Inverno di _ayachan_ (/viewuser.php?uid=32975)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Acqua a catinelle ***
Capitolo 2: *** Tempo variabile ***
Capitolo 3: *** Temporale di primavera ***
Capitolo 1 *** Acqua a catinelle ***
Inverno-1
Inverno
La primavera
arriverà
Capitolo Primo
Acqua a catinelle
La pioggia scendeva dal
cielo a fiotti gelidi, abbattendosi nel fango grigiastro fino a
formare vortici di paglia e melma. Il cielo era basso, plumbeo,
gravava sul paese come nebbia d’inverno. Un cavallo nitrì in
lontananza, e il ragazzo alzò la fronte fradicia pensando che
invidiava la sua stalla calda.
Pagò caro
quell’attimo di distrazione: lo schiocco di una frusta risuonò
nel diluvio e una voce brusca gli ordinò di riprendere il
lavoro. Con il dolore fresco della schiena e un tuono che rombava
cupo nelle orecchie, Lorenzo digrignò i denti e continuò
a camminare, trasportando i secchi pesanti appesi alle estremità
della canna sulle sue spalle.
Detestava quegli
uomini.
E detestava quella
vita.
L’inverno
era arrivato troppo presto, prima che finissero l’ultimo raccolto
di fichi. Con il freddo erano giunti anche le nubi da est, la
pioggia, il fango, e loro.
Chi fossero non
importava davvero; erano come gli altri. Si erano avvicinati prima
che iniziasse il lungo periodo delle piogge, comparendo ai piedi
della collina nelle loro armature impolverate, e tutti avevano
pensato che fossero presagio di sventura.
Avevano ragione.
Il loro signore era un
uomo pragmatico, non aveva perso tempo a fare considerazioni inutili:
si era subito rivolto al capo-villaggio, domandandogli della vecchia
rocca disabitata, e ne aveva preso possesso in un solo giorno.
All’inizio
qualcuno aveva azzardato alcune domande: chi sono? Cosa vogliono?
Perché si sono stabiliti nel castello? Quei pochi coraggiosi
che avevano avuto l’ardire di alzare la voce all’assemblea
cittadina erano serviti da esempio memorabile: il Signore li aveva
fatti frustare pubblicamente. Sovrastando le loro grida di dolore,
poi, aveva proclamato a gran voce che ogni singolo uomo, donna o
bambino gli doveva obbedienza; che il villaggio era di sua proprietà,
che si preparava una guerra, e che tutti gli uomini validi avrebbero
dovuto contribuire, non
parlare.
Nessuno aveva più
osato aprir bocca.
Quel giorno erano
iniziate le piogge...
E sul villaggio era
sceso l’inferno.
Erano passate alcune
settimane dall’arrivo del Signore, quando Lorenzo giunse al punto
di invidiare un cavallo.
Durante
quel periodo l’acqua aveva invaso le strade e ogni avvallamento,
inondato i campi freddi e reso sdrucciolevoli i sentieri. Il sole era
diventato un pallido e raro miraggio dietro la coltre grigia del
cielo, una sfera evanescente che tanti dicevano di non ricordare
nemmeno. In compenso, attorno al villaggio era sorta la trincea.
I contadini erano stati
costretti a costruirla con ritmi di lavoro inumani; dopo aver
consegnato alle truppe gran parte delle provviste per l’inverno
erano stati strappati ai campi e ai boschi per sprecare le loro
energie tirando su un muro di fango e sassi attorno alla collina. A
tutti sembrava un lavoro inutile, pensato solo per farli soffrire:
anche in caso di scontro, cosa poteva fare una barriera marcia così
bassa che si poteva tranquillamente guardare oltre?
Tanto
più che il Signore aveva un’idea molto ampia del concetto di
uomini
validi:
secondo il suo pensiero, valido era ogni ragazzo dagli otto anni in
su provvisto di entrambe le braccia. Che fosse maschio o femmina, era
irrilevante.
Inevitabilmente, i
fanatici avevano iniziato a pensare a un castigo divino: prima la
pioggia prematura, poi l’invasione, infine la fatica... Qualcuno
doveva aver peccato molto pesantemente. In mancanza di un pubblico
capro espiatorio le donne avevano preso a lanciarsi occhiate
sospettose, additando l’una e l’altra, mormorando di stregoneria
e atti illeciti. Oltre la stanchezza, l’umiliazione e il
malcontento, ci si era messo anche il sospetto.
Lorenzo aveva
rinunciato quasi subito a far ragionare i suoi compaesani. Lui e
un’altra manciata di giovani avevano cercato di tenere alto il
morale, di spronare gli uomini a non abbattersi, perché una
volta terminata la trincea sarebbero stati liberi; ma anche se liberi
non avrebbero avuto comunque cibo, ribattevano i pessimisti, e subito
era stato chiaro che quei ritmi di lavoro li avrebbero uccisi troppo
presto, soprattutto i più deboli.
Di fronte al
disfattismo generale Lorenzo aveva finito per perdere la speranza, e
con lui i suoi compagni. Come animali da soma, avevano chinato il
capo e si erano sottomessi docilmente al volere dei loro aguzzini.
Prima
o poi finirà.
Quel
giorno Lorenzo non ci credeva poi tanto. I pomeriggi di lavoro si
susseguivano alle mattine già sfiancanti, sempre sotto la
pioggia battente, sempre cupi come un corteo funebre. Gli unici segni
di vita venivano dalle guardie incaricate di sorvegliarli, uomini
rudi che si lamentavano del freddo e scacciavano la noia frustando i
più stanchi – gli stessi uomini, per inciso, che la notte
sfogavano la lussuria sulle donne del paese, sostenendo che fosse
loro dovere
distrarli.
Quando fu tanto buio
che neanche le guardie riuscivano a distinguere i contorni della
trincea, la voce di quello più grosso si levò alta
nell’aria umida, ordinando il rientro. Gli abitanti del villaggio
non avevano nemmeno la forza per sospirare di sollievo; lasciarono
cadere ciò che trasportavano e si volsero esausti verso le
case dal tetto di paglia.
Lorenzo si unì
alla parata mesta che trascinava i piedi su per il sentiero. La
stanchezza gli annebbiava i sensi, la fame gli mordeva lo stomaco
peggio che negli inverni più duri; la rassegnazione, orribile
demone parassita, gli toglieva persino la voglia di vivere. Se non
avesse saputo che il suicidio era il peccato più grande, si
sarebbe buttato da un tetto.
Rientrò nella
casa umida con le membra intorpidite. Accanto al focolare trovò
la vecchia nonna, intenta a cuocere su un fuoco stento la zuppa più
liquida che avesse mai visto. In un angolo, steso su un pagliericcio
muffo e maleodorante, il nonno invalido; anni prima la falce aveva
mancato le spighe di grano per conficcarsi nella sua gamba.
«E’ quasi
pronto» commentò la vecchia vedendolo sedersi contro il
muro – non c’erano sedie attorno al tavolo, erano finite tutte
nel camino.
Mentre aspettavano
giunsero anche la madre e il padre, con gli occhi vuoti di chi ormai
ha accettato che la morte è vicina. Si sedettero accanto al
fuoco e cercarono di allontanare il gelo che li avvolgeva,
inutilmente.
Ultima a rientrare fu
Lia, la sorella, unica sopravvissuta di una serie di sfortunate morti
premature. A dispetto dei suoi fratelli, era una ragazza robusta e
sana, ma il lavoro delle ultime settimane aveva reso anche lei secca
come la più denutrita delle vagabonde.
«Oggi era ancora
peggio del solito, vero?» disse, affiancandosi alla nonna
davanti al fuoco e sfregando le mani ruvide una contro l’altra.
Nessuno rispose. Da
giorni, ormai, i tentativi di conversazione di Lia cadevano nel
silenzio più completo.
«Mi hanno mandata
a prendere dei rovi giù al bosco, nel pomeriggio»
proseguì imperterrita, come se qualcuno la stesse ascoltando.
«Con uno dei loro uomini. Voleva mettermi le mani addosso, il
porco, ma non ha neanche da provarci! Gli ho detto che ero tisica, e
che era meglio per lui se non mi toccava.»
Rise, di una risata
amara che stonava con il viso tutto sommato grazioso. Nonostante le
guance incavate e il colorito cereo, era l’unica della casa a
conservare gli occhi accesi della sua gente.
La zuppa fu decretata
pronta dopo pochi attimi, e distribuita in ciotole di argilla
sbeccata; era poco più che acqua, ma il semplice calore aveva
il potere di rinfrancarli tutti.
Lia si sedette con la
sua porzione accanto a Lorenzo, e la sorbì in silenzio per
alcuni minuti, cullata dal ticchettio uniforme della pioggia.
«La stalla sul
retro sarà asciutta?» chiese a un tratto, in un mormorio
appena udibile.
Lorenzo scrollò
le spalle. «Che importa? Le capre ce le hanno portate via.»
«Sì, ma se
il tetto avesse una falla?» insisté la ragazza. «Credo
che dovremmo controllare. Un giorno quel posto ci servirà di
nuovo.»
«Come fai a dire
che saremo vivi?» replicò lui atono.
Un lampo di rabbia
baluginò negli occhi di Lia.
«Vieni a
controllare la stalla con me. Ora!» sibilò,
accompagnando la richiesta con cenni nervosi del capo.
Lorenzo si riscosse dal
torpore e la considerò brevemente. Guardò poi il resto
della famiglia, che raschiava il fondo della ciotola con sguardi
apatici, e sospirò a fondo. Se non avesse avuto la certezza
che Lia non era una sognatrice, l’avrebbe mandata al diavolo; ma
Lia era la ragazza più concreta che conoscesse, ed
evidentemente era successo qualcosa di abbastanza importante da
trascinarli nuovamente sotto il diluvio.
Senza dire nulla agli
altri, lasciarono le loro stoviglie sul tavolo e uscirono per
l’ennesima volta sotto la pioggia battente.
Camminando in un buio
completo aggirarono la casa, cercando di tenersi sotto il minuscolo
riparo del tetto, finché non raggiunsero il retro; qui una
stanzetta costruita affastellando sassi alla buona aveva accolto in
passato due capre e i loro capretti.
«Non dire nulla,
siamo intesi?» fece Lia, con un sorriso emozionato.
Di fronte a
quell’espressione Lorenzo avvertì una campana di pericolo,
ma non fece in tempo a impedirle di aprire la porta della vecchia
stalla.
All’interno c’erano
due uomini.
La luce e il calore
nell’antro angusto e maleodorante venivano da un piccolissimo falò
alimentato da sterco e paglia. I due sconosciuti erano seduti con la
schiena appoggiata alla parete della casa, e lo squadrarono senza
nascondere la loro diffidenza.
Prima che chiunque
potesse parlare, Lorenzo tirò indietro Lia per un braccio.
«Sei impazzita?»
le sibilò all’orecchio, furibondo. «Vuoi farci
ammazzare? Chi diavolo stai nascondendo?!»
