Long Cold Winter

di Ghostclimber
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bad Seamstress Blues (Fallin' Apart at the Seams) ***
Capitolo 2: *** Gypsy Road ***
Capitolo 3: *** Don't Know What You Got (Till It's Gone) ***



Capitolo 1
*** Bad Seamstress Blues (Fallin' Apart at the Seams) ***


Shiao a tutti!
Non sono assolutamente emozionata, e sulla stessa lunga scia il cielo non è blu e l'acqua calda non è calda.
Onestamente adoro questa storia e adoro l'album su cui è basata, Long Cold Winter dei Cinderella. Ad ogni canzone corrisponderà un capitolo, e no assolutamente non è una scusa per riascoltarmele a ripetizione, ma che andate a pensare ahahaha (inserire meme con Bilbo Baggins che dice "No, no! ...e invece sì")
Comunque, spero vi piaccia, ringrazio l'utente di Tumblr che mi ha gentilmente fatto notare che Hanamichi appare in una rivista di basket nel manga Real, Hanamichi, non Rukawa, cosa che mi ha portato ad allucinare per venti minuti sulla domanda "CHE FINE HA FATTO RUKAWA?".
Chiedo scusa in anticipo alla Volpaccia maledetta per tutto il male che gli farò.
Battete un colpo se gradite, adesso la smetto di blaterare e vi lascio alla storia!
XOXO

 

Rukawa era finalmente a bordo dell'aereo, diretto in America. La terra del basket.

Il suo sogno si stava realizzando per davvero, e nemmeno Anzai aveva trovato altro da aggiungere quando aveva visto la lettera che Rukawa aveva ricevuto in risposta alla propria domanda di ammissione.

E nemmeno Hanamichi aveva potuto dire nulla.

Aveva solo chiesto, con una voce bassa e tremante che mal gli si addiceva, che cosa fossero esattamente loro, se c'era un loro, se Rukawa gli avrebbe telefonato.

Rukawa aveva risposto di no.

L'avrebbe chiamato, prima o poi, le possibilità che avesse dimenticato qualcosa da lui erano tante, e poteva aver bisogno che Hanamichi gli spedisse le sue cose. Ma la cosa su cui si doveva focalizzare era la necessità di inseguire il proprio sogno prima che arrugginisse.

Miyagi l'avrebbe aspettato all'aeroporto per dargli il benvenuto e aiutarlo nelle prime formalità, e gli aveva anche offerto un alloggio per i primi tempi: per un ritardo delle poste, Rukawa era dovuto partire con un preavviso di una settimana scarsa, e non avrebbe avuto il tempo di trovare una stanza con così poco tempo.

A Rukawa tremavano le mani, gli tremava il cuore. Gli pareva che una parte di lui stesse urlando per rimanere in Giappone, e quando l'aereo decollò, lo strappo alla bocca dello stomaco che accompagnò la spinta gli parve un macigno, prima premuto sulla pancia a mozzargli il respiro, poi sulla testa.

Una testa dura, la sua. Gliel'avevano detto in tanti, per ultimo Hanamichi. Rukawa vedeva ancora la sua sagoma, un po' curva, in controluce nella cornice della porta d'ingresso della sua misera casa, mentre glielo urlava a mo' di addio: “Hai una gran testaccia dura, Kaede!”

E poi, forse, un sussurro, qualcos'altro che Hanamichi aveva avuto troppa paura di dire ad alta voce, qualcosa che avrebbe annullato il suo smisurato orgoglio. Qualcosa che Rukawa aveva sentito spesso aleggiare nell'aria stantia della camera da letto di uno dei due, con l'odore del sudore e dello sperma che si mescolava a qualcosa di più atavico, a un afrore di panico, pesante, opprimente, come l'aria giallastra prima di un grosso temporale in arrivo. Qualcosa che Rukawa rifiutava di sentire.

Hanamichi era nel suo passato, ora, non nel presente e nemmeno nel futuro.

Nel suo presente c'era la hostess che proponeva ai passeggeri bevande calde, il viso distorto in una smorfia di plastica, immersa in una nube di profumo dozzinale che poco serviva a nascondere la sua stanchezza e la noia di dover sempre avere a che fare con lo stesso branco di stronzi stipati in una cassa da morto con le ali lanciata a chissà che velocità sopra al mondo.

Rukawa accettò un tè verde, che gli venne consegnato in una tazza di plastica: si sarebbe dovuto abituare anche a quello, come a tante altre cose, ma era pronto.

Sì, pronto.

E quella sensazione di cadere a pezzi, di sentire le cuciture della sua anima che cominciavano a tendersi, pronte a strapparsi, altro non era che il legittimo timore di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto.

Ma lui sarebbe stato bene.

Lui era Kaede Rukawa, e Kaede Rukawa ottiene sempre ciò che vuole. E ciò che voleva era andare in America, giocare a basket, diventare il migliore e stare bene.

Finì il tè, reclinò appena lo schienale del sedile e ai accomodò per un pisolino, ripetendosi i propri obiettivi come un mantra.

Andare in America.

Giocare a basket.

Diventare il migliore.

Stare bene.

 

Davvero?

 

Una voce aliena nella mente gli pose la domanda da un milione di dollari. Era una voce fredda e scettica, che non aveva bisogno di argomentare: aveva buoni polmoni e tutta l'intenzione di usarli, e tanto bastava per forzare la stretta rete del mantra di Rukawa.

Rukawa si abbassò la mascherina sugli occhi e decise coscientemente di ignorarla: andare in America, giocare a basket, diventare il migliore, stare bene.

 

Non sarà che hai paura? Chiese la voce. Rukawa, troppo impegnato ad addormentarsi per controbattere, scivolò nel sonno con quella stessa domanda che gli rimbombava in testa.

 

*****

 

Miyagi stava per uscire di casa, con almeno mezz'ora di anticipo sulla tabella di marcia: a breve sarebbe stato il compleanno di Ayako, e lui contava di passare in una gioielleria molto carina che aveva adocchiato e spedirle un paio di orecchini che era sicuro le sarebbero piaciuti da matti. L'avrebbe mandato all'attenzione della mamma di Ayako, così da non rovinarle la sorpresa se fosse arrivato prima del tempo.

Ma apparentemente l'universo aveva altri piani per lui: il telefono squillò mentre già aveva le chiavi di casa in mano.

In tutta fretta si scalzò le scarpe di dosso, tirandole via con le punte dei piedi, e agguantò il ricevitore al sesto squillo: “Moshi mosh… volevo dire, hello?”

“Ryochin,” disse una voce che Miyagi stentò a riconoscere.

“Hanamichi?”

“Senti, ti devo chiedere un favore.”

“Hanamichi, in Giappone sono le quattro del mattino, che ci fai ancora sveglio?”

“Non riuscivo a dormire,” rispose Hanamichi con una voce stranamente cupa, quasi umida, come se stesse trattenendo le lacrime, “Senti, mi puoi dire più tardi che Kaede è arrivato sano e salvo?”

“Certo, ma… Hana…”

“Lui non lo farà, ma io ho bisogno di sapere che è arrivato, che si è sistemato, che non è da solo.” Miyagi tacque per qualche istante. Evidentemente si era perso qualche passaggio.

“Ma certo,” rispose infine. Non era certo un sacrificio, e Hanamichi non sembrava nelle condizioni di rispondere alle domande che giravano in testa a Miyagi. Come, ad esempio, quando erano passati da “Volpaccia maledetta” a “Kaede” e poi dritti a Rukawa che non l'avrebbe chiamato, senza passare dal via.

“Grazie, Ryochin,” disse Hanamichi. Ora la sua voce tremava, scossa dalle lacrime: “Sei un vero amico.”

“Hana, stai…?” Miyagi si interruppe. Forse era vero che non esistevano domande stupide, ma uno stai bene in quel momento sarebbe stata una domanda che davvero ci provava, ad essere stupida.

“No,” rispose Hanamichi, “Ma non fa niente. Grazie ancora, e ciao.” Nient'altro, se non il segnale di linea libera, che mai a Miyagi era sembrato così deprimente, neanche quando restava al telefono ore con Ayako e poi doveva riagganciare, con il cuore pesante di nostalgia e il desiderio struggente di prendere il primo aereo disponibile e volare da lei.

 

Turbato e preoccupato, Miyagi si rimise le scarpe e uscì. Passò dalla gioielleria, comprò gli orecchini -a forma di gufetto, Ayako non era il tipo da cuoricini e cagate simili ma adorava i gufi- e organizzò la spedizione. Allegò una lettera d'amore lunga quasi quanto Guerra e Pace per Ayako, sperando vagamente che non fosse altrettanto pallosa, e due righe per Ishikawa-san, per chiederle di dare il pacchetto ad Ayako per il suo compleanno.

Dopodiché, si diresse in aeroporto ad accogliere Rukawa.

Arrivò appena in tempo, ma se anche fosse stato in ritardo Rukawa non se ne sarebbe accorto: dormiva letteralmente in piedi, camminava sospinto dalla folla e Miyagi dovette andare a recuperarlo e trascinarlo a viva forza al nastro dei bagagli.

Gli piazzò in mano una tazza di caffè doppio e lo scosse per svegliarlo. In automatico, Rukawa bevve un sorso; era quasi tenero da guardare.

Quando i suoi occhi furono aperti e vagamente a fuoco, Miyagi disse: “Welcome to the USA!”

Rukawa bevve un altro sorso di caffè, le labbra appena incurvate nel sorriso di chi ancora non ci credeva per davvero, e rispose: “Finalmente.”

