Per sempre così

di Shadow writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Il club ***
Capitolo 3: *** Succo di pesca ***
Capitolo 4: *** Hotel Serena ***
Capitolo 5: *** Campanellino e Peter Pan ***
Capitolo 6: *** L'agnellino ***
Capitolo 7: *** Paradiso terrestre ***
Capitolo 8: *** Agosto pt.1 ***
Capitolo 9: *** Agosto pt.2 ***
Capitolo 10: *** La fine dell'estate ***
Capitolo 11: *** Senza luce ***
Capitolo 12: *** Un raggio ***
Capitolo 13: *** Pasqua ***
Capitolo 14: *** Le feste d'inverno ***
Capitolo 15: *** Capodanno ***
Capitolo 16: *** Fine della sessione ***
Capitolo 17: *** Nostalgia ***
Capitolo 18: *** Il ritorno ***
Capitolo 19: *** Amici e amanti ***
Capitolo 20: *** Immacolata ***
Capitolo 21: *** Camera da letto ***
Capitolo 22: *** Primavera estate ***
Capitolo 23: *** Diventare grandi ***
Capitolo 24: *** Capodanno in città ***
Capitolo 25: *** San Valentino ***
Capitolo 26: *** La festa di laurea ***
Capitolo 27: *** Tragedia sul lago ***



Capitolo 1
*** Intro ***



 

Nell’estate della maturità, per la prima volta, iniziai un nuovo diario senza aver finito il precedente. Quello nuovo lo avevo comprato in gita, a Roma, e non aveva nulla di particolarmente speciale. Era un piccolo quaderno rilegato in cartoncino nero con un disegno abbozzato del Colosseo. 
La prima pagina iniziava subito dopo l’orale di maturità, e ne parlavo come di un momento decisivo, di svolta nella mia vita. Sentivo che un grande capitolo della mia esistenza si era chiuso e, simbolicamente, avevo deciso di iniziare un nuovo diario. I primi avvenimenti raccontati sono poco degni di nota: le riunioni per educatori al campo estivo, una giornata al lago con Erika, una serata trascorsa ad ascoltare Ginny mentre ripeteva per l’orale, fino a che parlo della festa al Movida. Mi ero ubriacata in modo vergognoso insieme ad altri ragazzi che, come me, avevano appena finito la maturità e poi ero crollata su un panettone a bordo della strada, senza ricordarmi come ci fossi arrivata. Sapevo di essermi allontanata dalla festa che si stava tenendo in spiaggia e che ero arrabbiata perché Marco mi aveva chiamata ancora. 
«Meg» avevo sentito e avevo alzato gli occhi dall’asfalto. Davanti a me stava Sam, a cavallo della sua moto. Non l’avevo neanche sentito avvicinarsi. Si era tolto il casco e lo aveva appoggiato dietro di sé. Teneva i capelli chiari tirati indietro da una fascetta elastica ed erano tutti spettinati, a tratti schiacciati sulla testa. 
«Cosa ci fai qui?» mi chiese.
«Sto andando a casa».
Si voltò a guardare un punto imprecisato nel monte alle sue spalle. «Pensi di riuscirci?»
Lo guardai senza dire nulla. Ero parecchio alticcia e solo riuscire a mantenermi dritta su quel panettone mi costava uno sforzo enorme.
«Dai, ti do un passaggio, va bene?»
«Non sei costretto».
Lui sorrise. «Non mi sentirei a posto con la mia coscienza lasciandoti qui.»
In un diario del gennaio dell’anno successivo, annotai che, se avessi saputo come sarebbe andata a finire, non avrei mai accettato quel passaggio. Se avessi potuto avere un’anteprima dei mesi successivi, avrei scosso il capo a Sam, nel momento in cui mi avrebbe allungato una mano per alzarmi dal panettone. Non sarei salita sulla sua moto, aggrappata al suo busto con l’aria che mi soffiava sul viso e il petto premuto contro la sua schiena. Gli avrei scosso il capo e avrei aspettato il primo pullman del mattino per tornare a casa. Ma quella sera ero ubriaca e triste e quando Sam era comparso davanti a me, su quella moto mi era sembrato un principe azzurro con il suo cavallo bianco. In un attimo dimenticai quanto lo trovassi pieno di sé, quanto lo avevo criticato ogni volta che Ginevra era corsa da me a piangere, quanto avessi commentato con Erika che era troppo distaccato e altezzoso per i nostri gusti. In quel momento mi ricordava solo il ragazzino di due anni più grande che al campo estivo mi aveva portata in braccio quando mi ero sbucciata il ginocchio e aveva corso sul terreno scosceso tenendomi sotto le cosce, mentre io guardavo il rivolo di sangue che scendeva verso la mia caviglia. Quella sera era di nuovo il mio salvatore.
Viaggiammo in silenzio per le strade deserte e buie, fino a che mi sentii improvvisamente debole e per paura di cadere dalla moto gli chiesi di fermarsi, battendo sul suo braccio.
Sam accostò poco prima di una curva, a fianco di un santuario dedicato alla Madonna. La statuina era illuminata da una luce sempre accesa che ne rendeva leggibile la dedica sul piedistallo. 
Scendemmo entrambi dalla moto e lui si voltò a guardarmi, preoccupato. «Stai bene?»
«Ho bisogno di… aria» maneggiai disperatamente con il casco nel tentativo di togliermelo, ma la presa mi scivolava continuamente. 
«Aspetta, lascia fare a me».
Con un gesto esperto, Sam fece scattare la chiusura e aprì il casco, poi mi aiutò a sfilarlo. Respirai l’aria con avidità, lasciando che mi invadesse la bocca impastata dall’alcol. Sentivo le gambe instabili, molli.
«Ehi». Sam mi stava fissando. «Sei fatta?»
«Ho solo bevuto. Marco mi sta facendo uscire di testa».
«È successo qualcosa?»
Boccheggiai. «Continua a chiamarmi e a cercare di parlarmi ogni volta che mi vede. Non pensavo fosse così impegnativo lasciare una persona. Già mi sento una merda, potrebbe almeno avere la cortesia di lasciarmi in pace».
Un’auto passò sulla strada accanto a noi, ci ignorò e sparì dopo la curva.
«Già» disse Sam, mentre si toglieva l’elastico della testa e si passava una mano tra i capelli. «Ti capisco».
Strinsi gli occhi, poco convinta. «Come puoi capirmi? Stai con Ginevra da tre anni e mezzo».
Ricordavo alla perfezione il momento in cui la mia migliore amica mi aveva detto che lei e Samuele Landi stavano insieme ufficialmente. Era il Capodanno della nostra seconda superiore e lo stavamo festeggiando all’ultimo piano dell’albergo di Ginevra, quando a un certo punto lei era sparita sul terrazzo e, quando era rientrata, avevo notato che si teneva mano nella mano con Sam. Poco più tardi mi aveva convocata nel bagno e mi aveva spiegato tutto quello che era successo e come sarebbe proseguita la serata nella camera matrimoniale adiacente.
Erano stati insieme da allora. Assistere alla loro relazione dall’esterno era ciò che mi aveva spinto a rimanere single il più a lungo possibile. Agli occhi degli altri, erano la coppia perfetta che sarebbe durata per la vita, ai miei occhi quella era una relazione di crisi di pianto e fasi di mutismo a cadenza periodica. Erano entrambi belli, ricchi e di buona famiglia, abbastanza beneducati da affascinare chiunque incontrassero e abbastanza eleganti da far capire che nessun altro poteva aspirare a rimpiazzare uno dei due. Si facevano vedere ai tavoli dei ristoranti migliori: Ginevra con qualche gonna corta e dei tacchi che slanciassero la sua figura minuta, Sam con una camicia chiara e dei pantaloni di sartoria che vestivano le sue gambe muscolose. Erano socievoli e non c’era festa a cui non fossero invitati. Ma dietro l’apparente scintillio delle loro vite perfette, erano due persone testarde, sicure di sé e restie al compromesso. I loro litigi erano violenti e raramente si risolvevano con scuse e patteggiamenti, anzi, più di frequente le motivazioni della lite perdevano di vigore, poco alla volta i due dimenticavano ciò che li aveva fatti discutere e diventava troppo forte il richiamo alla loro vita da principe e principessa. Messe da parte le scenate, indossavano nuovamente i loro abiti firmati e tornavano a calcare le passerelle della scena sociale, tra ristoranti costosi, passeggiate sul lago e serate a ballare.
Avevo accettato di mettermi con Marco due anni più tardi, quando la solitudine stava cominciando a farsi pesante e avevo capito di non poter rifiutare tutti all’infinito. Marco era più grande, mi era sembrato una persona matura, intelligente e totalmente estranea alle dinamiche sociali che coinvolgevano i miei amici. E, in più, mi adorava. Lo capivo dal modo in cui pendeva dalle mie labbra ogni volta che parlavo o da come assecondasse una mia richiesta. Ma non potevo comandare al mio cuore di amare qualcuno solo perché mi trattava bene. 
Sam mi fissò in silenzio per qualche secondo. «Ho detto a Ginny che è finita quasi due settimane fa».
Pensai di non aver sentito bene. «Come?»
«Non ti ha detto nulla?»
Scossi il capo. «Mi stai prendendo per il culo?»
«No, ma non mi stupisce. Lei continua a comportarsi come una delle solite liti. Non ha capito che questa volta è finita davvero».
Lo guardai e per la prima volta mi resi conto di quanto fossero stanchi i suoi occhi, arrossati e contornati da occhiaie scure.
«È successo qualcosa?» gli chiesi. 
Sam fece cenno di no. «Semplicemente non sono più innamorato di lei. Da un po’ ormai».
Le parole gli parevano provocare una certa afflizione, quasi avesse faticato a tirarle fuori. 
«Cazzo» replicai, poi assunsi un tono più comprensivo. «Lo capisco».
Lui guardò il santuario con la madonnina. «Ti va se rimaniamo un attimo a prendere aria? Dovrebbe farti stare meglio».
L’oscurità della notte mi pareva più invitante che risalire sulla moto, così rimanemmo lì, sul ciglio della strada. La luna in cielo era piena e illuminava le sagome striminzite degli alberi già secchi, nonostante l’estate fosse appena iniziata. 
«Posso dirti una cosa?» disse Sam d’un tratto, «senza offesa». 
Gli dissi di continuare.
«Non ti ho mai vista bene con Marco, è come se… come se brillaste di due luci diverse. Non capivo perché tu volessi stare con lui».
Mi strinsi nelle spalle. Le uscite a quattro che avevamo fatto gli anni precedenti non erano mai state le mie serate preferite, quando io e Ginny passavamo la serata a chiacchierare tra di noi e i due ragazzi cercavano di cavarsela con qualche battuta di cortesia. Sam era socievole, ma lui e Marco avevano sempre fatto fatica a trovarsi del tutto.
«Era meglio che stare da sola» mormorai.
«A volte la solitudine è una liberazione».
Risi a gran voce. «Parli tu. Non dirmi che non ti faceva paura la solitudine».
Sam stava ancora cercando di domare i suoi capelli, ma si arrese presto e rimise la fascetta, poi prese posto sulla vecchia panchina davanti al santuario. «Credo che mi facesse più paura cambiare la mia vita. Non era la solitudine il problema, ma rinunciare a tutto quello che ho sempre avuto. La domenica mattina a casa di Ginny, le estati in barca, le giornate all’albergo, la sua famiglia, la mia famiglia, gli amici… tutto, tutto diverso». 
Annuii. Per quanto la mia relazione con Marco non avesse mai funzionato davvero, sapevo quanto l’abitudine fosse un vestito difficile da levare. 
Sam aveva un’espressione rigida, con i denti serrati e la mascella in tensione. Teneva le mani appoggiate sulle cosce, strette in pugni nervosi. Mi avvicinai e gli toccai una spalla, di riflesso lui alzò gli occhi per guardarmi.
«Passerà, e sarai anche più felice di prima».
Fece un cenno di assenso, quasi volesse cercare di convincere se stesso, ma i suoi pugni erano ancora chiusi. Mi sedetti al suo fianco.
«Lo so cosa pensi di me» disse lui senza guardarmi. Teneva gli occhi fissi sulla punta delle sue scarpe impolverate. «Ginny mi ripeteva che ero uno stronzo ogni volta che litigavamo. Un insensibile, che non sapeva amare. Immagino non sia stata tanto più gentile nel parlarti di me».
Non risposi, pensando che una conferma implicita potesse risultare meno dolorosa.         
«Il fatto è che…» riprese Sam «all’inizio io ero innamorato di lei, o almeno lo credevo. Ma non è sempre facile capire cosa significa essere innamorati, insomma… servono degli esempi, io…»
Si interruppe e mi guardò. Aveva le guance arrossate e gli occhi vividi, ma qualcosa lo trattenne, perché scosse il capo. 
«Stai meglio? Te la senti di ripartire?» chiese. Il suo tono accaldato era completamente sparito, lasciando spazio ad una disinvoltura che voleva mascherare tutto ciò che aveva preferito tenersi dentro. Si alzò in piedi e mi tese una mano, che accettai di buon grado. Era calda e ruvida, ma forte quando mi aiutò a sollevarmi. Mi sentivo ancora la testa leggera, ma non stavo più male come poco prima.
«Possiamo ripartire» gli dissi e feci per tornare verso la moto, ma inciampai in un gradino. Da dietro, Sam mi afferrò al volo prendendomi per un braccio. Sentii un dolore alla spalla, strattonata, mentre lui mi aiutava a raddrizzarmi.
«Sei sicura di farcela?» chiese. Era così vicino che sentivo il profumo che si era spruzzato sui vestiti quella sera. 
Trattenni il respiro e annuii. «Sì, andiamo».
Risalimmo sulla moto senza parlare. Sam mi disse di aggrapparmi bene a lui, poi riprese a salire i tornanti. Le mie braccia ora lo stringevano con più vigore e mi sentivo salda sopra alla sella. Pochi minuti più tardi si fermò di fronte a casa mia, appena illuminata dai faretti posti sui gradini che conducevano alla porta d’ingresso. Era una vecchia casa a tre piani costruita su un terreno in pendenza, e dai balconi sulla facciata principale si intravedeva il lago. Sulla sinistra erano stati costruiti dei terrazzamenti dove coltivavamo frutta e verdura, mentre nella parte più alta del giardino c’era una piscinetta di un metro che veniva montata ogni estate. 
Sam si fermò sullo spiazzo davanti al cancello che portava al garage e mi aiutò a scendere.
Gli restituii il casco. «Grazie per il passaggio».
Lo vidi sorridere mentre prendeva il casco e se lo infilava. Rimasero fuori solo gli occhi. 
«Figurati» replicò. «Goditi l’estate ora che hai finito gli esami».
Lo ringraziai e feci qualche passo indietro per consentirgli di girare la moto, poi Sam mi salutò sventolando la mano e lo guardai sparire oltre la curva che riscendeva verso il lago. 

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Capitolo 2
*** Il club ***




Capitolo 1. Il club

Al posto di crogiolarmi nel dolce far niente nelle prime settimane di libertà a fine giugno, avevo deciso di fare da educatrice al campo estivo che avevo frequentato fin da quando ero piccola. La paga era un mero rimborso spese, ma mi piaceva trascorrere le giornate a inventare attività per i bambini e giocare con loro.
Il venerdì che concludeva la mia prima settimana di lavoro era iniziato male quando due bambini avevano cominciato a tirarsi i capelli ancora prima che l’autobus partisse. Mi ero dovuta intromettere tra di loro per separarli, prendendomi qualche cazzotto a mia volta. Alla fine, mi era seduta tra i due per separarli e Andrea, il bambino alla mia destra, aveva passato i primi minuti di viaggio a dire che a lui i pullman facevano venire da vomitare, minacciando di farlo sulle mie gambe a ogni curva. Mi chiesi se anche io fossi risultata così difficile da gestire ai miei educatori, perché avevo solo bei ricordi di quei momenti.
«Io guiderò la mia barca contro di te e ti farò cadere nel lago!» strepitò Giacomo, il bambino alla mia sinistra, allungandosi verso Andrea. Gli afferrai il polso e lo rimisi al suo posto. «Il primo che farà cadere qualcuno in acqua, verrà abbandonato in mezzo al lago, così i pesci potranno mangiarlo» gli dissi e quello ammutolì.
Quando ero piccola, tutte le attività si svolgevano nella colonia in cima al monte, tra la frescura dei boschi e le vecchie stanze dell’oratorio in disuso, ma negli ultimi anni erano state inserite uscite che potessero rendere il campo più interessante, come la giornata al club di vela e canottaggio. Il pullman superò l’ultima curva e raggiunse la strada che costeggiava il lago. Le spiagge erano già gremite di turisti e locali che avevano piantato i loro ombrelloni colorati e le sdraio di plastica sui sassi chiari. Era una giornata soleggiata, ma un vento leggero che veniva dal lago rendeva piacevole la temperatura. Il bus si fermò davanti all’insegna del club, una scritta blu su assi verniciate di bianco e tutti i bambini si riversarono nel parcheggio. Alla nostra sinistra sorgeva il ristorante, con la sua elegante terrazza che si affacciava direttamente sull’acqua. A destra, invece, c’era l’ingresso per la palestra e gli spogliatoi, che conduceva poi al porto.
Controllai di avere tutti i bambini che mi erano stati assegnati e li guidai all’interno, dove lasciarono gli zainetti negli spogliatoi e poi andammo verso il porto. Il responsabile degli istruttori, un uomo alto e massiccio, con i capelli rasati e la pelle inspessita dal sole, disse ai bambini di stendere le salviette a terra dove c’era ombra, sull’asfalto, così che potessero iniziare la prima parte delle lezioni della giornata. Tra gli schiamazzi, quelli ubbidirono, senza lasciarsi sfuggire occhiate ammirate per le barche a vela poco distanti, sia quelle in acqua, sia quelle sollevate.
«Margherita!» 
A chiamarmi era stato il capo educatore, un trentenne stempiato con degli occhialetti rotondi che continuamente gli scivolavano giù dal naso sottile. «Per questa prima parte della lezione servono solo metà educatori. Se vuoi puoi prenderti una pausa al bar insieme agli altri e tornare tra un’oretta».
Lo ringraziai e mi diressi volentieri verso il bar, un chiosco in legno bianco collocato tra il porto e il ristorante. I miei colleghi erano già seduti a un tavolo da picnic, sotto ad un ombrellone azzurro chiaro, così andai al bancone per ordinare. Mentre aspettavo di essere servita, mi sentii chiamare nuovamente, ma questa volta da una voce diversa. Era Sam. Mi si parò di fronte, alto e sorridente. Non lo vedevo dalla sera in cui mi aveva riportata a casa in moto, la settimana prima, e notai che aveva tagliato i capelli e la pelle abbronzata faceva apparire più chiari i suoi occhi azzurri. Indossava la polo bianca degli istruttori di vela, con il logo del club – un gabbiano con le ali aperte – cucito in blu in alto a sinistra. «Com’è l’estate senza esami?».
«Piena di bambini urlanti» risposi.
Il barista mi porse in quel momento il tè freddo che avevo ordinato e feci per pagare, ma Sam fu più veloce: «Quello lo offro io. Vieni, hai voglia di farmi compagnia mentre faccio colazione?».
Acconsentii, così ci spostammo a uno dei tavoli più vicini al lago, da dove riuscivamo a scorgere i bambini che seguivano la loro prima lezione di vela sulla destra, mentre a sinistra si intravedevano tra le vetrate e le tende bianche i camerieri che stavano preparando il ristorante per il pranzo. In mezzo, il lago era una distesa turchina appena increspata dal vento e l’aria era così nitida che si vedeva la sponda opposta, un insieme irregolare di monti puntellati da agglomerati di edifici, che si stagliava contro il cielo brillante. 
«I tuoi esami come stanno andando?» chiesi. Sapevo che studiava qualcosa a metà tra le Lingue ed Economia, ma non avevamo mai parlato molto dell’università.
Lui scrollò le spalle. «Abbastanza bene, ma con il lavoro qui faccio fatica a trovare tempo per lo studio. Mio padre vorrebbe che mi concentrassi sull’università, ma un’estate senza lago non è una vera estate per me».
Mi fece sorridere. Suo nonno aveva fondato Il Gabbiano negli anni Sessanta, come un centro sportivo per velisti e canottieri. Nei decenni successivi, anche attraverso l’aiuto del figlio, il padre di Sam, era nato il ristorante e il chiosco e infine si era ampliato con la propria spiaggia privata, diventando uno dei principali luoghi di interesse in quella sponda del lago. 
«Hai visto Ginny in questi giorni?» mi chiese, guardandomi attraverso le sopracciglia corrugate con uno sguardo concentrato. 
Scossi il capo. «Ha l’orale lunedì, sai com’è quando deve studiare. Tu l’hai più sentita?»
Anche lui fece cenno di no. «Dici che dovrei augurarle buona fortuna per lunedì?».
Mi strinsi nelle spalle, non sapendo cosa rispondere, e ci pensai un attimo perché Ginevra non mi aveva ancora detto nulla della rottura. Il suo atteggiamento non mi stupiva, perché già altre volte ero venuta a sapere delle loro litigate solo a distanza di tempo. Non mi ero mai lamentata, perché sapevo che erano affari loro e che Ginny mi avrebbe messa al corrente se avesse voluto. 
«Hai avuto dei ripensamenti?» chiesi a Sam.
Parve stupito dalla domanda, perché sgranò gli occhi. «No», rispose in tono perentorio, «te l’ho detto, questa volta è per sempre».
In quel momento, gli educatori in pausa vennero richiamati dai bambini, così dovetti salutarlo e tornare al porto.
 
Quella sera tornai a casa distrutta dalla giornata al lago, tanto che dopo la doccia mi lanciai sul letto e mi addormentai immediatamente. Avevo trascorso il pomeriggio a controllare bambini scalmanati che correvano sulle rocce e sguazzavano allegramente nell’acqua alta. Mi ero dimenticata di mettere la crema solare, così sentivo la pelle che tirava e scottava sulle spalle e sulla schiena. Dopo la chiacchierata al chiosco, io e Sam ci eravamo incrociati solo di sfuggita, quando aveva riportato i bambini dall’uscita con le barche a vela e poi ci aveva aiutato a radunarli prima di prendere il pulmino.
Stesa sul letto, ascoltavo mia nonna, al piano di sopra, che affettava il prosciutto e ascoltava il telegiornale al massimo volume. Mi resi conto di essermi addormentata quando sentii mia madre chiamarmi per la cena. Mi vestii di fretta – una gonna corta e una canottiera bianca – e corsi in cucina.
«Non ci sono per cena, esco con Ginny ed Erika» le dissi.
«Buono a sapersi» replicò mio papà dal tavolo, «così posso mangiarmi anche la tua porzione».
Ridendo, lo salutai con un bacio sulla guancia, poi uscii di casa. Mi affrettai giù per i tornanti, per raggiungere il parcheggio dove mi aspettava Erika, nella sua vecchia Clio grigia.
«Scusa per il ritardo» dissi salendo sul posto del passeggero. «Mi sono addormentata quando sono tornata dal campo estivo»
«Oh, figurati, ero appena arrivata» replicò Erika con noncuranza e capii che stava mentendo per farmi sentire meno in colpa.
Avevo conosciuto Erika durante un corso di pallavolo alle medie. Avevamo la stessa età, ma lei era in una classe diversa e non ci eravamo mai parlate prima. Eravamo diventate amiche, ci vedevamo anche fuori dal corso, così l’avevo presentata a Ginevra, che l’aveva accolta di buon grado nonostante fosse diversa dal tipo di ragazza che frequentava. Erika era vivace e le erano sempre piaciuti gli sport, non le feste eleganti e gli abiti firmati. Se un indumento non fosse andato bene per correre o giocarci a calcio, non lo avrebbe mai messo. 
Guidò fino al locale che Ginny aveva scelto per cena, un ristorante in un paese vicino che si affacciava sulla piazza principale del centro storico. Dopo qualche tentativo, trovò parcheggio e ci dirigemmo verso la piazza, su cui dominava la chiesa, in marmo bianco, con la grande scalinata che saliva fino al portone. Al suo fianco, un palazzo in pietra da poco restaurato ospitava il municipio da centinaia di anni. 
Ginny ci aspettava fuori dal locale, reduce da un altro aperitivo poco distante. Nonostante la sua modesta altezza, si faceva notare per il suo atteggiamento fiero, la schiena dritta e il mento alto. Cercai sul suo viso qualche segno di tristezza o dolore, ma non ci riuscii. Pareva più che altro scontenta per il nostro ritardo.
«Finalmente!» borbottò quando ci vide. «Stavo cominciando a pensare che non ci avrebbero più tenuto il tavolo riservato». 
Un cameriere ci fece accomodare all’esterno, sotto alla veranda aperta.
«Non parliamo dell’orale per favore» stabilì immediatamente Ginevra. «Mi viene l’angoscia al pensiero che voi lo abbiate già fatto e io devo aspettare altri tre giorni».
«Eh dai, Ginny!» protestò Erika. «Sei già promossa e non ti lasceranno con meno di novanta. Di cosa hai paura?»
Ginevra la squadrò come si guarda una persona che non capisce un discorso elementare. «Ho paura di tutto quello che c’è dal novanta al novantanove».
Intervenni tra le due, rivolgendomi a Ginny. «Vedrai che andrà tutto bene, hai avuto tutto il tempo per prepararti. Però stasera parleremo d’altro, come vuoi tu, okay?»
Lei annuì e parve rilassarsi. «Scusatemi, sono solo un po’ tesa».
Erika rise e la pungolò con il gomito. «Non ce ne eravamo accorte».
Ginny scosse il capo, facendo ondeggiare la frangetta nera, e sospirò. «Non vedo l’ora di partire per la Sardegna».
Il cameriere ci chiese cosa volessimo da bere, poi sparì all’interno del ristorante, lasciandoci consultare i menù.
Lanciai un’occhiata fugace a Ginevra da dietro il foglio che stava leggendo. Pareva assorta nella lettura delle insalatone e il suo volto non tradiva nessun altro pensiero.
Decisi di fingere nonchalance quando le chiesi: «A proposito di Sardegna, anche quest’anno viene Sam con te?». Forse era una mossa meschina, la mia, ma sapevo che non le avrei cavato nulla con una domanda diretta. Inoltre, avevo imparato questa tecnica da lei, che era maestra nel rigirare le conversazioni a proprio vantaggio senza che l’interlocutore se ne rendesse conto.
Ginny si irrigidì e alzò gli occhi inespressivi verso di me. «Non credo. Sam e io… abbiamo litigato».
Erika rise. «Sai che novità!»
«È una cosa seria?» la incalzai. Lei scrollò le spalle. «Chi lo sa. Non lo vedo da qualche settimana e per il momento sto bene così».
Erika parve intercettare la serietà della conversazione perché il sorriso si spense sulle sue labbra e assunse una posa più composta. Mi guardò, in cerca di una spiegazione, e quando non la ricevette si rivolse a Ginny. «Voi… vi siete lasciati?»
L’altra sbuffò. «Sì, come le altre cinquecento volte». Quando si accorse che entrambe la stavamo fissando senza parlare si spazientì. «Allora, volete decidere cosa ordinare?»
Erika e io abbassammo gli occhi sui menù, ma ci scambiammo un’espressione d’intesa. Anche l’argomento “Sam” era tabù per quella sera.
 
Qualche ora più tardi, mentre mi riaccompagnava a casa, Erika si azzardò a tornare sull’argomento vietato. La strada aveva appena iniziato a salire verso l’alto e, all’altezza del primo tornante, domandò: «Come la vedi tra Ginny e Sam?»
Strinsi le labbra e fissai gli occhi sulla strada scura, lo stesso asfalto che avevo percorso aggrappata a Sam, poco prima che lui mi rivelasse tutto.
«Sembra seria questa volta, ma con loro due non si può mai sapere» risposi senza troppa enfasi. 
Erika mi diede ragione e, sbuffando, aggiunse: «Dovremo attendere cosa decide Mr Perfezione».
«In che senso?»
«Mi sembrava chiaro che non fosse una scelta di Ginevra. Se lui cambierà idea torneranno insieme per la millesima volta».
Non replicai. A Erika, Sam non era mai piaciuto. Provava un’ostilità di fondo nei suoi confronti, che era data dalla sua condizione sociale – Sam era ricco e quindi, come tutti i ricchi, corrotto – e dal suo atteggiamento così sicuro di sé da apparire altezzoso. E poi Erika, benché più distaccata da Ginny rispetto a me, allo stesso tempo tendeva a darle più credito di quanto facessi io, per cui credeva sempre alla sua versione dei fatti senza mai approfondire. La lasciai guidare in silenzio fino a che non mi lasciò davanti a casa mia.
 

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Capitolo 3
*** Succo di pesca ***


2. Succo di pesca

Durante la giornata al lago con i bambini, nel caos della partenza, avevo dimenticato il mio salviettone in spiaggia. Dissi a Sam che sarei andata a riprenderlo nel fine settimana, ma lui replicò che non aveva nulla da fare e me lo avrebbe riportato sabato mattina, se ero a casa. 
Stavo raccogliendo le ciliegie in giardino, tenendo la cesta con un braccio appoggiata alla curva del fianco per poter avere l’altro braccio libero, quando sentii il motore della sua moto che risaliva i tornanti, lasciandosi alle spalle il lago che luccicava sotto i raggi del sole. Sam lasciò la moto davanti al cancello, poi suonò il campanello. Ne intravedevo la chioma chiara tra le fronde degli alberi. Probabilmente gli rispose mia mamma, perché il cancellino scattò e dopo pochi minuti me lo ritrovai davanti.
Improvvisamente, diventai consapevole dell’aspetto poco presentabile che avevo in quel momento. Portavo dei vecchi pantaloncini di stoffa corti che usavo per stare in giardino e la parte sopra di un bikini ormai scolorito. D’estate faceva sempre così caldo che spesso passavo dal pigiama direttamente al costume da bagno, rimuovendo strati di tessuto che mi avrebbero solo dato fastidio.
«Ciao» lo salutai. «Grazie per il salviettone, non volevo scomodarti».
Lui esitò. Tempo dopo mi confessò a cosa stava pensando in quel momento. Mi aveva vista ancora in costume, ma in quel momento dovevo essergli apparsa particolarmente seducente. Ero consapevole della taglia del mio seno – che quel vecchio bikini conteneva a malapena – e della forma del mio sedere, ma a volte tendevo a dimenticare che questi potessero avere un certo effetto sui ragazzi. Per la prima volta da anni, Sam non aveva una fidanzata e poteva guardare una ragazza – senza fidanzato – sentendosi libero di considerarla attraente. 
«Figurati, avevo voglia di fare un giro in moto» rispose.
«Posso offrirti qualcosa da bere per sdebitarmi?»
«Volentieri».
Lo condussi nella piccola stanza al piano terra che fungeva da taverna e ripostiglio, e che si affacciava direttamente sul giardino. All’interno c’era solo un tavolo di legno, con una panca da un lato e delle sedie tutte diverse dall’altro, mentre contro il muro era sistemato un frigorifero che usavamo per conservare succhi e marmellate fatti in casa. Lasciai la cesta di ciliegie sul tavolo, poi presi due bicchieri dalla credenza accanto al frigorifero e li posai sul tavolo insieme a una bottiglia di vetro trasparente, che lasciava intravedere il liquido denso e dal colore brillante che conteneva.
«Mio papà ha piantato troppi peschi e ogni anno abbiamo chili di pesche da far andare» gli spiegai mentre versavo il succo nei bicchieri. 
Lui bevve, poi mi sorrise. «Meglio così, questo succo è buonissimo».
Aveva preso posto a capotavola, dove la panca girava e faceva angolo e seguiva con attenzione i miei movimenti. Mi sentivo il corpo accaldato per il sole e la frescura della stanza era piacevole sulla pelle nuda. Mi sedetti poco distante da lui e gli allungai la cesta delle ciliegie, da cui ne pescò alcune.
«La frutta mi rende goloso» disse.
«Anche a me».
Pareva pensieroso mentre mangiava le ciliegie e sorseggiava il succo di pesca dal bicchiere che gli avevo dato. Aveva i capelli spettinati per via del casco, più lisci del solito, e solo sulla nuca accennavano timidi ricci. 
La porta della taverna si aprì all’improvviso, con un impeto che poteva appartenere solo a mio papà. Infatti, la sua figura massiccia si stagliò in controluce sulla soglia. «Oh, eccovi!» esclamò quando ci ebbe messi a fuoco, con la sua voce profonda e tonante, poi si rivolse verso Sam: «È pronto il pranzo, ti unisci a noi?»
Lui mi lanciò un’occhiata perplessa, poi scosse il capo. «No grazie, sono passato solo per riportare il telo».
«Su su, non fare complimenti!» replicò mio papà, poi si toccò la pancia sporgente: «Il cibo ormai è pronto e se non lo mangi tu, dovrò rovinarmi la dieta per finirlo».
«Davvero, non voglio disturbare».
Mio papà mi guardò, da sotto le sue folte sopracciglia e si toccò la barba. «Ti disturba?». Scossi il capo, così lui proseguì: «Non disturbi neanche me, mia moglie e mia madre. Se devi andare, vai pure, ma non preoccuparti di disturbare».
Sam pareva indeciso, così intervenni anche io. «Ai miei genitori piace avere ospiti. Se non hai nulla di meglio da fare, ovviamente». 
Alla fine, cedette. «Va bene, grazie per l’invito».
Mentre uscivamo dalla taverna per salire al piano di sopra, mio papà gli batté amichevolmente una mano sulla spalla mentre parlava e chiacchierarono fino a che non fummo seduti a tavola con la mamma e la nonna. Quest’ultima perquisì l’ospite con i suoi occhi cerulei, ma non aprì bocca.
«Ciao, eccovi» ci accolse mia mamma. «Tu devi essere Samuele, conosco tuo padre».
«Sì, grazie per l’invito».
«Ma figurati».
I miei genitori sapevano che Ginevra era stata fidanzata per molti anni e conoscevano Sam perché suo padre era un personaggio noto in paese, ma, come per molte cose, tendevano a dimenticare il nesso tra queste due informazioni. A volte, scherzosamente, dicevano che avevano esaurito tutte le energie da genitori nel crescere mio fratello, che aveva sette anni più di me ed era sempre stato una un figlio vulcanico e difficile da controllare. Io credo che fossero piuttosto immersi in un mondo tutto loro, per cui le altre persone erano apparizioni che faticavano a collegare le une con le altre. Se non ne avessero avuto necessità, avrebbero tagliato volentieri ogni contatto con il mondo esterno, a eccezioni di alcune, poche, persone care. Il loro giardino era tutto ciò di cui avevano bisogno. 
Per pranzo mangiammo la solita pasta fredda con i pomodorini e il basilico dell’orto.
«Tu assomigli tanto al Sergio, quello dei canottieri» disse d’un tratto mia nonna, squadrando Sam. 
«È mio nonno» ribatté lui con un sorriso. 
La nonna parve stupita da quella scoperta. «Ah sì? E come sta?»
«Passa il tempo a pescare e passeggiare sul lago. Da quando è morta mia nonna gli piace stare da solo».
«Ah, il Sergio!» esclamò lei alzando gli occhi al cielo e battendo le mani. «Lo sai che lui era tra i giovani più belli alla nostra età?» disse, guardandomi.
Risi e scossi il capo. «Non lo sapevo».
«Non più bello del nonno» precisò lei, «però un gran bel ragazzo, proprio come te» guardò Sam. «Pensa che eravamo molto amici, anche con la Rosa. Io e lei vivevamo vicine, così il nonno e il Sergio venivano a morose insieme».
«Ah sì?» la incalzai, incrociando lo sguardo del ragazzo seduto di fronte a me. Era chiaramente divertito dalla conversazione. Più avanti mi avrebbe raccontato del rapporto di profondo affetto e rispetto che lo legava a suo nonno. Quando lui era piccolo, Sergio Landi era stato un uomo energico e chiacchierone che, seppur in pensione, spendeva il tempo a intrattenere i clienti del club. Per lui, al mondo, esistevano solo due cose: il lago e sua moglie Rosa. Dopo la morte di lei, si era chiuso in una solitudine contemplativa e si era dedicato all’altro amore che gli rimaneva, il lago. Lo si poteva scorgere seduto sul pontile, a guardare per ore e ore la distesa d’acqua davanti a lui che cambiava colore in base al sole, fino a tingersi di rosa al tramonto. Allora si alzava, raccoglieva la sua sedia pieghevole e raggiungeva la casetta che si era fatto costruire poco lontano dal ristorante. Si coricava presto, così la mattina poteva alzarsi in tempo per vedere il sole sorgere nuovamente dal lago.
 
 
Dopo pranzo, mentre i miei genitori discutevano con la nonna su dove l’avrebbero portata al mare quell’anno, condussi Sam in giardino per bere il caffè sotto alla tettoia nella parte più alta del giardino. Da lì si scorgeva il lago, sopra alle cime degli alberi più alti che circondavano i tornanti.
Mentre ci spostavamo, mi chiesi cosa lo avesse spinto ad accettare di fermarsi a pranzo. Forse erano state le non tanto velate insistenze di mio padre, per cui gli era sembrato una scortesia troppo grande non accettare. O magari sperava di poter parlare con me, unica persona che potesse saperne più di lui, di Ginny. Oppure, più probabilmente, aveva bisogno del conforto di una persona che, come lui, aveva appena chiuso una relazione e viveva quella terrificante e inebriante fase che ne segue, per cui ti senti libero ma spaventato, solo e colpevole, ma anche eccitato e sollevato. Sam aveva tanti amici, ma io ero l’unica che avesse vissuto la sua relazione così da vicino da conoscerla a fondo. La sua scelta mi lusingava perché, per quanto amichevole potesse essere, quando Sam cercava il tuo aiuto c’era sempre la sensazione che avesse guardato in giù, verso di te, e ti avesse considerato degno della sua attenzione. 
«È strano» mi disse lui, quando fummo sul dondolo. «Forse non sei la persona più adatta con cui parlarne, però non essere più fidanzato mi dà una sensazione particolare».
«Lo so» risposi sincera.
Nessuno parlò per un po’. Sapevamo entrambi quello che provava l’altro e sapevamo che non era facile da esprimere ad alta voce. 
«Forse avrei dovuto lasciare Ginny anni fa».
«Lo penso anche io» dissi e lo lasciai senza parole. Mi rivolse un’espressione sorpresa e mi chiesi se fossi stata troppo brutale nella mia affermazione.
«Forse non ho sempre trattato Ginny nel migliore dei modi. A volte l’ho trascurata, a volte ho riversato su di lei le mie frustrazioni. So che non avevi una grande stima della nostra relazione».
Strinsi le labbra. Ginevra studiava tante ore ogni giorno, poi c’era il corso di equitazione, poi quello di canto. E le lezioni di danza classica e quelle di francese. Più di una volta l’avevo dovuta consolare quando il fidanzato l’aveva messa alle strette, chiedendole di scegliere tra il fare qualcosa insieme o andare all’ennesimo impegno. O quando lui accettava di dare lezioni private a belle olandesi che chiedevano esplicitamente di lui. O quando andava a far festa con i suoi amici senza di lei, solo ragazzi a feste universitarie. O quando le diceva che era viziata e immatura e allora smettevano di parlarsi per qualche giorno e Ginny diventava ancora più algida e severa del solito. 
«Da solo non sei così male» risposi. «Forse insieme tiravate fuori il peggio l’uno dell’altra».
Piegò il capo verso di me e sorrise. «Grazie per l’onestà».
«Penso che tu sia in grado di essere una brava persona, ma non per Ginevra».
«Forse hai ragione». Sbuffò. «Mio papà avrebbe voluto che ci sposassimo. Il club e l’albergo uniti avrebbero costruito un piccolo impero».
Gli posai una mano sul braccio. «È la tua vita, non la sua».
Sam mi avrebbe confessato che aveva sempre trovato premuroso il mio atteggiamento. Disse che mostravo una certa dolcezza verso i bambini, quando li consolavo per una rissa o per una brutta caduta, e che a volte quella stessa premura si manifestava anche quando parlavo con un adulto che stava soffrendo. In quel momento, infatti, vidi i suoi occhi offuscati da un’enorme preoccupazione che però si dissipò non appena i nostri sguardi si incrociarono.
«Anche tu sei una brava persona» mi disse.
«Non credo che Marco pensi lo stesso».
«Lascialo perdere».
Gli sorrisi. «Grazie».

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Capitolo 4
*** Hotel Serena ***



3. Hotel Serena


Quando Ginevra aveva compiuto diciotto anni, una parte dell’attico dell’Hotel Serena era stata ristrutturata in modo da ricavare un piccolo appartamento dotato di cucina, sala da pranzo e salotto con divano letto, due camere da letto e un bagno completo. I suoi genitori avevano divorziato da parecchi anni e sua madre, Serena, occupava da sola l’altra ala dell’attico, anche se passava la maggior parte del tempo nel suo ufficio al primo piano. Ginevra usava l’appartamento per invitare le amiche, organizzare piccole cene o per i weekend con Sam. A volte, d’estate, mi invitava lì la sera e guardavamo un film oppure chiacchieravamo.
Poco dopo il suo orale – che, come previsto, era stato un successo – mi chiese di raggiungerla all’appartamento. Mangiammo pizza dai cartoni e poi ci spostammo sul divano per guardare un film.
«Ho voglia di una commedia romantica» mi disse. «Per fortuna che non c’è Erika, se no ci costringeva a guardare qualcosa in giapponese sottotitolato in thailandese».
Da quando eravamo piccole, se si sentiva giù, Ginny sceglieva film felici, in cui la protagonista femminile raggiungeva il proprio scopo e otteneva soddisfazione perpetua. Sua madre la portava spesso in cinema indipendenti a guardare opere intorno alle tre ore in lingue straniere, quindi ho sempre pensato che quelle rom-com fossero una piccola forma di ribellione che Ginevra metteva in atto.
Guardammo L’amore non va mai in vacanza e piangemmo mentre Cameron Diaz piangeva sul taxi anche se lo avevamo guardato mille volte, e lo finimmo con il sorriso sulle labbra. Ginny mi offrì una tisana fredda e, mentre lei prendeva i bicchieri e l’acqua dal frigorifero, andai in bagno. Quando accesi la luce, notai che dei fogli erano stati abbandonati sul marmo bianco del mobile attorno al lavandino. Mi allungai per leggerli e mi accorsi che contenevano un elenco di università di giurisprudenza con indicato il numero dei posti e le date dei test d’accesso. Li presi in mano e li sfogliai, trovando gli stessi dati ripetuti sulle altre facciate. Non riuscivo a capirne il senso. Ginny aveva deciso in terza superiore che si sarebbe iscritta a Giurisprudenza nell’università più vicina a casa e forse avrebbe preso un piccolo appartamento in città per tagliare tempi del pendolarismo: i mezzi di trasporto erano poco affidabili e troppo plebei, diceva, mentre percorrere in auto i quaranta chilometri che separavano il lago dalla città significava inevitabilmente incappare nel traffico giornaliero. In quinta superiore era giunta alla conclusione che l’appartamento sarebbe stata una necessità e che avrebbe potuto dividerlo con Sam. Fu in quel momento del mio ragionamento, che capii il significato dei fogli. Sam non c’era più e con lui si era dissolto quel sogno a lungo progettato. Forse Ginevra stava accettando la loro rottura più di quanto desse a vedere, riprogettando il suo futuro.
Usai il bagno, poi tornai nel salotto con i fogli tra le mani. Ginny aveva appena messo in tavola i due bicchieri ghiacciati e dei cioccolatini.
Le passai i fogli. «Hai lasciato questi in bagno» dissi sedendomi di fronte a lei.
Ginny prese i fogli, un poco sorpresa, poi mi ringraziò e li portò in camera sua. 
«Stai considerando altre università?» le chiesi quando tornò al tavolo. 
Mi guardò negli occhi, con le labbra strette. Aveva uno sguardo affilato, da gatta, forse per via della forma allungata degli occhi o della frangetta scura che le sfiorava le sopracciglia. «Ho come la sensazione di essermi concentrata su un solo sogno lasciando fuori tutte le possibilità. Non voglio escludere nulla».
«Pensi che te ne andrai?»
«Che ne so, Meg. Devo solo decidere la città, tu non hai neanche deciso cosa fare l’anno prossimo». Il suo tono si era fatto brusco, scontroso. Tirò a sé il bicchiere con la tisana e vi nascose dietro il viso, lasciando visibili solo gli occhi sopra al vetro.
«Già, non ho ancora deciso» ripetei, prendendo a mia volta la tisana. Era un tema che mi angosciava quell’estate, perché tutti quelli che conoscevo sembravano aver capito che direzione avesse la propria vita, perfino Erika, amante dell’avventura e della spontaneità, era già stata assunta in una gelateria e aveva progettato di fare il salto di carriera verso un ufficio alla fine dell’estate.
Io, invece, mi sentivo bloccata. Non sapevo cosa mi piaceva, non c’era nulla che sapessi fare bene. Non potevo andare a lavorare come Erika perché a quattordici anni Ginny mi aveva convinta che il liceo classico fosse la soluzione più versatile per chi era così indeciso come me – fin da allora. Io volevo iscrivermi a scienze umane, Ginevra, però, aveva sfoderato la sua migliore retorica ed era stata piuttosto convincente, sicuramente più di Erika, che era andata da sola all’istituto tecnico. 
«Scusa, sono solo un po’ stressata».
Quelle scuse mi colsero di sorpresa. «Mi dispiace» replicai. «Cosa succede?».
Ginny incrociò le gambe sulla sedia e raddrizzò la schiena, poi prese un sorso di tisana. «Ho passato tanto tempo a progettare il mio futuro e le mie scelte senza considerare che le cose possono cambiare. Noi possiamo cambiare, e tutto quello che abbiamo sempre immaginato crolla davanti ai nostri occhi in pochi secondi, fregandosene degli anni che abbiamo impiegato a costruirlo».
Spostò gli occhi nei miei e mi sentii trasalire.
«’fanculo» continuò, scuotendo il capo per smuovere la frangia. «Sono brava a fare i piani. Ne creerò un altro e poi un altro ancora e un altro ancora e così all’infinito se ce ne fosse bisogno».
«Perché non provi a vivertela con calma? A prendere la vita giorno per giorno?»
Mi guardò con aria scandalizzata, come se le avessi appena proposto di spalancare la finestra e gettarsi dal quinto piano dell’Hotel Serena.
«Quella è la prospettiva di chi non sa chi vuole essere nella vita. Io so chi sono, non ho bisogno di scoprirlo. Devo solo capire come realizzarlo».
Non mi presi la briga di replicare. Volevo bene a Ginny, ma nell’ultimo periodo era diventato sempre più difficile approcciarla o sperare di avere una conversazione fruttuosa con lei. Era sempre stata rapida a sparare sentenze, ma ultimamente risultava difficile convincerla a dialogare al posto di giudicare. Nella nostra amicizia io ero la presenza sempre disponibile e Ginevra quella che, al momento opportuno, mi evocava per reclamare il mio posto al suo fianco. Non avevo la sua sicurezza, ero troppo timida e troppo disinteressata, così aspettavo sempre il suo segnale per sapere cosa fare.
 
Nell’estate di quell’anno, mio cugino Riccardo aveva sviluppato una passione che avrebbe portato con sé anche negli anni successivi. Da maggio aveva riempito il guardaroba di camicie a maniche corte dalle fantasie strambe e i colori accesi. Quella sera ne indossava una di un rosso carico, con delle decorazioni giallo canarino e verde smeraldo che si intrecciavano sul tessuto leggero.
«Non far finta che non ti piaccia» commentò intercettando il mio sguardo sulla camicia. «Lo so che in realtà le adori».
Scossi il capo e risi, poi presi un sorso del mojito appoggiato sul tavolo davanti a me. «Preferisco altri colori».
Eravamo seduti al bar in riva al lago e stavamo facendo un aperitivo per festeggiare la fine degli esami. Richi li aveva finiti da appena qualche giorno, ma era scappato al mare con i suoi per il fine settimana, così ci eravamo trovati al suo ritorno. La sua pelle aveva già preso quel colorito bruno che tradiva l’origine siciliana di mia zia e faceva risaltare ancora di più i colori brillanti della camicia. Alla fine delle superiori, Riccardo era un ragazzo alto e di bell’aspetto, benvoluto, ma poco ricercato dalle ragazze per quella sua aria da secchione e per la bonarietà che lo rendevano più adatto a un’amicizia che a una relazione.
«Hai deciso cosa farai l’anno prossimo?» mi chiese e io alzai gli occhi al cielo. 
«Abbiamo appena finito!».
Si strinse nelle spalle. «Siamo già a luglio e i test d’ingresso arrivano prima del previsto».
«Di sicuro non mi iscrivo a medicina, se ti spaventa la competizione».
Lui rise, scoprendo i denti bianchi rispetto alla pelle scura. «Non mi spaventa la tua competizione».
Giocherellavo con le perline del braccialetto che mi aveva regalato una bimba del campo estivo. «Ah grazie tante per la considerazione».
«Dai! Sai cosa intendo» replicò cercando di liberarsi dall’impiccio che si era creato da solo. «So che ti piacciono altre materie».
«Lo so, stupido» risposi e presi un lungo sorso di mojito.
Era una sera tiepida e serena di metà settimana, il lungolago era poco affollato e sulla spiaggia davanti al bar erano rimaste poche persone a sonnecchiare sulle sdraio o a leggere un libro. Un gruppetto di pensionati giocava a carte su un tavolino di plastica vicino alla riva e ci arrivavano le loro imprecazioni in dialetto.
«E Marco?» chiese Richi. «Lo hai più sentito?»
Posai il bicchiere e strinsi gli occhi. «Perché? Ti manca?»
«“Mancare” è un’esagerazione. Mi stava simpatico, ma niente di più. Poi volevo sapere come stai tu».
«Sto bene, grazie».
Riccardo si strinse nelle spalle e finì a goccia il suo analcolico, poi storse la bocca. «Ti odio quando mi fai guidare».
Ammiccai. «Io non ho una macchina sempre a disposizione come te».
«La prossima volta guidi tu».
Acconsentii con un sorriso, mentre lui alzava un braccio per salutare qualcuno alle mie spalle. «Ehi, ciao».
Mi voltai e vidi un ragazzo alto e abbronzato che camminava fuori dal bar. Sam. Lui e Riccardo si erano conosciuti due anni prima, ai tornei di pallavolo di fine anno. Un compagno di squadra di Sam si era fatto male all’ultimo turno e avevano bisogno di un sostituto. La classe di Riccardo era stata eliminata da semifinalista e lui, che giocava a pallavolo da quando aveva otto anni, si era fatto notare, così era entrato al posto dell’infortunato, portandoli alla vittoria.
Mio cugino fece ampi gesti per dire a Sam di avvicinarsi. «Non ci vediamo da una vita!» gli disse quando l’altro ragazzo si accostò al nostro tavolo. Indossava abiti sportivi e portava le cuffiette alle orecchie. Riccardo lo convinse a prendere una sedia e a sedersi al tavolo con noi, così lui ubbidì e mi salutò con un sorrisetto e un amichevole tocco sulla spalla.
I due ragazzi presero a chiacchierare dell’università e di tutte le cose che erano successe da quando si erano visti l’ultima volta. Rimasi attenta alla conversazione, ma il mio sguardo vagò sul lago che stava perdendo colore, riducendosi a una superficie grigiastra, e sui pensionati che giocavano a carte. Una famiglia di anatre passò vicino alla riva e un bambino impertinente lanciò un sasso verso di loro, facendole disperdere tra gli schiamazzi.
«E tu come stai?» 
Sam si era sporto verso di me e trovai i suoi occhi azzurri sui miei. 
«Bene, grazie» risposi. Mi rivolse un sorriso gentile e dischiuse le labbra, poi cambiò idea e riprese a parlare del più e del meno.
Si trattenne poco al bar. Disse che doveva tornare a casa a piedi e non aveva molto tempo, ma rifiutò cortesemente l’offerta di passaggio di Riccardo. Quando si alzò per pagare la Coca Zero che aveva ordinato, prima di andarsene, rimase un istante accanto al tavolo, in piedi.
«Tra una settimana ci sarà una festa al chiosco del club, mi farebbe piacere se ci foste».
Intercettò immediatamente l’impercettibile smorfia sul mio viso, perché sorrise. «Pensavo di invitare tutti i nostri amici, quindi anche Ginny, se se la sente di venire».
Lo ringraziai e gli risposi che gli avrei fatto sapere. Ci salutò con un cenno del capo, si rinfilò le cuffiette e tornò alla sua camminata.
 