«Mollami!»
sbottò lei, divincolandosi secca. «Non voglio farci
ammazzare! Voglio liberare tutti!»
Lorenzo scosse la
testa. «Sei pazza! Ci porterai alla rovina!»
«Se solo mi
ascoltassi...»
«Ragazza!»
La voce che aveva
parlato era un mormorio roco, eppure ebbe il potere di ammutolire
entrambi.
Lia e Lorenzo si
voltarono e incrociarono lo sguardo di uno dei due uomini, un tizio
magro dagli occhi azzurri.
«Non è il
caso di discutere sotto l’acqua. Entrate. Anche se puzza, almeno è
asciutto» sorrise.
Lia obbedì
immediatamente, come se accettare inviti ambigui dagli sconosciuti
fosse cosa di tutti i giorni. Lorenzo invece strinse le labbra.
«Avanti. Mica ti
mangiamo» lo incitò l’uomo dagli occhi azzurri. «E
poi, senza offesa... sei un po’ troppo magro per sembrare gustoso.
Anche se non dovrei essere proprio io a parlare.»
Il suo compare, più
robusto e barbuto, si lasciò andare a una risatina secca, e
anche Lia sorrise a metà. Lorenzo non dovette nemmeno
sforzarsi per capire che la sciocca era già innamorata. Era
sempre questo il guaio con le femmine: perdevano la testa per il
primo tordo con gli occhi chiari che le degnava di un’attenzione.
Ma lui era il fratello
maggiore, e suo dovere era proteggere la famiglia – per quanto
sciocca si dimostrasse; così irrigidì i muscoli
doloranti, chinò la schiena e raggiunse il piccolo
conciliabolo della stalla.
L’uomo dagli occhi
azzurri chiuse la porticina, sotto l’occhiata allarmata di Lorenzo,
e spiegò che lo faceva per impedire a qualcuno di scorgere la
fiammella; poi, senza scusarsi, continuò a masticare la carne
secca che teneva nella bisaccia. La sola vista del cibo fece
gorgogliare lo stomaco dei due fratelli; Lia arrossì
d’imbarazzo.
«Allora, da
quanto tempo è qui il Signore?» domandò lo
straniero, senza dar segno di notare il loro disagio.
«Tre settimane»
bofonchiò Lorenzo. «E voi?» insinuò dopo un
attimo.
«Tre ore»
rise l’uomo. «La tua bella sorella ci ha incontrati nel bosco
e offerto rifugio.»
Lia arrossì,
giocherellando con una ciocca dei capelli scuri e umidicci, ma
Lorenzo serrò i denti.
«Chi siete?»
«Ribelli.
Attraversiamo le campagne in cerca di villaggi oppressi dagli egoisti
signorotti locali e fomentiamo la rivolta.»
«Perché?»
«Perché è
giusto. Perché gli uomini sono nati liberi. Perché sono
guerre idiote sulle spalle della povera gente. Scegli tu la versione
che più ti aggrada... Più praticamente, perché
siamo stati vittime dei soprusi in prima persona.»
«E cosa ci
guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di
mezza parola.
«Molto, credimi»
l’uomo gli lanciò un’occhiata condiscendente. «Lo
capirai anche tu, se arriverai vivo alla mia età.»
«Non sembri tanto
vecchio.»
«Tu invece sembri
giovane quanto sei!» rise l’altro, gioviale. «Di’,
tua sorella sostiene che sei uno in gamba. Uno forte, carismatico. E’
vero?»
Lorenzo arrossì
senza saperlo, e borbottò qualcosa di poco chiaro.
«Bene; ci sarai
di grande aiuto» approvò l’uomo.
«Non ho detto che
vi avrei aiutato» protestò il ragazzo.
«No?»
«No. E non
fingerti stupito! Non so nemmeno i vostri nomi, siete comparsi dalla
nebbia... potreste anche essere emissari del Demonio, per quello che
ne so!»
«Ah, ragazzo mio,
guardati dagli uomini e non dai demoni!» citò l’altro
sconosciuto, con una mezza smorfia derisoria.
«No, no, ha
ragione» lo ammonì il compagno. «Non ci siamo
nemmeno presentati, che gran villani. Il mio nome di battaglia è
Falco» sorrise, tendendo una mano nera di terra.
Lorenzo esitò un
lungo istante; poi, davanti al suo sorriso aperto, cedette e rispose
all’offerta di amicizia.
«Baio» si
presentò l’altro, limitandosi a un cenno del capo. Mentre lo
faceva si accarezzò la barba ispida, gesto che ripeteva
costantemente.
«Veniamo da
Agria, a nord. Avete sentito le voci della rivolta?»
Sì, le avevano
sentite, in quella che pareva un’altra vita. Prima dell’arrivo
del Signore le merci circolavano liberamente attorno alla collina, e
con loro le notizie: nel villaggio di Agria la popolazione si era
sollevata in massa, detronizzando il signore del castello; avevano
strappato il suo vessillo ed eletto un capo-villaggio. Ma lì
la notizia non aveva destato molto scalpore: il paese di Lorenzo era
libero dal giogo del tiranno da anni e anni.
Prima che arrivasse il
Signore.
«Voi
avete istigato la folla?» domandò il ragazzo con
sospetto.
Falco sembrò
molto orgoglioso della paternità dell’azione, e subito
attaccò un’entusiasmante descrizione dei combattimenti più
accaniti.
Il sorriso di Lia si
incrinò percettibilmente, sostituito da un’espressione più
annoiata; l’interesse di Lorenzo, invece, schizzò subito
alle stelle. E più Falco parlava, più i suoi occhi si
sgranavano, via via illuminandosi: ogni parola riaccendeva una
vecchia sensazione, ogni immagine era una piccola scossa all’altezza
del cuore... Dalla voce di Falco, come un miracolo, scaturiva la vita
che lo aveva abbandonato nelle lunghe settimane di oppressione.
Lorenzo non se ne rendeva nemmeno conto, estasiato dalle gesta e
dalle idee dello sconosciuto usurpatore della sua stalla; non si
accorse del tempo che passava, dei segni di impazienza di Lia,
dell’altro uomo che si era addormentato, russando profondamente; ma
quando Falco tacque aveva le lacrime agli occhi, e sua sorella pensò
che fosse ammattito.
«Tutto questo con
così pochi uomini...» mormorò ammirato. «In
un villaggio tanto sottomesso! E’ incredibile! Stupefacente! Non
oso nemmeno immaginare cosa riuscirete a fare qui...»
«Cosa
riusciremo
a fare, Lorenzo» lo corresse Falco. «Noi e voi insieme:
tu e Lia potete darci un grande aiuto.»
Lorenzo fremette e gli
occhi di Lia si fecero languidi. La considerazione di quell’uomo
era improvvisamente diventata tutto, per entrambi.
«Ma abbiamo
parlato fin troppo» li ammonì lui. «E’ tardi, e
voi siete sfiniti. Andate a riposare. Domattina prima dell’alba
tornate qui, e definiremo i dettagli del piano.»
Lia e Lorenzo se ne
andarono a malincuore, offrendo pane e provviste segrete. Falco
rifiutò, dicendo che avevano la bisaccia piena, e li
incoraggiò a non restare sotto la pioggia.
Per la prima volta da
settimane, i due fratelli attesero l’alba con un’ansia vitale che
pensavano di non poter provare mai più.
La mattina dopo gli
ardori furono ben più moderati.
Lorenzo aprì gli
occhi a mezzora dall’alba, riconoscendo la familiare sensazione dei
muscoli rotti e delle articolazioni doloranti. Prima di alzarsi
rifletté su Falco e gli avvenimenti della sera prima.
Non
si trattava di un miracolo, ma di un maleficio,
si disse. Falco non era un santo, anzi: la sua capacità di
ammaliarlo era così sospetta da avvicinarlo maggiormente a
Satana, non al Padre Celeste; altrimenti non si spiegava l’ardore
che gli aveva messo in corpo, il desiderio insano di scatenare una
rivolta, a dispetto di tutte le vite che sarebbero venute a mancare.
Chiunque avesse tanto potere sulle scelte altrui non poteva che
essere maligno, perché Dio amava il libero arbitrio.
Si propose di mettere
in guardia Lia e cacciare gli sconosciuti. Quando la sentì
alzarsi, cercando di non far rumore mentre infilava le scarpe, le fu
accanto in un istante.
«Devi stare
attenta a Falco» le sibilò all’orecchio.
«Non dire
sciocchezze!» rispose lei stizzita. «Lui ci salverà
tutti! Anche tu lo pensavi ieri sera!»
«Deve
essere malvagio!» insisté Lorenzo. «E’ troppo...
troppo bravo
per essere un eroe. Quando le cose sembrano semplici, c’è il
Maligno di mezzo!»
«Oh, per favore!
Ti sembra semplice risvegliare quel branco di pecore che è
diventato questo villaggio? Smettila di dire scemenze da fanatico e
torna con me nella stalla. Chiediglielo direttamente a Falco, se è
un demonio.»
Lia si liberò
dalla sua stretta e corse fuori dalla casa, sotto una pioggerella
fine e gelata. Sbuffando come un mantice, Lorenzo la seguì, se
non altro per proteggerla. Raggiunsero di nuovo la stalla dietro
l’edificio, e lui sperò che i due se ne fossero andati.
Invece erano ancora lì.
«Buongiorno»
li salutarono amichevoli. «Il solito tempaccio?»
Lia attaccò
discorso con una facilità disarmante, scivolando subito a
sedere accanto a Falco. Lorenzo cercò di raccogliere il
coraggio per cacciare entrambi dalla sua proprietà, ma davanti
all’espressione aperta dei due uomini le parole gli morirono in
gola.
Era in Falco il trucco.
Lui diceva qualcosa, e
tu cadevi ai suoi piedi.
«Entra, Lorenzo.
Voglio discutere i piani anche con te» gli offrì.
E Lorenzo entrò.
Di nuovo pioggia.
Pioggia fredda, aguzza
come spilli, che si infilava negli abiti e si appiccicava alla pelle;
pioggia che strappava ogni goccia di calore, speranza o vita, pioggia
maledetta che scorreva negli occhi e rendeva scivolosi i carichi.
Semplice pioggia, trasfigurata dalla disperazione.
Lorenzo lavorava a
testa china, scrutando febbrile le guardie che controllavano i
lavori. I capelli gli intralciavano la visuale, ma impedivano anche
agli uomini del Signore di scorgere la scintilla vitale che lo
animava; perché quel giorno aveva un’ulteriore missione,
oltre alla sopravvivenza: quel giorno era l’uomo di Falco.
Contò sei
militari rannicchiati sotto le sporgenze dei tetti; attorno alla
trincea ne vide altri due, ragionevolmente di pessimo umore, e
azzardandosi ad alzare il capo ne individuò quattro lungo la
strada che conduceva alla rocca. Ma non era certo che non ce ne
fossero altri: sotto lo scroscio della pioggia i contorni erano
indistinti, ben visibili restavano soltanto le torce alle finestre.
