Danzando col diavolo

di skeight
(/viewuser.php?uid=7425)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo I ***
Capitolo 2: *** capitolo II ***
Capitolo 3: *** capitolo III ***
Capitolo 4: *** capitolo IV ***
Capitolo 5: *** capitolo V ***
Capitolo 6: *** capitolo VI ***
Capitolo 7: *** capitolo VII ***
Capitolo 8: *** capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** capitolo IX ***
Capitolo 10: *** capitolo X ***
Capitolo 11: *** capitolo XI ***
Capitolo 12: *** capitolo XII ***
Capitolo 13: *** capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***



Capitolo 1
*** capitolo I ***


“Mi chiedo perché dobbiamo perdere tempo con quel vecchio ubriacone”

“Mi chiedo perché dobbiamo perdere tempo con quel vecchio ubriacone”

“Taci, InuYasha! Hachi ha detto che stavolta il maestro Mushin ci doveva dire qualcosa di importante”

Sul dorso di Hachi, il gruppo si sta dirigendo verso il tempio del maestro di Miroku. Stranamente, lo trovano sobrio, pur con l’immancabile fiaschetto in mano.

“Non sei ubriaco? Allora deve trattarsi davvero di qualcosa di grave!”

“Grave non direi, Miroku, ma certo è una cosa molto seria. Venite con me...”

Il vecchio bonzo li conduce in una piccola stanza, al centro della quale giace, su un logoro futon, un anziano addormentato. Il suo aspetto è tale che Kagome si copre gli occhi, e anche InuYasha ha un sussulto. Non che l’uomo sia brutto, ma è ridotto in condizioni spaventose: la pelle divorata dalle rughe, i pochi capelli che sono bianchi ma sembrano scuri per la sporcizia che li ricopre, le unghie lunghe, i vestiti laceri.

Che è successo a questo vecchio?” chiede Sango inorridita “e perché lo lasciate a giacere in queste condizioni spaventose?”

“È lui stesso che vuole stare qua” risponde il maestro Mushin “Gli ho detto di lavarsi e di stare in una stanza riscaldata, ma lui non vuole. Ma a parte questo, Miroku, non avverti qualcosa?”

“Sì. Una leggera traccia di aura maligna”

“È vero!” si irrigidisce InuYasha “Sotto questa puzza, la sento anch’io”

“Sentite bene. Eppure quest’uomo da cinquant’anni non fa che lavorare per gli altri. Abitava in un villaggio qui vicino, dove insegnava ai bambini a leggere e scrivere, aiutava gli abitanti in molti lavori, curava i malati, e anche là si ostinava a vivere in queste condizioni degradanti. Alcuni giorni fa si è ammalato gravemente, e gli uomini del villaggio lo hanno portato da me perché lo guarissi. Non posso fare niente, la malattia unita all’età avanzata lo stanno consumando velocemente. Ma nonostante sia vicino alla morte è ancora lucido, e quando è sveglio parla molto... e dice delle cose...

Che cosa dice?” chiede Kagome.

“Ora sentirete”

Il maestro Mushin scuote il vecchio, che lentamente apre gli occhi e si guarda intorno.

“Maestro Mushindice con voce lamentosa “Mi hai portato delle visite? Vuoi che la mia aura maligna li contamini?”

“La tua aura maligna?” ripete Miroku.

“Sì, l’aura che mi si è attaccata e che mi porto addosso da quel giorno maledetto in cui per l’ultima volta ho visto Onigumo...

Onigumo?!” esclamano all’unisono InuYasha e Miroku.

“L’uomo che ha dato vita a Naraku...” mormora Kagome.

“Lo conoscete?” chiede l’uomo.

Cosa sai di Onigumo, vecchio?”

Onigumo... l’amico di una vita... e quello che è diventato poi... non ho mai raccontato la sua, la mia storia, ma forse ora è giusto che qualcuno sappia... perché la vergogna di un uomo può essere la salvezza di molti...”

Il vecchio chiude gli occhi, e inizia a narrare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** capitolo II ***


Ecco il secondo capitolo, spero che vi piaccia^^

Ecco il secondo capitolo, spero che vi piaccia^^

 

Questo è il racconto che il vecchio malato nel tempio del maestro Mushin ha fatto ad InuYasha ed al suo gruppo, così come è uscito dalle sue labbra.

 

Mi chiamo Umitsu. Quando ero ragazzo, mio padre era un ufficiale importante al servizio dello shogun Yoshizumi, che allora era in lotta con Yoshitane per il controllo del paese. Quanti anni sono passati da allora? Poco meno di sessanta, credo. Era un periodo di battaglie continue, e le truppe guidate da mio padre si unirono a quelle di un altro generale di Yoshizumi, per presidiare un vasto territorio sull’isola di Hokkaido. In realtà, dopo questa unione, iniziò un periodo di stallo che durò per circa due anni, e i soldatti di fatto si stabilirono nei villaggi della zona, mettendo su famiglia o portando la propria. Noi figli dei soldati fraternizzammo coi ragazzi del luogo. Tra questi c’era Onigumo. Un ragazzo molto schivo, riservato. Giocava poco con gli altri, spesso aiutava la madre nei lavori di casa. Gentile con tutti. Io, al contrario, ero un pessimo soggetto. Allora avevo sedici anni, e quando ero più piccolo mio padre mi trattava molto severamente, ma in quel periodo lui era totalmente occupato dai problemi militari, e io mi beavo di quella libertà. Tra l’altro, l’essere figlio di un generale importante mi dava autorità sugli altri ragazzi, per cui ero diventato una specie di capobanda. Mi piaceva essere obbedito e ammirato da tutti, per questo non vedevo di buon occhio Onigumo, che sembrava del tutto indifferente al mio carisma. Così una volta andai da lui e lo afferrai per la veste.

“Senti un po’, ragazzino” gli dissi “Ora piantala e vieni con noi, ché ci serve un ragazzo in più per giocare”

Ma sto aiutando mia madre...” protestò lui, al che gli diedi un sonoro schiaffo.

“Non ti vergogni a fare questi lavori da donna!? E comunque se io ti dico di venire con noi devi farlo e basta, senza discutere!”

Così mi seguì, ma anche se giocò di malavoglia ci accorgemmo tutti che era uno in gamba, cosa che me lo rese abbastanza simpatico.

Decisi di cercare la sua amicizia. Mi ero accorto che Onigumo, che era intorno ai tredici anni, era molto attratto dalle ragazze, in particolare era innamorato di una certa Yuko, ma era troppo timido anche solo per iniziare una conversazione. Allora sedussi una delle ragazze più belle del villaggio, e feci in modo di passare più volte, abbracciato a lei, vicino ad Onigumo, per suscitare la sua invidia. Ma quel ragazzo era incapace di provare sentimenti negativi, era più che altro ammirato dalla mia abilità. Per questo qualche giorno dopo andai da lui e gli dissi: “Perché non ti trovi anche tu una ragazza?”

“Non saprei come fare...” rispose arrossendo.

“Di certo così non farai niente: devi essere più attivo, prendere l’iniziativa, altrimenti saranno gli altri a sfilartele sotto il naso, compresa quella Yuko che ti piace tanto”

“Non è vero! Cioè...”

Ma dai! Lo si vede da un chilometro! E poi non devi nascondere niente al capo, che sono io... Anche perché io ti posso aiutare a conquistarla...

“Davvero?”

