nell’Unione, a Torian e persino in Volkova noi centauri siamo considerati mostri né più né meno di qualunque altra specie, e come tali possiamo essere ridotti in schiavitù. Una volta chi poteva fuggiva a Connelly o nell’Impero, ma ormai è diverso tempo che entrambe le nazioni rifiutano di accoglierci. Comunque sono felice di rivedervi. Quando abbiamo saputo di cosa era successo sul Passo di Gael ho temuto per la vostra vita. Vedrete che vi troverete bene qui, Messer Daemon ha sempre posto per chi ha del talento, dico bene?»

«Hai detto benissimo, amico mio. Grazie per occuparti di questa gente in modo così premuroso.»

«Grazie a voi, per averci restituito la dignità.»

Quando dopo poco Lasik se ne andò portandosi dietro il suo pesante fardello, Athreia sembrava sul punto di scoppiare a piangere.

«Capisci ora perché ti avevo chiesto se fossi mai stata fuori dall’Impero?»

«Questo… questo è crudele. Mi fate vedere queste cose così da farmi dubitare di ciò su cui ho basato tutta la mia vita.»

«Non definirei l’aprire gli occhi a qualcuno sulle bugie che gli sono state raccontate per anni crudele. E se proprio vuoi saperlo, molti abitanti di questo villaggio vengono proprio dall’Impero. Non ti domandi il perché?»

Athreia però era ancora troppo sconvolta e atterrita per avere anche solo la forza di pensarci.

«L’Impero forse non considera i centauri allo stesso livello di tutti gli altri mostri, ma di certo vi ha sempre visti come nient’altro che efficaci macchine da guerra. Un soldato o un legionario che rimanga ferito, invalido, o che semplicemente non sia reputato in grado di servire nell’esercito può comunque sperare di trovare un altro scopo nella vita o percepire un generoso sussidio. Ma un centauro che non può combattere non ha alcun valore. Se non fai parte o non hai mai fatto parte di un’unità militare di qualunque tipo non hai diritto a possedere una casa, della terra, e tanto meno ad avere una tua attività. Tutto quello che ti è concesso fare è metterti al servizio di un umano, che potrà disporre di te a suo piacimento. E non pensare che i feriti o gli invalidi se la passino meglio; il sussidio che percepiscono basta a malapena per sopravvivere, e ti lascio immaginare quanto sia facile per loro trovare un lavoro. E tutto questo senza contare che i centauri non hanno il diritto di voto, ad esclusione di quello per l’elezione dei propri rappresentanti nei governi municipali, che però devono essere sempre approvati dal governatore. Ora dimmi sinceramente in cosa tutto questo differisca dall’essere uno schiavo.»

Era più di quello che Athreia poteva sopportare, e nascondendo il volto tra le mani la ragazza corse via perdendosi ben presto tra i vicoli.

Tutto quello che ottenne vagabondando su e giù senza sapere dove andare fu ritrovarsi faccia a faccia con decine di suoi simili che felici e sorridenti si godevano la loro ritrovata libertà, e che al suo passaggio la osservavano quasi con compatimento.

La stessa bambina di poco prima la vide mentre, esausta e atterrita, si abbandonava contro il muretto di una malga poco fuori il villaggio, bagnando con le proprie lacrime l’erba ai suoi piedi.

«Non piangere, signorina.» le disse offrendole una mela. «Vedrai che tutto si sistemerà. Ora sei libera.»

Ma cosa voleva dire essere liberi?

Per tutta la vita Athreia era stata sicura di esserlo.

Poteva andare dove voleva, ma il suo destino era mai stato davvero nelle sue mani?

Essere un soldato non era forse l’unico scopo che la sua vita avesse mai avuto? C’era mai stata una volta in cui si fosse chiesta se avesse voluto essere qualcos’altro?

No, per il semplice fatto che non gliene era stata data l’occasione.

Credeva che quella vita le piacesse per il semplice fatto che era stata educata a ritenere che per un centauro non vi fosse altra aspirazione all’infuori della guerra, la sola cosa per cui la vita era degna di essere vissuta.

Ma quelle persone erano diverse. Alcuni, bastava guardali, erano stati loro stessi dei guerrieri, ma in quel villaggio lontano dalla guerra sembravano aver trovato uno scopo diverso.

Ora erano felici. E lei invece, lo era? O lo era mai stata?

Tutto d’un tratto le tornavano in mente tutti gli sguardi ostili, i gesti di insofferenza, le palesi mancanze di considerazione che aveva sempre fatto finta di non vedere, convincendosi che si trattasse di singoli casi che non rispecchiavano ciò che gli umani davvero pensavano della sua specie.

Un verso stridulo e insopportabile, reso più forte dall’eco delle montagne tutto attorno, le trapanò la testa facendola quasi svenire.

Tutti nel villaggio lo sentirono, ma solo in pochi capirono di cosa si trattava; e Daemon, con la sua esperienza da cacciatore, era uno di questi.

«Maledizione, ditemi che sto sbagliando.»

Invece purtroppo i suoi sospetti trovarono conferma quando da dietro la cima più alta comparve una specie di enorme drago, con il corpo ricoperto di scaglie blu e l’addome di un colore rosso opaco, diretto proprio verso il villaggio.

«Lo sapevo, è una viverna! Lasik, suona la campana! Portate tutti nelle grotte!»

«E voi cosa farete?»

«Io cercherò di allontanarla da qui! Fate come vi ho detto!»

Purtroppo quella viverna volava con tale velocità che in molti non fecero in tempo a mettersi in salvo venendo raggiunti, uccisi e in molti casi mangiati.

Per fortuna quella bestia non si concentrò sul villaggio, preferendo piuttosto accanirsi su coloro che si trovavano all’esterno, magari isolati e senza posti vicini dove potersi nascondere; peccato solo che anche Athreia e la bambina fossero tra questi.

«Mettiti in salvo, piccola!»

Athreia ai mise quindi a correre a zigzag nella speranza di attirare l’attenzione della viverna, che però sfortunatamente preferì subito rivolgere le sue attenzioni alla bambina, talmente spaventata da restare pietrificata per la paura mentre quel mostro le veniva addosso con le fauci spalancate.

A quel punto, la centaura fece la prima cosa che l’istinto le suggerì: proteggere un’innocente.

Caricando come un toro, colpì quel bestione cinque volte più grande di lei sulla guancia con tutta la forza che aveva un attimo prima che potesse ghermire la bambina, riuscendo a sbilanciarlo e a scaraventarlo al suolo in un turbinio di polvere.

Questo effettivamente distolse una volta per tutte l’attenzione della viverna dalla bambina che si decise finalmente a mettersi in salvo, ma ebbe anche l’effetto di fare infuriare la creatura.

Athreia recuperò perciò da terra un forcone e tentò di difendersi, scoprendo però ben presto che avere un corpo così massiccio e imponente a volte poteva rivelarsi un ostacolo, specie quando si cercava di schivare colpi d’ala, frustate di coda, o affondi di mascelle fulminei come quelli di un serpente.

Oltretutto quella dannata bestia aveva scaglie dure come la roccia, e per quanto Athreia ci provasse non c’era verso di riuscire a ferirla.

«Sprechi il tuo tempo!» gridò Daemon arrivando a darle manforte armato di arco e lanciandole l’unica spada che era riuscito a trovare. «Gli unici punti deboli sono gli occhi, l’interno della bocca e il ventre.»

«Quindi che facciamo?»

«Dobbiamo riuscire a farla ribaltare.»

La fortuna era che quella bestiaccia cadendo doveva essersi rotta un’ala, perché il suo tentativo di spiccare nuovamente in volo si risolse in un saltello sgraziato.

Iniziò quindi una specie di gioco dell’acchiapparella, con la viverna che lanciava artigliate, codate e affondi di denti in tutte le direzioni e le sue due prede che le giravano attorno, schivando tutti i colpi alla ricerca di un varco.

Il lavoro di squadra alla fine sembrò ripagare, perché ad un certo punto la viverna a forza di girare su sé stessa iniziò ad andare nel pallone, barcollando come se fosse ubriaca e diventando sempre meno precisa nei suoi attacchi.

Intravista un’apertura Athreia non stette a pensarci troppo lanciandosi in un attacco a dir poco azzardato, che infatti la mise per un istante a tu per tu con la bocca spalancata della creatura. Ma nonostante la sua stazza la centaura prima schivò l’assalto e quindi, mettendoci tutta la forza che aveva, colpì la parte terminale dell’ala che la viverna usava per puntellarsi al suolo, facendole perdere l’equilibrio e riuscendo finalmente a farla ribaltare.

Daemon colse subito l’attimo e si arrampicò sul corpo del mostro, riuscendo faticosamente a restare in equilibrio.

«Bonne nuit, salope!» urlò prima di piantarle venti centimetri di lancia dritta nel cuore.

La creatura lanciò un ultimo, terrificante urlo di dolore prima di esalare l’ultimo respiro ed accasciarsi senza vita sull’erba, che iniziò subito a tingersi di rosso.

«Sembra che ce l’abbiamo fatta.» disse Daemon riprendendo fiato. «In qualche modo.»

«Devo ricredermi sul vostro conto. Credevo foste bravo solo a dare ordini da lontano, invece sapete anche come combattere.»

«E tu invece tieni fede alla reputazione delle Furie.»

«Ad ogni modo, credevo che le viverne vivessero solo sulle montagne più alte.»

«Nella catena del Khoral ce ne sono parecchie, ma è la prima volta che si spingono così a valle. Deve esserci stata una moria di prede considerevole nel corso dell’ultimo inverno.»

Cessato il pericolo gli abitanti del villaggio iniziarono timidamente ad uscire dai loro nascondigli, e alla vista della viverna ormai senza vita circondarono i loro salvatori riempiendoli di ringraziamenti.

«Messer Daemon, vi dobbiamo tutti la vita. Avete fatto per noi più di chiunque altro.»

«Non è con me che dovete congratularvi Lasik, ma con Athreia. Senza di lei non penso che ne sarei uscito vivo.»

Quella era la prima volta che Athreia veniva ringraziata per il proprio lavoro da qualcuno che non fosse un membro del suo gruppo, e vedersi celebrata in quel modo fu una sensazione stranissima.

«Quindi, ora siamo al sicuro?»

«Voi si.» disse mestamente il ragazzo. «Ma temo di non poter dire lo stesso per altri.»

«Che intendete dire?» chiese Athreia

«Le viverne sono monogame, e si spostano sempre in coppia. Questa era la femmina, quindi il maschio deve essere da qualche altra parte.»

«E dove potrebbe essere?»

«Purtroppo c’è un solo posto nei dintorni abbastanza popoloso da poter attirare l’attenzione di una creatura tanto grossa e affamata.»

Daemon si fece quindi portare in tutta fretta il suo cavallo.

«Quella viverna è venuta da nord. Anche ipotizzando che il maschio si trovi ancora al nido probabilmente è solo questione di ore prima che arrivi al Castello. Devo andare lì, avvertirli e organizzare le difese.»

«E io cosa farò?» domandò Athreia quasi con timore

«Tu resterai qui. Per il momento questa sarà la tua casa. Per qualsiasi cosa, chiedi a Lasik.» e senza aggiungere altro se ne andò, lasciando la centaura da sola in compagnia dei suoi simili e dei suoi dubbi.

 

In tutta la mia carriera di cacciatore non avevo mai avuto a che fare con una viverna, più che altro perché ci tenevo alla pelle e non mi andava di rischiarla combattendo con uno di quegli scherzi di madre natura.

Mi era capitato spesso di vederle da lontano, e negli anni mi ero ben guardato dall’avvicinarmi troppo a uno dei loro nidi o ai loro territori di caccia.

Tra stambecchi, camosci e altri mammiferi d’alta montagna non gli era troppo difficile trovare da mangiare, per non parlare delle carcasse, ma avrei dovuto prevedere che l’ultimo inverno doveva aver spinto verso valle anche le loro abituali fonti di cibo.

Avevo passato molto tempo a studiare quelle bestie, e anche se non ne avevo mai cacciata una sapevo più o meno come andavano approcciate e quale fosse il loro comportamento abituale. Vista la loro stazza tendevano a prediligere luoghi in cui vi fosse un’alta concentrazione di prede, e dal momento che ingurgitavano praticamente di tutto anche un villaggio all’occorrenza poteva diventare un bersaglio invitante.

Come se non bastasse con buona parte dell’esercito già mobilitato in vista dell’invasione non era stato per niente facile mettere insieme abbastanza uomini e attrezzature per ciò che avevo in mente, ma nelle giuste circostanze un abile mago vale quanto un’intera compagnia di soldati comuni.

E fortunatamente il maschio se la prese più comoda del previsto, arrivando in vista del Castello solo all’alba del giorno successivo.

L’esca era già pronta: dieci delle migliori vacche di razza contiana. Il solo pensiero di doverle sacrificare per fare da cena ad un drago malriuscito mi faceva uscire dai gangheri, ma meglio dieci vacche che qualche centinaio tra soldati e civili.

Per sicurezza avevamo portato tutti gli abitanti nei sotterranei, ma l’odore che quei manzi mandavano era così forte che la viverna semplicemente non seppe resisterci, fiondandosi sulla piazza d’armi del castello e iniziando a ingoiarli praticamente interi uno dopo l’altro.

Era così presa dal suo banchetto che non si accorse di nulla.

«Adesso!»

Al mio comando Sylvie sbucò fuori dal suo nascondiglio in cima alla torre, già avvolta da un’aura luminosa.

«Holy Chain!»

Una vera e propria rete di luce comparve dal nulla sopra la piazza, piombando sulla viverna e schiacciandola al suolo; qualsiasi altra creatura non sarebbe riuscita neanche a muoversi vista la potenza e l’efficacia di quell’incantesimo, ma quel mostro era talmente grosso e forte che sembrava solo una questione di tempo prima che riuscisse a liberarsi.

«Non diamole il tempo di reagire!»

Zypax e gli altri ragazzi delle fonderie avevano lavorato tutta la notte per finire di inastare sui loro affusti i nuovi cannoni da dodici libbre e portarli fino a lì da Dundee, e quella sarebbe stata un’ottima occasione per collaudarli.

Ad un mio cenno gli artiglieri si affrettarono a lasciare i loro nascondigli, e in pochi secondi quella bestiaccia si ritrovò dieci bocche da fuoco nuove di zecca puntate contro da ogni direzione.

La prima scarica di cannonate non sortì grande effetto, ma già alla seconda i proiettili cominciarono a perforare le sue scaglie d’acciaio riempiendo il suo corpo di buchi.

Quando questa storia sarà finita dovrò fare due chiacchiere con Oldrick. Sono ancora troppo lenti nel caricamento.

In un certo senso avevo sempre desiderato di capire meglio le viverne, ed era un peccato che nessuno fosse mai riuscito a trovare il modo di addestrarle. Per questo l’idea di ucciderne una, per quanto necessario, non mi faceva impazzire.

Quasi non mi sorprese che anche dopo aver ricevuto almeno un centinaio di colpi, sforacchiata in ogni dove, quella creatura trovasse ancora la forza di agitarsi nel tentativo di liberarsi dall’incantesimo vincolante o di aggredire qualcuno dei cannoni.

Speravo di poter risolvere la questione senza dover ricorrere nuovamente alla magia, ma a quel punto non mi sembrò giusto prolungare ancora la sua agonia.

«Lady Valera, tocca a voi!»

Vorrei dire che il vortice di fuoco che quella ragazza evocò e che mise fine ad ogni velleità di resistenza del nostro nemico mi lasciò indifferente, ma sarebbe una bugia.

Per quanto mi fossi abituato a vedere di cosa fosse capace la magia di quel mondo, i poteri di Sylvie erano talmente grandi che ogni volta restavo senza parole.

Il suo Burning Blaze fu così potente da far annerire persino le pietre della piazza, e quando quella specie di inferno di fiamme si estinse la viverna era ormai ridotta in uno stato pietoso, una bestia agonizzante che aspettava solo il colpo di grazia.

«Scusa amico, niente di personale. Ma sei venuto a caccia nel posto sbagliato.»

«Fermatevi!»

Quella voce così perentoria mi fermò subito prima che estraessi la spada, ma fu solo quando lei mi passò davanti che realizzai di chi fosse.

«Cosa ci fai qui, Xylla? Dovresti essere nei sotterranei.»

«Ma non vi vergognate a ridurre in questo stato un animale tanto bello?»

«Era una questione di vita o di morte. Non puoi ragionare con le viverne.»

«Ti sbagli.»

Quando la vidi avvicinarsi, seppur con precauzione, al muso di quella bestia ferita e abbrustolita, ma non per questo meno pericolosa, mi aspettai di vederla finire mangiata da un momento all’altro.

«Buono, bello. Lo vedi? Va tutto bene. Non voglio farti del male.»

Invece la viverna, dopo qualche momento di agitazione, sembrò calmarsi, prendendo ad uggiolare come un cagnolino ubbidiente mentre Xylla la accarezzava.

«Che mi prenda un colpo.» dissi con sincero stupore «Xylla, voi arpie potete parlare con le viverne!?»

«Sono secoli che condividiamo con loro le cime più impervie di questo mondo. Abbiamo imparato a capirci gli uni con gli altri.»

Di colpo mi venne in mente un’idea che chiunque, a cominciare dal vecchio me stesso, avrebbe potuto considerare a buon diritto assolutamente folle.

«Lady Sylvie, potete curare questa viverna

«Cosa!? Ma, Messer Daemon…»

«Vi prego, fidatevi di me. Se ho ragione, con il suo aiuto e quello di Xylla salveremo moltissime vite.»

 

Tutti a Grote Muren, dall’ultima delle reclute fino allo stesso Victor, erano consapevoli che quella calma surreale venutasi a creare nella zona attorno al forte fin da subito dopo la disfatta di Mistvale era solo apparente.

Era come se nessuno volesse arrischiarsi a fare il primo passo.

I ribelli, consapevoli di quanto potesse essere pericoloso assaltare un forte che loro stessi avevano provveduto a rendere quasi inespugnabile, avevano semplicemente ripreso il pieno controllo della regione, mentre dall’altra parte del fronte le truppe di Eirinn negli ultimi dieci giorni erano aumentate costantemente di numero.