Annotò
mentalmente ogni dettaglio, cercando di indovinare le armi che
portavano gli aguzzini; studiò le loro espressioni, a caccia
di demotivazione o fiacchezza; infine, tentò una mossa
azzardata.
Mentre trasportava un
secchio di calce fradicia inciampò e cadde ai piedi di una
guardia. La frusta calò inesorabile, quasi prima che le sue
mani affondassero nel fango, e Lorenzo gemette con più
convinzione del solito. Rialzandosi, per la prima volta si lasciò
andare a una sequela di lamentele smozzicate contro il Signore,
audacia mai dimostrata da nessuno dei suoi compaesani – almeno dopo
il memorabile esempio degli uomini puniti il primo giorno. Sentì
la frusta rallentare il ritmo, ma fu solo per un istante: subito
riprese, più rabbiosa che mai, e se Lorenzo non fosse scappato
in fretta i segni sarebbero stati ben più profondi.
Quella notte, nella
stalla sul retro, riferì a Falco che gli uomini del Signore
avrebbero venduto l’anima al diavolo pur di non perdere i privilegi
di cui godevano; ma non lo amavano, e al primo cenno di disfatta se
la sarebbero svignata come cani selvatici.
Impiegarono
quasi una settimana a decidere tutti i dettagli del piano. Nel corso
di quei giorni diversi uomini si avvicendarono al fianco di Falco,
cambiandosi con Baio e portando provviste fresche. Lorenzo immaginò
i pericoli che dovevano correre di notte in notte, e nel suo petto si
agitarono ammirazione e diffidenza: ancora non riusciva a capire cosa
spingesse i ribelli a lottare senza una ricompensa, e se da un lato
li scrutava con sospetto, dall’altro non poteva fare a meno di
cedere ai discorsi di Falco... Con
lui tutto sembrava giusto e a portata di mano: ma qual era il prezzo
da pagare a quello che ormai aveva imparato a definire ‘l’angelo
mandato dal Demonio’?
Non appena il piano fu
completato Falco insistette per dare il via alle manovre. Lorenzo non
notò l’improvvisa fretta che lo animava, scambiandola per
ansia, e ne fu suo malgrado contagiato: agitato da uno stato di
febbrile eccitazione si accordò con Lia, raccolse coraggio,
speranza, brandelli di autostima, scacciò ogni dubbio.
L’inferno
stava per finire, anzi doveva
finire!
Nella notte che
precedette il primo passo non riuscì a chiudere occhio. Si
girò e rigirò nel letto finché il grigiore
dell’alba non strisciò attraverso le imposte marce,
leggermente meno impenetrabile dell’oscurità. A quel punto
si alzò, teso e impaziente al tempo stesso, e cercò i
vestiti nel buio.
«Cosa stai
facendo?»
Una scarica gelida
corse lungo tutta la sua schiena, impedendogli di afferrare le
scarpe.
«Hai intenzione
di rovinarci tutti?»
Lorenzo alzò
tremante la testa; nelle tenebre gli occhi di suo padre baluginavano,
inequivocabilmente delusi, e le sue parole riecheggiarono le accuse
che, a suo tempo, lui stesso aveva rivolto a Lia. Probabilmente gli
altri familiari fingevano soltanto di dormire, nella stanza angusta e
soffocante.
«Io
salverò
tutti, padre!» sussurrò caparbiamente Lorenzo.
«No. Tu ci
porterai al disastro, e lo sai. Ma il tuo egoismo ti impone di
tentare la via dell’eroe, e pur di morire con una spada nel cuore
invece che nel tuo letto, sei disposto a sacrificare tutti noi.»
Non alzò mai la
voce; il tono rassegnato con cui parlò fu, infine, la cosa
peggiore.
«Siete annebbiato
dalla disperazione, padre» replicò Lorenzo,
conficcandosi le unghie nei palmi. «Non vedete più la
speranza, non credete più nella vita... Ma io ci credo! Io
voglio un domani, voglio lottare per averlo! Non voglio morire in
mezzo al fango, servendo un uomo che disprezzo!»
«La pioggia non
durerà per sempre» laconico, il vecchio continuò
a fissarlo. «Verrà la primavera. Verranno stagioni
migliori, la trincea sarà costruita...»
«Ma voi non lo
vedrete mai! Voi, e mia madre, e molte altre persone morirete ben
prima della primavera!»
Il padre non replicò;
si limitò a fissarlo, con quei suoi occhi immensamente tristi
e immensamente vuoti. Aveva smesso di credere molto, molto tempo
prima; ed era troppo stanco per provarci di nuovo.
«Ormai siete loro
schiavo» mormorò Lorenzo. «Ma io non voglio
seguire le vostre orme.»
Senza attendere una
risposta afferrò le scarpe, le infilò, e uscì
sotto il diluvio.
«Ricorda,
ragazzo: non vacillare. Se tu esiti, che ragione hanno gli altri per
credere in te?»
Lorenzo annuì
alle parole di Falco, stringendo le mani l’una all’altra con
forza. Fissava il minuscolo fuoco all’interno della stalla, e in
lontananza avvertiva il rombo cavernoso del tuono. Avrebbe combattuto
anche per suo padre, che non credeva più nel futuro.
Tuttavia... Lo avrebbe fatto in ogni caso, era deciso sin dal primo
pensiero riottoso; ma sapere di non avere il suo appoggio era
avvilente.
Falco rimase in
silenzio, mentre il Baio sgranocchiava della frutta secca
tormentandosi la barba. Prima dell’inizio anche loro non riuscivano
a nascondere la tensione.
«Ah, quasi ce ne
scordavamo:» riprese Falco dopo qualche istante. «tu non
hai ancora un nome di battaglia.»
Lorenzo sollevò
la testa di scatto.
«Il nome di
battaglia è importante. Serve a definire ciò che sei,
ti dà il coraggio di apparire sempre al meglio. Guarda il
Baio: se non avesse questo nome come potrebbe ricordarsi di tirare
sempre avanti?»
Il Baio lanciò
un grugnito che poteva essere indifferentemente una risata o un
insulto. Ma Falco continuò, sorridendo.
«Dobbiamo trovare
qualcosa che si addica anche a te. Un nome forte e fiero, che possa
scintillare nel ricordo delle persone ed essere un monito per i
nemici.»
«Veramente credo
che un nome simile mi metterebbe a disagio...» balbettò
Lorenzo, mentre le sue orecchie si facevano di brace.
«E’ questo il
punto: il nome deve definire il massimo di ciò che puoi
essere. A meno che tu non ti accontenti di un topo di campagna...»
Questa volta la risata
del Baio fu davvero inconfondibile, e Lorenzo pensò che
sarebbe sprofondato per la vergogna.
«Perché tu
sei il Falco?» domandò, cercando disperatamente di
dirottare la conversazione.
Falco si indicò
il viso.
«Occhio
di Falco. Mi chiamano così perché ho una vista
portentosa: riesco a immaginare ciò che accadrà e a
disporre le mie mosse di conseguenza. Si può quasi dire che io
legga il futuro.»
Lorenzo ammutolì.
Non avrebbe mai avuto un nome altrettanto grande. Davvero, forse
avrebbe dovuto iniziare a considerare ‘marmotta campestre’...
«Chiamiamolo
pulcino spaurito» propose il Baio con un ghigno. «Guarda
lì che faccia.»
«No, ho un’idea
migliore» Falco scrollò le spalle. «Aspettiamo la
fine della giornata. Sul campo scoprirà certamente il suo
punto di forza.»
Se Lorenzo non si era
sentito sufficientemente sotto pressione, ora lo fu.
«Ricorda»
gli occhi azzurri dell’angelo inviato dal Demonio brillarono, prima
dell’impresa finale. «Non esitare. Tu sei la speranza, tu sei
il pilastro che non deve cedere. Non avere incertezze, non
abbatterti, non mollare; possono ridurti in catene, è vero, ma
non possono toccare la tua anima e i tuoi pensieri. Ricordalo.»
La sera, nonostante la
spossatezza, Lorenzo stava ancora ripetendo le medesime parole dentro
di sé. Ormai avevano perso di significato, ma gli sembrava che
fossero penetrate a fondo nelle sue stesse carni.
Nervoso e fosco spinse
la schiena contro la parete della casa, cercando il magro riparo del
tetto. La pioggerella della mattina si era trasformata in un
temporale più deciso, che ora scrosciava nel buio denso di
ombre; mentre aspettava, Lorenzo cercò di ricordare il
silenzio, ma non ci riuscì.
Il primo uomo comparve
da dietro la casa, muovendosi con cautela e circospezione infinite.
Avvolto in un mantello scuro di tela cerata si avvicinò
camminando a scatti, senza smettere per un istante di guardarsi
attorno. Lorenzo gli indicò la stalla e lo guardò
scomparire all’interno.
Convincere Menio era
stato difficile, ricordò; avvicinarlo durante i lavori,
lasciar cadere qualche parola, ma soprattutto vincere l’apatia e la
paura... l’uomo temeva per la sua famiglia. Lorenzo era fermamente
convinto che Falco avrebbe dissipato ogni dubbio, e solo per questa
ragione aveva promosso la sua causa al punto da assicurargli la
riuscita del piano – quando invece lui per primo non ne era certo.
Dopo Menio arrivarono
altre tre o quattro persone, sempre sole, sempre guardinghe. Alla
fine si erano presentati all’incirca gli stessi che si erano uniti
a lui nei primi ed ultimi tentativi di resistenza. Lorenzo indicò
la stalla a tutti e rimase fuori. Ci fu un ultimo ritardatario, poi
nessun altro. Allora, abbattuto, anche lui raggiunse i compagni.
«Bene, il numero
perfetto» sorrise Falco vedendolo entrare. «Se fossimo
stati più di così non so dove ci saremmo seduti.»
Lorenzo contò
nove persone, includendo sé, Lia e i due ribelli. Il Baio si
grattava la barba seduto in un angolo, gli uomini del villaggio
scrutavano nervosamente tutt’attorno.
«Siediti, Fosco»
esordì allora Falco, con il tono mistico che aveva incantato i
due fratelli; e Lorenzo capì che Fosco sarebbe stato il suo
nome, e con un misto di turbamento, delusione ed euforia prese parte
al cerchio.
Ormai
tornare indietro non sarebbe più stata semplice vigliaccheria:
avrebbe significato il più infame tradimento.
- Fine primo capitolo -
NEXT: Tempo variabile
Buongiorno, buon pomeriggio, o buona sera che dir si voglia!
Sono qui in clamoroso anticipo (rispetto ai mei standard) per
pubblicare il primo capitolo di questa storia, che con una certa
sorpresa ha vinto il contest "Dal Film alla Storia" indetto da DarkRose86 sul forum di EFP.
L'assunto del contest era semplice: trarre dalla citazione di un film celebre un racconto originale.