A quel punto era fatta. Onigumo mi guardava come a un modello, e io ero orgoglioso di aver dimostrato ancora una volta la mia abilità. Nei giorni successivi spiegai molte cose a Onigumo, e lo misi in contatto con Yuko, a cui tra l’altro non dispiaceva. Ma in quei giorni la tregua era agli sgoccioli, i soldati iniziavano a riprendere le armi, e anche noi ragazzi dovevamo dare una mano: essendo giovani e svelti, dovevamo fare la guardia di notte intorno al villaggio, ed avvertire se vedevamo nemici o altri sospetti. Era un incarico abbastanza leggero, e non ci impediva di continuare le nostre attività. Onigumo, in particolare, dopo un corteggiamento lunghissimo ed esasperante (per me che lo consigliavo), era uscito dal villaggio di notte con Yuko, e aveva, per così dire, consumato. Nei giorni successivi aveva perso completamente la testa, sempre a girare intorno a Yuko, e tutte le notti andava da lei. Non che fosse diventato un maniaco, intendiamoci: quando si incontravano di nascosto facevano lunghe e romantiche passeggiate.

Ora so che Onigumo era entusiasta di aver scoperto un mondo di cui prima non immaginava l’esistenza, e questo entusiasmo aveva allentato il suo autocontrollo: pensate che una sera che era di guardia lui, che era così ligio al dovere, lasciò la sua postazione per andare di nuovo da Yuko! Quella volta, mentre passeggiavano, li vidi (perché anch’io giravo molto di notte), e divertito li seguii di nascosto, per prendere in giro Onigumo, una volta che avesse finito. Ma a sentirli parlare mi veniva il latte alle ginocchia, a me che ero un tipo molto cinico e amante del divertimento: Onigumo non parlava d’altro che di sentimenti, sentimenti, sentimenti, e mai che allungasse una mano. Ma mentre eravamo lì, loro a parlare e io mortalmente annoiato ad ascoltare, avvenne qualcosa: sentimmo delle urla, una terribile confusione, cozzare di spade e scudi, e vedemmo alte fiamme alzarsi dal nostro villaggio.

 

 

D’accordo, lascio un po’ in sospeso, ma non è bastardaggine... posterò il secondo tra pochissimo! Voi intanto commentate^^

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** capitolo III ***


Quando vedemmo il nostro villaggio avvolto dalle fiamme capimmo che i nemici erano riusciti a passare

Quando vedemmo il nostro villaggio avvolto dalle fiamme capimmo che i nemici erano riusciti a passare. Fu una notte terribile, di cui ancora serbo un vivido ricordo, gli uomini di Yoshitane non erano interessati al controllo della zona, cosa che consentì ad alcuni di noi di salvarsi, ma solo a infliggere gravi danni agli avversari, per cui trucidarono buona parte delle truppe, soprattutto i più giovani, violentarono molte donne e fecero razzia dei nostri beni.

Subito Onigumo scattò in direzione del villaggio, e anch’io. Quando mi vide capì che lo stavo spiando, ma non era il momento per fare recriminazioni. Mentre correvamo vidi un drappello di soldati nemici scendere dai colli a nord del villaggio. Là sopra c’era un varco per attraversarli comodamente, quello a cui Onigumo avrebbe dovuto fare da guardia. Certo li notò anche lui e si rese conto della terribile responsabilità che gravava sulle sue spalle.

Eravamo ormai quasi arrivati quando sentii un rumore sospetto e mi fermai di botto. Anche Onigumo si fermò, e mi guardò con espressione interrogativa. Lo afferrai per la veste e lo buttai faccia a terra, poi mi nascosi insieme a lui nell’erba alta.

“Non ti muovere” mormorai.

Un gruppetto di quattro soldati nemici sbucò dagli alberi e iniziò a guardarsi intorno. Probabilmente ci avevano sentito correre ed erano venuti a cercarci. Io trattenevo il respiro, e maledicevo con tutto il cuore Onigumo che tremava come una foglia, a rischio di segnalare la nostra presenza. Alla fine i soldati si allontanarono, e dopo aver aspettato ancora per alcuni minuti ci rialzammo.

“Forse possiamo fare ancora qualcosa per proteggere le nostre famiglie” dissi “Andiamo!”

Feci per muovermi, ma mi accorsi che Oniguno non mi seguiva. Restava lì immobile, con una faccia smarrita, lo sguardo perso.

Che fai, Onigumo? Muoviti!”

“Quei soldati... erano armati”

Che ti aspettavi? Che portassero fiori?”

Lo tirai per il braccio per dargli una mossa, ma lui si scostò e si prese la testa fra le mani.

“Lasciami stare, Umitsugridò “Non voglio venire!”

Che dici? Dobbiamo fare qualcosa!”

Che possiamo fare contro quei samurai armati sino ai denti?”

Ma non possiamo stare senza fare niente? Pensi che il villaggio ci perdonerà se ci nascondiamo?”

Ma ormai il villaggio è perduto!”

Ma forse possiamo salvare qualcuno...”

“No! Ho paura!”

Mi venne l’impulso di dargli uno schiaffone: per colpa sua il villaggio era messo a ferro e fuoco, e non muoveva un dito? Ma non c’era tempo per litigare, quindi lo lasciai lì e corsi al villaggio.

Non riuscii a fare nulla. Mentre mi aggiravo fra le capanne in fiamme in cerca di sopravvissuti mi imbattei in un soldato nemico. Quello mi colpì al fianco con la spada, un pessimo colpo che mi fece solo un piccolo taglio, ma capii che al secondo affondo sarei stato meno fortunato, e quindi simulai di essere stato ferito mortalmente, mi buttai a terra e rotolai due o tre volte lanciando lamenti, e alla fine giacqui immobile. Per mia fortuna il soldato non volle accertarsi della morte e si limitò a frugarmi nelle tasche. Poi se ne andò, ma intanto altri ne arrivavano, per cui dovetti continuare a fingere. Quando potei rialzarmi era l’alba e ormai i nemici se ne erano andati. Nel villaggio erano rimasti pochi uomini e un gruppo di donne coi bambini. Tutti gli altri erano morti o prigionieri. Due giovani sopravvissuti ammucchiavano i cadaveri nello spiazzo principale. Tra quei corpi c’era quello di mio padre, di miei amici, di tanti altri.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** capitolo IV ***


Non mi unii al gruppo dei sopravvissuti

Non mi unii al gruppo dei sopravvissuti. Non sapevo se era già nota la responsabilità di Onigumo, ma nel caso mi sarei trovato nei guai anch’io: nei giorni precedenti molti nel villaggio mormoravano dell’influenza negativa che avrei esercitato (e in effetti esercitavo) su di lui. Per questo decisi prima di tutto di cercare Onigumo, per decidere sul da farsi. Ma lui si stava già mettendo in un altro guaio.

Sentii la sua voce provenire dalla capanna di Yuko, o almeno da quello che ne restava. Gridava, e non era da solo. Sbirciai dalla finestra, e vidi che stava litigando proprio con Yuko.

“Come hai potuto fare una cosa simile?” gridava la ragazza.

“Volevo stare con te” diceva Onigumo, cercando di farle abbassare la voce.

“Con me? È questo l’amore di cui parli tanto? Condannare a morte il villaggio? Sono stata una stupida!” e scoppiò a piangere.

“No, Yuko, non dire così...”

“Sì, invece! Sono stata una stupida a crederti un ragazzo dolce e sensibile... tu sei solo un’egoista che non ha avuto scrupoli di abbandonare il suo posto di guardia. Per colpa tua il villaggio è distrutto, i miei sono stati uccisi, le mie sorelle prese come schiave!”

