Once In A Blue Moon di _Princess_ (/viewuser.php?uid=38472)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eyes Catch ***
Capitolo 2: *** Ever Dream ***
Capitolo 3: *** Time Changes Everything ***
Capitolo 4: *** Fly Me Away ***
Capitolo 5: *** World Within My Wall ***
Capitolo 6: *** Pieces ***
Capitolo 7: *** Angel of Fame ***
Capitolo 8: *** Just Breathe ***
Capitolo 9: *** Unleashed, Unmasked, Unpredicatble ***
Capitolo 10: *** Everybody's Doll ***
Capitolo 1 *** Eyes Catch ***
And your time has come
The naked truth is in disguise
It's your secret complication
Exhausted of this sacrifice
Just like a lying preacher
Hiding to survive
(Lacuna Coil, Distant
Sun)
Love me, before the last petal
falls.
(Nightwish, Beauty
& The Beast)
***
Il caldo, le luci, il vociare,
l’attesa, il frusciare di
abiti costosi e il tintinnio dei bicchieri dei drink, dei
gioielli… Così si
presentava una delle serate mondane più glamour e
chiacchierate della Germania,
uno sfavillante convoglio di star della musica e dello spettacolo,
nazionali e
internazionali.
C’era qualcosa di magico e
perverso nel piacere che si
poteva provare nel scendere da una lustra limousine nera ed essere
accolti da
un tappeto di persone adoranti che urlavano il tuo nome al di
là di un nastro
rosso che segnava il confine tra la gente comune e i loro idoli. Di
quelle
urla, Kuu si era beata e compiaciuta, rispondendo con sorrisi
smaglianti e
saluti calibrati, rivolgendosi a fans, telecamere e giornalisti, tutti
concentrati
su di lei. Perché era lei la regina della serata –
lei, e Kaaos il re – e buona
parte dell’attenzione sarebbe stata dedicata a loro due, i
Pristine Blue, la
popolare novità dell’anno della scena musicale
tedesca.
Appena era arrivata assieme a Kaaos,
c’era stata una miriade
di microfoni ad accalcarsi attorno a loro, domande a pioggia da
intervistatori
che lei, fino a poco tempo prima, aveva visto solo in televisione. E la
gente
che, confinata oltre il tappeto rosso dalle transenne e dai molti
bodyguard che
sorvegliavano la zona, gridavano e applaudivano, scattavano foto,
chiedevano
autografi, sventolando il loro CD e poster con la loro immagine.
Qualcuno,
addirittura, portava il logo dei Pristine Blue disegnato sul viso o
sulle mani.
Tutto questo
ha del
folle…
Solo fino a sei mesi prima, lei era
stata dall’altra parte
del nastro.
Poi erano entrati, e lei si era
ritrovata catapultata nel
vivo degli Echo Awards 2010: l’arena era più piccola
di quello che le era sempre
sembrato a guardarla in TV, dal salotto di casa, ma l’effetto
era comunque
straordinario. Riflettori tenui sui toni del rosa e del viola a
illuminare il
palco e gli spalti, e il parterre di fronte allo stage era pieno di
eleganti
tavolini corredati di divanetti scamosciati. La sala era già
quasi del tutto al
completo.
Era tutto nuovo, per lei, un mondo
noto ma ancora
inesplorato, pieno di celebrità di estrazione varia di cui
lei ormai era parte
integrante e pochi relativi fans, probabilmente ancora incapaci di
credere di
avere avuto accesso all’evento grazie alla vincita di qualche
concorso.
Kuu si guardava intorno annoiata
dalla sua comoda poltrona
dell’area vip, Kaaos alla sua sinistra che gettava sguardi
occasionali allo
scintillante premio come Best Newcomer che avevano appena vinto, la
loro
manager Griet a destra, euforica e fiera, che chiacchierava esaltata
con Luke,
la guardia del corpo che li seguiva ovunque da ormai qualche mese.
Il palco, al momento, aveva appena
accolto i Tokio Hotel per
la quarta volta, quella sera, che erano già saliti per
ritirare il premio come
Best Video, Best Band e Best Song, e ora ritiravano un meritato Best
Album per
il loro acclamatissimo ed attesissimo Humanoid, emozionati come se non
si fosse
trattato del milionesimo premio che si portavano a casa, come se non si
fossero
mai trovati su un palco davanti a chissà quante migliaia di
spettatori.
Kuu accavallò le gambe,
lasciate generosamente scoperte dal
corto abito di seta verde, e li osservò con interesse mentre
Bill si avvicinava
al microfono per snocciolare l’ennesimo, commosso discorso di
ringraziamento:
erano abissalmente diversi rispetto alla prima volta in cui li aveva
incontrati, ormai dieci lunghi anni prima, ma le sembravano ancora gli
stessi
ragazzini di allora, almeno per quanto riguardava certi atteggiamenti,
perché
sotto altri aspetti erano decisamente cresciuti. Dal primo
all’ultimo, ciascuno
di loro aveva assunto una propria identità precisa e ben
delineata, e se una
volta avrebbe riso di loro – così come loro
avrebbero riso di lei – ora non
poteva che riconoscere che ormai non restava altro da fare, se non
ammirarli.
C’erano
una volta i
quattro di Magdeburgo che sognavano di conquistare la Germania e
finirono per
sottomettere il mondo…
“Cosa ne pensate di loro,
ragazzi?” domandò casualmente Griet
a lei e Kaaos, sporgendosi verso di loro con in mano il suo bicchiere
di gin
and tonic.
Kuu la trovò una domanda
molto curiosa.
“Sono bravi,”
disse Kaaos, seduto scompostamente nella
propria poltrona, fissando il palco con i suoi occhi neri.
“Il loro stile ha
avuto un’impennata non indifferente da quando Jost ha smesso
di manomettere i
loro demo. Ci hanno guadagnato di brutto.”
Kuu rise.
“Mi spiace solo che siano
troppo belli per essere presi sul
serio da chi non li conosce,” disse, senza sbilanciarsi
troppo. “Non avrei scommesso
un centesimo su di loro, all’inizio,” aggiunse.
“Ma hanno tirato fuori la
grinta, e si meritano quello che hanno.”
Parlava senza interesse, limitandosi
ad esternare un mero
parere. Non le facevano né caldo né freddo, quei
quattro, in quanto gruppo. Non
le dispiaceva la loro musica, ma li trovava troppo perfetti per essere
veri. Non
aveva mai smesso di credere che ci dovesse essere qualche trucco dietro
a un
gruppo così bello e bravo e simpatico.
Era stata una loro fan sfegatata,
agli inizi, ma poi li aveva
visti crescere a dismisura nella popolarità, li aveva visti
diventare delle
stelle della scena musicale mondiale, e aveva perso
l’interesse per loro.
All’epoca le erano piaciuti per la loro sfacciataggine di
giovani talenti ribelli,
adesso erano solo quattro celebrità come tante, nonostante
ancora li ammirasse
per come affrontavano la loro fama.
Improvvisamente in sala calarono le
luci e si fece silenzio.
Tutti i riflettori si spensero, ad
eccezione di quelli che
puntavano sul centro del palco, dove Nena stava salendo per consegnare
il
premio successivo. Kuu, però, guardava altrove.
I Tokio Hotel, con il loro bel premio
in mano, stavano
ritornando verso i loro posti. Seguì con lo sguardo Bill,
Tom, Georg e Gustav
che sfilavano silenziosi verso la passerella, non di destra, come
avevano fatto
le volte precedenti, ma di sinistra. Le sarebbero passati accanto in
cinque
secondi netti.
Kuu rivolse loro
un’occhiatina di sufficienza mentre si
avvicinavano, tra grida festanti e strilli isterici, e gli occhi di
tutti erano
per loro, per le loro espressioni di trionfo. Nel sorpassarla,
incrociarono il
suo sguardo per un momento: uno di loro la ignorò, un altro
le fece un
occhiolino sfacciato, un altro si limitò a scrutarla
brevemente, un altro le
sorrise. Il sorriso più triste e vuoto che lei avesse mai
visto.
Kuu si chiese come due occhi di quel
caldo color cioccolato
potessero apparire così gelidi, dietro a quella misteriosa
patina di opaca
malinconia.
I ragazzi ripresero i rispettivi
posti, festeggiati da pacche
del loro manager, Benjamin Ebel, e del loro ormai storico produttore,
David
Jost.
Kuu scorse una ragazza alta e
slanciata, vestita esattamente
come le bodyguards, un paio di occhiali scuri a nasconderle gli occhi,
che si
alzò a salutò il ritorno di Tom con un bacio
sulle labbra. Non fu difficile
riconoscerla come la sua ragazza, una figura di certo non nuova al
pubblico più
fedele, dato che ormai era già più volte comparsa
su diversi giornali, in
qualche servizio su di loro e anche ad un paio di eventi come quello,
senza
contare le sue occasionali apparizioni in un paio di episodi della
Tokio Hotel
TV.
Subito accanto, invece,
c’era la ragazza di Georg, vestita
in modo decisamente più affine ai gusti di Kuu, anche se
forse un po’ troppo
sobrio e discreto, ma le piaceva l’abbinamento tra le
ballerine rosse e i jeans
grigio scuro, senza contare che la maglietta bianca sfrangiata che
portava
sotto alla giacchetta nera satinata aveva tutta l’aria di
provenire
direttamente dalla collezione disegnata da Bill. Era più
fine, rispetto
all’aggressività che comunicava lo stile della
ragazza di Tom, e più femminile,
e sembrava sentirsi terribilmente spaesata, là in mezzo,
fino a che Georg la
prese per mano, e lei si rilassò immediatamente.
Kuu si chiese dove avessero lasciato
la figlia di lei, dato
che della piccola non c’era traccia.
Assieme a loro, in jeans e camicia
bianca, c’era anche il
fascinoso DJ Djevel, fratello della ragazza di Tom, che al momento
stava
brindando l’ennesima vittoria assieme a Bill e Gustav.
“Non ce l’hai un
po’ di orgoglio?” le sussurrò Kaaos ad
un
orecchio.
Kuu lo spinse via, infastidita.
“Ero solo curiosa di
vederli nel loro ambiente naturale.”
Era strano, in effetti, trovarsi
lì, perché tante volte
aveva sognato qualcosa di simile. Ora che anche lei aveva avuto accesso
a
quell’ambiente, le sembrava solo tanto fumo e poco arrosto,
una grande,
spettacolare illusione montata per essere venduta al pubblico.
Guardò il prezioso premio
che le scintillava di fronte,
messo in bella mostra sul tavolino, e lo visualizzò nella
propria stanza nella
vecchia casa dei suoi a Potsdam, la sua cittadina natale: avrebbe fatto
una
magra figura con quell’arredamento spartano.
Fin da piccola, Kuu aveva sempre
odiato quella casa, un
minuscolo trilocale a stento sufficiente ad ospitare tre persone. I
suoi non
avevano più avuto figli, dopo di lei, perché non
se li sarebbero potuti
permettere, e così lei aveva vissuto di sacrifici, vestendo
gli abiti dismessi
delle proprie cugine più grandi, acquistando libri di testo
usati per la
scuola, e i pochi soldi che riceveva li teneva da parte per comprare CD
e
biglietti per i concerti. Anche dopo, quando aveva iniziato a lavorare,
quel poco che le restava dai contributi ai suoi per aiutarli con le spese
e dal
pagamento della retta per l’università, li aveva
spesi per quello.
Adesso che era una cantante famosa,
tutto era diverso.
Dopo la firma del contratto
discografico con la Universal,
lei e Kaaos avevano avuto necessità di prendere un
appartamento a Berlino, di
comprarsi vestiti più consoni a delle rockstar, e finalmente
lei si era potuta
permettere un pianoforte tutto suo, un magnifico Bösendorfer
290 Imperial che
aveva sognato fin dalla più tenera età, quando
aveva iniziato a prendere le
prime lezioni di piano da sua prozia Ingrid. Da allora, la musica era
stata
tutta la sua vita.
“Ragazzi,” li
richiamò Griet. “Tutto ok?”
Kuu le sorrise ed annuì.
Aveva sempre adorato Griet, una
donna energica e piena di vita, che si era fatta in quattro per loro,
per
aiutarli a sfondare, e non avrebbe mai smesso di esserle grata di tutto
quanto.
Le veniva un po’ da ridere, però, a vederla
agghindata in quell’abito da sera,
perché Griet era tutto, fuorché una da abiti da
sera. Da come continuava ad
aggiustarselo addosso, infatti, era più che palese che non
vedesse l’ora di
sbarazzarsene e tornare al suo solito, confortevole abbigliamento
casual.
“Questo è
soltanto l’inizio.” Promise loro. “Mi sto
dando da
fare per organizzarvi qualcosa che non potete nemmeno
immaginare.”
“Una megavacanza di sei
mesi su un’isoletta in Islanda?”
domandò Kaaos, fingendosi speranzoso. Era un orso solitario
un po’ allergico
agli eccessi di attenzione. Gli piaceva l’idea di iniziare a
suonare in giro
per la Germania, e, perché no, magari anche per
l’Europa o il mondo, un giorno,
ma Kuu sapeva che tollerava malvolentieri l’invadenza dei
media.
“Vuoi una vacanza di sei
mesi dopo neanche tre mesi che sei
famoso?” Griet schioccò la lingua con scherzoso
rimprovero. “Ragazzo mio, non
credo che ti sia ben chiaro come funzionano le cose nel jet
set.”
Kaaos si stiracchiò,
protendendo avanti a sé le lunghe
braccia sottili. La giacca di pelle si tese sulla sua schiena.
“Per ora mi posso
accontentare della mia suite di hotel a cinque
stelle con servizio in camera ventiquatt’ore su
ventiquattro.” Dichiarò,
soddisfatto, accavallando pigramente le gambe da ragno.
Kuu raccolse il proprio bicchiere di
San Pellegrino e ne
prese un sorso.
“Non hai classe, Kaaos.
Puoi fare finta di fare il bel
tenebroso quanto vuoi, ma sei nato campagnolo e campagnolo
morirai.”
Lui rise.
“Scusate, Lady Kuu, se non
sono degno della vostra nobiltà.”
“Mi serve
un’aspirina.” Disse lei, portandosi con grazia una
mano alla tempia. Stava iniziando ad avvertire uno sgradevole cerchio
alla
testa.
Subito Griet afferrò la
propria immensa borsa e si mise a
rovistarci dentro.
“Sono sicura di avere
qualche analgesico,” borbottò. “Hai
qualcosa nello stomaco, vero?”
Kuu distolse lo sguardo e fece finta
di niente quando Kaaos
le lanciò un’occhiatina insinuante.
“Sì,
certo.”
“Ecco qui.” Griet
le porse un paio di pastigliette. “Meno
male che non hai preso alcolici.”
Kuu buttò giù
tutto assieme a un bicchiere d’acqua.
Nonostante l’euforia per
quella serata tanto attesa e di
successo, non si sentiva particolarmente in forma. Ma c’era
l’afterparty, a
show finito, ed era una cosa che lei non si sarebbe persa per nulla al
mondo.
Kaaos aveva già specificato che lui avrebbe partecipato solo
a patto che gli
lasciassero scolare tutti i whiskey che voleva; Griet glielo aveva
concesso solo
perché conosceva la sua impeccabile resistenza
all’alcol.
La curiosità di Kuu verso
l’afterparty, invece, era
decisamente più pragmatica: gli ospiti sarebbero stati
personalità di cui lei
stessa era ammiratrice. Ci sarebbero stati Nena, i Silbermond, i Cinema
Bizarre, LaFee, e ovviamente i Tokio Hotel, e come ospiti
internazionali i
Linkin Park e perfino e i Depeche Mode. E lei non sarebbe stata solo
una
comparsa, ma una di loro.
Giornali del calibro di Kerrang e
Rollingstone ci avevano
messo poco a fiutare nei Pristine Blue un grandissimo potenziale e
avevano
dedicato loro articoli decisamente lusinghieri, per una band
esordiente. ‘La
principessa del rock tedesco’, così Rock Sound
aveva definito Kuu dopo l’uscita
di Skies Can Cry, il loro primo singolo, che aveva raggiunto il disco
d’oro a
una sola settimana dalla pubblicazione e il platino a un mese.
Kuu era stata orgogliosa di quei
risultati. Aveva dato anima
e corpo per arrivare fin dov’era e aveva tutta
l’intenzione di restarci, a
qualunque costo.
“Ci aspetta il bis di red
carpet, tra poco.” Le rammentò
Kaaos, vuotando il suo terzo calice di champagne. “Se qualche
ragazza mi regala
un altro orsacchiotto, non rispondo delle mie azioni. Griet,”
Si voltò verso la
manager. “Urge un’intervista in cui mi chiedano
cosa detesto, così forse la
smetteranno con i peluche.”
“Preferiresti forse delle
bottiglie di vino?” lo stuzzicò
Kuu.
“Touché, mon
amie. Un bel Pinot Grigio, o un Marsala, o del
Barbera, magari.”
“Ho idea che tu ti sia
abituato troppo in fretta ai capricci
da star, sai?”
“Oh, sentitela!”
la rimbeccò lui. “Miss
Mi-metto-un-Versace-perché-uno-Chanel-sembrerebbe-dozzinale.”
Kuu gli allungò un calcio
stizzito sullo stinco.
“E quella con cui mi hai
appena colpito non è forse una banalissima
Jimmy Choo?” insisté Kaaos.
“Oh, sei
impossibile!” sbottò lei, imbronciandosi.
“Buoni, voi due.”
Li ammonì Luke, divertito. Era un uomo
sulla quarantina, alto e robusto, con due penetranti occhi blu che a
Kuu erano
sempre piaciuti. Le ispiravano fiducia. “Non costringetemi a
dividervi.”
“Quanto manca alla fine
dello show?” domandò Kaaos,
sbadigliando.
Griet controllò
l’ora sul trasandato Swatch che teneva al
polso, una pessima stonatura con la raffinatezza dell’abito.
“Ormai è
questione di minuti. Iniziate a prepararvi. Con
quel gingillino in mano, vi pioveranno addosso un sacco di
giornalisti.”
Rispose gioviale.
Una decina di minuti più
tardi, infatti, le telecamere
all’interno della’arena si spensero e la gente
iniziò a defluire a piccoli
gruppi, scortati da guardie in divisa.
“Afterparty,
here we come!” si rallegrò Kaaos, alzandosi in
piedi.
Kuu lo imitò. Si
sistemò il vestito, assicurandosi che non
ci fossero sgualciture o altro, raccolse la pochette e il premio, poi
prese il
braccio che Kaaos le offriva. Facevano abbastanza specie, loro due, a
braccetto: lei era alta poco più di un metro e mezzo, lui
quasi due metri.
Si avviarono verso l’uscita
insieme a Griet e Luke. Erano in
molti a occhieggiarli incuriositi.
Una volta fuori, trovarono un grande
affollamento: gli artisti
venivano fermati per foto e interviste e i fan gridavano a
squarciagola. Un
paio di metri avanti a loro, i Tokio Hotel, privi del loro seguito di
compagne,
management e security, venivano tempestati di flash e lodi, mentre una
donna in
tailleur rosso acceso se li mangiava con gli occhi tra una domanda e
altra.
“Poco fa ci avete regalato
una performance degna dei posteri
con il vostro nuovissimo singolo. Che cosa ne pensate delle altre
esibizioni di
stasera?”
Prevedibilmente, fu Bill a prendere
la parola:
“Ci è piaciuta
molto tutta la serata. Esibirci è stato un
onore, soprattutto perché abbiamo visto che anche gli altri
sono stati molto
brillanti. Personalmente mi sono piaciuti i Silbermond, ed era anche la
prima
volta che sentivo i Pristine Blue dal vivo. Davvero bravi. Credo che la
voce di
Kuu sia una delle più belle che si siano sentite in giro
negli ultimi anni. Sono
sicuro che arriveranno lontano.”
Oh, per
favore!
Kuu gli lesse nel tono della voce un
chiaro filtro di
diplomazia, anche se probabilmente era sincero.
“Ma chi lo veste,
quello?” commentò Kaaos, scuotendo la
testa di fronte al discutibile gilet in simil-coccodrillo che Bill
indossava.
Kuu fece una smorfia disgustata.
Preferiva di gran lunga le
cose raffinate a quelle estrose.
“Suppongo ci pensi da
solo.”
Per la verità,
però, Bill le piaceva: era un tipo in gamba,
che non si curava di ciò che gli altri dicevano di lui e
andava avanti per la
sua strada. Aveva carattere, un carisma e una presenza scenica innati,
e lei,
segretamente, un po’ lo invidiava. Il suo era un fascino che
non aveva nulla a
che vedere con la sua innegabile bellezza androgina; gli veniva da dentro,
ed era
una cosa che nessuno gli avrebbe mai potuto portare via.
“Noi andiamo
avanti.” Bisbigliò Griet frettolosamente,
lasciandoli soli in pasto alle telecamere. “Ci vediamo in
macchina.”
All’inizio Kuu era stata
colta impreparata dall’impetuosità
dei media, ma aveva imparato in fretta: sorriso affabile, cortesia,
sguardi
complici nell’obiettivo, e tanta prudenza
nell’esternare i propri pareri. Era
tutto lì, un gioco abbastanza semplice.
Tutto era semplice, se sapevi mentire.
“Sorridete, Lady
Kuu,” sussurrò Kaaos, avanzando verso
l’occhio del ciclone di giornalisti, che, mentre i Tokio
Hotel si
allontanavano, ormai non attendevano che loro due. “Il popolo
vi acclama.”
Kuu lo seguì ad occupare
il posto appena lasciato dai Tokio
Hotel, che ora posavano in un angolo per gli scatti di rito con i premi
mietuti.
Mentre la giornalista iniziava con le
domande, Kuu li
osservò: sorridevano raggianti, mostrando i quattro awards
senza segni di
ostentazione.
Ad un tratto, senza un
perché, uno di loro si voltò verso di
lei, e lei si ritrovò a incontrare lo stesso sguardo
malinconico di poco prima,
e per un attimo si sentì violata
dall’intensità di quegli occhi.
Durò solo un battito di
ciglia. Il momento dopo, i Tokio
Hotel se ne stavano andando e lei stava raccontando alla giornalista le
proprie
impressioni sullo show.
Quello sguardo, però, non
se lo sarebbe dimenticato.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Note:
ed eccomi qui, come promesso, con questa nuova avventura targata Tokio
Hotel. Il primo capitolo, come sempre, non è che un breve
accenno di introduzione alla storia, quindi dal prossimo mi
dilungherò decisamente di più. Per ora, questo
è quanto. ^^ Ovviamente tutto ciò che
scriverò in questa storia sarà frutto della mia
immaginazione e, a parte i personaggi che sarete in grado di
riconoscere come realmente esistenti, il resto è tutto
puramente inventato, Pristine Blue compresi.
So già che molti di voi, leggendo questo breve capitolo
introduttivo, avranno storto il naso di fronte a Kuu, e magari si
saranno anche detti "Questa è una Mary Sue bella e buona".
Se così fosse, non potrei darvi torto, però
vorrei semplicemente mettere in chiaro che non c'è mai nulla
di lasciato al caso, nelle mie storie. Se una determinata cosa
è in un modo piuttosto che in un altro, c'è un
perché, e se un personaggio è così
piuttosto che cosà ha le sue buone (o cattive?) ragioni di
esserlo.
Quello che voglio dire, anche se spero vivamente che non ce ne
sia bisogno, è che c'è una abissale differenza
tra una semplice Mary Sue messa lì solo per conquistare il
cuore di Bill (o Tom, o Georg, o Gustav) con la sua accecante bellezza
e uno sguardo seducente, e un personaggio pensato invece per
essere presentato così, creato con consapevolezza e
soprattutto uno scopo preciso. Siamo solo all'inizio e la storia
sarà lunga, spero abbiate abbastanza fiducia in me da
aspettare a dare giudizi negativi su Kuu o chiunque altro. Se poi,
più avanti, lo vorrete fare lo stesso, lo
accetterò di buon grado. ;)
A proposito di nuovi personaggi, vi linko l'immagine con la copertina
dell'album dei Pristine Blue, così vi potete fare una mezza
idea di come li ho immaginati: Kuu
& Kaaos
I commenti sono sempre e comunque i benvenuti. Che pensiate o meno di
essere banali, il parere di un lettore è sempre importante,
per uno scrittore che si vuole migliorare, quindi apprezzerò
molto se vorrete farmi il regalo di una recensione, breve o prolissa
che sia.
Intanto, grazie in anticipo a tutti!
|
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Capitolo 2 *** Ever Dream ***
I've dreamt so long I
cannot dream anymore
(Anywhere,
Evanescence)
***
‘PRISTINE
BLUE: HARD
ROCK & PIANOFORTE DAL CUORE DI BERLINO’
Sono stati
definiti la
promessa 2010 del rock tedesco ed eletti come Miglior Artista Emergente
agli
Echo Awards, ma loro non si lasciano impressionare da questo successo
così inatteso.
Kuu e Kaaos (foto), voce-pianoforte e seconda voce-chitarra
dell’ormai
celeberrimo duo Pristine Blue, sono due amici di vecchia data (22 anni
lei, 24
lui). Fanno musica insieme fin da quando andavano alle elementari, ma
il vero
punto di svolta della loro vita risale a tre mesi fa, al lancio del
loro
singolo di debutto, Skies Can Cry. La scoperta del loro talento si deve
all’etichetta Universal (che già ha regalato al
mondo una perla teutonica di
cui oggi nessuno può più fare a meno: i Tokio
Hotel) e alla loro grintosissima
manager, Griet Schliemann, che ha subito saputo fiutare il loro talento
e il
loro enorme potenziale.
“Siamo
felici di
vedere che il pubblico tedesco apprezza il nostro stile,” ci
racconta la bella
Kuu, seduta assieme all’avvenente Kaaos sul divanetto della
sua suite
all’****** Hotel, in assoluta tranquillità.
“Sappiamo che il nostro genere non
è esattamente pane per tutte le bocche, ma siamo molto
soddisfatti dei responsi
che stiamo ricevendo, e contiamo di promuovere l’album anche
in Europa, appena
uscirà.”
La data di
uscita del
loro primo album, A Broken Guitar Can’t Play Lovesongs,
preceduta da un lancio
in grande stile dal singolo, è prevista per il 31 di gennaio
e migliaia di fans
sono già in trepidante attesa. Più di ventimila
copie sono già state prenotate
e ora l’aspettativa ruota tutta attorno ad
un’unica, grande speranza:
l’annuncio di un concerto. Per il momento, però, i
ragazzi preferiscono
saggiamente concentrarsi su un passo per volta.
“Come
ci si sente a
firmare un contratto con la casa discografica che vanta di aver
lanciato la
band tedesca – e forse addirittura europea –
più famosa ed amata al mondo?”
“Ne
siamo molto
lusingati ed orgogliosi,” risponde subito Kaaos, con la sua
voce profonda.
“Apprezziamo molto i Tokio Hotel. Li abbiamo seguiti fin dai
primissimi esordi,
e Kuu era una di quelle ragazzine che si accalcano davanti ai palchi e
urlano
isteriche ai loro concerti.” (ride)
Kuu ride.
Lei e Kaaos
sembrano perfettamente a proprio agio, perfino quando le domande si
fanno più
indiscrete.
“Corre
voce che voi
due siate romanticamente coinvolti…”
“Sono
solo
pettegolezzi,” chiarisce Kuu con disinvoltura.
“Siamo cresciuti insieme, siamo
praticamente fratello e sorella, non c’è niente di
più che una bella amicizia
tra di noi.”
Kaaos
annuisce ma non
aggiunge altro.
È
strano da credere
che un ragazzo e una ragazza così affascinanti riescano a
passare una vita
intera insieme senza innamorarsi, ma i Pristine Blue non si stancano
mai di
smentire le insedabili voci sulla loro presunta relazione segreta.
Alcuni
ritengono che…
Bill si arrese. Non ce la faceva a
concentrarsi sugli
articoli. C’erano i Tokio Hotel in copertina, ma dentro
c’era un servizio
gigantesco tutto dedicato ai Pristine Blue, in confronto al quale
quello su di
lui e gli altri sembrava invisibile.
Il fascino
della
novità.
C’era un poster nella
pagina centrale, una foto del duo
presa da qualche photoshoot: Kaaos vestito in modo molto trendy, seduto
su una
poltrona antica di broccato rosso, le gambe accavallate, una mano sotto
al
mento, gli occhi che guardavano in alto verso Kuu, una mano sulla sua
schiena.
Sembrava un modello, alto e magro com’era. Kuu, invece, era
in piedi accanto a
lui, di tre quarti, con un lungo abito scarlatto profondamente scollato
sulla
schiena, una gamba nuda sollevata per appoggiarsi al bordo della
poltrona di
Kaaos, delle decolleté nere stretta attorno alle
caviglie da un cinturino.
I capelli corti e biondi, le lentiggini sul piccolo naso sottile e
sugli
zigomi, l’espressione impertinente, gli occhi ambrati puntati
dritti
nell’obiettivo, mentre la sua mano puntava sotto al suo mento
una pittoresca e
bellissima pistola in argento lavorato.
Era bella.
Era sensuale.
Era perfetta.
Bill aveva l’occhio
allenato nel riconoscere un bell’aspetto
costruito e uno naturale: benché fosse stata truccata da
mani esperte, non era
complicato capire che, anche in versione acqua e sapone, Kuu sarebbe
stata
comunque parecchio attraente.
Bill non sapeva bene che idea farsi
su quei due: la loro
musica gli piaceva molto, per quel poco che aveva sentito, e non era da
lui
essere così ipocrita da giudicare qualcuno
dall’aspetto. Se era vero, da un
lato, che la maggior parte dei cosiddetti ‘artisti’
dotati di una certa
avvenenza erano solo delle macchine commerciali, era anche vero,
dall’altro,
che esistevano numerose eccezioni. Lui sentiva, senza false modestie,
di
esserne la prova. Chiuse la rivista RockIt e la lasciò
perdere. Aveva ben altro
per la testa.
Non stava più nella pelle:
erano due settimane che aspettava
con trepidazione quell’evento e stentava a credere che fosse
finalmente giunto
il momento: barbecue a casa Wolner.
L’idea piuttosto bizzarra
di un barbecue in pieno gennaio
era stata, senza troppe sorprese, di BJ. Bill ne era stato subito
entusiasta,
soprattutto perché sarebbe stata una cosa praticamente di
famiglia: ci
sarebbero stati, ovviamente, i padroni di casa, Vibeke e BJ, e poi
Patrick, il
manager di BJ, e Benjamin, David e Dunja, Natalie e suo figlio Eric,
Georg,
Nicole ed Emily, Gustav, e infine lui e Tom. Andreas, poi, in via del
tutto
eccezionale, li avrebbe raggiunti nel pomeriggio per la merenda.
Georg e Gustav erano usciti presto
per andare a comprare
qualcosa di buono da portare alla festicciola, per poi passare a
prendere
Nicole ed Emily alla stazione. Si sarebbero fermate ad Amburgo per
qualche
giorno, fino a che non fossero ripresi gli impegni mondani del gruppo.
Mentre Tom guidava verso casa Wolner,
Bill gli sedeva
accanto, fremente di entusiasmo, chiedendosi cosa ci si dovesse
aspettare da
una grigliata ad opera di un vegetariano. Probabilmente un sacco di
verdure e
tofu. Tutta roba che per lui e i ragazzi sarebbe stata
pressoché iningeribile.
“Ti vuoi dare una calmata o
ti devo dare una mazzata in
testa?” gli sbottò contro Tom, frenando
bruscamente ad un semaforo rosso.
“Cosa sto
facendo?” chiese Bill, sentendosi ingiustamente
accusato.
Tom gli scoccò
un’occhiataccia in tralice, ripartendo.
“Sei tutto
un’agitazione unica! Nemmeno stessimo andando a
una festa privata di Nena, cazzo!”
“Che lagna che
sei!” sbuffò Bill. “Adesso sono posso
nemmeno
essere felice di stare un po’ con i miei amici?”
“Ho capito, ma mi stai
mettendo un’ansia addosso che non ti
dico!”
“Scusa se sto squilibrando
il tuo sensibile animo zen.” Lo
scimmiottò Bill.
Tom, saggiamente, decise di non
replicare. Accostò al
marciapiede e sistemò la Cadillac nel posteggio con una
manovra fluida e
sicura, quindi spense il motore e tolse le chiavi.
“Chiudi il becco e scendi,
che è meglio.” Intimò poi a Bill.
Scesero entrambi e Tom chiuse
l’auto con un bip del piccolo
telecomando.
“Oh, guarda,”
esclamò Bill, individuando una zazzera bionda
che emergeva da un’Audi nera.
“C’è Benji!”
Sollevò un braccio in aria,
iniziando a sventolarlo. “Hey, Benji!”
Benjamin sollevò lo
sguardo verso di loro e, dopo un attimo
di sorpresa, sorrise.
“Ciao, ragazzi!”
Suonarono e il portone si
aprì immediatamente. Salirono
insieme con l’ascensore e percorsero il breve tratto di
corridoio fino alla
porta dei Wolner chiacchierando del più e del meno. Quando
premettero il
campanello, fu BJ ad aprire, e lo fece con un sorriso che avrebbe
tranquillamente eclissato il sole.
“Benarrivati!”
esclamò, gioviale e frizzante come suo
solito. Si era fatto crescere il pizzetto e Bill la giudicava una
scelta molto
azzeccata: stava benissimo con la lunga coda bionda.
BJ si fece da parte per farli entrare
e, passando, sia
Benjamin che Tom, ridendo, gli posarono un bacio frettoloso sulla
guancia,
lasciando Bill alquanto perplesso.
“Tu non lo baci il
norvegese?” gli disse BJ, serioso, dopo
aver chiuso la porta, indicandosi il petto. Solo allora Bill
notò che il
grembiule che portava sopra alla maglia rossa aveva stampata sopra la
scritta
‘Kiss the Norseman’.
“Oh.” Bill ebbe
un momento di esitazione, ma alla fine
elaborò il concetto, e rise divertito.
“Sì, hai ragione!” E si
allungò appena
per dare il proprio contributo, sfiorando la guancia di BJ con le
labbra.
“Lo voglio
anch’io un grembiule così!”
esclamò la voce
lontana di Vibeke.
Bill la vide apparire dalla cucina,
con indosso un vestito
nero e viola che sembrava provenire direttamente da un romanzo
vittoriano. Le
stava bene, però.
Non appena si accorse di lei, Tom la
raggiunse e le afferrò
possessivamente i fianchi con un sogghigno furbo.
“Te ne regalo io uno bello:
‘Touch me and my Kaulitz kills
you’. Ti piace?”
Vibeke gli avvolse languidamente le
braccia attorno al
collo.
“Adorabile.”
Sussurrò, poco prima di baciarlo.
“Prendetevi una stanza,
voi, due, ci sono dei minorenni, qui!”
Bill si voltò mentre si
sfilava il cappotto: dalla sala da
pranzo aveva appena fatto capolino Georg, con una tartina in mano e un
sorriso
che gli andava da un orecchio all’altro. Si sentiva un coro
di voci provenire
dalla stanza alle sue spalle.
“Hey,
com’è che il mio follettino non mi è
ancora saltato in
braccio?” si chiese Bill, preoccupato. In genere Emily
impiegava cinque secondi
netti a fiondarglisi al collo, quando arrivava.
“Mi sa che stavolta devi
andartela a cercare.” Gli disse
Georg. Bill non lo aveva notato subito, ma aveva un’aria tesa
e stanca. “Ha
fatto amicizia con Eric.”
Bill ci rimase molto male: era la
prima volta da sempre che
Emily non gli correva incontro festante. Le aveva anche portato un
delizioso
krapfen che aveva tenuto da parte solo per lei.
“Hey, non si saluta
più lo zio Bill, adesso?” gridò,
portandosi le mani ai lati della bocca.
Bastò un niente: un attimo
prima non c’era, un attimo dopo
Emily era tra le sue braccia e lo baciava a pioggia sulle guance e sul
naso.
“Ah, ora sì che
si ragiona!” miagolò Bill, soddisfatto.
Dopo il suo urlo, erano spuntati
anche Natalie, Gustav,
Patrick e Nicole.
“Ho un regalo per
te.” Disse Bill ad Emily, dopo averla
messa giù per salutare gli altri. Prese il piccolo sacchetto
dalla tasca del
proprio cappotto e glielo porse. “vedrai che buono!”
“Che
cos’è?” domandò Emily,
sbirciando curiosa dentro al
pacchettino.
“È un krapfen ai
lamponi.”
Emily, però,
anziché gioire e ringraziarlo, come lui si era
aspettato, fece una faccia perplessa.
“Lamponi?” Si
voltò verso Nicole, smarrita. “Che
cos’è lamponi?”
Nicole si avvicinò e le
sorrise materna.
“Raspberries,
honey.”
“Oh,
I
see!” Gli occhi di Emily si illuminarono
all’istante. “Lamponi…
Thank you, Bill!”
“Prego!” rispose
Bill, compiaciuto, poi si chinò e le porse
una guancia. “Non me lo merito un bacione?”
Felice, Emily gli prese il viso tra
le sue manine e gli
schioccò un bacio sonoro.
“Mamma, lo devo mangiare
dopo, vero?” chiese poi a Nicole.
“Puoi assaggiarne un
pezzetto, se vuoi.” Le fu concesso. “Il
resto però dopo pranzo.”
Emily fissò brevemente il
grosso dolce sul fondo del
sacchetto, poi tornò a guardare la madre:
“Ne do un pezzettino a
tutti?”
A Bill si sciolse il cuore, anche se
una parte di lui non
aveva potuto fare a meno di pensare ‘No, l’ho preso
per te, è un regalo solo
tuo!’. Ma si trattenne dal dirlo, intenerito da quel pensiero
così altruista
che lui, al suo posto, difficilmente avrebbe avuto.
“È un regalo di
Bill per te,” intervenne però Georg.
“È
giusto che lo mangi tu. Noi abbiamo tante altre cose buone.”
Emily sorrise raggiante; richiuse
accuratamente il
sacchettino e lo andò a posare in un angolo, accanto al
telefono del salotto.
“Lo mangio per
merenda!” annunciò allegramente, come a voler
rassicurare Bill. “Adesso torno a giocare con Eric!”
“È
amore.” Commentò Natalie, guardandola con affetto
mentre
la piccola le passava accanto trotterellando.
“Nemmeno per
sogno!” la contraddisse subito Bill. “Emily
è
innamorata solo di me!”
“Attenzione, gente, fate
largo, l’ego di Bill sta di nuovo
traboccando!” lo prese in giro Tom, seduto sul divano con
Vibeke avvinghiata
addosso.
Bill gli rispose con una linguaccia.
Dieci minuti dopo, arrivarono anche
Dunja e David, e la
compagnia fu al completo. Dopo un po’, Bill lasciò
i vari gruppetti a chiacchierare
e uscì sulla terrazza a vedere cosa stava facendo BJ. Lo
trovò affaccendato
davanti alla piastra del barbecue, rivoltando delicatamente
sottilissime fette
di zucchine, melanzane e della roba gialla che sembravano patate.
Proprio in quel momento il suo
stomaco decise di mettersi a
brontolare. Fu solo per quello che BJ si accorse di lui e si
voltò.
“Spii i segreti dello chef,
eh?”
Bill rabbrividì. La
terrazza era ben protetta dal vento
grazie alla folta siepe che correva lungo il bordo, ma faceva comunque
un bel
freddo, anche se c’era il sole. Dal barbecue,
però, proveniva un piacevole
tepore, così si avvicinò, occhieggiando
sospettosamente quella montagna di
verdura.
“Tranquillo,”
disse BJ, iniziando ad ammucchiare le patate
dorate in un piatto. “C’è anche roba per
voi carnivori.”
Bill si portò le mani
sulla pancia affamata, decisamente
risollevato.
“Ah, meno male.”
“Dobbiamo mettere un
po’ di muscoli su queste ossa!” Rise
BJ, punzecchiandolo con un dito tra le costole.
Bill si ritrasse, senza riuscire a
trattenere un risolino.
Soffriva da morire il solletico.
“Allora,” riprese
BJ. “Pronto per il nuovo tour?”
Bill annuì, ma con poca
convinzione.
“Benji e David dicono che
sarà una novità, rispetto ai
precedenti, ma non ci hanno ancora rivelato i dettagli. Mi chiedo
cos’abbiano
in mente.”
“Be’, tra un paio
di mesi siete on the road, quindi lo
scoprirete presto, no?”
Bill si appoggiò con la
schiena al muro lì accanto, finendo
per trovarsi di fronte a BJ.
“Sono felice di tornare a
esibirmi, ma non nego che un po’
mi stavo abituando alla vita casalinga.” gli
confidò.
BJ non spostò la propria
attenzione dal grill, ma sorrise.
“Eppure è
già qualche mese che state girando per l’Europa,
tra trasmissioni e interviste.”
“Sì, ma alla
fine torniamo sempre a casa. Con il tour sarà
diverso. Vai via a marzo e torni a settembre…
C’è una bella differenza.”
“Lo so.”
Sospirò BJ. Bill lo vide stranamente abbacchiato.
Non gli ci volle nemmeno molto per rendersi conto del perché.
“Ti portiamo via Vibeke,
vero?” Gli fece quasi male chiederlo.
L’espressione di BJ era
serena, ma velata di rassegnazione.
“Non siamo mai stati
lontani per più di quarantott’ore. Sarà
strano non vederla per mesi.”
Bill immaginò di essere al
suo posto, di essere costretto a
stare interi mesi senza Tom. ‘Che pacchia!’, fu
l’istintivo pensiero che gli
sovvenne, ma poi si sentì immediatamente gelare: restare
separato da Tom così a
lungo era al di là di ogni sua concezione. Sarebbe
impazzito, nel migliore dei
casi, o morto di nostalgia. Due persone nate insieme non erano fatte
per vivere
distanti.
“Lo so che non è
normale che io e lei siamo così
morbosamente attaccati,” aggiunse BJ, quasi a volersi
giustificare. “Abbiamo
quasi ventiquattro anni, sarebbe ora di tagliare il cordone
ombelicale…”
“Ma io ti capisco
benissimo!” lo rassicurò Bill, accorato.
“Io e Tom siamo nella stessa identica situazione. Siamo anche
stati fortunati a
trovare un lavoro che ci ha unito anche più di
prima.”
Il viso vagamente adombrato di BJ si
alleggerì dolcemente:
“È bello vedere
come vi guardate, anche quando siete
arrabbiati.”
Bill batté
inespressivamente le ciglia.
“Perché, come ci
guardiamo?”
BJ sorrise, e gli sembrò
un bambino da quanto quel sorriso
gli appariva spontaneo e sincero.
“Come se foste
l’uno l’ossigeno dell’altro.”
Ecco,
pensò Bill,
mentre il suo cuore sussultava. Questa
era la definizione che ho sempre cercato e non sono mai riuscito a
trovare.
Era esattamente così che
era, per lui e Tom: erano aria e
vita reciproche, e solo chi si sentiva come loro avrebbe potuto capire.
“Be’, lo siamo,
in fondo.”
“So che avrete cura della
mia piccola stronza, e che la
stresserete quanto basta per non farle sentire troppo la mia
mancanza.”
“Faremo tutti del nostro
meglio!” promise Bill. “Ma tu verrai
a trovarci, vero?” si volle assicurare poi.
“Insomma, qualche giorno di vacanza
te lo puoi prendere, no? Ti fai un paio di tappe con noi, ogni tanto,
così
siamo contenti tutti. Io e Tom ci siamo portati dietro Andreas per un
po’, nei
tour scorsi, non vedo perché non possiamo farlo anche con
nostro cognato!”
BJ emise una breve risata sommessa.
“Tecnicamente sarei il
cognato di Tom.” Lo corresse,
strizzandogli un occhio. “Io e te saremmo…
Concognati, suppongo si dica, no?” Corrugò
lievemente le sopracciglia, incerto. “Tipo consuoceri, ma
cognati.”
Per quel che ne sapeva Bill, poteva
anche essere, ma non ci
avrebbe messo la mano sul fuoco. Non che gli importasse
granché della
grammatica, comunque.
“Non ne ho la
più pallida idea.” Ammise, un po’
imbarazzato.
Ci si sarebbe aspettato che un madrelingua fosse in grado di dare
delucidazioni
linguistiche a uno straniero. “Comunque il punto è
che puoi venire a trovarci
quando vuoi.”
Lo sguardo di BJ si riempì
di gratitudine e affetto.
“Non
mancherò.” Promise. “Bene,”
raccolse le ultime verdure
dalla piastra e le sistemò su un altro piatto. “Mi
daresti una mano a portare
di là questa roba? Così qualche uomo di buona
volontà può venire a grigliare i
vostri pezzi di cadaveri innocenti.”
Qualcosa si aggrovigliò
spiacevolmente nelle viscere di
Bill, facendolo sentire colpevole come mai era stato, di fronte a un
pezzo di
carne. Per lui le bistecche erano sempre state solo bistecche, cibo, e
gli
animali erano sempre stati animali; due concetti ben scissi da un
preciso muro
di confine che adesso BJ gli stava scuotendo con un certo senso di
rimorso.
“Credo che mi sia appena
passato l’appetito.” Mormorò,
vergognoso, afferrando il piatto di patate che gli veniva porto.
Chissà che
cosa pensavano le persone come BJ e Vibeke, e come Nicole, di quelli
come lui.
Probabilmente
quello
che io penserei di un cannibale, rifletté,
terrorizzato.
Eppure sia Nicole che Vibeke stavano
con due discreti
consumatori di carne, quindi non potevano avere un concetto troppo
negativo di
loro.
Bill si voltò tentennante
verso BJ e lo scoprì a sorridergli
gentilmente mentre si incamminavano verso la porta-finestra che portava
al
salotto.
“Scusami,
davvero.” Gli disse BJ, con sincero pentimento.
“Non
voleva essere un’accusa o…”
“Vibeke dice sempre che
quella roba alternativa che mangiate
voi è buonissima,” lo interruppe Bill, senza
riflettere. “Dici che potrebbe
piacermi?”
Era impazzito. non gli sarebbe mai
piaciuto niente di quelle
strane cose di soia che si mangiavano loro, e lo sapeva. Avrebbe finito
col
vomitare nel piatto, come del resto già gli era capitato
altre volte, e fare
una figuraccia. Ma ormai il danno era fatto.
“Provar non
nuoce.” Lo appoggiò BJ, in tono entusiastico.
”Intendi ‘Tentar non nuoce’?”
“Sì,
giusto.” BJ gli aprì la porta a vetri e gli
cedette
educatamente il passo. “Ogni tanto ho qualche defaillance con
il tedesco.”
“Dovresti sentire me con
l’inglese.”
“Le lingue non sono mai
state il mio forte.”
“Non si direbbe!”
esclamò Bill, accorato. “Per essere qui da
solo quattro anni, tu e Vibeke sembrate dei madrelingua.”
Attraversarono il salotto affollato,
schivando per un pelo
Emily ed Eric che, sotto agli sguardi deliziati delle madri, si
rincorrevano
ovunque, e portarono tutto il sala da pranzo, rimasta deserta.
“Tutto merito di nonna
Hjordis.” Gli confidò BJ. Posò il
piatto sul tavolo e si pulì le mani nel grembiule.
“Sai, lei è stata
crocerossina durante la guerra. Ha imparato il tedesco sul campo, dai
soldati.
È stata lei a insegnarlo a mio padre, e poi a me e
Vibeke.”
Bill lo imitò, rimasto a
bocca aperta.
“La vostra è
proprio una famiglia stupefacente!”
BJ rise.
“Facciamo del nostro
meglio.”
Bill annuì, poi tacque per
qualche secondo, osservando
l’amico che, con gesti esperti, condiva, mescolava e
ridisponeva le pietanze
sopra i vassoi che c’erano in tavola. Il corso di cucina
aveva senz’altro fatto
il suo dovere.
“Non viene il tuo nuovo
ragazzo?” domandò a un certo punto,
senza un perché.
La testa bionda di BJ si
sollevò e si girò a guardarlo
ridente.
