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Soffiava un vento secco e arido sulla piana desertica e
sulle colline circostanti, che portava via inesorabilmente la parvenza di aria
più fresca da poco sopraggiunta con l’arrivo, la sera prima, di un inatteso
acquazzone.
Da qualche
settimana, da quando cioè le condizioni di salute del gran maestro della setta
degli Assassini, erano improvvisamente peggiorate, egli, anche dietro suggerimento del suo allievo prediletto, aveva deciso
di lasciare Masyaf, quartier generale dell’Ordine,
per spostarsi nella più tranquilla e riservata fortezza di Alamut,
situata ad un centinaio di chilometri a nord di Teheran, non troppo lontano
dalle sponde meridionali del Mar Caspio.
L’aria secca e
pulita del deserto iraniano aveva migliorato almeno un po’ la sua lenta agonia,
ma ormai tutti nella fortezza sapevano che al nobile Hasan-i Sabbah, padre
spirituale nonché fondatore dei Nizariti,
non rimaneva molto da vivere.
Dal giorno del suo
arrivo alla fortezza non aveva più presenziato ad una
cerimonia religiosa, e recitava le preghiere del venerdì nelle sue stanze,
circondato dagli intimi, a cui profilava, tossendo e gemendo continuamente, i
suoi ormai leggendari sermoni, tanto possenti e vigorosi da risultare taglienti
anche se pronunciati con tanta fatica.
Affacciato dal
torrione più alto della fortezza, con lo sguardo perso all’immensa pianura che
si stagliava dinnanzi a lui, il giovane Kahled-iKassim si domandava, non
senza un senso di ansia, cosa sarebbe stato di lui dopo la morte del maestro.
Come assassino si
era guadagnato una fama non indifferente, tanto da venire
chiamato Maestro da molti suoi fratelli molto prima di ricevere effettivamente
tale nomina, e malgrado avesse solamente ventidue anni aveva già alle spalle
quasi cento omicidi importanti.
Questo poi senza
tenere conto della grande stima che Hasan-i Sabbah nutriva nei suoi confronti,
ma ogni qualvolta si prefigurava di poterne un giorno prendere
il posto rammentava a sé stesso che c’era qualcun altro, qualcuno di ben più
capace di lui, e questo qualcuno era nientemeno che suo fratello.
Ormai era inutile
farsi delle illusioni: suo fratello, di due anni più vecchio,
era l’unico priore dell’organizzazione, ed era unanimemente riconosciuto come
una leggenda vivente: centocinquanta omicidi, tutti condotti nella più assoluta
discrezione, e mai una volta nessuno che non fosse la vittima lo aveva visto
agire, tanto le sue missioni erano preparate nei minimi dettagli.
A lungo Kahled
aveva cercato di eguagliarlo, ma era chiaro che si trattava di un’impresa
impossibile: agilità, eleganza, perizia con le armi, capacità di previsione,
discrezione; suo fratello era un concentrato di sapere, la summa
dell’assassino, e sicuramente sarebbe stato colui che
avrebbe portato nuovo lustro alla confraternita guidandola verso un periodo
che, a giudicare dal caos che stava iniziando ad imperversare in Terra Santa,
sarebbe stato sicuramente funestato da nuove guerre.
Nati come semplice
congregazione di fanatici religiosi dediti all’omicidio politico, gli Assassini
erano diventati con il tempo una setta di segreti difensori della pace che
uccidendo uomini responsabili di crimini indicibili assicuravano libertà e la
tranquillità al popolo.
Molti erano caduti
per mano loro, governatori di città, dignitari corrotti, mercanti senza
scrupoli, militari spietati, ma la strada per liberare il mondo dalla malvagità
e dalla corruzione era ancora lunga, e fino a quando
ci fosse stato una sola minaccia a gravare sulla gente comune gli Assassini
avrebbero continuato ad esistere.
Kahled e suo
fratello avevano più di un motivo per voler essere partecipi di questa campagna
di purificazione: figli di un illustre dignitario del califfo di Damasco, avevano assistito davanti ai loro occhi
all’uccisione dei genitori dopo che questi avevano portato allo scoperto le
malefatte di un capitano dell’esercito denunciandolo al sovrano, e sarebbero
sicuramente morti anche loro se gli Assassini non fossero intervenuti,
uccidendo gli aggressori e salvando loro la vita.
Da quel momento, quella
stessa vita era stata interamente votata alla setta e ai suoi principi; il
maestro li aveva accolti amorevolmente, facendo di loro i suoi allievi
personali e portando alla luce le abilità latenti di ognuno di loro: se Kahled
si era rivelato un grande spadaccino, suo fratello aveva valorizzato e
sviluppato al massimo la sua incredibile agilità, diventando capace nel giro di
pochi anni di compiere acrobazie al limite delle
possibilità umane.
Hasan-i Sabbah era
un maestro severo, rude, a volte spietato, ma sapeva come ricompensare i suoi
allievi per i loro progressi, e oltre che nell’abilità di uccidere li aveva
istruiti anche nella cultura, insegnando loro le sacre scritture cristiane e
musulmane, il che li rendeva sicuramente i candidati più probabili alla
successione.
Una cosa che
Kahled aveva imparato durante i suoi anni di assassino, e in cui credeva
fermamente, era che la giustizia era un’ideale superiore, e lo stesso pensava
suo fratello, anche se bisogna dire che su questo
argomento avevano schemi di pensiero discordanti.
Kahled era immerso
nei suoi pensieri, quando una voce famigliare lo richiamò.
«Eccoti
finalmente. Ti ho cercato dappertutto».
Era lui, suo
fratello, e anche per chi non li avesse conosciuti
sarebbe stato facile scorgere il legame di sangue che li univa: stessi occhi
neri e penetranti, stessi capelli corvini, più lunghi nel fratello maggiore,
stessa carnagione scura temprata dal sole, e solo una leggera differenza di
altezza.
«Altair.»
«Ero
certo di trovarti qua. Avanti, il maestro vuole vederci.»
«Per quale motivo?»
«Non me l’hanno
detto, ma sospetto si tratti di una missione».
I due fratelli
entrarono dunque nell’edificio principale della fortezza e salirono al secondo
piano, fermandosi davanti ad una porta più appariscente delle altre; bussarono
leggermente, e quasi subito una voce gli disse di entrare.
All’interno della
stanza, disteso sul suo letto, stava il loro maestro, Hasan-i Sabbah, ma
nessuno, vedendolo in quello stato, avrebbe mai pensato che un tempo era stato
il fondatore degli Assassini; alla soglia dei novant’anni, non era nient’altro
che l’ombra di sé stesso, un corpo vecchio e malmesso
in cui la vita continuava a stento ad albergare. Il volto, unica parte del
corpo che emergeva dalle coperte di lino, era scavato orribilmente dalle rughe
e parzialmente nascosto sia dalla lunga barba bianca sia dal copricapo che il maestro indossava per nascondere la calvizie.
Appena entrati, e
facendo finta di non rimanere sconvolti dall’orribile spettacolo che avevano
davanti, i due fratelli chinarono il capo.
«Maestro.»
dissero.
Lui, che
probabilmente gravitava tra il sonno e la veglia, aprì gli occhi, ma dovette
fare ricorso all’aiuto del suo medico per riuscire a mettersi seduto, poggiando
la schiena sui cuscini e guardando i due ragazzi dritti in volto: anche se
vecchio e morente, quell’uomo conservava ancora quello sguardo glaciale che lo
aveva reso così famoso.
«Altair.
Kahled.» disse con voce terribilmente catarrosa e affaticata «Avete fatto
presto.»
«Servirvi è un
onore, maestro.» rispose il maggiore
«In
nome del cielo. Mi sembra solo ieri quando entraste a far parte della nostra
grande famiglia. Ricordo ancora il giorno in cui arrivaste a Masyaf, ormai quasi quindici anni fa. Tu, Altair, tenevi la
mano di tuo fratello, e da allora non l’hai mai lasciata.
Voi due siete
stati sempre uniti, e con il vostro operato avete
portato gloria alla confraternita, contribuendo alla causa della pace. Prima che
io lasci questo mondo, però, ho un ultimo incarico per voi.»
«Comandateci, e
ubbidiremo.»
«Dovete uccidere… Jahal
Alì Falahda.»
«Il califfo di
Baghdad!?» esclamò Kahled non senza stupore
«Sì,
Kahled. E voglio anche che recuperiate il manufatto maledetto di cui è venuto
in possesso, la Parola
di Allah.»
«Non ne ho mai
sentito parlare, maestro.» disse Altair «Di che si tratta?»
«È
il male. Il male nella sua più abbietta forma. Un potere che può spingere
qualsiasi uomo a macchiarsi di crimini terribili per averlo, e ad altri ancor
peggiori una volta venutone in possesso.
Un potere divino,
che trascende l’umana comprensione, e che per questo non deve mai e poi mai
finire nelle mani di un uomo, soprattutto in quelle di un tiranno assetato di
potere.»
«Quand’è così,
maestro, forse sarebbe più prudente distruggerlo.»
«No.
Ti sbagli Altair. L’oggetto in possesso di Alì Falahda
è solo uno dei tanti. Anche se lo distruggessimo, gli altri rimarrebbero,
pronti a scatenare l’inferno in terra.»
«E allora che cosa
si può fare, maestro?» domandò Kahled
«Quei
manufatti maledetti sono tutti collegati. Possederne uno significa possedere la chiave d’accesso anche per tutti gli altri. Per
questo dovete recuperarlo. Quando sarà in nostro possesso, potremo scoprire dove si trovano i suoi simili, così da liberare l’umanità
dalla loro demoniaca presenza.
E poi, Jahal sa
che l’Occhio di Allah non è l’unica fonte di potere di questo mondo, e presto,
molto presto, cercherà di impossessarsi anche degli altri, in modo da soddisfare
la sua ambizione. Deve essere fermato prima che possa farlo, ed è per questo che dovete ucciderlo. Anche se gli toglieste il
suo tesoro, si limiterebbe a cercarne un altro».
La storia che il
maestro raccontava era davvero strana, soprattutto se si pensava che lui aveva tenuto sempre un atteggiamento alquanto scettico in
merito a reliquie ed altri oggetti di natura divina, che egli considerava come
niente più di mere invenzioni umane per dare forza e credibilità alla propria
fede.
Tuttavia, la
convinzione e la forza che albergavano nei suoi occhi lasciavano intendere che
credeva davvero a ciò che stava dicendo, e che le sue parole non potevano per nulla essere attribuite ai vuoti vaneggiamenti di un vecchio
alle soglie della morte.
«Questa
è l’ultima missione che vi affido. Portatela a termine, e vi sarete guadagnati
tutto il mio rispetto.»
«Sarà fatto,
maestro.»
«Ho
già inviato un messaggero a Baghdad per avvertire il Rafik del vostro arrivo. Dovrete
compiere questo incarico in fretta, prima che questo mio vecchio cuore smetta
di battere, e allora diverrete depositari delle mie volontà sul futuro sia
vostro che della confraternita».
Nel sentire quelle
parole Kahled non riuscì a non percepire una sorta di
messaggio di sfida rivolto ad entrambi.
Era una prova!
Una prova per
decidere il futuro capo spirituale dei Nizariti. Sicuramente
il Rafik, a incarico ultimato, avrebbe informato Hasan-i Sabbah del rendimento dei
due fratelli, e quello che si fosse imposto maggiormente avrebbe
preso il posto del maestro alla guida della confraternita.
Di colpo, Kahled
sentì rinascere la speranza, la speranza di poter eguagliare se non superare
suo fratello, malgrado questo non pregiudicasse in alcun modo l’attaccamento e
l’affetto che provava nei suoi confronti; anche lo stesso Hasan-i Sabbah volle
mettere subito le mani in avanti, onde evitare spiacevoli atti di individualismo.
«Che
queste mie parole non vi distolgano dal vostro obiettivo, figli miei. La vostra
forza sta nell’aiuto e nella collaborazione che vi siete sempre offerti l’un l’altro
per portare a termine una missione, e deve essere così anche questa volta.
Non dubitate che
questo sarà l’incarico più difficile e rischioso di tutta la vostra vita. Jahal
ha imparato a controllare quasi alla perfezione i poteri della Parola di Allah,
e li userà su di voi se ne avrà l’opportunità. Fate attenzione, e non date
niente per scontato.»
«Lo faremo, maestro.» rispose Altair «Grazie dei vostri preziosi
consigli.»
«Andate, ora».
Dopo aver fatto un
ultimo inchino i due fratelli lasciarono la stanza,
dirigendosi subito verso le stalle.
«Non sei contento,
Kahled?» domandò Altair mentre sellava il proprio cavallo
«Eh, cosa!?» rispose il ragazzo come cadendo dalle nuvole
«Siamo
diretti a Baghdad. Potrai rivedere Mira. La cosa dovrebbe renderti felice.»
«In
effetti. Anche se ormai sono anni che non ci vediamo. Per quello che ne so,
potrebbe anche aver conosciuto un altro uomo.»
«Io non ne sarei
tanto sicuro.» rispose Altair montando in sella «Deve ancora nascere l’uomo che
riuscirà a domare quella tigre.»
«Grazie, mi sei
davvero di conforto.»
«A parte te,
ovviamente».
Ben presto però l’argomento
girò sulla missione che i due stavano andando a compiere.
«Tu cosa ne pensi
di questa storia della Parola di Allah?» chiese Kahled
«A noi Assassini viene imposto di vedere il mondo per quello che è davvero, e
questa realtà è densa di segreti. Ci sono molte cose in questo mondo che l’uomo
non sa spiegare, o che sceglie di ignorare per paura.»
«Pensi che sia
vero?»
«Il suo sguardo e
il suo terrore erano più eloquenti di qualsiasi parola.
Forse si è lasciato un po’ trasportare, ma il cuore della questione è
sicuramente reale.»
«Sì,
non posso darti torto. Indubbiamente c’è della verità in ciò che ha detto.»
«Dobbiamo
fare attenzione, però. Spesso, troppo spesso, argomenti come questo sollevano più polvere di quanta dovrebbero, e la prima cosa
da fare in questi casi è necessario separare la paglia dal grano.»
«È per questo che
ti ammiro, fratello. Riesci a scorgere la realtà e la
verità dietro ad ogni cosa».
Altair si girò
verso di lui, guardandolo enigmaticamente e con severità.
«Niente
è reale. Tutto è lecito.»
Kahled sorrise.
«Il credo dell’assassino.»
disse, e insieme superarono al galoppo i cancelli della fortezza, scendendo
lungo il sentiero e dirigendosi verso sud-ovest.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Assassin’sCreed è
uno dei videogame che mi hanno maggiormente colpito,
sia per giocabilità e storia in generale sia per i contenuti, e sono in
febbrile attesa di procurarmi entrambi i sequel.
Questa storia, come è facile intuire dalla data, si colloca quasi settant’anni
prima degli eventi narrati nel primo episodio, ma non voglio anticipare nulla
sulla correlazione che dimostrerà di avere con esso.
I capitoli in tutto
saranno 4, escluso questo prologo.
Alla luce del sole, la splendida città circolare
risplendeva come una gemma radiosa.
Unanimemente
riconosciuta come la città più bella d’oriente, era da tempo
dominata dalla dinastia dei Selgiuchidi, ed entro le sue altissime mura
circolari trovavano spazio le più alte forme di cultura che l’umanità avesse
mai visto: storici, filosofi, matematici, geografi insegnavano nelle sue scuole,
contribuendo ad una diffusione del sapere praticamente sconfinata, per non
parlare poi della grande varietà di popoli e culture che la abitavano e che
davano vita ad un culto del sapere che travalicava le barriere della lingua e
della religione, facendosi universale.
Si studiava di
tutto, dal greco alla matematica, dalla geometria all’alchimia, dalla storia
all’emergente geologia, ma si discuteva anche di letteratura, di poesia, di
astronomia e di medicina.
Fuori dalle
scuole, la gente comune viveva un periodo di relativa prosperità, con carri
carichi di ricchezze che quotidianamente arrivavano via terra, attraversando
una delle sei porte d’ingresso, o via fiume, dal Tigri, che nello stesso tempo
offriva in abbondanza pesce di qualità e acqua pura.
Da quasi dieci
anni la città era governata da Jahal Alì Falahda, califfo e uomo di fiducia del
sultano Ahmed Sanjar, con cui aveva anche una lontana
parentela, il che gli aveva permesso sicuramente di scalare rapidamente i
vertici del potere dopo che il precedente sovrano, Mehmed
I, lo aveva ostacolato e osteggiato in tutti i modi a causa di una differente
veduta politica.
«Finalmente siamo
arrivati.» disse Kahled osservando la monumentale porta orientale «È davvero
una bella città.»
«Hai
ragione. Baghdad è da secoli uno dei centri culturali ed economici più
importanti della regione, e il suo fascino è indiscutibile.»
«Risulta quasi difficile pensare che un luogo tanto bello possa
nascondere un’insidia così terribile.»
«Nulla
è mai come appare. Ricordalo sempre. La facciata di una cosa non sempre è
uguale a ciò che si cela al di sotto».
Sentendo parlare
suo fratello in quel modo, Kahled non riuscì a trattenere una risatina.
«Che c’è?» domandò
Altair «Ho detto qualcosa di buffo?»
«Parli
già come il maestro, e a pensarci bene non hai mai fatto altro. Senza dubbio
sei tu la persona più adatta a prendere il suo posto.»
«Non
pensare a queste cose. Per il momento, dobbiamo preoccuparci unicamente di
raggiungere il nostro obiettivo, come abbiamo sempre fatto. La sfida che ci ha
lanciato il maestro non deve in alcun modo distrarci, e sono certo che nei suoi
propositi anche questo facesse parte della prova.
Del resto, un capo
non è niente se non può contare sull’appoggio e sulla collaborazione di chi gli
è più vicino.»
«Sono
perfettamente d’accordo. Sta tranquillo, non ho mai pensato neppure per un
secondo che questo o qualsiasi altra cosa potesse in qualche modo pregiudicare
la stima e il rispetto che ho sempre nutrito nei tuoi confronti.»
«Kahled…».
Il fratello minore
guardò il maggiore con gentilezza e ammirazione.
«Io ti devo molto, Altair. Fin da quando eravamo piccoli
mi hai sempre protetto, e hai continuato a farlo anche dopo che ci siamo uniti
alla confraternita.»
«Ho
promesso ai nostri genitori di proteggerti e vegliare sempre su di te. E poi,
sei mio fratello, ed è nostro dovere proteggerci vicendevolmente le spalle.»
«E io di questo ti sono grato. Abbiamo combattuto insieme e
sofferto insieme, e ogni giorno ringrazio il cielo per avermi fatto dono del
tuo stesso sangue.
Sono onorato e
orgoglioso di stare al tuo fianco, e semmai dovessi un giorno divenire la
nostra guida voglio che tu sappia che continuerò ad appoggiarti e a combattere
per te e con te come ho sempre fatto.»
«Queste
tue parole mi riempiono di gioia. Anche io sono fiero
di averti come fratello.»
«Però,
voglio che tu sappia una cosa. Fin da quando sono diventato un Hasisiyyun, ho promesso a me stesso che avrei fatto
l’impossibile per arrivare ai vertici della confraternita, in modo da poterla
guidare alla conquista di un mondo in cui nessuno, neanche il più misero degli
uomini, sia costretto a subire la sorte toccata a noi in gioventù, e ora che ho
la possibilità di realizzare questo mio sogno farò tutto ciò che è in mio
potere per coglierla.»
«E non dubitare
che io farò altrettanto.» rispose Altair con un sorriso amichevole «Dopotutto anche io, come te, credo fortemente nella giustizia, e in
ciò che i gli Hasisiyyun possono fare per essa.»
«In questo caso.»
disse Kahled porgendogli la mano «Amici come sempre.»
«Come sempre.»
rispose prontamente Altair stringendogliela «Fino alla fine».
L’ingresso era
ovviamente sorvegliato da una decina di guardie che supervisionavano sia i
contenuti dei carri, imponendo ovviamente un obolo d’ingresso, sia i viandanti,
soprattutto quelli che avevano l’aria di forestieri; negli ultimi tempi la
situazione per l’Impero non era molto rosea, e correva voce che il sultano
avesse in programma di condurre una guerra contro i Mongoli, che da un po’ di
tempo pressavano con sempre maggiore insistenza sui confini orientali, pertanto
la sorveglianza nelle grandi città come Baghdad era molto stretta, onde evitare
l’intrusione di spie o, peggio ancora, di sabotatori, ma oltrepassare un ingresso
sorvegliato era cosa da niente per due Assassini come loro.
«Il solito trucchetto?» domandò Kahled
«Ovviamente».
Entrambi, scesi
dai loro cavalli, si mischiarono alla folla che attendeva di entrare,
mettendosi alla ricerca dei soggetti adatti; Altair arrivò per primo, trovando
sulla propria strada un orrendo burbero dalla barba ispida che sicuramente non
stava andando a Baghdad per frequentare una madrasa.
Subito gli sferrò
un destro poderoso, e nello stesso momento suo fratello faceva la stessa cosa con un tipo molto simile pochi metri più in là,
buttandoli entrambi a terra per poi dileguarsi rapidamente; quelli, rialzatisi,
si avventarono sui primi malcapitati che avevano a tiro, e nel giro di un
secondo davanti al portone si scatenò una rissa colossale. Ben presto le
guardie, intervenute per sedare gli animi, vennero a loro volta sopraffatte
dalla calca, e così, approfittando della confusione, i due fratelli riuscirono ad entrare in città senza spargere una sola goccia di
sangue.
«Da qui in poi,
meglio procedere separatamente.» disse Altair «Come le altre volte.»
«Sì,
hai ragione. Insieme daremmo troppo nell’occhio.»
«Ci
incontriamo alla dimora degli assassini. Ti ricordi dove
si trova, vero?»
«Naturalmente.»
«E
se ti è possibile, cerca di evitare i tuoi soliti colpi di testa. A dopo».
Separatisi,
presero direzioni opposte, e come faceva spesso Altair scelse di fare ricorso all’agilità saltando fra i tetti, e tenendo
conto del caratteristico disordine strutturale che caratterizzava le città di
tradizione araba, lontane dalla concezione geometrica e gerarchizzata degli
agglomerati europei, non si trattava neanche di un’operazione troppo difficile,
almeno non per qualcuno con il suo talento e la sua versatilità.
Kahled invece, che
per quanto agile e veloce non poteva certo competere con il fratello sotto questo aspetto, scelse come al solito di muoversi per le
strade, stando bene attento a tenere il volto ben nascosto dal suo cappuccio e
a non guardare nessuno negl’occhi.
Gli piaceva camminare
in mezzo alla gente, assaporare le piccole cose che per la gente comune erano
normali e forse anche tanto monotone e quotidiane da essere ammuffite, ma che
per un assassino come lui, condannato ad una vita
lontano da tutto e da tutti, erano come un prezioso tesoro. Gli odori, i suoni,
le parole, i rumori: era tutto così effimero, ma anche così bello.
Ogni tanto Kahled
sentiva la mancanza di quella vita, della vita a cui
era stato brutalmente strappato a soli otto anni, quando passava le sue giornate
a correre per le vie di Damasco rubacchiando alle bancarelle e tirando le barbe
folte degli imam addormentati o in meditazione fuori dalle moschee per poi
dileguarsi rapidamente nei vicoli della città vecchia.
Immergersi ancora
un po’ in quell’atmosfera gli ricordava che, infondo, era ancora umano, e gli
dava anche un senso di speranza: la semplicità, in fin dei conti, era un bene,
ma purtroppo solo chi come lui l’aveva persa poteva rendersene conto.
Non era pentito di
essere entrato a far parte della confraternita; come Assassino aveva i mezzi
per guidare il mondo verso un futuro migliore, governato dalla pace e dalla
ragione, ma non erano poche le volte in cui, guardandosi attorno, si era
domandato se ne valesse davvero la pena: gli uomini potevano essere vili,
egoisti, lussuriosi, arroganti, malvagi e crudeli, e cercare di portare un
ideale come la pace in un essere vivente capace di manifestare simili emozioni
rischiava di essere qualcosa al di là del possibile.
Tuttavia, ogni
volta che ci pensava, Kahled ripeteva a sé stesso che
in quanto assassino non poteva pretendere di avere il suo sogno servito su un
piatto d’argento, ma che anzi era suo dovere creare le condizioni per far sì
che diventasse realtà.
All’improvviso un
coro di voci e schiamazzi proveniente dal cortiletto
di un’abitazione attirò l’attenzione dei passanti, inclusa la sua, e pochi
minuti dopo un gruppo di uomini e donne uscì all’esterno trascinando fuori di
peso una giovane ragazza di forse sedici anni, se non più giovane, che urlava e
piangeva, supplicando qualcuno di salvarla; i due uomini che la tenevano per le
braccia, e che a giudicare dall’età dovevano essere il padre e il fratello, o
il padre e il marito, la gettarono con violenza inaudita in mezzo alla strada,
e mentre le donne la tempestavano di insulti gli uomini la riempivano di
schiaffi e calci.
La gente faceva
cerchio, e le guardie non muovevano un dito per intervenire; anzi, mentre
alcune tenevano indietro la folla altre rimanevano
semplicemente a guardare, ma era una cosa più che comprensibile, data la
situazione: si trattava sicuramente di un processo di famiglia, e in quei casi
l’autorità non era autorizzata ad intervenire.
Kahled, a fatica,
riuscì a raggiungere la testa del gruppo, e inizialmente cercò di ricordarsi
della promessa fatta a suo fratello di non attirare l’attenzione, ma poi quella
ragazza lo guardò, supplicandolo silenziosamente e gelandogli il sangue: quello
sguardo, il suo sguardo, era lo sguardo di chi cercava
disperatamente una via di fuga, non solo da quella situazione, ma dalla stessa
vita. Era lo sguardo di una colomba che, per quanto desiderasse e bramasse la
libertà, era nata in gabbia, e in gabbia sarebbe
rimasta.
Quando vide gli
uomini raccogliere da terra delle grosse pietre il giovane assassino non ci
vide più, e senza riflettere si distaccò dalla massa.
«Ehi!
Lasciatela stare!» gridò con tono di ordine.
Uno degli uomini,
sicuramente il padre, si girò verso di lui, seguito a breve da tutti i suoi
famigliari.
«Voi non intromettetevi. Questa è una faccenda di famiglia.»
«Perché?
Che cosa ha fatto?»
«È
un’adultera. L’abbiamo sorpresa in atteggiamento intimo con un altro uomo.»
«E questo è un
crimine?»
«Un
crimine imperdonabile. Ha disonorato suo marito e la sua famiglia.»
«Suo
marito? Quale marito? Quello che gli avete scelto voi? Vi arrogate il diritto
di decidere della vita delle vostre figlie, e
pretendete pure che loro si sottomettano passivamente? Il solo fatto che questa
famiglia abbia deciso di dare personalmente la morte ad
un proprio congiunto è un disonore mille volte più grande di quello che
pretendete di attribuire a lei.»
«Come
vi permettete di parlare così? Chi siete per obiettare sulle nostre leggi!?»
«Sono un uomo che
rifiuta leggi tanto stupide e barbariche da legittimare l’omicidio di una
giovane donna la cui unico crimine è stato voler decidere della sua vita.»
«Tu,
bastardo! Hai bestemmiato!».
Il padre a quel
punto, dimenticatosi completamente della figlia, lanciò la pietra che aveva in
mano contro Kahled, ma questi, che pur non avendo
l’agilità del fratello disponeva dei riflessi di un cobra, evitò senza problemi
spostandosi di lato, e allora il vecchio gli si fece incontro sfoderando un
grosso coltello.
Kahled
dapprincipio non mosse un muscolo, neppure quando quell’uomo sollevò la mano
armata per colpire, ma nell’istante in cui il fendente prendeva a tagliare l’aria il giovane si abbassò, evitandolo, e contemporaneamente
si udì uno strano scatto; Kahled avanzò violentemente, portandosi spalla a spalla
con il vecchio, e quasi subito questi sgranò gli occhi, facendosi rigido come
la pietra mentre dalla sua bocca uscivano insieme un rantolo di agonia e uno
schizzò di sangue.
Guardie e passanti
rimasero immobili e atterriti mentre il corpo dell’uomo cadeva inerme
all’indietro con una grossa ferita proprio all’altezza del cuore e la tunica
bianca sporca di sangue, e a quel punto tutti poterono scorgere la lama lunga e
sottile che emergeva dal bracciale sinistro del ragazzo, l’arma di
rappresentanza del suo ordine divenuta tristemente famosa come portatrice di
morte in tutti i più remoti angoli della regione.
«È un Assassino!»
gridò qualcuno, e subito nella strada esplose il panico.
La gente comune
prese a fuggire in tutte le direzioni, i soldati lì presenti invece si
affrettarono a mettere mano alle spade, e Kahled fece subito altrettanto,
dimostrando di voler accettare la sfida.
Malgrado
gli Assassini non avessero mai operato in quel momento né a Baghdad né nelle
zone limitrofe la loro leggendaria abilità sia come sicari sia come spadaccini
era nota ovunque, quindi le guardie erano ben coscienti di ciò che poteva
attenderli, ma confidavano comunque nel loro numero per poter ottenere una
facile vittoria.
Kahled, messosi
subito spalle al muro, fece un rapido conteggio: in tutto dieci tra guardie e
soldati regolari, questi ultimi provvisti, oltre che della veste bianca, anche
di una leggera protezione di cuoio un po’ simile alla sua, ma tutto sommato
niente di ingestibile.
Il primo ad
attaccare fu un soldato, che si fece avanti a spada tratta,
ma Kahled schivò senza problemi e assestò un affondo preciso al torace
che lo uccise sul colpo; altri tre partirono tutti insieme, e questa volta,
piuttosto che limitarsi a contrattaccare, Kahled decise di rispondere a tono, e
allontanato il primo con un calcio dopo aver deviato il suo fendente piantò uno
dei suoi pugnali nella fronte del secondo quindi, sfoderato il coltello, colpì
il terzo con un taglio preciso della gola approfittando di un suo momento di esitazione
per poi infliggere con lo stesso coltello il colpo mortale al primo che,
rialzatosi, aveva attaccato di nuovo, scoprendosi però e lasciando esposta la
vena ascellare, che era stata prontamente recisa.
Dei quattro
superstiti due tentarono un nuovo attacco, ma vennero a loro volta uccisi senza
difficoltà, un terzo invece tentò di darsi alla fuga; Kahled, rinfoderata spada
e coltello, prese una breve rincorsa, e poggiato un piede sulla sommità di un
muretto laterale gli arrivò addosso come un angelo
della morte, buttandolo a terra e piantandogli la lama nascosta nella nuca.
Subito il ragazzo
si concentrò sull’ultimo nemico, aspettandosi di dover inseguire anche lui,
invece, girato lo sguardo, lo trovò intento a proteggersi usando la ragazzina
come scudo e tenendole la scimitarra puntata alla gola; Kahled non osò
intervenire subito, ben conscio che un uomo terrorizzato a tal punto poteva
diventare capace di tutto, ma mentre era ancora intento a trovare una possibile
situazione un nuovo coltello sbucò dal nulla centrando
il sequestratore in piena testa e uccidendolo istantaneamente.
La ragazza, forse
per paura, forse per lo shock, svenne, e subito dopo Altair comparve dal tetto
dell’alto in una strada ormai deserta, e prima ancora di vederlo alzare lo
sguardo Kahled si immaginava già quello che sarebbe
successo.
«Che cosa avevo
detto a proposito dei colpi di testa?» esordì severamente
«Ecco…»
«Quante
volte ti ho detto che devi pensare prima di agire? Non puoi risolvere sempre
tutto con la spada.»
«Ma
fratello, l’avrebbero uccisa. Non potevo restare a guardare senza far niente.»
«Non basta saper
combattere per essere un bravo assassino, ci vuole anche cervello.»
«Ho
agito d’impulso, lo ammetto, ma che altro potevo fare? Un fanatico integralista
non è la persona con cui si possa parlare, e credimi, ci ho provato.»
