Necrosi parziale

di _Alcor
(/viewuser.php?uid=129500)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio [Logan Dexter] ***
Capitolo 2: *** I. [Tae Maeda] ***
Capitolo 3: *** II. [Tae Maeda] ***
Capitolo 4: *** III. [Tae Maeda] ***
Capitolo 5: *** IV. [Tae Maeda] ***



Capitolo 1
*** Preludio [Logan Dexter] ***





When you truly want to change the world,

you will discover how pitiable your own strength is.

The Holy Maid gave her all to the people,

and was repaid with merciless shackles and nooses.


{Thus spoke Apocalypse}









PRELUDIO.

[Logan Dexter]





QUARANTA GIORNI ALLA PRIMA APPARIZIONE DELLA PARATA DEL FUMO



Mi appiattisco contro il piano cottura e passo accanto alla sedia rovesciata, i frammenti di bicchiere si sbriciolano sotto le suole delle scarpe. Quanto darei per essere fuori di qui, poco importa se viene distrutta casa in mia assenza.

L’intrusa siede sul tavolo della cucina e incrocia le braccia, una lama opaca spunta dalla manica della felpa grigia. Piega le labbra in un sorriso aguzzo. «Ehi. Ti ho solo chiesto un caffè, non c’è bisogno di essere così guardingo.»

«Cre–» Mi si attorciglia la lingua. «Credo di avere tutte le ragioni per esserlo.»

L’intrusa si sostiene il mento con il pugno; i due ciuffi asimmetrici che le incorniciano il viso sono dello stesso castano dei capelli di Jaiden, ma le somiglianze si fermano lì. Una cicatrice sottile le spacca il sopracciglio fino allo zigomo, non voglio sapere cosa potrebbe provocare un taglio talmente netto.

Alza le sopracciglia. «Tipo quali?»

Mi mancano le parole. Il ceppo con i coltelli è accanto alla scatola delle cialde da caffè, con uno di quelli potrei vedermela ad armi pari. Poggio la mano sul piano, mi trema talmente forte che scuote persino le spalle.

Il problema è che lei è entrata qui dentro pronta a farmi fuori, io non riesco nemmeno a immaginarlo.

Ride. «Ah, mi stai lasciando indovinare. Vediamo, vediamo…»

Mi conviene tenerla buona per ora. Pesco una cialda di caffè dal contenitore azzurro-trasparente, la bustina di carta vola dalla mano e cade tra i frammenti di vetro sbriciolati.

L’intrusa salta giù dal tavolo con un oplà allegro e la raccoglie, quel sorriso grottesco le rimane stampato sulle labbra. «Ci sono! Ti spaventa che io ora sappia cos’è successo davvero a Jaiden.»

Sussulto. Le strappo la bustina di mano e caccio la cialda nel portafiltri, nel mobiletto è rimasta solo una tazza sbeccata con scritto POZIONE D’AMORE, le altre sono tutte ammassate nel lavello da giorni.

Mi mette una mano sulla spalla, il cuore mi fa una capriola nel petto. «C’ho preso? So di averci preso.»

Piazzo la tazza sotto l’erogatore e clicco il tasto di accensione, la vecchia macchina trema come se fosse presa dagli spasmi. Il beccuccio sputacchia un paio di bolle marroni, l’aroma delicato del caffè che si diffonde in cucina non fa nulla per distendermi i nervi.

Devo chiederle se vuole anche lo zucchero e il cucchiaino?

L’estranea sospira; poggia la schiena al tavolo, la lama opaca scintilla sotto la manica. «Ehi, senti… mi dispiace per averti arruffato prima.»

Chiama arruffare l’avermi sbattuto a terra e minacciato, bene.

Prende la tazza con una mano e se la porta alle labbra. «Thank you~» Ha le nocche costellate di croste in via di guarigione e lividi giallastri. Assapora il caffè ad occhi chiusi, le spalle rilassate.

«Non–» Guardiana, non riesco a parlare. Deglutisco l’ansia. «Non immaginavo mi avresti ringraziato.»

«Andiamo, per vivere tra le persone ci sono un minimo di regole base da seguire.»

«Come non forzare la porta di casa altrui?» Mi mordo la lingua, ho osato troppo.

«Qualcosa del genere.» Scoppia a ridere, lascia il coltello sul tavolo e raccatta la sedia dal pavimento. Se la piazza accanto, spazzolandola un paio di volte con la manica per togliere della polvere inesistente. «Dai, siediti.»

«Cosa vuoi da me?»

«Un po’ di onestà intellettuale.» Indica la sedia con il palmo della mano. Prendo posto, da questa posizione mi supera di una testa. Fa scivolare il coltello davanti a me, come a dire guarda, sono disarmata.

Sospira. «Dimmi, cos’è la cosa più importante della tua vita?»

Passo la lingua sui denti, mi trema la mano. Stringo i pantaloni, non penso sia il caso di mentire. «La mia carriera.»

Mugugna, mi passa l’unghia sulla guancia e alza il mento. Ha le labbra piegate in un sorriso ma non c’è traccia di calore nella sua espressione. «Questo perché fino ad ora hai dato per scontato la tua sicurezza personale. La prima necessità rimane sempre la propria pellaccia. Certo, a meno che non sei una di quelle persone pronte a martirizzarsi per una grande causa.» Si slaccia la cerniera della felpa.

«Questo non mi dice che vuoi da me.»

«Segui il mio ragionamento, Logan, e potrei dirti persino chi sono.» Allarga il lembo di una felpa, la cinghia della fondina ascellare spicca come un taglio sulla maglia bianca. «L’uomo rinuncia a una parte della sua libertà per vivere sereno, ma è una sicurezza abbastanza fasulla.»

Estrae la pistola e me la punta alla fronte. Mi scappa un gemito strozzato, serro gli occhi per prepararmi ma lo sparo non arriva.

«Visto?» sussurra, mi stacca il ferro freddo dalle pelle. «Basta che qualcuno venga meno a questo contratto sociale e non sei più sicuro nemmeno a casa tua. Fortuna che di devianti simili ce ne sono pochi, eh?»

Ne ho una davanti agli occhi. Un filo di sudore freddo mi cala sul naso. «La legge serve a quello, stabilire delle regole e punire chi le viola.»

«Vero, l’aspettativa è che la legge sia giusta, per quello non esitiamo a obbedire la maggior parte delle volte.» Alza le spalle. «Non trovi sia divertente?»

Questa situazione è tutto fuorché divertente.

L’intrusa allarga le braccia, ha il fianco totalmente scoperto e il coltello è davanti a me sul tavolo. Potrei–

La mani non vogliono sapere di smettere di tremare.

Appoggia le mani sul piano e sporge il busto indietro. «Insomma, la legge è stata stabilita da esseri umani come gli altri. E noi umani siamo dei gran figli di puttana per indole. Ma obbediamo lo stesso alle decisioni dei grandi capi, sai perché?»

Se dovessimo stare a mettere in discussione ogni legge in base alla morale personale sarebbe anarchia. «Perché è più facile così.»

L’intrusa fa un applauso. «Sapevo che avresti capito, signor killer.»





[.note a margine]

Trama che chiuderà l’arco di Logan aperto l’anno scorso: in teoria non serve leggere le altre storie della serie per comprendere a pieno la trama ma danno contesto per le decisioni dei personaggi non-portatori di punti di vista.

Le ispirazioni sono innumerevoli e tenterò di segnalarle tutte per l’ultimo capitolo, ma una di cui devo fare menzione ora è Il confine dell’umano di Glenda, perché non è la prima volta che noto che mi sta influenzando parecchio e la adoro.

Quindi se vi va un fantasy più chill a tema viaggio e fantapolitica, a voi.

Ty per essere arrivati alla fine.

_Alcor

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I. [Tae Maeda] ***





I.

[Tae Maeda]





IL GIORNO DELLA PRIMA APPARIZIONE DELLA PARATA DEL FUMO



Atterro sul tetto dell’oratorio del Dimenticato e poggio le mani sulle ginocchia. Lo schermo del casco lampeggia novanta battiti al minuto, una media di dieci in meno rispetto all’ultima volta. Anche la nausea che mi tartassa lo stomaco è sopportabile, mi sto abituando a fare i test di volo.

Prendo un respiro, sa di caldo e aria stantia. L’armatura non lascia passare nemmeno l’odore delle foglie marce che delineano il confine del campo sportivo. Mi sporgo, la rete di cinta è tappezzata di cartelloni con impronte di mani colorate e la scritta L’ESTATE DURA PER SEMPRE.

Le porte dell’oratorio si spalancano. Un’educatrice con il megafono fa un passo di lato, in tempo per non farsi travolgere dall’ondata di ragazzini che si riversa sul prato. Un mare di grida esplode, ci stanno provando gusto a sgolarsi.

Il nome Rowell Allen si accende sotto il numero dei battiti. «Problemi di stomaco di nuovo, Tae?»