“Certo che mia sorella
è davvero una bella pettegola! E poi
Dom non è propriamente il mio ragazzo. Usciamo insieme,
tutto qui.” Una piccola
scrollata di spalle. “Comunque no, oggi non
c’è. Ha delle gare a Kempten.”
L’associazione automatica
con la parola ‘gare’ era
‘sport’,
termine che a Bill non piaceva nemmeno un po’, a meno che non
si trattasse di
una partita a pingpong o a biliardino, entrambe attività che
la maggior parte
della gente avrebbe definito ‘sport’ solo in una
barzelletta.
“Che cosa fa?”
“Pallanuoto.” Il
volto di BJ si illuminò. “Dovresti vedere
che fisico! Ovviamente non mi piace solo perché è
un bel ragazzo, però… Diciamo
che non guasta.”
Fu un commento che fece sentire Bill
stranamente a disagio.
Non era da lui sentirsi inadeguato, in nessun contesto: aveva
consapevolezza
delle proprie doti e dei propri limiti e raramente veniva colto
impreparato da
qualche osservazione. Quello di BJ, poi, era stato un commento
così spontaneo e
leggero che era impossibile prenderlo come una goffa gaffe, ma lo aveva
colto
alla sprovvista. Gli era sempre piaciuta la propria immagine, era
sempre stato
un narcisista e vanitoso, ma in quanto a fisico vero e proprio sapeva
che non
c’era storia: quattro ossa su un metro e novanta di statura
non era esattamente
un bel vedere. Nulla che una persona sana di mente avrebbe commentato
con
‘Dovresti vedere che fisico!’.
Non che gli fosse mai importato di
avere una corporatura
atletica – si piaceva così com’era
– ma i confronti estetici stuzzicavano
sempre la sua competitività.
“È
più bello di me?” buttò lì,
con casualità, pur conscio
che fosse una domanda ben poco ortodossa e anche piuttosto
imbarazzante, per un
ragazzo. Ma si dava il caso che il ragazzo in questione fosse BJ, e non
uno
qualunque, perciò la risposta che gli giunse fu
semplicemente l’ennesimo
sorriso aperto.
“Oh, Bill, nemmeno dio in
persona potrebbe essere più bello
di te.”
Bill dovette fare sforzi non
indifferenti per trattenere
qualsivoglia manifestazione di trionfo. Chiamò in causa
tutta la dignità di cui
disponeva e sfoderò una discreta nonchalance:
“Ho sempre apprezzato la
tua incorruttibile sincerità, sai?”
“Non lo metto in
dubbio.” Ridacchiò BJ. “Vieni, andiamo a
prendere la roba da bere.”
Bill lo seguì verso la
cucina. Non appena aprirono la porta,
prima ancora di entrare, si resero conto che la stanza non era vuota:
appoggiati
al bancone, proprio di fronte al lavello, c’erano Tom e
Vibeke. Non si capiva
bene dove finisse uno e iniziasse l’altra, dato che erano
abbracciati molto
stretti, immersi in un bacio che, a vedersi, era la cosa più
dolce e romantica
del mondo. Evento più unico che raro, per i loro standard.
“Oh, ma guardali, quei
due!” bisbigliò BJ, nascosto dietro
alla porta socchiusa. “Fanno tanto gli spacconi, ma sono due
cuori di panna!”
Bill si appoggiò alla sua
spalla per vedere meglio: Tom aveva
una mano sulla nuca di Vibeke e con l’altra le sfiorava il
fianco, mentre lei
gli teneva le braccia attorno al collo.
“Hai mai visto qualcosa di
più adorabile?” sospirò.
“Forse
sì.” BJ si girò per un attimo, le
labbra appena
incurvate. “Ma ciò non toglie che sono una bella
coppia di teneroni, se ci si
mettono. Hey, piccioncini!” Esclamò
all’improvviso, spalancando la porta. Tom
e Vibeke sussultarono e si voltarono di scatto. “Se avete
finito di
amoreggiare, metà del pranzo è pronto! Ci vuole
un’anima pia che si occupi
della metà non vegetariana, perché il
sottoscritto se ne chiama fuori.”
Tom, che dava loro le spalle,
affondò pigramente il viso nel
petto di Vibeke.
“Io sto bene
qui.” Mugolò.
“Chiedi a Gud,”
disse allora Vibeke, ridendo, mentre Tom le
si strusciava addosso come un gatto trascurato. “A lui piace
cucinare.”
Bill non fu affatto sorpreso:
scollare quei due nei loro
momenti di buona era impossibile.
“Vieni, Bill, lasciamo i
nostri Orsetti Pomicioni alle loro
occupazioni,” gli disse BJ, arretrando, ma prima si rivolese
un’ultima vota a
Vibeke e Tom: “Voi due, ricordatevi soltanto che siamo a un
barbecue di
famiglia, non una convention di pornostar. Abbiate rispetto per la mia
cucina.”
E ciò detto, li lasciarono
nuovamente soli.
A Bill, però, era rimasto
dell’amaro in bocca. Voleva bene a
Tom, si era sempre augurato che un giorno trovasse una ragazza come
Vibeke, che
sapesse renderlo felice e lo apprezzasse per l’idiota che
era, ma c’erano volte
in cui non riusciva a soffocare l’invidia che si sentiva
germogliare dentro.
Negli ultimi due anni lui e i ragazzi
avevano avuto
l’occasione di conoscere veramente solo due ragazze, e
nessuna di quelle due
era stata per lui, non perché non si fossero innamorate di
lui, ma perché non
sarebbero mai andate bene per lui.
Più ci pensava,
più Bill se ne convinceva: non esisteva una
ragazza che potesse essere per lui quello che Nicole e Vibeke erano per
Georg e
Tom, e se esisteva, lui non avrebbe mai avuto la fortuna di incontrarla.
***
La mano di lui le sfiorava la guancia
con devozione, mentre
lei, la testa chinata, sorrideva timidamente nel rispondergli. Una
serena
intimità traspariva dai loro gesti, dagli sguardi che si
scambiavano, perfino
mentre lei scuoteva debolmente la testa senza guardarlo e sussurrava
qualcosa
che portò la fronte di lui a corrugarsi accigliatamente.
Erano anime gemelle, chiunque sarebbe
stato d’accordo. Anche
guardando Nicole divincolarsi dalla stretta che Georg aveva sul suo
braccio e
voltargli le spalle per lasciare rapidamente la stanza.
Gustav non aveva sentito una sola
parola. Li aveva solo
osservati chiacchierare nella sala da pranzo vuota da un angolo del
salotto, e
anche se la conversazione non gli era parsa una delle più
felici, aveva
comunque invidiato quell’invisibile filo di collegamento
perpetuo che li teneva
insieme, e, sì, a volte vibrava pericolosamente.
Georg e Nicole, come tutte le coppie,
avevano i loro
problemi, aggravati, però, dalla difficile presenza di
Emily. Il loro, però,
era un rapporto maturo, profondo, diverso da quello di Tom e Vibeke:
Georg e
Nicole avevano avuto fin da subito la chiara consapevolezza di non
avere modo e
tempo per fare i fidanzatini tutti uscite e divertimento, ed era
proprio la
portata di questo sacrificio a dare a Gustav l’assoluta
certezza che il
sentimento che l’amico provava fosse amore vero. Non solo per
Nicole. Georg si
era innamorato, durante quel tour di ormai due anni prima, ma non
semplicemente
di una ragazza; Georg si era innamorato di una ragazza e della sua
bambina, e
da allora, nel bene e nel male, era sempre stato felice.
Era Tom, tuttavia, quello di loro a
cui le cose andavano
meglio: lui e Vibeke erano quasi sempre insieme, passavano la maggior
parte
delle loro giornate insieme a litigare e insultarsi, ma poi, alla fine,
se ne
stancavano, e si ritrovavano abbracciati da qualche parte a scambiarsi
baci e
coccole. Qualche volta avevano anche fatto finta di lasciarsi, per
motivi
variabilmente stupidi, ma non era mai durata più di qualche
giorno. Erano
strani ed incostanti, e forse il loro punto di forza era quello.
Perso nelle sue riflessioni, Gustav
si rese conto che Georg
gli si stava avvicinando solo quando questi gli fu praticamente accanto.
“Hey, tutto a
posto?”
Appoggiato mollemente allo stipite
della porta, Gustav lo
occhieggiò interrogativamente:
“Uh?”
Georg si infilò le mani in
tasca dei jeans e osservò con lui
Emily ed Eric che giocavano a Memory sul tappeto. Li guardava con
nostalgia,
forse un po’ di tristezza. Qualcosa non andava, Gustav lo
sentiva.
“Hai una faccia strana, da un po’,” gli
disse qualche secondo dopo. “Va tutto
bene?”
Le labbra di Georg si piegarono
lentamente in un sorriso
amarognolo mentre si voltava:
“Stavo per chiederlo io a
te. Cosa ci fai qui in un angolo
mentre tutti si divertono?”
Gustav scrollò le spalle.
“Guardo.”
“Cos’è che guardi?”
“Voi che vi divertite.”
Georg sollevò un
sopracciglio con ironia:
“Certo. Perché divertirsi in prima persona quando
si può benissimo stare a
guardare gli altri che lo fanno al tuo posto?”
Gustav tacque. Non sapeva cosa dire
e, anche sapendolo, non
avrebbe comunque trovato un modo per dirlo. Non avrebbe nemmeno avuto
senso
farlo. Lui non era come Bill, non si lamentava delle cose che lo
turbavano: lui
cercava da solo la soluzione e, in caso, teneva duro. Sbagliava, lo
sapeva, ma
era fatto così.
“Luna di nuovo storta,
eh?” fu il commento di Georg a quell’ostinato
silenzio.
“Oggi pare di
sì.” Bofonchiò Gustav, svogliato.
Gli dispiaceva essere così
freddo con Georg. Era forse il
suo amico migliore, ma proprio non gli andava di parlare, per il
momento. Lui
non avrebbe capito.
“Hey, eccovi qui!”
Si voltarono entrambi: Bill e BJ
erano giunti alle loro
spalle dalla cucina.
“Gustav, la regia mi dice che se c’è da
grigliare bene delle bistecche, mi devo
rivolgere a te.” disse BJ.
Gustav annuì. Non gli
dispiaceva l’idea di distrarsi un po’.
“Certo, non
c’è problema.”
“La roba è di
là nel frigo. La piastra di fuori è pronta
all’uso.”
Gustav lanciò una rapida
occhiata a Georg, poi si incamminò.
“Allora vado.”
“Attento agli Orsetti Pomicioni!” gli
gridò BJ. Lui e Bill scoppiarono a
ridere; Georg li guardò stranito.
Gustav fece finta di niente.
Fece finta di niente anche quando,
entrato in cucina, trovò
Tom e Vibeke immersi in un bacio così affamato che pareva
quasi che non si
vedessero da mesi, quando invece si erano visti solo la sera prima. Ma
sorrise,
perché lui probabilmente si sarebbe comportato allo stesso
modo, fosse stato in
uno di loro.
Prese indisturbato la carne e le
salsicce dal frigorifero ed
uscì in fretta sulla terrazza. Fu lieto di trovare
l’aria fredda ad
accoglierlo; cominciava a sentirsi soffocare, in casa.
Lavorò con calma per una
ventina di minuti. Ogni tanto Georg
usciva a vedere come andavano le cose e portava dentro qualche piatto
pieno.
Dentro si erano già accomodati tutti attorno al tavolo e
avevano iniziato ad
assaggiare qualcosa. Gustav non aveva un grande appetito, quindi non
c’era
fretta di finire e rientrare.
Aveva appena tolto l’ultima
braciola dalla griglia quando si
accorse che Benjamin e David si stavano dirigendo verso di lui, seguiti
da dei
perplessi Bill, Georg e Tom.
Aveva tutta l’aria di
essere una riunione improvvisata. Gli sarebbe
solo piaciuto saperne il motivo.
“Mi devo
preoccupare?” disse, quando furono tutti usciti e
David ebbe chiuso la porta finestra dietro di sé.
“Vorremmo saperlo anche
noi.” Gli rispose Georg.
Benjamin e David si occhieggiarono
l’un l’altro con aria
indecisa. La questione doveva essere seria.
“Breve e rapida
comunicazione di servizio.” Annunciò David,
stranamente composto. “Se la prima domanda è
‘Perché adesso?’, la risposta
è
‘Perché ci sono tutti quelli che dovrebbero
saperlo’. Ora, per favore, prima
ascoltate, poi commentate.”
Gustav era interessato e preoccupato
al tempo stesso. Date
le premesse, non poteva che essere una questione di lavoro, ma non
capiva quel
‘Perché ci sono tutti quelli che dovrebbero
saperlo’.
“Ragazzi,”
Benjamin si appoggiò al bordo del parapetto,
squadrandoli con attenzione. “Per il nuovo tour stiamo
pensando di
professionalizzare un po’ le cose.”
Il nuovo
tour?,
Gustav capiva sempre meno. Cosa
c’entra
con la gente che c’è oggi? E che cosa vuol dire
‘professionalizzare’?
Tom aggrottò le
sopracciglia, confuso ed anche un po’
offeso.
“Perché, fino ad
adesso come sono state?”
“Siete affermati,
ormai,” lo ignorò Benjamin. “Avete la
vostra
posizione consolidata in vetta alle classifiche di tutto il mondo,
siete
popolari e molto richiesti, è il momento di passare al
livello successivo.”
“E sarebbe?”
indagò Georg, un barlume di curiosità degli
occhi.
Benjamin inspirò, come
faceva quando sapeva che ciò che
stava per dire non sarebbe stato benaccolto, e così fece
David.
“Farvi affiancare da un
gruppo esordiente fisso che apra i
concerti del prossimo tour.” Disse tutto d’un
fiato. “Tutti quanti.”
L’espressione di orrore
puro che apparve sul volto di Bill
riassumeva perfettamente quello che tutti e quattro pensavano.
“Oddio, starai scherzando,
spero!”
“Non li vogliamo dei
mocciosi sul groppone!” protestò Tom
vivacemente.
David sospirò, roteando
gli occhi pazientemente.
“Ho parlato di un gruppo
emergente, non di bambini.”
“E a chi stareste
pensando?” si informò Gustav, cauto.
Benjamin esitò a
rispondere, e questo fu un segno
preoccupante. La conferma a quel sospetto impiegò meno di un
secondo ad
arrivare:
“Pensiamo che i Pristine
Blue siano perfetti.”
Gustav ci rimase di sasso. Gli
tornò alla memoria la serata
degli Echo, dove li aveva incontrati per la prima volta. Gli erano
sembrati
così diversi dai Tokio Hotel, così seri e
superbi. Non gli riusciva di
immaginarsi un intero tour assieme a loro.
A livelli commerciali,
l’espediente avrebbe senz’altro
sortito degli effetti più che positivi: già si
figurava l’esplosione di
interesse che avrebbe suscitato una simile notizia. I Tokio Hotel,
ormai
veterani a pieni diritti della scena musicale mondiale, e i Pristine
Blue, la
nuova, sfavillante proposta del rock tedesco, belli, talentuosi e
promettenti.
Era una bomba mediatica dall’innesco fin troppo semplice per
non essere fatta
esplodere. La stampa e la TV avrebbero avuto di che banchettare con una
ragazza
in tournée con cinque ragazzi, di cui uno si vociferava che
fosse il suo amante
segreto.
Ci doveva essere il fiuto della
Universal per gli affari
d’oro, sotto a quell’idea.
“Cosa?”
Bill era
scattato sull’attenti ed aveva piantato le mani sul tavolo,
ed ora fissava il
loro manager incredulo. “Benji, tu scherzi, vero?
Dimmi che scherzi, per
favore!”
“Sono in gamba e acclamati
da tutti,” intervenne David, con una
calma severa. “E il loro sound accompagnerebbe bene il
vostro: duro ma
ingentilito da toni soft.”
“Io con quelli non ci
suono,” borbottò Bill, ormai già
entrato in modalità ‘capricci a
profusione’. “Kuu si crede la regina della
terra, con tutte quelle arie che si dà…”
“Già,
chissà chi mi ricorda…”
Mormorò Georg, beffardo.
“E Kaaos è uno
sbruffone tale da poter competere con Tom!”
completò Bill, facendo dignitosamente finta di niente.
“Fratello, gradirei che tu
la piantassi di parlare come la
mia ragazza.” Berciò Tom, allungandogli un calcio
agli stinchi.
“Se mi chiami
‘fratello’, sei tu che parli come la tua
ragazza!”
“Ragazzi,”
sospirò David, con il tono di chi era sull’orlo
di una crisi di nervi. “Vediamo di non divagare.”
“Per me non
c’è problema.” Dichiarò
Gustav, sollevando le
mani. Non era mai stato uno con grossi problemi di adattamento, lui. Il
problema vero, tutti lo sapevano, era Bill.
“Per me nemmeno.”
Si aggiunse Georg. “Dovrò solo ingoiare un
bel po’ di gelosia, visto che Nicole li adora.”
L’attenzione a quel punto
di spostò sui due Kaulitz.
“Per me va bene,”
disse Tom con un’alzata di spalle. “Vi mi
ucciderà quando lo scoprirà, ma ci sto.”
“In che senso ti
ucciderà?” domandò Benjamin.
“Ma hai presente quanto
è gnocca Kuu?” sbottò Tom con una
smorfia. “Come minimo Vi mi accuserà di adulterio
platonico!”
“Se ti va bene.”
Ridacchiò Georg.
“Appunto.” Fece
Tom, cupo.
“Scusate, conta qualcosa
che io sia totalmente contrario a
questa allegra cazzata?” intervenne Bill.
“No.” Ribatterono
cinque voci seccate.
“Bene.” Bill mise
su un cipiglio oltraggiato e si chiuse in
un silenzio di protesta, le braccia conserte e un broncio plateale
sulla bocca.
In un certo senso, Gustav lo capiva.
Georg e Tom sembravano
aver preso abbastanza bene la proposta, e non ci sarebbe stato motivo
di
pensarla altrimenti: un tour con un’altra band sarebbe stato
sicuramente una
ventata d’aria fresca e si sarebbe anche potuto rivelare
divertente, se le cose
fossero andate per il verso giusto. la prospettiva non era affatto
spiacevole,
quello era certo. C’era solo una minuscola inezia che
rischiava di
compromettere il tutto: Bill avrebbe dovuto imparare ad accettare di
condividere la scena con qualcun altro.
I Tokio Hotel erano sempre stati
orgogliosi della propria
indipendenza, del loro esordio senza precedenti come gruppo autonomo,
senza
bisogno di essere introdotti nell’ombra di altri artisti. Ora
avevano
l’occasione di fare da mentori a dei colleghi emergenti, ed
era un pensiero
lusinghiero, ma era anche una novità che avrebbero dovuto
metabolizzare con la
dovuta pazienza, e ‘pazienza’ era un termine che il
vocabolario di Bill non
avrebbe mai incluso.
“Non
c’è ancora nulla di certo, ma vorremmo che ci
rifletteste seriamente.” Riprese Benjamin, blandendoli con la
sua voce
tranquilla e un lieve sorriso. “Ne abbiamo discusso con la
casa discografica e
la manager dei Pristine Blue, e il progetto gioverebbe a tutti quanti,
voi per
primi.”
“Io dico che è
una gran bella trovata,” approvò Tom con
veemenza e un mezzo ghigno malizioso che la diceva lunga sulle
motivazioni di
quel suo entusiasmo. “Billi se ne deve fare una ragione. Mi
sembra giusto
aiutare una nuova band ad affermarsi.”
“Ah, quanto spirito di
sacrificio!” lo prese in giro Gustav.
“Sono sicuro che ti peserà tantissimo girare
l’Europa con una ragazza così brava.”
“Taci, che non è
ancora detto che questa cosa si farà.”
Sbuffò Tom. “A meno che non riusciate a trovarvi
un chitarrista bello e bravo
come me in tempo. Il che è impossibile, quindi vedete
voi.”
Tutti i presenti lo guardarono accigliati.
“Be’, che
c’è?” fece lui, immusonito.
“Ve l’ho detto che Vi
mi fa a pezzi appena glielo dico.”
Una sonora risata generale
riempì la terrazza. Gustav già se
la immaginava, Vibeke, a ricoprire Tom di lamentele e strepiti ogni
volta che
lui avesse osato posare anche solo per un istante gli occhi su Kuu.
C’era tutta una serie di
vantaggi e svantaggi a decidere di
lavorare con un altro gruppo, e non li avrebbero mai scoperti tutti,
finché non
ci avessero provato. Dal canto suo, Gustav era favorevole a questa
esperienza,
anche perché la musica di quei ragazzi non gli dispiaceva.
Anche lui, come
aveva già detto Benjamin, era convinto che i sound delle due
band si sarebbero
accostati bene.
Quello
che non
riusciva a immaginare era cosa sarebbe conseguito, eventualmente, a
quel famoso
e rischioso accostamento.
Presto,
in ogni caso,
lo avrebbero tutti scoperto.
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Note:
sì,
sì, lo so: di nuovo in ritardassimo! XD Mea culpa, ma
soprattutto culpa
dell’università, del lavoro e di quel grande
egoista del mio ragazzo che,
pensate, esige che io passi del tempo con lui. Assurdo, vero? ;)
Dunque, vediamo… Secondo
capitolo completato. Cosa posso
dire? è un capitolo di allacciamento con The Truth e al
tempo stesso anche di
immissione alla storia vera e propria. Sa un po’ di tutto e
un po’ di niente,
ma secondo me ci voleva.
Ora passiamo alle cose serie, ossia i
ringraziamenti:
Asia74m:
terza
storia e sei ancora qui…
Questa è fedeltà! XD Spero che continuerai a
seguirmi e soprattutto ad essere
soddisfatta!
moonwhisper:
dire
che trovare una tua
recensione è stata una sorpresa è niente, ed
è stata anche una sorpresa molto
piacevole. Ancor più piacevole è stato scoprire
di essere riuscita a suscitarti
un qualche interesse, e va da sé che mi auguro davvero di
cuore di riuscire a
mantenerlo. E comunque, sì, hai ragione tu e poche altre. ;)
Lales:
mia
cara! Ispirata dalla notte e
dalla TH TV… mi pare giusto! XD scusa se te lo dico,
ma… chi non sarebbe
interessato al nostro delizioso st(amb)ecchino? XD Hai visto come ho
aggiornato
in fretta, poi? :p
Alexgirl: una parola eloquente, devo
dire. XD Grazie!
_Ellie_:
caVa!
*__* Lo so che tu sei nata
saputa su questa storia, quindi goditela nella sua interezza e non
smettere mai
con le tue analisi perfette!
CowgirlSara:
la mia
compagna di puccierotismo
preferita! *_* Sai di che parlo, vero? Ce n’era un
po’ in questo capitolo!
<3
LadyCassandra:
ha
capito tutto, lei! XD
Mary_Sue:
non so
proprio che dirti. Come ho
già spesso ripetuto, il parere positivo di una non-fan per
me vale il triplo
dell’orgoglio, visto che ci vuole di più ad
appassionare una che vive al di
fuori del mondo dei miei cari TH. Grazie, ti dico, solo questo. Spero
di
sentirti ancora!
Ichigo
Shirogane: mi rendi felice
all’inverosimile
così! Ancora non si sa nulla di Kuu, anche dopo questo
capitolo, quindi dovrò
aspettare ancora per scoprire che ne pensi di lei. Intanto aspetto
giudizi su
quel che c’è. ;)
Lady
Vibeke: ci
siamo già dette tutto via msn.
Un abbraccio e basta, tutto qui.
kaggi11:
che tu
ti ritenga brava o no a
scrivere commenti, io sono sempre lieta di riceverne, soprattutto se da
persone
che sono entusiaste del mio lavoro come te! Non avere mai paura di dire
qualcosa che non va, non succederà. ;)
azzapaloccip:
Kaaos
non ti piace, eh? Bene,
almeno una che apprezza i mie sforzi. XD Kaaos in teoria è
fatto per essere
antipatico, ma vedo che gli stronzi qui piacciono. ^^ Vabbè,
pazienza. Lo
conosceremo meglio più avanti. Ora hai riabbracciato tutti
quanti, comunque,
contenta? ;)
NeraLuna:
non
manchi mai e ti ringrazio
davvero! Per quanto riguarda le tue domande… chi
vivrà, vedrà. Se no che gusto
c’è? ;)
jovany:
quella
commossa qui è la
sottoscritta. ç__ç Mi raccomando, ora che ho
fatto con calma, mi aspetto tue
notizie!
VivienneWest:
mia
cara! Penso che tutto quello
che ti dovevo dire, te lo abbia detto via mail, ma una cosa la
ribadisco: adoro
le tue recensioni, che tu decida di pubblicarle qui e mandarmele via
email. In
entrambi i casi, grazie infinite, e spero che di meritarle sempre!
kit2007:
penso
sia ancora presto per
commentare la storia in sé, giustamente, ma comunque si va
avanti passo per
passo e si inizia a ingranare… Che ne dici? Ah, e quella
frase piace molto
anche a me! **
Kaay:
grazie!
XD direi che sei stata
più che chiara e concisa. ;)
_Skipper_:
anche a
te ho già detto tutto via
mail e via msn. Sappi che esigo una recensione degna della precedente!
XD
Camilla85:
un’altra
a cui non serve dire
nulla, se non grazie mille! *_* Sei immancabile!
schwarznana: anche per te, non so bene cosa
dire… ho adorato il tuo commento, perché era
pieno di quello che piace a me:
sensazioni, riflessioni, congetture… ti ringrazio tanto!
creamy:
di Kuu
e Kaaos si scoprirà di più
in futuro, un poco per volta. ^^ I nomi sono ovviamente
d’arte, quelli reali
avremo modo di conoscerli a suo tempo. ;) hai visto che ho postato
prima di tre
settimane o un mese? Non me la merito una recensione? XD
ArY_EnGeL:
eeeeeh,
non posso commentare il
tuo commento! XD ti dico solo: continua a leggere e vedrai. ;) intanto
grazie e
a presto, spero!
_Christine_:
scrivimene
altri di romanzi, non
faresti altro che deliziarmi! Mi auguro che anche i nuovi personaggi
possano
darti modo di affezionarti a loro, anche se mi rendo conto che non sono
delle
Emily, o Nicole, o Vibeke, o BJ. Il secondo capitolo è
arrivato, è stato
all’altezza delle aspettative?
Isis
88: bene,
qualche cosina in più ora
c’è… poco, ma c’è.
Mi farebbe piacere sapere che te ne è parso. ;)
Camuz:
eheheh,
no comment, non posso
dire nulla sulle tue previsioni, ma una cosa è certa: sono
onorata della
fiducia. ;) Come hai detto tu, vedremo se avrai ragione!
juliet_:
ah,
un’altra fan del bel Ben!
Mica scema! ;) ottimi gusti, sissì!
rose_:
Vibeke
vedo che è un po’ la
pupilla di tutte, e non me ne stupisco. Kuu è decisamente
diversa da lei, non
avranno convivenza facile, queste due. XD Ti ringrazio di esserci
sempre, mi
fanno sempre felice le tue recensioni, per me significa tanto! Grazie!
POISONBLOODkaly:
eh,
vedrai da te con il tempo se
le congetture sono esatte! ;) fino a quel momento, continua a pensarci,
sono in
attesa di nuove riflessioni!
xClaRyx:
Kuu e
Bill saranno senza il
minimo dubbio ricchi di affinità, su questo non ci piove! E
tranquilla, che Tom
e Vi ci saranno sempre, così come Georg, Nicole ed Emily! ;)
Ninnola:
come per
altre, anche per te dico che ci siamo già dette tutto in
msn. Aggiungono solo
un grazie enorme!
_no
sense_: bentornate,
care! In effetti vi
avevo date per disperse, fino all’epilogo di The Truth. ;) Ma
ora che siete
tornate, spero non mi abbandonerete! Ci conto! ;)
Whity:
non sai
che gioia rivederti! Ci
tengo a soddisfare le tue aspettative, davvero, quindi prego di non
deluderti.
^^ Ancora grazie per la precisazione sul francese, fra
l’altro! È una lingua
che proprio non fa per me. XD A presto, ci conto!
VANiTY:
grazie!
*_* Non so se Kuu ti
piacerà, ma sicuramente non come Vi, credo. È
molto diversa da lei e anche un
po’ più difficile da comprendere. Speriamo in
bene, però!
ElyLaTeS:
anche a
me Kuu piace molto! Più
avanti ne capiremo meglio il significato e tutto ciò che vi
è connesso, vedrai.
Per ora grazie!
Ladynotorius:
anche a
te, come alla Pao, un
abbraccione solidale!
_KyRa_:
qualche
cosina in più da
giudicare adesso c’è. Dimmi un po’ tu
che ne pensi. ;)
__ElE_:
uffa,
ero curiosa di sapere le
tua idea! Dai, su, dimmi a chi stai pensando! :3
Bene,
ho
concluso, per adesso! Come di rito, non manco di invitarvi a lasciare
due
parole di commento, che aiutano sempre, nel bene e nel male, a
consolidare la
storia!
Alla
prossima!
P.S.
il
titolo del capitolo è tratto dall’omonima,
sublime, devastante canzone dei
Nightwish.
|
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Capitolo 3 *** Time Changes Everything ***
So tell me what I see
When I look in your eyes
Is that you, baby,
Or just a brilliant disguise?
(Brilliant Disguise,
Bruce Springsteen) ***
L’inverno
era
meraviglioso, a Berlino: la neve che ricopriva le strade, cadendo fitta
e lieve
da un cielo di un opaco grigio giallastro, aveva un che di magico, di
mistico, e
a guardarla cadere dall’alto sembrava di stare in una sfera
di vetro rovesciata
per gioco. L’Adlon Kempinski era uno degli hotel
più rinomati della città, e il
merito, oltre al lusso, era senza dubbio la locazione, affacciato
direttamente
sulla piazza della Porta di Brandeburgo, sempre discretamente
affollata,
nonostante il freddo e le intemperie.
Da dietro
alle
vetrate di una delle sale conferenze dell’albergo, Kuu
osservava l’esterno con
vuoto distacco, le braccia conserte, immobile di fronte al suo stesso
riflesso,
in attesa. Gli auricolari dell’iPod portavano alle sue
orecchie delle canzoni
che nemmeno ascoltava.
Si era
svegliata
presto, quella mattina. La notte era stata rovinata da un sonno agitato
e alla
fine era solo stata felice di sentire la sveglia. Quando, alle dieci,
il solito
Mercedes Viano nero era arrivato a prendere lei e Kaaos, erano entrambi
scesi
con una certa rigidità, nervosi per l’importanza
dell’incontro che li
attendeva. C’era una grandissima svolta di carriera in gioco.
Rabbrividì,
agitata.
Con le unghie accuratamente laccate di bordeaux, continuava a
giocherellare con
la fibbia della cintura che le avvolgeva i fianchi asciutti e stretti,
gli
occhi che di tanto in tanto ricadevano sulla scritta che correva per
tutta la
lunghezza di quell’accessorio che lei stessa aveva disegnato.
‘La beauté n’est
que la promesse du bonheur’: citazione colta di Standhal che
quasi nessuno era
in grado di riconoscere, era incisa a fuoco nella pelle bianca,
caratteri neri
e svolazzanti a dipingere con falsa leggerezza parole che nella vita di
tutti
avevano forse un po’ troppo peso. Ma a lei piaceva
l’ostentazione, l’azzardo,
la provocazione, e portava con orgoglio quegli articoli esclusivi,
tutti con
quell’inconfondibile marchio.
Molte ragazze amavano imitarla,
copiare il suo look, il suo
stile, i suoi modi, e lei si compiaceva di questo, ma quando le
chiedevano di
chi fossero certi gioielli, o certi capi d’abbigliamento, la
soddisfaceva
rispondere che erano tutti ideati da lei. Un giorno, in un futuro
indefinito,
le sarebbe piaciuto firmare una linea tutta sua, ma per adesso voleva
solo
concentrarsi sulla musica, fare l’impossibile per consolidare
i risultati già
raggiunti, e le ore a seguire sarebbero state determinanti.
Era sola nella stanza: Griet era
nella saletta accanto, la
sentiva discutere animatamente al telefono; Luke aveva scortato Kaaos a
prendere qualche cosa di caldo da bere.
Kuu fissò se stessa nel
vetro e deglutì. Aveva passato un’ora
e mezza a prepararsi, per essere all’altezza, ma ancora non
era soddisfatta del
risultato.
‘Sei splendida’,
le aveva mugugnato Kaaos svogliatamente,
quando lei si era fermata a specchiarsi nelle porte
dell’hotel appena arrivati.
Glielo diceva sempre, ma lei non ascoltava mai. Era impossibile fidarsi
del
parere del proprio migliore amico: le avrebbe detto che era splendida
anche
appena uscita da un naufragio.
Che era bella lo sapeva anche lei. Da
un paio d’anni a
quella parte, chiunque incontrasse non faceva altro che ripeterlo:
‘Sei
bellissima’, ‘Sei così
bella’… Osservazioni così vuote che non
la toccavano
nemmeno. Eppure era tutto ciò che una volta avrebbe sognato,
quella bellezza.
L’iPod, intanto, era
passato a una canzone dei Tokio Hotel,
e lei non poté fare a meno di mettersi in ascolto.
I feel lost in myself
There’s an alien in me
Who are you? Who am I? Blood is all I see
The words in the mirror
Are making me shiver
A Kuu piaceva quella canzone, Alien.
Aveva sempre pensato
che Bill avesse una voce speciale, non particolarmente potente, ma di
grande
effetto, sensuale e piena di emotività. Abbinata a quel
testo, poi, era
perfetta.
Save me with your love
tonight
Come and bring me back to life
C’era del banale, a volte,
nelle composizioni liriche dei
Tokio Hotel, ma era una banale relativo, derivato da sentimenti che
inevitabilmente conducevano a determinate espressioni. Sentimenti che
lei, nel
suo piccolo, capiva.
Nella larga strada innevata che si
distendeva diversi metri
sotto di lei, erano appena arrivati due eleganti minivan grigi, simili
al Viano
che usavano lei e Kaaos.
Tutto il suo corpo fu scosso da un
fremito di nervosismo.
Appena le portiere furono aperte dai
concierge dell’hotel,
una piccola folla ne uscì: quattro imponenti uomini in
giacca nera e occhiali
da sole, subito seguiti da quattro personaggi più che noti,
la cui semplice
vista triplicò l’ansia di Kuu.
I lay down on the edge
I feel my whole life on rewind
See your face
in the crowd
A million times
I’m drowning, I’m falling
I hear myself calling
Ed eccoli là, i Tokio
Hotel, come quattro ragazzi qualunque
che si fermavano ad aspettarsi l’un l’altro
scendendo dalle auto, mentre
qualche passante ficcanaso gettavano loro occhiatine curiose.
I quattro
baluardi del
rock tedesco, pensò Kuu, seguendo i loro
movimenti. Ne è passata di acqua
sotto i ponti…
Kuu ricordava bene il giorno in cui
li aveva incontrati per
la prima volta. Era stato un agosto di dieci anni prima, durante un
festival di
paese per talenti in erba. Si chiamavano ancora Devilish,
all’epoca, e lei e
Kaaos facevano parte di un gruppo che nemmeno aveva un nome. Erano
tutti
ragazzini, tutti inesperti, tutti ansiosi di divertirsi senza
preoccuparsi di
apparire. Era stata una bella esibizione per i Devilish; per Kuu,
invece, era
stata solo un’esperienza da dimenticare. La sua voce di
acerba dodicenne non
era bastata a renderla apprezzabile al pubblico, costituito per lo
più da
ragazzi della sua età o poco più grandi, e il suo
aspetto non era quel che si
sarebbe definito grazioso.
Save me with your
love tonight
Come and bring me back to life
Era sempre stata bassa di statura, e
piuttosto in carne, e
aveva passato l’adolescenza afflitta da complessi di
inferiorità rispetto alle
sue amiche e a combattere inutilmente un’acne che per anni
non le aveva dato
tregua. Poi, a diciannove anni, quando ormai aveva smesso di sperare,
qualcosa
era cambiato: la sua pelle si era pulita, la sua figura si era
leggermente assottigliata,
e lei aveva colto la palla al balzo: con un po’ di impegno,
era riuscita a
conquistare quel fisico che ora esibiva con tanta fierezza, e da allora
tutto
era stato diverso. Tutto era stato migliore.
Era cinico da dire, ma non sarebbe
mai arrivata lì dov’era
ora, se il suo aspetto non fosse cambiato tanto. Il talento, nello
showbusiness, era fortemente svalutato da un’immagine poco
attraente.
I Tokio Hotel avevano avuto la
fortuna di averli entrambi, e
di svilupparli entrambi con il tempo.
Save me with your
light tonight
You can make the darkness shine
Non le importava di loro. Le
importava solo di quello che
loro potevano fare per i Pristine Blue.
Tra il loro seguito,
riuscì a riconoscere anche il loro
manager, Ebel, che disse loro qualcosa poco prima che tutti e nove si
dirigessero all’ingresso, sparendo così dal campo
visivo di Kuu. A breve
sarebbero arrivati di sopra.
Come and kill the
dream gone bad
Alien to love
Come and wake me from the dead
Alien to love
Need your love
La porta si aprì in
quell’esatto istante: ne entrò Kaaos
assieme a Luke, portando un piccolo vassoio con due caffè.
Kuu ne inspirò con
piacere l’aroma intenso, pregustando già la
bontà di quel sapore amaro e caldo
sulle proprie labbra.
“Ecco qui,” Kaaos
le fu accanto in due falcate e le porse la
tazza senza quasi guardarla. “Doppio espresso senza zucchero,
come piace a te.”
“Grazie.”
Kuu strinse il caffè tra
le mani, godendo del tepore che
emanava. Aveva sempre freddo, lei, e amava avvertire il calore nelle
cose,
nelle persone. Peccato che nelle persone fosse più difficile
trovarne.
“Penso che i Tokio Hotel
saranno qui a momenti,” le disse
Kaaos, appoggiandosi con una spalla alla parete, una mano in tasca
mentre
sorseggiava il proprio caffè. “Io e Luke abbiamo
visto le macchine arrivare
mentre salivamo.”
“Hanno una bella
guarnigione personale,” commentò Luke,
dalla sua postazione accanto all’ingresso. “Nemmeno
il papa è così blindato.”
“Ragazzi!” Griet
era appena entrata precipitosamente dalla
stanzetta laterale e brandiva il suo palmare con la solita frenesia.
“Hanno
spostato la conferenza stampa di oggi pomeriggio a domani mattina,
quindi
possiamo prendercela comoda. Allora, siete pronti?”
Kuu annuì senza
esitazioni. Si trattava di un incontro
informale, una specie di presentazione ufficiosa durante la quale
Pristine Blue
e Tokio Hotel si sarebbero veramente conosciuti per la prima volta. Lei
e Kaaos
avrebbero chiacchierato un po’ con loro, suonato qualche
canzone, e poi non
sarebbe rimasto altro che ufficializzare il progetto con
l’assenso esplicito
dei quattro ragazzi.
“Prontissimi,”
affermò Kaaos, tranquillo. “Sono proprio
curioso di vedere come andrà. Chissà se a loro
gliene frega qualcosa di averci
in tour con loro.”
“Ma figurati!”
sbuffò Kuu. “Se questa cosa va in porto,
saremo pura e semplice tappezzeria, non credere. Dubito che Sua
Graziosissima
Maestà Bill Kaulitz accetterà mai di condividere
anche solo la toilette con
noi.”
“Tu hai tutti i tuoi
pregiudizi da fan delusa.” La
contraddisse Kaaos, asciutto. Le diceva sempre qualunque cosa pensasse.
“Ok,
saranno anche un mostro sfruttato dalla commercialità, ma
non sono gli spacconi
che dipingi tu, e lo sai.”
Kuu si strinse nelle spalle.
“Sarà, ma sono
pronta a scommettere che non sarà una
passeggiata.”
“Se tu parti prevenuta, no di sicuro.” La
ammonì Griet, con cipiglio severo. “È
una grande occasione per voi, quindi vediamo di fare una figura
dignitosa. Kuu,
mi riferisco soprattutto a te.”
“Guarda che io ci tengo
più di te a questa cosa!” sbottò lei,
indispettita. “Se credi che rovinerò tutto solo
perché quelli sono–”
Un rumoroso schiarimento di gola da
parte di Luke mise a
tacere tutti e permise loro di rendersi conto che c’erano
delle voci che si
avvicinavano, nel corridoio lì fuori. Erano voci maschili,
sommesse, e in un
attimo furono alla porta. Quando si sentì bussare, si
creò spontaneamente una
densa atmosfera di tensione.
Ci siamo.
Luke attese un cenno da parte di
Griet, poi aprì la porta. E
loro entrarono.
Il primo fu Tom, alto e infagottato
in una felpa nera grande
tre volte lui, bellissimo. Si fece avanti senza esitazioni, con una
camminata
spavalda e molleggiata e uno sguardo sfrontato che si posò
immediatamente su
Kuu, accarezzandola suadentemente. Subito dietro di lui, Georg, in
jeans e
giacca di pelle, i capelli legati, affascinante come non mai eppure in
qualche
modo appesantito da una qualche ombra di preoccupazione. La
guardò appena, e
non sembrava nemmeno granché interessato. Dopo di lui
seguì Gustav, le mani in
tasca del giubbotto nero, gli occhi bassi dietro agli occhiali; si
andò a
sistemare alle spalle dei due amici e non emise un suono, chiuso in se
stesso.
Ci fu un brevissimo attimo morto, poi l’ingresso superbo di
Bill parve rarefare
l’aria nella stanza. Entrò lentamente, con passo
calibrato, vestito di nero e
truccato di tutto punto, una grossa e vistosa borsa di Gucci al
braccio, senza
nemmeno una virgola fuori posto. Aveva l’aria di un cane al
guinzaglio ben addestrato.
Dietro di lui apparvero anche una guardia del corpo e il loro manager,
e dopo
di loro la porta fu chiusa. Salutarono tutti in modi variabilmente
sicuri o
impacciati.
Bill era tanto bello da brillare
quasi di luce propria, e
tanto gelido negli atteggiamenti da mettere immediatamente Kuu
all’erta. Lo
sguardo dall’alto in basso che scorse su di lei un istante
più tardi, infatti, era
di ostilità dichiarata, ma lei lo resse con determinazione:
diva contro diva, e
lei non poteva certo competere, ma non si arrendeva mai senza almeno
opporsi, e
l’astio di Bill Kaulitz non la spaventava di certo. Era uno
scontro fra titani,
e l’idea la stimolava.
Ma Bill, così come i suoi
compagni, non era diverso da
nessun altro che le fosse capitato di conoscere negli ultimi anni, e
lei era
stata preparata a quell’incontro. Era la precisa, solita
sensazione di sempre: come
uno spettro, essere guardata e vista attraverso, oltre, ma mai
veramente
percepita. Un libro scritto nella lingua sbagliata, un dipinto dai
colori ingrigiti,
indiscernibili.
Quattro paia di occhi –
tre, anzi, perché uno era abbassato
sul pavimento – la fissavano indaganti, colmi di velato ma
inevitabile stupore.
Faceva spesso quell’effetto trovarsi faccia a faccia con lei.
Non che lei nei loro confronti fosse
da meno.
Kuu avvertì la presenza di
Kaaos alle proprie spalle,
abbastanza vicino da sfiorarle la schiena. Si sentì
istintivamente al sicuro.
Guardò in su: Kaaos sorrideva con gentilezza –
gentilezza vera, non la sua
solita gentilezza plastica da apparizione pubblica – e stava
ricambiando i loro
saluti, rivolgendo a ciascuno un gesto amichevole.
Bugiardo,
gli
disse Kuu dal profondo, e sapeva che lui, pur non potendola udire,
aveva
sentito quel suo pensiero.
“Benvenuti!”
chiocciò Griet, sfilandosi l’auricolare
dall’orecchio.
“Ragazzi,” aggiunse subito dopo, rivolgendosi
direttamente ai Tokio Hotel. “È
un piacere incontrarvi di persona, finalmente.”
I quattro mormorarono qualche
ringraziamento confuso.
Dedicarono un paio di minuti ai convenevoli e alle domande di
circostanza, poi
finalmente si raggiunse il punto cruciale:
“Siamo molto curiosi di
sentire qualche vostro pezzo
acustico.” Disse Bill, spostando lo sguardo prima su Kaaos,
poi su Kuu.
Lei gli sorrise affabilmente.
“Siamo qui per questo,
dopotutto.” Gli rispose diplomatica, e
intanto dentro di sé analizzava il suo sopracciglio
sollevato, le rughe leggere
apparse ai lati della sua bocca, le braccia ostinatamente conserte, e
sapeva
che lui era lì senza esserci. Erano tutti lì
senza esserci.
Solo Tom sembrava vagamente
interessato a lei: la osservava
guardingo, con un leggero accenno di sogghigno sulle labbra, su cui di
tanto in
tanto si passava pigramente la lingua, senza mai toglierle gli occhi di
dosso.
Kuu si crogiolava in quell’attenzione, e rispondeva con
sguardi sfuggenti,
indifferenti, giocando con lui come lui giocava con lei.
“Se non avete nulla in
contrario, direi che possiamo iniziare.”
Kuu si voltò verso la
propria sinistra: Kaaos le era
accanto, la chitarra già in mano, dimentico di ogni buona
educazione.
“Forse prima dovremmo
discutere un po’ del progetto…”
buttò
lì lei, occhieggiando il giovane manager dei Tokio Hotel in
cerca di supporto.
“Penso che sia
un’ottima idea,” affermò infatti lui.
“Perché
non ci sediamo e parliamo un po’ con calma?”
Kuu decise che Benjamin Ebel le
piaceva: sembrava un tipo
tranquillo, solare, molto beneducato. Ed era anche piuttosto carino.
I Tokio Hotel schierati da una parte,
Kuu assieme a Kaaos e
Griet dall’altra, Ebel a capotavola: presero tutti posto
attorno allo spazioso
tavolo di legno scuro che occupava buona parte della stanza. Erano
stati
sistemati dei bicchieri e delle bottiglie di acqua minerale davanti a
ogni
posto a sedere. Ci fu un silenzio che durò qualche secondo;
si scrutarono tutti
l’un l’altro, a disagio. Kuu si sentiva sotto
esame, ed era una sensazione che
le aveva sempre dato fastidio, ma non aveva alcuna intenzione di dare a
vedere
che era così nervosa. Voleva solo fare una bella
impressione, nient’altro.
Voleva dimostrare loro quel che valeva come artista. Voleva che loro
riconoscessero la sua bravura, i suoi meriti. Un biglietto di sola
andata per
il loro mondo.
“Allora,”
esordì Benjamin, con una delle sue espressioni
calme e gentili, e si voltò verso di lei. “Che
cosa vi aspettate da un tour con
noi?”
Kuu avvertì un immediato
fremito di eccitazione dentro di sé
e con la coda dell’occhio notò che le labbra di
Kaaos, come le sue, si
distendevano in un sorriso di professionale entusiasmo.
Ecco,
pensò, pronta
a sfoderare un discorso che stava preparando da una vita intera, adesso tocca a me.
***
Bill ci aveva messo poco a rendersi
conto del perché i
Pristine Blue avessero fatto così in fretta a spopolare in
Germania. Non li
aveva mai analizzati veramente, nonostante la loro musica gli piacesse
– non
gli interessava vedere, solo ascoltare – ma adesso che li
aveva
davanti la prospettiva di averli in tour con sé cominciava
ad avere un suo
senso. Non era solo una questione di immagine, di presenza scenica;
avevano
carisma, riuscivano ad imporsi all’attenzione
dell’osservatore con una
disinvoltura e una naturalezza che colpivano, ed era una dote che
personalmente
Bill aveva sempre non solo apprezzato, ma anche ammirato.
Eppure, mentre Kuu gli rivolgeva
un’occhiata di ghiaccio,
sentì che la persona che aveva di fronte era tutto
fuorché quel che si vedeva.