Di fronte a quella rabbia Onigumo era come pietrificato, schiacciato, ma si riscosse alle parole successive di Yuko.

“Ma non la passerai liscia” stava dicendo lei “dirò ai sopravvissuti quello che hai fatto”

“No! Se lo sapranno, mi linceranno!”

Perché, non lo meriti?”

Yuko, ascoltami. So di aver commesso una cosa terribile; so di aver portato dolore a tutto il villaggio; ma l’ho fatto non per egoismo o altro, ma perché davvero volevo stare con te, e non ho pensato ad altro; una leggerezza terribile, e sono pronto ad assumerne la responsabilità, a fare quel che è possibile per rimediare, ma non a morire...

“E come è possibile rimediare a quello che è successo? Cosa pensi di poter fare? Tu ti vuoi nascondere dietro l’amore, magari darai la colpa a me... Ti posso anche credere, Onigumo; ma non posso accettare che gli altri non sappiano niente, che continuino a trattarti con gentilezza, ignari, con tutto il male che ci hai fatto”

Ma...”

“Niente ma! Non puoi convincermi: vado a dire tutto”

Yuko si alzò con decisione, e si mosse verso la porta.

“No!”

Onigumo voleva continuare a parlare, cercare di convincerla. La afferrò per una gamba, per trattenerla. Con quel blocco improvviso la ragazza perse l’equilibrio, cadde, sbatté la testa. Anche da fuori vidi il sangue colarle sulla tempia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** capitolo V ***


La reazione di Onigumo quando vide Yuko cadere e sbattere la testa non si può descrivere a pieno

La reazione di Onigumo quando vide Yuko cadere e sbattere la testa non si può descrivere a pieno. Si gettò su di lei, la scosse cercando di rianimarla, urlava come un forsennato. Di fronte a quella scena io entrai nella capanna il più rapidamente possibile, e cercai di calmarlo, di metterlo a tacere.

“Stai zitto, Onigumo, non urlare! Vuoi che ti sentano tutti?”

E chi se ne importa! Faccio schifo! Yuko, Yuko!” continuava a gridare.

“Taci! Ti farai sentire da tutti i sopravvissuti; se ci vedono qua capiranno cos’è successo, ci impiccheranno tutti e due! È questo che vuoi?”

A quelle mie parole parve calmarsi, ma anche se smise di gridare era ancora sconvolto. Con una voce rauca che mai gli avevo sentito mormorò: “Ci uccideranno... ma io, io merito di vivere?”

A sentire quelle parole disperate, mi sedetti a fianco a lui.

“Ascoltami bene, Onigumo. Sappiamo entrambi quello che hai fatto. Non l’hai fatto apposta. Adesso è successo questo a Yuko. Non volevi ucciderla. Certo, questo non diminuisce la tua responsabilità, ma se ora tu venissi ucciso, cosa cambierebbe? I morti tornerebbero in vita? Yuko rinascerebbe? No, sarebbe solo una morte in più. Che poi sarebbero due, perché anch’io verrei punito insieme a te. Ma le nostre morti non porteranno giustizia ai sopravvissuti, né allevieranno il loro dolore. E allora perché sacrificarsi? Non è meglio andare via, lontano da tutto questo?”

“Stai dicendo di scappare” disse Onigumo “Ma non sarebbe un’ingiustizia? Parlo per me, che dopo aver portato tanti lutti, anche se involontariamente, me ne andrei in giro libero e senza responsabilità. No, non è giusto, Umitsu: mi presenterò ai sopravvissuti e accetterò le loro decisioni”

Ma sei matto? Ti uccideranno”

“Può darsi. Tu dici che anche uccidendomi non ci sarà la giustizia. Ma se il villaggio deciderà così, accetterò la decisione sbagliata, visto che i miei errori sono stati ben più dannosi per tutti loro. Non ti preoccupare per te. Tu sei mio amico e mi hai aiutato tante volte. Vai via, e io non parlerò di te, non sarai punito. Ma io devo”

E invece no!” ribattei rabbiosamente “Questi sono discorsi che si potevano accettare nel passato. Allora c’era la pace, nei villaggi ognuno era necessario al benessere di tutti, si viveva in equilibrio rispettando le tradizioni. Ma da anni non è più così: le guerre civili insanguinano il paese, gli uomini vanno a combattere e nessuno più cura i campi. Le antiche tradizioni servono solo a perpetuare la catena delle morti. Guarda gli uomini più forti: chi ha un’arma non la mette al servizio della sua gente, ma si mette sulla strada e diventa mercenario, e si arricchisce. Un tempo le guerre nascevano tra le diverse famiglie nobili, oggi i nostri nemici sono al servizio del fratello del nostro signore. Le divinità sono scomparse e al loro posto i demoni imperversano. Di fronte a questo sfacelo i villaggi credono che perpetuando le tradizioni si riuscirà a tornare alle sicurezze del passato. Ma dove? Se nessuno pensa più agli altri, dovremmo pensarci noi? Oggi ho visto il cadavere di mio padre: dovrei rischiare la vita per vendicarlo? E a che pro? Ci hanno parlato di responsabilità verso la comunità, ma questi non sono che lacci che ci impediscono di essere liberi. Io voglio pensare per me, e basta! E anche tu, Onigumo, faresti meglio a pensare a te stesso, e a nessun altro”.

 

Qui Umitsu interrompe il suo racconto: ha notato le facce tese dei suoi ascoltatori.

“Queste parole vi sembrano disgustose, vero? Avete ragione... ributtante egoismo... così ero da giovane. E ancora per molti anni a venire”

“Ma perché volevate convincere Onigumo a fuggire insieme a voi?” chiede Kagome.

“Mi conveniva... Onigumo era un giovane robusto. Anch’io lo ero, e in due si girava più sicuri, allora come oggi. In seguito mi affezionai a lui, ma quella volta fu solo per opportunismo. Comunque andò bene, riuscii a convincerlo, e abbandonato il cadavere di Yuko fuggimmo dal villaggio: le parole di Onigumo erano orgogliose e coraggiose, ma c’era in lui uno spettro che lo dominava e che non lo abbandonava mai: la paura”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** capitolo VI ***


Eravamo sbandati, senza un posto dove andare, e non avevamo niente con noi tranne che un po’ di cibo rubato in una capanna e due spade

Eravamo sbandati, senza un posto dove andare, e non avevamo niente con noi tranne che un po’ di cibo rubato in una capanna e due spade. Prendemmo la via dei boschi, sperando di trovare un paese più grande, dove amgari ci avrebbero fatto restare, due paia di braccia in più per il lavoro sono sempre gradite. Ma da quelle parti i villaggi erano tutti molto piccoli, e la gente non si fidava dei forestieri, soprattutto in quei giorni di battaglia. Così fummo costretti a vagare per parecchie settimane, i viveri che avevamo con noi erano finiti velocemente e ci nutrivamo solo di bacche, radici e di qualche cosa che elemosinavamo di tanto in tanto, e che non serviva a calmarci la fame. Una sera vedemmo passare due monaci che trascinavano un carro colmo di doni, in mezzo ai quali c’era un mucchio di cibo. Io ed Onigumo architettamo velocemente un piano, e ci lanciammo sui monaci con le spade sguainate, urlando come pazzi: quelli si spaventarono a morte e fuggirono di corsa, lasciandoci il carro. Ma mentre io mangiavo a quattro palmenti Onigumo sembrava restio a sfamarsi.