«Hm. Pausa breve. Ammiro il paesaggio.»

«Intendi la ragazza?»

Scemo.

I ragazzini si compattano in una formazione a quadrato intorno agli educatori, Megafono alza un fazzoletto rosso che si agita al vento. Erano mesi che non vedevo gruppi così grossi riunirsi, forse si torna un po’ alla normalità.

Allen lampeggia. «Un po’ vorrei vedere la sua espressione se si trovasse un metro e ottanta di metallo che ci prova con lei.»

«Non avete di meglio da fare al centro di comando?» Pizzico la gomma della tuta tra le placche argentate che coprono mano e braccio, piccoli esagoni verde acqua si espandono a macchia d’olio fino alla spalla. Si spengono.

«Sei l’unica che sta facendo testing ora, sei al centro dei miei pensieri.» Un paio di risate sommesse arrivano dall’auricolare, si vede che si stanno annoiando tutti gli operatori se hanno tempo di seguire i nostri discorsi. «Ah, promemoria. Non compiere una rapina con il casco indosso, finiresti per filmare i tuoi crimini.»

«Grazie mille per le sue parole di saggezza, Bussola.»

«È il mio lavoro.» Posso immaginarlo fare un inchino mentre lo dice. «Come lo è ricordarti che hai la visita con Logan tra venti minuti. Cerca di muoverti.»

Oltre la rete del campo sportivo spunta il tetto color ardesia di psicologia digitale, occhio e croce sarò a cinque minuti dalla destinazione. Lancio un’occhiata al parcheggio, un anziano trascina la bicicletta fuori dalla rastrelliera e raggiunge la signora che lo attende all’entrata. Gli orecchini votivi che indossano scintillano di blu sotto il sole del pomeriggio.

Prendo la rincorsa e mi lancio giù dal tetto, le placche sulle caviglie si scaldano. Cado con la leggerezza di una foglia fino a toccare l’asfalto.

Terraferma, mia adorata, mi sei mancata.

«C06, disattivazione.»

La scritta DISENGAGED in verde attraversa il bracciale, con un suono di risucchio l’armatura si sfalda in placche esagonali che scivolano dentro ai contenitori al polso. Della trasformazione rimane solo la familiare sensazione di prurito all’innesto metallico nel petto.

L’aria mi schiaffeggia le guance accaldate, gli odori dell’autunno sono sommersi da quelli di cane e smog. Corro fuori e prendo la via per psicologia digitale, dall’auricolare d’ordinanza arriva la voce di Allen.

«Hai portato con te il pass da tester?»

Tasto la tasca dei jeans, il rettangolino plastificato con la molletta è lì. «Yup?»

«Ne avrai bisogno. Qualcuno ha diffuso che la Kaiser si appoggia all’uni per questo progetto, a quanto pare c’è un gruppetto di protesta davanti ad ogni entrata.»

Favoloso, la gente si sente abbastanza sicura per girare per strada e riunirsi. «Perché ne parli come se fosse negativo?» Comprendo che una protesta sia un fastidio, ma è un’altra conferma che le cose stanno tornando al loro posto.

Allen emette un mormorio esasperato.

Mi fermo davanti alle strisce pedonali, qui sfrecciano come se fossero in una pista da corsa. Mi appunto il pass sul petto. Devo giusto costeggiare il cancello di pietra della facoltà fino all’entrata e sarò arrivata.

Un furgoncino bianco rallenta, gli faccio un cenno di ringraziamento con la mano e riparto. Battiti di mani e piedi svettano sopra i suoni delle macchine. «Tenete i mostri a Marton!» urla un coro. Altri battiti. «Non giocate con le nostre vite!»

«Ah, sono i complottisti…» Arriccio il naso.

Allen mi gracchia all’orecchio: «Già, loro.»

«Tenete i mostri a Marton! Non giocate con le nostre vite!»

Questi geni pensano che la Kaiser, quelli che lavorano giorno e notte per creare misure per difendere i cittadini dagli attacchi degli emersi, si collezioni mostri nei loro edifici per divertimento.

Passo sotto la sbarra bianca e rossa del parcheggio, il coro si ripete. I complottisti sono ammassati intorno alle scale che portano all’entrata dell’edificio scuro, alcuni agitano cartelloni con disegni sgraziati di lucertole sputafiamme solcate da una x rossa. Un cameraman inquadra la scena e punta verso la coppia di guardie di sicurezza all’entrata, manganelli alla cintura e tazzine di plastica alle labbra.

Pausa caffè?

Il coro si ripete, imperterrito.

Allen soffia. «Quanto darei per vedere quella strega di Koller interagire con questi matti.»

Tu sei in prima fila ogni volta che c’è da vedere del drama, vecchia pettegola nel corpo di un venticinquenne. Sistemo il pass e mi avvio verso l’entrata, il meglio che posso fare per loro è dimostrare che noi dipendenti Kaiser siamo gente equilibrata e non interagirci.

«Ti dico,» riprende. «L’altro giorno c’era una riunione tra i coordinatori del progetto, lei è arrivata quaranta minuti dopo l’inizio. Ha spiegato quello che doveva in cinque e poi se n’è andata perché non voglio perdere tempo a fare complimenti fasulli, ihih. Ha riso! Ha riso e nessuno si è lamentato!»

Schiena impettita, sguardo alto, passo accanto al cameraman e salgo le scale a due a due. Il coro ruggisce, sbattono i piedi con più forza al punto che ho il dubbio che le finestre possano tremare e rompersi.

Allen batte le mani. «Koller li blasterebbe senza esitazione.»

O li ignorerebbe, cosa più saggia. La guardia lancia un’occhiata al pass e mi sorride, getta il bicchierino di plastica nel bidone accanto.





Mi stacco dallo schienale del divanetto e schiaccio le mani intrecciate tra le ginocchia, il tepore dei pantaloni della tuta non basta a liberarmi dai tremiti. L’ennesima folata di freddo gonfia la tenda bianca dell’ufficio come il mantello di un supereroe e mi schiaffeggia i capelli sulle guance.

«Tenete i mostri a Marton! Non giocate con le nostre vite!»

Eccoli che ripartono, ma se continuano così domani si alzeranno con un brutto raffreddore e senza voce.

Logan, seduto sul divanetto opposto, continua a scrivere sulla cartelletta appoggiata alle cosce. Ha le palpebre grigie segnate di rughe, degne di qualcuno che non dorme da ere. Batte la penna sul foglio. «Senti che le persone nella tua vita vogliono farti del male.»

No, solo congelarmi. Tengo le labbra premute per non sorridere. «Per niente. Non mi hai già fatto questa domanda in un’altra salsa?»

Logan stende le gambe e getta un’occhiata all’orologio che segna le diciotto, saranno almeno due ore che il colloquio va avanti. Scrocchia le dita. «La scala verifica anche quanto sei sincera nelle tue risposte, e questo significa rifare domande anche se formulate in maniera leggermente diversa.»

«La gente ha davvero bisogno di mentire?»

«Capita, alcune volte è anche inconscio. A nessuno piace sentirsi giudicato.» Poggia la cartelletta sul tavolino, accanto al registratore acceso e il diario in cui ho stilato un rapporto al giorno dall’ultima volta che abbiamo avuto una seduta.

Indico i suoi arnesi del mestiere con il palmo. «Ma devi giudicarmi, è l’intero punto di questo incontro.»

«Sssì. Ma non tutti hanno la tua personalità, ed è il motivo per cui ci impegniamo a evitare che l’elemento umano dia problemi. Abbiamo poche possibilità.» Tamburella le dita sui fogli. «Mi sorprenderei se trovassero altri tester compatibili con il prototipo oltre a voi sette, a pochi piace l’idea di farsi ficcare tecnologia aliena nel petto.»

E tu non lo rendi appetibile.

Sposto la ciocca di capelli ribelle dietro l’orecchio, attenta a non sbattere contro l’auricolare acceso. Questi colloqui dovrebbero essere privati, il fatto che lo tengo acceso in caso di emergenze sarebbe il pretesto migliore per invalidare l’intero dialogo e dover ripartire da zero.

«Detta così, sembro suonata.»

Un paio di colpetti dall’altro lato della linea segnalano che Allen è in ascolto. «Lo sei,» sussurra, mi sforzo di non rabbrividire. Avere quel tono nell’orecchio è una violenza psicologica.

Logan mi rivolge un sorriso. «Diciamo che vedere un’amica coinvolta in qualcosa di simile è poco rassicurante.»

«Ehi, tu fai parte di questo studio. Già solo quello mi rassicura.»

«Quindi se si rivela una fregatura, è colpa mia?»

«Un po’.»

Logan incassa la testa tra le spalle e sospira. «Ha senso. L’innesto va tutto bene?»