 

*****

 

Rukawa si era accomodato nella poltrona letto che Miyagi aveva comprato nell'eventualità che qualche amico decidesse di fermarsi a dormire: ancora prima che la sua testa toccasse il cuscino stava già ronfando alla grande. Miyagi si concesse di guardarlo per un attimo, chiedendosi se mai avrebbe trovato le palle di parlargli e chiedergli che cosa cazzo era successo con Hanamichi, poi chiuse la porta della camera da letto e tornò in anticamera. Prese il telefono, compose il prefisso del Giappone e digitò il numero di Hanamichi, che teneva in una rubrica su una piccola mensola che aveva attaccato lui stesso con una quantità inspiegabile di colla per mobili.

“Moshi moshi?” Rispose la voce di una donna.

“Sakuragi san, buongiorno, sono Miyagi Ruota. C'è Hanamichi?”

“Sì, caro, non è ancora andato a lezione, ora te lo passo. Come va, laggiù in America?”

“Tutto bene, signora, grazie, ogni tanto riesco anche a capire le lezioni!” rispose Miyagi, fingendo allegria. La donna ci cascò e rise con gentilezza, poi Miyagi sentì il rumore della cornetta che veniva appoggiata e la sentì chiamare Hanamichi e dirgli di sbrigarsi se non voleva fare tardi.

“Ryochin?” rispose Hanamichi, la voce tesa di ansia.

“È arrivato, sta bene. È qui da me, lo ospito finché non trova un'altra sistemazione, adesso sta dormendo.” Hanamichi tirò un lungo sospiro di sollievo.

“Grazie, Ryochin, non so davvero come ringraziarti,” disse. Miyagi finse una risata, mentre brividi gelidi gli scendevano lungo la schiena: quello non era l'Hanamichi Sakuragi che conosceva lui. Dov'erano i proclami? Dov'era l'atteggiamento da rockstar a cui tutto è dovuto? Miyagi si ripromise di indagare, e si appuntò mentalmente di parlare con Ayako. Mito e gli altri gli stavano simpatici, ma gli erano sempre sembrato, forse a torto e forse a ragione, un po' troppo goliardici: si sarebbe sentito molto più tranquillo sapendo che Ayako era al corrente della situazione e che avrebbe fatto in modo di essere da supporto ad Hanamichi.

Mise giù, e quando si voltò, Rukawa era lì in piedi nel corridoietto, lo sguardo come sempre imperscrutabile. Miyagi si sentì gelare. Lui non sapeva un accidente, ma Rukawa ovviamente sì, e il suo “ciao, Hanamichi, stai su, mi raccomando” non doveva essergli passato inosservato.

“Ecco, io…”

“Te l'ha chiesto lui?” chiese Rukawa.

“Sì,” ammise Miyagi. Non c'era un altro motivo plausibile.

Rukawa annuì lentamente: “Sapevo che l'avrebbe fatto.”

“Senti, mi spiace,” disse Miyagi, “Mi ha chiamato due ore prima che arrivassi, e sembrava distrutto, e io…” si interruppe. Una scintilla aveva attraversato lo sguardo di Rukawa; lui era stato lesto a nasconderla, ma Miyagi era più veloce e meno piegato dal jet lag.

“Va bene così,” disse Rukawa, “Io non posso sentirlo. Non ancora.”

Si voltò per tornare in camera, e Miyagi fece un passo avanti: “Aspetta!” Rukawa si fermò, senza tuttavia girarsi a guardarlo.

“Perché?” chiese Miyagi.

Rukawa tacque a lungo.

Infine, rispose: “Non ancora.” Senza aggiungere altro, tornò a dormire.

 

*****

 

Ayako salì sul treno e si mise davanti al finestrino per provare una credibile espressione sorridente e spensierata.

Fallì miseramente.

La verità era che la telefonata di Ryota le aveva scombussolato tutto quanto: stando a quel che lui le aveva detto, c'era stato un qualche tipo di storia tra Hanamichi e Rukawa, e quella storia era finita brutalmente quando Rukawa era partito per l'America, due giorni prima.

Prima ancora che Ryota glielo chiedesse, Ayako stava già dicendo che sarebbe andata a trovare Hanamichi. Aveva sempre sospettato che tra quei due gatta ci covasse, e sapeva che Rukawa aveva la delicatezza emotiva di uno schiacciasassi; solo le informazioni iniziali erano bastate a farle intuire che Hanamichi probabilmente non era messo molto bene.

Messo da parte il progetto di sembrare serena, prese in mano il libro di studi sociali e attaccò il quarto capitolo. Nei restanti venti minuti di viaggio contava di riuscire a finire almeno la prima pagina.

Ci riuscì, più o meno: l'ultimo paragrafo cominciava a due righe dalla fine della pagina e continuava per metà della successiva, e Ayako decise di rimandare ad un altro giorno.

Scese alla fermata della Shonan University e si rese conto di non avere la minima idea di dove fosse Hanamichi: nel dubbio, chiese dov'era il campo da basket. Anche se Hanamichi non fosse stato lì, prima o poi sarebbe arrivato, ne aveva la certezza.

Ebbe fortuna: gli allenamenti erano già in corso e Hanamichi era lì, ad occupare il suo posto sotto canestro. Per qualche istante, Ayako si concesse di farsi scaldare il cuore dalla vista dello straordinario giocatore che Hanamichi era diventato: preciso, potente, nei dieci minuti a cui Ayako poté assistere non mancò un rimbalzo. Era sempre sotto canestro, tentò solo un tiro che pareva degno di entrare in un manuale e per il resto si concentrò sui rimbalzi.

Poi, il coach fischiò la fine degli allenamenti e Hanamichi si diresse verso la panchina per recuperare la borraccia e un asciugamano; Ayako scese dagli spalti e disse: “Ehi, Re dei Rimbalzi! Che spettacolo!”

L'espressione corrucciata di Hanamichi si distese in un sorriso sincero che fece venir voglia ad Ayako di lanciarsi in avanti e abbracciarlo: “Ayako san! Che bello vederti, che ci fai qui?”

“Ho saputo che sei uno dei giocatori di punta dello Shonan, volevo venire a vedere di persona,” improvvisò Ayako, sorridendo, “vedo che i fondamentali che ti ho insegnato hanno dato il loro bel frutto!” Hanamichi si accigliò.

“Hai parlato con Ryochin,” disse, senza neanche scomodarsi a porla come domanda.

“Beh, ecco…”

“Avrei dovuto immaginarlo,” disse Hanamichi, il viso distorto in una smorfia sofferente che non gli si addiceva, “Non ce n'era bisogno, davvero, sto… non ce n'era bisogno.” Ayako gli si avvicinò di un passo, un po' intimidita da tutti quei giganti che si avvicendavano alla panchina. Era diverso, quando non ne conoscevi neanche uno, soprattutto dopo un anno e mezzo a frequentare un'università femminile.

“Hanamichi, per favore… Ryota è bloccato dall'altra parte dell'oceano con uno che non parla se non a mugugni, e io lo so, lo so che ti ha probabilmente trattato da schifo prima di partire, perché non è capace di…” Hanamichi la bloccò alzando una mano, poi bevve un sorso dalla borraccia e si asciugò il sudore dalla faccia.

“Va bene, senpai,” disse, “posso permettermi un'oretta di stacco da tutto, però lasciami prima fare la doccia. C'è un konbini dall'altra parte della ferrovia, dietro c'è un parchetto. Vuoi aspettarmi lì?” Ayako annuì, parzialmente convinta che Hanamichi non si sarebbe presentato.

“A tra poco, allora,” disse Hanamichi, poi le rivolse un sorriso accattivante a beneficio dei compagni di squadra, e Ayako uscì.

 

Venti minuti più tardi, il paragrafo che cambiava pagina era andato, anche più o meno capito; un'ombra coprì Ayako dal solo che scendeva, e Hanamichi si sedette di fianco a lei.

“Cosa leggi?”

“Studio per l'esame di studi sociali, è una palla mostruosa ma l'esame è obbligatorio,” rispose lei, chiudendo il libro con gratitudine.

“Allora, che vuoi sapere?” chiese Hanamichi senza guardarla. Ayako lo guardò aprire una confezione di onigiri e azzannare il primo.

“Beh, ecco… in effetti… non sappiamo nulla,” ammise.

“In terza liceo, io e Kaede ci siamo circa più o meno quasi messi insieme,” disse Hanamichi, “Ci stavamo menando come al solito, un attimo dopo stavamo limonando. È andata avanti per un bel po', non la limonata in sé, la storia, poi neanche due settimane fa mi dice che parte per l'America e se ne va,” Hanamichi si ficcò in bocca il resto dell'onigiri, lo masticò alla meno peggio e deglutì, “Gli ho chiesto allora se stavamo comunque insieme, gli ho chiesto di chiamarmi e lui ha detto solo di no, quindi immagino…” Ayako ebbe la prontezza di riflessi di acchiappare al volo la confezione di onigiri. La appoggiò sul libro e si sporse in avanti per accogliere tra le braccia Hanamichi, che senza preavviso era passato dalla calma artefatta ad un fiume in piena di lacrime.

Lo cullò per tutto il tempo necessario, poi gli mise in mano un pacchetto di fazzoletti, recuperato in fretta e furia dalla borsa.

Hanamichi lo aprì con lentezza, le dita che tremavano, e il lieve strappo della linguetta adesiva sembrò risuonare nel vuoto del parchetto.

Ne estrasse uno, si asciugò gli occhi e si soffiò rumorosamente il naso, poi disse: “Questo è quanto. So che l'America è sempre stato il suo sogno, non ho intenzione di convincerlo a tornare, ma mi fa piacere se Ryochin ogni tanto mi chiama e mi dice come sta Kaede.”

“Hanamichi, stai…”

“No. Ma me la caverò, come ho sempre fatto,” rispose lui.

