Assassin's Creed - Endless Abyss

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Emozioni Ritrovate ***
Capitolo 3: *** Demoni nella Notte ***
Capitolo 4: *** Ricorsi della Memoria ***
Capitolo 5: *** Quando Cade La Pioggia ***
Capitolo 6: *** Niente è Reale ***
Capitolo 7: *** Un Cuore Colmo Di Dolore ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

PROLOGO

 

 

Fortezza di Alamut

Gennaio 1124

 

Soffiava un vento secco e arido sulla piana desertica e sulle colline circostanti, che portava via inesorabilmente la parvenza di aria più fresca da poco sopraggiunta con l’arrivo, la sera prima, di un inatteso acquazzone.

  Da qualche settimana, da quando cioè le condizioni di salute del gran maestro della setta degli Assassini, erano improvvisamente peggiorate, egli, anche dietro suggerimento del suo allievo prediletto, aveva deciso di lasciare Masyaf, quartier generale dell’Ordine, per spostarsi nella più tranquilla e riservata fortezza di Alamut, situata ad un centinaio di chilometri a nord di Teheran, non troppo lontano dalle sponde meridionali del Mar Caspio.

  L’aria secca e pulita del deserto iraniano aveva migliorato almeno un po’ la sua lenta agonia, ma ormai tutti nella fortezza sapevano che al nobile Hasan-i Sabbah, padre spirituale nonché fondatore dei Nizariti, non rimaneva molto da vivere.

  Dal giorno del suo arrivo alla fortezza non aveva più presenziato ad una cerimonia religiosa, e recitava le preghiere del venerdì nelle sue stanze, circondato dagli intimi, a cui profilava, tossendo e gemendo continuamente, i suoi ormai leggendari sermoni, tanto possenti e vigorosi da risultare taglienti anche se pronunciati con tanta fatica.

  Affacciato dal torrione più alto della fortezza, con lo sguardo perso all’immensa pianura che si stagliava dinnanzi a lui, il giovane Kahled-i Kassim si domandava, non senza un senso di ansia, cosa sarebbe stato di lui dopo la morte del maestro.

  Come assassino si era guadagnato una fama non indifferente, tanto da venire chiamato Maestro da molti suoi fratelli molto prima di ricevere effettivamente tale nomina, e malgrado avesse solamente ventidue anni aveva già alle spalle quasi cento omicidi importanti.

  Questo poi senza tenere conto della grande stima che Hasan-i Sabbah nutriva nei suoi confronti, ma ogni qualvolta si prefigurava di poterne un giorno prendere il posto rammentava a sé stesso che c’era qualcun altro, qualcuno di ben più capace di lui, e questo qualcuno era nientemeno che suo fratello.

  Ormai era inutile farsi delle illusioni: suo fratello, di due anni più vecchio, era l’unico priore dell’organizzazione, ed era unanimemente riconosciuto come una leggenda vivente: centocinquanta omicidi, tutti condotti nella più assoluta discrezione, e mai una volta nessuno che non fosse la vittima lo aveva visto agire, tanto le sue missioni erano preparate nei minimi dettagli.

  A lungo Kahled aveva cercato di eguagliarlo, ma era chiaro che si trattava di un’impresa impossibile: agilità, eleganza, perizia con le armi, capacità di previsione, discrezione; suo fratello era un concentrato di sapere, la summa dell’assassino, e sicuramente sarebbe stato colui che avrebbe portato nuovo lustro alla confraternita guidandola verso un periodo che, a giudicare dal caos che stava iniziando ad imperversare in Terra Santa, sarebbe stato sicuramente funestato da nuove guerre.

  Nati come semplice congregazione di fanatici religiosi dediti all’omicidio politico, gli Assassini erano diventati con il tempo una setta di segreti difensori della pace che uccidendo uomini responsabili di crimini indicibili assicuravano libertà e la tranquillità al popolo.

  Molti erano caduti per mano loro, governatori di città, dignitari corrotti, mercanti senza scrupoli, militari spietati, ma la strada per liberare il mondo dalla malvagità e dalla corruzione era ancora lunga, e fino a quando ci fosse stato una sola minaccia a gravare sulla gente comune gli Assassini avrebbero continuato ad esistere.

  Kahled e suo fratello avevano più di un motivo per voler essere partecipi di questa campagna di purificazione: figli di un illustre dignitario del califfo di Damasco, avevano assistito davanti ai loro occhi all’uccisione dei genitori dopo che questi avevano portato allo scoperto le malefatte di un capitano dell’esercito denunciandolo al sovrano, e sarebbero sicuramente morti anche loro se gli Assassini non fossero intervenuti, uccidendo gli aggressori e salvando loro la vita.

  Da quel momento, quella stessa vita era stata interamente votata alla setta e ai suoi principi; il maestro li aveva accolti amorevolmente, facendo di loro i suoi allievi personali e portando alla luce le abilità latenti di ognuno di loro: se Kahled si era rivelato un grande spadaccino, suo fratello aveva valorizzato e sviluppato al massimo la sua incredibile agilità, diventando capace nel giro di pochi anni di compiere acrobazie al limite delle possibilità umane.

  Hasan-i Sabbah era un maestro severo, rude, a volte spietato, ma sapeva come ricompensare i suoi allievi per i loro progressi, e oltre che nell’abilità di uccidere li aveva istruiti anche nella cultura, insegnando loro le sacre scritture cristiane e musulmane, il che li rendeva sicuramente i candidati più probabili alla successione.

  Una cosa che Kahled aveva imparato durante i suoi anni di assassino, e in cui credeva fermamente, era che la giustizia era un’ideale superiore, e lo stesso pensava suo fratello, anche se bisogna dire che su questo argomento avevano schemi di pensiero discordanti.

  Kahled era immerso nei suoi pensieri, quando una voce famigliare lo richiamò.

  «Eccoti finalmente. Ti ho cercato dappertutto».

  Era lui, suo fratello, e anche per chi non li avesse conosciuti sarebbe stato facile scorgere il legame di sangue che li univa: stessi occhi neri e penetranti, stessi capelli corvini, più lunghi nel fratello maggiore, stessa carnagione scura temprata dal sole, e solo una leggera differenza di altezza.

  «Altair.»

  «Ero certo di trovarti qua. Avanti, il maestro vuole vederci.»

  «Per quale motivo?»

  «Non me l’hanno detto, ma sospetto si tratti di una missione».

  I due fratelli entrarono dunque nell’edificio principale della fortezza e salirono al secondo piano, fermandosi davanti ad una porta più appariscente delle altre; bussarono leggermente, e quasi subito una voce gli disse di entrare.

  All’interno della stanza, disteso sul suo letto, stava il loro maestro, Hasan-i Sabbah, ma nessuno, vedendolo in quello stato, avrebbe mai pensato che un tempo era stato il fondatore degli Assassini; alla soglia dei novant’anni, non era nient’altro che l’ombra di stesso, un corpo vecchio e malmesso in cui la vita continuava a stento ad albergare. Il volto, unica parte del corpo che emergeva dalle coperte di lino, era scavato orribilmente dalle rughe e parzialmente nascosto sia dalla lunga barba bianca sia dal copricapo che il maestro indossava per nascondere la calvizie.

  Appena entrati, e facendo finta di non rimanere sconvolti dall’orribile spettacolo che avevano davanti, i due fratelli chinarono il capo.

  «Maestro.» dissero.

  Lui, che probabilmente gravitava tra il sonno e la veglia, aprì gli occhi, ma dovette fare ricorso all’aiuto del suo medico per riuscire a mettersi seduto, poggiando la schiena sui cuscini e guardando i due ragazzi dritti in volto: anche se vecchio e morente, quell’uomo conservava ancora quello sguardo glaciale che lo aveva reso così famoso.

  «Altair. Kahled.» disse con voce terribilmente catarrosa e affaticata «Avete fatto presto.»

  «Servirvi è un onore, maestro.» rispose il maggiore

  «In nome del cielo. Mi sembra solo ieri quando entraste a far parte della nostra grande famiglia. Ricordo ancora il giorno in cui arrivaste a Masyaf, ormai quasi quindici anni fa. Tu, Altair, tenevi la mano di tuo fratello, e da allora non l’hai mai lasciata.

  Voi due siete stati sempre uniti, e con il vostro operato avete portato gloria alla confraternita, contribuendo alla causa della pace. Prima che io lasci questo mondo, però, ho un ultimo incarico per voi.»

  «Comandateci, e ubbidiremo.»

  «Dovete uccidere… Jahal Alì Falahda

  «Il califfo di Baghdad!?» esclamò Kahled non senza stupore

  «Sì, Kahled. E voglio anche che recuperiate il manufatto maledetto di cui è venuto in possesso, la Parola di Allah.»

  «Non ne ho mai sentito parlare, maestro.» disse Altair «Di che si tratta?»

  «È il male. Il male nella sua più abbietta forma. Un potere che può spingere qualsiasi uomo a macchiarsi di crimini terribili per averlo, e ad altri ancor peggiori una volta venutone in possesso.

  Un potere divino, che trascende l’umana comprensione, e che per questo non deve mai e poi mai finire nelle mani di un uomo, soprattutto in quelle di un tiranno assetato di potere.»

  «Quand’è così, maestro, forse sarebbe più prudente distruggerlo.»

  «No. Ti sbagli Altair. L’oggetto in possesso di Alì Falahda è solo uno dei tanti. Anche se lo distruggessimo, gli altri rimarrebbero, pronti a scatenare l’inferno in terra.»

  «E allora che cosa si può fare, maestro?» domandò Kahled

  «Quei manufatti maledetti sono tutti collegati. Possederne uno significa possedere la chiave d’accesso anche per tutti gli altri. Per questo dovete recuperarlo. Quando sarà in nostro possesso, potremo scoprire dove si trovano i suoi simili, così da liberare l’umanità dalla loro demoniaca presenza.

  E poi, Jahal sa che l’Occhio di Allah non è l’unica fonte di potere di questo mondo, e presto, molto presto, cercherà di impossessarsi anche degli altri, in modo da soddisfare la sua ambizione. Deve essere fermato prima che possa farlo, ed è per questo che dovete ucciderlo. Anche se gli toglieste il suo tesoro, si limiterebbe a cercarne un altro».

  La storia che il maestro raccontava era davvero strana, soprattutto se si pensava che lui aveva tenuto sempre un atteggiamento alquanto scettico in merito a reliquie ed altri oggetti di natura divina, che egli considerava come niente più di mere invenzioni umane per dare forza e credibilità alla propria fede.

  Tuttavia, la convinzione e la forza che albergavano nei suoi occhi lasciavano intendere che credeva davvero a ciò che stava dicendo, e che le sue parole non potevano per nulla essere attribuite ai vuoti vaneggiamenti di un vecchio alle soglie della morte.

  «Questa è l’ultima missione che vi affido. Portatela a termine, e vi sarete guadagnati tutto il mio rispetto.»

  «Sarà fatto, maestro.»

  «Ho già inviato un messaggero a Baghdad per avvertire il Rafik del vostro arrivo. Dovrete compiere questo incarico in fretta, prima che questo mio vecchio cuore smetta di battere, e allora diverrete depositari delle mie volontà sul futuro sia vostro che della confraternita».

  Nel sentire quelle parole Kahled non riuscì a non percepire una sorta di messaggio di sfida rivolto ad entrambi.

  Era una prova!

  Una prova per decidere il futuro capo spirituale dei Nizariti. Sicuramente il Rafik, a incarico ultimato, avrebbe informato Hasan-i Sabbah del rendimento dei due fratelli, e quello che si fosse imposto maggiormente avrebbe preso il posto del maestro alla guida della confraternita.

  Di colpo, Kahled sentì rinascere la speranza, la speranza di poter eguagliare se non superare suo fratello, malgrado questo non pregiudicasse in alcun modo l’attaccamento e l’affetto che provava nei suoi confronti; anche lo stesso Hasan-i Sabbah volle mettere subito le mani in avanti, onde evitare spiacevoli atti di individualismo.

  «Che queste mie parole non vi distolgano dal vostro obiettivo, figli miei. La vostra forza sta nell’aiuto e nella collaborazione che vi siete sempre offerti l’un l’altro per portare a termine una missione, e deve essere così anche questa volta.

  Non dubitate che questo sarà l’incarico più difficile e rischioso di tutta la vostra vita. Jahal ha imparato a controllare quasi alla perfezione i poteri della Parola di Allah, e li userà su di voi se ne avrà l’opportunità. Fate attenzione, e non date niente per scontato.»

  «Lo faremo, maestro.» rispose Altair «Grazie dei vostri preziosi consigli.»

  «Andate, ora».

  Dopo aver fatto un ultimo inchino i due fratelli lasciarono la stanza, dirigendosi subito verso le stalle.

  «Non sei contento, Kahled?» domandò Altair mentre sellava il proprio cavallo

  «Eh, cosa!?» rispose il ragazzo come cadendo dalle nuvole

  «Siamo diretti a Baghdad. Potrai rivedere Mira. La cosa dovrebbe renderti felice.»

  «In effetti. Anche se ormai sono anni che non ci vediamo. Per quello che ne so, potrebbe anche aver conosciuto un altro uomo.»

  «Io non ne sarei tanto sicuro.» rispose Altair montando in sella «Deve ancora nascere l’uomo che riuscirà a domare quella tigre.»

  «Grazie, mi sei davvero di conforto.»

  «A parte te, ovviamente».

  Ben presto però l’argomento girò sulla missione che i due stavano andando a compiere.

  «Tu cosa ne pensi di questa storia della Parola di Allah?» chiese Kahled

  «A noi Assassini viene imposto di vedere il mondo per quello che è davvero, e questa realtà è densa di segreti. Ci sono molte cose in questo mondo che l’uomo non sa spiegare, o che sceglie di ignorare per paura.»

  «Pensi che sia vero?»

  «Il suo sguardo e il suo terrore erano più eloquenti di qualsiasi parola. Forse si è lasciato un po’ trasportare, ma il cuore della questione è sicuramente reale.»

  «Sì, non posso darti torto. Indubbiamente c’è della verità in ciò che ha detto.»

  «Dobbiamo fare attenzione, però. Spesso, troppo spesso, argomenti come questo sollevano più polvere di quanta dovrebbero, e la prima cosa da fare in questi casi è necessario separare la paglia dal grano.»

  «È per questo che ti ammiro, fratello. Riesci a scorgere la realtà e la verità dietro ad ogni cosa».

  Altair si girò verso di lui, guardandolo enigmaticamente e con severità.

  «Niente è reale. Tutto è lecito.»

  Kahled sorrise.

 «Il credo dell’assassino.» disse, e insieme superarono al galoppo i cancelli della fortezza, scendendo lungo il sentiero e dirigendosi verso sud-ovest.

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Assassin’s Creed è uno dei videogame che mi hanno maggiormente colpito, sia per giocabilità e storia in generale sia per i contenuti, e sono in febbrile attesa di procurarmi entrambi i sequel.

Questa storia, come è facile intuire dalla data, si colloca quasi settant’anni prima degli eventi narrati nel primo episodio, ma non voglio anticipare nulla sulla correlazione che dimostrerà di avere con esso.

I capitoli in tutto saranno 4, escluso questo prologo.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 2
*** Emozioni Ritrovate ***


1

1

 

 

Baghdad

Febbraio 1124

 

Alla luce del sole, la splendida città circolare risplendeva come una gemma radiosa.

  Unanimemente riconosciuta come la città più bella d’oriente, era da tempo dominata dalla dinastia dei Selgiuchidi, ed entro le sue altissime mura circolari trovavano spazio le più alte forme di cultura che l’umanità avesse mai visto: storici, filosofi, matematici, geografi insegnavano nelle sue scuole, contribuendo ad una diffusione del sapere praticamente sconfinata, per non parlare poi della grande varietà di popoli e culture che la abitavano e che davano vita ad un culto del sapere che travalicava le barriere della lingua e della religione, facendosi universale.

  Si studiava di tutto, dal greco alla matematica, dalla geometria all’alchimia, dalla storia all’emergente geologia, ma si discuteva anche di letteratura, di poesia, di astronomia e di medicina.

  Fuori dalle scuole, la gente comune viveva un periodo di relativa prosperità, con carri carichi di ricchezze che quotidianamente arrivavano via terra, attraversando una delle sei porte d’ingresso, o via fiume, dal Tigri, che nello stesso tempo offriva in abbondanza pesce di qualità e acqua pura.

  Da quasi dieci anni la città era governata da Jahal Alì Falahda, califfo e uomo di fiducia del sultano Ahmed Sanjar, con cui aveva anche una lontana parentela, il che gli aveva permesso sicuramente di scalare rapidamente i vertici del potere dopo che il precedente sovrano, Mehmed I, lo aveva ostacolato e osteggiato in tutti i modi a causa di una differente veduta politica.

  «Finalmente siamo arrivati.» disse Kahled osservando la monumentale porta orientale «È davvero una bella città.»

  «Hai ragione. Baghdad è da secoli uno dei centri culturali ed economici più importanti della regione, e il suo fascino è indiscutibile.»

  «Risulta quasi difficile pensare che un luogo tanto bello possa nascondere un’insidia così terribile.»

  «Nulla è mai come appare. Ricordalo sempre. La facciata di una cosa non sempre è uguale a ciò che si cela al di sotto».

  Sentendo parlare suo fratello in quel modo, Kahled non riuscì a trattenere una risatina.

  «Che c’è?» domandò Altair «Ho detto qualcosa di buffo?»

  «Parli già come il maestro, e a pensarci bene non hai mai fatto altro. Senza dubbio sei tu la persona più adatta a prendere il suo posto.»

  «Non pensare a queste cose. Per il momento, dobbiamo preoccuparci unicamente di raggiungere il nostro obiettivo, come abbiamo sempre fatto. La sfida che ci ha lanciato il maestro non deve in alcun modo distrarci, e sono certo che nei suoi propositi anche questo facesse parte della prova.

  Del resto, un capo non è niente se non può contare sull’appoggio e sulla collaborazione di chi gli è più vicino.»

  «Sono perfettamente d’accordo. Sta tranquillo, non ho mai pensato neppure per un secondo che questo o qualsiasi altra cosa potesse in qualche modo pregiudicare la stima e il rispetto che ho sempre nutrito nei tuoi confronti.»

  «Kahled…».

  Il fratello minore guardò il maggiore con gentilezza e ammirazione.

  «Io ti devo molto, Altair. Fin da quando eravamo piccoli mi hai sempre protetto, e hai continuato a farlo anche dopo che ci siamo uniti alla confraternita.»

  «Ho promesso ai nostri genitori di proteggerti e vegliare sempre su di te. E poi, sei mio fratello, ed è nostro dovere proteggerci vicendevolmente le spalle.»

  «E io di questo ti sono grato. Abbiamo combattuto insieme e sofferto insieme, e ogni giorno ringrazio il cielo per avermi fatto dono del tuo stesso sangue.

  Sono onorato e orgoglioso di stare al tuo fianco, e semmai dovessi un giorno divenire la nostra guida voglio che tu sappia che continuerò ad appoggiarti e a combattere per te e con te come ho sempre fatto.»

  «Queste tue parole mi riempiono di gioia. Anche io sono fiero di averti come fratello.»

  «Però, voglio che tu sappia una cosa. Fin da quando sono diventato un Hasisiyyun, ho promesso a me stesso che avrei fatto l’impossibile per arrivare ai vertici della confraternita, in modo da poterla guidare alla conquista di un mondo in cui nessuno, neanche il più misero degli uomini, sia costretto a subire la sorte toccata a noi in gioventù, e ora che ho la possibilità di realizzare questo mio sogno farò tutto ciò che è in mio potere per coglierla.»

  «E non dubitare che io farò altrettanto.» rispose Altair con un sorriso amichevole «Dopotutto anche io, come te, credo fortemente nella giustizia, e in ciò che i gli Hasisiyyun possono fare per essa.»

  «In questo caso.» disse Kahled porgendogli la mano «Amici come sempre.»

  «Come sempre.» rispose prontamente Altair stringendogliela «Fino alla fine».

  L’ingresso era ovviamente sorvegliato da una decina di guardie che supervisionavano sia i contenuti dei carri, imponendo ovviamente un obolo d’ingresso, sia i viandanti, soprattutto quelli che avevano l’aria di forestieri; negli ultimi tempi la situazione per l’Impero non era molto rosea, e correva voce che il sultano avesse in programma di condurre una guerra contro i Mongoli, che da un po’ di tempo pressavano con sempre maggiore insistenza sui confini orientali, pertanto la sorveglianza nelle grandi città come Baghdad era molto stretta, onde evitare l’intrusione di spie o, peggio ancora, di sabotatori, ma oltrepassare un ingresso sorvegliato era cosa da niente per due Assassini come loro.

  «Il solito trucchetto?» domandò Kahled

  «Ovviamente».

  Entrambi, scesi dai loro cavalli, si mischiarono alla folla che attendeva di entrare, mettendosi alla ricerca dei soggetti adatti; Altair arrivò per primo, trovando sulla propria strada un orrendo burbero dalla barba ispida che sicuramente non stava andando a Baghdad per frequentare una madrasa.

  Subito gli sferrò un destro poderoso, e nello stesso momento suo fratello faceva la stessa cosa con un tipo molto simile pochi metri più in là, buttandoli entrambi a terra per poi dileguarsi rapidamente; quelli, rialzatisi, si avventarono sui primi malcapitati che avevano a tiro, e nel giro di un secondo davanti al portone si scatenò una rissa colossale. Ben presto le guardie, intervenute per sedare gli animi, vennero a loro volta sopraffatte dalla calca, e così, approfittando della confusione, i due fratelli riuscirono ad entrare in città senza spargere una sola goccia di sangue.

  «Da qui in poi, meglio procedere separatamente.» disse Altair «Come le altre volte.»

  «Sì, hai ragione. Insieme daremmo troppo nell’occhio.»

  «Ci incontriamo alla dimora degli assassini. Ti ricordi dove si trova, vero?»

  «Naturalmente.»

  «E se ti è possibile, cerca di evitare i tuoi soliti colpi di testa. A dopo».

  Separatisi, presero direzioni opposte, e come faceva spesso Altair scelse di fare ricorso all’agilità saltando fra i tetti, e tenendo conto del caratteristico disordine strutturale che caratterizzava le città di tradizione araba, lontane dalla concezione geometrica e gerarchizzata degli agglomerati europei, non si trattava neanche di un’operazione troppo difficile, almeno non per qualcuno con il suo talento e la sua versatilità.

  Kahled invece, che per quanto agile e veloce non poteva certo competere con il fratello sotto questo aspetto, scelse come al solito di muoversi per le strade, stando bene attento a tenere il volto ben nascosto dal suo cappuccio e a non guardare nessuno negl’occhi.

  Gli piaceva camminare in mezzo alla gente, assaporare le piccole cose che per la gente comune erano normali e forse anche tanto monotone e quotidiane da essere ammuffite, ma che per un assassino come lui, condannato ad una vita lontano da tutto e da tutti, erano come un prezioso tesoro. Gli odori, i suoni, le parole, i rumori: era tutto così effimero, ma anche così bello.

  Ogni tanto Kahled sentiva la mancanza di quella vita, della vita a cui era stato brutalmente strappato a soli otto anni, quando passava le sue giornate a correre per le vie di Damasco rubacchiando alle bancarelle e tirando le barbe folte degli imam addormentati o in meditazione fuori dalle moschee per poi dileguarsi rapidamente nei vicoli della città vecchia.

  Immergersi ancora un po’ in quell’atmosfera gli ricordava che, infondo, era ancora umano, e gli dava anche un senso di speranza: la semplicità, in fin dei conti, era un bene, ma purtroppo solo chi come lui l’aveva persa poteva rendersene conto.

  Non era pentito di essere entrato a far parte della confraternita; come Assassino aveva i mezzi per guidare il mondo verso un futuro migliore, governato dalla pace e dalla ragione, ma non erano poche le volte in cui, guardandosi attorno, si era domandato se ne valesse davvero la pena: gli uomini potevano essere vili, egoisti, lussuriosi, arroganti, malvagi e crudeli, e cercare di portare un ideale come la pace in un essere vivente capace di manifestare simili emozioni rischiava di essere qualcosa al di là del possibile.

  Tuttavia, ogni volta che ci pensava, Kahled ripeteva a stesso che in quanto assassino non poteva pretendere di avere il suo sogno servito su un piatto d’argento, ma che anzi era suo dovere creare le condizioni per far sì che diventasse realtà.

  All’improvviso un coro di voci e schiamazzi proveniente dal cortiletto di un’abitazione attirò l’attenzione dei passanti, inclusa la sua, e pochi minuti dopo un gruppo di uomini e donne uscì all’esterno trascinando fuori di peso una giovane ragazza di forse sedici anni, se non più giovane, che urlava e piangeva, supplicando qualcuno di salvarla; i due uomini che la tenevano per le braccia, e che a giudicare dall’età dovevano essere il padre e il fratello, o il padre e il marito, la gettarono con violenza inaudita in mezzo alla strada, e mentre le donne la tempestavano di insulti gli uomini la riempivano di schiaffi e calci.

  La gente faceva cerchio, e le guardie non muovevano un dito per intervenire; anzi, mentre alcune tenevano indietro la folla altre rimanevano semplicemente a guardare, ma era una cosa più che comprensibile, data la situazione: si trattava sicuramente di un processo di famiglia, e in quei casi l’autorità non era autorizzata ad intervenire.

  Kahled, a fatica, riuscì a raggiungere la testa del gruppo, e inizialmente cercò di ricordarsi della promessa fatta a suo fratello di non attirare l’attenzione, ma poi quella ragazza lo guardò, supplicandolo silenziosamente e gelandogli il sangue: quello sguardo, il suo sguardo, era lo sguardo di chi cercava disperatamente una via di fuga, non solo da quella situazione, ma dalla stessa vita. Era lo sguardo di una colomba che, per quanto desiderasse e bramasse la libertà, era nata in gabbia, e in gabbia sarebbe rimasta.

  Quando vide gli uomini raccogliere da terra delle grosse pietre il giovane assassino non ci vide più, e senza riflettere si distaccò dalla massa.

  «Ehi! Lasciatela stare!» gridò con tono di ordine.

  Uno degli uomini, sicuramente il padre, si girò verso di lui, seguito a breve da tutti i suoi famigliari.

  «Voi non intromettetevi. Questa è una faccenda di famiglia.»

  «Perché? Che cosa ha fatto?»

  «È un’adultera. L’abbiamo sorpresa in atteggiamento intimo con un altro uomo.»

  «E questo è un crimine?»

  «Un crimine imperdonabile. Ha disonorato suo marito e la sua famiglia.»

  «Suo marito? Quale marito? Quello che gli avete scelto voi? Vi arrogate il diritto di decidere della vita delle vostre figlie, e pretendete pure che loro si sottomettano passivamente? Il solo fatto che questa famiglia abbia deciso di dare personalmente la morte ad un proprio congiunto è un disonore mille volte più grande di quello che pretendete di attribuire a lei.»

  «Come vi permettete di parlare così? Chi siete per obiettare sulle nostre leggi!?»

  «Sono un uomo che rifiuta leggi tanto stupide e barbariche da legittimare l’omicidio di una giovane donna la cui unico crimine è stato voler decidere della sua vita.»

  «Tu, bastardo! Hai bestemmiato!».

  Il padre a quel punto, dimenticatosi completamente della figlia, lanciò la pietra che aveva in mano contro Kahled, ma questi, che pur non avendo l’agilità del fratello disponeva dei riflessi di un cobra, evitò senza problemi spostandosi di lato, e allora il vecchio gli si fece incontro sfoderando un grosso coltello.

  Kahled dapprincipio non mosse un muscolo, neppure quando quell’uomo sollevò la mano armata per colpire, ma nell’istante in cui il fendente prendeva a tagliare l’aria il giovane si abbassò, evitandolo, e contemporaneamente si udì uno strano scatto; Kahled avanzò violentemente, portandosi spalla a spalla con il vecchio, e quasi subito questi sgranò gli occhi, facendosi rigido come la pietra mentre dalla sua bocca uscivano insieme un rantolo di agonia e uno schizzò di sangue.

  Guardie e passanti rimasero immobili e atterriti mentre il corpo dell’uomo cadeva inerme all’indietro con una grossa ferita proprio all’altezza del cuore e la tunica bianca sporca di sangue, e a quel punto tutti poterono scorgere la lama lunga e sottile che emergeva dal bracciale sinistro del ragazzo, l’arma di rappresentanza del suo ordine divenuta tristemente famosa come portatrice di morte in tutti i più remoti angoli della regione.

  «È un Assassino!» gridò qualcuno, e subito nella strada esplose il panico.

  La gente comune prese a fuggire in tutte le direzioni, i soldati lì presenti invece si affrettarono a mettere mano alle spade, e Kahled fece subito altrettanto, dimostrando di voler accettare la sfida.

  Malgrado gli Assassini non avessero mai operato in quel momento né a Baghdad né nelle zone limitrofe la loro leggendaria abilità sia come sicari sia come spadaccini era nota ovunque, quindi le guardie erano ben coscienti di ciò che poteva attenderli, ma confidavano comunque nel loro numero per poter ottenere una facile vittoria.

  Kahled, messosi subito spalle al muro, fece un rapido conteggio: in tutto dieci tra guardie e soldati regolari, questi ultimi provvisti, oltre che della veste bianca, anche di una leggera protezione di cuoio un po’ simile alla sua, ma tutto sommato niente di ingestibile.

  Il primo ad attaccare fu un soldato, che si fece avanti a spada tratta, ma Kahled schivò senza problemi e assestò un affondo preciso al torace che lo uccise sul colpo; altri tre partirono tutti insieme, e questa volta, piuttosto che limitarsi a contrattaccare, Kahled decise di rispondere a tono, e allontanato il primo con un calcio dopo aver deviato il suo fendente piantò uno dei suoi pugnali nella fronte del secondo quindi, sfoderato il coltello, colpì il terzo con un taglio preciso della gola approfittando di un suo momento di esitazione per poi infliggere con lo stesso coltello il colpo mortale al primo che, rialzatosi, aveva attaccato di nuovo, scoprendosi però e lasciando esposta la vena ascellare, che era stata prontamente recisa.

  Dei quattro superstiti due tentarono un nuovo attacco, ma vennero a loro volta uccisi senza difficoltà, un terzo invece tentò di darsi alla fuga; Kahled, rinfoderata spada e coltello, prese una breve rincorsa, e poggiato un piede sulla sommità di un muretto laterale gli arrivò addosso come un angelo della morte, buttandolo a terra e piantandogli la lama nascosta nella nuca.

  Subito il ragazzo si concentrò sull’ultimo nemico, aspettandosi di dover inseguire anche lui, invece, girato lo sguardo, lo trovò intento a proteggersi usando la ragazzina come scudo e tenendole la scimitarra puntata alla gola; Kahled non osò intervenire subito, ben conscio che un uomo terrorizzato a tal punto poteva diventare capace di tutto, ma mentre era ancora intento a trovare una possibile situazione un nuovo coltello sbucò dal nulla centrando il sequestratore in piena testa e uccidendolo istantaneamente.

  La ragazza, forse per paura, forse per lo shock, svenne, e subito dopo Altair comparve dal tetto dell’alto in una strada ormai deserta, e prima ancora di vederlo alzare lo sguardo Kahled si immaginava già quello che sarebbe successo.

