Irreparabile

di Atlantislux
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Avanzi ***
Capitolo 2: *** Esecuzione ***
Capitolo 3: *** Preda ***
Capitolo 4: *** Insicurezza ***
Capitolo 5: *** Fermezza ***
Capitolo 6: *** Scelta ***
Capitolo 7: *** Certezze ***
Capitolo 8: *** Memorie ***



Capitolo 1
*** Avanzi ***


Note

Prima fanfiction nel fandom Gundam Seed, emozione!
Dunque, per prima cosa, ringrazio Lil_Meyer http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=71892 alla quale appartiene l’idea originale di questa fanfiction, che ho adottato con estremo piacere. E poi benedico Shainareth per le lunghe conversazioni a tema e per gli utili suggerimenti. Anche per le minacce. Sì, soprattutto per quelle ;)
Quanto alla storia in sé, è un "what if" divisa in due parti, una ambientata durante, e negli anni immediatamente successivi alla guerra del 71 C.E., e un'altra dieci anni dopo.
Buon divertimento! ;)



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Avanzi


"Io faccio amici. Giocattoli. I miei amici sono giocattoli." - Blade Runner


Nassau, 25 maggio, C.E. 71


Era l’alba del giorno del suo ventesimo compleanno quando la dottoressa Cecilia Jesek fu svegliata rudemente dal suono del cellulare che squillava.

Da sotto le coperte un occhio nocciola guardò con astio l’apparecchio, ma qualche secondo dopo la mano della scienziata sgusciò fuori dalle coltri per afferrarlo.

“Sì?” biascicò faticosamente.

Nonostante l’ora la voce dall’altra parte suonò perfettamente desta.

“Cecilia. Ti do mezz’ora per presentarti da me.”
La giovane richiuse gli occhi soffocando un’imprecazione. Se c’era una cosa che odiava sentire di primo mattino era la voce del suo capo. Autoritario e gioviale come solo lui riusciva ad essere.

“Lenk, anche se arrivo per le nove riuscirò a smantellare tutto…”

“Lascia perdere. C’è stato un cambio di programma, sbrigati ad arrivare.”

Con quello il suo mentore chiuse la comunicazione, lasciando una stordita Cecilia a fissare il cellulare senza parole.

Dopo qualche secondo la giovane si decise ad uscire dal letto, ancora assonnata ma incuriosita dall’ordine perentorio.


Arrivò a destinazione dopo venti minuti soltanto. Mentre faceva la doccia l’interesse era cresciuto in lei, anche se non si era azzardata a confidare troppo nelle parole del Professor Lenk Granato. Quello era il giorno in cui avrebbero dovuto smobilitare, il suo ultimo giorno di lavoro, e nulla nella settimana precedente aveva lascito presagire che il programma sarebbe cambiato.

Presa da un improvviso scoramento, Cecilia sospirò pigiando il pulsante dell’ascensore. Una volta dentro si guardò allo specchio. Cercò con una mano di sistemare gli indomabili capelli ricci, fallendo come sempre nel tentativo.

“Sto invecchiando…” mormorò guardando il suo volto già stanco di prima mattina e segnato da tante notti insonni. Tutto tempo perso gettato dietro a ricerche che sarebbero finite nella spazzatura.

Le porte si aprirono, distraendola, e il suo sguardo incrociò quello di un paio di colleghi. I due si fecero da parte per lasciarla uscire, salutandola con un cenno del capo. Lei ricambiò, facendo finta di non vedere i cartoni zeppi di libri ed altro materiale cartaceo che i due reggevano. La sola vista le fece però stringere il cuore. Quella era stata la sua casa per cinque anni, non era affatto giusto quello che stava succedendo.

Soffocando un ennesimo, inutile sospiro si avviò lungo il corridoio, sostando un attimo davanti alla porta del suo capo per annunciarsi. Lui la spalancò personalmente.

“Finalmente! La mia più brillante pupilla è qui!” tuonò l’uomo.

Cecilia rispose con un quasi imbarazzato cenno del capo. “Lenk...”.

“Vieni, accomodati.”

Lo seguì e, mentre il Professore si accomodava dietro la sua scrivania, la giovane si sedette di fronte, sbirciando senza particolare curiosità una pila di fascicoli plastificati che giacevano sul piano del tavolo. Erano sistemati davanti a lei, come se la stessero aspettando. Il pensiero le fece alzare la testa verso il suo capo, che di certo non aveva l’aria di una persona che si sarebbe trovata disoccupata da lì a poche ore. Anzi, l’uomo aveva un’aria decisamente elettrizzata. Decise di farglielo notare.

“Prof… ti sembra il caso di essere così contento?” gli disse con un sorrisetto. Essere la beniamina del Direttore dell’istituto l’aveva sempre autorizzata a dirgli in faccia tutto quello che pensava. E poi, il corpulento cinquantenne senza famiglia era un po’ come un padre per lei, che aveva perso i genitori da piccolissima.

Con sua somma sorpresa, l’uomo esplose in una risata.
“Eccome eccome!” esclamò, guardandola fissa in volto. “Possiamo continuare le nostre ricerche, abbiamo trovato materiale e finanziatori.”

Il cervello della giovane, seppure molto brillante, ci mise un attimo ad elaborare quello che le era appena stato detto.

“Cosa?” balbettò.

“Te lo ripeto. Oggi non si chiude proprio nulla.”

“Ma se ho appena visto John e Jeremiah andarsene con le loro cose!”

“Beh, certo, abbiamo dovuto accettare una ristrutturazione, ma per niente al mondo avrei lasciato andare te.”

Cecilia sbatté le palpebre, scossa dall’improvvisa notizia. “E quando pensavi di dircelo?”
“Ho già telefonato personalmente a tutti quelli coinvolti nel nuovo progetto. Non ti nascondo che da giorni stavamo negoziando la cosa, ma solo la notte scorsa un nuovo gruppo si è fatto avanti per rilevare le nostre ricerche e fornici nuovi fondi.”

Lei abbassò la voce. “Quale nuovo gruppo? Noi siamo legati all’Alleanza. I nostri progetti sono di carattere militare, e sono stati appena messi da parte.”

“Non più. I soldi da oggi arriveranno da un cartello di multinazionali che sostiene anche l’Alleanza e che ha deciso che, nonostante i successi conseguiti dalla linea di ricerca sugli Extended, noi potevano comunque continuare nel nostro lavoro” le disse il suo mentore, alzando le mani di fronte a sé, come per rassicurarla. “Probabilmente ci vogliono tenere di scorta. Le falle del progetto Extended le sai anche tu.”

“Non capisco” ribadì Cecilia, ostinata. “Ci hanno detto in ogni modo che abbiamo fallito, umiliando te e tutti noi.”

La scienziata non riuscì a non far tremare la sua voce. Sdegnata ricordò le parole dell’ultimo, tronfio Generale che aveva fatto visita al loro centro. Le aveva detto in faccia che doveva aver giocato troppo con le bambole da piccola, se pensava davvero che quello su cui lavorava potesse fare la differenza in una guerra condotta con Mobile Suits.

Cecilia abbassò lo sguardo fino a guardarsi le mani, ma il Professore sembrò leggerle nel pensiero.

“Oh, avanti, sapevo che non potevano disdegnare così il nostro lavoro. Quei mostri grandi come palazzi non valgono nulla rispetto a quello che possiamo produrre qui.”

“Sul valore delle nostre ricerche non ho dubbi, ma lo sai anche tu che non hanno tutti i torti, soprattutto perché, anche rispetto agli Extendend, quello che è uscito dai nostri laboratori si è rivelato un disastro” ribadì la giovane, non riuscendo ancora a capire l’improvviso cambio di programma, dopo giorni passati a sentirsi dire che oramai era meglio che si trovasse un altro lavoro.

“Lo so, ma sicuramente è stato tutto perché non lavoravamo sul… materiale giusto.”

L’uomo le indicò i fascicoli davanti a lei, appoggiandosi poi allo schienale della sua poltrona con le mani intrecciate sull’ampio ventre. In attesa.

Cecilia li guardò incerta, poi ne aprì uno.

Era zeppo di fogli, ma fu la foto posta sopra tutto il plico che la fece istintivamente sussultare, e distogliere gli occhi in preda al disgusto.

“Oh mio Dio…” esclamò sorpresa, salvo poi, per pura curiosità scientifica, ritornare cautamente a guardare i documenti contenuti del fascicolo. I suoi occhi affondarono tra i dati stampati su quelle pagine. Erano tutti dettagliati rapporti medici.

Lentamente, sollevò la foto davanti al suo capo.

“Mi vuoi spiegare cos’è questo?”

Lui le sorrise bonariamente. “Quello che resta di un pilota di Mobile Suit dopo che… beh… il suo mezzo ha avuto un incidente.”

“Interessante. E mi vuoi spiegare io cosa me ne dovrei fare?”

“Sono i tuoi nuovi soggetti. Mi sembra chiaro, no? Ovviamente, e per quanto possa sembrare inconcepibile, quel tizio è ancora vivo, come tutti i suoi compagni catalogati in quei fascicoli.”

Cecilia dovette trattenersi dall’urlare. “Fin qui c’ero arrivata ma, in ogni caso, ti va di scherzare? Uomini sani, perfettamente in forma, soldati addestrati non sono riusciti a sopportare gli impianti. I loro corpi li hanno rigettati o li hanno trovati psicologicamente intollerabili. Mi spieghi come una cosa del genere” esclamò facendo ondeggiare la foto, “potrebbe avere più successo?”

Il Professore alzò il dito indice della mano destra. “Uno, forse il problema era proprio che erano sani ed in forma. Abbiamo sottovalutato l’aspetto psicologico di avere il proprio corpo modificato così radicalmente.”

“Quindi, ripeto, cosa ti fa credere che per questi sarebbe diverso?”
“Forse il fatto che senza morirebbero. Ma lasciami finire. Per quanto riguarda l’aspetto meramente fisiologico, leggi bene quei rapporti. Tutti questi piloti sono Coordinator.”

Profondamente sorpresa, la ragazza abbassò gli occhi sui fogli. “Ma questo che c’entra?”

“Avanti, anche qualcuno di noi l’aveva suggerito a bassa voce qualche tempo fa. Che probabilmente il fisico più resistente dei Coordinator avrebbe reagito meglio agli impianti.”

“Non sto parlando di quello, Professore” lo sguardo di Cecilia si fece duro. “Noi qui progettiamo e produciamo… beh, cerchiamo di produrre armi biologiche che dovrebbero combattere i Coordinator. Non ha senso fare sperimentazioni su di loro. Anche nel caso in cui avessimo dei risultati non vedo cosa l’Alleanza se ne potrebbe fare. Loro non combatterebbero mai contro i propri simili.”

Il suo capo la guardò, quasi rassegnato. “Cecilia Jesek, quante volte ti ho detto di lasciare perdere questi discorsi? Quello sarà un problema che l’Alleanza dovrà risolvere. Mentre noi siamo scienziati, non politici né militari. Ci è stata data una magnifica opportunità per continuare i nostri studi, e io vorrei averti ancora al mio fianco. Dopotutto, molti dei brevetti che utilizziamo ti appartengono.”

Glielo disse sorridendo, ma Cecilia riconobbe la stoccata. Nell’istituto si lavorava su brevetti registrati a suo nome, e si perfezionavano sue ricerche. Nel caso se ne fosse andata non c’era nessuno in grado di sostituirla e nemmeno avrebbe potuto, legalmente. D’altra parte, non c’era nemmeno un posto dove lei potesse andare. Giovanissimo genio della biorobotica, Cecilia aveva sempre vissuto nell’istituto dove aveva completato i suoi studi. Il personale lì era la sua famiglia, lei non poteva abbandonarli, lo sapeva benissimo.
Sospirò rassegnata. “Già… scusami, dopotutto sarà affare loro se quello che uscirà da qui gli si rivolterà contro. Beh, sempre che qualcosa esca.”

Guardò con più attenzione la foto confrontandola con i rapporti medici. Non avrebbe mai creduto di poter vedere ancora in vita un essere umano ridotto in quello stato.

“Questi Coordinator sono proprio diversi da noi…” mormorò esaminando la pietosa cartella clinica del pilota nemico. “Abbiamo almeno idea di chi siano?”

“No. Possiamo sottoporli ad un test del DNA, ma non abbiamo modo di accedere alle banche dati di PLANT. In ogni caso, immagino che le rispettive famiglie li considerino già morti.”

“Non stento a crederlo.”

Cecilia sussultò lievemente quando i suoi occhi caddero sulle informazioni personali dell’uomo.

“Maschio, altezza un metro e settantacinque, età presunta… diciotto anni” lesse lentamente, sentendo la voce tremare sull’ultima parte. “Dio mio, è un ragazzo.”
“La maggior parte lo è, e non credo sia un caso. Probabilmente per ZAFT le cose stanno andando così male che hanno deciso di spedire in battaglia anche le reclute; quanto a noi, immagino che le alte sfere pensino che questi tizi, data la giovane età, abbiano più possibilità di sopravvivere agli esperimenti.”

“Io dubito che arrivino anche a domani, sai...”

Sentì le dita gelide e, finalmente, la spiacevole realizzazione di quello che le sarebbe aspettato la colpì in tutta la sua durezza.

“Le loro condizioni sono gravissime ma mantenute stabili, tocca a noi subentrare” le stava dicendo il Professore.
“O lasciarli morire se non ce la facessimo, vero? È per questo che ce li hanno mandati, perché tanto non possono nemmeno servire come merce di scambio. Non so se ce la posso fare, Lenk. Una cosa era apportare dei miglioramenti, un’altra operare una totale ricostruzione” ammise senza vergogna, mentre con una smorfia in viso dava una rapida scorsa ai fascicoli successivi. Uno in particolare le fece arricciare il naso dalla repulsione.

“Questo dovrebbe avere quindici anni, ti rendi conto? Mandano a combattere anche dei bambini.”

“Tu a quindici anni avevi già conseguito il dottorato.”

“Che c’entra?” rispose lei alzando le spalle. “Io studiavo. Non andavo in giro ad ammazzare la gente.”

Resasi conto dell’enormità di quello che aveva appena detto le labbra della giovane si torsero in un sorriso stanco. “… Ancora” terminò mettendosi una mano davanti agli occhi.

“Non pensarci, Cecilia. Piuttosto, se tutto andrà bene potrai dire di aver salvato delle vite” la rincuorò il suo capo. “E poi non sarai certo sola. Insieme ai soggetti è arrivata la squadra di chirurghi dell’esercito che li ha rimessi insieme e che ti assisterà costantemente. Tu dovrai solo occuparti della parte di meccatronica.”

“Come se fosse poco. Solo ad occhio, alcuni di questi ragazzi avranno bisogno di una ricostruzione del quaranta, cinquanta percento del corpo. E bisognerà sviluppare impianti ottici” sollevò il fascicolo che aveva in mano. “Questo ha perso gli occhi nell’esplosione, e non è certo l’unico.”

“Per questo le opportunità che si aprono per noi sono decisamente interessanti.”

Non totalmente convinta ma finalmente persuasa che non c’era nulla che lei potesse fare per rifiutare l’incarico, Cecilia annuì nonostante i cupi pensieri. Di una cosa però era certa: se fossero sopravvissuti, quei Coordinator l’avrebbero difficilmente ringraziata; non solo non avrebbero avuto la minima possibilità di ritornare a casa ma, anche nel caso che fosse successo, nemmeno i rispettivi genitori avrebbero più potuto riconoscerli.



Aprilius City, 12 dicembre, C.E. 81


Allo spazioporto l’addetta al controllo transiti non fece una piega davanti ai documenti di identità dei tre cittadini dell’Unione Sudafricana. Li registrò senza una parola, lanciando giusto un’occhiata per accertarsi che le loro facce corrispondessero alle immagini conservate nel database. Gli riconsegnò i documenti velocemente, e nemmeno li guardò mentre se ne andavano.

Fece cenno al gruppo successivo di avvicinarsi, notando e sorridendo tra sé e sé come i precedenti passeggeri, nonostante il lungo viaggio e il brusco ritorno alla gravità terrestre, non sembrassero minimamente infastiditi dalla cosa come il resto dei viaggiatori Naturals. Quelli che aveva davanti sembravano a malapena in grado di reggersi in piedi, mentre gli altri le erano parsi assolutamente tranquilli, e l’avevano guardata con occhi che non tradivano la minima emozione.

La donna si bloccò un attimo, sbattendo le palpebre. Già, ripensandoci, quegli sguardi le erano sembrati decisamente un po’ troppo fissi. Riprese a fare il suo lavoro, chiedendosi pigramente se non fossero sotto l’effetto di qualche droga. Per quello che ne sapeva lei poteva anche essere; dopotutto i Natural erano così deboli. Ma non era di sua competenza, quindi dimenticò velocemente l’accaduto. Se quei tre avessero combinato qualche guaio in città, era compito della polizia metterci una pezza.

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Capitolo 2
*** Esecuzione ***


Esecuzione



Aprilius City, 13 dicembre, C.E. 81


“Dearka. Sei incorreggibile.”

Gli occhi ametista del giovane ufficiale lanciarono un’occhiata di fuoco al suo vecchio compagno di squadra.

“Athrun. Piantala, o comincerò a credere che sei geloso.”

“E di cosa? Guarda che hai già rischiato una volta di perderla! Che diavolo aspetti a mettere la testa a posto?”

Al biondo sfuggì un’espressione sofferente, e si volse verso il suo amico di sempre per incassare un po’ di sostegno.

Ma il Comandante Yzak Joule lo gelò con uno sguardo particolarmente penetrante, che i suoi occhi azzurri resero glaciale.

“Dearka, idiota, quando ti deciderai a rendere Miri una ragazza onesta?”

Davanti a quella risposta, e sentendosi accerchiato, l’interpellato alzò bandiera bianca. “Ma perché invece di pontificare non chiedete a Miri cosa ne pensa? Lei non è come quella stupida di Lunamaria che ha rinunciato alla carriera per correre dietro a Shinn. Miri viaggia molto per il suo lavoro, e non ha intenzione di rinunciarci. Per ora un impegno del genere è assolutamente prematuro, per noi” Dearka sentenziò incrociando le braccia al petto.

Davanti alla sua requisitoria Athrun e Yzak si scambiarono un sorrisetto. Poi l’Ammiraglio di Orb fece un cenno a Dearka.

“Stai perorando il tuo caso di fronte alle persone sbagliate. Le nostre mogli hanno saputo perfettamente conciliare lavoro e famiglia, o ci vuoi far credere che Cagalli e Shiho sono più brillanti di Miriallia?”

“Non vi sopporto quando vi coalizzate contro di me” Dearka sbottò, ma con un sorriso in faccia tutt’altro che infastidito.

I tre amici di una vita scoppiarono a ridere simultaneamente, e Athrun fu grato di aver accettato l’invito di Kira di passare qualche giorno su PLANT, mentre lui gli dava il cambio nella cura delle due gemelle recentemente avute dalla sua amata Cagalli.

Non se n’era andato volentieri, perché non voleva perdersi un attimo della vita delle bambine, ma anche Kira aveva il diritto di stare un po’ a godersi da solo la compagnia della sorella e delle nipotine.
Guardò fuori dalla macchina che sfrecciava veloce in coda al corteo di auto che portava Lacus Clyne, e il suo ospite terrestre, alla sede del Consiglio di PLANT.

Aprilius non era cambiata per niente da quando lui ci abitava. Bella, ricca, perfetta in ogni dettaglio della sua natura controllata e, ovviamente, pure quella geneticamente modificata. Gli scappò uno sbadiglio. Abituato al panorama selvaggio di Orb, oramai quello gli sembrava terribilmente noioso. Pure la strada non offriva nessuna distrazione. Le macchine procedevano tutte alla stessa velocità, assistite da software di guida, e solo pochi osavano sfidare l’omologazione. Come la moto di potente cilindrata che li sorpassò rombando. Athrun non poté fare a meno di sorridere, quello era di certo un temerario.
Si girò verso gli amici, e Dearka gli lanciò uno sguardo implorante. Approfittando del suo silenzio Yzak era di nuovo riuscito a spostare la conversazione sul lavoro.

“Quella scema di Meyrin si merita il cazziatone del secolo quando torneremo alla base” stava dicendo l’albino. “Non è da nemmeno una settimana il capo della sicurezza del Consigliere Clyne e già è riuscita a fare un pasticcio nell’assegnazione dei posti.”

Athrun sollevò un sopracciglio. “Avresti preferito salire in macchina con loro invece che con noi?”

“Certo che sì, sono Consigliere anch’io, e magari avrei potuto strappare qualche informazione a quel pallone gonfiato di Natural. Invece Lacus scommetto che lo starà intrattenendo con le sue inutili chiacchiere.”

La voce di Yzak suonò oltraggiata, ma non particolarmente furente. Athrun sapeva quanto era devoto a Lacus, ma ogni tanto doveva dar sfogo alla sua irritazione con chiunque gli capitasse a tiro.

Stava per rispondergli a tono quando colpi di arma di fuoco squarciarono l’ovattato silenzio dell’auto, seguiti da uno stridio di gomme.

Anche la loro macchina frenò di colpo, e Athrun sentì la cintura schiacciarlo contro il sedile.

I tre si scambiarono un’occhiata. Temprati da innumerevoli battaglie, superarono immediatamente la sorpresa.

“È un attentato” sentenziò Yzak, con già la mano sul pulsante d’apertura della portiera. Ma prima che riuscisse ad azionarlo una seconda moto spuntò da dietro, schivando con abilità le auto bloccate. Superò quella dei tre giovani e, affiancandosi a quella di Lacus, il motociclista senza rallentare gli scaricò contro una selva di proiettili che mandarono in frantumi i finestrini.

Athrun non riuscì a soffocare un grido costernato.

Fu Dearka che prese l’iniziativa. “Scendete, io lo seguo” ordinò buttandosi fuori dall’auto e salendo al posto dell’autista.

Yzak e Athrun fecero appena in tempo ad obbedire, prima che il mezzo partisse all’inseguimento del terrorista.

Consapevoli che Dearka non se lo sarebbe mai lasciato scappare, dal canto loro si precipitarono verso la vettura delle loro amiche, le cui portiere si spalancarono dopo qualche secondo.

L’ospite terrestre fu il primo a precipitarsi fuori, quasi spinto da Lacus, a sua volta seguita da Meyrin.

Athrun sospirò di sollievo. Non sembravano ferite, ma non si sarebbe tranquillizzato fino a quando non avesse controllato personalmente. Doveva accertarsi che l’amata del suo migliore amico stesse bene. Si diresse velocemente verso il gruppo. Stava per chiamare l’ex-idol dai capelli rosati, quando il grido gli morì sulla labbra.

Successe davanti ai suoi occhi.

Il terrestre inciampò in qualcosa e cadde. Ma prima di toccare terra la testa gli esplose come un frutto troppo maturo. Dietro di lui, Lacus crollò in ginocchio tenendosi le mani strette intorno alla gola. Lorde di sangue.



Nassau, 29 ottobre, C.E. 71


Cecilia si permise un sorrisetto di scherno di fronte alle notizie che stavano passando su tutti i telegiornali. La guerra era finita. Dopo migliaia di morti, e la possibilità che lo stesso pianeta Terra fosse distrutto, finalmente potevano tirare un sospiro di sollievo.

“Sì, fino al prossimo pazzo che cercherà di rinfocolare l’odio tra Coordinator e Natural. Succederà, gli esseri umani sono troppo stupidi per non ricascarci.”

Scrollò le spalle, non riuscendo ad unirsi ai suoi colleghi che stavano festeggiando. Lei poteva capire l’invidia e la paura che gli umani geneticamente modificati generavano in tutto il resto della popolazione terreste, allo stesso tempo, però, essendo stata fin da piccola lei stessa emarginata dagli altri bambini a causa dei suoi troppo brillanti risultati scolastici, lo sdegno e l’odio che provavano i Coordinator non le era affatto estraneo.

“Gli idioti mi chiamavano ‘Mostro Coordinator’ quando avevano voglia di fare sul serio, anche se ero Natural come loro” ricordò scuotendo la testa. “Non mi vengano a raccontare che adesso andremo d’amore e d’accordo per sempre.”

Finalmente si risolse a voltare le spalle al monitor e uscì dalla mensa, decisa a finire il suo rapporto prima di andarsene a casa. Lenk Granato aveva ragione. Le grandi questioni non dovevano interessarle. La cosa importante era che, nonostante la fine della guerra, l’Istituto avrebbe continuato a ricevere finanziamenti. I loro sponsor erano deliziati dai successi finalmente raggiunti, e non vedevano l’ora di mettere a frutto i propri investimenti.

Già, anche in tempo di pace immagino che troveranno il modo di impiegare questi ragazzi. Se non altro come efficientissime guardie del corpo’ pensò sorridendo mentre apriva la porta della sala comune dove tutti i soggetti non impiegati in sperimentazioni e test potevano passare un po’ di tempo in libertà.

La maggior parte, come si era aspettata, era radunata davanti alla televisione. Due stavano invece giocando a ping-pong in un angolo della sala, movendo le racchette ad una velocità impossibile da raggiungere per qualunque essere umano, Coordinator o Natural.

Cecilia si sentì improvvisamente orgogliosa di sé stessa.

I corpi dei Coordinator avevano accettato senza nessun problema gli impianti, ai quali si erano adattati con una rapidità che lei trovava ancora stupefacente. Il loro stesso fortissimo sistema immunitario, che Cecilia aveva temuto potesse rigettare i materiali sintetici, li aveva invece assimilati senza nessun problema. Avvezzi fin da piccoli a considerare il proprio corpo come ingegneristicamente modificato e modificabile, anche psicologicamente non avevano riportato traumi.

Eccetto quelli della guerra’ si disse guardandoli in faccia. La maggior parte si era mostrata non solo sorpresa, ma sconvolta di essere ancora viva.

Qualcuno doveva ancora superare lo shock della morte, ma quello fortunatamente non era il suo campo di specializzazione, e Cecilia non ci teneva che lo fosse. Si sentiva a suo agio tra numeri, formule chimiche e materiali inanimati, mentre la mente delle persone la metteva a disagio. Come la gente stessa. Si guardò attorno, trovando il soggetto che cercava seduto insieme agli altri davanti al televisore. Si avvicinò con decisione.

A parte il suo mentore aveva pochi contatti personali con il resto dello staff, tutto composto da scienziati molto più grandi di lei; quelli professionali le bastavano ed avanzavano. I suoi colleghi si erano stupiti che lei si trovasse così bene tra il gruppo di Coordinator, e avevano erroneamente attribuito la cosa al fatto che fossero tutti ragazzi più o meno della sua età –qualcuno aveva malignato che erano anche bei ragazzi – ma Cecilia sapeva che non era per una ragione così triviale. La realtà era ben diversa, ma non l’avrebbe confessata nemmeno sotto tortura.

Diversi si girarono a guardarla mentre camminava verso di loro e, esaminando i loro visi perfezionati dagli interventi di chirurgia ricostruttiva e le loro braccia marcate dai segni sottili ma eleganti degli innesti, Cecilia non riuscì a non mascherare un sorriso soddisfatto. Erano come un gruppo di bellissime bambole alle quali per caso era stata concessa la parola; come bambole, lei non doveva aver paura di loro. Non l’avrebbero mai presa in giro perché lei era così diversa dagli altri esseri umani. Pure loro lo erano.

Alcuni indossavano degli occhiali scuri a mascherina. Anche il soggetto sul quale doveva far l’ultimo test della giornata.

La stava fissando, e Cecilia gli fece cenno di raggiungerla. Si alzò con una smorfia, e camminandole incontro la scienziata notò come stesse leggermente zoppicando.

Cecilia sospirò. Aveva spiegato in tutti i modi alla Commissione, esponendo tutte le problematiche tecniche, che almeno i più giovani avrebbero dovuto essere scartati dal programma, ma i finanziatori dell’Istituto non avevano voluto sentire ragioni. Lei si reputava fredda ma non senza cuore, e avrebbe preferito concedere a quei ragazzi una pietosa eutanasia piuttosto che condannarli ad anni di torture, ma glieli avevano imposti, e lei non aveva potuto fare altro che accettare.

Sorrise con un po’ più di cordialità, sedendosi in disparte con il soggetto. Lui era il più giovane del gruppo e anche il problema più grosso, ma la rincuorava che almeno tutti gli interventi fossero stati un completo successo.

“Fa male?” gli chiese indicandogli il ginocchio destro.

Lui rispose scrollando le spalle. “Un po’…”

Cecilia alzò un sopracciglio. Dopo tutti quei mesi aveva imparato a conoscerli. ‘Un po’’, nella lingua del ‘soggetto ventuno’ significava che stava soffrendo come un cane.

“Dirò al medico farti un’iniezione di lidocaina, per un po’ dovrebbe migliorare, ma se continua a farti male prenderemo in considerazione l’ipotesi di sostituire l’impianto.”

Cecilia riuscì a malapena a camuffare una smorfia preoccupata sotto un sorriso un po’ sghembo. Una terapia più intensa a base di oppiacei avrebbe risolto il problema, ma i medici avevano la proibizione di prescriverglieli.

Non vogliono creare dei nuovi Extended dipendenti dalle droghe che assumono, capibile da parte loro.’

Scrisse una nota sulla cartella clinica del ragazzo che si era portata dietro, aggiustandosi gli occhiali.

“Avevo sperato di attendere ancora un po’ prima di procedere con il rimpiazzo degli impianti, ma purtroppo cresci dannatamente in fretta. I tuoi genitori devono essere parecchio alti, non è vero?”

Gli lanciò uno sguardo, ma il soggetto non mosse un muscolo del suo nuovo volto. Per un attimo considerò di togliergli gli occhiali, ma non sarebbe servito a nulla. Un problema di quei dispositivi ottici che gli avevano installato era la onnipresente fissità dello sguardo

Sospirando gli prese invece le mani. Per quello che ne sapeva lei quel Coordinator poteva anche essere orfano; di certo non aveva detto assolutamente nulla del suo passato, nemmeno il suo vero nome. Peggio, passava giorni senza dire una parola. Eppure non aveva riportato danni neurologici.

Shock post traumatico’ Cecilia diagnosticò mentre passava le dita su quelle che avevano installato al ragazzo. ‘Spero che prima o poi ne esca, o tutto questo sarà perfettamente inutile.’

Gli passò la punta dell’indice sull’interno del polso sinistro, e lo sentì sussultare.

“Beh, ti faranno un po’ male ma hai un’ottima sensibilità.”

Anche se le sue parole caddero nel vuoto si sentì in dovere di spiegare. “Le chiamiamo impianti, e non protesi, perché sono interfacciate direttamente con il vostro sistema nervoso, con connessioni neurali totalmente integrate con esso. Gli impulsi che partono dal cervello raggiungono i sensori di movimento nello stesso esatto modo in cui, in un corpo umano integro, arrivano alle articolazioni… anzi, molto più velocemente.”

Gli chiuse la mano destra a pugno. La pelle artificiale aveva la consistenza setosa dell’epidermide un bambino.

“E lo sai. Questi impianti sono molto più efficienti di normali braccia e gambe. Tu e tutti i tuoi compagni sarete molto più forti, veloci ed agili di un qualunque essere umano.”

Gli toccò con un dito la montatura degli occhiali. “E con questi occhi nuovi vedrete la realtà in modo completamente diverso. Più completo e funzionale.”

Non riuscì a soffocare una risatina soddisfatta. “Da un certo punto di vista, potreste considerarvi l’evoluzione della nostra specie.”

Il ragazzo ritrasse le mani dalle sue, mentre le parole entusiaste di Cecilia incontravano un muro di silenzio, rotto solo da un laconico ‘affascinante’, detto a mezza voce. E perché la scienziata aveva la netta impressione che, se avesse potuto, il soggetto ventuno le avrebbe lanciato uno sguardo impietosito?

Cecilia scosse leggermente la testa, prese la cartella medica del ragazzo e si alzò.

Prima o poi capirai...’

“Vieni con me” gli disse con meno fervore. “Dobbiamo condurre insieme un piccolo test sulla coordinazione di quelle dita.”

Lui la seguì obbediente fuori dalla sala. Di certo, da buon soldato non si faceva mai ripetere le cose due volte.



Nel laboratorio faceva freddo, e Cecilia si strinse il camice addosso, afferrando due guanti neri riposti su una delle macchine.

“Tieni, indossali, tra le fibre ci sono inseriti sensori per trasmettere i tuoi movimenti al computer. Adesso, vedi quella tastiera digitale? Siediti lì e pigia un po’ quei tasti. Mi basteranno cinque minuti. Ti sarò estremamente grata se riuscirai a non pestare i tasti che producono i suoni più acuti, credo che siano quelli più a destra. Ho un mal di testa incredibile.”

La scienziata gli diede le spalle, accomodandosi stancamente davanti al computer e avviando il programma.

Aveva già condotto quel test su altri soggetti, e tutti avevano crudelmente martoriato i suoi timpani con i suoni più raccapriccianti. Non osava sperare che questa volta sarebbe stato diverso.

Il primo accordo fu incerto, e Cecilia considerò di afferrare le cuffie abbandonate accanto allo schermo. Allungò la mano per prenderle, ma le armoniose note successive fecero bloccare il suo movimento a mezz’aria. Dopo un paio di minuti il suo sguardo abbandonò il video per tornare sul soggetto. Muoveva le mani sulla tastiera con estrema sicurezza, conoscendo chiaramente dove andavano posate. E la melodia che scaturiva dallo strumento era eseguita ben più che alla perfezione, con una passione che lei non avrebbe mai attribuito al giovane Coordinator, considerato le poche volte che l’aveva sentito proferire verbo.

Cecilia non osava interrompere qualcosa di così bello. Lo fece lui dopo una decina di minuti, dopo aver sbagliato un accordo.

Lo vide fissarsi la mano destra con una smorfia, e Cecilia si segnò mentalmente l’ennesimo punto che aveva bisogno di un’iniezione di antidolorifico.

Incerta su quello che poteva dire, scelse la cosa più ovvia.

“Bene. Il test è stato brillantemente superato. E complimenti, non avevi mai detto a nessuno che eri un pianista.”

“Me la cavavo” fu la replica fin troppo remissiva, ma proferita con una tensione che non sfuggì a Cecilia.

“Abbiamo finito?” le chiese alzandosi di scatto, senza guardarla in faccia.

“Certo. Vieni, ti accompagno dal dott. Meine per quella iniezione.”

Lo seguì alla porta, senza riuscire a staccare gli occhi dalla mano destra che il soggetto apriva e chiudeva nervosamente.

Un campanello d’allarme cominciò a squillare nella testa di Cecilia, ma decise di testare comunque la sua fortuna. Alcuni di quei Coordinator erano davvero un mistero, e la sua curiosità scientifica non la poteva esimere dallo scoprire qualcosa di più su uno di loro.

“E, ribadisco, hai davvero talento per essere così giovane. Visto che eri anche un pilota di Mobile Suit, dove hai avuto il tempo di imparare a suonare così?”

Il ragazzo appoggiò la mano sinistra sul pulsante che apriva la porta, ma senza pigiarlo.

“Mia madre... fin da piccolo ha voluto che prendessi lezioni... aveva questo vecchio pianoforte e le piaceva che lo suonassi per lei.”

“Che pensiero gentile. Scommetto che ti vuole molto bene, vero?”

Cecilia si accorse dell’errore quando oramai era troppo tardi.

Il Coordinator si girò verso di lei, appoggiando le spalle contro la porta.

“Perché sono qui? Voglio tornare a casa… fammi tornare a casa… voglio vedere mia madre… il mio piano…”

Si premette le braccia attorno al corpo, scosso da singhiozzi che sembravano rantoli. Il fatto che non potesse piangere perché gli impianti ottici non erano ancora stati completati rendeva la scena ancora più straziante.

Cecilia si sentì persa. Come gestire un teenager in preda ad una evidente crisi isterica non era una cosa a cui i suoi studi l’avevano preparata. Con orrore lo vide portarsi le mani alla faccia, e scattò in avanti prima che il Coordinator potesse fare qualcosa di irreparabile. Istintivamente gli afferrò i polsi.

“Hey, non ci provare a rovinare così il mio lavoro.”

L’entità dell’ennesimo sbaglio le fu chiara quando si sentì sollevare e scaraventare da parte come se fosse stata senza peso.

Colpì un tavolo, e una fitta atroce le trafisse il costato. Si sentì svenire dal dolore ma non le sfuggì quello che le stava urlando il giovane Coordinator.

“E non mettermi mai più le mani addosso. Io non sono il tuo giocattolo.”

***

“Ti rendi conto di quello che hai fatto? Poteva spezzarti il collo.”

Cecilia arrossì furiosamente, sotto lo sguardo teso del suo mentore, a disagio in parte per la sfuriata e in parte per la fasciatura rigida che le teneva le due costole rotte a posto.

