Per sempre mio fratello ~ Nero e bianco ~ N e Virgil

di DragonEnya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 Una lanterna accesa ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 La squadra di soccorso ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 Devo andare ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 L'ex deposito frigo ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 Vecchie conoscenze ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 La verità sfuggente ***
Capitolo 7: *** Cap. 7 Sulla nave verso Alisopoli ***
Capitolo 8: *** Cap. 8 Attacco alla nave! ***
Capitolo 9: *** Cap 9 Libero nell'anima ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 Una lanterna accesa ***


Era una notte ricca di stelle quella in cui mi affrettavo a scappare da un destino che mi perseguitava da tutta una vita, trascinandomi nella mia condizione di essere umano fuorviato, tediato, rovinato. Il cielo limpido di quella notte con l'estate alle porte, guidava i miei passi affannati e vacillanti immersi nel velo scuro come la pece che li faceva impantanare al suolo. La foresta nei dintorni di Forteverdepoli venne svegliata dai gemiti delle mie corde vocali, il sentiero boschivo segnato dal mio sudore e rosato dal mio sangue, si stagliava come un nemico che non riuscivo a superare. Ero esausto, respiravo a fatica a causa di quelle spore che avevo inalato e che mi toglievano il fiato ma non potevo arrendermi e lasciarmi cadere nelle mani dei miei inseguitori, non quando finalmente in fondo alla foresta oscura scorsi una fioca luce in lontananza, probabilmente la lanterna della mia salvezza.
Scalai con immensa fatica lo steccato che mi separava da essa, ma così come io ridotto in quelle condizioni pietose riuscì a superarlo, anche i tre loschi figuri e i Pokémon da cui ero braccato, lo saltarono con la leggiadria di guerrieri ninja. Provai a seguire la staccionata lungo ettari di terreno in cui scorazzavano branchi di possenti Bouffalant, veloci Blitzle, soffici Mareep e scalpitanti Zebstrika, per poter raggiungere quella casa in mezzo al bosco e rincuorarmi al chiarore della sua lucerna. Ma le mie gambe cedettero, crollando sotto fronde verdi e rotolai giù lungo il sentiero scosceso, nella direzione opposta a quella in cui sarei voluto andare. Avevo mancato di poco l'obbiettivo perché stavo contando solo sulle mie forze, quando invece avrei potuto chiedere aiuto. Uno Zebstrika infatti si avvicinò a me per fermare la mia caduta rovinosa. Mi aggrappai al suo manto morbido e striato, mi issò sul dorso e corse verso la direzione giusta. Aveva ascoltato la mia voce, aveva captato la mia supplica di aiuto interiore dato che non riuscivo ad emettere nessun suono sensato. Ho proprio detto così: avevo parlato utilizzando la mia voce interiore e lui mi aveva risposto con la sua, perché si, ancora non mi sono presentato: mi chiamo Natural Harmonia Groupis, detto N e ho la capacità di sentire le voci interiori dei Pokémon e comunicare con loro senza dover usare le parole, ma delle presentazioni serie ce ne occuperemo più avanti magari. Chi conosce la mia storia, avrà già capito chi sono ma per coloro i quali non hanno mai sentito pronunciare il mio nome, non si preoccupino, ci sarà tempo e modo di capire come e soprattutto perché mi trovassi in quella disdicevole situazione.
Zebstrika mi condusse fin davanti all'agognata casetta, rischiarata appena dalla luce appesa sul portone d'ingresso. Il Pokémon mi scaricò con gentilezza a destinazione e si parò davanti a me pronto a difendermi. Mi trovavo ancora dal lato interno dello steccato in legno ben fatto e non avevo la minima forza per catapultarmi dall'altro per andare a bussare a quella porta, così rimasi lì, intrappolato, con la mano insanguinata aggrappata al legno, mentre tre ombre furtive mi raggiunsero col favore delle tenebre e mi circondarono, a destra e a sinistra. La mia voce emetteva sibili, tossivo, rantolavo e la gola mi si chiuse serrandomi le vie respiratorie. Era di sicuro l'effetto delle spore lanciatemi addosso da Liligant, il Pokémon di uno dei tre personaggi. Conoscevo quel trio fastidioso da quando ero piccolo, mi seguivano sempre per riportarmi a casa dopo le mie fughe. Si facevano chiamare il Trio Oscuro, tre persone dall'identità indefinita, agili come antichi guerrieri giapponesi con la katana e con il volto celato dietro un velo stretto sul viso, lunghi capelli bianchi raccolti in testa e corpi agili e scattanti come molle. Mi si fecero vicini, con ghigni soddisfatti ma stanchi di dovermi correre sempre dietro.

    «Ti consiglio di arrenderti se non vuoi farti ancora più male» mi avvertirono avanzando ancora verso di me.

    Ero palesemente senza scampo. Zebstrika aveva incoraggiato altri Pokémon ad intraprendere la mia difesa ma furono facilmente spazzati via da una fiammata di Volcarona che li disperse ustionandoli, così loro, povere creature non allenate alla lotta, fuggirono sparpagliandosi negli ettari di terreno intorno a noi. Qualcuno di loro ancora più spaventato prese a calci la staccionata fino ad incrinarla, finché Basculin, un altro dei Pokémon del Trio Oscuro, li fece allontanare con dei forti getti d'acqua, cosicché rimasi da solo, in compagnia dei miei incubi peggiori.
Si avvicinarono a me. Ero sotto tiro del loro Lilligant, di Basculin e di Volcarona. Un essere umano non può affrontare a mani nude i poteri dei Pokémon. Le spore mi avevano già ridotto l'ossigeno di almeno il settantatrè per cento (si ho detto proprio settantatrè, perchè dovete sapere che sono un appassionato di numeri e formule, in realtà sono un vero genio nella materia e odio le cifre tonde). So di essere bravo a calcolare qualsiasi cosa mi riguardi, almeno ci provo. Quella sera però avevo sbagliato i calcoli e stavo per rimetterci la vita. Sarei dovuto scendere dal mio piedistallo di solitudine ed onnipotenza e lasciare che qualcuno si prendesse cura di me, almeno quella notte perché avevo raggiunto il limite.
Ormai prossimo alla cattura, incrociai la figura del mio soccorritore. Era molto tardi: la porta di quella casa si era spalancata e qualcuno era corso fuori, probabilmente svegliato dal baccano che avevo causato durante il mio tentativo di fuga, infatti i Pokémon di quella proprietà non erano riusciti a placare la loro foga, generata dalla paura di quei tre che li avevano maltrattati. Alcuni di loro erano feriti e gemevano per terra poco lontani da me. Quella figura in silhouette, alta, slanciata e dalla voce immatura ma decisa saltò agilmente la staccionata e si frappose tra me ed i miei inseguitori.

    «Che cosa sta succedendo qui?» urlò un ragazzo frapponendosi tra me e loro. Al buio non lo vidi bene ma dal fisico e dalla voce delicata doveva avere più o meno la mia età, intorno ai vent'anni. Vide tutto quello che era successo fuori da casa sua e si infuriò.

    «Non sono affari che ti riguardano» rispose uno del Trio Oscuro, quello che sembrava avere una voce più femminile rispetto alle altre; io stesso che li conoscevo da tutta la vita non li avevo mai visti senza le maschere. «Torna a casa e non ti succederà niente. Lui verrà con noi» aggiunse l'altro.

    Il giovane si girò verso di me e la lanterna dell'uscio di casa sebbene molto flebile illuminò il suo viso. Erano gli occhi castani del mio soccorritore, un incrocio di sguardi che avrebbe cambiato per sempre la mia vita ed anche quella sua, ma nessuno dei due poteva saperlo, non ancora.
Fu come togliere il pasto ad una bestia affamata. Si infuriò per bene ma il suo linguaggio così pulito e con quei termini tecnici ... mi lasciò stupito ed impaurito alla stesso tempo. Forse era un avvocato o peggio, un poliziotto. Badai all'ultima eventualità solo per poco perché stavo veramente male e mi sarei accontentato di qualunque cosa pur di sfuggire ai miei persecutori.

    «Certo che sono affari che mi riguardano! Avete violato illecitamente la mia proprietà e state provocando il caos! E poi non mi sembra che lui sia d'accordo; smettetela o ve la vedrete con me!»

    Quel ragazzo di cui ignoravo totalmente il nome, intimò ai tre di andare via perché non aveva intenzione di soprassedere, soprattutto dopo aver squadrato le mie condizioni e quelle dei Pokémon intorno a noi. Rimasi lì seduto, con le spalle abbandonate agli spuntoni di legno grezzi della staccionata appena riverniciata, con quell'acre odore di pittura fresca al piombo, non proprio un profumo salutare, una gamba rannicchiata al petto. Già mi mancava il respiro ed inalare quel tanfo mi fece vorticare la testa; la mia mano sinistra teneva fermo l'omero a destra che mi era uscito dalla spalla durante lo scontro precedente con quel trio ed ero sul punto di svenire.

    «Ci mancava solo questo scocciatore» sbottò spazientito quello leggermente più alto «adesso ti daremo una bella lezione».

    Il terzo ninja ordinò al suo Basculin di attaccare. Il Pokémon pesce verde foresta tentò di colpirlo con un getto d'acqua, mentre il secondo allenatore ordinò al suo Volcarona, il Pokémon falena, di attaccare con il fuoco ed il terzo comando al suo Lilligant, il Pokémon fiore che mi aveva avvelenato con le sue spore, di lanciare foglie taglienti come lame. Il mio salvatore si ritrovò a dover fronteggiare tre elementi diversi tutti insieme, acqua, fuoco ed erba. Con un lungo ma deciso fischio, richiamò a sé un Pokémon. Era un Umbreon, un magnifico esemplare che si evolve da Eevee solo con il favore delle tenebre. I luccicanti anelli del suo corpo sfavillarono superando di gran lunga le luci delle stelle e della luna. Era una creatura bellissima dal manto nero e lucente. Chiunque avrebbe notato l'affiatamento che c'era tra lui ed il suo allenatore, anche chi come me, versava in condizioni critiche che di lì a poco sarebbero divenute irreversibili.
Il ragazzo gli ordinò di alzare una barriera protettiva per annullare i tre attacchi, per poi restituire il favore con un potente palla ombra. La compatta sfera nera di pura energia, investì il trio ed i loro Pokémon mettendoli in fuga.
Nel bagliore e nella confusione mi accorsi che un piccolo Pokemon con un aspetto a metà tra una volpe ed un gatto, aveva supportato la mossa di Umbreon per renderla più forte. Era un Eevee, Pokémon della stessa famiglia di Umbreon da cui lui si era evoluto.
Alla compatta combriccola di compagni bastò poco per liberarsi di quei tre buoni a nulla nella lotta, i quali scapparono via giurando però vendetta.
Dopo aver messo in fuga gli aguzzini, lui, con fare premuroso si avvicinò a me per capire come stessi. Ero già scivolato supino sull'erba fitta e sentivo le goccioline fresche di rugiada accarezzarmi la nuca, evidentemente in quella zona aveva piovigginato da non molto tempo. Mi parlò per cercare di avere un contatto con me ma i miei occhi appannati poco alla volta si chiusero. Ero sicuro che la mia pelle bianca, paragonabile solo alla luna piena nelle notti terse, fosse diventata rossa per la mancanza di ossigeno, di fatti mi svegliai non so quanto tempo dopo con un respiratore sul volto.
    Dischiusi gli occhi e sentii il mio sospiro attraverso la maschera ma la sensazione di soffocamento era sparita. Avevo dolori ovunque, come se mi avesse investito un treno ma in generale provavo sollievo. Alzai una mano per esaminarne il dorso e constatai che la mia pelle fosse tornata bianca, come era sempre stata. Mi sentivo senza forze ma in totale stato di rilassamento grazie al comodo matetasso che accoglieva il mio corpo martoriato ma abituato. Non potevo muovermi bene, la spalla lussata era stata rimessa apposto ma mi faceva un male che a caldo non avevo ancora avvertito.
Scrutai i dintorni e mi resi conto di trovarmi in una casa, modesta ma ben arredata. Non somigliava nemmeno lontanamente a quella che avevo lasciato qualche anno prima enorme ed aristocratica, quando ero fuggito dopo il tradimento di mio padre. Eh si, perché io sono il figlio adottivo di un ricco e potente signore single che si era rivelato essere il peggiore terrorista della storia di Unima, la mia terra. Già ... la mia adorata terra che mi aveva accolto non so bene tra quali braccia. Non sapevo nulla dei mie genitori naturali e Ghecis - questo è il nome del padre malvagio che mi ha cresciuto - mi aveva sempre raccontato che loro mi avessero abbandonato nel bosco, perché avevano paura del mio potere sconcertante: sentire le voci interiori dei Pokémon. Quando ero piccolo consideravo il mio dono come una punizione, poiché tutti quelli a cui lo mostravo, provavano paura e disgusto e mi apostrofavano come mostro. "Mostro! Mostro! Sei solo un mostro" dicevano scappando via e abbandonando ogni volontà di avere un rapporto come, di comprendere come io stesso non capivo di essere l'unico ad avere questa sorta di capacità che mi aveva sempre caratterizzato per il rapporto di simbiosi con le creature fantastiche del mio mondo: i Pokémon.
Ma tornando al presente ...
Sentì delle persone discutere tra di loro al dì là della porta della mia stanza. Parlavano di me.

    «Allora Virgil, come sta?»

    Virgil ... era forse questo il nome del mio salvatore? Quella voce matura aveva lo aveva pronunciato con affetto e si stava informando con lui sulle mie condizioni. Doveva essere per forza Virgil ad avermi tratto in salvo ed a giudicare dal modo in cui mi aveva cucito le ferite - sapevo bene che cosa fossero i punti di sutura perché ne avevo già avuti in passato - e il tutore a norma che mi reggeva la spalla, doveva essere per forza un medico. Avvocato? Poliziotto? Medico? Era un tutto fare? Eppure avrei giurato - quando entrò nella stanza e lo rividi ben illuminato - che era troppo piccolo per poter essere ognuna di queste cose, ma quando notai la sua divisa e quella delle altre due persone che erano con lui, sobbalzai atterrito. Il cuore annaspò per crearsi un'uscita dal mio petto, ebbi come un attacco cardiaco.

    «Un po' meglio papà». Rispose Virgil. «Ho dovuto idratarlo con una flebo perché sudava e la febbre non scendeva; adesso la sua temperatura si è normalizzata e gli effetti del veleno quasi svaniti».

    Non erano medici, né avvocati né tanto meno poliziotti ok, ma ero finito proprio nel quartier generale della squadra di soccorso di quella città. Forteverdepoli era anche la mia città ed era lì che ero cresciuto. Tutti lì sapevano chi io fossi ma nessuno per fortuna mi riconobbe.

    «Ha ancora il respiro sibilante, come se fosse allergico. Gli ho somministrato dell'antistaminico e se non migliorerà lo porterò in ospedale» aggiunse.

    Ospedale? Sentire quella parola mi fece andare nel panico. Non potevo muovermi, avrei voluto scappare a gambe levate ma cercai di calmarmi. Nessuno poteva accorgersi del mio travestimento; la mia parrucca castana e voluminosa costruita ad hoc conteneva perfettamente la mia chioma esagerata di lunghi capelli e le lenti a contatto marroni camuffavano i miei inconfondibili, cangianti occhi color cristallo. Il mio fenotipo era così particolare che non sarei mai passato inosservato, soprattutto in luoghi che avevo frequentato negli anni precedenti e la mia fama - direi piuttosto la mia cattiva fama - mi precedeva. Il discorso dietro la porta continuò.

    «Non serve che stamattina tu esca in missione, hai dormito poco, ti coprirà Davy» suggerì l'uomo più grande.

    «Anche lui mi ha aiutato, comunque preferisco rimanere per tenerlo monitorato».

    «Buongiorno ... come sta?» Riconobbi una terza voce dietro lo stipate, erano in tre. Tre maschi che parlavano di me tra di loro. Virgil spiegò anche a lui che con molta probabilità avevo avuto uno shock anafilattico causato dalle spore inalate. "Shock anafilattico?" ripetei incredulo tra me; io non ero allergico alle spore, non lo ero mai stato, o almeno non mi era mai capitato di stare così male in seguito ad un'esposizione alle stesse che io ricordi. Quando un essere umano respira accidentalmente le spore dei Pokémon d'erba rimane avvelenato ma l'intossicazione si risolve facilmente con rimedi appositi. Virgil invece stava raccontando ai suoi interlocutori - che potevano essere i suoi colleghi ma che in realtà erano suo padre e suo fratello - che la mia reazione spropositata fosse dovuta ad una forma di allergia nei confronti del polline dei fiori dei Pokémon.

    «È stato complicato fare una diagnosi ma in base alla sintomatologia sono riuscito a stabilizzarlo. Si riprenderà».

    Ancora dei termini da medico, ancora confusione nella mia testa. Virgil ... il mio soccorritore era rimasto in piedi tutta la notte per assistermi e lo aveva fatto con fare professionale. Un ragazzino che ne sapeva quanto un medico e che non aveva ritenuto necessario farmi curare in ospedale. Per mia fortuna direi. Mi voltai verso la finestra senza sollevarmi dal letto e capii attraverso le veneziane che era mattina presto. Avevo dormito beatamente - o quasi - tutta la notte mentre lui era rimasto sveglio accanto a me. Gli unici ricordi erano dei tocchi freschi sulla mia fronte, sui polsi e sulle caviglie. Erano le spugnature a cui mi aveva sottoposto per abbattere la temperatura causata dalla febbre alta. Ci sapeva fare eccome, avevo perfino il braccio incannulato da una flebo, nella cui sacca c'era l'acqua fisiologica per idratarmi ed i rimedi antistaminici contro la mia forma allergica a me sconosciuta.

    «Deve essere capitato qui mentre scappava da quelle persone» osservò l'uomo dalla voce matura interrogando Virgil, il quale aveva assistito ai fatti. «Sai chi fossero?»

     Giustamente si stavano interrogando sui miei inseguitori e soprattutto sul perché mi tallonavano. Solo Virgil era arrivato a vederli mentre la sua famiglia no. Come avrei dovuto spiegare la sistuazione dal momento che a breve sarebbero entrati nella stanza? Dicevo pocanzi che quando si avvicinarono a me, vestiti con la divisa da lavoro riconobbi all'istante due di loro. Uno era il capitano Jeff Evan, capo della squadra di soccorso della città e l'altro era suo figlio ma non ricordavo il nome. Solo sentendolo nominare da suo padre mi tornò in mente. Davy ... era il figlio maggiore del capitano Evan e lavorava insieme a suo padre nella squadra di soccorso, la quale aveva una stretta collaborazione con tutti i corpi pubblici, tra cui polizia locale, ospedale, centro Pokémon e ... quel corpo di agenti penitenziari che solo a pensarci mi vengono i brividi: la polizia internazionale. Non vado molto d'accordo con la polizia, soprattutto quella internazionale perché oltre a scappare dal Trio Oscuro, cercavo di non farmi scovare da loro. Ritrovarmi a casa dell'uomo che rappresenta un'istituzione parastatale di supporto e di riferimento per ognuno di quegli enti pubblici, mi mise davvero timore.
Ero sveglio e vigile, intento a guardarmi intorno. Conoscevo Davy e suo padre Jeff ma non avevo idea di chi fosse Virgil, colui che mi aveva salvato. Fu presto chiaro che fosse il figlio minore del capitano e doveva essere entrato a far parte della squadra da poco, poiché non lo avevo mai visto in vita mia. Lo guardai bene in faccia e constatai che i suoi occhi non erano castani ma verdi come smeraldi ed iridati con sfumature color ambra. Occhi stupendi, corpo slanciato come me e più alto di suo fratello maggiore, il quale aveva una corporatura più robusta.
Visibilmente agitato, tentai più volte di sollevarmi dal letto causandomi dolori atroci che uscirono come gridolini strozzati dalle mie labbra. Mani gentili e voci dolci come tazze di latte caldo nelle sere invernali, mi tennero giù e mi rassicurarono.

    «Non è il caso, sei ancora debole» mi suggerì deciso Virgil.

    Rimasi giù piacevolmente colpito dalla sua dolcezza e sentivo di essere in buone mani, finché non avessero saputo chi realmente fossi. Cercai ancora una volta di rilassarmi, in fondo mi ero fatto quel travestimento apposta per queste evenienze, per poter stare in mezzo alla gente ed indagare per portare avanti la mia missione.
    «Dove mi trovo?» chiesi facendo finta di non saperlo, così, per rompere il ghiaccio.
    Non credo che ricordassero la mia voce, piuttosto avevo paura che i miei sottili lineamenti mi tradissero. Eravamo troppo vicini e sei occhi che mi scrutavano così intensamente mi fecero tremare. Per fortuna attribuirono il mio vibrare al mio stato precario di salute e non alla paura matta di venire allo scoperto.

    «Sei a casa nostra. Sta tranquillo, qui sei al sicuro».

    «Che mi è successo?»

    «Ti ho trovato qua fuori mentre tre strani tipi ti stavano dando fastidio con i loro Pokémon, li ho messi in fuga e ti ho portato qui. Ti ricordi?»

    «Insomma». Dovetti stare un po' al gioco, per dar loro l'idea che fossi confuso e disorientato.
    Sarebbe stato più facile in questo modo apparire instabile, poco sano di mente per ricordarmi dove avessi messo i documenti nel momento in cui me li avrebbero chiesti.

    «Non importa. Questi sono mio padre Jeff e mio fratello Davy, io mi chiamo Virgil, tu chi sei?»

    A quella domanda ero ben preparato. Avevo studiato un nome appropriato per cambiare identità.
    «Noah ... mi chiamo Noah» risposi conmnaturalezza cercando di nascondere la voce tremante.

    «Va bene Noah. Avevi un avvelenamento da spore ed una spalla lussata, te l'ho rimessa a posto. Sei stato molto male. Per caso sei allergico?»

    «Non saprei ... ».

    «Le tue ferite sono state pulite e disinfettate, la febbre è andata via ed i sintomi dell'avvelenamento sono quasi del tutto scomparsi. Anche il tuo respiro è migliorato».

    Sorrisi grato, sfilai la maschera per l'ossigeno che mi dava un gran fastidio a causa del caldo, portai una mano al petto e chinai il capo in segno di ringraziamento. «Grazie di cuore» risposi sospirando energicamente.

    «Figurati. Tu come ti senti?»

    Quegli occhi lucenti, quel sorriso sincero, le labbra rosa ben disegnate mi ispiravano fiducia. Anche il capitano era una persona per bene, un uomo di mezza età, leggermente calvo e con i capelli brizzolati come cenere di camino; mi dava la sensazione di un padre amorevole con la sua famiglia, tutto il contrario del mio di padre, anche se non sapevo perché mi ostinavo ancora a definirlo tale. Era istinto, lo dicevo quando parlavo a braccio, ma a rifletterci bene non se lo meritava proprio anche se di fatto portavo ancora il suo cognome.
    «Beh, sono stato meglio» aggiunsi recitando un pizzico.

    «Non ti biasimo, sei ridotto male. Non preoccuparti qui avrai tutto il tempo per rimetterti».

    Davy, quel ragazzone dalla corporatura sviluppata mi rassicurò mentre apriva le finestre della stanza per far entrare la luce del sole, ma non avevo ancora capito di chi dei due fratelli fosse. Mi porse dell'acqua a temperatura ambiente e la bevvi tutta d'un fiato. Avrei preferito che fosse stata un po' più fresca ma sono una persona che nonostante sia vissuta nel lusso, servita e riverita in ogni momento, era di poche pretese.
    Il capitano mi diede ufficialmente il benvenuto a casa sua, rassicurandomi che grazie alle cure di suo figlio mi sarei rimesso molto presto.

    «Di qualunque cosa tu abbia bisogno non esitare a chiederla» concluse prima di lasciare la stanza insieme al suo figlio più grande.
Virgil rimase con me, a controllare che fossi a mio agio. Continuò inesorabile a prendersi cura di me, non ricordavo simili accortezze nei miei confronti da che fossi nato. Prese la mia spalla tra le sue abili mani e la esaminò in modo così scrupoloso che la domanda mi venne spontanea:
    «sei un medico?»

    Scosse la testa e mi parse di intravedere un velo di rammarico nella sua espressione, come se avessi toccato un tasto dolente della sua vita, ma si riprese subito.

    «Sono un soccorritore con competenze avanzate. Con mio fratello e mio padre formiamo la squadra di soccorso locale, è il nostro lavoro».

    «Squadra di soccorso eh?»

    «Si ... siamo la squadra di Forteverdepoli».

    «Capisco ... ahm ... sei ... stato sveglio tutta la notte soltanto per prenderti cura di me?»

    «Le spore ti hanno fatto salire la febbre alta; questo ti ha provocato delle lievi convulsioni e mi sono preoccupato. Ad un certo punto ho pensato di portarti in ospedale ma poi con la flebo sono riuscito a riportare la situazione sotto controllo. Faccio le ronde notturne quindi sono abituato a stare sveglio la notte. La cosa importante è che tu ti sia ripreso».

    «Davvero non so come ringraziarti».

    Mi donò un grande sorriso, quasi imbarazzato, poi mi disse che il dolore alla spalla ci avrebbe messo un po' a passare e che avrei dovuto tenere il tutore per almeno due settimane. Mi invitò a spostarmi in cucina per la colazione, perché riteneva che fossi in grado di muovermi. Io mi sentivo così indolenzito da credere tutto l'opposto. Capii che me lo dicesse per spronarmi a riprendermi più in fretta, si vedeva che nel suo lavoro di soccorritore ci metteva l'anima.

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Capitolo 2
*** Cap. 2 La squadra di soccorso ***


Vedendo che le mie condizioni erano parecchio migliorate, fui nuovamente incoraggiato a mettermi in piedi. Non potevo rifiutare, non dopo quello che aveva fatto per me.
    Misi le gambe fuori dal letto e spinsi con il braccio sano sul materasso per farmi leva. Non fu una passeggiata, ma con il suo sostegno riuscii nella titanica impresa di mettermi in piedi. Io stesso non ci credevo, le sue cure avevano fatto miracoli.

    «Non appena la spalla sarà guarita dall'infiammazione dovrai fare della fisioterapia, altrimenti potrebbe uscire di nuovo».

    Continuava a dispensarmi consigli appassionati, camminava vicino a me per paura che avessi un capogiro e cadessi sul pavimento, sorrideva e provava soddisfazione, come se si nutrisse delle sue buone azioni.

    «Certo, lo farò senz'altro».

    Lo dissi per non deludere quell'animo buono e gentile che aveva a che fare con una persona subdola come me, ma me ne vergognavo. Non sarei mai andato a fare della fisioterapia, non avrei mai potuto. Chi come me è costretto a fuggire per seguire un ideale, lo stesso che aveva fatto precipitare nel baratro la mia vita, non poteva permettersi certe cose.

    «Mi sono permesso di toglierti i vestiti e lavarli, tanto siamo tra maschi. Nel frattempo puoi indossare qualcosa dal mio armadio, abbiamo la stessa taglia».

    Avevo indosso un camice da ospedale, doveva far parte del suo repertorio da crocerossina perché non si tratta di un abbigliamento che tutti abbiamo in casa. Come se non bastasse aveva lavato i miei vestiti quella notte stessa mentre mi contorcevo in spasmi e lamenti a causa della febbre e li aveva stesi ad asciugare al sole. Aprì il suo guardaroba e mi aiutò ad indossare una delle sue T-shirt dai colori sgargianti e degli short che - almeno quelli - avevano un colore neutro. Il divario tra i colori dei sui abiti civili e quelli dell' uniforme era sconcertante e alquanto fantasioso.
    Ero solito indossare una camicia bianca aperta al colletto ed una maglia scura di sotto. Portavo sempre lo stesso paio di pantaloni al ginocchio in tinta pastello, ed un frattale cubico appeso alla cintura che però tenevo nascosto addosso e che a pensarci bene non trovavo più.
Come se quel ragazzo avesse dato vita ai miei pensieri con un tempismo da record, prese dal comò un oggetto e me lo restituì. Era proprio quello, la mia spugna di Menger, che aveva recuperato nella confusione la notte prima.

    «Il mio frattale ... pensavo di averlo perso. Grazie» dissi sorridendo in modo stentato dato che quell'oggetto avrebbe potuto lontanamente ricollegarmi alla mia vera identità ma per fortuna con lui non successe e tornai a nasconderlo.
Tenevo tanto a quell'oggetto, nemmeno io sapevo spiegarmene il motivo. Sapevo solo che in tutte le mie vicissitudini, violente e non, non l'avevo mai perso, e comunque in qualche modo era sempre tornato da me.
    Dopo essermi vestito lo seguii in cucina, dove tutta la famiglia era già a colazione inoltrata. Non tutta in realtà perché mancava la donna di casa. Guardando i suoi figli doveva essere una donna bella e a modo. Il capitano stava leggendo il giornale, mentre Davy sorseggiava del caffè amaro, lo capivo dalle smorfie involontarie del suo viso. Mi chiedo come faccia la gente a bere qualcosa che le papille gustative rifiutano, soltanto per sentirsi un po' più attivi durante la giornata. "Il caffè è un rituale" mi aveva spiegato una volta una persona incontrata durante i miei viaggi. "senza quella magia la mia giornata non potrebbe avere inizio". Che dire ... ognuno ha il proprio modo di iniziare la giornata; la mia magia era svegliarmi la mattina senza che entro la sera prima, qualcuno mi avesse catturato o ucciso e quasi quasi iniziavo a preferire il rituale del caffè a quello della lotta per la sopravvivenza.
    Mi portai la solita mano al petto e diedi il buongiorno chinando la testa. Fui ricambiato ed il cuore iniziò a pulsare più velocemente, in un mix di emozioni che non avevo mai provato. Era il calore umano di quella famiglia che mi faceva quello strano effetto.

    «Se ti sei alzato vuol dire che loro hanno fatto un ottimo lavoro. I miei figli mi hanno riferito che è stata una notte dura» esordì il capitano lanciandomi un'occhiata compiaciuta e senza alzarsi dal suo posto, spostò una sedia invitandomi a sedere vicino a lui, nell'altro angolo del tavolo mentre Davy era di fronte a me. A quanto pare i fratelli mi avevano assistito alternandosi ma il grosso del lavoro lo aveva fatto Virgil.

    «Forse lo è stata di più per loro» decretai con un pizzico d'imbarazzo, «io non mi ricordo quasi nulla. Siete stati molto gentili ad ospitarmi e a prendervi cura di me, grazie ancora».

    «Non c'è di che figliolo. Serviti pure».

    Solo un vero padre poteva esprimere con sincerità quella cordiale espressione con cui si rivolge ai figli e ai ragazzi come noi. Mi accomodai composto, forse un po' troppo rigido ma perché mi sentivo a disagio. Mentivo e avrei dovuto farlo forse per sempre, senza poter essere me stesso, quel me che però non sarebbe stato gradito da nessuno, nemmeno dalle persone di quella casa probabilmente, ma cercai ugualmente di calare quella maschera e declamare la mia parte, d'altronde, che altra scelta avevo?
    Virgil prese dal frigo del latte di mandorla e me lo offrì. Sulla tavola c'erano dei biscotti fatti in casa, del pane fresco e della marmellata ottenuta macerando le bacche del bosco ed un paio di uova cotte al tegamino.
Il capitano abbassò il giornale e si rivolse a me.

    «Hai detto di chiamarti Noah?»

    Ecco che cominciava l'interrogatorio ma d'altronde me lo aspettavo da un momento all'altro. Era del tutto normale che quelle persone volessero sapere di più dello sconosciuto che gli era piombato in casa con dei malviventi al seguito.

    «Si signore, è così».

    Sapevo bene che fosse un grande uomo, amato e stimato da tutti. Anche lui si era battuto contro la lotta al Team Plasma, l'organizzazione criminale guidata da mio padre e di cui anche io mio malgrado avevo fatto parte come erede al trono. Si, ero un re giullare che aveva abdicato perché non si riconosceva più nel suo regno, che in seguito era andato in rovina.
    Il capitano prese a fissarmi con più cura, distogliendo definitivamente l'attenzione dal suo quotidiano ed il mio cuore galoppò, ma senza imbizzarrirsi.  

    «Non ci siamo già visti da qualche parte?»

    Quella domanda fu spiazzante. La mia morfologia poteva tradirmi facilmente ma per fortuna era passato più di un anno da quando ero stato arrestato ed associare la mia persona all'ex re Natural risultava complicato anche per i migliori osservatori. Anche perché loro probabilmente sapevano che io stessi scontando la mia pena al centro di recupero per Pokémon di Alisopoli, al lato opposto di dove mi trovavo adesso. Ero in esilio, avevo un provvedimento di allontanamento dalla provincia di Boreduopoli ed in particolare dalla mia città natale. Era improbabile per loro che io fossi scappato e avessi rimesso i piedi in città proprio a casa loro, e comunque avevo un alibi di ferro che solo le mie due colleghe del centro conoscevano. Ero in una botte di ferro a chilometri di distanza dall'altoforno da cui mi tenevo a debita distanza per evitare che la mia corazza di metallo si liquefacesse e scoprisse il volto sotto quella maschera.

    «Ne dubito capitano».

    «Non hai un viso nuovo. Sei della provincia?»

    Anche per rispondere a questo mi ero preparato a dovere, o forse no? Io lo pensavo ma spesso sbagliavo i calcoli. Davo per scontato che presto me ne sarei andato da lì e che non li avrei mai più rivisti, quindi non badavo bene a quello che mi usciva dalla bocca.

    «Sono originario di Sinnoh. Viaggio. Se ci fossimo già visti me ne ricorderei» risposi ripensando a tutto il tempo che avevo passato in quella regione sperando di rifarmi una vita; il problema è che quando si hanno delle questioni irrisolte nel paese natio, come un grande debito e a quella terra ci tieni davvero, ecco che il suo richiamo è peggio del canto delle sirene agli orecchi dei marinai. Quando avevo sentito il grido di dolore di Unima nuovamente sotto le grinfie di mio padre, non avevo potuto ignorarlo ed ero tornato per combattere, mentre per saldare il mio debito mi ero consegnato alla giustizia.

    «Anche io ho l'impressione di averti già visto», intervenne Davy che ormai aveva finito di mangiare e si apprestava a sistemarsi cintura e gilet per iniziare a lavorare.
    Arricciai le labbra come se vagassi nel buio, come a voler dire che al mondo ci sono tante persone che si somigliano fra loro e che quindi fosse molto difficile esserci incontrati in passato.

    «Sarà che con il lavoro che facciamo vediamo tante di quelle persone che a volte le confondiamo» concluse Davy senza che io dicessi nulla ed il fatto che si fosse risposto da solo era confortante.
    Alla fine si convinsero di non avermi mai visto. Il capitano mi chiese i documenti come da copione ma li avevo già sentiti parlare fuori dalla porta e mi ero preparato a rispondere. Virgil aveva incautamente frugato tra i miei vestiti mentre credeva che fossi del tutto incosciente e non aveva trovato nulla. Non avevo nessun documento, quelli originali con la mia vera identità erano andati perduti nell'incendio del palazzo del Team Plasma in cui un tempo abitavo. La mia casa, la mia stanza, la mia prigione era andata distrutta a causa della follia di quell'uomo. Ormai non aveva più importanza per me. Adesso era necessario andare avanti e fuggire da lì per non dover mentire ancora a delle persone così genuine.

    «Durante l'aggressione ho perso il mio zaino. Tenevo tutte le mie cose lì dentro» proclamai arrancando quella scusa che avevo elaborato in precedenza.

    «Ah mi dispiace. Se hai bisogno di qualcosa, anche di soldi devi solo chiedere».

    «Lei è molto gentile capitano ma non ce n'è bisogno, posso cavarmela».

    «E qual è il tuo nome completo?»

    «Noah Levin signore».

    «Cosa ci fai in questa provincia?»

    «Come le dicevo prima, sono in viaggio e non ho dimora qui».

    «Capisco. Hai idea di chi siano quelle persone che ieri sera ti cercavano e che cosa volessero da te?»

    «Sinceramente no. Sono stato colto alla sprovvista e non ricordo bene che aspetto avessero. Devono avermi scambiato per qualcun altro».
    Era palese che mi stessi arrampicando sugli specchi ma altrettanto inevitabile che ci scivolassi. Quanto avrei voluto sfogare il mio dolore e lasciarmi andare. Non so se avrebbero compreso abbastanza le vicissitudini della mia vita e le ragioni della mia fuga, da tutto e da tutti. Erano pur sempre agenti speciali al servizio della nazione e non sarebbero mai potuti venir meno a loro doveri di fronte alla legge. I condannati devono pagare per le loro colpe ed io ero uno di loro.
    Non capì perché, ma il capitano d'un tratto scostò il giornale dal tavolo, finì di bere la sua tazza di caffè e abbandonò il discorso, distogliendo lo sguardo da me per rivolgerlo al figlio minore.

    «Prima che me ne dimentichi Virgil ... per quando è fissato il tuo incontro con Mirton? Devo capire se sia necessario fare delle variazioni ai turni di questa settimana».

    «Per il 21 alle 09:00 papà».

    «Cadrà di martedì ... suppongo che starai via per tutta la mattina».

«Lo spero, perché vorrà dire che starò proseguendo nelle lotte. Vi farò sapere. Tu per sicurezza toglimi dall'agenda del giorno».

    «Si, forse è meglio non renderti reperibile» ne convenne il capitano segnandoselo in agenda.

    Il mio soccorritore era nientemeno che il campione in carica del torneo della Lega di Unima. Adesso comprendevo la sua abilità nella lotta e l'affiatamento con i Pokémon della sua squadra. Ero stupito ed anche curioso di conoscerlo meglio per capire come mai Umbreon stravedesse per lui. Mi sono interessato per tutta la vita al rapporto tra allenatori e Pokémon ed il motivo del mio agire all'inizio era proprio questo. Quel Pokémon e quell'allenatore erano pura simbiosi, indissolubilmente legati da un tempo che sembrava non avesse né inizio né fine, un po' come me ed il mio Pokémon.

    «Devi lottare contro Mirton?» chiesi per evitare di riprendere discorsi scomodi nel tentativo di convogliare l'attenzione su quell'evento ormai prossimo, ma anche perché il discorso mi aveva incuriosito. «Questo vuol dire che tu hai vinto il torneo della Lega Pokémon di Unima».

    «Esatto» rispose Virgil con un sorrisetto che mi sembrò un misto di orgoglio e di compiacimento.

    Anche io spinto da mio padre per i suoi scopi, avevo fatto il mio percorso da allenatore che mi aveva portato ad essere campione regionale assoluto della Lega Pokémon qualche anno prima. Dopo essere uscito dalla mia stanza, in cui Ghecis mi aveva tenuto nascosto per quindici anni, avevo iniziato il mio viaggio da allenatore sfidando le palestre ufficiali come aveva fatto Virgil, per guadagnarmi le otto medaglie necessarie per partecipare al torneo, battendo otto capipalestra della regione; era la prassi per accedere alla competizione nazionale. Dopo aver trionfato al torneo avevo sfidato i superquattro, ovvero gli allenatori più forti di Unima, tra cui Mirton, colui che Virgil avrebbe dovuto affrontare martedì. Una volta sconfitti loro, mi ero presentato davanti al campione regionale in carica e avevo sconfitto anche lui. Fu un evento allora, i media non facevano altro che annunciarlo. Il campione era ritenuto imbattibile ed invece un ragazzo di appena diciotto anni era riuscito a porre fine al suo record. Avevo raggiunto il mio scopo per far parlare di me, ero l'allenatore più forte della regione e questo aveva accresciuto la mia popolarità di re che mi aveva dato potere agli occhi della gente. Faceva tutto parte del piano di Ghecis.
    Adesso la mia attenzione era totalmente concentrata sul mio soccorritore preferito. Eh si ... avevo preso a definirlo così nella mia testa incasinata, quel ragazzo mi piaceva e mi attirava come una calamita puntata a nord ma non me ne spiegavo il motivo.