“Ti spiace se ogni tanto passo a trovarti?” Hanamichi, che si era chinato ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia, le mani giunte a tormentare il fazzoletto, si voltò appena per guardarla, un sorriso dolce e triste sulle labbra: “Basta che ogni tanto vieni anche alle mie partite,” rispose, poi guardò di nuovo verso il basso, distogliendo lo sguardo da Ayako, “Di questi tempi, il basket è l'unica cosa che mi fa stare bene.”

“Verrò,” rispose Ayako, appoggiandogli una mano sulla spalla.

 

*****

 

Rukawa rientrò dalla prima sessione di basket statunitense e si lasciò cadere di faccia sul divano letto.

Il cuscino non gli rendeva molto facile la respirazione, e da un lato Rukawa accarezzò l'ipotesi di restare lì fino a svenire; almeno, si disse, nasconde le lacrime.

Era stato un vero disastro.

All'inizio si era distinto: Miyagi gli aveva passato la palla e lui si era smarcato da quattro avversari in una discesa a canestro a suo dire impeccabile, per poi segnare con un tiro in sospensione.

Ma il coach non aveva cambiato espressione, non l'aveva raggiunto dicendo che lui sarebbe stato il nuovo Michael Jordan, neanche un bravo così per gradire.

E Miyagi non gli aveva più passato la palla.

Certo, altri compagni si erano messi in mezzo e un passaggio sarebbe stato rischioso, ma Rukawa sapeva che ne sarebbe valsa la pena, e Miyagi anche.

“Rukawa, vuoi una tazza di tè?” chiese Miyagi. Rukawa rispose con un mugugno soffocato. Non solo nessuno sembrava apprezzare le sue qualità, ma erano tutti velocissimi e francamente giganteschi; Rukawa col suo metro e ottantasette si sentiva un nano, e non aveva idea di come facesse Miyagi a destreggiarsi così bene.

“Ehi, ecco il tè,” disse Miyagi, e Rukawa si alzò a fatica per prendere la tazza. Gli bruciavano muscoli che nemmeno sapeva di avere.

“Senti, Rukawa… dobbiamo parlare di come hai giocato.”

“Nh,” rispose Rukawa, “Non mi hai più passato la palla.”

“Non fare il Genio della situazione, sai benissimo che non ti sei più trovato in una buona posizione per ricevere un passaggio,” rispose Miyagi, poi bevve un sorso di tè. Rukawa lo imitò, per mitigare il dolore che aveva sentito alla sola menzione di Hanamichi.

Ma perché, poi, doveva fare così male?

“Ma è anche perché il coach detesta il gioco così egocentrico. Se avessi continuato a passarti la palla, tu saresti passato a panchinaro, e forse per un po' pure io.”

“Lo sai che io gioco così,” rispose Rukawa, “E sai anche che vado a colpo sicuro.” Miyagi sospirò.

“Certo che lo so,” ammise, “Ma non è così che giochiamo qui. Qui non ci metterebbero due settimane a marcarti così stretto da farti dubitare di essere ancora in campo. E soprattutto, il coach non vuole che giochiamo così. Siamo qui per imparare a giocare, non per fare i fenomeni.”

“È così che la pensi?”

“È così che la pensa lui. E purtroppo è lui che decide se sei in squadra oppure no.” Rukawa rimase in silenzio per un po', e Miyagi attese, paziente, sorseggiando il suo tè e scrocchiando ogni tanto le dita dei piedi, coperti solo dai calzini.

“Quindi devo giocare di squadra?” chiese Rukawa.

Miyagi sospirò di sollievo: “Sì, esatto.” Rukawa borbottò qualcosa.

“Come? Non ho sentito.”

“Senza Hanamichi,” ripeté Rukawa, ad un volume ora udibile. Miyagi non seppe cosa rispondere.

“Puoi farcela, Rukawa,” disse infine, glissando sull'argomento caldo, “Sei il migliore, no?”

Rukawa annuì, poco convinto, e Miyagi se ne andò in camera a studiare.

 

Rukawa rimase immobile, la tazza ormai quasi vuota e decisamente fredda tra le mani, fermo a percepire solo il vuoto che Hanamichi aveva lasciato, il vuoto che lui stesso aveva creato lasciandolo così male.

Perché l'aveva fatto?

Finì il tè, che gli parve amaro quanto la lontananza da casa, posò la tazza sul tavolino e si coricò.

Si addormentò con Hanamichi nella mente, e sognò di essere con lui, a letto, a farsi le coccole dopo aver fatto l'amore. Hanamichi era disteso sulla schiena e Rukawa se ne stava accoccolato contro il suo petto, a giocherellare con i suoi capezzoli. Non parlavano, ma Hanamichi canticchiava qualcosa a bassissima voce e ogni tanto rideva tra sé, felice.

Poi, Hanamichi disse: “Qui hai un filo tirato.” Allungò una mano, prese un filo invisibile e lo tirò come per strapparlo, ma così facendo lacerò il fianco di Rukawa, che si risvegliò terrorizzato nella stanza buia, nel cuore della notte, ancora intero ma solo e dall'altra parte del mondo.

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Capitolo 2
*** Gypsy Road ***


Ayako aveva finalmente trovato il modo di portarsi in pari con lo studio a sufficienza da andare ad assistere ad una partita di Hanamichi, e intendeva proporgli un picnic.

Per poco non se ne dimenticò, di fronte allo spettacolo incredibile del suo gioco: era veramente diventato un fenomeno, e le sue doti di trascinatore, che allo Shohoku già avevano cominciato ad emergere, ora erano diventate un pilastro dell’intera squadra.

Stava già andando via, con la sua sporta per il cibo sottobraccio, quando si sentì chiamare: “Ayako senpai!”

“Oh! Hanamichi! È vero! Aspetta.” Ayako prese un grosso respiro, poi esclamò: “Hanamichi Sakuragi, sei stato fantastico! Io… io non ho parole, veramente, sei stato… waaah!” Hanamichi rise, la prima risata sincera da un bel po’, le mani sui fianchi e la testa alta come ai bei vecchi tempi.

“Senti, se non hai da fare ti va di fare un picnic insieme a me?” chiese Ayako, sollevando la sporta, “Intanto che ancora non fa così freddo.”

“Beh, ecco…” nicchiò Hanamichi, “Io veramente esco con un’altra persona, ma sono sicuro che non le dispiacerà se ti unisci a noi.”

“Davvero?” si stupì Ayako. Fino a un paio di settimane prima, Hanamichi sembrava completamente a pezzi; le sembrava assurdo che si fosse trovato qualcuno in così poco tempo.

“Sì, certo, anzi, secondo me ti piacerà un sacco, e poi… ah, eccola! Kikochan!” Ayako si voltò e vide una faccia quasi nota.

“Ohilà, Hanamicchan! Oh, ma tu sei… Ayako san, da quanto tempo!”

“Ehm, io non…”

“Ayako san, lei è Kumiko, forse te la ricordi dalle medie. È la cugina di Kaede.”

“Ah-ah-ah!” lo rimbeccò Kumiko.

“E va bene, la cugina del deficiente,” si corresse Hanamichi.

“Oh! Oh, sì, mi ricordo vagamente di te,” disse Ayako, “Non sembri più così timida.”

“Deformazione professionale,” ribatté lei.

“Ohi, non ti scoccia se Ayako si unisce a noi per pranzo?” chiese Hanamichi.

“Assolutamente no, possiamo parlar male del deficiente?” rispose Kumiko, una scintilla di astio nello sguardo. Ayako ridacchiò.

Hanamichi propose il parco Rokkokumiyama, e insieme si incamminarono. Durante il tragitto, si scambiarono convenevoli leggeri, e sia Kumiko sia Ayako si sperticarono di lodi per il gioco di Hanamichi, cosa che lo fece ridere parecchio, imbarazzato e inorgoglito.

 

*****

 

La vita di Rukawa era miserabile, non c’era un altro modo di dirlo.

Le lezioni erano a malapena comprensibili, aveva consegnato due tesine parziali che non era certo avessero senso e i voti che aveva preso riflettevano la sua impressione: doveva trovare un modo di alzare nuovamente la media, altrimenti gli avrebbero impedito di giocare a basket, addio borsa di studio e addio tutto quanto.

In panchina, fermo a gelarsi le chiappe mentre i suoi compagni di squadra erano in campo, Rukawa si chiese cosa diavolo ci fosse in lui che non andava: al primo anno di liceo aveva rischiato, ma durante il secondo anno si era fatto dare una mano e al terzo anno se l’era cavata allegramente da solo, tanto da chiedersi cosa mai gli fosse preso in prima per non saper nemmeno risolvere un’equazione di primo grado.

Ora, invece, anche con la matematica fuori dai giochi visto che si era iscritto ad un corso di veterinaria, sembrava tutto incomprensibile. Anche con l’aiuto del tutor che gli avevano assegnato, un ragazzo di origini giapponesi molto sveglio e molto disponibile, non riusciva a cavare un ragno dal buco.

E non riusciva a fidarsi.

Nemmeno di Shin, che si era offerto di seguirlo passo passo con le tesine; Rukawa aveva rifiutato sdegnosamente, sostenendo di potersela cavare da solo.

Nel frattempo, era ancora ospite di Miyagi, cucinava e puliva per sdebitarsi, e alla terza partita della sessione invernale ancora non era entrato in campo nemmeno per un paio di minuti. E la cosa peggiore era che, vedendo gli altri giocare, anche lui si sarebbe tenuto in panchina. Ma ora fumava, quasi letteralmente, di rabbia.

In campo contro i Thorne c’erano i Cougar.

La squadra in cui giocava Sawakita.

Rukawa prese il coraggio a quattro mani e andò dal coach: “Coach, mi faccia scendere in campo. È importante.”