«La
tua lingua taglia più della spada. Credi che non lo sappia?».
Kahled abbassò lo
sguardo, conscio dell’ennesima stupidaggine commessa; come diceva Altair, non
era nuovo a bravate di quel genere, e a lungo aveva tentato di imporsi un
freno, ma non riusciva a rimanere indifferente a qualsivoglia
tipo di ingiustizia che veniva compiuta dinnanzi ai suoi occhi, e poi toccava
sempre a suo fratello tirarlo fuori dai guai.
«Ora
andiamo via, prima che arrivi qualcuno. Per oggi direi che abbiamo fatto
abbastanza rumore.»
«Aspetta, e cosa
facciamo con lei?» domandò il minore guardando la ragazza «Non possiamo
lasciarla qui, la ucciderebbero sicuramente».
Altair sospirò,
poi tornò sui suoi passi e prese la ragazza tra le braccia per poi scomparire
insieme al fratello in una vietta laterale giusto in
tempo per evitare l’arrivo di altre guardie.
La locale dimora degli assassini sorgeva in una delle zone
più ricche ed esclusive della città ed era abilmente mascherata da ricca casa
signorile, con tanto di servitori e guardie del corpo, tutti segretamente
membri dell’ordine, che facevano abitualmente avanti e indietro dal mercato o
da altri luoghi pubblici per rendere la storia ancora più credibile.
Il suo occupante
era il nobile Samir Al Farah, illustre mercante di
lana, ma all’insaputa di tutti era anche il Rafiq di Baghdad, il solo forse tra
i suoi compagni a poter vantare un’attività di copertura tanto sfarzosa e
lussureggiante.
Gli assassini
accedevano alla villa tramite il cortile interno, e così fecero anche Altair e
suo fratello, pur appesantiti da un fardello così ingombrante, per quanto
grazioso; subito dopo che furono tornati coi piedi per
terra il padrone di casa li raggiunse uscendo da una porta laterale assieme a
due guardie.
A differenza degli
altri Rafiq, Samir non indossava la classica uniforme degli assassini e il
soprabito nero, abbigliamento che avrebbe stonato con il ruolo che la città
intera credeva che ricoprisse, ma al contrario faceva sfoggio di ricce vesti
ricamate, e molti pensavano, non senza ironia, che si vestisse in modo tanto
lussuoso per cercare di mascherare i limiti di un’età non più tanto florida.
Tuttavia, benché
calvo e non certo appariscente, era grande e grosso
come un toro, e non a caso nei tempi in cui era stato un assassino il suo nome
in codice era stato Sansone.
«Alla buon’ora!» esordì andandogli incontro «Io vi aspettavo
tre giorni fa.»
«Scusaci, Rafiq.»
rispose Altair «I predoni ultimamente si sono fatti molto numerosi, e siamo
dovuti venire per strade secondarie.»
«Lei chi è?»
domandò poi il mercante vedendo la ragazza che il maggiore aveva sulle spalle
«Volevano
lapidarla.» disse Kahled «L’abbiamo aiutata.»
«A dire il vero ha
fatto tutto di testa sua, come al solito.»
«Questa
non è una casa di cura. Questa è la dimora degli assassini. E se venissero a
cercarla?»
«Ma
non possiamo mandarla via. La ucciderebbero.»
«Va’ bene, ho capito il discorso. Sì da’ il caso che oggi un
gruppo dei miei servitori debbano tornare a Masyaf. Andrà con loro.»
«Ti
ringrazio. Sapevo di poter contare su di te».
Sistemata anche
quella questione Samir, che aveva visto crescere coi
suoi occhi quei due fratelli, insegnandogli anche alcuni dei suoi segreti nel
periodo di apprendistato che avevano trascorso a Baghdad prima di diventare
assassini a tutti gli effetti, li abbracciò calorosamente, come se fossero
stati i suoi figli.
«È davvero una
gioia rivedervi, ragazzi.»
«Anche per noi è
bello rivederti, Samir.» disse Kahled
«Speravo tanto di
potervi rincontrare, ma purtroppo in qualità di Rafiq
non mi è concesso lasciare Baghdad. E ditemi, come sta il maestro? Si è un po’
ripreso?»
«Purtroppo no.»
rispose Altair «È in declino, e la situazione peggiora di giorno in giorno.»
«Mi
si spezza il cuore, ma infondo era quello che mi aspettavo di sentire. Ho
capito che era una cosa grave quando ho visto che i messaggi non erano scritti
di suo pugno».
Si sparse una
spiacevole atmosfera di ansia e dolore, ma Samir cercò
di riportare subito un soffio di serenità.
«Tuttavia,
questo deve renderci solo più determinati. Sarà l’ultima missione affidataci da
Hasan-i Sabbah, pertanto abbiamo il dovere di compierla al meglio.»
«Hai ragione Rafiq.» rispose Kahled «Non dobbiamo lasciarci
distrarre. Al contrario, dobbiamo dimostrare il meglio di noi stessi.»
«Così mi piaci,
ragazzo.»
«Sai già perché
siamo qui, vero?» chiese Altair
«Sì,
naturalmente. E mi sono già permesso di raccogliere delle informazioni per
aiutarvi nella missione. Abbiamo molto di cui parlare, ma prima sarà meglio
attendere l’arrivo del terzo assassino. Dovrebbe essere qui a minuti.»
«Il terzo
assassino?» ripeté Kahled
«Il
maestro non ve l’ha detto? Non sarete da soli a compiere questa missione. Vi
affiancherà un professionista, qualcuno che da anni gravita attorno a Jahal Alì
Falahda e alla sua corte.»
«E
di chi si tratta? È Yusuf?»
«Non
proprio. Lo scoprirai a tempo debito».
In quella un’ombra
minacciosa sovrastò tutti e tre, e Kahled, alzato lo sguardo, si spostò appena
in tempo per evitare la spada di un altro assassino, che lasciati
perdere Altair e Samir si concentrò unicamente su di lui; malgrado
indossasse l’uniforme degli assassini e nascondesse il volto dietro un bavero,
tanto gli occhi quanto la corporatura resero più che evidente che si trattava
di una donna.
Kahled guardò
Altair, che allargò amichevolmente le braccia senza mostrare alcuna intenzione
di intervenire, quindi sguainò a sua volta la spada, e tra i due fu subito
aperto scontro. La donna era agile e aggraziata, ed
utilizzava uno stile di lotta assolutamente non comune per le regioni del Medio
Oriente, fatto di spostamenti continui, movenze acrobatiche e affondi letali,
per non parlare della sua spada: non una scimitarra o un pesante spadone
europeo, ma una lama lunga e sottile come un foglio di carta; l’impugnatura, di
legno, era decorata finemente come un pregiato arabesco, e aveva alla base una
cordicella arancio tramonto a cui era legata una sfera nera.
Kahled dovette
indietreggiare di parecchi passi, poi però si ritrovò
con la schiena appoggiata al pozzo al centro del giardino, e agilmente vi saltò
sopra giusto all’ultimo secondo, salvandosi ancora una volta sul filo del
rasoio; messosi in piedi salto di nuovo per evitare un fendente orizzontale, e
contemporaneamente saltò alle spalle dell’aggressore che, giratasi, venne
disarmata da un preciso colpo a mano aperta all’altezza del polso.
Prima di potersi
considerare in pericolo però la ragazza allontanò Kahled con un calcio, e
affondate le mani dietro la schiena ne prese fuori due
spade corte legate insieme tra di loro da una lunga corda di seta rossa; Kahled
rispose sfoderando anche il pugnale, e la battaglia riprese più accesa di
prima. Pur risultando molto abile anche con la spada,
divenne subito chiaro che quella coppia di spade erano l’arma favorita dalla
ragazza, che dimostrò ben presto di saperle usare con una maestria incredibile;
tenendo ben stretta la corda che le univa era in grado, fuori dal corpo a
corpo, di renderle ugualmente pericolose, facendo compiere loro lunghe, veloci
o pericolose parabole che arrivavano anche a tre metri da lei o a farle schizzare
fulminee in avanti come la testa avvelenata di un serpente, e quando pensavi di
essertene finalmente liberato te le trovavi nuovamente addosso, pronte a
minacciarti ancora.
Altair e Samir
continuarono a restare impassibili, malgrado il Rafiq
continuasse a supplicare i due contendenti di non distruggergli il giardino, e
alla fine Kahled, superate le difese nemiche, appoggiò la lama del coltello
alla gola della ragazza, ma il suo sorriso soddisfatto si spense alla vista
dello sguardo fiero e sicuro di sé dell’avversaria.
«Non cambi mai,
vero Kahled?» disse, e solo allora il ragazzo si accorse di avere una delle due spade nemiche appoggiata ad un fianco
«E va’ bene, lo ammetto.» mugugnò allontanandosi «Questa volta
hai vinto tu».
La ragazza
rinfoderò le spade e si tolse il copricapo, rivelando un magnifico volto candido
circondato da lunghi capelli neri e arricchito da due occhi piccoli e lunghi,
un piccolo naso aquilino e gentili labbra minute.
Come Assassina si
chiamava Mira, ma il suo vero nome era Yang Li, e veniva dalle fertili pianure
della Cina; figlia di un grande maestro, a soli sette anni era stata catturata
nel corso di una razzia compiuta nel suo villaggio, e venduta come schiava era
passata di padrone in padrone fino ad arrivare, ormai tredicenne, a Samarcanda,
dove, una volta scappata, aveva vissuto i due anni successivi come tanti
bambini di strada. Poco tempo dopo era stata trovata dallo stesso Samir, che
rimasto colpito dall’abilità e dalla tecnica con cui vinceva combattimenti clandestini
contro uomini molto più grandi di lei l’aveva portata
con sé a Baghdad, riuscendo a convincere Hasan-i Sabbah a sorvolare sulle sue
origini e a concedergli di addestrarla.
Lei e i due
fratelli si erano conosciuti durante l’addestramento, nel periodo che Altair e
Kahled avevano trascorso a Baghdad, e fra i tre era nata subito un’intesa molto
forte, in particolare con il fratello minore. Kahled era notoriamente troppo
orgoglioso per accettare una sconfitta in duello
inflittagli da qualcuno che non fosse suo fratello, ma con Mira le cose erano
diverse; lei era speciale, e tra i due vi era un sano sentimento di rivalità
che li spingeva a misurarsi in amichevoli conflitti al fine di migliorarsi
continuamente, ma c’era anche dell’altro, qualcosa che forse due persone di
quel tipo potevano esprimere per l’appunto solo confrontandosi, ma i primi a
non voler scendere nell’argomento erano proprio loro.
Liberatasi dell’ingombrante
copricapo la ragazza andò a recuperare la sua prima
spada, rimasta conficcata nel terreno.
«E
con questa siamo quattro a quattro. Ora ne manca solo una per decidere chi è il
migliore».
«Non sei affatto cambiata, Mira.»
«Neanche
tu, Altair. Sei sempre il solito musone ombroso, tuo fratello invece è sempre
il solito sempliciotto prevedibile».
Kahled rimase
rigido come un sasso, e a differenza delle altre volte non riuscì a trovare la
forza di rispondere a tono alle provocatorie stoccate della sua amica: e
pensare che l’ultima volta che si erano visti le aveva
detto, per scherzo naturalmente, che non sarebbe mai stata in grado di diventare
una ragazza attraente, invece ora era bella da togliere il fiato.
«Allora…» riuscì
solo a dire «Sei tu il terzo assassino assegnato a questa missione!?»
«Indovinato.
Questa volta lavoreremo insieme.
Dovresti sentirti
onorato di avermi come tua partner.»
«Ma sentila, la
presuntuosa!» esclamò Kahled scendendo finalmente coi
piedi per terra «Sei tu che dovresti sentirti onorata di lavorare con noi. Speri
forse di poterci reggere il confronto?»
«Con tuo fratello
forse, con te sicuramente sì.»
«Piccola vipera.»
«Bene.» disse
Samir battendo le mani «Noto con piacere che la cara
vecchia atmosfera di un tempo è rinata tutta in una volta. Mi mancavano questi
battibecchi.
Ora però
preoccupiamoci di cose serie. Venite, parleremo nel mio studio».
Nota dell’Autore
Eccomi di nuovo!^_^
Non sapete quanto sia
felice di aver incontrato una così calorosa approvazione per questa fiction
che, correggendo la precedente affermazione, non sarà composta da 4, ma da sei 6 capitoli, prologo ed epilogo esclusi.
Per quel che riguarda
le domande che mi sono state fatte no, Altair non è lo stesso del gioco, e sì,
i due hanno qualcosa in comune, ma su cosa sia in realtà lo scoprirete solo
alla fine.
Ringrazio le mie due recensitrici, Elika e Saphira, e prometto di aggiornare ancora in breve tempo, ma
avendo l’inizio dei corsi a pendere sulla mia testa non so, da lunedì, quanto
veloce potrò essere.
Fra le sue tante passioni Samir ne nutriva una in
particolare per i testi classici, e nel suo studio, una delle stanze più
lussuose e lussureggianti del palazzo facente parte del complesso dei suoi alloggi al secondo piano, conservava una grande
collezione di opere messa insieme in anni e anni di lunghe ricerche, da Omero a
Seneca, da Apollodoro a Giulio Cesare, da Ovidio a
Ippocrate.
Il contenuto di
alcuni di quei testi avrebbe potuto procurargli non poche grane con le somme
autorità religiose, ma lui stava abbastanza in alto da potersi sentire relativamente al sicuro, e se poi qualcosa non andava per il
verso giusto si poteva sempre nascondere il materiale più pericoloso nel vano
segreto delle cantine.
«Il tempo massimo
per portare a termine questo lavoro è di cinque giorni.» disse Samir sedendosi
alla sua scrivania «È chiaro che Hasan-i Sabbah vuole che questo incarico sia
portato a termine prima della sua dipartita.»
«Da dove dobbiamo
cominciare?» domandò Altair mentre, per la persona raffinata che in realtà era,
assaporava un po’ dell’ottimo tè che una servitrice gli aveva offerto
«Jahal è una
persona estremamente prudente.» disse Mira «Sono già
due anni che gravito attorno a lui spacciandomi per una sua servitrice.
Non resta mai da
solo, ed è seguito in ogni suo spostamento da un esercito di guardie
pesantemente armate, questo ovviamente senza tenere conto della sua grande e
indiscutibile abilità come spadaccino.»
«Tu una servitrice!?» replicò ironicamente Kahled «Mi risulta difficile
crederlo.»
«Cancella quel
sorrisetto, o lo faccio io con un pugno.»
«Non cominciate
voi due.» disse il fratello maggiore «Deve pur avere
un punto debole. Non può essere guardato a vista ventiquattro ore al giorno.»
«No
di certo. Se è per questo, ho già trovato il momento giusto in cui colpire.
Dovete sapere che
Jahal soffre di una particolare malattia allo stomaco che lo costringe a
prendere una tisana a base di erbe e aromi ogni sei ore.»
«Sarebbe facile
avvelenarla.» disse Kahled
«Non
così facile. Prima che gli venga servita una delle sue
guardie che soffre dello stesso male la beve sempre per primo.»
«Lo
immaginavo. E poi, siamo Assassini. Un metodo codardo come il veleno non fa
parte del nostro modo di agire.»
«Infatti. Comunque, dovendo prenderla ogni sei ore, Jahal la
beve anche alle tre del mattino. Lui proibisce ai soldati di entrare nei suoi
alloggi durante la notte, e solo la servitrice che porta la medicina ha il
permesso di andare a svegliarlo.
Tale incarico di
solito spetta sempre alla medesima persona, ma non sarebbe un problema
sostituirmi a lei. Le guardie mi conoscono, e non sospettano di me. Mi
lascerebbero passare senza discussioni.»
«Ora sappiamo come
occuparci di Jahal.» disse Altair «Ma come facciamo per il tesoro?»
«A tal proposito,
Rafiq, tu cosa sai di questa Parola di Allah?»
«Non
molto. Gira voce che si tratti di un tesoro dal valore inestimabile, dotato di incredibili poteri, ma nessuno sa con precisione di cosa
si tratti o che forma abbia.»
«Tu Mira, puoi
dirci qualcosa?» chiese Kahled
«Purtroppo
no. In questi anni mi sono avvicinata molto a lui. Credo che mi consideri una
delle sue favorite, ma ogni volta che cercavo di scivolare sull’argomento lui si faceva evasivo.
Di certo c’è solo
che non è qualcosa che porta addosso, come un pendente o un anello, e non si
trova neppure nelle sue stanze. Ho controllato attentamente più e più volte, ma
non ho trovato né segni sospetti né qualche traccia di nascondigli segreti.»
«Allora è come
cercare un ago in un pagliaio.» disse Altair
«Forse
no. C’è un posto in cui potrebbe trovarsi.»
«E dove?»
«Nel
museo. Si trova in un’ala isolata del palazzo, dall’altra parte del cortile
orientale, in una piccola costruzione al termine di un corridoio di mura lungo
una trentina di metri. Nessuno può entrarci a parte lo stesso Jahal e l’unico
ingresso è sorvegliato giorno e notte, perciò non sono stata mai in grado di
dare un’occhiata, ma se è difeso così bene deve
esserci per forza qualcosa di grande valore lì dentro, a parte i soliti reperti
storici di cui questa città è ovviamente piena.»
«La
cosa sembra sensata, ma bisogna esserne sicuri. Se l’ipotesi dovesse rivelarsi
errata, avremmo perso la nostra unica occasione per mettere le mani sul tesoro.»
«È per questo che io mi sono attivato.» disse Samir «E ho già
pronti due informatori. Te ne occuperai tu, Altair.»
«Di chi stiamo parlando?»
«Il
primo è una guardia del palazzo. Ogni giorno passa le sue ore libere in una
birreria clandestina a nord della città. Diventa molto loquace con qualche
bicchiere in più, ma non ucciderlo. Bisogna evitare di sollevare sospetti.»
«E l’altro?»
«Un
vecchio insegnante della madrasa di Al Narsuf. Ha catalogato molti dei reperti storici conservati
nel museo, e potrebbe avere ottime informazioni. Lui invece sarebbe meglio metterlo a tacere, visto che ha la tendenza a vendersi per
molto poco.»
«Sarà
fatto. Mi occuperò di entrambi oggi stesso.»
«Molto bene.»
«Aspettate.» disse
Mira «C’è un’altra cosa di cui dobbiamo tenere conto.»
«E sarebbe?»
domandò Kahled
«Jahal ha una
guardia del corpo, e posso assicurarvi che liberarcene non sarà facile.»
«Come si chiama?»
«Non lo so.»
«Non lo sai!?»
«Se
proprio vuoi saperlo, non conosco neppure il suo volto. E non solo io, nessuno
nella cerchia di Jahal lo ha mai visto. Lo chiamano
l’Ombra, e non è un caso. Non riesco a capire come faccia, ma riesce a difendere il suo signore senza mai farsi vedere. Ad oggi molti spiantati e ribelli che hanno tentato di
uccidere il califfo sono stati eliminati per mano sua.»
«Potrebbe essere un nostro fratello.» ipotizzò Altair «Un Assassino che ha
deciso di tradire.»
«L’ho pensato anche io all’inizio, ma ho capito presto che non può essere
così. Usa una tecnica diversa dalla nostra, molto più letale e pericolosa.
Inoltre…»
«Inoltre?»
«Mi è capitato di assistere ad
una delle sue azioni per difendere Jahal, e quando la situazione si è
acquietata sono riuscita a recuperare una delle armi che usa abitualmente».
Mira mise la mano
in una manica della veste e ne prese fuori una curiosa stella di metallo con
quattro affilatissime punte con un buco al centro.
«Mai visto niente
del genere.» disse Kahled
«Funziona come i
nostri pugnali, ma è estremamente più precisa, e può
lanciarne una vera selva in rapida successione.»
«Rafiq, tu ne sai
qualcosa?»
«Mi dispiace
ragazzo, è una novità anche per me.»
«Ho
sentito parlare di quest’arma quando ero nel mio paese. Viene
usata dalle spie di un’isola ad oriente.»
«Quindi questa Ombra» disse Altair «Viene dalle tue stesse terre.»
«È molto probabile,
e se è così bisognerà fare molta attenzione. La fama
di questi invisibili assassini dell’oscurità è tale da averli trasformati in
una leggenda. Sono solo pochi anni che esistono, ma già tutti li temono.»
«A tempo debito ci
occuperemo anche di questo.» rispose Samir facendosi di colpo molto più serio e
accigliato «Tuttavia, prima di preoccuparci seriamente dell’uccisione di Jahal
e del recupero del tesoro, c’è qualcos’altro su cui è necessario rivolgere la
nostra attenzione.»
«Che è successo?»
domandò Kahled non senza preoccupazione
«Mentre
eravate in viaggio per arrivare a Baghdad è arrivato un altro messaggio da
parte di Hasan-i Sabbah.
Fratelli miei…
siamo stati traditi.»
«Che cosa!?» esclamò Mira «Qualcuno ci ha traditi?»
«Si chiama Risham, e fino a poco tempo fa era una delle mie migliori
spie, ma improvvisamente, due settimane fa, è passato dalla parte di Jahal, e
ha cominciato a svelare alcuni dei segreti che circondano il nostro ordine.»
«Maledetto.» disse
Altair stringendo il bicchiere fino a frantumarlo «Fra tutti i peccati di cui
si può macchiare un Assassino, il tradimento è di sicuro il più deprecabile.»
«Fortunatamente
per noi era poco più che un novizio, pertanto non è a conoscenza di cose come
la mia identità o la locazione di questa dimora, ma con le sue rivelazioni
potrebbe minare seriamente la nostra rete d’informazione qui a Baghdad.
Deve essere
fermato prima che provochi altri problemi. Ho inviato un messaggio ad Hasan-i Sabbah per spiegargli la situazione, e lui ha già
autorizzato la missione.»
«Dove si trova ora
questo Risham?» domandò Kahled
«Nella
prigione di Nargun, a ovest. Un luogo praticamente inespugnabile, ma stando ai miei contatti pare
abbiano in mente di spostarlo proprio stanotte.»
«Per quale motivo?»
«Molto
probabilmente sanno che tenteremo di metterlo a tacere.
Lo imbarcheranno al molo vicino al suk al Marsak, e
se riescono a farlo uscire dalla città lo avremo perso
per sempre. Bisogna agire subito, e ve ne occuperete voi due.»
«Noi!?» esclamarono insieme Mira e Kahled
«Sarà
sicuramente scortato, e vi saranno soldati anche a bordo della barca. Meglio
essere almeno in due, per darsi vicendevolmente le spalle, anche se
conoscendovi credo non sarà niente di ingestibile.»
«Perché mai dovrei
fare da balia a questo ragazzino!?»
«Guarda che questo
dovrei dirlo io!»
«Smettetela!
Tutti e due! Lo farete perché questo è un ordine del
vostro diretto superiore qui presente, mi sono spiegato?»
«Sì, d’accordo.»
risposero mestamente i due
«Perfetto.
Altair, tu mettiti subito al lavoro per trovare le informazioni. Quanto a voi
due, riposatevi. Entrerete in azione dopo il tramonto».
Altair, da impeccabile Assassino qual’era,
portò a termine il suo incarico in sole tre ore, facendo ritorno alla dimora
sul fare del tramonto, giusto in tempo sedere con suo fratello e prendere parte
alla cena rituale che precedeva l’inizio di una missione.
Il codice d’onore
degli Hasisiyyun prevedeva che subito prima di
intraprendere un omicidio gli Assassini consumassero
una cena di un certo prestigio, più sostanziosa rispetto a quella che toccava
solitamente loro; era una sorta di ultimo piacere, un modo per affrontare una
eventuale morte senza rimpianti, e con la consapevolezza di aver goduto almeno
una volta le gioie che la vita poteva offrire.
Grazie alla
gentile donazione di Samir quella cena risultò
particolarmente abbondante e variegata: pesce di fiume, carne di pecora cotta
alla brace, riso a volontà insaporito con spezie raffinate, pane arabo, frutta
fresca, datteri secchi e noci; essendo alquanto scettico sulla natura degli dèi
e deprecando la maggior parte delle tradizioni islamiche, nonché lo stesso
codice di vita che regolava la vita dei musulmani Altair non disdegnava neanche
i piaceri del vino, mentre Kahled, che condivideva solo la linea di pensiero su
legge e morale, preferiva tenersene comunque lontano, sia perché bere non gli
piaceva sia perché, come aveva già sperimentato una volta, non reggeva per
niente l’alcol.
Mira mangiava da
sola, in un’altra stanza del palazzo, dal momento che
il codice comportamentale dei Nizariti vietava ad un
uomo e una donna non imparentati tra di loro di sedere allo stesso tavolo.
Tra i due fratelli
regnava il silenzio, un silenzio enigmatico e diverso
da quello che precedeva solitamente una missione; era come se entrambi stessero
deliberatamente evitando di parlare per non correre il rischio di dire cose
spiacevoli, o per non far nascere una conversazione che nessuno sapeva dove
sarebbe sfociata.
D’un tratto però
la ragazza che avevano salvato quella mattina portò
loro dell’altro vino, e il ringraziamento che rivolse con molto rispetto e
innocenza fu la molla che fece scattare il discorso.
«Se non fossimo
intervenuti» disse Kahled «Quella povera ragazza sarebbe sicuramente morta.»
«Forse, ma questo
non toglie che il tuo gesto avrebbe potuto costarti
caro, e compromettere seriamente la nostra missione. Ho sentito i discorsi
della gente, oggi, mentre camminavo per la città, e già si parla di noi. Se
quelle voci dovessero giungere all’orecchio del califfo, ci troveremmo a dover
affrontare problemi estremamente seri.»
«Ma
cosa dovevo fare? Lasciarla lì in mezzo alla strada e restare a guardare mentre
la uccidevano?»
«Non
critico il fine, Kahled, ma i mezzi.
Te l’ho già detto,
non puoi risolvere sempre tutto a spada tratta. Certe situazioni richiedono
giudizio, coscienza e lucidità. Semmai un giorno dovessi diventare maestro
degli Assassini dovrai affrontare decisioni difficili,
in cui la strategia e la capacità di analisi risulteranno decisive.
In
quanto Maestro sei responsabile della sorte di tutti i membri
dell’ordine, e se dovessi sbagliare qualcosa saranno altri a pagare per i tuoi
errori.»
«Io… io non ci
avevo mai pensato.»
«Se sarai Maestro avrai nelle tue mani tutta la confraternita.
Chiederai ai tuoi discepoli di combattere, di rischiare la vita, e a volte
anche di morire, e dovrai essere forte nello spirito per
poter sopportare un simile peso.»
«Hai ragione, fratello. Fino ad ora ho sempre pensato che
bastasse essere un bravo guerriero per poter essere un
Assassino, ma ora mi rendo conto che la mano non è niente se non vi sono un
cuore e una mente forti che la guidano.»
«Questo si chiama
parlare.»
«Tuttavia» disse
Kahled mentre guardava il pezzo di pane che aveva in mano «Non riesco ad
accettare quello che ho visto, e anche dopo aver sentito queste tue parole credo che trovandomi lì avrei agito allo stesso
modo.»
«Purtroppo, questo
fa parte della tua natura.» rispose Altair sorseggiando un po’ di vino «Il tuo
senso di giustizia è ammirevole, dopotutto.»
«Perché,
fratello? Perché dio permette che una donna sia picchiata e uccisa solo per
aver cercato di riscattare la sua libertà? Perché permette che uomini
massacrino altri uomini nel suo nome?»
«Non incolpare dio
per la stupidità degli uomini. Lui non ha nessuna colpa.»
«Credevo che non
avessi fede negli dèi, fratello.»
«Non
ho fede in ciò che gli uomini dicono di essi. Se tutto ciò che ci viene detto sul loro conto fosse vero, gli dèi favorirebbero
cose come crociate, guerre sante, discriminazione, odio interculturale, rifiuto
del diverso, e onestamente, di un dio del genere, io non saprei che farmene.»
«Fratello…»
«La
divinità è qualcosa di superiore, di trascendente. Sono stati gli uomini ad
asservire il suo messaggio ai loro egoistici desideri, e questo è il peggiore
sbaglio che la nostra specie abbia mai fatto.
Il solo modo per
porre fine a questo scempio è squarciare il velo dell’ignoranza, mostrando
all’umanità la verità per quello che è, senza interpretazioni o bugie. Ed è
anche per questo che dobbiamo lottare noi Assassini.»
«Le
tue parole sono cariche di saggezza, fratello.
Sono d’accordo con
te. Una volta che gli uomini avranno visto la verità come l’abbiamo vista noi i mali del mondo saranno finalmente superati, e avrà
inizio per noi tutti un’epoca nuova, di pace e giustizia.
E voglio essere
partecipe di un così grande disegno. Lo voglio con tutto me stesso».
Dopo poco Samir si
presentò nella stanza.
«È ora».
Dopo una certa ora della notte Baghdad veniva
avvolta da un silenzio surreale, e le uniche luci ad illuminarla erano quelle
delle lanterne portate a mano dalle pattuglie armate che giravano per le strade
per garantire la tranquillità e prevenire atti di furto.
Silenziose e
discrete, due ombre percorrevano velocemente i tetti della città vecchia,
arrivando infine nei pressi del molo a sud del vecchio suk Al Marsak, proprio sulla sommità dell’ultimo edificio, un
grande palazzo signorile che dava direttamente sull’argine.
Lungo il corso del
fiume si potevano scorgere in lontananza molte barche di pescatori uscite per
le battute notturne, ma la maggior parte di esse erano
all’angola sui pontili.
«Ecco, il posto è
questo.» disse Kahled guardandosi attorno
«Se l’informazione
era corretta, dovrebbero arrivare da un momento all’altro».
E infatti, dieci minuti dopo, da un vicolo laterale
comparvero dodici soldati regolari che scortavano un Assassino legato per i
polsi e con il volto solo parzialmente nascosto dal suo copricapo.
I soldati che lo
sorvegliavano aspettarono a lungo prima di imboccare la strada larga e
acciottolata che costeggiava il molo, sicuramente per accertarsi che non vi
fossero occhi e coltelli indesiderati ad attendere il loro arrivo.
«Deve essere lui.»
disse Mira
«Quelli
hanno l’aria di essere professionisti. Meglio agire con discrezione.»
«Che cosa!? Dov’è finita la tuo grandioso
approccio di “chi attacca per primo attacca due volte”!?»
«Mai pensato in
questi termini.»
«Sì, come no.»
«Ora
basta discutere, pensiamo all’incarico. In Rafiq vuole sapere perché ha
tradito, perciò dobbiamo occuparci anzitutto dei soldati, per
poter parlare con lui in tutta calma.»
«Non sarà facile.»
«Credo
di avere un’idea. Se vuoi ascoltarmi.»
«Sono tutta orecchi. Sentiamo».
Kahled spiegò
velocemente il suo piano, e subito Mira storse il naso disgustata.
«Non
ci pensare neanche! Posso fingermi una odalisca
obbediente, ma questo no!»
«Samir mi ha
assegnato il comando della missione, quindi a cuccia e ubbidire.» replicò
Kahled con un tono di sarcasmo e uno sguardo di chi non ammette repliche
«Questa me la
paghi, garantito.»
«Forse, ma intanto
limitati ad ubbidire».
Di nuovo Mira
mostrò palesemente il proprio risentimento, ma poi fu costretta a trangugiare il
boccone amaro e saltò su di un tetto attiguo mentre Kahled sorrideva divertito.
Poco dopo una
barca in legno di una certa dimensione, atta a
trasportare agilmente un equipaggio di venti o più uomini, si accostò al
pontile principale, e un marinaio fece cenno ai soldati di venire avanti
sollevando due volte la lanterna che teneva in mano.
Quelli fecero per
ubbidire, ma d’un tratto la loro attenzione fu attirata da uno strano rumore, come
un fischio a intermittenza; era un codice, un codice segreto in uso presso la
guardia cittadina di Baghdad che veniva usato dai
messaggeri che recavano dispaccio di grande importanza ma che, per una ragione
o per l’altra, non potevano esporsi.