“Non l’avrebbe mai fatto, lo sai, è stato un incidente” cercò di giustificarsi lei, ma Lenk la zittì.

“Lo so, ho visto il filmato girato dalla telecamera del laboratorio. Chi credi che abbia chiamato il medico? Quel Coordinator, resosi conto che eri svenuta, si è ripreso e ti ha soccorsa. Meno male che almeno uno dei due in quella stanza ha saputo mantenere un minimo di lucidità.”

“Lo ringrazierò...” mormorò lei, imbarazzata come una ragazzina beccata a rubare i biscotti.

“Per forza, visto che sei tu che l’hai provocato, e lo sai che è stata una grandissima cazzata. Se ti fosse successo qualcosa cosa avremmo fatto? Senza contare che i militari avrebbero potuto pensare che ti aveva aggredita, e quindi...”

“Va bene va bene, ho capito!” Cecilia lo interruppe alzandosi velocemente in piedi nonostante il dolore. Strinse i denti, fissando il suo mentore seria in volto. “Mi spiace, mi sono fatta prendere dall’entusiasmo. Ero... come drogata io stessa.”

Lui annuì. “Non ti biasimo. Visto quello che hai ottenuto, se fosse ancora assegnato il Premio Nobel sarebbe tuo di diritto, ma vedi di controllarti quando hai a che fare con questi soggetti. Potrebbero diventare molto pericolosi, per te, per gli altri e anche per sé stessi. E, oltretutto” lo sguardo del Professore si fece pensieroso. “Hai sentito quello che ti ha urlato quel tipo, no? È un essere umano, Cecilia, e a solo quindici anni ha sofferto qualcosa di indicibile. Non trattarlo come un manichino senza sentimenti.”

La critica colpì la scienziata come una coltellata. Annuì rigidamente e in silenzio. Come aveva potuto pensare che il suo mentore non l’avesse capita?

“Vai a dormire adesso, è davvero tardi” le disse l’uomo più bonariamente, strofinandosi le guance con le dita. “Da domani chiederò a Giulia di sostituirti almeno nei test sui soggetti più avanzati. Se ti sei ridotta così è anche colpa mia, ti ho fatta lavorare troppo. Cristo... a volte mi dimentico che sei ancora una ragazzina anche tu.”

Cecilia soffocò una protesta sul nascere, e si accontentò di augurargli la buona notte e di uscire dall’ufficio senza aggiungere altro. Si sentiva un’idiota, ma non sarebbe mai riuscita a dormire se non si fosse prima scusata con il Coordinator.



Lo trovò nello studio medico. Il ragazzo teneva le braccia appoggiate su un tavolo e la testa abbandonata su di esse, ma la rialzò immediatamente sentendola entrare nella stanza. Indossava ancora gli occhiali, ma il Coordinator piegò le labbra in una smorfia mortificata. E Cecilia non riuscì a trattenere la sua sorpresa quando, prima ancora che lei potesse aprire bocca, si scusò con lei.

“Mi dispiace, non avrei dovuto reagire in quel modo.”

Il discorso che si era preparata evaporò miseramente. Ma come gli veniva in mente a quel tipo una cosa del genere? Imbarazzata non riuscì a trattenere una risatina.
“Di cosa? Sono io che ho esagerato. Sono stata terribilmente indiscreta e indelicata, tu non sei tenuto a dirmi nulla della tua vita precedente.”

Il ragazzo davanti a lei si mosse sulla sedia, evidentemente a disagio, e Cecilia cambiò precipitosamente argomento. “E, comunque, ti ringrazio per aver chiamato il medico.”

“Era colpa mia se eri svenuta. Non potevo mica lasciarti così.”

“Avresti potuto aspettare che ci trovassero, prima o poi l’avrebbero fatto.”

“Ti sembro così insensibile?”

Stavolta Cecilia si mise apertamente a ridere. “Veramente non te lo so dire. Questo è il discorso più lungo che ti sento fare da quando sei qui. Pensavo seriamente che avessi qualche problema. In ogni caso, non so quanto sensibile tu sia, ma di certo sei molto efficiente.”

“Sono un soldato, e uno dei migliori del mio corso. Mi hanno addestrato a non perdere il controllo in nessuna situazione.”

Il Coordinator abbassò la testa, distogliendo lo sguardo da lei. “Anche se a volte è davvero difficile... ma non succederà più, va bene?”

Lei sorrise mestamente a quel tono afflitto. Tragicamente, era come quello di un bambino in cerca di approvazione.

Cecilia imprecò tra sé e sé. ‘Cristo. Ma tu che ci fai qui? Che società è quella che fa combattere ai minorenni le sue guerre?’

Poi se lo ricordò. Il ragazzo le pareva gentile, ma sicuramente aveva già ucciso. E di certo l’avrebbe fatto in futuro, grazie a quegli impianti che lei gli aveva installato.

La scienziata si voltò verso la porta, cercando di mascherare il turbamento. Quei Coordinator potevano anche essere in quel momento le sue creazioni perfette, ma sarebbero diventate le bambole da guerra di qualcun’altro. Il pensiero la fece rabbrividire.

“Non ti tormentare, tu non hai nessuna colpa di quello che è successo. Proprio nessuna...” ‘Nemmeno di quello che ti ordineranno di fare quando uscirai di qui. Quello sarà tutto merito mio.’

Aprì la porta, ma la voce del giovane pilota la fece bloccare mentre stava già uscendo.

“Scusami anche per quello ti ho detto. Era una stupidaggine. Sei il mio medico. Puoi mettermi le mani addosso quando vuoi.”

Cecilia fu grata che lui non le vedesse il volto, che aveva assunto un colore rosso pompeiano. Per niente dotata di attrattive per l’altro sesso, raramente la scienziata era stata oggetto di battute salaci. E, anche se si rendeva conto che il ragazzo non poteva averlo fatto apposta, la dichiarazione le strappò comunque il sorriso che le serviva per finire la giornata in modo meno tetro.



___________________________



Note

Grazie davvero a tutti per i commenti e soprattutto per la fiducia XD Spero davvero di meritarla, visto che è la prima volta che mi addentro in questo fandom e il nervosismo è molto :)
Un grazie particolare va a Shainareth per l'opera di betaggio (mai minacce furono più utili ^^).

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Capitolo 3
*** Preda ***


Preda



Aprilius City, 13 dicembre, C.E. 81


“Che diavolo fai?” gli urlò Yzak afferrandolo per una spalla. “Ci penso io che ho le dita più sottili, la vuoi soffocare, forse?”

L’albino scansò Athrun, e premette delicatamente due dita sulla ferita di Lacus, il cui sangue aveva oramai inzuppato il colletto candido dell’abito.

Athrun fissò Lacus sotto di sé, trattenendo il fiato come se ogni suo respiro potesse far precipitare la situazione.

La giovane aveva gli occhi sbarrati ma vigili e teneva la bocca socchiusa, le labbra sbiancate dallo shock.

“Riesci a respirare?”

Se la pallottola le avesse perforato la trachea non ci sarebbe stato nulla da fare, ma dalla bocca non usciva sangue, e Athrun si sentì leggermente sollevato quando la giovane mormorò un flebile ‘sì’.

Era così stravolto che non avvertì la presenza di Meyrin accanto a lui fino a quando la donna non aprì bocca.

“L’ambulanza arriverà a momenti. Rilassati. Non le ha beccato una delle arterie, altrimenti sarebbe già morta dissanguata.”

Yzak scoccò alla donna uno dei suoi famosi sguardi in tralice. “Capitano Hawke. Siamo tutti soldati qui, e sappiamo benissimo riconoscere una ferita mortale da una che non lo è. Ti prego di non ribadire inutili ovvietà.”

Mentre Meyrin arrossiva mortificata Lacus sbatté le palpebre, distendendo le labbra nella parvenza di un sorriso che rassicurò Athrun, anche se l’angoscia non si era ancora dissipata. “Come è potuto succedere?” mormorò.

Fu Meyrin che gli rispose. “C’era un cecchino sul tetto di quell’edificio. È un museo, ho avvisato la sicurezza di fare tutto il possibile per bloccarlo, e ho avvertito tutte le pattuglie di polizia nei paraggi. Stanno convergendo qui.”

“Meyrin” le sibilò Yzak. “Prendi i tre agenti che erano nell’auto in testa al corteo e contribuisci alle ricerche. Chiunque sia, non deve uscire da quell’edificio.”

La giovane annuì, facendo un cenno agli uomini di seguirla. Athrun la fissò incerto mentre correva via. Si sentiva straziato. Una parte di lui avrebbe voluto unirsi a loro, ma non poteva abbandonare Lacus.

Fu Yzak che decise per lui. “Che stai facendo qui anche tu? La bella statuina? Vai a darle una mano, tanto qui la situazione è sotto controllo, almeno avrà qualcuno con un po’ di esperienza da cui prendere esempio. Merda, la sua posizione doveva essere puramente cerimoniale. Non è affatto preparata per queste situazioni.”

Lacus affondò gli occhi nei suoi, alzando una mano per sfiorargli la gamba destra.

“Athrun, dovrebbe esserci ancora una pistola sotto il sedile del guidatore dell’auto della scorta. Prendila e portami quel maledetto” ribadì Yzak ringhiando. “Fai qualcosa almeno tu.”

L’ex-pilota di Mobile Suit si morse le labbra. Yzak era evidentemente furibondo con sé stesso per non essere in grado di inseguire il terrorista, ma rimanere lì impalato non l’avrebbe certo aiutato a catturarlo.

Si risolse annuendo vigorosamente e, lanciato un sorriso di incoraggiamento a Lacus, scattò verso l’auto della scorta. La pistola era lì dove Yzak gliel’aveva indicata, e scivolò fredda nel suo pugno portandogli pensieri sgradevoli che scacciò con decisione. Non era certo il momento di esitare.

Tolse la sicura ed attraversò la strada entrando con circospezione nel museo, proprio quando cominciavano ad udirsi i primi colpi d’arma da fuoco.



Yzak stramaledisse il lento traffico di Aprilius City mille volte prima che l’ambulanza si facesse vedere sul posto. Aggredì i medici non appena saltarono giù dal mezzo.

“Non potevate prendere un flyer?”

“Purtroppo erano già tutti fuori, Comandante” gli rispose un giovane dottore bianco in volto dalla tensione. “La notizia che il Consigliere Clyne era rimasta ferita è arrivata in un momento già caotico...”

“Non mi interessa, datevi da fare” tagliò corto Yzak, che tolse con un sospiro di sollievo le dita dal collo di Lacus.

L’emorragia sembrava essersi arrestata, ma la giovane aveva un brutto aspetto. Pallida come un cencio, teneva gli occhi serrati e le mani contratte lungo i fianchi, e i suoi respiri erano brevi e inconsistenti ma, di certo, non stava peggio dell’uomo colpito alla testa.

Yzak si voltò a guardare il cadavere, che qualche minuto prima era stato Alexander Borodin, il precedente Primo Ministro della Federazione Euroasiatica. Il suo corpo giaceva riverso a terra, la faccia voltata verso il suolo, con un buco in testa sufficiente per farci passare un pugno. Non c’erano dubbi che fosse morto.

“Bastardo sfortunato a trovarsi sulla traiettoria del colpo” rifletté l’albino con una smorfia sul bel viso. Poi la sua attenzione tornò su Lacus. I medici non sembravano aver difficoltà nello stabilizzarne le condizioni.

“È meno peggio di quello che sembra, Comandante. Ma potremo dirle di più una volta raggiunto l’ospedale.”

Lui annuì. “Bene. La lascio nelle vostre mani.”

“Lei non viene con noi?”

Yzak scosse la testa. “No, non servirei, siete voi gli esperti che salvano la gente. Il mio lavoro è un altro” proferì tetro, avviandosi poi velocemente verso il museo. Non aveva un’arma, ma all’occorrenza era pronto a fermare il terrorista a mani nude.



I visitatori erano fuggiti ai primi spari, per cui Yzak non ebbe alcuna difficoltà ad attraversare l’atrio deserto. Percorse le sale attento a cogliere il minimo rumore, ed infine una raffica di mitra, seguita da un ululato di dolore, attirò la sua attenzione.

“Sopra” ruggì il giovane precipitandosi verso le scale. Ne salì a due a due i gradini, scoprendovi in cima i corpi riversi di tre uomini dalla divisa azzurra. Le guardie del museo.

Erano stati feriti alle gambe e alle braccia, e uno di loro ancora in sé indicò all’albino un corridoio alla sua destra, in fondo al quale giaceva una porta a vetri.

“Di là, all’auditorium.”

Yzak non se lo fece ripetere due volte, anche perché gli spari erano ricominciati.

Divorò correndo la distanza che lo separava dalla porta, che spalancò senza alcuna cautela.

Si scoprì sul loggione di una sala a gradoni. Il palco era uno spazio aperto verso una gigantesca vetrata, dalla quale la luce del primo pomeriggio inondava l’auditorium immacolato. Sul palco stava andando in scena la più strana delle rappresentazioni. Tra mezze colonne piazzate qua e là si riparavano Meyrin, due degli uomini della scorta, e lo stesso Athrun. Il terzo agente non era in vista, e Yzak suppose che fosse caduto.

“Arrenditi” urlò la giovane. “Non c’è posto dove tu possa scappare.”

Uno degli agenti si sporse, ed esplose qualche colpo verso uno dei pilastri. Erano composti da un materiale biancastro e lucido, che poteva essere ceramica come un qualche tipo di resina. Colpita, la colonna si sbrecciò e i frammenti schizzarono in tutte le direzioni.

Ha terminato le munizioni?’ si chiese Yzak. Gli sembrava troppo facile. L’altro agente però fece fuoco come il collega, senza che nessuna risposta arrivasse.

Dalla sua posizione privilegiata l’albino vide volare un oggetto scuro, lanciato verso gli agenti da qualcuno che si nascondeva dietro la colonna bersagliata. Yzak si irrigidì, e gli uomini scattarono al riparo, ma quando atterrò era semplicemente una mitraglietta. L’arma più comune per tutti i terroristi del mondo.

“Perfetto. Adesso vieni fuori, con calma e tenendo le mani bene in vista” gli intimò Meyrin.

Troppo facile’ considerò Yzak, quando il terrorista uscì allo scoperto.

Indossava dei pantaloni neri, stivaletti, guanti, e aveva il capo coperto dal cappuccio della corta giacca sportiva. Teneva la testa bassa, e dall’alto Yzak non riuscì a vedere il suo volto.

“Rimani lì e non ti muovere.”

Meyrin e i due agenti si avvicinarono cautamente, sempre tenendo le pistole puntate davanti a loro, mentre Athrun rimaneva al coperto.

Yzak aggrottò le sopracciglia. ‘Bene. Ci è arrivata che qualcuno gli deve coprire le spalle, adesso spero che il tipo non faccia qualche cazzata.’

“Mettiti in ginocchio” ordinò Meyrin. Poi, mentre lui obbediva e gli agenti si disponevano ai lati, la giovane si portò davanti al terrorista.

Yzak affondò i denti nel labbro inferiore. ‘Troppo vicina.

L’uomo alzò la testa per guardarla, e Yzak vide Meyrin sussultare ed abbassare impercettibilmente l’arma. Fu abbastanza perché il terrorista trovasse una via d’uscita.

Scattò in piedi così velocemente che nessuno ebbe il tempo di reagire. Strappò la pistola di mano a Meyrin e, afferrata la ragazza per i capelli, la scaraventò contro una delle colonne. Yzak la vide scivolare a terra lasciando una striscia di sangue sulla superficie immacolata del pilastro. I due agenti fecero fuoco simultaneamente, ma con una veloce torsione del busto il terrorista li centrò entrambi alle braccia, alzando il suo sinistro come a volersi riparare da qualcosa.

Si era liberato, e l’intera azione non era durata più di tre secondi.

Non c’è nessun essere umano così veloce. Quello è un Extended per forza.’

Rimaneva Athrun e, anche se non l’avrebbe mai confessato a chicchessia, Yzak cominciò ad aver paura per lui.

Il giovane Ammiraglio reagì, lanciandosi allo scoperto nello spazio tra due colonne. Sparò un colpo mentre era ancora in aria, rotolando a terra per evitare la risposta del terrorista. Il cui proiettile andò infatti a vuoto. Con una capriola Athrun si rimise in piedi, pronto a ritornare al riparo, ma l’attentatore l’aveva previsto. Il suo colpo successivo non fu infatti diretto al giovane, ma alla colonna dietro la quale Athrun si stava per riparare. Lui ebbe la prontezza di riflessi di mettersi le mani davanti alla faccia prima di venire investito dalle schegge, ma crollò comunque al suolo, con frammenti di materiale tagliente come vetro conficcati negli avambracci.

Yzak non riuscì a trattenere l’urlo. “Athrun!”

Il terrorista si girò istantaneamente nella sua direzione, puntando la pistola come per un riflesso condizionato, ma si bloccò all’istante.

Poi, molto più lentamente, si volse verso Athrun, che giaceva piegato in due con la testa china sulle braccia ferite. I capelli gli pendevano ai lati del viso, senza riuscire a mascherare la sua smorfia di sofferenza.

Non aveva la minima idea di cosa avrebbe potuto fare disarmato, ma Yzak corse comunque verso le scale che conducevano giù dal loggione mentre, con la coda dell’occhio, vide il terrorista abbassare l’arma e avvicinarsi al giovane ferito.



Athrun ebbe la spiacevole sensazione di sentire la propria vita fuggire via come la pistola che, senza che riuscisse a trattenerla, gli cadde di mano.

Cercò di alzarsi combattendo il dolore ma, proprio in quel momento, si sentì sollevare di peso. L’impatto contro la dura superficie del pilastro gli strappò un gemito e, da quella posizione, l’unica cosa che poté fare fu guardare in faccia chi lo stava trattenendo.

Per un momento dimenticò anche il dolore lancinante alle braccia.

Dalla penombra del cappuccio lo fissavano due occhi dalle iridi giallastre, con le pupille a losanga di un felino. Chiunque... qualunque cosa fosse, era giovane, di quell’età indefinita tra i venti e i trent’anni, con lineamenti regolari ma decisamente anonimi, senza nessun particolare segno distintivo. Eccetto gli occhi. Leggermente lucidi lo fissavano sotto fini sopracciglia verdi; distaccati come quelli di un predatore.

Athrun si sentì esaminato come una cavia da laboratorio.

“Mollami” urlò cercando di ribellarsi, e sferrò un calcio che raggiunse il terrorista sul fianco. L’uomo non fece una piega. Non sbatté nemmeno le palpebre di quegli strani occhi, che si strinsero solo leggermente.

“Athrun Zala?” gli sentì chiedere l’Ammiraglio di Orb, lentamente e come se il terrorista facesse fatica a parlare.

“Che diavolo vuoi da me?” ruggì, cercando di divincolarsi senza ottenere nulla. Non riusciva ad alzare le braccia e, nonostante il terrorista fosse leggermente più basso di lui e piuttosto snello, lo teneva fermamente bloccato a qualche centimetro dal suolo.

Scalciò di nuovo, più irritato che spaventato dalla situazione, e solo allora venne lasciato bruscamente cadere. Senza una parola il terrorista corse verso la vetrata mentre Yzak sopraggiungeva sul palco. Prima che l’albino avesse tempo di raccogliere una qualunque arma il giovane in nero sparò contro lo spesso cristallo infrangendolo, e saltò di sotto sparendo nel vuoto.

Yzak superò Athrun correndo ma, quando si affacciò guardando verso il basso, l’Ammiraglio di Orb lo udì proferire una terribile imprecazione.

L’albino si portò il cellulare all’orecchio. “Bloccate immediatamente la monorotaia e perquisite tutti i passeggeri. No, non mi importa se è l’ora di punta. Il cecchino che ha sparato a Lacus Clyne è saltato su quel treno, dovete trovarlo. Setacciate i quartieri intorno e prestate la massima attenzione, è armato e molto pericoloso.”

Athrun sbatté le palpebre. Quand’era giovane adorava visitare quel museo e, soprattutto, attaccare la faccia proprio contro quella vetrata per guardare il treno passare. Quindici metri più sotto.

Yazak ritornò verso di lui, sempre parlando al cellulare. “E mandate quassù dei medici, abbiamo almeno sette feriti gravi.”

L’albino dovette leggere sul suo viso la confusione, perché si passò sprezzante la mano libera sugli occhi. “Non chiedermi come, Athrun. Ma gliel’ho appena visto fare, va bene? È saltato sul tetto di quel treno in corsa rimanendo perfettamente in equilibrio. Io esigo di sapere chi cazzo è questa gente.”

Malgrado il dolore Athrun riuscì ad esibirsi in un’occhiata di pieno sostegno verso l’amico. Con quella determinazione non aveva dubbi che l’albino sarebbe riuscito nel suo intento.

Poi chiuse gli occhi, cercando di calmarsi. Era stato incauto a buttarsi nella mischia dopo così tanti anni di inattività, e adesso ne avrebbe pagato il prezzo. Le sue orecchie soprattutto lo avrebbero fatto, non appena Cagalli avesse saputo quello che era successo. Athrun sorrise, cercando di concentrarsi su di lei, e sulle sue due belle figlie. Era l’unica cosa che lo tratteneva dal piangere dal dolore e dal pensare a come mai, tra tutti, il terrorista era sembrato particolarmente interessato proprio a lui.



Nassau, 24 dicembre, C.E. 71


“Ahhh come sei sempre scorbutica con tutti. Dai, bevi qualcosa.”

Cecilia si scrollò con eleganza il braccio del collega di dosso, sorridendo nonostante fosse disgustata dalla puzza di alcool che appestava l’alito dell’uomo.

“Sono astemia” rispose a denti stretti, lanciando pure uno sguardo infastidito ai suoi colleghi, che stavano assistendo alla scena ridendo sotto i baffi. Li maledì tutti.
‘Come diavolo può accadere che un brillante scienziato possa essere così cieco nei confronti dei segnali più che lampanti che sto lanciando?’

Lo fissò, faticando però a mantenere una parvenza di civiltà.

“Gary, lascia perdere, non sono dell’umore adatto.”

Gary Bennet non era né brutto né antipatico, e quasi geniale nel suo campo di ricerca. Aveva ventotto anni e, da quando era arrivato un mese prima, l’aveva presa di mira essendo lei l’unica donna sotto i trenta non impegnata. Tutti avevano scommesso che sarebbe stato lui ad espugnare il cuore dell’inavvicinabile dottoressa Jesek; Cecilia l’aveva quasi fatto apposta a deluderli tutti.

Bennet non le piaceva come non le piacevano i nuovi scienziati arrivati ultimamente all’Istituto. Legati a doppio filo ai Logos, le ronzavano attorno come avvoltoi per carpire ogni segreto del suo lavoro, nell’assoluta incompetenza di replicarne i risultati. Lenk Granato aveva dovuto combattere per mantenere qualcuno del vecchio gruppo, e Cecilia si sentiva assediata. Il suo posto era saldo, ma spesso la giovane si chiedeva sgomenta quando anche Lenk sarebbe stato sostituito.

“Oh, ma è la Vigilia di Natale, e festeggiamo in un mondo pacifico. Lasciati andare per una volta. Vieni che ti faccio un bel regalo.”

Prima che Cecilia potesse rispondere, scandalizzata, un’altra dei suoi nuovi colleghi si appese al braccio di Bennet.

“Gary, basta, smettila di molestare la bambina. Lo sai che a lei piacciono solo i suoi giocattoli, no?”

A quel punto alla giovane scienziata non restò altro da fare che girarsi sui tacchi ed andarsene, prima di compiere una strage infilando le palline dell’albero di Natale in posti poco consoni di entrambi i colleghi.

Le risate dei due la inseguirono.

“Ma come fa a piacerti?” sentì la donna chiedere.

“Ha un bel musetto. Se solo si sistemasse i capelli e mettesse su qualche chilo...”

“Seee... se solo rinascesse...”

Soffocatevi con lo champagne, imbecilli’ gli augurò lei, uscendo dalla sala dove era stato organizzato il party natalizio, facendo di tutto per non correre e salvare così la sua dignità.

Ancora una volta gli esseri umani le avevano dimostrato di essere dei disgustosi animali. Ma oramai non se ne stupiva più.

Riuscì persino a sorridere malignamente della loro idiozia, entrando in ascensore e chiudendo dietro di sé i suoni della festa.

‘’fanculo al tuo regalo, ubriacone. Ho di meglio da fare. E tempo una settimana sarete fuori di qui. Se c’è una cosa che sono brava a fare senza farmi beccare, è sabotare i lavori altrui.’

Cosa facile da ottenere, visto che tutti i soggetti di sperimentazione tanto adoravano lei quando odiavano la quasi totalità degli altri suoi nuovi colleghi.



La cosa che aveva di meglio da fare, ovviamente, era lavorare. Nello specifico, sistemare un bug nel software che generava immagini virtuali sulla retina dei suoi soggetti. Aveva avuto un’intuizione geniale mentre tentava di sottrarsi alle grinfie di Bennet, e non voleva lasciarsela scappare.

Si precipitò verso gli alloggi dei Coordinator, ai quali poteva accedere liberamente. Sapeva che anche i ragazzi stavano festeggiando, ma era certa che sarebbe riuscita a trovare un volontario.

Sentendo di andare abbastanza a colpo sicuro, giunse alla porta dell’alloggio del ‘numero ventuno’ con il fiatone. Visto che l’ascensore era occupato aveva fatto tutti i piani di corsa. Suonò alla porta che si aprì immediatamente, ed entrò esibendo il suo sorriso più smagliante; era davvero felice di trovarsi lì e non dove stava dieci minuti prima.
Lui era accoccolato a gambe incrociate su una poltrona, con un libro chiuso in grembo e un cuscino sotto la testa. La fissò, e suoi nuovi occhi spiccarono nella penombra, come quelli di un gatto.

Il Coordinator le aveva detto che dopotutto non erano brutti, molto meglio di quelli che aveva prima, di un colore assolutamente ordinario, ma Cecilia aveva oramai capito quanto fosse bravo a sminuire tutto ciò che lo feriva. Se quegli impianti inquietavano sottilmente lei, che pur li considerava prodigi della tecnica, poteva solo immaginare cosa dovesse provare lui a vederseli in faccia. Per questo voleva fare di tutto perché almeno non gli causassero fastidi o dolori inutili.

“Ciao. Che ci fai qui tutto solo? Non vai a festeggiare con gli altri?” gli chiese in tono casuale, pur notando la sua espressione mesta.

Il giovane scosse il capo. “Non ne ho voglia. Mi fa un po’ male la testa.”

“Hai preso dell’Imitrex?” chiese Cecilia aggrottando le sopracciglia.

“Due compresse.”

La scienziata dovette imporsi di continuare a sorridere, nonostante la pessima notizia. Se due dosi di uno dei più potenti antidolorifici in commercio non avevano effetti avrebbero dovuto cominciare a pensare di produrli ad hoc.

Si appoggiò alla scrivania, mettendosi una mano stretta a pugno sotto il mento.

“Senti, ti va di venire a lavorare un po’ con me? Forse ho capito dove sta il problema con quegli impianti ottici. Risolvendo quello, chissà, magari anche le cefalee spariranno.”

“Ma è tardi. E domani è Natale. Perché non vai a casa a riposarti?”

Si era aspettata una risposta simile. “Casa? Questa è la mia casa, non te l’avevo già detto? E... beh, è giusto che rimanga qui con te, oggi. Stiamo sempre insieme, e tu subisci ogni stupida idea che mi venga in mente. Voglio farti un regalo!”

Il giovane si illuminò, quasi come se Cecilia gli avesse offerto una vacanza, e la scienziata si sentì improvvisamente al settimo cielo.



Le dite le volavano sulla tastiera. Come ogni volta, non appena la sua mente aveva individuato il problema le era estremamente facile risolverlo, non importa se era di natura meccanica o informatica.

“Sei veloce... come uno di noi.”

Cecilia scoccò al Coordinator un sorriso. Immaginava che per uno di loro fare un complimento del genere ad una Natural dovesse rappresentare il massimo della stima. E supponeva che forse era per quello che la rispettavano così tanto. Se non fisicamente, quanto meno la sua mente era ai loro stessi livelli di efficienza.

Il ragazzo, seduto accanto a lei con in faccia un’espressione incuriosita, le ritornò il sorriso.

Nonostante l’inizio poco promettente, Cecilia aveva scoperto di apprezzare molto la compagnia del Coordinator. Era maturo per la sua età, intelligente e sensibile, e non la metteva mai in imbarazzo di fronte agli altri. Dati tutti i suoi problemi, era il soggetto con il quale lei doveva lavorare più a stretto contatto, ma non le pesava. Anzi, ne cercava la compagnia anche fuori dal laboratorio. Una cosa che però non era mai più riuscita ad estorcergli era un concerto privato. Quando gliel’aveva chiesto, il Coordinator aveva opposto un diniego talmente netto, mormorando a mezza voce che gli ricordava troppo casa sua, che Cecilia non aveva avuto cuore di insistere.

Ricordando quel momento, allungò una mano per accarezzargli un braccio. “Ho quasi fatto”.

Schiacciò il tasto ‘invio’ e, nell’attesa che il computer terminasse l’elaborazione, si girò verso di lui prendendogli le mani tra le sue.

“Vedrai che andrà tutto bene” gli disse con trasporto, stringendo leggermente la presa.

Cecilia aveva sempre avuto orrore dei contatti fisici. Ma con lui e con gli altri Coordinator era diverso. Li aveva toccati tante di quelle volte, in sala operatoria e fuori, che oramai era diventa pura routine. Era anche bello tastare la consistenza di quell’epidermide perfetta; e poi, il pensiero che sotto lo strato di sintopelle ci fosse qualcosa di altrettanto inorganico la rassicurava in qualche modo.

Il ragazzo le sorrise, sembrando sollevato, e lei si chiese se fosse perché finalmente i triptani avevano fatto effetto sul suo mal di testa.

Il bip del computer la distrasse dal problema e, lasciandogli le mani, afferrò una penna ottica sulla quale caricò il programma.

“Adesso guardami, ok? Stiamo studiando un altro programma che permetterà di trasferire i file via wireless e che, ma questo è solo un’ipotesi, consentirà al nanocomputer che avete in testa di collegarvi alle reti esistenti, ad esempio per procedere ad un’identificazione immediata dei vostri bersagli. Fino ad allora, dovremo procedere via infrarosso. Guardami un attimo, adesso. E, scusa, sentirai una piccola fitta.”

Gli sollevò il mento con la mano puntandogli nell’occhio destro la penna. Poi premette il pulsante di trasferimento, e il Coordinator piegò le labbra nella smorfia che Cecilia si era aspettata.

“Mi spiace, non c’è altro modo” si affrettò a dire, mentre lui distoglieva il viso con le lacrime agli occhi.

“No, va bene. Di solito passa subito. È che... ah, mi sta tornando il mal di testa.”

“Temo sia inevitabile. Ma come ti sembra?”

Il ragazzo sbatté le palpebre un paio di volte. “Wow! Molto meglio. Le immagini non sono più sgranate. Riesco anche a leggere.”

La fissò negli occhi. “Cecilia Jesek. Nata a Tampere il venticinque maggio del cinquantuno, iscritta alla Chalmers University a undici anni. Ha completato il dottorato in...”

Ridendo, la scienziata gli diede un colpetto su una spalla. “Smettila. Non ho implementato quella modifica perché curiosassi nel mio curriculum.”

“Non è colpa mia, è uno di quelli che era caricato nel database di prova” si giustificò lui alzando le mani come per difendersi. “E volevo vedere se la scansione della retina funzionava.”

“E com’è?”

“Perfetta” le confermò lui, con un sorriso ammirato in volto. “Certo che sei davvero un genio.”

Cecilia distolse lo sguardo, sentendosi arrossire, ma la frase successiva la gelò.

“Avresti dovuto trasferirti su PLANT. Là nessuno avrebbe invidiato i tuoi successi.”

“Forse. Ma tu come fai a sapere che...”

“Me lo posso immaginare. E poi, mi basta vedere come ti trattano i nuovi arrivati.”

Lei scosse le spalle, esplodendo in una secca risata. “Non mi importa di loro, tutto quello che mi interessa è il mio lavoro, e che tu stia bene.”

Fu solo quando vide lo sguardo perplesso del ragazzo che si rese conto della magnitudine di quello che aveva appena proferito. La realizzazione le portò un sorriso titubante sulle labbra.
Da quanto tempo stava concentrando tutto il suo lavoro solo su di lui? Fortemente volendo che, tra tutti, proprio lui stesse bene? E perché si sentiva improvvisamente la testa leggera, esattamente come quando uno dei suoi esperimenti riusciva con successo?

Scattò in piedi imbarazzata ma, con suo grande sollievo, fu il Coordinator che la trasse dall’impaccio, pur con voce sensibilmente incerta.

“Sei una brava persona, Cecilia. In questa situazione io... non avrei potuto incontrare un... dottore migliore. Posso farti un regalo?” le chiese, alzandosi a sua volta.

La scienziata sbarrò gli occhi. “Ma che dici? Tu non mi devi niente.”

“Ti prego. Tu sei l’unica di loro che non mi tratta come una cavia. Almeno, non solo in quel modo.”

Adesso era lui ad essere arrossito e, nonostante la bizzarra situazione, Cecilia si trovò ad ammirare le favolose proprietà della sintopelle che gli avevano impiantato in faccia. Ma rimaneva sempre il problema di cosa rispondergli. Il silenzio tra loro si fece quasi teso, poi a Cecilia venne improvvisamente in mente come uscire elegantemente dall’impasse.

“Se proprio insisti” gli disse, piegando la bocca in un sorriso birichino. “C’è una cosa che ti ho sempre chiesto e che non mi hai mai detto. Come ti chiami?”

Lui sbatté le palpebre, inclinando la testa leggermente, e Cecilia fu certa che l’innocente richiesta l’avesse turbato. Stava quasi per rimangiarsi le sue parole quando le labbra del Coordinator sussurrarono, a voce appena udibile, un nome.

Cecilia socchiuse gli occhi. “È bello, e ti si addice. Ha un suono gentile... come te. E sono contenta, finalmente, di non doverti più chiamare ‘hey tu, numero ventuno’. Ma quando uscirai di qui temo che dovrai rivelarlo. O inventartene uno” gli disse.

“Ci penserò. Tanto immagino che dovrò passare qui con te ancora un sacco di tempo, vero?”

Il tono del ragazzo era un po’ strano, quasi ansioso. Però stava sorridendo, anche se debolmente, e lo fece anche lei di rimando. Non riusciva ad immaginare perché una cosa semplice come rivelarle il suo nome dovesse essere stata così traumatica, ma apprezzava comunque il gesto.

Cecilia gli mise le mani sulle spalle, e si sporse per sfiorargli con le labbra una guancia. Quella pelle artificiale era così delicata, e piacevole al tatto, che indugiò per un attimo accarezzandogli il volto con il suo.

“Sì. Sei un disastro, non puoi immaginare quanti straordinari mi costringerai a fare. Beh, ma per ora, auguri...” gli disse, sussurrandogli il suo nome. Si sentiva grata della sua fiducia. E il fatto che lui la stesse fissando, evidentemente emozionato, le faceva battere il cuore in maniera anomala.

Completamente all’oscuro di quello che lei stessa stava provando, Cecilia rabbrividì.

Che mi stia ammalando?’ pensò, scoppiando assurdamente a ridere.



___________________________



Note

il primo ringraziamento va a Shainareth per l'opera di betaggio, e per avere messo questa storia tra i preferiti. Altro grazie va a tutti gli altri che l'hanno di già "favorizzata" e ai commentatori e lettori. Wow, spero di non deludervi.
Infine, grazie anche a MaxT e a Solitaire per gli utili commenti ^^

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Capitolo 4
*** Insicurezza ***


Insicurezza



Aprilius City, 13 dicembre, C.E. 81


Athrun poggiò cautamente le braccia sul tavolo, nel tentativo di dare alle ferite un po’ di sollievo, ma fu un errore. Sua moglie, dall’altra parte dello schermo, le guardò torva per un secondo per poi picchiare nuovamente il pugno sulla scrivania, rimettendosi a piangere.

L’Ammiraglio di Orb la divorò con gli occhi, intenerito, facendo una smorfia divertita al suo amico Kira, il fratello di lei, in piedi dietro la poltroncina di Cagalli.

“Va tutto bene, te l’ho già detto” le ripeté, ma la bionda lo fissò con sguardo quasi iniettato di sangue.

“Lo so che me l’hai già detto, cretino! Ma voglio anch’io ribadirti il concetto! Hai rischiato di rendermi vedova dopo solo un anno e mezzo di matrimonio. E cosa avrei detto alle nostre figlie, eh? Il vostro ineffabile padre è caduto nel compimento di un dovere non suo?”