  «Che cosa avevo detto a proposito dei colpi di testa?» esordì severamente

  «Ecco…»

  «Quante volte ti ho detto che devi pensare prima di agire? Non puoi risolvere sempre tutto con la spada.»

  «Ma fratello, l’avrebbero uccisa. Non potevo restare a guardare senza far niente.»

  «Non basta saper combattere per essere un bravo assassino, ci vuole anche cervello.»

  «Ho agito d’impulso, lo ammetto, ma che altro potevo fare? Un fanatico integralista non è la persona con cui si possa parlare, e credimi, ci ho provato.»

  «La tua lingua taglia più della spada. Credi che non lo sappia?».

  Kahled abbassò lo sguardo, conscio dell’ennesima stupidaggine commessa; come diceva Altair, non era nuovo a bravate di quel genere, e a lungo aveva tentato di imporsi un freno, ma non riusciva a rimanere indifferente a qualsivoglia tipo di ingiustizia che veniva compiuta dinnanzi ai suoi occhi, e poi toccava sempre a suo fratello tirarlo fuori dai guai.

  «Ora andiamo via, prima che arrivi qualcuno. Per oggi direi che abbiamo fatto abbastanza rumore.»

  «Aspetta, e cosa facciamo con lei?» domandò il minore guardando la ragazza «Non possiamo lasciarla qui, la ucciderebbero sicuramente».

  Altair sospirò, poi tornò sui suoi passi e prese la ragazza tra le braccia per poi scomparire insieme al fratello in una vietta laterale giusto in tempo per evitare l’arrivo di altre guardie.

 

La locale dimora degli assassini sorgeva in una delle zone più ricche ed esclusive della città ed era abilmente mascherata da ricca casa signorile, con tanto di servitori e guardie del corpo, tutti segretamente membri dell’ordine, che facevano abitualmente avanti e indietro dal mercato o da altri luoghi pubblici per rendere la storia ancora più credibile.

  Il suo occupante era il nobile Samir Al Farah, illustre mercante di lana, ma all’insaputa di tutti era anche il Rafiq di Baghdad, il solo forse tra i suoi compagni a poter vantare un’attività di copertura tanto sfarzosa e lussureggiante.

  Gli assassini accedevano alla villa tramite il cortile interno, e così fecero anche Altair e suo fratello, pur appesantiti da un fardello così ingombrante, per quanto grazioso; subito dopo che furono tornati coi piedi per terra il padrone di casa li raggiunse uscendo da una porta laterale assieme a due guardie.

  A differenza degli altri Rafiq, Samir non indossava la classica uniforme degli assassini e il soprabito nero, abbigliamento che avrebbe stonato con il ruolo che la città intera credeva che ricoprisse, ma al contrario faceva sfoggio di ricce vesti ricamate, e molti pensavano, non senza ironia, che si vestisse in modo tanto lussuoso per cercare di mascherare i limiti di un’età non più tanto florida.

  Tuttavia, benché calvo e non certo appariscente, era grande e grosso come un toro, e non a caso nei tempi in cui era stato un assassino il suo nome in codice era stato Sansone.

  «Alla buon’ora!» esordì andandogli incontro «Io vi aspettavo tre giorni fa.»

  «Scusaci, Rafiq.» rispose Altair «I predoni ultimamente si sono fatti molto numerosi, e siamo dovuti venire per strade secondarie.»

  «Lei chi è?» domandò poi il mercante vedendo la ragazza che il maggiore aveva sulle spalle

  «Volevano lapidarla.» disse Kahled «L’abbiamo aiutata.»

  «A dire il vero ha fatto tutto di testa sua, come al solito.»

  «Questa non è una casa di cura. Questa è la dimora degli assassini. E se venissero a cercarla?»

  «Ma non possiamo mandarla via. La ucciderebbero.»

  «Va’ bene, ho capito il discorso. Sì da’ il caso che oggi un gruppo dei miei servitori debbano tornare a Masyaf. Andrà con loro.»

  «Ti ringrazio. Sapevo di poter contare su di te».

  Sistemata anche quella questione Samir, che aveva visto crescere coi suoi occhi quei due fratelli, insegnandogli anche alcuni dei suoi segreti nel periodo di apprendistato che avevano trascorso a Baghdad prima di diventare assassini a tutti gli effetti, li abbracciò calorosamente, come se fossero stati i suoi figli.

  «È davvero una gioia rivedervi, ragazzi.»

  «Anche per noi è bello rivederti, Samir.» disse Kahled

  «Speravo tanto di potervi rincontrare, ma purtroppo in qualità di Rafiq non mi è concesso lasciare Baghdad. E ditemi, come sta il maestro? Si è un po’ ripreso?»

  «Purtroppo no.» rispose Altair «È in declino, e la situazione peggiora di giorno in giorno.»

  «Mi si spezza il cuore, ma infondo era quello che mi aspettavo di sentire. Ho capito che era una cosa grave quando ho visto che i messaggi non erano scritti di suo pugno».

  Si sparse una spiacevole atmosfera di ansia e dolore, ma Samir cercò di riportare subito un soffio di serenità.

  «Tuttavia, questo deve renderci solo più determinati. Sarà l’ultima missione affidataci da Hasan-i Sabbah, pertanto abbiamo il dovere di compierla al meglio.»

  «Hai ragione Rafiq.» rispose Kahled «Non dobbiamo lasciarci distrarre. Al contrario, dobbiamo dimostrare il meglio di noi stessi.»

  «Così mi piaci, ragazzo.»

  «Sai già perché siamo qui, vero?» chiese Altair

  «Sì, naturalmente. E mi sono già permesso di raccogliere delle informazioni per aiutarvi nella missione. Abbiamo molto di cui parlare, ma prima sarà meglio attendere l’arrivo del terzo assassino. Dovrebbe essere qui a minuti.»

  «Il terzo assassino?» ripeté Kahled

  «Il maestro non ve l’ha detto? Non sarete da soli a compiere questa missione. Vi affiancherà un professionista, qualcuno che da anni gravita attorno a Jahal Alì Falahda e alla sua corte.»

  «E di chi si tratta? È Yusuf?»

  «Non proprio. Lo scoprirai a tempo debito».

  In quella un’ombra minacciosa sovrastò tutti e tre, e Kahled, alzato lo sguardo, si spostò appena in tempo per evitare la spada di un altro assassino, che lasciati perdere Altair e Samir si concentrò unicamente su di lui; malgrado indossasse l’uniforme degli assassini e nascondesse il volto dietro un bavero, tanto gli occhi quanto la corporatura resero più che evidente che si trattava di una donna.

  Kahled guardò Altair, che allargò amichevolmente le braccia senza mostrare alcuna intenzione di intervenire, quindi sguainò a sua volta la spada, e tra i due fu subito aperto scontro. La donna era agile e aggraziata, ed utilizzava uno stile di lotta assolutamente non comune per le regioni del Medio Oriente, fatto di spostamenti continui, movenze acrobatiche e affondi letali, per non parlare della sua spada: non una scimitarra o un pesante spadone europeo, ma una lama lunga e sottile come un foglio di carta; l’impugnatura, di legno, era decorata finemente come un pregiato arabesco, e aveva alla base una cordicella arancio tramonto a cui era legata una sfera nera.

  Kahled dovette indietreggiare di parecchi passi, poi però si ritrovò con la schiena appoggiata al pozzo al centro del giardino, e agilmente vi saltò sopra giusto all’ultimo secondo, salvandosi ancora una volta sul filo del rasoio; messosi in piedi salto di nuovo per evitare un fendente orizzontale, e contemporaneamente saltò alle spalle dell’aggressore che, giratasi, venne disarmata da un preciso colpo a mano aperta all’altezza del polso.

  Prima di potersi considerare in pericolo però la ragazza allontanò Kahled con un calcio, e affondate le mani dietro la schiena ne prese fuori due spade corte legate insieme tra di loro da una lunga corda di seta rossa; Kahled rispose sfoderando anche il pugnale, e la battaglia riprese più accesa di prima. Pur risultando molto abile anche con la spada, divenne subito chiaro che quella coppia di spade erano l’arma favorita dalla ragazza, che dimostrò ben presto di saperle usare con una maestria incredibile; tenendo ben stretta la corda che le univa era in grado, fuori dal corpo a corpo, di renderle ugualmente pericolose, facendo compiere loro lunghe, veloci o pericolose parabole che arrivavano anche a tre metri da lei o a farle schizzare fulminee in avanti come la testa avvelenata di un serpente, e quando pensavi di essertene finalmente liberato te le trovavi nuovamente addosso, pronte a minacciarti ancora.

  Altair e Samir continuarono a restare impassibili, malgrado il Rafiq continuasse a supplicare i due contendenti di non distruggergli il giardino, e alla fine Kahled, superate le difese nemiche, appoggiò la lama del coltello alla gola della ragazza, ma il suo sorriso soddisfatto si spense alla vista dello sguardo fiero e sicuro di sé dell’avversaria.

  «Non cambi mai, vero Kahled?» disse, e solo allora il ragazzo si accorse di avere una delle due spade nemiche appoggiata ad un fianco

  «E va’ bene, lo ammetto.» mugugnò allontanandosi «Questa volta hai vinto tu».

  La ragazza rinfoderò le spade e si tolse il copricapo, rivelando un magnifico volto candido circondato da lunghi capelli neri e arricchito da due occhi piccoli e lunghi, un piccolo naso aquilino e gentili labbra minute.

  Come Assassina si chiamava Mira, ma il suo vero nome era Yang Li, e veniva dalle fertili pianure della Cina; figlia di un grande maestro, a soli sette anni era stata catturata nel corso di una razzia compiuta nel suo villaggio, e venduta come schiava era passata di padrone in padrone fino ad arrivare, ormai tredicenne, a Samarcanda, dove, una volta scappata, aveva vissuto i due anni successivi come tanti bambini di strada. Poco tempo dopo era stata trovata dallo stesso Samir, che rimasto colpito dall’abilità e dalla tecnica con cui vinceva combattimenti clandestini contro uomini molto più grandi di lei l’aveva portata con sé a Baghdad, riuscendo a convincere Hasan-i Sabbah a sorvolare sulle sue origini e a concedergli di addestrarla.

  Lei e i due fratelli si erano conosciuti durante l’addestramento, nel periodo che Altair e Kahled avevano trascorso a Baghdad, e fra i tre era nata subito un’intesa molto forte, in particolare con il fratello minore. Kahled era notoriamente troppo orgoglioso per accettare una sconfitta in duello inflittagli da qualcuno che non fosse suo fratello, ma con Mira le cose erano diverse; lei era speciale, e tra i due vi era un sano sentimento di rivalità che li spingeva a misurarsi in amichevoli conflitti al fine di migliorarsi continuamente, ma c’era anche dell’altro, qualcosa che forse due persone di quel tipo potevano esprimere per l’appunto solo confrontandosi, ma i primi a non voler scendere nell’argomento erano proprio loro.

  Liberatasi dell’ingombrante copricapo la ragazza andò a recuperare la sua prima spada, rimasta conficcata nel terreno.

  «E con questa siamo quattro a quattro. Ora ne manca solo una per decidere chi è il migliore».

  «Non sei affatto cambiata, Mira.»

  «Neanche tu, Altair. Sei sempre il solito musone ombroso, tuo fratello invece è sempre il solito sempliciotto prevedibile».

  Kahled rimase rigido come un sasso, e a differenza delle altre volte non riuscì a trovare la forza di rispondere a tono alle provocatorie stoccate della sua amica: e pensare che l’ultima volta che si erano visti le aveva detto, per scherzo naturalmente, che non sarebbe mai stata in grado di diventare una ragazza attraente, invece ora era bella da togliere il fiato.

  «Allora…» riuscì solo a dire «Sei tu il terzo assassino assegnato a questa missione!?»

  «Indovinato. Questa volta lavoreremo insieme.

  Dovresti sentirti onorato di avermi come tua partner.»

  «Ma sentila, la presuntuosa!» esclamò Kahled scendendo finalmente coi piedi per terra «Sei tu che dovresti sentirti onorata di lavorare con noi. Speri forse di poterci reggere il confronto?»

  «Con tuo fratello forse, con te sicuramente sì.»

  «Piccola vipera.»

  «Bene.» disse Samir battendo le mani «Noto con piacere che la cara vecchia atmosfera di un tempo è rinata tutta in una volta. Mi mancavano questi battibecchi.

  Ora però preoccupiamoci di cose serie. Venite, parleremo nel mio studio».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi di nuovo!^_^

Non sapete quanto sia felice di aver incontrato una così calorosa approvazione per questa fiction che, correggendo la precedente affermazione, non sarà composta da 4, ma da sei 6 capitoli, prologo ed epilogo esclusi.

Per quel che riguarda le domande che mi sono state fatte no, Altair non è lo stesso del gioco, e sì, i due hanno qualcosa in comune, ma su cosa sia in realtà lo scoprirete solo alla fine.

Ringrazio le mie due recensitrici, Elika e Saphira, e prometto di aggiornare ancora in breve tempo, ma avendo l’inizio dei corsi a pendere sulla mia testa non so, da lunedì, quanto veloce potrò essere.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 3
*** Demoni nella Notte ***


2

2

 

 

Fra le sue tante passioni Samir ne nutriva una in particolare per i testi classici, e nel suo studio, una delle stanze più lussuose e lussureggianti del palazzo facente parte del complesso dei suoi alloggi al secondo piano, conservava una grande collezione di opere messa insieme in anni e anni di lunghe ricerche, da Omero a Seneca, da Apollodoro a Giulio Cesare, da Ovidio a Ippocrate.

  Il contenuto di alcuni di quei testi avrebbe potuto procurargli non poche grane con le somme autorità religiose, ma lui stava abbastanza in alto da potersi sentire relativamente al sicuro, e se poi qualcosa non andava per il verso giusto si poteva sempre nascondere il materiale più pericoloso nel vano segreto delle cantine.

  «Il tempo massimo per portare a termine questo lavoro è di cinque giorni.» disse Samir sedendosi alla sua scrivania «È chiaro che Hasan-i Sabbah vuole che questo incarico sia portato a termine prima della sua dipartita.»

  «Da dove dobbiamo cominciare?» domandò Altair mentre, per la persona raffinata che in realtà era, assaporava un po’ dell’ottimo tè che una servitrice gli aveva offerto

  «Jahal è una persona estremamente prudente.» disse Mira «Sono già due anni che gravito attorno a lui spacciandomi per una sua servitrice.

  Non resta mai da solo, ed è seguito in ogni suo spostamento da un esercito di guardie pesantemente armate, questo ovviamente senza tenere conto della sua grande e indiscutibile abilità come spadaccino.»

  «Tu una servitrice!?» replicò ironicamente Kahled «Mi risulta difficile crederlo.»

  «Cancella quel sorrisetto, o lo faccio io con un pugno.»

  «Non cominciate voi due.» disse il fratello maggiore «Deve pur avere un punto debole. Non può essere guardato a vista ventiquattro ore al giorno.»

  «No di certo. Se è per questo, ho già trovato il momento giusto in cui colpire.

  Dovete sapere che Jahal soffre di una particolare malattia allo stomaco che lo costringe a prendere una tisana a base di erbe e aromi ogni sei ore.»

  «Sarebbe facile avvelenarla.» disse Kahled

  «Non così facile. Prima che gli venga servita una delle sue guardie che soffre dello stesso male la beve sempre per primo.»

  «Lo immaginavo. E poi, siamo Assassini. Un metodo codardo come il veleno non fa parte del nostro modo di agire.»

  «Infatti. Comunque, dovendo prenderla ogni sei ore, Jahal la beve anche alle tre del mattino. Lui proibisce ai soldati di entrare nei suoi alloggi durante la notte, e solo la servitrice che porta la medicina ha il permesso di andare a svegliarlo.

  Tale incarico di solito spetta sempre alla medesima persona, ma non sarebbe un problema sostituirmi a lei. Le guardie mi conoscono, e non sospettano di me. Mi lascerebbero passare senza discussioni.»

  «Ora sappiamo come occuparci di Jahal.» disse Altair «Ma come facciamo per il tesoro?»

  «A tal proposito, Rafiq, tu cosa sai di questa Parola di Allah?»

  «Non molto. Gira voce che si tratti di un tesoro dal valore inestimabile, dotato di incredibili poteri, ma nessuno sa con precisione di cosa si tratti o che forma abbia.»

  «Tu Mira, puoi dirci qualcosa?» chiese Kahled

  «Purtroppo no. In questi anni mi sono avvicinata molto a lui. Credo che mi consideri una delle sue favorite, ma ogni volta che cercavo di scivolare sull’argomento lui si faceva evasivo.

  Di certo c’è solo che non è qualcosa che porta addosso, come un pendente o un anello, e non si trova neppure nelle sue stanze. Ho controllato attentamente più e più volte, ma non ho trovato né segni sospetti né qualche traccia di nascondigli segreti.»

  «Allora è come cercare un ago in un pagliaio.» disse Altair

  «Forse no. C’è un posto in cui potrebbe trovarsi.»

  «E dove?»

  «Nel museo. Si trova in un’ala isolata del palazzo, dall’altra parte del cortile orientale, in una piccola costruzione al termine di un corridoio di mura lungo una trentina di metri. Nessuno può entrarci a parte lo stesso Jahal e l’unico ingresso è sorvegliato giorno e notte, perciò non sono stata mai in grado di dare un’occhiata, ma se è difeso così bene deve esserci per forza qualcosa di grande valore lì dentro, a parte i soliti reperti storici di cui questa città è ovviamente piena.»

  «La cosa sembra sensata, ma bisogna esserne sicuri. Se l’ipotesi dovesse rivelarsi errata, avremmo perso la nostra unica occasione per mettere le mani sul tesoro.»

  «È per questo che io mi sono attivato.» disse Samir «E ho già pronti due informatori. Te ne occuperai tu, Altair.»

  «Di chi stiamo parlando?»

  «Il primo è una guardia del palazzo. Ogni giorno passa le sue ore libere in una birreria clandestina a nord della città. Diventa molto loquace con qualche bicchiere in più, ma non ucciderlo. Bisogna evitare di sollevare sospetti.»

  «E l’altro?»

  «Un vecchio insegnante della madrasa di Al Narsuf. Ha catalogato molti dei reperti storici conservati nel museo, e potrebbe avere ottime informazioni. Lui invece sarebbe meglio metterlo a tacere, visto che ha la tendenza a vendersi per molto poco.»

  «Sarà fatto. Mi occuperò di entrambi oggi stesso.»

  «Molto bene.»

  «Aspettate.» disse Mira «C’è un’altra cosa di cui dobbiamo tenere conto.»

  «E sarebbe?» domandò Kahled

  «Jahal ha una guardia del corpo, e posso assicurarvi che liberarcene non sarà facile.»

  «Come si chiama?»

  «Non lo so.»

  «Non lo sai!?»

  «Se proprio vuoi saperlo, non conosco neppure il suo volto. E non solo io, nessuno nella cerchia di Jahal lo ha mai visto. Lo chiamano l’Ombra, e non è un caso. Non riesco a capire come faccia, ma riesce a difendere il suo signore senza mai farsi vedere. Ad oggi molti spiantati e ribelli che hanno tentato di uccidere il califfo sono stati eliminati per mano sua.»

  «Potrebbe essere un nostro fratello.» ipotizzò Altair «Un Assassino che ha deciso di tradire.»

  «L’ho pensato anche io all’inizio, ma ho capito presto che non può essere così. Usa una tecnica diversa dalla nostra, molto più letale e pericolosa. Inoltre…»

  «Inoltre?»

  «Mi è capitato di assistere ad una delle sue azioni per difendere Jahal, e quando la situazione si è acquietata sono riuscita a recuperare una delle armi che usa abitualmente».

  Mira mise la mano in una manica della veste e ne prese fuori una curiosa stella di metallo con quattro affilatissime punte con un buco al centro.

  «Mai visto niente del genere.» disse Kahled

  «Funziona come i nostri pugnali, ma è estremamente più precisa, e può lanciarne una vera selva in rapida successione.»

  «Rafiq, tu ne sai qualcosa?»

  «Mi dispiace ragazzo, è una novità anche per me.»

  «Ho sentito parlare di quest’arma quando ero nel mio paese. Viene usata dalle spie di un’isola ad oriente.»

  «Quindi questa Ombra» disse Altair «Viene dalle tue stesse terre.»

  «È molto probabile, e se è così bisognerà fare molta attenzione. La fama di questi invisibili assassini dell’oscurità è tale da averli trasformati in una leggenda. Sono solo pochi anni che esistono, ma già tutti li temono.»

  «A tempo debito ci occuperemo anche di questo.» rispose Samir facendosi di colpo molto più serio e accigliato «Tuttavia, prima di preoccuparci seriamente dell’uccisione di Jahal e del recupero del tesoro, c’è qualcos’altro su cui è necessario rivolgere la nostra attenzione.»

  «Che è successo?» domandò Kahled non senza preoccupazione

  «Mentre eravate in viaggio per arrivare a Baghdad è arrivato un altro messaggio da parte di Hasan-i Sabbah.

  Fratelli miei… siamo stati traditi.»

  «Che cosa!?» esclamò Mira «Qualcuno ci ha traditi?»

  «Si chiama Risham, e fino a poco tempo fa era una delle mie migliori spie, ma improvvisamente, due settimane fa, è passato dalla parte di Jahal, e ha cominciato a svelare alcuni dei segreti che circondano il nostro ordine.»

  «Maledetto.» disse Altair stringendo il bicchiere fino a frantumarlo «Fra tutti i peccati di cui si può macchiare un Assassino, il tradimento è di sicuro il più deprecabile.»

  «Fortunatamente per noi era poco più che un novizio, pertanto non è a conoscenza di cose come la mia identità o la locazione di questa dimora, ma con le sue rivelazioni potrebbe minare seriamente la nostra rete d’informazione qui a Baghdad.

  Deve essere fermato prima che provochi altri problemi. Ho inviato un messaggio ad Hasan-i Sabbah per spiegargli la situazione, e lui ha già autorizzato la missione.»

  «Dove si trova ora questo Risham?» domandò Kahled

  «Nella prigione di Nargun, a ovest. Un luogo praticamente inespugnabile, ma stando ai miei contatti pare abbiano in mente di spostarlo proprio stanotte.»

  «Per quale motivo?»

  «Molto probabilmente sanno che tenteremo di metterlo a tacere. Lo imbarcheranno al molo vicino al suk al Marsak, e se riescono a farlo uscire dalla città lo avremo perso per sempre. Bisogna agire subito, e ve ne occuperete voi due.»

  «Noi!?» esclamarono insieme Mira e Kahled

  «Sarà sicuramente scortato, e vi saranno soldati anche a bordo della barca. Meglio essere almeno in due, per darsi vicendevolmente le spalle, anche se conoscendovi credo non sarà niente di ingestibile.»

  «Perché mai dovrei fare da balia a questo ragazzino!?»

  «Guarda che questo dovrei dirlo io!»

  «Smettetela! Tutti e due! Lo farete perché questo è un ordine del vostro diretto superiore qui presente, mi sono spiegato?»

  «Sì, d’accordo.» risposero mestamente i due

  «Perfetto. Altair, tu mettiti subito al lavoro per trovare le informazioni. Quanto a voi due, riposatevi. Entrerete in azione dopo il tramonto».

 

Altair, da impeccabile Assassino qual’era, portò a termine il suo incarico in sole tre ore, facendo ritorno alla dimora sul fare del tramonto, giusto in tempo sedere con suo fratello e prendere parte alla cena rituale che precedeva l’inizio di una missione.

  Il codice d’onore degli Hasisiyyun prevedeva che subito prima di intraprendere un omicidio gli Assassini consumassero una cena di un certo prestigio, più sostanziosa rispetto a quella che toccava solitamente loro; era una sorta di ultimo piacere, un modo per affrontare una eventuale morte senza rimpianti, e con la consapevolezza di aver goduto almeno una volta le gioie che la vita poteva offrire.

  Grazie alla gentile donazione di Samir quella cena risultò particolarmente abbondante e variegata: pesce di fiume, carne di pecora cotta alla brace, riso a volontà insaporito con spezie raffinate, pane arabo, frutta fresca, datteri secchi e noci; essendo alquanto scettico sulla natura degli dèi e deprecando la maggior parte delle tradizioni islamiche, nonché lo stesso codice di vita che regolava la vita dei musulmani Altair non disdegnava neanche i piaceri del vino, mentre Kahled, che condivideva solo la linea di pensiero su legge e morale, preferiva tenersene comunque lontano, sia perché bere non gli piaceva sia perché, come aveva già sperimentato una volta, non reggeva per niente l’alcol.

  Mira mangiava da sola, in un’altra stanza del palazzo, dal momento che il codice comportamentale dei Nizariti vietava ad un uomo e una donna non imparentati tra di loro di sedere allo stesso tavolo.

  Tra i due fratelli regnava il silenzio, un silenzio enigmatico e diverso da quello che precedeva solitamente una missione; era come se entrambi stessero deliberatamente evitando di parlare per non correre il rischio di dire cose spiacevoli, o per non far nascere una conversazione che nessuno sapeva dove sarebbe sfociata.

  D’un tratto però la ragazza che avevano salvato quella mattina portò loro dell’altro vino, e il ringraziamento che rivolse con molto rispetto e innocenza fu la molla che fece scattare il discorso.

  «Se non fossimo intervenuti» disse Kahled «Quella povera ragazza sarebbe sicuramente morta.»

  «Forse, ma questo non toglie che il tuo gesto avrebbe potuto costarti caro, e compromettere seriamente la nostra missione. Ho sentito i discorsi della gente, oggi, mentre camminavo per la città, e già si parla di noi. Se quelle voci dovessero giungere all’orecchio del califfo, ci troveremmo a dover affrontare problemi estremamente seri.»

  «Ma cosa dovevo fare? Lasciarla lì in mezzo alla strada e restare a guardare mentre la uccidevano?»

  «Non critico il fine, Kahled, ma i mezzi.

  Te l’ho già detto, non puoi risolvere sempre tutto a spada tratta. Certe situazioni richiedono giudizio, coscienza e lucidità. Semmai un giorno dovessi diventare maestro degli Assassini dovrai affrontare decisioni difficili, in cui la strategia e la capacità di analisi risulteranno decisive.

  In quanto Maestro sei responsabile della sorte di tutti i membri dell’ordine, e se dovessi sbagliare qualcosa saranno altri a pagare per i tuoi errori.»

  «Io… io non ci avevo mai pensato.»

  «Se sarai Maestro avrai nelle tue mani tutta la confraternita. Chiederai ai tuoi discepoli di combattere, di rischiare la vita, e a volte anche di morire, e dovrai essere forte nello spirito per poter sopportare un simile peso.»

  «Hai ragione, fratello. Fino ad ora ho sempre pensato che bastasse essere un bravo guerriero per poter essere un Assassino, ma ora mi rendo conto che la mano non è niente se non vi sono un cuore e una mente forti che la guidano.»

  «Questo si chiama parlare.»

  «Tuttavia» disse Kahled mentre guardava il pezzo di pane che aveva in mano «Non riesco ad accettare quello che ho visto, e anche dopo aver sentito queste tue parole credo che trovandomi lì avrei agito allo stesso modo.»

  «Purtroppo, questo fa parte della tua natura.» rispose Altair sorseggiando un po’ di vino «Il tuo senso di giustizia è ammirevole, dopotutto.»

  «Perché, fratello? Perché dio permette che una donna sia picchiata e uccisa solo per aver cercato di riscattare la sua libertà? Perché permette che uomini massacrino altri uomini nel suo nome?»

  «Non incolpare dio per la stupidità degli uomini. Lui non ha nessuna colpa.»

  «Credevo che non avessi fede negli dèi, fratello.»

  «Non ho fede in ciò che gli uomini dicono di essi. Se tutto ciò che ci viene detto sul loro conto fosse vero, gli dèi favorirebbero cose come crociate, guerre sante, discriminazione, odio interculturale, rifiuto del diverso, e onestamente, di un dio del genere, io non saprei che farmene.»

  «Fratello…»

  «La divinità è qualcosa di superiore, di trascendente. Sono stati gli uomini ad asservire il suo messaggio ai loro egoistici desideri, e questo è il peggiore sbaglio che la nostra specie abbia mai fatto.

  Il solo modo per porre fine a questo scempio è squarciare il velo dell’ignoranza, mostrando all’umanità la verità per quello che è, senza interpretazioni o bugie. Ed è anche per questo che dobbiamo lottare noi Assassini.»

  «Le tue parole sono cariche di saggezza, fratello.

  Sono d’accordo con te. Una volta che gli uomini avranno visto la verità come l’abbiamo vista noi i mali del mondo saranno finalmente superati, e avrà inizio per noi tutti un’epoca nuova, di pace e giustizia.

  E voglio essere partecipe di un così grande disegno. Lo voglio con tutto me stesso».

  Dopo poco Samir si presentò nella stanza.

  «È ora».

 

Dopo una certa ora della notte Baghdad veniva avvolta da un silenzio surreale, e le uniche luci ad illuminarla erano quelle delle lanterne portate a mano dalle pattuglie armate che giravano per le strade per garantire la tranquillità e prevenire atti di furto.

  Silenziose e discrete, due ombre percorrevano velocemente i tetti della città vecchia, arrivando infine nei pressi del molo a sud del vecchio suk Al Marsak, proprio sulla sommità dell’ultimo edificio, un grande palazzo signorile che dava direttamente sull’argine.

  Lungo il corso del fiume si potevano scorgere in lontananza molte barche di pescatori uscite per le battute notturne, ma la maggior parte di esse erano all’angola sui pontili.

  «Ecco, il posto è questo.» disse Kahled guardandosi attorno

  «Se l’informazione era corretta, dovrebbero arrivare da un momento all’altro».

  E infatti, dieci minuti dopo, da un vicolo laterale comparvero dodici soldati regolari che scortavano un Assassino legato per i polsi e con il volto solo parzialmente nascosto dal suo copricapo.

  I soldati che lo sorvegliavano aspettarono a lungo prima di imboccare la strada larga e acciottolata che costeggiava il molo, sicuramente per accertarsi che non vi fossero occhi e coltelli indesiderati ad attendere il loro arrivo.

  «Deve essere lui.» disse Mira

  «Quelli hanno l’aria di essere professionisti. Meglio agire con discrezione.»

  «Che cosa!? Dov’è finita la tuo grandioso approccio di “chi attacca per primo attacca due volte”!?»

  «Mai pensato in questi termini.»

  «Sì, come no.»

  «Ora basta discutere, pensiamo all’incarico. In Rafiq vuole sapere perché ha tradito, perciò dobbiamo occuparci anzitutto dei soldati, per poter parlare con lui in tutta calma.»

  «Non sarà facile.»

  «Credo di avere un’idea. Se vuoi ascoltarmi.»

  «Sono tutta orecchi. Sentiamo».

  Kahled spiegò velocemente il suo piano, e subito Mira storse il naso disgustata.

  «Non ci pensare neanche! Posso fingermi una odalisca obbediente, ma questo no!»

  «Samir mi ha assegnato il comando della missione, quindi a cuccia e ubbidire.» replicò Kahled con un tono di sarcasmo e uno sguardo di chi non ammette repliche

  «Questa me la paghi, garantito.»

  «Forse, ma intanto limitati ad ubbidire».

  Di nuovo Mira mostrò palesemente il proprio risentimento, ma poi fu costretta a trangugiare il boccone amaro e saltò su di un tetto attiguo mentre Kahled sorrideva divertito.