    «Tu non sei un allenatore vero?»

    Virgil mi fece la domanda a bruciapelo. Da cosa poteva intuire se io fossi o meno un allenatore di Pokémon?

    «Cosa te lo fa pensare?» chiesi indispettito.

    «Beh, il fatto che non hai nessun Pokémon con te; se lo avessi, avresti potuto difenderti dai quei tre che ieri ti hanno ridotto così».

    La sua risposta secca e saccente mi spiazzò, del resto non faceva una piega. "Meglio cosi" riflettei. «In effetti le lotte Pokémon non mi interessano» dichiarai, ed almeno questo era vero; un tempo lottavo con trasporto mentre dopo il disastro che si era abbattuto sulla mia vita avevo smesso. Preferii comunque mantenere un profilo basso, meno cose sapevano di me e più facile sarebbe stato il distacco da lì a breve inevitabile.
Il capitano era d'accordo che ognuno potesse avere i propri interessi ed era legittimo. Non tutti siamo medici, poliziotti, insegnanti o allenatori. La vita è variegata così come lo è il mondo e condividiamo i nostri talenti per metterli al servizio della comunità. Anche io avevo tentato in passato di mettere il mio dono a disposizione degli altri ma non era andata come speravo. Pazienza, ci avrei di sicuro riprovato perché volente o nolente era il mio destino.

    «Hai mai lottato in passato?»

    Virgil mi incalzava a ritmo serrato. Perché si interessava così tanto a me? Era per fare bene il suo lavoro da pseudo poliziotto o c'era dell'altro? Per fortuna suo fratello intervenne per rinfrescargli la memoria.

    «Ma se ti ha detto di non essere un allenatore ...» allargò le mani come infastidito della sua insistenza, poi si alzò per prendere dell'acqua dal frigo.
    Davy aveva messo apparentemente fine alla curiosità sfrenata del suo fratellino ma non mi sarei mai aspettato che in realtà Virgil avesse avuto una strana visone quando mi aveva toccato per la prima volta, la notte in cui mi aveva soccorso. Fu per me una rivelazione scioccante ma non la venni a sapere subito.
    Lasciò perdere la conversazione, dopodiché Davy interruppe nuovamente il silenzio riprendendo il discorso del torneo di cui suo fratello era diventato campione in quell'anno.

    «Il mio fratellino ha onorato la squadra di soccorso con la sua vittoria e adesso sfiderà i superquattro e poi incontrerà Iris, la campionessa della regione di Unima. Sono sicuro che li batterai!»

    Eh si, dopo che avevo strappato il titolo a Nardo quattro anni prima, il campione di allora era entrato in crisi a causa di conflitti interiori che avevano dato inizio al suo declino come allenatore temuto da tutti ed una giovane ragazza era subentrata a lui come campionessa; io la conoscevo bene e l'ammiravo perché era forte e maestra di Pokémon di tipo drago, proprio come me. Davy aveva uno sguardo fiducioso verso il membro della più piccolo della famiglia e lo elogiava parecchio ma Virgil arrossì.

    «Smettila Davy. Magari riuscissi a batterne anche solo uno!»

    Notai in più occasioni che i complimenti lo mettevano in soggezione e secondo il mio parere non si dimostrava abbastanza fiducioso verso se stesso. C'era qualcosa che lo turbava, come un agglomerato di fango e detriti che insozzavano l'anima e aggrovigliavano i suoi sistemi tenendolo imprigionato, nonostante fossero tutti abili piloti di elicotteri pronti a solcare il cielo per andare incontro alle persone che dovevano salvare. Tuttavia anche io ero d'accordo sulla difficoltà oggettiva di queste lotte. Conoscevo bene i Superquattro di Unima, li avevo affrontati e sconfitti senza troppe difficoltà ma questo non voleva dire che fossero deboli, tutt'altro. Loro erano ad un altro livello e non credo che in quelle condizioni di animo, Virgil avrebbe potuto batterli e mi scappò di dirglielo senza ritegno.

    «Loro sono ad un altro livello, non credo che tu possa tenergli testa».

    Le parole erano evase dalla gabbia delle mie corde vocali senza controllo. Non so perché mi fossi espresso in modo così demotivante. Forse perché in realtà non volevo che lui si facesse troppe illusioni, forse perché in fondo tenevo a quel ragazzo più che a me stesso, forse perché ero geloso del suo rapporto fraterno con Davy; non seppi spiegarmelo inizialmente. Non avevo fratelli né sorelle, ero cresciuto nell'isolamento e nella solitudine, senza contatto umano alcuno. Solo le due ragazze con cui condividevo la condanna al centro di recupero per Pokémon erano state con me, (non per più tempo del necessario per accudirmi) prese apposta da Ghecis per aiutarmi a crescere in modo puro e con un unico maledetto pensiero: odia i tuoi simili, ama i Pokémon. Anche se cresciuto in compagnia di quelle ragazze, era stato vietato loro di rivolgermi la parola fino a che non avessi compiuto almeno sei anni affinché l'unica lingua che imparassi a parlare fosse quella dei Pokémon, per sviluppare ancora meglio la mia capacità di sentire le loro voci interiori. Tre anni di silenzio mi avevano trasformato in qualcosa di simile ad un animale.
    La famiglia avvertì un velo di audacia nel mio intervento, la mia acuta sicurezza li lasciò meravigliati. Risentito dalle mie parole come se avessi appena abbattuto l'aereo delle sue conquiste, Virgil andò sulla difensiva.

    «E tu cosa puoi saperne di lotte se non ti interessano? Sembri molto sicuro di quello che dici. Hai già avuto a che fare con la Lega?»

    Si vedeva lontano un miglio che fosse infastidito, forse era anche un pizzico orgoglioso e non accettava parole di disfatta senza alcun fondamento, a parer suo ovviamente. Io conoscevo bene le lotte Pokémon, le avevo praticate per tutto il corso della mia vita con l'obbiettivo di diventare il migliore e ci ero riuscito, mentre lui no, non era esperto come me e non poteva avere il vantaggio di sentire le voci interiori dei Pokémon, argomento che omisi per evitare collegamenti evidenti con la mia identità. Tutti sanno che l'ex re Natural sia capace di una cosa del genere e questo mi dava un enorme vantaggio nel condurre le lotte. Ascoltando i pensieri dei Pokémon posso anticipare ogni mossa del mio avversario e comunicare con la mia squadra senza farmi sentire. Si tratta senza dubbio di un vantaggio non indifferente che forse oserei definire imbroglio. Tuttavia non ho chiesto io di portare avanti questo processo. Forse ci ero nato in questo modo, forse era un dono acquisito nel tempo passato in compagnia di quelle creature, non saprei. Fatto sta che mentre lotto non posso non sentire e di conseguenza le mie azioni vengono influenzate. È la mia condizione e non posso farci nulla se non assecondarla e provare a trarne il meglio.
    Mi resi conto di aver esagerato con quelle parole sadiche e mi ritrassi indietro, lasciando però gli altri insospettiti. Quando si butta la pietra e poi si nasconde la mano, c'è il rischio che gli altri se ne accorgano, è il miglior modo per attirare l'attenzione su di sé. Tentai di rimediare alla mia risposta gettata d'istinto.

    «No, no ... lo so per sentito dire, non sarebbero i campioni della lega se fosse facile batterli, non trovi?»

    «Già ... » bofonchiò Virgil con un'espressione poco convinta.

    «Non hai tutti i torti e non posso proferir parola su questo argomento» cercai di concludere. «Ho ... divagato troppo con i miei pensieri, perdonatemi».

    Abbassai la testa sperando di ottenere venia e tornai alla mia colazione senza dire null'altro.
Nessuno badò più alle mie parole avventate ma il discorso sulla Lega Pokémon proseguì. Parlarono di me. Non di Noah Levin ma proprio di Natural a proposito della sua condizione di campione assoluto di allora.

    «Solo N, l'ex re del Team Plasma è riuscito a sconfiggere il campione. Tanti ci hanno provato ma senza risultati concreti» spiegò il capitano mentre dava uno sguardo all'orologio.

    Dimenticavo che tutti ad Unima mi chiamavano sempre con l'iniziale del mio nome che ormai era diventato il mio soprannome, ma il lignaggio che quella semplice lettera dell'alfabeto si portava dietro, era così disastroso che ormai non mi ci ritrovavo più. Il mio nome è Natural ed il mio desiderio è quello di cambiare vita ed essere chiamato col mio vero nome, per cercare di scrollarmi di dosso il retaggio di mio padre e speravo un giorno di poterci riuscire.
    La squadra di soccorso non aveva orari di lavoro fissi, era sempre reperibile, giorno e notte su turni con le altre squadre, quindi finché non arrivavano chiamate di emergenza o segnalazioni di vario tipo, rimanevano in casa pronti a intervenire.
    Tornando al discorso della Lega ... Nardo ne era il campione in carica prima che Ghecis desse inizio alle crisi plasma. Era il leader dei superquattro, ammirato da tutti e quando lo avevo sconfitto rivelandogli i miei ideali ed i motivi delle mie azioni, lo avevo messo in crisi. Diversi anni fa lui perse un Pokémon a causa di una malattia e l'opinione pubblica gli addossò la colpa perché riteneva che lo avesse portato oltre il limite durante una lotta senza curarsi della sua salute. Lui stesso si era convinto di essere colpevole della sua morte ma la malattia era risultata incurabile e non avrebbe potuto farci niente. Dopo la fine della prima crisi plasma, in cui collaborammo, io e Nardo diventammo amici e quando tornai ad Unima dopo quasi due anni di assenza, passammo un po' di tempo ad allenarci insieme, di nascosto da tutti. Lui non mi denunciò mai alla polizia anche se ero latitante e mi confessò di essere giunto alla conclusione che probabilmente il mio desiderio di creare un mondo separato per i Pokémon allo scopo di sottrarli al giogo degli umani, fosse una soluzione giusta, perché lui stesso non si riteneva piu capace di crescerne uno. Si sentiva indegno. Era ciò per cui mi ero sempre battuto, perché credevo che i miei simili fossero malvagi prima di uscire dalla mia stanza e conoscere il mondo. Discutemmo a lungo di questo e lavorammo per correggere l'uno i pregiudizi dell'altro, arrivando alla conclusione che dovevano essere i Pokémon a scegliere che cosa fare, se stare in compagnia degli umani oppure no, senza nessuna costrizione. Lui mi mostrò anche il vero voltò dell'umanità, ovvero quello dell'amore, un sentimento che va alimentato e coltivato per vivere bene e di cui tutti abbiamo bisogno, insieme al dono dell'amicizia.
Nonostante la sua storia fatta di trionfi e sofferenze, aveva sempre il sorriso stampato sul volto. Il suo modo goffo e privo di tatto che rivolgeva agli allenatori meno esperti di lui, poteva dare un po' fastidio ma io, dopo le prime incomprensioni causate dalle reciproche credenze, avevo avuto modo di conoscerlo meglio. Era più umile ed umano di quanto la dura corteccia che lo avvolgeva non dimostrasse.

    «Quel criminale non fa testo. Ha pure perso il titolo» commentò Davy con un pizzico di cattiveria in viso ed interrompendo i miei pensieri che tentavo sempre di tenere positivi.
    Lui non risparmiava certo le cartucce per le persone che non gli andavano a genio e quanto pare Natural, anzi N era uno di quelli. Mi aveva chiamato criminale, come del resto la maggior parte della gente di Unima mi definiva.
Quando ero passato dalla parte della giustizia durante la seconda crisi plasma e avevo sconfitto Ghecis, i media non avevano cantato le mie gesta. La gente non sa come ho duramente lottato rischiando di morire per fare la cosa giusta: mettere fine alle imprese folli del mio padre adottivo. Come sovrano del Team Plasma purtroppo ci avevo messo la faccia ed anche se non avevo mai fatto del male a nessuno, ero stato condannato, mentre Ghecis commetteva nel mio nome i più efferati crimini. L'unico ricordo che la gente aveva di me, era quello di un terrorista che aveva assaltato la Lega Pokémon e tentato un colpo di stato, portato avanti gli ideali di un pazzo che voleva sottrarre i Pokémon a tutta la popolazione di Unima ma la realtà è che io credevo che Ghecis mi stesse aiutando a realizzare il mio sogno di dare una vita migliore ai Pokémon, quando invece aveva usato la mia persona per realizzare il proprio, gettandomi in pasto alla rovina.
    Rimasi sorpreso invece quando il capitano prese le mie difese, quelle di N intendo.

    «Ci ha dovuto rinunciare Davy, non lo ha perso» replicò sospirando.

    «Che importanza ha?» lo interruppe con irruenza il figlio maggiore. «Quello sbruffone ha avuto quello che si meritava» ribatté invece con soddisfazione.

    «È solo un modo come un altro di vedere le cose figliolo. Quel ragazzo era un allenatore abilissimo e dotato di capacità che andavano oltre la comprensione umana».

    Mi stava descrivendo in modo oggettivo, senza dare giudizi o fare considerazioni personali. Era un uomo onesto e giusto, posato e comprensivo, lo ammiravo.
Ero fermamente convinto che Virgil ci avesse rimuginato parecchio su quel discorso perché quella sera a cena continuò a parlare di me e a fare domande.

   «In che senso oltre la comprensione umana papà?» chiese incuriosito.

    «Nel senso che aveva la capacità di sentire le voci interiori dei Pokémon. Quando lottava non parlava, ma dava gli ordini utilizzando la mente, capace di ascoltare quella dei suoi Pokémon e dei Pokémon avversari. In questo modo poteva anticipare ogni mossa e coglierle di sorpresa lo sfidante».

   «Questo al mio paese si chiama imbrogliare» intervenne ancora Davy il disfattista. Lui era la persona che incarnava perfettamente l'odio che il cittadino medio di Unima provava nei miei confronti.

    «Accidenti ... avrei voluto esserci per vederlo lottare almeno una volta, avrei voluto sfidarlo».

    Virgil non sapeva nulla di me. Aveva sentito parlare di un giovane re che insieme al padre aveva portato scompiglio ad Unima ed aveva assediato la regione causando disordini e caos. Mi versai addosso il latte di mandorla, come un bambino che non sa ancora bere bene dalla tazza e la stessa mi scivolò dalle mani ma la ripresi abilmente al volo. Questo episodio riportò involontariamente l'attenzione su di me.
Mi guardarono come se fossi un fenomeno da baraccone e mi fissavano scioccati perché avevo afferrato la tazza a pochi centimetri dal pavimento.

    «Noah, va tutto bene?» mi chiese Davy vedendomi leggermente in difficoltà con la mia bevanda.

    «Si scusami, mi è ... scivolata la tazza» conclusi in fretta dopo essermi ricomposto velocemente.

    Per fortuna la curiosità di Virgil teneva l'attenzione dei suoi familiari lontana dal mio gesto e da Noah.

    «È ancora in carcere papà?» gli chiese Virgil corrugando la fronte.

«Non più. Sta prestando i servizi sociali presso un centro di recupero per Pokémon ad Alisopoli. Lo hanno mandato lì per buona condotta».

    Che mi venisse un accidenti per ciò che aveva detto! Quella del capitano era stata la prima bestialità uscitagli dalla bocca. Buona condotta? Accidenti ... non ero stato scarcerato per buona condotta, ma preferisco non parlarne perché in realtà potrei essere preda di una crisi di rabbia. Portavo ancora dentro e fuori i segni della mia brutta esperienza in carcere. Mi trattenni dal rispondere anche se il mio linguaggio non verbale urlava che quell'affermazione non fosse vera. Mi resi conto in modo definitivo di che pasta fosse fatta la polizia internazionale, la quale sapeva nascondere bene i propri crimini. "Adesso basta Natural, calmati, lo hai promesso a te stesso ..." continuai a ripetermi per non esplodere.  Si, avevo promesso di non farmi contagiare dai desideri di vendetta contro i miei persecutori, avevo fatto un patto con la mia autentica anima. Mi ritengo una persona buona che vuole soltanto il bene del mondo, altrimenti non starei qui a fuggire ed a rischiare la vita ogni giorno per portare avanti la mia missione, mettendo da parte me stesso e la mia vita.
    Il capitano tuttavia continuò a dire come stavano le cose, non aveva colpa se la polizia internazionale avesse nascosto a tutti il modo in cui venivano trattati i prigionieri che non gli andavano a genio.

    «Non hanno ritenuto che la colpa di quello che è successo ad Unima sia stata direttamente sua. Si è impegnato per aiutare la polizia a catturare suo padre ma aveva comunque commesso dei crimini che deve scontare» precisò il buon capitano e comunciavamo ad esserci.
    Ero stato punito per non aver denunciato subito mio padre e perché avevo collaborato con lui all'assalto della Lega Pokémon e tempo dopo avevo scoperto che lui aveva fatto rapire i capipalestra due settimane prima dell'inizio del torneo per essere libero di assaltare la Lega durante la finale della competizione, senza averli tra i piedi ed agire indisturbato. Per fortuna quel giorno un gruppo scelto della popolazione era riuscito a trovarli e liberarli e così loro avevano protetto lo stadio del torneo e gli spettatori, inoltre Alcide, l'allenatore scelto ed addestrato per affrontarmi insieme a Reshiram, sconfisse me e Zekrom e per me quella sconfitta fu un bene.
Quel giorno aprii gli occhi e mio padre, contrariato dalla mia sconfitta, mi confessò che ero stato usato da lui solo per conquistare Unima. Fui scaricato in un attimo, come un inutile rifiuto. Io che amavo quell'uomo come un vero padre, mentre lui mi rinfacciava tutto quello che aveva fatto per crescermi ed io lo avevo deluso. Ne dedussi che non avevo colpe se quell'uomo mi aveva manipolato a partire dall'età di tre anni e mi aveva fatto il lavaggio del cervello. I bambini sono facilmente influenzabili, sono come argilla plasmabile a piacimento ma che una volta uscita dal forno però, può solo essere rotta. Sono stato fatto a pezzi da lui e sto ancora cercando di ricongiungere tutti i cocci, ma il vaso della mia esistenza non sarebbe mai tornato come quando era stato plasmato. Ebbi una pena ridotta per la mia collaborazione perché anche io fui considerato una vittima, quasi al pari della gente che in questa guerra ci era andata di mezzo ma non fu sufficiente per sottrarmi alla mia condanna di terrorista.

    «Diciamo come stanno realmente le cose papà ... N era malvagio come suo padre. Sottraeva i Pokémon a tutti gli allenatori che batteva ed era violento».

    Un piccolo appunto sulle parole dure di Davy a me personalmente rivolte: io non ho mai rubato un Pokémon in vita mia e non ero violento. Forse un po' irruento quando credevo di vedere un'ingiustizia ma non ho mai alzato un dito contro una persona o qualsiasi altra creatura al mondo. Dopo essere diventato campione, gli allenatori venivano al mio palazzo per sfidarmi, è questo il ruolo del campione: accogliere le sfide, gestire il comitato della Lega, i Superquattro, i capipalestra, presenziare ai tornei, organizzare e controllare che l'associazione Pokémon lavori bene. Dopo aver sconfitto gli allenatori che venivano da me, alcuni Pokémon sceglievano di abbandonarli e seguirmi spontaneamente, perché non amavano il loro allenatore oppure semplicemente perché ritenevano me più valido e volevano approfittarne per migliorare nella lotta, ma non mi ero mai azzardato a sottrarglieli, come invece mio padre voleva e facevano giornalmente le sue reclute. Visto che l'organizzazione di mio padre agiva così ed io ne ero il sovrano, tutti credevano che il loro operato fosse stabilito da me, quando invece era tutto a mia insaputa e ancora oggi mi chiedevo come avessi fatto a farmi ingannare da lui in quel modo. Ero cresciuto con la convinzione che ogni allenatore fosse malvagio e sotto i miei occhi da bambino e da ragazzino, Ghecis portava Pokémon feriti da lui stesso o dalle sue reclute, dicendomi che erano stati maltrattati dai loro allenatori e in questo modo ... avevo sviluppato una repulsione contro i miei simili. Credevo che tutti fossero cattivi e che gli allenatori snaturassero i Pokémon costringendoli a compiere azioni contro la propria volontà, a lottare nei tornei per compiace gli umani, a recitare negli spettacoli, a rischiare la vita nelle operazioni di salvataggio. Ero un po' scontroso ed era vero, forse troppo perché distruggevo i Pokédex e odiavo le Pokéball. Non sopportavo l'idea che delle creature libere dovessero vivere rinchiuse in quello spazio minuscolo creato dall'uomo per le proprie comodità, o essere oggetto di studio da parte di quegli aggeggi Pokédex che ritenevo immorali. Anche se i media tutt'oggi mi descrivono come un mostro io non mi ritengo tale e nessuno sa quanto ho pianto chiuso in quella stanza, tormentato dal pensiero che lì fuori ci fosse un mondo da sistemare e che tutto dipendesse solo e soltanto da me. Ricordo ancora le parole di mio padre, ripetute come un mantra affinché le facessi mie: «"I Pokémon sono stati oppressi dalle persone troppo a lungo; dobbiamo salvarli da questo terribile destino. Questo è lo scopo del Team Plasma. Un giorno tu sarai il leader del Team Plasma. Se ti è stato fatto dono di sentire le voci interiori dei Pokémon, è perché tu possa compiere la tua missione"».  Davy parlava in quel modo perché in effetti lo avevo trattato male quando ci eravamo incontrati una notte mentre lui era in servizio. Ero rammaricato di vedere come due Klingklang fossero stati posti alla base del suo elicottero per potenziare il mezzo. Io lo vedevo come sfruttamento piuttosto che come collaborazione reciproca. A mio parere quei Pokémon soffrivano. Solo con il tempo e dopo aver saputo la verità sulle vere intenzioni di mio padre, avevo cambiato il mio punto di vista ed oggi ero nell'ombra senza poter dire che mi dispiaceva. Con chi potevo confidarmi? Avevo bisogno di parlare con qualcuno, in carcere mi era stato impedito ed al rifugio non potevo ricevere visite né utilizzare il telefono. Se avessi contattato Nardo avrei avuto sicuramente un appoggio da lui ma non sapevo dove fosse finito ed era rischioso andarlo a cercare senza potenzialmente farmi scoprire dalla polizia.

    «È stato arrestato papà ... se non avesse colpe sarebbe ancora libero, non trovate? Noah ... tu cosa ne pensi di questa storia?» continuò imperterrito Davy senza esclusione di colpi.

    E cosa mai potevo pensarne? Che non è un bene giudicare un libro dalla copertina, non trovate anche voi? Chi non è d'accordo con quest'affermazione alzi la mano per favore. Tutti d'accordo? Suppongo di si. Quanta sofferenza urlava la mia voce interiore nel vano tentativo di difendersi dalle ingiustizie fisiche e verbali. Ero stato arrestato è vero ed avevo anche delle colpe, e per questo motivo avevo anche accettato quasi serenamente la mia punizione ma poi ... niente era andato come speravo e non ero mai riuscito a farne parola con nessuno.
    «Penso che prima di giudicare una persona, sarebbe meglio conoscerla bene e molte volte le cose non sono come sembrano» replicai con convinzione, ma Davy, anche se era d'accordo con queste parole, non faceva altro che vedere in N la fonte dei guai del mondo. Quel rancore tuttavia affondava le sue radici nel profondo, in qualcosa che mai nessuno dovrebbe provare e poco alla volta avrei imparato a conoscerlo ... quel dolore.
    I motivi della mia condanna a cinque anni di carcere furono principalmente due: prima di tutto il fatto che al momento delle disfatte compiute da Ghecis e dal suo esercito io fossi consenziente e soprattutto maggiorenne. Su questo vorrei fare però un piccolo e breve appunto: possedevo un certificato di nascita falso che Ghecis aveva fatto redigere appositamente per giustificare la mia adozione. Mi aveva trovato nel bosco (a detta sua) ed invece di denunciare il mio ritrovamento per permettermi di ricongiungermi ai miei genitori, mi aveva rinchiuso nel suo palazzo aspettando che le acque si calmassero. Crebbi nell'ombra mentre fuori probabilmente mi cercavano e quando diventai più grande e nessuno parlava più di me, Ghecis dichiarò la mia adozione facendo sparire ogni traccia della mia famiglia d'origine, non so come, e queste sono solo mie congetture ragionate di anni passati a pensare a come potevo aver perso tutto in quel modo. Come poteva un uomo non sposato adottare un bambino trovato (o rapito) in un bosco? Il certificato era solo una copertura se mai gli avessero chiesto conto di me, ma il problema non sussistette. Era un nobile ricco, facoltoso e potente allora, sapeva come muoversi nell'alta società e rinchiudendomi per una quindicina di anni dentro la mia stanza senza farmi mai uscire, fece in modo che chiunque si dimenticasse di me, di quel bambino probabilmente scomparso da qualche ignota famiglia che peraltro non lo aveva più cercato e mi ero sempre chiesto il perché. Ghecis non ebbe nessun problema apparente a tenermi con sé.
    Ma tornando al discorso dei motivi del mio arresto: dai documenti allora risultavo maggiorenne ma nessuno conosce la mia data di nascita, quindi ero stato nettamente incastrato. Non voglio giustificarmi dicendo che non meritassi la prigione l'età non c'entra. Diciamo che ero consenziente al momento in cui Ghecis aveva scatenato la guerra ed io ero stato al suo fianco, inconsapevole dei suoi scopi. Il secondo motivo era invece la mia fuga alla fine della prima crisi plasma, dopo lo sventato colpo di stato per intenderci, e dopo la mia sconfitta per mano di Reshiram ed Alcide, campione del torneo di quell'anno. Dopo la mia prima ma sonora sconfitta fa campione, Ghecis indignato dal mio fallimento mi aveva rivelato di come si fosse servito di me per i suoi scopi. Era stato allora che la mia esistenza si era sgretolata come un castello di sabbia sotto il sole rovente. Quel giorno, disperato e sconfitto ero scappato via, rifugiandomi a Sinnoh per quasi due anni, sperando di poter ricongiungere quei famosi cocci sparsi per terra. Il mio consenso alle azioni di mio padre, seppur disinformato, e la mia latitanza di quasi due anni, sommate ai danneggiamenti delle attrezzature Pokédex e Pokéball degli allenatori, e del laboratorio della scienziata, la professoressa Aralia decretarono la mia pena, ridotta però grazie alla mia collaborazione con la polizia internazionale, all'arresto del direttivo del Team Plasma.

    «Sono d'accordo con te Noah» intervenne il capitano «sono sicuro che dietro ogni azione ci sia una motivazione forte, anche se porta a fare del male».

    «Qualunque sia la motivazione papà, chi fa del male va punito» lo incalzò Davy senza fronzoli.

«Certo Davy, questo è ovvio. Ed è anche ovvio il motivo per cui N sta agli arresti domiciliari. Per fortuna le crisi plasma fanno parte della passato ormai, tutti i membri del Team Plasma sono in carcere».

Capitano Evan ... come vorrei dirti che sei fuori strada. Anche se potessi rivelartelo mi dispiacerebbe parecchio contraddirti. Era vero, Unima era nuovamente in pace da almeno un anno e mezzo, dalla fine della seconda crisi plasma tuttavia i tre membri del Trio Oscuro, quelli che mi avevano braccato fino in quella casa non erano mai stati catturati; furtivi ed abili come ombre e dotati di poteri soprannaturali, essi sono nientemeno che i primi fedelissimi sottoposti di Ghecis. Credo anche che la maggior parte delle persone ne ignori addirittura l'esistenza. Il motivo per cui avevo lasciato il rifugio violando il mio stato di libertà vigilata era proprio perché se loro erano nuovamente in giro ad agire, era perché qualcuno stava tramando qualcosa e quel qualcuno non poteva essere che Ghecis, o chi per lui. Nelle ultime notti prima di lasciare il centro di recupero, avevo visto delle ombre aggirarsi in modo furtivo per il giardino intorno al rifugio e avevo smesso di dormire. Antea e Concordia le mie colleghe, non si erano mai accorte di nulla. Avevo dovuto prendere la decisione di andarmene per non mettere loro in pericolo. Era chiaro che Ghecis cercasse di riavere un contatto con me e volesse catturarmi a tutti i costi.

    «Noah tu ti ricordi di questi avvenimenti?»

    Il capitano mi interrogò vedendomi perso nei meandri più profondi dei miei pensieri e la sua voce sradicò gli occhi dalle mie orbite che tendevano verso un punto indefinito della cucina. Mentre pensavo fissavo la cappa sopra al piano cottura e mi chiedevo come si usasse quell'affare. Provo vergogna per non aver mai cucinato in vita mia, nessuno me lo ha mai insegnato o lasciato che ci provassi. Pensai che fosse una delle minuziose esperienze che avrei dovuto sperimentare prima o poi nella mia vita.
    Avendo perso il filo del discorso degli Evan, mi limitai a mormorare solo un distratto "si, certo", sperando di azzeccare la riposta al discorso che mi ero appena perso e che paradossalmente mi riguardava.
Il fatto è che quando sento parlare di me in modo così poco oggettivo, il cervello va in sospensione sovrascrivendo le informazioni non corrette che tentano di penetrarlo. È autodifesa dalle ingiustizie che avevo subito e che continuavo a subire. Gli Evan tuttavia non avevano colpa di questo, anzi, avrei scoperto il giorno dopo quale sofferenza si nascondesse in quella casetta di collina così graziosa.
    Per rompere la tensione assaggiai i biscotti che erano disposti con una scenografia invitante proprio davanti a me.

    «Veramente buoni questi dolcetti, complimenti». Lo dissi come un ebete, con la bocca impastata riempita freneticamente per l'imbarazzo improvviso che provai dopo essermi distratto. Stavo proprio peggiorando ... io non ero così; ero forte, determinato e dopo quello che mi era successo era difficile cogliermi alla sprovvista. Sarà l'effetto che fa lo stare in una famiglia, che forse ... e dico forse porta gradualmente ad uno stato di rilassamento tale da indurre a sentirsi a proprio agio ed abbassare le difese.
La famiglia. Per me era solo un concetto astratto facilmente collocabile in un contesto di arte contemporanea, dove l'interpretazione dell'opera, spesso è piuttosto personale e fantasiosa. Che diavolo era una famiglia?
    Dopo aver fatto colazione, il capitano si ritirò nel suo studio, pronto a ricevere le chiamate di emergenza che arrivavano alla sala operativa oppure quelle che gli girava la polizia; Davy andò a fare manutenzione al ranch, mentre Virgil rimase ancora con me. Non mi avevano forzato a parlare ma ovviamente non si fidavano. Ero convinto che avessero lasciato a lui l'ingrato compito di far luce sulla mia vicenda.

    «Senti Noah, a proposito di quello che è successo ... »

    E ti pareva. «Ho già detto al capitano che non le conosco» lo anticipai sperando che desistesse.
    Alzai leggermente il tono, fu istintivo. Le mie risposte totalmente false suscitavano in Virgil uno stato di evidente frustrazione che lui cercava di gestire. Faticava molto a mantenere la calma in mia presenza, ma era allenato e si vedeva che lavorasse a stretto contatto con la polizia perché lo avevo scambiato per uno di loro prima che le uniformi mi rivelassero la loro identità.

    «Sul serio?» La sua fronte dopo essersi lineata si rilassò.
Aveva capito che fossi un tipo tenace e provò a cambiare approccio, ma ai miei occhi era solo un pivellino, benché annotai nella mia mente talvolta stupida, che avesse più o meno la mia età. Che cosa bizzarra ... etichettavo come "stupide" le persone della mia età ma io non mi ritenevo affatto stupido ed anche lui sicuramente non lo era. Mi piaceva giocare con la sua mente ma lo facevo per metterlo alla prova. Era bello immaginare che fosse mio fratello, era un gioco che non avevo mai fatto.

    «Guarda che con me puoi parlare, noi collaboriamo con la polizia e se hai dei problemi possiamo aiutarti».

    Ahahah. Mi veniva da sbellicarmi dalle risate ma mi trattenni. Se stava provando a portarmi dalla sua parte, aveva preso un bello scivolone e per quanto mi riguardava si era messo KO da solo. Io non parlavo con la polizia, non ci avrei mai più avuto a che fare dopo quello che mi avevano fatto.
Mi ritirai come farebbe una tartaruga nel suo carapace quando si sente minacciata.
    «Come ti ho già detto, non so chi siano e che cosa cercano, non le avevo mai viste prima».
   
    Il mio tono involontariamente, e dopo aver subito più volte la medesima domanda crebbe ancora d'intensità e questa volta anche Virgil fece un passo indietro. D'altronde che cosa poteva saperne di uno sconosciuto che era piombato casualmente in casa sua?
Non sapeva cosa aspettarsi da me, con molta probabilità mi temeva e stava solo cercando di guardarsi le spalle da chi aveva qualcosa da nascondere e non potevo dargli torto. Nonostante il suo velato timore, non mollai la morsa del mio sguardo deciso che tentava di bloccare ogni suo tentativo di sbrogliare l'intrigo della mia matassa. Non potevo permettermi di farmi scoprire, era escluso.

    «Va bene ... chiaro». Si tirò indietro, ma di sicuro era una resa momentanea per studiare una nuova strategia. «Domani mattina andremo dalla polizia a fare una denuncia, così inizieranno a cercarli».

    Lo disse in modo più deciso, come se quelle parole fossero schizzate fuori da un tubetto di colla schiacciato a pressione. Ero quasi convinto che lo stesse facendo per provocarmi, per suscitare in me una reazione, capire le mie mosse e mettermi nel sacco. La sua partita a scacchi era appena iniziata e le sue figure avanzavano mentre i miei pedoni tornavano indietro violando le regole. Era bravo, era più bravo di come lo avessi giudicato ed io stesso poco prima avevo detto che non bisogna giudicare qualcuno senza prima conoscerlo.

    «La polizia?» domandai come se fossi sorpreso,«non è necessario, avete già fatto molto per me. Ci andrò per conto mio».

    «Devi fare denuncia di smarrimento dei tuoi documenti e poi ... devi testimoniare quello che è successo. Non ti lascerò da solo e faremo tutto nell'anonimato oer proteggerti. Possono rappresentare un pericolo per te e gli altri cittadini».

    Che dire? Non mi rimaneva altro se non la fuga e per temporeggiare sorrisi tiepidamente in un'espressione mista a sfida e resa momentanea. Dissi soltanto che mi girava la testa e che volevo andare a riposare. Dovevo agire in fretta perché sapevo che sarebbero andati alla polizia prima di me per informarsi sulla mia identità. Avrebbero scoperto che Noah Levin di Sinnoh non esiste.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 Devo andare ***


Ero disteso nel suo letto ad osservare ogni dettaglio della stanza, con una mano dietro la testa come se stessi prendendo il sole in spiaggia. L'altro braccio mi faceva male e lo tenevo stretto al petto per evitare di muoverlo.
    La casa internamente era rivestita in legno, sembrava una baita di montagna con dettagli in pietra ma senza tetto antineve. Le travi sopra la mia testa disegnavano un motivo geometrico piuttosto semplice, come del resto era la famiglia che mi ospitava. La stanza di Virgil dava proprio sul giardino da cui partiva la staccionata dove due notti prima mi ero rifugiato, mentre la camera padronale e quella di Davy si trovavano dall'altra parte della casa. Per questo era stato Virgil il primo a sentirmi. Di fronte a me vi era un piccolo armadio a quattro ante, credo uno per ogni stagione anche se quando lo aveva aperto per prendermi i suoi vestiti, avevo notato che metà era utilizzato per riporre abiti e accessori da lavoro. Sotto l'ampia finestra c'era una scrivania con un bel PC a schermo piatto di ultima generazione che avrebbe fatto invidia a chiunque, anche al sottoscritto. Quella dimora sobria aveva una enorme contraddizione: dalla cucina alle stanze da letto, vi erano innumerevoli oggetti elettronici ultra tecnologici che stonavano brutalmente con l'arredamento semplice e talvolta spartano. Oltre al computer la stanza era dotata di un enorme televisore in alta definizione, un impianto stereo potente che avrebbe fatto saltare in aria la casa per le vibrazioni e file di luci al led ad ogni anfratto che cambiavano colore con comandi vocali. In cucina invece avevo visto un modello avanzato di robot per cucinare, un forno elettrico touch screen, un frigo con dispensatore automatico di ghiaccio e modalità sottovuoto e tante altre diavolerie costosissime. Forse amavano spendere per essere sempre aggiornati sulle ultime tendenze del mercato, non saprei. So solo che tutto questo (compreso l'aspirapolvere robot che camminava e puliva in autonomia) non gli si addiceva affatto, ma a tutto ciò c'era una spiegazione valida che avrei scoperto più avanti. Il letto era posizionato sulla parete opposta alla finestra, adagiato per lungo contro il muro e sulla stessa parete c'era la porta.
    Mentre ero ancora disteso vidi dalla finestra decollare uno degli elisoccorsi con Davy a bordo. C'era stata una chiamata e Virgil fu impegnato con suo padre alla sala operativa. Sapendo che erano così indaffarati, per quel giorno non avrebbero avuto il tempo di parlare con la polizia. Avrei avuto tutta la giornata e tutta la notte per pensare a cosa fare ma stranamente con il favore delle tenebre mi addormentai immediatamente svegliandomi la mattina dopo privo di idee. La notte non mi aveva portato consiglio anche perché mi ero abbandonato a quel morbido letto come un sasso ed era da un po' che non dormivo così bene. Mettiamo in conto anche che ho il sonno pesante e la mia strategia notturna di fuggire era svanita con il sorgere del sole.
    Mi alzai di buon'ora e dato che i miei vestiti si erano asciugati me li rimisi, lasciando con piacere quelli che Virgil mi aveva gentilmente prestato, poi mi affacciai sul corridoio per sondare il terreno. Lui stava per rientrare nella sua stanza ed aprimmo la porta insieme, io da dentro e lui da fuori.

    «Ah, buongiorno Noah, già in piedi?» Esordì Virgil con enfasi.

    «Buongiorno a te. Si, di solito mi alzo presto ... è tua questa stanza?»

    «Si, è la mia camera».

    «Mi dispiace di aver preso il tuo letto, tu dove ti sei sistemato?»

    «Sul divano».

    «Scusami, io ... non volevo certo buttarti fuori ...»

    «Credimi, è comodissimo e poi non sia mai che io faccia dormire un ospite sul divano».

    «Sei molto gentile».

    «Ma no, è il minimo. Andiamo fuori, ti faccio vedere il ranch, poi faremo colazione e andremo insieme al commissariato».

    «D'accordo. Ho lasciato i tuoi vestiti sul letto, grazie per avermeli prestati».

    «Figurati».

Anche se ero sicuro che non avesse cambiato le sue intenzioni, quella mattina lo vidi più pacato e sorridente e questo mise di buon umore anche me. Mentre lo seguivo verso l'ingresso del soggiorno, il capitano Evan aprì la porta del suo studio e ci vide.

    «Ciao ragazzi. Virgil, per favore puoi venire un momento? Abbiamo ancora quel problema con il mio computer».

    «Certo, arrivo subito. Noah puoi scusarmi un attimo?»

    «Fa pure».

    Virgil lo seguì nel suo ufficio e dal corridoio sbirciai dentro la stanza. Era un'ampia sala con una grande scrivania circolare e tre terminali, da cui il capitano gestiva le chiamate di soccorso. Di fronte, appeso alla parete c'èra un gigantesco monitor, probabilmente per rimanere in contatto visivo con la squadra in missione. Ne approfittai per guardarmi intorno, per individuare un eventuale sistema a circuito chiuso e tutte le possibili vie di fuga. Era il momento migliore per scappare e per me sarebbe stato uno scherzo sparire in pochi secondi.
Mentre pensavo a queste cose, senza farci caso, ero giunto vicino alla porta dello studio e sentii la discussione. Ero ossessionato che potessero parlare ancora di me, invece il filo del discorso verteva su un problema informatico. A quanto avevo capito, il software di connessione con la stazione di polizia e gli altri enti si arrestava improvvisamente, rendendo inefficaci le comunicazioni tra loro e la squadra di soccorso. Un bel problema direi. Il capitano Evan era altamente frustrato perché il difetto persisteva già da qualche settimana. Presi un sospiro. Ero intenzionato ad allontanarmi, per il mio bene e per il loro ma avevo promesso a me stesso che avrei messo al servizio della comunità le mie doti, anzi, avevo sempre provato a farlo ma con scarsi risultati e così decisi di riprovarci.