Poggio una mano vicino al cuore, la cicatrice lì dove hanno infilato il nucleo di attivazione dell’armatura è così discreta che devo impegnarmi per vederla. «L’ha controllato il dottor Havel l’altro giorno, sono il ritratto della salute.»

«E i sogni sono continuati?»

«Sono rari, sempre lo stesso però… Sono una sorta di fenice appollaiata su un vulcano, visuale molto da fantasy se devo dire.»

Allen mi ride nell’orecchio, assume il tono di un commentatore da stadio. «Descrizione eccellente, posso immaginare di essere lì.»

Alzo gli occhi su Logan che prende appunti. «Approfondisco?»

«Mi faresti un favore.»

«C’era una palla di fuoco in cielo che sapevo con sicurezza non essere il sole, illuminava tutta la regione… ma se mi spingevo oltre la terra la luce diventava sempre più fioca e spariva, fino a lasciarmi su un mare nero. Poi, c’era un paese di mattoni vicino al vulcano… tutte le case avevano finestre molto ampie per far passare la luce. Strade piene di tendoni colorati e, boh?»

«Sono simili ad altri sogni che hai fatto, sono consistenti per ora.» Tira fuori dalla cartelletta un’illustrazione in carboncino: una visuale dal basso di un gigantesco vulcano arricchita di arbusti bassi dalle foglie folte. Sul pendio giace una statua di un guerriero in abiti da monaco, con un braccio spaccato. «Assomiglia a questo?»

La prendo. I dettagli del guerriero, dai capelli riccioluti agli elaborati pendenti negli abiti, sono tali e quali a come li ricordo. «È praticamente uguale, da dove l’hai preso?»

«Mi– mi sono fatto aiutare da un’amica.»

Allen accenna una risata. «Dal tono avrei detto una serpe, altro che amica.»

Mi trattengo dall’alzare gli occhi al cielo. «Questa amica è così brava che penserei che ci è stata in ‘sto posto… aspetta, ti sei fatto commissionare il pezzo?»

Logan si tira indietro, dalla cartelletta spuntano parecchi altri fogli. Saranno almeno una decina di illustrazioni. «No, era un favore. Non posso permettermi di spendere botte da ottanta krone così spesso.»

Il fatto che abbia specificato il prezzo mi fa venire ancora di più il dubbio che se li sia fatti commissionare.

«Per nota.» Allen tossicchia, l’ilarità degli ultimi commenti è evaporata dalla sua voce. «È stato avvistato un emerso, per ora sembra civile quindi ci stanno trattando. Tu e Glenn siete i più vicini, tenetevi pronti nel caso a dover intervenire.»

Una sensazione di vuoto allo stomaco mi coglie alla sprovvista. Oggi è una giornata buona, non possiamo rischiare che la gente rimanga coinvolta in qualche attacco e la paura degli ultimi mesi torni a farsi sentire.

Logan indugia lo sguardo sui suoi appunti ma non pare veramente leggere, la stanchezza deve premergli sulla schiena come un macigno.

Stringo un lembo dei pantaloni. «Avete idea di cosa i sogni potrebbero significare?»

Sussulta come se gli avessi tirato una mazza in testa, si passa una mano tra i capelli scuri. «Gli altri hanno portato qualche teoria al coordinatore, ma non ne abbiamo ancora idea. Potrebbe essere il modo naturale per elaborare gli eventi dell’esperimento.»

Questa è una bugia e lo sa anche lui.

Dalla porta dischiusa passa una sagoma che getta una lama d’ombra nella stanza. Il grattare di una sedia sul pavimento fa sussultare di nuovo Logan che lancia un’occhiata all’uscita, mastica un «come ho fatto a dimen–» Getta la cartelletta sul divano, la biro nera scivola giù e si sfaccia per terra. «Scusami, non so dove ho la testa.»

«Capita a tutti.»

Logan apre la porta e si sporge fuori, fa un cerchio con pollice e indice. «Ben arrivato, Glenn. Vieni dentro.»

La figura mingherlina fa capolino dalla porta, trascinando il borsone da calcio. Ha i capelli rossicci appiccicati alle guance dal sudore e indossa ancora la canotta con lo stemma della scuola superiore cittadina, sarà arrivato di corsa dopo gli allenamenti.

«Giorno,» mormora. «Se non avete finito, aspetto fuori.»

Oscillo il dito a destra e sinistra, non ci scappi bello. «Log mi ha già rapito per un paio d’ore, ora tocca a te. Piuttosto, com’è andata oggi?»

«Giocare con la squadra è bello.» Si passa il palmo sulla guancia per asciugare un paio di goccioline, ha già sedici anni ma per quello che mi riguarda sembra uscito dalle scuole medie con la sua stazza. «È un peccato non poter partecipare al torneo, per ora.»

«Maddai, perché?»

«La scuola pensa che potrei avere un vantaggio ingiusto sugli altri giocatori.» Batte le nocche sul petto, lì dove è stato piantato l’innesto per far funzionare le armature. Peccato che lui è bravo perché s’impegna, non perché qualcosa interferisce con la sua capacità fisica.

Scuoto la testa, che ingiustizia. «Quell’aggeggio serve solo per attivare la CHIMERA.»

Glenn alza le spalle. «Le regole son regole, se vincessimo e qualche genitore insinuasse che è tutto per colpa delle mie prestazioni sarebbe uno schiaffo per tutti.»

E più che altro tu ti sentiresti in colpa.

Se non fosse uno dei pochi compatibili, dubito che qualcuno avrebbe permesso che lui prendesse parte al progetto. Prima la Kaiser riuscirà a capire come rendere le CHIMERA utilizzabili da qualsiasi essere umano, prima potrà tornare a fare il ragazzino.

Logan allunga la mano e arruffa i capelli di Glenn, che rimangono dritti come gli aghi di un porcospino. «Ho del gelato di là, ne volete un po’?»

Glenn fa il segno dell’okay, io scuoto la mano. «Passo, sto congelando.»

«Hai preso freddo?»

Serro le labbra, è colpa mia che non gli ho detto che avevo freddo prima. «Forse un po’, ma sto bene. Posso chiudere i vetri?»

«Fai fai.» Spegne il registratore e sparisce dall’altra parte della porta, vado alla finestra dove una sottile torre di fumo grigia si arriccia oltre i profili dei palazzi e si disperde tra le nubi. Quello non è buono.

«Bussola, c’è qualche problema in corso?»

«L’emerso di prima non è stato aperto al dialogo.» Una imprecazione sottovoce dal ricevitore mi fa drizzare le orecchie, seguita da una serie di squilli uno dopo l’altro. Là al centro di comando sembra tutto impazzito improvvisamente. «I negoziati con la polizia sono appena andati alle ortiche.»

Spalanco la finestra e mi isso sopra. «Partiamo subito.»

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** II. [Tae Maeda] ***





II.

[Tae Maeda]





8 ORE 27 MINUTI ALLA PRIMA APPARIZIONE DELLA PARATA DEL FUMO



Pianto il piede sul cornicione della finestra, i complottisti sono un mare di colori confusi e cartelloni sull’ingresso. Non sembrano essersi accorti del pennacchio di fumo grigio che si alza sopra il profilo degli edifici.

Al lavoro. «C06, attivazione.»

«C02, attivazione,» fa eco Glenn.

L’innesto nel petto formicola, si scalda fino a diffondere un piacevole tepore lungo gli arti. C’è sempre un delay di cinque-sei secondi tra il comando vocale e l’effettivo responso dell’armatura, un tempo un po’ troppo lungo quando si parla di situazioni dove ogni istante conta. C’è da sperare che appianino presto i problemi.

Gli scomparti dei bracciali scroccano. Esagoni metallici scivolano fuori e mi risalgono la pelle, si saldano nell’armatura argentea. Sullo schermo del casco si accendono le solite icone, la scritta CHIMERA 02 appare sotto Allen.

La porta della stanza si spalanca, Logan stringe un paio di cremini in una mano. Strabuzza gli occhi, passa lo sguardo da me all’armatura nera di Glenn. «Che state facendo? Abbiamo il colloquio da finir–» barbetta un paio di frasi incomprensibili. «Insomma, no! Non potete!»

Ha i nervi in pezzi da secoli questo ragazzo, dovrò costringerlo a spiegarmi qual è il problema che lo tormenta.

Congiungo le mani davanti al viso. «Emergenza, dobbiamo andare.»

CHIMERA 02 si illumina. «Dopo torno per il colloquio.» Il lieve ritardo tra la voce di Glenn accanto a me e la trasmissione metallica del casco stride. Prendo un respiro, tra un attimo non farà differenza.

Lancio un ultimo sguardo ai complottisti sotto di noi, giusto un volto in mezzo alla folla si è alzato verso di me.

Mi lancio dalla finestra; il calore alle caviglie cresce, i propulsori mi sostengono a mezz'aria con un ronzio degno di un centinaio di api arrabbiate. Bene, mi servono giusto due secondi per abituarmi, poi devo partire.

