Heavy Cross

di The Corpse Bride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


-Bianca, per favore, smettila con questa storia. Non cederò mai. Devo ripetertelo? Sono il tuo professore; non sarò mai il tuo amante.
La ragazzina sbuffò. Sedici anni, capelli rosso fuoco freschi di cotonatura, un trucco nero pesantissimo sfumato dal giorno prima.
Aveva una scollatura così profonda, e una minigonna così corta, e degli stivali così alti, che non si poteva fare a meno di guardarla, a prescindere dagli istinti sessuali che poteva o non poteva provocare.
'Provocare': ecco cosa faceva.
Non chiedeva solo sesso. Chiedeva anche l'altrui disapprovazione. E chiedeva che le parlassero alle spalle, sicuramente. In fin dei conti, per come la vedeva Emanuele, quello che chiedeva era semplicemente attenzione.
-Professore, lei non può sapere per certo che non cederà mai. Chi lo sa cosa potrebbe passarle per la testa domani, o il mese prossimo, o l'anno prossimo?
-Lo so io, cosa mi passerà per la testa: la mia fidanzata, il mio lavoro, i compiti da correggere, le cene fuori coi miei amici. Il mio cane, al massimo. Ma non il sesso con te. Non mi induci in tentazione, Bianca, mettitelo in testa.
-Ma davvero? - lei sorrise malignamente, alzò un sopracciglio, accavallò le gambe e si stese bene sullo schienale; si comportava come una spogliarellista trentenne. - Allora perché ha usato il termine 'cedere'? È alle tentazioni che si 'cede', o sbaglio? Altrimenti avrebbe detto 'non mi piacerai mai'. È già più vicino al concetto del quale lei cercava di convincermi.
-Bianca...
-O di convincere se stesso.
-Bianca.
-Ma non si preoccupi, ci raccontiamo tante cose per non uscire dai nostri binari sicuri della normalità. Per rimanere in metafora, deragliamo insieme, professore – fece un sorriso di scherno, dando un tono di ridicolo alla sua stessa proposta. E poi pretendeva che la prendesse sul serio, però.
Quella storia stava iniziando a diventare ridicola. Da tre mesi a quella parte, da quando lui era arrivato in quella scuola per insegnare l'italiano e la storia nel triennio di un linguistico, la sua vita era stata arricchita di un nuovo pittoresco elemento: una ragazzina di terza liceo che sembrava appena scesa da un cubo e che però non scendeva mai sotto la media del nove; e che, per giunta, spergiurava di essersi perdutamente innamorata di lui.
Ma il suo era un amore particolare: sembrava che, più che lui, amasse vederlo soffrire.
Lo portava ai limiti del suo sistema nervoso con i suoi ragionamenti, con i suoi modi, con le sue contraddizioni. Era intelligente, ma si comportava da completa stupida. Era la tipica ragazza problematica che ogni liceo ha in dotazione, in quantità che vanno dall'unità singola a un massimo di cinque o sei elementi. Chi non la odiava, tra i suoi colleghi, l'aveva presa enormemente a cuore: ma i loro atteggiamenti spaziavano soltanto tra due estremi, ovvero, maltrattarla oppure coccolarla. Nessuna via di mezzo.
Emanuele, quando se l'era trovata davanti le prime volte, e quando aveva discusso coi suoi colleghi al riguardo dell'atteggiamento da tenere con lei, aveva pensato chiaramente che, al posto di Bianca, non gli sarebbe piaciuto suscitare del disprezzo, ma non gli sarebbe piaciuto nemmeno suscitare pietà. E quindi aveva deciso di non provare nessuna delle due cose, con quella ragazza: decise di trattarla come tutti gli altri, senza cercare perennemente di coglierla in fallo – non ce n'era bisogno; lei non era di certo conciliante né ubbidiente – né di giustificarla in ogni sua stranezza – non aveva alcun diritto di arrivare alla terza ora sbadigliando e col vestito di traverso.
E questo l'aveva conquistata.
Certo; unito al fatto che Emanuele aveva solo ventinove anni, era giovane, si comportava da persona giovane ed era senza dubbio un uomo piacente. Molte ragazze, nel liceo, si erano invaghite di lui; ma solo lei si era spinta fino a una dichiarazione.
E fino a seguirlo, e fino a chiedergli del sesso, e fino a farsi sbattere fuori dalla classe per andare a parlare con lui in sala insegnanti nella sua ora di ricevimento – un'ora che da tempo ormai non riusciva più a dedicare ai genitori.
Fortunatamente, lei era stata abbastanza intelligente da tacere agli altri questa sua particolare passione: avrebbe potuto costargli il lavoro, se avessero sentito i dialoghi che intercorrevano tra loro due in quelle poche ore.
-Professore, la smetta di correggere i compiti. Siamo soli io e lei. Perché non vuole fare niente con me?
-Ma ti senti, Bianca? Mi metti in imbarazzo. Proporsi è una cosa, sbatterla in faccia a un uomo è tutto un altro discorso.
-Beh, lei non se la prende, dovrò pur fargliela avere in qualche modo.
-Ma io non la voglio.
-Cazzate,
tutti la vogliono.
Sì, non c'era dubbio che con un atteggiamento del genere per lei fosse facile collezionare compagni di letto. Ormai, perfino gli insegnanti, persone adulte che avrebbero dovuto guardare la cosa con occhio più oggettivo, bisbigliavano sui rapporti sessuali precoci e ossessivi di quella ragazzina assurda in terza A.
-Senti – tentò con calma, senza alzare gli occhi dal foglio che in realtà non stava leggendo – a sedici anni forse sì, tutti la vogliono. Tutti le vogliono tutte, stando a quanto ricordo. E tutte li vogliono tutti, probabilmente, al giorno d'oggi. Ma quando hai quasi trent'anni inizi a fare una cernita, sai cos'è una cernita? - proseguì prima che lei, piccata, riuscisse ad aprire la bocca e a protestare che lo sapeva benissimo, e che lui lo sapeva che lei lo sapeva – Ecco. Io ho fatto la mia cernita. Ho scelto la mia fidanzata.
-Come si chiama, la sua fantomatica 'fidanzata'?
-Camilla.
-Camilla! - sbuffò Bianca – Che nome da fighetta noiosa.
-Ti pensavo un po' meno pregiudizievole. Proprio tu ti fai un'idea di una persona, non dal suo aspetto, non dal suo comportamento, non dalle sue amicizie, ma addirittura dal suo
nome...?
-Che c'è di male? Dicono che il nome influenzi moltissimo il carattere di una persona. E comunque a me non danno fastidio i giudizi degli altri su di me, giudicare è normale e giusto, non mi arrabbio se lo fanno a me e non dovrebbero arrabbiarsi se lo faccio a loro... ma comunque, che dicevo? Ah, sì, il nome. Il mio nome mi fa schifo, per esempio. Bianca è...
-Senti – la interruppe, con tono calmo – questa è la mia ora ricevimento. Non ho voglia di parlare di onomastica, se non ti dispiace.
-Ma mi ascolti, almeno – protestò lei, con un'espressione che si adattava di più ai suoi sedici anni – senta. Lei ha un vero nome. E un nome bello, anche: Emanuele. È biblico, no? E senta che bel suono gentile. E poi ha anche un significato: “Dio è con noi”, l'ho cercato sul
Dizionario dei nomi pensando proprio a lei. Non è bellissimo? Io sarei fiera di portare un nome come questo. Lei non lo è?
-Non ci ho mai pensato molto. E poi, tutti mi chiamano solo Ema o Lele...
-Anche Camilla?
-Anche Cami...
-Ecco, lo vede che è banale e scontata e superficiale? Stia a sentire. Io mi chiamo Bianca. Come lei ben sa, sì, lo so. Ma Bianca non è un nome. Al posto di un nome, mi hanno dato un aggettivo, se ne rende conto? 'Bianca' è una parete. Mi fa pensare ai muri di casa mia. Le pare? Tutto quello che hanno saputo pensare i miei quando sono nata, è stato un aggettivo. E non era neanche 'Rosa' o ' Celeste' o 'Azzurra' o 'Violetta' o 'Rossella'... 'Melissa' significa 'nera', sarebbe andato bene anche quello. No. Hanno scelto il bianco, che è il colore più vuoto e insignificante di tutti. Quello che non dice niente.
Emanuele ponderò a lungo prima di dirlo.
Conosceva il pericolo che correva, nel dirlo, sapeva che non avrebbe probabilmente dovuto farlo, ma la verità era che voleva dirglielo. Voleva dimostrarle che non era vero nulla, tutto ciò che lei pensava di se stessa.
-Il bianco è il colore che racchiude in sé tutti gli altri come uno scrigno. È la luce assoluta. E ad essere precisi, è diverso da tutti gli altri colori, perché in realtà non lo è nemmeno, un colore.
La guardò negli occhi.
Si aspettava di trovarla spaesata, meravigliata, illuminata sulla verità della sua vita. Un po' più fiduciosa verso se stessa, magari. Ma scoprì che la conosceva ancora troppo poco.
-Questo lo sapevo, prof – sorrise maliziosa – è solo che volevo farglielo dire. L'ha detto in un modo così romantico. Mi ha fatta sembrare
speciale.
-Sai bene di esserlo.
-Oh, professore, grazie! Allora le piaccio, almeno un po'.
-Non in quel senso. Sei molto diversa da tutti gli altri studenti, questo sì. Ma non di certo in senso positivo.
Lei non si scompose. Probabilmente era abituata a quel tipo di commenti.
-Siete tutti un po' troppo legati a certi canoni. Solo perché mi vesto un po' provocante e faccio un po' di casino e sono innamorata di un uomo un po' più grande. Lo fanno tutti, prof, sa?
-Sì, ma non a scuola. È il contesto che ti frega, Bianca, altrimenti credimi, saresti come tutti gli altri sedicenni.
Stavolta era certo di colpirla; ma così non fu. Forse non le importava nemmeno dell'anticonformismo. Forse era così soltanto perché qualcosa dentro di lei le ordinava costantemente di dare di matto.
-Allora lo vede che non sono tanto strana come dite tutti? È solo che confondo un po' chi con cosa – fece pensierosa, guardando fuori dalla finestra.
Purtroppo, Bianca non 'confondeva un po' chi con cosa'. Bianca spesso portava al limite della pazienza i professori, non si presentava a scuola, faceva la stupida con i ragazzi, addirittura una volta l'avevano trovata nel bagno dei maschi e dalla fessura sotto la porta il bidello aveva visto le Converse di lui, i tacchi a spillo di lei e le ginocchia sempre di lei, sistemati in fila indiana. Più volte. E nonostante la sospensione.
Nessuno sapeva cosa la spingesse a comportarsi così, tantomeno Emanuele: lei non parlava mai di se stessa. Parlava del suo presunto amore, dei suoi compagni, dei suoi amici fuori da scuola, delle sue avventure a sfondo sessuale, ma i suoi erano sempre e solo racconti; cronache, diari di viaggio senza commento.
Molti professori avevano provato ad estorcerle qualche informazione, probabilmente perché pensavano che vivesse nello scenario di
8 Mile in una roulotte senza bagno assieme a una madre alcolizzata senza nemmeno sapere il nome di suo padre; ma era bastata una breve indagine per sapere che le cose non stavano così. La famiglia era normale, tranquilla, unita, e Bianca conduceva un tenore di vita assolutamente nella norma. E così, la favoletta Dickensiana dell'orfanella abbandonata da tutti era velocemente sfumata, per far spazio a un enorme mare di dubbi.
E dato che sbrogliarli era troppo difficile, era risultato enormemente più facile farla sprofondare in un alternarsi schizofrenico di rimproveri e parole di comprensione, senza mai cercare davvero di sbirciare un po' più in là nell'anima neonata di quella ragazzina.
Ma com'era possibile parlare di anima, quando quella stessa ragazzina si presentava dondolando le anche e chinandosi davanti al suo volto per mostrare il seno dalla camicetta aperta?
Non che ne fosse attratto, ma era tentato piuttosto di portarla dal bidello a farsi pulire via il trucco col mocio per i pavimenti.
-Quindi – riprese Emanuele – ora che abbiamo fatto queste interessanti considerazioni, mi concedi una mezz'ora di lavoro, o vuoi proprio che mi riduca stasera a mezzanotte a correggere le vostre schifezze?
-Si riduca a mezzanotte – ghignò lei – così stasera non avrà tempo per
Camillah! - lo pronunciò battendo le ciglia e spalancando gli occhioni già troppo grandi.
-Ho
sempre tempo per Camilla – replicò tranquillo – anche se fossero le due di notte.
Bianca tacque. Quando il tempo passato tacendo divenne troppo lungo, Emanuele alzò gli occhi su di lei: e vide che piangeva. Non era una novità; Bianca piangeva spesso. Ma questa volta non capiva perché.
-Che cosa c'è? Ti ha fatto stare male? Mi dispiace, ma è normale che io pensi alla mia ragazza...
-No, no – scosse energicamente la testa, asciugandosi le guance – non è quello. Lei ha detto una cosa bellissima, sa? Non pensavo che gli uomini dicessero cose del genere. Pensavo fossero sempre pronti a tradire, con chiunque e in qualsiasi momento.
-Bella idea ti sei fatta di noi, eh...?
-Ma se ve ne vantate, anche!
-Ti ripeto che a sedici anni...
-Le pare che io parli a caso? - l'interruppe seccamente – Non parlo di sedicenni. Parlo di gente anche più grande di lei. E basta che io apra le gambe perché loro ci sprofondino in mezzo, fidanzata o non fidanzata, moglie o non moglie. Ma
lei... lei ha detto una cosa meravigliosa, straordinaria. Camilla è fortunata. Vorrei essere anch'io così fortunata.
-Vorresti avere un ragazzo che ti sia fedele? - Emanuele sorrise; forse si stavano avvicinando alla verità. Era stata una delusione amorosa? - Qualcuno si è comportato male con te?
-No – scosse la testa tra le lacrime – io vorrei
lei, professore. Non un altro ragazzo fedele. Lei.
In momenti come quello, le sue più solide certezze sulla superficialità dei sentimenti di Bianca crollavano come castelli di carte. Una tale... devozione, non poteva essere solo un'illusione, o no?
O forse semplicemente Bianca incanalava su di lui dei sentimenti molto forti che però non sapeva come altrimenti chiamare? A sedici anni è sempre tutto enormemente confuso.
E poi pensò, anche a ventinove, però. Anche dopo i ventinove, stando a quanto diceva Bianca, la gente era confusa, e chiamava amore il bisogno, e chiamava bisogno l'abitudine.
E perché Bianca avrebbe dovuto essere più confusa di quanto lo fossero tutti loro?
Come miliardi d'altre volte, non le seppe rispondere. Spiazzato ancora una volta da una ragazzina di sedici anni che gli riversava addosso la crudeltà dei sentimenti nella loro forma più sincera.

(Nda: scusatemi il titolo XD è una canzone dei Gossip che mi piace molto e che per atmosfera qui ci può stare - anche per tematiche, mi sa.
Sappiate che il rating si alzerà e che ci saranno delle parti angst, e che in generale l'autrice ha scritto la storia di getto prima di perderla e che quindi non è sicurissima di quello che succederà - leggi: saranno i personaggi a deciderlo col tempo - anche se un'idea di base c'è già.
Ditemi se vi è piaciuta *.* ci tengo >.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
Questa volta erano state le sue stesse compagne di classe a venire a lamentarsi. Purtroppo, quell'anno l'avevano scelto come coordinatore della classe terza A, il che significava che qualunque lamentela di professori e alunni o tra professori e alunni avrebbe sempre e comunque dovuto passare attraverso di lui. Era un compito ingrato e non avrebbe perdonato facilmente i suoi colleghi per averlo incastrato a quel modo; solo perché era il più giovane e aveva la voce meno forte di tutti.
Ad ogni modo, tre ragazzine scandalizzate si erano presentate alla sua ora di ricevimento, mentre Bianca era confinata nell'ufficio della preside.
A quanto pare, stavolta si era fatta trovare con la mano di Crivellaro sotto la minigonna. E questo non aveva fatto una buona impressione alle sue vicine di banco.
-Non è possibile, prof! - protestò Giulia, una ragazza alta e seria, molto studiosa – Ogni volta bisogna interrompere perché c'è questa
non voglio essere volgare che fa la cretina coi ragazzi, o che si fa sgamare a fare non voglio essere volgare ai ragazzi, o che si fa fare non voglio essere volgare...
-E ogni giorno, prof – intervenne Valeria, una ragazza dark che, contrariamente alle aspettative, era tranquilla, seria e ligia alle regole – io non lo so. Un conto è essere strani, un altro conto è essere fuori. Quella là è fuori come una grondaia.
-E poi
basta con queste minigonne e scollature! - fece una terza, esasperata – Non capisco perché noi veniamo rimproverate se per caso mettiamo un pinocchietto, e lei invece può arrivare qui vestita come una... vabè, ci siamo capiti.
Emanuele annuì. Le proteste erano serie, e Bianca doveva piantarla. Certo; ci vedeva anche un sottile fondo d'invidia, perché Bianca era sempre al centro dell'attenzione e soprattutto di quella dei ragazzi, ma c'era qualcosa che quelle tre non avevano capito. Che anche lui era ben lontano dal capire, ma forse qualcosina l'aveva afferrato.
-Ragazze, voi avete ragione – incominciò con calma – ma cercate di guardare al di là della superficie. Certo, Bianca si prende sempre tutta l'attenzione; ma pensate che sia una bella cosa? Non credo che vorreste ricevere lo stesso tipo d'attenzione che riceve lei, no?
-Certo che no, io non sono una troia – esclamò Giulia di getto, poi borbottò: - Scusi. È solo che volevo chiarire che non sono invidiosa di lei, si figuri se mi piacerebbe che tutti mi considerassero un buco!
-Io penso non piaccia neanche a lei – intervenne Valeria, in un tentativo di essere conciliante – allora perché non la finisce di fare la stupida, visto che dà fastidio a tutti e non fa neanche un gran bene a se stessa?
-Prof, il fatto è che è imbarazzante averla in classe...
Non faticava a crederci. Ma ci teneva a precisare una cosa.
-Sì, però, ragazze, sbaglio o in presidenza ci sono finiti in due? C'era anche Mattia con lei quando li hanno trovati in atteggiamenti intimi.
-Ma Mattia fa così con tutte – sbottò Giulia – e almeno non si fa sgamare ogni volta, e poi lui è normale. Lei invece arriva qua vestita a quel modo perché deve sempre farsi vedere, e poi insomma, sembra quasi che lo faccia
apposta a farsi trovare.
Questo non l'aveva mai considerato. Annotare, si disse tra se e se.
-Prof, per favore, fate qualcosa, non si può andare avanti così – supplicò Valeria – io voglio soltanto fare lezione. Non mi interessa quello che Bianca fa o non fa, ma lo faccia fuori dall'aula, se proprio non vuole seguire! A qualcun altro seguire la lezione può interessare!
-Avete pienamente ragione – ammise – proveremo a farglielo capire.
-No, non dovete 'provare', 'provare' l'abbiamo già fatto tutti quanti – protestò Valeria – dovete proprio
farglielo capire, in via definitiva. Bisogna minacciarla di espellerla.
-Grazie del suggerimento, Valeria, ma siamo perfettamente in grado di gestire da soli i nostri provvedimenti disciplinari – le sorrise – non preoccupatevi. Smetterà. E se non smetterà, credo proprio che sarà allontanata dalla scuola, quindi state tranquille; la situazione migliorerà.
Le tre se ne andarono tra mormorii di insoddisfazione, molto poco tranquille; ne avevano d'altronde motivo. Lui stesso faticava a immaginare un universo dove Bianca se ne stava seduta composta sul banco con gli occhi fissi sulla lavagna; d'altronde, il fascino di un ribelle maledetto sta proprio nel suo essere ribelle e maledetto. Quando cambia, perde anche quel fascino, pensò.
Ci volle poco prima che Bianca si intrufolasse nell'aula professori, dopo essere stata rilasciata dalla preside.
-Prooof – esalò, alzando gli occhi al cielo – non la finiva più. Ha detto che se lo rifaccio mi sospende di nuovo e che se mi sospende di nuovo mi bocciano.
-Niente che non potessi immaginare, Bianca.
-Ma sì, ma sì, lo sapevo che me l'avrebbero detto – sospirò – anzi, mi sorprende che non mi abbiano ancora espulsa. È solo che, come immaginavo, i miei voti mi hanno salvato il culo anche stavolta.
-Non per fare la predica, Bianca... anzi sì, lasciami fare la predica, dato che stavolta ti sei comportata da bambina e lo sai. Sei intelligente, Bianca. Lo so io, lo sai tu, lo sa la preside, lo sanno tutti. Scrivi dei temi bellissimi, pieni di citazioni e riferimenti letterari e cinematografici. Mi vuoi spiegare perché fai finta di essere un'abitante delle bidonville?
-Preferisco pensare a una puttanella di Harlem, mi affascina di più l'ambientazione suburbana.
Emanuele si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi. A Bianca non sfuggì la disperazione del gesto.
-Cosa c'è? Ho esagerato? Scusi, prof. Stavo solo scherzando.
-Ma no... - mormorò – non è per le scemenze che dici, di quelle metà le ascolto e metà le rimuovo seduta stante. È che... cazzo, sai dire 'ambientazione suburbana' senza cercare prima nel dizionario e poi ti fai trovare con Crivellaro che ti fa un dito durante l'ora di matematica. Ma
perché lo fai? Perché ci tieni così tanto a passare per cretina?
-Ma io non voglio passare per cretina, prof. Se volessi farlo, cercherei di dare tutte le risposte sbagliate nei compiti e alle interrogazioni farei scena muta, e di certo non direi 'ambientazione suburbana' davanti a un testimone. Io sono fatta così, leggo i libri ma faccio anche sesso. È così strano secondo lei?
Perché era riuscito a farsi dire da una ragazzina di sedici anni che era un bigotto anni sessanta che ammetteva soltanto che le donne fossero
o troie o intelligenti? Come riusciva a farsi incastrare ogni volta?
-No, non è strano, Bianca; anzi, è piuttosto normale. L'unica cosa strana è che tu a scuola faccia delle cose che dovresti fare rigorosamente in camera tua e rigorosamente in assenza di qualunque altra forma umana che non sia il tuo partner. Possibilmente, senza cambiare partner ogni giorno.
Lei si rabbuiò.
-Prof, lei pensa questo di me?
-Penso cosa? Che cambi... ma no, era per dire, dai. Non fare così. Ho detto 'ogni giorno' per dire 'spesso'. Non intendevo...
-Ma no, no, prof. Non è quello; se non siamo a 'ogni giorno', in effetti poco ci manca. Ma non vorrei che lei pensasse che contino qualcosa per me; a me piace solo lei. È solo che lei non mi vuole, e dovrò pur farlo con qualcuno.
-'Devi'? Perché, te l'ha ordinato il dottore?
-Prof, non si comporti come la preside e tutti gli altri – s'imbronciò Bianca; ed Emanuele si ritrovò a pensare 'no, no' e si stupì di dipendere dal giudizio di quella ragazzina, perché erano rimasti che era
lei a dipendere dal suo di giudizio – insomma, continuano tutti a sgridarmi. Mai che si facessero i cazzi loro, nel vero senso della parola. Mica stavo facendo casino, tutto si è svolto nel perfetto silenzio; se poi loro sono sempre lì a controllare cosa faccio io, non so che dirle, ma nessuno dei due ha emesso il minimo suono. Come possono dire che 'stavo disturbando la lezione'? Che guardino da un'altra parte, no?
-Bianca, non lo pensi nemmeno tu.
-Che palle.
Lei accavallò le gambe, posò il gomito sul tavolo e la testa sulla mano; fissò lo sguardo fuori dalla finestra, sulla strada trafficata dove in quel momento il tram stava ripartendo dalla fermata.
-Guarda che non puoi stare qui fino a fine giornata a guardare fuori dalla finestra. Devi tornare in classe assieme a Crivellaro.
-Ha paura che sospettino di lei? In effetti, non la metto mica tanto in una bella posizione a venire sempre qui, vero?
-Bingo.
-E per di più, questa è l'aula insegnanti. Rischiano di scoprirci. Beh, ha ragione, tornerò un'altra volta quando le acque si saranno calmate. Allora arrivederci, eh, prof? Grazie di avermi ascoltata. Si ricordi che la amo.
Si alzò e si diresse saltellando verso la porta. Poi all'improvviso, sull'uscio, si girò.
-Prof?
-Sì?
Bianca fece un sorriso buffo; gli occhi le brillavano come quelli di una bambina che confessava una marachella di cui andava enormemente fiera.
-Niente, niente. È solo che volevo che ci guardassimo prima che uscissi. Non riesco mai a salutarla per l'ultima volta.
Emanuele non seppe cosa rispondere. Abbassò lo sguardo sui compiti, scosse la testa, e fece un cenno di saluto.
Sapeva perfettamente che Bianca era rimasta lì sull'uscio per un minuto o due, in attesa di una risposta, ma, anche se si sentiva quei due occhi enormi puntati esattamente sulla fronte, non alzò mai lo sguardo dai fogli.

A ricreazione, vi fu una riunione di professori inviperiti teoricamente atta a frenare gli impulsi inarrestabili della Ferreri in terza A, ma che poi nella pratica si trasformò soltanto in uno sfogo collettivo di un manipolo di insegnanti sottopagati che non avevano alcuna intenzione di fare anche gli assistenti sociali.
-Ormai è ingestibile – esordì Sara, la collega di francese, scuotendo la testa – credo sia il caso di verificare se abbia dei genitori in casa a controllarla.
-Per averli, ce li ha – intervenne Rossella, di matematica e fisica – ma non capisco se non se ne accorgano, non vogliano accorgersene, o se ne infischino del tutto.
-Ha sicuramente un problema – esclamò Mariolina, di filosofia – è chiaro come il sole. È un comportamento troppo estremo. Secondo me...
-No, Mariolina, non è niente di tutto questo – sibilò sprezzante Monica, che insegnava tedesco – è soltanto il prodotto della sua generazione. Sono precoci, pensano di essere grandi ma non lo sono, cercano di dimostrarlo con questi metodi che vedono alla televisione. Non è altro che il frutto di una cattiva educazione.
-Ci ha provato anche con me – Giulio, di educazione fisica, cercò di dirlo con un sorriso – veniva a educazione fisica più svestita che vestita...
Lì Emanuele pensò 'ti piacerebbe', dato che Giulio era famoso tra le studentesse per aver più volte allungato le mani e fatto commenti; ma si trattenne dal dirlo in quella sede.
-Viene più svestita che vestita dappertutto – osservò Sonia, insegnante di arte – è intelligente. Ha una mente pronta, sa interiorizzare e sviscerare la materia, sarebbe il sogno di qualunque docente. La adorerei, se non fosse per questo.
-Forse anche un po' per questo – intervenne Antonella, che insegnava inglese e con ogni evidenza amava Bianca – è un po' la Modigliani dei nostri tempi.
-Se fosse un genio e sapesse dipingere, forse lo sarebbe – tagliò corto il vecchio Leandro di scienze – ma io vedo solo una stupidella che si comporta in un modo che sarebbe indecente anche fuori da un istituto scolastico. I genitori sono stati informati? Com'è possibile che non intervengano?
-Emanuele, tu cosa ne dici? - lo incitò Antonella con un sorriso – Non hai ancora parlato. Cosa pensi che dovremmo fare?
-Io dico che non ne ho idea – buttò lì. In fondo, era la pura e semplice verità. - Davvero; parlarci non funziona, minacciarla non funziona; espellerla significherebbe soltanto scaricare il barile e ammettere la sconfitta.
-La psicologa della scuola? - suggerì Sara – Perché non tentiamo?
-Già fatto – sospirò Rossella – già tentato. L'ho vista dopo averci parlato; non poteva ovviamente dirmi niente, ma era visibilmente colpita.
-Chissà cosa deve averle raccontato – borbottò Monica – non voglio neanche immaginare cosa fa fuori da qui, se già quando è qui arriva a certi livelli.
-Ma se arriva a certi livelli – insisteva la pacata Mariolina – dobbiamo chiederci cosa la spinge ad arrivare fin o lì. È nostro compito di insegnanti...
-No, non è nostro compito, è compito dei genitori – sbottò Leandro, con la poca voce che gli rimaneva – e allora, adesso cos'è, che noi insegnanti dobbiamo insegnare, e tenere a bada, e capire, e consolare... ma insomma, ci pagano per mettergli in testa delle nozioni, non per insegnargli l'educazione! Quello lo devono fare i genitori!
-E devono anche capirlo loro stessi, dato che sono abbastanza grandi – aggiunse Monica.
-Ha solo sedici anni – tentò Antonella, conciliante – è ancora piccola, è per metà bambina.
-Mi sembra che si ritenga abbastanza grande da avere una vita sessuale addirittura
scandalosa.
Emanuele dovette trattenersi dall'insinuare qualcosa che conteneva al suo interno parole come 'invidia', 'in bianco' e 'repressione'.
-Forse è proprio perché è piccola, che la vive in modo così immaturo – suggerì Sonia, lanciando a Monica uno dei suoi sguardi penetranti.
-Questa faccenda va sottoposta alla preside – ragionò Sara – noi non possiamo fare molto, oltre che sgridarla, metterle note e spedirla in presidenza. Se ne deve occupare qualcuno con dei poteri.
-Ma 'occuparsene' in che modo? - si accalorò Mariolina – Perché i provvedimenti disciplinari dovrebbero insegnare, far crescere, aiutare. Il metodo meramente punitivo mi è sempre sembrato controproducente.
-Ma la comprensione e la giustificazione a oltranza mi sembrano altrettanto controproducenti – sottolineò Monica con vigore – quella ragazza, più viene giustificata, e più va oltre.
-Ma punirla servirà solo a indispettirla...
-Ai miei tempi, mio padre le avrebbe mollato due begli schiaffoni sul muso e fine del discorso! C'era la guerra, c'era la fame, c'era tutto quello che volete, ma le ragazze erano già delle
signore! Non erano delle piccole... non fatemi essere volgare.
C'erano pareri di tutti i tipi. Sara era una fervente cattolica ma era troppo politicamente corretta per dire cosa realmente pensasse; Rossella, inflessibile ma anche incorrruttibile, si esprimeva sempre in direzione neutrale, Sonia voleva bene a Bianca senza volerlo ammettere, mentre Emanuele faceva fatica a formulare un'opinione. Giulio non era nemmeno da considerare. Monica, tutta rigidità e regole e correttezza, era una di quelle che davano agli alunni dei deficienti per poi dire che 'deficiente' era voce del verbo
deficere, che significava 'mancanza', e che quindi non li aveva insultati, scherziamo, non si sarebbe mai permessa.
Leandro era un altro di quella risma, ma lui aveva settant'anni e Monica aveva da poco superato la trentina, come quasi tutti gli altri. Antonella aveva più o meno l'età di Leandro ma era fatta di tutta un'altra pasta; comprensiva, colta, umana. Mariolina, intorno ai cinquanta, stava a metà tra le due fazioni d'età, ma lei aveva una laurea in psicologia e una in filosofia: chiaramente non poteva far altro che interessarsi al caso di Bianca, considerandola però appunto più un 'caso' che una ragazza la quale, effettivamente, oltre ad avere un problema chiaramente lo costituiva, anche, un problema.
-Io penso che la preside possa fare ben poco, davanti a questo caso. È un essere umano come noi.
-Sì, ma Giovanna ha un modo di fare davanti al quale anche Bianca fatica a fare storie – replicò Rossella, che era vicepreside – ha una calma nei modi, un'imperturbabilità...
-E un'
eleganza – rincarò Leandro – una cosa che quella ragazzina là, guardate, proprio... dovrebbe imparare più di qualcosina da Giovanna.
-Ci parla ogni volta – osservò Sara – ogni volta la spediamo là, ed ogni volta la preside esce dall'ufficio sospirando. Dobbiamo parlare con i genitori.
-Ma se ogni volta che le diciamo di chiamarli, lei non lo fa mai – si stizzì Monica – non mi sorprenderei se fosse lei a firmare le note sul libretto.
-D'altronde, non possiamo di certo introdurci in casa sua – affermò allegramente Rossella, tentando di stemperare – bisognerà chiamare a casa. Alla prossima ci facciamo semplicemente dare il numero dalla segreteria.
-Ma cerchiamo comunque di non farne una tragedia – insistette Mariolina – dobbiamo aiutarla, integrarla;
non renderla un paria.
-Il problema è che ci si rende già da sola – si sbilanciò Sara, sistemando alcuni compiti nella ventiquattrore – i suoi compagni non sembrano averla in grande simpatia.
-Questo dovrebbe farvi pensare che probabilmente si sente molto sola.
-Ma – Monica iniziava ad alterarsi – ci si è messa
da sola in questa condizione.
-O forse no – intervenne Antonella, con la sua voce gentile e il suo tono calmo – forse qualcuno l'ha messa nelle condizioni di comportarsi in questo modo.
-Esatto, Antonella. È proprio quello che sostengo anch'io. Non possiamo essere semplicemente dei 'docenti', cari colleghi; non siamo in un'università, siamo in un liceo, e per giunta privato. Abbiamo cento alunni in tutto e non siamo in grado di occuparci neanche di questi? E i genitori perché li avrebbero affidati a noi anziché a una più fredda struttura pubblica?
-Ma questa rimane una scuola, Mariolina. Mi ascolti bene. Una volta, se non avevi voglia di andare a scuola, ti mandavano nei campi, o a casa a cucire. Ha sedici anni; se non ha più voglia di venire qui, può anche farne a meno.
-Ma questi non sono discorsi da fare, Leandro, mi scusi – Emanuele non poté più trattenersi – hanno sedici anni; hanno dei genitori che li spingono in questa direzione, ed è giustissimo che li incoraggino a finire quantomeno il liceo. Siamo noi che dobbiamo far sì che la scuola sia un luogo di serenità e di incontro, oltre che di insegnamento; una sedicenne non può certo fare ragionamenti simili, nel duemilaenove! Per quanto si comportino come dei piccoli adulti immaturi, la realtà è che sono sempre più dei bambini. A sedici anni, adesso come adesso, le responsabilità non esistono; indipendentemente da quanto succedeva quando li aveva lei, sedici anni.
Forse non avrebbe dovuto dargli contro così apertamente, e l'occhiataccia che gli arrivò dal vecchio collega glielo confermò. Mariolina gli mise una mano sul braccio, ma lo sostenne:
-Sono d'accordo con Emanuele – asserì. - Ormai la figura dell'insegnante è diventata un misto tra quella del docente e quella dello psicologo, e francamente parlando io sono contenta che sia così; non sarei felice di svolgere il mio lavoro semplicemente entrando qui, ripetendo le pagine di un manuale e poi salutando tutti, ognuno per la sua strada e ognuno con la sua vita. Abbiamo a che fare con delle piccole persone, non possiamo dimenticarcene.
-Però – osservò Sara – se vogliamo trattarli come delle persone, dobbiamo essere a volte anche severi. Una persona che, nel mondo, si comporta come fa lei, riceve dei duri colpi dalla società circostante. Se sia giusto o no che li riceva non sta a noi deciderlo, ma è certo che li riceverà. In un certo senso bisogna essere severi per proteggerla.
-
You're got to be cruel to be kind, dicono in Inghilterra – intervenne pacatamente Antonella, con il suo sorriso pacifico che risolveva qualsiasi questione – ci toccherà insegnarle anche l'educazione, Leandro.
Antonella aveva sempre dei modi così cortesi che, anche se stava lanciando una frecciatina, uno la riceveva sempre senza battere ciglio. Nessuno era in grado di replicare a quella donna. Nemmeno lo scorbutico Leandro.
Il suo intervento, come sempre accadeva, chiuse il discorso e anche quella ricreazione finì.

