Inverno

di _ayachan_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Acqua a catinelle ***
Capitolo 2: *** Tempo variabile ***
Capitolo 3: *** Temporale di primavera ***



Capitolo 1
*** Acqua a catinelle ***


Inverno-1


Inverno


La primavera arriverà






Capitolo Primo

Acqua a catinelle





La pioggia scendeva dal cielo a fiotti gelidi, abbattendosi nel fango grigiastro fino a formare vortici di paglia e melma. Il cielo era basso, plumbeo, gravava sul paese come nebbia d’inverno. Un cavallo nitrì in lontananza, e il ragazzo alzò la fronte fradicia pensando che invidiava la sua stalla calda.
Pagò caro quell’attimo di distrazione: lo schiocco di una frusta risuonò nel diluvio e una voce brusca gli ordinò di riprendere il lavoro. Con il dolore fresco della schiena e un tuono che rombava cupo nelle orecchie, Lorenzo digrignò i denti e continuò a camminare, trasportando i secchi pesanti appesi alle estremità della canna sulle sue spalle.
Detestava quegli uomini.
E detestava quella vita.

L’inverno era arrivato troppo presto, prima che finissero l’ultimo raccolto di fichi. Con il freddo erano giunti anche le nubi da est, la pioggia, il fango, e loro.
Chi fossero non importava davvero; erano come gli altri. Si erano avvicinati prima che iniziasse il lungo periodo delle piogge, comparendo ai piedi della collina nelle loro armature impolverate, e tutti avevano pensato che fossero presagio di sventura.
Avevano ragione.
Il loro signore era un uomo pragmatico, non aveva perso tempo a fare considerazioni inutili: si era subito rivolto al capo-villaggio, domandandogli della vecchia rocca disabitata, e ne aveva preso possesso in un solo giorno.
All’inizio qualcuno aveva azzardato alcune domande: chi sono? Cosa vogliono? Perché si sono stabiliti nel castello? Quei pochi coraggiosi che avevano avuto l’ardire di alzare la voce all’assemblea cittadina erano serviti da esempio memorabile: il Signore li aveva fatti frustare pubblicamente. Sovrastando le loro grida di dolore, poi, aveva proclamato a gran voce che ogni singolo uomo, donna o bambino gli doveva obbedienza; che il villaggio era di sua proprietà, che si preparava una guerra, e che tutti gli uomini validi avrebbero dovuto contribuire, non parlare.
Nessuno aveva più osato aprir bocca.
Quel giorno erano iniziate le piogge...
E sul villaggio era sceso l’inferno.

Erano passate alcune settimane dall’arrivo del Signore, quando Lorenzo giunse al punto di invidiare un cavallo.
Durante quel periodo l’acqua aveva invaso le strade e ogni avvallamento, inondato i campi freddi e reso sdrucciolevoli i sentieri. Il sole era diventato un pallido e raro miraggio dietro la coltre grigia del cielo, una sfera evanescente che tanti dicevano di non ricordare nemmeno. In compenso, attorno al villaggio era sorta la trincea.
I contadini erano stati costretti a costruirla con ritmi di lavoro inumani; dopo aver consegnato alle truppe gran parte delle provviste per l’inverno erano stati strappati ai campi e ai boschi per sprecare le loro energie tirando su un muro di fango e sassi attorno alla collina. A tutti sembrava un lavoro inutile, pensato solo per farli soffrire: anche in caso di scontro, cosa poteva fare una barriera marcia così bassa che si poteva tranquillamente guardare oltre?
Tanto più che il Signore aveva un’idea molto ampia del concetto di uomini validi: secondo il suo pensiero, valido era ogni ragazzo dagli otto anni in su provvisto di entrambe le braccia. Che fosse maschio o femmina, era irrilevante.
Inevitabilmente, i fanatici avevano iniziato a pensare a un castigo divino: prima la pioggia prematura, poi l’invasione, infine la fatica... Qualcuno doveva aver peccato molto pesantemente. In mancanza di un pubblico capro espiatorio le donne avevano preso a lanciarsi occhiate sospettose, additando l’una e l’altra, mormorando di stregoneria e atti illeciti. Oltre la stanchezza, l’umiliazione e il malcontento, ci si era messo anche il sospetto.
Lorenzo aveva rinunciato quasi subito a far ragionare i suoi compaesani. Lui e un’altra manciata di giovani avevano cercato di tenere alto il morale, di spronare gli uomini a non abbattersi, perché una volta terminata la trincea sarebbero stati liberi; ma anche se liberi non avrebbero avuto comunque cibo, ribattevano i pessimisti, e subito era stato chiaro che quei ritmi di lavoro li avrebbero uccisi troppo presto, soprattutto i più deboli.
Di fronte al disfattismo generale Lorenzo aveva finito per perdere la speranza, e con lui i suoi compagni. Come animali da soma, avevano chinato il capo e si erano sottomessi docilmente al volere dei loro aguzzini.
Prima o poi finirà.
Quel giorno Lorenzo non ci credeva poi tanto. I pomeriggi di lavoro si susseguivano alle mattine già sfiancanti, sempre sotto la pioggia battente, sempre cupi come un corteo funebre. Gli unici segni di vita venivano dalle guardie incaricate di sorvegliarli, uomini rudi che si lamentavano del freddo e scacciavano la noia frustando i più stanchi – gli stessi uomini, per inciso, che la notte sfogavano la lussuria sulle donne del paese, sostenendo che fosse loro dovere distrarli.
Quando fu tanto buio che neanche le guardie riuscivano a distinguere i contorni della trincea, la voce di quello più grosso si levò alta nell’aria umida, ordinando il rientro. Gli abitanti del villaggio non avevano nemmeno la forza per sospirare di sollievo; lasciarono cadere ciò che trasportavano e si volsero esausti verso le case dal tetto di paglia.
Lorenzo si unì alla parata mesta che trascinava i piedi su per il sentiero. La stanchezza gli annebbiava i sensi, la fame gli mordeva lo stomaco peggio che negli inverni più duri; la rassegnazione, orribile demone parassita, gli toglieva persino la voglia di vivere. Se non avesse saputo che il suicidio era il peccato più grande, si sarebbe buttato da un tetto.
Rientrò nella casa umida con le membra intorpidite. Accanto al focolare trovò la vecchia nonna, intenta a cuocere su un fuoco stento la zuppa più liquida che avesse mai visto. In un angolo, steso su un pagliericcio muffo e maleodorante, il nonno invalido; anni prima la falce aveva mancato le spighe di grano per conficcarsi nella sua gamba.
«E’ quasi pronto» commentò la vecchia vedendolo sedersi contro il muro – non c’erano sedie attorno al tavolo, erano finite tutte nel camino.
Mentre aspettavano giunsero anche la madre e il padre, con gli occhi vuoti di chi ormai ha accettato che la morte è vicina. Si sedettero accanto al fuoco e cercarono di allontanare il gelo che li avvolgeva, inutilmente.
Ultima a rientrare fu Lia, la sorella, unica sopravvissuta di una serie di sfortunate morti premature. A dispetto dei suoi fratelli, era una ragazza robusta e sana, ma il lavoro delle ultime settimane aveva reso anche lei secca come la più denutrita delle vagabonde.
«Oggi era ancora peggio del solito, vero?» disse, affiancandosi alla nonna davanti al fuoco e sfregando le mani ruvide una contro l’altra.
Nessuno rispose. Da giorni, ormai, i tentativi di conversazione di Lia cadevano nel silenzio più completo.
«Mi hanno mandata a prendere dei rovi giù al bosco, nel pomeriggio» proseguì imperterrita, come se qualcuno la stesse ascoltando. «Con uno dei loro uomini. Voleva mettermi le mani addosso, il porco, ma non ha neanche da provarci! Gli ho detto che ero tisica, e che era meglio per lui se non mi toccava.»
Rise, di una risata amara che stonava con il viso tutto sommato grazioso. Nonostante le guance incavate e il colorito cereo, era l’unica della casa a conservare gli occhi accesi della sua gente.
La zuppa fu decretata pronta dopo pochi attimi, e distribuita in ciotole di argilla sbeccata; era poco più che acqua, ma il semplice calore aveva il potere di rinfrancarli tutti.
Lia si sedette con la sua porzione accanto a Lorenzo, e la sorbì in silenzio per alcuni minuti, cullata dal ticchettio uniforme della pioggia.
«La stalla sul retro sarà asciutta?» chiese a un tratto, in un mormorio appena udibile.
Lorenzo scrollò le spalle. «Che importa? Le capre ce le hanno portate via.»
«Sì, ma se il tetto avesse una falla?» insisté la ragazza. «Credo che dovremmo controllare. Un giorno quel posto ci servirà di nuovo.»
«Come fai a dire che saremo vivi?» replicò lui atono.
Un lampo di rabbia baluginò negli occhi di Lia.
«Vieni a controllare la stalla con me. Ora!» sibilò, accompagnando la richiesta con cenni nervosi del capo.
Lorenzo si riscosse dal torpore e la considerò brevemente. Guardò poi il resto della famiglia, che raschiava il fondo della ciotola con sguardi apatici, e sospirò a fondo. Se non avesse avuto la certezza che Lia non era una sognatrice, l’avrebbe mandata al diavolo; ma Lia era la ragazza più concreta che conoscesse, ed evidentemente era successo qualcosa di abbastanza importante da trascinarli nuovamente sotto il diluvio.
Senza dire nulla agli altri, lasciarono le loro stoviglie sul tavolo e uscirono per l’ennesima volta sotto la pioggia battente.
Camminando in un buio completo aggirarono la casa, cercando di tenersi sotto il minuscolo riparo del tetto, finché non raggiunsero il retro; qui una stanzetta costruita affastellando sassi alla buona aveva accolto in passato due capre e i loro capretti.
«Non dire nulla, siamo intesi?» fece Lia, con un sorriso emozionato.
Di fronte a quell’espressione Lorenzo avvertì una campana di pericolo, ma non fece in tempo a impedirle di aprire la porta della vecchia stalla.
All’interno c’erano due uomini.