La frase che io ho scelto era: "Il tuo cuore è libero, abbi il
coraggio di seguirlo", direttamente da Braveheart - Cuore impavido. Se
e come sarà presente, temo lo scoprirete soltanto nel terzo ed
ultimo capitolo! XD
Prima di lasciarvi - non si sa mai... potreste aver voglia di scrivere
un commentino! - ci tengo a ringraziare Roro, la mia beta, che dopo
avermi betato il racconto è stata rimproverata per aver scordato
qualche ripetizione (XD). E voglio anche precisare che un paio di
parole, virgole, e forse metà di una frase nel secondo o terzo
capitolo sono state modificate rispetto alla versione inviata al
contest, perché, come ama dire mia madre (e anche Mago Merlino
ne "La Spada nella Roccia"), non mi "sconfifferavano" appieno. XD
Ah, per la cronaca... Le altre storie che hanno partecipato al contest sono molto belle! Correte a leggerle appena potete! :-)
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Capitolo 2 *** Tempo variabile ***
Inverno-2
Inverno
La primavera
arriverà
Capitolo Secondo
Tempo variabile
Quando gli uomini del
villaggio si svegliarono senza udire lo scroscio della pioggia
credettero di essere ancora addormentati. Da settimane erano abituati
al mormorio dell’acqua, un mormorio foriero di disperazione e
malattie, e pensavano che allo spuntar del sole sarebbero stati lieti
e liberi.
Invece si scoprirono
soltanto sgomenti: se il tempo volgeva al bello gli uomini del
signore non avrebbero lesinato la frusta per farli lavorare più
duramente. A che serviva la speranza del cielo azzurro se i loro
piedi affondavano ancora nella schiavitù?
Lorenzo e Lia, allo
scoprire il terreno umido e non fradicio, si trovarono
inaspettatamente eccitati. Il giorno previsto per la rivolta iniziava
sotto i migliori auspici, e speravano che un raggio di sole avrebbe
risollevato gli animi dei compaesani.
Uscirono di casa prima
dei genitori, nascondendo in fondo alla coscienza la delusione
provata davanti allo sguardo del padre, e sgattaiolarono guardinghi
fino alla stalla.
Ad aspettarli trovarono
Falco, il Baio e altri tre dei loro uomini, con gli stomaci già
pieni ed espressioni insolitamente nervose. Il loro entusiasmo si
smorzò nell’aria pesante della piccola riunione.
«Che succede?»
domandò Lorenzo.
«Niente»
rispose Falco, mentre gli uomini alle sue spalle si scambiavano
sguardi furtivi. «Allora, come vi sentite?» continuò
con un ampio sorriso.
Lia e Lorenzo
ricambiarono, di nuovo alleggeriti, e comunicarono con orgoglio di
essere pronti ed entusiasti. Rividero tutti insieme i dettagli del
piano, mentre gli uomini del villaggio li raggiungevano, e si fecero
in quattro per rasserenare gli animi inquieti. L’assenza di pioggia
era vista come un cattivo auspicio, ma Falco convinse tutti che i
contadini lo avrebbero poi interpretato come un segno della divina
Provvidenza.
Poco prima dell’alba
si separarono, dandosi appuntamento per l’ora di pranzo. Se
l’ingranaggio fosse stato bene oliato, quella sera la maggior parte
di loro si sarebbe nuovamente incontrata.
Altrimenti, si
sarebbero rivisti al Giudizio Universale.
Il cielo era ancora
coperto di nubi, ma oggi era distante e chiaro. Nembi più
scuri attraversavano i campi, innocui, e di tanto in tanto una
chiazza soffice lasciava passare un pallido raggio di sole.
Nonostante i timori dei
contadini, anche le guardie del Signore furono liete del cambiamento,
e premiarono sé e i braccianti con una minore sorveglianza.
Riuniti in gruppetti sereni, le fruste posate a terra e le mani sui
fiaschi di vino, ridevano e si curavano dei lavoratori solo se li
coglievano a riposare troppo a lungo.
Da un lato la scarsa
vigilanza dei militari li avrebbe aiutati a sopraffarli, pensò
Lorenzo; dall’altro, la momentanea tolleranza poteva infiacchire le
motivazioni della rivolta. Perché gli animi riottosi non si
placassero, tra un carico e l’altro, si impegnò a diffondere
un mormorio contrariato: loro sgobbavano ancora, e le guardie si
sollazzavano; almeno prima erano tutti sotto la pioggia, ma ora a
soffrire erano soli. Sperò che le sue parole attecchissero, ma
non poteva esserne certo.
Quando il chiarore fu
massimo gli uomini furono mandati a pranzo. In quel breve lasso di
tempo tutti furono informati della rivolta, e Lorenzo sapeva con
assoluta certezza che solo dopo la zuppa avrebbero capito se avevano
possibilità di riuscita.
Mangiò il suo
pasto senza sentirne nemmeno il calore, continuando a scambiare
sguardi tesi con Lia. Il resto della famiglia sorbì il brodo
in silenzio, apparentemente ignaro di ogni cosa, ma quando il rumore
dei cucchiai che grattavano il fondo della ciotola tacque, Lorenzo
prese la parola.
«La rivolta è
prevista per oggi» annunciò rigidamente. «Io e Lia
combatteremo per la libertà. Se voi... se voi deciderete di
non partecipare, capiremo. Siete molto indeboliti, era già
previsto che alcuni non avrebbero potuto lottare...
«Però...
padre, madre, nonni... C’è un favore che vi chiediamo: non
abbattete i morali dei giovani; non disilludeteli, non fiaccate le
loro speranze. Non incatenate il loro coraggio. Se non siete
d’accordo, se il vostro mal pensiero vi fa scuotere la testa,
allora scuotetela dietro la porta; perché chi è là
fuori è disposto a sacrificare la propria vita anche per voi,
e se quel sacrificio si rivelerà vano, la sua sofferenza
raddoppierà nel constatare la scarsa fiducia riposta in lui o
lei.
«Per favore, non
uccidete le nostre speranze ancor prima che si siano formate.»
Nessuno, quando lui
tacque, aprì bocca. Nessuno alzò lo sguardo. Il padre
portò la ciotola sul tavolo e lì la abbandonò,
andando poi a sedersi nell’angolo più lontano. La madre, a
testa china, gettò uno sguardo sfuggente ai figli.
Lorenzo strinse le
labbra.
«Lia, andiamo.
Spero che torneremo.»
Insieme, mano nella
mano, uscirono.
«Hai paura?»
«Perché lo
domandi?»
«Ti trema la
mano. O hai paura, o sei arrabbiato.»
Lorenzo sorrise a
malapena, mentre lentamente si avviava alla stalla sul retro.
«Non lo so»
rispose. «Credi che nostro padre e nostra madre agiranno come
li ho supplicati di fare?»
«Se io fossi in
loro, non avrei nemmeno un’esitazione.»
«Ma tu non sei un
buon giudice; tu sei già della causa!»
«Certo. E Falco
mi ha anche dato il nome: Genziana, come un fiore che lui dice cresce
ai piedi dei monti, sfidando le altezze e il freddo con una grazia e
una bellezza che...» arrossì leggermente. «Ma non
è questo il punto. Il punto è che là dentro...
ecco, sembravi quasi lui. Falco. Insomma, è stato molto
strano... Lo sai com’è, che quando parla ti convince in meno
di un istante... Tu sei stato così, là dentro. E sono
convinta che i nostri genitori non siano in grado di resisterti
quando parli in quel modo, e che nessuno, in verità, sia
capace di farlo.»
Lorenzo la scrutò
perplesso.
«Dici davvero?»
«Perché
mentire, ora?»
Lorenzo scrollò
le spalle. «Voi femmine siete abili ingannatrici, lo sanno
tutti...»
«E
voi maschi una manica di allocchi. Lo
sanno tutti.»
Lorenzo si concesse una
breve risata, e nel raro chiarore del meriggio Lia pensò che
era uno strano ragazzo, per metà bambino spaventato e per metà
eroe. Non aveva gli occhi chiari di Falco, né la barba virile
del Baio o il coraggio feroce di Lupo, ma brillava quanto loro.
Forse era per quella
ragione che Falco aveva tanto insistito perché lei lo
convincesse a partecipare.
«Lia» la
voce di lui la distolse dai suoi pensieri. «Voglio che tu
sappia una cosa: sono contento di non essere solo, come i primi
giorni. Sono contento che tu sia al mio fianco, e che ci siano anche
gli altri. Comunque vada, sono contento.»
Non la guardò,
forse imbarazzato, forse commosso, forse vago.
Lia aumentò la
stretta sulla sua mano, e poi la sciolse.
Erano davanti alla
porta della stalla.
Gli uomini c’erano
tutti, determinati come non mai.
Le loro famiglie
avevano abbracciato la causa; amici e vicini, nella maggioranza,
anche. La paura era tanta, le certezze poche. La speranza
strabordava.
Falco aveva parlato con
ardore, entusiasmo, coraggio. Li aveva spronati e li aveva incitati,
li aveva spinti a combattere e morire, ma mai arrendersi. Gli uomini,
alle sue parole, avevano iniziato a risplendere di luce riflessa.
Lorenzo fu sicuro che
ce l’avrebbero fatta; nessuno poteva pensare il contrario davanti a
Falco.
Lia, al suo fianco, era
una donna innamorata e folle d’entusiasmo. A suo fratello sarebbe
piaciuto vederla felice; ma sapeva che avrebbe significato non
incontrarla più, a meno di non unirsi ai ribelli e seguire il
futuro cognato...
Scacciò il
pensiero. Doveva occuparsi del villaggio.
Le ultime parole, le
ultime pacche sulle spalle, la conta dei forconi e poi gli auguri.
Erano pronti.
Uscirono dalla stalla
tutti insieme, separandosi rapidamente per raggiungere le rispettive
famiglie. Falco, il Baio e i tre uomini che erano con loro strinsero
la mano a Lorenzo e si allontanarono da soli, scomparendo in una
viuzza laterale.
Lui e Lia si guardarono
un’ultima volta.
«A più
tardi» sorrise lei, sempre così entusiasta e ottimista.
«A più
tardi» ricambiò lui, senza sorridere, serrando le nocche
sul manico di legno.
E si separarono.
Quando videro il primo
forcone le guardie abbandonarono i fiaschi e la frusta scambiandosi
sguardi attoniti. Increduli, tastarono la cintura alla ricerca delle
spade e sbatterono gli occhi come ubriachi in preda a
un’allucinazione.
«Che state
facendo? Tornate a lavorare!» gridò uno.
La folla radunatasi ai
piedi della trincea non si mosse né rispose. La luce
grigiastra del cielo aumentava le ombre sotto i loro occhi, le piaghe
sulle loro mani e le loro stesse dimensioni. Un pugno di soldati
mezzi brilli contro un centinaio di contadini induriti da fame e
fatica.
«Noi siamo uomini
liberi!» gridò Lorenzo, in prima fila. «Questo è
il nostro villaggio! Tornate da dove siete venuti!»