  Poco dopo una barca in legno di una certa dimensione, atta a trasportare agilmente un equipaggio di venti o più uomini, si accostò al pontile principale, e un marinaio fece cenno ai soldati di venire avanti sollevando due volte la lanterna che teneva in mano.

  Quelli fecero per ubbidire, ma d’un tratto la loro attenzione fu attirata da uno strano rumore, come un fischio a intermittenza; era un codice, un codice segreto in uso presso la guardia cittadina di Baghdad che veniva usato dai messaggeri che recavano dispaccio di grande importanza ma che, per una ragione o per l’altra, non potevano esporsi.

  «Che sarà successo?» domandò il capo della pattuglia, riconoscibile dall’elmo a punta e dalla cresta formata da quattro strisce di cuoio nero «Tu, vai a vedere cosa vogliono.»

  «Sissignore».

  Il soldato incaricato del compito lasciò il gruppo e si diresse verso la stradina da cui era sopraggiunto il fischio, scomparendo nell’oscurità, ma dopo più di due minuti di lui non si vedeva traccia.

  «Ma che accidenti sta combinando quell’idiota!?» mugugnò l’ufficiale battendo nervosamente il piede sul legno «Andate a dargli una sveltita».

  Altri due uomini, questa volta armi alla mano, entrarono nella stradina, e fatti pochi metri si imbatterono nel cadavere del loro compagno, riverso sul torace con la gola trafitta; quello che lo aveva trovato fece per avvertire il suo compagno, che a causa del buio non aveva visto niente, ma un’ombra minacciosa comparve dal nulla in mezzo tra i due e tappatagli la bocca lo uccise piantandogli la lama nella schiena; il superstite fu raggiunto subito dopo aver tentato la fuga, ma l’assassino questa volta non riuscì a tacitarlo in tempo per evitargli di lanciare un urlo di terrore, urlo che fu sentito dai soldati in attesa, e contemporaneamente la lanterna tenuta dal marinaio si spense cadendo nel fiume.

  «Ma cosa…» esclamò il solito ufficiale «Formazione difensiva!».

  Lui e gli altri sguainarono le spade e formarono un muro attorno al prigioniero per poi prendere a camminare a passo piuttosto spedito verso la barca, facendo sempre molta attenzione al minimo movimento che avveniva tutto intorno a loro; regnava un silenzio spaventoso, e si aveva la sensazione che tutto potesse accadere.

  All’improvviso, un pugnale schizzò fuori da una scanalatura piuttosto pronunciata tra le assi del pontile, trafiggendo al mento uno dei soldati e lasciandolo a terra morto.

  «Che diavolo…».

  Altri tre pugnali seguirono in rapida successione, uccidendo un altro uomo e ferendone due in modo invalidante, uno alla mano e uno ai testicoli.

  «Dannazione, muovetevi!».

  I cinque superstiti, abbandonato ogni schema prestabilito, cominciarono a correre pieni di terrore, e quando Kahled si palesò sul pontile quattro di essi restarono per tenergli testa, anche se, terrorizzati com’erano, dovettero essere costretti a farlo sotto minaccia di esecuzione dal loro comandante che, unico rimasto, si diresse velocissimo alla barca tenendo la spada in una mano e la collottola del prigioniero nell’altra.

  Sguainati insieme spada e pugnale Kahled si occupò dei soldati, spaventati a tal punto che le loro movenze erano altamente prevedibili; mentre il giovane Assassino teneva loro agilmente testa l’ufficiale raggiungeva finalmente la barca, gettandovi letteralmente dentro il prigioniero, ma una volta a bordo si accorse, con suo grande sconcerto, che tutti i marinai in grado di manovrarla erano immobili.

  Infuriato e fuori di sé si mise portò sul parapetto dalla parte opposta dell’imbarcazione e si girò verso Kahled, che sbarazzatosi degli ultimi ostacoli lo osservava stando a distanza.

  «Fatti avanti, bastardo! Sono qui che ti aspetto!».

  Di colpo però l’uomo sentì uno strano rumore alle proprie spalle, ma non fece neanche in tempo a girarsi che una lama lo trafisse alla schiena per poi trascinarlo in acqua prima che avesse il tempo di urlare.

  Risham, che si era messo in ginocchio per tentare di rialzarsi, osservò attonito la sua ultima linea difensiva scomparire tra i flutti, e quando tornò a concentrarsi sul pontile vide Kahled saltargli addosso con la lama nascosta già sguainata.

  Buttatolo a terra, lo trafisse allo stomaco, un colpo non gravissimo ma che lasciava poche speranza di vita a lungo termine; nello stesso momento Mira, fradicia e coperta del fango su cui aveva camminato passando sotto il pontile, salì a bordo a sua volta, inginocchiandosi assieme al compagno davanti al corpo di Risham, al quale venne tolto il copricapo per permettergli di respirare meglio.

  I suoi occhi erano strani: sembrava esservi a malapena un barlume di vita, e più passavano i secondi più questa scintilla, invece che spegnersi, pareva acquistare vigore, come se la morte, invece che spegnerla, le avesse anzi permesso di tornare a bruciare.

  «La tua fuga è finita.» disse Kahled sorreggendogli la testa

  «Mi… mi dispiace. Mi dispiace… per ciò che ho fatto.»

  «Perché?» domandò Mira «Perché ci hai traditi

  «Io… io non volevo farlo. Lo giuro. Ma poi, ho incontrato lui… credevo che mentisse. Che fosse un esaltato.»

  «Di che stai parlando?» chiese Kahled «Chi hai incontrato?»

  «Lui… non è un uomo. Ciò che fa… ciò che riesce a fare… non è umano.»

  «Stai parlando di Jahal? O forse di quel tipo che chiamano l’Ombra?»

  «Lui… può vedere tutto. Può sapere tutto… il suo sguardo… ti penetra nelle carni… e ti mette a nudo. E poi… poi usa ciò che ha visto per dominarti.

  Tutti i tuoi ricordi… tutte le tue paure… tutte le tue emozioni… rivoltate contro di te… e usate per dominarti. Non si può sfuggire al suo controllo.

  Ho cercato di oppormi, di combattere… ma ho fallito. E quello era solo un assaggio… il suo potere… è ancora più grande… e ancora più spaventoso. Io… l’ho veduto».

  Kahled e Mira avevano già ascoltato altre confessioni in punto di morte da parte delle loro vittime; molte di loro chiedevano scusa, altre difendevano il proprio operato, altre ancora cercavano biecamente di giustificarsi, e sulle prime entrambi pensarono che anche Risham stesse infondo facendo la stessa cosa; tuttavia, man mano che ascoltavano le sue ultime parole, il suo sguardo non smetteva di colpirli: non sembrava esservi né falsità né ipocrisia nelle sue parole, e le lacrime che stavano cominciando a solcargli le guance parevano sincere.

  «Fratello… stai dicendo sul serio!?»

  «Non… non guardatelo mai. Non guardate quel suo oggetto diabolico… basta uno sguardo… e siete suoi. E a quel punto… solo la morte potrà liberarvi. Proprio… come sta succedendo… con me.

  Ero cosciente di ciò che facevo… sapevo di stare tradendo i miei fratelli… ma non potevo oppormi. Ve lo giuro, ci ho provato… ma non potevo. Era come… essere incatenato.

  Ma ora, grazie a voi… finalmente… sono libero».

  Risham tossì violentemente, e la sua carnagione cominciò a farsi molto pallida, segno che non gli restava molto da vivere.

  Quali che fossero i crimini e le colpe delle loro vittime gli Assassini avevano l’obbligo morale di ridurre al minimo la loro agonia e di rispettarne il corpo dopo la morte, quindi Kahled, recuperato il sangue freddo si preparò a vibrare il colpo di grazia.

  «Grazie…» disse sorridendo Risham

  «La pace sia con te, fratello».

  Un solo colpo, alla gola, come accadeva sempre, e la vita del traditore fu spezzata definitivamente; Mira, che aveva preso a sorreggergli la testa, la lasciò cadere dolcemente sul legno della barca, e Kahled gli chiuse delicatamente gli occhi, intingendo la piuma nel sangue che sgorgava dalla ferita sul collo, a testimonianza indiscutibile che l’incarico era stato portato a termine.

  I due assassini si guardarono, senza sapere cosa pensare, ma non potevano sapere che nello stesso momento qualcun’altro stava guardando loro, appostato silenziosamente sul minareto di una moschea poco distante.

  Vestiva interamente di nero, un’uniforme non tanto diversa da quella degli assassini, sormontata da gambali e da un paio di guanti e provvista di un bavero che copriva buona parte del suo volto lasciando però scoperti i capelli, di un nero spento, tendente quasi al grigio, benché i suoi lineamenti testimoniassero che si trattava di una persona piuttosto giovane; dietro la schiena una spada, e assicurate alla cintura una selva di stellette di metallo, oltre ad un certo numero di pugnali lunghi e stretti provvisti di un anello all’estremità.

  Il suo equilibrio aveva del prodigioso, tanto da riuscire a mantenersi in piedi sulla sommità acuminata del minareto, dritto come una statua e a braccia conserte.

  I capelli e la fascia legata attorno alla fronte ondeggiavano al vento come le onde del mare, e dal suo sguardo traspariva tutta la sicurezza e l’autocontrollo di uno spirito abituato a fendere e sfidare le leggi di natura e la natura stessa piuttosto che a sottomettervisi, in un modo non dissimile agli Hasisiyyun.

  Rivolta un’ultima occhiata a Kahled e Mira, che ancora seguitavano ad osservare il corpo senza vita del loro vecchio compagno con la testa piena di domande, scomparve magicamente nel nulla inghiottito dal buio.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi nuovamente!^_^

Questo capitolo si è fatto un po’ desiderare, ma dovendo occuparmi sia di questa fan fiction, sia dell’imminente ripresa dei corsi, sia del romanzo che sto faticosamente cercando di scrivere (è appena cominciato e ci sto lavorando da due mesi, fate un po’ voi) il tempo non mi basta mai.

Da lunedì poi andrà anche peggio, visto che praticamente tutti i giorni uscirò di casa alle sette per tornare alle sette (tranne un paio di giorni in cui tornerò alle sei), ma cercherò comunque di proseguire, anche perché ormai questa fiction mi ha preso troppo.

Ringrazio i miei recensori, Elika, Saphira e Sux Fans.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 4
*** Ricorsi della Memoria ***


3

3

 

 

Quando Kahled e Mira avevano riferito ad Altair e Samir le ultime parole pronunciate dal traditore Risham, una cupa atmosfera di angoscia e preoccupazione aveva preso ad aleggiare sulla stanza.

            Ci si interrogava silenziosamente, con gli sguardi, e nessuno sapeva cosa pensare, ma se davvero le azioni di Risham erano state condizionate unicamente dai poteri malefici del frutto di Allah la sua uccisione avrebbe avuto pesanti conseguenze su tutti coloro che avevano avuto un ruolo nella vicenda.

            La prima regola del Credo parlava chiaro, Trattenere la lama dalla carne degli innocenti, e tradire uno dei precetti che regolavano la vita dei membri dell’ordine poteva costare molto caro, sia in termini pratici, con una gradazione più o meno pesante, che spirituali, perché si era costretti a vivere con la consapevolezza di aver tolto la vita ad un innocente.

            «Forse stava solo cercando di giustificarsi.» disse ad un certo punto Samir, quasi a voler mitigare i sensi di colpa che dominavano gli sguardi atterriti di Mira e Kahled «Dopotutto, aveva commesso il crimine più grave di cui si possa macchiare un assassino.»

            «No Rafiq, non è così.» rispose Kahled «Lo abbiamo guardato negli occhi, mentre pronunciava queste parole. Non stava mentendo.»

            «È ciò che avete veduto?» domandò Altair

            «Senza ombra di dubbio.» disse Mira «Stava dicendo la verità.»

            «Se è davvero come dite» disse Samir «I poteri del Frutto di Allah sono davvero qualcosa di spaventoso.»

            «Dominare la volontà delle persone e obbligarle a servirti.» disse Altair come tra sé «Non oso pensare a cosa potrebbe fare un simile strumento se finisse nelle mani sbagliate.»

            «Si trova già nelle mani sbagliate.» intervenne Kahled «E noi dobbiamo assolutamente strapparglielo.»

            «Risham diceva che agisce facendo leva sulle paure e sui ricordi di chi lo osserva.»

            «È comprensibile. Le paure sono l’unica cosa in grado di dominare anche il più retto degli uomini.»

            «Ma Rafiq.» disse Mira «Gli Assassini non dovrebbero aver imparato a dominare le paure?»

            «Ragazza mia, ci sono cose alle quali neppure gli Assassini più esperti sono immuni. Possiamo aver imparato a dominare paure proprie del nostro modo d’agire, ad esempio quella della morte, ma ce ne sono altre, molto più profonde e radicate, che sono parte di noi, e di quelle è impossibile liberarsi. Per quanto riguarda i ricordi poi, sono ciò che ci lega al nostro passato. Entrambe queste cose sono parte della nostra essenza, determinano chi siamo e il nostro modo di rapportarci con l’esistenza, pertanto, se qualcuno a parte noi ne detiene il controllo questo qualcuno è come se pensasse al nostro posto.»

            «Mi vengono i brividi solo a pensarci.» disse Kahled

            «Fate molta attenzione ad avvicinarvi a quell’oggetto. Ciò che è stato fatto a Risham potrebbe essere fatto anche a voi.»

            «Dovremo essere più accorti del solito, fratello.» disse Altair

            «Ne sono consapevole.»

            «Ora però pensiamo a preparare bene la missione. Altair, che cosa hai scoperto dalle tue indagini?»

            «Le guardie di Jahal sono estremamente fedeli al loro signore. Si è assicurato la loro fedeltà con ingenti donazioni, usando i soldi prelevati indebitamente dalle casse della città.

            Il cambio di turno avviene alle tre del mattino, e per un breve periodo di tempo si crea una falla che permetterebbe di introdursi nel palazzo senza essere visti. Il muro a ovest è facilmente scalabile e c’è una finestra che può essere facilmente aperta, perciò entrare da sarebbe abbastanza facile.»

            «Quanto tempo avremo per riuscire ad entrare senza far scattare l’allarme?» domandò Kahled

            «Due minuti al massimo. Una volta dentro, percorreremo tutto il corridoio fino ad una terrazza che dà proprio sul cortile interno. Una volta lì lo dovremo percorrere in tutta la sua lunghezza, e dalla parte opposta, circondato da un muretto non troppo alto, troveremo il museo.»

            «Sembra tutto troppo facile.» commentò ironicamente Mira «Sento che c’è un ma in arrivo.»

            «Il ma è che il cortile è pesantemente e pericolosamente esposto. Alte mura lo circondano a est e a ovest, e sono sorvegliate da arcieri. Anche correndo il più velocemente possibile dubito che arriveremo laggiù prima che il cambio della guardia sia ultimato.»

            «In altre parole» disse Kahled «Sarebbe come disegnarsi un bersaglio in mezzo alla fronte.»

            «L’oscurità indubbiamente potrebbe esserci d’aiuto, ma il rischio di essere individuati non è indifferente.»

            «Non abbiate di che temere» intervenne Samir «Credo di avere ciò che fa per voi».

            Il Rafiq tirò una statuetta appoggiata alla sua scrivania, e immediatamente una delle librerie girò su stessa assieme ad una porzione del pavimento, rivelando uno scomparto segreto contenente un vero e proprio arsenale: pugnali, balestre, archi, spade, bracciali e, più importante di tutto, una coppia di tuniche completamente nere un po’ diverse da quelle canoniche, simili più che altro a dei soprabiti.

            Samir ne prese una, mostrandola ai suoi tre sbigottiti subalterni.

            «Un nuovo modello. L’ho inventato io. Leggero e resistente, e permette di muoversi con estrema discrezione nell’oscurità, anche negli ambienti più ristretti. Inoltre…».

            Rimesso l’abito sul suo attaccapanni, il Rafiq raccolse uno strano oggetto a forma di L con due lunghe canne da cui spuntavano le punte di altrettanti paletti di metallo, e al punto d’incrocio tra le canne e l’impugnatura, sulla parte inferiore vi era un grilletto simile a quello delle balestre, su quella superiore invece una sorta di cilindri che avevano l’aria di poter essere mossi avanti e indietro.

            Vedendo le espressioni dubbiose dei tre ragazzi Samir sorrise di soddisfazione, e puntata la sua strana arma verso il cappotto servendosi di una sola mano spinse il grilletto: si udì come uno schioppo, un rumore secco e sordo, i cilindri mobili si spostarono violentemente in avanti e i due paletti saltarono via dal loro alloggio, schizzando a folle velocità contro la veste.

            «Stra… straordinario.» disse Kahled

            «E non è ancora finita».

            Con aria molto soddisfatta Samir esibì la parte interna del soprabito, dimostrando che i paletti, anche se lanciati da vicino, lo avevano oltrepassato solo in minima parte, e allora lo stupore dei tre Assassini divenne incontenibile.

            «Ma come… come è possibile!?» disse Altair

            «Una piccola accortezza contro i casi di emergenza. Tra i due strati della stoffa è stata inserita una maglia metallica ad anelli, in grado di fermare efficacemente l’azione di quasi ogni arma ad oggi conosciuta. Solo i colpi lanciati da vicino possono essere pericolosi, oltre naturalmente a quelli portati alla testa.»

            «Di sicuro ci sarà molto utile.»

            «E quell’arma che hai usato?» domandò Kahled

            «Un’altra mia invenzione. Sfrutta un sistema ad aria compressa. Ho preso ispirazione dai progetti di Ctesibio, uno scienziato alessandrino, e da quelli di Archimede. Quando si preme il grilletto la valvola di sfogo viene attivata, i cilindri mobili si spostano violentemente e la pressione dell’aria fa partire i paletti. Per garantire una riserva minima di colpi ho collegato le valvole a due diversi sistemi a scatto: una lieve pressione sul grilletto fa partire solo il paletto di destra, premendo a fondo invece partono entrambi.

            È flessibile come un arco e precisa come una balestra, ma a differenza di quest’ultima richiede solo pochi secondi per poter essere ricaricata.»

            «Che distanza possono raggiungere?»

            «Se è la precisione che cerchi, più o meno i settanta metri, anche cento con il vento a favore. Ne ho creata anche una versione più piccola e discreta da montare su un bracciale, ma è monocolpo, e non andiamo oltre i venti metri.»

            «Davvero sorprendente.» commentò Altair «Perché non hai mai mostrato tutte queste cose al Maestro? Potrebbero divenire parte dell’arsenale degli Assassini.»

            «Scherzi!? Questi non sono giocattoli. Ctesibio e Archimede li hanno progettati, ma non hanno mai osato costruirli per timore della loro pericolosità. Anche io a suo tempo la pensavo come te, ma vedendo di che cosa sono capaci ho capito che non è il genere di arma da mettere in mano al primo idiota che indossa una veste bianca.»

            «Potresti prestarcela?» domandò Kahled «Gli abiti scuri ci saranno molto utili, ma se dovessimo essere scoperti servirà molto più del necessario per uscire vivi da lì».

            Samir si mostrò molto dubbioso al riguardo, e lì per lì fu sul punto di negare il permesso, poi però, spronato anche dallo sguardo da cucciolo supplichevole di Mira, si lasciò convincere.

            «E va’ bene. Ma sarà Altair a portarla. Senza offesa Kahled, ma mi fido molto di più di lui che di te.»

            «D’accordo. Dopotutto, il Rafiq sei tu.»

            «Tu Mira prenderai la versione da bracciale, nel caso dovessi trovarti in difficoltà. Ad ogni modo, anche se non metto in dubbio la vostra abilità, vi invito a fare la massima cautela.

            Il successo di questa operazione sarà dettato dalla vostra abilità di operare come una squadra. Ognuno di voi dovrà svolgere il proprio ruolo, e una eventuale attenzione rischierebbe di compromettere ogni cosa in un letale effetto a catena.

            Avrete a disposizione un solo tentativo per portare a termine l’incarico, quindi mi sembra evidente che non c’è spazio per eventuali errori, ci siamo capiti?»

            «Sì, Rafiq.» risposero in coro i tre

            «Molto bene. Preparatevi. Entrerete in azione stanotte».

            Conclusa quell’ultima riunione tattica Mira si preparò a fare ritorno al palazzo; da qualche tempo era entrata a far parte della cerchia delle favorite del califfo, ottenendo tra le altre cose un proprio alloggio personale, il che le permetteva di muoversi in una certa libertà, ma sapeva bene che tutte le sere ad una data ora Jahal faceva visita a lei e a tutte le sue parigrado, e non farsi trovare sarebbe potuto costarle molto caro, per non parlare del rischio per la copertura.

            Uscita in cortile fece per andarsene, ma prima che potesse farlo Kahled la raggiunse.

            «Mira aspetta!»

            «Che c’è? Te l’ho detto che devo rientrare. Se arriva alle mie stanze e non mi trova per me saranno guai seri.»

            «Lo so. È solo che, con tutto quello che è successo, non ho avuto il tempo… ecco… di complimentarmi con te.»

            «Complimentarti?! Per cosa?»

            «Beh, per la missione. Ieri sera abbiamo fatto un buon lavoro di squadra, non sei d’accordo?»

            «Se quello che ci ha detto Risham era vero» rispose lei con uno sguardo leggermente astioso «Non c’è nulla di quella missione per il quale dover essere felici.»

            «Già, hai ragione.» disse lui visibilmente imbarazzato «Scusami».

            Mira, vedendolo così mortificato, parve addolcirsi.

            «Però» disse con il suo solito tono pungente «Devo ammettere che ti sei rivelato migliore di quanto mi aspettavo. Pensavo di doverti fare da balia, invece hai saputo cavartela da solo.

            E poi quel tuo piano è stato ingegnoso, bisogna riconoscerlo, anche se prima o poi te la farò pagare per avermi costretta a strisciare nel fango. Hai idea di quanto ci ho messo per togliermelo dai capelli?»

            «S… sì. Ti chiedo… ti chiedo scusa.»

            «E dacci un taglio con quel tono. Mi pari un servo sorpreso a scappare».

            Kahled era chiaramente e terribilmente nervoso, e se da una parte sembrava cercare un modo per proseguire la conversazione dall’altro sembrava essere sul punto di scappare.

            «Ti ricordi… ti ricordi della prima volta che abbiamo lavorato insieme? Erano i tempi dell’addestramento. Un Assassino d’alto rango ci aveva ordinato di pedinare la sua vittima per conoscerne gli spostamenti.»

            «E tu per poco non ti sei fatto scoprire, e tutto per aver voluto stendere un bottegaio ubriaco che accusava un bambino di avergli rubato una mela.»

            «Già. Hai ragione.»

            «Ma d’altra parte» disse Mira facendosi di nuovo più dolce e gentile «Immagino sia questo che ti rende un Assassino così speciale».

            Kahled quasi svenne nel sentirsi rivolgere un tale complimento, e di nuovo dopo tanto tempo sentì riaffiorare quello strano batticuore che più di una volta lo aveva colto quando loro due erano rimasti soli.

            «Beh, ora devo proprio andare.

            Vedete di non combinare guai voi due, perché non mi sarà possibile tirarvene fuori».

            Mira fece per andarsene, ma di nuovo Kahled la fermò

            «Cerca di fare attenzione».

            Lei parve molto sorpresa, e per un attimo fece per sollevarsi il bavero, così da poter nascondere il proprio rossore.

            «Da quando in qua ti preoccupi per me? Ti sta forse venendo la febbre?»

            «Non è uno scherzo!» replicò quasi urlando Kahled, più veemente e preoccupato che mai «Sarai tu a dover uccidere Jahal. Non dimenticare quello che ha fatto a Risham. Cerca di essere molto prudente».

            La ragazza tornò sui suoi passi, e i due, trovatisi viso a viso, si guardarono a lungo, poi lei, sorridendo, gli passò un indice sulla guancia.

            «Anche tu.» disse, poi, con solo un paio di balzi, raggiunse il tetto, da cui fece un cenno di buon augurio al suo amico, e vedendola scomparire Kahled, che pure si sentiva rassicurato dalla consapevolezza che si trattava di una formidabile guerriera, fu colto da un sinistro ed inquietante brivido alla schiena.

            Non sapeva perché, ma aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente strano nella situazione che stavano vivendo; non sapeva cosa, ma una voce misteriosa sembrava volerlo metterlo in guardia: nulla andava mai come preventivato, e sentiva dentro di sé che sa qualcosa fosse andato storto Mira avrebbe potuto trovarsi in grave pericolo. Pregò il cielo di sbagliarsi.

 

E venne nuovamente la notte, ma stavolta Baghdad non era più la città tranquilla e sopita nel sonno di ventiquattro ore prima.

            L’assassinio dell’informatore Risham aveva messo in allarme il califfo, e le strade erano ora percorse ininterrottamente da pattuglie di dieci o più guardie armate di tutto punto, e i tetti erano sorvegliati da arcieri.

            Altair e Kahled questo inconveniente lo avevano ampiamente previsto, e nel corso di tutta quella giornata non avevano fatto altro che saltare da un tetto all’altro alla ricerca della via che permettesse allo stesso tempo di muoversi rapidamente e di evitare quanto più possibile gli scontri.

            Ben protetti dalle loro nuovi uniformi nere, che come predetto da Samir permettevano loro di risultare pressoché invisibili nell’oscurità della notte, raggiunsero in un tempo ben minore di quello che avevano preventivato l’ultima linea di edifici che davano sulla parte occidentale del palazzo, una costruzione alta e possente non protetta da alcun tipo di muraglia nella parte frontale e per buona parte di quelle laterali, ma con un alto muro di cinta a circondare interamente il cortile posteriore.

            Kahled aveva suggerito di approfittare del cambio della guardia per percorrere le mura ed arrivare così al museo senza dover affrontare il pericoloso tragitto attraverso il giardino, oppure per calarsi all’interno del giardino stesso senza dover entrare nel palazzo, ma Altair, che pure aveva tenuto a mente tali eventualità, interrogando la guardia ubriaca aveva appreso che i soldati di ronda sul muro di cinta seguivano un orario diverso da quello del resto della guarnigione, e che il loro turno durava per tutta la notte, quindi sperare di passare da lì senza essere visti era pura utopia.

            Appena furono di nuovo in strada i due fratelli corsero a nascondersi dentro ad una rientranza che Altair aveva notato nel corso del suo sopralluogo, sfuggendo alla vista della pattuglia che percorreva senza sosta il grande viale che girava tutto intorno al palazzo, quindi si misero in attesa.

            «Quando sentiremo il segnale, dovremo scattare come fulmini. Fai attenzione ad alcuni appigli, perché potrebbero cedere, e se ripassa la pattuglia ricordati di rimanere immobile.

            Mi hai capito?».

            Suo fratello però non poteva sentirlo: i suoi pensieri in quel momento erano altrove, su Mira, e lui sentiva di essere indicibilmente preoccupato per lei. Quella sensazione che gli aveva attraversato le ossa subito dopo che si erano separati lo aveva tormentato per tutto il giorno, e sapendola lì dentro da sola, senza nessuno a guardarle le spalle, sentiva un vento gelido soffiargli sul cuore.

            «Kahled, mi stai ascoltando?»

            «Cosa!? Sì, scusami. Ero soprapensiero».

            Altair capì subito il motivo di un tale comportamento, e cercò di porvi rimedio.

            «Non aver paura. La conosci Mira, è una ragazza con la testa sulle spalle. Vedrai che se la caverà egregiamente, come ha sempre fatto. Ma noi dobbiamo fare la nostra parte se vogliamo che tutto vada bene, e per riuscirci dobbiamo essere lucidi.»

            «Sì, hai ragione. Non accadrà più.»

            «Rivolgi a lei i tuoi pensieri, se questo ti aiuta a trovare la forza, ma fai in modo che sia tu ad avere il controllo su di loro, e non viceversa.»

            «Ho capito. Farò come dici».

            In quella tre brevi colpi di gong in rapida successione annunciarono il cambio della guardia, e accertatisi che la pattuglia fosse ancora lontana i due fratelli cominciarono a scalare le mura del palazzo il più velocemente possibile.

            A metà strada dovettero fermarsi, per evitare che le guardie sotto di loro potessero scoprirli, e di nuovo si videro costretti ad esitare non appena ebbero aperto la finestra perché Altair, servendosi di uno specchietto montato su di un’asticella, si avvide dell’arrivo di un soldato, e subito fece cenno al fratello, che lo seguiva a pochi passi, di immobilizzarsi nuovamente.

            Per fortuna non accadde nulla, e appena ebbero nuovamente la strada sgombra i due finalmente entrarono, ritrovandosi in un grande e sfarzoso corridoio pieno di vivai e ogni altra sorta di oggetto d’arredo.

            «Non credevo che sarebbe stato così facile.» commentò Kahled quando fu di nuovo coi piedi per terra

            «Sono d’accordo, entrare non è stato un problema, speriamo solo che i problemi non arrivino quando dovremo uscire. Da questa parte».

            Nello stesso momento, in un’altra ala del palazzo, tre guardie sorvegliavano diligentemente il grande portone oltre il quale stavano le stanze private del califfo, quando una giovane ancella sopraggiunse da un arco laterale recando in mano un vassoio con sopra una coppa, una brocca probabilmente d’acqua e un contenitore di erbe. Dapprima i soldati non si scomposero, poi però, quando poterono vedere bene in volto la ragazza, si fecero un po’ più accorti.

            «Che cosa ci fai qui?»

            «Sono venuta a portare la medicina al padrone.»

            «Dov’è l’altra serva?»

            «Ha preso una brutta malattia. C’era pericolo che potesse far ammalare il nobile Jahal, così è stato ordinato a me di prendere il suo posto».

            Il capo delle guardie, ciò nonostante, non sembrava eccessivamente convinto, e seguitava a guardare la ragazza con sguardo sospettoso.

            «Mostrami l’autorizzazione».

            Lei allora, senza alcun problema, prese da dentro il corpetto un pezzo di carta firmato dal capitano delle guardie di palazzo in cui veniva detto che effettivamente l’ancella incaricata solitamente di svolgere quell’incarico era impossibilitata a muoversi dal letto, e che pertanto la presente Mira era autorizzata a prenderne il posto fino a quando la sua compagna non si fosse ristabilita.

            Il soldato lesse attentamente il comunicato, e finalmente si convinse.

            Mira tirò segretamente un sospiro di sollievo, riuscendo a nascondere le sue vere emozioni con la propria freddezza di Assassina: la falsificazione di documenti non era mai stata la sua specialità, ma stavolta sembrava aver funzionato.

            «D’accordo entra, ma non metterci troppo. Il padrone ha avuto una giornata molto impegnativa, e ha bisogno di molto riposo per rimettersi in forze.»

            «Prometto che impiegherò il minimo indispensabile».

            Una delle due guardie aprì il chiavistello, le porte si aprirono leggermente e Mira poté entrare, poi, accertatasi che fossero state completamente richiuse, si guardò intorno per sondare l’ambiente: gli appartamenti erano davvero enormi, un insieme intricato di varie stanze collegate tra di loro da grandi archi e piene all’inverosimile di ogni possibile arredo in grado di ostentare sfacciatamente potere e ricchezza, dai tappeti dell’Anatolia alle statue classiche, dai vasi in vetro e in terracotta dell’India alle pergamene cinesi, dagli arredamenti barbari dei popoli della steppa ai mascheroni etnici dell’Africa Nera, tutte cose che avevano anche la funzione di testimoniare la grande esperienza del nobile Jahal in termini di viaggi e spedizioni nei più remoti angoli della Terra compiuti come emissario del Sultano.