 

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Capitolo 5
*** Campanellino e Peter Pan ***


Capitolo 4. Campanellino e Peter Pan


Chiesi a Ginevra se volesse andare alla festa due giorni più tardi mentre sedevamo sul bordo della piscina all’albergo, con le gambe a mollo nell’acqua trasparente. Era ormai tardo pomeriggio e i tedeschi e gli olandesi stavano facendo aperitivo ai tavoli del bar poco distante. Noi ancora ci godevamo il calore della giornata. 
«Non ho molta voglia di vedere Sam» rispose alzando il mento per esporre il volto agli ultimi raggi del sole. Benché fossimo ormai a luglio, la sua pelle era ancora candida e solo un leggero rossore sulle guance rivelava che aveva trascorso la giornata in piscina.
«L’ho incontrato qualche giorno fa con Riccardo, quando ci ha invitati alla festa. Ha detto che avrebbe invitato anche te».
Inclinò il viso verso di me. «Perché non avrebbe dovuto farlo?»
La sua ostinazione a negare la rottura stava diventando frustrante. Mossi i piedi nell’acqua e guardai le mie gambe scomporsi in frammenti colorati sotto la superficie agitata.
«Credevo vi foste lasciati per davvero questa volta» risposi. «Non andrei alla festa senza di te».
Lei sbuffò. «Ovvio che ci andrai, ci sono tutti i nostri amici e anche quello schizzato di tuo cugino, senza offesa».
«Non preferiresti passare la serata insieme? Possiamo guardare un film o andare alla gelateria da Erika».
Scosse vigorosamente il capo. «Ho una cena con mia mamma in città. Ma tu devi assolutamente andare, così poi mi racconti».
Inforcò i suoi grossi occhiali da sole e, celando la sua espressione, si negò a ulteriori domande sullo stesso argomento.
 
 
 
Ho ricordi confusi della festa al club e anche il diario non è di grande aiuto. La confusione che mi pervase nei giorni successivi emerge con chiarezza da quelle pagine, a partire dalla scrittura veloce, nervosa. Sono pagine sconclusionate, che raccontano un avvenimento e poi spiegano come ci si è arrivati, con continui balzi temporali e logici. Ricordo una piccola folla radunata fuori dal chiosco e illuminata dalle lucine che pendevano dall’alto, ricordo la musica alta, Riccardo ubriaco che ballava in riva al lago e la sua camicia verde acido che pareva brillare nell’oscurità. 
A un certo punto mi ritrovai da sola a uno dei tavolini, così presi il cellulare per controllare i messaggi. Sentii qualcosa appoggiarsi sulla spalla e un corpo si accostò al mio. Era Sam, che mi aveva posato una mano sulla schiena per attirare la mia attenzione. 
«Cosa fai qui per conto tuo a guardare il cellulare? Perché non festeggi come tuo cugino?» mi indicò Riccardo che ora stava ballando a torso nudo con un drink in mano. Quella vista mi fece ridere.
«Dai, ti offro qualcosa da bere». Mi condusse verso il chiosco e chiese cosa volessi. Il luccichio nei suoi occhi e il sorriso un po’ storto dimostravano che non era più sobrio. Aveva le guance arrossate, più di quanto lo fossero normalmente per il sole, e i capelli scompigliati.
«Meglio un analcolico, stasera guido io».
«Assolutamente no» replicò con estrema serietà. «Stasera non guida nessuno. Vi ospito io nelle stanze sopra al ristorante, l’ho già detto a tutti, anche tuo cugino ha detto che va bene».
Strinsi le labbra. «Ho un impegno domani mattina».
Lui mi spintonò scherzosamente. «Che impegno hai di sabato mattina?»
Esitai e il mio cuore accelerò il battito. «Marco mi ha chiesto di incontrarlo».
L’espressione di Sam non cambiò, come se si aspettasse una smentita che, però, non arrivò. Allora si fece improvvisamente serio. «Stai scherzando?»
Scossi il capo. «Vuole parlare, ho pensato che fosse il minimo ascoltarlo, dopo averlo fatto stare così male». 
Lui parve contrariato. La sua espressione allegra si era spenta e i suoi occhi avevano assunto una piega dura. Bofonchiando di seguirlo, mi prese per un braccio e mi trascinò con sé verso il club. Si guardava alle spalle, accertandosi che nessuno ci seguisse, poi aprì una porticina ed entrammo nello spogliatoio maschile. La stanza profumava di disinfettante e i lampioni all’esterno la illuminavano a sufficienza da rivelare le sagome delle panche in legno e gli armadietti bianchi socchiusi. 
«Tu non gli devi niente» mi disse, mollando il braccio, non appena ebbe richiuso la porta alle sue spalle. Lontani dal chiasso dei festeggiamenti, la sua voce risuonò squillante. «Vi siete lasciati, fine della storia».
«Io gli ho spezzato il cuore» ribattei stringendo i pugni. «Tu non c’eri quando l’ho lasciato. Io l’ho distrutto, l’ho visto nei suoi occhi. Se incontrarmi ancora una volta è quello che vuole, posso farlo, per aiutarlo a stare meglio».
Sam scosse il capo con aria affranta. «Non lo farà stare meglio, pensaci. Si illuderà solo. E tu non gli devi nulla, vi siete lasciati. Non è tuo compito consolarlo».
«Magari incontrarci ancora una volta lo aiuterà a capirlo».
«Basta con le cazzate, Meg!» sbottò lui facendomi sobbalzare. Improvvisamente pareva essere diventato più alto e imponente. I suoi occhi mandavano saette e la sua mascella era una dura linea di marmo. «Lo fai per te stessa, per sentirti meno in colpa, ma non aiuterà né te né lui. Non hai distrutto la sua vita, l’hai solo cambiata. Se non è capace a superare questo cambiamento, allora il problema è suo, non tuo».
Mi conficcai lei unghie nei palmi delle sue mani da tanto strinsi i pugni. Guardai Sam e di colpo non mi sembrò più così arrabbiato. Era solo disperato nel vedere in me gli errori che lui stesso aveva compiuto e di non riuscire a convincermi a non ripeterli. I suoi occhi chiari erano sgranati e la fronte era lucida di sudore, il corpo teso.
Si avvicinò e con due passi mi fu davanti. «Fidati di me».
Sollevò una mano e mi accarezzò i capelli. Vidi l’indecisione vacillare nei suoi occhi, poi la mano ricadde mollemente al suo fianco.
«Fidati di me» ripeté sottovoce. Si appoggiò alla panca e, sedendosi, il suo volto arrivò all’altezza delle mio sterno.
Presi posto accanto a lui e lo abbracciai. «Grazie» mormorai con la testa appoggiata sulla sua spalla.
Sentii che mi stringeva, premendomi contro di sé. Era una sensazione confortevole, che mi faceva sentire meno sola. Lui aveva provato quello stesso dolore e mi capiva. Forse tutti quei continua tira e molla nella sua relazione erano dovuti a quello: Sam non aveva saputo dire di no, si era sentito in colpa e ci era ricaduto di nuovo.
Dopo qualche secondo, feci per staccarmi, ma Sam ebbe la stessa idea nel medesimo istante e i nostri volti si ritrovarono a un centimetro di distanza. Non saprei dire chi fece la prima mossa e, forse, sapendo come sono andate poi le cose, non avrebbe importanza. Quello che è certo è che le nostre labbra si toccarono e nessuno dei due si sottrasse al bacio. Sam aveva un buon profumo, che mi riempì le narici e mi andò alla testa. Ci staccammo all’improvviso, guardandoci negli occhi sgranati. Sentivo il volto in fiamme e il cuore in tumulto nel petto. Scattai in piedi e mi allontanai di qualche passo. 
«Non possiamo» mormorai. Mi girava la testa e sentivo le gambe deboli, come se avessero potuto cedere da un momento all’altro.
Alle mie spalle, Sam si alzò in piedi e mi si avvicinò. «Lo volevamo entrambi».
Mi voltai a guardarlo. Solo una ruga tra le sopracciglia segnalava la sua preoccupazione. Per il resto, il suo volto era disteso e rilassato. Poco prima mi era sembrato ubriaco, ma in quel momento la sua espressione era lucida, sobria.
«Non possiamo comunque». 
Mi sentivo la testa come paralizzata, incapace di elaborare quanto avvenuto. Sam disse qualcosa sottovoce e si fece più vicino. Lo guardai, aspettando che ripetesse quello che aveva appena detto, ma lui rimase muto. Mi stava fissando con occhi incandescenti, infiammati dal desiderio.
Pensai a Ginevra. Dovevo andarmene da lì il prima possibile e dimenticare quel bacio, se volevo conservare la nostra amicizia perché sapevo che non mi avrebbe mai perdonata. Eppure, Sam era lì davanti, bello come non mai, elegante anche con quei capelli spettinati, la fronte sudata e gli occhi brucianti. Il suo petto si alzava e abbassava con lentezza, cercando di recuperare la calma con il respiro. Ripassai mentalmente il percorso che dovevo fare: mettere una mano sulla porta, uscire da quello spogliatoio, tornare alla festa, salutare Riccardo e andarmene a casa. Mi bastò un’occhiata a Sam per ritrovarmi tra le sue braccia. Questa volta ci baciammo insieme, poi lui mi spinse contro il muro e si chinò per stringermi meglio. Il suo corpo premeva contro il mio, lo sentivo bollente e ogni tocco non era abbastanza, volevo di più, volevo che si attaccasse a me e ci rimanesse all’infinito. Gli passavo le mani tra i capelli, sulle spalle, sul petto, cercando di prendere il più possibile di lui.
Il senso di colpa mi attanagliò la gola e poi scese fino a stringermi il cuore. Cercai di scacciarlo a mano a mano che la razionalità veniva rimpiazzata dal desiderio. No, non avevo fatto nulla di male. Ginny lo aveva sempre saputo della mia cotta per Sam. Mi ero innamorata di Samuele Landi in seconda elementare, quando alla recita di Natale io ero stata Campanellino in una scenetta e lui Peter Pan. Da quel giorno mi aveva sempre salutata in cortile, anche quando era con i suoi amici e io passavo le ricreazioni con le guance arrossate perché quel bambino di quarta dai capelli chiari mi aveva rivolto la parola. Ginny lo sapeva di quello che provavo quando aveva cominciato a ronzare intorno a Sam alle superiori, quando lo aveva attirato sul terrazzo quel Capodanno ed era tornata vittoriosa. L’avevo lasciata fare, perché una cotta da bambina non poteva competere con le mire dell’adolescente Ginevra, ma ogni volta che avevo guardato Sam in passato non avevo potuto evitare di ripensare a quello che sentivo per lui. Mi ero chiesta più e più volte come sarebbero andate le cose se fossi stata più coraggiosa, più sicura di me, più ambiziosa. Non avevo l’eleganza di Ginevra, né il suo potere sociale ed economico. Quando Sam era diventato un ragazzo ambito e affascinante, la mia cotta non era diminuita, si era solo fatta più difficile da sopportare, perché sapevo che quel ragazzo non sarebbe mai stato mio. 
In quel bacio c’era la bambina che recitava sul palco tenendolo per mano, c’era la giovane che lo guardava da lontano mentre viaggiava con la barca a vela, la ragazza che si era buttata con lui in un lago ghiacciato di montagna, mentre Ginevra strepitava dalla riva che eravamo dei pazzi. In quel bacio c’era quello che avevo cercato di soffocare per anni, ma che alla fine, alla prima occasione buona, era esploso come una cassa di fuochi d’artificio. 


 

Angolo autrice

Ciao!
Volevo prendermi questo spazio per ringraziare chi sta seguendo la storia. Come forse avete notato l'aggiornamento è un po' sporadico. Trattandosi di una storia molto diversa rispetto alle precedenti che ho scritto (molto pià lenta e più vicina alla "vita vera"), ogni volta devo un po' raccogliere il coraggio per decidermi a pubblicare un nuovo capitolo. Come per Crawling back to you – che è stata per anni sul mio pc prima che mi decidessi a pubblicarla – ho pensato di fare lo stesso con questa storia, pensando che un eventuale confronto con i pareri dei lettori potrebbe aiutarmi a migliorarla. Per questo sono assolutamente pronta ad ascoltare qualsiasi commento, critica o correzione dovesse suscitare :)
Ringrazio ancora chiunque sia arrivato fin qui nella lettura e mi auguro di ritrovarmi nel prossimo capitolo!
A presto,
M.
 

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Capitolo 6
*** L'agnellino ***



Capitolo 5. L'agnellino


Due giorni passarono in fretta. Furono due giorni di tortura, in cui ero costretta a tenermi impegnata per distrarmi dal supplizio dei miei pensieri. Avevo raccolto l’insalata insieme a mio padre e mi ero messa a lavarla e ad asciugarla foglia per foglia. Poi lo avevo aiutato a tagliare le siepi, raccogliendo tutti i rami che cadevano a terra per accumularli nella grande cassa sul retro del giardino. Li tenevo stretti tra le braccia, incurante dei graffi che mi provocavano e facevo avanti e indietro per ore, sotto al sole del pomeriggio, fino a rimanere senza fiato. Quando mi ero offerta di ridipingere la taverna, mentre i miei genitori ne parlavano a cena, mia mamma mi aveva rivolto uno sguardo preoccupato.
«Tesoro, sei sicura di stare bene?»
Avevo capito di aver oltrepassato il limite e mi ero inventata una scusa su due piedi. «Fare questi lavori mi schiarisce le idee. Mi serve per scegliere l’università».
I miei avevano annuito e papà aveva commentato. «Ottima idea. Ci sono tante manutenzioni da fare in casa, puoi occupartene mentre siamo al mare».
Si erano messi a ridere tutti, anche la nonna, ma mi ero sentita sull’orlo delle lacrime. Sarebbero partiti la mattina successiva e io non avevo più impegni in cui rifugiarmi.
Così mi ero ritrovata nella cucina di casa, nel silenzio delle stanze deserte, senza i passi veloci della mamma, senza il sottofondo della televisione perennemente accesa della nonna. E, a pochi passi da me, appoggiato al tavolo con una gamba incrociata davanti all’altra, come promesso stava Sam. Mi ero appiattita contro il piano cucina, cercando di allontanarmi quanto più possibile da lui. Gli avevo fatto lasciare la sua moto nel garage vuoto, per evitare che qualcuno di passaggio potesse riconoscerla e lui l’aveva trascinata dentro senza fare commenti. Nella cucina, il silenzio non durò a lungo.
«Perché mi hai evitato negli scorsi giorni?» chiese, guardandomi negli occhi. 
Da piccola pensavo che Samuele Landi fosse il ragazzo più gentile del mondo. Anche nel periodo in cui ragazzi e ragazze non andavano d’accordo, lui sapeva stare bene in mezzo a tutti. Crescendo, avevo capito che non era tanto gentilezza, quanto carisma. Tutti si trovavano bendisposti vicino a lui ed erano pronti ad accontentarlo, per questo parevano concordi con ogni cosa dicesse o facesse. Parecchi anni prima, mi trovavo al club insieme a Ginevra e stavamo prendendo il sole in spiaggia aspettando che Sam finisse il suo turno. Lui era tornato con la barca a vela, l’aveva lasciata al molo e aveva attraversato la spiaggia a grandi passi, verso uno dei turisti che aveva portato con sé. L’uomo era sceso dalla barca e aveva raggiunto la famiglia sulla spiaggia poco lontano da noi. Sam lo aveva raggiunto, furente in viso, e si era messo discutere con lui in inglese. Avevo capito solo vagamente i motivi della lite – l’uomo aveva fatto qualcosa di pericoloso nonostante i ripetuti avvertimenti – ma non riuscivo a dimenticare l’atteggiamento di Sam: maestoso e immobile come una statua, non si lasciava scalfire dalle stridule proteste del tedesco, ma ribadiva in tono secco e deciso senza dilungarsi troppo. L’altro era ritrovato senza fiato e lui lo aveva rimesso al suo posto con poche battute perentorie, qualcosa che suonava come “il club ha abbastanza soldi da poter fare a meno di idioti come te”. Senza scomporsi, poi era ritornato al molo e aveva lasciato l’uomo paonazzo e imbarazzato insieme alla sua famiglia.
Nella cucina di casa mia, Sam mi appariva innocuo come un agnellino, pronto ad ascoltarmi con accondiscendenza, ma sapevo che avrebbe potuto stracciare quella maschera da un momento all’altro. 
«Ti ho evitato perché avevo paura» risposi.
Alzò in mento. «Paura di cosa?»
«Di quello che avrei potuto dire, di quello che avrei potuto pensare».
«Cioè?»
L’agnellino non pareva disposto a cedere.
Presi un respiro profondo. «Lo sai».
Lui si staccò dal tavolo e fece un passo in avanti, avvicinandosi. «Non è sbagliato pensare quelle cose».
«Sì che è sbagliato e sappiamo entrambi perché» protestai, pregando che rimanesse immobile dov’era.
«Se non volevi stare sola, perché hai scelto proprio Marco?»
La vicinanza mi stava dando alla testa. Riuscivo a sentire il suo profumo, riuscivo a vedere l’ombra che le sue ciglia proiettavano sugli zigomi abbronzati e nessuna di quelle cose mi lasciava indifferente. Risposi senza pensare. «Perché quello che volevo era già occupato»
«Meg…» pronunciò il mio nome come se fosse un avvertimento.
«Sei stato tu a fare la domanda. Te l’ho detto che ho paura di quello che penso».
Lui parve non sentirmi, perché fece ancora un passo avanti, fino a trovarsi a pochi centimetri di distanza. Se fossi stata meno schiacciata contro il piano della cucina, ci saremmo sfiorati e avrei sentito la stoffa ruvida dei suoi pantaloncini contro le mie cosce nude. 
«Sam» replicai con lo stesso tono di avvertimento, ma in modo più deciso.
«Se vuoi che me ne vada, posso farlo» rispose.
«Lo sai che è proprio quello il problema. Non voglio».
Lui sospirò e cercò di nascondere un sorriso. Quelle parole gli facevano piacere e faticava a celarlo. La sua reazione mi sorprese. Piaceva a così tante ragazze che quella rivelazione non era nulla di nuovo. 
«Pensavo mi detestassi» riprese, con gli occhi azzurri che non si spostavano da me.
Stavo lottando con tutta me stessa per rimanere salda e schiacciata contro il ripiano. Se un solo punto del mio corpo lo avesse sfiorato, non sarei più riuscita a frenarmi. «Non mi piaceva come trattavi di Ginny. Mi sei sempre piaciuto come persona, al di là di quello».
Di nuovo quel sorrisetto di soddisfazione malcelata. «Oh, quindi stai pensando che con te sarebbe diverso?»
«Non sto pensando nulla» ribattei, trattenendo il respiro.
Sam si fece serio, le labbra dritte. «Comunque, hai ragione. Sarebbe diverso».
«Diverso come?»
«Siamo più simili, per questo mi sei sempre stata simpatica».
Non ce la facevo più. Presi un respiro profondo e scivolai in avanti nello stesso momento in cui lui si avvicinava ancora di un passo. Senza pensare, cercai le sue labbra mentre lui cercava le mie. Mi sollevò da terra e mi fece sedere sul ripiano cucina, dischiusi le gambe e strinsi il suo corpo caldo tra le cosce. Sam mi appoggiò le mani intorno al volto, continuando a baciarmi, poi infilò le dita nei miei capelli e schiacciò i nostri volti uno sull’altro, come se non potessero staccarsi. Le sue labbra scivolarono via dalle mie e si spostarono sul mio collo nudo, cominciando a scendere verso il basso, verso la scollatura della canottiera, mentre una mano saliva dal basso verso la stessa direzione, accarezzandomi prima la pancia e spostandosi poi sul reggiseno. 
Non lo fermai perché non ne ero in grado. Riuscii solo a mormorare, tra i sospiri, contro le sue labbra: «Aspetta, andiamo in camera».
 
 
Mi svegliò il suono del campanello. Sobbalzai sul letto e il braccio di Sam, che mi cingeva la vita da dietro, cadde mollemente sul materasso. Mi misi seduta, cercando di capire se avessi sognato quel suono e, pochi secondi dopo, lo sentii ripetersi in modo violento e prolungato.
«Chi è?»
Anche Sam si era sollevato, appoggiandosi a un gomito, e mi stava guardando rimanendo steso di fianco. Era a petto nudo e la sua maglia era abbandonata da qualche parte sul pavimento.
Scrollai le spalle. «Forse mio fratello, gli servirà qualcosa». Presi una felpa e me la infilai, poi mi diressi verso il citofono vicino alla porta d’ingresso, ma quando sollevai la cornetta, non rispose nessuno. Continuai a chiamare, senza risultato. Mi rispondeva solo il gracidare delle cicale e un motorino che passava in quel momento. Riattaccai il citofono e aprii la porta di casa. Sulla soglia, stava una persona. Lanciai un grido e arretrai di scatto, prima di rendermi conto che si trattava di Marco. Aveva corso, lo si notava dal fiato corto e dalla fronte sudata, a cui si erano attaccati i capelli corti e fini.
«Devo parlarti» ansimò. «Possiamo parlare?»
Lanciai un’occhiata alle sue spalle e feci un piccolo passo in avanti. «Come sei entrato?»
«Dal cancello. Il codice per aprirlo non è cambiato e nessuno rispondeva al campanello».
Sgranai gli occhi, incerta se sbattergli la porta in faccia o accompagnarlo all’uscita. Mi ricordai della presenza di Sam in camera, così feci un passo in avanti, superai la soglia e chiusi la porta alle mie spalle. 
«Non puoi entrare così in casa degli altri» dissi, incrociando le braccia al petto. «E abbiamo già parlato».
Marco strabuzzò gli occhi. «Lascia decidere a me se abbiamo parlato abbastanza. Mi hai lasciato senza mezza spiegazione e mi hai dato buca all’ultimo quando dovevamo incontrarci. Mi devi delle spiegazioni».
«Non ti devo nulla» replicai, stringendo le labbra. «È… finita. Mi dispiace».
Vederlo così sofferente e fuori di sé mi faceva sentire in colpa, ma non riuscivo ad evitare di pensare a quanto risultasse patetico nel suo aspetto stravolto e supplicante. I vestiti trasandati, i capelli sporchi, tutto mi faceva sembrare che avesse trascurato la cura di sé, in preda allo sconforto.
Gli occhi di Marco balzarono alla finestra sulla sinistra della porta e seguii lo sguardo in tempo per vedere un’ombra che si allontanava dalle tende. Sam.
Marco cominciò a farsi agitato. «Chi c’è in casa?» strepitò. «Credevo che i tuoi fossero al mare».
«Non c’è nessuno» sospirai. «Adesso vattene per favore».
Lui fece un passo indietro, come se fosse stato ferito, e scese di un gradino, sulle scale che portavano al cancellino attraverso un vialetto in porfido, poi risalì gonfiando il petto, come per sembrare più minaccioso. 
«Non prendermi per il culo, Meg, ho visto che c’era qualcuno. Sembrava…» si bloccò, riflettendo, poi i suoi occhi si sgranarono, come colti da un’illuminazione improvvisa. «Sembrava Samuele Landi. Hai lasciato me e sei corsa nelle sue braccia? E Ginny lo sa?»
Mi sentii sbiancare e un nodo alla gola mi bloccò la voce. Marco riprese a parlare, ad accusarmi di ciò che secondo lui stava facendo con Sam, minacciandomi di dire tutto a Ginevra, e, per quanto stravolto dal dolore, la sua lettura dei fatti non era tanto lontana dalla realtà.
«No» lo zittii in tono autoritario. «Sam è venuto da me perché le cose tra lui e Ginny non vanno bene. Voleva chiedermi come metterle a posto».
Lo guardai fisso negli occhi, trapassandolo da parte a parte, come sfidandolo a contestare le mie parole. Marco ondeggiò, ancora più ferito. «E perché a loro è concesso di sistemare la loro relazione? Perché noi non possiamo farlo?»
Non cambiai espressione. «È finita».
«Sei una stronza!» sbottò lui e fece per avvicinarsi, ma io arretrai, impaurita e la porta alle mie spalle si aprì di scatto. Sam si piazzò immediatamente davanti a me. «Perché non facciamo due parole, io e te?» disse a Marco e, prendendolo per un braccio, lo trascinò giù dalle scale. Quello non ebbe modo di opporsi e in un attimo si ritrovò nel giardino.
Chiusi la porta d’ingresso, con il cuore a mille, e schiacciai il tasto che apriva il cancellino, poi attraversai il salotto e mi affacciai dalla finestra per seguire la conversazione da dietro al vetro. Non riuscivo a sentire le loro parole, ma vedevo Marco agitarsi, mentre Sam gli parlava in modo calmo, ma piuttosto deciso, senza lasciarsi sciogliere dalle lamentele e dalle polemiche dell’altro. Ad un certo punto, Sam aprì il cancellino e fece cenno all’altro di uscire. Quello protestò ancora per qualche istante, prima di lasciarsi convincere ad uscire e, con la testa bassa e gli occhi puntati a terra, sparì oltre la curva della strada.
Sam rientrò in casa qualche minuto più tardi, dopo essersi assicurato che Marco non cambiasse idea e decidesse di tornare indietro.
«Che testa di cazzo» fu il suo commento, mentre richiudeva la porta alle sue spalle.
Strinsi le braccia al petto, contrariata. «Forse anche io avrei fatto lo stesso».
Lui mi rivolse uno sguardo interrogativo. «Saresti entrata illegalmente in casa sua?»
«No, ma se avessi amato qualcuno come lui ha amato me avrei fatto di tutto per avere ancora una possibilità».
Sam non rispose, ma rimase a guardarmi con le labbra in una linea sottile che lo trattenne dal dire ciò che realmente pensava. 
 
 

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Capitolo 7
*** Paradiso terrestre ***




Capitolo 6. Paradiso terrestre


Ginny partì per la Sardegna, io ripresi a oziare a casa e a torturarmi sulla scelta dell’università. Sam rimase da me a dormire mentre i miei erano al mare, ma, dal loro ritorno non ci eravamo più visti né sentiti, come se le cose successe dovessero sedimentarsi della coscienza di entrambi e dovessimo capire cosa pensassimo di quei fatti. O almeno per me era così. Da codarda qual ero, cercai di non pensarci. Andavo al lago, aiutavo i miei genitori in casa, facevo compagnia alla nonna e pensavo a Sam solo per ricordare alcuni momenti di quel finesettimana. Quando avevamo ordinato la pizza. Quando ci eravamo addormentati nel mio letto. Quando avevamo fatto la doccia insieme. Continuavo a riprodurli nella mia mente come per essere sicura che non sbiadissero, con la certezza che non avrei mai più vissuto niente del genere.
Ogni tanto passavo dalla gelateria dove lavorava Erika e le facevo compagnia durante i turni. In cambio lei mi offriva una coppa di gelato e mi raccontava quello che era successo nel corso della giornata. Un giorno mi disse che le sue compagne delle superiori volevano organizzare una serata al Paradise, un locale all’aperto vicino alla città, e che ovviamente ero invitata. Le dissi: perché no?
Passarono a prendermi qualche sera più tardi, già stipate in quattro dentro l’auto di Erika. Quando salii l’abitacolo era saturo di profumi da donna e fumo di sigarette.
«Meg sei sempre una figa» mi accolse Debora, che sedeva sul sedile del passeggero. «Ci farai sfigurare tutte».
«Ma smettila» replicai imbarazzata, tirando la mia gonna per coprire qualche centimetro di coscia in più. Debora mi stava simpatica, ma il suo modo schietto e provocatorio di esprimersi mi metteva spesso a disagio. Avevo assistito anche al suo modo spudorato di flirtare con i ragazzi che, per quanto svergognato, era sempre efficace. Era alta, aveva un bel fisico e dei lunghi capelli scuri che addolcivano i tratti marcati del suo volto, ma era con il suo atteggiamento esplicito che riusciva a fare colpo.
«Sei mai stata al Paradise?» mi chiese Roberta, che sedeva sul sedile centrale, incollata a me e strizzata in un abito verde elettrico.
«Una volta, l’anno scorso».
«Sì, ci aveva trascinate Ginny» aggiunse Erika ridendo. «Eravamo tutte a disagio tranne lei».
Il Paradise era una sorta di grande giardino all’aperto, disseminato di divanetti e sdraio, con un tendone dove venivano serviti i drink e una grande pista da ballo disposta tutta intorno a un palco circolare. Era un luogo che simulava la campagna a due passi dalla città, ma la sua reale collocazione era tradita dai vestiti dei presenti, particolarmente ricercati e troppo eleganti per essere davvero provinciali. Parcheggiammo a un chilometro di distanza, sul primo terreno dissestato libero. Ai lati della strada principale, due file di giovani agghindati in abiti vistosi sfilavano verso il locale, la cui musica cominciava a sentirsi anche da quella distanza. Debora e Sara portavano i tacchi, così impiegammo oltre venti minuti per arrivare all’ingresso, dove un buttafuori con l’aria da vichingo controllò le nostre carte d’identità e ci fece cenno di entrare.
Era ancora presto e la pista da ballo era semi deserta. La maggior parte delle persone stava chiacchierando nel prato o era in fila per i drink. 
«Facciamo così» disse Debora prendendo a braccetto me e Roberta. «Quando vediamo un ragazzo che ci piace diciamo “Prenotato”. Possiamo prenotarne al massimo cinque».
Sentii Erika sbuffare alle mie spalle. «Sono molto contenta di essere esclusa da questa cosa».
Debora ci lasciò le braccia e si voltò verso di lei. «Vale anche per le ragazze».
«Tanto so che nessuna di voi vuole rubarmele».
Trovammo una sdraio libera e le ragazze con i tacchi se ne impossessarono insieme a Roberta, mentre io e Erika rimanemmo in piedi di fronte a loro. Mi raccontarono com’era andata la loro maturità e del viaggio che avevano in programma di fare all’inizio di agosto. Avevano prenotato un bilocale a Cesenatico, ma stavano discutendo se tenerlo o cercarne un più economico.
«Tu saresti interessata a venire?» mi chiese Roberta, ma le dissi che volevo risparmiare per l’università. 
«Meg!» sentii chiamare da lontano e, prima che potessi voltarmi, Diego apparve accanto a me con il fiato corto. 
Lo salutai con un sorriso e due baci sulle guance. «Cosa ci fai qui? Sei da solo?» chiesi.
Lui scosse il capo. «No, abbiamo organizzato una serata tra maschi. Chiara e Luca hanno litigato e abbiamo deciso di fare così».
Salutò anche Erika e le altre ragazze, poi si voltò per fare cenno a qualcuno di raggiungerci. Vidi Debora spostare gli occhi alle mie spalle e bisbigliare sottovoce: «Prenotato».
Mi voltai, sapendo già chi avrei trovato. Prima vidi Gio, che si affrettava verso di noi con un sorriso allegro sul volto e i capelli ricci spettinati ad arte, poi scorsi Luca, con un’espressione che diceva “Ora come lo spiego a Chiara?” e, infine, capii a chi si stava rivolgendo Debora. Era Sam. Camminava con calma verso di noi, con le mani infilate nelle tasche dei suoi pantaloni chiari. Portava una camicia blu e un cappello da baseball dello stesso colore. Mi rivolse una rapida occhiata e un sorriso piccolo, complice. 
«Ragazze, non fate foto perché se no a Luca parte un attacco di panico» disse Gio spintonando l’amico. «Stasera non ci siamo visti, okay?»
Debora finse di chiudersi le labbra con una cerniera e le altre annuirono.
«Io lo so già. Qualcuno mi vede e sono morto» si lamentava Luca, agitando la maglia per farsi aria e abbassare la temperatura corporea.
Sam gli appoggiò un braccio intorno alle spalle. «Al massimo le diremo che ti abbiamo costretto noi. Vado a prendere da bere così ti calmi un po’, va bene?»
Luca annuì, ma mi sembrava sull’orlo delle lacrime in un modo così plateale che mi venne da ridere. Sam mi guardò. «Hai voglia di accompagnarmi? Magari prendiamo due caraffe e tu sai cosa piace alle ragazze».
Acconsentii e ci allontanammo insieme verso il bar.
«Perché una delle ragazze mi guardava male?» domandò Sam mentre raggiungevamo il tendone.
«Quale?»
«Quella alta, con il top rosa».
Ridacchiai. «Ah, Debora. Lei ti ha… “prenotato”».
Mi rivolse un’espressione confusa. «Che cosa vuol dire?»
«Che se vi trovate soli voi due, potrebbe provare a saltarti addosso».
Fece un verso a metà tra un gemito di dolore e una risata. «Ti prego, non lasciarmi mai solo».
«Vedi di comportati bene allora» replicai.
Mi rivolse un sorriso sfacciato. «Io sono sempre un gentiluomo».
Stavamo flirtando così spudoratamente che mi sentivo su di giri anche senza aver bevuto nulla. La sua sola presenza era assuefacente. 
Mentre eravamo in coda, alcuni ragazzi lo salutarono. Erano compagni di università e chiacchierarono per alcuni minuti di cose che ignoravo completamente. Mi sembrava di venire da un altro mondo, quando li sentivo nominare luoghi che non conoscevo come se fossero posti universalmente noti. Anche il modo in cui erano vestiti mi parve interessante, non avrei saputo dire se fossero abiti di marca, ma sicuramente erano all’ultima moda, una moda che sul lago non era ancora arrivata. Ci fu un momento di imbarazzo quando chiesero se fossi la sua ragazza, ma Sam rispose che ero un’amica. La cosa non mi diede fastidio perché implicitamente voleva dire che non aveva mai presentato Ginny a quei ragazzi che lo conoscevano così bene. Si diedero appuntamento per vedersi la settimana dopo, poi loro tornarono fuori nel giardino.
«Tutto bene?» mi chiese una volta rimasti soli. Avevamo ancora tante persone davanti prima di arrivare alla cassa.
«Certo, e tu?»
Annuì. «Mi chiedevo se ti avesse dato fastidio, quando hanno chiesto se sei la mia ragazza».
«No, tranquillo. Mi rendo conto che le cose sono un po’ complicate».
Mi diede ragione e per un po’ nessuno dei due parlò. Arrivammo alla cassa e Sam ordinò le due caraffe. Mentre aspettavamo che ce le preparasse, si piegò verso di me per parlarmi. «Hai detto a qualcuno di…»
«No» risposi. «Tu?»
«Neanche io».
I nostri sguardi si incrociarono e sorridemmo entrambi. Qualche anno prima, Sam aveva avuto un incidente al club che gli aveva rotto il naso e scheggiato un dente. Il naso era stato raddrizzato, ma la frattura al dente era talmente piccola che aveva voluto tenerla. Ginny se ne era lamentata – «Basterebbe un intervento microscopico per sistemarlo!» diceva – ma io trovavo che lo rendesse unico. Sam mi sorrise con il suo dente scheggiato fino a che la barista non appoggiò sul bancone le due caraffe e il nostro tempo da soli finì.
Nonostante Luca paresse contrario – prima che l’alcol cominciasse a fare effetto – i ragazzi rimasero con noi per tutta la serata. Ballammo insieme intorno al palco circolare fino a tarda notte, prendendoci solo qualche pausa per riposare le gambe e fumare. Debora si era accorta del disinteresse di Sam nei suoi confronti e aveva virato la propria attenzione su Gio, che l’assecondò volentieri. Mentre ballavo, lanciavo ogni tanto delle occhiate fugaci a Erika, nel timore che notasse qualcosa, ma era sempre così assorta che, quando vedeva che la stavo guardando, gridava al cielo e mi gettava le braccia al collo facendomi saltare insieme a lei.
Era notte fonda quando Diego propose di andare a mangiare qualcosa al baracchino che vendeva panini poco fuori il locale.
«Tu non abiti vicino a me?» chiese Debora a Gio mentre lui divorava il suo panino con salamina.
Con la bocca piena, lui annuì vigorosamente.
«Allora non è più comodo se torni a casa con noi?» proseguì civettuola, arrotolandosi una ciocca di capelli sul dito.
Erika mi stava guardando e soffocai una risata fingendo un attacco di tosse.
«La nostra macchina è piena, però» ribatté Roberta, che stava piluccando le patatine dalla vaschetta di Sara.
«Forse possiamo fare qualche scambio» propose Gio. «Così è più comodo anche per Sam».
Chiamato in causa, Sam sollevò il capo. Sedeva su un muretto di cemento accanto al baracchino e beveva una coca dalla lattina. «Sì, è vero. Posso portare a casa Meg, è di strada per me».
Cercai di nascondere il sorriso che sentivo tendersi con naturalezza sulle mie labbra. 
Finiti i panini, ci salutammo con baci e abbracci. Perfino Luca sembrava dispiaciuto che la serata fosse finita. «Fatti due domande sulla tua relazione» commentò Diego battendogli amichevolmente sulla schiena e l’altro gli rivolse il dito medio.
Nell’auto di Sam, finii sui sedili posteriori, perché ero la più bassa, mentre Luca prendeva il posto accanto all’autista.
«È stata una bella serata» commentò Diego, al mio fianco. Aveva ripreso a fissarmi con quello sguardo intenso che mal celava le sue reali intenzioni nei miei confronti. Se fossimo stati soli, ero convinta che avrebbe provato a baciarmi.
Concordai con lui.
«Dovremmo rifarlo più spesso» aggiunse.
Diego fu il primo a scendere, poi fu il turno di Luca, che mi lasciò aperta la portiera perché potessi spostarmi sul sedile davanti. Lo ringraziai e gli augurai buona notte. In auto eravamo rimasti solo io e Sam.
«Dunque» iniziò lui.
«Dunque» lo imitai e scoppiammo a ridere come bambini.
«È stata una bella serata» disse.
«Lo ha detto anche Diego»
«Oh sì, è vero. Stavo fingendo di non sentirvi, nel caso volesse fare la sua mossa».
Risi. «La sua millesima mossa, forse».
Fuori tutto era immobile, cristallizzato sotto alla luce arancio dei lampioni. Le case, gli alberi, tutto aveva perso colore ed era immerso nel grigiore lieve della notte. Alla radio suonava a basso volume una canzone di cui non riuscivo a distinguere le parole.
Sam rallentò fino a fermarsi a uno stop. Non passavano altre auto, così mi voltai verso di lui, in attesa di una spiegazione.
Fissava la strada, senza guardarmi. «Puoi scegliere».
Continuai a fissarlo, confusa. Poi capii dove ci trovavamo. A destra la strada saliva in tornanti verso casa mia. A sinistra si andava verso il lago, verso il club e la casa di Sam. Cercai un cenno da parte sua, ma continuava a tenere gli occhi davanti a sé, senza muoversi.
In silenzio, sollevai un braccio e gli indicai la strada di sinistra. Il suo volto si distese e mi sorrise.
«Ottima scelta» ammiccò.
 
 
Mi ero addormentata senza rendermene conto, cullata dal leggero ondeggiare della barca a vela di Sam. Il materasso era stranamente comodo e confortevole anche per due persone. Mi svegliai scivolando giù dal petto di Sam e battendo la testa contro il materasso. Aprii gli occhi spaventata e notai che lui si era messo seduto e stava guardando il cellulare.
«Cazzo, sono le cinque e mezza. Devo riportarti a casa? I tuoi si arrabbieranno?»
Di fronte alla sua espressione seria, scoppiai a ridere e scossi il capo. «Probabilmente mi chiederebbero perché sto tornando così presto. Non preoccuparti, sono molto rilassati su queste cose».
Sam si lasciò ricadere al mio fianco e aprì un braccio per stringermi a sé. La mia schiena aderì contro il suo petto nudo. «Mi erano sembrate delle persone a posto».
«Se vuoi metterla così» ridacchiai. «La prima volta che mi sono ubriacata, sono stata male per tutto il giorno dopo. Mio papà mi ha detto: “Ci siamo passati tutti, vedrai che la prossima volta andrà meglio”».
Rise e la sua risata fece vibrare il materasso. «È stato carino. Il mio non farebbe mai una cosa del genere». 
Avevo incontrato Vittorio Landi innumerevoli volte e avevo sempre provato soggezione di fronte a un uomo stimato e autorevole come lui. Non era quasi mai da solo perché ovunque andasse c’era più di una persona che lo conosceva e che era pronta a presentarlo ad altri. Aveva gli stessi occhi azzurri del figlio, ma i suoi erano freddi come quelli di un impassibile rapace. Ci avevo sempre avuto poco a che fare perché, d’altronde, cosa avrebbe potuto volere un uomo come lui da una ragazza come me? Pensavo, però, che nel privato fosse una persona più affettuosa, quanto meno per l’orgoglio con cui parlava di suo figlio ogni volta che ne aveva occasione.
«Com’è tuo papà?» gli chiesi, incuriosita. 
Sam cominciò a sfiorarmi il braccio in modo delicato, come una carezza. «È il tipo di persona a cui interessa solo l’apparenza. L’immagine è sacra per lui e guai a rovinarla. Quindi è sempre stato un padre esigente e con “esigente” intendo che niente era mai abbastanza».
«Mi dispiace».
«Sì, be’, non sono un ingrato. So quanto l’immagine serva alla gente come noi».
«I ricchi?» chiesi e Sam dovette interpretarla come una battuta perché rise.
«No, intendevo chi lavora a contatto con le persone» mi corresse divertito. «Lui è riuscito a conservare le giuste apparenze e per questo ora abbiamo quello che abbiamo».
«E tuo nonno? È il papà di tuo papà, giusto?»
«Sì, ma non potrebbero essere più diversi. Mio nonno faceva le cose perché si divertiva, la gente lo vedeva e capiva che c’era l’entusiasmo. Le sue scelte non erano guidate dai profitti, ma dalla voglia di fare».
Sollevai gli occhi e cercai i suoi. «Un po’ come te».
Sam sorrise e si sporse verso di me per lasciarmi un bacio sulla fronte, che mi provocò un brivido di piacere. «Sì, possiamo dire che ho preso da mio nonno. Non assomiglio né a mia mamma né a mio papà».
Ci pensai per qualche secondo, ma non riuscii a visualizzare la faccia di sua madre. Tanto era onnipresente Vittorio Landi, tanto era sfuggente sua moglie.
«Non credo di aver mai incontrato tua mamma» dissi e capii immediatamente di aver toccato un tasto dolente, perché Sam si irrigidì tutto e le sue dita, che mi stavano accarezzando, si bloccarono in aria, prima di riprendere dopo qualche istante in modo più meccanico e meno spontaneo.
«Mia mamma… è stata abbastanza assente mentre crescevo. Quando ero alle medie lei… è stata depressione per tanto tempo».
Mi misi seduta di scatto e lo guardai. Sam ricambiò lo sguardo, con la solita ruga tra le sopracciglia che lo rendeva corrucciato. «Ora va meglio, sai le medicine e tutto il resto. Ogni tanto sparisce per qualche raduno spirituale e poi ritorna più in forma di prima. Credo che la sua priorità per tanti anni sia stata prendersi cura di sé stessa e a me ci ha pensato mio padre. Non gliene faccio una colpa». Si mise seduto anche lui e mi strinse tra le braccia, poi mi tirò a sé e mi baciò sulla bocca. «A volte, però» mi sussurrò sulle labbra, «penso che avrei voluto dei genitori come i tuoi».
«Poveri?» ribattei, questa volta con l’intenzione di farlo ridere. E ci riuscii. Ogni ruga sparì dal suo volto e il suo petto fu scosso da una vibrazione che raggiunse anche me, stretta in quell’abbraccio.
Ancora sorridente, Sam mi scostò i capelli dal viso e mi guardò negli occhi. «Dai, ti riporto a casa prima che questo posto si riempia di gente».
Raccolsi le mie cose e tornammo all’auto che Sam aveva abbandonato nel parcheggio. Il sole stava sorgendo, il cielo si schiariva e il lago cambiava tonalità. Qualcuno correva lungo la riva, altri passeggiavano, alcuni turisti invece rientravano dalla notte fuori con lo sguardo assonnato e le lattine vuote in mano. 
«Grazie per avermi parlato dei tuoi genitori» gli dissi mentre ci allontanavamo dal lago.
«Grazie a te per aver ascoltato». Il suo volto si stese in un sorriso. «Potremmo fare un giro con la barca ogni tanto, se ti va».
Mi sporsi verso di lui e gli appoggiai una mano sulla spalla. «Volentieri».
 
 
 
L’occasione per la gita in barca arrivò qualche giorno più tardi. Sam mi scrisse di farmi trovare al club poco prima di mezzogiorno e mi spiegò come raggiungere il porto passando da un cancellino che veniva lasciato aperto fino a sera. Lui mi aspettava agli ormeggi.
Sono tante le cose che potrei raccontare di quella giornata al lago. L’adrenalina dell’essere circondati solo dall’acqua, le gocce che si asciugavano sulla pelle sotto il sole mentre stavo stesa sul ponte, ondeggiando con moto delle onde, il suono del vento che superava ogni altro e i monti che assumevano una forma diversa mentre ci muovevamo trasformando in sagome sconosciute le linee che mi erano state tanto familiari per tutta la vita, quando le guardavo dalla costa. Di tutte queste cose, però, quella che ricordo con maggiore chiarezza – e che porto ancora stampata nella mente come la scena di un film – è il modo in cui io e Sam ci guardavamo, mentre lui gestiva la vela e io lasciavo asciugare i capelli nel vento. Mi sembrava di poter sentire il profumo della sua pelle anche da quella distanza, un profumo che sapeva di sole, crema solare e sassi bollenti. In quel momento pensavo che il mio cuore sarebbe scoppiato per l’amore che provavo per lui e che mai, per nessuno al mondo, sarei riuscita a provare un sentimento più grande di quello che sentivo agitarmi da dentro mentre stavo su quella barca a vela. Lui mi sembrava di una bellezza abbagliante che non nascondeva i suoi difetti, ma li rendeva le cose che più amavo di lui. La pelle scottata, il naso rotto, le mani callose, i capelli bruciati dal sole al punto da essere diventati chiarissimi. Avrei voluto rimanere su quella barca per sempre, abbracciati dal sole caldo dell’estate e lontani da tutti quelli che ci conoscevano. 
Ma non è così che va la vita.
 


 

Ciao!
Scrivo queste righe per ringraziare chi sta seguendo la storia e chi ha dedicato qualche minuto per farmi sapere cosa ne pensa. Le vostre parole sono molto importanti e anche una grande spinta a continuare a pubblicare, quindi grazie di cuore! Sono molto legata a questa storia – che ho scritto quasi di getto per l'esigenza di portarla a termine – e spero che continuerà a coinvolgervi <3
A presto,
M.

 

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Capitolo 8
*** Agosto pt.1 ***


Capitolo 7. Agosto (pt.1)


All’inizio di agosto, Sam propose di andarcene per alcuni giorni. Mi sarebbe piaciuto andare al mare con lui, ma sarebbe stato troppo complicato da spiegare a troppe persone, così decidemmo di risalire il lago in moto verso nord e poi addentrarci nelle montagne che ne circondavano la punta. Avremmo passato la notte in uno di quei paesini piccoli e isolati. Ai miei genitori dissi che sarei andata con degli amici, alle mie amiche non dissi nulla perché Erika era in vacanza con le sue compagne di classe e Ginny era ancora in Sardegna.
Sam passò a prendermi di prima mattina, quando il sole si era da poco sollevato dal lago, e mi aggrappai a lui mentre la moto serpeggiava tra le auto dei turisti già svegli. La strada che costeggiava il lago era stretta e pericolosa, con curve improvvise e incidenti frequenti che mandavano in tilt l’intero percorso. Viaggiammo con lo specchio d’acqua chiara alla nostra destra e la parete rocciosa stretta dalle reti sbiadite dall’altro lato. Sam aveva una guida sicura e agile e con lui non mi sentivo mai in pericolo. Ci fermammo a metà strada per fare colazione in un bar che si affacciava su una vecchia piazza trascurata. Il proprietario conosceva il nonno di Sam, così ci trattenne per chiederci notizie di lui, mentre ci fumava in faccia un sigaro. Quando ripartimmo, era già mattina inoltrata e le strade erano ormai affollate.
Poco prima di pranzo, raggiungemmo uno dei paesi più grandi in quel punto del lago. Un antico castello in pietra dominava il centro storico e le sue mura abbracciavano gli edifici principali, vecchi palazzi dalle vernici scolorite. Visitammo la torre del castello e, aspettando l’ora di pranzo, passeggiammo un po’ lungo il lago. Eravamo abbastanza lontani da casa per poterlo fare senza il timore che qualcuno ci riconoscesse. Stavamo vicini, senza tenerci per mano, ma con le braccia che ogni tanto si sfioravano e quella sensazione mi faceva rabbrividire di piacere. La sua semplice presenza al mio fianco mi riempiva di una gioia che rendeva leggera e spensierata la mia testa. Non pensavo a nient’altro che a lui e a me che passeggiavamo insieme, così vicini da sfiorarci.
 