A cena, quella sera, Camilla continuava a guardarlo come se cercasse una risposta. Tra una forchettata di pastasciutta e l'altra, Emanuele decise di vuotare il sacco.
-Bianca – spiegò semplicemente, e Camilla si limitò ad annuire. Si limitava ad annuire perché non sapeva dell'amore spassionato che Bianca proclamava nei suoi confronti.
-Cos'ha combinato stavolta?
-Guarda... - sbuffò, scosse la testa – mi imbarazza perfino dirtelo. Si è fatta fare un dito in aula dal ragazzino più stupido e puttaniere della classe. Con la Mantovani, poi...
-Quella di matematica e fisica?
-Proprio quella giusta. La più fissata con il silenzio e l'attenzione e le regole.
-Anche la Lombardi però non scherza, vero?
-Monica? No, quella è una rompicoglioni petulante e basta. E anche abbastanza stupida. Rossella, invece, è intelligente, ma dubito che tolleri un atteggiamento del genere. Ha mantenuto la calma in nostra presenza, ma siamo tutti un po' turbati dal modo di fare di quella ragazzina.
-Forse anche lei è turbata da qualcosa, chissà?
-Appunto: chi lo sa? Sai, forse è solo figlia della sua generazione. Esagerata, forse, forse concentra su di sé tutta la perversione di cui i ragazzini di oggi sono testimoni... ma forse è soltanto la dimostrazione che quelli nati prima di loro hanno sbagliato tutto.
-E a loro, ovviamente, dà fastidio vederselo sbattere in faccia.
-Già. Chi non si sente in colpa, pensa che ha un problema. Chi ci si sente, invece, pensa che
sia un problema.
-E tu? Tu che ne pensi?
-Un misto tra i due.
Camilla sorrise in modo strano, assottigliò gli occhi.
-La via di mezzo è per i mediocri. E non è una risposta. Cosa pensi che la spinga a fare certe cose?
Emanuele abbassò gli occhi sul piatto. Diede la prima risposta che gli veniva in mente.
-I sedici anni – disse – e tutto quello che quell'età si porta dietro.
-Mh. Non sono d'accordo. Ma ne riparleremo, ok, amore? Adesso mangia tranquillo e poi concentriamoci su noi due.
-Amore, se non gli porto quei compiti domani mi squartano e mi danno in pasto ai dobermann della casa a fianco...
-Poi ti aiuto io a correggerli. Lo sai che sono più brava di te.
-Sì... tu sei intelligente. E hai delle idee chiare. E in generale sei molto più forte e capace di me.
Camilla sorrise e gli fece una carezza sulla guancia.
-No, sai... - proseguì Emanuele – a volte qualcuno o qualcosa mi ricorda che dovremmo ritenerci fortunati ad avere qualcuno a fianco. Qualcuno che ci piace... non qualcuno che ci ama; qualcuno che ci
piace.
Lei non gli lasciò finire la pastasciutta. Gli si sedette a cavalcioni e un paio d'ore dopo correggevano i compiti assieme, alla debole luce verde di una lampadina comprata assieme all'Ikea tanto tempo prima.
Quella notte si addormentò come un bambino, perché la felicità gli era dilagata dentro come una macchia d'acqua che gli rilassava le spalle, il viso, lo stomaco. Come fosse stata acqua la assorbì e la mattina dopo fece il viaggio in treno col un dolce sorriso sul volto, il sorriso di chi in qualche modo aveva conosciuto l'amore.

(Nda: ok, questa storia sta abbastanza prendendo il via. Mi piace molto scriverla e sono contenta che sia piaciuta anche a qualcun altro, aw X3 grazie per i commenti dolcissimi di Dance of Death e Diletta, troppo carine ^-^; colgo l'occasione per ringraziare Pnin che mi aveva recensito un altro racconto e per informarla che il mio cervello è grande come un acino d'uva e per lo più inutilizzato *qua ci sta faccina che annuisce* e che ci sono autori moooolto più fighi di me in giro, anche in EFP... sono lusingata dai complimenti ma sono immeritatisssssimi .//.''.
E con ciò vi saluto; torno alla stesura del 4° capitolo :) come sempre, fatemi sapere com'era, che ho bisogno di tastare il polso dell'opinione pubblica è_é è un pezzo che non scrivo nulla di originale... ;_;
Buon fine a tutti ^o^!

The Corpse Bride/Arianna)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
-Ecco qui il risultato della vostra sconfinata passione per la
Divina Commedia – esordì la mattina dopo – qualcuno li consegni, io non voglio tenerli in mano più dello stretto necessario, urgh.
Li mollò sul tavolo e una ragazza fece per alzarsi, ma un suo compagno, al secolo Federico Cappelletto, detto Cappellotto, intervenne con un ghigno:
-Prof, li può consegnare la Ferreri?
'La Ferreri' in quel momento stava guardando distrattamente fuori dalla finestra, dondolando una penna tra l'indice e il medio. Quando sentì il suo nome, si voltò immediatamente.
-Perché, Federico? - domandò paziente Emanuele – Cosa c'è che non va se le consegna Francesca?
-Eh, c'è che senza offesa, Fra, ma tu non hai né le minigonne né il culo della Ferreri.
-Signor Cappelletto, le dispiace tenere un registro un pelo più formale quando si trova in classe e di fronte a un professore? Perché mi farebbe girare un pelino il cazzo se lei perpetrasse l'utilizzo di determinati termini.
-Ma prof, lei ha appena...
-Sì, appunto. Facciamo
tutti fatica a trattenerci. Io faccio lo sforzo e quindi lo fai anche tu, e che cazzo; cos'è, hai più diritti di me?
Cappelletto sembrò convinto al riguardo del registro, ma aveva ancora voglia di guardare il fondoschiena di Bianca. Perciò ritentò.
-Allora: siccome il sottocoda della signorina Ferreri mi risulta più gradito rispetto a quello della signorina Giraldi, sarebbe possibile...
-... scusami, Federico...
-Eh.
-Ma il sottocoda...?
-Eh, è il culo! L'ho imparato ieri sera a
Passaparola, hanno detto che il 'boccone del prete' è il 'sottocoda'. È giusto, prof!
-È giusto se parli di un pollo, non se parli di una ragazza. Per cui, finché non sarai in grado di fare formalmente richiesta di una visione approfondita della parte in questione, la signorina Ferreri rimarrà seduta al suo posto. Tra parentesi, non fare il pirla, Federico, non è educazione dire cose del genere.
Non fece in tempo a finire di dirlo che, voltandosi, notò la signorina Ferreri intenta a succhiare il tappo della penna con uno sguardo decisamente equivocabile, facendo un occhiolino in direzione di Federico Cappelletto, detto Cappellotto.
-Quando mi fai vedere il tuo cappellotto? - la sentì mormorare nella direzione del suo compagno.
-Madamigella, se permette, sarei felice di proseguire nella mia lezione senza che ulteriori proposte poco dignitose aleggino nell'aria.
-Ok, allora possiamo andare in bagno, prof?
-Bianca, non testare i limiti della mia pazienza. È una quantità finita, te l'assicuro; se proprio insisti nel volerlo scoprire a spese tue, ottimo, poi però non piagnucolare 'lei è cattivo come tutti gli altri', ok?
-Ok, prof. Adesso sto buona.
-Anch'io sto buono, prof, scusi. Glielo guardo dopo, il sottocoda.
-Spero per te che Bianca non abbia una coda, Federico. E adesso per favore andiamo avanti col canto quinto...

Era difficile tenere testa a una classe. I pericoli erano molteplici: innanzitutto, non si poteva piacere a tutti. Mai e poi mai. Anche cercando di spiegare in modo vivace, di parlare come loro, di non alzare mai la voce e di essere più permissivo sulla linea di condotta, c'era sempre chi disprezzava il prof che faceva l'amicone, e c'era sempre chi, dall'altro lato, cercava invece di approfittarsene. Accontentare chi non voleva un amicone e tenere a bada chi l'avrebbe voluto come un amico a tutti gli effetti era decisamente difficile, anche senza contare la difficoltà in sé di spiegare un testo tanto arduo a una classe di sedicenni, mantenendo il loro interesse, la loro attenzione e le loro simpatie, a livello costante, senza mai sbagliare perché altrimenti sarebbe caduto in disgrazia.
Le cose erano due, quand'eri insegnante: o te ne fregavi di piacergli e pensavi alla tua vita, e allora era certo che gli saresti stato antipatico; oppure la prendevi a cuore e finivi col cercare di compiacerli, cosa che Emanuele cercava costantemente e disperatamente di evitare; e che, in ogni caso, non assicurava niente a nessuno.
Ogni tanto si chiedeva chi gliel'avesse fatto fare.
Gestirli singolarmente o a gruppetti non era difficile, ma non si poteva riunire una ventina di sedicenni che per giunta erano lì controvoglia e pretendere non solo che ascoltassero quasi ininterrottamente per cinque ore, ma addirittura che si interessassero alle materie. Non che facessero finta d'interessarsene o che si limitassero a non fare rumore: no, che se ne
interessassero.
Li capiva profondamente e proprio per questo, da giovane, aveva deciso di fare l'insegnante; per interessarli
davvero alla materia. Ma poi aveva capito che non era questione di approccio, il quale poteva anche piacere e guadagnargli un silenzio di un quarto d'ora per simpatia: il punto era che a loro quella roba non andava giù, e che, per quanto fossero affezionati a lui, non riuscivano a trattenersi dal pensare a tutt'altre cose.
Li capiva ed era tentato di giustificarli; a che titolo dunque pretendeva piena attenzione verso le sue parole? L'attenzione andava guadagnata e, se lui forse ne era stato in grado, Dante Alighieri assolutamente no. Si sentiva sempre in colpa quando li obbligava a mantenere il completo silenzio durante la lettura di un testo noiosissimo; più passava il tempo, più si chiedeva perché avesse scelto di fare l'insegnante, cosa che idealmente, in effetti, andava contro a tutti questi fondamentali principi.
E, certo, qualche volta aveva fantasticato di portarsi in ufficio una bella diciottenne disinibita, ma, purtroppo, nella dura realtà non aveva nemmeno un ufficio dove portarle, le belle diciottenni disinibite. E l'unica che fosse veramente disposta a fare certe cose con lui aveva sedici anni, e, per quanto fosse disinibita, di certo non si poteva definire' bella'.
Forse un giorno sarebbe stata 'bella'; per ora era solo carina e volgare. Sembrava un bel giardino di fiori lasciato incolto per anni e anni e anni.
-Allora, prof, ieri ha dovuto correggere i compiti fino a tardi?
-Eh già. Molto, molto tardi.
-Aah! Allora il tempo per la Camilla l'ha trovato. È per me che non ha mai tempo, eh? Devo correggere, devo ricevere, devo parlare coi My Mini Pony volanti qui fuori dalla finestra...
-Sai com'è, Camilla è la mia fidanzata, tu sei una mia alunna rompiscatole...
-Dica pure scassacazzo, sa, lo so che distruggo i coglioni. Non mi offendo mica.
-Non ho paura di offenderti, Bianca, ma solo di sembrare triviale. È una paura che dovresti avere anche tu.
-Mah, io so di non essere triviale. Per questo mi permetto di comportarmi come se lo fossi. In caso di necessità, so che potrei presentarmi davanti alla Regina Madre e farle fare una figura da bifolca.
-Vestita così, non credo.
-Ma no, prof, non vestita così. Be', in effetti sarebbe il top se andassi lì vestita così e le tenessi un'orazione in un perfetto inglese davanti alla quale perfino lei dovrebbe ammettere che ha ancora molto da imparare.
-Bianca, non dico molto, ma qualcosa ce l'hai anche tu da imparare da lei.
-Cosa?
-Un po' di eleganza e sobrietà nel vestire, tanto per dirne una.
-Da
chi, scusi? - strabuzzò gli occhi – Dalla Regina Madre? Con quei cappellini? Con quei vestitini viola...? Ma, al di là di tutto... imparare a vestirsi da un'inglese?!
Emanuele scosse la testa e sospirò. A volte avrebbe preferito fare il casalingo e guardare
Incantesimo e badare solo ai suoi, di bambini.
-Va bene, Bianca, hai vinto tu. Hai ragione. Adesso però puoi tornare in classe?
-Bah, prof, non non è che interessasse vincere. Volevo solo chiacchierare un po' con lei.
-Dì, ma non puoi chiacchierare coi tuoi compagni?
-Ah, sa, con loro non chiacchiero molto. Sono più una tipa d'azione, non so se mi spiego.
-E le tue compagne?
-Non mi parlano. Ma vabbè. Io ho una mia vita.
-Certo. E questa vita extrascolastica è così soddisfacente che ti fa passare sopra al fatto che tutti ti considerano una troia, al di là di come reagiscono alla cosa?
-Prego...?
-Le ragazze ti odiano e i ragazzi ti usano, ma tutti loro ti considerano una troia. Ti spiace se parlo chiaro? Pensano che tu sia facile, Bianca, se questo termine ti è più congeniale.
Bianca alzò le spalle e levò gli occhi al cielo.
-Sì, lo so – rispose, guardando il soffitto senza scomporsi.
-E le cose che fai nel tempo libero ti fanno dimenticare di avere una reputazione del genere?
-Sì, prof. Il sesso tiene enormemente impegnati. È l'unica cosa che ti impedisce del tutto di pensare per un discreto periodo di tempo; oddio, poi dipende da con chi lo fai, perché con certi mi metto a pensare all'ultimo articolo dell'Internazionale sul riscaldamento globale, ma in generale è un buon passatempo, glielo garantisco.
-Sì, Bianca, grazie della preziosa lezione di vita. Mi rivolgerò a te quando avrò dei dubbi su come gestire la mia vita sessuale.
-Scusi, non volevo essere saccente. È che credo di aver fatto più esperienze di... più o meno tutti quelli che conosco.
-Bianca.
-Sì?
Si tolse gli occhiali lentamente, poi la guardò negli occhi.
-Perché mi dici queste cose?
Lei tacque per un istante; poi si fece pensosa, poi lo guardò con aria perplessa.
-Sa che non lo so? A qualcuno devo pur dirle, credo. Lei mi dà l'idea di uno che mi ascolterebbe.
-E se io non volessi ascoltare tutte le tue porcherie?
-Oh – arrossì – allora me lo dica subito, non volevo essere inopportuna. Pensi sempre che gli altri siano sempre lì in attesa di sapere gli affari tuoi... mi scusi davvero. Giuro che non gliene parlo più.
-Ma no, Bianca, parlamene quando vuoi. Vorrei solo che mi parlassi di cose più allegre.
-Allegre? Faccio sesso in continuazione, che c'è di più gaio? E poi io non sono mica una musona. Come Valeria, sempre lì con quelle croci e vestita di nero a disegnare le donnine sanguinanti.
-Nero o non nero, Valeria mi sembra più felice di vivere, rispetto a te.
-Mbah.
Ci fu un momento di silenzio.
-Ma io non le piaccio proprio?
-E daje...
-Ma ho due belle tette.
-Ok.
-E Cappellotto ha detto che ho un bel culo.
-Perdonami, ma parliamo appunto di Cappelletto...
-E non peserò più di cinquanta chili e non sono né troppo alta né troppo bassa!
-Sono certo che sia un'ottima cosa.
-Ah! È la faccia? Sono una di quelle che vanno bene di fisico ma hanno una brutta faccia? A me la mia faccia sembra normale.
-La tua faccia non ha nulla che non va.
-E allora?
-Hai sedici anni.
-Uuuh! Ma allora è solo questo! Cioè ho sedici anni ma se ne avessi diciotto un pensierino se lo farebbe! Anzi... magari se lo fa già, il pensierino, ma siccome ho solo sedici anni è costretto a relegarlo al rango di pensierino! Ho capito, prof, ho capito. Be', senta, legalmente non fa niente di male. Se non le va di farlo a scuola la capisco, non voglio metterla nei guai, possiamo...
-Bianca, piantala.
-Ma potremmo...
-Anche se parli ininterrottamente per sei ore, prima o poi sarai costretta ad interromperti e a lasciarmi dire che non mi interessi, e che non è l'età il freno che ti separa da me.
-... ma allora c'è un freno, no? Altrimenti lei andrebbe dritto a chiodo! Be', mi dica qual è questo freno, allora, e vediamo di fare in modo di toglierlo.
-Il mio freno si chiama 'Camilla', e mi sembrava di avertelo detto.
-Aaah, la fidanzata ufficiale... be', sì, è un buon motivo. Ma io non voglio mica che la lasci per me, figurarsi se un uomo rinuncerebbe mai alla sua scelta solida e sicura. No, no. Mi accontento di un po' di sesso e qualche coccola ogni tanto se ha voglia di farmela. Sennò anche niente coccole, tanto sono inutili.
-Sei più cinica di una zitellaccia gattara di settantacinque anni.
-Ha! Cos'è questa discriminazione verso le povere zitellacce, le povere gattare e le povere settantacinquenni? Mia nonna ha più di settantacinque anni, vive da sola coi gatti ed è la signora più buona del mondo.
-E com'è che sua nipote è la ragazza più problematica della scuola?
-Macché problematica, siete voi che ve li fate, i problemi. Ah, a proposito di farsi i problemi! Tenta di farmi cambiare discorso, eh? Dicevamo della fidanzata. Ah, sì, ecco cosa dicevamo! Che a me va bene che lei rimanga con la sua amata Camilla e che la sposi e che abbiate tanti bei bambini, e gne gne gne. Però per una volta, per una soltanto... me la dà questa soddisfazione?
-Ma cos'è, Bianca, devi mettere il tuo timbro su ogni essere con le mutande pesanti che capita davanti ai tuoi occhi?
-No, prof. Ma lei non potrebbe mai innamorarsi di me, quindi le chiedo quello che forse le è più facile darmi.
-Non mi va.
-Ok.
Bianca balzò giù dalla sedia e si avviò verso la porta.
-Arrivederci – si girò sull'uscio e lo salutò con la mano, con aria tranquilla.
Ricambiò e rimase fermo dov'era per qualche minuto, con la cocente sensazione di trovarsi in un vicolo dal quale sarebbe stato molto arduo venire fuori.

-Ancora Bianca, eh?
Camilla gli massaggiava le tempie e aveva chinato la testa per guardarlo negli occhi.
-Ancora Bianca - confermò. - Ormai inizio a pensare che sia un trailer dell'inferno che mi ha inviato Dio per avvertirmi di cosa mi aspetta.
-Mi dispiace, amore. Vorrei tanto conoscerla, questa ragazzina.
-Perché, credi di poter fare qualcosa per lei? Tutti vorrebbero essere il suo salvatore o il suo giustiziere, ma lei non te lo permette in nessun modo. È sfuggente. È incomprensibile, non è niente che tu abbia letto nella collana TEA di esperienze di vita vissuta.
-Non volevo fare la Torey Hayden dei poveri – s'imbronciò Camilla – è solo che mi hai incuriosita, nient'altro.
-Ha incuriosito più o meno tutti. Penso che lei
voglia incuriosirci, ma che in realtà non voglia dirci assolutamente niente.
-Mi fa pensare che abbia un segreto che inizialmente vorrebbe rivelare, ma poi, quando si arriva troppo in là, scopre di non volerlo rivelare davvero. Oppure, forse, non può.
-Non esageriamo.
-Non voglio fare la Torey Hayden, lo ripeto. Ma promettimi che scaverai più a fondo.
-Fosse per me, anzi, per me e tutti i miei colleghi e tutti i miei alunni, vorremmo esserci già arrivati, al fondo. Vorremmo capire. Ma, più che altro, ammetto che vorremmo soltanto che smettesse. Non è molto nobile.
-Però è normale, amore. Non fartene una colpa; abbiamo tutti così tante cose a cui pensare, è normale avere più voglia di semplificarci la vita che di complicarcela.
Emanuele sospirò e l'abbracciò.
-Grazie. Quando sono con quella ragazzina, perdo di vista anche la logica. Mi spiazza. Pensi di capirlo, un sedicenne, di ricordarti com'era a sedici anni, ma la verità è che noi eravamo diversi da come sono loro adesso.
-Piuttosto, stando a quanto ho capito, è
lei che è diversa da chiunque. Da noi, e anche da loro. È una caratteristica dei ragazzi problematici; danno problemi. Non sentirti mai incapace per colpa sua. Tu sei solo un insegnante.
-Non solo... - mormorò – non solo. È in corso una diatriba tra noi colleghi, al riguardo. Siamo solo insegnanti? Siamo anche degli amici? E magari un po' psicologi? Non so mai che posizione prendere.
Lei si alzò, l'abbracciò, gli posò la testa sul suo seno e gli baciò i capelli bianchi. Avevano iniziato a ingrigirsi a sedici anni e, ora che ne aveva ventinove, la sua sembrava la testa di un cinquantenne.
Bianca una volta gli aveva detto che quella caratteristica era affascinante e speciale. Lui pensava semplicemente che il fatto di essere un bell'uomo l'aveva salvato da una condanna a vita.
-Cosa devo fare, io? - gemette, sfiduciato – Non ho nemmeno l'età per essere suo padre. Potrei essere suo fratello maggiore. Non so nemmeno io come mi devo comportare con la gente, e dovrei insegnarlo a lei...? Dove sono i suoi genitori, in tutto questo? Perché fanno fare il lavoro duro a
me...?
Camilla gli accarezzò e baciò i capelli per un po'. Dopo qualche minuto, riprese la parola.
-Beh – suggerì – fai in modo di incontrarli, questi genitori. No? Chiamali, chiedi loro un appuntamento. Parlaci. E se vedi che è il caso, ripetigli ciò che hai detto a me.
-Cosa, che non so gestire una ragazzina di sedici anni?
-No, che non possono mandarti il diavolo della Tazmania in classe e pretendere che sia tu a crescerla al posto loro. Essere un insegnante comprensivo è giusto, accollarsi la responsabilità di una persona che sta diventando adulta nel modo sbagliato non è giusto per niente. Diglielo. Glielo dico io, se vuoi – aggiunse combattiva.
Il giorno dopo, chiese alla segreteria il numero di telefono e si ripropose, non appena fosse stato fuori dalla portata di Bianca, di chiamare a casa sua e fissare quel dannato appuntamento.

(Nda: ecco, questo è più o meno quanto accade in classe quando c'è Bianca. Cioè quasi ogni giorno. E questo è anche il dramma umano di un insegnante davanti a un caso quasi disperato XD e in generale davanti a una terza liceo.
Sono contenta di come mi sta venendo Camilla, dolce ma forte proprio come la volevo io. E sono anche fiera di come mi sta uscendo Bianca; è proprio come me la figuravo nelle mie idee iniziali, sapete, quei trip sulla storia che ti fai poco prima della stesura.
Ad ogni modo!
Grazie a tutti per le recensioni - CTA, cioè Kalos, l'ho già ringraziata, ma non fa male ripetere - perché più ne ricevo più ho voglia di continuare *O*. Fatevi sentire, mi raccomando è_é.
Al prossimo capitolo ^_^!)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Nel comporre il numero dal telefono della segreteria il cuore gli aveva battuto fortissimo. Non sapeva spiegarselo; forse perché stava parlando coi due misteriosi individui che avevano dato vita a Bianca e che, non si capiva perché, ora non erano in grado di tenerla a bada.
-Pronto? - rispose una voce femminile alquanto affannata.
-Pronto? Buongiorno, parlo con la famiglia Ferreri?
-Sì. Con chi parlo?
-Salve, mi scusi, sono un insegnante di Bianca, professor Vettorel.
-Mmh... ah, sì, di italiano e storia, vero? - dopo aver detto questo, la sentì mormorare – No, un attimo, sono al telefono... firmo tra un minuto. - Poi riprese a tono normale. - Mi scusi. Dicevamo?
-No, di nulla. Comunque sì, sono il professore di italiano e storia. L'ho chiamata per fare una chiacchierata al riguardo di Bianca. Per caso ha tempo in settimana...?
-Tempo... oddio, vedrò di fare il possibile. Ma perché? Ha fatto qualcosa che non va?
-No, no, nulla – mentì – è solo che vi abbiamo visti poco ai ricevimenti, lei e suo marito, e quindi mi farebbe piacere incontrarvi. Personalmente, nel mio ruolo, ritengo molto importante l'instaurazione di un dialogo tra il docente e la famiglia... e se lei è d'accordo sarei felice di parlare un po' con lei di sua figlia, per arrivare a conoscerla un po' meglio entrambi.
Se l'era preparato, quel discorsetto. Calibrato in ogni sillaba per non sbilanciarsi in alcun modo.
-Beh, un paio d'ore dovrei riuscire a trovarle... di mattina? Mi scusi – tornò a mormorare – intanto fammi le fotocopie di questi fascicoli. Fronte retro. Sì. - Di nuovo, tornò alla loro conversazione. - Di mattina, mi scusi?
-Sì, ricevo di mattina. Mercoledì alle undici.
-Mercoledì alle undici... sì, dovrei riuscire a tornare al lavoro nel pomeriggio. D'accordo, allora, mercoledì alle undici sono da lei.
-L'aula ricevimento è subito a destra del portone.
-Sì, perfetto. Ma siamo sicuri che è tutto a posto...?
-Certo, signora, a postissimo. È solo che è mia politica personale parlare con i genitori quanto più spesso possibile, perché trovo fondamentale tener presente quello che è il
background domestico dei nostri alunni individualmente.
-Certo. Certo. Guardi, mi scusi ma devo salutarla, ho gente in ufficio e non posso proprio rimanere al telefono...
-Ci mancherebbe, anzi, mi scusi lei del disturbo. Buona giornata e arrivederla.
-A lei, arrivederci – fece la signora, cortesemente, prima di riagganciare.

-Allora? - esordì Camilla quando tornò a casa la sera, con aria vittoriosa – Abbiamo trovato il coraggio per affrontare questi mostri leggendari?
-Lascia stare, va', che ero emozionato come al nostro primo appuntamento. Fa strano parlare con due persone che ti eri immaginato più o meno come la nonnina di Hansel e Gretel.
-Hai parlato con entrambi?
-No, solo con la madre, in realtà. Pensa: ha dato alla scuola il numero dell'ufficio, anziché quello di casa.
-Evidentemente la mattina lavora, come tutti i comuni mortali.
-Ma se la scuola avesse bisogno di lei di pomeriggio? Può capitare, sai. E comunque era tutta di fretta, continuava a parlare coi suoi colleghi...
-Tu ti stai già lanciando a cento all'ora verso uno stereotipo. Aspetta di parlarci, con questa persona; poi tirerai le tue somme.
-A volte penso che dovresti farlo tu questo lavoro, al posto mio.
-Ma no, è solo che io guardo il tutto con occhio esterno mentre tu ci sei in mezzo fino al collo. Se il mio lavoro dipendesse da gente come Bianca e Cappelletto, sarei già scappata a gambe levate.
-Sapessi quante volte sono tentato.
-Lo so, amore. Ti vedo, quando torni con gli occhi rossi, o con la vena sulla fronte che pulsa, o quando sospiri un po' troppo per essere solo 'stanco'.
-Per fortuna ho te – chiuse gli occhi, si aggrappò all'esile busto della sua fidanzata – per fortuna, per fortuna oltre a Bianca il Signore mi ha mandato anche te.
Camilla non disse nulla, ma Emanuele sapeva che stava sorridendo. E poi gli venne in mente che Camilla sorrideva sempre mentre lui, da qualche mese a questa parte, non faceva che lamentarsi di quella manica di bambinetti maleducati.
-Cami – mormorò – tutto bene tu, al lavoro?
-Certo, tutto bene. Lo sai che noi impiegati della pubblica amministrazione non facciamo niente tutto il giorno.
Lo disse sorridendo, ed Emanuele sapeva che comunque lei non era tipo da fare sarcasmo. Scherzava, al massimo, ma non si permetteva mai di usare il sarcasmo.
-Scherzi a parte, come va con quella là... come si chiamava... la Milanesi?
-Oh, quella. Be', si schivano i colpi come si può – sorrise.
La Milanesi era la responsabile del settore in cui Camilla lavorava come dipendente; era famosa per essere dura, velenosa, esigente e spesso sgarbata nel rivolgersi ai suoi sottoposti. Almeno, così gliel'aveva sempre presentata.
-Cos'ha combinato, stavolta, quella vipera?
-Ma niente, è che ha un modo di rivolgersi a te.... di dare ordini senza chiedere mai 'per favore'... poi la senti parlare dei colleghi con un tale scherno. Dubito che abbia qualcosa da ridire su di me, ma è talmente velenosa che mi chiedo sempre cosa stia dicendo alle mie spalle con qualcun altro. Mi mette soggezione... hai presente Miranda Priestly?
-Purtroppo sì. Grazie a te.
-Ecco. Solo più magra e più nevrotica.
-Dio mio . Dovremmo mettere Bianca in ufficio con lei, magari è la volta buona che qualcuno le dà una regolata.
-Che idea! Forse, così, si eliminerebbero l'una con l'altra e avremmo risolto tutti i nostri problemi.
Emanuele sorrise e si avvicinò a Camilla, senza dirle, perché non ne aveva il coraggio, che ogni giorno si chiedeva cos'avesse fatto di tanto meraviglioso da meritarsi
lei.
E che avrebbe sopportato tutte le Bianche e i Cappelletti del mondo, pur di poter rimanere ancora a lungo al suo fianco.