E non che quel che si vedeva fosse poco.
Era molto minuta, ma i suoi occhi
ambrati sapevano incutere
una certa soggezione. Se ne stava seduta impettita nella sua sedia,
rigirandosi
tra le dita la catenina d’argento che le avvolgeva
l’elegante collo sottile,
facendone tintinnare i due ciondoli. Portava un lungo maglione di
morbida lana
grigia sopra una maglietta e fuseaux neri, questi ultimi infilati in un
paio
stivali. Pur non trovandola affine al proprio tipo di ragazza ideale,
Bill fu
costretto ad ammettere che era bella, e molto, con quel suo visetto
tondo
appena abbronzato, da bambina, i lineamenti morbidi, le labbra piccole
ma
carnose, imbronciate, come se fosse stata perennemente infastidita da
qualcosa.
Non sembrava affatto, vista
così, così da vicino, la stessa
persona dei video e delle foto sui giornali. Senza trucco marcato e
vestiti
ricercati, sembrava una ragazza capitata lì per caso, molto
più giovane dell’età
che dimostrava in fotografia. D’altro canto, però,
non sarebbe mai potuta
passare per una qualunque, perché di belle ragazze Bill ne
aveva incontrate
tante, ma mai così
belle. E nessuno, poi,
sentendola parlare in tono così pacato e sommesso, avrebbe
potuto immaginare
che nascondesse una voce così suggestiva.
L’impressione che, a pelle, gli aveva
fatto la prima volta che la aveva vista in TV era che fosse una ragazza
chiusa,
presuntuosa, piena di ambizione e determinazione, e questo,
checché ne dicesse,
gli piaceva. Kuu era come lui. Lui era come lei.
Adesso voleva solo sentirla cantare.
Di Kaaos, invece, non sapeva ancora
cosa pensare: era
gentile ed amichevole, ma aveva uno strano comportamento nei confronti
di Kuu.
Le stava vicino, la guardava, la cercava, quasi metaforicamente
ricorrendola.
Comportamento quantomeno ambiguo, viste le voci che circolavano su loro
due.
“Insomma,” stava
dicendo Benjamin, dopo svariati minuti di
inutili discorsi sulla fondamentale importanza di una collaborazione
come
quella che si stavano accingendo a stringere. “Essere qui
oggi è una pura
formalità, penso che questo sia chiaro per tutti.”
Gettò una rapida occhiata di
ammonizione verso Bill. “Penso che entrambe le parti siano
d’accordo su questo
punto.”
“Noi
sicuramente.” Rispose Kuu, soave. “Vorremmo solo
sentire il parere diretto dei ragazzi.”
Il viso di Tom si aprì in
un sorriso a dir poco entusiasta.
“Personalmente non vedo
l’ora di cominciare.”
Georg, seduto accanto a lui,
annuì con espressione assente.
“Apprezzo molto la vostra
musica,” soggiunse Bill, sincero.
“E sicuramente la risposta mediatica all’annuncio
di questa novità sarà ottima.
Credo che sarebbe un’esperienza interessante per entrambi i
gruppi,” affermò
con assoluta convinzione, e si stupì nello scoprire di
crederlo veramente.
“Anche se forse non tutti apprezzeranno
l’idea.”
“Cosa intendi?”
indagò Benjamin, preoccupato.
Bill mascherò abilmente un
sogghigno, lanciando un’occhiata
eloquente verso Kuu.
“Non so quanto possa far
piacere alle nostre fans sapere che
ci sarà una ragazza come Kuu ad accompagnarci in un intero
tour.” Guardò
dubbioso Tom, Gustav e Georg, che ricambiarono con altrettanta
incertezza, e
poi Benjamin, che si limitò a sollevare pazientemente le
spalle. Bill sapeva
che l’obiezione che aveva appena implicitamente sollevato era
in realtà più un
punto a favore che un problema. “Spesso tendono a diventare
un po’ aggressive, se
hanno anche solo il sospetto che qualcuna sia troppo vicina a noi, se
sapete
cosa intendo.”
“Sono abituata a sentirmi
dare della puttana,” rispose
immediatamente lei, con una prontezza e una sicurezza che spiazzarono
un po’
Bill. “Non posso parlare con qualche ragazzo famoso senza
farmi dare della
troia o affini, quindi penso di essere preparata a spiacevoli
eventualità. Ne
abbiamo sentite di tutti i colori su di noi,”
Scambiò con Kaaos un rapido
sorriso complice, e Bill poté quasi vedere il filo di
diretta connessione che
li univa. “State pur certi che se qualcuno sarà
infastidito da eventuali rumors
e pettegolezzi, quel qualcuno non saremo certo noi. Le vostre fans
possono dire
quello che vogliono. Finché mi lasciano fare il mio lavoro
in pace, a me sta
bene.”
Mi piace,
si
ritrovò a pensare Bill, basito e compiaciuto al tempo
stesso. Ha carattere, la piccola.
“E poi ho la sensazione che
grazie a Kuu l’afflusso di
pubblico maschile ai nostri concerti vedrà un notevole
incremento.” Aggiunse
Tom, malizioso.
“Assolutamente.”
Concordò Bill.
“Mi fa piacere sentire che
abbiate tanta stima delle mie
doti artistiche.” Li stuzzicò lei.
Tom sorrise con garbo:
“Parlavamo dal basso di un
punto di vista da uomo, non da
artista.” Chiarì.
“Non ci sogneremmo mai di
mettere in dubbio un talento
indiscutibile come il tuo.” Terminò Bill.
Kuu lo fissava intenta, quasi
assorta, ed era impossibile
farsi un’idea di che cosa potesse pensare, perché
i suoi occhi erano specchi:
tutto ciò che vi si poteva scorgere erano riflessi, non
emozioni dirette.
“Anche perché
sono certa che sia un tipo di insinuazione che
ti tocca molto da vicino, sbaglio?”
Bill apprezzò
l’arguta provocazione.
“Non sbagli.” Le
rispose tranquillo.
“Vedo che abbiamo due belle
lingue biforcute, qui.” Rise
Kaaos, versandosi da bere. Aveva mani grandi e sottili, nervose, i
polpastrelli
callosi e rovinati dall’inconfondibile segno che lasciavano
anni e anni di
dedizione alla chitarra. I suoi occhi, così scuri e torbidi
rispetto a quelli limpidi
e dorati di Kuu, erano estremamente comunicativi, vivaci e mai
immobili. Gli
ricordava molto Georg, per diversi motivi. O meglio, gli ricordava il
vecchio
Georg, perché negli ultimi tempi qualcosa era cambiato. Era
qualcosa che
nessuno era ancora riuscito ad individuare, eppure c’era,
perché un Georg così
silenzioso e pacato nessuno di loro, in dieci anni di vita insieme, lo
aveva
mai visto. E Gustav, accasciato nella sua sedia come se
quell’incontro non lo
riguardasse, non era poi tanto da meno: lo sguardo vacuo, i gomiti
sulle
ginocchia, la schiena ricurva.
Forse era solo un periodo
così. Avevano bisogno tutti della
carica del tour per riprendersi.
“La lingua più
tagliente è quella di Gustav, anche se non si
direbbe,” commentò Tom, voltandosi verso
l’amico. “Solo che dà il meglio di
sé
solo con pochi, intimi eletti.”
“Ad esempio te,
vero?” replicò Gustav.
Lo sguardo attento di Kuu si
posò su di lui. Gustav lo
incontrò e lo sostenne per un momento, poi guardò
di nuovo in basso. La fronte levigata
di Kuu si corrugò impercettibilmente.
“Ragazzi.” Li
ammonì Benjamin in tono paziente.
“Io ho voglia di
suonare,” disse Kaaos, alzandosi in piedi.
Era veramente altissimo, almeno quanto Bill stesso. “Ancora
un solo minuto
chiuso qui dentro senza chitarra in mano e impazzisco.”
In un paio di passi fu dal lato
opposto della stanza, dove
in un angolo era stata improvvisata l’attrezzatura per una
performance
unplugged. C’era una chitarra acustica appoggiata alla
parete, accanto a un
pianoforte bianco; Kaaos la imbracciò, mettendosi a sedere su uno sgabello.
“Scusatelo,”
intervenne Kuu rivolta ai presenti, alzandosi
in piedi a sua volta. “Non sa cosa sia la buona
educazione.”
Con disappunto, Bill la
guardò raggiungere Kaaos e prendere
posto al piano. Quella ragazza lo rendeva stranamente irrequieto: il
fatto di
non riuscire a darle dei contorni precisi era irritante. Non era
abituato ad
avere a che fare con delle persone sfuggenti; di solito, anzi, chi lo
circondava faceva di tutto per avvicinarsi il più possibile
a lui. In assoluta
onestà, Bill non era affatto sicuro che fosse una buona idea
– al di là dei
vantaggi commerciali – scegliere i Pristine Blue come band di
supporto per i
Tokio Hotel: Tom continuava ad occhieggiarla in modo sfacciato, Georg
l’aveva
fin da subito fissata come se fosse stata una bambola decorativa senza
valore,
mentre Gustav quasi non aveva considerato né lei
né Kaaos. Come premessa non
era buona né promettente.
“Questo brano si chiama
Happy,” annunciò Kuu, sistemando gli
spartiti sul leggio. “Lo abbiamo scritto tre anni fa, non
farà parte
dell’album, ma è uno di quelli che ci rappresenta
di più.”
Non aggiunse altro.
Eppure, non appena le sue dita
sottili iniziarono a sfiorare
delicatamente i tasti del pianoforte e le corde della chitarra di Kaaos
iniziarono a vibrare, qualcosa si accese nell’animo di Bill.
Si innamorò
all’istante di quella melodia triste e lenta, del modo in cui
entrambi i due
ragazzi tenevano gli occhi chiusi mentre suonavano con tanto trasporto,
una
passione e un coinvolgimento tali da incantare, possibili solo quando
l’artefice e l’esecutore della musica erano la
stessa persona.
E poi Kuu iniziò a
cantare, e di ogni dubbio non restò
nemmeno il ricordo.
***
Bellissima.
Avrebbe sfidato chiunque a non
pensare una cosa del genere,
nel guardare Kuu. Ma era una bellezza strana, la sua, forse troppo
vivida e
intensa in un corpo ancora così acerbo. E anche la sua voce
aveva un che di incredibile:
sottile, argentea, quasi fatata, come se fosse appartenuta a una
creatura non
umana. Di fatto, forse era fin troppo bella, Kuu, per essere vera.
Can I hurt you,
please? Can I come and break
your heart? Can I rip your soul
and tear it apart?
I want to see the grief in your eyes
I want to see the poison spill from your lies
And can I destroy your voice?
I don’t have any other choice
Cantava ad occhi chiusi parole piene
di rabbia, ma lo faceva
con una malinconia così profonda che veniva da chiedersi
cosa ci fosse alla
radice di una canzone così. Chissà se la aveva
scritta lei, o se era stato
Kaaos, o se la avevano fatta insieme.
Erase
Erase it all
I want to hurt you
I need to hurt you
Don’t want to see you happy
Don’t want to see
Don’t want to see
Gustav non sapeva molto di loro. Kuu
doveva avere la sua età
e Kaaos un paio d’anni in più. Gli sembrava di
aver letto da qualche parte che
fossero di Berlino, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Non
sapeva
altro, se non che il loro singolo era in cima alle classifiche delle
vendite,
diverse posizioni sopra a The World Behind My Wall, ormai uscito da
mesi. Tra
popolarità e successo, i Pristine Blue non potevano proprio
lamentarsi.
Out of my life
Out of any dream
Forgive or forget
Swallow the regret
Don’t be happy
Never happy again
Hope you live in pain
Gustav non aveva ancora ben
realizzato la questione del tour
assieme a loro. Era la prima volta che sceglievano un gruppo spalla per
un
intera tournée, per di più mondiale. Significava
convivenza a stretto contatto
per mesi interi, creare un vero rapporto con due persone – e
anche più – che
erano dei perfetti sconosciuti, e soprattutto accettare il rischio che
il tutto
potesse anche non funzionare.
E più lui li osservava,
meno riusciva a immaginarsi cosa
sarebbe potuto succedere. Di sicuro il fanbase di entrambe le parti si
sarebbe sbizzarrito
con le congetture: la presenza di Kuu sarebbe stata praticamente un
invito a
nozze per tutti i pettegoli e sarebbe stato inevitabile impedire alle
malelingue di circolare. A certa gente bastava vedere uno di loro
guardare una
ragazza per costruirci sopra chissà quali favole romantiche.
“Ma quanto cazzo
è gnocca?” sussurrò Tom
all’orecchio di
Georg, inclinandosi appena di lato.
A sentirlo Gustav sorrise e scosse la
testa, ignorandolo,
proprio come Georg. Sapeva che erano osservazioni innocue: a Tom
piaceva fare
il gradasso, ma era così perso di Vibeke che nessuno,
nemmeno i più
sprovveduti, gli credeva più. Gustav aveva sempre invidiato
l’amico per quella
ragione: Tom aveva sempre proclamato che non si sarebbe mai innamorato,
che per
lui le priorità della vita erano altre, che non aveva
bisogno di avere una
ragazza fissa accanto, eppure da quando stava con Vibeke, tutti avevano
la
sensazione che senza di lei, dipendente com’era, non sarebbe
più riuscito a
stare in piedi. Bill, nel suo piccolo, aveva imparato a non essere
troppo
geloso di quel rapporto, e il merito era anche di Vibeke, che aveva
cura di lui
come se fossero stati fratelli. Anche a Gustav non mancavano mai le
attenzioni
di Vibeke, che mandavano puntualmente Tom in paranoia, ma era quasi
triste
vedere dei cari amici condividere un amore così strampalato
e bello: era un
mondo a sé di cui non si sentiva parte, che non conosceva,
ed era un enorme
dispiacere.
“È
così piccola,” stava bisbigliando Bill a Benjamin,
attento a non farsi sentire da Griet, che seguiva diligentemente
l’esibizione,
arricchita da virtuosismi canori davvero degni di nota. “Dove la tiene tutta
quella voce? È assurdo.”
“Deve aver studiato
parecchio in questi anni.” suppose Georg
sottovoce.
Hold me like you had to kill me
Won’t open my eyes
Can’t stand your smile
Please, make me blind
‘cause I don’t want to see
Gustav
faceva fatica persino a concentrarsi sulla canzone, perché
il testo era duro da
sopportare. Non diceva nulla che lo toccasse da vicino, eppure lo
turbava più
di quanto si sarebbe potuto aspettare, molto più di quanto
avrebbe voluto.
Probabilmente era colpa della forte carica emotiva che trasmetteva la
voce di
Kuu.
Don’t want to see you
happy without me
La canzone si spense così,
con quella frase quasi sussurrata,
dopo che la musica era già svanita.
Un pezzo meraviglioso, e tutti, a
giudicare dalle
espressioni sbalordite, lo stavano pensando.
La manager dei Pristine Blue
sorrideva raggiante, piena di
orgoglio, e le sue mani, all’estinguersi
dell’ultima eco del canto, si unirono
al coro di applausi che si scatenò da tutti i presenti.
Gustav notò che Bill
aveva tutta l’aria di aver cambiato opinione su di loro.
Lui, invece, un’opinione
nemmeno la aveva. Si disse che con
il tempo sarebbe riuscito a farsene una, probabilmente; se buona o
cattiva, non
ne era sicuro. Kaaos gli sembrava un tipo abbastanza alla mano,
spigliato ma
semplice, forse un po’ brusco in certi atteggiamenti, ma
senz’altro una persona
piacevole, a pelle. Kuu, invece, gli risultava letteralmente
illeggibile.
Insondabile: quello era il termine
giusto.
A Gustav non erano mai piaciute le
ragazze come lei: troppo
spesso la bellezza finiva per offuscare tutto il resto, rendendo cieca
l’anima
delle persone, e tendenzialmente queste persone lui nemmeno lo vedevano.
L’applauso durò
a lungo e fu accolto dai due ragazzi con dei
grandi sorrisi e ringraziamenti onorati. Le loro mani si intrecciarono
quando i
due si inchinarono, riconoscenti. La mano di Kuu spariva in quella di
Kaaos,
che riusciva ad avvolgerla completamente, da parte a parte. Era
difficile
valutare che tipo di legame ci fosse tra di loro, perché le
loro interazioni
erano ambigue, ma mai esplicite. Sguardi, tocchi, parole…
Tutto era
interpretabile in diversi modi, e nessuno poteva saperlo meglio di
Gustav, che
qualche volta ancora subiva scenate di gelosia – non sempre
serie – da parte di
Tom quando Vibeke gli regalava un abbraccio o un bacio
affettuoso.
Gustav represse un sorriso
nostalgico: erano via da solo due
giorni e già gli mancavano le coccole di Vibeke.
Chissà quanto doveva essere
insopportabile per Tom. Poi pensò a Georg, sempre
così lontano da Nicole e da
Emily, e gli si strinse il cuore. Se avesse potuto vederle
più spesso,
probabilmente non sarebbe stato sempre così giù
di morale.
I giornali non facevano altro che
ricamare articoli su
articoli sulle due coppie più chiacchierate della Germania,
ma la verità era
che, se da un lato Tom e Vibeke vivevano in un mondo tutto loro, fatto
di
bisticci e amore spensierato, dall’altro Georg e Nicole, di
nascosto e in
silenzio, soffrivano, ed era una cosa che gli obiettivi delle
telecamere e
delle macchine fotografiche non potevano vedere.
Forse, dopotutto, era meglio essere
soli, non avere qualcuno
di cui sentire la mancanza.
Ma allora
perché sento
la mancanza di qualcuno che non esiste?
“Gustav, tu che ne
pensi?”
Gustav si riscosse dal proprio
torpore e da pensieri che
avrebbe di gran lunga preferito non avere. Kuu lo stava guardando, in
piedi
accanto al piano, Kaaos al suo fianco, e attendeva una risposta. anche Bill e
gli
altri lo guardavano. Si era perso un pezzo di conversazione, dovevano
aver già
espresso tutti un parere ed ora aspettavano il suo. Ma lui che cosa
avrebbe
potuto dire? Non era capace di esprimere certe sensazioni.
“Ci sapete fare,”
dichiarò. “E anche parecchio. Spero solo
che non ci farete sfigurare troppo.”
Abbozzò un sorriso, e Kuu
e Kaaos fecero lo stesso. Griet,
invece, era a dir poco raggiante.
“Molto bene,
allora,” Benjamin si alzò, soddisfatto.
“Penso
che siamo tutti d’accordo, a questo punto: benvenuti a
bordo!” Kuu e Kaaos si
avvicinarono e gli strinsero la mano. “Sarà un
piacere lavorare insieme a voi.”
“Il piacere è
tutto nostro.” Rispose Kuu, e per un attimo
Benjamin rimase semplicemente a contemplarla.
Era fatta, dunque. Era deciso:
sarebbero stati loro ad
accompagnarli nello Humanoid City Tour 2010.
E in mezzo a un incrociarsi di
strette di mano, Gustav vide
Bill e Kuu fronteggiarsi da vicino, ritti e orgogliosi, gli angoli
delle labbra
impercettibilmente arricciati, e alla fine, quando le loro mani si
incontrarono
in una stretta vigorosa, fu chiaro che l’imminente tour
sarebbe stato al di
fuori di ogni ragionevole dubbio un’esperienza incancellabile.
***
Il rientro a casa, dopo Berlino, fu
fonte di insperato
sollievo per Tom. Non ne poteva più di andare in giro in
quel modo, tra Europa
e America, ospite di show e programmi vari. Aveva tentato di convincere
Vibeke
a seguirlo, almeno qualche volta, ma lei non ne voleva mai sapere:
secondo lei
era uno spreco di tempo e denaro andare assieme a loro, soprattutto
perché per
la maggior parte del tempo avrebbe dovuto starsene da sola, e Tom in un
certo
senso capiva, ma, egoisticamente, non condivideva. Odiava stare senza
di lei,
anche se solo per pochi giorni. Per tutto il tempo che era via, lui non
si dava
pace: la chiamava appena poteva, le mandava messaggi, fotografie, e
tutte
quelle cose per cui aveva sempre preso in giro Georg, e che adesso gli
sembravano l’unica maniera per non impazzire e prendere una
aereo verso casa in
ogni raptus di nostalgia.
E Vibeke rideva di lui, e sopportava
paziente anche certe
telefonate nel cuore della notte, e gli diceva che era uno sfigato
mammone a
non resistere senza di lei nemmeno per tempi così brevi, ma
Tom aveva imparato
a non offendersi, e a prendere anzi tutti quegli sproloqui per quello
che erano
in realtà: l’unico modo che lei conoscesse per
dirgli che anche lui le mancava.
Appena rientrato dal viaggio, Tom si
era concesso solo il
tempo di una doccia e di un rapido cambio di abiti, poi si era subito
precipitato a casa Wolner, impaziente. Era sera, l’ora di
cena era passata da
un pezzo: sapeva che BJ era già uscito e che in casa restava
solo Vibeke. Non
suonò; prese invece la propria copia delle chiavi
dell’appartamento ed aprì,
facendo piano. Voleva farle una sorpresa. Entrò in punta di
piedi, ascoltando:
a giudicare dai rumori, Vibeke doveva essere in cucina, probabilmente a
riempire
o svuotare la lavastoviglie.
Si avvicinò di soppiatto
alla porta e la sentì canticchiare
fra sé, compiacendosi nel riconoscere le parole di
Sonnensystem. Glielo avrebbe
rinfacciato, all’occasione migliore. Per ora era solo felice
di rivederla.
Riuscì ad arrivarle alle
spalle senza farsi sentire, e appena
lei si risollevò dal cestello della lavastoviglie
esclamò:
“Sorpresa!”
Vibeke emise uno strillo acuto,
votandosi di scatto, ma non
appena lo vide non gli diede nemmeno il tempo di aggiungere qualcosa o
sorriderle.
“Kaulitz!”
urlò, gli occhi sgranati e luccicanti,
gettandogli le braccia al collo. “Bastardo
schifoso,” sbottò, baciandolo subito
dopo. “Mi hai fatto prendere un colpo!”
Tom le abbracciò la vita,
rubandole un altro bacio. Rideva,
non poteva farne a meno.
“Ciao, stronza.”
Vibeke profumava di menta. Da quando
l’aveva conosciuta,
ogni volta che la vedeva aveva un profumo diverso: le piaceva cambiare
bagnoschiuma di volta in volta, e a lui piaceva indovinarne il gusto,
sentire
ogni volta un odore e un sapore nuovo, ma che sapeva sempre di lei.
Essere innamorati era bello,
più di quel che aveva sempre
voluto credere, e trovava stupefacente che potesse esistere qualcosa di
simile.
Era indescrivibile la gioia che si poteva provare nell’amare
tanto qualcuno che
ti amava a sua volta.
Si godette una meritata dose di
carezze ed effusioni per un
po’, almeno finché lei non iniziò ad
avvertire che c’era qualcosa di sospeso
nell’aria.
“Kaulitz,” Smise
di baciarlo e arretrò di un passo, ancora
avvolta dalle sue braccia. “Hai un’aria
strana… Cosa c’è?”
Lui chinò la testa,
cercando un modo per metterla al
corrente dei fatti senza fare scoppiare un finimondo.
Capisci
sempre tutto
troppo in fretta, tu, pensò. A
volte
è terribilmente scomodo.
Era impossibile.
Tom la scrutò tentennante
mentre se la riavvicinava, già
stanco prima ancora di cominciare il discorso.
“Noi due dobbiamo
parlare.”
“Cristo,
cos’è quel tono serio?”
esclamò lei, strabuzzando
gli occhi. “Stai per morire? Oddio, hai un cancro!”
Si portò le mani alla
bocca, sconvolta. “Lo sapevo che dovevamo smettere di fumare,
tutti e due! Te
l’avevo detto, ti ricordi? Cazzo!”
“Vi, no,”
replicò lui, ridendo. Prese una sedia e si
sedette, poi la prese per mano e se la fece sedere in grembo.
“Niente cancro,
né morte imminente… Per
ora.”
“Che significa
‘per ora’?” fece lei, sospettosa.
Tom si morse il labbro, cercando
nervosamente i suoi occhi.
Loro due amavano provocarsi a vicenda facendo apprezzamenti su altri
ragazzi o
ragazze, ma sempre per gioco. Ora che stavano per arrivare interi mesi
di vita
assieme a una ragazza del calibro di Kuu, era meglio mettere subito
tutte le
carte in tavola ed evitare, o almeno cercare di prevenire, spiacevoli
disagi.
“Che probabilmente saranno
le tue stesse mani ad uccidermi
quando sentirai quello che sto per dirti.” Le
confessò, tetro.
Vibeke lo fulminò con uno
sguardo assassino.
“La stagista della
reception alla Universal!” sibilò, nel
suo tipico tono da preludio a una sfuriata. “Kaulitz, se te
la sei fatta, giuro
che ti –”
“No, niente stagista,
niente sesso,” specificò lui,
cominciando a temere per la propria salute psicofisica. “Si
tratta di lavoro.”
“Oh.”
L’espressione ostile di
Vibeke si sciolse in un misto di
sollievo e delusione. Tom era sicuro che avrebbe adorato poterlo
strapazzare
per bene con una delle sue scenate di gelosia.
“Se ricordi, ti avevo detto
che Benjamin ci ha parlato della
possibilità che nel tour di quest’anno saremo
affiancati da un gruppo
emergente...”
Lei annuì interessata.
“E io la trovo
un’idea grandiosa!” approvò.
“Sapete già chi
sarà?”
Tom inspirò a fondo.
Doveva dirglielo, e prima lo avrebbe
fatto, più tempo avrebbe avuto per riprendersi dalle
conseguenze.
“Ecco, il problema
è questo,” disse, pregando che lei la
prendesse alla leggera. “Si tratta dei Pristine
Blue.”
“Cosa?”
Come
previsto, Vibeke si fece subito saltare la mosca al naso, acquisendo un
cipiglio oltraggiato. “Quella starletta vanitosa e strafiga
verrà in tour con voi?”
“Con noi,
vorrai,
dire,” la corresse Tom con delicatezza. “Sei il
nostro tecnico delle luci,
ricordi? Sarai tra i piedi tutto il tempo, e io praticamente non
potrò battere
un ciglio senza che tu non lo veda.”
“Quel ‘tra i
piedi’ non è un’espressione che mi
rassicura,
sai?”
Diplomatico,
Tom, sii
diplomatico e non perdere le staffe, altrimenti ci rimetti qualche
estremità
fondamentale.
“Non cercare il pelo
nell’uovo, adesso.”
Vibeke si imbronciò,
ostinata come suo solito.
“Perché mi stai
avvertendo, allora?”
“Per evitare che tu faccia
scenate inopportune in caso di
situazioni ambigue che potresti interpretare male.”
Sospirò Tom, che si era
divertito a flirtare con Kuu, durante l’incontro
all’Adlon, ma senza reale
interesse. Tutto ciò di cui aveva bisogno, lo aveva
già.
“Sì, vallo a
raccontare a qualcuno che non ti conosce!”
“Dai, Vi, non la
guarderò nemmeno,” le assicurò,
accarezzandole il collo con le labbra, nella speranza di ammorbidirla.
“Lo sai
che per me esisti solo tu.”
“Piantala di fare il
leccaculo, sei un ruffiano senza
ritegno!” sbraitò lei, spingendolo via, ma lui non
si lasciò intimorire. La
conosceva, e quando faceva così era perché la
aveva già in pugno.
“Il ruffiano senza ritegno
ha tanta voglia di coccole.”
“Ma sta’
zitto!” rise lei, lasciandosi trascinare giù,
verso
un bacio che, come molti dei loro, era destinato a finire in camera da
letto.
Lei e Tom risero insieme in quel
bacio, e lui si sentì
subito meglio. Era tornato, era a casa, e adesso che aveva detto tutto
a Vibeke
e che lei l’aveva presa più o meno bene, non gli
restava che godersi il
bentornato. A tutto il resto avrebbe pensato poi.
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Note:
a
parte che ci ho messo un tempo vergognoso ad aggiornare, ho poco da
dire. stiamo
iniziando ad entrare nel vivo della storia, a poco a poco, quindi tra
poco sarà
tutto più chiaro e (spero) interessante. La prima canzone
che appare nel
capitolo, come già detto, è Alien dei Tokio Hotel
(mai sentiti? Sono bravi!
XD). La seconda invece è Happy dei Pristine Blue (leggasi:
mia XD).
Ho letto con estremo piacere tutte le
vostre immancabili
recensioni e tutte, a modo loro, mi hanno fatta sorridere. Ho notato
che molte
di voi hanno già intuito qualcosa e non nego che mi faccia
piacere. ;) Vorrei
avere tempo di potermi dedicare a rispondervi singolarmente, ma
purtroppo non è
così. Se però avevate qualche domanda a cui
ancora non ho risposto, non esitate
a contattarmi, mi dicono che ho un buon servizio clienti! XD
Per ora vi lascio con la speranza che
il capitolo sia stato
di vostro gradimento e la solita preghiera di deducare anche solo un
minuto a
quell’opera di bene che è una recensione. ;)
Alla prossima!
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Capitolo 4 *** Fly Me Away ***
This is all that I can do
I’m done to be me
Sad, scared, small, alone, beautiful
It’s supposed to be like this
I accept everything
It’s supposed to be like this
[That Day, Natalie Imbruglia]
***
“Buone queste lasagne. Hai
usato la ricetta che ti ha dato
mia madre?”
“Sì.”
“Sono venute davvero
bene.”
“Grazie.”
“Di niente.”
Passò un attimo di
silenzio. Georg tagliò un'altra
forchettata di lasagne e se la portò alla bocca. Erano
veramente buone, ma le
mangiava controvoglia. Nicole, seduta di fronte a lui, faceva lo
stesso. Emily
era a scuola, aveva iniziato le elementari da pochi mesi e non sarebbe
rientrata prima del pomeriggio.
“Il tour parte la prossima settimana, vero?”
domandò Nicole ad un tratto, senza
sollevare gli occhi dal piatto.
“Sì,” rispose Georg. “Il
ventidue.”
“Bene.”
Era tutto surreale, troppo quieto e
forzato per riuscire a
nascondere la patina di disagio che impregnava l’atmosfera.
Erano a casa loro,
da soli, a pranzare in silenzio nella bella cucina dai mobili in
quercia, il
sole che entrava quasi con prepotenza dalle finestre, oltrepassando le
tendine,
illuminando una scena troppo diversa da come sarebbe dovuta essere.
“Quando finiscono le
vacanze invernali di Emily?”
Nicole masticò con calma e
deglutì, poi prese un breve sorso
d’acqua.
“La scuola riapre il ventotto.” Rispose infine,
asciutta.
Georg la guardava e si sentiva
morire: aveva un colorito
spento, ombre scure sotto agli occhi opachi, e gli sembrava
più magra
dell’ultima volta che l’aveva vista. Non sembrava
più la Nicole che aveva incontrato
la prima volta. Erano cambiante tante cose da allora, nel bene e nel
male.
“Magari potreste riuscire a
fare qualche giorno assieme a
noi,” le buttò lì, covando una speranza
troppo labile per crederci davvero. “Il
ventotto siamo ad Amburgo, torneremmo giusto in tempo.”
Nicole sollevò gli occhi,
sforzando un sorriso.
Sei ancora
tu?, si
chiese Georg, reprimendo un sospiro. Cercò in lei una luce
che c’era sempre
stata, sopravviveva, ma era sempre più fievole, e la
responsabilità era solo
sua. Sei ancora tu quella che arrossiva
ogni volta che mi guardava? Quella che non riusciva a non sorridere
ogni volta
che la baciavo?
“Posso provare a chiedere
qualche giorno di ferie al
lavoro.”
Il tempo e la distanza erano elementi
difficili da gestire,
da sopportare. Con una bambina di mezzo, soprattutto, era complicato
tenere in
piedi una relazione come la loro. La relativa fortuna era che se non
altro la
privacy, a Lipsia, era ancora garantita: nessuno era ancora riuscito a
scoprire
dove loro abitassero, e questo era un bene. Ciò che non era
un bene era
l’imminente inizio di quello che con ogni
probabilità sarebbe stato il loro
periodo più complicato e pesante di sempre: il tour. Georg
sperava davvero che
qualche volta sarebbe riuscito ad averle accanto almeno per un
po’.
“A che ora esce
Emily?” domandò. Lo sapeva a che ora usciva,
ma era comunque uno spunto, seppur inutile, di conversazione.
“Alle quattro.”
“Posso andare a prenderla
io, se non ti dà fastidio.”
Nicole gli rivolse uno sguardo
stupito.
“Perché
dovrebbe?”
Georg sollevò
distrattamente le spalle.
“Non lo so. Chiedevo
soltanto.”
Nicole rimase ad osservarlo a lungo,
sul viso pallido
l’espressione stanca di chi si portava troppi pesi dentro.
Discutevano, ogni tanto, di loro e
del loro futuro, dei
progetti, dei sogni, di tutto quello che una giovane coppia poteva fare
della
propria vita, ma poi il tempo scadeva, e lui doveva tornare ad Amburgo,
o
prendere un aereo, o correre a qualche appuntamento per
un’intervista, o un
servizio fotografico, o un’apparizione in TV, e tutto restava
sospeso a
mezz’aria, nient’altro che un’idea
impalpabile senza fondamenta.
Di quel passo sarebbero rimasti in
stallo per anni, prima di
poter concretizzare qualcosa, e lui non lo sopportava.
“Georg…”
Nicole si era alzata e aveva aggirato il tavolo per andare da lui. Gli
si fermò
di fronte, incerta, e lo fissò negli occhi. Era stanca; lui
era stanco. Stanchi
di tutto.
“Ti prego,”
Nicole gli avvolse il collo con le braccia, le
sua mani fredde lo accarezzarono. Georg la guidò a
sederglisi in grembo e la
abbracciò. La ritrovò. “Lo so che
stiamo passando un brutto momento,” sussurrò
Nicole, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
“Scusami se faccio così…
Ogni volta che te ne vai, Emily non fa che chiedermi quando tornerai,
perché
non ci porti con te, e io… Non so più come
spiegarle…”
Georg non sapeva cosa dire. Non
c’era niente che potesse
dire, perché non c’era nemmeno niente che potesse
fare. Le cose stavano così:
lui era una celebrità, aveva due vite da gestire, due mondi
da conciliare, e
non sempre riusciva a portarne avanti uno senza sacrificare
l’altro. Odiava che
fosse così, ma non c’era modo di cambiare i fatti.
Non c’era.
“Sandberg,” le
sussurrò all’orecchio, posandole dolcemente
una mano sulla nuca. “Siamo arrivati fin qui, non
sarà una crisi passeggera a
fermarci. Vero?”
Nicole lo stringeva, ma taceva.
Georg, in un angolo
recondito del proprio profondo, avvertiva il sentore gelido della
consapevolezza di che cosa celasse quel silenzio.
“Sandberg?”
insisté però. “Sandberg,
guardami.”
Le fece sollevare il viso e la
costrinse ad obbedirgli.
Nicole aveva occhi lucidi, le labbra serrate. Avrebbe dato
l’anima pur di non
doverla vedere così. Qualunque cosa.
Qualunque
cosa…
“Adesso sistemiamo questa
cucina, usciamo a farci una
passeggiata e andiamo a prendere la nostra Emily a scuola.
Ok?”
Lei annuì debolmente, ma
il tentativo di sorriso sulle sue
labbra non vide mai la luce.
“Ok.”
“Bene.”
Georg le accarezzò i
capelli e la baciò in fronte. Non era
finita lì, non era tutto risolto. Sarebbe servito molto di
più per mettere
ordine nella loro vita, e prima o poi avrebbero dovuto farlo, avrebbero
dovuto
affrontare tutto, ma non ancora. Era troppo presto.
Un giorno, forse, quando fossero
stati abbastanza forti.
Quando ci fosse stata qualche
possibilità di non uscirne a
pezzi.
***
Era tutto immobile e silenzioso. Non
c’era ancora l’aroma
del caffè nell’aria, e nemmeno gli Smashing
Pumpkins a suonare dallo stereo nel
salotto. Si sentiva solo il profumo freddo della neve che proveniva da
fuori e
il rumore ovattato delle auto in strada. Aprire le finestre della
camera, la
mattina, era un po’ come far rientrare il mondo dopo una
notte passata nei
sogni: un rituale dovuto ma sofferto.
Kaaos doveva essere già
uscito. Il sabato, quando erano a
casa, scendeva sempre a prendere la colazione al bar
all’angolo della via, e
quella sarebbe stata l’ultima volta per un lungo periodo.
Kuu si infilò la leggera
vestaglia di seta blu notte ed
attraversò a piedi nudi il corridoio per raggiungere il
bagno, la sua stanza
preferita. Lo adorava: era grande, spazioso e luminoso, di
un’eleganza semplice
ma raffinata, come piaceva a lei. Il marmo che rivestiva il pavimento e
le
pareti era bianco venato di rosa, impreziosito in certi punti da
piccole
chiocciole fossili. C’era una vasca da bagno in stile
antico al centro,
la doccia in un angolo chiusa da una vetrata opaca che ne seguiva la
curva,
ciotole e vassoi pieni di pietre levigate e conchiglie di ogni forma e
colore.
La delicata fragranza di mughetto dei bagnoschiuma e delle creme
aleggiava su
ogni cosa, rendendo tutto familiare, come se fosse stato suo da sempre.
C’era una grande specchiera
sul lato opposto alla finestra,
accanto ala doccia, sul cui piano giacevano, ordinatamente riposti,
diversi
mazzi di fiori e qualche candela mai accesa. Lei non accendeva mai le
candele:
le piacevano intatte, inviolate dal fuoco, che le anneriva e consumava,
rovinandole. I cosmetici riempivano le piccole mensole di vetro e i
cassetti sul
lato sinistro; in quelli sul destro, accessori per la cura del corpo.
Kuu diede un paio di copi di spazzola
ai capelli e li
aggiustò con le mani, soddisfatta. Da quando aveva deciso di
tagliare la lunga
chioma bionda era molto più semplice tenerli ordinati. Si
passò il tonico sul
viso con un batuffolo di cotone, un velo di crema idratante, poi si
soffermò a
studiarsi. Avrebbe dovuto dare il meglio di sé con il
trucco, quella mattina,
perché il suo aspetto era ben lungi dall’essere
quello fresco e rilassato che
avrebbe voluto.
Ancora poche ore soltanto, poi lei e
Kaaos sarebbero andati
in aeroporto, e tutto avrebbe ufficialmente avuto inizio. Destinazione:
Lussemburgo. Avrebbero avuto le prove e il sound-check per tutta la
domenica e
buona parte del giorno successivo, poi, la sera, avrebbero finalmente
inaugurato il tour.
Mentre si truccava con cura, Kuu
canticchiava a mezza voce una
canzone che le sembrava consona al momento, anche se erano anni, ormai,
che
aveva smesso di seguire gli Evanescence.
Sto
guardando nello
specchio da così tanto tempo che inizio a credere che la mia
anima sia
dall’altra parte…
Si stava dando gli ultimi ritocchi,
quando sentì la porta dell’ingresso
che si apriva e si richiudeva. E allora arrivò
l’aroma del caffè, e gli Smashing
Pumpkins si accesero dello stereo. Muzzle. La preferita di Kaaos.
Quella che
preferiva lei, invece, era Stand Inside Your Love, ma lui non la
metteva
spesso.
Una manciata di secondi
più tardi Kaaos apparve sulla soglia
del bagno, vestito di tutto punto, il viso ancora arrossato dal freddo.
“Buongiorno.” lo
salutò Kuu, continuando a sfumarsi la
cipria sul viso.
“Buongiorno.”
Ricambiò lui, avvicinandosi per posarle un
bacio sulla tempia. “Come ti senti?”
“Nervosa.”
Rispose lei, riponendo il pennello nel cassetto,
per poi recuperare il phard e darsene una rapida spolverata sugli
zigomi. “E
eccitata. Un po’ spaventata,” aggiunse, mentre lui
si appoggiava a sedere sul
solido ripiano di marmo della specchiera. “Ma tutto sommato
bene.”
Kaaos restò in silenzio a
osservarla mentre prendeva un paio
di orecchini a goccia e se li infilava senza considerarlo.
“Hai preso le tue
pastiglie?” le chiese Kaaos a un tratto.
Lei negò.
“Ho già messo
tutto in valigia.”
“Kuu…” fece allora lui, con quel suo
solito tono di paziente rimprovero.
“Non ci ho
pensato!” si difese Kuu. “Non morirà
nessuno se
per una volta –”
“Forse ne ho io qualcuna
nella borsa.” la interruppe lui,
alzandosi.
“Tu hai le mie
pastiglie nella tua
borsa?”
“Sì, e adesso te le vado a prendere,
così poi possiamo fare colazione.”
“D’accordo.”
Sospirò lei, voltandogli le spalle per uscire
in fretta dal bagno. “Io intanto mi vado a vestire.”
Le ci vollero dieci minuti per
scegliere cosa mettersi,
anche se si era già scelta qualcosa la sera prima.
Sostituì la gonna a
portafoglio nera con un paio di jeans, si abbottonò la
camicetta bianca e si
costrinse ad allontanarsi dal guardaroba. Trovò Kaaos in
cucina, già seduto di
fronte a un cappuccino fumante e due croissant. Kuu gli sedette di
fronte;
accanto al suo caffè c’erano pronte le solite tre
pastigliette e un bicchiere
d’acqua. Kaaos prese di cappuccino e sollevò lo
sguardo su di lei. Kuu recepì
il messaggio: afferrò le tre pastiglie e le
ingoiò aiutandosi con un po’
d’acqua, poi si voltò verso Kaaos il quale si
limitò a distogliere lo sguardo,
soddisfatto.
“Mi ha chiamato Griet
mentre ero fuori.” Le comunicò. “Ho
detto che lei e Luke arrivano verso l’una.”
“Quindi dovremo essere pronti minimo per
mezzogiorno.”
Kaaos rise.
“Anche prima.”
Alla fine il giorno era arrivato. A
Kuu non era mai sembrato
vero, e tuttora non aveva ben metabolizzato quanto stava per accadere.
Aveva
sognato così a lungo di poter andare a suonare
all’estero che le sembrava
impossibile che fosse vero.
“Come credi che
sarà questo tour?”
“Quantomeno interessante, direi.” Kaaos sorrise
furbamente. “Hai sicuramente
fatto colpo.”
“A me non sembra
proprio.” Replicò Kuu, scettica.
“Tom non ti ha tolto gli occhi di dosso mezzo
secondo.” Puntualizzò allora
Kaaos, con uno sguardo strano. Kuu intuì immediatamente le
sue congetture e
preferì smorzarle sul nascere.
“È solo un buffone esibizionista.”
“Bill invece mi
è parso piuttosto intrigato dalla tua
insolenza.”
Stavolta Kuu si soffermò a
riflettere su quell’affermazione,
perché, sì, in effetti aveva notato anche lei un
atteggiamento ambiguo da parte
di Bill, a metà tra l’oltraggiato e il
compiaciuto. Impossibile dire che cosa
avesse realmente pensato, ma sicuramente qualche punto a proprio favore
Kuu lo
aveva segnato.
“Sono sicura che stesse
quasi sorridendo quando ci siamo
stretti la mano.”
Un angolo delle labbra di Kaaos si
sollevò con un debole
fremito irriverente.
“Anche tu, se è
per questo.”
Un flashback attraversò
repentino la mente di Kuu: una mano
esile e fredda; occhi nocciola, caldi, sensuali; labbra morbide; un
sorriso.
Sì, aveva sorriso anche
lei, in risposta.
Perché
è quello che
avrebbe fatto chiunque.
“Mi veniva da ridere
perché è alto il doppio di me.” Si
giustificò. “Ed è così
magro…”
“Senti chi parla.” Sbuffò Kaaos.
“Georg sembrava molto sulle sue, vero?”
proseguì
poi, dopo una pausa pensosa. “Peccato, perché
contavo su di lui come elemento
di socializzazione. Mi sembra il più accomodante dei
quattro.”
“Tra tutti, là
in mezzo, ‘accomodante’ è
l’ultimo termine
che userei.” Le bruciava ancora il solo pensiero: si era
sentita sgradevolmente
sottovalutata da tutti loro. “Il solo scopo di
quest’umiliazione della band di
supporto è costruirci una fama
all’estero.”
“Smettila di considerarla
un’umiliazione.” L’ammonì
Kaaos
per l’ennesima volta. “Ti rendi conto che
c’è chi darebbe qualsiasi cosa per essere
al nostro posto?”
“E tu ti rendi conto che
suoneremo davanti a un pubblico che
non vedrà l’ora di vederci sparire per poter
sentire suonare qualcun altro?”
“È il tour dei Tokio Hotel, non il nostro. Sta a
noi farci apprezzare.”
Indispettita, Kuu incrociò
capricciosamente le braccia e si
abbandonò contro lo schienale della sedia.
“Non
c’è peggior cieco di chi non vuole
vedere.”
Kaaos emise una breve risata
gutturale.
“Suona quasi divertente, detto da te.”
Lei lo gelò con
un’occhiata astiosa. Non si sarebbe mai
stancato di punzecchiarla con battutine e allusioni.
“Hai voglia di litigare di prima mattina?”
sbottò, accavallando le gambe.
Lui sorseggiò
pacificamente il suo caffè, chinando
rispettosamente il capo.
“No, ci mancherebbe.”
Era un bene che la discussione si
fermasse lì. Partire per
un tour con i nervi già frementi sarebbe stato un pessimo
preludio.
***
La pace interiore era un sentimento
che a Tom era sempre
stato sconosciuto. Un po’ perché la sua giovane
età non prevedeva sentimenti di
quel tipo, ma, anzi, di tutte le avventure e i turbamenti
possibili, un po’ perché, anche volendo, non aveva
mai avuto modo di cercarla. Quella
mattina, tuttavia, era quella la precisa sensazione che provava dentro
di sé:
pace. Pace assoluta.
Era contento, per tutto e per niente.
L’album stava vendendo
bene, anche dopo più di sei mesi dall’uscita, e la
maggior parte delle date del
tour erano già sold out da un pezzo. Sarebbe stato un tour
diverso da tutti i
precedenti, ed era anche strano da dire: avevano vent’anni e
già tre tournée
alle spalle, più una quarta imminente. Non era cosa da tutti.
Lui e i ragazzi avevano da poco
passato i controlli alla
security e ora si erano accomodati in una saletta a rivestirsi.
Ovviamente i
due che più avevano avuto difficoltà a passare
erano stati Bill e Vibeke: tra
piercing, borchie e catene varie, ci avevano messo quasi dieci minuti a
testa a
liberarsi di tutto, ma Tom a volte aveva il sospetto che certe volte la
polizia
degli aeroporti ci prendesse gusto a far spogliare la gente.
“Kaulitz, dammi una
mano!”
“Tomi, non riesco a chiudere la lampo degli
stivali!”
Tom si voltò con un
sospiro: Bill era seduto su una delle
poltrone ed armeggiava ostinatamente con la chiusura
dell’anfibio sinistro; al
suo fianco, Vibeke stava tentando di infilarsi una sfilza di bracciali
tutti
insieme, mentre un mucchietto di collane e anelli le giaceva ancora in
grembo.
“Aspetta,”
intervenne Gustav, inginocchiandosi di fronte a
Bill. “Ti do una mano io.” Gli bastò
mezzo secondo per chiudere la zip dello
stivale, quando Bill in cinque minuti non era nemmeno riuscito a
smuoverla di
un centimetro.
“Meno male che ci sei tu,
Gud.” Cinguettò Vibeke, in un
odioso sfarfallio di ciglia più civettuolo che mai. Gustav
si limitò a
sorriderle.
“Kaulitz, me la dai una
mano o no?” insisté Vibeke,
girandosi a cercare Tom, le mani intente ad allacciare un polsino.
“Arrivo, amore.”
Sbottò Tom, raggiungendola. Lei gli appioppò
un’occhiataccia di rara
minacciosità; lui sghignazzò, posizionandosi alle
sue spalle. Si chiamavano
‘amore’ solo ed espressamente per darsi sui nervi;
odiavano entrambi quel tipo
di appellativi.