Athrun abbassò il capo, perfettamente consapevole della stupidità del suo gesto. “Mi spiace, ma cosa potevo fare? Rimanere lì ad aspettare che quel terrorista fuggisse?”

Fu la volta di Kira ad intervenire. “No, e sai bene che noi ti siamo grati per quello che hai fatto. Ma cerca di prestare attenzione, adesso non sei più solo.”

L’insolita ramanzina fece sorridere il giovane Athrun. “Ma guarda, stare con Lacus ti ha fatto bene, sei diventato finalmente saggio.”

Come supponeva, un leggerissimo rossore colorò le guance di Kira. Poteva essere anche l’eroe che due popoli acclamavano ma, per Athrun, Kira Yamato rimaneva ancora l’amabile bambino con cui era cresciuto insieme. Quello che piangeva per un nonnulla, soprattutto se i suoi cari o i suoi amici avevano qualche problema. L’accenno alla fidanzata, infatti, portò un’ombra di terrore sul volto del pilota del Freedom.
“Mi farai sapere delle sue condizioni, vero? Partirò domani stesso, ma durante il viaggio vorrei ricevere sue notizie, se ti è possibile” Kira gli disse con voce tesa.

Athrun annuì. Avrebbe preferito che Kira rimanesse accanto alla sorella, ma non poteva certo separarlo da Lacus solo per le sue preoccupazioni. E poi, si disse sbirciando il volto ancora diviso tra la rabbia e la commozione di Cagalli, sua moglie sapeva di certo badare a sé stessa.

“Anch’io voglio essere informata” gli disse lei, asciugandosi molto poco signorilmente le lacrime con la manica del golfino verde che indossava.

Il gesto portò un nuovo sorriso sulla bocca di Athrun. “Certo. Comunque, come vi ho detto, le sue condizioni sono stabili, e non è in pericolo di vita.”

“È incredibile…” mormorò la Principessa di Orb, fissandolo pensosamente.

“Anch’io non riesco a crederci. È stato un colpo di fortuna quasi… divino. La pallottola del cecchino le ha attraversato il collo senza colpire i vasi sanguigni principali, la colonna vertebrale o la trachea. Anche il chirurgo non riusciva a capacitarsi” ripeté per l’ennesima volta Athrun. Gli aveva già spiegato tutto, ma a ripetizione continuavano a chiedergli dettagli dell’accaduto. E, ogni volta, invece che dissiparsi l’incredulità dell’ex-pilota di ZAFT aumentava.
“Cosa mi dici di tutti gli altri coinvolti?”

Athrun scosse la testa. “Meyrin è in terapia intensiva. Il terrorista non le ha sparato, ma l’ha scagliata contro una colonna con forza sufficiente da provocarle un serio trauma facciale. Ha perso dei denti, e…”

Fece una pausa per prendere fiato. Non poteva pensare a lei in quello stato, Meyrin era sempre stata così bella. “È viva, ma ci vorranno settimane prima che si riprenda, e la chirurgia ricostruttiva dovrà fare un piccolo miracolo per farla ritornare quella di prima. Gli altri agenti e i guardiani del museo invece stanno tutti più o meno bene. Nessuna delle ferite era seria o mortale. Uno è già stato dimesso.”

“Strano però che non sia morto nessuno” gli fece Kira. “Sarà una coincidenza?”
“Non vedo cos’altro, di certo se avesse voluto avrebbe potuto colpirli facilmente in punti vitali. È probabilmente solo un pessimo tiratore.”

Tra di loro cadde il silenzio, poi Cagalli prese nervosamente una penna e cominciò a rigirarsela tra le dita sottili. “Però, scusate” disse esitante. “Non è strano che per attentare alla vita di Lacus Clyne abbiano scelto qualcuno di così inetto? L’attacco stesso è quanto meno... insolito come tempi.”

“Perché no? Lacus è sfuggita a più di un complotto per assassinarla.”

“Ma è stato nei primi anni della sua Presidenza” lo interruppe Cagalli. “Quando la sua presenza o meno nel Consiglio avrebbe davvero fatto la differenza. Ma ormai la sua figura è puramente onoraria. Se ci pensate bene, questo attentato ha più il sapore di una vendetta personale.”

Athrun vide Kira irrigidirsi. Cagalli non aveva tutti i torti, avrebbe dovuto farlo presente nella commissione d’inchiesta convocata da lì a poco, alla quale lui era stato chiamato a partecipare in qualità di testimone oculare.

“E c’è un’altra cosa che mi viene in mente. Proviamo un attimo a pensare al contrario” gli disse la moglie apparendo sconfortata.

“Cioè?”

“E se per caso non li avesse uccisi apposta?” gli rispose lei.

“In quel caso avrebbe dimostrato una bravura straordinaria nel non colpire loro, ma non si spiega come avrebbe fatto a fallire con Lacus. La visibilità era perfetta, non c’era vento e, dalla posizione da dove è partito il colpo, avrebbe potuto perfettamente farle saltare la testa.”

“Invece è morto quello davanti a lei. Curioso davvero” ribadì Cagalli incrociando le braccia davanti a sé, e fissando Athrun come a sfidarlo a non darle ragione.

Lui cedette. “Hai ragione. Ne parlerò fra poco in commissione.”

Marito e moglie si fissarono, e Athrun si morse il labbro inferiore. Non le aveva potuto rivelare la parte peggiore dello scontro, perché gli avevano imposto il segreto per non compromettere le indagini, ma c’erano molte più cose in quella storia che non tornavano rispetto a quelle di cui avevano appena discusso.

Quando dopo qualche minuto si salutarono, Cagalli aveva di nuovo gli occhi umidi di lacrime, coniugate con l’espressione decisa che le era così tipica. Entrambi appoggiarono le mani sullo schermo, illudendosi di scambiarsi una carezza. L’attacco del pomeriggio l’aveva lasciato con una spiacevole sensazione non direttamente legata alle sue ferite e, per qualche ragione, mai come in quel momento Athrun avrebbe voluto avere Cagalli al suo fianco.

“Dà un bacio alle bimbe da parte mia... Tornerò presto da voi” le sussurrò per darsi forza e per convincersi che, nonostante la situazione poco chiara, tutto sarebbe finito per il meglio.



La commissione era già riunita quando Athrun li raggiunse. Yzak e Dearka sedevano attorno ad un tavolo ovale con il Comandante Roy Kappler, il Responsabile della Sicurezza di Aprilius City, e un altro uomo, nella divisa viola degli ufficiali di massimo grado. Yzak gli presentò lo sconosciuto come il dottor Tray Zimmer, Direttore del Dipartimento Ricerca e Sviluppo di ZAFT.

Dopo aver compitamente salutato tutti, lo sguardo di Athrun fu attratto inesorabilmente da Dearka, che aveva in volto un’espressione disinvoltamente soddisfatta di sé. Il giovane Ammiraglio, che non l’aveva più visto dal momento dell’attentato, lo fissò incuriosito.

“Erano in due in moto, ma uno l’ho beccato” si premurò di fargli sapere l’amico, subito ripreso da Yzak.

“Certo. Perché è rimasto coinvolto in uno stupido incidente stradale. Praticamente ha fatto tutto da solo.”

Dearka lanciò uno sguardo sornione all’albino. “Sì sì, rimane il fatto che adesso il tipo è in nostra custodia solo perché io lo seguivo e ho impedito che lo trasportassero in un ospedale civile.”

“È vivo?” Athrun chiese sbarrando gli occhi, mentre si accomodava al suo posto accanto ad Yzak. Fu quest’ultimo che gli rispose.

“A malapena, considerato che è stato colpito in pieno da un autotreno. Le sue condizioni sono disperate, e i medici temono che non riacquisti conoscenza. L’hanno ricoverato in una struttura militare, e pochi minuti fa è arrivato il referto medico. Leggilo, ci sono dettagli incredibili. E c’è un’altra bella notizia.”

Yzak ghignò soddisfatto, mentre gli passava un palmare. “Sul luogo della sparatoria abbiamo rinvenuto tracce di sangue il cui DNA non corrisponde a nessuno dei ragazzi della sicurezza presenti, te incluso. Evidentemente uno dei vostri colpi deve essere andato a segno. I nostri tecnici stanno controllando nei database con chi potrebbe collimare.”

“Quello che abbiamo arrestato è un Coordinator, Athrun ma, anche se il cecchino non dovesse essere uno dei nostri, l’identikit che ci hai fornito è molto preciso, e una delle telecamere del museo è riuscita a carpire una buona immagine del soggetto. Non uscirà mai da questo PLANT” aggiunse Dearka, anche se Athrun non lo stava veramente ascoltando. Gli occhi erano fissi sullo schermo del palmare. Una parte di lui non riusciva a credere a quello che stava leggendo. Dopo qualche secondo alzò gli occhi verso gli amici.

“È tutto vero?” chiese non riuscendo a mascherare una decisa incredulità. La sua conoscenza in materia si fermava alle protesi in biotitanio create per i reduci, ma quello che c’era scritto lì sopra faceva apparire quei moderni supporti vetusti come grucce in legno.

“Sì. Interessante, non è vero?” gli rispose Zimmer.

Athrun lo guardò, notando che lo scienziato aveva gli occhi brillanti di chi ha appena scoperto un tesoro.

“Il corpo di quell’uomo è una vera miniera d’oro di...”

“Dottore, per favore...” lo interruppe Kappler con un gesto della mano. “Capisco il suo entusiasmo ma cerchiamo di presentare le evidenze nel modo più professionale possibile. Le ricordo che sono terroristi quelli che stiamo cercando e, là fuori, ce ne sono ancora almeno due. Sono le dieci di sera, vorrei uscire da qui tra non più tardi di un’ora, e sapendo cosa stiamo esattamente cercando.”

Zimmer annuì di malagrazia, alzandosi in piedi e puntando un telecomando verso un grande schermo che decorava una delle pareti.

Le immagini che apparvero in successione erano tomografie del corpo del terrorista catturato. “Vedete” illustrò lo scienziato evidenziando con un puntatore dei particolari sullo schermo. “Il corpo di quest’uomo ha innestato parti sintetiche, protesi cibernetiche talmente ben integrate con il resto dell’organismo da risultare indistinguibili ad occhio nudo. Il chirurgo stesso se n’è reso conto solo quando l’hanno sottoposto alle prime T.C.(1) La gamba e il braccio sinistro hanno subito una totale ricostruzione, stessa cosa per le articolazioni degli altri arti. I polmoni sono ugualmente artificiali, mentre la colonna vertebrale è stata in parte sostituita con vertebre di cromo cobalto, materiale che offre una eccellente...”

“Dottor Zimmer, la prego di essere sintetico” ringhiò Yzak. “Ci risparmi la conferenza per un altro momento, voglio solo sapere chi è in grado di fare queste cose, e se riusciamo a risalire all’identità del soggetto.”

Lo scienziato annuì. “Quanto alla prima domanda, vi posso tranquillamente rispondere con ‘nessuno’. Né su PLANT né sulla Terra ci sono cliniche che offrono questi interventi o centri di ricerca che sviluppano questi impianti. Quantomeno, non a questo livello di sofisticazione. Non sono solo surrogati di arti umani, ma dispositivi che migliorano sensibilmente le prestazioni fisiche del soggetto al quale sono impiantate. Se il paziente non recasse i segni di massivi traumi subiti almeno una decina di anni fa, si potrebbe credere che se li è fatti installare apposta.”

“Quali traumi?” chiese Dearka.

“Compatibili con l’esposizione ad una devastante esplosione. Ho chiesto al mio staff di collaborare con i chirurghi e, dalle prime analisi, abbiamo ragione di credere che il terrorista catturato possa essere stato un soldato o addirittura un pilota di Mobile Suit. Abbiamo confrontato le sue tomografie con altre di piloti sopravvissuti e, seppure in condizioni decisamente migliori, le tracce di guarigione dei tessuti organici e ossei presentano delle similitudini.”

L’inquietudine di Athrun, che non si era mai sedata dopo la conversazione avuta con Cagalli e Kira, raggiunse nuovi picchi. Gettò uno sguardo a Yzak e Dearka, e fu quasi lieto di vedere che entrambi i suoi amici erano tanto a disagio quanto lui.

Fu l’albino che diede voce alle preoccupazioni di tutti. “Mi vuole far credere che quel terrorista è stato uno dei nostri piloti?”

“Senza prove non posso. Dovremo attendere che gli esami siano completati. Soprattutto quello del DNA.”

“Comandante Joule, si calmi e si ricordi che al momento stiamo presentando semplici deduzioni sui fatti” lo riprese Kappler e, davanti al rimprovero, Yzak alzò le mani come se volesse mimare la resa.

“Mi scuso. Va bene, ho capito ma, quindi, facciamo un passo indietro; nell’attesa di scoprire chi è questo tizio non c’è nessuna traccia che ci possa condurre a chi gli ha installato quegli affari?”

“Assolutamente no. O, quantomeno, ne abbiamo una davvero labile.”

Prima che il dottor Zimmer potesse continuare il suo palmare, e quello del Comandante Kappler, vibrarono con decisione. Entrambi gli uomini allungarono la mano per afferrarli, poi, mentre il volto dello scienziato si corrugava in una smorfia preoccupata, lo sguardo del superiore di Yzak e Dearka saettò verso i tre più giovani componenti della commissione. Kappler si portò una mano alla bocca, soppesando nell’altra il palmare come se non sapesse cosa farne.

“Dottore” disse lentamente. “Quante probabilità ci sono che questa cosa sia vera?”

L’altro uomo scosse la testa. “Il cento per cento almeno per il terrorista ricoverato. Non c’è possibilità che per lui il risultato del test sia inesatto, mentre sul cecchino ci potrebbe essere un certo margine di errore.”

“Certo. In effetti non sappiamo se quel campione appartiene veramente a lui” Kappler rispose e, sorpreso dal suo tono deciso, lo scienziato lo guardò in tralice.

“Ma non mi sento nemmeno di escluderlo a priori, dopotutto era l’unica altra persona presente sul posto oltre ai nostri.”

“Potrebbe averlo lasciato cadere apposta per sviarci.”
Il dottor Zimmer, a quel punto, scosse le spalle. “Comandante Kappler. Se la corrispondenza tra i due DNA è effettiva per il primo uomo, è molto facile che lo sia anche per il secondo, considerato che abbiamo già un risultato preliminare positivo.”

“Lo so. Ma rimane il fatto che io conoscevo questa persona. Intanto ritengo impossibile che sia viva e, soprattutto, in ogni caso mi rifiuto di credere che quello sia lui!”

Athrun, non legato più da nessuna consuetudine o etichetta militare, scattò in piedi. “Vi prego, è possibile sapere di cosa state discutendo?” proferì, intromettendosi tra i due uomini.

Yzak e Dearka lo guardarono sorpresi ma, con suo grande turbamento, il volto di Kappler era tetro e non adirato quando si rivolse a lui.

“Ammiraglio Zala, le consiglio vivamente di riaccomodarsi al suo posto. Io e il dottor Zimmer abbiamo appena ricevuto il rapporto dell’ufficiale addetto al riconoscimento. Abbiamo una concordanza perfetta dei campioni raccolti con due conservati nella nostra banca del DNA.”

Athrun, nonostante il suggerimento, rimase in piedi, senza riuscire a ordinare al suo corpo di fare niente altro se non rimanere bloccato in quella posizione di tesa aspettativa. C’era qualcosa che non andava. Non gli piaceva come Kappler stava fissando lui e i suoi amici, con un misto di orrore e pietà dipinto sul viso di soldato indurito da mille battaglie.

“E quindi?” chiese Yzak per tutti loro.

“L’uomo ricoverato è un certo Lamex Malek, dato per disperso dieci anni fa nella battaglia di JOSH-A. Era un pilota di GINN. Creduto morto fino a… due minuti fa.”

Kappler si portò una mano alla fronte, che si massaggiò sembrando incerto su dove cominciare. “Il cecchino è… almeno, il DNA del sangue che abbiamo rinvenuto sul posto appartiene a Nicol Amalfi, deceduto il quindici aprile del settantuno C.E.”

L’aveva detto tutto d’un fiato e, per un momento, Athrun fu certo di non aver capito bene il nome. Poi, mentre ancora il suo cervello stava processando l’informazione, e le gambe gli si piegavano da sole, il giovane sentì la voce di Yzak. Era stridula come non l’aveva più sentita da anni.

“State scherzando?”

Dearka, davanti a lui, era impallidito nonostante l’abbronzatura, e il suo sguardo vagava a vuoto dai suoi amici ai suoi superiori, come se gli fosse mancato ad un tratto il punto di riferimento.

Athrun deglutì, dolorosamente conscio che anche lui doveva avere in faccia la stessa espressione stravolta.

“No. Questi sono i risultati. Ho già ordinato di ricontrollarli ma i nostri tecnici sono l’eccellenza nel campo. L’esito può essere falso in un solo caso: se qualcuno ha voluto depistare le indagini. Non ho altre spiegazioni” rispose Zimmer in tono fin troppo netto.

Yzak socchiuse gli occhi azzurri, producendosi in una delle famose occhiate che facevano tremare tutti i suoi sottoposti.
“Ma è assurdo. Come si fa a pensare di mistificare le prove in questo modo? Ci stanno prendendo in giro!” abbaiò l’albino, estraendo l’immagine segnaletica del cecchino dal plico di documenti che erano stati distribuiti e gettandola sul tavolo. “Dottore, recuperi pure una foto di Nicol e poi mi dica se questo tizio gli somiglia o meno. Athrun! Tu l’hai visto in faccia. Quello era... era... quello di cui stanno parlando?” gli chiese con violenza, ma sul suo viso l’Ammiraglio di Orb poteva vedere solo un dolore ed una rabbia molto antichi.

Athrun scosse la testa. “Beh, te l’avrei detto, non ti pare? E comunque no… o almeno… non credo. Non i suoi occhi di certo. Soprattutto i suoi occhi. La voce… nemmeno quella.”

Si bloccò, consapevole di stare balbettando.

“Aveva quindici anni l’ultima volta che l’avete visto. Dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi che sia cambiata” gli fece Zimmer, e Yzak reagì all’insinuazione con una veemenza che Athrun non si era aspettato.

“Quel tizio ha sparato a Lacus Clyne e a sei altre persone, e ha sfigurato una ragazza contro una fottuta colonna. Non è qualcosa che Nicol Amalfi avrebbe mai fatto. Voi non avete idea di chi fosse.” Yzak si battè la mano sul petto. “Era un mio compagno, un soldato esemplare. E, nonostante questo, rimaneva un ragazzo sentimentale e gentile che evitava addirittura di uccidere i nostri nemici se non era assolutamente necessario. Lui adorava suonare il piano e…”

L’accorata replica fu interrotta dalla voce quasi annoiata del dottor Zimmer. “Non capisco che cosa c’entri, pure Joseph Goebbels(2) era un pianista.”

Prima che Yzak potesse commettere un omicidio il Comandante Kappler scattò in piedi. “Adesso basta. Siediti, Yzak Joule. Non è facendo queste scenate che risolveremo la situazione. Come ti ho detto prima, dobbiamo sviluppare deduzioni le più accurate possibili partendo dai fatti certi che abbiamo. E, per ora, è certo che il cecchino è Nicol Amalfi.”

L’uomo abbassò gli occhi sul palmare. “Cosa credi? Sono anch’io qui in attesa di una smentita. Non è vero che non so di chi stiamo parlando. Yuri Amalfi è stato mio compagno di università. Conoscevo bene suo figlio, io… sono stato al suo funerale, capisci? Guardo quell’immagine e cerco di convincermi che non è lui, che non assomiglia per nulla al ragazzino che aveva suonato al mio matrimonio, eppure, eppure…”

Kappler si passò una mano sugli occhi, e guardò lo scienziato, come a voler chiedere il suo supporto. Ma Zimmer scosse la testa.

“Abbiamo appurato che il terrorista catturato è stato sottoposto a pesanti interventi di chirurgia ricostruttiva al volto. Per questo potrebbe essere lo stesso. E poi, la natura tende alla simmetria ma negli esseri umani rarissimamente abbiamo casi di simmetria bilaterale così perfetta.”

“Cosa?” Kappler gli chiese, confuso.

“Il volto del nostro cecchino è troppo regolare. Non c’è la minima discrepanza tra lato destro e sinistro, e questo è assolutamente innaturale.”

“Vedete? Non è lui” ribadì Yzak, e lo scienziato gli scoccò un’occhiata tesa.

“Mi sta a sentire invece di sbraitare? Quello invece potrebbe benissimo essere il suo amico, dopotutto sono passati dieci anni dall’ultima volta che vi siete visti. E, comunque, solo la conferma o meno del test del DNA potrà dissipare tutti i nostri dubbi.”

“Yzak, per favore, calmati” disse Dearka all’amico, ora rosso in viso e visibilmente teso come una corda di violino.

L’albino finalmente chinò la testa. “Scusatemi” mormorò. “Dove eravamo rimasti?”



Athrun inspirò, appoggiandosi allo schienale della poltroncina e imponendo a sé stesso di tranquillizzarsi. Profondamente solidale con quello che Yzak aveva detto, gli scoccò un’occhiata di sostegno, ma l’amico non ricambiò, perso in chissà quale strazio interiore.

Quello non è Nicol, non può essere’ ripeté Athrun a sé stesso, come se la sua semplice volontà potesse cancellare il risultato di un esame scientifico.

Per anni, anche dopo la fine delle guerre tra PLANT e la Terra, aveva continuato a sognare la terribile morte di Nicol per mano di Kira.
Attraverso il collegamento aperto tra la sua unità e quella dell’amico aveva visto e sentito tutto, e aveva avuto la matematica certezza che nessuno, nemmeno un Coordinator, avrebbe mai potuto sopravvivere a quell’esplosione. Anche successivamente, quando sia Andrew Waltfeld che Mwu La Flaga erano ritornati dai morti, Athrun non aveva avuto la minima speranza che anche per Nicol sarebbe potuto essere lo stesso; nonostante ne avessero seppellito la bara vuota, perché il suo corpo non era mai stato recuperato.

Athrun stinse spasmodicamente il bracciolo della sedia, fino a sentire male alle nocche. Cos’era quel sapore acido che sentiva in bocca? Quel senso di pesantezza che minacciava di soffocarlo?

Perché non c’ho mai creduto? Forse perché, in qualche perverso modo, così lo sapevo finalmente in pace? In un posto dove niente avrebbe più potuto fargli del male?

Si girò verso il dottor Zimmer. Si impose di ascoltare quello che diceva, anche se tutto in lui stava rifiutando il contenuto di quel rapporto.

“Dai filmati si evince che Nic…”

“Non lo chiami in quel modo, per favore. Almeno fino a quando non avremo avuto una riconferma dal laboratorio” lo interruppe Yzak, e Athrun gliene fu grato. Non era certo di quale sarebbe stata la sua reazione se avesse sentito ancora il nome di Nicol associato a quello di quei terroristi.

Fissò Yzak. Tra l’albino e Nicol non era mai corso buon sangue, ma Yzak era rimasto devastato dalla morte del giovane pianista, e adesso scrutava Zimmer come se lo volesse incenerire.

“Va bene” fece lo scienziato condiscendente, dopo aver ricevuto un cenno di assenso da Kappler. “Dicevo, è chiaro che anche il cecchino dispone delle stesse protesi, o non sarebbe mai riuscito a liberarsi. Soprattutto, a saltare sul tetto di un treno in corsa senza cadere di sotto. La cosa interessante è che l’unica pista che abbiamo per sapere chi è questa gente arriva proprio da lui.”

Zimmer richiamò un’immagine sullo schermo, il volto del terrorista ripreso frontalmente da una delle telecamere, e Athrun dovette distogliere lo sguardo per non incrociare ancora quello di quegli strani occhi.

“Maledizione...” proferì Dearka, palesemente a disagio.
“Se ve lo state chiedendo, no, non sono naturali. Questi sono bulbi oculari sintetici, prodotti da un’azienda chiamata Soltek.”

“Come fa a saperlo?” chiese Kappler.

“La Soltek era controllata da una delle holding dei Logos. Produceva protesi e, appunto, organi artificiali. Questi facevano parte di una serie speciale, limitata, ed erano concepiti non come sostituti di normali occhi umani ma come interventi migliorativi” spiegò Zimmer. “Sotto falso nome ne comprammo una partita prima che il Presidente Dullindal ordinasse di smantellare i traffici dei Logos. Alcuni dei nostri soldati avevano perso la vista in battaglia, e cercammo di installargli quelli senza successo. Gli impianti gli causavano terribili emicranie accompagnate da fotofobia, nausea e, in un paio di casi, attacchi di epilessia. Più tardi scoprimmo che la Soltek li aveva prodotti violando un brevetto di proprietà di un’altra azienda dei Logos, e cessammo gli esperimenti. Evidentemente erano imperfetti anche se, in linea di principio, le loro applicazioni erano veramente singolari.”

Athrun si risolse a guardare lo schermo, confortato dal fatto che nulla in quel volto gli ricordava Nicol.

“Singolari in che senso?” chiese, ricordando con turbamento come si era sentito quando quegli occhi l’avevano fissato.

“Erano concepiti per essere collegati al cervello tramite un nanocomputer collocato lungo il nervo ottico. Il computer elaborava le immagini fornendo anche, in tempo reale e proiettandole sulla retina artificiale, le informazioni di cui il soggetto aveva bisogno.”

Fu la volta di Yzak di aprire bocca. “Bisogno per cosa?”

“Per individuare e colpire i bersagli con la massima precisione. Questi impianti erano stati chiaramente progettati per dei soldati. Altrimenti non avrebbero avuto questo aspetto.”

Un silenzio di tomba accolse le sue parole, e lo scienziato sorrise freddamente, quasi pregustando quello che avrebbe rivelato. “La struttura di questi occhi sintetici è derivata da quella dei più efficienti predatori in natura: felini e rettili. Lascio a voi l’ovvia ragione.”

“Ci sta dicendo che…” esalò lentamente Yzak, guardando l’immagine con una smorfia disgustata.

“Ci sono ancora in giro per la nostra città almeno due di questi soggetti, creati o modificati per combattere” terminò Kappler. “E la pista che porta ai Logos è quantomeno sospetta.”

“Ma quel gruppo è stato debellato anni fa” disse Dearka.

“E cosa ci fa credere che questi terroristi non siano stati pagati da una loro frangia ancora attiva? Adesso, ammettiamo per un attimo che i risultati del test siano esatti, e che davvero questo dietro di me sia uno dei nostri uomini. È facile supporre che anche il terzo debba esserlo. Capirete che abbiamo un grave problema.”

La smorfia preoccupata di Yzak era piuttosto indicativa della sua opinione. “Ci conoscono, mentre noi non sappiamo nulla di loro.”

“Esatto. E non hanno finito il lavoro” Kappler concluse, alzandosi in piedi e raccogliendo il palmare. “Vado a dare disposizioni che la sicurezza intorno all’ospedale dov’è ricoverata Lacus Clyne sia rafforzata. Comandante Joule, da lei mi aspetto che collabori con il suo team alle indagini, e che ci dia la massima assistenza nella cattura dei soggetti. Aggiorniamoci tra sei ore esatte. Chiaramente rimarremo in contatto.”

Kappler distolse per un attimo lo sguardo, per poi riportarlo su Athrun. “Vi farò sapere se avrò novità dal laboratorio.”

Athrun, Yzak e Dearka salutarono i due superiori e, solo quando furono scomparsi, Yzak diede sfogo a tutta la sua rabbia calciando una delle poltroncine contro la parete.

“Maledizione” urlò contro nessuno in particolare.



“Non è lui, Yzak, non è possibile” stava dicendo Dearka al suo amico, prendendolo per le spalle e cercando di calmarlo.

“Ma se ha anche riconosciuto Athrun. L’ha chiamato per nome e cognome!”

Pur se con diffidenza e un filo di ribrezzo, l’attenzione di Athrun si staccò dai suoi amici e ritornò sullo schermo. Non c’era nulla di Nicol nella persona in quell’immagine. Non la forma del viso, il naso, gli zigomi o il taglio degli occhi. Da sotto il cappuccio si intravedevano i capelli verdi del giovane, ma pure quelli gli sembravano più pallidi di come li aveva avuti il suo amico.
Eppure… eppure…

La bocca gli si seccò.

Quel volto, come gli aveva fatto notare Zimmer, non era normale nel senso comunemente accettato del termine. Era bello. Ma di una bellezza rifinita e sintetica. Ingegnerizzata.

Ed inespressivo come di quello di una bambola sullo scaffale di un negozio di giocattoli.’

Rifiutò di pensarci oltre. Tentò di farlo. E trovò un solo modo. In cuor suo ringraziò Cagalli per l’intuizione che aveva avuto.

Chiodo scaccia chiodo’ si disse.

“Scusate” fece ai suoi amici, che si voltarono a guardarlo. Dearka decisamente preoccupato, Yzak ancora furioso.

“Non trovate però paradossale che una persona con installato un mirino digitale in testa abbia così smaccatamente sbagliato il bersaglio?”

Dearka sbatté le palpebre, e dei due fu il primo a riprendersi dalla sorpresa.

“Beh, certo.”

Athrun li fissò entrambi. “Allora in questa storia c’è qualcosa che non mi torna.”



Nassau, 15 aprile, C.E. 72


“Nanocapsule esplosive eh? Grazie per la fiducia.”

“Credevate che vi avremmo lasciati girare qui liberamente senza un’assicurazione?”

“No di certo, immaginavamo tutti che avevate per forza congeniato qualcosa per impedirci di andarcene, ora che saremmo in grado di farlo. Certo che tenerci all’oscuro… voi Natural non vi smentite mai, siete sempre dei ratti sospettosi.”
Il robusto Coordinator chiamato Lex scoppiò in una fragorosa risata, intrecciando le braccia davanti a sé. Senza alcun timore squadrò l’emissario dei Logos che aveva davanti.

Cecilia aveva trovato Lord Djibril ripugnante fin dal primo momento. Si era presentato all’Istituto come il portavoce dei finanziatori del progetto, riuniti nel misterioso cartello di multinazionali chiamato Logos, e aveva preteso di mettere il naso ovunque. Quando le aveva stretto la mano in una presa molle e viscida, per presentarsi, lei aveva dovuto combattere la tentazione di fuggire a disinfettarsi l’arto.

“Volevamo solo accertarci che potevano davvero fidarci di voi. In tutti questi mesi non avete mai tentato di fuggire, la cosa depone solo a vostro favore” disse l’uomo dei Logos in tono untuoso.

Lex lo osservò con una smorfia disgustata. “E dove pensavi che potessimo andare? Ci avete creato dipendenti da voi. Questi impianti ci tengono in vita ma hanno bisogno di una costante manutenzione che solo qui ci possono garantire. Per non parlare degli antidolorifici che non potremmo ottenere in nessuna parte di questo pianeta maledetto o su PLANT.”
“Bravo, vedo che hai imparato bene la lezione. Ricordati che voi siete morti agli occhi del mondo. E se volete rimanere in vita vi conviene obbedire. Altrimenti…” Djibril indicò dietro di lui la carcassa incenerita di un grosso roditore che era stato usato come dimostrazione. L’afrore di carne bruciata aleggiava pesantemente nella sala.

“Non ti preoccupare” replicò Lex. “Dubito che ci sia uno solo di noi che voglia ripetere l’esperienza della propria morte. Sia chiaro però fin da ora: lavoreremo per voi, ma se dovesse succedere ancora qualcosa tra la Terra e PLANT noi non combatteremo mai contro i nostri simili, mi hai capito?”

Il portavoce digrignò i denti. “Non osare porre condizioni. Tu e tutti i tuoi amici siete vivi solo perché noi l’abbiamo voluto, te l’ho appena detto. E allo stesso modo potremmo…”

“Potreste cosa?” tuonò Lex fronteggiandolo. “Noi siamo i vostri preziosi investimenti, quindi non venire qui a sparare inutili minacce. Tanto non ci crediamo. E tu non hai nulla in pugno per ricattarci, nulla, tanto meno il nostro inesistente passato.”

Djibril fremette dallo sdegno. “E come ci potremmo fidare?”

Fu la volta di Lex di alzare un sopracciglio. “Hai la nostra parola di soldati di ZAFT. Che ti basti. In ogni caso quel povero animale ci ha appena ricordato che siamo nelle vostre mani.”

“È necessario. Voi siete segreti militari ambulanti.”

“Lo so. E capisco la mossa; sarebbe stato stupido il contrario da parte vostra, ma dovete accettare quella nostra unica condizione.”

“Nonostante il tuo cervello potenziato rimani un idiota, Coordinator” sibilò Djibril. “Hai mai pensato che potremmo sottoporvi tutti a rieducazione?”

“E creare così degli zombie senza volontà, o impossibili da controllare come gli Extended? Credi che non sappia che noi siamo così preziosi per voi non solo per i nostri impianti, ma perché i nostri neuroni non sono fritti come quelli di quegli psicopatici?” Lex allargò le braccia. “Che problema ti poniamo? Dopotutto saremo ben contenti di aiutarvi a far fuori i vostri nemici qui, niente altro che altra feccia Natural. E cos’altro mai potremmo volere? Non possiamo tornare dalle nostre famiglie, non possiamo vivere come persone normali. Voi ci avete… costruito per combattere, e non c’è molto altro che potremmo fare al mondo. Ma mai contro altri Coordinator.”

Djibril sembrò ingoiare la rabbia e, paonazzo, misurò l’uomo davanti a lui prima di annuire. “Come volete. Ne parlerò ai soci, ma immagino che l’impasse sia superabile” proferì a denti stretti. “Preparatevi. Le vostre destinazioni vi saranno recapitate in giornata, e l’ordine di partenza nei prossimi giorni.”

A quelle parole Cecilia prese un profondo respiro, decidendo che era arrivato il momento di intervenire. Sapeva che ciò le sarebbe valsa una lavata di capo dal suo boss, ma non le importava. Lei avrebbe fatto valere le sue ragioni davanti a quel pallone gonfiato di Djibril, a rischio anche di essere buttata fuori.

“Un’altra cosa, Lord Djibril” disse con voce decisamente sostenuta, uscendo dal gruppo di scienziati. Udì Lenk Granato bisbigliare qualcosa dietro di lei che preferì far finta di non sentire.

Puntò invece il dito verso un gruppo di quattro Coordinator che se ne stavano leggermente in disparte dagli altri. “Loro non vanno da nessuna parte.”

Per un momento ebbe l’impressione che a Djibril stesse per venire un attacco di cuore. L’uomo sbarrò gli occhi. “Cos’ha detto?” le chiese, con voce bassa e minacciosa.
Lei rimase ferma al suo posto, con l’aria più tranquilla del mondo in volto. Non era il tipo da farsi intimorire da uno così, non quando tutti i suoi colleghi e i suoi pazienti la stavano osservando.

“Quei ragazzi sono troppo giovani. I loro impianti hanno bisogno di continui check up e rimpiazzi. Devono essere tenuti costantemente sotto osservazione. Inoltre, a causa dei ripetuti interventi, non hanno ancora completato l’addestramento. Così come sono non vi servirebbero a niente. Anzi, sarebbero solo un peso.”
Djibril aprì la bocca per replicare, poi i suoi occhi si spostarono sul gruppo indicato da Cecilia; lo osservò con lo stesso sguardo di un ingegnere che valuta una nuova serie di Mobile Suit.

Lei mascherò una smorfia. Non poteva dimenticare che per qualche tempo li aveva considerati allo stesso modo, anche se molto più amabilmente.

Il portavoce dei Logos fece un cenno con la testa. “Non ha tutti i torti, dottoressa. Per ora ci prenderemo solo i due con gli impianti ottici installati. Quelli ho letto sul dossier che non hanno bisogno di sostituzioni, vero? Sono già pienamente operativi, ed è quello che ci serve. Ci mancano dei cecchini.”
La giovane si sentì gelare. Questo non l’aveva previsto. Un greve silenzio scese nella stanza, squarciato qualche secondo dopo dalla voce di Lenk Granato.

“Ma che vuol dire?” tuonò il Direttore dell’Istituto. “Si rende conto che devono essere tenuti sotto costante osservazione? E dovranno comunque tornare qui regolarmente per essere visitati, a meno che lei non voglia dare un’arma a qualcuno a cui, nel momento meno opportuno, potrebbero tremare le mani.”

Lex rise alle parole di Granato. “Dovresti ascoltarli, Djibril. Ho visto come un paio di settimane fa avete eliminato il presidente dell’Unione Sudafricana e, credimi, il vostro tiratore scelto è stato dannatamente bravo a non fare esplodere la tua, di testa, visto che eravate così vicini.”

Cecilia fu estremamente soddisfatta nel vedere un lampo di terrore balenare negli occhi del portavoce.

