Star Trek Destiny Vol. X: Detective Naskeel e il mistero degli Angeli Piangenti

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sparizioni ***
Capitolo 3: *** La Detective Velata ***
Capitolo 4: *** Né bestie né uomini ***
Capitolo 5: *** Angeli e demoni ***
Capitolo 6: *** Indizi ***
Capitolo 7: *** Angelo Custode ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Destiny Vol. X:
Detective Naskeel
e il mistero degli Angeli Piangenti
 
 
LA DESTINY DOVEVA ESPLORARE IL MULTIVERSO,
MA QUALCOSA È ANDATO STORTO
E L’EQUIPAGGIO È STATO UCCISO.
ANNI DOPO, UNA BANDA DI CONTRABBANDIERI
HA ABBORDATO LA NAVE ALLA DERIVA,
VENENDO RISUCCHIATA NEL MULTIVERSO,
SENZA LE COORDINATE DI RITORNO.
AGLI AVVENTURIERI NON RESTA CHE
ESPLORARE UNA REALTÁ DOPO L’ALTRA,
IN CERCA D’INDIZI SULLA VIA DI CASA,
MENTRE CERCANO DI RISCOPRIRE IN LORO
QUELLO SPIRITO CHE CREÓ LA FEDERAZIONE...


-Prologo:
Data Stellare 2610.37
Luogo: Nebulosa del Toro

   L’USS Destiny, l’astronave più innovativa – e potenzialmente più pericolosa – mai realizzata dalla Flotta Stellare era alla deriva nel cuore della nebulosa. Il suo equipaggio era morto, vale a dire che, per l’antico e incontestabile diritto di recupero, il vascello apparteneva al primo che lo ritrovasse. Ma non era facile trovare un’astronave progettata apposta per esplorare il Multiverso, spostandosi da una realtà all’altra. Da quando la Destiny era svanita nel suo viaggio inaugurale, cinque anni prima, era stato un susseguirsi di teorie e illazioni sulla sua sorte. Queste voci erano giunte oltre i confini federali, destando l’interesse di altre potenze. Alcune, nemiche giurate della Federazione, speravano di accaparrarsi l’astronave per rivolgerla contro di essa. Altre, pur essendo in rapporti migliori, erano comunque coinvolte nella caccia al tesoro. Era il caso dell’Annessione Tholiana, che da secoli s’interessava al problema delle realtà alternative, sapendo che da lì potevano giungere le più gravi minacce. Ora che i Tholiani avevano l’occasione d’impadronirsi della Destiny, per studiarne la tecnologia, non intendevano farsela sfuggire. Nemmeno se ciò significava disputare il recupero a una banda di mercanti, la cui nave aveva visto giorni migliori.
   La nave-madre tholiana, un’imponente classe Tarantula, si avvicinò alla Destiny e al mercantile che l’affiancava. Sei caccia di classe Widow, a forma d’ago, circondavano la nave-madre in formazione serrata. Sulla plancia della Tarantula, immersa a una piacevole temperatura di 200º C, l’Ammiraglio Ziz si avvicinò allo schermo, osservando gli intrusi. «Dunque non siamo giunti per primi. Analisi tattica» ordinò, nella lingua raschiante dei Tholiani.
«Si tratta di un vecchio mercantile Ferengi, classe D’Kora, non segnato sul registro» rispose l’Ufficiale Tattico, di nome Naskeel. «Dispone di dieci banchi phaser e tre tubi di lancio per siluri. Scafo in duranio con corazza in tritanio. Si direbbe che gli scudi siano stati potenziati. Anche così, il vascello non è alla nostra altezza. Posso neutralizzarlo» dichiarò.
   «Lo faremo solo come ultima risorsa» disse però l’Ammiraglio. «I rapporti con la Federazione sono buoni e l’Annessione non vuole guastarli. Ciò significa ricorrere in primo luogo alla diplomazia. Solo se questa fallisse passeremo all’attacco. E in tal caso, non lasceremo superstiti che possano avvertire la Federazione dell’accaduto» puntualizzò.
   «È chiaro, Ammiraglio. Ma non credo che quei mercanti seguano il regolamento federale» ragionò Naskeel. «Hanno già abbordato la Destiny e riattivato l’energia principale. Se riuscissero a mettere in linea anche le armi, la nostra battaglia si farebbe molto più difficile» avvertì.
   «Una ragione in più per tentare la via diplomatica. Aprire un canale» ordinò Ziz.
   «Ci rispondono dalla Destiny» avvertì l’addetto alle comunicazioni. L’attimo dopo i mercanti comparvero sullo schermo. Erano un’accozzaglia di specie umanoidi, dai disgustosi corpi molli senza esoscheletro. Avevano solo due gambe... come si fa a camminare in modo decente, con così pochi arti? Cosa più repellente, vivevano ad appena una ventina di gradi sopra il punto di congelamento dell’acqua. Ovvio che poi dovevano coprirsi con strati di vestiario, per non morire congelati. Per i Tholiani, esseri inorganici nativi di un pianeta venusiano, era difficile accettare che le altre specie fossero così mostruose.
   «Qui è l’Ammiraglio Ziz. A nome dell’Annessione Tholiana, vi ordino di consegnare la nave alla deriva da voi illegalmente abbordata» esordì l’Ammiraglio.
   «Illegalmente? Devo contraddirvi, egregio Ammiraglio» ribatté un Ferengi che evidentemente era il capo della combriccola. «Sono il DaiMon Grilk, al comando del mercantile Ishka. Due giorni fa abbiamo captato una richiesta di soccorso da questa nave. Essendo altruisti, ci siamo prontamente lanciati al soccorso, seguendo il segnale fino al punto d’origine. La nave era integra, ma priva d’equipaggio...».
   «Perché? Cosa gli è successo?» volle sapere Ziz.
   «Non lo sappiamo; non ci sono superstiti» sostenne Grilk, non del tutto convincente. «Comunque, secondo le norme interstellari, essere giunti per primi ci garantisce il diritto al recupero. Mi spiace per voi, ma... arrivare secondi è come non arrivare affatto!» ridacchiò.
   «Una nostra sonda ha captato il segnale di soccorso sette giorni fa, quindi ben prima di voi. Questo ci attribuisce la precedenza sul recupero» spiegò l’Ammiraglio.
   «Niente affatto! Conta il primo che mette piede a bordo!» si stizzì il Ferengi.
   «Secondo le leggi federali è così. Ma qui ci troviamo al di fuori dello spazio federale» puntualizzò Ziz. «Nel vostro interesse, vi suggerisco di abbandonare il relitto prima di giungere a un confronto armato. Non sarebbe saggio, per il vostro mercantile, sfidare la mia flottiglia» minacciò.
   «Vuole intimidirmi? Io sono iscritto all’FCA! Lo sa che siamo i maggiori importatori di seta tholiana? Non vi conviene farmi questo sgarbo, vecchio mio!» avvertì il DaiMon.
   «Ay, caramba!» imprecò l’Umano al suo fianco, intuendo che si metteva male.
   «La sua ostinazione mi costringe a intraprendere un’azione di forza. E sarà la sua nave a farne le spese» avvertì l’Ammiraglio. Ciò detto, chiuse il canale e si rivolse all’Ufficiale Tattico. «Discutere con questa marmaglia è senza costrutto. Non resta che neutralizzare il mercantile e abbordare la Destiny» ordinò.
   «Agli ordini, signore» disse Naskeel, aprendo il fuoco.
   La Tarantula colpì l’Ishka con potenti raggi tetrionici e i caccia di scorta fecero lo stesso. In pochi attimi la nave Ferengi si trovò al centro di una gragnola. Le navi-ago le sfrecciavano attorno, troppo veloci per essere colpite dai siluri fotonici. Qualche raggio phaser andava a segno, ma le navi tholiane ressero i colpi. La nave madre era più stazionaria, e quindi subiva più colpi, ma non aveva nulla da temere dal vecchio mercantile.
   «La nave Ferengi ha perso gli scudi» riferì di lì a poco Naskeel.
   «Proseguire l’attacco fino alla sua distruzione» confermò Ziz.
   Le navi tholiane continuarono a far fuoco, aprendo brecce sullo scafo del mercantile, che sbandò fuori controllo. Ormai era condannato.
   «Rilevo teletrasporti multipli. I mercanti si stanno trasferendo tutti sulla Destiny» avvertì l’addetto ai sensori.
   «Come temevo. Questo complicherà le cose, dovremo stanarli uno per uno» rimuginò l’Ammiraglio. Non poteva attaccare anche la Destiny, che senza scudi era un facile bersaglio, o avrebbe vanificato la missione di recupero. Quella nave doveva restare il più possibile integra.
   «Attenzione, i livelli d’energia della Destiny salgono» avvertì l’ufficiale.
   Era ciò che i Tholiani temevano. Da soli, quei mercanti non erano una minaccia; ma con le armi della Destiny a loro disposizione, ecco che d’un tratto divenivano un pericolo mortale. E infatti la nave federale scattò in avanti, aprendo il fuoco. Raggi phaser e polaronici scaturirono dai banchi che coprivano tutta la circonferenza dell’anello esterno, dandole un raggio di tiro di 360º. In una manciata di secondi, le sei navi-ago furono colpite e distrutte. Non avevano nemmeno fatto in tempo a rispondere al fuoco. Al tempo stesso la Destiny scagliò una raffica di siluri quantici contro la Tarantula. La nave madre fu centrata sul muso: i suoi scudi ressero, ma il vascello effettuò una brusca manovra evasiva per mettersi fuori tiro.
   «Ammiraglio, dobbiamo abbordare la Destiny prima che gli occupanti alzino gli scudi, o per noi sarà la fine» avvertì Naskeel. Avevano ancora qualche secondo prima che completassero il trasferimento dall’Ishka.
   «Vada con la sua squadra, Tenente» ordinò Ziz. «Uccidete l’equipaggio di plancia e prendete il controllo dell’astronave. Mi raccomando: qualunque cosa accada, assicuratevi che la Destiny resti integra. Ci serve intatta, per studiarla» ribadì.
   «Sarà fatto» promise Naskeel, lasciando la consolle tattica a un ufficiale ausiliario. Imbracciò un fucile disgregatore e si unì alla squadra d’assalto, già pronta sulla pedana di teletrasporto. «Attivate i campi protettivi. Si gela su quella nave» raccomandò ai suoi. I Tholiani premettero un comando sulle cinture metalliche che cingevano i loro corpi da ragno. Ciascuno di loro fu avvolto da un campo di forza che avrebbe mantenuto tollerabile la temperatura. Subito dopo furono trasferiti sulla Destiny, mentre le astronavi tornavano a colpirsi.
 
   «Arrendetevi o sarete distrutti» minacciò Naskeel, non appena fu in plancia. Attorno a lui, i mercanti si precipitarono dietro qualche postazione o nelle camere adiacenti. Visto che impugnavano le armi anziché arrendersi come ordinato, i Tholiani si sentirono autorizzati ad aprire il fuoco. Uno di loro cercò di colpire la timoniera, ma centrò solo la poltroncina, perché l’agile Caitiana balzò sopra la postazione del timone e vi si acquattò dietro.
   «Mai! Fuori dalla mia proprietà!» gridò il DaiMon. Impugnò la frusta neurale e dette una sferzata a Naskeel, ma il raggio riverberò sul suo campo di forza, senza nuocergli.
   «Hanno gli scudi individuali, per questo non si congelano!» gridò l’Umano, per farsi udire dai colleghi. «Phaser al massimo e concentriamo il fuoco!» ordinò, alzando la regolazione della sua arma. Si sporse per un attimo dal rifugio, centrando uno dei Tholiani. Nello stesso attimo una Risiana si sporse dalla sala tattica, in cui aveva trovato scampo, e lo colpì alle spalle. I due raggi ad alta intensità perforarono lo scudo: l’alieno stridette e andò in pezzi.
   I Tholiani risposero al fuoco, uccidendo due Ferengi e distruggendo alcune consolle. Ma si trovavano al centro della plancia, in una posizione esposta. E soprattutto non si erano aspettati una resistenza così accanita. Naskeel comprese che quelli non erano semplici mercanti; sembravano piuttosto degli avventurieri, forse persino dei mercenari. Avevano armi pesanti e sapevano come usarle. Alcuni – in particolare l’Umano – parevano ex federali.
   «Ancora!» gridò l’Umano, tornando a sporgersi per colpire i Tholiani. Ne centrò uno a una zampa, facendolo cadere in avanti, e poi di nuovo sul muso, che si frantumò. Nel frattempo la Caitiana abbatté il terzo, colpendolo ripetutamente col phaser. Il Ferengi sferzò il quarto con la frusta, indebolendo il suo scudo, e la Risiana gli dette il colpo di grazia.
   Rimasto solo, Naskeel colpì la postazione sensori e comunicazioni con un raggio così potente da farla esplodere. L’addetto, un giovane umanoide, gridò e fu scagliato all’indietro. Colpì la paratia e da lì si accasciò privo di sensi, col volto ustionato. Il Tholiano lo prese di mira, per finirlo, ma ebbe una breve esitazione. Adesso che era rimasto solo, uccidere gli avversari non sembrava saggio...
   «NO! Prenditela con me!» gridò l’Umano, gettandosi temerariamente allo scoperto. Naskeel si girò verso di lui, pronto a colpire, ma l’Umano fu più veloce. Sapendo di non avere il tempo per abbattergli lo scudo, mirò alla sua arma. Il raggio phaser centrò il fucile disgregatore, che esplose tra le mani del Tholiano. Questi arretrò, zampettando come un granchio in direzione della saletta teletrasporto.
   «Ah no, non te ne vai!» ruggì Grilk, assetato di vendetta. Colpì Naskeel con la frusta neurale, che gli si avvolse attorno alle zampe, immobilizzandolo. «Finiscilo, Rivera!» ordinò.
   Per un attimo l’Umano guardò il giovane collega, ancora riverso sul pavimento, col volto ustionato. Aveva una gran voglia d’ammazzare il mostro che aveva fatto questo... ma alcuni Tholiani erano già morti, e non voleva provocare un’escalation col loro governo. La Flotta Stellare gli aveva insegnato che il primo dovere di un ufficiale era disinnescare i conflitti sul nascere. «È meglio tenerlo vivo... come merce di scambio» disse, cercando di persuadere il DaiMon.
   «E va bene. Tanto farò sempre in tempo ad ammazzarlo, se cambio idea» borbottò questi, fissando malignamente il prigioniero. «E ora vuoi alzare gli scudi, prima che ne arrivino altri?!».
   Tenuto sotto tiro dagli avventurieri, Naskeel non poté far altro che assistere all’epilogo della battaglia. Vide la Tarantula aprire nuovamente il fuoco contro l’Ishka. Il vecchio mercantile era alla deriva, senza scudi e con lo scafo compromesso da svariate falle. Bastò un colpo ben assestato per disintegrarlo. Sulla plancia della Destiny, gli avventurieri assistettero angosciati all’esplosione della loro astronave. Molti di loro erano vissuti lì per anni e non avevano un altro posto dove andare. Ma nessuno fu più annientato del DaiMon.
   «La mia nave! La mia povera nave!» si disperò il Ferengi, prendendosi la testa fra le mani. Ma il dolore mutò subito in collera. «Rivera! Da’ alle zecche la lezione che meritano!» abbaiò.
   «Ci provo» sospirò l’Umano. Era stato un ufficiale tattico prima che i rovesci di fortuna lo portassero in mezzo a quei furfanti. Anche se erano cinque anni che non prestava servizio su una nave della Flotta, ricordava il mestiere. Preso il controllo delle armi, tempestò di colpi la Tarantula, sforzandosi di metterle fuori uso gli armamenti. Le due navi presero a girarsi attorno come lupi, scambiandosi bordate micidiali.
   «Bene, così! Non dargli respiro!» incitò Grilk.
   Le capacità offensive della Destiny erano impressionanti. In pochi minuti soverchiò la Tarantula, disattivandole le armi. Ai Tholiani non restò che disimpegnarsi, allontanandosi a impulso. Allora Naskeel capì d’essere condannato. I suoi compagni lo avevano senz’altro dato per morto col resto della squadra. E non avevano torto, perché gli avventurieri lo avrebbero certamente giustiziato per ripicca.
   «Eccellente. Ora finiscili!» ordinò il DaiMon, con un sorriso sadico.
   «Signore, con tutto il rispetto, i Tholiani non sono più una minaccia. Ma se ora li distruggiamo, supereremo il punto di non ritorno. Potremmo persino scatenare una guerra fra Tholiani e Federazione» avvertì Rivera.
   «E allora? Ricorda la Regola dell’Acquisizione numero 34: la guerra è propizia per gli affari» citò il Ferengi.
   «Già, ma lei ricordi la Regola numero 35: la pace è propizia per gli affari» ribatté l’Umano.
   «Mannaggia, hai ragione!» riconobbe Grilk. «E va bene, lasciamo andare le zecche. In futuro ci penseranno due volte, prima di attaccarci». In quella la Tarantula balzò a curvatura, mettendosi definitivamente in salvo.
   «Ma sì, scappate, vandali! Tanto non siete voi a dover pagare i danni. Povero me... fortuna che l’Ishka era assicurata...» borbottò il DaiMon, cercando di calcolare l’ammontare del risarcimento. Intanto gli avventurieri si occuparono del giovane collega ferito, accompagnandolo in infermeria.
   «Andate, io penso al responsabile» disse Rivera, tagliente. Girò sui tacchi e andò dal Tholiano prigioniero. «Hai visto? I tuoi colleghi sono scappati, ti hanno abbandonato!» infierì.
   «Di certo hanno pensato che fossi morto» rispose Naskeel, la voce resa comprensibile dal traduttore. «In effetti non comprendo perché mi abbiate risparmiato. Se sperate in un riscatto, sappiate che l’Annessione Tholiana non paga per riavere gli sconfitti».
   «Ssshhh! Se il DaiMon ti sente, allora sì che sei finito!» lo zittì Rivera. «Stammi a sentire, dannata zecca. Non so nemmeno io perché continuo a risparmiarti. Forse perché c’è stato un tempo in cui ero nella Flotta Stellare e credevo nella diplomazia. Comunque ora ti spiego le regole di bordo. Se tenti in qualunque modo di scappare, sei morto. Se tenti di contattare i tuoi simili per fargli sapere dove siamo, sei morto. Se dici qualcosa che non mi piace, sei morto. Se invece te ne stai zitto e buono nella tua cella, allora potresti sopravvivere. È tutto chiaro? Rispondi sì o no».
   «Sì» rispose Naskeel dopo qualche attimo.
   «Bravo ragazzo, sapevo che ci saremmo capiti al volo» disse Rivera. «A proposito, ce l’hai un nome?».
   «Mi chiamo Naskeel» rispose il Tholiano, fissandolo con gli insondabili occhi sulfurei. Non capiva perché l’Umano lo avesse risparmiato, ma stando così le cose, doveva approfittarne. Per il momento sarebbe stato alle regole, garantendosi la sopravvivenza. E non era da escludere che, alla lunga, sarebbe riuscito a fuggire...
 
   Dieci giorni dopo, Naskeel aveva cambiato opinione. Erano successe così tante cose, e così impreviste, che il Tholiano stentava ad adattarsi. La Destiny era stata risucchiata nello Spazio Fluido, la realtà alternativa in cui era rimasta negli anni della sua scomparsa. I nativi di quel cosmo, gli Undine, avevano catturato l’equipaggio, sottoponendolo a prove di sopravvivenza sempre più estreme. Ma con un audace colpo di mano gli avventurieri avevano recuperato il controllo della nave, uccidendo gli Undine a bordo, ed erano fuggiti. Ma Grilk era morto, così che adesso era Rivera il Capitano, impegnato a sostituire gli altri ufficiali rimasti vittime degli scontri. E c’era un problema ancora più grave: gli Undine avevano cancellato le coordinate quantiche dal computer, così che sebbene la nave fosse operativa, gli avventurieri non potevano tornare nel proprio cosmo. In tutto questo, Naskeel si era trovato a collaborare con loro, tanto che adesso partecipava alla riunione tattica.
   L’incontro era quasi terminato, e Rivera aveva assegnato tutti i ruoli, tranne quello di Ufficiale Tattico. Quando Losira, la nuova Comandante, glielo fece notare, l’Umano rispose in tono infastidito. «Non è così semplice, lo sai bene» disse. «Sull’Ishka svolgevo io quel ruolo, all’occorrenza, sebbene fossi ormai Primo Ufficiale. E comunque non avevamo una sezione Sicurezza come sulle navi federali. Se anche scegliessi l’Ufficiale Tattico, non avrebbe una squadra».
   «Ad ogni modo, ora che sei Capitano dovresti avere qualcuno che stia alla postazione tattica» insisté Losira. «Chiunque poteva usare le armi dell’Ishka, ma su una nave moderna come questa serve un esperto».
   «In tal caso, io sono l’opzione migliore» si offrì Naskeel. Il Tholiano era rimasto zitto per tutta la riunione, ma ora si fece avanti con l’insolita richiesta. «Dopotutto sono un ufficiale tattico di professione» sottolineò.
   «Tu? Non dire sciocchezze!» si oppose Rivera. «Sei salito su questa nave da nemico, con la tua squadra d’invasione. Per questo ti avevo chiuso in cella. Ammetto che le cose sono cambiate: Shati mi ha detto che l’hai salvata nella biosfera e poco fa ci hai salvati tutti, azionando il cannone thalaronico. Ti sono riconoscente e quindi ti consento di aggirarti liberamente per la nave. Ma non ti assegnerò incarichi di responsabilità; men che meno Ufficiale Tattico! Non ho scordato che la tua missione era eliminarci per conquistare la Destiny. E tu certo non hai scordato come la tua squadra sia morta nel tentativo. Erano i tuoi soldati, non vuoi vendicarli?».
   «La vendetta è una debolezza emotiva che non tocca i Tholiani» rispose Naskeel. «Avevo una missione, ma è fallita. Da allora la situazione è radicalmente mutata. Ora l’unico modo per massimizzare le mie probabilità di sopravvivenza è collaborare con voi».
   «Io credo che sia sincero» intervenne Shati, la timoniera. «Nella biosfera mi è sempre stato accanto, salvandomi da molti pericoli».
   «Forse fa parte del suo piano per carpire la nostra fiducia!» obiettò il Capitano, ancora diffidente.
   «Che piano potrei avere?» obiettò Naskeel. «La mia missione era consegnare questa nave al mio governo. Se la distruggessi fallirei del tutto, oltre a perdere la vita. Se in qualche modo vi neutralizzassi, rimarrei perduto nel Multiverso, su una nave che oltretutto non posso manovrare da solo. La mia sola speranza è tornare indietro con voi».
   «E supponendo che riusciamo a tornare, cosa farai allora?» chiese Rivera.
   «Vi chiederò di riportarmi alla mia gente o di concedermi una navetta per andarci io stesso» rispose il Tholiano.
   «Non cercherai di farci la pelle, per completare la tua missione ed essere riaccolto con tutti gli onori?» incalzò il Capitano.
   «Comprendo il suo dubbio, ma ha la mia parola che non attenterò alle vostre vite» disse Naskeel.
   Rivera tentennò, soppesando i pro e i contro. «Come ho detto, sei libero di muoverti sulla nave. Ma affidarti la sicurezza di bordo è prematuro» decise.
   «Come vuole, ma spero che avrà modo di ripensarci nei giorni a venire» disse il Tholiano.
 
   Passò un’altra settimana. La Destiny era sfuggita agli Undine, abbandonando lo Spazio Fluido. In mancanza delle coordinate di ritorno si era rifugiata in un altro cosmo, del tutto privo di stelle e pianeti, e per questo detto il Vuoto. Da allora gli avventurieri si dedicavano a riparare i danni delle battaglie, oltre che a familiarizzare coi sistemi di bordo. La Destiny infatti era più avanzata di qualunque cosa avessero mai visto prima, e non era facile sfruttarla al pieno potenziale. La mancanza di un Ufficiale Tattico, in particolare, si faceva ancora sentire. Rivera aveva formato una squadra della Sicurezza, ma a chi l’avrebbe affidata?
   Giunse il giorno in cui gli avventurieri iniziarono l’esplorazione del Multiverso. Con un programma di deframmentazione dati avevano recuperato alcune coordinate quantiche dal computer, ma esse non erano più abbinate a una descrizione. Quindi non restava che provarle tutte, sperando che ci fossero anche quelle giuste. La mattina fatidica, il Capitano entrò in plancia col batticuore. Gli ufficiali erano già lì: tutte le teste si girarono verso di lui. «Capitano sul ponte!» annunciò Talyn, l’addetto a sensori e comunicazioni.
   «Riposo, signori. Tutti ai vostri posti» ordinò Rivera, sperando col suo esempio d’instillare una certa disciplina in quegli avventurieri. Non poteva pretendere performance da Flotta Stellare in chi non aveva fatto l’Accademia, ma sentiva di doverli mettere in riga, ora che erano su una nave federale.
   Tutti fecero come ordinato, tranne Naskeel che gli si avvicinò. «Capitano, ha preso una decisione nei miei riguardi?» chiese il Tholiano.
   Rivera dette una breve occhiata al centro della plancia, dove si trovavano le tre poltrone principali: quella del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere. La terza sedia era destinata a restare vuota, dato che non avevano uno psicologo a bordo. Alla luce di questo, Rivera non voleva trovarsi con altre posizioni chiave scoperte: non ora che stavano per tuffarsi nell’ignoto. Per quanto ne sapeva, magari di lì a poco sarebbero stati impegnati in una battaglia mortale. No, gli serviva un professionista al tattico; così era una scelta obbligata.
   «Signor Naskeel, dopo attente riflessioni ho deciso di affidarle l’incarico da lei richiesto» disse in tono formale, fissando l’interlocutore; ma avvertì la sorpresa che aveva suscitato negli altri. «Sappia che mi aspetto piena lealtà e dedizione da parte sua. Il tradimento non sarà tollerato» avvertì.
   «Com’è giusto che sia» convenne Naskeel, piegando appena le sei zampe in una sorta d’inchino, che per lui corrispondeva al saluto militare. Dopo di che zampettò alla postazione tattica.
   Rivera restò a osservarlo qualche istante, prima di accomodarsi sulla sua poltrona.
   «Spero che tu sappia ciò che fai» gli sussurrò Losira, dal seggio del Primo Ufficiale.
   «Hai insistito tu perché designassi un Ufficiale Tattico».
   «Non mi aspettavo che si proponesse lui; ancor meno che tu accettassi».
   «Affrontiamo un problema per volta. Dovremmo essere al sicuro... finché non saremo tornati nel nostro Universo. Poi si vedrà» puntualizzò l’Umano, dandole un’occhiata eloquente. Dopo di che aprì un canale con tutti i ponti, anche se dovette fare più d’un tentativo per azzeccare i tasti giusti.
   «Buongiorno a tutti, è il Capitano che vi parla. Oggi comincia il nostro viaggio più memorabile, anzi il più memorabile di tutti i tempi: l’esplorazione del Multiverso. Non l’abbiamo chiesto noi, ma il destino ci ha posti su questa nave, con questa missione. Là fuori ci sono bellezze, scoperte e pericoli che oltrepassano ogni immaginazione. Solo restando uniti e fidando gli uni negli altri ne verremo a capo. Non siamo ufficiali di Flotta, eppure dovremo comportarci come tali, perché solo così troveremo la via di casa.
   In questa ricerca non lasceremo nulla d’intentato. Visiteremo tutte le coordinate quantiche ritrovate nel database, in cerca di quella giusta. Proveremo a contattare le entità capaci di spostarsi nel Multiverso, come i Q e i Nacene. Cercheremo ogni traccia, ogni indizio che possa metterci sulla giusta via».
   Fatta una breve pausa, il Capitano riprese in tono accorato: «Ricordate inoltre che tutto questo non lo facciamo solo per noi stessi. Dobbiamo tornare anche per avvertire la Federazione della minaccia Undine. Può darsi, infatti, che la biosfera fosse parte di un piano d’invasione: un modo per scoprire i nostri punti deboli prima di sferrare l’attacco su vasta scala. Se è così, dobbiamo avvisare le autorità federali prima che sia troppo tardi. E dobbiamo rendere giustizia al primo equipaggio della Destiny, raccontando la loro storia.
   Questa è la nostra responsabilità, sebbene le autorità non ci siano state amiche. E chissà che, riuniti su questa nave, non riscopriamo in noi quello spirito di fratellanza che creò la Federazione, tanto tempo fa. Signori, avanti tutta verso l’ignoto!».
   Poco più indietro, Naskeel ascoltò con attenzione il discorso. La linea d’azione del Capitano era logica e condivisibile. E se fossero riusciti ad avvertire la Federazione della minaccia Undine, di certo anche l’Annessione Tholiana sarebbe venuta a saperlo. Dunque per il momento i loro scopi coincidevano. Ma Naskeel non aveva scordato gli ultimi ordini dell’Ammiraglio Ziz: «Uccidete l’equipaggio di plancia e prendete il controllo dell’astronave. Mi raccomando: qualunque cosa accada, assicuratevi che la Destiny resti integra. Ci serve intatta, per studiarla».
   Era quella la sua ultima missione, e Naskeel non l’aveva ancora compiuta. L’aveva solo... posticipata a data da destinarsi. Per il momento avrebbe rispettato almeno l’ultima parte della consegna, assicurarsi che la Destiny restasse integra. E avrebbe protetto anche l’equipaggio, sempre nell’ottica di conservare l’astronave. Ma una volta tornati nel loro cosmo... chissà. 
 

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Capitolo 2
*** Sparizioni ***


-Capitolo 1: Sparizioni
Data Stellare 2614.117
Luogo: Terra (una delle tante nel Multiverso...)
 
   «Siamo arrivati Capitano, la Terra è in vista» disse Shati, non appena la Destiny uscì dalla cavitazione quantica.
   «Sullo schermo» ordinò Rivera, tamburellando sul bracciolo della poltrona. Vedendo apparire il globo bianco-azzurro, l’Umano provò sensazioni contrastanti. Aveva cercato così a lungo di tornare sulla Terra... ed eccola lì davanti a lui. Sfortunatamente non era la Terra, quella su cui era nato e cresciuto. Era solo una Terra: una delle innumerevoli varianti che si potevano trovare nel Multiverso. Da quando avevano ottenuto la nuova lista di coordinate quantiche, quelle ignote alla Flotta, ne avevano trovate a bizzeffe. E fra tante Terre, non ce n’erano due identiche. Alcune erano paradisiache, altre devastate da attacchi alieni o dall’umana follia. Alcune fiorivano sotto governi democratici, altre soffocavano nella morsa di feroci dittature. La maggior parte era così-così. E la Terra che avevano raggiunto ora sembrava appunto una di quelle nella media.
   «Il pianeta è sovrappopolato e con tracce d’inquinamento, ma non a livelli drammatici» riferì Talyn dalla postazione sensori e comunicazioni. «Ci sono danni atmosferici e ambientali compatibili con dei brillamenti solari, come ci avevano riferito. Comunque il traffico spaziale è intenso e c’è molta attività edilizia, sia sulla Terra che sulla Luna. Anche senza la Federazione, l’umanità sembra in fase di ripresa».
   «Buon per loro» disse il Capitano. Anche se gli abitanti di quel pianeta erano tecnicamente Umani, Rivera stentava a considerarsi uno di loro. In fondo proveniva da un altro Universo, con un’altra storia. Eppure, ogniqualvolta il suo sguardo si posava su una variante della Terra, il vecchio assillo tornava. Stava facendo bene a trascinare il suo equipaggio in quell’odissea infinita nel Multiverso? Non avrebbero fatto meglio a fermarsi e mettere radici? Quella realtà, ad esempio, sembrava passabile. Se avessero deciso di... farsela bastare?
   Ma non era così semplice, si disse Rivera, aggrottando la fronte. Sebbene gran parte della ciurma fosse composta da avventurieri senza patria, alcuni – come Irvik, l’Ingegnere Capo – avevano famiglia e non si accontentavano di una realtà simile alla loro. Volevano ritrovare proprio quella, coi loro cari, o non se ne faceva niente. E poi, se si fossero fermati, quali erano le prospettive a lungo termine? Che ne sarebbe stato della Destiny di lì a dieci, venti, cinquant’anni? In che mani sarebbe finita? No, un vascello capace di viaggiare nel Multiverso era troppo pericoloso. Rivera avrebbe preferito distruggerlo, piuttosto che farlo cadere in mani sbagliate.
   Così, anche quella era solo una tappa del loro lungo viaggio. Ma nel frattempo bisognava pur vivere... e loro erano pur sempre degli avventurieri in cerca di guadagno. Sarebbe stato folle percorrere il Multiverso senza approfittarne. Quindi ad ogni tappa cercavano di combinare buoni affari. E da quando avevano le nuove coordinate, cioè da quasi un anno, ne avevano fatti eccome. Certe merci, che in alcuni Universi avevano prezzi stracciati, in altri erano preziose e introvabili. C’erano interi cosmi che non avevano mai visto un replicatore o un teletrasporto, il che dava agli avventurieri un enorme vantaggio. Così i buoni affari erano fioccati.
   Regina indiscussa di questa fortunata stagione era Losira, un tempo aristocratica di Risa, poi tesoriera sull’Ishka, e ora Comandante della Destiny. Per la prima volta da anni, la Risiana poteva mettere a frutto le sue abilità mercantili. Appena fiutava un buon affare, vi si gettava a capofitto, e di solito se la cavava bene. Rivera era ben contento di lasciarle queste incombenze, dato che per gli affari era negato: era sempre stato un uomo d’azione. Così la lasciava fare, intervenendo solo nelle rare occasioni in cui la situazione le sfuggiva di mano.
   «Talyn, contatta l’ufficio doganale col codice identificativo che ci hanno assegnato» disse Losira. «Di’ che abbiamo quel carico d’antichità da Nocturne. No, anzi... di’ che abbiamo quel carico di capolavori artistici da Nocturne» precisò, già calata nel ruolo d’affarista.
   Gli avventurieri attesero, mentre la chiamata era smistata fra migliaia d’altre. Tra tutti i loro commerci, questo era insolito. Di rado s’erano occupati d’arte e di beni culturali, anche perché nessuno di loro se ne intendeva davvero. Ma come diceva Losira, il commercio d’antichità era tra i più remunerativi. «Prendete un qualunque soprammobile, che v’ingombra l’alloggio e non vale niente. Sotterratelo per mille anni. Quando qualcuno lo scoprirà, ecco che sarà diventato preziosissimo. Un archeologo lo estrarrà con mille attenzioni, un restauratore lo ricomporrà con cura certosina, un critico d’arte farà ipotesi su com’erano le parti mancanti e si affannerà a collocarlo in una corrente artistica. I musei se lo contenderanno, per arricchire la propria esposizione, e la gente pagherà per andare a vederlo. È il fascino del passato... e chi siamo noi per negare a milioni di Terrestri l’opportunità di riconnettersi con le loro radici? L’opportunità di sospirare davanti alle opere del passato e pensare che “noi siamo anche questo”? Lascia fare a me, Capitano, vedrai che sarà un ottimo affare» aveva detto la Comandante. E il Capitano, come al solito, le aveva dato carta bianca. Così eccoli lì, in attesa di sbarcare il prezioso carico.
   «L’ufficio doganale ci ha risposto» disse finalmente Talyn. «Dicono che dobbiamo accogliere a bordo il loro ispettore, che verificherà l’inventario ed effettuerà i controlli sanitari. Solo se passiamo l’ispezione potremo sbarcare il carico» avvertì.
   «Tutto nella norma, sono le solite formalità. Su, prepariamoci a ricevere l’ispettore» fece Losira, guidando gli altri nella saletta teletrasporto. «E vedete di fare una bella impressione!» aggiunse, fissando Rivera con vaga disapprovazione. Chissà perché, fissava sempre lui quando faceva queste raccomandazioni, come se il Capitano sembrasse un poco di buono. Rivera si passò la mano sulle guance: sarà stata la sua abitudine a tenere un po’ di barbetta ispida...
   «Combinato l’affare avremo un po’ di licenza? Non mi dispiacerebbe visitare questa Terra» commentò Talyn.
   «Mi spiace, ma abbiamo una tabella di marcia serrata» spiegò la Comandante. «Fatta questa consegna, dobbiamo incontrarci coi Raxacoricofallapatoriani per vendergli i nostri giochi da tavolo. Sarà un grande affare, non possiamo tardare».
   «Beh, i giochi mica scappano. Non vedo che fretta abbiano i Raxacosi...» s’impappinò Rivera.
   «Raxacoricofallapatoriani» ripeté Losira con facilità.
   «Prova a ripeterlo dieci volte di fila. Se ci riesci, vinci una bambolina» ironizzò il Capitano.
   La Risiana gli restituì il sorriso ironico, ma a quel punto dovettero tutti tacere, perché l’ispettore doganale stava arrivando. La sua sagoma si delineò sulla piattaforma del teletrasporto, assieme a quella di due guardie. Ancora un istante e furono del tutto materializzati.
   «Beh, siete all’altezza della vostra fama!» commentò quella che si era rivelata un’ispettrice, osservando con interesse il comitato di benvenuto. Era una donna sulla cinquantina, dallo sguardo sicuro e penetrante. Indossava la severa uniforme doganale rossiccia, con un bracciale elettronico fitto di comandi, ma per contrasto i folti capelli castani scendevano come una criniera fin sotto le spalle. «Salve, sono l’Ispettrice Amirani dell’Ufficio Doganale Terrestre» si presentò con voce decisa, scendendo dalla pedana. A confermare le sue parole, mostrò a Rivera la propria tessera identificativa, prima di riporla in tasca. «Devo dire che il vostro arrivo mi sorprende. Da Nocturne a qui è un viaggio lungo... vi attendevo tra non meno di una settimana» ammise.
   «La nostra nave è veloce, e fortunatamente il viaggio è stato tranquillo» spiegò il Capitano.
   «Già, la nave da un altro Universo... confesso che stentavo a crederlo» disse l’Ispettrice, osservando gli ufficiali. Il suo sguardo si soffermò su Naskeel. «Adesso, invece, non ho più dubbi» ammise.
   «Lui è Naskeel, il nostro Ufficiale Tattico» disse Rivera, abituato a quelle reazioni. «Non si lasci intimorire dal suo aspetto. In realtà è un biscottino, non è così?». Lo fissò con quello sguardo che gli ingiungeva di confermare.
   «Certo, proprio un biscottino» disse Naskeel, ma il suo sguardo sulfureo sembrava raccontare un’altra storia.
   «Dunque, Ispettrice, come saprà abbiamo un carico d’antichità terrestri, risalenti in massima parte al XIX secolo» proseguì il Capitano. «Tutta roba che fu evacuata dalla Terra per precauzione durante l’ultima Guerra Dalek, e che in seguito – ehm – si smarrì nel mercato nero. Ora che il pericolo è cessato, siamo lieti di restituire alla Terra questo frammento del suo patrimonio culturale».
   «E i nostri musei sono lieti di riceverlo. È sempre bello quando i beni culturali tornano nel loro luogo d’origine, dove possono essere valorizzati. Ho ricevuto la documentazione da Nocturne, unitamente al vostro contratto, e vi confermo che è tutto regolare» disse Amirani. «Direi di passare senza indugio a inventariare il carico. Dopo di che procederò coi controlli sanitari».
   «Certo, mi segua» la invitò Rivera, facendo strada nel turboascensore. «Riguardo ai controlli sanitari, di che si tratta esattamente?».
   «Oh, è la procedura standard. Dovrò analizzare i reperti, per accertarmi che non siano contaminati con microrganismi o tossine nocivi. Lei mi capisce, Capitano: il cosmo è vasto, i rischi biologici innumerevoli».
   «Ma certo, Ispettrice!» trillò Losira, inserendosi nella conversazione. «Faccia con comodo ciò che deve. Da noi avrà la massima collaborazione. Se lo desidera, può trattenersi a cena» propose, sperando di fare buona impressione.
   «Lei mi tenta, Comandante, ma non posso trattenermi oltre il dovuto» spiegò Amirani, con un breve sorriso che non si estese agli occhi. «Se dalla mia ispezione non emergeranno irregolarità, procederemo quanto prima a trasferire il carico. Il Ministero dei Beni Culturali si occuperà del pagamento, convertendolo nella valuta da voi indicata. Dovrebbe essere tutto sbrigato in un paio di giorni. Sempre che non emergano irregolarità» ribadì.
   «Quando mai i nostri clienti si sono lamentati? Non troverà un solo insoddisfatto in tutto il cosmo!» assicurò Losira. Considerato che erano appena arrivati in quel cosmo, non era granché come garanzia. Ma a pronunciarla faceva comunque effetto.
 
   «Come vede, abbiamo custodito i vostri beni culturali in questa stiva secondaria, per evitare qualunque contaminazione col resto del carico» disse Losira, introducendo l’Ispettrice nella saletta. Lungo la parete di fondo erano disposti in bell’ordine i reperti storici del XIX secolo. Malgrado gli avventurieri li avessero definiti opere d’arte, per la maggior parte erano oggetti d’uso comune, sia pure costosi e raffinati, del genere riservato all’aristocrazia. C’erano orologi sia da tavolo che da taschino, tabacchiere, soprammobili di vario tipo. Vi erano servizi da tavola con bicchieri di cristallo, posate d’argento, piatti e zuppiere di porcellana. E c’erano persino armi e uniformi militari dell’epoca coloniale dell’Impero Britannico, con contorno di tamburi e bandiere. Una parte considerevole del carico, inoltre, era composta da libri: grandi tomi rilegati in cuoio, contenenti lo scibile del secolo decimo nono. C’erano persino dei giornali d’epoca, fitti con gli eventi di quegli anni. Era strano leggere della Guerra Civile Americana o della nazionalizzazione della Compagnia delle Indie tra le notizie d’attualità. In uno scrigno a parte c’era del contante: monete e banconote con l’effige della Regina Vittoria.
   E infine sì, c’erano delle opere d’arte propriamente dette, come quadri e statue. Tra i dipinti spiccavano alcuni capolavori di Turner, con gloriosi tramonti dorati sul mare. Le statue erano perlopiù di piccole dimensioni, sul genere dei soprammobili. Tuttavia ve n’erano sei a grandezza naturale, che sembravano sorvegliare il prezioso carico.
   Si trattava di angeli, raffigurati secondo la tipica iconografia cristiana: volti efebici, vesti fluenti di foggia classica e grandi ali piumate, tenute racchiuse presso il corpo. Angeli di pietra, all’apparenza marmo grigio e polito, scolpiti con grande talento. In effetti erano così coerenti nello stile, così in armonia gli uni con gli altri, da far pensare che fossero opera dello stesso scultore, o almeno della stessa officina. Il catalogo non riportava il nome dell’artefice, ma lo stile era assai realistico. Gli angeli erano raffigurati fin nei minimi dettagli somatici, fino all’ultimo ricciolo dei capelli e all’ultima piega delle vesti. Le loro pose, tuttavia, erano strane e inquietanti. Gli angeli, tutti quanti, avevano il capo chino e si coprivano il volto con le mani, come se cercassero di nascondere o di asciugarsi le lacrime. Angeli piangenti, angeli in lutto... come quelli che un tempo adornavano le tombe monumentali, si disse il Capitano. Sì, quegli angeli dovevano venire da un cimitero, o al limite da una cappella privata, dov’erano stati posti a guardia di qualche illustre sepolcro. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrebbero viaggiato tra le stelle, a bordo di un’astronave...
   «Bene, vedo che i reperti sono stati trasportati con le dovute attenzioni» disse l’Ispettrice, in tono d’approvazione. «Mi dica Capitano, e la prego d’essere sincero... ci sono stati incidenti durante il viaggio? Oggetti caduti o finiti fuori posto...?».
   «Niente del genere» assicurò Rivera. «Come vede, tutti i reperti che non siano posati a terra sono assicurati contro le cadute. Gli oggetti più fragili sono inscatolati, con tanto di schiuma anti-urti». Così dicendo aprì una delle casse, mostrando un servizio di fragili bicchieri di cristallo, ben fissati nei loro alloggiamenti.
   «Hm-hm» approvò Amirani. Premette un comando sul suo bracciale elettronico, attivando un oloschermo. Vi si leggeva un lungo catalogo, diviso in categorie. «Bene, comincio a inventariare il carico. L’avverto che ci vorrà un po’, Capitano, quindi non voglio trattenerla oltre. Sono certa che ha molto da fare».
   In realtà Rivera non aveva chissà quale impegno urgente. Ma in effetti non gli andava di passare ore a osservare quella donna che spuntava il suo interminabile elenco, soffermandosi su ogni minima irregolarità. Se poteva ritirarsi, lo faceva con piacere. Losira poteva sorbirsi le lungaggini al posto suo; era lo scotto da pagare per chi faceva l’affarista.
   «In tal caso, io vado, Ispettrice» annuì il Capitano. «I miei ufficiali sono a sua disposizione per ogni necessità. Avvertitemi quando avrete finito. O prima, se ci fosse qualche problema» raccomandò. E sgattaiolò fuori dalla stiva, prima che a qualcuno potessero venire in mente delle obiezioni. Non che si aspettasse grane da quell’affare. Era una semplice rivendita di beni – in questo caso culturali – del genere che Losira sapeva perfettamente gestire. Sì, pensò tra sé mentre tornava nel suo alloggio, stavolta non ci sarebbero stati colpi di scena...
 
   «Sei battuto. È inutile resistere. Non lasciarti distruggere, come fece Obi-Wan» ammonì Darth Vader. L’estremità della sua spada laser, rossa come il sangue, dardeggiava a pochi centimetri dal viso atterrito di Luke Skywalker.
   Il giovane era a terra, stremato dal lungo combattimento, col volto escoriato dall’urto con gli oggetti che il Signore dei Sith gli aveva scagliato contro con la Forza. Ma ancora una volta rifiutò d’arrendersi. Deviò la lama dell’avversario, e quando questi tornò a calarla, Luke rotolò sul pavimento e balzò di nuovo in piedi. Gli avversari si scambiarono qualche ultimo colpo, nella loro posizione esposta sul baratro di Cloud City, mentre il vento turbinava attorno a loro.
   Darth Vader menò un potente attacco laterale, ma mancò il colpo, e così facendo si scoprì. Luke ne approfittò per assestare un affondo che colpì il Signore Oscuro al braccio, appena sotto lo spallaccio, intaccando la sua nera armatura. Le scintille sprizzarono e Darth Vader si lasciò sfuggire un lamento. Ma subito convertì il dolore in collera, tornando all’attacco, più devastante di prima. Costrinse Luke ad arretrare su una passerella sospesa nel vuoto e tranciò un sostegno metallico che si frapponeva tra loro. Quando le spade laser tornarono a contatto, Vader costrinse Luke a piegare il polso, in un ripetuto movimento circolare, che lo lasciò del tutto scoperto. E ne approfittò per recidergli la mano destra.
   Luke Skywalker gridò di dolore mentre la sua mano mozzata, che ancora impugnava la spada laser azzurra di suo padre, cadeva perdendosi nel vuoto. Il giovane ribelle si accasciò, premendo l’arto mutilato contro l’ascella, mentre con la mano superstite si reggeva a un sostegno metallico.
   Anziché proseguire l’attacco, infliggendo un colpo mortale, Darth Vader si arrestò, puntando la propria lama verso il basso. «Non hai scampo. Non lasciare che ti distrugga» ribadì.
   Luke lo fissò con ribrezzo, e cercò d’arretrare. Ma si era cacciato in un vicolo cieco, perché dietro il sistema d’antenne a cui era precariamente aggrappato c’era l’abisso senza fondo di Bespin.
   «Luke, tu non ti rendi ancora conto della tua importanza. Hai solo cominciato a scoprire il tuo potere» avvertì Darth Vader, il mantello nero agitato dal vento. «Vieni con me, e io completerò il tuo addestramento. Unendo le nostre forze, possiamo mettere fine a questo conflitto distruttivo, e riportare l’ordine nella Galassia!» lo tentò, tendendo il braccio in avanti.
   Luke si rialzò a fatica, aggrappandosi a un’antenna, per evitare che il vento lo gettasse nel baratro. «Non verrò mai con te!» rantolò, ancora sconvolto dal dolore per la sconfitta e la mutilazione.
   «Se solo conoscessi il potere del Lato Oscuro... Obi-Wan non ti ha mai detto cosa accadde a tuo padre?» inquisì Darth Vader, levando il pugno chiuso in un gesto di potenza.
   «Mi ha detto abbastanza!» gridò Luke, cercando d’indietreggiare; ma così facendo era sempre più sospeso nel vuoto. «Che sei stato tu ad ucciderlo!» aggiunse, sputando le parole con disprezzo. Così gli aveva detto Obi-Wan, quel lontano giorno su Tatooine, suscitandogli il desiderio d’essere un Jedi, come suo padre prima di lui...
   «No; io sono tuo padre» rivelò il Signore dei Sith, lapidario. Le parole parvero galleggiare nell’aria, con le loro devastanti implicazioni.
   «Non è vero... non è possibile!» gemette Luke, il viso contorto in una smorfia di dolore e disperazione. Non poteva credere che i suoi saggi maestri, Obi-Wan e Yoda, gli avessero mentito... e che il mostro davanti a lui dicesse la verità...
   «Cerca dentro di te... tu sai che è vero» insisté Darth Vader, con forza ineluttabile.
   «NOOOOOO! NO!» gridò Luke, annientato da quella rivelazione che rovesciava tutto ciò in cui credeva e avvelenava perfino il desiderio d’emulare suo padre...
 