Tom la aiutò a rimettersi
addosso tutti quei quintali di
roba inutile, ma non senza trovare il modo di trarne un certo piacere
personale: le sfiorava il collo nudo, le spalle, le braccia, il lati
del viso,
e lei, testarda, faceva finta di niente, quando la pelle
d’oca sui suoi
avambracci scoperti tradiva la sua soddisfazione.
“Guarda che è
perché fa freddo.” Sbuffò Vibeke,
guardando in
su. Tom restò con il sogghigno di prima congelato sulle
labbra: ancora non si
era abituato a sentirsi leggere nel pensiero da qualcuno che non fosse
suo
fratello.
Ad un tratto, un’esplosione
di urla isteriche, molto simile
a quella che aveva accolto loro non molto minuti prima,
preannunciò
efficacemente ed inequivocabilmente l’arrivo dei Pristine
Blue. Da lontano,
appena oltre la barriera di metal detectors, Tom individuò
una piccola folla
accalcarsi lungo i nastri che delimitavano lo scorrimento della coda
per
l’ingresso al gate. Molto persone si voltarono a guardare il
curioso fenomeno
per la seconda volta, in quella pomeriggio. Seguiti da ondate di flash
e urla,
i Pristine Blue avanzavano affiancati dalle loro guardie del corpo, la
loro
manager davanti a guidarli. Tom notò distintamente i
pennarelli che Kuu e Kaaos
ancora tenevano in mano. Con una punta di amarezza, si rese conto che
lui e i
ragazzi ormai non si fermavano quasi più a firmare
autografi, tra aeroporti e
hotel.
Man mano che il gruppetto si
avvicinava e le persone che
passavano nel mezzo furono scomparse, la visuale divenne più
chiara e Tom ebbe
finalmente modo di squadrare approfonditamente i nuovi arrivati.
Nonostante
fosse così minuta, la figura sinuosa di Kuu era quella che
più attirava
l’attenzione, e suscitava anche una certa soggezione.
Camminava in modo disinvolto,
come se il mondo circostante esistesse appositamente per farle da
cornice, gli
spessi tacchi degli stivali neri che ticchettavano sul marmo del
pavimento ad
ogni suo superbo passo. Portava occhiali da sole in controtendenza,
sottili e
squadrati, l’emblema D&G ben visibile sui lati.
Vintage, probabilmente. Il
corto cappottino bianco le fasciava il corpo asciutto, una leggera
sciarpa di
cachemire rosa antico ad avvolgerle morbidamente il collo. Portava una
grossa
borsa di pelle nera al braccio, con una vistosa fibbia argentata che
aveva
tutta l’aria di ricalcare il logo dei Pristine Blue;
c’era una scritta incisa
sulla lustra placca di metallo fissata sul lato, ma Tom non
riuscì a
distinguerla. A braccetto con lei, Kaaos, che le camminava accanto con
aria
annoiata, vestito di nero da capo a piedi, ad eccezione della sciarpa
bianca.
Sembravano in tutto e per tutto una coppia.
Tom notò subito
l’occhiata densa di disprezzo che Vibeke
lanciò a Kuu. Sentì anche le sue dita serrarsi
più saldamente attorno alla
propria mano, quasi a voler rimarcare il proprio possesso su di lui e
richiamarlo all’ordine prima ancora che lui potesse dire,
fare o anche solo
pensare la cosa sbagliata.
Ma Tom se la rideva segretamente
sotto i baffi, perché era
ben lungi dal commettere mezza di quelle cose, solo che non aveva
alcuna
intenzione di rassicurare Vibeke in merito, primo perché lei
non gli avrebbe
comunque creduto, secondo perché adorava vederla giocare
alla predatrice
possessiva.
Lui, che aveva sempre rifuggito
qualsivoglia tipo di legame
sentimentale, aveva da poco scoperto il sottile, imprevedibile piacere
di
sentire di appartenere a qualcuno.
“Cazzo se è
gnocca.” Fu un commento che non seppe proprio
risparmiarsi. “Vi, ci lasciamo per qualche giorno? Non mi
dispiacerebbe fare
qualcosina con lei.”
Anziché infuriarsi, Vibeke
si voltò verso Gustav con un’aria
trionfante:
“Gud, hai sentito? Per qualche giorno non dovremo
più nasconderci.”
“Oh, che bella notizia!” rise lui.
“Fottetevi, tutti e due!” grugnì Tom.
“Parlavamo proprio di quello.”
Era parecchia la gente che, vedendo
passare i Pristine Blue,
si fermava a guardarli, e forse non era tanto per il fatto che fossero
accompagnati da due omaccioni vestiti di nero, ma piuttosto
perché sembravano
entrambi appena usciti da un servizio di moda su Vogue. Kaaos e i suoi
zigomi
alti, gli occhi neri, i capelli sciolti sul collo, la sua eleganza
distratta;
Kuu e la sua superbia, il mento sollevato, l’incancellabile
broncio sulle
labbra lucide, la mano piccola e curata che si sollevava e sfilava gli
occhiali
da sole con apparente incuranza: era come se avessero dei riflettori
costantemente puntati contro di sé. Il loro stile era
nettamente più discreto
rispetto a quello di Bill, eppure non erano meno appariscenti di lui.
“A letto secondo me è una furia.” disse
Vibeke sottovoce, osservando Kuu con ho
sogghigno malizioso.
“Be’, tanto nessuno di noi lo
scoprirà.” Ribatté Bill. La osservava
con
l’interesse, l’ammirazione e il gusto di un critico
di fronte a un’opera d’arte
di fattura particolarmente pregevole, ma con un accenno di diffidente
scetticismo.
“Quella per me non la darebbe nemmeno a Brad Pitt.”
“Ragazzi, tagliatevi la
lingua!” li ammonì Benjamin, severo.
“Comportatevi come si deve, non fatemi fare
figuracce.”
“Benji, se non volevi
correre rischi, dovevi scegliere una
talentuosa racchia.”
“È quello che ci
siamo detti io e David due anni fa, ma
evidentemente siamo recidivi.” Rispose, scambiando
un’occhiata con Georg e
Vibeke. Lei sorrise; lui chinò la testa e si
allontanò senza una parola.
Tom lo seguì con uno
sguardo carico di compassione.
Ti mancano,
vero?
“Buongiorno.”
Il saluto carezzevole di Kaaos lo
fece voltare: si ritrovò
così a fronteggiare due corpulenti bodyguard, un paio di
metri avanti a sé. Uno,
con penetranti occhi azzurri, lo aveva già visto;
l’altro, un biondo alto e
massiccio dalla mandibola squadrata, era una faccia nuova. Accanto a
loro,
Kaaos, che stava stringendo la mano a Benjamin, mentre Gustav e Bill la
stringevano a Kuu e Griet.
“Andiamo a dare il
benvenuto ai principini.” Gli sussurrò
Vibeke all’orecchio, passandogli avanti. Ancheggiò
a passo spedito verso Kaaos,
che le sorrise e le strinse calorosamente la mano. Si voltò
per un attimo verso
Tom con un’espressione provocatoria; Tom scosse la testa e
sorrise a sé stesso,
incamminandosi per raggiungerli. Accolse tutti con un sorriso educato e
qualche
parola di circostanza. Quando Kuu sollevò lo sguardo su di
lui, furono due
specchi di ghiaccio color miele a squadrarlo critici.
Tom si chiese chi fosse veramente
quella ragazza: i suoi
colori erano caldi – i capelli biondi, gli occhi di
quell’inspiegabile colore
ambrato, la pelle dorata da un velo di abbronzatura – e
completamente opposti a
quelli di Vibeke. Tutta la sua persona, anzi, sembrava ricalcare
perfettamente
un’ipotetica nemesi di Vibeke: l’una piccola e
magra, l’altra alta e formosa;
elegante e altezzosa la prima, alternativa e semplice la seconda. E per
quanto
Vibeke amasse essere scura e metallica, emanava un’aura di
calore umano che in
Kuu sembrava essere completamente assente.
I saluti furono brevi e sbrigativi.
Presto un paio di
addetti dell’aeroporto giunsero ad accompagnarli
all’imbarco prioritario.
“Ed eccoci qui.”
Mormorò Kaaos, mentre una hostess li
accoglieva e si occupava di controllare le loro carte
d’imbarco e confrontarle
con i documenti d’identità.
“Sembra più
emozionante di quel che è in realtà,”
gli disse
Bill. “Tra una settimana ti sembrerà
già tutto ordinaria amministrazione.”
A Tom fece male sentirlo pronunciare
quelle parole così
intrise di disillusione.
Non era sempre stato così.
C’era stato un tempo in cui Bill
aveva guardato a tutta la loro vita da musicisti di successo come a un
sogno
realizzato, una porta aperta su un futuro brillante, e adesso invece
sembrava
essersi svuotato di tutto l’entusiasmo di una volta. Era
sempre il solito Bill,
capriccioso e fiero della propria posizione, ma in quegli anni, volente
o
nolente, era stato costretto a crescere, e quella maturazione, seppur
relativa,
aveva portato con sé anche la consapevolezza che la carriera
richiedeva
sacrifici che all’inizio non erano stati messi in conto, per
la semplice
ragione che tutti loro, all’epoca, erano stati troppi piccoli
per poter anche
solo pensare ad aspetti che invece adesso sembravano improvvisamente
fondamentali, come la felicità che solo le piccole cose
sapevano dare, e il
bisogno di sentirsi appagati da qualcosa di più di un lavoro
perfetto. Solo ora
che c’erano dentro, si rendevano conto di quello che avevano
lasciato fuori.
Ma per Tom era difficile mettersi nei
panni di Bill, o di
Gustav, capire veramente il loro senso di solitudine, o comprendere la
frustrazione nostalgica di Georg. Lui Vibeke la aveva sempre con
sé, per
qualsiasi cosa, e fin troppo spesso dimenticava quale fortuna fosse una
cosa
simile. Nel bene e nel male, Vibeke era sempre con lui, e questo,
assieme a suo
fratello e ai suoi amici, faceva sì che lui disponesse
sempre e comunque di
tutto ciò di cui avesse bisogno.
“A dire la
verità il brivido della performance non morirà
mai,” soggiunse Gustav. “Sono solo i continui
spostamenti che dopo un po’
annoiano, ma il resto… Be’, non ti stancheresti
mai di viverlo.”
C’era sempre quel velo di
impalpabile tristezza nei suoi
occhi. Nessun sorriso riusciva a nasconderlo.
“Vorrei ben
vedere,” si intromise Kuu, mentre la hostess le
restituiva i documenti e la invitava a passare. “Facciamo una
vita che la
maggior parte della gente si sogna soltanto… Avremmo una
gran bella faccia
tosta ad andare a lamentarcene.”
Un lampo di rabbia balenò
negli occhi stanchi di Bill.
“Tu non hai idea di quello
che ti aspetta.”
Lui, in effetti, si era lamentato
più volte, e nemmeno
troppo implicitamente, della propria situazione. Nessuno –
Tom men che meno –
sarebbe stato così ipocrita da dire che Bill fosse infelice, ma
ciò non significava che
lui fosse felice.
“Nessuno ti obbliga a fare
la rockstar.” Ribatté Kuu, con
una spietatezza che Tom non si sarebbe aspettato. “Sei libero
di lasciar
perdere tutto quando ti pare, se la bella vita ti va stretta. Dopo
tutto
l’impegno che ci hai messo, sarebbe solo un vergognoso
spreco.”
Lasciò tutti attoniti.
Bill non le rispose, ma fece una
faccia pietosa che sembrava dire ‘Te ne accorgerai’.
Mentre camminavano lungo il corridoio
che conduceva
all’aereo, Tom prese la mano di Vibeke e la strinse nella
propria. Lei
dissimulò un sorriso, voltandosi a guardare il cielo plumbeo
fuori dalle
vetrate.
“Stiamo
partendo…”
“Sì,”
gli fece eco lei. “Stiamo partendo.”
Il loro primo viaggio insieme. Tom si
sentiva entusiasta
come un bambino. C’erano un’infinità di
cose che non vedeva l’ora di fare con
lei: i brindisi post concerto, le nottate alla Playstation, le ore
trascorse a
prepararsi nel backstage…
Sarebbe stato tutto diverso, ora che
c’era lei. Ma se da un
lato l’egoismo diceva a Tom di essere felice della propria
felicità, dall’altro
l’affetto verso Bill e i propri compagni non gli lasciava
troppo spazio per crogiolarsi
nell’autocompiacimento, perché, sì, lui
stava bene, ma loro no. E chissà se mai
sarebbe arrivato il giorno in cui tutti loro, insieme, si fossero
sentiti in pace.
***
Stavano davvero partendo.
Entro un paio d’ore, lei e
Kaaos sarebbero davvero arrivati
in Lussemburgo. Non era mai stata all’estero, prima. Nemmeno
in patria aveva
viaggiato poi molto, a dire il vero, perché le finanze in
casa sua erano sempre
scarseggiate, e così, mentre i suoi compagni di scuola
– Kaaos incluso – d’estate
partivano per qualche vacanza studio in Gran Bretagna o in Francia o in
Italia,
lei se ne stava a casa a studiare, a fare qualche lavoretto saltuario,
a
sognare una vita che adesso, inaspettatamente, aveva ormai tra le mani
e che
ciononostante guardava ancora con stupore e incredulità.
Era una star. Ce l’aveva
fatta davvero, alla fine. I suoi
sacrifici erano valsi qualcosa.
Kuu si voltò indietro
appena prima di varcare la soglia
dell’aereo. Dietro di lei, la Germania la salutava bagnata da
una pioggia impalpabile.
Tutta la sua vita era sempre stata lì, racchiusa tra quei
confini: nata e cresciuta
in terra tedesca, e aveva sempre creduto di essere destinata a morirci.
Adesso,
invece, la attendeva la più grande svolta che si potesse
immaginare, e tutto
non era più lì, alle sue spalle, ma davanti.
Stava per partire. Avrebbe viaggiato,
sarebbe andata
lontano. Lontano dalle proprie radici e dalla propria storia. Lontano
da un
mondo che le era sempre andato stretto.
Lontano dal passato e dai limiti di
una volta.
Lontano da sgradevoli ricordi, verso
esperienze nuove, verso
il successo.
Lontano da tutto.
Lontano da
me stessa?
Con un sospiro, Kuu voltò
la schiena a tutto ciò che aveva
sempre conosciuto ed entrò nella cabina.
Lontano da sé
stessa… No, quello mai.
***
PRISTINEBLUE.DE
presents:
Kuu & Kaaos’ Tour-log – DAY 0
TODAY’S THE DAY
Hello there, folks,
it’s Kuu here!
We are pleased and proud to
start this tourblog
on such a special day! As all of you must already know, tomorrow, here
in
Luxemburg, we’re kicking off the opening date of Tokio
Hotel’s Welcome To Humanoid City Tour
2010 and we’re so excited!
There’s going to be like 10.000 of you at the venue tomorrow
night and we sure
hope you all have fun with us!
We’ve been doing
rehearsals for two days now
and I must admit we’re quite tired, but also super impatient!
We’re looking
forward to performing, it’s our very first time live in a
real concert and
that’s quite an experience, don’t you think? ;)
Gazillions of you sent us
emails and messages
asking what it’s like to be rocking around with Tokio Hotel.
Well, I can tell
you that Kaaos and Georg might be getting married any moment now (much
to
Georg’s girlfriend’s disappointment! =3 ), since
they seem to have a lot in
common and immediately agreed on a night out partying right after
today’s
duties. Crazy, I know. I’ll do my best to survive it. ;) As
for the other guys,
we haven’t had a real chance to socialise, yet, but they all
seem very nice
boys. And, man, Bill is really tall and thin, in person! Impressive,
believe
me! But he’s a cutie, indeed.
We also have an important
announcement to make
for you fans from Italy,
France
and Spain:
keep your eyes well open,
guys, ‘cause we have something wicked in store for you!
Don’t forget to check out
www.pristineblue.de
and www.pristinebluefans-official.com
next
week for more info! And for those of you who are not from any of the
cited
countries: no worries, there is more coming soon for you, too!
Now I think it’s time
for me to go and get
ready: we’re having an interview for Bravo in minutes and
then… tomorrow the
big show, finally!
See you all very soon!
We’ll be back tomorrow
with a new entry and a detailed report about the concert!
Lots of love to everybody!
<3
Kuu
Posted
by: Kuu;
on Sun, 21st
Feb 2010 @ 20.43
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Note:
lo
so, lo so, gente, mi merito una crocefissione completa di lapidazione
pubblica!
So che un mese e mezzo è un tempo di aggiornamento
deplorevole, ma sono stata
funestata da una serie di sfortunati eventi (qualcuno sa cosa intendo
^^),
quindi non mi sono proprio potuta dedicare alla mia amata scrittura. Ma
eccomi
qui, finalmente! Prometto che dal prossimo capitolo in poi si
comincerà ad
entrare nel vivo della storia e a vedere qualcosa di più
interessante di tutte
queste pappardelle introduttive. Come avrete notato, ho scelto di
mettere il
primo di una serie di post del blog dei PB in inglese: mi sembrava di
dare un
tocco di realismo all’idea. Spero sia stato efficace. ^^
Ringrazio di cuore le 51 persone che
finora hanno aggiunto
la storia tra le seguite, le 106 che la hanno tra le preferite e le 162
che mi
hanno eletta a uno dei loro autori preferiti, ma soprattutto a tutte
voi che
avete commentato lo scorso capitolo! Vi adoro! Ora, come regalo di
Natale
ritardato, la vostra Mary adorerebbe sapere cosa ne avete pensato di
questo
capitolo dall’interminabile gestazione. Mi fareste davvero
molto felice. :)
Ovviamente, se avete domande, non esitate a chiedere e vi
sarà risposto! ;)
Per adesso vi auguro, anche se in
ritardo, un Buon Natale e
un felice 2010! Al prossimo anno con un nuovo capitolo! <3
P.S. vi aggiungo qua sotto la
traduzione del post di Kuu nel
blog:
OGGI
è IL GIORNO
Ciao, gente,
sono Kuu!
È
con piacere e
orgoglio che iniziamo questo tour-blog in un giorno così
speciale! Come tutti
voi sicuramente saprete, domani, qui in Lussemburgo, inaugureremo la
data
d’apertura del Wolcome To Humanoid City Tour 2010 dei Tokio
Hotel e siamo così
eccitati! Sarete circa 10.000 all’arena domani sera e di
certo speriamo che vi
divertirete tutti assieme a noi!
Abbiamo
provato per
due giorni e devo ammettere che siamo abbastanza stanchi, ma anche
super
impazienti! Non vediamo l’ora di esibirci, è la
nostra primissima volta live in
un vero concerto e non è un’esperienza da poco,
non credete?
Un sacco di
voi ci
hanno mandato email e messaggi chiedendo com’è
fare musica con i Tokio Hotel.
Be’, vi posso dire che Kaaos e Georg potrebbero convolare a
nozze da un momento
all’altro (per somma delusione della ragazza di Georg! =3),
visto che sembrano
avere molto in comune e hanno immediatamente deciso di uscire a
festeggiare
dopo i doveri di oggi. Folle, lo so. farò del mio meglio per
sopravvivere. ;)
Per quanto riguarda gli altri ragazzi, non abbiamo ancora avuto una
concreta
occasione di socializzare, ma sembrano tutti ragazzi molto simpatici.
E,
accidenti, Bill è davvero alto e magro di persona!
Impressionante, ma è davvero
dolce!
Abbiamo
anche un
annuncio importante per chi di voi viene da Italia, Francia e Spagna:
occhi
aperti, ragazzi, perché abbiamo qualcosa di molto speciale
in serbo per voi!
Non dimenticate di controllare www.pristineblue.de
e www.pristinebluefans-official.com
la prossima settimana per maggiori informazioni! E per coloro che non
vengono
dai paesi citati: non preoccupatevi, c’è altro per
voi!
Ora penso
sia ora di
andare a prepararmi: abbiamo un’intervista per Bravo tra
pochi minuti, e poi…
Domani, il grande show, finalmente!
Ci sentiamo
prestissimo! Torneremo domani con un nuovo post e un rapporto
dettagliato del
concerto!
|
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Capitolo 5 *** World Within My Wall ***
Where do
you go when you’re lonely?
Where do you go when you’re blue?
Where do you go when you’re lonely?
I'll follow you
(When The
Stars Go Blue, The Corrs)
***
Sfoglio i
miei giorni
all’indietro pensando a uno sguardo.
Ci sono cose che
cambiano
Senza sembrare
diverse.
Tremo, e nella mia
mano un sussurro spento. Non conosco il volto che mi cerca nel buio.
Tramonta al contrario
questo sole senza luce che mi è entrato nell’anima.
Nascere
Patire
Esistere senza vivere
Morire.
Forse le luci non sono
la via.
E tu, che mi guardi
senza parlare… Chi sei?
***
Non erano diecimila persone.
Il rumore di tutte quelle voci
mischiate non le era nuovo,
ma era diverso
sentirlo da lì. Le altre
volte che aveva sentito una folla urlare, era stata nel mezzo, non su
un placo.
Era stata lei a urlare, le altre volte. Adesso, urlavano per lei.
Ed era come se ci fosse un oceano ai
suoi piedi. Un oceano
con infiniti volti, infiniti colori, che pulsava febbrilmente in
perfetta
sintonia con i battiti accelerati del suo cuore.
No, non erano diecimila persone.
Erano diecimila scintille
di vita.
E Kuu lo sapeva che quegli applausi e
quelle grida calorose
non erano tutti per lei, ma solo in esigua parte. Lei e Kaaos erano
lì per fare
da contorno, per riscaldare l’atmosfera in preparazione al
vero, grande evento.
Eppure era soddisfatta di sé, perché quella sera,
per la prima volta, aveva
guardato giù da un palco e aveva visto ciò che
aveva sempre accarezzato nei
suoi sogni: tra le miriadi di cartelli e striscioni dedicati ai Tokio
Hotel – ‘Bill,
ti amo!’, ‘Georg & Tom, sposate
noi!’, ‘Tokio Hotel, you’re Too
Hot!’, ‘Sei
il mio angelo, Gustav!’, e una lunga serie si slogan affini
– se ne potevano
scorgere alcuni dedicati anche ai Pristine Blue. Non molti, certo, ma
un
discreto numero, considerato che era la prima volta che suonavano a
Lussemburgo.
Quello che più le piacque,
che la colpì maggiormente,
inorgogliendola, fu il cartellone che reggeva un ragazzo delle prime
file, nero
scritto di bianco, che diceva ‘Kuu, la tua voce mi ha salvato
la vita’.
Sarebbe servito del tempo prima che i
Pristine Blue
potessero raggiungere la popolarità dei Tokio Hotel, ma ce
l’avrebbero fatta,
Kuu non aveva dubbi in merito.
Si sentiva potente, lì sul
palco, con il suo microfono in
mano, a guardare dall’alto un tappeto sterminato di persone
che sembravano
apprezzare lo spettacolo finora offerto.
Kaaos le si avvicinò
sfiorando le corde della sua Fender
mentre lei accennava alle battute finali di Angel of Fame:
“Don’t fly, so you won’t
fall…”
“Hide,
so you’re safe
from the world…” le fece eco lui,
accostandosi al lei al microfono.
“I long for your tears…”
“Your smile is so cold…”
“Alone with your dreams, broken wings to
unfold…”
La musica si spense su
quell’ultima frase cantata insieme.
Fu quello a ricordare a Kuu che la loro esibizione era conclusa.
Nonostante
fosse la prima data e fosse andata così bene, questa
consapevolezza la fece
sentire stranamente vuota.
“Grazie!”
esclamò automaticamente, rivolgendosi al pubblico
applaudente con un piccolo inchino. Kaaos fece lo stesso.
“Grazie a tutti!” Urla,
applausi, anche qualche fischio, accuratamente ignorato. Non le
importava delle
invidiose. “Buon proseguimento!”
Un boato di urla esaltate esplose
nell’arena. Mano nella
mano, lei e Kaaos si inchinarono e ringraziarono, rimasero a salutare
per
qualche secondo, come Griet aveva detto loro. Raccolsero qualche
peluche, poi
ringraziarono e salutarono ancora, infine lasciarono lo stage. Kuu si
sentiva
le mani gelide.
Quando arrivarono nel backstage,
Griet corse subito da loro
per complimentarsi.
“Meravigliosi, ragazzi!
Sono senza parole! Sono così
orgogliosa di voi!”
Li strinse in un vigoroso abbraccio.
Kaaos sorrideva
compiaciuto, la chitarra ancora a tracolla. Kuu si infilò in
fretta la felpa
che aveva lasciato in un angolo prima della performance e prese il
caffè che
uno dei tecnici le aveva portato. Faceva un freddo incredibile, non se
n’era
accorta, finora.
“Te lo scordi!”
urlò in quell’istante una voce femminile.
Kuu si voltò incuriosita: dalla porta che conduceva ai
camerini erano appena
piombati in scena Tom e la sua ragazza. Le loro espressioni parlavano
chiaro:
scocciata quella di lui, incandescente quella di lei. Erano decisamente
sul
piede di guerra. Degli altri tre membri dei Tokio Hotel, invece, ancora
non
c’era traccia.
“Vi, dai! Sarà
divertente!” la esortò Tom, con un tono
accomodante che però la
lasciò completamente indifferente.
Vibeke, infatti, truccata in un modo
che Kuu trovava
piuttosto volgare, si ravviò capricciosamente i lunghi
capelli bianchi e neri.
“Nemmeno per sogno! Fattelo
da solo, questo cazzo di servizio fotografico!”
“Ma così non
avrebbe senso!”
“Non me ne frega niente,
non ci voglio finire su un
giornale!”
Il volume delle voci si alzava
progressivamente, ma nessuno
dello staff sembrava badarvi. Sembrava si trattasse di ordinaria
amministrazione per tutti.
“Ci sei già
finita un sacco di volte!” stava protestando
Tom, stringendo i pugni come se stesse lottando contro la voglia di
picchiarla.
Lei, però, sapeva come tenergli testa:
“Sì, ma non
certo per mia spontanea volontà!”
“Ver so god!” (“Per favore!”)
Kuu non capì quella
risposta.
“Nei!” (“No!”)
Doveva essere una lingua nordica.
L’aveva letto da qualche
parte che Vibeke era straniera.
“Jeg
kjenner som du elske meg und kan
gjøre det for meg!” (“Io lo so che mi ami e che
per me lo puoi fare!”)
“Questa te la sei fatta
fare da BJ!”
“Ok, confesso, ma
–”
“No! No, no, no e ancora no!
Te l’ho detto mille volte: tu in pasto ai media, io dietro le
quinte, cazzo!”
“Ma la gente ormai ti
conosce!”
“E allora perché
devo fare questo maledetto photoshoot con te?!”
“Perché sei mia
e siccome è un articolo su di noi, mi hanno
chiesto se potevi esserci anche tu!”
“Allora rispondi pure a
chicchessia che non ci sarò.”
L’espressione di Tom si
fece improvvisamente scura e
rassegnata, quasi dolente.
“Va bene,”
mugugnò tra i denti, voltandole bruscamente le
spalle. “Fa’ come ti pare. Come al
solito.”
Tom si accese nervosamente una
sigaretta e se la portò alle
labbra, allontanandosi. Vibeke lo ignorò del tutto.
Nel medesimo istante in cui Tom
scompariva burrascosamente
giù per le scale, Bill fece capolino nel backstage, fiero e
impettito nel suo
completo nero disegnatogli praticamente addosso. I loro sguardi si
incrociarono
per un interminabile attimo. Kuu reggeva ancora in mano il proprio
microfono.
Un tecnico le stava sistemando sulle spalle un asciugamano. stava per
distogliere lo sguardo, infastidita, quando, stupita, si accorse che
l’espressione distaccata di Bill si era appena ammorbidita in
un vago accenno
di sorriso.
Le fece un effetto strano.
L’adrenalina che le era rimasta
in corpo dopo l’esibizione sembrò dissolversi in
quell’istante, sostituita da
un improvviso senso di tiepido torpore.
“Su, togliamoci di qui,
stiamo intralciando.”
Kaaos le avvolse le spalle con un
braccio e la condusse via.
La crew dei tecnici si stava già affaccendando per preparare
il palco per i
Tokio Hotel. Kuu si voltò per cercare di nuovo gli occhi di
Bill, ma lui si era
messo in un angolo, rifugiato dietro un paio di occhiali da sole,
mentre Ebel
gli parlava di chissà cosa.
Cinque minuti più tardi,
Tom ritornò, ancora scuro in volto,
stavolta accompagnato da Gustav e Georg. Erano tutti pronti per lo
spettacolo.
Kuu vedeva l’eccitazione nei loro occhi, fomentata dalle urla
provenienti dal
pubblico. Vedeva l’ansia e la voglia di cominciare. Trovava
un pezzo di sé in
ognuno di loro: nell’alterità di Bill,
nell’indifferenza di Tom, nella rigidità
di Georg, nell’alienazione di Gustav.
Vedeva se stessa in loro.
Riconosceva
se
stessa in quattro sconosciuti.
E questo, almeno per lei, non era
normale.
***
“Quella stronza! Quella
stronza, stronzissima stronza!”
“Tom…”
“Io la mollo! Giuro che
questa è la volta buona che la
faccio finita!”
“Tom…”
“Ma l’avete
sentita?! ‘Te lo puoi ficcare dove dico io, il
tuo photoshoot!... Dio, è insopportabile!”
Gustav sospirò per la
millesima volta, quella sera. Era da
prima dell’inizio del concerto che Tom non faceva che
lamentarsi, per lo più
della propria ragazza. I due erano talmente ai ferri corti che, per il
ritorno
in hotel avevano voluto viaggiare in van diversi. A Gustav era
così toccato
prendere in mano la situazione e trascinarsi via Tom assieme a Georg,
prima che
anche Benjamin e Dunja dessero in escandescenza. Bill, invece, era
rimasto con
Vibeke. Se ci fosse rimasto Gustav, con lei, probabilmente Tom non
avrebbe
risposto delle proprie reazioni.
Il solito
gelosone…
“Tom,” Gustav si
rivolse all’amico con tutto il tatto
possibile. “Lo sai che Vibeke si sente a disagio, sotto ai
riflettori.”
Tom, le braccia conserte, guardava
fuori dal finestrino.
“Sì, lo
so.”
“Però ci viene
con te agli eventi, si lascia intervistare assieme a
te…”
soggiunse Georg, paziente.
“Lo so.”
“E sai anche quanto le
costi, vero?”
“Sì.”
“Allora perché
vuoi a tutti i costi sottoporla al supplizio di un
photoshoot?”
Tom tacque per un paio di minuti.
Gustav conosceva il
significato di quel silenzio compunto, ma preferì non
interferire. Era Georg
quello bravo a far ragionare Bill e Tom. Gustav aveva la modesta
consapevolezza
di non disporre di pazienza sufficiente per un onere simile. Poco dopo,
comunque, Tom mormorò:
“Non ti è mai
capitato di aver voglia di gridare al mondo quanto sei orgoglioso
di avere Nicole?”
La fronte di Georg era solcata da
un’increspatura perplessa, ma la sua
espressione rispose per lui.
“Credo che Vi non si
abituerà mai all’idea di essere diventata oggetto
di tanta
attenzione mediatica.” Proseguì Tom, abbacchiato.
“Fa tanto la disinvolta
provocante, ma so che le pesa. So che un giorno si
sveglierà, mi guarderà negli
occhi e mi dirà ‘Addio, Kaulitz. Non ne vale la
pena.’…”
Gustav scambiò con Georg
uno sguardo compassionevole
“Fortuna che la drama queen
era Bill, eh?”
“Tom,” fece
Georg, duro. “Sii obiettivo: tu e Vibeke siete fortunati.
Il vostro problema più grave è decidere se fare o
meno un servizio fotografico
insieme! Possibile che non siate mai soddisfatti di niente?!”
Impietrito, Tom lo guardava come un
bambino avrebbe guardato
la madre dopo essere stato sgridato per qualche malefatta.
“Hai ragione.”
Sussurrò, proprio mentre il van si fermava
davanti all’entrata posteriore dell’hotel.
“Scusami.”
“Non scusarti con me.” Ribatté Georg,
scendendo dall’auto. “Scusati con lei.”
Gustav lo seguì,
trattenendo un sospiro. Erano alla prima
data ed erano già a questi livelli di tensione. Di questo
passo si sarebbero presi
a pugni entro metà tour.
Ci volle un po’ prima che
ciascuno fosse scortato alla
propria stanza, ma finalmente, all’una passata, Gustav
riuscì a godersi una
sospirata doccia calda. Erano quasi le due quando, insonne, decise che
forse un
giro alla cieca per l’hotel gli sarebbe stata
d’aiuto. Uscì senza preoccuparsi
troppo di nulla: a quell’ora di sicuro non poteva esserci
molta gente sveglia e
di fans era appurato che non ce ne fossero. Scese la scale, assaporando
con
piacere quell’innaturale quiete, soprattutto dopo il caos del
concerto.
Trotterellò giù dagli ultimi gradini guardando
per terra e per poco non si
scontrò con qualcuno. E non un qualcuno qualsiasi.
“Scusa.”
mormorò la voce vellutata di Kuu, mentre lei
arretrava di un passo.
Per la prima volta Gustav si
ritrovò a sentirsi veramente mancare
il respiro ad averla davanti. Il viso pulito, privo di qualunque
traccia di
trucco, le ciglia bionde, lunghe e sottili, e quegli occhi nudi, di
quell’incredibile colore autunnale screziato di toni dorati:
bella da
disorientare.
“È stata colpa
mia.” Replicò con un sorriso.
Kuu sembrava sorpresa di vederlo, ma
non perse il suo
superbo contegno. Era piccola, ma guardava tutti dall’alto in
basso, con
diffidenza, come da dietro a una parete di cristallo che la separava
dal resto
del mondo.
“Non fa niente.”
Portava jeans bianchi e una maglietta
nera, abiti che su una
ragazza qualsiasi sarebbero apparsi normalissimi, ma che su di lei
assumevano
un’inspiegabile eleganza.
“Stai andando al
bar?” le domandò. Aveva appena notato che
l’atrio da cui era
arrivata era quello degli ascensori.
Lei assentì.
“Kaaos mi ha
all’incirca spiegato dov’è, ma non sono
sicura
di aver capito. Non è molto affidabile quando ha un drink in
mano.”
Gustav rise.
“Ci sto andando
anch’io. Ti faccio strada, se vuoi.”
Lei lo occhieggiò senza
mostrare grande interesse.
“Grazie.” disse
semplicemente, e attese che lui le facesse
strada.
Per Gustav fu strano: Kuu gli
camminava accanto, lo sguardo
fisso avanti a sé, e non fiatò fino a che non
giunsero all’ingresso del bar:
“Spero vivamente che
nessuno che ci conosca ci veda arrivare insieme.”
Gustav sorrise bonariamente a
quell’affermazione equivocabile. Non fece in
tempo a rispondere, che Kuu già stava aggiungendo:
“Non è il caso
che inizino a circolare voci sospette già dal primo
giorno.”
“Tranquilla, avevo
capito.” La rassicurò. “Non mi sarei
comunque offeso, anche in caso contrario.”
Si avvicinarono al bancone.
Nonostante la tarda ora, c’erano
almeno una decina di persone sedute qua e là, nessuna delle
quali riconoscibile
come fan. Un gruppo di uomini seduti a un tavolo in un angolo in fondo
alla
sala prese immediatamente a fissare spudoratamente Kuu e a bisbigliare.
Anche
se non capiva la loro lingua, per Gustav non fu difficile indovinare i
loro
discorsi. Kuu fece finta di niente. Probabilmente era abituata a essere
guardata in quel modo.
“Posso offrirti
qualcosa?” gli chiese, prendendo posto ad
uno degli sgabelli del bancone. I suoi occhi luccicavano alle luci
soffuse del
locale.
Gustav le sedette accanto. Quella
ragazza lo incuriosiva e
intimoriva al contempo.
“Sei un tipo
intraprendente…”
“Ti ho solo offerto da
bere.” Ribatté lei.
Gustav percepì una sorta
di ammonimento nel suo tono. Non
aveva gradito la confidenza con cui si era rivolto a lei.
“Era solo una battuta di
pessimo gusto.” Si scusò, e si augurò
di non averle
dato un’impressione sbagliata. “Comunque penso che
una birra non la rifiuterei,
grazie.”
“Bene.” Kuu si
voltò e si rivolse al barista: “Una birra e
un espresso.”
“Caffè a
quest’ora?” si stupì Gustav.
Lei incrociò le braccia
sottili al di sopra del bancone e sollevò le spalle.
“A qualunque ora.”
“Peggio di Bill!”
ridacchiò lui.
Il barista consegnò loro
le rispettive ordinazioni. Kuu si
avvicinò il caffè.
“Il mio primo paragone alla
grande diva…” rifletté,
sollevando la tazzina, senza aggiungere zucchero. “Sono
lusingata.”
Gustav si sentiva fuori posto,
lì con lei. In tutta la sala
aleggiava un vago profumo di magnolia e qua e là, su tavoli
e mensole, erano
posati vasi di vetro con rami di orchidee fiorite. Era un ambiente che
si
sposava bene con lei, con la sua grazia. Non con lui.
Bevvero in silenzio, senza guardarsi.
Ripensando al concerto
di quella sera stessa, a Gustav sovvennero un certo numero di
osservazioni da
fare, una meno opportuna dell’altra, ma le tenne per
sé. Per quella sera, per i
suoi standard, aveva già socializzato fin troppo.
“Non sono molto brillante
nell’arte della conversazione, mi spiace.”
“Non sei obbligato a
parlare con me.” Gli disse Kuu, lapidaria.
“Mi hai offerto da
bere,” replicò lui con gentilezza.
“Ricambiare la cortesia
mi sembra il minimo.”
“Preferisco essere ignorata
che considerata per ‘cortesia’.”
“Non ho detto che parlare
con te non mi faccia piacere.” Specificò
garbatamente Gustav. “Sono solo un po’ impacciato
nei primi approcci. Abbiamo
un tour intero da condividere, dovremo pur conoscerci prima o poi,
no?”
Kuu si voltò appena nella
sua direzione.
“Suppongo di
sì.”
I corti capelli biondi le sfioravano
il collo fine, circondato
da un filo d’argento che si perdeva al di sotto dello scollo
della maglietta.
Con una certa amarezza, Gustav pensò che nessuno avrebbe
puntato sul suo
talento, se non fosse stata così attraente. Se la ricordava
bene, com’era stata
una volta.
“Hai veramente una bella
voce.”
Si morse la lingua. La prima delle
osservazioni in serie che
gli erano sovvenute poco prima se n’era uscita dalle sue
labbra senza che lui
lo avesse voluto.
Kuu, tuttavia, non si
lasciò lusingare:
“Grazie.”
“Di cosa?” fece
lui, perplesso.
“Del complimento.”
Gustav scosse la testa.
“Era solo
un’osservazione.”
Lei stava per dire qualcosa, ma fu
interrotta dall’improvvisa
intromissione di una melodia. Veniva dalla tasca posteriore dei suoi
jeans.
So close your eyes
And think of someone that you phys-
Kuu recuperò rapida il
cellulare e lo aprì.
“Scusami.” disse
frettolosamente, saltando giù dallo
sgabello.
“Fai pure.” Le
rispose lui, e lei si allontanò a parlare.
“Pronto? Ciao,
mamma.”
Fu quasi un sollievo per Gustav. La
osservò passeggiare
avanti e indietro di fronte a una parete di vetro che ospitava una
piccola
cascata. Anche lontano dalle telecamere, camminava come su una
passerella. Era
seria, sebbene fosse al telefono con la madre, e il suo sguardo non si
abbassava
mai a terra: indugiava sull’arredamento, sui volti delle
persone che, per un
motivo o per un altro, le gettavano occasionali occhiatine curiose.
C’era
qualcosa di magnetico in lei che sembrava catalizzare
l’attenzione. Cinque
minuti scarsi più tardi, era già di ritorno.
“Bella la
suoneria.” Osservò Gustav, mentre lei si sedeva.
“Chi
è?”
“Morissey.”
“Ah, The Smiths! Avrei
dovuto riconoscerlo. Come si chiama
la canzone?”
Lei ebbe una breve esitazione.
“Let Me Kiss You.”
Gustav non la conosceva. Non la aveva
mai nemmeno sentita.
Quelle poche note, però, avevano stuzzicato la sua
curiosità.
“Me la cercherò.
Mi ispira.”
“È molto
bella.” Sussurrò Kuu, fissando il fondo del
proprio caffè. “Molto
triste.”
Le sue dita esili sfioravano
assentemente la ceramica
bianca. Aveva unghie curate, laccate di un bianco perlaceo, persino
più
impeccabili di quelle di Bill.
“Sei una da cose tristi,
vero?”
Le labbra morbide di Kuu si
dischiusero con un accenno di
stupore.
“Corrispondo al
canone?”
Fredda e rigida. Gustav si disse che
si sarebbe dovuto
abituare a quell’atteggiamento, perché aveva la
sensazione che non sarebbe
cambiato molto presto. A Bill non sarebbe andato giù, questo
era certo.
“È solo una mia
impressione.”
Kuu lo studio di sottecchi.
“Sei uno da cose tristi
anche tu?”
“A volte.”
“Non ti sbilanci mai, vero?
Sempre diplomatico, politically
correct.”
A Gustav venne da sorridere. Per
carattere o per forza di
cose, aveva sempre attentamente ponderato ogni suo gesto e parola,
anche prima di
diventare famoso.
“Lavorando in
quest’ambiente, impari ad esserlo. Anche al costo di passare
per
falso.”
“Già.
È sottile il confine tra diplomazia e ipocrisia.”
“Quelli nella nostra
posizione non hanno una gran scelta.” Ammise Gustav.
“Se
sei sincero, ti danno del presuntuoso; se ti trattieni, sei un
ipocrita.”
Kuu annuì gravemente.
“Non abbiamo
scelta.”
“La abbiamo: possiamo
essere presuntuosi o ipocriti,” sottolineò
semplicemente
lui. “Sempre meglio di niente.”
Apparentemente colpita, Kuu
azzardò una domanda delicata:
“E tu cosa sei?”
Gustav posò il bicchiere
vuoto. Lei aspettava paziente, ma
era difficile rispondere, perché avrebbe significato
ammettere qualcosa che,
apertamente, non aveva mai ammesso forse nemmeno con se stesso. Con
lei,
comunque, era in qualche modo certo che mentire sarebbe stato inutile.
“Ipocrita, in
genere,” confessò suo malgrado. “Anche
se odio ammetterlo.”
Evidentemente era la risposta giusta,
perché Kuu inclinò il
capo si lato e gli concesse l’onore di un vago sorriso.
“Un ipocrita che ammette la
propria ipocrisia…” rifletté
poi. “Paradossale, non credi?”
Sorrise anche lui. Era paradossale,
sì, un po’ come tutto
quel dialogo tra loro due.
“Sono dieci anni che vivo
di paradossi. Non mi stupisco più di niente.”
Gli occhi di Kuu si adombrarono
lievemente. Forse in un
certo senso capiva quello che lui intendeva, ma indubbiamente non
poteva ancora
conoscerne fino in fondo il vero significato. Forse era presto
perché i
Pristine Blue potessero rendersi conto di ciò che
comportasse davvero occupare
una posizione come la loro. La loro carriera era solo agli albori, e se
fosse
decollata come tutti prevedevano, avrebbero presto avuto un bel
po’ di
cambiamenti di prospettive.
L’orologio metallizzato
appeso alle spalle del barista,
intanto, già puntava verso le tre.
“Penso che sia meglio che
vada, ora.” Gustav si alzò. “Grazie
mille per la birra. Mi sdebiterò.”
Kuu fece un cenno incurante.
“Non serve.”
Gustav avvertì del
fastidio, ma non la poté biasimare: Kuu
aveva l’aria di essere una ragazza molto riservata
– ed era un bene, vista la
sua professione – e nessuno meglio di lui poteva capirla.
Tuttavia non avrebbe
saputo definire il suo carattere. Magari la avrebbe capita meglio nei
giorni a
seguire. Per adesso, l’unica cosa che aveva imparato su di
lei era che la teca
di vetro da cui era circondata era pressoché inviolabile.
“Buonanotte,
allora.” La salutò.
“Buonanotte.”
Ricambiò lei, senza nemmeno sforzarsi di stiracchiare un
po’ le
labbra.
Lasciando il bar, Gustav si chiese se
era così che lui apparisse,
visto dall’esterno: un pezzo di ghiaccio privo di interesse
per il mondo
circostante. Gli dispiaceva essere malgiudicato dalle persone, ma era
più forte
di lui.
Si infilò le mani in
tasca, entrò nell’ascensore e chinò il
capo.
Il tour era cominciato, lo
aspettavano altri otto mesi di
corse da una parte all’altra dell’Europa e del
mondo. Otto mesi di musica,
eventi e adrenalina, ma zero tempo per vivere l’altra
metà della sua vita.
Quanto tempo potevano ancora andare
avanti così?
Le porte dell’ascensore si
chiusero.
***
A Kuu non aveva fatto piacere
incontrare Gustav. data la
tarda ora, aveva dato per scontato che lui e i suoi compagni sarebbero
stati
tutti a letto, e invece si era dovuta ricredere. Non era stato tanto
l’incontro
in sé a infastidirla, quanto piuttosto il non esserselo
aspettata. Era scesa
solo per un caffè, malvestita e già struccata.
Dovevano essere solo cinque
minuti prima di andare a dormire. Invece Gustav le aveva scombussolato
i piani.
Sapeva di essere stata maleducata con lui, ma non le piaceva
l’idea che lui la
avesse vista così. Era stata una chiacchierata di cortesia
e, tutto sommato,
non era stata nemmeno poi tanto male, però era stata un
imprevisto, e lei gli
imprevisti li detestava.
Quando tornò di sopra,
trovò la porta della stanza di Kaaos,
di fronte alla propria, aperta. Se ne stava sulla poltrona con un
bicchiere in
mano, ancora vestito di tutto punto, e a quanto pareva la stava
aspettando.
“Dove sei stata?”
“Mi stai
controllando?” sbuffò lei, alterata.
“Sì.”
Rispose Kaaos con naturalezza, poi ripeté la domanda:
“Dove sei stata?”
“A bere qualcosa di sotto.
Mi sembrava di avertelo detto.”
“Da sola?”
Il solito interrogatorio. Kuu non si
mosse dalla soglia,
così come lui non si mosse dalla sua poltrona.
“Con Gustav.”
Ci fu una pausa di silenzio.
“Gustav?” rise
infine Kaaos. “Come ci sei finita con Gustav?”
Kuu incrociò le braccia,
compunta.
“L’ho incontrato
fuori dall’ascensore. Non fosse stato per
lui, non avrei trovato facilmente il bar. Qualcuno
era leggermente confuso quando mi ha dato indicazioni.”
Sempre ridendo, Kaaos levò
il bicchiere in sua direzione e
poi se lo portò alle labbra.
“Spero per te che non ci
fossero ficcanaso in giro a spiarvi.” Disse. “E che
non abbiate fatto nulla di compromettente.”
“Chiacchierare è
compromettente?”
“Per me no. Per molti altri
sì.” Affermò lui, poi si
accigliò improvvisamente,
fissandola. “Non sei truccata.” Osservò.
“Wow,” fece Kuu,
sarcastica. “Sei ancora abbastanza sobrio
da notare certi particolari.”
“E tu vorresti farmi
credere che hai permesso che uno dei
Tokio Hotel ti vedesse in vesti di comune mortale?”
“Sono già stata
fin troppo sgarbata, con lui.” Rispose lei,
impaziente. “Non potevo certo voltargli le spalle e fare
finta di niente.”
Kaaos rise ancora, molto divertito.
“Forse ti ho sottovalutata,
allora.”
Dai livelli di eccesso di
ilarità, Kuu capì che era il
momento di andarsene, prima che il tutto sfociasse
nell’ennesima discussione.