L’uomo cercò di ricomporre i pezzi della sua dignità ergendosi in tutta la sua statura, e scagliando uno sguardo sprezzante a Cecilia.

“Va bene. D’altronde noi non vogliamo essere come quei mostri di PLANT che fanno combattere i bambini. Ci rivedremo tra sei mesi, quando i soggetti saranno perfezionati. E si ricordi di mandarmi i dettagli sullo stato di avanzamento dei lavori, voglio avere la situazione sotto controllo costantemente.”

Lei annuì con un leggero cenno della testa, imprecando nella sua mente. Gli Extended non erano forse anche più giovani dei Coordinator che avevano lì? Ma lasciò perdere l’inutile puntualizzazione; non gli voleva dare la soddisfazione di continuare a parlare con lui.

Rimase quindi al suo posto, pregustando il momento nel quale avrebbe potuto chiudersi nel laboratorio ma Lenk, passandole a fianco diretto ad accompagnare all’uscita Lord Djibril, la gelò.

“Tra cinque minuti nel mio studio” le ordinò con voce bassa e grave.



La scena le ricordava qualcosa. Era la ripetizione di quello che era successo qualche mese prima, ma se allora il suo capo le era sembrato più preoccupato che arrabbiato, adesso era veramente furioso

Non la invitò a sedersi; rimasero tutti e due in piedi, con lui che torreggiava su di lei.

Cecilia decise di attaccare per prima. “Cosa significa che hanno nanocapsule di acido in circolo? Perché non ero stata informata?”

L’espressione di Lenk non si ammorbidì. “Credi che li avrebbero lasciati liberi di aggirarsi qui o di uscire dall’Istituto senza un’assicurazione? E ricordati che i Logos non sono tenuti a dirti un bel niente di ciò che non riguarda strettamente le tue ricerche. Tu sei una loro dipendente, e quei Coordinator i loro investimenti, ma vedo che te lo sei scordato. Questa volta hai davvero esagerato” le disse senza mezzi termini. “Che ti è saltato in mente di parlare in quel modo a Djibril?”

“Non ci posso credere. Mi stai rimproverando perché ho difeso il mio lavoro da inutili danni?”

“No. Perché hai approfittato di quella scusa per proteggere quel Coordinator.”

Cecilia si sentì gelare. “Non so di cosa stai parlando” replicò riuscendo nella titanica impresa di non far tremare la voce.

“Non prendermi per stupido, per favore. Sono più vecchio di te e queste cose le ho passate anch’io. Credi che non sappia quello che sta succedendo tra te e il numero ventuno?” Lenk scosse la testa vigorosamente. “Avrei dovuto bloccarti subito ma ho lasciato correre perché… perché pensavo che fosse solo un capriccio. Perché mai mi sarei aspettato che tu arrivassi a compromettere il tuo lavoro per una scopata. Ma oggi hai passato il segno. Hai messo in pericolo te stessa e noialtri per che cosa?”

La nozione ‘sentirsi un topo in trappola’ non le era mai stata chiara fino a quel momento. Cecilia espirò profondamente, tentando un’impossibile difesa.

“Non è come credi tu. Lui è così giovane… stava soffrendo, va bene? Gli sono stata vicina. Dovevo farlo.”

Lenk Granato la fissò. “Cecilia, lasciamelo dire, hai uno strano concetto dello ‘stare vicino a qualcuno’, sai? E non fare quella faccia, posso capire che tu ti sia preoccupata. Dopotutto ero stato io a dirti di non trattare quei ragazzi come dei manichini e basta. Il soggetto ventuno in particolare. Ma non avrei mai pensato che tu avessi preso tanto a cuore la sorte di quel tipo da… da…”

Il suo mentore distolse lo sguardo, evidentemente in imbarazzo, e Cecilia dovette appoggiarsi allo schienale della sedia accanto a lei per non crollare a terra. Si sentiva le ginocchia pronte a cedere ad ogni momento.

“Non dovresti ascoltare le chiacchiere di corridoio” gli disse debolmente, pur sapendo di avere già perso.

“Ho le prove, Cecilia. Lo sai benissimo che questo posto è pieno di telecamere, comprese le stanze dei soggetti. Beh, adesso te lo posso dire. Ci sono anche nei nostri alloggi.”

Cecilia stavolta dovette sedersi, sentendo distintamente il sangue che le abbandonava il viso.

“Non ti preoccupare, ho distrutto i video che vi riguardavano. Non ti darò in pasto a quei bastardi dei Logos. Ma devi capire. Questa relazione è scorretta a così tanti livelli che non mi capacito di come tu, così intelligente, ti sia potuta abbassare a tanto. Cecilia, quanti anni ha? Quindici, sedici? È un bambino, maledizione. Non solo umanamente, ma anche dal punto di vista deontologico quello che hai fatto è sbagliato. È un tuo paziente e tu ti sei approfittata di lui, del fatto che fosse così vulnerabile.”

“Eh no” reagì lei. “Innanzitutto non cominciare a farmi la paternale sull’età, visto che non ne ho tanti di più di lui. E poi che significa? Ti assicuro che la cosa è stata pienamente consensuale, molto più del trasformarlo in una cavia umana.”

Lenk Granato batté di piatto la mano sulla scrivania, scuotendo la testa.
“Consensuale?” le urlò. “Pure tu che ti vanti di non conoscere nulla di psicologia avrai idea di che cos’è la Sindrome di Stoccolma, vero? Quel ragazzo ne è un caso da manuale. Credi che sia venuto a letto con te perché sinceramente infatuato? Svegliati, Cecilia. Era traumatizzato, solo ed indifeso, e tu gli hai offerto la tua amicizia, tu che eri una di quelli che lo tenevano prigioniero, ma anche colei che poteva farlo stare bene; la persona dalla quale dipendeva la sua vita. Per continuare a rimanere nelle tue grazie non doveva fare altro che accontentarti. E così ha fatto, consciamente o meno!”

Cecilia, profondamente smarrita ed addolorata, scosse la testa. “Prima di tutto, quello che c’è tra noi non ti riguarda. E poi, sai una cosa? Sei solo un ipocrita. Con che diritto hai da ridire su che lui abbia una relazione con me, quando non hai battuto ciglio sul fatto che fosse troppo giovane per usarlo per i nostri esperimenti, o per essere trasformato in un assassino per i Logos? Pensa quello che vuoi, ma sappi che io voglio solo il suo bene. Ma tu, e loro, voi che volete? Già, appunto, che c’entrano quei maledetti?”

Il suo capo, a quel punto, prese svogliatamente una sedia e si accomodò davanti a lei, con i gomiti posati sulle ginocchia e le mani serrate a pugno. La sua espressione adirata finalmente si stemperò in una quasi impietosita.

“Chiariamoci. A me non importa di chi ti porti a letto, e il tuo ragionamento non fa una piega, ma potrebbe importare a loro. L’hai sentito Lex, no? Questi Coordinator sono cani sciolti, senza vincoli o passato. Aiuteranno i Logos perché non possono fare altro, ma quei bastardi miliardari sanno di avere in mano qualcosa che gli può scoppiare in faccia in ogni momento. Hanno creato delle armi perfette, e non hanno modo di controllarle; i ragazzi non temono le torture, perché cosa possono fargli di peggio di quello che gli abbiamo fatto qui? Oltretutto, per i Logos sono gli investimenti più preziosi, non si azzarderebbero mai a rovinali. E non sono ricattabili, non avendo nessun legame famigliare. Alcuni si sono anche rifiutati di darci il loro nome, come il tuo amico.”

Cecilia non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, tentando disperatamente di non piangere. Ma era difficile quando ogni parola di Lenk era una coltellata al cuore.

“Capisci, Cecilia, dove voglio arrivare?”

Lei riuscì ad annuire, perdendo finalmente la battaglia contro le lacrime, che le offuscarono la vista.

“Il ragazzo è in gamba. Secondo me era uno dei loro migliori piloti, si vede che il suo addestramento non è quello di base. Quando le terapie saranno completate diventerà una delle loro punte di diamante e, se loro sapessero di te, potrebbero costringerlo a fare qualunque cosa. Tu voi questo per lui?”

Cecilia scosse la testa. “No di certo, è che io…”

Lui la interruppe prendendole una mano tra le sue. “Cecilia. Queste cose succedono. Avrei dovuto prevederlo che prima o poi la mia bambina si sarebbe stancata di avere a che fare solo con cavie e chip, e sei vissuta talmente avulsa dai normali rapporti con i ragazzi della tua età che capisco come tu possa aver trovato piacevole la compagnia di questo Coordinator. Mi dispiace di essere stato così duro con te, e sono convinto che tu sia davvero affezionata a lui, sei troppo immatura in certe cose per averlo davvero sedotto apposta, ma devi capire che la vostra relazione è pericolosa. Per tutti e due.”

“Lo so Lenk è che…” Non riuscì a finire la frase, e si sentì improvvisamente stupida. Sfuggì dalla presa del suo mentore e si fregò nervosamente gli occhi. “Che cazzo di situazione” sbottò.

“Senti” gli disse guardandolo fisso, e vergognandosi a morte per il pietoso spettacolo che gli stava offrendo. Lei era meglio di così; lei era più forte di tutte quelle ragazzine idiote che pensavano solo ai fidanzatini e ai vestiti. Lo era sempre stata, per cui raccolse tutto il suo coraggio e orgoglio. “Perché sei convinto che i Logos possano minacciarmi? Anch’io ho un certo valore per loro. Anzi, se il loro magnifico progetto è partito e finalmente sta dando i frutti sperati è solo merito mio. Mio.”

La scienziata si batté la mano sul torace. “E lo sai benissimo che ci sono cose che solo io so fare, e nuove teorie che non ho ancora sviluppato che miglioreranno ancora le performance di quegli impianti. Ti dico di più, il materiale umano e sintetico può essere rimpiazzato, ma non le idee. Io sono preziosa per loro tanto quanto quei ragazzi. Anzi, di più.”

Impressionato dalla sua difesa, Lenk si raddrizzò appoggiandosi allo schienale della sedia. “Nessuno è insostituibile, Cecilia.”

“E allora perché non metti al mio fottuto posto uno dei miei invidiosi assistenti? Sono bravi e motivati, Lenk, ma non sono, non saranno mai al mio livello.”

Non sopportando di stare un minuto di più in quella stanza si alzò, e il suo mentore fece lo stesso. A lei non sembrava più arrabbiato e di certo non era impietosito, anzi, le pareva quasi divertito.

“Bene, mi hai dato un’altra dimostrazione di quel brutto carattere che hai. Non hai tutti i torti, ma ricordati chi abbiamo davanti. Tu sei giovane, e adesso ti sembra che niente ti sia precluso, ma i Logos sono molto potenti, e potrebbero anche decidere di smetterla di avvalersi dei tuoi servigi se gli metti troppe volte i bastoni tra le ruote.”

Malgrado tutto, Cecilia si trovò ad arrossire. “Se con questo mi stai dicendo di non frequentarlo più te lo puoi scordare.”
“Come se credessi di poterti imporre qualcosa.” la interruppe Lenk, scuotendo la testa. “Ma ti prego di essere cauta, perché le conseguenze delle tue azioni ricadono su tutti noi. E non dimenticare mai che è con uno dei loro preziosi investimenti che stai giocando. Quel tipo è molto gentile, quasi troppo per essere stato un soldato di ZAFT, ma è e rimane… un’arma.”

“Me lo ricordo tutte le volte che lo guardo negli occhi.”

“E allora ricordati anche che cosa andrà a fare per i Logos, perché potrebbe arrivare il giorno in cui non riuscirai più ad aggiustare il tuo giocattolo. Ti voglio bene come ad una figlia, Cecilia, non voglio vederti con il cuore spezzato.”

Lei si sentì sbiancare. “Allora farò di tutto perché non accada. Ma adesso per favore, Lenk, continua a cancellare quei video.”



Cecilia lasciò l’ufficio del prof. Granato tremando dalla tensione.

Aveva fatto la sbruffona, ma in cuor suo sapeva che quella relazione sarebbe potuta diventare un boomerang per lei e per la sua carriera. L’aveva sempre saputo, ma non aveva trovato la forza di opporsi. Nemmeno ci aveva seriamente provato, si disse con un leggero sorriso.

Lei non aveva mai avuto esperienze sentimentali in precedenza, ma le era sembrato naturale per entrambi, passare dal tenerlo stretto tra le braccia, dopo che aveva pianto per l’ennesimo intervento, ad altro. Era una bella sensazione, e una cosa nuova per Cecilia, sentirsi voluta non solo perché brava nel suo lavoro.

Sindrome di Stoccolma. Che cazzata.’

Scacciò il pensiero passandosi con forza le mani nei capelli e scompigliandoseli ancora di più.
‘Non gli ho certo fatto pressioni. Era confuso come me, che non capivo quello che mi stava succedendo. Era la prima volta per tutti e due…’

Si bloccò proprio davanti alla porta del suo laboratorio, dove gli aveva detto di aspettarla. Una mano le corse alla bocca mentre il dubbio la assaliva. Era sempre stato molto dolce con lei. Che l’avesse davvero fatto perché doveva?

Non ora. Non ho tempo per queste sciocchezze, adesso ho ben altro a cui pensare’ si disse, anche se fu con il cuore in gola che aprì la porta, e il sorriso che si era preparata fu molto più incerto di quello che avrebbe voluto.

Lo trovò appoggiato ad uno dei banconi, con in mano uno dei recenti innesti spinali che lei aveva elaborato.

Si girò immediatamente verso Cecilia quando lei entrò, con un’espressione tormentata in volto.

“Questo è per me?” le chiese.

“No di certo, è per Riko, la vertebra che stavamo tenendo sotto controllo gli dà troppe noie. È venuto il momento di rimpiazzarla.”

Gli tolse il prototipo dalle mani e lo appoggiò cautamente al suo posto, girandosi verso di lui.

“Che c’è? Perché quella faccia?” gli chiese con voce tesa, e lui le rispose altrettanto bruscamente.

“Non avresti dovuto esporti in quel modo. Non per me.”

“Ce l’hai con la sottoscritta perché ho evitato che ti reclutassero prima del tempo?”

“Sì, non voglio che passi dei guai a causa mia.”

“Non ti preoccupare, so benissimo difendermi da sola.”

Cecilia si accorse di stare urlando, e si voltò di scatto, incapace di sostenere ancora lo sguardo attonito del Coordinator. Serrò i pugni, imponendo a sé stessa di calmarsi. Mai e poi mai sarebbe scoppiata a piangere davanti a lui. Non se lo meritava davvero. Il ragazzo aveva talmente tanti problemi già di suo che Cecilia si sentì un verme per aver alzato la voce.

Dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio, Cecilia tornò a fronteggiarlo.

“Cecilia…”

“Scusa, non è colpa tua, ma è stata una pessima giornata.”
“Già, ma non lo sapevamo fin dall’inizio che sarebbe venuto questo momento? Non avrei potuto rimanere per sempre qui dentro. E non voglio che quelli ti facciano del male.”
“Non succederà, non temere. Siamo entrambi fin troppo importanti per loro.”

Cecilia sollevò una mano per sfiorargli la sua, poi si avvicinò, gli passò le braccia attorno alla vita alzando la testa per guardarlo in faccia. In solo nove mesi era già diventato più alto di lei, che pure non era bassa. Cecilia non se ne lamentava, se solo lavorativamente la cosa non le desse tutti quei grattacapi.

Era ancora troppo serio e lei, sorridendo, gli toccò la punta del naso con un dito. “Hai davvero paura che mi possa accadere qualcosa?”

“Sì. Tu non li devi sottovalutare.”
“Non lo faccio ma, davvero, smettila di angosciarti per me.”
“Perché no? Io ti devo così tanto. Se oggi posso festeggiare il mio compleanno è solo grazie a te.”

Cecilia avrebbe dovuto sentirsi lusingata, ma c’era qualcosa di sbagliato in quella frase, nel tono forzato con cui l’aveva pronunciata. E l’amabile sorriso che adesso le stava facendo era smentito dallo sguardo.

‘Nessuno può risultare totalmente sano di mente dopo aver sperimentato la propria morte’ l’aveva avvertita la psicologa che lo stava seguendo e, a volte, Cecilia non poteva che darle ragione. Lentamente ma inesorabilmente l’aveva visto in quei mesi passare dall’apatia ad una specie di fredda rassegnazione nei confronti della propria sorte; la stessa determinazione nel non parlare mai della sua vita precedente, come se fosse nato quando aveva riaperto gli occhi all’Istituto, era piuttosto indicativa del suo stato di salute mentale. Solo quando era con lei sorrideva genuinamente e aveva un comportamento che, supponeva Cecilia, doveva essere quello che normalmente teneva prima dell’incidente. Ma lasciava tutti gli altri a distanza, con una sorta di distaccata cordialità decisamente artefatta.
“Prima di tutto cancella quell’espressione dalla tua mente. Tu non mi devi assolutamente niente, hai capito? E poi, oggi è davvero il tuo compleanno?” gli chiese in tono più leggero, costringendosi a ricambiare il sorriso.

Il Coordinator annuì entusiasticamente, ma senza mutare espressione, come se l’avesse scolpita in faccia.
“Sì, oggi è proprio il mio compleanno.”

Sbagliato. Sbagliato’ si ripeté Cecilia, ma chiuse comunque la distanza tra loro per sfiorargli le labbra con un bacio.
“Allora andiamo a festeggiare. E dimentica tutto il resto, per favore…” gli sussurrò, tentando di zittire le sue inquietudini. Non le piaceva per niente che lui si sentisse in obbligo con lei, ma capiva che non poteva essere altrimenti.

È colpa mia. Devo rimediare.’



Quella notte, sdraiata sul letto, fissò il soffitto cercando di indovinare dove fosse la telecamera. Avrebbe dovuto scoprire dov’era, e fare qualcosa per disattivarla. Si fidava di Lenk, ma che qualcuno la osservasse nei suoi momenti più intimi lo riteneva un vero insulto.

Si girò su un fianco, e allungò una mano per sfiorare la lunga linea di sezione azzurrina che decorava la schiena del suo amante. Stava già scomparendo, e presto sarebbe stata visibile solo agli infrarossi.

C’era qualcosa nella loro relazione che la turbava; tentava di dimenticarlo, ma il discorso di quel pomeriggio di Lenk gliel’aveva sbattuto crudelmente in faccia. Che tutto quello che provavano l’uno per l’altra fosse davvero basato sull’assunto più sbagliato?
‘Chissà se mi sarei potuta innamorare di te se tu fossi stato un ragazzo normale e ci fossimo incontrati in altre circostanze. Forse ti avrei trovato troppo… ordinario? E tu? Mi avresti frequentata lo stesso a prescindere da questa orribile situazione? Non mi avresti giudicata diversa e scostante, come tutti pensano che io sia?’
Presa dall’angoscia gli si accoccolò contro, cercando di non svegliarlo. Il vero problema non era la loro relazione, ma quello che i Logos potevano fargli una volta fuori di lì. Mise da parte i suoi problemi sentimentali, alle prese con un dilemma molto più vitale.
‘Al diavolo quello che pensa Lenk, e quello che sarebbe potuto essere di noi in un’altra esistenza che non abbiamo avuto il lusso di poter vivere. In ogni caso so che ti fidi di me e, anche e soprattutto se sei qui stanotte solo perché mi hai assecondata, l’unica cosa che posso fare per contraccambiare è non permettere mai più che ti facciano del male. Tu sei la mia creatura più perfetta, e io ti migliorerò ancora. Così non dovrai più piangere o soffrire per le cattiverie degli altri, mio dolce Nicol.’

Di certo, nessuno avrebbe potuto dire che la dottoressa Cecilia Jesek non amasse il proprio lavoro.



___________________________



Note


(1) T.C.: Tomografia Computerizzata

(2) Joseph Goebbels: Ministro della Propaganda nazista.



Bene, come sempre grazie a tutti per i graditi commenti! :)
Un sbaciucchio di particolare ringraziamento va a Shainarethb per il betaggio e a Solitaire per essere stata l'osservatrice esterna che mi ha messo la pulce nell'orecchio riguardo alla Sindrome di Stoccolma. Giuro, non era pianificato, e non me n'ero manco accorta che Nicol ne soffrisse. Che pessima psicologa che sono ;)

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Capitolo 5
*** Fermezza ***


Fermezza



Aprilius City, 14 dicembre, C.E. 81


Per la prima volta dopo tanti anni Riko Platter si sentiva nervoso. Non aveva gioito quando era stato scelto per quella missione, la prima del loro gruppo su PLANT. A casa, come una vocina dentro di lui continuava ad urlare; in qualche modo si era aspettato che le cose non sarebbero andate come previsto e, fissando il palmare e la lucetta rossa che lampeggiava accanto al nome di uno dei suoi due compagni, non poté fare a meno di chiedersi se non era quella una sorta di punizione divina, per aver osato spargere il sangue della propria gente.

“… ‘fanculo” mormorò, alzandosi dal letto per cercare di sistemare, per l’ennesima volta, il pannello con i controlli dell’aria condizionata; ci armeggiò un po’ prima di dichiararsi sconfitto. Oltretutto, nell’appartamento che avevano trovato a loro disposizione si moriva di caldo. Sentì aprirsi la porta d’ingresso e, esalando un profondo sospiro di sollievo, fece capolino dalla sua stanza per salutare il compagno.

“Era ora che riuscissi a liberarti di loro.”

“Già…” fu la laconica risposta che gli venne data mentre l’altro si infilava in bagno.

Riko alzò gli occhi al soffitto. Nicol era una persona davvero gradevole, ma da quando erano sbarcati ad Aprilius City era stranamente silenzioso, e Riko immaginava non fosse solamente a causa della natura della missione. Da quel poco che era riuscito ad estorcere negli anni al giovane dai capelli verdi, quel PLANT doveva essere proprio casa sua.

Lo seguì in bagno, la cui porta era rimasta aperta.

“Hey, hai controllato il palmare? Abbiamo un probl…” le parole gli rimasero in gola.

Il compagno era davanti al lavabo. La giacca e la maglietta erano finite a terra, e Nicol si stava fissando il braccio sinistro coperto di sangue dall’avambraccio fino al polso. Una brutta ferita gli decorava un punto poco più in basso del gomito.

“E quella?” Riko quasi urlò.

“È solo un graffio. La pallottola mi ha preso di striscio ma sfortunatamente sopra l’attacco dell’impianto.”

“Hai lasciato delle tracce in giro?”

La smorfia che fece il compagno fu più eloquente di una risposta positiva, e Riko dovette appoggiarsi allo stipite in preda allo sconforto. Stava andando peggio di quello che si era aspettato.

“Merda…”

“Lascia perdere. Non è questo il nostro problema principale.”
“Lo dici tu” Riko reagì nervosamente. “Hai presente, vero, le nostre regole di ingaggio? Lavorare nell’ombra, non esporci se non è strettamente necessario, mai e poi mai permettere che risalgano alla nostra identità…”

“Non lasciare mai nessuno indietro” terminò il compagno togliendosi gli occhiali e fissandolo.
Istintivamente, Riko si allontanò impercettibilmente. Per quanto sapesse che quegli impianti ottici erano estremamente utili in battaglia, lui si sentiva fortunato che non glieli avessero installati. Non aveva idea di come tutti quelli a cui era successo potessero sopportare di guardarsi allo specchio.

“Ti riferisci a Lex?” chiese a Nicol, cercando di mascherare il disagio.

“A chi altri? Non riesco a capire come abbiano potuto catturarlo, ma non possiamo mollarlo qui.”

“Il punto indicato dal GPS è un ospedale militare.”

“Potrebbe aver avuto un incidente ma… ma…” Nicol distolse lo sguardo, afferrando nervosamente una confezione di garze disinfettanti e aprendola con i denti.

Riko immaginava dove il compagno avesse voluto andare a parare. Le nanocapsule di acido che avevano in circolo detonavano automaticamente dieci minuti dopo che l’attività elettrica del cervello cessava, distruggendo completamente il loro corpo. O potevano essere fatte esplodere; perché tutti loro avevano la consegna di non farsi catturare integri. Se Lex era ancora vivo, come il segnale elettronico indicava, poteva solo voler dire che non era riuscito da solo ad attivare le capsule.

Riko strinse i pugni. “Non ce l’ha fatta. Forse l’hanno ferito gravemente o ha avuto un incidente. Dobbiamo fare qualcosa.”

“Ci penso io.”

“Lascia perdere. Tu sei ferito, tocca a me” Riko offrì con un pallido sorriso. Si era aspettato che Nicol si proponesse per una cosa del genere e, infatti, il compagno scosse la testa.

“No. Sono io il capo missione, e questo non è niente.”

“Non è necessario, Nicol…”

“E invece sì, perché mi sono preso io la responsabilità di portarvi qui e di ricondurvi a casa, in qualunque modo. Se lui ha dei problemi tocca a me risolverli. E poi conosco questo posto meglio di te, anche quello dove l’hanno portato.”

“Su questo hai ragione. Va bene, se ne sei proprio convito…” disse Riko lentamente, fissando Nicol mentre si applicava la garza sulla ferita con una smorfia. Non insistette oltre. Quello che aspettava il suo compagno non era certo un lavoro piacevole, e Riko era famoso per essere uno tra i meno altruisti del loro gruppo.

“La sicurezza sarà massima” gli disse.

“Non è un problema. Mentre finisco qui tu pensa al diversivo. Sicuramente staranno pensando che Lacus Clyne era il nostro bersaglio, potremmo lasciarglielo ancora credere.”

“Mi sembra perfetto. Vado a controllare la situazione con le forze di polizia. I codici che abbiamo ottenuto per forzare i loro sistemi informatici funzionano perfettamente, non avrei mai creduto che fosse così facile.”

“Comprensibile, ci siamo sempre sentiti al sicuro qua dentro… beh… loro, volevo dire” Nicol si corresse, lanciando uno sguardo allo specchio, e Riko giudicò che fosse il momento di tornare al lavoro.

“Vado. Fammi un fischio se hai bisogno di aiuto per medicarti quella ferita, e cerca di non distruggere il lavabo, nemmeno qui dobbiamo lasciare tracce.”

***

Nicol si diede silenziosamente dell’idiota, e rilassò la mano sinistra che stava convulsamente stringendo il bordo del lavabo. Frammenti di plastica ceramizzata gli rimasero attaccati alle dita, e indugiò per un attimo a guardarli. Non erano tanto più scuri della sua immacolata pelle sintetica.

Si accigliò. Come era stato possibile che tra tutte le persone che vivevano ad Aprilius City avesse potuto incontrare proprio Athrun Zala?

Come sempre, l’attentato era stato previsto in ogni dettaglio dagli strateghi del loro gruppo. Il loro bersaglio sarebbe stato in compagnia di Lacus Clyne, quindi Nicol si era ragionevolmente aspettato la presenza di Yzak Joule, diventato Consigliere lui stesso. Ma Athrun?

“Ma non doveva essere ad Orb?” si chiese, lavandosi via il sangue rimasto. I suoi occhi corsero alla ferita. Era abbastanza brutta, ma non sentiva nessun dolore. In teoria non avrebbe avuto bisogno di un antidolorifico, ma ne ingoiò comunque due dosi, visto che se c’era una cosa che non voleva mai più provare in vita sua era la sofferenza fisica.

Poi si guardò di nuovo allo specchio. Non tentò nemmeno di sorridere, tanto non sarebbe servito ad addolcire lo sguardo di quegli occhi innaturali. Aveva visto lo shock sul volto di Athrun quando il suo vecchio amico era stato costretto a fissarlo, e non poteva certo biasimarlo. Lui stesso aveva desiderato strapparseli la prima volta che si era reso conto di che cos’erano. Ma oramai era passato così tanto tempo che ci aveva fatto l’abitudine, e poi gli avevano salvato la vita più volte.

“Athrun…”

Maledisse la sua sfortuna. Non avrebbe mai voluto rivedere nessuno di loro. Se gli fosse stata data la possibilità di scegliere non avrebbe mai rimesso piede ad Aprilius City, ma nel loro gruppo era l’unico che era cresciuto lì e nessun altro avrebbe potuto prendere il suo posto. E nemmeno Nicol l’avrebbe voluto. Non aveva senso rischiare le vite dei suoi compagni per una missione per la quale lui sarebbe stato il migliore.

Già, a mandare all’ospedale Lacus Clyne e a perdere uno dei nostri.’

Scosse la testa. Doveva concentrarsi su quel problema. I suoi amici non erano quelli che aveva incontrato quel pomeriggio. Loro facevano parte della vita di un’altra persona che era morta dieci anni prima nell’abitacolo del Blitz. Non aveva senso sprecare tempo a pensare ad Athrun e a Yzak. Era Lex che aveva bisogno di aiuto, in quel momento. Senza davvero volerlo, si trovò a fissare le gocce di sangue cremisi che decoravano la superficie del lavabo.
Per dieci anni aveva cercato di convincersi della cosa, non rivelando a nessuno, nemmeno a Cecilia, chi era stato prima. Gli psicologi l’avevano avvertito dell’inutilità di negare la verità, e quasi tutte le notti sognava la sua vita precedente, ma durante il giorno era facile mentire a sé stesso e agli altri. Dopotutto, nessuno nel loro gruppo faceva domande inopportune sul passato dei compagni.

“Quello non ero io. Giusto? Giusto!” Si ripeté con fervore quasi religioso. E poi non aveva senso indugiare sul passato quando aveva un amico in pericolo.

Visualizzò sulla retina la pianta del luogo dove Lex era tenuto in custodia. L’avrebbe portato via da lì a tutti i costi, doveva farlo senza nessuna distrazione. O esitazione.

“Sì…”

Recuperò le due pistole che teneva nelle giacca e uscì dal bagno, cercando di non chiedersi cosa avrebbe fatto se avesse di nuovo incrociato Athrun Zala.

Io non so nemmeno chi sia. Giusto? Giusto.’

***

Fu un cicalino insistente che lo svegliò da un sonno tormentato da incubi. Goffamente, Athrun si diresse alla porta, e la aprì trovando dall’altra parte il Capitano Joule già perfettamente desto ed efficiente. Ma gli occhi rossi e stanchi dell’albino gli dissero che probabilmente Yzak non doveva aver dormito nemmeno un minuto.

“Riprenditi. Dobbiamo fare il punto della situazione” gli disse, e la sua espressione tesa mise in allarme Athrun

“Ci sono novità?” chiese, temendo il peggio. Che arrivò.

Yzak annuì gravemente. “Abbiamo le controanalisi. C’è la corrispondenza del cento per cento, il cecchino era davvero Nicol Amalfi.”

Athrun dovette appoggiarsi allo stipite. Per tutta la notte si era preparato, cercando di farsene una ragione, ma ne aveva ricavato solo sogni raccapriccianti.

“Vado a darmi una sciacquata e sono da te” disse debolmente, avviandosi verso il bagno.

Si gettò sotto l’acqua fredda sperando che l’aiutasse a dissipare l’opprimente senso di smarrimento che stava provando, ma il gelo acuì solo il suo disagio.

Non avrebbe voluto pensarci, ma fu inevitabile.

Nicol è stato massacrato al posto mio quando IO avrei dovuto e voluto morire. Quando IO stesso avevo istigato Kira a combattere. E per vendicarlo ho quasi ucciso lo stesso Kira. Nicol non era uno qualunque. Non era uno dei tanti piloti che nel corso dei vari combattimenti hanno sacrificato la propria vita. Sì, forse è solo una statistica per gli altri, ma per me era qualcuno di speciale.’

Serrò gli occhi, ricordando quando aveva ridato al padre del suo solare e ottimista compagno di squadra gli spartiti del figlio; l’unica cosa che era riuscito a riportagli di lui. Ancora dopo tanti anni, avvertì una dolorosa stretta al cuore.

Gli restituii solo della musica, dandogli la conferma che avevo vendicato Nicol. Per rendergli giustizia sono quasi morto io stesso, insieme a Kira…’

A tanto era giunta la sua rabbia e la sua disperazione.

E, adesso, tutto era improvvisamente cambiato. Adesso, doveva pensare a Nicol al presente.

Durante la notte aveva cercato di trovare un po’ di consolazione nel fatto che il suo amico non fosse morto, ma non c’era riuscito. In preda all’angoscia si era reso conto che non avrebbe voluto rivederlo in quelle condizioni. Perché la persona che l’aveva aggredito il giorno prima non solo non aveva nulla del ragazzo che ricordava, ma non sembrava quasi un essere umano. Cosa fosse capitato a Nicol in quegli anni Athrun non poteva spiegarselo, come non riusciva a liberarsi dal terribile pensiero che, avendolo creduto morto, non avessero nemmeno organizzato una decente operazione di salvataggio.

Eravamo così addolorati e ansiosi di vendicarci che l'abbiamo praticamente abbandonato. Cosa gli hanno fatto? Lo devo rivedere. Glielo devo chiedere.’

Athrun uscì da sotto il getto, lanciando uno sguardo alla propria immagine riflessa. Il viso di un giovane degli occhi tristi ma fermi lo fissava. Aveva preso una decisione, e quello sguardo lo rasserenò. “Devo sapere. E mi dovrà dire perché non è tornato qui” pronunciò con sicurezza.



Nel corridoio, mentre si dirigevano alla sala riunioni, Yzak gli spinse in mano alcuni fogli.

“Eccoti il referto dell’unità addetta al riconoscimento. DNA a parte, hanno fatto qualche proiezione partendo da vecchie immagini di Nicol, e il suo aspetto attuale è compatibile con la struttura ossea che aveva.”

“Se lo dicono loro...”

“Pare proprio di sì. Mi hanno spiegato che ci sono cose che non possono essere modificate, come la distanza degli occhi tra loro, la posizione delle orecchie sul cranio e la forma della testa. In questo caso le compatibilità sono troppe per essere una coincidenza.”

Athrun sospirò, rassegnandosi definitivamente all’evidenza dei fatti.

“E c’è altro” gli disse Yzak serrando i pugni. Athrun lo guardò incuriosito.

“Le analisi hanno rivelato, nel suo sangue e in quello del terrorista catturato, un’alta concentrazione di farmaci analgesici. È un cocktail speciale venduto al mercato nero terrestre con il nome di Deep Blue.”

“Una droga?”

“Qualcosa del genere. Non provoca dipendenza fisica ma psicologica, e rende chi la assume incapace di avvertire qualunque genere di dolore. Potresti tagliargli un braccio e non sentirebbero nulla.”

Athrun annuì. “Gli ho tirato un calcio in un fianco e non ha fatto una piega.”

“Non ne dubito. I medici suppongono che gli serva per sopportare questi innesti cibernetici. Non deve affatto essere piacevole avere quelle cose addosso. E in testa.”

Yzak aveva una smorfia tormentata in faccia, e Athrun si trovò ad imitarlo.

“Questi tizi” gli stava dicendo Yzak. “Mi ricordano un po’ gli Extended.”

“Mi stai suggerendo che potrebbero essere stati plagiati?”

“Spiegherebbe tante cose. Potrebbero aver perso la memoria o aver subito una rieducazione forzata, o tutte e due le cose.” L’albino lo guardò di sbieco. “Ma non ci farei troppo affidamento. Rimane il fatto che il cecchino ti ha riconosciuto.”

Athrun annuì. Che Nicol non si rendesse conto di quello che stava facendo sarebbe stata una comoda scappatoia, ma Athrun non voleva sperarci troppo. Nella vita troppe volte era stato ferocemente deluso da quello in cui più credeva.

“Pensi che li abbia mandati qui qualche frangia estremista?” preferì chiedere cambiando argomento.

“Potrebbe essere. Rimarrebbe solo da vedere se i mandanti sono Natural o Coordinator, visto che Lacus ha nemici da entrambe le parti, ma io e Dearka vorremmo sentire il tuo parere su un’idea che c’è venuta stanotte.”
”Riguardo a...?”

“Come ci siamo detti prima, oramai politicamente la sua dipartita non modificherebbe gli equilibri di potere su PLANT, o i rapporti tra PLANT e la Terra. E anche come vendetta postuma ha davvero poco senso. Ma, seppure trovassimo una ragione, rimane il fatto che il cecchino è stato tanto abile in seguito quanto maldestro al momento dell’attentato vero e proprio. Quindi ci rimane una sola ipotesi.”

Athrun, che aveva notato come Yzak avesse abilmente evitato di nominare Nicol per tutto il discorso, fece lo stesso rispondendogli. “Che il bersaglio del cecchino non fosse lei?”

“Esatto. Vieni, entra, abbiamo coinvolto Shiho, lei è più brava di noi in questo tipo di indagini e ha individuato una pista promettente.”



Il volto dell’uomo sullo schermo non diceva proprio nulla ad Athrun. L’aveva intravisto per un secondo prima che entrasse in macchina con Lacus, ma nessuno aveva pensato di presentarglielo.