            Dalla parte opposta all’ingresso, dopo in vasto soggiorno, c’era la camera da letto, e malgrado lì dentro regnasse un’oscurità quasi totale, solo in parte mitigata dal fuoco di alcune torce, Mira vi arrivò velocemente e in silenzio: aveva visitato quei posti mille volte, esercitandosi quando poteva al momento in cui avrebbe dovuto fare ciò che stava facendo in quel momento, e nulla di ciò che c’era lì dentro, neanche il più piccolo dettaglio, le era ignoto, anche perché aveva setacciato ogni possibile nascondiglio migliaia e migliaia di volte alla ricerca, purtroppo vana, della Parola di Allah.

            Posato il vassoio su di un tavolino, Mira recuperò un pugnale lungo e sottilissimo che aveva nascosto tra i suoi lunghi capelli, quindi si avvicinò molto lentamente al grande letto a baldacchino: Jahal dormiva come un bambino, completamente avvolto nelle sue morbide coperte in piuma d’oca per proteggersi dall’impietoso freddo delle notti desertiche, e non aveva la minima idea di quello che stava per accadergli.

            Raggiunto il letto, Mira si guardò un attimo intorno, giusto per effettuare un ultimo controllo, e forse rammentandosi delle prime volte in cui aveva fatto cose del genere, quando aveva paura che i battiti furiosi del suo cuore potessero farla scoprire, recitò mentalmente le preghiere di rito rivolte all’anima che stava per liberare dai suoi vincoli terreni, poi, fulminea, colpì.

            Un solo colpo, dritto alla gola, per una morte istantanea e priva di sofferenze, come si confaceva al codice degli Assassini.

            Tuttavia, subito, qualcosa la colpì, o meglio, la terrorizzò: non una goccia di sangue sgorgò dalla ferita che aveva appena inflitto, e il corpo di Jahal non fu minimamente attraversato dai violenti spasimi che seguono alla morte improvvisa.

            Un pensiero orribile le attraversò la mente quando, ritratto il pugnale, trovò la lama ancora lucida e scintillante, e tolte violentemente le coperte i suoi timori si fecero tremendamente reali: aveva appena tolto la vita ad un innocuo fantoccio di stracci.

            Il cuore di colpo fece sentire il suo battito, e prima di potersi guardare nuovamente attorno per capire quanto tempo avesse per fuggire una mano sbucò da sotto il letto, afferrandole la caviglia e tirando con violenza.

            La ragazza, colta completamente di sorpresa, cadde, e nel giro di un istante quattro guardie sbucate dai nascondigli più impensabili le furono addosso, immobilizzandola; due di esse, afferratele le braccia, la costrinsero in ginocchio rivolta verso la finestra, una terza le afferrò i capelli e la quarta le puntò la sciabola alla gola.

            «Non deve essere molto piacevole» disse di colpo una voce famigliare, profonda e apparentemente gentile, ma velata da una punta di freddo e malvagio sarcasmo «Sapere di essere stati raggirati».

            Dalla terrazza, vivo e vegeto come non mai, uscì Jahal Alì Falahda, califfo di Baghdad, uomo di fiducia del sultano Ahmed Sanjar.

            Abbastanza alto e piuttosto avanti con l’età, era completamente pelato, e il più delle volte, nelle occasioni pubbliche, era solito nascondere questa spiacevole menomazione con vistosi copricapo. Gli occhi, neri, rispecchiavano uno spirito arguto, abituato a muoversi tra intrighi e complotti, e addestrato a sfruttare ogni più piccola sottigliezza a proprio vantaggio. La bocca, piegata in quel suo famoso e sarcastico sorrisetto, era contornata da una barbetta scura terminante in un leggero pizzetto.

            Ma più di tutto, fu ciò che il califfo teneva in mano ad attirare negativamente l’attenzione di Mira, perché qualcosa dentro di lei le diceva che era ciò che Kahled e Altair erano andati a cercare al museo.

            Aveva la forma di un cubo, grande una decina di centimetri per ogni lato, fatto di un materiale molto strano, come una pietra blu estremamente grezza e ruvida, ed era ricoperto su tutta la sua superficie di strane incisioni che Mira non riconosceva come appartenenti a nessuna lingua o codice che le fosse mai capitato di conoscere.

            «Vero, Assassina?».

            Lei si agitò, nel vano tentativo di liberarsi, ma fu tenuta inchiodata in ginocchio dai suoi aguzzini.

            «Che c’è, sei sorpresa? Dì la verità, non ti saresti mai aspettata niente del genere.

            Purtroppo per te, sapevo chi eri prima ancora che tu entrassi in questo palazzo. Ho aspettato molto a lungo che tu e gli altri cani di Masyaf faceste la vostra mossa, e alla fine, proprio come immaginavo, siete caduti nella mia trappola».

            Notando lo sguardo di Mira soffermarsi continuamente sul cubo che aveva in mano, Jahal sorrise ancor più vistosamente.

            «Fammi indovinare. Era questo che stavate cercando.

            A quanto pare ho sottovalutato quella vecchia volte di Hasan-i Sabbah. E dire che lo credevo morto da tempo, ma a quanto pare il Profeta non si è ancora deciso a prendere la sua vita. Probabilmente quel vecchio pazzo non è gradito neppure al cielo.»

            «Non offendere il Maestro, blasfemo!»

            «Hai uno spirito battagliero, Mira. L’ho capito appena ti ho vista. Dalle nostre parti le tigri d’oriente sono una merce rara. E dire che saresti potuta arrivare lontano, se solo avessi mostrato un briciolo di buon senso.

            Saresti potuta diventare una delle mie donne predilette, avresti avuto potere e ricchezze.»

            «Essere la tua schiava per tutta la vita e il tuo giocattolo da rigirare nel letto? Piuttosto la morte!»

            «Ah, che testardi che siete voi assassini. Ma non fa niente. Presto non avrà più alcuna importanza».

            In quella uno dei tre soldati che sorvegliavano gli appartamenti del califfo si presentò in camera da letto.

            «Mio signore. Gli Assassini sono arrivati, e non sospettano niente. In questo momento sono nel cortile»

            «Molto bene. Procedete.»

            «Come desiderate».

            Mira sentì un brivido freddo, il terrore si impadronì di lei, e per un attimo le venne da gridare il nome di Kahled, senza sapere perché.

            «Ti consiglio di rivolgere preghiere per i tuoi amici, perché tra poco saranno morti».

 

Come detto dal soldato, Altair e Kahled, ignari di tutto, si erano da poco incamminati lungo il giardino, correndo il più velocemente possibile per poter arrivare al museo prima che avesse termine il cambio della guardia, ma quando erano praticamente al centro della vasta zona verde una mano invisibile accese una torcia appoggiata al muro, e grazie ad un ingegnoso sistema di vaschette piene di olio che correvano lungo tutto il muro e sui bordi dei viali sassosi nel giro di un secondo l’intero cortile venne illuminato a giorno da interi fiumi di fuoco.

            I due fratelli, colti del tutto alla sprovvista, si immobilizzarono.

            «Ma cosa…» disse Altair, e un istante dopo i soldati sulle mura, che sembravano dapprincipio non essersi minimamente accorti della presenza di intrusi, si girarono verso di loro con le armi già in pugno, e subito una pioggia di frecce si abbatté sui due.

            Altair e Kahled riuscirono a mettersi in salvo nascondendosi rispettivamente dietro una colonna e all’interno di un gazebo di pietra, ma per la posizione sopraelevata in cui si trovavano i loro aggressori nessun posto si sarebbe potuto considerare sicuro.

            «Maledizione, era tutta una trappola!» disse Kahled.

            Seguirono numerose altre raffiche di frecce, poi le sentinelle, sguainate le spade, si lanciarono urlando giù dalle mura, e contemporaneamente un altro nutrito gruppo di guardie usciva nel cortile dall’interno del palazzo già pronto alla lotta.

            Rapidamente i due fratelli si portarono schiena contro schiena, e prese il via un furioso combattimento che aveva come fine ultimo per loro la mera sopravvivenza; dovevano essere trenta o più i soldati lanciati contro di loro, ma ciò nonostante gli Assassini riuscirono a resistere, avvalendosi tanto della superiore esperienza quanto del perfetto gioco di squadra, che già altre volte in passato erano stati costretti ad utilizzare e che avevano con il tempo affinato.

            «Così non va’, dobbiamo trovare il modo di defilarci!» disse Altair.

            Voltatosi, si accorse che il fratello era rimasto isolato, e che una guardia si preparava a colpirlo alle spalle; senza esitazioni, prese dalla cintura la nuova arma ricevuta da Samir, e premuto il grilletto centrò il potenziale omicida in mezzo alla fronte e direttamente in bocca, facendogli letteralmente esplodere la faccia.

            La vista di quell’oggetto terrificante spaventò i superstiti, che ebbero un momento di esitazione.

            «È il momento Kahled! Andiamocene!»

            «Aspetta! Non possiamo abbandonare Mira!».

            Altair, ricaricata l’arma con i due paletti di riserva, sparò ancora una volta, riuscendo ad aprire finalmente un varco verso la salvezza, ma Kahled non sembrava intenzionato ad abbandonare il campo.

            «Altair!»

            «Mira sa quello che fa! Dobbiamo andarcene subito, o sarà stato tutto inutile!».

            Kahled non volle neanche pensare all’eventualità che Mira potesse essere realmente morta, ma alla fine, volendo anzi convincersi che fosse già riuscita a scappare, si risolse a seguire il fratello, e insieme i due, arrampicatisi sulle mura, saltarono immediatamente di sotto, attutendosi la caduta con le fronde di alcune palme, per poi scomparire rapidamente fra i vicoli di Baghdad.

            La notizia della loro fuga arrivò rapidamente alle orecchie di Jahal, che ancora attendeva nelle sue stanze assieme alla prigioniera.

            «Mi dispiace, mio signore. Sono riusciti a scappare».

            Mira tirò un nuovo sospiro di sollievo, Jahal invece non si scompose più di tanto.

            «Non fa niente. Li andremo a prendere noi.» poi guardò Mira «E sarai tu a portarci da loro».

            Il cubo che il califfo teneva in mano cominciò a quel punto ad emanare una strana ed inquietante luce azzurra, e dalla sua superficie cominciarono a sollevarsi, come in una scatola cinese, tanti piccoli cubetti di uguale dimensione, che rimanevano attaccati al corpo centrale per mezzo di uno solo del loro sei lati.

            Mira capì subito che cosa aveva in mente di fare quell’uomo, e per nulla al mondo glielo avrebbe permesso; lei era un Assassina, aveva faticato per diventarlo, e non avrebbe mai e poi mai tradito la confraternita, quella stessa confraternita che disobbedendo alle sue stesse regole l’aveva accolta offrendole una nuova esistenza.

            Sarebbe morta, sarebbe sicuramente morta, ma non avrebbe percorso da sola la via che conduceva all’altra vita.

            Guardò a terra: il coltello con cui aveva cercato di uccidere Jahal era ancora lì, mezzo nascosto sotto un comodino. Usando tutte le forze a sua disposizione riuscì finalmente a liberarsi, anche se sapeva che sarebbe stato solo per pochi secondi, e afferrata l’arma la lanciò gridando verso il suo nemico.

            Il coltello viaggiò veloce come il vento, conficcandosi proprio nel cuore di Jahal, che ebbe una violenta contrazione all’indietro e si piegò in posizione fetale, ma che poi, tra lo stupore e lo sgomento più totali di Mira, tornò a rivolgere verso di lei il proprio sguardo sprezzante e sicuro di sé.

            La ragazza venne nuovamente immobilizzata, e Jahal le si avvicinò.

            «Sorpresa!?» disse sorridendo.

            Mira non voleva credere ai propri occhi, ma ciò che rimaneva del suo raziocinio le disse che tutto ciò stava accadendo veramente quando vide Jahal togliersi di sua mano il coltello dal cuore e buttarlo a terra intriso del suo sangue per poi scoprirsi il petto: la ferita, sicuramente mortale, scomparve nel giro di pochi secondi, come neanche il più miracoloso dei ritrovati medici avrebbe saputo fare, senza oltretutto lasciare la benché minima traccia.

            «Ora lo capisci? Capisci il grande potere che alberga all’interno di questo oggetto?

            Chiunque lo possieda è dotato di un potere senza eguali. Non deve temere dolore né malattie, né ferite né morte. Può controllare il cielo e la terra, le menti e i cuori.

            È un potere… un potere divino.»

            «È un potere diabolico!»

            «Scommetto che anche quell’ottuso del tuo maestro pensava la stessa cosa. Sarà per questo che vi ha ordinato di strapparmelo. Ma a differenza di quanto ho fatto io, ha sottovalutato il suo immenso potere.

            Non so da dove venga, o chi lo abbia realizzato. Non so neppure se appartiene a questo mondo. Lo trovai nel corso di uno dei miei viaggi, nascosto nel fitto delle foreste dell’India, all’interno di un tempio risalente alle origini della vita, e capii subito di cosa poteva essere capace.

            Chi lo stringe nelle proprie mani può comandare tutto il creato. Può essere… un dio.»

            «La divinità non è un concetto che appartiene alla nostra esistenza.»

            «Questo è un concetto superato. Ciò che hai visto dovrebbe avertene dato la prova.

            Ma ora il tempo delle parole è finito. Ho ancora molte cose da fare prima di poter sedere sul trono degli dèi, e per compiere la prima della lista mi serve il tuo aiuto.»

            «Scordati che ti aiuterò. Io non sono come quel novizio. La mia volontà è più forte della sua, e soprattutto io non ho paura.»

            «Questo lo vedremo!».

            Il cubo divenne ancor più luminoso, e istantaneamente le due guardie che tenevano Mira per le braccia si coprirono gli occhi. Lei, vedendoselo avvicinare al volto, tentò di distogliere lo sguardo, ma la terza guardia la costrinse a tenere il volto sollevato tirandole i capelli, e contemporaneamente anche lui chiuse gli occhi.

            «Guardalo!».

            La luce divenne fortissima, e Mira se ne sentì istantaneamente avvolgere: era una luce calda, addirittura accogliente, ma la malvagità che albergava al suo interno era impossibile da definire. In un attimo rivide la sua vita, tutto ciò che era accaduto, e tutti quei ricordi che a fatica era riuscita a rimuovere le si palesarono di colpo davanti agli occhi.

            Rivedeva stessa da bambina, in quel terribile giorno, quando il suo villaggio era stato dato alle fiamme; vedeva i suoi genitori e i suoi fratelli trafitti da mille frecce o sventrati dalle spade, vedeva sé stessa rinchiusa in una gabbia, ricordando fin troppo bene il terrore che provava ogni giorno al calare delle tenebre, quando i possibili compratori se ne andavano, lasciando spazio ai suoi aguzzini, per i quali si apriva una notte di festa. E poi le percosse, gli insulti, le umiliazioni, e tutte quelle cose che lei, addestrata come una giovane guerriera, aveva trovato così umiliante da aver cercato più volte una morte liberatoria, un privilegio che le era sempre stato negato.

            Catene invisibili parvero erigersi attorno a lei, serrandola in un abbraccio mortale, sentì la propria volontà e la propria coscienza venire meno, asservita totalmente a quella luce, e a colui che la comandava, e a quel punto tutto divenne nero.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi finalmente di ritorno!^_^

Roba da matti! Due mesi per riuscire ad aggiornare!

Del resto, ve l’avevo detto: l’università in questo periodo non mi ha dato tregua, tutti i giorni uscivo alle sette per tornare dodici ore dopo, e come ciliegina sulla torta ho avuto da preparare due esami niente male, ma ora quel periodo maledetto è finalmente finito, e per me si aprono le porte di due mesi tutto sommato accettabili (il tutto condito dall’attesa per Assassin’s Creed II e Bloodlines).

Da questo momento in poi prometto di fare più presto del solito, anche perché la mia aspettativa sarebbe di concludere prima del famigerato 19 novembre, dopo del quale sono abbastanza certo di veder sparire tutti gli appassionati di questa sessione, troppo impegnati a contemplare altro (scherzo^_^).

Ringrazio come sempre Saphira ed Elika, alle quali chiedo anche scusa per questa mia lunga e incresciosa assenza.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 5
*** Quando Cade La Pioggia ***


4

4

 

 

Anche se parecchio malconci e inseguiti da metà della guarnigione cittadina Altair e Kahled riuscirono miracolosamente a fare ritorno alla dimora senza essere visti, e vedendoli tornare in quelle condizioni, ansimanti e quasi svenuti per la stanchezza, il Rafiq, dopo averli condotti nuovamente nel suo studio, diede loro dell’acqua, riservandosi però di pretendere doverose spiegazione.

            «Qualcuno vorrebbe spiegarmi che cazzo è successo lì dentro?» sbottò Samir, che in situazioni simili era solito diventare terribilmente scurrile

            «Era una trappola.» rispose Altair «Sapevano del nostro arrivo. Ci aspettavano.»

            «Merda! Quel Jahal è più furbo di quanto mi aspettassi. E Mira?»

            «Non l’abbiamo vista. A questo punto, dobbiamo presumere che sia stata uccisa, visto che gli ordini erano di non cadere vivi nelle mani del nemico».

            Una simile prospettiva quasi fermò il cuore di Kahled, il quale però non poteva né voleva credere ad una simile eventualità: Mira era troppo abile per lasciarsi catturare, e senza dubbio troppo testarda e caparbia per essere uccisa.

            «Dobbiamo andare a cercarla.»

            «È fuori discussione.» rispose Samir «Ora come ora quel palazzo sarà più impenetrabile della Moschea del Profeta, e tutta la maledetta guarnigione sta già rivoltando ogni sasso della città alla vostra ricerca.

            No, voi due rimarrete chiusi qui dentro fino al momento propizio, perché è l’unico modo che avete per conservare la testa sulle spalle.»

            «Ma potrebbe essere ancora viva! Forse è ancora lì, nascosta da qualche parte nel palazzo! Forse la sua copertura non è saltata! Vorreste abbandonarla al suo destino?»

            «Frena il tuo cuore, assassino.» disse bruscamente il Rafiq tornando a vestire i panni del severo maestro a lungo dismessi «In questo momento è lui a parlare, e in tali situazioni questo non è da considerarsi un bene.»

            «Però… però io…»

            «Domani mattina, al più presto, cercherò di mettermi in contatto con gli altri miei uomini che si nascondono nel palazzo, sperando di trovarne qualcuno ancora vivo. Se è accaduto qualcosa a Mira, o se la sua copertura è ancora sicura, lo sapremo presto.»

            «Ti va’ bene così?» domandò Altair con un tono di leggero rimprovero

            «S… sì…» rispose Kahled abbassando lo sguardo «Perdonatemi.»

            «Molto bene.» proseguì Samir «Ora vediamo di pensare alla situazione attuale, prima di affogare nel mare di sterco in cui stiamo già nuotando.

            Hai detto che aspettavano il vostro arrivo.»

            «Qualcuno deve aver per forza informato Jahal del nostro arrivo.»

«Vuoi dire che potrebbe esserci un altro traditore?» disse Kahled

«È l’unica spiegazione plausibile. Rafiq, quanta fiducia nutri nei tuoi agenti sotto copertura?»

«So già cosa stai pensando Altair, e la risposta è no. Ho scelto con molta attenzione gli informatori da infiltrare nel palazzo del califfo, e posso garantire sulla fedeltà di ognuno di loro.»

«La fedeltà e la dedizione alla causa sono ben poca cosa, se paragonati ai presunti poteri diabolici di cui sarebbe dotata la Parola di Allah. Quello che è stato fatto a Risham può essere stato fatto a chiunque di loro, se fossero stati scoperti, e anche se non sapevano come e quando avevamo intenzione di colpire possono aver avvisato Jahal del fatto che avevamo preso di mira sia lui che il suo tesoro.»

«Devo ammettere che hai ragione, per quanto la cosa mi arrechi sconforto. Pur non conoscendo i dettagli, sapere in anticipo quello che avevamo in mente gli avrebbe dato più di un motivo per essere vigile, e uccidendo il traditore Risham non abbiamo fatto altro che far suonare il campanello di allarme.»

«In breve, siamo stati al suo gioco come dei veri dilettanti.»

«E adesso cosa facciamo?» domandò Kahled

«L’unica cosa da fare per adesso è aspettare. Non so se avremo a disposizione un’altra possibilità per portare a termine la nostra missione, e se così non fosse non potremo fare altro che tornare ad Alamut per informare il Maestro del nostro fallimento.»

«Al vecchio gli si spezzerà il cuore.» commentò Samir «Nutriva una tale fiducia nella riuscita di questa missione.»

«Non si può dire che non ci abbiamo provato. Dopotutto, per noi assassini la sconfitta è una prospettiva sempre presente. Possiamo solo accettare il fatto compiuto e trarre insegnamento dai nostri errori.»

«Fratello.» ribatté interdetto Kahled «Come puoi dire una cosa del genere!?»

«Tuttavia» proseguì Altair con voce e sguardo completamente diversi «È vero in egual misura che se davvero la Parola di Allah è dotata di questi poteri tanto pericolosi lasciarla nelle mani di un uomo come il califfo porterebbe sventure al popolo non solo di questa città, ma anche di questo e molti altri regni.

Pertanto, non importa come, in quanto Assassini abbiamo l’obbligo morale di strappargli quell’oggetto diabolico, e distruggerlo per sempre».

Kahled tirò un sospiro di sollievo, per poi sorridere compiaciuto: dopotutto, avrebbe dovuto aspettarselo. Chi non sembrava condividere la linea di pensiero di Altair era Samir, e quale fosse il punto dolente era facile da intuire.

«Aspetta un momento. L’incarico prevede di riportare la Parola di Allah ad Alamut, non di distruggerla, e se il maestro ti ha dato questo preciso ordine un motivo ci deve essere.»

«Non è mia intenzione dubitare del giudizio di Hasan-i Sabbah, egli è pur sempre il mio Maestro, tuttavia sono del parere che l’esistenza stessa di un tale potere sia da reputarsi un pericolo, perché fino a quando seguiterà a rimanere in questo mondo il rischio che finisca nelle mani di qualcuno come Jahal non svanirà mai.

Mi dispiace, ma in questo caso il cuore mi suggerisce secondo coscienza.»

«Sono d’accordo con lui.»

«Kahled, anche tu…»

«L’umanità non è pronta per queste cose. Prima, è necessario che metta giudizio».

Samir sospirò, passandosi una mano sul volto.

«Vi rendete conto di quello che potrebbe costarvi? Rischiate una condanna per tradimento.»

«Il maestro è un uomo virtuoso.» rispose Altair «Sono certo che approverà la nostra decisione, non appena verrà a sapere di quali spaventosi poteri è capace la parola di Allah.

Appena possibile, faremo un nuovo tentativo per recuperarla, ma se non dovessimo riuscire, o se al nostro arrivo Hasan-i Sabbah fosse già spirato, allora la distruggeremo».

In quella, dall’esterno giunse un rumore inquietante, come da passo di marcia, accompagnato da un inquietante vociare sommesso, inudibile per le persone comuni, ma abbastanza forte da raggiungere le orecchie di un assassino.

«Lo sentite anche voi?» domandò preoccupato Kahled.

Samir corse ad appiattirsi sulla parete, e come gettò lo sguardo oltre la tapparella socchiusa della finestra i suoi occhi si accesero.

«Che succede, Rafiq?» chiese Altair

«Questa riunione tattica è finita, sparite alla svelta. Soldati in arrivo.»

«Che cosa!?».

In quell’istante la porta d’ingresso venne sfondata e un vero esercito di guardie fece irruzione nel palazzo gridando a squarciagola.

«Devono essere per forza qui! Trovateli!».

I falsi servitori, colti alla sprovvista, tentarono di reagire, ma essendo per la stragrande maggioranza novizi di livello medio basso vennero quasi tutti uccisi nel primo minuto d’assalto; un piccolo gruppetto riuscì a sprangare il portone del giardino che conduceva agli alloggi privati del Rafiq, ma poiché il palazzo era stato completamente circondato per chi come loro non possedeva alcuna esperienza di movimento acrobatico quella era destinata ad essere un’inesorabile trappola mortale.

«Voi due dovete andarvene.» disse Samir ai due fratelli

«E voi cosa farete?» chiese Kahled

«Li terremo occupati fin quando potremo. Approfittatene per fuggire il più lontano possibile. Cercate gli altri assassini che si nascondono in città. Vi daranno protezione.»

«E che ne sarà di te?»

«Con la stazza che mi ritrovo vi sarei solo d’intralcio, e poi non posso abbandonare i miei uomini.»

«Non puoi chiederci di abbandonarti, Samir!»

«Assassino!» tuonò Samir rosso in volto «Il tuo Rafiq qui presente ti ha dato un preciso ordine! Eseguilo!»

«Ma, Samir…» ribatté atterrito il minore

«Dovete andare, ragazzi miei.» disse poi con voce più pacata, che nulla aveva da invidiare a quella di un padre rivolto ai suoi figli «Il vostro tempo non è ancora giunto, e voi dovete vivere se volete portare a termine i vostri propositi.

Andate ora».

Anche Altair pareva recalcitrante all’idea di abbandonare il maestro che li aveva istruiti e cresciuti, ma alla fine non obiettò, volendo rispettare la sua volontà, e giunte le mani gli fece un rispettoso inchino.

«Faremo come tu comandi. Salute e pace, Rafiq.»

«Altrettanto a voi, miei fedeli compagni. Sia fatto il volere di Hasan-i Sabbah.»

«Kahled, sbrighiamoci!».

Altair dovette richiamare più volte il fratello perché questi si decidesse a seguirlo fuori dalla finestra; rimasto solo, Samir sbuffò.

«E va’ bene. Vediamo di chiudere in bellezza».

I due fratelli, messisi al sicuro sul tetto di una costruzione vicina, decisero che era più sicuro separarsi, per evitare i rischi di essere intercettati.

«Ci incontriamo sul tetto della grande moschea, tra un’ora.» disse Altair «Da lì, procederemo insieme verso il rifugio più sicuro».

Kahled, però, era distante, e il suo cuore era devastato dalla lunga e terribile serie di disavventure che gli erano capitate e gli stavano capitando nel corso di quella notte maledetta, dove niente sembrava andare per il verso giusto e il destino sembrava sempre un passo avanti a loro.

Altair gli mise una mano sulla spalla.

«Devi farti forza fratello, o la morte di Samir e tutto ciò che abbiamo fatto in questi giorni sarà stato vano.»

«Sì. Hai… hai ragione.» rispose lui tornando parzialmente padrone di sé «Ti chiedo scusa.»

«Forza, ora separiamoci. Ci incontriamo al punto stabilito.»

«D’accordo. Fa attenzione.»

«Anche tu.» e i due si allontanarono per direzioni diverse.

Nello stesso momento le guardie cittadine riuscivano ad aver ragione della porta sprangata; un manipolo di esse si lanciò all’interno per andare in avanscoperta, ma pochi secondi dopo si udirono rumori ed imprecazioni violente, e due di loro volarono all’esterno come sparate da una catapulta, rotolando già morte sui ciottoli con il torace sfondato.

«Ma cosa…» balbettò il comandante.

Passò qualche istante, poi dall’oscurità uscì, in tutta la sua imponenza, Samir; in mano stringeva un bastone di metallo lungo più di due metri con in cima una enorme mazza chiodata grande come un macigno che doveva pesare diverse decine di chili ma che lui, con la sua forza erculea, brandeggiava senza difficoltà.

La sua sola vista fu più che sufficiente a terrorizzare molti dei presenti, che arretrarono tremanti.

«Chi è il prossimo?»

«Avanti, che vi è preso? È da solo! Fatelo a pezzi!».

Pur se recalcitranti e visibilmente spaventati i soldati avanzarono, e Samir ricominciò a mulinare la sua gigantesca arma, dando prova di essere ancora, nonostante l’età e la stazza, un guerriero di classe superiore.

Quei poveracci volavano come birilli, alcuni furono scaraventati sulle pareti o addirittura sul tetto, e quelli che riuscivano miracolosamente a sopravvivere in ogni caso una volta colpiti non avevano più la forza di rimettersi in piedi.

«Ammirate Sansone, in tutta la sua forza!».

L’attacco scatenato del Rafiq fornì oltretutto ai suoi servitori superstiti il tempo necessario a mettersi in salvo passando per una botola segreta, ma dopo qualche minuto di scontro senza quartiere il gigante buono cominciò a dare i primi segni di cedimento, e una delle guardie, saltatogli in groppa, riuscì a trafiggerlo ad un fianco.

Samir urlò con tutta la sua voce, poi afferrò l’aggressore con la sua mano ciclopica e lo lanciò contro una colonna del porticato con una forza tale da spezzare il suo corpo in due.

«Sono troppo vecchio per queste cose!» disse cadendo in ginocchio ma riuscendo nel frattempo a staccare la testa ad un altro potenziale aggressore.

Gli arcieri al seguito dei soldati di fanteria tirarono tutti insieme nella sua direzione, trafiggendolo più e più volte, ma ciò nonostante il Rafiq si ostinò a non voler morire. Purtroppo, ben presto, le ferite e la stanchezza imposero il loro tributo, e alla fine Samir, detto Sansone, cadde sotto i colpi delle guardie, che dovettero saltargli addosso in dodici per riuscire finalmente ad avere ragione di lui, trafiggendolo in quelle poche parti del corpo dove non vi fossero già frecce o punte di spada.

 

Mentre Samir combatteva la sua ultima battaglia Kahled aveva già raggiunto la zona occidentale della città, ma in verità era talmente preso dai propri pensieri che non faceva altro che saltare dal tetto su cui si trovava a quello a lui più vicino, seguendo un percorso del tutto sconclusionato.

            Ancora non riusciva a credere a tutto ciò che stava succedendo. Altre volte lui e suo fratello si erano ritrovati in situazioni difficili, per non dire disperate, faccia a faccia con la morte, ma niente era paragonabile a ciò che stavano vivendo in quel momento.

            Pensava tanto a Mira, e si accorse di non aver mai pensato così tanto a lei come in quel momento.

            Allora, Altair aveva ragione, e solo ora se ne rendeva conto: si era davvero innamorato.

            Del resto erano cresciuti insieme, avevano lottato e combattuto insieme, e anche se nessuno dei due avrebbe mai voluto ammetterlo avevano anche due caratteri molto simili, che si univano l’un l’altro alla perfezione: entrambi erano passati per esperienze terribili, avevano combattuto per emergere, e condividevano un sano desiderio di giustizia.

            Doveva dirglielo.

            Quando fosse ritornata, perché, dentro di sé, era certo che sarebbe ritornata, le avrebbe rivelato quello che provava veramente per lei, e lo avrebbe fatto con il cuore in mano, senza esitazioni.

            Non sapeva come lei l’avrebbe presa, ma non gli importava. Ciò che stavano passando gli aveva insegnato che non ci sono certezze nella vita, e che se si perde un’occasione si può scoprire improvvisamente che era l’unica che la vita aveva voluto offrire, finendo per rimpiangere fin nella tomba quella preziosissima opportunità mancata.