   A quelle parole, Giely smise di guardare l’oloschermo e si rivolse al compagno, con cui sedeva abbracciata sul divano. I suoi occhioni viola erano spalancati dall’orrore e dallo sconcerto. «È vero? Darth Vader è il padre di Luke?!» sussurrò, incredula per il magistrale colpo di scena.
   Allora Rivera bloccò temporaneamente il film, per darsi tempo di risponderle. Già da un po’ aveva smesso di guardare l’oloschermo, e al suo posto fissava il visetto attento della Vorta, in attesa dell’impagabile espressione di tutti i neofiti della saga. Quell’emozione straordinaria, che si prova una sola volta nella vita, nell’apprendere che Darth Vader è il padre di Luke Skywalker. E Giely non l’aveva deluso... il suo volto era la quintessenza dello stupore. Questa era una delle cose che l’Umano amava della sua compagna aliena: poteva mostrarle i classici terrestri e godersi le sue reazioni spontanee. Era davvero adorabile.
   «Beh, se ci pensi ha senso» commentò Rivera. «Obi-Wan e Yoda hanno detto che sia Anakin – il padre di Luke – sia Darth Vader erano potenti Jedi. Hanno ammesso persino che erano stati entrambi apprendisti di Obi-Wan. Quindi ha senso che Anakin e Vader siano lo stesso individuo, prima e dopo la sua caduta nel Lato Oscuro. Se ti ricordi, anche gli zii di Luke nel primo film parlavano con timore di suo padre, preoccupati dal fatto che Luke potesse somigliargli».
   «Ma... come ha fatto Anakin a passare al Lato Oscuro? E chi era la madre?! E adesso cosa farà Luke?!» chiese Giely preoccupatissima, osservando l’eroe ferito sullo schermo.
   «Beh, non resta che continuare a guardare» sorrise Rivera. «Ma non aspettarti che tutte le domande siano risolte in questo film. Come ti dicevo, è una saga lunga...» disse, carezzandole i capelli corvini. Un tempo Giely li portava corti, ma negli ultimi anni li aveva lasciati crescere, e ormai le si erano fatti lunghi, dandole un’aria angelica.
   «Non vedo l’ora di andare avanti! Certo che... Vader è stato cattivissimo a mutilare suo figlio» commentò la Vorta, raggomitolandosi presso il compagno. Essendo un clone, nata già adulta, col rimpianto di non avere genitori, era particolarmente sensibile ai drammi familiari.
   «È il potere del Lato Oscuro» disse l’Umano con gravità, sul punto di far ripartire il film. In quella però gli giunse una chiamata dal comunicatore.
   «Losira a Rivera, ci sei?!» chiese la Risiana, sempre un po’ informale.
   «E dove dovrei essere? Sono in ascolto, sì!» sospirò il Capitano, premendosi la mostrina.
   «Abbiamo finito l’ispezione» annunciò la Comandante, in tono stranamente serio. Così serio da far temere guai.
   «E quindi?» chiese Rivera, raddrizzandosi sul divano.
   «L’inventario è andato bene. Abbiamo tutti i pezzi, e non c’è stato alcun danneggiamento durante il viaggio» spiegò Losira. «Il problema è l’analisi sanitaria. Vieni qui per favore, e porta anche Giely, se è lì con te. Abbiamo un grosso guaio».
   «Okay, stiamo arrivando. Rivera, chiudo» fece il Capitano. Dopo di che scambiò un’occhiata rassegnata con la compagna. «Mi spiace, il lavoro ci chiama. Temo che dovremo aspettare, prima di terminare il film» sospirò.
   «Peccato, proprio sul più bello...» convenne la Vorta. Si districò dall’abbraccio e scese dal divano, pronta a riprendere i panni di medico di bordo.
 
   «Il cosa?!» domandò il Capitano, quando lui e Giely furono nella stiva, innanzi all’Ispettrice.
   «Noi lo chiamiamo il Flood» spiegò Amirani, serissima. «È un virus originario di Marte, al tempo in cui il pianeta aveva ancora oceani. Sopravvive nell’acqua e si trasmette sempre attraverso di essa. Ciò include anche i droplet, le goccioline che emettiamo col respiro, o più ancora tossendo e starnutendo. Si tratta di un virus insidioso, che assume il controllo del cervello, trasformando le vittime in morti viventi. In tal modo le induce a sputare acqua contro chiunque abbiano intorno, diffondendo sempre più l’epidemia. Guardate, questo è l’aspetto delle vittime».
   Così dicendo l’Ispettrice attivò il bracciale elettronico, proiettando un piccolo ologramma, forse una registrazione. Le vittime del Flood avevano occhi spiritati, innaturalmente chiari, e barcollavano come zombie. La parte inferiore del volto, e in particolare le labbra, erano orribilmente spaccate; i denti parevano anneriti. Non appena si accostavano alla vittima, le rigurgitavano addosso una quantità impressionante d’acqua, segno che il virus le induceva a bere in continuazione. Gli avventurieri osservarono con disgusto la proiezione, finché Amirani pensò che ne avessero abbastanza e la disattivò.
   «In passato la Terra e altri mondi hanno rischiato d’essere devastati dal Flood» spiegò l’Ispettrice. «Credevamo d’averlo sconfitto, ma... ho appena trovato dei virus sui vostri reperti storici, come se qualcuno ci avesse tossito sopra. Anche se questi virus sono morti, in mancanza d’acqua, è un segnale d’allarme che non posso in alcun modo ignorare». Così dicendo mostrò uno strumento che s’era portata dietro, simile a un tricorder medico, coi risultati delle scansioni.
   «Chiedo accesso alla vostra banca dati su questo virus» disse Giely, preoccupata. «Intanto mi dica se esiste una cura».
   «Sì, ne abbiamo sviluppata una, e ve la forniremo subito. Ma vi avverto che funziona solo nel primo stadio della malattia» spiegò Amirani. «E purtroppo non è efficace al 100% sugli alieni... di cui ho notato che questa nave è piena. Ci sono specie che non ho mai visto prima, specie che non esistono nel nostro Universo. Francamente non so se la cura sarà efficace su di loro» aggiunse.
   Rivera e Giely si scambiarono un’occhiata preoccupata. Finora non avevano mai dovuto affrontare un’epidemia a bordo, ma in effetti era solo questione di tempo, prima che uno dei tanti Universi gli riservasse questa pessima sorpresa. Il Capitano si rivolse di nuovo all’Ispettrice, rabbuiato. «Se questo virus è originario del vostro cosmo, come crede che sia avvenuto il contagio? Voglio dire, noi siamo qui da poco. Finora siamo sbarcati solo su Nocturne, quindi...».
   «Il focolaio dev’essere lì» annuì Amirani, anche lei cupa. «Contatterò immediatamente le autorità planetarie, affinché prendano le dovute precauzioni. È probabile che l’intero pianeta verrà messo sotto quarantena. E poiché non possiamo correre il rischio di contagiare la Terra, su cui vive tutt’ora la maggior parte dell’umanità... sono costretta a fare lo stesso con la vostra nave».
   «Vuol metterci in quarantena?!» si disperò Losira, vedendo sfumare la sua tabella di marcia, con gli affari che aveva già programmato nelle prossime settimane.
   «Sono spiacente, ma non ho scelta» spiegò l’Ispettrice. Attivò un oloschermo dal bracciale e vi passò sopra il pollice, barrando una casella con una X rossa. Era il segno che negava lo sbarco delle merci. Poi si rivolse agli avventurieri in tono formale: «Io, Ispettrice Amirani, con l’autorità dell’Ufficio Doganale Terrestre, invoco il Protocollo Medico, stato d’emergenza infettiva, livello d’allerta 1. Pertanto pongo sotto quarantena l’astronave USS Destiny, con tutto ciò che contiene. Resterete in orbita terrestre per non meno di trenta giorni, sorvegliati dai nostri vascelli. Potrete avere comunicazioni audio-video con chi volete, ma nessun trasferimento di persone o merci. Questo riguarda anche e soprattutto il vostro carico di beni culturali, dato che il Flood è stato rilevato lì. Nessuno salirà su questa nave e nessuno ne scenderà, fino al termine dell’isolamento. Qualunque trasgressione sarà severamente punita. Intendo punita con la confisca dell’astronave, mi sono spiegata?» disse, fissando serissima il Capitano.
   «Noi non siamo vostri cittadini. In effetti siamo apolidi in questo cosmo. Perciò non siamo tenuti a sottostare ai vostri regolamenti» avvertì Rivera, vedendo profilarsi uno scontro.
   «Siete nel nostro spazio, e state mettendo in pericolo la Terra, quindi sottostarete eccome!» ribatté Amirani, mentre le due guardie del corpo le si stringevano accanto, con le armi in pugno.
   «Questa nave dispone d’armi e occultamento evoluti. Se volessimo sottrarci al controllo, potremmo farlo» minacciò Naskeel, impugnando a sua volta il phaser.
   «Può darsi, ma sarebbe da irresponsabili» avvertì l’Ispettrice, per nulla intimorita. «Signori, chiariamo una cosa: io faccio il tifo per voi. Spero con tutto il cuore che questa traccia di virus sia un incidente isolato e che nessuno sviluppi il Flood. Ma pensate allo scenario peggiore! Se d’un tratto vi trovaste con un’epidemia sconosciuta e devastante a bordo... coi vostri compagni che vi aggrediscono per contagiarvi... vorreste giovarvi del nostro aiuto, della nostra esperienza in materia, oppure no?».
   «Beh, male non farebbe» ammise il Capitano di malavoglia.
   «Allora confido che starete al regolamento» disse Amirani. «Io stessa mi vedo costretta a rimanere a bordo fino al termine della quarantena, per non mettere in pericolo la Terra. Prometto che sarò un’ospite discreta. Ma questa è la realtà... il meglio che possiamo fare è affrontarla di comune accordo, da persone responsabili. Allora, ci state? Posso contare sulla vostra collaborazione?» chiese, fissando il Capitano.
   «Perderemo molti affari...» mormorò Losira, afflitta.
   «Sempre meglio che perdere la vita» sospirò Rivera. «E va bene, staremo al regolamento» cedette. Pose la mano sul phaser di Naskeel, inducendolo a rimetterlo in cintura. Allora anche le guardie dell’Ispettrice riposero le armi. La tensione si stemperò.
   «Grazie, Capitano. Ha fatto la scelta giusta, sia per il suo equipaggio, sia per la Terra» si addolcì Amirani. «Farò presente al Ministero che il ritardo comporta un danno economico per voi. Non vi prometto niente, ma... non è da escludere che possiate avere un risarcimento».
   «Questo è parlare!» approvò Losira.
   «Allora è deciso. C’immunizzeremo subito contro il virus, e se dovessero ugualmente esserci dei casi, contatteremo la vostra rete ospedaliera per avere consiglio» disse il Capitano. «Se invece, incrociando le dita, andrà tutto bene, ne approfitteremo per tirare il fiato. Questi ultimi mesi sono stati spossanti... ci serve uno stacco. Consideriamola una sorta di vacanza» disse ai suoi, cercando di tirarli su di morale.
   «Fortuna che abbiamo il ponte ologrammi e le sale sportive, per distrarre la ciurma» commentò Losira. D’un tratto le venne un’idea luminosa e si accostò a Amirani, parlandole in tono confidenziale. «Ce le avete le sale ologrammi, dalle vostre parti? Da noi sono il passatempo più diffuso. Sono una forma di realtà virtuale con cui si può fare praticamente di tutto, l’unico limite è la fantasia. Potremmo vendervi la tecnologia olografica... e anche i programmi già belli e pronti, con uno sconto ogni dieci. Il prezzo? Un affarone!» garantì. E si allontanò parlottando fittamente con l’ospite.
 
   Ora che erano in quarantena, gli avventurieri dovettero rassegnarsi a passarla come meglio potevano. Avevano sempre il timore che i sintomi del Flood si palesassero, sebbene Giely li avesse immunizzati. Così ognuno reagiva a modo suo. La dottoressa si era immersa nello studio del virus. Naskeel passava il tempo libero nel suo alloggio, anche se nessuno sapeva che ci combinasse. Il Tholiano era l’unico a non temere il Flood, dato che il suo corpo cristallino e rovente non conteneva acqua, quindi era il più tranquillo. Gli altri cercavano di distrarsi, di tenersi occupati, nella speranza che tutto si risolvesse senza tragedie. Come previsto, le sale ologrammi e quelle sportive erano usate dai più annoiati, come Rivera e Shati. Altri, come Talyn e Irvik, ne approfittarono per studiare il nuovo cosmo in cui erano capitati, cercando di capire se c’erano tecnologie utili da reperire.
   E poi c’era Losira, che considerava ogni minuto non dedicato agli affari come un minuto perso. La Risiana cercava costantemente di combinare nuovi scambi, anche se l’impossibilità di lasciare la nave, o di accogliervi ospiti, la ostacolava. Tutto doveva essere condotto per via telematica. Così la Comandante faceva ciò che poteva, e per il resto prendeva tempo, fissando incontri a dopo il termine della quarantena. Sempre nella speranza che l’epidemia non scoppiasse.
   Tre giorni dopo l’inizio dell’isolamento, Losira si ritrovò nella famigerata stiva di carico, dove tutto era cominciato. Le antichità del XIX secolo erano sempre lì, in bell’ordine, nonché accuratamente disinfettate contro il virus. La Risiana trovava beffardo non potersene liberare per un altro mese. Già che c’era, comunque, provò a rivalutarne il valore, aggiungendo una percentuale del 20% per il risarcimento che sperava d’ottenere.
   Impugnando il d-pad, Losira dette l’ennesima occhiata al carico, osservando in particolare le monete d’epoca. Sterline d’oro sonanti... in effetti davano più soddisfazione dei crediti elettronici, o persino delle ingombranti barre di latinum. Ah, bei tempi, quando si poteva ascoltare il tintinnio della propria ricchezza! La Risiana si era spesso chiesta se non avrebbe preferito vivere nel passato, sul suo pianeta, e rinunciare a tante comodità moderne, pur di vivere in una società che incoraggiava il profitto, convertendolo in oggetti di lusso come quelli. Possibile che, con tutte le risorse moderne, gli oggetti non fossero più decorati in modo artistico, essendo improntati solo alla funzionalità? Perché l’estetica era stata fagocitata dal minimalismo? Perché non si riusciva a creare bei tappeti, bei quadri, o magari belle statue come quelle...?
   Alzando gli occhi dal d-pad, dove aveva aggiornato i calcoli, Losira tornò a osservare il carico. E restò interdetta. C’era qualcosa di strano... qualcosa di diverso da prima. Già, ma cosa? Possibile che mancassero alcuni oggetti? Eppure non potevano averli teletrasportati via mentre lei era presente, senza che lo notasse. Osservando i reperti con più attenzione, la Risiana si convinse che non mancava niente. Allora cos’era a disturbarla? Dopo una breve riflessione, Losira comprese che alcuni oggetti erano spostati. Le statue degli angeli, in particolare, che prima erano allineate lungo la parete di fondo, adesso erano più avanti. Alcune solo di un paio di passi, mentre altre erano avanzate in modo più evidente. Già, ma... escludendo che si fossero mosse sui loro piedi, chi le aveva spostate? La stiva era isolata da quando avevano decretato la quarantena, e Losira era certa che allora le statue fossero tutte addossate alla parete. Per la verità, le sembrava che lo fossero anche qualche minuto prima... ma doveva sbagliarsi.
   A forza di fissare gli angeli, la Risiana notò un altro particolare sconcertante. Se in precedenza avevano tutti il capo chino e seminascosto dalle mani, come se fossero in lacrime, adesso quelli in posizione più avanzata erano a volto scoperto. Sì, le mani erano certamente più basse, tanto che Losira poté scorgere per la prima volta i loro lineamenti. E ciò che vide non le piacque. Le espressioni erano tutt’altro che angeliche. Non esprimevano serenità... e nemmeno lutto, come ci si poteva aspettare da monumenti funebri. Sembravano piuttosto dei sorrisetti ironici, o persino dei ghigni minacciosi. Qualunque cosa fossero, avevano l’aria più profana che sacra, al punto che Losira si sentì inquieta.
   «Se questo è uno scherzo, è di pessimo gusto» mormorò, guardandosi attorno. Cosa doveva pensare? Che qualcuno avesse rubato le statue, sostituendole con copie in altre pose? E chi mai avrebbe fatto una cosa del genere, un burlone o un ladro?! Se era un burlone, la sua azione era decisamente fuori luogo. Se invece era un ladro... beh, solo uno davvero maldestro poteva illudersi che la sostituzione passasse inosservata. Se vuoi sostituire un’opera d’arte con una copia, non puoi metterne una così palesemente diversa. Quelle repliche non avrebbero mai passato il severo controllo doganale. Ad ogni modo, restava una domanda pressante: che fine avevano fatto gli originali? Bisognava scoprirlo prima che finisse la quarantena. Anzi, prima che Amirani – ancora a bordo – avesse sentore della faccenda. Serviva un’indagine in piena regola. La cosa più urgente era capire se le vere statue erano state teletrasportate via dalla nave. Poi bisognava controllare il resto delle antichità, per sincerarsi che non ci fossero altri falsi, più difficili da riconoscere. Era un problema enorme... se non lo risolvevano in tempo, sarebbero finiti nei guai con le autorità terrestri.
   Losira voltò le spalle agli angeli non più piangenti e si diresse verso l’uscita, col cervello che ribolliva di preoccupazioni. Al tempo stesso si premette il comunicatore. «Losira a Rivera, ci sei?!» chiese agitata.
   «Sono sempre qui, vecchia mia» rispose il Capitano in tono assonnato. In effetti era sera tardi; forse era già andato a letto. «Ora che siamo in quarantena, dove vuoi che vada? Allora, dimmi che succede stavolta» biascicò.
   «Abbiamo un grosso problema con le antichità, qualcuno le ha manomesse» spiegò Losira. «Sembra assurdo, ma credo che...». D’un tratto sentì qualcosa toccarle la spalla. Era una mano umanoide, pesante come se fosse stata di marmo. Colta di sorpresa, la Risiana gridò di terrore. L’attimo dopo la sua vista si oscurò.
 
   «Sembra assurdo, ma credo che... ah!». Il grido di spavento fu troncato sul nascere e dal comunicatore non vennero altri suoni. Allora il Capitano si alzò dal letto, scacciando il sonno dalla mente. «Cos’è successo? Losira, mi senti? Rispondi subito. Sei in ascolto, Comandante?!» chiese in rapida successione e con crescente allarme.
   «Mmmhhh... che succede?» mormorò Giely, alzandosi a sua volta dal giaciglio. Si sfregò gli occhi, assonnata. Erano alcuni mesi ormai che il Capitano le aveva proposto di convivere, e lei aveva accettato di buon grado, trasferendosi nel suo alloggio.
   «Losira mi ha chiamato, dicendo che qualcuno ha manomesso le antichità» spiegò il Capitano, cominciando già a vestirsi. «Poi s’è interrotta con uno strillo, come se l’avessero aggredita. Computer, dove si trova Losira?» volle sapere.
   «La Comandante Losira non è a bordo della Destiny» fu l’agghiacciante risposta. A quelle parole, sia Rivera che Giely s’irrigidirono. E presero a vestirsi ancora più in fretta. «Come sarebbe, non c’è? Mi ha parlato mezzo minuto fa! Qualcuno l’ha teletrasportata via?» si preoccupò il Capitano.
   «Non ci sono stati teletrasporti dall’inizio della quarantena, settantasei ore fa» riferì il computer.
   «E allora dov’è Losira?!».
   «Impossibile stabilire. I suoi segni vitali sono scomparsi quarantasette secondi fa».
   «Scomparsi?!» fece Rivera, scambiando un’occhiata atterrita con la compagna. Non voleva credere che la Risiana fosse stata assassinata. Non ci avrebbe creduto, prima di vedere il cadavere. «Computer, qual è l’ultima posizione nota di Losira?» chiese, imponendosi la calma.
   «La sua ultima posizione nota è la stiva di carico 3».
   «Rivera a Sicurezza, emergenza. Vediamoci subito nella stiva 3!» ordinò il Capitano. Finì precipitosamente d’allacciarsi le scarpe, prese il phaser che teneva nel cassetto del comò – da quando dormiva con Giely aveva smesso di tenerlo sotto il cuscino – e si slanciò verso l’uscita. La compagna lo seguì di corsa, finendo di sistemarsi l’uniforme medica.
 
   Pochi minuti dopo erano nella stiva 3, assieme a Naskeel e alla sua squadra della Sicurezza. C’era anche Talyn, accorso alla notizia della scomparsa della madre adottiva. Non vi era alcuna traccia di Losira, né viva, né morta. Le antichità erano al loro posto, con gli angeli piangenti allineati lungo la parete di fondo, e il resto del carico disposto ordinatamente davanti a loro. Una rapida ispezione confermò che non mancava nulla.
   «Allora, dov’è Losira?! E cosa intendeva nel dire che il carico è stato manomesso? Potrebbe essere quello il movente della sua scomparsa?!» ipotizzò Rivera, camminando nervosamente avanti e indietro.
   «Quesiti interessanti, Capitano» disse Naskeel, studiando la scena del crimine col suo sguardo attento ai dettagli. «Procediamo con ordine: la sorte di Losira. Gli addetti al turno di notte hanno confermato che alle 10:30 la Comandante è scesa in questa stiva. La motivazione era rivalutare il valore del carico archeologico, alla luce di un possibile risarcimento post-quarantena. Alle 11:25 la Comandante ha effettuato la chiamata; l’orario suggerisce che avesse appena terminato il suo compito. Mi conferma il contenuto del messaggio, Capitano?».
   «Sì, Losira ha detto che c’era un grosso problema con le antichità, perché qualcuno le aveva manomesse» confermò Rivera.
   «Sono state le sue esatte parole? Non ha specificato la natura del problema?».
   «Macché, non ha fatto in tempo» ricordò il Capitano. «Le sue ultime parole sono state: “Sembra assurdo, ma credo che...” seguite da un grido. Un grido interrotto, direi».
   «Strano» commentò il Tholiano. «Il carico non sembra affatto manomesso. Tutti i pezzi sono ancora qui. Nulla è stato rimosso, nulla è stato spostato» disse, osservando gli angeli debitamente allineati lungo la parete di fondo, coi volti chini e celati dalle mani.
   «Forse un ladro aveva preso qualcosa, ed è tornato per portar via dell’altro, ma ha sorpreso Losira e l’ha sopraffatta. Poi, spaventato, ha restituito la refurtiva...» ipotizzò Giely.
   «Suggerisco di non avanzare ipotesi indimostrabili» disse Naskeel. «Atteniamoci ai fatti. Al momento sappiamo solo che, dopo la chiamata interrotta, Losira è scomparsa. I sensori interni indicano che da allora non si trova più sulla Destiny. Non ha preso una navetta né una capsula, dato che sono tutte al loro posto. Non si è teletrasportata via, perché gli archivi del teletrasporto confermano che non vi sono stati trasferimenti dall’inizio della quarantena. Ciò comporta inoltre che nessun malintenzionato sia salito a bordo in questo lasso di tempo. Escluderei che la Comandante sia stata disintegrata, dato che non vi sono tracce organiche né bruciature sul pavimento, e i sensori non hanno rilevato alcun picco energetico».
   «Confortante» brontolò il Capitano. «Stabilito cosa non le è successo... siamo in grado di determinare cosa le è successo?!».
   «Non ancora» rispose l’Ufficiale Tattico. «Condurrò un’indagine accurata, signore. Ispezionerò il carico per stabilire cosa intendesse Losira, parlando di una manomissione. Se la individuassi, potrebbe essere la chiave per comprendere la sua scomparsa. Inoltre interrogherò l’Ispettrice Amirani e la sua scorta. Sono gli unici estranei attualmente a bordo, e sono anche collegati a questa transazione».
   «Uhm, sì, cerchiamo di tracciare i loro spostamenti. Vediamo dove sono stati, ora per ora» approvò il Capitano.
   «Dobbiamo anche cautelarci» ammonì il Tholiano. «Suggerisco di andare in Allarme Giallo e attivare gli scudi. Nel caso che la Comandante sia stata rapita con un teletrasporto che sfugge ai nostri sensori, questo eviterà ulteriori sequestri».
   «Ma potrebbe indispettire le autorità terrestri» borbottò Rivera. «Già adesso ho l’impressione che non si fidino tanto di noi. Se attiviamo gli scudi, lo prenderanno come un segno d’ostilità».
   «L’ostilità l’abbiamo già subita noi! Losira è stata rapita!» protestò Talyn, appoggiando l’Ufficiale Tattico. «A questo punto abbiamo il diritto di difenderci!».
   «E sia» sospirò il Capitano, che teneva sempre in gran considerazione i pareri del giovane El-Auriano. La sua preveggenza li aveva già salvati in numerose occasioni. «Computer, Allarme Giallo fino a mia revoca. Alzare gli scudi, ma non attivare le armi!» raccomandò l’Umano, sperando di limitare i danni.
   Intanto Naskeel percorreva il salone, osservando con attenzione il pavimento.
   «Stai cercando qualcosa?» chiese Rivera, incuriosito dal suo comportamento.
   «Quando è scesa per fare l’inventario, Losira aveva con sé tricorder e d-pad» spiegò il Tholiano. «Adesso anche quegli oggetti sono spariti. Forse contenevano informazioni compromettenti per il colpevole. Cercherò di ritrovarli, sempre che si trovino ancora a bordo e non siano... spariti come la Comandante».
   «Se qualcuno può far sparire Losira, a maggior ragione avrà portato via anche i suoi strumenti» rifletté il Capitano. «Continuo a chiedermi quale sia il movente... se capissimo quello, sono certo che anche il resto della matassa si sbroglierebbe».
   «Uhm, in quest’ultimo anno, Losira ha combinato molti affari. Qualcuno potrebbe essere rimasto scontento» ragionò Talyn. «D’altra parte, dubito che abbiano potuto inseguirla da un cosmo all’altro. E siamo in questo Universo da così poco tempo che non ha ancora avuto occasione di truff... ehm, di scontentare nessuno».
   Rivera si rivolse al giovane. «Le tue percezioni ci hanno già aiutato parecchie volte. E naturalmente sei molto legato a Losira, il che dovrebbe rafforzarle. Quindi dimmi se avverti qualcosa. Anche la minima sensazione può essere fondamentale» lo esortò.
   «Sì, lo so che dovrei percepire qualcosa» mormorò il giovane, osservando le antichità. Il suo talento più distintivo era la psicometria, ossia la capacità di raccogliere le impressioni emotive che le persone avevano lasciato sugli oggetti a loro appartenuti. Quei reperti, antichi di secoli, avevano avuto molti proprietari, protagonisti d’innumerevoli vicende. I preziosi arredi erano stati in ville signorili, testimoni di discussioni e affari, a volte anche di drammi familiari. Le sterline tintinnanti erano passate per molte mani, non tutte raccomandabili. Le uniformi, le bandiere e gli equipaggiamenti militari avevano assistito a feroci carneficine. Tutto questo però era sepolto nel passato, tanto che gli echi sensoriali erano quasi svaniti. Tuttavia, chiudendo gli occhi, Talyn avvertì un senso latente di pericolo, pur non riuscendo a localizzarlo, per via del rumore di fondo.
   «Avverti qualcosa?» chiese il Capitano, vedendolo aggrottare la fronte.
   «Una minaccia, anche se non riesco a individuarla. Non so, forse è un’auto-suggestione» mormorò il giovane. «Ho bisogno di restare da solo a meditare. Allora forse capirò».
   «Una percezione extrasensoriale, del tutto soggettiva, non può superare la validità di una prova scientifica» obiettò Naskeel.
   «Quando sarà in grado di darmi prove scientifiche, Tenente, le esaminerò volentieri» promise Rivera. «Fino ad allora, lasciamolo tentare. Dico a tutti... lasciamolo in pace» ordinò, facendo segno agli altri d’uscire.
   «Solo un momento» insisté il Tholiano. «Vorrei lasciare una telecamera, nel caso... accadesse qualcosa». Così dicendo si scostò, lasciando entrare uno degli Exocomp, i robottini riparatutto che assistevano gli ingegneri. Non era un Exocomp qualunque: era il numero 64, detto Ottoperotto dagli amici. E il suo amico più stretto era sempre stato Talyn. Insieme, quei due avevano già affrontato minacce e risolto misteri. Di recente, inoltre, Ottoperotto era stato potenziato, acquisendo la capacità di proiettare un campo di forza semisferico per proteggere quanti lo attorniavano. L’unico limite era che, a causa del grande dispendio energetico, la cupola protettiva durava un minuto al massimo.
   «Be-beep. Ottoperotto sorveglia Talyn!» garantì il robottino ovoidale, avvicinandosi fluttuando.
   «Va bene, basta che non fai baccano» raccomandò il giovane. Sedette a gambe incrociate davanti ai reperti. Fatto un respiro profondo, chiuse gli occhi e cercò d’entrare in meditazione, come gli aveva insegnato il Viaggiatore nei giorni che avevano trascorso assieme. L’Exocomp si recò in un angolo della stiva e da lì lo sorvegliò coi sensori. Allora il Capitano e gli altri uscirono.
   «Plancia a Rivera, ci chiamano dalla Terra. Vogliono sapere perché abbiamo alzato gli scudi» giunse la voce di un ufficiale.
   «Groan, arrivo» disse il Capitano, preparandosi alle rogne diplomatiche. Poi si rivolse a Naskeel: «Faccia la sua indagine. Cominci interrogando i nostri ospiti... adesso, non domattina. Poi torni qui a ispezionare il carico, in cerca della presunta manomissione. Per allora Talyn dovrebbe aver finito di meditare, e se ha scoperto qualcosa ce lo farà sapere».
   «Io controllerò i diari dei sensori, in cerca di tracce organiche. Voglio accertarmi che niente sia entrato o uscito dalla nave» disse Giely, che non aveva trovato indizi nella stiva. Ora che tutti avevano le loro consegne, gli avventurieri si separarono, decisi ad andare a fondo del mistero.
   Recatosi dall’Ispettrice, Naskeel aveva appena cominciato a interrogarla quando sentì un allarme automatico. «Attenzione: rilevata sparizione di segni vitali» avvertì il computer, che dopo la prima scomparsa era stato impostato per dare l’allarme.
   «Identificare vittima» ordinò prontamente il Tholiano.
   «Le letture scomparse appartengono al Guardiamarina Talyn. Luogo della sparizione: stiva di carico 3» rispose il processore.
   «Naskeel a Talyn, rispondi» verificò l’Ufficiale Tattico, premendosi il comunicatore appuntato sulla cintura. Non ebbe risposta né da lui, né da Ottoperotto. Abbandonato l’interrogatorio, il Tholiano tornò in tutta fretta alla stiva, in testa a una squadra. Fecero irruzione con le armi spianate... e trovarono la sala deserta. Il carico era sempre lì, in bell’ordine, ma non c’era alcuna traccia del giovane El-Auriano. E nemmeno dell’Exocomp che doveva vegliare su di lui. Come Losira, sembravano essersi volatilizzati.
 
   «Inaudito! Due sparizioni sulla nave, nel giro di un’ora! Anzi, tre sparizioni, contando anche Ottoperotto! E mi dice che nemmeno stavolta ci sono indizi?!» chiese il Capitano, osservando la stiva.
   «La scomparsa ha seguito le stesse modalità della precedente» confermò Naskeel. «I segni vitali di Talyn sono svaniti alle 00:22. Nello stesso momento si sono persi i contatti con l’Exocomp. Anche stavolta non c’è traccia di rapimento, né di disintegrazione. Aggiungo che, a differenza del primo caso, ora la Destiny ha gli scudi alzati, quindi nessuno ha potuto teletrasportarli. A meno di usare un tipo ignoto di teletrasporto, capace di penetrare i nostri scudi cronofasici».
   «Improbabile... anche se suppongo non possiamo escluderlo categoricamente» commentò Rivera. «A questo punto non so proprio che pensare. Devo aspettarmi altre sparizioni nelle prossime ore? I responsabili, chiunque siano, ci prenderanno tutti uno dopo l’altro?!».
   «Non conosco la risposta, Capitano, ma raccomando di prendere alcune precauzioni logiche» disse Naskeel. «La prima è sigillare questa stiva, dal momento che tutte le sparizioni sono avvenute qui. Se una volta impedito l’accesso i sequestri finiranno, avremo arginato l’emergenza e ristretto il campo d’indagine. Altrimenti...».
   «Altrimenti siamo fregati» borbottò Rivera. «Speravo nelle percezioni di Talyn per capirci qualcosa; ora invece dovremo cavarcela senza di lui. In effetti mi chiedo se non l’abbiano preso proprio per questo. Per impedirci di far luce sul mistero».
   «È possibile» ammise il Tholiano. «Se gli attacchi sono mirati, allora devo pensare alla sua sicurezza. Farò in modo che sia sempre sotto scorta, Capitano. E aumenterò la sorveglianza in plancia e in sala macchine».
   «Altre precauzioni, eh? Okay, lo faccia» annuì Rivera. «Se solo capissimo cos’è successo agli scomparsi... dove sono finiti... sperando che siano ancora vivi...» si tormentò.
   «Non possiamo fare congetture senza indizi» disse Naskeel. «Tuttavia ci sono delle alternative alla disintegrazione e al sequestro. Gli scomparsi potrebbero essere ancora fisicamente presenti, ma fuori dal nostro quadro percettivo».
   «Fuori dal... intende che non li vediamo?!» si stupì il Capitano.
   «Intendo che potrebbero sfuggire a tutti i nostri sensi, e anche ai sensori della nave» precisò il Tholiano. «Gli archivi della Flotta Stellare illustrano dei precedenti di ufficiali che, per incidenti o attacchi deliberati, finirono leggermente “fuori fase” rispetto alla nostra realtà. Altri furono accelerati nel tempo, divenendo così rapidi da non essere percepiti. Altri ancora furono persino rimpiccioliti. Al momento non possiamo escludere nessuna ipotesi».
   «Beh, dobbiamo cominciare a escluderle!» esclamò Rivera. «Parliamo dei sospetti. Che mi dice dei nostri ospiti, Amirani e le sue guardie?».
   «I sensori indicano che erano nei loro alloggi, al momento di ambedue le sparizioni» rispose il Tholiano. «Nel caso di Amirani, la stavo personalmente interrogando al momento della seconda scomparsa. L’Ispettrice sostiene di non sapere niente. Anche se mentisse, non potrebbe aver attaccato Talyn mentre parlava con me».
   «Così restiamo con un pugno di mosche!» brontolò il Capitano. Guardò i reperti, maledicendo la decisione di prenderli a bordo. Chi l’avrebbe mai detto che un affare all’apparenza tanto facile sarebbe diventato un mistero così spaventoso?
   «Se permette, Capitano, le consiglio di andare a riposare. Al momento non è lucido. Io posso restare in attività senza perdere in efficienza, e domattina l’aggiornerò sui progressi» promise Naskeel.
   Rivera lo guardò indispettito, quasi invidioso delle sue capacità; ma si disse che era inutile negare la stanchezza. «E va bene. Mi affido a lei, continui l’indagine durante la notte. Ma se ci fossero altre sparizioni, o qualunque novità rilevante, voglio essere svegliato» raccomandò. E lasciò la stiva, per tornare nel suo alloggio, dove comunque le preoccupazioni gli avrebbero reso difficile il sonno.
 
   Rimasto solo, Naskeel osservò il carico, avvalendosi della sua memoria fotografica per cercare la minima alterazione. All’apparenza era tutto in ordine. Eppure qualcosa era successo in quella stiva, ed era improbabile che la presenza dei reperti fosse puramente casuale. Finalmente il Tholiano notò che un pugnale mancava all’appello. Qualcuno lo aveva tolto dalla rastrelliera delle armi. Era stato il colpevole, per colpire? O piuttosto Talyn, per difendersi? In ogni caso, dov’erano le macchie di sangue? La ricerca condusse Naskeel a una nuova, inquietante scoperta. Ma sebbene il Capitano gli avesse ordinato di riferire ogni novità, per il momento il Tholiano la tenne per sé. Voleva ruminarci sopra, prima di comunicare le sue scoperte e le relative ipotesi.
   Lasciata rapidamente la sala, l’Ufficiale Tattico la sigillò con un codice di sicurezza e per ulteriore precauzione pose due sentinelle all’ingresso. Poi riprese la sua indagine. C’erano molte verifiche da fare sui sensori per stabilire se qualcosa fosse entrato o uscito dalla nave, o se gli scomparsi potessero ancora essere lì, impossibili da rilevare.
   Naskeel dedicò tutta la notte alle ricerche, escludendo un’ipotesi dopo l’altra. Il suo modo di procedere era preciso, metodico. Agli occhi degli umanoidi, poteva sembrare che i Tholiani fossero privi d’emozioni. Questo non era del tutto esatto... se non altro, quegli esseri sulfurei erano capaci di avere interessi. Ed erano interessati soprattutto a risolvere gli enigmi. Quando si presentava qualcosa di misterioso, d’apparentemente inspiegabile, i Tholiani avevano l’irresistibile desiderio di far luce. Era stata la molla che li aveva indotti a sviluppare il metodo scientifico e quindi una tecnologia evoluta. E ora che c’era un mistero sulla Destiny, a stuzzicare la sua curiosità, Naskeel non avrebbe avuto pace finché non l’avesse risolto.
   Il Tholiano non aveva mai dimenticato il modo coatto in cui si era trovato a prestare servizio su quella nave, tra gli ex nemici, tuttavia doveva ammettere che le cose avrebbero potuto andargli peggio. In quegli anni aveva appreso cose inaspettate e, tutto sommato, interessanti sui compagni di viaggio. Se poteva capire cos’era successo agli scomparsi, bene; avrebbe soddisfatto la sua curiosità intellettuale. Se poi fosse riuscito a recuperarli sani e salvi, ancora meglio. In fondo era il suo dovere di Ufficiale Tattico garantire la sicurezza di nave ed equipaggio, fino al momento del ritorno. Dopo di allora, beh... le sue priorità sarebbero cambiate. Ma più passava il tempo, più Naskeel cercava di non pensare al dopo.
 
   La prima cosa che il Capitano fece, al risveglio, fu chiamare Naskeel per chiedergli aggiornamenti. Il Tholiano poté rassicurarlo almeno su un punto: nelle ultime ore non c’erano state ulteriori sparizioni. L’emergenza pareva arginata, almeno per il momento. Ma non conoscendo la causa delle scomparse, c’era poco da stare allegri. Non potevano prevedere se ve ne sarebbero state altre, né prevenirle in alcun modo. Di rado gli avventurieri si erano sentiti così impotenti. Si erano già trovati davanti ad avversari formidabili, ma almeno sapevano di chi si trattasse. Stavolta invece non riuscivano a dare un volto al nemico, e questo era snervante. Solo Naskeel appariva imperturbabile, mentre ruminava le sue ultime scoperte, cercando di darvi un senso.
   Intanto il Tholiano continuava la sua indagine. Gli ospiti furono re-interrogati, senza ricavarne alcunché di utile. I diari dei sensori furono passati al setaccio, in cerca d’anomalie. I sensori stessi furono calibrati in ogni modo possibile, nella speranza di cogliere qualcosa che prima sfuggiva. Ma ogni tentativo dava invariabilmente esito negativo.
   Nel pomeriggio, Naskeel contattò Rivera e Giely, chiedendogli di raggiungerlo nella stiva 3 per fare il punto della situazione. Era strano che fosse l’Ufficiale Tattico a convocare il Capitano, e non viceversa. Rivera pensò che forse Naskeel aveva finalmente scoperto qualcosa e quindi si affrettò. Giely lo raggiunse strada facendo, così che arrivarono insieme dal Tholiano, che li attendeva davanti alla stiva sigillata.
   «Allora, ci sono novità?» chiese il Capitano.
   «Alcune, sì. Inoltre volevo mettervi al corrente delle mie riflessioni e suggerire un nuovo approccio alle indagini» disse Naskeel, enigmatico. Rivera notò che era pesantemente armato: aveva due phaser manuali del tipo più potente, assicurati in cintura. Al momento, tuttavia, non gliene chiese ragione.
   Il Tholiano riaprì la stiva col suo codice e vi entrò. Il Capitano e la dottoressa lo seguirono, incuriositi. Una volta dentro, l’Ufficiale Tattico osservò ancora una volta il carico. Poi girò su se stesso, rivolgendosi ai colleghi.
   «Signori, ogni crimine necessita di tre componenti: l’arma, il movente e l’occasione» esordì Naskeel, levando altrettante dita. «Al momento non siamo in grado di determinare nessuno dei tre. Non sappiamo con quali strumenti gli scomparsi siano stati uccisi o sequestrati. Non conosciamo il movente, sebbene si possa congetturare che questo insolito carico vi sia in qualche modo collegato. Quanto all’occasione, sappiamo solo che gli scomparsi si trovavano in questa stiva, senza testimoni».
   «Se la mette così, sembra senza speranza» notò Rivera.
   «Anche se il carico non è stato rubato, forse qualcuno sta cercando d’impedire la consegna» suggerì Giely. «Prima il virus, per farci perdere tempo; poi queste inspiegabili sparizioni. Chi può avere interesse a far fallire la transazione?».
   «Una giusta domanda, ma anche in questo caso non abbiamo elementi probanti. La transazione è pubblica, chiunque può esserne venuto a conoscenza. E per quanto prezioso, in senso sia prettamente economico che storico, il carico non è unico nel suo genere. I musei terrestri sono pieni di simili antichità» ragionò Naskeel.
   «E quindi?!» incalzò il Capitano, chiedendosi dove volesse andare a parare.
   «Quindi suggerisco di riflettere sui pochi indizi a nostra disposizione» disse il Tholiano. «Secondo Losira il carico era stato manomesso, mentre Talyn percepiva una minaccia. Entrambi avevano individuato un’anomalia o un pericolo inerenti il carico. Ed entrambi sono scomparsi subito dopo, in presenza del carico stesso, prima di poter precisare la natura del problema. Dopo la seconda scomparsa, inoltre, ho notato una manomissione: un pugnale indiano è scomparso dalla rastrelliera» disse, indicando lo spazio vuoto tra le armi. «Sono certo che ci fosse ancora, quando abbiamo lasciato Talyn nella stiva. Quindi deve essere stato asportato in seguito» precisò.
   «Potrebbe essere stato usato contro Talyn?» s’inquietò Rivera, temendo il peggio. «Ma non abbiamo trovato alcuna traccia di sangue...».
   «Questo è inesatto» corresse Naskeel. «Sempre dopo la seconda sparizione, ho rinvenuto piccole macchie di sangue lì sopra» disse, indicando uno degli angeli piangenti.
   «La statua?! E il sangue è...» si allarmò il Capitano.
   «Di Talyn, corretto» confermò l’Ufficiale Tattico. «Ma è troppo poco per far pensare che il Guardiamarina sia stato pugnalato a morte. In effetti, a giudicare dalla posizione frontale degli schizzi, il sangue non è colato. Si direbbe che sia stato gettato, oserei dire intenzionalmente, da una certa distanza. Come per marchiare l’angelo. E c’è un dettaglio ancor più sorprendente. Se osservate da vicino, noterete che gli schizzi sono quasi tutti coperti dalle braccia e dalle mani dell’angelo, tanto che è assai difficile notarli».
   «Perbacco, è vero!» constatò il Capitano, accostatosi per osservare. «Com’è possibile? Se il sangue è schizzato da lontano, avrebbe dovuto macchiare gli arti della statua. Se invece è schizzato da vicino... beh, mi chiedo come sia accaduto. Tra le mani e il volto c’è appena una spanna vuota».
   «Forse c’era più di una spanna, quando il sangue è schizzato» suggerì Naskeel. «La mia ipotesi è che Talyn non sia stato aggredito col pugnale mancante, ma che lui stesso l’abbia impugnato, forse per difendersi. E quando ha capito di non poterlo fare, ci ha lasciato un indizio. Ha marchiato qualcosa col suo sangue, per far sì che lo notassimo».
   «La statua? Ma perché proprio quella?!» chiese Rivera, sempre più smarrito.
   «Signore, a questo punto ritengo che dovremmo considerare queste sculture – o presunte tali – non come dei meri oggetti, ma come dei soggetti in grado d’agire e reagire» dichiarò il Tholiano.
   «Vuol dire che potrebbero essere animate?!» trasecolò l’Umano. «Naskeel, quel che sta proponendo è... beh, non dico folle, ma senz’altro non me lo aspettavo da lei. Non era lei a fidarsi solo delle osservazioni scientifiche?».
   «Sì, ma una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto altamente improbabile, deve corrispondere a verità. E solo perché qualcosa è fatto di pietra, non significa che sia inanimato. Forse è più facile per me giungere a questa conclusione, essendo io stesso inorganico» ragionò il Tholiano, osservando gli angeli piangenti.
   «Forme di vita rocciose?» sussurrò Giely. Era raro, ma non impossibile. La Flotta ne conosceva alcune: oltre ai Tholiani c’erano gli Excalbiani, i Melkotiani, gli Sheliak, le Horta...
   «È possibile» confermò Naskeel.
   «Okay, diciamo che sono alieni rocciosi... ma come fanno ad avere l’aspetto di angeli? Con tanto d’abiti rocciosi, tra l’altro! Sarei curioso di vedere come li hanno indossati» obiettò Rivera. «E perché se ne stanno immobili? Che fanno, giocano alle belle statuine?!».
   «Non ho le risposte, ma il primo passo è verificare se quelle “statue” siano in realtà esseri viventi. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essere dei mutaforma affini ai Fondatori. Dottoressa Giely, le spiace analizzarli in cerca di metabolismo?» chiese il Tholiano.
   Analizzare delle statue era una richiesta insolita, ma la Vorta non si tirò indietro. «Se sono mutaforma, lo scoprirò subito» disse, impugnando il tricorder medico. Impostò i parametri d’analisi: un’operazione semplice, che richiese pochi secondi. Quando rialzò gli occhi verso le sculture, sobbalzò ed emise un gridolino di terrore.
   Gli angeli non erano più allineati in fondo alla stiva, e non erano più piangenti. Adesso stavano a pochi passi dai visitatori, come se si fossero mossi mentre non li guardavano. Le loro pose erano cambiate... si erano fatte agghiaccianti, del tutto opposte ai canoni dell’arte cristiana. Le mani avevano lunghi artigli ed erano tese in avanti, come per ghermire le prede. I volti avevano lineamenti demoniaci, con gli occhi malefici contornati da rughe profonde. Le bocche dai denti aguzzi erano spalancate in un muto urlo. Tutto, in quelle cose, suscitava orrore e repulsione.
   «Avete visto?!» boccheggiò Giely, indietreggiando spaventata.
   «Caramba, si sono mossi!» esclamò Rivera.
   Naskeel impugnò prontamente un phaser, gettando l’altro al Capitano, che lo prese al volo e lo impugnò a sua volta. Tennero sotto tiro gli angeli, che tuttavia erano di nuovo fermi. Non solo avevano smesso d’avanzare, ma non tentavano neppure d’arretrare o di proteggersi. Erano del tutto immobili, proprio come statue, sebbene le pose fossero diverse da prima.
   «Lo avete visto anche voi che sono cambiati, vero?!» fremette Rivera, quasi dubitando dei propri sensi.
   «Affermativo, Capitano. Tutti gli angeli si sono mossi, e tutti hanno cambiato pose ed espressioni. Non può esserci alcun dubbio al riguardo» confermò Naskeel, forte della sua memoria fotografica.
   Il Capitano fu confortato di sapere che non stava impazzendo. Assodato questo, tuttavia, non sapeva cosa pensare di quegli “angeli”. Se erano degli esseri viventi, e se le loro intenzioni erano mostruose come il loro aspetto, che aspettavano a ghermirli? Perché immobilizzarsi di nuovo come statue? Ormai non ingannavano più nessuno. Doveva esserci una spiegazione...
   «Le sentinelle presidiano l’ingresso. Suggerisco d’arretrare verso l’uscita e, una volta fuori, sigillare la stiva» propose Naskeel.
   «O magari decomprimerla» borbottò Rivera. Al diavolo i reperti storici; non voleva che quegli abomini restassero un minuto di più sulla sua nave. Dette una rapidissima occhiata al portone dietro di lui, e altrettanto fecero gli altri. Quando tornarono a guardare in avanti, gli angeli si erano ulteriormente avvicinati. Le loro mani artigliate erano a un soffio da loro, come se volessero smembrarli, e gli occhi demoniaci sembravano promettere l’Inferno. Adesso l’Umano capiva cos’era successo a Losira e Talyn...
   Anzi no, non lo capiva per niente. Quegli esseri non potevano averli uccisi a mani nude, perché non c’era traccia dei corpi. Che li avessero disintegrati? E come, visto che erano disarmati? O forse parevano disarmati... come fino a poco prima parevano innocue statue.
   «Indietro! È inutile bloccarvi, tanto non c’ingannate più! Tornate contro il muro, ho detto!» gridò il Capitano, senza ottenere risposta. Tale era il suo nervosismo che gli sfuggì un colpo. Il raggio phaser, tarato su stordimento, colpì l’ala di un angelo. Non ottenne più effetto che se avesse colpito una vera statua di marmo.
   «Capitano, se vuol sortire qualche effetto, le suggerisco d’aumentare il settaggio del phaser» disse Naskeel, che aveva già regolato il suo.
   «Un momento... Capitano a Sicurezza, emergenza nella stiva 3. Servono rinforzi immediati!» ordinò Rivera, pigiandosi il comunicatore. Sentì il cuore martellargli in petto, sempre più forte, mentre non giungeva alcuna risposta. La situazione continuava a peggiorare. «Niente da fare... scommetto che sono loro a disturbare le comunicazioni!» ringhiò, all’indirizzo degli angeli.
   «Ehm... ritirata strategica?» suggerì Giely.
   «Un momento» avvertì Naskeel. «A giudicare dalla velocità degli angeli, è evidente che non possiamo sfuggirgli».
   «Se sono così veloci, perché non ci attaccano? E non credo che siano impietriti dalla paura dei nostri phaser» ammise il Capitano. Era strano parlare di loro in terza persona, ma del resto le creature non avevano risposto al suo tentativo di comunicazione.
   «No, infatti. È un quesito interessante, Capitano» riconobbe Naskeel. «Valutando il loro comportamento, direi che non vogliono o non possono muoversi finché qualcuno li guarda. Le uniche volte in cui l’hanno fatto, finora, sono stati quei brevi attimi in cui nessuno di noi tre li stava osservando» notò.
   «Quindi sono i campioni galattici di “un, due, tre, stella”?!» si stupì Rivera. «Beh, se anche fosse, non possiamo fissarli per sempre. Prima o poi dovremo sbloccare la situazione».
   «Dovremmo cercare di comunicare» propose Giely. «Se capissimo chi sono e cosa vogliono, forse troveremmo una soluzione pacifica».
   «Io vorrei solo capire cos’hanno fatto a Talyn e Losira!» mugugnò il Capitano, alzando il settaggio del suo phaser. «Basta con la commedia, signori angeli. Diteci che ne è stato dei nostri compagni, o qualcuno di voi si farà male. Vi avverto! Se non vi si scioglie la lingua, al mio tre aprirò il fuoco!» minacciò, puntando l’angelo più vicino.
   Da quando s’erano impadroniti della Destiny, Rivera si era sempre sforzato d’imitare la disciplina della Flotta Stellare, e in parte d’imporla all’equipaggio. Ma non aveva mai scordato che restavano pur sempre degli avventurieri, dei rinnegati. E in momenti come quello, le regole dei rinnegati gli sembravano più efficaci di quelle della Flotta. Preferiva sparare per primo, a rischio di pentirsene, piuttosto che lasciare la prima mossa agli avversari. «Uno... due... tre» contò.
   Gli angeli non si mossero. Non un battito di ciglia, non il minimo tentativo d’entrare in contatto. Per non apparire un debole che minacciava a vuoto, Rivera fu costretto ad aprire il fuoco. Centrò l’angelo più vicino, col phaser tarato su uccisione. E non gli fece alcunché. La creatura restò perfettamente immobile, proprio come una statua.
   «Mannaggia...» fece il Capitano, regolando precipitosamente la sua arma. Se né lo stordimento, né l’uccisione avevano effetto, non restava che settarla al massimo. Al livello 10, un phaser manuale come quello poteva vaporizzare un macigno e tagliare una parete di duranio. Era più che sufficiente contro un alieno roccioso, giusto?
   «Vi avevo avvertiti» disse Rivera, sparando ancora una volta. Centrò l’angelo in pieno volto, proprio in mezzo agli occhi. Se fosse stato una statua di marmo, o d’altre rocce note, l’avrebbe disintegrato all’istante. Invece, dopo dieci secondi di fuoco continuo, l’Umano dovette desistere. L’angelo era ancora lì, perfettamente integro. Il suo volto non era scheggiato e non sembrava nemmeno scaldato, sebbene Rivera non osasse toccarlo per sincerarsene. «Beh, questa è la prova definitiva che non sono statue» mormorò.
   «In mancanza di scudi, dovrebbero essere fatti di neutronio per resistere a quel colpo» commentò Naskeel. «Ma in tal caso sarebbero così pesanti da affondare nel pavimento. La mia ipotesi è che rinnovino costantemente la loro struttura molecolare».
   «Non ho mai letto d’esseri viventi con questa capacità» mormorò Giely. «Se non possiamo contrastarli, allora dobbiamo andarcene subito. Prima di finire nelle loro grinfie» disse mentre indietreggiava.
   «Okay... l’importante è non smettere di guardarli. Non perdeteli di vista neanche per un istante!» raccomandò il Capitano, pur non avendo idea del perché gli angeli s’immobilizzassero. Era un comportamento che sfidava ogni logica, tanto da far sospettare che fosse un inganno.
   «Nessun problema, Capitano. A differenza vostra, io non ho palpebre e non rischio d’interrompere il contatto visivo» lo rassicurò Naskeel.
   In effetti, lo sguardo vigile del Tholiano permise a tutti e tre d’arretrare, allontanandosi dagli artigli protesi degli angeli. Ormai erano vicini al portone. Ancora pochi passi e ne avrebbero provocata l’apertura automatica. Sembrava facile... fin troppo facile. Che razza di predatore è uno che si blocca se solo viene scorto dalla sua preda? Con Losira e Talyn, forse gli angeli avevano approfittato della sorpresa, prendendoli alle spalle. Ma nel loro ambiente naturale – quale che fosse – quanto spesso riuscivano a ghermire le vittime?
   La risposta non si fece attendere. Già da un po’ gli avventurieri avevano notato che gli angeli in posizione più arretrata non avevano gli artigli protesi contro di loro, bensì sembravano indicare il soffitto della stiva. Ad essere più precisi, le luci sul soffitto. Quale che fosse il loro potere, le luci iniziarono a sfarfallare. Ogni volta si spegnevano per un istante, ma era sufficiente agli angeli per avanzare di qualche passo. Evidentemente il loro misterioso blocco non funzionava, se l’oscurità impediva d’osservarli. Come in una serie di fotogrammi, gli avventurieri videro le creature farsi sempre più vicine. Giely ormai era alla porta, ma Rivera e Naskeel si trovarono incalzati.
   «Non ce la faremo!» gemette il Capitano. Non era più nemmeno certo di voler lasciare la stiva. Se gli angeli erano invulnerabili e inarrestabili, aprire la porta rischiava solo di sguinzagliarli in giro per la nave.
   «Afferri ciò che può» consigliò Naskeel, dato che Rivera era l’unico abbastanza vicino al carico da poter toccare qualcosa. Vedendo la sua occhiata interrogativa, il Tholiano spiegò il motivo: «Tutti gli scomparsi sono svaniti con ciò che avevano in mano. Se sopravvivremo al tocco degli angeli, potrebbe farci comodo avere degli oggetti di valore».
   Era un’esile speranza, perché non sapevano nemmeno se sarebbero sopravvissuti, ma in quel momento il Capitano non ebbe tempo per pensare. Incalzato dagli angeli, agì d’istinto. Dette una rapidissima occhiata ai reperti accanto a lui, riconobbe la cassetta contenente le antiche sterline d’oro e vi tuffò dentro la mano libera. L’attimo dopo sentì una mano, dura e pesante come pietra, che si serrava attorno alla sua gola. Boccheggiò, voltandosi appena in tempo per vedere il volto demoniaco della creatura a pochi centimetri dal suo. Che destino bizzarro, morire strangolati da una finta statua angelica, che in realtà era un vero demone...
   In quella le luci tornarono a spegnersi, solo per un istante. Quando si riaccesero, non c’era più traccia degli avventurieri. Non vi erano corpi, né schizzi di sangue: erano semplicemente svaniti. E gli angeli piangenti erano allineati lungo la parete di fondo, i volti celati dalle mani, come se non si fossero mai mossi. 
 