“Buonanotte.”
Disse, e chiuse la porta mentre lui stava
ancora augurandole a sua volta ‘Buonanotte’.
Voleva bene a Kaaos: lo aveva avuto accanto fin dalla nascita ed erano cresciuti insieme, e
spesso aveva la sensazione che, in un modo o nell’altro,
avrebbero passato
insieme anche il resto dei loro giorni, ma c’erano volte in
cui avrebbe voluto
chiuderlo fuori dalla propria vita almeno per un po’. Era
così protettivo verso
di lei da farla sentire in gabbia. Per di più Kaaos aveva
anche una ragazza, Eva,
che provava una gelosia morbosa verso di lei e causava non pochi
problemi. A Kuu
quella ragazza non era mai andata giù.
E adesso c’era anche il
tour a cui pensare. Era iniziato ed
era iniziato bene, ma doveva anche continuare bene, fino alla fine,
perché da
quello sarebbe dipeso il resto della sua carriera. Essere una diva in
Germania
non era sufficiente: era fondamentale conquistarsi l’Europa,
almeno. Al mondo,
forse, avrebbe pensato in futuro.
Sì,
forse…
Entrò nella propria suite
e chiuse, appoggiandosi alla porta
con un sospiro stanco.
Chiuse gli occhi.
***
PRISTINEBLUE.DE presents: Kuu & Kaaos’ Tour-log – DAY 2
BREAKFAST TIME BEFORE THE ROCKIN'
Göde
morgen,
leute, this is Kaaos!
As
you
surely know, we had the opening of the tour yesterday in Luxembourg
and
all went superwell! Kuu and I are very proud: there were so many of
your there
for us… we didn’t expect it! Thank you all, guys!
We’re
in Rotterdam
now, getting
ready for today’s gig at Ahoy’s. I’m
writing from my laptop as I’m having
breakfast with Kuu, Tokio Hotel and our crews. Tom and I ordered some
very
promising slices of cake with chocolate tulips on them! Too bad that
the
Kaulitz twins here are vegetarians… there’s so
much good meat here that I can’t
even choose. Kuu is glaring at me in this very moment, ‘cause
she keeps saying
that I do not eat healthily, but you guys want me in shape for tonight,
alright? I need some good energy for a damn good performance, tell her!
; )
Stay
tuned
today for updates, we’re uploading some cool vids of the
soundcheck we’re
heading to in the afternoon!
Talk
to y’all
soon!
Kaaos
P.S.
I
shouldn’t be telling you this, since it’s a quite a
huge spoiler, but Kuu has
plans for Brussels:
shopping! I can’t tell you anything else now, but I promise
everything will be
filmed and published, so that you can see where our earnings end up. ; )
Posted
by: Kaaos;
on Tue, 23rd Feb 2010 @ 09:23
------------------------------------------------------------------------------------------------------
Note:
lo
so, anche stavolta avete temuto che non aggiornassi
più… vi chiedo scusa. E vi
chiedo scusa anche se questo capitolo è stato un
po’ noioso, come è parso a me.
Vi prometto che dal prossimo inizierete a trovare un po’
più di vita e eventi
significativi. ;)
Per adesso ringrazio Lady Vibeke per
avermi aiutata con la
parte iniziale, che sarebbe più o meno uno stralcio di
diario di Kuu, i suoi
pensieri intimi, le sue riflessioni. Ci saranno altre parti
così, in futuro.
Nelle recensioni allo scorso capitolo
molte di voi hanno
ribadito che trovano Kuu antipatica e penso (spero!) che
sarà così ancora per
un po’, o mi toccherà rivedere un po’ le
mie capacità. ;)
Qualcuno mi chiedeva se Kuu e Kaaos
fossero i loro veri nomi:
no, sono solo nomi d’arte, che verranno poi spiegati meglio
più in là, e
anticipo anche la vostra prossima domanda: sì, i loro veri
nomi saranno poi
svelati, a suo tempo.
Per chi invece chiedeva se esistesse
davvero un blog dei
Pristine Blue… la risposta è decisamente no,
visto che sono personaggi di mia
invenzione. ^^
Qualcun altro chiedeva cosa sia la
storia delle pillole di
Kuu, ma su questo non posso sbottonarmi, o non avrebbe senso
raccontare, poi. Abbiate
solo un po’ di pazienza, prometto che anche questo
sarà spiegato!
Ribadisco i soliti, adoranti
ringraziamenti a tutti voi che
mi seguite e che commentate con tanta passione le mie
storie… senza di voi non
sarebbe bello nemmeno la metà scrivere dei nostri adorati
fantastici quattro. :
)
Vi lascio, ora, come sempre
aspettando pazientemente le
vostre impressioni!
Alla prossima! (spero più
in fretta di stavolta ^^)
|
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Capitolo 6 *** Pieces ***
I'll survive in this nothing,
leading nowhere
I survive Feeling strong for how much
longer?
(Survive, Lacuna Coil)
***
‘Exclusive
property of Tom Kaulitz’. Era la scritta
riportata sulla t-shirt che
indossava Vibeke quella mattina. Tom ne andava particolarmente
orgoglioso,
perché era un regalo che le aveva fatto lui. Ce
n’erano una discreta serie:
dalle magliette (‘Yes, I’m a Bitch. Tom
Kaulitz’s bitch.’) ai pezzi di intimo
(‘Tom’s territory: keep out.’), e perfino
un collarino in simil pelle nera con
tanto di medaglietta con nome, cognome, indirizzo e numero di telefono.
Vibeke
andava matta per quel tipo di cose: le piaceva pavoneggiarsi assieme a
lui,
crogiolarsi nella sua possessività quasi prepotente, ma
questa sua vanità
esibizionista aveva un limite: era totalmente allergica agli obiettivi
di
macchine fotografiche e telecamere. Finché c’era
da mettersi in mostra in
pubblico non aveva problemi, ma quando iniziavano a scattarle
fotografie
diventava nervosa e rigida.
Anche ora, mentre posava assieme a
lei nello studio
fotografico, Tom la sentiva irrequieta sotto alle proprie mani. Aveva
acconsentito a fare quel servizio fotografico per Vanity Fair, alla
fine, ma
Tom sapeva che glielo avrebbe fatto pesare per settimane.
Pensò alla naturalezza con
cui Kuu e Kaaos si erano lasciati
immortalare insieme soltanto il giorno prima, durante un photoshoot nel
backstage della data di Helsinki. Osservando Kuu posare per quegli
scatti,
senza ipocrisie, Tom si era ritrovato a pensare che, se non avesse
avuto
Vibeke, un serio pensierino per una come lei lo avrebbe fatto.
La conosceva solo da poche settimane
e nemmeno tanto bene,
visto che la ragazza non aveva una grande inclinazione alla
socializzazione, ma
qualcosa di lei lo affascinava profondamente. Non lo aveva detto a
Vibeke per
non provocarla inutilmente, ma lei lo aveva intuito da sola. Non solo
lo aveva
intuito, ma aveva anche capito.
Aveva
capito esattamente quello che Tom aveva temuto che lei non avrebbe mai
potuto
capire: il suo sentirsi attratto da Kuu era una cosa involontaria e
istintiva,
e non aveva nulla a che vedere con il sentimento. Quello stesso
sentimento che
invece provava per lei.
“Vibeke, potresti voltarti
un po’ verso sinistra?”
Il fotografo si avvicinò a
Vibeke, che se ne stava seduta
con Tom su un divano nero dal design fin troppo moderno e le
mostrò la
posizione che voleva che lei assumesse: le fece accavallare le gambe,
coperte
solo da dei collant a rete molto larga, e le fece appoggiare la mano
destra sul
petto di Tom.
“Voglio che si veda bene il
tuo tatuaggio.” Le disse, poi
con una mano le sistemò i capelli dietro
all’orecchio. “Mettiamo bene in mostra
anche questi piercing.”
Tom avvertì distintamente
il fastidio di Vibeke, e apprezzò
il suo silenzio. Poteva quasi sentirla ripetere a se stessa
‘Resisti, tra poco
sarà tutto finito’. Personalmente, lui aveva
apprezzato l’esperienza: era la
prima volta che loro due facevano una cosa del genere insieme e le
varie pose
che avevano assunto per le fotografie gli erano piaciute: sensuali e
territoriali, quasi aggressive, e certi sguardi che lei aveva
sembravano
proprio dire ‘Lui è mio’.
“Bene,” disse il
fotografo, una volta finito di scattare.
“Direi che abbiamo finito. Grazie, ragazzi, siete stati
perfetti.”
Tom attese di essere solo nel
camerino con Vibeke per dire
qualcosa, ma appena aprì bocca, lei lo precedette:
“Nei, Kaulitz,
tystne!” (“No,
Kaulitz, zitto!”)
Tom soppresse un mugolio frustrato.
“Vi…”
Cercò di prenderla per un
polso, ma lei si divincolò e
iniziò a spogliarsi frettolosamente.
“Vi, dai! Non fare la
capricciosa.”
“Non faccio la
capricciosa!” ribatté lei, gettandogli la
maglietta in faccia. “Faccio quella che vuole tornarsene in
hotel dopo una
mattinata buttata nel cesso per quattro fotografie del cazzo che
milioni di
stupide ragazzine gelose si divertiranno a scarabocchiare e fare a
pezzetti!”
“Tu adori le ragazzine
gelose di te.” Puntualizzò Tom.
Vibeke si infilò una felpa
nera con uno sbuffo annoiato.
“Ciò non vuol
dire che io non detesti queste stronzate da
prostituzione mediatica.”
“Siete una rottura, tu e i
tuoi idealismi.” Ridacchiò
Tom, riuscendo finalmente ad
afferrarla e catturarla tra le proprie braccia. Le rubò un
bacio veloce. “Non
insisterò mai più per una cosa così,
ok?”
“Scusa, da
quand’è che ti illudi che io mi beva tutto quello
che riesci a sparare?”
Tom sogghignò, avanzando
di un paio di passi, facendo finire
Vibeke con la schiena contro il muro.
“Mi stai servendo una
battutaccia di quelle proprio volgari
su un vassoio d’argento, lo sai, vero?”
Un lampo di divertita malizia
brillò negli occhi di Vibeke,
ma lei finse uno spintone sdegnato.
“Din teiting!” (“Idiota!”)
Tom le affondò il viso tra
i capelli, ridendo.
“Dimmi da uno a infinito al
quadrato quanto non ti
sopporto.” Disse Vibeke con una fermezza palesemente forzata.
“Probabilmente infinito al
cubo.”
“Probabilmente
sì.”
“E da uno a infinito al
quadrato quanto sei stracotta di
me?”
Vibeke finse di soppesare le opzioni.
I due colori diversi
dei suoi occhi erano particolarmente evidenti, quella mattina di sole.
“Non so, direi
più o meno tre. Tre e mezzo, se stai zitto. E
potremmo arrivare a quattro, quando sei particolarmente in
forma.”
Tom annuì saggiamente.
“Quindi in pratica sei
così sconvolgentemente cotta di me
che impazziresti a starmi lontana per più di due
ore.”
Vibeke gli rivolse
un’occhiata acida:
“Tu non hai ancora capito
che io sono impazzita nel momento
stesso in cui la sfiga ha disgraziatamente deciso che di tutti i
miliardi di
coglioni di cui ci si potesse innamorare, il mio dovessi essere proprio
tu.”
Tom si concesse di esultare in gran
segreto: Vibeke aveva
modi tutti suoi di dimostrargli il proprio affetto e ci aveva messo un
po’ a
imparare a farlo, ma in fondo lui stesso non era diverso. A nessuno di
loro due
erano mai piaciute le smancerie.
“Quindi sono tuo,
mh?”
Un sorrisino provocante
affiorò sulle labbra rosse di
Vibeke, mentre lei si avvicinava per baciarlo.
“Ci puoi giurare.”
“Anche se mi sento attratto
da Kuu?”
Vibeke gli circondò il
collo con le braccia e alzò le
spalle:
“Capirai…
Anch’io mi sento attratta da Kuu.”
Ok,
pensò Tom,
pungolato da una fastidiosa fitta di gelosia, me
la sono cercata.
“È proprio
seccante avere una ragazza bisex.” Commentò.
“Non
ti puoi mai distrarre mezzo secondo.”
Vibeke rise, e Tom con lei. I ragazzi
avevano ragione: era semplice.
Era tutto così semplicemente semplice, per loro due.
Pensò a Georg, a come era
felice che finalmente Nicole ed
Emily li avrebbero raggiunti per la data di Amburgo. Mancavano solo due
giorni
a quando le avrebbe finalmente riviste e non era il solo a
rallegrarsene: le
due Sandberg mancavano a tutti. Tom si divertiva un mondo a vedere
Vibeke che
giocava con Emily: era come se per un po’ tornasse ragazzina,
e il modo in cui
sorrideva era diverso, più spensierato e sereno, e
c’era qualcosa di speciale nelle
tenerezza con cui si comportava con Emily. Nemmeno con Bill riusciva a
essere
così.
“Dai,
muoviamoci.” Lo esortò Vibeke, scrollandoselo di
dosso. “Dobbiamo rientrare prima che la principessa chiami la
polizia.”
Tom rimase con le braccia a
mezz’aria mentre si sfilava la
felpa.
“Non siamo poi
così in ritardo.”
“No, ma vedrai quando si
accorgerà che gli ho preso il
mascara.”
***
Mani sottili. Un portafogli di Gucci.
Trecento euro in pezzi
da cinquanta. Un cappotto di cachemire color avorio così
bello e fine che
giustificava qualsiasi prezzo.
“Per oggi hai finito con
gli acquisti, allora?”
“Penso di sì, ma
l’ho detto anche appena uscita da Dior.”
Una risata limpida ma fredda,
esattamente come gli occhi che
guardavano dritti nella telecamera. Bill aveva scoperto da poco meno di
un’ora
il videolog dei Pristine Blue e già si era divorato i tre
filmati che
raccoglieva finora. Quello che era appena finto era finora quello che
lo aveva
interessato di più. Nei primi due Kuu e Kaaos aveva
raccontato un po’ di come
andavano le cose per i preparativi della prima data e qualche loro
impressione
dopo i primi concerti. In quest’ultimo, invece, Kuu compariva
da sola, armata
di contanti e carte di credito, alla scoperta delle vie modaiole di
Bruxelles,
soltanto la mattina prima. Bill a stento aveva badato alle griffe dei
negozi in
cui era entrata e quasi altrettanto aveva fatto con i vestiti che aveva
comprato. Tutta la sua attenzione era stata per lei: dopo una settimana
di tour
insieme, praticamente non la conosceva tanto più di quando
la vedeva solo in
televisione.
Guardando quel filmato,
però, aveva iniziato a capire
qualcosa in più. Le piacevano i vestiti ricercati e
femminili, ma non quelli
troppo vistosi e volgari: il cameraman le aveva suggerito di provarsi
un paio di
abitini striminziti e lei aveva risposto con delle smorfie molto
eloquenti.
Prediligeva i tagli semplici e i toni neutri, dal bianco al nero, e
tutte le
sfumature di grigio; i tocchi di colore li metteva negli accessori,
nelle gemme
dei gioielli, nelle cinture, nelle scarpe, e in tutte le piccole cose
che però
attiravano inevitabilmente l’attenzione. Non le piaceva
l’oro giallo: tutti i
capi che avevano dettagli in oro li aveva scartati e aveva invece
preferito
quelli con bottoni o fibbie in metallo nero o argentato. E poi
c’era una cosa
che lo aveva colpito più di tutto il resto: quando si
guardava allo specchio,
Kuu non si guardava mai in faccia. Si scrutava di sotto in su, ma
sempre
fermandosi al decolleté.
Chissà
perché, si
chiese Bill, curioso. Per lui era fondamentale vedersi il viso, quando
si
specchiava.
Gettò
un’occhiata fuori dalla finestra: una pioggerellina
insistente bagnava Oberhausen senza accennare a smettere. Erano
arrivati quella
notte e non si era ancora fermata un momento. Fuori
dall’arena c’erano già più
di un migliaio di fans accampate da chissà quanto tempo, e i
preparativi per il
concerto non erano nemmeno cominciati. Appena Tom fosse rientrato,
avrebbero
potuto fare il soundcheck. Al momento sentiva i Pristine Blue accordare
sul palco
i propri strumenti.
Era tentato di andare a dare una
sbirciata, ma Kaaos lo
metteva a disagio: era sempre pronto a guardare storto chiunque
mostrasse il
più vago sintomo di interesse verso Kuu. Non era ancora
chiaro a nessuno se
questo atteggiamento fosse dovuto semplicemente al suo carattere o se
ci
fossero gelosie ben diverse alla radice. Più studiava quei
due, meno trovava
credibile che non fossero romanticamente legati, in qualche modo. Ma
poi
pensava Gustav e Vibeke, e il dubbio lo assaliva di nuovo.
C’erano troppe
diverse sfumature di amore per poter essere certi di qualcosa.
Bill spense il portatile, sfregandosi
stancamente gli occhi.
Non aveva nessuna voglia di sorbire la seduta di trucco che lo
aspettava con
Natalie, ma durante le prove Christopher avrebbe fatto qualche ripresa
e un
minimo di presentabilità se la doveva dare. Si era sistemato
nella saletta dove
era stato allestito il catering e aveva finalmente trovato un
po’ di sana pace,
ma il suo senso di spossatezza non era sparito, nemmeno dopo un Redbull
e
diverse manciate di orsetti gommosi. Probabilmente era una questione
che non si
limitava al piano fisico.
Si alzò e si
andò a versare un po’ di coca. Aveva voglia di
marshmallows, ma ingozzarsi da solo non era la stessa cosa che farlo
assieme ai
ragazzi davanti a qualche episodio di Scrubs. Si portò il
bicchiere alle labbra
e nello stesso istante la porta si aprì. Non era
Christopher, come aveva
creduto.
Lo sguardo di Kuu, velato da un paio
di occhiali da sole, si
posò di lui con stupore, ma lei entrò e chiuse la
porta senza esitare.
Attraversò la stanza e si servì di
caffè senza degnarlo di uno sguardo. L’ego
di Bill fremette di irritazione. Non fu capace di trattenersi:
“Avete finito
presto.”
“Sì.
È stato meno impegnativo del previsto.”
“C’è
un’ottima acustica, qui.”
“L’ho
notato.”
Bill odiava quelle risposte
telegrafiche. Avrebbe preferito
sentirsi dire qualcosa tipo ‘Non rompere’,
piuttosto che essere assecondato.
Kuu, nel frattempo, si era seduta su una poltroncina e stava
sorseggiando tranquillamente
il suo caffè. Molto maleducatamente, non si era nemmeno
tolta gli occhiali da
sole.
“Ti danno fastidio le
luci?” le chiese.
“Come?”
Bill accennò con il capo
agli occhiali firmati, e allora Kuu
capì.
“Oh.” Sollevò una
mano e sfiorò la montatura nera. “Sì, i
miei occhi sono piuttosto delicati.”
Tutto di lei, a dire il vero,
sembrava piuttosto delicato,
tanto che Bill si era spesso chiesto se non fosse per quella sua
apparente
fragilità che Kaaos fosse così possessivo con
lei. Non si erano mai fatti
vedere a un pranzo, né a una cena, né a una
colazione: mangiavano da soli,
passavano il tempo libero da soli e da soli se ne stavano perfino
durante le
soste in autogrill. Forse era solo perché le due band non si
conoscevano
ancora, ma di questo passo non si sarebbero affatto conosciuti.
Kuu sorseggiava silenziosa il proprio
caffè, le gambe
accavallate. Portava dei pantaloni neri. Per qualche motivo, Bill era
stato
convinto che fosse una da gonne vertiginosamente corte e top succinti,
almeno
per i concerti, e invece anche sotto quell’aspetto era
rimasto stupito, perché
Kuu si esibiva sempre con lunghi abiti fiabeschi, a metà tra
una fata e una
vampira, che Tom usava pragmaticamente definire ‘inutili
metri di stoffa
superflua’.
“Potresti smettere di
fissarmi, per cortesia?”
Bill si riscosse. Non si era nemmeno
reso conto di essersi
messo a fissarla.
“Scusa,”
farfugliò, imbarazzato. “Stavo
–”
Si rese conto che, qualunque cosa
avesse potuto dire,
sarebbe sembrato una patetica scusa.
“C’è
un inferno, là fuori.” Lo interruppe lei.
“Ogni volta
che Kaaos sfiorava la chitarra, si scatenava un putiferio.”
Suonava quasi come
un’accusa.
“Abbiamo un pubblico
caloroso.” Ribatté Bill, sulla
difensiva.
“Avete un pubblico
isterico.”
Bill non digerì quella
provocazione gratuita.
“Se ti stiamo
così sulle palle, perché sei qui?”
Doveva essere una frecciata, ma Kuu
non se ne fece turbare:
“Non siete voi.” Gli spiegò.
“Sono le vostre fans. Quelle che voi chiamate ‘le
fans migliori del mondo’.”
“E cosa ne vuoi sapere tu
delle nostre fans?”
Kuu sollevò il mento,
compunta.
“Ne so più di
te.” dichiarò, sicura. “Ero una di loro,
una volta.”
Bill ne restò stranito:
aveva già sentito da qualche parte
che Kuu fosse stata un’ammiratrice dei Tokio Hotel, in
passato, ma era talmente
abituato a non badare alle voci che aveva dato per scontato che fosse
una
sciocchezza.
“Forse avrete anche le fans
migliori del mondo, ma avete
anche le peggiori.”
“Le stalker non sono
incluse tra quelle che noi definiamo
fans” ci tenne a sottolineare Bill, in difesa di tutte coloro
che avevano
permesso a lui e agli altri di arrivare dov’erano adesso.
“Non sto parlando delle
stalker.” Rispose Kuu. “Parlo di
tutte quelle squallide oche che vi seguono solo perché siete
quattro pezzi di
carne appetitosi. La maggior parte di quelle che dicono di amare i
Tokio Hotel
a stento si ricordano che esiste qualcuno al di fuori di te –
o di te e tuo
fratello, nel migliore dei casi.” Il suo disgusto era tanto e
tale che era
impossibile dubitare che fosse sincero. “Non ti fa schifo?
Non ti dà la nausea
sapere che tutto ciò che conta ai loro occhi sia il tuo bel
faccino? Ai
concerti urlano e basta, nemmeno ascoltano la vostra musica. Se tu
smettessi di
cantare e ti mettessi semplicemente in mostra su un palco, per loro
sarebbe la stessa
identica cosa. Non ti umilia questa consapevolezza?”
La cosa peggiore, di tutto quel
discorso, era che era la
verità, e non solo: Bill stesso, benché
malvolentieri, aveva pensato le stesse
identiche cose. E questo gli faceva male.
“Grazie per questa gentile
mazzata alla mia autostima.”
Kuu doveva esserci accorta di essere
stata eccessivamente
dura, perché la sua espressione si ammorbidì
notevolmente:
“Non sono tutte
così.” Lo rassicurò. “Sono
poche quelle che
vi amano davvero, ma su questo ti devo dare ragione: sono le
migliori.”
E adesso c’era una domanda
che a Bill premeva di farle. Per
lui era importante, e voleva capirla. Voleva capire Kuu più
di ogni altra cosa,
perché non aveva mai occasione di conoscere una ragazza
così da vicino.
“Perché non ti
piacciamo più?”
Un guizzo di stupore animò
per un istante i begli occhi di
Kuu. Bill avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla senza trucco: era
sicuro,
ormai, che in lei ci fosse molto di nascosto da svelare. Il problema,
fondamentalmente, era che lei non voleva lasciarsi scoprire. Delle
molto volte
in cui aveva cercato di conversare con lei, mai Kuu gli aveva concesso
di
intravedere qualcosa al di sotto della sua superficie.
E ora lo guardava, seria e posata
come sempre, con un po’ di
compassione negli occhi.
“Non avete mai smesso di
piacermi, Bill. Ho smesso di
seguirvi perché non riuscivo ad accettare che tutte quelle
stupide non
riuscissero a vedere altro che la tua superficie.” Una
piccola smorfia di
disgusto distorse le sue labbra. “Non sanno far altro che
dire ‘Bill è troppo
figo!’, ‘Bill è perfetto!’,
‘Bill è bellissimo!’… E
invece ci sarebbe così
tanto in te che meriterebbe considerazione. E lo stesso vale per tuo
fratello,
e per Georg, e per Gustav…” Era uno sfogo che
sapeva di indignazione e dispiacere,
e Bill capì che Kuu era stata – o forse era ancora
– una di quelle che a loro
ci teneva davvero. “Ma forse è così che
deve essere.” Proseguì Kuu, atona, e lo
guardò dritto negli occhi. “Forse se la gente
attorno a noi non fosse così
sciocca e superficiale, saremmo ancora meno liberi di
così.”
Bill, stupefatto, non poté
che trovarsi d’accordo con ogni
singola cosa. E c’era di più: dal non aver mai
avuto alcun tipo di contatto
emotivo con lei, era passato a una dimostrazione di affetto e rispetto
che, seppur
indiretta, aveva toccato qualcosa dentro di lui.
“Non ero preparato per un
discorso di questo peso…” Accennò
un sorriso esitante. “Sono abbastanza sconvolto.”
Inaspettatamente, molto
più rilassata, sorrise anche lei.
“Mi sono lasciata
trasportare.”
Sembrava una bambina. Bill non
riusciva a capacitarsi di
come una ragazza potesse apparire così dolce e sensibile e
contemporaneamente
snobista e presuntuosa. Non era però sicuro che questo suo
aspetto ambiguo gli
dispiacesse.
“Dovevi amarci davvero
molto se ti stava così a cuore il
modo in cui ci vede la gente.” Rifletté, celando
una punta di orgoglio.
“Mi sta ancora a
cuore.” Puntualizzò lei, in tono offeso.
“Siete delle belle persone, meritate di più di
certe stupide ragazzine.”
Da un lato Bill era spiazzato da
quell’improvvisa parentesi
di confidenza, ma dall’altro ne era lusingato. Finora Kuu non
si era mai
dimostrata particolarmente amichevole con nessuno di loro.
“A sentirti parlare, ho
quasi la sensazione che tu ci
conosca.” Le confidò. “Da dentro,
intendo. Come se tu fossi sempre stata con
noi, fin dall’inizio di tutto quello che siamo.”
“Mi ricordo di
voi.” Disse semplicemente lei. “Mi ricordo
quanto eravate piccoli e inesperti e – senza offesa
– buffi. Ma avevate un
sogno più grande di voi da rincorrere e quando avete
pubblicato Durch Den
Monsun sono stata sinceramente felice per voi. Invidiosa da morire, ma
felice.”
“Be’, pare che il
destino tuo e di Kaaos non sia tanto
diverso dal nostro.”
Lei non rispose. Giocherellava con la
mano sulla catenina d’argento
che portava sempre, ed era come persa nel vuoto.
“Tu sei felice?”
gli chiese a un tratto.
“Come?”
“Sei felice di quel che ne
è stato di te, da quella prima volta che ci siamo
visti?”
Era fin troppo impegnativa, come
domanda. Dalla prima volta
che si erano visti erano passati dieci anni, e in quei dieci anni erano
successo più cose di quante a una persona normale ne
sarebbero potute succedere
in una vita intera. C’erano un’infinità
di fattori da valutare e soppesare,
tutti insieme.
Sono felice?
Aveva raggiunto quello a cui aveva
sempre puntato,
dopotutto. Sarebbe stato così ipocrita ignorare
l’altra faccia della medaglia?
“Sì.”
Assentì. “Sono felice di aver realizzato quel
sogno.”
“Intendo felice in senso
globale, considerando ogni pro e
ogni contro.”
Stavolta fu lui a non rispondere.
“Perché questa
domanda?”
L’occhiata intensa che Kuu
gli rivolse lo trafisse da parte
a parte, a tradimento, e quello che gli disse non fu da meno:
“Perché
l’espressione dei tuoi occhi non è quella di una
persona felice.”
Bill cominciava a sentirsi a disagio.
Essere un pubblico
incompreso era diventata un’abitudine così
consolidata che mai avrebbe creduto
che una quasi perfetta sconosciuta sarebbe arrivata a dirgli certe
cose, per di
più in faccia. A questo punto, tutto poteva dirsi di Kuu,
tranne che fosse
superficiale.
“Diventare una cantante
famosa era il tuo sogno?” le chiese,
sforzandosi di restare impassibile.
Le rispose senza esitazioni:
“Sì.”
“E sei felice di averlo
realizzato?”
“Sì.”
“E sei felice, considerando
ogni pro e ogni contro?”
Stavolta Kuu esitò, e il
modo in cui lo guardò fece capire a
Bill molto più di quel che non fece l’effettivo
responso.
“No.”
“Non penso che ci sia
più bisogno che io risponda.”
Le labbra di Kuu si contrassero
impercettibilmente.
“Suppongo di no.”
“La verità
è che probabilmente potrei essere felice,”
aggiunse Bill. “Se
sapessi accontentarmi. Ma non ne sono capace.”
Sollevò le spalle. “Una volta
volevo essere una star. Adesso che sono una star, vorrei un
po’ di vita
normale. Vorrei avere la fortuna di Tom e Georg, incontrare qualcuno
che dia un
senso più profondo a tutto quanto…”
“Spesso sprechiamo energie
preziose cercando cose che
abbiamo già sotto il naso.” Gli fece notare lei.
“O cercando in posti
sbagliati. Di solito è quando smetti di crederci che
succede.”
A Bill sfuggì una risatina
cinica.
“È quello che mi
hanno sempre detto tutti. Figurati, Tom non
ci ha mai nemmeno creduto, nell’amore, e ora guardalo: se
qualcuno fa anche
solo finta di toccargli Vibeke, perde la testa. Credevo che tra noi due
sarei
stato io ad avere la prima storia importante. E
invece…”
“Ti saresti potuto
accontentare della prima capitata, di una
fan qualsiasi che dicesse di amarti, ma se stai ancora aspettando,
è perché sai
di meritare qualcosa di più.”
E proprio mentre ascoltava quelle
parole, Bill si rese conto
che erano esattamente ciò che aveva bisogno di sentirsi
dire. Si chiese quanto
ci fosse in lei che al mondo non era concesso di vedere.
“E pensare che
c’è chi crede che tu sia solo una bella
bambolina.”
Kuu chinò la testa.
Sottili ciuffi biondi le ricaddero sulla
fronte.
“Già.”
Decisamente non era felice nemmeno
lei.
“Non sono
depresso,” disse Bill un attimo dopo, più a se
stesso che a lei. “Ma nemmeno felice. Vorrei solo incontrare
una persona che
non abbia preconcetti su di me, che possa conoscermi solo come Bill e
non Bill
Kaulitz dei Tokio Hotel.”
“E che ti ami
incondizionatamente per quello che sei, che
non ti giudichi, che accetti la tua vita e i tuoi
difetti…” lo interruppe lei,
continuando al suo posto.
Bill annuì.
“Sì.”
Kuu si lasciò andare in
una risatina di scherno.
“Sei più ingenuo
di quanto pensassi.”
“Perché?”
chiese lui, offeso.
“Non hai speranze di
trovare una persona così.” Sentenziò
lei, impietosa. “Tutto il mondo sa chi sei, chiunque si
è già fatto un’idea
tutta sua di te. Tutt’al più puoi sperare di
incontrare qualcuno che capisca,
che sappia cosa significhi essere nelle tue condizioni.”
“Qualcuno come
te?”
***
Kuu fu completamente presa alla sprovvista. Anche se quasi non diede
segno di
stupore, il momentaneo sgranarsi dei suoi occhi tradì la sua
reazione
istintiva. Davanti a lei, Bill – struccato, in tuta
– le puntava addosso due
occhi che sapevano di sfida. Era così bello che non
c’era modo di non sentirsi
conquistati da lui, ma Kuu non aveva la minima intenzione di mostrare
un
qualunque tipo di debolezza, di fronte a lui men che meno.
“Io non credo nel vero
amore.”
“E in cosa
credi?” domandò allora Bill.
“In niente.” fu
l’asciutta risposta. “La gente si lega a chi
la fa stare bene, e ci sono infinite persone al mondo che possono farti
stare
bene in infiniti modi diversi, e chiunque tu possa trovare, non avrai
mai la
certezza che sia proprio quella persona che ti completerà
meglio di tutte le
altre. Siamo sei miliardi, al mondo. La maggior parte di noi non
incontrerà mai
la sua vera metà mancante; si accontenterà del
meglio che troverà.”
Bill inarcò un
sopracciglio.
“Piuttosto cinica come
filosofia.”
“Platone docet.”
“Platone?”
“Il mito degli
androgini.” Specificò lei. “Le due
metà della stessa mela
disperse per il mondo, destinate e cercarsi in ogni altra
metà che non
combacerà mai perfettamente. Quasi nessuno trova quella
giusta. Potresti
aspettare per tutta la vita qualcosa che non arriverà
mai.” Lo accarezzò con
un’occhiata severa. “Dovresti rassegnarti e
imparare ad accontentarti di quello
che passa il convento, Bill.”
“Io credo nel
destino.” Affermò lui, deciso, ma gli era
affiorato un lievissimo rossore sulle guance. “Credo che ci
sia un motivo se
nasciamo per sentirci incompleti, e credo anche che quelle due
metà della
stessa mela che dici tu, in un modo o nell’altro, verranno
portate a
incontrarsi, prima o poi. Forse è vero che non capita a
tutti, ma credo che sia
così.”
C’era tensione, tra loro.
Lei seduta nella sua poltrona come
una regina sul trono, lui appoggiato al tavolo, le braccia conserte e
un
piccolo broncio ostinato sulle labbra pallide. Non semplicemente bello:
era
meraviglioso.
“Hey, voi due, ditemi che
non state veramente disquisendo di
filosofia.”
L’incanto si ruppe. Tom era
appena entrato nella stanza,
seguito a ruota da Vibeke. A Kuu non piaceva quella ragazza: si erano
sempre
guardate con poca simpatia e probabilmente e cose non sarebbero mai
cambiate.
Erano troppo diverse.
“Ciao, Tom.”
Salutò Bill con scarso entusiasmo.
Tom sfilò baldanzoso
davanti a Kuu per raggiungere il frigo,
e nel frattempo la squadrò per bene.
“Hey,”
esclamò contrariato. “Cos’è
tutta quella roba che hai
addosso? Non si usano più le minigonne?”
Vibeke gli allungò una
ginocchiata sul sedere.
“Sono una cantante, non una
prostituta.” Gli fece notare lei, tagliente,
infastidita dal suo atteggiamento forzatamente malizioso. Non era
nemmeno molto
galante nei confronti di Vibeke.
“Se tutte la pensassero
come te, sai quante donne ci
sarebbero sulla scena musicale?”
“Circa un decimo. Forse
meno.”
Tom, una lattina di aranciata in
mano, si voltò preoccupato
verso Vibeke:
“Vi, tu te le metterai
sempre le minigonne, vero?”
Lei si erse al suo fianco in tutta la
sua notevole altezza,
poggiandogli un braccio sulla spalla.
“Ma certo.” Gli
promise, suadente. “Io non sono una cantante, posso
tranquillamente fare la prostituta.” Aggiunse, rivolgendo a
Kuu un’occhiata di
fuoco.
Avrebbe ricevuto una risposta a modo,
se solo Georg non si
fosse intromesso a ricordare loro che il soundcheck li aspettava.
Georg era un interrogativo aperto:
c’erano giorni in cui era
serio e taciturno, come adesso, e altri in cui la sua allegria
diventava
contagiosa. Kuu era curiosa di conoscere la famosa Nicole per capire
cosa
potesse cercare uno come lui in una ragazza. E poi c’era la
bimba, Emily, che a
lei era sempre sembrata incompatibile con il tipo di vita che conduceva
Georg:
che razza di madre poneva di fronte alla figlia una figura paterna che
era più
assente che presente?
Ma la verità era che era
invidiosa: invidiosa di Nicole, che
era riuscita a conquistarsi Georg, e invidiosa di Vibeke che si era
presa Tom,
e già sapeva che un giorno avrebbe invidiato che le ragazze
che si sarebbero
portate via Bill e Gustav.
Non ce n’erano di ragazzi
come loro, nel modo reale.
***
Era stata una giornata sfiancate, ma
il peggio doveva ancora
arrivare. Mancava meno di un’ora all’inizio del
concerto e l’adrenalina
iniziava a farsi sentire. Bill e Tom stavano litigando nel camerino,
Georg
andava avanti e indietro per il corridoio, al telefono con Nicole, e,
stranamente, la conversazione sembrava allegra. Gustav però
non era in vena di
chiasso: voleva solo un posto tranquillo in cui rintanarsi per
rilassarsi, o
almeno provarci, e sapeva che c’era una stanzetta isolata,
appena svoltato
l’angolo, che avrebbe potuto sfruttare. Quella stanza era il
suo angolo di pace
ormai da anni, lì a Oberhausen, ed era una sorta di
tradizione, per lui,
chiudersi là dentro per quella breve mezz’ora che
precedeva la performance,
anche se questa volta l’apertura vera e propria del concerto
spettava ai
Pristine Blue.
Quando aprì la porta,
tuttavia, scoprì di essere stato
preceduto: Kuu sedeva sul divanetto al lato opposto della stanza, un
paio di
occhiali dalla montatura sottile sul naso e un plico di fogli sciupati
in mano,
e aveva sollevato sorpresa la testa.
“Oh, scusami.”
Farfugliò Gustav, che non aveva nemmeno
pensato a bussare. “Non credevo ci fosse qualcuno.”
Kuu scosse il capo.
“Non importa.”
“Sempre sola?” le
chiese, richiudendo la porta dietro di sé.
Lei si limitò a sollevare
appena le spalle che il
maglioncino grigio perla lasciava nude e rivolgergli uno sguardo
sostenuto:
“Sempre solo?”
Touché,
pensò Gustav, divertito.
Tacque, e la osservò in
silenzio. Era una come bambola:
piccola, fragile, innaturalmente perfetta in ogni minimo dettaglio,
così bella
da non sembrare nemmeno vera.
“È strano,
vero?” esordì Kuu ad un tratto, senza smettere di
leggere.
Lui batté
interrogativamente le palpebre.
“Che cosa?”
Kuu gli rivolse uno sguardo
penetrante:
“Persona felice con persona
felice fa due persone felici.
Persona triste con persona triste fa due persone tristi. Persona
arrabbiata con
persona arrabbiata fa due persone arrabbiate.” Si interruppe
per un secondo
soltanto, per incontrare i suoi occhi con un’espressione
penetrante. “Persona
sola con persona sola fa due persone insieme.”
Lui si ritrovò, senza un
perché, a sorriderle. C’era
qualcosa di sbagliato in lei e nella sua perfezione,
un’incrinatura stonata
indecifrabile ma tangibile che lo aveva affascinato fin dal primo
istante.
“Credo di avere lasciato
qui la mia borsa.” Disse,
guardandosi intorno.
“È quella
laggiù?” Kuu indicò il tavolo
nell’angolo. La
borsa verde militare era proprio lì.
“Sì,
grazie.” Gustav si accostò al tavolo e la
afferrò. “Me ne vado subito, non
ti voglio disturbare.”
Inaspettatamente, però,
Kuu non si dimostrò poi così ansiosa
di essere lasciata sola:
“Non fa niente, resta pure.
So che anche a te piace la tranquillità.”
Gustav non ricordava di averla mai
vista così gentile,
finora. Almeno non con lui.
“Lettere di
fans?” indovinò, accennando ai fogli scritti
fittamente che lei teneva in mano.
Lei annuì.
“Sì. Cerco di
leggerle tutte, ma sta iniziando a diventare difficile.”
Per qualche motivo, gli fece
tenerezza. Magari era un po’
fredda con chi le stava attorno, ma si vedeva che le stavano a cuore i
suoi
ammiratori.
“Non sapevo portassi gli
occhiali.”
Lei se li aggiustò
automaticamente sul naso. Le donavano
molto, ma del resto sembrava che non esistesse niente che non le
donasse.
Proprio come
Bill…
“Solo per leggere e per usare il computer.” Gli
spiegò Kuu.
“Capisco.” Gustav
le sorrise. Era ora che iniziasse a
prepararsi: il suo rituale dello scotch richiedeva tempo e dedizione, e
non
voleva essere una distrazione per Kuu.
O forse,
gli
sussurrò una vocina debole e remota, non
vuoi che lei sia una distrazione per te.
Prese la borsa e fece per avviarsi
verso la porta.
“Be’, ora credo
che toglierò il disturbo.”
***
Era una stanza troppo piccola per due
persone. Nove metri
quadrati scarsi, per metà occupati da un tavolo e due
divanetti, erano
decisamente troppo pochi per ospitare più di un asociale per
volta, e Kuu
sapeva di essere lei quella nel posto sbagliato. Era scappata dal
malumore di
Kaaos dopo l’ennesima discussione telefonica con la sua
ragazza e si era
infilata nella prima porta aperta che aveva trovato. Era una salettina
minuscola, ma calda e a suo modo accogliente, ed era stata bene,
finora. Gustav
non le dava fastidio; avrebbe solo preferito restare da sola. Ma non
poteva
lasciarlo andare via. Non ancora.
“Gustav, aspetta.”
E lui aspettò. Si
fermò ad un passo dalla soglia e si voltò
indietro, in attesa.
Kuu non sapeva esattamente cosa dire.
“Voglio scusarmi con te per
come ti ho trattato l’altra sera.”
Esordì infine. Si sfilò gli occhiali.
“Sono stata scortese e non avrei dovuto,
ma ero stanca, e nervosa… E non era colpa tua.”
Avrebbe voluto che Gustav non la
guardasse con quella
dolcezza disarmante.
“Non serve che ti
scusi.” La rassicurò. Si sedette
sull’altro
divanetto, di fronte a lei, e vi lasciò cadere la borsa, in
cui si mise a
rovistare alla cieca, finchè non trovò uno dei
suoi rotoli di morbido scotch. “Vivo
questa situazione da più tempo di te, so riconoscere una
persona emotivamente
esausta, quando la vedo. Convivo con Bill da dieci anni.”
Kuu non riuscì a non
ridere. Gustav, intanto, si mise a
fasciarsi le dita, senza però negarle attenzione.
“So di risultare spesso
antipatica…” mormorò Kuu,
dispiaciuta.
“Sì,
è vero.” Ammise lui, lasciandola a bocca aperta,
si era
aspettata una smentita di cortesia. “Ma risultare non vuol
dire essere, fino a
prova contraria.”
Kuu stette a guardare mentre lui si
avvolgeva scrupolosamente
la seconda striscia di scotch attorno all’indice. Aveva mani
solide e maschili,
rovinate dalla musica, dotate tuttavia di un’impensabile
delicatezza.
“Vuoi che ti dia una mano
con quello?”
Si sentì arrossire quando
lui alzò gli occhi e li sgranò,
stupito.
“Oh.” Gustav
abbassò lo sguardo su ciò che stava facendo, poi
tornò a guardare
Kuu con rinnovata gentilezza: “Grazie.”
Lei si alzò e gli
andò a sedere accanto. Gli prese la mano
tra le sue quasi con prepotenza; gli tolse il nastro adesivo di mano e
iniziò a
lavorare al suo posto. Sapeva che erano uno preciso e per fortuna lo
era anche
lei.
“Dovresti metterci un bel
po’ di crema idratante, su queste
mani.” Commentò, sfiorandogli la pelle ruvida e
screpolata.
Gustav, chino su se stesso, rise in
un sospiro.
“Lo so, Bill me lo dice in
continuazione. Ma è inutile, le maltratto troppo.”
“Suppongo che avere mani
curate sia l’ultimo dei pensieri di un batterista.”
“È
senz’altro una cosa che riesce più semplice a voi
cantanti.”
Kuu non seppe come interpretare
quella frase. poteva essere
una semplice constatazione, così come un’offesa
velata. Ma Gustav non era il
tipo da offendere le persone, lo aveva ammesso lui stesso.
“Per una pianista
è importante avere delle mani curate.” Gli
ricordò.
Lui la lasciò continuare,
seguendo i suoi movimenti in
silenzio, da vicino. Solo dopo qualche istante le chiese:
“Quando hai
cominciato?”
Kuu sentì un accenno di
sorriso solleticare le estremità
delle proprie labbra.
“A curare le mie mani o a
suonare il piano?”
Non poteva vedere il viso di Gustav,
ma ebbe la sensazione
che anche a lui venisse da sorridere.
“La seconda.”
“A quattro anni.”
Gli rispose. “Mia prozia Ingrid insegnava
al conservatorio, mi ha fatto venire lei la passione.”
“Insomma, suoni da tutta la
vita.”
“Come te, no?”
“Già.”
Con un ultimo giro, Kuu
finì di sistemare l’ultimo pezzo di
nastro attorno all’ultimo dito. Non capiva come Gustav
potesse suonare con
quella roba sulle mani, ma evidentemente funzionava.
“Ecco fatto. Spero di non
aver stretto troppo.”
“Va benissimo.
Grazie.”
“Di niente.”
Non si era resa conto che fossero
così vicini.
Inspiegabilmente, la presenza di Gustav sembrava sempre portarle una
sensazione
di quiete, di pace, eppure allo stesso tempo la faceva sentire
stranamente
vulnerabile. Sollevò lo sguardo sui suoi occhi, ma li
trovò timidamente
abbassati sulla mano che ancora gli stava stringendo. Lo
lasciò andare di
scatto, proprio mentre la porta si spalancava.
“Kuu.” Lo sguardo
di Kaaos cadde immediatamente su di lei,
poi si spostò su Gustav, sospettoso.
“Che ci fai qui? Abbiamo
l’intervista.”
Lei si rizzò su se stessa,
irritata da quel suo
atteggiamento invadente. La soffocava, quando faceva così.
“Mi stavo rilassando un
po’.”
Lo sguardo di Kaaos vagò
con ironia fino a Gustav.
“Sì, lo
vedo.” Le andò incontro e le porse una mano per
aiutarla ad alzarsi. “Su,
muoviamoci, la giornalista è già
arrivata.”
Pur riluttante, Kuu dovette
accettare. Un’intervista per
RTL, per quanto breve, non poteva aspettare.
“A dopo.” Li
salutò Gustav, mentre Kaaos la trascinava via. Un
secondo dopo, la porta stava già sbattendo alle spalle di
Kuu.
***
Qualcosa
brucia nei
miei occhi e disturba il mio sonno.
Forse sto
vedendo
sorgere il sole.
_____________________________________________________________________________________
Note:
sono
troppo stanca per delle note vere e proprie, vi chiedo scusa, ma
c’è chi
premeva per leggere al più presto questo capitolo, quindi
eccovelo qui!
Prometto che risponderò al più presto a chi aveva
fatto domande e/o
osservazioni!
|
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Capitolo 7 *** Angel of Fame ***
You're too important
for anyone
You play the role of all you long to be
But I know who you really are
You're the one who cries when you’re alone
(Where Will You Go,
Evanescence)
***
Lenzuola morbide, profumate di
pulito. Poca luce nella
stanza. E voci sommesse.
“Questa è
l’ultima goccia!”
“Eva, non dire
stronzate!”
“Tornatene a dormire con
lei, visto che ci tieni tanto!”
“Abbassa la voce!” “No che non abbasso la voce! Che si svegli, quella
stronza!” “Eva…”
“Perché ogni
volta devo trovarla nel tuo letto, si può
sapere?! Cos’ha, tre anni, per non saper dormire da
sola?”
“Eva, chiudi il
becco!”
“Vaffanculo,
Matt!”
Stava succedendo di nuovo.
Kuu rimase con gli occhi chiusi,
rintanata al di sotto delle
coperte, ad ascoltare l’ennesimo litigio tra Kaaos ed Eva.
Fece rapidamente
mente locale di che giorno fosse: il ventisette di febbraio. Erano ad
Amburgo,
il giorno seguente avrebbero avuto un concerto, ma tutti aspettavano
ospiti per
il giorno libero. Sarebbero arrivati parenti e amici dei Tokio Hotel,
Georg aspettava
con ansia la sua ragazza, e Kaaos, senza essere da meno, aveva chiesto
a Eva di
raggiungerlo. Eva, però, non sembrava granché
felice di essere lì.