            Lei poi avrebbe preso la sua decisione, ma intanto lui glielo avrebbe detto: la amava, la amava sinceramente, ed era pronto a tutto pur di restare insieme a lei, anche a rinunciare al titolo di maestro.

            D’un tratto, proprio quando era tornato padrone delle sue azioni, una figura aggraziata e maestosa fendette la luna, atterrando dopo un salto acrobatico proprio davanti a lui, e Kahled, riconoscendola, pensò di stare sognando.

            «Mira!».

            Era proprio lei.

            L’aveva cercata, l’aveva aspettata con l’animo eroso dall’ansia, ma ora era di nuovo lì, accanto a lui. Era tornata.

            Felice e appagato come non mai, il ragazzo fece per andarle incontro, quando invece il suo istinto di assassino avrebbe dovuto metterlo in guardia visto che la sua amica aveva in mano le proprie spade, un gesto inconsueto per gli Assassini, che molto di rado si avvicinavano l’un l’altro armati, onde evitare fraintendimenti.

            Inoltre, la ragazza indossava ancora il suo abito da servitrice invece che l’uniforme, e al collo aveva uno strano pendente a forma di cubo grande un paio di centimetri che brillava di una inquietante luce azzurra.

            «Mira. Sia lode al cielo. Per fortuna stai bene».

            Lei alzò gli occhi, mettendosi in piedi, ma ancora Kahled era troppo felice per accorgersi dello sguardo vuoto e quasi malvagio di Mira, che all’improvviso, senza apparente motivo, lanciò una delle sue due spade contro il ragazzo.

            Fortunatamente Kahled venne colpito solo di striscio alla spalla destra, ma il colpo fu abbastanza forte da ributtarlo violentemente e crudelmente alla realtà, costringendolo finalmente ad accorgersi di tutte le cose che non andavano.

            «Mira! Che ti prende!?».

            Poi, vide i suoi occhi, quello sguardo che per lui era impossibile da attribuire alla Mira che aveva conosciuto e che aveva capito di amare. Quella, non era lei; almeno, non nello spirito.

            «No…» disse con voce tremante «Questo no…»

            «Sono qui per eseguire la volontà del mio signore, il nobile Jahal.» disse lei mettendosi in posizione di guardia «Preparati a morire, Assassino!»

            «Mira… anche tu… lo ha fatto anche a te…».

            Kahled era così sconvolto che quando Mira lo attaccò di nuovo estrasse la spada solo all’ultimo, e la parata che eseguì fu talmente mediocre che la ragazza non ebbe difficoltà a superarla, infliggendogli un nuovo colpo di taglio che oltre a farlo girare su stesso per due o tre volte gli procurò una seconda e più grave ferita, stavolta all’avambraccio sinistro.

            «Mira, non farlo!»

            «Raccomandati al cielo, Assassino. Pagherai per aver attentato alla vita del mio signore».

            Era chiaro che Mira non era neppure in grado di riconoscere la persona che le stava di fronte, completamente plagiata dai poteri malefici della Parola di Allah, e le sue intenzioni erano più che mai ostili.

            Kahled era disperato, e non sapeva cosa fare: di certo non sarebbe scappato, ma come poteva fare del male alla stessa donna che aveva appena capito di amare?

            Nello stesso momento, da tutt’altra parte della città, Altair era quasi arrivato al punto di ritrovo, ma proprio quando stava per intraprendere la voltata finale attraverso l’ultima serie di edifici che stavano tutto intorno alla moschea si immobilizzò sul tetto di un edificio, come cristallizzato.

            Tutto era silenzioso e tranquillo.

            Anche troppo tranquillo, e lui lì non era solo.

            Fin dal momento in cui si era separato dal fratello aveva avuto la sensazione di essere seguito, e un istante prima di rimettersi in marcia quella sensazione era divenuta una certezza: qualcuno gli stava addosso.

            Ma chi? E da dove?

            Durante il tragitto si era più volte guardato attorno alla ricerca di potenziali minacce, ma chiunque fosse a seguire le sue orme era abbastanza scaltro e abile da riuscire a mantenersi al di fuori del suo campo visivo.

            Poi, di colpo, avvertì il sopraggiungere di una minaccia, e fulmineo eseguì un acrobatico salto all’indietro, evitando facilmente una selva di stellette appuntite che andarono a conficcarsi sulla pietra.

            «Avanti, vieni fuori.» disse guardandosi attorno «Affrontiamoci faccia a faccia, da veri guerrieri.»

            «Come desideri.»  rispose una voce vacua, impalpabile, che sembrava provenire da tutte le direzioni.

            Seguì una risata sommessa, poi, letteralmente dal nulla, da una zona d’ombra generata da un muro, comparve il guerriero vestito di scuro che già aveva sorvegliato, non visto, l’operato di Mira e Kahled la notte scorsa al porto della città.

            Altair rimase allibito: non si era neppure accorto di averlo così vicino, ed era certo che quell’individuo, oltre ad essere un guerriero estremamente pericoloso, avrebbe potuto ucciderlo in qualsiasi momento durante la sua fuga, se solo lo avesse voluto.

            «Sei tu quello che chiamano l’Ombra?» domandò cercando di ostentare sicurezza

            «Il mio nome è Koromaru, ma tu puoi chiamarmi Ombra, se preferisci.»

            «Vieni dalle isole dell’estremo est?»

            «Esatto.»

            «E come sei finito qui, in un posto tanto lontano da casa?»

            «È una lunga storia. Ti basti sapere che per chi, come me, si macchia della più grande delle colpe, permettendo che a causa della propria inadempienza il proprio signore venga ucciso, la punizione è l’eterno esilio.»

            «Mi sembri una persona che tiene molto al proprio onore. Per quale motivo sei divenuto la guardia del corpo di un uomo come Jahal?»

            «Perché è proprio il mio onore ad impormelo. Lui mi ha trovato mentre mi trascinavo quasi morto in questo deserto privo di vita dopo un viaggio senza meta denso di ostacoli che aveva consumato tutte le mie energie.

            Egli mi ha salvato la vita, e pertanto io ho il dovere morale di ricambiare proteggendo la sua.»

            «Quell’uomo è un usurpatore e un malfattore, che affama il popolo e mira ad uccidere o soggiogare chiunque parli contro di lui. Essere al servizio di una persona simile è forse da considerarsi un onore?»

            «Non ha importanza che tipo di uomo sia, o cosa faccia. Ciò che conta è che mi ha salvato, e il mio codice d’onore mi impone di restituire sempre i debiti e i favori, indipendentemente dalla situazione.

            Ma ora basta parlare, Assassino. Passiamo ai fatti».

            Altair capì al primo sguardo che contro quel nemico la spada sarebbe stata del tutto inutile, pertanto decise fin da subito di combattere quella battaglia servendosi unicamente del pugnale, ma anche dopo averlo estratto non ci pensò neppure a fare la prima mossa; la freddezza e l’impassibilità che dominavano il volto di Koromaru lasciavano intendere erano lo specchio di un guerriero assolutamente sicuro di essere completamente padrone del proprio ambiente, e agire con imprudenza nei confronti di un simile avversario era l’ultima cosa che si potesse fare.

            «Che c’è, Assassino?» domandò ad un certo punto vedendo che Altair esitava ad attaccare «Pensavo foste dei guerrieri temerari, che non si tirano mai indietro di fronte ad una sfida.

            E sia, vorrà dire che sarò io a portare il primo colpo».

            Koromaru chiuse gli occhi, una cose che un assassino non avrebbe mai osato fare di fronte al nemico, si mise in posizione perfettamente diritta ed incrociò le mani davanti al petto, eseguendo con le dita tutta una serie di strane movenze, tanto rapide da risultare quasi invisibili, salmodiando contemporaneamente in una lingua che Altair non riusciva a capire.

            Poi, come riaprì gli occhi, come per magia, scomparve nel nulla, e subito dopo la sua figura prese a materializzarsi in tutte le direzioni, con enorme stupore di Altair. Era dappertutto, in aria, in terra, sui tetti vicini.

            «Che stregoneria è mai questa?» domandò attonito il fratello maggiore guardandosi attorno.

            Doveva esserci per forza una spiegazione: un uomo non poteva dividersi in tante copie di stesso, era contrario anche a quelle poche leggi di natura a cui anche gli Assassini dovevano sottostare, eppure questo non sembrava essere un problema per l’Ombra.

            «Sei sorpreso, Assassino?».

            Di colpo nuvole si stellette metalliche cominciarono a piovere in tutte le direzioni, e intanto Koromaru continuava a moltiplicarsi; Altair riuscì con la sua agilità a scansare molti degli attacchi, alcuni fu anche in grado di pararli con il pugnale, e tentò persino, senza successo, di colpire qualcuna delle copie con i suoi coltelli, ma ad un certo punto una stelletta lo colpì al braccio, e a quella se ne aggiunsero in meno di un secondo altre tre, che pur non uccidendolo lo scaraventarono giù dal piano rialzato dove si trovava facendolo cadere sul tetto.

            Allora, e solo allora, tutte le copie parvero riunirsi, e da decine che erano tornarono ad essere uno solo, l’originale, che rise leggermente.

            «Devo dire che mi aspettavo qualcosa di più dagli Assassini.»

            «Non… non è da poco il tuo potere.» disse Altair togliendosi le stellette e cercando di rialzarsi «Lo riconosco, purtroppo.»

            «E questo è niente. Osserva il mio potere».

            Di nuovo, Koromaru assunse quella posizione diritta, e di nuovo prese a muovere salmodiando le dita delle mani, ma questa volta ciò che accadde era contro ogni logica, al punto che Altair cominciò a chiedersi se il suo avversario fosse davvero umano.

            Dopo aver estratto lo spadino ricurvo che portava dietro la schiena l’avversario si abbassò il bavero, e portatosi una mano davanti alla bocca prese a soffiare; dalle sue labbra si sprigionarono lingue di fuoco, e anche se Altair riuscì miracolosamente ad evitarle una parte della sua veste si incendiò, costringendolo a rotolarsi per riuscire a spegnere le fiamme.

            Per nulla sazio Koromaru continuò a sputare fuoco a più riprese, fino a che Altair non si ritrovò imprigionato all’interno di un anello incandescente, e di quando in quando il nemico compariva da oltre il muro, ingaggiando con l’Assassino brevi scontri di agilità e maestria per poi tornare a nascondersi non al di fuori dell’anello, ma direttamente tra le sue fiamme, e seguitando a correrci dentro senza venirne minimamente danneggiato.

            Finalmente, dopo un minuto e più di agonia, anche quella specie di inferno in terra ebbe fine, e quando Koromaru si palesò nuovamente davanti a lui Altair era ridotto ad uno stato pietoso.

            «Terribilmente mediocre, Assassino. Devo dire che mi aspettavo qualcosa di più.»

            «Sono… sono costretto a riconoscerlo. Al mio attuale livello, non sarei minimamente in grado di oppormi a te».

            Poi, Altair alzò gli occhi, guardando Koromaru dritto in volto.

            «Come ci riesci? Come riesci a sfidare leggi alle quali persino per noi, che pure siamo uomini superiori, dovremmo sottometterci?»

            «Non siete forse voi a dire che niente è reale, e tutto è lecito?

            Anche noi siamo nati come assassini, e come voi abbiamo compreso che l’unico modo per svolgere al meglio il nostro compito è valicare quel confine invisibile a cui il resto dell’umanità non osa neppure avvicinarsi.

            Fa parte del nostro addestramento: capire che questo mondo è fatto di leggi, e che come le leggi fatte dagli uomini anche quelle di natura possono essere comprese. La differenza che c’è tra noi e voi è che noi siamo andati oltre: voi Hasisiyyun vi limitate a comprendere, e a trascendere quando potete, noi siamo andati oltre. Abbiamo sfidato quelle legge, le abbiamo fatte nostre, e abbiamo capito che la natura non può essere solo capita, ma anche dominata.

            È questo che ci rende così diversi: tu rispetti e comprendi, io rispetto e padroneggio.»

            «Sfidare la natura e le sue leggi. Sembra impossibile, eppure tu ci riesci. Sì, lo ammetto. Nessun Assassino reggerebbe il confronto con te.»

            «I miei ordini sarebbero stati di ucciderti, ma non mi piace l’idea di privare della vita qualcuno in possesso di un così grande potenziale.

            C’è una grande forza in te, io la vedo. Aspetterò il nostro prossimo scontro, che sono certo non tarderà ad arrivare.

A presto!».

            Altair tentò di fermarlo, ma Koromaru spiccò un salto altissimo, assolutamente inumano, per poi scomparire letteralmente nel nulla inghiottito dalla notte allo stesso modo in cui era venuto.

 

Nel frattempo, Kahled e Mira erano ancora impegnati in combattimento, ma si trattava in realtà di una sfida a senso unico. Troppo sconvolto e provato da ciò che stava accadendo, il fratello minore non riusciva in alcun modo a rispondere agli attacchi rapidi e micidiali della sua avversaria, limitandosi a pararli quando il raziocinio gli permetteva di farlo, ma ormai aveva tante di quelle ferite in tutto il corpo che la sua veste, da bianca era divenuta rosso sangue.

            Non c’era niente di simile ai tanti confronti amichevoli in cui si erano affrontati in passato: allora l’unico desiderio era di provare la propria superiorità, ma rimanendo sempre nei limiti della pura e semplice sfida d’allenamento, ora invece Mira pensava solo ad uccidere, e metteva tutta sé stessa in quel proposito.

            Più e più volte Kahled aveva tentato di persuaderla, di spronarla a ribellarsi al controllo del califfo, ma lei era rimasta sorda alle sue parole, e aveva continuato imperterrita ad attaccare, ogni volta con sempre maggiore furia. Tuttavia, lui non poteva né voleva farle del male, e sperava disperatamente che alla fine la sua amica riuscisse a tornare in sé, ma intanto le energie stavano sempre più venendogli meno a causa dei colpi subiti, la vista gli si stava appannando ed era chiaro che non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo continuando per quella strada.

            Ciò che il traditore Risham aveva detto prima di ricevere il colpo fatale, poi, lo tormentava indicibilmente: solo la morte poteva liberare una persona dal controllo esercitato dalla Parola di Allah. Ma come poteva lui, che aveva capito di amarla, rivolgere la propria spada su Mira, sulla ragazza con cui si era esercitato così tante volte e con la quale aveva condiviso ogni cosa?

            Come se non bastasse, per una qualche ragione Mira stava dimostrando una forza straordinaria, capace di fracassare interi pezzi di muro con un solo pugno, e Kahled aveva capito che la causa era il pendente che aveva al collo, che brillava un po’ più forte ogni volta che la ragazza faceva sfoggio di capacità sovrumane.

            «Mira!» disse Kahled durante uno scontro di forza «Guardami, sono io! Kahled!».

            Lei esitò un momento, come se effettivamente lo riconoscesse, ma in realtà scavalcò la sua difesa e gli assestò un calcio che, oltre a rompergli una costola, lo scaraventò giù dal tetto, e fu solo per un vero miracolo se il ragazzo non ci rimise la vita.

            Immediatamente saltò giù a sua volta, raggiungendolo in strada, ma Kahled ormai era così malridotto che faticava a restare in piedi, e attendeva solo di essere finito.

            «Mira!» disse quasi in lacrime, cercando di rialzarsi «Non lasciarti controllare da quell’uomo. Tu non sei così debole. Ribellati! Io so che puoi farlo!».

            Ancora una volta la ragazza parve reagire, esitando a vibrare il colpo di grazia, e rialzato lo guardo Kahled rivide per un attimo la luce tornare ad albergare nei suoi occhi.

«Ka… Kahled…» balbettò come un malato al suo ultimo respiro

«Mira!».

Reso ceco dalla speranza fece per avvicinarsi, ma prima ancora che potesse muovere il terzo passo i poteri della Parola ebbero di nuovo la meglio, e la ragazza, afferrata la corda di seta, fece compiere ad una delle sue due spade una lunghissima parabola dall’alto verso il basso, e fu solo per un vero miracolo, forse per l’estremo tentativo di Mira di ribellarsi al controllo, che il colpo, invece di risultare mortale, procurò solamente, per così dire, una ferita non particolarmente seria, ma abbastanza grave e profonda da accecare Kahled all’occhio destro.

Il ragazzo urlò dal dolore, tenendo la ferita, e il suo volto divenne una maschera di sangue, ma ciò nonostante continuò a non voler attaccare.

«Mira… che cosa ti hanno fatto?».

Mira questa volta era davvero nelle condizioni di poter chiudere l’incontro, e sembrava determinata a farlo, se non che, per la terza volta, esitò, rimanendo immobile come una statua di sale.

Forse fu la vista di Kahled ridotto in quello stato, forse la consapevolezza interiore di esserne la responsabile, forse la sua coscienza, fatto sta che di nuovo i suoi occhi si accesero di vita, e da quel momento fu come se due entità stessero lottando per il controllo dello stesso corpo: i movimenti della ragazza si fecero meccanici, spasmodici, e se una gamba provava ad avanzare l’altra cercava di far perdere l’equilibrio, se una mano cercava di attaccare l’altra la afferrava.

Come una bambola nelle mani di una bambina, Mira cominciò a strattonarsi e a dimenarsi in tutte le direzioni, urlando come una dannata. Si strappò le vesti e si tolse i gioielli, tra i quali il pendente e il bracciale da assassino ricevuto da Samir, che rotolò proprio ai piedi di Kahled, il quale lo raccolse, continuando però a guardare atterrito e sconcertato la sua amica in preda alla più terribile agonia.

«Mira…».

Finalmente, la sua compagna tornò completamente padrone di sé, ma dalla paralisi che sembrava aver colpito tutto il suo corpo era evidente che non lo sarebbe stata per molto tempo, e lo guardo che gli rivolse, così determinato e insieme triste, gli fece avvertire un terribile colpo al cuore.

«Mira…»

«Presto!» disse «Uccidimi!».

Kahled, attonito, non volle credere di averla sentita pronunciare proprio quella parola.

«Che cosa hai detto!?»

«È l’unico modo per salvarmi, e tu lo sai. Una volta caduti sotto l’influenza di quell’oggetto, solo con la morte si può trovare la liberazione.»

«Mira… non puoi chiedermi questo… non puoi…»

«Kahled!» gridò lei con rabbia, ma piangendo nel contempo «Ti prego! Non voglio passare il resto della mia vita a servire quel mostro! Solo tu mi puoi salvare in questo momento!»

«Mira…»

«Fai presto! Non so per quanto ancora riuscirò a resistere!».

Kahled non voleva credere che stesse accadendo davvero. Doveva togliere la vita a Mira.

Una parte di lui capiva, e sapeva che era quello che Mira voleva, come lei stessa stava dicendo in quel momento, e che era la cosa più giusta da fare, ma l’altra parte, quella guidata dal cuore, non voleva né poteva accettare una cosa del genere.

In quella, nuvole minacciose coprirono la luna, e un violento acquazzone si abbatté su Baghdad, riempiendo le strade di rigagnoli ed ingrossando il fiume, che rinchiuso però entro robusti argini non costituiva una minaccia.

Sperduto, come un corpo privo di anima, Kahled indossò il bracciale, alzandolo e mettendo il dito sul grilletto che azionava il sistema ad aria compressa, e intanto Mira rimaneva immobile, a gambe unite e braccia spalancate, come una figura in croce che attende solo di ricevere un pietoso colpo di grazia.

Passarono lunghi ed interminabili secondi; la mano di Kahled tremava, e la vista si faceva sempre più vacua a causa del dolore e della pioggia.

«Mira…» disse abbassando il braccio «Io… non ci riesco…»

«Kahled…» rispose lei piangendo «Non puoi farmi questo. Ti prego… liberami…».

Anche lui piangeva, e sentiva che sarebbe morto prima di prendere una decisione, ma alla fine fu il destino a prenderla per lui. Improvvisamente, senza alcun segnale di allarme, il potere della Parola ebbe di nuovo la meglio, e Mira si lanciò all’attacco brandeggiando le spade.

Fulmineo, in un gesto dettato dal puro istinto, Kahled alzò nuovamente il braccio, tirando il grilletto; la lama partì, fulminea e quasi invisibile, fendendo le gocce d’acqua al proprio passaggio e andando a conficcarsi con forza nel torace di Mira, al centro del petto; per il contraccolpo la ragazza fu sbalzata all’indietro e perse l’equilibrio, cadendo sulla terra bagnata.

«Mira!» gridò Kahled correndole incontro e sollevandole la testa dopo essersi inginocchiato.

Lei, dopo qualche secondo, riaprì gli occhi: la luce era tornata, questa volta completamente, ma stava già spegnendosi, lasciando inesorabilmente spazio al buio senza fine della morte.

Che cosa aveva fatto? Che cosa aveva fatto!

Aveva ucciso Mira, la sua Mira!

«Mira…» disse piangendo «Mi dispiace…».

Eppure, nonostante tutto, la ragazza gli sorrise, un sorriso dolcissimo, e con le ultime forze che le restavano articolò alcune parole nella sua lingua.

 

Shōu huí suo you de . Suo you de , suo you de kong

(All’improvviso riaffiorano tutti i ricordi. Tutti i ricordi, e tutte le paure)

 

«G… grazie…» mormorò poi.

            Kahled pianse, pianse come mai nella sua vita. Avrebbe voluto dirglielo, dirle quello che aveva capito di provare per lei, ma nel dolore e nella disperazione di quel momento non trovò la forza per farlo.

            «Devi… devi fermarlo, Kahled. Fermalo…»

            «Mira…».

            A fatica, lei riuscì ad alzare la mano, sfiorandogli la guancia con un dito, ma proprio quando lui fece per stringerla questa scivolò di nuovo verso il basso, e Mira, reclinata la testa, spirò tra le sue braccia: sorrideva.

            «Mira… Mira… non lasciarmi… io ti amo… non mi lasciare…».

            Invano Kahled continuò a chiamarla, a passarle la mano sul volto, e intanto le sue lacrime, taglienti come coltelli affilati, si mescolavano alla pioggia, che attorno a loro continuava a cadere, coprendo ogni cosa con il suo ronzio.

            Un urlo disumano squarciò la notte, mentre all’orizzonte già si intravvedeva il primo sole, che apparendo da dietro  le dune scacciava via le nuvole di tempesta, annunciando l’inizio di un nuovo giorno.

 

 

Nota dell’Autore

Rieccomi!

Visto? Ve l’avevo promesso o no?

Avevo promesso di riaggiornare in tempi rapidi, e così è stato.

Avevo anche detto che speravo di concludere prima di domani, quando so che tutti i frequentatori della sezione spariranno fino a data da destinarsi, ma purtroppo ho dovuto accettare la mia condizione umana e rimanere nei miei limiti. Comunque, gli ultimi due capitoli e l’epilogo li ho già ben chiari in testa, pertanto non dovrei metterci molto a scriverli.

Ringrazio Elika per la sua recensione, e spero vivamente che prima o poi ritornino anche gli altri miei commentatori.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 6
*** Niente è Reale ***


5

5

 

 

C’era un che di strano, un che di famigliare, nel luogo in cui si trovava.

            Un tempo doveva essere stata una casa di medio prestigio, forse la residenza di qualche soldato importante o qualche dignitario di medio rango, ma il tempo e l’incuria le avevano tolto quasi tutto il suo splendore, rendendola solo una pallida ombra di ciò che era un tempo.

            Nel salotto, le sedie di vimini erano sporche e masticate dai topi, il tavolo rettangolare era coperto di polvere e pezzi di intonaco caduti dall’alto, il tetto e il soffitto erano scrostati e ammuffiti, ed i tappeti avevano subito l’assalto delle tarme.

            Era piuttosto buio, tutte le torce erano spente e consumate, ma dalle finestre aperte o velate solo in parte da tendaggi tutti strappati e lacerati giungeva una luce fortissima: era una luce strana, irreale, troppo forte per essere quella del sole, tanto da non poter scorgere nulla di ciò che vi era all’esterno, ma nonostante la sua forza riusciva a rischiarare solo in minima parte l’oscurità che albergava lì dentro.

            E poi silenzio, un silenzio assoluto, che avrebbe fatto gelare il sangue a chiunque.

            Kahled non aveva idea di come fosse finito lì: l’ultima cosa che ricordava era Mira che si spegneva davanti a lui, e se ci pensava sentiva ancora il cuore minacciare di fermarsi per il dolore.

            Poi, di colpo, si ricordò, e capì perché quel posto gli diceva qualcosa.

            Quella era la sua casa!

            La casa di Damasco in cui era cresciuto, e nella quale aveva passato alcuni dei momenti più felici della sua vita. Lì, in un angolo, una sedia di legno, la sua preferita fin da quando era piccoli, la porta dove lui e il fratello giocavano al cambio della guardia, e il grande cesto per la farina dove andava a nascondersi quando combinava qualche marachella, nel tentativo, spesso vano, di sfuggire alla punizione.

            Come era finito lì?

            Era dal giorno della sua fuga che non vi metteva piede, e in ogni caso come aveva fatto da passare da una stretta e fangosa strada di Baghdad alla sua vecchia abitazione di Damasco?

            La parte razionale di lui concluse che probabilmente si trattava solo di un sogno, uno dei tanti che gli era già capitato di fare, ma c’era qualcosa di così reale, di così tangibile in ciò che gli stava intorno: poteva sentire il gocciolio dell’acqua, l’odore della muffa, il freddo della pietra, tutte cose che prima di allora non gli erano mai accadute.

            Dunque, se non era un sogno? Cosa poteva essere?

            Forse era lo stadio successivo, quella specie di limbo che stava tra il sonno comune e il sonno eterno di cui aveva sentito parlare da molti suoi fratelli che avevano subito la stessa esperienza, e che proprio in questa sorta di dimensione al di fuori dello spazio e del tempo avevano trovato la forza per tornare indietro, sfuggendo all’invitante richiamo della morte.

            D’un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione: sopra un ripiano, impolverato ma ancora bello da vedersi, stava un giocattolo, un piccolo cavallo di legno intagliato artigianalmente.

            Lo ricordava benissimo; quello era suo, era il suo gioco preferito. Suo padre lo aveva realizzato per lui poco dopo che era nato, glielo aveva messo nella culla e da allora non se ne era più voluto separare. Lo prese in mano, attonito, avvertendone il calore, e quasi gli venne da stringerlo a sé.

            «È interessante notare quello che sei adesso».

            Quella voce, così ironica e malevola, lo fece sobbalzare, e istintivamente, lasciato cadere il giocattolo, si girò, mettendo la mano sul pomo della spada.

            Poco distante da lui, appoggiato alla parete e a braccia conserte, c’era un uomo, e appena lo vide un brivido di freddo gli percorse la schiena: il suo vestito era uguale in tutto e per tutto a quello degli Assassini, ma era completamente nero, e a causa del cappuccio sollevato era impossibile vederlo distintamente in volto. A giudicare dai lineamenti del mento e dalla pelle distesa, dovevano avere pressappoco la stessa età.

            «Un corpo vuoto.» disse, per poi piegare le labbra in uno sorrisetto sarcastico.

            Kahled lo scrutò attentamente, da cima a fondo, e più lo guardava più quel brivido si faceva forte, ma il terrore di cosa avrebbe potuto vedervi all’interno lo spinse a non cercare nemmeno di scorgere i suoi occhi.

            «Chi… che cosa sei tu?»

            «Oh, andiamo, non fare domande ovvie. Lo sai benissimo chi sono io».

            Il ragazzo poi si guardò un momento attorno.

            «Che posto è questo?»

            «Altra domanda ovvia.» rispose quello col suo tono ironicamente acido «Usa l’immaginazione.»

            «La morte?»

            «Ti piacerebbe. Bel tentativo, ma no. Purtroppo abbiamo solo poco tempo, quindi siamo costretti a saltare i convenevoli e andare direttamente al sodo.»

            «Che cosa vuoi da me?»

            «Ricordarti perché sei qui».

            Come per magia la stanza incominciò a trasformarsi, e nello spazio di pochi secondi tornò ad essere l’ambiente caldo, amorevole e accogliente che Kahled rivedeva spesso nei suoi sogni: all’odore della muffa si sostituì quello del pane cotto sulla pietra, il silenzio assoluto fece posto ai rumori e ai suoni della città, e quella luce irreale venne scacciata dai caldi raggi del sole.

            Kahled si guardò nuovamente intorno, poi da una porta laterale uscì una giovane e bellissima donna con lunghi e fluenti capelli neri.

            «Mamma!».

            Era proprio lei, sua madre Selima, così come la ricordava; non sembrava essersi accorta di lui, della sua presenza, ma solo vederla bastava a riscaldargli il cuore.

            Si volse un attimo verso l’uomo in nero, che gli fece un cenno della mano con quel suo sorriso sarcastico, poi tornò a guardare la madre, che appoggiato sul tavolo il cesto di frutta che stava trasportando si inginocchiò davanti alla piccola fornace, tirandone fuori con l’aiuto di una tavola di legno sei pagnotte fumanti e profumate che  solo le mani di una esperta donna di casa sarebbero state capaci di preparare.

            Una serie di schiamazzi e di passi veloci annunciarono l’arrivo di due ragazzini scatenati che giocavano a fare i soldati brandeggiando spade di legno, e Kahled non faticò a riconoscervi sé stesso e il fratello quando avevano rispettivamente sei e sette anni.

            «Kahled, Altair, smettetela.» disse la madre mentre quelle due pesti saltavano da tutte le parti

            «Mamma, abbiamo fame.» disse il piccolo Kahled «Quando si mangia?»

            «Abbiate un po’ di pazienza. Aspettiamo vostro padre.» disse porgendo loro una mela tagliata a metà «Intanto potete avere questa.»

            «Grazie!».

            Alzatasi, Selima apparecchiò la tavola, e dopo poco entrò in casa un uomo di bell’aspetto, alto e slanciato; tanto gli abiti piuttosto curati quanto il disegno particolare della sua barba lo identificavano come un membro della corte del califfo, ma era anche Yusuf, il padre dei due ragazzi, che appena lo videro gli corsero incontro festanti.

            «Papà!»

            «Ah, piccoli diavoli!» disse sorridente prendendo in braccio Altair, il suo primogenito «Vi siete comportati bene oggi?»

            «Sì, papà.»

            «A sentire il vostro maestro di scuola, non credo proprio. La finirete mai di combinare guai?».

            Sua moglie gli si avvicinò porgendogli un bicchiere di latte freddo per lenire le fatiche della giornata appena trascorsa; lui lo accettò, sorseggiandolo con piacere, poi i due si scambiarono un piccolo e affettuoso bacio d’amore.

            A dispetto del suo ruolo e della sua posizione Yusuf era un uomo di mentalità aperta, che aveva sposato la sua donna unicamente per amore e che aveva un rapporto sereno sia con lei sia con i suoi figli, e per questo tutta la sua famiglia gli voleva un mondo di bene.

            Si sedettero a cenare, e mentre mangiavano il padre intratteneva i due figli con giochini e trucchetti con cui riusciva sempre a farli ridere, anche nelle situazioni più tristi.

            E Kahled osservava, sorridendo al pensiero di quanto era stato felice in quegli anni ormai lontani: allora era troppo spensierato ed innocente per rendersi conto di quanti segreti suo padre stesse nascondendo a lui come a tutta la sua famiglia, segreti pericolosi e sconvolgenti legati al suo ruolo nella corte del palazzo.