Dovette aspettare quasi una settimana prima di poter vedere la madre di Bianca; Bianca la vide soltanto il giorno successivo alla telefonata, ma poi rimase assente anche dopo il weekend. Era curioso sia di conoscere la madre, sia di avere notizie sulla figlia; perfino sabato sera non era riuscito a godersi la compagnia per l'eccitazione dovuta al prossimo incontro.
Finalmente arrivò mercoledì, e alle undici meno cinque aveva già preso il caffè, mangiato il Kit Kat e sistemato le carte nella ventiquattrore. Si appostò perfino in atrio, davanti all'entrata, per sincerarsi che la signora non sbagliasse aula; era preparato ad aspettare almeno una decina di minuti, ma la donna si presentò puntualissima, anzi, con cinque minuti di anticipo.
Era di statura medio-bassa, come Bianca, magrissima, cosa che Bianca non era, e con un caschetto di capelli biondi freschi di parrucchiere, all'opposto di quelli di Bianca. Quando si tolse gli enormi occhiali da sole di Chanel notò due piccoli occhi azzurro ghiaccio puntati a intermittenza ora sugli alunni, ora sul bidello, ora su di lui.
-Buongiorno, professore – gli sorrise cordialmente – Sono in ritardo?
-Anzi, è in anticipo, si accomodi.
-Oddio, l'ho disturbata? Mi scusi, forse aveva da fare...
-Ma si figuri, è ricreazione. Prego, questa è la sala insegnanti.
-Grazie.
Per ora sembrava normale, pensò Emanuele. Anzi, era molto gentile. Anche se aveva uno sguardo e una falcata che lo mettevano un po' in soggezione.
-Prego, si sieda pure.
-Grazie.
Si sorrisero a vicenda. Fu Emanuele a riprendere la parola, davanti alla sfumatura vagamente ansiosa che vide negli occhi della donna.
-Innanzitutto, mi voglio presentare di persona: Emanuele Vettorel, piacere di conoscerla.
-Piacere mio – replicò con calore la signora, stringendogli lievemente la mano. Quella di lei era fredda e sottilissima.
-Mi scusi se le ho rubato del tempo, mi rendo conto che i genitori devono lavorare e che spesso purtroppo non hanno la possibilità di intervenire in questi incontri. Il fatto è che sono arrivato in questa scuola a settembre e ho bisogno di conoscere al meglio e quanto prima i ragazzi, e naturalmente è necessaria la collaborazione del genitore al fine della massima resa scolastica dell'alunno.
-Certo – mormorò la signora, riponendo la custodia degli occhiali nella borsa di Vuitton con un gesto veloce.
-E quindi... - si sentiva un po' a disagio, perché quella donne lo stava guardando un po' troppo intensamente. Stava giusto iniziando a sentire caldo, quando lei spalancò gli occhi ed esclamò:
-Ma... mi scusi, io ho l'impressione di averla già vista. È possibile che ci siamo già parlati?
-Non credo. Io sono arrivato qui quest'anno, e appunto l'ho chiamata perché non l'avevo ancora vista.
-Capisco... mi scusi ancora. Mi dica, professore. Bianca ha fatto qualcosa che non va?
Così però lo metteva alle strette. 'No', sarebbe stato una bugia, e oltretutto ci sarebbe stato da chiedersi perché mai l'aveva chiamata fin lì. Ma 'sì' avrebbe messo decisamente nei guai Bianca, perché, a quanto pareva, sua madre pareva essere totalmente all'oscuro del comportamento scandaloso che sua figlia teneva a scuola. Altrimenti non avrebbe chiesto se qualcosa non andava; avrebbe chiesto per favore di non espellerla ché loro, come famiglia, ce la stavano mettendo proprio tutta.
-Bianca è una ragazza molto intelligente – esordì, cautamente – ha i voti più alti della classe, e oserei dire dell'intero istituto. Non è solo studiosa; ha proprio una bella testa.
-Ah, guardi, Bianca non è
per niente studiosa – replicò la signora con un sospiro – è sempre in giro con le sue amiche, il pomeriggio, poi rimane a dormire lì... chissà se studiano, queste ragazze. Secondo me, no. Infatti pensavo mi avesse chiamata perché aveva avuto un calo di voti, o qualcosa del genere...
-No, niente di tutto questo – si affrettò a precisare Emanuele; ma poi pensò, che altro posso dirle, allora?
Tua figlia non va dalle amiche, va dagli amici, e non sono neanche propriamente amici perché mi sembra che ad oggi li chiamino 'trombamici'; e quando dorme fuori non dorme dall'Anna e dalla MariaElena, ma da uomini che ha potenzialmente conosciuto il giorno stesso e dei quali il giorno dopo si è prontamente dimenticata? Era chiaro che la famiglia non sapeva assolutamente niente. Ma dovevano pur essersene accorti, da qualche cosa. - Ecco, si tratta della questione abbigliamento, in realtà. Vede, noi colleghi...
-Mi scusi? - la donna sbarrò gli occhi, stralunata – Le abbiamo detto milioni di volte di tenere un abbigliamento sobrio, in classe. Quando abbiamo visto che iniziava a mettersi gonnelline o ad andare in giro con la vita troppo bassa, l'abbiamo rimproverata molto. Mi sembrava però che ultimamente fosse sempre uscita in jeans e maglietta... no? Il problema dovrebbe essere risolto.
-Ecco... - Emanuele iniziava davvero a sudare. Dove si cambiava, Bianca? Quando? E, soprattutto,
perché? - ecco, il problema è risolto, sì. Solo che avevamo notato che appunto ha avuto un periodo un po' così... e... ecco, volevo domandarle, dato che sono arrivato quest'anno, quando Bianca ha avuto questo cambiamento...
-Oh. Beh, Bianca ha iniziato a fare un po' la stupidina quando aveva dodici anni. Magliettine scollate, poi voleva tenere i capelli lunghi e stava sempre lì a spazzolarseli, poi le è venuta la mania di truccarsi... sa, è l'età. Poi ha sempre continuato su questa strada, ma noi le abbiamo sempre detto: quando esci la sera puoi metterti certe cose, con moderazione, ma a scuola e a casa e da qualsiasi altra parte devi vestirti come si deve. E alla fine ci ha dato ascolto – concluse con evidente soddisfazione.
-Un po' tutte le ragazzine a quell'età iniziano ad avere certi pensieri – incominciò – sa, i ragazzi, i coetanei, al liceo anche ragazzi più grandi...
-Non me lo dica. Purtroppo lo so che lo fa per attirare l'attenzione. È sempre
scollacciata, alle volte sembra proprio che non abbia pudore. - Colse una smorfia sulle labbra sottilissime della donna. - Poi quei capelli rossi... non le dico cosa mi sembra. Ma non vuole sentire storie. Così abbiamo stabilito che deve tener sempre la coda o la cipolla. Eh, mi rendo conto che non è adatto a una ragazzina della sua età, specialmente tingersi i capelli... ma cosa vuole che faccia? Dopotutto è una brava ragazzina, prende voti alti, frequenta delle ragazze a posto, non mi dà problemi... qualche capriccetto bisogna concederglielo, purtroppo.
-Come no – Emanuele prese tempo – sono così giovani. Ma mi dica, si è ammalata, Bianca? È da un po' di giorni che non la vedo a scuola.
-Più o meno... una cosa del genere. È molto stanca, dev'essere stressata, sa, i compiti, le verifiche, le interrogazioni...
-Certo. Capisco. Ha bisogno che le comunichi i compiti per la settimana prossima?
-Sì, guardi, mi farebbe un gran favore. Bianca è talmente pigra, fosse per lei non chiederebbe mai niente a nessuno, devo sempre ricordarglielo io... poi chissà se lo fa sul serio...
-Bianca è brava. Non la troviamo mai impreparata su nessuna materia.
-Oh, sì, lo so che è brava. È sempre stata bravissima, anche se non dovrei dire io queste cose, dato che sono la sua mamma.
-Se mi dà un attimo vado a prendere il registro e un foglio, e le ricopio i compiti per i prossimi giorni.
-Lei è troppo gentile. Dirò a Bianca di darsi una mossa, ché non è giusto che sia lei, con quello che ha da fare... quella
pigrona.
Colse un altro sguardo piuttosto seccato; disgustato, quasi. Ma non poté esserne certo perché doveva correre al piano di sopra a recuperare il registro della terza A.
Quando tornò, la signora lo guardava con due occhi che brillavano.
-Mi sono ricordata chi è lei – esordì con brio – l'ho vista sulla scrivania di una mia dipendente. Ha incorniciato una vostra foto e la tiene di fianco al computer... lei è il fidanzato di Camilla, sbaglio?
Emanuele posò il registro sul tavolo e si sedette di colpo, prima di collassare dritto di faccia sulla borsetta di Vuitton.

-Non ci credo. Mi prendi in giro.
-No, Cami – gemette, battendo ripetutamente la fronte sul tavolo – era lei. Miranda Priestly in persona. Mi ha riconosciuto
dalla foto sulla tua scrivania.
-Non ci posso credere. Non ci
voglio credere. Noi lì che scherzavamo di metterle nella stessa stanza...
-... e invece convivono ventiquattr'ore al giorno da sedici anni nella stessa casa!
-E per di più Miranda non sa assolutamente niente della reputazione di sua figlia.
-Non parlarmene! Grazie al cielo Bianca è assente, altrimenti sai cosa sarebbe successo se si fossero incontrate?
-Non so cosa sarebbe capace di farle, la Milanesi. Non posso crederci. Lei tutta composta e perfetta che tratta tutti con superiorità... e non sa che sua figlia è... è...
-Il buco comune di Padova – concluse tranquillamente Emanuele – perché questo è, a conti fatti.
-Che famiglia... - mormorò Camilla – che brutto. Anzi. Che triste.
-Non riesco a capirla – buttò lì Emanuele, gettandosi sul divano con le braccia incrociate dietro la nuca – non capisco se le vuol bene o se la disprezza.
-O forse sono tutte e due le cose.
-Com'è possibile?
-Forse Bianca l'ha delusa.
Probabile. Bianca non era di certo una ragazza semplice da gestire. Non dubitava che non dovesse essere una passeggiata tirarla su, ma, d'altra parte, se la sentiva di essere leale nei suoi confronti.
-Non credo. Bianca è strana, ma non è cattiva. E poi, sua madre non sa nulla di quello che lei realmente fa; non avrebbe motivo di essere delusa da niente.
-Non so. Forse dovresti vedere anche il padre.
-Impossibile; ho già chiamato a colloquio la madre, lei gli comunicherà tutto e non c'è motivo che io convochi anche lui.
-Non ti resta che indagare.
-
È quello che farò.

Il giorno dopo, stette bene attento ai dialoghi dei suoi alunni. Captò diverse liti tra fidanzatini che erano stati divisi dalla procacità di Bianca, “solo perché quella troia la dà a tutti e io invece provo a tenermela almeno un po' stretta! Ma vaffanculo, stronzo di merda!”, diversi pettegolezzi sulle sue ultime presunte avventure, “dicono che sia andata con uno di
cinquant'anni! Sì sì, è vero, te lo giuro, me l'ha detto la Silvia di quarta E che l'ha vista una sua amica in giro in centro con uno che aveva cinquant'anni”, e infine qualche informazione utile.
-La Ferreri è di nuovo assente per un mese? Ma perché lei può sempre fare tutto quello che vuole?
-Ma che ne so, fatto sta che da quando è iniziata la seconda è già successo due volte. Un mese, sta a casa. A ciucciare cazzi, secondo me.
-E con questa fa tre. Eh, ma tanto a lei nessuno dice mai niente.
-”Malessere', scrivono sulle giustificazioni. Per un mese di assenza. Se glielo porto io il malessere, alla Mantovani, quella mi urla dietro talmente forte che crepa i vetri delle finestre.
-Avrà fatto qualche pompino anche al direttore, così può continuare a fare tutto quello che vuole.
Ovviamente non poteva chiedere delucidazioni agli alunni, anche perché così non avrebbe fatto altro che aumentare i pettegolezzi su di lei, e questo non era bene.
Ma riunì a ricreazione Sonia, Antonella e Mariolina, per venirne a capo una volta per tutte.
-Io ce l'ho solo da quest'anno, Bianca – si giustificò Antonella – faccio solo il triennio. Sapevo che c'era questa ragazzina un po' particolare, ma non mi sono mai intromessa.
-Stesso vale per me – ammise Mariolina – non ho mai potuto occuparmene personalmente; so però che la preside ha parlato con i genitori e che è a conoscenza del motivo di queste assenze. Giovanna però ci ha sempre detto di non preoccuparcene, che andava bene così.
-Io ce l'ho da quando è entrata nell'istituto, ma nessuno mi ha mai detto nulla, e io non sono il tipo da farmi gli affari degli altri – affermò la forte ed elegante Sonia – a me quella ragazza, e ve lo dico tra colleghi, sta a cuore. So che è lo stesso per voi. Ma non possiamo chiedere più di quanto ci sia stato detto. Non avete idea di quanto intensamente vorrei poter andare più a fondo, ma purtroppo non è possibile.
Questo fu quanto riuscì ad ottenere.
Bianca tornò al termine di un mese e dieci giorni d'assenza; quel giorno, quell'unico giorno di presenza, era l'unico in cui Emanuele non aveva la terza A. Non la vide nemmeno per i corridoi. Il giorno dopo era di nuovo assente, e Sonia gli raccontò che era rimasta zitta e immobile per tutte le cinque ore di lezione; ogni tanto avevano dovuto riprenderla perché si era addormentata.
Bianca tornò dopo ulteriori quattro giorni d'assenza. Era preparata su tutte le materie, chiese addirittura di farsi interrogare, era vispa e attiva come l'aveva ricordata e passò le ore di lezione mandando sms e giocando con la PSP. La sgridò più di una volta perché continuava a flirtare con il ragazzo seduto dietro, e non ci fu modo di farla stare tranquilla per tutta la giornata.
Emanuele sapeva che, molto presto, gli sarebbe toccata una nuova seduta in aula insegnanti.
Per la prima volta, non stava nella pelle al pensiero di parlarle.

(Nda: ed eccoci qui. Veloce, eh :D? Ma non ancora per molto, temo XD ho appena concluso con enorme fatica il capitolo 5, del quale non sono soddisfatta, e sto tentando di imbarcarmi nel capitolo 6. Vi avverto già che il capitolo 5 sarà lungo almeno il doppio di quelli che avete affrontato finora, quindi preparatevi ;).
Grazie delle recensioni a CTA - lieta di aver sconfitto l'azione repellente di Analisi XD - , Dance of Death - non preoccuparti, potrai sbizzarrirti con il commento a questo capitolo, lol *-* - e Baby Birba, che mi ha fatto sorridere perché si è messa a leggere la fanfic a scuola su iPhone, la migliore XD vorrei dirti di no! Non farlo! Segui le lezioni, non leggere la mia fanfic ;o;!, ma non ci credo nemmeno io -.-, quindi... sei grande e vaccinata XD vai e segui il tuo cuore XD!
E con ciò vi saluto e alla prossima! Fatemi sapere come sto andando, mi raccomando é_è!)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


N.B.: non so come appaia a voi, ma questo capitolo a me risulta con un testo molto piccolo. Non sono riuscita a modificarne la grandezza, per cui provate a premere contemporaneamente i tasti "Ctrl" e "+" e dovrebbe essere più visibile... se ci fossero problemi segnalatemelo, vedrò di darci sotto col codice e sistemare la cosa. ^^

L'occasione non tardò a presentarsi. Dovette attendere appena il giorno successivo al suo ritorno; non appena riuscì a farsi sbattere fuori, Bianca si presentò, puntuale, nell'ufficio di Emanuele. Arrivò saltellando ed esordì con un vispo “Buongiooorno prof!”.
La osservò mentre trotterellava fino alla sedia e vi si sedeva con un colpo secco, alzando le gambe al punto che, se avesse voluto, avrebbe potuto sbirciare senza problemi di che colore aveva le mutande quella mattina.
-Bianca, se fai così ti si vede tutto – la ammmonì.
-Beh, non è mica un brutto spettacolo, gliel'assicuro. Me lo dicono tutti. Vuole sincerarsene?
-Ci credo sulla parola.
-Aah, prof, mi è così mancato! La posso abbracciare forte? Forte forte forte? Non mi ha mai lasciato abbracciarla, posso per una volta? Posso? Eh?
-Non se ne parla neanche.
-Ah! Fanculo. Non a lei, al destino funesto che ha frapposto la Camillah tra me e lei. Ah, l'amore infelice dei miei sedici anni!
-Vuoi stare ferma un minuto? Mi fai venire il mal di testa.
Bianca continuava a dondolare le gambe, a gesticolare con una mano e con l'altra a tormentarsi i capelli.
-Ferma? Nah, non ho voglia. Ah, sono così felice di rivederla, sono emozionata come una ragazzina al primo appuntamento! Era da tanto che qualcuno non mi faceva battere il cuore, prof.
Si alzò, saltellò fino alla finestra. Il suo sguardo schizzò sulle macchine fuori, poi esaminò per bene la stanza, poi si posò di nuovo su Emanuele, a cui rivolse un enorme sorriso di cuore.
-Bianca, ho parlato con tua madre, un mese fa.
-Cosa? - fece lei, che aveva posato le mani sulle superfici dei due tavoli e ora dondolava le gambe nello spazio dell'intermezzo – Mia mamma? Le ha detto di quella storia di Cappellotto? No, vero? Perché sono ancora qui viva e attiva che parlo con lei, e se avesse saputo di quel discorso di sicuro non sarei qui tutta intera.
-No, non le ho detto niente, perché concordo con te sul fatto che ti ammazzerebbe. E non avrebbe neanche torto. - Bianca intanto dondolava a velocità folle le gambe per aria. - Mi ascolti?
-Sì sì.
-Che ho detto?
-Che rompo i coglioni. Prof, senta, senta, l'ha visto l'ultimo di Woody Allen? Io l'ho trovato un agglomerato di escamotages che non tentano nemmeno di camuffarsi e di stereotipi che il nome prestigioso non riesce a nascondere. E poi, ha capito quel vecchio porco? L'avevo già captato in Manhattan che il suo sogno segreto neanche tanto segreto è quello di portarsi a letto una ragazzina profondamente affascinata dalla sua intelligenza eclettica e dal suo umorismo sarcastico e un po' noir, ma credo che questa volta abbia...
-No, Bianca, non l'ho visto.
-Oh, dovrebbe! Mi chiedo perché per non abbia per l'ennesima volta recitato nei panni di se stesso, o di quello che gli piacerebbe essere se fosse un po' più accettabile dal punto di vista estetico. Per di più, cercare di spiegarmi la storia attraverso il protagonista che parla con la telecamera! Bel fallimento nel presupposto dell'intento di comunicazione che è un po' la base del media cinematografico, non trova?
-Ti sei fatta buttare fuori dalla classe?
-Bah, non ne potevo più! Io le avevo capite, le disequazioni fratte. Quelli non ci arrivavano. Non avevo voglia di rimanere lì ferma immobile per altri tre quarti d'ora aspettando che ce la facessero anche loro, che tanto, lo so, non le capiranno mai.
-E quindi, come hai fatto a farti buttare fuori?
-Mi sono fatta sgamare a con l'auricolare nelle orecchie che scuotevo la testa a ritmo di
Infinity 2008. Oh, mi piace una vita quella canzone! E nonostante sia da discoteca ha anche un bel testo, a modo suo. Ho voglia di andare in discoteca. Oh, ho voglia di ballare! Prof, balliamo? Facciamo qualcosa assieme?
-Bianca, cos'hai preso?
-Io? Io niente, prof. Pensa che sia una
drogata? - chiese con un sorriso inquietante - Pensa che abbia le braccia tutte piene di buchi o che abbia un francobollo sotto la lingua? Vuole provare a controllarmi la lingua, prof?
Se la ritrovò a tre centimetri dal naso. Venne preso dal panico.
-Bianca, ti prego.
-Oook, ok – riprese a saltellare per la stanza, con le braccia dietro la schiena – allora vuole controllarmi le braccia? Vuole vederle? - tornò di fronte a lui e fece per levarsi il maglioncino. Poi scoppiò a ridere davanti al suo pallore improvviso, tirò giù il maglioncino, si chinò su di lui e afferrò l'orlo della sua manica sinistra – Controlliamo? Vuole vedere se mi faccio? - sorrise ancora, si rialzò e gli fece l'occhiolino – Beh, rimarrà col dubbio. Così almeno mi penserà un pochino. E com'è andata con la Camilla, in questo mesetto di assenza mia? Quand'è che vi lasciate? No, scherzo, non glielo augurerei mai. Ma quand'è che viene a fare un giro con me?
-Bianca,
fermati un secondo. Che cos'hai?
-Ma niente, prof! Sono solo una ragazzina un po' vivace. Sa com'è, a quell'età, hanno gli ormoni a mille. Eh, ma vedrà che col tempo si darà una calmata... sorrisino di scherno, e poi: è come tutti gli altri, tutti ci diamo una calmata prima o poi. Eh, già. Siccome io non mi calmo gli dà fastidio pensare che io abbia più diritto di loro di comportarmi senza vincoli o freni. Gli dà fastidio vedere il modo in cui mi do il permesso di esprimermi con sincerità, semplicemente perché io sono libera e loro non lo sono. Susanna Kaysen diceva qualcosa del genere. L'ha letto, il libro di
Girl, Interrupted? È molto meglio rispetto al film. Più che altro, il film è quasi un'altra storia. La scrittura della Kaysen è così cruda e asettica, l'ho poi ritrovata in quel libro sulla sua patata che...
-Bianca. Una cosa alla volta. Cosa stai cercando di dirmi?
-Mmh – si morse le labbra, i suoi occhi grandi schizzarono qua e là, nel frattempo dondolava le gambe – eh. Boh. Niente. In realtà nessuno di noi lo fa mai, giusto? Non vogliamo mai dirci un granché. Non facciamo altro che riempire milioni di attimi vuoti con film e libri e
vernissages e sesso. Non è così, che fanno le persone grandi? Voilà, vede che non sono poi così immatura? E neanche voi siete poi così complicati.
-Bianca.
-Su, basta chiamarmi per nome, mi sembra di essere in classe, la prego. Comunque, tornando a Woody – stavamo parlando dello zio Woody, vero? - ha notato come ama i salotti, i ricevimenti, le esternazioni di cultura postmoderna e in generale l'ambiente borghese intellettualoide? E ha notato come ha preso in giro quelle newyorchesi boho-chic, etno-finto-povero, genio-e-sregolatezza, dedite all'arte e convertite all'ambiguità sessuale e filosofica e ideologica?
-Ti vuoi fermare un momento, Bianca...?
-Mannò, perché? Chiacchieriamo! Mi dica qualcosa. Se non ci fossi io che parlo, il tempo non passerebbe più. Con la Cami come fa? Passa tutto questo tempo a dirle 'Camilla! Camilla! Camilla!' ogni volta che la poverina cerca di fare un po' di conversazione?
-Senti, non sono affari tuoi quello che io e...
-Looo sooo, prof, looo sooo, stavo solo sdrammatizzando. È che qui ci perdiamo in un gomitolo aggrovigliato di parole senza senso quando in realtà io voglio fare sesso con lei e continuiamo a girare attorno a questa verità senza mai concludere nulla. Non la tento almeno un pochino? Almeno una sbirciatina alle tette? Tutti cedono davanti alle tette, avanti. Sarà mica
diverso, lei?
-Non mi amavi proprio perché ero diverso...?
-Ma lei non mi ama, quindi non me ne faccio proprio niente della sua diversità a stampo romantico vecchio stile.
-Davvero vorresti che ti amassi?
-Disperatamente, anche se non sembra. Ma sarei curiosa di sapere, se fossimo io e lei, in un motel fuori città, lontani dove non ci vedrebbe nessuno, se non sarebbe almeno un po' tentato di farlo.
-Nemmeno se ci trovassimo in un universo parallelo.
-Sarei capace di cercare il portale per Narnia in tutti gli armadi del mondo, se lei mi promettesse che, una volta arrivati lì dentro, potrei finalmente averla per qualche secondo.
-Non ti farò mai questa promessa.
-Io voglio esserne sicura.
-Prego...?
-Prenoti un motel a nome suo, fuori città. Pago tutto io: stanza, benzina, pranzo e cena. Stiamo un pomeriggio assieme e se non avrà mai, nemmeno per una volta, la tentazione di accarezzarmi il seno – si portò una mano sulla curva dolce e piena del petto – allora io mi arrenderò. Prometto. Non verrò nemmeno più qui a parlare con lei.
-Non se ne parla.
-Allora continuerò a venire qui e a chiederglielo e a riempirle le orecchie di parole senza senso.
-Fa' pure, non ti ascolterò.
-Lo farò con uno diverso ogni giorno. E la sera berrò ancora di più, lo sa che bevo parecchio? No? Bene, ora lo sa, bevo parecchio. Una bottiglia ogni uno o due giorni se ne va, e non di
Bacardi Breezer, ma di Keglevich da venticinque gradi: davvero lei vuole che io peggiori? Vuole che il fegato mi esploda in mille pezzi? Vuole che rimanga incinta, prima o poi? O magari che vada con qualcuno di pericoloso che mi violenterà e poi mi infilerà a pezzi nei bidoni della spazzatura?
-Sei proprio stronza a minacciarmi.
-E a lei non costa nulla passare un pomeriggio con me. Non le ho chiesto niente tranne la sua compagnia; quello che fa dipende esclusivamente dalla sua volontà, quindi, se non le andrà di toccarmi, non lo farà e il discorso sarà chiuso.
-E poi mi lascerai in pace?
-Sicuro, la lascerò in pace. Mi vedrà solo in classe e le parlerò solo in occasione delle interrogazioni. Guardando la classe e non i suoi occhi.
-Affare fatto. Il più presto possibile, mi raccomando.
-Prenoti lei quando le è più congeniale – rispose Bianca allegramente – e poi me lo comunichi, così effettuo il pagamento al motel. - Sorrise. - Spero anch'io che sia il più presto possibile.
-Non per i miei stessi motivi, credo – mugugnò Emanuele.
-Oh, lo so. Questa è la misura in cui lei vuole che io mi levi dalle palle – scoppiò a ridere – le farò cambiare idea. Altrimenti amen. Il mare è pieno di pesci, dicono! Arrivederci e buona giornata. E grazie. E le voglio bene. E scusi. E scusi anche alla Camilla. E ora me ne vado, sì, arrivederci.
Emanuele uscì da quella conversazione sfinito, e faticò non poco a trascinarsi attraverso le ultime tre ore di lezione. Poi passò un viaggio in treno terribile; era infastidito da tutto, operai puzzolenti, valige, ristrettezza di spazio, tutto. Tornato a casa si preparò una camomilla e Camilla arrivò poco dopo; quando la vide, non riuscì a trattenersi e un paio di lacrime spuntarono da sotto le palpebre e presero a ballargli sull'iride.
-Amore – esclamò Camilla, gettando la borsa per terra – che succede? Tutto a posto?
-Sì – mormorò – sì. Un po' stanco.
-Che è successo? Ti hanno rimproverato al lavoro?
-... sì – mentì, dopo una breve esitazione – perché secondo loro non ho organizzato per tempo un progetto di uscita didattica.
-E piangi per questo?
-No, perché non ne posso più. C'è troppa gente in una scuola e tu devi avere a che fare con ciascuno di loro. Voglio andarmene da lì. Appena finisce l'anno scolastico strappo il contratto e vado a fare qualcos'altro.
-Amore, mi dispiace tanto. Vieni qui. Andiamo a farci un bel bagno caldo assieme, su. Stasera ti preparo la parmigiana, sei contento? E poi se vuoi andiamo al cinema. Ti va l'idea?
Guardò il caldo sorriso di Camilla che lo teneva tra le braccia come fosse stato un bambino col ginocchio sbucciato. Purtroppo, dopo averla guardata, gli venne ancora più da piangere.
-No, dai... non fare così. Adesso ci dormiamo su e passa tutto. Tra poco la settimana è finita, forza, cerchiamo di farcela... pensa che io ho Bianca senior, altro che una sedicenne ribelle!
-Già...
Ma fu davvero consolatorio quel breve dialogo prima del bagno assieme, perché gli ricordò che, per quanto Bianca tentasse di trascinarlo nel suo vortice di parole e contraddizioni e sesso vuoto, c'era sempre Camilla ad aspettarlo a casa, e lui avrebbe sempre resistito a qualsiasi tentazione, posto che ve ne fosse una, perché non avrebbe mai potuto dimenticare per un attimo quanto l'amava.

Il giorno dopo comunicò brevemente a Bianca che potevano tranquillamente incontrarsi l'indomani, e le indicò nome e indirizzo dell'albergo.
-Fatti trovare in piazza Insurrezione alle due – le disse con tono neutro – io passo a prenderti in macchina. E vedi di non parlarne agli altri.
-Non mi tratti così.
-Tu mi hai minacciato, Bianca, non ti meriti di essere trattata diversamente.
La lasciò in corridoio dove l'aveva trovata, senza voltarsi a guardarla. Sapeva di averla ferita. Ma sapeva anche di non essere più in grado di reggere la situazione, e decise per quella volta di pensare solo a se stesso.