«Che sarà
successo?» domandò il capo della pattuglia, riconoscibile dall’elmo a punta e
dalla cresta formata da quattro strisce di cuoio nero «Tu, vai a vedere cosa
vogliono.»
«Sissignore».
Il soldato
incaricato del compito lasciò il gruppo e si diresse verso la stradina da cui
era sopraggiunto il fischio, scomparendo nell’oscurità, ma dopo più di due
minuti di lui non si vedeva traccia.
«Ma che accidenti
sta combinando quell’idiota!?» mugugnò l’ufficiale
battendo nervosamente il piede sul legno «Andate a dargli una sveltita».
Altri due uomini,
questa volta armi alla mano, entrarono nella stradina, e fatti pochi metri si imbatterono nel cadavere del loro compagno, riverso sul
torace con la gola trafitta; quello che lo aveva trovato fece per avvertire il
suo compagno, che a causa del buio non aveva visto niente, ma un’ombra
minacciosa comparve dal nulla in mezzo tra i due e tappatagli la bocca lo
uccise piantandogli la lama nella schiena; il superstite fu raggiunto subito
dopo aver tentato la fuga, ma l’assassino questa volta non riuscì a tacitarlo
in tempo per evitargli di lanciare un urlo di terrore, urlo che fu sentito dai
soldati in attesa, e contemporaneamente la lanterna tenuta dal marinaio si
spense cadendo nel fiume.
«Ma cosa…» esclamò il solito ufficiale «Formazione difensiva!».
Lui e gli altri
sguainarono le spade e formarono un muro attorno al prigioniero per poi
prendere a camminare a passo piuttosto spedito verso la barca, facendo sempre
molta attenzione al minimo movimento che avveniva tutto intorno a loro; regnava
un silenzio spaventoso, e si aveva la sensazione che tutto potesse accadere.
All’improvviso, un
pugnale schizzò fuori da una scanalatura piuttosto pronunciata tra le assi del
pontile, trafiggendo al mento uno dei soldati e lasciandolo a terra morto.
«Che diavolo…».
Altri tre pugnali
seguirono in rapida successione, uccidendo un altro uomo e ferendone due in
modo invalidante, uno alla mano e uno ai testicoli.
«Dannazione,
muovetevi!».
I cinque
superstiti, abbandonato ogni schema prestabilito, cominciarono a correre pieni
di terrore, e quando Kahled si palesò sul pontile quattro di essi
restarono per tenergli testa, anche se, terrorizzati com’erano, dovettero
essere costretti a farlo sotto minaccia di esecuzione dal loro comandante che,
unico rimasto, si diresse velocissimo alla barca tenendo la spada in una mano e
la collottola del prigioniero nell’altra.
Sguainati insieme
spada e pugnale Kahled si occupò dei soldati, spaventati a tal punto che le
loro movenze erano altamente prevedibili; mentre il
giovane Assassino teneva loro agilmente testa l’ufficiale raggiungeva
finalmente la barca, gettandovi letteralmente dentro il prigioniero, ma una
volta a bordo si accorse, con suo grande sconcerto, che tutti i marinai in
grado di manovrarla erano immobili.
Infuriato e fuori
di sé si mise portò sul parapetto dalla parte opposta
dell’imbarcazione e si girò verso Kahled, che sbarazzatosi degli ultimi
ostacoli lo osservava stando a distanza.
«Fatti
avanti, bastardo! Sono qui che ti aspetto!».
Di colpo però l’uomo
sentì uno strano rumore alle proprie spalle, ma non fece neanche in tempo a
girarsi che una lama lo trafisse alla schiena per poi trascinarlo in acqua
prima che avesse il tempo di urlare.
Risham, che si era messo in ginocchio per tentare di
rialzarsi, osservò attonito la sua ultima linea difensiva scomparire tra i
flutti, e quando tornò a concentrarsi sul pontile vide Kahled saltargli addosso
con la lama nascosta già sguainata.
Buttatolo a terra,
lo trafisse allo stomaco, un colpo non gravissimo ma che lasciava poche speranza di vita a lungo termine; nello stesso momento
Mira, fradicia e coperta del fango su cui aveva camminato passando sotto il
pontile, salì a bordo a sua volta, inginocchiandosi assieme al compagno davanti
al corpo di Risham, al quale venne tolto il copricapo
per permettergli di respirare meglio.
I suoi occhi erano
strani: sembrava esservi a malapena un barlume di vita, e più passavano i
secondi più questa scintilla, invece che spegnersi, pareva acquistare vigore,
come se la morte, invece che spegnerla, le avesse anzi permesso di tornare a
bruciare.
«La tua fuga è
finita.» disse Kahled sorreggendogli la testa
«Mi…
mi dispiace. Mi dispiace… per ciò che ho fatto.»
«Perché?» domandò
Mira «Perché ci hai traditi?»
«Io…
io non volevo farlo. Lo giuro. Ma poi, ho incontrato
lui… credevo che mentisse. Che fosse un esaltato.»
«Di che stai
parlando?» chiese Kahled «Chi hai incontrato?»
«Lui…
non è un uomo. Ciò che fa… ciò che riesce a fare… non è umano.»
«Stai
parlando di Jahal? O forse di quel tipo che chiamano l’Ombra?»
«Lui…
può vedere tutto. Può sapere tutto… il suo sguardo… ti penetra nelle carni… e
ti mette a nudo. E poi… poi usa ciò che ha visto per
dominarti.
Tutti
i tuoi ricordi… tutte le tue paure… tutte le tue emozioni… rivoltate contro di
te… e usate per dominarti. Non si può sfuggire al suo controllo.
Ho cercato di
oppormi, di combattere… ma ho fallito. E quello era solo un assaggio… il suo
potere… è ancora più grande… e ancora più spaventoso. Io…
l’ho veduto».
Kahled e Mira avevano
già ascoltato altre confessioni in punto di morte da parte delle loro vittime;
molte di loro chiedevano scusa, altre difendevano il proprio operato,
altre ancora cercavano biecamente di giustificarsi, e sulle prime entrambi
pensarono che anche Risham stesse infondo facendo la
stessa cosa; tuttavia, man mano che ascoltavano le sue ultime parole, il suo
sguardo non smetteva di colpirli: non sembrava esservi né falsità né ipocrisia
nelle sue parole, e le lacrime che stavano cominciando a solcargli le guance
parevano sincere.
«Fratello… stai
dicendo sul serio!?»
«Non…
non guardatelo mai. Non guardate quel suo oggetto diabolico… basta uno sguardo…
e siete suoi. E a quel punto… solo la morte potrà liberarvi. Proprio… come sta
succedendo… con me.
Ero cosciente di
ciò che facevo… sapevo di stare tradendo i miei fratelli… ma non potevo
oppormi. Ve lo giuro, ci ho provato… ma non potevo. Era come… essere
incatenato.
Ma
ora, grazie a voi… finalmente… sono libero».
Risham tossì violentemente, e la sua carnagione cominciò a
farsi molto pallida, segno che non gli restava molto da vivere.
Quali che fossero
i crimini e le colpe delle loro vittime gli Assassini
avevano l’obbligo morale di ridurre al minimo la loro agonia e di rispettarne
il corpo dopo la morte, quindi Kahled, recuperato il sangue freddo si preparò a
vibrare il colpo di grazia.
«Grazie…» disse
sorridendo Risham
«La pace sia con
te, fratello».
Un solo colpo,
alla gola, come accadeva sempre, e la vita del traditore fu spezzata
definitivamente; Mira, che aveva preso a sorreggergli la testa, la lasciò
cadere dolcemente sul legno della barca, e Kahled gli chiuse delicatamente gli
occhi, intingendo la piuma nel sangue che sgorgava dalla ferita sul collo, a testimonianza
indiscutibile che l’incarico era stato portato a termine.
I due assassini si
guardarono, senza sapere cosa pensare, ma non potevano sapere che nello stesso
momento qualcun’altro stava guardando loro, appostato
silenziosamente sul minareto di una moschea poco distante.
Vestiva interamente di nero, un’uniforme non
tanto diversa da quella degli assassini, sormontata da gambali e da un paio di
guanti e provvista di un bavero che copriva buona parte del suo volto lasciando
però scoperti i capelli, di un nero spento, tendente quasi al grigio, benché i
suoi lineamenti testimoniassero che si trattava di una persona piuttosto
giovane; dietro la schiena una spada, e assicurate
alla cintura una selva di stellette di metallo, oltre ad un certo numero di
pugnali lunghi e stretti provvisti di un anello all’estremità.
Il suo equilibrio
aveva del prodigioso, tanto da riuscire a mantenersi in piedi sulla sommità
acuminata del minareto, dritto come una statua e a braccia conserte.
I capelli e la
fascia legata attorno alla fronte ondeggiavano al vento come le onde del mare, e
dal suo sguardo traspariva tutta la sicurezza e l’autocontrollo
di uno spirito abituato a fendere e sfidare le leggi di natura e la natura
stessa piuttosto che a sottomettervisi, in un modo
non dissimile agli Hasisiyyun.
Rivolta un’ultima
occhiata a Kahled e Mira, che ancora seguitavano ad
osservare il corpo senza vita del loro vecchio compagno con la testa piena di
domande, scomparve magicamente nel nulla inghiottito dal buio.
Nota dell’Autore
Eccomi nuovamente!^_^
Questo capitolo si è
fatto un po’ desiderare, ma dovendo occuparmi sia di questa fan fiction, sia
dell’imminente ripresa dei corsi, sia del romanzo che
sto faticosamente cercando di scrivere (è appena cominciato e ci sto lavorando
da due mesi, fate un po’ voi) il tempo non mi basta mai.
Da lunedì poi andrà
anche peggio, visto che praticamente tutti i giorni
uscirò di casa alle sette per tornare alle sette (tranne un paio di giorni in
cui tornerò alle sei), ma cercherò comunque di proseguire, anche perché ormai
questa fiction mi ha preso troppo.
Ringrazio i miei
recensori, Elika, Saphira e
SuxFans.
Quando Kahled e Mira avevano riferito ad Altair e Samir le
ultime parole pronunciate dal traditore Risham, una
cupa atmosfera di angoscia e preoccupazione aveva preso ad aleggiare sulla
stanza.
Ci si interrogava silenziosamente, con gli sguardi, e nessuno
sapeva cosa pensare, ma se davvero le azioni di Risham
erano state condizionate unicamente dai poteri malefici del frutto di Allah la
sua uccisione avrebbe avuto pesanti conseguenze su tutti coloro che avevano
avuto un ruolo nella vicenda.
La prima
regola del Credo parlava chiaro, Trattenere
la lama dalla carne degli innocenti, e tradire uno dei precetti che
regolavano la vita dei membri dell’ordine poteva
costare molto caro, sia in termini pratici, con una gradazione più o meno
pesante, che spirituali, perché si era costretti a vivere con la consapevolezza
di aver tolto la vita ad un innocente.
«Forse
stava solo cercando di giustificarsi.» disse ad un
certo punto Samir, quasi a voler mitigare i sensi di colpa che dominavano gli
sguardi atterriti di Mira e Kahled «Dopotutto, aveva commesso il crimine più
grave di cui si possa macchiare un assassino.»
«No
Rafiq, non è così.» rispose Kahled «Lo abbiamo
guardato negli occhi, mentre pronunciava queste parole. Non stava mentendo.»
«È ciò
che avete veduto?» domandò Altair
«Senza ombra di dubbio.» disse Mira «Stava dicendo la
verità.»
«Se è
davvero come dite» disse Samir «I poteri del Frutto di
Allah sono davvero qualcosa di spaventoso.»
«Dominare
la volontà delle persone e obbligarle a servirti.» disse Altair come tra sé
«Non oso pensare a cosa potrebbe fare un simile strumento se finisse nelle mani
sbagliate.»
«Si trova
già nelle mani sbagliate.» intervenne Kahled «E noi dobbiamo assolutamente
strapparglielo.»
«Risham diceva che agisce facendo leva sulle paure e sui
ricordi di chi lo osserva.»
«È comprensibile. Le paure sono l’unica cosa in grado di
dominare anche il più retto degli uomini.»
«Ma
Rafiq.» disse Mira «Gli Assassini non dovrebbero aver imparato a dominare le
paure?»
«Ragazza mia, ci sono cose alle quali neppure gli Assassini
più esperti sono immuni. Possiamo aver imparato a dominare paure proprie del
nostro modo d’agire, ad esempio quella della morte, ma ce ne sono altre, molto
più profonde e radicate, che sono parte di noi, e di quelle è impossibile
liberarsi. Per quanto riguarda i ricordi poi, sono ciò che ci lega al nostro
passato. Entrambe queste cose sono parte della nostra essenza, determinano chi
siamo e il nostro modo di rapportarci con l’esistenza, pertanto, se qualcuno a
parte noi ne detiene il controllo questo qualcuno è
come se pensasse al nostro posto.»
«Mi
vengono i brividi solo a pensarci.» disse Kahled
«Fate molta attenzione ad avvicinarvi a quell’oggetto. Ciò
che è stato fatto a Risham potrebbe essere fatto
anche a voi.»
«Dovremo
essere più accorti del solito, fratello.» disse Altair
«Ne sono
consapevole.»
«Ora però pensiamo a preparare bene la missione. Altair, che
cosa hai scoperto dalle tue indagini?»
«Le
guardie di Jahal sono estremamente fedeli al loro
signore. Si è assicurato la loro fedeltà con ingenti
donazioni, usando i soldi prelevati indebitamente dalle casse della città.
Il cambio
di turno avviene alle tre del mattino, e per un breve periodo
di tempo si crea una falla che permetterebbe di introdursi nel palazzo
senza essere visti. Il muro a ovest è facilmente scalabile e c’è una finestra
che può essere facilmente aperta, perciò entrare da lì
sarebbe abbastanza facile.»
«Quanto
tempo avremo per riuscire ad entrare senza far
scattare l’allarme?» domandò Kahled
«Due minuti al massimo. Una volta dentro, percorreremo tutto
il corridoio fino ad una terrazza che dà proprio sul
cortile interno. Una volta lì lo dovremo percorrere in tutta la sua lunghezza,
e dalla parte opposta, circondato da un muretto non troppo alto, troveremo il
museo.»
«Sembra
tutto troppo facile.» commentò ironicamente Mira «Sento che c’è un ma in
arrivo.»
«Il ma è che il cortile è pesantemente e pericolosamente esposto.
Alte mura lo circondano a est e a ovest, e sono sorvegliate da arcieri. Anche
correndo il più velocemente possibile dubito che
arriveremo laggiù prima che il cambio della guardia sia ultimato.»
«In altre
parole» disse Kahled «Sarebbe come disegnarsi un bersaglio in mezzo alla
fronte.»
«L’oscurità
indubbiamente potrebbe esserci d’aiuto, ma il rischio di essere individuati non
è indifferente.»
«Non
abbiate di che temere» intervenne Samir «Credo di avere ciò che fa per voi».
Il Rafiq
tirò una statuetta appoggiata alla sua scrivania, e immediatamente una delle
librerie girò su sé stessa assieme ad una porzione del
pavimento, rivelando uno scomparto segreto contenente un vero e proprio
arsenale: pugnali, balestre, archi, spade, bracciali e, più importante di
tutto, una coppia di tuniche completamente nere un po’ diverse da quelle
canoniche, simili più che altro a dei soprabiti.
Samir ne
prese una, mostrandola ai suoi tre sbigottiti subalterni.
«Un nuovo modello. L’ho inventato io. Leggero e resistente,
e permette di muoversi con estrema discrezione nell’oscurità, anche negli
ambienti più ristretti. Inoltre…».
Rimesso
l’abito sul suo attaccapanni, il Rafiq raccolse uno strano oggetto a forma di L
con due lunghe canne da cui spuntavano le punte di altrettanti paletti di
metallo, e al punto d’incrocio tra le canne e l’impugnatura, sulla parte
inferiore vi era un grilletto simile a quello delle balestre, su quella
superiore invece una sorta di cilindri che avevano l’aria di poter essere mossi
avanti e indietro.
Vedendo
le espressioni dubbiose dei tre ragazzi Samir sorrise di soddisfazione, e
puntata la sua strana arma verso il cappotto servendosi di una sola mano spinse
il grilletto: si udì come uno schioppo, un rumore secco e sordo, i cilindri
mobili si spostarono violentemente in avanti e i due paletti saltarono via dal
loro alloggio, schizzando a folle velocità contro la veste.
«Stra… straordinario.» disse Kahled
«E non è
ancora finita».
Con aria
molto soddisfatta Samir esibì la parte interna del soprabito, dimostrando che i
paletti, anche se lanciati da vicino, lo avevano oltrepassato solo in minima
parte, e allora lo stupore dei tre Assassini divenne incontenibile.
«Ma come…
come è possibile!?» disse Altair
«Una piccola accortezza contro i casi di emergenza. Tra i
due strati della stoffa è stata inserita una maglia metallica ad anelli, in
grado di fermare efficacemente l’azione di quasi ogni arma ad
oggi conosciuta. Solo i colpi lanciati da vicino possono essere pericolosi,
oltre naturalmente a quelli portati alla testa.»
«Di
sicuro ci sarà molto utile.»
«E
quell’arma che hai usato?» domandò Kahled
«Un’altra mia invenzione. Sfrutta un sistema ad aria
compressa. Ho preso ispirazione dai progetti di Ctesibio,
uno scienziato alessandrino, e da quelli di Archimede. Quando si preme il grilletto la valvola di sfogo viene attivata, i cilindri
mobili si spostano violentemente e la pressione dell’aria fa partire i paletti.
Per garantire una riserva minima di colpi ho collegato le valvole a due diversi
sistemi a scatto: una lieve pressione sul grilletto fa partire solo il paletto
di destra, premendo a fondo invece partono entrambi.
È
flessibile come un arco e precisa come una balestra, ma a differenza di
quest’ultima richiede solo pochi secondi per poter
essere ricaricata.»
«Che
distanza possono raggiungere?»
«Se è la
precisione che cerchi, più o meno i settanta metri,
anche cento con il vento a favore. Ne ho creata anche una versione più piccola
e discreta da montare su un bracciale, ma è monocolpo,
e non andiamo oltre i venti metri.»
«Davvero
sorprendente.» commentò Altair «Perché non hai mai
mostrato tutte queste cose al Maestro? Potrebbero divenire parte dell’arsenale
degli Assassini.»
«Scherzi!? Questi non sono giocattoli. Ctesibio
e Archimede li hanno progettati, ma non hanno mai osato costruirli per timore
della loro pericolosità. Anche io a suo tempo la
pensavo come te, ma vedendo di che cosa sono capaci ho capito che non è il
genere di arma da mettere in mano al primo idiota che indossa una veste
bianca.»
«Potresti
prestarcela?» domandò Kahled «Gli abiti scuri ci saranno molto utili, ma se
dovessimo essere scoperti servirà molto più del
necessario per uscire vivi da lì».
Samir si
mostrò molto dubbioso al riguardo, e lì per lì fu sul punto di negare il
permesso, poi però, spronato anche dallo sguardo da cucciolo supplichevole di
Mira, si lasciò convincere.
«E va’ bene. Ma sarà Altair a
portarla. Senza offesa Kahled, ma mi fido molto di più di lui che di te.»
«D’accordo. Dopotutto, il Rafiq sei tu.»
«Tu Mira prenderai la versione da bracciale, nel caso
dovessi trovarti in difficoltà. Ad ogni modo, anche se non metto in dubbio la
vostra abilità, vi invito a fare la massima cautela.
Il
successo di questa operazione sarà dettato dalla
vostra abilità di operare come una squadra. Ognuno di voi dovrà svolgere il
proprio ruolo, e una eventuale attenzione rischierebbe
di compromettere ogni cosa in un letale effetto a catena.
Avrete a
disposizione un solo tentativo per portare a termine l’incarico,
quindi mi sembra evidente che non c’è spazio per eventuali errori, ci siamo
capiti?»
«Sì,
Rafiq.» risposero in coro i tre
«Molto bene. Preparatevi. Entrerete in azione stanotte».
Conclusa quell’ultima riunione tattica Mira si preparò a
fare ritorno al palazzo; da qualche tempo era entrata a far parte della cerchia
delle favorite del califfo, ottenendo tra le altre cose un proprio alloggio
personale, il che le permetteva di muoversi in una certa libertà, ma sapeva
bene che tutte le sere ad una data ora Jahal faceva visita a lei e a tutte le
sue parigrado, e non farsi trovare sarebbe potuto costarle molto caro, per non
parlare del rischio per la copertura.
Uscita in
cortile fece per andarsene, ma prima che potesse farlo Kahled la raggiunse.
«Mira
aspetta!»
«Che c’è? Te l’ho detto che devo rientrare. Se arriva alle
mie stanze e non mi trova per me saranno guai seri.»
«Lo so. È solo che, con tutto quello che è successo, non ho
avuto il tempo… ecco… di complimentarmi con te.»
«Complimentarti?! Per cosa?»
«Beh, per la missione. Ieri sera abbiamo fatto un buon
lavoro di squadra, non sei d’accordo?»
«Se
quello che ci ha detto Risham era vero» rispose lei
con uno sguardo leggermente astioso «Non c’è nulla di quella missione per il
quale dover essere felici.»
«Già, hai
ragione.» disse lui visibilmente imbarazzato
«Scusami».
Mira,
vedendolo così mortificato, parve addolcirsi.
«Però» disse con il suo solito tono pungente «Devo ammettere
che ti sei rivelato migliore di quanto mi aspettavo. Pensavo di doverti fare da
balia, invece hai saputo cavartela da solo.
E poi
quel tuo piano è stato ingegnoso, bisogna riconoscerlo, anche se prima o poi te la farò pagare per avermi costretta a
strisciare nel fango. Hai idea di quanto ci ho messo per togliermelo dai
capelli?»
«S… sì. Ti chiedo… ti chiedo
scusa.»
«E dacci un taglio con quel tono. Mi pari un servo sorpreso
a scappare».
Kahled
era chiaramente e terribilmente nervoso, e se da una parte sembrava cercare un
modo per proseguire la conversazione dall’altro sembrava essere sul punto di
scappare.
«Ti ricordi… ti ricordi della prima volta che abbiamo
lavorato insieme? Erano i tempi dell’addestramento. Un Assassino d’alto rango
ci aveva ordinato di pedinare la sua vittima per conoscerne gli spostamenti.»
«E tu per
poco non ti sei fatto scoprire, e tutto per aver voluto stendere un bottegaio
ubriaco che accusava un bambino di avergli rubato una mela.»
«Già. Hai ragione.»
«Ma
d’altra parte» disse Mira facendosi di nuovo più dolce e gentile «Immagino sia
questo che ti rende un Assassino così speciale».
Kahled
quasi svenne nel sentirsi rivolgere un tale complimento, e di nuovo dopo tanto
tempo sentì riaffiorare quello strano batticuore che più di una volta lo aveva
colto quando loro due erano rimasti soli.
«Beh, ora devo proprio andare.
Vedete di
non combinare guai voi due, perché non mi sarà
possibile tirarvene fuori».
Mira fece
per andarsene, ma di nuovo Kahled la fermò
«Cerca di
fare attenzione».
Lei parve
molto sorpresa, e per un attimo fece per sollevarsi il bavero, così da poter
nascondere il proprio rossore.
«Da quando in qua ti preoccupi per me? Ti sta forse venendo
la febbre?»
«Non è
uno scherzo!» replicò quasi urlando Kahled, più veemente e preoccupato che mai «Sarai tu a dover uccidere Jahal. Non dimenticare quello che
ha fatto a Risham. Cerca di essere molto prudente».
La
ragazza tornò sui suoi passi, e i due, trovatisi viso a viso,
si guardarono a lungo, poi lei, sorridendo, gli passò un indice sulla guancia.
«Anche
tu.» disse, poi, con solo un paio di balzi, raggiunse il tetto, da cui fece un
cenno di buon augurio al suo amico, e vedendola scomparire Kahled, che pure si
sentiva rassicurato dalla consapevolezza che si trattava di una formidabile
guerriera, fu colto da un sinistro ed inquietante
brivido alla schiena.
Non
sapeva perché, ma aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente
strano nella situazione che stavano vivendo; non sapeva cosa, ma una voce
misteriosa sembrava volerlo metterlo in guardia: nulla andava mai come
preventivato, e sentiva dentro di sé che sa qualcosa fosse andato storto Mira
avrebbe potuto trovarsi in grave pericolo. Pregò il cielo di sbagliarsi.
E venne nuovamente la notte, ma stavolta Baghdad non era
più la città tranquilla e sopita nel sonno di ventiquattro ore prima.
L’assassinio
dell’informatore Risham aveva messo in allarme il
califfo, e le strade erano ora percorse ininterrottamente da pattuglie di dieci
o più guardie armate di tutto punto, e i tetti erano sorvegliati da arcieri.
Altair e
Kahled questo inconveniente lo avevano ampiamente
previsto, e nel corso di tutta quella giornata non avevano fatto altro che
saltare da un tetto all’altro alla ricerca della via che permettesse allo
stesso tempo di muoversi rapidamente e di evitare quanto più possibile gli
scontri.
Ben
protetti dalle loro nuovi uniformi nere, che come
predetto da Samir permettevano loro di risultare pressoché invisibili nell’oscurità
della notte, raggiunsero in un tempo ben minore di quello che avevano
preventivato l’ultima linea di edifici che davano sulla parte occidentale del
palazzo, una costruzione alta e possente non protetta da alcun tipo di muraglia
nella parte frontale e per buona parte di quelle laterali, ma con un alto muro
di cinta a circondare interamente il cortile posteriore.
Kahled
aveva suggerito di approfittare del cambio della guardia per percorrere le mura
ed arrivare così al museo senza dover affrontare il
pericoloso tragitto attraverso il giardino, oppure per calarsi all’interno del
giardino stesso senza dover entrare nel palazzo, ma Altair, che pure aveva
tenuto a mente tali eventualità, interrogando la guardia ubriaca aveva appreso
che i soldati di ronda sul muro di cinta seguivano un orario diverso da quello
del resto della guarnigione, e che il loro turno durava per tutta la notte,
quindi sperare di passare da lì senza essere visti era pura utopia.
Appena
furono di nuovo in strada i due fratelli corsero a
nascondersi dentro ad una rientranza che Altair aveva notato nel corso del suo
sopralluogo, sfuggendo alla vista della pattuglia che percorreva senza sosta il
grande viale che girava tutto intorno al palazzo, quindi si misero in attesa.
«Quando sentiremo il segnale, dovremo scattare come fulmini.
Fai attenzione ad alcuni appigli, perché potrebbero cedere, e se ripassa la
pattuglia ricordati di rimanere immobile.
Mi hai
capito?».
Suo
fratello però non poteva sentirlo: i suoi pensieri in quel momento erano
altrove, su Mira, e lui sentiva di essere indicibilmente preoccupato per lei.
Quella sensazione che gli aveva attraversato le ossa subito dopo che si erano separati lo aveva tormentato per tutto il giorno, e
sapendola lì dentro da sola, senza nessuno a guardarle le spalle, sentiva un
vento gelido soffiargli sul cuore.
«Kahled,
mi stai ascoltando?»
«Cosa!? Sì, scusami. Ero soprapensiero».
Altair
capì subito il motivo di un tale comportamento, e cercò di porvi rimedio.
«Non aver paura. La conosci Mira, è una ragazza con la testa
sulle spalle. Vedrai che se la caverà egregiamente, come ha sempre fatto. Ma
noi dobbiamo fare la nostra parte se vogliamo che tutto vada bene, e per
riuscirci dobbiamo essere lucidi.»
«Sì, hai ragione. Non accadrà più.»
«Rivolgi
a lei i tuoi pensieri, se questo ti aiuta a trovare la forza, ma fai in modo
che sia tu ad avere il controllo su di loro, e non viceversa.»
«Ho capito. Farò come dici».
In quella tre brevi colpi di gong in rapida successione
annunciarono il cambio della guardia, e accertatisi che la pattuglia fosse
ancora lontana i due fratelli cominciarono a scalare le mura del palazzo il più
velocemente possibile.
A metà
strada dovettero fermarsi, per evitare che le guardie sotto di loro potessero
scoprirli, e di nuovo si videro costretti ad esitare
non appena ebbero aperto la finestra perché Altair, servendosi di uno
specchietto montato su di un’asticella, si avvide dell’arrivo di un soldato, e
subito fece cenno al fratello, che lo seguiva a pochi passi, di immobilizzarsi
nuovamente.
Per
fortuna non accadde nulla, e appena ebbero nuovamente la strada sgombra i due finalmente entrarono, ritrovandosi in un
grande e sfarzoso corridoio pieno di vivai e ogni altra sorta di oggetto
d’arredo.
«Non
credevo che sarebbe stato così facile.» commentò Kahled quando fu di nuovo coi piedi per terra
«Sono d’accordo, entrare non è stato un problema, speriamo
solo che i problemi non arrivino quando dovremo uscire. Da questa parte».
Nello
stesso momento, in un’altra ala del palazzo, tre guardie sorvegliavano
diligentemente il grande portone oltre il quale stavano le stanze private del
califfo, quando una giovane ancella sopraggiunse da un arco laterale recando in
mano un vassoio con sopra una coppa, una brocca probabilmente d’acqua e un
contenitore di erbe. Dapprima i soldati non si scomposero, poi però, quando
poterono vedere bene in volto la ragazza, si fecero un
po’ più accorti.
«Che cosa
ci fai qui?»
«Sono
venuta a portare la medicina al padrone.»
«Dov’è
l’altra serva?»
«Ha preso una brutta malattia. C’era pericolo che potesse far
ammalare il nobile Jahal, così è stato ordinato a me di prendere
il suo posto».
Il capo
delle guardie, ciò nonostante, non sembrava eccessivamente convinto, e
seguitava a guardare la ragazza con sguardo sospettoso.
«Mostrami
l’autorizzazione».
Lei
allora, senza alcun problema, prese da dentro il corpetto un
pezzo di carta firmato dal capitano delle guardie di palazzo in cui veniva
detto che effettivamente l’ancella incaricata solitamente di svolgere
quell’incarico era impossibilitata a muoversi dal letto, e che pertanto la
presente Mira era autorizzata a prenderne il posto fino a quando la sua
compagna non si fosse ristabilita.
Il
soldato lesse attentamente il comunicato, e finalmente si convinse.
Mira tirò
segretamente un sospiro di sollievo, riuscendo a
nascondere le sue vere emozioni con la propria freddezza di Assassina: la
falsificazione di documenti non era mai stata la sua specialità, ma stavolta
sembrava aver funzionato.
«D’accordo entra, ma non metterci troppo. Il padrone ha
avuto una giornata molto impegnativa, e ha bisogno di molto riposo per
rimettersi in forze.»
«Prometto
che impiegherò il minimo indispensabile».
Una delle
due guardie aprì il chiavistello, le porte si aprirono
leggermente e Mira poté entrare, poi, accertatasi che fossero state
completamente richiuse, si guardò intorno per sondare l’ambiente: gli
appartamenti erano davvero enormi, un insieme intricato di varie stanze
collegate tra di loro da grandi archi e piene all’inverosimile di ogni
possibile arredo in grado di ostentare sfacciatamente potere e ricchezza, dai
tappeti dell’Anatolia alle statue classiche, dai vasi in vetro e in terracotta
dell’India alle pergamene cinesi, dagli arredamenti barbari dei popoli della
steppa ai mascheroni etnici dell’Africa Nera, tutte cose che avevano anche la
funzione di testimoniare la grande esperienza del nobile Jahal in termini di
viaggi e spedizioni nei più remoti angoli della Terra compiuti come emissario
del Sultano.