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Capitolo 3
*** La Detective Velata ***


-Capitolo 2: La Detective Velata
 
   Per un attimo il Capitano fu avvolto dall’oscurità ed ebbe la sensazione di cadere. O ad essere più precisi, la sensazione d’essere proiettato attraverso qualcosa. Quando i sensi gli tornarono, si trovò a barcollare nell’erba alta. Era in aperta campagna, in una giornata così radiosa che sulle prime la luce lo abbagliò. L’Umano si sfregò gli occhi, confuso, finché la vista si adattò alla luce intensa. Allora si guardò attorno, in cerca dei compagni... e li vide.
   Naskeel era accanto a lui. E, somma consolazione, c’erano anche Losira e Talyn. Entrambi barcollavano e si sfregavano gli occhi, come se fossero appena arrivati. Accanto al giovane c’era anche Ottoperotto, con le lucette che sfarfallavano agitate.
   «Siete vivi!» esclamò Rivera, muovendo verso di loro, ma inciampò in qualcosa di duro e pesante, che lo fece ruzzolare in avanti, Per fortuna l’erba alta e soffice attutì la caduta. Frastornato e col piede dolorante, il Capitano si guardò indietro, per vedere in cosa aveva inciampato. Riconobbe la cassetta colma di sterline d’oro, la stessa che aveva toccato prima che l’angelo lo afferrasse. Dunque era riuscito a portarla con sé, come aveva dedotto Naskeel. La cassetta si era ribaltata e le monete si erano sparse nell’erba, ma con un po’ d’attenzione era possibile recuperarle.
   «Ehi, tutto bene?!» si allarmò Talyn, venendogli incontro. Gli porse la mano, per aiutarlo a rialzarsi. Allora Rivera notò che aveva il palmo tagliato, gocciolante sangue. Nell’altra mano, il giovane teneva un pugnale ricurvo, quello scomparso dal carico. A giudicare dalla foggia, l’arma proveniva dall’India; forse era il ricordo di qualche avventura coloniale.
   «Io sì, ma tu? Sei ferito» notò Rivera. Si alzò da solo, rifiutando l’aiuto, per non aggravare la ferita sanguinante.
   «Che ti è successo? E dove siamo finiti?!» esclamò Losira, avvicinandosi preoccupata.
   «Di certo non siamo più sulla Destiny» sospirò il Capitano, guardandosi attorno. Erano indubbiamente su un pianeta di tipo terrestre, anche se non era certo che fosse proprio la Terra. Da un lato c’era l’aperta campagna; a giudicare dai fiori si era a primavera inoltrata, forse estate. Sull’altro lato, un ampio fiume scorreva pigramente sotto il caldo sole pomeridiano. Non c’era traccia d’abitanti, né delle loro opere. Nessun punto di riferimento per capire dove fossero finiti. «Beh, l’importante è che siamo vivi... tutti quanti...» mormorò, rivolgendosi ai compagni. Allora si accorse che qualcosa non quadrava. Davanti a lui c’erano Losira, Talyn, Naskeel e anche Ottoperotto... ma Giely mancava all’appello. Preso dal panico, l’Umano si guardò attorno, in cerca della sua amata.
   «Come non detto, manca Giely. Dov’è finita?!» esclamò Rivera, sempre più inquieto. Attorno a loro c’erano alberi e cespugli, ma la Vorta non aveva ragione di nascondersi. Che fosse ferita, priva di sensi? O peggio ancora... che non fosse affatto lì con loro? «Giely, dove sei? Rispondi!» gridò il Capitano, portandosi le mani alla bocca per fare da megafono. I compagni si unirono alla ricerca, e anche Ottoperotto la cercò coi sensori, ma in capo a qualche minuto dovettero arrendersi all’evidenza: la dottoressa non era con loro.
   «Capitano, le ricordo che Giely era più vicina all’uscita di noi» disse Naskeel. «È possibile che sia riuscita a fuggire».
   «Speriamo» mormorò il Capitano, con un groppo in gola. L’alternativa era che gli angeli l’avessero spedita da qualche altra parte. E siccome loro erano tutti lì... lei invece era da sola. Chissà come doveva essere smarrita e spaventata! Rivera poteva solo sperare che fosse sfuggita alle creature, e si trovasse ancora al sicuro sulla Destiny. «Allora, facciamo il punto della situazione. Qual è l’ultima cosa che ricordi?» chiese a Losira, la prima ad essere scomparsa.
   «Ero nella stiva 3 e stavo ricalcolando il valore del carico, applicando il sovrapprezzo per la sosta forzata...» cominciò la Comandante.
   «Alt, ti fermo subito!» fece Rivera, corrucciato. «Come sarebbe a dire che questo è il tuo ultimo ricordo? È successo ieri. Dopo la tua scomparsa, abbiamo passato la notte e la giornata successiva a cercarti».
   Losira sgranò gli occhi. «La mia scomparsa? Guarda che io ho appena lasciato la nave. Come sia successo non lo so, ma è appena accaduto» sostenne.
   «No, è successo almeno un’ora fa...» cominciò Talyn, ma si arrestò. Le loro testimonianze erano inconciliabili, qualcuno doveva per forza sbagliarsi.
   «Uhm, e come ti sei procurato quel taglio?» volle sapere il Capitano. «Non sono stati gli angeli, vero?».
   «No» confermò Talyn, mentre Losira gli bendava la mano sanguinante con un lembo di tessuto che si era strappata dall’abito. «Quando mi sono accorto che le statue erano animate, e che non potevo fuggire, ho pensato di lasciare qualche traccia. Dovevo lasciarvi un indizio... qualcosa che segnasse le statue, altrimenti avreste continuato a ignorarle. Non c’era tempo per rifletterci, quindi ho preso il pugnale, mi sono tagliato da solo e ho macchiato l’angelo più vicino. Avete notato le macchie, vero?» chiese, sperando di non essersi tagliuzzato per niente.
   «Affermativo, anche se non è stato sufficiente a cautelarci» ammise Naskeel.
   «E così gli angeli hanno preso anche noi» sospirò il Capitano. «Quello che non capisco è l’incongruenza temporale. Dal nostro punto di vista – mio e di Naskeel – è passato quasi un giorno dalla vostra scomparsa. Abbiamo rivoltato la nave come un calzino per cercarvi. Dopo la tua scomparsa, Losira, abbiamo alzato gli scudi, ma ciò non ha impedito che sparisse anche Talyn. Peraltro i sensori non hanno rilevato traccia di teletrasporto. Infine è toccato a noi. Mi chiedo se vi abbiano tenuti incoscienti per tutte queste ore, o se addirittura vi abbiano cancellato la memoria...» rimuginò.
   «Impossibile, Capitano» disse Naskeel. «Se fossero passate ore, la ferita di Talyn si sarebbe rimarginata. Invece è ancora sanguinante. Ciò dimostra che per lui sono realmente trascorsi pochi minuti. A questo punto sono incline a validare anche la testimonianza di Losira».
   «Com’è possibile che siano trascorsi tempi diversi per ciascuno...» fece Rivera, ma si bloccò. La risposta era ovvia, col senno di poi.
   «Viaggio nel tempo» comprese Talyn. «Ci hanno trasferiti non solo da un luogo all’altro, ma anche da un’epoca all’altra. Così, sebbene ci abbiano presi in momenti diversi, ci hanno materializzati simultaneamente».
   Cadde un cupo silenzio. Da quando erano cominciate le loro avventure nel Multiverso, gli avventurieri erano stati messi alla prova in ogni modo possibile. Ma nessuno – tranne Irvik, ora assente – aveva viaggiato nel tempo. Era un’esperienza così estrema da lasciarli annichiliti.
   «Un momento. Se siamo davvero in un’altra epoca, i nostri compagni non possono saperlo...» mormorò Losira.
   «Perciò non possono venire a prenderci» concluse Naskeel. «Del resto, la Destiny non è una nave temporale. Anche Irvik avrebbe difficoltà a compiere il balzo con la tecnica del pozzo gravitazionale. Dunque non possiamo sperare nel loro aiuto».
   «Siamo naufraghi del tempo» concluse Rivera con amarezza. «Mi chiedo solo perché quei finti angeli ci abbiano fatto questo. Voglio dire, se ci volevano fuori gioco, perché non ucciderci? Quale sarà il loro piano?».
   «E chissà se prenderanno altri, dopo di noi» aggiunse Talyn cupamente. Fletté la mano bendata, che aveva smesso di sanguinare, ma doleva ancora.
   «La logica suggerisce di no» disse Naskeel. «Gli angeli ci hanno presi in momenti diversi, ma ci hanno materializzati tutti assieme. Se dopo di noi avessero preso qualcun altro, avrebbero dovuto materializzarlo sempre qui. Il fatto che invece non ci siano altri indica che noi siamo le uniche vittime. Dopo la nostra scomparsa, gli altri devono aver capito cosa stava accadendo e devono aver neutralizzato gli angeli».
   «Confortante» disse Talyn. «Ma c’è un’altra spiegazione: forse gli angeli non ci mandano tutti nella stessa epoca. Forse l’hanno fatto solo con noi, per motivi sconosciuti, e hanno spedito gli altri in periodi diversi».
   «Anche questo è possibile» ammise il Tholiano.
   Rivera sperò con tutto il cuore che l’ipotesi di Naskeel fosse corretta. Se gli angeli non avevano fatto altre vittime, significava che Giely gli era sfuggita ed era rimasta al sicuro. Se invece avevano preso altri, ma li avevano spediti in epoche diverse, allora era perduta per sempre.
 
   Visto che era nuovamente caduto il silenzio, Losira prese la parola: «La prima cosa da fare è capire dove e quando siamo finiti. Tutto ciò che faremo d’ora in poi dipenderà da questo».
   «Beh, prima dell’incidente eravamo in orbita attorno alla Terra» ricordò Talyn. «E per quanto gli angeli siano potenti, dubito che ci abbiano spediti in un altro sistema stellare».
   «Sì, questa ha tutta l’aria della Terra. Resta da vedere dove siamo di preciso. Muoviamoci, seguiamo il fiume» ordinò Rivera. Stavano per avviarsi, quando si ricordò della cassetta piena di sterline. Se erano veramente sulla Terra del passato, quello scrigno era un tesoro inestimabile. Anche se le monete fossero state fuori corso, il semplice valore dell’oro doveva essere considerevole. Perciò si attardò con gli altri, recuperando tutte le sterline che si erano rovesciate nell’erba e riponendole nella cassetta. Questa risultò così pesante che dovettero affidarla a Naskeel, l’unico in grado di trasportarla senza sforzo.
   La presenza del Tholiano, però, restava problematica. Che avrebbero fatto, se si fossero trovati in epoca pre-curvatura? Rivera, l’unico Umano del gruppo, osservò i suoi compagni con apprensione. Talyn era un El-Auriano, fisicamente identico ai terrestri, quindi poteva cavarsela. A vederlo somigliava agli abitanti del sud-est asiatico, con gli occhi a mandorla e la carnagione ambrata. Anche Losira, in quanto Risiana, si mimetizzava bene: i suoi tratti erano quelli di una donna mediterranea. L’unico dettaglio esotico era il piccolo fregio che portava sulla fronte, appena sopra l’attaccatura del naso; ma poteva passare per un comune tatuaggio. O per una variante del tilaka, il punto rosso che talvolta gli induisti si tingevano in fronte. No, il Capitano non era preoccupato né per Talyn, né per Losira. Era Naskeel, il Tholiano dal corpo cristallino con sei zampe, quello che non avrebbero mai potuto giustificare. E quando il generatore del campo di forza che portava in cintura si fosse esaurito, privandolo della sua protezione, il Tholiano sarebbe morto di freddo. Questo gli dava dieci giorni di sopravvivenza al massimo.
   Il gruppo costeggiò il fiume, in una zona ricca di salici frondosi. Rivera notò un paio di cigni sul fiume, ma ancora nessun segno di presenza umana. Sì, quella era senz’altro la Terra; restava da vedere in che epoca. Percorsa una breve distanza, gli avventurieri sbucarono in una radura. Davanti a loro si trovava una chiesa diroccata. Non c’era dubbio, era proprio una chiesa cristiana, con tanto di campanile, per quanto disadorna e consunta dal tempo. Le pareti erano spesse, con finestre strette; l’ingresso aveva un arco a tutto sesto. Nel vicino camposanto erano visibili alcune lapidi a forma di croce. Questo permetteva di fare una prima, sommaria valutazione dell’epoca.
   «Una chiesa cristiana, e si direbbe già antica» disse Rivera, a beneficio dei colleghi. «Suppongo che siamo in Europa. Non sono certo di riconoscere lo stile architettonico. Non so, forse romanico? Questo restringe la cronologia dal Mille in poi. Naturalmente potremmo anche essere in età moderna... speriamo d’esserci». Prese mentalmente nota del luogo. Se le cose si fossero messe male, e il gruppo si fosse diviso, la cappella abbandonata poteva essere un buon punto di ritrovo, al riparo da occhi indiscreti.
 
   Gli avventurieri tornarono verso il fiume, da cui si erano leggermente discostati nell’ultimo tratto, sempre nella speranza di veder passare qualche battello. E finalmente furono accontentati. Prima ancora di tornare in vista dell’acqua, udirono una canzone – per la verità piuttosto sgraziata – che accompagnava lo strimpellare di uno strumento a corda. Poteva essere un liuto, un mandolino... o forse un banjo.
 
Ancora bambinello
mi avevano impiegato,
facevo il garzoncello
da un celebre avvocato.
 
   «Nativi!» sussurrò Talyn, abbassandosi tra le fronde per non essere scorto. «Procediamo al primo contatto, Capitano?».
   «Io procedo al contatto» puntualizzò Rivera. «E non chiamarmi Capitano, o ci attirerai un sacco di domande. Anzi, non fatevi vedere proprio, nessuno di voi!» ordinò al gruppetto. Intanto il canto sgraziato si avvicinava, segno che la barca stava per oltrepassarli.
 
E dirindirindina,
e dirindirindina,
m’han fatto comandante
della Regia Marina!
 
   Il Capitano uscì dalla macchia boscosa, trovandosi proprio in riva al fiume. Davanti a lui, una piccola barca di legno risaliva il placido fiume. Due uomini erano ai remi; il terzo offriva il dubbio ristoro della sua musica. C’era anche un cane, che ogni tanto uggiolava, mostrando più senso del ritmo rispetto all’uomo col banjo.
   «Buono, Montmorency! Buon Dio, che ha quel cane?» chiese uno dei rematori.
   «Si direbbe che ce l’abbia ancora col bricco del caffè» rispose l’altro.
   «Ehm, scusate? George, J., vi spiacerebbe fare silenzio? Sto cercando di cantare» notò il terzo compagno.
   «E se invece provassi a remare, una buona volta, mio caro Harris? Così, giusto per provare l’ebbrezza dell’ignoto?» propose il primo rematore, quello apostrofato come J.
   «Nooo, l’ho già fatto una volta. Non c’è più niente da scoprire» spiegò l’uomo col banjo. Dopo di che si schiarì la gola, in procinto di riprendere la sua manfrina.
   Rivera decise che era il momento d’apostrofarli. «Scusate, signori, devo chiedervi un’informazione!» gridò, sbracciandosi per attirare l’attenzione.
   «Perbacco, non vi avevo visto! Dite pure, buon uomo!» rispose uno dei tre uomini in barca, quello di nome George, rispondendo brevemente al saluto.
   «Ehm» fece Rivera, accorgendosi che la domanda suonava stupida, «sareste così gentili da dirmi che giorno è?».
   «Il sedici del mese, naturalmente» rispose George. Questa risposta sarebbe stata più che sufficiente per la maggior parte dei passanti sprovveduti... ma non lo era per gli avventurieri piovuti dal futuro.
   «Grazie, ehm... di quale mese, già?» fece Rivera, arrossendo dalla vergogna.
   «Ma di maggio, signor mio! Cos’altro credete?!» si stupì George.
   «Oh, ehm, chiedevo solo per sicurezza. E visto che siete così disponibile... mi direste anche l’anno?» chiese il Capitano, sentendosi sempre più rincoglionito.
   «Oh perbacco, vi prendete gioco di noi?! È il 1889, nel caso ve lo foste dimenticato» rispose l’uomo di nome Harris, che aveva deposto il banjo e ascoltava sempre più interessato.
   «Eh già, come scordarlo? E questo bel fiume su cui navigate, suppongo si tratti del...» fece Rivera, arrossendo fino alla radice dei capelli.
   «L’ultima volta che ho controllato, era il Tamigi» rispose Harris, fissandolo come se fosse tutto tocco. «Siamo dalle parti di Kingston, per la precisione. E alle nostre spalle, a una ventina di chilometri, c’è la City».
   «Ah, la City... bella grande, eh?» fece Rivera, non osando chiedere che città fosse.
   «Sì, è piuttosto grande, la vecchia Londra» confermò Harris. «Sentite, signor mio, a vedervi sembrate un po’ spaesato. Spero che non vi abbiano derubato... magari dandovi una botta in testa. Se avete necessità, possiamo offrirvi un passaggio. Conosco un posticino, qui dietro l’angolo, dove fanno un brandy di prima qualità...» si offrì.
   «Grazie dell’offerta, ma me la caverò da solo. Almeno spero» disse il Capitano, sebbene non ne fosse affatto certo.
   «Beh, come preferite. Arrivederci!» salutò Harris.
   «Arrivederci... Dio salvi la Regina!» aggiunse Rivera, sperando che fosse il saluto appropriato.
   I tre uomini in barca si allontanarono, sempre con George e J. che remavano, mentre Harris aveva ripreso a strimpellare il suo banjo. Il cane, Montmorency, si unì al concerto improvvisato. I suoi ululati continuarono a sentirsi per un bel pezzo, anche quando la piccola imbarcazione fu svanita dietro un’ansa del fiume. A quel punto il Capitano tornò dai suoi compagni, per fare un piano di battaglia.
 
   «Allora, in che secolo buio ci troviamo?!» chiese Losira, impaziente.
   «Siamo nella primavera del 1889... non male come temevo, ma neanche tanto bene» spiegò Rivera. «Siamo in età vittoriana... la Belle Époque. Più bella nel ricordo che a viverla sulla propria pelle, suppongo. Per intenderci, è l’epoca a cui risaliva il nostro carico. Strana coincidenza, ora che ci penso! Chissà se quegli angeli ci hanno spediti qui proprio per questo...» rimuginò.
   «Ci sono molti alieni sulla Terra, in quest’epoca?» domandò la Risiana.
   «Non ce n’è nessuno. Almeno non dichiarato» spiegò il Capitano. «Siamo ampiamente in età pre-curvatura. Se vi scoprono... beh, speriamo che non vi scoprano. Credo che in quest’epoca abbiano l’abitudine di mettere sotto formalina le bizzarrie della natura».
   «Ma... quindi tu conosci bene il periodo? Sai come cavartela?» incalzò Losira.
   «Certo che no! Per chi mi hai preso, un Agente Temporale?!» protestò Rivera. «Tutto quel che so di quest’epoca viene dai romanzi di Sherlock Holmes. Qualcos’altro ho letto di recente, mentre trasportavamo quel carico... ma non sono assolutamente in grado di mimetizzarmi tra questa gente. C’è un abisso d’oltre settecento anni fra noi e loro».
   «Sarebbe a dire? Quanto sono primitivi, esattamente?» si accigliò la Risiana.
   «Vediamo... siamo all’inizio della Rivoluzione Industriale» rifletté il Capitano, spremendosi le meningi per ricordare. «Niente energia atomica, niente volo, niente elettricità nelle case. Credo che abbiano appena abolito la schiavitù... gran parte del mondo è ancora nella morsa di carestie ed epidemie... e ci sono conflitti quasi ovunque».
   «Frell, detto così sembrano dei barbari. Ma in questo luogo non ci sono guerre, vero?!» si preoccupò Losira.
   «No, almeno non sul suolo inglese» la rassicurò Rivera. «Nelle colonie è un altro paio di maniche. Ma aspetta a sorridere... ci sono parecchie cose che non ti piaceranno. Tanto per fare un esempio, le donne non hanno ancora il diritto di voto. Del resto, non so per cosa si possa votare, visto che siamo in una monarchia. Forse il sindaco, boh?».
   «Quindi che facciamo?!» chiese Talyn, innervosito.
   «Teniamo un basso profilo, tanto per cominciare. Voi due potete passare inosservati, per fortuna, ma con Naskeel è un’altra storia. Non possiamo permettere che lo vedano, o lo faranno a pezzi» avvertì il Capitano.
   «È come temevo» disse l’interessato. «Dovrò tenermi alla larga dai centri abitati. E senza le necessarie ricariche energetiche, posso sopravvivere solo per dieci giorni. A meno che non ci sia un vulcano nelle vicinanze».
   «Vulcani in Inghilterra... no, non me ne vengono in mente» ammise Rivera. Vedendo Ottoperotto accanto a lui, tuttavia, gli venne un’idea disperata. «Sentite, ciò che ci serve è una tecnologia più evoluta di quella che l’età vittoriana può offrirci. Ma so che la Terra in passato è stata spesso visitata da alieni sotto copertura. E ci sono gli Agenti Temporali, dislocati in quasi tutte le epoche. Specialmente nei luoghi e nei momenti storici più decisivi per le sorti dell’umanità... come spero che sia questo. Dobbiamo cercarli. Ottoperotto, voglio che tu sorvoli Londra. Se le indicazioni che ci hanno dato sono esatte, ti basterà scendere il fiume per una ventina di chilometri per raggiungerla. Vola abbastanza alto da non farti notare e analizza la città coi tuoi sensori. Al primo segno di tecnologia anacronistica, torna qui a farci rapporto» ordinò.
   «Un momento, Capitano. La storia delle visite aliene e degli Agenti Temporali riguarda la Terra del nostro Universo» obiettò Talyn. «Ma qui siamo pur sempre in una realtà alternativa. Potrebbero non esserci visitatori dallo spazio, men che meno dal futuro».
   «Lo so, ma è la nostra unica speranza. Dobbiamo fare un tentativo» disse Rivera, pensando soprattutto all’urgenza posta da Naskeel. «Ottoperotto, quanto tempo ti occorre per analizzare una grande città?».
   «Variabile determinata da esatte dimensioni, be-beep! Per indagine approfondita, necessarie numerose ore. Forse giorni» rispose l’Exocomp.
   «Non possiamo attendere così tanto» riconobbe il Capitano. Avevano bisogno di cibo, nonché di un riparo in cui trascorrere la notte. Questo significava avventurarsi in città. Il che, a sua volta, richiedeva di mimetizzarsi. «Allora faremo così. Naskeel, devo chiederle di restare nascosto qui. A questo punto le affideremo i phaser e il d-pad che ci siamo portati dal futuro, per non attirare l’attenzione. I comunicatori invece dobbiamo portarli, per restare in contatto. Spero che in quest’epoca siano scambiati per grosse spille. Ottoperotto, al termine della tua analisi tornerai qui a fare rapporto. Se emergerà qualcosa d’interessante, ci contatterete».
   «Ricevuto. Voi invece che farete?» chiese Naskeel.
   «Dobbiamo arrischiarci a cercare alloggio in città. Ci fingeremo turisti in visita dal continente. Naturalmente dovremo prima travestirci...» rimuginò il Capitano. Le uniformi paramilitari che indossavano lui e Talyn avrebbero certamente attirato l’attenzione. Peggio ancora l’abito variopinto di Losira, che doveva apparire scandaloso per la rigida morale vittoriana. Alla prima occasione dovevano acquistare dei vestiti... il che richiedeva la valuta locale. Fortunatamente erano messi bene sotto questo profilo. Attingendo al cofanetto che si erano portati dal futuro, si riempirono le tasche di sterline, sia in banconota che in moneta. Naskeel avrebbe custodito il resto, fino al loro ritorno, e in effetti non si poteva immaginare miglior guardiano.
   Fatti questi preparativi, il gruppo si divise. Ottoperotto si librò in volo a una grande altezza, fino ad apparire come un minuscolo puntino nel cielo, che poteva sembrare un uccello lontano. Andò a est, scendendo la corrente del Tamigi in direzione di Londra. Aveva già cominciato a mappare il territorio, così da ritrovare agevolmente la via del ritorno. Al tempo stesso aveva esteso i sensori, in cerca di tecnologie anacronistiche: leghe polimeriche, attività elettronica, fonti d’energia inspiegabili, sorgenti di particelle. Lo schema di ricerca lo avrebbe portato prima a sorvolare il centro città, poi ad allargarsi in spirali sempre più ampie.
   Intanto anche gli avventurieri si divisero. Naskeel rimase presso la chiesa diroccata che ormai era il loro punto di ritrovo. Si nascose nella piccola cripta, vigilando gli strumenti che si erano portati dal futuro, oltre al loro tesoretto. Fatte molte raccomandazioni, gli altri tre lo lasciarono, sperando che nessuno venisse a disturbarlo. E ripresero a camminare lungo l’argine del fiume, in direzione di Londra, le cui ciminiere fumiganti cominciavano ad apparire in lontananza.
 
   Fu una lunga camminata, dato che non avevano mezzi di trasporto. Lasciato l’argine, finirono per costeggiare una strada, che poco alla volta divenne sempre più trafficata. Il traffico era costituito da pedoni e da carrozze trainate da cavalli, dato che le automobili non erano ancora state inventate. Occasionalmente gli avventurieri videro anche delle primitive biciclette. I modelli più vecchi avevano una ruota anteriore enorme, in contrasto con quella posteriore minuscola. Sembravano terribilmente scomodi, soprattutto al momento di salire e scendere, dato che il sellino era posto assai in alto. Solo i modelli più recenti somigliavano già alle biciclette moderne, con le ruote di eguale misura e il sellino abbastanza basso da poterlo inforcare facilmente. Talyn le osservò con interesse, già smanioso di procurarsene una.
   «Ugh... che bestie sono quelle?» chiese Losira, alludendo ai ronzini che trainavano una carrozza.
   «Cavalli» spiegò Rivera. «A quest’epoca sono ancora il principale mezzo di trasporto su terra, oltre ai treni di recente invenzione. Naturalmente bisogna saperci fare, per non imbizzarrirli. Qualche volta ho cavalcato sul ponte ologrammi».
   «Io non mi fiderei. Sembrano così sinistri, con quei musi lunghi! Danno l’idea di non aspettare altro che sgroppare, per gettarti nel fango. E poi puzzano terribilmente!» fece la Risiana, storcendo il naso.
   «Non siamo ancora nei secoli profumati» convenne il Capitano, con un mezzo sorriso.
   Giunsero finalmente alla periferia di Londra, in una zona ricca di fabbriche che appestavano l’aria col fumo delle ciminiere. Erano i primi passi della Rivoluzione Industriale, che tanto avrebbe cambiato il volto della Terra. Rivera non ci fece caso, e Talyn sopportò senza problemi, ma Losira prese a tossire infastidita, ogni volta che il vento le portava contro uno sbuffo di fumo.
   Era ormai il tramonto e il cielo si scuriva rapidamente. Ai lati delle strade, i lampionai presero ad accendere manualmente i lampioni, così da rischiarare le vie. L’aria si faceva sempre più fredda, nonostante la bella stagione, tanto che gli avventurieri presero a rabbrividire, non avendo neanche un soprabito. Ogni tanto i passanti li osservavano, stupiti dal loro vestiario, ma per il momento nessuno li aveva fermati.
   «Speravo di trovare un negozio d’abbigliamento, ma ormai è troppo tardi. A quest’ora saranno chiusi» disse il Capitano, sfregandosi le mani per riscaldarle. «Non ci resta che trovare un albergo, o una locanda con camere. Insomma, qualunque luogo in cui si possa pernottare. Occhi aperti, non facciamoci sfuggire l’occasione!» raccomandò ai compagni.
   Stavano ormai percorrendo un’ampia street, che dalla periferia portava al centro città, quando si verificò ciò che Rivera aveva temuto. Due poliziotti con mustacchi e mantelline, che il Capitano battezzò fra sé Bobby 1 e 2, li fermarono per accertamenti.
   «Fermi, voi!» ordinò Bobby 1, puntando verso il terzetto.
   «Perché, che abbiamo fatto di male? A parte perderci in questa città maleodorante?!» insorse Losira, la più stanca e spazientita del trio.
   «Signorina, il decoro pubblico richiede che lei non stia qui» spiegò il poliziotto.
   «Sì, per il suo mestiere ci sono le case nell’East End» aggiunse Bobby 2, giunto a dargli manforte.
   Rivera fissò il suolo, imbarazzato, mentre Losira cercava di capire cosa intendessero. Quando lo capì, arrivò la sfuriata. «Come sarebbe a dire? Per chi mi avete preso, per una mignotta?! Okay, per un certo tempo sono stata una ragazza-dabo, ma questo non vuol dir niente. È un mestiere onesto e rispettabile!».
   Il Capitano dovette intervenire, prima che i poliziotti le chiedessero cos’era una ragazza-dabo. «Signori, come osate?! Questa non è una donna di malaffare, e io non sono il suo cliente! Mi considero offeso dalle vostre basse insinuazioni!» esclamò, cercando d’apparire come un gentleman.
   «E allora chi siete? Avete strani abiti, tutti quanti» notò Bobby 1.
   «Si direbbe che veniate da lontano, anche se non riconosco l’accento. Cosa siete, turisti del continente?» chiese Bobby 2.
   Rivera colse la palla al balzo. «Esatto, signori. Veniamo proprio dal continente, e devo dire che quanto visto finora non fa onore alla vostra nazione» dichiarò.
   Bobby 1 si accigliò. «Identificatevi, allora. Fornite nomi, cognomi e motivo della visita» ordinò. La sua mano si accostò al cinturone, dove teneva la pistola d’ordinanza.
   «Come volete, signor mio» fece Rivera, sempre recitando la parte del gentleman. «Noi siamo... siamo... ragazzo, diglielo tu chi siamo!» esortò, trovandosi penosamente a corto d’idee. Talyn, al contrario, aveva sempre la lingua sciolta, per cui sperò che li avrebbe salvati anche stavolta.
   «Agli ordini, signore» fece Talyn, con un inchino cerimonioso. Poi si rivolse ai poliziotti, che lo fissavano accigliati. «Sono Coriolanus Oxocopolis, fedele maggiordomo di Sua Signoria, Barone Wolfgang Von Rumpelstiltskin e consorte, Lady Dragomira. I miei padroni sono qui in seconda luna di miele» annunciò.
   Alle sue spalle, Rivera alzò gli occhi al cielo, già pentito di averlo fatto parlare. Da dove aveva tirato fuori quei nomi improponibili?! Ma non aveva importanza... ormai li aveva detti, e non restava che tirare avanti con quelli. La cosa più seccante, e pregna di conseguenze, era che Talyn li avesse presentati come marito e moglie. Per carità, in quel contesto storico aveva senso. E sebbene Losira fosse più matura di lui – aveva quindici anni in più – la longevità risiana faceva sì che dimostrasse la sua stessa età. Quindi a vederli potevano passare per coniugi. Ma per Rivera, che si considerava ancora legato a Giely, era imbarazzante pensare alle conseguenze della messinscena. Come il fatto di dover pernottare nella stessa camera nuziale...
   Udite le presentazioni, i due poliziotti si scambiarono un’occhiata perplessa. «Favorite i documenti, per cortesia» ordinò Bobby 1, così da poter verificare le dichiarazioni.
   Rivera si fece avanti, sentendo che toccava a lui rispondere. «Sfortunatamente i nostri documenti sono andati perduti in una rapina che abbiamo subito qualche ora fa. Nella stessa occasione abbiamo perduto i bagagli. Un episodio davvero increscioso, devo dire. Speravo che qui le strade fossero più sicure. Guardate, il mio leale maggiordomo è stato persino ferito, mentre proteggeva il nostro contante!». Così dicendo prese la mano fasciata di Talyn e la mostrò ai tutori dell’ordine, adducendola come prova.
   Allora Losira si sentì istigata a metterci del suo. «Sì, e come se non bastasse mi hanno rubato persino la fede nuziale! Non è un’indecenza?!» protestò, mostrando la mano priva d’anelli. «Beh, non state lì impalati, fate il vostro dovere! Se trovate dei fuorilegge che hanno anelli d’oro nella refurtiva, riportateceli subito!» ordinò, come se i poliziotti fossero ai suoi ordini.
   «Al tempo, milady!» obiettò Bobby 2. «Se avete subito un furto con aggressione, dovete seguirci in centrale. Così renderete testimonianza e ci permetterete di stilare gli identikit dei rapinatori. In primo luogo, quanti erano?».
   «Due» rispose incautamente Rivera, senza badare al fatto che anche gli altri avrebbero risposto.
   «Tre» rispose Talyn nello stesso momento.
   «Cinque» arrivò a dire Losira. A quel punto gli avventurieri si guardarono l’un l’altro, accorgendosi del pasticcio.
   «Avete le idee confuse, signori turisti. Nessuno di voi ha contato gli aggressori?» s’insospettì Bobby 1.
   «Al contrario, la nostra testimonianza non potrebbe essere più cristallina!» obiettò il Capitano, correndo ai ripari. «Vedete, i rapinatori erano in carrozza, e hanno accostato mentre passeggiavamo sulle rive del Tamigi. Due sono rimasti sulla vettura, come stavo dicendo. Tre sono scesi a rapinarci, come ha riferito il maggiordomo. Quindi in tutto fanno cinque, come ha spiegato la mia dolce metà» concluse, prendendo a braccetto Losira, che sorrise e fece gli occhi dolci.
   «Uhm, sarà...» fece Bobby 1, poco convinto. «Allora, volete sporgere denuncia, sì o no?».
   «Altrimenti potete rivolgervi al consolato di... di Germania, se ho ben inteso la vostra provenienza» aggiunse Bobby 2.
   «No, niente consolato!» fece Rivera, temendo che li avrebbero smascherati ancor più facilmente. «Sporgerò denuncia, ma... non possiamo seguirvi subito in centrale. L’ora è tarda, mia moglie è stanca, e il nostro beneamato maggiordomo è ferito. Necessitiamo di trovare alloggio per la notte. Fortunatamente, grazie all’eroico – ehm – Coriolanus, abbiamo salvato gran parte del contante» spiegò, incespicando sul nome fittizio di Talyn, che aveva quasi scordato.
   «Se lor signori possono indicarci il più vicino albergo, ve ne saremo grati» concluse Losira.
   I poliziotti si scambiarono uno sguardo d’intesa, poi Bobby 1 prese la parola. «Ebbene, visto che siete in luna di miele e avete già subito dei contrattempi, non vogliamo arrecarvi ulteriori fastidi, sebbene sia nel vostro interesse sporgere denuncia al più presto. Vi accompagnerò a un albergo dignitoso, e metterò una buona parola col proprietario, così che siate accolti anche senza documenti. Domani, però, vi consiglio caldamente di presentarvi in centrale, così potremo avviare la pratica. Intesi?».
   «Ma certo. Fate strada, buon uomo!» lo esortò il Capitano. Questo almeno dava a tutti loro la possibilità di pernottare decentemente e di accordarsi sulla testimonianza da rendere l’indomani. Dopo di che avrebbero affrontato i problemi, man mano che si presentavano.
 
   Il poliziotto fu di parola. Accompagnò il trio a un albergo di lusso e, malgrado la tarda ora, fece sì che fossero accolti. A quel punto dovettero mantenere la finzione, fornendo i bislacchi nomi inventati da Talyn. Il Capitano decise d’affittare le camere per l’intera settimana, così da non doversi preoccupare di trovare ogni volta alloggio. Certo, anche quella era una soluzione temporanea. Non potevano fingersi a lungo in vacanza, e prima o poi i soldi sarebbero terminati. Ma almeno avevano guadagnato qualche giorno, per raccapezzarsi e pianificare le prossime mosse. Appena ebbero un momento da soli, nella reception, Rivera si rivolse a Talyn. «Allora, Coriolanus... mi spieghi come diavolo ti sono venuti in mente questi nomi?!» gli chiese.
   «Beh, dovendo improvvisare, li ho scelti semplici, di facile memorizzazione» si giustificò l’El-Auriano. «Che c’è, ho sbagliato qualcosa?».
   «No, figurati! Ma prima o poi dovremo parlare d’onomastica terrestre» si promise Rivera. L’attimo dopo tacque, vedendo avvicinarsi un inserviente.
   «Il Barone e la consorte possono seguirmi alla suite nuziale» disse questi, in tono ampolloso. «Il vostro maggiordomo sarà alloggiato tra i suoi pari» aggiunse.
   «Buonanotte, Vostre Eccellenze» fece Talyn, accompagnandosi con un inchino profondissimo. «E non esitate a chiamare, per qualunque necessità!» aggiunse ironicamente.
   Il Capitano resistette alla tentazione di dargli uno scappellotto. Di lì a poco, lui e Losira si trovarono nella suite. Era un’ottima camera, spaziosa e lussuosa, arredata in stile vittoriano. Naturalmente mancavano le comodità moderne, che chiunque provenisse dal XXVII secolo dava per scontate; ma nel complesso non potevano lamentarsi. C’era un solo vero problema: l’unico giaciglio era per l’appunto il letto nuziale. Per un folle attimo, Rivera si chiese se Losira non pretendesse d’onorare sino in fondo la messinscena.
   «Allora, maritino adorato, mettiamo in chiaro una cosa!» fece la Comandante, fulminandolo con lo sguardo. «Ci conosciamo da così tanto tempo che sarei anche disposta a farti dormire accanto a me. Ma siccome sei un galantuomo, sono certa che preferirai accomodarti sul divano!» disse, in tono che sapeva di ordine.
   Rivera pensò a una risposta mordace, ma poi lasciò perdere. Non era il caso di scherzarci, anche perché non sapevano per quanto sarebbero rimasti bloccati nel passato. Se fosse stato per sempre, allora... no, meglio non pensarci. Dovevano ancora ascoltare il rapporto di Ottoperotto. Solo in caso di responso negativo erano autorizzati a disperare. Con quel pensiero il Capitano si accoccolò sul divanetto, troppo corto per permettergli di distendersi. Si addormentò quasi subito, dato che la giornata era stata faticosa. Ma il suo sonno fu guastato da incubi d’angeli che sbucavano dall’oscurità per ghermirlo. Qualunque cosa fossero quegli esseri, Rivera sentì che li avrebbero incontrati ancora.
 
   Il giorno dopo, lasciato l’albergo, gli avventurieri s’impegnarono per prima cosa a procurarsi dei vestiti che attirassero meno l’attenzione. Memori del ruolo sociale che ormai avevano adottato, acquistarono un abito signorile per Rivera e uno più dimesso per Talyn. Entrambi si procurarono anche degli ombrelli, dato il clima notoriamente piovoso di Londra. Fu poi la volta di Losira, che li fece girare per ore da una boutique all’altra, prima di trovare un completo confacente. Quando uscì abbigliata come una dama vittoriana, col vitino di vespa, era quasi irriconoscibile. Solo i capelli a caschetto, retaggio della sua precedente acconciatura, la facevano spiccare.
   «Questa è un’epoca primitiva!» sibilò la Risiana, mentre si allontanavano. «Vi rendete conto che ho dovuto indossare un corsetto?! Non riesco neanche a riempirmi i polmoni, che lo sento scricchiolare. Che razza di società tortura in questo modo le donne?!».
   «Sei avessi impersonato una popolana, potresti farne a meno» spiegò Rivera. «Ma se vuoi essere Lady Dragomira, allora c’è un prezzo da pagare. A proposito di prezzi... in questi due giorni abbiamo speso parecchio, tra l’albergo e il vestiario. Vediamo un po’ quanto ci resta. Losira, quanto hai speso esattamente?» chiese, aspettandosi uno sproposito.
   «Oh, niente» rispose lei, facendo spallucce.
   «Come sarebbe, niente?! Hai comprato un abito dell’alta società, con tanto di scarpe, borsetta e ombrellino. Li avrai pagati una bella cifra!» obiettò il Capitano.
   «Sì, ma mentre lei intortava le commesse, io ho sgraffignato quello che avevano in cassa!» ridacchiò Talyn. «A conti fatti, direi che siamo più ricchi di prima». Così dicendo passò a Losira un fascio di banconote, che lei fece subito sparire nella borsetta.
   Rivera alzò gli occhi al cielo. Aveva cercato mille volte di fargli passare il vizio di rubare, acquisito quand’era un povero ragazzo di strada, e aveva miseramente fallito. «Cerca di tenere a freno le manacce, okay?! Siamo qui da due giorni e siamo già coinvolti con la polizia per quel finto furto. Se ora ne fai di veri, ti avverto: non verrò a tirarti fuori, quando sarai dietro le sbarre! Oh, a proposito... sappi che a quest’epoca praticano ancora l’impiccagione» avvertì.
   «Okay, prometto che non lo farò più... se non in caso d’estrema necessità» disse il giovane, riservandosi di decidere lui cosa fosse l’estrema necessità.
   Per non attirare ulteriori sospetti della polizia, gli avventurieri furono costretti a passare in centrale per denunciare il finto furto del giorno precedente. Anche se avevano concordato la storia da raccontare, Rivera passò un paio d’ore d’inferno, temendo che le forze dell’ordine annusassero l’inganno e li tenessero dentro per accertamenti. Invece li lasciarono andare... per il momento. Ma era chiaro che la storiella dei ricchi turisti mitteleuropei non avrebbe retto a lungo.
   Gli avventurieri avevano da poco lasciato la centrale, e non erano certi di cosa fare, quando il Capitano sentì il comunicatore vibrargli in tasca. Tutti e tre erano stati attenti a conservarli, nel cambio d’abiti, per restare in contatto sia fra loro che con Naskeel. Si erano anche raccomandati col Tholiano di chiamarli solo per un valido motivo. Così il Capitano svoltò lesto in un vicolo, seguito dai compagni. Una volta al riparo da occhi indiscreti, cavò di tasca il comunicatore e rispose alla chiamata. «Qui Rivera, ci sono novità?» chiese.
   «L’Exocomp ha fatto ritorno dal suo volo d’ispezione» rispose Naskeel, che aveva già ascoltato il rapporto.
   «Ebbene?!» chiese il Capitano, col cuore in gola. Se non aveva trovato nulla d’anacronistico, era la fine: sarebbero rimasti prigionieri del passato.
   «C’è un riscontro interessante» rivelò il Tholiano. «Alle 07:47 di stamane, è stato rilevato un picco di tachioni presso un’abitazione nel centro di Londra. Nulla, in quest’epoca, dovrebbe essere in grado di produrre un simile fenomeno. E come sapete, le particelle tachioniche sono connesse ai viaggi nel tempo».
   «Bingo!» esultò Rivera. Le sue speranze erano state esaudite... c’era davvero una via di fuga da quel secolo estraneo! «Ottimo lavoro. Ora stiamo attenti a non mandare tutto in vacca, perché dubito che avremo un’altra occasione. Se c’è un Agente Temporale in città, dobbiamo prendere contatto con cautela. Facciamogli capire che non siamo sabotatori e vogliamo solo tornare a casa».
   «Già, sarebbe il colmo se ci arrestasse... o peggio» si preoccupò Losira. «Allora, qual è l’indirizzo della casa incriminata?».
   «Paternoster Row, numero 13» rispose Naskeel. Basandosi sulla mappa olografica tracciata da Ottoperotto, fu anche in grado di dargli qualche indicazione su come arrivarci.
   «Bene, urge un sopralluogo» decise Rivera.
   «Prudenza, Capitano» avvertì il Tholiano. «Ancora non sappiamo se abbiamo trovato traccia di un Agente Temporale... oppure di un pirata».
   «Caramba, è vero!» ammise Rivera, d’un tratto meno sicuro sul da farsi. «Beh, a maggior ragione non prenderemo subito contatto. Prima dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare».
   «Il che mi porta alla seconda raccomandazione» disse Naskeel. «Così come noi abbiamo rilevato questo viaggiatore del tempo, in virtù della sua tecnologia, allo stesso modo lui potrebbe rilevare noi. Forse lo ha già fatto. Forse ci sta già sorvegliando. E in tal caso, potrebbe essere già pronto a colpirci».
   Il Capitano avvertì un senso d’urgenza. Ormai aveva maturato una considerevole esperienza di combattimento, sia tra astronavi che sul campo. Ma non aveva idea di come affrontare un Agente Temporale; men che meno un pirata. Era una minaccia troppo diversa e imprevedibile. Se avesse posseduto tecnologie del XXXI secolo, ad esempio, come potevano sfuggirgli? «Va bene, è meglio non prolungare la conversazione, nel caso qualcuno fosse in ascolto. Ci faremo risentire noi. Lei mantenga la posizione, Tenente. Rivera, chiudo».
 