    «Ho già fatto il possibile; anche se metto apposto il programma, poi il problema ritorna» si lamentò Virgil grattandosi il capo. Lo vidi in netta difficoltà mentre tentava di districarsi tra i tasti bianchi con le scritte nere. Mi affacciai alla porta e in quel momento decisi di intervenire, come se una forza disarmante mi tenesse inchiodato a quelle persone.
    «Non ho potuto fare a meno di sentire che avete un problema con il computer, vi dispiace se gli do un'occhiata?»

   «Accomodati pure, tanto peggio di così non può andare» si crucció il capitano lasciandomi il suo posto» nel frattempo contatterò l'assistenza».

    Mi accomodai di fronte al terminale prendendo il posto d'onore del fiero capitano, mentre lui afferrò il cordless per richiedere supporto. Virgil mi osservò in silenzio mentre senza utilizzare il mouse, mi destreggiavo abilmente tra le stringhe di testo e di codice.

    «Cavoli ... »

    Sentii la sua esclamazione di stupore anche se sussurrata. Intanto il capitano chiese di parlare con il tecnico ma io avevo già risolto il problema e gli feci segno di riattaccare. Mise giù il telefono e mi raggiunse.

    «Era solo un impedimento di connessione dovuto ad un'interferenza con quest'antenna che adesso ho sistemato, poi ho fatto un aggiornamento al programma. Adesso può comunicare senza problemi. Lo provi e mi dica come va».
   
    Mi scostai dalla postazione per farlo sedere e lui attivò la funzionalità chiamata rapida constatandone il funzionamento.
   
    «Incredibile, adesso va che è una meraviglia», esclamò soddisfatto.

    Me la cavavo con l'informatica in generale, ero bravo in tante cose. Durante la mia infanzia trascorsa a guardare attraverso le finestre, nel susseguirsi delle stagioni e degli anni, avevo avuto molto tempo per smanettare ogni sorta di passatempo, da quello manuale a quello più tecnologico. Riuscivo ad aggirare il sistema di sicurezza del palazzo che mi impediva di connettermi con la rete per comunicare col mondo.
    Lo stupore fu generale e il capitano mi ringraziò, facendomi sentire utile. Provai una sensazione piacevole che non avvertivo da tempo o forse non avevo mai provato da che io ricordi. I complimenti hanno la straordinaria capacità di farci sentire utili ed apprezzati e incrementano l'autostima; chi porge un complimento ad una persona investe alacremente sul suo futuro.

    «Dunque sei un perito informatico?» mi chiese il signor Evan mettendosi poggiando le spalle alla sedia girevole.

    «Si ... » risposi esitando, «faccio il tecnico freelance viaggiando per la regione».
    Fu una buona occasione per costruirmi una falsa reputazione ed attenuare i dubbi che la famiglia aveva su di me. Davy non era a casa ed avevo un problema in meno contro cui lottare ma c'erano sempre due pozze verdi che mi scrutavano senza sosta, da cui venivano fuori delle tenaglie pronte a strapparmi la maschera, perché Virgil non smetteva mai di fissarmi. Rimanendo in quella casa mi ero dato in pasto alle istituzioni e adesso dovevo pensare ad un modo per risolvere la situazione.

    Virgil allentò lo sguardo e rilassò il corpo. «Allora visto che è tutto risolto, possiamo andare fuori».

    Mi invitò a seguirlo lungo la proprietà, quella che due notti prima sembrava non finisse mai tanto avevo faticato per raggiungere la casa.
Toccai di nuovo quello steccato robusto in cui due sere prima mi ero rifugiato cercando riparo. Dopo quella notte i Pokémon scorrazzavano felici e quelli feriti erano già tornati a correre e fu un sollievo per me vederli di nuovo in forma e tranquilli.

    «Vedo con piacere che adesso ti senti meglio» attaccò Virgil per riprendere un discorso con me.

    «Si, decisamente. Se non fosse stato per te, forse non sarei qui».

    «Va tutto bene ... aiutare è la mia missione».

    «Proprio una bellissima missione ... questi Pokémon sono davvero magnifici, sono tutti vostri?»

    «Ci prendiamo cura di loro».

    «Siete anche degli allevatori?»

    «Principalmente facciamo i soccorritori con gli elicotteri supportando la polizia, ma ci dedichiamo anche a questi Pokémon che molte volte curiamo quando li troviamo feriti e poi liberiamo. Come se fossimo una sorta di riserva naturale».

    «È molto nobile quello  he fate. Oltre ad Umbreon ed Eevee che ho visto quella notte ne hai altri?»

    «Ho un team che mi supporta nelle missioni. Adesso te lo presento».

    Con un fischio chiamò un gruppo di creature molto simili tra loro, erano tutte evoluzioni di uno stesso Pokémon.
    «Hai ottenuto tutte e otto le evoluzioni di Eevee?» chiesi stupito.

    «Non proprio ... mi manca Sylveon, la forma di Kalos. Chissà se la mia Eevee evolvendosi un giorno potrebbe diventarla».

    «Ti sei impegnato parecchio per farli evolvere. Questi Pokémon non vengono da Unima».

    «No infatti; queste evoluzioni vengono da regioni diverse. Ho viaggiato parecchio prima di iniziare il mio lavoro qui, poi dopo la soddisfazione del torneo, mi sono sentito pronto a supportare mio padre e mio fratello in squadra».

    Rividi quell' Umbreon. Era particolare; sguardo profondo e fiero.
    «Sento che voi due avete un legame molto profondo» osservai riferendomi al loro affiatamento nella lotta.

    «Si, è il primo Pokémon che ho allevato, quando ero piccolo mi ha salvato. È stata un'esperienza che mi ha fatto crescere».

    «Sono curioso, ti andrebbe di raccontarmela?»
    Appoggiammo la schiena contro la staccionata e lui iniziò a narrare di come all'età di nove anni fosse sfrontato, ribelle e disobbediente. Non ci avrei mai giurato guardandolo adesso, con quel portamento da militare, così professionale e ligio al dovere.

    «Un giorno per dimostrare che sapevo cavarmela da solo mi allontanai dal ranch assieme al mio primo Eevee ma mi persi nel bosco. Non riuscii a ritrovare la strada per tornare a casa e si fece buio. Vagai per ore nella foresta, tutti i corpi di polizia della provincia comprese le altre squadre di soccorso mi stavano cercando. Credo che quel giorno i miei genitori abbiano perso qualche anno di vita».

    «Lo immagino ... »

    «Già ... che stupido che sono stato. Stavo per scoraggiarmi quando improvvisamente un bagliore avvolse Eevee che si trasformò in Umbreon. I suoi anelli scintillarono di una luce abbagliante e quello sulla fronte si accese per illuminarmi il cammino. È un Pokémon dotato di grande intuito e di uno spiccato senso dell'orientamento. Grazie alle sue doti riuscii a tornare a casa. Quell'esperienza mi cambiò totalmente; sviluppai un forte legame con la linea evolutiva di Eevee e adesso ne ho tutte le evoluzioni e formano la squadra con cui lavoro».

    «Tu sfrontato e ribelle? Non ci credo».

    «Già, non si direbbe ma anche io ho il mio caratterino. Sono contento del mio percorso e quello che faccio adesso mi gratifica molto. Che mi dici di te invece?».

    «Non ho una dimora fissa ... mi sposto per lavoro e per piacere, unisco l'utile al dilettevole».

    «Trascorri la tua vita viaggiando e lavorando? Curioso però che questo viaggio di piacere o di lavoro, si sia trasformato in una brutta avventura».

    Ricominciai a sentirmi interrogato ma me l'ero cercata. Tentai con garbo di mettere un freno alla discussione.
    «Agente ... Evan, 25 maggio 1990 è corretto?»

    «Si ... come fai a sapere la mia data di nascita?»

    «Capita anche a me di avere delle brutte giornate Virgil ... ho letto la tua data di nascita su questo,» dissi porgendogli il tesserino che gli era caduto mentre andava nello studio di suo padre. Lo avevo messo in tasca per poterlo restituire e me n'ero quasi dimenticato. «Non sono mica un mago. Lo hai perso nel corridoio poco fa mentre andavi nello studio».

    «Il mio tesserino ... non mi ero accorto che mi fosse caduto, che sbadato che sono» dichiarò battendosi la fronte.

    Lo prese dalle mie mani e se lo rimise nel taschino interno del gilet. Adesso volevo fargli capire che non mi piaceva che a titolo gratuito qualcuno tentasse di indagare sulla mia vita.
    «Voi Evan avete una passione per le indagini ... »
    Il mio tono di voce viaggiava su un filo sottile tra il serio e l'ironico e la risposta di Virgil non fu da meno.

    «Si chiama deformazione professionale. Succede quando si lavora a stretto contatto con la polizia».

    Lo sottolineò con un tono deciso. Una risposta data con l'intento di mettermi in soggezione e sono sicuro che me lo faceva apposta a pronunciare sempre quella parola. Voleva a tutti i costi che io cantassi ma senza costringermi, per poi trascinarmi dalla polizia. Inoltre era curioso per natura ed io sapevo bene che la curiosità per chi non può raccontarsi è un grosso problema. Provai a sviare ancora il discorso.
    «Sei troppo giovane per essere un agente speciale. Li hai diciotto anni almeno?» domandai, e lui sorrise, con vanto da giovane ragazzo affascinante quale si credeva. Quanto mi piaceva la sua espressione e quanta sicurezza mi infondeva. Se solo non avesse avuto il difetto di essere un agente speciale al servizio dello stato ... mi sarei anche azzardato a tastare il terreno per avere qualcuno con cui discutere liberamente. Cavoli ... l'ho pensato davvero! Compresi che il mio bisogno di avere un amico era più forte della paura di essere catturato e maltrattato dai miei numerosi persecutori.

    «Ti ringrazio per avermi ringiovanito ma ne ho ventuno» precisò mettendosi quasi a ridere.

    «Capirai ... »
    Non aveva nemmeno un accenno di barba, sembrava un adolescente che giocava a fare il poliziotto ma a quanto pare nemmeno io sembravo poi così maturo.

    «E tu invece? Anche tu sembri un ragazzino».

    «Siamo lì. Da quanto tempo lavori per la squadra di soccorso?»

    «Da qualche mese».

    «Studi?»

    «No. Dopo il diploma sono partito per diventare allenatore, ho percorso cinque regioni in due anni da Kanto a Unima e vinto il torneo sono entrato ufficialmente in squadra. Durante le crisi plasma mi trovavo fuori regione e mi sono tenuto alla larga. Sono tornato  giusto il tempo di vincere le medaglie per partecipare al torneo quest'anno».

    «Una grande vittoria a quanto pare».

    «Beh, così  dicono. È stato fin troppo facile per i miei gusti ma mi sono divertito».

    «Cinque regioni in due anni? Come hai fatto?»

    «Ovviamente non ho partecipato ai tornei delle altre regioni, ho sfruttato il viaggio solo per fare esperienza, per cercare gli Eevee e farli evolvere e adesso fanno parte del mio team».

    La sua storia mi stava appassionando ma allungai troppo il passo dando sfogo alla mia curiosità con poco tatto, tanto da pentirmene all'istante.
    «Nel corridoio ho visto una fotografia di voi e di una donna. È tua madre?»

    Tentennò per qualche secondo, poi lo confessò. «Si ... era lei».

    «E ... era?»

    «È morta quando avevo diciassette anni».

    Serrai le labbra e chiusi gli occhi pentendomi all'istante. Ma perché gli avevo fatto quella domanda, perché mai? Ero in quella casa da due giorni e non c'era nessun segno di una figura femminile, né la notte né il giorno, in quella dimora non c'era traccia alcuna del passaggio di una madre o di una moglie quindi perché? Mi sentii un idiota a sfondare quella porta scoprendo l'angolo più triste del suo cuore.
    «Cielo, mi dispiace».
    Adesso capivo che cosa fosse quel velo triste e quasi impercettibile nei suoi occhi limpidi ma quello che sentii poco dopo il suo breve racconto, mi buttò definitivamente giù.

    «Lo so» continuò con voce calante «fu uno dei motivi che alimentarono la mia partenza. Non riuscivo ad accettare che lei non ci fosse più e dopo meno di un anno dalla sua scomparsa, me ne andai per dare un significato nuovo alla mia vita. Adesso riesco a parlarne ma non è stato facile».

    «Lo immagino ... com'è successo? Se posso chiedere». "Ma allora sei proprio scemo Natural?" Dovetti ripeterlo a me stesso, più e più volte e constatare di quanto in modo poco delicato mi stessi comportando, ma la curiosità prese il sopravvento.

    «Colpa del Team Plasma» rispose a bruciapelo.
    Bene. Il colpo di cannone mi aveva preso in pieno per diversi motivi, uno dei quali era ovvio visto che ero un "ex del Team Plasma" mentre l'altro ... sorvoliamo per adesso perché non ho voglia di pensarci. Avremo modo più avanti nella storia di capire il perché quella notizia mi era costata caro in tutto e per tutto.
    Mentre vagavo disperso nei miei pensieri più tetri, Virgil parlò a ruota, come se stesse vomitando tutto, sotto l'effetto di un hangover.

    «Quando io e Davy non eravamo ancora nati, lei e mio padre fondarono la squadra di soccorso, poi a diciotto anni mio fratello entrò a farne ufficialmente parte, era così felice. Tutti e tre erano formidabili ed io li ammiravo molto. Non vedevo l'ora di unirmi a loro, in questo modo il team sarebbe stato al completo.
Quella mattina mi trovavo in casa con la mia famiglia; ci stavamo preparando per andare a trovare i miei parenti a Sciroccopoli ma ci fu una chiamata di soccorso e mio padre e mio fratello dovettero intervenire senza sapere quando avrebbero finito, così io e lei andammo avanti e loro ci avrebbero raggiunti appena possibile. Decollammo con l'elisoccorso 1 e quando fummo sopra lo spazio aereo di Sciroccopoli la radio si accese. Intercettammo una segnalazione dalle frequenze radio della polizia locale e ci mettemmo in ascolto. C'era del movimento al Deserto della Quiete, nella zona del Castello Sepolto e chiedevano alla pattuglia più vicina di andare a controllare. Anche se non era la nostra zona di giurisdizione, mia madre cambiò la rotta per andare a vedere, in fin dei conti non si poteva ignorare una chiamata solo perché non eravamo in servizio e così in accordo con le autorità e col sottoscritto ci avviammo nel punto segnalato.
Una volta sul posto scendemmo di quota per volare bassi e vedere se ci fosse qualcosa di anomalo, quando improvvisamente l'elicottero venne colpito da una raffica di proiettili esplosivi che colpirono e danneggiarono uno dei motori. Eravamo a circa 100 metri dal suolo e l'elicottero iniziò a girare senza controllo. Vidi l'orrore in un secondo: mia madre sanguinava ed io non ero ancora un pilota. Si accasciò sul sedile ma mi disse di mettermi il paracadute e saltare giù ma io non le obbedii. Non me ne sarei andato senza di lei che non era in grado di muoversi, così mi posizionai ai comandi. Anche se non avevo ancora il brevetto, i miei genitori mi avevano insegnato a pilotare. Uno dei motori però aveva ceduto del tutto e l'unica cosa che potei fare ... fu rendere l'atterraggio meno catastrofico possibile. Scorsi il suolo sempre più vicino, poi la botta. Riaprii gli occhi e intorno a me c'erano solo fiamme e lamiere arroventate e delle persone vestite di nero che parlavano di noi. Sbirciai nei loro volti coperti e mi chiesi perché non venissero a soccorrerci. La sabbia del deserto entrava da tutti i pori e faticavo a respirare. Il primo pensiero andò a mia madre e la trovai accanto a me ...»

    Fece una breve pausa. I suoi occhi. I suoi laghi riflessi di verde di larice di montagna si gonfiarono come dighe esondi, ma riuscì a ricacciare indietro le lacrime, con fatica. Mi sentivo a disagio e quella storia non andava a finire bene.

    «... era intrappolata tra le lamiere. La tirai fuori con l'aiuto del mio team mentre avevo già premuto il tasto di emergenza per chiamare i soccorsi, anche mio padre e mio fratello lo ricevettero. Non riuscivo a capire dove fosse ferita ma si vedeva che era grave. Le persone che prima erano intorno a noi cominciarono ad allontanarsi ignorando totalmente le mie richieste di aiuto. Non riuscivo a ragionare, avevo battuto la testa nell'impatto e sentivo qualcosa di rotto ma la strinsi a me ripetendo nella mia mente come una preghiera che tutto sarebbe andato bene. Le squadre di soccorso intervenute, i paramedici tentarono di salvarla. Fecero tutto il possibile ma, viste le condizioni dell'elicottero ... non poteva che finire male. Fu l'ultima volta che ascoltai la sua voce. Mio padre e Davy non arrivarono a vederla viva e puoi immaginare tutto lo scenario. In seguito alla indagini, scoprimmo che il Team Plasma si trovava lì per cercare qualcosa al Castello Sepolto e siccome noi avremmo potuto scoprirli hanno abbattuto l'elicottero per non farsi intralciare».

    Non c'erano parole per descrivere il senso di vuoto disarmante che provai da quel momento. Ricordo perfettamente quando ero in carcere che per motivi allora a me sconosciuti ero stato accusato di quell'omicidio, senza nessuna prova e fondamento dato che alla mia sentenza non vi era alcun accusa del genere. Questo aveva trasformato la mia vita lì dentro in un vero incubo.
Quell'incidente era avvenuto circa quattro anni prima, quando il team di scavatori guidati dal capopalestra Rafan di Libecciopoli, aveva rinvenuto presso le rovine del Castello Sepolto, le due pietre che rappresentavano le forme alternative dei Pokémon leggendari protettori della regione di Unima. Ghecis voleva impossessarsi dei due draghi: Reshiram, quello bianco portatore della verità che governa il fuoco e Zekrom, quello nero portatore di ideali che governa il fulmine per conquistare la regione. Ed ecco che qui entravo in gioco io, con lo scopo per cui ero stato allevato. Grazie alla mia capacità di sentire le voci interiori dei Pokémon, grazie all'empatia sviluppata negli anni con queste creature, agli allenamenti a cui mi aveva sottoposto e soprattutto alla fama che avevo acquisito tra la gente di Unima battendo il campione, sarei stato abbastanza motivato per risvegliare e portare dalla mia parte uno dei due draghi, sprofondati in un sonno che durava da migliaia di anni. Vi racconterò in seguito la leggenda della creazione di Unima e i dettagli del mio percorso nel mito.
Fatto sta che quella volta il Team Plasma non aveva trovato le due pietre perché Rafan li aveva anticipati, affidando i cimeli al museo di Zefiropoli. I sottoposti di mio padre erano riusciti a rubare lo scurolite e a portarmelo affinché io risvegliassi il drago nero, quindi quello della madre di Virgil era stato un sacrificio inutile.
    Continuare a rimanere in quella casa mi sembrava una punizione più dura di quelle subite fino a quel momento, ero talmente dispiaciuto che avrei voluto piangere ma avevo promesso a me stesso che sarei stato più forte dopo le ultime lacrime versate in carcere, per poter sopravvivere ai brutti ricordi e lasciarmi il passato alle spalle. Mi trattenni, anche se sembrai duro e senza cuore.
    «Non ho parole Virgil, mi dispiace così tanto ... »

    «Sei gentile a dirlo ma ... non è mica colpa tua. Il Team Plasma ha causato sofferenze a tante persone ma erano soprattutto quelle scomode che venivano tolte di mezzo. Non sai quanto ho desiderato fargliela pagare; se mi capitasse uno di loro tra le mani, non so come potrei reagire».

    «Vendicarsi non servirebbe a nulla ...»  
    Che cosa avrei potuto dirgli? Come si può giustificare un fatto così grave, ed io, che ero stato il perno di quell'organizzazione criminale, come dovevo sentirmi? A volte quello che mi passava per la testa era il pensiero che se non fossi mai nato, tutte queste cose orribili non si sarebbero mai compiute.

    «Probabilmente è così, ma è facile parlare quando non si è coinvolti» concluse lui abbastanza sconsolato.
   
    Se fosse stato mio fratello o un mio amico, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata abbracciarlo, ma io non mi ritenevo degno nemmeno di stare al suo cospetto in quella casa intrisa di dolore ed ingiustizia. Sapevo fin troppo bene però che cosa fosse un sentimento di vendetta. È qualcosa che fatichi a controllare, è una pulsione orribile anche se gonfia di ragione, è la pietanza più gustosa che si sia mai cucinata all'inferno ed io avevo avvertito quell'appetito parecchie volte ma per mia fortuna non avevo mai assaggiato il piatto. Sapevo di non essere il diretto responsabile di quella morte assurda ma mi sentivo ugualmente in colpa.
    D'un tratto per spezzare la tensione, Eevee saltò giù dalla sua spalla e venne da me per farsi coccolare. Il Pokémon strofinò la testa tra mie gambe. Vidi che Virgil si era distratto dal gesto del suo Pokémon, così ne approfittai per tagliare il discorso. Mi abbassai e lo presi in braccio, anche se la manovra mi costò un po' di dolore. Le accarezzai il mento, con delicatezza. Era un Pokémon femmina.
    «Tu sei davvero bellissima!» mi complimentai con lei ed indirettamente con lui. «Un corpo armonioso, ed una pelliccia lucida e morbida. Sei ancora piccolina, ma si vede che hai già le idee chiare su cosa essere. Il tuo allenatore si prende molto cura di te».
    Suscitai nel mio triste interlocutore un sorriso tenero. Il giovane soccorritore si meravigliò del modo in cui il suo Pokémon si abbandonava alle mie mani, mentre alla mia maniera, sussurravo ad Eevee di prendersi cura di lui perché ne aveva un gran bisogno. Avrei voluto farlo io ma non ero nessuno per essere così dentro alla sua vita piena e dolorosa allo stesso tempo, io non appartenevo a quello status di famiglia felice o di amico sincero di cui tutti hanno bisogno. Da lì a poco sarei sparito e volevo lasciare - nonostante tutte le incomprensioni - un ricordo più positivo possibile di me.
    I modi per sorprendere la gente non mi mancavano, così tirai fuori dalla tasca una bacca per offrirla ad Eevee.
    «Posso dargliela?»

    Virgil annuì ma era alquanto sorpreso.
    «Come fai a sapere che a lei piace proprio quel tipo di bacca?»

    «Semplice intuizione ... » risposi allargando le mani e sorridendo.
Ma che intuizione. Glielo avevo chiesto. Conoscere le carte dell'avversario prima di iniziare la partita è fantastico ma anche diabolico se così vogliamo definirlo. Volevo stupirlo era ovvio e ci ero riuscito, ma senza fare i conti con il suo intuito da investigatore. Mi stavo scoprendo senza che me ne accorgessi ma non ci badai perché avevo deciso di dileguarmi chiedendo di poter andare in bagno. Intanto continuai a parlare.  
    «Eevee è un Pokémon molto particolare perché si può evolvere quando entra in sintonia col suo allenatore. È una creatura speciale, capace di adattarsi ad ogni tipo di ambiente e possiede una personalità giocosa ed amichevole».

    «Sai parecchie cose sui Pokémon pur non avendone nemmeno uno».

    «Anche se non ne possiedo, amo queste creature e mi piace approfondire la loro conoscenza».
    Ovviamente continuavo a mentire. Non solo ero un allenatore eccellente ed avevo un Pokémon molto forte al mio fianco ma avevo anche domato i due Pokémon della leggenda e non era stata una passeggiata. Non Noah ovviamente ma Natural.
    Passai in mezzo allo steccato dirigendomi verso il branco di Pokémon che sgambettava entro gli ettari della proprietà recintata, per accarezzare lo Zebstrika che quella notte mi aveva aiutato. Posai la fronte contro la sua e lo ringraziai in silenzio rimanendo immobile per qualche secondo. Questi Pokémon sono simili a delle zebre con gli occhi azzurri ed il corpo che sprigiona fulmini. Tutto il branco mi circondò, anche i giganteschi Bouffalant, con le loro corna ricurve e spropositate si avvicinarono fino a farmi sparire dalla vista di Virgil che preoccupato saltò lo steccato per cercarmi. I Pokémon hanno una natura pacifica ma non si mai.

    «Noah ...»

    «Sono qui».
   
    Virgil si fece largo attraverso la mandria e mi raggiunse. I Pokémon avevano fatto un cerchio intorno a me dimostrandosi affettuosi ed amichevoli.

    «Spiegami come hai fatto ad indovinare al primo colpo la bacca giusta. In natura ne esistono centinaia, è impossibile che tu l'abbia azzeccato al primo tentativo».

    «Così come era impossibile avere centinaia di bacche diverse in tasca. Solo fortuna Virgil».

    «Sembra che tu con i Pokémon ci parli, come sapeva fare N del Team Plasma».

    "Ma sei scemo Natural? Che diavolo ti salta in mente?" Perché me ne stavo lì in attesa di farmi scoprire invece di andarmene come avevo previsto? Credevo che se mi fossi trattenuto ancora lì, quel ragazzino avrebbe vinto la partita a scacchi contro di me.
    «Parli del figlio di Ghecis?»

    «Si. Mi chiedo cosa intendono quando dicono che sappia parlare ai Pokémon e mi è venuta in mente la tua empatia».

    «Sarà un tipo fuori dal comune».

    «Si, e pure folle direi».

    «Beh può anche darsi».

    «Davy mi ha raccontato che aveva l'ossessione di voler dividere il mondo dei Pokémon da quello degli umani. Non sentiva altre ragioni. Che idea assurda però, chissà come gli sarà venuta in mente».

    «Solitamente le strane idee vengono quando si viene esclusi dalla realtà e l'unica che hai davanti ti sembra la più ovvia. Quando qualcuno di cui ti fidi ciecamente ti condiziona ad avere un'idea precisa il risultato è crescere pensando che sia quella più giusta. Le credenze sono tenaci da abbattere, soprattutto se ad inculcartele sono persone di cui ti fidi, come i genitori. Quando ci si rende conto di sbagliare, di solito è troppo tardi ed è quello che credo sia successo a lui».
    Ebbi l'occasione di giustificare un po' i miei comportamenti del passato.
Conoscete il mito della caverna del filosofo ateniese Platone? L'allegoria racconta che un gruppo di prigionieri incatenati davanti ad un muro fin dall'infanzia, vedano proiettate sul muro che hanno di fronte le ombre di tutto quello che avviene nel mondo esterno alle loro spalle e non conoscendo altro che quello che hanno davanti, i prigionieri pensano che sia la realtà, non avendo mai conosciuto null'altro nella vita. Nel momento in cui uno di loro riuscisse a liberarsi e a uscire, la vista di quello che incontrerebbe fuori lo spaventerebbe semplicemente perché non vi è abituato. Questo era più o meno quello che era successo a me. Ero uscito dalla mia stanza convinto che gli esseri umani fossero malvagi e sfruttassero i Pokémon ma ero rimasto molto confuso, come un'equazione che non riuscivo a risolvere vedendo che non era come mi aveva sempre raccontato mio padre.

    «Anche se così fosse, quel tipo ha fatto soffrire tante persone. Sottrarre i Pokémon agli allenatori è crudele» disse Virgil sulla stessa falsa riga del fratello maggiore.

    Mi faceva stare male essere definito e ricordato come una persona malvagia ma lui aveva perfettamente ragione.
    «Concordo con te agente Evan». Lo assecondai e gli feci la fatidica domanda. «Ti spiace se vado un attimo in bagno?»
    Ma prima che potesse rispondere per acconsentire o meno, Davy si precipitò verso di noi di gran lena e parecchio agitato, venendo verso la staccionata.

    «Che succede?» Domandò Virgil vedendolo così allarmato.

    «Dall'altra parte del ranch sta succedendo qualcosa, i Pokémon sono fuori controllo! Papà è già andato lì».

    Davy saltò la staccionata e Virgil lo seguì verso la parte bassa della proprietà dicendo a me di non muovermi. Non voleva rischiare che mi facesse nuovamente male. Era l'occasione che aspettavo da due giorni, o forse che non volevo arrivasse mai ma era lì. Senza neanche pensarci mi avevano lasciato da solo e non mi restava che agire. Non lo feci. Al contrario mi diressi verso la fine del ranch e mi nascosi dietro ad un albero per osservare. Vidi del fumo viola avvolgere le mandrie che si muovevano come burattini, vidi il Trio Oscuro manovrarle con un dispositivo ad onde sonore a bassa frequenza, vidi la famiglia Evan assediata dai Pokémon del proprio team. Non potevo andarmene.

    «Ancora voi?» Tuonò infastidito Virgil che li aveva riconosciuti. «Si può sapere chi siete?»

    In effetti il Trio Oscuro era diverso nell'aspetto rispetto alla seconda crisi plasma ed era ovvio che non volesse farsi riconoscere

    «È meglio che tu non lo sappia ... dove lo nascondete? Sappiamo che è qui» tuonò uno di loro.

    Erano tornati per me. Dovevo aspettarmelo e mi pentì subito di non essere andato via prima o forse invece era un bene che fossi ancora lì.

    «Non avete nulla da fare qui» gli ripeté Virgil molto seccato e nel frattempo vidi il capitano smanettare il suo cellulare da polso, probabilmente per chiamare la polizia. Che situazione assurda. Se fossi rimasto lì avrei incontrato la polizia ma se fossi scappato li avrei lasciati in pericolo e tutto solo per colpa mia.

    «Che cosa avete fatto a questi Pokémon?» Chiese infuriato il capitano Evan trattenendo Davy per una spalla, il quale li avrebbe volentieri presi a pugni.

    I Pokémon erano sotto il controllo del trio, non ascoltavano più le voci dei loro allenatori; anche il team di Virgil e i tre Pokémon di Davy non gli davano retta, era come se non li riconoscessero.
Questo mi ricordò il prototipo del dispositivo del dottor Acromio, scienziato geniale, diabolico e braccio destro di Ghecis durante la seconda crisi plasma. Il dottor Acromio era riuscito a catturare e sottomettere Kyurem, - con l'ausilio del suo avanzato marchingegno - il drago di ghiaccio originario con cui durante la seconda crisi plasma, aveva congelato quasi l'intera regione, compresi i suoi abitanti. Io lo avevo affrontato ed insieme ad Alcide col quale ci eravamo alleati avevamo sconfitto il Team Plasma mettendo la parola fine alla guerra causata da mio padre. Adesso erano tornati e sembrava lo stesso copione ma doveva esserci qualcosa di diverso nelle loro azioni.
    I due fratelli in evidente difficoltà, cercavano di mettersi in contatto con i loro Pokémon ma senza riuscirci, anzi, essi si girarono verso di loro fulminandoli con uno sguardo minaccioso.

    «Virgil ... hai visto i loro occhi?» indietreggiò Davy atterrito.

    «Si ... che cosa sta succedendo? Umbreon che cosa ti prende?»

    Il piccolo dispositivo ad onde, formato da una scatola e una mini parabola che spargeva onde in grado di influenzare la mente dei Pokémon che si trovavano nelle vicinanze, influenzava la capacità di giudizio degli stessi e quello strano fumo ne aumentava l'effetto.
I Pokémon si mobilitarono contro la squadra di soccorso e gli vennero aizzati contro. Davy e Virgil furono attaccati e colpiti dai loro stessi compagni e rimasero a terra feriti. Il capitano preoccupatissimo si avvicinò per verificare le loro condizioni, intanto il trio continuava ad intimargli di consegnare me, con la minaccia di fare cose peggiori.
   
    «Allora? Stiamo aspettando!»

    La squadra di soccorso si rialzò, decisa a non dargliela vinta.

    «Che cosa facciamo papà?» chiese Davy particolarmente preoccupato, ma anche il capitano si trovava in difficoltà non potendo contare su nessuno dei Pokémon. La lotta era totalmente impari.

    «Vedo che ancora non avete capito. Adesso ve lo spiegheremo un po' meglio».

    Tenendo fede alla promessa fatta a Virgil che sarebbero tonati a vendicarsi di lui, l'allenatore di Lilligant, (il Pokémon che mi aveva avvelenato con le spore quella notte) ordinò di attaccarlo con una mossa chiamata megassorbimento, con la quale si possono sottrarre le energie di qualcuno fino ad ucciderlo. Virgil fu preso di mira; Lilligant lo avvolse con le sue liane ed iniziò ad assorbire la sua energia vitale, mettendolo in ginocchio. Le forze gli mancarono ed era sul punto di perdere i sensi (e la vita) sotto gli occhi di suo padre e di suo fratello; lo avevo avvertito che quei tre erano subdoli e pericolosi.
    Davy cercò di interrompere il flusso del megassorbimento su suo fratello avanzando verso di loro ma fu fermato dai suoi stessi Pokémon che gli sbarrarono la strada; il trio concentrò il controllo su Umbreon, il Pokémon che Virgil amava di più dicendogli di dare il colpo di grazia al suo allenatore. Umbreon si avvicinò a Virgil, aveva occhi persi nel vuoto e non lo riconosceva affatto. Gli fu ordinato di colpirlo con pallaombra, un attacco potente che in quelle condizioni non gli avrebbe lasciato scampo.
Virgil non riusciva più a parlare ed era semicosciente, Davy e suo padre supplicavano il Pokémon di fermarsi, cercando di ricordargli che il suo allenatore fosse il suo migliore amico e che si volevano bene. Non riuscii più a starmene nascosto dietro le mie paure di venire allo scoperto così intervenni.
    La grossa sfera nera di Umbreon si ingrandì davanti al mio soccorritore preferito ed i miei occhi si inondarono di rabbia perché sarebbe di sicuro morto. La sfera oscurò la vista, Davy e Jeff si posizionarono davanti a Virgil per fargli da scudo ma io ero già lì tra loro ed Umbreon e lo fermai. Il Pokémon esitò un attimo per poi scaricare la sfera di energia verso l'alto. Vidi ancora una volta lo stupore nei loro occhi. Adesso come avrei spiegato quello che avevo fatto? Non avrei certo potuto rivelare che il mio Pokémon (che non si faceva mai vedere da nessuno) aveva fermato l'attacco di Umbreon.
    «È me che cercate, loro lasciateli stare!» urlai contrariato.

    «Perché ti sei fatto vedere?» mi chiese il capitano ancora scosso.

    «Finalmente N, pensavamo che non t'importasse niente di loro». Quelle brutte voci echeggiarono lungo le distese erbose della proprietà e mi diedero il voltastomaco. Sperai di non essere stato riconosciuto dalla squadra di soccorso e probabilmente era così perché continuavano a chiamarmi Noah. Non risposi a quei tre, anzi, mi abbassai sulle ginocchia per parlare al cuore di Umbreon e mentre loro avanzavano per catturarmi, chiusi gli occhi; volevo liberarlo dal controllo ma mi caricò con forza gettandomi all'indietro. Caddi sulla schiena e non vi descrivo che gran dolore provai sulla spalla infortunata ma non mi arresi. Mi rialzai e chiusi nuovamente gli occhi avvicinandomi al Pokémon faccia a faccia. Parlando al suo cuore senza dire una parola, riuscii a riportare Umbreon alla normalità, i suoi occhi tornarono limpidi e così evitai che potesse dare il colpo di grazia a Virgil, il quale gemeva al suolo senza forze quasi privo di conoscenza. Umbreon corse da lui e due lacrime gli scivolarono sul viso nero e peloso.
Anche io mi girai verso di lui ed incrociai i volti smarriti della famiglia che mi aveva curato ed accolto senza chiedermi nulla in cambio. Ero arrabbiato, ero furioso. Nessuno doveva fare del male alle persone a cui tenevo, nessuno si doveva spingere a tanto.
    Sentii in lontananza le sirene delle volanti ed il tempo strinse. Ordinai al mio Pokémon di disfarsi di quei farabutti che in un lampo furono investiti dal suo passaggio "invisibile".
Era l'occasione giusta per consegnargli definitivamente alla polizia ma il mio pensiero ingenuo mi fece dimenticare come in realtà loro fossero scaltri ed inafferrabili. Non erano mai stati catturati e vivevano nell'ombra, io stesso non conoscevo le loro identità e così com'erano apparsi, sparirono senza lasciar traccia.
Mi avvicinai a Virgil per sincerarmi delle sue condizioni. C'era mancato davvero poco che finisse male ma si sarebbe ripreso.
    «Virgil ... come stai?»

    «Come ... come hai fatto a ...» Perse i sensi.

    «Mi dispiace, mi dispiace veramente tanto, è tutta colpa mia! Perdonatemi... » Indietreggiai sconfortato perché ero il responsabile di quella circostanza. Scorsi lo scintillio dei distintivi in lontananza e compresi che il mio tempo era scaduto. «Non vi daranno più fastidio» li rassicurai scuotendo la testa affranto, arretrai ancora di qualche passo e con la solita mano sul petto e il capo chino in segno rispetto, scomparvi in una fitta nebbia facendo perdere le mie tracce.

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Capitolo 4
*** Cap. 4 L'ex deposito frigo ***


Il cielo offuscato di Unima – come la mia mente in quei giorni così inconsueti - abbozzato da pennellate di nuvole bigie e vermiglie si stagliava beatamente ad alta quota e la brezza fresca del mattino all'aurora, mi scompigliava i capelli. Il rumore delle eliche del mio elicottero risuonava nel vuoto come il ronzio di un grande sciame di insetti, che al pari di una coltre scura, annebbia vista e pensieri.
    Non dormivo bene da quattro giorni benché ormai mi fossi ripreso dall'assalto a casa mia.
Dal giorno in cui Noah era piombato lì, non avevo smesso di avere quelle strane e raccapriccianti visioni. Ormai il mio corpo stava bene ma non potevo dire altrettanto della mia mente. Avevo condiviso con un perfetto e strambo sconosciuto l'anfratto più doloroso di tutta la mia vita, mi ero aperto con lui ed ancora mi stavo interrogando sulle ragioni. Quel viso pallido e senza difetto mi aveva scombussolato le giornate, intrecciando una matassa avviluppata che ancora non ero riuscito a sbrogliare, a causa di fatti totalmente inspiegabili che si erano abbattuti sulla mia famiglia.
    Mio padre e mio fratello mi avevano raccontato che dopo essere svenuto, lui, molto dispiaciuto, era sparito in una coltre di nebbia, appena prima dell'arrivo della polizia. Era fuggito.
Detesto essere piantato in asso dopo aver speso tutto me stesso per essere d'aiuto e senza una valida motivazione ed odio chi si prende gioco dei miei sentimenti in questo modo.
Sospettavo che volesse andarsene e non ero stato abbastanza attento alle sue esigenze; avevo cercato di prendere la questione con tatto ma non era bastato. Doveva andarsene per custodire un segreto doloroso forse quanto il mio, o forse di più. Se soltanto fossi riuscito a farlo aprire, forse adesso non me ne starei qui con la cloche in mano e lo sguardo perso nel vuoto a pensare se avevo fatto bene il mio dovere.
La mia missione, quello per cui mi spendo e per cui ho rinunciato al mio vero sogno, è aiutare la gente e non farla scappare intimorendola solo per fare la parte di quello che ci sa fare. La metà razionale del mio lavoro mi rende freddo, anche di fronte alle difficoltà interiori che la gente si porta dietro; spesso i problemi più difficili da risolvere si nascondono in profondità ed io lo sapevo bene perché ci ero passato.
Mi sono rifugiato nella squadra di soccorso perché mi sento in debito con la prima donna della mia vita, la quale si è sacrificata per darmi il meglio di un'esistenza dalle dinamiche complicate. Com'è dura imparare a far bene il proprio lavoro e mi chiedo come faccia mio padre a sapere sempre come comportarsi in ogni circorstanza. "È l'esperienza" mi ripete sempre "e se ci metti il cuore puoi fare la differenza". La differenza ... mia madre credeva molto in questo concetto. Per spiccare il volo bisogna distinguersi e per distinguersi bisogna lavorare sodo. Ci sto provando con tutte le mie forze ... mamma ... perdonami se non ho avuto la forza di realizzare ciò che mi stavi incoraggiando a fare. Da quando te ne sei andata in quel modo, ho perso la forza di librarmi in cielo e mi sono rifugiato laddove la mia confort zone mi permetteva di non sforzarmi. Una persona speciale come te e come papà non meritava che il loro figlio fallisse. Perdonami se puoi e sappi che ti voglio bene.