Dalla
parte opposta all’ingresso, dopo in vasto soggiorno, c’era la camera da letto, e malgrado lì dentro regnasse un’oscurità
quasi totale, solo in parte mitigata dal fuoco di alcune torce, Mira vi arrivò
velocemente e in silenzio: aveva visitato quei posti mille volte, esercitandosi
quando poteva al momento in cui avrebbe dovuto fare ciò che stava facendo in
quel momento, e nulla di ciò che c’era lì dentro, neanche il più piccolo
dettaglio, le era ignoto, anche perché aveva setacciato ogni possibile nascondiglio
migliaia e migliaia di volte alla ricerca, purtroppo vana, della Parola di
Allah.
Posato il
vassoio su di un tavolino, Mira recuperò un pugnale lungo e sottilissimo che
aveva nascosto tra i suoi lunghi capelli, quindi si avvicinò molto lentamente
al grande letto a baldacchino: Jahal dormiva come un bambino, completamente
avvolto nelle sue morbide coperte in piuma d’oca per proteggersi dall’impietoso
freddo delle notti desertiche, e non aveva la minima idea di quello che stava
per accadergli.
Raggiunto
il letto, Mira si guardò un attimo intorno, giusto per effettuare
un ultimo controllo, e forse rammentandosi delle prime volte in cui aveva fatto
cose del genere, quando aveva paura che i battiti furiosi del suo cuore
potessero farla scoprire, recitò mentalmente le preghiere di rito rivolte
all’anima che stava per liberare dai suoi vincoli terreni, poi, fulminea,
colpì.
Un solo
colpo, dritto alla gola, per una morte istantanea e priva di sofferenze, come
si confaceva al codice degli Assassini.
Tuttavia,
subito, qualcosa la colpì, o meglio, la terrorizzò: non una goccia di sangue
sgorgò dalla ferita che aveva appena inflitto, e il corpo di Jahal non fu
minimamente attraversato dai violenti spasimi che seguono alla morte
improvvisa.
Un
pensiero orribile le attraversò la mente quando, ritratto il pugnale, trovò la
lama ancora lucida e scintillante, e tolte violentemente le coperte
i suoi timori si fecero tremendamente reali: aveva appena tolto la vita
ad un innocuo fantoccio di stracci.
Il cuore
di colpo fece sentire il suo battito, e prima di potersi guardare nuovamente
attorno per capire quanto tempo avesse per fuggire una mano sbucò da sotto il
letto, afferrandole la caviglia e tirando con violenza.
La
ragazza, colta completamente di sorpresa, cadde, e nel giro di un istante
quattro guardie sbucate dai nascondigli più impensabili le furono addosso,
immobilizzandola; due di esse, afferratele le braccia, la costrinsero in
ginocchio rivolta verso la finestra, una terza le afferrò i capelli e la quarta
le puntò la sciabola alla gola.
«Non deve
essere molto piacevole» disse di colpo una voce famigliare, profonda e
apparentemente gentile, ma velata da una punta di
freddo e malvagio sarcasmo «Sapere di essere stati raggirati».
Dalla
terrazza, vivo e vegeto come non mai, uscì Jahal Alì
Falahda, califfo di Baghdad, uomo di fiducia del sultano Ahmed Sanjar.
Abbastanza
alto e piuttosto avanti con l’età, era completamente pelato, e il più delle
volte, nelle occasioni pubbliche, era solito nascondere questa spiacevole
menomazione con vistosi copricapo. Gli occhi, neri,
rispecchiavano uno spirito arguto, abituato a muoversi tra intrighi e
complotti, e addestrato a sfruttare ogni più piccola sottigliezza a proprio
vantaggio. La bocca, piegata in quel suo famoso e sarcastico sorrisetto, era
contornata da una barbetta scura terminante in un leggero pizzetto.
Ma più di
tutto, fu ciò che il califfo teneva in mano ad attirare negativamente
l’attenzione di Mira, perché qualcosa dentro di lei le diceva che era ciò che
Kahled e Altair erano andati a cercare al museo.
Aveva la
forma di un cubo, grande una decina di centimetri per ogni lato, fatto di un
materiale molto strano, come una pietra blu estremamente
grezza e ruvida, ed era ricoperto su tutta la sua superficie di strane incisioni
che Mira non riconosceva come appartenenti a nessuna lingua o codice che le
fosse mai capitato di conoscere.
«Vero,
Assassina?».
Lei si
agitò, nel vano tentativo di liberarsi, ma fu tenuta inchiodata in ginocchio
dai suoi aguzzini.
«Che c’è,
sei sorpresa? Dì la verità, non ti saresti
mai aspettata niente del genere.
Purtroppo
per te, sapevo chi eri prima ancora che tu entrassi in questo palazzo. Ho
aspettato molto a lungo che tu e gli altri cani di Masyaf
faceste la vostra mossa, e alla fine, proprio come immaginavo, siete caduti
nella mia trappola».
Notando
lo sguardo di Mira soffermarsi continuamente sul cubo che aveva in mano, Jahal
sorrise ancor più vistosamente.
«Fammi indovinare. Era questo che stavate cercando.
A quanto
pare ho sottovalutato quella vecchia volte di Hasan-i Sabbah. E dire che lo
credevo morto da tempo, ma a quanto pare il Profeta
non si è ancora deciso a prendere la sua vita. Probabilmente quel vecchio pazzo
non è gradito neppure al cielo.»
«Non
offendere il Maestro, blasfemo!»
«Hai uno spirito battagliero, Mira. L’ho capito appena ti ho
vista. Dalle nostre parti le tigri d’oriente sono una
merce rara. E dire che saresti potuta arrivare lontano, se solo avessi mostrato
un briciolo di buon senso.
Saresti
potuta diventare una delle mie donne predilette, avresti
avuto potere e ricchezze.»
«Essere la tua schiava per tutta la vita e il tuo giocattolo
da rigirare nel letto? Piuttosto la morte!»
«Ah, che testardi che siete voi assassini. Ma non fa niente. Presto non avrà più alcuna importanza».
In quella
uno dei tre soldati che sorvegliavano gli appartamenti del califfo si presentò
in camera da letto.
«Mio signore. Gli Assassini sono arrivati, e non sospettano
niente. In questo momento sono nel cortile»
«Molto bene. Procedete.»
«Come
desiderate».
Mira
sentì un brivido freddo, il terrore si impadronì di
lei, e per un attimo le venne da gridare il nome di Kahled, senza sapere
perché.
«Ti
consiglio di rivolgere preghiere per i tuoi amici, perché tra poco saranno
morti».
Come detto dal soldato, Altair e Kahled, ignari di tutto,
si erano da poco incamminati lungo il giardino, correndo il più velocemente
possibile per poter arrivare al museo prima che avesse
termine il cambio della guardia, ma quando erano praticamente al centro della
vasta zona verde una mano invisibile accese una torcia appoggiata al muro, e
grazie ad un ingegnoso sistema di vaschette piene di olio che correvano lungo
tutto il muro e sui bordi dei viali sassosi nel giro di un secondo l’intero
cortile venne illuminato a giorno da interi fiumi di fuoco.
I due
fratelli, colti del tutto alla sprovvista, si immobilizzarono.
«Ma
cosa…» disse Altair, e un istante dopo i soldati sulle mura, che sembravano
dapprincipio non essersi minimamente accorti della presenza di
intrusi, si girarono verso di loro con le armi già in pugno, e subito
una pioggia di frecce si abbatté sui due.
Altair e
Kahled riuscirono a mettersi in salvo nascondendosi rispettivamente dietro una
colonna e all’interno di un gazebo di pietra, ma per la posizione sopraelevata
in cui si trovavano i loro aggressori nessun posto si
sarebbe potuto considerare sicuro.
«Maledizione,
era tutta una trappola!» disse Kahled.
Seguirono
numerose altre raffiche di frecce, poi le sentinelle, sguainate le spade, si
lanciarono urlando giù dalle mura, e contemporaneamente un altro nutrito gruppo
di guardie usciva nel cortile dall’interno del palazzo già pronto alla lotta.
Rapidamente
i due fratelli si portarono schiena contro schiena, e prese il via un furioso
combattimento che aveva come fine ultimo per loro la mera sopravvivenza; dovevano essere trenta o più i soldati lanciati contro di
loro, ma ciò nonostante gli Assassini riuscirono a resistere, avvalendosi tanto
della superiore esperienza quanto del perfetto gioco di squadra, che già altre
volte in passato erano stati costretti ad utilizzare e che avevano con il tempo
affinato.
«Così non
va’, dobbiamo trovare il modo di defilarci!» disse
Altair.
Voltatosi,
si accorse che il fratello era rimasto isolato, e che una guardia si preparava
a colpirlo alle spalle; senza esitazioni, prese dalla cintura la nuova arma
ricevuta da Samir, e premuto il grilletto centrò il potenziale omicida in mezzo
alla fronte e direttamente in bocca, facendogli letteralmente esplodere la faccia.
La vista
di quell’oggetto terrificante spaventò i superstiti, che ebbero un momento di
esitazione.
«È il momento Kahled! Andiamocene!»
«Aspetta! Non possiamo abbandonare Mira!».
Altair,
ricaricata l’arma con i due paletti di riserva, sparò ancora una volta,
riuscendo ad aprire finalmente un varco verso la salvezza, ma
Kahled non sembrava intenzionato ad abbandonare il campo.
«Altair!»
«Mira sa quello che fa! Dobbiamo andarcene subito, o sarà
stato tutto inutile!».
Kahled
non volle neanche pensare all’eventualità che Mira potesse essere realmente
morta, ma alla fine, volendo anzi convincersi che fosse già riuscita a
scappare, si risolse a seguire il fratello, e insieme i due, arrampicatisi
sulle mura, saltarono immediatamente di sotto, attutendosi la caduta con le
fronde di alcune palme, per poi scomparire rapidamente fra i vicoli di Baghdad.
La
notizia della loro fuga arrivò rapidamente alle orecchie di Jahal, che ancora
attendeva nelle sue stanze assieme alla prigioniera.
«Mi dispiace, mio signore. Sono riusciti a scappare».
Mira tirò
un nuovo sospiro di sollievo, Jahal invece non si
scompose più di tanto.
«Non fa niente. Li andremo a prendere noi.» poi guardò Mira
«E sarai tu a portarci da loro».
Il cubo
che il califfo teneva in mano cominciò a quel punto ad
emanare una strana ed inquietante luce azzurra, e dalla sua superficie
cominciarono a sollevarsi, come in una scatola cinese, tanti piccoli cubetti di
uguale dimensione, che rimanevano attaccati al corpo centrale per mezzo di uno
solo del loro sei lati.
Mira capì
subito che cosa aveva in mente di fare quell’uomo, e per nulla al mondo glielo
avrebbe permesso; lei era un Assassina, aveva faticato per diventarlo, e non
avrebbe mai e poi mai tradito la confraternita, quella stessa confraternita che disobbedendo alle sue stesse regole
l’aveva accolta offrendole una nuova esistenza.
Sarebbe
morta, sarebbe sicuramente morta, ma non avrebbe
percorso da sola la via che conduceva all’altra vita.
Guardò a
terra: il coltello con cui aveva cercato di uccidere Jahal era ancora lì, mezzo
nascosto sotto un comodino. Usando tutte le forze a sua disposizione riuscì
finalmente a liberarsi, anche se sapeva che sarebbe stato solo per pochi
secondi, e afferrata l’arma la lanciò gridando verso
il suo nemico.
Il
coltello viaggiò veloce come il vento, conficcandosi proprio nel cuore di
Jahal, che ebbe una violenta contrazione all’indietro e si piegò in posizione
fetale, ma che poi, tra lo stupore e lo sgomento più totali
di Mira, tornò a rivolgere verso di lei il proprio sguardo sprezzante e sicuro
di sé.
La
ragazza venne nuovamente immobilizzata, e Jahal le si
avvicinò.
«Sorpresa!?» disse sorridendo.
Mira non
voleva credere ai propri occhi, ma ciò che rimaneva del suo raziocinio le disse
che tutto ciò stava accadendo veramente quando vide Jahal togliersi di sua mano
il coltello dal cuore e buttarlo a terra intriso del suo sangue per poi
scoprirsi il petto: la ferita, sicuramente mortale, scomparve nel giro di pochi
secondi, come neanche il più miracoloso dei ritrovati medici avrebbe saputo
fare, senza oltretutto lasciare la benché minima traccia.
«Ora lo capisci? Capisci il grande potere che alberga
all’interno di questo oggetto?
Chiunque
lo possieda è dotato di un potere senza eguali. Non deve temere dolore né
malattie, né ferite né morte. Può controllare il cielo e la terra, le menti e i
cuori.
È un
potere… un potere divino.»
«È un
potere diabolico!»
«Scommetto che anche quell’ottuso del tuo maestro pensava la
stessa cosa. Sarà per questo che vi ha ordinato di
strapparmelo. Ma a differenza di quanto ho fatto io,
ha sottovalutato il suo immenso potere.
Non so da
dove venga, o chi lo abbia realizzato. Non so neppure se appartiene a questo
mondo. Lo trovai nel corso di uno dei miei viaggi, nascosto nel fitto delle
foreste dell’India, all’interno di un tempio risalente alle origini della vita,
e capii subito di cosa poteva essere capace.
Chi lo
stringe nelle proprie mani può comandare tutto il creato. Può essere… un dio.»
«La
divinità non è un concetto che appartiene alla nostra esistenza.»
«Questo è un concetto superato. Ciò che hai visto dovrebbe
avertene dato la prova.
Ma ora il tempo delle parole è finito. Ho ancora molte cose
da fare prima di poter sedere sul trono degli dèi, e per compiere la prima della
lista mi serve il tuo aiuto.»
«Scordati che ti aiuterò. Io non sono come quel novizio. La
mia volontà è più forte della sua, e soprattutto io non ho paura.»
«Questo
lo vedremo!».
Il cubo
divenne ancor più luminoso, e istantaneamente le due guardie che tenevano Mira
per le braccia si coprirono gli occhi. Lei, vedendoselo avvicinare al volto,
tentò di distogliere lo sguardo, ma la terza guardia la costrinse a tenere il
volto sollevato tirandole i capelli, e contemporaneamente anche lui chiuse gli
occhi.
«Guardalo!».
La luce
divenne fortissima, e Mira se ne sentì istantaneamente avvolgere: era una luce
calda, addirittura accogliente, ma la malvagità che albergava al suo interno
era impossibile da definire. In un attimo rivide la sua vita, tutto ciò che era
accaduto, e tutti quei ricordi che a fatica era
riuscita a rimuovere le si palesarono di colpo davanti agli occhi.
Rivedeva sé stessa da bambina, in quel terribile giorno, quando il
suo villaggio era stato dato alle fiamme; vedeva i suoi genitori e i suoi
fratelli trafitti da mille frecce o sventrati dalle spade, vedeva sé stessa
rinchiusa in una gabbia, ricordando fin troppo bene il terrore che provava ogni
giorno al calare delle tenebre, quando i possibili compratori se ne andavano,
lasciando spazio ai suoi aguzzini, per i quali si apriva una notte di festa. E
poi le percosse, gli insulti, le umiliazioni, e tutte quelle cose che lei,
addestrata come una giovane guerriera, aveva trovato
così umiliante da aver cercato più volte una morte liberatoria, un privilegio
che le era sempre stato negato.
Catene
invisibili parvero erigersi attorno a lei, serrandola in un abbraccio mortale,
sentì la propria volontà e la propria coscienza venire
meno, asservita totalmente a quella luce, e a colui che la comandava, e a quel
punto tutto divenne nero.
Nota dell’Autore
Eccomi finalmente di
ritorno!^_^
Roba da matti! Due
mesi per riuscire ad aggiornare!
Del resto, ve l’avevo
detto: l’università in questo periodo non mi ha dato tregua, tutti i giorni
uscivo alle sette per tornare dodici ore dopo, e come ciliegina sulla torta ho
avuto da preparare due esami niente male, ma ora quel periodo maledetto è
finalmente finito, e per me si aprono le porte di due mesi tutto
sommato accettabili (il tutto condito dall’attesa per Assassin’sCreed II e Bloodlines).
Da questo momento in
poi prometto di fare più presto del solito, anche perché la mia aspettativa sarebbe di concludere prima del famigerato 19
novembre, dopo del quale sono abbastanza certo di veder sparire tutti gli
appassionati di questa sessione, troppo impegnati a contemplare altro
(scherzo^_^).
Ringrazio come sempre
Saphira ed Elika, alle
quali chiedo anche scusa per questa mia lunga e incresciosa assenza.
Anche se parecchio malconci e inseguiti da metà della
guarnigione cittadina Altair e Kahled riuscirono miracolosamente a fare ritorno
alla dimora senza essere visti, e vedendoli tornare in quelle condizioni,
ansimanti e quasi svenuti per la stanchezza, il Rafiq, dopo averli condotti
nuovamente nel suo studio, diede loro dell’acqua, riservandosi però di
pretendere doverose spiegazione.
«Qualcuno
vorrebbe spiegarmi che cazzo è successo lì dentro?» sbottò Samir, che in
situazioni simili era solito diventare terribilmente scurrile
«Era una
trappola.» rispose Altair «Sapevano del nostro arrivo.
Ci aspettavano.»
«Merda! Quel Jahal è più furbo di
quanto mi aspettassi. E Mira?»
«Non l’abbiamo vista. A questo punto, dobbiamo presumere che
sia stata uccisa, visto che gli ordini erano di non cadere vivi nelle mani del
nemico».
Una
simile prospettiva quasi fermò il cuore di Kahled, il quale però non poteva né
voleva credere ad una simile eventualità: Mira era
troppo abile per lasciarsi catturare, e senza dubbio troppo testarda e caparbia
per essere uccisa.
«Dobbiamo
andare a cercarla.»
«È fuori
discussione.» rispose Samir «Ora come ora quel palazzo
sarà più impenetrabile della Moschea del Profeta, e tutta la maledetta guarnigione
sta già rivoltando ogni sasso della città alla vostra ricerca.
No, voi
due rimarrete chiusi qui dentro fino al momento propizio, perché è l’unico modo
che avete per conservare la testa sulle spalle.»
«Ma potrebbe essere ancora viva! Forse è ancora lì, nascosta
da qualche parte nel palazzo! Forse la sua copertura non è saltata! Vorreste
abbandonarla al suo destino?»
«Frena il
tuo cuore, assassino.» disse bruscamente il Rafiq tornando a vestire i panni
del severo maestro a lungo dismessi «In questo momento è lui a parlare, e in
tali situazioni questo non è da considerarsi un bene.»
«Però… però io…»
«Domani mattina, al più presto, cercherò di mettermi in
contatto con gli altri miei uomini che si nascondono nel palazzo, sperando di
trovarne qualcuno ancora vivo. Se è accaduto qualcosa a Mira, o se la sua
copertura è ancora sicura, lo sapremo presto.»
«Ti va’ bene così?» domandò Altair con un tono di leggero
rimprovero
«S… sì…»
rispose Kahled abbassando lo sguardo «Perdonatemi.»
«Molto
bene.» proseguì Samir «Ora vediamo di pensare alla
situazione attuale, prima di affogare nel mare di sterco in cui stiamo già
nuotando.
Hai detto
che aspettavano il vostro arrivo.»
«Qualcuno
deve aver per forza informato Jahal del nostro arrivo.»
«Vuoi dire che potrebbe esserci un
altro traditore?» disse Kahled
«È l’unica spiegazione plausibile.
Rafiq, quanta fiducia nutri nei tuoi agenti sotto copertura?»
«So già cosa stai pensando Altair, e
la risposta è no. Ho scelto con molta attenzione gli informatori da infiltrare
nel palazzo del califfo, e posso garantire sulla fedeltà di ognuno di loro.»
«La fedeltà e la dedizione alla
causa sono ben poca cosa, se paragonati ai presunti poteri diabolici di cui
sarebbe dotata la Parola
di Allah. Quello che è stato fatto a Risham può
essere stato fatto a chiunque di loro, se fossero stati scoperti, e anche se
non sapevano come e quando avevamo intenzione di colpire possono aver avvisato
Jahal del fatto che avevamo preso di mira sia lui che
il suo tesoro.»
«Devo ammettere che hai ragione, per
quanto la cosa mi arrechi sconforto. Pur non conoscendo i dettagli, sapere in
anticipo quello che avevamo in mente gli avrebbe dato più di un motivo per essere
vigile, e uccidendo il traditore Risham non abbiamo
fatto altro che far suonare il campanello di allarme.»
«In breve, siamo stati al suo gioco
come dei veri dilettanti.»
«E adesso cosa facciamo?» domandò
Kahled
«L’unica cosa da fare per adesso è
aspettare. Non so se avremo a disposizione un’altra possibilità per portare a
termine la nostra missione, e se così non fosse non
potremo fare altro che tornare ad Alamut per
informare il Maestro del nostro fallimento.»
«Al vecchio gli si spezzerà il
cuore.» commentò Samir «Nutriva una tale fiducia nella riuscita di questa
missione.»
«Non si può dire che non ci abbiamo provato.
Dopotutto, per noi assassini la sconfitta è una prospettiva sempre presente.
Possiamo solo accettare il fatto compiuto e trarre insegnamento dai nostri
errori.»
«Fratello.» ribatté interdetto
Kahled «Come puoi dire una cosa del genere!?»
«Tuttavia» proseguì Altair con voce
e sguardo completamente diversi «È vero in egual
misura che se davvero la Parola
di Allah è dotata di questi poteri tanto pericolosi lasciarla nelle mani di un
uomo come il califfo porterebbe sventure al popolo non solo di questa città, ma
anche di questo e molti altri regni.
Pertanto, non importa come, in quanto Assassini abbiamo l’obbligo morale di strappargli
quell’oggetto diabolico, e distruggerlo per sempre».
Kahled tirò un sospiro
di sollievo, per poi sorridere compiaciuto: dopotutto, avrebbe dovuto
aspettarselo. Chi non sembrava condividere la linea di pensiero di Altair era
Samir, e quale fosse il punto dolente era facile da
intuire.
«Aspetta un momento. L’incarico
prevede di riportare la Parola
di Allah ad Alamut, non di distruggerla, e se il
maestro ti ha dato questo preciso ordine un motivo ci
deve essere.»
«Non è mia intenzione dubitare del
giudizio di Hasan-i Sabbah, egli è pur sempre il mio Maestro, tuttavia sono del
parere che l’esistenza stessa di un tale potere sia da reputarsi un pericolo,
perché fino a quando seguiterà a rimanere in questo mondo il rischio che
finisca nelle mani di qualcuno come Jahal non svanirà mai.
Mi dispiace, ma in questo caso il
cuore mi suggerisce secondo coscienza.»
«Sono d’accordo con lui.»
«Kahled, anche tu…»
«L’umanità non è pronta per queste
cose. Prima, è necessario che metta giudizio».
Samir sospirò, passandosi una mano
sul volto.
«Vi rendete conto di quello che
potrebbe costarvi? Rischiate una condanna per tradimento.»
«Il maestro è un uomo virtuoso.»
rispose Altair «Sono certo che approverà la nostra decisione, non appena verrà
a sapere di quali spaventosi poteri è capace la parola
di Allah.
Appena possibile, faremo un nuovo
tentativo per recuperarla, ma se non dovessimo riuscire, o se al nostro arrivo
Hasan-i Sabbah fosse già spirato, allora la distruggeremo».
In quella, dall’esterno giunse un
rumore inquietante, come da passo di marcia, accompagnato da un inquietante
vociare sommesso, inudibile per le persone comuni, ma abbastanza forte da
raggiungere le orecchie di un assassino.
«Lo sentite anche voi?» domandò
preoccupato Kahled.
Samir corse ad appiattirsi sulla
parete, e come gettò lo sguardo oltre la tapparella socchiusa della finestra i suoi occhi si accesero.
«Che succede, Rafiq?» chiese Altair
«Questa riunione tattica è finita,
sparite alla svelta. Soldati in arrivo.»
«Che cosa!?».
In quell’istante la porta
d’ingresso venne sfondata e un vero esercito di
guardie fece irruzione nel palazzo gridando a squarciagola.
«Devono essere per forza qui!
Trovateli!».
I falsi servitori, colti alla
sprovvista, tentarono di reagire, ma essendo per la stragrande maggioranza
novizi di livello medio basso vennero quasi tutti uccisi nel primo minuto
d’assalto; un piccolo gruppetto riuscì a sprangare il portone del giardino che
conduceva agli alloggi privati del Rafiq, ma poiché il palazzo era stato
completamente circondato per chi come loro non possedeva alcuna esperienza di
movimento acrobatico quella era destinata ad essere
un’inesorabile trappola mortale.
«Voi due dovete andarvene.» disse
Samir ai due fratelli
«E voi cosa farete?» chiese Kahled
«Li terremo occupati fin quando
potremo. Approfittatene per fuggire il più lontano possibile. Cercate gli altri
assassini che si nascondono in città. Vi daranno protezione.»
«E che ne sarà di te?»
«Con la stazza che mi ritrovo vi sarei solo d’intralcio, e poi non posso
abbandonare i miei uomini.»
«Non puoi chiederci di abbandonarti, Samir!»
«Assassino!» tuonò Samir rosso in
volto «Il tuo Rafiq qui presente ti ha dato un preciso ordine!
Eseguilo!»
«Ma,
Samir…» ribatté atterrito il minore
«Dovete andare, ragazzi miei.»
disse poi con voce più pacata, che nulla aveva da
invidiare a quella di un padre rivolto ai suoi figli «Il vostro tempo non è
ancora giunto, e voi dovete vivere se volete portare a termine i vostri
propositi.
Andate ora».
Anche Altair pareva recalcitrante
all’idea di abbandonare il maestro che li aveva istruiti e cresciuti, ma alla
fine non obiettò, volendo rispettare la sua volontà, e giunte le mani gli fece un rispettoso inchino.
«Faremo come tu comandi. Salute e
pace, Rafiq.»
«Altrettanto a voi, miei fedeli
compagni. Sia fatto il volere di Hasan-i Sabbah.»
«Kahled, sbrighiamoci!».
Altair dovette richiamare più volte
il fratello perché questi si decidesse a seguirlo fuori dalla finestra; rimasto
solo, Samir sbuffò.
«E va’
bene. Vediamo di chiudere in bellezza».
I due fratelli, messisi al sicuro
sul tetto di una costruzione vicina, decisero che era più sicuro separarsi, per
evitare i rischi di essere intercettati.
«Ci incontriamo sul tetto della
grande moschea, tra un’ora.» disse Altair «Da lì, procederemo insieme verso il
rifugio più sicuro».
Kahled, però, era distante, e il
suo cuore era devastato dalla lunga e terribile serie di disavventure che gli
erano capitate e gli stavano capitando nel corso di
quella notte maledetta, dove niente sembrava andare per il verso giusto e il
destino sembrava sempre un passo avanti a loro.
Altair gli mise una mano sulla
spalla.
«Devi farti forza fratello, o la
morte di Samir e tutto ciò che abbiamo fatto in questi giorni sarà stato vano.»
«Sì. Hai… hai ragione.» rispose lui
tornando parzialmente padrone di sé «Ti chiedo scusa.»
«Forza, ora separiamoci. Ci
incontriamo al punto stabilito.»
«D’accordo. Fa attenzione.»
«Anche tu.» e i due si
allontanarono per direzioni diverse.
Nello stesso momento le guardie
cittadine riuscivano ad aver ragione della porta sprangata; un manipolo di esse si lanciò all’interno per andare in
avanscoperta, ma pochi secondi dopo si udirono rumori ed imprecazioni violente,
e due di loro volarono all’esterno come sparate da una catapulta, rotolando già
morte sui ciottoli con il torace sfondato.
«Ma cosa…»
balbettò il comandante.
Passò qualche istante, poi
dall’oscurità uscì, in tutta la sua imponenza, Samir; in mano stringeva un
bastone di metallo lungo più di due metri con in cima
una enorme mazza chiodata grande come un macigno che doveva pesare diverse
decine di chili ma che lui, con la sua forza erculea, brandeggiava senza
difficoltà.
La sua sola vista fu più che
sufficiente a terrorizzare molti dei presenti, che arretrarono tremanti.
«Chi è il prossimo?»
«Avanti, che vi è preso? È da solo!
Fatelo a pezzi!».
Pur se recalcitranti e visibilmente
spaventati i soldati avanzarono, e Samir ricominciò a
mulinare la sua gigantesca arma, dando prova di essere ancora, nonostante l’età
e la stazza, un guerriero di classe superiore.
Quei poveracci volavano come
birilli, alcuni furono scaraventati sulle pareti o addirittura sul tetto, e
quelli che riuscivano miracolosamente a sopravvivere in ogni caso una volta
colpiti non avevano più la forza di rimettersi in piedi.
«Ammirate Sansone, in tutta la sua
forza!».
L’attacco scatenato del Rafiq fornì
oltretutto ai suoi servitori superstiti il tempo necessario a mettersi in salvo
passando per una botola segreta, ma dopo qualche minuto di scontro senza
quartiere il gigante buono cominciò a dare i primi segni di cedimento, e una
delle guardie, saltatogli in groppa, riuscì a trafiggerlo ad
un fianco.
Samir urlò con tutta la sua voce,
poi afferrò l’aggressore con la sua mano ciclopica e lo lanciò contro una
colonna del porticato con una forza tale da spezzare il suo corpo in due.
«Sono troppo vecchio per queste
cose!» disse cadendo in ginocchio ma riuscendo nel frattempo a staccare la
testa ad un altro potenziale aggressore.
Gli arcieri al
seguito dei soldati di fanteria tirarono tutti insieme nella sua
direzione, trafiggendolo più e più volte, ma ciò nonostante il Rafiq si ostinò
a non voler morire. Purtroppo, ben presto, le ferite e la stanchezza imposero
il loro tributo, e alla fine Samir, detto Sansone, cadde sotto i colpi delle
guardie, che dovettero saltargli addosso in dodici per riuscire finalmente ad
avere ragione di lui, trafiggendolo in quelle poche parti del corpo dove non vi
fossero già frecce o punte di spada.
Mentre Samir combatteva la sua
ultima battaglia Kahled aveva già raggiunto la zona occidentale della città, ma
in verità era talmente preso dai propri pensieri che non faceva altro che
saltare dal tetto su cui si trovava a quello a lui più vicino, seguendo un
percorso del tutto sconclusionato.
Ancora
non riusciva a credere a tutto ciò che stava succedendo. Altre volte lui e suo
fratello si erano ritrovati in situazioni difficili, per non dire disperate, faccia a faccia con la morte, ma niente era paragonabile a
ciò che stavano vivendo in quel momento.
Pensava
tanto a Mira, e si accorse di non aver mai pensato così tanto
a lei come in quel momento.
Allora,
Altair aveva ragione, e solo ora se ne rendeva conto: si era davvero
innamorato.
Del resto
erano cresciuti insieme, avevano lottato e combattuto insieme, e anche se
nessuno dei due avrebbe mai voluto ammetterlo avevano
anche due caratteri molto simili, che si univano l’un l’altro alla perfezione:
entrambi erano passati per esperienze terribili, avevano combattuto per
emergere, e condividevano un sano desiderio di giustizia.
Doveva
dirglielo.
Quando
fosse ritornata, perché, dentro di sé, era certo che sarebbe ritornata, le
avrebbe rivelato quello che provava veramente per lei, e lo avrebbe fatto con
il cuore in mano, senza esitazioni.
Non
sapeva come lei l’avrebbe presa, ma non gli importava. Ciò che stavano passando
gli aveva insegnato che non ci sono certezze nella vita, e che se si perde un’occasione si può scoprire improvvisamente che era l’unica
che la vita aveva voluto offrire, finendo per rimpiangere fin nella tomba
quella preziosissima opportunità mancata.
Lei poi
avrebbe preso la sua decisione, ma intanto lui glielo avrebbe detto: la amava,
la amava sinceramente, ed era pronto a tutto pur di restare insieme a lei, anche a rinunciare al titolo di maestro.
D’un tratto, proprio quando era tornato padrone delle sue
azioni, una figura aggraziata e maestosa fendette la luna, atterrando dopo un
salto acrobatico proprio davanti a lui, e Kahled, riconoscendola, pensò di
stare sognando.