   Nel tardo pomeriggio, gli avventurieri raggiunsero la Paternoster Row e la percorsero fino al numero indicato. Era un quartiere residenziale, pieno di ville lussuose e ben tenute. La numero 13 non faceva eccezione. Il terzetto si trovò a osservare una ricca magione vittoriana. C’erano grandi finestre, ma le tende erano tirate, come se il proprietario tenesse alla sua privacy. Un robusto cancello di ferro sbarrava l’ingresso del guardino. Al di là di questo, anche la porta della villa appariva robusta.
   «Posticino vigilato, eh?» commentò Talyn.
   «Quanto vorrei sapere chi ci abita» mugugnò Rivera. «Sono tentato di mandarci Ottoperotto... con le sue dimensioni potrebbe scendere dal camino... ma non vorrei che fosse scoperto».
   «C’è un modo più semplice per raccogliere informazioni. Ehi, scugnizzo!» fece Losira, attirando l’attenzione di un giovane fattorino.
   «Dice a me, signora?» fece il ragazzo, fermandosi.
   «Sì, proprio a te» sorrise Losira, avvicinandosi con aria affabile. «Sono una turista e m’incuriosisce questa strana villa. Suppongo che tu passi spesso da qui, perciò... sapresti dirmi a chi appartiene?».
   Il fattorino esitò. «Sì, signora, ma... son di fretta» si scusò, mostrando la cesta del fornaio che doveva consegnare.
   «Naturalmente pagherei il disturbo» disse casualmente Losira, facendo balenare uno scellino.
   «Nessun problema signora, mi chieda tutto ciò che vuole!» fece il giovane, intascando prontamente la moneta.
   «La prima domanda te l’ha fatta, quindi vedi di rispondere» lo pressò Rivera, accostandosi.
   «Dunque, signori turisti, quella casa l’è un po’ misteriosa» spiegò il fattorino, parlando in uno slang popolaresco. «Ogni tanto ci vado a consegnare il pane, ma non mi fanno mai passare oltre la soglia. Però pagano bene, belle mance!» ricordò sognante.
   «Quindi... chi ci vive?!» incalzò Rivera.
   «Si chiama Lady Vastra» sussurrò il fattorino, come se fosse un grande segreto. «L’è comparsa qualche anno fa, nessuno sa da dove, anche se pare molto ricca. Ha comprato la vecchia villa, l’ha ristrutturata e c’ha fatto il suo studio».
   «Studio? Di che si occupa?» chiese Losira.
   «Indagini. È un’investigatrice privata, e parecchio brava. Sapeste quante volte ho visto entrare quelli di Scotland Yard» rivelò il giovane. «Tutti gli strambi ci vanno, e lei gli risolve sempre i problemi. In fondo, anche lei è stramba».
   «Come sarebbe? Cos’ha di strano? Dicci tutto!» esortò Losira. Gli passò un altro scellino, che il ragazzo intascò lesto come il precedente.
   «Beh, la chiamano la Detective Velata, perché non mostra mai il suo volto» bisbigliò il fattorino. «Anch’io non l’ho mai vista in faccia. C’ha sempre un velo nero, come una vedova. Ma dalla voce non sembra vecchia, e non so se è mai stata sposata».
   «Quindi perché velarsi? Come lo giustifica?» incalzò Losira.
   «Dicono che c’ha una brutta malattia della pelle. Tanto brutta che non vuol farsi vedere da nessuno. Infatti c’ha anche i guanti nelle mani, mai vista senza. Ma non so se crederci alla malattia, è strana come cosa».
   «Sì, piuttosto strana» si accigliò Rivera. «E dimmi, questa eccentrica signora vive tutta sola? Non ha qualcuno che si occupi della villa? Un maggiordomo, una governante...?».
   «Li ha tutti e due, sì» annuì vistosamente il fattorino. «Il maggiordomo è strambo come lei. È un tipo deforme, con una faccia grassa che fa spavento. Strax, mi pare si chiami. La domestica è la più normale dei tre, almeno di faccia. Si chiama Jenny Flint. Di solito è lei che esce a far compere, sennò si fanno consegnare la roba da noi fattorini. E questo è tutto... non ci sono altri in quella casa. Non in pianta stabile, almeno. Ogni tanto hanno ospiti, gente stramba come loro» concluse il giovane.
   Gli avventurieri si scambiarono qualche occhiata, ma nessuno aveva in mente altre domande. Perciò Losira decise di congedare l’informatore. «Grazie per aver soddisfatto la nostra curiosità, giovanotto. Apprezzerei molto se non raccontassi in giro d’averci detto queste cose. Sai, ho un certo rango, e non vorrei passare per una cacciatrice di pettegolezzi» disse, passandogli un ultimo scellino. Quello non era per le informazioni, ma per il successivo silenzio.
   «E chi ha detto niente? Arrivederci, signora e signori. Buona permanenza a Londra!» augurò il fattorino. Dopo di che riprese la cesta e ripartì di buon passo, quasi correndo, per recuperare il tempo perso nella conversazione.
   «Beh, questa Lady Vastra sembra un tipo interessante. Sia lei che la sua combriccola. Sono sempre più convinto che dobbiamo prendere contatto» commentò Rivera, quando furono soli.
   «Sperando di non cacciarci in trappola. Forse prima è meglio parlarne con Naskeel» suggerì Losira.
   Il Capitano era tentato di non perdere tempo, ma in quella vide che una delle tende al primo piano della villa veniva scostata. Una sagoma femminile – forse Lady Vastra in persona – si affacciò per guardare la strada. Non aprì la finestra, limitandosi a osservare attraverso il vetro.
   D’un tratto Rivera rabbrividì. Non voleva che la misteriosa detective li notasse, prima che loro avessero elaborato una strategia. «Andiamo, presto» disse. Prese Losira a braccetto, da bravo gentleman, e s’incamminò con lei lungo il marciapiede, mentre Talyn li seguiva. Sopra di loro, la misteriosa figura si ritrasse, lasciando ricadere il pesante tendaggio.
 
   Quella sera gli avventurieri si riunirono nella camera d’albergo, quella lussuosa riservata ai “Baroni Von Rumpelstiltskin”, per pianificare le prossime mosse. Contattarono anche Naskeel, lasciando che il comunicatore proiettasse la sua immagine, e lo informarono delle ultime scoperte.
   «Interessante» disse il Tholiano, al termine del resoconto. «Non avete ancora preso contatto, vero?».
   «No» confermò il Capitano. «A proposito, come va lì? Tutto tranquillo?» volle sapere.
   «Non sono stato disturbato» assicurò Naskeel. «L’Exocomp ha proseguito le analisi, ma non ha trovato altri segni di tecnologia anacronistica. Dunque Lady Vastra rimane l’unica pista».
   «Bene, non resta che decidere come affrontarla» constatò Rivera. Ascoltò i pareri di tutti, provando a figurarsi ogni volta come sarebbe andata l’operazione.
   «Se solo avessimo conferma che questa Lady non ci ha individuati, e non ci sta aspettando, potremmo fare irruzione, per impadronirci della sua tecnologia» disse Naskeel.
 
   Il portone della villa crollò mentre gli avventurieri facevano irruzione, coi phaser in pugno. Il maggiordomo Strax e la domestica Jenny furono storditi prima di capire cosa stava accadendo. Lady Vastra scese dalle scale, ringhiando sotto il velo nero, armata con un potente disgregatore. «Fuori da casa mia!» gridò, aprendo il fuoco. Scoppiò una sparatoria forsennata, coi raggi che s’incrociavano nell’androne, distruggendo mobili e quadri, sbriciolando i preziosi vasi ornamentali. Mentre Rivera e Talyn la tenevano impegnata, Naskeel – entrato da un ingresso posteriore – scivolò alle spalle della padrona di casa. L’attaccò alle spalle, immobilizzandola prima che potesse reagire. Con una mano la disarmò, mentre con l’altra l’afferrò per la gola, sollevandola da terra. Lady Vastra tossì e sputacchiò, cercando disperatamente di liberarsi, ma nulla poteva sfuggire alla stretta spietata del Tholiano. Con un sinistro scricchiolio, il suo collo si spezzò. Allora Naskeel la gettò a terra, in un mucchio di vesti e veli neri. Gli avventurieri presero possesso della casa, presto raggiunti da Losira e Ottoperotto. Grazie ai sensori dell’Exocomp, trovarono subito la navicella temporale in grado di riportarli alla loro epoca. La consumata abilità del Capitano, unita al sesto senso di Talyn, permisero di pilotarla agevolmente. La navicella svanì in un lampo, riportandoli felicemente al sicuro sulla Destiny.
 
   «Uhm, no, non credo che funzionerebbe. Troppe incognite» disse il Capitano, lasciando che la fantasia mentale si dissolvesse. «Intanto non potremmo farla arrivare inosservato fino alla villa, Naskeel. Quindi saremmo solo noi tre a portare l’attacco. E poi non abbiamo idea delle capacità difensive degli occupanti. Rischieremmo di farci catturare, compromettendo ogni possibilità di trovare un accordo. Diamine, alcuni di noi potrebbero restarci secchi».
   «Giusto, infatti sarebbe meglio infiltrarci di nascosto durante la notte» propose Talyn. «Niente clamori, niente battaglie, e soprattutto niente morti. Diamo solo un’occhiata, per capire se c’è qualcosa di utile. Se la risposta è no, pazienza. Lady Vastra non saprà nemmeno che le siamo stati in casa».
 
   In una notte senza luna, i tre avventurieri – vestiti con aderenti abiti neri – scivolarono silenziosamente presso la villa. Con pochi gesti da commando militare, Rivera guidò i compagni oltre il cancello e attraverso il cortile, fino a una porta secondaria. Qui Talyn impugnò un grimaldello e scassinò la serratura, mettendo a frutto la sua esperienza di ladruncolo. La porta si aprì senza un cigolio, perché gli intrusi si erano premurati di oliare i cardini. In un attimo furono all’interno. Rapidi e silenziosi come ombre, i tre avventurieri setacciarono la casa, in cerca della fonte di particelle tachioniche. Nulla poteva sfuggire al loro sguardo esperto, né ai sensori di Ottoperotto. Al piano superiore, Lady Vastra e i suoi servitori dormivano della grossa, ignari dell’ardita operazione. Infine gli avventurieri scovarono, astutamente celato dietro un grande dipinto, un portale temporale. Subito inserirono le coordinate di ritorno, tramite i comandi di facile decifrazione. Il portale si attivò con un lieve ronzio ed essi lo varcarono, prima che la padrona di casa o i suoi tirapiedi potessero fermarli. Una volta tornati sulla Destiny, brindarono al ricordo del valoroso Naskeel, che purtroppo non aveva potuto seguirli...
 
   «No, anche questo non va» disse Rivera, scacciando la visione. «Se quella è gente che viaggia nel tempo, avrà senz’altro qualche allarme capace di rilevarci. Magari anche qualche trappola per catturarci, o peggio. Perderemo sia l’effetto sorpresa che la possibilità di un accordo. Ma anche nell’eventualità di riuscire a perquisire la villa... non è detto che là dentro ci sia una vera e propria macchina del tempo. O anche se ci fosse, sarà troppo complicata per usarla così su due piedi, all’insaputa dei proprietari».
   «Allora non ci resta che presentarci da Lady Vastra e spiegare la situazione» sospirò Losira. «Se fosse un’Agente Temporale, sarebbe suo dovere riportarci nel nostro tempo».
 
   Udendo squillare il campanello, Strax si recò ad aprire. «I signori desiderano?» chiese in tono baritonale, ma cortese.
   «Perdonate se ci presentiamo senza appuntamento, ma abbiamo un grosso problema, e sappiamo che Lady Vastra è la persona giusta a cui rivolgerci» disse il Capitano. «Sarebbe possibile incontrarla, ed esporre la nostra situazione?».
   «Ma certo signori, accomodatevi. Lady Vastra sarà qui tra un minuto, nel frattempo spero gradirete il tè» disse il maggiordomo, servizievole. Accolse i tre visitatori, accompagnandoli nel soggiorno, dove sedettero su un confortevole divanetto. Poi salì ad avvisare la sua padrona. Intanto la domestica, Jenny Flint, servì a tutti un tè eccellente.
   Di lì a poco Lady Vastra scese dalle scale, elegante nel suo abito vittoriano. I suoi modi erano così signorili che nemmeno il viso velato sembrava troppo strano. «Benvenuti, gentili ospiti. Esponete il vostro problema, senza tralasciare alcun dettaglio. Sono certa che insieme troveremo una soluzione» promise, sedendo in poltrona.
   Incoraggiato dalla sua disponibilità, il Capitano rivelò la propria identità e quella dei compagni, spiegando come fossero divenuti loro malgrado naufraghi del tempo. «... e così abbiamo rilevato emissioni tachioniche in questa casa, che suggeriscono la presenza di tecnologia temporale. Non vorremmo essere importuni, e di certo non vogliamo interferire nei suoi affari. Ma se potesse aiutarci a tornare nella nostra epoca, ecco... per noi sarebbe di vitale importanza. E credo che anche per lei sarebbe vantaggioso sgombrare il campo da interferenze temporali» concluse.
   «Oh, tutto qui? Ma certo, signori, aspettavo solo che me lo chiedeste!» trillò Lady Vastra. Si alzò dalla poltrona e guidò i visitatori nel suo studio privato. «Datemi solo il tempo d’attivare il faro temporale, e i miei colleghi manderanno una capsula per riportarvi nella vostra epoca. Sono davvero lieta che mi abbiate contattata senza sotterfugi. Ah, se potessi sempre risolvere i problemi così facilmente!».
 
   «Niente da fare, anche questo è troppo pericoloso» disse Rivera, rinunciando al quadretto utopico. «Metti che non sia un’Agente Temporale incaricata di preservare la Storia, ma una sabotatrice che intende fare l’esatto opposto. Se dovessimo scoprirci, ecco che si sbarazzerà di noi all’istante, per coprire i suoi sporchi traffici. Non possiamo nemmeno escludere che sia in combutta coi finti angeli, visto che sono stati loro a mandarci qui».
   «Okay, niente scontro frontale, niente perquisizione segreta, niente trattative... allora spiegaci tu come vuoi procedere!» si spazientì Losira.
   «Beh, stavo pensando che la maggior parte dei problemi deriva dal fatto che non sappiamo quanto sia difesa quella villa. Né quanto siano pericolosi quei due scagnozzi, il maggiordomo e la domestica» ragionò il Capitano. Aveva ancora il ricordo bruciante di quella volta che aveva condotto un assalto nel Centro Ricerche di Curvatura, nell’Universo dello Specchio, e aveva perso quasi tutta la squadra. Da allora si era promesso di non lanciarsi più in missioni così avventate, senza sapere l’esatta forza degli avversari. «Quindi dovremmo beccare Lady Vastra mentre è fuori casa. Lontana dai suoi attrezzi e dai suoi tirapiedi. L’ideale sarebbe parlarle in un luogo pubblico, affollato, dove non può dare spettacolo senza compromettere la sua falsa identità» spiegò.
   «Sembra ottimo. Sai anche dove farlo di preciso?» chiese Losira, scettica.
   «Beh, non ancora...» ammise Rivera.
   «Perché a me è parso che quella detective faccia una vita ritirata. Probabilmente esce solo per le sue indagini» proseguì la Risiana.
   «Dobbiamo scoprire di più su di lei» decise il Capitano, colpendosi il palmo. «Se andasse al parco, o a un qualche ricevimento, sarebbe il luogo giusto per agganciarla. All’inizio potremmo presentarci con le nostre identità fittizie, magari lamentando il finto furto che abbiamo già denunciato alla polizia. Una volta ottenuta la sua collaborazione, cercheremo d’isolarla ancora di più. L’ideale sarebbe indurla a seguirci fuori città, al nostro punto di ritrovo. E allora potremo usare le maniere forti per costringerla a vuotare il sacco» disse truce.
   «Tutto questo richiede tempo. Ne avremo abbastanza?» chiese Talyn, alludendo a Naskeel, che aveva i giorni contati.
   «Cominceremo subito. Conto su voi due... siete sempre stati bravi a trovare informazioni» disse il Capitano, rivolto a Losira e Talyn. «Stavolta dovrete superarvi. Combinatemi un incontro con quella donna... o qualunque cosa sia. Mi serve un incontro entro la settimana, ad ogni costo».
 
   Passarono un paio di giorni, di crescente nervosismo. Rivera temeva costantemente che la loro copertura saltasse, o che Naskeel si stancasse di restare nascosto e facesse qualche bravata. Ma non accadde nessuna delle due cose, finché una sera, rientrando in camera, trovò Losira ad attenderlo con aria trionfante. Anche Talyn, che l’aveva accompagnata durante la giornata, era lì.
   «Ho quello che cercavi!» disse la Risiana con aria trionfante. «Mi sono dovuta infiltrare in un gruppo di suffragette, ma... ecco qui!» disse teatrale, sbattendo un biglietto sul tavolino.
   Rivera lo raccolse e lo esaminò attentamente. «Un salotto letterario?» si meravigliò.
   «Sì, a quanto ho capito è una specie di club, dove gente ricca e annoiata si riunisce per parlare di letteratura. Romanzi, poesie, opere teatrali... cose del genere» confermò Losira. «È saltato fuori che sabato prossimo – tra due giorni – ci sarà una serata dedicata a Poe. È una specie d’autore horror, vissuto nella prima metà di questo secolo...».
   «Edgar Allan Poe... sì, il nome non mi è nuovo» annuì Rivera, anche se non era certo d’aver mai letto qualcosa di suo.
   «... comunque, sembra che Lady Vastra sia una frequentatrice di questo salotto e la sua presenza sabato prossimo è data per certa. Se vogliamo approcciarla in pubblico, è la nostra occasione» concluse Losira.
   «Bene, proprio quel che ci serviva!» approvò il Capitano. «Ma come funziona esattamente, serve un invito? Bisogna essere membri del club?».
   «Ho chiesto anche questo. Sembra che dei baroni come noi, essendo di passaggio, possano presentarsi senza un particolare invito. Comunque ho già diffuso la voce che siamo interessati a partecipare alla serata, quindi non piomberemo lì imprevisti. Se poi qualcuno dovesse trovarci importuni, pazienza. Confido che non ci cacceranno» sostenne la Risiana.
   «Sembra perfetto. Andiamo lì, facciamo i convenevoli, e alla prima occasione abbordiamo il bersaglio» rimuginò il Capitano. «Certo, dovremo stare attenti alle gaffe. Cerchiamo di mantenere un basso profilo e di parlare il meno possibile» raccomandò, squadrando i complici. Aveva un gran timore che combinassero dei pasticci, nel tentativo di strafare.
   «Ehi, stai parlando alla regina dei salotti di Risa!» ricordò Losira. «Prima dei miei guai, ero di casa in questi ambienti. In effetti vi ricordo che sono l’unica vera aristocratica fra voi!» rivendicò con un certo orgoglio. «Quindi penso di sapermi destreggiare. Alla fine è tutta questione di sorrisi e frasi di circostanza. E poi, Armando caro, sono vent’anni che aspetto l’occasione di passare nuovamente una serata nell’alta società. Non vorrai privarmene proprio ora, vero?» chiese in tono suadente.
   «Certo che no, Cenerentola. Ma bada che al rintocco della mezzanotte dovremo rientrare» ironizzò il Capitano, lasciandola interdetta. «Bene, abbiamo due giorni per prepararci al debutto in società. Per fare un po’ di scena dovremo arrivare in carrozza... ne prenoteremo una per la serata. E tu, per favore, trova una biblioteca e portaci qualcosa di Poe» si rivolse a Talyn. «Non possiamo presentarci del tutto digiuni dell’argomento».
   «Agli ordini, Barone!» fece il giovane, che si divertiva un mondo a restare nella parte. «Qualcosa mi dice che sarà una serata memorabile...». 
 

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Capitolo 4
*** Né bestie né uomini ***


-Capitolo 3: Né bestie né uomini
 
   Sotto una pioggerellina fine ma insistente, le carrozze si fermarono all’ingresso del salotto letterario. Gentlemen dal cappello a cilindro e ladies in raffinati abiti vittoriani ne discesero, spesso accompagnati da maggiordomi. Giunti al chiuso, lasciarono ombrelli e soprabiti, percorrendo il breve corridoio che portava al salotto vero e proprio. Per renderlo una degna cornice all’argomento della serata, era drappeggiato di nero. La luce baluginante veniva da candele nere, lunghe e sottili, solitamente destinate ai catafalchi. C’era persino un imponente orologio a pendola, che in quel contesto richiamava l’analoga pendola di un famoso racconto breve di Poe, La maschera della Morte Rossa. Fortunatamente la congrega era meno inquietante di quella del racconto, sebbene la maggior parte delle signore vestisse di nero, per restare in tema.
   Come da programma, gli invitati discutevano delle opere di Poe, spesso leggendo ad alta voce i brani più famosi, per poi commentarli. Col protrarsi della serata tendevano comunque a riunirsi in piccoli gruppi, sedendo comodamente sui divanetti o attorno ai tavolini. Ogni gruppetto chiacchierava di un’opera diversa, così che i nuovi arrivati potevano scegliere a quale conversazione unirsi. I camerieri passavano da un gruppo all’altro, offrendo rinfreschi.
   «Oh, è tutto così... pittoresco» commentò Losira, quando lei e Rivera fecero il loro ingresso. Molti si girarono a guardarli e li accolsero garbatamente, segno che la notizia del loro arrivo si era già diffusa.
   Il Capitano si augurò che non attirassero troppo l’attenzione. Il look di Losira era forse troppo avanguardistico, coi capelli a caschetto che ricordavano gli anni Venti del Novecento, più che l’età vittoriana. Ma per quello non c’era niente da fare, non avendo avuto tempo di farli crescere. In compenso si era talmente imbellettata da nascondere il fregio risiano sulla fronte, così da non attirare domande. Quanto a Rivera, aveva rinunciato a imitare le bizzarre barbe e baffi che vedeva in giro, preferendo rasarsi meglio che poteva. Fortunatamente, dopo i primi momenti di tensione, gli avventurieri si accorsero di mimetizzarsi piuttosto bene tra gli invitati. Anche Talyn li aveva accompagnati, sebbene avesse dovuto fermarsi in un’anticamera con altri maggiordomi e inservienti. Il Capitano sperò ardentemente che non si mettesse a rubare l’argenteria.
   Losira si guardava attorno, assaporando con un misto di gioia e rimpianto la vista dell’alta società, da cui era stata a lungo bandita. Gli arredi eleganti, gli abiti e i gioielli costosi, la conversazione raffinata... quella era la sua vita, prima di finire gettata su un’astronave di avventurieri. Certo, le differenze con l’aristocrazia a lei nota erano considerevoli. Una delle cose che avvertì subito fu lo strano odore di bruciato. Cercandone l’origine, si meravigliò nel vedere che molti dei presenti – in particolare gli uomini – stavano fumando.
   «Tutto a posto?» le sussurrò Rivera, mentre passeggiavano fra un tavolo e l’altro, cogliendo sprazzi di conversazione.
   «Sì... mi chiedo solo perché gli uomini hanno dei bastoncini fumanti in bocca» rispose Losira.
   «Di che parli? Ah, quelli... si chiamano sigari» riconobbe il Capitano. «Sigari, sigarette, pipe... in quest’epoca quasi tutti hanno il vizio del fumo. Si tratta d’inalare nicotina, una sostanza che da’ assuefazione. Non è tanto diverso dall’assumere una droga leggera».
   «Ma il fumo... voglio dire, le scorie della combustione... non gli fanno venire il cancro ai polmoni?!» si preoccupò la Risiana. Lei stessa era infastidita dal fatto di dover inalare il fumo passivo, di cui il salotto era saturo.
   «Suppongo di sì, ma all’epoca nessuno lo sapeva. E anche quando lo si scoprì, nel secolo successivo, la gente continuò a fumare per generazioni» sospirò l’Umano.
   «Quindi è una società in cui tutti gli uomini hanno abitudini cancerogene... non mi stupisco che si facciano governare da una donna» commentò Losira.
   Rivera ci mise un attimo a capire che parlava della regina Vittoria. Sorrise fra sé, ma non stette a spiegarle che non c’era alcun rapporto causa-effetto tra le due cose. Piuttosto si mise a cercare la Detective Velata. Erano lì solo per lei, e se non si fosse fatta vedere, significava aver perso due preziosi giorni.
   D’un tratto la vide. Lady Vastra era proprio come l’immaginava, statuaria nel suo abito vittoriano tutto nero, con un cappellino da cui pendeva uno spesso velo da lutto, che ne celava la fisionomia. Anche le mani erano coperte da guanti neri, così che non un centimetro della sua pelle era visibile. I presenti però sembravano abituati, tanto che nessuno la fissava. Lei stessa era del tutto a suo agio in quella compagnia. Sedeva su un divanetto, chiacchierando amabilmente con alcuni ospiti.
   «Certo che sotto quel velo può esserci di tutto» si disse Rivera, osservandola con la coda dell’occhio, per non rendere troppo evidente che la stava fissando. La sua voce era femminile, ma dal tono più profondo del normale, quasi rauco. Comunque la Detective Velata non sembrava anziana: la schiena era ben dritta, le mani prive di tremore.
   «Un bordeaux, signori?» offrì un cameriere, che passava tra i tavoli con un vassoio pieno di bicchierini.
   Rivera lo ignorò, ma non altrettanto fece Losira. «Volentieri» accettò la Risiana, che non vedeva l’ora di gustare qualche prelibatezza da aristocratici.
   «Attenta, questo non è sintalcool» l’avvertì il Capitano. Ci mancava solo che la sua dama si ubriacasse, sotto gli occhi di tutti.
   «Infatti è meglio!» commentò Losira, che aveva già dato una lunga sorsata. «Mmmhhh... ritiro tutto quel che ho detto su questo secolo. Una società che ha così buon gusto in fatto di bevande non può essere tanto male».
   «Sì, aspetta di sentire il dopo-sbornia» avvertì Rivera, deciso a rimanere ben sobrio.
   «Beh, eccola lì, la tua Detective Velata. Allora, prendiamo contatto?».
   «Con discrezione».
   I due ronzarono attorno ai divanetti, fingendosi interessati alla conversazione, finché fu uno dei presenti a invitarli: «I signori gradiscono unirsi a noi? Si parla di Poe come poeta, anziché come prosatore».
   «Volentieri. Vieni, cara» fece Rivera, facendo accomodare Losira prima di sederle accanto.
   «Oh, voi dovete essere quei famosi turisti che sono giunti qualche giorno fa!» trillò una degli ospiti, una grassa lady tutta ingioiellata. «Barone Von Rumpelstiltskin e consorte, non è così?».
   «Esatto, milady. Come avete indovinato, se posso chiedere?» fece Rivera, un po’ teso.
   «Oh, a questi ritrovi ci si conosce tutti, mentre lor signori sono certamente stranieri. E dall’inizio della settimana non si parla d’altro che del vostro sfortunato incidente» fu la risposta.
   «Sì, credo di parlare a nome di tutti facendovi le scuse per l’ignobile furto che avete subito nella nostra nazione» aggiunse un lord dalle basette così lunghe che si univano alla barba. «Vi garantisco che simili eventi sono rari, sul suolo di Sua Maestà».
   «Vi credo, infatti io e mia moglie non vogliamo lasciare che questo piccolo contrattempo ci guasti il tour. E da quando siamo a Londra, tutto si è svolto magnificamente» disse il Capitano, cercando d’adeguarsi alla parlantina colta degli altri. Fra sé e sé però malediceva la loro messinscena, che li aveva resi fin troppo famosi e riconoscibili.
   «Lieto di sentirlo. Mi permetto di dire che il vostro inglese è ottimo. Quasi non si sente l’accento tedesco» notò il lord.
   «Tutto merito degli studi, mein herr» fece Rivera, che avrebbe tanto voluto deviare la conversazione via da loro. Accanto a lui, Losira dette un’altra sorsata, vuotando il bicchiere. Un cameriere si affrettò a ritirarlo, e lei ne approfittò per prenderne un altro pieno.
   «Lady Dragomira, siete incantevole!» insisté la lady grassa, che sembrava davvero interessata agli ospiti. «Venite dalla Boemia, vero? Il vostro nome è tipico di quella zona» indagò.
   «Sì, proprio da lì. Avete visto assolutamente giusto, mia cara» annuì Losira, scolandosi la terza sorsata.
   «Ma davvero! Affascinante! E ditemi, come vanno le cose in Boemia?» s’interessò la lady.
   Rivera s’irrigidì, temendo il disastro.
   «Oh, come al solito... vanno molto bohémien!» ridacchiò Losira, ormai alticcia, e svuotò il secondo bicchiere.
   Gli ospiti si scambiarono qualche occhiata perplessa, ma nessuno volle insistere.
   «Ma naturalmente non siamo qui per parlare di noi, bensì del nostro comune interesse, a cui è dedicata la serata!» fece Rivera, cercando di salvare il salvabile.
   «Ma certo, il grande Poe» disse Lady Vastra. Era la prima volta che parlava, da quando i nuovi arrivati si erano uniti al gruppo. Di certo li aveva osservati attentamente, senza perdersi il minimo dettaglio. «Come stavo dicendo, tra le sue poesie apprezzo soprattutto Il corvo, per la sua riflessione sul tempo che inesorabilmente ci priva degli affetti. E voi, Barone, diteci: qual è la poesia che preferite?» indagò. Dietro il tono cortese s’intuiva un che di provocatorio, persino di beffardo. Lo stava mettendo alla prova... e non si aspettava che lui la superasse.
   Rivera dette una rapida occhiata a Losira, che aveva le guance imporporate dal vino, e capì che da lì non gli sarebbe venuto alcun aiuto. Del resto la domanda era stata rivolta espressamente a lui. Si spremette le meningi, cercando di ricordare qualcosa di ciò che aveva letto a razzo in quei due giorni. Purtroppo erano quasi tutti racconti in prosa... non si aspettava d’essere interrogato anche sulle poesie. Si sentì di nuovo come uno scolaretto che fa scena muta, con la differenza che stavolta non rischiava un brutto voto, ma la rovina per sé e i compagni. A un tratto però gli tornò in mente una poesia di Poe. «Direi Le campane, milady. Ho apprezzato il graduale passaggio dai temi più gioiosi, delle campane da slitta e di quelle nuziali, a quello più concitato delle campane dei pompieri, fino ai solenni versi dedicati alle campane funebri».
   La risposta fu accolta da commenti positivi, con gli ospiti che aggiungevano le loro considerazioni. Quanto a Vastra, era impossibile vedere la sua espressione sotto il velo nero. Ma il Capitano immaginò che fosse livida.
   «Ottima scelta, Barone» si congratulò la Detective Velata. «Sarei troppo insistente se le chiedessi quali versi in particolare vi hanno più interessato?» lo sfidò.
   Sentendo gli sguardi nuovamente su di sé, Rivera si concentrò al massimo. In effetti c’era una manciata di versi che gli erano rimasti impressi nella memoria. «Ve li reciterò volentieri, milady. Spero solo che perdonerete la mia dizione straniera» si schermì. Quindi prese a recitare:
 
E la turba – ah, la turba
che infesta solitaria
l’alta torre campanaria
dove suona, suona, suona
il rintocco disperato,
trae gioia dallo schiacciare
sotto un masso il cuore umano.
Non è fatta di persone, quella turba indemoniata:
non son bestie e non son uomini;
sono i ghoul della torre sventurata[1].
 
   Un educato applauso seguì la declamazione, ma Rivera non aveva ancora finito. Voleva essere lui a sfidare la Detective, per saggiarne la reazione. «I ghoul, se non erro, erano creature del folklore mediorientale che dissotterravano i corpi nei cimiteri per cibarsene. Curioso come il pensiero umano corra sempre ad esseri che non sono né bestie né uomini, vero? Vale a dire, esseri non di questo mondo. È come se fossimo predisposti a incontrarli. Come se qualcosa, nella nostra psiche, ci dicesse che sono reali e vicini... tanto vicini da poterci parlare faccia a faccia» insinuò.
   Per qualche momento la Detective rimase zitta sotto al velo nero. Poi parlò in tono affabile, come se sorridesse. «Interessante punto di vista, Barone. Lei è certo un profondo conoscitore dell’argomento. In effetti Poe s’interessò alla cosmologia, che in lui si saldava con l’occulto e l’esoterismo. Scrisse anche delle interessanti riflessioni sull’argomento. Nel suo saggio Eureka ipotizzò che l’Universo abbia avuto origine dalla frammentazione di una particella primitiva. Una sorta di... big bang, se mi perdona il termine rozzo. Teoria affascinante, vero?».
   «Oh, sì. Sono certo che se ne parlerà a lungo» convenne Rivera. Era frustrante non poter vedere Lady Vastra in faccia, ma le sue parole suggerivano una conoscenza scientifica più avanzata del dovuto. Del resto, in casa sua c’era una sorgente di tachioni compatibile con una navicella temporale; che altre prove servivano?
 
   Dopo questo scambio, la conversazione di gruppo riprese, tornando nei binari della letteratura. Rivera non parlò molto, e nemmeno Lady Vastra. Tuttavia si sorvegliarono a vicenda, da un divanetto all’altro. E quando la Detective Velata lasciò il gruppo, anche il Capitano si disimpegnò dalla conversazione. Presa a braccetto Losira, ormai piuttosto brilla, seguì Vastra e la raggiunse prima che uscisse. «Permette una parola, milady?» l’apostrofò.
   «Ma certo» fece lei, girandosi di scatto. Il brusco movimento fece ondeggiare il velo. Per una frazione di secondo, a Rivera parve di vedere qualcosa di verde... ma forse era uno scherzo della luce incerta.
   «So che lei ha fama di grande detective. E che si assume casi – ehm – poco ortodossi. Lei, d’altro canto, ha sentito della rapina che abbiamo subito fuori città...» esordì il Capitano. Ma dovette interrompersi, perché Vastra ridacchiava.
   «Questa fantomatica rapina è forse la cosa meno interessante sul vostro conto, signori» disse la Detective Velata. «Parliamoci chiaro: metà dei presenti vi considera truffatori professionisti e l’altra metà teme che siate spie del Kaiser. Sarà meglio per voi se riuscirete a convincermi del contrario. Altrimenti avrete grossi problemi a lasciare la città» avvertì.
   Gli avventurieri si scambiarono un’occhiata innervosita. «Veramente speravo di lasciarla proprio con voi, milady. Se ci accompagnate al luogo dell’incidente, tra qui e Kingston, potreste trovare tracce che convalidano la nostra testimonianza. Magari perfino indizi per scovare i colpevoli» propose Rivera, sempre sperando d’isolarla per poi sopraffarla.
   «Oh, quindi insistete con la vostra versione? D’accordo, accetto il caso» disse inaspettatamente Vastra. «Ma prima d’ispezionare il sito voglio interrogarvi. Giusto per farmi una prima idea della situazione».
   Al Capitano non sfuggì il tono autoritario che la detective aveva adottato, ora che parlavano privatamente. Non era più tempo di sorrisi e buone maniere. «D’accordo, ma interrogherà il mio maggiordomo. Tra noi è quello che ha la memoria migliore» ribatté. «Ed è più preparato contro trabocchetti e intrusioni mentali» aggiunse fra sé.
   «Se insiste... lo porti qui» disse Vastra, sedendo a un tavolino isolato.
   Rivera fece per lasciare il salotto, ma si accorse che Talyn era già entrato, ponendosi accanto alla porta, e li aveva osservati fino a quel momento. «Ah, eccoti. La detective ha accettato il caso, ma vuole interrogare uno di noi prima di seguirci fuori città. Te la senti?» gli chiese.
   «Farò quanto necessario» annuì l’El-Auriano. «Ma ho l’impressione che Vastra sia lievemente telepatica. Non tanto da leggerci i pensieri, ma potrebbe percepire la menzogna» avvertì.
   «Ahi, questo complica le cose» mormorò il Capitano, temendo d’essersi già smascherato. «Forse è meglio filare, finché possiamo...».
   «No, ho detto che lo farò» disse Talyn con determinazione. Si fece avanti e sedette innanzi alla detective. I due si studiarono per qualche momento. Più discosto, Rivera si chiese se il giovane riuscisse in qualche modo a vedere attraverso il velo nero.
   «Possiamo cominciare» disse a un tratto Vastra.
   «Sì, milady. Tutto è iniziato quando...» fece Talyn, ma la detective lo zittì subito con un cenno deciso.
   «Non amo i monologhi, giovanotto. Le menzogne sono fatte di discorsi lunghi e convoluti, mentre la verità è breve e semplice. Quindi risponderai alle mie domande con una sola parola. Non due o tre: una sola. Mi sono spiegata?» fece la detective.
   Rivera aggrottò la fronte, sul punto di richiamare il giovane amico. Quello strano modo d’interrogare lo inquietava. Ma Talyn fissò la detective con aria penetrante, quasi potesse vedere oltre il velo, e rispose «sì». C’era una certa sicurezza nella sua voce, tanto che il Capitano decise di lasciarlo fare.
   «Prima domanda: siete davvero stranieri?» chiese Vastra.
   «Sì».
   «Venite da lontano?».
   «Sì».
   «E intendete tornarci?».
   «Sì».
   A questo punto Vastra cambiò tono, di nuovo come se sorridesse. «Adesso ti farò una domanda sciocca, ma... non posso evitarla. Siete delle spie?».
   «No».
   «Siete qui per qualche ragione illecita?».
   «No».
   «Siete qui di vostra spontanea volontà?».
   Talyn esitò a rispondere e Rivera gli segnalò di dire , o sarebbe parso troppo strano. Ma il giovane preferì non mentire, considerando che l’altra lo avrebbe percepito. «No» rispose.
   La detective tacque brevemente e il Capitano temette che sarebbe andata dritta a denunciarli. Invece restò seduta. «Dunque siete stati condotti qui contro la vostra volontà» disse adagio.
   «Sì» ammise Talyn.
   «E avete problemi a tornare?».
   «Sì».
   «E pensate che io possa aiutarvi?».
   «Sì».
   «Pensate che dovrei aiutarvi?» chiese Vastra, con crescente interesse.
   «Sì».
   «Perché?!» chiese la detective. Non era una domanda a cui si potesse rispondere sì o no, tuttavia Talyn si attenne alle disposizioni. Rispose con una sola parola.
   «Equilibrio» disse.
   «Equilibrio di cosa?» mormorò Vastra.
   «Tutto» rispose il giovane, criptico.
   In quella la pendola cominciò a battere la mezzanotte. Le conversazioni si smorzarono durante i numerosi e forti rintocchi. Vedendo che anche la detective taceva, Rivera si fece avanti, deciso a fermare l’interrogatorio. «Spero perdonerà il mio giovane maggiordomo... a volte ha una fervida immaginazione. Del resto le sue strane domande devono averlo disorientato» disse.
   «Ho chiesto quel che dovevo. Ora devo solo... rifletterci sopra» disse la detective, in procinto di ritirarsi.
   «Purtroppo il tempo non è dalla nostra» avvertì il Capitano. «Se vogliamo fare quel sopralluogo fuori città, dobbiamo sbrigarci. Sarebbe meglio domani stesso».
   Vastra esitò, presagendo la trappola. Tuttavia dette il suo assenso, tanto da accordarsi per il sopralluogo. «Arrivederci a domani... Barone Von Rumpelstiltskin» disse con palese ironia. «Le do un consiglio: se dovesse perdersi di nuovo, scelga un nome che attiri di meno l’attenzione».
   «Potrei dirle lo stesso, Lady Vastra. Anche il suo nome sembra... piovuto da un altro mondo» disse Rivera, giocando ormai a carte scoperte.
   «Oh, si sbaglia di grosso. Io sono nata qui» assicurò la detective. «E lei?».
   «Sì e no, milady. Purtroppo la verità non è sempre così semplice da riassumersi in una sola parola. A domani, allora» raccomandò il Capitano. Prese a braccetto Losira, che era sempre alticcia, anche se per fortuna si era contenuta. E lasciarono il salotto letterario, seguiti da Talyn. La carrozza li avrebbe riportati in breve all’albergo.
   Lady Vastra restò seduta a lungo, ignorando le altre conversazioni, tutta concentrata su quello strano incontro. Se non aveva preso un abbaglio, c’era sotto qualcosa di veramente grosso. L’invito fuori città naturalmente era una trappola... del genere che bisogna far scattare, per proseguire l’indagine. Presa la decisione, la detective si alzò, recandosi svelta all’uscita. Aveva urgente bisogno di radunare la sua gang.
 
   Per tutta la durata del viaggio di ritorno, il Capitano restò in silenzio. Non voleva che il cocchiere li sentisse parlare. Ma quando la carrozza li lasciò davanti all’albergo, affrontò Talyn. «Allora, che ti è preso? Non avresti dovuto rispondere a quelle domande. Non in modo sincero, almeno!» lo rimproverò.
   «Mi spiace, ma credo che Vastra avrebbe percepito la menzogna e si sarebbe insospettita» si giustificò il giovane.
   «E con le risposte che lei hai dato, corroborate dalla sincerità, non pensi che sia ancora più sospettosa? Hai praticamente confessato che le nostre identità sono false!» accusò Rivera.
   «Con tutto il rispetto, ma credo che l’avesse già intuito. È una detective, non una sprovveduta. Così almeno ho tenuto alto il suo interesse» spiegò Talyn. «E poi avevo la sensazione che le cose dovessero andare così. Che solo in questo modo avremmo fatto dei progressi».
   «E per una sensazione hai rischiato che quella ci denunci a Scotland Yard?!» fece il Capitano, ancora arrabbiato.
   «Beh, è stato lei a dirmi che devo fidarmi delle mie sensazioni. Me lo ha ripetuto per anni. Cos’è, adesso che ho iniziato a farlo, d’un tratto ha cambiato idea?!» protestò l’El-Auriano.
   «Ha ragione, sai...» fece Losira.
   «Tu non intrometterti!» la zittì Rivera. Poi si rivolse nuovamente a Talyn. «Ascolta, giovanotto. È vero, ti ho consigliato io di fidarti del tuo istinto. Ma sono pur sempre il tuo Capitano. E quando ti do un ordine, mi aspetto che sia eseguito, anche se non concordi. Ti avevo fatto cenno di non rispondere a Vastra e sono certo che tu mi abbia visto. La prossima volta che ci troveremo in una situazione del genere, esigo che ti attenga agli ordini, è chiaro?!» intimò. Forse era l’agitazione a renderlo così severo. La serata non era andata come previsto, gli pareva di aver perso il controllo della situazione. Fatto sta che in quel momento sentiva di dover dare una strigliata all’El-Auriano.
   «Chiarissimo, signor Barone» rispose Talyn, sarcastico. «Le ricordo però che lei non ha più una nave, e nemmeno un equipaggio, quindi dubito che possa ancora definirsi Capitano. E ora, se vuole scusarmi, mi ritiro negli alloggi della servitù, che sono assai meno confortevoli dei vostri. Buonanotte a entrambi!». Salutò brevemente con la mano, poi girò sui tacchi ed entrò nell’albergo.
 
   Rimasto solo con Losira, il Capitano si chiese se aveva sbagliato qualcosa. Era stato troppo severo? Oppure troppo poco? Non riusciva a decidersi. Sapeva solo che le cose gli sfuggivano di mano e che presto potevano finire tutti in cella. O persino sul patibolo.
   «Gli passerà, vedrai. Domattina sarà quello di sempre» disse Losira, comprensiva, mentre anche loro entravano nell’albergo. «Mi aiuteresti con le scale? Ho la vista un po’ sdoppiata» ammise, barcollando.
   «Ti avevo detto d’andarci piano coi beveraggi. A quanto pare nessuno mi ascolta» sospirò Rivera. La prese a braccetto, aiutandola a salire le scale fino alla loro camera. «Almeno ti sei divertita, a rivedere l’alta società?» chiese quando furono dentro.
   «Oh, sì! Mi sono sentita proprio come ai vecchi tempi!» annuì la Risiana, con aria sognante. «Lussi, abiti eleganti, conversazione raffinata... quanto mi mancavano queste cose. E devo ammettere che sei stato un ottimo cavaliere!» ridacchiò, scalciando via le scarpe. Era ancora sotto gli effetti dell’alcool, tanto che barcollò in mezzo alla camera.
   «Beh, grazie. Adesso però fatti una bella dormita, eh? Domani andiamo fuori città e dobbiamo essere ben svegli» raccomandò il Capitano. Cercò d’indirizzarla verso il letto, nella speranza che prendesse subito sonno e smaltisse la sbornia.
   Losira però fece resistenza. Si divincolò dalla sua presa e quando lui la lasciò andare, temendo di farle male, lo fissò con uno strano sguardo. Era un sorriso a metà fra l’avvinazzato e il malizioso. «Spiegami una cosa, Capitano... perché io e te non siamo mai “partiti in curvatura”, se capisci cosa intendo?» buttò lì.
   Era la domanda che l’Umano temeva, tanto che sulle prime cercò di glissare. «Sei ubriaca, non è il caso di parlarne...» borbottò.
   «Proprio perché sono ubriaca è il caso di parlarne. Altrimenti non ne parleremo mai, e sarà un enorme peccato» obiettò Losira, con voce impastata. «Allora, mi vuoi rispondere? Cos’è che ci ha trattenuti?».
   «Francamente non saprei» rispose il Capitano con cautela. «Per carità, lo vedo che sei una bella donna, raffinata e tutto quanto, ma ho l’impressione che non siamo compatibili di carattere. Pensa solo a quanto bisticciamo in plancia... figurati come sarebbe nel privato. Comunque è un po’ tardi per pensarci, ora che sono impegnato con Giely». Aveva bisogno di ricordarlo a se stesso, non meno che a lei.
   Losira parve indignata da quelle parole. «Impegnato? Fino a prova contraria, non si può essere “impegnati” con chi vive in un altro secolo. E Giely non è ancora nata, bello mio. Probabilmente non la rivedremo mai più. Per come la vedo io, sei libero come l’aria» argomentò.
   «Non dirlo nemmeno per scherzo!» s’incupì Rivera. «Certo che torneremo nella nostra epoca... abbiamo già una traccia».
   «La Detective Velata? Ma per favore! Io e te resteremo nel passato a lungo, forse per sempre. Non è da escludere che il nostro finto matrimonio diventi vero. Prima o poi dovrai mettere un anello qui, per non attirare sospetti!». Così dicendo la Risiana alzò la mano destra, mostrando l’anulare, ancora privo di fede nuziale.
   «Uhm, non sono ancora così disperato» borbottò il Capitano.
   «Disperato?! Attento a come parli, hombre! Altrimenti mi sentirò autorizzata a divorziare e cercare migliori opportunità altrove» minacciò Losira. «Sono certa di potermi ritagliare una vita dignitosa in questa società» sostenne.
   «Come no. Resterai qui e diventerai Coco Chanel. Talyn probabilmente diverrà Albert Einstein, o forse Nikola Tesla. E io... bah, probabilmente finirò i miei giorni alcolizzato in qualche bar latinoamericano. Proprio un bel quadretto!» fece Rivera con amarezza.
   A queste parole, Losira assunse un tono più comprensivo. «Suvvia, Armando, perché dovrebbe andarti così male? Sei sul tuo pianeta, in un secolo primitivo... hai un sacco d’opportunità. Abbiamo un sacco d’opportunità, se restiamo uniti. Pensaci! Qui tutti si spostano ancora con quelle orribili bestiacce...».
   «Intendi i cavalli?».
   «Sì, esatto. Sporche creature, sono certa che la gente non vede l’ora di liberarsene!» esclamò la Risiana, che non aveva ancora fatto pace con la razza equina. «È una società in procinto d’enormi cambiamenti, dobbiamo solo approfittarne. Possiamo inventare l’automobile e l’aeroplano, e vivere da nababbi per il resto dei nostri giorni!» gongolò.
   «Ottima idea. Ci pensi tu a stendere il progetto di un’automobile? Io ho scordato i dettagli» ironizzò il Capitano.
   «Bah, che ci vuole a disegnare un motore a scoppio? Possiamo chiederlo a Talyn, lui ci riuscirebbe di sicuro» sostenne Losira. In fondo lo aveva visto fare cose decisamente più complesse. «Può funzionare, ti dico! Possiamo arricchirci tutti e tre!» insisté.
   «Già, noi e il nostro maggiordomo» sospirò Rivera, ricordando che Talyn si stava già stancando di quel ruolo. E non aveva tutti i torti. «Ribadisco che non sei tagliata a vivere nel passato. Adesso ti sembra un’avventura, ma andando avanti continueresti a lamentarti per la mancanza delle comodità moderne. Diamine, in quest’epoca si muore ancora di colera. E nei prossimi decenni ci saranno due guerre mondiali. Per questo dico che dobbiamo fare almeno un tentativo con Vastra, prima d’arrenderci».
   «Okay, facciamolo, giusto per metterti il cuore in pace» sospirò Losira. «In caso di fallimento, resto in attesa del mio anello, “signor Barone”. È il requisito minimo per consentirti di pernottare nel mio letto, anziché sul divano. E sia detto per inciso, non sai cosa ti perdi. Buonanotte!» esclamò. E si lasciò cadere lunga distesa sul giaciglio, ancora con l’abito da sera addosso.
   Quando Rivera si avvicinò per controllare, la Risiana dormiva già della grossa.
 
   La mattina dopo Losira sembrava nuovamente in sé, salvo un certo mal di testa, che cercò di smaltire con un’abbondante dose di caffè. Non accennò alla discussione della sera prima; Rivera sperò che se ne fosse dimenticata. Anche Talyn sembrava tornato di buon’umore, forse perché aveva il pensiero rivolto alla nuova missione. Bisognava attirare Vastra fuori città e costringerla a vuotare il sacco sulla sua identità, e su ciò che accadeva in casa sua. Era più che sufficiente a tenere la mente occupata.
   Come da accordi, gli avventurieri noleggiarono una carrozza. Fu Talyn a fare da cocchiere, dato che a differenza di Losira aveva una naturale empatia con gli animali. E poi non volevano che degli estranei fossero testimoni di ciò che sarebbe accaduto fuori città. Procurata la carrozza, i naufraghi del tempo passarono a prendere Lady Vastra a casa sua. La Detective Velata era sempre vestita di nero, col viso coperto. Salì agilmente in vettura, rifiutando l’aiuto del Capitano. Con una mano si tenne ben stretto il cappellino, per evitare che il movimento le scoprisse il volto. Ma Rivera era ben deciso a vederla in faccia, entro la fine della giornata.
   «Siete solo voi, Lady Vastra? Pensavo che almeno il vostro maggiordomo vi avrebbe accompagnata» notò il Capitano, che avrebbe tanto voluto vederlo.
   «Strax ha delle commissioni da sbrigare. Per un’ispezione sul campo basto io» rispose la Detective Velata.
   Il viaggio fu silenzioso, dato che né gli avventurieri, né la loro accompagnatrice volevano ancora scoprire le carte. La città di Londra scorse attorno a loro: prima le affollate vie del centro, poi la periferia piena di fabbriche già in funzione, con le ciminiere fumiganti. Losira si premette un fazzolettino sul naso, insofferente al fumo. Poteva capire le fabbriche, che erano necessarie a produrre un’infinità di beni. Ciò di cui ancora non si capacitava era che in quel secolo la gente avesse delle mini-ciminiere portatili... i famigerati “sigari” di cui le aveva parlato Rivera. Forse era vero che non si sarebbe mai adattata a quell’epoca intossicata.
   «Sono curiosa... come avete assunto il vostro maggiordomo?» chiese a un tratto Lady Vastra, approfittando del fatto che Talyn conduceva la carrozza e non poteva sentire.
   «Oh, è con noi fin da quand’era molto giovane. Praticamente è di famiglia. Vi sembra strano?» ribatté Losira.
   «Per niente. So cosa significa essere... di famiglia coi propri aiutanti» rispose Vastra, di nuovo con quel tono che faceva pensare a un sorriso.
 