    Mi chiamo Virgil Evan e sono il figlio del capitano Jeff Evan, membro ufficiale della squadra di soccorso di Forteverdepoli. Sono un soccorritore di montagna, perlustro le cime dell'entroterra della provincia di Boreduopoli vegliando sui viaggiatori che percorrono i sentieri delle profumate terre, attirati dalla natura o dall'ardore di centrare i propri obbiettivi, realizzare sogni; mentre li osservo dall'alto, prima di intervenire penso: "chissà cosa bramano i loro cuori, chissà quali sono i desideri più profondi, chissà se saranno così determinati da superare gli ostacoli che gli sbarreranno la via, chissà ...".
    Durante l'estate, quando il lavoro diminuisce perché le persone si spostano verso le località costiere, sono dedito alla manutenzione delle attrezzature, alla cura del ranch e all'allenamento. A volte capita di supportare le squadre di soccorso delle località marittime e ci spostiamo anche lontano da casa.
Possiedo spiccate capacità mediche ma ovviamente non sono un medico. Mi piace imparare per essere più utile possibile quando mi imbatto in persone in difficoltà. Tuttavia la mia vita scorre senza un vero scopo, amo il mio lavoro, ma ho la sensazione di essere un cilindro vuoto che continua a girare all'infinito, senza mai essere riempito di sostanza. L'aria passa inesorabile da questo spazio che non riesco a colmare e le mie giornate non mi soddisfano appieno. Soffro, ma cerco di nascondere tutto dietro ad una falsa sicurezza ed un sorriso mimato.
    Ho una splendida famiglia che come me, soffre il male ricevuto ma mi rendo conto di essere io stesso la causa dell'infelicità di mio padre e di mio fratello, proprio perché non riesco a gioire delle cose belle che mi sono rimaste, rimpiangendo solo ciò che mi è stato tolto.
Mia madre: la mia stella polare, il mio serenissimo punto di riferimento nelle tempeste, il viso più dolce che abbia mai sfiorato e le labbra più delicate che mi abbiano mai baciato; mio padre: mappa con le mie coordinate cardinali per muovermi in sicurezza sui sentieri verso la perfezione, la mia roccia, colonna che sostiene la famiglia come un tempio ormai sconsacrato; Davy ... l'ago della mia bussola, meridiana dello spazio e del tempo, luce che mi indica il sentiero e mi raddrizza quando perdo la rotta. Sempre al mio fianco giorno e notte per salvarmi dalle trappole della mia ingenuità. È il mio fratello preferito, non che ne abbia altri ma, è la persona più rassicurante che abbia vegliato le mie notti insonni da quando ero in fasce. Rappresenta l'altra colonna con cui viene retta la nostra famiglia, dopo che la seconda è crollata. Una casa però non può reggersi soltanto su due colonne, ce ne vuole almeno una terza e quella ... dovrei essere io.
Con rammarico devo riconoscere di aver ceduto da qualche anno a questa parte. Sono fuggito dopo la sua morte perché non sopportavo il peso di quel dolore che avevo assorbito insieme al suo sangue quel maledetto giorno. Allora ero un diciassettenne pieno di vita e con tanti sogni nel cuore ma quelle macchie rosse hanno lavato via la passione che ardeva nelle mie vene, a causa della convinzione che il mio vissuto dovesse sempre essere perfetto.
«"Non cercare la perfezione"» mi aveva detto una volta un uomo saggio, «"piuttosto rendi perfetto ciò che hai"». Facile a dirsi. Ho viaggiato da solo e con il cuore in silenzio per due anni pensando di sconfiggere il dolore, mi sono formato come allenatore per poter tonare più forte e mettere ciò che ho imparato al servizio della mia squadra. La vita mi ha stritolato come l'asfalto sotto lo schiacciasassi, sfregiato come una strada scarificata; sono stato uniformato nella mia indolenza senza riuscire più a risollevarmi. Guardo scorrere i giorni all'interno dei mesi e i mesi negli anni ma sento di continuare a fallire, talvolta volontariamente. Non avrei mai immaginato però di ricredermi di queste parole, dopo aver conosciuto la persona che avrebbe fatto quella differenza nella mia vita.

    Quel sabato mattina dopo due ore di viaggio attraverso infinite distese di dune aride di deserto, fiumi, alberi e città, mi recai con la mia squadra presso la zona dell'ex deposito frigo, che aveva lasciato il posto alla costruzione del Pokémon World Tournament dopo la prima crisi plasma. Si tratta di un edificio adibito alla lotta Pokémon, fatto costruire e gestito da Rafan, il capopalestra di Libecciopoli, dove si organizzano tornei in cui si possono sfidare in via non ufficiale i capipalestra regionali, prenotandosi per gli incontri. Vengono disputate anche lotte tra semplici trainers in sfide da otto partecipanti alla volta.
    L'edificio lotta era già attivo e completo da quasi un anno, mentre del deposito frigo non era rimasta che una piccola area di stoccaggio che fungeva da interporto tra il mercato di Libecciopoli - il più fiorente della regione di Unima - e le vie di comunicazione marittime con le altre regioni.
Poco dopo l'alba l'edificio era ancora chiuso e l'area deserta. Sorvolai la moderna e innovativa costruzione con lo stesso stile della città di Zondopoli poco distante, fondata dopo la prima crisi plasma, una città giovane con il cantiere navale più grande di Unima e dotata di un molo attrezzato per ormeggiate le navi mercantili, una zona commerciale insomma.
L'area dell'ex deposito era stata relegata in una cava naturale posta nell'entroterra ai piedi della catena montuosa del monte Vite, in attesa di essere completamente trasferita.
Erano stati segnalati degli strani movimenti la notte precedente e sono stato inviato da mio padre per fare un controllo.
A causa di un'anomalia sconosciuta, i due ponti che collegano la parte centrale della regione – il ponte Propulsione a nord e il ponte Libecciopoli a sud – a quella occidentale erano stati chiusi, quindi tutti i collegamenti via terra erano bloccati ed il mio elicottero risultava l'unico mezzo disponibile quel giorno per poter raggiungere la zona in sicurezza. Che due ponti così importanti fossero chiusi simultaneamente era qualcosa di veramente inusuale e la polizia stava cercando di venirne a capo.
    Mi lasciai tutti quei pensieri assillanti alle spalle, per concentrarmi sulla mia missione. La regola fondamentale per un soccorritore, così come per un agente di polizia è non agire da solo se non si ha la certezza di poterlo fare in sicurezza; ogni azione operata con leggerezza e che possa mettere in pericolo la mia vita o quella di altre persone è severamente punita. Se ci si fa male a causa di una nostra negligenza, l'assicurazione si rifiuta di coprire i danni, senza contare le macchie sul curriculum. Sapevo bene come doveva muoversi un agente in missione, avevo fatto un corso appositamente per questo prima di poter collaborare con la mia squadra ma aspettative e realtà – seppur supportate dalla volontà di fare bene – spesso e volentieri fanno a cazzotti tra loro e quel giorno di botte ne avrei prese parecchie.
    Lasciato l'elicottero a distanza, mi avvicinai ad uno dei cancelli che davano accesso all'edificio; scelsi quello secondario per entrare dal retro, sperando di avvicinarmi senza farmi notare nel caso ci fosse stato qualcuno poco raccomandabile.
Aggirando la recinzione che si stagliava verso destra dopo il cancello, mi accorsi che in un punto la rete era tagliata e probabilmente non ero l'unico ad essere lì. Mi sfilai il gilet passando attraverso le maglie arrugginite del buco della recinzione nonostante ci fossi stato attento. "Accidenti era nuovo!" pensai arrabbiato, ad alta voce, senza sapere che invece quello sarebbe stato l'ultimo dei miei problemi.
Aggirai l'edificio e sentii dei forti rumori provenire dall'interno; entrai da una porta che dopo un breve corridoio mi portò direttamente al cortile centrale e mi affacciai prudentemente per dare un'occhiata.
C'era un gran movimento: persone con una divisa scura indaffarate a spostare carrelli con grossi scatoloni, che a giudicare dall'espressione di chi li trasportava, dovevano essere molto pesanti. Interi container venivano stipati di roba accuratamente imballata. Pensai che fossero gli operai già a lavoro per sgombrare l'area dato che doveva essere trasferita altrove. Sembrava tutto nella norma così decisi di scendere per farmi vedere per un controllo di routine prima di fare rapporto in centrale, quando improvvisamente il rumore di alcuni spari mi fece sobbalzare e mi ritirai indietro. Vidi quelle persone sguinzagliare i loro Pokémon che iniziarono a correre fino ad assediare un container. Presero a colpirlo finché ne uscì fuori qualcuno. "Che mi venga un colpo!" pensai immediatamente e colto dalla sorpresa di ciò che vidi. L'incubo che mi aveva causato le visioni, il ragazzo dalla pelle pallida che era scappato da casa mia, adesso era assediato da almeno una quindicina di persone armate. Noah era circondato e lo vidi in netta difficoltà, seppur nella sua posa da combattimento piuttosto rilassata per i miei gusti. Gli urlavano di arrendersi e di consegnarsi a loro, quelle persone con strane intenzioni non dovevano essere affatto degli operai messi lì per lavorare e ormai mi ero convinto che dove c'era lui ci fossero anche guai.
Stavo per intervenire con la mia squadra, quando ad un tratto uno Zoroak comparve davanti a lui e lo difese con uno scudo di energia. Mise poi al tappeto i Pokémon avversari e in quel frangente lo afferrò ed insieme sparirono dalla vista in una fitta nebbia. "Una fitta nebbia" pensai ricordando il racconto di mio padre.
Ecco come aveva fatto Noah a sconfiggere quei tre figuri a casa mia e a sparire senza lasciar traccia: con il suo Pokémon, e che Pokémon!
Mentre ero intento ad inerpicarmi lungo le pellicole dei miei film mentali, qualcuno mi colpì alle spalle. Mi svegliai nel momento in cui fui scaraventato per terra senza nessuna accortezza prendendo una bella botta allo zigomo sinistro. Dischiusi gli occhi in una smorfia di dolore e vidi Noah mentre veniva trascinato e legato ad un pilastro in legno, di quello che sembrava un vecchio magazzino di frutta e verdura ma senza la materia prima.
Le sue braccia vennero tirate indietro, e si lamentò rumorosamente per la spalla infortunata, priva del tutore che gli avevo posizionato per tenerla ferma.

    «Noah! Hanno preso anche te?» chiesi. Non fui degnato di risposta ma solo di uno sguardo infuriato. Mi legarono allo stesso pilastro alle sue spalle incrociando le nostre mani.

    «Non muovetevi» ordinò una donna dai capelli corti e sfrangiati prima di andar via sbattendo la porta.

    Mi presi ancora qualche secondo per metabolizzare le circostanze, poi per spezzare quel silenzio e la tensione che mi aveva assalito dovetti per forza parlare.
    «Non hai niente da dirmi?» Ero impaziente di sapere perché ci trovassimo in quella situazione ma non potevo vedere l'espressione furibonda di Noah.

    «Allora?!» ribadii con tono provocante, che lo fece scattare.
    Noah sbottò, ma da lui non mi sarei mai aspettato una simile reazione.

    «Hai anche il coraggio di parlare?! Lo sai che ti hanno messo in bella mostra al centro del cortile, appeso a testa in giù minacciando di farti la pelle e mi sono dovuto arrendere? Ovviamente no, dato che dormivi beatamente mentre io ero terrorizzato che ti ammazzassero».

    A quanto pare i nostri carcerieri mi avevano rivoltato per bene, ecco perché mi sentivo un po' sottosopra. Stavo per aprir bocca quando lui mi aggredì di nuovo.

    «È tutta colpa tua!» continuò a rimproverarmi «che cosa ci fai qui dannazione?!»

    Rimasi basito. Non me lo sarei mai immaginato così irritato dopo aver conosciuto la persona più pacata al mondo. Evidentemente gli avevo rovinato i piani ma la sua inflessione di voce era eccessivamente fastidiosa.
    «Ehi modera il tono ... » replicai infastidito «potrei farti la stessa domanda non trovi? Abbiamo ricevuto una segnalazione e sono venuto qui per vedere se fosse tutto apposto».

    «Ti mandano così lontano da casa? Non ci sono squadre locali che possano intervenire?»

    «Ti da fastidio che sia venuto io? A volte capita di spostarci più lontano del solito. Il mio elisoccorso era l'unico mezzo disponibile oggi e quindi sono dovuto arrivare fino a qui. Mi sarei aspettato di tutto, ma non di trovare proprio te. Sei un perito con manie da investigatore? A che titolo ti trovi qui?»

    «Ne possiamo parlare in un secondo momento? Sto cercando di tirarci fuori da questa situazione».

    «Sei tu che hai iniziato con le domande!»

    «Sta zitto, così mi deconcentri!»

    Sbuffai soffiando il ciuffo di capelli che mi arrivava sugli occhi e pensai che avrei dovuto prendere un appuntamento dal barbiere a breve, o almeno lo speravo. Che pensieri inopportuni bazzicavano in capo mentre mi trovavo in una situazione complicata come quella e chissà se sarei mai riuscito a fare quella prenotazione! Perdonate il mio pessimismo isterico ma tutto quello che stava accadendo non mi sembrava reale; il nervosismo era dovuto allo stress di non avere il controllo delle mie facoltà motorie dato che ero legato come un salame. Noah fece di tutto per tentare di sfilare i polsi attraverso le corde ma il dolore alla spalla gli rendeva difficile il compito.
    «Ti fa male la spalla?» chiesi anche se lo sapevo già.

    «Tu cosa dici?»

    «Ti avevo detto di tenerla a riposo. Perché ti sei tolto il tutore?»

    «Perché intralciava i miei movimenti».

    «Santo cielo ... tu ascolti mai le persone che ti danno dei consigli?»

    «Raramente».

    «Se continuerai a sforzarti, te la slogherai di nuovo!»

    «Allora perché non mi dai una mano a tiraci fuori dai guai in cui mi hai cacciato?»

    «Ah sarebbe colpa mia dunque? Pensi che non ci stia provando?»

    «Non ti stai impegnando a sufficienza».

    «E tu che cosa ne sai?»

    «Ti sarei grato se smettessi di sproloquiare, forse in questo modo concluderemmo qualcosa, ma se preferisci rimare in attesa di quello che ci faranno per me non c'è problema, ti lascio legato qui».

    Smisi di parlare, tanto è inutile se l'interlocutore è arrabbiato o concentrato. Eravamo prigionieri dentro ad un magazzino isolato, di persone a me sconosciute e dalle ignote intenzioni. Se Noah si trovava lì però, doveva di certo saperne qualcosa.
    «Che cosa pensi che ci faranno?»

    «Niente, perché mi sono già liberato».

    «Come cavolo hai fatto? Le corde erano troppo strette».

    «Che cosa te ne importa? Approfittane invece».

    «Ma tu sei sempre così gentile? Mi sembravi diverso quando eri a casa mia».

    «Sempre, quando sono furioso con qualcuno».

   «Tipo me?» Chissà perché provavo piacere a provocare le persone quando non era il momento adatto. Noah preferì non rispondere e darmi le spalle onde evitare di far degenerare quella discussione mandata avanti all'infinito e mi sembrò molto saggio. Sciolte le corde, studiammo un piano per allontanarci da lì. Porta e finestre erano state accuratamente sbarrate mentre noi intontiti venivamo trascinati lì, ed eravamo praticamente in trappola. Mi aspettavo che da un momento all'altro quel Pokémon avrebbe fatto irruzione per tirarci fuori ma non fu così e la domanda mi venne spontanea: «non hai qualcuno che dall'esterno possa darci una mano?»

    «E chi per esempio?»

    «Non lo so ... un Pokémon?»

    «Hai la memoria corta amico? Non alleno Pokémon».

    Lo guardai accigliato ma non ci badò. Adesso era chiaro che lo stesse nascondendo e forse era per questo che quella notte non lo aveva fatto intervenire per salvarlo. Che cosa stupida però rischiare la vita per custodire un segreto. Questa volta non forzai la mano, piuttosto decisi di assecondarlo per capire le sue intenzioni. Non lo avrei lasciato andare fino a quando non avessi scoperto in che razza di guaio ci eravamo cacciati e soprattutto perché. Rimandò indietro la provocazione che gli avevo appena fatto citando il suo fantomatico Pokémon, ma lui non era tipo da farsi mettere i piedi in faccia e ribatté a tono.

    «Perché invece non ci facciamo dare una mano dalla tua numerosa collezione di evoluzioni di Eevee?» mi chiese fulminandomi con uno sguardo di fuoco appena divampato.
    Faceva quasi paura ma l'accento di rimprovero sulla parola "collezione" mi diede alquanto fastidio. Non ero un collezionista ma pare che lui lo pensasse e la sua mentalità strana mi insospettiva parecchio. «Magari perché quei gentiluomini mi hanno rubato tutte le Pokéball?» Risposi esibendo lo stesso tono infastidito usato da lui.
    Grugní irritato borbottando parole di difficile comprensione, poi si avvicinò a me per dirmi qualcosa a bassa voce.

    «Senti lasciamo perdere ... la priorità è allontanarci da loro. Avvicinati ...» sussurrò tirandomi verso la porta chiusa e fece il gesto di rimanere in silenzio portando l'indice davanti alla bocca.
Guardammo attraverso le fessure delle assi di legno naturale che avevano usato per sigillare le finestre e ci accorgemmo che eravamo circondati da diversi piantoni armati fino ai denti, al fianco dei loro Pokémon pronti ad agguantarci non appena avessimo messo un dito fuori; sarebbe stato davvero difficile scappare così disarmati. Ci avvicinammo ad una finestra per ascoltare meglio la discussione di quella donna che parlava al telefono a voce sostenuta. La osservai meglio. Notai i suoi occhi rossi come il fuoco, il portamento autoritario e la figura giunonica e slanciata, una vera top model se non fosse stato per il suo temperamento aggressivo. Non potevo vedere bene il viso perché era in parte coperto ma avevo già capito che tipo fosse e tutti lì la rispettavano.

    «Abbiamo una notizia buona ed una cattiva. Finalmente lo abbiamo preso».
    Parlava proprio di noi, di Noah in particolare. «La notizia cattiva è che con lui c'è anche quel pilota guastafeste che lo ha seguito fin qui ...».

    "Che diamine" pensai sentendo quell'assurda discussione e calandomi in quel paradossale scenario. Io non avevo seguito un bel niente, mi trovavo lì per lavoro. A quanto pare Noah era molto ricercato dalla mala vita organizzata e doveva essere un pezzo molto grosso o molto scomodo per essere ambito a tal punto ed era quello che volevo scoprire. Non avevo fatto in tempo ad allertare i soccorsi e adesso non avevo più il mio cellulare da polso per poterlo fare. La vista di Noah nel fuoco incrociato tra quei container mi aveva fatto perdere l'attimo fuggente ed ultimamente ogni secondo della mia vita sgattaiolava via in modo incontrollato.

    « ... si esatto, il figlio del capitano Evan, quello della squadra di soccorso di Forteverdepoli. Il Trio Oscuro ce lo ha riferito quella notte».

    Un brivido, simile ad una scossa elettrica mi pervase la nuca, irradiandosi per tutta la spina dorsale. Quella notte. Era tutto collegato e quei tre facevano parte della stesso gruppo, anche se l'aspetto era completamente diverso. Quelle che ci tenevano chiusi in quel magazzino erano persone normali ma quei tre no; sembravano spettri incorniciati da un'aurea lugubre. Dovevo sapere e istintivamente guardai Noah perché anche lui aveva ascoltato. Non c'era bisogno di dire nulla perché il mio sguardo palesava già le domande ovvie che volevo porgli ma non era il momento adatto per farlo, così distolsi lo sguardo.
    Ci preparammo ad accoglierli con una festa non appena quella porta si fosse spalancata. Mi ero sistemato al mio posto facendo finta di essere ancora legato per fare da esca, mentre Noah si era nascosto impilando delle cassette di plastica vicino alle porta. Entrarono e videro solo me.

    «Oh no! Dove diavolo è finito quello?» disse uno degli uomini che aveva aperto la porta, un altro dalla indiscussa autorità. La donna però non c'era, erano tre maschi di cui due col volto completamento coperto ed irriconoscibile.
Infuriati si avvicinarono, e mi sentì paralizzato dalla loro foga. Quello grosso mi afferrò per il colletto della camicia che portavo sotto il gilet della divisa super accessoriata ma completamente svuotata dopo la mia cattura ed iniziò ad urlarmi contro e strattonarmi.

    «Dov'è si è cacciato? Parla o ti faccio nero!»

    Sgranai gli occhi per lo spiazzamento e mi sentii come un misto di frutta messo dentro il frullatore. La testa mi scoppiava a causa della botta che mi aveva tramortito in precedenza ed il cuore pulsava impazzito.
Nel prendermi con la forza videro che ero slegato e persero il fiato in un'espressione attonita, finché Noah non balzò alle loro spalle e mise gli altri due a dormire a mani nude. Due colpi di palmo precisi e mirati in un punto per me senza significato della loro cervicale e giù a dormire come bambini.

    «Ma che diavolo ...» mi venne spontaneo commentare ad voce cotanta abilità ma tornai con pragmatismo al presente, perché il terzo uomo – quello che mi aveva afferrato –  molto più abile rispetto agli altri non si fece colpire. Capelli vermigli, occhi blu come il mare ed uno sguardo perfido e sicuro di sé; si mise in posizione di guardia verso Noah dando a me le spalle. Potevo colpirlo ma la sua stazza nerboruta, sui trent'anni, mi indispose a provarci, giustificato dal fatto che con le abilità di Noah – che quella notte non avevo completamente visto – lo avrebbe battuto facilmente ma mi sbagliavo.

    «Allora N, che cosa pensi di fare? Sai che posso ridurre te ed il pivello in briciole».

    Quel fusto mi aveva chiamato pivello ... pivello a me? Come si era permesso? Cominciai a ribollire per la rabbia, caricando i pugni dal basso verso l'alto mentre le vene degli avambracci si gonfiavano per la pressione. Noah non disse una sola parola ma io ero pronto per scattare.
Afferrai il cestello di ottone di una bilancia che trovai casualmente nel mio girovagare di sguardi e mi preparai a colpirlo alle spalle. Un po' sleale ma la situazione mi giustificava, perché vidi che dentro la manica, quel tizio nascondeva un coltello ed era pronto ad usarlo su Noah e se fossero intervenuti gli altri, saremmo stati spacciati. Nel compiere quel semplice gesto di sollevare il cestello – il quale mi sembrò di averlo fatto al rallentatore, a causa della paura che inchiodava le mie gambe a terra come se le avessi calate nel cemento armato – quello se ne accorse. Si girò verso di me e mi colpì così velocemente e duramente che mi ritrovai senza nemmeno capire come, sbattuto contro il pilastro dopo aver volteggiato nell'aria. Credo di non aver mai visto tante stelle in vita mia nemmeno di notte. Riaprii subito gli occhi per la paura di essere preso a coltellate e lo vidi avvicinarsi per infierire su di me, ma Noah gli si gettò alle spalle per fermarlo, cercando di ignorare il dolore lancinante alla spalla, a giudicare dalle pieghe amorfe che prendevano i suoi lineamenti, per non parlare della fatica immane di domare quella specie di orso palestrato.

    «Bartòn! Non osare toccarlo!»

    Noah lo conosceva e credo che lo avesse chiamato per nome d'istinto e senza badarci, anche se io lo avevo sentito. Lo afferrò per il collo impedendogli di rifarsi nuovamente su di me, il che fu un vero sollievo e ne approfittai per riprendermi dalla colossale botta alla schiena.
Mentre lottavano, Noah mi disse di prendere gli altri due e legarli al pilastro prima che si riprendessero. "Ma legarli con cosa?" pensai mentre mi guardavo attorno per cercare qualcosa di pertinente all'ordine che mi aveva impartito, come un generale fa con i suoi soldati. Questa minima distrazione tuttavia gli costò una serie di colpi al viso che lo misero al tappeto. Bartòn lo agguantò prima che potesse filarsela e lo prese a calci, poi lo fece alzare di forza afferrandolo per il braccio infortunato e lo bloccò col proprio intorno al collo. Estrasse il coltello e glielo puntò alla gola, lo teneva fermo e mi guardava, mimando con gli occhi il gesto di sgozzarlo se non mi fossi arreso anch'io.
Noah era esausto, la testa dell'omero gli era uscita nuovamente fuori. Non sapevo cosa fare. Alzai le mani in segno di resa e vidi il ghigno di Bartòn soddisfatto, guizzare fuori attraverso dei denti bianchi e perfettamente allineati.
Mi fece cenno di avvicinarmi, quando inaspettatamente Noah si divincolò dalla sua presa mordendogli il polso così forte da lasciargli mezzo centimetro di solco insanguinato, sputando il sangue dalla bocca, qualcosa di rivoltante. Bartòn che evidentemente era abituato a sopportare il dolore non se ne curò troppo e lo colpì al volto e Noah, limitato dall'articolazione non funzionante della spalla, si ritrovò disteso per terra come un tappeto srotolato lungo le scalinate della chiesa prima di un matrimonio.

    «Adesso ti faccio un bel tatuaggio in ricordo dei vecchi tempi» ghignò baldanzoso l'energumeno avanzando con la lama del coltello puntata verso di lui.
Prima che potesse sfiorarlo però, mi presi di coraggio e lo colpii deciso con il cestello della bilancia, appena in tempo e cadde giù semicosciente; gettai il cestello e mi avvicinai per vedere come stava.
    «Noah ... va tutto bene?»
    Era rannicchiato e vinto dal dolore ma cercava di rimanere calmo.

    «Accidenti!» si lamentò gemendo e stringendo il braccio. Aveva un bel livido sulla faccia e chissà quanti altri addosso e l'articolazione della spalla era evidentemente asimmetrica. Non riuscivo nemmeno a toccarlo che si ritraeva indietro.

    «No! Non toccarmi! Sto bene ... » ripeté senza riuscire a nascondere la sofferenza (e l'orgoglio) «andiamo via».

    «Va bene. Ce la fai ad alzarti?»

   «Si, si ... l'importante è scappare da qui».

    Uscimmo furtivamente da quello che in realtà era un enorme container fisso e andammo in cerca delle mie attrezzature, delle Pokéball e del suo zaino. Ritrovammo tutto, anche il mio orologio smarth e ci allontanammo senza dare nell'occhio, rifugiandoci nel bosco ad ovest di Libecciopoli.

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Capitolo 5
*** Cap. 5 Vecchie conoscenze ***


Ci rifugiammo all'ombra di un gruppo di fitti alberi. Eravamo stanchi, ansimanti per la corsa. Noah era distrutto dai dolori diffusi per il combattimento ma la spalla sembrava proprio tormentarlo e si sedette appoggiando le spalle contro un grosso tronco. Mi prodigai per rimettere in sede l'osso ma con scarsi risultati poiché provava così dolore che irrigidiva l'articolazione.
    «Se non rilassi il braccio non posso fare niente!» dissi spazientito dalla sua resistenza.

    «Ma fa male!»

    Troppo nervoso, ed ero sicuro che l'idea di ritrovarsi nuovamente in mia compagnia lo mettesse a disagio.
    «Lo capisco ... ma che cosa vuoi fare, rimanere col braccio a penzoloni? Ci metterò un secondo, tu girati dall'altra parte».
    Continuava a guardarsi intorno, probabilmente con la paura che sarebbero tornati per cercarci e questo impediva a me di procedere. Ebbi un'idea ed aguzzai l'ingegno: come avevo fatto altre volte in operazioni di soccorso simili, lo feci distrarre facendo un po' di scena. Mi finsi spaventato guardando verso una direzione e ci cascò, mentre io con un colpo deciso gli praticai la famosa manovra, a cui seguì un urlo acuto ed una faccia colta alla sprovvista. Lo zittii coprendogli le labbra.
    «Ah!» sospirai, terribilmente sorpreso da quella reazione a mio parere spropositata per un ragazzo di quell'età;
    «quanta scena!»

    «Mi hai massacrato accidenti!» mi rimproverò in modo secco.

    «Esagerato! È così che faccio con i bambini paurosi» dissi con tono ironico, per non ammettere che stavo trattenendo le risate. Non volevo offenderlo ma la sua reazione faceva troppo ridere e si era lamentato di meno quando Bartòn lo aveva steso come un bel tappeto persiano. Sarà stato l'effetto dell'adrenalina che mitiga il dolore.

    «Sei anche spiritoso adesso?» protestò imbronciato aggrottando le sopracciglia, dopodiché si stirò la pelle del viso con la mano sinistra fino ad alzarsi i capelli sulla fronte.

    «Scusami, ma non sapevo come fare» mi giustificai, anche se ero certo di aver fatto la cosa giusta. «Adesso va meglio?»

    Rilassò lo sguardo e si rese conto di aver enfatizzato troppo la reazione. Sorrise appoggiando nuovamente le spalle al tronco.
    «Decisamente ... ti ringrazio».

    «Sono io che devo ringraziare te, mi hai salvato la vita».

    «Allora mi sa che siamo pari».

    Allungò il braccio sano verso il suo zaino per aprirlo, ma con una sola mano ebbe difficoltà così lo aiutai. Le nostre dita si sovrapposero ed il suo sguardo schivo, forse imbarazzato rapì il mio.
Tirò fuori il mio tutore, che aveva piegato e conservato con cura e me lo restituì, ma io rifiutai.
    «Tienilo» gli dissi spingendolo leggermente con la mano «ti serve».
Glielo posizionai di nuovo ed un espressione di sollievo gli distese il volto. Con un sostegno a sorreggere il peso dell'arto avrebbe sofferto molto meno.
    «Dove hai imparato a lottare in quel modo?» gli chiesi incuriosito mentre gli aggiustavo meglio la fasciatura.

    «Solo istinto di sopravvivenza».

    «Davvero?» esclamai perplesso.
    «Quello che sai fare esula dal semplice fare a botte. Qualcuno ti ha addestrato».

    «Un corso di arti marziali ...».

    «Hai fatto il servizio militare?»

    «Beh ... si, ma con questo dove vuoi arrivare?»

     Le sue risposte così naturali avrebbero convinto chiunque ma non me. Continuava a nascondersi nelle profondità dei suoi sforzi mentali ma non infierii oltre perché lo vidi sanguinare dietro il collo. Mi avvicinai per toccarlo, portando la mia mano dietro la sua nuca e la ritirai rossa.

    «E questo?» chiesi stupito dal fatto che nemmeno lui se ne fosse accorto.
Era un colpo di coltello. Poco più in là e quel maciste gli avrebbe reciso la giugulare! Cielo!
Lo medicai approntando un rimedio per Pokémon che mi portavo sempre dietro ma che funzionava per tutte le ferite. Un po' di tintura e delle foglie curative di Laefeon per arrestare il sanguinamento poco copioso ed una improvvisata fasciatura realizzata con il fazzoletto di mia madre, che portavo sempre con me e da cui non avrei mai voluto separarmi. Era l'unica cosa che avevo per poterlo medicare, così senza pensare che non lo avrei più riavuto indietro, lo usai per fasciargli il collo.    Noah non oppose nessuna resistenza, anzi, chiuse gli occhi e mi lasciò fare. Si abbandonò a me e mi venne il freddo. Mi parse di intravedere il suo labbro sollevarsi lateralmente in una smorfia di piacere, come se volesse sorridere e ringraziarmi ma rimase in silenzio, facendo degli esercizi con la cassa toracica per controllare il respiro.

    «Grazie dottore ... e grazie Laefeon» replicò con un tono amichevole ed un sorriso accogliente, «tu sei ferito?»

    Ora che mi ci faceva pensare sentivo un gran dolore alla spalla che andava a sommarsi a quello della testa.
    «Quel tizio mi ha fatto sbattere contro il pilastro» ricordai portando una mano dietro la scapola ma senza arrivarci. «Mi fa male qua e mi sa che ho un'escoriazione».
    Mi sfilai il gilet rosso e mi tolsi la camicia. Noah mi disse che avevo una bella ferita che aveva tutta l'aria di dover essere ricucita.
Medicò la mia spalla con la stessa pazienza e dedizione che avevo usato con lui, poi Laefeon me la ricoprì con le sue foglie aromatizzate. Mi rivestii e lo ringraziai.
    Sospirò profondamente e dopo qualche secondo di silenzio, senza guardarmi negli occhi mi parlò spontaneamente.

    «Scusami se mi sono voltato male prima, non ce l'avevo con te. Mi dispiace di averti trattato in quel modo, davvero».

    Era tornato quello di sempre così come lo conoscevo.
    «Non importa. Capisco che la situazione non fosse delle migliori» risposi per rassicurarlo che non ce l'avessi con lui, non per quel banale motivo almeno.
Era pensieroso, forse triste non saprei, ma si vedeva che soffriva. Ma per cosa? Rimasi a fissarlo per qualche secondo pensando che fosse una pena essere al cospetto di qualcuno che non sai come aiutare o peggio, che rifiuta il tuo aiuto. Un duro colpo per uno che crede nel lavoro che svolge. Ad un tratto però, come se nulla fosse successo, Noah si riprese cambiando umore.

    «Dove hai imparato a trattare così le ferite? Sei davvero bravo. Sicuro di non essere stato un medico o un infermiere in un'altra vita?»

    Forse era bipolare, non sapevo che cosa pensare.
    «E chi può dirlo» risposi d'istinto «ho fatto dei corsi di soccorso avanzato, così, per passione. Curare le ferite e i malesseri è qualcosa che mi fa stare bene, sento che in questo modo dono il mio contributo al mondo».

    «Lo pensi davvero?»

    «Che cosa?»

    «Vuoi veramente dare un contributo per migliorare il mondo?»

    «Beh ... ma certo ... faccio solo del mio meglio ... »

    «Non mi sembri convinto. Cos'è che ti preoccupa?»

    «Perché dovrei parlarne con te?».
    Adesso era lui che voleva aiutare me? Ero arrabbiato per le cose che mi nascondeva e mi chiusi a riccio. Perché avrei dovuto raccontargli la mia vita se lui non voleva fare lo stesso con la sua? Le mie parole un po' indurite dipinsero un velo di rassegnata afflizione sul suo viso e un po' mi dispiacque.

    «Io ... » esordì alzando gli occhi e distogliendo lo sguardo subito dopo, come quando si prova vergogna «non sono perfetto è vero. Sarò anche strano e antipatico lo ammetto; quello che però ammiro nelle persone come te è la voglia di migliorare quando quello che fanno non gli basta più».

    Wow ... Era proprio così che mi sentivo. Quello sconosciuto senza collocazione spazio temporale, dall'identità forestiera e solare mi smosse l'animo. Cosa c'era di così attraente in una persona che non voleva condividere nulla? Nel mio momento iniziale di scrutargli dentro, non mi passò per la testa che forse non poteva confidarsi con me. La sua fase di svisceramento dei miei moti interiori proseguì.

    «Hai il tipico atteggiamento di chi ha abbandonato il proprio sogno per un motivo non ancora risolto» aggiunse lasciandomi meramente spiazzato. Era andato a segno! Che fosse un sensitivo? Solo in seguito capii che le sue intuizioni nascessero dalla lettura della mente dei miei Pokémon che sapevano tutto di me ed involontariamente pensavano. Utilizzò spesso questa tecnica nel corso degli anni per sorprendere le persone.

    «Si ... ho abbandonato il mio sogno, qualche anno fa» decretai.

    «Perché?»

Era ovvio ma non avrei voluto ammetterlo anche se forse se lo immaginava già.

    «È per via della tua perdita?» insistette per forzare il mio silenzio, provocando una riluttanza nel rispondere.

    «Già ... ero arrabbiato per quello che è successo a mia madre e non ho retto al dispiacere. Adesso mi sento incompleto, quando invece vorrei fare la differenza nel mondo. Sono sempre alla costante ricerca di qualcosa che mi sfugge continuamente e vedo la mia vita scorrere al 50%».

    «Non mi piacciono le cifre tonde, facciamo 49,8%?».

    «Fa lo stesso» dissi sorridendo a stento, per non dire che non me ne fregava nulla di quello che aveva appena detto. Cifra più o cifra meno, che differenza poteva fare?   
    Evidentemente doveva essere un fissato dei numeri.

    «Qual è il tuo sogno?»

    E ti pareva ... ma perché tutte queste domande così personali?
    «Che importanza ha? Oramai ci ho rinunciato».

    «È davvero triste. Ne vorresti parlare?»

    "Col cavolo!" Pensai nella mia testa ma mi trattenni per essere educato.
    «Mi spiace ma non lo condivido con nessuno, per di più con degli estranei».

    «Certo ... lo capisco, non fa nulla. Sono sicuro che non lo hai messo davvero da parte. I sogni non svaniscono finché non li abbandoni e se continui a parlarne con rammarico anche se è passato tempo, vuol dire che ci credi ancora, solo che non trovi la forza per metterti all'opera. Il desiderio continua a bussare alla tua porta, ma tu hai serrato forte il chiavistello e fai fatica a riaprirlo. Sono certo che la forza per sbloccarlo sia dentro di te».

    La forza ... dopo quattro anni non ne avevo più e continuavo a perderla: la forza di andare avanti senza una meta e senza di lei.
    «Non lo so Noah, non mi sento ancora pronto». E forse non lo sarei stato mai più.

    «Non smettere mai di credere che tu abbia la capacità di realizzare i tuoi sogni».

    Che mi avesse letto nel pensiero? Avrei giurato che fosse un motivatore che trascina le persone fuori dal fango in cui sono cadute, e che non riescono ad alzarsi per la vergogna del sudiciume che hanno addosso. Avevo bisogno di persone del genere nella mia vita per poterla riprendere da dove l'avevo messa in ibernazione. Mi scrollai dalla testa quello spirito di ottimismo ovattato con cui le sue parole mi avevano stregato e tornai al mondo reale. Non mi ero dimenticato di tutto quello che era successo e mi feci serio.
    «Ho bisogno di sapere. Dimmi che cosa stai combinando. Perché un tecnico informatico si caccia sempre nei guai? Perché si immischia in faccende di cui dovrebbe occuparsi la polizia? Che cosa credevi di fare qui da solo?»

    «Ecco che il poliziotto ficcanaso ricomincia a lavorare ...» protestò borbottando ed io ripresi quel discorso anche se lui non ne aveva voglia.

    «Dimmi chi erano quelle persone e soprattutto perché ti danno la caccia».

    Puntò gli occhi castani verso il cielo, e le nuvole gli restituirono uno falso e rassegnato sguardo che non mi convinceva affatto.

    «Queste persone devono essere fermate, tramano qualcosa in giro per la regione ed io devo scoprire che cosa hanno in mente».

    «Aspetta, aspetta, fammi capire ... sei un membro della polizia internazionale sotto copertura? Io collaboro con la polizia e posso giustificare la mia presenza qui ma tu ...» dissi puntandogli il dito contro, «che titolo hai per metterti ad indagare?»

    «Non posso rivelarti di un agente sotto copertura, sennò dove sarebbe la riservatezza?»