Avevamo prenotato una camera in un bed and breakfast racchiuso tra vecchie case e la finestra della nostra stanza si affacciava sulla stradina in sanpietrini sotto di noi. Ci aveva accolti la proprietaria, una signora robusta e vivace, ci aveva raccontato la storia del palazzo – l’aveva fatto costruire il suo bisnonno, poi suo nonno l’aveva perso e suo padre ricomprato – e ci aveva consigliato un ristorante poco distante per la cena.
Io e Sam lo avevamo raggiunto a piedi, freschi e profumati dopo la doccia, con addosso gli abiti più eleganti che avevamo portato. Ci fecero sedere all’aperto, su un’ampia terrazza da cui si vedeva l’intero paesino. Il menù conteneva tre piatti di carne e tre piatti di pesce, così non fu difficile scegliere.
«È bellissimo qui» commentai guardandomi attorno. Era scesa un’aria fresca e avevo appoggiato sulle spalle il maglioncino che mi ero portata. Eravamo così in alto che era completamente sparita l’afa.
«Non ci eri mai stata?» chiese, mentre il cameriere gli prendeva il piatto lucido che aveva davanti.
Scossi il capo. «No, tu?»
«Sì, con i miei nonni quando ero piccolo. Forse l’ultima volta ci sono stato con Ginevra e Alberto».
Annuii. Alberto, il papà di Ginevra, si era trasferito in città dopo il divorzio da Serena, ma ricompariva durante le vacanze per portare con sé la figlia, che fosse nella sua casa in Sardegna o in qualche altro viaggio che faceva organizzare a qualche costosa agenzia.
«Ti dà fastidio se parlo di lei?» chiese Sam scrutandomi, serio.
Scossi il capo. «No, lo so che è stata la tua ragazza».
«Non dobbiamo per forza parlarne».
Fissai gli occhi nel bicchiere colmo di vino davanti al mio piatto. Quando alzai gli occhi, mi accorsi che Sam stava aspettando una mia risposta.
«No» acconsentii, «raccontami di prima».
Sollevò le sopracciglia. «Prima cosa?»
«Prima di stare con Ginny» gli risposi con un sorriso. «Mi ricordo di te quando eravamo piccoli, alle elementari, al campo estivo, ma ho un vuoto da quando tu hai cominciato il liceo, prima che lo iniziassi anche io. E anche per tutto il mio primo anno non ti ho mai visto molto».
Lui ci pensò su un attimo, poi annuì. «È vero, le nostre classi erano lontane. Non ci siamo mai incrociati. Ma quando io ero in quarta condividevamo la palestra durante l’ora di ginnastica».
Ghignai. «Me lo ricordo bene».
Le sue labbra si tesero in un sorrisetto divertito. «Ah sì?» chiese, portandosi con noncuranza il calice di vino alla bocca. «Scommetto che eri una di quelle che fissava noi ragazzi più grandi tutto il tempo. Ti svelo un segreto: sentivamo le vostre risatine».
Ridacchiai, sentendomi arrossire. «Io guardavo solo te».
Il sorriso di Sam non era più irrisorio. Si era fatto sincero, accogliente. «Non me ne ero mai accorto».
«Bugiardo» lo stuzzicai.
«No, davvero. Io non voglio…» esitò, poi scosse il capo. «Lasciamo perdere».
La frase interrotta aveva attirato la mia attenzione. Mi raddrizzai di colpo e mi sporsi in avanti al punto da premere lo sterno sul tavolo. «Dai, dimmelo».
Fece di nuovo cenno di no con la testa e io continua a insistere, fino a che fu costretto a cedere per poter smuovere la conversazione. «Se te lo dico, penserai che me la tiro» mi avvisò.
«Penso già che te la tiri».
Sorrise, mostrando il suo dente scheggiato. «Allora ti ho avvisata. All’epoca c’erano molte ragazze che mi correvano dietro e non sono così vanaglorioso da pensare che fosse per il mio aspetto o la mia personalità. So di non essere brutto, ma so anche che lavorare al club mi dava un’aria da surfista australiano sempre rilassato che sa come godersi la vita. E alle ragazze questo piaceva».
Sorseggiai un goccio di vino e gli rivolsi un’espressione maliziosa. Quasi mi sembrò di vederlo arrossire, una visione inaspettata per una persona così sicura di sé come lui.
«E hai mai approfittato di questa cosa?»
Scrollò le spalle. «Avevo sedici anni, avere delle ragazze che ti guardano in quel modo ti fa impazzire. Un po’ mi sono montato la testa, un po’ mi sono divertito».
Quella rivelazione mi sembrava eccitante, ma allo stesso tempo andò a depositarsi sul mio stomaco come un mattone. Ero già al terzo bicchiere di vino.
«Cioè?»
Abbassò gli occhi, sospirò in modo impercettibile, poi mi guardò di nuovo. «La mia prima volta non è stata con Ginevra. E neanche la seconda o la terza».
Corrugai la fronte. Non mi sembrava una scoperta particolarmente sconvolgente, considerando che io e lui eravamo finiti a letto insieme alla prima occasione. 
«È solo che… non rimpiango quello che ho fatto, però a volte mi sembra uno spreco. Di quelle ragazze non mi è rimasto nulla. Per la maggior parte erano turiste straniere di pochi anni più grandi. Io mi lasciavo guidare da loro perché sembravano sempre sapere cosa fare e volevo impararlo anche io».
Distolsi gli occhi da lui e fissai il campanile in pietra che sorgeva dietro la sua spalla.
«Pensi che anche con me sia stato uno spreco?» chiesi.
Sgranò gli occhi e il suo volto prese improvvisamente colore. «Certo che no, cazzo, non era quello che intendevo, Meg, nel modo più assoluto».
Il cameriere comparì improvvisamente a fianco del tavolo e ci chiese se volessimo un dolce. Cominciò a elencarli, ma non riuscivo a sentirlo perché il battito martellante del mio cuore mi assordava. Non riuscivo neanche a guardare Sam, ma fissavo un punto imprecisato della tovaglia. Lo sentii ordinare qualcosa, dissi che io ero a posto così e il cameriere se ne andò.
«Margherita».
Mi chiamò e la testa prese a girarmi come se fossi sulla giostra. Costretta da quel tono serioso, sollevai gli occhi dalla tovaglia e lo fissai. Le vene mi pulsavano sulle tempie e mi sembrava di riuscire a sentire il cervello che si dilatava contro la scatola cranica.
«Tu mi piaci davvero tanto» Sam si era piegato in avanti e il vento mi portò alle narici il profumo di cui era cosparsa la sua camicia. «Io… non so che idea tu ti sia fatta, ma non ho fatto sesso con te perché così potevo vantarmene con i miei amici. Mi piaci come persona, molto più di quanto potessi ammettere quando ero fidanzato».
Tornò il cameriere con il suo semifreddo e Sam chiese se potesse portare un cucchiaino anche per me.
Il mio cuore rallentò il battito e recuperai la calma persa. Sorrisi. «Anche tu mi piaci molto».
«Non lo avevo capito» replicò con un sorrisetto. 
Quella notte, quando mi addormentai abbracciata a lui con il mio petto nudo contro il suo petto nudo, pensai che ero veramente felice. In quel momento. In quel luogo. Forse altre persone avevano potuto avere Sam prima di me, ma in quell’istante ero io quella che stringeva a sé e baciava tra i capelli, sussurrando parole dolci prima che ci addormentassimo.
 
 
La mattina successiva mi svegliai di cattivo umore. Avevo preso freddo durante la notte e non ero riuscita a dormire bene. Mentre facevamo colazione all’aperto nel bar del paese, Sam prese a grattarsi nervosamente la nuca.
«Il casco mi fa sempre quest’effetto» si scusò con una smorfia.
Sorseggiai il mio cappuccino e improvvisamente ricordai di come Ginevra a volte appoggiava un braccio sulle spalle di Sam e gli grattava la testa, allora lui socchiudeva gli occhi, come in estasi, e la lasciava fare anche nei luoghi meno appropriati. Qualche volta avevo distolto lo sguardo, pensando che fosse una cosa intima, solo per loro. Il cappuccino mi andò di traverso e presi a tossire.
«Tutto bene?» Sam aveva un tono premuroso.
Quando lo guardai, mentre continuava a grattarsi, provai un’immensa ostilità nei suoi confronti. Volevo gridargli cose cattive, metterlo in imbarazzo di fronte ai proprietari del bar e poi andarmene senza dover affrontare le conseguenze. Provai una profonda irritazione verso di lui e, prima di fare cose di cui potessi pentirmi, dissi che dovevo andare in bagno e mi allontanai rapidamente. In bagno, pensai che odiavo anche il mio riflesso. Detestavo quella ragazza bionda dalla scollatura troppo provocante che aveva passato la notte con Sam e non riuscivo a vedere me stessa in lei, mi sentivo priva di identità e inadeguata, totalmente inadeguata a qualsiasi cosa dovessi fare. Quel piccolo gesto mi aveva spalancato davanti agli occhi la consapevolezza che la mia migliore amica era stata la fidanzata del ragazzo con cui avevo fatto sesso quella notte. E lui l’aveva amata forse quasi quanto lei aveva amato lui. Per lo meno si era sentito bene con lei, anche se solo in quel momento di felicità in cui lei gli grattava la nuca. Non sarebbero stati insieme per tanti anni altrimenti. E poi avevano così tanti interessi in comune. Improvvisamente ricordai come a entrambi piacesse ordinare due bicchieri diversi di vino al ristorante, così da poterseli scambiare e poi commentarli insieme. Io non sapevo neanche distinguere un bianco da dolce da uno per il pasto. Erano una coppia molto fotogenica e avevo visto le loro fotografie di fronte alla Torre Eiffel, sui navigli, a Hyde Park… Erano entrambi brillanti e amichevoli con le persone che non conoscevano, sapevano fare colpo anche nelle situazioni più scomode. Sam si sarebbe vergognato della mia timidezza e della mia incapacità di replicare in modo divertente e adeguato alla conversazione. Ginevra era cresciuta nei corridoi dell’hotel, stando in mezzo a persone di cui si sentiva superiore, sapeva quindi conversare amabilmente tra loro e allo stesso tempo farsi percepire come irraggiungibile, seppur altamente desiderabile. Io ero cresciuta nel giardino di casa mia, piantando fiori a mani nude, conversando con mia nonna e i gatti randagi. Mi veniva da vomitare.
Mi sciacquai il volto, fissai il mio riflesso negli occhi, presi un respiro profondo e tornai da Sam.
Aveva finito il suo succo e della brioche erano rimaste solo le briciole. «Sicura che vada tutto bene?» mi domandò quando presi posto di fronte a lui.
Mi strinsi nelle spalle. Sentivo il volto ancora umido. «Sono solo pensierosa».
Lui mi fissò in silenzio, serio. «A cosa pensi?».
Volevo minimizzare, dire che non era nulla, ma non ne ebbi le forze. I pensieri mi pesavano in testa e mi impedivano di ragionare con lucidità. «Ti manca mai Ginevra?» chiesi senza fiato.
Sam sollevò le sopracciglia, sorpreso. «Non mi manca lei. Non fraintendermi» mi lanciò un’occhiata per assicurarsi che lo ascoltassi con attenzione. «A volte mi mancano alcune cose che ero abituato a fare, ma non è una sofferenza così grande. Non è così anche per te?».
Non ci avevo pensato. Anche io avevo appena chiuso una relazione di alcuni anni e Sam avrebbe potuto pensare le stesse cose che mi avevano assalita in quel momento. Sapevo che la sua autostima non poteva essere minimamente scalfita da Marco, ma anche io sentivo la mancanza di alcune abitudini. Alcuni film che avevamo guardato insieme. Quel ristorante che piaceva a entrambi.
«Nulla che mi faccia rimpiangere la fine della relazione» risposi.
Sam mi sorrise. «Ti sei risposta da sola. Dai, vieni qui». Mi indicò la sedia libera accanto a lui. Come una marionetta mi alzai e obbedii ai suoi comandi. Lui tirò la sedia ancora più vicino a sé, poi, inaspettatamente, mi abbracciò. Non era il tipo di persona che mostrava affetto in pubblico, quindi rimasi immobile per una frazione di secondo, stupefatta, prima di ricambiare l’abbraccio. Percepivo le lacrime che mi premevano sugli occhi e mi sentivo una stupida per come l’ansia mi aveva assalita pochi minuti prima contro ogni razionalità.
«Sono contenta che siamo venuti qui» sussurrai con il volto appoggiato alla sua spalla.
«Anche io» mi rispose nell’orecchio.

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Capitolo 9
*** Agosto pt.2 ***




Capitolo 8. Agosto (pt.2)


Improvvisamente, mia nonna cominciò a soffrire per il caldo troppo afoso di agosto. La corrente continuava a saltare per tutti i ventilatori che attaccava al suo piano, ma lei non la smetteva di lamentarsi del caldo. I miei genitori decisero di portarla alcuni giorni in montagna e mi chiesero se volessi andare con loro mentre cenavamo in cucina.
«Non ti sei fatta neanche una vacanza quest’anno» disse mia mamma. «Quei due giorni sul lago neanche contano, lo vedi tutti i giorni!»
«Sto bene così, non preoccuparti. Mi piace stare a casa e chissà dove sarò l’anno prossimo».
«Che melodrammatica» commentò papà facendomi sbuffare.
«Intendo chissà in quale città, devo ancora decidere cosa voglio studiare».
«Nessuna pressione, tesoro, siamo solo ad agosto» replicò lui. 
«Ci sto pensando, promesso».
Dopo cena, andai in camera mia e scrissi a Sam della vacanza.
“Fantastico”, mi rispose, “mi faccio spostare i turni al club”.
Sam mi raggiunse qualche ora dopo la partenza dei miei genitori. Lasciò la moto in garage, poi salì rapidamente i gradini che lo separavano dalla porta d’ingresso. Mi lanciai tra le sue braccia e lui mi baciò, poi lo condussi dentro casa. Mi ero abituata facilmente alla sua presenza nei miei spazi e lui dal canto suo era molto disinvolto. Pareva nel suo ambiente naturale. Si sedeva sul divano come se lo avesse fatto un miliardo di volte e già sapesse quale fosse il punto più comodo per lui, oppure mi chiedeva se potesse prendere un bicchiere d’acqua in tono di retorica cortesia, quasi mi avesse rivolto quella formula in infinite altre occasioni.
All’ora di pranzo mi chiamò mia mamma. «Ieri sera ho scongelato le lasagne per Stefano, ma mi sono dimenticata di dirtelo» mi disse in tono agitato. «Riusciresti a portargliele?»
«Mm, ok. Vanno a male se non gliele porto, giusto?»
«Credo di sì, con il caldo di questi giorni. Sono in forno. Magari scaldale un attimo prima di portargliele, non vorrei sprecasse tutta la sua elettricità per un piatto di lasagne. Grazie mille, tesoro».
Controllai il forno e vi trovai la teglia, così cominciai a scaldarle. Sam si affacciò sulla porta della cucina. «Che fai?»
«Mia mamma mi ha chiesto di portare le lasagne a mio fratello. Posso fare da sola, tanto impiego al massimo venti minuti».
«No, ti accompagno».
«Sicuro?»
«Perché no?»
«Mio fratello vive nei boschi» lo avvisai.
Mi rivolse un mezzo sorrisetto. «Ora sono ancora più curioso».
Poco più tardi stavamo salendo i tornanti a bordo della vecchia automobile di mia mamma. Guidava Sam e io tenevo la teglia sulle cosce, proteggendomi la pelle con uno straccio sbiadito. Faceva un caldo tremendo, nonostante i finestrini abbassati e l’aria condizionata al massimo. Indicai a Sam la strada sterrata mezza nascosta nella boscaglia e, sobbalzando per le buche non riparate, la percorremmo fino a che davanti a noi si aprì un ampio prato verde sbiadito. Lasciammo l’auto dove l’erba era stata tagliata di recente – mentre tutt’attorno si alzava fin sopra le ginocchia – e gli feci cenno di seguirmi verso la casetta di legno poco distante, l’unica costruzione che si vedeva in quello spazio naturale.
«Non sapevo si potesse vivere nei boschi» commentò Sam studiando la casetta con gli occhi strizzati. Da quella distanza era solo un parallelepipedo poco aggraziato con un piccolo portico davanti e le finestre dai vetri sporchi ritagliate nel legno che rivestiva la facciata.
«In teoria non si può» risposi. «Quello era il capanno di caccia di mio nonno. Mio fratello lo ha sistemato, lo ha reso abitabile e si occupa di tenere questa parte di boschi puliti, così il comune ha accettato di mettergli le carte in regola».
«E vive qui da solo?»
Annuii. «Sì, lo adora».
Bussai alla porta d’ingresso mentre Sam reggeva le lasagne, ma non ci venne nessuna risposa. Si udivano invece dei rumori provenire dal retro del capanno, così ci girammo intorno e trovammo Stefano che martellava una grande tavola di legno, riparato dall’ombra di un gazebo lastricato. 
Quando ci avvicinammo, alzò il capo, allarmato, poi sul suo volto si aprì un grande sorriso. «Benvenuti!».
In quel periodo ricordo che Stefano aveva cominciato ad assomigliare sempre di più a nostro papà. Aveva la stessa stazza alta e possente e teneva la barba lunga come la sua. Mio padre aveva i capelli radi e li tagliava corti, mentre Stefano li aveva fatti crescere per portarli legati in un codino. Mi salutò calorosamente, poi prese le lasagne dalle mani di Sam e le posò sul tavolo sotto al gazebo.
«Allora, vi fermate per pranzo, vero? Io non posso mangiarle tutte e ho il frigo troppo pieno».
Guardai Sam, che a sua volta stava guardando mio fratello con curiosità mista a diffidenza.
«Ti va?» chiesi.
Lui annuì. «Certo, se non disturbiamo».
Mio fratello si raddrizzò nel suo abbondante metro e novanta e sorrise amabilmente. «Certo che no, sedetevi pure, io apparecchio».
Ci costrinse a sederci sotto al gazebo e entrò nella casa tramite una porticina sul retro. Lo sentimmo armeggiare all’interno per qualche minuto.
«Mi immaginavo un eremita» disse Sam. «Invece sembra piuttosto amichevole».
Risi. «Gli piace vivere da solo nei boschi, ma ama anche la compagnia di tanto in tanto. È sempre stato un tipo un po’ particolare».
Stefano riemerse dalla casa con un cestino di vimini in cui aveva cacciato la tovaglia, i piatti e una bottiglia di acqua cosparsa di condensa. Lo aiutammo ad apparecchiare e poi ci servimmo con un’ampia porzione di lasagne a testa.
Sam era incuriosito da mio fratello, ma anche da tutto ciò che lo circondava. Perlustrava lo spazio con gli occhi, mentre mangiava in silenzio le sue lasagne. Stefano si accorse che stava fissando l’asse con cui era impegnato al nostro arrivo, così spiegò che stava costruendo un tavolo più grande per il gazebo in modo da spostare quello più piccolo all’interno della casa per l’inverno. «E poi tanta gente si ferma qui per un caffè e due chiacchiere durante le camminate. Mi fa comodo avere posti extra» aggiunse.
Incalzato dalle domande, gli spiegò nel dettaglio come aveva isolato la casa, dove aveva collocato il generatore di corrente e dove avrebbe disposto i pannelli solari che gli sarebbero arrivati alcune settimane più tardi. Gli indicò dove stava la cisterna dell’acqua e come ottimizzava l’acqua piovana per dare da bere al suo piccolo orto.
«A te piace costruire cose?» domandò poi mentre spazzolava i rimasugli di lasagne dal piatto.
«Abbastanza» rispose Sam, «mi piace fare cose manuali diciamo. Lavoro al centro canottieri»
«Bel posto, ma gestito da stronzi». Mi sentii avvampare e cercai di fare un cenno a mio fratello, che invece continuò imperterrito: «Una volta ho visto il proprietario far piangere un bambino, ed era una cazzata, risolvibile con un po’ di empatia umana».
Sam rise. «Sì, mio papà tende a fare queste cose».
L’altro si bloccò, con la forchetta a mezz’aria. «Ah, merda, scusami. Sei il figlio del proprietario?»
«Già, ma condivido quello che pensi. È uno stronzo».
Stefano si rilassò, ma considerò più educato cambiare argomento e mi chiese se avessi deciso qualcosa per l’università.
Scrollai le spalle. «Sicuramente qualcosa nell’ambito umanistico, ma non sono ancora sicura».
Lui mi rispose con un fischio ammirato. «Sei sempre stata quella intelligente in famiglia. Sai che scrive storie da quando è piccola?». Si era rivolto a Sam e, prima che io riuscissi a minimizzare o distogliere la conversazione da quello, proseguì: «Sono delle belle favole filosofiche e morali, mi sono sempre piaciute tanto».
Ora avevo addosso lo sguardo interessato di Sam e mi sentii arrossire. «Sono solo storie per bambini».
«Mi ricordo di averti sentita raccontare delle storie al campo estivo» disse lui. «Ho sempre pensato che avessi un dono speciale. I bambini ti ascoltavano incantati».
Abbassai gli occhi sul mio piatto, a disagio, e lui allungò una mano sotto il tavolo per prendere la mia. Rialzai lo sguardo e trovai le sue iridi chiare che mi fissavano con un’espressione affettuosa.
 
***
 
Arrivai all’albergo con venti minuti d’anticipo e mi accorsi dell’orario solo quando già mi stavo dirigendo verso la porta d’ingresso. Ritornai sui miei passi e passeggiai un poco lungo la strada trafficata, ma faceva caldo e stavo sudando per l’agitazione, così controllai nervosamente il cellulare in attesa che i numeri cambiassero.
Ginny era atterrata la sera prima e mi aveva chiesto di raggiungerla per quel pomeriggio, come aveva sempre fatto. Avevo accolto la notizia come un condannato a morte che cammina dignitosamente ma inevitabilmente verso il patibolo. 
Scrissi a Ginevra che ero in anticipo e mi rassegnai a entrare nell’albergo per aspettarla sui divanetti della hall. Salutai la signora alla reception e presi posto su un divanetto in finta pelle bianca. L’aria condizionata mi fece accapponare la pelle sudata, così strinsi le braccia al petto per proteggermi dall’improvviso gelo. Di fronte a me sedevano due bambine tedesche e aspettavano i genitori che parlavano con uno dei dipendenti. Il giovane cercava di spiegare, in un inglese stentato, come raggiungere il porto da cui prendere il traghetto per attraversare il lago e raggiungere la sponda veneta. Dopo qualche minuto di conversazione a gesti e tentoni, la coppia si congedò e chiamò a raccolta le bimbe per uscire dall’albergo. Mi ritrovai improvvisamente sola e l’ansia calò di nuovo su di me, schiacciandomi la testa e facendomi sudare come se fossi stata in strada sotto il sole. La mia gamba destra tremava e mi accorsi che stavo ondeggiando avanti e indietro con il busto nel tentativo di calmarmi. Nessuna dignità per questa condannata, pensai. Forse non me la meritavo.
Da quando mi era alzata quella mattina, avevo ripetuto diverse volte nella mia testa come sarebbe andato l’incontro con Ginny. Oscillavo dalla versione utopica – in cui Ginny mi avrebbe detto che non provava più niente per Sam e quindi avrebbe voluto qualsiasi, davvero qualsiasi ragazza, al suo fianco – fino alla versione splatter – in cui lei mi assaliva fisicamente dicendo che già sapeva tutto e voleva strapparmi il cuore dal petto dopo avermi uccisa a mani nude. Mi ero preparata per diverse conversazioni, avevo ripassato le mie battute, avevo cercato di prevedere le sue e di ribattere a ognuna di esse. Ma c’era quella percentuale troppo ampia di imprevedibilità che mi terrorizzava, mi mordeva da dentro e mi rendeva difficile respirare.
Dopo un tempo che parve infinito, mi sentii chiamare e scattai in piedi. Ginevra stava scendendo dalla scalinata di marmo che portava al primo piano e mi stava venendo incontro. La sua pelle chiara aveva preso un colore caldo e arrossato, teneva i capelli raccolti in una mezza coda più sbarazzina delle sue solite acconciature e portava degli orecchini di corallo che non le avevo mai visto addosso.
Mi abbracciò e, mentre ricambiavo l’abbraccio piegata in avanti, vidi un’altra persona scendere dalle scale di marmo. Riconobbi prima la polo bianca del club con il gabbiano ricamato, poi i capelli chiari e il volto abbronzato. Era troppo riconoscibile perché mi confondessi. Sam. Quando incrociò il mio sguardo, si paralizzò sulle scale, ma subito dietro di lui arrivò la madre di Ginevra, così dovette riprendere a scendere i gradini. Mi rivolse un incomprensibile cenno del capo e sparì fuori dall’albergo.
«Perché hai la pelle d’oca? È l’aria condizionata?» domandò Ginny prendendomi per un polso e sollevandomi il braccio.
Sentii girare la testa. «Può essere» mormorai con un filo di voce.
Lei mi percorse con gli occhi da capo a piedi. «Sei sicura di sentirti bene? Forse è meglio se prendiamo un po’ d’aria».
Mi condusse all’esterno, fino alla piscina e mi fece sedere su una delle sdraio. Chiese a uno dei camerieri di portare due teli e li fece sistemare su due posti adiacenti.
«Ora va bene» dissi cercando di recuperare la calma. Se prima di vedere Sam stavo male, in quel momento mi sentivo impazzire, i pensieri mi vorticavano nella testa e faticavo a tenerli a bada. Parlai prima di pensare. «Mi è sembrato di vedere Sam che scendeva dietro di te».
Ginny aveva inforcato dei grossi occhiali da sole, così la sua espressione rimase celata. «Sì, è venuto per parlare».
«Di cosa?» domandai con il cuore in gola. “Perché non mi ha avvisata?” urlava la mia testa, mentre cercavo di non lasciar trasparire nulla. Adottai la sua stessa tecnica: mi coprii il volto con gli occhiali e mi stesi sulla sdraio, rivolta verso la piscina. Alcuni bambini stavano giocando in acqua e schiamazzavano a gran voce, mentre il padre li inseguiva da una parte all’altra. Mi veniva da piangere, il naso mi pizzicava in modo fastidioso.
«Le solite cose» rispose Ginevra in tono vago e disinteressato e subito cambiò argomento: «Come sono andate le scorse settimane? Vi siete divertite?»
«Oh… sì, certo, e tu?»
Ginny si lanciò in un lungo racconto del suo mese in Sardegna, di come stavano i ragazzi che ritrovava ogni estate da quando era piccola. Mi fece il resoconto di chi era fidanzato, chi si stava lasciando, chi aveva tradito, chi era entrato in comunità.
Annuivo e cercavo di ascoltarla, ma la mia mente continuava a tornare su una sola scena per analizzarne ogni minuscolo dettaglio. Sam che scendeva dalle scale. Indossava la divisa del club e infatti sapevo che si sarebbe trovato al lavoro quel pomeriggio. Si era bloccato sulle scale, come se non si aspettasse di vedermi lì, come se si sentisse colpevole. E poi mi aveva salutata di sfuggita, o forse me lo ero immaginato. Forse mi aveva ignorata completamente, era solo stato sorpreso dalla mia presenza. Forse a lui non importava così tanto di quello che era successo. Aveva avuto la ragazza che voleva senza troppo sforzo – mi ero praticamente gettata ai suoi piedi – e, ora che Ginny era tornata, l’ordine preesistente sarebbe stato ricostruito: loro due a capo del mondo e io al di sotto, lontana, esclusa da entrambi.
«Mi stai ascoltando?» 
La voce di Ginny mi fece riprecipitare sulla sdraio di fronte alla piscina.
Mi raddrizzai e fui assalita da una sensazione di nausea. «Sì, certo».
Lei riprese a parlare senza sospetti. «Cos’hai deciso per l’università?»
Cercai di fare una risatina per stemperare la tensione che mi pulsava nelle tempie e gridava nelle orecchie. Potevo parlare dell’università. Era un argomento facile. Mi avrebbe distratta.
«Mi piacerebbe insegnare, credo» risposi.
Ginny si voltò a guardarmi e immaginai che dietro alle lenti scure si nascondesse un’aria perplessa. «Ah sì? Cosa pensavi, Lettere?»
Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so, mi piace lavorare con i bambini».
Ginny sbuffò. «Sì, ma se fai Scienze della formazione poi non puoi fare altro, Lettere è più completo, no?»
Le diedi ragione. Stavo usando tutte le mie forze per mantenermi impassibile e partecipe alla conversazione, non ne aveva alcuna residua per obiettare a quello che mi veniva detto. 
Ginny sapeva essere molto persuasiva. Era una delle qualità che le avevo più invidiato. Sapeva convincerti facendoti credere che quella non solo era la scelta migliore, ma anche l’unica accettabile, senza il bisogno di ricorrere a ragionamenti logici fondati. Bastava che lo dicesse lei con quel suo tono sicuro di sé e sapevi che aveva ragione.
«Allora è deciso» commentò. «Io sarò un avvocato e tu una professoressa. Cosa ne pensi?»
«Ci sono ancora tanti anni, chissà se arriveremo alla fine».
Ginny sbuffò e si alzò in piedi, poi sollevò gli occhiali da sole infilandoseli nei capelli. «Bisogna pensare con un po’ di anticipo, Meg. Non si può sempre decidere all’ultimo. Andiamo a farci un bagno?»
 
Quando arrivai a casa, ero stremata. Mi abbandonai sul letto, senza forze, e mentii a mia mamma dicendole che avevo già mangiato all’albergo. Avevo lo stomaco chiuso e non sarei riuscita a inghiottire nemmeno un boccone.
Controllai il cellulare e vi trovai solo un messaggio di Erika che mi chiedeva come fosse andata con Ginevra. Sam non aveva scritto nulla.
Lasciai il cellulare sul comodino e cercai di riposare, ma la tachicardia che mi aveva accompagnata per tutto il giorno non accennava a diminuire. Dopo una decina di minuti mi rassegnai e rinunciai al riposo, presi il cellulare e scrissi a Riccardo: “Ho voglia di ubriacarmi. Ci sei?”.
Non dovetti aspettare molto per una risposta. “Quando mai ho detto di no? Andiamo a piedi”.
Mi sentii immediatamente più leggera e corsi a prepararmi.

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Capitolo 10
*** La fine dell'estate ***



 


Capitolo 9. La fine dell’estate

 
Ci trovammo in quel locale sulla spiaggia che piaceva ad entrambi, perché Riccardo era già fuori con un suo amico, un biondino alto e sottile che si presentò con un nome straniero. Ero troppo sovrappensiero per ricordarlo e per tutto il tempo che lui fu con noi sperai di non doverlo chiamare per nome. Il biondino ci salutò un’ora più tardi e ci spostammo sulla spiaggia con il secondo giro di drink economici tra le mani. Eravamo già abbastanza alticci, o almeno io sentivo di esserlo, perché barcollai sui sassi fino a trovare un punto tranquillo lontano dai lampioni della strada. 
«Allora, cosa stai dimenticando stasera?» chiese Riccardo scrutandomi. Portava una camicia giallo canarino con disegnate delle palme viola. Era ancora più abbronzato dall’ultima che lo avevo visto e gli erano cresciuti i capelli al punto che aveva dovuto pettinarli all’indietro per farli stare al loro posto. 
Mi presi la testa tra le mani. «Tutto».
Lui rise. «Eh dai, non fare la melodrammatica. C’entra Marco?»
«Sì e no» risposi, poi presi un lungo sorso dal mio drink. Era stata una giornata calda e umida, ma da quando era sceso il sole si era alzata dal lago una brezza leggera che aveva reso l’aria più respirabile. Sistemai i capelli dietro alle orecchie in modo che non mi volassero sulla faccia. «È venuto a casa mia, anzi si è aperto il cancello da solo e me lo sono ritrovato davanti».
«Oh cazzo, e cosa gli hai detto?» Riccardo mi guardava con un’aria a metà tra il preoccupato e il divertito. Sedeva in modo scomposto sui sassi, con le gambe tirate al petto e il busto appoggiato sulle ginocchia, il bicchiere incastrato a terra tra i suoi piedi.
Bevvi un altro po’ del drink e feci una smorfia per il sapore amaro dell’alcol. Il mio corpo si stava rilassando, i pensieri non mi pesavano più nel cranio. Guardai le onde infrangersi sulla riva e poi ritirarsi rapidamente verso la massa scura dell’acqua non più illuminata dal sole.
«Che era finita e di farsene una ragione» risposi.
Riccardo buttò fuori l’aria dalla bocca in modo rumoroso. «Severo ma giusto. Alla fine, se ne è andato da solo?»
«No, lo ha convinto Sam».
Si voltò verso di me con gli occhi sgranati e mi guardai attorno spaventata, cercando cosa avesse suscitato quella reazione. Non era raro trovare gente poco raccomandabile sulla spiaggia di notte, ma eravamo vicini alle luci del locale e non avevo fatto troppo caso a ciò che ci circondava. Mossi il capo così velocemente che la vista mi si offuscò e vidi tutto traballante, i sassi della spiaggia volarono in cielo e l’oscurità del cielo piombò intorno a loro per qualche secondo.
«Che cosa è successo?» farfugliai quando riuscii a mettere a fuoco il viso di Riccardo. Mi stava guardando con gli occhi aperti in un’espressione ancora sorpresa, con le lunghe ciglia piegate verso l’alto che quasi sfioravano le sopracciglia.
«Perché Sam era a casa tua?» domandò.
«Merda» pensai e poi mi accorsi di averlo detto ad alta voce. Presi un respiro profondo e decisi che era meglio stendersi. Ero comunque troppo ubriaca perché i sassi mi facessero male alla schiena.
Il volto di mio cugino fece capolino nel suo campo visivo, contro il cielo nero sopra di loro. «Meg, che cosa hai fatto?»
Mi coprii il volto con le mani. «Cazzo, non farmi parlare, non sto capendo più nulla».
Riccardo si ritrasse dalla mia vista e lo sentii prendere un respiro profondo, poi imprecare sottovoce. Chiusi gli occhi sperando che la terra sotto di me si aprisse e mi inghiottisse fino a farmi sparire. Rimasi stesa per alcuni minuti – o forse alcuni secondi –, poi tornai seduta e recuperai il suo bicchiere mezzo vuoto. 
«Chi altri lo sa?» domandò.
Fissai gli occhi sul lago, ricacciando indietro le lacrime. «Solo tu» mormorai.
«Non lo dirò a nessuno, se la cosa ti sta preoccupando». 
«Sono proprio nella merda» replicai, inghiottendo il nodo alla gola con un sorso di drink.
«Non dire così» Riccardo mi spintonò con una manata in modo amichevole. «È per questo che mi hai chiesto di uscire?»
Sentii le lacrime premere sull’orlo degli occhi. Di nuovo lo vidi mentre scendeva le scale e si bloccava a metà per guardarmi. «Oggi sono andata da Ginevra e l’ho trovato là» confessai con la voce che si incrinava.
«Ah, cazzo» si lasciò scappare. «Magari c’è una spiegazione, avete parlato?».
Scossi il capo. «Non potevo scrivergli mentre ero da Ginny e lui non poteva scrivermi per lo stesso motivo. E non so se voglio parlargli».
Riccardo mi afferrò per le spalle e mi costrinse a guardarlo in faccia. «Ma cosa stai dicendo? Pensi sia meglio stare qui a ubriacarti con me? Chiamalo subito».
Sentii le lacrime che mi rigavano le guance. 
Riccardo prese il proprio cellulare e me lo mise in mano. «Dai chiamalo».
 
L’auto di Sam entrò nel parcheggio adiacente alla spiaggia venti minuti dopo la nostra breve chiamata. Presi posto sul sedile del passeggero senza parlare, mentre Riccardo saliva dietro. 
«Guidami tu» disse Sam rivolto a mio cugino e seguì le indicazioni per raggiungere casa sua. Lo lasciò sul vialetto d’ingresso e aspettò che fosse entrato prima di rimettere in moto l’auto.
Nessuno parlò nell’abitacolo mentre imboccavamo i primi tornanti.
«Ero all’hotel per lavoro» disse d’un tratto Sam. «Alcuni turisti che stanno lì vogliono fare delle lezioni di vela e Serena ha pensato che fosse una buona idea proporre dei pacchetti esclusivi per i loro clienti».
Lo guardai, per cercare di capire se stesse dicendo la verità. Il suo volto era rilassato, ma mi lanciava di tanto in tanto delle occhiate per assicurarsi che stessi bene. In effetti avevo visto Serena scendere dalle scale subito dopo di lui.
«Ho incrociato Ginny solo di sfuggita, non ci siamo neanche parlati» aggiunse. «Non ti ho scritto e non sono venuto a casa tua perché non sapevo se ci sarebbe stata anche lei e non volevo metterti in una brutta situazione».
Appoggiai la testa al finestrino e chiusi gli occhi. «Sono già in una brutta situazione».
Lui si allungò per posarmi una mano sulla coscia e quel contatto sulla pelle nuda mi fece rabbrividire. «Siamo entrambi in una brutta situazione, Meg. Lo sapevamo fin dall’inizio».
«Non è la stessa cosa» ribattei raddrizzandomi di scatto. Ero ancora abbastanza ubriaca da sentirmi sospesa in uno spazio che non la smetteva di inclinarsi intorno a me.
«Che cosa intendi?»
«Tu hai già perso Ginny e non la riavrai mai indietro perché non volevi stare con lei e volevi un’altra ragazza. Per me è diverso, se la perdo non avrò mai più la mia migliore amica».
Eravamo arrivati a casa mia. Sam parcheggiò davanti al cancello e mi chiese se volessi scendere per prendere aria, così uscimmo entrambi dall’auto. Mentre mi si avvicinava, mi accorsi che era arrabbiato. Avevo imparato a riconoscere le sue espressioni anche quando cercava di celarle e in quel momento la riga sottile delle sue labbra e la posa rigida del suo corpo mi rivelavano quante parole stesse trattenendo. 
Mi si parò davanti e mi guardò negli occhi. «Quando ho lasciato Ginny ho perso quella che era stata la mia vita per anni, ma non è la fine, credimi».
Gli scoccai un’occhiata e lo vidi ondeggiare davanti a me. «Le cose funzionano in modo diverso per le persone come te rispetto alle persone come me».
Sam parve contrariato e il suo volto si torse in una smorfia che gli piegò le labbra rigidamente serrate. «Che differenze ci sono tra me e te? I miei amici sono amici di Ginny tanto quanto sono i tuoi. La tua vita potrebbe reggere una frattura del genere se solo tu lo volessi». Avanzò e lo vidi come una statua che torreggiava su di me con aria severa. «Ma tu non sei in grado di concepirti come un’entità autonoma da lei e non riesci a pensare l’idea di staccarti. Senza di lei non ti senti nessuno, ma non è così Meg, credimi».
«Tu non sai nulla della nostra amicizia!» replicai lei con il volto in fiamme. Mi allontanai da lui con i pugni chiusi e mi appoggiai al muretto accanto al cancello di casa per reggermi in piedi. Mi veniva da vomitare e il mondo non la smetteva di vorticare furiosamente intorno a me. «Non è giusto, abbiamo sbagliato. Non c’è nessun futuro per noi» gli dissi e dentro di me pregai che lui mi prendesse tra le braccia, mi baciasse sulla fronte e mi sussurrasse che non c’era bisogno di disperare. Lo avremmo superato, insieme, perché insieme potevamo farcela. Ci avrebbe pensato lui a tutto, avrebbe trovato le parole e i tempi giusti per spiegare tutto a Ginevra e all’inizio la nostra amicizia si sarebbe incrinata, ma poi Ginny avrebbe capito, perché noi eravamo una coppia più sana, più equilibrata, più giusta, e lo avrebbe accettato anche lei. E volevo che mi dicesse che lui non poteva sopportare l’idea di perdermi, perché quella era stata l’estate più bella della sua vita e non avrebbe mai e poi mai rinunciato a me. E saremmo tornati sul lago in barca e in montagna con la moto, poi avremmo dormito abbracciati, come ormai mi ero abituata a fare, sussurrandoci parole dolci a vicenda.
Invece Sam stette zitto, con le braccia inerti lungo il corpo e le labbra serrate, immobile nella sua ostilità granitica.
«Hai ragione» rispose e quelle parole mi trafissero da parte a parte, lasciandomi senza fiato. «Non c’è futuro per noi, meglio chiuderla così».
Fece per avvicinarsi, poi cambiò idea, fece il giro dell’auto e aprì la portiera. Mi lanciò uno sguardo veloce, quasi impercettibile, poi salì e mise in moto. Rimasi immobile, distrutta come se sanguinassi, dolorante come se fossi piena di lividi.
 


 
***

 
 
Alla fine di agosto, i ragazzi organizzarono una serata di conclusione per l’estate. Molti sarebbero tornati nelle città in cui studiavano o avrebbero presto riaperto i libri per la sessione autunnale. 
Quella sera guidavo io, Ginny sedeva al mio fianco ed Erika sul sedile posteriore. L’idea iniziale era di trovarci in qualche locale in spiaggia, ma aveva cominciato a piovere nel pomeriggio e Diego aveva gentilmente offerto la sua taverna, che, differenza della mia, era una sorta di secondo salotto con un lungo tavolo da un lato e alcuni divani sistemati di fronte a un grosso televisore. C’era spazio anche per un tavolo da biliardo che suscitava sempre grande apprezzamento, infatti appena arrivate, Erika prese un’asta e si unì ai giocatori. Era molto brava e le due squadre se la contesero fino a che riuscirono ad arrivare a un patteggiamento e rimescolarono tutti i membri per essere più equi. Io e Ginny ci sedemmo al tavolo insieme a Chiara ed Elena. Chiara aveva appena finito di punzecchiarsi con Luca, che stava giocando a biliardo poco distante, mentre Elena ci disse che si era riappacificata con Laura, la sua amica.
«Non ho digerito alcune cose mi ha detto, ma era un peccato chiudere la nostra amicizia così in fretta» ci disse, sistemandosi un boccolo di capelli corvini dietro all’orecchio. «E mi mancava passare il tempo con lei».
Con la coda dell’occhio, vidi Sam entrare nella taverna in compagnia di Gio. Mi sentii paralizzare. Non lo vedevo da quasi due settimane. Ero ancora ferita per le cose che mi aveva detto e per come si fosse arreso passivamente alla fine di quello che c’era stato tra di noi. Sentivo di meritare delle scuse e, ricevute quelle, avrei accettato qualsiasi cosa, anche una relazione clandestina. Anche solo il sesso. Qualsiasi cosa pur di riaverlo nella mia vita. Eravamo stati amici, poi amanti e ora ci fingevamo semplici conoscenti che non gradivano particolarmente la reciproca compagnia. Sentivo addirittura la mancanza dei momenti in cui era fidanzato con Ginny e chiacchieravamo insieme di banalità. 
Sam mi ignorò come io avevo ignorato lui, così tornai a concentrarmi sulla conversazione a tavola.
«Magari le farà bene essersi riappacificata con te» stava dicendo Chiara. «Nella sua nuova compagnia sono tutti mezzi tossici, prima o poi succede qualcosa, te lo dico io».
Sentii una mano calda appoggiarsi sulla mia spalla e poi qualcuno che si chinava fino all’altezza della mia guancia. Rabbrividii.
«Buona sera signore». Era Diego. Prese posto vicino a noi e si unì alla conversazione, schierandosi con Chiara. Diceva che prima o poi Laura avrebbe avuto bisogno di un’amica come Elena. Anche Ginny concordò con loro e poi cambiarono argomento. Non ricordo di cosa parlassero, ma doveva essere qualcosa di strettamente femminile, perché Diego mi chiese di accompagnarlo fuori a fumare. Stava diluviando, ma l’uscita della taverna che dava sul giardino era riparata da una piccola tettoia sotto cui erano sistemate alcune panche di vimini. Su una di queste sedeva Sam, che stava fumando da solo. 
Diego prese posto al suo fianco, mentre io mi misi sulla poltrona più vicina all’ingresso e più lontana da Sam. Notai che portava dei pantaloncini verde pino e una felpa con il cappuccio color crema, che faceva risaltare la pelle abbronzata e i capelli chiari. Come al solito, era tremendamente bello, nonostante l’aria stanca e scazzata. Sembrava non volesse stare lì e il fatto che si fosse rintanato fuori a fumare – cosa che non faceva quasi mai – lo confermava.
«Posso?» chiese Diego indicando il pacchetto di sigarette sulla soglia della finestra alle sue spalle.
«Fai pure, sono di Gio, non credo gli importi».
Diego mi tese il pacchetto e accettai. Non mi piaceva fumare, ma non mi andava di essere l’unica che non lo faceva. Il primo tiro mi bruciò lungo la gola e mi si riempirono gli occhi di lacrime. Tossicchiai e Diego rise.
«Attenta a non soffocarti. Ti serve dell’acqua?»
Scossi il capo. Sentivo l’attenzione di Sam su di me, anche se lui si fingeva totalmente disinteressato alla conversazione. Fissava con sguardo perso il giardino grondante di pioggia.
«Cosa hai deciso per l’università, poi? Mi sembra di non vederti da una vita» disse Diego, sporgendosi verso di me. Sapeva che ero ancora single e sospettavo che sotto quel tono amichevole ci fosse un altro tipo di interesse.
«Lettere» dissi. «A Milano».
Involontariamente, lanciai un’occhiata a Sam per vedere la sua reazione. Volevo che si girasse verso di me, con gli occhi sgranati e mi gridasse che non potevo andare a Milano, che dovevo rimanere, per lui, per noi, perché aveva bisogno di me e mi voleva vicina. Forse si irrigidì, mentre continuava a ignorarci, o forse me lo immaginai soltanto.
«Wow, Milano!» esclamò Diego entusiasta. «Come sei messa con l’alloggio? Ho degli amici che studiano lì, posso chiedere se ti serve».
Mi portai la sigaretta alle labbra e aspirai. «Ho fatto richiesta di borsa di studio, se mi accettano dovrei avere anche un posto in un collegio».
Lui si passò una mano sulla testa rasata e la sua bocca si torse in un sorriso che non avrei saputo interpretare. «Un collegio? Di quelli con le suore?».
Scrollai le spalle e ridacchiai. «Non lo so, credo che lo scopriremo».
In quel momento Sam spense la sigaretta, la lasciò nel portacenere, poi, alzandosi in piedi, borbottò: «Ci vediamo dentro». Sparì all’interno della taverna, lasciandoci soli.
Diego si sporse ancora di più verso di me e per un attimo temetti che avrebbe cercato di baciarmi, ma si fermò poco prima e in tono confidenziale bisbigliò: «Qualcuno ha la luna storta oggi».
Si raddrizzò, come se non avesse nulla, e io risi per la battuta. Solo in quel momento mi resi conto che stavo gelando. Indossavo dei pantaloni leggeri e una canottiera e avevo la pelle d’oca.
«Ti dispiace se rientriamo anche noi? Ho dimenticato il maglioncino sulla mia sedia e ho un po’ freddo».
«Posso darti la felpa se vuoi».
«No, tranquillo. E poi ho finito la sigaretta».
Lasciai il mozzicone accanto a quello di Sam, abbastanza vicino perché si toccassero. Mi alzai e tornai dagli altri.
Le ragazze si erano spostate e stavano facendo il tifo per le ultime mosse della partita di biliardo. Ginny si era aggrappata a Gio in modo così sguaiato che sospettai fosse un tentativo di ingelosire Sam. Ormai tutti avevano capito che si erano lasciati, perfino Ginevra stessa, così aveva cominciato ad agire di conseguenza. Dal canto suo, Sam la ignorava totalmente come non calcolava me. Era rimasto seduto da solo al tavolo e, quando andai a recuperare il mio maglioncino, mi ritrovai vicina a lui e abbastanza lontana dagli altri perché non sentissero la nostra conversazione. Erano comunque troppo impegnati a fare il tifo perché facessero caso a noi. Non avrei voluto cedere, ma quando lo vidi lì seduto per conto suo, con quello sguardo depresso, non riuscii a trattenermi.
«Stai bene?» chiesi.
Sam alzò gli occhi su di me, che stavo in piedi davanti a lui, e mi guardò per la prima volta da quando era arrivato. Le sue iridi azzurre erano spente e non c’era affetto nello sguardo che mi rivolse.
«Sì, tu?» rispose in tono stanco e meccanico.
Annuii. Non sapevo cos’altro dire, così mi finsi impegnata a scegliere tra le bottiglie appoggiate sul tavolo. Dall’altro lato della sala qualcuno esultò per una pallina finita in buca.
«Ti dà fastidio che Diego ci provi così apertamente con te?» domandò d’un tratto Sam.
Mi bloccai e spostai gli occhi dalle bottiglie a lui.
«Lo sta facendo?» chiesi.
«Lo fa ogni volta che parla con te. Ma non con le altre ragazze, solo con te. Devi piacergli davvero».
Usai il tempo che serviva per versarmi un bicchiere di aranciata per pensare.
«Forse mi mette un po’ a disagio, se ci penso» risposi.
«Dovresti dirglielo, che non ti piace» replicò, con lo stesso tono inespressivo. «Lo dico per te, se ti crea disagio».
Sollevai il bicchiere colmo di aranciata e ne presi un sorso. «E a te dà fastidio?» domandai.
Scosse il capo e sbuffò. «È la tua vita, Meg, fa’ quel che vuoi».
Il modo in cui pronunciò il mio nome mi sembrò quasi un insulto e dal tono velenoso con cui gli uscirono quelle parole, capii che voleva alludere ad altro, ma non feci in tempo a chiederglielo. Erika mi saltò sulle spalle, esultando per la vittoria e anche il gruppetto di tifosi al termine della partita si disperse per cercare altro a cui dedicarsi.
Sam e io trascorremmo la serata come due pianeti nella stessa orbita che, senza guardarsi, si muovono l’uno coordinato all’altro, consapevoli della presenza reciproca, ma incapaci di incontrarsi.
 
 

 

Ciao!
Questa settimana pubblico in anticipo, perché il capitolo è più consistente e perché non riuscirò a farlo nei prossimi giorni.
Grazie a chi ha letto fino a questo punto e grazie a chi ha dedicato del tempo per farmi sapere le proprie opinioni sui capitoli precedenti, è molto importante per me <3

Con questo capitolo si chiude la prima parte della storia, chiamata “Il Lago”. Come sarà più chiaro dal capitolo successivo, ogni parte ha il nome del luogo (generico o proprio) a cui si lega prevalentemente quella sezione. Ci saranno dei salti temporali, soprattutto tra una parte e l’altra. Spero che il prossimo capitolo non vi deluderà. Grazie ancora per avermi seguita fin qui.

A presto,

M.