«Mira!».
Era proprio lei.
L’aveva
cercata, l’aveva aspettata con l’animo eroso dall’ansia, ma ora era di nuovo
lì, accanto a lui. Era tornata.
Felice e
appagato come non mai, il ragazzo fece per andarle
incontro, quando invece il suo istinto di assassino avrebbe dovuto metterlo in
guardia visto che la sua amica aveva in mano le proprie spade, un gesto
inconsueto per gli Assassini, che molto di rado si avvicinavano l’un l’altro
armati, onde evitare fraintendimenti.
Inoltre,
la ragazza indossava ancora il suo abito da servitrice invece che l’uniforme, e
al collo aveva uno strano pendente a forma di cubo grande un paio di centimetri
che brillava di una inquietante luce azzurra.
«Mira. Sia lode al cielo. Per fortuna stai bene».
Lei alzò
gli occhi, mettendosi in piedi, ma ancora Kahled era troppo felice per accorgersi dello sguardo vuoto e quasi malvagio di Mira,
che all’improvviso, senza apparente motivo, lanciò una delle sue due spade
contro il ragazzo.
Fortunatamente
Kahled venne colpito solo di striscio alla spalla
destra, ma il colpo fu abbastanza forte da ributtarlo violentemente e
crudelmente alla realtà, costringendolo finalmente ad accorgersi di tutte le
cose che non andavano.
«Mira! Che ti prende!?».
Poi, vide
i suoi occhi, quello sguardo che per lui era impossibile da attribuire alla
Mira che aveva conosciuto e che aveva capito di amare. Quella,
non era lei; almeno, non nello spirito.
«No…»
disse con voce tremante «Questo no…»
«Sono qui
per eseguire la volontà del mio signore, il nobile Jahal.» disse lei mettendosi
in posizione di guardia «Preparati a morire, Assassino!»
«Mira…
anche tu… lo ha fatto anche a te…».
Kahled
era così sconvolto che quando Mira lo attaccò di nuovo estrasse la spada solo
all’ultimo, e la parata che eseguì fu talmente mediocre che la ragazza non ebbe
difficoltà a superarla, infliggendogli un nuovo colpo di taglio che oltre a
farlo girare su sé stesso per due o tre volte gli
procurò una seconda e più grave ferita, stavolta all’avambraccio sinistro.
«Mira,
non farlo!»
«Raccomandati al cielo, Assassino. Pagherai per aver
attentato alla vita del mio signore».
Era
chiaro che Mira non era neppure in grado di riconoscere la persona che le stava
di fronte, completamente plagiata dai poteri malefici della Parola di Allah, e
le sue intenzioni erano più che mai ostili.
Kahled
era disperato, e non sapeva cosa fare: di certo non sarebbe scappato, ma come
poteva fare del male alla stessa donna che aveva appena capito di amare?
Nello
stesso momento, da tutt’altra parte della città, Altair era quasi arrivato al
punto di ritrovo, ma proprio quando stava per intraprendere la voltata finale
attraverso l’ultima serie di edifici che stavano tutto intorno alla moschea si immobilizzò sul tetto di un edificio, come
cristallizzato.
Tutto era
silenzioso e tranquillo.
Anche
troppo tranquillo, e lui lì non era solo.
Fin dal
momento in cui si era separato dal fratello aveva
avuto la sensazione di essere seguito, e un istante prima di rimettersi in
marcia quella sensazione era divenuta una certezza: qualcuno gli stava addosso.
Ma chi? E da dove?
Durante
il tragitto si era più volte guardato attorno alla ricerca di potenziali
minacce, ma chiunque fosse a seguire le sue orme era abbastanza scaltro e abile
da riuscire a mantenersi al di fuori del suo campo visivo.
Poi, di
colpo, avvertì il sopraggiungere di una minaccia, e fulmineo eseguì un
acrobatico salto all’indietro, evitando facilmente una selva di stellette
appuntite che andarono a conficcarsi sulla pietra.
«Avanti,
vieni fuori.» disse guardandosi attorno «Affrontiamoci faccia
a faccia, da veri guerrieri.»
«Come
desideri.»rispose
una voce vacua, impalpabile, che sembrava provenire da tutte le direzioni.
Seguì una
risata sommessa, poi, letteralmente dal nulla, da una zona d’ombra generata da
un muro, comparve il guerriero vestito di scuro che già aveva sorvegliato, non
visto, l’operato di Mira e Kahled la notte scorsa al
porto della città.
Altair
rimase allibito: non si era neppure accorto di averlo così vicino, ed era certo
che quell’individuo, oltre ad essere un guerriero estremamente
pericoloso, avrebbe potuto ucciderlo in qualsiasi momento durante la sua fuga,
se solo lo avesse voluto.
«Sei tu
quello che chiamano l’Ombra?» domandò cercando di ostentare sicurezza
«Il mio
nome è Koromaru, ma tu puoi chiamarmi Ombra, se
preferisci.»
«Vieni
dalle isole dell’estremo est?»
«Esatto.»
«E come
sei finito qui, in un posto tanto lontano da casa?»
«È una lunga storia. Ti basti sapere che per chi, come me,
si macchia della più grande delle colpe, permettendo che a causa della propria
inadempienza il proprio signore venga ucciso, la
punizione è l’eterno esilio.»
«Mi sembri una persona che tiene molto al proprio onore. Per
quale motivo sei divenuto la guardia del corpo di un uomo come Jahal?»
«Perché è
proprio il mio onore ad impormelo. Lui mi ha trovato
mentre mi trascinavo quasi morto in questo deserto privo di vita dopo un
viaggio senza meta denso di ostacoli che aveva consumato tutte le mie energie.
Egli mi
ha salvato la vita, e pertanto io ho il dovere morale di ricambiare proteggendo
la sua.»
«Quell’uomo
è un usurpatore e un malfattore, che affama il popolo e mira ad
uccidere o soggiogare chiunque parli contro di lui. Essere al servizio di una
persona simile è forse da considerarsi un onore?»
«Non ha importanza che tipo di uomo sia, o cosa faccia. Ciò
che conta è che mi ha salvato, e il mio codice d’onore mi impone
di restituire sempre i debiti e i favori, indipendentemente dalla situazione.
Ma ora
basta parlare, Assassino. Passiamo ai fatti».
Altair
capì al primo sguardo che contro quel nemico la spada sarebbe stata del tutto
inutile, pertanto decise fin da subito di combattere quella battaglia
servendosi unicamente del pugnale, ma anche dopo averlo estratto
non ci pensò neppure a fare la prima mossa; la freddezza e l’impassibilità che
dominavano il volto di Koromaru lasciavano intendere
erano lo specchio di un guerriero assolutamente sicuro di essere completamente
padrone del proprio ambiente, e agire con imprudenza nei confronti di un simile
avversario era l’ultima cosa che si potesse fare.
«Che c’è,
Assassino?» domandò ad un certo punto vedendo che
Altair esitava ad attaccare «Pensavo foste dei guerrieri temerari, che non si
tirano mai indietro di fronte ad una sfida.
E sia,
vorrà dire che sarò io a portare il primo colpo».
Koromaru chiuse gli occhi, una
cose che un assassino non avrebbe mai osato fare di fronte al nemico, si mise
in posizione perfettamente diritta ed incrociò le mani davanti al petto,
eseguendo con le dita tutta una serie di strane movenze, tanto rapide da
risultare quasi invisibili, salmodiando contemporaneamente in una lingua che
Altair non riusciva a capire.
Poi, come
riaprì gli occhi, come per magia, scomparve nel nulla, e subito dopo la sua
figura prese a materializzarsi in tutte le direzioni, con enorme stupore di
Altair. Era dappertutto, in aria, in terra, sui tetti vicini.
«Che stregoneria è mai questa?» domandò attonito il fratello
maggiore guardandosi attorno.
Doveva
esserci per forza una spiegazione: un uomo non poteva dividersi in tante copie
di sé stesso, era contrario anche a quelle poche leggi
di natura a cui anche gli Assassini dovevano sottostare, eppure questo non
sembrava essere un problema per l’Ombra.
«Sei
sorpreso, Assassino?».
Di colpo
nuvole si stellette metalliche cominciarono a piovere in tutte le direzioni, e
intanto Koromaru continuava a moltiplicarsi; Altair
riuscì con la sua agilità a scansare molti degli attacchi, alcuni fu anche in
grado di pararli con il pugnale, e tentò persino, senza successo, di colpire
qualcuna delle copie con i suoi coltelli, ma ad un
certo punto una stelletta lo colpì al braccio, e a quella se ne aggiunsero in
meno di un secondo altre tre, che pur non uccidendolo lo scaraventarono giù dal
piano rialzato dove si trovava facendolo cadere sul tetto.
Allora, e
solo allora, tutte le copie parvero riunirsi, e da decine che erano tornarono ad essere uno solo, l’originale, che rise
leggermente.
«Devo
dire che mi aspettavo qualcosa di più dagli Assassini.»
«Non… non
è da poco il tuo potere.» disse Altair togliendosi le stellette e cercando di
rialzarsi «Lo riconosco, purtroppo.»
«E questo è niente. Osserva il mio potere».
Di nuovo,
Koromaru assunse quella posizione diritta, e di nuovo
prese a muovere salmodiando le dita delle mani, ma questa volta ciò che accadde
era contro ogni logica, al punto che Altair cominciò a
chiedersi se il suo avversario fosse davvero umano.
Dopo aver
estratto lo spadino ricurvo che portava dietro la schiena l’avversario
si abbassò il bavero, e portatosi una mano davanti alla bocca prese a soffiare;
dalle sue labbra si sprigionarono lingue di fuoco, e anche se Altair riuscì
miracolosamente ad evitarle una parte della sua veste si incendiò,
costringendolo a rotolarsi per riuscire a spegnere le fiamme.
Per nulla
sazio Koromaru continuò a sputare fuoco a più
riprese, fino a che Altair non si ritrovò imprigionato all’interno di un anello
incandescente, e di quando in quando il nemico compariva da oltre il muro,
ingaggiando con l’Assassino brevi scontri di agilità e maestria per poi tornare
a nascondersi non al di fuori dell’anello, ma direttamente tra le sue fiamme, e
seguitando a correrci dentro senza venirne minimamente
danneggiato.
Finalmente,
dopo un minuto e più di agonia, anche quella specie di inferno
in terra ebbe fine, e quando Koromaru si palesò
nuovamente davanti a lui Altair era ridotto ad uno stato pietoso.
«Terribilmente mediocre, Assassino. Devo dire che mi
aspettavo qualcosa di più.»
«Sono… sono costretto a riconoscerlo. Al mio attuale
livello, non sarei minimamente in grado di oppormi a te».
Poi,
Altair alzò gli occhi, guardando Koromaru dritto in
volto.
«Come ci riesci? Come riesci a sfidare leggi alle quali
persino per noi, che pure siamo uomini superiori, dovremmo sottometterci?»
«Non siete forse voi a dire che niente è reale, e tutto è
lecito?
Anche noi
siamo nati come assassini, e come voi abbiamo compreso che l’unico modo per
svolgere al meglio il nostro compito è valicare quel confine invisibile a cui il resto dell’umanità non osa neppure avvicinarsi.
Fa parte
del nostro addestramento: capire che questo mondo è fatto di leggi, e che come
le leggi fatte dagli uomini anche quelle di natura
possono essere comprese. La differenza che c’è tra noi e voi è che noi siamo
andati oltre: voi Hasisiyyun vi limitate a
comprendere, e a trascendere quando potete, noi siamo andati oltre. Abbiamo
sfidato quelle legge, le abbiamo fatte nostre, e abbiamo capito che la natura
non può essere solo capita, ma anche dominata.
È questo
che ci rende così diversi: tu rispetti e comprendi, io rispetto e padroneggio.»
«Sfidare la natura e le sue leggi. Sembra impossibile,
eppure tu ci riesci. Sì, lo ammetto. Nessun Assassino reggerebbe il confronto
con te.»
«I miei ordini sarebbero stati di ucciderti, ma non mi piace
l’idea di privare della vita qualcuno in possesso di un così grande potenziale.
C’è una
grande forza in te, io la vedo. Aspetterò il nostro prossimo scontro, che sono certo non tarderà ad arrivare.
A presto!».
Altair
tentò di fermarlo, ma Koromaru spiccò un salto
altissimo, assolutamente inumano, per poi scomparire letteralmente nel nulla
inghiottito dalla notte allo stesso modo in cui era venuto.
Nel frattempo, Kahled e Mira erano ancora impegnati in combattimento, ma si trattava in realtà di una
sfida a senso unico. Troppo sconvolto e provato da ciò che stava accadendo, il
fratello minore non riusciva in alcun modo a rispondere agli attacchi rapidi e
micidiali della sua avversaria, limitandosi a pararli quando il raziocinio gli
permetteva di farlo, ma ormai aveva tante di quelle ferite in tutto il corpo
che la sua veste, da bianca era divenuta rosso sangue.
Non c’era
niente di simile ai tanti confronti amichevoli in cui si erano affrontati in
passato: allora l’unico desiderio era di provare la propria superiorità, ma
rimanendo sempre nei limiti della pura e semplice sfida d’allenamento, ora
invece Mira pensava solo ad uccidere, e metteva tutta
sé stessa in quel proposito.
Più e più
volte Kahled aveva tentato di persuaderla, di spronarla a ribellarsi al
controllo del califfo, ma lei era rimasta sorda alle sue parole, e aveva
continuato imperterrita ad attaccare, ogni volta con sempre maggiore furia.
Tuttavia, lui non poteva né voleva farle del male, e sperava disperatamente che
alla fine la sua amica riuscisse a tornare in sé, ma intanto le energie stavano
sempre più venendogli meno a causa dei colpi subiti, la vista gli si stava
appannando ed era chiaro che non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo
continuando per quella strada.
Ciò che
il traditore Risham aveva detto prima di ricevere il
colpo fatale, poi, lo tormentava indicibilmente: solo la morte poteva liberare
una persona dal controllo esercitato dalla Parola di Allah. Ma
come poteva lui, che aveva capito di amarla, rivolgere la propria spada su
Mira, sulla ragazza con cui si era esercitato così tante volte e con la quale
aveva condiviso ogni cosa?
Come se
non bastasse, per una qualche ragione Mira stava dimostrando una forza
straordinaria, capace di fracassare interi pezzi di muro con un solo pugno, e
Kahled aveva capito che la causa era il pendente che aveva al collo, che
brillava un po’ più forte ogni volta che la ragazza
faceva sfoggio di capacità sovrumane.
«Mira!»
disse Kahled durante uno scontro di forza «Guardami,
sono io! Kahled!».
Lei esitò
un momento, come se effettivamente lo riconoscesse, ma in realtà scavalcò la
sua difesa e gli assestò un calcio che, oltre a rompergli una costola, lo
scaraventò giù dal tetto, e fu solo per un vero miracolo se il ragazzo non ci
rimise la vita.
Immediatamente
saltò giù a sua volta, raggiungendolo in strada, ma
Kahled ormai era così malridotto che faticava a restare in piedi, e attendeva
solo di essere finito.
«Mira!»
disse quasi in lacrime, cercando di rialzarsi «Non
lasciarti controllare da quell’uomo. Tu non sei così debole. Ribellati! Io so
che puoi farlo!».
Ancora
una volta la ragazza parve reagire, esitando a vibrare il colpo di grazia, e
rialzato lo guardo Kahled rivide per un attimo la luce tornare ad albergare nei
suoi occhi.
«Ka…
Kahled…» balbettò come un malato al suo ultimo respiro
«Mira!».
Reso ceco dalla speranza fece per
avvicinarsi, ma prima ancora che potesse muovere il terzo passo
i poteri della Parola ebbero di nuovo la meglio, e la ragazza, afferrata
la corda di seta, fece compiere ad una delle sue due spade una lunghissima
parabola dall’alto verso il basso, e fu solo per un vero miracolo, forse per
l’estremo tentativo di Mira di ribellarsi al controllo, che il colpo, invece di
risultare mortale, procurò solamente, per così dire, una ferita non
particolarmente seria, ma abbastanza grave e profonda da accecare Kahled
all’occhio destro.
Il ragazzo urlò dal dolore, tenendo
la ferita, e il suo volto divenne una maschera di sangue, ma ciò nonostante
continuò a non voler attaccare.
«Mira… che cosa ti hanno fatto?».
Mira questa volta era davvero nelle
condizioni di poter chiudere l’incontro, e sembrava determinata a farlo, se non che, per la terza volta, esitò, rimanendo immobile
come una statua di sale.
Forse fu la vista di Kahled ridotto
in quello stato, forse la consapevolezza interiore di esserne la responsabile,
forse la sua coscienza, fatto sta che di nuovo i suoi occhi si accesero di
vita, e da quel momento fu come se due entità stessero lottando per il
controllo dello stesso corpo: i movimenti della ragazza si fecero meccanici,
spasmodici, e se una gamba provava ad avanzare l’altra
cercava di far perdere l’equilibrio, se una mano cercava di attaccare l’altra
la afferrava.
Come una bambola nelle mani di una
bambina, Mira cominciò a strattonarsi e a dimenarsi in tutte le direzioni,
urlando come una dannata. Si strappò le vesti e si tolse
i gioielli, tra i quali il pendente e il bracciale da assassino ricevuto da
Samir, che rotolò proprio ai piedi di Kahled, il quale lo raccolse, continuando
però a guardare atterrito e sconcertato la sua amica in preda alla più
terribile agonia.
«Mira…».
Finalmente, la sua compagna tornò
completamente padrone di sé, ma dalla paralisi che sembrava aver colpito tutto
il suo corpo era evidente che non lo sarebbe stata per molto tempo, e lo guardo
che gli rivolse, così determinato e insieme triste, gli fece avvertire un
terribile colpo al cuore.
«Mira…»
«Presto!» disse «Uccidimi!».
Kahled, attonito, non volle credere
di averla sentita pronunciare proprio quella parola.
«Che cosa hai detto!?»
«È l’unico modo per salvarmi, e tu
lo sai. Una volta caduti sotto l’influenza di quell’oggetto, solo con la morte
si può trovare la liberazione.»
«Mira… non puoi chiedermi questo…
non puoi…»
«Kahled!» gridò lei con rabbia, ma
piangendo nel contempo «Ti prego! Non voglio passare
il resto della mia vita a servire quel mostro! Solo tu mi puoi salvare in
questo momento!»
«Mira…»
«Fai presto! Non so per quanto
ancora riuscirò a resistere!».
Kahled non voleva credere che
stesse accadendo davvero. Doveva togliere la vita a Mira.
Una parte di lui
capiva, e sapeva che era quello che Mira voleva, come lei stessa stava dicendo
in quel momento, e che era la cosa più giusta da fare, ma l’altra parte, quella
guidata dal cuore, non voleva né poteva accettare una cosa del genere.
In quella, nuvole minacciose
coprirono la luna, e un violento acquazzone si abbatté su Baghdad, riempiendo
le strade di rigagnoli ed ingrossando il fiume, che
rinchiuso però entro robusti argini non costituiva una minaccia.
Sperduto, come un corpo privo di
anima, Kahled indossò il bracciale, alzandolo e mettendo il dito sul grilletto
che azionava il sistema ad aria compressa, e intanto
Mira rimaneva immobile, a gambe unite e braccia spalancate, come una figura in
croce che attende solo di ricevere un pietoso colpo di grazia.
Passarono
lunghi ed interminabili secondi; la mano di Kahled
tremava, e la vista si faceva sempre più vacua a causa del dolore e della
pioggia.
«Mira…» disse abbassando il braccio
«Io… non ci riesco…»
«Kahled…» rispose lei piangendo «Non puoi farmi questo. Ti prego… liberami…».
Anche lui piangeva, e sentiva che
sarebbe morto prima di prendere una decisione, ma alla fine fu il destino a
prenderla per lui. Improvvisamente, senza alcun segnale di allarme, il potere
della Parola ebbe di nuovo la meglio, e Mira si lanciò all’attacco
brandeggiando le spade.
Fulmineo, in un gesto dettato dal
puro istinto, Kahled alzò nuovamente il braccio, tirando il grilletto; la lama
partì, fulminea e quasi invisibile, fendendo le gocce d’acqua al proprio
passaggio e andando a conficcarsi con forza nel torace di Mira, al centro del
petto; per il contraccolpo la ragazza fu sbalzata all’indietro e perse
l’equilibrio, cadendo sulla terra bagnata.
«Mira!» gridò Kahled correndole
incontro e sollevandole la testa dopo essersi inginocchiato.
Lei, dopo qualche secondo, riaprì
gli occhi: la luce era tornata, questa volta completamente, ma stava già
spegnendosi, lasciando inesorabilmente spazio al buio senza fine della morte.
Che cosa aveva fatto? Che cosa
aveva fatto!
Aveva ucciso Mira, la sua Mira!
«Mira…» disse piangendo «Mi
dispiace…».
Eppure, nonostante tutto, la ragazza gli sorrise, un sorriso dolcissimo, e con le ultime
forze che le restavano articolò alcune parole nella sua lingua.
Shōuhuísuoyou de jìyì. Suoyou
de jìyì, suoyou de kongjù
(All’improvviso riaffiorano tutti i
ricordi. Tutti i ricordi, e tutte le paure)
«G… grazie…» mormorò poi.
Kahled
pianse, pianse come mai nella sua vita. Avrebbe voluto
dirglielo, dirle quello che aveva capito di provare
per lei, ma nel dolore e nella disperazione di quel momento non trovò la forza
per farlo.
«Devi…
devi fermarlo, Kahled. Fermalo…»
«Mira…».
A fatica,
lei riuscì ad alzare la mano, sfiorandogli la guancia con un dito, ma proprio
quando lui fece per stringerla questa scivolò di nuovo verso il basso, e Mira,
reclinata la testa, spirò tra le sue braccia: sorrideva.
«Mira…
Mira… non lasciarmi… io ti amo… non mi lasciare…».
Invano Kahled
continuò a chiamarla, a passarle la mano sul volto, e intanto le sue lacrime,
taglienti come coltelli affilati, si mescolavano alla pioggia, che attorno a
loro continuava a cadere, coprendo ogni cosa con il suo ronzio.
Un urlo
disumano squarciò la notte, mentre all’orizzonte già si intravvedeva
il primo sole, che apparendo da dietrole dune scacciava via le nuvole di tempesta, annunciando l’inizio di un
nuovo giorno.
Nota dell’Autore
Rieccomi!
Visto? Ve l’avevo
promesso o no?
Avevo promesso di riaggiornare in tempi rapidi, e così è stato.
Avevo anche detto che
speravo di concludere prima di domani, quando so che
tutti i frequentatori della sezione spariranno fino a data da destinarsi, ma
purtroppo ho dovuto accettare la mia condizione umana e rimanere nei miei
limiti. Comunque, gli ultimi due capitoli e l’epilogo li ho già ben chiari in
testa, pertanto non dovrei metterci molto a scriverli.
Ringrazio Elika per la sua
recensione, e spero vivamente che prima o poi
ritornino anche gli altri miei commentatori.
C’era un che di strano, un che di famigliare, nel luogo in
cui si trovava.
Un tempo
doveva essere stata una casa di medio prestigio, forse la residenza di qualche
soldato importante o qualche dignitario di medio rango, ma il tempo e l’incuria
le avevano tolto quasi tutto il suo splendore, rendendola solo una pallida
ombra di ciò che era un tempo.
Nel
salotto, le sedie di vimini erano sporche e masticate dai topi, il tavolo
rettangolare era coperto di polvere e pezzi di intonaco
caduti dall’alto, il tetto e il soffitto erano scrostati e ammuffiti, ed i
tappeti avevano subito l’assalto delle tarme.
Era
piuttosto buio, tutte le torce erano spente e consumate, ma dalle finestre
aperte o velate solo in parte da tendaggi tutti strappati e lacerati giungeva
una luce fortissima: era una luce strana, irreale,
troppo forte per essere quella del sole, tanto da non poter scorgere nulla di
ciò che vi era all’esterno, ma nonostante la sua forza riusciva a rischiarare
solo in minima parte l’oscurità che albergava lì dentro.
E poi
silenzio, un silenzio assoluto, che avrebbe fatto
gelare il sangue a chiunque.
Kahled
non aveva idea di come fosse finito lì: l’ultima cosa che ricordava era Mira
che si spegneva davanti a lui, e se ci pensava sentiva
ancora il cuore minacciare di fermarsi per il dolore.
Poi, di
colpo, si ricordò, e capì perché quel posto gli diceva qualcosa.
Quella
era la sua casa!
La casa
di Damasco in cui era cresciuto, e nella quale aveva passato alcuni dei momenti
più felici della sua vita. Lì, in un angolo, una sedia di legno, la sua
preferita fin da quando era piccoli, la porta dove lui e il fratello giocavano
al cambio della guardia, e il grande cesto per la farina dove andava a
nascondersi quando combinava qualche marachella, nel tentativo, spesso vano, di
sfuggire alla punizione.
Come era finito lì?
Era dal
giorno della sua fuga che non vi metteva piede, e in ogni caso come aveva fatto
da passare da una stretta e fangosa strada di Baghdad alla sua vecchia
abitazione di Damasco?
La parte
razionale di lui concluse che probabilmente si
trattava solo di un sogno, uno dei tanti che gli era già capitato di fare, ma
c’era qualcosa di così reale, di così tangibile in ciò che gli stava intorno:
poteva sentire il gocciolio dell’acqua, l’odore della muffa, il freddo della
pietra, tutte cose che prima di allora non gli erano mai accadute.
Dunque, se non era un sogno? Cosa poteva
essere?
Forse era
lo stadio successivo, quella specie di limbo che stava tra il sonno comune e il
sonno eterno di cui aveva sentito parlare da molti suoi
fratelli che avevano subito la stessa esperienza, e che proprio in
questa sorta di dimensione al di fuori dello spazio e del tempo avevano trovato
la forza per tornare indietro, sfuggendo all’invitante richiamo della morte.
D’un
tratto, qualcosa attirò la sua attenzione: sopra un ripiano, impolverato ma ancora bello da vedersi, stava un giocattolo, un piccolo
cavallo di legno intagliato artigianalmente.
Lo
ricordava benissimo; quello era suo, era il suo gioco preferito. Suo padre lo
aveva realizzato per lui poco dopo che era nato, glielo aveva messo nella culla
e da allora non se ne era più voluto separare. Lo
prese in mano, attonito, avvertendone il calore, e quasi gli venne da
stringerlo a sé.
«È
interessante notare quello che sei adesso».
Quella
voce, così ironica e malevola, lo fece sobbalzare, e istintivamente, lasciato
cadere il giocattolo, si girò, mettendo la mano sul pomo della spada.
Poco
distante da lui, appoggiato alla parete e a braccia conserte, c’era un uomo, e
appena lo vide un brivido di freddo gli percorse la
schiena: il suo vestito era uguale in tutto e per tutto a quello degli
Assassini, ma era completamente nero, e a causa del cappuccio sollevato era
impossibile vederlo distintamente in volto. A giudicare dai lineamenti del
mento e dalla pelle distesa, dovevano avere pressappoco la stessa età.
«Un corpo
vuoto.» disse, per poi piegare le labbra in uno
sorrisetto sarcastico.
Kahled lo
scrutò attentamente, da cima a fondo, e più lo guardava più quel brivido si
faceva forte, ma il terrore di cosa avrebbe potuto vedervi all’interno lo
spinse a non cercare nemmeno di scorgere i suoi occhi.
«Chi… che
cosa sei tu?»
«Oh, andiamo, non fare domande ovvie. Lo sai benissimo chi
sono io».
Il
ragazzo poi si guardò un momento attorno.
«Che
posto è questo?»
«Altra
domanda ovvia.» rispose quello col suo tono ironicamente acido «Usa
l’immaginazione.»
«La
morte?»
«Ti piacerebbe. Bel tentativo, ma no. Purtroppo abbiamo solo
poco tempo, quindi siamo costretti a saltare i convenevoli e andare
direttamente al sodo.»
«Che cosa
vuoi da me?»
«Ricordarti
perché sei qui».
Come per
magia la stanza incominciò a trasformarsi, e nello spazio di pochi secondi
tornò ad essere l’ambiente caldo, amorevole e
accogliente che Kahled rivedeva spesso nei suoi sogni: all’odore della muffa si
sostituì quello del pane cotto sulla pietra, il silenzio assoluto fece posto ai
rumori e ai suoni della città, e quella luce irreale venne scacciata dai caldi
raggi del sole.
Kahled si
guardò nuovamente intorno, poi da una porta laterale uscì una giovane e
bellissima donna con lunghi e fluenti capelli neri.
«Mamma!».
Era proprio lei, sua madre Selima,
così come la ricordava; non sembrava essersi accorta di lui, della sua
presenza, ma solo vederla bastava a riscaldargli il cuore.
Si volse
un attimo verso l’uomo in nero, che gli fece un cenno della mano con quel suo
sorriso sarcastico, poi tornò a guardare la madre, che appoggiato sul tavolo il
cesto di frutta che stava trasportando si inginocchiò
davanti alla piccola fornace, tirandone fuori con l’aiuto di una tavola di
legno sei pagnotte fumanti e profumate chesolo le mani di una esperta donna di casa sarebbero state capaci di
preparare.
Una serie
di schiamazzi e di passi veloci annunciarono l’arrivo
di due ragazzini scatenati che giocavano a fare i soldati brandeggiando spade
di legno, e Kahled non faticò a riconoscervi sé stesso e il fratello quando
avevano rispettivamente sei e sette anni.
«Kahled,
Altair, smettetela.» disse la madre mentre quelle due pesti saltavano da tutte
le parti
«Mamma,
abbiamo fame.» disse il piccolo Kahled «Quando si mangia?»
«Abbiate un po’ di pazienza. Aspettiamo vostro padre.» disse
porgendo loro una mela tagliata a metà «Intanto potete avere questa.»
«Grazie!».
Alzatasi,
Selima apparecchiò la tavola, e dopo poco entrò in
casa un uomo di bell’aspetto, alto e slanciato; tanto gli abiti piuttosto curati
quanto il disegno particolare della sua barba lo identificavano come un membro
della corte del califfo, ma era anche Yusuf, il padre dei due ragazzi, che
appena lo videro gli corsero incontro festanti.
«Papà!»
«Ah,
piccoli diavoli!» disse sorridente prendendo in braccio Altair, il suo
primogenito «Vi siete comportati bene oggi?»
«Sì,
papà.»
«A sentire il vostro maestro di scuola, non credo proprio.
La finirete mai di combinare guai?».
Sua
moglie gli si avvicinò porgendogli un bicchiere di latte freddo per lenire le
fatiche della giornata appena trascorsa; lui lo accettò, sorseggiandolo con
piacere, poi i due si scambiarono un piccolo e affettuoso bacio d’amore.
A
dispetto del suo ruolo e della sua posizione Yusuf era un uomo di mentalità
aperta, che aveva sposato la sua donna unicamente per amore e che aveva un
rapporto sereno sia con lei sia con i suoi figli, e per questo tutta la sua
famiglia gli voleva un mondo di bene.
Si
sedettero a cenare, e mentre mangiavano il padre
intratteneva i due figli con giochini e trucchetti con cui riusciva sempre a farli ridere, anche
nelle situazioni più tristi.
E Kahled
osservava, sorridendo al pensiero di quanto era stato felice in quegli anni
ormai lontani: allora era troppo spensierato ed
innocente per rendersi conto di quanti segreti suo padre stesse nascondendo a
lui come a tutta la sua famiglia, segreti pericolosi e sconvolgenti legati al
suo ruolo nella corte del palazzo.
«Te lo
ricordi, vero?» disse l’uomo in nero «Ti ricordi
quanto era semplice la vita a quell’epoca. Sarebbe stato bello continuare a
vivere così, vero? Ti saresti sposato, avresti avuto una famiglia, dei figli, e
una casetta tutta per te.