    Astuto il ragazzo ma con me non attacca. Le mie pressanti domande tuttavia, non fecero altro che generare in lui la reazione opposta a quella da me desiderata, proprio come quando era a casa mia. Il mio istinto di cercare sempre la verità, anche a costo di prevaricare sull'intimità degli altri contrastava con i miei ideali di passione e pazienza che di solito utilizzavo nel mio lavoro. Mi dava sui nervi quel guscio in cui si ritraeva, e più si chiudeva, più metteva entrambi nei guai.
    Si alzò di scatto e mi parlò deciso.

    «Stammi a sentire agente Evan ... tu mi hai aiutato ed io ho ricambiato. Siamo pari e non ti devo più niente! Quello che faccio non ti riguarda!»

    «Invece mi riguarda eccome! Perché te ne sei andato da casa mia?»

    «Perché hai rischiato la vita. Ho messo in pericolo la tua famiglia e quando sono andato via dopo che tu hai perso i sensi, mi sono sentito in colpa».

    «In colpa per cosa? Nessuno può vivere come fai tu: costantemente in pericolo e con la speranza che qualcuno ti tiri fuori dai guai in cui ti cacci, o in cui sei coinvolto. Dimmi chi sono quelle persone e che cosa vogliono da te, prima che facciano del male a qualcun'altro».

    «Io non voglio immischiarmi negli affari della polizia. Fatti aiutare da loro. L'unica cosa che devi capire è che non dobbiamo più vederci».

Non era un poliziotto, di questo ne ero sicuro, ma allora chi?
    «Non puoi chiedermi di voltarmi dall'altra parte facendo finta di niente. Ci sono dei criminali che ti cercano per non so quale motivo, vieni qua a piantar grane con gente pericolosa, è naturale che mi faccia delle domande. E non venirmi a ripetere che non conosci quelle persone, perché vi siete chiamati per nome ed anche quei tre che si fanno osannare come il Trio Oscuro fanno parte della stesso gruppo. Si può sapere chi sono?»

    «Non sai chi sia il Trio Oscuro?»

    «Ehm ... no. Dovrei?»

    «Dimenticavo che durante le crisi plasma non eri presente perché viaggiavi fuori da Unima» si lamentò voltandosi e camminando di scatto verso la direzione opposta, come a voler dire: "Ma questo dove vive?".

    «Perché, tu eri presente invece? Non hai detto che sei di Sinnoh?»

    «Si ma vivo qui da qualche anno ormai».

    Scossi il capo per il disappunto. Era pessimo a mentire quello strano ragazzo dallo sguardo torvo. E questo Trio Oscuro che a quanto pare aveva una fama da me involontariamente ignorata, doveva appartenere ad un'organizzazione criminale più grande di quanto io stesso immaginassi.

    «Perché ti chiamano N dato che il tuo nome è Noah?»

    «Con quale lettera inizia il mio nome signor Evan? Ma dico, non ci arrivi?»

    «Già ... perché quella notte il tuo Pokémon non era con te per proteggerti e perché non ci hai aiutati ad uscire poco fa, invece di subire quel pestaggio gratuito che ti è quasi costato la testa?»

    «Di quale Pokémon stai parlando?»

    Incredibile, continuava a negare l'evidenza, ma adesso lo avrei sistemato a dovere ...
    «Quello Zoroak con cui stavi lottando all'ex deposito frigo. Te lo ha mai detto nessuno che non sei bravo a mentire?»
    Lo colsi alla sprovvista, anche se i miei discorsi lo fecero andare in protezione.

    «È incredibile ... riesci a ficcare il naso nella mia vita anche a migliaia di chilometri da casa tua! Che cosa pensi di fare?»

    «Non voglio immischiarmi nel tuoi affari ma tu ... mi devi delle informazioni e sei in pericolo».

    «Sono perfettamente in grado di fendermi! Quella sera è stata solo una distrazione e oggi sei stato tu a mettermi in pericolo perché me la stavo cavando benissimo da solo. Non capisci che più mi stai addosso e più ci metti nei guai? Se la prenderanno ancora con te se non mi starai alla larga. Ti sei dimenticato di cosa hanno fatto a casa tua?»

    «Ho visto cosa sanno fare ma anche che cosa sai fare tu. Loro non mi preoccupano».

    «Invece dovrebbero ... le abilità di allenatore che hai, e quelle di difenderti che non hai ... non bastano per contrastarli e te lo hanno dimostrato».

    «Invece a quanto pare tu sei il re delle lotte! Mi devi una spiegazione dato quello che è successo, e visto come la mia famiglia si sia trovata in pericolo perché ti ho portato in casa mia».

    «Il re delle lotte? Dico ma sei serio? Quel tipo mi ha quasi ammazzato! Mi dispiace se sono capitato giusto da te. La prossima volta guarderò il nome scritto sulla porta e poi cercherò di domare il mio istinto di sopravvivenza. Lasciami in pace, non chiedo altro!»

    «No, io non me ne vado, voglio sapere. Se non vuoi collaborare mi vedrò costretto a trascinarti dalla polizia».

    «Mi ritengo una persona paziente ed equilibrata ma tutto ha un limite signor Evan. Non amo essere messo alle strette e tu mi stai provocando».

    «Mi stai forse minacciando?»
Forse lo stavo spingendo oltre i limiti della sopportazione e più lo interrogavo più la mia voce si ritirava in un fremito di timore. Così forte nella lotta e così ambiguo, e quel Pokémon raro e spaventoso che lo spalleggiava. L'istinto mi suggerì di andarci piano perché non sapevo che cosa aspettarmi da lui. Noah era al limite e osò alzare il tiro.

    «E se anche fosse?»

    «Come ti chiami?»

    «Scusa?»

    «Sicuro di chiamarti davvero Noah Levin?»

    «Lo chiedi a me?»

    «Si a te. Fammi vedere la denuncia di smarrimento dei tuoi documenti».

    «Non sono tenuta a mostrartela».

    «Sono un pubblico ufficiale quindi sei tenuto eccome, e ho anche il potere di arrestarti se necessario».

    «Ahahah! Questa te la sei appena inventata. Scendi dal piedistallo, perché non sei altro che un ragazzino che gioca a fare il poliziotto».

    «Da come vai sulla difensiva, deduco che non hai fatto nessuna denuncia».

    «Che t'importa?».

    «Forse perché non ti conviene».
    Vedendo l'espressione contrariata nei suoi occhi, il mio cuore accelerò improvvisamente e l'ennesimo brivido mi percosse come una scarica elettrica lungo la spina dorsale.
Forse senza accorgermene stavo prendendo parte ad un gioco pericoloso e sfidare una persona sconosciuta dopo averne constatato le abilità, iniziava davvero a spaventarmi; tuttavia la mia curiosità prese ancora il sopravvento e provai a mitigare il clima.
    «Perché non risolviamo la questione alla maniera degli allenatori?»

    «E sarebbe?»

    «Con una lotta Pokémon naturalmente».

    «Ancora con questa storia? Io non lotto!»

    «Visto che continui a mentire, sarò costretto a trascinarti dalla polizia con la forza».
    Feci finta di premere il tasto di emergenza per chiamare la polizia, enfatizzando il gesto e lui ci credé.

    «Hai chiamato davvero la polizia?»

    «Certamente, io non scherzo».

    «Perché non mi porti dentro tu dato che ne hai i poteri?»

    «È quello che farò dopo averti umiliato con i miei Pokémon».

    «Quindi è così che ti comporti con tutti quelli che non fanno come dici tu?»

    «Solo con chi si rifiuta di collaborare».
    Tirai fuori dalla tasca anteriore del mio gilet le mie fedeli manette e feci il gesto di arrestarlo, il che provocò in lui una risata di compassione isterica. Una strana foschia iniziò ad avvolgerci ma questa volta non mi sarei fatto mettere nel sacco da quei due.
Prima che sparisse come da copione, chiamai Umbreon e gli dissi di non perderlo di vista. Il mio compagno d'avventure peloso lanciò il suo attacco chiamato inseguimento, capace di braccare e colpire un bersaglio anche se non è visibile o se si allontana velocemente. La foschia oscurò la vista e partì il tallonamento. Questa volta ero deciso a non lasciarlo scappare.
    Il raggio controllato da Umbreon, scovò Noah in mezzo al bosco e lo stese. Quando lo raggiunsi lo vidi per terra sofferente, in bilico sul bordo di una cascata.
Era contorto dal dolore perché aveva incassato un brutto colpo e mi sgridò col poco fiato che aveva.

    «Come ti è saltato in mente di farmi colpire da Umbreon in quel modo? Sei fuori di testa?» urlò ansimando e gemendo per terra.

    In effetti avevo esagerato dato che era anche infortunato, senza calcolare il contraccolpo di un attacco che su un essere umano ha effetti più distruttivi rispetto ad un Pokémon, il quale ha la forza e la prontezza per difendersi meglio di un umano.

    «Scusami ... ma non ho alcuna intenzione di lasciarti scappare».

    Si alzò con fatica sul sottile cordolo in cui si era accasciato per il colpo e gli porsi aiuto che lui prontamente rifiutò, facendo il gesto di scostare la mia mano.
    Che testardo che era.
    «Non puoi sfuggirmi Noah ... vieni con me senza fare altre storie, è meglio».
    Gemette infastidito e iniziò a trascinarsi per attraversare il bordo stretto del sentiero sopra la cascata, rischiando più volte di precipitare.

    «Fermati! Così cadrai di sotto!» Urlai davvero preoccupato.
     L'ultima cosa che volevo era andare a recuperare un cadavere sfracellato sulle rocce sporgenti che affioravano dall'acqua sottostante. Non mi ascoltò, evidentemente era deciso a fuggire.
Scelsi di seguirlo assumendomi il rischio di finire giù ma feci uscire Espeon, il mio Pokémon psico dicendogli di prenderci al volo se mai fosse successo. Noah si trovò la strada sbarrata da una frana e non poté proseguire, di fatto la sua corsa terminò lì.
    «Non è il tuo giorno fortunato oggi» decretai con un pizzico di soddisfazione.
Feci alcuni passi verso di lui per aiutarlo a tornare indietro, ma non mi diede retta e cercò di scalare le pietre che gli ostruivano il passaggio, una vera e propria follia con un solo braccio, e da esperto di sentieri di montagna qual ero, sapevo che non li avrebbe mai superati illeso.
    Avanzai ancora, mentre cercavo di farlo ragionare ma giuntò a metà del cordolo, il terreno mi mancò sotto i piedi e fui io a scivolare lungo le rocce, aggrappandomi ad una sporgenza tagliente che mi ferì la mano. Vidi Noah tornare verso di me muovendosi carponi verso ciò che rimaneva del breve sentiero che ci divideva e mi afferrò per un braccio. A causa del nostro peso però, l'intero cordolo franò catapultandoci entrambi verso la cascata. Saremmo stati spacciati se Espeon non ci avesse presi al volo con i suoi poteri psichici, facendoci levitare gradualmente verso il suolo, di lato alla cascata.

    «Stai bene Virgil?» mi disse come se fosse davvero preoccupato per me.

    «Si ... non grazie a te però!» lo rimproverai seccato.

    «Bel ringraziamento agente Evan. Sarei anche potuto scappare e lasciarti a penzolare sulla cascata».

    «Dove vuoi andare in quelle condizioni? E poi non mi sarei schiantato, ho una squadra che mi aiuta».

    «Va bene ma adesso basta con le domande ... che cosa credevi di fare venendomi dietro?»

    «Tu cosa credevi di fare scappando? Ma ti sei visto? Sei infortunato e ti metti a giocare a guardie e ladri?»

    «Non sto giocando, cerco di liberarmi di te con garbo».

    Che assurdità. Dovevo capire perché non voleva condividere le informazioni con me; perché appariva così restio nel rivelarmi l'identità di quei tipi che ci hanno dato fastidio e soprattutto come avesse fatto a far ragionare il mio Umbreon quando era sotto il controllo di quel trio di svitati a casa mia.
    «Dimmi perché i Pokémon ti ascoltano a prescindere se sei o meno il loro allenatore. Come ci riesci?»

    Probabilmente estenuato dalla mia insistenza e desideroso di liberarsi di me il prima possibile, iniziò a cedere.

    «So farlo da sempre! È una sorta di empatia, come l'hai definita quando eravamo a casa tua, che ho sviluppato nel tempo».

    «Empatia? Ormai ci sono dentro, quindi tanto vale che mi racconti la verità».

    Esasperato ma mantenendosi nei ranghi, mi rivolse una domanda:

   «è legittimo invece chiederti il perché tu mi stia seguendo? Perché ti interessi così tanto a me? Deve esserci per forza un motivo».

    «Perché sei coinvolto in qualcosa che voglio scoprire. Voglio sapere di quegli uomini che ti hanno inseguito fino a casa mia, di quelli che ci hanno presi al deposito frigo, voglio sapere chi è il Trio Oscuro e se tu non mi dirai cio che sai, ti renderai loro complice. Lo dico per te, perché ti potrebbe finire male».

    «Certo, come no. Questa conversazione è diventata alquanto noiosa. Scommetto che sotto qualcos'altro invece».

    «Non c'è nient'altro» risposi risoluto.

    «Anche tu non sai mentire. Io so ascoltare i Pokémon ma capisco quando le persone mi nascondono qualcosa. Dimmi perché mi stai seguendo!»

    Lo aveva ammesso finalmente, ma io mi ero altamente stancato del fatto che tentasse di rigirare la frittata, e decisi di comportarmi in maniera inusuale. Ordinai ad Umbreon di colpirlo con attacco pallaombra. Alle mie parole rimase scioccato. Credo che ritenesse surreale che io stessi aizzando nuovamente il mio Pokémon contro di lui, ma lo feci solo perché sapevo il fatto mio, non volevo mica fargli del male.

    «Che cosa fai ...» I suoi occhi si inondarono di stupore ed incredulità. Indietreggiò. Un attacco palla ombra su un essere umano è molto pericoloso e può causare danni gravi, ma come previsto, il suo Pokémon intervenne per difenderlo e finalmente venne allo scoperto, alzando uno scudo di protezione come quello con cui lo aveva protetto da quegli uomini prima. Soddisfatto, continuai ad ordinare attacchi ripetuti e potenti a raffica per non dargli tregua, soprattutto per metterlo alla prova come presunto allenatore, e spazientito dalla mia foga, finalmente rispose a tono contrattaccando.
    Si alzò un gran polverone che mi bruciò gli occhi e quando lo feci sparire grazie a Vaporeon ed al suo getto d'acqua nebulizzato che ripulì l'aria, Umbreon era a terra sconfitto e Zoroak mi aveva immobilizzato in un attimo e mi teneva fermo contro un albero, ringhiando e mostrandomi denti e artigli affilati.
Un po' intimorito mi arresi, anche se ero quasi sicuro che Noah non avesse intenzioni cattive verso di me; lo avevo solo fatto arrabbiare.
    «D'accordo hai vinto ... puoi dire a Zoroak di lasciarmi?»

    «Io non do ordini a Zoroak. Chiedilo direttamente a lui e vedi se riesci a convincerlo» sbuffò portando una mano al fianco.

    Guardai gli occhi azzurro cristallo bordati di amaranto di quel Pokémon che da vicino faceva veramente paura, e senza che dicessi nulla, mi mollò e sparì in un battito di ciglia.
Mi ricomposi l'uniforme e richiamai sia Umbreon che Vaporeaon e per qualche secondo ci fu un silenzio da landa desolata. Inutile negarlo, Noah ed il suo Pokémon erano troppo forti anche per un detentore di titolo della lega Pokémon come me. Quella sconfitta bruciava ma non lo diedi a vedere.
    «Lo sapevo ... » attaccai «finalmente sei venuto allo scoperto. Perché non hai detto che sei un allenatore?»
    Ero sbalordito. Sapevo bene che questo Pokémon potesse assumere qualsiasi sembianza, umana o Pokémon, infatti è chiamato il Pokémon mutevolpe. Gli Zoroak sono conosciuti come i re delle illusioni e se un essere umano si introduce nel loro territorio, rischia di perdersi nel bosco per giorni, o addirittura per settimane, perché l'illusione è la loro arma di difesa più efficace per confondere i nemici.
    «Zoroak è uno dei tipi buio più forti ed è anche estremamente raro. Non avevo mai visto una persona allevarne uno, anzi ... non avevo mai visto uno Zoroak di presenza. Ti si addice proprio come compagno».

    «Sei molto preparato sull'argomento ma ... con questo che cosa hai voluto dimostrare?»

    «Che sei un bugiardo. Ti ho colto di sorpresa e non mi sono neppure risparmiato, eppure tu non hai battuto ciglio e ti sei prontamente difeso, sei fuori dal normale, un degno allenatore. Hai partecipato al torneo qualche anno fa per caso?»

    «Certo che no! Te l'ho già detto ... »

    «Dove ti sei formato come allenatore? Non ci credo che sei un autodidatta. Avrai pure fatto un percorso».
    Serrò il pugno sinistro lungo il fianco ma si riprese subito. Era un tipo abituato all'autocontrollo e si vedeva. Credo di avergli rotto talmente le scatole che se fosse stato come quel Bartòn, mi avrebbe strozzato con le sue mani ma io non avevo più paura di lui né del suo Pokémon. Piuttosto mi spaventava non riuscire a venire a capo della questione. Dovevo farlo parlare, a tutti i costi.
    «Sei sorpreso che io l'abbia scoperto?»
    Gli chiesi molto sicuro di me. A lui tuttavia sembrava non interessare affatto e dissolto quell'accenno di rabbia, distese la mano e prese appositamente un argomento che mi fece vergognare.

    «Non m'interessa, anzi, adesso sai che non puoi battermi e ti conviene farti da parte» replicò con tono serio ma senza scomporsi. Alla faccia della modestia, ma dovevo dargliene atto. «A proposito ... » pronunciò soave scrollandosi la polvere di dosso «com'è andato il tuo incontro con i Superquattro della Lega?»

    Il tono canzonatorio, il suo ghigno da presa in giro mi fece ribollire il sangue come il magma fluido di una camera magmatica sottoposta alle esplosioni di gas. Non solo ero stato facilmente battuto da lui, dovetti ammettere anche la sconfitta che avevo subito da Mirton, come da suo copione.
Gli scappò un sorrisetto ma cercò di trattenersi; si vedeva che moriva dalla voglia di sbattermi in faccia che mi aveva avvertito ... e che ne sapesse più di me.

    «D'accordo ... puoi anche ripeterlo che non ne ero all'altezza, del resto tu sai tante cose».
    Si mise a ridere, anzi, sembrava proprio che mi stesse deridendo. Ero diventato paonazzo dalla rabbia e dalla vergogna. Ero il campione in carica del torneo della Lega di Unima disputata poco tempo prima, avevo sbaragliato decine di allenatori, anche molto forti ma ero appena stato sconfitto ed umiliato da un trainer di passaggio.

    «Ci tenevi così tanto ad avere quel titolo?» mi domandò con una sorta di disgusto.

    Snobbava la Lega. Ma perché mai un allenatore dovrebbe farlo? Il torneo rappresenta un'opportunità per misurare le proprie capacità tecniche e strategiche e confrontarle con altri allenatori per crescere. A che scopo sminuire una competizione così importante? E poi ... diventare campione regionale assoluto rappresenta un sogno per tutti gli allenatori. Certo che in giro ce n'è di gente strana.
    «Perché no?» risposi con decisione, «in fondo anche quella sarebbe una soddisfazione».

    «È a questo che aspiri sperando di migliorare te stesso?» mi domandò venendo verso di me come se avessi appena detto una brutta parola.

    «Risparmiami la predica per favore ... che cosa te ne importa di come lavoro sulla mia autostima?»

    «Autostima? Ma fammi il piacere. La percentuale della tua autostima sta tre metri sotto ai tuoi piedi. Prima piagnucoli che non sei contento della tua vita, fai la vittima perché hai perso tua madre e poi mi vieni a parlare di importanti opportunità come "strappare il titolo di zimbello dell'anno alla campionessa in carica?»

    Il mio vulcano eruttò con una forza tale e profonda che sembrava giungere direttamente dal centro della terra, dal nucleo del mondo ed esplose. Nessuno poteva sminuire a tal punto il dolore ed i sentimenti che fanno parte della mia crescita, fisica e spirituale. Nessuno può parlare di mia madre, schernendo le lacrime generate dal dolore che provo per la sua perdita come se fosse ieri. Avrei voluto prendere a sberle quel prepotente ma cercai per quanto possibile di mantenere la calma.
    «Come ti permetti di parlarmi in questo modo? Tu non sei nessuno per giudicarmi!».

    «Tipico atteggiamento difensivo delle persone insicure e fallite» replicò duramente senza nemmeno darmi il tempo di replicare.
Non c'era modo di arrestare le sue parole sadiche e demotivanti. Avrei voluto prendere quel presuntuoso per il  colletto e tirargli un bel pugno in faccia ed insegnargli un pizzico di educazione ma evitai.
    «Credi pure quello che vuoi, ma il mese prossimo tornerò alla lega e vincerò pensando a te. Ti darò una lezione morale visto che non sono abituato ad utilizzare le mani in modo improprio».

    «Con questo atteggiamento non andrai lontano. Il mio consiglio è di tornare a vivere perché in questo modo stai facendo morire anche tuo padre e tuo fratello che si angosciano per te. Li ho sentiti sai? Non si danno pace perché sei irrequieto e gli dai troppi pensieri. Devi incanalare questo dolore altrimenti il sentimento di vendetta ti consumerà. Te lo do come consiglio da amico perché anche io ci sono passato».

    «Non siamo amici».

    «Ne prenderò atto».

    Dovevo ricompormi. Voleva confondermi per creare un diversivo e darsi alla fuga senza sapere quanto invece tenesse a me e volesse aiutarmi, ma ero troppo arrabbiato, troppo contrariato per capirlo. Chissà perché invece forse lo invidiavo. Ero così stupito di trovarmi davanti ad un allenatore del suo calibro che aveva avuto la capacità di allevare uno Zorua, fino a farlo evolvere in Zoroak. Gli Zorua hanno un tasso di allevamento molto lento, ci vogliono tanti anni per farli crescere e infinite sessioni di allenamento ed il suo era già evoluto; questo significava che il Pokémon fosse con lui da tanto tempo e che ci avessero dato dentro con gli allenamenti. Gli Zoroak sono considerati delle leggende, quasi al pari dei Pokémon leggendari per il loro carattere e la loro forza. Allevare uno Zoroak in termini di tempo equivale a far crescere un bambino fino a farlo diventare adulto ed in termini di difficoltà ... non saprei, ma è molto complicato e lui ci era riuscito.
Un Pokémon straordinario e dall'aspetto inquietante, con sembianze di volpe che su due zampe non supera l'altezza di un uomo adulto. Chiunque se lo ritrovi davanti prova terrore poiché il suo aspetto appare cattivo; gli Zoroak sono Pokémon che difendono il territorio e i propri piccoli e solo se si sentono minacciati diventano aggressivi. In generale non si fidano degli esseri umani ed i casi di amicizia con loro sono davvero rari. Questo dimostrava che Noah possedesse qualcosa che altri allenatori non avevano, delle abilità speciali, fuori dall'ordinario e fu allora che ricordai le parole di mio padre : «"fuori da ogni comprensione umana"».
    Fui assalito da così tanti dubbi che gli stessi facevano a botte nel mio cervello con l'intento di prevaricare. Ero deciso ad andare fino in fondo a costo di perdere tutto, anche la dignità.
    «Adesso spiegami in che genere di traffici sei coinvolto. Pensi che mi sia bevuto la storia del perito informatico?»
Continuai il mio interrogatorio come se niente fosse, dimenticandomi della sfuriata che mi aveva costretto a fare denigrando la mia voglia di essere un discreto allenatore.

    «Pensala come vuoi» mi rimproverò, stavolta con tono piu rassegnato «ma sai una cosa? Prendi troppo sul serio il tuo lavoro, dovresti rilassarti un po' e preoccuparti di più di quelli che hai intorno invece di pensare solo a quello  he vuoi tu. Veniamo al dunque: mi dici una buona volta cosa ti spinge ad interessarti tanto a me?»

    Quelle parole mi tolsero il fiato. Davvero apparivo cosiegousta agli occhi della gente? Che giornata orribile quella in cui ti viene sbattuta in faccia la realtà. Mi rassegnai e lasciai scivolare via la mia durezza, valutando che forse era quello il problema. Pensai che forse cominciando a fare il primo passo aprendomi a lui, anche quelle labbra rosate e tenaci come tenaglie si sarebbero allentate. Decisi di raccontargli quello che avevo visto, cercando di ricostruire i ricordi confusi di queste notti, a partire da quella fatidica in cui ci eravamo conosciuti.

    «Sarà stupido ma te lo dirò».

    «Alla buonora ... »

    «Piantala ... ho delle visioni».

    «Sei un visionario?»

    Il suo sguardo interrogò il mio essere interiore, lo si vedeva dai movimenti facciali involontari che faceva, questo voleva dire che avevo toccato un tasto per lui interessante e giocava a mio vantaggio. Forse avevo trovato la chiave per aprire il suo forziere blindato, abbandonato nei fondali marini più profondi e dimenticati.
    «Si. Cioè ... no, non lo so. Quando ti ho toccato per soccorrerti ho visto cose ... »

    «Hai detto quando mi hai toccato? Ho capito bene?»

    «Si. Prima di incontrarti non mi era mai successo».

    «Continua».

    «Dopo quella notte ne ho avute tante, tutte diverse nelle loro manifestazioni ma con dei punti sempre in comune.
Ci sono delle strane creature che con i loro raggi devastano Unima. Non riesco a distinguere che cosa siano, tutto è confuso. Vedo poi uno spirito che scaglia fulmini ed uno che emana fuoco, anche se non capisco se lottano tra loro oppure contro le creature, tutto è annebbiato».
    Lo avevo incuriosito a tal punto da vedere il suo corpo tendere verso di me, come in uno stato di totale abbandono. Era così preso dal mio racconto che avrei potuto benissimo colpirlo e trascinarlo dalla polizia, cosa che ero ansioso di fare ma ero troppo frenato, perché come una calamita, ero attratto dall'alone di mistero che lo avvolgeva, e non mi aveva ancora rivelato chi fossero quelle persone con cui avevamo avuto un pressoché "amichevole" scambio di sonore opinioni. Poi mi ricordai anche del suo Pokémon, e di certo non volevo finire sbranato o dilaniato dalle sue rudi fauci.
    Mi rivolse una curiosa ma attenta espressione pensante inarcando un sopracciglio ed abbassando l'altro. Cercava con la mente di venirne a capo.

    «Delle creature che lanciano raggi di energia ... uhm ... sapresti descriverle meglio?» mi chiese con vero interesse.

    «Sembrano insetti, ma non ne sono sicuro».

    «E pensi che io sia in qualche modo coinvolto?»

    «Le visioni sono incominciate proprio quella notte. Voglio solo capirne il significato e tu ... hai la stessa capacità di sentire le voci interiori dei Pokémon, proprio come N del Team Plasma. Conosci la sua storia? Lui ha lottato con i Pokémon leggendari».

    «Si, ne ho sentito parlare. Cosa c'entro però io con lui?»

    «Avete le stesse capacità: sapete comunicare con i Pokémon, siete dei bravi allenatori e lui - questa è una cosa che mi ha detto mio fratello quando lo aveva incontrato qualche anno addietro - aveva uno Zorua con sé e gli Zorua sono troppo rari».

    «Il branco del mio Zoroak è parecchio numeroso invece e solo che sono rare le amicizie con gli esseri umani ...»

    «Appunto!» Non ci arrivava o non voleva?

    «Ok frena ... N ha i capelli lunghi e gli occhi azzurri, e tu sei venuto a cercare me, che ho i capelli corti e gli occhi castani? E poi lui sta ai servizi sociali. Scusami ma ... hai le idee parecchio confuse».

    «Ah ma allora hai in mente di chi sto parlando? O forse sei tu ad essere confuso? Dimmi se queste non sono delle coincidenze».

    «Lo sono. Sono solo coincidenze».

    «Ti ho rivelato il motivo per cui ti sto dietro, adesso tocca te. Voglio sgominare questa banda armata. Collabora con me, altrimenti sarò costretto a segnalarti alla polizia».

    «So che tuo padre mi ha già segnalato e grazie a voi adesso devo tenermi lontano dalle città e guardarmi dalla polizia a causa dell'identikit che gli avete fornito».

    «Te la sei cercata. Cosa c'è? Sei ricercato dalla polizia e non vuoi incontrarla?»

    «Non sono un ricercato agente Evan».

«Allora qual è il problema? Vieni al mio elicottero, ti darò un passaggio così potremo sederci a parlare per decidere insieme come procedere».

    «No».

    «Oh Andiamo!» sbottai infastidito   
    «sono fuori casa da tutta la mattina e fra poco vorranno sapere che fine ho fatto! Mi hai fatto perdere un mucchio di tempo inutile e ...»
    Mentre mi facevo trasportare da un estenuato scatto d'ira, contrapposto all'impassibile espressione rilassata di quell'individuo con le braccia incrociate, che mi faceva dar di matto, il mio cellulare si mise a squillare. Era mio padre. Mi avrebbe chiesto sicuramente conto della missione e di dove mi fossi cacciato per tutta la mattina visto che era già ora di pranzo.
    Iniziai a sudare e ad avere le palpitazioni. Avrei dovuto fare rapporto ma con tutto quello che era successo lo avevo completamente dimenticato. Piombai in un visibile stato di panico, mentre in quei secondi infiniti di squilli cercavo di comporre una buona scusa con le poche parole che balzavano nella mia testa vuota. Ero sicuro che dopo la nostra visita all'ex deposito, quelle ancora ignote persone se la fossero data a gambe visto che peraltro mi avevano riconosciuto come agente speciale.
    Guardai in faccia Noah che con una mano davanti la bocca tentava di coprire un sorrisetto sghembo, compiaciuto per la catastrofe che a breve si sarebbe abbattuta come una scure sulla mia sommità.
    «Pronto?» risposi avvicinando l'orologio al viso.

    «Virgil ... va tutto bene lì?»

    «Alla grande papà».

    «Hai scoperto qualcosa in seguito alla segnalazione? Aspettavo di avere tue notizie».

    «Si hai ragione ... sono stato al deposito, c'era parecchio movimento, delle persone con divise nere che trafficavano con strane attrezzature».

    «Dunque?»

    «Non so dirti chi fossero ma sono andati via subito e non ho potuto capire se erano davvero degli operai».

    «Hai avvertito la polizia locale?»

    «Ehm ... »
    Quell'infingardo intanto ascoltava la conversazione in viva voce e si divertiva alle mie spalle; poco ci mancava che quel ghigno schernitore non mi trafiggesse anche l'anima sconsolata ed indifesa. Sgridato e sbeffeggiato per colpa di un ragazzino provocatore che si era elevato dall'alto della sua sfacciataggine. Davvero quel giorno la mia mente vomitò un variopinto arcobaleno di insulti ed imprecazioni nei suoi confronti e la voglia di fare a pugni cresceva in modo esponenziale.

    «Ahi, ahi agente Evan» mi sussurrò scoprendo leggermente la bocca «sei nei guai con paparino?»

    «Smettila!» sibilai a denti stretti.

    «Con chi stai parlando? Sei con qualcuno?» mi chiese mio padre che mi aveva sentito.

    «Io ... no» balbettai rosso per l'imbarazzo «dicevo ad Eevee, oggi è proprio irrequieta e mi sta infastidendo». Ma lei non c'era, era andata rifugiarsi dentro alla sua sfera per farsi un riposino. «Comunque non ne ho avuto il tempo perché quando sono arrivato al deposito frigo, come ti ho già detto sono andati via e li ho visti di sfuggita».

    Mi ero ridotto a dire una frottola per non essere ulteriormente strigliato e perdere la fiducia che mio padre mi aveva dato, affidandomi questo incarico così lontano da casa. Facevo proprio pena.

    «D'accordo Virgil, fai la segnalazione e poi torna a casa» concluse mio padre prima di chiudere la conversazione.

    «Certo papà».

    Dopo aver chiuso la chiamata, Noah iniziò a prendermi in giro a tutto volume, scandendo con gusto le parole.
  
    «Perché hai mentito al paparino? Non ... è ... da ... te ... agente ... Evan ...!»

    «Quello che faccio con la squadra di soccorso non ti riguarda!»

    «Ah non mi riguarda? Pensa te invece che ti vuoi fare a tutti i costi gli affari degli altri».

    Preferii non rispondere e con garbo, cercando di prenderlo per il suo verso provai ancora una volta a convincerlo a seguirmi.

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Capitolo 6
*** Cap. 6 La verità sfuggente ***


Al di là di ogni mia ormai dispersa aspettativa, Noah accettò di venire con me, e lo fece in silenzio fino all'elicottero; sembrava aver perso improvvisamente la facoltà di parola, ma avrei scoperto a mie spese che era proprio dal suo silenzio che mi sarei dovuto guardare. La sua lingua tuttavia si sciolse di nuovo per farmi un commento negativo sui due Klingklang che non appena mi avevano visto tornare - e che avevano custodito l'elicottero in mia assenza - si riposizionarono subito alla base dei motori del mezzo. I Klingklang, Pokémon di tipo acciaio dalla forma di ingranaggi, possono potenziare i meccanismi in cui vengono collocati e sono di grande aiuto nelle missioni, ma a quanto pare il signor so tutto io ebbe da ridire anche su questo.

    «Sfrutti questi Klinklang per potenziare il tuo mezzo?»

    «Si, geniale vero?» mi vantai, anche se invece secondo lui mi sarei dovuto vergognare.

    «Cavolo ... i Pokémon non sono mica degli oggetti che puoi manovrare a tuo piacimento!»

    Era lo stesso commento che l'ex sovrano del Team Plasma aveva riservato a mio fratello qualche anno prima. Quell'ammasso di capelli castani e gli occhi scuri però, non avevano nulla a che vedere con colui di cui sapevo avesse invece dei tratti molto chiari. Questa storia mi stava sicuramente dando alla testa e mi diedi uno schiaffo ideale per cercare di tornare al presente. Il mio obbiettivo quel giorno era scoprire chi fossero quelle persone armate e di tornare a casa nei tempi previsti, prima di farmi linciare con un richiamo dal mio dipartimento.
«Non è vero che li sfrutto» mi difesi con decisione, «loro mi danno una mano e quando l'elicottero è fermo sono liberi di muoversi come vogliono; vivono al ranch con noi e fanno parte della squadra, sono dei Pokémon perfetti per questo lavoro».
Noah non sembrava molto soddisfatto della mia spiegazione ma lo ignorai. Montammo a bordo e lui si sistemò sul sedile posteriore.
    «Puoi anche stare davanti con me» decretai quasi offeso dal trattamento che mi stava riservando.

    «Non mi siedo mai accanto al tassista» rispose ghignando, e si sistemò il braccio sano dietro la testa poggiandosi al sedile ed accavallò le gambe come se fosse su una poltrona.
    Non aveva abbandonato il suo atteggiamento spavaldo ma ero sicuro che questo non fosse davvero lui, dato che a casa mia si era comportato in maniera totalmente diversa. Desideroso di ripartire, non diedi peso al sua atteggiamento e cercai di avviare i motori, ma i comandi non rispondevano.

    «Che succede?» mi chiese sporgendosi verso il sedile anteriore.

    «Non lo so, non si avvia. Scendo un attimo per controllare se è tutto apposto».

    Anche Noah scese con me e si avvicinò per dare un'occhiata. Mi fece notare che c'era un pezzo rotto. Ecco dunque perché non si metteva in moto. Dopo aver controllato per bene l'entità del danno, alzai la testa e mi schiarii la voce.
    «Dunque ... ti cercano perché gli scombini i piani oppure c'è dell'altro? Se mi dirai ancora una volta che non mi riguarda, credo che darò di matto».

    «Se te lo dico, poi mi lascerai in pace?» mi chiese sospirando.

    «Certo ... » risposi non proprio deciso mentre mi pulivo le mani con una salvietta umida.

    «Quello è il Team Plasma».

    Dopo qualche secondo di silenzio speso per elaborare quelle parole scoppiai a ridere.
    «Questa è proprio bella; il Team Plasma è stato smantellato l'anno scorso, ne abbiamo già parlato quando eravamo a casa mia».

    «È quello che credete voi».

    «Mio padre e mio fratello hanno aiutato la polizia internazionale all'arresto del Team Plasma e quindi abbiamo la certezza che in giro non ci sia più nessuno di loro, e queste sono fonti ufficiali».

    «Allora i ninja di casa tua ti sono sembrati tre fantasmi?»

    «In effetti non sembravano nemmeno umani da quanto erano inquietanti».

    «Incredibile quanta fiducia riponiate nei vostri mezzi e nelle vostre risorse. Il Team Plasma non è stato del tutto sconfitto ed il suo capo è ancora vivo. Li hai visti anche tu all'ex deposito oggi».

    «Mica lo avevano scritto in faccia e poi ... Ghecis è morto».

    «E tu ci credi?»

    «Ma certo».

    «Ingenui. Il capo del Team Plasma è vivo, ha inscenato la sua morte per poter fuggire e visto che tutti lo credono defunto, si aggira indisturbato tramando qualche altro modo per portare avanti la sua missione ed io sono qui per capire che cosa sta combinando questa volta».

    «Ma tu hai detto che non sei di Unima. Perché ti interessi di questa faccenda come se fosse una questione personale? Mentimi ancora una volta e farò mettere una taglia sulla tua testa!­»

    «D'accordo agente Evan non ti scaldare. Ti dirò tutto ... » Fece una pausa dando uno sguardo ai dintorni ed uno all'elicottero. «Facciamo una cosa: andiamo in città per procurarci il pezzo di ricambio, ti offro qualcosa visto che ti ho fatto saltare il pranzo; dopodiché ripareremo l'elicottero e verrò con te dalla polizia a Forteverdepoli. Cosa ne dici?»

    «Sul serio?» Questo improvviso cambio di rotta mi lasciò meramente spiazzato e siccome ero stanco, dolorante e con la sola voglia di tornare a casa per farmi una doccia, lo presi per buono.
«Come mai hai cambiato idea?»

    «Perché ho capito che quello che mi chiedi è giusto. Collaborare per rendere il mondo un posto migliore ... è quello che voglio fare anch'io».

    Aggrottai la fronte sorpreso e ci incamminammo verso il cantiere navale, ma la strada era lunga e faceva un caldo opprimente a causa dell'umidità. I nostri abiti erano madidi di sudore e le goccioline che colavano sotto il primo sole estivo di giugno, impreziosivano con le loro perle il nostro viso. I capelli di Noah erano inzuppati come se avesse fatto il bagno, nonostante ci fossimo sciacquati al fiume, ed irrorati dalla brezza dell'acqua che si tuffava con la cascata.
Fece ritornare Zoroak da noi, il quale si trasformò in un grande Pokémon uccello di nome Braviary, che ci diede un passaggio in volo, risparmiandoci la fatica di camminare a piedi. Una vera fortuna. Andammo a procurarci il pezzo di ricambio poi ci accomodammo in una rosticceria per pranzare insieme, anche se era piuttosto tardi.

    «Che cosa prendi?» mi domandò mentre scorreva il menù con gli occhi.

    «Vorrei ordinare un tè freddo e un sandwich visto che non ho mangiato niente, così mi basterà anche per pranzo. Però non preoccuparti, me lo pago io».

    «Non c'è bisogno, ordina tutto quello che vuoi, ti ho detto che oggi offro io. Ci tengo».

    «Va bene N ... osp scusami, Noah» dissi scherzandoci un po' su, anche se lui cambiò espressione divenendo quasi scocciato.
    Credendo ingenuamente di essermelo fatto amico, continuai a scherzarci su ma il suo sarcasmo era pesante e distruttivo.

    «La tua ironia fa proprio schifo agente Evan».