Glenn salta dopo di me, compie una parabola che lascia alle sue spalle una scia elettrica. Batte i piedi contro il muro del palazzo di fronte e schizza avanti, rimbalza da un albero al balcone successivo come una pallina da pinball impazzita.

Mi viene il mal di mare a guardarlo.

Prendo quota e volo verso il pennacchio di fumo, strade trafficate si susseguono l’una dietro l’altra. La circolazione in questa zona non è stata ancora bloccata, mi sa che abbiamo a che fare con un emerso poco mobile.

Allen si illumina. «L’emerso è un umanoide, crea barriere di cristallo o vetro senza apparente limitazione.»

Che abbia un aspetto umano è positivo, quelli veramente pericolosi sono bestie di solito.

Glenn schiocca la lingua. «Limitazione in che senso?»

«Diciamo che ha usato uno dei suoi trucchetti per tranciare una camionetta a metà. Per ora non ci sono feriti ma… onestamente, temo cosa succederebbe se dovessimo mandare l’unità di soppressione da sola contro di lui.»

L’immagine di una persona che viene tagliata per il lungo da un pannello di vetro mi fa girare lo stomaco.

Un blocco di macchine ferme ingombra le viuzze, diverse persone stanno smontando dai sedili e vanno in direzione opposta al pennacchio di fumo a passo tranquillo. Altrettante si sono affacciate alle finestre, attirate dall’ultimo disastro del giorno.

Una camionetta grigia con lo stemma della Kaiser è girata di traverso in fondo alla strada in modo da occupare entrambe le corsie, un paio di soldati in armatura standard la affiancano per impedire a quattro matti armati di telefonini di passare la linea di demarcazione. Il resto della squadra è posizionata a ventaglio nell’incrocio, le armi spianate contro l’emerso di turno. Glenn atterra tra di loro, stringe la mano sull’elsa della spada legata alla sua vita.

Inchiodo a mezz’aria.

Il fumo viene da una strada poco distante; la carcassa dell’autovettura in fiamme fa da sfondo all’invasore dimensionale: un ragazzo dai capelli biondi legati in una treccia. Trascina il braccio sinistro – gonfio come un tronco e viola – a terra, stringe la mano normale sulla maschera nera che gli copre occhi e naso.

Ringhia.

Una lastra trasparente si materializza dal nulla e trancia a metà uno dei bidoni che costeggia il marciapiede, lattine schiacciate e cartacce rotolano a terra. Qualcuno spara un paio di volte, i proiettili rimbalzano su una barriera a un soffio dall’essere e si infrangono sul muro di un palazzo, portandosi via un pugno di mattoni.

Il soldato più alto lì in mezzo abbassa lo scudo antisommossa e abbaia un paio di ordini incomprensibili ai colleghi.

Maschera Nera allunga il collo e ruggisce, è così forte che mi trema la cassa toracica.

Allen si illumina. «Procedete. L’obiettivo è neutralizzarlo entro quindici minuti, e se possibile detenerlo. Quello è il limite tollerabile, un secondo oltre e la squadra di soppressione dovrà unirsi per tentare di limitare i danni a persone ed edifici.»

Con la differenza che loro non hanno la protezione offerta dalla nostra strumentazione, quindi rischierebbero la vita infinitamente più di noi.

«E poi,» aggiunge, «non ho bisogno di dirvelo ma la vostra sicurezza ha priorità su tutto.»

Sorrido. «È un piacere sentirselo dire.» Stringo i pugni, una coppia di lame energetiche si delineano dal polso con una leggera curvatura fino al gomito.

Glenn piega le dita come artigli e congiunge le mani; scintille elettriche appaiono ai piedi di Maschera Nera, formano i denti di una gigantesca tagliola che scatta su di lui. Scavano nella coppia di barriere che sono apparse a protezione, ma vanno entrambe in pezzi prima che possano colpirlo.

Mi lancio su di lui con un calcio ad ascia, la mano umana mi afferra la caviglia e sbatte a terra. Un lampo di dolore mi esplode nella schiena, nulla di insopportabile ma diamine… Una lastra di cristallo corre verso il mio collo, la intercetto con la lama del braccio. Lo stridio di due colpi che si scontrano è assordante, nessuno dei due prevale sull’altro.

Glenn gli arriva addosso con il fodero della spada, Maschera mi molla e gli tira un pugno sulle costole prima di essere colpito. Dal punto di contatto si accendono decine di esagoni verde acqua che coprono tutta l’armatura, le gambe gli tremano. Quello deve aver fatto male.

Mi alzo con un colpo di reni e pianto le lame energetiche nel braccio deforme, l’emerso tira un rantolo dolorante. Una coppia di lastre di vetro si frappongono tra di noi, la superficie trema come uno specchio d’acqua quando ci lanci dentro un sasso. Si riempiono di spuntoni aguzzi, uno mi sfiora la gola.

Salto indietro; anche Glenn ha preso distanza, dalla linea arriva il suo respiro pesante.

Schiocco la lingua. «Tutto bene?»

Mi mostra il pollice alzato.

Maschera Nera si tiene il braccio da cui cola una grossa macchia di liquido verde, rimane inerte come se non fosse in grado di muoverlo. Ruggisce, le barriere piene di spunzoni schizzano in nostra direzione.

Ho la squadra di soppressione alle spalle, se lo schivassi–

Incasso la testa e tiro una spallata contro la barriera aguzza, gli aghi si frantumano senza sfondare nulla ma sento il braccio addormentarsi per il rinculo del colpo. Mi si affloscia come se non riuscisse a reggere nemmeno il proprio peso.

La macchia viola risale il collo di Maschera Nera: i muscoli si gonfiano come palloncini, il viso si allunga e mette in mostra una doppia fila di denti irregolari. Rantola, venature verdi gli segnano la pelle.

Anche se lo riuscissimo a fermare, ha passato il limite. Non tornerà normale.

CHIMERA 02 lampeggia. «La Guardiana ci risparmi, sembra entrato nella sua seconda fase.» Si schiarisce la gola. «Scusate, non avrei dovuto dirlo.»

Allen sospira. «Tenete la concentrazione alta.»

La maschera salta a terra, rivela un paio di occhi celesti che si rimpiccioliscono e diventano neri man mano che il volto si deforma in un muso conico. Un paio di canini arcuati spuntano dalle labbra.

È diventato un cinghiale.

Una lastra di un paio di metri si condensa accanto a lui, si allunga con una traiettoria obliqua verso uno dei palazzi. Che sta facendo…?

Con un suono di risucchio, la lama trasparente penetra il muro fino a sbucare dall’altra parte, dividendo in due l’edificio. Oh no.

La parte alta scivola sul vetro verso di noi, giro i tacchi e attivo i propulsori. Glenn schizza in una scia elettrica prima di me, placca un paio di soldati e li trascina fuori dall’ombra imponente.

Solo il capitano armato di scudo è ancora sotto la traiettoria, e la sensazione di intorpidimento al braccio non vuole saperne di sparire. Grosso com’è lui, trascinarlo via sarebbe impossibile.

Lo placco a terra e gli salgo sulla schiena per fargli da scudo.

Le mura cedono in una pioggia di mattoni e detriti, espando la barriera energetica dell’armatura perché avviluppi entrambi: esagoni verdi si dispongono in una semisfera intorno a noi. Una pianta ci si spappola contro e cade giù, trascinata dal peso del vaso. Lo schermo di un computer si sfracella a terra, viene schiacciato da una scrivania dall’aria costosa. Stringo gli occhi.

I colpi continuano incessanti finché non rimaniamo sepolti vivi.

Un’icona di allarme segnala che sto utilizzando la batteria interna a una velocità allarmante; fino ad ora avevo visto solo nei documenti da studiare quel simbolo.

Allen lampeggia. «Tae! Batti un colpo.»

«C06, faretti.» Un fascio di luce parte dal casco, illumina i capelli biondo platino del soldato-gigante. Il petto si muove, sta respirando. Non avevo idea se spingerlo di prepotenza avrebbe creato danni peggiori. «Ditemi che l’edificio era stato evacuato…»

«Tranquilla, non c’era nessuno!» Ha la voce un po’ troppo stridula, per uno che mi sta dicendo che va tutto bene. «Pensa a uscire da lì.»

Trovarmi persone schiacciate come api sul parabrezza è il problema davanti a me per ora, rassicurami meglio, per favore! Urla vengono seguite da decine di spari, mi mordo il labbro, la squadra di soppressione si è iniziata a muovere. «Glenn?»

«Sto bene!»

Pianto le mani a terra, attivo tutti i propulsori dell’armatura contemporaneamente e scatto verso l’alto. Le macerie fanno a malapena resistenza, sbuco fuori, lasciandomi sotto di me una voragine circolare.

Volo in cerchio sull’area.