Il coach non rispose per un minuto buono, poi chiese: “Importante per te o per la squadra, Rukawa?” distolse lentamente lo sguardo dal gioco e lo fissò nei suoi occhi.

Rukawa aveva la risposta, naturalmente, ma sapeva già che era troppo stupida per essere valida. Insistere l’avrebbe solo fatto stare in panchina per più tempo.

Si sedette di nuovo e cercò di concentrarsi sul gioco, ma non c’era verso: continuava a pensare a come si sarebbe comportato lui al posto di Jones, o di Pitt, o di Rosenbaum. A come avrebbe saputo interpretare il minimo segno da parte di Miyagi, una discesa a canestro mancata da parte di Pitt che lui avrebbe sicuramente portato a termine, invece di passare la palla a LaFayette che era già marcato e già stanco.

“Rukawa,” chiamò il coach, “Ascoltami bene, perché non mi ripeterò.” Rukawa sobbalzò: non si era accorto che il coach si era alzato per andare a sedersi di fianco a lui.

“Tu giochi bene. Hai talento, e si vede, non devi dubitare di questo. Ma nella mia squadra non c’è posto per un arrogante so-tutto che pensa di poter salvare la partita solo con la propria presenza. Qui non sei in Giappone, qui sei in America, e tutto è più grande. So che tu eri uno dei più alti della tua squadra, ed è normale che tu sia abituato a vedere il gioco facile, dall’alto. Ma qui non sei un gigante, qui sei quasi basso per giocare a basket. Io voglio vederti in campo, lo capisci? Ma non ti ci posso mandare, se pensi di poter giocare da solo con la squadra al tuo servizio.”

“Lo capisco, coach,” rispose Rukawa, lo sguardo annebbiato da lacrime di frustrazione che mai e poi mai si sarebbe permesso di versare.

“Sei disposto ad imparare? A provarci, qui, ora, contro i Cougar?”

“Sì, coach!” rispose Rukawa. Qualunque cosa pur di trovarsi di nuovo faccia a faccia con Sawakita e sbattergli in faccia il proprio talento.

“Forza, scaldati,” disse il coach, alzandosi di nuovo, “Tra due minuti entri al posto di LaFayette. Se mi dice un’altra volta che non è vero che fuma lo riempio di mazzate, guardalo, sta sputando un polmone.” Rukawa si alzò e si tolse la felpa; il movimento parve cogliere l’interesse dei giocatori in campo.

LaFayette si indicò, negli occhi uno sguardo esausto e speranzoso, e Sawakita fece un piccolo sorriso interessato. Miyagi, invece, annuì con aria fiduciosa, proprio come ai bei vecchi tempi dello Shohoku.

Mancava solo Hanamichi.

 

*****

 

Hanamichi si sentiva a suo agio con quelle due.

Ayako aveva preparato degli onigiri da sballo, e si era pure ricordata che il suo ripieno preferito era tonno e maionese, mentre Kumiko aveva portato le rimanenze della sera prima del ristorante in cui lavorava; per quanto ad Hanamichi facesse un po’ senso mangiare roba che era stata cucinata anche dal Capo Scimmione Uozumi, si era dovuto ricredere: era tutto gustosissimo.

Per uno che non sentiva il sapore del cibo da settimane, si disse un po’ mesto, era un gran progresso. Forse ce l’avrebbe fatta anche stavolta, rifletté, ma nemmeno lui riusciva a sentirsene convinto. La realtà dei fatti era che non si sarebbe sentito davvero bene fin quando non avrebbe avuto Kaede di nuovo tra le braccia; e ciò era quanto di più vicino ad un mai più che gli riuscisse di considerare.

“Forse è ancora troppo fresca,” disse, e non si accorse di aver parlato ad alta voce fin quando Ayako e Kumiko non gli rivolsero un corale “Huh?”

“Pensavo, che adesso sto bene, ma più tardi non lo so.”

“Ti manca Kaede,” disse Ayako, e non era una domanda. Hanamichi annuì e Kumiko gli mise in mano un dorayaki alla Nutella.

“Mangia,” disse, “E per adesso cerca di sentirti meglio che puoi.” Hanamichi le sorrise e diede un morso al dolcetto.

“Come mai vi sentite?” chiese Ayako, rivolta a Kumiko, “Non sapevo che vi conosceste.”

“Il Panda ha fatto mesi a portarselo dietro anche ai pranzi dalla nonna,” spiegò Kumiko, “Poi, dopo che è partito, ho telefonato ad Hanamichi per avere sue notizie, perché figurati se quell’idiota mi chiama a dirmi come sta, e lì Hanachan mi ha detto tutto.”

“Tu che ne pensi?” Kumiko fece spallucce: “Non saprei. Sul subito non ci volevo credere, pensavo che Hanachan mi stesse prendendo per il culo.” Ayako annuì.

Quello rafforzava la sua teoria che ci fosse qualcosa che proprio non andava.

Hanamichi, fingendosi disinteressato, e piacevolmente sazio per l’abbondante mangiata, si distese sulla schiena e chiuse gli occhi; pochi minuti dopo russava.

“Non mi torna, Ayako,” disse Kumiko, interrompendo un discorso frivolo sulla vegetazione del parco, “Non mi torna per niente.”

“Cosa pensi che sia successo?”

“Penso che Kacchan sia andato nel panico,” rispose Kumiko, a voce molto bassa, “Credo abbia pensato che… oh, non lo so. Che l’America era già una sfida abbastanza grossa senza aggiungerci il peso di una relazione a distanza. Lo conosci, sai che lui di suo si fa vivo solo se proprio non può evitarlo.”

“Hanamichi ci avrebbe pensato per tutti e due,” ribatté Ayako.

“Sono d’accordo. Ma credo che Kacchan abbia trovato una contro argomentazione negativa a qualunque obiezione positiva.”

“È davvero così spaventato?” chiese Ayako, abbassando ulteriormente la voce. Kumiko annuì: “E se tu potessi dirlo a Miyagi san mi faresti davvero un favore. Kacchan… lui non è come tutti. Lui ha bisogno… ha bisogno di affetto. E mi spezza che sia lontano e da solo.”

“Ryochan sicuramente capirà,” disse Ayako, mettendole una mano sul polso, “Glielo dirò e lui farà del suo meglio per aiutarlo, stanne certa. È una promessa.” Kumiko sorrise.

 

*****

 

La partita finì con una vittoria abbastanza brutale dei Cougars. Rukawa era stato in campo dieci minuti, e si sentiva al top: dei quarantun punti che erano riusciti a mettere a segno, diciassette erano suoi. I compagni di squadra l’avevano riconosciuto immediatamente come la punta di diamante che era e non avevano esitato a passargli la palla, mentre Miyagi aveva cercato di coprire il fatto che tutti stavano puntando su di lui evitandolo.

Sawakita era stato un problema solo per i primi cinque minuti: ripreso il ritmo, e riportate alla mente tutte le loro precedenti interazioni, Rukawa era riuscito a dribblarlo con successo, rendendo il proprio gioco imprevedibile. A volte passava, a volte si smarcava e scendeva a canestro da solo: non si preoccupava dei passaggi, tanto aveva capito che la palla sarebbe tornata da lui, alla fine.

I ragazzi parlavano di organizzare una festicciola di consolazione, e Jones si occupò personalmente di invitare anche Rukawa; per quanto non fosse il tipo da feste, Rukawa accettò: dopotutto, era stato in campo, era l’eroe anche se quella particolare avventura si era conclusa con un insuccesso. Riteneva, a torto o a ragione, di essere il motivo per cui i Thorne non si erano dovuti ritirare a metà gioco per manifesta incapacità.

Persino il coach aveva fatto i complimenti a tutti per il buon gioco che erano riusciti a mantenere, nonostante la schiacciante superiorità dei Cougars, e aveva promesso loro allenamenti spaccaossa in vista del prossimo incontro, che non sarebbe stata un’amichevole, ma una vera e propria partita di campionato.

Rukawa sentì le prime stilettate di panico coglierlo sotto la doccia, mentre i compagni di squadra cantavano tutti insieme Cotton Eye Joe; non riuscì nemmeno a ridere quando Rosenbaum sfoderò un falsetto da Britney Spears per la strofa con voce femminile.

Se quella era un’amichevole, giocata come un’amichevole, come sarebbe stato in campionato? I suoi ricordi tornarono al primo anno di liceo, all’amichevole contro il Ryonan e alla successiva partita di campionato. Era stato come affrontare due squadre diverse, e grazie al cielo lo Shohoku era effettivamente una squadra diversa, altrimenti avrebbero perso malamente e il campionato nazionale l’avrebbero guardato da casa, col culo che bruciava. E la prima volta, all’amichevole, avevano perso di strettissima misura, non di venti punti.

 

Uscì per ultimo dallo spogliatoio; Miyagi gli aveva detto che l’avrebbe preceduto a casa per fare un colpo di telefono ad Ayako. Il coach era ancora seduto a bordo campo, e prendeva appunti sul suo blocco; Rukawa sentì una potente ondata di nostalgia per i tempi in cui era ancora allo Shohoku, vicecapitano della squadra di basket, e uscendo dallo spogliatoio trovava Anzai e Miyagi che discutevano, mentre Ayako prendeva appunti per gli allenamenti del giorno dopo.

Gli parve ora che quelle giornate fossero luminose, tranquille pur nell’esuberante routine dello Shohoku, notoriamente la squadra più casinista della prefettura. Gli sembrava di sentire l’odore dei ciliegi in fiore fuori da scuola, quel profumo caratteristico delle belle giornate di primavera, quando il sole comincia a prolungare il proprio addio serale e l’aria resta calda e fragrante sempre più a lungo, in maniera quasi percepibile da un giorno all’altro.