-Eccomi qua, prof! Ho fatto tutto. Partiamo!
Non rispose e la guardò mentre richiudeva la portiera e si allacciava la cintura. Anche Bianca tacque come lui, ma masticava una gomma dietro l'altra, e continuava a dondolare le gambe e a tormentarsi le pellicine delle mani.
Avrebbe voluto dirle di non farlo, di calmarsi per un secondo, ma era ancora furioso con lei. Alla fine, però, ricordò che era soltanto una ragazzina di sedici anni con evidenti problemi, e si arrese a rivolgerle la parola.
-Come stai? - le chiese, in un borbottio.
-Non le rispondo se me lo chiede così.
La guardò. Aveva lo sguardo puntato fuori dalla finestra; si morsicava le dita e continuava ad accavallare e scavallare le gambe, incapace di trovare requie.
-Basta mordere. Ti fai male.
Lei si voltò verso di lui e lo guardò un attimo, con un'espressione strana. Sembrava lo stesse studiando. Le lanciò un'occhiata. Lei si girò e riprese a mordersi le dita.
-Basta! - stavolta le diede un colpetto sulla mano. Lei lo guardò ancora, poi si girò ancora di più verso il finestrino ed Emanuele non fu più in grado di controllare cosa stesse facendo. Sentì solo che non stava mai ferma.
-Prof, andiamo in Alabama.
-Cosa...?
-In Alabama. No, in Texas. No, a Las Vegas. Oh, che sete.
Bianca tirò fuori dalla borsa una bottiglia. Emanuele lanciò un'occhiata alla bottiglia e realizzò, sgomento, che si trattava di vodka liscia.
-Non se ne parla. Io non vado da nessuna parte con una minorenne ubriaca, chiaro?
-Ma mi fa stare meglio. Mi rilassa, prof. Sa quante volte a scuola arrivo con la vodka secca nella bottiglietta? Tutti pensano che sia acqua, e invece no, è vodka. Mi serve per stare tranquilla, altrimenti mi agito.
-Quanto stupida sei?
-Se sapesse in quanti me lo dicono.
-No, tu sei proprio
stupida. Ci trovi un gusto tutto particolare nell'autodistruzione, vero? Hanno ragione quando dicono che vuoi soltanto il centro del palco. Tu vuoi la nostra attenzione, sempre, costantemente. Negalo.
-Be', se volessi la vostra attenzione mi porterei una bottiglia di Jack Daniels con l'etichetta, ma ad ogni modo lei la pensi come preferisce, non mi interessa molto. Mi basta che finisca.
-Cosa?
-L'attesa. È snervante. Il
dopo. Deve arrivare. E io non sto facendo nulla ma dopo tra di noi succederà qualcosa, e stiamo passando al rallentatore attraverso il tempo. Mi manda fuori di testa.
-Perché non lo ammetti...?
-Cosa?
-Che ti fai dalla mattina alla sera. Tu prendi qualcosa. Cos'è? Ecstasy? Cos'altro? Per comportarti a questo modo, qualche amfetamina la prendi di sicuro. Non sono un esperto, dimmelo tu. Cosa prendi?
-Un caffè con due cucchiaini di zucchero, grazie.
-Non farmi arrabbiare ancora di più, Bianca.
-Lei è suscettibile. Mentre io, nonostante lei continui a insinuare che sia una drogata, ancora non mi sono scomposta. E poi sarebbe lei l'adulto e non io.
-Tu sei una mocciosa.
-E LEI LA DEVE SMETTERE IMMEDIATAMENTE – strillò Bianca, da un momento all'altro – chiaro?! Io NON mi drogo. NON lo faccio. Ma LEI continua a dire che LO FACCIO, e IO sto perdendo la PAZIENZA.
La guardò. Aveva due enormi occhi rossi spalancati in modo inquietante, e ansimava.
-Va bene, Bianca. Non ti droghi.
-E non usi CONDISCENDENZA – urlò lei, afferrandolo per un braccio – ha capito?! NON faccia l'adulto maturo e ragionevole con me! NON mi faccia ARRABBIARE, è chiaro?! Altrimenti io... io...
-Molla il braccio, per favore.
-NON MI DIA ORDINI!
-Per favore, Bianca...
-Allora lei adesso LA SMETTE di fare insinuazioni su di me e di trattarmi da appestata. La SMETTE, ha capito?! Ha capito?! O vuole che mi arrabbi SUL SERIO?!
Rischiava davvero di finire attraverso il guard rail, perciò decise di mantenere la calma. Ora era praticamente certo delle sue ipotesi, ma decise di assecondarla. Sperava solo che l'effetto passasse prima che arrivassero al motel, e che nel frattempo lei non li conducesse dritti dritti verso un frontale.
-Ho capito, scusami. Sono saltato in fretta alla conclusione sbagliata.
-Mi scusi – bisbigliò lei, con aria angosciata – mi scusi lei. Io...
Non concluse. La sentì tirare un bel respiro, poi scoppiò a piangere a scroscio.
-Mi dispiace tanto, prof – singhiozzò – mi dispiace tanto, mi perdona? Sono stata maleducata, ho urlato. Mi dispiace tanto. Mi perdoni, prof. Io la amo. Non voglio che pensi questo di me. Mi dispiace tanto! Prof, mi dispiace...
-Ok, Bianca, ho capito. Non importa. Adesso non scusarti più.
-Ma ho paura che nel momento in cui smetterò lei inizierà a prendersela con me – gemette, asciugandosi gli occhi – ho paura che lei mi odi. Io non voglio che lei mi allontani. Professore, non se ne vada più, rimanga con me, per favore.
-Adesso non agitarti e asciugati il viso, ok? Sei più bella con un sorriso sulle labbra.
-No, sono brutta e lei mi odia, per questo non mi vuole – riprese a singhiozzare disperatamente – non ho mangiato per un mese e mezzo per piacerle, e ho perso dieci chili e lei non se n'è neanche accorto.
-Ma Bianca, hai il cappotto, come potevo...
-Sì, ma a scuola sono quasi svestita, e lei non si è accorto che avevo meno tette e meno cosce!
-Ma perché non te le guardo!
-E allora lo vede che non le interesso! - pianse, e appoggiò la fronte sul cruscotto. Emanuele le accarezzò i capelli rossi, sciolti e un po' secchi per via della tinta.
-Ma non è la fine del mondo. Io ho grande stima di te, Bianca, anche se ti comporti da stupida ogni tanto.
-Lo so che secondo lei e tutti mi comporto
sempre da stupida – si lamentò, e tirò su col naso – e ho sentito una volta quella di tedesco dire che non posso essere intelligente, al di là dei voti, se mi comporto così.
-Ma non la pensiamo tutti come lei. A sedici anni non puoi parlare a qualcuno di 'scelte' e pretendere che faccia anche quelle giuste. Quando si parla dell'emotività della persona, non si può essere razionali; intervengono moltissimi fattori, tra i quali sicuramente le esperienze personali, e tu probabilmente hai avuto le tue e queste ti hanno spinta, e tuttora ti spingono, a comportarti in un certo modo.
-Allora andiamo a Las Vegas?
-... eh?
-Las Vegas. Gioco d'azzardo. Decappottabili rosse sulla Route 66, capelli nel vento, il nostro amore folle e selvaggio.
-Bianca...
-Ho letto
L'Eleganza del Riccio, prof, l'ho trovato terribilmente pretenzioso e ho sentito la voce dell'autrice assordante come una campana. Quanto surrealismo, quanta metafisica dei poveri, quanta tronfia saccenza. E quante seghe mentali, soprattutto!
-Ti ricordi di cosa stavamo parlando?
-Sì, di me, come sempre. Sono un po' stufa di sentir parlare di me, tutti parlano sempre di me, che noia. Ci sono cose molto più interessanti nel mondo e una di queste è la narrativa contemporanea, e lei dovrebbe essere d'accordo con me, no? Quindi non concentriamoci sulla mia stupidità e confrontiamoci da uomo a donna colti quali siamo.
Cristo, avrebbe voluto dire. Iniziava a preoccuparsi dell'eventualità in cui li avessero fermati e avessero trovato lei con delle pastiglie in tasca. Poi avrebbe avuto un bel daffare a dimostrare che non era un pedofilo, e a spiegarlo a Camilla.
Ma come si era fatto incastrare...?
Come?
-Prof, è meglio se bevo. Davvero. Poi sto meglio e mi calmo.
Non poteva farle notare che alcool e droga non erano una grande accoppiata. Tentò di aggirare l'ostacolo.
-Non mi sembra una buona idea, Bianca. Poi come giustifico al gestore del motel la mia permanenza con una ragazzina di sedici anni ubriaca?
-Nel mezzo tra 'sedici anni' e 'ubriaca' stava per dire 'vestita come una puttana', vero?
-No...
-Sì, lo stava per dire. Ma lo so, cosa crede? Se non ne fossi cosciente, sarei proprio stupida; mi rendo conto di vestirmi diversamente dalle mie coetanee. Non lo faccio di certo con ingenuità.
-E perché lo fai?
-Perché ho un bel corpo e voglio che si veda.
-Che lo veda
chi?
-Chiunque fosse interessato a interagirvi. Uomini, donne, animali... poi io valuto.
-Perché lo fai?
-Perché il sesso mi piace e piace anche a chi lo fa con me. Perché lei fa sesso con Camilla? Perché le piace e piace anche a Camilla. No?
-Sì, ma io lo faccio
solo con Camilla. E lo faccio perché la conosco almeno un po', e almeno un po' mi piace.
-Solo un po'?
-No; 'molto' per entrambe le cose. Ma quelli che ti porti a letto ti piacciono?
-Anche 'quelle'.
-Fantastico. Ti piacciono?
-Sì, mi piacciono. Sennò non me li farei.
-Ma li conosci?
-Che importa, quando alla fine quello che vogliamo è il sesso?
-Non puoi ragionare così.
-Amo la velocità di questo dialogo.
-Io non so cosa fare con te.
-Allora lasci fare a me.
-Tu mi stai...
-Sì. Lo so. La faccio uscire da ogni grazia di Dio. Eh, ma io ci vivo, fuori da ogni grazia di Dio. È una cosa continua. Non si ferma mai. Rallenta e basta, che è una cosa insopportabile!, ma non si ferma mai. Dio. Per questo le dico di lasciarmi bere quella vodka. Almeno mi calmerei.
-Bevine un sorso e per favore poi stai calma un minuto. Solo un minuto, te ne prego.
Lei annuì e bevve più o meno un quarto della bottiglia.
-Ora va meglio – mormorò alla fine – aah, che pace. Adoro quando va giù dritta nella gola e fa effetto immediato. Senti quel calore piacevolissimo nello stomaco e un'ondata tiepida e vibrante che t'invade tutto il corpo. Che meraviglia.
Emanuele si sentiva sempre più a terra. Più si avvicinava a quella ragazzina, e più gli sembrava di precipitare in un posto buio e tortuoso, dal quale non riusciva a prendere aria.
Ma, sorprendentemente, Bianca aveva detto una cosa vera: dopo la vodka si calmò, e iniziò a parlare molto tranquillamente. Vivace, com'era sua consuetudine, ma non in modo psicotico.
-E quindi ho incontrato questa ragazza, ma su Netlog sembrava molto più carina. Comunque non era male, e qualche bacio e qualche carezza ci sono scappati. Mi piacciono, le ragazze. Sono così morbide e dolci. Accarezzarle è un piacere diverso dall'accarezzare un uomo, che è solido e alto e forte.
-E così sei bisessuale?
-Mah?
Sort of. Forse solo curiosa. Però a questo punto direi che la curiosità me la sono tolta, quindi mi sa che sì, mi piacciono entrambe le cose. In generale mi piace fare sesso, comunque. Non so perché; mi piace e basta. Ne ho bisogno, altrimenti non carburo. E poi ti sfoga un casino, come prendere a cazzotti un punching ball.
-Non è proprio così che bisognerebbe viverla...
-No, lo so. Ma a me viene spontaneo così. Se m'innamoro ma la persona che amo non ricambia, per me è impossibile
fare l'amore. Ora capisce perché faccio un casino di sesso?
-Solo perché io non ti ricambio?
-In definitiva, no, non credo sia solo per questo. Ma di sicuro, come direbbe Jess Crichton, se io fossi la pasta al ragù, lei sarebbe sicuramente la pasta, o la carne.
-E invece il pomodoro e la cipolla, cosa sono?
-Chissà – sospirò – non ci penso poi così tanto. Mi viene. So che c'è un motivo, ma io non ho proprio idea di quale sia.
Ora sembrava tornata la solita Bianca. Aveva smesso di agitarsi, parlava più lentamente e diceva cose sensate. Non cose
belle, ma sicuramente quello che diceva aveva un nesso logico. Forse la vodka era davvero capace di frenare l'effetto dell'ecstasy.
Alla
reception, dopo un'altra mezz'ora di chiacchiere delle quali Emanuele non riuscì a cogliere il filo conduttore, Bianca si comportò bene. Emanuele avrebbe voluto sprofondare di fronte allo sguardo indiscreto del receptionist, ma si consolò pensando che quell'ultimo sforzo avrebbe dato i suoi risultati.
Salirono in camera e posarono le borse. Bianca ricoprì il letto con una coperta che aveva portato da casa, “perché di questi posti non c'è da fidarsi”, spiegò. Era davvero convinta che avrebbe ceduto, prima o poi.
-Allora, prof? - sorrise – Adesso possiamo farlo e levarci il pensiero una volta per tutte?
-Se la metti così, sono ancora più convinto che farlo sarebbe la scelta peggiore.
-Ooh, lo sa che per me non è 'levarmi un pensiero'; io non voglio togliermi lei dalla testa. Adoro pensarla tutto il tempo. Lei è un'ottima persona a cui pensare: bello, buono, comprensivo, onesto, colto... non avrei potuto scegliere un candidato migliore.
Emanuele suo malgrado rise. Bianca s'illuminò.
-Ma allora so anche farla ridere! Pensavo di essere in grado soltanto di irritarla... e invece, pensa te! E magari mi vuole anche un po' di bene...?
-Bianca, io... senti. Non è che ti voglia male. Sono in un certo qual modo 'affezionato' a te, nel senso che mi preoccupo per te, che vorrei che tu stessi meglio. Ma non credo che... cioè...
-Ma allora sì che mi vuole bene – esclamò la ragazza, con gli occhi luccicanti – quando ti prendi a cuore una persona, è perché le vuoi bene. Sono sicura, prof. Di poche cose sono sicura, ma di questa al cento per cento.
Emanuele rise un'altra volta. Forse aveva ragione lei. Forse un po' le voleva bene.
-Ecco, mi dà ragione! Che figata, il prof mi vuole bene. Be', è già qualcosa! Allora, dato che mi vuole bene, mi abbraccia?
-Aspetta. Ora non...
-Ma prof, un abbraccino piccolo – si lamentò – piccolo e breve. Non le sto chiedendo niente di erotico. Un abbraccio come quello che dà a... boh, ai suoi nipotini, a sua suocera, a un'amica. Una cosa semplice e pulita.
-Mia suocera non l'abbraccerei nemmeno se ne andasse della mia vita, per me ha lo stesso effetto che ha la kryptonite su Clark Kent – mormorò – comunque, vieni qui.
Bianca sorrise felice e si avvicinò. Emanuele aprì le braccia; lei gli circondò la vita con le sue e appoggiò la testa sul suo petto, affondandola tra le pieghe della camicia tanto che non fu più in grado di vederla in viso. Con una mano le cinse la cascata di capelli rossi e spettinati; l'altra mano gliel'appoggiò sulla schiena e la premette delicatamente contro di lui. Bianca sfregò il naso sul suo sterno; non l'aveva mai vista così tranquilla e non si era mai reso conto di quanto fosse esile, nonostante la curva morbida e piena del seno appoggiata sul suo addome.
-Contenta? - sussurrò, in direzione della testolina scarmigliata sotto il suo mento. Lei non rispose. - Bianca?
Ancora non rispose, ma le sentì le spalle tremare tra le sue braccia. Presto il tremito si trasformò in piccoli scatti. Bianca strinse i lembi della sua camicia, e, per questa volta, decise che sarebbe stato giusto accarezzarle i capelli.
Rimasero così per un po', per tutto il tempo che ci volle a Bianca perché la sua schiena non fosse più scossa dai singhiozzi.
-Scusi – mormorò alla fine, staccandosi, rossa in viso per l'imbarazzo – mi scusi. Non è perché non fossi contenta. Ero contentissima. È proprio perché ero contentissima.
-Non devi vergognarti. Preferisco che piangi perché sei felice, piuttosto che per la tristezza.
-Ma un po' c'era anche tristezza – precisò lei – non per lei, prof. Ero felice, ma ero anche triste perché, prima di essere così felice, probabilmente mi sentivo molto triste.
-Da quand'è che qualcuno non ti abbraccia, Bianca...?
Lei lo guardò, spaesata; in capo a un paio di secondi, i suoi grandi occhi castani si riempirono di lacrime pesanti che sgorgarono immediatamente giù dalle palpebre, rotolando veloci sulle sue guance.
-Non so... cioè... non è che me ne freghi più di tanto. Non li chiedo mai a nessuno, gli abbracci, non ho mai voluto che nessuno mi abbracciasse... non capisco.
-Ci credo che non volevi, se ogni volta ti metti a piangere – le sorrise, cercò di essere rassicurante. E si chiese se quel pomeriggio sarebbe bastato per venirne a capo.
-È perché – tirò su col naso – lei abbraccia bene, prof. Per un attimo, attorno a me c'erano solo le sue braccia e il suo petto e il suo profumo e il silenzio, e da quel momento in poi tutto il resto del mondo è sparito. Capisce? Non esisteva più niente tranne l'uomo che amo e io avvolta dal suo corpo.
Protezione, ecco cosa serviva a Bianca. E se la cercava così disperatamente, era perché probabilmente per qualche motivo le era mancata.
Sicuramente non l'aveva trovata nelle persone che si portava a letto, e che teneva comunque a distanza lei stessa.
Fu comunque sollevato di constatare che non si gettava tra le braccia di sconosciuti affidandosi a loro; ci passava soltanto del tempo cercando di ammazzare in qualche modo un qualcosa che aveva dentro e che le sussurrava all'orecchio cose che la tormentavano.
-Adesso però calmati. Ti abbraccio ancora, se ti serve. Finché non ti abitui, ok? Però adesso stai tranquilla. Guarda; ti siedi qui sul letto, ti prendo un bicchiere d'acqua, se vuoi ti accendo la televisione...
Bianca si sedette e lo seguì attentamente con lo sguardo mentre riempiva d'acqua un bicchiere e cercava il telecomando. Quando le elargì entrambe le cose, fece una smorfia, chinò il capo e ricominciò a piangere silenziosamente.
-Ehi. Cos'hai adesso? Stai male?
-No, no – scosse la testa, guardando fisso le proprie ginocchia – è che prima lei era incazzatissimo con me e invece adesso mi tratta così bene. Sono contenta che lei non ce l'abbia più con me. Mi sento così sollevata. Prima stavo malissimo – riuscì a concludere, prima di esplodere in singhiozzi rumorosi.
-Non fare così – s'inginocchiò davanti a lei e le posò una mano sulla guancia – non ce l'ho con te. All'inizio me la prendo, ma poi ho come l'impressione che... be', io sono adulto. Non tengo il muso a una ragazzina di sedici anni.
-Non sono una ragazzina – protestò, con voce rotta – sono almeno una
ragazza, e tra un pochino se aspetta diventerò una donna.
-Sarai una donna quando ti comporterai da donna – le carezzò lievemente la guancia, per stemperare la sua affermazione – per adesso, ti stai comportando da adolescente contro il sistema.
-Ma io non ce l'ho col sistema, prof, glielo giuro. Mi piace, il sistema. Se non avessimo il sistema, sa che caos? Io non voglio andare contro a nessuno, vorrei solo vivere come piace a me. Non so che farci se è il sistema ad avercela con me, per conto mio potremmo convivere pacificamente ognuno per la sua strada. E invece poi arriva una Valeria qualsiasi a dirmi che le dà fastidio come mi comporto. Ma saranno mai affari suoi, prof? Eh? Sia sincero!
Gli venne quasi da ridere, perché, al di là dei temi, queste erano proprio le lamentele di alunni su altri alunni che normalmente un professore doveva sorbirsi ogni quarto d'ora.
-Senti, Bianca. Dà fastidio anche a me che tu, in un luogo pubblico, ti faccia trovare inginocchiata sotto il banco con qualcuno.
-Ma questo non l'ho mai fatto!
-Non tarderai, ne sono certo. Tu stai cercando il limite da tutte le parti, prima o poi lo troverai. Ma in quel momento? Quando l'avrai trovato, che farai?
-Prof – rispose lei, con tono paziente – le assicuro che non cerco niente. Contrariamente a quanto pensate tutti, non voglio né scandalizzarvi, né disturbarvi, né impedire il regolare svolgimento della lezione, né tantomeno autodistruggermi o cercare un fantomatico 'limite'. Non voglio niente di estremo. Voglio solo vivere la mia vita in santa pace senza che nessuno mi ripeta in continuazione che lo faccio nel modo sbagliato. Forse sarà sbagliato per voi, per la vostra concezione della vita e dei rapporti, ma per me è favoloso. Adatto a me e alle mie esigenze. Perciò le chiedo, almeno a lei che sembra capirmi un pochino: non fate più supposizioni di questo tipo su di me, per favore.
Sembrava seria, ed Emanuele si chiese se in fondo non fosse giusto che lei facesse ciò che si sentiva di fare senza che tutti loro si sentissero in dovere di contestare il suo modo di vivere.
Faticò parecchio a ricordare che aveva sedici anni, che tutto in lei gridava aiuto, e che, per quanto a lei sembrasse congeniale ai suoi bisogni, la politica del concedersi a chiunque non le avrebbe portato grandi vantaggi a lungo termine, e neanche a breve termine.
-Ne riparleremo – concluse – ma sappi che non mi convincerai. Vado a lavarmi le mani, tu fai la brava.
-Ma dai, prof. Cioè, dia. Non volevo darle del tu.
Emanuele scosse la testa e s'infilò in bagno; si lavò anche il viso, giusto per schiarirsi le idee, e, mentre si sciacquava, sentì un tramestio provenire dalla stanza accanto. Il riflesso dello specchio gli permetteva di sbirciare dalla fessura della porta: incredulo, osservò Bianca di spalle aprire la tasca posteriore dello zaino, estrarne qualcosa e, infine, portarsi la mano alla bocca e piegare indietro la testa di scatto. Poi la raddrizzò e rimise il qualcosa dentro lo zaino.
Si asciugò il viso e le mani alla velocità del fulmine.
Si precipitò nella camera da letto e, senza neanche lasciare che parlasse, la prese per il polso e la girò bruscamente verso di lui.
-Cos'erano quelle?!
-Prof – esclamò lei, con la tipica faccia di chi viene colto in fallo – niente. Di cosa parla?
-Parlo di quella cosa che hai ingoiato. E non provare a dirmi che era una Tic Tac, chiaro?
-Non è quello che pensa lei.
-No? Vorresti dirmi che era una Moment per il mal di testa? Mh? O che erano le caramelle per la gola?
-Per favore, non pensi subito male.
-Mi avevi giurato che non ti drogavi. Pensavo fossi abbastanza adulta da dirmi la verità, Bianca! Ti avevo creduta abbastanza cresciuta da poter dire come stavano le cose. Ti avrei
aiutata, porco demonio. Tutti ti avremmo aiutata. Se è questo che ti tormenta, perché non ce l'hai detto? Tu non vuoi uscirne, vero?
-Non è quello – gli occhi di Bianca iniziarono a riempirsi nuovamente di lacrime – io non... io non posso... lei non deve pensare che... prof, per favore, non mi chieda altro.
-Non ho bisogno di chiederti niente. Mi sembra tutto piuttosto chiaro. Quante altre ne hai? Quanta droga ti sei portata dietro per un
pomeriggio?
-Per favore, prof, non...
-Fammi vedere.
-Prof, davvero, no, la prego!
-Fammi vedere, Bianca – tentò di mantenere la calma. Allungò la mano verso lo zaino; lei lo afferrò per prima e se lo strinse al petto, terrorizzata. - Per favore – ritentò, a denti stretti – dammi quello zaino.
-Prof, no. La prego di credermi. Non mi drogo. Non ho né mal di testa né mal di gola, ok, ma non mi drogo.
Sembrava sincera, però. Almeno il dubbio gliel'aveva instillato.
Poi un'idea gli balenò nella mente.
-Ah – azzardò – è la pillola anticoncezionale? È questo? Be', non c'era motivo di nascondersi. Non c'è niente di cui vergognarsi.
-Sì – mormorò lei, scura in viso – è la pillola anticoncezionale.
-Be', chiaro. Se non ne hai bisogno tu, chi altri? Potevi dirmelo subito.
-Prof! - sbottò lei, ferita – Questa era una cattiveria.
-Macché cattiveria; lo dici tu stessa, che lo fai in continuazione. Di commenti come questo ne riceverai a palate, nella vita.
-No! - esclamò Bianca; si alzò di scatto, gli corse vicino, lo prese per una manica – Prof, perché mi dice queste cose? Pensavo che lei non mi giudicasse.
-E come potrei non farmi un giudizio, Bianca? Pensi che io approvi quello che fai? No, Bianca, non approvo affatto quello che fai. Se fossi mia figlia...
No, piano. Questo era ciò che si era ripromesso di non dire mai. Che gli era successo? Perché si stava trasformando in quegli professori bacchettoni e vecchio stile che dicevano agli alunni indisciplinati che se fossero stati i loro genitori due begli sculaccioni non glieli avrebbe levati nessuno?
-Non era questo che volevo diventare – mormorò, passandosi una mano sugli occhi – non puoi fare così. Non mi puoi portare a questo.
-A cosa? - fece lei, confusa.
-A
questo, Bianca! In una camera di un motel, con una ragazzina che potrebbe essere davvero mia figlia, ubriaca e forse drogata, che fa di tutto per portarmi a letto oppure, se non ci riesce, possibilmente portarmi fuori di senno! Nel caso te lo stessi chiedendo, no, non era questo che avevo in mente di fare, quando ho scelto di fare l'insegnante. Avevo in mente tutt'altra cosa, credimi! E allora perché tu devi farmi impazzire? Cosa vuoi da me? Che cosa ti ho fatto, per coinvolgere me fino a questo punto?!
-Prof – le tremava il mento, e aveva un'espressione tanto indifesa che Emanuele non seppe più se avesse ragione o torto, se fosse una vittima o una carnefice, se lo volesse uccidere o se l'amasse alla follia – niente. Non mi ha fatto niente. Io pensavo che lei potesse... che volesse... che... pensavo di poterle far capire come io... prof, mi dispiace tanto. Non volevo farla impazzire.
-Allora per favore, Bianca. Per favore. Dammi quelle pastiglie. - Si premette la mano sulla fronte, per impedire che esplodesse. - Bianca, se non vuoi farlo per te, ti prego di farlo per me. Ti prego, finiscila con queste cose. Mi fa
male vederti così, lo capisci?
-Lei vuole soltanto liberarsi di questo problema che vi costringe a indire riunioni straordinarie in sala insegnanti, lo so! - proruppe Bianca, in lacrime – Vorreste che la smettessi così potreste continuare le vostre lezioni in pace! Così non dovreste più chiedervi cos'ha quella ragazzina vestita e pettinata da puttana che si è innamorata di uno che potrebbe essere suo padre! Be', per sua informazione, lei
non potrebbe essere mio padre! A meno che non mi abbia concepita in seconda media, ecco!
-Stai sragionando. È l'ecstasy?
-NON È L'ECSTASY, PORCA PUTTANA – gridò Bianca – non prendo ecstasy, come cazzo glielo devo dire?! Scusi, prof. Non ricordo neanche cosa le ho appena detto! Lei non capisce! Non capisce perché
non sa! Quando la smetterà di farsi un'idea di me in base ai suoi personalissimi canoni da impiegato pubblico stipendio fisso fidanzata ufficiale e cene con gli amici e cane?! Come si chiama il suo cane? Io ne avevo uno, si chiamava Poppy. Perché avevo visto che l'orsacchiotto di Poochie si chiamava Poppy, io non avevo un orsacchiotto, ma un cane sì, e quello di Poochie si chiamava Pallottola, ma non era un cane, sì, era un cane, non era un orsacchiotto, scusi, mi sono sbagliata. Che sta succedendo? - All'improvviso sembrò spaesata. - Prof? Cosa stavamo dicendo?
Emanuele iniziava a sentire del vero panico. Stava salendo? Quanto sarebbe durata? Come poteva fermarla?
-Ah, sì. A letto con me. Ok, se non con le buone, con le cattive. Vediamo.
Si alzò in piedi ed iniziò a togliersi il maglioncino.
-Bianca...
Emanuele iniziava a sentirsi male.
-Poochie lo leggevo quand'ero molto piccola. Ho iniziato a leggere presto, credo che avessi due anni. Leggevo anche
Cip e Ciop, ma non riuscivo a leggere il corsivo. Allora chiedevo a mia madre di leggerlo, ma un giorno non aveva tempo, e così mi ha detto di leggerlo da sola, perché ero capace. In effetti, a forza di leggerlo assieme a lei ero diventata capace. E così l'ho letto da sola e, anche se ho faticato, ci sono riuscita. Capisce? Bisogna sempre essere perseveranti.
Non aveva più il coraggio di replicare niente. Non riuscì nemmeno ad alzarsi e a prenderla per le spalle e a imporle di rimettersi quel maglioncino.
-Un attimo, prof.
In reggiseno, chinò la sottile schiena pallida verso lo zaino, e riprese la sua vodka. Diede qualche sorsata abbondante. Poi si tirò su.
-Adesso dovrebbe andar meglio. Meno male me ne sono resa conto. Adesso... adesso si fermerà per un attimo. In teoria dovrei già essere ferma. Ma aiuterà. Vedrà. Mi dia tempo.
-Bi... Bianca – balbettò; le si fece vicino, le posò le mani sulle spalle – senti, io non ho mai preso niente. Non ho idea di come funzioni, perciò ti prego, finché sei lucida, dimmi cosa devo fare.
-Lei? - sembrò sorpresa – Nulla. Se mi concede un paio di minuti, dovrebbe passare. Ho fatto il possibile. Adesso passa. Nel frattempo, però, per favore, prof. - Lo guardò con aria seria. - Siamo qui. Non c'è nessun altro. Non riesco a calmarmi, e voglio lei.
-Dio – iniziava ad aver voglia di piangere. Si sedette sul letto di fianco a lei, sentendosi debole e disperato. – Bianca, basta. Basta. Per favore.
Per tutta risposta, lei si alzò in piedi, gli si fece davanti, e, dopo avergli sollevato il mento con l'indice, gli posò le mani sulle spalle e gli si sedette a cavalcioni, assicurandosi di premere il bacino contro il suo.
-Bianca, no. No. Adesso basta. NO – esclamò, quando lei gli si avvicinò e gli sfiorò il collo con le labbra. - Basta. Bianca. No. - Lei iniziò a baciarlo con delicatezza. Mentre lui tentava di scostarsi, gli accarezzò le braccia fino ad arrivare alle mani; gli sollevò le dita con le proprie e, lentamente, le sollevò. Emanuele ebbe un sussulto quando le ritrovò posate sul suo seno. Ne ebbe un altro quando, di fronte alla forma tonda e soda, e di fronte alla sensualità della scena stessa, si accorse che il suo corpo aveva reagito alla provocazione di Bianca.
Ma lei ebbe la sensibilità di non dire nulla; si limitò a strusciare il bacino contro la sua erezione.
Che crebbe. E lui non capiva perché.
Forse era il contesto, ragionò concitatamente. Forse perché le stupide fantasie sulla storia con una studentessa prendevano vita, forse perché loro due, il segreto, l'erotismo dei modi di Bianca, l'avevano in qualche modo eccitato. O forse perché voleva che lei la smettesse di parlare.
Qualunque cosa fosse, aveva preso il sopravvento. Non riusciva a reagire e Bianca procedeva con calma e languore, costringendolo a rabbrividire aspettando la prossima mossa. I baci sul collo si erano fatti profondi. La lingua di lei lo percorreva impercettibilmente, e poi all'improvviso premeva contro i suoi muscoli. Non l'allontanò quando lei spinse il seno con forza contro il suo petto. E sospirò per le sue dita che gli premevano sulla schiena.
E poi Bianca risalì il suo collo, gli succhiò il lobo dell'orecchio, ne percorse il contorno con le labbra e la punta della lingua. I suoi baci proseguirono lungo lo zigomo. Si fecero sempre più lievi e distanziati, quando, alla fine, gli arrivò all'angolo della bocca. Si staccò. Con una lentezza esasperante, inclinò la testa, socchiuse le labbra carnose, le morse voluttuosamente e le avvicinò a quelle di lui. Che tremavano, sopraffatte dal respiro bollente che gli usciva dal più profondo della gola.
Altri tre centimetri, pensava, e avrò fatto lo sbaglio più grande della mia vita. Altri tre centimetri e potrei venirle addosso, vestito, con solo la forma morbida e bagnata che emerge dalle sue mutandine premuta sulla cerniera dei miei jeans.
Ma in quel momento, in un lampo, prima che le loro labbra umide e gonfie si toccassero, Bianca lo guardò negli occhi. Per un solo istante, uno solo.
Le fu eternamente grato per averlo fatto.
Se non l'avesse fatto, probabilmente le loro bocche si sarebbero lanciate furiosamente una sull'altra, catturando le labbra dell'altro, quasi cercando di strappargliele dal volto, e poi lui avrebbe afferrato la schiena di Bianca e l'avrebbe trascinata giù sopra di lui, e poi l'avrebbe girata e sdraiata sui cuscini, le avrebbe sfilato con foga le mutandine e si sarebbe slacciato i jeans, e l'avrebbe scopata lì, in quel momento esatto, senza neanche tentare di bagnarla perché sapeva che lei non aspettava altro che di sentirlo dentro il suo corpo, fino a perdere la concezione dei sensi.
Ma lei in quel momento lo guardò negli occhi, ed Emanuele si sentì invadere da un sudore freddo e da un malessere che non aveva mai sperimentato in vita sua.
Era vero, non l'aveva toccata: ma era stato fermo immobile, e non l'aveva allontanata. E nessuno avrebbe mai creduto alla storia che una ragazzina di sedici anni l'aveva circuito, sfinito, confuso psicologicamente. Di solito andava nel modo opposto. Erano i pedofili a fare il lavaggio del cervello alle ragazzine, non il contrario. E Bianca era abbastanza disturbata da rendere plausibile l'eventualità che avesse cercato di confonderle le idee per poi portarsela a letto.
-Bianca – mormorò, spaventato – spostati, ti prego. Ti supplico, spostati da lì.
Lei lo guardò, seria e composta, e il suo sguardo non tradiva nessuna emozione. Si limitò ad alzarsi e a sedersi di fianco a lui, a un metro di distanza.
Emanuele rimase in silenzio, occhi sbarrati, testa tra le mani, mentre il cuore gli batteva sempre più forte. Bianca, perfettamente calma, se ne stava seduta a gambe accavallate – in modo del tutto formale – e dondolava un polpaccio con noncuranza.
Quando si voltò verso di lei, faticò a parlare.
-Perché l'hai fatto?
Lei non si voltò nemmeno e il suo tono fu perfettamente asettico, nel rispondergli.
-Non lo rifarò.
-No – confermò, tirando un respiro profondo per calmarsi – non lo rifarai, sicuro. Ma perché hai voluto... perché?
-Pensavo... non pensavo niente. Non penso la maggior parte delle cose che faccio e dico, ma adesso ci ho pensato, e ho capito che non lo rifarò. Non posso farlo.
-Non
puoi...?
-No, prof. Primo, perché lei non vuole. Secondo, perché lei ama Camilla e non me. Terzo, perché non è giusto portarla nel posto dove sono io. Non voglio farle del male. Vorrei proteggerla, se posso.
-Il posto... cosa...?
-Questo posto. - Bianca allargò un braccio e indicò la stanza. - Questo, e tutti gli altri posti dove lo faccio. Lei mi piace perché vive da un'altra parte. Scommetto in una villetta a schiera in zona residenziale con un giardinetto sul retro e una mansarda, col mutuo pagato a metà dai genitori suoi e della sua fidanzata, e scommetto che ha un bel letto soffice con cuscini sparsi dappertutto e magari le lenzuola hanno la stampa del cielo o degli Husky. - Bianca si voltò e gli sorrise. - E scommetto che Camilla ha comprato i vasetti per il sale e lo zucchero e il caffè decorati con i girasoli in rilievo, vero? E che ci sono dei fiori, e tanti libri e tanti cd e tanti dvd.
Emanuele non seppe replicare. Non perché il ritratto non fosse fedele, ma perché era sconvolto da tutto quello che era successo. Bianca quindi continuò.
-Io voglio che lei continui a vivere lì, nella sua villetta a schiera colorata assieme a Camilla. E col cane, mi ricordo che ha un cane, anche se non me ne parla mai. Ce l'ho anch'io, un cane. Scommetto che lei gli vuole bene e che gli ha dato il nome di qualche personaggio storico.
-Già – mormorò, pensando a Gengis. Quel bastardino un po' tonto, con la sua lingua fuori e i suoi tentativi di mordersi la coda, lo faceva sorridere ogni volta al solo pensiero.
-Ecco. Io voglio che lei continui a vivere lì, in quel posto felice e tranquillo un po' fuori mano. Perciò ho deciso di smetterla con questa storia del sesso, perché la mette nei guai. E perché starei male se lei tradisse Camilla; lei la ama, ne sono sicura. Lei è il tipo d'uomo che ama qualcuno e lo ama per tutta la vita. Sarei la ragazza più fortunata del mondo se scegliesse me, ma lei ha già scelto chi deve camminarle accanto fino alla fine. E non voglio assolutamente rovinare una delle ultime storie d'amore del ventunesimo secolo. Sarebbe un'offesa a lei, a Camilla e a quel che rimane in me del romanticismo.
-Sì – Emanuele annuì, troppo scombussolato per poter dire di più.
-Non sia infelice. Non è successo nulla. Lei non mi ha toccata, prof, e io non dirò a nessuno che ci siamo visti fuori da scuola.
-Detto così, sembra davvero che io ti abbia circuita e che tu cerchi di giustificarmi perché ti ho fatto il lavaggio del cervello – esalò Emanuele. Bianca scosse la testa.
-Io sono stata una gran stronza, prof, scusi il termine. Non è colpa sua. Ho esagerato io.
Farsi proteggere e rassicurare da una ragazzina di sedici anni. Dalla
stessa ragazzina che poco prima l'aveva portato in quel posto, come lo chiamava lei stessa, da cui ora cercava di farlo fuggire.
-Senti Bianca... non parliamo più. Stiamo calmi per un attimo. Ok?
-Ora
sono calma – sbadigliò – fin troppo. Mi è venuto anche un po' di sonno. Le dispiace se dormo un pochino?
-No, dormi.
Bianca si accoccolò poco più su e si avvolse con un lembo della coperta. Le ci vollero pochi minuti per rotolare in un sonno profondissimo, dal quale non riemerse per parecchio tempo. Un'ora dopo, e dopo aver letto metà del libro che teneva in borsa, Emanuele era quasi tentato di lasciare Bianca sul letto e andarsene, ma, seppur con difficoltà, cercò di tenere bene a mente che aveva sedici anni, che non aveva la macchina e che i suoi genitori non sapevano dove fosse.
Ma Bianca non era una di quelle che mentre dormivano sembravano un angioletto. Era abbandonata sul materasso con le palpebre pesantemente abbassate e la bocca semiaperta, ma non dava un'impressione né di calma né di dolcezza. Sembrava che stesse ricaricando le batterie in attesa di tornare all'attacco.