L’emerso sta correndo verso l’edificio distrutto, zampilla liquido verdastro dalle decine di fori di proiettili che gli hanno martoriato braccia e busto.

Glenn è a poche falcate di distanza da lui, inarca le dita come artigli. Un’altra tagliola energetica si chiude sul emerso, che genera quattro barriere per bloccare uno dei morsetti e pianta la mano sull’altro. Lo strappa da terra.

Scatto, riattivo la lama del braccio e gliela pianto sul fianco. Gli giro intorno per allargare lo squarcio ma un pugno a martello mi stampa sul marciapiede, il dolore mi fa vedere le stelle.

Col cavolo che mi arrendo ora. Gli abbraccio le caviglie. «Stai fermo!»

Un sibilo taglia l’aria, Glenn atterra oltre l’emerso con la spada sfoderata: la testa dell’essere mi cade vicino alla faccia, una zanna sporca di quel liquido verdastro. Il corpo mi stramazza addosso con il peso di un carrarmato, stringo gli occhi. Oltre il danno la beffa.

Tempo di un battito di ciglia: muso e corpo si sfaldano in polvere che mi scivola tra le dita. Lascia solo una pietra a forma di stella macchiata di azzurro e viola; la stringo, questa deve essere consegnata al dottor Havel.

Glenn ripone la spada nel fodero e mi tende la mano. «Stai bene?»

Gliela afferro, mi tira su come se fossi fatta di carta. «Sono stata meglio. Piuttosto, il gigante di prima–»

Mi giro, i colleghi del soldato lo stanno aiutando ad uscire dal varco che ho creato nelle macerie. Mi scappa una risata che non trattengo: ridere è utile, aiuta a fingere che le mani non tremino per la paura. A ritornare nel presente dove siamo solo dei tester che devono solo assicurarsi che le armature funzionino e siano apprezzate dai cittadini.

Stasera nelle pagine dei trending ci sarà un video sfocato di noi due che combattiamo, ci scherzerò sopra con Kaho. Se ho fortuna i miei genitori non lo vedranno.

Saltello sulle macerie sporgenti fino al gruppetto di soldati, Glenn mi affianca. «Noi abbiamo finito, se non c’è altro ci ritiriamo.»

Il gigante lancia un’occhiata alle fiamme ancora alte che lambiscono la camionetta rotta, si tocca l’orecchio e sillaba chiama a uno dei suoi che non ha ancora abbassato il blaster. Si avvicina con falcate enormi e tira una pacca sulla schiena di entrambi.

«Grazie per il vostro lavoro.» Ha una voce estremamente gentile. «Ora toglietevi quegli affari, prima che vi diano problemi.»

Non siamo più nel primo anno di testing, le armature hanno smesso da tempo di andare a pezzi per mancanza di sufficiente energia. Tiro le labbra.

«Non sia così pessimista,» mormora Glenn.

L’uomo accenna un sorriso, alza la mano come se volesse arruffargli i capelli ma non lo tocca. «Va bene. Visto che un veicolo è rimasto integro, vi riportiamo alla Kaiser noi.»

La prospettiva mi piace, dopo il combattimento non ho voglia di distruggermi lo stomaco di nuovo con una terza sessione di volo. «Grazie.»

Glenn poggia le mani sul pomolo dell’elsa. «Potete lasciarmi vicino a Porta degli Aster? Ho il colloquio ancora da iniziare…»

«Nessun problema.»

E anche questa giornata di lavoro è andata bene.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** III. [Tae Maeda] ***





III.

[Tae Maeda]





7 ORE 56 MINUTI ALLA PRIMA APPARIZIONE DELLA PARATA DEL FUMO



Glenn salta giù dalla camionetta, dritto sull’asfalto punteggiato degli ultimi petali viola dell’estate. Mi fa un cenno con la mano e corre sotto il varco di Porta degli Aster; in cinque minuti raggiungerà psicologia digitale per fare il colloquio con Logan. Se tutto va bene, lo vedrò stasera da Kaho.

Scorro di lato sulla seduta per liberarmi del gomito che mi preme contro il fianco, in mancanza di un secondo mezzo di trasporto siamo stipati con la prima metà della squadra di soppressione nel retro della camionetta. Senza Glenn, ho guadagnato un paio di centimetri preziosi per respirare.

La vettura si infila per la strada principale.

Uno degli operativi batte la mano sul blaster appoggiato al suo petto, gli occhi rivolti agli occasionali passanti che popolano il marciapiede. «Alla fine, siamo stati chiamati dal preside.»

Il collega accanto alza le spalle, un sorriso tremulo gli piega le labbra. «Ethan o Thomas?»

«Ethan. Continua a saltare la scuola ogni volta che c’è in programma uno dei corsi della protezione civile.»

«Anche tu hai bigiato alla sua età.»

«Okay, ma tentavo di non creare grane per mio padre. Io a differenza sua le buscavo forte

Il capitano Roland alla mia destra stacca lo sguardo dai suoi colleghi e mi accenna un sorriso, la scatola di contenimento ben stretta tra le dita. Dai piccoli spioncini di vetro filtra il bagliore violaceo della pietra-stella. Ha insistito a tenerla lui per la mia sicurezza, ma in quello stato non dovrebbe far del male a nessuno.

Una notifica mi fa vibrare la tasca. Tiro fuori il cellulare: la prima è un ottimo lavoro da Allen, considerando che non ha più provato a contattarmi sarà bloccato a stilare il rapporto dell’operazione. La seconda viene da Glenn ed è una foto di due cremini incrociati come se fossero spade, un lembo della manica di Logan spunta da un angolo.

Chiudo l’app di messaggistica, l’ultima notifica è una chiamata senza risposta da mamma. Fortuna che ho messo il telefono in silenzioso; non dovrebbe aver già scoperto dell’attacco ma non saprei come giustificare il chiacchiericcio di diversi uomini in sottofondo.

Una chiamata in arrivo inghiotte il display, la foto profilo di mamma ha i capelli in uno chignon striato di nero e argento. L’icona della cornetta verde sottostante trema, quasi a chiedermi di affrontarla.

Perderei. Blocco lo schermo.

Roland alza un sopracciglio. «Non rispondi?»

Le chiacchiere si quietano, diversi paia di occhi mi puntano come se fossi circondata da predatori che attendano un mio passo falso. Stringo le dita sul cellulare. «Non è importante, la richiamerò dopo.»

«Sarà preoccupata.» Fa un cenno del capo verso il resto della squadra. «Non ci dai fastidio se le rispondi.»

Mi scappa una risata nervosa. «Ma figurati se–»

Lo schermo si accende con l’ennesimo avviso di chiamata, Roland serra le labbra. Sento la sua disapprovazione pesarmi sulla schiena, intreccio le gambe e conto i sassolini sul pavimento.

«È preoccupata. Lo farei anch'io al suo posto…»

Devo scegliere tra il subire la sua disapprovazione e il rischio dell’ennesima discussione con mamma.

Premo il tasto verde. «Pronto?»

«Ah, sei viva almeno!» La voce di mamma mi trapana le orecchie. «Tua zia mi ha detto che è crollato un palazzo!»

Ovviamente non ho considerato che zia la chiama a ogni occasione. Forzo un sorriso, se mi comporto normalmente gli operatori smetteranno di prestarmi attenzione. «Sto bene, mamma. Come va a casa?»

«Ho visto il video, non stai bene! Sei. Rimasta. Sepolta. Viva.»

Che tradotto significa: a casa le cose vanno benissimo tesoro, ho il tempo di ricaricare le pagine dei social network finché non appare il video che mi interessa. Mi mordo il labbro per soffocare una risposta di cui mi pentirei. «E invece sto bene.»

«Come fai ad essere calm– ti è già capitato qualcosa di simile?»

«No, ma’.» Se sapesse dell’operazione per piazzare il dispositivo di attivazione della CHIMERA, uscirebbe di testa. Il minimo che posso fare è evitarle altre preoccupazioni. «Sono armature fatte per reggere gli emersi, non si rompono.»

«Basta che si rompa una volta per perderti.» Un singhiozzo le spezza il respiro, si schiarisce la gola. «Posso capire i test ma ti fanno scendere in campo contro quelle cose, e intanto non stai nemmeno più studiando per l’esame di ammissione. Ti interessa avere un futuro?»

Tirare fuori l’università è un colpo basso, non è che mi diverto a non passare gli esami. «Mamma.»

«Chiunque potrebbe prendere il tuo posto lì.»

«Mamm–»

«Niente mamma, Tae. Mi sono dovuta chiedere se avrei potuto sentire la tua voce un’altra volta. Salvare gli altri non è il tuo mestiere e non sarà il tuo futuro!»

«Hai finito?» Va bene essere comprensiva, ma non può succedere questa cosa ogni volta che mi chiama. «Se non lo faccio io, chi lo farà? Non posso mettermi a dire che gli emersi non mi riguardano, vivo in questo pianeta: riguardano me come tutti.»