La luce e il calore nell’antro angusto e maleodorante venivano da un piccolissimo falò alimentato da sterco e paglia. I due sconosciuti erano seduti con la schiena appoggiata alla parete della casa, e lo squadrarono senza nascondere la loro diffidenza.
Prima che chiunque potesse parlare, Lorenzo tirò indietro Lia per un braccio.
«Sei impazzita?» le sibilò all’orecchio, furibondo. «Vuoi farci ammazzare? Chi diavolo stai nascondendo?!»
«Mollami!» sbottò lei, divincolandosi secca. «Non voglio farci ammazzare! Voglio liberare tutti!»
Lorenzo scosse la testa. «Sei pazza! Ci porterai alla rovina!»
«Se solo mi ascoltassi...»
«Ragazza!»
La voce che aveva parlato era un mormorio roco, eppure ebbe il potere di ammutolire entrambi.
Lia e Lorenzo si voltarono e incrociarono lo sguardo di uno dei due uomini, un tizio magro dagli occhi azzurri.
«Non è il caso di discutere sotto l’acqua. Entrate. Anche se puzza, almeno è asciutto» sorrise.
Lia obbedì immediatamente, come se accettare inviti ambigui dagli sconosciuti fosse cosa di tutti i giorni. Lorenzo invece strinse le labbra.
«Avanti. Mica ti mangiamo» lo incitò l’uomo dagli occhi azzurri. «E poi, senza offesa... sei un po’ troppo magro per sembrare gustoso. Anche se non dovrei essere proprio io a parlare.»
Il suo compare, più robusto e barbuto, si lasciò andare a una risatina secca, e anche Lia sorrise a metà. Lorenzo non dovette nemmeno sforzarsi per capire che la sciocca era già innamorata. Era sempre questo il guaio con le femmine: perdevano la testa per il primo tordo con gli occhi chiari che le degnava di un’attenzione.
Ma lui era il fratello maggiore, e suo dovere era proteggere la famiglia – per quanto sciocca si dimostrasse; così irrigidì i muscoli doloranti, chinò la schiena e raggiunse il piccolo conciliabolo della stalla.
L’uomo dagli occhi azzurri chiuse la porticina, sotto l’occhiata allarmata di Lorenzo, e spiegò che lo faceva per impedire a qualcuno di scorgere la fiammella; poi, senza scusarsi, continuò a masticare la carne secca che teneva nella bisaccia. La sola vista del cibo fece gorgogliare lo stomaco dei due fratelli; Lia arrossì d’imbarazzo.
«Allora, da quanto tempo è qui il Signore?» domandò lo straniero, senza dar segno di notare il loro disagio.
«Tre settimane» bofonchiò Lorenzo. «E voi?» insinuò dopo un attimo.
«Tre ore» rise l’uomo. «La tua bella sorella ci ha incontrati nel bosco e offerto rifugio.»
Lia arrossì, giocherellando con una ciocca dei capelli scuri e umidicci, ma Lorenzo serrò i denti.
«Chi siete?»
«Ribelli. Attraversiamo le campagne in cerca di villaggi oppressi dagli egoisti signorotti locali e fomentiamo la rivolta.»
«Perché?»
«Perché è giusto. Perché gli uomini sono nati liberi. Perché sono guerre idiote sulle spalle della povera gente. Scegli tu la versione che più ti aggrada... Più praticamente, perché siamo stati vittime dei soprusi in prima persona.»
«E cosa ci guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di mezza parola.
«Molto, credimi» l’uomo gli lanciò un’occhiata condiscendente. «Lo capirai anche tu, se arriverai vivo alla mia età.»
«Non sembri tanto vecchio.»
«Tu invece sembri giovane quanto sei!» rise l’altro, gioviale. «Di’, tua sorella sostiene che sei uno in gamba. Uno forte, carismatico. E’ vero?»
Lorenzo arrossì senza saperlo, e borbottò qualcosa di poco chiaro.
«Bene; ci sarai di grande aiuto» approvò l’uomo.
«Non ho detto che vi avrei aiutato» protestò il ragazzo.
«No?»
«No. E non fingerti stupito! Non so nemmeno i vostri nomi, siete comparsi dalla nebbia... potreste anche essere emissari del Demonio, per quello che ne so!»
«Ah, ragazzo mio, guardati dagli uomini e non dai demoni!» citò l’altro sconosciuto, con una mezza smorfia derisoria.
«No, no, ha ragione» lo ammonì il compagno. «Non ci siamo nemmeno presentati, che gran villani. Il mio nome di battaglia è Falco» sorrise, tendendo una mano nera di terra.
Lorenzo esitò un lungo istante; poi, davanti al suo sorriso aperto, cedette e rispose all’offerta di amicizia.
«Baio» si presentò l’altro, limitandosi a un cenno del capo. Mentre lo faceva si accarezzò la barba ispida, gesto che ripeteva costantemente.
«Veniamo da Agria, a nord. Avete sentito le voci della rivolta?»
Sì, le avevano sentite, in quella che pareva un’altra vita. Prima dell’arrivo del Signore le merci circolavano liberamente attorno alla collina, e con loro le notizie: nel villaggio di Agria la popolazione si era sollevata in massa, detronizzando il signore del castello; avevano strappato il suo vessillo ed eletto un capo-villaggio. Ma lì la notizia non aveva destato molto scalpore: il paese di Lorenzo era libero dal giogo del tiranno da anni e anni.
Prima che arrivasse il Signore.
«Voi avete istigato la folla?» domandò il ragazzo con sospetto.
Falco sembrò molto orgoglioso della paternità dell’azione, e subito attaccò un’entusiasmante descrizione dei combattimenti più accaniti.
Il sorriso di Lia si incrinò percettibilmente, sostituito da un’espressione più annoiata; l’interesse di Lorenzo, invece, schizzò subito alle stelle. E più Falco parlava, più i suoi occhi si sgranavano, via via illuminandosi: ogni parola riaccendeva una vecchia sensazione, ogni immagine era una piccola scossa all’altezza del cuore... Dalla voce di Falco, come un miracolo, scaturiva la vita che lo aveva abbandonato nelle lunghe settimane di oppressione. Lorenzo non se ne rendeva nemmeno conto, estasiato dalle gesta e dalle idee dello sconosciuto usurpatore della sua stalla; non si accorse del tempo che passava, dei segni di impazienza di Lia, dell’altro uomo che si era addormentato, russando profondamente; ma quando Falco tacque aveva le lacrime agli occhi, e sua sorella pensò che fosse ammattito.
«Tutto questo con così pochi uomini...» mormorò ammirato. «In un villaggio tanto sottomesso! E’ incredibile! Stupefacente! Non oso nemmeno immaginare cosa riuscirete a fare qui...»
«Cosa riusciremo a fare, Lorenzo» lo corresse Falco. «Noi e voi insieme: tu e Lia potete darci un grande aiuto.»
Lorenzo fremette e gli occhi di Lia si fecero languidi. La considerazione di quell’uomo era improvvisamente diventata tutto, per entrambi.
«Ma abbiamo parlato fin troppo» li ammonì lui. «E’ tardi, e voi siete sfiniti. Andate a riposare. Domattina prima dell’alba tornate qui, e definiremo i dettagli del piano.»
Lia e Lorenzo se ne andarono a malincuore, offrendo pane e provviste segrete. Falco rifiutò, dicendo che avevano la bisaccia piena, e li incoraggiò a non restare sotto la pioggia.
Per la prima volta da settimane, i due fratelli attesero l’alba con un’ansia vitale che pensavano di non poter provare mai più.

La mattina dopo gli ardori furono ben più moderati.
Lorenzo aprì gli occhi a mezzora dall’alba, riconoscendo la familiare sensazione dei muscoli rotti e delle articolazioni doloranti. Prima di alzarsi rifletté su Falco e gli avvenimenti della sera prima.
Non si trattava di un miracolo, ma di un maleficio, si disse. Falco non era un santo, anzi: la sua capacità di ammaliarlo era così sospetta da avvicinarlo maggiormente a Satana, non al Padre Celeste; altrimenti non si spiegava l’ardore che gli aveva messo in corpo, il desiderio insano di scatenare una rivolta, a dispetto di tutte le vite che sarebbero venute a mancare. Chiunque avesse tanto potere sulle scelte altrui non poteva che essere maligno, perché Dio amava il libero arbitrio.
Si propose di mettere in guardia Lia e cacciare gli sconosciuti. Quando la sentì alzarsi, cercando di non far rumore mentre infilava le scarpe, le fu accanto in un istante.
«Devi stare attenta a Falco» le sibilò all’orecchio.
«Non dire sciocchezze!» rispose lei stizzita. «Lui ci salverà tutti! Anche tu lo pensavi ieri sera!»
«Deve essere malvagio!» insisté Lorenzo. «E’ troppo... troppo bravo per essere un eroe. Quando le cose sembrano semplici, c’è il Maligno di mezzo!»
«Oh, per favore! Ti sembra semplice risvegliare quel branco di pecore che è diventato questo villaggio? Smettila di dire scemenze da fanatico e torna con me nella stalla. Chiediglielo direttamente a Falco, se è un demonio.»
Lia si liberò dalla sua stretta e corse fuori dalla casa, sotto una pioggerella fine e gelata. Sbuffando come un mantice, Lorenzo la seguì, se non altro per proteggerla. Raggiunsero di nuovo la stalla dietro l’edificio, e lui sperò che i due se ne fossero andati. Invece erano ancora lì.
«Buongiorno» li salutarono amichevoli. «Il solito tempaccio?»
Lia attaccò discorso con una facilità disarmante, scivolando subito a sedere accanto a Falco. Lorenzo cercò di raccogliere il coraggio per cacciare entrambi dalla sua proprietà, ma davanti all’espressione aperta dei due uomini le parole gli morirono in gola.
Era in Falco il trucco.
Lui diceva qualcosa, e tu cadevi ai suoi piedi.
«Entra, Lorenzo. Voglio discutere i piani anche con te» gli offrì.
E Lorenzo entrò.