“Alexander Borodin” esclamò la compita voce di Shiho Hahnenfuss, competente ufficiale di ZAFT, nonché moglie di Yzak. “Possedeva un impero televisivo nel periodo della seconda guerra del Bloody Valentine. Era rimasto coinvolto nello scandalo dei Logos, riuscendo a respingere ogni accusa a suo carico. Dopo la guerra si riciclò come politico, diventando Primo Ministro della Federazione Euroasiatica, ma durò poco. Scandali sessuali di varia natura ne minarono il consenso, costringendolo alle dimissioni cinque anni fa. Aveva ottenuto da pochi mesi l’asilo politico su PLANT, in seguito ad un mandato di arresto internazionale spiccato dalla Federazione Atlantica.”

“Con quali accuse?” chiese Dearka.

“Corruzione, riciclaggio di denaro e traffico di armi.”

Il biondo grugnì disgustato, lanciando un’occhiata a Yzak. “Un vero benefattore dell’umanità. E che ci faceva su PLANT un individuo simile?”
L’amico si sporse in avanti sul tavolo. “Gli euroasiatici non volevano più saperne di lui ma, sapete come vanno queste cose, nemmeno ci tenevano a fare un favore agli ex-nemici della Federazione Atlantica. Hanno pensato bene di spedirlo su PLANT, dove sarebbe stato intoccabile. Da quando è qui ha vissuto in una specie di casa fortezza, dalla quale è uscito solo ieri mattina per un’udienza di fronte al Consiglio. Volevamo saperne di più riguardo a tutta la questione.”

“E spero anche per rivedere il suo status di rifugiato politico” sbottò Athrun.

“Impossibile. Per quanto mi ripugni, nemmeno noi volevamo fare un favore a quelli dell’Alleanza.”

“Bel favore, mantenere qui un affiliato dei Logos...”

Prima che Yzak potesse rispondere male ad Athrun, Shiho si intromise tra i due. “Lasciamo perdere queste questioni politiche. Rimane il fatto che Borodin aveva di certo molti nemici che, impossibilitati ad avere la sua testa sulla Terra, potrebbero aver organizzato un attentato qui.”

Athrun annuì pensieroso. “E chi meglio di un Coordinator poteva fare una cosa del genere, raggirando tutti i nostri sistemi di sicurezza?”

Shiho proiettò sul video una mappa tridimensionale del luogo dell’attentato, puntando il dito verso il palazzo del museo.

“Dal quarto piano la visuale sulla strada era perfetta. Una volta bloccata la macchina, e costretti gli occupanti ad uscire, il cecchino avrebbe avuto gioco facile a colpire il bersaglio. Ma si è trovato Lacus esattamente sulla linea di tiro.” Sullo schermo si materializzarono le figure della ex-idol e di Alexander Borodin. “Vedete? Avrebbe ancora potuto colpirlo, perché lei era più bassa di lui, ma è inciampato, costringendo il cecchino a...”

“Spararle per centrare l’uomo davanti di lei” terminò Derka, con un tono di voce che sembrava quasi ammirato.

Shiho annuì. “Sì. Il proiettile che abbiamo ritrovato sul posto era blindato, quindi il cecchino aveva la certezza che la pallottola avrebbe trapassato il corpo di Lacus senza arrestarsi, mentre ha fatto esplodere la testa di Borodin per pressione idrodinamica.”
“Se stanno così le cose, non dubito della sua perizia, ma ha avuto anche una considerevole dose di fortuna per non ammazzarla o renderla paraplegica” considerò Yzak.

“Passarle da parte a parte il collo senza causarle danni permanenti mi sembra un po’ più che un colpo fortunato” disse Athrun, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Yzak.

“Che vuoi dire? Quello ha quasi freddato la fidanzata del tuo migliore amico e tu...”

Athrun alzò entrambe le mani. Sapeva da anni che quando Yzak aveva quel tono di voce così combattivo l’unica cosa da fare era smorzare da subito il suo istinto antagonista. E poi non voleva, per nessuna ragione al mondo, che l’albino pensasse che lui stava difendendo Nicol.

“Tranquillizzati, stavo solo sottolineando il fatto che deve per forza averlo fatto apposta. Non ci credo che abbia messo a segno una cosa del genere per puro caso. Non è statisticamente possibile.”

Il giovane Ammiraglio strinse i denti, mentre un pesante silenzio calava nella sala. Avvertiva una tensione sotterranea tra loro che attendeva solo di esplodere, ma nessuno sembrava avere il coraggio di portare allo scoperto il vero problema.

Aprì la bocca, ma Shiho lo precedette.

“Ragazzi... basta. State litigando tra voi quando dovreste concentrarvi sul problema contingente.”

“La fai facile tu, sei la meno coinvolta e lo sai” sbottò Yzak, incrociando le braccia al petto e assumendo un’espressione quasi offesa.

“Non lo nego. Proprio perché conoscevo solo di sfuggita il vostro amico posso permettermi il lusso di essere più lucida di voi. Perché quello È il vostro amico, è ora che guardiate in faccia la realtà, come sta facendo il Comandante Kappler.”

Athrun non trovò il coraggio di incrociare lo sguardo gli altri. Si appoggiò invece le dita sulle tempie, fissando unicamente Shiho.

“Non credere che stiamo rimuovendo il problema. È solo che...” non riuscì a finire, interrotto dal rumore sordo del pugno di Yzak che si abbatteva sul tavolo.

“Lo so, maledizione, non sto facendo finta di niente anche se tutto mi sembra una follia. Quello che vorrei sapere, ora, è chi sulla Terra o su PLANT potrebbe avere sufficienti conoscenze tecnologiche per riportare in vita i nostri uomini. E, soprattutto, chi diavolo potrebbe organizzare un attentato così ben pianificato coinvolgendo dei Coordinator. Chi dobbiamo temere? I Logos o altri?”

L’albino era rosso in viso, e sembrava turbato in un modo che Athrun raramente ricordava di averlo visto. Quella non era una normale indagine, lo sapevano tutti e due, e odiava soprattutto, per la prima volta da molti anni, sentirsi impotente.

“Sull’ultima cosa avrei una mezza idea” stava dicendo Shiho, catturando tutta la loro attenzione. “In effetti c’è un gruppo di mercenari che impiega sia Coordinator che Natural per portare a termine le loro missioni quasi impossibili...”

Athrun e Yzak le risposero all’unisono. “Serpent Tail” sbottarono entrambi con disgusto.
I due giovani si scambiarono un’occhiata, poi l’albino annuì con decisione.
“Potrebbe davvero essere. Di certo sono gli unici che conosciamo ad avere i capitali e le conoscenze per organizzare una cosa di una tale portata. E così temerari da farlo in casa nostra. Non possiamo perdere altro tempo. Sono convinto anch’io che non sia stata Lacus il bersaglio, quindi le misure di sicurezza messe in campo di Kappler sono assolutamente inutili. Dearka” ordinò all’amico. “Prendi i tuoi uomini e recati comunque all’ospedale ad accertarti che sia tutto a posto. Io e i miei, con Athrun, andiamo all’istituto dov’è ricoverato il terrorista.”

Athrun lo guardò aggrottando le sopracciglia. “Pensi che cercheranno di liberarlo?”

“È quello che farei io se uno dei miei compagni si portasse addosso segreti militari. Ed è quello che farebbero quei bastardi di Serpent Tail. Andiamo.”

I tre amici si alzarono, ma la voce leggermente nervosa della moglie di Yzak li bloccò ai propri posti.

“Fate attenzione, e non siate temerari. Tanto per finire il discorso di prima, dimenticatevi tutto quello che ricordate di Nicol Amalfi. Avrete davanti qualcuno che è addestrato per uccidere, e che ha già dimostrato di saperlo fare molto bene. Ficcatevi bene in testa come ha trattato Athrun, che pure era la persona che gli era più vicina; per lui, voi non siete altro che bersagli.”

O prede’ ricordò Athrun con un brivido, mentre lo sguardo assolutamente spassionato del terrorista ritornava a tormentarlo. Diviso tra una comprensibile paura, e il disgusto per quello che avevano fatto a Nicol, seguì con decisione Yzak e Dearka fuori dalla sala.



Lodonia, 4 giugno, C.E. 73


I bersagli si nascondevano tra i banchi e dietro le sedie sparsi qua e là nella grande aula che forse aveva ospitato delle lezioni. Alla visione termica apparivano come macchie di colore caldo, che spiccavano sui blu e verdi degli arredi circostanti.

Colpì i primi due facilmente, alla testa, senza che neanche avessero tempo di rispondere al fuoco, e pozze di vermiglio si allargarono intorno ai loro corpi.

Se Yzak fosse stato lì gli avrebbe detto che combattere in quel modo era da codardi, ma Nicol Amalfi aveva da tempo imparato che ogni mezzo era buono per sopravvivere. Quando era ancora un pilota di ZAFT era un concetto che non riusciva ad accettare, e un po’ si vergognava davvero ad usare il Mirage Colloid del Blitz in battaglia, ma adesso sapeva che sarebbe stata un’idiozia non approfittare di tutto quello di cui l’avevano fornito.

Diede un altro sguardo alla sala. Mentre alcuni occupanti se ne stavano rannicchiati cercando di sparire, altri si mossero velocemente verso lui e il suo gruppo. Il Coordinator che aveva accanto ridacchiò.

“Cazzo, ma sono veramente fuori di testa. Non hanno capito che non hanno nessuna speranza?”

“Non hanno nemmeno nulla da perdere” gli rispose Lex, settando il mitra a raffica continua.

Nonché imbottiti di droghe’ pensò Nicol, infilando le pistole nelle fondine e imbracciando il suo PK 470(1). L’ordine di distruggere il laboratorio di Lodonia, e di sopprimere tutti gli Extendend e il personale, non era giunto inattesa, dopo i continui fallimenti dei ‘drogati’ come piloti di Mobile Suit. Anzi, per Nicol e i suoi compagni assomigliava ad un perverso contrappasso e, sicuramente, questa volta avevano recepito l’ordine con minuziosa solerzia. Gli Extended erano i peggiori nemici dei Coordinator in battaglia, e che i Logos avessero deciso di terminare il progetto a loro faceva solo piacere.

Lex, Nicol, e Joona, l’altro Coordinator assegnato a quell’ala dell’edificio, uscirono dal loro riparo e fecero fuoco simultaneamente contro l’orda di Extended. Inferociti e rapidi, ma non dotati di armi automatiche né di un vero addestramento militare, i ragazzi caddero come mosche.

Nicol strinse i denti. La consegna era di ripulire il posto in fretta e completamente e, quindi, per massimizzare il risultato erano stati distribuiti a tutti proiettili preframmentati. Lui sapeva benissimo che danni causavano penetrando in un corpo umano, e si sentiva fortunato che la visione termica mascherasse un po’ lo scempio che stavano compiendo.

Improvvisamente vide delle sagome dietro agli Extended sollevarsi dai loro ripari e fuggire verso una porta posteriore.

“Cani maledetti” imprecò Lex. “Mandano avanti i ragazzini a fargli da scudo.”

Nicol settò il mitra sul colpo singolo. Se poteva provare pietà per gli innocenti trasformati in macchine per uccidere, sicuramente non ne aveva nessuna per i loro carcerieri e per gli scienziati che ne avevano violentato le menti.

Cercava di eliminare i primi in fretta e senza farli soffrire; gli avevano dato l’ordine di compiere un massacro, ma riteneva inutilmente nauseante essere anche crudele con loro. Ma gli altri erano tutt’altra storia. Gli altri, erano coloro avevano creato i mostri che ogni giorno sul campo di battaglia uccidevano così tanti soldati di ZAFT.

Mentre Lex e Joona terminavano di occuparsi degli Extended, lui abbatté uno per uno i membri del personale. Da un certo punto di vista fu davvero appagante.



“Che bastardi, pontificano a non finire che noi siamo quelli contro natura, e questi come li chiamano?”
Joona appoggiò una mano su uno dei cilindri che avevano contenuto i corpi degli Extended. Adesso, erano stati trasformati in bare piene di cadaveri crivellati di proiettili.

“Secondo me non li considerano nemmeno umani. Armi, forse” rispose Nicol alzando le spalle. “Come noi, dopotutto.”

Il compagno scosse la testa. “Ovvio. Altrimenti non saremmo qui a parlarne, ma su PLANT sotto due metri di terra.”

Nicol non riuscì a rispondere in altro modo se non con un sorriso tirato. C’erano alcuni di loro che parlavano con indifferenza della loro sorte, ma lui non era tra quelli. Meno male che Joona non sembrava aver voglia di continuare il discorso; il compagno gli fece un vago gesto con la mano, e si infilò in una porta laterale, seminascosta tra i contenitori.

“Vado a sistemare le cariche.”

Nicol non lo seguì, e si distrasse invece a fissare il corpo che giaceva dentro uno dei cilindri. Il ragazzo non sembrava neppure morto, ma solo addormentato, immerso totalmente in un liquido gelatinoso. I contenitori erano disposti lungo tutto il corridoio, a destra e a sinistra, e lo scenario non mancava di un certo macabro fascino.

Questi avevano visto troppi film dell’orrore…’

Era talmente assorto che quasi gli sfuggì l’impercettibile rumore di passi dietro di lui. Lo scalpiccio riuscì a metterlo in allarme all’ultimo istante utile. Sentì il sibilo di qualcosa che gli veniva lanciata contro e, istintivamente, si tolse dalla traiettoria. Il pugnale gli passò a una manciata di centimetri dalla testa.

L’Extended gli si scagliò invece direttamente addosso, veloce come un gatto selvatico. E altrettanto rabbioso. Nicol se lo trovò appeso alla schiena, il braccio sinistro dell’Extended convulsamente stretto attorno al collo. Con la coda dell’occhio lo vide alzare con la mano destra un secondo pugnale. Non ci pensò nemmeno un istante. Gli bloccò il polso e se lo strappò di dosso senza nessuno sforzo, scagliandolo via. Distintamente sentì un sonoro rumore di qualcosa che si frantumava quando il corpo colpì un contenitore.

Finalmente Nicol poté guardare il suo assalitore, e la vista gli fece maledire per l’ennesima volta la crudeltà dei Logos e della Federazione Atlantica.

Era una bambina minuta, di non più di tredici, quattordici anni. Giaceva piegata in avanti contro uno dei cilindri, con gli occhi spalancati, le pupille dilatate dalle droghe, e il polso destro piegato ad un angolo innaturale.

Gli occhi erano la cosa più spaventosa, niente più che biglie vitree senza anima. Nicol realizzò con una smorfia che persino i suoi sembravano più vivi, a confronto. Profondamente colpito, l’ex-pilota di ZAFT si inginocchiò accanto al corpo, allungando una mano per chiuderle almeno gli occhi.

Le palpebre dell’Extended però, ebbero un guizzo all’ultimo momento. La bambina alzò di scatto la mano destra, che ancora stringeva il coltello ma, in quella frazione di secondo, Nicol aveva già estratto la pistola. Fece fuoco automaticamente, senza essersi quasi reso conto di avere in mano un’arma. Da quella distanza non avrebbe mai potuto mancare il bersaglio, e il proiettile si conficcò nel cranio dell’Extendend, uccidendola all’istante.

“Che diavolo…” sentì urlare Joona.

“Va tutto bene” gli disse, cercando di controllare la voce. Non voleva che il suo compagno si accorgesse di quanto era sconvolto.

“Sei tutto intero? Merda, meno male che in quella avevi munizioni regolari. Sai che macello con i preframmentati?” commentò Joona.

Nicol avrebbe voluto chiedergli se era una battuta o se davvero vedeva una differenza sostanziale tra il disastro che aveva davanti e quello che Joona aveva in mente, ma si trattenne. Lentamente, rimise la pistola nella fondina e si alzò in piedi, senza riuscire a staccare gli occhi dal cadavere martoriato.

Il compagno si era intanto già girato verso l’uscita, che indicò con il pollice. “Mi sa proprio che ce n’è ancora qualcuno in giro, dobbiamo stare attenti mentre ci ritiriamo. Qui ho finito, comunque, possiamo andarcene. E stai davanti tu che al buio ci vedi meglio” concluse ridacchiando.

Nicol lo seguì, passando alla visualizzazione termica. Si sentì un vigliacco, e poco lo consolò il fatto che fosse necessaria.

Decisamente, se Yzak fosse qui mi avrebbe già insultato…’



“Va bene. Abbiamo finito, imbarchiamoci e lasciamo questo posto.”

Da fuori, il laboratorio di Lodonia non sembrava una struttura capace di ospitare un simile incubo. Assomigliava invece ad una ricca magione, e forse lo era stata, in passato.

I Coordinator raccolti sul prato sorrisero guardandosi in faccia. La missione era stata un successo; non avevano riportato né morti né feriti, e gli Extended non sarebbero più stati una minaccia per i soldati di ZAFT che stavano combattendo nella guerra scoppiata qualche mese prima, di nuovo, tra la Federazione Atlantica e i PLANT. Almeno per una volta avevano fatto qualcosa che andava a diretto vantaggio della loro vecchia patria, e non riuscivano a non rallegrarsene.

Si diressero verso i flyer in attesa, e Nicol stava per fare lo stesso quando Lex gli batté una mano sulla spalla.

“Hey, tu no, sei stato invitato dal supervisore sul suo aereo personale.”

“Perché?”

“Chiedilo a lui di persona, a me non ha detto altro” gli rispose il più anziano Coordinator, indicando sopra la collina prospiciente il laboratorio un uomo dai capelli biondi che agitava una mano a mo’ di saluto,

Nicol annuì, sentendosi vagamente nervoso. Riteneva di essersi comportato piuttosto bene quel giorno ma, come per tutti quelli che hanno qualcosa da nascondere, essere chiamati a rapporto non era certo tranquillizzante.



Il supervisore assegnato dai Logos a controllarli nel corso di quella operazione era un uomo alto e prestante, dai corti capelli biondi. Fatto curioso, portava una maschera che gli copriva la parte superiore del volto, e la porzione di viso che si intravedeva, con le labbra atteggiate ad un sorrisetto sarcastico, suggeriva un carattere fiero e combattivo.

Quando Nicol arrivò da lui, l’uomo lo squadrò.

“Wow… sei cresciuto dall’ultima volta che ti ho visto. Quanti anni hai?”

L’ex-pilota di ZAFT aggrottò le sopracciglia alla strana domanda. Che avesse già incontrato il tizio all’Istituto? Lui di certo non se lo ricordava.

“Diciassette, Signore.”

“Bene bene. Vieni, il mio jet è laggiù, e lascia perdere le formalità. Non sono più un militare… e nemmeno tu.”

Nicol lo seguì, vagamente incuriosito dallo strano personaggio. Gli ricordava qualcuno. La sua voce, soprattutto, gli faceva squillare un campanello in testa, ma non riusciva a capire dove avesse potuto incontrarlo prima di quel giorno.



L’interno del velivolo era lussuoso, con poltrone foderate in morbida pelle ecru e rivestimenti in legni pregiati e acciaio anodizzato, opera sicuramente di qualche designer. Si vedeva che era un trasporto adatto ai ricchi padroni del mondo.

Nicol si accomodò con circospezione, ricordando solo allora di avere ancora a tracolla il pesante mitra d’assalto. Se lo tolse e lo posò cautamente a terra, quasi timoroso di rovinare il soffice tappeto beige. Davanti a lui, il supervisore dei Logos non sembrava invece avere tutte quelle cure per l’arredamento.

Si era stravaccato pesantemente in poltrona, appoggiando i piedi sul tavolino in radica, e adesso lo fissava con una smorfia divertita in faccia.

“Chi avrebbe mai pensato che… ok, ma cominciamo con ordine. Prima da bere” esclamò pigiando un tasto sul bracciolo della poltrona.

Un’assistente di volo si materializzò accanto a loro, impeccabile nella sua divisa blu notte.

“Gin tonic per tutti e due, e per me mettici più gin che tonica, dolcezza.”

“Non per me. Non posso bere alcolici” puntualizzò Nicol.

L’altro lo guardò scuotendo la testa. “Non è per niente divertente, sai? Va bene, che prendi? Latte?”

L’ex-pilota di ZAFT lasciò trapelare una smorfia annoiata, che fece ridere l’altro. “Scherzavo, sei permaloso come ti ricordavo. Portagli del succo d’arancia.”
La donna si inchinò e scomparve, seguita dagli occhi del supervisore. “Ok, parliamo subito delle cose più importanti. Anzi, della cazzata che hai fatto giù al laboratorio.”

“Cioè?” chiese Nicol, irrigidendosi.

“Ho seguito l’operazione dai monitor collegati con le telecamere interne del laboratorio. Nel corridoio dei cilindri quell’Extended stava per ficcarti trenta centimetri di acciaio nello stomaco. Complimenti! Considerato in che modo sei stato quasi ucciso due anni fa pensavo che avresti cercato di evitare una cosa del genere con tutte le tue forze. O sbaglio?”

Nicol, che aveva le mani appoggiare sui braccioli della poltrona, molto lentamente le alzò e se le strinse convulsamente tra di loro. Almeno in quel modo non avrebbe causato danni alle suppellettili dei Logos. Si impose di calmarsi, non guardando in faccia al suo interlocutore ma fuori, fissando le luci di qualche città sconosciuta che sfilavano sotto il veivolo. Perché quel tipo doveva tirare fuori proprio la cosa che più fortemente cercava di dimenticare?

“È stata… una distrazione” ammise, quasi sottovoce.

“Non proprio” insistette il supervisore, prendendo un sorso dal drink che gli era stato intanto portato. “È perché ti sei imbambolato a guardare il quasi cadavere di quella ragazzina. Lo spettacolo era atroce, lo ammetto, ma la devi smettere di avere tentennamenti, e questi momenti di compassione fuori luogo sul campo di battaglia, o potresti rimetterci la vita una seconda volta. E magari in modo definitivo. Non credo che sia questo che tu voglia.”

Nicol scosse la testa, non azzardandosi a prendere in mano il bicchiere che la hostess aveva posato davanti a lui. Aveva la gola secca, ma era certo che l’avrebbe fracassato, da tanto che era nervoso.
“No, no di certo” ammise guardando l’uomo di sbieco.

“E allora cosa stai aspettando per darti una svegliata? Tu sei bravo. Sei deciso e obbedisci sempre agli ordini con una precisione assoluta ma, ogni tanto, ti lasci andare a questi atteggiamenti troppo indulgenti nei confronti dei tuoi nemici, che sono uno dei peggiori sbagli per un soldato.”

Nicol lo fissò. All’Accademia di ZAFT spesso gli istruttori lo redarguivano per quel motivo e, una volta assegnato alla squadra di Rau La Klueze, quello era il rimprovero preferito del biondo Comandante, quello che faceva tanto ridere di lui Yzak e Dearka.

“Lo so, ma non ci posso fare niente” gli rispose, più sinceramente che poté, ed era la pura verità. Si era arruolato volontariamente, sapendo bene quello che lo aspettava, e aveva sempre cercato di obbedire agli ordini e di fare bene il suo lavoro, ma non poteva cambiare quello che era. Non poteva diventare uno spietato assassino, come forse tutti si aspettavano da lui.

Il supervisore si mise a ridere. “Oh Dio, chirurgia plastica o meno hai la stessa espressione di allora quando si toccava questo tasto. Mi sembravi un cucciolo arruffato e incazzato allora e lo sembri ancora adesso. Perché, nonostante tutto quello che hai passato, tu rimani un cretinetto troppo sensibile, Nicol Amalfi.”

Un istante dopo aver sentito il suo vero nome e cognome Nicol si ritrovò in piedi, con entrambe le pistole che gli avevano assegnato puntate contro il supervisore. Che lo stava guardando con un ampio sorriso.

L’uomo alzò le mani. “Mi sono sbagliato, sei un cretinetto troppo sensibile ma davvero veloce, e con due Desert Eagle(2) di tutto rispetto. E immagino che tu riesca anche ad usarle insieme, vero? Che invidia che mi fai. Certo che vi hanno proprio armato per la caccia grossa. Ora, però, vuoi fare il bravo bambino e ritornare seduto dov’eri? E bevi quell’aranciata, per favore, o la ragazza penserà che ti faceva schifo e se la menerà per tutto il viaggio.”

Nicol non si mosse. “Quel nome che hai detto. Da dove l’hai tirato fuori?”

“È il tuo, no? Che bisogno c’è di fare tante scene? Ok, capisco che ai nostri padroni tu non voglia farlo sapere, non sarebbe bello se scoprissero che hanno tra le mani non un semplice soldatino ma il figlio di un pezzo grosso di PLANT, ma non devi temere nulla. Non ci sono telecamere qui o microspie. Neutralizzate tutte da me stesso medesimo.”

L’uomo alzò il bicchiere, come per mimare un brindisi. “E non lo dirò a nessuno, ovviamente. Mi è venuto un colpo quando ho visto il tuo file. Ti hanno fatto un bel lavoro in faccia, sei quasi irriconoscibile rispetto a prima, ma il fatto che ti avessero ritrovato nella carcassa del Blitz mi ha consentito di ricondurti facilmente al ragazzino entusiasta che seguiva Athrun Zala come un’ombra.”

L’accenno al suo vecchio amico era stato un colpo basso e Nicol, anche se non avrebbe voluto, sentì le mani tremare. Non era mai successo da quando avevano completato gli impianti.

“No… non è vero” tentò di negare.

“Scemo, non capisci che sono dalla tua parte? E non sai che piacere mi fa ritrovarti vivo, ci rimasi di merda quando mi dissero che eri saltato in aria insieme alla tua unità. Tranquillizzati adesso. Pochissime persone oltre a me conoscevano l’identità del pilota del Blitz, e nessuna di quelle è viva o sulla Terra.”

“E tu come lo sai?”

Il sorriso del supervisore stavolta tentennò. “Vedo che invece tu non mi hai ancora riconosciuto.” L’uomo si portò le mani al volto, sganciandosi la maschera. “Adesso ti ricordi chi sono, Nicol?”

Sprecò qualche secondo per sottoporre l’uomo a una veloce scansione della retina, che diede esito negativo come si era aspettato. Neppure i Logos erano mai riusciti ad ottenere dati sui cittadini di PLANT, ma Nicol non ne aveva davvero bisogno, perché avrebbe riconosciuto l’uomo tra mille. La persona che aveva davanti, pure con una vasta cicatrice che gli sfigurava la parte superiore del volto, altri non era che Miguel Ayman, il suo mentore nei primi mesi che aveva passato nell’esercito di PLANT.

“Che diavolo ci fai qui? Come hai fatto a sopravvivere?” gli chiese stupefatto.

“È una storia lunga(3), ti basti sapere che purtroppo non sono stato fortunato come te. O forse sì, dipende dai punti di vista.”

“Quella cicatrice…”

“Eh, quella è proprio sfiga. La sintopelle non riesce ad attecchire, immagino che il mio sistema immunitario sia molto più forte anche della media di noi Coordinator. Insomma, me la devo tenere, anche se non mi dispiace portare una maschera. Sai, l’alone di mistero sulle donne fa sempre un certo effetto.”

Miguel gli strizzò un occhio, sicuro di sé e sprezzante come Nicol se lo ricordava. Per quanto gli sembrasse impossibile, non aveva nessun dubbio che fosse lui.

Tornò a sedersi, posando le pistole sul tavolino, mentre il suo vecchio commilitone si rimetteva la maschera.

“Comunque te ne parlerò, ma un’altra volta, adesso dobbiamo lavorare, non abbiamo molto tempo prima che il jet atterri.”

“In che senso?”

Nonostante avesse affermato che non ci fossero microfoni, Miguel abbassò la voce. “Immagino che tu, come tutti i tuoi compagni, sarete stanchi di stare alle dipendenze dei Logos, non è vero?”

Nicol scosse le spalle. “Anche se fosse non c’è molto che possiamo fare per sganciarci da loro. Visto che anche tu hai partecipato a questa operazione ti avranno dato le nostre specifiche.”

“Certo. So delle nanocapsule. Tuttavia, se riuscissimo a disabilitarle…”

“Che cosa cambierebbe? Credi che potremo ritornare su PLANT dopo quello che c’hanno fatto? Pensi che qualcuno di noi voglia tornare?”

Nicol distolse lo sguardo, mentre Miguel esibiva un sorriso quasi compiaciuto.

“Vedo che ci siete arrivati subito. No, certo che no. Nessuno di voi può più riprendere la vita che faceva prima. Voi non siete quelli di prima, e non potete più confondervi con la popolazione normale. Tanto meno su PLANT con tutti i controlli che vengono effettuati sui cittadini. Ovunque andrete sarete sempre considerati niente più che strumenti di guerra, non diversamente dagli Extended. Vale per la Terra come per PLANT. A meno che qualcuno di voi non voglia diventare il burattino meccanico di gente come Gilbert Dullindal, o il compianto Patrick Zala, che stava per spingerci tutti a commettere un genocidio.”

“Non credo proprio. Almeno, non io” gli rispose Nicol.

“E, quindi, c’è un solo posto dove tu e gli altri potete sparire. Ed è la Terra.”

A malincuore, Nicol annuì.

C’aveva pensato tanto, ed era giunto alle stesse conclusioni. Per quanto il pensiero stesso lo facesse stare male, doveva cercare di dimenticare che PLANT fosse mai stata la sua casa. E che avesse avuto una vita là per i primi quindici anni della sua esistenza. Conosceva bene cosa si agitava nell’opinione pubblica di PLANT, e nel Consiglio, essendo stato suo padre uno dei membri più rispettati. Se anche fosse tornato il suo destino, volente o nolente, non sarebbe stato molto diverso da quello che lo aspettava con i Logos. E, questa, era una cosa che lo terrorizzava.

“E allora ecco la mia proposta” gli disse Miguel. “Sono certo che riusciremo a sganciarvi dal controllo di quel branco di bastardi, mi sono infiltrato apposta nei Blue Cosmos per questo, e per arrivare fino a chi comanda dietro le quinte. Perché tu lo sai che sono i Logos i veri finanziatori dei Blue Cosmos, non è vero? Ti assicuro che farvi passare dalla nostra parte non sarà un problema per quelli del mio gruppo.”

Solo allora, Nicol realizzò che Miguel aveva sempre parlato al plurale.

“Gruppo?” gli chiese.

“Serpent Tail, avrai sentito parlare di noi, vero?”

“Solo della vostra pessima fama.”
”Esagerato. Noi non combattiamo per nessuna parte, e per nessuna causa di altri, ma ci scegliamo noi quello per cui lottare, per questo tutti ci odiano.”

“Siete mercenari che lo fanno solo per soldi.”

Miguel scoppiò a ridere. “E dici poco?”

“Dipende dai punti di vista…”
Nicol si decise finalmente a bere un sorso di aranciata, anche per mascherare la sua smorfia preoccupata. Sarebbe stato felice di poter lasciare i Logos al loro destino maledetto, ma non sapeva come giudicare il fatto che Serpent Tail avesse messo gli occhi su di loro. Di sicuro dubitava che avrebbero potuto rifiutare. Si sentì un po’ come un pacco pronto per essere passato di mano.

“Perché dovremmo venire con voi? Cosa cambierebbe?”

Miguel alzò gli occhi al soffitto del jet. “Scemo! Ma mi ascolti quando parlo?” esplose, finendo di scolarsi il suo gin tonic. “Preferisci che ti venga ordinato a chi sparare o vuoi deciderlo da solo? Ti assicuro che c’è una bella differenza. Tanto solo quello sei in grado di fare nella vita, o sbaglio? E non sognarti di tornare a fare il pianista, quegli impianti consentono di tracciarti ovunque.”

“Io non suono più” articolò Nicol, cercando disperatamente di non perdere il controllo. Da molti mesi non piangeva più sul suo passato, e non voleva ricominciare proprio davanti a Miguel.

Che agitò una mano davanti a sé, come per sdrammatizzare quello che aveva appena detto. “Mi spiace, eri davvero bravo. Comunque, sapevo che non eri così stupido da pensare una cosa del genere. E, per quanto riguarda il rimanere dove siete ora, converrai con me che ogni soluzione è meglio che stare con quei bastardi. Non potete nemmeno essere sicuri che quello che fate non si ritorca comunque contro PLANT, nonostante tutte le rassicurazione che vi hanno dato. O che in futuro non decidano di disfarsi di voi, come hanno fatto con gli Extended. Siete i loro strumenti preferiti, ora, ma non credere che si siano dimenticati che rimanete Coordinator, nonostante tutto il titanio che avete addosso.”

“Conoscendoli, potrebbe davvero succedere.”
“E allora perché fai quella faccia mesta?” Miguel fece una pausa, sporgendosi verso di lui. “Non ti sto certo chiedendo ora una risposta. Ma voglio che tu sappia che quando verrà il momento io ti voglio con noi. Tu, e gli altri tuoi amici. E comunque tutta questa conversazione avrà un senso dopo che vi avremo liberato da quegli affari. Non possiamo fare progetti ora, quando hai ancora un collare al collo.”

Nicol arricciò il naso alla poco velata metafora. “Ti fidi così tanto di me? Potrei andare a riferire questa conversazione ai miei padroni.”

“E io gli potrei rivelare la tua identità. Puoi negare finché vuoi, ma non dubitare che io sia in grado di fornire prove sul tuo conto.”

I due Coordinator si fissarono, e Nicol si stupì lievemente che Miguel riuscisse a sostenere il suo sguardo. A parte qualche suo compagno e Cecilia nessuno ci riusciva, ma il biondo mentore era uno che non aveva mai avuto paura di niente.

“La tua offerta è… interessate” gli concesse, e Miguel replicò con un sogghigno.
“Lo so. Nicol, soldi a parte, io a quelli non gliela voglio far passare liscia. Tu ti ricordi per cosa ti eri arruolato, vero? Per cosa sei morto? Per PLANT, come me, come tutti voi. Prima o poi questa guerra finirà, ma su questo pianeta maledetto rimarranno sempre nemici della nostra patria; gente pronta a far scoppiare un nuovo conflitto. Noi non possiamo più tornare a casa, ma ciò non vuol dire che anche da qui non possiamo aiutare la nostra gente.”

Nicol non riusciva a stabilire se il suo vecchio amico stesse scherzando o meno. L’unica cosa di cui era certo era che nulla di quello che stava sentendo sarebbe mai uscito dalla bocca del Miguel che conosceva. Un pilota che era un mix improbabile di arroganza e giovialità ma che, di certo, non gli era mai sembrato patriottico a quel modo.
“Miguel, perché dici di non poter tornare a casa? Tu non hai quelle nanocapsule in corpo, e nemmeno tutto il resto” gli chiese, esitante.

Il sorriso del biondo si spense, e il giovane uomo spostò impercettibilmente lo sguardo verso il basso. “No, ma sono morto per la mia famiglia, esattamente come voi. Cosa otterrei a tornare a casa, se non essere rispedito su un nuovo fronte dopo qualche settimana di congedo? Dove potrei morire davvero, e spezzare definitivamente il cuore di mia madre e del mio fratellino. Che avrebbe orrore di me, se mi vedesse in questo stato. No. Preferisco che mi ricordino com’ero, e lavorare nell’ombra per difenderli. Per questo mi arruolai in ZAFT, ed è questo tutto ciò che posso fare per loro.”
Nicol, sovrappensiero, prese in mano una delle pistole. Era il calibro più grosso mai prodotto; un tempo avrebbe quasi faticato ad alzarne una, adesso poteva usarle in coppia fin troppo facilmente.
Essere utile per PLANT. Anche, e soprattutto, in quello stato. Le parole di Miguel non gli erano estranee, c’aveva pensato tanto lui stesso; però, adesso, il suo amico gli stava offrendo una scappatoia concreta dall’orrore che era diventata la sua vita.
“Ma ci credi davvero a tutto quello che hai detto?” gli chiese lentamente.
Il suo interlocutore scosse la testa, facendo ondeggiare la frangia color oro. “No. Ma almeno io ci provo a trovare una fottuta ragione per andare avanti oltre a quello che mi pagano. Anche se… beh, certo, i soldi sono sempre ben graditi.”

“Ah ecco, adesso ti riconosco” si azzardò ad esclamare Nicol, e Miguel lo fulminò con lo sguardo.

“Hey, porta un po’ di rispetto per chi è più vecchio ed esperto di te, ok?”

Il biondo si raddrizzò, lanciando un’occhiata scocciata al bicchiere vuoto.

“Beh, comunque, ritornando al nostro discorso, pensaci sopra, e se la cosa che ti affligge è il pensiero che non puoi abbandonare la tua ragazza, lascia perdere, ci prendiamo anche lei. Sarà un pregevole acquisto per Serpent Tail.”

“Ma che dici, quale ragazza?”
“Dai su, non fare quella faccia da santarella, l’ho capito vedendovi assieme che te la fai con la dottoressa Jesek. E io che credevo fossi gay.”