Un urlo selvaggio si
sollevò alle sue spalle, dagli uomini che agitavano i forconi
nell’aria. Le guardie arretrarono inciampando, guardarono la Rocca
con timore e ansia.
«Corri a chiamare
rinforzi!» ordinò il capitano delle guardie a un
subordinato. Quello si voltò goffamente e corse via, subito
seguito da un forcone che rimbalzò sulle sue caviglie.
«Fermatelo!»
strillò qualcuno tra i contadini.
«Non ce n’è
bisogno» li rassicurò Lorenzo.
In quel momento dalla
cima della Rocca un filo di fumo iniziava ad alzarsi verso il cielo,
partendo proprio dall’armeria del Signore. Falco e il Baio avevano
fatto bene il loro lavoro. Mentre la giovane guardia correva su per
il sentiero, gli altri tre ribelli lo intercettarono e bloccarono a
terra, tappandogli bocca e occhi.
Lorenzo fissò
dritto in viso il capitano delle guardie, che nonostante il pallore
restava ritto e li sfidava.
«Il tuo signore
ti paga quanto vale la tua vita?» domandò impietoso.
L’uomo digrignò
i denti e sembrò perdere tempo in calcoli.
«Ci ucciderete?»
ringhiò.
«No. Ma ci
assicureremo che siate abbastanza lontani per non interferire.»
Le spade delle guardie
tintinnarono a terra, e furono nascoste nella casa più vicina.
I militari si lasciarono spogliare delle altre armi e della cotta di
cuoio, poi furono affidati al cospicuo gruppo delle donne, che aveva
l’incarico di accompagnarli nella foresta.
«E se veniamo a
sapere che avete torto un solo capello a una moglie, una figlia o una
sorella, vi sgozzeremo e squarteremo il vostro cadavere per i cani.»
Lorenzo stupì
anche sé stesso con la crudeltà delle sue parole. Si
giustificò dicendosi che era solo una minaccia, ma al contempo
si sentì infervorato e coraggioso come un veterano alla
millesima battaglia.
La sua sicurezza diede
al popolo coraggio e arroganza a volontà, tanto che iniziarono
a proporre di assalire la Rocca.
«Non c’è
fretta! Verranno loro da noi!» gridò Lorenzo, additando
la fortezza ormai preda delle fiamme. A quella distanza vedeva dei
puntini frenetici che si agitavano attorno all’incendio, e si
chiese se il fuoco sarebbe arrivato alle polveriere o meno.
Allo stesso tempo vide
anche la colonna di soldati che scendeva dalla collina.
Il vocio dei contadini
si smorzò, le mani si serrarono con più forza sui
manici sudati dei forconi. Il numero dei militari era di poco
inferiore al loro, ma se Falco non aveva mentito c’erano delle
trappole ad accoglierli sul cammino.
Il primo grido giunse
fino alla trincea, quando almeno tre uomini delle file d’avanguardia
caddero su un fossato nascosto, slogandosi qualche articolazione. La
rabbia di chi seguiva, però, fece aumentare la velocità
della colonna, e nemmeno la frana di fango che si abbatté su
un fianco del gruppo riuscì a rallentarli.
«Loro sono
soldati, e sono armati» gridò Lorenzo. «Ma noi
lottiamo per la nostra vita e le nostre famiglie! Noi siamo
disperati! Non abbiamo nulla da perdere!»
Di nuovo, il grido
della folla gli riscaldò le spalle e il cuore. Anche quando i
militari li raggiunsero i contadini continuarono ad agitare i forconi
e lanciare invettive; ma, a sorpresa, il loro comandante fermò
il gruppo e si fece avanti.
Lorenzo, d’istinto,
lo imitò.
«Quel è la
vostra offerta?» domandò stringendo il forcone.
«Quale offerta?»
replicò il militare, sprezzante. «Siete fortunati che
non uccidiamo dieci di voi per quelle stupide trappole lungo il
cammino e per questo ancor più idiota tentativo di rivolta. Ci
siamo fermati unicamente per chiedervi di levarvi dai piedi. Non
siete voi ad interessarci, e se resterete in mezzo al campo di
battaglia a creare intralcio verrete falciati senza pietà:
stiamo aspettando il drappello del marchese della Ginestra.»
La gonna di Lia si
strappò tutta sul fondo, impigliandosi tra i rovi e gli altri
cespugli spinosi. Da bambina aveva amato correre per i campi e
arrampicarsi sugli alberi, ma, crescendo, il decoro e gli abiti
scomodi le avevano imposto altri ritmi, e aveva perso l’allenamento.
Inciampando sulle
radici sporgenti e graffiandosi il viso con i rami più bassi,
ansimava e attraversava la foresta al massimo della velocità.
Doveva raggiungere Lorenzo, e doveva raggiungerlo in fretta, o la
rivolta si sarebbe trasformata in una carneficina!
Un ramo le schiaffeggiò
il viso, riempiendole gli occhi di lacrime.
Falco... Falco
doveva saperlo...
La folla mormorava.
Un
uomo era stato mandato in cerca di Falco, mentre Lorenzo manteneva lo
status
quo,
ma l’incertezza aveva fatto scemare l’entusiasmo. Persino il
cielo sembrava essersi abbassato sul villaggio, e in lontananza si
sentiva tuonare.
Il capitano delle
guardie del Signore non era un uomo paziente. Aveva concesso una
manciata di minuti ai contadini per prendere una decisione, tuttavia
la sua spada sguainata la diceva lunga su quanto fosse disposto a
concedere proroghe.
Lorenzo aveva raccolto
attorno a sé gli uomini che avevano parlato con Falco,
chiedendo la loro opinione. Da cinque persone interrogate, erano
uscite sei diverse proposte, la maggior parte delle quali prevedeva
un’onorevole ritirata. Un paio di persone avevano suggerito di
combattere e, se necessario, morire, ma lo sguardo di una larga parte
della folla diceva che ormai avevano perso il coraggio.
Temporeggiava. Sperando
nell’intervento di Falco, Lorenzo cercava di prendere tempo e
rimuginava ossessivamente sulla notizia che il marchese della
Ginestra fosse alle porte. Le sentinelle dei ribelli avrebbero dovuto
prevederlo. Avvisarli. Ora che ci pensava, gli uomini nella stalla
quella mattina erano sembrati più nervosi del solito...
...Tradimento?
Perché i ribelli
lottavano? Quale guadagno ne traevano?
Liberando
poveri contadini dall’oppressione di ricchi signori avrebbero
ricavato al massimo un sacco di grano. Ma se, per ipotesi, avessero
creato disordini in un villaggio per indebolire un nobile a favore di
un altro...? Un altro che li avrebbe pagati con moneta sonante,
magari? Falco, Falco era bravo con le parole. Diabolico.
E lui all’inizio non si fidava di quell’ammaliante sconosciuto,
non si fidava per niente...
«Il tempo è
scaduto!» annunciò il capitano delle guardie, facendo
trasalire Lorenzo. «Toglietevi dal nostro cammino, o vi faremo
togliere a forza!»
L’uomo mandato in
cerca di Falco non tornava; la Rocca, in cima alla collina, ardeva in
un alone aranciato che ricordava l’alito di drago delle leggende.
Guardando i volti di
chi gli stava attorno, Lorenzo si rese conto che il peso della
decisione gravava interamente sulle sue spalle, e se ne sentì
schiacciato.
«Lorenzo!
Lorenzo!» chiamò una voce acuta, sovrastando il ronzio
allarmato dei contadini. Tra i forconi e le casacche si fece avanti
una figura secca e disordinata, che sotto i rametti e il sudore si
rivelò essere Lia. Prima di riprendere fiato cadde tra le
braccia del fratello, accolta da mormorii inquieti e occhiate
oblique, ma si riprese prima di riuscire a reggersi davvero in piedi.
«Lorenzo...
Lorenzo... C’è un esercito, appena fuori dal villaggio!
Vogliono attaccarci! Non possiamo combattere contro due eserciti, non
possiamo, non possiamo...» balbettò aggrappandosi ai
suoi abiti.
«Lo sappiamo già»
rispose lui sottovoce. «Ci hanno informati.»
«Cosa facciamo?»
gli occhi di Lia erano ormai gonfi di lacrime, il suo gioioso
ottimismo evaporato come rugiada al mattino. «Dov’è
Falco?»
«Falco
probabilmente ci ha traditi.»
«No!» Lia
curvò la bocca in un’O curiosamente perfetta. Lo stupore
durò solo un istante, subito dopo fu seguito da una furia che
Lorenzo aveva visto poche volte prima. «Tu menti! Non ci
avrebbe mai mandati al macello! Deve essere un errore!»
«Vuoi dire che le
sue sentinelle non si sono accorte dell’esercito che arrivava?»
sbottò lui. «E i suoi uomini dove sono? Dovevano
aiutarci!»
Lia scoppiò in
singhiozzi contro il suo petto, perché il pensiero del
tradimento era venuto anche a lei, già nella foresta, ma
sentirlo dalla bocca di un altro, di un altro che amava e di cui si
fidava, era la conferma che non avrebbe mai voluto ricevere.
Lorenzo guardò
la folla in trepidante attesa.
Ormai c’era una sola
cosa da fare.
«Ritiriamoci.»
Una grandiosa rivolta.
In campo ideali di libertà, coraggio, fede, speranza; decine
di uomini e donne, tutti mobilitati per la causa; un capo, una testa
calda dal cuore coraggioso, un ragazzino che si credeva eroe ma aveva
troppa paura per andare avanti da solo. Un mentore. Un maestro
carismatico scomparso nel momento del bisogno. Una ragazza
innamorata, tradita e delusa. Decine di volti sconfitti. Una
disperazione più profonda della notte.
Questo il bilancio di
una settimana di sofferenze e speranze. Questo l’epilogo di
un’impresa forse superiore alle proprie forze. Questa, in
definitiva, la conclusione di un sogno troppo ambizioso.
Questo
poteva
essere.
Ma Lorenzo non era
d’accordo.
- Fine secondo capitolo -
NEXT: Temporale primaverile
Tipico: il primo capitolo in straordinario anticipo, i seguenti in straordinario ritardo.
Meno male che sono solo tre.
Chiedo scusa se non ho molto da dire in questo momento, ma ho un esame
tra due giorni e attualmente ho passato tutto il pomeriggio davanti al
pc... A meno che io non riceva un'illuminazione divina durante la
notte, mi conviene per lo meno finire di leggerli i libri, giusto?
Se, metaforicamente parlando, Dio m'assiste, l'ultima parte arriverà in tempi umani.
hotaru: innanzitutto grazie per
aver commentato! :-) Le domande che mi hai posto erano esattamente
quelle che speravo di aver suscitato, mi fa piacere che siano arrivate
a qualcuno! ^_^ Riguardo a Falco e ai suoi ribelli, credo che l'enigma
sia ancora più oscuro dopo la fine di questo capitolo... ma nel
prossimo avrà la sua naturale soluzione. Fosco è, in
effetti, il protagonista, e dunque almeno un po' di fascino volevo
darglielo (per quanto ami anche i classici protagonisti un po'
scemotti...), così ho optato per il soprannome che hai visto.