Emanuele ne era spaventato. Aveva paura che da un momento all'altro spalancasse gli occhi e si drizzasse in piedi, come in quel video del gruppo di Jared Leto. Lui, dal canto suo, si sentiva sfinito: avrebbe voluto capitombolare in un sonno di piombo come quello di Bianca, ma niente, non ne era capace. Continuava a pensare a cosa sarebbe successo se Camilla l'avesse saputo.
In un modo o nell'altro, aveva tradito la sua fidanzata. Un'erezione gli toglieva ogni possibile via di giustificazione; la sua immobilità di fronte alle provocazioni costituiva un'ulteriore condanna. Se, nonostante l'erezione, l'avesse scacciata, forse avrebbe salvato almeno in parte il suo onore. Ma, no, non l'aveva scacciata, non fin quando lei gli aveva lanciato un'occhiata talmente penetrante che l'aveva raggelato.
Bianca aveva condotto il gioco, non lui.
E continuava a chiedersi perché l'avesse voluto trascinare in un gioco tanto crudele, perché proprio lui, tra tutti, dovesse seguire la folle corsa di quella ragazza verso un posto che nessuno di loro due voleva raggiungere.
Ma Camilla. Con che faccia avrebbe guardato Camilla, quella sera? Come gliel'avrebbe mai spiegato che stava per cedere a una sedicenne? Come poteva farle capire che lo aveva portato a un punto nel quale non era più stato capace di discernere il giusto dallo sbagliato, voleva solo far tacere Bianca e un milione di voci contrastanti dentro di lui? Ogni volta che si poneva una di queste domande un brivido freddo gli scendeva lungo la schiena.
Lui non era un pedofilo, non lo era. Aveva dei princìpi, per l'amor del cielo. Era sempre stato in grado di tenere a bada degli adolescenti, ma perché questa no? Sembrava quasi che lo portasse sotto ipnosi, giù per la tana del Bianconiglio.
Decise di rimuovere tutto, di scacciarlo. Decise che quel giorno non era mai esistito. Decise di fare come se nulla fosse successo, prima, e di dimenticarlo per il resto dei suoi giorni. Se non era mai accaduto, non poteva causare danni in futuro. Non poteva attanagliarli il petto per il dolore di aver tradito Camilla. Non poteva riempirgli la testa di dubbi saltellanti sulla sua integrità morale. Non poteva toccarlo in alcun modo.
Il pomeriggio a dicembre tramontava velocemente, e dopo le cinque fuori dalla finestra il cielo era blu scuro e l'aria si era raffreddata; le luci della sera si erano accese in strada e le macchine si accodavano l'una all'altra nell'avvicinarsi all'ora di punta. Qualche clacson iniziò a fendere l'aria, ma Bianca continuava a dormire. Dormiva così profondamente che Emanuele si azzardò a scendere dal tabacchino a comprarsi le sigarette e si fermò anche in cartoleria a comprare il giornale, dato che il libro era finito da un pezzo. Quando tornò lei ancora dormiva. Si svegliò solo quando, dopo aver letto tutto il quotidiano compresi oroscopo e articoli sportivi, lui la scosse per la terza volta. Riaprì gli occhi con fatica, quasi non dormisse da giorni.
-Buongiorno – la salutò.
-Mh – fece lei – uuh, dimenticavo che ti fa venire sonno. Mi scusi, ho dormito tanto?
-Qualche ora.
Sperò che il sonno avesse anche rimosso i suoi ricordi degli avvenimenti precedenti. Lei, comunque, non ne fece parola.
-Prof, andiamo via. Sono molto stanca e credo di aver bisogno di una dormita profonda.
Emanuele alzò un sopracciglio; poco prima sembrava quasi in letargo. Ma non alzò obiezioni.
-Metti la coperta in borsa; ti riaccompagno in centro. Da lì ce la fai ad arrivare a casa, vero?
-Sì, sì, dovrebbero passare autobus fino alle nove.
-Andiamo allora.
Bianca frugò nel portafogli e gli porse qualche banconota; Emanuele scosse la testa – allontanarla con la mano avrebbe potuto portare a sfiorarla, e lui non lo voleva – e si avviò verso la porta.
Pagarono in silenzio e in silenzio si sedettero in automobile; lei si riaddormentò quasi all'istante e lui ascoltò il telegiornale via radio e qualche trasmissione di politica, ovvero, qualcosa che non lo facesse pensare ai sentimenti e a sé stesso – pericolo latente in caso di trasmissione di qualche canzone pop.
Svegliò Bianca con un “ehi”, e lei aprì gli occhi, se li strofinò con i pugni, sbadigliò e poi afferrò lo zaino.
-Arrivederci, prof – disse con voce impastata, aprendo la portiera.
-Ciao, Bianca – rispose educatamente, poi ripartì velocemente. Dallo specchietto notò che lei non si era girata verso di lui.
Notò anche un'andatura molto barcollante, uno sguardo un po' perso nel vuoto, ma ormai non gli interessava più. Non le avrebbe mai più permesso di prendersi un solo secondo della sua attenzione.

Il giorno dopo, purtroppo, l'avrebbe vista. Disgraziatamente, doveva tenere lezione nella sua classe quasi ogni giorno della settimana, escluso il mercoledì. Si consolò pensando che, quantomeno, aveva soltanto la quinta ora; ovvero, ci sarebbe rimasto assieme poco tempo, e comunque non avrebbe dovuto subire lo shock di rivederla non appena tornato a scuola.
Mentre il treno scorreva rumoroso sulle rotaie, e il signore in completo accanto a lui sfogliava il giornale nell'aria impastata e sonnolenta delle fredde mattine d'inverno, ricordò la sera prima.
Ricordò che, appena giunto a casa, per assicurarsi di non pensare al pomeriggio appena concluso si era versato un intero bicchiere di Anima Nera. E, più tardi, Camilla era tornata a casa, e l'aveva trovato disteso sul divano con gli occhi socchiusi e la testa penzoloni dal bracciolo. L'aveva guardata mentre spalancava gli occhi, gettava cappotto e borsa su una sedia e gli si precipitava accanto; lei aveva lanciato un'occhiata al bicchiere e alla bottiglia, poi un'occhiata a lui, poi di nuovo al bicchiere, e lui le aveva mormorato “non domandarmi” e lei non aveva fatto domande.
Scoprì che non era possibile dimenticare. Scoprì che qualunque cosa lei avesse fatto – chiederglielo, non chiederglielo, estorcerglielo, guardarlo con la sua incantevole dolcezza – lui avrebbe sempre ricordato. Anche se gliel'avesse taciuto. Ogni volta che gli fosse balenato in testa, e lui avesse bevuto per scacciarlo o pianto o battuto la testa contro il muro, anche se lei non l'avesse mai scoperto, né sospettato, lui avrebbe saputo cos'aveva fatto, e la consapevolezza l'avrebbe tormentato per tutta la vita.
Quanti anni ci volevano a dimenticare davvero cosa si ha fatto alla persona che si ama...?
-Mi scusi, devo scendere – fece il signore in completo.
-Certo, prego – replicò educatamente Emanuele, alzandosi per fare spazio.
Era terribile quella forzata vicinanza con gli estranei nel momento più intimo e sensibile della propria giornata. La mattina, Emanuele tollerava soltanto la presenza di Camilla: per come la vedeva lui, la mattina, quando hai le palpebre pesanti, la lingua incollata al palato, la testa dolorante per il riposo a cui sei costretto a rinunciare, non bisognerebbe mai ritrovarsi gomito a gomito con un estraneo che sfoglia il Mattino, o tenta di leggere un libro abbandonandosi ogni tanto al sonno, o addenta svogliatamente la brioche sorseggiando un cappuccino caldo comprato in stazione. Specialmente in quelle mattine gelide e nebbiose d'inverno, quando fuori era buio e dentro quella luce fastidiosa sembrava invitare i passeggeri a svegliarsi e a fare qualcosa, ché la giornata era già iniziata.
E se uno non vuole, pensava Emanuele, se uno non vuole, che la sua giornata abbia inizio...? E se uno volesse dormire per sempre e dimenticarsi quello che ha fatto...?
-Avvisiamo i gentili passeggeri che tra due minuti raggiungeremo la fermata Padova Centrale.
Doveva alzarsi; adesso lo aspettavano un autobus – il 3, il 24, il 18, il 12, il 16, non aveva che da scegliere – e cinque ore passate a cercare di conficcare a viva forza delle nozioni nelle teste caotiche dei suoi studenti.
Caotiche, sì. Non aveva mai pensato che fossero delle teste vuote; tutt'altro. Se fossero state vuote davvero, non avrebbe fatto alcuna fatica a riempirle. Ma dato che erano già quasi piene, tra relazioni, sport, hobby, preoccupazioni, obblighi e divieti, Emanuele aveva sempre pensato che fosse normale che rimanesse poco spazio per Torquato Tasso e Ludovico Ariosto, che non avevano certo lo stesso appeal di una partita a Soul Calibur. Si stupiva anzi che altri colleghi la pensassero altrimenti.
Lui non si sentiva poi molto lontano dai suoi studenti. Per quanto riguardava quelli di quinta, aveva appena undici anni più di loro; avrebbe davvero potuto essere il loro fratello maggiore. E, nonostante alcuni tra i più piccoli pensassero che i professori non facessero altro oltre a correggere compiti e prepararne altri a sorpresa, benché fosse costretto ad ammettere che per alcuni dei suoi colleghi la deduzione fosse piuttosto azzeccata, beh, nel suo caso non era così. A lui piaceva andare in discoteca, provare cocktail di birra agli Irish Pub, fare sesso con la sua ragazza, giocare con le varie consolle e, certo, anche leggere, ma nel suo tempo libero non leggeva di certo Ludovico Ariosto. Nella sua borsa c'erano volumi di John Fante e Chuck Pahlaniuk, e, come buona parte dei suoi studenti, amava i film di Kubrick e di Tarantino. A volte andava al cinese e comprava la cena take away e poi lui e Camilla guardavano assieme un horror che faceva paura più a lui che a lei, e a volte prendevano un giorno di ferie dal lavoro e se ne andavano assieme in giro per qualche città, o lontano, nei colli, ad esempio, a fine estate, rubando i fichi dagli alberi sul ciglio della strada e sfrecciando in moto sulle vie strette e silenziose, circondate da prati e fiori.
Ma quei pensieri felici svanirono nello spazio di un attimo, quando gli tornò in mente il pomeriggio precedente. Aveva rotto tutto quanto. E non poteva incolpare Bianca, no, non sarebbe stato giusto, perché la colpa era stata solo sua. Come sua mamma gli aveva detto migliaia di volte da piccolo: se ti dicono di buttarti in canale, tu ti butti?, esclamava con stizza. E lui diceva: no, mi butto solo se voglio io!, e quella volta si era buttato, e l'aveva fatto solo e soltanto perché l'aveva voluto.
Aveva rovinato tutto, per sempre. Non avrebbe più potuto pensare a Camilla senza che qualche macchiolina nera sgocciolasse sul quadro ad acquerello della loro vita assieme. E forse un giorno, pensò nel panico, forse un giorno pur che non gli venisse in mente tutto quanto avrebbe smesso di pensare a lei, e tutto sarebbe finito per sempre.
Non avrebbe potuto accusare altri che sé stesso.
Senza volerle alcun male, senza volerla ferire, anzi, preoccupandosi solo di amarla e rispettarla finché la morte non li avesse separati, era arrivato a separarsi da lei da solo. Senza nemmeno averlo mai desiderato. Un giorno non avrebbe più sorriso al pensiero delle carezze delicate di Camilla e questo soltanto perché Bianca aveva fatto sì di fargli mettere il piede in fallo, solo per pochi attimi che non gli avevano dato assolutamente niente.
Se ci fosse stato un modo per cancellare quel ricordo, l'avrebbe seguito alla lettera. Droga, veleno, botte, ipnosi, scappare all'estero per sempre. L'avrebbe fatto. Non importavano le conseguenze, ma voleva tornare a prima. A quando lui non aveva nulla da rimproverarsi e poteva guardare Camilla negli occhi e riusciva a parlare con Bianca senza sentirsi crescere dentro un malessere terribile.
Camilla la sera prima l'aveva accarezzato a lungo sulla fronte, baciato sul viso, abbracciato forte mentre lui guardava il soffitto senza parlare. Quando lui era tornato dal bagno dopo aver vomitato, si era trovato sul tavolo una camomilla calda e un piatto di riso in bianco. E poi lui aveva mangiato in silenzio, mentre Camilla lavava i piatti, e quando aveva finito lei aveva lavato anche la tazza e il piatto sporco d'olio e poi l'aveva accompagnato a letto, e si era sdraiata assieme a lui senza accendere l'iMac per guardare un film. Lui si era sistemato a pancia in su, con gli occhi serrati, immobile e teso. Lei gli aveva spostato il braccio e aveva appoggiato la testa sul suo petto e il piccolo pugno semichiuso sul suo addome, come facevano ogni notte.
Si addormentò quasi subito, per via dell'alcool, e quando si svegliò la mattina con Camilla tra le braccia, e guardò i suoi capelli scuri e lisci e i suoi occhi con le ciglia lunghe ancora chiusi, le lacrime iniziarono a straripare dalle palpebre e gli bruciavano nei bulbi come l'inferno.
Pianse a lungo, silenziosamente, e per tutto quel tempo fu costretto a rimanere immobile e a strozzare i singhiozzi, per non svegliarla.
Indipendentemente da quanto gli ci sarebbe voluto per guarire da quel dolore, avrebbe dovuto aspettare da solo.







(Nda: lo so lo so lo so ;_; era lunghissimo, biscottino premio se siete arrivati fin qui ç_ç. Tra l'altro, essendo questo capitolo lungo tre volte uno dei precedenti, penso capirete che questa volta non sono riuscita a portarmi avanti con la stesura; dovrete attendere che io scriva il capitolo 6 :). Nel frattempo il sostegno e il feedback sono sempre i benvenuti ù_u.

Una nota al proposito della madre di Bianca: posso capire che sia antipatica, e che possa apparire lo stereotipo della mamma in carriera sempre impegnata che non ha tempo per i figli. Da un lato sicuramente è vero, ma, come succede nella vita reale, dietro allo stereotipo e agli atteggiamenti sgradevoli c'è sempre un qualcosa che spinge la persona a comportarsi in un certo modo. Tuttavia non sempre nella vita reale è possibile scavare fino ad arrivare a quel qualcosa; in questa storia non ho interesse ad analizzare i suoi problemi personali, se non in relazione con quelli della figlia. Quindi, per chi mi chiedeva se l'avrei approfondita: posso solo dire che la rivedremo e che sapremo qualcosa di più su di lei, ma che rimane comunque un personaggio secondario, quindi non riceverà lo stesso livello di introspezione che ho dedicato ad Emanuele e a Bianca, ovvero i protagonisti. Dato che spesso, nel nostro quotidiano, non arriviamo a conoscere i dettagli più nascosti della personalità di chi ci sta davanti, così accadrà nella mia storia; spesso ci si fa l'idea di una persona dalla sua apparenza e, non avendo occasione di andare più in là nella conoscenza, ci si tiene questa idea e la si dà per corretta. Do per scontato, nelle mie storie, che non esistano personaggi solo buoni o solo cattivi, e anzi, per me non ha significato l'essere 'buono' o 'cattivo', esistono cause ed effetti ed ognuno ha vissuto i propri. Solo che non posso dedicare un capitolo alla nostra Miranda Priestly XD l'impostazione stessa della storia non lo concede, al massimo conoscerete qualcosa del rapporto madre/figlia e in generale gli avvenimenti accaduti in questa famiglia, ma non andrò più in là :).
In particolare mi rivolgo a Pnin: sono curiosa di sapere, perché mi aiuterebbe molto, cosa non ti è piaciuto della caratterizzazione di questo personaggio; pensavo che saltasse di più all'occhio, per mancanza di approfondimento, magari Camilla, ma la signora Milanesi non me l'aspettavo XD. Fammi sapere se ti va ;) mi sarebbe sicuramente molto utile.
E con questo chiudo e vi ringrazio tantissimo dei vostri commenti, siete davvero molto gentili. Spero che la storia continui a mantenere un buon livello e che non vi deluda :). Grazie ancora per il sostegno ^_^.)

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Bianca quel giorno era assente.
Rimase assente quasi una settimana e la classe era in fibrillazione, quando finalmente la preside si decise a parlare direttamente con la famiglia. Poi convocò gli insegnanti, ed Emanuele perse ancora una volta la sua ora di ricevimento a causa di Bianca.
Sedette sulla comoda poltrona di pelle di fronte a Giovanna. Lei, tacchettando sulle sue décolletés di Gucci, si sedette dopo aver accomodato il soprabito sull'attaccapanni.
-Mi scusi se la costringo a rinunciare alla sua ora – esordì, poggiando i gomiti sul tavolo e intrecciando le dita delle mani – purtroppo, questa faccenda sta iniziando ad assumere proporzioni piuttosto notevoli.
-Già.
Bianca aveva parlato? Aveva rivelato tutto ai suoi genitori? Stava per essere licenziato e incarcerato?
-Mi è stato comunicato che Bianca rimarrà assente ancora per un po' di tempo. Purtroppo non si tratterà di qualche giorno, mi hanno detto che rimarrà assente per un mese e forse più.
-D'accordo. Non c'è problema, Bianca è sempre stata brava nella mia materia; oltretutto il trimestre è appena iniziato, e nel mezzo ci sono le vacanze di Natale.
-So che è una delle nostre studentesse migliori – osservò Giovanna, riordinando alcuni fascicoli sulla scrivania – sono certa che saprà recuperare.
La questione sembrava chiusa, per la preside. Ma Emanuele, nonostante tutto, voleva saperne di più.
-Preside... - azzardò, guardando le mani di lei e la fede di Bulgari sull'anulare sinistro – una sola cosa. Come posso giustificare ai compagni assenze tanto prolungate e consecutive l'una all'altra?
-Oh beh – fece lei, con la sua consueta calma – non devi giustificare proprio nulla con nessuno, Emanuele, tantomeno con dei ragazzini.
-Lei... lei sa il perché?
-So qualcosa – fu la risposta, il cui tono aveva un che di conclusivo – ma non abbastanza, e ritengo che voi insegnanti possiate continuare a svolgere il vostro lavoro con gli elementi che già avete. Bianca ritornerà e intelligente com'è sono certa che manterrà la sua media al solito livello.
-Senza dubbio – fece Emanuele, sollevato di non essere stato convocato per motivi ben più gravi – bene, terrò presente la sua assenza. Farò in modo di farle comunque avere il materiale.
-La ringrazio molto – Giovanna sorrise e gli porse la mano – bene, la ringrazio del suo tempo, e mi scusi ancora. Arrivederci, Emanuele, buona giornata.
-A lei – strinse la mano magra e fredda di Giovanna, fece un sorriso di circostanza ed uscì dall'ufficio.

-Mariolina, buongiorno.
-Buongiorno, Emanuele – lo guardò, e il suo sguardo diceva tutto. Voleva venirne a capo anche lei.
-Non lo so – rispose, sconsolato – non so nulla. Credo che anche la preside sappia ben poco.
Lei scosse la testa.
-Qualcosa dev'esserci. Abbiamo il diritto di sapere se una nostra alunna è ammalata o ha un problema, oppure no? Come possiamo avvicinarci a lei nel modo giusto, se non conosciamo il motivo di queste assenze?
Alzò le spalle, strinse le labbra e sospirò. Mariolina lo guardò, partecipe, ed annuì.
-Speriamo sia tutto a posto – fece, preoccupata, poi gli toccò una spalla – scappo, che ho la quarta C. Buon lavoro, Emanuele.
-Anche a te.
Durante la giornata incrociò Antonella, che gli lanciò uno sguardo significativo. Trovò anche Sonia per le scale, ma lei non disse nulla; il suo sguardo penetrante poteva significare miliardi di cose, ma raramente lei parlava degli affari degli altri. Tuttavia, sapeva che doveva essere profondamente preoccupata per Bianca.
Quanto a lui, era perplesso. Assenze molto lunghe, e ricorrenti nel tempo. Eppure, ogni volta che tornava, era vispa come l'ultima volta che l'aveva vista.
Quella sera, nonostante avrebbe preferito dimenticarsi di quella ragazzina, ne parlò con Camilla. Quel mistero gli permetteva di sviare la mente da quello che era successo il giorno prima, e, anche se a scuola gli era parso di allontanarsene, era successo tutto in un tempo terribilmente vicino. Meno di ventiquattr'ore, nei fatti.
-Non saprei cosa pensare – era l'opinione di Camilla – dovresti parlare coi genitori, ma mi hai appena detto che hanno chiamato loro stessi, ed evidentemente non vogliono sbottonarsi più di così.
-Puoi soltanto andare per ipotesi – ragionò Emanuele, pensieroso – e la mia ipotesi è che quella ragazzina si droghi. Una volta mi ha confessato che si porta a scuola la vodka per calmarsi, e un'altra volta l'ho trovata che ingoiava delle pastiglie. A me ha detto che era la pillola anticoncezionale, ma ci ho francamente creduto poco. Spesso si esalta, inizia a parlare a raffica, a non stare mai ferma. E, in generale, in classe è sempre su di giri.
-E la madre non sa.
-Non sa, o finge di non sapere; chissà. Probabilmente la madre la trascura e lei cerca le sue attenzioni.
-Oppure cerca di distanziarsi dall'ambiente familiare tramite lo stordimento che le dà la droga.
-So solo che non ha un comportamento normale. Voglio dire; è sempre faticoso tenerla tranquilla, perché è una ragazzina vivace, e purtroppo incanala la sua vivacità nelle, diciamo, pubbliche relazioni. Ma ci sono momenti in cui sembra che non ragioni su quello che dice. E diventa iperattiva. Poi la vedo con le pastiglie in mano, e non me le vuole mostrare. Cosa dovrei pensare?
-Nulla – Camilla scosse la testa – non dovresti pensare nulla. Credo che questa sia la strada giusta.
-Ma allora le assenze? - insistette Emanuele – Quelle, come le giustifichi? Non ne so molto di droga, ma un down dura qualche ora. Non un mese e mezzo.
-Non lo so, Ema. Non saprei giustificarle nemmeno io. Potrei solo pensare che la droga abbia avuto effetti distruttivi, perché, in effetti, se guardi i tossicodipendenti puoi vedere che qualche cellula del cervello si è bruciata. Ma, in tal caso, dovrebbe essere rovinata vita natural durante, quindi non sussiste.
-Salute cagionevole?
-Non ne ho idea. Non conosco Bianca. Sua madre, poi, è inafferrabile; in ufficio è come al solito. Forse non è successo nulla di particolare, magari è ammalata.
-Tanto mistero per una malattia...?
-Non sappiamo di che malattia si tratta, in fondo. Magari è grave, magari è un tumore e lei deve passare periodi lunghi in ospedale.
-Non so. La vedo troppo lanciata, quando torna, perché si tratti di un tumore. E poi, è una ragazza fondamentalmente allegra. È anche vero che piange facilmente, ma, di base, ha un carattere giocoso, vivace.
-Magari vuole distanziarsene il più possibile.
-Vero anche questo. Ma il fisico dovrebbe risentirne, almeno un po'. - Poi ricordò un dettaglio. - In effetti, ultimamente era dimagrita molto. Mi ha detto di aver esagerato con la dieta.
Camilla lo fissò.
-Già – mormorò Emanuele, come in trance – pillole... dimagrita... assenze lunghe... Cristo. E se fossi completamente fuori strada? E se esagerasse con droga e alcool per dimenticare che ha una malattia grave?
-Possibile. Molto probabile. Ma, Ema, perché non te ne accerti di persona?
-Prego?
-Perché non vai a casa sua con la scusa di portarle i compiti e non cerchi d'indagare un po'?
-Perché...
In effetti, non aveva alcun motivo. Fissò Camilla con aria sperduta. Lei scoppiò a ridere.
-Che faccia mi fai? Su, non è difficile. Chiedi l'indirizzo alla segretaria, dille che vuoi avere un colloquio urgente con la famiglia e vai. Ricordati di portarglieli davvero i compiti, però.
-E se i genitori non volessero ricevermi?
-E tu non avvisarli. Presentati lì con la faccia di tolla e fai un bel sorriso. Magari si arrabbieranno, ma intanto sarai entrato in casa loro.
-Sei malefica. Ma amo questo tuo essere malefica – asserì, poi l'afferrò per un polso e se la portò tra le braccia. Un ago invisibile gli punse il cuore e gli fece un male terribile, ma lui finse di non sentirlo e si concentrò sul profumo dei capelli di Camilla.
Dimenticherò, dimenticherò, si disse. Riavrò quello che mi hai rubato. E avrò la vita felice per la quale finora ho combattuto.