Alla battuta, Nicol arrossì furiosamente. “Ma che diavolo dici?”

“Ma che diavolo dici?” cinguettò Miguel imitandolo. “Ma se addirittura pensavo fossi una femminuccia la prima volta che t’ho adocchiato! Con quella vocetta troppo acuta e quegli occhioni languidi. Un musicista, poi. E, cazzo, arrossivi tutte le volte che Athrun ti faceva un complimento.”

Miguel scoppiò fragorosamente a ridere, e Nicol dovette trattenere l’impulso di aprirgli un buco in fronte.

“Non… non è come credi. Io…” balbettò, sentendosi un perfetto cretino e, contemporaneamente, provando una nostalgia lancinante per il suo passato e per i suoi vecchi compagni.

Athrun…’

“Lascia perdere. Immagino che fossi solo fiero ed esaltato di essere suo amico, dopotutto, lui era davvero il migliore in tutto.”
Nicol non lo stava più ascoltando. Fissava un punto sopra la spalla di Miguel, perso nei suoi ricordi.

Athrun Zala. Io mi fidavo di lui. Del mio Comandante… del mio amico.’

Per un attimo il sorriso gioviale di Miguel scomparve, sostituito da uno calcolatore.

“Certo che sembri ingenuo ma non lo sei proprio, ad andare a letto con quella che vi assicura una manutenzione perfetta. Ti sei tolto dalla traiettoria di quel pugnale come se l’avessi sentito arrivare. O è proprio così? Quanti interventi non autorizzati ti ha fatto la Jesek?”

“Non sono cose che ti riguardano” gli rispose Nicol quasi brutalmente, momentaneamente confuso dall’improvviso accenno alle sue condizioni.

“Credo di no, per ora. Ma di tutte queste cose che ci siamo detti voglio che tu tenga sempre a mente le raccomandazioni che ti ho fatto. Te lo scordi se pensi che io voglia riportare alla Jesek la notizia della tua morte. Quella mi aprirebbe in due con un bisturi per non aver fatto nulla per impedirlo.”

Nicol non poté fare a meno di sorridere sconsolato. No, non era vero. L’inflessibilità di Cecilia sul lavoro faceva paura alla gente, che la considerava insensibile anche nella vita privata, quella poca che si concedeva. Ma lui che la conosceva bene sapeva che sarebbe morta di dolore.

Abbassò gli occhi sulle pistole posate davanti a lui.

Non posso farle una cosa del genere. Non posso farlo a me stesso. Provare ancora... No. Devo veramente riconsiderare un paio di cose. E decidere cosa fare della mia vita’ pensò, sotto lo sguardo divertito di Miguel Ayman.

Che esplose in un’ulteriore risata, e si sporse in avanti per scompigliargli i capelli.

“E bravo il mio cucciolotto…”

***

Era quasi l’alba quando i flyer da trasporto e il jet del supervisore raggiunsero l’aeroporto di interscambio. Da lì, i Coordinator si sarebbero diretti verso casa, a Nassau.
Miguel Ayman salutò Nicol sulla scaletta, dandogli una cameratesca pacca sulle spalle che fece sorridere l’altro.

Il biondo con la maschera ne fu felice. Quando sorrideva, Nicol tornava ad essere per un istante l’amabile ragazzino che ricordava. L’impressione, però, evaporò quando lo vide mettersi a tracolla il letale mitra d’assalto. Il giovane dai capelli verdi ritornò serio e gli lanciò uno sguardo obliquo con quegli strani occhi che aveva, prima di saltare agilmente giù dagli ultimi due gradini della scaletta e dirigersi verso l’aereo dove gli altri suoi compagni si stavano imbarcando.
Miguel sospirò pesantemente, faticando a mantenere la sua aria perennemente scanzonata, come gli era già successo durante il volo.

“Cazzo, fanno davvero paura” mormorò a mezza voce.

Lui non era mai stato particolarmente superstizioso, ma parlando con Nicol aveva avuto la distinta sensazione che il suo vecchio commilitone fosse sottilmente diverso da come lo ricordava. E non era solo per l’aspetto. C’era qualcosa che mancava, e più di una volta aveva avuto la sensazione di trovarsi di fronte ad un estraneo. Come se qualcun altro fosse stato riportato indietro dalla morte, o se la parte più solare della personalità di Nicol fosse rimasta impigliata nel relitto del Blitz.

“Beh, non ci posso fare niente, è un po’ così per tutti.”

Anche a lui era successo lo stesso. Quando aveva aperto gli occhi pensando di trovarsi in Paradiso – realizzando subito che in cielo non avrebbero dovuto esserci procaci infermiere bionde – si era sentito immediatamente differente dal vecchio Miguel e, parlando con altri, l’impressione che gli avevano dato era la stessa. Vedere l’effetto su Nicol Amalfi, però, lo riempiva di una malinconia che non riusciva a dissiparsi.

“Peccato” esclamò, rientrando nel velivolo e sprofondando nuovamente in poltrona. Estrasse il palmare e lo posò sul tavolino davanti a sé.

“Karl, sono io…” proferì.

L’immagine di un uomo barbuto apparve sullo schermo.

“E allora? Hai combinato danni come tuo solito’”

“Non ti preoccupare, ho solo sondato il terreno, che mi sembra favorevole.”

L’altro annuì, accarezzandosi la barba. “Ottimo. Non dobbiamo lasciarceli scappare.”
“Lo so, anche se sarà dura convincerli. Nicol è una cosa. Lui è piuttosto ragionevole, ma gli altri… non so. Capirai che non c’è nulla che li possa far rimanere qui.”
“Eccetto quello che hanno in circolo…”

Miguel soffocò una smorfia. “Lo so.”
“Tranquillo. In ogni caso di quello non ti dovrai occupare tu. Sfodera invece tutte le tue armi per persuaderli che l’unico modo per essere davvero liberi è con noi.”
“Credo che a quei ragazzi interessi di più tornare dai propri congiunti, ora come ora…”
“Che si saranno sicuramente rifatti una vita senza di loro” insistette l’interlocutore di Miguel. “Scopri chi sono e gli forniremo le prove.”

“Va bene va bene, non insisto, tanto lo sai che sono d’accordo, a grandi linee.”
“Tanto meglio. Comunque, volevo dirti che il trasferimento semestrale è andato a buon fine. Tua madre su PLANT ha appena ricevuto, dal solito donatore anonimo, una notevole somma che le permetterà di non avere problemi economici per il resto dell’anno.”

Un tiepido sorriso toccò le labbra di Miguel. “Grazie Karl.”
“Di cosa? Sono soldi tuoi. Fai rapporto tra due giorni, come d’accordo.”

Il collegamento si interruppe, e Miguel si permise il lusso di riappoggiare i piedi sul tavolino, mentre il jet decollava alla volta di Zurigo.
Non gli era piaciuta una certa parte del discorso di Karl, ma capiva che dal suo punto di vista il reclutamento, e l’avere un minimo di controllo sui Coordinator di Nassau, doveva essere di capitale importanza.

Schiacciò il pulsante che chiamava la hostess, decidendo che era l’ora di un secondo gin tonic.

“Merda, come odio questo lavoro, a volte” proferì sbadigliando.



___________________________



Note


(1) PK 470: fucile d'assalto dal videogioco F.E.A.R. 2http://img.neoseeker.com/v_concept_art.php?caid=7400 (tanto perché io non mi so inventare proprio un bel niente XD)

(2) Desert Eagle: pistola semiautomatica di grosso calibro, considerata la più potente nella sua categoria http://it.wikipedia.org/wiki/Desert_Eagle

(3) Miguel Ayman: okkei, ammetto di averlo resuscitato per la più bieca ragione di "fan fixing", eppure, nelle side stories ufficiali pubblicate sulla rivista BomBom Comics, Miguel sopravvive davvero ad Heliopolis http://forums.animesuki.com/archive/index.php/t-31792.html



Ringraziamenti di rito alle mie beta/consulenti a vario titolo Shainareth e Solitaire.
Ulteriori grossi ringraziamenti ai commentatori abituali, NicoDevil, MaxT, e Lil_Meyer, e a tutti quelli che stanno seguendo questa storia o che l'hanno messa nei preferiti. Voi sapete chi siete! ^__^

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Capitolo 6
*** Scelta ***


Scelta



Aprilius City, 14 dicembre, C.E. 81


“Mi dispiace farla aspettare così tanto, ma l’autorizzazione tarda ad arrivare, non mi so spiegare il perché.”
L’addetta alla reception dell’ospedale militare abbozzò un sorriso, scrutando con comprensibile timore il militare, nella divisa nera degli ufficiali esecutivi di ZAFT, in attesa di avere il via libera per vedere il prigioniero.

Lei aveva ricevuto l’ordine perentorio di non lasciare passare nessuno ma il giovane, che si era presentato come un avvocato del Dipartimento di Giustizia Militare, aveva presentato credenziali ineccepibili chiedendo di vedere immediatamente il suo ‘assistito’, pena non ben specificate azioni disciplinari contro tutti quelli che l’avessero ostacolato. Il tutto esposto con voce cortese ma ferma, e con uno sguardo glaciale che aveva ridotto la donna a balbettare qualche scusa mentre inseriva i dati del Comandante Almark nel sistema.

L’addetta lanciò un’occhiata implorante al terminale, sperando che sputasse fuori al più presto l’autorizzazione dell’avvocato. Se c’era una cosa che aveva il potere di spaventarla, era avere a che fare con il Dipartimento di Giustizia.

Scrutò dietro le spalle dell’uomo. Due soldati della sicurezza si dovevano essere accorti che c’era qualcosa che non andava, e stavano venendo verso di loro.

“Ci vogliamo sbrigare? Non ho tutta la mattina da passare in sua compagnia” le sibilò il Comandante, visibilmente spazientito.

Lei avrebbe fatto di tutto perché smettesse di fissarla con occhi grigi vagamente inquietanti, e dovette sopprimere un deciso sospiro di sollievo quando, finalmente, il sistema stampò l’autorizzazione richiesta.

La posò sul bancone senza troppi complimenti, osservando l’ufficiale che, soddisfatto, la ritirava sorridendole mentre se ne andava.

“Grazie di tutto, signorina.”

Lei fece cenno alle guardie che era tutto a posto, pensando che, dopotutto, l’avvocato aveva un sorriso gentile nonostante lo sguardo severo.

***

L’autista del pulmino che li stava portando all’ospedale militare aveva ricevuto ordine di non curarsi del traffico, e stava scrupolosamente ottemperando alla consegna. Athrun, nonostante la cintura di sicurezza, dovette aggrapparsi ad una maniglia per non finire addosso ad Yzak; che sedeva al suo fianco, gli occhi fissi sulla strada e persi in chissà che pensieri.

L’Ammiraglio di Orb sospirò, lanciando uno sguardo dietro di sé. Il gruppo di dieci ragazzi delle forze di sicurezza che si erano portati dietro erano indaffarati a sistemarsi l’equipaggiamento, controllando che le armi automatiche di cui erano dotati funzionassero a dovere.

“Non è un po’ troppo, Yzak? Quelli sono solo due…”

L’appunto gli guadagnò un’occhiata furente. “Forse sono solo due. Non possiamo escludere che ce ne siano altri. Hai visto cosa possono fare, no? Dobbiamo essere pronti a tutto.”
Non poteva dargli torto, ma la cosa lo inquietava comunque. Decise di affrontare subito la questione che più gli stava a cuore.

Athrun affondò gli occhi in quelli di Yzak.

“Lo farai davvero? Darai l’ordine di sparare addosso a Nicol?”

L’altro distolse lo sguardo, sferrando un pugno contro la portiera.

“Che cosa dovrei fare secondo te? Far ammazzare i miei uomini in nome di un’amicizia che non c’è mai stata e di una persona che, forse, non esiste nemmeno più?”

“Non escludiamo in partenza tutte le ipotesi. Potrebbe essere stato costretto, potrebbero avergli fatto il lavaggio del cervello.”
“Potrebbero, anche se sai bene che quelle tecniche di condizionamento funzionano malissimo con noi.”
“Però …”

Yzak lo interruppe rudemente. “Basta Athrun.”

Poi, davanti al suo sguardo attonito, il giovane albino distolse gli occhi, tornando a fissare la strada come se non potesse più sopportare di guardarlo.

Le labbra di Yzak avevano una piega amara quando parlò di nuovo, e il tono di voce era basso e tirato.

“Credi che me ne freghi di chi è? E che non ti capisca? Scusa sai, se non ho pianto come un bambino quando è morto davanti ai nostri occhi, come hai fatto tu. E scusa se il pensiero della sua dipartita non mi ha fatto andare fuori di testa, come è successo per te.”

Athrun, nonostante quelle parole, non si sentì offeso, ma solo terribilmente in pena per Yzak. Sapeva di stare ascoltando qualcosa che probabilmente l’amico aveva nel cuore da anni.

L’albino scosse leggermente la testa, facendo ondeggiare i capelli candidi.
“Mi avrete giudicato tutti senza cuore, non è vero? Avrete pensato che a me non poteva importare di meno, tanto io non l’avevo mai sopportato, al punto di chiamarlo più volte ‘vigliacco’, anche in faccia. Qualcuno avrà immaginato che sotto sotto ne ero anche felice, così il nostro gruppo si era liberato di un incompetente.”

“Yzak…” mormorò Athrun, ma l’altro lo bloccò alzando una mano.
“Lasciami finire. Lo so che la cosa non riguarda te e Derka, ma per molti altri era così. Ne sono consapevole. E sai cosa mi irrita di più? Che, ripensandoci, ai tempi ero talmente esaltato, e odiavo così tanto l’idea che qualcuno mi potesse considerare un debole, che non feci nulla per smentire quelle voci. Nulla. Quando invece l’avevo ammirato. Quel... bambino che senza nemmeno un’arma degna di quel nome ti aveva salvato da morte certa, pagando un prezzo altissimo mentre io e Dearka eravamo rimasti a fare le belle statuine.”

L’albino ritornò a guardalo. “Non sopportavo Nicol e il suo comportamento mi innervosiva, perché odiavo quella sua aria perennemente allegra e ottimista, come se stessimo giocando e non combattendo. E lo invidiavo, va bene? Perché così giovane gli avevano già affidato la macchina da guerra più potente mai costruita, e faceva del suo meglio per usarla pur avendo solo una minima esperienza in battaglia. Era sempre il primo ad obbedire agli ordini senza mai discuterli e, anzi, fornendo anche delle riflessioni tattiche molto accurate.”

Il tono dell’albino si fece burbero, mentre un leggero rossore gli colorava le guance. “Non capivo che diavolo ci facesse tra di noi, quando avrebbe dovuto essere a casa, a strimpellare il suo dannato pianoforte. Ma, soprattutto, odiavo la sua cieca venerazione per te, che non valevi nemmeno una delle sue occhiate adoranti.”

Athrun non ebbe cuore di affondare il coltello nella piaga. Sorrise, invece. “Avresti preferito che ammirasse te?”

“No di certo, non avevo bisogno di lacchè riverenti. Ma dimmelo, sai, se mi ritieni un idiota” borbottò l’altro, incrociando le braccia al petto.

Ad Athrun fece quasi tenerezza. “Siamo in due. Dopotutto sono io quello che ha capito quanto la sua amicizia fosse importante solo quando quell’ammirazione che provava per me l’ha ucciso” rispose Athrun, consapevole che la frase avrebbe dovuto essere formulata in ben altro modo.

Yzak annuì. “Bene, adesso che ci siamo chiariti ti posso rispondere che, no, farò di tutto per catturarlo vivo. Se non altro perché voglio sapere… esigo di sapere cosa gli è successo.”

E, su quello, Athrun non poteva che essere d’accordo.

Sentì il veicolo rallentare e, guardando fuori dal finestrino, si accorse che erano giunti davanti all’ospedale. Un’imponente servizio d’ordine stazionava davanti all’ingresso principale, e tutti gli uomini erano in tenuta d’assalto.

Yzak gli fece cenno di seguirlo, ed entrambi scesero dal pulmino seguiti dalle forze che l’albino si era portato dietro.

“I tiratori scelti si posizionino sul tetto, voi cinque rimanete qui a supporto delle truppe regolari” ordinò rivolto ai suoi. “Gli altri, a coppie, si dispongano nei pressi delle uscite principali. La piantina indica un parcheggio sotterraneo. Voi altri due recatevi lì e presidiate scale ed ascensori” fece all’ultimo gruppo, poi si girò verso Athrun. “Tu con me, andiamo un po’ a trovare il prigioniero.”

L’Ammiraglio di Orb lo seguì obbediente, confortato dalla capacità di Yzak di riuscire ad avere sempre tutto sotto controllo. Sperò solo che l’albino avesse calcolato bene le infinite variabili che quella situazione presentava.

***

Bastò sventolare davanti agli occhi delle guardie l’autorizzazione, per farsi aprire la porta della stanza dove Lex era ricoverato.

Addirittura, uno degli uomini gliela spalancò personalmente.

Un tenue sorriso toccò le labbra di Nicol. Suo padre gli aveva sempre detto che c’era solo una cosa che spaventava gli arroganti militari di ZAFT, ed era il finire sotto inchiesta da parte del severissimo Dipartimento di Giustizia. Era contento di sapere che anche dopo tanti anni la situazione su PLANT era rimasta la stessa.

Anzi, non era cambiato un bel niente da quando se ne era andato.

Non aveva resistito alla tentazione di guardasi in giro mentre il taxi lo portava all’ospedale militare, riconoscendo ogni angolo di quella città che dieci anni prima chiamava ‘casa’. C’era giusto qualche palazzo nuovo, e un bel monumento dedicato a Lacus Clyne ma, per il resto, tutto era rimasto com’era.

Nicol avrebbe di gran lunga preferito il contrario; era troppo doloroso riconoscere ogni angolo ed associarvi ricordi che desiderava non fossero i suoi.

E, quando gettò uno sguardo verso il letto di Lex, dovette ammettere con sé stesso, di nuovo, che avrebbe desiderato essere ovunque meno che in quel posto.
Dalle informazioni che avevano carpito, e dalle mappe dell’edificio, lui e Riko avevano appurato che non sarebbe stato facile ma nemmeno impossibile portare via Lex da lì. L’unica vera incognita erano le sue condizioni. Che dovevano essere piuttosto gravi se, da solo, non era stato in grado di fuggire.

Una sola occhiata al suo amico bastò a Nicol per rendersi conto che non sarebbe mai riuscito a farlo uscire da quel posto.

Lex era tenuto in vita dalle macchine che lo circondavano, compresa una cuore-polmoni impossibile da disattivare senza ucciderlo.

Si avvicinò a lui con il cuore in gola, leggendo attentamente i dati sui monitor.

Il sistema cardiocircolatorio e respiratorio era compromesso, la pressione al minimo accettabile per un uomo della sua stazza, e le pulsazioni erratiche.

C’era un palmare posato su un tavolino accanto al letto, e Nicol lo sollevò, scoprendo che era la cartella clinica dell’amico. Non fu una sorpresa leggervi che la sua speranza di vita si riduceva a qualche ora.

“Uno stupido incidente. E che ironia” mormorò. “I polmoni che gli hanno istallato si sono danneggiati, e qui non c’è nessuno che li possa sostituire o riparare.”

Uno sguardo ad un altro monitor gli confermò che difficilmente Lex avrebbe ripreso conoscenza, l’encefalogramma era quasi piatto. Quasi.

Non c’era nessuna speranza per lui, ma la cosa che fece finalmente decidere Nicol fu la cruda visione dei circuiti bionici del braccio dell’amico, messi a nudo dalla rimozione della sintopelle.

“Miguel ha sempre avuto ragione” mormorò con una smorfia di dolore. “Per noi, che differenza fa se siamo nelle mani dei Natural o dei Coordinator?”

Lex era stato il suo migliore amico in tutti quegli anni, e in quel momento c’era una sola cosa che poteva fare per lui: evitare che lo trasformassero di nuovo in una cavia, per le poche ore che ancora gli rimanevano da vivere.

Nicol scrutò per l’ultima volta il volto tumefatto di Lex, poi staccò l’allarme collegato alle macchine, e si dedicò a spegnerle meticolosamente tutte.

Quando l’ebbe fatto, e accertatosi che l’encefalogramma fosse finalmente piatto, trattenendo le lacrime estrasse il proprio palmare e mandò alle nanocapsule dell’amico il segnale che le avrebbe fatte esplodere. Non avrebbe lasciato quel povero corpo nemmeno dieci minuti in balia dei macellai di ZAFT.

***

Quando giunsero al piano dove era ricoverato il prigioniero sia Yzak che Athrun notarono immediatamente un leggerissimo odore di bruciato aleggiante nell’aria. Si scambiarono un’occhiata, affrettandosi verso la stanza. Un allarme antincendio cominciò a urlare quando erano a metà del corridoio.

Girarono l’angolo, trovando due guardie e un paio di medici davanti alla porta, indaffarati a cercare di aprirla. Il tanfo si era fatto più forte.

“Ma che diavolo state facendo?” urlò ai due.
“La porta è bloccata.”

Yzak non perse tempo. Estrasse la pistola puntandola contro la serratura elettronica, che esplose in un lampo di scintille. La porta si aprì di scatto.

Athrun era dietro di lui e, messosi un lembo della giacca davanti alla bocca, lo seguì dentro la stanza, avvolta in una spessa coltre di fumo. Entrambi gli uomini non poterono non soffocare un’imprecazione.

Sul letto, tra le coltri carbonizzate, giacevano dei resti anneriti dalla vaga forma umana. Nulla era rimasto intatto. Anche i preziosi impianti che tanto avevano deliziato il dottor Zimmer erano ridotti a scheletri ossidati, che si disintegrarono in cenere davanti agli occhi di Athrun. Il sistema antincendio entrò in funzione un attimo dopo, eruttando una nube di acqua nebulizzata che ridusse le misere spoglie del terrorista ad una melma nerastra.

“Cos’è successo?” sibilò Yzak in faccia ad una delle guardie.

“Non ne abbiamo idea. Qualche minuto fa è entrato il suo avvocato ma ci ha detto che andava tutto bene” balbettò l’uomo.

“Quale avvocato?”

“Giovane, capelli verdi, in divisa nera. Aveva un’autorizzazione.”

“Dov’è andato?”

“In direzione degli ascensori che scendono nel parcheggio sotterraneo.”

Yzak lanciò uno sguardo ad Athrun, ed entrambi annuirono.

“Chiama la sicurezza. Che tutti gli ascensori vengano bloccati e che le guardie si concentrino all’uscita del parcheggio” ordinò l’albino, prima di gettarsi con l’amico all’inseguimento del misterioso avvocato.

Giunsero davanti agli ascensori e si resero conto che uno aveva già quasi raggiunto il parcheggio.

“Che facciamo?”
“Le scale” sibilò Yzak. “Non possiamo rischiare di rimare chiusi dentro.”

Si precipitarono di sotto. Erano quasi giunti quando Yzak ricevette una chiamata.

“Dearka?” urlò all’auricolare. “Che vuoi? ….Cosa?” esclamò sconcertato pur nella foga della corsa. “Tenete la posizione. Questo vuoi dire che ce n’erano più di due. Cercate di prenderli vivi! Qui all’ospedale ne abbiamo almeno un altro, io e Athrun tenteremo di beccarlo.”

Chiuse la comunicazione lanciando un’occhiata furibonda all’amico.

“Il suo gruppo e quello di Kappler sono sotto il fuoco incrociato di armi automatiche. Mitragliatrici pesanti, pare. Ci siamo sbagliati.”

“Non potevi sapere che non avevano intenzione di liberare il loro compagno.”

L’espressione di Yzak suggerì ad Athrun che non l’aveva minimamente ascoltato, tutto preso dall’inseguimento.

Rimase zitto per il resto della breve discesa, non tenendoci a diventare il bersaglio delle ire dell’albino. Già aveva troppo a cui pensare.

Quando giunsero nel parcheggio le guardie che si erano aspettati di trovare non erano in vista. Sorpresi, si avvicinarono agli ascensori, armi in pugno. Una delle cabine era al piano, le porte tenute spalancate dai corpi esamini di due uomini che Athurn riconobbe come membri del gruppo di Yzak. Non avevano ferite da arma da fuoco e, come appurò proprio Athrun avvicinandosi, erano fortunatamente solo svenuti.

“Siamo arrivati tardi” Yzak esalò quasi ringhiando, allontanandosi dalla cabina e scrutando verso il parcheggio.

Athrun lo seguì. Il sotterraneo era una sterminata distesa di automobili, avrebbero avuto bisogno di tempo per controllarle tutte.

Vide l’amico armeggiare con il palmare, imprecando ad alta voce.

“Non riesco a raggiungere nessuno dei miei, che diavolo sta succedendo?”

“Che ti sei fatto fregare come una recluta alle prime armi, Yzak Joule. Che direbbe di te Fred ‘Pugnale di ferro’?”

Athrun spalancò gli occhi e si cristallizzò al suo posto. Perché la voce che aveva appena parlato, sebbene più profonda e mascolina rispetto a quella che lui si ricordava, era indubitabilmente quella di Nicol Amalfi.

Entrambi i giovani si girarono verso l’ascensore.

Chi li teneva sotto tiro, puntando alle loro teste due pistole di grosso calibro, vestiva una divisa nera di ZAFT, e aveva corti capelli verdi.

Adesso che lo vedeva bene, senza il cappuccio che gli nascondeva parte del viso, Athrun non poteva negare che conservava ancora una vaga somiglianza con il suo amico. Nemmeno lo sguardo era totalmente differente, a parte il colore degli occhi. Erano lucidi, come se avesse appena pianto, ma determinati e innaturalmente fissi su di loro.

Athrun non si azzardò a muovere un muscolo.



Nassau, 30 novembre, C.E. 73


Chiusa nel suo alloggio, accoccolata sul divano con in grembo il portatile, Cecilia tentava disperatamente di lavorare, non riuscendo in ogni modo a prendere sonno, nonostante fossero le due di notte passate.

Dopo un po’, resasi conto che, di nuovo, gli occhi le scivolavano via dallo schermo verso un angolo della stanza, chiuse il monitor quasi con rabbia, gettando il computer nel punto più lontano del confortevole sofà.

Si tirò le gambe al petto, stringendosele come era solita fare quando era una bambina, tutte le volte che la maestra la sgridava perché faceva sfigurare i compagni di classe.

“Merda merda...” ripeté sotto voce, incapace di fare qualunque cosa se non imprecare contro il destino avverso.

Alla fine, quello che aveva più temuto si era avverato: un mese prima Lenk Granato era stato sostituito da qualcuno più fedele ai Logos. Cecilia e i membri rimasti del vecchio staff avevano protestato, minacciato di scioperare e boicottare i lavori e, in tutta risposta, Lord Djibril in persona aveva dato ordine di farli trasferire in massa. Lei esclusa.

Cecilia era rimasta sola, e davvero le sembrava crudelmente ironico come le sue capacità, che l’avevano fatta vantare così tanto davanti a Lenk, adesso fossero diventate le catene che la tenevano avvinta ad un luogo che non era più una casa ma una prigione, dalla quale lei non poteva sperare di contattare nessuno. D’altronde, non c’era nemmeno nessuno a cui potesse chiedere aiuto.

I suoi colleghi le mancavano. Lenk le mancava. E, soprattutto, le mancava Nicol.

Essendoci qualcun altro a controllare il circuito video interno non si fidavano nemmeno quasi più a parlarsi e, se lo facevano, era solo per questioni strettamente attinenti al lavoro. Ovviamente, vedersi da soli era totalmente fuori questione.

Cecilia gemette di frustrazione, affondando i denti nel labbro inferiore. Solo a volte, e sempre se altri nel laboratorio erano presenti, lei gli faceva una carezza mascherandola da qualcos’altro; era facile visto il suo lavoro, ma il gesto la lasciava ancora più insoddisfatta. Nicol, da parte sua, non si azzardava invece a fare proprio nulla. Anzi, le sembrava che cercasse ogni pretesto per stare lontano da lei. Cosa che, ultimamente, aveva fatto riaffiorare tutti i suoi dubbi sul loro rapporto.

‘Magari non aspettava altro. Voleva darci un taglio e non sapeva come dirmelo.’

Lucidamente sapeva che non poteva essere vero e che, probabilmente, Nicol la teneva a distanza per impedirle di fare qualche stupidaggine; dei due era sempre stato il più cauto, non volendo metterla in pericolo. Ma, infantilmente, Cecilia non riusciva a non trovarlo fin troppo freddo, proprio quando lei avrebbe più avuto bisogno della sua compagnia.

‘Ma forse meglio così... Sì, meglio così’ si ripeté, facendosi forza. ‘Prima di essere costretta a non vederlo tornare da una delle missioni alle quali oramai tutti loro partecipano. O a vederlo tornare ridotto in un modo per me impossibile da rattoppare. Prima di essere accomunata a sua madre, a suo padre, ai fratelli o alle sorelle se Nicol ne ha avuti, che l’aspettavano a casa e invece hanno ricevuto solo un bel tesserino plastificato con la scritta ‘missing in action’. Già, forse questo è il risultato più conveniente per entrambi.’

Afferrò un pacchetto di fazzoletti, decidendo che era il caso di piangerci sopra, una volta e per tutte. Poi sarebbe ritornata al suo lavoro, e non si sarebbe mai più lasciata distrarre dalle sirene dell’amore. O quello che era.

‘È stato bello, ma non fa per me’ si disse per convincersi, soffiandosi rumorosamente il naso.

Scivolò giù dal divano, forse una tisana l’avrebbe aiutata a calmarsi quando, ad un tratto, la quiete della notte fu squarciata da una potente esplosione.

Le luci nell’appartamento si spensero e, istintivamente, gli occhi di Cecilia corsero alle finestre. Casa sua, come quelle del resto del personale, era situata dentro il complesso dell’Istituto scientifico. Le silhouette degli edifici che lo componevano, in quel momento, risaltavano contro le fiamme di un grosso incendio che era scoppiato, o così le sembrò da quella prospettiva, proprio accanto alla porta principale. Di importante da quella parte, che lei sapesse, c’era solo la centrale energetica.

Guardò le lampade del suo soggiorno. Se c’era stato un incidente là di certo non si sarebbero riaccese, ma la luce dello schermo del portatile la guidò fino al tavolo, dove aveva lasciato il badge magnetico per accedere al suo laboratorio.

Lo afferrò e si mise le scarpe.

Nella sezione scientifica il gruppo elettrogeno autonomo dovrebbe aver già ripristinato la corrente, ma devo andare ad accertarmi che le mie macchine non abbiano subito danni.’

Era quasi alla porta, ma si bloccò raggelata nel sentire raffiche di mitra aggiungersi al fragore dell’incendio e agli allarmi che suonavano come impazziti.

“Che sta succedendo?” mormorò, mentre la sua attenzione ritornava alle finestre.

C’erano sagome che correvano nel buio, ombre che sparavano contro altre ombre, che cadevano falciate dalle raffiche.

Cecilia collegò immediatamente l’esplosione a loro.

Siamo sotto attacco’ pensò sbarrando gli occhi.

Essendo un bersaglio privilegiato avevano già fatto esercitazioni nei mesi precedenti, e tutti erano al corrente delle procedure da seguire.

Prendere la torcia di emergenza accanto alla porta e dirigersi nei punti di raccolta’ recitò, senza riuscire a muoversi; perché al di sopra degli edifici uno spettacolo molto più impressionante dell’incendio era appena cominciato.



Lo vide scendere dal cielo, nero e oro, quasi invisibile ad occhio nudo; Cecilia non aveva mai visto un modello di quel tipo(1), sebbene assomigliasse vagamente a quello che nei notiziari di qualche anno prima chiamavano GAT Strike. Il Mobile Suit sconosciuto si avvicinò fino a sfiorare il palazzo più alto, prima di diventare bersaglio dei due Strike Dagger che erano a guardia del complesso.

Gli si avventarono contro sguainando le proprie spade laser ma, in quel momento, il loro bersaglio scomparve letteralmente dalla vista.

Cecilia trattenne il fiato mentre entrambi i Dagger venivano trapassati da qualcosa emerso dal nulla, ed esplodevano con un boato assordante.

Pochi secondi dopo, mentre ancora se ne stava inchiodata al suo posto, la porta del suo appartamento si spalancò.

Cecilia si girò trattenendo un urlo, con il cuore che le balzava in gola.

Sulla soglia c’erano due dei Coordinator che lei aveva curato. Una era l’unica ragazza del gruppo, l’altro era proprio Nicol. Entrambi armati. Lei non la degnò di uno sguardo, preferendo lo spettacolo alle sue spalle.

La ragazza fischiò in approvazione. “E così vedo che Miguel Ayman non ha perso il suo tocco. Beh, certo che con quel sistema di Mirage Colloid chiunque saprebbe vincere.”

Cecilia non riusciva invece a staccare gli occhi da Nicol, che la stava fissando con un’espressione preoccupata in viso.

“Che succede?” gli chiese.

Fu la ragazza che le rispose. “Che ce ne andiamo.”

“Non potete... voi....”

“Tranquilla. Le nanocapsule sono state disabilitate da quelli di Serpent Tail, non saremo più schiavi dei Logos. Noi andiamo con loro, e anche la tua presenza è stata richiesta. Forza, vieni” le disse, bruscamente.

Cecilia fece un passo indietro. Quel gruppo di sanguinosi mercenari lo conosceva di fama e, di certo, nulla di buono le sarebbe valso ad andare con loro.

Intuendo la sua esitazione, la Coordinator sollevò la mitraglietta che stava stringendo.
“Quello era un ordine, dottoressa.”

“Che stai facendo?” le disse Nicol girandosi verso la compagna. Che gli rispose scuotendo le spalle.

“La tua amica qui non è convinta, forse è molto più legata ai Logos di quello che pensavamo.”

Cecilia si vide puntare in faccia l’arma. “D’altronde, sarà stata anche carina con noi ma rimane sempre il loro capo progetto, non te lo scordare.”

Lo sguardo della Coordinatrice si fece duro. E, dato che anche lei aveva installati impianti ottici, Cecilia vide la propria morte in quegli occhi da predatore. Lorran era una dei pochi del gruppo con i quali lei non aveva mai legato.
“I Serpent Tail sono stati chiari” le sibilò la ragazza. “Deve venire con noi ad ogni costo. Saranno pagati bene per questo, e anche noi, di conseguenza.”

Nicol le prese il braccio che reggeva la mitraglietta, costringendola a voltarsi verso di lui. “Aspetta. Cecelia è solo spaventata. Dalle un attimo di tregua.”

“Non possiamo aspettarla tutta la notte! Tra poco le guardie saranno qui, e tra tutte e due abbiamo munizioni a sufficienza solo per uscire dal complesso.”

L’attenzione di Nicol tornò su Cecilia. “Vieni con noi. Tu non hai nulla a che spartire con questi.”

Incoerentemente, la scienziata scosse la testa. Perché stava esitando? Non si era appena detta che quel posto era diventato una prigione per lei? Lo guardò negli occhi. Non avrebbe dovuto essere felice che la persona che amava si era scomodato a venire a prenderla?

Non per me, per loro. Per Serpent Tail. D’altronde, o questo o... cosa? Mi sparerebbe se non andassi con loro? E se anche non lo facesse cosa mi rimarrebbe? Voglio davvero rimanere schiava dei Logos per tutta la vita?’

Cecilia chinò la testa e andò verso di loro. “Mi arrendo” mormorò di malagrazia.

La Coordinator si girò per uscire, nel corridoio illuminato dalle fioche luci di emergenza rossastre.

“Tanto meglio. Nicol, pensaci tu a questa visto che ti sta tanto simpatica.”

Il giovane la prese delicatamente per un avambraccio e la trasse a sé, senza che lei facesse nulla per opporsi, ma non riuscendo ad incrociare il suo sguardo.

“Ne parliamo dopo, va bene? Adesso usciamo di qui” le disse, e Cecilia non ebbe nemmeno voglia di annuire. Immaginava di stare sembrando una bambina capricciosa, ma riteneva di avere tutte le attenuanti del caso, compresa una mitraglietta puntata alla testa.

Si affrettarono lungo il corridoio, con la scienziata che cercava di fare del proprio meglio per stare dietro ai due, mentre intorno continuavano a riverberare colpi di arma da fuoco.

“Forse è il caso che la prendi in spalla” urlò Lorran, e poco ci mancò che Cecilia le facesse una boccaccia.

Due guardie apparvero davanti a loro, ma non ebbero minimamente il tempo di reagire. Lorran, che era davanti, alzò la sua arma e li colpì entrambi.

“Sbrighiamoci!”
Passandogli accanto Cecilia tentò disperatamente di non volgere gli occhi verso i corpi, temendo di identificare qualcuno che conosceva, ma non poté non vedere la Coordinator che puntava l’arma alla testa di uno dei due e faceva fuoco.