Ma era uno stallo che non poteva durare, ed era sul modo in cui doveva finire che tra Victor e i suoi consiglieri non c’era comunione di vedute. Al punto che alla fine Lefde si era risolto a fare qualcosa che mai avrebbe pensato di dover un giorno fare.

«Come ti permetti, maledetto insolente?»

Il Generale non si scompose neanche quando Victor gli tirò contro il proprio calice, restando immobile a prendersi il colpo che tinse di rosso l’acciaio della sua armatura.

«Dovrei farti impiccare! Non solo abbiamo perso, ma ti avanza pure da fare una richiesta del genere?»

L’oggetto della contesa era la pergamena che il Generale aveva appena appoggiato sul tavolo, e al giovane Montgomery era bastato leggerne le prime righe per uscire letteralmente di testa.

«Capisco la vostra rabbia Mio Signore, ma ciò nonostante vi chiedo umilmente di firmare quel documento.»

«Voi mi state chiedendo di autorizzarvi ad assumere il comando assoluto del nostro esercito, in pratica esautorando me stesso dal ruolo di comandante supremo?»

«Questa è insubordinazione in piena regola!» disse Philippe. «Fin dai tempi di Gearld Montgomery, il ruolo di comandante supremo è sempre appartenuto solo ed esclusivamente al Granduca.»

«Con il dovuto rispetto Conte di Hatlen, nessuno dei venerabili antenati di Sua Eccellenza ha mai avuto a che fare con un nemico del genere. Daemon Haselworth è un avversario come non se ne sono mai visti nella storia del nostro Paese. E avversari straordinari richiedono misure straordinarie.»

«Mi state dicendo che non mi considerate in grado di misurarmi con lui? È questo che intendete?»

Se solo il vecchio Generale avesse potuto dire apertamente quello che pensava…

«Voi siete il nostro sovrano, Mio Signore. In questa ora buia, tutti noi cerchiamo la vostra luce per trovare riparo dalle tenebre che ci minacciano. Ma da questo momento in poi ogni battaglia potrebbe essere l’ultima. Qualsiasi cosa succeda, io voglio poter essere sicuro che Sua Eccellenza sarà in grado di mettersi al sicuro. La mia vita sarebbe un piccolo prezzo da pagare per la salvezza di Eirinn, ma la perdita del Granduca significherebbe la fine di questa nazione. Qualora ci dovessimo trovare ancora in una situazione come quella accaduta a Mistvale sarà necessario che il comandante dell’armata possa contare su di una catena di comando solida e preparata, che tenga indietro il nemico in modo da dare a Voi il tempo di mettervi in salvo.»

Detto questo il Generale si sfilò il pugnale intarsiato poggiandolo sul tavolo.

«Voi siete il Mio Signore, e a Voi io devo il massimo rispetto e obbedienza. Ma in tutta coscienza non posso e non voglio dover scegliere tra la fedeltà alla Vostra famiglia e quella verso la nostra patria. Pertanto, se ritenete di non poter accogliere la mia richiesta, allora sono pronto a rassegnare qui e ora le mie dimissioni. Se lo richiederete, vi offrirò anche la mia stessa vita.»

Philippe guardava il nipote come se non desiderasse altro che vederlo dare a Lefde l’ordine di piantarsi quella lama nel cuore.

Invece Victor digrignò i denti, fissando il Generale con sguardo che sapeva di furente rassegnazione; quindi, versata un po’ di cera sulla pergamena, vi batté rabbiosamente il proprio anello ducale.

«Vi ringrazio, Mio Signore.»

«Spero tu sia consapevole che in caso di sconfitta userò questo documento per accendere la tua pira.»

«Avete la mia parola che darò fino all’ultima goccia di sangue per la nostra patria.»

Sistemata la questione venne il momento di fare il bilancio della situazione.

«Ormai abbiamo quasi completamente riassorbito le perdite subite a Mistvale. Onestamente non capisco perché vi ostiniate a non voler lanciare una nuova offensiva, Generale Lefde

«Ci vuole ancora un po’ di tempo. I nuovi soldati per la maggior parte sono giovani reclute e coscritti. Dobbiamo finire di impartire loro un addestramento almeno basilare, altrimenti tanto varrebbe mandarli in battaglia nudi e disarmati.»

«Ogni giorno che passa è un giorno in più che diamo al nemico per rafforzarsi.» disse Victor. «Quel Daemon è maledettamente preparato, ormai l’ho capito. Se non lo incalziamo, chissà cos’altro potrebbe scatenare contro di noi.»

«Purtroppo la battaglia ci ha dato la prova che le voci sul suo conto non erano affatto esagerate, Mio Signore. Attaccare in maniera avventata come abbiamo fatto a Mistvale finirebbe solo per indebolire ulteriormente il nostro esercito.»

«Tuttavia, le perdite fino ad ora si contano solo tra i mercenari e i reparti meno esperti. I nostri veterani e le unità meglio addestrate sono ancora sostanzialmente intatte. Quindi sono d’accordo con mio zio sul fatto che sarebbe sciocco rimandare la nuova offensiva solo per dare a queste reclute qualche giorno di addestramento in più. Se è l’esperienza che gli serve, sul campo di battaglia ne avranno quanta ne vogliono.»

«Parole sagge, Mio Signore.» disse Philippe. «Generale Lefde, abbiamo aspettato tutti questi giorni senza muoverci solo perché ci avete convinti ad aspettare i nuovi rinforzi, ma ora il tempo è scaduto. È giunto il momento di attaccare di nuovo.»

Nonostante la forza datagli dalla nuova posizione appena ottenuta Lefde sapeva di non poter tirare troppo la corda, almeno in una situazione così apparentemente favorevole.

Anche perché, proprio in quel momento, giunse un messaggero recando una notizia tutto sommato attesa fin troppo a lungo.

«Truppe nemiche in movimento, Mio Signore.»

«Quanti sono?»

«All’incirca trentamila, Generale Lefde

«È quasi incredibile con quanta facilità riescano a compensare le perdite che subiscono. Immagino abbiano mobilitato fino all’ultimo soldato disponibile.»

Sembrava un esercito perfino troppo grande per cingere d’assedio un singolo forte, ma Lefde non volle nemmeno pensare a quale poteva essere il motivo dietro ad un simile spiegamento di forze.

«Il nemico si è indubbiamente impegnato molto nel rinforzare questo castello.» disse illustrando il suo piano «Le mura sono solide, il pozzo è pieno e protetto da eventuali infiltrazioni. Io suggerisco di rafforzare le nostre posizioni qui, qui e qui. Queste tre piazzeforti tra noi e Mistvale sono collegate al forte tramite la Via Imperiale. Haselworth dovrà per forza conquistarle tutte per poter assediare Grote Muren senza doversi guardare costantemente le spalle. Se le usiamo come baluardi da cui coordinare assalti mirati alle sue truppe possiamo logorare un po’ per volta il suo esercito in preparazione della controffensiva.»

Le ultime parole famose.

«Generale! Mio Signore!» gridò un secondo messaggero «Il nemico ci ha attaccati!»

«Arrivi tardi, lo sappiamo già. Trentamila unità in arrivo da Basterwick

«No Mio Signore, non intendevo quello! L’attacco è avvenuto a est, ad Eirinn! Todlen è caduta!»

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!

Ecco qui dunque il secondo capitolo del Quarto Volume.

Come avrete notato questi capitoli sono mediamente più lunghi rispetto a quelli dei volumi 1, 2 e 3, ma per evitare buchi narrativi ho preferito evitare di condensarli troppo o tagliare più di quanto avessi già fatto.

Già con il Volume 5 dovremmo tornare ad una lunghezza meno marcata.

A presto!^_^

Cj Spencer

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 - OLTRE IL LIMITE ***


“Nessun crimine è ammissibile in guerra,

a meno che non sia necessario.”


 

CAPITOLO 3

OLTRE IL LIMITE

 

 

«Stai scherzando, spero!» gridò Philippe all’indirizzo del povero messaggero. «Ripeti quello che hai detto!»

«Purtroppo è tutto vero, Signor Conte. Una forza nemica ha attaccato all’improvviso il villaggio di Todlen due ore fa, alle prime luci dell’alba. La guarnigione che difendeva il villaggio è stata colta completamente alla sprovvista.»

«Ma come accidenti hanno fatto? Il Passo di Gael è ancora bloccato, e nessuna delle piazzeforti ha segnalato nulla! Da dove diavolo sono passati?»

«In quanti erano?» chiese Victor

«Non lo so, Mio Signore. Ci sono piombati addosso all’improvviso, mentre io stavo dormendo. Non li abbiamo neanche sentiti arrivare. Si sono avventati sui miei compagni come belve scatenate. Li hanno letteralmente sbranati. Poco prima che il villaggio cadesse il Capitano mi ha ordinato di venire a fare rapporto, e temo di essere l’unico sopravvissuto.»

«È proprio come temevo.» disse funereo Lefde

«Che intendi dire?»

«Trentamila uomini sono troppi, anche per assediare un forte ben protetto come questo. Quell’esercito non è qui solo per riconquistare Grote Muren. Intendono marciare contro Eirinn.»

Una simile prospettiva fece gelare il sangue a Victor e a suo zio, mettendoli di fronte al peggiore scenario possibile; avevano intrapreso quella campagna per riconquistare le terre dei loro antenati, e ora rischiavano di perdere le proprie.

 

Le piazzeforti che l’esercito di Eirinn aveva costruito per proteggere la strada verso Grote Muren potevano resistere a comuni assalti degli eserciti convenzionali, ma non c’era niente che potessero fare per opporsi ai cannoni.

E per essere certi che non potessero coordinare le difese o supportarsi a vicenda Daemon aveva ordinato ai suoi luogotenenti Septimus, Jack e Richard di attaccare le tre fortezze nello stesso momento, in un assalto coordinato che non aveva lasciato scampo.

In realtà nessuno dei tre aveva preso materialmente parte alla battaglia, perché nel mentre Daemon aveva raccomandato a ciascuno di loro di trovare dei bravi subalterni a cui demandare le operazioni sul campo, limitandosi a coordinare le operazioni stando in mezzo agli uomini senza però rischiare troppo.

«Un sottufficiale o un soldato possono essere sostituiti facilmente.» aveva detto loro Daemon quando avevano protestato per questa decisione. «Ma un ufficiale, o peggio ancora il comandante di un’intera divisione, sono insostituibili.»

Poteva sembrare un discorso cinico, considerare una vita più preziosa di un’altra, ma tutti e tre avevano passato abbastanza tempo in guerra da aver capito che la morte di un comandante significava spesso anche quella di molti degli uomini sotto il suo comando. Era quindi necessario che i generali fossero sempre al sicuro, perché dalle loro decisioni dipendevano le vite di chi non poteva o voleva decidere al loro posto.

Poche cannonate erano bastate per fare a pezzi i terrapieni e le palizzate di tronchi, e gli assalti frontali con il supporto dell’artiglieria e degli arcieri avevano fatto il resto.

L’attacco coordinato era iniziato da meno di tre ore quando un messaggero entrò nella tenda di comando per fare rapporto al resto del Consiglio di Guerra.

«Anche la terza piazzaforte si è arresa.»

«Quante perdite abbiamo subito?»

«In tutte le divisioni poco meno di un centinaio, Messer Daemon.»

«Poteva andare molto peggio senza i cannoni.» disse Adrian «Lefde è davvero all’altezza della sua fama. Anche con il poco tempo a disposizione e quelle due palle al piede al seguito è riuscito comunque ad approntare delle difese considerevoli.»

Oldrick non sembrava a suo agio, grattandosi la zucca pelata con evidente fastidio: «Non mi va che i miei cannoni vengano usati senza che ci sia io a gestirli.»

«L’attacco coordinato era indispensabile.» rispose Daemon. «Non potevamo permettere alle tre piazzeforti di supportarsi l’un l’altra. Ma tranquillo, riavrai presto il tuo comando dell’artiglieria.»

«Quindi ora punteremo direttamente a Grote Muren?» chiese Scalia

«Naturalmente.»

«Ammetto che la cosa non mi entusiasma.» disse Adrian. «Con tutta la fatica che ci è costata la sua sistemazione.»

«Forse non sarà necessario. Voglio dire, dopo questa ulteriore sconfitta potrebbero persino decidere di ritirarsi.»

«Che si ritirino è praticamente certo, soprattutto se come penso la nostra manovra nelle retrovie ha avuto successo. Senza più niente a fargli da copertura e con le linee di approvvigionamento interrotte sarebbero pazzi a non farlo. Anche perché il forte è pensato per sostenere una guarnigione di qualche migliaio di soldato, non certo un intero esercito.»

«Potremmo provare a muoverci immediatamente, magari con un po’ di fortuna potremmo impedire loro di allontanarsi.» disse Oldrick

«Anche se il nostro attacco è stato improvviso e molto rapido sarei sorpreso se qualcuno non avesse fatto in tempo a lasciare le piazzeforti.» osservò Adrian «Stesso discorso per gli attacchi alle retrovie. No, io penso che o si stanno preparando a ripiegare o l’avranno persino già fatto.»

«Il problema è che avranno sicuramente lasciato qualcuno al forte per tenerci occupati e rallentarci il cammino, così da avere più tempo possibile per riorganizzarsi.»

Daemon sorseggiò un po’ di caffè, respirando a fondo come a voler cercare di distendere i nervi: «Inviate messaggeri a tutte e tre le divisioni. Devono raggrupparsi e prepararsi a ripartire. Entro stasera dobbiamo essere sotto le mura del forte.»

 

«Lasciare il forte!?» esclamò Victor

«Non abbiamo altra scelta, Mio Signore. Questo forte poteva essere utile per coordinare le nostre operazioni, ma non è sufficiente per garantire una difesa adeguata. Non al nostro intero esercito perlomeno. E ora che il nemico ci ha attaccati anche alle spalle sarebbe folle rimanere qui ad aspettare di essere accerchiati.»

«Ti rendi conto di quello che stai proponendo? Dovremmo lasciare quella marmaglia libera di invadere il nostro Paese?»

«Lo so anch’io che si tratta di una decisione difficile, e mi dispiace di doverlo fare. Ma l’alternativa sarebbe restare qui ad aspettare di morire di fame, e intanto il nemico potrebbe ancora dilagare per Eirinn tenendoci nel mentre chiusi in questa tomba.»

Dal momento che Philippe non sembrava propenso a dargli retta Lefde non ebbe altra scelta che ricordargli fin da subito il documento che il giovane Granduca aveva appena firmato.

«Sono costretto a rammentarvi che Sua Eccellenza mi ha affidato il comando assoluto dell’esercito. Questo significa anche che l’ultima parola sulle operazioni da seguire spetta a me, anche qualora non siate d’accordo con le mie decisioni.»

Philippe si aspettava che Victor si opponesse, invece ancora una volta il ragazzo si mostrò insolitamente collaborativo, cessando ogni ulteriore obiezione.

«Avete sentito il comandante? Prepariamoci a ripiegare.»

«Ma…»

«Vi ringrazio, Mio Signore.»

«Ma tieni sempre a mente quello che ti ho detto. O la testa di Haselworth infilzata su una picca abbellirà l’ingresso del palazzo, o al suo posto ci sarà la tua.»

Si iniziò quindi ad allestire subito tutto il necessario per la partenza; ma proprio quando si pensava che le cose non potessero andare peggio arrivò la notizia che tutte e tre le piazzeforti erano cadute, e che il nemico si stava ormai preparando a marciare verso il forte.

«La situazione è drammatica. È probabile che le truppe che hanno attaccato le retrovie non siano in numero sufficiente da impensierirci, ma non possiamo offrire la schiena al nemico in questo modo. Sarebbe come invitarlo a saltarci addosso.»

«Quindi cosa si fa?» chiese provocatoriamente Philippe

«Non abbiamo scelta. Qualcuno deve restare qui a coprirci la ritirata.»

Abel, che attendeva in silenzio in un angolo della stanza, fece subito un passo avanti.

«Generale. Con il Vostro permesso, vorrei offrirmi volontario.»

Quasi che si aspettasse la reazione del suo secondo, Lefde non ci provò neanche a tentare di dissuaderlo.

«Conosci i rischi, vero? Nella migliore delle ipotesi sarete catturati, nella peggiore…»

«Farò tutto quello che sarà necessario, Generale. Senza di voi, Eirinn non avrà alcun futuro.»

Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta che Lefde aveva combattuto che aveva dimenticato quanto odiasse la sensazione che gli provocava l’essere costretto a vedere giovani soldati come Abel mandati a morire al suo posto.

Alla fine si decise di lasciare a Grote Muren un presidio di seicento soldati, quanti bastavano per garantire la protezione del forte per almeno una settimana.

Ma anche se ora c’era in gioco la salvezza del loro Paese il Generale non poteva accettare l’idea che quel ragazzo dall’avvenire così brillante, affidatogli direttamente da un caro amico, andasse incontro alla morte senza alcun motivo.

Così attese che fossero loro due da soli, quando ormai era tutto pronto per la partenza.

«Cinque giorni. Cinque giorni sono quello che ci serve per oltrepassare Mablith e attestarci su nuove posizioni. Tu devi promettermi che resisterete ad ogni costo, ma anche che alzerete bandiera bianca e vi arrenderete all’alba del sesto giorno.»

«Ma, Generale…»

«Ti prego, figliolo. Anni fa ho dovuto comunicare a tua madre la morte di tuo padre. Non voglio doverle comunicare anche la tua.»

Abel aveva sognato per tutta la vita di potersi dimostrare all’altezza di suo padre, un uomo che era vissuto ed era morto senza mai venire meno al codice della cavalleria che regolava la vita di ogni vero nobile di Eirinn.

Ma ciò nonostante promise di obbedire all’ordine, e quando, qualche ora dopo, il resto dell’armata ebbe lasciato il forte, radunò tutti i suoi compagni per prepararli allo scontro.