   Ben presto gli avventurieri si lasciarono alle spalle la periferia di Londra, costeggiando il Tamigi lungo la via per Kingston. Era la stessa strada che avevano percorso all’inverso, quasi una settimana prima. Stavolta però il cielo era nuvoloso, segno che forse avrebbe piovuto. Gradualmente il traffico di carrozze e pedoni attorno a loro diminuì, finché svoltarono in un vialetto. Ed ecco apparire prima il campanile, poi il resto della chiesa abbandonata. Sotto quel cielo grigio e smorto aveva un’aria triste. Il vento si era fatto sostenuto, tanto da agitare le cime degli alberi, e l’aria era umida, segno che il temporale si avvicinava.
   «Siamo arrivati, signori» avvertì Talyn. Si guardò attorno, verificando che fossero soli. Era così: non c’erano altri esseri umani in vista, complice l’acquazzone in arrivo. Solo un puntino stazionario nel cielo indicava che Ottoperotto li stava sorvegliando. Soddisfatto, il giovane fermò la carrozza e saltò giù dalla postazione del cocchiere. Dopo di che aprì la portiera, invitando i passeggeri a scendere.
   «Prima le signore» disse il Capitano, preparandosi alla resa dei conti.
   La prima scendere fu Lady Vastra. Seguirono Losira e infine Rivera, che si guardò attorno, verificando l’assenza di testimoni.
   «Bene, ora possiamo finalmente parlare con franchezza» disse la Detective Velata.
   «Altroché!» fece il Capitano, con aria minacciosa. «Per prima cosa, lei si toglierà quel velo e ci dirà chi è realmente. Perché ho ragione di credere che stia prendendo in giro tutti, con la sua messinscena».
   «Dritto al sodo, eh? E se non volessi accontentarla?» chiese Vastra, per nulla intimorita.
   I tre avventurieri si scambiarono un’occhiata d’intesa. Poi entrarono in azione. Talyn afferrò la detective, bloccandole le braccia dietro la schiena. Losira le strappò di mano la borsetta, nel caso ci nascondesse un’arma. Rivera infine le strappò il cappellino, e con esso il velo nero, mettendole a nudo il volto.
   «Caramba, è una lucertola!» imprecò nel vederla.
   Il viso di Lady Vastra era innegabilmente rettiliano. La pelle appariva dura e scagliosa, di un verde brillante, e non c’era traccia dei padiglioni auricolari. Solo gli occhi erano simili a quelli umani, con le iridi azzurre. Il cranio si prolungava all’indietro, formando una triplice cresta ossea, piuttosto vistosa senza il cappellino. Nel complesso somigliava a una Voth, o anche ai Jem’Hadar, sebbene alcune differenze morfologiche suggerissero che apparteneva a una specie a sé stante.
   «Il termine esatto è Siluriana» spiegò Vastra, senza scomporsi.
   «E ha avuto la faccia tosta di dirci che è nata qui!» sbottò il Capitano.
   «Questa è la pura verità. Sono nata da queste parti, circa 65,9 milioni di anni fa, al termine del periodo Cretaceo» confermò la Siluriana. «All’epoca la mia specie, evoluta dai dinosauri, dominava la Terra, con una tecnologia più evoluta di quella che attualmente hanno gli Umani. Ma quando ci fu la grande estinzione, dovemmo ibernarci nel sottosuolo... e lo restammo più a lungo del previsto. Mi sono svegliata pochi anni fa, durante la costruzione della metropolitana di Londra. Un bello shock, devo dire. Ero l’unica superstite del mio popolo, quindi ho dovuto adattarmi. E voi, invece? Quanti di voi possono definirsi Terrestri come me?» li provocò.
   «Solo io» ammise il Capitano. «Comunque la sua storia è difficile da credere. Sarebbe più logico pensare che lei sia un’aliena, scesa sulla Terra...».
   «... per far cosa, aiutare Scotland Yard?» ridacchiò Vastra. «Se avessi una vita più interessante di questa, ci tornerei. A proposito, le spiace se mi sgranchisco le braccia?». Così dicendo la Siluriana si liberò con facilità dalla stretta di Talyn, che fu spinto all’indietro e si ribaltò a terra. Vastra ne approfittò per sgusciare di lato e poi indietreggiare, così da avere tutti gli avventurieri sott’occhio.
   «Attenti, è forte come una Gorn!» avvertì Talyn, rialzandosi. Si massaggiò le braccia indolenzite, conscio che Vastra gliele avrebbe spezzate, se solo avesse voluto.
   «L’altra possibilità è che lei sia una viaggiatrice del tempo» proseguì il Capitano in tono controllato. «Questo spiegherebbe perché c’è una sorgente di tachioni a casa sua. Allora, vuole spiegarci cos’è che nasconde?!».
   A questa domanda la Siluriana, che finora aveva mantenuto la calma, s’incupì all’improvviso. «Finora le ho risposto per cortesia, non per necessità. Ma sono io la detective, ed è tempo di porre le domande».
   «Ah, quindi è davvero una detective? E che casi ha risolto, sentiamo?» la sfidò Rivera.
   «Beh, ad esempio ho acciuffato Jack lo Squartatore» rivendicò Vastra.
   «Niente meno! A me risulta che non sia mai stato preso...» cominciò Rivera, ma poi ricordò che quella era pur sempre una realtà alternativa. «...comunque mi dica, com’era?».
   «Un po’ stopposo, ma nel complesso gustoso» rispose la Siluriana. Sorrise, mettendo in mostra i denti affilati.
   «Signore, ho il sospetto che sia carnivora» sussurrò Talyn.
   «Sì, è venuto anche a me il sospetto» mormorò Rivera, arretrando di un passo. Quella creatura era più pericolosa del previsto.
   «Bene, come dicevo ora tocca a me fare le domande» riprese Vastra. «Tanto per cominciare, chi siete e da dove venite?».
   «Dobbiamo ancora rispondere con una sola parola?!» fece Talyn, sarcastico.
   «Stavolta avete il permesso – anzi, l’obbligo – d’essere più dettagliati» chiarì la detective.
   «E se non volessimo farlo?» si rabbuiò il Capitano.
   «Temo che non avrete scelta» ribatté Vastra, senza più traccia d’umorismo. Adesso era decisamente minacciosa. Intanto Losira aveva frugato nella sua borsetta, in cerca d’armi, ma non ne aveva trovata nessuna.
   «Pensi bene a ciò che fa» l’avvertì Rivera. «Lei sarà anche forte, ma è da sola...».
   «Cosa glielo fa credere?» rispose la Siluriana, accennando un sorriso. Era il sorriso gelido dello scacchista che sta per fare scacco matto. «Strax, Jenny, adesso!» gridò.
   Dalla boscaglia, dov’erano appostati, emersero il maggiordomo e la governante di Vastra. Si gettarono sugli avventurieri, che per un attimo rimasero spiazzati dalla sorpresa. Jenny Flint, la governante, era una giovane donna dai capelli castani, con l’abito vittoriano dal colletto alto. Ma Strax, il maggiordomo, non sembrava umano. Aveva un aspetto grottesco: basso e tarchiato, con le spalle larghe come un armadio e la testa glabra, su cui spiccavano le orecchie a sventola. Il volto era come sprofondato nel testone troppo grosso, che a sua volta affondava in un collo ancora più grasso, dandogli una forma conica. In compenso era vestito in modo impeccabile, con giacca e cravatta.
   «Fermi, signori. Non tentate la fuga, o sarete obliterati» dichiarò Strax, con un vocione baritonale. Dovendo scegliere un bersaglio, si diresse con decisione contro Talyn. «Da maggiordomo a maggiordomo, ti ordino la resa». Così dicendo lo agguantò per il collo, sollevandolo da terra senza il minimo sforzo.
   «In realtà io – cough – non sono un maggiordomo!» boccheggiò il giovane, cercando di liberarsi dalla stretta d’acciaio.
   «Davvero? Nemmeno io» rispose l’alieno, tenendolo sollevato.
   «E cosa sei, uno della Gerarchia?!» rantolò Talyn, notando la somiglianza con una famosa specie del Quadrante Delta. Ma quella era un’altra realtà...
   «Appartengo al popolo dei Sontarani, i più grandi guerrieri dell’Universo. Tu mi sembri gracile, ragazzo. Ti offro la possibilità di brandire un’arma, così potrò massacrarti in modo onorevole» propose Strax.
   «No grazie, pensò che sventolerò bandiera bianca» gracchiò Talyn, ormai mezzo svenuto.
   «Oh, che disdetta» borbottò il Sontarano, e lo lasciò cadere a terra.
   Intanto gli altri membri della gang non erano rimasti a guardare. Vastra si scagliò contro Rivera e in un attimo lo immobilizzò al suolo, sebbene questi fosse in ottima forma fisica e avesse grande esperienza di combattimento. Il Capitano si scosse con tutte le sue energie, nel tentativo di liberarsi.
   «Le consiglio di non fare sciocchezze sull’onda della rabbia. Vede, la rabbia è sempre la via più breve per gli errori, e lei ne ha già fatti fin troppi» avvertì la Siluriana, tenendolo ben fermo.
   Rimasta sola, Losira esitò, incerta su chi aiutare. Prima di poter decidere, dovette difendersi dall’assalto di Jenny Flint. Pur non avendo la forza inumana dei suoi gregari, la governante sfoggiò una sorprendente conoscenza delle arti marziali. Attaccò Losira con una serie di colpi rapidi e precisi, senza darle il tempo di reagire. In pochi attimi la Risiana si trovò ignominiosamente placcata al suolo, con Jenny che la teneva ben ferma.
   «Tutto sotto controllo, milady» sorrise la governante.
   «Ne ero certa, mia cara» ricambiò Vastra, che a sua volta bloccava il Capitano.
   «Milady, è certa che non possa massacrare costui? Nemmeno un pochino?» chiese Strax, accennando a Talyn semisvenuto.
   «No, e non puoi nemmeno staccargli un pezzetto da tenere come ricordo» sospirò Vastra, con l’aria di chi deve ripetere spesso questo discorso.
   «Boh, non capisco che gusto ci sia allora» mugugnò il Sontarano.
   «Allora, signor “Barone”» disse la Siluriana, riportando l’attenzione sul Capitano. «Come vede siamo in molti, qui, a non essere né bestie né uomini» citò.
   «Sì, ho notato. Se lei discende dai dinosauri, Strax da chi discende? Dai porcelli?!» mugugnò Rivera. La presa della Siluriana era così salda che temeva di sentire il suo braccio spezzarsi, ma neanche allora rinunciò alle provocazioni. «E mi dica, signorina Flint, lei almeno è umana? Perché ci terrei a non essere il solo, qui...».
   «Sono umana, se le fa piacere saperlo. Ma non creda di poter esercitare un qualche ascendente su di me!» ridacchiò Jenny.
   «Ora basta» disse Vastra. «Signori, è il momento di rispondermi. Chi siete, e cosa vi ha condotto qui? Badate che sono in grado di percepire le menzogne. E se sentirò puzza di bugia, le conseguenze saranno spiacevoli».
   «Invece se saremo sinceri ci lascerete andare?» chiese Losira.
   «Certo che no. Ma sappiate che finire nelle patrie galere è sempre meglio che restare in mano a Strax» avvertì la detective.
   «Okay, ho sentito abbastanza. Qui urge la cavalleria» gemette Rivera, sempre più indolenzito. Prese a fischiare: era il segnale convenuto.
   «La cavalleria? Che intende?!» domandò Vastra, stringendolo ancora più forte.
   «Lei non è venuta da sola... e nemmeno noi. Adesso sì che vedrà né bestie né uomini» ridacchiò il Capitano, per quanto fosse paonazzo.
   Lady Vastra si guardò attorno, inquieta. La risposta non si fece attendere. Dalla chiesa diroccata emerse Naskeel, che aveva osservato lo scontro, facendosi un’idea degli avversari. Il Tholiano caricò contro di loro, muovendosi sulle sei zampe alla velocità di un cavallo al galoppo. Puntò dapprima su Strax, che alla sua vista impugnò una pistola, fino ad allora celata in tasca. Ma Naskeel, che impugnava già il phaser, sparò per primo, colpendolo in pieno petto. Il Sontarano s’irrigidì, arrovesciò gli occhi e crollò al suolo. Talyn si rialzò subito, recuperando la pistola.
   Naskeel deviò allora contro Lady Vastra, che però si fece scudo col Capitano.
   «Fa’ un altro passo e spezzo il collo all’Umano!» minacciò la Siluriana.
   «Se lei nuocerà all’Umano, io ucciderò i suoi collaboratori, a partire dalla femmina» ribatté freddamente Naskeel, puntando il phaser alla testa di Jenny Flint.
   «Le conviene dargli ascolto. Lo conosco da anni, e non l’ho mai visto scherzare o bluffare» avvertì Rivera.
   Vastra scambiò una lunga occhiata con Jenny. Infine, con un sospiro, lasciò andare l’ostaggio. Il Capitano si allontanò subito, massaggiandosi il collo e il braccio indolenzito. Naskeel invece si fece avanti e afferrò la Siluriana per il collo, sollevandola da terra. Aveva indebolito il proprio campo di forza, così che la sua presa era rovente. Vastra boccheggiò, agitandosi a mezz’aria nel vano tentativo di liberarsi dalla stretta soffocante e ustionante.
   «No, lasciatela respirare!» si disperò Jenny. Così facendo si distrasse, allentando la stretta su Losira, e questa ne approfittò per divincolarsi. Le dette un pugno in faccia e si rialzò. Jenny era pronta a contrattaccare, ma si trovò una pistola puntata alla schiena. Era la pistola di Strax, ora in mano a Talyn.
   «Buona, o potrebbe sfuggirmi un colpo. E se ho ben capito, questi affari non hanno lo stordimento» minacciò l’El-Auriano. A questo punto anche Jenny dovette arrendersi.
   «Bene, ora sì che ragioniamo» fece Rivera, ancora un po’ ansante.
   «Vuole che uccida la cedevole detective?» chiese Naskeel, alludendo alla Siluriana che si dibatteva nella sua stretta incandescente.
   «Questo complicherebbe l’interrogatorio» ironizzò il Capitano. Poi si rivolse alla prigioniera. «Vede, signora lucertola, tutto quel che voglio è qualche risposta da parte sua. Se farà la brava, ve la caverete tutti. Anche il vostro porcello in giacca e cravatta, che è solo stordito. Ehm, l’ha solo stordito, vero Naskeel?» chiese, colto dal sospetto.
   «Il phaser era regolato su stordimento» confermò il Tholiano. «Non conoscendo la sua specie, non rispondo di eventuali incidenti».
   «Oh, starà benone. I Sontarani sono resistenti» commentò Jenny, e infatti Strax si mosse leggermente, pur non essendosi ancora risvegliato.
   «Ottimo. Come dicevo, rispondete alle domande e ve la caverete» riprese il Capitano. «Cominciamo da lei, Vastra. La interrogherei io stesso, ma il mio Ufficiale Tattico è particolarmente tagliato per il lavoro. Pensi che l’ho informato del suo stile, e l’ha apprezzato così tanto da decidere di farlo proprio» aggiunse, con un sorrisetto sadico.
   Naskeel mollò Vastra, che si accasciò boccheggiando e palpandosi la gola ustionata. Fortunatamente le scaglie l’avevano in gran parte protetta dal calore. «Siccome i discorsi lunghi e convoluti sono ingannevoli, mentre la verità è breve e semplice, lei risponderà alle mie domande con una sola parola. Non due o tre: una sola. Mi sono spiegato?» chiese il Tholiano, tenendola sotto tiro col phaser.
   La detective lo fissò torva, ma dovette piegarsi, anche perché riconosceva la sua intimidazione che le tornava indietro. «Sì» cedette.
   «Di bene in meglio. Ma prima leviamoci da questo spiazzo. Staremo molto meglio lì dentro» aggiunse Rivera, accennando alla chiesa diroccata. Non voleva che qualche passante li vedesse, scatenando il putiferio. E poi stavano cominciando a cadere le prime gocce di pioggia, avvisaglie di un acquazzone coi fiocchi. «Su, svelti. Non sapete che una confessione fa bene all’anima? E scommetto che almeno due di voi non l’hanno mai fatta!» infierì.
   Sotto la minaccia delle armi, Vastra e Jenny furono costrette a entrare. Rimaneva Strax, che si rialzò stropicciandosi gli occhietti porcini e si guardò attorno confuso. «Cos’è successo? Abbiamo vinto?» grugnì.
   «Certo, avete vinto il permesso di tenere le mani alzate e fare tutto quel che vi diciamo» ghignò il Capitano, che aveva ripreso il suo phaser.
   «Onta e disonore. Potrete aver vinto quest’oggi, ma un giorno morirete in agonia per la gloria dell’Impero Sontarano» promise Strax, sempre con quel vocione baritonale.
   «Mettetevi in fila e prendete un numero. Ci sono parecchi imperi che mi vogliono morto. E ora dentro!» ordinò Rivera, agitando il phaser.
 
   All’interno la chiesa diroccata era semibuia, per via delle poche e sottili finestrelle. C’erano tre navate, divise da colonne. I banchi in legno erano marciti e corrosi dai tarli, mentre la zona dell’altare era disadorna. Qua e là vi erano grandi ragnatele, a confermare lo stato d’abbandono. I passi dei visitatori risuonarono sul pavimento di pietra, coperto di polvere. In quella luce incerta e polverosa, creature fantastiche si affacciavano dai capitelli, dove ignoti scalpellini del Medioevo li avevano scolpiti. Chimere, ibridi tra umani e bestie, anche qualche angioletto. In altre circostanze Rivera li avrebbe apprezzati, ma ora gli ricordavano spiacevolmente il motivo per cui erano finiti in quell’epoca.
   «Frell, riuscirò a guardare una statua senza chiedermi se quella mi sta fissando a sua volta?» si chiese. Anche quando aveva visto Trafalgar Square, con la colonna di Nelson, aveva avuto il timore che i quattro leoni bronzei della base si animassero e gli saltassero addosso. Almeno questi erano fregi e bassorilievi, fusi coi capitelli e le pareti; non sembravano in grado di staccarsi e andarsene in giro...
   Quando furono tutti dentro, il Capitano fronteggiò i tre ostaggi, lasciando passare qualche momento, per far salire la tensione. In realtà non intendeva ucciderli, e nemmeno torturarli, men che meno in chiesa. Ma per la riuscita della missione doveva incutergli una certa soggezione. Il che non era facile, specialmente con gli alieni. «Sono tutti suoi, Naskeel. Cerchi di non rovinarli troppo, per il momento» disse.
   Il Tholiano si fece avanti, fronteggiando Vastra. «Lei e i suoi aiutanti siete Agenti Temporali?» inquisì.
   «Cosa... no!» fece la detective, ricordando in extremis la regola della risposta breve.
   «Siete viaggiatori del tempo a qualunque titolo?».
   «No».
   «Ma in casa vostra c’è una sorgente di raggi tachionici. Si tratta di una macchina del tempo?» incalzò Naskeel. Dato che la Siluriana esitava a rispondere, fece per agguantare Jenny con la sua presa incandescente.
   «Sì!» cedette Vastra.
   Il Capitano sentì il cuore battergli forte. Era la conferma che non si erano affannati per niente: c’era davvero la speranza di tornare sulla Destiny.
   Naskeel ritirò la mano, prima di ustionare Jenny. «Lei detiene una macchina del tempo, ma non la usa. E non sembra neanche l’artefice, se non altro perché il suo lavoro di detective la tiene troppo occupata» disse a Vastra. «Dunque ci sono tre possibilità. Prima: lei ha trovato la macchina, dopo che il legittimo proprietario l’ha persa o è morto. Seconda: lei ha rubato la macchina, dopo aver incapacitato o ucciso il proprietario. Terza: lei sta custodendo la macchina su richiesta del proprietario, che prima o poi verrà a riprenderla. Quale delle tre corrisponde a verità?».
   «Terza» rispose la Siluriana a malincuore.
   Gli avventurieri si scambiarono delle occhiate innervosite. Sebbene le alternative fossero più brutali, tutto sommato le avrebbero preferite. Perché se il proprietario era ancora in circolazione, allora poteva sorprenderli in ogni momento. Questo complicava molto le cose. Se sopraffare quei tre era stato difficile, farlo col vero viaggiatore del tempo poteva rivelarsi impossibile.
   «Caramba, ci sono più alieni qui che in uno stadio federale!» bofonchiò il Capitano. «Okay, lasciamo perdere il giochetto delle risposte brevi» tagliò corto, rivolgendosi direttamente a Vastra. «Siamo dei naufraghi del tempo; tutto quello che vogliamo è tornare nella nostra epoca. Nel XXVII secolo, ad essere precisi. Non è solo nel nostro interesse, ma anche nel vostro, perché ogni momento che passiamo qui rischiamo d’interferire con la Storia. Che ne dice?».
   Vastra sgranò gli occhi. «Facevate meglio a dirmi subito come stavano le cose!» esclamò. «Ci saremmo risparmiati questo inutile scontro».
   «Beh, non sapevo se fidarmi di lei. In effetti non lo so ancora. Non ho garanzie che ci abbia detto la verità» notò Rivera. «So solo che siete degli alieni che si fingono umani, e vi siete infiltrati in questa società, e custodite una macchina del tempo che può creare disastri. Quindi preferisco essere io a controllare la situazione, piuttosto che affidarmi al vostro buon cuore. Ora ci accompagnerete alla macchina e la userete per riportarci al futuro. Se avete detto la verità, nessuno si farà male e alla fine potrete tornare indietro».
   «I Sontarani non cedono ai ricatti; meglio la morte» obiettò Strax.
   «Parla per te!» rimbeccò Jenny. «Milady, sembra una proposta ragionevole. Ci accorderemo, vero?!» esortò.
   «Sì, se è l’unico modo di risolvere la situazione» cedette Vastra. «Quindi provenite dal futuro? E di grazia, come avete fatto a smarrirvi in quest’epoca?» indagò.
   «Questo non la riguarda» fece il Capitano, che non voleva rivelare i loro problemi.
   «Mi riguarda eccome, visto che ci avete presi in ostaggio!» obiettò la Siluriana. «Ci sono altri come voi che potrebbero fare lo stesso? E se non siete qui di vostra spontanea volontà, chi vi ha mandati? E perché?!».
   Rivera non avrebbe voluto rispondere, ma pensò a Giely e al resto dell’equipaggio. Chissà se si erano salvati, o se i finti angeli li avevano presi, spedendoli in altre epoche. Forse era il caso di consultarsi, finché poteva. Così al ritorno avrebbe affrontato quelle creature con più cognizione di causa.
   «Beh, è una strana faccenda» ammise. «Sappiate che in realtà sono il Capitano Rivera, della nave stellare Destiny. Questi sono alcuni dei miei ufficiali: la Comandante Losira, il Tenente Naskeel e il Guardiamarina Talyn» rivelò, accennando ai compagni. «Stavamo trasportando un carico di reperti storici terrestri, che col tempo si erano dispersi su altri mondi, di nuovo sulla Terra. E nel carico c’erano delle statue simili ad angeli, con le ali e tutto quanto. Angeli in pose luttuose, come quelli che ornano i cimiteri» disse, accennando al camposanto che si estendeva su un lato della chiesa.
   A queste parole Vastra si allarmò, ma non interruppe il resoconto. Piuttosto ascoltò con ancor più attenzione. Lasciò che il Capitano spiegasse come si erano trovati in quarantena nell’orbita terrestre, com’erano iniziate le misteriose sparizioni, e come infine avessero scoperto che i responsabili erano proprio i presunti angeli.
   «... lo so, detto così sembra folle» concluse Rivera. «Ma considerando che mi rivolgo a degli alieni che vivono nella Londra vittoriana, forse non è la cosa più folle che mi sia capitata di recente».
   «Lei non è impazzito, Capitano» disse Vastra. «Gli esseri di cui ha parlato, quelli simili a statue... io li conosco» rivelò.
   «Davvero? Eppure nemmeno le autorità terrestri del XXVII secolo li hanno riconosciuti come una minaccia. Lei come fa a conoscerli?» s’interessò Rivera. Era la prima volta che trovava qualcuno informato sull’argomento, ed era ben deciso a farsi dire tutto.
   «Beh, non li ho mai incontrati di persona» ammise la Siluriana. «Me ne ha parlato il Dottore».
   «Quale dottore?».
   «Dottor Who».
   «È quello che le ho chiesto io. Quale dottore?!» ripeté il Capitano, iniziando a spazientirsi.
   «Non ha capito, è quello il suo nome. O almeno il suo nomignolo. Non so se qualcuno abbia mai scoperto il suo vero nome... forse non lo ricorda nemmeno lui» spiegò Vastra. «Così lo chiamiamo semplicemente “il Dottore”. È lui che viaggia nel tempo, assieme alla sua assistente. E sono stati loro ad affidarmi la capsula, mentre sono in missione. Dove siano di preciso non lo so, mi hanno detto solo di custodirla per qualche giorno».
   «Senti, senti... perciò questo Dottore sarebbe un Agente Temporale del futuro?».
   «È un Signore del Tempo del pianeta Gallifrey. Ma di fatto sì, è una specie di custode temporale» rivelò la Siluriana. «Come dicevo, è stato lui a parlarmi di quelle creature, per mettermi in guardia se mai le avessi incontrate. Nessuno conosce le loro origini, ma il Dottore li chiama Angeli Piangenti».
   «Termine calzante. Quindi cosa sono? Cosa vogliono? Perché ci hanno spediti qui?!» incalzò Rivera. Se l’era chiesto incessantemente, in tutti quei giorni.
   «Quelli non sono come gli altri esseri viventi che può incontrare nelle profondità del cosmo» avvertì Vastra, scuotendo la testa. «Il Dottore dice che sono antichi come l’Universo stesso, o quasi, e sono le più spaventose creature che l’evoluzione abbia mai prodotto. Nella loro forma abituale sembrano inoffensivi... null’altro che statue di pietra... ma è solo un mascheramento, diciamo un tipo di mimetismo. In effetti possono imitare la forma e le dimensioni di qualunque statua, dai cherubini barocchi alla Statua della Libertà. Se osservati stanno immobili, ma altrimenti si spostano, e anche in fretta, tanto da percorrere diversi metri in un batter d’occhio. Sono pressoché invulnerabili, e tanto forti da poter sfondare i muri».
   Gli avventurieri ascoltarono con attenzione, sempre più preoccupati. Da quando s’erano smarriti nel Multiverso ne avevano viste di tutti i colori, ma questa era la minaccia più incredibile con cui si fossero mai confrontati.
   «Da come parla, sembra che stia descrivendo il comportamento di una particella subatomica, che agisce in modo diverso a seconda che sia osservata o meno» notò Talyn.
   «In un certo senso è così. Il Dottore dice che gli Angeli non sono né vivi né morti, ma appartengono a un regno a parte» proseguì Vastra. «Per darvi un’idea di quanto siano estranei alle nostre categorie mentali, sappiate che possono proiettarsi attraverso le immagini».
   «Sarebbe a dire?» chiese Losira.
   «Significa che qualunque ritratto di un Angelo, come un disegno fatto dal vivo o anche una registrazione video, ne genera uno nuovo» avvertì la Siluriana. «E se fissate troppo a lungo un Angelo Piangente negli occhi, imprimendovi la sua immagine nella mente, ecco che quell’immagine mentale crescerà e prenderà vita. Prima assumerà il controllo del vostro corpo, poi vi ucciderà e uscirà dal cadavere, manifestandosi come un nuovo Angelo Piangente».
   «Se non li avessi visti all’opera, stenterei a crederci» mormorò il Capitano, ricordando come quelle creature si erano mosse in un batter d’occhio. «Ma continuo a non capire perché ci hanno spediti indietro nel tempo. Cosa ci guadagnano?».
   «Loro non cercano ricchezza o potere» spiegò Vastra. «L’unica cosa di cui hanno bisogno è nutrirsi. Altrimenti si consumano e si erodono, fino a somigliare ai calchi di Pompei. E il loro nutrimento è molto particolare. Si cibano d’energia temporale, spedendo nel passato le loro prede... che continuano a vivere nella nuova epoca, come voi... e divorano gli anni che la vittima avrebbe vissuto nel presente» rivelò.
   Gli avventurieri rimasero allibiti. «In tutti i miei viaggi, non ho mai sentito di creature con queste capacità. E anche dopo averli visti in azione, stento a credere che sia questo il loro movente» mormorò Rivera.
   «La cosa più simile che conosco sono i Devidiani, che viaggiano nel tempo per nutrirsi dell’energia vitale di chi muore nel passato. Ma spedire indietro le vittime, per nutrirsi degli anni che vivrebbero nel presente... è un potere inconcepibile» aggiunse Talyn.
   «Liberi di non crederci, ma vedrete che gli Angeli agiscono proprio così. Ad esempio uccidono di rado, malgrado la loro enorme forza, perché gli farebbe sprecare l’energia potenziale che altrimenti consumerebbero» spiegò Vastra. «Qualche volta il Dottore li ha anche visti assorbire l’energia elettrica dalle lampadine o da altri dispositivi elettronici, ma probabilmente lo fanno solo per far calare il buio, così da potersi avventare sulle prede».
   «Quindi se li incontrassimo anche in quest’epoca...» mormorò il Capitano.
   «Vi spedirebbero ancora indietro, e poi ancora, fino alla preistoria» confermò la Siluriana.
   «E noi resteremmo sempre uniti? Voglio dire, non ci spedirebbero ciascuno in un’epoca diversa, e magari anche in differenti parti del mondo?» chiese Rivera, sempre pensando a Giely.
   «Sembra di no... in genere quando attaccano un gruppo lo tengono unito» rispose Vastra, sovrappensiero. «Forse è l’unica “cortesia” di cui sono capaci, così che le vittime si adattino meglio alla nuova epoca. Comunque sono implacabili nella loro ricerca di nutrimento. Se si trovano in un luogo chiuso, come la vostra astronave, non si fermeranno finché ci saranno esseri viventi da cacciare. E la cosa peggiore è che non ci si libera mai di loro. Il Dottore sostiene che si trovino Angeli Piangenti praticamente in ogni epoca e su ogni pianeta, camuffati di volta in volta secondo lo stile artistico locale. E siccome sono praticamente eterni, e tendono ad aumentare col tempo, mentre spediscono indietro le loro vittime... forse in un remoto futuro resteranno solo loro nell’Universo».
 
   Ci fu un lungo silenzio, mentre gli avventurieri ruminavano le nuove informazioni. Quanto detto da Vastra era difficile da credere, eppure combaciava con quanto avevano potuto osservare degli Angeli e del loro comportamento. Questo non faceva che accrescere le preoccupazioni del Capitano per il resto dell’equipaggio. Dovevano tornare sulla Destiny, e al più presto. Alzando gli occhi alle finestre, Rivera notò che all’esterno s’era fatto buio, sebbene si fosse ancora in pieno giorno. I nuvoloni temporaleschi si erano addensati e in lontananza rimbombavano i tuoni. Accidenti al clima di Londra, sempre piovoso...
   «Okay, milady, ci avete raccontato una bella storia gotica» disse il Capitano. «Forse è vera, forse non lo è. Comunque a me preme tornare sulla Destiny. Allora, siete disposta a darci un passaggio sulla macchina del tempo di questo vostro amico Dottore? Altrimenti potete presentarci direttamente a lui» propose.
   «Così cercherete di catturare anche lui, per paura di un rifiuto? Non vi andrebbe bene» avvertì Vastra. «Intanto torniamo a casa mia. A quel punto decideremo come procedere. Oh, a proposito... come contate di portare lui senza dare nell’occhio?» chiese, accennando a Naskeel.
   «Quella macchina può spostarsi da un luogo all’altro, oltre che nel tempo?» indagò Rivera.
   «Certo. Comunque il termine “macchina del tempo” è impreciso. Il Dottore si arrabbierebbe, se vi sentisse usarlo. Per l’esattezza si tratta di un Time And Relative Dimensions In Space, detto TARDIS. O anche Time Travel Capsule, o Capsula TT» precisò la Siluriana.
   «Vada per TARDIS» approvò Rivera. «Benone, allora lo useremo prima per tornare qui a raccogliere Naskeel, e poi torneremo tutti quanti sulla Destiny. Infine decomprimeremo la stiva 3 e spediremo quei maledetti Angeli a fluttuare nello spazio» stabilì, dirigendosi a grandi passi verso l’uscita. «Ah, finalmente le cose cominciano ad andare per il verso giusto! Sbrighiamoci, prima di beccarci il temporale. Con un po’ di fortuna, sarà tutto finito entro sera...».
   Così dicendo il Capitano spalancò il portone di legno mezzo marcio. E balzò indietro, col cuore che martellava dal terrore. Perché l’uscita era bloccata da parecchi Angeli, alcuni in atteggiamento piangente, altri già nella posa demoniaca. Se ne stavano immobili nella semioscurità, battuti dalle prime gocce di pioggia. Alla luce livida dei lampi, Rivera vide che erano decine, e altri ancora accorrevano dal vicino cimitero. Dopo aver atteso con pazienza che gli avventurieri tornassero, gli Angeli Piangenti si stavano radunando per banchettare. 
 
 
[1] E. A. Poe, Le campane, quarta strofa. 

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Capitolo 5
*** Angeli e demoni ***


-Capitolo 4: Angeli e demoni
 
   «Sono qui fuori! A decine!» rantolò il Capitano, trovandosi davanti alla selva di artigli protesi. Gli Angeli Piangenti si erano bloccati nel momento in cui erano entrati nel suo campo visivo, ma non c’era dubbio che intendessero entrare.
   «Continuate a guardarli!» raccomandò Vastra. «Ma cercate di non fissarne troppo a lungo uno solo negli occhi, o accadrà quel che vi ho detto. Teneteli bloccati alla porta... se entrano è la fine. Ricordate che gli basta un battito di palpebre per scattare in avanti».
   «Io non ho palpebre. Posso fissarli per un tempo indefinito» ricordò Naskeel, facendosi avanti per averli bene in vista.
   «Eccellente. Lei, Capitano, richiuda la porta. Ma stia attento a non farsi toccare!» raccomandò la detective.
   «Miseriaccia...» fece Rivera, sentendo il sudore colargli lungo la fronte. Aveva il phaser, ma ricordava che si era rivelato inefficace contro gli Angeli sulla Destiny. Del resto anche Vastra gli aveva confermato che erano pressoché invulnerabili. Così non restava che chiuderli fuori. Afferrò la porta mezza marcia e la richiuse, mentre gli Angeli erano bloccati dallo sguardo di Naskeel. Slam. Ecco, erano fuori... ma il Capitano non ne fu affatto rincuorato. Sapeva che avrebbero sfondato senza difficoltà il vecchio portone. E chissà che non ci fossero altri ingressi, nella zona della sagrestia.
   «Mi deve ancora spiegare perché si bloccano. Capisco che all’inizio sia funzionale al mimetismo, ma adesso? Ormai si sono smascherati, lo sappiamo che sono predatori! Che senso ha continuare a immobilizzarsi?» chiese l’Umano alla Siluriana.
   «Questo è uno degli aspetti più misteriosi degli Angeli» ammise Vastra. «Si chiama blocco quantistico. Nessuno sa perché, ma gli Angeli sono costretti a immobilizzarsi se qualcuno li guarda. Non è qualcosa che possono controllare, succede anche contro la loro volontà».
   «Un predatore che si paralizza se viene visto dalla preda resterà spesso a digiuno» commentò Talyn.
   «Nel caso degli Angeli non è così, visto che si muovono fulminei se cala l’oscurità, o se si sbattono le palpebre» corresse la detective.
   «Comunque è una grossa debolezza. Dobbiamo sfruttarla a nostro vantaggio» disse Rivera.
   «C’è dell’altro: il blocco quantistico funziona anche se gli Angeli si guardano in faccia tra di loro» rivelò Vastra. «In tal caso restano bloccati per sempre. È proprio per evitare questo rischio che tendono a coprirsi il volto con le mani. Da qui la falsa impressione che siano piangenti».
   «E io che pensavo fossero lacrime di coccodrillo» commentò il Capitano. «Allora, come ne usciamo?».
   «Non guardi me... la mia conoscenza degli Angeli Piangenti è puramente accademica» si schermì Vastra. «Le ho detto ciò che sapevo, ma non significa che abbia pronta la soluzione. A logica, comunque, direi di cercare un’uscita secondaria nella sagrestia».
   «Un guerriero Sontarano non fugge dinanzi al pericolo» obiettò Strax.
   «Ancora questa storia? Ti ricordo che sei stato degradato a infermiere, e poi hai giurato di servirmi!» gli rammentò Vastra.
   «Sì, a volte lo dimentico» ammise Strax, tornando ad ammansirsi.
   «Se ne usciamo vivi, dovrete raccontarmi tutta la storia» fece Rivera, intrigato. «Okay, vada per la porticina sul retro. Ma chi resta qui a trattenere gli angioletti?».
   «La logica impone che sia io» rispose Naskeel.
   «Stia attento. Anche se non ha palpebre, potrebbero prenderla alle spalle dopo che ce ne saremo andati» avvertì Talyn.
   «In tal caso mi metterò con le spalle al muro e attenderò che torniate col TARDIS» ribatté Naskeel, impassibile.
   «Sei coraggioso» riconobbe Strax. «Spero di rivederti, così potremo lottare fino alla morte per dimostrare il nostro valore».
   «Che ha questo qui? Sembra uno della Gerarchia che s’è mangiato un Klingon» borbottò il Capitano, infastidito.
   «Non so di chi parla, ma non si preoccupi. Strax parla tanto di battaglie, ma in realtà è un pacioccone» sostenne Vastra.
   Lasciato Naskeel a guardia dell’ingresso, il gruppo attraversò in fretta la navata, mentre da fuori balenavano i lampi e rombavano i tuoni. La pioggia aveva iniziato a scrosciare, infiltrandosi nella chiesa diroccata. Giunti nel presbiterio, gli avventurieri si guardarono attorno finché videro la porticina che conduceva alla sagrestia. Il Capitano impugnava ancora il phaser, ma dopo gli ultimi chiarimenti non si curava più di tenere sotto tiro Vastra e i suoi gregari. Sfuggire agli Angeli aveva la precedenza. Del resto, senza quei tre, difficilmente avrebbe potuto manovrare il TARDIS. «Su, svelti!» ordinò, lasciandoli passare per primi. Poi andarono Talyn e Losira, e solo da ultimo il Capitano li seguì.
   Percorsa la sagrestia, piena di polvere e ragnatele, il gruppo individuò la porticina che conduceva all’esterno. Jenny afferrò la maniglia, tirando convulsamente, ma non riuscì ad aprirla. Allora si fece avanti Strax, che abbatté il vecchio uscio con una spallata. «No, aspett...!» fece Vastra, ma era troppo tardi.
   Il Sontarano indietreggiò, davanti alla folla di Angeli Piangenti accalcati all’esterno. Anche qui erano abbastanza numerosi da bloccare completamente l’uscita. «Ci hanno preceduti» ammise.
   «Sì, e tu hai buttato giù la porta, brutto testone gonfio!» lo rimproverò Losira.
   «Gli Angeli l’avrebbero abbattuta in ogni caso. Ricordate quanto sono forti» sospirò Vastra.
   In preda a rabbia e frustrazione, il Capitano aprì il fuoco col phaser. Centrò l’Angelo più vicino in pieno volto, alla massima potenza. Come sulla Destiny, l’attacco non sortì alcun effetto. L’Angelo era sempre lì, il suo viso di pietra dal sorriso beffardo non era nemmeno scheggiato.
   «È meglio risparmiare l’energia» consigliò Talyn. «Se ci prendono, e ci spediscono indietro di altri settecento anni...».
   «... stavolta finiamo nel Medioevo, e tanti saluti» borbottò Rivera.
   Per un attimo l’oscurità fu così fitta che persero di vista gli Angeli accalcati all’ingresso. Quando un fulmine li illuminò di nuovo, erano avanzati di un bel tratto. Adesso avevano sembianze demoniache, con le bocche spalancate irte di zanne e le mani artigliate protese a ghermire le prede.
   «Ritirata» mormorò il Capitano. «Qui è troppo buio, non possiamo trattenerli. Torniamo nella navata, lì almeno c’è qualche finestra».
   Il gruppo dovette arretrare, sempre tenendo d’occhio gli Angeli. Ogni tanto, nei momenti di maggiore oscurità, questi scattavano in avanti, guadagnando interi metri in un batter d’occhi. E poiché nulla li faceva indietreggiare, ogni stanza abbandonata era una stanza impossibile da riconquistare. Gli avventurieri tornarono quindi nella navata, dove trovarono Naskeel che teneva ancora l’ingresso principale. Gli Angeli avevano abbattuto il vecchio portone, così che solo lo sguardo del Tholiano gli impediva di dilagare all’interno.
   «Mi spiace, ma dal retro non si passa. Ci sono Angeli ovunque, siamo assediati» ammise Rivera. «A questo punto dobbiamo stare qui e resistere. Vastra, lei ha detto che gli Angeli possono buttar giù un muro... vale anche per muri come questi?» disse, accennando alle spesse pareti in pietra.
   La detective esitò, scambiando un’occhiata con Jenny. Fu lei a rispondere. «Siamo in una chiesa romanica. Erano dette “fortezze di Dio” per la loro robustezza. Per quanta forza abbiano quei mostri, stento a credere che possano abbatterla» disse.
   «Okay, siamo ottimisti e diciamo di dover sorvegliare solo i due ingressi» concesse il Capitano. «Il problema è che fa sempre più buio. E se il temporale durerà fino a notte, allora sarà la fine. Dobbiamo fare luce».
   «Niente di più facile» disse Jenny, accennando alle numerose candele votive ancora allineate lungo le pareti.
   «Qualcuno ha un accendino? O dei fiammiferi?» chiese Rivera alla gang di Vastra. «Andiamo, con tutti i fumatori accaniti che ci sono in questo secolo, uno di voi deve averne!».
   La detective e la sua domestica fissarono Strax, che imbarazzato cavò un pacchetto di fiammiferi dalla tasca.
   «Bene, accendete le candele. Mi raccomando, non sprecate fiammiferi. Usatene uno per accendere le prime candele, e poi usate quelle per propagare il fuoco alle altre» raccomandò il Capitano. Lui rimase a custodire l’ingresso della sagrestia, impedendo alle creature di dilagare.
   Il resto del gruppo si affrettò a eseguire, passando da un candelabro all’altro, finché la navata fu rischiarata dai lumi votivi. Ora gli Angeli erano visibili, persino se all’esterno fosse calata l’oscurità completa. Già, ma c’erano abbastanza candele per andare avanti tutta la notte? Considerando lo stato d’abbandono della chiesa, il Capitano temeva di no. E a parte questo, sarebbero riusciti a trattenere gli Angeli? Naskeel poteva farlo con quelli accalcati all’ingresso principale, ma gli altri sarebbero riusciti a bloccare quelli che premevano dalla sagrestia? Bastava un battito di palpebre per farli dilagare nella navata. Certo, il rischio si riduceva se due o più persone li fissavano assieme, perché era improbabile che chiudessero gli occhi nello stesso istante. Ma prima o poi poteva accadere. E c’era l’altro rischio paventato da Vastra: se avessero fissato troppo a lungo lo stesso Angelo, rischiavano di generarne un altro nella propria mente...
   «Allora, come superiamo lo stallo? Nessuna idea?» chiese Rivera ai compagni che lo avevano affiancato.
   «Io ne ho una. Datemi un leggio» disse inaspettatamente Losira.
   Assicuratosi che gli altri continuassero a respingere gli Angeli, fu Talyn a muoversi. Andò a prendere un leggio di legno, su cui un tempo era posata la Bibbia durante i sermoni, e lo trascinò verso i compagni. Poiché faticava a spostare il pesante arredo, Strax venne ad aiutarlo. Il Sontarano afferrò il leggio, sollevandolo senza sforzo, e lo pose proprio davanti all’ingresso della sagrestia.
«E adesso?» chiese.
   «Adesso state a guardare» fece Losira con uno strano sorriso. Aprì la sua borsetta, che aveva ancora con sé, estraendone uno specchietto che usava per truccarsi. Lo collocò attentamente sul leggio, accertandosi che fosse rivolto verso gli Angeli, e indietreggiò. «Credo che possiate smettere di fissarli, ora» disse. «Il loro riflesso dovrebbe trattenerli, se questa storia del blocco quantistico è vera».
   «Ingegnoso» riconobbe Vastra. «Il riflesso di un Angelo è esso stesso un Angelo, quindi sono bloccati per sempre».
   «Solo finché quello specchietto resterà in posizione» corresse la Risiana. «Dobbiamo comunque cercare il modo d’andarcene».
   «È pur sempre un progresso. Ottima pensata» si congratulò Rivera. Finalmente poté smettere di fissare gli Angeli accalcati alla porta. Si guardò attorno, verificando la situazione di stallo. Naskeel tratteneva le creature da un lato, lo specchio dall’altro, e le candele evitavano che con l’oscurità queste si liberassero. L’equilibrio reggeva, per il momento... ma non avrebbe retto a lungo. E il tempo, purtroppo, era dalla parte degli Angeli. Losira aveva ragione, bisognava trovare una via di fuga.
 
   Sebbene si fosse nel primo pomeriggio, l’oscurità continuava a infittirsi per via del temporale. Raffiche di vento schiantavano i rami circostanti e s’infilavano nelle strette finestre della chiesa diroccata, ululando lugubremente. La pioggia scrosciava, scendendo a rivoli dai gargoyle e filtrando dal tetto malmesso. Insieme, le folate di vento e le infiltrazioni d’acqua minacciavano di spegnere le candele da cui dipendeva la sorte degli assediati. Molte si erano già spente, tanto che Jenny e Losira dovettero costeggiare la navata per riaccenderle.
   «Qui è come combattere la marea. Dobbiamo inventarci qualcosa al più presto!» rincarò la Risiana, vedendo spegnersi i ceri che aveva appena riacceso.
   «Maledette creature. Se solo potessi toccarle...» grugnì Strax, stringendo i pugni sino a farli scricchiolare.
   «Non servirebbe a niente, dato che sono invulnerabili» ricordò Vastra.
   «Allora vediamo com’è il loro baricentro!» ringhiò il Sontarano. Afferrò un pietrone, staccatosi dalla parete diroccata, e con la sua gran forza lo scagliò contro l’Angelo più vicino. Thud. L’essere fu rovesciato all’indietro, in una posizione da cui non sembrava potersi rialzare, a meno di rivelarsi assai più flessibile della pietra.
   «Ehi, magari possiamo rovesciarli tutti come birilli!» notò il Capitano, pur non credendoci molto. E infatti la sua speranza fu subito delusa. Nel tempo che impiegò a battere le palpebre, l’Angelo si era rialzato, assumendo la posa terrifica, con la bocca irta di zanne e gli artigli protesi. Si era però nuovamente bloccato, trovandosi innanzi al suo riflesso.
   In quella si udirono dei lenti rintocchi di campana. Provenivano indubbiamente dal campanile della chiesa. Don... don... don...
   «Beh, c’è ancora il campanaro?!» si stupì Rivera.
   «Sarà il vento che agita le campane» ipotizzò Talyn.
   «Non so... a me sembra un ritmo preciso» mormorò Jenny, sempre più atterrita. «Sono... le campane che suonano a morto!» riconobbe, il viso esangue.
   Ora che lo aveva detto, anche Rivera riconobbe il ritmo funereo. Si chiese se fossero gli Angeli Piangenti a suonarle, per richiamare i loro simili. Quante di quelle creature si erano adunate attorno a loro? Quante altre ce n’erano, a Londra e dintorni? Quante su tutta la Terra? Non osava pensarci. Tuttavia, mentre l’oscurità cresceva e le campane suonavano a morto, non poté fare a meno di ricordare i versi di Poe che lui stesso aveva citato a Vastra. Quanto suonavano profetici adesso! C’era davvero una turba indemoniata che infestava la torre campanaria e si apprestava a schiacciare tutti loro. Né bestie, né uomini, gli Angeli Piangenti aspettavano il minimo cedimento per ghermirli. E fatalmente...
   Una raffica di vento più violenta delle altre s’insinuò nella navata, spegnendo gran parte delle candele. Fece ondeggiare persino il leggio su cui era posato il piccolo specchio. Fu così che lo specchietto scivolò e cadde sul pavimento di pietra, frantumandosi. Nelle tenebre incombenti, gli Angeli Piangenti avanzarono ad ogni battito di palpebre. Ormai avevano invaso la navata e non c’era modo di ricacciarli indietro. Gli avventurieri dovettero indietreggiare, ma così non potevano più riaccendere le candele estinte. E l’oscurità s’infittiva, in un circolo vizioso che li spinse sempre più indietro, fino a Naskeel.
   «Non avete resistito a lungo» commentò il Tholiano, con vaga disapprovazione. Lui invece non s’era mosso di un millimetro da quando lo avevano lasciato a guardia dell’ingresso principale.
   «Che vuole che le dica... lo spirito è pronto, ma la carne è debole» mormorò Rivera. «Ci serve un’idea, di quelle che funzionano, se non vogliamo ritrovarci ai tempi di Robin Hood».
   «Io ne ho una» rivelò il Tholiano. «Ci serve un diversivo che trattenga gli Angeli, e credo di sapere chi può procurarcelo. Exocomp 64 a rapporto!» ordinò, premendosi il comunicatore.
   Ottoperotto accorse prontamente, dato che già da qualche minuto era sceso di quota, avendo rilevato la situazione di pericolo. Entrò da una finestra sbrecciata, e per questo abbastanza larga da farlo passare. La sua superficie era lucida di pioggia, ma il robottino per progettato per resistere all’acqua, tanto che all’occorrenza poteva operare in ambienti subacquei. Sorvolò gli Angeli Piangenti e in pochi attimi fu accanto all’Ufficiale Tattico.
   «Puoi proteggerci con un campo di forza semisferico? Deve essere il più possibile riflettente» chiese Naskeel.
   «Affermativo, be-beep! Procedura ad alto dispendio energetico, la barriera può essere mantenuta solo per sessanta secondi» avvertì Ottoperotto.
   «Mi sembrano pochi. Questi Angeli sono ostinati» commentò Losira.
   «Concordo, ma qui non si tratta di farli desistere» spiegò Naskeel. Così dicendo impugnò il phaser. Per un attimo i compagni pensarono che avrebbe sparato agli Angeli, sebbene questi si fossero già dimostrati impervi. Ma non fu così. Il Tholiano conservò l’arma per un altro uso, sebbene nessuno riuscisse a indovinarlo. Sotto gli sguardi perplessi degli astanti si spostò di lato e poi indietro, come se stesse calcolando una posizione precisa. A un tratto si fermò e batté le zampe sul pavimento, restando come in ascolto.
   «Beh?!» fece il Capitano, sempre più nervoso. Le ultime candele potevano spegnersi da un momento all’altro, e allora sarebbe stata la fine.
   «Sto ascoltando. Le pietre possono dire molto a un orecchio esperto. Ecco, ci siamo» rispose Naskeel, arretrando di un altro passo. «State vicini a me, e pronti a saltare al mio via» raccomandò.
   «Saltare dove?!» chiese Rivera, esasperato. Il gruppetto si strinse attorno al Tholiano, più per disperazione che per altro.
   «Attivare cupola» ordinò Naskeel, senza perdere tempo a rispondere.
   Ottoperotto proiettò il campo di forza, simile a una semisfera che avvolse il gruppo, sottraendolo alla vista. Gli avventurieri sembrarono sparire, mentre la luce si deformava lungo i bordi della superficie curva, creando riflessi allungati. Davanti a quell’ostacolo, gli Angeli rimasero in paziente attesa che l’energia si esaurisse. Potevano attendere immobili per anni, se necessario; cos’era un minuto?
   Circa trenta secondi dopo si udì un pesante schianto, come se parte della chiesa fosse crollata, sebbene non ci fossero danni visibili. Altri trenta secondi e la cupola tremolò e si disattivò. Gli Angeli scattarono in avanti, fulminei, con gli artigli protesi.
 