“Io me ne vado!”
stava strepitando, furibonda. “Tieniti la
tua bella bionda, visto che ci tieni tanto! Addio!”
“Eva!”
La porta sbatté.
Bene,
pensò Kuu,
sollevata, la strega se
n’è andata.
Eva non le era mai piaciuta. Era una
ragazza poco più grande
di lei, alta e formosa, dai tratti mediterranei, e studiava da
erborista. Kaaos
stava insieme a lei da due anni, ma Kuu non aveva mai capito cosa
potesse
trovarci in lei: mediamente bella, mediamente intelligente, mediamente
antipatica.
Era ordinaria, sotto qualunque punto di vista.
Kuu si era appena messa a sedere
quando la porta della
camera da metto si aprì. Kaaos la fissava dalla soglia, gli
occhi neri
opacizzati da un’espressione scura.
“Valle dietro,
stupido.” Gli intimò.
“E
perché?” rispose lui, asciutto, le braccia
incrociate.
“Per litigare di nuovo e poi tra qualche settimana ripetere
la stessa identica scena?
E poi ancora tra un mese, due mesi, un anno…”
“Smettila!” lo
troncò lei. “Non è colpa mia se la tua
ragazza è una pazza isterica!”
“La mia ex
ragazza.” La corresse Kaaos. Non c’era dolore nel
suo tono, sul suo viso. Solo
rassegnazione. “Sono stanco di dover giustificare ogni
singola cosa che faccio
con te.”
Kuu avvertì un sentore di
senso di colpa, ma preferì
ignorarlo. Non gli aveva chiesto lei di scegliere,
n’è tantomeno chi
scegliere.
“Non è mai stata
alla tua altezza, comunque.”
“Non sta a te
dirlo.”
“Vattela a riprendere, se
per te è così importante, allora!”
sbottò lei, arrabbiata. “Non capisco
perché diavolo tu sia ancora qui!”
Kaaos la pietrificò con
uno sguardo spietato:
“Perché tu sei
più importante.”
I suoi occhi pesavano insistenti su
di lei, neri e duri.
Pieni di odio, pieni di amore.
Era scorretto, da parte sua, giocare
quella carta. Il senso
di colpa morse più a fondo la gola di Kuu, ma lei tenne
duro. Era abituata a
non farsi scalfire.
“Hai intenzione di farmelo
pesare per il resto della vita?”
Kaaos si avvicinò
lentamente al letto e sedette sul bordo.
“Ti farò pesare
tutto quello che posso fino a che –”
“Non cominciare
nemmeno.” lo ammonì Kuu. “Conosco la
solfa.”
La conoscevano tutti e due.
Stranamente, però, Kaaos non
aveva nessuna voglia di insistere, stavolta:
“Sono quasi le
nove,” le disse, alzandosi. “Sarà meglio
che
tu ti prepari.”
“Già,”
sbuffò Kuu, scostando di malavoglia le coperte.
“Arriva
la preziosa dolce metà di Georg.”
“Si chiama
Nicole.”
Comunque si chiamasse, Kuu aveva
già deciso che non le
piaceva. La aveva già vista su un mucchio di giornali, una
ragazzina dagli
occhioni azzurri e il viso innocente. Ovviamente graziosa,
perché era fuori
discussione che uno dei Tokio Hotel si facesse vedere in giro con una
ragazza al
di sotto del loro livello estetico. Nessuno di loro aveva tempo da
perdere a
cercare del bello in una ragazza brutta: era più facile
trovare la bellezza
dove già era palese.
Più che altro, Kuu era
curiosa di conoscere la bambina, e
soprattutto di vedere i ragazzi alle prese con lei. Georg non le
piaceva:
l’aveva sempre trattata come una sorta di elemento
scenografico di scarsa
importanza, come un fantasma la cui presenza lo lasciava totalmente
indifferente, e questo lei non lo sopportava: accettava di essere amata
da
alcuni e odiata da altri, ma l’indifferenza era la peggiore
offesa.
“Non mi interessa come si
chiama. Non mi interessa e basta.”
“Del resto non ti
è mai importato di nessuno al di fuori di
te.”
Anche volendo, Kuu non avrebbe potuto
ribattere. Nel corso
della vita si era lasciata indietro moltissimi amici e non aveva mai
avuto
rimorsi, mai aveva sentito la mancanza di uno di loro. Forse era
insensibile,
come diceva Kaaos, ma non poteva farci niente. Era fatta
così.
“Cosa vorresti che ti
rispondessi, dopo questa provocazione
bella e buona?”
“Niente.” Kaaos
scrollò le spalle. “Come sempre. Ma prima o poi
arriverà
qualcuno da cui non potrai difenderti, e allora ti auguro che non si
approfitti
di te come tu ti approfitti di chi ti ama.”
Sensi di colpa. Erano
l’arma preferita di Kaaos, l’unica e
la più efficace.
“Mi sembra di aver
già sottolineato più volte che nessuno ti
obbliga a stare dove stai.”
La sola risposta di Kaaos fu
un’occhiata obliqua.
“Vado a
vestirmi.” Indifferente, Kuu si alzò e si
avvicinò alla
cassettiera dove aveva lasciato i propri vestiti, accuratamente
piegati. Li
prese e se li portò in bagno sotto allo sguardo severo di
Kaaos. Si vestì in
fretta e poi se ne andò nella propria stanza senza una
parola, tornando
mezz’ora dopo, pettinata e truccata di tutto punto, con un
abito corto al posto
dei jeans e della maglietta. Il colore giusto quel giorno era il nero.
Lei e Kaaos scesero insieme per la
colazione. Per tutto il
tragitto, Kuu non fece che augurarsi che tutto finisse al
più presto. Kaaos era
taciturno. Gli si leggeva in faccia un malumore incalzante e di sicuro
non gli
avrebbe giovato incontrare una coppietta felice leggendaria come Georg
e
Nicole.
Francamente, non avrebbe giovato
nemmeno a lei.
Già appena usciti
dall’ascensore, si sentivano delle voci
concitate provenire dall’atrio.
“Bill! Bill, no! Mi fai il
solletico!”
La voce argentina di una bambina. Una
risata.
L’inconfondibile risata di Bill. Kuu non ricordava di averlo
visto sorridere
veramente, dall’inizio del tour, figurarsi sentirlo ridere.
Ridere con il
cuore. Le fece uno stranissimo effetto: un lieve calore le percorse la
pelle
assieme a un brivido diffuso, quasi impercettibile. Benessere: quella
era la
definizione esatta.
E poi altre risate, mescolate a voci
che non era difficile
riconoscere.
“Ci siete mancate,
Sandberg.”
Il tono gentile di Gustav.
“Siete sempre in ritardo,
però!”
Il timbro profondo di Tom.
“Meglio tardi che mai,
no?”
La voce tenue di una ragazza.
“Oh, insomma,
l’importante è che adesso Hagen la
smetterà di
fare l’emo-boy depresso e nostalgico!”
La voce di un’altra
ragazza, ruvida e profonda. Vibeke.
Kuu voltò
l’angolo, Kaaos accanto, e li vide: stretti in un
piccolo capannello vivace, pieni di entusiasmo e sorrisi. Una famiglia.
La sua attenzione cadde
immediatamente su Emily: piccola,
per la sua età, ma piacevolmente paffuta, con due enormi
occhi verdi –
inspiegabilmente, lo stesso identico verde di quelli di Georg
– e bellissimi
boccoli biondi. Sarebbe parsa un angelo, non fosse stato per la vivida
luce di
furbizia che le brillava sul viso. Gli sguardi di tutti erano puntati
su di
lei, pieni di amore. Quello
di Georg,
invece, vagava da lei a Nicole.
Una fugace fitta di invidia si
insinuò subdola nell’animo di
Kuu.
Lei…
Nicole era inconcepibilmente umana. Un viso fresco e pulito, a forma
di cuore, sorridente, ma le
sue guance erano scavate e il suo corpo non riusciva e riempire i
vestiti, che
le ricadevano addosso più larghi del normale. Kuu
sentì l’asprezza dell’invidia
accentuarsi quando Georg, Emily in braccio, le avvolse un braccio
attorno alla
vita e la attirò verso di sé per baciarla. Tra
loro due c’era una tenerezza –
un’intimità – che Kuu non aveva visto
tra Tom e Vibeke. E il sorriso di Georg,
la gioia nei suoi occhi, erano cose che andavano troppo oltre le
limitate
esperienze di Kuu. Una sola cosa sapeva: loro erano più
vicini alla felicità di
quanto non lo sarebbe mai potuta essere lei.
E poi, proprio quando la sua testa
stava iniziando a urlarle
di fare dietrofront e andarsene prima che fosse tardi, Tom si
voltò e la vide.
Sollevò una mano per salutare:
“Hey, ragazzi!”
No,
pensò Kuu,
inorridendo. Non voglio. Non posso.
Non…
La mano di Kaaos la
afferrò e la trascinò verso il centro
dell’atrio. Lei lo seguì controvoglia, senza
desiderare altro che tutto finisse
al più presto. Avrebbe salutato e poi se ne sarebbe andata
fingendo un mal di
testa. Non voleva restare lì. Non voleva stare in mezzo a
loro.
Tollerava Tom e Vibeke
perché erano una coppia anomala,
priva di sdolcinatezze e romanticherie, ma non avrebbe sopportato a
lungo Georg
e Nicole.
Si era sempre detta che era
impossibile, che i ragazzi non
fossero in grado di amare come le ragazze. Tutte le volte che si era
presa una
cotta per qualche suo compagno di scuola, era stata ripagata con
assoluta incuranza.
E anche le sue compagne, più spigliate e carine di lei,
erano sempre finite con
il cuore spezzato, in un modo o nell’altro, e per questo
questa sua convinzione
si era solo consolidata, negli anni. Le era inconcepibile che qualche
ragazzo
potesse guardarla e vedere in lei qualcosa per cui valesse la pena di
perdere
il sonno e l’appetito, qualcosa per cui valesse la pena di
lottare, qualcosa di
cui innamorarsi. Voleva
risparmiarsi
l’umiliazione di stare lì, davanti a loro, a
chiedersi cosa facesse di Nicole
una persona meritevole di tanto amore, che cosa avesse quella ragazza
che a lei
mancasse.
Non
voglio…
***
L’allegria era contagiosa:
Tom la respirava con piacere, a
pieni polmoni, riflessa sui volti di tutti coloro che lo circondavano.
Aveva
atteso a lungo il ritorno di Nicole ed Emily, sia perché gli
mancavano, sia
perché sapeva quanto fosse importante per Georg avere di
nuovo del tempo da
trascorrere con loro. Adesso che c’erano tutti, si sentiva un
po’ meno in colpa
per avere Vibeke sempre accanto a sé. E gli piaceva, le rare
volte che
capitava, fare uscite a quattro con i due amici: nonostante le abissali
differenze che c’erano tra Vibeke e Nicole, le ragazze, poco
per volta, avevano
acquisito confidenza e si erano scoperte buone amiche. La cosa buffa
era che,
nonostante Vibeke fosse di quattro anni maggiore, era Nicole la
più calibrata e
matura tra le due.
Erano una compagnia bizzarra, tutti
loro assieme, ma Tom non
avrebbe più saputo immaginare la propria vita senza uno
soltanto di loro.
Questa era la sua più
grande paura, e non lo aveva mai detto
a nessuno: che qualcosa andasse storto. Era un periodo complicato per
Georg e
Nicole, e Tom non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se
non
fossero riusciti ad uscirne. Era preoccupato per loro, per la band, ma
soprattutto per la piccola Emily, che ormai lo considerava un genitore
a tutti
gli effetti.
Tom non era religioso, ma spesso
pregava – senza sapere bene
chi – che tutto si risolvesse per il meglio al più
presto.
Mentre Bill, accovacciato a terra,
abbracciava festosamente
Emily, con la coda dell’occhio Tom vide due figure scure
apparire in un angolo
del salone: Kuu e Kaaos, in total black, guardavano dalla loro parte,
immobili.
Appena Tom alzò il braccio
per chiamarli, Kuu sembrò stringersi
in se stessa, come se avesse preferito non essere vista. Ma ormai era
tardi e
tutti si erano già voltati nella sua direzione.
Kuu però era una regina
della scena, padrona di un corridoio
d’hotel tanto quanto di un palcoscenico o di una passerella,
e non le ci volle
nulla a tramutare la sua aria sorpresa nel suo consolidato cipiglio
snob.
Attraversò la hall al fianco di Kaaos, lui sorridente, lei
impassibile. Le
vetrate opache nascondevano l’interno dell’albergo
agli occhi indiscreti dei
fan appostati di fuori, il cui vociare era però
perfettamente udibile. Kuu
sfilò maestosa di fronte a loro, le gambe sottili fasciate
rese ancora più
affusolate da un paio di leggings scuri, e si fermò proprio
al cospetto di Tom.
“Buongiorno.” La
accolse lui, sfacciato, mentre Vibeke, alle
sue spalle, si voltava altrove.
“Buongiorno a
voi.” Replicò Kuu, passando in rassegna
ciascuno di loro.
“Ciao.” Si
aggiunse Kaaos, sollevando la mano.
Mormorii affini si sollevarono da
Bill, Gustav e Georg.
Nicole, lo sguardo basso, era arrossita vistosamente e teneva le mani
strette
attorno alla propria borsa. Emily, dal basso del suo metro di statura,
occhieggiava avidamente i due sconosciuti.
“Penso sia il caso di fare
qualche presentazione.” Disse
Bill, voltandosi verso Nicole.
Georg la spinse dolcemente in avanti
e lei lo seguì,
mansueta.
“Kaaos, Kuu, lei
è Nicole, la mia ragazza.”
Nicole strinse le mani ai due
ragazzi, avvampando
ulteriormente qualdo Kaaos le disse:
“Sei ancora più
carina dal vivo, rispetto alle foto.”
Subito dopo, Georg si
voltò per chiamare Emily. Lei gli
trotterellò accanto, il suo Wilhelm che ballonzolava da una
parte all’altra
stretto in mano. I suoi occhioni verdi si sgranarono ammirati davanti a Kuu.
“Emily, loro sono Kuu e
Kaaos. Li conosci già, vero?”
“Sì.”
Rispose lei, pronta. “La mamma ascolta le loro
canzoni.” Poi si rivolse direttamente a Kuu e Kaaos, porgendo
loro la propria
manina paffuta: “Io mi chiamo Emily. Vado in prima
elementare.”
“Piacere di conoscerti,
Emily!” le disse Kaaos con un gran
sorriso, accovacciandosi per stringerle la mano. Si soffermò
a osservarla un
secondo più del necessario, e c’era un che di
malinconico nei suoi occhi,
mentre la accarezzavano. Ma poi si risollevò e
scompigliò affettuosamente i
capelli di Emily, strappandole una piccola risata.
Tom ammise che ci sapeva fare con i
bambini.
Poi fu il turno di Kuu, e stavolta fu
Emily a farsi avanti:
la squadrò incantata di sotto in su, senza fiato,
mangiandosi con gli occhi il
vestito merlettato e le decolleté che portava.
“Sei un angelo, signorina
Kuu?”
L’imbarazzo di Kuu era
evidente. Le sue guance si tinsero di
rosa e qualcosa di stranamente simile a un sorriso le
ingentilì le labbra.
“No, direi proprio di
no.”
“Sei una
principessa?”
Kuu rise.
“No, Emily.”
“Come sei
bella…”
Lo era davvero. E con quel sorriso,
incredibilmente, lo era
ancora di più.
Forse c’era altro, in lei.
Forse, dopotutto, la sua
freddezza era solo una maschera che indossava per il mondo. Tom, in fin
dei
conti, di maschere ne sapeva parecchio.
Kuu ringraziò Emily e
ricevette in cambio un sorriso
sdentato. Emily aveva perso tutti gli incisivi: quelli superiori un
po’ le
stavano già ricrescendo, ma gli inferiori mancavano
completamente. Era
adorabile.
“Sembra che la Regina delle
Nevi abbia finalmente trovato
qualcuno che le va a genio.” Sussurrò Vibeke
all’orecchio di Tom.
“Qualcuno che guarda caso
crede che sia una principessa.”
Sghignazzò Tom. “Oh, ma non ti ho detto
cos’è successo tra lei e Bill!”
“Cosa?”
domandò Vibeke, avida.
“Sono diventati
intimi!” bisbigliò Tom, mentre i Pristine
Blue erano occupati con gli altri. “Bill ha detto che ha
chiacchierato un po’ con
lei, l’altro giorno. Un bel
po’,
capisci? Kuu chiacchiera!
È capace di
concedere più di tre parole di fila, ti rendi conto? E con
Bill, per giunta!”
“Ha già iniziato
ad allungare gli artigli, quella megera!”
“Scommettiamo che quel
coglione di mio fratello si è già
fatto tutti i filmini romantici da qui ai prossimi dieci
anni?”
“Bill non si
farà incantare da quell’insulsa
gattamorta.”
Sibilò Vibeke. “Non c’è nulla
di cui lui abbia bisogno che lei gli possa dare.”
Tom sogghignò.
“Una cosa ci
sarebbe…”
Vibeke gli rifilò un
pizzicotto sul sedere che gli fece così
male da fargli venire le lacrime agli occhi.
“Zitto, maiale!”
“Mi hai fatto un male cane,
stronza!” piagnucolò lui.
“Non mi parlare di
cani!” sbottò lei. “Il tuo sacco di
pulci
mi ha mangiato i miei collant preferiti!”
“Kart è un
angelo!” disse Tom, in difesa del proprio
animale. “Sei tu che lasci sempre tutto in giro.”
“Ma dimmi tu come si fa a
chiamare un cane come una patata!”
“Te l’ho
già detto! Kart non sta per kartoffel! È un nome
e
basta!”
“Lo so io perché
l’hai chiamato così. Così quando gli
lanci
la palla gli puoi dire ‘Go, Kart!’.”
Una vampata di imbarazzato rossore
schiaffeggiò il viso di
Tom.
Io commetto
un
gemellicidio! Mai che se ne stia zitto, quella pettegola!
“Bill, sei una
merda!” urlò, voltandosi verso il fratello,
il quale, ignaro, stava mostrando a Nicole delle fotografie sul proprio
cellulare mentre lei gli faceva i complimenti per quanto gli donasse
quel
berrettino di cotone.
Bill dilatò gli occhi con
fare innocente:
“Che
c’è? Cos’ho fatto?”
“Hai detto a questa stronza
il segreto del nome di Kart!” si
lamentò Tom, puntando un dito contro Vibeke.
“Bastardo!”
“Tom, non rompere, tanto lo
sapevano tutti!”
“A cuccia, voi
due.” Li esortò Vibeke. “Fate i bravi,
non
facciamoci riconoscere.”
“Vi, tu devi solo stare
zitta! In calze a rete e anfibi in
un hotel a cinque stelle!”
“Ma se tu sei vestito come
un barbone!”
“E tu come una donna di
strada!”
“Ok, ok, basta
così, grazie.” Intervenne Georg, dividendoli.
“La figuraccia del giorno l’abbiamo fatta, adesso
leviamoci da questa hall e
portiamo la nostra follia in luoghi più riservati, per
favore.”
A giudicare dallo sguardo speranzoso
che il concierge lanciò
loro dalla reception, l’idea era apprezzata.
“Ci dispiace, ma purtroppo
noi ora dobbiamo andare.” Disse
Kuu, in un tono che denotava tutto fuorché dispiacere.
“Noi andiamo a pranzo a Il
Mare,” comunicò loro Georg, più
per educazione che altro, suppose Tom, dato che i due colleghi non gli
erano
mai stati molto simpatici. “Se volete unirvi a
noi…”
“Grazie
dell’invito,” rispose Kuu, prima che Kaaos potesse
parlare. “Ma non credo riusciremo a liberarci per
l’ora di pranzo.”
A Georg non riuscì di
nascondere un’espressione risollevata.
“Sarà per la
prossima volta.”
“Sì,
certo.”
Kuu e Kaaos concessero un cenno di
congedo, poi voltarono
loro le spalle e se ne andarono.
Quando furono al di fuori della
portata uditiva, Vibeke
schioccò la lingua con disapprovazione e borbottò:
“Dio mio, quanto se la
tirano…”
***
Kaaos continuava a guardarla. A ogni
passo, uno sguardo. Non
lo vedeva, ma lo sentiva, camminandogli avanti a passo svelto per
lasciarselo
alle spalle, lui e le sue gambe lunghe, la sua statura incombente su di
lei fin
da quando aveva memoria.
“Non ti azzardare a
dirlo.” Lo avvertì.
“Che cosa?”
Kuu trattenne un fremito di
impazienza. Lo detestava quando
faceva lo gnorri.
“Quello che stai
pensando.”
Riuscì quasi a intuire le
labbra di Kaaos che si arricciavano
di soddisfazione.
“L’hai notato
anche tu, allora.”
“Sta’
zitto.”
Non aveva voglia di rispolverare quel
frammento di storia.
Non adesso, né mai.
“Era uguale.”
Kuu si fermò nel mezzo del
corridoio e si voltò bruscamente:
“Ti ho detto di stare
zitto!”
Kaaos la fronteggiò, scuro
in volto:
“Fa male anche a
te?”
Kuu non lo ascoltò. Gli
diede nuovamente le spalle e riprese
a camminare.
“Fa male anche a te,
vero?” ripeté Kaaos, alzando la voce.
“Fa male anche a te rivedere Sissi nel viso di
Emily.”
Kuu si costrinse a non voltarsi, a
non urlare.
“Sissi è
morta.” Dichiarò a denti stretti. “E
spero per
quella bambina che il suo destino sia ben diverso dal suo.”
Voleva solo arrivare in camera e
restarci chiusa dentro fino
a sera. Non avevano impegni di alcun tipo, in giornata.
Voleva restare sola e basta.
Lasciare fuori gli sguardi innamorati
di Georg e i sorrisi
radiosi di Nicole.
Dimenticare il momento di confidenza
con Bill, le parole
amichevoli di Gustav.
Smettere di pensare ai vuoti, al
senso di insoddisfazione.
Fumo negli occhi.
“Kuu!”
provò a chiamarla Kaaos, ma il suono le giunse vago e
sfumato.
Aprì la porta ed
entrò nella stanza con l’aria che le
premeva nei polmoni dallo sforzo di trattenere le lacrime. Piangere era
fuori
discussione.
“Fa
male anche a te,
vero?”
No, era una storia chiusa. Non le
faceva né caldo né freddo,
il passato era passato, sepolto sotto anni e anni di lotta per la
dimenticanza.
Quello che era stato non sarebbe tornato più, nel bene e nel
male. Non la
avrebbe più tormentata.
No, mai
più.
Nella stanza, vetri e riflessi
ovunque, a lampade spente e
tende serrate. Poca luce e molte ombre. Come la sua vita. Quella vita
perfetta
che aveva sempre sognato, e la vita di prima non era che un ricordo
impotente.
Era tutto diverso, adesso.
Più facile.
Più comodo.
Più libero.
Più bello.
Sì,
più bello.
Più bello…
Perché quello che aveva
ora era tutto ciò che aveva sempre
sognato e non avrebbe avuto alcun senso esserne scontenti.
E la lacrima che le
scivolò silenziosa sul viso, fece finta
di non sentirla.
***
Life is beautiful
under these lights
Charming
tricks to
flash a smile
Pretty,
pretty, don’t
you care
Stars
don’t bleed
Don’t
hide
Don’t
share
Everybody’s
wish to be
in your place
Your
kingdom for a hope
Your
life for an
escape
Don’t
cry
Angel
of fame
[Angel of Fame,
Pristine Blue]
***
Di giornate così felici ce
n’erano state poche, negli ultimi
mesi. Non che avesse molto di cui lamentarsi, tutto sommato, ma avere
Nicole di
nuovo lì con lui lo aveva fatto come rinascere. Avrebbe solo
voluto che lei
fosse più libera di seguirlo durante il tour, e se fosse
stata una ragazza
comune, sicuramente ne sarebbe stata in grado, ma lui amava Nicole
proprio
perché la aveva sempre vista distante anni luce da qualsiasi
ragazza che gli si
fosse presentata negli anni, e parte di questo era sicuramente da
imputare a
Emily.
Georg a volte non riusciva a
capacitarsi di che cosa gli
fosse successo: l’amore che provava per Emily era
così forte da spaventarlo, a
volte, quando pensava al profumo di biscotti della sua pelle morbida,
alla sua
voce sottile che lo chiamava per nome. Non aveva mai pensato seriamente
all’eventualità di avere dei figli, un giorno, e
per anni era stato convinto
che non ci avrebbe pensato ancora a lungo, ma adesso – adesso
che aveva tutto
questo – la prospettiva di farsi una famiglia non era poi
così assurda e
lontana. Loro tre, del resto, erano già una famiglia a tutti
gli effetti.
Il problema era trovare il tempo di
comportarsi da famiglia.
Lui e gli altri avevano trascorso
tutta la giornata insieme
alle rispettive famiglie e Georg non smetteva mai di commuoversi nel
vedere sua
madre che giocava con Emily. Un tempo aveva temuto di raccontare ai
proprio
genitori di essersi innamorato di una ragazza madre, ma,
inaspettatamente, sia
Nicole che Emily erano state accolte a braccia aperte in casa.
Nonostante gli
imbarazzi iniziali, le cose erano sempre state promettenti.
“A cosa stai
pensando?”
Georg abbassò lo sguardo:
Nicole, sotto al suo braccio, lo
studiava attenta, vagamente accigliata. A volte Georg aveva la
preoccupante
sensazione che lei potesse leggergli nel pensiero.
“Niente di
particolare.” Le rispose.
Lo sguardo di Nicole si
intristì. Georg riusciva a contare
le pallide lentiggini sul suo naso alla luce lattiginosa del lampione.
L’aria
era fredda e umida ad Amburgo, quella sera, e l’odore della
neve non era ancora
scomparso del tutto. Era squallido dove portare la propria ragazza in
un vicolo
sul retro di un hotel per poter fare quattro passi indisturbati.
Davanti
all’ingrasso, già da diverse ore,
c’erano appostate decine di fans.
Nicole gli camminava accanto fin
troppo composta e raramente
lo guardava. Georg riusciva quasi a intuire i mille pensieri che le
ronzavano
in testa, ma, per codardia o per egoismo, non li voleva conoscere.
A un tratto, però, Nicole
si fermò. Rimase immobile per un
attimo, poi, con un labile sospiro, si scostò da lui. Era
dimagrita molto negli
ultimi mesi e quel livore grigiastro attorno ai suoi occhi la faceva
sembrare
malata.
“Georg, vogliamo parlare
seriamente, per una volta?”
La voce vellutata di Nicole era
sciupata da una spiacevole
incrinatura ansiosa e lo distrusse vedere tutto quel dolore in quegli
occhi di
cui, prima di ogni altra cosa, aveva amato la serenità.
“Di cosa?”
domandò, guardando altrove, ma Nicole lo obbligò
a voltarsi.
“È inutile che
tu faccia finta di niente,” La sua mano fredda sulla guancia
di
Georg gli provocò un brivido, o forse era il timore del
discorso che stavano
per affrontare.. “Le cose non stanno andando bene, tra noi,
lo sai meglio di
me.”
Oh,
Nicole…
Georg abbassò lo sguardo
con una terribile fitta di dolore
al cuore. Era scappato, finora, rifugiandosi nella negazione, ma non
poteva più
fingere che fosse tutto a posto.
“Che cosa sta
succedendo?” gli chiese Nicole, cercando di
incontrare i suoi occhi. “Georg, per favore,” lo
pregò in un soffio tremulo. Lo
prese per le spalle e lo costrinse a guardarla. “Sono
settimane che ti comporti
in modo strano. Sei distratto, malinconico,
taciturno…”
Preoccupazione, amore,
impotenza… Vedeva tutte queste cose
in lei e si sentiva una persona orribile per averla costretta a vivere
per mesi in una
finzione.
“Non è un bel
periodo, Nicole.” Borbottò, pregando che lei
gli concedesse un po’ più di tempo per riflettere,
per ponderare la situazione.
“Sì, questo
l’avevo capito da sola!”
“Passerà.”
Insisté.
“Sì? E io nel
frattempo cosa dovrei fare, me lo dici?” esclamò
Nicole,
traboccante di rabbia e frustrazione. “Starmene a casa a
chiedermi cosa
capiterà e mentire a mia figlia ogni volta che mi chiede
‘Mamma, perché
piangi?’?”
Zitta! Stai
zitta, ti prego…
“Ho detto che
passerà!” urlò Georg, esasperato. Non
voleva
ascoltare quelle parole, non voleva sentirsi più in colpa di
quanto non si
sentisse già. Non voleva ammettere di aver fatto soffrire
tanto qualcuno a cui
teneva più che a chiunque altro.
Più
che a qualunque
altra cosa.
“Smettila di chiudermi
fuori da qualunque cosa ti riguardi!”
urlò Nicole di rimando, con una disperazione nella voce che
gli fece tanto male
da smorzargli il respiro. “Siamo stati insieme per due anni,
ho il diritto di
sapere se è finita!” Respirava in modo irregolare,
pallidissima in viso
nonostante la rabbia. “Se vuoi lasciarmi, dimmelo in faccia
una volta per
tutte, perché io non ce la faccio più,
Georg!”
Sei un
bastardo,
disse lui a se stesso, sentendosi ghiaccio liquido nelle vene al posto
del
sangue. La guardava, così fragile e ferita, e si sentiva
male per averla tenuta
all’oscuro di tutto così a lungo, così
egoisticamente.
Non meritava niente di quello che le
aveva fatto passare.
“Nicole, per favore,
calmati,” La abbracciò quasi con
violenza e le accarezzò i capelli, lasciandola singhiozzare
contro il proprio
petto. “Calmati.” ripeté con
più gentilezza.
Era rimasto zitto finora. Per quale
motivo, non lo sapeva
veramente nemmeno lui. Per proteggerla, forse, o forse per evitare di
farsi
influenzare da quello che lei avrebbe potuto dirgli.
Ci aveva pensato tanto, fino a farsi
venire il mal di testa,
valutando infiniti pro ed infiniti contro.
Quante volte aveva messo
l’una e l’altra controparte sulla
bilancia? L’ago puntava sempre su un lato diverso.
C’erano sentimenti molto
profondi di mezzo, non solo vantaggi e svantaggi, ma lui non aveva
più quindici
anni, aveva capito che la vita non era solo uno spettacolo su un
palcoscenico,
e adesso, alla soglia dei suoi ventitre anni, le cose cominciavano ad
apparire
sotto una prospettiva diversa.
Nicole gli stringeva la vita e non
emetteva più un suono.
Tremava tra le sue braccia ed aspettava in silenzio, e Georg sapeva che
non era
giusto, non poteva più stare zitto.
“Sta’
tranquilla,” le sussurrò dolcemente, cullandola
nel
proprio abbraccio. Ebbe l’ennesima fitta al cuore al pensiero
di quello che
stava per dirle, ma era arrivato il momento di affrontare quella
questione,
rimandare avrebbe solo peggiorato le cose. Inspirò
profondamente e, finalmente,
si liberò di quel peso: “Non è te che
lascerei.”
***
A volte
l’unica chance
di uscire da un tunnel buio è scegliere di camminare da soli
su una strada a
senso unico.
Nessuno ti
verrà mai
incontro e non ti sarà concesso tornare indietro.
Tutto
ciò che puoi
sperare è di trovare un incrocio con la via a senso
unico di qualcun
altro.
A volte
è concesso un
momento – uno soltanto – per decidere se tirare
dritto o seguire ciecamente il
cammino di uno sconosciuto…
***
Gustav non si era mai fidato troppo
dei presentimenti,
dell’istinto. La sua razionalità gli aveva sempre
impedito di seguire una
semplice sensazione come fosse stata un dato certo. Per questo non si
spiegava
per quale motivo, all’una di notte, assonnato,si fosse alzato
dal letto
appositamente per andare a dare un’occhiata al corridoio
fuori dalla propria
stanza.
Si stava dando dello stupido da solo,
la testa che sbirciava
fuori dalla porta, senza uno straccio di motivo. Non capiva che razza
di
assurdo presentimento lo avesse spinto a controllare un banalissimo
corridoio
vuoto.
L’indomani mattina
sarebbero partiti per Copenhagen e
sarebbe stato consigliabile riposare, o i ragazzi avrebbero avuto seri
problemi
a convivere con il suo malumore.
“Gustav?”
Tutto il sonno e la spossatezza si
dileguarono nel sentire
quella voce. Si voltò verso la propria sinistra, dove il
corridoio svoltava, e,
anche senza occhiali, non gli fu difficile riconoscere
l’immagine sinuosa di
Kuu. Cosa ci facesse lei lì, a quell’ora, poi, non
aveva la forza di
domandarselo.
Kuu si avvicinò in pochi
passi silenziosi, con indosso una
semplicissima tuta blu firmata Adidas, ai piedi un paio di ballerine.
Per la
prima volta Gustav la vedeva senza tacchi. Era davvero molto minuta.
“Sei un nottambulo anche
tu?”
“Non
esattamente.” Rispose lui. Gli sembrava meglio di un
‘Avevo un presentimento’.
Kuu lo scrutò da sotto le
sue ciglia bionde, con
un’espressione che lui non riuscì a decifrare.
Essere in sua presenza lo
metteva sempre un po’ a disagio: era impossibile indovinare
cosa pensasse.
“E tu come mai sei in
giro?”
“Non riesco a prendere
sonno.”
Un pensiero folle e decisamente
inappropriato lampeggiò
nella mente di Gustav: ‘Ti va di entrare?’
Lo scacciò nervosamente,
sforzandosi di tornare in sé.
“Quando ero piccolo mia
madre mi dava un bicchiere di latte
e menta, per farmi addormentare.” Le disse. “Forse
ti potrebbe essere utile.”
Kuu si avvolse tra le proprie braccia
e annuì.
“Sì, potrei
provare. Al piano bar hanno sicuramente sia
l’uno che l’altro.”
Era maledettamente bella. Gustav si
vergognò della
superficialità dei propri pensieri, ma era più
forte di lui. Anche con il viso
tirato e gli occhi gonfi dal sonno, Kuu restava incredibilmente
attraente.
“Vuoi compagnia?”
Le parole gli uscirono di bocca prima
che lui si fosse reso
conto di averle formulate.
Kuu lo fissò per un
secondo, palesemente stupita, e Gustav
si chiese quanto drammaticamente sbagliata potesse essere
l’impressione che le
aveva dato.
Eppure, dopo quell’attimo
di indecisione, le labbra chiare
di Kuu gli sorrisero.
***
A volte, inaspettatamente, ti si presenta un bivio davanti.
E allora
l’unica cosa
da fare è tentare.
Rischiare.
E fidarsi.
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Note:
e
ancora una volta la Mary stupì il suo pubblico, riuscendo
miracolosamente a
postare un nuovo capitolo! ^^ Chiedo scusa a tutti per il solito, immenso ritardo, ma eventi
semi-importanti
della mia vita privata hanno avuto la precedenza: la mia laurea (ma
è roba di
poco conto, tutto sommato) e il concerto di questi quattro meravigliosi
ragazzi
che tutte noi adoriamo! Non li ringrazierò mai abbastanza
per il mondo che mi
hanno regalato in una sola serata! Sono magnifici, dico solo questo.
In secondo luogo, volevo mettervi al
corrente (per chi, come
me, non se ne fosse ancora accorto) del concorso che si sta svolgendo
in questo
periodo qui su EFP: Migliori Personaggi Originali. Ora, mi sembra ovvio
che
alla sottoscritta farebbe piacere che votaste per le sue creature, ma
il
fondamentale è che sappiate che questo benedetto concorso
esiste e si vota
semplicemente accedendo alla storia con il/i personaggio/i scelto/i e
spiegando
in un commento perché ritenete che meritino il vostro voto.
Spam a parte, penso che finalmente la storia stia iniziando a entrare nel vivo e penso anche che molti di voi stiano iniziando a farsi delle domande, a cui peraltro, ai limiti del possibile, sarò più che felice di rispondere. ^^
Ciò detto, mi ritiro di
nuovo nel mio bozzolo di letargia
post-laurea, pregando che la Santa Ispirazione torni presto da me a
dettarmi un
nuovo capitolo. Fino ad allora, statemi bene e, se pensate ne valga la
pena,
fatemi sapere le vostre impressioni su questo settimo capitolo. Sapete
che
fanno sempre piacere. ;)
Alla prossima!
|
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Capitolo 8 *** Just Breathe ***
Too many broken
promises in her fragile life
Too many secret
thoughts she tried to hide that night
So hard she tried to
escape
But the pain was
everywhere
No, take this pain
away
Even for one day
(Queen Misery, For My
Pain)
***
“In sostanza i programmi
sono questi: voi fate il vostro
shopping come se nulla fosse – chiacchierate, provate, vi
divertite… quello che
volete – e Chris vi riprende. Io e Griet saremo nei paraggi
assieme a Mike e
Luke, anche se non dovremmo avere problemi di alcun tipo.
Domande?”
Kuu guardò Benjamin da
dietro ai suoi occhiali da sole e sollevò
appena il mento. Bill suppose che dovesse essere un segno di negazione.
Dopo due settimane di tour, ancora
non aveva capito che cosa
pensasse esattamente di lei. C’erano momenti – come
adesso – in cui avrebbe
tanto voluto sbottarle in faccia e invitarla a tirarsela di meno,
altri,
invece, in cui si sentiva stranamente vicino a lei, in cui parlarle era
un
piacere, e anche una sorta di sollievo. In sostanza, era tutto
semplicemente
una gran confusione.
L’ordine del giorno era la
registrazione di una puntata
della Tokio Hotel TV con la partecipazione eccezionale di Kuu.
L’episodio
avrebbe fatto scalpore e già Bill aveva un’idea
abbastanza precisa del tipo di
commenti che sarebbero volati, ma gliene importava davvero poco. Lo
shopping
gli mancava e non era mai stato nella zona modaiola di Mosca. Kuu
sarebbe stata
una presenza marginale: dovevano semplicemente fare finta di avere una
gran
sintonia e di spassarsela un sacco. Per fortuna erano entrambi
parecchio
esperti di recitazione, a quanto pareva.
“Bene,”
intervenne Griet, facendosi avanti nella hall
dell’hotel con la borsa più orribile e rovinata
che Bill avesse mai visto. Non
aveva molto buongusto, ma la sua simpatia la rendeva irresistibile.
“Su, su,
muoviamoci, il van è già qui fuori.”
Fu strano non trovare nessuno, fuori,
ad aspettarli. Di
solito le uscite dagli hotel erano sempre accolte da decine di fans
accalcati
dietro a nastri e transenne, ma fu gradevole, per una volta, non essere
aggrediti da urla isteriche.
Il Viano nero era parcheggiato subito
di fronte
all’ingresso; vi presero tutti posto in silenzio, Bill,
Benjamin e Christopher
con la telecamera da una parte, Kuu, Griet e Luke dall’altra,
Mike davanti con
l’autista, poi partirono. Impiegarono quasi
mezz’ora per raggiungere il centro,
e in quella mezzora Christopher li fece parlare un po’ di
come stessero andando
le cose con i concerti e dei piani della giornata. Quando finalmente il
van si
arrestò e si spense, Bill era già stanco di
parlare.
Appena scesi, un brivido generale
scosse tutti quanti:
faceva piuttosto freddo. Il termometro di una farmacia dal lato opposto
della
strada segnava meno undici gradi, alle nove del mattino.
“Queste capitali del Nord
sono così fredde…” commentò
Kuu,
guardandosi intorno, le braccia strette attorno a sé. A ogni
parola, sbuffi
bianchi di denso vapore le si sollevarono dalla bocca.
Bill capì subito che cosa
volesse dire: non ‘fredde’ in
senso climatico, ma ‘fredde’ per la sensazione che
davano. Forse era anche
colpa del cielo grigio e del cattivo tempo, ma tutte le ultime
città che
avevano visitato gli erano sembrate desolanti.
“Ok, ragazzi,”
disse Benjamin, sfregandosi le mani
arrossate. “Via il guinzaglio. Siete liberi di fare quello
che vi pare. Nei
limiti della pubblica decenza.”
Bill e Kuu si scambiarono uno sguardo
poco entusiasta, ma
annuirono. Lungo la via campeggiavano a perdita d’occhio le
insegne dei grandi
nomi della moda e non c’era che l’imbarazzo della
scelta.
“D’accordo,
Mister Kaulitz: patti chiari, amicizia lunga.”
Kuu gli si parò di fronte con le mani puntellate sui fianchi
e un’espressione
risoluta. “Un negozio lo scelgo io, uno lo scegli tu.
Fifty-fifty, e siamo
tutti contenti.”
A Bill piacque
quell’improvviso slancio di confidenza e
ancora di più gli piacque la mezza minaccia. Kuu aveva
davvero un caratterino
focoso.
“Perché il primo
lo devi scegliere tu?” replicò, seccato.
“Va bene,
allora,” Kuu assottigliò lievemente gli occhi,
quel giorno velati da impeccabili sfumature bianche e nere. “Prima le signore.”
Christopher riprese tutto quanto
sghignazzando dietro alla
telecamera. Bill, senza perdere il proprio regale contegno, si
limitò a chinare
il capo con riconoscenza e si avviò verso
l’entrata sfavillante di Dior.
Riflessa nel vetro della porta, vide Kuu trattenere un sorriso.
Di nuovo, provò fastidio
nell’indecisione che nutriva verso
di lei. Forse se avesse avuto le idee più chiare –
e se lei gli avesse
facilitato un minimo le cose – sarebbe stato tutto diverso.
All’interno la boutique era
luminosa e profumava di tessuti
costosi. Tuuto era gicato sui toni del bianco e dell’oro,
caldo e pulito.
Furono immediatamente accolti da un’intera legione di
commessi zelanti, che
però liquidarono in fretta.
“Odio quando ti assillano
così.” Sbuffò Kuu, puntando un
paio di jeans su un manichino. “Come se tu fossi un imbecille
che non sa come
scegliere un abito.”
“Spesso non hanno nemmeno
un briciolo di senso dello stile.”
Convenne Bill. Parlare ad alta voce alle spalle di persone presenti era
una
soddisfazione che ci si poteva togliere solo all’estero.
Mentre gironzolavano per il negozio,
Bill ebbe modo di avere
conferma di ciò che già gli era saltato
all’occhio: Kuu amava i colori neutri,
discreti. Vestiva in toni accesi solo se si trattava di apparizioni
pubbliche;
quando invece era lontana dagli occhi del pubblico, i suoi vestiti
erano
bianchi, neri, beige, crema… Mai appariscenti, mai vistosi,
mai nulla che
attirasse troppo l’attenzione.
Forse
perché ne attira
già abbastanza lei…
Uscirono dopo mezzora di sofferte
selezioni. Nessuno dei due
si provò nulla: era poco chic provarsi vestiti come quelli.
La seconda tappa fu
Dolce&Gabbana, la terza Armani. Da
Gucci, Kuu decise di sorprenderlo.
“Quello ti starebbe
bene.” Le disse Bill, indicandole un
cappottino color avorio bordato di pelliccia bianca.
Kuu buttò
un’occhiatina veloce alla stampella su cui faceva
bella mostra di sé il cappotto e storse il naso.
“Non me la metto quella
roba.”
“Stai snobbando un cappotto
di Gucci?”
“Non me lo metto addosso un
animale morto.”
Questo lasciò Bill
interdetto.
Era diventato vegetariano da poco
– poco meno di un anno – e
ancora non era riuscito a entrare del tutto nell’ottica del
vegetariano. Lo
aveva fatto per amore degli animali – lui, ma anche Tom
– eppure, nonostante le
prediche di Vibeke, non si era mai curato più di tanto di
tutti gli articoli in
pelle che possedeva. Adesso, tuttavia, di fronte alla genuina
indignazione di
Kuu verso la sua ingenua gaffe capì di avere molto su cui
riflettere.
“Non credevo ci tenessi a
queste cose.”
Indifferente, Kuu si mise a passare
in rassegna una serie di
camicette.
“Sono molte le cose che la
gente non crederebbe di me.”
Bill rimase lì, con la
giacca che stava guardando tra le
mani, a chiedersi quale dei mille modi in cui quella frase poteva
essere
interpretata fosse quello giusto. Kuu era un enigma, e per giunta un
enigma che
ci teneva a restare tale. Parte del suo fascino derivava anche da
quello, dal
sapore di segreti che avevano i suoi occhi.
“Non ti vorrai comprare quella,
vero?”
Un battito di ciglia fece riscuotere
Bill. A pochi metri da
lui, Kuu lo scrutava accigliata.
“Perché?”
fece lui, perplesso. “Cos’ha che non va?”
“Niente.” Rispose
Kuu brevemente. “Il look dark-glam-metal ti
dona, e anche parecchio.”
“Ma…?”
C’era un
‘ma’, era ovvio.
Per un paio di secondi lei
fissò la camicetta che aveva
scelto, poi sembrò ripensarci. Si voltò verso
Bill e il suo sguardo vagò su di
lui, critico.
“Mai pensato di provare
qualcosa di nuovo?”
No,
fu l’immediata
reazione del cervello di Bill. Gli piaceva il suo stile, non lo aveva
mai
nemmeno sfiorato l’idea di cambiare. Faceva parte di lui,
della sua
personalità, quel modo di vestire, e nel tempo si era
evoluto assieme a lui.
Non voleva nemmeno pensarci di cambiare.
Lo sguardo di Kuu, però,
aveva acceso il lui una strana
voglia di confronto. La sfida che lei gli aveva indirettamente lanciato
lo
aveva stuzzicato e l’invito a giocare era toppo allettante
perché lo potesse
lasciare ignorato.
Le si avvicinò, lasciando
perdere la giacca, e ricambiò con
lo stesso, identico sguardo:
“Immagino che tu sapresti
suggerirmi.”
Un angolino della bocca di Kuu
accennò un ricciolo di
soddisfazione, che lei contenne con disinvoltura.
“Potrei rifarti il
guardaroba,” affermò, sicura. “E me ne
saresti riconoscente.”
Nonostante il tono di
superiorità, non c’era ostilità nel
suo atteggiamento. Era tranquilla, calibrata, elegante. Ma
improvvisamente Bill
non si sentiva più irritato da lei.
“Potrei dire la stessa
cosa.” Ribatté, soave.
Kuu ripose con cura la camicetta
sull’espositore e si girò a
fronteggiarlo. Era bassa, tanto che, anche con i tacchi degli stivali,
gli
arrivava a stento alla spalla, eppure sapeva incutere una soggezione
incredibile.
“I tuoi gusti non sono
adatti alla mia figura.” Obiettò,
occhieggiando con eloquenza le borchie della cintura e della borsa.
Era esattamente quello che Bill aveva
aspettato. Imitando la
sua compostezza, incrociò le braccia sul petto e
inarcò un sopracciglio:
“Vogliamo
scommettere?”
Da dietro sottili ciuffi biondi, gli
occhi di Kuu
scintillarono, mentre un sorriso intrigato le si apriva sul viso.
“Scommettiamo.”
“La faccenda inizia a farsi
interessante…” commentò una
voce.
Solo allora Bill rammentò
che c’era una telecamera a
riprenderli e, dietro di essa, Christopher seguiva la scena con un
certo
interesse.
“Bill versus Kuu: la sfida
è aperta! Quali sono le regole?”
“Io scelgo il tuo look, tu
il mio.” Stabilì Kuu. La
telecamera la seguì da vicino. “Completa
connivenza, nessun diritto di protesta
o trattazione, nessuna possibilità di appello.”
“La posta?”
“Chi perde si esibisce con
l’outfit deciso dal vincitore al
concerto di stasera.” Rivolse a Bill un’occhiata
maliziosa. “Ci stai?”
Lui si impettì in tutta la
propria altezza e sollevò
enfaticamente il mento.
“Ci sto.”
***
“Te lo puoi scordare che io
mi mostri in giro conciata
così!”