-La ringrazio, Annalisa. Buona giornata, arrivederci; e grazie ancora per il suo prezioso aiuto.
Sfoderò un sorriso smagliante e se ne andò agitando la mano. La segretaria era sopra i cinquanta, era bruttina ed era sicuramente poco simpatica, per cui era raro che qualcuno, specialmente un bell'uomo, fosse tanto mieloso con lei.
Emanuele l'aveva fatto per arrivare a Bianca e sperava che Annalisa tenesse la bocca chiusa con la preside; non proprio corretto, certo, ma, in un mondo dove nessuno si preoccupava degli altri, iniziava a chiedersi perché avrebbe dovuto continuare a farlo soltanto lui.
Ora che aveva questa possibilità tra le mani, si sentiva più tranquillo: la lezione fu pacifica, specialmente perché Bianca non c'era e la classe non veniva costantemente agitata da litigi e atti osceni in luogo pubblico. Sentì qualche commento sull'assenza prolungata di “quella troia slabbrata della Ferreri”, ma questo fu quanto; per una volta, poté tornare a casa quasi riposato, confrontando la giornata alla solita routine.
Bianca viveva in un quartiere di Padova, nella prima periferia. Lo raggiunse facilmente con una ventina di minuti di autobus; ebbe qualche difficoltà nel trovare la via, perché Google Maps non era sempre precisissimo e lui non aveva potuto stampare il percorso, ma con l'aiuto di qualche passante riuscì ad arrivare al palazzo giallo chiaro in cui viveva l'alunna più chiacchierata dell'istituto. Fortunatamente, una signora stava uscendo con un barboncino al guinzaglio, e lo lasciò entrare con un sorriso. Emanuele rispose al sorriso, cercando di sembrare disinvolto; salutò la signora, ringraziò e salì le scale. Il condominio contava quattro piani e Bianca viveva proprio all'ultimo; fu quando arrivò col fiato corto sul pianerottolo che, avvicinandosi al campanello, iniziò a sentire delle voci concitate.
All'inizio le sentì in lontananza, probabilmente perché la scena si stava svolgendo in qualche stanza lontana dall'ingresso; ma in capo a pochi secondi si avvicinarono, ed Emanuele, sgomento, udì dei tonfi e una voce maschile che urlava bestemmie ed insulti.
-Tu devi fare quello che ti diciamo noi, hai capito?! - udì distintamente. Poi un altro tonfo. Un urlo di Bianca. Un altro tonfo ancora. - Alzati!
Subito!
-Va' via! Via! - strillò la voce tremante di Bianca - Stammi lontano!
-Smettila di fare queste scene – sbraitò suo padre – bu-hu-hu, a piagnucolare e tremare per farmi sembrare un mostro!
Alzati!
-Vai VIA! - gridò di nuovo lei, col terrore nella voce.
Emanuele sentì il rumore di un altro colpo. Poi Bianca urlò ancora.
-Mamma, aiuto! - la sentì urlare disperata, e poi tossì. - Mollami!
Mamma!
Si udirono altri colpi, questa volta contro una parete. Bianca piangeva, suo padre le diceva che era una testa di cazzo e la madre, ovunque fosse, taceva.
Iniziò a sudare. Questo non era assolutamente previsto. Assolutamente, no, non era previsto. Bianca era la cattiva del suo cast, lei doveva essere condannata, non salvata. E adesso? Cosa poteva fare?
-Vaffanculo, porco D*o – sentì bofonchiare, e poi udì una porta che sbatteva. Ci fu qualche attimo di silenzio, poi una voce di donna che conosceva piuttosto bene intervenne freddamente.
-E sappi che d'ora in poi ti sogni di uscire o che ti diamo ancora la paghetta – proclamò.
Poi, uno scalpiccio nervoso e infine il silenzio.
Rimase lì, di fronte al campanello, indeciso sul da farsi. Se avesse suonato in quel momento, sarebbe stato chiaro che aveva sentito tutto. Decise di aspettare qualche minuto; tirò fuori il libro che aveva nella ventiquattrore e, dopo tre pagine e mezza, in cui sentì la televisione accendersi e diffondere nell'aria voci di tronisti e pretendenti, decise che aveva aspettato abbastanza. Prese un respiro profondo e suonò il campanello.
Dei passi veloci si diressero verso la porta. Sentì il rumore dello spioncino che veniva aperto. Subito dopo, due giri di chiave, e il volto sorridente della signora Milanesi.
-Buongiorno, professor... Vettorel, giusto?
-Buongiorno – tentò di sorridere – spero di non disturbare.
-Ma no, certo che no, abbiamo appena finito di pranzare. E poi io questo pomeriggio sono a casa. Ma prego, si accomodi, non stia lì sulla porta – si scostò per farlo entrare, sempre sorridendo, e gli indicò il grande divano a ferro di cavallo. Bianca non c'era.
-Amore – chiamò, in direzione del reparto notte – c'è il professore di Bianca.
-Sì – sentì arrivare una voce piuttosto tranquilla da qualche camera più in là.
-Allora – la donna catturò subito la sua attenzione – mi dica. C'è qualche problema? Non doveva scomodarsi a venire qui, avrei potuto benissimo venire io.
-Non si preoccupi, non è un problema. Dato che l'ho già disturbata poco tempo fa, questa volta vengo anche per conto degli altri professori.
-C'è qualche problema...?
Ma perché quella donna era sempre convinta che sua figlia causasse problemi...? D'accordo, era vero, ma perché continuava ad accusarla, in continuazione?
-Nessun problema, signora, sono venuta a portarle i compiti di questa settimana e a portarle il programma per i prossimi giorni. Mi hanno avvertito che sarà assente per un po' di tempo, quindi...
-Certo. La ringrazio, lei è troppo gentile. Sarei venuta io stessa.
-Non si preoccupi, davvero.
-No, davvero, posso sempre trovare il tempo, se si tratta dell'istruzione di Bianca. La prossima volta non si faccia problemi a chiamarmi.
Cosa stava cercando di fare? Dimostrargli che lei poteva fare tutto: stare dietro a una casa, a una famiglia distrutta, a un lavoro di responsabilità e anche agli impegni scolastici di sua figlia? Oppure voleva semplicemente che se ne stesse alla larga e che li lasciasse litigare senza freni, in modo da non dover far finta che tutto fosse a posto davanti a un estraneo quando in realtà avevano appena dato una perfetta dimostrazione di quanto due persone potessero essere negate per il mestiere di genitore? Questo pensava Emanuele; in realtà, però, disse tutt'altro.
-D'accordo, se lei mi assicura che non le creo un disturbo, allora mi rivolgerò a lei.
-Non ci vado in quel posto – sentirono un urlo soffocato. Poi l'inequivocabile rumore di un ceffone. - No! - Bianca strillò di nuovo. Udirono qualche colpo contro il muro, poi si sentì mugugnare qualcosa. Infine ci fu il silenzio.
-Se vuole consegnarmi il materiale – la signora Milanesi gli sorrise affabilmente – lo farò avere a Bianca appena starà bene. Ma non si preoccupi; contiamo di mandarla a scuola domani stesso.
-Bene, allora. Be', è stato un piacere rivederla – Emanuele le porse la mano; aveva ragionato che sarebbe stato meno imbarazzante per entrambi se lui se ne fosse andato.
Lei la strinse tranquilla; il suo volto non tradiva alcuna gratitudine per il gesto. Era come se non li avesse nemmeno sentiti.
-Arrivederci, professore. La ringrazio infinitamente della sua preoccupazione.
-Si figuri, se non mi preoccupo per i miei studenti migliori, per chi sennò?
Sorrisero entrambi; Emanuele sperò che almeno questa frase le avrebbe risparmiato qualche sberla.
Non intendeva però rinunciare ad ascoltare la lite; camminò quindi fino alle scale e finse di scenderle, rumorosamente. Si accertò di essere fuori dal campo visivo dello spioncino. Si sedette e rimase seduto finché non ricominciò a sentire qualche voce; evidentemente, la signora Milanesi aveva già calcolato la possibilità che lui si appostasse fuori ad origliare.
Poi sentì di nuovo delle voci echeggiare dal soggiorno.
-Devi sempre farci fare queste figure di merda?! - stavolta era sua madre – Possibile che tu sia così
stupida?
-Lascia perdere – abbaiò suo padre – quando una è deficiente, cos'altro puoi aspettarti? Testa di cazzo. Cristo; sparisci, perché se mi resti sotto gli occhi... - Emanuele, da fuori, avvertì il gorgogliare crescente della rabbia tra i denti stretti di quell'uomo. Sentì i piccoli passi leggeri di Bianca dirigersi da qualche altra parte. Poi, il rumore di un tavolino di cristallo che veniva preso a pugni, la signora Milanesi che protestava, e il signor Ferreri che replicava che era Bianca a portarlo a quel punto, e che se avesse potuto ammazzarla l'avrebbe fatto seduta stante.
Si affrettò a uscire da quel palazzo e quando fu fuori, nonostante il traffico e lo smog, prese una grossa boccata d'aria, come se fosse stato in apnea per troppo tempo.

Camilla ascoltò il suo racconto in silenzio, e, quand'ebbe finito, abbassò gli occhi.
-Capisci, io... non so se il padre fosse ubriaco, o cosa. Non sembrava. Ma sembrava pazzo, dal modo in cui le parlava. Ho pensato per un attimo che l'avrebbe uccisa davvero.
-L'hai visto in faccia?
-No, non l'ho visto. Non ho visto nemmeno Bianca. Li ho sentiti litigare dalle altre stanze, ma nemmeno lei sembrava molto in sé.
-Era drogata...?
-No, sembrava più in stato di shock. Credo sia normale, quando ti aggrediscono a quel modo.
-Secondo te succede spesso....?
-Non lo so, dovrò chiederglielo. Anche se preferirei evitare di parlarle, per la verità.
Camilla lo guardò, interrogativa. Emanuele impallidì; aveva dimenticato che lei non sapeva.
-Sai... a volte preferirei non essere coinvolto fino a questo punto. Vorrei essere come Leandro, fregarmene dei miei studenti e farmi la mia vita incurante di quello che loro pensano di me.
-Non ce la faresti mai. Sei troppo diverso da lui. Tu, per gli altri, ti preoccupi; è il motivo per cui mi piaci così tanto. Sei una delle ultime persone buone rimaste al mondo.
-Non credo – mormorò, cupo – forse, sono solo schiavo dell'opinione altrui. E non mi va di fare la parte del cattivo. Eccolo, il segreto della mia presunta bontà.
-Non è vero. Nessuno ti biasimerebbe se tu ignorassi quella ragazza. Anzi, probabilmente riceveresti l'approvazione generale.
-Della gente sbagliata, però – sospirò lui – di quella più sbagliata. Eppure, sono sempre la maggioranza. Gli stronzi, dico. Sono sempre in vantaggio numerico.
-Perché essere buoni e comprensivi è più difficile che essere ciechi e pieni di pregiudizi.
-Dici? Eppure, alla resa dei conti, la persona corretta con la coscienza pulita può camminare a testa alta e senza interrompersi. Lo stronzo, invece, deve prendersi tutte le sue responsabilità di fronte al mondo.
-La cosa sarebbe bilanciata se ci fosse mai, una resa dei conti. Invece non c'è. Quindi tutte le signore Milanesi e i Leandri di questo mondo continueranno ad andare avanti senza preoccuparsi degli altri, mentre quelli come te sono destinati a sentire il peso di tutti i fardelli di cui si caricano.
-Spero proprio di no – mormorò, poi si coprì gli occhi con una mano.
Se solo avesse potuto parlare. Se solo avesse potuto parlarne con qualcuno.

-Ah, bentornata, Ferreri – esclamò Cappelletto – dai, vieni qui a sederti vicino a me.
Emanuele stava per riprenderlo, ma non ce ne fu bisogno. Lentamente, Bianca si diresse verso il suo banco, senza una parola. Si sedette pesantemente. Voltò lo sguardo verso il cortile e non diede cenno di volersene staccare.
-Ohi... Bianca. Bianca! Cagami. Ohi!
Ma lei non rispondeva. Muta e immobile, continuò a osservare gli alberi spogli e il cielo grigio davanti a lei. Cappelletto si voltò verso Emanuele.
-Prof, non le piaccio più – gemette, sconsolato.
-Be', si potrebbe obiettare che i tuoi modi non sono dei più galanti, Cappelletto.
-E perché? Le ho chiesto di sedersi con me, mica di farmi... vabé, ci siamo capiti, prof.
-Si vede che non le interessi, può capitare. Mettiti il cuore in pace.
-Ecco – sospirò lui – usato e poi abbandonato. Sempre così.
-Ha usato anche te? - intervenne il suo compagno di banco – Ferreri, cos'è, fai la collezione? Quando arrivi a venti ti danno il premio?
-Seeh, venti; nell'ultima settimana, forse – fece una ragazza dall'altra parte della classe; lo disse a voce abbastanza alta perché lo sentissero tutti. Molti risero. Alcuni semplicemente se ne fregavano.
Tra questi ultimi, comunque, c'era Bianca stessa. Non si voltò e non si mosse di un millimetro; continuò a fissare fuori dalla finestra, ingobbita sul banco, con le braccia conserte sul ventre. L'unico movimento che fece, per tutta l'ora, fu quello di sbattere le ciglia.
Quel giorno l'ora era dedicata alla spiegazione, ed Emanuele non poté guardarla con un po' d'attenzione. Fu solo quando suonò la campanella che si permise un'occhiata veloce al suo viso; sotto quel pagliaio di capelli rossi, gli sembrò di notare un'ombra sul suo occhio sinistro.
Non poté accertarsene; poteva soltanto sperare che lei venisse a chiamarlo a ricreazione, ma ci sperava poco. E infatti lei non venne. Quando passò per il controllo delle aule in terza A, la trovò dentro, sola, che continuava a fissare il cortile, ora zeppo di studenti.
Si avvicinò; prese la sedia davanti al suo banco e si sedette. La guardò meglio. Non si era sbagliato; sull'occhio aveva il segno piuttosto evidente di una botta, e le labbra erano un po' rotte.
-È stato lui? - le chiese, con gentilezza. Lei annuì impercettibilmente. - Te ne ha fatti degli altri? - Lei annuì ancora, ma si girò ancora di più verso la finestra. Le toccò un piccolo avambraccio. - Me li fai vedere, Bianca?
Lei si girò verso di lui e afferrò un lembo della vasta scollatura. Scoprì la spalla e riuscì a mostrare metà braccio; c'erano i segni blu e neri di cinque dita che l'avevano afferrata con violenza. Emanuele, atterrito, li sfiorò. Lei si ritrasse.
-Ti ho fatto male? - chiese, preoccupato. Ma lei scosse la testa.
Poi gli diede la schiena, e gli fece cenno di alzare il maglioncino. Dopo essersi guardato attorno per un attimo, eseguì; notò diverse botte sparse, alcune lungo la colonna vertebrale.
-Ce ne sono altre?
Lei fece un cenno d'assenso.
-Cosa ti ha fatto, Bianca...?
La sua espressione si fece sofferente. Fu solo una sfumatura, ma Emanuele la colse. E iniziò a soffrire anche lui.
-Andiamo da un'altra parte, per favore. Voglio parlarti in privato. Senti; io ho ancora la quarta ora, qui, e poi torno a casa. Tu nel frattempo firma un permesso d'uscita falso e vieni fuori. Ti aspetto alla Feltrinelli a mezzogiorno, ok?
Lei annuì ancora, ad occhi bassi, così piano che le chiese di nuovo 'ok?' e lei annuì con un po' più di vigore.
-A dopo, allora. Cerca...
Lei lo guardò. Cerca di fare cosa? Non c'era molto che potesse fare.
-Niente. Mi dispiace. Mi dispiace davvero.
Si allontanò sentendo il suo sguardo penetrante e stanco nella schiena.

A mezzogiorno, quando arrivò alla Feltrinelli, Bianca era già lì. Si era seduta sulla base di una statua poco distante, con uno sguardo buio che non le aveva mai visto.
-Già qui? - la chiamò, con un sorriso. Lei non rispose; fece per alzarsi, ma a metà fece una smorfia e si portò una mano sul fondo della schiena. - Ti fa male? - le chiese. Lei annuì. - Come hai fatto a farti male lì?
-Tirata per terra – mormorò lei, con un soffio di voce talmente sottile che dovette chinarsi vicino alla sua bocca per capire cosa stesse dicendo.
Emanuele si rabbuiò. Con quanta forza doveva averla tirata per terra, per arrivare a farle prendere una tale botta all'osso sacro?
-Comunque andiamo – concluse, mettendole una mano sulla schiena. Lei non reagì – dobbiamo arrivare fino alla stazione dei treni. Poi ti porto a casa in macchina.
Mandò un sms a Camilla in cui le spiegava che doveva parlare con Bianca, perché era piena di lividi, e che preferiva rimanere solo con lei. Camilla rispose che non c'era problema. Emanuele non si sentiva in colpa, perché sapeva che non sarebbe successo nulla. Non sarebbe potuto, con Bianca in quelle condizioni, né lui ne aveva la benché minima intenzione.

Bianca tacque per tutto il tragitto. Fino alla stazione, in treno, fino a casa sua. Rimase totalmente in silenzio e ad Emanuele andò bene così, perché non avrebbe davvero saputo cosa dirle. Si limitò ad aprire un libro e a leggerlo finché non dovettero scendere.
Era strano vederla senza la sua consueta spinta vitale; non si guardava attorno, non parlava, non cercava di catturare la sua attenzione. Se ne stava ad occhi bassi con espressione cupa e sembrava che il solo fatto di respirare e mantenersi in piedi le pesasse enormemente.
-Ti piace la mia casa? - buttò lì, tanto per rompere il silenzio. Bianca annuì. - A te piace leggere, no? Guarda se trovi qualche libro che ti interessa, nel frattempo metto su da mangiare.
-Non si disturbi per me, grazie.
-Come, no? È già l'una. Avrai fame.
-Davvero, no.
-Hai deciso di perdere altri dieci chili...?
-No. È solo che non ho fame. Non ho voglia, tutto qui.
Emanuele la guardò.
-Grazie lo stesso – precisò lei, poi si rivolse verso uno degli innumerevoli scaffali di casa sua.
Lui e Camilla l'avevano progettata in modo che quasi tutte le pareti della casa fossero ricoperte da scaffali pieni di volumi, dischi e dvd. Entrambi aborrivano l'idea delle mensole coperte da soprammobili; li ritenevano inutili e per di più fastidiosi, perché poi andavano spolverati e nessuno dei due ne aveva il tempo. Mentre le librerie erano chiuse da sportelli scorrevoli e contenevano i loro tesori più preziosi.
-Ti piacciono i manga? Ce n'è uno scaffale pieno, in corridoio.
Stava per dire che “Camilla” ne aveva uno scaffale pieno, ma si era trattenuto in tempo. I loro scaffali erano l'uno di fronte all'altro: i manga di Camilla e i comics di Emanuele. Gli Ultimates versus Versailles no Bara. E, in camera loro, avevano un mobiletto solo per le Action Figures.
-Non sono un'appassionata – rispose fiaccamente Bianca – ma in effetti contavo di farmi una cultura al riguardo, prima o poi.
-Guarda pure tutto quello che vuoi – l'assicurò – non farti riguardi. Se ti piace qualcosa, prendilo pure.
-Ok, grazie.
La lasciò vagolare per la casa mentre metteva a bollire l'acqua per una pastasciutta. Poi, mentre cercava il pomodoro, si accorse che Camilla aveva lasciato in frigo del cibo già pronto, con un biglietto che diceva “Devi solo riscaldarlo! Un bacio!”.
Emanuele sospirò.
Gettò l'acqua nel lavello e scaldò il risotto e le bistecche; ma non chiamò Bianca, perché voleva godersi qualche attimo di solitudine. Fu lei a tornare, cinque minuti dopo, mentre apparecchiava la tavola, con in mano un libro di Kundera.
-Lei ha una bellissima libreria – mormorò – davvero. Da grande, vorrei averne una uguale.
-Tu ce l'hai, la tua libreria?
-Sì, ce l'ho una libreria, ma non ci sta più niente, e così mia madre mi costringe a mettere i libri negli scatoloni e a riporli in soffitta o in garage.
-Mah – commentò Emanuele, con una smorfia. I libri per lui erano sacri, e anche per Bianca, ne era certo. Il disprezzo di sua madre per quanto era caro a sua figlia era evidente.
-Preferisce che ci siano foto di quand'ero piccola e pupazzi – continuò lei, inaspettatamente – cose che a me non interessano per niente. Ogni volta le dico di toglierli per fare spazio ai libri, ma non c'è verso.
Si imponeva esattamente come faceva in ufficio, pensò Emanuele. Non era difficile credere che la figlia smaniasse per la libertà; la madre non intendeva concedergliene per nessun motivo e, per giunta, era ben determinata a non lasciarla crescere, a partire dagli scaffali con i pelouches in camera sua.
-Mi dispiace – riprese Emanuele – davvero. Dev'essere dura vivere in quella famiglia.
Bianca alzò le spalle.
-Ci si fa l'abitudine. Si fa l'abitudine a tutto – spiegò, atona.
-Perché non me ne hai mai parlato? Avrei potuto aiutarti.
-No, non avrebbe potuto.
-Beh, ci avrei provato.
-Provare è inutile. Riuscirci invece è impossibile.
-Non essere così pessimista. Se ne parlassimo agli altri insegnanti, magari...
-No! - lo interruppe, agitata – No, assolutamente. Non voglio che lo sappiano. Non voglio sguardi di compassione, la prego di non farlo.
-Ma nessuno prova compassione. Vedi, noi...
-E invece sì che la provate. A partire da lei. Dubito molto che mi avrebbe parlato, se non avesse sentito quella scena in casa mia. Dica la verità: lei ce l'ha a morte con me, per quello che è successo. Ma se mi ignorasse dopo aver sentito quello che ha sentito non potrebbe più vestire i panni della giustizia, e a lei costerebbe troppo rinunciare al ruolo dell'eroe buono.
Arrossì, Il problema di Bianca era che era intelligente, e che capiva fin troppo.
O forse che era sempre, costantemente pronta a vedere il lato molliccio, miserabile, egoista – e quindi umano – delle cose.
-Io sono solo preoccupato per te – si difese Emanuele, senza guardarla negli occhi.
-Certo, lo so. Sono tutti preoccupati per me, quelli che non mi disprezzano. State lì a scrutare le mie espressioni aspettando che cambino ancora, sperando che un giorno io vi riveli chissà quale segreto dietro il mio comportamento scandaloso. Se metteste in gabbia una cavietta e vi raggruppaste attorno a lei per osservare le sue abitudini e farne relazione, sarebbe esattamente la stessa cosa. Perché non vi comprate un topolino e lasciate in pace me?
-Bianca, cos'hai? Perché ti comporti così?
-Perché sono così seccata, mi chiede? Perché non cerco di compiacerla? Perché non sono allegra e spigliata e innamorata come al solito? Perché lei mi tratta come un esperimento, professore; è come aggiungere una sostanza a un miscuglio nella provetta aspettando di vedere se esplode. Be', mi tratti da essere umano, professore, e forse poi tornerò ad essere come le piace ricordarmi.
-Non volevo darti una simile impressione.
-Certo che non voleva darmela, non è mica stupido. Lei voleva darmi l'impressione di essere in pensiero per me nonostante tutte le mie malefatte. Che eroe. Ma mi dispiace, conosco troppi stronzi a questo mondo per credere che la gente sia davvero mossa dalla bontà. Egoismo e gloria personale, ecco da cosa siamo mossi tutti quanti; e lei non fa eccezione, per quanto le piaccia crederlo.
Emanuele abbassò lo sguardo, cupo. Sperò che avesse finito; ma non era così.
-Mi dispiace distruggere la colonna sulla quale si reggeva la sua coscienza, ma lei non è diverso dagli altri. Non so perché mi ero illusa come una ragazzina, in merito. Che stronzate. Non c'è nessuno diverso dagli altri, neanche uno, neanche una persona in tutto il globo terracqueo.
Decise di sorvolare sul fatto che lei era una ragazzina. Provò a cambiare discorso.
-Bianca, è perché tuo padre ti picchia, che ti comporti così...?
Bianca trasalì. Si riprese, e poi lo fissò con odio.
-Certo, mio padre mi picchia e io la do a tutti. Mi sembra una conseguenza alquanto logica e naturale. - Assottigliò gli occhi. - Ma come le viene in mente? Dico, perché deve applicare su di me la sua psicologia da quattro soldi? Sta cercando di capire qual è il bottone che hanno premuto quando ho iniziato a fare sesso? Non è questo, professore. Non cerchi di darci a tutti i costi un motivo. E se anche ci fosse, io non glielo direi, perché non ho intenzione di lasciare che lei si lavi la coscienza a questo modo e che torni a recitare la parte del paladino.
-Bianca, tu ti sbagli. Io mi preoccupo davvero, per te.
-Balle, nessuno si preoccupa né per me né per nessun altro. Ma è già meglio rispetto alle mie abitudini, sa? Di solito, quando metto in fila più di quattro parole, i miei iniziano a dirmi che il mio è solo un bla bla bla di paroloni messi a caso e che solo perché so fare i giri di parole non vuol dire che io abbia ragione.
-Perché lo fai?
-Cosa?
-Perché vai con tutte quelle persone?
-Oh, santo Dio, prof! Insiste? Le è mai capitato, non so, di mangiare un sacco di cioccolata? Semplicemente perché le piace?
-Mi piace la cioccolata, ma non ne mangerei mai una tavoletta al giorno. Perché fa male.
-Beh, il sesso non fa male, quindi fine del discorso.
-Stai facendo la bambina.
-E lei sta facendo l'impiccione.
Rimase spiazzato. Quella era una nuova Bianca che non conosceva. Antipatica, scazzata e delusa.
Dov'era finita quella ragazza sempre sorridente e vivace?
-Lo fa spesso? - le chiese.
-Cosa?
-Alzare le mani.
-Direi di sì.
-E ti capita spesso di avere tutti quei lividi?
-Beh, sì.
-Perché non lo denunci?
-Perché – sembrò esasperata – mio padre mi odierebbe, mia madre mi odierebbe, tutti i parenti mi odierebbero e mi farebbero passare l'inferno.
-Mi sembra che tu l'inferno lo stia già passando.
-Per qualche calcio ogni tanto? Si figuri. Poi passa.
-Ti ha presa a calci?
-Sì, e anche a pugni. L'ultima volta, quando c'era lei, mi ha sbattuto la testa contro il pavimento. Anche contro il muro; mi aveva alzata per aria stringendomi per il collo.
C'erano ancora i segni delle dita sul suo collo.
-Cos'altro ti ha fatto...?
-Ieri? Nient'altro.
-E le volte prima?
-Mah. A volte mi ha presa a bastonate in testa. Schiaffi. Cose così. Non ha un repertorio molto vario.
-Bianca, tu dovresti denunciarlo. Nessuno ti odierà. Tu hai il diritto di vivere tranquilla.
-Mi hanno sempre detto che se ne avessi parlato con qualcuno avrebbero certamente dato ragione a mio padre, perché io ero cattiva e mi meritavo qualunque cosa. In fondo, non mi ha mai spezzato un braccio o fatto sanguinare.
-Ma non ha importanza! Sono violenze su minore!
-Sono solo botte. Tutti i bambini le prendono dai genitori, è una cosa normale.
-Bianca, mia madre e mio padre non hanno mai alzato un dito su di me. E neanche i genitori di Camilla. E neanche moltissimi genitori che conosco.
-Be', perché voi siete due santarellini del cazzo che non gliene danno motivo. Io li faccio arrabbiare, quindi loro reagiscono.
-Ma non è modo di reagire!
-Sì, che lo è. Me l'hanno sempre detto che anche gli altri genitori fanno così. Anche le mie amiche si prendono uno schiaffo quando fanno arrabbiare i loro genitori.
-Ma Bianca, uno schiaffo è un altro discorso! Non voglio dire che sia d'accordo, ma è tutta un'altra storia.
-Senta – concluse, stanca di discutere – le cose stanno a questo modo. Va bene? Per me è meglio così, piuttosto che denunciare mio padre, perdere la causa e subire le sue vendettine del cazzo vita natural durante. Avessi una gamba rotta dalla mia parte, forse avrei qualche speranza – anche se, come controparte, avrei l'odio sempiterno di tutta la mia famiglia. Ma ho solo qualche livido. Non è abbastanza per cancellarlo dalla mia vita per sempre, e, per inciso, se se ne andasse rimarrei con mia madre da sola, e mi creda, è qualcosa che non augurerei a nessuno.
Stava per dirle “Bianca, scappa” ma non poteva. Aveva solo sedici anni, e, ne avesse avuti anche diciotto, non era niente che potesse fare in quattro e quattr'otto.
-Lo vede? - lei alzò le spalle – Non può farci niente. La prossima volta mi dà retta, quando le dico di non fare il buon samaritano?
-No.
Bianca sembrò spiazzata.
-Cosa vuol dire, no?
-Vuol dire no. Vuol dire che ti dimostrerò che al mondo esistono ancora persone mosse semplicemente dall'affetto per un'altra persona, e che di conseguenza s'incazzano se qualcuno le fa del male. Niente gloria personale né coscienza, Bianca. La coscienza non si lava con così poco, non funziona a sostituzione. I tuoi peccati rimangono i tuoi peccati anche se fai cento buone azioni. Se fosse così facile, andrei a dare un euro a un mendicante, invece che star dietro alla testa assurda di una ragazzina impossibile.
Lei guardò fuori dalla finestra con aria malinconica.
-Che c'è? Non mi credi?
Bianca abbassò il capo e chiuse gli occhi. Sospirò.
-Siamo capaci di convincerci di così tante assurdità, pur di pensare che siamo almeno un po' importanti per qualcuno – mormorò, con un tono tanto malinconico che Emanuele si sentì stringere il cuore.
-Cosa devo fare, perché tu ci creda?
-Mi porti indietro nel tempo. Mi riporti a quand'ero piccola, così piccola che non parlavo e non capivo quando mi parlavano. E mi porti a vivere in un altro posto, con altra gente, gente che magari mi vuole bene e riesce a donarmi quell'illusione fondamentale che al mondo esista quella cosa chiamata amore. Non m'importa se non esiste davvero. Ma vorrei avere avuto anch'io, come tanti altri, il diritto di credere a questa favola.
Emanuele abbassò la testa sul piatto. Sentire queste parole dalla bocca di una sedicenne era troppo per quello a cui l'avevano preparato alla SSIS.
No, non era questo che si era immaginato.
-Cosa vuoi fare? - le chiese.
-Nel senso?
-Tornare a casa, rimanere qui... devi vederti con qualcuno?
-No, se non voglio.
-E lo vuoi?
-No.
-Cosa vorresti?
-Vorrei essere capace di crederci come fa lei. Vorrei avere la sua fiducia e, chiamiamola, la sua capacità di illudersi, perché lei sarà anche un illuso, ma vedo che è felice, nel suo mondo d'illusioni. Vorrei non aver capito troppo presto. Dopo, magari. Quando tutto è comunque già finito.
-Mi hai detto che non posso fare niente in questo senso.
-Lo so. Ma speravo che insistesse. Che mi dicesse che si poteva, che ce l'avrebbe fatta. Speravo mi rassicurasse dicendomi che tutto sarebbe andato bene, perché lei era adulto e ne sapeva più di me, speravo che lei s'intestardisse e m'impedisse di continuare a blaterare che non esiste il lieto fine.
-Ma Bianca – si esasperò – che cosa vuoi, da me? Che creda alla tua versione, o che continui a credere nella mia?
-Vorrei che non lo chiedesse a me – sospirò lei – vorrei che lo sapesse già e che fosse lei a dirmelo. Pensavo che lei avesse risposte e una morale incrollabile.
-Bianca...
Sentì una strana angoscia salirgli al petto.
-Potrei dormire un po'? Sono davvero stanca. Ah, e non si preoccupi, se non mi ha convinta. Non ci speravo poi così tanto.
-Mettiti pure sul divano, vado a prenderti una coperta.
Andò su a prenderle la coperta, e rovistò a lungo nel guardaroba in solaio.
In realtà la coperta era dritta davanti a lui. Fu lì che affondò il volto quando dei singhiozzi inspiegabili iniziarono a scuotergli la gola e a incendiargli gli occhi con lacrime roventi.







(Nda: ç_ç povero, povero Ema. Povero, povero.
Dunque! In risposta alle vostre recensioni...
Pnin: Il verbo scavallare esiste XD il programma non me lo segna errore, comunque, anche non fosse esistito, ci stava bene e rendeva l'idea, quindi sarebbe rimasto là comunque XD.
Quanto a Ema, però, vorrei dire una cosa ''XD ragazzi, solo perché non si scopa spensieratamente una sedicenne non significa che il suo sia “buonismo senza capo né coda”, significa che ha una morale e un certo rispetto della legge, nonché del suo ruolo d'insegnante. Sarebbe da condannare, se si comportasse altrimenti da come ha fatto. Vorrei dire qualcosa in più al riguardo ma sarei costretta a fare degli spoiler, per cui per ora mi fermo qui; sicuramente approfondirò il discorso quando vi avrò fornito degli altri elementi per valutare la sua condotta, o magari alla fine della storia :).
Baby_Birba: tranquilla, so che non hai recensito per una buona causa – la tua media scolastica XD – quindi sei perdonata XD. Non posso dirti molto al riguardo di Bianca, perché altrimenti i prossimi capitoli li scriverei per niente XD comunque che beva molto è vero, lo ammette lei stessa, sicuramente ha dei problemi di alcoolismo.
Terrò presente – e anzi ti ringrazio di avermelo fatto notare – la questione dell'aspetto fisico dei personaggi, in effetti è vero, rispetto alle mie altre storie ne ho parlato ben poco. Cercherò di essere più esauriente su questo punto :) grazie ancora per la precisazione ^_^.
Infine, un grazie a
CTA (:* ci vediamo sabato ^.^!), Piaciuque (purtroppo non posso fare spoiler XD lo saprai leggendo!) e Stregatta (wow, sono felice che Bianca piaccia ^.^ pare che sia riuscita a renderla come volevo io, il tuo commento mi fa un grande piacere ^_^!)
E con questo vi auguro una buona settimana! As usual, fatemi sapere se c'è qualcosa che non vi torna o qualche errore... ci tengo a migliorare :)!
Al prossimo capitolo ^_^!)