Di nuovo pioggia.
Pioggia fredda, aguzza come spilli, che si infilava negli abiti e si appiccicava alla pelle; pioggia che strappava ogni goccia di calore, speranza o vita, pioggia maledetta che scorreva negli occhi e rendeva scivolosi i carichi. Semplice pioggia, trasfigurata dalla disperazione.
Lorenzo lavorava a testa china, scrutando febbrile le guardie che controllavano i lavori. I capelli gli intralciavano la visuale, ma impedivano anche agli uomini del Signore di scorgere la scintilla vitale che lo animava; perché quel giorno aveva un’ulteriore missione, oltre alla sopravvivenza: quel giorno era l’uomo di Falco.
Contò sei militari rannicchiati sotto le sporgenze dei tetti; attorno alla trincea ne vide altri due, ragionevolmente di pessimo umore, e azzardandosi ad alzare il capo ne individuò quattro lungo la strada che conduceva alla rocca. Ma non era certo che non ce ne fossero altri: sotto lo scroscio della pioggia i contorni erano indistinti, ben visibili restavano soltanto le torce alle finestre.
Annotò mentalmente ogni dettaglio, cercando di indovinare le armi che portavano gli aguzzini; studiò le loro espressioni, a caccia di demotivazione o fiacchezza; infine, tentò una mossa azzardata.
Mentre trasportava un secchio di calce fradicia inciampò e cadde ai piedi di una guardia. La frusta calò inesorabile, quasi prima che le sue mani affondassero nel fango, e Lorenzo gemette con più convinzione del solito. Rialzandosi, per la prima volta si lasciò andare a una sequela di lamentele smozzicate contro il Signore, audacia mai dimostrata da nessuno dei suoi compaesani – almeno dopo il memorabile esempio degli uomini puniti il primo giorno. Sentì la frusta rallentare il ritmo, ma fu solo per un istante: subito riprese, più rabbiosa che mai, e se Lorenzo non fosse scappato in fretta i segni sarebbero stati ben più profondi.
Quella notte, nella stalla sul retro, riferì a Falco che gli uomini del Signore avrebbero venduto l’anima al diavolo pur di non perdere i privilegi di cui godevano; ma non lo amavano, e al primo cenno di disfatta se la sarebbero svignata come cani selvatici.

Impiegarono quasi una settimana a decidere tutti i dettagli del piano. Nel corso di quei giorni diversi uomini si avvicendarono al fianco di Falco, cambiandosi con Baio e portando provviste fresche. Lorenzo immaginò i pericoli che dovevano correre di notte in notte, e nel suo petto si agitarono ammirazione e diffidenza: ancora non riusciva a capire cosa spingesse i ribelli a lottare senza una ricompensa, e se da un lato li scrutava con sospetto, dall’altro non poteva fare a meno di cedere ai discorsi di Falco... Con lui tutto sembrava giusto e a portata di mano: ma qual era il prezzo da pagare a quello che ormai aveva imparato a definire ‘l’angelo mandato dal Demonio’?
Non appena il piano fu completato Falco insistette per dare il via alle manovre. Lorenzo non notò l’improvvisa fretta che lo animava, scambiandola per ansia, e ne fu suo malgrado contagiato: agitato da uno stato di febbrile eccitazione si accordò con Lia, raccolse coraggio, speranza, brandelli di autostima, scacciò ogni dubbio.
L’inferno stava per finire, anzi doveva finire!
Nella notte che precedette il primo passo non riuscì a chiudere occhio. Si girò e rigirò nel letto finché il grigiore dell’alba non strisciò attraverso le imposte marce, leggermente meno impenetrabile dell’oscurità. A quel punto si alzò, teso e impaziente al tempo stesso, e cercò i vestiti nel buio.
«Cosa stai facendo?»
Una scarica gelida corse lungo tutta la sua schiena, impedendogli di afferrare le scarpe.
«Hai intenzione di rovinarci tutti?»
Lorenzo alzò tremante la testa; nelle tenebre gli occhi di suo padre baluginavano, inequivocabilmente delusi, e le sue parole riecheggiarono le accuse che, a suo tempo, lui stesso aveva rivolto a Lia. Probabilmente gli altri familiari fingevano soltanto di dormire, nella stanza angusta e soffocante.
«Io salverò tutti, padre!» sussurrò caparbiamente Lorenzo.
«No. Tu ci porterai al disastro, e lo sai. Ma il tuo egoismo ti impone di tentare la via dell’eroe, e pur di morire con una spada nel cuore invece che nel tuo letto, sei disposto a sacrificare tutti noi.»
Non alzò mai la voce; il tono rassegnato con cui parlò fu, infine, la cosa peggiore.
«Siete annebbiato dalla disperazione, padre» replicò Lorenzo, conficcandosi le unghie nei palmi. «Non vedete più la speranza, non credete più nella vita... Ma io ci credo! Io voglio un domani, voglio lottare per averlo! Non voglio morire in mezzo al fango, servendo un uomo che disprezzo!»
«La pioggia non durerà per sempre» laconico, il vecchio continuò a fissarlo. «Verrà la primavera. Verranno stagioni migliori, la trincea sarà costruita...»
«Ma voi non lo vedrete mai! Voi, e mia madre, e molte altre persone morirete ben prima della primavera!»
Il padre non replicò; si limitò a fissarlo, con quei suoi occhi immensamente tristi e immensamente vuoti. Aveva smesso di credere molto, molto tempo prima; ed era troppo stanco per provarci di nuovo.
«Ormai siete loro schiavo» mormorò Lorenzo. «Ma io non voglio seguire le vostre orme.»
Senza attendere una risposta afferrò le scarpe, le infilò, e uscì sotto il diluvio.

«Ricorda, ragazzo: non vacillare. Se tu esiti, che ragione hanno gli altri per credere in te?»
Lorenzo annuì alle parole di Falco, stringendo le mani l’una all’altra con forza. Fissava il minuscolo fuoco all’interno della stalla, e in lontananza avvertiva il rombo cavernoso del tuono. Avrebbe combattuto anche per suo padre, che non credeva più nel futuro. Tuttavia... Lo avrebbe fatto in ogni caso, era deciso sin dal primo pensiero riottoso; ma sapere di non avere il suo appoggio era avvilente.
Falco rimase in silenzio, mentre il Baio sgranocchiava della frutta secca tormentandosi la barba. Prima dell’inizio anche loro non riuscivano a nascondere la tensione.
«Ah, quasi ce ne scordavamo:» riprese Falco dopo qualche istante. «tu non hai ancora un nome di battaglia.»
Lorenzo sollevò la testa di scatto.
«Il nome di battaglia è importante. Serve a definire ciò che sei, ti dà il coraggio di apparire sempre al meglio. Guarda il Baio: se non avesse questo nome come potrebbe ricordarsi di tirare sempre avanti?»
Il Baio lanciò un grugnito che poteva essere indifferentemente una risata o un insulto. Ma Falco continuò, sorridendo.
«Dobbiamo trovare qualcosa che si addica anche a te. Un nome forte e fiero, che possa scintillare nel ricordo delle persone ed essere un monito per i nemici.»
«Veramente credo che un nome simile mi metterebbe a disagio...» balbettò Lorenzo, mentre le sue orecchie si facevano di brace.
«E’ questo il punto: il nome deve definire il massimo di ciò che puoi essere. A meno che tu non ti accontenti di un topo di campagna...»
Questa volta la risata del Baio fu davvero inconfondibile, e Lorenzo pensò che sarebbe sprofondato per la vergogna.
«Perché tu sei il Falco?» domandò, cercando disperatamente di dirottare la conversazione.
Falco si indicò il viso.
«Occhio di Falco. Mi chiamano così perché ho una vista portentosa: riesco a immaginare ciò che accadrà e a disporre le mie mosse di conseguenza. Si può quasi dire che io legga il futuro.»
Lorenzo ammutolì. Non avrebbe mai avuto un nome altrettanto grande. Davvero, forse avrebbe dovuto iniziare a considerare ‘marmotta campestre’...
«Chiamiamolo pulcino spaurito» propose il Baio con un ghigno. «Guarda lì che faccia.»
«No, ho un’idea migliore» Falco scrollò le spalle. «Aspettiamo la fine della giornata. Sul campo scoprirà certamente il suo punto di forza.»
Se Lorenzo non si era sentito sufficientemente sotto pressione, ora lo fu.
«Ricorda» gli occhi azzurri dell’angelo inviato dal Demonio brillarono, prima dell’impresa finale. «Non esitare. Tu sei la speranza, tu sei il pilastro che non deve cedere. Non avere incertezze, non abbatterti, non mollare; possono ridurti in catene, è vero, ma non possono toccare la tua anima e i tuoi pensieri. Ricordalo

La sera, nonostante la spossatezza, Lorenzo stava ancora ripetendo le medesime parole dentro di sé. Ormai avevano perso di significato, ma gli sembrava che fossero penetrate a fondo nelle sue stesse carni.
Nervoso e fosco spinse la schiena contro la parete della casa, cercando il magro riparo del tetto. La pioggerella della mattina si era trasformata in un temporale più deciso, che ora scrosciava nel buio denso di ombre; mentre aspettava, Lorenzo cercò di ricordare il silenzio, ma non ci riuscì.
Il primo uomo comparve da dietro la casa, muovendosi con cautela e circospezione infinite. Avvolto in un mantello scuro di tela cerata si avvicinò camminando a scatti, senza smettere per un istante di guardarsi attorno. Lorenzo gli indicò la stalla e lo guardò scomparire all’interno.
Convincere Menio era stato difficile, ricordò; avvicinarlo durante i lavori, lasciar cadere qualche parola, ma soprattutto vincere l’apatia e la paura... l’uomo temeva per la sua famiglia. Lorenzo era fermamente convinto che Falco avrebbe dissipato ogni dubbio, e solo per questa ragione aveva promosso la sua causa al punto da assicurargli la riuscita del piano – quando invece lui per primo non ne era certo.
Dopo Menio arrivarono altre tre o quattro persone, sempre sole, sempre guardinghe. Alla fine si erano presentati all’incirca gli stessi che si erano uniti a lui nei primi ed ultimi tentativi di resistenza. Lorenzo indicò la stalla a tutti e rimase fuori. Ci fu un ultimo ritardatario, poi nessun altro. Allora, abbattuto, anche lui raggiunse i compagni.
«Bene, il numero perfetto» sorrise Falco vedendolo entrare. «Se fossimo stati più di così non so dove ci saremmo seduti.»
Lorenzo contò nove persone, includendo sé, Lia e i due ribelli. Il Baio si grattava la barba seduto in un angolo, gli uomini del villaggio scrutavano nervosamente tutt’attorno.
«Siediti, Fosco» esordì allora Falco, con il tono mistico che aveva incantato i due fratelli; e Lorenzo capì che Fosco sarebbe stato il suo nome, e con un misto di turbamento, delusione ed euforia prese parte al cerchio.
Ormai tornare indietro non sarebbe più stata semplice vigliaccheria: avrebbe significato il più infame tradimento.