Il silenzio dall’altro lato della cornetta è assordante, sfrego la punta della scarpa sul pavimento. Non ho voglia di alzare gli occhi per scoprire come Roland e i suoi colleghi mi stanno guardando.

Sospiro. «A fine mese ho la settimana libera, andiamo al mare insieme?»

«Mi fai vivere con il terrore di perderti ogni giorno.»

Non ce la fa a seppellire la questione, eppure si chiede perché non ho mai voglia di chiamarla. Mi passo la mano sulla guancia.

«Così mi uccidi.» Riattacca.

«Ti voglio bene anch’io, ma’.»

Caccio il telefono in tasca, Roland non aggiunge altro.





Mi fermo davanti al portellone che mi divide dall’ala di contenimento, rivolgo il viso alla telecamera in alto. L’ultimo controllo prima di accedere a un’area è sempre fatto da una persona fornita di un fascicolo con le foto degli autorizzati, per evitare che qualcuno tenti di infiltrarsi dentro con qualche trucchetto che inganni la tecnologia.

Stringo la scatola con la gemma-stella. Non so se il criminale riuscito ad arrivare fino a questo punto si farebbe fermare da una porta chiusa.

Il portellone scorre e mi incammino nel corridoio asettico. Uno scienziato trascina i piedi poco più avanti, massaggiandosi la radice del naso; sparisce dentro una delle sale dei pisolini che costellano questo piano. È il primo che ci vedo entrare sulle sue gambe da una vita, i più ci vengono portati dopo essere svenuti sul lavoro.

Vorrei che mamma capisse quanto sacrificio richiede il loro impegno, forse approverebbe un po’ di più quello che faccio. Stringo le dita sulla scatola. Non posso vivere di forse, mi conviene sganciare in fretta il materiale extradimensionale a Rayet e sfruttare il tempo prima di stasera per fare altre prove di ammissione.

Passare è l’unico modo per darle torto.

Arrivata in fondo al corridoio giro a destra e mi affaccio sulle scale che portano al piano inferiore, corro giù per la rampa. La terra trema, metto il piede in fallo e scivolo avanti. Afferro il corrimano, il braccio tira ma sbatto solo il sedere.

Il dolore mi risale la spina dorsale, mi sfugge un gemito soffocato.

Un ringhio arriva dalle viscere dell’edificio, si distorce in un grido dissonante che minaccia di farmi scoppiare i timpani. Mollo la scatola di contenimento che rimbalza sui gradini, si sfaccia sul muro in fondo alla rampa. Premo i palmi sulle orecchie. È scappato uno degli emersi confinati?

Il grido cala fino a sparire, ma un fischio mi continua a tormentare. Tendo le orecchie, non mi pare che sia partito l’allarme, saranno riusciti a sedarlo.

Mi tiro su e scendo le scale, le chiappe mi pulsano da matti. Quanto posso essere sgraziata…

Raccolgo la scatola di contenimento, che per fortuna è senza ammaccature. Seguo il corridoio sotterraneo, non si vede nemmeno mezzo dipendente stressato correre. Avranno tutto sotto controllo?

Mi fermo alla targhetta della sala relax dove noi tester ci imbuchiamo di solito, spalanco la porta. Bussola è sdraiato a testa in giù sul divanetto, con il cellulare che gli illumina il viso e i ciuffi castani che vanno in ogni direzione. Si è già liberato del rapporto da fare? Sposta il braccio e mi rivolge uno dei suoi sorrisi innocenti, il cuore mi fa una capriola nel petto.

Al si schiarisce la gola. «Per la telecamera, ci dica come ci si sente a prendere un edificio in testa.»

«Avevi un posto in prima fila per sperimentarlo.»

«Non seguo gli streaming delle vostre gesta, la vostra visuale si muove così velocemente da far venire il mal di mare. Soprattutto Glenn.»

Quanto ha ragione. «Vero, vero. Non ci possiamo permettere che il nostro prezioso Bussola vada KO durante un’operazione.»

Allen gira il busto di lato e butta i piedi per terra, si siede. Soffia via un ciuffo che gli è ricaduto sul naso. «Tua madre ti ha chiamato.»

Serro le labbra e mi lascio cadere accanto a lui, ora vorrei un po’ che Rayet mi venisse a salvare da questa conversazione. «Ti sorprenderai, ma il grido dagli abissi che si è sentito prima non era mia madre.»

Mi spintona la spalla. «Il dormancy scazzato là sotto fa meno paura di tua madre.»

Che uno degli emersi denominati dormancy abbia fatto un casino tale non è un buon segno, quella gente dovrebbe essere in perenne stato di sonno profondo per permettere agli scienziati di studiare cosa li rende così aggressivi.

Intreccia le dita. «Qual è il problema, allora?»

«Nessuno, davvero.»

«Il video di te e Glenn che combattete è già online da un po’. Devo tirare a indovinare?»

Poggio la testa contro la sua spalla. «Sbaglieresti. È stata zia a dirglielo.»

«Sfiga, non hai avuto nemmeno la possibilità di indorarle la pillola.» Mi passa il braccio intorno e accarezza i capelli.

Chiudo gli occhi, rilasso la schiena. Il dolore di essere caduta dalle scale è già un fastidio lontano, però quel così mi uccidi di mamma brucia. Mi fa sentire una dodicenne che l’ha fatta chiamare dal preside perché è stata coinvolta in una rissa. «La capisco, ma vorrei che non mi dovesse far sentire uno schifo ogni volta che mi parla.»

Mi accarezza la guancia con il dorso della mano, poggia la tempia sulla mia testa. La città non ha mai visto emersi della pericolosità di quello che ha distrutto Marton, se non sviluppiamo in fretta le CHIMERA quando un emerso del genere apparirà di nuovo ci faremo ammazzare tutti.

La porta della stanza si apre; Rayet inchioda sul posto, stende le labbra in un ghigno divertito. Quel ragazzo ha la faccia di un lupo che ha appena puntato un buffet. «Non lasciate che vi disturbi.»

Uccidetemi. Sento le orecchie andare a fuoco ma Bussola continua ad accarezzarmi la guancia come se non avesse capito l'insinuazione. Mi districo dal suo abbraccio, non voglio dare spettacolo.

Rayet si avvicina, il codino di capelli biondi rimbalza a ogni suo passo. Gli consegno la scatola di contenimento, la prende con una mano e la scuote: la pietra sbatacchia avanti e indietro. «Sarà la ventesima che raccogliamo?»

Bussola corruga le sopracciglia, la sua faccia contrariata è a tratti adorabile. «Sii delicato con quella roba, Gareth.»

«Sì, il vetro speciale fatto per reggere emersi rischia di spaccarsi se lo sbatto un po’, ma per piacere.» Ridacchia. «Ditelo che vi dà fastidio che vi ho disturbato.»

«Figurati, vieni a darmi una mano con operazione: buonumore.» Allen mi indica con entrambe le braccia. «Tae ha bisogno di ogni patpat che il mondo le offre per riprendersi.»

Eh? No! Non ne ho bisogno.

Rayet lo guarda da capo a piede, ma Allen non dà cenno di star scherzando. Mi rivolge uno sguardo di pietà. «Bussola, non ti tolgo il piacere.»

Gira i tacchi, lasciandomi sola con il mio imbarazzo.





Poggio la coppia forchetta-coltello sull’ultimo tovagliolo libero, ho ancora una manciata di posate ma tutti i posti sul tavolo ne sono forniti. Non mancano nemmeno i bicchieri. La risata allegra di Kaho risuona dalla cucina, la seguo.

L’odore di frittura mi pizzica il naso, dovrò farmi una doccia appena tornata da qui. La padrona di casa infila la schiumarola nel tegame, sposta le patatine e ne studia il colore. Gli occhi mi scivolano sui corti capelli candidi che non nascondono le orecchie leggermente appuntite.

«Ed è finita così?» Mi rivolge il viso, gli occhi verde brillante mi guardano con affetto. «Gareth ha sempre un tempismo eccellente.»

«L’avrei buttato a calci nella bocca di qualche bestia.» Magari del dormancy incavolato di oggi.

Batte la schiumarola sul bordo del tegame per liberarla delle gocce di olio bollente, la poggia sul coperchio della legumiera in cui ha già infilato le patatine pronte. «Tae, non vorrei essere cattiva, ma quando tu vuoi nascondere qualcosa la gente ti becca. Sempre. Ricordi la volta che hai detto che la carta si fa con le foglie degli alberi?»

Ero riuscita a dimenticarlo, che dolore. «Ero alle medie.»

«Eri già alle medie. E ciò mi porta al fatto che quando litighi con tua madre hai questa nuvola di negatività addosso che ti spegne ogni espressione.» Poggia la schiena al mobiletto e incrocia le braccia. «Come posso aiutarti a riprenderti?»