L'osservazione sulle donne... eheh, purtroppo è vero sì!
XD Siamo creature volubili e appassionate... (e questa da dove mi
esce?) Grazie ancora per aver commentato, un saluto! :-)
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Capitolo 3 *** Temporale di primavera ***
Inverno-3
Inverno
La primavera
arriverà
Capitolo Terzo
Temporale di primavera
I contadini rientrarono
nelle loro case strisciando le estremità dei forconi a terra.
Il metallo opaco si sporcò di fango e paglia, gli zoccoli si
impiastricciarono fino alle caviglie, ma a soffrire più di
tutto fu la speranza violentata che era fiorita nel cuore degli
uomini.
Lia fu rimandata dalle
donne, con l’incarico di nasconderle e proteggerle durante il
combattimento; sarebbero tornate dopo la battaglia, qualunque fosse
l’esito. Le guardie che sorvegliavano erano libere di agire come
credevano.
Lorenzo rientrò
con il cuore pesante e un fosco pensiero che si agitava nello
stomaco. Evitò lo sguardo del padre, il più doloroso di
tutti, e si gettò nell’angolo più buio della stanza,
prendendosi la testa tra le mani.
«Hai fatto la
scelta migliore.»
Le parole del padre
furono uno schiaffo alla sua dignità.
«Hai risparmiato
tante vite, non hai ceduto alla sete di gloria. Era la cosa giusta.»
Distruggere
tutte le speranze e il coraggio di chi lo circondava? Vedere la
delusione, l’orrore della sconfitta nei loro occhi? Se questa era
la
cosa giusta,
non osava immaginare quella sbagliata.
«Arriverà
la primavera. I campi si riempiranno di nuovo, smetteremo di lavorare
a quella trincea...»
Parole,
parole, parole
intrise
di rassegnazione, non speranza!
«E poi, se saremo
fortunati, come sempre accade gli eserciti si distruggeranno a
vicenda...»
Lorenzo rialzò
la testa.
«Come?»
«Le battaglie non
si concludono mai con una vittoria e una sconfitta» spiegò
il padre, pulendo con cura gli zoccoli già lindi. «Perdono
tutti, e il vincitore è quello che resta in piedi e torna per
riferirlo. Ma dopo ogni guerra gli eserciti muoiono completamente,
figliolo. E’ così.»
Il fosco pensiero nello
stomaco di Lorenzo si agitò con più forza.
C’era qualcosa a cui
non aveva pensato; qualcosa che lo tormentava ai confini della
coscienza, un’idea che premeva per uscire e graffiava, graffiava,
graffiava...
All’improvviso,
grazie alle parole di suo padre, capì di cosa si trattava.
Balzò in piedi
di scatto, gli occhi illuminati di luce nuova, e tutti nella stanza
lo fissarono con ansia.
«Padre,
odiatemi pure... ma devo dirvi che voi
sarete il vero motore di questa rivolta!»
E con queste parole
sibilline, Lorenzo si precipitò fuori di casa.
Il marchese della
Ginestra era alla testa dei suoi uomini, un centinaio di ragazzi e
mercenari armati che fissavano la Rocca in fiamme e storcevano il
naso per colpa del fumo. Il suo cavallo nitriva nervoso, faticando a
restare fermo, e il marchese lo maledisse e piantò gli speroni
nei suoi fianchi, provocandone l’impennata.
Era un uomo piccolo ma
muscoloso, con un principio di stempiatura nei capelli altrimenti
folti. Dal suo viso squadrato non traspariva tensione o eccitazione,
ma soltanto stizza macchiata di insofferenza.
«Signore, gli
uomini del vassallo sono schierati dietro un abbozzo di trincea»
gli comunicò una sentinella. «E’ un muro basso e
sembra fragile, potremo abbatterlo con una carica, rinunciando alle
prime due file.»
Il marchese annuì
bruscamente, costringendo il cavallo a girarsi verso i suoi uomini.
«Ho bisogno di
venti giovani coraggiosi, che riceveranno i più alti premi ed
onori!» annunciò a gran voce. «Chi si offre per le
prime file?»
Il Signore era sceso
dalla Rocca lasciando che i servitori e le sue guardie personali
cercassero di arginare l’incendio. Ostentando una tracotante
arroganza, aveva percorso le file dei suoi uomini e commentato
aspramente l’infiacchimento della truppa. Al contrario del
marchese, lui era alto e leggermente in sovrappeso; aveva scuri
capelli ricci, naso aquilino e labbra sottili, ma mani grandi come
pale.
«Abbiamo una
difesa insuperabile!» esordì, facendo riecheggiare la
voce aspra da un lato all’altro. «Siamo riposati e confidiamo
nella vittoria! Alcuni di noi morranno, ma saranno coloro a cui
verranno tributati i più grandi onori! Chi invece resterà
in vita, si godrà la vittoria, il vino e le donne! Lottate,
miei uomini! Lottate per avere ciò che meritiamo!»
Dai soldati si sollevò
un coro di giubilo – la menzione dei premi era sempre un’arma
vincente. Il signore stirò le labbra in un sorriso e voltò
il cavallo verso l’esterno del villaggio. In lontananza, ben
visibili al limitare della foresta, gli uomini del marchese
attendevano il primo segno.
La battaglia ebbe
inizio in un momento non meglio precisato della giornata. Il cielo
grigio e la luminosità diffusa impedivano di distinguere la
posizione del sole, ma tutti sapevano che il combattimento si sarebbe
concluso prima del tramonto.
La carica del marchese
fu assordante, un clangore di spade, voci e corazze sormontato dal
rombo dei passi sul terreno. Il fango schizzò in tutte le
direzioni, le frecce sibilarono e si conficcarono oltre la trincea,
colpendo e mancando a seconda del caso.
Lo scontro con le
difese del Signore fu rapido e doloroso: le grida aumentarono di
volume, la melma si macchiò ben presto di sangue. Le voci dei
comandanti degli schieramenti si perdevano nel frastuono della
battaglia, e ognuno agiva unicamente per salvare la propria vita e
falciare quelle altrui.
La trincea resse pochi
minuti. Ben presto i primi uomini del marchese tentarono di
scavalcarla, ma furono rimandati indietro; allora presero a spingerla
insistendo sulle parti ancora umide, e i sassi impastati di calce e
fango cedettero, schiantandosi nel pantano come giochi di bambini.
Allora gli eserciti si
mescolarono, e la guerra prese la sua forma canonica: un intrico di
mani, teste e cuori disperatamente terrorizzati dalla morte.
Lorenzo osservò
l’intero scontro appollaiato su un tetto, stretto nel mantello e
senza sbattere le palpebre.
Vide le truppe del
marchese invadere il terreno all’interno della trincea, vide le
spade incrociarsi e il sangue schizzare sui volti dei sopravvissuti.
Il suo stomaco si ribellò a quello spettacolo, ma lo mise a
tacere con la forza della disperazione: uomini come il marchese e il
Signore mandavano al macello altri uomini, in base a un diritto
oscuro e arbitrario, e avrebbero volentieri fatto fare la stessa fine
a lui e tutti i suoi compagni, se glielo avessero permesso.
Non
poteva cedere. Come gli aveva insegnato Falco,
dovevano combattere, magari anche morire! Però mai, mai
arrendersi! E
anche se Falco se l’era data a gambe nel momento del bisogno, le
sue parole menzognere erano comunque valide.
Le avrebbe fatte
fruttare al suo posto.
Rimase immobile sulla
cima di quel tetto per tutto il tempo del combattimento, neanche
un’ora. La superiorità del marchese avrebbe potuto essere
schiacciante, se i suoi uomini non avessero viaggiato fin lì;
ma, nonostante la stanchezza, era largamente bastante per vincere
quella battaglia. I soldati del Signore erano fiacchi, demotivati,
impigriti; non riuscirono a respingere l’assalto, arretrarono fino
alle prime case, iniziarono a disperdersi. Lorenzo vide il Signore
stesso colpito dalla lama di un nemico, trascinato giù dal
cavallo e massacrato senza pietà. Dopo la sua caduta, gli
uomini che aveva pagato si diedero alla fuga, e quelli fedeli al
marchese esultarono sollevando le armi.
Di cento che erano
arrivati, ne restavano al massimo quaranta.
Lorenzo si alzò,
sgranchì le gambe anchilosate e scese dal tetto.
«Andate a
spegnere quell’incendio!» fu il primo ordine del marchese
della Ginestra, nuovo padrone e signore della Rocca.
I suoi uomini, intenti
a depredare i cadaveri, abbandonarono le loro occupazioni con
disappunto e si avviarono stancamente per il sentiero.
Il
paesaggio ai piedi della collina era di una desolazione straziante:
resti dell’uno e dell’altro schieramento, sangue, fango ed
escrementi, armi spezzate, corpi calpestati. I militari non vi
posavano gli occhi facilmente, ma i contadini fissarono lo scempio
con la stoica indifferenza di chi ogni giorno ha a che fare con la
morte, quella vera, quella che non è la morte per
gioco
della guerra.
I soldati li videro
comparire a metà del sentiero che conduceva alla Rocca, e si
fermarono interdetti: un gruppo di contadini rozzamente armati era
l’ultima delle loro preoccupazioni.
Lorenzo, davanti a
tutti, fece un passo oltre e stese il forcone.
Non alzò il
mento, non parlò con arroganza, non fece nulla di ciò
che aveva fatto con il capitano delle guardie del Signore. Il tempo
del ragazzino eroico che giocava a salvare il mondo era morto con il
tradimento di Falco.
«Avete vinto.
Andatevene» ordinò senza alzare la voce.
I soldati si guardarono
e risero, increduli.
«E tu chi sei? Il
Re dei Poveri?» lo schernirono.
Le punte del forcone di
Lorenzo ebbero un pallido brillio; lui non mosse un muscolo.
Le risate dei militari
scemarono fino a trasformarsi in smorfie nervose.
«Va’ a chiamare
il marchese» borbottò uno al compagno.
«La sua presenza
non cambierà le cose» spiegò Lorenzo. «Voi
siete stanchi, e siete la metà di noi. Se volete salva la
vita, dimenticate questo villaggio.»
Il marchese li
raggiunse quasi subito, in sella al suo cavallo. Stizzito e
sbalordito chiese cosa accadeva, inveì contro i contadini che
alzavano la testa, e poi ammutolì, turbato dalla loro
immobilità. Nemmeno uno sguardo si distolse dal suo, e per un
attimo ebbe a pensare che aveva davanti l’esercito più
compatto che avesse mai visto. Fece un risolino nervoso.
«Cosa volete?»
domandò poi, cambiando tono. «Oro? Terreni? Vuoi essere
nominato mio vassallo?»
Lorenzo, suo malgrado,
sorrise.
Che
doni irrisori.
«Vogliamo
libertà.
Vogliamo che ve ne andiate dal nostro villaggio e lo scordiate per
sempre. Solo questo.»