- Fine primo capitolo -



NEXT: Tempo variabile












Buongiorno, buon pomeriggio, o buona sera che dir si voglia!
Sono qui in clamoroso anticipo (rispetto ai mei standard) per pubblicare il primo capitolo di questa storia, che con una certa sorpresa ha vinto il contest "Dal Film alla Storia" indetto da DarkRose86 sul forum di EFP.
L'assunto del contest era semplice: trarre dalla citazione di un film celebre un racconto originale.
La frase che io ho scelto era: "Il tuo cuore è libero, abbi il coraggio di seguirlo", direttamente da Braveheart - Cuore impavido. Se e come sarà presente, temo lo scoprirete soltanto nel terzo ed ultimo capitolo! XD

Prima di lasciarvi - non si sa mai... potreste aver voglia di scrivere un commentino! - ci tengo a ringraziare Roro, la mia beta, che dopo avermi betato il racconto è stata rimproverata per aver scordato qualche ripetizione (XD). E voglio anche precisare che un paio di parole, virgole, e forse metà di una frase nel secondo o terzo capitolo sono state modificate rispetto alla versione inviata al contest, perché, come ama dire mia madre (e anche Mago Merlino ne "La Spada nella Roccia"), non mi "sconfifferavano" appieno. XD

Ah, per la cronaca... Le altre storie che hanno partecipato al contest sono molto belle! Correte a leggerle appena potete! :-)

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Capitolo 2
*** Tempo variabile ***


Inverno-2
Inverno

La primavera arriverà










Capitolo Secondo

Tempo variabile





Quando gli uomini del villaggio si svegliarono senza udire lo scroscio della pioggia credettero di essere ancora addormentati. Da settimane erano abituati al mormorio dell’acqua, un mormorio foriero di disperazione e malattie, e pensavano che allo spuntar del sole sarebbero stati lieti e liberi.
Invece si scoprirono soltanto sgomenti: se il tempo volgeva al bello gli uomini del signore non avrebbero lesinato la frusta per farli lavorare più duramente. A che serviva la speranza del cielo azzurro se i loro piedi affondavano ancora nella schiavitù?
Lorenzo e Lia, allo scoprire il terreno umido e non fradicio, si trovarono inaspettatamente eccitati. Il giorno previsto per la rivolta iniziava sotto i migliori auspici, e speravano che un raggio di sole avrebbe risollevato gli animi dei compaesani.
Uscirono di casa prima dei genitori, nascondendo in fondo alla coscienza la delusione provata davanti allo sguardo del padre, e sgattaiolarono guardinghi fino alla stalla.
Ad aspettarli trovarono Falco, il Baio e altri tre dei loro uomini, con gli stomaci già pieni ed espressioni insolitamente nervose. Il loro entusiasmo si smorzò nell’aria pesante della piccola riunione.
«Che succede?» domandò Lorenzo.
«Niente» rispose Falco, mentre gli uomini alle sue spalle si scambiavano sguardi furtivi. «Allora, come vi sentite?» continuò con un ampio sorriso.
Lia e Lorenzo ricambiarono, di nuovo alleggeriti, e comunicarono con orgoglio di essere pronti ed entusiasti. Rividero tutti insieme i dettagli del piano, mentre gli uomini del villaggio li raggiungevano, e si fecero in quattro per rasserenare gli animi inquieti. L’assenza di pioggia era vista come un cattivo auspicio, ma Falco convinse tutti che i contadini lo avrebbero poi interpretato come un segno della divina Provvidenza.
Poco prima dell’alba si separarono, dandosi appuntamento per l’ora di pranzo. Se l’ingranaggio fosse stato bene oliato, quella sera la maggior parte di loro si sarebbe nuovamente incontrata.
Altrimenti, si sarebbero rivisti al Giudizio Universale.

Il cielo era ancora coperto di nubi, ma oggi era distante e chiaro. Nembi più scuri attraversavano i campi, innocui, e di tanto in tanto una chiazza soffice lasciava passare un pallido raggio di sole.
Nonostante i timori dei contadini, anche le guardie del Signore furono liete del cambiamento, e premiarono sé e i braccianti con una minore sorveglianza. Riuniti in gruppetti sereni, le fruste posate a terra e le mani sui fiaschi di vino, ridevano e si curavano dei lavoratori solo se li coglievano a riposare troppo a lungo.
Da un lato la scarsa vigilanza dei militari li avrebbe aiutati a sopraffarli, pensò Lorenzo; dall’altro, la momentanea tolleranza poteva infiacchire le motivazioni della rivolta. Perché gli animi riottosi non si placassero, tra un carico e l’altro, si impegnò a diffondere un mormorio contrariato: loro sgobbavano ancora, e le guardie si sollazzavano; almeno prima erano tutti sotto la pioggia, ma ora a soffrire erano soli. Sperò che le sue parole attecchissero, ma non poteva esserne certo.
Quando il chiarore fu massimo gli uomini furono mandati a pranzo. In quel breve lasso di tempo tutti furono informati della rivolta, e Lorenzo sapeva con assoluta certezza che solo dopo la zuppa avrebbero capito se avevano possibilità di riuscita.
Mangiò il suo pasto senza sentirne nemmeno il calore, continuando a scambiare sguardi tesi con Lia. Il resto della famiglia sorbì il brodo in silenzio, apparentemente ignaro di ogni cosa, ma quando il rumore dei cucchiai che grattavano il fondo della ciotola tacque, Lorenzo prese la parola.
«La rivolta è prevista per oggi» annunciò rigidamente. «Io e Lia combatteremo per la libertà. Se voi... se voi deciderete di non partecipare, capiremo. Siete molto indeboliti, era già previsto che alcuni non avrebbero potuto lottare...
«Però... padre, madre, nonni... C’è un favore che vi chiediamo: non abbattete i morali dei giovani; non disilludeteli, non fiaccate le loro speranze. Non incatenate il loro coraggio. Se non siete d’accordo, se il vostro mal pensiero vi fa scuotere la testa, allora scuotetela dietro la porta; perché chi è là fuori è disposto a sacrificare la propria vita anche per voi, e se quel sacrificio si rivelerà vano, la sua sofferenza raddoppierà nel constatare la scarsa fiducia riposta in lui o lei.
«Per favore, non uccidete le nostre speranze ancor prima che si siano formate.»
Nessuno, quando lui tacque, aprì bocca. Nessuno alzò lo sguardo. Il padre portò la ciotola sul tavolo e lì la abbandonò, andando poi a sedersi nell’angolo più lontano. La madre, a testa china, gettò uno sguardo sfuggente ai figli.
Lorenzo strinse le labbra.
«Lia, andiamo. Spero che torneremo.»
Insieme, mano nella mano, uscirono.

«Hai paura?»
«Perché lo domandi?»
«Ti trema la mano. O hai paura, o sei arrabbiato.»
Lorenzo sorrise a malapena, mentre lentamente si avviava alla stalla sul retro.
«Non lo so» rispose. «Credi che nostro padre e nostra madre agiranno come li ho supplicati di fare?»
«Se io fossi in loro, non avrei nemmeno un’esitazione.»
«Ma tu non sei un buon giudice; tu sei già della causa!»
«Certo. E Falco mi ha anche dato il nome: Genziana, come un fiore che lui dice cresce ai piedi dei monti, sfidando le altezze e il freddo con una grazia e una bellezza che...» arrossì leggermente. «Ma non è questo il punto. Il punto è che là dentro... ecco, sembravi quasi lui. Falco. Insomma, è stato molto strano... Lo sai com’è, che quando parla ti convince in meno di un istante... Tu sei stato così, là dentro. E sono convinta che i nostri genitori non siano in grado di resisterti quando parli in quel modo, e che nessuno, in verità, sia capace di farlo.»
Lorenzo la scrutò perplesso.
«Dici davvero?»
«Perché mentire, ora?»
Lorenzo scrollò le spalle. «Voi femmine siete abili ingannatrici, lo sanno tutti...»
«E voi maschi una manica di allocchi. Lo sanno tutti
Lorenzo si concesse una breve risata, e nel raro chiarore del meriggio Lia pensò che era uno strano ragazzo, per metà bambino spaventato e per metà eroe. Non aveva gli occhi chiari di Falco, né la barba virile del Baio o il coraggio feroce di Lupo, ma brillava quanto loro.
Forse era per quella ragione che Falco aveva tanto insistito perché lei lo convincesse a partecipare.
«Lia» la voce di lui la distolse dai suoi pensieri. «Voglio che tu sappia una cosa: sono contento di non essere solo, come i primi giorni. Sono contento che tu sia al mio fianco, e che ci siano anche gli altri. Comunque vada, sono contento.»
Non la guardò, forse imbarazzato, forse commosso, forse vago.
Lia aumentò la stretta sulla sua mano, e poi la sciolse.
Erano davanti alla porta della stalla.

Gli uomini c’erano tutti, determinati come non mai.
Le loro famiglie avevano abbracciato la causa; amici e vicini, nella maggioranza, anche. La paura era tanta, le certezze poche. La speranza strabordava.
Falco aveva parlato con ardore, entusiasmo, coraggio. Li aveva spronati e li aveva incitati, li aveva spinti a combattere e morire, ma mai arrendersi. Gli uomini, alle sue parole, avevano iniziato a risplendere di luce riflessa.
Lorenzo fu sicuro che ce l’avrebbero fatta; nessuno poteva pensare il contrario davanti a Falco.
Lia, al suo fianco, era una donna innamorata e folle d’entusiasmo. A suo fratello sarebbe piaciuto vederla felice; ma sapeva che avrebbe significato non incontrarla più, a meno di non unirsi ai ribelli e seguire il futuro cognato...
Scacciò il pensiero. Doveva occuparsi del villaggio.
Le ultime parole, le ultime pacche sulle spalle, la conta dei forconi e poi gli auguri.
Erano pronti.
Uscirono dalla stalla tutti insieme, separandosi rapidamente per raggiungere le rispettive famiglie. Falco, il Baio e i tre uomini che erano con loro strinsero la mano a Lorenzo e si allontanarono da soli, scomparendo in una viuzza laterale.
Lui e Lia si guardarono un’ultima volta.
«A più tardi» sorrise lei, sempre così entusiasta e ottimista.
«A più tardi» ricambiò lui, senza sorridere, serrando le nocche sul manico di legno.
E si separarono.