Gli sembrò di aver barattato la promessa della propria felicità per un sogno che si stava dimostrando troppo grande per lui.

“Coach,” chiamò.

“Ah, Rukawa, proprio te cercavo,” rispose lui, terminò di scrivere un appunto e rimise il cappuccio alla penna: “Come pensi di aver giocato?” Rukawa cercò le parole e un’accurata traduzione prima di rispondere.

“Per il livello del gioco, bene. Ma come ha detto lei, questa era solo un’amichevole.” il coach si girò di sbieco sulla sedia e gli fece cenno di sedersi sulla panchina.

“Mi ricordo… in prima liceo. Abbiamo fatto un’amichevole contro un’altra squadra. È andata abbastanza bene, abbiamo perso per un paio di punti. Poi li abbiamo incontrati di nuovo in campionato e…” Rukawa si morse un labbro, poi ammise: “Non sembravano nemmeno la stessa squadra. Abbiamo vinto solo perché avevamo in squadra un talento che è migliorato esponenzialmente e…” Rukawa dovette deglutire alla sola menzione di Hanamichi, “E Miyagi, e un altro giocatore di altissimo livello.”

“Hai capito, ora, quanto dovrai migliorare?” chiese il coach. Rukawa annuì: “Lavorerò sodo, coach, glielo prometto.”

“Molto bene,” fu la risposta, “Ora vai, i tuoi compagni ti aspettano a quella festa di cui non sono assolutamente al corrente.”

“Sì, coach.”

“E, Rukawa?”

“Nh?”

“Ti sfiancherò fino a farti rimpiangere di essere nato,” disse il coach, “Ma, Dio mi è testimone, farò di te un giocatore da NBA.” Rukawa sorrise, si inchinò e poi corse via, felice.

 

*****

 

Quando rientrò a casa, Miyagi stava mettendo giù il telefono.

“MERDA, è tardissimo!” gli urlò in faccia.

“Ma se hai appena messo giù il telefono,” disse Rukawa.

“Sì, ma ecco, Ayako aveva un sacco di cose da raccontarmi, e io pure, ah tra l’altro sei stato bravo oggi, ma dove diavolo ho messo le scarpe, mettiti un paio di jeans e un maglione che qui non ti vogliono vedere in divisa anche quando siamo a cazzeggio, comunque una cosa tira l’altra, e poi lei mi manca davvero da morire, non immagini quanto, e non vedo l’ora che sia Natale che torno a trovarla, e… oh, aspetta.” Miyagi sporse la testa fuori dalla porta: stavano in un ex hotel riadattato a dormitorio, e molti altri ragazzi della squadra abitavano lì.

“LAFA CE L’ABBIAMO QUALCUNO CHE PORTA LE BIRRE?”

Dal corridoio venne la voce di LaFayette: “No, stasera solo Fanta e acqua naturale, e da mangiare hummus vegano, ma per chi mi prendi, muso giallo?”

“Volevo solo essere sicuro, sai che non sopporto il tuo culo del Maine da sobrio!” Miyagi rientrò nell’appartamento, “Scusa, dicevamo?”

“Dicevamo che io sono pronto, tu?”

“Pronto anch’io, possiamo andare.” Rukawa si sentì improvvisamente in trappola. L’ultima cosa al mondo che voleva fare era andare a una cazzo di festa, si sentiva vecchio nelle ossa e aveva la curiosa, agghiacciante impressione che quella giornata fosse troppo bella per essere vera. Voleva tornare a casa, ma la strada per poterlo fare era lunga e tortuosa.

Gli mancavano le strade di merda di Kamakura, gli mancava correre in riva al mare tra i relitti e le carcasse di pesci arenati, gli mancava quel catorcio coi freni lisi che osava chiamare bicicletta, gli mancava quella spostata di sua cugina e gli mancava Hanamichi.

Voleva pronunciare il suo nome, ripeterlo a se stesso come un mantra finché lui non si fosse materializzato in quella stanza in cui tecnicamente lui non poteva stare, voleva sentire di nuovo i suoi baci sulla pelle, e le sue dita che gli solleticavano il palmo della mano, un giochetto così sciocco eppure così bello quando era lui a farlo.

Mentre Miyagi già si stava girando per uscire, Rukawa lo prese per un braccio e disse: “Ehi.”

“Sì?” chiese Miyagi. Rukawa esitò. Non aveva pronunciato il suo nome per due settimane, ma sperava che dirlo ad alta voce l’avrebbe fatto sentire meglio.

“Hai notizie di Hanamichi?” chiese. Gli parve di essersi appena buttato da un elicottero, con lo zaino della merenda al posto del paracadute.

Miyagi aprì la bocca, stupito, poi il suo sguardo si addolcì e disse: “Ayako è stata a una sua partita, ieri, ha detto che è una bestia, in senso buono. Poi hanno fatto un picnic con anche… non mi ricordo il nome, comunque tua cugina.”

“Kumiko. È una tua fan,” disse Rukawa, molto a sproposito.

“Beh, le manderò l’autografo,” rispose Miyagi, “Comunque…” esitò, “Hanamichi sta soffrendo molto la tua mancanza.” disse.

“E io la sua,” rispose Rukawa, in un barlume di sincerità che si affrettò a dissimulare.

“E allora perché, Rukawa? Perché l’hai lasciato?” Rukawa non rispose, e fu salvato dall’entrata trionfale di LaFayette, che non solo non aveva il minimo senso della privacy, non solo aveva una cassa di birra davanti ai piedi, ma stringeva anche una bottiglia di gin in una mano e una di vodka, insieme a una sigaretta ancora spenta, nell’altra.

Si atteggiò a ragazzina indifesa: “Non è che qui c’è qualche bel maschione che mi aiuta a portare queste cose tanto pesanti?” chiese, sbattendo le ciglia. Uno spettacolo atroce.

“Ci pensiamo noi,” disse Miyagi, e insieme a Rukawa trasportò la cassa di birra, mentre LaFayette li precedeva fumando una sigaretta.

Anche Hanamichi a volte fumava, rifletté Rukawa, e il sapore di sigaretta sulla sua lingua non mancava mai di farlo eccitare, per motivi non meglio precisati.

“Miyagi,” chiamò a bassa voce.

“Sì?”

“Non ancora.”

 

*****

 

Hanamichi si coricò, esausto.

Era stata una giornata bella ma stancante, tra la partita e il pomeriggio che chissà come si era trasformato in una sessione di shopping.

La sua mente, traditrice, andò alle prime partite che aveva giocato all’università, quando ancora Rukawa era in Giappone e i suoi unici impegni erano allenarsi e imparare meglio l’inglese nella speranza che qualche università rispondesse alle sue lettere.

Era stato un periodo di sospensione, con Hanamichi che da un lato sperava davvero che il sogno di Kaede si realizzasse, e che dall’altro non poteva che sperare che lui restasse, che ricevesse solo rifiuti e si iscrivesse anche lui ad un’università locale, possibilmente la stessa sua, e decidesse che loro due bastavano a fare una bella vita.

Eppure, era stato anche un periodo deliziosamente intenso, con loro due che passavano insieme ogni momento libero, quasi stessero inconsciamente cercando di mettere da parte il maggior numero di cose belle possibili, da conservare per un giorno di pioggia.

Hanamichi sapeva che una relazione a distanza non era facile da mantenere, era rimasto in contatto con Miyagi e sapeva quanto stesse soffrendo per la lontananza da Ayako, ma sapeva anche che era possibile. E non era nemmeno definitiva, si sarebbero visti durante le vacanze estive e per Natale, Rukawa sarebbe potuto tornare ad ogni interruzione delle lezioni e poi avrebbero deciso per il futuro: se a Rukawa non fosse andata bene, sarebbe potuto tornare a casa e farsi una vita in Giappone, mentre se fosse arrivato in NBA avrebbe potuto mandare ad Hanamichi un biglietto di sola andata e lui sarebbe partito.

E invece, di punto in bianco Rukawa era andato da lui, avevano fatto l’amore e poi lui aveva detto: “Questa è l’ultima volta. Dopodomani parto per il North Dakota.”

Ripensandoci, memore anche del lunghissimo elenco di Motivi Per Cui Il Panda è Stronzo che gli aveva sciorinato Kumiko dopo aver saputo, Hanamichi si rendeva conto che quel comportamento, qualsiasi giustificazione avesse, non era ammissibile.

Una voce nella testa cercò di dirgli che quel suo ragionamento altro non era che una tecnica di autodifesa, perché la realtà dei fatti era che Kaede era andato in America e l’aveva piantato, e lui doveva scendere a patti con la situazione, ma lui la ignorò: se anche fosse stato così, in quel momento non poteva far altro. Non se aveva ancora rispetto per se stesso, e ne aveva.

Doveva superare la rottura con Kaede, e se anche non avesse mai più voluto un partner nella vita, che male c’era? Aveva gli amici, aveva il basket, non aveva bisogno di essere innamorato. Non era come alle medie, quando non aveva un cazzo nella vita e si guardava intorno fino a trovare un’altra su cui riversare i propri sentimenti in eccesso, ora era quasi un adulto e come tale poteva comportarsi.

Sì, ma mi manca.

Il pensiero gli attraversò la mente, e lui lo zittì con astio. Non ne aveva bisogno, non adesso che era solo, non adesso che calava la notte e il silenzio faceva domande a cui non sapeva rispondere. Non adesso. Non ancora.

 

*****

 

Mentre Hanamichi si addormentava, Rukawa si stava risvegliando da un sonno che gli era parso innaturalmente lungo.

“Ugh,” commentò, alzando la testa dal cuscino. Si sentiva rincoglionito all’ennesima potenza, come se avesse dormito dodici ore di fila, ma si sentiva anche riposato.