 

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Capitolo 11
*** Senza luce ***


PARTE 2
MILANO
 
 
Capitolo 10. Senza luce

Odiavo Milano. La odiai il primo giorno, quando mi accolse con un acquazzone che infradiciò le mie valigie e penetrò al di sotto della giacca leggera indossavo e la odiai per gran parte della mia permanenza.
A distanza di anni, posso ammettere che avrei apprezzato molto la città, se l’avessi conosciuta in un momento diverso della mia vita. Avrei visto l’università, così affollata e vivace, come il luogo stimolante che effettivamente era e avrei notato come a ogni vicolo c’era una novità pronta a entusiasmarmi. Ma io ero triste, demotivata e terribilmente sola. Per me Milano era solo lo smog che mi irritava gli occhi, il cibo scadente della mensa e le ragazze che mi stavano antipatiche al collegio. Anche loro, alla fine dei conti, non erano poi così male.
Erika venne a trovarmi alla fine della sessione invernale, dopo l’ultimo esame. L’aspettai con impazienza fuori dalla fermata di Sant’Ambrogio guardando con occhi brucianti la fila ordinata di persone che saliva dalla scala mobile. Intorno a me, studenti e uomini in completo elegante camminavano a passi rapidi e impazienti, un poco scocciati dalla mia presenza fissa di fronte all’uscita della metropolitana.
Era una giornata nuvolosa, con l’aria fredda e inquinata che inaridiva la pelle e seccava gli occhi. Le strade erano trafficate e si sentivano le grida degli uomini già al lavoro nei cantieri.
«Meg!» sentii chiamare e mi voltai per vedere Erika che si avvicinava dalla direzione opposta. «Credo di aver sbagliato uscita».
La abbracciai con affetto e le feci strada verso un bar poco distante per riscaldarci e bere qualcosa. 
«Com’è andato il viaggio?» chiesi, mentre prendevamo posto su un tavolino microscopico schiacciato sulla vetrata del locale. 
Erika si strinse nelle spalle e sorrise. «Tipico viaggio da regionale».
Notai che aveva tagliato i capelli corti dall’ultima volta che l’avevo vista – a Capodanno – e mi sembrava dimagrita.
«Il lavoro» spiegò Erika quando glielo feci notare. «Sono perennemente fuori casa e mangio al volo. Anche tu mi sembri dimagrita».
Risi. «Per me il problema è il cibo della mensa».
«È così terribile?»
«A cena vedrai».
Ordinammo due cappuccini, poi Erika mi chiese di raccontarle come andavano le cose. Mi mantenni vaga, le raccontai degli esami e qualche aneddoto sul collegio.
Se ripenso al mio primo semestre a Milano, rivedo le quattro pareti della mia stanzetta microscopica come le guardavo io stesa sul letto, con la luce soffusa della lampada sulla scrivania e il rumore delle auto che scorrevano sotto alla finestra. Come un corpo svuotato dalla forza vitale partecipavo alle attività obbligatorie del collegio, guardavo le altre ragazze fare amicizia tra di loro e le odiavo perché invidiavo la loro spensieratezza. Una sera, di ritorno da uno spettacolo teatrale organizzato in università, avevo incontrato nella cucina del mio piano una ragazza siciliana che faceva Lettere insieme a me. Avevamo parlato ancora e sapevo che era una persona seria ma amichevole. Si stava preparando una tisana e la offrì anche a me, così mi ritrovai a chiacchierare con lei per un’oretta abbondante, sedute intorno al tavolino bianco della cucina. Le raccontai tutto quello che era successo d’estate. Le confessai che ero stata innamorata per anni del ragazzo della mia migliore amica e che ci eravamo frequentati, ma le cose non avevano funzionato eppure io non riuscivo a dimenticarlo. 
Lei mi rispose in modo educato, senza sbilanciarsi. Fu molto gentile, educata, mi rassicurò come si fa con chi è disperato ma non si riesce a capire veramente cosa sta provando. Come avrebbe potuto? A parole non riuscivo a dire del dolore che mi tagliava da dentro ogni giorno, che mi faceva singhiozzare nella doccia e mi impediva di alzarmi dal letto durante i lunghi pomeriggi uggiosi. Io stessa non sarei stata in grado di capirlo fino a un anno prima, quando stavo con Marco e credevo che l’amore in una relazione fosse quel sentimento tiepido che mi prendeva quando stavo con lui e anche quando mi allontanavo, un sentimento fatto di consuetudini piacevoli e momenti di spensieratezza in giornate che scorrevano una uguale all’altra. Ma quando stavo con Sam mi sentivo andare a fuoco, sarei stata in grado di fare qualsiasi cosa solo per lui, ignorando convenzioni sociali e buon senso. Se non ero con lui impazzivo, socchiudevo gli occhi e cercavo di vedere, nello spazio sfumato tra le ciglia, i suoi occhi o i suoi capelli chiari, cercavo di ricordarlo sulla sua barca in mezzo al lago o nell’istante che anticipa il bacio, quando si chinava verso di me e mi prendeva la testa tra le mani ruvide. Dalla fine dell’estate lo pensavo ogni giorno, ogni giorno guardavo il cellulare e aspettavo in attesa che lo schermo si illuminasse con il suo nome e così si illuminasse anche la mia tetra esistenza a Milano. 
Dopo la confessione di quella sera, tra me e la ragazza siciliana non scattò nessuna amicizia, anzi. Ero imbarazzata per la facilità con cui avevo raccontato i miei segreti a una sconosciuta e immaginavo il giudizio che lei poteva avere di me. Non so se mi disprezzasse, ma, per evitare di scoprirlo, rimasi distaccata, formale, e continuammo a cenare insieme di tanto in tanto senza diventare mai veramente amiche.
 
Una volta bevuti i cappucci, passammo dal collegio per lasciare lo zaino di Erika nella camera della foresteria che avrebbe occupato quella sera. Al portone, Erika lanciò uno sguardo scettico alle doppie telecamere che puntavano sull'ingresso.
«Entrano tante persone esterne qui» le spiegai. «È solo per sicurezza».
Il collegio aveva un ingresso ampio, illuminato su un lato da vetrate che lasciavano intravedere il giardino interno. Una donna bionda, al di là del balcone della portineria, ci salutò allegramente e ci consegnò le chiavi per la camera. 
Passammo la mattina a passeggiare per Parco Sempione, pranzammo in un bar economico e nel pomeriggio andammo a Brera perché avevamo prenotato una visita alla Pinacoteca. Erika amava visitare i musei d’arte, anche se la sua conoscenza della materia era relativamente scarsa. Si fermava di fronte ai quadri, senza sapere se quella tela in particolare fosse famosa, controversa o completamente sconosciuta. Per lei avevano tutte la stessa dignità. Le studiava, con aria concentrata, e il tempo che vi trascorreva davanti era direttamente proporzionale al suo gradimento. Da Brera camminammo verso la piazza del Duomo che, come sempre, era affollata di turisti. Avevamo in programma di visitare anche il Museo del Novecento, ma eravamo state alla Pinacoteca più a lungo del previsto, così ci limitammo ad attraversare la Galleria e a guardare La Scala da fuori.
Faceva già buio quando tornammo verso il collegio a piedi. Proposi di andare direttamente a cena, perché la mensa si riempiva velocemente e non volevo aspettare venti minuti in coda prima di mangiare.
«Sembra carina, forse il colore delle pareti è rivedibile» commentò Erika entrando nell’ampia sala dipinta di verde mela.
«Milano è bella» mi disse quando ci fummo sedute a tavola con i nostri vassoi. «Non me l’aspettavo».
«Sì, i palazzi in queste zone sono eleganti».
«Che cosa non ti piace?»
La guardai in silenzio. Non le avevo mai detto che non mi piaceva Milano.
Mi strinsi nelle spalle. «Forse mi sento un po’ sola qui. Non so».
Erika guardò con aria scettica la sua pasta al pomodoro, poi tornò a rivolgermi lo sguardo. «Magari devi solo abituarti».
Eravamo entrambe stanche dalla giornata e per un po’ nessuna delle due parlò. La mensa prese a riempirsi, la fila di persone che aspettavano di essere servite si allungò fino a quasi la porta d’ingresso.
«Ci sono tanti ragazzi» commentò facendo scorrere lo guardo sulle persone in attesa.
«Sono quelli del collegio maschile. Loro non hanno la mensa e devono venire qui».
«Molto conveniente immagino».
Ridacchiai per la serietà ironica con cui lo aveva detto.
«Ehi, Margherita».
Io ed Erika ci voltammo nello stesso momento. Si avvicinò un ragazzo dai capelli corti e scuri, ben pettinati, coperto da un cappotto lungo fino al ginocchio.
«Ciao» lo salutai con un sorriso quando si fermò vicino al nostro tavolo con un vassoio pieno tra le mani. «Tutto bene?»
Mi mostrò un’espressione trionfante. «Alla grande. Ho passato l’ultimo esame oggi, tu?»
«Sessione finita anche per me, tutto bene».
Sorrise. «Hai sentito della serata al Just Cavalli? Stanno raccogliendo i nomi, se ti interessa ti consiglio di affrettarti».
«Va bene, grazie, ci penserò». Sentii i suoi amici che lo chiamavano, così aggiunsi: «Buona cena».
Lui mi ringraziò e ci salutò entrambe. Erika mi stava fissando in attesa di spiegazioni.
«Si chiama Edoardo» dissi.
«Tutto qui?»
Mi strinsi nelle spalle. «Qui ci conosciamo tutti, vogliono che ci comportiamo come una grande famiglia felice»
«Lui era sicuramente molto felice. Di vedere te».
«Ah ah» replicai ironica.
«Dai, gli piaci, e ti hai invitata ad andare in discoteca con lui».
Alzai gli occhi al cielo e non replicai. Dopo cena ci rintanammo in camera mia a guardare un film, ma Erika se ne andò presto perché il giorno dopo avevamo in programma nuove visite per la città.
 
 
Dopo una mattinata di intense camminate, Erika trovò una pizzeria con recensioni alte e prezzi decenti non lontano da noi. La cameriera – una ragazza sorridente dalla pelle scura – ci fece salire in un soppalco che si affacciava direttamente sulla cucina e, quando tornò di sotto, ci ritrovammo completamente sole circondate da tavoli deserti.
«Ginny ci chiede come va e dice che le dispiace non essere qui» lesse Erika dal cellulare, poi mi scattò una fotografia sfumata e la inviò sul nostro gruppo. «Avete parlato ultimamente?»
Annuii. Sentivo Ginevra abbastanza regolarmente e, anche se all’inizio era stato strano non averla costantemente al mio fianco, ero comunque piuttosto aggiornata sulla sua vita.
«Ha detto che vuole invitarci a Trento per un weekend il prossimo mese» dissi.
Tornò la cameriera e ci chiese cosa volessimo da bere, poi ridiscese la scomoda scala che portava dalla mansarda al piano terra e risalì poco dopo con una bottiglia d’acqua e una birra media.
«Si sente con qualcuno?» chiese Erika mentre sollevava la birra per prenderne un sorso. Sapevo cosa era implicito nelle sue parole. Voleva sapere se era tornata con Sam, per capire cosa aspettarsi da Ginevra la prossima volta che l’avrebbe vista. 
«Non che io sappia» risposi, poi, con il cuore a mille, aggiunsi: «Non vedo neanche Sam da quest’estate, ma credo sia davvero finita tra loro».
Lei annuì. «Lo penso anche io, e per fortuna. Ora che ci penso… in effetti ho visto Samuele con una ragazza la settimana scorsa».
Deglutii. «Come?»
Erika scrollò le spalle. «Magari sono solo amici, li ho visti che camminavano insieme vicino al club».
Nascosi la mia reazione dietro le pagine ingiallite del menù. Sam con un’altra ragazza. Cercavo di immaginarmeli nella mia testa. Li vedevo belli e sorridenti che mi sfilavano davanti senza degnarmi di un’occhiata, troppo superiori per fare caso a me. Forse era solo un’amica, lo aveva detto anche Erika. O forse ero stata anche io solo un’amica per quel mese e mezzo che mi aveva illusa.
Mi era passata la fame ma quando tornò la cameriera fui costretta a ordinare la prima pizza che mi passò per la testa.
 
 
Erika se ne andò con il treno delle 18. La salutai alla stazione di Sant’Ambrogio nello stesso punto in cui l’avevo aspettata la mattina precedente.
«Ci vediamo a casa» mi disse abbracciandomi e per poco non scoppiai a piangere. La nostalgia si stava facendo acuta, insopportabile, ma il giorno seguente avrei ripreso le lezioni e non potevo perderle.
Erika mi salutò con la mano mentre scendeva le scale, poi i suoi capelli scuri scomparirono sottoterra e mi ritrovai di nuovo terribilmente sola. Cominciò a piovere e quando arrivai al collegio ero fradicia. Salii in camera per farmi una doccia, poi scesi per la cena alle 19. Una volta riempito il vassoio, feci vagare gli occhi per la sala semideserta e notai un volto familiare. Edoardo. Mi diressi verso di lui e appoggiai il vassoio sul tavolo mentre alzava gli occhi.
«È occupato questo posto?» chiesi.
Lui mi sorrise. «Adesso sì. Siediti pure».
 

 

Ciao!
Con questo capitolo inizia la seconda parte della storia, che come avrete capito sarà ambientata a Milano. Mi scuso se questo capitolo è un po' breve, ma mi sembrava rendesse meglio separato dal successivo. Ritorneranno poi capitoli più corposi!
Come al solito, se avete suggerimenti/correzioni/opinioni sarò molto felice di sentirli :)
A presto,
M.

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Capitolo 12
*** Un raggio ***


Capitolo 11. Un raggio


La prima cosa che mi aveva colpita di Edoardo erano state le sue mani. Erano così lisce e morbide che fui tentata di chiedergli che tipo di crema usasse. Non aveva cicatrici, non aveva calli e sembravano le mani dei nobili che si vedono nei dipinti. Nel mio diario parlavo delle sue mani e delle poche cose che sapevo della sua famiglia. Sua madre era notaio, suo padre preside e lui studiava Economia. La cosa più impegnativa che aveva mai tenuto tra le mani era probabilmente una penna. Era alto e magro, in autunno portava una giacchetta blu e in inverno un cappotto dello stesso colore. Aveva la pelle chiara, gli occhi grandi, scuri, nascosti da un paio di occhiali dalla montatura spessa rotonda, e i suoi capelli erano tagliati corti. Era benvoluto dalle ragazze del collegio per quella sua aria da studente educato e perché era amico di ragazzi particolarmente festaioli ed estroversi, che si presentavano a cena con la sacca della palestra e la tuta che metteva in mostra i loro fisici modellati, sfilando tra il balcone del self-service e i tavoli delle collegiali. Rispetto a loro lui sembrava più gentile, più approcciabile ma spesso finiva per diventare l’amico che le ragazze usavano per arrivare a qualcun altro. Non so se si sia mai reso conto di questa cosa. Come non so se io gli piacessi in modo particolare o se avrebbe fatto lo stesso con qualsiasi altra ragazza che gli avesse mostrato un po’ di attenzioni.
Alla fine, accettai di andare in discoteca con lui e gli altri ragazzi del collegio. Fu una serata terribile, perché male organizzata, ma prima di tornare in collegio ci fermammo in un fast-food lungo la strada e chiacchierai con alcune ragazze, che si rivelarono amichevoli e mi divertii con loro.
Cominciai a sedermi a tavola con Edoardo sempre più spesso e lui cominciò a venire alla mensa alle diciannove. A volte lo trovavo fuori dalla porta a vetri ancora prima che aprisse. Scoprimmo quando le nostre pause combaciavano, così potevamo prendere un caffè insieme al bar dell’università. Era molto serio su alcune faccende, ma allo stesso tempo anche molto immaturo su altre. Poteva discutere in modo argomentato sulle fazioni dell’ultimo referendum, ma scambiava occhiate poco discrete con i suoi amici quando una ragazza portava dei jeans attillati o si piegava per raccogliere qualcosa. Si vestiva in modo formale e sapeva parlare bene con i professori, ma quando litigava al telefono con sua mamma lo faceva con la voce lamentosa di un bambinetto.
Una sera mi invitò a prendere un aperitivo sui navigli. Accettai e ci trovammo direttamente di fronte al locale in cui aveva prenotato. Portava il suo solito cappotto blu e sotto una camicia chiara.
«Sei molto bella» mi disse quando lo raggiunsi e così capii che quello era un appuntamento.
Fu galante per tutta la serata. Mi fece complimenti discreti e mi chiese di parlare di me, di quello che volevo fare. Quando gli rispondevo, a volte esitavo, temendo di usare una forma dialettale o parole non abbastanza forbite. Lui si esprimeva in modo semplice ma elegante senza alcuna fatica.
«Perché hai scelto Lettere?» mi chiese mentre sorseggiava il suo Spritz.
«Perché mi piaceva. E tu?»
Accennò un sorrisino. «Anche a me piace Economia. E poi è quello che fa girare il mondo»
Mi sistemai nervosamente i capelli dietro alle orecchie e giocherellai con la cannuccia del mio drink. «Ti piace essere uno di quelli che contano?»
Rise. «Esatto, o forse più che altro non mi piace essere sopraffatto»
«Quindi io che studio letteratura e non ne capisco niente di economia e giurisprudenza sarò schiacciata dagli altri?»
«Ma no, certo. È ammirevole che tu faccia quello che ti piace».
Piantai i miei occhi nei suoi. «Se è quello è il punto, allora siamo uguali».
«Be…»
«Oh, capisco. È che tu farai i soldi e io no».
«Per questo è ammirevole. Però ora come ora i laureati in Lettere sono molto versatili. Mia cugina ha fatto la magistrale in marketing dopo e ora lavora per una grande azienda»
«Oh bene» commentai. Lui non colse il sarcasmo nelle mie parole e io non glielo feci notare. Sapevo che stava solo cercando di essere gentile. Dopo l’aperitivo passeggiammo un po’, tra il naviglio e i locali affollati, poi ci fermammo a guardare l’acqua scura e piatta dal parapetto. Edoardo mi posò una mano sulla spalla e lo lasciai fare. Sussurrò il mio nome, così mi voltai per guardarlo negli occhi e, quando si allungò per baciarmi, lo lasciai fare e ricambiai il bacio. Le sue dita premettero leggermente sulla mia spalla. 
«È stata una bella serata» disse poi.
Concordai con lui.
 
 
***
 

A fine marzo organizzarono un’altra serata in discoteca. Chiesi a Ginny di rimandare il nostro finesettimana a Trento in modo da potermi fermare. Speravo che quella serata potesse risvoltare la mia permanenza a Milano e in un certo senso così fu.
Quando raggiunsi i ragazzi insieme alle mie compagne, Edoardo guardò ammirato l’abito corto che portavo con gli stivali fino al ginocchio.
«Stai molto bene» mi sussurrò all’orecchio. «E, spero per te vada bene, ho prenotato una camera d’albergo poco lontano da qui per stanotte, quindi se ti va…»
Rimasi a guardarlo senza parole. Non ero tanto sconvolta da quello che mi aveva detto, ma ripensai a una cosa successa due sere prima, mentre studiavo alla scrivania della mia stanza. Lo schermo del mio cellulare si era illuminato e quando avevo letto il nome di Sam avevo pensato di star sognando. Era il video di un cottage in mezzo alla campagna che recitava “Invialo alla persona con cui vorresti vivere qui”. Avevo fissato lo schermo per minuti interi, guardando a ripetizione il video per capire se ci fosse un messaggio nascosto o se Sam si fosse sbagliato nell’inviarlo. Gli risposi in modo generico e ironico (“A me piacerebbe da morire. Ma temo che tu ti annoieresti senza un lago”), con le dita che tremavano mentre digitavo le parole. Era il nostro primo contatto dalla fine di agosto. Una volta inviato il messaggio, mi catapultai in doccia per evitare di continuare a fissare lo schermo in attesa di risposta, ma non servì a nulla. Sam non rispose mai a quel messaggio. Visualizzò qualche ora dopo, ma mi lasciò sola con il suo silenzio. Dal giorno dopo tornai alla mia vita quotidiana, ma rimasi agitata da una costante tachicardia di cui talvolta dimenticavo la causa fino a che, improvvisamente, ripensavo al video e al mio messaggio senza riposta.  
La serata in discoteca fu orribile come la volta precedente. Mi ubriacai, ma non riuscii a rilassarmi. Era ancora presto quando chiesi se qualcuno volesse tornare al collegio. Solo Edoardo si offrì di accompagnarmi, così mi avviai con lui lungo la strada.
«Per andare all’albergo dobbiamo scendere alla fermata dopo il collegio» mi disse mentre eravamo sul tram. Io ero seduta su un sedile rialzato e lui stava in piedi di fronte a me.
Imprecai sottovoce. Avevo rimosso dalla mia memoria quel dettaglio.
«Senti, Edo» biascicai. «Non me la sento proprio, mi dispiace».
Lui sbatté le palpebre sugli occhi più grandi del solito, senza occhiali. «Non fare la timida».
«Non sto facendo la timida» mi imputai. «È che non mi va. E non riguarda te, è una cosa personale».
«È perché ti sei ubriacata?» 
Pareva un cucciolo ferito e a me girava la testa.
«Sì, cioè no, non c’entra proprio quello. È che non me la sento».
«Guarda che la camera la pago io».
La sua insistenza stava cominciando a farsi irritante.
«Mi dispiace per la camera, ma preferirei tornare nella mia stanza e dormire da sola».
«Non ti piaccio? Pensavo di piacerti o comunque è quello che mi hai fatto capire nelle ultime settimane, o no?»
Il tram prese una curva brusca e ondeggiai pericolosamente sul sedile. 
«Mi piaci, ma…»
«E allora quale cazzo è il problema?» il suo volto era paonazzo.
«Il problema è che sono innamorata di un’altra persona» replicai. «E se facessi sesso con te stanotte in quella cazzo di camera, passerei tutta la notte a pensare a lui, a pensare a come non gli assomigli, a quanto mi manca e probabilmente scoppierei anche a piangere alla fine. Va bene? È questo quello che volevi sentirti dire?»
Era ammutolito, ma mi rivolgeva uno sguardo furente. Sapevo che stava raccogliendo le forze per replicare, ma eravamo arrivati alla nostra fermata. 
«Mi dispiace, buonanotte» farfugliai mentre sgusciavo via da lui e mi affrettavo verso il collegio. Da dietro, mi raggiunsero solo i suoi insulti.
Quella sera, io non lo sapevo, ma avevo decretato la fine della mia vita a Milano. La mattina dopo nel mio diario raccontavo con ingenuità quanto avvenuto, credendo che tutto sarebbe tornato come prima e augurandomi che Edoardo non se la fosse presa troppo per le cose che gli avevo detto. Nulla di più sbagliato. Il modo in cui l’avevo respinto divenne argomento di gossip prima e da soap opera dopo, quando cominciarono a circolare diverse versioni della vicenda. Secondo alcune ero stata io a invitarlo in camera e solo all’ultimo lui aveva scoperto che il mio era un tentativo patetico di usarlo per dimenticare il mio ex. Le versioni più gentili sorvolavano su quanto avessimo fatto o meno insieme, le meno gentili insistevano sui dettagli di rapporti mai avvenuti e mi bollavano come una persona non gradita tra quelle mura.
 

 

Ciao!
Grazie a tutti coloro che sono arrivati fino a questo punto <3
Vista la brevità di questo capitolo e del precedente ho preferito accorciare i tempi di pubblicazione e tornare a pubblicare regolarmente con i prossimo capitolo.
Grazie ancora per essere qui, a presto :)
M.

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Capitolo 13
*** Pasqua ***



Capitolo 12. Pasqua



Tornai a casa per le vacanze di Pasqua. Ritornare nella mia camera spaziosa, nel mio giardino, alla mia vista sul lago, fu come respirare dopo un’apnea durata alcuni mesi. Quando l’auto di mio fratello svoltò, in cima alla collina, e intravidi il primo lembo azzurro acceso del lago, mi sentii invadere da un’emozione forte e incontrollabile. Gli occhi si inumidirono e un formicolio mi attraversò il corpo, dai talloni fino ai polpastrelli delle mani.
Ginny sarebbe tornata la sera prima di Pasqua perché aveva alcune questioni da risolvere a Trento, così avevamo deciso che per Pasquetta avremmo improvvisato qualcosa solo noi tre, probabilmente nel giardino di casa mia. 
La parrocchia aveva allestito un mercatino per beneficenza in paese ed Erika mi invitò a pranzo lì perché diceva che facevano delle piadine buonissime. La raggiunsi poco prima di mezzogiorno e mi salutò con un forte abbraccio. Mentre camminavamo per la piazza, incontrammo una mia vecchia maestra delle elementari che mi fermò per chiedermi cosa stessi facendo, come stava Ginevra e se eravamo ancora così amiche. Lei era diventata vecchia, i suoi ricci castani era ormai tutti grigi, ma mi ascoltava con la stessa gioia autentica che dimostrava quando ero piccola e per un po’ mi sembrò di essere tornata indietro nel tempo. Camminai tra le bancarelle con l’entusiasmo puro di un bambino, guardai la piazza intorno a me, le persone che conoscevo da una vita e la loro vista mi provocò una commozione tale che dovetti sforzarmi per non piangere.
«Sembri rinata» commentò Erika mentre guardavamo delle candele artigianali. «Credo che tu abbia preso la decisione giusta».
La ringraziai e ammisi che stavo meglio da quando ero a casa. 
«Lo hai più sentito quello stronzo di Edoardo?» mi chiese.
Scossi il capo. Edoardo mi aveva procurato l’odio del suo gruppo di amici e delle ragazze a loro vicine e, a macchia d’olio, la diffidenza nei miei confronti si era propagata in tutto il collegio. Le collegiali con cui più avevo legato mi rivolgevano gentili sorrisi di circostanza e si intrattenevano a chiacchierare con me, ma non esisteva nessun affetto o nessun legame tra di noi.
Dopo aver preso le nostre piadine per pranzo, ci spostammo alla ricerca di un raro tavolo libero. Il mercatino era piuttosto affollato, ma vidi una mano sventolare nell’aria e impiegai qualche secondo a rendermi conto che era rivolta a noi. Riconobbi Gio e, accanto a lui, Diego ed Elena. Si strinsero e ci fecero cenno di raggiungerli. Ci salutarono calorosamente e ci schiacciammo gli uni sugli altri per riuscire a sederci sulla panca, fino a che i due signori allo stesso tavolo decisero di alzarsi e lasciarci i loro posti. C’erano anche Luca e Chiara, che non avevo visto in un primo momento, e sembravano in una fase pacifica, perché se ne stavano avvinghiati l’uno all’altra.
Diego mi chiese dell’università, io risposi vaga e mi mostrai piuttosto interessata ad ascoltare come stava lui. Non volevo pensare a Milano.
«E cosa fate per Pasquetta?» domandò Gio. «Non vi abbiamo chiesto perché pensavamo non ci foste».
«Non abbiamo organizzato nulla, in realtà» risposi.
«Perché non venite alla grigliata con noi?»
Guardai Erika che mi rivolse un cenno di assenso, poi disse: «Chiediamo a Ginny e vi facciamo sapere, ok?»
«Vi mettiamo direttamente nel gruppo» replicò Diego, «e poi decidete. Abbiamo organizzato ieri anche noi, non avevamo nulla di certo fino all’ultimo».
Il sole di mezzogiorno scaldava come se fosse tarda primavera e lo sentivo scottarmi i capelli. Si stava bene all’aria aperta e rimanemmo seduti a lungo mentre i tavoli intorno a noi si svuotavano. 
Erika mi convinse a dividere una piadina con la nutella come dolce, così ci alzammo per prenderla anche per gli altri. In coda, mi guardai attorno per assimilare quanto più possibile di quel luogo e di quella giornata. Tutti mi sembravano felici, sotto la luce calda del sole e con l’avvicinarsi della Pasqua. I vecchi palazzi della piazza parevano risplendere come nuovi, i cibi delle bancarelle erano invitanti come non mai e ogni persona mi sorrideva con gentilezza.
Notai una figura familiare che si avvicinava alla coda per le piadine e impiegai qualche secondo per metterla a fuoco. Quando riconobbi il fisico alto e i capelli chiari mi paralizzai. Mi si chiuse la gola, le gambe si fecero molli e dovetti appoggiarmi a Erika per paura di cadere.
«Ma cosa…» fece lei, poi seguì la direzione del mio sguardo. «Oh, ciao Sam» disse.
Sam mi stava fissando immobile, la sua reazione specchio della mia. Non ci vedevamo da otto mesi, ma mi sembrava di averlo appena lasciato nella taverna di Diego. Era pallido, aveva i capelli più pettinati rispetto a come li portava d’estate ed era vestito bene, elegante, con un piumino leggero e dei jeans scuri.
Impiegò qualche secondo a metabolizzare il saluto di Erika, poi, con voce sommessa e senza togliere gli occhi dai miei, rispose. «Ciao a voi». Mi sembrò di vederlo rabbrividire.
Chiamarono il nostro numero e Erika ritirò le piadine, poi mi afferrò per un braccio e mi tirò con sé.
«Siamo seduti con i ragazzi, ci vediamo là» disse a Sam mentre mi trascinava via.
Ci allontanammo di qualche passo, poi mi lasciò il braccio e piantò gli occhi nei miei. Lampeggiavano come tizzoni ardenti. «Puoi spiegarmi cosa ho appena visto?»
Sentivo il sangue ricominciare a scorrermi in corpo e dovetti usare tutte le mie forze per non voltarmi a cercare il volto di Sam in coda allo stand delle piadine.
«Margherita» mi schioccò le dita davanti agli occhi. «Dimmi che non è successo nulla tra di voi».
Guardai Erika, le folte sopracciglia corrugate in un’espressione di seria apprensione. 
«Cosa intendi?» domandai.
«Lo sai cosa intendo. Puoi spiegarmi?» 
Mi stava con il fiato addosso come un segugio. Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
«E non raccontarmi bugie, per favore. Voglio solo la verità».
Sentii le lacrime premermi sugli occhi e il naso pizzicare. Mi guardai attorno. Nessuno faceva caso a noi ed eravamo al riparo sia dalla vista di Sam che dai ragazzi.
Il mio silenzio stava cominciando a spazientire Erika. «Avete scopato?» domandò bruscamente.
Mi girava la testa. «Sì».
Voleva coprirsi il volto con le mani, ma teneva in mano le piadine e ci rinunciò. «Quando?» chiese. «Di recente?».
«No, l’estate scorsa».
«Quando stava con Ginny?» aveva un tono allibito.
«No, si erano già lasciati. Ma è durata poco, neanche due mesi».
«Neanche due mesi?» ripeté Erika sconvolta e solo in quel momento capii che per lei la situazione più grave era che fosse successo una volta. 
Presi un respiro profondo. «Lo so che pensi male, ma ti giuro che a me lui è sempre piaciuto tanto. E credevo di piacergli davvero».
«Non si può fare. Questa cosa non può succedere».
«Non dire niente a Ginny, per favore» supplicai.
Sgranò gli occhi e scosse il capo. «Ovvio che non le dirò nulla e non lo farai neanche tu, non voglio che ti uccida. Adesso torniamo dagli altri prima che vengano a cercarci».
La seguii come una bambina corre dietro alla mamma arrabbiata con lei.
 
 
Mentre Erika mi riportava a casa, ci arrivò il messaggio di Ginevra in cui diceva che per lei andava bene trascorrere Pasquetta con i ragazzi. Non li vedeva da molto tempo, ma le avrebbe fatto piacere, così confermò sul gruppo che ci saremmo state tutte e tre.
Tenevo gli occhi sulla boscaglia che scorreva fuori dal finestrino, quando Erika mi chiese come fosse iniziata con Sam. 
Scrollai le spalle. «Ci siamo parlati alcune volte. Non so come sia andata davvero, forse è iniziata anni fa, quando ha cominciato a piacermi».
«E come è finita?»
«Abbiamo litigato, a lui non importava sistemare le cose e non ci siamo più parlati».
Erika non disse nulla, gli occhi fissi sulla strada.
«Il vostro incontro è stato… intenso» commentò poco dopo. «Forse avreste dovuto chiarire le cose».
«Già».
Per qualche secondo mi interrogai su come si potesse fare una cosa del genere. Solo pensare a lui mi paralizzava il respiro.
«Credo che con Sam possa stare solo una persona che riesca a tenergli testa, altrimenti si rischia di starci male». Erika aveva parlato con calma, ponderando le parole per assicurarsi che non fraintendessi nulla. «Neanche Ginny ci riusciva» aggiunse brevemente.
Non risposi perché sapevo che non le andava a genio, ma sapevo anche che non lo conosceva come lo conoscevo io.
 
 
 
La mattina di Pasquetta passai a prendere a prendere Erika e Ginevra con la vecchia auto di mia mamma. Mi raccontarono di come avevano trascorso la domenica, poi chiesi che qualcuna mettesse sul navigatore la posizione che ci avevano mandato.
«Non serve, io so la strada» disse Ginny dal sedile posteriore.
«Sicura?» 
Mi rispose una risatina. «Credo di ricordarmela».
Lanciai un’occhiata a Erika, al mio fianco. Mi stava guardando, sorpresa. «È casa di Sam».
«Ah» mi lasciai sfuggire. «Non me ne ero accorta».
Ginny mi disse dove svoltare ed eseguii. Sentivo gli occhi di Erika su di me, per assicurarsi che stessi bene. Rimasi impassibile e seguii le indicazioni. Ero stata alla casa di Sam solo una volta prima. Ginny aveva dimenticato qualcosa da lui, così l’avevo accompagnata ed ero rimasta nel giardino mentre lei entrava. Ricordavo un ampio prato erboso, con al centro una casa di modeste dimensioni. Mentre guidavo mi colpì una sensazione acuta alla bocca dello stomaco. Ginevra conosceva quel posto, era stata nella camera di Sam. Sapeva come erano disposti i suoi vestiti. Quanti e quali libri teneva nella libreria, se aveva poster oppure no, qual era il colore delle sue pareti e cosa si vedeva dalla sua finestra. Conosceva il profumo di quelle lenzuola e da quale lato del letto dormiva Sam.
Arrivammo alla casa e il mio umore era nero. Ognuna di noi prese una borsa dal baule – ci avevano affidato la preparazione dei dolci – e Ginny andò a suonare il campanello, guardando con aria di sfida la grossa telecamera accanto al citofono. Il cancellino si aprì vibrando e lei lo tenne aperto per noi, rivelando un viale acciottolato, fino alla casa che luccicava di un bianco brillante tra il verde delle piante e del giardino. Era una costruzione irregolare, in parte su un piano, mentre in altri punti si rialzava sotto le forme triangolari del tetto.
Ginny ci guidò sicura fino alla porta d’ingresso, poi proseguì girando intorno alla casa. Dalla parte opposta rispetto a quella da cui eravamo entrate c’era una piscina interrata – ancora coperta, ma circondata da alcuni lettini chiari – una veranda con le vetrate spalancate e un barbecue già acceso.
Oltre ai soliti ragazzi, c’erano anche alcune persone che non conoscevo. Due in particolare avevano l’aria familiare e impiegai un po’ di tempo per rendermi conto che erano i compagni di università che avevamo incontrato al Paradise. Mi salutarono senza dare segno di riconoscermi, ma mi sentivo ugualmente nervosa e irritabile.
«Noi abbiamo portato tutto in cucina» ci disse Chiara. «Vi serve una mano?»
«No, grazie» ribatté Ginny. «Conosco la strada».
Ci condusse all’interno della casa, attraverso un ampio salotto con i divani panna e le travi del soffitto dipinte di bianco sporco. Mi guardavo attorno, cercando di assimilare quanti più dettagli possibili. La cornice barocca dello specchio, l’attestato di una regata appeso alla parete azzurro chiaro, una chitarra impolverata in un angolo, la cassapanca in legno che sosteneva la tv. Anche la cucina era una stanza grande, con i mobili color avorio e una spaziosa isola al centro, in quel momento piena di borse della spesa e bibite. Trovammo Sam, che stava smistando le varie cose tra il frigorifero e un altro ripiano. 
«Ciao Samuele» lo salutò Ginny lasciando la sua torta sull’isola.
Lui rispose impassibile al saluto e, insoddisfatta, lei uscì dalla stanza. Sam la seguì con lo sguardo, poi come ricordandosi della nostra presenza si avvicinò per toglierci le borse dalle mani.
«Date pure a me» disse. «C’è qualcosa che va in frigo?»
Io non parlai e Erika tacque in attesa che fossi io a rispondere. Ci fu qualche secondo di imbarazzo prima che mi schiarissi la voce: «Qui c’è un tiramisù e in quella c’è della frutta. La frutta può anche stare fuori se rimane qui».
Sam annuì annotando mentalmente e appoggiò le borse insieme a tutte le altre.
«Posso aiutarti, se vuoi» dissi.
Lui mi guardò, poi guardò Erika e infine scosse il capo. «Non serve, ho quasi finito. Grazie comunque».
Annuii e riattraversai nel salotto. Chitarra, attestato, specchio. Vidi anche un vaso azzurro e delle candele sul tavolino da caffè tra i divani.
«Stai bene?» chiese Erika, prendendomi per un braccio.
«Alla grande».
Tornate alla veranda, Diego ci coinvolse in una partita a carte insieme a Luca. Anche gli amici dell’università si sedettero con noi e seguirono con attenzione la sfida. Uno di loro fece un verso di dolore quando Erika si fece mangiare il due di picche ed esultò quando feci punto contro Luca. 
«Grazie per il supporto» commentò Diego, che era in squadra con Luca.
«È perché mi sono seduto qui e quindi vedo le sue carte» replicò il ragazzo indicando la mano di Erika. «Mi sono identificato».
Nonostante il nostro fan, furono Diego e Luca a vincere le prime due mani e non riuscimmo a recuperarli neanche con la terza partita. Intanto, Ginny chiacchierava con Chiara e Elena e delle ragazze che non conoscevo dall’altro lato del tavolo. Stava raccontando come andava l’università e dell’esame che doveva preparare per la fine di aprile. Elena studiava Giurisprudenza vicino a casa, quindi confrontarono i programmi dei corsi per capire cosa c’era in comune.
Poco dopo, Sam fece il suo ingresso nella veranda. La sua presenza mi rese subito vigile e mi accorsi che anche gli altri si voltarono verso di lui quando lo videro passare. Riusciva ad avere un ascendente su qualsiasi persona lo circondasse e tutti si disponevano ad ascoltarlo, o anche solo a osservarlo, se lui era nelle vicinanze.
Con mia sorpresa, mi si avvicinò. La tachicardia riprese.
«È vero che non mangi più la carne?»
Annuii. La mensa del collegio mi aveva nauseata a tal punto che avevo deciso di cambiare la mia dieta, come meditavo ormai da anni.
«C’è del formaggio e delle verdure, va bene? Preferisci della pasta?»
«No, quelli vanno bene, posso fare io, non è un problema».
Mi alzai in piedi prima che potesse replicare. Intuii che voleva dirmi che avrebbe fatto da solo, ma ormai mi ero alzata e non poteva opporsi.
«Ok, ho tutto qui» mi mostrò le due borse che teneva in mano e si diresse verso il barbecue fuori dalla veranda. Lo seguii e, mentre ci allontanavamo, le voci degli altri si fecero indistinte, ovattate dalle pareti di vetro della veranda.
Sam preparò la griglia e cominciò a tagliare le salsicce e mi diede della carta stagnola su cui disporre il formaggio e le verdure tagliate. Lavorammo in silenzio, fianco a fianco. Ogni tanto, uno dei due lanciava un’occhiata all’altro e, talvolta, capitava che i nostri sguardi si incrociassero, ma li distoglievamo immediatamente per riprendere la nostra attività.
«Perché non hai risposto al mio messaggio?» chiesi, dopo aver messo la verdura a cuocere.
Sam si spostò un ciuffo di capelli dalla fronte. «Quale messaggio?»
«Quando mi hai mandato quel video del cottage».
«Ah, quello».
«Esatto».
Girò le salamine e si allungò sopra al barbecue per verificare il loro stato, poi tornò a guardarmi. «Non avrei dovuto mandarti il video».
Quelle parole mi ferirono e non riuscii a trattenere una smorfia. Lui comunque non stava facendo caso a me. «Cioè?»
«Mi ero ripromesso di non disturbarti e invece l’ho fatto. Non volevo continuare a darti fastidio».
«Non mi ha dato fastidio il tuo messaggio».
«Ah sì?» aveva inclinato il capo verso di me e notai sul suo volto quello che sembrava un sorriso.
Mi appoggiai al ripiano in pietra accanto al barbecue. «Perché avrebbe dovuto?»
«Non lo so» scrollò le spalle, «non volevo rovinare le cose tra te e Ginevra e mi sono ripromesso di starne fuori».
«Non avresti rovinato nulla».
Sospirò. «Già. Forse hai ragione. Mi dispiace non aver risposto».
«Va bene».
Ci fu una pausa, mentre controllava le braci. Poi decise che poteva prendersi un momento di riposo, così appese la pinza accanto alla griglia e si mise di fronte a me.
«Come va a Milano?» chiese, guardandomi con attenzione per la prima volta da quando ero arrivata.
«Così così» esitai un istante. «Ho richiesto il trasferimento».
«Cioè?»
«Mi trasferisco qui in città. Stesso corso di laurea, mi tengono validi tutti gli esami».
Le sue sopracciglia si corrugarono e una linea pensierosa comparve in mezzo. «Oh. Sei contenta?»
«Decisamente. Posso tornare a stare a casa mia».
«Bene» rispose, poi fu distratto da un movimento nella veranda. Mi voltai e vidi Ginny e Diego che esultavano lanciando le carte sue tavolo.
«E tu? Si avvicina la laurea, no?»
Avevo ripreso la sua attenzione, così tornò a guardarmi. «Si, dovrei laurearmi a ottobre, o forse dicembre, ancora non lo so».
«E su cosa fai la tesi?»
Mi spiegò nel modo più banale possibile di cosa si trattasse, ma comunque non capii nulla. Aveva a che fare con i mercati dell’Unione Europea e sarebbe stata scritta in inglese.
«E poi vuoi fare la magistrale?» chiesi.
Fece una smorfia, come se avessi toccato un tasto dolente. «Lo vuole mio padre. Abbiamo avuto un brutto litigio qualche giorno fa».
«Mi dispiace»
Scrollò le spalle. «Ormai ci sono abituato, mi fa solo incazzare ma non ci rimango più male».
«Quindi cosa farai?»
Esitò. Mi guardò, come perso per qualche secondo. Improvvisamente mi parve di avere di fronte il Sam dell’estate precedente, che mi rivolgeva occhiate piene di affetto per poi attirarmi a sé e baciarmi sulla fronte o sulle labbra. Fui sul punto di avvicinarmi a lui e gettargli le braccia intorno al collo, sussurrandogli nell’orecchio che era tutto passato, che lo perdonavo se tutto poteva tornare come prima.
«Mi iscriverò a una magistrale con due semestri all’estero. Li farò entrambi al primo anno, così per un po’ prendo le distanze da mio papà».
«Oh» dissi soltanto. La figura del ragazzo che avevo amato si dissolse come un fantasma. Presto sarebbe stato in un altro paese, irraggiungibile.
«Tornerò comunque qualche volta durante l’anno» aggiunse. Capii che non ero stata abbastanza brava a nascondere quanto ci fossi rimasta male.
«Magari sentiranno la tua mancanza» replicai, spostando l’attenzione da me alla sua famiglia.
Lui fece spallucce. «Forse mia sorella. Magari anche mia mamma, non lo so. Mio padre sentirà la mancanza di un figlio da mettere in mostra, non di me».
Mi persi nel riflettere su quella sottile distinzione creata dalle sue parole. 
Per il resto della giornata, io e Sam mantenemmo un cortese distacco. Non mi trovai mai in squadra con lui nelle partite a carte, né cercai di favorirlo durante i giochi in scatola, ma neanche mi accanii su di lui. Per un po’ giocammo anche a pallone nel giardino e mi dedicai a dare del filo da torcere a Erika, che comunque era più forte di me. Ginny cercò di mettersi in mostra con uno degli amici dell’università, ma la conoscevo abbastanza bene da capire il suo gioco, così i suoi atteggiamenti mi mettevano a disagio. Notai che anche Sam la guardava contrariato, ma non provai gelosia. Sapevo che la pensava come me. 
Dopo cena, aiutai a sparecchiare e, mentre gli altri pulivano la veranda, mi ritrovai senza nulla da fare, così mi spostai in cucina per vedere se potevo essere utile lì. Trovai Gio e Sam, ma presto il primo se ne andò per accompagnare Diego a buttare lo sporco.
«Puoi aiutarmi ad asciugare le cose che non ci stanno in lavastoviglie» propose Sam, così mi misi al suo fianco al lavandino. Lui lavava i piatti, poi me li passava. Ci fingevamo così impegnati nel nostro lavoro da non riuscire a parlare.
«Mi ha fatto piacere rivederti» disse lui d’un tratto, mentre mi tendeva una brocca di vetro. La presi dalle sue mani e infilai lo straccio umido all’interno.
«Anche a me».
Dopo la brocca, tutto era stato lavato, così ci ritrovammo a guardarci senza nulla da fare. Feci vagare gli occhi per la stanza. Non volevo tornare dagli altri, non volevo andare via.
«Che bella casa» dissi, sentendomi arrossire.
Sam mi sorrise, complice. Aveva capito che stavo cercando di prendere tempo e mi diede corda. «Merito di mia mamma, se ne è sempre occupata lei».
«Ho visto solo tre stanze, però sono belle». Avrei voluto dire di più, chiedergli di camera sua, domandargli di farmela vedere, ma non ci riuscii. «Quando torneranno i tuoi?» chiesi soltanto.
«Dopodomani, sono andati al mare con mia sorella».
«Oh, bello. Quanti anni ha lei adesso?»
Ci pensò un attimo. «Dodici».
«Quindi è in…» esitai.
«Prima media» completò per me. Si passò una mano tra i capelli per sistemarne la forma. «Sono abituato a vederla come una bambina, ma sta diventando grande».
Risi. «Me lo diceva sempre anche mio fratello».
Qualcuno aprì la porta scorrevole della cucina e Erika entrò nella stanza, con due pile di bicchieri nelle mani. «Ci eravamo dimenticati questi» disse. 
Sam le indicò il lavandino accanto a sé. «Lasciali pure qui, la lavastoviglie sta andando ormai, li lavo a mano».
Erika ci guardò entrambi e lessi un rimprovero nei suoi occhi, ma disse soltanto: «Vi aiuto».
«Non serve, non preoccuparti» rispose lui aprendo l’acqua calda.
«Meglio se non rimanete soli voi due» bofonchiò lei di risposta a voce abbastanza alta perché la comprendessimo perfettamente.
Sam mi cercò con gli occhi, interrogativo. Non riuscivo a capire se fosse preoccupato o scocciato.
«Lo ha scoperto da sola, l’altro giorno al mercatino» dissi soltanto, passando a Erika uno straccio asciutto.
Lei sbuffò. «Un consiglio: se non volete che Ginny lo scopra, cercate di essere più discreti. E di non rimanere da soli in una stanza».
Sam abbassò gli occhi sul bicchiere che stava lavando, senza parlare. Quando tornò a guardarci, notai che era divertito. «In effetti» disse rivolto a Erika, «mi sa che hai proprio ragione».



 

Ciao!
Mi dispiace molto per il ritardo di questo aggiornamento, ma ho avuto un problema al pc e ho dovuto aspettare di risolverlo prima di poter tornare a pubblicare. Per rimediare ho pensato di unire quelli che avevo concepito come due capitoli separati in un unico capitolo più lungo, con cui si conclude la – breve – seconda parte.
Vorrei ringraziare tutti coloro che sono arrivati fin qui e un ringraziamento particolare va a fiore di pesco e margherix che mi stanno lasciando i loro commenti capitolo per capitolo: le vostre parole sono molto utili e incoraggianti! <3
A presto,
M.
 