“Le regole le hai fatte tu,
quindi adesso devi sottostare!”
“Tu sei pronto,
almeno?”
“Sì,
ma…”
“Niente ma. Nessun
diritto di protesta o trattazione, nessuna possibilità di
appello.”
“La camicia va dentro o
fuori dai pantaloni?”
“Fuori.”
“Ok. E questa specie di
nastro nero?”
“Va attorno al
polso.”
“E come me lo lego, da
solo?”
“Su, uscite!”
ordinò la voce divertita di Christopher. “Fateci
vedere chi ha vinto!”
Bill sospirò fra
sé. Non era poi così sicuro della sfida,
adesso.
Kuu lo aveva trascinato da un negozio
all’altro e lo aveva
costretto a considerare un mucchio di cose chic che a lui non sarebbe
mai
nemmeno venuto in mente di guardare. Lui, in compenso, la aveva tenuta
per più
di un’ora da Vivienne Westwood, godendo delle sue espressioni
orripilante di
fronte a certi capi che le proponeva.
Alla fine, con il portafogli
decisamente alleggerito, si
erano fermati nei camerini per il risultato finale.
Bill si guardava accigliato allo
specchio, incerto.
Cominciava a temere di aver sottovalutato la sfida, e soprattutto
l’abilità di
Kuu. Gli bruciava ammetterlo, ma gli piaceva il modo in cui lo aveva
fatto
vestire. I jeans chiari e sdruciti, venati di scuro, attenuavano bene
l’eccessiva
finezza delle sue gambe, retti attorno ai fianchi da una cinta di lino
nero, in
tinta con la giacca, legata di lato. Si lisciò addosso la
leggera camicia
bianca e aggiustò gli orli dei pantaloni sopra agli stivali.
Sebbene qualcosa non lo convincesse
del tutto, dovette
ammettere che stava benissimo.
Fuori sentì la porta del
camerino di Kuu che si apriva e
subito dopo un paio di fischi di ammirazione.
Incuriosito, anche se per niente
convinto, uscì, pronto ad
ammettere la sconfitta. La mise che aveva scelto lui per lei non poteva
certo
essere all’altezza. Ma poi sollevò lo sguardo, e
si rese conto che la vittoria
era indiscutibilmente sua.
Kuu gli stava di fronte, le mani di
nuovo vezzosamente sui
fianchi, e lo guardava con un’espressione per niente felice.
“Non dire
niente.” Borbottò aspramente. “Sono
ridicola.”
Bill avrebbe solo voluto capire come
smettere di
boccheggiare. La giovane donna raffinata e austera non c’era
più. Aveva
lasciato il posto a una provocante ragazza dal fascino trasgressivo.
Anfibi con fibbie argentate ai piedi,
gambe nude, una
minigonna in finta pelle a coprirle a stento le cosce, sorretta da una
cintura
borchiata. Gli strappi sulla maglietta si incrociavano con le
sottilissime
catene che la decoravano, richiamando la foggia dei bracciali che le
pendevano
dai polsi sottili. Al collo, il collare di Bill.
“Stai da dio!”
esclamò Bill, incredulo, non appena ebbe
recuperato l’uso della parola.
Kuu sbuffò.
“Oh, ti prego, sii
obiettivo!”
Bill era molto
obiettivo, e stava giusto pensando che, con il trucco giusto, il look
avrebbe
raggiunto la perfezione.
“Ha vinto lui, Kuu,
credimi.” Intervenne Benjamin, in tono
ridente. “La giuria ha emesso un verdetto unanime.”
“Assolutamente.”
Convenne Christopher, facendo un segno di
ok con la mano. Griet, accanto a lui, rideva.
“Un secondo solo,
però.” Disse Kuu, accostandosi a Bill.
“Sei un incapace, Kaulitz.”
Prima che lui potesse ribattere, Kuu
allungò le mani e gli
sbottonò i tre bottoni più alti della camicia,
poi spinse in su le maniche,
scoprendogli gli avambracci, gli sfilò di mano il nastro e
glielo mise al
polso, incrociandolo più volte prima di legarlo.
Bill rabbrividì sotto alle
sue dita fredde. Si lasciò
sfiorare e apprezzò la delicatezza del suo tocco,
l’agilità. Le sue mani erano
belle quanto lei: piccole, fini, curate fino alla
maniacalità, seducenti.
“Così va
meglio.”
I loro occhi si incrociarono mentre
lei ammirava il proprio
operato. Al centro dell’iride dorata, le sue pupille erano
abissi insondabili,
muri di buio in cui era impossibile distinguere pensieri, emozioni,
sensazioni.
Gli occhi di una bambola.
“Vinci tu lo
stesso.”
Kuu assunse un broncio irritato. Si
mise a fissare se stessa
nell’immenso specchio che occupava l’intera parete
dell’anticamera e non
sembrava affatto contenta. Come già lui aveva notato,
tuttavia, il suo sguardo
non saliva mai fino al volto.
“Detesto le gonne
così corte.”
A Bill occorse un certo sforzo per
trattenere commenti
inopportuni. Si dava il caso, infatti, che, per quanto lei potesse
detestarle,
le gonne corte facessero un a figura particolarmente apprezzabile, su
di lei.
“Un vero
peccato.” Commentò Christopher, dando
così voce ai
suoi pensieri, poi scoppiò a ridere. “Ok, questa
poi la tagliamo.”
“Non posso esibirmi
così!” protestò Kuu con una punta di
panico.
“Cosa penseranno i fans?”
Bill scrollò le spalle,
spietato e divertito.
“Le regole sono regole.
Puoi sempre spiegare la storia nel
tuo prossimo post del tour-log.”
Kuu gli restituì
un’occhiata pungente, ma chiaramente
scherzosa, e Bill comprese che in quella mattinata qualcosa era
cambiato.
Qualcosa di piccolo, di silenzioso, che però
c’era, e gli faceva piacere.
E in quel preciso momento una pallida
speranza si annidò in
lui, di nascosto, a sua insaputa, mentre lui si chiedeva se, in fondo,
proprio
la speranza non fosse davvero l’ultima a morire.
“Foto! Foto!”
esigette Christopher, battendo le mani per
attirare la loro attenzione. Aveva tirato fuori dal suo borsone la sua
inseparabile fotocamera e ora la puntava verso di loro, impaziente.
“Non ho nessuna intenzione
di –”
“Invece
sì.”
Bill non si curò della
protesta di Kuu. Le mise un braccio
sulle spalle e la tirò verso di sé, sorridendo
verso Christopher. Sbigottita,
Kuu gli barcollò accanto, ma non si oppose. Bill riusciva a
percepirla con il
proprio corpo: magra, sottile, fragile. Abituato alla solida
fisicità di
Vibeke, ora gli sembrava di toccare una farfalla.
“Sorridi un po’,
ragazza mia!” esclamò Griet, scuotendo la
testa.
“Sorrido quando lo dico
io.” La rimbeccò Kuu.
Bill si riconobbe in
quell’atteggiamento capriccioso, nella
posa insolente che lei aveva assunto.
Alla fine, tra uno scatto e
l’altro, finirono per fare un
vero e proprio photoshoot. Bill si divertì a posare con Kuu:
per la prima volta
da sempre finalmente non era il solo a provocare
l’osservatore, a giocare con
posizioni, sguardi, gesti. Kuu sapeva come farsi catturare
dall’obiettivo, e si
muoveva con una notevole dimestichezza tra i flash, senza esitazioni.
Sempre senza
sorrisi, però.
Per quel che Bill ricordasse, non
esisteva fotografia in cui
Kuu fosse stata ritratta sorridente. Da quel punto di vista, gli
ricordava
parecchio qualcuno di sua conoscenza.
“Sono stanco morto, ma
è stato divertente.” Si compiacque
Bill, quando arrivarono dritti all’arena.
Cercò il viso di Kuu, ma
lei era rivolta altrove. Tutto ciò
che gli tornò indietro su silenzio.
“È stata una
mattinata davvero piacevole.” Mormorò Kuu,
proprio quando Bill stava per aggiungere qualcosa. Si voltò
a guardarlo. “Devo
essere sincera, ero convinta che ci saremmo entrambi annoiati a morte a
vicenda, invece… Sono rimasta sorpresa. Positivamente,
intendo.”
Per gli standard di Kuu, quello era
un complimento molto
generoso.
“Ammetto che l’ho
pensato anch’io.” Disse Bill. “Ma per una
volta non mi è dispiaciuto dovermi ricredere.”
Raggiunsero il backstage, e
lì le loro strade si separavano:
Bill aveva un’intervista assieme ai ragazzi e Kuu doveva
registrare con Kaaos
un breve filmato per aggiornare i loro fans sul tour. Bill era curioso
di
vederlo, solo per scoprire se e come avrebbe parlato della loro
sessione di
shopping.
Kuu lo salutò con un cenno.
“Ci si rivede tra un paio
d’ore.”
“Certo. E non dimenticare
che ti è assolutamente vietato
cambiarti prima della fine del concerto.”
“Tu non ti cambiare per
l’intervista.”
Bill sorrise e assentì.
“D’accordo. A
dopo, allora.”
E mentre lei gli voltava le spalle e
si allontanava lungo il
corridoio, Bill si chiese perché, dopo che per una mattina
erano stati così
vicini, lei sembrasse ancora irrimediabilmente inarrivabile.
***
Kuu era stata a fare shopping con
Bill per tutta la mattina.
La aveva vista di sfuggita uscire con
un’espressione funerea
e l’aveva poi vista rientrare con un’aria
così serena e rilassata che non aveva
potuto fare a meno di chiedersi cosa potesse mai essere successo per
ribaltare
così drasticamente il suo umore. I racconti entusiastici di
Bill riguardo la
giornata, in seguito, gli avevano più o meno chiarito le
idee.
Avrebbe solo voluto conoscere anche
il punto di vista di Kuu.
Si sorprese a scoprirsi irrequieto al
pensiero che potesse
essere stata per entrambi un’esperienza significativa.
Lui era stato il primo ad avvicinarsi
a lei. In qualche
modo, questo lo aveva compiaciuto.
Ora, come sempre, il carattere
esuberante di Bill arrivava a
monopolizzare tutto quanto.
E Gustav non era geloso di lui, ma
solo invidioso. Invidioso
del fatto che per lui fosse così semplice farsi benvolere
dalle persone,
entrare in contatto con loro, conquistarle. La timidezza rendeva Gustav
goffo
nelle relazioni con gli altri, tanto che spesso, involontariamente,
faceva la
figura dell’asociale.
Con Kuu, stranamente, era riuscito a
stabilire un vero e
proprio contatto con discreta disinvoltura, e se n’era
inorgoglito, soprattutto
perché lei non sembrava il tipo da dare facilmente
confidenza.
Quando la aveva vista arrivare nel
backstage dell’arena
vestita in quel modo, non gli era stato granché difficile
vederci lo zampino di
Bill. La cosa più snervante era che, anche se palesemente
non ci si sentiva a
proprio agio, Kuu con quei vestiti era mozzafiato.
Gli era toccato vergognarsi ancora
una volta della
superficialità delle proprie reazioni, ma non ne aveva
potuto fare a meno, così
come adesso, seduto da solo nella saletta del catering, non poteva fare
a meno
di chiedersi se, ancora una volta, da un momento all’altro la
porta si sarebbe
aperta timidamente e ne sarebbe entrata lei.
Perché era così
che succedeva. Sempre. Senza un perché,
senza che nessuno decidesse niente. Semplicemente, accadeva. Era come
se fosse
nato un tacito accordo tra di loro che stabiliva che a una certa ora, a
un
certo tempo dall’inizio del concerto, loro due si dovessero
incontrare lì, da
soli, a parlare e parlare, fino a che a uno dei due non si ricordava
che il
tempo stava per scadere.
Gustav non sapeva perché
Kuu andasse da lui. Spesso si era
detto che probabilmente non lo sapeva nemmeno lei. Forse voleva solo
stare da
sola, con lui che era solo.
Si rigirò lo scotch bianco
tra le mani. Ormai erano quasi le
otto. Era tardi per la solita chiacchierata.
Stupidamente, aveva aspettato fino ad
ora per sistemarsi
quello scotch sulle dita perché da quella prima volta era
sempre stata lei a
farlo per lui. Era un gesto che in qualche modo riusciva sempre a farlo
sentire
bene, come un vizio, una piccola coccola, qualcosa che era soltanto per
lui,
soltanto di loro due, perché nessuno lo sapeva. Non avrebbe
saputo che
significato attribuire a quei momenti – che valore
– però sapeva che gli piacevano.
Gustav sospirò e
staccò un pezzo di scotch. Ormai era
decisamente tardi.
In quel preciso istante,
però, la porta si aprì con un
cigolio. Kuu entrò silenziosa e la richiuse. Quando
sollevò la testa, Gustav si
accorse che non portava il solito trucco.
“Bill ha preteso anche
questo.” Mormorò, a mo di scuse. “Mi
faccio schifo, per la cronaca.”
In realtà era bellissima
– come sempre, del resto – ma
Gustav preferì evitare di contraddirla.
“Stasera lascerai tutti a
bocca aperta.”
Kuu schioccò la lingua e,
come di consueto, prese posto al suo
fianco. Gli tolse gentilmente lo scotch dalle mani, con naturalezza, e
iniziò
ad avvolgerglielo attorno alle giunture.
“Ti devi decidere a
metterti della crema, lo sai?” gli
disse, severa, facendogli scorrere le dita sulla pelle sciupata.
Era davvero strano vederla vestita in
quel modo aggressivo.
Vibeke stessa, nel vederla, era rimasta senza parole, un po’
come tutti. Erano
disegni e tagli che stridevano con la sua persona.
“Non credo che farebbe una
gran differenza.”
Kuu si fermò per un
momento e lo guardò:
“Una piccola differenza
è sempre meglio che nessuna
differenza.”
Gustav si lasciò perdere
nei suoi occhi. Parlavano di
solitudine, o forse era solo un riflesso. E chissà cosa ci
vedeva lei, nei
suoi.
“Bill ha detto che avete
passato una bella giornata.” Disse
Gustav, cambiando deliberatamente argomento.
“Sì,
è stato bello,” annuì lei.
“Ci siamo divertiti. È stata
una sorpresa per tutti e due. Non è da tutti i giorni fare
shopping assieme a
un ragazzo a cui piace più di te.”
Quello era un punto su cui Gustav non
avrebbe mai retto in
confronto.
“Mi fa piacere. Bill ha
bisogno di svagarsi un po’. Ha
un’aria troppo malinconica, ultimamente.”
Le luci erano fioche, là
dentro. Un neon era rotto e l’altro
emetteva un alone azzurrognolo che aveva un che di spettrale.
“E tu, allora?”
Gustav si accigliò:
“Io cosa?”
“Tu hai sempre
un’aria troppo
malinconica.” Sussurrò lei, senza guardarlo.
“Oh, a me nessuno fa caso.” Minimizzò
lui. “Sono sempre stato così. È
più
lampante Bill che ha perso il sorriso.”
Kuu alzò gli occhi sui
suoi e pareva voler indagare dentro
di lui tanta era l’intensità di quello sguardo. Lo
contemplò a lungo, in
silenzio, senza lasciargli la mano, come se cercasse qualcosa che non
riusciva
a trovare.
“Wolf.”
Gustav non capì.
“Cosa?”
“Wolf.”
ripeté Kuu, assorta. “Ho sempre
pensato che ti stesse bene come nome.”
“Lupo?”
Lei annuì.
“Come mai
all’inglese e non alla tedesca?”
Il tepore di un timido accenno di
sorriso le illuminò il
viso.
“Ha un suono più
dolce.”
Gustav, per quanto basito,
riuscì a sorriderle in risposta,
ma lei chinò il capo, fuggendo, e riprese a sistemare lo
scotch. C’erano
momenti così, a volte, in cui sembravano entrambi volersi
dire qualcosa, ma
nessuno parlava mai. Accenni, allusioni, poi pause improvvise. Ma era
forse
solo un’impressione.
“Mi piace.” Disse
Gustav. “È buffo, però.”
Aggiunse poi, con
una breve risata sommessa. “Tu mi dai soprannomi e io nemmeno
so come ti chiami
veramente.”
Le mani di Kuu si bloccarono e si
irrigidirono, le sue
spalle si incurvarono in avanti.
Gustav imprecò contro se.
Idiota.
***
Kuu era ancora abbastanza confusa,
dopo quella mattinata
insolita. La colpa era tutta di Bill, insospettabilmente, a trascinarla
con prepotenza
fuori dal suo umore grigio con la sua contagiosa voglia di vita e
divertimento,
ma probabilmente, più che colpa sarebbe stato il caso di
definirlo un merito.
Kuu non riusciva neanche a ricordare
l’ultima volta che si
era goduta del tempo libero con tanta leggerezza. Era stata una ventata
d’aria
fresca. E al di sopra di tutto quanto c’era Bill, che per la
prima volta si era
dimostrato bendisposto verso di lei. Un momento prima c’era
il solito gelo a
dividerli, e un momento dopo, come nulla fosse stato, si erano
ritrovati a
usarsi l’un l’altra come bambole, battibeccando
come vecchi amici. Se esisteva
una spiegazione logica a quello che era successo, Kuu non la sapeva
trovare. Quello
che invece sapeva – e anche bene – era che doveva
sentirsi lusingata del fatto
che Bill avesse deciso di mettere da parte momentaneamente i pregiudizi
verso
di lei, invitandola così a fare lo stesso con lui, e i
risultati erano stati incredibili.
Era rimasta per ore ad ammirare Bill,
rapita dai suoi
sorrisi, dal suono della sua risata, dalla naturalezza con cui si
metteva
davanti un abito che gli stava malissimo e si prendeva in giro davanti
alla
telecamera. Era una capacità che lei non aveva, quella.
Si era congedata da lui cullata da
una sensazione di pace,
certa che niente e nessuno avrebbe potuto turbarla, quel giorno, ma
così non
era stato. Ed era ironico che la persona che era riuscita a turbarla
fosse
anche la persona che di solito, invece, la metteva più a suo
agio.
Era difficile. Era terribilmente
difficile accettare di non
essere in grado di dare risposte fredde ed evasive, per lei.
L’intento c’era,
la voglia di liquidare quella domanda fastidiosa con un semplicissimo
‘Non ti
riguarda’, ma proprio non le riusciva.
Era colpa dei suoi occhi, degli occhi
scuri di Gustav
adagiati su di lei senza alcuna pretesta, solo aspettando. Normalmente
lei non
avrebbe risposto a una domanda simile. Normalmente, avrebbe trovato un
modo
elegante per aggirarla
Considerò
l’eventualità: nessuno sapeva il suo vero nome. Lo
aveva gelosamente tenuto segreto, assieme a un pesante bagaglio di
passato che
non le apparteneva più. Lei era Kuu, adesso. Soltanto Kuu.
Lo aveva scelto lei.
“Non fa niente,”
disse Gustav in tono rassicurante. “Scusami,
non avrei dovuto chiedertelo, non sono affari miei.”
“No, scusami tu,
davvero.” Disse lei, seriamente dispiaciuta.
“So che è una cosa stupida
ma…”
Era stato un altro tempo,
un’altra vita, una realtà diversa,
che ora non c’era più. Era persa.
“Senti, lasciamo
perdere.” Minimizzò lui, con uno dei suoi
rari sorrisi. “Non è importante.”
Ma era
importante.
Lo era, o per lei non sarebbe stato così difficile.
Kuu si accorse che qualcosa dentro di
lei si era appena
spezzato. Non sapeva cosa, non sapeva come, non sapeva
perché.
“Mi chiamo
Sascha.” Si sentì rispondere, quasi senza esserne
cosciente. “Sascha Edelmond.”
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Note:
finito! Chiedo scusa ancora una volta per il ritardo vergognoso e anche
per la
mia assoluta assenza su MSN. È un periodo strano, spero mi
perdonerete. Vi rimando
a più tardi per le note più dettagliate, adesso
sono un po’ di fretta. Spero vi
sia piaciuto, aspetto fiduciosa commenti, e, prima che me ne
scordi…
Un grazie
enorme a
tutte voi per avermi votata al concorso per i migliori personaggi
originali! Mi
sono commossa quando ho scoperto di essere passata al secondo round ed
è tutto
merito vostro! Vi adoro!
|
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Capitolo 9 *** Unleashed, Unmasked, Unpredicatble ***
You were
alone before we met
No more forlorn than one could get
How could we know?
[Placebo, Ashtray Heart]
***
Praga. Non si sarebbe mai stancato di
vederla.
Una città semplice e
affascinante, abbastanza piccola da
poter essere girata tranquillamente a piedi, ma non abbastanza da
annoiare un
visitatore saltuario.
Gustav aveva perso il conto delle
volte che era già stato
lì, ma non riusciva a ricordarne una sola in cui non aveva
avuto il desiderio
di sacrificare qualche ora di sonno in favore di una passeggiata tra le
caratteristiche vie della città, anche solo per rilassarsi e
godersi un po’ il
paesaggio.
Il tempo, stavolta, però,
sarebbe stato inclemente: erano
arrivati il giorno stesso del concerto, e la sera successiva sarebbero
subito
ripartiti per Lille, e questo lasciava poco tempo al turismo. Tuttavia,
già
appena messo piede in terra ceca, Gustav aveva deciso che non si
sarebbe negato
qualche ora tutta per sé, e adesso che i Pristine Blue
avevano lasciato il
palco e la folla già acclamava i Tokio Hotel,
l’adrenalina e la voglia di
musica prendevano il sopravvento sullo spirito di solitudine.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
C’era Vibeke che stava
baciando Tom nel suo solito modo
molto discreto, la chitarra di Tom
già a tracolla premuta tra i due. Bill li guardava sdegnoso,
Georg si limitava
a ignorarli, appoggiato a un amplificatore in disparte.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
Kuu e Kaaos erano appena rientrati
nel backstage. Kaaos non
doveva essere di umore proprio ottimo: piantò la chitarra in
mano a uno dei
tecnici e si dileguò in fretta e furia. Kuu, la quale
sembrava invece
perfettamente rilassata, passò elargendo sorrisi ai
complimenti di Griet e
degli altri.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
Georg diede a stento segno di aver
registrato la sua
presenza. Bill le sorrise distratto, e lei ricambiò,
passandogli accanto.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
“Ragazzi, svelti, andate ai
vostri posti!” ordinò loro Willi
nell’auricolare.
Gustav si era aspettato un sorriso
anche per sé. Quando Kuu
passò accanto a lui, invece, chinò il capo e si
lasciò portare via da Griet,
che l’aspettava con una felpa in mano, lasciandosi dietro
nient’altro che un
flebilissimo ‘Ciao’, che Gustav non era nemmeno del
tutto sicuro di non essersi
immaginato.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
“Gustav, muoviti, manchi
solo tu!”
Si riscosse, come risvegliandosi da
uno stato di trance, e sia
frettò a raggiungere i ragazzi sul palco.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
Era ora di iniziare. Rimasero qualche
minuto fermi nelle
loro posizioni, immersi nelle ovazioni che invocavano il loro nome.
“Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!”
Quando la musica partì, la
sua testa era ormai da un’altra
parte.
***
Ahoy, people!
This is Kuu, writing right
after the show we
just had here in Prague. The gig was awesome, great audience and even
greater chemistry
with the music, you can’t imagine how proud we are of the
response we are
getting. Kaaos is wailing on the sofa with the worst headache
he’s ever had in
his whole life, or so he says. If any lady is willing to come and nurse
the big
boy, he’s free and available (well, not emotionally, I must
say). Tokio Hotel
are on stage right now, rocking the place among screams and the loudest
praises
I’ve ever heard. I spotted French, Italian and Russian flags
in the crowd… I
find it amazing that there are fans going all around Europe to follow
their
idols.
You can’t imagine how much fun I had tonight!
Czech people are very welcoming and let us feel a wonderful atmosphere
during
the show. I’m touched.
We have a couple of spare days now, so I really
hope to have some rest and manage to visit this beautiful city as well,
since,
as many of you surely know, I was never much of a traveler in my life.
Follow the link below to watch the first video
that was shot during the rehearsals and some backstage pics. More to
come soon,
I promise.
Thanks everyone for your messages on Facebook
and Myspace, keep them coming, we try to read them all, even though we
don’t
have enough time to reply to everyone.
Lots of love!
Kuu
Posted
by: Kuu; on Mon, 15th
Mar 2010 @ 22.36
***
Non era questo che io volevo. Non era
quello che cercavo.
Volevo solo smettere di essere me, comprarmi una maschera e
verstirmene per sempre. Un nuovo volto, un nuovo nome, una nuova vita.
Ma ora alzo lo sguardo e nello specchio sono nascosta solo
a metà.
Come hai fatto a farmi questo?
Non era questo che io volevo.
Non era te che cercavo.
***
La mattina del sedici di marzo
c’era un sole accecante a
brillare nel cielo più terso e turchino che avesse visto
negli ultimi due mesi.
Non faceva nemmeno particolarmente freddo, e questo rendeva la giornata
l’ideale per un sano svago turistico. Si era svegliata con la
voglia
irrazionale di uscire dall’hotel e rubarsi qualche ora tutta
per sé, per sé e
nessun altro, e fare ciò che voleva senza avere il fiato di
Luke sul collo. Non
era granché popolare al di fuori dei confini tedeschi,
quindi erano scarse le
possibilità che qualcuno la potesse riconoscere.
Scese nella hall che era ancora
presto, lasciando a Kaaos un
biglietto che diceva semplicemente ‘Ci
vediamo stasera’. Occhiali da sole e cappotto nero
le erano parsi adatti
all’anonimità che le sarebbe servita per passare
inosservata, ai limiti dello
scrupolo. Si sistemò la grossa borsa di Gucci al braccio e
uscì dall’ascensore.
Per qualche strano motivo, non si stupì quando, avviandosi
verso la porta, il
suo cammino si incrociò con quello di qualcun altro.
“Hey!”
esclamò, ritrovandosi di fronte a un paio di occhi
che quella mattina erano inusualmente chiari, di un castano dorato che
finora
aveva avuto il piacere di vedere solo in fotografia.
“Buongiorno.”
Salutò cordialmente Gustav. Il suo viso stanco
si era come illuminato nel vederla, e questo la lusingò
più di quanto avrebbe
potuto fare qualsiasi complimento esplicito.
Gustav era, come suo solito, il
ritratto della semplicità:
jeans, giubbotto scuro, occhiali e un’aria decisamente
più disinvolta di lei.
“Dove te ne vai a
quest’ora del mattino?” gli domandò,
benché conoscesse la risposta: sapeva che gli piaceva dare
un senso ai suoi
pochi giorni liberi godendosi le città in cui si trovavano
di passaggio.
“Sono le otto.”
Le rispose lui con un sorriso.
“Considerando che siamo
andati a dormire sei ore fa…”
“Già, ma non mi
pare di stare parlando da solo, ora che ci penso…”
Kuu apprezzò
l’arguzia, ma non se ne lasciò intimidire.
“Oh, io ho in programma un
giro in città.”
Lui parve sorpreso.
“Sul serio?”
“Che
c’è di strano?” fece lei, sulla
difensiva.
“Niente.,” si
schermì lui, tranquillo. “Solo credevo di essere
l’unico
interessato alle città che giriamo.”
Improvvisamente un’idea si
fece strada nella sua testa:
entrambi avevano intenzione di visitare Praga ed entrambi lo avrebbero
fatto da
soli. Inoltre, lui conosceva la zona senz’altro meglio di
lei, visto che ci era
già stato spesso. Mentre abbracciava quell’idea
con più entusiasmo di quel che
si sarebbe aspettata, Kuu cercò di convincere sé
stessa che fosse perché,
accompagnata da lui, semplicemente avrebbe potuto ottimizzare i tempi e
orientarsi con più sicurezza.
“Praga non l’ho
mai vista prima d’ora, come del resto tutte
le altre,” confessò, con una punta di
risentimento, ma con il bocciolo di una
segreta speranza che quelle parole scelte con cura sortissero
l’effetto che lei
si augurava che le tremava dentro. “E sembrerebbe avere molto
da offrire.”
Gustav annuì.
“È bellissima,
noi ci siamo già stati qualche volta.”
Lasciò
cadere una breve pausa e abbassò lo sguardo, rialzandolo
subito dopo, quasi con
timore. “Se vuoi…”
Il bocciolo di speranza si
spalancò in un fragile fiore di
entusiasmo, che fu tuttavia abilmente tenuto a bada. Kuu
allargò gli occhi qual
tanto che bastava per simulare una sorpresa intenzionalmente trattenuta.
“Mi faresti da
guida?”
“Ti va?”
Gustav le sorrise, un sorriso che le
guardò giù, in fondo,
là dove lei stessa da secoli aveva smesso di guardare, forse
per il timore di
non ritrovarsi più. Avrebbe voluto poterselo comprare, quel
sorriso. Avrebbe
voluto poterlo conquistare come faceva con tanti altri sorrisi: uno
sguardo
languido, un movimento sinuoso della mano, delle labbra, una parola
pronunciata
nel tono giusto. Ma con Gustav non funzionava così: lui
sorrideva poco, e di
rado, quelle poche volte, i suoi sorrisi si allargavano abbastanza da
rischiarargli il volto come era appena successo.
Kuu si fece una fotografia mentale di
quel regalo. La
impresse bene dentro di sé, custodendola gelosamente,
conscia che più di così
non avrebbe mai potuto ottenere.
“Volentieri.”
Kuu sentiva di essersi persa un
passaggio. Da qualche parte,
nelle settimane precedenti, ci doveva essere stato il momento in cui
lei aveva
deciso che fosse giusto smettere di fare la glaciale stronza sopra le
righe e
addolcirsi quanto bastava per essere considerata una compagnia appena
passabile. Non riusciva a ricordarlo, però. E non riusciva a
ricordare nemmeno
quand’era stato che dall’essere una compagnia
appena passabile si era
completamente abbandonata all’assoluta naturalezza. Aveva
perso il controllo di
sé, per qualche ragione. Era come se le avessero strappato
uno scudo che da
anni si teneva incollato addosso e lei non se ne fosse neanche resa
conto.
No, non era
questo che
io volevo…
“Andiamo?”
Kuu tornò in
sé, e non si sentiva umiliata come avrebbe
creduto, bensì stranamente leggera.
Gustav le cedette il passo per uscire
e da lì, dopo che
ebbero messo piede fuori dall’hotel, il tempo se ne
volò via con un’inclemenza
che lei non gli avrebbe perdonato.
***
Bill si domandava dove diavolo
fossero finiti tutti quanti.
Aveva appurato che Georg era rintanato nella sua stanza, immerso in una
conversazione via Skype con Nicole ed Emily da cui non si sarebbe
staccato
facilmente; Tom e Vibeke, invece, erano ufficialmente dispersi, dopo
essere
stati persi di vista al party della sera prima. Bill era abbastanza
sicuro che
si fossero ubriacati e se ne fossero andati a smaltire una sbornia con
una
bella notte di sesso sfrenato. Il solo pensiero gli fece venire il
voltastomaco.
Nessuno sapeva con esattezza dove
fosse andato Gustav, ma
era normale. Sicuramente era uscito a farsi una delle sue solite
passeggiate a
tempo perso per la città.
Era già quasi mezzogiorno,
e Bill era tutto solo nel
salottino della sua suite a guardare un orribile quiz ceco il cui
presentatore
somigliava in modo impressionante a Tom Cruise, solo con una ventina
d’anni di
più. Odiava stare solo, soprattutto se la giornata era
teoricamente dedicata al
riposo. Non sapeva nemmeno perché fosse sveglio. Erano
andati a dormire alle
tre passate, la sera precedente, e aveva bevuto così tanto
che a un certo punto
si era ritrovato in braccio a Mike, che lo stava riportando in camera
in
condizioni a dir poco pietose. Per sua fortuna, tutto il resto lo aveva
rimosso.
Amareggiato, cambiò
canale. Trovò Viva, ma le canzoni che
trasmettevano o non le conosceva, o gli facevano schifo, quindi alla
fine si
arrese e spense. Aveva appena riappoggiato il telecomando al tavolino,
quando
sentì bussare alla porta. Non rispose, temendo che fosse
qualche fan in cerca
di avventure. Avrebbe fatto finta di non esserci. Un attimo dopo,
però,
bussarono di nuovo.
“Servizio in
camera.”
Se non altro era una voce maschile,
non fosse che lui non
aveva ordinato niente.
Aprì, per pura
curiosità, e si ritrovò davanti uno
sgargiante sorriso a trentadue denti e un paio di occhi
grigioverdi che lo disorientarono per un
momento.
“Overraskelse!” ("Sorpresa!")
Bill
faticò a trovare la voce, tra lo stupore e la gioia di
quell’inaspettata
sorpresa.
“BJ!”
ululò, gettandosi tra le braccia spalancate
dell’amico. “Oddio, che bello
vederti!”
Forse
il suo entusiasmo sarebbe stato molto meno violento se BJ non fosse
capitato in
un momento così deprimente.
“Santo
cielo, questa sì che si chiama accoglienza!” rise
BJ, quando finalmente si
separarono. “Dovevi proprio sentire la mia mancanza,
eh?”
Bill
si
imbronciò e lo invitò a entrare.
“Non
vale che debba essere solo io a fare il fratello single che si sorbisce
quei
due piccioncini disgustosi.”
“Io
ci
metterei la firma, invece,” ammise BJ, abbacchiato.
“La mia Vibekina mi manca
tanto…”
Solo
allora Bill si accorse che, assieme a un borsone da viaggio, BJ reggeva
sotto
al braccio un orsacchiotto vestito alla tirolese. Li
abbandonò entrambi ai
piedi del divano e vi si lasciò cadere stancamente.
“Sono
ore che provo a chiamare questa disgraziata, ma ha il cellulare spento.
Allora
ho provato a chiamare Tom, ma nemmeno lui è raggiungibile.
Alla fine mi sono
arreso e ho chiamato Benji, e lui mi ha detto di venire qui.”
“Ho
la
sensazione che non rivedremo Tom e Vibeke prima di sera,” gli
comunicò Bill. “E
nemmeno gli altri, direi. Mi hanno abbandonato a me stesso.”
“Ma
tu
guarda!” BJ incrociò le braccia, fingendosi
offeso. “Uno si fa due ore di aereo
per fare una sorpresa a sua sorella e ai suoi amici, e loro sono tutti
in giro
a spassarsela! Gran bel riconoscimento.”
“Riconoscenza.”
Lo corresse Bill, ridendo.
“Sì,
quella cosa lì.”
BJ
era
vestito molto sportivo, con una tuta blu e bianca firmata Adidas e
scarpe da
ginnastica, e ciononostante sembrava comunque pronto per una serata
glamour in
discoteca. I suoi capelli erano sempre più lunghi, biondi
come non mai, e la
barba chiara del suo pizzetto era appena più lunga del
solito.
“Starai
con noi qualche giorno?” si informò Bill, che,
benché portasse una tuta molto
simile a quella dell’amico, si sentiva tutt’altro
che presentabile.
“L’intenzione
sarebbe quella. Mi piacerebbe molto conoscere i Pristine
Blue.”
“Non
è
che abbiano granché da offrire…”
buttò lì Bill, mentendo spudoratamente.
BJ
saltò su come una molla:
“Stai
scherzando?” esclamò, sgomento. “Ma
sì, è ovvio che scherzi. Del resto ormai
è
un mese che te ne vai in giro assieme a loro. Che invidia.”
Nonostante
i ventitré anni abbondanti che il suo fisico dimostrava alla
perfezione, BJ era
un ragazzino nello spirito e non se n’era mai vergognato.
Forse era anche per
quello che a Bill piaceva tanto.
“Se
penso ai testi che scrivono, alle musiche che
compongono…” BJ sospirò. “Hai
mai
sentito Let Juliet Die?”
“Be’…”
Bill si morse il labbro inferiore, avvampando. L’aveva
sentita un sacco di
volte, durante i concerti, e la musica gli piaceva, ma non si era mai
soffermato ad ascoltare le parole. Non gli era poi così
immediato capire
l’inglese cantato.
“Leggiti
bene il testo, appena ne hai occasione.”
Ciò
detto, BJ si alzò in piedi, si stiracchiò per
bene e si voltò verso Bill carico
di una ritrovata energia.
“Su,
vestiti,” gli disse. “Ce ne andiamo a fare un bel
giretto praghese.”
Bill
batté le ciglia, confuso.
“Non
vorrai restartene rinchiuso qui dentro con una giornata bella come
questa,
vero?” esclamò BJ, puntando un dito verso la
finestra, al di là della quale un
sole accecante scintillava nel cielo blu.
Bill
tentennò.
“Be’,
io…”
Un
po’
temeva di uscire così, senza bodyguard e senza meta, ma era
un giorno della
settimana, le ragazzine sarebbero state tutte a scuola e non aveva
motivo di
temere assalti ormonali. Gli sarebbe bastata un po’ di
discrezione e sarebbe
stato fattibile.
“Avanti,”
lo spronò BJ, con un sorriso incoraggiante. “Ci
divertiremo, e se dovesse
succedere qualcosa, ti proteggerò io!”
Sollevò
il braccio contratto e gli mostrò un muscolo, o perlomeno
quello che sarebbe
dovuto apparire come tale, dato che il bicipite di BJ non era poi tanto
più
sviluppato di quello di Bill stesso.
“Oh,
be’…” Bill non ebbe bisogno di fingersi
convinto: lo era e basta. “D’accordo,
andiamo.”
Una
giornata in giro per Praga assieme a BJ. Qualcosa gli diceva che
difficilmente
avrebbe scordato l’esperienza.
***
Avrebbe voluto che non fosse
così bella.
Avrebbe voluto che fosse solo una
come tante, a vedersi, una
ragazza normale.
Avrebbe voluto poter guardare Kuu
senza che il suo sguardo
si perdesse a contemplare il suo viso, cercando di intravedere gli
occhi
nascosti dalle lenti scure, sfiorando le labbra perlacee di gloss, per
scendere
poi sul collo sottile, e scivolare sulle clavicole appena esposte sotto
alle
pieghe del cappotto, e poi ancora giù, fin dove la
discrezione consentiva.
La osservava guardarsi attorno avida,
con l’insaziabile
curiosità di una bambina, e si arrendeva alla nascente
consapevolezza che lui,
di Praga, quel giorno non avrebbe visto niente.
E lei gli indicava tutto –
edifici, monumenti, costruzioni –
e gli chiedeva qualche informazione, e lui a tratti snocciolava quel
poco che
aveva imparato, e altre volte, con un timido sorriso di scuse, era
costretto ad
ammettere che non ne sapeva nulla, e allora la ascoltava ridere, e
trovava la
sua risata strana, quasi stentata, sommessa dalle stesse incertezze di
chi
parlava una lingua poco conosciuta.
Gustav si chiese dove fosse rimasta
la ragazza glaciale e
diffidente che aveva conosciuto qualche settimana prima,
perché quella che
c’era lì con lui adesso non era – non
poteva essere – lei.
Sascha…
Avrebbe davvero voluto che non fosse
così bella, solo perché
almeno sarebbe stato tutto molto più semplice.
Erano in tanti a girarsi a guardarla,
quando passava. Poteva
essere la sua bellezza che non poteva certo essere nascosta da un paio
di
occhiali da sole, o forse semplicemente il suo portamento da regina
sdegnosa,
ma attirava l’attenzione come una fiamma nella notte.
“Quel ponte
laggiù è famoso, vero? Wolf?”
Tornando in sé, Gustav si
accorse di essere rimasto
indietro. Qualche metro avanti a lui, Kuu indicava il ponte e lo
guardava con
impazienza.
Gustav la raggiunse trattenendo a
stento un sorriso
divertito.
“Quello è Ponte
Carlo,” le spiegò. “E quella
là davanti a
noi è la Torre
delle Polveri.” Aggiunse, intuendo l’imminente
nuova domanda non appena vide lo
sguardo di lei spostarsi più in là, sul capo
opposto del ponte.
Kuu considerò la torre con
aria scontenta.
“È
così scura e sgraziata… Mette inquietudine. Come
mai si
chiama così?”
“Non ne ho la
più pallida idea.” Confessò lui,
infilandosi le mani in tasca.
Kuu si sfilò gli occhiali
da sole, imbronciandosi.
“Credevo che tu fossi
più preparato, onestamente.” Sbuffò. Un
permaloso come Bill
non avrebbe mai colto lo scintillio di malizia che le
riverberò negli occhi.
Le sorrise, scrollando le spalle.
“Gratis… Cosa ti
aspettavi?”
Kuu si voltò a guardarlo
negli occhi.
Era stano. Era strano e anche
vagamente destabilizzante. Era
come se il vetro attraverso il quale l’aveva sempre guardata
si fosse
assottigliato, o fosse diventato più trasparente, e lei
fosse più nitida
davanti a lui, più vicina.
“Dovresti farlo
più spesso.” Gli disse.
“Che cosa?”
“Sorridere,”
replicò lei con ovvietà. “Dovresti
imparare a farlo di più,
soprattutto in pubblico, davanti alle telecamere.”
Senti un
po’ da che
pulpito…
“Sorrido quando ho qualcosa
per cui sorridere.”
Kuu sollevò il mento con
fare insinuante, le labbra
dischiuse.
“E per
cos’è che stai sorridendo, adesso?”
Gustav si bloccò. La sua
testa gli disse che, per il proprio
bene, avrebbe fatto meglio a non rispondere, a non dirle che a farlo
sorridere
era il sorriso di lei, così diverso dai primi che gli aveva
rivolto da poter a
malapena credere che fossero le stesse labbra a dipingerlo. Non
sembrava più
una simulazione cortese, non era più un’asciutta
gentilezza piegata in forma di
bugia.
“Tra qualche minuto sono le
undici,” divagò, controllando
l’ora. “Possiamo andare a vedere
l’orologio astronomico della Torre.”
Se Kuu non aveva gradito
quell’elegante diversivo, non lo
diede a vedere.
“Che cos’ha di
speciale?”
“Ci sono le statue che si
muovono allo scoccare di ogni ora.
Niente di speciale, ma è un must turistico, un po’
come il Big Ben a Londra, o
il Colosseo a Roma…”
Lei assottigliò lievemente
gli occhi e lo sogguardò con fin
troppa consapevolezza, tanto che lui si chiese se una risposta non se
la fosse
presa da sé, strappandogliela dagli occhi.
“Va bene, Wolf,”
disse con disinvoltura, prendendolo
sottobraccio. “Andiamo a vedere questo famigerato
orologio.”
***
“Mi sa che ci siamo
persi.”
“Ho idea di
sì.”
“BJ, eri mai stato a Praga,
prima d’ora?”
“Assolutamente
no.” Fu la sbarazzina risposta.
A Bill scappò una risatina
disarmata. BJ era fatto così:
prendeva tutto a modo suo, senza mai farsi turbare dalle sciocchezze. A
volte,
anzi, Bill aveva la sensazione che forse si preoccupasse un
po’ troppo poco, ma
in fondo era quello il bello di lui.
Erano stati in giro a zonzo tutto il
giorno, a mangiare
strani dolcetti alla cannella ricoperti di zucchero e ammirare
l’aria da paese
della favole che Praga aveva in certi quartieri. Non sapevano nemmeno
dove
fossero stati: avevano girato a casaccio, ma si erano divertiti.
Benché gran parte dei
ragazzi che circolavano per le strade
fossero biondi e discretamente alti, BJ spiccava comunque in mezzo a
loro, con
quel suo soprabito bianco che faceva male agli occhi, quel giorno di
sole, e
che lo faceva rassomigliare più che mai a un modello in
incognito. Ma per quel
che Bill ne sapesse, i modelli non se ne andavano in giro divorando
frittelle
su frittelle con la bocca tutta sporca di zucchero.
“Che facciamo,
adesso?”
Stava facendo buio. Era ancora
presto, ma l’idea di
continuare a vagare dopo il tramonto sorrideva poco a entrambi, anche
perché
nessuno dei due era in grado di orientarsi alla luce del sole,
figurarsi dove
sarebbero potuti andarsi a cacciare di notte.
BJ fece spallucce.
“Potremmo andare a mangiare
qualcosa e poi tornare in hotel
in taxi.”
“Ma tu hai ancora
fame?” si stupì Bill, la ancora pancia
strapiena delle varie schifezze con cui si erano rimpinzati per tutto
il
giorno.
Bastò il gorgoglio che
emise lo stomaco di BJ a
rispondergli.
“Be’, abbiamo
camminato tanto! Consumo un sacco di energie,
io.”
Solo a quell’osservazione
Bill si accorse di quanta strada
avessero effettivamente fatto, da che erano usciti. Non avrebbe mai
creduto di
poter camminare tanto senza avvertire nemmeno un minimo di stanchezza.
“Tom non ci
crederà mai che mi sono fatto tutta Praga a
piedi.”
“Ehm… Excuse
me.”
Bill si voltò, sentendosi
toccare una spalla. Dietro di lui
c’era un nugolo di ragazzine, e una brunetta stringeva una
fotocamera.
L’accento sembrava spagnolo o italiano.
“Hi.” Rispose,
incerto. Si strinse inconsciamente al braccio
di BJ.
Aveva paura, senza sapere
perché. Era lì, in una città di
cui non conosceva la lingua, e il solo pensiero che in men che non si
dica si
potesse formare la solita orda di facce sconosciute ed assillanti gli
fece
mancare l’aria.
Fa’
che non siano
fans. Fa’ che non siano fans…
La ragazza indicò la sua
fotocamera con un sorriso gentile.
“Picture, please?”
Voleva una foto.
Parlava un inglese molto stentato, ma
Bill quasi non se ne
accorse, agitato com’era. Le ragazze erano tranquille, ma
bloccavano il
passaggio sul marciapiede affollato, e molte persone si fermavano a
vedere
costa stesse succedendo. Avrebbe voluto che Mike fosse lì.
“Yes, sure!”
intervenne BJ, notando che Bill era come
rimasto pietrificato. “Go ahead, pose, I’ll take
it.” (“Sì,
certo! Avanti, mettetevi in posa, ve la
faccio io.”)
Bill si aspettò di essere
assalito da una moltitudine di
braccia bramose, invece nulla di tutto ciò accadde. Le
ragazze si sistemarono
tutte assieme di fronte alla balaustra del fiume e si fecero fare un
paio di
scatti.
Nessuna gli chiese un autografo.
Nessuna gli chiese di farsi
fotografare con lui. Nessuna gli disse che lo amava.
Erano solo un gruppetto di liceali in
gita scolastica, e
nessuna di loro aveva preteso di invadere il suo spazio personale.
“Thank you!”
esclamò la ragazza, tornando a prendersi la sua
fotocamera. “Go, all together!”, aggiunse poi,
facendo cenno a Bill e BJ di
raggiungere le sue amiche, ancora ferme in posa.
Bill cercò tentennante lo
sguardo di BJ.
“Dai, andiamo!”
gli disse l’amico, trascinandoselo dietro.
Si sistemarono in mezzo alle ragazze
e la brunetta scattò.
Ne fecero anche un’altra, in cui BJ ebbe la folle idea di
prendere in braccio
la più piccola ed esile delle ragazze, che
arrossì furiosamente nel ritrovarsi
all’improvviso tra le sue braccia, ma rise di cuore assieme
alle amiche.
Alla fine ringraziarono tutte
un’infinità di volte e li
lasciarono, allontanandosi in un coro di risolini e fitte chiacchiere
incomprensibili.
“Molto beneducate,
vero?” si compiacque BJ.
Bill era ancora un po’
frastornato. Non riusciva a
capacitarsi di aver fatto delle foto con delle ragazze che nemmeno
sapevano chi
lui fosse, a cui non interessasse farsi vedere con lui.
“Ti sei un po’
spaventato, vero?”
La voce dolce e comprensiva di BJ
fece sentire Bill quasi in
colpa.
Anni e anni di tolleranza verso fans
fameliche lo avevano
reso un idiota paranoico e iperansioso?
“Io…”
Bill si morse il labbro, vergognandosi di sé.
“Sì, un
po’.”