            «Te lo ricordi, vero?» disse l’uomo in nero «Ti ricordi quanto era semplice la vita a quell’epoca. Sarebbe stato bello continuare a vivere così, vero? Ti saresti sposato, avresti avuto una famiglia, dei figli, e una casetta tutta per te.

            Ma già allora eri ambizioso. Guardavi i bambini più ricchi e quelli più forti con indicibile invidia, e anelavi i loro privilegi. Eri pronto a cogliere qualsiasi occasione pur di poter diventare come loro.»

            «Questo non è vero. A me quella vita andava benissimo, e ricordo bene la felicità che provavo.»

            «Dici davvero? E credi davvero che in questa vita possa esistere la vera felicità?»

            «Che cosa vuoi dire?»

            «La felicità non esiste. E non esisterà mai fino a quando gli uomini continueranno a camminare lungo questa strada. Non possono vivere senza farsi male l’un l’altro, e tu lo sai. L’umanità è marcia, è sudicia, e indegna. E tu ti illudi di poterti costruire il tuo piccolo eden in un mondo tanto corrotto? Pensavi sul serio che rinunciando a tutto per Mira avresti ottenuto la felicità?»

            «Tutto è possibile, se solo lo si vuole. Niente è reale. Tutto è lecito.»

            «Hai bisogno di ricordare quanto possa essere dolorosa la vita».

            L’uomo in nero indicò la porta, e in quell’istante tre uomini armati fecero irruzione in casa.

            Sicuramente si trattava di tagliagole, assoldati da qualcuno di quei dignitari corrotti che Yusuf aveva denunciato per restituire il favore.

            Il capofamiglia, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il tempo di impugnare un coltello e di avventarsi su uni dei tre, riuscendo anche a ferirlo ma venendo ucciso subito dopo.

            «No!» urlò Kahled lanciandosi in avanti spada alla mano, ma quando tentò di prevenire l’affondo mortale il suo corpo passò incredibilmente attraverso a quelli del padre e del sicario, e lui si ritrovò buttato per terra, impossibilitato a fare alcunché.

            Sarebbero sicuramente morti anche la moglie e i figli, ma in quello stesso momento due Assassini entrarono a loro volta in casa; essendo un collaboratore e un informatore Yusuf godeva della protezione dell’ordine, pertanto c’era sempre qualcuno che teneva d’occhio la sua abitazione e che lo seguiva nei suoi spostamenti per la città.

            I tre tagliagole vennero immediatamente e facilmente annientati, e appena la situazione si fu acquietata i due fratelli, sopravvissuti miracolosamente, restarono a lungo immobili ad osservare pieni di stupore la grandiosità degli uomini che li avevano salvati.

            Kahled d’un tratto sentì riaffiorare le emozioni e i pensieri che avevano attraversato la sua mente trovandosi di fronte quegli Assassini, e la consapevolezza che in fin dei conti l’uomo in nero aveva ragione a dire che la prospettiva di un simile potere lo aveva allettato fin dal primo istante si impadronì della sua mente.

            Era così scosso che quasi non si accorse che uno degli assalitori, ferito e riverso ma ancora vivo, aveva sfoderato il pugnale, e l’unica cosa che vide fu Selima che, avvedutasi del pericolo, si alzò da terra, frapponendosi tra i suoi figli e la morte certa.

            «No!» gridò vedendo la madre cadere all’indietro trafitta al petto, ma prima che potesse prenderlo tra le braccia il suo corpo e tutto il resto svanirono come fumo, restituendo alla casa la sua aria tetra e malandata.

            Il ragazzo restò a lungo inginocchiato sulla pietra, singhiozzando, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Al contrario, l’uomo in nero seguitava a rimanere impassibile, e anzi la sua espressione sembrava di gelida presunzione, come a voler riaffermare la veridicità delle proprie affermazioni.

            «Che ti avevo detto? La felicità non è una cosa che appartenga a questo mondo, e non lo sarà mai.»

            «No!» gridò Kahled, un urlo così forte da fendere il cielo, ma che rapidamente si spense, soffocato dal silenzio

            «Guardati. Sei tormentato dai sensi di colpa. Proprio come quel giorno. Tuttavia, al comprensibile dolore iniziale, in te si sostituita la consapevolezza. La consapevolezza che la ragione sta dalla parte del più forte, non del più virtuoso. Che l’unico mezzo per portare la giustizia correva sulla punta della spada. E sono questi i propositi con i quali ti sei unito alla confraternita.»

            «No! Questo non è vero!» replicò Kahled voltandosi verso di lui «Io credevo nei precetti degli Assassini! Io credevo nella pace!»

            «Sì , ci credevi, questo non lo metto in dubbio. Il problema è che ci credevi a modo tuo.»

            «Cosa!?»

            «Tuo padre credeva nella giustizia e nella pace, proprio come gli Assassini. Credeva che il mondo sarebbe stato più giusto, che mostrando agli uomini la via della giustizia l’avrebbero seguita. E dove l’ha portato questa convinzione, l’hai scoperto da solo: tradito da coloro che reputava suoi amici.

            È stato questo che ti ha fatto capire la massima che regola ad oggi tutto il tuo esistere: l’umanità è malvagia per definizione, e l’unico modo per portare la pace tra questi esseri violenti e ipocriti è imporla con la forza. E chi si oppone a questo, deve morire.»

            «No. Io non ho mai pensato che uccidere indiscriminatamente potesse favorire la causa della pace.»

            «Davvero?».

            Di nuovo il panorama mutò, questa volta radicalmente, e in un batter di ciglia Kahled e l’uomo in nero si ritrovarono nel cortile della fortezza di Masyaf, circondato da centinaia di persone.

            Alcuni giovani Assassini stavano in piedi e in riga sulla sommità della terrazza che stava dirimpetto al palazzo, dando le spalle alla folla, e tra di essi Kahled riconobbe il stesso di molti anni prima.

            Ricordava bene quel giorno: il giorno della sua investitura, il giorno del suo passaggio da Novizio ad Assassino vero e proprio dopo molti anni di duro apprendistato. Arrivare fin lì era stato duro, molto duro: gli allenamenti, le privazioni, le percosse. Molte volte era stato sul punto di mollare, ma poi, in un modo o nell’altro, aveva sempre trovato la forza per andare avanti, e ora i suoi sforzi stavano per essere premiati.

            «Il giorno più importante della tua vita, ho ragione?» disse l’uomo in nero, perennemente accanto a lui.

            Le porte della fortezza si aprirono, e da dentro uscì il gran maestro Hasan-i Sabbah, accompagnato da Altair, che già da un anno aveva ottenuto l’investitura ad Assassino. Il maestro impugnava la sua spada, un’arma tanto magnifica da essere di per sé un mito; secondo la leggenda molti grandi uomini del passato l’avevano impugnata, da Alessandro Magno a Giulio Cesare, fino al Profeta, e ognuno di essi l’aveva pervasa con un po’ della sua essenza divina.

            Hasan-i Sabbah l’aveva ricevuta in dono dal califfo del Cairo per i suoi servigi e la sua lungimiranza, ma si diceva che il vero motivo risiedesse nelle parole di un grande veggente, molto stimato e rispettato in Egitto, il quale ricevette in sogno la visita di un arcangelo che gli ordinava di persuadere il califfo consegnare la spada al futuro maestro, in quanto egli, in un futuro non lontano, si sarebbe fatto portavoce della causa del cielo. Fin dalla fondazione dell’ordine era uno degli oggetti più sacri per gli Assassini, e Hasan-i Sabbah aveva già fatto sapere che ne avrebbe fatto lascito per il suo successore.

            I sei adepti, tutti ragazzi tra i sedici e i diciannove anni, chinarono il capo, porgendo la mano sinistra, e ad ognuno di loro il maestro recise di netto l’anulare, sancendo in questo modo il loro ingresso definitivo nelle file del sacro ordine.

            Il vero Kahled sentì un dolore lancinante alla mano destra nell’istante in cui quel supplizio toccò al stesso di quel giorno ormai lontano, tanto forte che strinse i denti con tutta la forza che aveva per evitare di gridare.

«Da questo momento» disse Hasan-i Sabbah ai suoi nuovi discepoli, che come ulteriore prova di nobiltà e rettitudine non potevano in alcun modo manifestare il dolore rimanendo assolutamente immobili «Voi diventate qualcosa di più di semplici esseri umani. Con fede e onore avete sfidato i vostri limiti, ed oggi siete qui per raccogliere il frutto delle vostre fatiche. La conoscenza illumina i vostri animi, la fede dimora nei vostri cuori, la ragione guida le vostre lame.

            Da oggi in poi ogni vostra azione dovrà essere finalizzata ad un unico scopo: la pace. In ogni cosa.

            È per questo che voi lotterete. Per cui ucciderete.

            Voi siete… Assassini».

            La folla chinò il capo in segno di rispetto, e Kahled, non visto, si scambiò un’occhiata con Altair, il quale sorrise leggermente, come a volersi silenziosamente congratulare con il fratello.

            «Tuttavia» proseguì il maestro alzando l’indice «Ricordatevi una cosa. Benché vi siate elevati ad una condizione di vita superiore tutti voi, nel profondo, restate pur sempre esseri umani. Tutti noi lo siamo, e questo è un dogma al quale nessuno può sottrarsi.

            La natura e tutto ciò che ci circonda sono parte di un grande disegno, e anche noi lo siamo. Un disegno divine che sfugge anche alla nostra comprensione. E questa è una cosa che non dovrete mai dimenticare. Siate umili, figlioli.

            E, soprattutto, non vacillate mai sui dettami che da ora in poi regoleranno la vostra intera esistenza. Il Credo è unico e sacro, e non sarete niente senza di esso».

            Kahled, il vero Kahled, sentì un colpo al cuore.

            Ricordava bene cosa aveva pensato quando il maestro aveva pronunciato quelle parole: il Credo era sacro, senza alcun dubbio, ma sarebbe stato molto difficile portare la pace in un mondo popolato di uomini che sembravano provare un sadico piacere nel massacrarsi l’un l’altro.

            Cosa poteva esserci di divino nel disegno che sembrava opera di una mente perversa? Se gli dèi erano così superiori, così immensamente perfetti, perché inserire nella creazione un essere così basso e meschino come l’uomo, dotandolo oltretutto di un intelletto capace di produrre i pensieri e i propositi più oscuri che si potessero immaginare?

            Più di una volta si era chiesto se in un tale panorama di desolazione potesse davvero esserci spazio per la fede, ma se c’era una cosa che sapeva per certo nel momento in cui il fratello gli metteva tra le mani il bracciale con la lama nascosta era che ora, come Assassino, aveva il potere di migliorare le cose, di costruire un mondo migliore, e poco importava se per riuscirci avrebbe dovuto camminare sui corpi di innumerevoli persone: il fine ultimo, la Pace in Ogni Cosa, affinché nessuno dovesse più sopportare le sofferenze toccate a lui, valeva ben più di qualsiasi vita umana.

            «Devo ammettere che non fa una piega.» disse l’uomo in nero leggendogli nella mente

            «No. Io… non lo pensavo davvero.»

            «Oh sì, che lo pensavi. E lasciatelo dire. Non è esattamente il tipo di ideologia che mi aspetterei da un Assassino.

            Ma suppongo di non poterti dare torto. I mattoni per costruire un ideale il più delle volte sono i cadaveri di coloro che la pensano diversamente.»

            «Non volevo che fosse così. Io volevo solo portare la Pace.»

            «Questo non lo metto in dubbio. Ma per creare la pace è necessario apprenderne il significato, e una specie tanto sciocca e barbara come l’uomo non riuscirà mai neppure a concepirla questa parola.

            Non credi?»

            «L’uomo può cambiare. Gli uomini possono imparare a diventare migliori.»

            «Tuo padre diceva la stessa cosa. E guarda la fine che ha fatto. Con il tempo hai soffocato quei pensieri, preso com’eri ad impegnarti per raggiungere i vertici, ma gli obiettivi che ti eri professato in questo giorno non sono mai completamente scomparsi».

            Ad un nuovo urlo straziante di Kahled tutte le persone scomparvero, lasciandolo da solo con l’uomo in nero, e la bella mattina di sole lasciò lo spazio ad un tetro cielo plumbeo, solcato dalle nuvole come le rughe su di un corpo consumato dalla vecchiaia.

            Il giovane assassino si girò verso il suo interlocutore, guardandolo con occhi di fuoco.

            «Chi sei tu per parlarmi così? Cosa credi di sapere tu di me? Io non sono come tu mi descrivi! Ho abbandonato quei propositi!»

            «No.» rispose calmo quello «È l’esatto contrario. Li hai riscoperti. E questo grazie alla situazione che stai vivendo, oltre naturalmente a quello straordinario tesoro.»

            «Straordinario tesoro!? È un oggetto infernale! Da distruggere, come diceva Altair!»

            «È esattamente ciò di cui hai bisogno. Hai visto il suo potere con i tuoi occhi, mi pare».

            Un vento gelido attraversò la piazza; l’uomo in nero guardò sarcastico a sinistra, e Kahled fece altrettanto, scorgendo il corpo senza vita di Mira riverso sulla schiena a pochi passi da loro.

            «Mira!» urlò correndogli incontro.

            Il suo corpo era gelido, i suoi lineamenti immobili, e la pelle già andava tingendosi del pallore della morte. Kahled pianse, pianse come mai nella sua vita, accarezzando quelle guance fredde e dure come il ghiaccio, e intanto l’uomo in nero continuava a guardarlo, sfoggiando quel suo malvagio sorriso.

            «Non è stata tua la colpa.»

            «Io… io l’ho uccisa.»

            «No. Tu hai fatto il tuo dovere. Lei ha cercato di aggredirti, e tu ti sei difeso.»

            «Io l’ho uccisa!»

            «Capisci adesso? Quante altre persone dovranno morire prima che tu capisca che è giunto il momento di fare la cosa giusta? È morta la tua famiglia, è morta la donna che amavi, e di chi è la colpa? Non tua. La colpa è degli uomini, e della loro mente malata.

            Quell’oggetto, la Parola di Allah, può mettere fine a tutto questo. Può realizzare il tuo sogno.»

            «Il mondo non ha bisogno di una cosa simile.» rispose singhiozzando Kahled e senza staccare gli occhi dal volto di Mira

            «Ma tu sì. E il modo in cui quel califfo lo sta usando è stata la prova definitiva, mi pare. L’uomo è malvagio per definizione. C’è un solo modo per dare agli uomini la pace. Imporgliela.»

            «No! La pace è una cosa da comprendere. Da accettare. Non può essere imposta.»

            «Non con metodi convenzionali. Perché vedi, gli uomini hanno una cosa chiamata libero arbitrio, ed è in assoluto la più terribile delle maledizioni. Fino a che ne saranno dotati non conosceranno mai la pace, perché è proprio nel libero arbitrio che risiede il fulcro della loro malvagità.

            Tuttavia, come hai visto tu stesso, il potere della Parola di Allah consiste nell’annichilire questa follia razionalizzata. Possedere quel potere significa possedere la chiave per portare la pace e la giustizia sulla Terra.»

            «Questa…» disse Kahled sfiorando gli occhi chiusi di Mira «Questa sarebbe giustizia?»

            «Te l’ho detto. La strada verso un mondo migliore dovrà essere lastricata con i corpi e il sangue di molte persone, e tu lo sai. Nemici, ma anche alleati. Persone che con la loro morte serviranno a favorire la causa che vuoi portare a termine.

            La morte di Mira è stata terribile, ma non sarà stata vana se farai la scelta giusta.

            Devi compiere il tuo destino. Il sogno è lì ad un passo.»

«Io… io non voglio. Non voglio diventare un mostro.»

            Di colpo, il corpo di Mira prese come a sgretolarsi, e sotto gli occhi disperati di Kahled non divenne nulla più che un mucchio di cenere. Il ragazzo cercò di tenerla insieme, ma fu tutto inutile, e di nuovo alla tristezza fece seguito la rabbia, una rabbia ceca ed incontrollabile.

            «Perdi di vista il tuo obiettivo, e tutto andrà irrimediabilmente in cenere.»

            «Tu… maledetto. Non voglio più sentirti.»

            «Ora che ci penso, non ti pare strana questa missione?

            Indubbiamente il maestro sapeva dei grandi poteri di cui era dotata la Parola di Allah. Ma, se è così, per quale motivo non ha ordinato di distruggerla?».

            Kahled esitò, colto alla sprovvista. Quello che diceva l’uomo in nero era vero: sia lui che Altair avevano notato questa stranezza, e trovarvi una spiegazione plausibile era molto difficile.

            La Parola di Allah non era fatta per restare in mano ad un qualsivoglia uomo, ma allora perché il maestro aveva ordinato loro di recuperarla e non di distruggerla, in modo che nessuno potesse più servirsene?

            «Se ci pensi bene, è parecchio strano. Del resto però, è già da un po’ che nutri dei dubbi sulla sanità mentale del vecchio, oltre che sulla sua rettitudine.

            Non dimentichiamoci che quell’uomo ha compiuto atti ignobili, e che inizialmente aveva fondato l’ordine degli Hasisiyyun solo per farne dei sicari con cui togliere di mezzo personaggi scomodi.

            Fossi in te non mi fiderei di una persona simile. Però, cieco e stolto come sei, non ci si poteva aspettare niente di diverso.»

            «Basta.» disse Kahled a denti stretti

            «Anche se i sospetti sulla sua rettitudine si rivelassero infondati, quel vecchio ormai ha perso la ragione.»

            «Taci.»

            «Deve essere fermato prima che provochi altro dolore. E qualcuno deve prendere il suo posto.»

            «Ti ho detto di tacere.»

            «Ovviamente, questo solleva la spinosa questione della successione, ma del resto tu sai di meritare il titolo di maestro ben più di tuo fratello.»

            «Basta!».

            Con la rabbia in corpo Kahled si alzò di scatto, e giratosi trapassò con la spada l’uomo in nero da parte a parte; quello si piegò in avanti, gemendo un attimo, ma poi, rialzato il volto, lanciò al ragazzo il suo sorrisetto malefico.

            «Quanta rabbia. Quanto odio. È questo l’agire di un uomo giusto?».

            Kahled rimase immobile per lo sconcerto, poi davanti ai suoi occhi il corpo dell’uomo in nero prese letteralmente a sciogliersi come neve al sole.

            «Non puoi mutare il corso della corrente, Kahled».

            A causa del contraccolpo il cappuccio dell’uomo in nero scivolò all’indietro non appena il ragazzo ritirò la spada, e ciò che apparve era tanto orribile e spaventoso da non poter essere descritto a parole. Non un volto umano, ma le orribili, agghiaccianti fattezze di un demone infernale: la pelle, di un colore terreo, era secca come il fango e segnata da profonde rughe, gli occhi erano giallo e i pochi capelli, lunghi e ispidi, erano secchi come la paglia; le labbra, bellissime fino ad un attimo prima, erano tutte tagliate, e i denti, marci all’inverosimile, sporgevano in tutte le direzione.

            «Chi…» domandò Kahled indietreggiando terrorizzato «Che cosa sei tu!».

            Rapidamente anche la faccia cominciò a sciogliersi, e quando l’uomo in nero la risollevò tutto quello che rimaneva era uno spaventoso teschio grigio fumo; fiamme azzurre scintillavano nel buio delle orbite, e i denti, tornati all’apparenza sanissimi, erano piegati in un’espressione malvagia.

            «Quello che tu diventerai».

            Kahled urlò con tutta la sua voce, il panorama tutto intorno scomparve in pochi istanti, un lampo lo investì e di nuovo tutto divenne nero.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!

Che bello, mi sento libero come non mi capitava da tempo.

Oltretutto, ho scoperto che dalla seconda settimana di dicembre e fino a natale dovrò andare in università solo una volta ogni tanto, perché a noi studenti del vecchio ordinamento viene fatto uno sconto sulle ore da seguire del corso di inglese.

Il brutto è che, oltre all’esame di inglese, ne ho altri due da preparare prima di natale, Linguistica mercoledì e Grammatica Spagnola il 21, ma niente di impossibile.

Questo è il penultimo capitolo, ora mancano solo l’ultimo e l’epilogo. Lo so che è più corto rispetto agli altri, ma questo genere di capitoli non sono mai stato molto bravo a scriverli, e mi servirà un po’ di tempo per affinare la tecnica.

Ringrazio Elika per la sua recensione

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 7
*** Un Cuore Colmo Di Dolore ***


6

6

 

 

Kahled si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di sudore, il respiro affannoso come dopo una lunga corsa e lo sguardo spento.

            Gli ci vollero parecchi secondi per riuscire a mettere bene a fuoco, e appena fu in grado di vedere con una certa chiarezza la prima cosa di cui si avvide era di avere l’occhio destro bendato con delle garze, ma dopo il colpo che aveva subito la cecità era il minimo che si dovesse aspettare.

            L’ambiente era quello di una casa povera, un seminterrato, a giudicare dalle finestre strette e poste a ridosso del tetto, con un tavolino, uno sgabello e il letto sul quale era disteso a contendersi lo spazio con tavole di legno, attrezzi e ogni altro ciarpame.

            Gli faceva male dappertutto, aveva vari altri bendaggi disseminati su tutto il corpo e la barba decisamente più lunga del normale, segno che dovevano essere passati parecchi giorni dall’ultima volta che si era rasato.

            Era da poco passato mezzogiorno, si capiva dalla luce fortissima che entrava dagli spioncini, e a sentire l’insistente vociare dei muezzin doveva essere proprio l’ora della preghiera del pomeriggio.

            Stava cercando di riprendersi completamente quando la porta si aprì ed entrò suo fratello con in mano un fagotto di tela contenente, dal profumo, il necessario per una cena frugale.

            «Kahled.» disse vedendolo seduto sul letto «Ti sei svegliato.»

            «Fra… fratello.»

            «Avevano detto che avresti impiegato del tempo per svegliarti, ma non immaginavo così tanto. Stavo cominciando a preoccuparmi seriamente.»

            «Cosa… che giorno è oggi?»

            «Oggi è il secondo giorno del terzo mese.»

            «Il secondo del terzo mese!? Ma allora…»

            «Hai dormito per quasi venti giorni. Ma con tutte le ferite che ti ritrovavi, il medico reputa già un miracolo che tu sia sopravvissuto.»

            «Dove ci troviamo?»

            «Nello scantinato di un nostro fratello. La casa è disabitata. Dopo quella notte il califfo ha cominciato a setacciare tutti i possibili rifugi, e molti Assassini con le loro famiglie hanno lasciato la città per tornare a Masyaf in attesa che si calmino le acque».

            Ad un certo punto Kahled si ricordò di quello che era successo, e il suo cuore minacciò di fermarsi nel momento in cui l’immagine di Mira che si spegneva dinnanzi a lui gli passò davanti agli occhi. Altair, comprendendo i sentimenti che stava provando, abbassò lo sguardo, mostrandosi triste e addolorato tanto quanto lui. Dopotutto, anche lui era molto legato a Mira, e come il fratello la conosceva fin dai tempi dell’addestramento.

            In una sola notte entrambi avevano perso un maestro ed una cara amica, e la colpa di tutto quel dolore era tutta di un solo uomo. Nonostante ciò, Kahled non riusciva in alcun modo a liberarsi del senso di colpa, che come un pesante macigno seguitava a gravare sul suo cuore e che, probabilmente, non se ne sarebbe mai più andato.

            «Non è stata colpa tua, Kahled.»

            «Io l’ho uccisa…»

            «È Jahal l’unico responsabile di tutto questo. È lui ad avervi messi l’uno contro l’altro.»

            «Io l’ho uccisa!».

            I suoi occhi si riempirono di lacrime, ma a causa di un movimento furioso del braccio nel tentativo di tirare un pugno al muro lo colse un dolore lancinante, che tuttavia servì solo a rendere più forte la sua disperazione.

            Altair lo lasciò in pace, comprendendo a pieno il suo bisogno di sfogarsi.

            «Dov’è ora?» domandò Kahled dopo poco, a denti stretti, come a voler trattenere a stento una incontrollabile furia infernale.

            Altair si morse le labbra, mostrando palesemente il proprio nervosismo.

            «Abbiamo recuperato il suo corpo subito dopo averti salvato. Era qui, in questa casa. Volevo aspettare fino a che ti fossi risvegliato, ma quando il tempo ha cominciato a segnarlo non ho avuto altra scelta che ufficiare il rito del trapasso».

            Di nuovo, Kahled si lasciò andare al pianto, un pianto sommesso e a viso nascosto.

            Non poteva neppure vederla un’ultima volta. Non avrebbe più rivisto il suo viso, carezzato le sue guance, ammirato il disegno dei suoi lunghi capelli neri.

            «Voglio vederla».

            Il fratello minore fece per alzarsi, ma il dolore era troppo forte, così Altair fu costretto a sorreggerlo. Insieme uscirono dal seminterrato e salirono attraverso un’abitazione ormai deserta fino sul tetto: il sole splendeva con tutta la sua forza, e Baghdad risplendeva come una gemma radiosa, un’oasi lussureggiante nel bel mezzo del deserto.

            Al centro, su di un piccolo altare, stava un’urna cinerea piccola e semplice, chiusa con un coperchio di legno sigillato con della cera, e al suo fianco due candele ormai consumate.

            Quello era tutto ciò che restava di Mira, la Tigre d’Oriente, come era scherzosamente soprannominata dagli altri Assassini della città; dalla cenere del mondo era stata generata, e alla cenere sarebbe infine tornata, dopo che i suoi resti mortali fossero stati riportati nel luogo che aveva visto la sua nascita, come imponeva il codice religioso dell’Ordine.

            La morte non era altro che la conclusione naturale della vita terrena, il ritorno alla terra da cui si era stati separati, e, secondo la fede del Buddha, in cui Mira aveva sempre creduto, la prima tappa del passaggio ad una nuova rinascita.

            Ma questo per Kahled non aveva alcuna importanza, e non riusciva ad accettare l’idea di essere stato l’artefice della sua morte.

            Quasi strisciando, e tremante come una foglia, si avvicinò all’urna, prendendola e stringendola con tutte le sue forze, mentre le sue lacrime scendevano inesorabilmente, rigandone la superficie.

            Alzato lo sguardo dopo un pianto che avrebbe spezzato il cuore anche all’uomo più insensibile, vide, in lontananza, il palazzo del califfo, e allora la sua rabbia si fece cento volte più forte. Rimessa l’urna al suo posto, e incurante del dolore, mosse un passo come a voler saltare sul tetto vicino, ma Altair fulmineo gli fu subito addosso, ed afferratolo a stento riuscì a trattenerlo.

            «Lasciami!»

            «Calmati Kahled!»

            «Lo ammazzerò! Ammazzerò quel bastardo, fosse l’ultima cosa che faccio!»

            «Cerca di ragionare, non ti reggi in piedi! Affrontarlo nelle tue condizioni sarebbe un suicidio!»

            «Non mi importa, lo voglio morto!».

            Alla fine Altair fu costretto a mollarli un tremendo diretto allo zigomo per costringerlo a calmarsi.

            «Non capisci?» disse mentre il fratello, stremato e distrutto, si lasciava andare alla disperazione «Se muori anche tu chi vendicherà la morte di Mira!

            Io comprendo benissimo i sentimenti che provi, ma c’è tempo e tempo, e un Assassino che non è neanche in grado di camminare è come un’aquila con le ali spezzate.»

            «Lo… lo so. Però…».

            Vederlo così, in quelle condizioni, fece stare male Altair come mai nella sua vita; impietosito, gli mise una mano sulla spalla, confortandolo come già altre volte aveva fatto; ai tempi dell’addestramento, quando le percosse, la fatica e il dolore erano stati più di una volta sul punto di spingere Kahled a rinunciare.

            «Verrà il momento della vendetta, Kahled. Te lo prometto.»

            «Fratello…» disse lui guardandolo con gli occhi di un leone che, per quanto ferito, non rinuncia all’idea di battersi.

            Altair dovette quasi caricarselo in spalla per riportarlo nel seminterrato e rimetterlo a letto, tanto il corpo gli faceva male da tutte le parti a causa delle ferite.

            «Tieni.» disse poi lanciandogli uno dei due kebab che aveva comprato al mercato «Devi mettere qualcosa sotto ai denti se vuoi tornare presto in forze».

            Mentre stavano mangiando qualcuno bussò alla porta, mettendo i due fratelli sul chi vive; lasciato cadere il proprio panino Altair si appiattì contro l’uscio spada in mano, Kahled invece sfoderò un pugnale, pronto a lanciarlo in caso di pericolo.

            «Sono io.» disse dall’alta parte una voce rassicurante.

            Tirando un sospiro di sollievo Altair rinfodero la spada e aprì leggermente la porta, lasciando entrare un confratello completamente nascosto nella sua veste e nel copricapo che indossava, il quale si limitò a consegnare una lettera prima di scomparire nuovamente.

            Altair la aprì, leggendola, e a guardarlo negl’occhi Kahled capì subito che non erano buone notizie.

            «Che succede?»

            «Jahal è stato convocato dal sultano. Ha ricevuto un elogio e una promozione per l’esecuzione di molti dei nostri fratelli qui a Baghdad. Parte per Isfahan domani mattina.»

            «Che cosa!?»

            «C’era da aspettarselo. Sicuramente gli verrà conferito un incarico di alta fiducia nella corte reale.»

            «Dobbiamo fare qualcosa! Non possiamo permettere che riesca a farla franca!

            Hai una qualche idea di cosa potrebbe fare con la Parola di Allah in una città come Isfahan? Potrebbe asservire al suo volere tutte le più alte cariche dell’impero, o addirittura tutti i suoi abitanti! A quel punto, chi o cosa potrebbe più fermarlo?»

            «Ne sono perfettamente consapevole.»

            «Dobbiamo agire subito! All’istante!».

            Spinto dalla frenesia Kahled fece nuovamente per alzarsi, ma i dolori atroci che ancora lo dilaniavano lo costrinsero a rimettere la testa sul cuscino.

            «Non sfidare i tuoi limiti, fratello.»

            «Ma… dobbiamo fermarlo ora.»

            «Sono d’accordo con te, ma anche se il tempo non ci è amico non possiamo permetterci di lasciarci prendere dalla fretta, né lasciare tutto al caso.

            Al contrario, ora più che mai dobbiamo tenere a mente ciò che è necessario per considerarsi un vero Assassino, e pensare in maniera il più possibile lucida.

            Ora andrò in giro ad investigare, e a parlare con i nostri fratelli ancora in città. Vedrò se riesco in qualche modo a ritardare la partenza del califfo, così avremo il tempo di pianificare con attenzione le nostre prossime mosse.

            In caso contrario, studieremo un modo per colpire prima che arrivi alla capitale. Lungo il viaggio sarà di sicuro più vulnerabile.

            Tu però, promettimi che non farai niente di avventato. Promettimelo».

            Kahled guardò in basso, come un bambino colto in flagrante a commettere una marachella; nonostante tutti i buoni propositi e il suo bruciante desiderio di vendetta era ormai perfettamente consapevole che nelle sue attuali condizioni non avrebbe potuto avere la meglio neppure su un brigante di strada, quindi la raccomandazione di Altair, dettata più che altro da sincera ed ammirevole preoccupazione fraterna, era del tutto inutile.

            «Lo prometto».

            Altair quasi accennò un sorriso di soddisfazione, tirando tra sé e sé un sospiro di sollievo.

            «Tornerò il prima possibile. Tu riposa. Dovrai essere in perfetta forma per quando colpiremo».