   Il temporale infuriò ancora per un’oretta, accanendosi sulle vecchie pietre. Poi, con la stessa rapidità con cui era cominciato, ebbe termine. Le nubi si diradarono, sospinte verso est, facendo apparire chiazze di cielo azzurro. Il vento si attenuò, la pioggia si diradò e infine cessò del tutto, mentre tuoni e fulmini si affievolivano in lontananza. Il sole pomeridiano tornò a brillare sulla campagna appena irrorata, riverberando su foglie ed erbe bagnate. Gli animaletti del bosco uscirono dalle tane, riprendendo le loro attività, e si udì nuovamente il canto degli uccelli.
   L’antica chiesa svettava al suo posto, come faceva da quasi mille anni, e avrebbe fatto ancora a lungo. Le ultime gocce d’acqua caddero dai gargoyle, mentre le pietre inumidite cominciavano ad asciugarsi. All’esterno non c’era più traccia degli Angeli Piangenti. Erano entrati tutti, dall’uno o dall’altro ingresso, e ora se ne stavano immobili nella navata. Attorno a loro, le candele votive erano tutte spente e il leggio giaceva ribaltato, con lo specchietto in frantumi che nessuno aveva raccolto. Su tutto gravava il silenzio.
   «Be-beep. Passato pericolo» disse Ottoperotto, facendo capolino dall’ingresso della cripta, su un lato dell’abside. L’Exocomp analizzò l’ambiente e si fece timidamente avanti, galleggiando a un metro e mezzo da terra. Lo seguirono Vastra coi suoi gregari e infine gli avventurieri della Destiny.
   «Che vi avevo detto? Blocco quantistico. Questi angioletti non si sposteranno per un bel pezzo!» disse la Siluriana, soddisfatta.
   «Ringrazi Naskeel, che ha trovato il modo d’approfittarne» disse Rivera.
   Non era un caso se l’idea era venuta al Tholiano, che era rimasto nascosto per giorni nella chiesa diroccata. Volendo celarsi il più possibile alla vista d’eventuali visitatori, Naskeel aveva trascorso quasi tutto il tempo nella cripta sotterranea, fatta di corridoi che si spingevano dall’abside fino a sotto la navata. Così, quando il gruppo si era trovato circondato dagli Angeli, Naskeel aveva nuovamente pensato alla cripta come rifugio. Dapprima si era assicurato che fossero al di sopra di essa, un po’ andando a memoria, un po’ battendo sul pavimento finché non aveva avvertito una cavità. Ma non poteva scavare col phaser senza che gli Angeli se ne avvedessero, cercando l’ingresso della galleria, perciò aveva chiesto a Ottoperotto di fornire un temporaneo mascheramento. Sotto la cupola riflettente, che tratteneva gli Angeli, il Tholiano aveva scavato col phaser, aprendo un pozzo che conduceva alla cripta. A quel punto lui e gli altri vi erano saltati dentro, atterrando due metri più in basso. La cripta era buia e polverosa, col pavimento accidentato dalle macerie, ma era abbastanza grande da accoglierli tutti. Quando anche Ottoperotto era sceso, disattivando la cupola, i due gruppi d’Angeli si erano trovati faccia a faccia, senza le prede nel mezzo. Ed erano finiti in blocco quantistico. Lì sarebbero rimasti, finché qualcuno non li avesse spostati.
   Agli avventurieri non era rimasto che attendere in quel luogo soffocante, appena rischiarato dalle lucette di Ottoperotto. La cripta era vuota, salvo un paio di teschi posati su una mensola, che sembravano ridacchiare nell’osservarli. Con quella macabra compagnia, il Capitano e gli altri avevano aspettato la fine del temporale e il ritorno della luce. Se qualche Angelo fosse sfuggito al blocco quantistico, venendo a cercarli, le cose si sarebbero messe molto male. Ma così non era stato, e ora potevano tirare un sospiro di sollievo.
   «Mi chiedo cosa penseranno i prossimi che entreranno qui» commentò Jenny, alludendo alle decine di Angeli che ingombravano la navata, assiepati attorno al buco nel pavimento. Non potevano passare facilmente per sculture sacre, ora che erano in atteggiamento demoniaco, con artigli e zanne in vista. Piuttosto sembravano messi lì per qualche folle rito satanico.
   «Non so... l’importante è che non li spostino» commentò Rivera. Avrebbe voluto cautelarsi, ma che poteva fare? Piazzare un cartello all’ingresso con scritto: “Non toccate gli Angeli o vi spediranno nel passato”? Non potendo distruggerli, né spostarli in un luogo più riparato, e nemmeno passare tra loro col rischio d’interrompere il contatto visivo, non riusciva a immaginare come neutralizzarli.
   «È un vero peccato non poterli affrontare come farei con qualunque altro nemico. Sono avversari che non danno soddisfazione» brontolò Strax. «Ma sono certo che prima o poi l’Impero Sontarano troverà il modo di spazzarli via dall’Universo».
   «Certo che non pensi ad altro. Dimmi, quant’è lontano il tuo pianeta da qui?» chiese il Capitano.
   «Non molto; appena due galassie di distanza» rivelò Strax.
   Rivera tirò un sospiro di sollievo. Almeno in quel cosmo gli Umani non vivevano fianco a fianco con quel popolo guerrafondaio.
   «Ed è un bel pianeta?» s’interessò Talyn.
   «Noi lo troviamo magnifico» fece il Sontarano, inorgoglito. «Le nostre città-caserma coprono interi continenti. La Sala dei Caduti e dei Coraggiosi è di una bellezza senza pari. Abbiamo anche una splendida luna, ancor più grande di Sontar».
   A queste parole, l’El-Auriano rimase interdetto. «Aspetta un momento... se è più grande, allora non è Sontar a girarci attorno? Non è il vostro mondo ad essere una luna?» s’incuriosì.
   «Certo che no, sarebbe una sciocchezza!» ribatté Strax, impettito. «Per decisione unanime del mio popolo, abbiamo stabilito che Sontar è il pianeta, e l’altra è la luna. Che sia più grande non ha la minima importanza».
   Talyn alzò gli occhi, rinunciando a ragionare con quell’essere.
   «I Sontarani sono così, facci l’abitudine» sorrise Vastra.
   «Povere le loro donne» commentò Losira.
   «Non abbiamo donne. Siamo stati creati da uno scienziato al solo scopo di combattere, e ci riproduciamo per clonazione» spiegò il Sontarano. «Comunque all’occorrenza arricchiamo il nostro DNA con ciò che serve per espletare al meglio le varie funzioni».
   «Splicing genetico» riconobbe la Risiana.
   «Esatto. Io stesso ho arricchito il mio DNA per svolgere al meglio le funzioni infermieristiche, e ora all’occorrenza posso produrre magnifiche quantità di fluido lattico» disse Strax con orgoglio.
   Stavolta fu Losira ad alzare gli occhi, esasperata, rinunciando a saperne di più.
   Il gruppo mosse lungo la navata, costeggiando le pareti, diretto verso l’uscita. Stavano tutti attenti a non passare davanti agli Angeli, per non interferire col blocco quantistico che li paralizzava. Giunti all’ingresso fu difficile passare tra gli Angeli e la porta senza sfiorarne nessuno. Alla fine dovettero piegarsi, per passare davanti alle creature senza interromperne il contatto visivo.
   «Solo l’uomo penitente potrà passare...» mormorò Rivera, chinando debitamente la schiena. Strax non volle piegarsi, ma per fortuna era così basso che arrivava appena al mento degli Angeli e non rischiava di liberarli. Così, dopo alcuni minuti da cardiopalma, si ritrovarono tutti fuori alla luce del sole.
   Scoprirono con sollievo che la carrozza era ancora lì. C’erano anche i cavalli, che Talyn si era premurato di legare a un albero. Le povere bestie erano fradice, così come la carrozza, ma almeno il gruppo non avrebbe dovuto rientrare a piedi, né risarcire il proprietario. Ora che nulla impediva di tornare a Londra, Rivera e Vastra si fronteggiarono.
   «Allora, dobbiamo ancora considerarci vostri prigionieri?» chiese la Siluriana, sfiorandosi la gola, dove le scaglie erano annerite dal tocco rovente di Naskeel.
   «Visto l’aiuto che ci avete dato contro gli Angeli... e considerando che dobbiamo affidarci a voi per il ritorno... direi di no» rispose il Capitano, intascando il phaser. «Mi spiace se siamo stati bruschi, ma non avevamo idea di chi foste. Non che sia tanto chiaro neanche adesso, devo dire. Ma per rimettere le cose a posto, suppongo che dobbiamo fidarci. Come dicevo, noi vogliamo solo tornare a casa; ed è anche nel vostro interesse rimandarci lì. Altrimenti ci saranno paradossi temporali che il vostro amico Dottore dovrà risolvere».
   «Lei ha uno strano modo di chiedere soccorso. “Aiutateci, sennò vi creeremo problemi”» notò la detective.
   «Ehi, non abbiamo chiesto noi d’essere aggrediti dagli Angeli e spediti indietro di settecento anni!» obiettò Rivera. «Se è vero che anche lei si è ritrovata in un’epoca non sua, allora saprà che non è facile adattarsi».
   «No, non lo è» si adombrò Vastra, persa nei ricordi della sua giovinezza, in un’epoca remotissima e perduta.
   «E poi le nostre intenzioni non sono egoiste» aggiunse Talyn. «Il Capitano comanda la Destiny, una nave dispersa, e ha la responsabilità di riportarla a casa. Ci sono trecento persone che contano su questo. Trecento persone che aspettano il suo ritorno. Vuol davvero deluderle?».
   Vastra restò in silenzio, rimuginando su queste ultime informazioni. Il suo sesto senso le diceva che gli avventurieri erano sinceri.
   «Credo che dovremmo farlo, milady» la esortò Jenny. «Del resto, se non ci pensiamo noi, si rivolgeranno al Dottore. E sarà tutto più complicato. È diventato così intrattabile, dopo la sua ultima rigenerazione!».
   «Rigenerazione?» fece Rivera, perplesso.
   «Temo che tu abbia ragione, Jenny» sospirò Vastra. «E sia, vi aiuteremo. Su, torniamo in carrozza. Il vostro caloroso amico però resta qui!» aggiunse, dando un’occhiataccia a Naskeel.
   «Non me ne vado senza il mio Ufficiale Tattico» avvertì il Capitano. «Capisco che darebbe troppo nell’occhio a Londra, ma esigo che torniamo a riprenderlo col TARDIS prima di tornare nella nostra epoca». Non rivelò che al Tholiano restavano solo un paio di giorni, prima che il suo campo di forza cedesse, facendolo morire di freddo.
   «E va bene, faremo anche questo!» sbuffò la Siluriana. «In carrozza, adesso. Abbiamo già perso fin troppo tempo. Ci mancherebbe solo che arrivasse qualche altro visitatore indesiderato». Così dicendo raccolse il cappellino col velo nero, rimasto a terra dopo che il Capitano glielo aveva strappato. Lo osservò sconfortata, vedendo com’era fradicio e infangato.
   «Penserò io a lavarlo. Tornerà come nuovo, milady» promise Jenny, al che la detective glielo affidò.
   Strax aggiogò i cavalli alla carrozza e salì al posto del cocchiere, avendo più esperienza di Talyn nel condurre i cavalli. «Ottoperotto, resta qui con Naskeel. Torneremo a prendervi entrambi» ordinò il Capitano, mentre il resto del gruppo entrava in carrozza. «Torneremo, a costo d’impadronirci del TARDIS» sussurrò a Naskeel, prima di salire.
   «Vi aspettiamo» disse laconico il Tholiano. Un tempo avrebbe dubitato della parola di chi lo aveva catturato, ma dopo tante vicissitudini era arrivato a fidarsi dell’Umano. Così restò a guardare la carrozza che si allontanava. Avendo difficoltà a rientrare nell’edificio, per via degli Angeli che ostruivano l’ingresso, si nascose nel sottobosco, in paziente attesa. Ottoperotto gli rimase accanto, coi sensori all’erta nel caso che arrivasse qualcuno.
 
   Strax riuscì a ricondurre tutti alla magione di Lady Vastra entro sera. Lasciata temporaneamente la carrozza nella scuderia, il gruppo fu accolto in casa. Anche all’interno era una tipica villa inglese di fine Ottocento, arredata con gusto. C’erano tutti i comfort permessi dall’epoca, ma nessun segno di tecnologia anacronistica. «Prego, signori ospiti, fate come a casa vostra» disse la Siluriana, un po’ beffarda.
   «Volete lasciarmi i soprabiti?» chiese Strax, rientrato nel ruolo di maggiordomo.
   «Beh, veramente... no, grazie. Visto che stiamo per lasciare questo secolo. E con tutto il rispetto, non credo che ci torneremo» rispose il Capitano.
   «Vi preparo un tè? O forse, vista l’ora tarda e le emozioni della giornata, preferite una camomilla?» si premurò Jenny, anche lei ritrasformata in governante.
   «Ehm, grazie di tutto, ma se non vi dispiace preferiamo andare dritti al sodo. Dov’è il TARDIS?» chiese Rivera, impaziente di tornare sulla Destiny.
   «Volete subito il piatto forte, eh? Ebbene... seguitemi!» disse Vastra in tono teatrale. Condusse il gruppo sul retro della villa, dove sorgeva una serra contenente piante esotiche. Anche quelle, comunque, sembravano tutte specie terrestri. Se non avesse visto in faccia la padrona di casa, Rivera non avrebbe mai immaginato che quello era un covo di alieni. A un tratto scorse una sagoma squadrata in mezzo al fogliame.
   «Ammirate questa meraviglia dell’Universo!» annunciò la Siluriana, sempre istrionica, indicando l’oggetto davanti a sé.
   «Cos’è, uno scherzo?!» fece il Capitano, scostando le frasche. Accanto a lui, anche Losira e Talyn sgranarono gli occhi e si guardarono persino attorno, credendo che la detective intendesse qualcos’altro. Perché davanti a loro si trovava una vecchia cabina telefonica. Era verniciata di blu e aveva una sirena in sommità, come le cabine usate dalla polizia britannica. In effetti lungo i quattro lati, nella parte alta, correva la scritta Police box – public call. Le finestrelle erano piccole e opache, così da celare l’interno. Nel complesso era un oggetto del tutto anonimo. L’unica stranezza, semmai, era trovarla a fine Ottocento: quel tipo di cabina si era diffusa solo negli anni Sessanta del Novecento.
   «Suvvia, non giudichi dalle apparenze! Il TARDIS è più di quanto appare» si difese Vastra.
   «Oh, ha anche l’elenco telefonico?!» ironizzò Rivera.
   «Mi segua, uomo di poca fede. Così vedrà coi suoi occhi» lo esortò la Siluriana. Giunta innanzi alla cabina, si levò una catenella che finora aveva portato attorno al collo, invisibile sotto l’abito vittoriano dal colletto alto. Alla catenella era appesa una piccola chiave arzigogolata, che Vastra impugnò. «Ci sono pochissime copie di questa chiave, e il Dottore le affida solo a persone di fiducia» rivelò. «Se sapesse che vi ho fatti entrare... beh, speriamo che non lo scopra». Con un sospiro, infilò la chiave nella serratura e la girò. La porta si aprì con un cigolio.
   Lady Vastra entrò nella cabina telefonica. Strax la seguì, anche se dovette mettersi di profilo per passare. Infine anche Jenny seguì la sua padrona. Che strano... vista da fuori, la cabina sembrava troppo piccola per accoglierli tutti. «Allora, venite?!» chiamò la detective da dentro. La sua voce echeggiò, come se provenisse da una grande distanza.
   «Questa non voglio perdermela» gongolò Talyn, ed entrò. Allora Losira lo seguì, scomparendo a sua volta nel piccolo vano. Da fuori, Rivera udì le loro voci che si allontanavano. Eppure, girando attorno alla cabina, verificò che non erano usciti dall’altro lato. A un tratto provò uno strano timore a starsene lì da solo, misto a un senso d’urgenza. Ovunque fossero finiti i compagni, li doveva raggiungere. Tornato davanti all’ingresso, inspirò a fondo ed entrò.
   «Oh, caramba».
 
   Tanto l’esterno era piccolo e anonimo, quanto l’interno era vasto e affascinante. Gli avventurieri vi si addentrarono, guardandosi attorno con occhi sgranati, come bambini nella Caverna delle Meraviglie. Si trovavano in vasto ambiente circolare, dal soffitto alto, che ricordava la sala macchine di un’astronave. Al centro si trovava un congegno cilindrico semitrasparente, simile a un nucleo di curvatura. Partiva dal pavimento e si elevava fino al soffitto, dove si univa a un complesso apparato conico, pieno di luci sfarfallanti. Da questo apparato partivano le nervature metalliche di rinforzo che avvolgevano il salone, dividendolo in tanti spicchi. Attorno al cilindro centrale vi era una consolle esagonale, fitta di tasti e leve. Altre due consolle si trovavano lungo la ringhiera circolare che avvolgeva il centro del salone. Le pareti, a loro volta, erano fitte di congegni incomprensibili che formavano motivi circolari. A metà altezza si trovava un vero e proprio piano superiore, più largo di quello inferiore, raggiungibile mediante scalette. Qui si trovavano confortevoli quartieri abitativi, nonché librerie fitte di volumi.
   «Ah, però... si tratta bene, il vostro amico Dottore!» commentò Rivera.
   «Se devi viaggiare nel tempo, perché non farlo con stile?» convenne Vastra.
   «Più grande dentro che fuori... sa cosa significa, Capitano? Che questo veicolo sfrutta una tecnologia di compressione dimensionale. Molto avanti!» riconobbe Talyn, emozionato. «La Flotta Stellare l’ha teorizzata, ma è ben lontana dall’arrivarci».
   «Uh-uh» fece Rivera, guardandosi attorno con interesse. C’erano porte che conducevano in ulteriori ambienti... chissà quant’era grande nel complesso. «Quindi mi conferma che questa carriola può raggiungere qualunque punto del tempo e dello spazio?» chiese a Vastra.
   «Proprio così... nell’ambito di questa realtà. Gli Universi paralleli sono preclusi, perché con un’altra radiazione di fondo resta senza energia» avvertì la Siluriana. «Ad ogni modo, i TARDIS furono il trionfo tecnologico dei Signori del Tempo».
   «E perché diavolo l’esterno sembra una vecchia cabina telefonica?! Certo non per mimetizzarsi... attira l’attenzione su quasi tutti i pianeti, e anche sulla Terra nella maggior parte delle epoche» notò il Capitano.
   «Credo dipenda da un malfunzionamento del Circuito Camaleonte, che dovrebbe mimetizzare il TARDIS, adattandolo al contesto in cui si trova» rivelò Vastra. «Il Dottore dice sempre che prima o poi lo aggiusterà, ma non l’ha mai fatto. Forse non sa realmente come fare».
   «Come, non conosce la sua macchina? Non ha un equipaggio, degli ingegneri?!» si stupì Rivera.
   «Non è così semplice» sospirò la detective. «Dovete sapere che il Dottore lo – ehm – “prese in prestito” dal museo in cui si trovava, essendo un modello vecchio e dismesso» ammise.
   «Ah, un prestito a tempo indeterminato. Questo Dottore mi sta già più simpatico!» ridacchiò Talyn, che era pratico del mestiere.
   «In seguito il pianeta Gallifrey fu distrutto, per cui questo è uno dei pochissimi TARDIS rimanenti» proseguì Vastra, dolente. «Richiederebbe un equipaggio di sei persone, ma data la situazione, il Dottore e la sua assistente devono arrangiarsi a fare tutto da soli. Sa, la loro non è una bella vita: tanti nemici, pochi alleati e responsabilità spaventose» sospirò.
   «Mi spiace... ma quindi lei sa pilotarlo o no?» si preoccupò il Capitano. Se la risposta era no avrebbero dovuto aspettare il ritorno di questo misterioso Dottore, ma a Naskeel ormai non restava tempo. E non era detto che il Dottore fosse così conciliante nel prestare il suo veicolo. No, piuttosto che correre il rischio dovevano cavarsela da soli.
   «Beh, ho visto il Dottore maneggiare i comandi parecchie volte...» rispose Vastra, avvicinandosi alla consolle centrale.
   «E li ha anche manovrati a sua volta? Ha esperienza diretta?!» incalzò Rivera, sempre più inquieto.
   «Beh, proprio diretta no... ma che ci vorrà mai?» minimizzò la Siluriana. Azionò alcuni comandi, si direbbe a casaccio, e restò delusa dall’assenza di risultati.
   «Milady, ricordate cosa disse il Dottore l’ultima volta» intervenne Jenny. «I TARDIS non sono semplici macchine. Somigliano più a esseri viventi, che venivano “allevati” dai Signori del Tempo. Così anche questo ha una sua volontà, e a volte fa di testa sua».
   «Sarebbe a dire che ha un’Intelligenza Artificiale?» chiese Talyn, guardandosi attorno con apprensione.
   «Temo di non capire la domanda» rispose Jenny, che era pur sempre una domestica dell’Ottocento. «So solo che, secondo il Dottore, il TARDIS non puoi davvero pilotarlo. Ci puoi solo negoziare, cercando un compromesso tra dove vuoi andare e dove devi andare» avvertì.
   «Groan, fantastico. Una capsula temporale che va dove dice lei!» mugugnò il Capitano, massaggiandosi la fronte. «Sarà meglio che nel nostro caso volontà e necessità coincidano, sennò siamo fritti».
   «Suvvia, non vedo perché il TARDIS non dovrebbe collaborare!» fece Vastra, cercando di suonare ottimista. «Se siete qui per colpa degli Angeli Piangenti, è ovvio che bisogna riportarvi a casa. Altrimenti creerete paradossi temporali. E il TARDIS detesta i paradossi. Allora, le coordinate di destinazione...» fece, studiando i comandi.
   «Prima dobbiamo riprendere Naskeel. Se i londinesi lo scovano, allora sì che ne vedremo, di paradossi» avvertì Rivera.
   «Nulla di più facile. Nessuno spostamento temporale, basterà una piccola traslazione nello spazio. Allora, ecco le coordinate della cappella...» mormorò la Siluriana, inserendo i comandi. «E... voilà!» si gloriò, premendo il pulsante d’avvio. Non accadde nulla. Almeno nulla che i viaggiatori potessero percepire.
   «Ci siamo traslati?» chiese Losira, confusa.
   «Parrebbe di no. Siamo ancora nella serra» rispose Strax, osservando l’esterno tramite un piccolo schermo. «Che disdetta. Bisognerà smontare il rotore temporale e dargli una ripulita» disse, accennando al sofisticato dispositivo centrale.
   «Altolà! Se mettiamo le mani nei circuiti temporali, faremo solo pasticci!» lo bloccò Vastra. «E non oso immaginare la reazione del Dottore, quando tornerà. No, devo solo capire cosa mi sono persa. Forse ho lasciato il freno a mano inserito...» borbottò, chinandosi a guardare sotto la consolle.
   «Servirebbe se scendessi a spingere?!» ironizzò Losira.
   «No, ma sarebbe utile se avesse un generatore di particelle Huon» rispose per le rime la Siluriana, continuando a rovistare.
   Losira si guardò nella borsetta. «Mi spiace, in genere lo porto sempre con me, ma proprio oggi devo averlo scordato in albergo!» disse, sempre ironica.
   Allora fu Talyn a farsi avanti. «Ehm, posso provare, Milady?» si offrì, accostandosi ai comandi.
   «Giù le mani, ragazzo. Non hai sentito cosa ho detto? Se scombiniamo qualcosa, siamo nei guai!» ribadì la Siluriana, rialzandosi di scatto. Anche Strax si fece avanti per fermarlo.
   «Lasciatelo provare» disse però il Capitano. «Talyn ha un talento particolare nel far funzionare i comandi, per alieni che siano».
   «È più di questo» mormorò Losira, guardandolo con orgoglio. «Ha un talento speciale per far andare bene le cose».
   «Sì, ognuno è bello a mamma sua, ma insisto nel... no, che fai?!» si allarmò Vastra, vedendo che l’El-Auriano aveva messo mano ai comandi. Cercò di fermarlo, ma era troppo tardi. Il rotore temporale entrò in attività, pulsando di luce gialla. Un ronzio elettronico risuonò nel salone. Visto da fuori, il TARDIS si sfocò e divenne sempre più diafano, fino a svanire del tutto.
 
   Nascosto nel sottobosco, Naskeel osservò la carrozza che si allontanava per portare i colleghi nella magione di Lady Vastra. Accanto a lui levitava Ottoperotto, coi sensori all’erta. Il Tholiano non avrebbe voluto restare così esposto all’aperto, ma gli Angeli Piangenti affollati dentro la chiesa rendevano difficile rientrarci. Poteva solo augurarsi che non passasse nessuno, nelle ore necessarie ai compagni per giungere a destinazione con quel mezzo primitivo...
   In quella un ronzio elettronico attirò la sua attenzione. Qualcosa si stava materializzando nella radura. Era una vecchia cabina telefonica della polizia, che apparve come se l’avessero teletrasportata. In pochi attimi divenne opaca e prese consistenza. La porta si aprì, permettendo al Capitano di affacciarsi. «Bingo, siamo proprio dove dovremmo essere!» si congratulò Rivera, uscendo del tutto.
   Naskeel si guardò alle spalle, dove la carrozza coi suoi colleghi si stava ancora allontanando lungo il vialetto. Poi tornò a osservare la cabina innanzi a lui. «Bentornato, Capitano. Deduco che il primo viaggio nel tempo è riuscito» commentò, uscendo dal sottobosco. Ottoperotto lo seguì, fischiando sonoramente.
   «Sì, abbiamo pensato di non farla aspettare» annuì Rivera. Intanto il resto del gruppo stava uscendo dietro di lui. Losira, Talyn, Vastra coi suoi gregari... sei persone stipate in quell’abitacolo.
   «E c’è posto anche per me?» chiese Naskeel. Non era facile per una creatura cristallina col becco da rapace apparire meravigliato, ma lui ci riuscì.
   «Certo, più siamo meglio stiamo!» ridacchiò il Capitano. «Su, venga. La Destiny ci sta aspettando» lo esortò.
   «Addio, XIX secolo!» fece Talyn, impaziente di tornare sull’astronave.
   «Sigh... addio, inesplorate possibilità di guadagno!» sospirò Losira, vedendo sfumare le sue fantasticherie.
   Il gruppo rientrò rapidamente a bordo. Anche Naskeel e Ottoperotto s’introdussero nella stretta porticina, sbucando nel vasto e futuristico ambiente interno. L’Exocomp svolazzò confuso, innalzandosi fin quasi al soffitto. «Dimensione tascabile, be-beep!» commentò.
   «I padroni di casa sono pieni di sorprese» ammise il Tholiano, guardandosi attorno.
   «Padroni, seeehh. L’hanno preso in prestito dal Dottore, che a sua volta l’aveva preso in prestito da un museo sul suo pianeta!» commentò Talyn.
   «Fa venir voglia di prenderlo in prestito a nostra volta» mormorò Losira, con sguardo cupido.
   «Ci atterremo all’accordo» disse il Capitano, fulminandola con lo sguardo. «Abbiamo già abbastanza nemici, non mi va di aggiungerci dei viaggiatori nel tempo».
   «Già, e una volta tornati ci aspetta la resa dei conti con gli Angeli Piangenti sulla nave» ricordò Talyn. «Potrebbero farci comodo le conoscenze di Vastra».
   «Bah, una volta che si conoscono le regole, non mi sembrano così difficili da neutralizzare» borbottò la Risiana, ma non si oppose ulteriormente al Capitano.
   Gli avventurieri tornarono verso il centro del salone, dove Vastra e i suoi attendevano presso i comandi. «Sei stato bravo, al primo tentativo» riconobbe la Siluriana. «Vediamo se era la fortuna del principiante, o se hai davvero del talento».
   Accettata la sfida, l’El-Auriano si rimise ai comandi. Nemmeno lui sapeva spiegare come, ma gli pareva tutto d’istintiva comprensione. Le coordinate spaziali, quelle temporali, l’alimentazione... che ci voleva ad azionare il TARDIS? L’unica seccatura era doversi muovere continuamente da una consolle all’altra, per sopperire alla mancanza di un equipaggio più numeroso.
   «Su, fa’ la brava, riportaci a casa...» mormorò Talyn, rivolgendosi direttamente alla macchina, mentre inseriva gli ultimi comandi. Il rotore temporale entrò in funzione, accompagnato dal caratteristico ronzio elettronico. E ancora una volta il TARDIS superò le barriere del tempo e dello spazio.
 
   «Allora, ci sono risultati?!» fece Irvik, l’Ingegnere Capo della Destiny, misurando la plancia con passi nervosi. Ora che gli ufficiali superiori erano tutti scomparsi, il comando della nave ricadeva su di lui.
   «Niente, purtroppo» rispose Lum, il Ferengi che sostituiva Talyn ai sensori. «Anche loro sembrano svaniti nel nulla. È impossibile che qualcuno li abbia teletrasportati via, perché abbiamo gli scudi ancora alzati. Navette e capsule sono tutte al loro posto. Del resto, i sensori confermano che i loro segni vitali sono svaniti mentre si trovavano nella stiva 3».
   «Allora saranno stati disintegrati da qualche nemico occultato» suggerì Ruuvan, il Nausicaano che sostituiva Naskeel al tattico.
   «Non dirlo neanche per scherzo!» fece Shati dal timone. «E poi i diari dei sensori interni escludono che qualcuno abbia sparato nella stiva».
   «Tutte queste considerazioni le abbiamo già fatte, dopo le prime sparizioni» rifletté Irvik. «Ma non ci hanno portati da nessuna parte. Ancora non abbiamo indiziati. Non conosciamo il movente, né le modalità di queste sparizioni. E nel frattempo continuiamo a perdere i nostri compagni» disse, con animo pesante. Finora il nemico, chiunque fosse, sembrava essersi accanito sugli ufficiali. Quindi forse il prossimo a sparire sarebbe stato proprio lui...
   «Beh, tutti i dispersi si trovavano nella stiva 3» notò Shati. «Non può essere una coincidenza. C’è qualcosa di strano in quel carico. Forse dovremmo sbarazzarcene».
   «Pensi che sia stregato?» ironizzò il Voth. «Spiacente, ma mi occorre uno straccio di prova, prima di buttare nello spazio un prezioso carico che ci siamo impegnati a consegnare alle autorità terrestri».
   «Che ce ne facciamo della ricompensa, se spariamo tutti uno dopo l’altro?» borbottò la Caitiana, insoddisfatta.
   In quella la consolle sensori entrò in attività. «Ehi, ma che... picco di tachioni a bordo!» esclamò Lum, leggendo i dati.
   «Hai detto tachioni?!» si allarmò Irvik, venendogli accanto.
   «Sì, fonte sconosciuta. I sensori sono chiari, sta arrivando qualcosa» confermò il Ferengi.
   «Anche i miei sensori lo rilevano» disse Shati, drizzando le orecchie feline. Un ronzio elettronico proveniva dall’adiacente sala teletrasporto.
   «Sicurezza in plancia, ci hanno abbordati!» ordinò Ruuvan, premendosi il comunicatore.Gli avventurieri si affrettarono a impugnare i phaser. Molti di loro li avevano già in cintura, gli altri li presero dagli scomparti segreti della plancia.
   «Rilevo mezza dozzina di segni vitali in sala teletrasporto» sussurrò Lum, la fronte imperlata di sudore. «Un paio appartengono a specie sconosciute».
   «Sangue freddo» raccomandò Irvik, consapevole che la salvezza della nave dipendeva ormai dalle sue decisioni. Strisciò lungo la parete, accostandosi alla porta. Ruuvan e Shati erano con lui, seguiti da altri della Sicurezza. Tutti impugnavano i phaser e li avrebbero usati al primo segno di minaccia.
   «Sparate solo al mio ordine» sussurrò Irvik. Voleva ancora sperare che dall’altra parte non ci fossero dei nemici, per quanto la speranza si affievolisse sempre più. Chi altri poteva averli abbordati, attraverso gli scudi, mentre la nave era vulnerabile per la scomparsa degli ufficiali superiori? Chi, se non un nemico ben attrezzato e deciso a spazzarli via?
   Ancora un passo. La porta era vicina... d’un tratto si aprì, lasciando passare l’invasore. «Fermo o sparo!» gridò Irvik, puntandogli il phaser in testa.
   «Wow, guarda che succede a lasciare la poltrona a un altro per qualche minuto!» commentò il Capitano, fronteggiandolo.
   L’Ingegnere Capo lasciò cadere le braccia, mentre le sue scaglie si arrossavano per l’imbarazzo. «Scusi, signore. Non immaginavo che fosse lei» mormorò, mentre anche gli altri riponevano le armi. «Le rendo il comando... e sono curioso di sentire la sua storia».
   Il ritorno degli scomparsi destò stupore e acclamazioni. Uno dopo l’altro gli avventurieri varcarono la soglia, venendo accolti dai compagni. Il loro abbigliamento però lasciò tutti di stucco: erano ancora vestiti secondo la moda inglese di fine Ottocento. Losira, in particolare, spiccava nel suo vistoso abito vittoriano, tutto pizzi e merletti.
   «Dove siete stati, per conciarvi così?!» trasecolò Irvik. «Ehi, un momento, siete più del dovuto. Chi sono gli altri?» chiese.
   Il Capitano però non si rivolse a lui, bensì agli accompagnatori, che proprio in quel momento entravano in plancia. «Lady Vastra, le presento i miei ufficiali. Non faccia caso alle armi, è tutta brava gente. Strax, Jenny... benvenuti sulla Destiny!» disse con orgoglio. Finalmente poteva giocare in casa propria, mostrando d’essere davvero il Capitano di una grande astronave.
   I tre ospiti si guardarono attorno con interesse, osservando ora la futuristica plancia della Destiny, ora l’eterogeneo equipaggio, ora la Terra visibile sullo schermo. Fu Jenny, la governante vittoriana, a rompere il ghiaccio. «Siamo veramente su un vascello che vola?!» trillò, emozionata.
 
   Poco più tardi, gli avventurieri e i loro ospiti sedevano al tavolo tattico. «Non abbiamo molto da riferire, Capitano. Dal nostro punto di vista sono trascorsi solo pochi minuti dalla vostra sparizione» disse Irvik. «In effetti stavamo ancora cercando i responsabili» ammise.
   «Potete smettere di cercare» disse Rivera. «Ora sappiamo che i colpevoli sono gli Angeli».
   Quest’affermazione fu seguita da un silenzio perplesso. Tutti quelli che non erano stati nel passato si scambiarono occhiate, cercando di capirci qualcosa. «Ehm, quando dice “angeli”, intende proprio quelli con le ali? Okay che è credente, ma non è un po’ azzardata come teoria? Voglio dire, perché gli angeli dovrebbero darsi al sequestro di persona? Semmai è più una cosa da diavoli!» commentò Shati.
   Il Capitano alzò gli occhi al cielo. «Non mi riferivo agli angeli nel senso religioso del termine. Parlo di quelle maledette statue, con fattezze d’angeli piangenti, che abbiamo nella stiva 3. E che in realtà non sono statue, bensì creature aliene con pessime intenzioni».
   «Ah-ah! Lo sapevo che avevano qualcosa di losco!» gioì la timoniera.
   «Per fortuna Lady Vastra li conosce» proseguì il Capitano. «Ci ha spiegato che basta tenerli sotto costante osservazione per mandarli in blocco quantistico e impedir loro di muoversi. Per questo attaccano sempre singoli individui, o al massimo piccoli gruppi. Per incredibile che sia, quegli esseri mandano le vittime nel passato, nutrendosi degli anni che queste avrebbero vissuto nel presente».
   «Questa, poi! Mai sentito nulla di simile!» fece Irvik, incredulo.
   «Eppure è così. Ecco perché tutti noi ci siamo ritrovati nell’Inghilterra vittoriana» spiegò Rivera, sfiorandosi l’abito d’epoca. «Abbiamo affrontato gli Angeli anche lì, e posso confermare che ci vuol poco a bloccarli, conoscendo il loro punto debole. Quindi ci assicureremo che quelli a bordo non facciano altri danni. In effetti la cosa migliore sarebbe decomprimere la stiva e scaraventarli nello spazio».
   «Fatelo al più presto. Magari a debita distanza dalla Terra» raccomandò Vastra. «Così la faccenda sarà risolta, e noi tre potremo tornare a casa. Per quanto la vostra nave sia interessante, siamo in un tempo che non ci appartiene. E devo accertarmi che il TARDIS torni al Dottore».
   «Certo, non voglio trattenervi più del dovuto» annuì il Capitano, sebbene un po’ gli dispiacesse dire addio a quei tre. Chissà quante cose avrebbero avuto ancora da raccontargli, sulle stranezze di quel cosmo.
   «E che facciamo con Giely?» chiese Irvik con gravità.
   A quella domanda Rivera si sentì sprofondare. Non aveva certo scordato Giely, però dava per scontato che fosse sfuggita agli Angeli, rimanendo al sicuro sulla Destiny. Ma in effetti non era ancora arrivata, cosa che in normali circostanze avrebbe fatto subito. «Perché, che le è successo?!» chiese, con un groppo in gola.
   «Speravo me lo diceste voi» fece Irvik, rivolto al Capitano e a Naskeel. «Giely è sparita assieme a voi due. Anche nel suo caso non è rimasta la minima traccia. Gli Angeli Piangenti non hanno spedito anche lei nel passato?».
   «No, credevo fosse rimasta qui!» sbiancò l’Umano. «Nel passato ci siamo finiti solo noi quattro. Tutti nello stesso momento e nello stesso luogo. Non è così che operano gli Angeli?!» chiese a Vastra.
   «Di solito sì» confermò la Siluriana. «Ma nessuno sa realmente cosa pensino quegli esseri. Si vede che stavolta hanno fatto un’eccezione».
   «Dannazione» fece il Capitano, accorgendosi che i guai non erano affatto finiti. «Beh, ma noi abbiamo ancora il TARDIS!» s’illuminò. «Possiamo tornare indietro a prenderla...».
   «Ah, sì? E a quali coordinate spazio-temporali?» obiettò Vastra. «Per quanto portentoso, il TARDIS ha pur sempre bisogno di una destinazione chiara. Non possiamo dirgli semplicemente “trova Giely”. Che ne sa lui di quando e dove l’hanno spedita?».
   «Ma... gli unici che possono saperlo...» mormorò Rivera.
   «... sono gli Angeli Piangenti» confermò la detective. «E purtroppo non sono molto loquaci. Spiacente, Capitano, ma non posso più aiutarla. La sua compagna è smarrita nel passato terrestre, come accadde anche a un’assistente del Dottore, la povera Amy Pond. Mi dolgo della perdita. A questo punto sarà meglio che togliamo il disturbo...» disse, lasciando il tavolo tattico. Fece segno a Jenny e Strax di seguirla.
   «Altolà!» fece il Capitano, alzandosi a sua volta. «Il TARDIS è l’unica speranza che ho di ritrovare Giely. Quindi non posso permettervi di portarlo via. Quella capsula temporale mi serve ancora».
   «Avevamo un accordo, Capitano» fece Vastra, gelida. «Noi avremmo riportato indietro voi quattro, e lo abbiamo fatto. Adesso dovete rispettare il vostro impegno. Lasciateci andare, lasciateci tornare a casa» disse con fermezza. Jenny e Strax la fiancheggiarono, in atteggiamento protettivo.
   «Altrimenti? Nemmeno il vostro beneamato Dottore può raggiungerci, senza il TARDIS che ci avete graziosamente messo a disposizione» fece Rivera, con aria truce. Anche gli altri avventurieri si alzarono, a disagio per l’inaspettata piega degli eventi.
   «Irrilevante. Il nostro accordo...» cominciò la Siluriana.
   «... l’accordo è appena saltato!» gridò l’Umano, interrompendola. Con gesto fulmineo le strappò la catenella con le chiavi della capsula temporale. «Finché non avrò localizzato Giely, il TARDIS resterà qui a bordo. E lo stesso vale per voi tre. Vi direi di considerarvi ospiti, ma so già che rigettereste questa definizione. E se vi concedessi libertà di movimento, ne approfittereste per squagliarvela col TARDIS. Quindi diciamo le cose come stanno: siete prigionieri e starete in cella fino al termine della crisi» sentenziò.
   «Capitano, ne è certo?» mormorò Talyn. Non ricordava di averlo mai visto tradire una promessa; non in modo così plateale. Era uno di quei gesti estremi che solo la preoccupazione per l’amata poteva spiegare, anche se non scusare.
   «Altroché!» confermò il Capitano, il cui sguardo furente si scontrava con quello gelido della detective. «Naskeel, chiuda questa lucertola e i suoi scherani in celle di massima sicurezza. E si assicuri che il TARDIS sia sempre ben sorvegliato. Dev’essere al sicuro e pronto all’uso, per quando avremo una destinazione».
   Raramente gli avventurieri avevano visto il loro Capitano così spietato. Alcuni pensavano che stesse esagerando, e temevano le conseguenze, ma nessuno osò opporsi apertamente. Quanto a Naskeel, il suo pragmatismo da Tholiano ne fu solo soddisfatto. Impugnò il phaser, tenendo sotto tiro i prigionieri. «Muovetevi» ordinò, per condurli alle prigioni.
   «Si pentirà di questo, Capitano» disse Jenny con durezza.
   «L’Impero Sontarano non avrà pietà di voi» rincarò Strax.
   Quanto a Vastra, la Siluriana emise un ringhio da rettile che le scoprì i denti affilati. «Forse un giorno scoprirò il suo sapore, Capitano!» minacciò.
   «Quello del fiele, suppongo. E con la fortuna che porto, le andrei di traverso» fece Rivera. Le voltò le spalle, fissando lo spazio oltre il finestrone, mentre giocherellava con la chiave rubata. Stava pensando alla sua amata, persa chissà dove su un pianeta che le era estraneo, senza denaro né documenti, e senza nemmeno il conforto di avere qualche conoscente accanto a sé. Se ambientarsi era stato difficile per loro, per lei sarebbe stato impossibile. Doveva salvarla a tutti i costi, prima che facesse una brutta fine.
   Davanti alla determinazione del Capitano, i prigionieri dovettero lasciare la sala tattica, sospinti da Naskeel e le sue guardie. I restanti avventurieri rimasero ammutoliti, chiedendosi a cosa avrebbe condotto tutto questo. 
 

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Capitolo 6
*** Indizi ***


-Capitolo 5: Indizi
 
   «Capitano, non credo sia saggio scherzare coi viaggi nel tempo» disse Irvik, costretto a trottare per tenere il passo dell’Umano. «Se quei tre bizzarri individui vengono dal passato, devono tornarci. E se quella capsula temporale appartiene a una sorta d’agente, ebbene, è necessario che la riabbia».
   «Sarà fatto, non appena avremo recuperato Giely» mugugnò il Capitano, percorrendo di buon passo il corridoio. Era diretto alla stiva di carico, in testa a una squadra della Sicurezza, nonché ad alcuni ingegneri.
   «Ma, supponiamo che non sia possibile...».
   «Non dirlo neanche per scherzo!».
   «... per quanto tempo dovremo trattenerli?».
   «Il tempo, amico mio, è qualcosa che abbiamo in abbondanza. Comunque, se hai voglia d’affrettare le cose, trova un modo per comunicare con gli Angeli» ordinò Rivera.
   «Io?! Ma...».
   «Sul TARDIS c’è un database. Spulciatelo, tu e Talyn. Scoprite come parlare con quegli esseri. Se sono senzienti, devono avere un qualche genere di linguaggio. Nel frattempo ci accerteremo che non lascino la stiva» stabilì il Capitano.
   Gli avventurieri avevano ormai raggiunto l’ingresso della stiva 3, dov’erano custoditi i reperti del XIX secolo. Lì si trovavano gli Angeli Piangenti responsabili di tutto. «Chissà se saranno sorpresi di rivederci» pensò Rivera. Non doveva capitargli spesso di rincontrare le loro vittime.
   «Siamo pronti a sigillare la stiva» disse uno degli ingegneri, di nome Yam.
   «Un momento, prima voglio controllare che siano tutti lì dentro» disse il Capitano, accostandosi all’ingresso. «Ricordate: gli Angeli vanno in blocco quantistico se qualcuno li fissa. Ma basta distogliere lo sguardo per un solo istante e vi saranno addosso, spedendovi chissà quando nel passato. Quindi non sbattete neanche le palpebre!» raccomandò ai suoi.
   «Il problema non si pone» fece Naskeel, che non le aveva. Il Tholiano aveva già condotto i tre visitatori in prigione ed era tornato a capeggiare la squadra della Sicurezza.
   Gli avventurieri impugnarono i phaser, pur sapendo che erano inutili; ma l’abitudine era dura a morire. Per molti di loro era inconcepibile che le uniche armi efficaci contro il nemico fossero gli sguardi, e avevano bisogno d’impugnare un phaser per sentirsi padroni della situazione.
   Fatto un respiro profondo, Rivera avanzò di un altro passo, provocando l’apertura della porta. Tutti spinsero gli sguardi in avanti... e ammutolirono. I reperti storici erano sempre lì, in bell’ordine come li avevano lasciati. Le opere d’arte, gli oggetti d’uso comune, le forniture militari... tutto era al suo posto. Mancavano solo gli Angeli Piangenti.
 
   «Allora, dove sono finiti?!» chiese il Capitano, esasperato. Erano tornati in plancia per scansionare l’astronave, in cerca degli Angeli.
   «Chi lo sa; i sensori interni non li rilevano» disse Talyn, tornato alla sua postazione. «Comunque è improbabile che abbiano lasciato l’astronave. Saranno nascosti da qualche parte».
   «Non avranno viaggiato nel tempo per sfuggirci? Voglio dire, se possono trasferire gli altri, forse possono trasferire anche se stessi» suggerì Losira.
   «Non so... nutrirsi degli anni che loro stessi avrebbero vissuto potrebbe mandarli in cortocircuito» obiettò l’El-Auriano. «Per questo dico che probabilmente si nascondono a bordo».
   «Ma perché? Finora si erano mimetizzati fra le antichità. Come hanno fatto a capire che stavamo arrivando per loro?!» insisté Rivera.
   «Devono averlo percepito in qualche modo. Ci sono ancora numerose incognite, a partire dai loro sensi» rispose Naskeel.
   «Beh, non resta che setacciare la nave» ordinò il Capitano. «Organizzi delle squadre di ricerca, controllate ovunque. Squadre abbastanza numerose, visto che una volta trovati gli Angeli bisogna tenerli a bada. Isolate i vari settori, per impedire che le creature vi aggirino, spostandosi dall’uno all’altro» raccomandò.
   «Sarà fatto, ma se è vero che gli Angeli sono così veloci mentre nessuno li guarda, sarà difficile sorprenderli e metterli con le spalle al muro» avvertì il Tholiano.
   «Lo so» mugugnò Rivera. Indossava ancora i suoi abiti ottocenteschi, non avendo avuto il tempo di cambiarsi. A un tratto avvertì la stanchezza. Era in piedi da troppe ore, non riusciva più a pensare con lucidità. Doveva assolutamente riposare. «Io... ho bisogno d’una notte di sonno. Svegliatemi se ci sono novità» raccomandò. «Losira, Talyn, riposate anche voi. Domattina faremo il punto della situazione».
 
   Ritiratosi nel suo alloggio, il Capitano passò una notte agitata. I ricordi degli ultimi giorni si mischiavano nella sua mente, creando strani incubi. Nel sonno, si vide circondato dagli Angeli in atteggiamento aggressivo, che sbucavano dall’oscurità per ghermirlo. Ovunque si volgesse, se li vedeva davanti; non c’era via di scampo. D’un tratto l’incubo cambiò e gli parve di vedere Giely, smarrita e sofferente in varie epoche terrestri. La vide tenuta in gabbia nel Medioevo ed esposta come un animale da circo, per via delle sue orecchie zigrinate da Vorta. Poi la vide nell’antica Roma, venduta al mercato degli schiavi, frustata dai padroni. Poi di nuovo in catene con gli schiavi, costretta a marciare sotto il sole cocente dell’Antico Egitto, che le ustionava la pelle pallida. Infine la visione più terrificante: Giely smarrita nella preistoria, circondata da belve feroci, senza nessun essere umano presso cui cercare riparo. Sempre più affamata, infreddolita, terrorizzata... no, non poteva lasciarla così... doveva salvarla a ogni costo...
   «No!» gemette Rivera, annaspando tra le coperte. Svegliatosi del tutto, le gettò da parte. Poi si alzò a sedere sul letto, passandosi le mani sul volto. Era stato solo un incubo... ma rifletteva un timore fin troppo reale. Giely era davvero condannata a una sorte terribile, se non riusciva a localizzarla. «Ti troverò, amore mio. Non so come, ma ti troverò» si promise.
   A un tratto avvertì qualcosa. Era buio, quindi non vedeva nulla, e non udiva nemmeno suoni; eppure aveva la netta sensazione di non essere solo. C’era una presenza estranea nel suo alloggio. Che fosse un’immagine latente dei suoi incubi? Oppure un pericolo reale? Il Capitano si trovò a pensare che era stato incauto a far sorvegliare il TARDIS, ma a non prendere analoghe precauzioni per se stesso. Se gli Angeli erano lì per lui? Il fatto che lo avessero preso una volta non escludeva che lo facessero di nuovo. E stavolta lo avrebbero mandato in un’epoca e un luogo da cui non era così facile tornare.
   Muovendosi lentamente, a tentoni nel buio, Rivera prese il comunicatore che teneva sul comodino. Con l’altra mano aprì il cassetto e impugnò il phaser, pur sapendo che non gli sarebbe servito contro gli Angeli. Ma poteva servigli nel luogo in cui l’avrebbero mandato. «Computer, luci» ordinò infine.
   L’alloggio si schiarì, pur senza raggiungere la piena illuminazione. E il timore del Capitano si concretizzò. Ai piedi del letto c’era davvero un Angelo Piangente. Come aveva superato i codici di sicurezza dell’ingresso? Da quanto era lì a spiarlo? E soprattutto, perché non l’aveva ancora attaccato? Misteri di quegli esseri incomprensibili. Rivera notò che l’Angelo era solo uno: evidentemente si erano divisi per sfuggire alla cattura. Ma era pur sempre un gravissimo pericolo, se fosse arrivato a sfiorarlo. Chissà se era lì di propria iniziativa o per ordine degli altri; chissà se anche loro avevano una catena di comando. Questa creatura era esile, quasi raggomitolata nelle proprie ali. Si trovava nella tipica posa piangente, col capo reclinato e in buona parte celato dalle mani. Anche i lunghi capelli le coprivano il viso, impedendole di finire in blocco quantistico. Mossa astuta... che aspettava ad attaccare?
   «Rivera a Sicurezza, un Angelo s’è introdotto nel mio alloggio. Chiedo supporto immediato» mormorò il Capitano, premendosi il comunicatore. Al tempo stesso fissava l’essere, cercando di non sbattere gli occhi, anche se dubitava di poterlo trattenere, dato che non c’era contatto visivo tra loro.
   Trascorse ancora qualche secondo, senza che nessuno dei due facesse una mossa. Infine l’Umano perse la pazienza. «Insomma, che vuoi?! Sei qui per attaccare o che altro?!» sbraitò. L’attimo dopo fu teletrasportato via. I colleghi di plancia lo avevano tratto in salvo.
 