Il marchese lo scrutò
diffidente.
«Perché?
Cosa ci guadagnate?»
«E cosa ci
guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di
mezza parola.
«Molto,
credimi» l’uomo gli lanciò un’occhiata
condiscendente. «Lo capirai anche tu, se arriverai vivo alla
mia età.»
Non era stato
necessario invecchiare molto... D’altronde, non aveva mai saputo
gli anni di Falco.
«Molto,
credimi»
rispose Lorenzo, senza smettere di sorridere, senza smettere di
provare una feroce amarezza dietro la gratitudine.
Il marchese non capì,
come non aveva capito lui a suo tempo. Pensò a un tranello, un
trucco per assalirlo alle spalle. Scrutò la massa di contadini
ottusi che gli si opponeva, guardò la Rocca ormai
irrimediabilmente perduta, avvolta dalle fiamme e nera di fuliggine,
si chiese se poteva rinunciare a uno sparuto gruppo di case e
andarsene così...
Lorenzo catturò
la sua attenzione schiarendosi la voce.
«Allora?»
domandò severo.
Il marchese sorrise, un
sorrisino viscido e lezioso che lo faceva assomigliare a un
avvoltoio.
«Va
bene. Avreste la vostra libertà,
se vi piace tanto... La Rocca era l’unica cosa che poteva
interessarci, e ormai è in fiamme. Siamo soddisfatti della
vittoria.»
Il grido di gioia che
si sollevò dai contadini spaventò i soldati che si
accalcavano attorno al loro condottiero. I forconi si agitarono
nell’aria offuscata dal fumo, qualche cappello fu lanciato e
ripreso al volo. L’espressione del marchese, cristallizzata sul suo
viso come quarzo, sembrava quella di una maschera.
Lorenzo si lasciò
andare a un tremulo sospiro di sollievo.
Ce l’aveva fatta!
Nonostante tutto, la rivolta era riuscita.
«Andatevene!»
ordinò con voce incerta per l’improvvisa carenza di
adrenalina. Agitò il forcone come un ragazzino inesperto, e il
marchese, sempre sorridendo, fece voltare il cavallo.
Una freccia sibilò
al di sopra delle loro teste, precisa e mortale. Con un curioso
rumore frusciante si conficcò nel collo dell’uomo, poco
sotto l’orecchio, attraversandolo da parte a parte. Mentre cadeva
dalla sella, alcune gocce di sangue rimasero a brillare nell’aria
grigia e improvvisamente muta.
«Tradimento!»
gridarono i militari del marchese, almeno la ventina di servi fedeli
che era sopravvissuta. «Sozzi cani della terra!»
ruggirono, sguainando di nuovo le spade.
«Non siamo stati
noi!» si difese Lorenzo, riscuotendosi dallo shock con
veemenza. «Nessuno di noi tira con l’arco!»
«Bugiardi!
A
morte!»
I mercenari assoldati
per il combattimento, metà dei reduci, si tirarono indietro.
Ma gli altri uomini erano ansiosi di vendicare l’ssassinio del loro
signore, e la carica che spinsero sui contadini fu così feroce
da far tremare loro le ginocchia.
«Uomini!
Difendetevi!» gridò Lorenzo, tornando precipitosamente
tra le fila del gruppo.
Ora che la battaglia
era inevitabile, per la prima volta si rese conto di avere paura.
Sentì lo stesso sentimento serpeggiare tra gli amici che lo
spalleggiavano, vide il tremito dei forconi ma anche i piedi saldi
nel fango. Tutti loro sapevano che perdere significava morire, e se
proprio era inevitabile, almeno volevano cadere dopo aver ucciso uno
dei nemici.
Lorenzo serrò le
mani sul forcone, incrociando lo sguardo del soldato più
veloce.
Strinse i denti, fu
assordato dal rombo delle sue orecchie, e con un urlo selvaggio si
gettò addosso al nemico.
La battaglia fu breve
ma cruenta. I militari erano stanchi, i contadini freschi, i primi
erano furiosi e gli ultimi disperati. Esperienza e istinto si
combatterono con ferocia, mietendo vittime da entrambe le parti, e
lame e forconi uccisero in egual misura.
Lorenzo sbatté
con la schiena contro uno dei compagni, rischiando di colpirlo a
morte per lo spavento. Il terrore gli annebbiava i sensi, ma i suoi
piedi agivano là dove la ragione tardava, salvandogli la vita
più e più volte. Ogni lama era un nemico, ogni legno un
amico: schema semplice e salvifico, nel marasma di orrore in cui era
immerso.
A un tratto una spada
calò sul militare che aveva di fronte, conficcandosi a fondo
nella sua spalla. L’uomo gridò, accasciandosi a terra, e
Lorenzo alzò subito il forcone per colpire, convinto di un
errore degli avversari, ma dovette bloccarsi.
Davanti ai suoi occhi
sbalorditi stava il Baio, armato come mai e barbuto come sempre.
«Alle tue spalle,
pulcino spaurito!» abbaiò, facendolo trasalire, e
Lorenzo si gettò a terra un attimo prima che una spada
fendesse l’aria dov’era stata la sua testa.
Il Baio finì il
militare che li aveva attaccati, poi tese una mano a Lorenzo.
«Tirati su, se
non vuoi morire in meno di due minuti» gli disse brusco.
«Perché
siete tornati?» ribatté lui, senza accettare la sua
offerta d’aiuto. «Sensi di colpa?»
«Che stai
dicendo, ragazzino?»
«Sto dicendo che
siete scomparsi quando avevamo più bisogno di voi!»
ruggì Lorenzo, rialzandosi e puntando il forcone alla gola
dell’uomo. «Dov’erano Falco e le sue belle parole quando il
marchese è piombato sulla scena? E voi sapevate che sarebbe
arrivato! Non mentite! Ho visto le vostre espressioni quella mattina,
so che avete sentinelle nei dintorni! Ci avete abbandonati quando
meno sapevamo cosa fare! E ora... ora... Siete stati voi! La freccia
doveva essere vostra, del Magro! Ho visto il suo arco! Volete
ucciderci? E’ un gioco perverso del Demonio?!»
«Abbassa
l’arnese, sciocco idiota!» sbottò il Baio, afferrando
il manico del forcone e strappandoglielo di mano. «Il solito
cretino arrogante! Sei corso alle conclusioni anche al nostro primo
incontro, diffidente testa di legno! Ti sembra che vi vogliamo morti?
Guardati attorno!»
Lorenzo, seppur
contrariato, obbedì; allora si accorse che i contadini non
stavano più combattendo da soli, ma erano circondati da una
ventina di sconosciuti armati e bellicosi, che falciavano i militari
rimasti come spighe di grano. La sorpresa lo scosse più della
freccia che aveva ucciso il marchese. A quel punto guardò il
Baio con disperazione.
«Dov’è
Falco?» gridò. «Perché non è venuto
quando abbiamo mandato a chiamarlo? Perché non ci avete
avvisati dell’arrivo dell’esercito?»
La risposta del Baio fu
soffocata dall’urlo di giubilo che contadini e ribelli lanciarono
alla caduta dell’ultimo soldato. L’uomo scosse la testa e gettò
a terra il forcone, tendendogli di nuovo la mano.
«Vieni con me,
pulcino spaurito. Falco ti aspetta. Ma non piangere quando lo
vedrai.»
Era
nella casa di Garro, una delle più vicine alla Rocca. Quando
Lorenzo e il Baio la raggiunsero riprese a piovere, e Lorenzo si
sentì quasi confortato dalle gocce d’acqua gelida che
cadevano, pesanti, sulle sue spalle: almeno loro erano rimaste le
stesse, nonostante il mondo - il suo
mondo - si fosse capovolto nel sangue.
Come quasi tutte le
case al villaggio, anche questa era composta da un’unica stanza. Da
un lato erano accatastati il tavolo e un’ultima sedia, nella parte
opposta una serie di pagliericci umidi, attorno ai quali stava un
capannello di sconosciuti. Il padrone di casa, lo stesso uomo che era
stato mandato a cercare Falco qualche ora prima, si tormentava i
lembi del mantello con la schiena contro un angolo.
«Baio, ma
cosa...»
«Guarda coi tuoi
occhi.»
L’uomo lo sospinse
avanti rudemente, sordo alle sue richieste come lo era stato lungo il
tragitto. Lorenzo si trovò d’improvviso tra gli stranieri
che facevano gruppo, e guardandone i volti duri e segnati si sentì
un bambino finito per sbaglio tra i grandi.
«Ehi, Fosco...»
Più roca, più
fievole, infinitamente più distante, però ancora
perfettamente riconoscibile: la voce di Falco aveva perso tutto, ma
non l’essenziale.
Gli uomini che gli
ostacolavano la visuale si scansarono, e finalmente Lorenzo vide il
pagliericcio su cui giaceva Falco... Ciò che ne era rimasto,
almeno.
Aveva retto al
combattimento, all’omicidio di un signore, a quello dell’altro,
all’orrore della battaglia e della morte, ma di fronte al viso
irriconoscibile dell’angelo dei suoi ricordi lo stomaco gli si
contrasse e contorse, costringendolo a piegarsi da un lato per
ingoiare il conato di vomito.
Del vecchio Falco era
rimasto solo un vago angolo d’azzurro, nascosto sotto palpebre
gonfie e ulcerate, affondato nella carne deforme e riarsa di quello
che una volta era un bel viso. Il fuoco aveva aggredito la pelle con
indicibile violenza, si era portato via ogni singolo pelo e qualcosa
di più, aveva premuto e disteso le pieghe a suo piacere... E
poi, ritirandosi, aveva lasciato una massa deforme e tesa,
sicuramente molto dolorosa.
Lorenzo non riuscì
a impedirsi di guardare quel volto sfigurato con l’orrore del
fascino macabro. Si soffermò sull’apertura che doveva essere
la bocca, e si domandò che fine avessero fatto le labbra.
Perché le palpebre c’erano ancora e le labbra no?
«Ora l’hai
capito?»
Quel buco osceno si era
mosso, lasciando sfuggire la voce di Falco. Lorenzo trasalì e
si costrinse a fissare lo spicchio di occhi che sfuggiva alle
palpebre devastate.
«Cosa?»
balbettò.
«Per cosa
lottiamo. Qual è la nostra ricompensa.»
Non poteva più
sorridere come un tempo, ma fu come se lo avesse fatto.
Lorenzo sentì
una stretta terribile al cuore. Sì, aveva capito perché
lottavano. Solo ora, solo dopo la battaglia, poteva comprendere e
accettare che c’erano cose che davano più piacere del
denaro.
«Siamo
incredibilmente egoisti, vero...?» sospirò Falco, e
sembrò costargli una fatica immane. «Vogliamo liberare
tutti e vederli spiccare il volo, ma in realtà siamo soltanto
genitori vanitosi: vogliamo vederli crescere come noi ci aspettiamo.