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


-Fai piano. Sta dormendo.
Bianca dormiva da ore, ormai, quando Camilla non aveva trovato altre commissioni da fare e si era rassegnata a tornare a casa. Il problema era che Camilla non sapeva che la sua presenza avrebbe potuto costituire serio motivo di disturbo per Bianca. Lei pensava di poterla aiutare, e invece l'avrebbe soltanto ferita.
Tuttavia, non poteva saltarsene fuori “ah, scusa, Cami, mi ero dimenticato, è da quando ho la sua classe che continua a ripetermi che è innamorata di me e che cerca ogni sistema possibile per portarmi a letto”. Avrebbe decretato la fine della sua esistenza felice. Tra le due, decise di sacrificare Bianca; dopotutto, dati gli ultimi eventi, era improbabile che si mettesse a pensare al suo fantomatico amore per lui, no?
Si ripeteva questo, ma in realtà la guardava con ansia crescente.
-Me la immaginavo proprio così – mormorò Camilla, come se stesse osservando un animale raro allo zoo dietro la sicurezza del vetro infrangibile – è... è invadente. Esteticamente, intendo. Guardarla è come prendersi uno schiaffo in faccia.
-E non la immagini quando parla – mormorò Emanuele di rimando. Silenziosamente, si avviarono verso la loro camera.
-Che facciamo? - riprese Camilla – Dovrà tornare a casa, prima o poi. I suoi sanno che è qui?
-No, non lo sanno. Credo che non sappiano assolutamente nulla di quello che fa questa ragazza.
-Forse è un bene. L'ammazzerebbero. Sai, è così strano averla qui.
-Sì. È strano che ci sia un'altra persona in casa.
-Sì, ma proprio lei. Per me è una leggenda che prende vita.
-Capisco cosa intendi.
Bianca si svegliò un'ora più tardi, in un momento in cui Camilla era in cucina a preparare da mangiare ed Emanuele stava leggendo distrattamente il giornale seduto al tavolo. Se la ritrovarono sull'uscio della porta, con aria frastornata, che li guardava tutti e due con una mano tra i capelli cotonati.
-Scusate – mormorò – mi sono addormentata. Forse è meglio se torno a casa.
-Ti accompagno – Emanuele si alzò immediatamente.
-No, no. Mi porti solo fino alla stazione, poi a Padova prendo l'autobus.
-Be', ti posso accompagnare anche a piedi, non è lontana. Ti prendo il cappotto.
-Grazie.
Cercò di sbrigarsi, perché non era molto tranquillo a lasciare quelle due da sole. Fu così veloce che, quando tornò, Camilla stava ancora girando le melanzane sulla piastra e Bianca stava sbadigliando con vigore.
-Andiamo?
Bianca annuì e Camilla si voltò verso di loro, facendo un cenno di saluto. Le sorrise e sospinse delicatamente Bianca, che si stava vestendo, finalmente fuori dalla porta di casa sua.
Camminarono in silenzio per un po', mentre il respiro si condensava.
-Ma di notte dormi? - le chiese ad un tratto, curioso.
-Non molto – rispose lei – sono occupata in giro.
-Ah. Be', certo. Hai preso la pillola?
-Eh...?
-La pillola anticoncezionale. Quella volta l'hai presa di pomeriggio. Non l'hai dimenticata?
-Ah. La pillola. Sono nella settimana di sospensione.
-D'accordo, allora.
Rimasero in silenzio fino alla stazione. Una volta arrivati, Emanuele comprò un pacchetto di Fruit Joy; gliene offrì una, ma lei rifiutò.
-Questo è il binario. Ti faccio il biglietto alla macchinetta.
-Grazie.
Si allontanò, fece stampare un biglietto regionale, glielo porse. Il treno era già arrivato.
-Ti conviene andare dentro, qui fuori fa freddo.
-Sì, vado, vado.
Lo disse con un tono tale che si sentì in colpa. Ma non disse nulla.
Bianca salì sul treno, lo salutò con la mano, lo ringraziò e poi si allontanò senza voltarsi.

Non l'aveva mai vista così inespressiva. Ma dovette farci l'abitudine, perché, da quel giorno, Bianca cambiò completamente.
In classe non apriva bocca, né con i compagni né con gli insegnanti. Essendo stati informati della situazione da Emanuele, i suoi colleghi decisero di lasciarla per ultima in tutti i giri d'interrogazione, nella speranza che si riprendesse. Ma Bianca non dava cenni di ripresa.
-Sembra quasi mutismo selettivo – osservò un giorno Mariolina – ma la realtà è che parla con chiunque, solo che lo fa quando non può fare altrimenti.
-Possibile che una cosa simile l'abbia segnata così tanto? - intervenne Sonia, nervosa perché non riusciva a venirne a capo – Voglio dire, certo, è grave. Ma al punto di non parlare più e non muoversi dal suo banco per sei ore?
-E la preside? - domandò Emanuele – Ancora si rifiuta di dare spiegazioni? Ma sa qualcosa, alla fine?
-Non ne ho idea – mormorò Mariolina – non ne ho proprio idea. Da un lato, se sa qualcosa e non ce lo dice, significa che non è nulla di grave. Dall'altro, se in realtà non sa nulla, perché continua a comportarsi come se sapesse?
Bianca non tornò da lui in aula ricevimento. E lui non avrebbe saputo come avvicinarsi a lei per parlarle; era sempre inespressiva o cupa, sembrava che non volesse nessuno attorno, che tutto le fosse diventato un peso. Nelle prove scritte era sempre la prima della classe, ma Emanuele temeva che non avrebbe aperto bocca in caso d'interrogazione.
Un giorno, dopo due settimane di quella situazione, Emanuele entrò in terza A durante la ricreazione.
La trovò lì, muta e immobile, a fissare i suoi compagni sotto di lei. Aveva l'espressione di chi aveva vissuto cent'anni.
-Bianca? - la chiamò.
Lei si voltò verso di lui. Nel suo sguardo, capì finalmente Emanuele, c'era odio. Malsopportazione. Era lo sguardo di chi ce l'aveva col mondo per qualche cosa e non ne poteva più di viverci in mezzo. Quello sguardo, anche se proveniva da una bambina di sedici anni, riuscì a intimidirlo.
Ma se lei se ne fosse accorta ne avrebbe approfittato, e così fece finta di nulla.
-Posso sedermi qui con te?
-Prego.
Si sistemò sul banco davanti al suo. Avevano poco tempo, per cui decise di non girarci attorno.
-Che cos'hai, da un po' di tempo a questa parte?
-Scusi?
-Ma sì. Non parli con nessuno, non esci nemmeno dalla classe... non mangi...
Non blateri più che mi ami follemente, avrebbe voluto aggiungere.
-Non lo so – rispose lei, inaspettatamente – mi sento così. Forse ci avevo investito troppe energie... in troppe cose, e ora... sono tutte fallite. Va sempre così. Ma è normale, per me andrà sempre così. Basta abituarcisi.
-Non è detto che andrà sempre così – protestò Emanuele – andrà meglio, sicuramente. Le cose non possono sempre andar male.
-Non ho detto questo, infatti.
-E allora cos'hai detto?
-Ho detto che io mi butterò a capofitto in milioni di progetti, ancora molte volte, prima di stancarmi. E poi succederà questo, di nuovo. Ogni volta.
-Succederà che cosa? Che non vadano in porto?
-Già. E che io stia così. I miei non mi lasciano più stare a casa.
-Perché?
-Perché mio padre dice che sono solo viziata e stupida, e che se mi vede a casa mi prende a calci in culo.
-No, intendevo, perché dovresti stare a casa?
-Perché qui non ci riesco a stare. Tra poco credo che non avrò nemmeno più voglia di parlarle.
-Ti do fastidio?
-No, no. È solo che... - scosse la testa, come se lui non avesse potuto capire – beh, lasciamo perdere.
-E se a me non andasse, di lasciar perdere?
Le sorrise. Lei, stupita, lo guardò.
-Prof – incominciò, atona – lei mi ha fatto capire molto chiaramente quali siano i suoi sentimenti, se di sentimenti si può parlare, nei miei confronti. Io non voglio la sua pietà. Non voglio un assistente sociale. Non voglio nemmeno un amico, e, anche se lo volessi, di sicuro non lo cercherei in lei. Le ho esplicitato in diverse occasioni che cosa io desidero dalla sua parte, e lei, in tutte quelle occasioni, mi ha ripetuto che non era possibile; il sunto di tutto ciò è che per quanto mi riguarda lei può tranquillamente lasciar perdere. Io sto bene così. Si dimentichi di me. Pensi a Camilla e al lavoro e al cane e a tutte le cose che la fanno sentire bene, e non perda tempo con una sedicenne problematica che non le procura altro se non brutti pensieri. Davvero, non la biasimerò. Farei la stessa cosa anch'io, al suo posto.
Emanuele si sentì enormemente dispiaciuto.
-E chi si occuperà di te, allora? - le chiese.
-Senta... - sembrava esasperata – come le ho già fatto presente, non ho bisogno di assistenti sociali. Non sono un cagnolino abbandonato in autostrada, e lei deve scendere una volta per tutte dal cavallo bianco.
-Non volevo darti quest'impressione...
-Ne abbiamo già discusso, delle sue 'impressioni'. Ma vuole sapere qual è la mia, di impressione? Ha presente La Piccola Principessa, dove l'indiano dell'abbaino di fronte vede che è sola, povera e triste, e le riempie la camera di belle cose e poi la adotta come se fosse figlia sua? Ecco; la mia impressione è che lei voglia fare questo. Bene: se lo scordi. Si scordi di poter fare il salvatore, si scordi di potermi aiutare in qualche modo. Lei non ne è in grado. Se mi ricambiasse, forse cambierebbe qualcosa, ma così non è, e quindi, se non può fare questo, grazie lo stesso, ma si faccia gli affari suoi.
-Bianca, smettila di essere così maleducata – insorse Emanuele. Iniziava a stancarsi di quei modi.
-Ah sì? - fece lei, con sfida – E perché? Lei sarebbe gentile con una che la rifiuta e poi pretende anche di essere la sua crocerossina?
-Ma rifiutare cosa?! Bianca, hai sedici anni, sei ancora troppo piccola per parlare di rifiuto.
-Oh, ma dai – sbottò lei – beh, meno male c'è lei, dall'alto della sua saggezza, che mi spiega cos'è l'amore. La prego, io mi fermo qui; lo faccia anche lei, prima di costringermi a dire cattiverie.
-Non costringere me a dirle – replicò a denti stretti Emanuele – e ti assicuro che ne avrei, nella mia cartucciera.
-Allora, onde evitare di dire cattiverie da entrambe le parti, mi faccia l'enorme favore di alzarsi e lasciarmi stare.
Lo guardò con odio. Lui restituì lo sguardo.
-Vedi di rivolgerti con più educazione ai tuoi insegnanti.
Lei ghignò con sarcasmo.
-È a questo che siamo arrivati? Lei che mi fa la predica sui miei modi? E magari se non sto zitta mi mette una nota? Ma lei non voleva essere quello diverso, l'amicone di tutti?
-PIANTALA – gridò, battendo una mano sul suo banco.
Lei lo fissò imperturbabile.
Perché doveva ricordargli ogni volta quanto fosse piccolo, stupido e fallito?
-La smetto se lei mi lascia stare. E adesso per favore, va bene così?, per favore, mi lasci stare.
Lei si girò di scatto e quell'enorme massa di capelli rossi le coprì interamente il viso.
Ma una goccia si schiantò sul banco con un rumore quasi impercettibile, ed Emanuele si sentì sprofondare. C'era davanti a lui una ragazzina di sedici anni che gli raccontava di essere stanca della vita, e lui le urlava contro perché gli aveva fatto notare che la trattava con condiscendenza.
Non avrebbe voluto fare l'insegnante severo. Non avrebbe nemmeno voluto porsi come un insegnante. Meno ancora, avrebbe mai voluto ferirla.
Ma questo era ciò che alla fine aveva fatto.
E se l'era presa con lei, solo perché non era stato in grado di corrispondere alle sue stesse aspettative su se stesso.
-Mi dispiace – mormorò – ho sbagliato.
-No – la voce rotta di Bianca emerse flebile dalla massa di capelli.
-Non volevo gridare. È solo che...
Come poteva spiegarglielo?
-Lo so. Lo so, cazzo. È solo che...
-Lo so.
Emanuele allungò una mano verso il suo banco. Soltanto una mano, non si mosse da dov'era. Allungò una mano e la pose sopra quella piccola e fredda di Bianca. Con il pollice ne accarezzò lievemente il dorso e le goccioline trasparenti continuarono a cadere sul banco, con un rumore quasi impercettibile.


*


-In bianco. In bianco, ti dico! Non mi è di sicuro simpatica, ma è sempre stata la mia alunna migliore.
Il vecchio Leandro era attonito. Scuoteva la testa di fronte al foglio protocollo vuoto. Non l'aveva nemmeno firmato.
-E cos'ha fatto tutto il tempo? - si stupì Sara.
-Ha guardato fuori dalla finestra. Quando le ho chiesto perché consegnasse in bianco, è tornata al suo posto in silenzio. Cosa volete che le dicessi?
-È successo anche a me – intervenne Rossella – non credo proprio che non fosse capace di svolgere il compito. Nemmeno una riga?
-In effetti, in classe non muove un dito – constatò Sara – da un lato, è meglio, perché finalmente si fa lezione in pace. Dall'altro, ho una studentessa che non parla, non scrive, non interagisce. È come se non ci fosse.
-Credo che dovremo aspettarcelo tutti, d'ora in avanti – ragionò Emanuele – non so, è come se si stesse... spegnendo.
-Sono preoccupata – asserì Sonia, con forza – sono veramente in pensiero.
-Non riesco a capire – Mariolina si massaggiò la tempia – che cos'ha? Possibile che sia depressione?
-Ma così, da un momento all'altro? Cosa può esserle capitato di così grave? - protestò Sonia. -Ricordati la faccenda del padre – le ricordò Emanuele.

-Sì, ma arrivare a questi livelli?
-In effetti, però, un po' di tempo fa l'avevo già vista così. Prima di quella lunga assenza. Un giorno. Poi è tornata ed era come prima. In realtà, quel giorno il suo umore sembrava piuttosto soggetto a sbalzi.
-E se fingesse...? - suggerì Mariolina – Se tutta quella vivacità fosse solo una maschera che nasconde la tristezza? Se quella che vediamo adesso fosse la vera Bianca...?
Tutti la guardarono, nessuno parlò. Velocemente il discorso cambiò e virò sul lavoro, sugli studenti, sulle riunioni.
Questo dava l'idea che Mariolina avesse centrato il bersaglio, e che nessuno di loro sapesse come affrontare questa nuova verità.

Passò un'altra settimana e Bianca non cambiò atteggiamento. Si avvicinavano le vacanze di Natale e gli studenti stavano affrontando l'ultima sessione di verifiche; Bianca riportò una serie di 'inclassificabili'. Tentarono di farle capire che una buona interrogazione avrebbe cancellato gli inspiegabili risultati delle prove scritte, ma lei si rifiutava di parlare. A volte rimaneva seduta al suo banco anche dopo l'orario scolastico.
Un giorno Emanuele, che si era attardato per parlarle dopo l'ultima ora, assistette ad una scena curiosa.
-Bianca – la chiamò Cappelletto, mentre gli altri preparavano gli zaini e si avviavano verso l'uscita – ehi, Bianca. Mi caghi?
Ma lei non si girava nemmeno. Il ragazzo s'intestardì e si posizionò sul banco davanti a lei.
-E adesso? Mi dai retta?
Nulla. Bianca non intendeva parlargli.
-Senti, dai, adesso basta fare la muta. Lo sai cosa dicono tutti? Che vuoi sempre attirare l'attenzione. Lo sapevi?
Se lo sapesse o meno, Cappelletto non ne ebbe mai la conferma. Lei taceva e nemmeno lo guardava in faccia.
-Non fare la figa misteriosa. Non sei figa e non sei misteriosa. Soprattutto non sei misteriosa, dato che te l'hanno vista tutti.
Emanuele sarebbe intervenuto, se non fosse stato così curioso di vedere il prosieguo di quella strana conversazione univoca.
-Ma perché non mi parli? Ti ho fatto qualcosa, io? Vabè, alla fine è vero che l'hai data a tutti, non ha senso che ti offendi. E poi, se mi avessi parlato prima non te l'avrei detto.
Lei si voltò nella sua direzione, ma tenne lo sguardo fisso sul banco.
-Cos'hai? Sei triste? Perché non parli? Guarda che puoi dirmelo. Magari ci facciamo un giro. Ci divertiamo. E poi ti passa.
Bianca aprì impercettibilmente la bocca, ma subito la richiuse e deglutì. Gli occhi le si fecero lucidi. Cappelletto sembrò agitarsi.
-Cos'hai? È perché ti ho detto... ma dai, a me sei simpatica lo stesso. Non importa! Dai, non fare... oh, porco ***. Daaai! Bianca!
-Ma tu chi sei...? - mormorò lei, tanto piano che Emanuele faticò per sentirla, nonostante l'aula semivuota.
-Come, chi sono? Sono Cappelletto, sono. Detto Cappellotto. Non volevi vederlo, il mio cappellotto?
-Ma chi sei? - insistette lei, tra le lacrime. Lo disse con una vocina tanto indifesa che perfino Cappelletto rimase spiazzato un momento, prima di riprendersi e dare un'interpretazione.
-In che senso...? Vuoi dire... chi sono io per chiederti di uscire? Beh, allora vaffanculo, Ferreri, io lo dicevo per te. Cosa vuoi che me ne freghi di uscire con una troia.
-Cappelletto – intervenne finalmente Emanuele, con voce ferma – fammi un piacere. Vai a casa e lascia stare Bianca.
-Ma prof, questa qua è una stronza.
-Cappelletto, ci arrivi o no? Bianca non sta bene. Lodevole l'intenzione di portarla fuori, ma se lei non vuole ci sono modi migliori di reagire. Abbi un contegno.
Cappelletto borbottò qualcosa, ma alla fine mormorò delle scuse in direzione di Bianca e raccolse lo zaino per poi andarsene.
Emanuele si avvicinò a Bianca piangente. Stavolta le si sedette accanto. Le posò una mano sulla spalla, poi, vedendo che non accennava a smettere, la circondò col braccio e la strinse vicino a sé.
-Cos'hai? - le chiese dolcemente.
-Non lo so – singhiozzò – voglio andare a casa. Voglio stare a letto. Non voglio venire qui!
-Stare a letto a fare cosa?
-Voglio solo dormire in pace.
In effetti, era accaduto diverse volte che si addormentasse in classe, a volte per ore intere.
-Ma Bianca, dormi continuamente. Non ti basta dormire la notte?
-Voglio stare in pace – ripeté, tirando su col naso – voglio andare a letto. Mi porti a casa, per favore.
-Ma i tuoi vogliono che tu vada a casa. Se ti trovano a casa a dormire, si arrabbiano.
-Ma io voglio andare via – pianse lei, disperatamente, ed Emanuele non seppe più che pesci pigliare.
-Se ti porto a fare un giro, sei contenta?
-No – si lamentò, asciugandosi le lacrime dalle guance – mi porti a casa. Per favore. Voglio andare a letto. Qui ho freddo.
-Beh, potresti vestirti un po' di più, per esempio.
-Non posso – bisbigliò, sfregandosi gli occhi e sbavando trucco nero dappertutto.
-Che cos'hai, Bianca? - tagliò corto Emanuele – Come posso aiutarti?
-Voglio andare a letto – piagnucolò, e poi si nascose il viso tra le mani.

-Rimani pure a casa, stavolta. Dubito le importi. Non so cosa fare, la porto da noi.
-Ma certo. Le preparo il letto in mansarda.
Osservò Bianca al suo fianco che dormiva, appoggiata alla sua spalla. Aveva dovuto sorreggerla in autobus, andando verso la stazione. In treno si era addormentata profondamente, mentre Emanuele sfogliava Fatherland senza davvero riuscire a concentrarsi.
Quando arrivarono alla loro fermata, faticò a svegliarla. Si alzò svogliatamente e ci misero un tempo lunghissimo ad arrivare fino a casa. Lì, Camilla li accolse cercando di nascondere la sua preoccupazione.
-Ho preparato un po' di the caldo, se ne volete una tazza – esordì, guardando prima lui, poi Bianca, poi lui, poi Bianca.
-Io sì, grazie. Bianca? Vuoi?
-No, grazie – mormorò lei, intimidita. Non guardò nemmeno in faccia Camilla.
-Ti abbiamo preparato il letto in mansarda, se vuoi dormire. Vuoi che ti porti di sopra?
-Sì, grazie – fece lei con sollievo.
-Dammi pure il cappotto. Ecco qua – la aiutò a sfilarlo, lo appese all'attaccapanni in entrata – su, andiamo. Ti mostro anche dov'è il bagno.
Si avviarono su per le scale, tappezzate di foto dalla loro adolescenza in poi. Bianca non ne guardò neanche una. Continuò a fissare le scale per due rampe, finché non furono arrivati.
-Prego. Vuoi un pigiama, un qualcosa?
-No – mormorò lei – grazie. Tolgo solo i vestiti.
-Come vuoi. Il bagno l'hai visto. Se hai bisogno di qualunque cosa, hai fame, sete, qualunque cosa, chiamaci pure. Solo, avverti i tuoi genitori che non torni, ok?
-Ok – fu la flebile risposta, poi lei iniziò a levarsi il maglione. Emanuele uscì dalla stanza e socchiuse la porta.
Giù in cucina l'aspettava una Camilla sbalordita.
-Ma questa è la Bianca iperattiva che non sta mai zitta? - esordì – Cioè, è sempre lei... vestita a quel modo, con quei capelli... ma... cosa le hanno fatto? Sembra un morto che cammina. Hai visto com'è magra?
-Ci credo, non mangia mai. Non so se a casa le diano da mangiare, ma io non l'ho mai vista comprarsi un panino o portarsi un pacchetto di crackers.
-Ma cos'ha? È depressa?
-Non lo so... non lo so davvero. Conosci i criteri diagnostici?
-Non alla lettera, ma so che dormire così tanto è un campanello d'allarme. Il fatto che non parli e non abbia voglia di fare nulla, poi, avvalla questa teoria.
-Non credo – Emanuele scosse la testa – la depressione, per quanto ne so, ha un decorso piuttosto lungo. Bianca è così da poche settimane. Diventa così di punto in bianco, ma di solito è allegra. Non credo sia depressa. Mariolina, però, suggeriva che la sua allegria sia solo una maschera... che voglia nascondere la tristezza che in realtà prova.
-Ma allora, perché non lo fa anche ora?
-Perché forse non ce la fa più? Non lo so. Voglio dire, non è successo tutto consequenzialmente. Un momento è così, un momento è colà...
-Forse è solo adolescente, e vivendo in una famiglia problematica il risultato è questo.
Camilla, dopo quest'ultima considerazione che lo lasciò senza ulteriori alternative, si alzò e versò il the bollente nelle tazze. Camilla amava il the; avevano una mensola interamente occupata da vasetti di the in foglie, dei gusti più disparati. Quello di adesso era al finocchio e liquirizia. Si mischiavano i gusti come in un cocktail, pensò Emanuele.
-Intendi parlarci? - riprese Camilla all'improvviso. Emanuele diede un piccolo sorso prudente.
-Non è che si possa parlarci molto. Mi fa impazzire, mi ricorda che... che fallisco nel mio intento, nel mio lavoro. E mi chiedo sempre se mi sento un fallito per colpa sua, che fa di tutto per farmici sentire, o per colpa mia, perché non riesco ad essere ciò che vorrei. Ma alla fine sono codardo e preferisco sempre dare la colpa a lei.
Si rabbuiò. Camilla gli prese una mano, come lui aveva fatto prima con Bianca a scuola.
-Non accusarti così duramente. Lei ti mette alla prova, ti porta al limite... diciamocelo: non è una ragazzina normale. È ovvio che ti confonda.
Ma non era quello. Non era solo quello.
Lui aveva tradito Camilla; ed era colpa di Bianca, che l'aveva provocato, o colpa sua, che non aveva saputo trattenersi? E ancora: aveva aggredito una ragazzina di sedici anni con evidenti problemi. Era colpa di quella ragazzina, che dava fuori di matto al punto che non la si poteva controllare, o era colpa sua, che non sapeva controllare se stesso e per estensione neanche quella ragazzina?
Certo, lei lo spingeva, ma perché lui non riusciva ad opporre resistenza? Era una colpa, o una debolezza? Era lei troppo forte, o lui troppo fragile?
-Il punto è che non riesco ad aiutarla. Nonostante ce la metta tutta... nonostante le offra il mio aiuto... lei rimane lì, con le sue lacrime e i suoi silenzi e le sue scopate. E io mi sento inutile.
-Non dovresti basare la tua autostima su di lei. Ricordati che ha sedici anni, è soggetta a sbalzi ormonali e umorali, e per di più è evidente che la situazione a casa non le fa affatto bene. È emotiva, difficile, contorta... chi potrebbe aiutarla? Per di più, mi sembra che lei non voglia essere aiutata. Mi sembra voglia che la lasciate sola.
-E solo perché lei lo vuole, io dovrei acconsentire? Questo non è 'gettare la spugna'? Non posso fare una cosa del genere. Che uomo sarei, Camilla? Che insegnante è uno che non dà tutto se stesso per i suoi studenti?
-Un buon insegnante, direi – replicò lei tranquilla. - Ascolta. Non devi fartene carico. Tu sei il loro insegnante, non loro fratello. Se continui a prenderti responsabilità per loro, è chiaro che starai male, perché ti dai delle colpe che non hai. Primo: non sta a te occuparti della loro stabilità emotiva. Secondo, posto che tu voglia farlo, non hai alcuna colpa se non riesci a rimettere a posto ciò che si è rotto. Non sta a te, e in certi casi non è possibile. Questo è uno di quei casi.
-Oggi mi ha detto di scendere dal cavallo bianco – mormorò, passandosi una mano sulla fronte – capisci? È lei a sapere, a dirigere. Io sono il sedicenne e lei è la trentenne disillusa.
-Ehi, ehi – Camilla gli prese il viso tra le mani – resetta tutti questi pensieri. Ti sta facendo del male, te ne rendi conto? Ti sta portando nel posto dov'è lei.
-Un giorno me l'ha detto – mormorò ancora – me l'ha detto, che non voleva portarmi nel posto dov'era lei. È solo che...
-... che vuoi sapere dov'è quel posto.
-Già. Nonostante tutto, voglio ancora saperlo. E provare ad andarci, per vedere se posso portarla via di lì.
Camilla sorrise amaramente.
-E a me sta il compito di aspettare qui, guardandoti deprimere ogni giorno di più per lei?
-No – Emanuele si risvegliò – no. Non voglio... no. Assolutamente. Abbiamo costruito così tanto assieme; non voglio rovinarmi la vita per lei.
-Lo sai che non puoi seguirla senza farti del male, vero?
Abbassò la fronte. Sospirò.
-Lo so – rispose.
Continuarono a sorseggiare i loro the bollenti, senza sentirne il sapore perché ad ogni sorso si scottavano la punta della lingua.

Si accorse di Bianca quando andò al primo piano per prendere un libro dallo scaffale. Sentì dei singhiozzi sommessi provenire dal piano superiore; percorse le scale fino alla mansarda e la trovò che piangeva infagottata sotto la trapunta.
-Cosa succede? - Si precipitò accanto a lei. - Ehi. Perché piangi?
Piccoli singhiozzi continuarono a scandire i secondi. Le accarezzò i capelli secchi e sfibrati.
-Bianca? - sussurrò – Perché piangi? Dimmelo. Vediamo se si può rimediare.
-Noo – replicò lei, girata dall'altra parte.
-Ma forse sì. Sono un po' più grande di te per un motivo, no? E magari conosco un metodo che tu non conosci.
Non ci fu risposta, solo altri singhiozzi. Le tirò dolcemente una ciocca rossa.
-Avanti, dimmelo. Intanto dimmelo, così almeno capisco.
Ci fu un po' d'esitazione, ma alla fine riuscì a captare la parvenza di un discorso.
-P... perché... io... lei ha Camilla... la casa... io... uh... e ogni volta... e penso di farcela, e invece... e non posso dormire a casa... e lei non... io volevo... ma lei non... - scoppiò a piangere di nuovo.
-Camilla e la mia casa? Ti fanno stare male?
Lei annuì con foga, stringendosi nelle coperte.
-Beh, ma sapevi fin dall'inizio che ho una fidanzata e una casa. Non immaginavi che le avresti viste, venendo qui?
-Sì, ma...
-E quanto a 'farcela', farcela a fare cosa? Non mi sembra che tu avessi una missione da compiere, o no? E anche se l'avessi, che importa se non ce la fai? Sai quanta gente non ce la fa a fare cose semplicissime, eppure va avanti lo stesso? Capita a tutti ogni giorno: provarci e non riuscire. E allora che fai, ti inchiodi lì piangendo? Lascia perdere e prosegui, no?
-Uh...
-E quanto a dormire, be', puoi dormire un po' ovunque, deve essere proprio a casa?
-Ma non...
-E quanto a me che non ti ricambio: quanto scommettiamo che passa? Mi dai retta che forse io ci sono passato prima di te?
-Non è quello...
-No, lo so che non è quello. Non è questo a ferirti così tanto. È qualcos'altro al quale io non ho accesso. Giusto?
Lei annuì ancora.
-Pensi che si possa risolvere, questo qualcosa?
Silenzio.
-Ehi? Pensi che possiamo farcela?
-Non so – si limitò a mormorare lei, e poi si strinse ancora di più tra le coperte.
Continuò a piangere piano, ed Emanuele non seppe cosa fare.
-Vuoi che rimanga? - chiese, titubante.
-Non serve – bisbigliò lei – passerà. Non cambia anche se lei rimane. Vada tranquillo.
-Stai tranquilla – mormorò, dirigendosi verso al porta. A quelle parole lei singhiozzò forte, e poi si avvolse la trapunta addosso quasi avesse voluto soffocarci dentro.
Emanuele si sedette fuori dalla porta, e dopo un po' Camilla lo raggiunse. La ascoltarono piangere per un'ora, assorti nel silenzio, tenendosi forte per mano. Poi si allontanarono, e, quando tornarono un paio d'ore dopo, lei stava ancora piangendo.
Nessuno dei due lo disse, ma sapevano che non aveva mai smesso.
Si parlarono solo quando arrivarono in cucina, quasi dovessero proteggersi dalla presenza di Bianca.
-Sono preoccupata – mormorò Camilla, fissando il tavolo – non va bene. Non so cos'abbia, ma ha bisogno di aiuto.
-Non so cosa dirti. Vago nel buio. Sembra che abbia perso ogni speranza.
-Capisco perché non riesci a lasciarla perdere.
-Sì?
-Ti stringe il cuore. Ed è difficile non amare il personaggio drammatico, vero? Non ci riesco neanch'io, nonostante odi il modo in cui ti coinvolge e ti fa soffrire.
-Non possiamo dare la colpa a una sedicenne in queste condizioni.
-Ma allora è sempre colpa di noi adulti? - insorse Camilla – Possibile che dobbiamo lasciare che ci facciano impazzire, senza poter puntare il dito contro nessuno?
-Ora mi capisci.
-Sì – mormorò Camilla, abbassando gli occhi – ora ti capisco.

Quando gli parve che avesse finito di piangere, Emanuele le disse di vestirsi, ché l'avrebbe riportata a casa. Lei obbedì silenziosamente, e, sempre silenziosamente, salì in macchina. A Camilla aveva dedicato un debole “arrivederci, scusi il disturbo”, a cui lei aveva risposto con un sorriso.
Durante il viaggio tacque, non dormì, ma non disse nulla; notò però che continuavano a scenderle lacrime dagli occhi, anche se non singhiozzava e il suo volto rimaneva inespressivo. Sembrava impotente di fronte a qualcosa più grande di lei.
La guardò strascicare i piedi verso casa; aprì svogliatamente il portone e scomparve dietro il vetro a specchio. L'aveva salutato debolmente, come se fosse esausta e non aspettasse altro che di riposarsi un po'.

La settimana seguente, quella prima delle vacanze, fu difficilissima per tutti. Bianca piangeva durante le lezioni, non parlava, si addormentava. Alla proposta di convocare i genitori Emanuele reagì opponendosi fermamente, ricordando l'episodio della violenza.
-Ma non possono non essere informati della figlia che piange in continuazione – protestò Sonia – non è possibile che continuino a far finta di niente di fronte a un problema di questa portata.
-L'opinione del padre è che lei sia una stupida viziata che fa scene – sospirò Emanuele – probabilmente sanno che succede, ma la mandano a scuola comunque.
-E allora è nostro dovere informarli che non è il caso!
-Sonia, non possiamo fare molto – intervenne Mariolina – se i genitori non vogliono, non li possiamo di certo costringere.
-Ma saranno costretti almeno a pensarci, se interveniamo noi.
-Adesso ci sono le vacanze di Natale – tentò di mediare Antonella – magari quando tornerà starà meglio. A sedici anni tutto il nostro mondo può cambiare da un momento all'altro, per motivi che magari a noi appaiono futili. Ma a loro, chissà...
Annuirono tutti con partecipazione. La partecipazione non esprimeva tanto l'accordo, quanto il desiderio che Antonella avesse ragione. Che fosse l'età. Che fosse, se non gestibile, quantomeno passeggero.
Le vacanze arrivarono senza più occasioni per parlare con Bianca, ed Emanuele si chiese che Natale avrebbe passato.