Si alzò e aprì gli occhi: strano. La luce del sole sembrava arrivare dal lato sbagliato.

Dopo una breve sortita in bagno, durante la quale orinò per quella che gli parve un’ora, tornò in salotto e intravide Miyagi, in piedi in cucina.

“Buongiorno,” disse. Miyagi rispose con uno sbadiglio da ippopotamo, poi disse: “Uova.”

“Nh?”

“Uova, volevo fare delle uova. Vuoi delle uova?”

“Faccio io,” disse Rukawa, e Miyagi gli lasciò volentieri il posto. Sembrava in grado di mettere in fila le parole, ma non molto di più.

“Che ore sono?” chiese Rukawa, aprendo il frigorifero..

“Ahnnn… le tre del pomeriggio.” Rukawa si voltò di scatto, con due uova in mano: “Cosa?”

“Benvenuto nel mondo dei bimbi grandi, Rukawa,” disse Miyagi, “Alla sera leoni, al mattino coglioni.”

“Non mi ricordo granché,” ammise Rukawa, rompendo le uova con maestria contro il bordo dei fornelli.

“No, manco io, ma LaFa ci ha sicuramente portati a casa interi,” disse Miyagi.

“Questo lo vedo.”

“Allora, com’è stata la tua prima sbronza? Come ti senti?” Rukawa scosse la padella per dare uniformità all’omelette, poi tornò al frigorifero per recuperare del formaggio.

“Bene. Sto bene,” disse, poi si lasciò sfuggire un sorrisetto.





Bella raga, come la va?
Come potete notare è tornata una vecchia amica, uhhh e pensare che una volta era un self insert, ormai mi somiglia solo per la quantità di parolacce che riesce a dire in un discorso normale. Ed è persino diventata più alta di me, 'sta stronza.
Comunque, due capitoli e due citazioni del mio amato Max, chi le ha colte?
Una ficcina bonus a chi le becca!
Come sempre, grazie per il vostro supporto e battete un colpo se avete gradito!
XOXO

 

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Capitolo 3
*** Don't Know What You Got (Till It's Gone) ***


Sciao ragassi, eccomi con l'aggiornamento bisettimanale. Dovessero esserci boiate di ortografia qui e là, abbiate pietà di me, ho un neurone solo come la particella di sodio delll'acqua Lete e se ne sta pure andando in giro dicendo costantemente "AHIA".
Bella la vita, si riconferma che morirò schiacciata da un hot dog.
Spero vi piaccia, battete un colpo!




 

Il coach aveva mantenuto la promessa fatta a Rukawa: gli stava facendo rimpiangere di essere nato.

La sua esistenza era passata dal sostanziale cazzeggio dello Shohoku a un incubo vivente, che altalenava tra allenamenti massacranti, sessioni di studio da fare piangere i sassi e sonni profondi di pura stanchezza che sembravano più delle lievi forme di coma.

Ogni tanto, i ragazzi della squadra si trovavano a fare qualche festa: se erano solo loro, Rukawa si univa volentieri. Aveva cominciato ad apprezzare la birra, che LaFayette procurava in quantità industriali, e quei momenti in cui riusciva a berne abbastanza erano il suo unico conforto.

Non pensava che fosse estremamente sano, ma d'altronde quello c'era, e prima che l'alcol cominciasse a scorrergli per bene nelle vene si ripeteva di essere giovane, che non poteva essere un alcolista a diciannove anni scarsi, che si sarebbe presto stabilito su una velocità di crociera e che avrebbe smesso.

Un mattino di inizio dicembre, poi, il telefono suonò mentre Miyagi era in bagno.

“LASCIA SUONARE CHE TANTO PARTE LA SEGRETERIA,” urlò Miyagi da dietro la porta chiusa, senza neanche premurarsi di nascondere lo sforzo nella voce. Rukawa rimase immobile sul divano, un manuale sulle ginocchia, ad ascoltare gli squilli del telefono. Al quarto, con un lieve clic partì il nastro registrato: “Ciao, sono Ryota Miyagi, non sono in casa o non posso rispondere, lasciate un messaggio che vi richiamo, grazie!”

Il libro cadde dalle gambe di Rukawa non appena l'interlocutore prese la parola: “Ehm, ciao Ryochin, sono Hanamichi, chiamavo per sapere come va,” un gemito sfuggì dalle labbra di Rukawa. Hanamichi sembrava persino più stanco di lui: “Sì, insomma, come stai tu e come sta lui. Io me la cavo, grazie di aver parlato con Ayako, sappi che se la fai soffrire ti sdereno perché è una persona favolosa. Adesso devo uscire però magari ci sentiamo domani, ciao, buona gio…” Rukawa alzò la cornetta, senza neanche rendersi conto di aver abbandonato il divano.

“Ryochin?” chiamò Hanamichi al telefono. Doveva essersi accorto che il rumore di sottofondo del nastro della segreteria non c'era più, o forse lo sentiva respirare.

Rukawa cercò di parlare, ma la voce non gli uscì. Non aveva la minima idea di quel che gli sarebbe uscito dalla bocca, ma improvvisamente tutto gli sembrava irrilevante, gli allenamenti, lo studio, la stanchezza; voleva solo sentire la voce di Hanamichi che si rivolgeva a lui.

“Kaede…” bisbigliò Hanamichi, e orrore degli orrori la sua voce sembrava strozzata dalle lacrime.

“Hanamichi,” disse Rukawa, e il suo nome rotolò fuori dalla sua lingua in maniera così naturale, come un tiro finalmente fatto bene dopo anni di sforzi inutili, che Rukawa sentì cedersi le ginocchia. Scivolò a terra, la schiena contro il muro, e chiuse gli occhi nel tentativo vano di arginare le lacrime. Improvvisamente, gli sembrava che quella vita così impegnata, stancante e pregna di eventi fosse vuota, solo perché a margine non c'era più la confortante mole di Hanamichi.

“Mi manchi,” disse Hanamichi, la voce un sussurro rotto dai singhiozzi, “Mi manchi così tanto.”

 

Miyagi era uscito dal bagno in tempo per sentire Rukawa che pronunciava il nome di Hanamichi, e si era immobilizzato sulla soglia. Il tempo pareva essersi fermato, immobile nel costante ronzio del frigorifero e nel rumore sordo e monotono della ventola del bagno.

Rimase a fissare Rukawa che si lasciava scivolare lungo il muro e si chiese che cosa diavolo gli fosse preso: era così chiaramente innamorato di Hanamichi, eppure l'aveva lasciato. Le dita di Rukawa erano così strette intorno alla cornetta che le nocche erano completamente bianche, e il suo bel viso solitamente impassibile era contorto da una smorfia di dolore, mentre lacrime discrete gli rigavano le guance arrossate.

“Anche tu,” lo sentì mormorare, poi lo vide lasciare la presa sulla cornetta del telefono e barcollare fino a un altro angolo, dove si sedette, la testa china sulle ginocchia, nascosta dalle braccia incrociate.

L'immobilità che l'aveva colto si spezzò, e Miyagi corse al telefono: “Onaji,” disse.

All'altro capo del telefono, dall'altra parte del mondo, Hanamichi stava piangendo come un bambino.

Miyagi rimase muto, poi disse: “Ti richiamo. Ti mando Ayako.”

Mise giù, lanciò un'occhiata a Rukawa che non si era mosso di un millimetro e telefonò ad Ayako.

Rispose lei, e senza perdere tempo in convenevoli Miyagi le disse: “Ayachan, molla tutto e vai da Hanamichi.”

“Ma cosa…?” chiese lei, preoccupata.

“Vai!” ripeté Miyagi, poi riagganciò e si precipitò da Rukawa.

Si accucciò di fronte a lui e meditò sull'approccio da usare. Infine, decise per le maniere forti: “Adesso la pianti e mi dici che cazzo è successo, Kaede.” Rukawa alzò gli occhi verso di lui, e Miyagi dovette trattenere un sussulto di sorpresa alla vista della sua espressione sofferente e supplichevole.

“Se mi dici di nuovo non ancora ti prendo a calci in bocca,” aggiunse, odiandosi un po' per quanto stava infierendo.

Ma funzionò.

Rukawa strofinò il naso contro la manica, e con voce monocorde disse: “Mi avrebbe chiesto di restare. Mi avrebbe chiesto se era più importante lui o il basket e io non avrei potuto rispondere, perché se l'avessi fatto sarei dovuto restare.”

“Kaede, ma…”

“Oppure mi avrebbe augurato buona fortuna, e sarebbe stato un addio. Avremmo continuato a sentirci per un po', e io sarei stato male perché non ce l'avevo con me, e comunque sarebbe stato solo un pro forma perché alla prima occasione mi avrebbe detto che non funzionava.”

“Ma che cosa cazzo stai dicendo?” chiese Miyagi. Il volume delle seghe mentali che Rukawa si era fatto gli faceva dubitare della sua sanità mentale.

“E io non potevo non venire in America,” proseguì Rukawa, senza guardarlo in faccia, gli occhi fissi a metà strada tra il suo mento e le sue ginocchia, “Perché ormai tutta la prefettura sapeva che volevo andare in America, e non potevo rinunciare.”

“Kaede,” disse Miyagi, poggiandogli le mani sulle ginocchia, “Ma che cazzo di ragionamenti sono? Ma non lo vedi che chiama anche se pensa di non sentirti, solo perché vuole sapere come stai? Non te ne rendi conto?” Rukawa tacque a lungo.

“Ora sì,” bisbigliò infine, poi una lacrima si gonfiò sulla parte inferiore della sua palpebra e cedette alla gravità. Gli rigò la guancia e si infranse poi sul tessuto leggero dei suoi pantaloni, scurendo quel grigino chiaro tipico degli abiti da casa.