«Soldati. Nei prossimi cinque giorni combatteremo la battaglia più importante di tutta la vostra vita. È vitale che questo forte resista per cinque giorni all’avanzata nemica. Se dovessimo cadere prima di allora, l’esercito nemico potrebbe prendere i nostri compagni alle spalle e infliggere loro gravi perdite. Questo dovrebbe darvi un’idea di quale sia la posta in gioco. Entro queste mura, e nell’arco dei prossimi giorni, si deciderà il destino della nostra patria. Il destino di Eirinn. Il che significa che in questo stesso momento quel destino è riposto unicamente in voi e nel vostro coraggio. So che quasi tutti vi siete offerti volontari per questo incarico, e quindi sono più che sicuro che ognuno di voi sia determinato a fare il proprio dovere fino alla morte. E sarei un bugiardo se vi dicessi che in questo momento le nostre possibilità di sopravvivenza sono alte. Di sicuro le notizie circa la benevolenza che il comandante nemico riserva a coloro che si arrendono, o peggio ancora che scelgono di unirsi a lui tradendo la propria patria siano giunte anche a voi. Ma proprio perché mi fido di ognuno di voi so che non prenderete nemmeno in considerazione questa possibilità. Noi combatteremo. Noi resisteremo. Spenderemo fino all’ultima goccia di sangue se necessario. E se il destino infine deciderà di chiamarci a sé, moriremo con la convinzione di aver fatto fino all’ultimo il nostro dovere. Per Eirinn!»

«Per Eirinn!»

Almeno, pensò Abel dinnanzi ai suoi uomini nuovamente motivati, avrebbe potuto contare su compagni fidati e pronti a tutto.

Non intendeva venire meno alla promessa che aveva fatto, ma avrebbe tenuto duro comunque fino alla fine.

O almeno, questa era la convinzione a cui lui e tutti gli altri cercavano di aggrapparsi, e che venne messa a dura prova nel momento in cui l’esercito nemico fece infine la sua comparsa all’orizzonte, propagandosi a macchia d’olio e avvolgendo in poco tempo il forte in un abbraccio senza via di scampo.

Abel aveva ordinato di issare la bandiera del Granducato in cima all’edificio principale del forte cosicché tutti, amici e nemici, potessero vederla.

«Sono davvero tanti.» disse Yvette, la sua vice nonché vecchia amica, osservando assieme a lui dalle mura i nemici allestire l’accampamento.

La cosa più spaventosa, naturalmente, erano i cannoni, che ad ogni battaglia sembravano aumentare di numero, e che ora erano talmente tanti da occupare da soli un’intera collinetta.

Sia Abel che Yvette erano troppo giovani per poter aver preso parte alle dispute di confine con l’Unione al fianco dell’Impero come i loro genitori, ma più in generale prima d’ora non si era mai visto un qualsiasi esercito fare un uso così massiccio dell’artiglieria, riuscendo oltretutto a migliorarla così tanto per efficienza e praticità.

Si pensava che i cannoni fossero troppo ingombranti, imprecisi e pericolosi per poter avere una qualche utilità superando catapulte, trabucchi altre armi d’assedio, eppure questo Daemon era riuscito in poco tempo a farne un’arma affidabile e temibile, capace di decidere le sorti di una battaglia.

«Che ci provino pure.» disse Abel tentando di ostentare sicurezza. «Pianta a stella, mura basse e inclinate, fondamenta rinforzate. Useremo le migliorie che hanno apportato al forte contro di loro.»

Dopo qualche ora dall’arrivo del nemico un cavallo bianco uscì dall’accampamento e percorse al trotto la terra di nessuno fin sotto le mura sventolando una bandiera bianca.

«Soldati di Eirinn! Siamo qui per reclamare quello che appartiene al nostro popolo! Siete completamente circondati! Ma non vogliamo spargere sangue innocente! Ammainate la vostra bandiera, arrendetevi ora e vi do la mia parola che sarete trattati con il massimo rispetto!»

«Voi siete qui per invadere la nostra terra!» fu la pronta risposta di Abel. «E combatteremo fino all’ultimo uomo per impedirvelo!»

«Non abbiamo voluto noi questa guerra, né siamo stati noi ad iniziarla! Gli unici che dovete biasimare solo gli stessi che vi hanno ordinato di restare qui a farvi uccidere mentre loro si mettevano in salvo! Non è nostra intenzione reclamare quello che non ci appartiene, ma proprio come voi siamo pronti a tutto pur di difendere la nostra patria! Avete tempo fino a domani all’alba per arrendervi, altrimenti attaccheremo!»

 

Quando di lì a breve il sole tramontò, la vastità dell’esercito che cingeva d’assedio Grote Muren divenne ancor più evidente e minacciosa nella forma di una vera e propria foresta di fuochi accesi tutto intorno al forte.

Oltre al campo principale i ribelli avevano allestito anche un gran numero di piccoli accampamenti e posti di guardia per chiudere ogni possibile via di fuga, e forse era proprio per incutere timore che avevano deciso di accendere tutti quei falò.

E come promesso, al sorgere del sole, l’assalto ebbe inizio.

I cannoni ribelli scatenarono contro il forte una pioggia di proiettili, che pur non riuscendo ad apportare danni significativi alle spesse mura nuove di zecca furono il preambolo all’arrivo della fanteria.

L’attacco arrivò da varie direzioni e fu molto violento, ma chiunque avesse riprogettato e ricostruito quel forte aveva fatto in modo che si potesse percorrere i camminamenti sulle mura in modo veloce ed agevole.

In questo modo per Abel fu facile concentrare i suoi uomini di volta in volta nei punti in cui maggiormente serviva, mentre dalla apposite postazioni situate a distanze regolari e ben protette da ulteriori barriere le catapulte e le altre armi d’assedio scaricavano senza sosta palle infuocate e dardi contro gli assalitori.

Ogni tanto il giovane rivolgeva i propri occhi all’orizzonte, e ogni volta poteva scorgere in lontananza una figura in sella ad un cavallo, appostata sul colle più alto e circondata da un piccolo esercito di mostri grandi e grossi, che da distanza di sicurezza osservava lo svolgersi della battaglia tramite uno strano tubo che rifletteva i raggi di sole.

Il primo giorno l’assalto venne respinto, e così il secondo.

Al terzo giorno invece sembrò che il muro di cinta esterno dovesse cedere da un momento all’altro sotto il peso incessante delle cannonate, ma alla fine seppur ad un prezzo considerevole gli assediati ebbero nuovamente la meglio, e al calare del sole erano ancora padroni dell’intera fortezza.

Ma anche quando le armi tacevano e la notte si impadroniva della valle non c’era pace per Abel e i suoi uomini, che oltre alla tensione dovevano sopportare anche il profumo a dir poco invitante che proveniva dagli accampamenti nemici e che faceva contorcere lo stomaco. Un modo pietoso ma anche parecchio subdolo per spingere qualcuno a mettere in discussione la propria risolutezza.

Yvette, che poteva sfilare ad un uomo la corazza senza che questi se ne accorgesse, si offrì di andare a compiere un’esplorazione oltre le mura, nella speranza di reperire informazioni e magari pianificare qualche sabotaggio.

«Potrebbe essere molto pericoloso.»

«Pericoloso? Ti ricordo che siamo chiusi dentro un forte, assediati da un intero esercito. E comunque, chi tra noi due era il migliore quando da bambini giocavamo a nascondino? Fidati, me la caverò.»

Anche se era il suo superiore non c’era modo per Abel di vincere in un confronto dialettico con Yvette, così alla fine le diede il permesso di andare.

Con il favore delle tenebre la ragazza scivolò silenziosa come un gatto lungo la terra di nessuno, e rubata un’uniforme riuscì ad intrufolarsi senza problemi nel principale accampamento nemico.

Nell’aria c’erano allegria e buonumore, tutti cantavano e mangiavano come se fossero stati nel bel mezzo di una festa piuttosto che di un assedio.

Allora, pensò, erano vere le voci secondo cui non esistevano distinzioni in base alla razza; c’erano uomini e mostri che mangiavano e conversavano insieme attorno ai falò, ufficiali mostri con subalterni umani e viceversa, e persino una giovane chierica che impartiva benedizioni a chiunque le chiedesse, umani e mostri che fossero.

«Ehi tu!»

Quando sentì quel vocione alle sue spalle per un attimo pensò di essere stata colta sul fatto.

«Parli con me?» chiese alla persona che l’aveva chiamata, una ragazza a prima vista della sua stessa età con lunghi capelli marroni, corna e coda di drago e la pelle ambrata.

Non sapeva come si chiamasse, ma Yvette ricordò di averla vista più volte durante le battaglie tentare di aprirsi la strada verso il forte, incurante delle frecce che le piovevano addosso.

Il satiro e la piccola yeti che sedevano con lei non sembravano passarsela troppo bene, tenendosi entrambi le pance gonfie e gemendo di dolore.

«Ci hanno appena portato questo grosso cinghiale dalle cucine, ma a quanto pare questi due sono già sazi, e io non penso di poterne mangiare un altro tutto da sola. Ti andrebbe di farmi compagnia?»

«Ma, veramente io…»

«Avanti, non fare complimenti. Lo hanno persino farcito con le castagne.»

Temendo che un rifiuto avrebbe potuto risultare sospetto Yvette alla fine accettò l’invito, anche perché il pensiero di poter finalmente mangiare della carne dopo tanti giorni non le dispiaceva per niente.

«Non ti ho mai vista. Sei nuova?» le chiese la ragazza-drago tra un boccone e l’altro

«Io… sì. Mi sono appena arruolata.»

«Ah, sei una coscritta. E da dove vieni?»

«Da Basterwick

«Sapevo che mio fratello… volevo dire, che il Comandante ha ordinato di arruolare quante più persone possibili per questa spedizione. Ma se ha ordinato di arruolare anche persone giovani come te significa che è determinato ad andare fino in fondo.»

«Dunque, invaderemo davvero il Granducato?»

«Non ci hanno lasciato scelta. Noi non abbiamo fatto del male a nessuno. Vogliamo solo vivere in pace, essere liberi e padroni della nostra vita. E se per riuscirci dobbiamo combattere, siamo pronti a farlo. Nessuno di noi vuole tornare ad essere uno schiavo.»

«Sì, lo capisco. Non ho mai condiviso la pratica della schiavitù, e trovo legittimo che gli schiavi rivendichino il loro diritto alla libertà. Però, invadere un’altra nazione…»

«Anche io avevo qualche dubbio. Ma mio fratello dice che se non lo facciamo loro continueranno ad essere una minaccia. Dobbiamo far capire a tutti quale sarà il prezzo da pagare per chi ci attaccherà. Ma Daemon dice anche che è pronto a fermarsi in qualunque momento se i nostri nemici smetteranno di minacciarci, quindi sta a loro decidere se farlo o meno.»

«Però, se invadiamo la loro terra è difficile che possano riconoscere le nostre rivendicazioni. Del resto l’abbiamo appena visto, un’aggressione ne genera sempre un’altra.»

Al che la ragazza-drago si grattò la testa sbuffando rumorosamente.

«Io non ci capisco niente di queste cose. Ma tutti noi ci fidiamo di Daemon e del suo giudizio. Se lui dice che facendo così avremo la pace, non abbiamo motivo per non credergli. In fin dei conti, fino ad ora ci ha sempre guidati nel modo migliore.»

Un improvviso schiamazzare spinse Yvette a girarsi, giusto in tempo per scorgere il passaggio di un giovane dallo sguardo magnetico salutato a gran voce da tutti quelli che incontrava, ai quali rispondeva con sorrisi e cenni del capo.

«È lui?» chiese

«Proprio lui. Il mio fratellino.»

«Non ho mai visto un generale muoversi con tanta disinvoltura tra i suoi uomini, per di più senza una scorta. Non ha paura che possano esserci degli assassini?»

«Qui tutti daremmo la vita per lui. Se qualcuno provasse a toccarlo non vivrebbe abbastanza a lungo per pentirsene. E poi mio fratello sa difendersi benissimo anche da solo.»

Quando Daemon se ne andò Yvette usò una scusa per allontanarsi a sua volta, seguendolo di nascosto fino alla tenda di comando dove lo attendevano un vecchio soldato con la benda, un uomo-cavallo, un leone, e un biondino dagli occhi di ghiaccio.

Provare a sgattaiolare all’interno era fuori discussione, ma per sua fortuna il piantone era così stanco che non si accorse di lei, permettendole di scivolare in una zona buia e mettersi in ascolto.

 

«Si può sapere dov’è finito Septimus? Sapeva di questa riunione.»

«Sta ancora facendo il calcolo delle perdite.» rispose Richard «Finora la sua divisione è quella che ha pagato il prezzo più alto.»

«D’accordo, allora inizieremo senza di lui. Qual è la situazione?»

«Fino a questo momento abbiamo avuto quasi duecento morti, e più del doppio dei feriti.» disse Jack «Purtroppo come temevamo l’artiglieria non si sta rivelando di grande aiuto, mentre di contro i nemici hanno imparato subito a servirsi dei sistemi difensivi del forte.»

«Quale ironia.» disse Adrian. «Ci siamo dannati tanto per rendere Grote Muren imprendibile e ora la cosa ci si ritorce contro.»

«È chiaro che abbiamo sottovalutato la risolutezza del nemico.»

«Questa storia potrebbe costarci parecchi uomini.» disse Oldrick. «Se li prendiamo per fame prima o poi dovranno cedere.»

«Non sappiamo quante scorte Lefde e Victor abbiano lasciato lì dentro. Per quanto ne sappiamo potrebbero resistere per settimane. Mi spiace dirlo, ma a questo punto un giorno guadagnato vale molto di più di qualche centinaio di caduti.»

In quel momento Septimus fece finalmente la sua comparsa.

«Era ora. Ti stavamo aspettando.»

«Scusa il ritardo Daemon, ma la situazione era più seria di quanto pensassi.»

La benda che gli avvolgeva la testa rendeva evidente che tutte le intimazioni affinché evitasse di mettersi eccessivamente in pericolo erano rimaste inascoltate, ma Daemon ormai sembrava essersi rassegnato alla cosa e non disse nulla.

«Quanti caduti hai avuto alla fine?»

«Centodue. E non siamo riusciti a portare nemmeno un soldato in cima alle mura o l’ariete nei pressi delle porte. Che novità ci sono riguardo a quelle nuove armi di cui ci avevi parlato?»

«Dovrebbero arrivare in serata, o al più tardi domani mattina.»

«A questo punto forse conviene aspettare che siano qui.» disse Richard. «Se quello che ci hai detto è vero dovrebbero essere in grado di chiudere la questione.»

«In realtà non avrei voluto farne uso. Come vi ho accennato sono armi molto pericolose e distruttive. Un loro utilizzo potrebbe nuocere alla nostra immagine, che deve essere il più possibile immacolata se vogliamo che la popolazione di Eirinn non ci sia ostile.»

«Se perdiamo troppi uomini però potremmo essere comunque costretti a usarle in seguito.»

«Sono d’accordo con Adrian.» disse Richard «A volte è necessario forzare la mano per ottenere un risultato. Non dico di spazzarli via, ma forse fargli capire che non abbiamo paura di usare le maniere forti potrebbe bastare a farli finalmente arrendere.»

Daemon camminò per un po’ avanti e indietro, guardando ora la mappa ora i suoi consiglieri.

«D’accordo, faremo così. Se il convoglio arriverà stanotte, domani useremo le nuove armi per aprirci la strada fino alla conquista del muro esterno, quindi cesseremo l’attacco. Se sono furbi a quel punto si arrenderanno piuttosto che restare chiusi lì dentro a farsi massacrare.»

Un’improvvisa esplosione, come non se n’erano mai sentite, interruppe la riunione, e la sua onda d’urto fu così potente da far tremare la tenda. Usciti all’esterno, Daemon e gli altri videro un’alta colonna di fiamme e fumo levarsi in lontananza, in una zona separata del campo.

«Daemon!»

«Scalia! Che è successo?»

«Uno dei depositi di polvere da sparo è esploso. Stiamo cercando di contenere l’incendio.»

«Quanto è grave?»

«Ci sono almeno tre morti e decine di feriti. Abbiamo anche perso alcuni cannoni.»

Tutti convennero che non poteva essersi trattato di un incidente, visto che tutti sapevano quanto fosse pericolosa la polvere da sparo e come fosse assolutamente proibito tenere fuochi accesi nei pressi dei depositi.

«Siamo stati sabotati.» disse Oldrick «Faccio subito perquisire il campo.»

«Sarebbe inutile. Se ne saranno sicuramente già andati. Per fortuna le nuove armi non erano ancora arrivate. Ma aumentate la sorveglianza attorno agli altri depositi e agli altri luoghi sensibili.»

«Sì, Daemon.»

«Sono tenaci, bisogna dargliele atto. Ma domani gli faremo capire che il tempo dei giochi è finito.»

 

«Ho sentito il botto fino a qui.» disse Abel al ritorno dell’amica «Presumo che tu c’entri qualcosa, giusto?»

«Avrei voluto fare di più, ma per poco non mi hanno scoperta. Temo che al massimo otterremo di ridurre un po’ la potenza dei loro cannoni.»

«È già qualcosa.»

Yvette però non sembrava contenta dei risultati raggiunti, e se ne restava appoggiata alla parete a fissare il pavimento con aria pensierosa.

«Qualcosa non va?»

«Staremo davvero facendo la cosa giusta?»

«Stiamo difendendo la nostra patria da un’invasione. Che cosa c’è di più giusto e nobile di questo?»

«Loro non ci avrebbero attaccati se non lo avessimo fatto noi per primi. Il loro comandante non sembra una cattiva persona. Finora ha sempre mostrato compassione per tutti coloro che ha incontrato. Forse se avessimo cercato di parlare invece di ricorrere subito alle armi…»

«Non sta a noi prendere queste decisioni. Abbiamo dei governanti che si occupano di queste cose. In quanto soldati noi siamo tenuti a eseguire i loro ordini.»

«Eppure gli abitanti di questa provincia non hanno avuto dubbi quando hanno deciso che chi li governava non era degno del ruolo che ricopriva. Ora che comandano loro, l’Eirinn Occidentale sembra più prospera e felice che mai. Poi arriviamo noi e gli diciamo che no, devono tornare ad essere ciò che erano prima. È giusto secondo te?»

Al che Yvette scostò una ciocca dei suoi lunghi capelli castani, rivelando le orecchie leggermente appuntite e coperte da un sottile strato di morbida pelliccia.

«La mia trisavola era una mezzosangue, e i miei antenati sono originari di Basterwick. Se fossero rimasti qui quando questa provincia è stata ceduta all’Impero, forse anch’io sarei stata una schiava. Posso davvero dire che se fosse stato così ora non mi troverei in mezzo a loro?»

Anche Abel a quel punto abbassò lo sguardo, dilaniato tra ciò che sentiva intimamente e ciò che gli diceva il suo orgoglio di soldato.