Quando videro il primo forcone le guardie abbandonarono i fiaschi e la frusta scambiandosi sguardi attoniti. Increduli, tastarono la cintura alla ricerca delle spade e sbatterono gli occhi come ubriachi in preda a un’allucinazione.
«Che state facendo? Tornate a lavorare!» gridò uno.
La folla radunatasi ai piedi della trincea non si mosse né rispose. La luce grigiastra del cielo aumentava le ombre sotto i loro occhi, le piaghe sulle loro mani e le loro stesse dimensioni. Un pugno di soldati mezzi brilli contro un centinaio di contadini induriti da fame e fatica.
«Noi siamo uomini liberi!» gridò Lorenzo, in prima fila. «Questo è il nostro villaggio! Tornate da dove siete venuti!»
Un urlo selvaggio si sollevò alle sue spalle, dagli uomini che agitavano i forconi nell’aria. Le guardie arretrarono inciampando, guardarono la Rocca con timore e ansia.
«Corri a chiamare rinforzi!» ordinò il capitano delle guardie a un subordinato. Quello si voltò goffamente e corse via, subito seguito da un forcone che rimbalzò sulle sue caviglie.
«Fermatelo!» strillò qualcuno tra i contadini.
«Non ce n’è bisogno» li rassicurò Lorenzo.
In quel momento dalla cima della Rocca un filo di fumo iniziava ad alzarsi verso il cielo, partendo proprio dall’armeria del Signore. Falco e il Baio avevano fatto bene il loro lavoro. Mentre la giovane guardia correva su per il sentiero, gli altri tre ribelli lo intercettarono e bloccarono a terra, tappandogli bocca e occhi.
Lorenzo fissò dritto in viso il capitano delle guardie, che nonostante il pallore restava ritto e li sfidava.
«Il tuo signore ti paga quanto vale la tua vita?» domandò impietoso.
L’uomo digrignò i denti e sembrò perdere tempo in calcoli.
«Ci ucciderete?» ringhiò.
«No. Ma ci assicureremo che siate abbastanza lontani per non interferire.»
Le spade delle guardie tintinnarono a terra, e furono nascoste nella casa più vicina. I militari si lasciarono spogliare delle altre armi e della cotta di cuoio, poi furono affidati al cospicuo gruppo delle donne, che aveva l’incarico di accompagnarli nella foresta.
«E se veniamo a sapere che avete torto un solo capello a una moglie, una figlia o una sorella, vi sgozzeremo e squarteremo il vostro cadavere per i cani.»
Lorenzo stupì anche sé stesso con la crudeltà delle sue parole. Si giustificò dicendosi che era solo una minaccia, ma al contempo si sentì infervorato e coraggioso come un veterano alla millesima battaglia.
La sua sicurezza diede al popolo coraggio e arroganza a volontà, tanto che iniziarono a proporre di assalire la Rocca.
«Non c’è fretta! Verranno loro da noi!» gridò Lorenzo, additando la fortezza ormai preda delle fiamme. A quella distanza vedeva dei puntini frenetici che si agitavano attorno all’incendio, e si chiese se il fuoco sarebbe arrivato alle polveriere o meno.
Allo stesso tempo vide anche la colonna di soldati che scendeva dalla collina.
Il vocio dei contadini si smorzò, le mani si serrarono con più forza sui manici sudati dei forconi. Il numero dei militari era di poco inferiore al loro, ma se Falco non aveva mentito c’erano delle trappole ad accoglierli sul cammino.
Il primo grido giunse fino alla trincea, quando almeno tre uomini delle file d’avanguardia caddero su un fossato nascosto, slogandosi qualche articolazione. La rabbia di chi seguiva, però, fece aumentare la velocità della colonna, e nemmeno la frana di fango che si abbatté su un fianco del gruppo riuscì a rallentarli.
«Loro sono soldati, e sono armati» gridò Lorenzo. «Ma noi lottiamo per la nostra vita e le nostre famiglie! Noi siamo disperati! Non abbiamo nulla da perdere!»
Di nuovo, il grido della folla gli riscaldò le spalle e il cuore. Anche quando i militari li raggiunsero i contadini continuarono ad agitare i forconi e lanciare invettive; ma, a sorpresa, il loro comandante fermò il gruppo e si fece avanti.
Lorenzo, d’istinto, lo imitò.
«Quel è la vostra offerta?» domandò stringendo il forcone.
«Quale offerta?» replicò il militare, sprezzante. «Siete fortunati che non uccidiamo dieci di voi per quelle stupide trappole lungo il cammino e per questo ancor più idiota tentativo di rivolta. Ci siamo fermati unicamente per chiedervi di levarvi dai piedi. Non siete voi ad interessarci, e se resterete in mezzo al campo di battaglia a creare intralcio verrete falciati senza pietà: stiamo aspettando il drappello del marchese della Ginestra.»

La gonna di Lia si strappò tutta sul fondo, impigliandosi tra i rovi e gli altri cespugli spinosi. Da bambina aveva amato correre per i campi e arrampicarsi sugli alberi, ma, crescendo, il decoro e gli abiti scomodi le avevano imposto altri ritmi, e aveva perso l’allenamento.
Inciampando sulle radici sporgenti e graffiandosi il viso con i rami più bassi, ansimava e attraversava la foresta al massimo della velocità. Doveva raggiungere Lorenzo, e doveva raggiungerlo in fretta, o la rivolta si sarebbe trasformata in una carneficina!
Un ramo le schiaffeggiò il viso, riempiendole gli occhi di lacrime.
Falco... Falco doveva saperlo...

La folla mormorava.
Un uomo era stato mandato in cerca di Falco, mentre Lorenzo manteneva lo status quo, ma l’incertezza aveva fatto scemare l’entusiasmo. Persino il cielo sembrava essersi abbassato sul villaggio, e in lontananza si sentiva tuonare.
Il capitano delle guardie del Signore non era un uomo paziente. Aveva concesso una manciata di minuti ai contadini per prendere una decisione, tuttavia la sua spada sguainata la diceva lunga su quanto fosse disposto a concedere proroghe.
Lorenzo aveva raccolto attorno a sé gli uomini che avevano parlato con Falco, chiedendo la loro opinione. Da cinque persone interrogate, erano uscite sei diverse proposte, la maggior parte delle quali prevedeva un’onorevole ritirata. Un paio di persone avevano suggerito di combattere e, se necessario, morire, ma lo sguardo di una larga parte della folla diceva che ormai avevano perso il coraggio.
Temporeggiava. Sperando nell’intervento di Falco, Lorenzo cercava di prendere tempo e rimuginava ossessivamente sulla notizia che il marchese della Ginestra fosse alle porte. Le sentinelle dei ribelli avrebbero dovuto prevederlo. Avvisarli. Ora che ci pensava, gli uomini nella stalla quella mattina erano sembrati più nervosi del solito...
...Tradimento?
Perché i ribelli lottavano? Quale guadagno ne traevano?
Liberando poveri contadini dall’oppressione di ricchi signori avrebbero ricavato al massimo un sacco di grano. Ma se, per ipotesi, avessero creato disordini in un villaggio per indebolire un nobile a favore di un altro...? Un altro che li avrebbe pagati con moneta sonante, magari? Falco, Falco era bravo con le parole. Diabolico. E lui all’inizio non si fidava di quell’ammaliante sconosciuto, non si fidava per niente...
«Il tempo è scaduto!» annunciò il capitano delle guardie, facendo trasalire Lorenzo. «Toglietevi dal nostro cammino, o vi faremo togliere a forza!»
L’uomo mandato in cerca di Falco non tornava; la Rocca, in cima alla collina, ardeva in un alone aranciato che ricordava l’alito di drago delle leggende.
Guardando i volti di chi gli stava attorno, Lorenzo si rese conto che il peso della decisione gravava interamente sulle sue spalle, e se ne sentì schiacciato.
«Lorenzo! Lorenzo!» chiamò una voce acuta, sovrastando il ronzio allarmato dei contadini. Tra i forconi e le casacche si fece avanti una figura secca e disordinata, che sotto i rametti e il sudore si rivelò essere Lia. Prima di riprendere fiato cadde tra le braccia del fratello, accolta da mormorii inquieti e occhiate oblique, ma si riprese prima di riuscire a reggersi davvero in piedi.
«Lorenzo... Lorenzo... C’è un esercito, appena fuori dal villaggio! Vogliono attaccarci! Non possiamo combattere contro due eserciti, non possiamo, non possiamo...» balbettò aggrappandosi ai suoi abiti.
«Lo sappiamo già» rispose lui sottovoce. «Ci hanno informati.»
«Cosa facciamo?» gli occhi di Lia erano ormai gonfi di lacrime, il suo gioioso ottimismo evaporato come rugiada al mattino. «Dov’è Falco?»
«Falco probabilmente ci ha traditi.»
«No!» Lia curvò la bocca in un’O curiosamente perfetta. Lo stupore durò solo un istante, subito dopo fu seguito da una furia che Lorenzo aveva visto poche volte prima. «Tu menti! Non ci avrebbe mai mandati al macello! Deve essere un errore!»
«Vuoi dire che le sue sentinelle non si sono accorte dell’esercito che arrivava?» sbottò lui. «E i suoi uomini dove sono? Dovevano aiutarci!»
Lia scoppiò in singhiozzi contro il suo petto, perché il pensiero del tradimento era venuto anche a lei, già nella foresta, ma sentirlo dalla bocca di un altro, di un altro che amava e di cui si fidava, era la conferma che non avrebbe mai voluto ricevere.
Lorenzo guardò la folla in trepidante attesa.
Ormai c’era una sola cosa da fare.
«Ritiriamoci.»

Una grandiosa rivolta. In campo ideali di libertà, coraggio, fede, speranza; decine di uomini e donne, tutti mobilitati per la causa; un capo, una testa calda dal cuore coraggioso, un ragazzino che si credeva eroe ma aveva troppa paura per andare avanti da solo. Un mentore. Un maestro carismatico scomparso nel momento del bisogno. Una ragazza innamorata, tradita e delusa. Decine di volti sconfitti. Una disperazione più profonda della notte.
Questo il bilancio di una settimana di sofferenze e speranze. Questo l’epilogo di un’impresa forse superiore alle proprie forze. Questa, in definitiva, la conclusione di un sogno troppo ambizioso.
Questo poteva essere.
Ma Lorenzo non era d’accordo.