Mi mordo il labbro, quello non l’avevo specificato. «Non è che puoi fare molto, non si può rassicurare.»

«Certo che non si può rassicurare, sei sua figlia.»

«Fa male che tu abbia ragione.»

Kaho stende le labbra in un sorriso di circostanza, ha un paio d’anni in più di me ma ha mantenuto quei tratti che da bambina la facevano sembrare un folletto uscito da una fiaba.

Per l’ennesima volta, la domanda sei un’emersa? mi rimane impigliata sulle labbra. Siamo cresciute insieme, è a tutti gli effetti una cittadina del paese ma è anche la ragazza che quando eravamo bambine si è spaccata il braccio, e il giorno dopo è tornata a scuola senza ferite.

«Vorrei aiutarti, ma è un brutto circolo vizioso: tua madre è arrabbiata, tu ti metti sulla difensiva e via discorrendo… sei davvero tanto trasparente con le tue emozioni.» Fa una risata debole. «L’unico che non ti legge bene è Al.»

Già, ma probabilmente è colpa mia che non mi do una mossa. «Guarda che anche lui si è accorto immediatamente che avevo litigato.»

«Rettifico, Al è così abituato ad azzeccare come ti senti che dà per scontato qualcosa di più palese.»

Quanto vorrei avere un cuscino per tirarglielo in faccia. Una scheggia passa davanti all’entrata del salotto, seguita da Glenn e i fratelli minori di Kaho. Metto la mano a cono intorno alla bocca. «Ragazzi, non correte!»

«Sono arrivate le pizze!»

Kaho abbozza un sorriso. «Lasciali fare.»

La campanella della libreria al piano di sotto trilla, si vede che Bussola e Rayet sono davvero arrivati.

Seppelliamo l’argomento prima che quei due sentano qualcosa che non dovrebbero.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** IV. [Tae Maeda] ***





IV.





Una coppia di avventurieri sbuca dal sentiero polveroso, capo e bocca coperti da fazzoletti grezzi che non bastano a proteggere dal caldo o dalla sabbia alzata dal vento. Con i mantelli addosso e le calzature chiuse, solo piccoli lembi di pelle pallida sono visibili.

Forestieri, probabilmente della progenie delle nubi. Nessun altro sconfinerebbe in questo modo nel territorio del vulcano.

Stendo le ali e cavalco la brezza fresca che arriva da nord, giro in cerchio per non perderli di vista.

I due rallentano alla statua rovesciata del monaco, legata al terreno da diversi cespugli di rovi che le sono cresciuti intorno fino ad avvilupparla. Il più alto degli avventurieri chiude la mano a pugno, lame di fiamme sgorgano dal metallo della statua e divorano i viticci.

L’altra incontra i miei occhi e ghigna. «Coso, te l’avevo detto che sarebbe arrivato.» Raccoglie un sasso. «Gli Sval sono sempre in mezzo quando vuoi salire il vulcano.»

«Ma perché?»

«Ma che ne so. Producono freddo continuamente, probabilmente hanno bisogno di stare il più vicino possibile al calore per non congelare pure loro.» Lancia il sasso, raccolgo l’energia nelle ali e lo colpisco, le briciole picchiettano il terreno.

Le caverò gli occhi se proprio ha intenzione di sconfinare.

Scendo in picchiata. L’avventuriera tira fuori uno scudo circolare da sotto la mantella e me lo sferra contro, ci pianto il becco dentro. Soffio, rivoli di freddo si condensano in cristalli che si allargano sul metallo. Sbatto le ali, l’ombra dell’altro tizio mi copre, la lama di una spada brilla sotto il sole.

Mi cala tra capo e collo, schiaccia a terra e intacca le scaglie. Grido.

«Sono estremamente testoni, quindi…» L’avventuriera si slaccia la mantella e me la butta addosso, la lama della spada viene sfilata in tempo perché qualcuno di pesante mi schiacci. «Ti assaltano finché non fai veder loro chi comand–»

Li scalcio, quella bastarda grida ma non vola giù dal mio dorso.

L’uomo schiocca la lingua. «Devi proprio trattarlo così?»

«Oh, sta buono.» Legano la mantella con una corda. «Guarda qua, risolto! Fortunatamente, sono prevedibili da far schifo.»

Un bip elettrico risuona.


[Tae Maeda]

Tasto il tessuto alla cieca: il sacco è fresco e non si è ancora congelato a contatto con le mie ali. È confortevole, ma caverò comunque gli occhi a quella tizia che ha osato legarmi come un animale da macellare.

Aspetta, cosa?

Mi tiro su, la luce verde della sveglia è offuscata da una patina biancastra. Sfrego il palmo sulle palpebre gonfie di sonno per liberarmene, riconosco l’ombra a malapena abbozzata della libreria a ridosso del muro, la sedia ricoperta di una pila di vestiti piegati e la lucertola di peluche gigante buttata in un angolo.

Mi scappa da ridere. Vero, sono una persona, non un birdo iroso… eppure ogni volta che mi sveglio da ‘sti sogni ho l’impressione di essere ancora su quel sentiero scosceso, pronta a fare rissa con il mondo.

Clicco l’interruttore sul muro: la luce bianca mi abbaglia, soffoco una protesta. Le lenzuola sono appallottolate a terra come se me le fossi strappata di forza nel sonno, dovevo essere parecchio arrabbiata. La piccola sveglia rettangolare segna le due e quarantatré del mattino, ho toccato letto da a dir tanto un’oretta e sono più stanca di prima.

Strizzo gli occhi e afferro il diario dove di solito butto giù la malacopia dei miei sogni, sfilo la biro dall’elastico. Sfoglio decine di pagine di geroglifici che dovrebbero essere la mia scrittura fino alla prima pulita, basteranno un paio di appunti e lascerò il problema alla Tae del futuro.

Un bip elettrico spezza il silenzio, tendo le orecchie. Ho lasciato la porta del freezer spalancata prima di dormire? L’immagine di una pozza d’acqua che allaga la cucina e troppe verdure surgelate da dover cuocere entro poco mi punzecchia. Come non detto, mi sono fatta evaporare il sonno di dosso.

Stappo la biro. Segno: 2/47, due avventurieri, analizzata come un animale raro, aggredita, voglio menare la donna. Butto il diario sul letto e mi alzo, il freddo mi morde le piante dei piedi. Scandaglio le piastrelle marroni ma non c’è traccia delle ciabatte, nemmeno sotto il letto.

Bip.

Scrollo la testa, raccatto dalla scrivania l’auricolare Kaiser sotto carica ed esco. La luce rischiara a malapena un lembo del corridoio dell’appartamento, le ciabatte a forma di squalo sono l’una accanto all’altra a metà strada verso il salotto-cucina.

Non le avrei lasciate lì, non avevo così sonno.

Bip.

Sussulto, è stato prima del solito.

C’è qualcuno?

Mi appiattisco al muro e scandaglio l’oscurità, le ombre sono immobili. Accarezzo uno dei bracciali, con il delay di attivazione potrei trovarmi attaccata ben prima che l’armatura si attivi.

Indosso l’auricolare, premo il pulsantino sporgente per attivarlo. «Connesso,» annuncia una voce robotica.

Un «hm?» maschile arriva dalla linea, riconosco l’inflessione di Bussola. Tutti gli altri coordinatori devono essere malati se lui è già di nuovo al lavoro dopo aver fatto il turno del pomeriggio. «Torna a dormire, ce ne occupiamo noi.»

«Credo ci sia qualcuno in casa,» sussurro. Non lascerò ad altri il piacere di cacciare fuori questo buontempone a calci. «Attivo l’armatura.»

Allen abbassa la voce come se temesse di poter essere sentito a sua volta. «Fagli il culo.»

Trattengo una risata divertita, sapevo che l’avrebbe detto. «C06, attivazione.» I bracciali scattano, rilasciano gli esagoni metallici che si saldano nell’armatura argentea. Tiro un pugno contro il palmo, ora faccio passare all’intruso qualunque voglia di essere un criminale.

Il corridoio prosegue in una linea retta fino alla cucina, accendo l’interruttore. Sportello del freezer chiuso, tavolo pieno di libri come al solito e mobiletto del televisore intoccato.

Bip. È più vicino.

«Tira un pugno a quel ladro da parte mia!» Il chiacchiericcio di Allen in sottofondo rende difficile distinguere i suoni, ma è rassicurante averlo accanto.

Chiunque è entrato in casa mi ha portato via le ciabatte da accanto al letto mentre stavo dormendo. Avrebbe potuto farmi quello che voleva.

Bip. Sul tavolo il fascicolo con le vecchie prove d’ingresso spicca in mezzo al marasma di manuali, non sembra sia stato spostato nulla. Mi chino e inclino la testa, c’è un adesivo grigio attaccato tra la traversa e uno dei piedi.