   Ritrovatosi seduto sulla fredda pedana, nella sala teletrasporto annessa alla plancia, il Capitano scattò in piedi. Visto così offriva un buffo spettacolo: scalzo e in pigiama, ma munito di phaser e comunicatore. Tuttavia non c’era nulla di buffo in ciò che gli era appena capitato.
   «Tutto bene, signore?» fece Naskeel, entrando in sala. Con lui c’erano alcuni ufficiali del turno di notte.
   «Un Angelo s’è introdotto nel mio alloggio. L’ho visto, ce l’avevo a pochi passi di distanza» fece Rivera, ancora scosso.
   «Un Angelo è arrivato fin lì, senza tuttavia colpirla? Considerato che stava riposando... è certo di non esserselo sognato?» indagò l’Ufficiale Tattico.
   L’Umano fu indignato da questa insinuazione. «Più che certo! Ero ben sveglio, non ho il minimo dubbio! Quell’essere era lì per spedirmi chissà dove... me la sono cavata per il rotto della cuffia».
   «Quale cuffia?» fece il Tholiano, perplesso.
   «È un modo di dire... significa che ho rischiato grosso. Grazie per il teletrasporto, a proposito» fece il Capitano, rivolgendo un cenno di ringraziamento all’addetto. «Voi intanto avete fatto progressi? Ne avete stanato qualcuno?».
   «Non ancora. Se si sono divisi, ciò complicherà le cose» ammise Naskeel. «Questa caccia rischia d’essere improduttiva, data la loro velocità. Dovremmo focalizzarci sull’aspetto ingegneristico, scoprendo come individuarli, e possibilmente come comunicare con loro» suggerì.
   «Infatti ce ne stiamo occupando, ma nel frattempo voglio che le ricerche continuino» disse il Capitano. Fece per tornare al suo alloggio, ma si bloccò. «A questo punto mi servirà una sentinella per la notte. E per quanto riguarda gli altri alloggi... mannaggia, forse dovremo allestire dei dormitori comuni. Non mi piace che gli Angeli riescano a sgattaiolare in camera di chi dorme. Potrebbero prenderci uno ad uno nel sonno».
   «Poiché le circostanze lo richiedono, allestiremo i dormitori» disse Naskeel. «Ora però voglio ispezionare il suo alloggio. È l’ultimo luogo in cui sia stato avvistato un Angelo e potrebbe esservi qualche traccia».
   «Dubito che perdano le penne, ma... prego» fece Rivera, facendo strada.
 
   Tornato all’alloggio con una nutrita squadra della Sicurezza, il Capitano constatò che non c’era più traccia dell’Angelo. Non ne fu sorpreso: l’essere aveva avuto tutto il tempo d’andarsene. Restava da vedere perché era entrato, se non per attaccare. La squadra prese a esaminare l’ingresso, mentre il Capitano entrava a rivestirsi. «Trovato qualcosa?» chiese quando ebbe finito.
   «Sappiamo come ha fatto l’Angelo a entrare. Conosceva il codice di sicurezza dell’ingresso» rispose Naskeel, che aveva esaminato la porta.
   «Questa, poi! Sono anche telepatici?!» s’inquietò Rivera.
   «Lady Vastra tendeva a escluderlo. È certo di non aver lasciato scritto il codice da qualche parte?» inquisì il Tholiano.
   «Per chi mi prende? Certo che non l’ho scritto!» protestò il Capitano, infastidito dal fatto che l’altro si aspettava sempre il peggio da lui. «E il codice non è nemmeno 1-2-3-4-5 o “password”!» precisò.
   «Eppure l’Angelo lo conosceva, in qualche modo. Molto strano» rimuginò Naskeel. S’introdusse nell’alloggio, ispezionandone gli ambienti. Fu in camera da letto che qualcosa attirò la sua attenzione. «Guardi» disse, indicando il dipinto che ornava la stanza. Era una rappresentazione di Delta IV, il mondo d’origine di Dualla, l’originale Capitano della Destiny. Sul globo verde erano state scarabocchiate alcune parole: camera di lancio siluri 5.
   «Prima che me lo chieda... no, non l’ho scritto io in un attacco di sonnambulismo» assicurò Rivera. «Questa è un’indicazione. Andiamo, presto. Qualcosa mi dice che gli Angeli si nascondono proprio lì».
 
   Il Capitano aveva visto giusto. Fatta irruzione nella camera di lancio siluri, gli avventurieri vi trovarono tutti e sei gli Angeli. Dunque non si erano affatto divisi, tranne quello che aveva visitato l’Umano nel suo alloggio. Mentre gli ufficiali di plancia si affrettavano a isolare i controlli, per evitare che le creature lanciassero siluri contro la Terra, quelli sul posto le tennero d’occhio.
   «Beh, questa è una svolta inaspettata» commentò Rivera, osservando gli Angeli rannicchiati contro la parete di fondo, i volti coperti per non farsi bloccare del tutto. «Mi chiedo solo perché uno di loro abbia tradito gli altri. Facendosi catturare con loro, per giunta».
   «È in grado di riconoscerlo?» chiese Naskeel.
   Il Capitano li osservò, a disagio, cercando di ricordare com’era il suo visitatore. «Non so... mi sembrano tutti uguali. E francamente non ho avuto il tempo, né la voglia, d’osservarlo. In quel momento pensavo solo a cavarmela» ammise.
   «Peccato» fece il Tholiano. «Ora più che mai dobbiamo riuscire a comunicare con loro».
   I tentativi di teletrasportare gli Angeli in cella fallirono, dal momento che non si riusciva ad agganciarli. Così fu deciso di tenerli lì, dopo aver rimosso tutti i siluri. Usciti dalla sala di lancio, gli avventurieri sigillarono l’ingresso, lasciando anche delle sentinelle. Ma non c’era modo di sapere se le misure di contenimento sarebbero bastate.
 
   La mattina dopo, informato degli sviluppi, Irvik dovette prendere una decisione difficile. Per quanto gli Angeli fossero sotto chiave, c’era il timore che si liberassero; e stabilire un contatto con loro appariva difficile. Così l’Ingegnere Capo si recò alle prigioni, dove aggiornò Vastra sulla situazione.
   «Beh, avere gli Angeli in custodia è già qualcosa, anche se non mi torna la faccenda della soffiata. Siete certi che sia stato un Angelo a lasciare quel messaggio?» chiese la detective.
   «Beh, proprio certi no. Ma se abbiamo un benefattore a bordo, perché non s’è fatto avanti?» ragionò Irvik. «Comunque i problemi non sono finiti. Dobbiamo comunicare con quegli esseri per scoprire dov’è la nostra dottoressa. Ho cercato informazioni nel database del TARDIS, ma sono incomplete e piene di rimandi a teorie e lavori che non conosco. Lei sembra abbastanza informata sugli Angeli, quindi che ne direbbe d’aiutarmi?» propose.
   «Questa poi! Lei ha una bella faccia tosta!» protestò Vastra. «Dopo che il suo Capitano ha tradito i patti, impadronendosi del TARDIS e relegandoci in cella, ora pretende pure il mio aiuto!».
   «Sono desolato per l’incresciosa situazione» fece il Voth, in tono diplomatico. «Di certo il Capitano non intendeva rompere l’accordo, nel momento in cui lo avete stretto. Purtroppo non sapeva che la sua compagna è dispersa nel tempo. Quando l’ha scoperto, ha dovuto agire di conseguenza. Sono sicuro che una volta ritrovata la dottoressa vi renderà la capsula temporale. Quindi è nel vostro interesse far sì che ciò accada il prima possibile».
   «E se non fosse possibile, anche col mio aiuto? Per quanto ci tratterrà, prima d’arrendersi?!» sbottò Vastra, avvicinandosi alla parete di trasparacciaio. Il suo movimento fu così brusco che Irvik indietreggiò istintivamente, pur essendo fuori portata.
   «Questo purtroppo non so dirglielo» sospirò il Voth. «Vede, il Capitano è uno che non si rassegna facilmente. Inoltre ha avuto delle brutte esperienze con la mia specie, e da allora ha difficoltà a fidarsi dei rettili. Non intendo giustificarlo, naturalmente. Dico solo che la situazione va compresa nelle sue molte sfaccettature...».
   «Ah, c’è poco da comprendere. Avevamo un accordo e il suo Capitano l’ha rotto» fece la Siluriana con amarezza. «La cosa peggiore è che il TARDIS non è mio: appartiene al Dottore. Io mi sono fidata, mettendolo a disposizione di Rivera, e lui ne ha approfittato. Quindi non solo lui ha tradito la mia fiducia, ma io ho tradito quella del Dottore con la mia avventatezza. Ora siamo tutti bloccati, per il tornaconto personale di uno».
   «Rivera sta cercando di salvare colei che ama, la dottoressa Giely» sospirò Irvik. «Che detto fra noi, è una persona meravigliosa. L’anima più pura che abbia mai incontrato, l’anima di questa nave. Se la conoscesse, capirebbe perché tutti noi siamo decisi a salvarla. Mi dica, lei non ha mai corso rischi per aiutare una persona cara?».
   A questa domanda, Vastra dette una rapida occhiata alle celle di fronte, dov’erano rinchiusi Jenny e Strax. «Sì, e lo farei ancora se necessario» ammise. «E va bene, signor Irvik, cercherò d’aiutarla. Ma l’avverto che non sono un ingegnere, né un’esperta di linguistica».
   «Mi basterà che lei chiarisca alcuni rimandi del database» disse l’Ingegnere Capo.
   «Farò il possibile».
   Con questo accordo, il Voth liberò la Siluriana, sotto l’occhio vigile delle guardie, che li scortarono fino al laboratorio linguistico. Di norma era chiuso per mancanza di personale, da quando gli avventurieri s’erano impossessati della Destiny, ma ora l’avevano riaperto, per affrontare il problema. Strada facendo i due sauri non poterono fare a meno di scrutarsi, notando quant’erano simili. Si sarebbero detti della stessa specie, se non fosse che Vastra era carnivora, mentre Irvik aveva un’alimentazione più erbivora, condita solo con qualche insetto. «E così la sua specie si è evoluta sulla Terra, a partire dai dinosauri? Curioso, la mia gente ha fatto altrettanto» notò il Voth.
   «E lei com’è sopravvissuto?».
   «Oh, la mia specie esiste ancora. Dopo la caduta dell’asteroide fummo trasferiti su un pianeta lontano, dove continuammo a evolverci. Desolato che a voi sia andata peggio» fece Irvik.
   «Già, mi ero quasi abituata a essere l’unica rettile in un mondo di mammiferi» mormorò Vastra, malinconica. Di solito cercava di non pensare al passato, per non soffrire troppo.
   «Beh, mi ricordi d’offrirle un drink, quando tutto questo sarà finito. Brinderemo ai nostri mondi perduti» propose il Voth, comprensivo. «Dopotutto, fra... Terrestri ci s’intende».
 
   Passarono tre giorni, che gli avventurieri spesero cercando di comprendere il linguaggio degli Angeli Piangenti. Trattandosi di una sfida interdisciplinare, Irvik aveva radunato un’equipe composta sia da ingegneri come lui stesso, sia da esperti in comunicazioni come Talyn.
   Vastra fu utile soprattutto all’inizio, per ricavare dal database del TARDIS tutte le informazioni possibili, nonché per spiegare alcuni dettagli e riferimenti ignoti ai visitatori di un’altra realtà. Anche in seguito, tuttavia, Irvik volle che la Siluriana restasse con loro durante la giornata. Gli sembrava ingiusto confinarla in cella, dopo l’aiuto che aveva fornito. E poi, più la conosceva, più ne era affascinato. Ne apprezzava la viva intelligenza, il senso dell’umorismo e la schiettezza persino brutale. Ben presto il Voth si rese conto di provare più che semplice stima; era una vera e propria infatuazione. In fondo erano passati parecchi anni dal suo divorzio, e da allora Irvik non aveva più avuto relazioni serie. Da quand’era sulla Destiny non ne aveva avuta nessuna, essendo l’unico sauro a bordo. Ma ora, per la prima volta, aveva accanto una persona così affine da sembrargli compatibile.
   «Peccato che non veda l’ora d’andarsene» si disse l’Ingegnere Capo, guardandola di sottecchi durante una pausa pranzo. «Peccato che se ne andrà per sempre, non appena questa crisi sarà terminata». L’idea era così intollerabile che Irvik fu tentato di rallentare volutamente il lavoro, solo per guadagnare tempo da passare con lei. Ma scartò subito l’idea. C’erano tuttora degli Angeli Piangenti a bordo che potevano fare enormi danni, se fossero sfuggiti al confinamento. E poi Vastra era un’acuta osservatrice, abile a dedurre le motivazioni altrui. Come avrebbe reagito, lei che era così ansiosa di tornare a casa, scoprendo – e l’avrebbe scoperto di sicuro – che lui invece allungava i tempi? No, Irvik non voleva subire il suo disprezzo. E soprattutto non voleva che la Siluriana si sentisse tradita un’altra volta. Quindi si rimise al lavoro, rimandando ogni ulteriore considerazione al termine dell’emergenza. E venne il momento in cui chiamò il Capitano nel laboratorio linguistico, per comunicargli i loro progressi.
 
   «Mi dica che ha buone notizie» fece Rivera, reduce da tre giorni di rimorsi e preoccupazioni.
   «Ce le ho davvero, signore. Ritengo che abbiamo fatto progressi decisivi!» annunciò il Voth. Era orgoglioso del loro lavoro, sebbene in tal modo la partenza di Vastra si avvicinasse sempre più. «La chiave sono le radiazioni tachioniche, quelle che gli Angeli usano per gettare le loro vittime indietro nel tempo. Emettendone in minor quantità, e modulandole con straordinaria precisione – non mi chieda come – essi riescono a comunicare. Di sicuro parlano tra loro; ma una volta decodificata la matrice linguistica, anche noi potremo tradurre in tempo reale».
   «Ottimo. E oltre a ricevere i loro discorsi, siamo anche in grado di trasmettere?» s’interessò il Capitano.
   «Questo è stato più complicato. Non sappiamo nemmeno se gli Angeli riescano a udire, tanto meno a tradurre, il nostro linguaggio. Comunque ci siamo attrezzati per trasmettere nel loro. Abbiamo recuperato e adattato questi emettitori tachionici» spiegò Irvik, alludendo a un paio di strani congegni, simili a parabole montate su sostegni. «Ci permetteranno di tradurre il nostro linguaggio, così da renderglielo comprensibile».
   «Tutto questo in teoria. È il momento di passare alla prova pratica» disse Vastra.
   «Okay, portiamo l’attrezzatura sul posto e vediamo se gli Angeli rispondono» approvò il Capitano. Le creature erano ancora isolate nella camera di lancio siluri, con le sentinelle all’esterno. Finora non c’erano stati tentativi d’evasione.
   Gli ingegneri presero a caricare gli emettitori modificati su un paio di carrelli antigravitazionali. Il resto dell’equipe si scambiava le ultime considerazioni prima del test. Il Capitano ne approfittò per prendere Irvik da parte. «Vi ha dato qualche problema?» chiese, accennando a Vastra.
   «Al contrario, si è resa molto utile» rispose l’Ingegnere Capo. «Se l’operazione riesce, e non vedo perché non dovrebbe, credo proprio che le dovrà delle scuse».
   «Prima vediamo come vanno le cose» disse Rivera, deciso a non mollare il TARDIS finché non avesse riavuto Giely a bordo.
   D’un tratto squillò una sirena, simile all’Allarme Rosso. «Attenzione, allarme bomba. Evacuare il laboratorio linguistico» avvertì il computer, mentre la porta si apriva in automatico.
   «Caramba, ma che...» fece il Capitano, colto alla sprovvista dall’inaspettato allarme.
   «Ci sarà un errore, nessuno può aver piazzato una bomba...» mormorò Irvik, avvicinandosi a una consolle sensori.
   Talyn però si alzò di scatto dalla sua postazione e fece fretta agli altri. «Tutti fuori, presto! Non s’ignora un allarme come questo!» gridò. Prese il Voth e lo sospinse verso l’uscita. Allora anche gli altri si dettero alla fuga.
   «No, lasciate perdere! Fuori, subito!» urlò Rivera a un paio d’ingegneri che si stavano attardando per portar via gli emettitori. I due lasciarono perdere gli apparecchi e seguirono il Capitano fuori dal laboratorio. La porta antiscoppio si chiuse, appena in tempo.
   Ci fu un’esplosione assordante, che deformò la porta. Le schegge schizzarono contro la paratia opposta, ferendo alcuni ingegneri. Lo spostamento d’aria scaraventò tutti a terra. Mentre l’allarme continuava a risuonare, e dal laboratorio distrutto esalava un acre fumo nero, il Capitano si rialzò tossendo. «State tutti bene?!» chiese, guardandosi attorno. Udì appena la sua stessa voce. Le orecchie gli fischiavano per la sordità temporanea indotta dal boato.
   «Abbiamo un paio di feriti» disse Irvik, chino sui colleghi sanguinanti. «Nessuno in pericolo di vita, per fortuna».
   «Ma che è successo?!» fece Vastra, scossa dall’evento. Guardò la porta, così deformata verso l’esterno che si reggeva a stento.
   «Dubito che sia stato un incidente. Qualcuno ha cercato di farci la pelle» rispose Talyn, cupo.
 
   «Ebbene?» fece il Capitano di lì a poco. Erano tutti in infermeria, dove il Medico Olografico – in assenza di Giely – si occupava dei feriti. In quel momento stava curando Vastra, che aveva una scheggia nel braccio.
   «Si è trattato indubbiamente di un attentato» confermò Naskeel, che aveva già ispezionato il laboratorio devastato. «Qualcuno si è introdotto nel tubo di Jefferies adiacente e vi ha lasciato un esplosivo. Direi una granata al plasma o qualcosa d’equivalente. Stiamo inventariando le armerie, per vedere se ci è stata sottratta o introdotta dall’esterno».
   «Ma gli Angeli sono sempre sotto chiave?».
   «Affermativo. Del resto gli attentati esplosivi sono estranei al loro modus operandi» confermò il Tholiano.
   «Allora c’è qualcun altro a bordo che ci vuole morti» sospirò Rivera. Si accostò a Irvik e Talyn, approfittando del fatto che Vastra era sul tavolo operatorio e non poteva sentirli. «In questi giorni non l’avete mai persa di vista, vero?» chiese.
   «Ma come le viene in mente che possa essere stata lei! Sarebbe morta con noi, se l’allarme non ci avesse avvisati!» si scandalizzò il Voth.
   «E questo non avrebbe aiutato in alcun modo Jenny e Strax a riprendere il controllo del TARDIS, anzi lo avrebbe reso più difficile» aggiunse Talyn. «No, escludo che Vastra sia colpevole. Non vedeva l’ora che il lavoro finisse, per tornare a casa».
   «D’accordo, escludiamola» sospirò il Capitano. «Significa che c’è un attentatore a piede libero. Ha fallito il primo attacco e quindi ci riproverà. Che possiamo fare per fermarlo?».
   «Alzerò al massimo la sicurezza, ma per intervenire in modo mirato bisogna individuare il suo obiettivo. Uno di voi? Tutti voi assieme? O forse vuole sabotare gli sforzi per comunicare con gli Angeli?» ragionò Naskeel.
   «E c’è riuscito? Con gli emettitori tachionici distrutti, gli sforzi sono naufragati?» chiese Rivera.
   «Per fortuna ne abbiamo altri due nella stiva» assicurò Irvik. «Certo che, se perdiamo anche quelli, sarà difficile costruirne altri. Dovremo replicare un componente alla volta e assemblarli, potrebbero volerci settimane».
   «Ho già mandato una squadra a sorvegliarli» garantì Naskeel.
   «Nulla d’irreparabile, quindi?» fece il Capitano, sollevato.
   «Per adesso no. Tuttavia vorrei porre l’attenzione non solo sull’attentato, ma anche sul motivo per cui è fallito» disse il Tholiano.
   «È squillato l’allarme bomba» ricordò il Capitano.
   «Sì, ma non perché i sensori interni l’abbiano rilevata. Chiunque abbia piazzato quell’ordigno è anche riuscito a occultarlo» rivelò Naskeel. «Il vero motivo è che qualcuno ha diramato l’allarme da una consolle parietale poco distante».
   «Qualcuno chi?» si accigliò Rivera.
   «Qualcuno che riesce a non farsi rilevare dai sensori, che non lascia impronte, e che ha un’autorizzazione di sicurezza di livello 2» rispose l’Ufficiale Tattico.
   «Appena inferiore alla mia... non sono in molti sull’astronave» notò il Capitano.
   «E quei pochi si trovavano tutti altrove in quel momento» confermò Naskeel.
   «Quindi abbiamo due presenze che sfuggono ai sensori. Una che vuole distruggerci, l’altra invece che cerca d’aiutarci» ragionò Talyn.
   «E nessuno può essere un Angelo Piangente, visto che sono tutti sorvegliati» aggiunse Irvik. «Beh, questo è un bel problema, Capitano. Vuole che rimandiamo il confronto con gli Angeli, mentre ce ne occupiamo?».
   «No, temo che in quel caso anche gli intrusi resterebbero nascosti, e perderemmo solo tempo. Oppure l’attentatore colpirebbe ancora, magari con più successo» ragionò il Capitano. «Se vuole impedirci di parlare con gli Angeli, allora dobbiamo farlo al più presto. Qualcosa mi dice che lo conoscono, e potrebbero smascherarlo» intuì.
   «Concordo. Inoltre dobbiamo porre estrema attenzione al TARDIS» aggiunse Naskeel. «Se l’attentatore, che evidentemente sfugge ai sensori, le rubasse le chiavi e se ne impadronisse, diverrebbe inarrestabile» avvertì.
   Rivera rammentò come un Angelo Piangente gli fosse arrivato a pochi passi di distanza, mentre lui dormiva. Anche se all’apparenza l’attentatore era un altro, non poteva rischiare di farsi sorprendere ancora così. Ma dove poteva nascondersi? Non sembrava esserci un luogo sicuro in tutta la nave.
   In tutta la nave. A quel pensiero, la soluzione gli balenò spontanea.
 
   «È una sistemazione temporanea» disse il Capitano, dato che Irvik continuava a guardarlo con disapprovazione. Non osando stare fuori dal TARDIS, per timore di farsi soffiare le chiavi, si erano trincerati al suo interno. Gli ingegneri avevano portato a bordo gli ultimi due emettitori tachionici, assieme al materiale necessario per modificarli. L’idea era chiudersi nel TARDIS e uscirne solo a lavoro ultimato. Il resto dell’equipaggio era avvertito di non disturbarli, se non per ragioni della massima gravità.
   «Insisto nel dire che ci stiamo approfittando un po’ troppo dei nostri ospiti» borbottò l’Ingegnere Capo. «Comunque, che ne dice d’accoglierli qui dentro? Così almeno saranno al sicuro da ulteriori attentati» suggerì.
   «E magari proveranno a riprendersi il TARDIS. Mi dica, è stata Vastra a suggerirglielo? Ho notato che sembrate andare molto d’accordo» insinuò Rivera.
   «E allora? Offrirgli protezione mi sembra il minimo!» ribatté il Voth, con le scaglie arrossate dall’imbarazzo. «E se l’attentatore ci attaccasse, la loro conoscenza del TARDIS sarebbe preziosa» aggiunse, per quanto suonasse pretestuoso.
   Il Capitano comprese che l’Ingegnere non sarebbe riuscito a concentrarsi sul lavoro, se continuava a preoccuparsi per Vastra. «E va bene, portateli qui tutti e tre!» si arrese. «Poi però basta. Non ha senso rifugiarci qui dentro, se imbarchiamo tutti quanti».
   Nell’attesa, Rivera esplorò il piano superiore, dove si trovavano i quartieri abitativi. Il ballatoio circolare era arredato come un salotto, con tavolini e comode sedie. C’era anche una ricca biblioteca, con volumi dai titoli improbabili. E su una mensola, seminascosta fra le librerie, il Capitano notò una serie di foto ricordo, autografate sul retro. Erano tutte donne, tra l’altro di bell’aspetto: Rose Tyler, Martha Jones, Donna Noble, Sarah Smith, Amy Pond, River Song, Clara Oswald. Il Capitano si chiese che ne fosse stato di loro.
   Di lì a poco la Sicurezza portò Vastra e i suoi sodali, che apparivano piuttosto seccati. Ad ogni nuovo problema, infatti, il loro ritorno a casa si allontanava. «Prego, fate come a casa vostra!» commentò Vastra, vedendo come gli ingegneri si erano insediati nel TARDIS.
   «Non ci vorrà molto, milady» disse Irvik, in tono di scusa.
   «Beh, cercate di non lasciare niente fuori posto. E alla fine, per favore, sbaraccate e ripulite tutto. Se il Dottore scopre come vi state approfittando della situazione, vi spedisce tutti nel Paleolitico» avvertì la Siluriana.
   «E perché dovrebbe scoprirlo? Se non glielo dice lei...» fece Rivera, affacciandosi dalla balaustra.
   «Scherza? Ormai sono colpevole quanto voi!» sbuffò Vastra. Salì la scaletta, raggiungendo l’Umano al piano superiore. «Deve proprio ficcare il naso ovunque?» si lamentò.
   «Perché, avete qualcosa da nascondere?» ribatté il Capitano, accennando alle foto. «Chi sono tutte quelle squinzie?» volle sapere.
   «Le compagne del Dottore».
   «Accidenti, s’è fatto un bell’harem!».
   «Non le ha avute tutte insieme, ovviamente. Sono in ordine di tempo» chiarì la Siluriana, con un’occhiataccia.
   «Beh, anche così direi che è un bel mandrillone. A questo punto ho paura d’esplorare le sale interne del TARDIS. Temo di trovarne una con esposti i cadaveri delle sue ex» ironizzò Rivera, memore della fiaba di Barbablù che lo terrorizzava da bambino.
   «Lei non capisce. Il Dottore è un Signore del Tempo. Significa che, in punto di morte, è capace di rigenerarsi, assumendo una nuova identità e cominciando una nuova vita» spiegò Vastra. «Quelle che vede sono le compagne che ha avuto nell’arco di molte esistenze. Pensi che il Dottore attuale è il Dodicesimo. E le sue “morti” sono state quasi sempre dovute al fatto che si è sacrificato per salvare degli innocenti» rivelò.
   Il Capitano fischiò, impressionato. «Beh, almeno lui sa di potersi rigenerare. Sospetto che la maggior parte delle sue compagne non sia stata così fortunata».
   «No, purtroppo» ammise la Siluriana, contemplando quei volti perduti nel tempo.
   «Allora capirà perché io sono così determinato a salvare la mia compagna» insisté Rivera. «Giely è la persona migliore che ci sia su questa nave... l’unica che si è davvero guadagnata l’uniforme della Flotta Stellare. Non la lascerò smarrita in qualche epoca ostile. Finché avrò una traccia, mi rifiuto di darmi per vinto» chiarì.
   «Allora proceda» si arrese Vastra. «Ma stia attento a trattare con gli Angeli. Non hanno alcun senso dell’onore. E non mi stupirei se la mettessero su una falsa pista» avvertì.
   «Lo terrò a mente» promise il Capitano.
   I due lasciarono il camminamento e ridiscesero al piano inferiore, dove gli ingegneri erano all’opera. «Se avete tutto ciò che vi occorre, vi lascio. Ho disposto delle sentinelle all’esterno» disse Naskeel, che fino a quel momento aveva sorvegliato il salone.
   «Bene, continui le indagini. Cerchi l’attentatore» raccomandò il Capitano.
   «Lo farò. Ho già formulato alcune ipotesi e intendo verificarle» disse il Tholiano, e lasciò di fretta il TARDIS.
 
   Durante il turno di notte, come su ogni astronave, l’equipaggio era ridotto al minimo e la disciplina di bordo era più rilassata. Interi ponti erano persino lasciati al buio, non essendovi nessuno a lavorare. Ma la camera di lancio siluri 5 era sempre sorvegliata, con le sentinelle fuori dal portone sigillato. Ogni pochi attimi controllavano l’interno, tramite uno schermo connesso a una telecamera, così da non dover aprire il portone. Poteva sembrare un compito di tutto riposo, ma dopo tre giorni era diventato snervante, nonostante i frequenti cambi di turno.
   «Mi sembra d’essere un idiota, a sorvegliare una camera piena di statue!» sbottò una delle guardie, un grosso Orioniano.
   «Sai che non sono statue. Sono bestiacce aliene, e non devono uscire!» ribatté il caposquadra, il Nausicaano di nome Ruuvan.
   «E chi lo dice che sono vivi? In tre giorni non si sono mossi di un millimetro!» insisté l’Orioniano. Accennò allo schermo parietale, che mostrava l’interno. Gli Angeli Piangenti erano fermi nella stessa identica posizione da tre giorni.
   «Forse stanno facendo il morto» suggerì il terzo sorvegliante, un Packled non tanto sveglio.
   «Bah! Non avete sentito il Capitano? Questi si muovono solo mentre nessuno li guarda. Quindi se stanno fermi significa che stiamo facendo buona guardia!» sostenne Ruuvan.
   «Oppure che è tutta una fesseria» insisté l’Orioniano. «Insomma, prima o poi dovremo prendere una decisione. Non possiamo mica sorvegliarli in eterno! O li distruggiamo, o li buttiamo nello spazio!».
   «Non si possono distruggere. E il Capitano vuol parlare con loro prima di liberarsene, quindi porta pazienza» ribadì il Nausicaano.
   «Non si possono distruggere, eh? Sono proprio curioso di verificarlo!» ghignò l’Orioniano, regolando al massimo il suo fucile polaronico.
   «Ehi, che ti prende? Metti giù quell’affare!» ordinò Ruuvan, accorgendosi che la situazione gli sfuggiva di mano.
   «Voglio solo fare una prova» disse l’Orioniano, accostandosi ai comandi del portone. «Fammene colpire uno. Se quell’affare va in pezzi, significa che è solo una vecchia statua. Che sono tutte statue. E noi possiamo smettere di sorvegliarle come dei fessi!» esclamò.
   «Giusto, fallo provare!» approvò il Packled.
   «E va bene. Ma teneteli d’occhio, nel caso sia tutto vero!» raccomandò Ruuvan, temendo che gli Angeli fuggissero mentre il portone era aperto.
   «Seeehhh, figurarsi se sono alieni che si muovono solo quando nessuno li guarda!» fece l’Orioniano, aprendo la porta blindata.
   I sorveglianti scattarono, per ostruire l’ingresso, con le armi spianate. Spinsero gli sguardi in avanti... e rimasero di stucco. Perché la camera di lancio era vuota.
   «Ma che... un attimo fa c’erano!» protestò l’Orioniano. Arretrò di un passo, per guardare di nuovo lo schermo nel corridoio. Ed ecco, gli Angeli Piangenti erano magicamente al loro posto. «Ci sono ancora?! Non capisco...».
   «Grunt!» fece il Nausicaano, scuotendo la testa irsuta. «Ricordate cos’ha detto il Capitano? L’immagine di un Angelo è essa stessa un Angelo. Se la telecamera li ha inquadrati troppo a lungo, si sarà formata un’immagine latente. Noi credevamo che fossero ancora al loro posto, e invece...».
   «... invece sono andati» disse il Packled, indicando uno squarcio nella paratia. Evidentemente gli Angeli erano così forti da essersi aperti un varco per il tubo di Jefferies più vicino. E da lì potevano essere andati ovunque nell’astronave.
 
   L’Angelo Piangente si aggirava nei corridoi, veloce e inafferrabile come un’ombra. I suoi sensi erano qualcosa d’inconcepibile per gli esseri di carne e sangue. Ogni volta che si avvicinava a qualcuno, l’Angelo percepiva non solo il suo aspetto fisico, ma anche la sua estensione temporale. Quel Ferengi poco più avanti, ad esempio... esisteva da 47 anni. Gliene restavano pochi, prima di fare una brutta fine. Se l’Angelo avesse divorato quel potenziale, sarebbe stato un magro pasto. Del resto, al momento non intendeva nutrirsi. Così rimase acquattato fra le ombre, mentre il Ferengi si allontanava.
   Ora che la via era libera, l’Angelo Piangente riprese a muoversi con la sicurezza di chi conosceva la Destiny. Aveva un dovere ben preciso da portare a termine. Per prima cosa doveva raggiungere il TARDIS. Entrò in un turboascensore e, non avendo una voce con cui ordinare la destinazione al computer, digitò le coordinate sull’interfaccia LCARS. Con le stringenti misure di sicurezza adottate da Naskeel, serviva un’autorizzazione per raggiungere il ponte di comando. Per sua fortuna, l’Angelo conosceva i codici di sicurezza. Li ricordava.
   L’Angelo avvertì una strana sensazione. Fame. Una crescente, irresistibile fame. Era affamato di tempo, degli anni che gli altri avrebbero vissuto. Per il momento poteva resistere. Ma prima o poi avrebbe dovuto nutrirsi.
 
   Il Capitano aprì gli occhi. Lui e gli altri si erano coricati entro sacchi a pelo per la notte, così da restare vicini, nel salone centrale del TARDIS. E per un poco erano riusciti a sonnecchiare, malgrado le preoccupazioni. Adesso però Rivera si era svegliato, con una strana inquietudine. Si guardò attorno: l’illuminazione principale era abbassata per consentire il sonno, ma alcune lucette brillavano ancora su consolle e pareti. In quel fioco chiarore, il Capitano si accorse che anche gli altri avevano gli occhi aperti. Irvik, Talyn, gli ingegneri... erano tutti svegli.
   «Qualcosa non va» sussurrò Talyn.
   Il Capitano spinse lo sguardo più avanti. Si accorse che i tre ospiti del XIX secolo non erano più nei loro giacigli. E dubitava che fossero dovuti andare in bagno nello stesso momento. «Lo sapevo che portavano guai» si disse. Senza una parola, solo a gesti, segnalò ai compagni d’alzarsi e prendere le armi. Lui stesso lasciò il sacco a pelo, col phaser già in mano. Per fortuna tutti loro si erano coricati vestiti, in previsione di un’emergenza.
   Rivera girò lentamente su se stesso, osservando ogni dettaglio del salone. L’ingresso sigillato, le pareti fitte di comandi, il rotore temporale, altre pareti con altri comandi, di nuovo l’ingresso... ma stavolta gli Angeli Piangenti erano lì. Tutti e sei, in atteggiamento terrifico, con le mani artigliate protese a ghermirlo. Il suo incubo trasformato in realtà.
   «Luci!» gridò il Capitano.
   Irvik mise mano ai comandi, ripristinando la piena illuminazione. Gli avventurieri fissarono gli Angeli, cercando di trattenerli... ma per quanto ci sarebbero riusciti?
   «E questi come sono entrati?! Capitano, ha ancora le chiavi?» chiese il Voth.
   Rivera si tastò istintivamente il collo. Aveva ancora la catenella con le chiavette appese. «Sì, eccole qui» rispose.
   «Allora non ci capisco niente. Vastra aveva detto che non si può entrare, senza chiavi» notò Irvik.
   «A meno che qualcuno non apra da dentro!» corresse una voce femminile proveniente dall’alto, cioè dalla balaustra del piano superiore. Molte teste si alzarono nella sua direzione.
   «No, continuate a fissare gli Angeli!» ordinò il Capitano. «Mi occupo io della conversazione». Quando fu certo che le creature erano sotto controllo, almeno per il momento, osò alzare gli occhi. Come temeva, vide Vastra e i suoi gregari che li fissavano dalla balaustra. Impugnavano armi a raggi mai viste prima, forse recuperate da qualche comparto del TARDIS, e li tenevano sotto tiro.
   «Vastra, no!» gemette Irvik, guardandola a sua volta. «Eravamo così vicini a comunicare con gli Angeli! Perché farci questo?».
   «Cosa vi fa credere che comunicare con loro avrebbe risolto qualcosa? Ormai la situazione è troppo complicata» fece la Siluriana, acida. «E poi avete già tradito la vostra parola. Troverete scusa dopo scusa per farlo ancora, e tenervi il TARDIS. Il che per me è inaccettabile. Ora gli Angeli si faranno un bel buffet con voi, e noi potremo finalmente ripartire».
   «Con gli Angeli a bordo?!» obiettò il Capitano.
   «Gli Angeli hanno tutto il vostro equipaggio per banchettare. Usciranno da qui» rispose Vastra, con una strana sicurezza.
   «Non può dire sul serio. Jenny, Strax... voi che ne pensate? Volete essere complici di questa follia?!» protestò Rivera. Ma i due domestici rimasero stranamente silenziosi, in contrasto col loro solito atteggiamento salace.
   «È inutile che fissiate gli Angeli come se ciò potesse salvarvi. La notte è giovane, e prima che sia terminata vi prenderanno. Per il vostro bene, spero che vi permettano di restare assieme. Renderà l’esilio meno duro» disse Vastra.
   «Non sono stati così clementi con Giely. L’hanno spedita chissà dove, tutta sola!» ringhiò il Capitano, in preda a dolore e frustrazione.
   «Non salti alle conclusioni, Capitano» disse una voce dal timbro metallico, proveniente da dietro gli avventurieri. Rivera la riconobbe: era Naskeel. Che ci faceva sul TARDIS?!
   «Può voltarsi, signore. Tutti voi potete farlo. Gi Angeli Piangenti non sono più una minaccia» disse il Tholiano.
   Rivera stentava a crederlo. Ma stavano succedendo cose così strane, così inspiegabili, che forse gli conveniva fidarsi. Presa la decisione, si girò di scatto. Come si aspettava, vide Naskeel. Ciò che invece non si aspettava era di trovare un altro Angelo Piangente accanto a lui. La creatura, bella ma triste, fissava i suoi simili sull’altro lato del salone, e in tal modo li teneva in blocco quantistico. Naturalmente, così facendo, anch’essa era bloccata per l’eternità, a meno che qualcuno non interrompesse il contatto visivo.
   «Che ti salta in testa, idiota?!» gridò Vastra, rivolgendosi al nuovo Angelo.
   Poco alla volta anche gli altri avventurieri osarono distogliere lo sguardo dagli Angeli mostruosi, rivolgendolo invece a quello in posa dolente.
   «Un settimo Angelo? E questo da dove sbuca? Sono sempre stati sei!» disse Rivera, ritrovando la voce.
   «Mi dolgo per lei, Capitano» disse Naskeel, insolitamente gentile.
   Sempre più confuso, Rivera alzò gli occhi a Vastra. «Lei sa che succede?!» intimò.
   «Ma certo che lo so, povero ingenuo» fece la Siluriana, sempre acida. «Se conoscesse i poteri degli Angeli Piangenti... Naskeel non le ha detto cos’è accaduto a Giely?».
   «Ne so abbastanza! Gli Angeli l’hanno spedita nel passato!» ringhiò il Capitano, con uno strano senso di déjà vu.
   «No; quella è Giely» disse Vastra, indicando il settimo Angelo Piangente.
   Solo allora gli avventurieri notarono le delicate fattezze femminili e i capelli lunghi, che lo differenziavano dagli altri. Cosa ancor più decisiva, notarono le orecchie zigrinate da Vorta. Allora Rivera riconobbe l’Angelo che lo aveva visitato nottetempo nel suo alloggio, avvertendolo su dove trovare gli altri. Lo stesso che, con ogni probabilità, aveva salvato tutti loro dall’esplosione nel laboratorio. E che ora si era sacrificato, entrando in blocco quantistico pur di fermare gli altri. Giely non se n’era mai andata: era sempre stata lì a vegliarlo, come un angelo custode.
 
   Quattro giorni prima.
   «Non ce la faremo!» gemette il Capitano. Stava cercando di lasciare la stiva 3 assieme a Giely e Naskeel, ma le luci sfarfallavano, e ad ogni istante buio gli Angeli Piangenti guadagnavano terreno. La dottoressa era quasi alla porta, ma gli altri erano più indietro. Il Capitano non era più nemmeno certo di voler lasciare la stiva. Se gli Angeli erano invulnerabili e inarrestabili, aprire la porta rischiava solo di sguinzagliarli in giro per la nave.
   «Afferri ciò che può» consigliò Naskeel, dato che Rivera era l’unico abbastanza vicino al carico da poter toccare qualcosa. «Tutti gli scomparsi sono svaniti con ciò che avevano in mano. Se sopravvivremo al tocco degli Angeli, potrebbe farci comodo avere degli oggetti di valore» spiegò il Tholiano.
   Agendo d’istinto, il Capitano afferrò la cassetta contenente le antiche sterline d’oro. L’attimo dopo le luci si spensero, solo per un istante. Quando si riaccesero, sia lui che Naskeel erano scomparsi. Non c’erano tracce, erano semplicemente svaniti. E i sei Angeli Piangenti erano allineati lungo la parete di fondo, i volti celati dalle mani, come se non si fossero mai mossi.
   «NO!» gridò Giely, inorridita. Rinunciò ad aprire la porta, temendo che gli Angeli ne approfittassero per fuggire, e tornò indietro. «Che cosa avete fatto?! Li avete mandati da qualche parte? Se è così... mandatemi con loro!» implorò.
   Buio, luce. Adesso tutti gli Angeli la fissavano con una strana espressione. Da come le loro labbra erano increspate, pareva un sorrisetto ironico. La dottoressa ne fu spaventata. «Perché quelle facce? Perché non mi avete presa come gli altri?!» gridò.
   Buio, luce. Ora ciascun Angelo levava la mano destra verso di lei. Cosa ancor più inquietante, gli esseri brillavano di una luce spettrale. Giely avvertì qualcosa di strano, un’energia indefinibile ma potente che scorreva verso di lei. Le fece accapponare la pelle e palpitare il cuore. Comprese che stava per accadere qualcosa di drastico. Quali che fossero i piani degli Angeli, era chiaro che avevano in serbo per lei una sorte diversa dai compagni. «Insomma, che volete da me?!» strillò. Furono le ultime parole a uscirle di bocca.
   Buio, luce. Giely sentì l’energia riverberare in lei, come un diapason. Cercò d’indietreggiare, ma sentì i piedi pesanti, come se fossero ancorati al pavimento. Abbassò lo sguardo e vide con orrore che erano grigi e pesanti come pietra. La metamorfosi si compì dal basso verso l’alto, come un’onda grigiastra che saliva a invaderla. Il suo corpo s’impietrì, facendosi duro e freddo. Anche gli abiti subirono la stessa trasformazione, oltre a cambiare foggia, divenendo una lunga veste fluente come quelle degli Angeli. Sentendosi sempre più rigida e lenta nei movimenti, Giely si guardò le mani. Con orrore le vide ingrigirsi; persino le vene dei polsi si pietrificavano e il sangue smetteva di scorrere. Nello stesso momento, la Vorta sentì che il cuore cessava di batterle e i polmoni smettevano di respirare; eppure era ancora viva e cosciente. Non c’era nulla, nelle sue conoscenze mediche, in grado di spiegare quell’inaudita metamorfosi. Il panico s’impossessò di lei, ma non perché temesse di morire. «Ecco cosa vogliono... mi stanno trasformando in una di loro» comprese.
   L’attimo dopo provò un dolore lancinante alla schiena, nella zona delle scapole. Era come se la stessero squartando. Aprì la bocca per urlare, ma riuscì a emettere solo un fioco rantolo. Sentì che qualcosa le usciva dalle scapole, prima quella destra, poi la sinistra. Nuove appendici, che prima non aveva. Ora invece le percepiva come parte di sé, e con un certo sforzo riusciva persino a muoverle. Si guardò di lato e le vide, per via della loro ampiezza: erano grandi ali piumate. «Le ali... ho davvero le ali. Proprio come un angelo» si disse, scioccata.
   In quella la metamorfosi, che aveva continuato a procedere verso l’alto, le risalì il collo e raggiunse la testa. Giely smise di vedere e di sentire, almeno nel modo a lei noto, guadagnando in cambio nuove percezioni. Gli occhi divennero grigi come il resto, mentre i capelli si rapprendevano in quella che pareva una massa scolpita. La Vorta era ormai diventata qualcos’altro; una cosa né viva né morta. D’un tratto i suoi movimenti divennero istintivi. Il nuovo Angelo Piangente raccolse le ali attorno al corpo, chinò il capo e lo coprì con le mani, assumendo la tipica posa luttuosa. Una posa che, in realtà, era volta a non cadere in blocco quantistico in prossimità dei suoi simili.
   Buio, luce. Adesso c’erano sette Angeli Piangenti allineati lungo la parete di fondo, i volti celati dalle mani, come se non si fossero mai mossi...
 

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Capitolo 7
*** Angelo Custode ***


-Capitolo 6: Angelo Custode
 
   Nella sala centrale del TARDIS regnava il silenzio. Il Capitano fissava l’Angelo Piangente che un tempo era stata Giely, maledicendosi per non averla riconosciuta al primo sguardo. In tal modo l’aveva costretta a fuggire, a proteggerlo di nascosto, e ora a sacrificarsi per salvarlo dagli altri Angeli. Con un grosso sforzo, Rivera distolse lo sguardo da lei, e tornò a occuparsi di Vastra. «La trasformazione è reversibile?» chiese, cercando di non far tremare la voce.
   «Francamente, non lo so. Gli Angeli Piangenti sono creature misteriose» rispose la Siluriana. Lei e i gregari continuavano a tenere gli avventurieri sotto tiro, avvantaggiati dal fatto di trovarsi più in alto.
   «Beh, potremmo chiederlo a loro, se mi deste il tempo di finire il mio lavoro!» sbottò Irvik, sempre più deluso e irritato dal suo atteggiamento.
   «Temo di non potervelo permettere» rispose Vastra in tono minaccioso. «Mi avete già procurato fin troppi guai. Finora ve la siete cavata, grazie al vostro angelo custode... ma la fortuna è finita».
   «Quindi è stata lei a piazzare la bomba nel laboratorio» comprese Rivera. «Ma c’era anche lei là dentro... come contava di sopravvivere?».
   «C’ero? Per essere il Capitano di questa nave, lei è lento di comprendonio. Mi sa che il suo Ufficiale Tattico ha già capito come stanno le cose» fece la Siluriana in tono beffardo.
   Rivera si rivolse al Tholiano, sperando che fosse così.
   «Signore, ritengo che costoro non siano Lady Vastra e i suoi gregari» spiegò Naskeel con calma. «Credo invece si tratti di Amirani e delle sue guardie del corpo».
   «L’ispettrice doganale?!» fece Rivera, al colmo dello stupore. Con tutti gli eventi degli ultimi giorni, si era praticamente scordato che quei tre erano ancora a bordo, per via della quarantena.
   «Ovviamente anche quella è una copertura» chiarì il Tholiano.
   «Oh, finalmente qualcuno capace d’usare il cervello. O qualunque cosa abbia la sua specie per pensare!» commentò l’essere che pareva Vastra. «Per la cronaca, il mio vero nome è Rani». Così dicendo si portò la mano destra al polso opposto, premendo un comando invisibile. Allora la proiezione olografica sfarfallò e si dissolse, rivelando il suo vero aspetto. Era proprio l’ispettrice, con l’uniforme doganale rossiccia e il bracciale elettronico fitto di comandi. I folti capelli castani, simili a una criniera leonina, le incorniciavano il viso, atteggiato a un sorriso sardonico. Anche i suoi aiutanti disattivarono il mascheramento olografico, rivelandosi le guardie del corpo che l’avevano accompagnata fino a quel momento.
   «Vediamo se indovino, Rani: lei è un ufficiale d’alto rango dei servizi segreti terrestri» disse Naskeel. «Ha architettato l’intera operazione allo scopo d’impossessarsi della Destiny. Grazie ai suoi contatti su Nocturne, ha fatto in modo che sei Angeli Piangenti fossero imbarcati, mimetizzati fra le antichità terrestri. Sperava che ci avrebbero neutralizzati strada facendo, spedendoci indietro nel tempo, così che all’arrivo sulla Terra lei avrebbe trovato un’astronave semivuota, facile da conquistare.
   Ma il piano originale è fallito fin da subito, perché la nostra nave è così veloce, e gli Angeli erano così ben sigillati nella stiva, che all’arrivo non avevano ancora avuto modo di colpire. Quindi ha dovuto presentarsi sotto falsa identità. Si è imbarcata fingendosi l’ispettrice doganale e ha paventato una terribile epidemia, il Flood. Che in realtà non è mai stato una minaccia, dato che i virus da lei stessa introdotta erano inattivi: l’ho verificato assieme al Medico Olografico. Così ha avuto la scusa per metterci in quarantena, dando agli Angeli il tempo di colpire. E al tempo stesso è rimasta a bordo, per controllare come procedevano le cose. Suppongo che si fosse già accordata con gli Angeli, così che non temeva di diventare a sua volta loro vittima».
   «Beh, complimenti» riconobbe Rani con una smorfia. «Continui, vediamo se merita l’applauso».
   «Quando gli Angeli hanno preso gli ufficiali superiori, tra cui il Capitano e me, avrà pensato che la sua vittoria si avvicinava» proseguì Naskeel. «Poi però sono accadute due cose che lei non aveva previsto.
   Primo: invece di spedire Giely nel passato, gli Angeli l’hanno trasformata in una di loro, suppongo nel tentativo d’infoltire i loro ranghi e prenderci più in fretta. Ma anche in questo stato, la dottoressa ha conservato la memoria e la lealtà, diventando la nostra protettrice.
   Secondo: noi che eravamo davvero finiti nel passato abbiamo trovato il modo di tornare. Suppongo che in un primo momento la nostra subitanea ricomparsa l’abbia colta di sorpresa. Poi ha scoperto che eravamo tornati grazie al TARDIS. Allora, visto che ormai sapevamo come tenere a bada gli Angeli, ha spostato le sue mire di conquista dall’astronave alla capsula temporale. Un obiettivo più facile da sottrarre, se solo si fosse impadronita delle chiavi. Noi però stavamo cercando di comunicare con gli Angeli, per rintracciare Giely, e lei temeva che l’avrebbero smascherata. Così ha piazzato la bomba nel laboratorio linguistico, sperando d’eliminarci. Ma Giely vegliava su di noi e ci ha avvertiti. E quando ci siamo trincerati nel TARDIS, lei e le sue guardie avete fatto quest’ultimo tentativo per sbarazzarvi di noi. È evidente che vi siete sostituiti ai nostri ospiti solo nelle ultime ore, dopo l’attentato. Li avete uccisi?».
   «No, si trovano privi di sensi nel mio alloggio» ammise Rani. «Speravo di far ricadere la colpa su di loro, alla fine di tutto. In effetti può ancora funzionare: mi basta sbarazzarmi di voi!» minacciò. Lei e le sue guardie tenevano gli avventurieri sotto tiro, ma anche questi avevano le armi in pugno. E sebbene gli avventurieri si trovassero in una posizione sfavorevole, più in basso e senza ripari, avevano pur sempre il vantaggio numerico, rendendo imprevedibile l’esito della sparatoria.
   «Mi resta solo un dubbio: come avete fatto a ingannare così bene i nostri sensori, tanto da aggirarvi indisturbati sulla nave?» chiese Naskeel, con invidiabile tranquillità.
   «Ho più risorse di quanto crede» avvertì Rani. «Tra il mascheramento olografico e altri gadget, posso diventare ciò che richiedono le circostanze. Avete visto la mia tessera identificativa, no?». Così dicendo la estrasse di tasca e la lasciò cadere giù dalla balaustra.
   Rivera l’afferrò al volo e la osservò, perplesso. Era lo stesso documento che gli aveva mostrato giorni prima, appena salita a bordo. Sembrava una comune tessera, che identificava Rani come ispettrice doganale terrestre.
   «Posso vedere?» fece Talyn, insospettito. Quando l’ebbe tra le mani, la osservò con attenzione, rigirandola più volte. La sua espressione si aggrottò.
   «Che succede?» chiese il Capitano.
   «Questa tessera è bianca. Non c’è scritto niente» rispose l’El-Auriano in tono asciutto.
   «Scherzi? Sarà falsa, ma i dati ci sono. Li ho visti!» obiettò Rivera, sempre più stranito. Riprese la tessera e tornò a osservarla. Non poteva sbagliarsi: c’erano l’immagine di Rani e i suoi dati personali. «Sempre che possa fidarmi dei miei sensi» ragionò l’Umano. Da quand’era cominciata quella storia, non facevano che tradirlo.
   «Quella è una tessera psichica, che cambia in base alle mie esigenze, per farmi entrare dove voglio. Complimenti, giovanotto: pochi sono in grado di non farsene ingannare. È chiaro che anche tu hai il dono» riconobbe Rani, all’improvviso interessata a Talyn.
   A quel punto il Capitano tornò a fissarla, sempre più inquieto. Travestimenti olografici, tessere psichiche, probabilmente anche strumenti da scasso: Rani era fin troppo equipaggiata. Sembrava possedere una tecnologia persino superiore all’epoca corrente. E pareva sempre un passo avanti a tutti. «Ma insomma, lei chi – o che cosa – è?!» chiese Rivera.
   Rani sorrise con divertita superiorità. «La mia natura oltrepassa la vostra comprensione, così tristemente limitata a tre dimensioni. Sappiate comunque che una volta anch’io ero annoverata tra i Signori del Tempo di Gallifrey» rivendicò.
   «Come il Dottore?» s’incupì il Capitano.
   «Sì, abbiamo frequentato assieme l’Accademia» confermò Rani. «In seguito però abbiamo preso strade diverse. Lui si accontenta di proteggere lo status quo, mentre io non esito a intervenire per migliorarlo. Ho visto più linee temporali e ho vissuto più vite di quante ne possiate immaginare. In questa vita, comunque, controllo i servizi segreti terrestri. E vi garantisco che non è facile mandare avanti la baracca. Ci sono minacce ovunque: i Dalek, i Cybermen, i Silence... e naturalmente conoscete gli Angeli Piangenti. L’umanità può essere annientata in qualunque momento. Ecco perché ci occorrono nuove armi e tecnologie, che la vostra nave può offrire. Speravo che gli Angeli facessero piazza pulita dell’equipaggio, lasciandomi la Destiny intatta, ma sembra che dovrò sbrigarmela alla vecchia maniera. A proposito, grazie per essere tornati dal passato. Così mi avete offerto anche il TARDIS. Tutto lo spazio e tutto il tempo che posso desiderare... ora sì che le cose andranno come voglio io. Sarò di nuovo una Signora del Tempo, mentre voi – e il Dottore che avete derubato – non sarete più niente».
 