- Fine secondo capitolo -



NEXT: Temporale primaverile












Tipico: il primo capitolo in straordinario anticipo, i seguenti in straordinario ritardo.
Meno male che sono solo tre.
Chiedo scusa se non ho molto da dire in questo momento, ma ho un esame tra due giorni e attualmente ho passato tutto il pomeriggio davanti al pc... A meno che io non riceva un'illuminazione divina durante la notte, mi conviene per lo meno finire di leggerli i libri, giusto?
Se, metaforicamente parlando, Dio m'assiste, l'ultima parte arriverà in tempi umani.

hotaru: innanzitutto grazie per aver commentato! :-) Le domande che mi hai posto erano esattamente quelle che speravo di aver suscitato, mi fa piacere che siano arrivate a qualcuno! ^_^ Riguardo a Falco e ai suoi ribelli, credo che l'enigma sia ancora più oscuro dopo la fine di questo capitolo... ma nel prossimo avrà la sua naturale soluzione. Fosco è, in effetti, il protagonista, e dunque almeno un po' di fascino volevo darglielo (per quanto ami anche i classici protagonisti un po' scemotti...), così ho optato per il soprannome che hai visto. L'osservazione sulle donne... eheh, purtroppo è vero sì! XD Siamo creature volubili e appassionate... (e questa da dove mi esce?) Grazie ancora per aver commentato, un saluto! :-)

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Capitolo 3
*** Temporale di primavera ***


Inverno-3

Inverno

La primavera arriverà










Capitolo Terzo

Temporale di primavera





I contadini rientrarono nelle loro case strisciando le estremità dei forconi a terra. Il metallo opaco si sporcò di fango e paglia, gli zoccoli si impiastricciarono fino alle caviglie, ma a soffrire più di tutto fu la speranza violentata che era fiorita nel cuore degli uomini.
Lia fu rimandata dalle donne, con l’incarico di nasconderle e proteggerle durante il combattimento; sarebbero tornate dopo la battaglia, qualunque fosse l’esito. Le guardie che sorvegliavano erano libere di agire come credevano.
Lorenzo rientrò con il cuore pesante e un fosco pensiero che si agitava nello stomaco. Evitò lo sguardo del padre, il più doloroso di tutti, e si gettò nell’angolo più buio della stanza, prendendosi la testa tra le mani.
«Hai fatto la scelta migliore.»
Le parole del padre furono uno schiaffo alla sua dignità.
«Hai risparmiato tante vite, non hai ceduto alla sete di gloria. Era la cosa giusta.»
Distruggere tutte le speranze e il coraggio di chi lo circondava? Vedere la delusione, l’orrore della sconfitta nei loro occhi? Se questa era la cosa giusta, non osava immaginare quella sbagliata.
«Arriverà la primavera. I campi si riempiranno di nuovo, smetteremo di lavorare a quella trincea...»
Parole, parole, parole intrise di rassegnazione, non speranza!
«E poi, se saremo fortunati, come sempre accade gli eserciti si distruggeranno a vicenda...»
Lorenzo rialzò la testa.
«Come?»
«Le battaglie non si concludono mai con una vittoria e una sconfitta» spiegò il padre, pulendo con cura gli zoccoli già lindi. «Perdono tutti, e il vincitore è quello che resta in piedi e torna per riferirlo. Ma dopo ogni guerra gli eserciti muoiono completamente, figliolo. E’ così.»
Il fosco pensiero nello stomaco di Lorenzo si agitò con più forza.
C’era qualcosa a cui non aveva pensato; qualcosa che lo tormentava ai confini della coscienza, un’idea che premeva per uscire e graffiava, graffiava, graffiava...
All’improvviso, grazie alle parole di suo padre, capì di cosa si trattava.
Balzò in piedi di scatto, gli occhi illuminati di luce nuova, e tutti nella stanza lo fissarono con ansia.
«Padre, odiatemi pure... ma devo dirvi che voi sarete il vero motore di questa rivolta!»
E con queste parole sibilline, Lorenzo si precipitò fuori di casa.

Il marchese della Ginestra era alla testa dei suoi uomini, un centinaio di ragazzi e mercenari armati che fissavano la Rocca in fiamme e storcevano il naso per colpa del fumo. Il suo cavallo nitriva nervoso, faticando a restare fermo, e il marchese lo maledisse e piantò gli speroni nei suoi fianchi, provocandone l’impennata.
Era un uomo piccolo ma muscoloso, con un principio di stempiatura nei capelli altrimenti folti. Dal suo viso squadrato non traspariva tensione o eccitazione, ma soltanto stizza macchiata di insofferenza.
«Signore, gli uomini del vassallo sono schierati dietro un abbozzo di trincea» gli comunicò una sentinella. «E’ un muro basso e sembra fragile, potremo abbatterlo con una carica, rinunciando alle prime due file.»
Il marchese annuì bruscamente, costringendo il cavallo a girarsi verso i suoi uomini.
«Ho bisogno di venti giovani coraggiosi, che riceveranno i più alti premi ed onori!» annunciò a gran voce. «Chi si offre per le prime file?»

Il Signore era sceso dalla Rocca lasciando che i servitori e le sue guardie personali cercassero di arginare l’incendio. Ostentando una tracotante arroganza, aveva percorso le file dei suoi uomini e commentato aspramente l’infiacchimento della truppa. Al contrario del marchese, lui era alto e leggermente in sovrappeso; aveva scuri capelli ricci, naso aquilino e labbra sottili, ma mani grandi come pale.
«Abbiamo una difesa insuperabile!» esordì, facendo riecheggiare la voce aspra da un lato all’altro. «Siamo riposati e confidiamo nella vittoria! Alcuni di noi morranno, ma saranno coloro a cui verranno tributati i più grandi onori! Chi invece resterà in vita, si godrà la vittoria, il vino e le donne! Lottate, miei uomini! Lottate per avere ciò che meritiamo!»
Dai soldati si sollevò un coro di giubilo – la menzione dei premi era sempre un’arma vincente. Il signore stirò le labbra in un sorriso e voltò il cavallo verso l’esterno del villaggio. In lontananza, ben visibili al limitare della foresta, gli uomini del marchese attendevano il primo segno.

La battaglia ebbe inizio in un momento non meglio precisato della giornata. Il cielo grigio e la luminosità diffusa impedivano di distinguere la posizione del sole, ma tutti sapevano che il combattimento si sarebbe concluso prima del tramonto.
La carica del marchese fu assordante, un clangore di spade, voci e corazze sormontato dal rombo dei passi sul terreno. Il fango schizzò in tutte le direzioni, le frecce sibilarono e si conficcarono oltre la trincea, colpendo e mancando a seconda del caso.
Lo scontro con le difese del Signore fu rapido e doloroso: le grida aumentarono di volume, la melma si macchiò ben presto di sangue. Le voci dei comandanti degli schieramenti si perdevano nel frastuono della battaglia, e ognuno agiva unicamente per salvare la propria vita e falciare quelle altrui.
La trincea resse pochi minuti. Ben presto i primi uomini del marchese tentarono di scavalcarla, ma furono rimandati indietro; allora presero a spingerla insistendo sulle parti ancora umide, e i sassi impastati di calce e fango cedettero, schiantandosi nel pantano come giochi di bambini.
Allora gli eserciti si mescolarono, e la guerra prese la sua forma canonica: un intrico di mani, teste e cuori disperatamente terrorizzati dalla morte.

Lorenzo osservò l’intero scontro appollaiato su un tetto, stretto nel mantello e senza sbattere le palpebre.
Vide le truppe del marchese invadere il terreno all’interno della trincea, vide le spade incrociarsi e il sangue schizzare sui volti dei sopravvissuti. Il suo stomaco si ribellò a quello spettacolo, ma lo mise a tacere con la forza della disperazione: uomini come il marchese e il Signore mandavano al macello altri uomini, in base a un diritto oscuro e arbitrario, e avrebbero volentieri fatto fare la stessa fine a lui e tutti i suoi compagni, se glielo avessero permesso.
Non poteva cedere. Come gli aveva insegnato Falco, dovevano combattere, magari anche morire! Però mai, mai arrendersi! E anche se Falco se l’era data a gambe nel momento del bisogno, le sue parole menzognere erano comunque valide.
Le avrebbe fatte fruttare al suo posto.
Rimase immobile sulla cima di quel tetto per tutto il tempo del combattimento, neanche un’ora. La superiorità del marchese avrebbe potuto essere schiacciante, se i suoi uomini non avessero viaggiato fin lì; ma, nonostante la stanchezza, era largamente bastante per vincere quella battaglia. I soldati del Signore erano fiacchi, demotivati, impigriti; non riuscirono a respingere l’assalto, arretrarono fino alle prime case, iniziarono a disperdersi. Lorenzo vide il Signore stesso colpito dalla lama di un nemico, trascinato giù dal cavallo e massacrato senza pietà. Dopo la sua caduta, gli uomini che aveva pagato si diedero alla fuga, e quelli fedeli al marchese esultarono sollevando le armi.
Di cento che erano arrivati, ne restavano al massimo quaranta.
Lorenzo si alzò, sgranchì le gambe anchilosate e scese dal tetto.

«Andate a spegnere quell’incendio!» fu il primo ordine del marchese della Ginestra, nuovo padrone e signore della Rocca.
I suoi uomini, intenti a depredare i cadaveri, abbandonarono le loro occupazioni con disappunto e si avviarono stancamente per il sentiero.
Il paesaggio ai piedi della collina era di una desolazione straziante: resti dell’uno e dell’altro schieramento, sangue, fango ed escrementi, armi spezzate, corpi calpestati. I militari non vi posavano gli occhi facilmente, ma i contadini fissarono lo scempio con la stoica indifferenza di chi ogni giorno ha a che fare con la morte, quella vera, quella che non è la morte per gioco della guerra.
I soldati li videro comparire a metà del sentiero che conduceva alla Rocca, e si fermarono interdetti: un gruppo di contadini rozzamente armati era l’ultima delle loro preoccupazioni.
Lorenzo, davanti a tutti, fece un passo oltre e stese il forcone.
Non alzò il mento, non parlò con arroganza, non fece nulla di ciò che aveva fatto con il capitano delle guardie del Signore. Il tempo del ragazzino eroico che giocava a salvare il mondo era morto con il tradimento di Falco.
«Avete vinto. Andatevene» ordinò senza alzare la voce.
I soldati si guardarono e risero, increduli.
«E tu chi sei? Il Re dei Poveri?» lo schernirono.
Le punte del forcone di Lorenzo ebbero un pallido brillio; lui non mosse un muscolo.
Le risate dei militari scemarono fino a trasformarsi in smorfie nervose.
«Va’ a chiamare il marchese» borbottò uno al compagno.
«La sua presenza non cambierà le cose» spiegò Lorenzo. «Voi siete stanchi, e siete la metà di noi. Se volete salva la vita, dimenticate questo villaggio.»
Il marchese li raggiunse quasi subito, in sella al suo cavallo. Stizzito e sbalordito chiese cosa accadeva, inveì contro i contadini che alzavano la testa, e poi ammutolì, turbato dalla loro immobilità. Nemmeno uno sguardo si distolse dal suo, e per un attimo ebbe a pensare che aveva davanti l’esercito più compatto che avesse mai visto. Fece un risolino nervoso.
«Cosa volete?» domandò poi, cambiando tono. «Oro? Terreni? Vuoi essere nominato mio vassallo?»
Lorenzo, suo malgrado, sorrise.
Che doni irrisori.
«Vogliamo libertà. Vogliamo che ve ne andiate dal nostro villaggio e lo scordiate per sempre. Solo questo.»
Il marchese lo scrutò diffidente.
«Perché? Cosa ci guadagnate?»