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Capitolo 14
*** Le feste d'inverno ***


PARTE 3
BUDAPEST
 

Capitolo 13. Le feste d'inverno

Nel mio diario – con la copertina lilla in finto velluto, quello con il Colosseo era ormai finito – l’estate di quell’anno è raccontata con brevi appunti di poche righe. Rimasi a Milano fino alla fine di luglio per gli esami e trascorsi tutto il mio tempo curva sui manuali. Il caldo in città mi soffocava, quando camminavo in strada sentivo le piante dei piedi incollate al suolo e faticavo a muovermi in un mondo che pareva precipitato in un forno rovente. Sentivo perennemente la necessità di acqua e il desiderio di nuotare. 
Ricominciai a scrivere con regolarità solo alla fine del semestre successivo.
“Non so se ho passato l’esame di linguistica, ma oggi è sicuramente stata una bellissima giornata” esordiva la pagina del 22 dicembre. Ricordo ancora nitidamente quel giorno. Il preappello di linguistica era stato il mio primo esame da quando mi ero trasferita, avevo cominciato a studiarlo a novembre, tra una lezione e l’altra perché mi avevamo detto che il professore era molto puntiglioso e molto rapido nel sottrarre i punti. 
Una volta consegnato il mio foglio, trovai alcuni compagni di corso fuori dall’aula e mi chiesero se volessi andare a fare aperitivo insieme a loro. Erano le undici di mattina, l’aria era fredda e illuminata da un pallido sole invernale. La città era decorata dagli addobbi natalizi, così scie lucenti scorrevano da un palazzo all’altro mentre enormi fiocchi di neve pendevano sopra alle nostre teste mentre camminavamo verso la piazza del duomo. 
«Com’è andata?» mi si affiancò Eleonora, una ragazza del mio anno che mi aveva presa in simpatia. All’epoca portava i capelli lisci lunghi fino alle spalle e tinti di un castano ramato. Aveva frequentato il liceo in città e quindi si muoveva con disinvoltura tra quelle vie che mi erano sconosciute o tra quei volti poco familiari.
Le dissi che domande mi erano capitate e come avevo risposto.
«Cazzo, anche io avevo l’anafonesi ma non me la ricordavo».
«Non ci pensare, tanto impiegherà una vita a correggerli».
In piazza duomo un cameriere ci fece sedere all’aperto intorno a una stufetta. Le piccole lingue di fuoco guizzavano all’interno di una gabbia metallica. Mi sembrava di essere in un film di Natale, in quella piazza ampia e scenografica, dominata dal marmo della chiesa e della fontana spenta. Intorno a me c’era un gruppo vociante di studenti universitari, l’adrenalina per l’esame ancora mi scorreva in circolo. 
«Hai deciso per Capodanno?» mi domandò Eleonora mentre ci servivano i nostri drink.
«Sì, vado a Trento da una mia amica».
«Ginevra, giusto?»
Sorrisi. «Esatto, e tu?»
Lei scrollò le spalle. «Probabilmente io e Andrea andremo in montagna con una coppia di suoi amici».
«Wow, sembra bello».
Mi guardò attraverso le lenti dei suoi occhiali. «Speriamo».
L’aperitivo durò oltre due ore. Ci portarono così tante cose da mangiare che alla fine divenne un pranzo. Prima di andarmene, salutai Eleonora con un abbraccio.
«Fammi sapere se vieni sul lago durante le vacanze» le dissi.
«Certo».
Mentre camminavo verso la fermata avevo la pancia piena e la testa leggera.
Trascorsi in casa con i miei genitori i giorni che precedevano Natale. Andai a fare la spesa, aiutai mia mamma o mia nonna a cucinare e andai a trovare mio fratello. Fuori dal suo capanno faceva ancora più freddo che a casa mia e dovetti stringermi nella giacca per non congelare. Stefano aveva appeso delle lucine sulla mansarda che fungeva da camera da letto e tutto l’ambiente era illuminato da fasci a colori alterni. All’interno l’ambiente era riscaldato da una piccola stufa a legna ed era così piccolo e caldo che faceva passare ogni desiderio di tornare fuori nell’aria ghiacciata. 
«È il tuo secondo inverno qui» commentai, comoda sul piccolo divano. 
Lui sedeva su una poltrona di fronte a me. Aveva accorciato la barba, ma i capelli erano ancora abbastanza lunghi da poterli legare. «Già e quest’anno spero che l’acqua calda funzioni meglio. Ne ho abbastanza di docce fredde».
«Stai diventando vecchio».
Mi guardò storto, poi sorrise. «Temo sia inevitabile».
«Mi ha detto la mamma che vieni al pranzo di Santo Stefano dai nonni»
«Non mi ha lasciato molta scelta»
Lo guardai mentre si grattava la barba e fissava fuori dalla finestra con i suoi occhi chiari.
Qualche giorno più tardi, toccò a me: mia mamma mi costrinse ad accompagnare i suoi genitori alla messa della vigilia perché mio nonno aveva dolori a un piede e mia nonna non si fidava a guidare così tardi, dato che normalmente alle nove già dormiva. Quando arrivai a casa loro, scoprii che era stato ingaggiato anche Riccardo e quindi la mia presenza era solo accessoria, così fui relegata suoi sedili posteriori insieme alla nonna che mi interrogò per tutto il viaggio su come andava all’università.
«È importante studiare» sentenziò poi rivolgendosi anche a mio cugino.
«Ma tu cos’è che puoi fare dopo?» chiese mio nonno, seduto davanti a me. Sapevo che Riccardo stava trattenendo una risata, perché era la ventesima volta che mi rivolgeva quella domanda. Se Medicina gli era chiara come facoltà, Lettere pareva continuamente sfuggirgli.
«Posso insegnare» risposi. «O anche altro, lavorare in ufficio o scrivere».
Mi rispose una risata grassa, quella che precede una battuta. «Anche io posso scrivere, ma non ho neanche finito le scuole medie».
La nonna sbuffò. «Ah, lascialo perdere. Infatti, sa scrivere solo in dialetto, neanche in italiano».
Mio nonno era troppo sordo per sentirla e non replicò.
La chiesa era gremita di persone, Riccardo ci lasciò vicino all’entrata, poi andò a cercare parcheggio. Riuscii a trovare un posto per i miei nonni nella quartultima fila e la nonna schioccò la lingua e borbottò: «Lo avevo detto che partire alle undici e quindici era troppo tardi».
Io rimasi in piedi accanto all’altare laterale e poco dopo ci raggiunse anche Riccardo.
«La nonna soffre perché da qui non può farsi vedere da tutti» gli bisbigliai piegandomi verso di lui.
Soffocò una risata. «Ci farà rimanere per tutto il rinfresco per compensare».
La sua previsione si rivelò azzeccata. I nonni si trattennero a chiacchierare con chiunque capitasse vicino a loro dopo la messa. Erano soprattutto coetanei o figli di coscritti, che si fermavano per scambiare gli auguri e aggiornarsi rispetto all’ultima volta che si erano visti. La nonna era sempre stata un membro attivo della parrocchia e i dolori della vecchiaia la angosciavano soprattutto perché non poteva partecipare così attivamente come una volta. Il suo ambiente ideale era la folla che segue a una messa, in cui si muoveva come un’ape regina tra le sue affaccendate operaie. Conosceva le giuste parole, le giuste reazioni per ogni situazione. Una donna diceva che il figlio era ancora in un brutto momento, e allora lei teneva una mano sul petto e piegava le labbra verso il basso, con le sopracciglia tese nel dolore che condivideva con la donna. Un signore mostrava la foto del nipote neonato e mia nonna allargava gli occhi, il viso rugoso si distendeva e la sua bocca pronunciava qualche parola di speranza per il futuro.
«Vado a prendere da mangiare, vuoi qualcosa?» chiesi a Riccardo.
«E mi lasci qui da solo?».
«Sopravviverai» gli sorrisi.
«Portami del pandoro allora».
«Sarà fatto».
Mi allontanai da loro nella folla radunata fuori dalla chiesa e mi misi in coda per il tè caldo perché stavo cominciando a perdere sensibilità alle mani. Avevo dimenticato i guanti e la temperatura era ormai vicina allo zero. Il respiro mi si condensava davanti agli occhi e poi spariva verso il cielo nero.
«Ciao Margherita, buon Natale» mi salutò la mia vecchia catechista, che stava servendo il tè dal grosso pentolone. «Un bicchiere?»
Annuii, ma una voce maschile aggiunse: «Fai due, grazie».
Il cuore mi precipitò nello stomaco quando riconobbi chi aveva parlato. Al mio fianco era comparso Sam. Portava un elegante cappotto scuro e dal colletto spuntava un dolcevita grigio di lana spessa.
«Quando sei tornato?» chiesi mentre un formicolio mi partiva dal petto e raggiungeva la punta delle mie dita.
«Due giorni fa e i miei mi hanno costretto a venire stasera» mi indicò con un cenno del capo la sua famiglia poco distante. Per la prima volta mi resi conto che suo padre, con quei capelli scuri che andavano ingrigendosi e l’aria severa, non gli assomigliava poi così tanto, mentre aveva preso da sua madre i lineamenti dolci e la chioma castano chiaro. Tra di loro stava sua sorella, piccola e sottile, con i lisci capelli scuri che le arrivavano a metà schiena.
Ci allontanammo dalla fila con i bicchieri di tè tra le mani.
«Come stai?» chiese.
«Bene, molto» risposi con sincerità. Faticavo ad articolare una frase più complessa perché tutte le mie facoltà mentali erano impegnate nello studio attento e puntiglioso del suo viso. Le occhiaie leggere sotto gli occhi, il dente scheggiato, le ciglia dalle punte chiare. «E tu? Come va a Budapest?»
Mi raccontò per un po’ della sua vita all’estero. Viveva in un appartamento con altri ragazzi, ma molti se ne sarebbero andati tra gennaio e febbraio.
«Potresti venire a trovarmi» disse e allungò un braccio, sfiorandomi leggermente con il gomito. «Prima che si riempia di nuovo. I voli non costano niente e abbiamo un divano letto nel salotto, quindi potrei ospitarti».
Annuii, con il cuore in gola e lo ringraziai. Per qualche secondo immaginai come sarebbe stato bello, io e lui nella stessa casa lontani da tutti quelli che conoscevamo, con una città da esplorare. L’irrealizzabilità di quel sogno mi faceva più male che bene, così cercai di scacciarlo in fretta dalla mia mente, anche se nei giorni successivi ci sarei ritornata diverse volte, involontariamente, prima di andare a dormire. Avrei immaginato il suo appartamento a Budapest, immaginavo dirgli “Buonanotte” e guardarlo sparire oltre la porta della sua camera e poi dirgli “Buongiorno” quando lo avrei visto uscire la mattina successiva, ancora assonnato e con pigiama stropicciato. Immaginavo sedere in un bar con lui, solo con noi due, e potergli toccare un braccio o una spalla senza preoccuparmi di cosa avrebbero pensato le persone attorno.
«Quando riparti?» domandai.
«Il tre gennaio. Gli esami iniziano presto là. Fai qualcosa a Capodanno?»
«Vado a Trento da Ginny insieme a Erika».
Pausa di riflessione. Abbassò gli occhi e poi mi guardò attraverso le ciglia. Le sue guance erano arrossate per il freddo, mentre il resto del viso era bianco. «Tutto bene con lei?»
«Certo» risposi e presi un sorso di tè che mi bruciò la gola.
L’ultima volta che avevo visto Sam era stato alcuni mesi prima, ad agosto. Io e Ginny stavamo passeggiando sul lungolago al tramonto, di ritorno da un pomeriggio di shopping. La mattina aveva piovuto e per tutto il giorno l’aria era stata più fresca del solito. Sam veniva dalla direzione opposta rispetto alla nostra e ce lo eravamo trovato davanti, insieme a una ragazza che era esattamente quella che mi sarei aspettata di vedere insieme a lui: alta, magra e splendida, con un caschetto di capelli dorati che incorniciava un viso sottile e aggraziato. Avevamo scambiato un saluto imbarazzato. Ginny ci era chiaramente rimasta male, io pure ma non potevo farlo vedere, e Sam era a disagio nei confronti di entrambe ma non poteva farlo vedere alla sua nuova ragazza. Quando ce li eravamo lasciati alle spalle, io e Ginevra avevamo camminato in silenzio per una decina di minuti.
Alla fine, lei aveva sentenziato: «Comunque era strabica» e non ne avevamo più parlato.
«Lo so a cosa stai pensando» mi disse Sam soffiando sul suo bicchiere di tè.
«Ah sì?»
Annuì e mi rivolse un sorrisetto. La sua confidenza mi scaldava più di quello che stavo bevendo.
«Sono single» disse e mi sentii avvampare.
«Non stavo pensando a quello». Non esattamente, almeno.
Lui pareva divertito dal modo in cui avevo negato. I suoi occhi ammiccavano e la bocca era tesa in modo beffardo.
Sbuffai. «Sembra più che altro che ci tenessi tu a metterlo in chiaro».
Svuotò il bicchiere e si allungò per gettarlo nel cestino alla sua sinistra. «È solo che non ci vediamo da tanto tempo» disse tornando al mio fianco. «E l’ultima volta è stato…»
«Imbarazzante?»
«Decisamente» rise.
«Intendi per me, per te, per Ginny o per la tua ragazza?» pronunciare le ultime due parole mi diede una strana sensazione allo stomaco, come se si aggrovigliasse su se stesso, chiudendosi.
«Forse Giada – si chiamava Giada – è stato l’unica che non ha provato imbarazzo. E comunque non era la mia ragazza».
«Oh».
Ancora quel sorrisetto. «Sembri sollevata».
Gli scoccai un’occhiata severa. Stava flirtando con me, me ne rendevo conto, ma non sapevo se il mio cuore potesse reggerlo. Ero ancora arrabbiata con lui per come le cose erano finite nell’estate della maturità. «Non esagerare. Mi sorprende soltanto».
Lui rimase in silenzio, assorto. Una coppia di signori passò vicino a noi e ci salutarono ricordando “quando eravate alti così”, poi si congedarono dopo gli auguri di buone feste.
«Era una compagna dell’università» riprese Sam una volta rimasti soli. «Sapevo di piacerle e durante l’estate aveva cominciato a farsi più insistente, così le avevo detto che potevamo provare».
Si cacciò le mani nelle tasche del cappotto e si studiò con finto interesse le punte delle sue scarpe. Stava evitando il mio sguardo.
«È stato abbastanza deludente. Tutta la relazione, intendo, se così si può chiamare. Non credo sia durata più di tre settimane».
Non risposi. Era a disagio, cosa che non gli capitava molto spesso, e di riflesso mi sentivo a disagio anche io. Mi chiedevo se la soluzione migliore fosse salutarlo e concludere così la conversazione.
«Avevamo parlato di questa cosa io e te» riprese lui prima che potessi decidermi. Rialzò lo sguardo e trovai le sue pupille puntate nelle mie. Sul volto arrossato, le iridi rilucevano di un azzurro brillante. «Forse non te lo ricordi, ti avevo detto che a volte mi era sembrato di sprecare il mio tempo con alcune ragazze».
Serrai le labbra. «Era così terribile?»
«Cosa?»
«Giada».
Scosse il capo. «No, per niente, era una persona molto piacevole. Solo che non era la ragazza giusta per me». I suoi occhi erano tristi.
«Mi dispiace che tu non abbia trovato la ragazza giusta».
«Una volta ci sono andato vicino» disse con un sorriso seducente. Ogni tristezza era svanita dal suo volto.
Non replicai. Ero troppo sensibile nei suoi confronti, così mi chiusi in me stessa. Le sue parole erano vento e io mi sentivo come una costruzione troppo fragile per resistere alle continue raffiche
Qualcuno mi afferrò per un braccio e la nonna gracchiò nel mio orecchio: «Sei pronta ad andare? È così tardi che a malapena mi reggo in piedi».
«Certo, andiamo».
Salutai Sam con un abbraccio e inspirai il suo profumo, mentre il mento sfregava sulla lana del cappotto. «Buone feste, Meg» mi sussurrò in un orecchio. 
«Anche a te» risposi scivolando via dalle sue braccia.
Fui trascinata lontano dalla folla, dove ci stavano aspettando il nonno e Riccardo. Mio cugino mi guardò storto. «Grazie per il pandoro, comunque».

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Capitolo 15
*** Capodanno ***



Capitolo 14. Capodanno


Il giorno di Santo Stefano mi arrivò il primo messaggio di Sam.
“Continuo a pensare alla notte di Natale. Spero di non averti messa a disagio, era da tanto che non ti vedevo e credo di essermi lasciato un po’ coinvolgere. Mi ha fatto davvero piacere vederti”.
Risposi di getto. “Non preoccuparti, anche a me ha fatto piacere”.
Poi appoggiai il telefono sul tavolo accanto a me, con lo schermo rivolto verso l’altro. Si illuminò di nuovo.
“Sul serio, Meg, non volevo essere inopportuno. Se lo sono stato, perdonami”.
“Sei perdonato :)”.
Mia zia passò per il tavolo a chiedere chi volesse il dolce. Eravamo di nuovo con i genitori di mia mamma, stipati in tredici nel salotto di casa loro.
“Grazie. Mi sei mancata molto” rispose Sam, poi aggiunse: “Ah cazzo. Lo sto facendo di nuovo, vero?”
“Direi di sì”.
La nonna mi chiese di aiutare con i dolci, così mi alzai e andai in cucina. Mentre la zia disponeva i piatti sul tavolo controllai il cellulare. 
“Scusami, che imbecille. Cosa fai domani? Se non ti ho messo troppo a disagio potremmo vederci per fare due parole”.
“Scambio di regali con GinnyErika, Elena e Chiara. Vuoi venire?”
“Eviterei, grazie”.
“Il 28 sei libero?” 
Presi i primi piatti già riempiti di panettone e pastine e li portai al nonno e allo zio. Feci avanti e indietro dalla cucina per qualche volta prima che Riccardo si decidesse di venire a darmi una mano. 
«Loro non aiutano mai» si lamentò con la zia sottovoce.
«Chi?» rispose lei.
«Aurora e Sabrina».
«Sono più piccole» ribatté lei.
Riccardo sbuffò. «Aurora ha letteralmente un anno meno di noi».
La sua esplicita antipatia per le nostre cugine mi fece ridere. Non le vedevamo molto spesso perché vivevano vicino alla città e non si era mai sviluppato alcun legame profondo tra di noi.
«Su, non lamentarti» sua madre gli cacciò gli ultimi due piatti in mano e lo rispedì nel salotto.
Mi offrii di fare il caffè e, ringraziandomi, la zia mi lasciò sola. Riempii la moka, poi riaprii la conversazione con Sam. 
“No, sono stato costretto ad andare in montagna con la mia famiglia. Il 31 loro tornano a casa e mi raggiungono alcuni amici. A proposito, lo sai che Diego è fidanzato?”
“Oh no, dimmi almeno che mi assomiglia, altrimenti avrò il cuore spezzato”.
“Non molto, ma non mi sembra granché innamorato”.
“Grande, ho ancora una chance”.
“Ti tengo aggiornata durante il capodanno”.
La moka cominciò a gorgogliare così la mia attenzione fu completamente assorbita dal caffè.
 
***
 
Il primo appartamento di Ginny era uno stretto trilocale in centro che condivideva con un’altra ragazza. Lisa studiava Scienze Politiche, portava i capelli alla maschietta e aveva una voce calda e coinvolgente. Le due andavano d’accordo e Lisa sarebbe venuta con noi per festeggiare Capodanno nell’appartamento più grande di un loro amico.
Ginny ci fece lasciare i nostri bagagli nella sua stanza e ci consegnò una copia delle chiavi. «Io dormo da Carlo, così potete stare nel matrimoniale senza bisogna di usare la brandina».
Avevamo sentito parlare di Carlo, ma ce lo fece incontrare per la prima volta quella sera, a cena in un locale arredato con mobili di legno chiaro che rivestiva anche le pareti e creava l’atmosfera di una baita di montagna. Il menù elencava almeno quindici birre diverse e le pietanze erano quasi tutte a base di carne.
Carlo arrivò puntuale, qualche minuto dopo di noi, e si presentò cordialmente. Era molto alto, di un’altezza quasi sgraziata, e aveva labbra sottili, corrucciate, sotto a un naso importante.
«Scusate il ritardo, stavo impazzendo per diritto privato» ci disse mentre una cameriera ci portava al nostro tavolo.
«Studi anche il 30 dicembre?» domandò Erika divertita.
Lui le rivolse uno sguardo serioso. «Certo, se no come si passano gli esami?»
Carlo era di Cremona, aveva frequentato il liceo classico e giocava a tennis da quando era piccolo. Ginny gli stava incollata come una bambina con il suo cucciolo e di tanto in tanto si allungava per sistemargli una ciocca di capelli scuri che sfuggiva dall’acconciatura impomatata. 
Fu una serata piacevole, poi Ginny ci riaccompagnò al suo appartamento e ci diede appuntamento per il giorno successivo. Mentre ci preparavamo per andare a dormire, Erika mi chiese a cosa stessi pensando.
«Ginny sembra felice» risposi infilandomi il pigiama.
«Da quanto stanno insieme adesso? Un mese?»
Annuii. «Sì, mi sembra da metà novembre più o meno».
Mi infilai nel letto ghiacciato e decisi che avrei dormito con le calze, quindi mi rialzai per prenderle dalla valigia.
«Forse è la persona giusta per lei» aggiunse Erika. «Mi sembra rispetti molti requisiti».
Entrammo entrambe nel letto e per un po’ rimasi a fissare il soffitto in penombra, illuminato dalla luce dei lampioni che filtravano dalle ante.
«Ho visto Sam a Natale» confessai.
Erika si voltò a guardarmi, in attesa.
«Abbiamo solo parlato, niente di che».
Esitò. «Stai bene?»
Annuii e deglutii per ricacciare indietro le lacrime, poi mi voltai verso il comodino e le augurai buona notte.
 
 
L’appartamento in cui si sarebbe tenuta la festa era a un paio di chilometri da quello di Ginny e, oltre a noi, c’era un’altra decina di invitati così che il salotto, seppur spazioso, appariva affollato. Appena arrivati, chiacchierai per un po’ con Lisa e Carlo fino a che si persero nel discutere una faccenda politica di cui non sapevo nulla. Avevano due posizioni opposte, ma conversavano accettando l’opinione altrui, lodandone i punti validi e commentando in modo pacato e oggettivo quello che ritenevano sbagliato. Carlo mi parve una persona molto intelligente, che sapeva il fatto suo ed era molto informato su quello che avveniva nel mondo. Me ne andai quando cominciai a perdere il filo della conversazione e mi avvicinai ai piatti di tartine, disposti su una tovaglia di carta rossa. Mi raggiunse Ginny. Indossava un abito scarlatto intessuto di fili dorati che le stava molto bene. 
«Paolo ha detto che le mie amiche sono carine» disse, prendendo una tartina con il tonno. Gli stivali neri con il tacco la slanciavano e con l’eyeliner scuro e il rossetto sembrava più grande. 
«Chi è Paolo?»
«Il padrone di casa» indicò un ragazzo bassino con i capelli castani e le spalle larghe.
«E tu cosa gli hai detto?» chiesi, mordendo un angolo di pane imbevuto nella salsa rosa.
«Di lasciar perdere Erika» rispose divertita. «Ma che tu invece sei single. Non credo che sia il tuo tipo, però è tanto per provare no?»
Mi scappò una risatina imbarazzata. «Cosa intendi?»
«Be’, oltre alla parentesi dello stronzo di Milano, non esci con un ragazzo da quando ti sei lasciata con Marco, o sbaglio?»
L’oliva che stavo mangiando mi si bloccò in gola e cominciai a tossire. Ginny andò a prendermi un bicchiere d’acqua.
«Eh dai, Meg, non vorrai fare la suorina per tutta la vita» commentò quando mi fui ripresa e, dal modo in cui i suoi occhi mi ammiccarono, capii che aveva già bevuto del vino.
Erika si avvicinò e ci chiese se andasse tutto bene.
«Ginny vuole accoppiarmi con il padrone di casa» replicai rivolgendo uno sguardo truce alla mia amica. 
«Lo dico per te, piaci sempre ai ragazzi, dovresti sfruttarlo finché dura».
Alzai gli occhi al cielo. «Vogliono solo venire a letto con me».
«Secondo me è colpa delle tette» replicò Ginny con gli occhi luccicanti che ne denunciavano la non sobrietà. «A me non capita mai questa cosa».
Erika rise. «È perché tu li metti in soggezione».
«Dici?»
«Sì, fai proprio quella faccia» mi accodai io indicando il suo involontario cipiglio.
Ginny sbuffò e disse che sarebbe andata a controllare in bagno, Erika la seguì a ruota per assicurarsi che non cadesse addosso agli altri invitati. Rimasta sola, controllai il cellulare. C’era un messaggio di Sam. “Aggiornamento: Diego e Sara sono appena arrivati. Confermo che non ti assomiglia”.
“Descrivimela” digitai, poi premetti lo schermo contro il petto e mi guardai attorno. Nessuno faceva caso a me, ma sentivo ugualmente il cuore pulsare attraverso il cellulare.
Aveva già risposto. “Magrissima e capelli scuri”.
“Quindi io non sono magra?”
“Domanda trabocchetto? Diciamo che hai le curve”.
“Mi hai dato della grassa”. Mi sentivo una stupida mentre sorridevo con il cellulare in mano, ma non riuscivo a impedirmelo. 
“Non travisare, era un complimento”
“Grazie allora”.
Una ragazza si avvicinò al tavolo delle tartine e dovetti allontanarmi per lasciarle spazio. Mi spostai verso le bibite e mi versai un bicchiere di vino.
“Sara non sembra neanche molto simpatica. Scommessa su quanto dureranno?”
Armeggiai un po’ cercando di rispondere con il bicchiere in mano, poi decisi di posarlo mentre digitavo il messaggio. “Ci sto. Ma tu parti avvantaggiato”.
“Come possiamo renderlo pari?”
Immaginavo Sam nella mia stessa situazione, circondato da persone che ignorava e che lo ignoravano, inconsapevoli di quella conversazione a distanza che stava avvenendo sui nostri cellulari.
“Doppia scommessa. Diego-Sara, Ginny-Carlo”
“Chi è Carlo?”
Avvampai. “Ops. Forse era un segreto. Credevo lo avesse detto a tutti”.
“Nuovo ragazzo?”
“Sì”.
“Sono contento per lei. Mi spiace che non se la sia sentita di dirmelo”.
“Magari non lo sa nessun altro, non ne ho idea”.
“Può essere. Che tipo è?”
“Sei geloso?”
“Per niente, sono curioso, ma fa niente se non ti va”.
“Aspetta, ti mando la foto”.
Erika passò davanti a me in quel momento, così le dissi di sorridere e le scattai una foto, poi la ritagliai e inviai la versione ridotta a Sam con un cerchio rosso al centro. “È lui”.
“Quello senza mento?”
“Sei proprio stronzo”.
“Sono oggettivo. Ci sono due ragazzi, poteva essere l’altro”.
“L’“altro ragazzo” è la coinquilina di Ginny”.
“Ah. Allora forse un po’ sono stronzo”.
Mi scappò una risata e Lisa, che si era avvicinata a prendere dell’aranciata, mi guardò storta, così rimisi il cellulare nella borsetta e cercai di partecipare alla festa. Qualcuno propose di giocare a taboo e mi dimenticai dei messaggi di Sam. Capitai in squadra con Carlo, che era molto bravo nel gioco e, scoprii con sorpresa, anche simpatico e a suo modo divertente. Parlava in modo forbito e sapeva articolare le frasi come se fosse uscito da un romanzo dell’Ottocento, ma non lo faceva con spocchia, era solo la sua lingua madre.
Quando si avvicinò la mezzanotte, ci schiacciammo contro le finestre dell’appartamento per ascoltare i vicini che facevano il count-down insieme a noi. Ero incollata a Erika, con il braccio premuto sul suo e i suoi capelli che mi solleticavano la guancia. Ginny ci guardava da poco distante, sorridendo con gli occhi socchiusi. Gridammo tutti insieme i numeri e, allo zero, esplosero i boati dei fuochi d’artificio nella piazza principale. Bevvi così tanto spumante che fui costretta ad andare in bagno poco dopo la mezzanotte. Nel silenzio ovattato della stanzina, presi il cellulare e risposi agli auguri di buon anno, inviandoli anche a Sam.
“Buon anno a te. Hai dato il tuo bacio di mezzanotte?” fu la sua risposta.
Cercavo di vederlo nella sua casa di montagna che beveva un bicchiere di vino circondato dai suoi amici. Lo immaginavo con le guance arrossate e gli occhi lucidi, un po’ brillo, ma ancora lucido. Fui tentata di chiedergli una foto.
“Saresti geloso?” risposi.
“Mi sto solo preoccupando della tua fortuna per quest’anno”.
“No, nessun bacio. Tu?”
“Uguale. Ammetto che forse un po’ sarei stato geloso. Ma non del bacio in sé, più della situazione”.
“Cioè?”
“Trascorrere il Capodanno con te. Ha senso?”
Presi un respiro profondo e andai a lavarmi alle mani mentre pensavo a come rispondere. Lo specchio mi restituì il mio volto truccato con la matita scura sopra agli occhi e i capelli gonfi per il caldo nell’appartamento.
“Sì. Io invece sarei stata gelosa del bacio” digitai.
“Wow”.
Mi morsi le labbra e risposi appoggiando il fianco al marmo del lavandino. “Ti mette a disagio questa confessione? Forse sono un po’ ubriaca”.
“Mi fa solo venire ancora più voglia di essere con te”
Avevo il volto in fiamme. “Per fare cosa?”
“Stai per cominciare un gioco pericoloso”.
“Posso smettere”.
Sam non rispose subito. Lo immaginai confuso, tentennante. Poi qualcuno bussò alla porta del bagno. Dissi che avevo quasi finito, ma la chat rimase immobile anche nei secondi successivi, così fui costretta a uscire. Fuori erano tutti troppo ubriachi per fare caso a me. Ginny e Carlo si sbaciucchiavano sul divano, Paolo stava gridando senza maglietta dal piccolo balcone dell’appartamento, Erika chiacchierava con una ragazza di cui non sapevo il nome e Lisa fumava accanto a una finestra.
Il cellulare mi vibrò nella mano. “Scusa, Luca ha vomitato e ora lui e Chiara stanno litigando. Devo assicurarmi che non distruggano la casa”.
“Certo, vai pure”.
Sospirai e mi diressi verso il tavolo delle bibite. Mentre bevevo l’ultimo bicchiere di spumante mi arrivò un nuovo messaggio.
“E comunque no, non smettere il gioco. Mettiamolo solo in pausa”.
Mi mordicchiai le labbra. “Fino a quando?”
“Il prima possibile”.

 

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Capitolo 16
*** Fine della sessione ***



Capitolo 15. Fine della sessione

La sessione invernale aveva reso gli studenti nervosi e alcuni reagivano perdendosi in discorsi logorroici con chiunque capitasse loro a tiro, altri invece preferivano chiudersi in un mutismo rassegnato e mesto. Dopo il mio anno a Milano, passeggiare tra quei corridoi luminosi e accoglienti non mi faceva paura e mi godevo ogni giornata in università sapendo che la sera sarei tornata a casa mia.
L’ultimo esame della mia sessione combaciava con quello di Eleonora, così avevamo trascorso lunghi pomeriggi nell’aula studio a ripetere, mentre all’esterno le strade andavano scurendosi e, quando mi dirigevo verso la fermata del pullman, tutto era ormai avvolto dal buio. 
«Pausa caffè?» mi domandava Eleonora a metà pomeriggio, rivolgendomi lo sguardo stanco di chi aveva fissato la carta stampata da quando si era svegliata. Io annuivo e ci trascinavamo verso le macchinette poco distanti. Durante quelle pause a volte lei chiamava Andrea, il suo ragazzo, e io mi distraevo guardando il cellulare. Una volta mi capitò una foto di Sam che sorrideva in un pub alle 4 di mattina.
“Ma tu non studi mai?” gli scrissi in chat. 
“Sei invidiosa?” mi rispose pochi secondi dopo.
“Molto”.
“Ho finito gli esami comunque. Fino a marzo sono libero, tu?”.
“Io ho la settimana prossima l’ultimo”.
Eleonora sbuffò rumorosamente al cellulare e disse qualcosa in tono scocciato. Mi cercò con lo sguardo, poi alzò gli occhi al cielo e ritornò a parlare sottovoce.
“Poi vieni a trovarmi?” aveva risposto Sam.
“E se non lo passo?”
“Lo passerai di sicuro”.
“Fortuna che non sono superstiziosa”.
“Facciamo così: se lo passi vieni qui”.
Eleonora chiuse la chiamata e si sedette al mio fianco sulla scomoda sedia in plastica arancione, poi allungò le gambe davanti a sé e si guardò i mocassini in pelle consunti.
Mi pungolò con il gomito. «Ma a chi scrivi sempre durante le pause?»
Arrossii. «A un amico».
Fece la faccia di una che la sa lunga. «Hai sempre un sorrisone quando parli con lui. Cosa vi dite?»
«Non lo so, parliamo della nostra vita. Oggi mi ha invitata a Budapest».
«Ah sì?»
«Sì, è là fino a luglio. Vuole che lo raggiunga dopo la sessione».
«Wow, sembra figo» disse soltanto, con gli occhi sgranati per l’entusiasmo. In effetti, constatai, non l’avevo pensata in quei termini. La mia testa aveva analizzato la situazione da tutti i possibili punti di vista, senza considerare quello più importante: che io, da Sam, non vedevo l’ora di andare.
 
 
Passai l’esame e comprai il biglietto aereo per la settimana seguente. Non lo dissi a nessuno, se non ai miei genitori e a mio fratello, che mi accompagnò in auto all’aeroporto. 
«Stai attenta» mi salutò prima dei controlli. «E salutami Samuele».
Sventolai la mano fino a che riuscii a vederlo, poi svoltai dietro una parete di cartongesso e rimasi da sola. 
Sam sarebbe dovuto venire all’aeroporto, ma il giorno prima l’università gli aveva dato un appuntamento per compilare alcuni documenti importanti, così mi inviò le indicazioni dettagliate sul bus da prendere e sulla fermata a cui scendere. Sul mio diario appuntai che prendere l’aereo da sola mi preoccupava, ma allo stesso tempo mi faceva sentire indipendente e in grado di fare qualsiasi cosa. 
Non fu difficile seguire le indicazioni di Sam: una folla di turisti italiani prese il mio stesso bus e scese alla medesima fermata. Mi ritrovai sul ciglio di una strada ampia e trafficata, contornata da palazzi enormi dall’aria antica, che si protendevano verso il cielo nuvoloso. Cercai Sam, ma la folla di persone era così magmatica e densa che non riuscii a distinguere alcun volto familiare.
Il cellulare vibrò. “Sono stato trattenuto in ufficio, ti mando l’indirizzo del mio appartamento”.
Volevo piangere. “Davvero?”
“Si, ma è facile, vedrai. È tanto pesante la valigia rossa?”
Alzai gli occhi dal cellulare e lo vidi, al di là della strada. Alzò una mano per farsi riconoscere, sorridendo. Feci per attraversare, ma un tram passò rapido davanti a me, così mi paralizzai sul marciapiede, poi cercai il primo semaforo e corsi sulle strisce pedonali. Quando lo raggiunsi lo abbracciai e lui mi strinse a sé con entrambe le braccia. Odorava di vento e di sapone di Marsiglia e la sua stretta aveva la familiarità di un gesto naturale, ma che non si compie da tanto tempo.
Il suo appartamento era poco distante, oltre un alto portone di legno e affacciato dal secondo piano su una piccola corte interna. Attraverso un corridoio di parquet scricchiolante mi condusse nel salotto, dove c’era un tavolo e sei seggiole, un divano con penisola e un vecchio televisore. 
«Questa è la tua camera» disse con un sorrisetto, poi indicò un tavolo da caffè accanto al divano. «Puoi appoggiare lì le tue cose, ma se ti serve altro o hai bisogno di privacy c’è anche la mia stanza».
«E non disturberò gli altri stando qui?» chiesi. Vedevo le tracce di altre persone che vivevano in quell’appartamento: un tappetino da yoga arrotolato dietro alla porta, alcune riviste abbandonate sulla libreria accanto ai giochi in scatola, degli occhiali da sole sul tavolo.
Sam mi tranquillizzò dicendo che quella sera sarebbe partito un ragazzo spagnolo e nell’appartamento sarebbero rimasti solo lui e Matteo, l’altro italiano, e che c’era spazio più che a sufficienza per tre persone. Ancora non sapevo che non avrei mai dormito su quel divano. 
La sera del mio arrivo fui invitata a bere in un pub poco distante dall’appartamento per salutare il coinquilino spagnolo in partenza. Eravamo così tanti che i camerieri ci fecero distribuire su più tavoli nella stessa sala. Sam conosceva tutti, li salutava con un abbraccio e due baci sulle guance e poi mi presentava a loro e subito cominciavano a farmi domande come da dove venivo o cosa studiavo. Credo di aver parlato con almeno trenta persone quella sera e di aver imparato i nomi di neanche una decina. Erano tutti amichevoli, accoglienti e sempre pronti a fare due parole.
A mezzanotte ci spostammo in una sorta di discoteca composta da diverse sale che riproducevano differenti generi musicali. A esse si accedeva tramite un grande cortile coperto solo da un telo trasparente, sotto cui si accumulava il fumo delle sigarette. Dall’alto pendevano lampadine, finte piante, e oggetti di ogni tipo, anche peluche impolverati e un jukebox in polistirolo dipinto. Gli amici di Sam ci condussero attraverso una stretta scala che scendeva verso delle sale sotterranee rivestite di mattoni e così poco illuminate che ci si scontrava continuamente l’uno con l’altro. I drink costavano poco e ne bevvi uno dopo l’altro fino a che le persone presero a girare intorno a me. Non era solo l’alcol però che mi scioglieva i muscoli e mi faceva ballare così liberamente. Mi sembrava di respirare nell’aria un senso di libertà e di abbandono totale alla vita, come in quei momenti di gioia sublime in cui si racchiude una certa tristezza perché già sai che sentirai la mancanza di quegli istanti mentre ancora li stai vivendo.
Io e Sam tornammo all’appartamento a piedi lasciando i suoi coinquilini a ballare fino all’alba. Le strade della città erano ben illuminate e le auto continuavano a scorrere sulla carreggiata, una ogni tanto, nonostante l’ora.
«Ti è piaciuta la serata?» domandò Sam, camminando al mio fianco. Per il sudore i capelli gli si erano arricciati e teneva la giacca aperta contro l’aria dell’inverno.
«Molto. È questo che fai tutte le sere al posto di studiare?»
«Esatto» rispose. «È questo che finanzia l’Unione Europea».
L’androne del suo palazzo era flebilmente illuminato da una lampadina traballante e usai la torcia del cellulare per trovare i gradini che salivano verso l’appartamento. Sam mi condusse nella cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Era una stanzetta piccola, con una parete ricoperta di mobili ed elettrodomestici e un tavolo sottile dall’altro lato. 
«Hai fame?» domandò aprendo il frigorifero. 
All’interno vidi bottiglie di alcolici aperte e cibi precotti. «No, sono a posto così».
Si voltò a guardarmi, il lato destro del volto illuminato dalla luce del frigo. «Sicura?»
Annuii, così lui richiuse l’anta, prese il mio bicchiere vuoto e lo infilò nella piccola lavastoviglie. Nessuno parlò per qualche secondo. Fuori si sentivano le auto che passavano sulla strada e la sirena lontana di un’ambulanza. Sam si era tolto il maglione, che aveva appoggiato all’unica sedia presente nella stanza, ed era rimasto solo con la maglietta bianca. Pensai che mi sembrava dimagrito, ma non dissi nulla. Lui mi si avvicinò a piano, posò una mano sul mio fianco, poi si chinò lentamente, come per darmi tutto il tempo di fermarlo, se avessi voluto. Vedevo le sue pupille che si facevano più vicine, distinsi le righe nelle iridi e i puntini di un blu più scuro. E infine mi baciò. Dischiusi le labbra e accettai quel bacio con il suo corpo che premeva sul mio. Fu come essere strappata da quella cucina e precipitata fuori dalla realtà. Le mani di Sam salirono fino a prendermi la testa tra le mani, senza smettere di baciarmi.
«Spero non ti dispiaccia» mormorò dopo un po’. Il suo respiro sapeva della mentina che aveva gli avevo offerto mentre tornavamo all’appartamento.
«Per niente» replicai cercando i suoi occhi. Le gocce più scure dei suoi occhi parevano mobili, come se orbitassero intorno alla pupilla.
«Non volevo rimandare il momento in cui sarebbe successo». 
Sorrisi. «Ne eri così certo?».
Le sue labbra si piegarono, divertite. «Mi sbagliavo?»
Era una domanda retorica, così mi limitai a sorridere e ad allungarmi per baciarlo ancora. Mi prese per mano e mi condusse verso camera sua, dall’altra parte della casa. Alla lentezza del bacio sostituì una nuova frenesia, mentre mi toglieva i vestiti e accarezzava la pelle che si faceva nuda. Rabbrividivo, e non per il contatto diretto con l’aria. Quasi mi mancava il respiro nel sentirlo così vicino dopo tanto tempo. Non mi sembrava vero. Gli sfilai la maglia e lui si tolse i pantaloni da solo, poi tornò a incollare le labbra sulle mie, come se non ne avesse abbastanza. 
«Mi sei mancata» sussurrò e rimase qualche istante a fissarmi senza parlare, le guance arrossate e i capelli gonfi e spettinati. Pareva trattenesse il fiato, come per paura di cambiare qualcosa e interrompere il momento. Mi misi seduta sul materasso, lo presi per un braccio e lo trascinai al mio fianco. Mi abbracciò, pelle nuda su pelle nuda. Almeno il suo profumo non era cambiato. «Anche tu».
Fui sul punto di piangere nel sentire quel contatto, il respiro nell’orecchio che mi faceva accapponare la pelle, le sue dita che mi percorrevano il corpo come se non aspettassero altro.
 
Quando mi svegliai la mattina successiva ripensai a come mi ero immaginata Sam con il pigiama stropicciato che mi augurava “Buongiorno”. Mi era sembrato un miraggio lontano e impossibile da realizzare. Invece ero nel letto con lui – senza pigiama – che mi aveva stretta sé e mugugnava qualcosa che sembrava più che altro “Ancora cinque minuti”.
Dopo colazione mi disse che avremmo visitato il Palazzo reale a Buda e così scoprii che Buda e Pest erano due città diverse separate dal Danubio e unite dai ponti. Costeggiammo il fiume a piedi e salimmo fino al Palazzo attraverso dei giardini con l’erba rinsecchita dal freddo e poi tramite una scala mobile ferma. Tirava un vento chiassoso e insistente, che ci costrinse a parlare a voce alta tutto il tempo per sentirci. Una volta arrivati, mi indicò il grande palazzo del parlamento che si specchiava sulla curva del fiume, dal lato opposto rispetto al nostro.
«Possiamo visitarlo se ti va» disse, scostando dagli occhi le ciocche di capelli portate dal vento.
«Tutto quello che vuoi» risposi.
Mi mostrò il Bastione dei Pescatori – una costruzione in pietra chiara affacciata sul resto della città – e la Chiesa di San Mattia con il suo tetto colorato, poi ci riparammo in un cafè per sottrarci al freddo pungente. Era un locale piccolo e all’antica, con le pareti verniciate di bianco e le poltrone sgualcite, e i camerieri parlavano a fatica in inglese. Sam ordinò per me una torta a più strati rivestita di glassa di cioccolato. 
 
Il cielo rimase coperto per i primi due giorni, ma la terza mattina mi svegliai con un sole brillante che batteva sulle strade. Mi portò all’isola Margherita e passeggiammo per un po’ accanto ai runner e agli anziani che respiravano l’aria del parco, poi ci fermammo a riposare sul ciglio del percorso. Sam sedeva con la schiena appoggiata al legno della panchina e un braccio allungato verso di me. 
Incrociai le gambe e chiusi gli occhi, con il volto rivolto verso il sole. «Hai fatto caso che per noi è sempre così?»
«Cioè?» domandò.
«O momenti, fugaci, di estrema felicità, o il nulla».
«Non avevo mai sentito fugaci in una conversazione».
Aprii gli occhi e lo guardai. Mi stava rivolgendo un sorrisetto. «Non fare lo scemo».
Si fece assorto. «Non pensi che potremmo avere un’estrema felicità continuata?».
Sospirai. «Non funziona così la vita».
«È un peccato».
Non risposi, perché sapeva di avere ragione. Due signore con il pancione ci passarono davanti, fasciate in completi sportivi coloratissimi. L’eco delle loro chiacchiere si spense in lontananza.
Fissai gli occhi sul chiosco di fronte a noi e dissi soltanto: «Forse ti amo».
«Perché forse?»
Gli lanciai uno sguardo veloce, poi tornai sul chiosco e sospirai. Il cuore martellava il petto come se volesse uscirne. «Ho paura che non duri».
Sam allungò una mano e me la posò sulla gamba. «Allora forse ti amo anche io».
 
 
La sera successiva mi portò a cena in un ristorante in cui suonavano musica dal vivo. Come gran parte della città, si trattava di un palazzo vecchio riempito con mobili di recupero eterogenei. Faretti colorati spruzzavano una luce che si spalmava sulla pietra a vista delle pareti e le sedie del ristorante erano rivestite di velluto blu scuro. Alcuni uomini in abiti eccentrici suonavano su un piccolo palco.
Ero un po’ triste, perché era il mio penultimo giorno, e Sam cercò di tenermi allegra raccontandomi episodi divertenti o dedicandomi piccoli gesti affettuosi, come accarezzarmi una mano.
«Ho una sorpresa per te» disse quando i musicisti annunciarono che avrebbero fatto alcuni minuti di pausa. Mi passò il suo cellulare e sullo schermo vidi un biglietto aereo per l’Italia.
«È tra una settimana» commentai, confusa. «Ma tu hai lezione».
Sam sorrideva, sfacciato e ammiccante. «Ma tu no».
Il mio cuore accelerò. «Cioè?».
«Ti va di fermarti ancora una settimana?».
Esultai a voce alta e alcune persone si voltarono a guardarci. Mi scusai imbarazzata.
«Mi hai comprato un biglietto aereo?»
Lui scrollò le spalle. «Stavo guardando il sito e ho visto che costavano poco, allora ne ho preso uno. Se non riesci non è un problema, non preoccuparti».
Chiusi gli occhi, li strizzai forte e quando li riaprii sentii le lacrime rigarmi le guance. In poco tempo mi ritrovai a piangere senza controllo.
Sam si alzò e venne accanto a me per potermi abbracciare. «Oddio, non volevo farti piangere».
«Grazie» mormorai stringendomi a lui. «Grazie, grazie, grazie».
 
 
Sam ricominciò le lezioni due giorni più tardi. A volte rimanevo a letto quando lui si alzava, sbirciavo mentre stava di fronte all’armadio e sceglieva i vestiti – con la faccia assonnata e i capelli spettinati – poi mi lasciava un bacio sulla guancia e mi diceva che ci saremmo visti più tardi.
Qualche volta cucinai per entrambi, così che potevamo mangiare insieme al suo ritorno. In un giorno particolarmente piovoso decisi di pulire la casa mentre erano fuori tutti gli inquilini – che nel frattempo erano arrivati – e per ringraziarmi mi offrirono tutti un drink la sera stessa. 
Poiché era la prima settimana, molte lezioni furono sospese o rimandate, così io e Sam ci ritrovammo ancora a passeggiare per la città, mangiare torte in piccoli cafè polverosi e visitare musei quando c’era troppo freddo o troppo vento.
«Sto pensando di tagliarmi i capelli» mi disse in un pomeriggio nuvoloso. Ci eravamo rintanati in una libreria con bar e sedevamo a un tavolino rotondo in legno scolorito. Lui stava scorrendo i programmi dei corsi dal suo pc, mentre io leggevo un libro.
«In effetti sono diventati lunghi» commentai.
Lui si prese una ciocca tra le dita e la guardò incrociando gli occhi. «Ho visto un barbiere qui fuori, posso andare a chiedergli se ha posto ora, non dovrei metterci molto».
Annuii e lui chiuse il computer. Prima di alzarsi, sollevato dalla sedia ma con le ginocchia ancora flesse, si sporse verso di me e mi lasciò un bacio veloce che mi scaldò le guance, poi uscì dalla porta a vetri facendo tintinnare la campanella.
Dieci minuti più tardi gli scrissi un messaggio per sapere se andasse tutto bene.
“Ho sopravvalutato le mie doti con l’ungherese” rispose.
Replicai con una serie di punti interrogativi.
“5 min e sono lì” scrisse soltanto. 
Quando Sam rientrò nella libreria trattenni a stento una risata. Tutti i suoi capelli erano spariti, rasati. 
«Non dire niente» borbottò sedendosi davanti a me. Aveva le guance arrossate e il fiato corto per la corsa. 
«Stai bene».
«Non devi dirlo per gentilezza».
Sorrisi e allungai una mano per accarezzare la sua testa rasata. «No, lo penso davvero. Sembri un po’ un rapper, però stai bene. O anche un soldato».
Alzò gli occhi al cielo. «Sempre meglio dell’obbrobrio che mi ha fatto prima. Gli ho detto di rasarmeli per rimediare».
Più tardi, quando mi chiese se fossi pronta a tornare all’appartamento risposi con: «Signorsì capitano», facendo il gesto con la mano.
E lui sbuffò. «Ah ah, molto simpatica». Poi mi tirò a sé e mi baciò sulla fronte.
 
 
A inizio marzo anche Matteo, l’ultimo inquilino rimasto dal primo semestre, cominciò a fare le valigie. Sam era dispiaciuto di doverlo salutare e così passammo un pomeriggio insieme a lui in giro per la città e poi ci unimmo ad altri studenti per l’ingresso serale alle terme.
Mentre Sam e Matteo ripercorrevano i momenti più divertenti di quel semestre – quando si era rotta la tapparella della cucina, quando la signora dell’appartamento di fianco aveva inseguito il marito sulle scale gridandogli parolacce in ungherese, quando si erano persi a Buda di notte – mi immersi fino al collo nell’acqua calda della piscina all’aperto e guardai la cupola nera senza stelle del cielo sopra di noi. La temperatura non raggiungeva neanche i dieci gradi e nuvole di vapore si sollevavano dall’acqua per disperdersi nell’aria gelida. Una signora accanto a me si faceva un video e mandava baci allo schermo, ruotando su se stessa e passeggiando per la piscina. Due uomini discutevano di un affare serio senza che io potessi capire di cosa si trattasse. Alcuni studenti internazionali, seduti vicino al bordo e immersi fino alle spalle passavano in rassegna gli eventi previsti per il mese di marzo per decidere a quali andare. 
Incrociai lo sguardo di Sam, che stava ascoltando Matteo, e mi sorrise, dente scheggiato, fossetta tra le sopracciglia. Pregai di poter rimanere per sempre così, nell’acqua calda come un bambino non ancora nato, illuminata dal sorriso dell’unica persona che avessi mai amato.
 

Ciao,
Questa settimana ho ritardato l'aggiornamento perché non ero totalmente convinta di questo capitolo e, ancora adesso, non sono soddisfatta della sua forma finale, ma ho pensato che fosse meglio pubblicarlo e ricevere eventuali feedback piuttosto che rimanere a fissarlo sul pc. Quindi eccolo ahah
A presto,
M.