Che hai? Perché non mangi?” chiesi.

“Mi vergogno” rispose “questo è cibo rubato”

E allora? Se non lo mangi tu, andrà a male e non servirà lo stesso a nessuno. Tanto vale che ti sazi tu”

Continuava ad essere esitante, ma alla fine la fame lo vinse e mangiò anche lui, non meno di me. Fu il nostro primo furto, ma non l’ultimo.

 

Spesso nei nostri vagabondaggi ci imbattevamo in cadaveri di soldati. La guerra civile era ripresa più dura che mai, ed io ero contento di non rischiare la vita in quelle battaglie. Tuttavia il pericolo c’era per tutti, noi compresi, perché quel susseguirsi di morti e devastazioni aveva attirato sul paese frotte di demoni, come mai prima. Noi però non ne avevamo ancora incontrati, e quando trovavamo dei cadaveri li frugavamo per vedere se avevano ancora addosso qualcosa di valore. Inizialmente Onigumo non voleva fare lo sciacallo, ma alla fine riuscii a convincerlo. Ma un giorno, mentre ripulivamo i cadaveri di una battaglia recente, fummo accerchiati da una banda di uomini armati. Non erano soldati, però. Mentre li guardavamo, spaventati a morte, quello che era il loro capo avanzò verso di noi.

“Bene, bene, bene” disse “due mocciosi che frugano le carogne dei soldati. Consola pensare che ci sia qualcuno peggiore di noi”

I suoi uomini scoppiarono a ridere. Io strinsi i pugni, adirato per l’insulto, ma vidi che Onigumo chinava la testa.

“Cari ragazzi” riprese quel tizio “non sapete che non si ruba ai morti?” Ai vivi sì, e noi lo sosteniamo con forza, ma ai morti… un po’ di rispetto. Dovremo punirvi”

“Provaci” dissi io con tono di sfida. Due di quei briganti mi si avvicinarono, ma io sguainai la katana e la puntai verso di loro, tenendoli a distanza. Anche Onigumo, che era chiaramente terrorizzato, impugnò la sua arma e si portò al mio fianco.

Il capo della banda sorrise.

“Interessante” disse “I mocciosi hanno coraggio. Ragazzi, fate un po’ di pratica con questi due”

A quelle parole i briganti si lanciarono contro di noi. Erano molti e noi solo due, ma avevamo il vantaggio di essere più veloci, e la disperazione ci faceva lottare come belve. Riuscimmo a tenerli a bada per una decina di minuti, ma era chiaro che non optevamo resistere ancora a lungo. Allora pensai che se fossi riuscito ad uccidere il loro capo forse gli altri si sarebbero spaventati e ci avrebbero lasciato stare, così menai alcuni fendenti per farmi strada, e mi misi a correre verso di lui. Ma uno dei suoi uomini mi colpì alla spalla destra con la lancia, e caddi faccia a terra. Uno dei suoi briganti poggiò il piede sulla mia testa e alzò la spada per colpirmi, ma Onigumo con uno scatto improvviso lo trafisse da parte a parte.

A quel punto potevamo dirci finiti. I briganti ci circondarono di nuovo, e stavolta in assetto da combattimento, così che non eravamo più in grado di colpirli. Lentamente si avvicinarono, timorosi dopo la morte del loro compagno. Al margine della scena, il loro capo continuava a sorridere. Ma mentre stavano per sferrare l’attacco definitivo, un urlo stridulo fendette l’aria.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** capitolo VII ***


Stavamo combattendo ai margini di un campo di battaglia, e non pensavamo all’aura ostile che emanava dalla nostra lotta, amplificata dalla vicinanza dei cadaveri

Stavamo combattendo ai margini di un campo di battaglia, e non pensavamo all’aura ostile che emanava dalla nostra lotta, amplificata dalla vicinanza dei cadaveri. Ma quando sentimmo quelle urla capimmo al volo.

“Le kobegarasu!” gridò uno dei banditi.

Le kobegarasu sono demoni dal corpo femminile, ma con ali e zampe di korvo, che si nutrono di uomini; quel giorno furono in tre ad attaccarci. I banditi si allonatanarono subito, così esse si lanciarono verso me ed Onigumo. Io fui assalito dalla più grossa, che cercò di afferrarmi con gli artigli. Non ci riuscì, ma cademmo entrambi a terra e iniziammo un corpo a corpo furioso. Ero coperto di sangue e fango, e non potendo usare la spada cercavo di afferrarle il collo per strozzarla, ma quella aveva una forza tremenda, mi immobilizzò e mi azzannò al collo. Urlai di dolore, e perché ero convinto di essere ormai perduto, ma poco dopo sentii la presa diminuire. La kobegarasu si scosse, in preda a tremiti incontrollati, poi sputando sangue giacque a terra. Mentre mi rialzavo, vidi Onigumo con la spada in mano: era riuscito a liberarsi momentaneamente delle altre, ed era venuto in mio soccorso. I due demoni rimanenti attaccarono subito, ma io recuperai la mia katana e con un fendente fulmineo uccisi la prima mentre calava in volo verso di me. Anche Onigumo tentò la stessa mossa, ma non ci riuscì, e la kobegarasu lo agguantò con gli artigli e fece per portarlo via. Ma il peso della preda le impediva di muoversi rapidamente come prima, così le lancia la spada al petto, trafiggendola: il demone cadde a terra, e anche Onigumo.

Lo aiutai a rialzarsi, e per la prima volta sentimmo un legame di amicizia che andava oltre la semplice convenienza: in quel frangente drammatico ci eravamo salvati a vicenda.

Me mentre eravamo là i banditi tornarono. Adesso ci guardavano con occhi diversi. Il loro capo parlò:

“Ragazzi, siete i primi che vedo che affrontano così tre demoni come quelli e hanno la meglio. Siete in gamba, e anche coraggiosi. Proprio il tipo di persone che ci servono. Che ne dite di unirvi alla mia banda?”

Quell’offerta improvvisa ci spiazzò, e nessuno di noi due disse niente. L’uomo riprese.

“Avete ucciso uno dei miei uomini, ma lo avete fatto per salvare la pellaccia, quindi sono disposto a passarci sopra. Pensateci bene: due vagabondi come voi immagino abbiano commesso qualche misfatto, magari siete disertori… la mia banda è potente, se entrate non dovrete temere per la vostra vita, e potrete anche smetterla di derubare i cadaveri attirandovi l’ira delle divinità. Mi sembra una buona offerta, no?”

Io e Onigumo ci guardammo. Capii chiaramente che al mio amico non piaceva l’idea di diventare brigante, ma che altro potevamo fare? Da troppo tempo giravamo come ladri accattoni, eravamo stanchi, e quel bandito ci apriva una porta dopo che non avevamo incontrato altro che muri. Anche Onigumo, nonostante i suoi scrupoli, lo sapeva. Così mi voltai verso l’uomo e dissi: “Accettiamo”

“Benissimo” disse lui “Allora sappiate che io mi chiamo Jigoku, e d’ora in poi sarò il vostro signore; e sarò un signore generoso, se mi servirete bene come tutti gli altri miei uomini. Ora dite i vostri nomi, e giuratemi fedeltà baciando la spada”

Eseguimmo il rito, e Jigoku ordinò ai suoi uomini di darci qualcosa da mangiare e delle vesti nuove. Poi, dopo esserci rifocillati e cambiati, ci mettemmo in cammino insieme al nostro nuovo signore, lasciando dietro di noi i cadaveri.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** capitolo VIII ***


Quando ci mettemmo al servizio di Jigoku eravamo due vagabondi magri, sporchi, laceri e perennemente affamati

Quando ci mettemmo al servizio di Jigoku eravamo due vagabondi magri, sporchi, laceri e perennemente affamati. Dopo tre mesi nella sua banda portavamo vestiti di prima qualità, eravamo sazi, e le nostre katane, prima rovinate e arrugginite, erano ora lucenti e affilate.