«Solo altri due giorni. Ho promesso al Generale che avremmo resistito per cinque giorni. Dopodiché, se lui mi garantirà di non fare del male ai civili, ci arrenderemo.»

Yvette accolse la notizia quasi con sollievo.

«Allora cerchiamo di dare il meglio di noi stessi in questi ultimi due giorni.»

 

Il giorno dopo però l’attacco sembrò non arrivare, nonostante il nemico avesse preso posizione come al solito a poca distanza dal forte in assetto di guerra.

Abel, Yvette e tutti gli altri difensori radunati sulle mura non sapevano cosa pensare, almeno fino a quando non videro i ribelli portare in prima linea otto strani cannoni, piccoli di dimensioni ma molto più grossi di quelli che usavano abitualmente.

Li portarono vicino, molto più vicino di quanto non facessero di solito, -così tanto che con giusto qualche metro in più sarebbero finiti nel raggio d’azione degli arcieri– puntandoli non in direzione del forte ma verso l’alto.

«Non ho mai visto niente del genere.» disse Abel

«Devono essere le nuove armi di cui parlavano.»

Di sicuro i proiettili dovevano essere molto più pesanti del normale, tanto da dover essere portati e infilati all’interno da due soldati contemporaneamente per mezzo di una catena provvista di tenaglia.

Quando furono tutti caricati, una specie di asta di legno a forma di L con un peso al centro venne messa all’interno di ciascun cannone da alcuni addetti che fecero dei segni ai serventi perché alzassero ancora di più il tiro. Quindi, dopo che ebbero finito, l’asta di legno fu rimossa e vennero accese due micce, una per il cannone e una per il proiettile.

«Attenzione, si preparano a sparare!»

Lo scoppio fu più simile ad un fuoco d’artificio che ad una cannonata, producendo colonne fiammeggianti che salite nel cielo ricaddero con una parabola sui ballatoi delle mura.

Ma la cosa più spaventosa fu che nel momento in cui toccarono il suolo i proiettili produssero vere e proprie esplosioni, sparando in ogni direzione letali raffiche di piccoli proiettili, fiamme e detriti che fecero decine di morti.

«Presto, mettetevi tutti al riparo!» gridò Abel inviando tutti verso le casematte

Ben protette dallo sbarramento dei propri cannoni le truppe ribelli avanzarono rapidamente in direzione del forte portando scale, rampini e anche un ariete.

Il fuoco era così intenso che gli assediati furono letteralmente intrappolati nei rifugi fino a quando i cannoni non dovettero cessare il fuoco per evitare di colpire i propri alleati; e a quel punto ormai i ribelli erano praticamente ai piedi delle mura.

«Respingiamoli! Tutti in posizione, lanciate fino all’ultima freccia!»

Ma evidentemente i ribelli avevano sottovalutato la forza di volontà dei loro nemici; la loro resistenza fu brutale e all’ultimo sangue, senza cedere di un passo, con il risultato che nonostante tutto gli attaccanti non riuscirono ad aprirsi la strada, subendo nel corso della prima ondata un tale numero di perdite che il loro assalto finì per perdere d’impeto.

Sembrava quasi che Abel e i suoi potessero davvero farcela ancora una volta, almeno fino a quando il giovane generale nemico, vedendo i suoi uomini ad un passo dalla rotta, non decise di scendere in campo a sua volta per spronarli.

«Non arretrate!» gridò correndo a prendere personalmente l’ariete «Continuate ad attaccare! Ormai ci siamo quasi!»

Spronati dal suo esempio e infervorati dall’incessante carica suonata dai trombettieri i ribelli reagirono, ritrovando il coraggio e riprendendo l’assalto in maniera più coesa.

«L’ariete è qui sotto! Presto sfonderanno la porta!»

«Non c’è altra soluzione… ritirata, ritirata! Ripiegare nella cinta interna!»

I ribelli però ormai erano indemoniati, e quando si capì che il portone non avrebbe resistito a lungo la ritirata si tramutò in una fuga disperata verso la salvezza.

Abel e Yvette cercavano di mantenere l’ordine, ma persino loro si fecero per un attimo prendere dal panico quando i ribelli fecero infine irruzione da ogni dove mentre l’evacuazione verso il forte interno era ancora in corso, perennemente spronati dai loro capo che guidava l’assalto.

A quel punto, Yvette fece la prima cosa che le venne in mente per demoralizzare il nemico.

«Dammi quell’arma!» strillò strappando la balestra ad un compagno in fuga.

Prese la mira al meglio che poteva e scoccò.

Neanche Ivanon, il leggendario arciere delle Guerre Sacre, avrebbe saputo fare di meglio; il dardo colpì proprio al centro del petto trapassando la corazza, e il comandante nemico cadde al suolo con gli occhi sbarrati senza quasi accorgersi di cosa fosse successo.

«Il Generale Septimus è stato ferito!»

A quel punto c’erano solo due possibilità: o i suoi uomini andavano nel panico e fuggivano o si scatenavano per vendicarlo.

Per fortuna di Abel, Yvette e i loro uomini a verificarsi fu la prima opzione; i soldati ribelli usarono il poco autocontrollo rimastogli per erigere un muro di scudi attorno al loro comandante, e appena questi fu portato via iniziarono a ripiegare fino a ritirarsi del tutto.

Questo tuttavia non migliorò la situazione generale; la cinta esterna era ormai perduta, e con le perdite subite nel corso di quell’attacco era impensabile sperare di poterla riprendere.

Ma in realtà ciò che toglieva ad Abel e Yvette ogni goccia di ottimismo era la sensazione di aver appena fatto qualcosa di cui si sarebbero presto pentiti.

 

Quando Daemon entrò nella tenda-ospedale aveva uno sguardo che nessuno ricordava di avergli mai visto addosso, e che divenne se possibile ancor più fosco nel momento in cui raggiunse il giaciglio di Septimus.

Il cerusico aveva estratto la freccia e applicato i medicamenti, lasciando il posto a Sylvie e alle sue arti magiche quando si era capito che la medicina convenzionale non poteva fare altro.

«Come sta?»

«È stato molto molto fortunato.» disse Oldrick «Se non fosse stato per la corazza di ragno la freccia gli avrebbe trapassato il petto.»

«Lady Sylvie, ditemi che se la caverà.»

«È presto per dirlo, purtroppo. Il polmone è perforato, e suo cuore batte a malapena. Posso solo infondere la mia magia dentro di lui mentre tento di curare la ferita, ma dipenderà tutto dalla sua forza di volontà.»

In quel momento il ragazzo aprì debolmente gli occhi, incrociando subito quelli del suo migliore amico.

«Daemon…» disse allungando la mano tremante verso di lui

«Sono qui, Septimus. Non muoverti. Sei gravemente ferito.»

«Mi… mi dispiace. Io… non ho resistito… ho fatto di nuovo di testa mia…»

«Te l’ho sempre detto che sei un gran testardo. Ma è merito tuo se abbiamo preso il muro esterno. Quindi ora riposa. La tua parte l’hai fatta. Ora lascia che ce ne occupiamo noi.»

Septimus abbozzò un sorriso prima che la stanchezza e soprattutto il dolore, insopportabile malgrado gli anestetici, non lo facessero svenire.

«Oldrick

«Sì?»

«Convoca tutti.»

 

La notizia di quanto accaduto a Septimus si sparse nel campo prima ancora che venisse convocata la riunione del Consiglio di Guerra.

Le notizie erano incontrollate e contraddittorie, anche perché l’accesso alla sua stanza era proibito a chiunque; l’unica cosa che si sapeva era che fino a quando Lady Valera fosse rimasta nella tenda voleva dire che Septimus era ancora vivo.

C’erano rabbia e frustrazione e nell’aria, nonché un senso generale di rivalsa, e non solo perché da sempre mirare deliberatamente ai comandati era considerata un’azione vile e disonorevole: Septimus era un buon generale, un soldato valoroso, ma soprattutto un compagno di bevute e un amico affidabile.

E tra tutti nessuno sembrava più ansioso di dispensare la giusta vendetta per l’accaduto di Daemon, che per la prima volta aveva negli occhi non la luce della guida, ma il fuoco inesauribile della rabbia.

Eppure nessuno, neanche chi lo conosceva meglio, avrebbe mai potuto immaginare cosa avesse deciso di fare per mettere fine una volta per tutte all’assedio.

Dopo che ebbe finito di parlare, sembrò quasi che un vento gelido avesse spazzato l’interno della tenda congelando ogni cosa.

«E questo è tutto. Mi auguro che sarete tutti d’accordo con me.»

Paradossalmente era Scalia la più sconvolta di tutti: «Daemon, io… Io capisco perfettamente come tu ti senta. Anche noi siamo arrabbiati e volgiamo vendicare Septimus. Ma quello che tu proponi è… non trovo un’altra espressione, Daemon, è spietato.»

«Per una volta la penso come lei.» disse Adrian.

«Chi commette un’azione del genere deve essere pronto a pagarne le conseguenze.»

«Un conto è esigere una doverosa vendetta, ma qualcuno potrebbe pensare che questo sia troppo. E onestamente non me la sentirei di dargli torto.»

«Hai sempre agito in modo assennato e basandoti sulla ragione, Daemon.» disse Jack. «Non smettere adesso. In tutte le scelte ci vuole criterio, lo dici spesso.»

«Al diavolo il criterio. A volte è necessario mandare dei segnali.»

«Septimus è anche amico nostro.» disse Oldrick. «E anche noi vogliamo che i nostri nemici paghino per quello che gli hanno fatto, però…»

Daemon si alzò dalla sedia con tale violenza da far quasi ribaltare il tavolo.

«Non ho più intenzione di perdere un singolo soldato in questa maledetta valle! Ho cercato di essere ragionevole! Ho offerto loro in più occasioni una resa onorevole e l’hanno rifiutata! Adesso basta!»

Qualcuno dei presenti quasi non credette che quello fosse lo stesso Daemon che avevano sempre conosciuto.

Difficile dire perché a quel punto nessun’altro levò una parola di protesta, né tentò ulteriormente di opporsi alla sua decisione.

Una cosa però era certa; quella fu la prima volta in cui tutti, nessuno escluso, ebbero paura di lui.

 

Quella notte, un messaggio rimbombò come un tuono in tutta la valle, un messaggio che non lasciava spazio all’interpretazione.

L’assalto finale sarebbe cominciato alle sei in punto, e sarebbe andato avanti fino alla completa obliterazione del nemico, o fino a quando la bandiera di Eirinn che sventolava in cima al forte non fosse stata ammainata.

Inutile dire che quella notte per gli assediati fu lunghissima e drammatica.

I soldati erano divisi; qualcuno voleva arrendersi ritenendo di aver già fatto ben più di quanto chiunque avrebbe potuto aspettarsi da loro, qualcun altro –la maggioranza– voleva invece continuare a battersi.

Si discusse, ci si accapigliò, si sfiorò la rissa; Yvette sapeva di essere la responsabile dell’improvviso cambio di atteggiamento dei ribelli, ma la sua proposta di offrirsi come vittima sacrificale per placare le ire del nemico in cambio di una resa senza ulteriori spargimenti di sangue trovò l’opposizione di tutti.

In fin dei conti, ci si diceva, aveva fatto l’unica cosa che si potesse fare per salvare la vita dei suoi uomini, e non c’era onore che tenesse quando in ballo c’era la sopravvivenza.

Alla fine si decise di resistere fino a mezzanotte, fino alla scadenza del quinto giorno; a quel punto ci si sarebbe potuti arrendere e uscire dal forte a testa alta, sapendo di aver fatto fino all’ultimo il proprio dovere.

Si aspettavano un attacco più violento del solito, sospinto dall’esasperazione e dalla voglia di vendicarsi; ma mai si sarebbero potuti immaginare quello che il comandante nemico aveva preparato per loro.

La mattina dopo la valle era sovrastata da un cielo plumbeo che annunciava pioggia, e un insolito vento freddo proveniente da nord rendeva l’aria umida e pesante.

I nuovi cannoni erano stati avvicinati fin quasi a sfiorare le mura esterne del forte; alle loro spalle l’intero esercito ribelle assisteva quasi in formazione da parata, come spettatori in procinto di assistere al più spaventoso degli spettacoli.

Daemon, che per tutta la notte non aveva chiuso occhio, camminava avanti e indietro davanti a tutti, tenendo le braccia incrociate dietro la schiena e controllando continuamente l’orologio.

Da Scalia a Oldrick a Jack, perfino Adrian sembravano sperare con tutto loro stessi che quella bandiera venisse finalmente ammainata. Ma ciò non accadde; e allo scoccare fatale della sesta ora, negli occhi di tutti apparve il più cupo sconforto.

Ma non in quelli di Daemon.

«Fuoco.»

C’è una sola parola in grado di descrivere ciò che al suo comando iniziò a piovere sulla testa dei soldati di Eirinn; l’inferno.

Fu come se i cancelli di Belion si fossero aperti sopra Grote Muren facendo piovere su di esso una valanga di metallo, fuoco, sangue… e morte.

Un’esplosione ne seguiva un’altra, e poi un’altra ancora, ad un ritmo incessante e quasi inconcepibile; i cannoni non sparavano all’unisono, e questo, oltre a rendere impossibile prevedere l’arrivo delle granate, risultava in un continuo susseguirsi di colpi.

Neanche i rifugi sulle mura poterono resistere a lungo contro un simile bombardamento, quindi l’unica cosa da fare fu ritirarsi all’interno del torrione centrale.

Ci si aspettava che a quel punto i ribelli sfruttassero il momento per avanzare rapidamente, prendere il controllo anche della cinta esterna e quindi lanciare l’assalto finale.

Invece no.

Continuarono a sparare.

Ancora, ancora, e ancora.

Per minuti, ore. Sembrava che avessero deciso di radere quel posto al suolo con tutto quello che c’era dentro.

«Non c’è speranza! – Arrendiamoci! – Se restiamo qui ci seppelliranno tutti! – Non voglio morire!»

«Non cedete, soldati! Dobbiamo resistere! Pensate alla vostra patria! Pensate alle vostre famiglie! Non possiamo permettere che questo succeda anche a loro!»

«Abel, attento!»

Abel non si accorse di nulla fino a quando non si sentì spingere violentemente via, un attimo prima di vedere la sua migliore amica scomparire dietro un’intera porzione dell’edificio che crollando su di lei riempì ogni cosa di rumore, polvere e detriti.

«Yvette!»

«Capitano, dateci degli ordini! – Capitano! – Che state facendo? – È inutile Capitano, è morta! – Che cosa facciamo? – Capitano, attenzione!»

 

Il torrione centrale del forte era robusto, forse la parte meglio fortificata e più resistente dell’intera struttura.

Ma le nuove armi, i mortai come li aveva chiamati Daemon, erano così potenti e distruttivi che bastarono pochi colpi perché iniziasse a crollare su sé stesso.

Secondo Daemon danneggiare il muro di cinta interno o lo stesso torrione erano danni collaterali facilmente riparabili, soprattutto visto che le mura esterne invece erano rimaste sostanzialmente intatte.

Ciò non toglie però che ben presto più di qualcuno iniziò a domandarsi se fosse davvero necessaria tutta quella ferocia.

Sapi sembrava sul punto di piangere.

Scalia era così nervosa da non riuscire a stare ferma.

Oldrick, Jack e Richard erano ammutoliti.

Adrian e Natuli osservavano la scena con invidiabile distacco.

Qualcuno pensava che tutto ciò fosse sbagliato, qualcun altro che fosse inevitabile, qualcun altro ancora che anche quello significava fare la guerra.

Ma nessuno disobbedì.

L’ordine era chiaro, e prima di ritirarsi nella sua tenda Daemon ci tenne a ribadirlo: far tuonare i cannoni fino a quando la bandiera non fosse stata ammainata.

E così l’attacco continuò.

Incessantemente.

Inesorabilmente.

Pian piano, molti soldati iniziarono a tornare verso gli accampamenti, chi per noia, chi perché semplicemente incapace di sostenere una cosa del genere.

Al tramonto ormai erano rimasti solo i serventi e pochi irriducibili.

La bandiera era ancora lì, ridotta ormai ad uno straccio bruciacchiato attaccato all’asta per un solo angolo, ma sventolava ancora.

Un colpo centrò quello che restava del tetto del torrione, e la vista di quel pezzo di tela bianco e blu scaraventato in cielo dall’esplosione spinse qualcuno a ritenere che quello era troppo.

«Daemon.» disse Adrian scostando quasi con timore i lembi della tenda.

Lui non si voltò neanche a guardarlo, restandosene incurvato sul tavolo a studiare le sue mappe. «Che c’è?»

«Credo che così possa bastare.»

Seguì un lunghissimo silenzio, rotto dal rimbombare incessante dei cannoni.

«D’accordo. Basta così. Entro domani voglio una stima dei danni. Se trovate dei superstiti, curateli.»

«Sarà fatto. Ah, a proposito.»

«Sì?»

«Septimus è fuori pericolo. Ho parlato adesso con Lady Valera.»

«… Ho capito. Puoi andare…»

Adrian fece in tempo a fare giusto qualche passo perché da dentro la tenda iniziasse a giungere un improvviso baccano, simile a quello di una rissa da taverna, intervallato da singhiozzi e urla rabbiose.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti e Buona Pasqua!

Lo so sono un po’ in ritardo rispetto alla mia solita ora, ma tra i preparativi per la festa e il cambio dell’ora mi sono ritrovato con tante cose da fare.

Rimediamo subito.

Questo capitolo è parecchio lungo, ma non volevo spezzarlo, anche per via degli eventi importanti che accadono al suo interno e che avranno un impatto importante sul prosieguo della storia.

I prossimi due invece saranno una sorta di esperimento, che potrebbero essere il preludio a qualcosa di nuovo, ma la decisione al riguardo sarà esclusivamente vostra.

Ma ne riparleremo.

Per il momento godetevi questo.

A presto!^_^

Cj Spencer

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 - LO STUDIOSO ***


“Non discuti con gli intellettuali,

gli spari.”

CAPITOLO 4

LO STUDIOSO

 

 

Mablith era la prima grande città del Granducato che si incontrava una volta lasciate le montagne procedendo verso est.

Un luogo pacifico e non abituato alla guerra, tanto da non avere nemmeno delle mura o altri sistemi difensivi.