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Capitolo 17
*** Nostalgia ***



Capitolo 16. Nostalgia

Nel secondo semestre cominciai a dare ripetizioni durante la settimana, quando avevo tempo. Prendevo il bus la mattina presto, andavo a lezione, pranzavo con i miei compagni e poi prendevamo il caffè al bar dell’ateneo prima di riprendere le lezioni o lo studio in biblioteca. I ragazzini con cui facevo lezione abitavano sempre vicino all’università, in eleganti appartamenti tenuti con noncuranza da famiglie ricche i cui genitori – avvocati, dottori, imprenditori – erano sempre misteriosamente assenti. 
Sam mi scriveva a ogni ora del giorno e la nostra chat era diventata una lunga conversazione ininterrotta. A volte la sera lo chiamavo mentre camminavo verso la fermata del bus e lui mi raccontava di quello che si stava cucinando per cena o di come era andata la giornata. Sentivo la sua mancanza ogni volta che non lo sentivo, mi chiedevo cosa stesse facendo, cosa pensasse, come fosse vestito. La chat era una piacevole compagnia, ma ciò che più desideravo era poterlo abbracciare, baciare, accarezzare il suo volto e guardarlo negli occhi mentre inspiravo il suo profumo.
Cominciai ad andare a camminare con Erika, soprattutto il sabato mattina. Lei si lamentava perché stava tutti i giorni seduta in ufficio e anche io avevo cominciato a sentire la decadenza del mio corpo. Dove una volta i muscoli erano la tesi, si erano fatti più soffici, e cominciai ad avere il fiatone dopo tre rampe di scale – cosa che non mi era mai accaduta prima – oltre al fatto che stavo perdendo la mia elasticità.
Durante quelle camminate salivamo i tornanti fino alla casa di mio fratello e, se c’era, ci offriva un bicchiere d’acqua, altrimenti ci fermavamo a riposare sulla panca che aveva costruito durante l’inverno e che stava fuori dalla porta d’ingresso.
Erika mi raccontava delle sue difficoltà a trovare una ragazza che le piacesse e che fosse interessata. «Sembra quasi che una cosa escluda l’altra» borbottò un giorno mentre camminavamo in salita, il sudore che colava dalle tempie e le felpe ormai inutili legate in vita.
«E tu?» chiese. «Non hai trovato qualcuno che ti piace a Lettere?»
Provai inutilmente a trattenere un sorriso. «L’ho trovato, ma non a Lettere».
Aspettò che proseguissi, ma quando si accorse che non avrei detto altro mi lanciò guardò male. «Sei seria?».
Io annuii, lei sospirò in modo spazientito e non aggiunse altro. Nessuno sapeva del mio viaggio a Budapest e costudivo gelosamente quel segreto, come qualcosa che appartenesse solo a me. 
Due settimane più tardi Erika festeggiò il compleanno in un bar del suo paese, adiacente a quello in cui vivevo io. Eravamo solo ragazze: io, Ginny, le sue amiche delle superiori e alcune compagne di basket. 
Debora, ancora con i lunghi capelli ricci che circondavano il viso dai lineamenti marcati, mi si avvicinò ancheggiando nel suo tubino nero e mi mise un braccio sulle spalle. «Meeg» cinguettò. «Indovina chi mi ha ri-scritto qualche giorno fa?»
«Non ne ho idea» risposi. Vicino a me, Ginny aveva un’aria di sufficienza.
«Giorgio Raggi» disse sottovoce. «Ti ricordi che ci eravamo incontrati al Paradise? C’eri anche tu, no? Be’, non lo avevo più visto, ma l’ho incrociato in banca due settimane fa e poi lui mi ha scritto».
«Bene, vi rivedrete?»
Lei ammiccò. «Chi lo sa? Speriamo, non lo vedo da un sacco di tempo, ma quella sera non era andata male».
Intervenne Ginevra, che stava accanto a me, quando Debora si fu allontanata. «Quando siete andate al Paradise
«Due estati fa, tu eri in Sardegna, credo» risposi.
«E Debora e Gio…?»
Scrollai le spalle. «Non so bene cosa sia successo. Sai com’è Gio, gli piacciono le ragazze» ridacchiai.
Ginny sbuffò e roteò gli occhi. «E a Debora piacciono i ragazzi a quanto pare». Non c’era traccia della ragazza che voleva spontaneamente rifilarmi al padrone di casa a Capodanno, dicendo che non dovevo fare la “suorina”. A Ginny era sempre piaciuto cambiare il suo punto di vista sulle cose in base all’umore del momento e in quel momento si sentiva una bacchettona cattolica.
Erika attirò la nostra attenzione e, con fare complice, disse: «Anche io ho delle novità». L’attenzione di tutte si spostò su di lei che, fissata da diverse paia di occhi, arrossì. «Ho conosciuto una ragazza. Si chiama Annalisa e durante il finesettimana fa la cameriera nel ristorante dove sono andata con i miei colleghi». Si dilungò nel raccontarci come si erano parlate mentre lei era in coda fuori dai bagni e come si fossero scambiate i numeri quando avevano scoperto che a entrambe interessava un fumetto poco conosciuto in Italia. Era stato quello l’amo che le aveva attirate e la calamita che le aveva portate a scriversi per diversi giorni.
«Vedremo come andrà» concluse stringendosi nelle spalle.
Allungai una mano e le strinsi il braccio, sorridendo. «Sono felice per te. Si vede come ti brillano gli occhi». 
Erika cercò di minimizzare, ma non riusciva a cancellarsi un sorrisetto dalle labbra. 
 
***
 
Ad aprile mi arrivò un messaggio di Gio per chiedermi se volessi andare a Budapest a inizio maggio per il compleanno di Sam. Quasi in contemporanea mi chiamò Ginny: anche lei era stata invitata – quello era il suo gruppo di amici dopotutto – e cercò di convincermi ad andare perché «Vanno tutti, anche Elena e Chiara!». 
Le dissi che ci avrei pensato e mentre chiudevo la chiamata già immaginavo quale sarebbe stata la mia risposta. Qualche giorno più tardi accettai. Erika non sarebbe venuta perché in quei giorni era al mare con Annalisa, la loro prima notte insieme lontano da casa.
Sam lo venne a sapere alcune settimane dopo e mi scrisse immediatamente per chiedere conferma che ci fossi anche io. 
«Ti giuro, è tutto il giorno che sorrido come un idiota» disse durante la chiamata della sera stessa. «Sono contento che Gio rovini sempre le sorprese».
Risi. «C’è anche Ginny lo sai?»
«Sarò bravissimo. Un maestro di autocontrollo, vedrai».
Il solo pensiero di rivederlo mi faceva aumentare i battiti e un fremito percorreva il mio corpo. L’attesa per la partenza fu un tormento e non riuscii neanche a godermi le vacanze di Pasqua, che trascorsero in un lampo di giorni confusi che non vedevo l’ora passassero. Continuavo a pensare al momento in cui me lo sarei di nuovo trovato davanti, ipotizzavo cosa avremmo potuto fare e poi censuravo tutte le cose che avrei dovuto nascondere davanti agli altri. Nessuno sguardo troppo lungo. Nessuna carezza. E decisamente nessun bacio. Ma solo immaginare di stare nella sua stessa stanza dopo quella lunga separazione mi faceva girare la testa.
Il giorno della partenza fu il padre di Diego a portarci all’aeroporto con il suo furgone a nove posti, ma eravamo così in anticipo che trascorremmo un paio d’ore nei negozi dell’area duty free. I ragazzi andarono a rimpinzarsi al McDonald’s e noi girovagammo nel grande negozio accanto al nostro gate.
«Come l’ha presa Carlo quando gli hai detto del viaggio?» chiese Elena a Ginny mentre provavamo i profumi.
Ginny scrollò le spalle. «Bene, mi ha solo detto di stare attenta, sapeva che sarei stata con voi tutto il tempo». Poi inclinò il capo indietro e si spruzzò il profumo sul collo.
Appena Elena e Chiara si allontanarono alla ricerca del bagno, non riuscii a trattenermi. «Carlo non sa di Sam, o sbaglio?»
Ginevra sbuffò scocciata, poi mi rivolse uno sguardo colpevole. «Sa che Sam è il mio ex, non ho proprio specificato che è lui che andiamo a trovare a Budapest»
«Ah. E se lo scopre?»
Strinse le labbra e incrociò le braccia al petto. «Non lo scoprirà».
L’eventualità la preoccupava, riuscivo a vederlo, ma cercava in ogni modo di non pensarci e io non le dissi nulla. Non ero certo nella posizione per farle la morale. 
 
 
***
 
Budapest era diventata una città diversa con l’arrivo della primavera. Il sole brillava in un cielo turchese, l’aria era tiepida e piacevole, le persone oziavano all’aperto, ai tavoli dei cafè o sull’erba dei prati.
Vedere Sam mi mise in subbuglio lo stomaco e il cuore, ma fui costretta a fingermi indifferente. Dopo il fallimento con il parrucchiere ungherese, i suoi capelli avevano ripreso a crescere, ma erano ancora molto corti e facevano risaltare gli occhi azzurri sul volto più libero e più magro. Gli altri lo presero in giro per il nuovo taglio e Gio gli sfregò il proprio palmo aperto sulla testa. Sam ci abbracciò a uno a uno alla fermata del bus e, quando fu il mio turno, gli sussurrai nell’orecchio quanto mi era mancato e lui mi strinse ancora più forte. 
Fummo entrambi dei maestri di autocontrollo. Era un gioco adrenalinico – e anche eccitante – fingerci diversi rispetto a quando eravamo da soli. In ogni suo gesto percepivo quello che tratteneva, in ogni sguardo capivo quello che mancava e intuivo le parole che evitava di rivolgermi.
Alloggiavo con le ragazze in un albergo poco distante dal suo appartamento, dove invece stavano Gio, Diego e Luca. Sam ci portò a visitare la città e io guardavo i posti come se fosse la prima volta. Ignoravo la panchina su cui avevamo chiacchierato per ore, il ristorante dove avevamo cenato insieme o il cafè dove lui aveva ordinato per me una torta ricoperta di cioccolato. Dovevo stare attenta e non perdere mai la concentrazione, anche se non era facile. Quando passammo davanti al museo di storia nazionale fui sul punto di commentare le nuove insegne – le precedenti erano così vistose che le avevo ben impresse nella memoria – ma mi morsi la lingua e improvvisai un’altra frase.
Sam ci portò a ballare e rimanemmo svegli fino all’alba per vedere il sole sorgere dal Bastione dei Pescatori. Mentre percorrevamo, alticci e stanchi, la salita, mi ritrovai a metà gruppo, con alle spalle Ginny e Sam, che l’aveva affiancata dopo essere stato lasciato solo da Diego. Nei giorni precedenti si erano ignorati vicendevolmente e quella era la loro prima conversazione insieme. Sam le chiese come stava e le disse che Gio gli aveva parlato di Carlo, per cui voleva sapere se le cose andassero bene.
«Certo» rispose Ginny con eccessiva enfasi. «Magari te lo farò conoscere».
«Per me va bene» rispose lui con cortesia.
«Meg lo ha incontrato a Capodanno» Ginny aveva alzato la voce per attirare la mia attenzione, così fui costretta a voltarmi e a rallentare per farmi raggiungere da loro.
«È simpatico» dissi. «E anche molto intelligente. Non credo sarei in grado di sostenere una discussione con lui».
«Allora sarà un ottimo avvocato» commentò Sam.
«O magistrato» aggiunse Ginny. «Probabilmente farà quello».
Trattenni lo sguardo d’intesa che avrei voluto scambiare con Sam.
Arrivammo a destinazione quando il cielo era già chiaro e il sole si intravedeva sulla linea dell’orizzonte. Ci sistemammo sulle panche di marmo del bastione e Ginny rivolse un’occhiata a me e Sam, che ci eravamo ritrovato seduti vicini. Cercai di non cambiare espressione. 
Sorrise per qualcosa che ancora non sapevamo, poi disse: «Avete mai fatto caso che voi due vi assomigliate? Potreste essere fratelli».
Questa volta mi ritrovai a cercare lo sguardo di Sam e lui lo ricambiò, ma Ginny dovette interpretarlo come una ricerca di conferma rispetto alle sue parole. Lui aveva l’aria divertita di chi coglie una battuta implicita, mentre mi guardava.
«Probabilmente è solo per il colore dei capelli e degli occhi» stabilì Ginny, prima che la sua attenzione fosse completamente assorbita dall’alba. 
 
 
Uscimmo per ballare anche la sera successiva. Prima ci fermammo per alcuni drink in un locale vicino all’appartamento di Sam. Capitai seduta accanto a lui, talmente vicini che la mia gamba nuda era schiacciata sul tessuto dei suoi pantaloni e riuscivo a sentire il calore della pelle che traspirava attraverso. Indossavo un abito corto e, al secondo giro di birre, mi resi conto che Sam aveva poggiato una mano sulla mia coscia. Le sue dita parevano incandescenti e, mentre stringeva leggermente la carne, mi si bloccò il fiato. Chiara, seduta di fronte a me, mi chiese se stessi bene. Paonazza in viso, annuii e mi sforzai di riprendere a respirare. Cacciai una gomitata discreta a Sam e, per tutta risposta, le sue dita risalirono la coscia, sotto il vestito. Trangugiai un sorso di birra ghiacciata sperando che spegnesse il rossore, ma ottenni solo di aggiungere l’arrossamento per l’alcol a quello dell’eccitazione. Le dita erano ancora lì, ad accarezzarmi la pelle. Sfiorò il tessuto degli slip e trattenni il respiro. Cominciò a muoversi in maniera circolare, deglutii a fatica un sorso di birra mentre un formicolio mi attraversava tutto il corpo.
«Comunque Budapest è una città molto bella» stava dicendo Luca a capotavola. «Non me l’aspettavo proprio».
«Ve lo avevo detto io, malfidenti» replicò Sam con una calma inverosimile, mentre le sue dita continuavano a torturarmi attraverso il tessuto leggero.
«Magari era solo una scusa per attirarci qui» commentò Elena con un sorrisino.
La pressione dei polpastrelli sui miei punti più sensibili aumentò, così come il colore del mio viso. Mi portai il bicchiere alla bocca e lo tenni sollevato per nascondermi per qualche secondo.
«Be’, se lo era ha funzionato» continuò Gio senza accorgersi di niente. «Siamo tutti qui per questo bastardo».
Gli altri risero e io per poco non soffocavo.
«Che ne dite? Andiamo?» chiese infine Diego e la mano di Sam batté in ritirata.
Mentre ci spostavamo, gli mandai un messaggio. “Guarda che così impazzisco”.
“Io sto già impazzendo” mi rispose, digitando a pochi passi da me.
Mi sforzai di camminare in modo composto e di non attirare l’attenzione su di me, perché mi sentivo sul punto di prendere fuoco.
Durante il resto della serata cercai di stargli lontana e non bevvi nient’altro. Al contrario fu Ginny a darci dentro e si mise anche a chiacchierare con alcuni ragazzi canadesi, che offrirono a entrambe un Moscow Mule, ma solo lei accettò. Dovetti accompagnarla in bagno per assicurarsi che nessuno approfittasse di lei in quello stato e mi sorbii un discorso incoerente sul corpo femminile mentre stava dietro a una porta piena di graffiti e io mi sistemavo il rossetto allo specchio appannato.
«Il fatto è che Carlo mi piace» disse quando barcollò verso il lavandino. «Ma non riesce a farmi… a farmi provare certe cose a letto. Capisci cosa intendo?»
«Sì, capisco, ma non so se vorresti parlarne da sobria» replicai e la aiutai a lavarsi le mani. Aveva la fronte madida di sudore e le si era disfatta la treccia.
«No, mia mamma ha detto che le signorine non parlano di queste cose» acconsentì, «ma sono cose vere. Non so se voglio stare con una persona che non mi fa sentire quelle cose, capisci?»
Aveva cominciato a storpiare le parole, così le dissi che potevamo tornare all’albergo se era troppo stanca.
«No, no, non sono stanca. Sono giovane e devo godermi la vita. Andiamo a ballare» mi afferrò per un polso e mi trascinò nella sala più vicina. 
Ritrovammo gli altri solo mezz’ora più tardi. Ballammo ancora per un po’, Diego mi prese una mano e mi fece fare delle piroette, Gio e Luca salirono in piedi su dei tavolini scatenando le grida entusiaste dei presenti e Sam dovette rifiutare le avances di una donna che aveva almeno quindici anni più di lui, mentre Chiara ed Elena scappavano da una coppia di fratelli che le aveva puntate. Decidemmo che la serata era finita e ci salutammo a metà strada, dove i ragazzi svoltarono verso l’appartamento di Sam e noi proseguimmo in direzione dell’albergo. C’erano tante persone in giro, soprattutto giovani che andavano o tornavano da locali, o innocui barboni che sonnecchiavano sul ciglio dei marciapiedi.
«Mi sento così viva!» esclamò Ginny a gran voce. Io e Elena – che camminava al mio fianco – ci scambiammo un’occhiata che ci fece ridere.
«Che c’è?» commentò Ginevra voltandosi a guardarci. «Voi non vi sentite così? L’aria è calda, le persone sono belle e siamo qui con tutti i nostri amici».
Chiara le diede ragione e la prese a braccetto, poi saltellarono insieme per qualche metro canticchiando una canzone che avevamo ballato durante la serata.
«Ragazze» disse d’un tratto Ginny bloccandosi al centro del marciapiede. «C’è un problema».
«Dicci amica» la esortò Chiara barcollando.
«Credo che Sam sia l’amore della mia vita».
Mi sentii il cuore di pietra. 
Guardai Elena. Aveva gli occhi sgranati come i miei. «E Carlo?» chiese.
Ginny si portò le mani al volto e strabuzzò gli occhi. «Carlo non può competere e stiamo insieme da neanche un anno. Quattro anni della mia vita con Sam e da quando ci siamo lasciati sento che mi manca continuamente qualcosa. Ora ho capito che è lui che mi manca».
Con il cuore in gola, mi avvicinai e le poggiai le mani sulle spalle, costringendola a guardarmi negli occhi. «Non dire cazzate. Litigavate un giorno sì e l’altro pure».
«È comunque l’amore della mia vita».
Cercai l’aiuto di Elena con lo sguardo, ma Chiara fu più veloce e mi sottrasse Ginny strattonandola per un braccio. «Litigare vuol dire tenerci, se non discuti mai significa che non ti importa».
«Io e Carlo non discutiamo mai».
«Ecco, visto!»
Sbuffai e finalmente intervenne anche Elena: «Ginny, sei ubriaca e stai dicendo cose che non pensi. Torniamo all’albergo e al massimo ne riparliamo domani».
Concordai con lei, ma Ginevra prese a scuotere nevroticamente il capo. «No, no, domani è troppo tardi. Devo parlare con Sam, devo parlargli ora!». Il suo tono di voce concitato aveva attirato diverse occhiate di passanti. Un uomo ci chiese se ci fosse qualche problema ed Elena si affrettò a dire che andava tutto bene.
«Devi chiamarlo ora» esclamò Chiara saltando. «Devi combattere per voi».
«Cristo santo, non darle queste idee» sbottò Elena. 
«Esatto, torniamo all’albergo» mi accodai.
Ginny picchiò i piedi a terra come una bambina e si mise a strepitare che voleva chiamarlo. Non appena estrasse il cellulare, Elena glielo strappò di mano e lo infilò nella propria borsa, ma ottenne solo di farla gridare ancora più forte. Cercai di calmarla, ma più andava avanti e più attenzione attirava dalla strada buia. 
«Va bene, va bene, però basta urlare». Elena prese a frugare nella sua borsa. «Chiamalo tu, Meg, ho troppa roba».
Rimasi paralizzata qualche secondo, con tre paia di occhi puntati su di me. Poi mi riscossi, presi il cellulare e digitai il numero di Sam. Mentre ascoltavo il suono della chiamata in vivavoce, pregavo dentro di me che non rispondesse. Mi tremavano le mani e temetti di far cadere il cellulare.
«Ehi, tutto bene?»
Sospirai e gli dissi che Ginny stava facendo la matta e voleva parlargli. Ci disse di andare al suo appartamento, dato che era più vicino rispetto all’albergo. Mi diressi in quella direzione come se stessi camminando in un corteo funebre.
Quando arrivammo, lui ci aspettava sulla porta, ci sussurrò di entrare e di aspettare in corridoio, o di andare in cucina se volevamo qualcosa da bere. I ragazzi si erano messi a dormire nel salotto. Con un’espressione tremendamente seria, chiese a Ginny di seguirlo e la condusse in camera sua. Rimasi con le altre nel corridoio, passeggiando nervosamente avanti e indietro, facendo attenzione a non camminare sulle assi che cigolavano. Ci arrivavano di tanto in tanto stralci di conversazione. 
«Non mi stai ascoltando» diceva Ginny, ma non riuscivamo a sentire la risposta.
«Ecco, vedi» sbottava Sam poco dopo, ma non sapevamo cosa avesse provocato la sua reazione.
Dopo circa dieci minuti, la porta della camera si riaprì e Ginny ne uscì inespressiva. Altrettanto indecifrabile era l’espressione di Sam, dietro di lei. «Vi chiamo un taxi» disse soltanto e digitò qualcosa sul cellulare. Le altre lo ringraziarono. L’ultima cosa che vidi, mentre scendevo le scale, fu la sua sagoma ferma sulla porta, illuminata da dietro, con il viso troppo in ombra per capire cosa stesse pensando.
 


 

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Capitolo 18
*** Il ritorno ***


PARTE 4
LA CITTÀ


Capitolo 17. Il ritorno

Il bar dell’università era appena stato riverniciato, ne sentii l’odore quando la porta a vetri automatica si aprì davanti a me. Le pareti erano azzurro chiaro e dei comodi divanetti avevano sostituito le vecchie sedie arrugginite. Eleonora mi aspettava all’interno e sventolò una mano quando mi vide arrivare. Era abbronzata, con i capelli ramati più chiari e portava un vestito estivo a fiori perché, benché fossimo alla fine di settembre, faceva ancora caldo. Ordinai un caffè al banco, poi mi sedetti con lei e mi raccontò della sua recente vacanza in Liguria con Andrea. Dopo l’ultimo esame della sessione estiva ci eravamo viste poco – una volta sul lago e una volta in città – poi lei era andata al mare e, quando era tornata, ero partita io.
«E com’è andata in Sardegna?» chiese Eleonora. «Dalle foto sembrava bellissimo».
Le dissi che era proprio così. Erika e io eravamo partite ad agosto per raggiungere Ginny e Carlo ed eravamo rimaste nove giorni, anche se Ginevra aveva provato a trattenerci di più. In quelle giornate Erika si alzava presto per andare a correre, mentre io me la prendevo con calma e l’aspettavo in cucina. Carlo si alzava poco dopo e facevamo colazione insieme poi, dopo che Erika era rientrata, verso l’ora di pranzo, si alzava anche Ginny. Mangiavamo qualcosa e nel pomeriggio andavamo in spiaggia. La sabbia era di un bianco accecante e il mare azzurrissimo si increspava in onde chiare poco prima della riva. Quando riuscivo, sfuggivo dagli altri per una camminata sulla battigia. Lontana dalle loro orecchie, chiamavo Sam, anche se non sempre lui rispondeva perché stava viaggiando in Interrail con alcuni ragazzi che aveva conosciuto a Budapest. Mi aveva chiesto di unirmi a loro, ma avevo rifiutato perché non avrei saputo come giustificare la mia assenza di un mese insieme lui. Durante la vacanza in Sardegna non ci scambiavamo messaggi, ma solo chiamate in ritagli di tempo che riuscivamo a recuperare, così che a volte passavano giorni senza che sapessi come stava o in che città si trovasse.
La sera uscivamo, prima o dopo cena, vestiti eleganti e cosparsi di doposole per rimediare alle scottature. Camminavo nei miei sandali di cuoio per paesini affacciati sul mare e rintanati sulle colline, bevevo un buon drink e mangiavo così abbondantemente che tornai con due chili in più dalla vacanza. 
Tranne che in un’occasione, Carlo e Ginny non litigarono mai per tutti i giorni in cui eravamo con loro. A volte lei si spazientiva e sbuffava sonoramente, ma lui sapeva sempre dirle le cose giuste per tranquillizzarla, anche quando lei era nel torto. 
Avevo raccontato a Erika di quanto accaduto a Budapest, ma nessuna delle due era riuscita a cavare nulla da Ginny. Il rifiuto di Sam – per la seconda volta se si contava quando l’aveva lasciata – l’aveva bruciata in modo indelebile. Ero convinta – e Sam aveva concordato con me quando gliene avevo parlato – che lei non sarebbe mai stata soddisfatta da un ripristino della sua precedente relazione, ma voleva proiettare su di essa – relazione inesistente – l’assenza di qualsiasi problema potesse invece avere nella vita reale. Lo dimostrava il fatto che lei e Carlo non si fossero lasciati, ma, anzi, ad eccezione di piccoli momenti di freddezza, il loro rapporto proseguiva senza grandi difficoltà.
 
Erika e io non assistemmo direttamente al loro unico litigio, ma ce ne parlò Carlo: era mezzanotte passata, eravamo tornati presto dalla nostra uscita quella sera e ce ne stavamo nel salotto di casa. Io leggevo un libro e Erika stava sistemando il suo curriculum al pc. Lui entrò nella stanza a grandi passi, poi si bloccò, come sorpreso di trovarci lì, sospirò rumorosamente e si lasciò cadere il fondo al divano, ai piedi di Erika, come un gigante di roccia precipitato dal cielo.
«Tutto bene?» domandai chiudendo il libro.
Lui sospirò ancora, con la testa tra le mani, e ci guardò. «Ginny è arrabbiata con me». Il suo volto, sempre così serio, aveva un’aria di bambinesca ingenuità.
«Perché?»
Alzò le spalle. «Se lo sapessi potrei risolverlo, ma non mi parla, dice solo di lasciarla in pace».
Erika sbuffò. «Fa’ come dice, non è colpa tua». 
Lui guardò me, in attesa di una seconda conferma.
«A volte capita» dissi. «Se la sarà presa per qualcosa che non ha niente a che fare con te, la cosa migliore è lasciare che le passi da sola». 
A garanzia delle mie parole, il giorno seguente Ginny si era comportata come se nulla fosse accaduto e Carlo si era rasserenato, anche se ogni tanto mi era parso di cogliere segni di incertezza nelle sue parole accorte e nei suoi atteggiamenti.
La porta a vetri del bar si aprì di nuovo ed Eleonora sventolò una mano, così mi voltai e salutai anche io alcuni dei nostri compagni di corso che si fermarono per chiederci come fosse andata l’estate e poi proseguirono verso il bancone, alle mie spalle.
«Non guardare» disse poi Eleonora, spostando rapidamente gli occhi su un punto dietro di me e poi di nuovo nei miei. «C’è uno che ti sta fissando».
«Ah sì? Di Lettere?»
Scosse il capo. «Non l’ho mai visto prima. Sembra uno psicopatico».
«Mi fai paura, vuoi che ce ne andiamo?»
Lanciò un’altra occhiata rapida. «No, no, forse è a posto, solo che continua a guardare qui».
«Che tipo è?»
Si concesse una veloce osservazione prima di rispondere. «Figo, ma mi inquieta. Oddio, si sta avvicinando». Raddrizzò la schiena e improvvisò una conversazione sulla prima lezione di quella mattina. Sentii dei passi che si avvicinavano e riconobbi il profumo ancora prima di sentirne la voce.
«Buongiorno Meg» mi salutò quando alzai gli occhi verso di lui. Aveva l’aria divertita e un poco compiaciuta.
«Quindi mi hai ingannata» risposi cercando di trattenere il sorriso che già mi tirava le labbra. «Mi hai detto che saresti tornato la settimana prossima». 
«È saltata la vacanza, mio nonno non è stato bene» replicò.
«Mi dispiace molto».
Sorrise. «Non preoccuparti, ora si è ripreso. Posso sedermi?»
Gli feci cenno di accomodarsi e lui eseguì sotto lo sguardo interessato di Eleonora. Li presentai l’un l’altra e lei commentò, stringendogli la mano. «Molto piacere Samuele, pensavo fossi uno stalker ossessionato da lei fino a un minuto fa e invece siete amici».
Lui rise. «Siamo amici, ma è vera anche la prima parte».
«Cioè?»
«Che sono ossessionato da lei».
Eleonora sollevò le sopracciglia, in attesa di spiegazioni. 
«Sta scherzando» dissi, arrossendo. «Ci conosciamo da quando siamo piccoli. E forse è più vero il contrario, da bambina avevo una cotta per lui».
Sam sorrise e si scusò mentre si alzava per tornare al bancone a ordinare un caffè. Eleonora scivolò sul tavolo, piegandosi verso di me.
«E poi? Cos’è successo tra voi?» bisbigliò
Mi sistemai nervosamente i capelli dietro le orecchie e guardai Sam, appoggiato al bancone che parlava amichevolmente con il barista. Sospirai. «Poi siamo diventati grandi».
Ele sbuffò. «Non fare la misteriosa, dai».
Le mostrai un sorriso stentato. «Ero una bambina, le cose cambiano».
«Era lui il tuo amico a Budapest?»
Annuii e lei si appoggiò allo schienale della sedia, pensosa.
 
 
Sam aveva un taglio sull’indice sinistro, coperto con un cerotto color carne. Lo notai mentre faceva scorrere le mani sul volante della sua auto. Aveva terminato le sue lezioni un’ora prima di me, ma mi aveva aspettata per accompagnarmi a casa. Eravamo partiti da poco e già eravamo imbottigliati nel traffico, fermi tra un’utilitaria e un furgone. Il suo profumo era così denso nell’abitacolo da farmi girare la testa. Abbassai di due dita il finestrino e un filo di aria calda mista a odore di benzina penetrò all’interno. 
«Quindi» cominciò Sam e subito si interruppe per rivolgermi un’occhiata rapida e poi tornare con gli occhi sulla strada.
«Dimmi».
Non rispose, ma aveva un sorrisetto stampato sul viso. Dopo la vacanza in Sardegna, ci eravamo visti solo due volte, entrambe a casa sua. Mi aveva invitata mentre i suoi erano via per la giornata e la sera mi aveva riaccompagnata a casa in moto. Nel mio diario avevo annotato, con disappunto, che in nessuna delle due occasioni ero riuscita a vedere la sua stanza. La prima volta faceva così caldo che eravamo rimasti in piscina per la maggior parte del tempo ed eravamo entrati in casa solo per farci la doccia nel bagno che c’era al piano terra. La seconda volta pioveva, così mi aveva chiesto se volessi guardare un film, poi si era steso sul divano e aveva detto: «Qui è più comodo».
L’utilitaria davanti a noi si mosse così Sam schiacciò l’acceleratore e strinse gli occhi, perché un raggio obliquo del sole in tramonto lo colpì in faccia colorandogli la pelle di arancio. 
«Quindi» ripeté, «cosa vuoi fare?»
Giocherellavo con una ciocca di capelli e una gamba sussultava a intermittenza. «Cosa intendi?»
L’auto si fermò di nuovo, di fronte a un semaforo rosso. Sam appoggiò la sua mano al mio sedile e mi guardò. «Posso baciarti?»
«Non sai già la risposta?»
«Voglio essere sicuro».
Mi allungai verso di lui e lo baciai. Nonostante quei due giorni a casa sua, la nostalgia si era accumulata dentro di me come strati che si erano sovrapposti in tutti quei mesi in cui era stato a Budapest e poi in viaggio durante l’estate. Le mie mani scivolarono sotto alla sua camicia, avrei voluto togliergliela in quel momento, ma il clacson del furgone alle nostre spalle ci fece sussultare e, ridendo, Sam ritornò a concentrarsi sulla guida. 
«Lo sai che ora ci vedremo tutti i giorni in università?» domandò poco dopo.
«E non sei contento?»
I suoi occhi rilucevano sotto i raggi del tramonto. «Mi farai impazzire, Meg».
Gli gettai le braccia intorno al collo e lo baciai sulla guancia appena ruvida.
 
 
***
 
Sam aveva tanti amici in università. Cominciai a conoscerli fin dalle prime settimane. Venivano da paesi della provincia che non avevo mai sentito e, viceversa, loro non conoscevano quello da cui venivamo noi, tranne chi ci passava le vacanze o quelli che avevano parenti nella zona. I gruppi in università erano insiemi magmatici e variabili per cui in un’ora si poteva creare un’amicizia o in una decina di pranzi ci si scambiava a malapena due parole. A volte pranzavo da sola, scorrendo il cellulare mentre inghiottivo la pasta scotta della mensa, in altre occasioni dovevamo spostare tavoli e sedie per mangiare tutti insieme e la cuoca, quando usciva dalla cucina per prendere da bere, ci rivolgeva un’espressione a metà tra il finto esasperato e il rimprovero. «Dopo rimettete tutto a posto, vero?»
Durante il primo semestre legai ancora di più ai compagni di corso miei e di Eleonora. Spesso mi fermavo in università dopo le lezioni solo per chiacchierare, e sedevamo nel giardino che andava rinsecchendosi o ai tavolini di qualche bar del centro. Andavo ai loro compleanni e a mangiare la pizza il sabato sera. Capitò che allo stesso evento fossimo invitati sia io che Sam, perché qualcuno aveva frequentato dei corsi con entrambi o perché ci eravamo visti così tante volte che sembrava maleducato invitare l’uno e non l’altra. Allora Sam passava a prendermi a casa mia e andavamo in città con la sua auto, poi, prima di riportarmi a casa, ci fermavamo da qualche parte per stare un po’ insieme, solo io e lui, nel buio dell’abitacolo e in quello della notte, fuori dai finestrini.
“Non ho capito bene cosa siamo e forse non lo voglio sapere” commentavo sul mio diario a metà ottobre. “Ho paura che se provassi a definirlo, tutto mi sfuggirebbe dalle mani e questa luce impalpabile e vaga non diverrebbe un oggetto stabile, piuttosto il buio più completo, che non cela ma indica un’assenza totale” 
In università, Sam e io eravamo cauti. Poche persone venivano dal lago e non le vedevamo molto spesso, ma sarebbe bastata una mano sfiorata con troppa disinvoltura o una guancia appoggiata alla spalla per dar adito a spiacevoli pettegolezzi. E così eravamo spesso insieme, ma distanti. Sedevamo uno accanto all’altra, senza toccarci, ribollendo per il desiderio, fremendo per un contatto, ma costretti alla noncuranza. Anche se il tempo passava, la tentazione non diminuiva mai. 
 
 

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Capitolo 19
*** Amici e amanti ***



Capitolo 18. Amici e amanti


«Ho una voglia pazzesca di panino marcio di fast-food».
La voce di Eleonora attirò la mia attenzione e alzai gli occhi dal saggio su Benda che stavo leggendo per la lezione di quel pomeriggio. Erano solo le undici di mattina e stavamo aspettando che aprisse la mensa studiacchiando nell’aula che si affacciava sul cortile interno dell’università.
«Detta così non mi convinci molto» replicai.
Lei sbuffò e si tolse gli occhiali per pulire le lenti. Mi guardò con le iridi più grandi del solito. «Non ti viene mai voglia di cibo di fast-food?». Mi strinsi nelle spalle e lei commentò: «Che vita triste Meg».
«Non ci sono molti fast-food dove vivo io».
«Stai solo confermando la mia idea».
Risi. «Be’, però non sento la mancanza di una cosa che non conosco».
Lei inforcò gli occhiali e annuì, riflettendo sulle mie parole. «Non sai cosa ti perdi. E allora quando avete fame a mezzanotte dove andate? A caccia di pesci nel lago?».
«Esatto» risposi. «Solo il più forte può fare lo spuntino di mezzanotte».
«Ma no dai seriamente» sbuffò ancora.
«Andiamo a casa».
La mia risposta la deluse, perché preferì tornare a leggere il saggio piuttosto che proseguire la conversazione. Dopo poco, però, si alzò e andò a temperare la mattina al cestino accanto alla finestra.
«Meg» sentii chiamare poco dopo. Sollevai lo sguardo e vidi che mi faceva cenno di raggiungerla. Abbandonai definitivamente la lettura e mi avvicinai alla finestra. Eleonora puntava l’indice verso qualcosa o qualcuno al di là del vetro.
«Guarda» bisbigliò.
Nel cortile, su una delle panche in marmo, stavano un ragazzo e una ragazza, uno accanto all’altra. Lei teneva la borsa sulle gambe e sedeva in maniera composta, mentre lui aveva abbandonato lo zaino ai suoi piedi e aveva piegato le ginocchia verso di lei. La ragazza era in corso con noi, mentre lui era un anno più grande.
«Si sono conosciuti alla gita a Ravenna del prof di archivistica» disse Eleonora e non si lasciò sfuggire l’occasione per aggiungere: «Quella per cui mi hai bidonato». Alzai gli occhi al cielo, mentre proseguiva: «Lei è fidanzata da sei anni, credo, una di quelle storie che iniziano da piccoli e poi vanno avanti. Il suo ragazzo però è andato a fare l’elettricista e lei dice che non si trova tanto bene».
«Che problema c’è con gli elettricisti?» domandai.
«Nessuno, solo che non sono più in sintonia, me l’ha detto in gita. E guarda lui come ha colto». Picchiettò sul vetro indicando il ragazzo. Sorrideva verso di lei e ogni tanto si chinava in avanti per ascoltare meglio, guardandola negli occhi. Un po’ alla volta lei parve rilassarsi, perché appoggiò la schiena al muro dietro e anche le sue ginocchia si inclinarono verso il ragazzo. 
«Sembra di guardare le danze di accoppiamento degli uccelli» commentai.
«Ma dove le vedi certe cose?»
«Su Netflix, era un documentario».
«Guarda, guarda».
Il ragazzo le stava mostrando una cicatrice sul braccio e lei aveva allungato una mano per sfiorarla. Mi sembrò di percepire le palpitazioni di lui mentre la guardava e sentiva i polpastrelli che gli sfioravano la pelle. Quella vista mi trasmise una strana sensazione di gioia, come quando cammini per strada e all’improvviso ti rendi conto che è arrivata la primavera. Il vento non è più gelido, l’erba sta riprendendo colore e gli alberi non sono più scheletri rinsecchiti ai bordi delle strade.
«Dici che siamo delle pettegole?» chiese Eleonora, senza staccare gli occhi dalla scena.
«Per me siamo delle romantiche».
La mia risposta la fece ridacchiare. «Se lo dici tu».
Continuammo a guardarli ancora per qualche minuto, poi la ragazza si alzò in piedi e, sventolando la mano mentre si allontanava, scomparve verso l’uscita dell’università. Ormai da solo, il ragazzo prese un respiro profondo, con lo sguardo perso davanti a sé. Rimase immobile per qualche istante, con un vago sorriso accennato sulle labbra. Dopodiché si alzò, si infilò lo zaino sulle spalle ed entrò in biblioteca.
«Che bello» commentai mentre tornavamo al tavolo.
«Il tradimento?»
Alzai gli occhi al cielo. «La nascita di un amore. Tu sei decisamente poco romantica».
Ele scrollò le spalle. «Ti ricordo che anche io sto con lo stesso ragazzo da quattro anni. A proposito, cosa fai venerdì sera?»
Presi il saggio su Benda e lo infilai nello zaino insieme all’astuccio. «Credo nulla, perché?»
«Io e Andrea andiamo all’Eden, ci saranno sicuramente altri dell’uni. Anche Samuele è il benvenuto se siete comodi a venire insieme».
«Va bene, grazie, ti faccio sapere. Andiamo in mensa?»
 
 
Dissi a Sam dell’invito di Eleonora quella sera in chiamata, mentre tornavo a casa in bus. Lui non aveva avuto lezioni ed era rimasto a casa. 
«Non ci sei mai stata?» domandò con tono perplesso.
Gli risposi che non l’avevo mai neanche sentito nominare.
«Ti piacerà».
Venerdì sera passò a prendermi da casa come al solito e parcheggiò l’auto a bordo di una strada residenziale, nel primo raro spazio che riuscimmo a trovare. Mi fece attraversare tutte le piazze del centro, passando davanti a chiese maestose illuminate dal basso, attraverso gallerie rinascimentali fino a svoltare in un vicolo scuro di sanpietrini sconnessi. Scorsi i nostri riflessi sulla vetrina di un negozio. Lui con la giacca scura e i jeans che cadevano sulle sneakers rovinate, io con gli stivali alti e il vestito che mi svolazzava sulle gambe. 
«Sei sicuro che sia da questa parte?» domandai guardando i graffiti sulle mura dei palazzi. C’era un forte profumo di curry misto a fumo nell’aria.
Sam mi prese per mano e accelerò il passo. «Siamo quasi arrivati».
L’Eden era poco più di una piazzetta, su cui si affacciava un centro culturale, un cinema indipendente e una serie di piccoli bar, ognuno con i suoi tavolini di colori diversi. Tutto lo spazio era occupato da ragazzi della nostra età che bevevano da bicchieri di plastica e chiacchieravano a gran voce in piedi. Qualcuno aveva una cassa e la musica risuonava tra i palazzi.
Eleonora emerse dalla folla insieme ad Andrea e ci salutò. «Quello è il bar migliore» disse indicando un locale dall’altro lato della piazzetta. «Venite».
Mentre scorrevo tra il trambusto, mi stupii nel riconoscere un’infinità di volti familiari. Era come se tutte le persone che vedevo durante il giorno in università si fossero radunate in quello spazio esiguo. Presi un drink che sapeva di ciliegia ed era molto forte.
«Lo puoi bere solo in questo bar, la ricetta è segreta» mi disse Andrea, ridendo di fronte alla mia smorfia. Il fidanzato di Eleonora un ragazzo simpatico e chiacchierone, alto quasi quanto Sam ma molto più muscoloso per via delle ore che passava in palestra. Il suo modo di fare tranquillo e amichevole compensava con la vivacità della mia amica e lo aiutava a non essere sopraffatto dal suo carattere esuberante.
C’era gente che continuamente andava e veniva, si fermava per salutarci, scambiavamo due parole e poi sparivano come inghiottiti dalla folla. Persi Sam più di una volta, ma grazie alla sua altezza e ai capelli chiari riuscii sempre a individuarlo prima che andasse troppo lontano.
Era ormai passata la mezzanotte – ed ero parecchio alticcia – quando mi ritrovai con Eleonora e alcuni suoi compagni delle superiori. Stavano parlando di persone che conoscevano e si scambiavano informazioni tra aneddoti e gossip.
«Non sapete cosa ho scoperto» disse d’un tratto una ragazza che mi pare si chiamasse Camilla o Cecilia, e aggiunse in tono allusivo: «Davide e Maria…»
«No! Stanno insieme?» esclamò uno degli altri. «Non ce li vedo proprio come coppia».
«Non proprio coppia… li hanno visti sparire insieme a più di una festa, ma niente di serio o ufficiale credo».
«Friends with benefits» commentò Eleonora ridacchiando, poi mi guardò. «Un po’ come te e Samuele, no?»
Mi sentii avvampare e farfugliai qualcosa, ma lei mi interruppe subito posandomi una mano sulla spalla. «Eh dai, è palese, anche se fate i misteriosi. Non preoccuparti, nessuno vi giudica». La fissai senza sapere cosa dire e lei aggiunse: «Di sicuro non giudico te. Ce li ho anche io gli occhi, buongustaia».
Feci una risata nervosa, ma ritenni più opportuno rimanere in silenzio, senza negare né confermare e la conversazione si distolse presto da me. 
 
 
Durante il viaggio di ritorno in auto guardavo fuori dal finestrino e vedevo le luci contrarsi e deformarsi contro l’oscurità per via dell’alcol che ancora avevo in corpo. Avevo bevuto solo un bicchiere e mezzo di quel drink alla ciliegia – poi avevo rifilato l’ultima metà a Eleonora per non stare male – ma era talmente forte che ancora mi sentivo sottosopra. 
«Tutto bene?» mi domandò Sam appoggiandomi una mano sulla gamba per attirare la mia attenzione.
Lo guardai e il suo volto ondeggiò. «Certo» risposi. «Forse sono un po’ ubriaca».
«Vuoi fermarti un attimo?»
Mugugnai qualcosa e lui allora entrò nel parcheggio di un supermercato adiacente alla strada principale. Quando fummo fermi abbassai il vetro del mio finestrino e inspirai aria fresca.
All’improvviso ripensai a quando mi aveva riportata a casa in moto l’estate della maturità. Cosa sarebbe successo se non mi avesse trovata ubriaca su quel panettone sul ciglio della strada? Non mi avrebbe mai detto della rottura con Ginevra, o almeno lo sarei venuta a sapere solo molto più tardi. E se non avessi dimenticato il salviettone al lago non sarebbe mai venuto a pranzo a casa mia e forse non mi avrebbe invitata alla festa al club. Mi girava la testa al solo pensiero.
Aprii la portiera e, un poco instabile sulle mie gambe, uscii dalla macchina. Volevo più aria, più ossigeno. Mi voltai a cercare Sam e vidi la sua testa chiara che usciva dal lato del guidatore mentre scendeva a sua volta dalla macchina. Mi si strinse il cuore. La nostra relazione era solamente un insieme di circostanze fortuite che, combinandosi tra loro, ci avevano portato lì, in quel parcheggio silenzioso nel cuore della notte? Non potevo credere che tutto quello che sentivo dentro di me fosse retto da quei fili sottilissimi e casuali.
«Sei sicura di stare bene?» mi chiese ancora Sam guardandomi da sopra il tetto dell’auto. Sentivo la pelle umida e credevo fosse sudore, fino a che mi resi conto che aveva cominciato a scendere una pioggia leggera e lieve.
«Sto bene» mormorai mentre i suoi occhi mi esaminavano. Per dimostrarglielo, abbozzai un sorriso e ressi il suo sguardo. Mi si strinse il cuore all’idea che potesse svanire, disperdendosi come la pioggia impalpabile intorno a noi. 
«Perché hai gli occhi lucidi?»
Mi toccai gli occhi e notai che aveva ragione. «Oddio, non lo so, forse è la pioggia».
Lui mi rivolse un sorrisetto e si passò una mano tra i capelli per scuoterli. Aveva l’espressione di chi la sa lunga. «O forse l’alcol» replicò «A cosa ti sta facendo pensare?»
Strinsi le labbra, senza sapere cosa dire. La pioggia, così delicata da essere a malapena percepibile, poco alla volta mi aveva bagnato il viso al punto che mi sembrava si stesse sciogliendo.
«Penso che sono felice ora» gli dissi. «Così felice che temo sparisca tutto in un momento».
Sam non smise di sorridere. Allungò una mano e prese la mia, poi intrecciò le nostre dita e fece lo stesso con l’altra mano. Mi guardò con i suoi occhi chiari, sereni e rassicuranti come il cielo in un giorno di primavera. Mi pareva così brillante in confronto al cielo nero e alla periferia intorno a noi.
«Sparisce solo se tu glielo permetti» rispose. «E noi non glielo permetteremo, giusto?»
Annuii e mi appoggiai con la guancia contro al suo petto, sciogliendo le dita per abbracciarlo. Ricambiò l’abbraccio senza dire nulla e mi lasciò un bacio leggero sulla testa.
 