La banda di Jigoku non era come gli altri gruppi di banditi che giravano per il Giappone devastando i villaggi per cui passavano. Aveva trovato un sistema molto più comodo per arricchirsi: i suoi uomini saccheggiavano soprattutto case di ricchi possidenti e i viandanti, ma nei villaggi e paesi ci si limitava ad azioni dimostrative, come l’incendio di alcune case, il rapimento di donne e bambini, l’uccisione del capovillaggio, al seguito delle quali si proponeva un patto: in cambio di tributi periodici il villaggio sarebbe stato preservato da furti e distruzioni. Con questo sistema Jigoku si arricchì moltissimo, e distribuì molta parte dei guadagni ai suoi uomini, per mantenerne la fedeltà. Anche io ed Onigumo ricevemmo lo stesso trattamento. Un altro metodo di Jigoku per evitare malumori fra i sottoposti era il consentire a tutti di commettere furti individuali, purché una congrua parte del bottino fosse versata a lui.

Insomma, dopo tutti quei mesi di patimenti stare nella banda di Jigoku era cquasi come aver raggiunto il Nirvana. A fronte di pochi combattimenti, in genere nemmeno molto impegnativi, godevamo di molto tempo passato tra banchetti, saké e donne.

 

Ho accennato alle donne. Un terzo sistema con cui Jigoku si manteneva popolare fra i suoi uomini era quello di frequentare assiduamente le case di piacere, che pagava di tasca sua per tutti (non che ci rimettesse molto: con la minaccia di distruggere i locali si faceva fare prezzi molto di favore). Io e Onigumo, che nella banda eravamo i più giovani, fummo entusiasti di quel trattamento, e dopo le prime nostre esperienze in quelle case ci conquistammo velocemente, agli occhi dei nostri compagni, la fama di stalloni.

Forse non dovrei raccontarvelo. Per anni ho guardato con orrore a quel periodo della mia vita, ma a rammentarlo così mi nasce dentro quasi un’ombra di nostalgia. E non solo a causa dell’aura maligna che ancora mi opprime: è che ai tempi, con la mia condotta così egoistica e brutale… mi sentivo felice, o forse no, ma ero vivo e vitale, e desideravo godere di tutto ciò che esisteva. Per questo nelle bevute e nei bordelli mi scatenavo, con anche tre donne contemporaneamente. Onigumo invece preferiva dedicarsi a una ragazza alla volta, ma in una sola notte ne prendeva ben più di una. Anche lui aveva la mia stessa feroce gioia di vivere. Ma una sera avvenne qualcosa che, per un giorno, lo riportò a quello che era prima.

Eravamo in un bordello sull’isola di Kyushu. Io e Onigumo, come sempre, eravamo nella stessa sala. Ricordo bene che io ero in un angolo a intrattenere due ragazze, e dall’altra parte c’era lui, che aveva appena finito con una e chiamava a gran voce il padrone della casa dicendo di mandargliene un’altra. Ma quando vide la nuova ragazza impallidì: era uguale a Yuko, praticamente identica. Naturalmente si trattava solo di una coincidenza, ma anch’io rimasi impressionato dalla somiglianza. Comunque Onigumo la prese male, si alzò di scatto e uscì dal bordello. Io avrei preferito continuare a divertirmi, ma Onigumo era mio amico, così abbandonai le ragazze e lo seguii.

Lo trovai accovacciato sul muretto del giardino, pensieroso.

“Allora?” dissi.

“Allora che?”

“Dai, Onigumo. Non venirmi a dire che ti sei incupito perché quella assomigliava a Yuko”

“E invece sì”

“Ma è stupido! Capisco che il ricordo ti faccia male, anche se ormai potresti lasciarlo perdere, visto che sono passati tanti mesi, ma si tratta di un caso”

“Ma perché questo caso capita proprio adesso?”

“Come, scusa?” chiese, senza capire il senso delle sue parole.

“Perché l’ho incontrata oggi, questa sosia, e non prima? È un segno, Umitsu. Sto fuggendo dal mio crimine, ma per quanto possa andare lontano esso è sempre due passi avanti a me, a ricordarmi che è tutta colpa della mia viltà se oggi siamo briganti…”

“Ancora ‘sti discorsi?” sbottai io “Smettila. A me piace fare il brigante, Onigumo. E non venirmi a dire che per te non è così, perché te la godi anche tu la nuova situazione”

“Sì che me la godo, quando ci siamo dentro! Ma nelle notti di guardia e nelle attese degli agguati, quando non ci sono né donne né saké, io non posso fare a meno di pensare che quello che ora sono disonora me e la mia famiglia, è la vergogna…”

“Vergogna, vergogna. Di fronte a chi? Chi è oggi che ti disprezza perché sei brigante? Quando passiamo nei villaggi le donne si nascondono impaurite, ma i giovani ammirano i nostri cavalli e i nostri vestiti sfarzosi. Nessuno considera più il furto una vergogna, tranne te. Perché devi tormentarti sul nulla? Impara ad essere cinico, una buona volta!”

Era dal giorno della morte di Yuko che non gli facevo un discorso così impietoso e, proprio come allora, anche questa volta Onigumo rimase abbastanza impressionato dalle mie parole. Da allora non ebbe più crisi di debolezza, ma anzi cercò sempre di mostrarsi più duro degli altri, e poco alla volta lo divenne davvero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** capitolo IX ***


Dopo due anni al servizio di Jigoku ero soddisfatto di me stesso: non solo vivevo bene e mangiavo a crepapelle, ma avevo anche messo da parte una bella somma

Dopo due anni al servizio di Jigoku ero soddisfatto di me stesso: non solo vivevo bene e mangiavo a crepapelle, ma avevo anche messo da parte una bella somma. Rispetto agli altri della banda, io facevo molti furti individuali, in cui spesso coinvolgevo anche Onigumo, quindi la mia ricchezza privata era considerevole, anche se di molto inferiore a quella di Jigoku. Fu proprio questo particolare a far nascere la mia ostilità nei suoi confronti: come vi ho già detto, Jigoku pretendeva una grossa parte del bottino dei colpi privati, cosa che gli altri accettavano senza particolare dispiacere, ma io, che in questo campo ero il più attivo, ero sempre più insofferente. Anche perché senza quella tangente da pagare le mie ricchezze sarebbero state più che doppie. Provai più volte a convincere Jigoku a diminuire le sue pretese, ma era irremovibile: non voleva diminuire il suo potere di capo, soprattutto a favore di uno dei suoi uomini più giovani. Io, d’altra parte, iniziavo a sentirmi sfruttato. Un tempo ero stato grato al mio signore per avermi tolto dal vagabondaggio, ma ormai le cose erano cambiate e la gratitudine esaurita.

Iniziai a pensare a qualche metodo per estorcere a Jigoku una grossa somma. Era possibile, ma da solo non ci sarei riuscito, quindi confidai i miei progetti ad Onigumo. Naturalmente lui rifiutò, non voleva tradire Jigoku, e poi un colpo simile lo avrebbe costretto ad abbandonare la banda, che offriva tanta sicurezza, per tornare all’instabilità. E poi lui continuava ad ammirare il capo. Ma qualche settimana dopo un avvenimento fece mutare la sua disposizione verso Jigoku.