D’altro canto fin dal momento della separazione dei suoi territori Eirinn aveva sempre scelto la via dell’assoluta neutralità, e anche nel corso della trentennale Guerra di Confine con l’Unione mai una volta era stata minacciata di invasione –anche se questo non aveva impedito a reparti dell’esercito di combattere al fianco dell’Impero come unità ausiliarie–.

Il suo stato di vassallo era puramente formale, e a parte il non poter iniziare campagne militari senza il permesso dell’Imperatore o il divieto di cambiare alcune leggi poteva decidere autonomamente della propria politica.

Certo, il suo suolo era uno dei più fertili che si fossero mai visti e ci cresceva qualunque cosa, ma né Saedonia, con le sue vaste praterie centrali, né l’Unione, stato agricolo per eccellenza, avevano problemi in tal senso, quindi nessuno riteneva che i suoi campi o i suoi boschi valessero una guerra.

Per questi e altri motivi l’esercito ducale aveva deciso che Mablith doveva essere sacrificata all’avanzata nemica, ma a dispetto degli ordini ricevuti buona parte dei cittadini aveva deciso di non abbandonare la città, anche per via delle voci rassicuranti in merito alla nobiltà d’animo del comandante nemico.

L’arrivo delle truppe dello Stato Libero fu indubbiamente qualcosa di maestoso, che lasciò a bocca aperta gli abitanti radunatisi per l’occasione lungo la via principale.

Non sembrava nemmeno di vedere un esercito ribelle: i soldati erano ordinati e disciplinati, indossavano tutti o quasi le stesse uniformi, brandivano armi uguali per tutti, e marciavano al passo dei tamburi sventolando orgogliosamente le proprie bandiere.

Dopo aver stabilito il campo alla periferia della città, Daemon volle andare ad incontrare il sindaco insieme ad alcuni dei suoi compagni.

«Vi garantisco che non abbiamo intenzioni ostili verso la vostra comunità. I miei uomini hanno l’ordine di non razziare e di tenersi lontani dal centro abitato. Manterremo solo una piccola forza di sicurezza e alcune pattuglie, inoltre useremo i vecchi magazzini del sale come depositi per i nostri rifornimenti.»

«Noi non vogliamo problemi, Messer Haselworth. Ma abbiamo ricevuto notizie molto inquietanti in merito all’assedio di Grote Muren

L’autocontrollo con cui Daemon aveva iniziato a comportarsi fin dal giorno dopo la fine della battaglia contrastava con il modo in cui aveva ridotto la sua tenda quella notte. Era quasi come se sfogandosi avesse gettato fuori tutta la frustrazione e tutta la rabbia accumulate in quei cinque famigerati giorni, tornando ad essere la stessa guida fredda ma cortese che tutti ricordavano.

E la cosa inquietava un po’ alcuni dei suoi amici, a cominciare da Scalia.

«Purtroppo le circostanze ci hanno costretti a ricorrere a misure estreme. E anche se potrà sembrarvi ipocrita, voglio dirvi che mi dispiace che sia andata a finire in quel modo. Se vi può consolare abbiamo appurato che quasi tutti gli occupanti del forte appartenevano all’armata orientale del Conte di Hatlen, quindi non dovrebbero esservi dei vostri concittadini tra di loro.»

Il sindaco guardò in basso come se avesse paura.

«Voglio essere onesto con voi, Messer Haselworth. Io e la mia comunità vi dobbiamo molto. Le relazioni economiche che lo Stato Libero aveva intessuto hanno fatto la fortuna anche di Mablith. Ma non posso non pensare che anche se nessuno dei nostri figli è perito a Grote Muren molti di essi fanno comunque parte dell’esercito. E immagino che voi e i vostri uomini non siate qui per fare amicizia.»

«Mi spiace, ma tutto quello che posso promettervi è che cercheremo di ridurre al minimo le vittime. Noi non abbiamo alcuna intenzione di portare avanti questa guerra più del necessario. Se il Granduca accetterà di negoziare la cessazione delle ostilità e il raggiungimento di una pace duratura, siamo pronti a fermarci in qualsiasi momento.»

«In questo caso temo sarà molto difficile. Se solo il vecchio Granduca fosse ancora padrone di questo Paese non ci saremmo ridotti in questa situazione. Victor è giovane e ambizioso, ma soprattutto è malconsigliato da quel sobillatore di suo zio. Fino a che uno dei due sarà al potere non ci sarà spazio per la diplomazia.»

«Vi prometto che resteremo qui solo il tempo strettamente necessario. Giusto qualche giorno, in attesa che arrivino i rifornimenti e i nostri esploratori facciano rapporto sullo stato del nemico. Nel frattempo, se qualcuno dei vostri concittadini vorrà unirsi a noi o contribuire in qualche modo alla spedizione, sarà il benvenuto.»

Dopo aver discusso qualche altra cosa Daemon tornò nel suo alloggio, chiedendo di non essere disturbato se non in caso di necessità.

Chi lo conosceva poteva vedere benissimo che per quanto cercasse di far finta del contrario, ciò che era accaduto a Grote Muren lo aveva profondamente segnato.

«Sono così preoccupata per il mio fratellone.» disse Sapi con un’espressione insolitamente abbacchiata. «Non l’ho mai visto così triste.»

«Forse dovremmo provare a parlargli.»

«Per dirgli cosa?» rispose Jack. «Lo conosci meglio di tutti noi Scalia, lo sai bene che sarebbe inutile.»

«È solo colpa mia.» disse Septimus sfiorandosi rabbiosamente il braccio legato al collo «Se non fossi stato così stupido e avventato…»

«No, ragazzo.» sospirò Oldrick. «La colpa temo sia di tutti.»

«Che vuoi dire?» chiese Sapi

«Il problema è che senza rendercene conto, per tutto questo tempo non abbiamo fatto altro idealizzare Daemon. E così ci siamo dimenticati che anche lui in fin dei conti è solo un ragazzo, per quanto speciale possa essere. E in quanto tale anche lui ogni tanto può essere dominato dal dolore, dall’ira e dalla sete di vendetta.»

«Temo che sia stato un trauma anche per lui, sapere di non poter sempre essere padrone delle proprie azioni.» disse Adrian. «Dovrà farci i conti. E purtroppo è una cosa che può fare unicamente da solo.»

«Chiedo scusa, lor signori.» disse in quel momento una strana voce senile alle spalle del gruppo. «Per caso è qui che posso incontrare Messer Haselworth?»

 

Se ancora ci pensavo, mi sentivo bruciare di rabbia.

Ma cosa mi era successo?

Come avevo potuto comportarmi in modo così infantile e sconsiderato?

Per un attimo mi ero sentito come quel giorno di tanti mesi prima, quando avevo gonfiato di botte quell’idiota di Doug fermandomi giusto in tempo per evitare di ammazzarlo.

Solo che stavolta le conseguenze delle mie azioni rischiavano di essere molto più drammatiche.

Mi ero ripromesso di non commettere mai più gesti impulsivi e farmi sempre guidare dalla logica, perché avevo capito sulla mia pelle quanto gravi potessero essere le conseguenze dell’abbandonarsi alle passioni.

E invece mi era bastato vedere Septimus disteso su quel pagliericcio con un buco nel petto per perdere letteralmente la testa, e la cosa peggiore è che non ne capivo il motivo.

Come se quella fosse la prima volta che vedevo un amico morire davanti ai miei occhi.

Un amico!? Non scherziamo! Io non ho amici! Quelle persone non sono che strumenti utili al mio scopo!

Ma allora perché ancora adesso ripensare a quella scena mi faceva salire la rabbia?

Era come se ogni tanto il vecchio Daemon cercasse di emergere e influenzare il mio modo di pensare, e la cosa mi faceva innervosire a tal punto da volermi prendere a schiaffi.

È proprio il colmo. Essere arrabbiati con una parte di sé!

Ogni volta che mi trovavo in situazioni come quella non potevo non immaginarmi Faucheur intento a godersi lo spettacolo con quel suo fare sornione.

Immergermi nel lavoro era l’unico modo per cercare di riordinare le idee e pensare al futuro; anche se la gente di Erthea era abituata tanto quanto quella del mio vecchio mondo alla barbarie della guerra la mia reputazione era destinata a risentire parecchio per quanto accaduto a Grote Muren.

Se volevo conservare la lealtà e la fiducia della gente non potevo più permettermi azioni simili, perlomeno non nell’immediato.

In quel momento ero così confuso e stressato che mi sarebbe bastato un niente per esplodere. E qualcuno pensò che potesse essere una buona idea farmi piombare tra capo e collo una vecchia conoscenza di cui non sentivo la mancanza.

 

«Daemon, scusa il disturbo.» disse Jack entrando nella tenda

«Spero sia importante. Avevo detto di lasciarmi tranquillo.»

«Scusa, ma c’è uno strano tizio che chiede di vederti. Dice di conoscerti.»

«Di chi si tratta?»

Prima che il cavallo potesse rispondere alle sue spalle giunsero inequivocabili schiamazzi e grida rabbiose, seguite da un’imprecazione irripetibile e da gemiti di dolore.

Sentendo quell’ultima voce, Daemon sembrò non voler credere alle proprie orecchie.

«Ditemi che è uno scherzo.»

Il ragazzo seguì quindi il suo subalterno in cortile, giusto in tempo per assistere alla scena tragicomica di Scalia che, rossa d’imbarazzo, veniva trattenuta a stento da Richard dall’infierire ulteriormente su di un attempato gentiluomo di mezza età dall’aria svampita.

«Che cosa pensavi di fare, razza di vecchio maniaco?»

«Annotazione. La teoria secondo cui la coda dei draghi sarebbe una zona particolarmente sensibile è decisamente fondata.»

«Professore! Che cosa ci fate voi qui?»

«Daemon, tu conosci questo pervertito?»

«Più o meno.»

L’anziano signore allora si rimise faticosamente in piedi, togliendosi polvere e terriccio dal vestito doppiopetto.

«Ragazzo mio. È un piacere rivederti. E mi scuso per l’inconveniente con voi, signorina. Purtroppo tendo spesso a dimenticarmi di pensare prima di agire.»

«Questo è un vizio che prima o poi potrebbe costarvi caro, amico mio.» disse Daemon

«Per un attimo pensavo che quel momento fosse arrivato. La tua amica ha confermato la mia teoria sulla forza bruta dei draghi.»

«Ringrazia che mi hanno fermato, o ti avrei usato per pulire per terra!»

Anche Daemon una volta aveva imparato a proprie spese cosa voleva dire toccare la coda a Scalia, quindi non se la sentiva di essere troppo severo nel giudicare il professore.

«Jack, per favore fai portare del tè per il professore.»

Scalia e gli altri non riuscirono a credere ai propri occhi quando videro il loro amico fare accomodare il nuovo arrivato nella sua tenda, chiedendo ancora una volta di non essere disturbato.

«Questo riporta alla memoria eventi agrodolci.» commentò il professore mentre Daemon gli serviva un semplice ma profumato tè di erbe selvatiche. «Non sai quante volte ho provato a replicare la ricetta senza mai riuscirci.»

«Allora, volete dirmi cosa ci fate a Eirinn? Pensavo foste ritornato nell’Unione.»

«Mi conosci. Lo sai che non riesco a stare troppo a lungo in un solo posto. Questo mondo è così vasto, e ci sono così tante cose da vedere, che restare chiuso tutto il tempo in una pomposa aula universitaria sarebbe un vero spreco.»

Daemon sorrise: «Sono passati quasi tre anni, ma non siete per niente cambiato.»

«Al contrario di te. Avevo capito che fossi un tipo particolare, ma non mi sarei mai aspettato una cosa del genere.»

Come se quel delicato aroma di campo avesse avuto il potere di addolcire i pensieri e distendere l’anima, entrambi finirono così per percorrere quasi con nostalgia il viale dei ricordi.

 

Una volta ogni sei mesi si svolgeva a Dundee il grande mercato delle merci esotiche che richiamava in città una folla incredibile tra mercanti e compratori, di ogni appartenenza e ceto sociale.

Dal canto suo, ogni anno Daemon metteva da parte le merci migliori proprio in vista del grande mercato, visto che anche nel suo settore si potevano fare ottimi affari.

Era anche un’ottima occasione per fare nuove conoscenze e stringere amicizie.

«Gli affari vanno a gonfie vele, a quanto vedo.» disse un bonario signore di mezza età dall’aria rispettabile

«Sindaco Luparl, buongiorno.»

Il vecchio Luparl, intagliatore da sempre, era uno degli uomini più rispettati della città, che la sua famiglia aveva praticamente fondato ed abitava fin dai tempi del vecchio Granducato.

«Di questo passo diventerai ricco come un re.»

«Non mi posso lamentare. Dopotutto questi mercanti dell’est hanno tanti soldi e l’occhio non abbastanza allenato.»

«Ben detto. Ad ogni modo, speravo proprio di incontrarti. Avrei un favore da chiederti.»

«Se posso, volentieri.»

«Mi è arrivata una richiesta dal sindaco di Zolle, oltre il ponte. Si tratterebbe di accompagnare uno studioso per una spedizione nei boschi, o qualcosa del genere.»

«Uno studioso?»

«Un certo Hinkel. Professor Jacob Hinkel

«Lo conosco di fama. È un naturalista. Insegna all’Università di Mickarn

«Dicono anche sia stato uno dei mentori del presidente. Ad ogni modo arriverà qui la settimana prossima, e volevo chiederti di accompagnarlo nella sua spedizione.»

«Ci sono molte guide esperte nel villaggio e nei dintorni. Non sarebbe meglio parlare con qualcuna di loro?»

«In nome della dea, assolutamente no. Sono solo un branco di bifolchi illetterati. Tu non hai niente da invidiare a quei caproni, e a differenza loro sai come rapportarti con le persone rispettabili.»

«Io non saprei. Mi onora che abbiate una così alta opinione di me, ma ho molto da fare ultimamente.»

«Ti prego.» lo supplicò letteralmente il signor Luparl. «Prometto che la paga sarà più che adeguata al tempo che perderai. La situazione per i commerci sta iniziando a migliorare seriamente solo adesso, se capitasse qualcosa di brutto al professore, chi può dire cosa potrebbe succedere?»

Daemon si guardò un momento attorno, quasi che stesse cercando una scusa buona per rifiutare la richiesta.

«D’accordo. Lo farò.»

«Ti ringrazio, ragazzo. Dal profondo del cuore.»

«Ma sia chiara una cosa, solo per qualche giorno. La stagione della caccia sta per entrare nel vivo.»

«Certamente, senza alcun dubbio. Hai la mia parola. Manderò subito una lettera al sindaco di Zolle.»

 

Daemon aveva sentito dire che il professor Jacob Hinkel fosse un tipo un po’ bizzarro, come tutti i luminari del resto, ma ciò che si trovò di fronte al momento fatidico lo lasciò quasi basito.

Non era né grasso ne magro, semmai giusto un po’ paffuto, come tutti i naturalisti e gli studiosi da salotto, con una vistosa pelata malamente nascosta da un elegante cappello.

«Tutta questa accoglienza per un umile professore?» disse, quasi divertito, mentre scendeva dalla carrozza.

«Professor Hinkel, benvenuto a Dundee. Io sono Luparl, il sindaco di questa comunità. E questi è…»

«Daemon. Daemon Haselworth.»

«Daemon sarà la Vostra guida, professore. È un cacciatore di grande talento, e conosce le foreste della regione meglio di chiunque altro.»

Al che il professore si avvicinò al ragazzo, fissandolo con evidente curiosità.

«Così giovane, e già così stimato. Mi sento quasi onorato di avere una persona come voi a guidarmi per questi boschi.»

«Farò del mio meglio, professore.»

Nel mentre il cocchiere e il valletto stavano cercando di scaricare il due pesanti bauli legati sul tetto della carrozza; avevano appena finito col primo, quando messo un piede in fallo il cocchiere si fece sfuggire dalle mani il secondo, che apertosi rumorosamente sparse in ogni dove il suo contenuto di barattoli, ampolle e libri di ogni forma e dimensione.

«Che fate, sciocchi? Quelli sono campioni e volumi preziosissimi! Ve lo detraggo dal pagamento!»

Daemon alzò gli occhi al cielo, sospirando. Non aveva ancora iniziato, e già non vedeva l’ora che finisse.

 

Servì quasi un’ora per caricare quel povero mulo di tutto l’armamentario, e vani furono i tentativi di Daemon di avvisare che forse non era il caso di portarsi dietro un simile bagaglio, visto il tipo di sentieri che avrebbero attraversato.

«Impossibile.» aveva risposto il professore «È tutto equipaggiamento indispensabile.»

Lasciata la città, Daemon e il professore si addentrarono nelle foreste a ovest, lungo un sentiero battuto che però finirono ben presto per abbandonare su richiesta del vecchio erudito, il quale finì ben presto per farsi rapire interamente dalla meraviglia, prendendo a scribacchiare senza sosta un quadernetto.

Tutto sembrava attirare il suo interesse, e più di una volta durante il tragitto Daemon dovette ammonirlo di tenere d’occhio il suo cavallo per non rischiare di andare a sbattere da qualche parte, o peggio ancora di perdersi.

«Cerchi di mantenere sempre il contatto visivo. Questa foresta è tutt’altro che sicura.»

«Potete stare tranquillo, signor Haselworth. A vedermi non si direbbe, ma ho visitato luoghi assai più pericolosi di questo.»

«Con tutto il rispetto, ma mi viene difficile crederlo.»

Dopo solo qualche ora dovettero fermarsi, visto che ormai il terreno si era fatto così accidentato che sarebbe stato imprudente avventurarvisi con il mulo carico.

«Da qui in poi meglio procedere a piedi.»

Se non altro, a dispetto dell’età, del fisico non troppo atletico e della palandrana tutt’altro che pratica che indossava, il professore sembrava davvero a suo agio a camminare per terreni impervi, e riuscì senza troppi affanni a stare dietro alla sua guida per tutto il tragitto.

Procedendo a piedi raggiunsero un terrazzamento poco più in alto, abbastanza vicini da poter tornare agilmente sui propri passi ma abbastanza lontani perché gli animali non si sentissero minacciati dalla loro presenza e dal rumore dei cavalli.