«E cosa ci guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di mezza parola.
«Molto, credimi» l’uomo gli lanciò un’occhiata condiscendente. «Lo capirai anche tu, se arriverai vivo alla mia età.»

Non era stato necessario invecchiare molto... D’altronde, non aveva mai saputo gli anni di Falco.
«Molto, credimi» rispose Lorenzo, senza smettere di sorridere, senza smettere di provare una feroce amarezza dietro la gratitudine.
Il marchese non capì, come non aveva capito lui a suo tempo. Pensò a un tranello, un trucco per assalirlo alle spalle. Scrutò la massa di contadini ottusi che gli si opponeva, guardò la Rocca ormai irrimediabilmente perduta, avvolta dalle fiamme e nera di fuliggine, si chiese se poteva rinunciare a uno sparuto gruppo di case e andarsene così...
Lorenzo catturò la sua attenzione schiarendosi la voce.
«Allora?» domandò severo.
Il marchese sorrise, un sorrisino viscido e lezioso che lo faceva assomigliare a un avvoltoio.
«Va bene. Avreste la vostra libertà, se vi piace tanto... La Rocca era l’unica cosa che poteva interessarci, e ormai è in fiamme. Siamo soddisfatti della vittoria.»
Il grido di gioia che si sollevò dai contadini spaventò i soldati che si accalcavano attorno al loro condottiero. I forconi si agitarono nell’aria offuscata dal fumo, qualche cappello fu lanciato e ripreso al volo. L’espressione del marchese, cristallizzata sul suo viso come quarzo, sembrava quella di una maschera.
Lorenzo si lasciò andare a un tremulo sospiro di sollievo.
Ce l’aveva fatta! Nonostante tutto, la rivolta era riuscita.
«Andatevene!» ordinò con voce incerta per l’improvvisa carenza di adrenalina. Agitò il forcone come un ragazzino inesperto, e il marchese, sempre sorridendo, fece voltare il cavallo.
Una freccia sibilò al di sopra delle loro teste, precisa e mortale. Con un curioso rumore frusciante si conficcò nel collo dell’uomo, poco sotto l’orecchio, attraversandolo da parte a parte. Mentre cadeva dalla sella, alcune gocce di sangue rimasero a brillare nell’aria grigia e improvvisamente muta.
«Tradimento!» gridarono i militari del marchese, almeno la ventina di servi fedeli che era sopravvissuta. «Sozzi cani della terra!» ruggirono, sguainando di nuovo le spade.
«Non siamo stati noi!» si difese Lorenzo, riscuotendosi dallo shock con veemenza. «Nessuno di noi tira con l’arco!»
«Bugiardi! A morte!»
I mercenari assoldati per il combattimento, metà dei reduci, si tirarono indietro. Ma gli altri uomini erano ansiosi di vendicare l’ssassinio del loro signore, e la carica che spinsero sui contadini fu così feroce da far tremare loro le ginocchia.
«Uomini! Difendetevi!» gridò Lorenzo, tornando precipitosamente tra le fila del gruppo.
Ora che la battaglia era inevitabile, per la prima volta si rese conto di avere paura. Sentì lo stesso sentimento serpeggiare tra gli amici che lo spalleggiavano, vide il tremito dei forconi ma anche i piedi saldi nel fango. Tutti loro sapevano che perdere significava morire, e se proprio era inevitabile, almeno volevano cadere dopo aver ucciso uno dei nemici.
Lorenzo serrò le mani sul forcone, incrociando lo sguardo del soldato più veloce.
Strinse i denti, fu assordato dal rombo delle sue orecchie, e con un urlo selvaggio si gettò addosso al nemico.
La battaglia fu breve ma cruenta. I militari erano stanchi, i contadini freschi, i primi erano furiosi e gli ultimi disperati. Esperienza e istinto si combatterono con ferocia, mietendo vittime da entrambe le parti, e lame e forconi uccisero in egual misura.
Lorenzo sbatté con la schiena contro uno dei compagni, rischiando di colpirlo a morte per lo spavento. Il terrore gli annebbiava i sensi, ma i suoi piedi agivano là dove la ragione tardava, salvandogli la vita più e più volte. Ogni lama era un nemico, ogni legno un amico: schema semplice e salvifico, nel marasma di orrore in cui era immerso.
A un tratto una spada calò sul militare che aveva di fronte, conficcandosi a fondo nella sua spalla. L’uomo gridò, accasciandosi a terra, e Lorenzo alzò subito il forcone per colpire, convinto di un errore degli avversari, ma dovette bloccarsi.
Davanti ai suoi occhi sbalorditi stava il Baio, armato come mai e barbuto come sempre.
«Alle tue spalle, pulcino spaurito!» abbaiò, facendolo trasalire, e Lorenzo si gettò a terra un attimo prima che una spada fendesse l’aria dov’era stata la sua testa.
Il Baio finì il militare che li aveva attaccati, poi tese una mano a Lorenzo.
«Tirati su, se non vuoi morire in meno di due minuti» gli disse brusco.
«Perché siete tornati?» ribatté lui, senza accettare la sua offerta d’aiuto. «Sensi di colpa?»
«Che stai dicendo, ragazzino?»
«Sto dicendo che siete scomparsi quando avevamo più bisogno di voi!» ruggì Lorenzo, rialzandosi e puntando il forcone alla gola dell’uomo. «Dov’erano Falco e le sue belle parole quando il marchese è piombato sulla scena? E voi sapevate che sarebbe arrivato! Non mentite! Ho visto le vostre espressioni quella mattina, so che avete sentinelle nei dintorni! Ci avete abbandonati quando meno sapevamo cosa fare! E ora... ora... Siete stati voi! La freccia doveva essere vostra, del Magro! Ho visto il suo arco! Volete ucciderci? E’ un gioco perverso del Demonio?!»
«Abbassa l’arnese, sciocco idiota!» sbottò il Baio, afferrando il manico del forcone e strappandoglielo di mano. «Il solito cretino arrogante! Sei corso alle conclusioni anche al nostro primo incontro, diffidente testa di legno! Ti sembra che vi vogliamo morti? Guardati attorno!»
Lorenzo, seppur contrariato, obbedì; allora si accorse che i contadini non stavano più combattendo da soli, ma erano circondati da una ventina di sconosciuti armati e bellicosi, che falciavano i militari rimasti come spighe di grano. La sorpresa lo scosse più della freccia che aveva ucciso il marchese. A quel punto guardò il Baio con disperazione.
«Dov’è Falco?» gridò. «Perché non è venuto quando abbiamo mandato a chiamarlo? Perché non ci avete avvisati dell’arrivo dell’esercito?»
La risposta del Baio fu soffocata dall’urlo di giubilo che contadini e ribelli lanciarono alla caduta dell’ultimo soldato. L’uomo scosse la testa e gettò a terra il forcone, tendendogli di nuovo la mano.
«Vieni con me, pulcino spaurito. Falco ti aspetta. Ma non piangere quando lo vedrai.»