Onigumo stava perlustrando un bosco insieme a un altro della banda, quando vennero attaccati da un orso gigantesco (scoprimmo che il suo sangue era in parte demoniaco), che uccise il suo compagno. Onigumo, terrorizzato, fuggì e tornò da noi, e pallido come un morto ci raccontò tutto. Jigoku, per nulla impressionato, chiamò cinque uomini e andò a cercare quell’orso. Dopo una lotta di qualche ora riuscirono ad ucciderlo. Quella sera festeggiammo l’impresa, come al solito in una casa di piacere, ma Onigumo non prese parte alle gozzoviglie. Da quel giorno iniziò a guardare storto Jigoku.

 

Il mio malcontento intanto continuva a crescere, con l’unica differenza che ora, quando andavo a sfogarmi con Onigumo, lui si univa alle mie critiche, anche se per motivi diversi.

“Quel maledetto Jigoku è un succhiasangue” dicevo io.

Ed è anche arrogante” diceva Onigumo.

“Per chi mi ha preso? Per un moccioso a cui si può far tutto?” mi chiedevo io.

“Ma chi si crede di essere?” si domandava Onigumo.

“Basterebbe che diminuisse le sue pretese. Ma no, è troppo vorace” rincaravo io.

E vuole mostrare di essere il migliore, il più coraggioso di tutti” continuava Onigumo.

Alla fine mettemmo a punto un piano. Una sera avremmo rapito Jigoku, e minacciandolo di morte lo avremmo costretto a darci una parte cospicua di tutte le ricchezze che aveva accumulato. Poi saremmo fuggiti, ricchi e indipendenti.

In realtà le intenzioni di Onigumo non erano proprio queste, ma lo avrei scoperto solo più tardi.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** capitolo X ***


L’occasione propizia si presentò due settimane dopo la stesura del piano: ci fermammo in uno dei villaggi che taglieggiavamo, e Jigoku decise di passare lì la notte

L’occasione propizia si presentò due settimane dopo la stesura del piano: ci fermammo in uno dei villaggi che taglieggiavamo, e Jigoku decise di passare lì la notte. Il capovillaggio fece preparare un banchetto per noi, ma, è questo fu un colpo di fortuna, Jigoku non vi partecipò perché aveva adocchiato una bella ragazza e aveva deciso di dedicarvisi tutta la notte.

Io è Onigumo eravamo all’erta. Verso la fine della cena due ragazze portarono una grande anfora piena di saké, ed io con la scusa di aiutarle versai di nascosto un sonnifero nella bevanda. Funzionò alla perfezione: i nostri compagni brindarono sino a tardi, ma la luna era ancora alta nel cielo quando le voci iniziarono a smorzarsi. Poco dopo, con grande stupore di tutti gli uomini del villaggio, la banda di Jigoku russava fragorosamente. Solo noi due eravamo in sensi.

“Questi non li sveglieranno neanche le esplosioni” dissi io soddisfatto.

“E allora andiamo a prelevare quel bastardo” disse truce Onigumo.

Trovammo Jigoku in una stanza della casa più ricca, dormiva abbracciato alla sua amante. In pochi attimi gli fummo addosso e lo legammo, e mentre Onigumo stringeva i nodi io cacciavo via la ragazza, intimandole di non dire a nessuno quello che stava accadendo.

“Cosa fate, canaglie? Uomini, a me!” gridò Jigoku, sebbene ancora intontito dal sonno.

“Calmati, capo” dissi io “gli altri sono tutti addormentati, e non ti sentiranno”

“Hai paura, adesso, eh?” ringhiò Onigumo.

“Umitsu e Onigumo, vero?” disse Jigoku sentendo le nostre voci “Avrei dovuto immaginarlo. Vi ho presi quando rubavate ai morti, vi lascio che tradite i vostri giuramenti. Le carogne non cambiano mai” e sorrise sprezzante. A vedere quel sorriso Onigumo strinse i pugni.

“Non farci le prediche, capo” dissi “Te la sei cercata: ti sei voluto prendere la più gran parte dei miei furti? Ora sono venuto a riscuotere”

“Eh già… ragazzo, ora che muoio dovrai essere il mio successore, hai la stoffa”

“Tranquillo che non siamo qui per ucciderti. O meglio, dipende da te: dacci i soldi, e noi ti lasciamo vivo e vegeto”

“Hai imparato in fretta, Umitsu… non sono stupido: so quanto vale una vita, in particolare la mia. Le mie ricchezze sono sparse in giro, e una parte è proprio in questo villaggio: vicino al pozzo c’è una capanna, là tengo molte stoffe e oggetti d’oro. Li volete? Sono vostri. Non sono stupido”

Onigumo corse al pozzo a controllare. Quando tornò, fece cenno di sì col capo:

“Ha detto il vero. Là dentro c’è oro da camparci per anni. Ed è anche facile da trasportare”

Sembrava fatta, ma non ero convinto: la reazione di Jigoku mi aveva lasciato perplesso. Presi da parte Onigumo e gli esposi i miei dubbi.

“Ti aspettavi che cedesse così facilmente?”

“A dire il vero, no. Non sembra nemmeno impaurito”

“Non abbiamo considerato una cosa. Jigoku è un uomo d’onore, certo non perdonerà mai questo affronto, perderebbe tutta la sua autorità. Anche se fuggiamo, da domani ci darà la caccia per tutto il paese. E come possiamo nasconderci con l’oro addosso?”

“Vuoi dire che ha cercato di intrappolarci?”

“Temo di sì. È più furbo di noi”

“Maledetto bastardo! Me ce ne siamo resi conto in tempo”

“Sai cosa vuol dire, vero, Onigumo?”

“Sì. Bisogna ucciderlo”

“Infatti”

“Me ne occupo io”

“Tu?” chiesi stupito “lo ucciderai tu?”

“Dipende da lui” disse Onigumo; e, afferrato un coltello, si mosse verso Jigoku.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** capitolo XI ***


“Non hai paura

“Non hai paura?” chiese Onigumo a Jigoku, che giaceva legato in un angolo.

“Paura di voi due mocciosi? Figurati!” rispose l’altro, sprezzante.

“Però dovresti” disse Onigumo mostrandogli il coltello e passando la punta sulla sua fronte “Non ti ucciderò con un colpo solo, sai”

Premette la lama sul collo, e un filo di sangue ne uscì.

“È tutto quello che sai fare?” ghignò Jigoku. Onigumo gli diede uno schiaffo.

“Perché fai il coraggioso?” Tu hai paura, lo so. Tutti hanno paura di fronte alla morte. Perché non vuoi mostrarla?”

“Perché vuoi vedermi impaurito, Onigumo? Vuoi dimostrare a te stesso che siamo tutti vili come te?” rise Jigoku.

Il mio amico divenne furioso. Afferrò un orecchio di Jigoku e “Ora vedrai” mormorò, e iniziò a tagliarlo, lentamente, premendo il coltello sulla tempia, facendo sprizzare il sangue. Jigoku strinse i denti, lo vidi serrare convulsamente i pugni per non urlare. Terminata l’operazione, Onigumo prese l’orecchio mozzo e sanguinante, e lo agitò davanti agli occhi della vittima, ridendo.

“L’altro te lo lascio. Devi ancora sentire la mia voce. Così come io ti sentirò urlare di terrore”

Jigoku non rideva più, ma nonostante il dolore restava calmo.