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Capitolo 20
*** Immacolata ***



Capitolo 19. Immacolata

Passò ottobre, poi tutto novembre e ormai trascorrevo così tanto tempo in città che ero raramente a casa. Ginny e Erika si lamentavano perché ci vedevamo sempre di meno – anche per colpa loro dato che Ginny tornava da Trento due volte al mese, Erika era sempre via nel weekend – e Sam mi diceva che anche a lui arrivavano proteste simili dai suoi amici. A dicembre arrivò l’occasione a cui non potevamo sottrarci: il compleanno di Diego, che cadeva, convenientemente, il sette dicembre e quindi nessuno poteva dirsi impegnato per il giorno dopo. Mia nonna era stata poco bene in quel periodo, così ero rimasta a casa mentre i miei erano al lavoro e non vedevo Sam da quasi una settimana, il che era tanto tempo rispetto a quanto ci eravamo abituati. Avevo passato gli ultimi giorni scrivendogli messaggi o ricevendo le sue chiamate, ma volevo tornare a camminare al suo fianco nei corridoi nell’università o fare lunghi viaggi in auto insieme a lui. 
Per il compleanno di Diego, passò a prendermi Erika e le chiesi come andava con Annalisa.
«È rimasta a Padova perché ha un preappello settimana prossima, però le cose vanno bene» mi disse mentre percorreva i tornanti che scendevano verso il lago.
«Lei studia psicologia, giusto?» domandai.
«Sì, esatto».
«E quando ce la farai conoscere?» chiese sporgendomi con un sorrisetto verso di lei.
Quella fu una delle rare volte che la vita arrossire perché qualcosa la imbarazzava. Non era mai stata così vulnerabile. «Cavolo, ti piace davvero tanto» ridacchiai.
Lei si allungò per abbassare la temperatura del riscaldamento, poi confessò, quasi con timidezza: «Eh sì. Ve la presento presto, promesso».
Quando arrivammo all’hotel, uscì dalla porta a vetri solo Carlo e, stringendosi sul sedile posteriore, ci disse che Ginny stava finendo di prepararsi. Erika sbuffò e guardò l’orologio e gli rispose un lungo sospiro da dietro. Guardai Carlo dallo specchietto. Aveva la fronte imperlata di sudore e si torceva tra le mani un angolo del cappotto grigio.
«Tutto bene?» chiesi.
Lui alzò i suoi occhi scuri, cerchiati da folte ciglia come quelli di un cerbiatto. 
«Non è la prima volta che vedi i ragazzi, giusto?»
Ancora prima di terminare la frase, capii quale era la sua preoccupazione: Ginny lo aveva già presentato ad alcuni amici – prima Chiara e Luca, poi Elena insieme a Gio e Diego – ma non era il vederli tutti insieme che lo agitava. 
«Sei preoccupato per Sam?» chiesi voltandomi per guardarlo direttamente in faccia.
Era pallido e affannato. «Io non ho nessun problema con lui» disse cercando di tenere una voce ferma, «spero che lui non ne abbia con me».
Gli sorrisi. «Sicuramente no, vedrai che è molto amichevole».
Erika tossicchiò. «Non direi proprio “amichevole”».
«Cioè?»
«È un po’… snob».
Alzai gli occhi al cielo. «È solo riservato» poi tornai a rivolgermi a Carlo, «stai tranquillo».
La porta a vetri dell’hotel si aprì di nuovo e ne uscì Ginny, coperta da una pelliccetta scura, e salì in auto insieme a una scia di profumo. Guardò Carlo – che si asciugava il sudore con un fazzoletto di stoffa – e poi noi. «Cosa gli avete detto?»
«Che dovrà duellare con Sam a mani nude per averti» rispose Erika mentre faceva la retro e ridacchiai.
Ginny sbuffò e posò una mano su quella di Carlo. «Sarà anche un gran stronzo, ma è una persona civile».
«Meg lo ha definito “amichevole”» disse lui e Ginny roteò gli occhi: «Non esagererei».
Eravamo le ultime ad arrivare e tutti ci aspettavano nel salotto. Sam sedeva al tavolo e mi rivolse un microscopico sguardo d’intesa quando entrai nella stanza. Portava un maglione color sabbia e dei pantaloni di velluto blu. Quando si alzò in piedi, Carlo trattenne il fiato e raddrizzò la schiena. Strinse rigidamente la mano che l’altro gli porgeva e gli chiese in modo meccanico come stava. Furono entrambi cordiali e fin troppo formali. Accanto a Carlo, vidi Ginny con le labbra serrate in una rigida linea scarlatta e lo sguardo volontariamente perso in un angolo insignificante della stanza. Diego ci presentò la sua nuova fidanzata, Anna, una bionda piccola e sottile, poi ci disse di servirci come volevamo con il cibo e le bibite sul tavolo. Non li vedevo da così tanto tempo che mi sentivo spaesata in loro presenza, come se qualcuno mi avesse strappata alla mia vita e mi avesse retrocessa di alcuni anni. Sapevo poco di quello che facevano, non ricordavo a che punto fossero con gli studi e avevamo così tante cose da dirci che una serata non sembrava abbastanza.
Chiacchierai per un po’ con Gio e Elena, a cui presto si unirono Ginny e Carlo. La timidezza di quest’ultimo era superata dalla sua capacità di articolare discorsi complessi, eppure coinvolgenti per via delle sue doti oratorie. Ogni volta che qualcuno gli faceva un complimento, Ginevra sfoderava un sorrisetto di soddisfazione, mentre lui abbassava gli occhi e accettava con umiltà il complimento. Qualcuno propose di giocare a beer pong e, per estrazione, capitai in squadra con Sam, contro Carlo e Diego. 
Sam si alzò dal divano su cui era comodamente stravaccato e venne al mio fianco dal nostro lato del tavolo. Mentre disponevamo i bicchieri le nostre mani si toccarono. Espirai lentamente, senza guardarlo.
«Forza» disse solo. «Vedrai che vinceremo».
Carlo era così nervoso che per i primi tiri non solo mancò i bicchieri, ma anche il tavolo, e la pallina compì un’ampia parabola prima di cadere ai miei piedi. Diego se la cavava meglio di me, ma Sam era più bravo – aiutato dal fatto che era più alto – e la partita non durò a lungo. Avevamo bevuto solo tre bicchieri – uno io e due Sam – quando centrai l’ultimo bicchiere dei nostri avversari. Ci abbracciammo esultando e avrei voluto rimanere attaccata a lui, ma ricordai dove ci trovavamo, così sciolsi velocemente l’abbraccio e, mentre le altre coppie si sistemavano, salii al piano superiore per andare in bagno, nella speranza di spegnere nel frattempo il rossore sulle guance. I genitori di Diego non erano in casa, e tutte le stanze erano avvolte dal silenzio e immerse nella penombra. 
Dopo aver usato il bagno, sentii dei passi avvicinarsi dal corridoio, così mi affrettai a lavare le mani. Aprii la porta e sulla soglia trovai Sam. 
«Disturbo?»
Scossi il capo. Aveva un’espressione famelica e, al posto di spostarsi per farmi passare, avanzò costringendomi ad arretrare, poi si chiuse la porta alle spalle, mi strinse tra le braccia e mi baciò. Non riuscii a sottrarmi. Non avevo fatto altro che desiderarlo da giorni. Mi fece sedere accanto al lavandino e si infilò tra le mie gambe, mentre con le mani mi toglieva il maglione dalla gonna e le sue dita scivolavano sotto, contro la mia pelle. Il suo contatto mi dava assuefazione. Con la bocca scese a baciarmi il collo mentre una mano si infilava nei miei capelli e dovetti mordermi un labbro per non gemere. Il cellulare che avevo abbandonato sul marmo vicino a me vibrò, ma lo ignorai. Non mi importava più di niente. Slacciai la sua cintura e poi il primo bottone dei pantaloni e infilai le dita nell’elastico dei boxer. Il cellulare vibrò ancora e poi ancora e ancora.
«Forse è importante» mi mormorò nell’orecchio. Il suo fiato sulla pelle mi fece venire i brividi.
Guardai lo schermo. Erano messaggi di Erika: stava salendo insieme a Gio per andare in bagno. 
«Cazzo» balzai a terra e mi tappai la bocca mentre dall’esterno giungevano delle voci e un messaggio di Erika diceva che ormai erano fuori e mi augurava che non stessimo facendo nulla.
Guardai Sam. Aveva la fronte corrugata, ma non pareva preoccupato. Si riallacciò i pantaloni. «Siediti a terra, ci penso io».
Troppo agitata per replicare, ubbidii. Lui ruotò delicatamente la chiave nella toppa e poi spalancò la porta.
«Oh bene, siete qui» lo sentii dire. «Ero fuori dal bagno e ho sentito Meg che vomitava allora mi ha fatto entrare, ma non so cos’abbia».
Erika si precipitò all’interno, mentre Gio rimase a sbirciare dalla soglia. 
«Come stai? Te la senti di alzarti?» 
Annuii e mi aggrappai a lei per sollevarmi. «Sì, è solo un po’ di nausea, ora mi passa».
Gio chiese se ci fosse bisogno di chiamare Diego, ma gli dissi che mi bastava sedermi e bere un bicchiere d’acqua. Mi accompagnarono tutti e tre insieme nella taverna e avvisarono gli altri che non mi sentivo bene, così mi fecero spazio sul divano. Camminai appoggiandomi a Erika, fingendo di avere la testa debole e le palpebre pesanti.
Mi chiesero se fosse per l’alcol ma replicai che non avevo bevuto molto.
Dall’altro lato del divano Elena esclamò: «Non è che sei incinta?»
Mi sentii arrossire. «Non credo».
Ogni conversazione si era spenta nella sala e tutti stavano guardando verso di me. Ginny mi si piantò davanti con le braccia incrociate. «Non credi o lo sai per certo?»
Il mio cuore aveva preso ad accelerare freneticamente. «No, non sono incinta».
«Sembri dubbiosa, Meg» ridacchiò Chiara, poco lontano. «Dai, a noi puoi dirlo. Ti vedi con qualcuno?»
Sentivo la mancanza di ossigeno e la taverna ondeggiava tutt’intorno. Vedevo Sam con la coda dell’occhio, appoggiato a un muro dall’altro lato della stanza, in silenzio.
«Nessuno» sussurrai con gli occhi bassi. «Scusate, ho bisogno di aria».
Erika si offrì di accompagnarmi e Diego ci aprì la porta che si affacciava sul giardino. Fuori la temperatura era vicina allo zero e lo spazio era flebilmente illuminato da alcuni fari che proiettavano scaglie di luce sulle pareti della casa. Tenendomi per un braccio, Erika mi condusse sull’erba, lontane da porte e finestre.
«Non credevo che questa cosa andasse avanti ancora» mi disse mentre passeggiavamo. «Anzi, sinceramente ho cercato di non pensarci e ho sperato che aveste chiuso».
Non risposi. L’erba ghiacciata scricchiolava sotto alle suole delle nostre scarpe.
«Quindi siete… fidanzati?»
Il calore affluì sul mio volto. «Non lo so».
«Andate a letto insieme e basta?»
Sospirai. «Non lo so, Erika, davvero».
«Se non è una cosa esclusiva, lui vede anche altre ragazze?»
Mi prese il panico. Non ne avevamo mai parlato perché non credevo ce ne fosse bisogno, ma forse non la pensavamo allo stesso modo. Forse Sam vedeva altre ragazze quando io ero impegnata, forse non c’era niente di speciale tra noi, ero solo quella più vicina. E quella che diceva sempre di sì. Ripensai a quando a Budapest gli avevo confessato che lo amavo. “Forse ti amo” gli avevo detto e mi maledissi per quell’attenuante, quel “forse” pronunciato per paura che la verità mi avrebbe resa troppo vulnerabile.
«Te l’ho già detto e te lo ripeto: per me ti fai solo male» continuò Erika.
Ricacciai indietro le lacrime. «Non saprei come fare diversamente».
«Trovati un altro ragazzo».
Mi bloccai, al centro del giardino buio e mi staccai dal suo braccio per guardarla negli occhi. «Non voglio un altro ragazzo».
Erika scosse il capo. «Vuoi lui anche a queste condizioni? Lo sai che non può andare avanti per sempre, prima o poi dovrai rinunciare. O a lui o a Ginny».
Le parole di Erika mi tormentarono per tutta la sera e rimasi cupa come se davanti agli occhi mi fosse calato un velo scuro che rendeva tutto più lugubre. Gli altri interpretarono il mio mutismo come conseguenza della nausea e mi lasciarono in pace. Anche il viaggio di ritorno fu silenzioso. Ginny sonnecchiava, Carlo era ancora teso, io e Erika non avevamo nient’altro da dirci.

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Capitolo 21
*** Camera da letto ***



Capitolo 20. Camera da letto



Quel sabato i genitori di Sam sarebbero andati a Firenze con sua sorella, così mi invitò a casa sua. Avevo accompagnato mia mamma a fare la spesa e le chiesi di lasciarmi vicino al lungolago, dove sarebbe passato a prendermi. Era una giornata invernale fredda e soleggiata, diverse persone passeggiavano sulla passerella in legno o portavano a spasso i cani a bordo della spiaggia. Un golden retriver particolarmente affettuoso mi si avvicinò, così – con il permesso del padrone – lo coccolai un po’ e poi lo guardai allontanarsi nella direzione opposta rispetto alla mia. Quando riportai gli occhi sulla strada, notai una macchina familiare che si avvicinava. Era quella di Sam, distinsi il suo volto attraverso il parabrezza. Mi raggiunse e mi superò senza vedermi e solo quando fu a un metro da me mi accorsi che non era da solo in auto. C’era qualcuno sul sedile del passeggero. Una ragazza. Non riuscii a vederla in faccia perché era china in avanti e stava cercando qualcosa – probabilmente nella sua borsa – così i capelli scuri le avevano coperto il volto. 
Mi sentii gelare. Il primo impulso fu quello di prendere il cellulare e chiedere a mia mamma di tornare a prendermi, ma feci un respiro profondo e continuai a camminare verso il club. Il cuore mi martellava il petto e il battito riecheggiava nelle tempie. Arrivai al club e aspettai nel parcheggio. Continuavo a pensare alle parole di Erika, mi davo della stupida per averla contraddetta quando, palesemente, aveva ragione lei. Mi pizzicava il naso e sentivo gli occhi lucidi. Non ero riuscita a vedere con chiarezza la ragazza, non sapevo chi fosse e il pensiero mi assillava con persistenza.
L’auto di Sam entrò pochi minuti dopo. Salii in silenzio e rimasi immobile quando lui si allungò per baciarmi sulla guancia.
«Sei fredda» commentò toccandosi la bocca con due dita. «Aspetti da molto?».
«Ho camminato sul lungolago. Ti ho visto passare prima».
Sorrise e mise in moto l’auto. «Ah sì? Ho una storia interessante da raccontarti».
«Ok».
Mi guardò. «Tutto bene?».
«Sì, raccontami la storia».
Lanciò un’altra occhiata verso di me, poco convinto. «Elena è passata dal club prima, voleva parlarmi».
Strinsi i denti e il naso prese a pizzicarmi in modo ancora più fastidioso. Guardai fuori dal finestrino per nascondere le mie smorfie. Elena aveva i capelli scuri come quelli che avevo visto.
«È innamorata» disse ridendo.
Il battito del cuore si era fatto assordante. «Di te?»
«Ma va, cos’hai capito?» rise di gusto e mi appoggiò una mano sul fianco per assicurarsi di avere la mia attenzione. «Di Gio».
Sgranai gli occhi. «Davvero?»
Annuì. «Assurdo, no? Non ci avevo mai pensato».
«E cosa voleva da te?»
«Mi ha chiesto consigli. Non sa bene come muoversi, né se Gio ricambi, così vuole andarci piano».
Presi un respiro profondo e l’aria mi liberò la gola e distese i nervi. Arrivati a casa sua, lasciò l’auto nel garage e mi condusse in salotto, dove la stufa in ceramica chiara aveva riscaldato l’ambiente. Lasciai il cappotto sull’attaccapanni sopra a quello di Sam e mi voltai verso di lui. «Devo chiederti una cosa».
Lui era in piedi tra i due divani, al centro della stanza e teneva in mano un accendino e una candela spenta. «Dimmi».
Deglutii e strinsi le mani in pugni per fermare il tremore che le aveva prese. Solo formulare quelle parole mi costava un considerevole sforzo fisico e mentale. «Ti vedi con altre ragazze?».
Smise di provare ad accendere la candela e mi guardò. «Oddio, Meg, perché dovrei?»
Strinsi le braccia al petto ed evitai il suo sguardo. Appoggiò accendino e candela al tavolo da caffè e scavalcò un divano per avvicinarsi a me, poi si bloccò.
«Perché me lo chiedi?». Il suo tono si era fatto sospettoso. «Tu vuoi… vuoi vedere altre persone?»
Feci cenno di no con la testa, senza parlare. Avevo la vista appannata dalle lacrime.
«È successo qualcosa?» chiese. «Con un altro ragazzo?».
Scossi ancora il capo.
«Perché me lo stai chiedendo, Meg? Sii onesta per favore».
Serrai la mandibola, poi asciugai nervosamente una lacrima con il dorso della mano. «Volevo solo essere sicura».
La sua espressione rimase diffidente, ostile. «È questo il vero motivo? Se c’è un altro voglio saperlo». Avanzò ancora verso di me. «Chiaramente non mi farà piacere, ma… non abbiamo mai parlato di questo, quindi sei libera di comportarti come vuoi».
«Quindi a te andrebbe bene uscire con altre ragazze?» domandai con la voce incrinata dal pianto.
«Non ho detto questo». Si era fatto gelido. «Ho detto che se ti scopi altre persone lo voglio sapere». 
Quelle parole mi lasciarono raggelata e sgomenta. «Come potrei?» sbottai. «Cristo, pensavo fosse palese che sono così innamorata di te da non riuscire neanche a guardarli, gli altri ragazzi. In confronto sono insignificanti. Non ti sei reso conto di come ti guardo? Di come di parlo, di come ti ascolto? Ti amo così tanto che è imbarazzante e a volte sono contenta di dover far finta che non sia così, perché altrimenti non sarei altro che una ridicola bambinetta ossessionata». Presi fiato, tremando. «E sono talmente pazza di te che se mi dicessi che vuoi vedere altre ragazze morirei dentro, ma ti direi di sì, perché mi va bene tutto pur di averti nella mia vita». Piangevo a dirotto, con il fiato corto e le guance in fiamme. 
«Oddio, Meg» mormorò lui e mi prese tra le braccia. Mi sollevò da terra come una bambola e mi portò sul divano. Nascosi il volto contro la sua maglietta, continuando a piangere. Mi accarezzò i capelli e mi baciò la testa, sussurrandomi che non c’era bisogno di piangere. Per un po’ mi cullò tra le sue braccia poi, quando cominciai a calmarmi, mi guardò negli occhi.
«Anche io sono innamorato di te» disse con dolcezza. «La tua domanda mi ha sorpreso, perché credevo che fosse chiaro».
«Forse non lo era così tanto».
Sorrise. «No, forse no».
Mi tenne ancora un po’ tra le braccia, poi chiese se volessi qualcosa per recuperare il buon umore. «Ho del gelato, oppure possiamo guardare una commedia» propose.
Ci pensai un attimo, poi scossi il capo. «No» dissi. «Voglio vedere la tua camera».
Sollevò le sopracciglia e rise, mostrando il suo dente scheggiato. «Solo quello?»
Arrossii e cercai di non cambiare espressione. «Non l’ho ancora vista».
«Certo, perché era sempre in disordine e non mi andava di fartela vedere in quelle condizioni». Mi baciò su una guancia, poi l’altra, poi sulla fronte e infine sulle labbra.
«Oh, davvero?»
«Be’, sì. Se avessi saputo che ci tenevi a vederla, l’avrei lucidata bene bene già la prima volta che sei venuta».
Mi prese la mano, intrecciò le dita alle sue e poi mi fece alzare in piedi. «Lo hai voluto tu, quindi non hai diritto a criticare il disordine».
Salimmo dalle scale rivestite in legno fino a un piccolo corridoio, lo attraversammo e aprì la porta in fondo a sinistra. Nella stanza c’era un letto matrimoniale con la testiera verniciata di blu e il piumone azzurro chiaro che era stato sistemato alla buona, infatti dallo stesso lato toccava terra vicino al cuscino ma a malapena copriva il materasso ai piedi del letto. Dato che la stanza era all’angolo del piano, c’erano due finestre su due pareti contigue e una di queste illuminava con abbondante luce naturale un’ampia scrivania. Da lì si vedevano i rami degli alberi più vicini, il resto del giardino e, poco lontano, il lago. Aveva una cabina armadio, una libreria dello stesso blu della testiera e una sedia su cui aveva accumulato dei vestiti. Perlustrai i mobili con gli occhi: i libri dell’università, una scatola con il coperchio di vetro che conteneva alcuni orologi, la fotografia di lui e sua sorella su una barca a vela, un braccialetto di pietre scure abbandonato tra alcuni dvd e dei contenitori di latta. Guardai anche i cassetti della scrivania (oggetti di cancelleria buttati senza ordine casuale, una calcolatrice, caricatori e cuffie, alcuni mazzi di carte, un borsellino chiuso male da cui sbucava una banconota).
«Non credo troverai nulla di sconvolgente» mi disse, fermo sulla soglia, con una spalla appoggiata allo stipite e le braccia conserte. «Le cose segrete le tengo nel cassetto delle calze, se ti interessa».
Mi avvicinai al letto e gli chiesi se potessi sedermi.
«Certo» rispose e si staccò dalla porta per avvicinarsi. Una volta seduta, stesi la schiena sul piumone, con le gambe che pendevano dal bordo e inspirai profondamente. Dal letto traspirava il suo odore.
Sam si stese accanto a me. «Soddisfatta?»
«Molto».
Rotolai verso di lui fino a che il mio corpo aderì al suo attraverso i vestiti pesanti, poi mi sollevai su un gomito per guardarlo negli occhi. 
Lui allungò una mano e sistemò dietro al mio orecchio una ciocca di capelli che mi era caduta sul viso. «Forse sono sempre stato innamorato di te» disse. «Ancora prima di conoscerti».
Sorrisi. «Questo è impossibile».
«Non lo so. Non ricordo un momento in cui non lo ero».
Mi chinai verso la sua bocca e lo baciai. Profumava di zucchero e sapone. «Non sai quanto mi rende felice sentirti dire queste cose» mormorai.
«Voglio renderti felice».
Accarezzi la sua pelle dove il maglione si era sollevato e aveva lasciato scoperto uno spazio sopra ai jeans. «Lo fai già. Basta che non vai a letto con altre ragazze».
Gemette e si coprì il volto con le mani. «Oddio, scusami per come sono sbottato prima. Ma l’idea di te con qualcun altro…»
«Lo so» dissi e lui sospirò, poi tolse le mani dalla faccia e tornò a guardarmi con le sue iridi azzurre. «È normale».
«Non saprei, non ho mai avuto grandi riferimenti di cosa sia “normale” in una relazione». 
«Parli dei tuoi genitori?»
Annuì, fissando il soffitto come se riuscisse a vedere oltre. «Credo che non si siano mai amati neanche un giorno della loro vita». Il suo corpo era teso. Gli dissi di proseguire e ubbidì. «La loro relazione si basa sul semplice fatto che appartenevano alla stessa classe sociale, ai loro occhi almeno. Era mia mamma quella con i soldi e i suoi genitori non erano così contenti di farla sposare con il figlio del canottiere. Ma il club continuava a espandersi e attrarre clienti, così alla fine hanno ceduto. Mio papà ha ottenuto il capitale e mia mamma la “fama” nel paese, se così si può dire. Il perfetto investimento» commentò amaramente. «Con Ginny mio papà voleva che la storia si ripetesse. Lui lo ha detto a mia mamma, mia mamma ha cominciato a parlare con me dicendomi quanto fosse carina Ginevra e lo stesso faceva con lei quando io non c’ero. Lo sai che eravamo andati al mare insieme quell’anno, prima di fidanzarci?»
Le iridi azzurre si spostarono dal soffitto verso di me. Scrollai le spalle. «Non mi ricordavo».
«Ti rendi conto? Ero un ragazzino e la mia vita privata era parte di una macchina aziendale».
«Credevo fossi stato innamorato di lei, almeno all’inizio».
Piegò le labbra in una smorfia indecifrabile, poi allungò una mano, mi accarezzò la guancia e infilò le dita tra i capelli. «A quell’età, chi lo sa davvero cosa vuol dire amare? Ginny era una brava ragazza, ma non ho mai provato per lei quello che provo guardando te».
«Che adulatore».
«No, sono serio».
Il viso mi si scaldò al punto che temetti di sciogliermi. «Perché?» gli sussurrai.
Continuò ad accarezzarmi i capelli, il volto, le labbra, senza togliermi gli occhi di dosso. «Mi sento bene quando sto con te, quando penso a te. Sono in pace. Nulla è veramente terribile se so che mi guarderai ancora con i tuoi occhi enormi e mi abbraccerai e io potrò sprofondare dentro di te e dimenticare tutto il resto. Vorrei dire al mondo che sono la persona più fortunata tra tutte loro perché posso averti qui, tra le mie braccia, posso guardarti negli occhi, posso baciarti e nessuno di loro può fare queste cose».
Mi morsi le labbra e mi si inumidirono gli occhi. «Presto potrai farlo» sussurrai, senza sapere quando “presto” sarebbe arrivato.
 
 
 
A febbraio, dopo aver finito i pochi esami della sua sessione invernale, Sam cominciò uno stage presso un’importante azienda che si occupava di organizzare eventi per clienti di alto profilo.
Spesso andavo in città con lui e mi fermavo in università a studiare con Eleonora e altri ragazzi. Dopo pranzo prendevo la metropolitana e scendevo alla fermata successiva, così potevo bere un caffè nel bar dove lui pranzava. Sedevamo ai piccoli tavolini rettangolari, Sam mi raccontava cosa aveva fatto in ufficio e io gli riportavo le ultime novità dall’università. Eleonora era in crisi con Andrea perché lui voleva “provare nuove esperienze” e ogni giorno c’erano aggiornamenti che riferivo fedelmente durante quella pausa caffè.
A fine mese, dopo una giornata di studio particolarmente impegnativa, salutai Eleonora sulle scale della metropolitana e, quando raggiunsi la palazzina dove lavorava Sam, lo trovai già in strada. Stava parlando al cellulare, mi salutò alzando una mano.
«Sì, posso passare subito» stava dicendo, poi guardò l’orologio al polso. «Dammi cinque, massimo dieci minuti e sono lì».
Chiuse la chiamata e mi accolse con un bacio sulla guancia. «Devo fermarmi a prendere una cosa, ma faccio veloce, va bene?»
Annuii. L’alternativa era tornare in pullman da sola nel buio di quella sera invernale. Camminammo per poco meno di un chilometro, tra le vie pedonali strette da palazzi alti ed eleganti. Tutto era illuminato da vecchi lampioni che creavano un’atmosfera romantica ed enigmatica. 
Sam si fermò davanti a un portone e suonò il campanello. Si sentì un ronzio, poi con uno scatto il portone si aprì davanti a noi. Salimmo fino al terzo piano attraverso delle scale strette che ruotavano intorno alla gabbia dell’ascensore. Davanti a noi stava un corridoio con tre porte, di cui una era già socchiusa e una lama di luce filtrava dallo spiraglio. Sam si diresse verso quest’ultima e si affacciò all’interno chiedendo permesso. Gli rispose un ragazzo poco più vecchio di noi. Ci fece entrare in quello che pareva un appartamento scarsamente arredato e ci condusse attraverso le stanze. C’era una piccola sala-cucina che si affacciava su uno stretto terrazzo, poi un esiguo disimpegno conduceva al bagno e a una stanza arredata solo con un armadio a tre ante. Cominciò a parlare a Sam del vicinato, del supermercato in fondo alla strada, poi della caldaia e di come funzionava il piano a induzione.
«Perfetto, va benissimo» disse Sam. L’altro gli pose dei fogli e si appoggiarono al tavolo della sala-cucina per firmarli, poi lo sconosciuto gli lasciò un mazzo di chiavi, lo salutò e se ne andò augurandoci buona serata.
Rimasti soli, Sam mi guardò con un sorrisetto soddisfatto. 
«Io non ho capito» gli dissi.
«Non è molto difficile» mi punzecchiò. «Questo è il mio nuovo appartamento. E sei la benvenuta tutte le volte che vorrai fermarti a dormire».
Mi guardai attorno, esterrefatta. Nonostante le dimensioni modeste, si trattava di un posto di alta qualità: lo si vedeva dalle finiture dei mobili, dalla porta-finestre che conduceva al terrazzino e dal parquet che c’era in tutte le stanze. Ero senza parole.
«Stare in città mi fa risparmiare due ore al giorno e anche un sacco di benzina, quindi mio papà non ha avuto molto da ridire».
«Perché non me lo hai detto prima?»
Sam mi prese una mano e mi tirò verso di sé. «Volevo che fosse una sorpresa, non sei contenta?»
Annuii. «Certo che lo sono». Mi alzai sulle punte e lo baciai, poi, contro alle sue labbra, gli sussurrai che lo amavo.

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Capitolo 22
*** Primavera estate ***



Capitolo 21. Primavera estate


Eleonora lasciò Andrea in una mattina di metà marzo. Pianse per giorni. Veniva a lezione con gli occhi arrossati e gonfi e, quando spariva, sapevo che l’avrei trovata in bagno a soffocare i singhiozzi. Lo aveva lasciato perché era quello che lui voleva ma non aveva il coraggio di fare. Eleonora era più decisa di lui, ma anche più innamorata, così aveva chiuso una relazione già finita e si era spezzata il cuore da sola. Cercavo di tenerle compagnia nei momenti in cui la tristezza si faceva acuta. A volte uscivamo a cena insieme durante la settimana oppure andavamo al cinema, e poi mi fermavo a dormire nel nuovo appartamento di Sam. Ai miei genitori dicevo che stavo con un’amica, il che era una bugia solo a metà. Sapevano che c’era qualcosa tra me e Sam – sarebbe stato difficile ignorare l’auto che mi aveva portata avanti e indietro per tutto il primo semestre – ma non volevo suscitare domande invadenti. 
Ripresi a dare ripetizioni, cominciai a lavorare alla tesi, la primavera si fece sempre più calda fino a che fu estate. Festeggiammo il compleanno di Sam nel suo appartamento: io, lui e alcuni compagni di un’università, tutti stipati nella piccola sala-cucina. Mangiammo la pizza, qualcuno aveva portato un gioco alcolico, poi Eleonora ci convinse a scendere in piazza, perché c’era un concerto di band locali e suonavano alcuni suoi amici. 
Le strade della città erano affollate e rumorose. Superammo un ristorante con i tavolini all’aperto pieni di signori benvestiti che si godevano una cena a lume di candela. In un parchetto dei ragazzi ascoltavano la musica dalla cassa e parlavano a voce alta. Il concerto non era lontano, se ne sentiva il frastuono che invadeva le vie come onde di suono.
La piazza in cui avevano montato il palco era già gremita di persone. Qualcuno si dimenava a ritmo della musica, qualcuno si limitava a far ondeggiare la testa, altri spintonavano per avvicinarsi al palco e guardare la band da vicino. Ci fermammo nel primo punto abbastanza spazioso per contenerci tutti, accanto alla statua di una donna in abiti classicheggianti che guardava con aria risoluta il palazzo del comune.
La musica era carica, energica e martellante. Ballai insieme a Sam e agli altri ragazzi sotto un cielo senza stelle, bevvi vino da bicchieri di carta fino a che mi fece girare la testa.
A un certo punto della serata, mi guardai attorno alla ricerca di Eleonora e la trovai alle mie spalle, immobile, con lo sguardo vacuo fisso davanti a sé e le guance rigate dal mascara sciolto dalle lacrime.
«Cosa succede?» le chiesi, cercando di celare l’agitazione nella mia voce. Sicuramente altro panico non le avrebbe fatto bene.
Lei spostò gli occhi su di me e il viso le si contrasse in una smorfia di dolore. «Mi farà per sempre così male?» mormorò in tono affaticato. «Mi sentirò per sempre come se mi mancasse qualcosa?»
Capii che stava parlando di Andrea e scossi vigorosamente il capo. «No, queste cose passano e a un certo punto ci si dimentica del dolore».
«E ci si dimentica anche delle cose belle?» domandò con la voce incrinata dal pianto. 
Intuii che ero una pessima bugiarda e cercai di rimediare. «No, le cose belle rimangono, ma non farà più così male pensarci. Concediti del tempo per stare bene e abituarti alla tua nuova vita».
Eleonora mi fissò, tremando, e così l’attirai a me e la strinsi tra le braccia. Il suo corpo mi sembrò così sottile e fragile che avrei potuto spezzarlo se non avessi fatto attenzione. 
«Io non voglio innamorarmi di un’altra persona» singhiozzò contro la mia spalla. «Non voglio imparare le sue cose preferite e le cose che non gli piacciono e andare in vacanza e conoscere i suoi genitori e i suoi amici…»
«Shhh…» le sussurrai accarezzandole la schiena. «Adesso non vedi via d’uscita perché la tristezza rende tutto nero e brutto e ti sembra di essere in un baratro da cui non te ne andrai mai. Ma non è così. Nella vita si va avanti e, se qualcosa si rompe, lo si ricostruisce in modo che la prossima volta non capiti di nuovo. Tornerai a essere felice e sarà anche più bello di prima».
Si scostò quanto bastava per guardarmi con i suoi occhi bagnati impiastricciati di trucco. «Me lo prometti?»
Le sorrisi. «Promesso».
 
***
 
Giugno si aprì con una serie di giorni caldi e soleggiati. Eleonora avrebbe dato l’esame di Paleografia insieme a me all’inizio della sessione, così la invitai a stare a casa mia per studiare insieme. Il primo giorno studiammo diligentemente da mattina a sera, ma già il giorno successivo cominciammo a distrarci, a guardare la natura intorno a noi e a chiacchierare di altro.
Ci eravamo sistemate nella parte più alta del giardino, all’altezza dell’ultimo piano della casa – quello in cui viveva mia nonna e da cui si vedeva il lago. La mattina avevamo ripetuto appoggiate al tavolino di plastica sotto all’ombrellone dove mio papà faceva i cruciverba la domenica pomeriggio, ma dopo pranzo ci eravamo messe a sonnecchiare sulle sdraio, ognuna con i propri appunti in mano, accompagnate dall’assordante frinire delle cicale tutt’attorno a noi.
«Dovrei fare qualcosa per me stessa una di quelle cose che ti fanno dire “ok, non ho bisogno di nessun altro”» disse a un certo punto Eleonora. «In stile Mangia prega ama».
Capii che stava ancora pensando a Andrea e ai modi per convincersi che poteva vivere senza di lui.
«Vuoi andare a Bali?» le chiesi voltandomi a guardarla. 
Lei guardava il cielo limpido sopra di sé con occhi socchiusi. «Ma no, qualcosa di più abbordabile, ma con le stesse vibes».
«Tipo?»
«Che ne so, ci penso un attimo» sbuffò.
«Forse faresti meglio a pensare alla paleografia».
Scosse il capo. «Ma va, tanto quella mi adora. Me lo sento già che è un trenta».
Pensai che io non ero altrettanto fortunata e mi tornò subito la voglia di studiare, così ripresi a guardare gli appunti. Non durò a lungo. Mezz’ora più tardi Eleonora si mise seduta sulla sua sdraio e guardò in giù, dove c’erano la strada e il cancello.
«Sta arrivando qualcuno» disse allungando il collo per vedere meglio.
Mi raddrizzai anche io e sentii un rumore di passi che si avvicinavano. Dal sentiero che saliva fino al nostro rifugio sbucò prima un ciuffo di capelli scuri, poi un volto coperto da un paio di occhiali da sole, infine un corpo maschile coperto da una camicia rosa decorata da canarini gialli e un costume da bagno verde scuro che stonava del tutto con quell’improponibile camicia.
Riccardo era al terzo anno di Medicina e la vita da fuori sede lo aveva trasformato in un ragazzo magro e pallido. In quel momento portava sulla spalla un salviettone e stringeva in mano un grosso fascicolo ricolmo di fogli.
«Ditemi che almeno voi state studiando» disse. «Perché io a casa mia non ho fatto niente». 
«Mi dispiace deluderti, caro» replicò Eleonora ricadendo indietro sulla sdraio. «Qui soffriamo per le pene d’amore».
Riccardo rimase fermo davanti a noi, interdetto. «Tu e Sam vi siete lasciati di nuovo?» domandò.
Ele si raddrizzò con un’agilità che non le avevo mai visto e mi lanciò un’occhiataccia. «In che senso “di nuovo”?»
Mi sentii arrossire, mentre mio cugino decideva che quello era il momento di confondersi con il prato e stese per terra il salviettone per poi sdraiarsi sopra.
Aprii la bocca, ma non parlai subito. Non sapevo come articolare la mia risposta. Le cicale riempirono il mio silenzio per qualche secondo.
«La nostra non è stata una relazione molto lineare» dissi infine. Eleonora mi guardava con la fronte corrugata e gli occhi perplessi, in attesa. Il sole si fece improvvisamente più caldo e sentii il sudore che mi inumidiva la schiena sotto alla canottiera. «Quando eravamo al liceo Sam era fidanzato con Ginevra».
Riccardo si sollevò quanto bastava per vedere la reazione della mia amica e lei non lo deluse. Strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca.
«Quella Ginevra?» chiese esterrefatta.
Annuii, a disagio. 
«Però siete rimaste amiche, no?» continuò. «Lei come l’ha presa?»
Sentii la risata soffocata di mio cugino e lo guardai storto, poi mi rivolsi a Eleonora. «Lei non lo sa».
Lo stupore sul suo volto, se possibile, aumentò. «Perché non glielo hai mai detto? Non capisco».
Riccardo rise ancora, scuotendo il capo e decise di intervenire: «Si vede che non conosci Ginny».
Lei sbuffò, poco convinta e fece per tornare allo studio, ma i suoi occhi si illuminarono e li alzò rapidamente per cercare i miei. «Il cammino di Santiago» disse.
«Cosa c’entra?»
«Ecco cosa farò quest’estate per me stessa».
Risi e tornai a stendermi sotto il sole. «Contenta tu».
 
Per cena venne Ginny. La sentii suonare il campanello e poi i suoi passetti leggeri salirono lungo il vialetto. Il sole stava tramontando dietro alla montagna alle nostre spalle e il cielo era di un rosa intenso che si rifletteva nella striscia di lago che riuscivamo a vedere. L’aria era ancora calda ma non più afosa e anche le cicale avevano preso un ritmo più lento, quasi pigro, come se la lunga giornata le avesse stancate.
Ginny comparve davanti alle nostre sdraio, a pochi passi dal salviettone su cui Riccardo ripassava a pancia in giù. Indossava un vestito leggero color ciliegia e aveva legato i capelli scuri in una piccola coda. Non aveva mai visto Eleonora né si erano presentate, eppure la prima cosa che Ginevra disse fu: «Ma le zanzare non si sono ancora estinte qui?»
«C’è un giardino pieno di piante, è normale che ci siano» le risposi con semplicità.
Lei storse il naso e sventolò un braccio come per allontanare un insetto invisibile. «Che palle. Giù all’albergo sono sparite. Le uniche bestie infernali rimaste sono i turisti».
Vidi Riccardo voltarsi verso Eleonora e lei rise, poi disse, a voce alta: «Sì, ora capisco».
Ginny la guardò storta. «Capisci cosa?»
L’altra spalancò gli occhi e improvvisò: «Il senso della paleografia, sto studiando quello». Poi si alzò e le tese la mano: «Comunque io sono Eleonora».
«Ginevra» disse stringendole la mano.
Per cena ordinammo delle pizze e le mangiammo sotto al gazebo sistemato più in basso rispetto a dove avevamo finto di studiare durante il pomeriggio. Ginny sedeva soddisfatta in una nuvola chimica di spray anti-insetti, mentre intorno a noi bruciavano tre grosse candele gialle di citronella. 
Sopra al nostro tavolo ronzava una lampadina e il resto del giardino era immerso nella penombra. Finite le pizze, accumulammo i cartoni in un angolo del gazebo e Riccardo prese le carte da scala quaranta.
«Hai sentito di Giorgio e Elena?» mi chiese Ginevra mentre apriva le sue tredici carte.
Annuii, senza parlare, perché non sapevo quanto sapesse lei. Sam mi aveva raccontato che a marzo Elena si era finalmente confessata e, dopo le esitazioni iniziali, ad aprile era iniziata la sua relazione con Gio. Pochi lo sapevano all’inizio, ma era ormai passato più di un mese e la voce doveva essere giunta anche a Ginny.
«Non ce li vedo proprio quei due insieme» commentò la mia amica e poi fece una smorfia perché Riccardo pescò la carta che lei aveva appena scartato. 
Eleonora era incuriosita da quella conversazione anche se non conosceva i diretti interessati. «Perché?» chiese.
«Elena è una bella ragazza» rispose Ginny. «Ed è anche molto intelligente, secondo me potrebbe meritare di più».
«Anche Gio è un bel ragazzo» replicai pescando una carta dal mazzo. La infilai tra quelle che avevo in mano e ne scartai un’altra.
Lei mi rivolse uno sguardo ammiccante: «Lo sapevo che con quei ricciolini ti è sempre piaciuto».
Avvampai. «Ma… ma cosa dici?»
«Vedi come balbetti? Ammetto che ha fascino, ma il motivo per cui non vedo Gio con Elena – e neanche con te – è che non ce la fa a stare con una ragazza sola. Vedrai che si lasceranno entro la fine dell’estate, soprattutto se Gio va al mare con i ragazzi».
«Oh-oh» commentò Eleonora ormai appassionata alla vicenda. 
Riccardo alzò gli occhi al cielo e, sbuffando, chiese: «Cosa succede quando i ragazzi vanno al mare?»
Ginny si strinse nelle spalle e si prese qualche secondo per studiare le sue carte, poi mise in tavola un tris di re. «Non lo so. Diego non mi sembra abbastanza innamorato della sua nuova ragazza, Luca è talmente frustrato nella sua relazione che cercherà di sfruttare la sua libertà, Gio lo conosciamo tutti e Sam…» esitò qualche secondo e puntò gli occhi fissi davanti a sé, riflettendo. «Non saprei cosa potrebbe fare Sam». Si voltò a guardarmi: «Secondo te è gay?»
La domanda mi colse totalmente impreparata, il tè freddo che stavo bevendo mi andò di traverso e mi ritrovai a tossire come una dannata con gli occhi lucidi per le lacrime. Eleonora non fece neanche il tentativo di trattenersi e scoppiò fragorosamente a ridere. La sua risata tagliò la quiete del giardino accompagnata dalla mia improvvisa tosse.
Riccardo, che era riuscito a mantenersi più composto e solo un piccolo sorriso gli curvava la bocca, chiese a Ginevra: «Cosa te lo fa dire?».
Lei lanciò un’occhiata storta a me ed Ele, poi rispose: «Prima di stare con me aveva avuto molte storie e dopo… l’ho visto forse con una ragazza e più niente. Magari ha capito che in realtà è gay».
«Meg?» Eleonora attirò l’attenzione su di me sforzandosi di non scoppiare a ridere di nuovo. «Tu cosa ci dici?»
Cercai di non fulminarla con gli occhi e scossi il capo. «No, non credo lo sia».
Ginny mi studiò per qualche secondo, ma mi accorsi che si era persa nei suoi pensieri. Infine, scrollò le spalle. «In effetti» commentò, «forse no».

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Capitolo 23
*** Diventare grandi ***



Capitolo 22. Diventare grandi

 
Nel giorno del mio compleanno il cielo era di un azzurro turchino e si rifletteva nel lago appena increspato dietro la casa di Sam. Era una spiaggia piccola, poco frequentata. La nostra unica compagnia, quel pomeriggio, era stata un’anatra con la sua fila di anatroccoli piccoli e goffi.
Sam aveva terminato lo stage a inizio giugno e si era preso due mesi di pausa per concludere gli ultimi esami. Il suo capo gli aveva preparato un contratto di assunzione per la fine di agosto, quando sarebbe rimasta solo la tesi da fare. 
Eleonora, invece, era partita per il cammino di Santiago, che si era convinta a fare da sola. Mi ero offerta di accompagnarla, ma lei era stata irremovibile: ne aveva bisogno per riconquistare la propria autonomia. Così le scrivevo ogni giorno per assicurarmi che fosse ancora viva e lei mi rispondeva quando arrivava all’ostello. A parte i primi giorni, in cui mi era sembrata molto demoralizzata, a mano a mano stava acquistando maggiore sicurezza e serenità.
«Ho scritto una cosa» dissi a Sam, mentre ce ne stavamo stesi a prendere il sole con gli occhi chiusi e la schiena contro i sassi.
«Ah sì? Cosa?»
«Un racconto».
«Posso leggerlo?»
Presi lo zaino da sotto la mia testa ed estrassi alcuni fogli infilati in una busta trasparente, li separai dalla busta e glieli tesi. «È solo una bozza» avvertii, «e so che non è niente di che, giusto perché tu lo sappia».
Sam prese i fogli e li alzò sopra di sé, un rettangolo bianco contro il cielo azzurro. Cominciò a leggere con gli occhi strizzati per ripararsi dalla luce. Lo imitai e mi accorsi che una frase non suonava bene.
Gli indicai la riga. «Non mi veniva in mente la parola esatta e…»
«Meg» mi zittì lui. «Vai a fare il bagno e non disturbarmi».
Mugugnando mi alzai in piedi e presi il materassino sottobraccio. Mi bloccai a guardarlo, ma ripeté di lasciarlo in pace, così mi avviai controvoglia in acqua. Rimasi a mollo per mezz’oretta, con il corpo immerso e le braccia aggrappate al materassino per stare a galla. Fissavo la spiaggia, e Sam, di cui vedevo solo le piante dei piedi e il lungo braccio alzato in aria per tenere i fogli davanti agli occhi. Quando ebbe finito di leggere, risistemò i fogli nella busta di plastica, poi entrò in acqua e mi raggiunse con poche bracciate.
Lo guardai, in attesa.
«Mi è piaciuto» disse. «Era molto bello».
Mi sentii arrossire e un formicolio si diffuse a tutto il corpo. «Dici davvero?» 
«Certo. È intelligente come hai usato le metafore, perché un adulto le capisce mentre per un bambino rimane inafferrabile, ma risulta poetico».
«Oh» dissi soltanto per accettare quel complimento. «E ti sembra scritto bene?»
«Molto, ne hai altri?»
Sbattei le palpebre. «Altri racconti?»
Sam annuì e si passò una mano sugli occhi per togliere le gocce che stavano colando dalle sue ciglia. 
«Sì, ma dovrei sistemarli…»
«Potresti pubblicarli».
«In che senso?»
Sorrise. «Quanti sensi conosci? Intendo farci un libro».
«Ma dai» sbuffai e mi allontanai un po’ da lui, per poter contemplare quell’idea per conto mio. «Sono solo dei racconti».
Mi raggiunse rapidamente. «Ma sono belli, i bambini li adorerebbero e scommetto anche i grandi».
Non risposi. Appoggiai il mento al materassino e provai a immaginare come sarebbe stato pubblicare un libro, sapere che altre persone avrebbero letto le parole che avevo scritto. L’idea era emozionante.
Qualcuno lo chiamò dalla spiaggia. C’erano due figure poco lontano dalla riva, una alta e bionda e un’altra minuta con i capelli scuri. 
«Ah, cazzo. Mia mamma» disse Sam e si voltò per nuotare verso la riva. Uscì dall’acqua e, gocciolante, barcollò a piedi nudi suoi sassi fino a raggiungere le due figure sulla passerella di porfido. Mi mossi lentamente verso l’acqua bassa ma ero comunque troppo lontana per riuscire a seguire la loro conversazione.
«Mi ero dimenticata» sentii dire sua mamma. «Ti dispiace? Torno per cena».
Sam annuì, anche se la tensione del suo corpo mi faceva capire che era contrariato. La donna salutò l’altra figura più piccola e poi scomparve al di là della boscaglia. Sam disse qualcosa a sua sorella e lei si tolse i vestiti, rimanendo solo in costume. Era alta e ossuta, con la pelle abbronzata e i capelli castani che le arrivavano a metà schiena. Mentre lui controllava il cellulare, lei entrò in acqua e nuotò verso di me, lentamente, come per studiarmi. Quando fu abbastanza vicina mi sorrise. Io le sorrisi di riflesso e la salutai.
«Sei la fidanzata di mio fratello» disse, senza alcuna inflessione interrogativa. «La mamma e il papà pensano che lui esca con tante ragazze diverse, ma a me ha detto che in realtà è sempre la stessa».
«Lo spero» replicai e lei rise, dimenando le lunghe gambe sottili sotto la superficie dell’acqua. «Vuoi un po’ di materassino?» chiesi. Mi spostai sulla punta, dove c’era il cuscino gonfiabile, e allungai verso di lei l’altro capo. Fece due bracciate, con il mento verso l’alto, poi si aggrappò alla plastica colorata e si issò sopra con i gomiti.
Mi voltai a cercare Sam e vidi che era ancora al telefono.
«È arrabbiato perché la mamma si era dimenticata che oggi aveva il corso di yoga in città e lui pensa che la mamma faccia sempre troppe cose».
Spostai gli occhi su di lei. «Ed è così?»
Sollevò le spalle magre. «Forse, non lo so. A volte sì» strizzò gli occhi, poi ribaltò il capo indietro per bagnarsi i capelli. «Comunque mi chiamo Bianca».
«Io Margherita».
«Lo so».
Risi. «Cos’altro ti ha detto tuo fratello?»
Fece un sorriso furbo e pensai che con quel viso sottile e il naso lungo sembrava una volpe. «Che sei molto bella».
Risi ancora, scuotendo il capo, ma non riuscii a togliermi dalla faccia un sorriso di soddisfazione.


 
***
 
Mi laureai alla fine dell’estate, insieme a Eleonora. Ci spararono addosso i coriandoli di carta all’uscita dell’università e ci misero delle coroncine da principesse mentre facevamo le penitenze che ci avevano preparato in giro per il centro storico. Dopo l’aperitivo con i nostri compagni, organizzai una cena solo con i miei vecchi amici, sul lago. Erika portò Annalisa, Ginny venne con Carlo, Diego stava ancora con Anna, Luca con Chiara, mentre per Elena e Gio si era avverata la previsione di Ginevra e quindi nel frattempo si erano lasciati, così, per evitare di incontrarsi l’un l’altra, nessuno dei due si presentò. 
Venne anche mio cugino Riccardo, insieme a un amico che era ospite da lui in quei giorni. E ovviamente, c’era anche Sam. In città praticamente vivevamo insieme, ma lì, sul lago, eravamo solo amici. Ginny mi tormentò tutta sera con l’elenco di ragazzi single che conosceva e sfuggire dalle sue grinfie stava diventando sempre più difficile.
Sam – da vero stronzo – aveva deciso di darle corda e ogni volta che la mia amica suggeriva qualcuno, lui annuiva vigorosamente e aggiungeva qualcosa come: «Ho sentito che lui è particolarmente dotato, facci un pensiero Meg». Poco importava che lo fulminassi con gli occhi, anzi. Riccardo, che era a conoscenza di tutto, gli dava man forte e si spingeva a proporre ragazzi a cui Ginny non aveva pensato.
Riuscii a malapena a tirare un sospiro di sollievo e subito le lezioni ricominciarono. Mi ero iscritta alla magistrale che c’era in città, così la settimana dopo la mia laurea tutto tornò come prima. Io e Sam dormivamo insieme. Lui andava al lavoro, io andavo in università.
Ginny cominciò a tornare a casa più spesso in quel semestre e voleva che ci vedessimo. Era insofferente, demotivata e per la maggior parte del tempo non parlavamo dell’università, del futuro o dei nostri programmi. Ci limitavamo a passeggiare sul lago, o fare shopping oppure riposare davanti alla piscina chiusa dell’hotel. Sam approfittava di quei momenti per tornare a casa, ma, anche se non diceva nulla, sapevo che avrebbe preferito rimanere in città, solo io e lui.
Un sabato pomeriggio di fine novembre, mentre studiavamo nella biblioteca comunale, Ginny cominciò a sbuffare ogni volta che svoltava la pagina e in poco tempo si attirò le occhiate irritate delle altre persone nella sala. Le proposi di fare una pausa fuori. Presi due tè alle macchinette e la raggiunsi alla panchina che affacciava sul piccolo parco fuori dalla biblioteca. Era una giornata nuvolosa e fredda, con il cielo coperto di grigio e il paesaggio immobile intorno a noi.
«Come sta Carlo?» le domandai.
Lei soffiò sul suo tè, ne prese un goccio e poi fece una smorfia. «Sta bene, studia tanto, come al solito». Un anziano che portava a spasso il cane ci passò davanti e ci sorrise, poi riprese la sua camminata. Ginny sospirò. «Per noi è difficile. Tutti si laureano e noi rimaniamo invece in questo limbo in cui non sappiamo se ci laureeremo oppure no, e se anche sì in quanto tempo. Non è facile».
Piegai il capo per guardarla. «Ma cosa stai dicendo? Certo che ti laureerai. Lo capisco che sia frustrante non riuscire a vedere la fine, ma ti conosco. Sei la ragazza dei piani. Se ti sei messa in testa una cosa, la fai».
Ginny aveva lo sguardo perso davanti a sé e un’espressione poco convinta sulla faccia. Non l’avevo mai vista così spenta e demotivata. Si era fatta crescere la frangia e mi resi conto di come fosse spettinata quel pomeriggio. Mi accorsi che la mia amica, la bambina saputella e prepotente con cui ero cresciuta aveva lasciato il posto a una giovane stanca e vacillante. Non emanava più autostima da tutti i pori né pareva il tipo di persona dall’invidiabile vita perfetta, come quando eravamo al liceo.
«Vedi spesso Sam in città?» domandò di punto in bianco.
Deglutii a fatica. «A volte capita, ma ora ha finito le lezioni, quindi non così spesso».
«Sai se è fidanzato?». Si era voltata leggermente verso di me e mi guardava con la coda dell’occhio. 
Mi portai il bicchiere alle labbra e bevvi un sorso. «Perché?»
Lei scrollò le spalle. «Così, per curiosità. Lui non racconta mai nulla di sé. Abbiamo stabilito che non è gay, ma potrebbe essere sposato per quel che ne so».
Mi uscì una risata troppo squillante. «Quello non credo. Ma non l’ho mai visto con nessuna ragazza». Oltre a me.
«Chissà come sarebbe andata» mormorò. «Se non ci fossimo lasciati».
Sentii il mio cuore stringersi e gli occhi farsi lucidi, ma Ginny non proseguì oltre. Finì il suo tè, buttò il bicchiere e tornò svogliatamente a studiare. Io rimasi ancora qualche secondo sulla panchina, immobile. Sam era il suo chiodo fisso. Forse avrebbe smesso di amarlo, ma non avrebbe mai dimenticato com’era quando stava con lui, quando c’erano meno preoccupazioni e tutto sembrava facile e sfavillante. Per lei, Sam rappresentava quella vita che non sarebbe mai più tornata e sapere che non stava con nessuna ragazza – o almeno nessuna ragazza che lei conoscesse – credo la consolasse, la facesse sentire meno vicina al futuro che le faceva così tanta paura.
 