Mentre Daemon sorvegliava i dintorni il professore si mise subito al lavoro, e armato di retino prese a catturare quanti più ragni, insetti e piccoli rettili o anfibi che poteva, catalogandoli con cura e riponendoli nei pochi barattoli che era riuscito a caricare sullo zaino che si era portato dietro.

Ad ogni nuova cattura, metteva mano alla lente che portava come un fiore all’occhiello della giubba, concedendosi lunghe e dettagliate osservazioni che non mancava di scandire ad alta voce, quasi che si stesse rivolgendo a degli astanti invisibili che pendevano dalle sue labbra.

Daemon osservava stando in disparte, solo apparentemente distratto, ma in realtà con tutti i sensi protesi al massimo, pronti a cogliere ogni più piccola minaccia.

La situazione tuttavia era tranquilla, così tanto che il giovane cominciava quasi ad annoiarsi; gli era già capitato di condurre qualcuno nei boschi, ma mai nessuno che apparisse allo stesso tempo così fuori posto e così a proprio agio come il professor Hinkel.

«Vado a fare un giro di controllo. Voi per favore restate qui. Questa zona della foresta è relativamente sicura, ma è sempre meglio essere prudenti.»

Il professore era talmente preso dal suo lavoro che si limitò ad un cenno della mano, e per qualche minuto seguitò a prendere appunti sulla sua ultima scoperta comodamente seduto su una roccia.

Poi però, una variopinta farfalla gli volò proprio davanti agli occhi, attirandolo come un topo col formaggio.

«Aspetta piccola. Fatti dare un’occhiata più da vicino.»

Retino alla mano, e senza pensarci due volte, il professore le corse dietro per un tempo impossibile da quantificare, addentrandosi sempre più nel fitto degli alberi; l’inseguimento si concluse solo quando l’anziano docente, messo un piede in fallo, rotolò come una ruota giù da un breve pendio.

«Annotazione.» borbottò rimettendosi in piedi. «Solo lo stolto guarda il cielo senza prestare attenzione a ciò che ha sotto gli stivali.»

Il tempo di levarsi la terra dai vestiti, e si rese ben presto conto di essersi perso.

Tutto attorno a lui non c’erano altro che alberi e silenzio, e della sua guida o di qualunque altra cosa che potesse aiutarlo a capire dove fosse finito neanche l’ombra.

«Perfetto, dalla padella nella brace. Ma quando imparerò a non farmi distrarre dalla prima farfalla che mi passa davanti?»

Provò a seguire i propri passi per tornare da dove era venuto, ma quella foresta era così fitta e uniforme che non fosse stato per la pendenza avrebbe pensato di trovarsi sempre nello stesso posto.

Il suo peregrinare senza sosta lo condusse in una nuova radura, e mentre cercava vanamente di riconoscere qualche elemento un frusciare di fronde gli fece rizzare ogni singolo pelo del corpo.

«Chi va là? Vi avviso, non ho un buon sapore.»

Dal fogliame sbucò una piccola scimmia dal superbo manto nero, che ignorando completamente il paffuto professore rivolse invece tutte le sue attenzioni ad un vicino cespuglio di fragoline selvatiche.

«Ma tu sei una scimmia nera di montagna. Quale fortuito incontro. Credevo che in questo periodo dell’anno viveste molto più in alto.»

Subito prese fuori il taccuino e iniziò a buttare giù uno schizzo, dimenticandosi completamente del contesto in cui si trovava.

«Aspetta!» esclamò quando la piccola scimmia, forse intimorita dalle attenzioni di quel buffo umano, se la diede a gambe. «Mi mancano giusto alcuni dettagli!»

Stavolta però l’istinto naturale di correre dietro all’oggetto della sua curiosità costò al professore ben più di un ruzzolone, perché fatti giusto pochi passi si ritrovò a tu per tu con un’altra scimmia nera; con l’unica differenza che questa, oltre ad essere sei o sette volte più grossa, non sembrava per nulla contenta di vedere il suo piccolo molestato a quel modo.

«Per la chioma di Gaia! No, no. Aspetta! Non gli stavo facendo niente di male!»

La scimmia stava quasi per caricarlo, quando un sasso lanciato con incredibile potenza colpì un albero poco distante. Un attimo dopo Daemon era in piedi tra il professore e la scimmia, rivolto verso quest’ultima con aria di aperta sfida.

L’animale ringhiò, a prima vista ancora intenzionato a scagliarsi all’attacco.

«Che aspettate? Uccidetela!»

E invece, Daemon lasciò cadere a terra l’arco, proprio quando la scimmia iniziava la sua carica contro di lui.

Poi, un istante prima di essere travolto, gridò; fu un grido bestiale, animalesco, che lasciò il professore dapprima sbigottito, e subito dopo senza parole, nel momento in cui vide la scimmia arrestare l’attacco e fermarsi, sovrastando il giovane con tutta la sua imponenza. Con gli anni Daemon si era fatto un giovane di ottima costituzione, ma quella bestia lo faceva comunque sembrare un moscerino.

All’improvviso il ragazzo prese a urlare, sbracciare, battersi i pugni sul petto e sul terreno come un indemoniato, il tutto senza mai fuggire il contatto visivo con la scimmia.

«Che state facendo?» biascicò terrorizzato il professore constatando che l’animale, dopo un momento di esitazione, aveva ben presto iniziato ad imitarlo. «Così la farete solo infuriare ancora di più.»

Ma Daemon non gli diede ascolto, anzi divenne sempre più scalmanato e plateale, arrivando ad un certo punto a strappare erba e a lanciarla addosso alla sua avversaria.

Il professor Hinkel si aspettava da un istante all’altro di vedere quel bestione aprire in due la sua guida con una singola smanacciata; invece ben presto la scimmia sembrò perdere convinzione, diventando quasi timorosa. Le sue ostentazioni di forza scemarono, fino a che, ricevuto un ultimo urlo di Daemon letteralmente ad un palmo dal naso, girò i tacchi e si ritirò in tutta fretta, recuperando al volo il suo piccolo prima di scomparire tra gli alberi.

«Beh… dovrò ricordarmi di annotarlo nei miei appunti.»

«Quale parte di “restate qui” non vi era chiara, esattamente?»

Nonostante tutto gli porse la mano, aiutandolo a rialzarsi.

«Ammetto di non aver mai visto niente del genere. Ero sicuro che ci avrebbe fatti fuori entrambi.»

«Le femmine di scimmia di montagna sono molto aggressive quando proteggono i piccoli, ma se percepiscono che la minaccia non vale il rischio di uno scontro preferiscono scappare piuttosto che combattere.»

«Devo confessare che sulle prime ero un po’ scettico riguardo al vostro conto, ma più vi sto vicino e più mi rendo conto di essermi sbagliato.»

«Felice di sentirvelo dire. Ora però meglio spostarsi. Per ora ci ha rinunciato, ma meglio non sfidare la sua pazienza.»

Al che i due si misero in cammino, con l’idea di raggiungere i cavalli e cercare un’altra zona in cui fare sosta, anche in previsione del trascorrere la notte.

«Ad ogni modo, se sono gli animali che volete qui ne troverete in gran quantità. Il problema è che molti sono anche più pericolosi della scimmia che avete appena incontrato. Lupi rossi, cinghiali di montagna. Da qualche tempo, in questa regione si è stabilito persino un tarkana

Il professore trasalì.

«Un tarkana avete detto!? Grosso?»

«Il più grosso che si sia mai visto. O almeno questo è ciò che hanno detto i pochi che l’hanno incontrato e che l’hanno potuto raccontare. E no, non chiedetemi di cercarlo. Ci tengo troppo alla vita.»

«State tranquillo, non è il genere di creatura nella quale muoia dalla voglia di imbattermi.»

Nel mentre però la camminata sembrava andare un po’ per le lunghe, e anche se Hinkel non si poteva certo considerare un drago in orientamento aveva la netta sensazione che non stessero andando nella direzione verso cui avevano lasciato i cavalli.

«Scusate, se posso. Siete sicuro che sia la strada giusta? Credevo che dovessimo andare verso il basso per raggiungere ai cavalli.»

«Non stiamo andando a prendere i cavalli.» rispose allora Daemon quasi sussurrando, con un tono di voce completamente diverso dal precedente che inquietò non poco il vecchio docente.

C’era qualcosa che non andava.

«Non fermatevi.» disse ancora il ragazzo prima che il professore potesse pensare di rallentare il passo. «Continuate a camminare.»

«Che… che sta succedendo?»

«Ci stanno seguendo.»

«Che cosa!? Chi!?»

«Sul costone di roccia, alla sinistra del sentiero, nel punto più in alto.»

Cercando di essere discreto, il professore girò lentamente lo sguardo in quella direzione, facendo appena in tempo a scorgere un’ombra che un istante prima di essere inquadrata scompariva dietro il bordo.

«Chi sono?»

«Macaire. Ce n’è un altro sopra le nostre teste, tra gli alberi. E ce ne saranno sicuramente altri nei paraggi.»

«Sono… banditi?»

«Peggio, sono anche mostri. Attaccano spesso ricchi viaggiatori e chiunque sorprendano nella foresta per raccogliere denaro e materiali. Ma è strano che siano qui, visto che solitamente bazzicano intorno al Castello.»

«Madre Gaia, forse sarebbe meglio tornare ai cavalli.»

«Sarebbe inutile, oltre che pericoloso. O li hanno già dispersi, o più probabilmente i loro compagni li stanno tenendo d’occhio. Continuiamo a camminare in questa direzione, per separarli dai loro compagni. Attaccarli adesso sarebbe inutile, e se ci mettiamo a correre ci salterebbero addosso. Non devono sospettare che ci siamo accorti di loro.»

Su consiglio della sua guida, Jacob finse di immergersi nuovamente nel suo lavoro, ma era così agitato che a stento riusciva a contenere l’impulso di guardarsi continuamente le spalle.

Nel mentre Daemon aveva tutti i muscoli in tensione, e come avesse avuto gli occhi di una mosca seguitava a sorvegliare tutto intorno senza quasi muovere la testa.

«Guardi, professore.» disse fermandosi all’improvviso «Quel coleottero su quella roccia è un esemplare unico, tipico di questa regione.»

«Eh… Cosa… Dove…?»

Il giovane felino maschio armato di coltellaccio piombò sul professore nell’istante in cui questi si piegò, venendo però intercettato a mezz’aria da Daemon con un calcio tremendo e scaraventato via colpendo l’albero da cui era sceso con forza tale da rimanere esanime a terra.

La sua complice appostata poco distante corse subito in suo aiuto, puntando però direttamente Daemon e tentando di affettarlo con le sue unghie affilate da lince; il cacciatore schivò il primo assalto, la sgambettò facendola cadere, e prima che potesse rialzarsi le saltò addosso, usando la corda dell’arco come una garrota e togliendole l’aria quel tanto che bastava da farla svenire.

Quando il professore, che non si era quasi accorto di niente, si girò, i due assalitori erano già entrambi fuori combattimento.

«Non smettete mai di sorprendermi.»

«Questi erano i primi. I loro compagni arriveranno presto. Dobbiamo andarcene subito.»

«Andarcene? E dove?»

Proprio in quel momento, rumori in lontananza preannunciarono l’arrivo del prossimo gruppo.

«Ovunque ma non qui! Venite!»

Preso il professore per un braccio, e gettata al vento ogni discrezione, Daemon si mise a correre.

Sfortunatamente il povero Jacob tra l’età e il fisico non era certo un maratoneta, e dopo poche decine di metri già non ce la faceva più.

«Io… non credo di riuscire ad andare oltre…»

Non restava altro da fare che provare a combattere, ma occorreva trovare un luogo adatto dove nascondere il professore.

«Presto, entrate qui!» disse spingendolo a forza dentro un piccolo pertugio tra due grosse rocce, grande a malapena per poterci stare rannicchiati.

Messo al sicuro il suo protetto, Daemon si posizionò davanti all’apertura come un cane da guardia a difesa del suo padrone, l’arco in una mano e il laccetto di sicurezza del lungo coltello già allentato.

L’assalto iniziò nel giro di pochi secondi, preannunciato da furiose grida di battaglia e un crescente rumore di passi di corsa; visto che ormai erano stati scoperti, non aveva più senso mantenere una approccio furtivo.

Il primo a sbucare dalla macchia fu un nerboruto orco dalla pelle rossa, che come un toro scatenato caricò a testa bassa verso Daemon brandendo una coppia di asce bipenne; ma non fece neanche a tempo ad arrivare a dieci passi dal suo bersaglio, perché il giovane gli trafisse il ginocchio con una singola freccia facendolo letteralmente franare a terra con un tonfo fragoroso.

Comprendendo la pericolosità del nemico, gli altri quattro decisero di scagliarsi all’attacco tutti insieme, piombando su Daemon da varie direzioni e ingaggiando con lui un feroce corpo a corpo. Tra di loro, l’unico volto familiare era quello del loro leader e vicecomandante della banda, Mytra.

Il professor Hinkel osservava il combattimento dal sicuro del suo rifugio, senza che nessuno si fosse apparentemente accorto della sua presenza. E proprio perché nessuno sembrava più fare caso a lui, riuscì per primo ad accorgersi di un’altra figura, appostata su di un albero poco distante, che si apprestava a colpire Daemon con una piccola balestra.

«Attento!»

Senza pensarci troppo uscì dal suo nascondiglio, spostando il giovane quel tanto che bastava per toglierlo dalla traiettoria del dardo, venendo fortunatamente solo ferito di striscio al collo a sua volta dallo stesso.

«Professore!»

«Niente di grave, è solo un graffio.»

Constatato di aver mancato il bersaglio il tiratore fece per ricaricare, e a quel punto Daemon non ebbe altra scelta che trafiggerlo in mezzo agl’occhi.

«Urzi!» esclamò in lacrime la leonessa vedendo il suo compagno cadere giù dal ramo, morto stecchito.

Completamente fuori di sé dalla rabbia, si scagliò contro Daemon con ancora più furia cieca, mettendo ben presto il ragazzo all’angolo.

Dal canto suo il giovane era consapevole di aver fatto qualcosa di irreparabile, e ormai parlare era inutile. Non restava che provare a scappare.

Messa una mano alla cintura recuperò tre piccole sfere di pelle con attaccata una miccia, che accese sfregandole tutte insieme sulla fibbia metallica.

«Copritevi la faccia!» intimò al dottore, alzandosi il bavero per fare altrettanto.

Le tre sfere scoppiarono con un potentissimo botto pochi istanti dopo essere state scagliate, liberando una fitta polvere color rosso sangue che travolse la leonessa e i suoi compagni, facendoli crollare a terra tra urla di dolore, occhi arrossati e nasi in fiamme.

Avere l’occhio e il fiuto di un animale era sicuramente un vantaggio, ma in certe condizioni poteva diventare una condanna: e una miscela di peperoncino sminuzzato e polvere da sparo era più di quanto un mostro con dei sensi anche solo leggermente più sviluppati potesse sopportare.

Anche dopo che la nube si fu diradata, Mytra e i suoi uomini impiegarono parecchio tempo a riacquistare la vista, mentre dovettero versarsi addosso tutta l’acqua che avevano per calmare i dolori laceranti al naso.

«Troviamoli!»

 

In tutta la catena del Khoral, tra miniere abbandonate e grotte naturali, non era difficile trovare un buon nascondiglio, e anche se non era comune per lui visitare quella parte di foresta Daemon ne conosceva due o tre ben riparati che potevano fare al caso loro.

Non potendo spostarsi velocemente o agilmente a causa del suo attempato compagno di viaggio, la sua scelta era infine ricaduta su di una piccola caverna scavata nella roccia sulla sommità di un ripido pendio, da dove si poteva tenere d’occhio i dintorni restando nel contempo ben nascosti dalle fronde.

«Qui dovremmo essere al sicuro. Il terreno sassoso confonde le tracce, e se qualcuno si avvicinasse ce ne accorgeremmo in un attimo.»

Il professore però non lo seguiva, perché distratto da uno sciabordio incessante che sembrava venire dal fondo buio della caverna.

«Che cos’è questo rumore?»

«Un fiume sotterraneo. Scorre sotto i nostri piedi, e sbuca nella foresta ad un paio di miglia da qui.»

Jacob si stava quasi convincendo che il peggio potesse essere passato, quando si vide afferrare vigorosamente per il bavero e sollevare di peso.

«Ma voi chi accidenti siete?»

«Che cosa intendete dire?» replicò lui sudando freddo.

«Qui non si tratta di assaltare un riccone per rapinarlo. Quei Macaire volevano farvi la pelle. E ora vorranno farla anche a me, visto che per proteggervi ho dovuto uccidere uno dei loro. Si può sapere perché vi vogliono morto?»

«Io… io non ne ho idea, lo giuro. Non sono neanche mai stato da queste parti in vita mia.»

Forse c’era un’altra possibile spiegazione.

«I Macaire sono soprattutto predoni, ma Mytra e i suoi seguaci non fanno complimenti quando si tratta di schiavisti o trafficanti. Siete implicato in qualcosa del genere?»

«Assolutamente no. Al contrario semmai. Sono l’unico docente dell’università ad avere dei semiumani al mio servizio come assistenti.»

La situazione negli ultimi minuti era stata così tesa che Daemon non aveva fatto caso al pallore che si era materializzato sul volto del suo protetto, e fu solo quando il professore, una volta lasciato libero, crollò malamente sul pavimento umido che il giovane si accorse che qualcosa non andava.

«Vi sentite male?»

«Non… non lo so… di colpo, mi sento stanchissimo…»

A Daemon cadde immediatamente l’occhio sul graffio sul collo.

«Aspettate un attimo.»

Avvicinatosi, annusò attentamente, percependo un forte odore di cacao.

«Radice di darenia

Se prima era solo pallido, nel sentire il nome di quel fiore il professore divenne letteralmente bianco.

«Quindi si tratta di…»

«Sarpide

«Ma… com’è possibile!? Dovrei essere già morto.»

Ed era vero. Il sarpide era micidiale perché agiva nell’arco di pochi secondi, ma c’era un’eccezione a questa sentenza altrimenti inevitabile.

«Voi soffrite della malattia dello zucchero?»

«Cosa!? … Beh, sì… Sfortunatamente sono giorni che non prendo le mie medicine. Le ho dimenticate in una locanda e non le ho più ricomprate.»