“Povero illuso” disse “Ho visto tante morti. Tante volte, prima di diventare un capo potente, ho rischiato di morire. Anche peggio di così. Da giovane ero soldato, e ho visto i miei commilitoni colpiti allo stomaco morire tra spasmi atroci e pensavo che anch’io sarei finito così. La tortura che mi infliggi ora non è così diversa da quella lenta agonia, anche se molto più stupida”

“Io sarei stupido?” chiese Onigumo minaccioso.

“Se hai bisogno di vedermi implorare per sentirti bene, sei davvero uno stupido. Se ti facessi contento avrei salva la vita, vero? Anche tu hai imparato la lezione, ma la applichi per motivi così ridicoli… sei un idiota completo”

“Continui a fare il baldanzoso, bastardo” ringhiò Onigumo “Speri di confondermi così, è vero? Ma non mi lascio incantare dalle belle parole. Tu sei nelle mie mani, lo vuoi capire? Dai sfogo alla tua paura, se vuoi evitare il peggio”

Jigoku alzò la testa e lo guardò negli occhi, senza dire niente. Si limitò a fissarlo, e sotto quello sguardo Onigumo, quasi meccanicamente, fu costretto a chinare il capo. Ma fu un attimo. Tremò per un accesso di rabbia e alzò il coltello, ma subito, come per un’idea improvvisa, lo lasciò andare, e afferrò Jigoku per il bavero.

“Ti piace guardare? Rimedio subito…”

Io che osservavo credevo di assistere ad uno strano incubo: molto lentamente Onigumo infilò l’indice nella cavità dell’occhio destro di Jigoku, il quale con uno sforzo terribile riuscì a soffocare le grida, ma non potè impedire un mugolio acuto. Muovendo lentamente il dito, per provocare più dolore, Onigumo tirò via il bulbo oculare, e con esso un fiotto di sangue che riempì velocemente l’orbita rimasta vuota.

“Hai paura adesso, vecchio?”

Jigoku ora sembrava davvero vecchio, tante erano le rughe che gli aveva creato il dolore. Era pallido e coperto di sangue, il suo corpo legato tremava come se avesse le convulsioni. Ma a sentire le parole di Onigumo si calmò di botto. Restò per lunghissimi attimi in silenzio, respirando profondamente. E rise. Jigoku rise, ed era una risata aperta, squillante, come quella di un bimbo che avesse ricevuto un regalo.

Onigumo non ci vide più. Afferrò il coltello e vibrò tre, quattro, tanti colpi, finché il corpo di Jigoku non cadde a terra, informe massa sanguinante

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** capitolo XII ***


Di fronte all’uccisione di Jigoku ero rimasto pietrificato

Di fronte all’uccisione di Jigoku ero rimasto pietrificato. Mai avrei creduto che Onigumo fosse capace di un tale sadismo, ma ora lui era davanti a me, sporco di sangue non meno del cadavere del nostro signore, e ansante. Ho sentito dire che uccidere provoca piacere a chi lo fa, ma Onigumo non era né contento né sereno, aveva la stessa espressione truce di prima e guardava con odio il corpo di Jigoku.

Per un po’ restammo così, entrambi senza parlare. Poi lui si voltò verso di me e disse: “Prendiamo la roba e andiamocene”.

Quando mai era stato così deciso? Per quella notte fu lui il capo, e non io. Andammo alla capanna che Jigoku ci aveva indicato, e che era davvero piena di ricchezze da far impallidire uno shogun. Ne facemmo abbondante incetta, e fuggimmo nella notte.

 

Da un giorno all’altro eravamo diventati ricchissimi, e questo mi fece dimenticare le riserve che la crudeltà di Onigumo aveva suscitato in me. Del resto, nei giorni successivi anche lui abbandonò l’aria furiosa che da un po’ lo contraddistingueva e tornò il brigante gaudente di un tempo. Almeno, così mi sembrava. Molto tempo dopo tornai a riflettere su quei giorni, e giunsi alla conclusione che Onigumo, in realtà, non pensava di uccidere Jigoku, ma solo di spaventarlo, e di distruggere la sua immagine di uomo coraggioso che stava lì a ricordargli la sua viltà. Non essendoci riuscito, aveva perso la testa trasformandosi in un sadico torturatore. In altri tempi un simile comportamento lo avrebbe sprofondato in una lunga crisi depressiva, ma ormai era cambiato, era diventato cinico proprio come gli avevo detto di fare, ed era in grado di giustificare a sé stesso la barbara uccisione senza particolari rimorsi. Come aveva detto Jigoku, Onigumo aveva imparato bene la lezione.

Il pensiero che, invece, ancora lo opprimeva era quello della sua debolezza. Ma sull’argomento non era solo: dopo l’uccisione di Jigoku eravamo tornati a vagabondare. Certo, non era più come qualche anno prima: eravamo ricchi, eravamo armati, e sapevamo come cavarcela. Pure, essendo solo in due, non potevamo più contare sulla sicurezza della banda. Anzi, i nostri ex compagni, se ci avessero trovati, non avrebbero perso l’occasione di vendicarsi; senza contare che quando la notizia della morte di Jigoku si diffuse, molti altri banditi tornarono a farsi vivi nelle zone dove prima la sua banda dettava legge, e la situazione era diventata estremamente precaria. Per questo la nostra principale preoccupazione era di aumentare le nostre forze, per metterci in posizione di tranquillità.

 

Dovette passare un anno, ma poi ci si presentò una opportunita: mentre girovagavamo vedemmo una comitiva di uomini che accompagnavano un carro blindato. Il particolare ci fece pensare che custodissero qualche tesoro, ma ci accorgemmo che erano ben armati, quindi non li attaccammo. Però avevamo ancora i nostri abiti eleganti, per cui ci potevamo far passare per ricchi signorotti, e con questa finzione ci avvicinammo al gruppo, dicendo che andavamo nella stessa direzione, e chiacchierando spillammo un po’ di informazioni sul loro conto. Ci dissero che provenivano da un villaggio di sterminatori di demoni, il loro mestiere, e che in uno degli oni da loro abbattuti avevano trovato la sfera degli Shikon, che ora portavano ad una sacerdotessa in grado di purificarla.

Era la prima volta che sentivo parlare di tale sfera, e chiesi chiarimenti. Il capo degli sterminatori mi spiegò quello che probabilmente voi già sapete. Potete immaginare l’interesse che svegliò in me ed Onigumo quel talismano in grado di aumentare il potere di demoni ed uomini. Quando l’uomo finì di spiegare io lanciai un’occhiata ad Onigumo, e non ci fu bisogno di parole: eravamo entrambi già determinati a rubare quella sfera degli Shikon.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** capitolo XIII ***


Il gruppo degli sterminatori di demoni si fermò a trascorrere la notte in un villaggio

 

Il gruppo degli sterminatori di demoni si fermò a trascorrere la notte in un villaggio. Misero due uomini a guardia del carro e, con mio stupore, vari altri a controllare gli ingressi del paese, come se si sentissero sotto qualche minaccia. Questo accorgimento era molto seccante per me e Onigumo, perché ci complicava di molto il furto della sfera degli Shikon. Tuttavia decidemmo di provarci lo stesso quella notte, visto che non potevamo continuare a seguire gli sterminatori nel loro cammino senza destare sospetti.