 
Incontrai Erika qualche giorno più tardi. Nei mesi precedenti ci eravamo viste in poche, fugaci occasioni. Era sommersa di lavoro e io ero sempre più in città, per cui era diventato difficile combinare i nostri impegni.
Ci incontrammo per una colazione sabato mattina.
«Qualche anno fa andavamo a camminare il sabato mattina» le dissi sollevando il mio cornetto farcito di crema. «Adesso ci abbiamo proprio rinunciato a stare in forma».
Lei rise. «In realtà Annalisa adora la montagna e andiamo a fare escursioni quasi ogni weekend. Puoi venire con noi se ti va».
«Temo vi rallenterei solo».
Le chiesi come andasse il lavoro e lei mi chiese di spiegarle nuovamente in cosa consistesse la mia laurea e cosa avesse di diverso rispetto alla triennale.
«Ho visto Ginny qualche giorno fa» le dissi. «Sembrava molto giù».
Erika alzò gli occhi al cielo e poi li riabbassò sul suo cappuccino. «Ginevra vive l’università come se contasse solo quello nella vita».
«Per lei è molto importante e studiare Giurisprudenza è impegnativo» commentai. 
«Sì, ma non è tutto» replicò. «Se già sta così quando studia come farà quando dovrà lavorare?»
Non dissi nulla. Sapevo che alcuni miei compagni non dormivano la notte prima degli esami perché non ci riuscivano. Altri sviluppavano malattie psicosomatiche durante ogni la sessione. Sapevo che ognuno reagiva in modo differente allo stress derivato dal timore di deludere le aspettative, di scoprire di non essere all’altezza, di fallire davanti agli occhi di tutti. Ma a Erika non dissi nulla di tutto quello. Non era qualcosa che potessi spiegare a parole. 
Dalla porta a vetri del bar entrò una ragazza dai capelli così chiari da sembrare bianchi e una pelle diafana.
«È arrivata Annalisa» dissi sventolando la mano in direzione della nuova venuta e vidi il volto di Erika illuminarsi.
«Ciao Meg! Come stai?»
Mi alzai in piedi per salutarla con due baci e il suo profumo dolce ci avvolse. 
«Bene e tu? Ti unisci per un caffè?»
Dopo averle assicurato che non disturbava, Annalisa aggiunse una sedia al nostro tavolo. Chiacchierammo ancora per una mezz’oretta, poi mi congedai e, quando uscii dalla pasticceria, percepii che qualcosa di ben più solido del vetro separava Erika da me.
 

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Capitolo 24
*** Capodanno in città ***



Capitolo 23. Capodanno in città
 

La città, di notte, era una ragnatela di luci che si dispiegava sotto di noi. Nell’aria c’era odore di tabacco e della sigaretta elettronica che Eleonora stava fumando accanto a me, appoggiata al parapetto che si affacciava sulla piscina e da cui si godeva di quel panorama.
«Certo che è una bella casina» commentò guardando il grande edificio in pietra alle nostre spalle che guardava verso la città sotto di sé. Il suo fiato si condensò nell’aria in una nuvola di vapore. Infilai il mento sotto alla sciarpa di lana cercando di scaldarmi.
La porta della dependance si aprì alle mie spalle e dall’interno venne il suono di gente che rideva e musica alta. 
«Forse dovremmo andare vicino al fuoco» dissi, indicando il braciere da cui si alzavano le fiamme. 
«Decisamente».
Accanto al fuoco la temperatura era più piacevole. Sentii il calore avvolgermi il volto come un panno caldo e sciogliere il gelo che mi aveva paralizzato i muscoli.
Poco lontano da noi, Sam era impegnato in una conversazione appassionante con Andrea, da quella distanza una sagoma con le spalle robuste e la testa rasata.
Mi piegai verso Eleonora e bisbigliai: «Come sta andando tra di voi?»
Lei guardò Andrea, che era scoppiato a ridere e si era piegato in avanti. «Bene, molto meglio anzi. Credo che la pausa ci abbia fatto bene, ne è valsa la pena aspettare». Aveva un sorriso sereno accennato sulle labbra. La loro relazione era ripresa da appena un mese, ma qualcosa – nel modo in cui si guardavano, in cui si parlavano – mi faceva pensare che questa volta sarebbe davvero durata per sempre.
La porta della dependance si aprì di nuovo e ci raggiunsero le note di qualche vecchio tormentone estivo.
«Mancano quindici minuti a mezzanotte» gridò Claudia, la padrona di casa, e ballò ondeggiando verso il fuoco, fermandosi vicino ai ragazzi.
«Ehi Sam» salutò mettendogli un braccio sulle spalle. 
«Ehi Claudia» rispose lui cordiale. Prima di uscire lo avevo guardato pettinarsi i capelli in morbide onde che si erano fatte più spettinate con l’avanzare della serata.
«La maggior parte dei Samuele che conosco si fa chiamare Samu, sei l’unico Sam».
«È perché sono cresciuto tra turisti stranieri»
Alzò le sopracciglia. «Ah, giusto. Non ti manca il lago stando qui?»
«Il lago mi manca sempre» i suoi occhi incrociarono i miei e sorrise, «ma anche qui non è male».
Eleonora mi pungolò con il gomito, per quanto possibile con gli strati di vestiti che avevamo addosso. «E tu?» chiese. «Sei fidanzata?»
Guardai Sam, che stava parlando del suo lavoro con Claudia. Vedere il suo volto e sapere che mi sarei addormentata guardandolo mi disorientava lo stomaco più dell’alcol. «Sì, credo di sì» risposi.
Eleonora sbuffò e scosse il capo. «All’inizio pensavo ci fosse solo attrazione fisica, ma basta trascorrere con voi un paio d’ore per capire che siete innamorati».
«Be sai… è stato complicato».
Lei mi scoccò un’occhiata storta. «Ginevra è abbastanza grande per farsene una ragione».
Strinsi le labbra. «So che è assurdo ma… credo che non sia ancora pronta ad accettarlo. Guarda ancora troppo al suo passato per credere che sia finito».
«Dille che è arrivato il momento di crescere e, se non le va, affari suoi. Tu non hai nessuna colpa».
Mi lasciai abbracciare nel modo espansivo ed energico che aveva Eleonora e quasi mi stritolò tra le sue braccia. Scoppiai a ridere.
 
 
Alle due di notte, mentre tutti ballavano ubriachi al piano terra della dependance, salii le strette scale di legno che conducevano verso il bagno, al piano superiore. C’era un’altra ragazza in coda nel corridoio, così rimasi appoggiata alla parete di fronte lei.
«Io non devo andare, sto solo aspettando la mia amica» mi disse con un’espressione poco sobria. Non le risposi, ma rimasi a fissarla cercando di capire dove l’avessi già vista. Aveva i capelli tagliati corti intorno al volto affilato e gli occhi di un verde chiaro. Indossava dei pantaloni di pelle e un top nero che le lasciava scoperta la pancia magra e il brillantino sull’ombelico.
Lei mi restituì lo sguardo, poi accennò un sorriso alticcio. «Sono Giada, ho fatto la triennale con Claudia. Tu come la conosci?»
«Anche io l’ho conosciuta all’università. È in corso con…» esitai un istante e Giada mi fissò in attesa, «con il mio ragazzo» conclusi.
«Oh, allora magari lo conosco. Come si chiama?»
«Samuele».
Nel momento in cui pronunciai il suo nome, il sorriso della ragazza vacillò e improvvisamente la riconobbi. Ci eravamo incontrate sul lago. Lei e Sam. Io e Ginevra. Era ancora alta e splendida come quando l’avevo vista per la prima volta.
La porta del bagno si aprì e la sua amica ne uscì barcollando. La salutò sventolando la mano e si diresse al piano di sotto. Giada non si mosse, rimase ferma davanti a me.
«Senti, non te lo dico per gelosia o altro, ma credo che forse dovresti saperlo» disse e il mio cuore accelerò. «Io e Sam ci siamo frequentati un po’ di tempo fa, prima che andasse a Budapest. Non so se le cose siano cambiate ora, spero per te di sì, ma all’epoca la nostra frequentazione era finita male perché lui non riusciva proprio ad aprirsi con me. Ci ho impiegato quasi un mese a farmi dire quale fosse il problema: era innamorato di un’altra». 
Trattenni il respiro, mentre lei si staccava dalla parete e si avvicinava alle scale instabile sulle sue gambe lunghe e snelle. Prima di scendere, tornò a guardarmi. «Mi ha detto che era una sua amica d’infanzia o una cosa del genere. Una del suo paese che conosceva da sempre, diceva che non riusciva a dimenticarla. È stato un po’ uno stronzo con me e all’inizio ci sono rimasta male, spero che con te vada meglio».
Sventolò la mano come aveva fatto la sua amica poco prima e, quando sparì giù dalle scale, smisi di trattenere il sorriso che le sue ultime parole mi avevano provocato.
 
Quando raggiunsi Sam, al piano di sotto, stavo ancora sorridendo. Stava chiacchierando con un ragazzo, che lo salutò non appena mi vide arrivare per lasciarci soli – se così si poteva dire in mezzo a quella calca. 
«Ho parlato con una tua amica» gli dissi, avvicinandomi abbastanza per potergli parlare a bassa voce. 
«Quale amica?» mi sussurrò nell’orecchio e il suo fiato mi fece rabbrividire.
«Si chiamava Giada» risposi e lo vidi sgranare leggermente gli occhi. «Mi ha detto che l’hai lasciata perché eri follemente innamorato di un’altra ragazza».
Le sue labbra si torsero in un sorrisetto. «Ah sì? Ha detto così?»
Annuii. «Un amore folle e disperato a quanto pare, proprio non riuscivi a dimenticarla».
Il modo brusco in cui inspirò poco dopo mi fece capire che quel sussurrare così vicini non lo stava lasciando indifferente. «Proprio patetico, vero?» mormorò.
Gli sorrisi. «Già. Posso consolarti, se vuoi».
I suoi occhi brillarono mentre cercavano i miei. «Ah sì?» ripeté.
Annuii, senza parlare, premendomi contro di lui. 
Mi afferrò un braccio. «La mezzanotte è passata. Possiamo andare a casa adesso, no?»
Gli sorrisi, mentre i brividi mi attraversavano la schiena e mi attorcigliavano lo stomaco. «Non vedo l’ora».
Salutammo in modo sbrigativo i nostri amici – che erano per la maggior parte comunque troppo ubriachi per capire – poi Sam guidò rapidamente giù dalla collina, verso le luci della città che si facevano sempre più grandi. Gli accarezzavo una gamba in modo poco discreto e lo sentii gemere più di una volta, mentre strizzava gli occhi per rimanere concentrato sulla guida. Allora spostai la mano sulla sua testa, affondai le dita tra i capelli e mi allungai per mordicchiargli il collo. 
Una manovra brusca mi informò che eravamo arrivati al parcheggio condominiale e Sam non aspettò di scendere dall’auto per stringermi il volto tra le mani e baciarmi, irruento e impaziente. 
«Entriamo» ansimai contro le sue labbra quando riuscii a staccarmi abbastanza per parlare.
Non se lo fece ripetere due volte. In un attimo fummo nel suo appartamento e appena la porta si chiuse alle mie spalle lui riprese a baciarmi mentre intanto le sue mani, smaniose e avide, mi toglievano i vestiti di dosso. Lo bloccai e mi occupai del suo maglione, che finì a terra raggiunto poco dopo dai suoi pantaloni. Mi sollevò e allacciai le gambe dietro alla sua schiena, mentre mi portava in camera e poi mi lasciava cadere sul letto, mettendosi sopra di me. 
“Ti amo” gridava ogni millimetro del mio corpo, la pelle sensibile, le dita sulle sue spalle, i capelli scompigliati e le labbra, così incollate alle sue, che a malapena respiravo e non riuscii a pronunciare ad alta voce quelle due parole.
 

 

Ciao!
Mi scuso per il ritardo di questa pubblicazione, ma non sempre è facile trovare il giusto tempo per la scrittura e quello che vi ruota attorno. Il capitolo è breve, ma prometto che il prossimo sarà più corposo e interessante ;) 
Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che sono arrivati fin qui e un grazie speciale a chi ha dedicato del tempo per recensire i capitoli. È veramente un grande incoraggiamento per me <3
A presto,
M. 

P.S.: vorrei provare ad essere più attiva anche su Instagram, dove a volte pubblico delle immagini/moodboard relative alle mie storie. Potete seguirmi qui! <3

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Capitolo 25
*** San Valentino ***



Capitolo 24. San Valentino
 
Il ristorante – prenotato da Sam – aveva l’aria di una vecchia osteria con i tavoli quadrati in legno scuro e le tovaglie di cotone ricamato. Le pareti nude lasciavano a vista la pietra grigia e i pochi mobili che arredavano la sala – uno scaffale di bottiglie di vino, una credenza sormontata da un imponente specchio – parevano appartenere a un’altra epoca. 
Ci fecero accomodare a un tavolo già apparecchiato per due, con una lunga candela bianca accesa tra i bicchieri. Guardai Sam mentre appendeva i nostri cappotti e tornava indietro per sedersi di fronte a me. Portava un dolcevita di color crema e degli eleganti pantaloni marrone scuro che gli calzavano a pennello, facendo sembrare le sue gambe ancora più lunghe e muscolose. Da quando viveva in città, aveva sostituito la vela e il canottaggio con la piscina e la corsa serale dopo il lavoro, così che non aveva perso il fisico da atleta. Quando mi fermavo a dormire da lui, a volte lo seguivo in piscina e nuotavo placida nella sua corsia mentre lui mi superava diverse volte. Nuotare in città era una sensazione completamente diversa. Adoravo stare immersa nell’acqua, ma le voci riecheggiavano sul soffitto rivestito di metallo e rimbalzavano verso di me, i bambini schiamazzavano nella piscina accanto, da lontano si sentiva la musica dell’acquagym e fuori dalle vetrate il cielo era scuro e tetro. In quei momenti, quando mi immergevo sottacqua, immaginavo di essere nel lago, in una di quelle spiagge semisconosciute in un giorno di giugno, quando sui sassi potevi trovare solo pensionati o mamme con i figli che avevano appena iniziato le vacanze estive. Emergevo, sognando di trovare un monte verdeggiante che scendeva ripido verso il lago e più su il cielo azzurro turchino. Invece, trovavo solo gli spalti vuoti e le sedie in plastica sbiadita.
«Quella ragazza mi sembra familiare» disse Sam guardando dietro alla mia testa. Mi voltai e seguii il suo sguardo, trovando una ragazza dai lunghi capelli biondi, con la frangetta aperta su un viso ovale color porcellana.
«È Annalisa» replicai e impiegai un secondo a riconoscere Erika nella persona seduta di fronte a lei. «Vado a salutarle».
Mi alzai e raggiunsi il loro tavolo con un sorriso. Non vedevo Erika da prima di Natale, quando ci eravamo incontrate insieme a Ginny per bere una cioccolata calda e aggiornarci sulle nostre novità. Sapevo che aveva da poco cambiato lavoro e mi aveva detto che si trovava bene, soprattutto per lo stipendio più alto, così per festeggiare aveva deciso di trascorrere Capodanno in montagna con la sua ragazza.
«Ciao Meg!» esclamò Annalisa quando vide che mi avvicinavo. «Cosa ci fai qui?»
Anche Erika mi salutò e notai che era vestita in modo particolarmente elegante, con una camicia verde scuro e un blazer nero appoggiato allo schienale della sedia. Aveva anche acconciato i suoi capelli e due treccine tratteneva il resto dei ricci scuri dandole un’aria più ordinata del solito. 
«Immagino per il vostro stesso motivo» replicai. «È San Valentino».
Erika lanciò uno sguardo alle proprie spalle e notò Sam dall’altro lato della sala, che alzò una mano in risposta. «Oh, giusto» commentò. 
Annalisa mi tolse dall’imbarazzo, continuando con lo stesso entusiasmo: «Che coincidenza che siamo capitati nello stesso ristorante. Noi lo abbiamo scelto a caso perché non veniamo mai in città, ma se tu sei esperta immagino sia buono».
Le dissi che anche per me era la prima volta e che lo aveva scelto Sam.
«Sono comunque fiduciosa, sembra uno che se ne intende» rispose con un sorriso. Era davvero bella, con quei grandi occhi verdi e i capelli chiari lisci e fini. 
Augurai a entrambe buona cena e tornai al mio tavolo. 
 
Sam insistette per pagare e non ammise repliche, così, mentre andava alla cassa, ne approfittai per raggiungere il bagno. Prima di uscire, controllai il mio riflesso allo specchio, sistemai il rossetto e tornai nella sala. Era ormai tardi e i camerieri stavano sparecchiando i tavoli e pulendo il pavimento. Il proprietario mi disse che “il ragazzo alto come una pertica” era uscito e mi aspettava fuori. Lo ringraziai, infilai il cappotto e mi diressi verso la piccola anticamera da cui si usciva in strada. Non avevo ancora aperto la porta, ma udii distintamente delle voci familiari che conversavano all’esterno. Accanto alla porta, una vetrata era schermata da veneziane che permettevano di guardare all’esterno senza che fosse possibile il contrario. Vidi Annalisa, che fumava seduta su una panchina dall’altro lato della strada pedonale, mentre Erika e Sam se ne stavano proprio fuori dal ristorante, uno di fronte all’altra.
«Quindi? Hai intenzione di fare sul serio?» stava dicendo lei.
Sam non si scompose. «Certo, pensavo fosse chiaro ormai».
«Non è che ne abbiate proprio parlato». Erika aveva un tono pungente, quasi provocatorio. «Come pensi di dirlo agli altri?»
«Qualcosa ci inventeremo»
Lei fece una risata di scherno. «Vi inventerete? O ti inventerai? Precisamente quanto è libera lei in questa storia?»
Anche tramite le veneziane, vidi la mascella di Sam contrarsi, ma la sua espressione rimase impassibile. Lo tradì solo la freddezza della sua voce: «Esattamente quanto è libera Annalisa rispetto a te e viceversa. Mi vuoi dire qual è il tuo problema con me?»
Lei lo trafisse con lo sguardo. Non l’avevo mai vista così scortese con qualcuno. Era sempre stata quel tipo di persona che cerca di metterti a tuo agio in qualsiasi situazione. «Lo sai benissimo» gli rispose. «Credi che ogni cosa o persona siano al tuo servizio. Non ci hai mai pensato a come stanno le cose per lei? A cosa potrebbe succedere?» scosse il capo e ancora le sfuggì quel suono che pareva scherno. «No, pensi solo a come portartela a letto, non ragioni su come questa relazione rovina la sua vita, o sbaglio?»
Sam rimase imperturbabile, ma dalla rigidità della sua posa era chiaro quanto fosse scocciato. «Sbagli. È libera di andarsene da questa relazione quando vuole. Evidentemente non vuole».
«È troppo accecata da quello che prova, è sempre stata cotta di te».
Sam fece una risata gelida. «È questa la considerazione che hai di una delle tue migliori amiche? Una ragazzina accecata e sciocca?»
«Penso che l’infatuazione la renda sciocca»
«Non è un’infatuazione».
Lei sbuffò, continuando a scuotere il capo. «Sì, come vuoi».
Dall’altro lato della strada, si avvicinò Annalisa. «Tesoro, perché non ti calmi?»
Erika prese un respiro profondo, poi tornò a guardare Sam. «Ho solo paura che Meg si faccia male. È sempre stata troppo buona. Lo sai anche tu come si è sempre comportata con Ginny». Fece una pausa e pensai che fosse sul punto di andarsene, perché si era voltata verso Annalisa, ma qualche pensiero le fece cambiare idea, perché si rivolse nuovamente a Sam: «Non sono poi così sicura di chi sceglierebbe tra voi due».
Lui non rispose. Si limitò ad affondare le mani nelle tasche del cappotto e alzò il capo verso il cielo nero, sbuffando una nuvola di vapore nell’aria. Approfittai di quel momento per uscire. Aprii in modo maldestro la porta, in modo da fare più rumore possibile e li raggiunsi come se non avessi sentito nulla. Ci salutammo tutti con un abbraccio, Sam fu estremamente cortese – benché freddo – con Erika e viceversa e, quando ci allontanammo per tornare al suo appartamento, nessuno dei due tirò fuori l’argomento.
Camminammo fianco a fianco attraverso le vie strette del centro storico. Quando arrivammo all’appartamento e Sam chiuse la porta alle sue spalle, mi sporsi verso di lui e lo baciai. Lui ricambiò il bacio, poi lo sentii ridere. «Aspetta, togliamoci almeno i cappotti prima».
Sfilai in fretta il mio cappotto e lo abbandonai su una delle sedie. Non volevo pensare. La discussione a cui avevo assistito di nascosto mi aveva creato un fastidioso batticuore che avevo bisogno di ignorare. E c’era un solo modo per farlo. Sam aveva appena appeso il suo cappotto all’appendino vicino alla porta quando tornai da lui e infilai le mani sotto al suo dolcevita. Lo sentii rabbrividire per via dei miei polpastrelli ghiacciati contro la pelle bollente, ma non mi respinse. Anzi si tolse il maglione e lo abbandonò da qualche parte, incurante, poi cominciò a sbottonare il mio abito mentre mi costringeva ad arretrare, verso la camera da letto. Camminai all’indietro, continuando a baciarlo e quando percepii con i miei polpacci il materasso del letto sentii l’ultimo bottone della scollatura che cedeva. L’abito scivolò a terra e io mi stesi sul letto. Si tolse da solo i pantaloni e mi raggiunse sul materasso.
«Sei bellissima» mormorò mentre mi baciava il collo. Sorrisi, godendomi quelle parole e i suoi baci.
 
***
 
Il primo sabato mattina del nuovo semestre mi svegliai da sola nel letto matrimoniale di Sam. Le ante della finestra erano rimaste aperte durante la notte e la luce si riversava accecante all’interno della stanza, riflettendosi sui mobili chiari. Lanciai un’occhiata alla sveglia sul comodino e notai che erano già passate le dieci, così scostai il piumone e lo sbalzo termico mi fece venire la pelle d’oca. L’appartamento era talmente piccolo che all’interno rimaneva sempre un piacevole tepore, così mi ero abituata a dormire in intimo. In più, adoravo stare con la pelle nuda a contatto di quella di Sam, perché, rimuovendo ogni strato, mi sembrava di poter stare più vicina a lui. 
Mi infilai la vestaglia e andai in bagno. Sentivo la voce di Sam provenire dalla cucina e immaginai che fosse al telefono. Mi sciacquai la faccia e constatai che la notte di sonno mi aveva fatto bene, perché le occhiaie mi stavano sparendo, poi mi spostai in cucina. Quando notai che c’era un’altra persona nell’appartamento, mi paralizzai sulla soglia. Al tavolo, insieme a Sam, sedeva Luca. Sotto il suo sguardo sconvolto, mi affrettai a chiudere la vestaglia con il volto incandescente. Cercai con gli occhi Sam, per ricevere aiuto, ma trovai solo un sorrisetto divertito. 
«Non preoccuparti» disse. «Gliel’ho detto».
Rimasi immobile, mentre Luca sbatteva le palpebre cercando di riprendersi. «Sì, ma è comunque strano vederti qui» commentò.
«Magari è meglio se mi vesto» riuscii solo a dire e mi rintanai in camera. Infilai una tuta al volo, dibattei qualche secondo con me stessa se fosse il caso di tornare di là oppure no, poi stabilii che in ogni caso il danno era fatto e tanto valeva non fare la maleducata.
Luca aveva portato delle brioches e me ne offrì una quando mi sedetti a tavola con loro. Gli bastò un’occhiata per capire che ero tesa, così mi sorrise e si passò una mano tra i corti capelli scuri. «Lo so che è un segreto, tranquilla».
«Ci siamo scambiati reciprocamente delle informazioni sensibili» aggiunse Sam, che nel frattempo si era alzato per prendere una spremuta dal frigorifero. Pescò un bicchiere dalla lavastoviglie, lo riempì e poi lo allungò verso di me. 
«Che tipo di informazioni sensibili?» domandai.
«Ha tradito Chiara».
Luca emise un verso che suonava come un gemito e si accasciò scompostamente sulla sedia. «Ma che cazzo, Sam, non dovevi dirlo a nessuno».
Lui sorrise, per nulla turbato. «Meg non lo dirà a nessuno».
Rassicurai Luca come lui aveva fatto con me. «Cos’è successo? Se posso chiedere».
Lui sospirò, si passò una mano sul volto, poi appoggiò i gomiti sul tavolo e si piegò in avanti, come se reggersi con la schiena dritta gli costasse troppa fatica. «Quando ero piccolo, ero molto legato alla figlia di amici di famiglia, poi loro si sono trasferiti a Firenze quando ero in terza media e non ci siamo più visti. Ora sono tornati sul lago ed Elisa – si chiama così – mi ha invitato da lei» esitò e il suo sguardo si perse nel vuoto. Era così assorto che pareva in trance, quasi fosse tornato a quel momento. «Non sapeva che fossi fidanzato e io non sapevo che fosse a casa da sola. È… è semplicemente successo». Ci guardò con aria colpevole, con il petto che si alzava e abbassava affannosamente. «Non saprei come spiegarlo meglio di così».
«Già» commentai. «Spesso le cose succedono e basta».
«Mi sento una merda verso Chiara. Il problema è che a me Elisa piace davvero, mi è bastato rivederla per ritrovare il legame che c’era tra di noi. Ma se lasciassi Chiara potrebbe avere un infarto». 
Sam sospirò. «La mia opinione la sai. Non sono un fan delle relazioni che sopravvivono per inerzia. Meg?»
Guardai Luca. Non lo avevo mai visto così fuori di sé. Si era appena fatto un’ora di strada solo per venire a chiedere consiglio a uno dei suoi amici. 
Gli rivolsi un sorriso incoraggiante. «Ci vuole del coraggio a chiudere, ma a volte è la cosa migliore. Senza guardarsi indietro».
Lui prese un respiro profondo e appoggiò la fronte al tavolo. Guardai Sam, che pareva a metà tra il sorpreso e il divertito da quella scena. Allungò una mano e sfiorò la mia accanto al bicchiere di spremuta. «Magari ti va bene ed Elisa sarà l’amore della tua vita».
Gli rispose un grugnito poco convinto. Sam prese ad accarezzarmi il dorso della mano, con un sorriso che mi faceva sciogliere il cuore. Erika e Annalisa sapevano tutto. Luca sapeva tutto. E il mondo non era crollato. Cominciavo a vedere un futuro per noi. Finalmente potevamo avere la vita che meritavamo, senza tutte le ansie e le paure che ci avevano accompagnato in quegli anni. Ma avrei dovuto immaginare che nulla si risolve con un colpo di spugna. Avrei dovuto capire che le soluzioni ai problemi vanno cercate, costruite e accompagnate.
Infatti, arrivò la festa di laurea e tutto precipitò.
 
 

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Capitolo 26
*** La festa di laurea ***



Capitolo 25. La festa di laurea


Sam si laureò a marzo e organizzò un’unica grande festa al club. I pochi compagni di università che sapevano della nostra relazione – tra cui Eleonora e Andrea – erano stati adeguatamente istruiti in anticipo perché tenessero la bocca chiusa. 
Il ristorante del club era chiuso per la sera, i tavoli erano stati disposti in una lunga tavolata dalla parte opposta rispetto alla grande vetrata che si affacciava sul lago, così che la maggior parte della sala fosse libera per chi volesse ballare o chiacchierare in piccoli gruppi. Sam indossava un completo color salvia che lo faceva sembrare un vero signore. Si era tagliato i capelli e li aveva pettinati in modo che le onde fossero appena accennate. Stava al centro della sala, circondato dai tuoi amici, e ascoltava Gio con un leggero sorriso che gli increspava le labbra. Per qualche secondo mi dimenticai di essere arrivata insieme a Ginny e Carlo e rimasi ferma ad ammirarlo, il centro focale di tutta la scena. Come attirato dal mio sguardo, Sam si voltò verso l’ingresso, mi vide e il suo sorriso si allargò. 
Mi avvicinai insieme ai miei due accompagnatori e il festeggiato salutò tutti con due baci sulla guancia. Quando fu il mio turno, appoggiò una mano sulla seta del mio abito dove si stringeva sul fianco e rabbrividii.
«Finalmente le hai tutte» disse Chiara, aggrappata al braccio di Luca. «Anche una seconda laurea».
Sam accettò i complimenti con aria imbarazzata, mentre io incrociavo lo sguardo di Luca. Scosse leggermente il capo e capii che non aveva detto nulla a Chiara. Strinsi le labbra, contrariata, ma lo sapevo che certe cose sembravano facili solo a chi non le stava vivendo.
Gio batté una mano sulla spalla di Sam. «Ti manca solo la ragazza, ma se anche preferisci un ragazzo guarda che a noi va bene…». Lui alzò gli occhi al cielo e l’altro non gli diede tempo di replicare. «Non biasimarci, non sai da quanto tempo non ti vediamo con una signorina».
Si intromise Diego, che quella sera era venuto senza accompagnatrice. «Magari è qui stasera e aspetta di essere presentata».
Distolsi lo sguardo dalla scena, a disagio, e mi concentrai sul cameriere poco lontano che stava servendo l’aperitivo da una grossa brocca colma di liquido rossastro. Per un secondo sperai che Sam si voltasse verso di me, mi prendesse per mano e dicesse che avevano sempre conosciuto la sua ragazza. Nulla mi avrebbe resa più felice.
«Nessuna signorina» disse Sam e il mio cuore mancò un battito. 
«Meglio così non vedrà in che stato sarai ridotto a fine serata» intervenne Luca, poi mi guardò, capì con un’occhiata quello che stavo pensando e pose fine alla conversazione. «Ma perché nessuno di noi ha ancora un bicchiere tra le mani? Sam, tu stasera non hai proprio scuse, forza, vai a prendere un Campari».
 
La sala si era rapidamente riempita e un’ora più tardi sedevo tra Eleonora e Ginevra per mangiare l’antipasto. 
«Ma Erika era invitata?» mi domandò Ginny mentre le passavo il piatto dei salumi. «Non ho neanche guardato se era nel gruppo».
Scrollai le spalle. «Lo sai che lei e Sam non si sono mai stati molto simpatici».
«Sì, ma si tolleravano a vicenda almeno. È stato maleducato a non invitarla».
Carlo le diede ragione. Quando mi voltai verso Eleonora per chiederle di passarmi la bottiglia di vino trovai i suoi occhi che già mi fissavano.
«Non so come tu faccia» mormorò mentre si allungava verso la bottiglia. 
«Già, neanche io».
Ci pensò lei a riempirmi il calice fino all’orlo. «Ne avrai bisogno».
Andrea, di fronte alla sua ragazza, le rivolse un’occhiata perplessa ma non fece commenti.
 
 
Prima del dolce uscii per salutare Eleonora e Andrea. Era già passata la mezzanotte, li aspettava un’ora di auto per tornare a casa e sarebbero partiti per Parigi la mattina successiva all’alba. Abbracciai la mia amica nella veranda del ristorante, poi salutarono Sam, che stava chiacchierando con alcuni amici fuori dall’ingresso. Io e lui ci scambiammo una rapida occhiata, poi tornò dai ragazzi con cui ero uscito. Rimasta sola, raggiunsi Diego e Ginevra che espiravano i fumi profumati delle sigarette elettroniche.
«Dov’è Carlo?» domandai.
«È rimasto dentro, voleva stare al caldo» rispose lei, avvolgendomi in una nuvola che sapeva di fragola. Diego fece qualche commento su quanto fosse stato buono il cibo e concordai con lui. 
Sentii la porta del ristorante aprirsi e poi una voce maschile. «Ehi Meg, non ti avevo ancora salutata».
A parlare era stato un ragazzo poco più alto di me, con i capelli lunghi spettinati e le guance arrossate per via dell’alcol. Impiegai qualche istante a riconoscerlo, perché non lo vedevo da tanto tempo. 
«Sono Matteo, ero il coinquilino di Samuele a Budapest» disse.
«Certo, mi ricordo» risposi con un sorriso e lo abbracciai per salutarlo. 
«Be’, ho messo su un po’ di ciccia adesso» rise, toccandosi la pancia. «Non mi stupisce se mi trovi cambiato».
Ginny fumava la sua sigaretta elettronica guardando il lago, ma notai che Diego stava rivolgendo uno sguardo strano al ragazzo. Fu la sua domanda a farmi capire quale fosse il problema. «Tu non c’eri quando siamo venuti a maggio, no?»
Matteo lo guardò sorpreso e scosse il capo. «No, no, io sono tornato a casa a inizio marzo».
«Allora forse ti confondi, Meg è venuta con noi a maggio»
L’altro rise. «Non mi confondo. E poi me lo ricordo come cigolava il letto di Sam quando c’era lei».
Avrei voluto che un fulmine mi colpisse in quel momento, disintegrandomi. Due paia di occhi esterrefatti mi fissavano. Anche se si trovava a qualche passo di distanza, Sam aveva seguito la conversazione e si paralizzò al suo posto, improvvisamente pallido. Ginny ci guardò, in attesa di una smentita che nessuno pronunciò.
«In che senso “cigolava”?» domandò con gli occhi affilati. 
Matteo era troppo ubriaco per rendersi conto di ciò che aveva provocato. «Be’, di certo non per giocare con le bambole, devo farti un disegnino?»
Ginny si rivolse a me e Sam. «Da quanto va avanti questa cosa?» chiese, glaciale. «Almeno da due cazzo di anni a quanto pare». 
«Aspetta, parliamone con calma, per favore» le dissi
Elena e Chiara passarono al nostro fianco e ci lanciarono uno sguardo perplesso, attirate dalle nostre voci alte. Ginny le guardò e mi indicò. «Ha fatto sesso con Sam e me lo ha tenuto nascosto».
Avvampai. «Possiamo parlarne in privato?»
«Ti sei scopata il mio ex ragazzo e ora vuoi renderla una cosa privata?»
«Non fare la bambina» sbottò Sam avvicinandosi e prendendola per un braccio. Lei lo fulminò e si divincolò fino a liberarsi.
«Non parlarle in quel modo» gli dissi.
Sam strabuzzò gli occhi. «E tu da che parte stai?»
Sentivo il panico che saliva dal petto, strozzava la gola e annebbiava la testa. «Non voglio che litighiamo».
«È un po’ troppo tardi per quello» rispose lui.
«Andate a ‘fanculo tutti e due, mi fate schifo» sputò Ginny e si allontanò rapidamente da noi.
Sam fece una risata, secca e amara, così fuori luogo da suonare agghiacciante. «Cazzo, mi ero dimenticato di questa cosa».
Avevo i nervi a fior di pelle. «Cosa?»
Mi guardò. I suoi occhi mi deridevano e disprezzavano allo stesso tempo. Il dolore allo stomaco si fece ancora più acuto. Stavo per vomitare.
«Che non sai vivere se non nella sua ombra. Mostra un po’ più di personalità, per favore».
Lo guardai, raggelata dalle sue parole e dalla freddezza con cui le aveva pronunciate. Fu lui ad andarsene, scuotendo il capo, nella direzione opposta rispetto a dove si era allontanata Ginny.
«Torno alla mia cazzo di festa di laurea» disse soltanto mentre mi lasciava sola.
Sprofondai sulla panca fuori dall’ingresso, troppo sconvolta per muovermi. Se qualcuno mi stava guardando in quelle condizioni, non mi importava. Tutto era crollato intorno a me. Li avevo appena persi entrambi. Il gelo delle parole di Sam ancora mi pungeva. 
Non potevo darmi per vinta. Mi alzai in piedi di scatto e il mondo prese a vorticare all’impazzata. Il rischio di vomitare si stava facendo sempre più serio. Quando la vista tornò stabile, vidi dalle vetrate che Sam era rientrato nella sala e stava parlando con alcuni suoi compagni dell’università come se nulla fosse. Dall’altro lato della sala, Ginny stava costringendo Carlo a infilarsi la giacca per andare via. Spalancai la porta e il chiasso della festa mi colpì come uno schiaffo in faccia. Barcollai all’interno, annaspando senza fiato. Carlo mi vide, disse qualcosa a Ginny, ma non ascoltò la sua replica perché mi venne incontro a rapidi passi con le sue gambe lunghe. Mi appoggiò un braccio intorno alla schiena proprio mentre sentivo che le gambe mi cedevano.
«Stai bene?»  chiese preoccupato. 
Sentii un rumore deciso di tacchi che percorrevano la sala. «Carlo allontanati immediatamente da lei e andiamocene da questo posto di merda». Ginevra guardava lui, ignorandomi platealmente, già avvolta nel suo trench color crema. 
«Ginny, per favore…» mormorai.
Avrebbe potuto insultarmi, invece non mi degnò di un’occhiata e ripeté al suo ragazzo quello che gli aveva già detto. Dissi a Carlo che stavo bene e che potevo stare in piedi da sola. Lo dissi in modo convincente, così lui tolse il braccio dalla mia schiena e, dopo avermi salutata, seguì Ginny attraverso la sala. Fu in quel momento che incrociai lo sguardo di Sam. Era duro, impenetrabile e sprezzante. La mia vista gli dava fastidio, provava odio verso di me e verso come mi ero comportata. Quello sguardo mi tolse il fiato e io mi ero già resa ridicola a sufficienza da non voler rimanere a subirlo davanti a tutti. Tornai fuori, nell’aria fresca della notte, e crollai nuovamente sulla panca. Finalmente il mondo la smise di ruotare, mentre la disperazione prese controllo delle mie facoltà mentali. L’alcol, l’ansia, il dolore avevano cancellato ogni razionalità residua e in quel momento avrei solo voluto stendermi su un letto e sparire.
Mi rialzai. Un passo dopo l’altro, andai verso la strada. Tutto era avvolto dal buio ad eccezione delle pozzanghere di luce sotto ai lampioni. Sentii una voce maschile chiamarmi ma non mi voltai. Non era quella di Sam. Dei passi mi raggiunsero e qualcuno mi prese delicatamente per un braccio.
«Aspetta» disse Diego. «Lascia che ti accompagni».
Mi guidò verso la sua auto, aprì la portiera del posto del passeggero e mi fece salire. Sentivo che le lacrime mi avevano imbrattato la faccia di trucco ma non avevo il coraggio di controllare nello specchietto.
Diego si mise al volante e uscì dal parcheggio. «Dove ti devo portare?»
«A casa» mormorai.
Guidò in silenzio per i primi tornanti e quando ripresi possesso nella mia lucidità, mi scusai per il mio stato.
«Non preoccuparti, Meg, davvero. Non è una cosa facile da reggere e, scusa se te lo dico, ma Sam si è comportato da vero stronzo».
Non risposi e appoggiai una tempia al finestrino, ma le vibrazioni dell’auto mi fecero venire mal di testa, così mi raddrizzai nuovamente.
«Una volta Gio mi aveva detto che pensava ci fosse qualcosa tra di voi, diceva che riusciva ad annusarlo nell’aria» proseguì Diego. «Gli ho detto che era una cazzata e invece salta fuori che aveva ragione lui».
Chiusi gli occhi e le lacrime incastrate tra le ciglia scivolarono lungo le guance. «Mi dispiace non avervi detto nulla per tutto questo tempo» mormorai. 
«Bah, non c’è problema. Insomma, capisco che fosse difficile da spiegare. Se ce lo aveste detto però avremmo provato a sistemarlo. E Ginevra ormai sta con Carlo da anni, dovrebbe farsene una ragione».
Scossi il capo. «Ginny sarà per sempre innamorata di Sam».
Mi rivolse uno sguardo preoccupato.
Gli sorrisi. «Lo so perché per me è uguale». Ginevra si era innamorata di un’idea, aveva amato il ragazzo ricco con cui poteva provocare l’invidia delle sue amiche adolescenti quando erano fidanzati. Anche io all’inizio mi ero innamorata di un’idea: il giovane carismatico che aveva guardato in giù, verso di me, e mi aveva considerata sua pari. Ma Sam era molto più di quello. Lo avevo amato per come ci guardavamo quando eravamo insieme. Lo avevo amato per il suo modo di scherzare e poi di sorridermi di sbieco, come se avesse detto qualcosa solo per me. Lo avevo amato perché mi bastava stare nella sua stessa stanza per sapere che sarei stata felice, perché era l’unica persona al mondo che mi avesse mai fatto provare quelle cose, l’unico di cui volessi sentire il parere e da cui volevo ricevere l’ultimo bacio prima di andare a dormire. 
Diego sbuffò e inserì la freccia per accostare accanto al cancello di casa mia. «Lo vedo che è un bel ragazzo, ma è sempre stato un po’ uno stronzetto pieno di sé, o sbaglio? Puoi fare di meglio, Meg».
Lo guardai, attraverso le lacrime, e non riuscii a trattenermi. «Stai parlando di te?»
Fece una risata imbarazzata e, anche al buio, lo vidi arrossire. «Grazie per il pensiero, mi lusinga davvero, ma sono fidanzato, ricordi? C’è di sicuro un ragazzo adatto a te là fuori».
Annuii, lo ringraziai per il passaggio e gli assicurai che ero in grado di salire i gradini verso la porta d’ingresso.
«Stammi bene, Meg» mi salutò e, quando chiusi la portiera, la luce all’interno si spense e il suo volto si confuse nell’oscurità dell’abitacolo.

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Capitolo 27
*** Tragedia sul lago ***



Capitolo 26. Tragedia sul lago

A volte mi capitava di considerare il mio anno a Milano come si considera un sogno. Un’esperienza evanescente, di cui ci si ricordano le sensazioni, ma i fatti sono incerti e imprecisati, e siamo incapaci di dire cosa sia avvenuto veramente e cosa no. 
Quando ricominciò il nuovo semestre, a marzo, le sensazioni spiacevoli che avevo provato a Milano tornarono a essere mie compagne giornaliere. Mi sentivo umiliata, abbandonata, e vagavo nel vuoto delle aule e dei corridoi senza mai percepire di essere nel posto giusto. Non avevo più visto Sam dalla sua festa di laurea. Ci eravamo sentiti al telefono, ma avevamo finito solo per litigare e così nessuno dei due aveva voluto tentare una seconda volta. Ginny non avrebbe mai più sopportato la mia presenza. Erika non riusciva a terminare una conversazione senza dire: «Io ti avevo avvisata fin dall’inizio». Eleonora iniziò un tirocinio a scuola a metà aprile e così mi ritrovai sola e infelice. Cercai di tenermi impegnata con le ripetizioni e lo studio, ma spesso passavo ore in biblioteca a fissare la pagina di un libro fino a che le lacrime mi rendevano impossibile distinguere le parole. “Sono una fallita” dicevo a me stessa mentre camminavo verso la fermata del bus e tornavo a casa nel traffico della sera.
Ora so riconoscere quali fossero i diversi problemi che affliggevano la mia esistenza in cui mesi, problemi che avevo ereditato da anni e anni di inerzia. Ero chiaramente troppo passiva nei confronti delle persone della mia vita. Lo ero stata con Ginny, e poi con Sam, al punto tale da annullarmi per poter stare al loro fianco. E, anche se non avrei mai voluto ammetterlo, quella non era l’unica cosa che loro due avevano in comune. Erano entrambi rigidi, incapaci di chiedere scusa e di perdonare spontaneamente. Sam, tanto quanto Ginny, sapeva chiudersi in una impassibilità marmorea e inscalfibile. Non lo incontrai per mesi e non ci scambiammo neanche un messaggio. Lo odiavo con tutta me stessa per come mi aveva lasciata alla sua festa e allo stesso tempo ardevo desiderando che tornasse da me. Lui, scoprii più tardi, pensava le stesse cose riguardo a me. Il tarlo insediato da Erika la notte di San Valentino aveva scavato creando un’inimmaginabile insicurezza dentro di lui e la mia prima reazione alla festa di laurea aveva confermato la sua paura: dal suo punto di vista, avevo scelto Ginny e non ero stata dalla sua parte.
Fu un incidente a far cambiare le cose. Era luglio e stavo studiando per gli ultimi esami nel giardino di casa mia. Mio papà aveva appena finito di tagliare le piante e si stava riposando su una sdraio al mio fianco, mentre scorreva le notizie sul cellulare e le leggeva con gli occhi strizzati. 
«“Tragedia sul lago”» disse ad alta voce. «Sai cos’è successo?»
Feci cenno di no e lui cliccò sull’articolo. «“Nella notte tra il 19 e il 20 luglio, durante una gita in barca due ragazzi del luogo sono stati travolti da un’imbarcazione di turisti stranieri, che ha poi proseguito la navigazione senza prestare soccorso. I due ragazzi, gravemente feriti, sono stati trasportati in elicottero in ospedale, grazie al pronto intervento della guardia costiera che stava pattugliando la zona. Coinvolto nell’incidente è il figlio di Vittorio Landi, proprietario dello storico ristorante e club di vela Il gabbiano.”».
Scattai in piedi, facendo cadere a terra i libri che tenevo sulle gambe. «Aspetta, rileggilo».
Lui eseguì. Non avevo capito male. Le parole erano quelle. 
«Dice dove li hanno portati?» chiesi, senza fiato. Ero madida di sudore. 
«No, immagino nell’ospedale più vicino».
«Posso prendere la macchina?»
Non ascoltai la risposta, e corsi in casa salendo i gradini a due a due. Superai mia mamma che stava pulendo il salotto e arrivai in camera mia. Infilai le scarpe, presi tutto il necessario e tornai correndo di sotto, verso il garage. Mentre guidavo, le mani mi tremavano sul volante e faticavo a respirare, come se mi si fosse posato un macigno sul petto. Mi ripetevo le parole dell’articolo in testa, cercavo di trovare la possibilità per cui avevo frainteso tutto. L’ospedale era a pochi minuti di distanza, lasciai l’auto in un posto a pagamento senza preoccuparmi del biglietto e mi affrettai verso l’ingresso.
C’era un solo sportello aperto e una signora di mezz’età mi guardava al di là del vetro.
«I ragazzi che sono stati travolti con la barca» ansimai avvicinandomi. «Dove sono?»
Lei mi guardò da capo a piedi. Le scarpe rovinate, i pantaloncini di jeans, il top e il costume che portavo sotto. «Non so nulla, cara. E se anche lo sapessi sarebbero informazioni riservate ai familiari».
Stavo già piangendo. «Ma io devo saperlo, per favore».
«Mi dispiace, cara. Puoi aspettare qui, se vuoi e quando si potrà ti farò sapere».
Esitai, ma lei non accennò a cedere, così mi lasciai cadere su una delle scomode sedie in metallo. Cercai di ricacciare indietro le lacrime e di prendere respiri profondi perché non riuscivo a smettere di tremare.
Sentii un suono fastidioso, ad alto volume, e mi resi conto che era la suoneria del mio cellulare. Lo schermo segnava “Riccardo”.
«Meg, hai visto la notizia?» chiese mio cugino.
«Sì, sono in ospedale».
«Sai qualcosa?»
Sospirai. «Non vogliono dirmi nulla».
«Che merda. Sei in città?»
«No, perché?»
«È lì che li hanno portati, non hai letto?»
Ero nell’ospedale sbagliato. 
Uscii di corsa e tornai in auto. Il viaggio fu infernale. Continuavo ad accelerare e frenare perché la strada era trafficata, ma non riuscivo a guidare con calma per l’ansia che mi stava divorando. Quaranta minuti più tardi vagavo alla ricerca di un buco in cui lasciare la macchina e lo trovai solo a un chilometro e mezzo dall’ospedale. Mentre correvo verso l’ingresso, mi arrivò un messaggio da Riccardo con lo screenshot di un articolo in cui diceva in che reparto erano stati portati. Questa volta non commisi l’errore di chiedere allo sportello, ma seguii i cartelli che conducevano al reparto. Ero terrorizzata, in panico e parlavo da sola per tranquillizzarmi. Mi dicevo che sarei salita, avrei dato un’occhiata attorno e che non aveva senso agitarsi prima del dovuto. 
Le infermiere non mi fecero accedere, ma dissero di aspettare nella sala ristoro del piano. Crollai sulla sedia, stremata, e mi concessi di piangere, in silenzio. Mi sembrava di impazzire. I pensieri si muovevano fulminei nella testa, scenari terribili si facevano sempre più realistici e mi sentivo svenire. Ripensai alla festa di laurea, cercai di immaginare vividamente la scena nella mia testa come se potessi fare qualcosa per cambiarla in quel momento. Immaginai di spalancare la porta del ristorante, attraversare la sala e raggiungere Sam, che indossava quello stupido completo color salvia, prenderlo per le spalle e dirgli che sceglievo lui, per sempre. Era sempre stato lui l’unica persona che volevo al mio fianco, fin da quando ero una sciocca bambina che sorrideva a ricreazione quando lui la salutava. Ma poi ero stata un’adolescente codarda e avevo lasciato che sfuggisse dalle mie mani. Volevo solo che tornasse da me e mi prendesse tra le braccia, come aveva fatto quella volta al campo estivo, quando ero caduta e mi ero sbucciata il ginocchio. Era da quel momento che aveva iniziato a essere il mio eroe e no, non avevo intenzione di rinunciare a lui, per quanto rigido, freddo e testardo sapesse essere, io conoscevo la verità, conoscevo il vero lui che si trincerava dietro alla facciata di arrogante distacco.
Ad un certo punto pensai di avere le allucinazioni quando vidi Sam camminare davanti a me. Portava la polo bianca del lavoro e dei pantaloncini blu. Quella visione mi terrorizzò ancora di più: stavo cominciando a vedere i morti.
Fu il rumore della macchinetta in funzione a svegliarmi. Le monete che cadevano e il ronzio della bevanda che scendeva. Mi sfregai gli occhi umidi e misi a fuoco la figura che si era chinata a raccogliere il bicchiere. Quando si voltò, capii che non avevo immaginato nulla. Stanco, con gli occhi gonfi e pallido in viso, c’era Sam. Era tanto sorpreso quanto me di vedermi.
«Sei vivo» mormorai tra i singhiozzi. 
«Cosa ci fai qui?» mi guardò, fermo con il bicchiere di carta in una mano.
«Ho letto degli articoli, dicevano che eri coinvolto nell’incidente».
Abbassò la testa e la scosse leggermente. «I soliti giornalisti del cazzo. Li ho solo soccorsi. Luca mi aveva chiesto di poter prendere una barca per portare fuori la ragazza…»
Si passò la mano libera sul volto. Pareva esausto. Si sedette al mio fianco e prese un sorso di caffè.
«Come stanno?» domandai.
«Sono entrambi incoscienti, ma Luca è quello messo meglio. Se non ci fosse stata la guardia costiera nei paraggi non ci sarebbe stato niente da fare».
Mentre beveva il caffè, mi disse che da quando Luca e Chiara si erano lasciati lei si comportava come una pazza e compariva ovunque nei momenti più improbabili. Lui aveva iniziato a uscire con la sua vecchia amica, Elisa, e aveva pensato che in mezzo al lago sarebbero stati tranquilli.
Appoggiai la testa al muro dietro di me e abbassai le palpebre. «Credevo fossi tu».
Finì il caffè e si alzò per buttare il bicchiere nel cestino della raccolta differenziata, poi si fermò di fronte a me, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloncini. «Siamo stati degli stupidi» disse e mi accorsi che stava piangendo.
Scattai in piedi e lo abbracciai, lui appoggiò la testa sulla mia spalla e ricambiò l’abbraccio. «Non facciamolo mai più, ok?» sussurrai.
Schiacciò il naso contro il mio collo e sentii il bagnato delle sue lacrime sulla mia pelle. «Scusami tanto. Sono stato un cretino e ti ho detto delle cose orribili. Puoi perdonarmi?».


 

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