    Che pesantezza sto ragazzo però... «Puoi chiamarmi anche col mio nome, non mi offendo mica».
Quando Noah mi chiamava in quel modo era il segnale che si sentiva infastidito da me ed io che lo aveva capito glielo facevo apposta. Era più forte di me tentare di stuzzicarlo, convinto della sua buona fede.
Ordinammo il nostro piccolo brunch e del tè e dopo aver finito mi feci servire un caffè.
    «Tu non bevi caffè?» gli chiesi mentre il cameriere andava via con l'ordine del nostro tavolo.

    «No grazie, non mi è mai piaciuto».

    Mentre sorseggiavo il caffè, la tazzina mi scivolò dalle manie e mi cadde sul gilet e sulle gambe. «Ahia!» urlai per il calore improvviso.
    Mi scottai ed indietreggiai bruscamente con la sedia. Come aveva fatto a cadermi dalle mani? Era come se qualcuno improvvisamente mi avesse spinto il braccio, lo avevo sentito come in uno spostamento d'aria. Guardai Noah.

    «Io non mi sono mosso da qui» affermò dalla sua posizione rilassata - con la schiena comodamente poggiata alla spalliera - alzando le mani.
    Io però non gli avevo chiesto nulla e questo poteva significare soltanto che fosse stato uno scherzo di cattivo gusto ideato da lui ed il suo Zoroak. Ma perché lo aveva fatto? Il solo pensiero mi diede i nervi, ma visto che Noah si era tranquillizzato ed aveva deciso di seguirmi spontaneamente, sorvolai sulla questione, di cui oltretutto non avevo prove per accusarli.

    «Può capitare ... Perché non vai in bagno a pulirti?» mi suggerì sperando che lo ascoltassi.

    Ecco servita la scusa, ma io non ci cascai. «Perché so che ti darei l'occasione per svignarterla nel frattempo».

    «Che fiducia» ... decretò quasi offeso, «comunque se avessi voluto scappare ... lo avrei già fatto caro il mio agente speciale».

    «Si certo, come prima alla cascata. Non mi hai dato dei validi motivi per potermi fidare di te, quindi prendo le mie precauzioni».

    «Perché non mi metti le manette allora?»

    «Continua pure con il tuo spirito, te lo concedo».
    Mi riavvicinai al tavolo tirando la sedia in avanti con i piedi e iniziai a strofinarmi il gilet per cercare di ripulirlo, poi chiamai Vaporeon per supportarmi con l'acqua anche sulle gambe. Persi qualche minuto per l'operazione e riuscii a togliere buona parte delle macchie. Nel frattempo Noah pagò il conto al cameriere.
    «Ti ringrazio Noah. Posso chiederti dove si è cacciato Zoroak? Non lo vedo da un po'».

    «Si tiene alla larga dalle città, non gli piacciono molto e poi capisci che un Pokémon come lui attirerebbe troppo l'attenzione visto quant'è raro».

    «Forse hai ragione. Verrà con noi?»

    «E chi lo sa. Decide da solo cosa fare».

    «Da solo?»

    «Non sono la sua balia, e comunque è capace di trovarmi e raggiungermi in breve tempo se ho bisogno di lui».

    «Decide lui che cosa fare e quando? Siete proprio strani voi due».

    «Sei tu ad essere imbrigliato nei tuoi schemi da allenatore accademico. Si è fatto tardi. Dai forza, finisci questo tè e andiamo via».

    E certo, secondo lui ero io quello strano. Che razza di allenatore non tiene i Pokémon all'interno delle Pokéball e li lascia girovagare alla rinfusa?
    Dato che metà del caffè era tornato alla terra da cui i chicchi erano nati, bevvi tutto il tè per dissetarmi. Ci alzammo e andammo dietro gli alberi aspettando una nuova trasformazione di Zoroak in Braviary, - almeno era quello che mi aspettavo - per tornare all'elicottero; mentre Zoroak però si attardava, mi sentii improvvisamente strano. Avvertii una un'insolita debolezza alle gambe e le ginocchia iniziarono a cedere, mentre la testa si fece leggera come in un calo improvviso della pressione arteriosa. Barcollai, senza capire come e mi accasciai contro il tronco di un albero. Ebbi giusto il tempo di riflettere su cosa mi stesse capitando e lo capii dal fatto che Noah era piuttosto tranquillo. Se vedi una persona che ha un malore, solitamente vai da lei con fare preoccupato, invece lui ... era troppo calmo.
    «Che cosa ... » balbettai mentre tutto girava e la vista si affaticava. «Cosa mi hai fatto?»
    Lo fissai atterrito, cercando di mettere a fuoco la sua figura e lo vidi sdoppiato. Nei pochi secondi di consapevolezza che mi rimasero, ero sicuro di essere caduto nella sua trappola e per un attimo, mentre smarrivo le mie facoltà, sperando che non mi avrebbe ucciso, persi le forze e serrai gli occhi cercando di oppormi a quel senso di letargia che mi tirava verso il suolo. Noah vide la mia paura ed intervenne, come per rassicurami.

    «Niente ... non voglio farti del male» rispose mentre si avvicinava a me.

    Non era facile pensare che lo avesse fatto a fin di bene e un rivolo di rabbia misto a paura mi pervase il corpo.
    «Maledetto ... perché?» borbottai senza fiato, tentando di portarmi lo smartwach davanti al viso per chiamare aiuto, ma la mia vista si annebbiò e vidi Noah quadruplicato davanti a me che mi sorreggeva prima che potessi cadere.

    «Virgil mi dispiace tanto ma non posso coinvolgerti. Ti riprenderai ...»

    Il mio istinto fu di quello di aggrapparmi ai suoi vestiti come per chiedere aiuto, o forse per avere un conforto al senso di solitudine che mi aveva assalito. Scivolai a terra ma sentii le sue braccia intorno a me fino alla fine, la sua voce calda divenne lontana per poi sparire in un eco di silenzio.
    Riaprii gli occhi già a pomeriggio inoltrato, Eevee e tutta la mia squadra di Pokémon stava vegliando su di me e lei mi leccava il viso. Mi ritrovai disteso sul sedile anteriore del mio elicottero e quando mi sollevai vidi un biglietto sulla cloche. Cercai di mettere a fuoco la scrittura perché non mi ero ancora ripreso del tutto, mentre Eevee si rannicchiò felice sulle mie gambe e con non poche difficoltà iniziai a leggere:
    «"Sono più che sicuro che sarai furioso con me al tuo risveglio. Avevi ragione, avevo tutte le intenzioni di scappare ed ho pensato a quella più efficace senza farti del male, perché sai, non è mai stato nelle mie intenzioni. Mi dispiace aver dovuto ricorrere a questo diversivo per allontanarti, mi scuso per averti spaventato in quel modo, ma anche tu non mi hai lasciato altra scelta. Non so che idea ti sia fatto di me ma, lascia stare. Hai una famiglia di cui prenderti cura ed una vita, io invece non ho niente da perdere. Ti ho aggiustato l'elicottero così potrai tornare a casa, ho ripristinato anche i dispositivi di sicurezza aerea che si erano resettati, così in caso di guasto non ti schianterai. Ti prometto che porterò il tutore fino a quando la mia spalla non sarà guarita e te lo rispedirò a casa. Puoi riferire alla polizia che hai scoperto che il Team Plasma è tornato in attività e tenerti i meriti. Spero che potrai perdonarmi, ma ti assicuro che tutto questo è difficile anche per me. Non metterti alla guida finché non sarai completamente lucido.
Tieni accesa la lanterna dei tuoi sogni e convertila in energia solare infinita. So che ce la farai ed io faccio il tifo per te. Grazie per esserti preso cura di me, non lo dimenticherò mai. Noah"»
    Impattai i palmi delle mani contro la cloche in uno scatto di collera, poi le portai sul viso inarcando le dita, facendole scorrere fino a tirare indietro il caschetto sfrangiato di capelli e gettai un urlo di impotenza, che fece scappare via ogni forma di vita che si trovava nei dintorni. A parte lo spavento che mi ero preso, mi sentivo deluso e sconfitto. Mi aveva fregato alla grande e stentavo a credere di essere stato così ingenuo.
Essere piantato in asso in quel modo mi fece impazzire, ma la delusione per quel trattamento mi esasperò al punto tale da desiderare di non rivederlo mai più. Dovevo calmarmi, anche perché la testa vorticava e iniziai ad avere la nausea e volevo evitare di dare di stomaco. Mandai giù il livore che mi veniva su per l'esofago e inghiotii quel boccone amaro che mi accompagnò per tutto il viaggio di ritorno.
Stentavo a credere che il Team Plasma fosse riuscito a tornare in azione, ma avevo intenzione di approfondire la questione con le uniche persone che mi avrebbero ascoltato: la mia famiglia.
    Appena mi sentii pronto, avviai i motori e tornai verso casa. Inutile dire quante volte mio padre aveva provato a chiamarmi durante quelle quattro ore in cui ero stato svenuto, perché anche il mio cellulare aveva perso il conto. Quando dopo due ore di viaggio atterrai al ranch, la tempesta per me non era ancora finita. Mio padre, furioso come non mai e mio fratello preoccupato all'ennesima potenza perché non avevo dato notizie per almeno cinque ore, si precipitarono all'esterno con i capelli sbiancati.

    «Dove sei stato? Eravamo in pensiero!» urlò mio padre in preda ad una crisi isterica.

    «Io ... mi dispiace ...» mi giustificai portandomi le mani fra i capelli.
    Videro il mio stato pietoso, i vestiti sporchi e logori e dopo avermi sgridato mi abbracciarono e non si erano ancora accorti della ferita che avevo alla spalla, ma notarono subito il livido nero sullo zigomo.

    «Che cosa ti è successo?» mi domandò mio fratello, osservando allibito il mio viso, come se fossi un fantasma.

    Mi guardai allo specchio: ero pallidissimo con occhiaie scure, palesemente provato, la mia espressione mostrava stanchezza e rabbia allo stesso tempo e iniziai a vomitare tutto quello che avevo mangiato, anima compresa; sarà stato il nervosismo accumulato o forse quella sostanza che Noah, in quel diversivo della tazzina di caffè, mi aveva versato nel tè ... raccontai tutto quello che mi era accaduto, anche delle visoni, perché credevo che confidarmi con loro mi avrebbe aiutato a metabolizzare i fatti.
La mia famiglia invece rimase scioccata nell'ascoltare con attenzione i miei racconti e mi rimproverò di brutto per non aver chiamato la polizia quando avevo Noah davanti. Tutti i liquidi persi nei conati mi avevano disidratato ma con un po' di riposo, poco alla volta mi sarei ripreso.

    «Devi stargli alla larga!» mi ordinò severamente mio padre sbattendo una mano sul tavolo; «perché non lo hai portato alla polizia?»

    «Stavamo per andarci insieme, credevo di averlo convinto».

    «È imprevedibile e nasconde qualcosa. Ma poi la storia del Team Plasma ... è assurdo che sia ancora in attività ed il suo capo vivo, la polizia ce lo avrebbe riferito» ribadì mio fratello sulla stesso tono indignato di papà.

    «Intanto afferma il contrario ed io ho visto questa banda, ma non aveva nessun segno di riconoscimento delle vecchie divise con lo stemma».
Mio padre rimase per qualche secondo a riflettere, poi guardò mio fratello.

    «In effetti però quei tre potrebbero essere il vecchio Trio Oscuro, non mi pare che fossero stati catturati» disse ritornando ai ricordi del passato. «Solleciterò le autorità affinché trovino Noah, il suo identikit verrà esteso anche fuori provincia. Ci penserà la polizia a scoprire qualcosa. Ti ordino qualora dovesse ripresentarsi da te di stargli alla larga e di schiacciare subito il tasto di emergenza».

    «Non era sua intenzione farmi del male, non credo che voglia fare del male a qualcuno».

    «Ti ha già espressamente fatto notare che non vuole il tuo aiuto, cosa deve fare per fartelo capire, ferirti o peggio ucciderti la prossima volta?»

    «Ma no Davy! Lui non è cattivo; perché avrebbe aggiustato e messo in sicurezza l'elicottero se avesse voluto farmi del male?»

    «Oltre che essere un allenatore di alto livello, un informatico, un lottatore addestrato è anche un meccanico?» ribadì mio padre arrabbiato, ma al contempo stupito dal modo in cui io, nonostante tutto lo difendevo.
   
    Riconosceva però che il suo comportamento a casa nostra era stato impeccabile e che quella mattina ci avesse salvati tutti quanti.
    «Non so dove abbia imparato a fare tutte queste, cose ma sento che vive in uno stato di sofferenza che non riesce a condividere, e per qualche motivo ha difficoltà ad aprirsi agli altri. Ha paura di qualcosa. Qualcuno deve pur sostenerlo».
    Nonostante nella mia mente arrabbiata di qualche ora prima, desideravo solo che Noah sparisse dai miei pensieri così come si era dileguato dalla mia vita, durante il viaggio verso casa avevo iniziato a provare una sorta di compassione nei suoi confronti, soprattutto ripensando alle parole del biglietto, le quali continuavano a risuonare nella mia testa confusa.
La mia famiglia non sapeva che cosa pensare ma io non mostrai mai a loro quelle parole, che riposi gelosamente nel cassetto della mia scrivania e lì rimasero per molto tempo.

    «Sei un ragazzo molto sensibile e ti preoccupi per gli altri, hai un vero animo da soccorritore, ce l'hai nel sangue, ma non puoi aiutare chi non vuole. Lascialo stare e fatti la tua vita, lui rimarrà soltanto uno dei tanti che hai salvato».

    «Sono d'accordo con Davy» intervenne mio padre «smettila adesso».

    «Come la mettiamo con la storia del Team Plasma?» chiesi pensando se ciò che avevo visto e che Noah mi avesse detto fosse vero.

    «Non lo so ma ne parlerò con il commissario per vedere se si sa qualcosa in proposito, intanto pensa a riprenderti, io andrò a Boreduopoli per discutere della questione con le autorità» concluse mio padre.

    Mi lasciarono da solo, disteso sul letto della mia stanza, in preda alle solite visoni che si facevano sempre più largo nel mare in tempesta della mia mente. Se da un lato mi dava da pensare, dall'altro non volevo più sentirlo nominare e speravo di dimenticarlo il più in fretta possibile, per poter tornare alla mia solita, strascicata e mediocre vita di sempre. Quel biglietto venne comservato come un cimelio prezioso che io avevo interpretato come una richiesta di aiuto silenziosa, la quale continuò a venirmi a disturbare il sonno.
Decisi di concentrare i miei sforzi negli allenamenti in vista del mio secondo incontro con i superquattro, dove Mirton sarebbe stato ancora il mio primo e complicato step. Avevo una gran paura di affrontare quella lotta, a causa delle sue parole che smuovevano le mie viscere e cozzavano con la mia coscienza. «"Con questo atteggiamento non andrai da nessuna parte"».
    
Una schiettezza disarmante che non riuscivo ad ignorare.Ero proprio ridotto male, ma i giorni passavano inesorabili e spietati, e presto mi dimenticai di quella tutto sommato cortese e regale espressione decisa, celata dietro una visione oscura, ma era il suo volto che si rifletteva come uno specchio di prima luce sul mio.

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Capitolo 7
*** Cap. 7 Sulla nave verso Alisopoli ***


Unima ...
mia terra ... lieve e soffice accoglie le stanche membra, ottimista e briosa guida con dolcezza materna per i sinuosi sentieri ove per sempre amerò perdermi, onesta e gentile mi conforta soffiando le lacrime; unica maternità che mi è stata concessa, perché solo tu sei stata leale con me nonostante tutto, malgrado il desiderio di amore soffocasse i miei pensieri più innocenti mutandoli in rabbia che sfuma sulle ferite. Colui o colei che ha scelto il tuo nome stava di sicuro pensando all'anima, perché si, tu sei l'anima della vita delle tue creature, la loro forza vitale, il mio sostegno ed è per te che mi sono sempre battuto e continuerò a farlo anche quando sarò imprigionato contro la mia volontà e torturato dai tuoi nemici affinché io ti tradisca; finché ci sarà vita in me mai accadrà, nessuno potrà privarmi dell'amore infinito che mi hai donato e della fedeltà nei tuoi confronti che custodirò in eterno.
   
    Riflettevo sulla mia esistenza, osservando le ombre della riviera al porto di Soffiolieve inchinarsi sulla tavolozza azzurra, adornata di vele bianche oscurate dall'ombra della motonave da crociera delle coste del sud di Unima.
Il mare tingeva il manto ondulato di rosso sotto la luce crepuscolare e i suoi cristalli di schiuma luccicavano come diamanti sulla costa frastagliata. Una moltitudine di bambini giocavano felici e inconsapevoli correndo tra gli attracchi del molo, e riuscivo a sentire anche da lontano il sussulto delle loro madri terrorizzate all'idea che potessero cadere in acqua. Ascoltare la voce di una madre che grida spaventata per la sorte di un figlio è la musica più bella in cui sovente mi perdevo per giornate intere; le mani strette dei padri, che quasi sul punto di stritolare quelle minuscole dei pargoli, preservando con coraggio l'anima dei loro doni più preziosi, mi fa rimpiangere di non essere mai diventato sordo o storpio per amore.
    Quando mi trovo innanzi a tali bellezze, chiudo gli occhi pensando che in quella mano stritolata o nel raggrinzimento improvviso provocato da quella voce preoccupata, potrei esserci io. Non saprò mai se ci fossi passato ma speravo un giorno di provare almeno per una volta, cosa significasse essere un figlio amato, prima di poter diventare un padre disposto ad amare.
    Mi chiamo Natural Harmonia Gropius e tutti ad Unima mi conoscono come N l'ex sovrano del Team Plasma. La mia storia è parecchio complicata e volevo fare un po' di chiarezza.
Raccolto ed adottato dal peggior criminale della storia di Unima, sono stato cresciuto con un'educazione regale e severa, per poter essere destinato come re alla successione della nobile casata degli Harmonia, di cui Ghecis Harmonia Groupius, il mio padre adottivo, è uno degli ultimi discendenti. Chiuso per quasi quindici anni all'interno della mia stanza, privato di ogni contatto umano per affinare la mia capacità di sentire le voci interiori dei Pokémon e probabilmente per tenere nascoste le mie vere origini, sono stato cresciuto inseguendo un sogno: liberare tutti i Pokémon dal malvagio giogo degli esseri umani, che mio padre mi aveva sempre descritto come elementi malvagi e sfruttatori di queste povere ed indifese creature.
Durante gli anni della mia reclusione in casa, non ho avuto nessun contatto umano, a parte le due ragazze che mi hanno cresciuto, affinché potessi mantenere un cuore puro ed uno spirito arricchito da un ideale di libertà: creare un mondo dove umani e Pokémon potessero vivere separati, per il bene di tutti. Una vera e propria follia quella di dividere due razze che coesistono da sempre e non possono fare a meno l'una dell'altra, perché congiunte da un legame naturale. Io per primo non riuscirei a separarmi da Zoroak.
Ogni giorno, Ghecis portava nella mia stanza, Pokémon feriti o sofferenti a causa dell'uomo, per struggermi l'essere ed alimentare l'astio verso i miei simili. Le notti insonni passate ad accudire quelle creature ferite, mi avevano consumato l'anima forzandomi a scardinare i miei ideali. Una volta adulto, avevo preso la decisione di aiutare mio padre a realizzare quel sogno, senza sapere che invece era lui che stava sfruttando me per realizzare il proprio: sottrarre i Pokémon alle persone affinché solo il Team Plasma potesse disporne per governare Unima.
Quando finalmente mi era stato concesso di uscire dalla mia stanza, avevo viaggiato per la regione, seguendo mio padre nella predicazione dei suoi ideali, che io appoggiavo perché ritenevo nobili. L'unico modo per raggiungere il nostro obbiettivo era quello di convincere quante più persone possibile - facendo leva sulla loro coscienza tanto da indurli a provare dei sensi di colpa - a liberare i Pokémon spontaneamente. Non tutti però erano disposti a separarsi dai loro compagni e per abbattere questa resistenza, il Team Plasma aveva iniziato a ricorrere a dei veri e prorpi furti. Quando ero divenuto campione della Lega, gli allenatori che venivano a sfidarmi per tentare di strapparmi il titolo in caso di sconfitta, come regola da noi imposts, dovevano lasciare i propri Pokémon.
Nessuno aveva il diritto di rinchiuderli nelle Pokéball o tenerli per sé quindi la soluzione, l'unica possibile era quella di provocare quella frattura. Dietro a tutta quella apparente benevolenza tuttavia, si nascondeva il falso profeta, il mostro che aveva dilaniato la mia vita, e quella della mia gente con l'inganno. Quello che io desideravo era la libertà dei Pokémon non comprendendo invece che essi amavano stare con i loro allenatori, proprio come Zoaroak ama stare con me.
Per aiutare mio padte nell'impresa, dovevo accumulare potere agli occhi della gente ed avere al mio fianco Pokémon potenti. Avevo risvegliato Zekrom dal suo sonno millenario presso la Torre Dragospira, utilizzando lo Scurolite sottratto dal museo di Zefiropoli, diventando l'eroe degli ideali. Avevo conquistato la Lega Pokémon come campione assoluto in modo da rendere la mia figura di re un simbolo in cui credere, affinché la gente mi vedesse come un esempio da seguire.   
Dopo il mio scontro con l'eroe della verità, il quale aveva risvegliato Reshiram dal Chiarolite - e mandato dalla popolazione per sconfiggermi - i miei ideali erano stati abbattuti e la verità mi aveva aperto gli occhi. Mio padre, la persona che più amavo e in cui per anni mi ero rifugiato alla ricerca di amore mi aveva tradito. A lui non importava nulla dei Pokémon e di me, il suo scopo era quello di ottenere un potere indiscusso. Quel giorno ero crollato, fuggito, scomparendo per due anni, ricercato dalla polizia.
Dopo quel lungo periodo del mio girovagare alla ricerca di me stesso, ero tornato per fermarlo, perché non aveva abbandonato il suo sogno di potere e si era rifatto vivo con un nuovo piano di conquista. Insieme all'eroe della verità, il ragazzo di nome Alcide che al fianco di Reshiram aveva sconfitto me e Zekrom in combattimento due anni or sono, avevo messo fine ai piani di conquista di Ghecis, il quale nel frattempo aveva sparso terrore ad Unima congelando le città ed i loro abitanti, servendosi del potere di Kyurem, il drago originario che domina il ghiaccio.
Una volta sconfitto il Team Plasma mi ero consegnato alla giustizia. Dopo essermi ripreso dalla battaglia in cui Ghecis aveva tentato di uccidermi per il mio tradimento, ero stato condannato a cinque anni per i crimini commessi. Avevo avuto una pena molto ridotta per la mia collaborazione con e per il fatto di essere stato considerato quasi al pari di una vittima, ma per motivi che non ho mai confidato a nessuno, dopo un anno di detenzione mi era stato concesso di scontare la pena presso il centro di recupero per Pokémon di Alisopoli.
Vi starete chiedendo allora che cosa ci faccio in giro per Unima invece di starmene al mio posto. Ho lasciato il rifugio perché ho una missione, che come la voce delle sirene per i marinai è un richiamo irresistibile e non riesco ad ignorarlo, e sono disposto a portarla a termine anche al costo della mia libertà o della mia vita. Scappo continuamente dalle mie paure ma non si può fuggire in eterno, quanto piuttosto continuare a correre verso qualcosa che però sembra scivolarmi incessantemente tra le dita.
    Dopo il mio modesto pranzo in compagnia del mio soccorritore preferito che a malincuore avevo dovuto abbandonare, ero rimasto a corto di soldi. Offrirgli il pasto era il minimo per sdebitarmi per tutto quello che aveva fatto per me. Andai alla ricerca di lavoro, - arrancando a fatica dopo quel giorno terribile all'ex deposito - in lungo ed in largo per la regione visitando aziende e privati, sperando che a qualcuno servissero le mie competenze informatiche, ma non avevo avuto molta fortuna. Lavoravo in nero e la cosa non mi aiutava ed in più dovevo stare attento a non farmi riconoscere a causa della segnalazione fatta dal capitano Evan. In passato avevo fatto il cameriere ed avevo un po' di esperienza nel settore, ma col braccio in quelle condizioni nessuno mi avrebbe fatto lavorare.
Dopo la mia sfortunata (o fortunata) visita alla mia città natale Forteverdepoli, avevo preferito spaziare verso orizzonti più lontani. Avevo una spalla fuori uso e grossi lividi su tutto il corpo dopo gli scontri con il Team Plasma. Le ferite erano quasi guarite ma avevo bisogno di un posto sicuro in cui riprendermi in tranquillità, così avevo preso la decisione di ritornare momentaneamente ad Alisopoli, l'unico posto in cui non avrei dovuto nascondermi. Non mangiavo decentemente da quattro giorni ed ero andato avanti nutrendomi di frutta, bacche e radici che per fortuna conosco bene; iniziavo a sentire però la debolezza per la mancanza di proteine. 
    Avevo saputo che sulla motonave da crociera Regina dei Mari, in transito dal porto di Soffiolieve, cercavano una figura con competenze informatiche ed elettroniche, così, spinto dalla fame e dalla voglia di riposo, ero andato dal comandante supplicandolo di prendermi a bordo fino allo scalo di Alisopoli, in cambio dei miei servigi. Il comandante, forse vedendomi in difficoltà, aveva accettato senza null'altro chiedermi se non il mio nome e questo era stato davvero grandioso, un colpo di fortuna. Non mi avrebbe pagato granché ma almeno sarei potuto andare avanti giusto il tempo di arrivare ad Alisopoli.
    Finalmente m'inerpicai  su quella scaletta, sostenendomi con il braccio buono e mentre salivo, sentii alcuni ragazzi dietro di me parlare delle leggende di Unima. La cosa mi incuriosì parecchio.
Discutevano proprio di Reshiram e di Zekrom, i due draghi che in origine erano stati scoperti sottoforma di pietre dette chiarolite e Scurolite, nelle profondità del Castello Sepolto, un'antica struttura sotto il livello del Deserto della Quiete e su cui molte persone assetate di potere, tra cui il Team Plasma, avevano tentato in passato di mettere le mani, iniziando guerre e creando scompiglio in quella meravigliosa e florida terra. Si dice anche che i due draghi considerati leggendari, fossero all'origine della creazione di Unima e per questo motivo ne erano considerati tutt'oggi i protettori. Mi venne da sorridere e per come ne parlavano si capiva che non fosse gente appassionata.
    Giunto quasi in cima alla scaletta senza nemmeno rendermene conto, mi ero fermato bloccando la fila, incuriosito dal loro parlottare a ruota, così si scontrarono con me.
Mortificato cercai di scusarmi.  
«Perdonatemi ragazzi, ero sovrappensiero e mi sono fermato. Sono desolato».
    Alzarono gli occhi e mi sorrisero, imbarazzati, ridendo tra di loro. Non gli avrei dato più di sedici anni ciascuno ed ognuno di loro portava un Pokémon con sé.

    «Non preoccuparti, è colpa nostra; eravamo così ansiosi di salire a bordo che non abbiamo badato a nient'altro» disse quello più alto, seguito dalla ragazza e dall'altro suo amico.

    Spinti dalla calca di persone dietro di noi che si erano spazientite, completammo insieme la scalata e giungemmo a bordo. Una volta sul ponte ci furono le presentazioni.

    «Io sono Liam e sono un allenatore di Pokémon e lui è il mio compagno Raichu».

    Liam era un ragazzo di sedici anni dagli ispidi e sempre spettinati capelli castani e profondi occhi corvini. Mi raccontò che viaggiava da cinque anni e che avesse visitato molte regioni per realizzare il proprio sogno di trionfare almeno una volta alla Lega Pokémon. Quell'anno ad Unima era arrivato tra i primi quindici ma malgrado non fosse ancora riuscito nel suo intento, aveva un atteggiamento determinato ed ansioso di imparare. Il suo Raichu era un Pokémon di altissimo livello e lo affiancava da molto tempo. Ogni qualvolta parlava del proprio sogno, i suoi occhi si accendevano come fari nella tempesta e con il suo temperamento era capace di inondare di ottimismo anche le coste più aride, in cui il sole batteva per tutto il giorno fino a sgretolarle. Raichu sprizzava energia elettrica da tutti i pori, le sue guance si contraevano di orgoglio ogni volta che il suo allenatore parlava di lui. Era una coppia molto affiatata e anche se non me lo avessero raccontato, sarebbe stato evidente perché i pensieri di Raichu parlavano da sé.

    «Che bel Pokémon Liam ... » mi complimentai con un elogio sincero e che mi veniva dal profondo del cuore. «È un nativo della regione di Kanto se non sbaglio».

    «Esatto, io vengo da lì. Sono in viaggio e loro sono gli amici che mi affiancano».

    La ragazza fece un passo avanti per presentarsi. «Io mi chiamo Akiko e vengo da Jotho, mentre Gareth, che sarebbe lui ...» cantilenò indicando l'altro ragazzo, «è originario di Unima».

    «Grazie per avermi presentato Akiko» intervenne l'interpellato tentando di porgermi la mano ma io non ricambiai la stretta.
   
    Salutai nel modo che mi rispecchiava di più: chinai il capo portandomi una mano al petto.

«Molto piacere ...» rispose il ragazzo biondo «lui è il mio Pokémon Leavanny».

    Gareth non sembrò offeso dal mio gesto. Era il più grande del gruppo. Aveva diciotto anni ed il suo sogno era quello di diventare un allevatore di Pokémon specializzato nella cura delle uova. Scoprii in seguito che nello zaino portava un'incubatrice con uovo che accudiva costantemente e teneva al caldo, appuntando nel suo blocchetto ogni passaggio delle sue cure ed ogni osservazione sui cambiamenti che notava. Era molto serio e meticoloso mentre Liam ... beh, si vedeva che fosse ancora un ragazzino desideroso di tuffarsi nelle avventure più di ogni altra cosa al mondo, esponendo sempre ad alta voce le sue emozioni, il che faceva costantemente arrossire i suoi compagni di viaggio, i quali comunque non smettevano mai di sorridere. Mi piacevano molto.
Il Pokémon di Gareth, Leavanny, era un esemplare davvero fuori dal comune, molto più alto di lui. Arrivava quasi alla mia altezza e per un Leavanny era tanto. Possedeva un'energia interiore che come un' onda a cerchi concentrici veniva fuori dalle sue foglie sempre lucide e ben curate; aiutava il suo allenatore a prendersi cura dell'uovo.
    «Piacere di conoscervi ragazzi, il mio nome è Noah».

    «Ciao Noah, il piacere è tutto nostro» risposero quasi in coro. Sorrisi.
   
    Akiko invece era una ragazza sui quindici anni, dai lunghi e folti capelli neri ed una carnagione olivastra che spiccava su un viso affusolato ma dolce e che incorniciava degli splendidi occhi verde scuro. La sua famiglia era originaria di Ebanopoli, nota anche come Villaggio dei Draghi che è situato in una valle nella parte nord orientale della regione di Jotho. Aveva iniziato il suo viaggio per diventare allenatrice specializzata nei Pokémon drago, dato che nel suo paese il tipo più allevato era proprio il tipo drago; qualche anno dopo, la sua famiglia si era trasferita qui, fondando il villaggio satellite omonimo a nord di Unima, perché suo padre voleva studiare i Pokémon drago di questa regione. Unima infatti è la terra dei Draghi e ce ne sono moltissimi. Lei non competeva nei tornei delle leghe ufficiali regionali, perché il suo sogno era quella di estendere la sua esperienza qui come esperta di Pokémon drago, una bella sfida, infatti i Pokémon di tipo drago sono difficili da allevare. Mi presentò il suo draghetto, che aveva ricevuto in dono dai genitori per la sua iniziazione, prima di partire per il suo viaggio di formazione.

    «Questo è il mio Pokémon, sia chiama Deino» mi informò molto entusiasta, con lo sguardo ammaliato e le gote tinte di un tenue rosato. Oserei dire che per tutto il tempo che passammo insieme sulla nave, non mi avesse mai staccato gli occhi di dosso e questo mi aveva messo un po' in imbarazzo. Non lo faceva apposta, forse non se ne accorgeva nemmeno e quando le sorridevo, le sue guance si irroravano ancora di più e distoglieva lo sguardo imbarazzata. Devo ammettere che per essere solo una ragazzina, era davvero bella e attraente fisicamente, ma sarebbe stato molto più pertinente se avesse rivolto le attenzioni al suo compagno di viaggio Liam, il quale invece sembrava innamorato soltanto del proprio indistruttibile sogno.
Gareth dal canto suo, con quei capelli biondi e tirati elegantemente all'indietro, dava l'impressione di un tipo serio e tutto d'un pezzo e spesso si ritrovava a mettere d'accordo i due ragazzini che, presi dalla loro voglia di spaccare il mondo intero, si perdevano in azioni spesso esagerate ed avventate, come la voglia di lottare giorno e notte di Liam e quella di fare continuamente shopping di Akiko, anche se non vi era nulla di utile da acquistare.

    «Che cosa hai fatto alla spalla?» mi chiese Gareth incuriosito dal tutore che portavo e dalla sofferenza per le sollecitazioni che lo spostarmi per la nave, o il sedermi o qualsiasi altro movimento quotidiano mi provocava.

    «Oh questo? Sono scivolato su un sentiero che stavo percorrendo e mi sono slogato la spalla, non è niente di grave».
    Ecco che ricominciava la farsa. A dire il vero le mie ombre comparivano non appena dicevo di chiamarmi Noah e mi resi conto che la mia vita dal giorno in cui avevo lasciato il rifugio, non sarebbe stata semplice da gestire. In realtà cercavo una persona ed indagavo molto facendo domande agli sconosciuti che incontravo, per capire se tra loro ci fosse quella giusta per me ma non fraintendetemi, non sono alla ricerca di una fidanzata o almeno non è la mia priorità.

    «Una lussazione è una cosa seria» sentenziò Gareth focalizzando la fasciatura. «Sei diretto ad Austropoli?»

    «Oh no, farò scalo a Zondopoli per ...»
Mi bloccai per non farmi scappare altre informazioni e improvvisamente pensai che fosse meglio tagliare corto. « ...potete scusarmi per adesso? Vado a sistemarmi nella mia cabina, ci si vede in giro».
    In realtà avevo anche una buona scusa per andare: dovevo defilarmi per presentarmi dal comandante ed iniziare il mio lavoro, ma Liam mi fermò per chiedermi una cosa. 

    «Aspetta Noah, che cosa ne dici di stare insieme a cena?»

    «Non saprei ... io ...»
    Ero indeciso se dare altre informazioni su di me ma dopo l'invito a cenare con loro, avendo scoperto che Akiko era anche una cuoca appassionata che aveva preparato casualmente il mio piatto preferito - carne speziata con riso basmati aromatizzato con spezie e contornato di verdure di stagione - mi fece venire l'acquolina in bocca. Visto che ero praticamente a digiuno da quattro giorni e che il ristorante a bordo era costoso, accettai di buon grado di unirmi a loro quella sera. Mi videro un po' esitante all'inizio perché avevo timore di stare in mezzo alla gente. Pensai tuttavia che se dovevo trovare una determinata persona, sarei dovuto stare con le persone e così alla fine accettai l'invito.
Li salutai momentaneamente e dopo essermi presentato dal comandante, egli mi fece vedere la cabina dove avrei alloggiato, una di quelle riservate ai membri dell'equipaggio. Non erano granché come stanze da letto ma per me andavano più che bene dato che non avrei dovuto pagare. Dopo aver affiancato il comandante e i suoi ufficiali per una ventina di minuti, raggiunsi i ragazzi presso una sala molto grande con tanti tavoli, ed una spaziosa cucina attrezzata, in cui i passeggeri che non avevano acquistato la pensione completa, potevano cucinare e gestire in autonomia. Ero in ritardo di ventiquattro minuti ed Akiko aveva già cominciato a spadellare le sue prelibatezze.

    «Scusate per il ritardo ma ho dovuto conferire con il comandante».

    «Non preoccuparti Noah, arrivi giusto in tempo».

    Akiko mi indicò il mio posto invitandomi ad accomodarmi. Il profumo che veniva da quella sala era così inebriante che la mia salivazione incontrollata per la gran fame mi impastava la bocca, mentre i crampi mi facevano contorcere l'intestino assalito invano dai succhi gastrici.

    «Ti senti bene Noah?»

    «Oh sì Gareth ... è che in realtà ho dovuto lavorare prima di venire a cena».

    «Che lavoro fai?»

    «Sono un tecnico informatico e la nave stava ricercando una figura come la mia prima di prendere il largo. Mi occupo della manutenzione dei sistemi informatici della nave, non sono salito a bordo per fare una vacanza».

    «Ah capisco ... beh ... sarai affamato, quindi direi di onorare la mensa prima che tutto si raffreddi».

    Inizia a gustare quel tripudio di sapori che mi fecero dimenticare ogni cosa, il mio palato esultava di gioia ad ogni boccone e poco alla volta il mio stomaco ebbe la pace. Non mangiavo così bene da settimane e riempii di complimenti quella piccola ma stupenda cuoca, emozionata all'idea che la sua cucina fosse così apprezzata da tutti e soprattutto dal sottoscritto e sperai egoisticamente che mi invitassero per i ricevimenti successivi. Non so se mi spingesse più il fatto di dover indagare a voler stare in loro compagnia, oppure l'idea di poter soddisfare il palato in quel modo. Mi resi conto che la fame gioca dei gran brutti scherzi ma mi trovavo spesso in queste situazioni, quindi c'ero abituato.
    Dopo aver assecondato il mio bisogno primario, li interrogai un po'.
    «E voi dove siete diretti? È da tanto tempo che viaggiate insieme?»

    «Solo da settembre dell'anno scorso in realtà» prese la parola Garet; «ci siamo ritrovati tutti e tre alla palestra di Levantopoli in cui Liam ha conquistato la sua prima medaglia. Ho osservato la sua lotta mentre sorseggiavo un buon caffè e sono rimasto lì per tutto il tempo a godermi lo spettacolo».

    Gareth aveva conosciuto Liam e Akiko a Levantopoli dove sorgeva da pochi anni una delle palestre ufficiali della Lega Pokémon. La palestra di Levantolpoli, gestita da tre fratelli capipalestra era anche un raffinato ristorante. Potevi andare lì per mangiare e subito dopo sfidare i fratelli per ottenere la medaglia tris, battendo almeno uno dei tre.

    «Circa a metà incontro entrò Akiko» continuò Gareth. «La vidi guardarsi intorno alla ricerca di un tavolo ma considerato che erano tutti occupati, la invitai a sedersi accanto a me e così facemmo amicizia. Iniziammo a commentare la lotta di Liam e quando finalmente dopo una estenuante combattimento ottenne la medaglia, la sala balzò in piedi per complimentarsi con lui. Lo invitammo a sederci al nostro tavolo e pranzammo insieme e da quel giorno non ci siamo più separati. Lo abbiamo accompagnato fino alla Conferenza di Unima e adesso siamo arrivati alla fine del nostro viaggio».

    «Ah ... quindi andrete via da Unima?»

    «Certo che si!»

    Il tono deciso di Liam con la solita luce che contraddistingueva le iridi confuse con le pupille, scosse i miei pensieri. Anche se scuri, quegli specchi riflettevano i suoi desideri più profondi e agognati ed era una grande gioia osservarli brillare. Tuttavia se stavano per andare via, non poteva esserci tra loro la persona che cercavo.
Balzò in piedi sulla sedia senza inibizioni, promulgando con enfasi che il suo sogno non si sarebbe mai fermato, mentre tutti i commensali fuori dal nostro tavolo si ammutolirono e si girarono verso di noi. Sorrisi molto divertito nel vedere quella gioia in quegli occhi così determinati. Akiko e Gareth che già lo conoscevano da quasi un anno, lo riportarono letteralmente con i piedi per terra, soprattutto Akiko che non sopportava la sua irruenza e diventava rossa per l'imbarazzo che inconsapevolmente Liam provocava nei suoi amici. Ma lui era così e non ci faceva caso, nessuno poteva ostacolare il suo sogno, nemmeno la timidezza.