“Vicino a questo villaggio c’è una vasta area di monti e dirupi” disse Onigumo “Se anche fossimo inseguiti sarebbe pressoché impossibile trovarci là”

Decidemmo così di tentare un assalto violento e improvviso: gli sterminatori erano tutti impegnati a proteggere la sfera, ma non avevano messo la stessa cura nel controllare le loro armi, così fu facile per noi rubare alcuni dei loro esplosivi. Quando l’oscurità calò sul villaggio, ci avvicinammo furtivamente al carro dove era custodita la sfera; le due guardie erano molto tese, ma sembravano preoccupate da qualcosa, perché lanciavano continui e nervosi sguardi ai boschi che circondavano il paesino. Ma a me la cosa non interessava, l’importante era che non badassero a noi. Ad un mio cenno, Onigumo accese la miccia di un ordigno e la lanciò contro il carro, e lo stesso feci io. L’esplosione fu tremenda, dilaniò le due guardie, colte di sorpresa, e squarciò il carro. Gli altri sterminatori accorsero, ma non abbastanza in fretta da impedirci di balzare fra i resti del carro, rubare la sfera e darci alla fuga. Dopo l’iniziale stordimento gli uomini iniziarono ad inseguirci, ma avevamo dalla nostra il buio, un buon vantaggio iniziale e la nostra abilità di briganti nel nasconderci nelle foreste. Per farla breve, dopo qualche ora riuscimmo a far perdere le nostre tracce, e raggiungemmo i monti. Qui ci rilassammo e, dopo esserci complimentati a vicenda per la bravura, demmo un’occhiata alla nostra preda: la sfera era di certo un oggetto particolare, si vedeva da come brillava, ma anche tenendola fra le mani non ci sentivamo più forti, né altro.

“Come si usa questa cosa?” dissi.

Onigumo non fece in tempo a rispondere: all’improvviso sentimmo un rumore come se tutte le fronde degli alberi intorno a noi si fossero mosse all’unisono, e insieme ad esso un forte e strano sibilo, da far accapponare la pelle. Intimoriti, ci guardammo intorno, ma non vedevamo nessuno. Intanto, ogni suono era cessato. Ma proprio mentre stavamo per tranquillizzarci, ecco che i ramo sopra di noi si ruppero con uno schianto, e dall’alto ci piombò vicinissimo un ragno gigantesco, grande almeno quanto questa stanza. Ma oltre alle dimensioni anche un’altra cosa ci riempì di terrore, e cioè che quell’essere mostruoso aveva un volto di uomo, un volto orribile, scuro, con grandi occhi rossi e denti acuminati. Un demone.

Io e Onigumo eravamo bloccati, paralizzati dalla paura. E quella creatura infernale ci parlò, con una voce che ancora oggi mi risuona nella mente:

“Datemi... la sfera... degli Shikon

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV ***


“Datemi... la sfera... degli Shikon

Quando il demone pronunciò quelle parole, tutto mi fu chiaro: gli sterminatori sapevano che la sfera aveva attirato molti oni, e per questo avevano circondato di guardie il villaggio, per assicurarsi che nessuno di essi attaccasse il carro. Ma io e Onigumo non eravamo in grado di avvertire l’aura maligna, o forse sì ma non sapevamo fosse dei demoni, e ignari di ciò avevamo rubato la sfera, attirando su di noi l’immenso demone ragno che ora ci fronteggiava.

La creatura si muoveva lentamente, impacciata dagli alberi, e allora ci scuotemmo dalla nostra iniziale paralisi e iniziammo a correre, distanziandolo. Ma il demone aprì le fauci, e vomitò contro di noi una miriade di ragnetti. Ragnetti per modo di dire, erano più grandi di una mano: si lanciarono velocissimi su di noi, io riuscii ad evitarli, ma uno colpì Onigumo sulla schiena. Il mio amico cadde lanciando un grido acutissimo, e in breve tutti i ragni gli saltarono addosso. A quella vista sguainai la katana e iniziai a colpire con tutte le mie forze gli esserini, scacciandoli. Quando tutti furono a terra morti mi chinai ad aiutare Onigumo, che era ricoperto di sangue e aveva, sulla schiena, il segno del ragno che lo aveva colpito, ma per fortuna non era ferito gravemente.

Lo aiutai a rialzarsi, ma in quella sopraggiunse il demone ragno, che ci aveva raggiunti. A quel punto, preso dalla disperazione, afferrai la sfera degli Shikon e glie la lanciai contro. “La vuoi? Prendila!” gridai, sperando che dopo ci avrebbe lasciati in pace. Mai feci qualcosa di più stupido: il demone inghiottì la sfera, e subito iniziò ad agitarsi convulsamente, e vidi il suo corpo allungarsi e ricoprirsi di nere scaglie, e il volto diventare ancora più grande ed aguzzo... di fronte ai nostri occhi andava in scena il potere devastante della sfera degli Shikon in azione.

Quando la trasformazione fu completata, il demone si abbassò verso di noi e gridò: “Ora comincia la caccia!”. Capimmo immediatamente di essere finiti in un guaio ancora peggiore, e ricominciammo a fuggire. Il mostro oltre alle dimensioni aveva guadagnato anche in velocità, ma aveva comunque difficoltà a muoversi in quelle valli strette e scoscese. Così io ed Onigumo raggiungemmo una rupe e ci arrampicammo, sperando di sfuggire alla creature. Arrivato in cima, aiutai Onigumo, ancora debole per la ferita, a sa lire, e poi mi sdraiai, trafelato.

“Che orrore” dissi “che orrore”

Ma il mio riposo ebbe breve durata. Poco dopo il ragno arrivò ai piedi della parete di roccia, parete che iniziò a scalare, lentamente ma senza difficoltà. Io mi sporsi ad osservarlo, e pensavo a qualche modo per sfuggirgli, quando sentii una botta tremenda sulla nuca. Per poco non persi i sensi e l’equilibrio, ma mi aggrappai al suolo ed evitai di precipitare. Mi voltai, e vidi Onigumo, con in mano un bastone gocciolante di sangue. Il mio sangue.

Onigumo! Cosa fai?” urlai.

“Mi salvo” disse lui, gelido “Se quel ragno perde del tempo mangiando te, io farò in tempo ad allontanarmi”

“Ma che dici?” chiesi, basito. Mi sembrava uno scherzo assurdo, ma Onigumo provò a colpirmi di nuovo, e scansandomi capii che faceva tremendamente sul serio. Con un calcio feci volare via il suo bastone, e allora lui mi afferrò per le braccia ed iniziò a spingermi verso il precipizio.  Io ero più forte di lui, ma la testa continuava a pulsarmi per la botta di prima, e mi sentivo stordito.

“”Onigumo” gridai mentre cercavo di resistere alla sua spinta “Vuoi condannare me a morte? Proprio me?”

“E chi, se no?” rispose ansimando “si tratta di salvare la pellaccia”

Nella sua voce non c’era nemmeno un po’ di dispiacere.

“Non ci posso credere, Onigumo... Ero tuo amico, ti ho salvato la vita tante volte... e ora, tu...”

“Risparmia la predica, Umitsu. Me lo hai detto tu, no? Bisogno pensare a sé stessi prima di tutto, no?”

Mi guardò con occhi tremendi, e diede un nuovo, più forte spintone. Ma così facendo perse l’equilibrio, e nel tentativo di trovare un appiglio mi lasciò andare. Appena libero, mi gettai al suolo, e Onigumo inciampò nel mio corpo e precipitò nel vuoto, sul demone. Io feci appena in tempo a sentire il suo urlo disperato, poi svenni, e di quella notte non ricordo più niente.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=61681