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Mi nombre es Alejandro.
Sullo schermo l’immagine di un ragazzo con i capelli ricci lunghi. sorride. Zoom indietro lentamente fino a mostrare la cornice della foto appoggiata su un mobiletto metallico. Carrellata lenta verso destra. Accanto alla foto di lui con una maschera da teschio. Continua a muoversi verso destra con lentezza inesorabile fino ad inquadrate un volto scheletrico, calvo, scavato emaciato che sorride. Lo stesso sorriso delle foto. Ha un camice bianco. Si deve capire che è in ospedale e che probabilmente sta morendo e che è reduce da parecchie trattamenti contro il cancro o simile.
jo no soy espanol pero siempre me ha gustado hablar l'espanol. Mi piace il suono di queste parole come il suono delle parole in inglese. Non ho mai saputo individuare il perché di questa musicalità e potenza che individuo nell’inglese. Ragionandoci potrebbe essere che non conoscendo bene l’inglese devo tradurlo e quindi metterci del mio. In un certo senso la bravura di shakespeare e le mie domande vanno a confluire nella mia comprensione del testo creando quindi un testo stracolmo di significato. In italiano le parole sono quelle, non c’è modo di sfuggirvi. Il significato lo so ma a meno che non risponda direttamente alle mie domande farò più fatica a caricarlo del mio significato.
Un’altra cosa che mi capitava di fare leggendo era di cercare ad ogni parola di indovinare il finale. Ogni indizio e sospetto mi portava a modificarlo fino ad ottenere una probabile conclusione. Un po’ il gusto di vedere se ci prendevo, un po’ il testare l’originalità di chi scrive, un po’ una mania di controllo, di previsione. Da giovani ci si sente sempre padroni del mondo. Slanciati verso il futuro, arroccati sempre più spesso nel nostro ego. Con ormai rassegnata tranquillità posso dire che era il mio caso. Guardingo e sospettoso spiavo il mondo dalle feritoie della mia fortezza. Amiche mie, le fredde e aride pareti del mio essere. I miei occhi sprangate finestrelle. Entrate in me. Ma il ponte levatoio sarà levate e le finestre chiuse. Non ce l’ha mai fatta nessuno. Non l’ho mai permesso. Se qualcuno mi intuiva io cambiavo, sfuggivo via nel vento. appena una lacrima si accennava sul mio viso. Fuggita la frenetica fuga mi trovavo tra le mani una nuova maschera, una nuova illusione di identità mi guardavo intorno. mi vedevo solo. non era un abbaglio. guardandomi dentro capivo di aver smarrito per sempre il vero me. troppe fughe. troppe maschere che infine diventavano parte di me. riscoperta questa nuova fragilità mi sentii di non avere più difese. Non so se fu un'illusione di esistere che mi artigliava alla mia esistenza o il contrario. Di fatto, caduta l'illusione il male iniziò ad avanzare.
Ero
giovane. Non ero un Dio nello sport. Non ero il primo della classe. I risutati li ottenevo con fatica. La mia mente si
stiracchiava assonnata tra le nubi della mia esistenza inconsistenze e di
repentino cambiamento. Vivevo sfrecciando annoiato tra il vivere altrui. Mai un
gruppo fisso. Ero appestato dal tragico afflato virulento dell’incostanza e del
non voler essere. Non volevo essere limitato. Non volevo sentirmi obbligato.
Non volevo annoiarmi. Non volevo annoiare. Paranoie e paradossi di apparente oscurità saettavano nel mio ego. Così mi
sentivo un spirito libero. Oltre umana l’ambizione di indipendenza. Infine ricadevo sempre nella stessa
contraddizione. Abbiamo bisogno degli altri per vivere. Le mie manie di
solitudine erano vere. Dei miei spazi non potevo fare
a meno ma fino a che punto? A che prezzo? Rendendomi conto che la dolorosa
solitudine non faceva parte di me dovevo ammettere che
gli altri hanno un senso e hanno un ruolo nella nostra vita. Cosa
porta allora noi a pensare che il giudizio degli altri non abbia valore? Non è
forse la pietra del confronto? Del giudizio non dobbiamo vivere
però dal giudizio dobbiamo apprendere di noi e degli altri. Innanzi tutto la sincerità con se stessi è fallace. Non siamo mai
realmente sinceri fino a che non esteriorizziamo il nostro pensiero. Quando una fantasia, un ragionamento entra allo stridente
impatto e attrito con il reale fuori che ci circonda allora inizia ad assumere
una forma, una concretezza. Come un preparato sospeso che si
deposita. Solo con molta più violenza e dolore. In questo contatto
quello che fatto pensato e immaginato acquista un peso, quello del confronto
con gli altri. Ho sempre detto di non avere problemi a dire
le cose in faccia. Calato nel ruolo del giusto smisi di accorgermi la selezione
che inconsciamente facevo tra cosa doveva appartenere alla mia sincerità e cosa
cadere nel dimenticatoio tra scuse, attenuanti, rancori. Nuovi
volti per voi spettatori, nuovi volti per me attore. Di rappresentazione
in rappresentazione decadevo nello squallore. Ha
veramente senso pensare di essere liberi? Quando riconosciamo che dagli altri non possiamo prescindere
cosa ci può ancora dare l’illusione di poter sopravvivere nella nostra essenza?
Quale forza è richiesta? Se ti rendi conto di non
possederla o di non averla mai posseduta? Uno smacco netto. Un’epifania
schizofrenica di una nottata di primavera. L’accavallarsi di immagine cangianti e oniriche. Alcol,
sonno, droga, troppi ricordi, troppi dolori, troppi pensieri e persone che
giocano a nascondino dentro di te tra i tuoi sentimenti. Socchiudi gli
occhi e prende il trip. Tenti di artigliarti alla
terra con le unghie, ai flebili fili d’erba con i polpastrelli
ma troppo stanco e troppo forte è il delirio che ti aspetta. Persa ogni
presa del fenomeno slanciato dal mio masochismo naufrago
nel deliquio lancinante dei miei sogni. Un incubo lungo una notte. Privo di
senso. Colmo di significati. Paura, rabbia, frustrazione, amore. Ma non è questo il momento. Sono stanco.