“Ma perché?” urlò, ma l’altra semplicemente fece spallucce.

“Erano solo i cani dei Logos, e un nemico morto è uno che non può più ammazzare te, ricordatelo. Sbrigati, Nicol, finisci quell’altro e andiamocene.”

Cecilia alzò gli occhi verso il giovane, che invece stava guardando la seconda guardia. Fece lo stesso.

Come temeva, lei lo conosceva, anche se non approfonditamente. Di certo, l’uomo a terra non era nemmeno uno dei peggiori agenti dei Logos, lì dentro.

Era ancora vivo, anche se perdeva copiosamente sangue da una brutta ferita allo stomaco, niente di mortale se curato in tempo, giudicò Cecilia.

Vide Nicol alzare la propria arma, esitante, ma prima che potesse fare fuoco lei gli strinse convulsamente il braccio.

Per una qualche ragione non voleva vederlo commettere una mostruosità simile. Il Coordinator fissò prima lei e poi la guardia, e infine le scoccò un pallido sorriso.

“Andiamo” le disse trascinandola quasi via.

“Come non ti sopporto quando fai così” sibilò Lorran a Nicol mentre si allontanavano velocemente, ma né lui né Cecilia ebbero il tempo di rispondere.

Il suono della raffica la raggiunse nell’esatto istante nel quale un dolore inconcepibile, come non ne aveva mai provato prima, le esplose nel braccio sinistro e nella schiena.

Cadde sulle ginocchia e poi a terra, dove rimase sentendo il sangue uscirle dalla bocca e dal naso.

Suoni ovattati, che le sembrarono l’urlo di qualcuno e una seconda sventagliata di proiettili la raggiunsero.

Stavano cercando di sollevarla, ma Cecilia avrebbe voluto urlare che la lasciassero dov’era, che faceva leggermente meno male così. Tanto adesso sarebbe arrivato un dottore e l’avrebbe sistemata, quel posto era pieno di medici, no?

La voce di Lorran penetrò come una stilettata nei suoi sensi annebbiati, dura ma in qualche modo amareggiata.

“Cazzo, cosa ti avevo detto? Quel bastardo l’ha colpita, bel ringraziamento per non avergli fatto saltare la testa.”

Incoerentemente, l’ultimo pensiero di Cecilia fu che era davvero odioso dare ragione a quella stronza di Lorran.



___________________________



Note


(1)Ho dato a Miguel il Gundam Astray Gold Frame Amatu, che potete vedere qui http://www.mahq.net/Mecha/gundam/astray/mbf-p01-re.htm Questa unità monta il braccio destro del GAT-X207 Blitz ed è dotato di Mirage Colloid.



I soliti ringraziamenti iniziali vanno alle mie beta e consulenti Shainareth e Solitaire.
A tutti gli altri, scusatemi se non ho potuto ringraziarvi e rispondervi privatamente ma i preparativi per Lucca Comics incombono e sono, purtroppo, un po' presa. :( Comunque...
Gufo_Tave prima di cominciare a scrivere, sapendo che una consistente parte della fanfiction sarebbe stata basata su avvenimenti passati, avevo pensato di ricorrere ai ricordi dei protagonisti. Ma l'ho scartata come soluzione perché in primo luogo così mi sembra sia più scorrevole e "fresca" come storia, e poi perché ho un istintivo orrore per le storie dove i personaggi indugiano troppo nei ricordi. Un po' sì, però il troppo, secondo me, rende la lettura confusa e pesante. Riguardo agli armamenti, sono d'accordo sulle Desert Eagle. Il caricatore ha un po' pochi colpi, ma confido che nel 73 C.E. ne uscirà un modello migliore. ;) Quanto al mitra non c'è una vera ragione sul perché ho scelto quello. Mi serviva una cosa futurista, per non andare proprio sui soliti M16 o AK47, che immagino siano in quegli anni anche fuori produzione, e quando un mio collega appassionato di videogame mi ha passato l'immagine di quel gioiellino mi sono innamorata ;)
NicoDevil sì, hai ragione, anche a me ricorda proprio quel "qualcuno" XD

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Capitolo 7
*** Certezze ***


Certezze



Aprilius City, 14 dicembre, C.E. 81


Sbagliato... sbagliato...’

Trattenendo il fiato Athrun si spostò leggermente e la pistola che lo stava tenendo sotto tiro si mosse di conseguenza, ritornando a inquadrarlo con millimetrica precisione.

Nell’assoluta incertezza di quello che poteva fare, Athrun accennò a quel punto a fare mezzo passo verso Nicol. E fu uno sbaglio.

Sentì il proiettile passargli accanto all’orecchio destro, così vicino da accarezzargli la pelle, mentre lo sparo veniva soffocato dal silenziatore dell’arma.

“Rimani al tuo posto” gli ordinò Nicol, e Athrun non poté fare a meno di obbedire.

Gli aveva sparato senza nemmeno guardalo in faccia, e Athrun non aveva dubbi che Nicol avrebbe potuto benissimo colpirlo, se solo avesse voluto.

Accanto a lui Yzak esplose in una secca risata, e stavolta l’Ammiraglio di Orb si limitò a girare cautamente la testa verso di lui.

L’albino aveva un’espressione tirata, sul volto che aveva perso ogni colore.

“Beh, Athrun, ti eri preoccupato che gli sparassimo addosso, non è ironico che sia invece lui a farlo? Come la mettiamo adesso? E tu? Che vuoi fare, ucciderci?”

“No se buttate le pistole e vi togliete di mezzo.”

“Non riuscirai mai ad uscire di qui, i miei uomini...”

Nicol scosse la testa. “Neutralizzati dal mio compagno. Credevi che fossi venuto solo?”
“Quindi l’attacco all’ospedale di Lacus era un diversivo?” ringhiò Yzak.

“Certo, non hai mai sentito parlare di mitragliatrici automatiche? E, in ogni caso, lei non è mai stata un bersaglio per noi.”

Un frigido sorriso toccò le labbra di Nicol. “Adesso spostatevi. Io voglio solo andarmene, non farvi del male.”

“Aspetta un attimo” urlò Athrun, abbassando leggermente la propria arma. Fissò il giovane che aveva davanti, anche se Nicol non aveva ancora accennato ad incrociare lo sguardo con lui. “Sei proprio tu? Tu sei... Nicol?”
“Vorresti che non lo fossi?” fu la strana risposta che gli venne data.

“Certo che no” esplose frettolosamente, al che, un’espressione di puro scherno apparve sul volto di Nicol, fino a quel momento assolutamente inespressivo.

“Ne sei proprio sicuro?”
Athrun stinse i denti. Il suo amico non aveva mai esibito una smorfia così sarcastica, né aveva mai avuto un tono tanto derisorio. A quel punto, si ricordò crudelmente delle parole di Shiho.

Non è lui. Qualunque cosa abbia passato questa non è la persona che conoscevo.’

Anche se era difficile negarne l’evidenza avendolo davanti.

“Se sei tu, allora perché mi stai puntando un’arma contro? E cos’è successo? Come mai...”

“Come mai non sono morto?” lo interruppe l’altro. “Perché, ti sono mancato?”
Ancora quel tono. Athrun cominciava a trovarlo snervante.

“Cosa?” sibilò Yzak. “Non so dove tu sia stato in tutti questi anni, anche se gradirei saperlo, ma ti faccio notare che il tuo amico qui è vivo per miracolo. Dopo la tua finta morte ha rischiato la vita per vendicarti. Tu non c’eri, ma...”

“Però è ancora qui, no? Non che sia proprio morto per me, giusto? Oh no, lui non ha proprio avuto il coraggio di uccidere il suo amichetto e se stesso, giusto?”

L’attenzione di Athrun ritornò su Nicol, il cui sorrisetto si era trasformato in una smorfia di disprezzo.

“Che stai dicendo?” riuscì a proferire, turbato.

Finalmente, Nicol lo guardò. “Credi che non lo sappia che il pilota dello Strike era il tuo amico d’infanzia? Ecco perché non riuscivi a combattere contro di lui seriamente” il giovane spostò la canna della pistola leggermente di lato, in modo che Athrun potesse vederlo bene in faccia. “Beh, non dirmi che non sei stato almeno un po’ sollevato che sia morto io invece di Kira. Mi avresti odiato se invece gli fosse capitato qualcosa? È così, non è vero?”

Athrun sentì improvvisamente la gola secca. Ancora dopo anni riteneva uno dei suoi errori più grandi non aver detto a Nicol di Kira. Lui sicuramente l’avrebbe capito ed aiutato e, forse, l’infausto duello avrebbe potuto avere un esito diverso. Ma mai Athrun avrebbe pensato che Nicol sarebbe ritornato dai morti per rinfacciarglielo. E non era solo un problema di contenuti.

L’aveva accusato con una voce nella quale risuonava irritazione ma non un particolare livore, come se c’avesse pensato su per così tanto tempo che, evidentemente, la cosa aveva perso qualunque significato. Ma, ad Athrun, questo faceva ancora più male. Perché voleva dire che nessuno di loro aveva più importanza per Nicol. In nessuno modo, nemmeno da odiare.

E poteva capirlo da come li guardava, come se fossero niente di più di due oggetti inanimati per caso posati in mezzo al parcheggio. Senza valore.

Scosse la testa. Non poteva andare a finire in quel modo.

“No. Avrei pianto la sua morte, esattamente come ho pianto la tua. E la mia vita ne sarebbe stata sconvolta, come è stato dopo che te ne eri andato. Ma era una guerra, e io realizzai solo quando vidi il Blitz saltare in aria che veder morire i miei amici, per davvero, era il prezzo che avrei dovuto pagare per essermi arruolato. E lo pagai fino in fondo, perché tu puoi anche non crederci, ma il cielo mi è testimone che io feci di tutto per vendicarti. E che per sempre ti sono stato grato per avermi salvato la vita quel giorno.”

Athrun abbassò la pistola, la voce spezzata dal rimorso. “E tu, invece, ti sei mai pentito di quello che hai fatto?”

“Tutti i giorni, Athrun...” fu la decisa risposta, che fece sussultare l’Ammiraglio di Orb. Era quella che aveva più temuto.

Una manciata di metri li dividevano ma, anche da quella distanza, Athrun vide Nicol stingere la presa sul calcio dell’arma che stava puntando contro di lui. Sembrava essersi dimenticato di Yzak, che se ne stava in raggelato silenzio accanto ad Athrun.

“Io non volevo morire” disse Nicol. “Io volevo crescere. Volevo una vita e volevo rivedere la mia famiglia. Volevo andare all’università, e fare qualcosa di buono per il mio paese. Per quello mi ero arruolato, non te l’avevo forse detto qualche ora prima di quell’... incidente? Sapevo i rischi che avrei corso, ma mai ho desiderato la morte. Io lo rimpiango, Athrun. Non di averti salvato la vita, ma di avere perso la mia in quel modo.”

Il giovane in divisa nera si interruppe, chiaramente in difficoltà e, Athrun, nonostante fosse lui quello minacciato, non riuscì a non provare un’immensa pena per il suo amico.

“Nicol, che cosa ti hanno fatto?” mormorò.

“Non credo che tu voglia davvero saperlo. E, comunque, gli devo solo essere grato per essere vivo.”
“Grato?” grugnì Yzak. “Per averti trasformato in un killer a sangue freddo? In uno che non ha nessun problema a sparare su donne indifese?”

“Con quella traiettoria Lacus Clyne non sarebbe mai morta. E comunque io non uccido Coordinator.”
“Va bene, allora vogliamo parlare di Meyrin? Quella che hai quasi assassinato al museo?”

Athrun vide Nicol inclinare la testa in un modo decisamente curioso e lievemente rigido, come se le articolazioni del collo rispondessero a regole diverse della fisiologia rispetto a quelle del resto del consesso umano.

“La donna con i capelli rossi? Difficile che si sia fatta troppo male, con quell’angolo di impatto.”

“Ma cosa credi? Di stare parlando di oggetti?” gli urlò Yzak. E Athrun capì che era pericolosamente vicino a perdere le staffe.

Le labbra dell’albino si piegarono in una smorfia disgustata. “Ed era un oggetto anche quel tuo compagno là sopra? Quello ridotto in cenere?”

Athrun aveva i nervi talmente tesi che il suono dello sparo, pur se soffocato, lo fece sussultare, mentre Yzak crollava sulle ginocchia con un guaito di dolore, tenendosi la mano che fino a qualche secondo prima aveva impugnato la pistola.

Con estrema calma, Nicol si avvicinò a lui e gli avvicinò l’arma alla testa.

Lo sguardo rabbioso con il quale Yzak lo fulminò non sembrò avere nessun effetto sul giovane dai capelli verdi, che gli fece invece un sorriso quasi amabile.

“Allora, Yzak, chi è di noi due il vigliacco, adesso?”

A quel punto, Athrun decise che non poteva più stare a guardare. Maledisse silenziosamente il brutto carattere di Yzak e, incurante del fatto che fosse ancora sotto tiro, si approssimò ai due. Nicol gli lanciò un’occhiata di sbieco, ma stavolta non fece nulla per fermarlo.
“Lascialo perdere, è solo con me che te la dovresti prendere. È solo perché volevi salvare me che sei rimasto ferito.”

Sorprendendolo, Nicol scosse la testa. “Non solo. Sapevo di non essere il migliore dei piloti, ma volevo dimostrarvi il contrario. Ero consapevole di non avere nessuna speranza contro lo Strike ma, se non avessi fatto nulla, non solo avrei avuto sulla coscienza la tua morte, ma cosa avrebbero pensato di me Yzak e Dearka? Io non potevo più sopportare il loro... disprezzo.”

Le parole di Nicol erano così simili a quelle che Yzak gli aveva confessato poco prima che Athrun si ritrovò a sorridere sconsolato. Anche perché il giovane dai capelli verdi sembrava aver abbandonato ogni pretesa di indifferenza o di confronto con loro, e ora appariva come incerto sul da farsi. Abbassò gli occhi e, finalmente, anche le armi.

“Adesso basta” mormorò. “Quello là sopra era un mio amico, l’ho ucciso con le mie mani, e non ho voglia di fare lo stesso con voi. Toglietevi di mezzo. Io voglio solo… tornare a casa e non vedervi mai più.”

“Aspetta” gli disse Athrun, cercando nel suo cuore le parole più adatte a quel momento. Non poteva lasciare andare via Nicol in quel modo, o avrebbe passato il resto della vita a rimpiangerlo. “Lascia che ti chiarisca almeno una cosa. Quello che è successo è stata una cosa orribile, di cui nessuno di noi ha colpa. Eravamo in guerra, e troppo giovani per affrontarne le conseguenze. Hai ragione, avrei dovuto parlarti, confidarmi con te riguardo a Kira. E, soprattutto, non avrei dovuto lasciare che Yzak e Dearka ti prendessero in giro, quando tu invece mi difendevi sempre...”

“Sarebbe stata fatica sprecata, Athrun” esplose Yzak, alzandosi in piedi. Fissò duramente Nicol. “Perché vedi, il nostro pianista qui, è sempre stato molto più forte di te. Quindi tu non avevi proprio nessuna necessità di difenderlo, sapeva farlo benissimo da solo.”

L’Ammiraglio di Orb spalancò gli occhi, stupito, mentre Nicol indietreggiava.

“Che dici?”

Yzak avanzò deciso, senza nessuna reazione da parte di Nicol, che sembrava sconcertato tanto quanto Athrun dalla reazione dell’albino.

“Dico che fino a dieci minuti fa pensavo, anzi no, speravo che ti avessero semplicemente fatto il lavaggio del cervello. E invece è ben peggio di quello. Il problema è che tu sei proprio fuori di testa.”

“Basta, Yzak!” urlò Athrun, incapace di credere che l’amico stesse facendo una cosa tanto insensata. L’altro nemmeno gli rispose, troppo impegnato a sfogare tutta la rabbia che gli covava dentro in quei giorni. Guardandolo, Athrun si chiese se ne sarebbero usciti vivi.

“Con che coraggio ritorni qui solo adesso, dopo tutti questi anni nei quali noi abbiamo pianto la tua perdita?” Yzak sbraitò in faccia a Nicol, che ancora non stava facendo nessun tentativo di difendersi.

“Come puoi insultare Athrun per quello che ha fatto? Dopo tutto quello che ha passato a causa della tua stupidità!”

Yzak allungò una mano e afferrò Nicol per il colletto dell’uniforme, tirandolo verso di sé. Athrun si trovò a trattenere il fiato. Sapeva che se avesse voluto Nicol si sarebbe potuto liberare facilmente ma, in quel momento, stava semplicemente subendo senza dire una parola la sfuriata dell’albino.

“Va bene. È stato eroico. Te ne sei andato con un bel botto, ma da vero coglione. Che ti è saltato in testa di comparirgli davanti in quel modo? Perché non ti sei coordinato con noi? Avremmo potuto attaccarlo insieme!”

Alzò anche l’altra mano, anche se ferita, per scuotere Nicol come se fosse stato una bambola.

Preoccupato all’inverosimile, Athrun cercò di fermarlo. Non riusciva a capire cosa stesse passando nella testa di Nicol, ma il fatto che avesse ancora le pistole in mano rendeva l’atteggiamento di Yzak decisamente pericoloso. E poi, armi o meno, poteva fargli comunque molto male.

“Basta, smettila anche tu di rivangare il passato” urlò Athrun all’albino.

Che non fece caso alla sua protesta.

“Certo, insieme ce l’avremmo fatta” Yzak continuò, come se non l’avesse sentito. “Peccato che tu dovevi per forza giocare all’eroe solitario e, peggio, usare quell’arma da codardi nel modo più sbagliato possibile. Io rimasi esterrefatto. Non potevo credere che uno dei miei compagni, uno dei migliori in Accademia, avesse potuto fare qualcosa di così idiota.”

Terminò quasi ululando, senza che Nicol avesse dato segno di essere particolarmente colpito dalle sue parole. Però, quando ebbe finito, il giovane fece una smorfia quasi divertita.

“Lo sapevo, Yzak…”

“Sapevi, cosa?” ringhiò l’altro.

“Che mi avresti dato dell’idiota e del vigliacco non appena ci fossimo visti. Dopo tanti anni sei ancora così prevedibile.”

“Mi prendi in giro? Bastardo! E io che ho anche pianto per te…”

Athrun trattenne il fiato, mentre Yzak, realizzando forse quello che aveva appena svelato, diventava paonazzo.

L’albino lasciò Nicol e, esibendo la sua espressione più altezzosa, gli tirò un manrovescio.

Siamo fottuti…’ non poté a meno di pensare Athrun, incapace di trovare una via d’uscita a quel disastro.

Poteva sentire il respiro pesante di Yzak, e vedere come stesse stringendo i pugni che tremavano dalla tensione. Teneva la testa bassa mentre, di fronte a lui, Nicol si era portato una mano al viso, sembrando assolutamente scioccato.

Lo vide fissare Yzak ma, sorprendentemente, il giovane ebbe la reazione che lui meno si sarebbe aspettato, date le circostanze.

Si infilò le pistole nella cintura, e allungò una mano appoggiandola sulla spalla di Yzak.

“Mi dispiace se vi ho fatto preoccupare” mormorò, con gli occhi lucidi. E, solo in quel momento, Athrun finalmente riconobbe il suo amico.

“Stupido idiota, come hai potuto pensare di tornare in questo modo…” Yzak biascicò. “Ti odio.”

“Sfidami a duello se la cosa ti fa così tanto incazzare.”

“Ma piantala.”

Athrun non poté trattenere un sospiro di sollievo quando, finalmente, Nicol si decise ad abbracciare Yzak, che rispose al gesto con un attimo di ritardo. Nonostante quello, Athrun poteva chiaramente vedere le labbra dell’albino muoversi, e fu certo che stesse continuando a riempire l’altro di insulti.

Nicol gli lanciò un pallido sorriso da sopra la spalla di Yzak, e Athrun si ritrovò improvvisamente a combattere contro le lacrime.

“Sei davvero tornato?”

Nicol annuì. “In un certo senso.”



Aprilius City, 15 dicembre, C.E. 81


Avevano dovuto subire una pesante sfuriata da parte di Kappler per essersi lasciati scappare i due terroristi. Mentre il dott. Zimmer, ululando di sdegno, li aveva niente poco di meno che accusati di sabotaggio, per non aver saputo prevenire la perdita del suo ‘soggetto di studi’.
Ma, per una volta, Yzak si era detto d’accordo con Athrun: non potevano consegnare Nicol e il suo compagno alla milizia di Kappler. Non che avrebbero potuto, se anche ci avessero provato.

Il Coordinator chiamato Riko li aveva raggiunti nel parcheggio, dandogli la notizia che aveva disattivato tempo prima le telecamere. Nelle registrazioni non ci sarebbe stata traccia del fatto che si erano incontrati, né che Nicol avesse staccato le macchine al suo amico Lex. Inviando falsi messaggi ai caposquadra, e manomettendo in seguito il sistema di chiusura delle porte, Riko aveva bloccato i soldati sul tetto dell’edificio e nella hall, quindi nessuno aveva riportato ferite, così come gli uomini di Kappler e Dearka all’altra clinica.

In qualche modo, anche Yzak era rimasto impressionato dall’efficienza dei due, e aveva acconsentito a lasciarli andare, più che altro in nome della loro vecchia amicizia e del fatto che, pur mandando qualcuno all’ospedale, avevano liberato PLANT da una bella patata bollente. Alexander Borodin era dopotutto l’unico morto e nessuno, da nessuna parte, ne avrebbe sentito la mancanza.

Così si erano lasciati, ma Athrun era riuscito a strappare a Nicol la promessa di vedersi il giorno dopo, prima della sua partenza.



Si erano dati appuntamento fuori città, in un bar dove il gestore non aveva dato nessun segno di aver riconosciuto il giovane cliente, nonostante gli identikit che erano stati diffusi ovunque.

D’altronde, nelle news era passata la notizia che i terroristi si erano come volatilizzati, e che il controllo radar aveva individuato uno shuttle che si era allontanato senza autorizzazione da quel PLANT. Quindi, la popolazione, l’esercito e la polizia erano convinti che chi aveva attentato alla vita di Lacus Clyne fosse purtroppo lontano.

Athrun strinse il volante. Nicol gli aveva chiesto di poter visitare il cimitero, e l’Ammiraglio di Orb ve lo stava portando, sebbene colto alla sprovvista dalla particolare richiesta. A lui non sarebbe mai venuto in mente di andare a vedere la propria tomba, e nemmeno al Nicol che conosceva, ma si era oramai rassegnato al fatto che la persona che aveva accanto aveva conservato ben poco del suo amico.

Il piccolo Nicol era stato ciarliero e solare, al punto da infastidirlo, a volte, con le sue chiacchiere infantili, ma era diventato un adulto riservato e diffidente, che da quando erano partiti non aveva ancora detto una parola, preferendo osservare il panorama.

Athrun gli gettò un’occhiata. Da vicino Nicol non gli faceva un effetto molto diverso rispetto alle sue prime impressioni e, se non fosse stato per il fatto che il giovane, ogni tanto, batteva le palpebre, gli sarebbe sembrato di stare portando in giro un manichino.

Eppure ieri l’ho visto sconvolto. Evidentemente è diventato davvero bravo a nascondere le sue emozioni.’

Athrun non sapeva se esserne affascinato o disgustato. Era di certo attratto dal misterioso passato dell’amico, ma non aveva ancora trovato il coraggio di chiedergli cosa gli era successo. In parte, anche perché non riusciva in nessun modo a capire cosa gli stesse passando per la mente, ed era certo che Yzak non fosse stato poi tanto lontano dal vero il giorno prima, quando aveva praticamente dato del pazzo a Nicol.

Athrun, che si ricordava bene come era l’amico anni prima, non riusciva a far finta di non vedere come i suoi pattern mentali fossero alquanto particolari.

Come un ingranaggio nel quale qualche dente è spezzato o mancante. Non pregiudicano il funzionamento complessivo della macchina, ma la rendono comunque un po’... dissonante.’

E, ‘discorde’, era proprio il termine che avrebbe usato per descrivere il comportamento di Nicol.

Athrun si concentrò di nuovo sulla strada che, in quel punto, costeggiava il mare artificiale antistante la città di Aprilius. Il sole del primo mattino si rifletteva sulle acque, rendendo come di cristallo scintillante la linea che segnava il punto dove i flutti incontravano la parete del PLANT.

“Athrun, ti puoi fermare qui?” gli chiese Nicol, quasi sorprendendolo. Obbediente, accostò la macchina e fermò il motore a lato di un belvedere dal quale si godeva una bella vista sul mare. Solitamente era un luogo molto frequentato dalle coppie di innamorati, ma a quell’ora era deserto.

Senza dire una parola, Nicol scese dall’auto e si avvicinò alla balaustra seguito da Athrun, sempre più incuriosito.

“Visitare la propria tomba. Che idea macabra” lo sentì sussurrare. Poi Nicol si girò verso di lui, sembrando mortificato. “Ho cambiato idea. Vuoi salutare tu Rusty da parte mia? Io non ce la faccio.”

Athrun tirò un sospiro di sollievo. “Ma certo. Non devi preoccuparti di nulla. Tu…”

“Non l’avrei mai detto, ma adesso il mare di PLANT mi sembra davvero claustrofobico” gli disse l’amico, cambiando brutalmente argomento. Se c’era una cosa che Athrun aveva capito, da quel poco tempo che erano stati insieme, era che Nicol non amava particolarmente parlare di sé.

“Mi ricordo che ti piaceva molto l’oceano terrestre” gli rispose, assecondandolo.

Nicol sorrise, fissando gli occhi sull’orizzonte. “Era la cosa più bella che avessi mai visto. Da allora, ho sempre vissuto in città dalle quali si vede il mare, non posso starci lontano.”

“Anche ora?”

“Sì. È un bel posto, molto verde. La natura terrestre è così diversa dalla nostra. È… selvaggia.”

Athrun sorrise di piacere, ricordando i panorami di Orb; anche lui amava all’inverosimile i paesaggi terrestri, non addomesticati come quelli di PLANT.

“E cosa fai di bello?” gli chiese con circospezione, approfittando del fatto che gli sembrasse lievemente più rilassato.

Nicol rispose dopo qualche secondo di silenzio, volgendo su di lui occhi che quel giorno aveva verdi smeraldo, molto simili ai suoi. “Studio medicina all’università. E non fare quella faccia sorpresa, pensavi che lavorassi come killer a tempo pieno?”
Colto in fragrante, Athrun arrossì. “No, è che non immaginavo che…”

“Avessi una vita normale? Beh, è così. I soldi non sono un problema, e frequentare l’università mi lascia libero di allontanarmi quando voglio. Oltre che, ne so molto di più dei miei compagni.”

“Posso immaginare il perché” Athrun si pentì immediatamente della battuta, ma Nicol si mise semplicemente a ridacchiare.

“Lascia perdere, Athrun. Puoi anche non crederci, ma io amo quello che faccio per Serpent Tail. E, te l’assicuro, PLANT è un posto molto più sicuro da quando ci siamo noi a fare pulizia, e anche la Terra.”

“Pulizia? Vuoi dire assassinando a sangue freddo…”

“Gente che non avrebbe nessun problema a mandare all’altro mondo te e la tua bella famiglia.”

Nicol scosse la testa. “Athrun, se c’è una cosa che ho capito è che quando ero giovane ero davvero l’idiota di cui parlava ieri Yzak. Ho sbagliato tante volte, mettendo in pericolo me stesso e i miei amici. L’ultima volta, ho giurato che non sarebbe successo mai più. Io non voglio morire, e non voglio che capiti nulla alle persone alle quali voglio bene. Sarai d’accordo con me, immagino. No?”

Con estrema cautela, Athrun annuì. Nicol non aveva tutti i torti, e Yzak sarebbe stato lieto di sentire quelle parole sulla bocca di quello che criticava sempre perché risparmiava i suoi nemici; tuttavia, il tono raggelante con cui Nicol aveva detto quelle cose l’aveva quasi fatto rabbrividire.

Ma certo, come posso avere il coraggio di stupirmi quando io stesso mi sono maledetto per aver causato la sua morte, risparmiando troppe volte Kira?’ pensò con una smorfia. ‘È davvero cresciuto, e si è solo fatto meno idealista, come tutti noi, del resto.’

“Ovviamente. Farei di tutto per proteggere mia moglie e le mie figlie” ammise semplicemente. “Visto che sai di Kira Yamato saprai anche di loro, vero?”

“Sì. Ma per questo non c’è stata bisogno di nessuna indagine. Eravate in tutti i notiziari. La Delegata di Orb che sposa il figlio di Patrick Zala. Avete avuto un bel coraggio. Siete sulla lista nera di tutte le organizzazioni razziste terrestri.”

Un lieve sorriso tornò ad ingentilire il viso di Athrun al ricordo di Cagalli, bellissima nel giorno del loro matrimonio. “Lo so. Ma dovevamo dare un segno ai Coordinator e ai Natural che un futuro insieme era possibile, e l’evento ci è servito sia politicamente, come segno dell’unione tra la Terra e i PLANT, sia per indicare la strada che ci avrebbe permesso di superare tutti i problemi di sterilità che affliggevano il nostro popolo. Abbiamo sperato che altri seguissero il nostro esempio e, difatti, così è stato, ad Orb come altrove.”

“Sì, di certo coppie miste sono… possibili” gli disse Nicol con uno strano sorriso, vagamente malizioso. Athrun si chiese se anche lui avesse un legame con qualche Natural, ma chiedergli della sua vita amorosa gli sembrava talmente indelicato che preferì spostare il discorso su altro che gli stava più a cuore.

Prese un bel respiro. “Dimmi, Nicol, perché non sei mai tornato in questi anni? Perché non ti sei mai messo in contatto con noi e con la tua famiglia?”

Contrariamente a quello che aveva pensato, il giovane gli rispose subito, come se ansioso di confidarsi con qualcuno.

“All’inizio non potevo. Ero confuso… io… non sapevo dov’ero, e quello che mi stavano facendo. Quando capii, scoprii anche che non avevo la possibilità di rifiutare, né andarmene da dove ero. Anni dopo, quando tutto cambiò, non avrebbe avuto nessun senso tornare qui. Voi… nessuno, avrebbe apprezzato quello che ero diventato.”
“Non è vero” urlò precipitosamente Athrun, smentito da un deciso cenno di diniego di Nicol.

“Io non sono diverso da Lex. Puoi affermare davvero che a me non avrebbero fatto le stesse cose?”

Athrun rimase senza parole. No, non glielo poteva garantire, non dopo aver sentito il dottor Zimmer parlare del compagno di Nicol come di una cavia. Nonostante anche quell’uomo fosse un Coordinator, e un ex-soldato di ZAFT.

“Per te sarebbe stato diverso” si trovò però ad insistere. “Tu non sei uno qualunque, ma il figlio di uno degli ex-Consiglieri.”

Athrun seppe di aver toccato un tasto ancora dolente quando vide Nicol distogliere lo sguardo, chiaramente sconsolato.

“E pensi che avrei voluto dare ai miei genitori un altro dolore? Riapparendo da nulla in questo stato? Lo so che si sono rifatti una vita, e che hanno adottato una bimba rimasta orfana durante la guerra. Va bene così, Athrun; come ha detto un mio caro amico tempo fa, è meglio che le nostre famiglie ci ricordino come eravamo.”

Athrun non riusciva a trovarsi d’accordo, e non capiva come Nicol, che ancora aveva un padre, potesse rifiutarsi di vederlo, ma non poteva fare altro se non lasciar cadere la questione. L’amico appariva molto teso quando parlava del passato, e Athrun poteva immaginare che non dovesse nemmeno essere a suo agio in quel posto, dopo tanti anni passati a vivere un’altra vita.

“Sì” gli concesse quindi, sorridendo con più convinzione. “In effetti sei un po’ diverso, e con gli occhi di tutt’altro colore.”

Colto alla sprovvista dalla battuta, dopo discorsi tanto seri, Nicol lo fissò sorpreso. Poi si sfiorò uno zigomo con la punta delle dita.

“Oh, dici le lenti a contatto? Ne ho di tutti i colori. Vanificano un po’ l’efficienza degli impianti, ma non posso andare in giro con quegli orrori tutti i giorni.”

“Questi che hai sono molto belli” gli confessò Athrun, compiaciuto dal tono più rilassato di Nicol.

“Davvero?” gli chiese l’amico suonando, per la prima volta, entusiasta. “Sono dello stesso colore dei tuoi occhi, me li ricordavo bene sai…”

Il giovane si bloccò, arrossendo leggermente, e Athrun scoppiò a ridere, allungando una mano chiusa a pugno che Nicol prese nella sua, ridendo a sua volta.

Dai tempi in cui combattevano insieme ad Athrun era sempre rimasto il dubbio che l’ammirazione che Nicol provava per lui sconfinasse in un sentimento quasi romantico, pur essendo il giovane pianista troppo inesperto per capire probabilmente quello che stesse provando; lui non l’aveva mai ricambiato ma, da un certo punto di vista, Athrun si sentì sollevato dal constatare che Nicol non l’odiasse come aveva detto il giorno prima. Le successive parole dell’amico glielo confermarono.

“Quello che ti ho detto ieri... non è totalmente vero. È che ho cercato così avidamente di cancellare tutti voi dalla mia memoria; di ricordare Yzak e Dearka solo come quelli che mi prendevano in giro, e tu come quello che ci avrebbe sacrificati tutti per Kira Yamato. Quando al mio gruppo è stata proposta questa missione mi sono offerto volontario, pregando di non incontrare nessuno.”

“Perché?”

“Per quello che ti ho detto prima. Io non volevo che mi vedeste così. E poi, voi eravate un passato al quale io non potevo più tornare. Sarebbe stato troppo doloroso rivedervi.”

Adesso il tono di Nicol era così afflitto, e diverso da quello deciso di poco prima, che Athrun dovette combattere la tentazione di abbracciarlo.

“E lo è stato?” gli chiese.

L’altro rispose con un cenno del capo. “Sì. Ma ne è valsa la pena.”

Quelle parole confortarono lo spirito di Athrun, che prese Nicol per le spalle, guardandolo negli occhi.

“Parlo per me, ma Yzak e Dearka saranno sicuramente d’accordo. Noi non vogliamo solo essere il tuo passato. E, anche se capisco il tuo desiderio di non tornare più qui, non azzardarti a sparire di nuovo, va bene?”

Lo vide sbattere le palpebre, e annuire con determinazione, chiaramente commosso. Lui stesso non poteva dire di non essere profondamente emozionato. Come se incerto su qualcosa, Nicol affondò i denti nel labbro inferiore.

“Hei, Athrun, prima che me ne vada, avrei un grandissimo favore da chiederti.”

Athrun corrugò le sopracciglia, incerto, ma, quando sentì la richiesta di Nicol, non riuscì a non sorridere finalmente di gioia.



San Diego, 9 dicembre, C.E. 81


“Impossibile andarcene con un shuttle privato, ci intercetterebbero subito.”

“Allora verremo registrati in uscita come piloti di cargo. Quelli li ispezionano sempre di meno. Useremo una navetta controllata da remoto per ingannare le torri di controllo. Non sarà un problema.”

I quattro Coordinator annuirono alle parole di Nicol e Miguel, appoggiato alla parete in disparte, fece lo stesso.

Era molto soddisfatto del gruppo che aveva messo insieme per quella missione e, anche se lui non avrebbe partecipato, era certo della buona riuscita dell’operazione. Avevano tutti grande esperienza, e Nicol era diventato un ottimo leader. Attento al risultato ma anche a non perdere i suoi uomini. L’unica cosa che inquietava Miguel era proprio il luogo dell’operazione.

Chissà come diavolo reagiranno quando si troveranno in quell’ambiente. Sono abbastanza certo che saranno in grado di portare a termine il lavoro, ma la pressione psicologica alla quale saranno sottoposti sarà fortissima, anche se i tre che scenderanno ad Aprilius si sono offerti volontari e sanno bene quello che li aspetta.’

Li osservò sistemare in maniera assolutamente efficiente gli ultimi dettagli e dovette ammetterlo: quei ragazzi avrebbero fatto sfigurare qualunque milizia, sia di PLANT che della Terra.

Non potrebbe essere altrimenti, visto che sono stati progettati per combattere.’

Nicol e un suo compagno si guardarono, fissandosi per un istante con i loro occhi giallastri, e annuendo subito dopo. A quella vista, Miguel non riuscì a non trattenere una smorfia.

Trasmissione wireless dei dati. La cosa più simile alla telepatia che io abbia mai visto. Nicol mi ha confessato che non lo fanno spesso, perché gli causa sempre leggeri mal di testa, ma hanno comunque la possibilità di dialogare tra loro in segreto e di collegarsi alle reti esistenti per scaricare dati. E chissà se chi gli ha messo in testa quell’affare ha capito che li stava rendendo ancora meno umani di quello che sembrano.’