Miyagi, a corto di parole, si sedette sul pavimento di fianco a Rukawa e appoggiò la spalla alla sua, in un muto gesto di conforto.

 
*****
 

Ayako arrivò in tempo record a casa di Hanamichi e si attaccò al campanello come se cercasse di svegliare tutti i morti del quartiere.

Finalmente, intravide un movimento a una finestra, poi la porta si aprì con un sommesso clic.

Ayako entrò e si tolse le scarpe con un gesto rapido e quasi inconsapevole. Hanamichi le girava le spalle.

Con voce sepolcrale, disse: “Non sono molto di compagnia.”

“Non importa,” disse Ayako, facendo un passo in avanti.

“Non voglio parlare,” aggiunse Hanamichi.

“Va bene.”

“Devo ricompormi, mia mamma torna dal lavoro tra mezz'ora.”

“Devi preparare la cena?”

“No.”

“Se esci è un problema?”

“No.”

“Allora vai a sciacquarti la faccia, mettiti addosso qualcosa e usciamo.”

“Non sono di compagnia.”

“Posso esserlo io per entrambi.” Hanamichi tacque e Ayako non insistette. Rimase in attesa, e finalmente Hanamichi si mosse verso il bagno, trascinando i piedi come se qualcuno glieli avesse immersi nel cemento.

Quando la porta si richiuse dietro di lui, Ayako andò al telefono e si guardò in giro. Come aveva previsto, i nomi e i numeri dei ragazzi della Gundan erano appuntati in bella vista. Ayako sollevò la cornetta e telefonò a Mito Youhei.

 

Un'ora più tardi, trascinato da cinque amici, Hanamichi ebbe finalmente una reazione: “No, dal Capo Scimmione io non mangio.”

“E invece sì, e ti strafoghi,” disse Takamiya, “Stasera c'è l'all you can eat, vuoi perdere l'occasione di ridurre Uozumi sul lastrico?”

Hanamichi oppose ancora qualche rimostranza simbolica, poi si lasciò trascinare all'interno.

Il locale era semibuio e quasi pieno, e una cameriera si avvicinò subito: “Benvenuti, volete accomodarvi?”

“Kikochan, grazie per averci trovato un posto con così poco preavviso,” disse Ayako, inchinandosi.

“Ringrazia Big Jun, si è preso a cuore Hanamichi,” rispose lei con un sorriso professionale, e con uno più caldo diretto ad Hanamichi, che distolse lo sguardo e arrossì. I suoi occhi scintillavano pericolosamente nella penombra del locale.

Kumiko li fece accomodare ad un tavolo appartato e lasciò i menù. Takamiya si preoccupò di ordinare per tutti, e poco a poco le insistenze degli amici ebbero la meglio sul malumore di Hanamichi, che pur continuando a sembrare il gemello depresso del ragazzo estroverso e casinista che era stato cominciava a lasciarsi sfuggire qualche sorriso qui e là; senza accorgersene, rimasero al locale fino all’ora di chiusura, e dopo che tutti gli altri clienti se ne furono andati, tutte le luci tranne quella sopra al loro tavolo si spensero.

“Ops, mi sa che ci stanno gentilmente chiedendo di sciacquarci dai coglioni…” disse Mito, alzandosi.

“No, ma sposta il culo più in là,” disse qualcuno, e il Capo Scimmione si schiantò seduto di fianco ad Hanamichi, che sobbalzò; con maggiore grazia, Kumiko depositò un vassoio carico di dolci sul tavolo, prima di lasciarsi cadere di fianco ad Ayako.

“Ah, che serata orrenda,” disse, servendosi di un sorbetto al limone, “Ma l’avete visto quel vecchio di merda al tavolo tre?”

“Ero tentato di sputargli nel piatto,” bofonchiò Uozumi, prendendo un semifreddo alla vaniglia.

“Avresti dovuto farlo,” disse Takamiya, “Quei dolci sono per noi?”

“Sì,” rispose Uozumi, la bocca piena, “Offre la casa.”

“Lavoro qui per i benefit,” disse Kumiko, leccando il cucchiaino. Hanamichi quasi rise al pensiero di quanto fossero diversi lei e Kaede: se Rukawa avesse fatto la stessa cosa, il novanta percento delle persone in un raggio di duecento metri avrebbero avuto un mancamento. Lei invece riusciva solo a sembrare una che sarebbe stata capace di fare una rapina a mano armata per procurarsi altro sorbetto al limone.

“Senti, coso,” disse Uozumi, spingendo un dolcetto marrone dall’aria deliziosa verso Hanamichi, “Che cazzo è successo? Quando sei arrivato sembravi un morto che cammina, e Kikochan non ha saputo dirmi nulla.”

“Ho…” Hanamichi tirò il piattino verso di sé e lo fissò per non dover guardare nessuno in faccia, “Ho parlato al telefono con Kaede. Stavo lasciando un messaggio in segreteria, poi qualcuno ha alzato la cornetta e non ha parlato, io ho detto il suo nome ed era lui.”

“E questo è un bene o un male?” chiese Uozumi, secco.

“Scusatelo,” disse Kumiko per sdrammatizzare, “Ha lasciato la delicatezza nei pantaloni del pigiama.” Uozumi le lanciò una meringa.

“Ecco, io… ha detto il mio nome,” disse Hanamichi, “Io ho detto che mi manca, e lui ha detto che anch’io gli manco. Poi ha mollato il telefono.”

“Hanamicchan, ma questa è una buona cosa,” disse Ayako, allungando una mano a sfiorargli il braccio. Era fresca per il contatto con il suo frappè al matcha.

Hanamichi tacque a lungo, e nemmeno i ragazzi della Gundan sembravano in grado di rompere il silenzio; non parevano neanche in grado di continuare a mangiare.

“Il fatto è che…” Hanamichi scosse la testa, “No, penserete che sono ridicolo.”

“Per quello è tardi,” disse Noma.

“Già, saranno almeno… uff, cinque anni che lo pensiamo!” terminò Mito.

“Ma che bastardi! Kikochan, digli qualcosa!”

“Ma perché io? E poi ti ho visto parlare con mia nonna, non ho argomenti in tua difesa.”

“E io ti ho fatto fare i fondamentali,” aggiunse Ayako.

Hanamichi esitò, poi chiese timidamente: “Capo Scimmione?”

“Ti ho visto fare canestro con la testa.”

“E va bene, siete tutti stronzi!” sospirò, poi disse: “L’idea che lui stia male e che io non posso essere con lui a consolarlo mi fa… mi fa stare una merda.” Ayako si coprì il viso con una mano e si impose di non mettersi a piangere.

“Da un lato preferirei sapere che mi ha dimenticato. Saperlo che sta male è ancora peggio.”

“Hanachan,” disse Ayako, la voce cupa di lacrime trattenute, “Sono sicura che Ryota lo potrà aiutare. Credimi, ci sa fare.”

“Non credo che lo chiamerò ancora,” disse Hanamichi, “Non voglio che Kaede stia male di nuovo per colpa mia.”

“Allora vedi che un po’ Kacchan ha ragione a dire che sei una testa di cazzo?” sbottò Kumiko, pestando anche una mano sul tavolo. Uozumi, rapido, allungò una mano e salvò quel che restava del suo sorbetto.

“Ma cos…?”

“Sempre Kaede, Kaede, Kaede! E in tutto ciò dove sta Hanamichi? Chi sei, l’ultimo degli stronzi? Kaede sta male a sentire la tua voce? Beh, può attaccarsi al tram e tirare!” Uozumi annuì, con l’enfasi di un credente di una chiesa evangelica di quelle piene di pazzi che si vedono ogni tanto alla tv. Per un folle istante, Hanamichi temette di sentirgli dire qualcosa tipo “Amen, sia lode al Signore”.

Ayako allungò una mano per placare l’ira funesta di Kumiko, pur concordando con il suo punto di vista.

“Dirò a Ryochin di chiamarti lui, una volta a settimana, per farti sapere come sta Rukawa. Così tu continuerai ad essere informato e non ti farai domande ansiose, e lui non rischierà più di sentire la tua voce dalla segreteria telefonica.”

Hanamichi la guardò come se avesse appena salvato una cucciolata di cagnolini dall’annegamento: “Davvero lo faresti?”

“Certo, non c’è problema. E sai che Ryota non si dimenticherà,” Ayako si cavò fuori un sorriso, al quale Hanamichi rispose, titubante, “Però sono d’accordo con Kumiko, non puoi mettere sempre te stesso da parte per Rukawa.”

“È vero,” aggiunse Mito. Anche gli altri ragazzi della Gundan annuirono.

“Ma io…” disse Hanamichi, “Io lo amo, e voglio che stia bene.”

“Senti un po’, cazzoncello,” disse Uozumi, “Questo mi sta bene, sai cos’è che invece non mi sta bene? Che tu sia lì a pensare di non essere il protagonista della tua cazzo di vita.”

“È in forma, stasera,” commentò Mito.

“Ha un sacco di cattiveria da sfogare perché non ha potuto sputare nel piatto del vecchio,” spiegò Kumiko, “Comunque concordo, Hanamicchan. Smettila di pensare che il mondo giri attorno a Kaede ‘deficiente’ Rukawa, perché non è così.”

“Ma se…”

“Con i se e con i ma…” cominciò Noma, “Non mi ricordo il finale, ma comunque non te ne fai un cazzo dei se e dei ma”.

“Sì, ma se Kaede decidesse che non gliene frega più niente di me perché non mi sente più?”

“Eccolo, un po’ di amor proprio, era ora, cazzo,” commentò Mito.