Perdonami, Fosco. Sapevo che sarebbe arrivato il marchese, le mie
spie mi avevano avvertito con giorni d’anticipo. Ma come potevo
dirtelo? Come potevo guardarti mentre ti ordinavo di abbandonare ogni
piano, di rinviare? Avresti perso la speranza. Avresti perso i tuoi
begli occhi... Ho preferito sacrificare le vite di tutti piuttosto
che il tuo ideale. Perdonami, perdona questo povero folle...»
«Non abbiamo
seguito il tuo piano» lo interruppe lui. La voce gli uscì
dalla gola a fatica, e sembrava davvero il pigolio di un pulcino
spaurito. «Pensavamo che... ci avessi tradito» fece un
sorriso che non aveva nulla di allegro, un sorriso di sprezzo per sé
stesso e amarezza. «Ma ora mi sembra evidente che non era
così.»
«Eh già...»
la smorfia che voleva essere un sorriso fu raccapricciante e
probabilmente dolorosissima, ma Lorenzo la sentì come il più
bello dei regali.
«Sono
io che devo chiederti di perdonarmi!» esclamò
all’improvviso, cadendo in ginocchio accanto al pagliericcio e
cercando la mano deforme per stringerla, incurante delle piaghe,
della pelle lucida, finanche del dolore. «Tu hai fatto tanto
per noi, per me,
hai ridato a tutti la speranza... e noi abbiamo dubitato!»
«Vi siete
arresi?»
«No!
No, questo mai! Noi abbiamo dubitato... di te...
Ma io non mi sono mai arreso, come ci hai insegnato! Ho pensato
che... beh, è lunga da spiegare nei dettagli: abbiamo lasciato
che i due eserciti si combattessero, e poi abbiamo affrontato i
sopravvissuti.»
«Vero... C’era
anche questa possibilità...» un respiro più
lungo, più faticoso, sollevò la coperta che nascondeva
pietosamente il resto del corpo di Falco. «Sei stato bravo.
Sono fiero di te.»
«Non correre
troppo, Falco» brontolò il Baio dal fondo. «Questo
cretino stava per lasciar andare il marchese: sicuro come l’incenso
in chiesa sarebbe tornato con uomini freschi e ceppi per tutti. Ci ho
pensato io: non vedendolo tornare i suoi eredi penseranno che sia
morto e daranno inizio a una faida con gli eredi del Signore, nel suo
feudo d’origine. Il villaggio dovrebbe essere risparmiato, tanto
più che la Rocca è stata distrutta dall’incendio.»
«Bene, bravi...
Tutti quanti» approvò Falco. «Insomma, siete
migliorati così tanto che sembra non ci sia più bisogno
di me...»
«No!»
protestò Lorenzo.
«Sì»
ribatté il Baio, guadagnandosi un’occhiata di puro orrore.
«Ho preso io le redini del gruppo, prima... Siamo cresciuti,
Falco. Ci hai allevati bene, come volevi. Ora stiamo in piedi da
soli; se vuoi... se vuoi andare, puoi farlo tranquillo.»
Lorenzo vide il pomo
d’Adamo del Baio salire e scendere profondamente, e l’ira provata
nei suoi confronti scemò all’improvviso. Chinò il
capo, confuso, distante, smarrito come un bambino.
Non c’era nulla che
potesse fare. Davvero, non questa volta.
«Lorenzo... per
favore...» mormorò Falco, chiamandolo con il suo nome di
battesimo. La sua voce si era fatta più fioca, tanto che il
ragazzo dovette chinarsi per distinguere le parole. «Lia...
occupati di lei. Non c’è bisogno che te lo dica io, ma
trovale un marito. Un brav’uomo che coltivi la terra. Dille che mi
dispiace... Avrei voluto rivederla un’ultima volta...»
«E’ al sicuro»
gli assicurò lui. «Sta bene, ed è forte.
Sopravvivrà. Tutti noi andremo avanti, ci hai tirati su come
si deve.»
I muscoli sul viso di
Falco sembrarono tendersi nell’ennesimo sorriso.
«Ricorda,
Fosco... Il tuo cuore è libero, abbi il coraggio di seguirlo.»
«Falco...»
sussurrò Lorenzo, fievole, quasi timido. «Qual è
il tuo vero nome?»
Dal volto devastato non
giunse alcuna risposta.
«Falco...?»
Dietro le palpebre
rigonfie non brillava più alcuno spicchio di cielo.
Il
freddo calò sulle spalle di Lorenzo con crudele rapidità,
amplificato a dismisura dallo scroscio della pioggia sul tetto. Il
rumore delle gocce che picchiavano contro l’impasto di paglia e
malta avvolse i presenti nel suo abbraccio ovattato, concedendo
l’estremo saluto a un uomo che aveva sempre agito dietro le quinte,
lasciando la platea ai suoi figli.
Dopo un tempo che parve
infinito, Lorenzo lasciò la mano inerte e si rialzò.
Curioso. Il corpo di Falco appariva sfocato ai suoi occhi,
sovrapposto con il ricordo che aveva di lui e del suo sguardo
angelico e demoniaco al tempo stesso.
Si voltò,
camminò verso la porta. Passando accanto al Baio gli sembrò
di sentire un rimprovero, ma non se ne curò.
Lo so... Avevi detto
che non volevi vedermi piangere.
* * *
La pioggia non se ne
sarebbe andata solo perché loro desideravano il sole.
L’acqua continuò
a cadere con snervante puntualità, ma almeno lavò il
sangue e la cenere accumulati attorno alla Rocca. Molte delle rocce
di cui era costruita erano cadute a terra, lo scheletro di legno
delle parti più recenti era annerito e fradicio, buona parte
dei corridoi pericolante. Nessuno ci avrebbe più messo sopra
gli occhi, questo era certo.
Lia seppe di Falco
quando richiamarono le donne dal bosco. Volle vedere il suo corpo, ma
Lorenzo glielo impedì.
Pianse poco, più
per rabbia che vero dolore: in un certo senso, sapeva che il destino
di uomini come Falco è quello di morire da eroi, ovvero in
gioventù e per qualcun altro. Volle però assistere alla
sepoltura, lontano dalle fosse comuni in cui avevano gettato i
militari; da quel giorno l’onnipresente ottimismo che la
caratterizzava scomparve, sostituito da una tempra più
realista.
«E’ bastato
conoscerlo per poche settimane, e siamo cambiati tanto...»
commentò Lorenzo, di ritorno dal funerale.
«Già»
rispose Lia, i capelli raccolti in un fazzoletto scuro e la gonna
buona sollevata perché non si sporcasse. «Andrai con i
ribelli?»
«Come lo sai?»
«Te lo leggo
negli occhi. E poi ora fatico a vederti sposato e con una falce in
mano.»
Lorenzo
sorrise. «Sì, voglio unirmi a loro. Falco aveva detto
che devo... avere il coraggio
di seguire il mio cuore. Tu pensi che non vada bene?»
«Io
penso esattamente quel che pensavo qualche giorno fa, quando hai
parlato ai nostri genitori: penso che tu sia il degno erede di Falco,
e che saresti sprecato in un piccolo villaggio di zotici. Senza
contare che Falco stesso sembrava quasi innamorato
di te... ti adorava.»
Lia arricciò il
naso, e Lorenzo sbuffò distrattamente, ignorando l’ultimo
commento.
«Il Baio ha detto
che ho il loro benestare.» riprese. «Ho anche... beh, ho
chiesto di ereditare il nome da battaglia di Falco, ma ha detto che
dovrò sudarmelo. Però Lia... Per seguirli dovrei
lasciarvi, dovrei partire...»
«A casa se ne
faranno una ragione.»
Lorenzo smise di
camminare.
Frase curiosa.
«Se
ne faranno?»
Lia si fermò
qualche passo più avanti, e lo guardò come lo guardava
quando combinava una sciocchezza da bambino.
«Caro il mio
Falchetto, sarai anche un ragazzo in gamba, ma mi risulta che ti sia
sempre rifiutato di lavarti le mutande» sbottò,
piazzando le mani sui fianchi. «Hai bisogno di una donna al tuo
fianco, e credo di essere l’unica adatta a questo compito, a meno
che non ci sia una poverina disposta a tale onere.»
«Ma-ma
no, non è possibile... Non possiamo portarci dietro una
donna...»
«Prego?»
«Gli altri non lo
permetteranno mai...»
«Sarà bene
chiederglielo, prima di fasciarsi la testa.»
«Ma
sei mia
sorella,
per Dio!»
«E non infrangere
il primo comandamento!»
«Lia!
Non puoi dire sul serio!»
Lia lo raggiunse in due
ampie falcate, e con rabbia puntò il dito nel mezzo del suo
petto.
«I nostri
genitori soffriranno. Non avranno eredi a cui lasciare la casa. Non
avranno aiuti nei campi. Non avranno più nulla se ce ne
andiamo entrambi. Io ci ho pensato, e ho preso la mia decisione: non
sta a te negare una scelta tanto difficile!»
«Vuoi dire che
dovrei lasciarti agire indisturbata? No!» Lia sbuffò,
roteò gli occhi e riprese a camminare verso il villaggio.
«Lia, per noi diventerai un peso! Per nostra madre sarai un
grande aiuto! Lia, Lia pensaci, proprio perché io me ne
vado...»
«...Proprio
perché te ne vai dovresti tacere!»
«Lia!
Lia!»
Sotto la pioggia, due
fratelli gridavano.
Tutt’attorno a loro
il villaggio tornava lentamente alla sua vita di fatica e sudore, una
vita conquistata a caro prezzo e preziosa più del sole.
Il premio per chi se ne
andava era la gioia di aver visto il cucciolo spiccare il volo, la
gioia di averlo allevato con ogni cura.
E un giovane Falco si
sarebbe levato nei cieli di lì a poco, pronto a crescere altre
nidiate come lui.
La primavera è
arrivata.
Fine.
Note
finali: dopo
tanto tempo volevo un lieto fine canonico, e chiedo scusa se suonerà
scontato. Ma se sono qui è perché volevo fare un ultimo
appunto sul linguaggio utilizzato: naturalmente imbastire il volgare
era inutile e impensabile; ho cercato di rendere i dialoghi per lo
meno passabili di essere secenteschi – e contadini – quindi qua e
là potrebbero esserci irregolarità grammaticali o, più
facilmente, toni retorici e drammatici che di solito mi sono
estranei. Se il registro in alcuni momenti risulta teatrale è
per la medesima ragione: aderenza – per quanto possibile –
all’epoca, in cui gli accenni al Padre Celeste e le scene di pianto
erano all’ordine del giorno tra gli eroi. Con buona pace di Lucia
Mondella e del Manzoni.
POSTILLA: chiedo scusa se quest'ultimo capitolo viene pubblicato con tale imperdonabile ritardo... Purtroppo, lo confesso, mi ero dimenticata che mancasse l'ultima parte. Sono una mentecatta, lo so. ._. Chiedo davvero scusa, e mi congedo in sordina sperando di essere passata quasi inosservata...
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