    «Prima però andremo a visitare il Castello Sepolto» aggiunse lei dopo aver svuotato il suo bicchiere d'acqua.

    Il Castello Sepolto ... luogo primordiale della creazione di Unima, culla delle nostra civiltà e rovina dei nostri tempi. Quel luogo ormai diventato uno spettro che emergeva in sella alle tempeste di sabbia del deserto, rimaneva per me una ferita ancora aperta. Era lì che tutto aveva avuto inizio tantissimi anni fa, quello era il luogo che mi aveva incatenato al mio destino. Tanti erano i visitatori che per turismo amavano addentrarsi nei meandri diroccati e crollati su se stessi - anche se l'accesso è tuttora vietato - di quello che una volta era la splendida dimora dell'antico Re fondatore di Unima, in cui la sua discendenza aveva dato vita agli spiriti leggendari e creatori: i draghi di cui io ero la guida.
    Quella sera lasciai il gruppo, pensieroso, con la consapevolezza che anche quell'amicizia non potesse continuare. Mi ritirai nella mia cabina non prima di aver ammirato le stelle che finalmente facevano capolino indiamantando la volta del firmamento, come una cascata luminescente che scorre sopra l'elegante scafo della Regina dei Mari, sovrana di tutte le imbarcazioni, la quale giorno e notte solca le scie imbiancate delle onde tra le tempeste. Le luci del porto erano ormai lontane, così come il punto di partenza della mia vita a cui ormai non sarei mai più potuto tornare, sempre che lo sia stato davvero ... l'origine. Ero tornato libero, per quanto mi fosse concesso dalla mia condizione di fuggitivo e avevo imparato a considerare il viaggio stesso come la meta, per riuscire ad assaporare, anche se con difficoltà ed in solitudine, la vita che mie era stata donata e che nella consapevolezza della passione o della disperazione della mia umanità distorta, avevo gettato via. I segni sulle mie braccia mi ricordavano che se anche accadono cose terribili, la vita merita di essere vissuta in pienezza e da quelle maledette ultime settimane in carcere, il mio desiderio era quello di rinascere come un bocciolo che deve ancora schiudersi nel meraviglioso albero della mia vita.
Non appena poggiai la testa sul cuscino in gommapiuma e avvolsi il mio braccio ferito nelle fresche lenzuola bianche di cotone, la foschia della notte che faticava ad entrare dal minuscolo boccaporto, mi avvolse in un abbraccio di speranza, cullando l'anima e afferrando il cuore come in un ratto d'amore e follia. Sognai a lungo in un sonno agitato da spasmi di timore, sognai colui che mi aveva cresciuto, sognai l'inganno del tempo, l'incertezza dell'esistenza, sognai la falsa ricchezza dell'avidità, mi contorsi nel sudore e nell'umidità dei pori senza che un filo di brezza marina riuscisse a sfiorarmi la pelle in quel caldo soffocante che sapeva di metallo.
    Un suono grave e molto lungo mi fece trasalire, così come i colpi di manganello battuti con violenza sulle sbarre della cella per svegliare quella parte di umanità dimenticata dagli uomini e dalle donne per bene. Un rumore metallico, freddo, ostile. Non ero in prigione, non ero braccato, non in quel momento almeno. Ripresi fiato. Stirai istintivamente le braccia dimenticandomi di essere infortunato e il mio lamento si alternò con la sirena della nave, che si avvicinava allo scalo passeggeri dell'arcipelago a largo di Soffiolieve. La mia giornata stava per ricominciare ma era ancora presto per montare il turno di lavoro e così dopo essermi rimesso con immane fatica la maglietta attraverso il tutore - quel tutore che più osservavo e più mi ricordava la nostalgia di non avere una bella famiglia in cui rifugiarmi nei momenti più cupi dell'esistenza - mi recai al ponte superiore per andare a fare colazione, dimenticandomi che non l'avevo compresa nel biglietto che non avevo mai pagato. Non appena uscito dalla cabina, incrociai un macchinista con cui avevo scambiato qualche parola durante il mio breve turno di lavoro in sala macchine la sera prima, che mi invitò a fare colazione con i suoi colleghi. Credevo che mi stesse proponendo una consumazione al bar e stavo per declinare l'invito pensando di non potermi pagare nemmeno un caffè. Non sapevo quando avrei ricevuto il mio compenso e avrei dovuto temporeggiare, ma quando anche se sei una persona in fuga da ogni dove, hai rivolto almeno un sorriso sincero a qualcuno nella tua vita, quel qualcuno viene da te per ricambiare. Mi accompagnò nella saletta adiacente a quella dove lavorava e dove si riunirono altri membri dell'equipaggio; vidi il tavolo in ferro verniciato di bianco con pittura industriale adatta agli interni delle navi, imbandito di ogni sorta di colazione dolce e salata. Rimasi stupito quando mi dissero senza esitazione di unirmi a loro, peraltro senza pretendere nulla in cambio. Era la mia prima colazione a bordo di quella maestosa nave e non ero al corrente del grande spirito di collaborazione che intercorreva tra persone che svolgevano un lavoro molto duro. Gli uomini e le donne che lavorano sulle navi, stanno fuori per molto tempo, lontano dai propria cari e quindi per loro è importante vivere questi momenti di convivialità, fondamentali per reggere il peso di quella vita. Anche questa era famiglia del resto.
    Dopo aver fatto colazione ci mettemmo a lavoro, ognuno col proprio ruolo. Io risalì in cabina di pilotaggio e mi misi a disposizione degli ufficiali, passando tutta la mattina a monitorare le attrezzature di bordo e a correggerne le anomalie. Pensavo che fosse un bel lavoro in fondo e che avrei potuto fare davvero per vivere se non fosse per quel piccolo particolare che lo rendeva impossibile. Pazienza.
    Verso mezzogiorno potei uscire per la pausa pranzo e mi recai sul ponte principale per rilassarmi ed incontrai di nuovo i ragazzi. I loro Pokémon quando mi videro mi corsero incontro. Vidi Raiuchu e Deino balzare verso di me in un danza spericolata e gioiosa mentre si inseguivano stuzzicandosi a vicenda, ma furono subito richiamati dai rispettivi allenatori, per paura che potessero farmi male al braccio.

    «Raichu! Deino! Non è questo il modo di comportarsi con le persone e poi non vedete che Noah ha il braccio infortunato?»

    In altre circostanze avrei aperto le braccia ed accolto quelle creature divine per sentirne il calore, ma anche se Deino era piccoletto e con meno di un anno di vita, Raiuchu era abbastanza grosso e fui grato che Liam ed Akiko li richiamarono prima che potessero saltarmi addosso. Mi avvicinai ai loro musetti intristiti dal rimprovero per consolarli, accarezzando la folta pelliccia blu di Deino ed il morbido pelo corto e arancione di Raichu. La sua lunga coda a forma di saetta scintillò per la contentezza, muovendosi in tutte le direzioni e spargendo dorate ed innocue scintille nell'aria.

    «Buongiorno ragazzi, avete dormito bene?» Chiesi sollevandomi dalla mia posizione accovacciata e andandogli incontro.

    «Insomma» piagnucolò Gareth con il volto sbiancato, dello stesso colore che ha la mia pelle in situazioni normali. «Non ricordavo di soffrire in questo modo il mal di mare, è stata una notte terribile».

    Anche se la nave era grande, le vibrazioni si facevano sentire, soprattutto quella notte in cui il mare era stato un po' agitato per poi ritornare piatto la mattina presto.

    «Mi dispiace Gareth ... spero che la prossima notte andrà meglio visto che avete davanti ancora due giorni di navigazione».

    «Ti prego non ricordarmelo Noah, non prenderò mai più una nave in vita mia!» esclamò trattenendo un conato di vomito ed il suo viso virò dal pallido al verdino.
A quanto pare non ero stato l'unico a passare una brutta notte mentre gli altri due non sembravano affatto stanchi, probabilmente avevano dormito delle grossa.

    «Sembra proprio che i Pokémon ti adorino» esordì Akiko mentre li osservava felici volteggiarmi intorno.

    «In realtà è il contrario» precisai   
    «sono io che adoro loro».
    Gareth e Leavanny mi fissavano, mentre con molta naturalezza guardavo intensamente i Pokémon, senza sapere che invece stavo parlando ai loro cuori.
Passeggiammo lungo il ponte principale verso poppa, discutendo animatamente della breve esercitazione di salvataggio fatta la sera prima. Al solo sentire tutti i potenziali disastri che potevano accadere su una nave come quella  - incendio, guasto all'impianto elettrico, collisione e nel peggiore dei casi anche inabissamento - Akiko si era davvero agitata.

    «Non voglio nemmeno pensare che possano succedere queste cose!»

    Un brivido evidenziato dalla pelle d'oca, percosse la sua pelle liscia e colorita.
Lo aveva detto con voce tremante ed io le avevo poggiato una mano sulla spalla per rassicurarla.

    «Sta tranquilla. Con le tecnologie all'avanguardia è davvero difficile che accada qualcosa del genere, le navi sono dotate di sistemi di sicurezza molto sofisticati. Sono rimasto tutta la mattina a controllare che non ci fossero guasti ai sistemi, quindi devi puoi stare serena». 
    Alle mie parole si era tranquillizzata e non capivo se fosse perché si fidava della mia maturità o perché fosse attratta da me. La cosa mi faceva sorridere. Mi piaceva vedere le sue gote olivastre irrorarsi di quel rosso di cui faticavano a tingersi a causa della pelle scura. Ovviamente il mio affetto nei suoi confronti, così come verso gli altri era amichevole e fine a se stesso, non avrei mai potuto approfittare dei sentimenti di una ragazzina molto più piccola di me.
    Passammo davanti alle scialuppe ripetendo a memoria tutto quello che il personale di bordo ci aveva spiegato, commentando ironicamente il modo in cui le avrebbero calate in mare in una situazione di emergenza. Ne uscì fuori anche qualche battuta divertente ed una buffa simulazione. Fu molto rigenerante e quando arrivammo in fondo, dove si estendeva una bellissima piscina rivestita di mattonelle azzurre e blu e ci sistemammo sulle sdraio.
I ragazzi si misero in costume e invitarono anche me a bagnarmi ma io dovetti rifiutare perché "non lo avevo previsto dato che ero lì per lavoro". Trovai questa scusa e rimasi all'ombra ad osservarli. Akiko come una sirena ben proporzionata si tuffò leggiadra e fece capolino dall'acqua e ancora una volta mi invitò per il pranzo.

    «Allora, ti unisci a noi anche oggi?» mi chiese posando il mento sulle mani appoggiate a bordo piscina.
   
    Chissà perché me lo aspettavo. Tuttavia mi sembrava davvero poco carino approfittare della loro spontanea gentilezza, quando invece era l'unico modo per poter mangiare.

    «Non voglio che vi disturbiate per me, pranzerò per conto mio».
    Fui assalito da uno sguardo dolce e penetrante, gli occhi verdi di Akiko mi fulminarono piacevolmente. Non seppi resistere. Quelle gemme luccicanti come il mare nell'acqua bassa delle spiagge dorate, mi fecero tornare in mente le esperienze da adolescente del mio passato. I primi amori. Presi un bel respiro e scacciai quei ricordi che non erano altro che tristi; pensai che dovendo rimanere su quella nave ancora per qualche giorno, forse sarebbe stato meglio comportarsi normalmente e senza operare misteri, per evitare di attirare troppo l'attenzione su di me, così ringraziai portando la mano sana al petto e accettai l'invito.
    Verso l'ora di punta i ragazzi uscirono dall'acqua per asciugarsi prima di andare in cucina. Akiko si distese sulla sdraio e indossò gli occhiali da sole, poi iniziò ad interrogarmi.

    «Sei un allenatore?»

    In un mondo dove un'altissima percentuale di persone possiede almeno un Pokémon al pari di un animale domestico, la domanda era più che legittima.

    «No, le lotte non mi interessano in realtà» risposi calmo.

    «Quindi non hai nessun Pokémon?»

    «No».
    Incredibile con quanta naturalezza ero diventato capace di dire bugie. Che grande squarcio di sofferenza si apriva dentro di me, senza avere nessuno che provasse a guarire quella ferita.

    «Strano» commentò Gareth che prese ad osservarmi meglio «a giudicare da come ti rapporti con i Pokémon, non ci avrei mai scommesso».

    E come dargli torto?
    «Ci sono diversi modi di sviluppare il proprio rapporto con codeste creature al di là della lotta. Faccio il tecnico informatico; giro per la regione per portare assistenza alle aziende che lo richiedono, quindi non ho tempo di dedicarmi alle competizioni».

    «Io avrei scommesso che fossi un allenatore ... mi sono sbagliato allora».

    Sospettavo che Gareth, il quale più di tutti s'intendeva di rapporti tra allenatori e Pokémon per la sua natura di allevatore, non credeva del tutto alle mie parole. Se lui era di Unima poi, la paura che potesse riconoscermi era così grande che evitavo un contatto visivo prolungato con lui, ma l'argomento per fortuna non venne mai più ripreso. Mi ero definitivamente convinto che tra loro non ci fosse la persona che stavo cercando, perché erano intenzionati a lasciare Unima. Colui o colei a cui avrei riservato tutta la mia attenzione, doveva essere una persona legata a questa terra, a cui sta a particolarmente a cuore la vita altrui e con un grande conflitto interiore di ideali che non riesce a risolvere. Loro non erano i candidati ideali e la mia fortuna era che sarebbero scesi al porto di Austropoli e non ci saremmo mai più rivisti.

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Capitolo 8
*** Cap. 8 Attacco alla nave! ***


Il viaggio proseguiva tranquillo ed eravamo circa a metà strada dal grosso scalo portuale della capitale; dopo esserci lasciati le isole alle spalle ci ritrovammo in mare aperto e la costa scomparve alla vista. Il sole delle idi del mattino faceva rispendere le increspature della scia bianca e spumosa della Regina, ed il suo mantello scolpiva sul mare un lungo tappeto bianco in attesa del suo sposo.
Mentre ci sistemavamo per andare a pranzare, il comandante della nave si avvicinò a noi per informarci che a partire dalle 16:00 presso il ponte di prua, si sarebbe tenuta una gara Pokémon dimostrativa, un tipo di competizione che ha avuto origine nella regione di Hoenn fino ad espandersi a Sinnoh e Kanto. I coordinatori – ovvero i partecipanti alla competizione - viaggiano per le città e fanno esibire i loro Pokémon con delle tecniche artistiche e combinate, al fine di mettere in mostra le loro abilità, dando priorità allo stile piuttosto che alla lotta. In questo tipo di gare dunque, si distingue chi lotta con stile.
Il comandante mi salutò e mi disse che avrei dovuto prestare assistenza al service per la gara.
Akiko sembrava molto eccitata per la notizia, anche Liam non era da meno perché avendo viaggiato in altre regioni conosceva questo tipo di competizione, mentre Gareth non aveva mai assistito ad una gara del genere.

    «Come mai si fa una gara proprio nella regione di Unima?» Chiese Liam incuriosito dato che in quella regione non esistevano.

    «Perché il comitato delle gare di Hoenn, così come ha fatto per Kanto e per Sinnoh, vuole introdurre e diffondere anche qui questa particolare forma di competizione, in modo da poter fondare un comitato locale che si occupi di realizzarle; prima di fare questo però, l'iniziativa va pubblicizzata e fatta conoscere sul territorio perché non tutti sanno cosa sia una gara Pokémon».

    «A mio pare è un'iniziativa splendida, avrò l'occasione di vederne una dal vivo finalmente,» disse emozionato Gareth.

    Il comandante invitò i ragazzi a partecipare dicendo che ci sarebbe stata anche una sezione dedicata ai coordinatori principianti. Liam e Akiko colsero al volo l'occasione e corsero ad iscriversi, trascinando anche il povero Gareth che avrebbe voluto soltanto rilassarsi e godersi il mare e lo spettacolo. Dopo che il comandante si congedò da noi, due persone in abiti formali si avvicinarono presentandosi come membri del comitato gare. Di giovane aspetto, l'uomo aveva i capelli rossi e molto corti, indossava un paio di occhiali scuri che non lasciavano intravedere gli occhi. Portava con una certa classe pantaloni lunghi rossi e formali, con camicia tono su tono. La donna invece aveva dei capelli lunghi e biondo cenere, raccolti in un ordinato chignon. Aveva grandi occhiali da sole con i vetri marroni e degli stivali, gonna a fantasia attillata al ginocchio ed una camicia fucsia unica tinta, abbinata ai decori della gonna. I due ci proposero di consegnare i nostri i Pokémon a loro per sottoporli ad un trattamento rilassante e ricostituente prima della gara, informandoci che a bordo il comitato aveva fatto installare un piccolo centro benessere proprio per le simpatiche creature. Le espressioni scettiche dei miei compagni di viaggio furono rassicurate dal sorriso raggiante di quei due signori, che offrirono ai Pokémon delle deliziose bacche.
   
    «Dimenticavamo di dirvi che già tanti Pokémon si trovano lì e si stanno divertendo. Abbiamo tante altre bacche squisite per tutti i gusti» precisò la donna ammiccando ed alzando gli occhiali sulla testa.

    Accettarono di consegnare i Pokémon, i quali avrebbero anche pranzato tutti insieme in questa sala relax costruita appositamente per loro.
    Dopo pranzo mi separai dal gruppo per andare a cambiarmi la maglietta dopodiché mi sarei recato in postazione per l'inizio del torneo. Uscii dalla cabina e tornando verso il ponte principale vidi tutti gli allenatori che avevano affidato i loro compagni al comitato organizzatore, recarsi alla ricerca del centro benessere per recuperare i Pokémon per l'inizio della gara e tornare seccati per non averlo trovato. Sentii discutere un gruppo di loro con alcuni ufficiali di bordo e con il presidente dell'associazione per avere spiegazioni di dove i Pokémon fossero stati portati, ma nessuno seppe dargliene. Con grande sorpresa gli allenatori scoprirono anche che il comitato organizzatore, non sapeva nulla dell'iniziativa e rimasero stupiti.

    «Sono davvero desolato, devono avervi imbrogliati» rispose loro il presidente alquanto imbarazzato.

    Tutti Pokémon erano spariti, così, visto che mancava ancora mezz'ora per montare in postazione andai a fare una perlustrazione della nave in cerca di indizi. Mi misi in ascolto per captare le voci dei Pokémon scomparsi mentre l'equipaggio setacciava la nave in lungo ed in largo senza però trovare nulla. Percorrendo uno dei corridoi laterali ai piani inferiori sfiorati dall'acqua, sentii dei rumori provenire dalla stiva. Erano dei Pokémon che chiedevano aiuto e riconobbi anche le voci di quelli dei miei amici, così mi avvicinai al boccaporto da dove arrivavano le invocazioni, girai la maniglia a forma di ruota nautica ed entrai. Vidi i due del comitato che avevano preso i Pokémon per portarli al centro benessere e mi avvicinai, ma nessuno dei Pokémon si trovava a vista. Li sentivo ma non li vedevo.

    «Buongiorno, scusate l'intrusione» dissi gentilmente quando arrivai alle loro spalle.

    I due si girarono intimoriti, come colti di sorpresa.

    «Che cosa ci fai tu qui?» mi chiese la ragazza che si era appena sciolta i capelli.

    «Gli allenatori vi stanno cercando perché il torneo sta per iniziare e si chiedevano dove fossero finiti i loro Pokémon».

    «Li abbiamo lasciati ai nostri colleghi che stanno per riportarli sul ponte, noi abbiamo terminato il nostro turno. Adesso se vuoi scusarci, abbiamo del lavoro da fare qui».

    Il signore con il cappello mi invitò ad andare fuori e mi avviai verso l'uscita. Girato l'angolo chiusi il boccaporto per fare rumore ma rimasi all'interno e mi avvicinai di nuovo di soppiatto, quando fui sorpreso alle spalle da un Pokémon d'erba che mi intrappolò in una rete fatta da lui. Mi dimenai per tentare di liberarmi ma più ci provavo, più il Pokémon serrava le maglie e a causa del dolore alla spalla mi arresi.

    «Perché sei venuto a ficcare il naso nei nostri affari?» mi chiese l'uomo del finto comitato avanzando verso di me con le mani ai fianchi, mentre io bloccato in ogni movimento cercavo di allentare la tensione delle liane d'erba.

    «Che cosa state facendo con i Pokémon di quegli allenatori?»

    «Non ti si può nascondere nulla. Come fai a sapere che quei Pokémon si trovano qui?» mi chiese lei con un ghigno irritato.

    «Lo so e basta. Piuttosto ... dovete lasciarli liberi, non vi appartengono».

    «Lo hai sentito Karl? Vuol dare ordini a noi».

    L'altro si mise a ridere sguaiatamente mentre il suo Pokémon, un Ivysaur, che mi aveva intrappolato andò a mettersi dietro di lui.

    «Chi siete?»

    «Siamo parte di un'organizzazione chiamata Team Rocket, io sono Karl e lei è Linda».

    «Il Team Rocket? Mai sentito nominare» decretai gemendoo, mentre il Pokémon che aveva la capacità di controllare le liane a distanza, continuava a stringerle. Smisi di parlare per evitare di rimanere stritolato in quella rete verde, pensando ad un piano per tirarmi fuori dai guai.

    «Questo è un insulto! Noi siamo l'organizzazione più potente e spietata che il mondo abbia mai conosciuto» proclamò lui guardandosi le unghie di una mano.

    «Sei capitato male con noi e adesso sei nostro prigioniero. Te ne starai buono qui mentre noi finiremo il lavoro,» aggiunse la signora molto sicura di sé. Linda aprì una delle casse della stiva dove dentro vi erano centinaia di Pokéball, poi scoprendone altre, vidi anche Raichu, Deino e Leavanny insieme ad altri Pokémon prigionieri.

    «Dove li state portando?»

    «Tutto quello che noi facciamo ha come unico scopo di compiacere il nostro capo. Adesso se vuoi scusarci ... »

    Caricarono i Pokémon sul cestone di una mongolfiera che il Team Rocket aveva portato a bordo smontata, senza che nessuno avesse sospettato nulla, poi montata e gonfiata sul momento. Forti vibrazioni scossero la nave, mentre il gigantesco pallone nero veniva issato come la vela di un galeone. I due saltarono dentro. La stiva era posta a prua. Il Team Rocket forzò il boccaporto del soffitto, aumentò la potenza del bruciatore e la mongolfiera iniziò a decollare. Una delle corde che pendevano dal cesto strisciò sulla rete in cui ero rinchiuso, così infilai una mano attraverso le maglie, afferrai la corda attorcigliandola alla rete ed una volta tesa, essa mi sollevò in aria. Tra i sobbalzi, la rete urtò bruscamente contro gli arredi della stiva e presi qualche bella botta, finché la mongolfiera fu all'esterno con me che penzolavo nel vuoto.
Il pallone era molto grande e per passare attraverso il boccaporto del soffitto, lo aveva fatto squarciare causando il crollo di parte del ponte giù nella stiva; la gente scivolava lungo le assi e si aggrappava per non cadere di sotto. Tutti videro il grosso aerostato di colore nero con una grossa R rossa stampata sopra e Liam e gli altri si accorsero di me.
Vidi la situazione degenerare e i passeggeri della nave non potevano fare nulla perché non avevano con sé i Pokemon per lottare e la mongolfiera era ormai troppo in alto. Dovevo fare qualcosa, così iniziai a chiamare aiuto, chiudendo gli occhi e respirando profondamente ma il Team Rocket si accorse di me e la corda che mi teneva appeso alla mongolfiera fu tagliata e precipitai in acqua con tutta la rete. Se non fosse stato per quel Gyarados che venne a soccorrermi per me sarebbe finita male. L'enorme serpente marino mi liberò dalla rete e mi accolse in groppa nuotando velocemente verso la superficie. Riemersi dall'acqua appena in tempo, pronto a lottare per aiutare la nave e tutti i passeggeri, anche se avrebbe significato rivelare mia natura di allenatore.
Dissi a Gyarados di puntare il pallone e volammo verso il Team Rocket che alla vista di quel Pokémon, urlò preso dal panico. Linda mandò a lottare il suo Butterfree, mentre Karl fece affidamento sul suo Beedrill, i quali svolazzando intorno a noi attaccarono contemporaneamente con delle spore che a mia memoria potevano essermi fatali. Gyarados li respinse con facilità formando un mulinello d'acqua che spazzò via i pollini scongiurando il pericolo di rimanere intossicato, poi utilizzò un forte getto d'acqua per tentare di colpire la mongolfiera.
Dal cesto dell'aerostato fece capolino un Pokémon giullare di nome Mr Mime, che rimandò indietro l'attacco utilizzando un vetro costruito all'istante da lui come difesa, salvando la mongolfiera. L'attacco d'acqua venne rimandato indietro con maggiore forza ma Gyarados lo respinse con un iperraggio che annullò l'altro. Arrivai molto vicino alla mongolfiera e dissi a Gyarados di lacerare il pallone con un colpo di coda ma dall'acqua spuntò un Tentacruel che sotto i comandi di Karl accecò Gyarados con un getto d'inchiostro, poi ci colpì con uno stordiraggio. Stordito, persi la presa e precipitai dal suo dorso,  il serpente perse l'orientamento, iniziando a sbandare ed avere un volo poco regolare ma si rituffò in acqua per lavare gli occhi e venne a tecuperarmi qualche metro in fondo al mare. Sentii sotto le mie mani delle squame appiccicose a cui mi aggrappai d'istinto. Fuori dall'acqua ripresi un po' do lucidità. Sbucammo improvvisamente e andammo a squarciare il pallone a tutta velocità e prima che potesse cadere in acqua, Gyarados afferrò il cesto con i denti e lo riportò sulla nave, salvando tutti i Pokémon. Linda e Karl fuggirono azionando i loro jetped a propulsione e soffiando del fumo come diversivo.
Accarezzai e ringraziai Gyarodos per il prezioso aiuto e con una spettacolare acrobazia tornò ad immergersi nelle profondità dell'oceano. Fui avvicinato dai miei amici, dai membri del comitato e dal comandante per sincerarsi delle mie condizioni e non smetteva più di ringraziarmi per aver salvato la sua nave. Le domande sul mio oramai innegabile status di allenatore furono inevitabili. Provai a spiegare loro che Gyarados non fosse e che mi avesse aiutato solo perché mi aveva visto in difficoltà, sperando di deviare l'attenzione su quanto invece mi considerassero bravo nella lotta.

    «Ma come sei riuscito a farti ascoltare da lui?» mi chiese Garreth molto incuriosito. Come avrei potuto spiegare quella sorta di "empatia" come Virgil l'aveva definita per sviare i sospetti che ricollegassero quella gente alla mia identità? Non fu facile ma riuscii a fatlo accettando l'invito del comandante a ritirarmi presso la sua cabina personale per asciugarmi e cambiarmi i vestiti e così fingendo di essere un po' stanco mi sottratti a domande indiscrete.
    Il comandante mi pagò l'intero compenso della traversata aggiungendo un extra come ringraziamento. Di qualunque cosa avessi avuto bisogno da quel momento in poi sarebbe stata esaudita. Non chiesi nulla, anzi, feci il gesto di rifiutare il compenso per il salvataggio ma lui insistette. Mi fece anche visitare dal medico di bordo per vedere se avessi peggiorato la mia slogatura ma per fortuna risultò tutto nella norma. Da quel giorno il comandante mi invitò a tutte le colazioni, i pranzi e le cene fino allo sbarco a Zondopoli, regalandomi anche un abbonamento a tutte le navi della compagnia Regina dei Mari. Che dire ... una bella soddisfazione. Adesso avevo abbastanza soldi per vivere in tranquillità, almeno per un po'.
Il torneo tenne impegnati i partecipanti fino a sera, le performance dei Pokémon furono apprezzate da tutti e Garreth aveva fatto una scorpacciata di osservazioni, interrogando gli allenatori e accumulando molta esperienza sapientemente registrata sul suo fedele blocco degli appunti.

    «È stata davvero una bella esperienza, abbiamo fatto bene a partecipare» dichiarò soddisfatto Liam che però era stato eliminato al secondo turno, mentre Akiko al primo. Garreth invece era arrivato tra i primi otto ma si era preoccupato più di raccogliere spunti ed informazioni utili che di lottare. Si vedeva che avesse molta più esperienza degli altri due compagni.
    L'indomani mattina avvistammo i grattacieli di Austropoli all'orizzonte. La nave si stava avvicinando alla riva, così come il momento di salutare i miei compagni di viaggio con cui avevo passato delle piacevoli giornate in compagnia.
Giunta sotto costa però, la nave rimase ferma per quasi un'ora senza mai attraccare, finché l'annuncio da parte del comandante lasciò tutti sorpresi. A causa di un problema al molo Pollice, quello più adatto ad ormeggiare una nave così grande, i passeggeri non avrebbero potuto sbarcare nella capitale. La nave riprese il largo ed il comandante informò tutti i passeggeri che avrebbero proseguito fino al porto di Zondopoli – quello da cui io avrei continuato a piedi per raggiungere Alisopoli - e poi spostati tramite un bus a spese della compagnia. Ci sarebbero voluti però ancora un giorno e mezzo di viaggio.
Garreth, felice di trascorrere un'altra notte tra rollii e beccheggi, era andato ad informarsi sull'accaduto e aveva scoperto che un branco di Wailord, Pokémon acquatici con sembianze di enormi balene si erano arenati intorno al molo bloccandolo. I Wailord viaggiano in branchi numerosi e solitamente passano lontani dalla riva ma se si accumulano sotto costa possono creare grossi problemi al sistema portuale. Nel malcontento generale, la nave riprese il largo e proseguì verso lo scalo successivo, creando molti disagi ai passeggeri che andavano e venivano da Austropoli per lavoro o per impegni vari. I miei compagni di viaggio la presero bene perché tanto erano in vacanza.
    La nave sfilò a largo dell'isola Torre Unione e dell'isola Libertà come una modella percorre le passerelle delle serate di gala, elegante e leggiadra sullo specchio dei riflettori del mare blu ed un'altra notte avvolse la Regina dei mari, leggiadra e possente sulla tavola specchiata nel cielo scuro.
    Dopo una breve fermata alla due grandi isole, le altissime ciminiere del cantiere di Zondopoli, giovane città ancora in espansione, si ergevano minacciose come le nuvole scure nelle notti temporalesche. Il cielo non era uno degli spettacoli migliori in quella zona, ma Zondopoli possedeva l'unico porto attrezzato della zona utile all'attracco. Il rumore dei cantieri gareggiava con quello della sirena che annunciò l'arrivo della nave con più di un giorno d'anticipo. Centinaia di passeggeri, compresi quelli diretti ad Austropoli sbarcarono seccati e furono stipati come merci sugli autobus che li avrebbero portati al centro Pokémon di Zondopoli, per passare la notte in attesa del trasferimento il giorno successivo.
    Era una calda giornata estiva del tardo pomeriggio del 3 luglio e nonostante l'inquinamento, la costa di notte era splendida, adornata di luci e colori.
Salutai e ringraziai il comandante per l'opportunità che mi aveva generosamente dato e per il viaggio. Dopo essere sbarcati facendo un inchino alla Regina dei Mari, mi separai dal gioioso gruppo di amici e mi avviai verso il sentiero attraverso la Cava della Mente, costeggiando la fattoria di Venturia, città dell'ex campione regionale Nardo. Avevo un così bel ricordo di quell'uomo che non feci altro che pensare a lui e a quanto avrei voluto rivederlo. Non sapevo dove fosse da quando aveva ceduto il titolo ad Iris, la nuova campionessa a lui subentrata e andare a trovarlo poteva comportare dei seri rischi per me. Abbandonai l'idea di fargli visita come un fanciullo abbandona la mano della mamma prima di entrare a scuola, speranzoso di rivederla e proseguii il cammino.
    Era quasi notte quando mi ritrovai oltre la fattoria sull'ultimo tratto del percorso per il centro di recupero, quando un Foongus si precipitò spaventato verso me, investendomi in pieno con le sue spore e avvelenandomi. Caddi a terra per la botta e inizia a sentire le spore infiltrarsi nelle prime vie aeree e poi giù per i bronchi fino ai polmoni. Non avevo molto tempo prima di morire soffocato ma capì che quel Pokémon stava scappando da qualcuno che lo aveva ferito. Sentii dei passi in lontananza, uomini che correvano verso di noi. Afferrai il piccolo Pokémon e iniziai a correre a perdifiato verso il più vicino centro Pokémon che per fortuna sapevo essere a meno di un chilometro da dove mi trovavo. Durante quel tragitto che mi sembrò infinito, le vie respiratorie iniziarono a chiudersi e la mia pelle si macchiò fino diventare completamente chiazzata di rosso. La gola si strinse in una morsa soffocante, iniziai a sibilare e rantolare e il respiro si fece irregolare, le gambe cominciarono a cedere fino a piegarsi ma non mollai. Intravidi da lontano la luce sulla porta del centro Pokémon e pensai che ultimamente fosse davvero difficile arrivare alla fine dei tunnel anche se cercavo di correre più in fretta che potevo e che le luci, rappresentavano le mie ultime speranze di vita, come la luce della casa del mio soccorritore preferito. Per qualche secondo pensai a lui.
Mi appoggiai sfinito sulla porta a ventola dell'ospedale per Pokémon e caddi carponi con Foongus che rotolò sul pavimento. Respiravo appena e la paura iniziò seriamente a farsi strada tra i miei sensi quasi assenti. Vidi gente accalcarsi sopra di me e in quella visone multipla e sfocata mi parve di riconoscere Liam. Mi sembrò del tutto strano poiché sapevo che avrebbero alloggiato presso il centro di Zondopoli ma era il minore dei miei pensieri. Vidi la dottoressa del centro sollevare Foongus e affidarlo alle cure di Audino visto che non era grave e poggiare le mani su di me, ormai supino e gonfio per l'avvelenamento. L'ultima cosa che vidi fu una maschera per l'ossigeno sul mio viso poi nulla. Mi risvegliai non molto tempo dopo con l'ossigeno ancora su naso e bocca e avevo ragione quando credevo di aver visto Liam. I ragazzi erano lì perché il centro di Zoondopoli era al collasso e avevano trasferito una parte dei passeggeri al centro di Alisopoli. "Che fortuna" pensai che loro fossero capitati proprio ad Alisopoli ma secondo il mio ingenuo parere era tutto sottocontrollo.
Mi ripresi abbastanza in fretta, la dottoressa era stata davvero brava, proprio come lo era stato Virgil. Quel ragazzo deve aver avuto una vita parallela in cui faceva il medico, ne ero sicuro. Il mio respiro era tornato normale, la mia gola si era sgonfiata e le macchie sul corpo quasi sparite. Anche questa volta me l'ero vista brutta.

    «Il peggio è passato. Aveva tutta l'aria di uno shock anafilattico, sei allergico alle spore del Pokémon?»

    «Non che io sappia dottoressa».
    Non avevo mai fatto i test per appurare la mia presunta allergia e non potevo farli. Promisi a me stesso che da quella sera sarei stato più attento prima di avvicinarmi ai Pokémon che emanano spore, anche se in realtà erano sempre i Pokémon a precipitarsi da me. Chiesi di Foongus e mi rassicurarono che stesse bene, aveva solo una ferita superficiale ed era nella sala delle terapie dove stava riposando.

    «Ci hai fatto prendere un bello spavento Noah, che cosa ti è successo?» chiesero i miei amici, tirando un sospiro di sollievo.

    Non raccontai come fossero andate davvero le cose. Qualcuno voleva catturare Foongus ma non ero arrivato a vedere chi fosse, anche se un'idea me l'ero fatta e la cosa non mi piaceva affatto.
La dottoressa tornò indietro per informarmi che entro la mattina successiva, Foongus sarebbe potuto tornare con me ma la misi al corrente che il Pokémon non fosse mio, così l'indomani lo avrebbe lasciato libero di tornare nel bosco. Per non infierire oltre sull'argomento che mi dipingeva come un abile allenatore che non possedeva Pokémon, cercai di parlare di altro.
    «Quindi la compagnia navale vi ha fatto alloggiare qui ... quando ripartirete per Austropoli?»

    «Domani mattina verso le 10:00, almeno così ci hanno detto» disse perplesso Gareth. «Verranno a chiamarci loro. Tu ti fermerai qui stanotte non è vero?»

    Dovevo raggiungere la mia destinazione ma non potevo rivelargli quale fosse, anche perché oltre Alisopoli e le sue poche abitazioni non c'era nulla. Insistettero affinché io rimanessi monitorato al centro Pokémon e mi invitarono a dormire nella loro stanza per stare più tranquilli. Dovetti accettare, anche se mi preoccupava una possibile visita da parte di qualcuno quella notte.
    Mi sdraiai sul letto, vestito e con lo zaino in posizione e chiusi gli occhi senza però riuscire a prendere sonno. Passò appena un'ora e mezza e preoccupato, con lo zaino sulle spalle uscii dalla stanza in punta di piedi e scesi al piano di sotto. Oltrepassai l'infermeria dove la dottoressa e Audino stavano dormendo e mi affacciai all'esterno. Vidi delle ombre aggirare l'angolo dell'edificio così scesi le scale e mi avviai per seguirle. Mi recai nella stessa direzione e vidi un'ombra intrufolarsi dall'ingresso di servizio della lavanderia. Era buio e non riuscii ad identificare le sagome. Capì però che erano in cerca di quel Pokémon e forse di me e temetti per gli ospiti e per i Pokémon della struttura, così tornai dentro e percorsi velocemente il corridoio che portava alla sala lavanderia senza accendere le luci; mi poggiai con le spalle alla porta e li sentii parlare tra di loro. Riconobbi Franz, Will ed anche la voce di Tobias del Team Plasma. Accidenti, quelli erano proprio dappertutto.

    «Foongus è sicuramente qui ma dove l'avranno messo?» chiese Tobias aggirandosi per la stanza con una torcia elettrica.

    Non trovando quello che stavano cercando, iniziarono a rovistare tra le attrezzature e a mettere la sala sottosopra così decisi di intervenire e di mettere in atto il piano che mi era appena venuto in mente.

    «Ehi voi! io sono qui».

    «Ti abbiamo trovato finalmente ... » disse Franz avanzando di qualche passo nel buio mentre cercava di intercettarmi con la sua torcia. «Dov'é quel Pokémon che hai portato con te?»

    «Ve lo dirò solo se riuscirete a prendermi».
    Scappai verso l'uscita principale, spinsi la porta a ventola e scesi velocemente i gradini che conducevano all'ingresso, ma Will aveva fatto il giro passando da fuori e me lo ritrovai davanti con il suo Pokémon Seviper. Alle sue spalle invece arrivarono Franz con il Pokémon Zangoose, e Tobias con Seismitoad. Ero circondato.

    «Arrenditi e vieni con noi, c'è qualcuno che muore dalla voglia di dirti due parole» mi ordinò Will mentre la sua vipera si preparava ad attaccarmi. Seviper è un Pokémon velenoso ed io reduce dal mio shock ero ancora debole per sopportare uno dei suoi morsi.
I tre Pokémon si avvicinarono a me senza attaccarmi, in guardia per fermare ogni mia mossa o tentativo di fuga. Fui minacciato in vari modi prima di essere preso e condotto verso il loro furgone posteggiato poco distante da lì. Mi bloccarono le braccia con un anello magnetico all'altezza dell'omero visto che non permisi loro di strapparmi il tutore, e mi caricarono sul loro mezzo. Dopo pochi minuti di viaggio il furgone si fermò. Prima di farmi scendere venni bendato e poi condotto nel loro covo senza capire esattamente in quale direzione fossimo andati perché il furgone aveva girato intorno per farmi perdere l'orientamento. Quando mi tolsero la benda dagli occhi, vidi una specie di laboratorio zeppo di Pokémon imprigionati. Sapevo che da qualche parte il Team Plasma stava sperimentando il dispositivo di controllo che avevo visto al ranch della squadra di soccorso o qualcosa di ancora peggio. C'era un uomo vestito con un camice bianco intento nei suoi esperimenti con strane sostanze che emanavano esalazioni nauseabonde. Mi parve un volto familiare ma nella penombra del luogo non riuscii a riconoscerlo.
Mi chiusero dentro ad una campana di vetro isolante che mi impediva di comunicare con i Pokémon all'esterno ma non me ne preoccupai perché Zoroak mi aveva seguito e si aggirava già nei dintorni. Il piano era quello di liberare tutti Pokémon che si trovavano lì e distruggere progetto e prototipo dei macchinari e dei dispositivi. Quello che avevo visto al ranch di Virgil e che era stato disintegrato era solo una sua riproduzione più ridotta e probabilmente c'era di più e dovevo scoprirlo.
    «Smettila!» urlai rivolgendomi a quell'uomo senza scrupoli, il quale stava maltrattando una povera creatura prigioniera, «così soffre!». Non mi degnò nemmeno di uno sguardo e questo mi fece infuriare. «Sappi che non vi permetterò più di fare del male ai Pokémon con i vostri strampalati esperimenti, ve la farò pagare».