Era una cosa che non finiva mai di sconcertarlo il fatto che quando erano soli, o sapevano di non essere visti, i giovani Coordinator lasciavano cadere ogni pretesa di umanità, sembrando niente altro che efficienti automi.

Miguel li fissò tutti e cinque, intrigato a suo modo.

Perfetti, assolutamente perfetti e letali.’

Sorridendo aprì la porta e scivolò fuori dalla sala. La sua presenza non era più richiesta, quindi faceva meglio ad andare a trovare l’artefice di quelle meraviglie. La missione presentava un solo problema davvero delicato e, forse, solo lei poteva risolverlo.



Poco dopo giunse al laboratorio, e uno scoppio di risate femminili lo accolse sulla soglia. Entrò, trovando Cecilia intenta a lavorare sulla nuova aggiunta che Lorran aveva voluto alla mano sinistra artificiale.

La giovane Coordinator era seduta su uno dei banconi, le belle gambe che penzolavano dal bordo, messe in evidenza da una minigonna a pieghe che lui aveva visto solo su di lei, e sulle studentesse giapponesi. Innaturalmente immobile, con la pelle traslucida e i capelli rossi dal taglio particolare, era l’immagine vivente di una di quelle action figure delle eroine dei videogiochi che la Coordinator amava collezionare. E, esattamente come quelle combattenti virtuali, equipaggiate con impossibili armi, Lorran esibiva lunghi artigli alla mano sinistra; i suoi, però, non erano affatto finti.

Miguel si prese un momento per osservare la scena, che anni passati tra quei ragazzi non aveva di certo reso meno surreale.

Cecilia non si era resa conto che era entrato, e chiacchierava liberamente con Lorran, sembrando molto più a suo agio con lei che con chiunque altro lui l’avesse mai vista.

Non finirà mai di stupirmi come queste due siano potute diventare così amiche. Quand’è stato? Forse quando ho visto Lorran correre verso di me la notte della fuga, coperta dal sangue di Cecilia. Eh... era sconvolta. Non si sopportavano, ma Lorran non si era dimenticata a chi doveva la vita. L’incidente le ha avvicinate.’

La Coordinator volse verso di lui i suoi occhi da gatto, piegando le labbra in un sorriso malizioso.

“Ohi, Cecilia, abbiamo visite.”

Sul volto della scienziata passò un’ombra di irritazione mentre gli scoccava una fredda occhiata, e tornava subito dopo a spruzzare qualcosa sul braccio di Lorran.

“Non ti preoccupare, qui abbiamo finito. Come te li senti?”
La rossa stese il braccio sinistro davanti a sé, piegando le dita e ritraendo gli artigli, che le scomparvero sotto le unghie. Fischiò in approvazione.

“Sono flessibili come li volevo.”

“Non ti accorgerai nemmeno di averli, e il tuo eventuale opponente li noterà solo quando sarà troppo tardi.”

Il volto di Lorran si illuminò. “Ottimo. Sai com’è, pistole e fucili si possono scaricare, e le mie missioni a volte impongono un abbigliamento che non consente di nascondere nemmeno un coltellino svizzero” concluse facendo l’occhiolino a Miguel e dondolando le gambe come una bambina.

Lui le rispose con un sogghigno, pur avvertendo un brivido lungo la schiena.

Lorran era fin troppo brava ad infiltrarsi nelle magioni e nelle vite dei bersagli che le erano assegnati, giungendo fin all’infilarsi nei loro letti. Non sembrava che la cosa le pesasse troppo. Anzi, più volte Miguel l’aveva sentita affermare che era anche divertente.

Sentendosi osservata la ragazza rise, poi, talmente veloce che lui nemmeno riuscì a vederla, saltò giù dal bancone e sferrò un colpo ad artigli sguainati proprio contro Cecilia.

Che la bloccò con il braccio sinistro. Un momento di sbigottimento, e poi la scienziata fece una faccia annoiata.

“Ma la vuoi piantare di fare la scema? Lo sai che i miei impianti non sono come i tuoi!”

“No, ma miglioreresti se venissi ad allenarti con noi qualche volta, ti pare?”

“Fossi matta” rispose Cecilia scrollandosela di dosso. L’altra le fece una boccaccia.

“Quanto sei noiosa. Sempre chiusa qui dentro o appiccicata al tuo fidanzato. Comunque grazie, ci sentiamo.”

Lorran afferrò la borsa e, decisa, passò accanto a Miguel, tambureggiandogli le dita su una spalla.

“E tu, uomo mascherato? Quando usciamo insieme?”

Lui, che si aspettava un’uscita del genere, le rise in faccia. “Io non frequento le minorenni.”

“Hei, ho ventisette anni.”

“E quindi? Non è colpa mia se ne dimostri diciassette.”

Ed era assolutamente vero, ma non era quella la ragione per la quale Miguel da anni rifiutava strenuamente la corte di Lorran.

“Non ti facevo così perbenista” lei gli disse facendogli marameo dalla soglia. “Ciao, dolcezza. Meoww...”

“E vattene” rise lui chiudendole la porta in faccia e realizzando di essere rimasto, come tutte le volte, interdetto per il comportamento della giovane.

Miguel era consapevole che, nonostante il trucco e i suoi bizzarri abbigliamenti, Lorran era veramente bella. Ma non poteva essere altrimenti. Anche lei, come i suoi compagni, era passata attraverso innumerevoli interventi ricostruttivi che ne avevano migliorato, trasformandoli, il corpo e il volto. Ma lui non riusciva a dimenticare che sotto quella pelle perfetta, e al di là di quegli arti squisitamente proporzionati e del viso inumanamente regolare, Lorran non era altro che una bambola da guerra. E, come tutti i suoi compagni, sottilmente insana.

Poteva capire come si potesse trovarli affascinanti, soprattutto non conoscendoli, ma gli sfuggiva come facesse qualcuno, che ci aveva addirittura lavorato sopra, ad andarci a letto.

Ripensando a quanto era vagamente morbosa quella cosa, Miguel si girò verso la persona alla quale stava pensando.

Cecilia era ritornata a lavorare, la testa china sul suo inseparabile portatile.

“Doc, tu lavori troppo” le disse lui, per attirare la sua attenzione, ma si guadagnò solo un’occhiata infastidita.

In quel campionario di stranezze umane la scienziata certo non faceva eccezione, anzi. Ma, anche se Miguel all’inizio aveva trovato la sua relazione con Nicol bizzarra, aveva poi dovuto ammettere che si volevano bene davvero. E, per quanto lui lo trovasse inconcepibile, Cecilia non desiderava di stare con nessun altro se non con Nicol e con i suoi compagni.
Si avvicinò alla donna che non aveva ancora posato il computer, segno che lei voleva concedergli solo il minimo tempo possibile.

“Che c’è?” gli chiese, fissandolo e mostrandosi chiaramente scocciata.

“Tu, piuttosto, come va il braccio? Hai fatto una brutta smorfia quando Lorran ti ha colpita.”

Cecilia fece spallucce, ma a Miguel non sfuggì come la sua mano destra corresse a chiudersi, istintivamente, attorno all’avambraccio. L’arto sinistro, che la scienziata aveva perso la notte della fuga da Nassau, le era stato sostituito proprio con uno degli impianti che lei aveva progettato, ma il suo corpo l’aveva rigettato, e le avevano dovuto quindi installare uno meno performante che, ancora dopo anni, le causava un’infinità di problemi.

La donna abbassò gli occhi sul portatile. “È tutto ok. È che Lorran si dimentica che, nonostante questo, io non sono una di loro. Sono sopravvissuta, ma non potrò mai eguagliarli.”

Occhi nocciola si fissarono su di lui, scaltri. “Tu, piuttosto” gli fece Cecilia, sorridendo quasi maliziosamente. “Con te sì che i miei gioiellini potrebbero funzionare al meglio.”

Terrorizzato, anche se fece di tutto per non darlo a vedere, Miguel alzò le mani davanti a sé, cercando di dissimulare. A volte, Cecilia gli sembrava la classica scienziata pazza dei romanzi di fantascienza.

“No no, sono soddisfatto del mio misero corpo di Coordinator, ti assicuro che funziona ancora benissimo.”

“E perché non mi fai almeno dare un’occhiata alla tua faccia?”

Lui indicò la porta dietro di sé. “Come hai potuto vedere, ho più donne che mi vengono dietro di quelle che vorrei. Non ti preoccupare, questa cicatrice non mi dà affatto noia.”

Lei alzò di nuovo le spalle, apparentemente concedendogli la resa. Miguel, però, sapeva bene che si sarebbe rifatta avanti. Era nella sua natura di donna curiosa e testarda.

“Come vuoi tu. Sai dove trovarmi quando cambi idea. Comunque, a parte accertarti che stessi bene, e sbirciare sotto la gonna di Lorran, che volevi?” gli chiese mettendosi a mordicchiare una matita.

“Volevo farti una proposta.”

“Del tipo?”

Miguel decise di spingere davvero la sua fortuna al massimo. Se le avesse parlato si sarebbe rifiutata, quindi doveva passare alle vie di fatto.

Si sporse e, afferrata Cecilia per il polso destro, la costrinse ad alzarsi in piedi. Salvò il computer che stava cadendo con la mano libera, e lo posò sul bancone.

Lei lo fulminò, esterrefatta. “Ma che ti salta in testa?”

“E piantala di fare l’acida zitella, per una volta!”

“Cosa?” urlò Cecilia, oltraggiata, ma Miguel si mise a ridere.

“Io e te, prima di cena abbiamo una missione.”

“Sei pazzo?”

“No sciocchina, ti sto facendo un favore.”

Di fronte allo sguardo confuso della scienziata Miguel decise di concederle una spiegazione.

“Adesso noi usciamo, ti porto in uno dei negozi del centro dove tu ti prenderai un bel vestito carino, delle scarpe con i tacchi, e ti farai truccare come Dio comanda. Poi, prenoterai un tavolo per due in uno dei ristoranti in della baia.”

A quel punto, Cecilia arrossì violentemente. “E perché mai?” balbettò.

Miguel provò un attimo di tenerezza per la donna. A trent’anni non capiva un accidente di niente di seduzione e romanticismo, meno male che c’era lui a risolvere la situazione.

“Vieni” le ordinò, afferrando la sua borsa e trascinando la scienziata molto poco cerimoniosamente fuori dal laboratorio. Si girò a guardarla di sbieco, non impressionato dai suoi tentativi di liberarsi.

“Perché la persona che ami domani partirà per una missione pericolosa nel posto che una volta era casa sua. Dove molto probabilmente incontrerà i suoi vecchi amici. Gli vuoi dare una fottuta buona ragione per tornare da te?”

Cecilia arrossì ancora di più. “Nicol non mi abbandonerebbe mai.”

Al che, Miguel non poté fare altro che fissarla in tralice. “Parli così perché tu non conosci Lacus Clyne.”

“Che c’entra l’ex-Presidente di PLANT, ora?”

Miguel, che aveva giurato a Nicol che non avrebbe mai rivelato nulla del suo passato, nemmeno a Cecilia, sospirò pesantemente.

Se lo venisse a sapere mi strangolerebbe per questo ma, dopotutto, lo faccio per il suo bene.’

Si bloccò in mezzo al corridoio, prendendo Cecilia per le spalle e guardandola negli occhi, estremamente serio. “So per certo che loro due erano molto legati prima che Nicol si arruolasse in ZAFT. E Lacus è una donna bellissima, più giovane di te e con una voce che incanterebbe i serpenti.” Non voleva infierire troppo ma, per buona misura, squadrò Cecilia dall’alto in basso, con una smorfia dispiaciuta. “Ed è tanto più formosa di te. Ora, datti da fare o non venire da me a lamentarti dopo.”

Aveva scommesso che, essendo Cecilia fondamentalmente un po’ infantile in amore, non fosse immune dalla gelosia e, soddisfatto, la vide prima impallidire, e poi quasi digrignare i denti, riprendendosi la borsa che strinse come se da quello dovesse dipendere la sua vita.

“Grazie dell’avvertimento. Non credo di dovermi preoccupare più di tanto di una sciacquetta canterina, ma meglio prevenire.”

Miguel si ritrovò a seguirla, pensando, sghignazzando tra sé e sé, che faccia avrebbe mai fatto la povera Cecilia se invece della pietosa bugia su Lacus Clyne lui le avesse invece nominato un certo Athrun Zala.



___________________________



Wow, questo capitolo è stato... complesso. Devo ammettere che mi terrorizzava il momento dell'incontro tra i nostri tre baldi giovani. Soprattutto le reazioni di Yzak e di Nicol. Il primo perché è una mina vagante pronta ad esplodere al minimo scossone, il secondo perché è stato dannatamente difficile mantenere un minimo del suo carattere originario, considerato tutto quello che gli è capitato dall'ultima volta che l'abbiamo visto nella serie. Insomma, non volevo stravolgere troppo il personaggio, ma nemmeno che risultasse come se non fosse passato manco un giorno dall'incidente del Blitz. Insomma... boh? Spero di essere riuscita a mantenere Athrun e Yzak in canon, e a dare sufficiente spessore al personaggio di questo "nuovo" Nicol.
Quanto al resto, ebbene sì, non ho resistito a far tornare in scena Miguel. Sono una dannata fangirl, abbiate pietà!

Bene, dopo i miei sproloqui, ringraziamenti e abbracci a Shainareth e Solitaire. Alla prima anche una bella tazza di latte e cognac, lei sa perché XD
Abbracci e cookies anche a chi sta seguendo questa storia e a chi mi ha lasciato scritto qualcosa, in particolare a NicoDevil e MaxT

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Capitolo 8
*** Memorie ***


Memorie



San Diego, 15 dicembre, 81 C.E.


Nicol aveva atteso fin al momento del trasbordo sul volo di linea civile che lo avrebbe riportato a San Diego, prima di aprire la cartelletta che Athrun gli aveva consegnato.

Non era riuscito a spiegare a se stesso l’impulso che lo aveva portato a chiedere al vecchio amico una copia delle foto che conservava di lui, ma adesso era lì, su un volo strapieno di vacanzieri, con tra le mani tutto quello che Athrun era riuscito a racimolare che gli potesse ricordare chi era.

Nicol fissò la plastica azzurra della copertina, senza avere ancora il coraggio di aprirla. Non è che non si rammentasse la sua vecchia vita, ma si era così impegnato a staccarsi da essa che oramai gli sembrava come se fosse l’esistenza di qualcun altro; qualcuno più gentile, più sorridente, più innocente di quanto lui non fosse.

Sospirò, tamburellando nervosamente le dita sul fascicolo, indeciso se fare davvero una cosa del genere o se liberarsene, una volta atterrato, nel primo cestino dei rifiuti.

Accarezzò il bordo della cartelletta, lentamente. Perché doveva avere più paura di quello che c’era lì dentro, rispetto a tutto ciò che aveva affrontato negli ultimi anni?

D’impulso improvvisamente la aprì, arricciando il naso davanti al contenuto, che Athrun gli aveva consegnato dicendo semplicemente che era da parte sua, Yzak e Dearka.
Nicol si sentì improvvisamente accaldato, e fu certo che non si stava affatto ammalando.

Ma come avete potuto tenervi tutta questa spazzatura?’ pensò, incredibilmente sorpreso e colpevolmente compiaciuto. Perché mentre lui si era impegnato a dimenticarli, e a torcerne il ricordo in modo che rimanessero solo quelli che l’avevano tradito e preso in giro, adesso si rendeva conto di quanto fortemente gli amici avessero invece cercato di serbarlo nella loro memoria.

Avevano conservato non solo le foto, ma stampe di email che si erano scambiati, un terribile richiamo scritto che l’Ufficio del Personale Militare di ZAFT aveva inviato a lui e a Dearka per essere rientrati tardi da una licenza, e persino la carta di una caramella che aveva dato ad Athrun proprio prima del suo ultimo scontro con lo Strike.

Nicol prese tra le dita l’involucro, che era stato religiosamente piegato in mezzo al resto dei documenti.

Se la ricordava bene. Ad Athrun piacevano le caramelle, eccetto quelle al gusto anice. Ma quella mattina a Nicol ne era rimasta solo una in tasca proprio di quel sapore, visto che era riuscito a mangiarsi, per il nervosismo dell’imminente battaglia, tutte le altre. Così, quando Athrun gliene aveva chieste, era stato costretto ad offrirgli solo quella all’anice, che l’amico aveva accettato con una smorfia, facendolo promettere, ridendo, che quando sarebbero tornati Nicol per punizione avrebbe dovuto comperargli ben due pacchetti di quelle alla ciliegia, le sue preferite. Una promessa che il giovane pianista non era riuscito a mantenere.

Nicol si rigirò la carta tra le dita, sorprendendosi di come una cosa così stupida e frivola potesse commuoverlo così tanto.

La mise giù, sbirciando il resto dei documenti. In fondo trovò una copia di spartiti di pianoforte. Anche quelli sapeva benissimo cos’erano; era una composizione breve, che aveva messo insieme in fretta, tra una battaglia e l’altra, niente di che, solo qualcosa per tenersi in allenamento.

‘Theme of Tears’ l’aveva chiamata, in onore di tutti quelli che aveva visto morire sui campi di battaglia.(1)

Capovolse uno dei fogli, guardando quasi con sospetto quelle note meticolosamente vergate sul pentagramma. Erano anni che non suonava, e non era proprio sicuro che sarebbe riuscito a farlo di nuovo.

Poi, raccogliendo finalmente tutto il suo coraggio, aprì una busta dove Athrun gli aveva detto che erano conservate le foto.
Tirò fuori la prima, osservandola con distacco quasi clinico. Il suo gruppo era ritratto nel giorno del loro diploma all’Accademia di ZAFT.(2) C’erano proprio tutti: Athrun, Dearka, Yzak, Rusty, Miguel, Matthew… e poi c’era lui, il più giovane e sorridente della combriccola, con quel cappello che ricordava troppo grande per la sua testolina.

Ne prese un’altra, scattata durante un’esercitazione all’aperto, qualche mese prima del diploma. Sogghignò a ricordare la prima notte passata con tutti e tre i suoi compagni di corso. Yzak e Dearka l’avevano preso in giro a non finire per il suo fare poco marziale ma, davanti ad un giornaletto pornografico estratto da Dearka, Yzak aveva finito per difendere i suoi occhi innocenti.(3)

Se non era quella la prova che non mi odiava davvero…’

Le ultime due foto, quando le estrasse, gli fecero aggrottare le sopracciglia. In una vestiva la divisa amaranto degli assi di ZAFT, e salutava compitamente l’obiettivo. Nell’altra invece indossava un bel vestito nero, elegante, con una gerbera arancio all’occhiello, e stringeva in mano uno spartito(4); si ricordò che era stata scattata dopo l’ultimo recital che aveva tenuto su PLANT, qualche settimana prima di tornare sulla Terra ed uscire per quell’ultima, disgraziata missione.

Girò entrambe le immagini, che sembravano essere state conservate con particolare cura.

‘In memoria di Nicol Amalfi, amatissimo figlio, valoroso soldato’ trovò scritto sul retro, poche parole seguite da due date. Quella della sua nascita, e quella della sua morte. Leggendole, Nicol non si meravigliò che i suoi amici avessero in così tanto conto quelle foto; erano state di certo distribuite al suo funerale.

Guardò il volto del ragazzo ritratto, e poi alzò gli occhi verso il proprio, riflesso nel finestrino dell’aereo.

Aveva conservato ben poco dell’aspetto paffuto che aveva a quindici anni. Non gli zigomi pronunciati, le guance rotonde e, soprattutto, non lo sguardo: serio, determinato e tranquillo. Quelli erano gli occhi di chi ha tutta la vita davanti, sa quello che sta facendo, ed è convinto che tutto andrà bene.

Nicol si passò nervosamente una mano tra capelli. Come aveva fatto a pensarlo davvero? Nemmeno quando Rusty e Miguel se n’erano andati aveva creduto fino in fondo che qualcosa di male sarebbe davvero potuta accadere a lui o ad Athrun. Nell’incoscienza propria dell’adolescenza, coniugata con la fiducia totale nelle capacità della sua unità, Nicol aveva realizzato l’entità del proprio errore solo quando aveva visto la spada dello Strike calare verso di lui, sapendo che nulla avrebbe potuto fermarla.

La sua attenzione ritornò sulle foto.

No, quello non poteva essere lui. A lui non poteva essere capitata una cosa così brutta e crudele.
‘Dimenticati di tutto. Non sono io, non gli somiglio nemmeno’ tentò di convincersi, trovando comunque inaccettabile il pensiero di non avere più nulla in comune con il giovane pianista.

Si chiama schizofrenia, Nicol.’

Gli avevano detto che non avrebbe mai superato davvero il momento dell’incidente. E non si stupiva per niente che si sentisse così male, dopo tutto quello che era successo negli ultimi giorni; nonostante gli anni di analisi e le medicine, Miguel stesso aveva avvertito lui e gli altri partecipanti alla missione che sarebbe stato psicologicamente problematico essere di nuovo calati in una realtà che avevano rimosso.
Lasciò cadere le fotografie sul resto dei documenti. E Desiderò di non averle mai guardate. Di non avere mai aperto quel plico. Di non avere mai chiesto nulla ad Athrun.

“Ma, allora, che cosa sarebbe valso farsi quasi picchiare da Yzak?” mormorò a voce bassissima.



Scese dall’aereo in fretta, dirigendosi quasi correndo verso l’uscita. Era ansioso di rivedere la sua compagna.

Come tutte le volte in cui ritornava da una missione, Cecilia lo stava aspettando, un po’ in disparte rispetto al resto dei passeggeri.

La vide subito in mezzo alla folla, alta ed esile, con gli scuri capelli ricci perennemente disordinati e selvaggi. Poteva al massimo essere definita graziosa, ma a Nicol il suo aspetto non interessava. Non si era innamorato di lei per quello, ma per la sua personalità testarda e combattiva, per il suo umorismo a volte un po’ macabro, e perché c’era sempre stata quando aveva avuto bisogno di lei; lo aveva accudito come una madre, era stata la sua migliore amica, la sua prima amante, e aveva rischiato di morire per un suo errore. Nonostante l’avesse incontrata in circostanze tanto tragiche, lui non rimpiangeva che fosse successo.

La vide cominciare a sorridere non appena si accorse della sua presenza, e portarsi le mani sui fianchi.

La raggiunse abbracciandola.

“Sei bellissima” le disse, e ci credeva davvero. Soprattutto quel giorno, dove si era truccata e indossava un vestito azzurro, invece dei soliti jeans e felpa che erano il suo abbigliamento abituale.
In tutta risposta, lei lo strinse un po’ più forte, dandogli un lieve bacio sulle labbra.

“Grazie… bentornato” gli fece ridendo. Forse era solo la sua impressione, ma a Nicol sembrò che Cecilia fosse molto più felice del solito che fosse rientrato.

“Tutto bene il viaggio?” gli chiese.

Impossibilitato a parlare in pubblico, Nicol le fece solo un breve cenno della testa.

“Sì, ti dirò tutto a casa.”

“Perfetto. Andiamo allora. Anch’io ho qualcosa da raccontarti.”

“Cioè?”

“Usciamo e te lo dico.”

Raggiunsero il parcheggio, quasi deserto in quel momento, e Cecilia si appoggiò contro la fiancata della loro macchina.

Il sorriso della donna era decisamente pronunciato. “Ci trasferiamo!”

Sul momento Nicol non riuscì a capire perché quella dovesse essere una buona notizia. Per ragioni di sicurezza avevano cambiato casa decine di volte negli ultimi anni, e di tutti i posti San Diego era quello che lui preferiva. Aveva sperato che si sarebbero fermati più a lungo.

Lei dovette intuire il suo scontento perché, come faceva sempre quando voleva tirarlo su di morale, gli toccò la punta del naso con il dito indice.

“Non fare quella faccia. Questa volta è diverso. Traslochiamo perché ho ricevuto un’offerta di lavoro. E Miguel è d’accordo che io l’accetti. Anzi, dice che sarà un bene per noi avere qualcuno là dentro. E poi lui e Lorran verranno con noi.”
“Là dentro dove?”

Cecilia disse la cosa che lui meno si sarebbe aspettato. “A Morgenroete. Andiamo a vivere ad Orb.”

Nicol la guardò stranito.

Orb? Come Orb? Miguel sa benissimo che Athrun è là. Che ha in mente?’

“C’è qualche problema?”

“No, assolutamente nessuno” mentì lui, sorridendo di nuovo.

Io e Miguel dobbiamo fare un discorsetto.’
Lei non sembrò convinta, e lo fissò come se nascondesse qualcosa. Poi, indicò la cartelletta azzurra che Nicol ancora stringeva.

“E quella?”

L’ultima novità gliel’aveva quasi fatta dimenticare. Il Coordinator la guardò, esitando all’ultimo momento.
Avrebbe potuto inventare qualunque cosa sulla persona la cui vita era conservata tra quei fogli e in quelle foto. Avrebbe potuto raccontare a Cecilia che era suo fratello, un suo caro amico, un parente lontano. Con Athrun davanti, aveva avuto lo strano impulso di riacquistare il suo passato, ma in quel momento gli sembrò improvvisamente assurdo. Perché avrebbe dovuto? Che cosa c’entrava quello che faceva adesso con il suo passato? Che cosa c’entrava Cecilia?
La fissò. Lei non aveva la minima idea di chi fosse stato, di che faccia avesse avuto, di chi erano stati i suoi amici. Soprattutto, lei era innamorata di una persona che dieci anni prima non esisteva.

La conosceva bene, e aveva intuito il perché, subdolo e stravagante, lei si trovasse cosi bene con lui e i suoi compagni, e come mai avesse sviluppato un sentimento così forte nei suoi confronti. Ma, e il contenuto di quella cartelletta lo provava, lui dopotutto non era in fondo niente altro che un semplice essere umano, seppure geneticamente perfezionato. E se non gli fosse piaciuto?
Prese un bel respiro, e decise di tentare la sorte. Non aveva mai affrontato quell’argomento con Cecilia fino in fondo, forse era ora di farlo.

E poi andremo ad Orb, e ci sarà più di un’occasione di incontrare Athrun. Non posso continuare a fare finta di niente o impazzirò davvero.’
Senza una parola, le allungò la cartelletta. La osservò aprirla, e sfogliare i documenti incuriosita. La busta con le foto attirò subito l’attenzione della scienziata. Cecilia ne estrasse una a caso, pescando quella dove lui era in uniforme. Aggrottando le sopracciglia la guardò a lungo, poi la girò.

“Quindici aprile…” mormorò, leggendo la data della sua morte.

Cecilia spalancò gli occhi, impallidendo all’improvviso. Alzò verso di lui il viso stupito, decorato da una smorfia infelice.

“Allora non era veramente la data del tuo compleanno?”

Nicol scosse la testa. “No. Io sono nato il primo di marzo.”

“Già, c’è scritto qui…”

L’attenzione della scienziata ritornò sulle foto, per poi dare un’occhiata veloce allo spartito che faceva capolino da sotto il resto dei fogli. Quando tornò a guardarlo, la smorfia si era tramutata in un sorriso molto dolce, che stemperò immediatamente la tensione tra loro.

“Eri un bel ragazzino, e avevi così tanto talento.” Chiuse la cartelletta e allungò una mano.

“Mi sa che dobbiamo rifare le presentazioni. Piacere, Cecilia Jesek.”

“Nicol Amalfi” rispose il Coordinator, ignorando la mano e abbracciandola direttamente, mentre ringraziava silenziosamente gli amici che, senza saperlo, avevano sistemato un altro tassello della sua vita scombinata.



Orb, 15 dicembre, C.E. 81


Dopo tutto quello che aveva passato in quegli ultimi giorni, Athrun si concesse finalmente di rilassarsi solo quando fu sulla navetta privata che l’avrebbe riportato ad Orb.

Il giorno prima aveva salutato Nicol, consegnandogli la cartelletta con tutto ciò che lui, Yzak e Dearka erano riusciti a racimolare, e aveva dovuto trattenere le lacrime quando si erano salutati. Si era reso conto che, con ogni momento che passavano insieme, Nicol ritornava ad essere sempre di più il ragazzo che ricordava, lasciando cadere la sua facciata di algida indifferenza; Athrun era certo che, se avessero avuto la possibilità di frequentarsi, Nicol non gli sarebbe più sembrato così alieno come quando l’aveva rivisto per la prima volta. Ma le loro vite si erano oramai divise, e all’Ammiraglio di Orb non era sfuggito che, mentre lui aveva dato a Nicol tutti i suoi recapiti, compreso il suo numero privato di casa, l’altro gli aveva consegnato solo un biglietto da visita con un numero di cellulare, pregando di chiamarlo ad ogni ora, se avesse avuto bisogno di lui.

Ripensando alla scena, Athrun si strofinò gli occhi, ancora disagio come qualche ora prima.

Ti vorrei rivedere, ma spero tanto di non avere mai la necessità di ricorrere al tuo aiuto professionale, se così vogliamo chiamarlo.’

Il giorno prima a PLANT era anche sbarcato Kira che, dopo una visita a Lacus in continuo miglioramento, Athrun aveva letteralmente rapito per raccontargli tutto. Avevano passato la notte a parlarne, insieme ad Yzak e Dearka e, alla fine, Kira aveva contattato Erica Simmons a Morgenroete per avere la sua opinione.

Abbandonando ogni pretesa di addormentarsi, perché aveva fin troppo a cui pensare, Athrun sospirò, riaprendo gli occhi ed estraendo dalla borsa il palmare sul quale erano conservati i materiali che la Simmons gli aveva spedito.

Incredibile come fosse sviluppata l’intelligence di Orb durante le guerre tra PLANT e la Terra e, soprattutto, quanto fossero estesi gli interessi di Morgenroete, anche al di là di quello che era auspicabile per un’azienda con base su un territorio neutrale. Ma suppongo non dovrei stupirmi, visto che ai tempi loro erano solo un contractor privato che agiva indipendentemente dal governo di Orb.’
Il direttore di Morgenroete gli aveva raccontato che durante la guerra del 70 C.E. erano stati contattati dall’Alleanza Terrestre per sviluppare insieme un progetto chiamato S.T.O.R.M., progetto che poi era stato lasciato cadere in favore della costruzione dei Mobile Suit della serie GAT.

S.T.O.R.M. Synthetic Technology On Regenerating Machines’ lesse Athrun sul palmare. Macchine rigeneranti. Curioso modo di definire gli esseri umani. Erica ci disse che i primi esperimenti di impiantare dei supporti bionici a dei soldati dell’Alleanza erano stati tutti un fallimento, per cui, per quello che ne sapeva lei, il progetto era stato abbandonato.’

Athrun strinse i denti. ‘E invece no. Quei bastardi avevano evidentemente continuato i test sui nostri soldati, ecco perché Nicol non ha voluto dirmi nulla su chi gli aveva fatto quelle cose terribili. E chissà se durante la successiva guerra non li hanno poi usati contro di noi. In teoria nel 73 C.E. le unità STORM dovevano già essere pienamente operative.’

Il giovane Ammiraglio maledisse l’Alleanza, ancora una volta, dopo tutti quegli anni. E cominciò a capire come mai Nicol avesse voluto dimenticare il suo passato con loro, su PLANT.

Cosa avrei fatto io, se mi fossi risvegliato in un incubo del genere, senza avere la possibilità di tornare a casa, e trattato come una cavia dai miei carcerieri? Non avrei cercato di dimenticare che una volta era stato felice, invece di aggrapparmi a ricordi che non mi sarebbero stati di nessuna consolazione, e a memorie di una vita alla quale non potevo più tornare?’
Adesso gli era tutto chiaro. L’aria sconsolata del suo vecchio amico, il perché l’avesse trovato così cambiato e, soprattutto, perché gli fosse sembrato così felice, ma anche stranamente ansioso, quando il giorno prima gli aveva consegnato la cartelletta con le foto e tutto il resto.

“Lo spero davvero, Nicol, che tu possa superare le tue paure e riconquistare il tuo passato” mormorò, sperando di rivedere il suo amico finalmente sereno.

Poi chiuse gli occhi. Il comandante aveva appena annunciato l’inizio della discesa verso l’atmosfera terrestre e, come tutte le volte, Athrun si scoprì in trepidante attesa di rivedere la sua famiglia.



Le procedure di atterraggio gli sembrarono lunghissime e, non appena il portellone si spalancò, Athrun si gettò quasi giù dalla scaletta. Cagalli l’aspettava poco distante, davanti alla limousine del Capo di Stato di Orb. Questa volta, era venuta a prenderlo personalmente.

Si gettarono l’uno tra le braccia dell’altra, mai come quella volta ansiosi di stringersi e accertarsi che l’altro stesse bene.

Quando la giovane lo guardò, nei suoi occhi dorati albergava un indicibile sollievo.

“Sei tornato” gli disse, e la frase in sé lo fece sorridere.

“Pensavi di no?”

Lei corrugò le sopracciglia, scoccandogli un’occhiata minacciosa. “Ho avuto qualche timore, stavolta, visto la facilità con la quale ti cacci nei guai.”

“Ti preoccupi troppo” le fece per cercare di rabbonirla, scompigliandole i capelli biondi. “Le mie donne mi sono mancate.”

“Anche tu” lei gli rispose semplicemente, con un lieve sorriso e passandosi il dorso della mano sugli occhi. Erano arrossati, segno che non doveva aver dormito molto in quegli ultimi giorni o che doveva aver pianto a lungo. O tutte e due le cose.

“Che cosa è successo?” aggiunse poi, e Athrun per un momento pensò di non dirle nulla, di risparmiarle quella storia atroce.

Ma lo sguardo inquisitorio della giovane gli fece capire che non avrebbe potuto nasconderglielo per molto, perché Cagalli gli avrebbe estorto la verità in ogni modo. E lui era certo che, in futuro, le strade sue e di Nicol si sarebbero di nuovo incrociate.

Le sorrise, quindi, prendendola per mano e portandola verso la macchina.

“Accomodiamoci allora, te lo racconterò per strada.” Athrun scosse le spalle. “Mi spiace, non è un bel racconto.”

“Però, da come sembravi sollevato ieri sera in video, immagino che abbia un lieto fine.”

Il giovane si bloccò, pensandoci su un attimo. Poi, un sorriso gli illuminò il viso.

“In un certo senso” le rispose.


Fine


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(1) Questa bella composizione per piano la potete ascoltare qui http://www.imeem.com/cryorazor/music/Jox92FBQ/kakijima-shinji-nicols-piano-theme-of-tears/
(2) http://img152.imageshack.us/i/macintoshhdusersqdeskto.jpg/
(3) Qui mi sto riferendo ad una deliziosa storia scritta da Shainareth sulle avventure in campeggio dei quattro Rossi. Filate a leggerla, è bella! http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=431018&i=1
(4) http://yfrog.com/2mthemeoftears1j



Ebbene, abbiamo finito, per ora. Il mio scopo di riunire il Team La Klueze è quasi raggiunto perché, da brava fangirl, è questo che avevo in mente sin dall'inizio. XD Scusate ma questi quattro disgraziati sono adorabili insieme, non ne potevo mica lasciare uno morto, non vi pare? Restate comunque sintonizzati, ci potrebbe essere presto qualcos'altro in arrivo! ^^

Come al solito, tantissime grazie a Shainareth, che corregge tutti gli errori che faccio, a Solitaire, che mi ispira con i suoi commenti lapidari, e a Lil_Meyer alla quale devo l'idea originale di questa storia.
Un grazie sentito anche a quelli che sono passati di qui e, in particolare, a quelli che mi hanno lasciato un commento. Rispondo a quelli del capitolo precedente qui; scusatemi ma in questi ultimi giorni il tempo è stato davvero limitato

Gufo_Tave Grazie per le tue parole, sono contenta che questa storia non sembri banale, anche se, sinceramente, trovo il lieto fine abbastanza scontato. Non che abbia mai pensato di fare altrimenti, perché avevo pianificato fin dall'inizio di far riappacificare i ragazzi, ma se davvero Nicol avesse fatto una strage, forse quella sarebbe stata una vera sorpresa per tutti XD
Solitaire La faccenda del wireless mi è venuta in mente in corso d'opera. Dai, mi sembra logico che se questi riescano a scaricare dati siano anche in grado di passarseli tra loro. Okkei, deve fare un male del belino, ma sai che bello spettegolare con i tuoi amichetti senza che nessuno se ne accorga? ;)
MaxT Sì, il piano di Nicol e Riko sarebbe stato interessante da sviluppare, ma veniva un po' lungo da inserire, e non sapevo nemmeno bene dove. Purtroppo, nell'economia della storia ogni tanto bisogna rinunciare a qualcosa. Grazie per le tue belle parole!

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