Ma già
allora eri ambizioso. Guardavi i bambini più ricchi e
quelli più forti con indicibile invidia, e anelavi i loro privilegi. Eri pronto
a cogliere qualsiasi occasione pur di poter diventare come loro.»
«Questo non è vero. A me quella vita andava benissimo, e
ricordo bene la felicità che provavo.»
«Dici davvero? E credi davvero che in questa vita possa
esistere la vera felicità?»
«Che cosa
vuoi dire?»
«La felicità non esiste. E non esisterà mai fino a quando
gli uomini continueranno a camminare lungo questa strada. Non possono vivere
senza farsi male l’un l’altro, e tu lo sai. L’umanità è marcia, è sudicia, e
indegna. E tu ti illudi di poterti costruire il tuo
piccolo eden in un mondo tanto corrotto? Pensavi sul serio che rinunciando a
tutto per Mira avresti ottenuto la felicità?»
«Tutto è
possibile, se solo lo si vuole. Niente è reale. Tutto
è lecito.»
«Hai bisogno
di ricordare quanto possa essere dolorosa la vita».
L’uomo in
nero indicò la porta, e in quell’istante tre uomini armati fecero
irruzione in casa.
Sicuramente
si trattava di tagliagole, assoldati da qualcuno di quei dignitari corrotti che
Yusuf aveva denunciato per restituire il favore.
Il
capofamiglia, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il tempo di impugnare un
coltello e di avventarsi su uni dei tre, riuscendo anche a ferirlo ma venendo ucciso subito dopo.
«No!»
urlò Kahled lanciandosi in avanti spada alla mano, ma
quando tentò di prevenire l’affondo mortale il suo corpo passò incredibilmente
attraverso a quelli del padre e del sicario, e lui si ritrovò buttato per
terra, impossibilitato a fare alcunché.
Sarebbero
sicuramente morti anche la moglie e i figli, ma in quello stesso momento due
Assassini entrarono a loro volta in casa; essendo un
collaboratore e un informatore Yusuf godeva della protezione dell’ordine,
pertanto c’era sempre qualcuno che teneva d’occhio la sua abitazione e che lo
seguiva nei suoi spostamenti per la città.
I tre
tagliagole vennero immediatamente e facilmente annientati, e
appena la situazione si fu acquietata i due fratelli, sopravvissuti
miracolosamente, restarono a lungo immobili ad osservare pieni di stupore la
grandiosità degli uomini che li avevano salvati.
Kahled
d’un tratto sentì riaffiorare le emozioni e i pensieri che avevano attraversato
la sua mente trovandosi di fronte quegli Assassini, e la consapevolezza che in
fin dei conti l’uomo in nero aveva ragione a dire che la prospettiva di un
simile potere lo aveva allettato fin dal primo istante si impadronì
della sua mente.
Era così
scosso che quasi non si accorse che uno degli assalitori, ferito e riverso ma
ancora vivo, aveva sfoderato il pugnale, e l’unica cosa che vide fu Selima che, avvedutasi del pericolo, si alzò da terra,
frapponendosi tra i suoi figli e la morte certa.
«No!»
gridò vedendo la madre cadere all’indietro trafitta al petto, ma prima che
potesse prenderlo tra le braccia il suo corpo e tutto
il resto svanirono come fumo, restituendo alla casa la sua aria tetra e
malandata.
Il
ragazzo restò a lungo inginocchiato sulla pietra, singhiozzando, e i suoi occhi
si riempirono di lacrime. Al contrario, l’uomo in nero seguitava a rimanere
impassibile, e anzi la sua espressione sembrava di gelida presunzione, come a
voler riaffermare la veridicità delle proprie affermazioni.
«Che ti avevo detto? La felicità non è una cosa che
appartenga a questo mondo, e non lo sarà mai.»
«No!»
gridò Kahled, un urlo così forte da fendere il cielo, ma che rapidamente si
spense, soffocato dal silenzio
«Guardati. Sei tormentato dai sensi di colpa. Proprio come
quel giorno. Tuttavia, al comprensibile dolore iniziale, in
te si sostituita la consapevolezza. La consapevolezza che la ragione sta
dalla parte del più forte, non del più virtuoso. Che l’unico mezzo per portare
la giustizia correva sulla punta della spada. E sono questi i propositi con i
quali ti sei unito alla confraternita.»
«No! Questo non è vero!» replicò Kahled voltandosi verso di
lui «Io credevo nei precetti degli Assassini! Io credevo nella pace!»
«Sì sì, ci credevi, questo non lo
metto in dubbio. Il problema è che ci credevi a modo tuo.»
«Cosa!?»
«Tuo padre credeva nella giustizia e nella pace, proprio
come gli Assassini. Credeva che il mondo sarebbe stato più giusto, che
mostrando agli uomini la via della giustizia l’avrebbero seguita. E dove l’ha
portato questa convinzione, l’hai scoperto da solo: tradito da coloro che reputava suoi amici.
È stato
questo che ti ha fatto capire la massima che regola ad
oggi tutto il tuo esistere: l’umanità è malvagia per definizione, e l’unico
modo per portare la pace tra questi esseri violenti e ipocriti è imporla con la
forza. E chi si oppone a questo, deve morire.»
«No. Io non ho mai pensato che uccidere indiscriminatamente
potesse favorire la causa della pace.»
«Davvero?».
Di nuovo
il panorama mutò, questa volta radicalmente, e in un batter di ciglia Kahled e
l’uomo in nero si ritrovarono nel cortile della fortezza di Masyaf,
circondato da centinaia di persone.
Alcuni
giovani Assassini stavano in piedi e in riga sulla sommità della terrazza che
stava dirimpetto al palazzo, dando le spalle alla folla, e tra di essi Kahled
riconobbe il sé stesso di molti anni prima.
Ricordava
bene quel giorno: il giorno della sua investitura, il
giorno del suo passaggio da Novizio ad Assassino vero e proprio dopo molti anni
di duro apprendistato. Arrivare fin lì era stato duro, molto duro:
gli allenamenti, le privazioni, le percosse. Molte volte era stato sul punto di
mollare, ma poi, in un modo o nell’altro, aveva sempre trovato la forza per
andare avanti, e ora i suoi sforzi stavano per essere premiati.
«Il
giorno più importante della tua vita, ho ragione?» disse l’uomo in nero,
perennemente accanto a lui.
Le porte
della fortezza si aprirono, e da dentro uscì il gran maestro Hasan-i Sabbah,
accompagnato da Altair, che già da un anno aveva ottenuto l’investitura ad
Assassino. Il maestro impugnava la sua spada, un’arma tanto magnifica da essere
di per sé un mito; secondo la leggenda molti grandi uomini del passato
l’avevano impugnata, da Alessandro Magno a Giulio Cesare, fino al Profeta, e
ognuno di essi l’aveva pervasa con un po’ della sua essenza divina.
Hasan-i
Sabbah l’aveva ricevuta in dono dal califfo del Cairo per i suoi servigi e la
sua lungimiranza, ma si diceva che il vero motivo risiedesse nelle parole di un
grande veggente, molto stimato e rispettato in Egitto, il quale ricevette in
sogno la visita di un arcangelo che gli ordinava di persuadere il califfo
consegnare la spada al futuro maestro, in quanto egli,
in un futuro non lontano, si sarebbe fatto portavoce della causa del cielo. Fin
dalla fondazione dell’ordine era uno degli oggetti più sacri per gli Assassini,
e Hasan-i Sabbah aveva già fatto sapere che ne avrebbe fatto
lascito per il suo successore.
I sei
adepti, tutti ragazzi tra i sedici e i diciannove anni, chinarono il capo,
porgendo la mano sinistra, e ad ognuno di loro il
maestro recise di netto l’anulare, sancendo in questo modo il loro ingresso
definitivo nelle file del sacro ordine.
Il vero
Kahled sentì un dolore lancinante alla mano destra nell’istante in cui quel
supplizio toccò al sé stesso di quel giorno ormai
lontano, tanto forte che strinse i denti con tutta la forza che aveva per
evitare di gridare.
«Da questo momento» disse Hasan-i
Sabbah ai suoi nuovi discepoli, che come ulteriore
prova di nobiltà e rettitudine non potevano in alcun modo manifestare il dolore
rimanendo assolutamente immobili «Voi diventate qualcosa di più di semplici
esseri umani. Con fede e onore avete sfidato i vostri limiti, ed oggi siete qui per raccogliere il frutto delle vostre
fatiche. La conoscenza illumina i vostri animi, la fede dimora nei vostri
cuori, la ragione guida le vostre lame.
Da oggi
in poi ogni vostra azione dovrà essere finalizzata ad
un unico scopo: la pace. In ogni cosa.
È per questo che voi lotterete. Per cui
ucciderete.
Voi
siete… Assassini».
La folla
chinò il capo in segno di rispetto, e Kahled, non visto, si scambiò un’occhiata
con Altair, il quale sorrise leggermente, come a volersi silenziosamente
congratulare con il fratello.
«Tuttavia»
proseguì il maestro alzando l’indice «Ricordatevi una
cosa. Benché vi siate elevati ad una condizione di
vita superiore tutti voi, nel profondo, restate pur sempre esseri umani. Tutti
noi lo siamo, e questo è un dogma al quale nessuno può sottrarsi.
La natura
e tutto ciò che ci circonda sono parte di un grande
disegno, e anche noi lo siamo. Un disegno divine che
sfugge anche alla nostra comprensione. E questa è una cosa che non dovrete mai
dimenticare. Siate umili, figlioli.
E,
soprattutto, non vacillate mai sui dettami che da ora
in poi regoleranno la vostra intera esistenza. Il Credo è unico e sacro, e non
sarete niente senza di esso».
Kahled,
il vero Kahled, sentì un colpo al cuore.
Ricordava
bene cosa aveva pensato quando il maestro aveva pronunciato quelle parole: il
Credo era sacro, senza alcun dubbio, ma sarebbe stato
molto difficile portare la pace in un mondo popolato di uomini che sembravano
provare un sadico piacere nel massacrarsi l’un l’altro.
Cosa poteva esserci di divino nel disegno che sembrava opera
di una mente perversa? Se gli dèi erano così superiori, così immensamente
perfetti, perché inserire nella creazione un essere così basso e meschino come
l’uomo, dotandolo oltretutto di un intelletto capace di produrre i pensieri e i
propositi più oscuri che si potessero immaginare?
Più di
una volta si era chiesto se in un tale panorama di desolazione potesse davvero
esserci spazio per la fede, ma se c’era una cosa che sapeva per certo nel
momento in cui il fratello gli metteva tra le mani il
bracciale con la lama nascosta era che ora, come Assassino, aveva il potere di
migliorare le cose, di costruire un mondo migliore, e poco importava se per
riuscirci avrebbe dovuto camminare sui corpi di innumerevoli persone: il fine
ultimo, la Pace
in Ogni Cosa, affinché nessuno dovesse più sopportare le sofferenze toccate a
lui, valeva ben più di qualsiasi vita umana.
«Devo
ammettere che non fa una piega.» disse l’uomo in nero leggendogli nella mente
«No. Io… non lo pensavo davvero.»
«Oh sì, che lo pensavi. E lasciatelo dire. Non è esattamente
il tipo di ideologia che mi aspetterei da un
Assassino.
Ma suppongo di non poterti dare torto. I mattoni per
costruire un ideale il più delle volte sono i cadaveri di coloro che la pensano
diversamente.»
«Non volevo che fosse così. Io volevo solo portare la Pace.»
«Questo non lo metto in dubbio. Ma
per creare la pace è necessario apprenderne il significato, e una specie tanto
sciocca e barbara come l’uomo non riuscirà mai neppure a concepirla questa
parola.
Non
credi?»
«L’uomo può cambiare. Gli uomini possono imparare a
diventare migliori.»
«Tuo padre diceva la stessa cosa. E guarda la fine che ha
fatto. Con il tempo hai soffocato quei pensieri, preso com’eri ad impegnarti per raggiungere i vertici, ma gli obiettivi
che ti eri professato in questo giorno non sono mai completamente scomparsi».
Ad un nuovo urlo straziante di Kahled tutte le persone
scomparvero, lasciandolo da solo con l’uomo in nero, e la bella mattina di sole
lasciò lo spazio ad un tetro cielo plumbeo, solcato dalle nuvole come le rughe
su di un corpo consumato dalla vecchiaia.
Il
giovane assassino si girò verso il suo interlocutore, guardandolo con occhi di
fuoco.
«Chi sei tu per parlarmi così? Cosa credi
di sapere tu di me? Io non sono come tu mi descrivi!
Ho abbandonato quei propositi!»
«No.»
rispose calmo quello «È l’esatto contrario. Li hai
riscoperti. E questo grazie alla situazione che stai vivendo, oltre
naturalmente a quello straordinario tesoro.»
«Straordinario
tesoro!? È un oggetto infernale! Da distruggere, come
diceva Altair!»
«È esattamente ciò di cui hai bisogno. Hai visto il suo
potere con i tuoi occhi, mi pare».
Un vento
gelido attraversò la piazza; l’uomo in nero guardò sarcastico a sinistra, e
Kahled fece altrettanto, scorgendo il corpo senza vita di Mira riverso sulla
schiena a pochi passi da loro.
«Mira!»
urlò correndogli incontro.
Il suo
corpo era gelido, i suoi lineamenti immobili, e la pelle già andava tingendosi
del pallore della morte. Kahled pianse, pianse come
mai nella sua vita, accarezzando quelle guance fredde e dure come il ghiaccio,
e intanto l’uomo in nero continuava a guardarlo, sfoggiando quel suo malvagio
sorriso.
«Non è
stata tua la colpa.»
«Io… io
l’ho uccisa.»
«No. Tu hai fatto il tuo dovere. Lei ha cercato di
aggredirti, e tu ti sei difeso.»
«Io l’ho
uccisa!»
«Capisci adesso? Quante altre persone dovranno morire prima
che tu capisca che è giunto il momento di fare la cosa giusta? È morta la tua
famiglia, è morta la donna che amavi, e di chi è la
colpa? Non tua. La colpa è degli uomini, e della loro mente malata.
Quell’oggetto,
la Parola di
Allah, può mettere fine a tutto questo. Può realizzare il tuo sogno.»
«Il mondo
non ha bisogno di una cosa simile.» rispose singhiozzando Kahled e senza
staccare gli occhi dal volto di Mira
«Ma tu sì. E il modo in cui quel califfo lo sta usando è stata la prova definitiva, mi pare. L’uomo è malvagio per
definizione. C’è un solo modo per dare agli uomini la pace. Imporgliela.»
«No! La pace è una cosa da comprendere. Da accettare. Non
può essere imposta.»
«Non con metodi convenzionali. Perché vedi, gli uomini hanno
una cosa chiamata libero arbitrio, ed è in assoluto la più terribile delle
maledizioni. Fino a che ne saranno dotati non
conosceranno mai la pace, perché è proprio nel libero arbitrio che risiede il
fulcro della loro malvagità.
Tuttavia,
come hai visto tu stesso, il potere della Parola di Allah consiste
nell’annichilire questa follia razionalizzata. Possedere quel potere significa
possedere la chiave per portare la pace e la giustizia sulla Terra.»
«Questa…»
disse Kahled sfiorando gli occhi chiusi di Mira «Questa sarebbe giustizia?»
«Te l’ho detto. La strada verso un mondo migliore dovrà
essere lastricata con i corpi e il sangue di molte persone, e tu lo sai.
Nemici, ma anche alleati. Persone che con la loro morte serviranno a favorire
la causa che vuoi portare a termine.
La morte
di Mira è stata terribile, ma non sarà stata vana se
farai la scelta giusta.
Devi
compiere il tuo destino. Il sogno è lì ad un passo.»
«Io… io non voglio. Non voglio
diventare un mostro.»
Di colpo,
il corpo di Mira prese come a sgretolarsi, e sotto gli occhi disperati di
Kahled non divenne nulla più che un mucchio di cenere. Il ragazzo cercò di
tenerla insieme, ma fu tutto inutile, e di nuovo alla tristezza fece seguito la rabbia, una rabbia ceca ed incontrollabile.
«Perdi di
vista il tuo obiettivo, e tutto andrà irrimediabilmente in cenere.»
«Tu… maledetto. Non voglio più sentirti.»
«Ora che ci penso, non ti pare strana questa missione?
Indubbiamente
il maestro sapeva dei grandi poteri di cui era dotata la Parola di Allah. Ma, se è così, per quale motivo non ha ordinato di
distruggerla?».
Kahled
esitò, colto alla sprovvista. Quello che diceva l’uomo in nero era vero: sia
lui che Altair avevano notato questa stranezza, e
trovarvi una spiegazione plausibile era molto difficile.
La Parola di Allah non era
fatta per restare in mano ad un qualsivoglia uomo, ma
allora perché il maestro aveva ordinato loro di recuperarla e non di
distruggerla, in modo che nessuno potesse più servirsene?
«Se ci pensi bene, è parecchio strano. Del resto però, è già
da un po’ che nutri dei dubbi sulla sanità mentale del vecchio, oltre che sulla
sua rettitudine.
Non
dimentichiamoci che quell’uomo ha compiuto atti ignobili, e che inizialmente
aveva fondato l’ordine degli Hasisiyyun solo per
farne dei sicari con cui togliere di mezzo personaggi scomodi.
Fossi in te non mi fiderei di una persona simile. Però, cieco e
stolto come sei, non ci si poteva aspettare niente di diverso.»
«Basta.»
disse Kahled a denti stretti
«Anche se
i sospetti sulla sua rettitudine si rivelassero infondati, quel vecchio ormai
ha perso la ragione.»
«Taci.»
«Deve essere fermato prima che provochi altro dolore. E
qualcuno deve prendere il suo posto.»
«Ti ho
detto di tacere.»
«Ovviamente,
questo solleva la spinosa questione della successione, ma del resto tu sai di
meritare il titolo di maestro ben più di tuo fratello.»
«Basta!».
Con la
rabbia in corpo Kahled si alzò di scatto, e giratosi trapassò con la spada
l’uomo in nero da parte a parte; quello si piegò in avanti, gemendo un attimo,
ma poi, rialzato il volto, lanciò al ragazzo il suo sorrisetto malefico.
«Quanta rabbia. Quanto odio. È questo l’agire di un uomo
giusto?».
Kahled
rimase immobile per lo sconcerto, poi davanti ai suoi occhi il corpo dell’uomo
in nero prese letteralmente a sciogliersi come neve al sole.
«Non puoi
mutare il corso della corrente, Kahled».
A causa
del contraccolpo il cappuccio dell’uomo in nero scivolò all’indietro non appena
il ragazzo ritirò la spada, e ciò che apparve era tanto orribile e spaventoso
da non poter essere descritto a parole. Non un volto umano, ma le orribili,
agghiaccianti fattezze di un demone infernale: la pelle, di un colore terreo,
era secca come il fango e segnata da profonde rughe,
gli occhi erano giallo e i pochi capelli, lunghi e ispidi, erano secchi come la
paglia; le labbra, bellissime fino ad un attimo prima, erano tutte tagliate, e
i denti, marci all’inverosimile, sporgevano in tutte le direzione.
«Chi…»
domandò Kahled indietreggiando terrorizzato «Che cosa sei
tu!».
Rapidamente
anche la faccia cominciò a sciogliersi, e quando l’uomo in nero la risollevò
tutto quello che rimaneva era uno spaventoso teschio
grigio fumo; fiamme azzurre scintillavano nel buio delle orbite, e i denti,
tornati all’apparenza sanissimi, erano piegati in un’espressione malvagia.
«Quello
che tu diventerai».
Kahled
urlò con tutta la sua voce, il panorama tutto intorno scomparve in pochi
istanti, un lampo lo investì e di nuovo tutto divenne nero.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Che bello, mi sento
libero come non mi capitava da tempo.
Oltretutto, ho
scoperto che dalla seconda settimana di dicembre e fino a natale
dovrò andare in università solo una volta ogni tanto, perché a noi studenti del
vecchio ordinamento viene fatto uno sconto sulle ore da seguire del corso di
inglese.
Il brutto è che,
oltre all’esame di inglese, ne ho altri due da
preparare prima di natale, Linguistica mercoledì e Grammatica Spagnola il 21,
ma niente di impossibile.
Questo è il penultimo
capitolo, ora mancano solo l’ultimo e l’epilogo. Lo so che è più corto rispetto
agli altri, ma questo genere di capitoli non sono mai stato molto bravo a
scriverli, e mi servirà un po’ di tempo per affinare la tecnica.
Kahled si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di
sudore, il respiro affannoso come dopo una lunga corsa e lo sguardo spento.
Gli ci
vollero parecchi secondi per riuscire a mettere bene a fuoco, e appena fu in
grado di vedere con una certa chiarezza la prima cosa di cui si avvide era di
avere l’occhio destro bendato con delle garze, ma dopo il colpo che aveva
subito la cecità era il minimo che si dovesse aspettare.
L’ambiente
era quello di una casa povera, un seminterrato, a giudicare dalle finestre
strette e poste a ridosso del tetto, con un tavolino, uno sgabello e il letto
sul quale era disteso a contendersi lo spazio con tavole di legno, attrezzi e
ogni altro ciarpame.
Gli
faceva male dappertutto, aveva vari altri bendaggi disseminati su tutto il
corpo e la barba decisamente più lunga del normale, segno che dovevano essere
passati parecchi giorni dall’ultima volta che si era rasato.
Era da
poco passato mezzogiorno, si capiva dalla luce fortissima che entrava dagli
spioncini, e a sentire l’insistente vociare dei muezzin doveva essere proprio
l’ora della preghiera del pomeriggio.
Stava
cercando di riprendersi completamente quando la porta si aprì ed entrò suo
fratello con in mano un fagotto di tela contenente, dal profumo, il necessario
per una cena frugale.
«Kahled.»
disse vedendolo seduto sul letto «Ti sei svegliato.»
«Fra…
fratello.»
«Avevano
detto che avresti impiegato del tempo per svegliarti, ma non immaginavo così
tanto. Stavo cominciando a preoccuparmi seriamente.»
«Cosa…
che giorno è oggi?»
«Oggi è
il secondo giorno del terzo mese.»
«Il
secondo del terzo mese!? Ma allora…»
«Hai
dormito per quasi venti giorni. Ma con tutte le ferite che ti ritrovavi, il
medico reputa già un miracolo che tu sia sopravvissuto.»
«Dove ci
troviamo?»
«Nello
scantinato di un nostro fratello. La casa è disabitata. Dopo quella notte il
califfo ha cominciato a setacciare tutti i possibili rifugi, e molti Assassini
con le loro famiglie hanno lasciato la città per tornare a Masyaf in attesa che
si calmino le acque».
Ad un
certo punto Kahled si ricordò di quello che era successo, e il suo cuore
minacciò di fermarsi nel momento in cui l’immagine di Mira che si spegneva
dinnanzi a lui gli passò davanti agli occhi. Altair, comprendendo i sentimenti
che stava provando, abbassò lo sguardo, mostrandosi triste e addolorato tanto
quanto lui. Dopotutto, anche lui era molto legato a Mira, e come il fratello la
conosceva fin dai tempi dell’addestramento.
In una
sola notte entrambi avevano perso un maestro ed una cara amica, e la colpa di
tutto quel dolore era tutta di un solo uomo. Nonostante ciò, Kahled non
riusciva in alcun modo a liberarsi del senso di colpa, che come un pesante
macigno seguitava a gravare sul suo cuore e che, probabilmente, non se ne
sarebbe mai più andato.
«Non è
stata colpa tua, Kahled.»
«Io l’ho
uccisa…»
«È Jahal
l’unico responsabile di tutto questo. È lui ad avervi messi l’uno contro
l’altro.»
«Io l’ho
uccisa!».
I suoi
occhi si riempirono di lacrime, ma a causa di un movimento furioso del braccio
nel tentativo di tirare un pugno al muro lo colse un dolore lancinante, che
tuttavia servì solo a rendere più forte la sua disperazione.
Altair lo
lasciò in pace, comprendendo a pieno il suo bisogno di sfogarsi.
«Dov’è
ora?» domandò Kahled dopo poco, a denti stretti, come a voler trattenere a
stento una incontrollabile furia infernale.
Altair si
morse le labbra, mostrando palesemente il proprio nervosismo.
«Abbiamo
recuperato il suo corpo subito dopo averti salvato. Era qui, in questa casa.
Volevo aspettare fino a che ti fossi risvegliato, ma quando il tempo ha
cominciato a segnarlo non ho avuto altra scelta che ufficiare il rito del
trapasso».
Di nuovo,
Kahled si lasciò andare al pianto, un pianto sommesso e a viso nascosto.
Non
poteva neppure vederla un’ultima volta. Non avrebbe più rivisto il suo viso,
carezzato le sue guance, ammirato il disegno dei suoi lunghi capelli neri.
«Voglio
vederla».
Il
fratello minore fece per alzarsi, ma il dolore era troppo forte, così Altair fu
costretto a sorreggerlo. Insieme uscirono dal seminterrato e salirono
attraverso un’abitazione ormai deserta fino sul tetto: il sole splendeva con
tutta la sua forza, e Baghdad risplendeva come una gemma radiosa, un’oasi
lussureggiante nel bel mezzo del deserto.
Al
centro, su di un piccolo altare, stava un’urna cinerea piccola e semplice,
chiusa con un coperchio di legno sigillato con della cera, e al suo fianco due
candele ormai consumate.
Quello
era tutto ciò che restava di Mira, la
Tigre d’Oriente, come era scherzosamente soprannominata dagli
altri Assassini della città; dalla cenere del mondo era stata generata, e alla
cenere sarebbe infine tornata, dopo che i suoi resti mortali fossero stati
riportati nel luogo che aveva visto la sua nascita, come imponeva il codice
religioso dell’Ordine.
La morte
non era altro che la conclusione naturale della vita terrena, il ritorno alla
terra da cui si era stati separati, e, secondo la fede del Buddha, in cui Mira
aveva sempre creduto, la prima tappa del passaggio ad una nuova rinascita.
Ma questo
per Kahled non aveva alcuna importanza, e non riusciva ad accettare l’idea di
essere stato l’artefice della sua morte.
Quasi
strisciando, e tremante come una foglia, si avvicinò all’urna, prendendola e
stringendola con tutte le sue forze, mentre le sue lacrime scendevano inesorabilmente,
rigandone la superficie.
Alzato lo
sguardo dopo un pianto che avrebbe spezzato il cuore anche all’uomo più
insensibile, vide, in lontananza, il palazzo del califfo, e allora la sua
rabbia si fece cento volte più forte. Rimessa l’urna al suo posto, e incurante
del dolore, mosse un passo come a voler saltare sul tetto vicino, ma Altair
fulmineo gli fu subito addosso, ed afferratolo a stento riuscì a trattenerlo.
«Lasciami!»
«Calmati
Kahled!»
«Lo
ammazzerò! Ammazzerò quel bastardo, fosse l’ultima cosa che faccio!»
«Cerca di
ragionare, non ti reggi in piedi! Affrontarlo nelle tue condizioni sarebbe un
suicidio!»
«Non mi
importa, lo voglio morto!».
Alla fine
Altair fu costretto a mollarli un tremendo diretto allo zigomo per costringerlo
a calmarsi.
«Non
capisci?» disse mentre il fratello, stremato e distrutto, si lasciava andare
alla disperazione «Se muori anche tu chi vendicherà la morte di Mira!
Io
comprendo benissimo i sentimenti che provi, ma c’è tempo e tempo, e un
Assassino che non è neanche in grado di camminare è come un’aquila con le ali
spezzate.»
«Lo… lo
so. Però…».
Vederlo
così, in quelle condizioni, fece stare male Altair come mai nella sua vita;
impietosito, gli mise una mano sulla spalla, confortandolo come già altre volte
aveva fatto; ai tempi dell’addestramento, quando le percosse, la fatica e il
dolore erano stati più di una volta sul punto di spingere Kahled a rinunciare.
«Verrà il
momento della vendetta, Kahled. Te lo prometto.»
«Fratello…»
disse lui guardandolo con gli occhi di un leone che, per quanto ferito, non
rinuncia all’idea di battersi.
Altair
dovette quasi caricarselo in spalla per riportarlo nel seminterrato e
rimetterlo a letto, tanto il corpo gli faceva male da tutte le parti a causa
delle ferite.
«Tieni.»
disse poi lanciandogli uno dei due kebab che aveva comprato al mercato «Devi
mettere qualcosa sotto ai denti se vuoi tornare presto in forze».
Mentre
stavano mangiando qualcuno bussò alla porta, mettendo i due fratelli sul chi
vive; lasciato cadere il proprio panino Altair si appiattì contro l’uscio spada
in mano, Kahled invece sfoderò un pugnale, pronto a lanciarlo in caso di
pericolo.
«Sono
io.» disse dall’alta parte una voce rassicurante.
Tirando
un sospiro di sollievo Altair rinfodero la spada e aprì leggermente la porta,
lasciando entrare un confratello completamente nascosto nella sua veste e nel
copricapo che indossava, il quale si limitò a consegnare una lettera prima di
scomparire nuovamente.
Altair la
aprì, leggendola, e a guardarlo negl’occhi Kahled capì subito che non erano
buone notizie.
«Che
succede?»
«Jahal è
stato convocato dal sultano. Ha ricevuto un elogio e una promozione per
l’esecuzione di molti dei nostri fratelli qui a Baghdad. Parte per Isfahan
domani mattina.»
«Che
cosa!?»
«C’era da
aspettarselo. Sicuramente gli verrà conferito un incarico di alta fiducia nella
corte reale.»
«Dobbiamo
fare qualcosa! Non possiamo permettere che riesca a farla franca!
Hai una
qualche idea di cosa potrebbe fare con la Parola di Allah in una città come Isfahan?
Potrebbe asservire al suo volere tutte le più alte cariche dell’impero, o
addirittura tutti i suoi abitanti! A quel punto, chi o cosa potrebbe più
fermarlo?»
«Ne sono
perfettamente consapevole.»
«Dobbiamo
agire subito! All’istante!».
Spinto
dalla frenesia Kahled fece nuovamente per alzarsi, ma i dolori atroci che
ancora lo dilaniavano lo costrinsero a rimettere la testa sul cuscino.
«Non
sfidare i tuoi limiti, fratello.»
«Ma…
dobbiamo fermarlo ora.»
«Sono
d’accordo con te, ma anche se il tempo non ci è amico non possiamo permetterci
di lasciarci prendere dalla fretta, né lasciare tutto al caso.
Al
contrario, ora più che mai dobbiamo tenere a mente ciò che è necessario per
considerarsi un vero Assassino, e pensare in maniera il più possibile lucida.
Ora andrò
in giro ad investigare, e a parlare con i nostri fratelli ancora in città.
Vedrò se riesco in qualche modo a ritardare la partenza del califfo, così
avremo il tempo di pianificare con attenzione le nostre prossime mosse.
In caso
contrario, studieremo un modo per colpire prima che arrivi alla capitale. Lungo
il viaggio sarà di sicuro più vulnerabile.
Tu però,
promettimi che non farai niente di avventato. Promettimelo».
Kahled
guardò in basso, come un bambino colto in flagrante a commettere una
marachella; nonostante tutti i buoni propositi e il suo bruciante desiderio di
vendetta era ormai perfettamente consapevole che nelle sue attuali condizioni
non avrebbe potuto avere la meglio neppure su un brigante di strada, quindi la
raccomandazione di Altair, dettata più che altro da sincera ed ammirevole
preoccupazione fraterna, era del tutto inutile.
«Lo
prometto».
Altair
quasi accennò un sorriso di soddisfazione, tirando tra sé e sé un sospiro di
sollievo.
«Tornerò
il prima possibile. Tu riposa. Dovrai essere in perfetta forma per quando
colpiremo».
Rimasto
solo Kahled si lasciò sprofondare sotto le coperte, piangendo quelle poche
lacrime che gli erano rimaste.