            Rimasto solo Kahled si lasciò sprofondare sotto le coperte, piangendo quelle poche lacrime che gli erano rimaste.

            Si sentiva un inetto, un incapace, un fallito: aveva ucciso la donna che amava con le sue stesse mani, aveva permesso che il suo maestro morisse per salvargli la vita e, cosa più grave di tutte, aveva vacillato sulle proprie convinzioni nel momento in cui aveva visto con i suoi occhi gli sterminati poteri della Parola di Allah.

            Infondo, l’uomo in nero che aveva incontrato nel limbo tra la vita e la morte, e che così crudelmente lo aveva giudicato, aveva ragione: in lui c’era un mostro, una bestia selvaggia e sanguinaria, disposta a qualsiasi cosa pur di realizzare il sommo ideale degli Assassini senza però curarsi minimamente dei mezzi con i quali lo perseguiva, né delle vite che per esso sarebbero potute andare perse.

            Ma non l’avrebbe permesso: non avrebbe permesso a quel mostro di uscire. Lui e lui solo era padrone delle sue emozioni, e per nulla al mondo avrebbe tradito i precetti del Credo, quegli stessi precetti che, nel momento di massima oscurità, quando credeva che non valesse più la pena di vivere, gli avevano dato qualcosa di nuovo in cui credere, e una nuova famiglia.

            Quando quell’oggetto blasfemo fosse andato distrutto la tentazione sarebbe scomparsa, e il mostro in lui non avrebbe avuto più alcun mezzo per tentarlo.

            Voleva riportare la pace, ma l’avrebbe fatto secondo il Credo, non secondo i propositi malvagi di quell’essere oscuro, e per nulla al mondo la profezia vaticinatagli prima di fare ritorno nel mondo dei vivi si sarebbe concretizzata: non sarebbe diventato un mostro simile.

            Tuttavia, aggrapparsi con forza ai precetti degli Assassini non serviva a mitigare in lui il desiderio di vendetta: il califfo, quel maledetto tiranno assetato di potere, doveva pagare per ciò che aveva fatto. Mai più si sarebbe arrogato il diritto di giocare con le vite degli altri, di soggiogare la loro mente e costringere le persone a servirlo contro la loro volontà.

            Rialzatosi a fatica, si avvicinò barcollando alla propria veste, appesa al soffitto per mezzo di un gancio, e quasi per caso, mentre vi faceva scorrere la mano sopra, sentì qualcosa all’interno di un risvolto. Appena vide di che si trattava rimase sconvolto, e dentro di lui si scatenò una tremenda tempesta.

            Significava vendere la propria anima, ne era perfettamente consapevole, sempre se ce l’aveva ancora, e un giorno avrebbe dovuto rendere conto di ciò che ora il suo istinto gli diceva di fare.

            Che ne era di tutti quei propositi, di tutte quelle aspirazioni che aveva avuto solo pochi minuti prima?

            Era davvero tutto così privo di significato?

            Però, se era per una buona causa…

            Come diceva sempre Hasan-i Sabbah, a volte il bene nasce dal male. Ma era davvero saggio, e soprattutto giusto, arrivare a tanto?

            Se è vero che a volte il bene nasce dal male, è vero in egual misura che svendere la propria coscienza in quel modo non era esattamente ciò che ci si potrebbe aspettare da un Assassino.

            E poi, per che cosa lo stava facendo? Per la confraternita, per Mira, o solo per sé stesso?

            Voleva credere che in fin dei conti la sua scelta fosse giusta, che stava agendo unicamente nel nome di un nobile ideale, eppure una parte di lui avversava quella scelta, e continuava ad urlargli di non farlo, che una volta intrapreso quel sentiero non avrebbe più avuto modo di tornare indietro.

            Ma era già troppo tardi.

 

Qualche minuto dopo Kahled era tornato al pieno delle forze, e tutte le ferite che fino ad un istante prima devastavano il suo corpo erano completamente scomparse; solo la menomazione all’occhio era rimasta, sottoforma di una pupilla completamente bianca e di un segno obliquo che mai sarebbe dovuto scomparire.

            Sarebbe stato il suo monito: il suo modo di ricordarsi per tutta la vita da dove proveniva, che cosa aveva fatto, e che prima o poi qualcuno, in un giorno anche lontano, sarebbe venuto a presentargli il conto.

            Lentamente, come se fosse stata la prima volta, indossò la propria veste, con le movenze impercettibili e la profusione spirituale tipiche di una preghiera.

            “Io non diventerò un mostro.” disse facendo scattare la lama nascosta “Farò ciò che ritengo giusto, ma non tradirò mai i precetti del Credo. Il Credo è la mia vita. Dio onnipotente. Nelle tue mani ripongo la mia anima. Fa di me ciò che vuoi”.

            Infoderata la spada, uscì all’esterno. Le strade erano affollate di gente, e che se negli ultimi giorni le guardie avevano più volte sollecitato la popolazione a guardarsi da individui sospetti vestiti interamente di bianco nessuno fece caso alla sua presenza, considerandolo unicamente come uno dei tanti volti tra la folla.

            Così era la vita di un Assassino: discreto, distaccato, perennemente anonimo, tranne quando arriva il momento di vibrare il colpo.

            Pensò per un attimo a quando aveva cominciato, a quando il solo camminare tra la gente bastava a fargli venire il batticuore, e aveva paura a fare qualsiasi cosa che potesse anche lontanamente essere considerata fuori dalle righe e potesse farlo smascherare.

            Ora, invece, era davvero una lama tra la folla, un giustiziere silenzioso che aveva il sacro compito di portare la pace e la giustizia ripulendo il mondo dall’oscurità che lo opprimeva, un’oscurità che poteva avere molti nomi: fanatismo, oppressione, crudeltà, avidità.

            Più volte, privando della vita i suoi bersagli, si era interrogato sull’effettiva esistenza di Dio, ma era altresì vero che la fede era una delle poche cose a cui uomini come loro potevano aggrapparsi per riuscire a proseguire la loro incessante camminata attraverso il marciume del mondo, un marciume che stava proprio a loro epurare, affinché tutti gli uomini di buon cuore potessero un giorno godere di una nuova Terra libera dal male e completamente pacificata.

            Prima di uscire aveva rivolto una preghiera a Dio, e questa era la prova che, nonostante tutto, era rimasto padrone del suo cuore, che non aveva dimenticato il Credo, e che mai lo avrebbe fatto.

            Quando giunse in vista del portone del palazzo la rabbia si impadronì nuovamente di lui, spingendolo a desiderare una cosa sola: vendetta. Appartatosi in una zona poco frequentata attese di essere solo per intraprendere la scalata alle mura, ma appena fu sui ballatoi venne inavvertitamente notato da due guardie che facevano il turno di ronda.

            Quelle gli si fecero incontro armi alla mano, ma lui, senza difficoltà, ne trafisse una con un pugnale, l’altra invece, dopo avergli piantato la sua stessa spada nello stomaco, la scaraventò giù dalle mura direttamente in strada, cosa che scatenò inevitabilmente il panico tra i cittadini che stavano transitando in quel momento.

            Liberatosi di quella seccatura, e accertatosi di non avere addosso altri occhi indiscreti, scese nel cortile, rivolgendo quasi subito le sue attenzioni sulla torre che svettava verso l’alto proprio al centro del palazzo; alta più di cento metri e con un raggio di almeno quindici, di forma cilindrica, era una delle grandi meraviglie dell’impero, una costruzione gigantesca, e aveva sulla sommità una sorta di basamento più largo che le dava, da lontano, la forma di un calice.

            Una sensazione gli attraversò il corpo, accompagnata subito dopo da una consapevolezza: era lì che avrebbe trovato il suo nemico.

            Vedendolo avvicinarsi le guardie che sorvegliavano la struttura fecero per fermarlo, ma il ragazzo, sfoderati altri due pugnali, li lanciò contemporaneamente, trafiggendo i poveri malcapitati rispettivamente nella bocca e in mezzo alla fronte, e lasciandoli a terra senza vita.

            Entrato nell’edificio, completamente vuoto all’interno, fatta eccezione per la rampa a chioccia che saliva fino in cima, salì sul montacarichi di servizio, azionando con una leva il meccanismo di contrappesi che lo mise in funzione e salendo così verso l’alto.

            Tanti pensieri attraversarono la sua mente in quel breve viaggio verso il confronto più importante della sua vita: pensava a Mira, a suo fratello, e a cosa avrebbero potuto pensare di lui, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

            Occorsero una trentina di secondi per arrivare sulla cima della torre, una vasta piazza circolare circondata da un reticolo di alte colonne che sorreggevano un pregiato architrave ad anello, e come i suoi occhi tornarono a scorgere la luce del sole si accorse di essere completamente circondato da un vero esercito di uomini, se così li si poteva chiamare, tutti bene armate e pronte alla battaglia; i loro occhi scintillavano di azzurro, i loro corpi parevano di pietra, e le loro armature ricordavano quelle che Kahled aveva visto indossare a suo tempo da alcuni soldati dei magnifici e in gran parte ancora sconosciuti regni dell’India.

            Non sembrava esservi nulla di umano in loro, e nell’istante in cui si lanciarono all’attacco Kahled mise mano nello stesso tempo alla spada e al pugnale, ingaggiando con lui uno scontro feroce.

            Era come stare nuovamente sognando; non riusciva a capire che cosa gli stesse succedendo, ma ciò che provava era impossibile da descrivere: era… surreale.

            Quel potere sconosciuto gli scorreva nelle vene come un fiume di lava, e sentiva di poter fare qualunque cosa, se solo lo avesse voluto. In pochi minuti ebbe ragione di tutti gli assalitori, per quanto forti, veloci e pericolosi, e come l’ultimo si accasciò a terra trafitto al torace lui e tutti gli altri scomparvero nel nulla consumati da delle fiamme azzurre che di loro non lasciarono neanche la polvere.

            Kahled si guardò un momento intorno, poi nel silenzio riecheggiò una malefica risata.

            «Vieni fuori!» gridò al vento «Chiudiamo questa storia!».

            Davanti a lui si materializzò una vampata di fuoco celeste da cui uscì Jahal, sprezzante e sicuro di sé come non lo era mai stato; indossava una ricca veste blu oltremare sormontata da una leggera armatura d’argento, decorata con alcuni altorilievi. In una mano teneva una pregiata scimitarra con l’impugnatura apparentemente d’oro massiccio, nell’altra la Parola di Allah, che brillava di quel suo bagliore sinistro.

            «Dunque sei tornato.»

            «Non ho la coda di paglia.»

            «E neppure il buon senso, a quanto pare.»

            «Qual è il tuo scopo? Perché fai tutto questo?»

            «Non giudicarmi, Assassino. Ti assicuro che ho le mie buone ragioni.»

            «E quali sarebbero? Schiavizzare gli esseri umani e costringerli a servirti?»

            «È ciò che credi tu, cieco come sei. Io non sono affatto come tu mi dipingi.»

            «Che vuoi dire?»

            «Oro. Potere. Donne. Tutte queste cose le ho già, e se solo lo volessi potrei averne ancora, e senza bisogno di questo. Il mondo è così marcio e corrotto che sono proprio gli uomini come me, quelli che la gente reputa malvagi, quelli che riescono ad arrivare più in alto.

            Voi Assassini, che vi illudete di poter cambiare questa realtà di fatto, non siete altro che degli ingenui.»

            «Se non è l’ambizione a guidarti, allora che cosa?».

            Jahal a quella domanda smise di camminare lentamente avanti e indietro, come aveva preso a fare da che era arrivato, strinse più forte la Parola di Allah e chiuse gli occhi.

            «Questo oggetto. Questa Parola di Allah… è dotata di un grande potere. Un potere che tu non puoi neanche immaginare. Credevo sul serio che con il suo aiuto sarei arrivato a dominare il mondo intero.

            Ma poi, nel momento in cui mi sono guardato attorno, e ho visto che cosa mi circondava, ho capito che cosa volevo davvero.

            Io voglio… il ricordo.»

            «Il ricordo!?»

            «Non capisci? Noi siamo tutti mortali. Prima o dopo tutti moriamo. Sta nell’ordine delle cose. E quando moriamo, inevitabilmente, scompariamo.

            La morte cancella tutto, senza distinzioni, e nel momento in cui anche il ricordo di ciò che sei stato si spegne, di fatto è come se non fossi mai esistito.»

            «È davvero questo a farti paura? Essere dimenticato?»

            «Lo trovi così strano, Assassino?» gridò Jahal quasi piangendo, e con la voce rotta dall’emozione «Io l’ho visto! Ho visto cosa ci attende dall’altra parte!

            Cori angelici, il paradiso terrestre, la beatitudine eterna! Tutte stupidaggini!

            E se non possiamo sperare almeno nel ricordo di chi verrà dopo di noi, che cosa ci resta!».

            Dopo quello sfogo di disperazione il califfo parve calmarsi, e fece un paio di respiri profondi per riguadagnare l’autocontrollo.

            «Io…» disse tenendo lo sguardo a terra «Dominerò ogni cosa. Conquisterò tutto ciò che può essere conquistato, avrò tutti le genti della Terra ai miei piedi, e concentrerò nelle mie mani quanto più potere possibile.

            Lascerò un marchio indelebile nella storia e nel destino di questo mondo, così profondo e radicato che mai potrà essere dimenticato, neppure di fronte all’eternità. Tramite queste mie gesta il mio ricordo sopravvivrà attraverso il tempo, ed io con lui. Allora, e solo allora, potrò davvero esistere.»

            «Sei patetico.» rispose secco Kahled

            «Che cosa!?» ringhiò Jahal rialzando gli occhi

            «Come altro ti si potrebbe definire? La cosa che desideri più di ogni altra potrai ottenerla solo dopo la morte. Quella stessa morte che ti terrorizza tanto.»

«Allora dimmi, visto che sembri tanto sicuro di te, abbastanza da criticare i miei propositi. Per che cosa vivi tu?»

«Io vivo per portare la pace. Io voglio creare un mondo dove non ci sia sofferenza, dove nessuno debba conoscere il dolore che ho dovuto subire io, e dove gli uomini vivano l’uno accanto all’altro senza farsi alcun tipo di guerra.»

«E questa forse, non è la tua di ambizione?».

Kahled rimase un attimo spiazzato, non sapendo cosa rispondere.

«Non sei certo nella posizione per potermi fare la predica, Assassino.»

«Se essere ricordato è tutto ciò a cui aspiri, non è necessario fare tanto. Basta cambiare anche di poco la vita di qualcuno, avere avuto per lui un significato particolare, e avrai la certezza di avere qualcuno che si ricorderà di te.»

            «Stolto. A me non importa niente di vacue memorie. Io voglio essere ricordato per tutta l’eternità.»

            «Beh, in questo mi dispiace distruggere il tuo castello di illusioni, ma sappi questo. Niente, assolutamente niente, dura per sempre.

Mettere tutto sé stessi in ogni cosa che si fa, e impegnarsi costantemente nella costruzione della propria vita nel poco tempo che abbiamo. Questo significa esistere.»

«Che discorso commovente.» rispose Jahal con uno strano sorriso, mentre attorno a lui andava formandosi un alone azzurro che diventava sempre più grande «Se sei davvero convinto di ciò che dici, allora mostrami questo “tutto sé stessi”. E le tue emozioni, e i tuoi sentimenti, e le tue memorie.

Così che possa spazzarli via!».

I due corsero l’uno contro l’altro, e come le loro spade cozzarono si produsse un baccano assordante, oltre ad una vera pioggia di scintille. Jahal dimostrava forza, velocità e destrezza di molto superiori a quelle di un comune essere umano, ma nonostante ciò Kahled riusciva comunque a restargli dietro.

Purtroppo, più l’aura azzurra che lo circondava aumentava di intensità, più le sue capacità aumentavano di efficacia, e ad un certo punto il giovane Assassino cominciò a sentire il peso della differenza di livello. Venne ferito più e più volte, fortunatamente sempre in parti non vitali e solo in modo leggero, ma era un chiaro segnale del fatto che lo scontro non poteva andare avanti per molto tempo.

Una sola cosa poteva salvarlo, e permettergli se non altro di poter combattere ad armi pari, ma farlo voleva dire davvero gettare via tutte le sue convinzioni, e vedendo l’espressione sul volto di Jahal, che di secondo in secondo si faceva sempre più sadica e malvagia, gli veniva da comandarsi se anche lui, se avesse avuto quel potere tra le mani, sarebbe diventato così, preoccupato unicamente di perseguire i propri obiettivi.

«Vedo qualcosa nel tuo sguardo, ragazzo.» disse Jahal vedendo l’espressione di Kahled dinnanzi ai poteri della Parola «Vedo l’ambizione, e l’ingordigia. Questo potere tenta anche te, non è vero?»

«Ti sbagli!»

«Come darti torto. Ma è inevitabile. Quando si vede con i propri occhi qualcosa di simile, si finisce per rimanerne consumati. L’ho provato sulla tua stessa pelle.»

«Io non sono come te!»

«Ah, ma te lo leggo negli occhi. La prospettiva del potere è qualcosa a cui nessuno può essere immune. Nemmeno tu.»

«Te l’ho detto, a me il potere non interessa!»

«Ho i miei dubbi in proposito. Comunque, non ti angustiare. Penserò io a liberarti da questo fardello, e lo farò proprio ora!».

Ad un certo punto il califfo, allontanatosi, puntò la Parola di Allah contro di lui, e quasi subito dal nulla si generò una pira azzurra che bruciava come l’inferno; Kahled, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il tempo di spostarsi per evitare di finire carbonizzato, ma quei pochi secondi con la guardia abbassata furono sufficienti a Jahal per arrivargli addosso e piantargli con forza la scimitarra nel torace.

Il ragazzo si piegò in avanti, gemendo per il dolore, e come il nemico ritirò la lama barcollò all’indietro, dando l’idea di essere sul punto di cadere, ma poi, sotto lo sguardo sbigottito di Jahal, piantate bene le gambe a terra rialzò lo sguardo, lasciando intravedere sotto il cappuccio uno sguardo sprezzante e ironico.

Il sangue che sgorgava dalla ferita ritornò magicamente all’interno, e solo allora il califfo si accorse che, arrotolato attorno al bracciale sinistro, Kahled aveva il frammento della Parola che a suo tempo aveva consegnato a Mira per assicurarsi il successo della sua missione, e che quella buona a nulla era riuscita incredibilmente a sprecare.

«Bastardo.» ringhiò, e subito dopo lo scontro riprese.

 

Nello stesso momento Altair, dopo una lunga indagine, aveva raccolto informazioni a sufficienza per studiare un buon piano d’azione che avrebbe permesso di colpire Jahal in un momento preciso del suo viaggio verso Isfahan, ma rientrato nella stanza dove aveva lasciato il fratello trovò solo il letto fatto e una candida piuma bianca appoggiata sulle coperte.

            La raccolse, stringendola fino a distruggerla.

            «Razza di… pazzo incosciente.» disse sotto i denti, e fatta scorta di tutti i pugnali che poteva portarsi dietro raggiunse immediatamente il tetto.

            Come vide in lontananza la cima della torre principale del palazzo solcata da continui bagliori azzurri capì subito che lo scontro era già cominciato, ma fatte solo poche centinaia di metri fra i tetti trovò nuovamente Koromaru a sbarrargli la strada.

            «Così ci rivediamo, alla fine.» disse l’Ombra

            «Se ci fossimo incontrati in un’altra occasione avrei accettato di misurarmi di nuovo con te senza esitazioni. Ma ora sono di fretta, quindi non ho tempo da perdere.»

            «Ne sono consapevole, ma purtroppo non posso permetterti di procedere oltre. Ordini del califfo.»

            «Perché lo segui, Koromaru? Tu sai essere migliore. Tu non sei come lui.»

            «Te l’ho detto. È un debito d’onore. Quando l’avrò saldato sarò libero, ma fino a quel momento la sua parola per me è legge.»

            «È un peccato che il tuo talento sia sprecato al servizio di un uomo simile. Quante cose buone potresti fare sfruttandolo nel modo giusto.»

            «Purtroppo, in questo mondo, la bontà è un concetto superato.»

            «Non è detto. E sta ad uomini come noi fare in modo che le cose possano cambiare.»

            «Il tuo è un nobile proposito, Assassino. Lo condivido, sinceramente. Sfortunatamente, per il momento, non posso seguirti.»

            «E non puoi nemmeno lasciarmi passare.»

            «Sembra che, dopotutto, sistemeremo i nostri conti in sospeso una volta per sempre.»

            «Credo anch’io.»

            «Mi sarebbe piaciuto combattere al tuo fianco, Assassino. Dico davvero».

            Quasi contemporaneamente i due avversari sfoderarono i pugnali, ma piuttosto che cercare lo scontro diretto entrambi presero a muoversi in tutte le direzioni, guardandosi dagli improvvisi movimenti del nemico e cercando il confronto diretto solo di tanto in tanto, ma per non più di un istante.

            Koromaru aveva ancora quell’espressione sicura di sé che aveva ostentato anche nel corso della prima battaglia, ma stavolta Altair, che negli ultimi venti giorni si era allenato furiosamente in vista di un nuovo scontro con l’Ombra, si fece trovare pronto a contrastare tutti i suoi attacchi, riuscendo oltretutto a rispondere in maniera egregia.

            «Sei migliorato. Questo devo riconoscerlo.»

            «Apprezzo il complimento.»

            «Ma non illuderti. Dovrà passare del tempo prima che tu riesca ad eguagliarmi.

            Ricordi quello che ti ho detto? Tu rispetti e comprendi, io rispetto e padroneggio».

            Detto questo l’ombra cinse le mani sul petto, e come l’ultima volta salmodiò per un po’ prima di moltiplicarsi letteralmente in decine di copie perfettamente identiche che presero a saltare in tutte le direzioni. Contrariamente da ciò che aveva fatto l’ultima volta, stavolta Altair rimase perfettamente immobile, ad occhi chiusi e muscoli rilassati, come consapevole di non avere alcun potere sul suo nemico, che al contrario sembrava completamente padrone del campo.

            «È finita, Assassino. Pregherò per te».

            Un nugolo di stellette piovve dal cielo, ma solo quando furono ad un batter di ciglia da lui Altair si decise ad aprire gli occhi; con scioltezza e precisione, impensabili persino per un Assassino del suo rango, senza mai muoversi dalla sua posizione le respinse tutte, o meglio, solo quelle che esistevano davvero. Infatti alcune di esse, che lui non degnava della minima attenzione, invece di colpirlo gli passavano attraverso, per poi scomparire inghiottite dal vento.

            «Che cosa!?» esclamò Koromaru

            «Ti vedo!» gridò Altair lanciando un pugnale.

            La lama centrò in pieno una delle copie, che trafitta alla spalla precipitò sul tetto, e nello spazio di un istante tutte le altre svanirono come fumo lasciando solo il vero Koromaru, che stupito e sconcertato come non mai cercò per quanto possibile di rimettersi in piedi.

            «Co… com’è possibile…»

            «Mi dispiace, ma ho capito il tuo trucco.»

            «Il… il mio trucco!?»

            «All’inizio credevo davvero che le abilità di cui eri dotato fossero frutto di qualche potere misterioso, e che tu fossi realmente in grado di dominare pienamente i segreti del mondo per compiere imprese impensabili per chiunque.

            Ma poi mi sono conto di una cosa, si tratta solo di autosuggestione.»

            «A… autosuggestione?»

            «Tu usi uno stile appariscente, fatto per impressionare, e fai uso di qualcosa che in battaglia può ferire quanto le armi: la paura.

            Sfoggiando abilità apparentemente inumane confondi e disorienti i tuoi nemici, e mostrando doti che potrebbero essere a buon diritto considerate frutto di poteri magici o comunque sovrannaturali fai credere loro di stare affrontando qualcosa di più di un semplice essere umano, una prospettiva che lascerebbe atterrito chiunque, me compreso.

            Ma poi, in definitiva, non si tratta affatto di magia, anche se indubbiamente le tue potenzialità non sono certamente alla portata di tutti.

            Prendiamo la tua presunta abilità di moltiplicarti. Tutto quello che fai è muoverti continuamente e a gran velocità da una parte all’altra tutto intorno al tuo avversario, rimanendo nello stesso posto per non più di mezzo secondo. In questo modo, dai l’illusione di aver creato tante copie di te stesso.

            E vale lo stesso discorso per i tuoi pugnali a forma di stella: l’altra volta credevo che fossero tutte reali, ma la loro velocità e il fatto di lanciarle continuamente e da posti sempre diversi fanno sì che anch’esse sembrino molte di più di quante siano in realtà.

            Per quanto riguarda l’abilità di sputare fuoco, ammetto di non averla ancora capita del tutto, ma sospetto che tu possieda una qualche sostanza infiammabile, forse in bocca o sotto quel bavero, chiusa in piccoli involucri, a cui dai fuoco servendoti del tessuto particolare di cui sembra fatto il tuo abito. Questo stesso tessuto sembra anche in grado di proteggerti dalle alte temperature, e questo, unito alla tua velocità, ti permette di muoverti liberamente tra le fiamme senza subire il minimo danno».

            Koromaru restò a lungo con gli occhi sbarrati, poi parve quasi compiaciuto.

            «Avrei dovuto immaginarlo.» disse togliendosi il pugnale dalla spalla e gettandolo a terra «Voi Assassini siete troppo furbi. Monaci e guerrieri hanno sprecato la loro vita a tentare di svelare i segreti della nostra arte, tu ci sei riuscito dopo averla vista una sola volta».

            A quel punto Altair si avvicinò al suo nemico, avvicinandogli la spada alla gola.

            «Avanti.» disse Koromaru senza apparenti rimpianti «Uccidimi».

            Invece, dopo poco, vide la spada allontanarsi da lui, e il suo avversario che lo guardava in modo enigmatico.

            «Che significa?»

            «Una vita, una vita. Ora siamo pari. L’ultima volta non mi hai ucciso benché ne avessi la possibilità. Dicevi che avevo del potenziale, e che dovevo imparare a sfruttarlo. Ora sono io a risparmiarti, e per lo stesso motivo.

            Verrà il momento in cui sia voi che noi saremo chiamati a garantire il futuro del genere umano, e le tue conoscenze sono troppo preziose per andare perdute.

            Torna dalla tua gente a testa alta, perché hai dimostrato di essere un vero guerriero».

            L’Ombra sgranò nuovamente gli occhi, poi rivolse ad Altair uno sguardo, ricambiato in ugual modo, di ammirazione e profondo rispetto.

            «Per molto tempo ho creduto che non vi fosse più nulla per cui dover continuare a esistere. Servire Jahal mi sembrava l’unica cosa che potessi fare per dire di essere ancora in vita.

            Quando ho incontrato te, però, per la prima volta dopo chissà quanti anni mi sono ricordato cosa volesse dire realmente essere vivi, e questo per me è ben più prezioso di qualsiasi debito di vita.

            Ti sei battuto bene, Assassino. Hai il mio rispetto.»

            «E tu il mio.»

            «Non ho mai saputo il tuo nome.»

            «Altair.»

            «Allora, Altair, possa un giorno il cielo farci rincontrare. Ora va’. Va’ a salvare tuo fratello. La sua vita vale ben più della mia».

            Di colpo Koromaru fu circondato da una nuvola di fuoco, e quando le fiamme si spensero di lui non vi era più traccia. Altair si guardò un momento intorno, quasi a volerlo individuare per rivolgergli un ultimo saluto, poi riprese la via del palazzo.

 

Sulla torre, lo scontro tra Kahled e Jahal era giunto inevitabilmente ad una fase di stallo.

            Potendo contare entrambi sui poteri della Parola di Allah erano di fatto immortali, e per quanto si ferissero reciprocamente in modo anche grave le ferite venivano sempre risanate, e la battaglia proseguiva. La sola cosa che li differenziava era che Kahled, disponendo solo di una parte irrisoria del manufatto, non era in grado di sfoggiare abilità di cui invece il suo avversario faceva largo uso, come generare diverse copie di sé per confonderlo o far emergere dal nulla quelle fiamme azzurre.

            Nessuno dei due dava segno di volersi arrendere, e quando Kahled, con un misto di sarcasmo ed ironia, aveva fatto notare che andando avanti di quel passo il vincitore del duello sarebbe stato stabilito solo dal giorno del giudizio, Jahal aveva risposto con un attacco furioso, urlando che prima o poi quel frammento in suo possesso avrebbe finito per esaurire il suo potere, lasciandolo esposto e vulnerabile.

            Tuttavia, una cosa fu chiara a Kahled fin da subito: più il califfo faceva uso della Parola più la sua sanità mentale sembrava venire meno, completamente offuscata dalla sete di potere che come un morbo si stava impadronendo di lui. Come se non bastasse, anche lui stava cominciando ad avvertire la stessa sensazione, e in più di un’occasione si era lasciato andare a gesti di cui mai si sarebbe detto capace di fare, come infierire più e più volte su un uomo a terra o attaccare in modo furioso consapevole del fatto di avere l’immortalità a proteggerlo.

            Non poteva negare che quel fiume di energia che gli scorreva dentro gli dava una sensazione incredibile, ma doveva fare in fretta a chiudere la questione, o avrebbe finito per impazzire anche lui.

            «Ora basta!» gridò ad un certo punto il califfo, completamente fuori di sé «Mi sono stufato di giocare, Assassino!».

            Intuendo che il tipo aveva in mente qualcosa di molto pericolo Kahled tentò di andargli contro, ma Jahal sollevò la Parola e lo fulminò con un raggio di luce tanto potente da scagliarlo in aria e quasi oltre il parapetto; ovviamente non morì, ma il dolore era tale da fargli pensare per un attimo di non potersi più rialzare.

            «Nessuno può più fermarmi adesso!».

            Vedendo Jahal alzare alta sopra di sé la Parola e circondarsi di un bagliore azzurro che brillava più del sole Kahled ebbe una bruttissima sensazione, e cercò invano di spingere il suo nemico a non fare una cosa tanto folle.

            «Jahal! Non farlo!»

«Ubbidisci al mio volere, Parola di Allah! Donami tutta la forza del creato! Rendimi onnipotente!»

«Fermati! Quel potere ti distruggerà!»

«Se gli esseri umani non hanno un dio, sarò io il loro Dio!».

La luce azzurra divenne in breve una fiamma di grandezza inaudita, e ai vaneggiamenti di Jahal si sostituirono all’improvviso le sue strazianti urla di dolore. Tutto il suo corpo, sollevatosi in aria, cominciò ad essere attraversato da striature luminose, una luce infernale usciva dagli occhi, poi si generò una vera esplosione di luce, che costrinse Kahled a chiudere gli occhi.

Quando il giovane assassino, rialzatosi nel frattempo, fu in grado di guardare cosa era accaduto, ciò che vide lo atterrì: dinnanzi a lui non un uomo, ma un enorme, gigantesco mostro alto più di dieci metri, simile ad un centauro. La pelle era nera come il carbone, solcata da quelle striature brillanti, le mani e le quattro zampe, tutte armate di cinque affilatissimi artigli ricurvi, erano quelle di un demone, e la testa era di forma triangolare, con una bocca attraversata da due file di denti da squalo; gli occhi, piuttosto piccoli per la sua mole, scintillavano di azzurro. La Parola di Allah conficcata nel mezzo del petto, e brillava come mai aveva fatto.