   Trascorsero alcuni momenti tesi. I due gruppi continuavano a tenersi sotto tiro, il minimo gesto poteva scatenare la sparatoria. E il Capitano aveva il forte sospetto che Rani avesse ancora qualche asso nella manica, per essere così sicura di sé. Forse un campo di forza individuale, in grado di proteggerla dalle loro armi. Così Rivera si mosse adagio, senza mai perderla di vista, finché fu vicino a Naskeel. «Complimenti, detective. Oltre a smascherarla, ha anche trovato il modo di neutralizzarla?» sussurrò.
   «Ci sto lavorando» fu la temuta risposta. «Questi Signori del Tempo sono difficili da prevedere. Ma forse c’è un modo». Dietro di lui fece capolino Ottoperotto, che fino ad allora era rimasto nascosto nella penombra.
   «Signori, avete dieci secondi per deporre le armi e arrendervi!» intimò Rani, dal piano superiore. «Se fate come dico, salverete almeno la vita. Nove, otto...».
   Naskeel fece un cenno a Irvik, che si trovava ancora vicino ai comandi centrali. Per la precisione gli accennò il rotore temporale, la principale fonte di luce dell’ambiente. L’Ingegnere Capo comprese e accostò la mano ai comandi.
   «... sette, sei, cinque...».
   Ottoperotto si fece avanti, con un ronzio incalzante. L’energia stava salendo in lui. Intuendo il piano, gli avventurieri si accostarono sempre più. Solo gli Angeli Piangenti rimasero bloccati.
   «... quattro, tre, due...» fece Rani, preparandosi a sparare.
   Accadde tutto in un attimo. Irvik premette il comando, disattivando il rotore temporale e con esso gran parte dell’illuminazione. Rimasero solo alcuni faretti intermittenti. L’attimo dopo Ottoperotto attivò il campo di forza semisferico. La cupola protettiva avvolse gli avventurieri, lasciando fuori gli Angeli. Allora Rani e le sue guardie fecero fuoco, ma il campo di forza resse.
   «Aspettate, dura solo un minuto!» avvertì Rani, trattenendo i suoi dallo sparare inutilmente. Presto la cupola si sarebbe dissolta e gli avventurieri sarebbero tornati a fare da bersaglio.
   «Guardate!» disse una delle guardie, indicando gli Angeli Piangenti. Nella luce intermittente, i sei più vecchi apparivano ancora al loro posto. Ma il settimo Angelo – Giely – si era mosso. Era un Angelo giovane, che doveva ancora consumare il suo primo pasto. Era un Angelo affamato. E adesso era un Angelo in caccia.
 
   L’Angelo Piangente si mosse a formidabile velocità, sfruttando l’oscurità intermittente. Poteva percepire i suoi simili, infastiditi dal suo operato, ma al momento non ci badò. Il suo bersaglio era un altro. Anzi, erano tre.
   Fame... poteva avvertire la fame crescere in lei. Finora l’aveva tenuta a bada, ma ormai il suo autocontrollo stava cedendo. Doveva nutrirsi a qualunque costo, o avrebbe cominciato a erodersi. Ma non si voleva cibare dei suoi compagni, possibilmente. No, il suo obiettivo erano i responsabili di quel disastro. Eccoli là, appollaiati sul ballatoio, che cercavano di scorgerla. Ridicoli. Avrebbe potuto raggiungerli mediante una scaletta, ma intuì che c’era un modo ancora più rapido.
   Buio. Durò solo pochi istanti, ma per i sensi dell’Angelo parve molto di più. Abbastanza per muoversi. La creatura dispiegò le ali e spiccò il volo, atterrando sul ballatoio, a pochi passi dalle vittime designate. Qui dovette immobilizzarsi, al ritorno della luce. Per sua fortuna, non temeva le loro armi. E poteva attendere.
 
   «Attenti!» gridò la prima guardia, accennando all’Angelo che si era materializzato davanti a loro. Sparò istintivamente, colpendolo in pieno, ma senza danneggiarlo. L’altra guardia fece lo stesso, senza miglior esito.
   «Inutile, è invulnerabile. Continuate a guardarlo!» ordinò Rani, sperando di tenerlo bloccato.
   I militari, che avevano fucili a energia di grosso calibro, attivarono i faretti innestati e li diressero contro l’Angelo, così da mantenere il contatto visivo anche nei momenti di buio.
   A quel punto, però, nessuno dei tre stava più badando a cosa facevano gli avventurieri al piano inferiore. Non appena il campo di forza semisferico si disattivò, questi si mossero. Gli ingegneri fissarono gli altri Angeli per tenerli bloccati, mentre Rivera e Naskeel spararono alle guardie, riuscendo ad abbatterle. Il Capitano sparò una seconda volta, contro Rani, ma come sospettava il suo raggio si arrestò contro un campo di forza individuale.
   La Signora del Tempo però aveva ben poco di cui essere soddisfatta. Il settimo Angelo era davanti a lei, più vicino a ogni momento di buio. Rani arretrò, ma trovandosi nel ballatoio circolare non aveva realmente un posto dove fuggire. Non avrebbe fatto in tempo a rintanarsi in uno degli altri ambienti del TARDIS, né voleva provarci, ben sapendo che si sarebbe messa in trappola.
   «Ben calcolato» ammise. «Ma sono una Signora del Tempo e non resterò confinata a lungo. In ogni epoca ci sono scappatoie, sapendo dove guardare, e io le conosco bene. Parliamo di voi, piuttosto. Siete smarriti nel Multiverso da anni e non avete fatto il minimo progresso per tornare a casa. Non ce la farete mai con le vostre sole forze. Ma col mio aiuto sarà tutto diverso. Ho conoscenze che non potete neanche immaginare. E quel che non so, posso scoprirlo in breve tempo. Volete davvero privarvi di quest’occasione irripetibile?!».
   «Mi faccia riflettere... » disse Rivera con decisione. Non si sarebbe mai fidato di quella manipolatrice, che cercava solo una scappatoia.
   «E lei, Naskeel? Lei è un essere razionale. Non è stanco di vivere in mezzo a questi idioti?!» ansimò Rani. Continuava a indietreggiare, ma ad ogni attimo buio l’Angelo guadagnava terreno. Ormai le era addosso, le mani protese a ghermirla.
   «A dire il vero, non ancora» rispose il Tholiano.
   Buio. Quando tornò la luce, sul ballatoio rimaneva solo l’Angelo Piangente. Non c’era alcuna traccia di Rani.
   «Cessato pericolo. Potete ripristinare l’illuminazione» disse Naskeel con tranquillità.
 
   Con un sospiro di sollievo, Irvik mise mano ai comandi, riattivando le luci. Quando si volse, notò che il settimo Angelo aveva ripreso posto innanzi ai suoi simili, intrappolandoli nel blocco quantistico. E restando bloccato a sua volta. Ora che la vedeva da vicino, il Voth riconobbe i lineamenti di Giely. La sua espressione era affranta, come se non si aspettasse d’essere mai più liberata. «Oh, povera ragazza...» mormorò Irvik.
   Tutti i presenti si accostarono, stando attenti a non interrompere il contatto visivo fra gli Angeli. Osservarono la loro dottoressa con un misto di reverenza e orrore. «Adesso che facciamo?» chiese Talyn.
   «Ora che il pericolo è finito possiamo tornare ai nostri alloggi, a riposare» stabilì il Capitano, dato che erano stati svegliati nel cuore della notte. «Domattina riprenderemo i lavori per comunicare con questi esseri. Così vedremo se... si può fare qualcosa» aggiunse, osservando mesto la sua compagna. Non osava nemmeno sfiorarla, per timore che lo spedisse indietro nel tempo per un riflesso condizionato.
   Gli avventurieri lasciarono il TARDIS, che il Capitano si richiuse accuratamente alle spalle. Poi gli ingegneri si ritirarono ai loro alloggi, mentre Rivera e Naskeel sbrigavano un’ultima incombenza. C’erano ancora da liberare Lady Vastra e i suoi gregari. Irvik insisté per accompagnarli, preoccupato per la Siluriana.
   Come previsto trovarono i tre ospiti nell’alloggio di Rani, legati e privi di sensi. «Sono vivi» constatò Irvik con sollievo, leggendo i segni vitali sul tricorder. Dopo averli slegati, dovettero trasferirli in infermeria per consentire al Medico Olografico di rianimarli.
   «Che è successo...» biascicò Vastra, riprendendosi. «Ricordo solo... Rani!» esclamò, rialzandosi di scatto sul lettino. Si guardò attorno, calmandosi leggermente nel vedere che Jenny e Strax erano con lei. Il Medico Olografico li stava risvegliando.
   «Già, era proprio Rani il mandante dietro gli attacchi degli Angeli» confermò Irvik, che le sedeva accanto. «Voleva impadronirsi della Destiny, e poi del TARDIS, ma l’abbiamo fermata. No, mi correggo... Giely l’ha fermata». Il Voth narrò l’accaduto, rispondendo alle frequenti domande di Vastra.
   «Avrei dovuto capire come stavano le cose. Mi sento una pessima detective» mormorò la Siluriana, ricadendo sul lettino.
   «Non angustiatevi, milady. È stato costui a tenervi confinata, impedendovi d’indagare» la confortò Jenny, lanciando un’occhiataccia al Capitano, che attendeva poco distante.
   «Ma io non avrei dovuto lasciarmi sopraffare dal nemico» disse Strax, in preda alla vergogna. «Oggi è un giorno nero per l’Impero Sontarano. Chiedo il permesso di flagellarmi per espiare la mia colpa, milady».
   «Permesso negato!» fece Vastra con decisione. «L’importante è che siamo tutti in salvo».
   «Non tutti» disse Rivera con amarezza. «Giely è ancora là dentro, convertita in Angelo Piangente. C’è modo d’invertire la trasformazione?».
   «Non sapevo nemmeno che si potesse diventare un Angelo» ammise Vastra, sconsolata. «Gli unici che possono rispondere a questa domanda sono proprio loro».
   «Allora sarà meglio che lo facciano, se non vogliono subire l’iconoclastia!» ringhiò il Capitano, e lasciò l’infermeria.
 
   L’indomani gli ingegneri tornarono sul TARDIS e si rimisero al lavoro. Ora che sapevano come fare, non ci volle molto a modificare gli emettitori tachionici, trasformandoli in strumenti di comunicazione. Entro sera i preparativi erano terminati. Allora Irvik chiamò il Capitano e gli altri ufficiali, affinché conducessero l’interrogatorio. Furono invitati anche Lady Vastra e i suoi gregari ad assistere. La piccola folla si allineò lungo le pareti ricurve, in attesa, mentre Rivera si affiancò a Irvik presso la consolle di controllo.
   «Sono tutti suoi. La prego, cerchi d’essere... diplomatico» implorò il Voth.
   Il Capitano non rispose, ma azionò il traduttore. Gli emettitori s’illuminarono debolmente. In quella luce giallognola, gli Angeli Piangenti parvero ancora più inquietanti. «Mi sentite? Sì, lo so che mi sentite» disse Rivera, controllandosi a stento. «Avete assistito allo scontro con Rani, quindi sapete che ormai siamo al corrente della situazione. Siete una forza ostile su questa nave e ci avete attaccati senza provocazione. Avete persino trasformato Giely in una di voi. Ora però siete sotto controllo, quindi pensate bene alla prossima mossa. Se rifiutate di collaborare, mi sentirò autorizzato a gettarvi in un buco nero!» minacciò.
   «Tanti saluti alla diplomazia» sospirò Irvik, alzando gli occhi. Tutti fissarono gli Angeli Piangenti, in attesa della risposta. E la risposta venne, preceduta da un crepitio dei microfoni.
   «Noi agiamo secondo la nostra natura» disse una voce sintetica. Non si sapeva a chi attribuirla, perché tutti gli Angeli erano perfettamente immobili.
   «E noi secondo la nostra, che prevede di soccorrerci a vicenda ed eliminare le minacce» ribatté Rivera. «Se siete esseri senzienti, ed è evidente che lo siete, capirete qual è il vostro interesse. L’unico modo che avete di salvarvi è riportare Giely alla normalità».
   «E se non fosse possibile?» lo provocò l’Angelo.
   «Rendetelo possibile, o la vostra sorte è segnata!» minacciò il Capitano.
   «Chiarire i termini dell’accordo» disse la creatura, più conciliante.
   «È molto semplice. Voi ci restituite Giely, nelle condizioni psico-fisiche antecedenti la trasformazione. In cambio noi vi trasferiremo sulla superficie» promise Rivera. La Destiny infatti era ancora in orbita attorno alla Terra.
   «Ne sei certo?» mormorò Losira a disagio. «Così condannerai molte più persone. Qui abbiamo gli Angeli sotto controllo, ma laggiù non li fermerà nessuno. Avranno molte più occasioni di mimetizzarsi e attaccare chi vogliono».
   «Di attaccare degli estranei. Da quand’è che ci preoccupiamo del bene dei molti?!» le rinfacciò il Capitano.
   La Comandante non se la sentì d’insistere. Impedire l’accordo significava condannare Giely, dopo che lei aveva salvato più volte tutti loro. Sembrava un atto infame. Ma sguinzagliare gli Angeli Piangenti sulla Terra, dove avrebbero banchettato indisturbati, creando paradossi temporali a non finire... non era da irresponsabili?
   «Dicevo: restituiteci Giely com’era prima. Poi consentiteci di agganciarvi col teletrasporto e di trasferirvi in superficie. Così saremo tutti soddisfatti, e ognuno per la sua strada» riprese il Capitano. «L’alternativa sarebbe decisamente sgradevole. Se non ci rendete la dottoressa, vi scaraventerò nel più vicino buco nero. E lì resterete fino alla morte termica dell’Universo, divorati da una fame che non potrete mai più placare. L’Inferno fatto realtà... qualcosa mi dice che nemmeno voi potete sopportarlo. Non è più ragionevole restituirci un unico individuo? Uno che per giunta vi ha già traditi, dimostrando di non voler essere dei vostri?» incalzò Rivera.
   Ci fu un silenzio teso. Anzi, non proprio un silenzio. Dal microfono venivano dei bisbigli, come se gli Angeli si stessero consultando fra loro a bassa voce. Infine una voce tornò a imporsi: «Lei non ci lascia scelta, Capitano. Vi renderemo la dottoressa, anche se ciò significa spendere molta energia. Dopo di che, ci aspettiamo che onori la sua parola. Altrimenti non cesseremo mai di darle la caccia».
   «Mi sta bene».
   «Esigiamo inoltre la sua promessa che, trasferendoci in superficie, lei non ci lasci in blocco quantistico. Dobbiamo essere liberi di muoverci» aggiunse l’Angelo.
   Il Capitano fece una smorfia. Aveva sperato di prenderli in castagna, ma quegli esseri non erano ingenui. «E va bene. Giuro che non vi lasceremo in blocco quantistico» promise.
   «L’accordo è fatto» concluse l’Angelo.
   «Ha riscattato la sua compagna a caro prezzo» commentò Vastra, in tono di disapprovazione.
   «Mi pare che la Terra sia già infestata dagli Angeli Piangenti, visto che ne abbiamo trovati anche nel XIX secolo. Erano decine solo a Londra; sei in più non faranno una gran differenza. E poi... non c’è il suo amico Dottore per occuparsi di loro?» obiettò Rivera.
   Così dicendo il Capitano indietreggiò, mentre un’indefinibile energia serpeggiava tra gli Angeli più vecchi – che ora brillavano debolmente – e Giely. Se la prima trasformazione era partita dai piedi, risalendo il corpo fino alla testa, questa seguì il percorso inverso. Dapprima furono gli occhi a colorarsi, poi tutto il viso, mentre la chioma si scioglieva nuovamente in un’infinità di capelli neri. La Vorta inspirò a fondo, quasi boccheggiando, per reintrodurre aria nei polmoni. Il cuore riprese a battere, il sangue a scorrere nelle vene. Sulla schiena, le grandi ali piumate si dissolsero in una cascata di polvere grigiastra. Anche la veste fluente ridivenne l’uniforme della Flotta Stellare che la dottoressa indossava al momento della metamorfosi. Giely tremò, riuscendo finalmente a muoversi. Aprì e chiuse le mani, mentre queste riprendevano vita. Infine riuscì a muovere le gambe, facendo alcuni passi esitanti.
   «È finita?» sussurrò con un filo di voce.
   «Sì, querida, è finita» confermò il Capitano, abbracciandola con sollievo. La sentì di nuovo viva tra le sue braccia, la pelle calda e morbida. Quante volte aveva rischiato di perderla! Questa non era la prima, e forse non sarebbe stata l’ultima. Ma ogni volta capiva quanto la Vorta gli fosse preziosa, e quanto fosse determinato a stare con lei.
   «Abbiamo rispettato la nostra parte dell’accordo» disse l’Angelo, impassibile. «Ora spetta a voi tener fede ai patti».
   Il Capitano si riscosse, fronteggiando la creatura. «Sì, avevo promesso di trasferirvi sulla superficie. Ed è quello che farò. Così finalmente sloggerete dalla mia nave. Siete pronti a farvi teletrasportare?».
   «Siamo in attesa» confermò l’Angelo.
   «Sala teletrasporto a Rivera, abbiamo finalmente l’aggancio» informò l’addetto via comunicatore.
   «Bene, procedete» confermò il Capitano. «E con tutto il rispetto, speriamo di non rivederci mai più» aggiunse, rivolto agli Angeli Piangenti.
   Le sei creature svanirono nel bagliore azzurro del teletrasporto. Il trasferimento fu insolitamente lungo, tanto che per qualche secondo si temette che stessero opponendo resistenza. Ma non fu così, e in breve le loro sagome alate scomparvero del tutto.
   «Trasferimento completato. Gli Angeli sono sulla superficie» confermò l’addetto.
   «Bene, trasferite anche il carico archeologico della stiva 3. Giusto per non avere conti in sospeso» ordinò il Capitano. «Quello mandatelo direttamente al museo. Al diavolo la dogana».
   Così dicendo Rivera uscì dal TARDIS, seguito dai suoi. Si ritrovarono nella sala teletrasporto annessa alla plancia, dove la cabina era rimasta custodita per tutto il tempo.
   «Trasferimento completato» confermò l’addetto. «Ci stanno chiamando dall’ufficio doganale. Chiedono perché questi trasferimenti non autorizzati ed esigono di parlare con l’ispettrice».
   «Su gli scudi. Attivare l’occultamento. E via da qui, a massima velocità!» ordinò Rivera, che aveva pianificato le sue mosse. Lui e gli altri passarono rapidamente in plancia, riprendendo le loro postazioni dagli ufficiali ausiliari.
   Detto fatto, la Destiny abbandonò l’orbita terrestre. Balzò in cavitazione quantica, puntando verso lo spazio profondo. «Le navi pattuglia terrestri c’inseguono, ma le stiamo distanziando» riferì Naskeel. «È evidente che non riescono a rilevarci, stanno andando nella direzione sbagliata. Ormai le abbiamo seminate».
   «Riposo, gente. L’emergenza è finita» concluse il Capitano. L’Allarme Giallo, che negli ultimi giorni era rimasto costantemente acceso, fu finalmente disattivato, riportando la plancia all’assetto regolare.
   «Sigh... peccato che siamo dovuti fuggire prima di aver intascato il compenso per quel carico archeologico!» sospirò Losira, che aveva gestito l’affare fin dal principio. «A questo punto potevamo tenercelo, e rivenderlo da qualche altra parte» ragionò.
   «Ringrazia che siamo sopravvissuti» disse Rivera, guardandola severamente. «E poi chissà quanti altri orrori cosmici erano nascosti fra quei reperti! No, meglio essercene sbarazzati».
   «E va bene... allora procediamo al prossimo affare» disse la Risiana, consultando un elenco sul suo d-pad. «Uhm, siamo un po’ in ritardo, ma spero che i Raxacoricofallapatoriani siano ancora interessati ai nostri giochi da tavolo. Vedrai, questo sarà un affarone. Lascia che me ne occupi, e andrà tutto bene» garantì.
   «Sì, l’ultimo abbiamo visto com’è filato liscio!» commentò il Capitano, ma poi la lasciò fare. Mediamente su dieci affari combinati da Losira, nove andavano piuttosto bene, e solo uno rischiava di distruggere l’astronave.
   «Ehm, se non c’è altro, noi togliamo il disturbo. La Londra vittoriana ci aspetta» disse Lady Vastra. Come al solito Jenny e Strax le facevano ala, a mo’ di guardie del corpo.
   «Dateci il tempo di sbaraccare le nostre attrezzature dal TARDIS e potrete andare» acconsentì Rivera, restituendole le chiavi della capsula. «E scusate per i contrattempi. Non avrei mai voluto forzare il nostro accordo, ma... non ho avuto scelta» si giustificò. Prese la mano di Giely, che gli sedeva accanto, sulla poltroncina del Consigliere.
   «Suppongo di no» fece la Siluriana, rimettendosi le chiavi al collo. «Devo dire che conoscervi è stata un’esperienza indimenticabile. Quasi mi dispiace che non abbiate incontrato il Dottore».
   «Perché, crede che saremmo andati d’accordo?».
   Vastra lo squadrò, riflettendo per qualche attimo. «Temo proprio di no. A lui non piacciono i dilettanti. Addio, Capitano Rivera... o forse arrivederci» salutò. E lasciò la plancia, seguita dai suoi, per aiutare gli ingegneri a sgombrare il TARDIS.
   «Che caratterino!» commentò Giely. «Ma spiegami una cosa. Che ci fa un dinosauro nella Londra vittoriana?».
   «Che domande, ci fa la detective» rispose il Capitano con naturalezza, lasciandola con più domande di prima. «E a proposito di detective... ottimo lavoro, signor Naskeel! Ha risolto egregiamente questo caso» si congratulò.
   «Ho solo fatto il mio dovere, Capitano» rispose il Tholiano, imperscrutabile. Ricordava ancora l’ultimo ordine che l’Ammiraglio gli aveva impartito, subito prima d’abbordare la Destiny: doveva tenere integra la nave, finché le loro truppe non avrebbero potuto reclamarla. Era ciò che aveva cercato di fare in quegli anni. Tuttavia, una parte di lui – una parte sempre più importante – sperava che non sarebbe mai arrivata la resa dei conti. Che al momento del ritorno avrebbe potuto semplicemente tornare dalla sua gente, senza nuocere ai compagni di viaggio. Era un pensiero che coltivava sempre più, e che si rafforzava ad ogni avversità superata. Forse gli Organici lo avevano contagiato con la loro irrazionalità. In quella gli venne un ultimo dubbio sulla missione appena conclusa.
   «Dottoressa, sarei curioso di sapere dove ha inviato Rani» disse Naskeel.
   «Già, siamo tutti curiosi» convenne Rivera, guardando con interesse la compagna. Conoscendo il suo buon cuore, stentava a credere che avesse spedito l’avversaria in un’epoca troppo dura, o persino verso morte certa. Ma in quel momento Giely era un Angelo Piangente, e forse non andava troppo per il sottile.
   La Vorta inclinò la testa e si concentrò. «Io... stento a ricordare ciò che ho fatto mentre ero trasformata. Era una condizione inimmaginabile, sapete. Non ero propriamente viva, ma non ero nemmeno morta. Mi trovavo in una sorta di limbo, di regno a parte» rivelò. «Ricordo la fame, questo sì. Una fame indescrivibile. E ricordo d’averla placata quando mi sono nutrita degli anni potenziali di Rani. Vedete, i Signori del Tempo possono rigenerarsi, così da prolungare le loro vite. Perciò un solo pasto è valso come una dozzina. Quanto alla destinazione... sì, adesso ricordo» disse, con un sorriso inquietante. «Per quanto Rani sia esperta di viaggi nel tempo, dubito che la rivedremo mai più. L’ho mandata in un’epoca in cui spero che non faccia danni».
 
   Sfiorata dall’Angelo Piangente, Rani si sentì inghiottire dall’oscurità. Provò una sensazione familiare: stava precipitando fra le correnti del tempo. Stavolta però non aveva il controllo della destinazione. Non era nemmeno in una capsula TARDIS, per cui non aveva modo di tornare. Come aveva fatto a farsi prendere così alla sprovvista? Eppure se l’era cavata in situazioni peggiori...
   A un tratto si ritrovò a incespicare sul terreno. La maggior parte delle persone sarebbe crollata, in preda all’afasia, ma la Signora del Tempo si riprese subito. Si guardò attorno, schermandosi gli occhi dal sole abbagliante. Aveva lasciato la Destiny, naturalmente, e si trovava sulla superficie di un pianeta. Era per forza la Terra, dato che gli Angeli Piangenti non potevano trasferire le loro vittime ad anni luce di distanza. Restava da vedere dove si trovava di preciso, e soprattutto quando. Come aveva rivendicato poco prima, quasi tutte le epoche storiche avevano delle scappatoie, se si sapeva dove cercarle... e lei lo sapeva. Nel peggiore dei casi avrebbe lasciato dei messaggi per i suoi alleati e collaboratori, che sarebbero tornati a riprenderla.
   Davanti a lei si estendeva il mare, a perdita d’occhio. Le onde si rovesciavano pigramente sulla spiaggia sabbiosa, costellata di detriti organici. C’erano meduse spiaggiate, di varie forme e colori, che si squagliavano lentamente al solleone. E c’erano conchiglie dalle strane fogge, molte delle quali spiraliformi. Faceva caldo: dovevano esserci almeno 35º C. Rani dovette togliersi la giacca della divisa, restando in canottiera, per sopportare la temperatura. Dunque Giely l’aveva spedita ai tropici... questo complicava le cose. Non sarebbe stato facile tornare nel mondo civilizzato, specialmente se si trovava su un’isola. E doveva ancora capire in che epoca si trovava.
   Non le restò che avviarsi verso l’entroterra, sperando d’incontrare qualche essere umano. Era ancora armata e aveva con sé diversi gadget tecnologici, quindi non intendeva lasciarsi sopraffare. No, ovunque fosse finita, sarebbe stata lei a dettar legge. Più procedeva, tuttavia, e più si sentì a disagio. La vegetazione, piuttosto stentata, era strana: niente erba, niente piante da frutto. Quelle che dapprima sembravano palme si rivelarono, a un più attento esame, delle felci arboree. Decisamente qualcosa non quadrava...
   Una serie di scricchiolii attirò l’attenzione di Rani. Qualcuno, o qualcosa, si avvicinava nel sottobosco. La Signora del Tempo puntò immediatamente la sua arma in direzione dei rumori. «Chi è la?! Fatti avanti, con le mani in alto!» ordinò, pronta a sparare.
   Il visitatore uscì dal sottobosco e avanzò adagio, per nulla intimidito. Non era un essere umano, bensì un animale. E che animale! Sembrava un enorme lucertolone verdastro, con zampe artigliate e la grossa testa un poco rialzata. Le fauci semiaperte mostravano zanne da predatore. Ma la sua caratteristica più appariscente era l’enorme vela dorsale, formata dalle vertebre allungate, simili a spine. Tra una spina e l’altra erano tesi lembi di pelle sottile e rossastra, assai vascolarizzata. La creatura si dispose con la vela rivolta al sole, per assorbirne il calore. Allora Rani la riconobbe: era un dimetrodonte. Un rettile primitivo – anzi, un sinapside più affine ai mammiferi – vissuto nel Permiano inferiore, fra 270 e 295 milioni di anni fa. Più antico dei dinosauri. E quindi anche più antico dei Siluriani, il popolo di Lady Vastra.
   La Signora del Tempo si guardò attorno scioccata, scorgendo altre creature preistoriche – rettili e insetti – che zampettavano nel sottobosco. Quelli non erano i tropici. Era la Pangea, il supercontinente – in gran parte desertico – esistito prima che le masse continentali si separassero. Si trovava in un passato ben più remoto di qualunque epoca avesse mai visitato. Così remoto da essere poco o nulla trafficato dai viaggiatori del tempo. Le probabilità d’incontrarne un altro, per puro caso, erano sostanzialmente zero. A questo pensiero, Rani gettò indietro la testa e urlò di rabbia e disperazione. Continuò a strillare, finché la voce le divenne roca.
 
   «Bene, direi che abbiamo finito» commentò Irvik, guardandosi attorno. Gli ingegneri avevano sgombrato le loro attrezzature dal TARDIS, riportandolo alla normalità, col salone semivuoto. Ora Jenny stava spazzando, per eliminare la polvere grigia formatasi quando Giely aveva perso le ali d’angelo. Strax passava da una consolle all’altra, lucidando le superfici.
   «Allora è il momento di salutarci» disse Lady Vastra.
   «Suppongo di sì» mugugnò l’Ingegnere Capo, controvoglia. «Mi scuso ancora per i contrattempi che avete passato, tutti e tre, a fronte della vostra disponibilità. Sono mortificato che siate stati detenuti e abbiate rischiato di perdere il TARDIS. Il Capitano non avrebbe mai agito così, se non fosse stato in pena per la sua compagna».
   «Va bene, mettiamoci una pietra sopra» disse la Siluriana. «L’importante è che tutto si sia risolto. Voi avete riavuto la dottoressa, noi il TARDIS. Direi che meglio di così non poteva andare».
   «Già... confesso che avrei preferito impiegare meglio questi giorni. Ad esempio mostrandole la Destiny, o anche la Terra di questo secolo» aggiunse il Voth.
   «Meglio di no. Ormai la mia vita è nel XIX secolo. Se scoprissi troppe cose sul futuro, le conseguenze sarebbero imprevedibili» ragionò la detective.
   «Ma è davvero sicura di voler tornare in quel secolo primitivo?» chiese l’Ingegnere Capo, con una debolissima speranza. «A quanto mi hanno detto è pieno di conflitti, malattie e inquinamento. Avendone la possibilità, non ha mai pensato di trasferirsi in un’epoca più civilizzata?».
   Vastra rifletté brevemente. «Sarei una bugiarda se rispondessi di no» ammise. «Certo che ci ho pensato, ogni volta che ho avuto a che fare coi viaggi nel tempo. Ma c’è sempre stato qualcosa che mi ha trattenuta. Ormai, come le dicevo, la mia vita è lì. E considerata la mia longevità, conto di vivere per tutto il XX secolo e almeno la prima parte del XXI».
   «Non vuol nemmeno portarsi dietro qualche comodità moderna? Finché siamo qui, posso fornirle tutto ciò che le occorre. Che so, un replicatore alimentare» insisté Irvik, in cerca di qualunque scusa per posticipare l’addio.
   «Questo sì che sarebbe rischioso!» obiettò la Siluriana. «Tecnologia del XXVII secolo importata nel XIX... potrebbe alterare la Storia umana. E in men che non si dica dovrei spiegare al Dottore come me la sono procurata. No, apprezzo la sua offerta, ma preferisco non rischiare. Del resto, a che scopo portarmi dietro un replicatore, se poi non ho l’energia per attivarlo? E poi l’Ottocento non è così primitivo come crede. Forse siete voi del futuro a essere viziati dalla tecnologia» suggerì, con aria divertita.
   «Sì, può darsi» ammise Irvik, rattristato. Ormai gli era chiaro che non sarebbe riuscito a trattenerla. Tuttavia volle fare un ultimo tentativo. «Ma senta, non le provoca disagio vivere in un mondo popolato solo da Umani? Essere costretta a velarsi il viso, addirittura, per non essere additata come mostro? Se stesse qui, non avrebbe di questi impacci. Potrebbe mostrarsi per ciò che è... e sarebbe apprezzata per questo» si lasciò sfuggire.
   A queste parole, la detective capì perché l’Ingegnere fosse così riluttante a lasciarla andare. «Apprezzata... da chi, signor Irvik? Da lei?» chiese a bassa voce.
   «In effetti sì» confessò il Voth, raccogliendo il coraggio a due mani. «Siamo entrambi sauri, costretti a vivere tra i mammiferi. E per quanto ci siano divenuti cari, credo che condivida la nostalgia, il desiderio d’avere accanto un proprio simile. Qualcuno che la comprende e che... la ama».
   Vastra tacque brevemente, cercando il modo migliore di rispondere a quella dichiarazione. «Mi fa piacere che abbia detto la verità, Irvik. E mi creda, sono lusingata dalle sue attenzioni. Se le circostanze fossero diverse, forse potrei contraccambiare. Ma il fatto è che sono già impegnata sentimentalmente» rivelò.
   Irvik cadde dalle nuvole. «Già impegnata... nella Londra vittoriana?! E con chi, di grazia? Avevo capito che lei era l’unica Siluriana in circolazione!» protestò.
   «Infatti è così» confermò Vastra, tra il divertito e il dispiaciuto. «Ma vede, quando c’è sintonia di carattere, poco importa se il tuo partner ha le scaglie». In quella Jenny le si accostò, e Vastra la prese teneramente a braccetto. Sorrisero.
   Il Voth arrossì dalla prima all’ultima scaglia. Questa proprio non se l’aspettava. Rettili e mammiferi... gli sembrava già tanto che potessero diventare amici, figurarsi più di quello. La sua ultima speranza evaporò definitivamente. «Ladies, vi auguro un buon viaggio di ritorno. E una buona vita nella Londra vittoriana, se è quello che desiderate» mormorò, fissando il pavimento.
   «Buona fortuna anche a lei, Irvik. La ringrazio di cuore e le auguro ogni bene» salutò Vastra.
   L’Ingegnere Capo si voltò per uscire, trovandosi di fronte a Strax.
   «Nel caso se lo chieda, io sono libero. Ma non sono interessato» puntualizzò il Sontarano, col suo vocione baritonale.
   «Nemmeno io, vecchio mio» garantì il Voth, raccapezzandosi. «Stammi bene anche tu e... boh, gloria all’Impero Sontarano!» augurò, non conoscendo il suo saluto abituale. E sgattaiolò fuori dal TARDIS, augurandosi di non rimetterci più piede dopo la figuraccia.
 
   Tornato in sala teletrasporto, Irvik vi indugiò per qualche minuto, osservando l’insospettabile cabina telefonica, ora richiusa. Chi l’avrebbe detto che sotto quelle vecchie lamiere si celava uno dei veicoli spazio-temporali più sofisticati e sorprendenti mai realizzati?
   «Wow, quanta voglia avrei di farci un giro!» commentò Shati. Anche la timoniera era lì, per assistere alla partenza. «È vero che può raggiungere ogni epoca e ogni luogo dell’Universo?!».
   «Così pare» commentò Irvik distrattamente. «Ma noi con la Destiny esploriamo il Multiverso, quindi direi che non abbiamo nulla da invidiargli».
   «Certo che scorrazzare per il cosmo solo in due o tre... non so come faccia quel Dottore di cui parlano a cavarsela senza un equipaggio» commentò Shati, scuotendo la testa.
   «Avrà i suoi trucchi» fece il Voth, sempre melanconico.
   Notando la sua afflizione, la Caitiana gli si rivolse in tono più comprensivo. «È andata male, eh? Con Vastra, intendo. Avevo notato che eri interessato a lei».
   «Doveva tornare nel suo secolo» spiegò Irvik, senza scendere nei dettagli.
   «Mi spiace, vi avrei visti bene assieme. Eh, anch’io so che significa essere l’unica della propria specie sull’astronave!» sospirò Shati, lasciando trapelare la sua frustrazione.
   «Beh, sai... Vastra crede nelle relazioni tra rettili e mammiferi» rivelò il Voth, con una strana occhiata.
   La Caitiana sgranò gli occhioni gialli e si ritrasse istintivamente. «Amico, tu mi stai simpatico, ma... no» mise bene in chiaro.
   Irvik fece un sorriso sornione. Non aveva realmente pensato di corteggiarla, voleva solo gustarsi la sua espressione. Così, tanto per ritrovare il buonumore.
   In quella il TARDIS emise un suono raschiante, mentre la sirena della polizia posta in cima alla cabina s’illuminava. Pochi attimi dopo la cabina stessa prese a sbiadire, fino a svanire del tutto. Vastra e la sua gang erano tornati nel loro secolo.
 
   Il Capitano Rivera si stiracchiò sul divano, mentre sull’oloschermo scorrevano i titoli di coda azzurri dell’antico film terrestre. In sottofondo si udiva ancora la fanfara di Star Wars. Accanto a lui, Giely si asciugò una lacrimuccia, commossa dal toccante finale di Episodio VI.
   «Allora, che te ne pare?» chiese l’Umano.
   «Stupendo, commovente. Guarda qui, mi ha ridotta a un disastro» rispose la Vorta, asciugandosi un’altra lacrima col fazzoletto ormai umido. «Ti dirò, contrariamente all’opinione diffusa, questo mi è piaciuto ancor più di Episodio V. Sarà che ho un debole per il lieto fine. In particolare tutta la parte sulla Morte Nera, con la redenzione di Vader, è stata meravigliosa. Finalmente quello schifoso Imperatore è morto e la Galassia è salva. E gli Ewok sono carinissimi. Ci sono altri episodi, dopo?» s’interessò.
   «Certo, è una saga enorme» spiegò Rivera. «Ci sono tre prequel che vale la pena di vedere. Quanto ai sequel, invece, devo dire che non li ho mai sopportati».
   «Ah, capisco. La maledizione dei sequel commerciali» annuì Giely. «Beh, comunque questo mi è proprio piaciuto».
   «In tal caso, uno di questi giorni ti andrebbe di sperimentarlo dal vivo, sul ponte ologrammi?» propose il Capitano. Quasi tutti gli antichi kolossal, infatti, avevano delle moderne trasposizioni olografiche.
   La dottoressa ci pensò un attimo. «Perché no? Sembra interessante» acconsentì. «Però non aspettarti che io faccia Leia schiava con quel bikini dorato. Che detto fra noi, sembra scomodissimo!» avvertì.
   «Come preferisci. Allora farai Chewbacca» propose Rivera, riuscendo chissà come a non ridere.
   Giely gli diede una spinta che avrebbe dovuto essere stizzita, ma finì per essere affettuosa. «Spiritoso. Non riesco a dare il meglio di me, se devo esprimermi a grugniti. E va bene, interpreterò la scosciatissima principessa. Del resto, non c’è niente che tu non abbia già visto» cedette.
   «Evvai!».
   «Però allora tu non puoi interpretare Luke Skywalker, dato che è il fratello di Leia. Dovrai fare per forza Han Solo» ragionò la Vorta. «Quindi passerai la prima parte della storia congelato nella carbonite. E quando ne uscirai, dovrai restare bendato in tutte le scene in cui indosso il bikini, visto che il povero Han era accecato dai postumi dell’ibernazione» aggiunse perfidamente.
   «Mannaggia, mi hai incastrato!» riconobbe l’Umano. «Beh, anche se sarò così derelitto, potrò sempre contare sul mio angelo custode» commentò, riferendosi alla compagna.
   «Su, non chiamarmi così» fece lei, imbarazzata.
   «Perché no? Direi proprio che lo sei stata» fece Rivera, improvvisamente serio. «Per tua ammissione non eri né viva né morta, eppure hai continuato a preoccuparti della mia incolumità. Ci hai salvati tutti, almeno tre o quattro volte. Sei ufficialmente l’angelo custode della Destiny».
   «Ne valeva la pena» disse Giely, guardandolo con affetto. «Ma a proposito degli Angeli... sei certo che sia stata una buona idea rimandarli sulla Terra? Sì, lo so che avevate un accordo» aggiunse, prevenendo la risposta. «E so che la Terra è già infestata da quegli esseri. Ma aggiungerne altri peggiorerà le cose. Molte persone subiranno la nostra sorte, e dubito che avranno la fortuna di salvarsi. Questa cosa non mi fa dormire».
   «Allora puoi smetterla di preoccuparti, querida» la rassicurò il Capitano, con un sorriso sagace. «Vedi, quando ci siamo accordati, io ho promesso che li avremmo riportati sulla superficie. Ma non ho mai specificato che fosse quella terrestre...».
 
   Il globo bianco-azzurro della Terra brillava nel cielo nero della Luna. All’alba del XXVII secolo, la Terra era un mondo fortemente urbanizzato e al centro di fiorenti traffici interstellari. Ma la Luna era un altro discorso. Sebbene ci fossero alcune colonie, perlopiù sotterranee, gran parte del satellite rimaneva un deserto craterizzato. Nient’altro che rocce grigie, vecchie di miliardi d’anni, coperte da un sottile strato di regolite. Non c’era atmosfera, quindi niente agenti atmosferici, e nemmeno suoni che turbassero la quiete sempiterna. Solo rocce roventi sotto il sole, e rocce gelide all’ombra dei rilievi. Qua e là, nelle regioni basaltiche impropriamente dette “mari”, c’erano delle caverne, residui dell’attività vulcanica estinta da tempi immemorabili. Per la maggior parte erano ancora inesplorate, e lo sarebbero rimaste per molto tempo.
   In una di queste caverne, profonda e buia, sei Angeli Piangenti attendevano nell’immobilità e nel silenzio. Tenevano i volti chini, coperti dalle mani, e si erano come avvoltolati nelle loro ali. Non potevano uscire, perché il canale magmatico era franato al tempo dell’ultima eruzione, tre miliardi d’anni prima. Così erano confinati in quella grotta angusta. Sepolti vivi.
   Qualunque altro essere sarebbe impazzito, per la rabbia dell’inganno e la disperazione della prigionia. Ma non gli Angeli. Anzi, una parte di loro apprezzava l’astuzia del Capitano Rivera, che li aveva confinati in un luogo nel quale non potevano nuocere. Lì sarebbero rimasti per un tempo incalcolabile, tormentati dalla fame, che li avrebbe erosi fisicamente, trasformandoli in calchi a malapena umanoidi. Una sorte che, per i viventi, era indistinguibile dall’Inferno. Ma quelli erano Angeli Piangenti e sopportavano con pazienza. Attendevano il giorno in cui, fatalmente, gli ignari Umani avrebbero scavato anche in quella zona, riportandoli alla luce.
   In fondo il tempo era sempre stato dalla loro parte. 
 

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


-Epilogo:
Data: 21 maggio 1899
Luogo: Paternoster Row, numero 13, Londra
 
   «Allora, Dottore, non mi ha ancora detto com’è andata la sua missione. Ha sconfitto i Dalek?» chiese Lady Vastra.
   «Uhm, sì. Non che serva a farli desistere dai loro attacchi. Già che c’ero, ho fatto due chiacchiere con la Regina Vittoria e ho smascherato alcuni Whisper Men infiltrati nel Parlamento. Insomma, tutto come al solito». Così dicendo, il Dodicesimo Dottore si guardò attorno, esaminando con gli occhi inquieti ogni centimetro quadrato del salone di comando del suo amato TARDIS. «E qui, invece? Tutto bene in mia assenza?» chiese.
   «Certo, tutto tranquillo. Niente da segnalare» assicurò la Siluriana, poco più indietro. «La cosa più emozionante che mi è capitata è stata una serata letteraria dedicata a Poe».
   «Ne è certa? Non avrà fatto entrare qualcuno, vero?» inquisì il Signore del Tempo, scrutando la sua reazione.
   «Come le viene in mente? Le ho detto che è stato tutto tranquillo!» s’indignò Vastra. «I miei domestici possono confermare. Non è così?».
   «Certo, milady. È stata una settimana perfettamente normale. Persino un po’ noiosa, se posso permettermi» confermò Jenny.
   «Già. Non abbiamo affrontato gli Angeli Piangenti. Non abbiamo invitato estranei nel TARDIS. E ovviamente non li abbiamo accompagnati nel futuro, rischiando di farci sottrarre la capsula» aggiunse Strax, nel suo tono più convincente.
   La detective alzò gli occhi, aspettandosi la bufera.
   Il Dottore si accostò al Sontarano, guardandolo dritto negli occhi. Per un attimo sembrò sul punto d’esplodere. Poi invece si rasserenò. «Ah, bene. Per un attimo avevo temuto che aveste fatto di testa vostra» disse. E si allontanò dai tre. Ci volle un po’ prima che questi tornassero a respirare normalmente.
   «Ci hai salvati in corner, eh?» commentò Jenny, ironica.
   «Prego» fece Strax, impassibile.
   Intanto il Dottore era già salito al piano superiore, chiacchierando fitto con Clara Oswald, la sua attuale compagna. Da basso, il trio continuò a sentire le loro voci. A un tratto quella del Dottore si fece più concitata. «Ma dov’è?! Eppure giurerei che l’avevo lasciato qui!» si lamentò. Percorse il camminamento per tutta la circonferenza, controllando ovunque.
   «Te lo dico sempre che devi essere più ordinato, sapientone. Sennò le cose spariscono» lo rimproverò bonariamente Clara.
   «Ehm, che cosa sta cercando, Dottore?» chiese Vastra, con un brutto presentimento.
   «Il mio cacciavite sonico, ovviamente. Ero convinto d’averlo lasciato sul tavolino. Adesso dovrò ripercorrere i miei ultimi spostamenti a bordo per ritrovarlo» spiegò il Signore del Tempo, seccato.
   Vastra scambiò un’occhiata con Jenny. Il cacciavite sonico era uno degli accessori più usati dal Dottore: permetteva d’aprire qualunque serratura e all’occorrenza aveva altre funzioni. Se fosse caduto nelle mani sbagliate, poteva causare discreti grattacapi...
   «Pensi anche tu quello che penso io?» sussurrò la Siluriana.
   «Se stai pensando a Talyn, sì» confermò la domestica.
   «Diavolo di un ladruncolo! Ma è tutta colpa mia, avrei dovuto prevederlo» mormorò la detective, afflitta. «Ho lasciato entrare un giovanotto che, per ammissione del suo stesso Capitano, è cresciuto in strada ed è praticamente un cleptomane. E al momento dei saluti non l’ho nemmeno perquisito! Forse sto perdendo colpi» si rimproverò.
   «Suvvia, è solo un cacciavite sonico. Forse Talyn lo metterà in un cassetto e se ne scorderà» suggerì Jenny, in uno slancio d’ottimismo.
   «Sì, come no. Dimenticarsi di un trofeo del Dottore! Sarebbe più facile che il Dottore si dimenticasse del TARDIS» fece Vastra, sconsolata.
   «Allora che facciamo? Gli diciamo tutto?» bisbigliò Jenny, all’indirizzo del Signore del Tempo, ancora alla ricerca del suo prezioso strumento.
   «No, ce lo rinfaccerebbe in tutte le incarnazioni a venire» sospirò la Siluriana. «Quindi, se tu tieni la bocca chiusa...».
   «Se tu tieni chiusa la tua...» annuì la domestica.
   Così accordate, le due si rivolsero a Strax, che aveva ascoltato tutto. Il massiccio Sontarano si passò le dita sulle labbra e annuì solennemente. «Certo che, se mai ci rivedessimo, dovrei obliterare quel giovanotto per lavare l’onta» aggiunse.
   Vastra annuì, comprensiva. Aveva perso il conto delle persone che Strax si riprometteva di “obliterare”, rigorosamente senza passare alle vie di fatto. Con un po’ di fortuna, anche quel piccolo incidente sarebbe stato dimenticato da tutti.
 
 
Data Stellare 2614.127
Luogo: USS Destiny
 
   Concluso il turno di servizio in plancia, Talyn si ritirò nel suo alloggio. Era un posto accogliente, che negli anni aveva personalizzato con tutta una serie d’oggetti, “presi in prestito” da ogni angolo del Multiverso. Si tolse le scarpe e si buttò sul letto, assaporando la meritata tranquillità.
   «Ah!».
   Ma l’El-Auriano era incapace di starsene a lungo in ozio. Allungò il braccio verso il comodino, aprì il secondo cassetto ed estrasse un souvenir della sua ultima avventura. Era una strana bacchetta elettronica, fitta di comandi e con una lucetta all’estremità. Talyn non aveva idea di cosa fosse, ma lo appassionava l’idea di scoprirlo. Cominciò a giocherellarci, dapprima pigramente, poi con crescente curiosità.
 
 
FINE

 

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