Si
sentiva un inetto, un incapace, un fallito: aveva ucciso la donna che amava con
le sue stesse mani, aveva permesso che il suo maestro morisse per salvargli la
vita e, cosa più grave di tutte, aveva vacillato sulle proprie convinzioni nel
momento in cui aveva visto con i suoi occhi gli sterminati poteri della Parola
di Allah.
Infondo,
l’uomo in nero che aveva incontrato nel limbo tra la vita e la morte, e che
così crudelmente lo aveva giudicato, aveva ragione: in lui c’era un mostro, una
bestia selvaggia e sanguinaria, disposta a qualsiasi cosa pur di realizzare il
sommo ideale degli Assassini senza però curarsi minimamente dei mezzi con i
quali lo perseguiva, né delle vite che per esso sarebbero potute andare perse.
Ma non
l’avrebbe permesso: non avrebbe permesso a quel mostro di uscire. Lui e lui
solo era padrone delle sue emozioni, e per nulla al mondo avrebbe tradito i
precetti del Credo, quegli stessi precetti che, nel momento di massima
oscurità, quando credeva che non valesse più la pena di vivere, gli avevano
dato qualcosa di nuovo in cui credere, e una nuova famiglia.
Quando
quell’oggetto blasfemo fosse andato distrutto la tentazione sarebbe scomparsa,
e il mostro in lui non avrebbe avuto più alcun mezzo per tentarlo.
Voleva
riportare la pace, ma l’avrebbe fatto secondo il Credo, non secondo i propositi
malvagi di quell’essere oscuro, e per nulla al mondo la profezia vaticinatagli
prima di fare ritorno nel mondo dei vivi si sarebbe concretizzata: non sarebbe
diventato un mostro simile.
Tuttavia,
aggrapparsi con forza ai precetti degli Assassini non serviva a mitigare in lui
il desiderio di vendetta: il califfo, quel maledetto tiranno assetato di
potere, doveva pagare per ciò che aveva fatto. Mai più si sarebbe arrogato il
diritto di giocare con le vite degli altri, di soggiogare la loro mente e
costringere le persone a servirlo contro la loro volontà.
Rialzatosi
a fatica, si avvicinò barcollando alla propria veste, appesa al soffitto per
mezzo di un gancio, e quasi per caso, mentre vi faceva scorrere la mano sopra,
sentì qualcosa all’interno di un risvolto. Appena vide di che si trattava
rimase sconvolto, e dentro di lui si scatenò una tremenda tempesta.
Significava
vendere la propria anima, ne era perfettamente consapevole, sempre se ce
l’aveva ancora, e un giorno avrebbe dovuto rendere conto di ciò che ora il suo istinto
gli diceva di fare.
Che ne
era di tutti quei propositi, di tutte quelle aspirazioni che aveva avuto solo
pochi minuti prima?
Era
davvero tutto così privo di significato?
Però, se
era per una buona causa…
Come
diceva sempre Hasan-i Sabbah, a volte il bene nasce dal male. Ma era davvero
saggio, e soprattutto giusto, arrivare a tanto?
Se è vero
che a volte il bene nasce dal male, è vero in egual misura che svendere la
propria coscienza in quel modo non era esattamente ciò che ci si potrebbe
aspettare da un Assassino.
E poi,
per che cosa lo stava facendo? Per la confraternita, per Mira, o solo per sé
stesso?
Voleva
credere che in fin dei conti la sua scelta fosse giusta, che stava agendo
unicamente nel nome di un nobile ideale, eppure una parte di lui avversava
quella scelta, e continuava ad urlargli di non farlo, che una volta intrapreso
quel sentiero non avrebbe più avuto modo di tornare indietro.
Ma era
già troppo tardi.
Qualche minuto dopo Kahled era tornato al pieno delle
forze, e tutte le ferite che fino ad un istante prima devastavano il suo corpo
erano completamente scomparse; solo la menomazione all’occhio era rimasta,
sottoforma di una pupilla completamente bianca e di un segno obliquo che mai
sarebbe dovuto scomparire.
Sarebbe
stato il suo monito: il suo modo di ricordarsi per tutta la vita da dove
proveniva, che cosa aveva fatto, e che prima o poi qualcuno, in un giorno anche
lontano, sarebbe venuto a presentargli il conto.
Lentamente,
come se fosse stata la prima volta, indossò la propria veste, con le movenze
impercettibili e la profusione spirituale tipiche di una preghiera.
“Io non
diventerò un mostro.” disse facendo scattare la lama nascosta “Farò ciò che
ritengo giusto, ma non tradirò mai i precetti del Credo. Il Credo è la mia vita.
Dio onnipotente. Nelle tue mani ripongo la mia anima. Fa di me ciò che vuoi”.
Infoderata
la spada, uscì all’esterno. Le strade erano affollate di gente, e che se negli
ultimi giorni le guardie avevano più volte sollecitato la popolazione a
guardarsi da individui sospetti vestiti interamente di bianco nessuno fece caso
alla sua presenza, considerandolo unicamente come uno dei tanti volti tra la
folla.
Così era
la vita di un Assassino: discreto, distaccato, perennemente anonimo, tranne
quando arriva il momento di vibrare il colpo.
Pensò per
un attimo a quando aveva cominciato, a quando il solo camminare tra la gente
bastava a fargli venire il batticuore, e aveva paura a fare qualsiasi cosa che
potesse anche lontanamente essere considerata fuori dalle righe e potesse farlo
smascherare.
Ora,
invece, era davvero una lama tra la folla, un giustiziere silenzioso che aveva
il sacro compito di portare la pace e la giustizia ripulendo il mondo
dall’oscurità che lo opprimeva, un’oscurità che poteva avere molti nomi:
fanatismo, oppressione, crudeltà, avidità.
Più
volte, privando della vita i suoi bersagli, si era interrogato sull’effettiva
esistenza di Dio, ma era altresì vero che la fede era una delle poche cose a
cui uomini come loro potevano aggrapparsi per riuscire a proseguire la loro
incessante camminata attraverso il marciume del mondo, un marciume che stava
proprio a loro epurare, affinché tutti gli uomini di buon cuore potessero un
giorno godere di una nuova Terra libera dal male e completamente pacificata.
Prima di
uscire aveva rivolto una preghiera a Dio, e questa era la prova che, nonostante
tutto, era rimasto padrone del suo cuore, che non aveva dimenticato il Credo, e
che mai lo avrebbe fatto.
Quando
giunse in vista del portone del palazzo la rabbia si impadronì nuovamente di
lui, spingendolo a desiderare una cosa sola: vendetta. Appartatosi in una zona
poco frequentata attese di essere solo per intraprendere la scalata alle mura,
ma appena fu sui ballatoi venne inavvertitamente notato da due guardie che
facevano il turno di ronda.
Quelle
gli si fecero incontro armi alla mano, ma lui, senza difficoltà, ne trafisse
una con un pugnale, l’altra invece, dopo avergli piantato la sua stessa spada
nello stomaco, la scaraventò giù dalle mura direttamente in strada, cosa che
scatenò inevitabilmente il panico tra i cittadini che stavano transitando in
quel momento.
Liberatosi
di quella seccatura, e accertatosi di non avere addosso altri occhi indiscreti,
scese nel cortile, rivolgendo quasi subito le sue attenzioni sulla torre che
svettava verso l’alto proprio al centro del palazzo; alta più di cento metri e
con un raggio di almeno quindici, di forma cilindrica, era una delle grandi
meraviglie dell’impero, una costruzione gigantesca, e aveva sulla sommità una sorta
di basamento più largo che le dava, da lontano, la forma di un calice.
Una
sensazione gli attraversò il corpo, accompagnata subito dopo da una
consapevolezza: era lì che avrebbe trovato il suo nemico.
Vedendolo
avvicinarsi le guardie che sorvegliavano la struttura fecero per fermarlo, ma
il ragazzo, sfoderati altri due pugnali, li lanciò contemporaneamente,
trafiggendo i poveri malcapitati rispettivamente nella bocca e in mezzo alla
fronte, e lasciandoli a terra senza vita.
Entrato
nell’edificio, completamente vuoto all’interno, fatta eccezione per la rampa a
chioccia che saliva fino in cima, salì sul montacarichi di servizio, azionando
con una leva il meccanismo di contrappesi che lo mise in funzione e salendo
così verso l’alto.
Tanti
pensieri attraversarono la sua mente in quel breve viaggio verso il confronto
più importante della sua vita: pensava a Mira, a suo fratello, e a cosa
avrebbero potuto pensare di lui, ma ormai era troppo tardi per tornare
indietro.
Occorsero
una trentina di secondi per arrivare sulla cima della torre, una vasta piazza
circolare circondata da un reticolo di alte colonne che sorreggevano un
pregiato architrave ad anello, e come i suoi occhi tornarono a scorgere la luce
del sole si accorse di essere completamente circondato da un vero esercito di
uomini, se così li si poteva chiamare, tutti bene armate e pronte alla
battaglia; i loro occhi scintillavano di azzurro, i loro corpi parevano di
pietra, e le loro armature ricordavano quelle che Kahled aveva visto indossare
a suo tempo da alcuni soldati dei magnifici e in gran parte ancora sconosciuti
regni dell’India.
Non
sembrava esservi nulla di umano in loro, e nell’istante in cui si lanciarono
all’attacco Kahled mise mano nello stesso tempo alla spada e al pugnale,
ingaggiando con lui uno scontro feroce.
Era come
stare nuovamente sognando; non riusciva a capire che cosa gli stesse
succedendo, ma ciò che provava era impossibile da descrivere: era… surreale.
Quel
potere sconosciuto gli scorreva nelle vene come un fiume di lava, e sentiva di
poter fare qualunque cosa, se solo lo avesse voluto. In pochi minuti ebbe
ragione di tutti gli assalitori, per quanto forti, veloci e pericolosi, e come
l’ultimo si accasciò a terra trafitto al torace lui e tutti gli altri
scomparvero nel nulla consumati da delle fiamme azzurre che di loro non
lasciarono neanche la polvere.
Kahled si
guardò un momento intorno, poi nel silenzio riecheggiò una malefica risata.
«Vieni
fuori!» gridò al vento «Chiudiamo questa storia!».
Davanti a
lui si materializzò una vampata di fuoco celeste da cui uscì Jahal, sprezzante
e sicuro di sé come non lo era mai stato; indossava una ricca veste blu
oltremare sormontata da una leggera armatura d’argento, decorata con alcuni
altorilievi. In una mano teneva una pregiata scimitarra con l’impugnatura
apparentemente d’oro massiccio, nell’altra la Parola di Allah, che brillava di quel suo
bagliore sinistro.
«Dunque
sei tornato.»
«Non ho
la coda di paglia.»
«E
neppure il buon senso, a quanto pare.»
«Qual è
il tuo scopo? Perché fai tutto questo?»
«Non
giudicarmi, Assassino. Ti assicuro che ho le mie buone ragioni.»
«E quali
sarebbero? Schiavizzare gli esseri umani e costringerli a servirti?»
«È ciò
che credi tu, cieco come sei. Io non sono affatto come tu mi dipingi.»
«Che vuoi
dire?»
«Oro.
Potere. Donne. Tutte queste cose le ho già, e se solo lo volessi potrei averne
ancora, e senza bisogno di questo. Il mondo è così marcio e corrotto che sono
proprio gli uomini come me, quelli che la gente reputa malvagi, quelli che
riescono ad arrivare più in alto.
Voi
Assassini, che vi illudete di poter cambiare questa realtà di fatto, non siete
altro che degli ingenui.»
«Se non è
l’ambizione a guidarti, allora che cosa?».
Jahal a
quella domanda smise di camminare lentamente avanti e indietro, come aveva
preso a fare da che era arrivato, strinse più forte la Parola di Allah e chiuse
gli occhi.
«Questo
oggetto. Questa Parola di Allah… è dotata di un grande potere. Un potere che tu
non puoi neanche immaginare. Credevo sul serio che con il suo aiuto sarei
arrivato a dominare il mondo intero.
Ma poi,
nel momento in cui mi sono guardato attorno, e ho visto che cosa mi circondava,
ho capito che cosa volevo davvero.
Io
voglio… il ricordo.»
«Il
ricordo!?»
«Non
capisci? Noi siamo tutti mortali. Prima o dopo tutti moriamo. Sta nell’ordine
delle cose. E quando moriamo, inevitabilmente, scompariamo.
La morte
cancella tutto, senza distinzioni, e nel momento in cui anche il ricordo di ciò
che sei stato si spegne, di fatto è come se non fossi mai esistito.»
«È
davvero questo a farti paura? Essere dimenticato?»
«Lo trovi
così strano, Assassino?» gridò Jahal quasi piangendo, e con la voce rotta
dall’emozione «Io l’ho visto! Ho visto cosa ci attende dall’altra parte!
Cori
angelici, il paradiso terrestre, la beatitudine eterna! Tutte stupidaggini!
E se non
possiamo sperare almeno nel ricordo di chi verrà dopo di noi, che cosa ci
resta!».
Dopo
quello sfogo di disperazione il califfo parve calmarsi, e fece un paio di
respiri profondi per riguadagnare l’autocontrollo.
«Io…»
disse tenendo lo sguardo a terra «Dominerò ogni cosa. Conquisterò tutto ciò che
può essere conquistato, avrò tutti le genti della Terra ai miei piedi, e concentrerò
nelle mie mani quanto più potere possibile.
Lascerò
un marchio indelebile nella storia e nel destino di questo mondo, così profondo
e radicato che mai potrà essere dimenticato, neppure di fronte all’eternità.
Tramite queste mie gesta il mio ricordo sopravvivrà attraverso il tempo, ed io
con lui. Allora, e solo allora, potrò davvero esistere.»
«Sei
patetico.» rispose secco Kahled
«Che
cosa!?» ringhiò Jahal rialzando gli occhi
«Come
altro ti si potrebbe definire? La cosa che desideri più di ogni altra potrai
ottenerla solo dopo la morte. Quella stessa morte che ti terrorizza tanto.»
«Allora dimmi, visto che sembri
tanto sicuro di te, abbastanza da criticare i miei propositi. Per che cosa vivi
tu?»
«Io vivo per portare la pace. Io
voglio creare un mondo dove non ci sia sofferenza, dove nessuno debba conoscere
il dolore che ho dovuto subire io, e dove gli uomini vivano l’uno accanto
all’altro senza farsi alcun tipo di guerra.»
«E questa forse, non è la tua di
ambizione?».
Kahled rimase un attimo spiazzato,
non sapendo cosa rispondere.
«Non sei certo nella posizione per
potermi fare la predica, Assassino.»
«Se essere ricordato è tutto ciò a
cui aspiri, non è necessario fare tanto. Basta cambiare anche di poco la vita
di qualcuno, avere avuto per lui un significato particolare, e avrai la
certezza di avere qualcuno che si ricorderà di te.»
«Stolto.
A me non importa niente di vacue memorie. Io voglio essere ricordato per tutta
l’eternità.»
«Beh, in
questo mi dispiace distruggere il tuo castello di illusioni, ma sappi questo.
Niente, assolutamente niente, dura per sempre.
Mettere tutto sé stessi in ogni
cosa che si fa, e impegnarsi costantemente nella costruzione della propria vita
nel poco tempo che abbiamo. Questo significa esistere.»
«Che discorso commovente.» rispose
Jahal con uno strano sorriso, mentre attorno a lui andava formandosi un alone
azzurro che diventava sempre più grande «Se sei davvero convinto di ciò che
dici, allora mostrami questo “tutto sé stessi”. E le tue emozioni, e i tuoi
sentimenti, e le tue memorie.
Così che possa spazzarli via!».
I due corsero l’uno contro l’altro,
e come le loro spade cozzarono si produsse un baccano assordante, oltre ad una
vera pioggia di scintille. Jahal dimostrava forza, velocità e destrezza di
molto superiori a quelle di un comune essere umano, ma nonostante ciò Kahled riusciva
comunque a restargli dietro.
Purtroppo, più l’aura azzurra che
lo circondava aumentava di intensità, più le sue capacità aumentavano di
efficacia, e ad un certo punto il giovane Assassino cominciò a sentire il peso
della differenza di livello. Venne ferito più e più volte, fortunatamente
sempre in parti non vitali e solo in modo leggero, ma era un chiaro segnale del
fatto che lo scontro non poteva andare avanti per molto tempo.
Una sola cosa poteva salvarlo, e
permettergli se non altro di poter combattere ad armi pari, ma farlo voleva
dire davvero gettare via tutte le sue convinzioni, e vedendo l’espressione sul
volto di Jahal, che di secondo in secondo si faceva sempre più sadica e
malvagia, gli veniva da comandarsi se anche lui, se avesse avuto quel potere
tra le mani, sarebbe diventato così, preoccupato unicamente di perseguire i
propri obiettivi.
«Vedo qualcosa nel tuo sguardo,
ragazzo.» disse Jahal vedendo l’espressione di Kahled dinnanzi ai poteri della
Parola «Vedo l’ambizione, e l’ingordigia. Questo potere tenta anche te, non è
vero?»
«Ti sbagli!»
«Come darti torto. Ma è
inevitabile. Quando si vede con i propri occhi qualcosa di simile, si finisce
per rimanerne consumati. L’ho provato sulla tua stessa pelle.»
«Io non sono come te!»
«Ah, ma te lo leggo negli occhi. La
prospettiva del potere è qualcosa a cui nessuno può essere immune. Nemmeno tu.»
«Te l’ho detto, a me il potere non
interessa!»
«Ho i miei dubbi in proposito.
Comunque, non ti angustiare. Penserò io a liberarti da questo fardello, e lo farò
proprio ora!».
Ad un certo punto il califfo,
allontanatosi, puntò la Parola
di Allah contro di lui, e quasi subito dal nulla si generò una pira azzurra che
bruciava come l’inferno; Kahled, colto alla sprovvista, ebbe a malapena il
tempo di spostarsi per evitare di finire carbonizzato, ma quei pochi secondi
con la guardia abbassata furono sufficienti a Jahal per arrivargli addosso e
piantargli con forza la scimitarra nel torace.
Il ragazzo si piegò in avanti,
gemendo per il dolore, e come il nemico ritirò la lama barcollò all’indietro,
dando l’idea di essere sul punto di cadere, ma poi, sotto lo sguardo sbigottito
di Jahal, piantate bene le gambe a terra rialzò lo sguardo, lasciando
intravedere sotto il cappuccio uno sguardo sprezzante e ironico.
Il sangue che sgorgava dalla ferita
ritornò magicamente all’interno, e solo allora il califfo si accorse che,
arrotolato attorno al bracciale sinistro, Kahled aveva il frammento della
Parola che a suo tempo aveva consegnato a Mira per assicurarsi il successo della
sua missione, e che quella buona a nulla era riuscita incredibilmente a
sprecare.
«Bastardo.» ringhiò, e subito dopo
lo scontro riprese.
Nello stesso momento Altair, dopo una lunga indagine,
aveva raccolto informazioni a sufficienza per studiare un buon piano d’azione
che avrebbe permesso di colpire Jahal in un momento preciso del suo viaggio
verso Isfahan, ma rientrato nella stanza dove aveva lasciato il fratello trovò
solo il letto fatto e una candida piuma bianca appoggiata sulle coperte.
La
raccolse, stringendola fino a distruggerla.
«Razza
di… pazzo incosciente.» disse sotto i denti, e fatta scorta di tutti i pugnali
che poteva portarsi dietro raggiunse immediatamente il tetto.
Come vide
in lontananza la cima della torre principale del palazzo solcata da continui
bagliori azzurri capì subito che lo scontro era già cominciato, ma fatte solo
poche centinaia di metri fra i tetti trovò nuovamente Koromaru a sbarrargli la
strada.
«Così ci
rivediamo, alla fine.» disse l’Ombra
«Se ci
fossimo incontrati in un’altra occasione avrei accettato di misurarmi di nuovo
con te senza esitazioni. Ma ora sono di fretta, quindi non ho tempo da
perdere.»
«Ne sono
consapevole, ma purtroppo non posso permetterti di procedere oltre. Ordini del
califfo.»
«Perché
lo segui, Koromaru? Tu sai essere migliore. Tu non sei come lui.»
«Te l’ho
detto. È un debito d’onore. Quando l’avrò saldato sarò libero, ma fino a quel
momento la sua parola per me è legge.»
«È un
peccato che il tuo talento sia sprecato al servizio di un uomo simile. Quante
cose buone potresti fare sfruttandolo nel modo giusto.»
«Purtroppo,
in questo mondo, la bontà è un concetto superato.»
«Non è
detto. E sta ad uomini come noi fare in modo che le cose possano cambiare.»
«Il tuo è
un nobile proposito, Assassino. Lo condivido, sinceramente. Sfortunatamente,
per il momento, non posso seguirti.»
«E non
puoi nemmeno lasciarmi passare.»
«Sembra
che, dopotutto, sistemeremo i nostri conti in sospeso una volta per sempre.»
«Credo
anch’io.»
«Mi
sarebbe piaciuto combattere al tuo fianco, Assassino. Dico davvero».
Quasi
contemporaneamente i due avversari sfoderarono i pugnali, ma piuttosto che
cercare lo scontro diretto entrambi presero a muoversi in tutte le direzioni,
guardandosi dagli improvvisi movimenti del nemico e cercando il confronto
diretto solo di tanto in tanto, ma per non più di un istante.
Koromaru
aveva ancora quell’espressione sicura di sé che aveva ostentato anche nel corso
della prima battaglia, ma stavolta Altair, che negli ultimi venti giorni si era
allenato furiosamente in vista di un nuovo scontro con l’Ombra, si fece trovare
pronto a contrastare tutti i suoi attacchi, riuscendo oltretutto a rispondere
in maniera egregia.
«Sei
migliorato. Questo devo riconoscerlo.»
«Apprezzo
il complimento.»
«Ma non
illuderti. Dovrà passare del tempo prima che tu riesca ad eguagliarmi.
Ricordi
quello che ti ho detto? Tu rispetti e comprendi, io rispetto e padroneggio».
Detto
questo l’ombra cinse le mani sul petto, e come l’ultima volta salmodiò per un
po’ prima di moltiplicarsi letteralmente in decine di copie perfettamente
identiche che presero a saltare in tutte le direzioni. Contrariamente da ciò
che aveva fatto l’ultima volta, stavolta Altair rimase perfettamente immobile,
ad occhi chiusi e muscoli rilassati, come consapevole di non avere alcun potere
sul suo nemico, che al contrario sembrava completamente padrone del campo.
«È
finita, Assassino. Pregherò per te».
Un nugolo
di stellette piovve dal cielo, ma solo quando furono ad un batter di ciglia da
lui Altair si decise ad aprire gli occhi; con scioltezza e precisione,
impensabili persino per un Assassino del suo rango, senza mai muoversi dalla
sua posizione le respinse tutte, o meglio, solo quelle che esistevano davvero.
Infatti alcune di esse, che lui non degnava della minima attenzione, invece di
colpirlo gli passavano attraverso, per poi scomparire inghiottite dal vento.
«Che
cosa!?» esclamò Koromaru
«Ti
vedo!» gridò Altair lanciando un pugnale.
La lama
centrò in pieno una delle copie, che trafitta alla spalla precipitò sul tetto,
e nello spazio di un istante tutte le altre svanirono come fumo lasciando solo
il vero Koromaru, che stupito e sconcertato come non mai cercò per quanto
possibile di rimettersi in piedi.
«Co…
com’è possibile…»
«Mi dispiace,
ma ho capito il tuo trucco.»
«Il… il
mio trucco!?»
«All’inizio
credevo davvero che le abilità di cui eri dotato fossero frutto di qualche
potere misterioso, e che tu fossi realmente in grado di dominare pienamente i
segreti del mondo per compiere imprese impensabili per chiunque.
Ma poi mi
sono conto di una cosa, si tratta solo di autosuggestione.»
«A…
autosuggestione?»
«Tu usi
uno stile appariscente, fatto per impressionare, e fai uso di qualcosa che in
battaglia può ferire quanto le armi: la paura.
Sfoggiando
abilità apparentemente inumane confondi e disorienti i tuoi nemici, e mostrando
doti che potrebbero essere a buon diritto considerate frutto di poteri magici o
comunque sovrannaturali fai credere loro di stare affrontando qualcosa di più di
un semplice essere umano, una prospettiva che lascerebbe atterrito chiunque, me
compreso.
Ma poi,
in definitiva, non si tratta affatto di magia, anche se indubbiamente le tue
potenzialità non sono certamente alla portata di tutti.
Prendiamo
la tua presunta abilità di moltiplicarti. Tutto quello che fai è muoverti
continuamente e a gran velocità da una parte all’altra tutto intorno al tuo
avversario, rimanendo nello stesso posto per non più di mezzo secondo. In
questo modo, dai l’illusione di aver creato tante copie di te stesso.
E vale lo
stesso discorso per i tuoi pugnali a forma di stella: l’altra volta credevo che
fossero tutte reali, ma la loro velocità e il fatto di lanciarle continuamente
e da posti sempre diversi fanno sì che anch’esse sembrino molte di più di
quante siano in realtà.
Per
quanto riguarda l’abilità di sputare fuoco, ammetto di non averla ancora capita
del tutto, ma sospetto che tu possieda una qualche sostanza infiammabile, forse
in bocca o sotto quel bavero, chiusa in piccoli involucri, a cui dai fuoco
servendoti del tessuto particolare di cui sembra fatto il tuo abito. Questo
stesso tessuto sembra anche in grado di proteggerti dalle alte temperature, e
questo, unito alla tua velocità, ti permette di muoverti liberamente tra le fiamme
senza subire il minimo danno».
Koromaru
restò a lungo con gli occhi sbarrati, poi parve quasi compiaciuto.
«Avrei
dovuto immaginarlo.» disse togliendosi il pugnale dalla spalla e gettandolo a
terra «Voi Assassini siete troppo furbi. Monaci e guerrieri hanno sprecato la
loro vita a tentare di svelare i segreti della nostra arte, tu ci sei riuscito
dopo averla vista una sola volta».
A quel
punto Altair si avvicinò al suo nemico, avvicinandogli la spada alla gola.
«Avanti.»
disse Koromaru senza apparenti rimpianti «Uccidimi».
Invece,
dopo poco, vide la spada allontanarsi da lui, e il suo avversario che lo
guardava in modo enigmatico.
«Che
significa?»
«Una
vita, una vita. Ora siamo pari. L’ultima volta non mi hai ucciso benché ne
avessi la possibilità. Dicevi che avevo del potenziale, e che dovevo imparare a
sfruttarlo. Ora sono io a risparmiarti, e per lo stesso motivo.
Verrà il
momento in cui sia voi che noi saremo chiamati a garantire il futuro del genere
umano, e le tue conoscenze sono troppo preziose per andare perdute.
Torna
dalla tua gente a testa alta, perché hai dimostrato di essere un vero
guerriero».
L’Ombra
sgranò nuovamente gli occhi, poi rivolse ad Altair uno sguardo, ricambiato in
ugual modo, di ammirazione e profondo rispetto.
«Per molto
tempo ho creduto che non vi fosse più nulla per cui dover continuare a
esistere. Servire Jahal mi sembrava l’unica cosa che potessi fare per dire di
essere ancora in vita.
Quando ho
incontrato te, però, per la prima volta dopo chissà quanti anni mi sono
ricordato cosa volesse dire realmente essere vivi, e questo per me è ben più
prezioso di qualsiasi debito di vita.
Ti sei
battuto bene, Assassino. Hai il mio rispetto.»
«E tu il
mio.»
«Non ho
mai saputo il tuo nome.»
«Altair.»
«Allora,
Altair, possa un giorno il cielo farci rincontrare. Ora va’. Va’ a salvare tuo
fratello. La sua vita vale ben più della mia».
Di colpo
Koromaru fu circondato da una nuvola di fuoco, e quando le fiamme si spensero
di lui non vi era più traccia. Altair si guardò un momento intorno, quasi a
volerlo individuare per rivolgergli un ultimo saluto, poi riprese la via del
palazzo.
Sulla torre, lo scontro tra Kahled e Jahal era giunto
inevitabilmente ad una fase di stallo.
Potendo
contare entrambi sui poteri della Parola di Allah erano di fatto immortali, e
per quanto si ferissero reciprocamente in modo anche grave le ferite venivano
sempre risanate, e la battaglia proseguiva. La sola cosa che li differenziava
era che Kahled, disponendo solo di una parte irrisoria del manufatto, non era
in grado di sfoggiare abilità di cui invece il suo avversario faceva largo uso,
come generare diverse copie di sé per confonderlo o far emergere dal nulla
quelle fiamme azzurre.
Nessuno
dei due dava segno di volersi arrendere, e quando Kahled, con un misto di
sarcasmo ed ironia, aveva fatto notare che andando avanti di quel passo il
vincitore del duello sarebbe stato stabilito solo dal giorno del giudizio,
Jahal aveva risposto con un attacco furioso, urlando che prima o poi quel
frammento in suo possesso avrebbe finito per esaurire il suo potere,
lasciandolo esposto e vulnerabile.
Tuttavia,
una cosa fu chiara a Kahled fin da subito: più il califfo faceva uso della
Parola più la sua sanità mentale sembrava venire meno, completamente offuscata
dalla sete di potere che come un morbo si stava impadronendo di lui. Come se
non bastasse, anche lui stava cominciando ad avvertire la stessa sensazione, e
in più di un’occasione si era lasciato andare a gesti di cui mai si sarebbe
detto capace di fare, come infierire più e più volte su un uomo a terra o
attaccare in modo furioso consapevole del fatto di avere l’immortalità a
proteggerlo.
Non
poteva negare che quel fiume di energia che gli scorreva dentro gli dava una
sensazione incredibile, ma doveva fare in fretta a chiudere la questione, o
avrebbe finito per impazzire anche lui.
«Ora
basta!» gridò ad un certo punto il califfo, completamente fuori di sé «Mi sono
stufato di giocare, Assassino!».
Intuendo
che il tipo aveva in mente qualcosa di molto pericolo Kahled tentò di andargli
contro, ma Jahal sollevò la
Parola e lo fulminò con un raggio di luce tanto potente da
scagliarlo in aria e quasi oltre il parapetto; ovviamente non morì, ma il
dolore era tale da fargli pensare per un attimo di non potersi più rialzare.
«Nessuno
può più fermarmi adesso!».
Vedendo
Jahal alzare alta sopra di sé la
Parola e circondarsi di un bagliore azzurro che brillava più
del sole Kahled ebbe una bruttissima sensazione, e cercò invano di spingere il
suo nemico a non fare una cosa tanto folle.
«Jahal!
Non farlo!»
«Ubbidisci al mio volere, Parola di
Allah! Donami tutta la forza del creato! Rendimi onnipotente!»
«Fermati! Quel potere ti
distruggerà!»
«Se gli esseri umani non hanno un
dio, sarò io il loro Dio!».
La luce azzurra divenne in breve
una fiamma di grandezza inaudita, e ai vaneggiamenti di Jahal si sostituirono
all’improvviso le sue strazianti urla di dolore. Tutto il suo corpo,
sollevatosi in aria, cominciò ad essere attraversato da striature luminose, una
luce infernale usciva dagli occhi, poi si generò una vera esplosione di luce,
che costrinse Kahled a chiudere gli occhi.
Quando il giovane assassino,
rialzatosi nel frattempo, fu in grado di guardare cosa era accaduto, ciò che
vide lo atterrì: dinnanzi a lui non un uomo, ma un enorme, gigantesco mostro
alto più di dieci metri, simile ad un centauro. La pelle era nera come il
carbone, solcata da quelle striature brillanti, le mani e le quattro zampe,
tutte armate di cinque affilatissimi artigli ricurvi, erano quelle di un demone,
e la testa era di forma triangolare, con una bocca attraversata da due file di
denti da squalo; gli occhi, piuttosto piccoli per la sua mole, scintillavano di
azzurro. La Parola
di Allah conficcata nel mezzo del petto, e brillava come mai aveva fatto.
Non sembrava esservi più nulla di
umano in quell’essere spaventoso, e l’assordante ruggito che lanciò una volta
terminata la sua trasformazione era la chiara dimostrazione che anche il
raziocinio era ormai completamente scomparso.