Non sembrava esservi più nulla di umano in quell’essere spaventoso, e l’assordante ruggito che lanciò una volta terminata la sua trasformazione era la chiara dimostrazione che anche il raziocinio era ormai completamente scomparso.

Eppure, ciò nonostante, Kahled non si tirò indietro.

«Non posso fermarmi ora!» urlò facendo mulinare la spada.

Il mostro, forse irritato dal trovarsi di fronte qualcuno che lo sfidava con tanta intraprendenza, ringhiò ancora più forte, poi, alzato il bracciò, colpì con tale forza da provocare un grosso squarcio nel pavimento e il crollo di alcune colonne.

Kahled si trovò quasi subito nella condizione di non poter rispondere, preso com’era a schivare gli attacchi bestiali e micidiali della creatura, che colpiva senza un’apparente logica, ma bensì obbedendo unicamente all’istinto. Tuttavia, nel frattempo, gli veniva anche da porsi una domanda: come si poteva definire divino, o comunque frutto di una conoscenza superiore, un oggetto che permetteva la creazione di un simile abominio?

Come se non bastasse, di quando in quando dalla bocca eruttava nugoli di fiamme incandescenti, e agitando le braccia creava vere e proprie bombe d’aria che avevano l’effetto di produrre crepe un po’ dappertutto, incentivando i crolli.

Kahled cercò in ogni modo di reagire, riuscendo perfino a correre lungo una delle braccia del mostro per raggiungerne il collo e piantargli la spada nella clavicola, ma per quanto riuscisse a danneggiarlo le ferite finivano sempre per risanarsi, senza contare poi che la sua pelle corazzata era incredibilmente dura, e perciò molto difficile da trapassare.

All’improvviso un pezzo di costone franò proprio davanti al ragazzo, impegnato a fuggire all’ennesimo assalto, e giratosi vide una di quelle mani artigliate piombargli contro; istintivamente mise le mani davanti a sé, e all’ultimo il suo frammento della Parola brillò come non aveva mai fatto, creando una sorta di barriera che lo salvò miracolosamente da morte sicura.

Purtroppo per lui la forza infusa dal mostro nel suo attacco risultò eccessiva, e alla fine il frammento andò come in sovraccarico, esplodendo e producendo una piccola onda d’urto che scagliò Kahled oltre le macerie che per poco non lo avevano investito.

Una parte della polvere in cui il monile si era trasformato, lucida e iridescente come polvere d’oro, volò sulla mano della creatura, risultando per lei nociva e corrosiva come un potente acido. Kahled se ne avvide, e capì che era l’unico modo con cui poteva sperare di averla vinta.

Rialzatosi, anche se a fatica, con un balzo scavalcò le macerie, e rotolandosi a terra per sfuggire ad una manata riuscì a ricoprire di polvere la lama della sua spada, che istantaneamente prese a bruciare circondata da quella luce azzurra.

Il mostro, come spaventato, fece qualche passo indietro, ma poi tornò alla carica più inferocito di prima. Kahled evitò parecchi colpi, riuscendo anche a ferire l’assalitore due o tre volte, e più passava il tempo più sentiva vivido e forte il potere proveniente dalle polveri della Parola di Allah: forse era abominevole, forse poteva essere usato per scopi sbagliati, ma quello era davvero il potere in grado di cambiare le cose.

Alla fine, spossata dai continui assalti, la creatura commise l’imprudenza di lasciarsi scoperta, e immediatamente Kahled ne approfittò; spiccato un salto, e urlando con tutta la forza che aveva, gli volò letteralmente contro, piantando la spada proprio nel centro del petto.

La Parola di Allah venne trafitta in pieno, e come il ragazzo ritirò l’arma, saltando all’indietro per portarsi a distanza di sicurezza, il mostro prese a dimenarsi e ad agitarsi in modo furioso; dalle scanalature del suo corpo prese ad uscire, fortissima la luce azzurra, e nel giro di pochi secondi esplose letteralmente dall’interno, producendo una seconda, fortissima esplosione di luce.

Stremato e senza forze, Kahled cadde in ginocchio quasi svenuto, mentre la polvere sulla spada, avendo forse consumato tutto il suo potere, diventava niente più di semplice cenere, e dai resti della creatura uscì Jahal, ritornato alle sue vere sembianze; anche lui era visibilmente esausto, e anche se sembrava tornato padrone almeno di parte del proprio raziocinio la rabbia che provava gliela si leggeva in viso: era furioso, furioso come non mai. Poco distante, la Parola di Allah, completamente ricoperta di crepe, e sul punto, all’apparenza, di sbriciolarsi in mille pezzi.

«Tu… dannato Assassino.» disse alzandosi; stava in piedi per miracolo, e probabilmente era proprio la rabbia la sola cosa a permettergli di non crollare svenuto «Hai… hai rovinato tutto».

Barcollando, si avvicinò a Kahled, che al contrario aveva a malapena la forza di sollevarsi sulle braccia, e quando gli fu abbastanza vicino sollevò la spada per infliggergli il colpo di grazia.

«Muori!».

All’improvviso, proprio quando era sul punto di colpire, Altair, comparso dal nulla, gli saltò addosso alle spalle, buttandolo a terra e trapassandolo alla schiena con la sua lama nascosta.

«Fratello!» esclamò Kahled.

Altair corse da lui, aiutandolo a rialzarsi, ma pur essendo visibilmente sollevato nel saperlo vivo non mancò di rivolgergli un’occhiataccia degna di un padre che ha colto il figlio a giocare con la sua spada.

«Che cosa non hai capito della frase “non fare niente di avventato”?»

«Io… mi dispiace. Sul serio».

Trafitto in un punto vitale, a Jahal rimaneva molto poco da vivere: alzata la testa, guardò i due fratelli come se volesse incenerirli.

«Come… come è potuto succedere? Io… battuto… da un moccioso…»

«È finita.» disse Altair «Le tue ambizioni, come te, sono alla fine.»

«No. No. Non può finire così. Io… io non posso scomparire…».

Poi, la sua espressione di rabbia si trasformò in una sadica risata, mescolata ad rantolo di agonia.

«Ma certo. È naturale. Avrei dovuto farlo fin dall’inizio.» quindi, girato lo guardo, si volse verso quanto restava del suo prezioso tesoro «Parola di Allah! Esaudisci il mio ultimo desiderio! Distruggi! Distruggi tutto!».

Immediatamente il monile si circondò di nuovo della sua aura azzurra, fasci di luce presero a schizzare in tutte le direzione e il terreno cominciò a tremare con forza sempre maggiore.

«Dannato pazzoide!» esclamò Altair

«Se non posso essere ricordato da questo mondo, allora questo mondo non ha motivo di esistere! Distruggi questo mondo, e questi sciocchi esseri umani!».

Quelle furono le sue ultime parole, e fu così che, con lo sguardo segnato dalla follia e la bocca spalancata in una sorta di malvagio sorriso, Jahal Ali Falahda, califfo di Baghdad, morì.

La scossa si fece rapidamente sempre più forte, e le colonne tutto intorno presero a crollare una dopo l’altra.

«Dobbiamo andarcene di qui, alla svelta!» disse Altair.

No!

Non poteva! Non poteva permettere che la Parola di Allah andasse perduta! Quella era la chiave per realizzare il mondo perfetto! Doveva essere salvata, ad ogni costo! Con quella, il sogno degli Assassini di un mondo unito sotto la vera Pace sarebbe potuto diventare realtà!

«Kahled, che stai facendo!» gridò Altair vedendo il fratello correre verso il monile, una corsa ostacolata dalle raffiche di vento glaciale generate che gli soffiavano contro.

Subito lo rincorse, e quando vide che una colonna stava crollandogli proprio addosso non ebbe esitazioni.

«Attento!» esclamò gettandosi su di lui e buttandolo lontano.

Kahled rotolò più volte, e quando risollevò lo sguardo il suo fu vero terrore.

«Fratello!».

Pur essendo riuscito a salvarlo dal crollo Altair non era riuscito a spostarsi in tempo, e ora giaceva semisvenuto con la colonna crollata a schiacciargli le gambe. Gli corse incontro, cercando di aiutarlo: era ancora cosciente, ma appena cercò di muoversi dovette stringere i denti per non gridare.

«Fratello…»

«Stai… stai bene?»

«Aspetta, ora ti libero!»

«È… è inutile. Sono rotte».

Invano, forse credendo di avere ancora dentro di sé una parte di quel potere, Kahled cercò con tutte le sue forze di sollevare la colonna, ma mai come in quel momento fu costretto a confrontarsi con la propria umanità.

«Lascia perdere.» disse il fratello quando lui, affranto e sfinito, cadde in ginocchio «Vattene. Mettiti in salvo.»

«Che cosa!?»

«Devi farlo Kahled. Almeno tu devi riuscire a tornare. Racconta quello che hai visto ai nostri fratelli. Che non tentino mai più di giocare con poteri simili, e che fermino tutti coloro che tenteranno di farlo.»

«Non posso, fratello! Non posso abbandonarti! Non puoi chiedermi questo!»

«Vai!» urlò con forza Altair, e afferrato il fratello lo spinse con forza oltre il parapetto, certo che si sarebbe salvato, giusto in tempo per evitare che l’ultimo ricordo che Kahled avesse avuto di lui fosse quello di un Assassino in lacrime.

Kahled riuscì effettivamente ad evitare di precipitare al suolo conficcando la spada in uno dei tanti stendardi di tessuto rosso che pendevano all’esterno e usandolo per attutire quasi completamente la propria caduta, ma quando era circa a metà strada un fascio di luce squarciò il muro proprio di fronte a lui, scaraventandolo oltre il muro di cinta e direttamente sul tetto di uno dei palazzi che si trovavano a ridosso del palazzo.

Ebbe a malapena il tempo di alzarsi e di alzare lo sguardo, e subito dopo la parte alta della torre esplose con forza inaudita, spargendo macerie per tutta Baghdad e illuminando la città di una luce azzurra più forte del sole.

No! No!

Anche quello no! Che cosa aveva fatto!

Prima Mira, ora Altair! Aveva ucciso con le sue mani le due persone a cui teneva di più!

Che razza di uomo era diventato? Aveva dato importanza ad un oggetto diabolico, al maledetto frutto della mente perversa di una qualche divinità malvagia, sempre se di una divinità si trattava, e per questo suo fratello era morto.

Quel potere lo aveva davvero consumato? Allora Jahal aveva ragione!

Anche lui aveva finito per soccombere di fronte al miraggio di un tale potere. In quell’istante di follia aveva desiderato di possedere quel potere solo per sé, e per questa sua follia Altair aveva pagato con la vita.

Perché? Perché era stato così cieco?

Rabbia, dolore, disperazione. Tutti questi sentimenti si agitavano dentro di lui come un mare in tempesta, resi ancor più amari dalla consapevolezza di essere stato lui l’artefice di tutto quel dolore.

Caduto in ginocchio, di nuovo urlò, urlò con tutta la sua voce, gridando il proprio odio verso quegli dèi vigliacchi dalla mentalità malata che avevano creato un mondo in cui gli uomini erano destinati a provare dolore e sofferenza per poi andare inesorabilmente incontro alla morte.

Di un Dio del genere l’umanità che poteva mai farsene?

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


EPILOGO

EPILOGO

 

 

Fortezza di Alamut

Marzo 1124

 

Kahled fece ritorno alla fortezza da cui lui e il fratello erano partiti agli inizi della primavera, un ritorno per lui molto più doloroso e sconfortante di quanto avesse mai potuto immaginarsi.

            Incredibilmente, nonostante fosse stato via per quasi due mesi, Hasan-i Sabbah era ancora vivo, e appena fu informato del suo ritorno volle subito incontrarlo.

            A dire la verità anche Kahled aveva un gran bisogno di vederlo, perché se c’era una cosa di cui era ormai sicuro, e sulla quale aveva riflettuto per tutto il viaggio di ritorno, era che il maestro stava nascondendo qualcosa, ed ora più che mai era determinato a squarciare una volta per tutte il velo di menzogne che aveva celato come un sudario l’intera vicenda da che aveva avuto inizio.

Quando furono nuovamente faccia a faccia, Kahled stentò a riconoscere il maestro: la malattia, che ancora non era riuscita a strapparlo al mondo fisico, lo aveva tuttavia devastato in ogni modo possibile, riducendolo a niente più che un mucchio di pelle ed ossa.

Il solo fatto di veder ritornare un solo Assassino, e per giunta a mani vuote, fu però sufficiente ad accendere una scintilla di risentimento nei suoi occhi, e rimasti soli, non senza il parere contrario dei medici, che di tutta risposta furono cacciati in malo modo, i due restarono a lungo immobili a guardarsi, Kahled ai piedi del letto e il maestro quasi completamente sprofondato nel cuscino a cui era costretto ad appoggiarsi per poter stare in piedi.

Kahled voleva delle risposte, e in un modo o nell’altro le avrebbe ottenute: suo fratello e la sua più grande amica avevano trovato la morte in quell’impresa ai limiti del reale, e ora voleva sapere perché.

Hasan-i Sabbah si manteneva in vita con la forza della disperazione, e ogni suo respiro, così profondo e stentato, sembrava sempre in procinto di essere l’ultimo.

«Che cosa è successo?» domandò con quella sua voce catarrosa, ma tanto profonda e pungente da far gelare il sangue «Dov’è Altair?»

«La missione non è andata come pensavamo. Il califfo sapeva del nostro arrivo, e ci ha teso una trappola. Sono morti tutti. Il Rafiq, Mira, Altair e molti altri confratelli.»

«E la Parola di Allah?»

«Perduta. Jahal l’ha distrutta per impedirci di prenderla».

D’improvviso la fiamma che per anni aveva dimorato in quel corpo che ormai non era nulla più che l’ombra di sé stesso parve tornare ad ardere con tutta la sua forza, e l’espressione del maestro venne si caricò di una rabbia sconfinata.

«Maledetto!» esclamò con la voce più forte e furiosa che le sue forze gli permettevano di sfoderare «Come osi ripresentarti al mio cospetto dopo un simile fallimento!».

A differenza di quanto aveva fatto ogni altra volta in cui era stato redarguito Kahled non indietreggiò, né mostrò alcun segno di pentimento; al contrario, i suoi occhi erano pieni di sprezzante aggressività, e a quel punto lo stesso Hasan riuscì a scorgere l’aura sinistra che vi albergava dentro.

«Ora voglio che voi mi diciate una cosa, e non me ne andrò di qui finché non mi avrete risposto.»

«Chi sei tu per parlarmi in questo modo?»

«Sono colui che ha perso suo fratello per portare a termine una missione ti cui voi ci avete deliberatamente nascosto il vero scopo. Se davvero eravate a conoscenza dei suoi poteri diabolici, e so che lo eravate, perché non ci avete ordinato di distruggerlo?

Perché avete preteso che ve lo portassimo?».

Il maestro respirò profondamente un paio di volte, visibilmente infuriato per una così palese mancanza di rispetto nei suoi confronti, e nonostante tutto Kahled non pareva in alcun modo intenzionato a tornare indietro.

«Guardami.» mormorò cercando di sollevarsi un po’ di più sorreggendosi alle sue braccia ossute «Guarda cosa sono diventato. Il corpo putrescente di un vecchio!

Ho dedicato tutta la mia vita alla ricerca di un modo per sfuggire all’ineluttabile destino dell’uomo. E alla fine, l’ho trovato.»

«Quindi è solo per questo?» domandò Kahled a denti e pugni stretti

«Sarei potuto diventare un dio! Avrei vissuto per l’eternità su questa terra, forte di un potere inimmaginabile. Sarei stato l’artefice di una nuova rinascita per tutto il genere umano, che mi avrebbe adorato e osannato fino alla fine dei tempi.

Ma ora… per causa tua… è tutto perduto. Tu sei… un disonore… per tutti noi…».

No. Anche quello no.

Allora tutte le sue convinzioni erano davvero solo un mucchio di inutili fandonie. Aveva versato sangue per i principi del Credo, forte nella convinzione che la sua opera avrebbe spianato la strada ad un domani migliore per le generazioni future.

E ora che cosa scopriva? Che la persona a cui aveva giurato eterna obbedienza, colui che avrebbe dovuto essere il più virtuoso degli uomini, aveva tradito i precetti da lui stesso istituiti?

Non solo. Aveva messo a repentaglio la vita dei suoi allievi prediletti per appagare il suo desiderio, e alla notizia della loro morte non aveva provato un briciolo di rimorso.

In che cos’altro gli restava da credere?

Aveva pregato gli dèi prima di incamminarsi in quell’ultima, dannata missione.

Ma quali dèi? Non c’era nessun dio, e se c’era doveva essere guidato da una mentalità davvero perversa se aveva permesso che si giungesse fino a quel punto.

«Ditemi, maestro, che cosa intendete fare adesso?».

Hasan-i Sabbah, lottando contro il suo stesso corpo, riuscì a raggiungere la spada del Maestro, infoderata e appoggiata accanto al letto, e la strinse a sé con le poche forze che aveva.

«Ho creato gli Assassini per poter cambiare il corso della storia. Ma se non posso essere io a guidarli, allora non hanno alcun motivo per continuare ad esistere. E così, alla fine, il nuovo mondo che avevo tanto sognato verrà seppellito insieme a me.»

Kahled si sentì morire dentro, completamente svuotato di tutto ciò che aveva di più prezioso: ora che anche quel tenue bagliore si era definitivamente spento, cos’altro gli restava.

No! Assolutamente no!

Non poteva accettare l’idea che decine di Assassini avessero combattuto e fossero morti per niente! L’Ordine non poteva morire! Quell’uomo, quell’essere privo di morale lo aveva creato per appagare unicamente il proprio desiderio di potere, mascherando dietro a precetti e sacri dettami i suoi reali intenti, ma non era assolutamente detto che le cose non potessero cambiare!

Non aveva alcuna importanza se il maestro in persona aveva mentito. Gli Assassini esistevano per portare la pace nel mondo, e nessuno mai lo avrebbe smosso da questa convinzione.

In quella, Hasan-i Sabbah tossì leggermente, e sembravano davvero gli ultimi gemiti di un corpo ormai giusto al suo estremo traguardo.

«La mia ora si avvicina inesorabilmente.

Alla fine, nonostante i miei sforzi, non sono riuscito ad avere quel potere. Il potere di cambiare il mondo.

Io, che dovevo essere un dio, alla fine dovrò morire come il più misero dei pezzenti».

Il maestro era troppo infuriato e spaventato dall’idea della morte per notare l’aura oscura che si era formata attorno a quello che un tempo era stato uno dei suoi allievi prediletti, il quale, avvicinatosi al bordo del letto, si mise in ginocchio. Hasan alzò gli occhi, e i due si guardarono.

«Il potere di cambiare il mondo.» ripeté Kahled, poi, veloce come il fulmine, colpì il suo vecchio maestro al centro del petto.

Un colpo segreto, proprio solo degli assassini più esperti, impossibile da riconoscere: all’apparenza poco più di una carezza, ma capace in realtà di provocare uno shock al sistema nervoso, che stimolato al massimo spingeva i muscoli a contrarsi allo spasimo, compresi quelli di cuore e polmoni, fino a che la vittima moriva letteralmente soffocata dal suo stesso corpo nel giro di pochi secondi.

Il corpo del maestro divenne istantaneamente di pietra: cercò di gridare, ma la gola gli si serrò quasi subito, gli occhi si colorarono di giallo e le labbra presero a diventare blu. Kahled gli avvicinò, portandogli la bocca all’orecchio.

«Quel potere non sarà mai tuo».

Hasan-i Sabbah ebbe appena il tempo di vedere il volto marmoreo e giudicatore del suo allievo, e subito dopo l’uomo che aveva creato gli Assassini per riscattare i torti di tutta una vita e poter diventare il nuovo dio del genere umano chiuse gli occhi sul mondo per sempre, portando con sé il proprio bagaglio di oscuri segreti, segreti che nessuno avrebbe mai più dovuto conoscere.

Qualche minuto dopo le guardie e gli attendenti che attendevano all’esterno videro aprirsi la porta, e dalla stanza uscì, camminando lentamente e a sguardo basso, Kahled; nella mano destra stringeva la Spada del Maestro, e solo questo fu più che sufficiente a spingere alcuni dei presenti a chinare leggermente il capo.

«Il nostro nobile maestro ha raggiunto la sua dimora eterna».

 

Masyaf

Giugno 1124

 

Tutto ciò in cui credeva era scomparso.

            I suoi ideali, i suoi principi, lo stesso Credo: tutte favole.

            Era stato responsabile della morte dei suoi cari, aveva ucciso un maestro impostore, e aveva visto con i suoi stessi occhi fin dove poteva condurre la brama di potere degli uomini: aveva visto l’abisso senza fine.

            Anche lui ci era caduto, ne era consapevole, e tentare di risalire ormai era impossibile.

            La sola cosa che poteva fare era andare avanti, e impegnarsi con tutte le sue forze a far sì che il mondo nuovo e giusto da lui tanto sognato potesse un giorno vedere la luce.

            Nessuno avrebbe mai dovuto sapere ciò che sapeva lui, nessuno sarebbe mai dovuto venire a conoscenza dei reali scopi che erano stati all’origine della nascita degli Assassini.

            Da quel momento in poi, egli sarebbe stato il depositario di segreti inconfessabili, che alla fine, in un modo o nell’altro, avrebbe portato con sé nella tomba, proprio come il suo maestro. Quello stesso maestro di cui ora, finalmente, stava per prendere il posto.

            Non sarebbe stato facile portare la pace in un mondo tanto corrotto e malvagio, popolato da uomini che provavano un insano piacere nel massacrarsi l’un l’altro e guardato dall’alto da dèi vigliacchi che da tempo lo avevano abbandonato, lasciando i suoi abitanti alla mercé dei loro più bassi istinti.

            Allo stesso modo, non sarebbe stato facile guidare l’Ordine fuori dal fango in cui il suo primo maestro l’aveva condotto, ma riuscire in questa impresa sarebbe stata per lui una grande prova, al fine di dimostrare a tutti, ma soprattutto a sé stesso, che aveva davvero la forza e il potere necessari a cambiare il mondo.

            Provava un gran disgusto per la razza umana, per quegli esseri meschini e malvagi che pensavano solo a sé stessi, e che per nulla al mondo avrebbero accettato un concetto tanto sublime e puro come poteva essere la pace.

            Ma anche lui era un uomo, dopotutto, e in quanto uomo non poteva fare a meno di riconoscere che la sua specie possedeva anche pregi e virtù assolutamente non comuni, e che se un domani la civiltà del futuro avesse potuto contare unicamente su questi privilegi, eliminando per sempre i propri difetti, allora gli esseri umani sarebbero divenuti un faro tanto splendente e radioso da illuminare con la loro luce l’intero universo.

            “Non tutto è perduto.” pensò mentre, nella solitudine nella sua stanza, terminava la propria vestizione “Altri tesori giacciono sepolti nelle profondità di questo mondo. Io lo so. L’ho visto. Basterà portare pazienza, ma alla fine, inevitabilmente, ne comparirà un altro”.

            Un’ultima occasione. Ecco tutto ciò di cui aveva bisogno. Un’altra possibilità per realizzare il suo disegno. Tale disegno andava contro i precetti del Credo, ma ormai era maturato abbastanza da rendersi conto che il Credo, così come era concepito, non avrebbe mai favorito la causa della pace, e questo perché fondamentalmente esso consentiva di scegliere, di decidere del proprio destino.

            Solo accettando un nuovo destino, uno che non li avesse messi l’uno contro l’altro, gli uomini si sarebbero potuti salvare, e ora stava a lui realizzare questo nuovo, grandioso proposito.

            C’era un’altra cosa di cui era consapevole.

            Così come Hasan-i Sabbah era stato ucciso per aver tradito il Credo, era certo che, in un modo o nell’altro, la stessa sorte sarebbe toccata a lui.

            Ma questo non gli importava, e neppure lo faceva temere eccessivamente per il piano che intendeva realizzare: lui, che si reputava puro e al di sopra della tentazione, aveva visto con i suoi occhi il potere dei manufatti, divenendone consapevolmente vittima, e dentro di sé sapeva più di qualsiasi altra cosa che al mondo non vi era né mai vi sarebbe stato un essere umano capace di resistervi.

            Qualcuno forse lo avrebbe ucciso, ma saggiando il potere dei manufatti ne sarebbe stato a sua volta tentato, garantendo la prosecuzione del suo sogno, e in quel caso la morte non avrebbe potuto di certo fargli paura, perché sarebbe morto con la sicurezza che il mondo da lui sognato un giorno o l’altro avrebbe visto la luce.

            Terminata la propria vestizione uscì all’esterno, sollevando il largo cappuccio della veste nera subito prima di varcare la soglia.

            Il cortile della fortezza era pieno in ogni suo anfratto, e per un attimo tornò con la mente a quel giorno, il giorno in cui tutto era cominciato, il giorno in cui era diventato parte di quella grande famiglia, l’unica forse che avesse mai avuto.

            Ebbe quasi l’impressione di scorgere, tra la folla, l’uomo in nero, che gli rivolgeva quel suo malvagio sorriso: alla fine, nonostante avesse cercato di lottare con tutte le sue forze, quella profezia si era avverata. Era diventato un mostro.

            Sguainata la Spada del Maestro, la alzò al cielo, e subito tutti i presenti chinarono il capo, onorandolo e salutandolo con il suo nuovo nome, il nome con cui da quel momento in poi avrebbe fatto tremare tutti coloro che minacciavano la nascita del suo nuovo mondo.

            «Lode a te, Al Mualim».

 

Cinquanta Anni Dopo

Autunno 1174

 

Quando non era immerso nella lettura dei suoi libri, Al Mualim era solito concedersi lunghe passeggiate tra la gente di Masyaf.

            I suoi dignitari e le persone a lui più vicine gli avevano detto più volte di viaggiare con una scorta, dal momento che persino nei luoghi all’apparenza più sicuri e vicini a sé potevano celarsi pericoli oscuri, soprattutto alla luce di tutto ciò che gli Assassini avevano fatto durante le crociate, e che li aveva resi degli obiettivi sensibili agli occhi di molti potenti, ma il maestro si riteneva ancora comunque un discreto guerriero, e poi era sicuro del fatto che il suo momento non era ancora arrivato.

            Quella mattina, come al solito, stava passeggiando nei pressi del mercato, rivolgendo cordiali saluti a quanti, vedendolo, chinavano rispettosamente il capo, quando di colpo la sua attenzione fu attratta da un gran trambusto venutosi a creare davanti ad alcune bancarelle leggermente discostante, a poca distanza dal portone d’ingresso.

            «Dannato moccioso!» si sentiva gridare «Ti faccio passare io la voglia di rubare!»

            Avvicinatosi, vide tre guardie intente a malmenare un ragazzino riempiendolo di calci; sicuramente un ladruncolo, uno dei tanti che, nonostante la terribile prospettiva del castigo, continuavano ad imperversare in ogni dove, persino a Masyaf, dove qualsiasi atto criminoso, anche il più piccolo, poteva arrivare a costare la vita.

            «Che succede qui?».

            Appena lo videro, le tre guardie cessarono subito il pestaggio, mettendosi sull’attenti.

            «Maestro! Perdonateci se avete dovuto assistere a questo spettacolo increscioso».

            Al Mualim rivolse poi le sue attenzioni alla vittima: doveva avere meno di dieci anni, tanto appariva gracile e minuto sotto quei miseri stracci che indossava, e i segni delle terribili percosse che aveva appena ricevuto erano più che evidenti.

            «Che cosa ha fatto?»

            «Lo abbiamo sorpreso a rubare per la seconda volta in pochi giorni, signore. Abbiamo pensato che una piccola lezione sarebbe servita a togliergli per sempre questo vizio.»

            «E questa me la chiamate una piccola lezione? Ancora un po’ e lo avreste ucciso a forza di botte. Io non perdono i ladri, ma non perdono neppure chi abusa della propria forza, sia chiaro.»

            «Sì, maestro. Perdonateci.»

            «Ora fatemelo vedere».

            Due delle guardie sollevarono di peso il ragazzino, che malgrado tutte le botte che aveva preso sembrava ancora in grado di reggersi in piedi sulle sue gambe, ma appena vide comparire il suo volto Al Mualim sentì un tremendo colpo al cuore, e per poco non svenne.

            Quel volto! Quegli occhi!

            Quello sguardo fiero e sprezzante, quell’espressione audace e insieme composta, vessillo di uno spirito che mai e poi mai, neppure dinnanzi alla prospettiva della morte, si sarebbe lasciato domare.

            E poi la somiglianza.

            Per un attimo gli parve di fare un salto indietro nel tempo, a decine e decine di anni prima, ai tempi del suo addestramento. Anche i maestri più agguerriti e violenti erano rimasti atterriti davanti a quegli occhi, a quello sguardo di sfida, lo stesso sguardo che gli veniva rivolto ogni qualvolta ventilava l’idea di arrendersi, e che in questo modo gli aveva permesso di diventare un Assassino.

            Era come averlo di fronte.

            Al Mualim, dopo tutto ciò che aveva visto, non aveva più avuto voglia di credere nel divino, nell’esistenza di un qualcosa di trascendente che regolava la vita degli uomini, ma in quel momento gli venne quasi da sperare che davvero il ragazzino di fronte a lui fosse davvero la seconda nascita della persona a lui più cara, e che più di ogni altro gli aveva cambiato la vita.

            «Maestro.» disse una delle guardie, richiamandolo così dai propri pensieri «Lo facciamo giustiziare?»

            «No, non sarà necessario. Me ne occuperò io. Potete andare.»

            «Che cosa!? Ma, maestro…»

            «Questo è un ordine.» disse Al Mualim col tono di chi non ammettere repliche

            «S… sì maestro.»

            «E voi tornate al lavoro.» disse poi rivolto alla folla.

            Come tutti si furono allontanati il maestro comprò una mela da una bancarella, insistendo per pagarla, e tornato dal ragazzino, che lo attendeva seduto su una panca, gliela porse. Quello, tuttavia, parve esitare, e lo guardò con i suoi occhi fieri ed impavidi.

            «Immagino che avrai fame. Mangiala. È buona».

            Alla fine il ragazzino, vinto dai brontolii di stomaco, agguantò la mela e prese a divorarla, e intanto Al Mualim non staccava gli occhi da lui, perso com’era a rievocare tanti ricordi, i soli forse di tutta la sua esistenza legati a momenti felici.

            «Come ti chiami?» domandò quando il bambino ebbe finito di mangiare, guadagnandosi una nuova occhiata «Ce l’hai un nome?».

            Quello restò un attimo interdetto, poi fece cenno di no.

            «In questo caso, ce l’ho io un nome per te. Vuoi sentirlo?».

            Questa volta la risposta fu un sì, accompagnata anche da un impercettibile movimento delle labbra.

            «Molto bene. Allora, da ora in poi, il tuo nome sarà… Altair».

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!

E così, siamo giunti alla fine di questa breve avventura.

Mi sono divertito molto a scrivere questa fan fiction, ma visto che al momento sono impegnato su più fronti non sono sicuro di poterne produrre altre in futuro.

Anzi, a dirla tutta, per poter trovare una nuova ispirazione vorrei aspettare di giocare ad Assassin’s Creed II, e per poter fare questo dovrò inevitabilmente aspettare il natale.

Ringrazio quanti abbiano letto e commentato questa storia, e prometto di farmi risentire il prima possibile

A presto!^_^

Carlos Olivera

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