Ci passo un dito sopra senza premere, dosare la forza da utilizzare con la tuta indosso è quasi impossibile. «Bussola, domani mattina mi mandate qualcuno a verificare cos’è ‘sto affare?»

«No problemo, domani mattina dovremmo aver qualcuno libero. Adesso siamo un po’ presi.» Sono sempre presi da qualcosa. Intanto, qualcuno è entrato in casa solo per spostare le ciabatte e attaccare un adesivo che fa rumore, per essere uno scherzo è troppo elaborato. Rayet non lo farebbe, e non ho altri amici così cretini.

Non sto nemmeno considerando da dove si sono introdotti… Casa è ancora sicura?

L’anta della finestra che dà sulla strada scricchiola, sospinta dal vento: non l’avevo lasciata aperta. La città è invasa da pennacchi di vapore che passano dal giallo al rosso, il cartellino colorato attaccato al vetro con un pezzo di nastro adesivo oscilla.

Goditi lo spettacolo!
-La parata del fumo


La scritta è stata battuta a macchina e corredata dal disegno di una piuma nera uscita da qualche cartone animato.

Lancio uno sguardo a Rowell Allen a lato della mia visuale. «Cosa sta succedendo in città?»

«Nulla di grave per ora. Un emerso si è fatto tutta la quindicesima a piedi, non dovrebbe aver fatto danni ma stiamo inviando un paio di agenti a controllare.»

«Vado io al posto loro.» Mi avvicino al vetro in maniera tale da inquadrare il rettangolo di carta. «Mi hanno palesemente sfidato.»

Un paio di battiti dall’altra linea scandiscono il silenzio. «Posso capire perché pensi che le cose siano collegate…»

«Ma?»

«Potrebbe essere una ragionevole coincidenza. Rientra alla Kaiser e lasciaci investigare sulla faccenda prima.»

Salgo sul cornicione della finestra. «Se vogliono attirare la mia attenzione, significa che sono pronti a vedersela con un robot armato fino ai denti. Non posso permettere che un altro si metta a rischio.»

«Tae?»

Mi lancio dalla finestra.





«Se ti metti nei casini, l’unico che potrà venirti a recuperare velocemente è Glenn.»

«Ma domani ha scuola.»

«Appunto! Per l’amor della Guardiana, torna indietro prima di dover rischiare di svegliarlo per salvarti.»

La scia di fumo colorato si è diradata, lasciando solo pochi sbuffi a striare il cielo di arancione, giallo e rosso. Inchiodo su un incrocio che dà sulla quindicesima; le finestre degli edifici sono tutte buie, non una macchina in movimento…

Serro le labbra. «Si sa se questa roba è velenosa?»

«Chi ci ha segnalato l’incidente è sotto osservazione per aver inalato i fumi.» Il fruscio di carte sfogliate mi accarezza le orecchie. «Dai primi rapporti non sembra aver patito conseguenze.»

Ripercorro la via tenendomi al di sopra dei lampioni, piccole gocce colorate chiazzano il centro della strada, spezzate da occasionali orme di stivali. La scia si infila nel parcheggio interno di un supermercato e ferma vicino alla pensilina dei carrelli.

Una figura accucciata sbuca da dietro le piante decorative accanto, punta il cellulare su una coppia di orme gialle ben definite. Potrebbe essere la Parata? «Mi approccio.»

«Non farti mettere in un sacco e rapire.»

Rabbrividisco, il ricordo del sogno mi pungola con un sensazione sgradevole di déjà vu. Tocco terra, la figura salta sull’attenti con un gridolino femminile e mi punta il cellulare addosso. Un lampo di sollievo attraversa gli occhi gialli.

Mi schiarisco la voce. «Sono della Kaiser, vorrei farti due dom–»

«Intuivo.» Mi gira attorno, la frangia castana cela a malapena la cicatrice che le taglia il sopracciglio sinistro fino alla guancia. Mi punta con l’indice, la manica della felpa troppo grande le scivola giù fino al gomito. «Non avevo mai visto gli eroi della città così da vicino. Facciamoci un selfie!»

«O-okay.» Magari sarà più disposta a parlare.

Mi affianca, passa una mano dietro la schiena e scatta. Il flash mi schiaffeggia gli occhi prima che io possa mettermi in posa, li strizzo, cerchi di luci danzano nella mia visuale come lucciole.

La tizia batte l’indice sullo schermo, un sorriso soddisfatto le increspa le labbra. «Non ti dispiace se non ho aspettato, vero? Tanto non è che puoi fisicamente sorridere per la telecamera.»

Scuoto la testa, la pensilina trasparente dei carrelli cattura un riflesso di luce. Il supermercato non dà segno di vita, lancio un’occhiata al complesso di uffici dall’altra parte della strada ma da qui è impossibile capire qualcosa.

Dovrebbe essere facile difendere questa civile da un eventuale attacco, ma preferirei che non accadesse nulla con lei presente.

La tizia mi bussa sulla spalla. «Ma siete full robot o lì dentro c’è un essere umano?»

«Umanaumana,» biascico, congiungo i palmi e li appoggio sul casco. «Hai per caso visto qualcosa?»

«Intendi l’apparizione di quella cosa?»

Do per scontato che intenda la Parata, annuisco.

«Dall’inizio alla fine! Credevo di aver bevuto troppo stasera ma welps.» Fa uno svolazzo della mano. Non ha le guance rosse tipiche di chi è ubriaco e nemmeno la voce strascicata. «Di base c’era questo ragazzo carino che camminava per strada manco fosse il protagonista di un musical, forse suonava il flauto? Sta di fatto che si è lasciato alle spalle questa scia di fumo colorata e poi fa puff, esploso, deflagrato come un palloncino. Ho filmato tutto.»

«Puoi consegnarci la registrazione? Sarebbe estremamente di aiuto alle operazioni.»

«No prob!» trilla la ragazza. «Ho intenzione di postarlo appena torno a casa. Con il selfie. Ti immagini il traffico che arriverà alla mia pagina? Era anche ora.»

Ricordati che sei tu strana a non avere le sue stesse priorità Tae, alcune persone ci tengono alla fama online. Sospiro. «Preferiremmo che non lo pubblicassi nulla finché non abbiamo chiaro che cosa sia successo.»

«Scherzi? Che volete fare, insabbiare questo marasma? Buona fortuna, perché io non ve lo permetterò!» Batte il tacchetto delle scarpe a terra.

Forse è davvero ubriaca, mi conviene scortarla a casa prima che si cacci in qualche casino. Le metto la mano sulla spalla. «Se la gente sa di un emerso prima che noi lo mettiamo in sicurezza, c’è rischio che provino a trovarlo e interagirci.»

Mi guarda con occhi vacui.

«È pericoloso,» insisto.

Non un segno di comprensione da lei.

«Basta che aspetti che ti diamo l’okay per postarlo e intanto consegni una copia del video a noi.»

«Yeah, no. Non mi faccio fregare.» Mi schiaffeggia il polso.

Allungo la mano per afferrarle il telefono, ma si accuccia a terra. Mi fissa negli occhi, un sorriso di sfida le piega le labbra. Provo a prenderle il retro della maglia, la ragazza scatta di lato e si porta il dispositivo accanto al viso come un personaggio da cartone animato. Ci manca solo che gridi trasformazione!

Allen lampeggia in un angolo della mia visuale. «Tae?»

Non commentare, ti prego. Non posso certo utilizzare le maniere forti con lei, la CHIMERA è tarata per distruggere i problemi non per catturare uno stecchino troppo svelto.

Sospiro. «Che stai facendo?»

La ragazza si impettisce. «Difendo i miei diritti di cittadina, non ho alcun dovere di ascoltare un robot. O una aiutante della Kaiser, se sei davvero umana lì dentro.»

«Ti sto solo chiedendo collaborazione.»

Fa un passo indietro, ogni briciola di sicurezza le evapora di dosso. «E io posso non dartela, se continui a insistere chiamo la polizia!»

«La Kaiser ha l’autorizzazione di trattare gli eventi collegati agli emersi, non aiutare è intralcio alla–»

«Non ci parlo con una insabbia-verità-governativa!»

Mi punta il pugno addosso. Glielo schiaffeggio di istinto, il telefono vola via e si schianta nel mezzo del parcheggio, piegato in due come un flip phone di ultima generazione. La scia di vetro sbriciolato sull’asfalto non lascia molte speranze.

La matta si copre la mano con l’altra e soffia un lamento di dolore. Mi tira un pugno a martello sulla spalla, strizza gli occhi. «Cazzo.»

Non era così che volevo che andasse.

Mi tira una pedata contro il ginocchio, salta indietro con un altro gemito frustrato. Mi punta un dito tremante al petto. «Dovrai ripagarmelo! Chiamerò la polizia e ti costringerò a ripagarmi tutto!»

Allen sospira. «Attiva lo speaker, ci parlo io.»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4080435