«Meglio per voi che non l’abbiate fatto. Avere molto zucchero nel sangue attenua tantissimo l’effetto velenoso del sarpide

«Davvero!? Non l’avevo mai sentita questa cosa. Quindi, vuol dire che sono salvo?»

«Non del tutto. Il sarpide uccide molto in fretta, ma con la stessa velocità viene anche espulso se la vittima non muore. L’importante è tenere alto il livello dello zucchero per il tempo che sarà necessario.»

«E come si può fare?»

«I modi ci sono. Non dovrebbe essere troppo difficile. Andrò a cercare tutto il necessario. Voi aspettatemi qui senza fare rumore, respirate lentamente e cercate di non fare sforzi. Tornerò in pochissimo tempo.»

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!

Eccoci con un nuovo capitolo, in perfetto orario!

All’inizio della release di questo Volume 4 vi avevo pronosticato qualcosa di un po’ fuori dall’ordinario, ebbene eccolo qui.

Questo capitolo e il prossimo infatti costituiranno una specie di esperimento.

L’idea infatti è quella di aprire, un domani, una ulteriore storia, una sorta di raccolta di spinoff incentrati sui personaggi secondari della storia, che amplifichi le loro storie e aiuti a dare vita ad un universo più completo e dettagliato senza pesare sulla trama principale.

La vicenda che vede protagonisti Daemon e il Professor Hinckel doveva essere il primo di questi racconti spinoff, ma ho deciso di modificarla un po’ ed inserirla nel tessuto della storia principale proprio per portarla alla vostra attenzione.

A seconda del vostro gradimento, in futuro potrei cercare di dare vita ad altre storie simili.

A presto!^_^

Cj Spencer

 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 - INTO THE WILD ***


“La storia è un cumulo di bugie

su cui ci si è messi d’accordo.”

CAPITOLO 5

INTO THE WILD

 

 

Il tempo di coprire l’ingresso alla grotta con delle ramaglie e delle fronde, e Daemon era di nuovo in mezzo alla foresta.

Qualcuno avrebbe considerato imprudente andarsene a spasso tra gli alberi con un gruppo di Macaire inferociti alle costole, ma se non era occupato a fare da balia ad un ciccione rumoroso Daemon sapeva come rendersi invisibile.

Dopo aver sistemato una semplice trappola al lazo e inciso il tronco di un albero, lasciando una borraccia a raccogliere la linfa che gocciolava fuori da una cannula, il giovane prese a raccogliere meticolosamente erbe, fiori e foglie, infilando tutto quello che gli serviva nella bisaccia alla cintura.

«Ecco, questo è l’ultimo.» disse cogliendo alcuni fiori di edera bianca.

Nel frattempo la borraccia aveva accumulato alcuni centimetri di liquido, e proprio mentre la recuperava Daemon percepì poco lontano il rumore della trappola che scattava; raggiuntala, trovò ad attenderlo una bella lepre grassa, rimasta bloccata per una zampa.

«Scusa piccola. Niente di personale.»

Era già pronto a vibrare il colpo di grazia, quando un flebile odore gli scivolò strisciante tra le narici, facendo scattare un allarme nel suo cervello.

«Non ci credo.» disse a denti stretti, girandosi alle proprie spalle. «Non può averlo fatto davvero.»

Doveva tornare. Subito. Immediatamente.

Girati gli occhi alla sua preda si apprestò a lasciarla andare, ma prima di farlo volle farle una piccola incisione sull’orecchio, che subito tamponò per evitare la fuoriuscita di sangue.

«Spero solo che funzioni.» disse vedendola scappare via verso fondovalle.

Tornato sui propri passi, corse a perdifiato lungo il crinale in direzione del rifugio, mentre quell’odore pungente si faceva sempre più forte.

La barriera di frasche e rami era ancora al suo posto, e da dietro di essa una nuvoletta grigia si alzava placidamente verso l’alto, disperdendo tutto attorno puzza di fumo.

«Per tutti gli dei!»

Il professore credeva accendendo un fuoco di fare cosa gradita al suo guardiano facendogli trovare un giaciglio caldo al suo ritorno; invece, lo vide piombare su di lui come un demonio, rosso di rabbia, che pareva volesse saltargli addosso per strozzarlo.

«Che state facendo! Spegnetelo subito!»

«Cosa!? Ma io…»

Ma Daemon non fece neanche a tempo a scalciarci sopra una generosa dose di terra prima che i suoi sensi di cacciatore lo spingessero a girarsi preoccupato verso l’uscita.

«Troppo tardi…» disse digrignando i denti, e senza indugi scagliò una torcia contro le ramaglie creando un muro di fuoco.

Giusto in tempo, perché nel giro di pochi secondi si iniziarono ad udire schiamazzi e grida infervorate, accompagnate da evidenti tentativi da parte di figure indistinte di aprirsi una via tra le fiamme.

Solo allora Hinkel capì la portata della sciocchezza che aveva fatto.

«Il fumo…»

«Esattamente. Tra quello e l’odore, mi sorprende che non vi abbiano trovato prima.»

«Volete dire che… siamo in trappola?»

Daemon guardò in basso, pensieroso.

«Forse no. Venite.»

Al che il giovane condusse il suo protetto in profondità nella grotta, fino ad una grossa voragine che si apriva nel pavimento, e dal quale giungeva fragoroso quell’incessante sciabordio.

Il professore quasi vomitò provando a sbirciare oltre il bordo, riuscendo a malapena a distinguere l’acqua più in basso.

«Non starete pensando di…»

«Voi non soffrite di vertigini vero?»

«Ecco… veramente…»

Un tomahawk gli mancò l’orecchio per pochi centimetri, ma per sua fortuna Daemon ebbe il tempo di girarsi e fulminare alla gola con una singola freccia il garuda spiumato che gli stava correndo contro.

«Scegliete! Possiamo tentare la sorte nel fiume o consegnare il nostro scalpo ai Macaire!»

«Beh, se la mettete così…»

In realtà al professore servirono tre tentativi per convincersi a saltare, cosa che fece solo dopo aver trovato la forza di chiudere gli occhi e lasciarsi cadere.

Daemon aspettò di vederlo piombare nel fiume prima di prepararsi a saltare a sua volta, ma prima che potesse riuscirci Mytra gli piombò addosso come una furia, la sua bella pelliccia castano chiara annerita e bruciacchiata in più punti.

«Che cosa volete da quell’uomo?» provò a chiedere sfoderando il pugnale. «Che ha fatto per meritarsi un simile odio?»

La leonessa non rispose, ma anzi tentò di attaccare di nuovo. Prima che la cosa andasse troppo per le lunghe assumendo oltretutto contorni molto pericolosi, Daemon pensò bene di battere in ritirata.

«Scusa, ma ora non ho proprio tempo da dedicarti!» disse scagliando a terra una piccola sfera d’argilla riempita con una mistura di fosforo, polvere ferrosa e pietra focaia.

Mytra venne letteralmente travolta da un’esplosione luminosa che quasi le fece sanguinare gli occhi, ancora provati dal peperoncino di poco prima, e per la seconda volta quando fu in grado di vedere di nuovo il suo avversario era scomparso nel nulla.

«Andate pure, maledetti!» gridò infuriata all’indirizzo della voragine. «Se non vi uccide il fiume, ci penserà lui!»

 

In quel fiume Daemon ci aveva pescato un paio di volte, ma non ci aveva mai nuotato. Nonostante ciò, non ricordava di averlo mai visto così impetuoso come quella volta.

Sballottato come una bambola a destra e a sinistra, cercava furiosamente di rimanere a galla e di non andarsi a sfracellare contro qualcuna delle rocce che affioravano qua e là da oltre la superficie.

Nel mentre, guardava in ogni direzione alla ricerca del professore, e per ogni secondo che passava si convinceva di averlo praticamente costretto a suicidarsi; perché se lui stava facendo tutta quella fatica, come era possibile che un cinquantenne con problemi di linea e le gambe a grissino potesse cavarsela?

In pochi minuti il torrente sbucò all’esterno, immergendosi nel fitto degli alberi, ma ogni tentativo di aggrapparsi a qualche ramo o roccia risultò inutile.

Poi, quando stava quasi per cedere alla fatica, qualcosa lo afferrò per la collottola.

«Vi ho preso!» esclamò il professore, appollaiato in equilibrio su un tronco caduto che si protendeva da una sponda all’altra.

Quindi, con una forza insospettabile, Hinkel riuscì a sollevare Daemon fuori dall’acqua, permettendogli di raggiungere finalmente a riva.

«Temevo di dovervi ripescare dal fondo.» ansimò il ragazzo. «E invece siete stato voi a ripescare me.»

«Per fortuna la buonanima di mio padre ci teneva che imparassi a nuotare.»

Entrambi quindi si guardarono attorno, tentando di capire dove potessero essere finiti.

«Voi avete idea di dove siamo?»

«Fuori dalla portata dei Macaire, e questo è già un progresso. Ora però dobbiamo trovare al più presto un nuovo rifugio.»

«Un rifugio? Perdonatemi, ma date le circostanze non sarebbe meglio approfittarne per allontanarsi il più possibile da quegli esagitati?»

«Niente affatto. Per prima cosa tra poco sarà notte, e fradici come siamo non sopravvivremmo mai all’addiaccio. E in secondo luogo, voi avete ancora il sarpide in circolo, che presto o tardi vi ucciderà se non facciamo qualcosa.»

Il giovane cacciatore puntò quindi lo sguardo verso l’alto, imitato dal professore; nuvole nere come la notte avanzavano a grandi passi scendendo dalle montagne, preannunciate da folate di vento che fecero tremare entrambi di freddo.

«Quel temporale sarà qui in pochi minuti. Se non saremo al più presto al chiuso, nessuno dei due vedrà la prossima alba.»

 

Daemon non scherzava.

Prima ancora che il sole fosse tramontato, un temporale come pochi se ne vedevano da quelle parti in estate si abbatté furioso sulla foresta, scaricando cateratte d’acqua che tramutarono in pochi minuti i sentieri in torrenti.

Fortunatamente, poco distante si trovava un’altra grotta, composta da una sola, enorme camera a volta, ma con un’entrata così stretta da passare completamente inosservata.

Una volta dentro e murato l’ingresso, Daemon accese rapidamente un fuoco, cosicché potessero entrambi riscaldarsi e asciugarsi i vestiti.

«Per fortuna gli ingredienti sono ancora utilizzabili.» commentò triturando tutte le erbe, le radici e i fiori che aveva raccolto in un mortaio di fortuna.

Mentre finiva il proprio lavoro, il giovane passò a Hinkel la sua borraccia invitandolo a berne il contenuto; il professore obbedì, assaggiando un liquido talmente dolce da risultare quasi imbevibile.

«Che cos’è?»

«Linfa d’acero. Terrà alto lo zucchero nel sangue, almeno fino a quando non farà effetto questo impiastro.»

Il preparato in questione, una volta finito, prese l’aspetto di una melma scura dall’aria molto poco invitante, che Daemon avvolse attorno all’unico pezzo di carne secca rimastogli, per poi offrirlo al suo protetto.

«È amaro come poche altre cose al mondo, ma mangiatelo tutto.»

Hinkel obbedì, constatando che non si trattava affatto di un’esagerazione; il sapore forte della carne a malapena rendeva il tutto tollerabile, tanto che il professore esitò a lungo prima di decidersi finalmente ad ingoiare.

«Suppongo che fosse una sorta di antidoto.» disse tracannando la poca linfa rimasta, nel tentativo di togliersi di bocca quell’orribile sapore.

«Come ho già detto il sarpide uccide in maniera quasi istantanea, ma viene anche espulso molto velocemente qualora non riesca a fare effetto. Questo impiastro impedirà al corpo di assorbire il veleno, inoltre velocizzerà l’espulsione. Fossi in voi mi preparerei ad una notte piuttosto movimentata.»

«Bontà divina, la possibilità di uscire vivo da questa avventura fuori dal mondo vale di sicuro qualche corsa al gabinetto.»

Quanto a Daemon, anche lui sentiva il bisogno di riempirsi lo stomaco, e non avendo più carne secca dovette arrangiarsi con quello che c’era; fu così che il professore lo vide acchiappare un paio di grossi ramarri e mangiarseli abbrustoliti, accompagnandoli con un infuso di erbe selvatiche per rendere il sapore un po’ più sopportabile.

«Scusate la franchezza, ma sembrate molto atipico, anche per un cacciatore abituato a vivere in queste terre così selvagge.»

«Lo prenderò come un complimento.»

«Ma lo è. Ho avuto molte guide nel corso dei miei viaggi, ma nessuna di loro aveva una conoscenza del territorio pari alla vostra. Inoltre dimostrate competenze che esulano da quelle di un comune cacciatore. Erboristeria, primo soccorso, persino qualche nozione di alchimia. Dovete aver avuto un grande maestro.»

«In realtà sono autodidatta, se escludiamo le poche cose che mi hanno insegnato a scuola.»

L’atmosfera si era decisamente rasserenata, tanto che al professore venne quasi da ridere nel momento in cui iniziò a sentire alcuni inquietanti movimenti di stomaco.

«Ora scusatemi, ma credo che farò la prima di quelle corse al gabinetto di cui parlavate. Spero solo che ci sia un posticino appartato in questa grotta.»

 

La pioggia continuò a cadere impetuosa per tutta la notte, fermandosi e lasciando il posto al sereno solo poco prima dell’alba.

Al sorgere del sole, la foresta era traboccante di rugiada, e un fortissimo ma piacevole odore di muschio riempiva ogni cosa; il terreno aveva già assorbito buona parte dell’acqua piovuta per ore, diventando scuro e pesante.

«Il villaggio di Nevria è ad una decina di miglia a est.» disse Daemon mentre seguitavano a camminare tra gli alberi. «Di questo passo, saremo lì prima del tramonto.»

«Per fortuna, quei Macaire così ostinati sembrano essersi finalmente arresi.»

Anche Daemon si era accorto della cosa, ma a differenza del suo protetto non riusciva a sentirsi del tutto tranquillo.

«Che succede?» esclamò il professore quando Daemon, bloccatosi, gli fece segno di fare altrettanto. «Altri Macaire?»

In effetti d’un tratto si erano uditi dei rumori di qualcuno in avvicinamento, e Hinkel prese a girarsi nervosamente in ogni direzione, mettendo davanti a sé il grosso bastone che aveva rimediato lungo il cammino.

«Ero certo che avresti capito.»

«Felice di constatare che alle mie lezioni sulla dispersione di tracce tu non abbia dormito.» disse Drufo saltando giù da un ramo «Però potevi anche inventarti qualcosa di meglio. Sai quanta fatica ho fatto per seguire i segni lasciati da quella lepre, e quindi anche i tuoi?»

«Ho dovuto pensare in fretta. Per fortuna posso contare sul migliore cacciatore sulla piazza.»

Passato il momento delle presentazioni, venne quello di tornare alle cose serie.

«Hai trovato segni dei Macaire?»

«Vi hanno seguiti per un po’ dopo che siete usciti dal fiume, ma poi si sono fermati.»

«Me ne sono accorto. Effettivamente è piuttosto strano.»

«Strano!?» disse un incredulo e preoccupato Drufo. «Davvero non ti sei accorto di niente?»

«Di che stai parlando?»

«Ritiro quello che ho detto circa il tuo addestramento.»

Drufo condusse quindi Daemon e il professore in un anfratto poco distante, dove i due si ritrovarono di colpo a tu per tu con uno scenario a dir poco macabro: il terreno, coperto di aghi di pino e foglie morte, era letteralmente disseminato di prede, alcune mangiucchiate altre quasi completamente scarnificate, così tante che neanche il più ingordo dei leoni sarebbe stato capace di mangiarle tutte.

«Per la veste di Zion.» esclamò Hinkel

Di fronte a quello spettacolo Daemon rimase sconvolto, domandandosi come avesse fatto a non notare le altre tracce in cui dovevano essersi sicuramente imbattuti.

«Ma questo è un basilisco.» disse il professore apprestandosi ad un mucchietto di resti completamente triturati. «Le sue ossa sono tra le più resistenti dell’intero mondo animale, eppure sono state quasi sgretolate.»

«C’è una sola bestia capace di fare una cosa del genere.» bisbigliò Daemon.

Poi, come se qualcosa lo avesse improvvisamente scosso, il cacciatore si girò alle proprie spalle, con tutti i sensi protesi e il pugno stretto attorno all’arco.

«L’avete sentito anche voi?»

«Che succede?» chiese Jacob, che ovviamente non aveva il loro sesto senso

«È qui. Ci ha fiutati.»

«E presto ci sarà addosso.» decretò funereo Drufo.

Capendo di chi e cosa si stava parlando, il professore si sentì gelare il sangue.

«Forse, dovremmo scappare finché possiamo.»

«Impossibile. Se corriamo o gli diamo le spalle, ci salta addosso e ci dilania.»

«E comunque.» disse Daemon. «Non possiamo permettergli di avvicinarsi troppo al villaggio, o sarà una strage.»

«E allora… che cosa facciamo?»

«L’unica cosa possibile. Combattiamo.»

Lavorando insieme, Daemon e Drufo usarono rami, tronchi e pietre per trasformare quella piccola porzione di foresta in una stanza degli orrori, con buche piene di pali, trappole a pressione e altre diavolerie simili; in ultimo, accesero tutto intorno un gran numero di fuochi, immediatamente coperti di foglie umide, riempiendo in questo modo l’aria di un fumo acre e denso.

«Siete sicuri che servirà a qualcosa?» domandò Hinkel di fronte a quest’ultima trovata. «A quanto ne so, il fiuto dei tarkana non è così scadente da farsi ingannare da questo fetore.»

«Non è il suo naso che vogliamo colpire, ma i suoi occhi.» disse Drufo «I tarkana hanno un fiuto e un udito eccezionali, ma una pessima vista. Oltretutto i loro occhi sono molto sensibili. Il fumo li irriterà, così gli confonderemo le idee.»

Un ruggito improvviso e spaventoso interruppe ogni discorso, spingendo tutti a girarsi in una stessa direzione.

«Arriva!»

Un attimo dopo gli alberi sembrarono come cedere il passo a quella poderosa creatura, che apparve dal nulla sopraggiungendo a grandi balzi e fermandosi proprio davanti ai tre compagni.