“Alla faccia dell’amor proprio!” sbottò Hanamichi.

“Senti, Hanachan,” disse Ayako, “Finora non è stato così, e sono già due mesi. L’hai distrutto con tre parole. A casa mia, questo è amore, non una cottarella da niente.” Hanamichi tacque.

“Ayako,” disse Kumiko, che ora stava reclinata all’indietro, meditabonda, “Puoi dire a Miyagi di non dare informazioni di sua spontanea volontà a Kacchan?”

“Bella idea,” disse Uozumi, “Fallo patire un po’.”

“No, ragazzi, davvero…” tentò Hanamichi. Takamiya gli fregò la forchetta, prese un pezzo gigantesco del suo dolce e glielo ficcò in bocca. “Umpf!”

“Senti,” disse Kumiko, “Finora ha campato sereno perché bene o male sapeva come te la cavavi, cosa stavi facendo e tutto quanto. Levagli anche questo.”

“Dopotutto, lui è quello che si è levato dal Giappone e dalla tua vita con due giorni di preavviso,” disse Mito.

Hanamichi meditò sull’idea, poi annuì lentamente, gli occhi e il cuore colmi di terrore.

E scoppiò in lacrime.

 
*****
 

Miyagi se n’era andato in fretta e furia dopo aver notato di essere in ritardo campale per un colloquio con un professore, e Rukawa era rimasto solo nel silenzio vuoto dell’appartamentino che condividevano. Trascorse un’ora abbondante a trascinarsi da una stanza all’altra, si preparò un sandwich con marmellata e burro d’arachidi e poi si dimenticò di mangiarlo; la sua testa era piena della voce di Hanamichi, del tremito che era giunto fino a lui superando miglia e miglia di oceani e terra. Voleva tornare a casa, lanciarsi tra le sue braccia e chiedergli perdono, per tutto ciò che aveva fatto e per quello che senz’altro avrebbe fatto in futuro, chiedergli di poter tornare.

Ma non poteva.

In tasca non aveva altro che mezza partita giocata bene che si era conclusa con una sconfitta, un sacco di dolori a muscoli che nemmeno sapeva di avere e una media scolastica a stento sufficiente per mantenere la borsa di studio.

Non era altro che un fallito, aveva come si suol dire morso più di quanto potesse masticare e ora se ne stava lì a bocca piena, a cercare di respirare comunque, a cercare di sopravvivere alla sua stessa arroganza.

Rukawa appoggiò la fronte alla finestra e sospirò; era ormai fine settembre, l’estate nient’altro che un ricordo vago alle spalle, le ossa già doloranti come se prevedessero il freddo di un lungo inverno senza sole. Nuvole scure si rincorrevano nel cielo, quasi invisibili nel rapido crepuscolo autunnale, mentre le ultime propaggini dei raggi di un sole che sarebbe comunque stato poco utile a scaldare scendevano dietro ai bordi frastagliati delle montagne.

Rukawa aveva sentito un ragazzo prevedere neve per i prossimi giorni, e in quel momento sembrava più possibile che mai.

Non si era mai sentito tanto solo.

Lui, che era abituato al silenzio e alla quiete della propria mente lineare, al sonno pacifico della stanchezza fisica, ora inseguiva un riposo che gli sfuggiva, perso nel marasma del dolore che sembrava volergli aprire il petto, scacciato dal battito irrefrenabile del suo cuore, ritmato dal ricordo lontano eppure ancora così caldo della voce di Hanamichi che lo chiamava per nome, la sua risata invadente, i suoi occhi che brillavano di sfida o di gioia.

Improvvisamente gli parve di non essere altro che un povero coglione derelitto, che si era permesso di ferire una creatura che non avrebbe invece dovuto conoscere altro che gioia.

Ma forse il suo allontanamento avrebbe fatto bene ad Hanamichi. Forse lui avrebbe trovato qualcuno a cui non sarebbe mai venuto in mente di ferirlo così.

“No,” disse, e il suo respiro caldo appannò una piccola porzione del vetro.

Rukawa si diede una spinta di reni e andò alla porta, uscì in corridoio e percorse i pochi metri che separavano la loro porta da quella di LaFayette.

Entrò senza bussare: dall’interno arrivava la musica dei Metallica, così alta che probabilmente nessuno nell’area di un paio di isolati avrebbe potuto sentir bussare alla porta.

“Ohilà, guarda chi c’è!” lo salutò LaFayette. Assurdamente, era seduto in terra con un libro, e sembrava studiare per davvero. Come riuscisse a farlo, quando la musica era così forte da annullare i pensieri, lo sapeva solo lui. 

“Cosa ti porta nel mio tetro antro?” chiese LaFayette, tirandosi su un po’ per guardare Rukawa, il quale esitò.

“Avresti da bere?” chiese infine.

“Gli orsi cagano nei boschi?” ribatté LaFayette, indicando il frigo. Rukawa si diresse lì e prese una bottiglia di Budweiser, la stappò con l’apribottiglie a forma di palla da basket che era incollato all’anta del frigorifero e andò a sedersi di fianco a LaFayette.

“Problemi di cuore, Ru?”

“Già,” rispose Rukawa. LaFayette scosse il capo con aria comprensiva: “Allora è mio dovere farti compagnia,” disse, e si andò a prendere una birra. Mentre tornava, abbassò la musica; doveva aver modificato i bassi, perché quelli continuarono a pompare con forza.

“Che succede?” chiese LaFa, sedendosi di fianco a Rukawa e facendo tintinnare il collo della propria bottiglia contro la sua.

“Succede che sono un coglione,” disse Rukawa, già lubrificato da mezza bottiglia di Bud, che si era scolato senza ritegno, “L’ho mollato per venire in America. Oggi ha chiamato Miyagi. Ho sentito la sua voce alla segreteria. Mi manca.”

“Okay, credo che mi manchino un po’ di pezzi della faccenda, ma so che tu sei uno che è difficile da far parlare, quindi passerò alle maniere forti.” LaFa si alzò, andò a prendere una bottiglia da uno stipo e prese la Bud di Rukawa. Con mano cauta ed esperta, rabboccò quel che mancava dalla birra con la stessa dose di Jack Daniel’s.

“Che cazzo fai?” chiese Rukawa; tuttavia, prese la bottiglia ora pesantemente corretta.

“Appiamo metoti per farti parlare, ja,” disse LaFa, imitando un falso accento tedesco mentre correggeva anche la propria birra.

Alzò la bottiglia e Rukawa raccolse l’invito a brindare.

“Allora,” cominciò LaFa, “Chi è questo tizio? È un maschio, ho capito bene?” Rukawa sentì drizzarsi i peli sulle braccia. Come niente aveva fatto coming out.

“Ehi, vai tranquillo Ru, mica mi schifo. Anzi, meglio, guarda, già le gnocche le vedo col binocolo, se fossi anche tu sulla piazza non riuscirei a farmi nemmeno quelle che pago!” Rukawa rise mentre beveva e si sbrodolò con il cocktail improvvisato.

“Lui si chiama Sakuragi Hanamichi,” disse.

“Sakuragi è il cognome, giusto? Voi lo mettete prima.”

“Esatto,” annuì Rukawa, poi prese un altro sorso.

“E com’è? Figo? Che tipo ti piace, dai, puoi dire tutto allo zio LaFa!”

“Ha i capelli rossi. Rossi naturali…”

“E tu lo sai per certo, dico bene?” disse Lafa, sgomitandolo. Rukawa si sentì arrossire.

“Gioca a basket da pivot.”

“Beh, di solito sono le ali a tirare meglio, ma ci sarebbe stata troppa competizione,” LaFa annuì con aria saggia, come se ci fosse già passato.

Bevendo un altro sorso, Rukawa pensò che quel ragazzo non era davvero niente male. Un buon amico, che nemmeno ti rompeva i coglioni quando ti davi a un po’ di sano autolesionismo della domenica, anzi, ti accompagnava nel viaggio.

 

Un’ora dopo, LaFayette sapeva tutto di Rukawa e Hanamichi, persino cose che Rukawa aveva fino ad allora faticato ad ammettere con se stesso.

Svuotato e al tempo stesso confortato, Rukawa giaceva semincosciente sul tappeto sbrindellato che LaFa aveva steso sul pavimento del salotto, e canticchiava insieme ai Metallica, che erano tornati al volume originario.

Nemmeno si accorse di Miyagi che entrava, dava dell’idiota a LaFayette, prendeva Rukawa sotto le ascelle e lo trascinava di nuovo nella loro stanza.

Si accorse di vomitare, e pensò di aver solo sognato di aver detto a Miyagi: “Gliel’ho detto. L’ho detto a qualcuno” prima di addormentarsi.

 

Miyagi fece sdraiare Rukawa su un fianco, poi tornò da LaFayette, che lo aspettava in corridoio: “Quando ha cominciato ad essere sbronzo sul serio gli ho scambiato la birra con il tè freddo, lo giuro.”

“Sì, lo so, l’hai fatto con tutti prima o poi,” ribatté Miyagi, passandosi la mano tra i capelli, “Che casino, cazzo…”

“Ha bevuto mezza bottiglia di whisky e birra prima che…” cominciò a giustificarsi LaFa, ma Miyagi lo frenò con un gesto della mano.

“Non è quello, vai tra. È grande e vaccinato, se si sbronza a merda il giorno prima di un test sono abbastanza cazzi suoi, se vuoi saperlo. È tutto il resto, c’è dietro una storia d’amore finita veramente male che…”

“Con il famoso Hanamichi?”

“Cazzo, ti ha parlato di Hanamichi?”

“Per un’ora,” LaFa annuì, le braccia incrociate sul petto, “Senti, ma se Ru vuole tornare a casa, perché non lo fa e basta?”

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