Eppure, ciò nonostante, Kahled non
si tirò indietro.
«Non posso fermarmi ora!» urlò
facendo mulinare la spada.
Il mostro, forse irritato dal
trovarsi di fronte qualcuno che lo sfidava con tanta intraprendenza, ringhiò
ancora più forte, poi, alzato il bracciò, colpì con tale forza da provocare un
grosso squarcio nel pavimento e il crollo di alcune colonne.
Kahled si trovò quasi subito nella
condizione di non poter rispondere, preso com’era a schivare gli attacchi
bestiali e micidiali della creatura, che colpiva senza un’apparente logica, ma
bensì obbedendo unicamente all’istinto. Tuttavia, nel frattempo, gli veniva
anche da porsi una domanda: come si poteva definire divino, o comunque frutto
di una conoscenza superiore, un oggetto che permetteva la creazione di un
simile abominio?
Come se non bastasse, di quando in
quando dalla bocca eruttava nugoli di fiamme incandescenti, e agitando le
braccia creava vere e proprie bombe d’aria che avevano l’effetto di produrre
crepe un po’ dappertutto, incentivando i crolli.
Kahled cercò in ogni modo di
reagire, riuscendo perfino a correre lungo una delle braccia del mostro per
raggiungerne il collo e piantargli la spada nella clavicola, ma per quanto
riuscisse a danneggiarlo le ferite finivano sempre per risanarsi, senza contare
poi che la sua pelle corazzata era incredibilmente dura, e perciò molto
difficile da trapassare.
All’improvviso un pezzo di costone
franò proprio davanti al ragazzo, impegnato a fuggire all’ennesimo assalto, e
giratosi vide una di quelle mani artigliate piombargli contro; istintivamente
mise le mani davanti a sé, e all’ultimo il suo frammento della Parola brillò
come non aveva mai fatto, creando una sorta di barriera che lo salvò
miracolosamente da morte sicura.
Purtroppo per lui la forza infusa
dal mostro nel suo attacco risultò eccessiva, e alla fine il frammento andò
come in sovraccarico, esplodendo e producendo una piccola onda d’urto che
scagliò Kahled oltre le macerie che per poco non lo avevano investito.
Una parte della polvere in cui il monile
si era trasformato, lucida e iridescente come polvere d’oro, volò sulla mano
della creatura, risultando per lei nociva e corrosiva come un potente acido.
Kahled se ne avvide, e capì che era l’unico modo con cui poteva sperare di
averla vinta.
Rialzatosi, anche se a fatica, con
un balzo scavalcò le macerie, e rotolandosi a terra per sfuggire ad una manata
riuscì a ricoprire di polvere la lama della sua spada, che istantaneamente
prese a bruciare circondata da quella luce azzurra.
Il mostro, come spaventato, fece
qualche passo indietro, ma poi tornò alla carica più inferocito di prima.
Kahled evitò parecchi colpi, riuscendo anche a ferire l’assalitore due o tre
volte, e più passava il tempo più sentiva vivido e forte il potere proveniente
dalle polveri della Parola di Allah: forse era abominevole, forse poteva essere
usato per scopi sbagliati, ma quello era davvero il potere in grado di cambiare
le cose.
Alla fine, spossata dai continui
assalti, la creatura commise l’imprudenza di lasciarsi scoperta, e
immediatamente Kahled ne approfittò; spiccato un salto, e urlando con tutta la
forza che aveva, gli volò letteralmente contro, piantando la spada proprio nel
centro del petto.
La
Parola
di Allah venne trafitta in pieno, e come il ragazzo ritirò l’arma, saltando
all’indietro per portarsi a distanza di sicurezza, il mostro prese a dimenarsi
e ad agitarsi in modo furioso; dalle scanalature del suo corpo prese ad uscire,
fortissima la luce azzurra, e nel giro di pochi secondi esplose letteralmente
dall’interno, producendo una seconda, fortissima esplosione di luce.
Stremato e senza forze, Kahled
cadde in ginocchio quasi svenuto, mentre la polvere sulla spada, avendo forse
consumato tutto il suo potere, diventava niente più di semplice cenere, e dai
resti della creatura uscì Jahal, ritornato alle sue vere sembianze; anche lui
era visibilmente esausto, e anche se sembrava tornato padrone almeno di parte
del proprio raziocinio la rabbia che provava gliela si leggeva in viso: era
furioso, furioso come non mai. Poco distante, la Parola di Allah,
completamente ricoperta di crepe, e sul punto, all’apparenza, di sbriciolarsi
in mille pezzi.
«Tu… dannato Assassino.» disse
alzandosi; stava in piedi per miracolo, e probabilmente era proprio la rabbia
la sola cosa a permettergli di non crollare svenuto «Hai… hai rovinato tutto».
Barcollando, si avvicinò a Kahled,
che al contrario aveva a malapena la forza di sollevarsi sulle braccia, e
quando gli fu abbastanza vicino sollevò la spada per infliggergli il colpo di
grazia.
«Muori!».
All’improvviso, proprio quando era
sul punto di colpire, Altair, comparso dal nulla, gli saltò addosso alle
spalle, buttandolo a terra e trapassandolo alla schiena con la sua lama
nascosta.
«Fratello!» esclamò Kahled.
Altair corse da lui, aiutandolo a
rialzarsi, ma pur essendo visibilmente sollevato nel saperlo vivo non mancò di
rivolgergli un’occhiataccia degna di un padre che ha colto il figlio a giocare
con la sua spada.
«Che cosa non hai capito della
frase “non fare niente di avventato”?»
«Io… mi dispiace. Sul serio».
Trafitto in un punto vitale, a
Jahal rimaneva molto poco da vivere: alzata la testa, guardò i due fratelli
come se volesse incenerirli.
«Come… come è potuto succedere? Io…
battuto… da un moccioso…»
«È finita.» disse Altair «Le tue
ambizioni, come te, sono alla fine.»
«No. No. Non può finire così. Io…
io non posso scomparire…».
Poi, la sua espressione di rabbia
si trasformò in una sadica risata, mescolata ad rantolo di agonia.
«Ma certo. È naturale. Avrei dovuto
farlo fin dall’inizio.» quindi, girato lo guardo, si volse verso quanto restava
del suo prezioso tesoro «Parola di Allah! Esaudisci il mio ultimo desiderio!
Distruggi! Distruggi tutto!».
Immediatamente il monile si
circondò di nuovo della sua aura azzurra, fasci di luce presero a schizzare in
tutte le direzione e il terreno cominciò a tremare con forza sempre maggiore.
«Dannato pazzoide!» esclamò Altair
«Se non posso essere ricordato da
questo mondo, allora questo mondo non ha motivo di esistere! Distruggi questo
mondo, e questi sciocchi esseri umani!».
Quelle furono le sue ultime parole,
e fu così che, con lo sguardo segnato dalla follia e la bocca spalancata in una
sorta di malvagio sorriso, Jahal Ali Falahda, califfo di Baghdad, morì.
La scossa si fece rapidamente
sempre più forte, e le colonne tutto intorno presero a crollare una dopo
l’altra.
«Dobbiamo andarcene di qui, alla
svelta!» disse Altair.
No!
Non poteva! Non poteva permettere
che la Parola
di Allah andasse perduta! Quella era la chiave per realizzare il mondo
perfetto! Doveva essere salvata, ad ogni costo! Con quella, il sogno degli
Assassini di un mondo unito sotto la vera Pace sarebbe potuto diventare realtà!
«Kahled, che stai facendo!» gridò
Altair vedendo il fratello correre verso il monile, una corsa ostacolata dalle
raffiche di vento glaciale generate che gli soffiavano contro.
Subito lo rincorse, e quando vide
che una colonna stava crollandogli proprio addosso non ebbe esitazioni.
«Attento!» esclamò gettandosi su di
lui e buttandolo lontano.
Kahled rotolò più volte, e quando
risollevò lo sguardo il suo fu vero terrore.
«Fratello!».
Pur essendo riuscito a salvarlo dal
crollo Altair non era riuscito a spostarsi in tempo, e ora giaceva semisvenuto
con la colonna crollata a schiacciargli le gambe. Gli corse incontro, cercando
di aiutarlo: era ancora cosciente, ma appena cercò di muoversi dovette
stringere i denti per non gridare.
«Fratello…»
«Stai… stai bene?»
«Aspetta, ora ti libero!»
«È… è inutile. Sono rotte».
Invano, forse credendo di avere
ancora dentro di sé una parte di quel potere, Kahled cercò con tutte le sue
forze di sollevare la colonna, ma mai come in quel momento fu costretto a
confrontarsi con la propria umanità.
«Lascia perdere.» disse il fratello
quando lui, affranto e sfinito, cadde in ginocchio «Vattene. Mettiti in salvo.»
«Che cosa!?»
«Devi farlo Kahled. Almeno tu devi
riuscire a tornare. Racconta quello che hai visto ai nostri fratelli. Che non
tentino mai più di giocare con poteri simili, e che fermino tutti coloro che
tenteranno di farlo.»
«Non posso, fratello! Non posso
abbandonarti! Non puoi chiedermi questo!»
«Vai!» urlò con forza Altair, e
afferrato il fratello lo spinse con forza oltre il parapetto, certo che si
sarebbe salvato, giusto in tempo per evitare che l’ultimo ricordo che Kahled
avesse avuto di lui fosse quello di un Assassino in lacrime.
Kahled riuscì effettivamente ad
evitare di precipitare al suolo conficcando la spada in uno dei tanti stendardi
di tessuto rosso che pendevano all’esterno e usandolo per attutire quasi
completamente la propria caduta, ma quando era circa a metà strada un fascio di
luce squarciò il muro proprio di fronte a lui, scaraventandolo oltre il muro di
cinta e direttamente sul tetto di uno dei palazzi che si trovavano a ridosso
del palazzo.
Ebbe a malapena il tempo di alzarsi
e di alzare lo sguardo, e subito dopo la parte alta della torre esplose con
forza inaudita, spargendo macerie per tutta Baghdad e illuminando la città di
una luce azzurra più forte del sole.
No! No!
Anche quello no! Che cosa aveva
fatto!
Prima Mira, ora Altair! Aveva ucciso
con le sue mani le due persone a cui teneva di più!
Che razza di uomo era diventato?
Aveva dato importanza ad un oggetto diabolico, al maledetto frutto della mente
perversa di una qualche divinità malvagia, sempre se di una divinità si
trattava, e per questo suo fratello era morto.
Quel potere lo aveva davvero
consumato? Allora Jahal aveva ragione!
Anche lui aveva finito per
soccombere di fronte al miraggio di un tale potere. In quell’istante di follia
aveva desiderato di possedere quel potere solo per sé, e per questa sua follia
Altair aveva pagato con la vita.
Perché? Perché era stato così
cieco?
Rabbia, dolore, disperazione. Tutti
questi sentimenti si agitavano dentro di lui come un mare in tempesta, resi
ancor più amari dalla consapevolezza di essere stato lui l’artefice di tutto
quel dolore.
Caduto in ginocchio, di nuovo urlò,
urlò con tutta la sua voce, gridando il proprio odio verso quegli dèi
vigliacchi dalla mentalità malata che avevano creato un mondo in cui gli uomini
erano destinati a provare dolore e sofferenza per poi andare inesorabilmente
incontro alla morte.
Di un Dio del genere l’umanità che
poteva mai farsene?
Kahled fece ritorno alla fortezza da cui lui e il fratello
erano partiti agli inizi della primavera, un ritorno per lui molto più doloroso
e sconfortante di quanto avesse mai potuto immaginarsi.
Incredibilmente,
nonostante fosse stato via per quasi due mesi, Hasan-i Sabbah era ancora vivo,
e appena fu informato del suo ritorno volle subito incontrarlo.
A dire la
verità anche Kahled aveva un gran bisogno di vederlo, perché se c’era una cosa
di cui era ormai sicuro, e sulla quale aveva riflettuto per tutto il viaggio di
ritorno, era che il maestro stava nascondendo qualcosa, ed ora più che mai era
determinato a squarciare una volta per tutte il velo di menzogne che aveva
celato come un sudario l’intera vicenda da che aveva avuto inizio.
Quando furono nuovamente faccia a
faccia, Kahled stentò a riconoscere il maestro: la malattia, che ancora non era
riuscita a strapparlo al mondo fisico, lo aveva tuttavia devastato in ogni modo
possibile, riducendolo a niente più che un mucchio di pelle ed ossa.
Il solo fatto di veder ritornare un
solo Assassino, e per giunta a mani vuote, fu però sufficiente ad accendere una
scintilla di risentimento nei suoi occhi, e rimasti soli, non senza il parere
contrario dei medici, che di tutta risposta furono cacciati in malo modo, i due
restarono a lungo immobili a guardarsi, Kahled ai piedi del letto e il maestro
quasi completamente sprofondato nel cuscino a cui era costretto ad appoggiarsi
per poter stare in piedi.
Kahled voleva delle risposte, e in
un modo o nell’altro le avrebbe ottenute: suo fratello e la sua più grande
amica avevano trovato la morte in quell’impresa ai limiti del reale, e ora
voleva sapere perché.
Hasan-i Sabbah si manteneva in vita
con la forza della disperazione, e ogni suo respiro, così profondo e stentato,
sembrava sempre in procinto di essere l’ultimo.
«Che cosa è successo?» domandò con
quella sua voce catarrosa, ma tanto profonda e pungente da far gelare il sangue
«Dov’è Altair?»
«La missione non è andata come
pensavamo. Il califfo sapeva del nostro arrivo, e ci ha teso una trappola. Sono
morti tutti. Il Rafiq, Mira, Altair e molti altri confratelli.»
«E la Parola di Allah?»
«Perduta. Jahal l’ha distrutta per
impedirci di prenderla».
D’improvviso la fiamma che per anni
aveva dimorato in quel corpo che ormai non era nulla più che l’ombra di sé stesso
parve tornare ad ardere con tutta la sua forza, e l’espressione del maestro
venne si caricò di una rabbia sconfinata.
«Maledetto!» esclamò con la voce
più forte e furiosa che le sue forze gli permettevano di sfoderare «Come osi
ripresentarti al mio cospetto dopo un simile fallimento!».
A differenza di quanto aveva fatto
ogni altra volta in cui era stato redarguito Kahled non indietreggiò, né mostrò
alcun segno di pentimento; al contrario, i suoi occhi erano pieni di sprezzante
aggressività, e a quel punto lo stesso Hasan riuscì a scorgere l’aura sinistra
che vi albergava dentro.
«Ora voglio che voi mi diciate una
cosa, e non me ne andrò di qui finché non mi avrete risposto.»
«Chi sei tu per parlarmi in questo
modo?»
«Sono colui che ha perso suo
fratello per portare a termine una missione ti cui voi ci avete deliberatamente
nascosto il vero scopo. Se davvero eravate a conoscenza dei suoi poteri diabolici,
e so che lo eravate, perché non ci avete ordinato di distruggerlo?
Perché avete preteso che ve lo
portassimo?».
Il maestro respirò profondamente un
paio di volte, visibilmente infuriato per una così palese mancanza di rispetto
nei suoi confronti, e nonostante tutto Kahled non pareva in alcun modo
intenzionato a tornare indietro.
«Guardami.» mormorò cercando di
sollevarsi un po’ di più sorreggendosi alle sue braccia ossute «Guarda cosa
sono diventato. Il corpo putrescente di un vecchio!
Ho dedicato tutta la mia vita alla
ricerca di un modo per sfuggire all’ineluttabile destino dell’uomo. E alla
fine, l’ho trovato.»
«Quindi è solo per questo?» domandò
Kahled a denti e pugni stretti
«Sarei potuto diventare un dio! Avrei
vissuto per l’eternità su questa terra, forte di un potere inimmaginabile. Sarei
stato l’artefice di una nuova rinascita per tutto il genere umano, che mi
avrebbe adorato e osannato fino alla fine dei tempi.
Ma ora… per causa tua… è tutto
perduto. Tu sei… un disonore… per tutti noi…».
No. Anche quello no.
Allora tutte le sue convinzioni
erano davvero solo un mucchio di inutili fandonie. Aveva versato sangue per i
principi del Credo, forte nella convinzione che la sua opera avrebbe spianato
la strada ad un domani migliore per le generazioni future.
E ora che cosa scopriva? Che la
persona a cui aveva giurato eterna obbedienza, colui che avrebbe dovuto essere
il più virtuoso degli uomini, aveva tradito i precetti da lui stesso istituiti?
Non solo. Aveva messo a repentaglio
la vita dei suoi allievi prediletti per appagare il suo desiderio, e alla
notizia della loro morte non aveva provato un briciolo di rimorso.
In che cos’altro gli restava da
credere?
Aveva pregato gli dèi prima di
incamminarsi in quell’ultima, dannata missione.
Ma quali dèi? Non c’era nessun dio,
e se c’era doveva essere guidato da una mentalità davvero perversa se aveva
permesso che si giungesse fino a quel punto.
«Ditemi, maestro, che cosa
intendete fare adesso?».
Hasan-i Sabbah, lottando contro il
suo stesso corpo, riuscì a raggiungere la spada del Maestro, infoderata e
appoggiata accanto al letto, e la strinse a sé con le poche forze che aveva.
«Ho creato gli Assassini per poter
cambiare il corso della storia. Ma se non posso essere io a guidarli, allora
non hanno alcun motivo per continuare ad esistere. E così, alla fine, il nuovo
mondo che avevo tanto sognato verrà seppellito insieme a me.»
Kahled si sentì morire dentro,
completamente svuotato di tutto ciò che aveva di più prezioso: ora che anche
quel tenue bagliore si era definitivamente spento, cos’altro gli restava.
No! Assolutamente no!
Non poteva accettare l’idea che
decine di Assassini avessero combattuto e fossero morti per niente! L’Ordine
non poteva morire! Quell’uomo, quell’essere privo di morale lo aveva creato per
appagare unicamente il proprio desiderio di potere, mascherando dietro a
precetti e sacri dettami i suoi reali intenti, ma non era assolutamente detto
che le cose non potessero cambiare!
Non aveva alcuna importanza se il
maestro in persona aveva mentito. Gli Assassini esistevano per portare la pace
nel mondo, e nessuno mai lo avrebbe smosso da questa convinzione.
In quella, Hasan-i Sabbah tossì leggermente,
e sembravano davvero gli ultimi gemiti di un corpo ormai giusto al suo estremo
traguardo.
«La mia ora si avvicina
inesorabilmente.
Alla fine, nonostante i miei sforzi,
non sono riuscito ad avere quel potere. Il potere di cambiare il mondo.
Io, che dovevo essere un dio, alla
fine dovrò morire come il più misero dei pezzenti».
Il maestro era troppo infuriato e
spaventato dall’idea della morte per notare l’aura oscura che si era formata
attorno a quello che un tempo era stato uno dei suoi allievi prediletti, il
quale, avvicinatosi al bordo del letto, si mise in ginocchio. Hasan alzò gli
occhi, e i due si guardarono.
«Il potere di cambiare il mondo.»
ripeté Kahled, poi, veloce come il fulmine, colpì il suo vecchio maestro al
centro del petto.
Un colpo segreto, proprio solo degli
assassini più esperti, impossibile da riconoscere: all’apparenza poco più di
una carezza, ma capace in realtà di provocare uno shock al sistema nervoso, che
stimolato al massimo spingeva i muscoli a contrarsi allo spasimo, compresi
quelli di cuore e polmoni, fino a che la vittima moriva letteralmente soffocata
dal suo stesso corpo nel giro di pochi secondi.
Il corpo del maestro divenne
istantaneamente di pietra: cercò di gridare, ma la gola gli si serrò quasi
subito, gli occhi si colorarono di giallo e le labbra presero a diventare blu. Kahled
gli avvicinò, portandogli la bocca all’orecchio.
«Quel potere non sarà mai tuo».
Hasan-i Sabbah ebbe appena il tempo
di vedere il volto marmoreo e giudicatore del suo allievo, e subito dopo l’uomo
che aveva creato gli Assassini per riscattare i torti di tutta una vita e poter
diventare il nuovo dio del genere umano chiuse gli occhi sul mondo per sempre,
portando con sé il proprio bagaglio di oscuri segreti, segreti che nessuno
avrebbe mai più dovuto conoscere.
Qualche minuto dopo le guardie e
gli attendenti che attendevano all’esterno videro aprirsi la porta, e dalla
stanza uscì, camminando lentamente e a sguardo basso, Kahled; nella mano destra
stringeva la Spada
del Maestro, e solo questo fu più che sufficiente a spingere alcuni dei
presenti a chinare leggermente il capo.
«Il nostro nobile maestro ha
raggiunto la sua dimora eterna».
Masyaf
Giugno 1124
Tutto ciò in cui credeva era scomparso.
I suoi
ideali, i suoi principi, lo stesso Credo: tutte favole.
Era stato
responsabile della morte dei suoi cari, aveva ucciso un maestro impostore, e
aveva visto con i suoi stessi occhi fin dove poteva condurre la brama di potere
degli uomini: aveva visto l’abisso senza fine.
Anche lui
ci era caduto, ne era consapevole, e tentare di risalire ormai era impossibile.
La sola
cosa che poteva fare era andare avanti, e impegnarsi con tutte le sue forze a
far sì che il mondo nuovo e giusto da lui tanto sognato potesse un giorno
vedere la luce.
Nessuno avrebbe
mai dovuto sapere ciò che sapeva lui, nessuno sarebbe mai dovuto venire a
conoscenza dei reali scopi che erano stati all’origine della nascita degli
Assassini.
Da quel
momento in poi, egli sarebbe stato il depositario di segreti inconfessabili,
che alla fine, in un modo o nell’altro, avrebbe portato con sé nella tomba,
proprio come il suo maestro. Quello stesso maestro di cui ora, finalmente,
stava per prendere il posto.
Non sarebbe
stato facile portare la pace in un mondo tanto corrotto e malvagio, popolato da
uomini che provavano un insano piacere nel massacrarsi l’un l’altro e guardato
dall’alto da dèi vigliacchi che da tempo lo avevano abbandonato, lasciando i
suoi abitanti alla mercé dei loro più bassi istinti.
Allo stesso
modo, non sarebbe stato facile guidare l’Ordine fuori dal fango in cui il suo
primo maestro l’aveva condotto, ma riuscire in questa impresa sarebbe stata per
lui una grande prova, al fine di dimostrare a tutti, ma soprattutto a sé stesso,
che aveva davvero la forza e il potere necessari a cambiare il mondo.
Provava
un gran disgusto per la razza umana, per quegli esseri meschini e malvagi che
pensavano solo a sé stessi, e che per nulla al mondo avrebbero accettato un
concetto tanto sublime e puro come poteva essere la pace.
Ma anche
lui era un uomo, dopotutto, e in quanto uomo non poteva fare a meno di
riconoscere che la sua specie possedeva anche pregi e virtù assolutamente non
comuni, e che se un domani la civiltà del futuro avesse potuto contare
unicamente su questi privilegi, eliminando per sempre i propri difetti, allora gli
esseri umani sarebbero divenuti un faro tanto splendente e radioso da
illuminare con la loro luce l’intero universo.
“Non
tutto è perduto.” pensò mentre, nella solitudine nella sua stanza, terminava la
propria vestizione “Altri tesori giacciono sepolti nelle profondità di questo
mondo. Io lo so. L’ho visto. Basterà portare pazienza, ma alla fine,
inevitabilmente, ne comparirà un altro”.
Un’ultima
occasione. Ecco tutto ciò di cui aveva bisogno. Un’altra possibilità per
realizzare il suo disegno. Tale disegno andava contro i precetti del Credo, ma
ormai era maturato abbastanza da rendersi conto che il Credo, così come era
concepito, non avrebbe mai favorito la causa della pace, e questo perché fondamentalmente
esso consentiva di scegliere, di decidere del proprio destino.
Solo accettando
un nuovo destino, uno che non li avesse messi l’uno contro l’altro, gli uomini
si sarebbero potuti salvare, e ora stava a lui realizzare questo nuovo,
grandioso proposito.
C’era un’altra
cosa di cui era consapevole.
Così come
Hasan-i Sabbah era stato ucciso per aver tradito il Credo, era certo che, in un
modo o nell’altro, la stessa sorte sarebbe toccata a lui.
Ma questo
non gli importava, e neppure lo faceva temere eccessivamente per il piano che
intendeva realizzare: lui, che si reputava puro e al di sopra della tentazione,
aveva visto con i suoi occhi il potere dei manufatti, divenendone consapevolmente
vittima, e dentro di sé sapeva più di qualsiasi altra cosa che al mondo non vi
era né mai vi sarebbe stato un essere umano capace di resistervi.
Qualcuno
forse lo avrebbe ucciso, ma saggiando il potere dei manufatti ne sarebbe stato
a sua volta tentato, garantendo la prosecuzione del suo sogno, e in quel caso
la morte non avrebbe potuto di certo fargli paura, perché sarebbe morto con la
sicurezza che il mondo da lui sognato un giorno o l’altro avrebbe visto la
luce.
Terminata
la propria vestizione uscì all’esterno, sollevando il largo cappuccio della
veste nera subito prima di varcare la soglia.
Il cortile
della fortezza era pieno in ogni suo anfratto, e per un attimo tornò con la
mente a quel giorno, il giorno in cui tutto era cominciato, il giorno in cui
era diventato parte di quella grande famiglia, l’unica forse che avesse mai
avuto.
Ebbe
quasi l’impressione di scorgere, tra la folla, l’uomo in nero, che gli
rivolgeva quel suo malvagio sorriso: alla fine, nonostante avesse cercato di
lottare con tutte le sue forze, quella profezia si era avverata. Era diventato
un mostro.
Sguainata
la Spada del
Maestro, la alzò al cielo, e subito tutti i presenti chinarono il capo,
onorandolo e salutandolo con il suo nuovo nome, il nome con cui da quel momento
in poi avrebbe fatto tremare tutti coloro che minacciavano la nascita del suo
nuovo mondo.
«Lode a
te, Al Mualim».
Cinquanta Anni Dopo
Autunno 1174
Quando non era immerso nella lettura dei suoi libri, Al
Mualim era solito concedersi lunghe passeggiate tra la gente di Masyaf.
I suoi
dignitari e le persone a lui più vicine gli avevano detto più volte di
viaggiare con una scorta, dal momento che persino nei luoghi all’apparenza più
sicuri e vicini a sé potevano celarsi pericoli oscuri, soprattutto alla luce di
tutto ciò che gli Assassini avevano fatto durante le crociate, e che li aveva
resi degli obiettivi sensibili agli occhi di molti potenti, ma il maestro si
riteneva ancora comunque un discreto guerriero, e poi era sicuro del fatto che
il suo momento non era ancora arrivato.
Quella mattina,
come al solito, stava passeggiando nei pressi del mercato, rivolgendo cordiali
saluti a quanti, vedendolo, chinavano rispettosamente il capo, quando di colpo
la sua attenzione fu attratta da un gran trambusto venutosi a creare davanti ad
alcune bancarelle leggermente discostante, a poca distanza dal portone d’ingresso.
«Dannato
moccioso!» si sentiva gridare «Ti faccio passare io la voglia di rubare!»
Avvicinatosi,
vide tre guardie intente a malmenare un ragazzino riempiendolo di calci;
sicuramente un ladruncolo, uno dei tanti che, nonostante la terribile
prospettiva del castigo, continuavano ad imperversare in ogni dove, persino a
Masyaf, dove qualsiasi atto criminoso, anche il più piccolo, poteva arrivare a
costare la vita.
«Che
succede qui?».
Appena lo
videro, le tre guardie cessarono subito il pestaggio, mettendosi sull’attenti.
«Maestro!
Perdonateci se avete dovuto assistere a questo spettacolo increscioso».
Al Mualim
rivolse poi le sue attenzioni alla vittima: doveva avere meno di dieci anni,
tanto appariva gracile e minuto sotto quei miseri stracci che indossava, e i
segni delle terribili percosse che aveva appena ricevuto erano più che
evidenti.
«Che cosa
ha fatto?»
«Lo
abbiamo sorpreso a rubare per la seconda volta in pochi giorni, signore. Abbiamo
pensato che una piccola lezione sarebbe servita a togliergli per sempre questo
vizio.»
«E questa
me la chiamate una piccola lezione? Ancora un po’ e lo avreste ucciso a forza
di botte. Io non perdono i ladri, ma non perdono neppure chi abusa della
propria forza, sia chiaro.»
«Sì,
maestro. Perdonateci.»
«Ora
fatemelo vedere».
Due delle
guardie sollevarono di peso il ragazzino, che malgrado tutte le botte che aveva
preso sembrava ancora in grado di reggersi in piedi sulle sue gambe, ma appena
vide comparire il suo volto Al Mualim sentì un tremendo colpo al cuore, e per
poco non svenne.
Quel volto!
Quegli occhi!
Quello sguardo
fiero e sprezzante, quell’espressione audace e insieme composta, vessillo di
uno spirito che mai e poi mai, neppure dinnanzi alla prospettiva della morte,
si sarebbe lasciato domare.
E poi la
somiglianza.
Per un
attimo gli parve di fare un salto indietro nel tempo, a decine e decine di anni
prima, ai tempi del suo addestramento. Anche i maestri più agguerriti e
violenti erano rimasti atterriti davanti a quegli occhi, a quello sguardo di
sfida, lo stesso sguardo che gli veniva rivolto ogni qualvolta ventilava l’idea
di arrendersi, e che in questo modo gli aveva permesso di diventare un
Assassino.
Era come
averlo di fronte.
Al
Mualim, dopo tutto ciò che aveva visto, non aveva più avuto voglia di credere
nel divino, nell’esistenza di un qualcosa di trascendente che regolava la vita
degli uomini, ma in quel momento gli venne quasi da sperare che davvero il
ragazzino di fronte a lui fosse davvero la seconda nascita della persona a lui
più cara, e che più di ogni altro gli aveva cambiato la vita.
«Maestro.»
disse una delle guardie, richiamandolo così dai propri pensieri «Lo facciamo
giustiziare?»
«No, non
sarà necessario. Me ne occuperò io. Potete andare.»
«Che
cosa!? Ma, maestro…»
«Questo è
un ordine.» disse Al Mualim col tono di chi non ammettere repliche
«S… sì
maestro.»
«E voi
tornate al lavoro.» disse poi rivolto alla folla.
Come tutti
si furono allontanati il maestro comprò una mela da una bancarella, insistendo
per pagarla, e tornato dal ragazzino, che lo attendeva seduto su una panca,
gliela porse. Quello, tuttavia, parve esitare, e lo guardò con i suoi occhi
fieri ed impavidi.
«Immagino
che avrai fame. Mangiala. È buona».
Alla fine
il ragazzino, vinto dai brontolii di stomaco, agguantò la mela e prese a
divorarla, e intanto Al Mualim non staccava gli occhi da lui, perso com’era a
rievocare tanti ricordi, i soli forse di tutta la sua esistenza legati a
momenti felici.
«Come ti
chiami?» domandò quando il bambino ebbe finito di mangiare, guadagnandosi una
nuova occhiata «Ce l’hai un nome?».
Quello restò
un attimo interdetto, poi fece cenno di no.
«In
questo caso, ce l’ho io un nome per te. Vuoi sentirlo?».
Questa
volta la risposta fu un sì, accompagnata anche da un impercettibile movimento
delle labbra.
«Molto
bene. Allora, da ora in poi, il tuo nome sarà… Altair».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
E così, siamo giunti
alla fine di questa breve avventura.
Mi sono divertito
molto a scrivere questa fan fiction, ma visto che al momento sono impegnato su
più fronti non sono sicuro di poterne produrre altre in futuro.
Anzi, a dirla tutta,
per poter trovare una nuova ispirazione vorrei aspettare di giocare ad Assassin’s
Creed II, e per poter fare questo dovrò inevitabilmente aspettare il natale.
Ringrazio quanti
abbiano letto e commentato questa storia, e prometto di farmi risentire il
prima possibile