Anche se tarkana era il loro nome ufficiale, il nome con il quale erano maggiormente noti era quello di orsi corazzati, benché a parte una vaga somiglianza non avessero nulla in comune con detti animali.

«Avanti bestiaccia! Vieni a prenderci se ne sei capace!»

 

Borg aveva un diavolo per pelo mentre, nell’area di carico e scarico del magazzino, constatava l’ennesima flessione settimanale negli introiti.

«E questo cosa sarebbe?» sbraitò vedendo che il carro appena arrivato era mezzo vuoto. «Con questa roba non ci copro neanche i costi di trasporto!»

«Mi dispiace, signore. Ma quel tarkana si aggira ancora lungo i sentieri a ovest. Siamo costretti a passare dalle strade più battute. E i controlli, i dazi, le tangenti…»

Il maiale allora esplose.

«Il tarkana, il tarkana! Ogni volta tirate fuori questo tarkana! E che sarà mai? Forse se avessi delle vere guardie invece che dei debosciati che rubano lo stipendio, questo problema sarebbe già stato risolto!»

Rust cercava di far finta che il suo capo non ce l’avesse anche con lui stando due passi indietro, e per questo fu il primo ad accorgersi dell’arrivo di un ospite inatteso e non particolarmente gradito.

«Che ci fai qui? Il capo non è dell’umore migliore.»

Daemon non rispose continuando a camminare, e allora il coboldo gli mandò incontro due dei suoi uomini che il ragazzo, benché visibilmente malandato e appesantito da una grossa sacca, mandò al tappeto con pochi colpi.

«Adesso mi sono stufato di te, moccioso! Vieni qua che ti cambio i connotati!»

Rust gli si lanciò addosso brandendo il suo guanto artigliato, e attirando così sulla zuffa l’attenzione di tutti i presenti. Ma il suo avversario non batté ciglio, e schivati i suoi attacchi replicò con un singolo potente colpo di taglio dietro il collo che lo spedì dritto nel mondo dei sogni.

«Se volevi un appuntamento, bastava chiederlo. Ho sempre tempo per il mio investimento a lungo termine preferito.»

«Non lavoro più per te, o te ne sei dimenticato?»

«Sarà. Allora? Cosa posso fare per te?»

«Ho passato gli ultimi due giorni a correre in giro per tutta la foresta inseguito da un gruppo di Macaire inferociti, ansiosi di fare la pelle ad un vecchio professore. Non so cosa volessero o perché ce l’avessero con lui, ma so per certo chi li ha mandati. Tu.»

«Cosa te lo fa pensare?» chiese Borg facendo spallucce

«Perché sei l’unico con le conoscenze necessarie ad entrare in contatto con loro, e lo sappiamo entrambi. Più di una volta ti sei servito di loro per fargli svolgere lavori sporchi.»

«Interessante osservazione. C’è solo un problema. Che motivo potrei avere avuto? Ti sembro forse il tipo che si dannerebbe tanto per un qualunque professoruncolo umano?»

«Certo che no. È ovvio che anche tu sei stato assoldato da qualcuno. E ora mi dirai di chi si tratta.»

Lo sguardo arcigno che Borg assunse per un istante, nascondendolo subito dietro il suo saccente sorriso, rivelò senza alcun dubbio che Daemon ci aveva visto giusto.

«Anche ammesso che tu possa aver ragione, dovresti conoscermi. Lo sai che io non vengo mai meno ad un affare, a prescindere da chi sia il cliente.»

I due si fissarono dritti negl’occhi, mentre attorno a loro la tensione si tagliava col coltello.

«Stiamo negoziando?» sibilò Daemon

«Tu che cosa dici?»

Passarono altri interminabili istanti, fino a che il giovane non gettò a terra il contenuto della propria sacca, dinnanzi al quale persino Borg restò senza parole.

«Questo credo che basti.»

Dinnanzi a loro non c’era solo la risoluzione di tanti problemi che a Borg stavano facendo ormai perdere il sonno, ma anche il genere di trofeo di caccia che ogni nobile di Erthea avrebbe pagato oro per avere.

«Figlio di… Ma come hai fatto?»

«Allora? Lo facciamo questo accordo?»

 

Come era stato informato del ritorno del professor Hinkel, il Sindaco Luparl si precipitò di corsa nella sua stanza alla locanda, trovando inaspettatamente due miliziani a sorvegliare la porta.

«Che significa?» chiese. «Perché siete qui?»

«Ordine del comandante Beek

Colpito, ma non più di tanto, il sindaco si fece forte della sua autorità e ottenne di essere lasciato entrare.

«Professore.» disse, trovando l’erudito intento a rendersi nuovamente presentabile con un cambio d’abito. «Siano ringraziati gli dei, per fortuna state bene.»

«E lo devo tutto alla mia guida, signor sindaco. Se non fosse stato per lui, a quest’ora il mio scalpo farebbe mostra di sé sulla lancia di qualcuno di quei mostri.»

«I Macaire sono un problema da anni in questa regione, ma non avevano mai assalito qualcuno in questo modo, con il chiaro intento di uccidere.»

«Fossero stati solo i Macaire. Per poco non rischiavo di diventare la cena di un tarkana. Ma quel cacciatore e il suo servo sono stati a dir poco strepitosi. Ma visto che quel satiro non era il mio servo, appena mi ha visto tornare insieme a lui quel vostro comandante di milizia ha pensato che fosse una buona idea farmi chiudere qui dentro, guardato a vista dai suoi gorilla.»

«Vogliate perdonarlo, il Comandante Beek alle volte è fin troppo zelante nel suo lavoro. Comunque, in realtà mi erano giunte voci circa dei movimenti strani tra i Macaire, ma prima che potessi avvisarvi eravate già partiti. E poi…»

Il sindaco abbassò il capo, come mortificato.

«E poi cosa? Sapete qualcosa che dovrei sapere anch’io?»

«No, è solo che… ecco, non mi piace accusare ingiustamente, però…»

«Visto e considerato che stavo quasi per lasciarci le penne, credo di essermi guadagnato il diritto di sapere.»

«Il fatto è che ho ricevuto dei rapporti abbastanza strani dai doganieri sul ponte. Voci di individui sospetti che negli scorsi giorni avrebbero passato il confine con salvacondotti rilasciati dallo Stato di Elordia

Sentendo quel nome il professore si accigliò.

«Benwood. Avrei dovuto immaginarlo. Ha sempre osteggiato il Presidente, fin da prima della sua elezione. Avrà pensato di colpire me per fare un danno a lui.»

«Forse è un bene che abbiate quelle guardie fuori dalla porta. Chissà cos’altro potrebbero tentare quegli agenti nemici ora che il loro piano è fallito. Ad ogni modo, mi assicurerò che possiate rientrare nell’Unione in tutta sicurezza.»

Un bussare alla porta mise entrambi in allerta, ma la comparsa di Daemon, seppur visibilmente provato dalle fatiche degli ultimi giorni, li rasserenò.

«Daemon.» esclamò il sindaco. «Di sicuro sarai stato meglio, ma nonostante tutto sono felice di rivederti vivo.»

«Mi associo all’amico sindaco. Sembrate davvero un fantasma.»

Il giovane si guardò un momento attorno, senza proferire parola.

«Professore, il padrone della locanda vi ha fatto preparare la cena.» disse con sguardo severo e voce calma. «Le guardie vi scorteranno al piano di sotto.»

«Ma, veramente, io non avrei neanche tutta questa fame.»

«Vi prego. Io e il sindaco dobbiamo parlare in privato.»

Di fronte a quegli occhi e a quel tono di voce il professore si sentì di nuovo uno scolaretto irrispettoso, e come tale in silenzio obbedì lasciando la stanza.

«Date le circostanze, sono felice di averti scelto per questo incarico. E ho sentito che hai anche eliminato quel tarkana. Davvero notevole.»

«Potete anche smetterla con la commedia, signor sindaco. Borg ha già vuotato il sacco.»

Sulla faccia del sindaco si intravide un sussulto, ma la sua espressione calma e controllata non parve risentirne.

«Posso sapere di cosa stai parlando?»

«Del fatto che tramite Borg vi siete servito dei Macaire perché uccidessero il professore, dicendo loro che si trattava di un famoso schiavista dell’Unione. Proprio il genere di persona che i Macaire sono più che felici di uccidere.»

«Dimentichi che sono stato proprio io a chiederti di proteggere il professore. Perché avrei dovuto affidargli una scorta se avessi tentato di ucciderlo?»

«Perché nessuno potesse accusarvi di non aver preso tutte le precauzioni necessarie a tutelare la sua incolumità. Come avete detto voi, la mia reputazione mi precede in questa provincia. Ovvio che vi aspettavate che ci lasciassi la pelle anch’io, così da non avere testimoni scomodi. Ed effettivamente un paio di volte ci sono andato vicino, il che capirete non mi mette di buonumore.»

In quel momento la porta si aprì di nuovo e le due guardie di poco prima si ripresentarono nella stanza, con Beek al seguito.

«Avrete molto da spiegare Signor Sindaco, e per il vostro bene spero che abbiate una buona risposta per le accuse del moccioso.»

«Io non le chiamerei neanche accuse, sono solo un mucchio di fandonie. Tanto per cominciare, perché avrei dovuto fare una cosa del genere? Mi ero assunto personalmente l’incarico di garantire l’incolumità del professore, quindi sarei stato il primo a dover rispondere della sua morte.»

«I Macaire sono conosciuti e temuti anche nell’Unione. Se fosse emerso che l’omicidio era opera loro, non avreste avuto problemi a trovare un modo per discolparvi.»

Quindi venne il momento dell’accusa peggiore.

«Quanto al perché, è presto detto. Mi è bastato fare qualche domanda in giro. Voi oggi in pubblico criticate apertamente la dottrina reunionista, ma in verità voi stesso da giovane avete fatto parte di una società segreta che perseguiva questo scopo. I Cacciatori dell’Ovest. Il vostro motto era Una volta era, e sarà per sempre

«Lo è ancora.» replicò il sindaco, stavolta con malcelato astio. «E anche se fossi un reunionista? La nostra guerra era contro l’Impero, non contro l’Unione. Anzi, tutti sanno che l’Unione versava fondi considerevoli ai gruppi reunionisti per provocare disordini nei territori di confine. Che motivo avrei avuto di attentare alla vita di un illustre cittadino di una nazione che ci era amica?»

«Per lo stesso motivo per cui vi siete sempre battuti. La riunificazione di Eirinn e la sua liberazione dall’Impero. I reunionisti più fanatici credono di poter riportare Eirinn ad essere una nazione indipendente, ma voi non siete così ingenuo. Sapete benissimo che allo stato delle cose l’Impero non si può sconfiggere, per quanto indebolito e decadente possa essere. D’altro canto però, una Eirinn riunificata che divenisse un membro dell’Unione avrebbe sicuramente maggiore libertà di quanta possa mai sperare di averne adesso.»

«Volevate sfruttare la tensione provocata dalla morte di una persona molto cara al Presidente per provocare una nuova guerra, giusto?» intervenne Beek

«Anche se il clima di guerra fredda tra l’Impero e l’Unione è ormai passato l’inimicizia è ancora molto forte lungo il confine.» continuò Daemon. «E con l’Impero che ha dismesso o riassegnato buona parte delle sue legioni, confidavate che a qualche fanatico sarebbe bastato un pretesto per provocare un nuovo conflitto. D’altronde è fatto risaputo che l’Unione aspira da sempre ad annettersi questa regione.»

Luparl ostentava sicurezza, ma i muscoli tirati del viso e la fronte imperlata di sudore tradivano il suo nervosismo.

«Siete solo un povero ingenuo. Non avete ancora capito che all’Unione non importa nulla dell’Oriente? Tutto quello che vogliono è mettere le mani sull’Occidente e sulle sue miniere. Se il vostro piano per chissà quale motivo fosse riuscito, avreste ottenuto solo di dividere Eirinn ancora di più.»

Finalmente, il sindaco si degnò di alzare gli occhi, fissando i suoi due accusatori con fare calmo e padrone di sé.

«Tutto molto affascinante, signor Haselworth. C’è solo un piccolo problema. Anche se avessi fatto quello di cui mi accusate, non vedo alcuna prova a mio carico. A mio carico ci sono solo la parola di un maiale e le farneticazioni di bifolco. Io non confesserò niente.»

Era vero. Il sindaco Luparl era la persona più rispettata e apprezzata di Dundee, in buoni rapporti non solo con le autorità locali ma persino col governatore.

«In realtà.» disse Daemon come mortificato, cambiando nel mentre completamente espressione. «Io speravo che lo faceste. A questo punto, sarebbe la vostra unica speranza.»

«Come?»

«Per quanto questo piano avesse scarse possibilità di riuscire, è chiaro che non potete averlo organizzato da solo. Altri vi avranno aiutato, sia qui che nell’Unione. Se accettaste di collaborare nello svelare i nomi dei cospiratori, con la reputazione che avete potreste appellarvi al governatore per ottenere clemenza. I Macaire invece non saranno altrettanto generosi. Sono sicuro che mentre parliamo Borg vi sta già vendendo a loro per proteggersi. E considerando che per salvare il professore ho dovuto uccidere alcuni di loro, non credo vi perdoneranno per averli manipolati in questo modo.»

Ogni parola di Daemon era come un chiodo sulla bara, e per quando il giovane ebbe finito di parlare la maschera del sindaco si era ormai sgretolata.

Sul tavolo della stanza il professore aveva lasciato un affilato tagliacarte.

Luparl lo afferrò, puntandolo minacciosamente verso il ragazzo e i tre soldati, che subito a loro volta misero mano alle armi.

«Non fate idiozie Signor Sindaco.» gli intimò Beek. «È finita.»

«Non è finita per niente. Una volta era, e sarà per sempre!» e detto questo si tagliò la gola.

 

«Non dico di condividere ciò che il Sindaco Luparl ha fatto, ma non me la sento di giudicarlo. A modo suo, voleva solo il meglio per la sua patria.»

«Suona strano detto da voi, professore. Le sue macchinazioni vi sono quasi costate la vita.»

«Mi chiedo se sapendo cosa era destinato a succedere di lì a breve avrebbe comunque scelto di portare avanti il suo piano. Lui voleva un’Eirinn libera dall’Impero, ed è ciò che tu, ragazzo mio, alla fine hai ottenuto.»

Il professore sorrise: «Quando ci siamo lasciati ho detto che vedevo in te qualcosa di grande, ragazzo mio. Ma mai mi sarei aspettato di vederti arrivare così lontano.»

«Il fato ha voluto così.»

«A proposito, poi cos’è successo ai Macaire? Spero che da allora abbiate fatto pace.»

«Sono rimasti coinvolti in una faccenda delicata. Brutta storia. Forse un giorno ve ne parlerò.»

Dopo aver svuotato piacevolmente una seconda tazza di infuso, venne per il professore il momento di congedarsi.

«È stato un piacere rivederti. Immagino però che avrai ben altro da fare che perdere tempo con un vecchio fossile come me. Mi ha fatto piacere rivederti, e ti auguro ogni bene. Spero veramente che la tua impresa si concluda per il meglio. Questo mondo ha bisogno del cambiamento che vuoi portare.»

Daemon esitò un momento, fermando il professore quando questi era già sul punto di lasciare la tenda.

«Aspettate. In realtà c’è una cosa che vorrei chiedervi.»

«Ovvero?»

«Come avete detto voi, sto cercando di costruire qualcosa di buono da tutto questo. E ho avuto modo di sperimentare e apprezzare le vostre sterminate conoscenze. Immagino che siate molto ferrato anche negli studi storici e culturali.»

«Non mi considero un luminare, ma me la cavo.»

«Il fatto è che sia la nostra patria che questa nazione abbondano di antiche rovine, e ad oggi noi conosciamo ancora molto poco della storia antica di questo mondo. Pensavo potesse essere una buona idea mettere insieme una squadra di dotti studiosi che possano sollevare il velo sui molti misteri che ancora circondano il passato di Erthea, e sarei onorato se voi decideste di farne parte.»

«Io!?» rispose il professore tornando a sedersi «Dici sul serio?»

«Credo che Erthea abbia trascurato anche troppo a lungo la propria eredità. C’è così tanto che possiamo imparare dal nostro passato. Non posso promettervi grossi stanziamenti come quelli a cui sarete abituato all’università di Mickarn, ma vi garantirei assoluta libertà investigativa. Basterebbe che vi faceste carico di scavare, indagare e catalogare ogni rovina o reperto in cui doveste imbattervi.»

Come se stesse cercando di prendere il professore per la gola Daemon gli versò una nuova tazza di infuso.

«Mi piacerebbe anche istituire una scuola superiore nello Stato Libero. Solo perché ora siamo in guerra non significa che dobbiamo trascurare le giovani generazioni. Ci sono tanti ragazzi volenterosi che potrebbero dare il loro contributo al benessere della nostra patria, se solo potessero contare su di una buona formazione. Se ve la sentite, potreste assumere la direzione della scuola e aiutarmi a reperire altri docenti.»

Daemon conosceva il professore abbastanza bene da sapere quanto le situazioni un po’ complicate e che richiedevano capacità di adattamento lo attirassero.

«Tu lo sai immagino che il Circolo non vede di buon occhio chi conduce ricerche storiche senza la loro autorizzazione.»

«Noi siamo una nazione scomunicata. Del giudizio e delle disposizioni del Conclave non può importarcene di meno. E poi se non mi sbaglio voi non vi siete mai fatto troppi problemi nello sfidare l’autorità di quegli zeloti.»

Era come se i due navigassero sulla stessa lunghezza d’onda, intendendosi alla perfezione.

«Forse è davvero giunto per me il momento di appendere gli stivali al chiodo e concedere a queste vecchie ossa un po’ di meritato riposo. In fin dei conti un po’ mi mancava l’ambiente accademico, e l’idea di formare così tante promettenti giovani menti non mi dispiace.»

«Vi ringrazio, professore.»

«Ma ad una condizione.»

«Dite pure.»

«Ci sono tante cose che non vanno nel nostro mondo, e se con il mio lavoro potrò aiutarti a migliorarle sarò ben felice di aiutarti. Ma devi promettermi che tutto questo non resterà solo un bel sogno. Dovrai impegnarti con tutto te stesso a creare questo mondo nuovo e migliore di cui mi stai parlando.»

«Avete la mia parola.»

«In questo caso, sarà un piacere lavorare con te.»

 

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