    «Senti da che pulpito viene la predica ... eroe. O forse hai perso il tuo smalto? Se soltanto riuscissi a comprendere il vero potenziale di codeste creature, anche tu collaboreresti con me, tuttavia ... preferisci sprecare il tuo talento. Ormai non sei più nessuno, anzi, non lo sei mai stato e non puoi fermarci. Nessuno ti crede e sei un uomo finito ancor prima di diventarlo. Guarda qua invece, questo è soltanto l'inizio del mio grande progetto e tu ne potresti fare parte».

    «Un altro progetto che io porterò al fallimento, stanne certo».

    Si alzò il vento in quella specie cava naturale nascosta dalla boscaglia sopra le rocce. Zoroak intervenne con una delle sue illusioni per gettare il laboratorio nel caos e liberare tutti. Il vortice d'aria colpì tutto quello che si trovava lì dentro, oggetti e persone portandoli dentro una specie di tromba d'aria che iniziò a risucchiarli. Ogni persona o Pokémon che si trovava lì doveva reggersi per non essere coinvolto. Quell'uomo non so come, capì che quel vortice fosse opera mia e mi intimò di smetterla altrimenti avrebbe fatto male a qualcuno. Mi indicò delle persone che avevano appena catturato. Erano Liam, Akiko e Gareth che venivano minacciati con armi da fuoco.

    «Noah!» Akiko gridava e si dimenava spaventata mentre gli altri venivano strattonati; mi venne un brivido perché fui preso alla sprovvista.
    Feci cessare immediatamente il vortice e Zoroak corse via a chiedere aiuto senza farsi vedere.

    «Che cosa ci fate voi qui?» li rimproverai furioso.
    Ancora una volta il mio piano era andato in fumo perché delle persone si erano messe in mezzo intralciandomi. Mi avevano seguito e adesso per colpa mia si trovavano nei guai. Non era una buona idea stringere delle amicizie, soprattutto in questo tempo della mia vita.

    «Bravo ottima scelta» mi disse lo scienziato soddisfatto mentre faceva condurre i ragazzi verso di lui.

    Quella voce era familiare ma non riuscendo a vederlo bene faticavo ad identificarlo. Rivolsi lo sguardo ai ragazzi.
    «Perché mi avete seguito? Non dovevate!» Esplosi arrabbiato.

    «Ti abbiamo visto mentre ti portavano via su un furgone e siamo venuti per aiutarti» confessò Akiko in lacrime.
    Quando mi ero allontanato dalla loro stanza, Raichu, Deino e Leavanny mi avevano sentito e li avevano svegliati e così mi erano venuti dietro per supportarmi. Mi pentii subito di averli rimproverati, erano venuti per me, perché mi avevano visto nei guai e volevano darmi una mano. Mi sentii impotente di fronte a tanto. Che cosa avrei potuto fare?
Mentre pensavo tuttavia ci ritrovammo teletrasportati presso il mio rifugio. Gardevoir e Gothitelle i Pokémon delle mie colleghe ci avevano tratti in salvo con i loro potenti poteri psichici. Non so se i ragazzi capirono dove si trovassero ed io feci finta di non conoscere le ragazze. Le mie colleghe avevano portato in salvo anche tutti i Pokémon che erano con me al laboratorio ed iniziarono a prendersi cura di loro.

    «Dove siamo finiti?» si chiesero guardandosi intorno spaesati.

    Chiesi in silenzio a Gothitelle e Gardevoir di teletrasportare i ragazzi direttamente ad Austropoli per allontanarli da lì e tenerli allo scuro di tutto e la mia richiesta fu esaudita. Negli attimi prima di sparire dalla nostra vista, i loro sguardi dispiaciuti e confusi si incrociarono con il mio. Incrociai gli occhi di Akiko, supplichevoli di capire perché tutto questo ed il mio cuore si restrinse divenendo un granello di sabbia spazzato via dal Simun nel deserto. Sospirai sconsolato di doverli mandare via in quel modo e abbassai lo sguardo addolorato. Non potevo permettergli di scoprire la verità e volevo mandarli più lontano possibile per non coinvolgerli nei guai che mi affliggevano.
Rimasi solo con Antea e Concordia, le ragazze che mi avevano cresciuto, anche loro ex membri del Team Plasma che stavano scontavano la condanna ai servizi sociali insieme a me.

    «Dove sei stato!? Eravamo in pensiero per te!» mi rimproverarono quasi all'unisono, con durezza. Non potevo biasimarle per essere sparito per giorni senza dire nulla.

    «Lo so ragazze, mi dispiace per ...»

    «Ti dispiace?» m'interruppe Antea, la più grande. «È così che te ne esci? Perché non ci hai detto che te ne saresti andato?»

    «Che cosa stai combinando? Perché eri con il Team Plasma? Vuoi farti uccidere?» sbottò Concordia contrariata.

    «E quei ragazzi? Perché erano lì con te?» aggiunse l'altra senza darmi tregua.

    Iniziarono a tempestarmi di domande ma tanto ormai ero abituato agli interrogatori pressanti e riceverli da due donne contemporaneamente non era certo semplice da gestire. Come ero solito fare, ovvero tentare di affrontare le conversazioni con calma, mi accomodai sul divano cercando di spiegarmi.
    «Li ho conosciuti sulla nave mentre venivo qui e sono rimasti coinvolti ma adesso è tutto risolto perché saranno tenuti fuori da tutto questo. Erano diretti ad Austropoli ma la nave non ha potuto attraccare al porto».

    «Come mai?» si interessò Antea divenendo piuttosto preoccupata.

    «Perché un branco di Weimar ha bloccato il porto».

    «Onde elettromagnetiche?»

    «Non lo so, per questo sto indagando. Ragazze ... so che siete arrabbiate e che non mi sono fatto più vivo ma, non volevo mettervi in pericolo. Adesso che ho la situazione sotto controllo però, stavo tornando da voi».

    «Sotto controllo?» mi riprese Concordia urlandomi contro, come se fossi sordo. «Se non fossimo intervenute, come vi sarebbe finita? E poi che cosa hai fatto al braccio?»

    «Niente di grave, sono solo caduto e mi sono slogato la spalla».

    «Per l'amor del cielo N ... devi smetterla. Perché non te ne stai qui al sicuro come dovrebbe essere?» mi domandò Antea, la quale aveva sempre provato a farmi desistere dal lasciare il rifugio e a vivere quella prigionia che loro chiamavano vita. La nostra nuova vita.

    «No. Voi dovete smetterla di chiamarmi N, il mio nome è Natural».

    «Questo ha poca importanza. Perché ti sei conciato in quel modo? Prima o poi ti scopriranno e ti rimanderanno su quell'isola! Vuoi tornare lì?»

    «Certo che no!».
    Tornare in quel penitenziario non era uno dei miei desideri, ma come potevo starmene in quell'angolo di mondo senza far nulla con tutto il male che il Team Plasma stava continuando a causare ad Unima? Spesso le consideravo delle egoiste ma il fatto era che si preoccupavano per me. Mi avevano visto ridotto male quando dal carcere ero stato condotto al rifugio e ci avevo messo mesi per riprendermi e loro avevano vegliato giorno e notte sulla mia psiche devastata. Si erano sempre prese cura di me,  fin da quando ero piccolo. Avrei dovuto comprendere il loro stato d'animo ma io ero stato cresciuto per odiare le persone ed anche se mi ero affacciato al mondo da qualche anno, la mia umanità era ancora acerba.
Non potevo confidarmi con loro perché non volevo spaventarle e non potevo soprassedere dal momento che avevo saputo che il Team Plasma mi dava la caccia ed era tornato in attività sotto la guida di Ghecis e di quell'altro dottore dall'aria vagamente familiare. Non avevo mai raccontato alla ragazze perché quella notte ero scappato dal rifugio senza avvertirle, e avevo preferito mantenere il segreto per non farle allarmare. La polizia non credeva alla mia versione dei fatti, quindi dovevo fare tutto quanto da solo.
    «Sono molto stanco, chiedo scusa ma vorrei andare a dormire, ne riparleremo domani» dissi alzandomi dal divano.

    «Natural aspetta ... ci dispiace ...»

    Mi voltai ed andai verso la mia stanza. Chiusi la porta alle mie spalle, insieme alle mie angosce e alle mie speranze, barricandomi in compagnia dei miei segreti e del mio dolore, per prepararmi mentalmente alla prossima mossa. Mandai Zoroak in esplorazione ad Unima per scoprire dove fossero scappati, misi alcuni dei Pokémon più fidati del rifugio a guardia del perimetro dicendo loro di chiamarmi se avessero visto o avvertito qualsiasi pericolo. Non volevo stare lì ma avevo bisogno di rimettermi per qualche giorno, o almeno fino a quando non ci fossero state novità rilevanti. Chiusi gli occhi per nutrirmi del silenzio di quella quiete ma sprofondai subito in un sonno profondo senza nemmeno accorgermene.

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Capitolo 9
*** Cap 9 Libero nell'anima ***


Sono tornata con un nuovo e più breve capitolo. Come vi sarete accorti ormai le vignette non viaggiano più con la storia per problemi legati a chi le disegna, quindi da adesso pubblicherò senza perché non mi va di far aspettare. Se e quando ci saranno queste vignette, le aggiungerò.
Ormai i personaggi principali sono tutti delineati. Ne appariranno di nuovi ma cercherò di descriverli per farveli immaginare al meglio, anche se spesso preferisco dare solo dei cenni e lasciarli alla vostra immaginazione. 
Magari se li volete descritti più nei dettagli riferitemelo nei commenti e provvederò :)

Da questo momento in poi il cambio di narratore avverrà anche nello stesso capitolo e più di una volta, perché le storie dei due protagonisti si intrecceranno sempre con più frequenza, allo scopo di offrirvi un'esperienza migliore.
Noi ci saranno altri narratori (anche se la tentazione di metterli è forte) ma calarsi in tanti personaggi diversi, stando attenti a scrivere secondo la loro personalità ed il loro stile è un'impresa ardua. Capirete facilmente chi dei due sta narrando, ma per aiutarvi ho messo dei trattini accostati --- quando avviene il cambio. 

Un abbraccio a chi mi segue e spero che la storia stia piacendo, ma ancora deve svilupparsi.

Se avete commenti, domande, battute (negative e positive) potete farle, non mi offendo e quando leggete (se vi piace) mettete le stelle così capisco che qualcuno mi sta seguendo. L'interazione tra utenti regala allo scrittore la giusta motivazione per continuare.

Buona lettura.

>‐‐----‐-----------------------------------<

Quella specie di ronzio nella mia testa, un rumore costante, il buio davanti i miei occhi e il vuoto intorno alle mie membra. Sporsi un palmo per toccare quel pavimento ruvido e sudicio cercando un contatto con la realtà ma era sempre uguale. "Dove mi trovo?" chiesi. Nessuna risposta. Non riuscivo ad aprire gli occhi, le palpebre erano incollate tra loro e quando provavo a separarle dal resto dell'occhio avevo la sensazione che si strappassero. Tentai di muovere le gambe ma le sentivo pesanti e i muscoli erano come bambini capricciosi che volevano fare di testa loro.
    Quando i miei sensi si ripresero del tutto guardai davanti a me: ero a terra, sentivo il mio respiro amplificato contro il pavimento e cercavo di sfuggire a quell'odore pungente che non smetteva di assalirmi. Non avvertivo null'altro se non quel silenzio assordante. Nessun contatto con l'esterno, nessuna presenza umana né Pokémon. Ero totalmente isolato come nella mia infanzia, dentro quella stanza grande come un parco giochi, dotata di ogni sorta di attrezzo ludico o passatempo che un bambino possa desiderare. Avevo tutto ma in realtà tutto mi mancava. Mi mancavano le carezze, gli abbracci, il bacio sulla fronte prima di andare a letto, mi mancava il contatto fisico di un figlio con la sua mamma e le parole rassicuranti di un padre. Oggi ero di nuovo solo ma questa volta non riuscivo a capire, così lo chiesi ancora una volta:
    "Dove mi trovo?".
    Chiusi la piccola fessura dei miei occhi perché non avevo nemmeno la forza per reagire e mi strinsi nelle spalle, sperando che fosse solo un brutto sogno da cui presto mi sarei destato. Tirai fuori dalla tasca interna della mia camicia quel fazzoletto che aveva permesso alla ferita del mio collo di guarire e lo serrai tra le mani, pensando se avrei mai potuto restituirlo al legittimo proprietario. Non avevo più niente con me, nemmeno il suo tutore che ormai non avrei potuto più rendergli. Che pensieri assurdi corrono quando non sai nemmeno se sei vivo o morto. Forse appigliarsi al ricordo positivo di qualcuno, mi aiutava a sopravvivere. Riposi con cura il fazzoletto di stoffa in una tasca interna dei miei vestiti, al sicuro e sospirai.
Mi sentivo debole, riuscivo a tastare tutte le mie ossa. Ad un tratto sentii stringere forte la spalla e qualcosa di spaventoso trascinarmi all'indietro. Volevo urlare ma la voce non usciva come in un brutto sogno ed il terrore mi rivoltò le viscere. Quella creatura iniziò a divorarmi ma non sentivo dolore. Vedevo soltanto la carne consumarsi sotto la follia assetata di sangue e le ossa frantumarsi come grissini tra i denti, mentre aspettavo inerme la mia fine. Poi tutto cessava. Silenzio.

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Il mio cellulare da polso iniziò a squillare. Mi stavo allenando per l'imminente incontro con i Superquattro della Lega perché speravo tanto di fregiarmi del titolo di campione regionale, per cui mi allenavo da più di due anni. Tuttavia le dure parole di uno sconosciuto mi avevano fatto vacillare. Era davvero questo che volevo per la mia vita? Possibile che io, giovane ed appassionato soccorritore dai sogni infranti, non facessi altro che pensare che essere il migliore allenatore di Unima, mi avrebbe fatto sentire più a mio agio? Volevo diventare il più abile per superare il mio immenso dolore, non volevo essere un debole e non doveva mai più accadere quello che era successo a mia madre, l'unica persona che non avevo saputo aiutare. Mi avevano spiegato più volte che non era stata colpa mia e me lo continuavano a dire ogni giorno mai io, non ci avevo mai creduto.
Interruppi il mio allenamento anche se vidi che non era una chiamata di lavoro e risposi. Era Liam, un ragazzo che avevo conosciuto al torneo e che si era piazzato abbastanza bene. Era rimasto un po' deluso dal suo risultato ma non aveva perso mai il sorriso, anzi, quella voglia di realizzare il suo sogno lo aveva reso più determinato che mai. Il suo alloggio era vicino al mio in prossimità dello stadio e durante quella settimana, avevo stretto amicizia con lui e con il gruppo dei suoi amici. Non ci è mai capitato di lottare l'uno contro l'altro ma il suo stile di combattimento molto creativo e inusuale mi aveva colpito, tanto da aver osservato ognuno dei suoi incontri. Alla fine del torneo ci eravamo scambiati il numero di telefono ed eravamo rimasti in contatto, perché mi ammiravano ed erano curiosi di sapere se sarei riuscito o meno a battere i Superquattro e la campionessa di Unima. Sapevano del mio lavoro e gli avevo detto che se mai avessero avuto bisogno di me, sarebbe bastato farmi una telefonata. Non mi trovavo nello stato d'animo migliore per avere un dialogo con un amico ma risposi ugualmente, perché spesso è il destino a servirsi dei mezzi più inusuali per richiamare la nostra attenzione, ed ogni dettaglio lasciato al caso può rivelarsi un'occasione persa.
    «Ciao Liam, che piacere sentirti. State tutti bene?» chiesi cercando di elevare il tono di voce al di sopra dello standard del mio umore.
    Si che stavano bene, anzi, andava tutto alla grande. Ben presto avrebbero lasciato la regione alla ricerca di nuove avventure. Come li invidiavo. Il motivo della chiamata però non era quello che pensavo quando avevo visto il suo nome comparire sul display, ma qualcosa di più serio: mi raccontarono dell'avventura avuta con uno strano ragazzo di nome Noah. Di persone con questo nome ce n'è sono parecchie in giro e non mi andava di pensare che fosse proprio lui, anche perché avevo solo il desiderio di rimuovere quel ricordo che bruciava ancora. Quando ebbi il sospetto che si trattasse proprio della stessa persona ascoltando la sua descrizione, ebbi un sussulto. Un'altra volta lui; ancora quell'ombra che tornava ad ossessionarmi, forse la voce della mia coscienza che mi urlava di svegliarmi. Presi seriamente atto dell'avventura che avevano vissuto con lui e con quella strana banda armata e assicurai loro che mi sarei occupato della faccenda, raccomandandogli di tenermi aggiornato e di stare lontano dai guai.
Chiusi la chiamata salutandoli amichevolmente, così come il bel ricordo che mi era rimasto di loro, soprattutto di quella buffa ragazzina di nome Akiko e del suo carattere solare e brioso.
Mi avevano parlato di un posto pieno di Pokémon ad Alisopoli gestito da due ragazze e gli era sembrato un rifugio, una specie di ospedale, ma si erano poi ritrovati senza motivo catapultati ad Austropoli, come se fossero stati teletrasportati. Noah ... rapimenti ... bande armate ... teletrasporti ... rifugio per Pokémon ... Alisopoli. Che mi venisse un colpo se non stavo dando di matto. Non poteva essere ... non poteva trattarsi proprio del centro di recupero dell'ex re del Team Plasma. Ma quanti centri di recupero potevano esserci in una città così piccola? Lui però non lo avevano visto, soprattutto Gareth - che lo conosceva perché anche lui è di Unima - mi aveva assicurato di non aver visto l'ex re. Che fosse scappato? Questa storia non mi convinse affatto e dovevo vederci chiaro.

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Mi destai per il rumore magnetico della barriera quando veniva toccata per attirare la mia attenzione. I miei vestiti erano sporchi e la mia pelle completamente secca e spenta e mi resi conto di aver avuto l'ennesima allucinazione. Conoscevo bene quelle false percezioni che scombussolano l'esistenza perché mi era già capitato nella cella d'isolamento in cui mi lasciavano giacere per settimane, per un reato che non avevo mai commesso. Quando il mondo si dimentica della nostra esistenza, quel mondo per noi inizia a svanire, e per sopravvivere, la mente tende a crearne uno proprio, ma senza alcun oggetto a cui far riferimento, quel mondo può prendere qualsiasi forma, come stava succedendo a me. La creatura mostruosa arrivava per saziarsi della mia peggior paura.

    «Buongiorno N, come stai oggi?» Il sarcasmo spietato di quell'uomo nei confronti di un prigioniero come me, era come l'indifferenza alla sofferenza umana, di cui lui si era sempre nutrito, come la mia creatura. «Ti sei finalmente deciso a dirmi quello che voglio sapere?»

    Il suo tono così tenebroso era lo stesso che mi aveva accompagnato durante la mia crescita, la voce che aveva sempre preteso e mai dato, quella voce falsa e fonte dei miei guai.
Mi sollevai da terra dove ormai giacevo da chissà quanti giorni se non addirittura settimane e mi poggiai ad una delle pareti. Avevo perso il contatto con la realtà e parimenti lo scorrere del tempo era indefinito, ero completamente fuori di me e aspettavo soltanto che giungesse la fine.
    Ancora non ti sei arreso? Da me non avrai più nulla» dissi deciso.
    Meglio morire libero che vivere in eterno come schiavo. Anche se il mio corpo era imprigionato chissà dove, la libertà di poter scegliere chi essere era per me fondamentale. Scelsi di rimanere saldo nei miei nuovi ideali: il mio corpo non sarebbe stato mai più la prigione della mia anima. Quell'uomo un po' invecchiato che un tempo cingevo felice come se fosse la mia ancora mi stava uccidendo. Lasciato con poco cibo e poca acqua, sbarrato da una barriera invisibile che non mi permetteva di scappare anche se la porta davanti a me era aperta. Ero al limite delle mie ultime forze e non riuscivo a stare in piedi, ma il mio segreto sarebbe morto insieme a me piuttosto che cadere in mani sbagliate. Continuavo a fissare le mie mani ferite, di quando avevo provato a scappare da quella barriera e toccandola me l'ero ustionate. Non erano più guarite a causa del mio corpo debilitato. Il dolore era diventato parte della mia esistenza, ma l'anima tende a soffrire più del corpo. Al dolore fisico mi ero abituato ma a quello che portavo dentro non ancora. Poteva essere la mia ultima prova ed ormai avevo perso le speranze che Zoroak mi potesse ritrovare. Il campo di forza della barriera progettato apposta sulle mie frequenze, le respingeva all'interno. Zoroak non avrebbe mai potuto sentire la mia voce interiore nemmeno se fosse stato davanti a me. Non mi restava molto tempo lì dentro e quella creatura avrebbe continuato a divorarmi fino alla morte.

-------------------------------------------

Presi un giorno di ferie dicendo a mio padre di averne bisogno; avviai le fedeli eliche e diedi un colpo deciso alla cloche. Ero nuovamente da solo, in compagnia delle nuvole, degli uccelli e del vento. I miei Pokémon, ed anche Eevee che di solito stava sulla mia spalla, si rifugiavano spesso e volentieri nelle loro sfere, perché il mio stato d'animo non gravasse sulla loro felicità. Loro non lo meritavano affatto e nemmeno la mia famiglia. Quella sofferenza che si impossessava di me influenzava negativamente anche chi voleva aiutarmi, e quelle parole rivoltemi da uno sconosciuto, rimbombavano ancora come un eco nella mia testa: «"con questo atteggiamento non andrai lontano. Il mio consiglio è di tornare a vivere perché in questo modo stai facendo morire anche tuo padre e tuo fratello che si angosciano per te. Li ho sentiti sai? Non si danno pace perché sei irrequieto e gli dai troppi pensieri. Devi incanalare questo dolore altrimenti i sentimenti negativi ti consumeranno. Te lo do come consiglio da amico perché anche io ci sono passato"».

«"Non siamo amici"».

«"Ne prenderò atto"».

Quella volta lo respinsi ma di fatto aveva ragione. Facile però parlare quando non si tratta di te. Semplice dire agli altri in che modo sarebbe giusto sentirsi quando ti affliggi per una persona che non ritornerà mai più da te. Il problema era che sebbene fossero già passati quattro anni dall'inizio del mio tunnel, io non riuscivo a scorgerne nemmeno la fine.
    Le ore in volo trascorsero lisce come la pellicola di un film appassionante e mi ritrovai nello spazio aereo di Zondopoli. Ricordai la mia avventura al deposito frigo e mi persi per alcuni minuti in quei pensieri.
Scesi di quota quando avvistai quel punto sulla mappa ed atterrai appena fuori dal cortile del centro di recupero di Alisopoli. Nell'estrema parte a sud ovest della regione di Unima, sorgeva una modesta ma ben curata struttura dotata di un grande parco verde annesso, gestito da ex membri pentiti del Team Plasma. Mi avvicinai al cancello d'ingresso e suonai il citofono.
    «Buongiorno sono qui per conto della polizia». Affermai non appena ebbi una risposta. Non era vero ovviamente, nessuno sapeva che fossi andato lì, ma prima di poter condividere con la mia famiglia ciò che stava succedendo ed evitare di fare errori, dovevo indagare per conto mio. Una ragazza magra, con i capelli biondi venne ad aprirmi.

    «Buongiorno io sono Concordia. Lei chi è? A cosa devo la sua visita?»

    «Sono l'agente Evan e sono venuto per fare un controllo».

    «Bene, mi faccia vedere il distintivo e il mandato della polizia internazionale allora».

    Non sapevo che ci volesse un'autorizzazione scritta, anche se avrei dovuto immaginarmelo. Nessuno poteva entrare in quel posto se non autorizzato per via delle restrizioni degli occupanti del centro. Provai ad insistere allentando il tono. «Sono un agente della squadra di soccorso di una città a nord di Unima. Voglio solo parlare con il signor Harmonia per chiedergli delle importanti informazioni, poi me ne andrò».

    «Ah ma allora non è un poliziotto. Mi dispiace ma lei non è autorizzato ad entrare».

    La ragazza iniziò a lisciarsi i capelli e a sistemarsi lo chignon sopra la testa. Ero arrivato fino a lì dopo diverse ore di viaggio per soddisfare un mio dubbio ed ero deciso a farlo, così puntai sul mio lato da poliziotto cattivo, anche se di fatto non ero nessuno delle sue cose.
    «Questo atteggiamento di chiusura nei miei confronti mi fa pensare che abbiate qualcosa da nascondere».
    Senza farsi troppo intimidire, la ragazza cercò di far valere i suoi diritti.

    «Lei è a conoscenza che se si venisse a sapere che abbiamo fatto entrare qualcuno senza autorizzazione, passeremo dei guai entrambi?»

    «Nessuno verrà ma a sapere che sono stato qui. Non mi tratterrò molto».

    «Le ho già detto che non può entrare, se ne vada».

    «Se ha paura che la polizia internazionale ci sorprenda qui, posso garantirle che oggi non verrà fatta nessuna visita. Collaboro con la polizia e so tutto quello che succede».

    Concordia stava per rispondermi a tono ma una voce maschile la interruppe e un ragazzo si avvicinò alla porta. Era lui, l'ex sovrano in persona, impossibile da confondere con qualcun'altro. Una figura alta e slanciata, una montagna di capelli lunghi che arrivavano fino alla schiena, occhi cangianti che andavano dai colori del cielo a quelli delle distese erbose di montagna e quella pelle così chiara che faceva impressione contrapposta alla mia carnagione media. Rimasi davvero colpito dalla sua inaspettata pacatezza e gentilezza.

    «Buongiorno ... agente ... »

    «Virgil ... Virgil Evan».
    Aprì la porta per farmi entrare ma la sua collega protestò.

    «Non puoi farlo, passeremo dei guai».

    Aprendo il palmo della mano verso di lei, N le fece cenno di tranquillizzarsi e la congedò con garbo. Chiuse la porta alle mie spalle, si sfilò i guanti di lattice con cui stava lavorando e mi porse una mano sorridendo.
   
    «Piacere di conoscerla agente Evan. La prego si accomodi pure in casa».

    Ricambiai la stretta e mi precedette lungo il corridoio fino al soggiorno in cui c'era l'altra ragazza.

    «Antea, Concordia, potreste lasciarci da soli per favore?» chiese lui molto gentilmente.
 
    Le ragazze fecero un lieve inchino piegando le gambe e lasciarono la stanza. N mi fece accomodare sul divano mentre si dirigeva verso il frigo per prendermi qualcosa da bere e me la offrì.

    «È venuto qui per assicurarsi che non mi sia dato alla fuga?»

    «Diciamo che ero curioso di conoscerla di presenza signor Harmonia» risposi prendendo in mano il bicchiere che mi porse.

    «Solo per questo? Tutti qui ad Unima sanno tutto di me, come mai lei no?»

    «Diciamo che negli ultimi anni ho frequentato pochissimo casa mia».

    «Comunque è bizzarro, nessuno è mai venuto fino in questo angolo di mondo solo per conoscermi. Eccomi qua in carne ed ossa. Posso fare qualcosa per lei?»

    Esitai per qualche secondo, come se mi sentissi sotto osservazione, anche se in realtà era lui che doveva avere questa sensazione, ma a giudicare dalla sua posizione alquanto rilassata, era decisamente il contrario.

   «Stia tranquillo» mi rassicurò intuendo un mio timore, «non riferirò alla polizia che una persona non autorizzata si è presentata qui in veste di investigatore privato per interrogarmi, con me può stare tranquillo, sono molto aperto al dialogo».

    Molto intuitiva come persona, dovevo ammetterlo. Se avessero scoperto che ero andato lì senza un valido motivo, avrei avuto di sicuro un richiamo ma ero intenzionato a risolvere i dubbi che mi avevano tolto il sonno, a qualunque costo. Non mi feci intimorire e non ringraziai, anche se l'unica persona in torto quel giorno ero proprio io. Cercai di mantenere un tono formale ed autorevole, all'altezza del distintivo che portavo. Ostentavo un inutile atteggiamento di superiorità ma la calma e la naturalezza con cui il mio interlocutore mi si rivolgeva, mi fecero sentire piuttosto a disagio.
    «Volevo sapere dove si trovava due sere fa verso tra le ventitré e l'una di notte».

    «Ero qui e stavo riposando nella mia stanza. Vado a letto molto presto per essere già in piedi all'alba».

    «Un volontario modello?»

    «E così che mi definite al di fuori di questo posto?» rispose quasi infastidito dalla mia frase, come se lo avessi insultato. «Non sono qui per mia volontà ma cerco di fare del mio meglio».

    «Era solo una battuta».

    «Una pessima battuta direi» gli scappò di dire, ma cercò di riprendersi subito.
    «Mi scusi agente Evan, non volevo certo mancarle di rispetto».

    «Non sono offeso, so che le mie battute fanno schifo, me lo dicono tutti ultimamente».

    Ci fissammo per qualche secondo e credo che venne da ridere ad entrambi. Mi parse per un attimo di scorgere un sorriso fugace sulle sue labbra, genuino e contagioso che però riuscì a soffocare in tempo. Mi schiarii la voce per ricompormi, dovevo farmi conoscere come una persona seria e formale per essere credibile nel mio ruolo.
    «Mi è stato riferito che in questo centro siate in tre a lavorare e so che l'altra notte alcune persone sono arrivate qui e che i Pokémon delle sue colleghe, li abbiano salvati da uomini armati che avevano una base qui vicino. Insieme a loro c'era un altro ragazzo di nome Noah. Lei sa nulla di questa storia?»

    «Si certo, me lo hanno raccontato, però io non li ho mai visti».

    «Ho avuto modo di parlare con quei ragazzi e mi hanno detto che sono stati teletrasportati qui e poi direttamente ad Austropoli. Perché sono stati mandati via così?»

    «Avevano solo smarrito la strada».

    «E il ragazzo di nome Noah, dov'è stato mandato?»

    «Noah? Mi dispiace ma le mie colleghe non gli hanno chiesto i nomi. So solo che sono stati tutti teletrasportati via da qui ma non so dove. Non era possibile ospitarli per la notte, non siamo un rifugio per viaggiatori, lei mi capisce non è vero?»

    La sua spiegazione non mi convinceva affatto ma andai avanti ugualmente con le domande.
    «Chi erano quelle persone armate da cui quei ragazzi sono stati salvati?»

    «Loro non lo sapevano e di conseguenza non ne sappiamo nulla neanche noi».

    «Quindi le sue colleghe non conoscevano le persone che quella notte si sono ritrovati qui?»

    «No, non direi».

    Anche lui venne ad accomodarsi sul divano dopo essersi servito un frullato di bacche per farmi compagnia.
    «Allora mi sa spiegare il motivo per cui le sue colleghe abbiano mandato i loro Pokémon in un posto che nemmeno conoscevano, per salvare delle persone che non avevano mai visto?»
    Lo misi proprio a disagio con tutte quelle domande. La sua posa divenne rigida, e la sua espressione mutò in un sorriso quasi isterico.

    «Agente Evan ... io l'ho fatta entrare per gentilezza ma non può certo approfittarne».

    «Ha detto di essere aperto al dialogo e noi stiamo solo parlando».

    «Si l'ho detto ma ...se è qui per farmi un interrogatorio dovrebbe avere un mandato o dovrei aver ricevuto una convocazione. Non vedo il motivo per cui dovrei rispondere alle sue domande».

    Iniziò a irrigidirsi ritto sulla schiena. Mi stava nascondendo molte cose e non mi sarei fermato.
    «Le persone si tirano indietro quando hanno delle cose da nascondere. L'ho imparato lavorando al fianco della polizia e assistendo a diversi interrogatori».

    «Quindi ammette che sta cercando di interrogarmi?» chiese contraendo le sopracciglia.

    «Cosa? No, io ...»

    «Ma certo ... è lei l'esperto qui. In ogni caso siamo completamente estranei ai fatti accaduti quella notte. Non vogliamo avere problemi data la nostra situazione. Spero che mi possa capire e che non intenda riferire alle autorità l'accaduto di cui è venuto a conoscenza».

    «Questo non sarà lei a deciderlo signor Harmonia».

    «Anche io potrei dire che lei è stato qui».

    In effetti era vero, così tentai di smorzare la tensione.

    «Allora entrambi abbiamo un motivo per tenere il segreto».
    Dopo un cenno d'intesa tra noi, il mio discorso proseguì.
    «Si dice che suo padre, morto per quanto riguarda l'opinione pubblica, abbia invece rimesso radici nella regione».

    «È vero ma nessuno ci crede. Mi stupisce la sua curiosità in tal senso».

    «Quindi lei pensa che sua padre sia ancora vivo?»

    «Non ne ho la certezza ma ho motivo di crederlo perché ho visto quelli che lavorano per lui e mentre io sono qui a scontare la mia pena, se va in giro indisturbato pronto a mettere nuovamente la terra in subbuglio ma ... la polizia internazionale non mi crede. La cosa importante è che io me ne stia buono senza dare fastidio a nessuno».

    «Come fa ad avere la certezza che si tratti proprio del Team Plasma? Hanno provato a mettersi in contatto con lei?»
    Rimase in silenzio ma fu troppo breve perché si rendesse conto della sua esitazione.
   
    «Nessuno si è mai presentato qui fino ad ora ma sono preoccupato per le mie colleghe e per la palestra di Kommor che si trova proprio in città. Se il Team Plasma dovesse arrivare qui, loro sarebbero in pericolo ma alla polizia non interessa nulla di noi. Per quanto gli riguarda potremmo anche smettere di esistere».

    Da come parlava, capii che si sentiva totalmente rifiutato e che questa condizione lo stesse squarciando dall'interno, anche se tentava di nascondere tutto sotto quello strano sorriso. In TV veniva sempre descritto come la persona senza scrupoli alla guida della più grande organizzazione terroristica della storia. Possibile che fosse cambiato fino a questo punto, tanto da odiare suo padre per quello che aveva fatto? Mi ero recato al suo rifugio con tanti pregiudizi ma adesso ero totalmente in confusione.
    «Come fa ad avere queste informazioni se non può muoversi da qui?»

    «Lo sa che io posso parlare con i Pokémon?»

    Ma come faceva ad avere sempre la risposta pronta?
    «Si, l'ho sentito dire ... »

    «Bene. Allora visto che qui non mi è permesso di tenere il televisore, la radio e nemmeno di leggere i giornali, devo pur tenermi aggiornato sulle notizie di Unima e lo faccio in questo modo».

    «Un passa parola tra Pokémon?»

    «Lo chiami pure come vuole ma la sostanza è quella».

    «Quindi mi sta confermando che il Team Plasma è tornato?»

    «Si, lo confermo».

    «Quelle persone che si trovavano quella notte al belvedere di Alisopoli potevano essere loro?»

    «È probabile ma non possiamo averne la certezza purtroppo. Datevi da fare per fermarli se non volete che combinino altri danni».

    «Secondo lei perché stanno cercando quel ragazzo?»

    «Chi? Noah? Non so nemmeno chi sia. Come mai tiene tanto a quella persona da essere venuto fin qui da Forteverdepoli?»

    Aveva detto Forteverdepoli? Io non lo avevo mai riferito a lui o alle ragazze, avevo detto di venire da una città a nord di Unima. Qualcosa non tornava, o forse al contrario, tutto era così chiaro ... ma come potevo dimostrarlo? Se lo avessi accusato che lui e Noah potessero essere la stessa persona avrebbe negato per la mia mancanza di prove. Inoltre la divergenza fra il colore degli occhi e dei capelli ed anche della voce era evidente. Non mi restava che andare a cercare Noah per smascherare lui, anche se mi ero ripromesso di dimenticarlo.

    «Spetta alla polizia indagare su queste cose e non alla squadra di soccorso. Lei dovrebbe stare al suo posto agente Evan ».

    Mi aveva detto di rimanere al mio posto! Incredibile dover prendere ordini da un delinquente agli arresti domiciliari! Stare lì mi stava irritando parecchio ma insieme alla mia furia anche la curiosità di scoprire qualcosa cresceva, così rimasi al suo gioco fino all'ultimo senza scompormi.
    «Ho incontrato Noah tempo fa e lui sostiene apertamente di aver visto il Team Plasma, conosce i loro nomi e loro conoscono lui. Quella banda vuole catturarlo e lo ha quasi ucciso. Voglio aiutarlo e scongiurare un'altra minaccia di quella portata e chi meglio di lei che era a capo dell'organizzazione, potrebbe darmi delle informazioni utili?».

    «Questa informazione è errata, non ero il capo. Si interessa così tanto ad uno sconosciuto, perché?»

    «Perché è il mio lavoro. Aiuto le persone e mi piace».

    «Deve essere molto motivato per violare un'ordinanza del Ministero della Difesa secondo la quale nessuno oltre le persone autorizzate possono mettere piede qui».

    «O molto stupido».

    Mentre iniziavamo a discutere un po' più animatamente, l'altra ragazza ci interruppe.

     «Scusa se ti disturbo Natural ma abbiamo bisogno di te di là».

    «Arrivo subito Antea. Agente Evan ... questo le fa davvero onore. Lei è davvero una brava persona ma stia attento a non superare i limiti. Non faccia gli errori che ho fatto io. Ci mettiamo un attimo a perdere noi stessi ed una vita o forse mai per ritrovarci, ci pensi bene».

    A giudicare dalle parole che mi rivolgeva, avrei scommesso che sapeva molto sul mio conto. Le mie intuizioni solitamente non sbagliavo mai.
    «Lei non sa niente di me signor Harmonia».

    «Ha ragione ... tuttavia è una delle rare persone ad avermi trattato con rispetto. Per questo sono sicuro di ciò che dico. C'è qualcos'altro che posso fare per lei?»

    «Soltanto una cosa: se dovesse avere altre notizie riguardo al Team Plasma o a Noah, voglio che mi avverta subito».

    «Lei mi crede?»

    «Le concedo il beneficio del dubbio, non di più. A proposito ... lei somiglia molto a Noah, anche se la voce è diversa. Anche lui parla con i Pokémon. Non le sembra una bizzarra coincidenza?»

    «È bello sapere di non esseri soli. Sono stato considerato pazzo per molto tempo a causa di questo, lo sa?»

    «Lo immagino».

    «Vuole farmi compagnia nel bosco per tenermi d'occhio? A volte mi ci trattengo più del previsto per recuperare erbe e bacche con cui prepariamo i rimedi per il centro e per questo motivo la polizia pensa che io voglia scappare».

    «Le farei compagnia volentieri ma non posso trattenermi oltre. Magari ci rivedremo con più calma quando avrà delle informazioni per me».

    «Come farò a contattarla? Non ho il telefono qui».

    Presi un minuscolo auricolare che fungeva anche da telefono, impostato solo per ricevere e chiamare verso il mio dispositivo da polso e glielo porsi.
    «Teniamoci in contatto con questa».

    «Una mini trasmittente?»

    «Certo. Efficace e discreta. Per qualunque cosa non esiti a contattarmi».

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