Ma BJ, che non era come chiunque
altro, non gli diede né del
paranoico né dell’iperansioso. Si
limitò ad appoggiargli un braccio sulle
spalle e sfoderare il tono più tranquillo che si potesse
immaginare:
“Che sciocchino che sei. Ci
sono qui io a proteggerti!”
A quel punto, a Bill non
restò che rilassarsi in una risata.
“Dai, andiamo,”
senza lasciarlo andare, BJ se lo trascinò
via, puntando una pizzeria dall’altro lato della strada.
“Sto morendo di fame.”
Un giorno di
libertà
senza guinzagli e museruole, pensò, Bill,
seguendolo soddisfatto. Dovrei farlo
più spesso…
***
Dovrei farlo
più spesso,
si disse Kuu quando, ormai all’ora di cena,
rientrò nella hall dell’hotel
assieme a Gustav, dopo quella che era stata la giornata più
bella che avesse
avuto da molto tempo a quella parte.
Il tempo era volato così
in fretta che non si era accorta
che la luce era calata e l’aria si era fatta fredda. Non si
era accorta nemmeno
che, tra una cosa e l’altra, avevano saltato il pranzo.
Ma non aveva fame, né si
sentiva stanca o anche solo
affaticata. Aveva gli occhi ancora pieni delle molte bellezze di Praga,
i
polmoni colmi dei profumi che aveva sentito tra le bancarelle, e sotto
alle
dite sentiva ancora il braccio solido di Gustav a cui si era aggrappata
tra la
confusione, un po’ per il terrore di perdersi, un
po’ perché, semplicemente, le
piaceva la sensazione di sicurezza che le dava.
“Pare che siamo riusciti a
tornare all’ovile sani e salvi.”
Gustav rispose con un sorriso, uno di
quelli da cui Kuu aveva
ormai capito che non avrebbe mai imparato a difendersi, così
bello e devastante
da mandare in frantumi ogni sua barriera difensiva in meno di un
battito di
ciglia.
“La fortuna dei
principianti.”
“Sì,
può darsi.”
Gli stava ancora tenendo il braccio.
In qualche modo, riuscì
a convincere sé stessa che sarebbe stato meglio per tutti
che non si facessero
vedere così, e lo lasciò andare con garbo, mentre
una parte di lei urlava
proteste che lei non voleva ascoltare.
“Sono stata bene,
oggi.” Gli disse, chinando lo sguardo,
quando ebbero raggiunto il corridoio delle loro stanze.
“Grazie per la bella
giornata.”
Parole banalissime, di circostanza,
che toglievano spazio ad
altre che non avrebbe nemmeno saputo come pronunciare. C’era
troppa confusione
nella sua testa intorpidita dall’improvviso calore
dell’hotel.
Avrebbe voluto poter leggere la mente
di Gustav, per capire
cosa significasse quella sua espressione così maledettamente
neutra e pacata,
che pensieri celassero quegli occhi insondabili, ora di nuovo scuri,
che la
scrutavano con un misto di curiosità, timidezza e
qualcos’altro che le sarebbe
stato impossibile decifrare, se non prendendogli il viso tra le mani e
letteralmente tuffandosi dentro le sue pupille.
“Grazie a te di avermi
fatto compagnia.”
Era uno di quei momenti che
sembravano lasciare qualcosa in
sospeso, una parentesi aperta che nessuno se la sentiva di chiudere.
Troppi
rischi, troppe incertezze, troppi inganni che le illusioni potevano
giocare.
“Bene, allora…
Buonanotte, Wolf.”
Un piccolissimo sorriso
incurvò le labbra di Gustav.
“Buonanotte,
Sascha.”
Kuu odiava quel nome. Lo odiava con
tutta sé stessa perché
aveva accompagnato un passato che non sentiva più suo.
Eppure, nonostante
quell’odio viscerale, il suono che aveva sulla voce di Gustav
le provocava un
formicolio piacevole dietro al collo, come una carezza lasciata per
caso.
Restarono immobili un attimo, sospesi
sulle loro stesse
frasi, finché lei decise che prima fosse entrata in camera,
meglio sarebbe
stato.
Fece per voltargli le spalle, e
così fece lui, ma poi
all’ultimo istante ci ripensò.
“Wolf?”
Gustav si voltò, stupito
dietro ai suoi occhiali.
“Dimmi.”
“Magari ti
sfrutterò di nuovo, nella prossima
città.”
Lo stupore di Gustav divenne
incredulità, poi, per qualche
ragione, si dissolse in un’espressione di vaga malinconia.
“Sì,”
mormorò. “Magari.”
E con un ultimo sorriso, si
allontanò nel corridoio deserto,
senza guardarsi indietro, e Kuu rimase a guardarlo, senza sapere cosa
pensare.
***
I feel so wrong when I
look at you
I feel so fake, ‘cause
you are so true
All this time I
thought it was right
Burying all truths
under my lies
But I feel so alone
when I look at you
‘cause you’re only a
dream in my head
We could never be
close enough
We will never be
Too many fallen heroes
Too little time
Never look back at me
Just let Juliet die
[Let Juliet Die,
Pristine Blue]
_________________________________________________________________________
Note: tre mesi. TRE
maledettissimi MESI. Mi domando
se i miei lettori si ricordino ancora che io esisto, a questo punto, e
che
questa storia è ancora in corso. Più che
domandare venia, non so che altro
fare. Inizierò, anzi, accampando qualche scusa, tanto per:
primo, ho avuto un
calo di ispirazione verso giugno che mi ha portata a rimandare ogni
volta che
aprivo una nuova pagina di Word; poi a fine luglio sono partita per la
Sicilia
(di cui mi sono innamorata) e ci sono rimasta un mese, senza quasi
avere modo
di attaccarmi a internet o anche solo avvicinarmi a un pc. Sono tornata
da
pochi giorni e, rinvigorita dalla mia vacanzina marittima, ho aperto il
documento di Word che avevo lasciato in sospeso eoni or sono e a quanto
pare
sono riuscita a mettere insieme abbastanza idee da giungere a quel che
oso
definire un capitolo di senso compiuto. Lascio a voi giudicare se sia
effettivamente degno di tale definizione o meno.
XD
Un grazie di cuore, intanto a
NeraLuna:
meglio
tardi che mai, come si dice, no? ;) Ebbene sì, il mio
intento è proprio gettare
lo sprovveduto lettore nella confusione! XD Che vuoi, sono una
sadichella. ^^
CatGirl483:
sei nata
lo stesso giorno di Vi?! Ma allora ieri era il tuo compleanno!
Auguroni! E grazie
dei complimenti!
tokiettinaa:
ma
grazie! *__* troppo gentile!
Eclectic_Doll:
ebbene, credo che la tua recensione ne sia valsa almeno una
decina… e ho detto
tutto. Grazie, non so come spiegare quanto mi abbia fatto piacere ogni
tua
singola parola.
Tigre
Bianca:
questa è la volta delle recensioni sciogli-cuore e
gonfia-ego, mi sa… troppi
complimenti! Ç__ç grazie!
Conz483:
be’, forse
non ho aggiornato presto come speravi, ma spero che almeno gradirai
questo
capitolo quanto il resto. XD grazie mille!
Ary_Engel:
taccio commenti sulle tue osservazioni per amore della mia sadica
segretezza…
ma DANKE!
Rhebekka:
ma che
parole meravigliose! *__* “Vortice
sensuale”… uno dei complimenti più
belli che
mi abbiano fatto! Oh, vedrai quanta sensualità ho in serbo,
sissì! ;)
Serenity_Moon:
ma
grazie! *__* Eh, lo so, sono un vulcano di idee, peccato solo che a
metterle
nero su bianco poi servano sempre certi travagli
lunghissimi… fammi sapere che
ne pensi di questo sospirato aggiornamento!
Lales:
ma nooo! Io
voglio tanto bene alla mia piccola dolce Diva! Avrà anche
lui le sue occasioni,
vedrai. u.u Mai dire mai, fino all’ultimo!
Baby_Barby:
mi sa
che, se prima credevi che avessi abbandonato la fic, adesso avrai
pensato che
io sia morta o abbia rinnegato la Tokio-religion… XD
Invece… sorpresa! Viva,
vegeta e più tokiomane che mani! ;) Gongolo di fronte alla
tua osservazione sul
nome Sascha: hai azzeccato in pieno il punto della questione, mia cara!
;) Noterai
che i nomi raramente li scelgo a caso, che hanno sempre delle
affinità con i
caratteri di chi li porta, e quello di Kuu è stato maturato
dopo lunghe e
attente riflessioni. u.u
Muny_4Ever:
so che
hai una preferenza per il nostro meraviglioso biondone con gli occhi da
cerbiatto, quindi penso che tu abbia almeno un po’ apprezzato
questo capitolo.
;)
creamy:
hai usato un
aggettivo molto acuto, secondo me…
“spensierato” è proprio quello che avrei
voluto fosse associato allo scorso capitolo, che infatti si chiama
“Just
Breathe”. E mi sa che ci vorrà ancora un poco di
pazienza per inquadrare meglio
Kuu come personaggio… mancano ancora dei tasselli da
sistemare nel puzzle.
rose_:
brava, dico
solo questo. Ottimo spirito di osservazione, sì. ;)
Utopy:
benvenutissima! Per la situazione tra Georg e Nicole, ci
sarà presto un
eventuale sviluppo, ma non dico altro. ^^ stessa cosa dicasi per Sissi.
Anche a
te devo dare dell’acuta osservatrice per tante cose.
Complimenti!
UuhDaphne:
ci
sono tante sfaccettature di Bill, a mio parere, e finora ne sono emerse
solo
una minima parte. Verranno i momenti in cui anche tutte le sue altre
facce
verranno fuori, a suo tempo, promesso. ;)
_Pulse_:
curiosa,
vedo… bene. XD porta pazienza, però, siamo solo
al nono capitolo e la storia è
ancora tutta da raccontare!
CowgirlSara:
mi
manchi! Spero di trovarti presterrimo su msn!
Asia74m:
non sai
quanto mi faccia piacere sapere che delle tre storie della saga, finora
questa
è quella che ti coinvolge di più! Ci tengo molto
a Once, e ci tengo che
comunichi qualcosa di importante, quindi se ti coinvolge
così non posso che
esserne davvero felice!
ElleClamp:
penso che
ormai si sia capito che c’è un’abissale
differenza tra la versione di sè che
Kuu presenta pubblicamente e quella che è davvero, quindi in
un certo senso da
un lato è una stronza snob superficiale e
dall’altro è decisamente più umana. In
quanto alla questione Bill vs Gustav… si vedrà. ;)
alien81:
grazie, cara! ^^
_lile_:
che
fosse o meno la tua prima recensione a una mia storia, spero almeno che
non sia
l’ultima! ;) Spero che tu abbia avuto la pazienza di
aspettare questo
sacrosanto aggiornamento e che ti sia piaciuto. :)
macoth93:
alla fine sei scappata a leggere e non mi hai più fatto
sapere cosa ne hai
pensato del capitolo! XD Spero che stavolta la foga non rapisca di
nuovo le tue
buone intenzioni! ;)
Orbene,
penso di aver adempiuto ai miei doveri, quindi vi lascio alla lettura,
mentre
io vado a espiare i miei peccati su un cuscino di ceci e puntine.
ç___ç Mi
raccomando, le recensioni sono sempre gioia per me e la mia Musa,
quindi se in
qualche modo vi è piaciuto, fatemelo sapere. ;)
A
presto! (anche se ormai non ci crede più nessuno XD)
|
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Capitolo 10 *** Everybody's Doll ***
Kuu
dormiva spesso insieme a Kaaos.
Fin
da bambini – fin da quando lei riuscisse a
ricordare – loro due si erano addormentati abbracciati e
risvegliati
abbracciati così tante volte che, in un modo o
nell’altro, negli anni si era trasformato
in una sorta di abitudine, quasi una necessità che
però ormai da un pezzo
suscitava perplessità in quei pochi che ne erano a
conoscenza.
Non
c’era niente di male in due bambini che dormivano
insieme, ed era ancora tollerabile, tutto sommato, anche quando i due
bambini
diventavano ragazzini. Quando però i due, un lui e una lei,
cresciuti
simbioticamente gomito a gomito, continuavano a dormire insieme anche
da
adolescenti, la gente iniziava a farsi delle domande, e giustamente
anche dei
ragionevoli sospetti.
Non
che ai loro genitori fosse mai importato granché.
Da piccola, Kuu aveva passato forse più giornate a casa di
Kaaos che alla
propria. Sua madre, insegnate liceale di inglese, non aveva mai avuto
molto
tempo da dedicarle e il padre, con il suo negozio di articoli sportivi,
era
sempre stato più assente che presente. L’infanzia
Kuu l’aveva trascorsa
praticamente tutta assieme a Kaaos e a sua madre Vera, casalinga, amata
e
coccolata come una figlia, ma con la triste – e allora
inconscia – consapevolezza
di fondo che il posto più felice in cui si era mai trovata
non era quello che
sarebbe di norma dovuto essere.
Erano
figli unici, lei e Kaaos, nati a due anni di
distanza in due graziose villette a schiera adiacenti, e praticamente
spinti
dal destino l’uno verso l’altra. Forse fin troppo,
pensava a volte lei, perché
il legame tra loro due si era sviluppato in modo anomalo, morboso e
ambiguo,
tanto che infatti, ora che erano famosi, la Germania intera –
e forse anche
qualcuno oltreconfine – si chiedeva cosa ci fosse realmente
tra loro due.
Kuu,
dal canto suo, trovava difficile rispondere in
modo credibile ed esaustivo alle domande invadenti dei media,
perché la
risposta sincera e reale a ogni loro
‘Cos’è Kaaos per te?’ nessuno
la avrebbe
mai potuta comprendere, tanto meno senza interpretarla nel modo
sbagliato.
La
verità era che Kaaos per Kuu, semplicemente, era tutto.
Lo
era sempre stato, anche quando a scuola i suoi
compagni lo prendevano in giro perché era amico della Rospa.
Anche
quando lei, da un paio d’anni a quella parte, aveva iniziato
a trattarlo come
uno zerbino, proprio a causa dell’eccessiva
protettività che lui manifestava
nei confronti di lei.
A
Kuu i guinzagli non erano mai piaciuti.
Non
era mai stata una persona sola: aveva avuto molti
amici, anche se definirli tali era forse un po’ un azzardo. Conoscenti
probabilmente sarebbe stato più appropriato. Ma, in ogni
caso, la piccola
Sascha Edelmond non si sarebbe potuta definire una bambina sola.
Solo, a
nessuno dei suoi amici avrebbe mai affidato la propria vita.
Come
invece aveva letteralmente fatto con Kaaos.
Con
Mathias.
Lui
era il solo che non avesse mai, in ventidue anni
che si conoscevano, dato in benché minimo segno di essere
interessato
all’aspetto di Kuu. Che fosse stata la bella bambina paffuta
di un tempo, o
l’adolescente bruttina, o la splendida giovane donna, Kaaos
la aveva sempre
guardata con gli stessi intensi, amorevoli occhi, ed erano occhi che
non davano
retta alla superficie, qualunque essa fosse.
Sotto
quel punto di vista, Kuu non aveva mai avuto
dubbi: Kaaos era la sola persona al mondo che l’avesse amata
per quella che
era, sempre, senza condizioni, anche dopo che lei si era trasformata in
una
statua di ghiaccio dal cuore arido. Tutto ciò che lui le
chiedeva in cambio era
un po’ d’amore, e non verso di lui, ma verso
sé stessa. Cosa che lei,
puntualmente, gli negava. Per quale motivo lui le rimanesse accanto
anche se
lei spesso e volentieri lo trattava con un giocattolo rotto, restava
ancora un
mistero. A lui non era mai importato nulla nemmeno della
celebrità. Come molte
altre cose, la sua scelta di darsi in pasto a telecamere e riflettori
non era
tanto dipesa da una reale ambizione alla fama, ma piuttosto dalla
masochistica
volontà di rimanere quotidianamente accanto a colei che da
sempre era a tutti
gli effetti la sua inseparabile metà.
Sentiva
il calore del corpo di Kaaos accanto a sé, tra
le lenzuola. Stavano stretti, lì, nella cuccetta del
tourbus, ma lui non la
mandava mai via quando lei, nel cuore della notte, andava a cercare
quelle
braccia che non le avevano mai negato protezione, in una vita intera.
Era già
mattina; avevano viaggiato tutta la notte e ormai non dovevano
essere
lontani da Lille. Il bus era immobile: probabilmente erano fermi in
qualche area
di servizio per una pausa per gli autisti. Kuu si alzò,
facendo attenzione a
non svegliare Kaaos, si infilò una felpa sopra la camicia da
notte e, in punta
di piedi, scese a dare un’occhiata. Erano in un autogrill e,
a giudicare dalla
luce, dovevano essere almeno le dieci. I due bus dei Tokio Hotel erano
parcheggiati subito davanti al loro e le porte erano aperte. Vide Ebel
che
chiacchierava con uno degli autisti accanto a uno dei due, mentre ogni
loro
parola si condensava in dense nuvole di vapore. Doveva fare parecchio
freddo.
Chissà
se i ragazzi stanno ancora dormendo…
La
risposta venne da sé: un attimo dopo che Kuu si fu
posta quella domanda, dal primo bus sbucò Bill, infagottato
in un vaporoso
maglione di lana grigia, occhiali da sole calcati sul naso, rattrappito
dal
freddo nelle sue stesse braccia. Aveva un’aria piuttosto
seccata, e subito dopo
Kuu comprese il perché: Tom e Vibeke scesero dietro
di lui, sbraitandosi
contro l’un l’altra con discreta
aggressività. Da dove si trovava, Kuu non
riusciva a distinguere quello che si stavano dicendo, ma non le
importava
granché. Tom le piaceva: era un ragazzo simpatico e spesso
si era intrattenuto
a chiacchierare con lei, dimostrandole di essere ben lungi dalla
persona
elementare e superficiale di cui in pubblico amava vestire i panni.
Ciò che non
si spiegava era cosa lui ci facesse assieme a quella ragazza. Non si
poteva
dire che Vibeke fosse brutta – anzi – e sicuramente
non era solo per il suo
aspetto che Tom stava con lei, ma aveva un caratteraccio davvero
insopportabile, permalosa e dal giudizio facile, e se poi quei due
litigavano
tanto – in ogni luogo e a ogni ora, a dispetto della
tranquillità altrui – un
perché ci doveva pur essere. Forse a Tom faceva comodo avere
una ragazza sempre
disponibile al proprio seguito, e questo avrebbe senz’altro
spiegato perché
avesse scelto proprio un membro dello staff della band come sua
discutibile
compagna.
Fra
le altre cose, Vibeke mostrava spesso una seria
mancanza di rispetto nei confronti di quello che osava definire il
proprio
ragazzo: innumerevoli volte Kuu la aveva vista con Bill praticamente
spalmato
addosso, a farsi coccolare come un gattino indifeso, senza contare,
poi, i
momenti in cui c’era Gustav nei paraggi. Quello, non solo per
Kuu, ma anche per
molti altri, per quel che aveva potuto notare, era un grande mistero:
se con
Tom Vibeke si dimostrava quasi sempre una vipera irritabile, con
Gustav, al
contrario, era un docile agnellino pieno di attenzioni. Anche davanti a
tutti,
Vibeke abbracciava Gustav, baciava Gustav, accarezzava Gustav, faceva
un sacco
di complimenti a Gustav, e gli diceva ‘Ti amo’ con
la stessa frequenza con cui
a Tom diceva ‘Vaffanculo’. Sicuramente
c’era qualcosa che non andava.
Kuu
aveva tentato di capirci qualcosa, studiando
attentamente le interazioni tra Vibeke e i Tokio Hotel, e aveva tratto
scarse
conclusioni. L’unica cosa che aveva capito con certezza era
che il rapporto più
serio e maturo lo aveva con Georg, con il quale discuteva spesso in
disparte di
cose evidentemente personali e mai, che Kuu avesse visto, si permetteva
di
osare contatti fisici che andassero oltre una pacca amichevole o un
abbraccio
veloce. Poteva dipendere dal fatto che Georg fosse palesemente cotto e
stracotto della sua Nicole e che per lui le altre ragazze erano a
stento
presenze degne di nota, ma lui era il solo verso cui Vibeke dimostrasse
qualche
pudore. Per il resto, a Kuu era incomprensibile come Tom potesse
tollerare che
la sua ragazza scambiasse certe tenerezze con il suo fratello gemello e
uno dei
suoi migliori amici.
Quando
il gruppetto sparì dentro al bar, con Jost e un
paio di bodyguard alle calcagna, Kuu si lasciò per un attimo
allettare dalla
prospettiva di tornare di sopra e rimettersi a letto, dato che comunque
non
aveva fame, ma poi arrivò Griet e la costrinse a cambiare
idea.
“Scendi
e sgranchisciti un po’ le gambe, ragazza mia.
I Tokio Hotel sono tutti dentro a fare colazione, vatti a fare quattro
chiacchiere con loro. Un po’ di socializzazione e quattro
risate non possono farti
che bene.”
Kuu
non capì se alla fine decise di vestirsi e uscire
per propria volontà o solo per mettere a tacere Griet. Si
strinse la sciarpa al
collo, scendendo, per schermarsi dall’aria gelida, e si
diresse verso
l’ingresso dell’autogrill. Quando entrò,
scorse Georg, Tom e Vibeke già seduti
a un tavolo con delle tazze di caffè fumante davanti e un
vassoio di croissant;
Bill e Gustav, invece, erano ancora al bancone a scegliere.
“Oh,
ma guarda chi ci degna della sua regale
presenza!” la salutò Bill, appena lei li raggiunse.
Kuu,
gli occhi struccati protetti dalle lenti scure,
abbozzò un mezzo sorriso.
“Un’altra
battuta del genere e mi convincerai
definitivamente a fare dietrofront e tornarmene a letto.”
“Ti
vedo un po’ pallida,” intervenne Gustav,
scrutandola
attentamente. “Tutto bene?”
“Credo
di non aver digerito bene quella strana
insalata di ieri sera,” rispose lei, appoggiandosi una mano
sullo stomaco.
“Allora
ti serve un the caldo.”
“Era
quello che avevo intenzione di prendere.”
“Ok,”
fece Bill, e si rivolse alla barista. “A hot
tea, please.”
Kuu
si compiacque di quel piccolo gesto di galanteria.
“Offri
tu?”
Bill
sorrise.
“Spero
che abbiano da cambiare un pezzo da cento.”
“Paga
anche per me, allora, già che ci sei.” Disse
Gustav, mentre la cameriera serviva loro le ordinazioni.
“Ok,
ma la roba al tavolo me la porti tu.” Disse Bill.
“Vedi, Kuu?” fece poi, scuotendo debolmente la
testa. “Sono il piccolo del
gruppo, ma è sempre tutto sulle mie spalle.”
“Ma
se a momenti sulle tue spalle non ci sta nemmeno
la tua borsa!” replicò Gustav con un sorriso
sornione.
Bill
ebbe un istante di tentennamento in cui sembrò
che fosse lì lì per rispondere a tono, ma alle
fine si arrese e, semplicemente,
rise.
“Non
lo sa fare il serio troppo a lungo.” Commentò
Gustav, divertito, gli occhi a forma di mezzaluna sulla scia di un
sorriso che
rispecchiava perfettamente la risata di Bill.
Una
piccola, timida parte di Kuu si ubriacava di
quella scena così rara e preziosa, e ne faceva tesoro,
perché ancora ricordava come,
anni prima, il suo cuore aveva sognato un momento così in
cui poter entrare, di
cui poter far parte. Era quello, in fondo, che una fan dei Tokio Hotel
sognava:
un posto anche minuscolo ed effimero nella loro vita. E, no, Kuu non
aveva
dimenticato. Aveva solo premurosamente inscatolato le vecchie emozioni
da
ragazzina sognatrice e le aveva riposte su qualche scaffale buio e
polveroso
dentro di sé, ben sigillate e nascoste, ma mai dormienti, mai
sopite. Era
felice, adesso, e orgogliosa, di essere lì a condividere con
loro un pezzo
della loro storia, un pezzo di storia che a pieni diritti sarebbe stato
anche
suo.
Nella
sua estrema difficoltà ad affezionarsi alle
persone, Kuu, lentamente, stava iniziando a rendersi conto che
– lei lo volesse
o meno – quei ragazzi si erano inconsciamente messi a frugare
dentro di lei, a
strappare involucri, ad aprire sigilli, e quello che stavano riportando
a galla
si stava rapidamente facendo largo negli stretti spazi vuoti della sua
anima.
***
“Io
vorrei proprio capire che cos’hanno da ridere
tanto, quei tre. No, sul serio: che cosa le staranno mai dicendo Bill e
Gud?
Guardala! È tutta sorrisini ammalianti e gesti languidi.
Dio, quanto mi sta sul
cazzo!”
Tom
deglutì pazientemente, fingendo di non sentire.
Fingeva sempre di non sentire, quando Vibeke era in vena di scenate di
gelosia
come quella. Da quando Kuu aveva dismesso gli attraenti panni della
superba
star capricciosa e aveva iniziato a dimostrare qualche umano interesse
verso i
Tokio Hotel, lui non riusciva più a sopportare Vibeke. Il
problema, per giunta,
non erano tanto gli sguardi provocanti che lui e la bella biondina si
rivolgevano di tanto in tanto, per nient’altro che puro
diletto, perché colei
che era solita presentarsi come la sua ragazza non si curava
minimamente di
quel dettaglio. E il problema non era nemmeno Georg, dato che fin da
subito lui
e Kuu avevano arbitrariamente deciso di non potersi vicendevolmente
soffrire.
Il problema vero e proprio erano i due soggetti a cui Kuu sembrava
maggiormente
interessata, i quali peraltro ricambiavano apertamente
l’interesse, e ciò, in
nessun caso, poteva essere considerato una buona cosa, a maggior
ragione se di
mezzo c’era una Vibeke Wolner gelosa come una iena.
“Insomma,
voglio dire… Ci sta che a Bill interessi.
Sono due dive viziate, amano i vestiti, amano farsi vedere…
E lui è
notoriamente attratto da tutte le belle cose che luccicano. Ma Gud?! Me
lo
spiegate cosa diamine ci trova Gud in quella?”
Georg
alzò lo sguardo e lo portò su Tom con
un’infinita compassione. Tom ricambiò
indolente, masticando senza gusto la
sua brioche. Lui poteva anche fare finta di niente, ma le sue orecchie,
volenti
o nolenti, recepivano la seccatissima invettiva di Vibeke, e intanto i
suoi
nervi vibravano pericolosamente. Tollerava che Bill le si strusciasse
addosso
in cerca di coccole perché sapeva che non c’era
altro che quello. Vibeke, in
fondo, faceva sempre un po’ da mamma a Bill e Tom conosceva il
proprio fratello
abbastanza bene da avere la certezza che lui in lei non vedesse altro
che,
appunto, una via di mezzo tra un’amica e una figura materna
alternativa.
Con
Gustav la faccenda era nettamente diversa.
Vibeke,
in ogni possibile senso, adorava
Gustav. Provava per lui una sorta di venerazione innata, che
comprendeva il suo
aspetto, la sua personalità, i suoi atteggiamenti, il suo
modo di suonare, e
persino i suoi difetti, per lei, erano degni di lode. E c’era
quella scintilla
di amore puro nei suoi occhi quando lo guardava che aveva spesso fatto
sentire
Tom come un banale elemento di tappezzeria, perché quella
scintilla, per lui,
negli occhi di Vibeke non c’era mai stata.
“E
poi – dai, diciamolo – lei è troppo
insipida. Gud
si merita una ragazza degna di lui, che valga davvero qualcosa. Non se
ne fa
niente di una bambolina di porcellana che dentro è
vuota.”
Tom
deglutì a fatica, e tacque ancora.
“Hagen,
tu che sei un uomo serio, dimmi: che cosa ci
si può trovare di davvero affascinante in una ragazza come
quella?”
“Niente.”
Rispose Georg, asciutto, con la bocca mezza
piena. “È solo bella e consapevole di esserlo. Per
il resto, è tutta
scenografia posticcia.”
“Appunto!”
convenne Vibeke, concitata. “Per questo non
riesco proprio a capacitarmi di come un ragazzo straordinario come Gud
possa
lasciarsi abbindolare da una sciacquetta come quella.”
Quella.
Non chiamava
mai Kuu per nome. Diceva ‘quella’, come se si fosse trattato di un
oggetto in mostra su uno scaffale.
“Sarà
anche brava a cantare, ma ci vuole ben di più
per meritarsi uno come Gud. Lui non –”
“Hai
intenzione di andare avanti ancora per molto?”
sbottò Tom a quel punto, gettando rabbiosamente il croissant
nel piatto.
“No, perché se è così, dillo,
almeno mi sposto ed evito di farmi rimanere la
colazione sullo stomaco.”
Vibeke
sgranò gli occhi, scioccata. Georg, saggiamente,
decise di chiudersi fuori dalla questione.
“Di
cosa diamine vai blaterando?”
“Non
lo so, Vi, di cosa diavolo hai blaterato, tu, da
cinque minuti a questa parte?”
Ma
per lei era tutto ok. Era normale che una ragazza
parlasse con tanto ardore e trasporto di uno che non era il suo ragazzo.
Ma per
Tom no.
“Vaffaculo,
Vi.”
Furibondo,
si passò frettolosamente il tovagliolo
sulle labbra, lo sbatté sul tavolo e si alzò,
abbandonando la colazione a metà
per poi andarsene in malo modo. Uscì a lunghi passi pesanti e
nervosi, e respirò
quasi con sollievo l’aria fredda. Gli occhi gli bruciavano
dalla rabbia e la
gola gli doleva per le troppe parole che vi aveva lasciato incastrate.
Sentiva
il sangue pulsargli violento nelle orecchie e in ogni singolo
capillare,
fomentando la sua irritazione. Era ridicolo che per colpa di Vibeke
fosse
addirittura arrivato a detestare, in certi momenti, un amico fraterno
come
Gustav.
“Ma
che ti è preso, si può sapere?”
Tom
non si voltò. Il tono spazientito di Vibeke gli
diede ancora più sui nervi.
“Vi,
levati dai coglioni, o stavolta va a finire male.”
La avvertì, gelido come il vento che tirava.
Ma
lei non era famosa per il suo buonsenso, né per
la sua inclinazione a dar retta a ciò che le si diceva,
pertanto non solo non
se ne andò, ma ebbe anche l’ardire di avvicinarsi.
Tom si sentì appoggiare una
mano sulla spalla in un esplicito invito a voltarsi.
“Kaulitz.”
Ora la voce di Vibeke era più morbida, e
addirittura sembrava divertita. “Non te la sarai mica presa
sul serio?”
Tom
si sottrasse al suo tocco con un brusco strattone.
Fissava il cielo grigio con rancore, vietandosi di guardarla per non
esplodere.
“Dai,
non fare lo scemo, su…”
“Tu
non ne hai idea, cazzo,” Sibilò Tom a denti
stretti. “Non hai idea di quanto mi sta sul cazzo quando fai
così!”
Una
piccola pausa silenziosa gli disse che Vibeke non
aveva previsto una reazione del genere.
“Ti
sei offeso davvero…” si meravigliò
infatti.
Tom
si girò bruscamente, facendola trasalire.
“Sì,
Vi, mi sono offeso!” sbraitò. “Come
sempre, del
resto! Non che a te freghi qualcosa di come mi fai sentire, poi,
vero?”
“Non
dire stronzate!” strillò lei, più acuta
del
normale.
“No, è vero!” insisté lui. Ormai il
freno era
tolto e non sarebbe più riuscito a fermarsi. “Non
te ne frega mai un cazzo di
me, quello che penso io non conta! Come se non esistessi! Gustav ti
piace così
tanto? Va bene! Mettiti con lui, allora! Fai quel cazzo che ti pare! Ma
almeno
piantiamola con questa ipocrisia di stare insieme!”
Vibeke
era una statua di sale, bianca in viso e
completamente immobile. Sembrava che non stesse nemmeno respirando.
“Tu
sei fuori di testa!” esclamò infine, con un
evidente sforzo di non ridere. “Come fai a farti anche solo
venire in mente
delle stronzate del genere?”
“Non
è una stronzata, Vi, è la verità nuda
e cruda! Io
e te siamo male assortiti: non facciamo che litigare, e le poche volte
che non
litighiamo è quando stiamo facendo sesso! Oppure litighiamo
mentre facciamo
sesso, o facciamo sesso mentre litighiamo. Non è
così che dovrebbe essere. Non funzioniamo.”
Tom
si sentì male nel sentirsi pronunciare quelle
parole che a stento era consapevole di aver spesso pensato. Ebbe il
terrore
che, ora che glielo aveva urlato in faccia, anche Vibeke avrebbe capito
che era
tutto sbagliato.
“Dimmi
che non pensi veramente il mucchio di cazzate
che hai appena detto.” Lo pregò invece lei.
“Kaulitz,” lo costrinse a
guardarla. “Voglio che tu punti i tuoi maledetti occhioni
cerbiattoni dritti
nei miei e mi dica che non è vero che pensi tutta quella
roba ridicola. Ho bisogno
che tu mi dica che non sei idiota fino a questo punto.”
Tom
abbassò lo sguardo, impotente. Lo pensava? Non lo
pensava? Faceva qualche differenza?
“Ok.”
Le mani di Vibeke si adagiarono dolcemente sul
suo viso, guidandolo a risollevarsi perché lui tornasse a
guardarla negli
occhi. Tom si ritrovò a pensare che quegli occhi erano il
primissimo ricordo
che aveva di lei, la prima cosa che avesse notato. “Come puoi
essere così
ingenuo da credere seriamente che io possa desiderare qualcuno che non
sia tu?
Come puoi – come? – essere
così deplorevolmente scemo?”
Qualcosa
si sciolse in Tom, come se qualche catena che
gli aveva costretto i polmoni in una morsa feroce e soffocante si fosse
improvvisamente dissolta, permettendogli di tornare a respirare.
“Io
ti adoro, Kaulitz. Con ogni mia singola cellula,
io ti adoro, e così tanto che certe
volte me ne vergogno, perché non è
possibile che un essere umano provi sentimenti così forti e
sinceri nei
confronti di un altro essere umano. A volte mi viene da vomitare da
quanto sono
satura di te, eppure non ne ho mai abbastanza: ti cerco, ti inseguo, mi
ubriaco
ancora e ancora di quell’assurdo profumo di casa
che hai. E, sì, io amo
Gud. Lo amo da morire e lo trovo una persona molto migliore di te,
francamente.”
Tom
aggrottò la fronte e fece per protestare, ma lei
lo precedette.
“È
più maturo di te. Più professionale,
più sveglio,
più sciuro di sé… Eppure, guarda un
po’, non è di lui che mi
sono…”
Ancora
frastornato dalla lunghezza e
dall’inimmaginabile calore di quel discorso, Tom quasi non si
era accorto del
punto a cui erano arrivati. Il suo preferito. Il tasto dolente di
Vibeke.
“Dai,
dillo.” La stuzzicò, sogghignando, mentre dietro
a quell’atteggiamento spavaldo tutto il resto di lui si
crogiolava beato nella
splendida sensazione di sentirsi insostituibilmente importante.
Vibeke
arrossì, imbronciandosi.
“Che
fai? Ridi, adesso?”
“Sì
che rido. Ti imbarazza confessarmi che sei
perdutamente innamorata di me.”
“Non
è vero!”
“Dillo,
allora.”
Lei
si corrucciò ancora di più, stringendo le labbra
combattuta.
“Sei
un bell’ingrato. E un gran bastardo.”
“Dillo,
Vi.” Si impuntò lui. Le prese le mani e, dal
viso, gliele fece poggiare sulle proprie spalle, per poi avvolgerle la
vita con
le braccia. “Dai, ti prego. Lo voglio sentire.”
Vibeke
si morse il labbro, lì dove si intravedeva uno
dei due minuscoli fori lasciati dall’assenza dei piercing,
una delle tante cose
a cui lei teneva molto e a cui aveva rinunciato per lui. Lo
guardò negli occhi.
Esitò.
“Ti
avverto che questa me la paghi, prima o poi.”
Poi,
tutto d’un fiato, lo accontentò:
“Io,
Vibeke V. Wokner, sono fottutamente innamorata di
te, Tom Kaulitz.”
E
proprio in quel momento, quando entrambi scoppiarono
a ridere, Tom si rese conte che effettivamente, tutto considerato,
aveva ragione
lei: era un emerito idiota.
***
Ogni
giorno che passava, Bill vedeva Kuu farsi sempre
più vicina al comune concetto di persona
noto alla maggior parte della
gente. Della fastidiosa diva presuntuosa iniziale stava cominciando a
rimanere
ormai solo un velo superficiale, o forse era lui che aveva capito come
guardare
al di sotto di esso. Qualunque fosse il caso, una cosa era certa: era
una
ragazza molto meno sgradevole di quello che si era immaginato.
Osservandola
mescolare il limone nel suo the, Bill si
domandava quanto di lei ci fosse ancora da imparare.
Aveva
trovato buffo che anche lei si fosse
categoricamente rifiutata di togliersi gli occhiali da sole per
mangiare, presumibilmente per lo stesso motivo per cui si era rifiutato
di
toglierli lui: niente trucco a nascondere occhiaie e stanchezza. Non
che questo
la rendesse meno attraente. Bill aveva anzi la netta sensazione che il
potere
di Kuu di far voltare la gente al proprio passaggio fosse innato,
trucco o non
trucco. Anche in quello, si somigliavano molto.
Erano
seduti al tavolo con Georg, il quale aveva
accolto l’arrivo di Kuu con un’occhiataccia che
avrebbe incenerito un blocco di
metallo. Lei lo aveva elegantemente ignorato e si era accomodata
all’angolo
del lato opposto del tavolo, di modo che ci fossero Bill e Gustav a
dividerla da
Georg. Poco dopo si era aggiunta anche Natalie, che fortunatamente
andava molto
d’accordo con Kuu; si erano scambiate qualche parola di
saluto e poi Natalie
aveva iniziato a chiedere a Georg di come stesse andando Emily a
scuola, e così
si erano ovviate spiacevoli tensioni. Tom e Vibeke invece erano spariti, e
preferiva
non sapere cosa stessero facendo.
Gustav
e Kuu, nel frattempo, avevano intavolato una
noiosissima conversazione su quello che avevano visto a Praga il giorno
prima. Probabilmente,
si disse Bill, erano cose che aveva visto anche lui, gironzolando
assieme a BJ,
ma non ne era nemmeno consapevole. Non gli interessava
granché di monumenti e
opere d’arte: si era goduto una serata di quelle in grado di
rigenerare uno
spirito logorato da settimane intere di stress ed era grato
all’amico di
avergliela regalata. BJ era una persona talmente solare e piena di vita
che
finiva sempre per contagiare irrimediabilmente chi gli stava attorno.
“Hei, mennesker! God
morgen!” (“Ciao,
gente! Buongiorno!”)
Come
se si fosse sentito chiamato dai pensieri di
Bill, BJ era apparso magicamente accanto al tavolo e sorrideva
raggiante a
tutti i presenti. Il suo sguardo, prevedibilmente, cadde immediatamente
su Kuu,
e il modo in cui indugiò su di lei comunicò un
esplicito e notevole interesse.
“Kuu,”
disse, in un tono così educato e suadente che
avrebbe conquistato chiunque. Le porse la mano con un sorriso gentile.
“Finalmente ho il piacere di conoscerti di persona. Sono BJ,
il fratello di
Vibeke.”
Kuu
gli strinse la mano, visibilmente colpita, senza
staccargli gli occhi di dosso.
“DJ
Djevel,” annuì, restituendo il sorriso.
“Il
piacere è mio.”
Bill
conosceva BJ da abbastanza tempo da sapere che
per lui suscitare reazioni di quel genere era ordinaria
amministrazione, che si
trattasse di donne o di uomini. Doveva essersi fatto la doccia da poco,
perché
emanava un intenso profumo di muschio bianco e alcune ciocche dei
lunghi
capelli biondi erano umide.
“Su,
prendi una sedia!” lo invitò Natalie, che, come
tutte le altre donne dell’entourage, provava
un’autentica venerazione per lui.
BJ
non fece complimenti e si unì a loro. Gli offrirono
una brioche, che lui accettò volentieri.
“Ho
sentito che anche voi due siete stati in giro per
Praga, ieri.” Disse, rivolto a Kuu e Gustav.
“Sì,”
rispose Gustav, prendendo un sorso di caffè.
“È
stata una bella giornata.”
“Molto
bella.” convenne Kuu, intercettando i suoi
occhi. Si sorrisero.
Bill
trattenne una smorfia. Era bastata una giornata,
a quei due, per fare comunella. Non era geloso – non
esattamente – ma si
sentiva in qualche modo svantaggiato. Svantaggiato in merito a cosa,
poi, non
lo sapeva nemmeno lui. O forse, più probabilmente, lo sapeva
ma non gli andava
di ammetterlo.
“Sai,
Kuu, stavo pensando…” disse BJ, leccando via
della marmellata dal croissant con la punta della lingua. “Ti
andrebbe di
uscire con me, una di queste sere?”
A
Bill andò di traverso il caffelatte che stava
bevendo e prese a tossire furiosamente. A Gustav accadde la medesima
cosa con
il caffè. La forchetta con cui Natalie stava sbocconcellando
la sua fetta di
torta alle fragole ricadde nel piatto, mentre Georg fu colto dal puro
sconcerto. La domanda, del resto, sembrava aver sorpreso parecchio
anche la
stessa Kuu, che stava occhieggiando BJ come per capire se stesse
dicendo
seriamente o meno.
“Che
c’è?” fece il ragazzo, perplesso di
fronte al
generale sconcerto che aveva provocato. “Cos’ho
detto?”
Aveva
questa sorta di ingenuità infantile, BJ. Bill
era seriamente convinto che l’amico non fosse affatto
consapevole del fascino
che esercitava sulle persone, o che perlomeno non lo fosse in modo
adeguato.
“Che
fine ha fatto quel ragazzo con cui uscivi qualche
tempo fa? Il nuotatore.” Gli domandò Gustav.
“Ah,
Dom. Lo trovavo un po’ troppo interessato al lato
fisico del nostro rapporto.” BJ si rivolse quindi a Kuu.
“Allora, che ne dici?”
Era
semplicemente ridicolo. Cosa c’entrava BJ con Kuu?
Erano due persone diametralmente opposte, non avevano assolutamente
nulla in
comune, se non una qual certa presenza scenica e una buona dose di
celebrità.
Ed entrambi facevano musica.
Ok,
forse qualcosa in comune ce l’hanno,
ammise Bill a malincuore.
Per
i suoi gusti, c’era fin troppa gente a ronzare
attorno a Kuu solo nel raggio di poche decine di metri: primo fra tutti
Kaaos,
il cui attaccamento verso di lei esuberava di gran lunga da quella che
si
sarebbe potuta definire una semplice amicizia; poi c’era
Gustav, che
misteriosamente aveva acquisito con lei una confidenza fondata su
nessuno
sapeva cosa, esattamente; e ancora Tom, che giocava con lei come due
bambini
avrebbero giocato a farsi il solletico solo per farsi una risata; e
adesso
arrivava anche BJ.
Il
problema che Bill aveva con tutto questo non era
ben identificabile. Gli dava fastidio che lei avesse intorno tutta
quella
gente, ma d’altro canto non poteva nemmeno definirla gelosia
vera e propria.
Che Kuu non gli dispiacesse come persona lo aveva capito già
durante quella
giornata di shopping insieme a lei, ma il tutto si fermava
lì. E c’era un
abissale differenza tra gradire la compagnia di qualcuno ed esserne
innamorato.
Probabilmente quello che più lo disturbava era che, una
volta tanto,
l’attenzione di una persona che lo aveva colpito non era
soggetta al suo quasi
esclusivo monopolio.
A
quanto pareva avrebbe dovuto farsene una ragione.
Peccato solo che nel vocabolario di Bill Kaulitz
l’espressione ‘farsene una
ragione’ non fosse contemplata. La risposta di Kuu alla
proposta di BJ, però,
sarebbe potuta essere un ottimo incentivo per iniziare a lavorarci
sopra.
“Mi
piacerebbe.”
Gli
occhi di BJ si illuminarono.
“Stupendo!
Fammi sapere tu quando preferisci.”
Bill
era allibito dalla disarmante disinvoltura con
cui BJ si rivolgeva a chiunque in merito a qualsiasi cosa. Non
possedeva
inibizioni di alcun tipo: parlava del sesso e della morte con la stessa
naturalezza con cui sapeva parlare del tempo; se qualcuno suscitava il
suo
interesse, non si faceva problemi a dirglielo in faccia e, viceversa,
quando
qualcuno non gli andava a genio, con tatto, lo metteva subito in
chiaro. Se in
lui esistessero filtri di diplomazia – ipocrisia?
– di qualunque tipo,
Bill non ne aveva mai intravisti, e per questo lo invidiava. Per chi si
trovava
in una posizione come la sua, l’assoluta schiettezza era un
lusso che non ci si
poteva permettere quasi mai.
Restò
chiuso in sé stesso per il resto della
colazione, lasciando agli altri il piacere di perdersi in chiacchiere e
lamentele lavorative. Tom e Vibeke stavano rientrando mano nella mano
come una
coppietta di ragazzini, quando solo una manciata di minuti prima tra
loro c’era
stata aria di tempesta; Georg aveva ripreso a discutere con Natalie di
figli e
scuole elementari; Gustav stava finendo in silenzio il suo
caffè, mentre Kuu e
BJ erano partiti per la tangente a parlare di pianoforti e musica
classica. Al
bancone Benjamin stava parlottando fittamente con Griet e il bodyguard
Luke e
di tanto in tanto scoppiavano in qualche risata discreta.
Erano
arrivati in Francia, dunque. Altre date alle
porte, altri giorni che se ne scivolavano via tutti uguali senza
portare nulla
di nuovo.
Qualche
volta a Bill, in momenti fragili, capitava di
chiedersi cosa sarebbe stato di lui, se non avesse avuto il successo
che lo
aveva condotto fin lì; se, in mancanza della realizzazione
di quello che era
sempre stato il suo sogno per eccellenza, avrebbe finito per
considerare la
propria vita un buco nell’acqua o magari avrebbe trovato il
modo di ricavarne
un successo diverso, un diverso senso di realizzazione.
Faceva
quasi paura, a volte, la consapevolezza che non
avrebbe mai più potuto scoprirlo.
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Note:
se avete
appena finito di leggere il capitolo qui sopra e state ora leggendo
queste note
è mio dovere rassicurarvi sul fatto che, no, non si tratta
di un’allucinazione.
Liberi di non crederci, ma così è: la vostra Mary
ha aggiornato. E non sono
passati tre mesi. Me lo merito un applausone? XD
Devo
prostrarmi in un inchino di devoto ringraziamento
a tutti voi che, come al solito, mi avete regalato tutti questi
commenti così
belli da leggere. Ormai lo sapete: le recensioni le considero un
po’ cibo per
lo spirito e l’ispirazione. E infatti, come avete potuto
notare, ho già
postato. Penso che adesso per colpa mia pioverà a dirotto
per mesi. XD
Un
sacco di gente mi chiedeva da un po’ un po’ di
attenzione per Tom e Vi e io vi dicevo di pazientare, perché
sareste stati
accontentati. Il momento è per l’appunto giunto, e
spero ne sia valsa la pena.
:)
Vi
lascio con un enorme bacio di massa e la solita,
amorevole speranza che, una volta finito di leggere, avrete anche la
pazienza
(ma soprattutto la sincera voglia) di lasciare qualche parola di
commento. ;)
Alla
prossima!
p class="MsoNormal">P.S. siccome qualcuno mi ha detto che non si è nemmeno accorto che esisteva, vi comunico che ho un'altra ff in corso, HOW TO SAVE A LIFE, che sarà piccina piccina e decisamente incentrata sul personaggio di Tom (mi ispira, che ci devo fare? XD). Se passate anche di lì, ovviamente mi faree felice. ;)
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