Era nella casa di Garro, una delle più vicine alla Rocca. Quando Lorenzo e il Baio la raggiunsero riprese a piovere, e Lorenzo si sentì quasi confortato dalle gocce d’acqua gelida che cadevano, pesanti, sulle sue spalle: almeno loro erano rimaste le stesse, nonostante il mondo - il suo mondo - si fosse capovolto nel sangue.
Come quasi tutte le case al villaggio, anche questa era composta da un’unica stanza. Da un lato erano accatastati il tavolo e un’ultima sedia, nella parte opposta una serie di pagliericci umidi, attorno ai quali stava un capannello di sconosciuti. Il padrone di casa, lo stesso uomo che era stato mandato a cercare Falco qualche ora prima, si tormentava i lembi del mantello con la schiena contro un angolo.
«Baio, ma cosa...»
«Guarda coi tuoi occhi.»
L’uomo lo sospinse avanti rudemente, sordo alle sue richieste come lo era stato lungo il tragitto. Lorenzo si trovò d’improvviso tra gli stranieri che facevano gruppo, e guardandone i volti duri e segnati si sentì un bambino finito per sbaglio tra i grandi.
«Ehi, Fosco...»
Più roca, più fievole, infinitamente più distante, però ancora perfettamente riconoscibile: la voce di Falco aveva perso tutto, ma non l’essenziale.
Gli uomini che gli ostacolavano la visuale si scansarono, e finalmente Lorenzo vide il pagliericcio su cui giaceva Falco... Ciò che ne era rimasto, almeno.
Aveva retto al combattimento, all’omicidio di un signore, a quello dell’altro, all’orrore della battaglia e della morte, ma di fronte al viso irriconoscibile dell’angelo dei suoi ricordi lo stomaco gli si contrasse e contorse, costringendolo a piegarsi da un lato per ingoiare il conato di vomito.
Del vecchio Falco era rimasto solo un vago angolo d’azzurro, nascosto sotto palpebre gonfie e ulcerate, affondato nella carne deforme e riarsa di quello che una volta era un bel viso. Il fuoco aveva aggredito la pelle con indicibile violenza, si era portato via ogni singolo pelo e qualcosa di più, aveva premuto e disteso le pieghe a suo piacere... E poi, ritirandosi, aveva lasciato una massa deforme e tesa, sicuramente molto dolorosa.
Lorenzo non riuscì a impedirsi di guardare quel volto sfigurato con l’orrore del fascino macabro. Si soffermò sull’apertura che doveva essere la bocca, e si domandò che fine avessero fatto le labbra. Perché le palpebre c’erano ancora e le labbra no?
«Ora l’hai capito?»
Quel buco osceno si era mosso, lasciando sfuggire la voce di Falco. Lorenzo trasalì e si costrinse a fissare lo spicchio di occhi che sfuggiva alle palpebre devastate.
«Cosa?» balbettò.
«Per cosa lottiamo. Qual è la nostra ricompensa.»
Non poteva più sorridere come un tempo, ma fu come se lo avesse fatto.
Lorenzo sentì una stretta terribile al cuore. Sì, aveva capito perché lottavano. Solo ora, solo dopo la battaglia, poteva comprendere e accettare che c’erano cose che davano più piacere del denaro.
«Siamo incredibilmente egoisti, vero...?» sospirò Falco, e sembrò costargli una fatica immane. «Vogliamo liberare tutti e vederli spiccare il volo, ma in realtà siamo soltanto genitori vanitosi: vogliamo vederli crescere come noi ci aspettiamo. Perdonami, Fosco. Sapevo che sarebbe arrivato il marchese, le mie spie mi avevano avvertito con giorni d’anticipo. Ma come potevo dirtelo? Come potevo guardarti mentre ti ordinavo di abbandonare ogni piano, di rinviare? Avresti perso la speranza. Avresti perso i tuoi begli occhi... Ho preferito sacrificare le vite di tutti piuttosto che il tuo ideale. Perdonami, perdona questo povero folle...»
«Non abbiamo seguito il tuo piano» lo interruppe lui. La voce gli uscì dalla gola a fatica, e sembrava davvero il pigolio di un pulcino spaurito. «Pensavamo che... ci avessi tradito» fece un sorriso che non aveva nulla di allegro, un sorriso di sprezzo per sé stesso e amarezza. «Ma ora mi sembra evidente che non era così.»
«Eh già...» la smorfia che voleva essere un sorriso fu raccapricciante e probabilmente dolorosissima, ma Lorenzo la sentì come il più bello dei regali.
«Sono io che devo chiederti di perdonarmi!» esclamò all’improvviso, cadendo in ginocchio accanto al pagliericcio e cercando la mano deforme per stringerla, incurante delle piaghe, della pelle lucida, finanche del dolore. «Tu hai fatto tanto per noi, per me, hai ridato a tutti la speranza... e noi abbiamo dubitato!»
«Vi siete arresi?»
«No! No, questo mai! Noi abbiamo dubitato... di te... Ma io non mi sono mai arreso, come ci hai insegnato! Ho pensato che... beh, è lunga da spiegare nei dettagli: abbiamo lasciato che i due eserciti si combattessero, e poi abbiamo affrontato i sopravvissuti.»
«Vero... C’era anche questa possibilità...» un respiro più lungo, più faticoso, sollevò la coperta che nascondeva pietosamente il resto del corpo di Falco. «Sei stato bravo. Sono fiero di te.»
«Non correre troppo, Falco» brontolò il Baio dal fondo. «Questo cretino stava per lasciar andare il marchese: sicuro come l’incenso in chiesa sarebbe tornato con uomini freschi e ceppi per tutti. Ci ho pensato io: non vedendolo tornare i suoi eredi penseranno che sia morto e daranno inizio a una faida con gli eredi del Signore, nel suo feudo d’origine. Il villaggio dovrebbe essere risparmiato, tanto più che la Rocca è stata distrutta dall’incendio.»
«Bene, bravi... Tutti quanti» approvò Falco. «Insomma, siete migliorati così tanto che sembra non ci sia più bisogno di me...»
«No!» protestò Lorenzo.
«Sì» ribatté il Baio, guadagnandosi un’occhiata di puro orrore. «Ho preso io le redini del gruppo, prima... Siamo cresciuti, Falco. Ci hai allevati bene, come volevi. Ora stiamo in piedi da soli; se vuoi... se vuoi andare, puoi farlo tranquillo.»
Lorenzo vide il pomo d’Adamo del Baio salire e scendere profondamente, e l’ira provata nei suoi confronti scemò all’improvviso. Chinò il capo, confuso, distante, smarrito come un bambino.
Non c’era nulla che potesse fare. Davvero, non questa volta.
«Lorenzo... per favore...» mormorò Falco, chiamandolo con il suo nome di battesimo. La sua voce si era fatta più fioca, tanto che il ragazzo dovette chinarsi per distinguere le parole. «Lia... occupati di lei. Non c’è bisogno che te lo dica io, ma trovale un marito. Un brav’uomo che coltivi la terra. Dille che mi dispiace... Avrei voluto rivederla un’ultima volta...»
«E’ al sicuro» gli assicurò lui. «Sta bene, ed è forte. Sopravvivrà. Tutti noi andremo avanti, ci hai tirati su come si deve.»
I muscoli sul viso di Falco sembrarono tendersi nell’ennesimo sorriso.
«Ricorda, Fosco... Il tuo cuore è libero, abbi il coraggio di seguirlo.»
«Falco...» sussurrò Lorenzo, fievole, quasi timido. «Qual è il tuo vero nome?»
Dal volto devastato non giunse alcuna risposta.
«Falco...?»
Dietro le palpebre rigonfie non brillava più alcuno spicchio di cielo.
Il freddo calò sulle spalle di Lorenzo con crudele rapidità, amplificato a dismisura dallo scroscio della pioggia sul tetto. Il rumore delle gocce che picchiavano contro l’impasto di paglia e malta avvolse i presenti nel suo abbraccio ovattato, concedendo l’estremo saluto a un uomo che aveva sempre agito dietro le quinte, lasciando la platea ai suoi figli.
Dopo un tempo che parve infinito, Lorenzo lasciò la mano inerte e si rialzò. Curioso. Il corpo di Falco appariva sfocato ai suoi occhi, sovrapposto con il ricordo che aveva di lui e del suo sguardo angelico e demoniaco al tempo stesso.
Si voltò, camminò verso la porta. Passando accanto al Baio gli sembrò di sentire un rimprovero, ma non se ne curò.
Lo so... Avevi detto che non volevi vedermi piangere.


* * *


La pioggia non se ne sarebbe andata solo perché loro desideravano il sole.
L’acqua continuò a cadere con snervante puntualità, ma almeno lavò il sangue e la cenere accumulati attorno alla Rocca. Molte delle rocce di cui era costruita erano cadute a terra, lo scheletro di legno delle parti più recenti era annerito e fradicio, buona parte dei corridoi pericolante. Nessuno ci avrebbe più messo sopra gli occhi, questo era certo.
Lia seppe di Falco quando richiamarono le donne dal bosco. Volle vedere il suo corpo, ma Lorenzo glielo impedì.
Pianse poco, più per rabbia che vero dolore: in un certo senso, sapeva che il destino di uomini come Falco è quello di morire da eroi, ovvero in gioventù e per qualcun altro. Volle però assistere alla sepoltura, lontano dalle fosse comuni in cui avevano gettato i militari; da quel giorno l’onnipresente ottimismo che la caratterizzava scomparve, sostituito da una tempra più realista.
«E’ bastato conoscerlo per poche settimane, e siamo cambiati tanto...» commentò Lorenzo, di ritorno dal funerale.
«Già» rispose Lia, i capelli raccolti in un fazzoletto scuro e la gonna buona sollevata perché non si sporcasse. «Andrai con i ribelli?»
«Come lo sai?»
«Te lo leggo negli occhi. E poi ora fatico a vederti sposato e con una falce in mano.»
Lorenzo sorrise. «Sì, voglio unirmi a loro. Falco aveva detto che devo... avere il coraggio di seguire il mio cuore. Tu pensi che non vada bene?»
«Io penso esattamente quel che pensavo qualche giorno fa, quando hai parlato ai nostri genitori: penso che tu sia il degno erede di Falco, e che saresti sprecato in un piccolo villaggio di zotici. Senza contare che Falco stesso sembrava quasi innamorato di te... ti adorava.»
Lia arricciò il naso, e Lorenzo sbuffò distrattamente, ignorando l’ultimo commento.
«Il Baio ha detto che ho il loro benestare.» riprese. «Ho anche... beh, ho chiesto di ereditare il nome da battaglia di Falco, ma ha detto che dovrò sudarmelo. Però Lia... Per seguirli dovrei lasciarvi, dovrei partire...»
«A casa se ne faranno una ragione.»
Lorenzo smise di camminare.
Frase curiosa.
«Se ne faranno
Lia si fermò qualche passo più avanti, e lo guardò come lo guardava quando combinava una sciocchezza da bambino.
«Caro il mio Falchetto, sarai anche un ragazzo in gamba, ma mi risulta che ti sia sempre rifiutato di lavarti le mutande» sbottò, piazzando le mani sui fianchi. «Hai bisogno di una donna al tuo fianco, e credo di essere l’unica adatta a questo compito, a meno che non ci sia una poverina disposta a tale onere.»
«Ma-ma no, non è possibile... Non possiamo portarci dietro una donna...»
«Prego?»
«Gli altri non lo permetteranno mai...»
«Sarà bene chiederglielo, prima di fasciarsi la testa.»
«Ma sei mia sorella, per Dio!»
«E non infrangere il primo comandamento!»
«Lia! Non puoi dire sul serio!»
Lia lo raggiunse in due ampie falcate, e con rabbia puntò il dito nel mezzo del suo petto.
«I nostri genitori soffriranno. Non avranno eredi a cui lasciare la casa. Non avranno aiuti nei campi. Non avranno più nulla se ce ne andiamo entrambi. Io ci ho pensato, e ho preso la mia decisione: non sta a te negare una scelta tanto difficile!»
«Vuoi dire che dovrei lasciarti agire indisturbata? No!» Lia sbuffò, roteò gli occhi e riprese a camminare verso il villaggio. «Lia, per noi diventerai un peso! Per nostra madre sarai un grande aiuto! Lia, Lia pensaci, proprio perché io me ne vado...»
«...Proprio perché te ne vai dovresti tacere
«Lia! Lia!»


Sotto la pioggia, due fratelli gridavano.
Tutt’attorno a loro il villaggio tornava lentamente alla sua vita di fatica e sudore, una vita conquistata a caro prezzo e preziosa più del sole.
Il premio per chi se ne andava era la gioia di aver visto il cucciolo spiccare il volo, la gioia di averlo allevato con ogni cura.
E un giovane Falco si sarebbe levato nei cieli di lì a poco, pronto a crescere altre nidiate come lui.

La primavera è arrivata.





Fine.







Note finali: dopo tanto tempo volevo un lieto fine canonico, e chiedo scusa se suonerà scontato. Ma se sono qui è perché volevo fare un ultimo appunto sul linguaggio utilizzato: naturalmente imbastire il volgare era inutile e impensabile; ho cercato di rendere i dialoghi per lo meno passabili di essere secenteschi – e contadini – quindi qua e là potrebbero esserci irregolarità grammaticali o, più facilmente, toni retorici e drammatici che di solito mi sono estranei. Se il registro in alcuni momenti risulta teatrale è per la medesima ragione: aderenza – per quanto possibile – all’epoca, in cui gli accenni al Padre Celeste e le scene di pianto erano all’ordine del giorno tra gli eroi. Con buona pace di Lucia Mondella e del Manzoni.



POSTILLA: chiedo scusa se quest'ultimo capitolo viene pubblicato con tale imperdonabile ritardo... Purtroppo, lo confesso, mi ero dimenticata che mancasse l'ultima parte. Sono una mentecatta, lo so. ._. Chiedo davvero scusa, e mi congedo in sordina sperando di essere passata quasi inosservata...

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