Quanto a lui, passò delle vacanze da sogno: finalmente libero dai pensieri, riuscì a godersi Camilla, i suoi genitori e i suoi amici. Passò il Natale tra parenti, con i pro e i contro di tali ricorrenze, e finalmente passò giornate intere con la sua fidanzata tra il centro città, le case in montagna degli amici e la sua casa, dove finalmente poterono fare l'amore senza il pensiero della sveglia alle sei e mezza il giorno dopo.
I bagordi di Capodanno si svolsero nella baita di un amico a Vigo di Cadore, all'insegna del buon vino e della buona compagnia. Finalmente, dopo tanto tempo, Emanuele poté godersi un po' di spensieratezza, lontano da Bianca, dai compiti e dagli spostamenti in treno. Non gli sembrava vero di passare del tempo con adulti, adulti che gli piacevano, per di più. Non che si trovasse male con i suoi colleghi, ma i colleghi non si potevano scegliere, mentre gli amici sì: passò dei giorni sereni discutendo di libri letti, film visti, prossime mostre, raccontando aneddoti sui suoi studenti senza però mai menzionare quella a cui era più legato, quella su cui avrebbe potuto raccontare aneddoti infiniti. Lo doveva a Camilla. Passò con lei giornate tanto belle che pensò che probabilmente gli era stata grata per non averla inserita nelle loro vacanze di Natale.
Eppure, pensò molto a Bianca in quei giorni. Pensò a lei che piangeva, al padre che la picchiava, alla madre che la puniva. Si chiese se per lei ci fossero state tavolate allegre con parenti idioti. Si chiese se si fosse divertita a Capodanno, se l'avesse passato con amici, oppure con gente interessata soltanto a ubriacarla e portarla a letto. Il giorno dell'Epifania non poté fare a meno di pensare a lei, di pensare che avrebbe voluto portarle qualche torroncino e i marshmallows.
Sapeva che anche Camilla pensava a lei, ma il loro tacito accordo di non farla entrare in quei giorni felici rimase solido fino al sette gennaio, giorno in cui entrambi ritornarono al lavoro.
La notte del sei gennaio rimasero svegli a lungo, la dolce chiusura di venti dolcissime giornate.








(Nda: salve ^-^! Stavolta ci ho messo un po' di più, vero ^^? Pardon, pardon u_u.
CTA gli altri personaggi sono così orribili che mi commenti solo Camilla XD?
Piaciuque: lieta che tu abbia gradito ;D spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto ^^
Yuki: no, non sbagli XD c'è ancora tanta carne da mettere al fuoco. Grazie mille dei complimenti ^_^.
Dance of Death: oddio ma mi hai recensito i due capitoli *_* *commozione* grazie ;.;! Mi fa piacere di essere riuscita a rendere esattamente ciò che mi ero riproposta e che i personaggi siano almeno un po' coinvolgenti. Grazie dei dolcissimi commenti ^_^!
Pnin: addirittura da attraverso l'Atlantico, azz che invidia ._. spero che questo capitolo sia riuscito a renderti un po' più simpatico Emanuele, dato che ne rappresenta sostanzialmente il dramma rispetto a Bia :) comunque dalle scene Cami-Bia non aspettarti delle catfight, non vedremo mai donne che si strappano i capelli nel fango per Ema XD questa proprio mettetevela via XD!
Grazie a tutti per i vostri commenti, fav e letture :*! Buon weekend ^___^!)

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


-Amore, svegliati. Sono già le otto... amore. Ehi.
Camilla lo svegliò con un bacio sul collo. Si sentì accarezzare la fronte. Con fatica, aprì gli occhi.
-Uh...
-Su, è ora di alzarsi. Io sono già pronta. Ti ho lasciato il caffè in cucina, fai presto prima che si raffreddi, ok? - Camilla lo baciò teneramente su una guancia. - Vado. A stasera, amore.
-Nnngh...
Si stiracchiò, e, nel farlo, riuscì ad accarezzare una mano di Camilla che si stava allontanando. A fatica, uscì dal suo bozzolo caldo di coperte e si avviò rimbalzando pesantemente giù per le scale. Rabbrividendo, raggiunse la cucina, dove la tazzina di caffè tiepido non riuscì a rinfrancarlo del tutto. Una doccia calda risolse parzialmente il problema, ma rimaneva il fatto che avrebbe dovuto affrontare quattro ore di lezione con ben poche ore di sonno alle spalle. Purtroppo, non poteva spiegare ai suoi studenti che anche gli insegnanti qualche volta facevano sesso.
Giacca, camicia, jeans e ventiquattr'ore: questa la sua corazza da combattimento. Qualche volta, in estate, si presentava in polo, jeans e Converse, ma la direzione era piuttosto severa su certe cose; preferivano un abbigliamento meno informale.
Arraffò da uno scaffale Americana, che aveva comprato il mese prima e non aveva ancora letto, e si gettò strizzando gli occhi nel freddo pungente di una mattina di gennaio. Per fortuna, qualche timido raggio di sole gli regalò un po' di tiepida dolcezza.
Alle nove era già più piacevole fare il pendolare; c'era la luce del giorno, c'era meno gente sui treni e più gente per le strade, in generale si sentiva più un viaggiatore che un prigioniero.
Quando arrivò a Padova sedette al piccolo bar di fronte alla scuola, ordinò a Sofia un cappuccino con brioche alla crema, e se li gustò pacificamente mentre leggeva il giornale. Poco dopo fu raggiunto da Rossella ed ebbe modo di scambiare due chiacchiere. Quando suonò la terza ora, ormai era ben disposto nei confronti del mondo: avrebbe salvato Bianca, la terza A e il pianeta Terra, poteva farcela a fare qualunque cosa.
Salì le scale fischiettando, e salutò allegramente tutti gli studenti che incrociò. Nell'avvicinarsi alla terza A, gli parve di sentire un frastuono che non gli capitava di udire da molto tempo.
-Stronza! Puttana! Troia! Sparisci dalla mia vista perché altrimenti ti spacco quella faccia di merda!
-Stai tranquilla...!
-NO! Io la ammazzo questa sboldra del cazzo!
-Lasciala...! Guarda che ti mettono una nota!
-NON ME NE FREGA UN CAZZO! Io la distruggo questa baldracca!
Emanuele si sentì mancare, ed incrociò lo sguardo di Leandro che stava uscendo dalla classe di fianco. Boccheggiò come un pesce, senza riuscire a reagire, ma per fortuna il vecchio Leandro aveva nervi saldi, quindi infilò la testa nella terza A e, dopo un decimo di secondo, vi entrò precipitosamente, ed Emanuele udì la sua voce rauca urlare:
-Ferma lì, signorina! Lasci la Ferreri. Guardi che la faccio sospendere!
-Mi sospenda! Ma prima la mando all'ospedale!
-State calmi! Per l'amor del cielo. Che Dio vi fulmini tutti quanti! Andate al vostro posto.
Emanuele si precipitò in suo aiuto; a passo di marcia si diresse verso la terza A, spalancò la porta e si guardò attorno.
La scena era da film: Cappelletto e Crivellaro tenevano ferma per le braccia Monica Miotto, che, con gli occhi iniettati di sangue e i pugni chiusi che stringevano un paio di ciocche rosse, cercava con violenza inaudita di lanciarsi verso Bianca.
La quale, seduta sul suo banco a gambe accavallate, ghignava spudoratamente davanti a quella furia omicida.
Emanuele, reduce da una notte quasi insonne, per un attimo si chiese se stesse ancora sognando, o se il tempo fosse tornato indietro quella notte, oppure se il mese scorso avesse avuto una lunga, assurda allucinazione.
-Buongiorno, Leandro – esordì, serio, guardandosi attorno – ragazzi, che cazzo state facendo?
-La Ferreri si è fatta il moroso della Miotto – spiegò Crivellaro – abbiamo cercato di spiegare alla Miotto che tanto la Ferreri si è fatta tutti e tutti si sono fatti la Ferreri, quindi non conta... ma non ci dà retta.
-È una sorta d'iniziazione – sorrise amabilmente Bianca, osservando Monica che allungava cinque dita armate di french nella sua direzione – Miottina, non te la prendere, non era niente di personale.
-SE NON CHIUDI QUELLA FOGNA TE LA CHIUDO IO!
-Ti spiace se preferisco farmela chiudere dal tuo fidanzatino?
-Bianca! - la riprese – Ohi. Ma siamo tornati in seconda media? Ragazze, per cortesia, se volete fare una catfight fatela alla fine della sesta ora, quando non siete sotto la mia responsabilità e se vi cavate un occhio sono solo cazzi vostri.
-Figata! Combattimento tra passere!
-Emanuele, te la cavi da solo?
-Sì, grazie, Leandro, vada pure. Ho affrontato scenari peggiori.
-Va bene – borbottò l'uomo, poi lanciò un'occhiata a Bianca – è appena tornata, e già fa il disastro...
Ma Bianca non sembrava affatto turbata. Continuava a trattenere le risate guardando Monica dall'alto del suo banco, dondolando la gamba fasciata appena da un paio di calze trasparenti e da un paio di tronchetti neri, che coprivano ben poco.
Non aveva idea di come fosse successo, ma Bianca era tornata.

-Ragazzi, io capisco che la Divina Commedia non è come leggere... beh, cosa leggete, voi? Twilight? E voi ragazzi? Ma certo, voi non leggete. Beh, insomma, sono d'accordo che ci siano modi migliori per passare il tempo. Ma io devo passare due ore qui. E devo farlo spiegandovi questo canto. Perché non me lo lasciate fare?
Ci fu un improvviso silenzio. Tutti si guardarono attorno, Monica guardò Bianca in cagnesco. E poi parlò.
-Prof – incominciò, nervosa – lei ce l'ha una tipa? O una moglie?
-Sì, Monica, ho una fidanzata.
-Ecco. Se uno arriva e si porta a letto la sua fidanzata, lei non ha voglia di spaccargli la faccia?
Ci rifletté un attimo.
-Sì – rispose infine – prima di spaccargli la faccia, oltretutto, faccio in modo che non potrà mai più portarsi a letto nessuno. Ma in quel letto erano in due, no? Quell'estraneo mi manca di rispetto, ma la mia fidanzata ha tradito la mia fiducia. Per cui, sicuramente me la prenderei con lei, prima che con l'altro.
-Sì, ma la Ferreri ce l'ho qua, e intanto spacco la faccia a lei.
-Ma perché, Bianca cosa ti ha fatto? È più facile prendersela con lei, anziché accettare che la persona di cui sei innamorata non ti ricambia? È comprensibile, ma è infantile. È una di quelle cose che impari più o meno nell'arco del triennio, se hai la fortuna di viverle finché sei giovane. Monica, guarda, ringrazia che sia successo adesso. Più tardi succede e peggio è, credimi.
La ragazzina tacque, più che altro spiazzata. Emanuele sapeva che altri insegnanti non si sarebbero di certo sprecati a dare consigli di ordine sentimentale e ad ascoltare il problema dalla sua voce, e sapeva che a tendere una mano avrebbe avuto indietro i suoi frutti. Riprese a parlare.
-Sentite, lo so che a sedici anni ne succede una ogni giorno; per la verità ne succede una ogni giorno anche a trenta, solo che sono più noiose. Chiariamoci: non è che io ogni tanto non pensi ai cazzi miei mentre vi spiego questa roba. Ma possiamo sforzarci da tutte e due le parti? Cioè, cazzo, lo so che stai male, Monica, e lo so che tutti voi vorreste fare tutt'altro, ma dobbiamo fare questo, e lo dobbiamo fare assieme. Fatemi un favore.
Puntò lo sguardo su Bianca, che sorrideva, dondolava le gambe accavallate e fissava qualcuno con aria maliziosa. Poi lei si voltò e lo guardò, e quando si accorse della sua espressione, si affrettò a raddrizzarsi e puntare una mano sulla fronte, a mo' di saluto militare.
Ma si calmò.
Volarono ancora occhiatacce e ghigni, e Bianca non fece che rotolarsi nel banco senza mai trovare un attimo di requie, ma la lezione finì, e suonò il primo intervallo del nuovo trimestre.

-SEI UNA STRONZA! SEI UNA PUTTANA! Lo sai da quant'è che stavamo assieme? Lo sai?!
-Abbastanza perché lui si annoiasse – buttò lì Bianca, noncurante.
Emanuele era di turno per controllare i corridoi, e si era appostato esattamente fuori dalla terza A. Era piuttosto interessato alla faccenda, e, soprattutto, al cambiamento di Bianca.
-Lui era innamorato di me! E poi sei arrivata tu e hai rovinato tutto!
-La frase che hai appena detto è semanticamente interessante, sai? Analizziamola. Punto uno, per favore, qualcuno la tenga ferma: hai usato l'imperfetto, lo sai?, quindi vuol dire che secondo te non è più innamorato. Non vedo dunque perché insistere con questo tipo. Punto due: era innamorato? Sì? Allora perché è venuto a letto con me? Punto tre: come ha detto Vettorel, in quel letto eravamo in due. Perché ti incazzi con me? Io cosa ti dovevo? Sono tua amica, me ne frega qualcosa di te? No. E a te frega qualcosa di me? No. A lui, invece, avrebbe dovuto fregargliene qualcosa, di te. Ma non glien'è fregato, nonostante steste assieme. Io mi incazzerei di più con lui, poi vedi un po' tu.
-Io ti spacco il culo a te.
-E allora non hai capito niente del mio discorso, vendo perle ai porci. Mettiamola così allora: mi dispiace, Miottina, di essermi portata a letto il tuo morosetto. Mi dispiace soprattutto che tu sia persa di uno che con ogni evidenza non ti corrisponde. Detto ciò, l'imputata chiede il permesso di abbandonare l'aula.
-Tu non vai da nessuna parte!
-Oh, sì che ci vado, figurati se perdo dell'altro tempo. Ho voglia di un caffè. Vuoi anche tu? Te lo offro, in segno di pace.
-CREPA!
-Vaaabé.
Bianca abbandonò l'aula saltellando. Emanuele la osservò mentre superava lo stipite; non si accorse di lui, quindi tirò dritto seguita da Cappelletto, che la tirò per una manica.
-Bianca – la fermò, e lei si girò sorpresa – ohi, ferma. Stai mai ferma un minuto?
-Mai – sorrise Bianca di rimando – cosa c'è, Cappellotto?
-Eh, cosa c'è. Te lo chiedo io cosa c'è. Cosa ti è successo?
-Prego?
-Ma sì, dai, il mese scorso non mi guardavi neanche in faccia, non parlavi... e adesso sei... sei tornata.
-Eh, sì, sono tornata, sei contento, Cappellotto? - gli tirò una guancia, lui si allontanò stizzito – Guardalo, che si vergogna. Dì la verità, senza di me che ti chiedo di mostrarmi il cappellotto non è la stessa cosa, eh?
-Mah. Si sta bene lo stesso.
-Non ci credo. Quando mi mostrerai il cappellotto ti assicuro che sarà indimenticabile, e che da quel giorno in avanti confronterai tutte le altre a me per il resto della tua vita, anche quando sarai sposato e crederai e fingerai di essere innamorato e i tuoi figli ti domanderanno del tuo primo amore e ti verrò in mente io prima di lei e ci sarà una musichetta angosciante e tu...
-Eh?!
-Dai, andiamo a prendere il caffè, Cappellotto – gli passò un braccio attorno alle spalle e lo fece saltellare con lei fino al piano di sotto.
Emanuele incrociò lo sguardo di Sonia, che stava accingendosi a imboccare le scale. Non riuscirono nemmeno a boccheggiare. Scossero la testa, scrollarono le spalle e tornarono ognuno alle proprie faccende, con una mano premuta sulla tempia per evitare che la vena scoppiasse.
Quando più tardi Bianca tornò in classe, senza Cappelletto, accadde l'inevitabile: Monica, che si era appostata dietro la porta, l'afferrò per il collo e, urlando a più non posso, la riempì di schiaffi in viso e le sbatté la testa contro il muro.
Ne fu informato da Giulia, che, dall'alto del suo metro e ottantasette, aveva preso Monica per le braccia, gliele aveva storte dietro la schiena e l'aveva trascinata, a mo' di prigioniera, al cospetto di Emanuele, responsabile del primo piano del lunedì.
-Prof, ha assalito la Ferreri – spiegò nervosamente – credo che le abbia fatto male.
-Va bene, Giulia, puoi lasciarla andare ora.
-No. Questa ragazzina ha bisogno di polso – decretò la ragazza, e le diede una scrollata. Emanuele faticava a mantenere la serietà, ma doveva.
-Va bene, senti, intanto portala dalla preside e spiega cos'è successo. Io arrivo tra poco.
-Andiamo – ordinò Giulia, e con un calcio sul tallone spedì Monica in direzione delle scale.
Emanuele si passò una mano sulla fronte, poi si avventurò all'interno dell'aula.
-Bianca?
Bianca era seduta per terra, e si stava massaggiando la testa.
-Ehi – le si inginocchiò di fianco – tutto a posto? Cos'è successo?
-Eh, mi sa che si è incazzata, prof.
-Eh, ma te un pochetto te le cerchi, Bianca, sì o no?
-Sì, prof – fece un sorriso buffo, con aria colpevole. Non riuscì a non sorriderle di rimando.
-Ragazzi, cosa le ha fatto? Di preciso? Bisogna riferire tutto alla preside.
-Le ha fatto quello che si meritava – fece una ragazza dal fondo dell'aula, e alcuni ridacchiarono.
-Non vi sto chiedendo cosa ne pensate, ma cos'è successo. E con obiettività, grazie.
-Praticamente l'ha presa per il collo, le ha urlato contro che era una baldracca, le ha dato un bel po' di schiaffi sul muso e poi tenendola per il collo l'ha sbattuta un po' di volte con la testa contro il muro.
-Grazie, Valeria. Confermate tutti?
Confermarono, e Bianca rimase lì, tranquilla, guardandosi attorno.
-Va bene, ok. Porto un attimo Bianca giù dalla preside, che dobbiamo risolvere la cosa con Monica. Voi per favore, per favore, vi prego, state calmi. Almeno voi, ve ne supplico.
-Ci penso io, prof – fece Alberto Benetazzo, un metallaro alto un metro e ottanta ricoperto di pelle e ferraglia. Si batté un pugno sul petto e guardò Emanuele con un'aria che voleva essere rassicurante.
-V... va bene, Benetazzo. Ok. Ma niente borchie e catene, ok? Solo confronti verbali e civili.
-Peace and love, prof. Nessuno toccherà nessuno con un dito.
-PORCA PUTTANA, PROF – Giulia entrò in aula come una furia – ho incontrato Cappelletto per le scale – ansimò – gli ho raccontato di Bianca... cazzo, prof. Ha spaccato il naso alla Miotto con un pugno!

In ufficio dalla preside si ritrovarono in cinque.
La preside guardava tutti e tre con tanto d'occhi, e non riusciva a trovare le parole per cominciare il discorso.
Bianca si guardava attorno incantata, leggendo i titoli dei libri e scorrendo con le dita le copertine dell'enciclopedia di fianco a lei.
Monica si tamponava il naso rotto con un fazzoletto fradicio di sangue, mentre aspettavano che arrivasse l'ambulanza.
Tra le due, Cappelletto, intento a rosicchiarsi le unghie con passione fervente, che faceva schizzare uno sguardo nervoso in tutti i lati della stanza.
E, dietro i tre, Emanuele, che ogni venti secondi tirava fuori il fazzoletto per nascondere le risate che gli venivano spontanee dietro una penosa imitazione di starnuto.
-Preside, mi dica cosa devo fare, che tra poco mi vengono a prendere – biascicò Monica, tra le lacrime.
-Sì – Giovanna si riprese – beh, è evidente che tu sarai punita. Hai aggredito la compagna e l'hai fatto in modo molto violento. Sospensione, anche se mi dispiace. Dieci giorni.
-Ripeterò l'anno? - Monica iniziò a piangere.
-Non ne sono sicura, ma è molto probabile. Dobbiamo discuterne tra insegnanti, non posso prendere questa decisione da sola. Certo è che questo gesto non sarà privo di conseguenze.
-Mia mamma mi ammazza – piagnucolò Monica, sgocciolando sangue – oddio, quando torno a casa mi rompe anche il resto...
-Potevi pensarci prima di mettere le mani addosso alla compagna. È un gesto molto grave e voglio che sia chiaro che l'istituto non tollera un comportamento tanto disdicevole. Migliaia di anni di evoluzione per arrivare a prendere a schiaffi la compagna? E per quale motivo, poi?
-Pare ci sia di mezzo un ragazzo – s'intromise cautamente Emanuele.
-Non mi sembra un buon motivo, e sappi, Monica, che non rendi onore al genere femminile. Dovresti vergognarti.
Quella continuò a piangere, ma Giovanna, impassibile, continuò a parlare.
-Inoltre, se almeno fossi furba, avresti aspettato di essere fuori da scuola. Invece, a quanto pare non sei nemmeno furba – osservò la preside, tranquillamente.
-Mi sembra di sentire un'ambulanza – fece Emanuele, dolcemente – accompagno Monica fuori, torno immediatamente.
Mise una mano sulla spalla tremante di Monica, che si alzò e raccolse lo zaino. Mentre raggiungevano il portone, la ragazza riuscì a mormorare qualcosa.
-Guardi che io l'ho fatto perché sono innamorata, di lui. A lei, invece, non gliene importava niente, l'ha fatto solo per fare un dispetto a me, per dimostrare a me o a se stessa o a non so chi che può fregare il ragazzo a qualcun altro. È cattiva, prof – affermò tra le lacrime, mentre gli infermieri la caricavano sopra.
-Un compagno le ha dato un pugno sul naso, penso piuttosto forte. Vi arrangiate voi in caso di denuncia...?
-Sì, deciderà poi la famiglia se sporgere denuncia, intanto la visitiamo e sistemiamo il naso.
-D'accordo, allora provvederà la scuola a fornirvi i dati necessari. Vi lascio la ragazza?
-Certo, la lasci pure a noi. Vieni su, adesso vediamo di sistemare questo naso.
Monica lo salutò, con una certa sofferenza, ed Emanuele non poté fare a meno di provare compassione per lei. Senza ragazzo, sospesa, bocciata e col naso rotto.
E per di più non poteva darle tutti i torti sulla questione Bianca. Che bisogno c'era, in effetti, di andare con un ragazzo impegnato? Certo, lui avrebbe anche potuto tenere l'uccello nei pantaloni, ma Bianca non sembrava nemmeno un po' dispiaciuta per Monica; anzi, sembrava che le sventolasse in faccia la sua conquista per ricordarle che lei era stata clamorosamente sconfitta.
Era anche vero, però, pensò avviandosi verso l'ufficio della preside, che Bianca non veniva trattata molto bene dai compagni, e che probabilmente doveva covare un certo astio nei loro confronti.
Certo, lei non si impegnava per attirare le loro simpatie, ma in fondo non aveva mai fatto loro niente di male. Aveva solo vissuto la sua vita.
Quando aprì la porta, trovò una preside esasperata, una Bianca che si guardava attorno ammaliata, e un Cappelletto che scalciava sotto la sedia.
-Tutto a posto, preside? - domandò cautamente.
-Sì, più o meno. Il signor Cappelletto qui presente sembra aver capito di aver combinato un guaio piuttosto grosso.
Emanuele annuì.
-Sei passibile di denuncia – lo informò – per danni a terzi. Sei minorenne e questo è un punto a tuo favore, ma se sei sfortunato questo pugno colpirà dritto la tua fedina penale.
-Però devo ammettere che è stato un gesto romantico – osservò la preside – rischiare il riformatorio per la signorina Ferreri.
-Eh, adesso, il riformatorio! - sbottò Cappelletto – Alla fine è solo un naso. E le assicuro che le ho fatto un favore, se si ricorda com'era il suo naso prima.
Tutti i torti non li aveva.
-Sì, Cappelletto, ma tu non puoi prendere a pugni tutti quelli che ti fanno arrabbiare. La violenza non è il modo giusto per risolvere i problemi. E se adesso arrivasse qualcun altro che picchia te perché hai picchiato Monica?
-Mi spacca il naso, ma non ne esce tutto intero neanche lui!
-Ma non è questo il punto! Il punto è che non potete comportarvi così, come bambini delle elementari. Non lo tollero nel modo più assoluto. La violenza è sbagliata, sba-glia-ta. E sappi, Cappelletto, che credo dovremo espellerti da scuola.
-Cosa...?
Il ragazzo sbarrò gli occhi, senza fiato.
-Cosa ti aspettavi? Hai rotto il naso a una ragazza, è una cosa gravissima. Non possiamo accettarti in quest'istituto.
-Ecco, vaffanculo – borbottò lui. La preside drizzò la schiena.
-Come hai detto, prego?
-Ho detto 'vaffanculo', ma lo dicevo a me. Non a lei.
-Beh, evita una simile terminologia in ogni caso. E adesso per favore tornate in classe.
-Mi scusi, preside – intervenne Emanuele – io farei controllare anche Bianca.
-Può andare a farsi visitare nel pomeriggio, non mi sembra grave. E a proposito, signorina Ferreri, la prossima volta mi faccia il favore di non provocare la compagna.
-Ma io non l'ho provocata – si difese lei – quando sono entrata in classe ha iniziato a urlarmi insulti e a minacciarmi. E poi mi ha picchiata. Io le ho solo detto che dovrebbe prendersela col suo ragazzo che l'ha tradita e non con me, perché non siamo mai state amiche e non vedo perché dovrei avere riguardi per lei, e ho aggiunto che forse non ne vale la pena, per uno che la tradisce e quindi forse non ricambia tanta devozione. Ho il diritto di spiegare le mie ragioni anch'io, giusto?
-Beh, sì, è giusto, ma, per favore, eviti comportamenti che possano turbare l'armonia della classe... a monte.
-Preside – insorse Bianca, severa – quanto faccio nel mio tempo libero non rientra nella giurisdizione del corpo docenti. Il vostro compito è quello di giudicare ed eventualmente punire i le nostre azioni all'interno dell'ambito scolastico; ma nel momento in cui agisco all'esterno di questo contesto, sono libera di fare ciò che preferisco. Inoltre non mi sembra di aver contravvenuto ad alcuna regola comportamentale dell'istituto, ragion per cui mi ritengo assolutamente innocente in questa controversia.
Era partita bene, ma verso la fine aveva un po' esagerato. La preside alzò un sopracciglio.
-Non siamo in un'aula di tribunale – le fece notare – ad ogni modo, vediamo di stemperare sul nascere le discussioni. Se provocati, ignoriamo. E in questo modo saremo sempre dalla parte della ragione.
-Sììì. E l'ignoranza è colpa, e sorridi e il mondo ti sorriderà, e non andate in gita perché la classe è turbolenta e se i vostri compagni disturbano dovreste fare in modo di mantenere il silenzio e la responsabilità è anche vostra e quando si cresce si diventa responsabili, questo è essere adulti, j'accuse, nota, sospensione, punizione...! Chi offre di più?
-Bianca, adesso basta – la riprese Emanuele – torniamo di sopra e lasciamo da parte tutta questa storia. - Si rivolse alla preside. - Credo sia solo sconvolta. Aspetti un minuto. Ragazzi, aspettatemi qui fuori; qui, davanti alla porta. Arrivo subito.
I due si alzarono e si diressero stancamente verso l'uscita. Quando la maniglia scattò, Emanuele sedette alla scrivania della preside.
-Mi scusi se prolungo questa discussione spiacevole, ma credo sia opportuno informarla al riguardo di una questione.
-Mi dica.
-Bianca mi ha confessato che a casa il padre usa violenza su di lei. Credo che la faccenda le abbia ricordato le vicende domestiche... e, in fin dei conti, è anche vero che questa volta non ha alcuna colpa.
-Lo so – sospirò la preside – ma vorrei che capisse che deve darsi una calmata, in generale. Stare tranquilla, ferma, in silenzio. È anche nel suo interesse che le dico di non avere un comportamento tanto... libero. La nostra libertà è molto, molto limitata, purtroppo.
-Lo so – fu il suo turno di sospirare – lo so bene. Eppure non riesco a prendermela più di tanto con questa ragazza. Il mese scorso non faceva che piangere.
-Lo so – mormorò la preside, di nuovo. - Credimi, Emanuele, anch'io ho a cuore questa ragazzina. Ce li prendiamo un po' tutti a cuore, no? Questi casi disperati a cui vorremmo dare la speranza. Poi scopriamo che non è possibile, e finisce che ce la prendiamo con loro per la nostra frustrazione, mentre loro continuano a chiederci silenziosamente di aiutarli... ma a quel punto abbiamo solo voglia di allontanarli.
Emanuele impallidì.
-Lei ha espresso esattamente i miei sentimenti in questo momento.
Giovanna sorrise.
-Faccio questo lavoro da più tempo di te. Per questo a volte ho la presunzione di volerti insegnare qualcosa. - Sistemò alcuni documenti, con un paio di toc leggeri e decisi sul piano della scrivania. - Ora va' e vedi di tenere tranquilli Lancillotto e Ginevra.
-Un Lancillotto alquanto peculiare.
-E una Ginevra assai poco tradizionale.
Sorrisero entrambi, ed Emanuele uscì dalla porta un po' sollevato. Non sapeva perché si sentisse così, dato che la preside gli aveva appena detto, sostanzialmente, che il loro destino era nella maggior parte delle volte quello di fallire. Ma il fatto di non sentirsi più solo, in qualche modo, di non essere il solo a sentirsi cedere ogni giorno, l'aiutò più di quanto non avrebbe mai immaginato.
E dire che non aveva mai creduto al mal comune, mezzo gaudio. Aveva sempre pensato che avere problemi e incontrare un altro incasinato quanto te fosse una delle cose più tristi e scoraggianti che potessero capitare.
-Fatto, prof? Ho sentito tutto, sa. Stando a lei, sembra che io venga da una famiglia disagiata che vive di cassa integrazione e alcool e occasionali tirate di cocaina.
-Bianca, ora per favore taci due minuti, ok?
-Ecco, me lo dicono sempre tutti. Anche Cappellotto, oramai. Georgia Nicolson, che era una persona saggia, diceva: chi me l'ha fatto fare di scazzarmi a imparare a parlare, se tanto adesso tutti mi ripetono in continuazione di tacere?
-Impara l'arte e mettila da parte, dice un detto.
-Comunque, per ringraziare Cappellotto del suo atto cavalleresco, posso portarmelo una mezz'oretta in bagno?
-Che non ti venga in mente nemmeno di ripeterlo.
-Ma prof, il povero Cappellotto sta vivendo i suoi ultimi attimi da uomo libero! Da domani sarà ricercato in quarantotto stati, ormai girano i cartelli WANTED col suo cappellotto stampato sopra...
-Bianca, come posso fare a tapparti la bocca?
-Col cappellotto di Cappellotto. Mezz'ora, prof. Non di più.
-Ehi – protestò Cappelletto – io duro più di mezz'ora.
-Fate quello che volete – Emanuele si allontanò verso la classe alzando le braccia al cielo. Bianca scoppiò a ridere e, assicuratasi Cappelletto a braccetto, si avviò felice e contenta verso l'aula della terza A assieme a lui.

Camilla, lunga distesa sul divano, rideva così tanto che dovette portarle un bicchiere d'acqua.
-Io non ce la facevo più. Da un lato non riuscivo più a trattenermi dal ridere, dall'altro mi veniva da piangere.
Emanuele si aprì una birra; finalmente era riuscito ad infilarsi la sua tuta di felpa grigia e rivivere gli avvenimenti in retrospettiva assieme a Camilla.
-Cioè, curati la scena: Bianca che guardava le farfalline per aria, la preside con le mani nei capelli e Cappelletto che diceva 'sì, ma gli faccio male anch'io!'. Ecco: era per cose come questa che ho scelto di insegnare. Proprio per cose come questa.
-E alla fine? Cosa faranno a Cappelletto?
-Non so, parlano di espulsione, ma secondo me sia lui che la Miotto se la caveranno con una sospensione. Alla fine, se i genitori della Miotto prendono provvedimenti, credo che quelli saranno più che sufficienti.
-E Bianca, come l'ha presa?
-Mah, Bianca era tranquilla. Te l'ho detto, è tornata esattamente com'era prima. Ovvero, tutt'altro che tranquilla: per lo più parlava a vanvera e faceva proposte indecenti a chiunque fosse nel raggio di cinque metri.
-Che le sia passata durante le vacanze?
-Può essere. Magari ha passato un bel Natale, si è divertita con gli amici il Capodanno, boh. A quell'età passa in fretta.
-Pensi che la storia con la Miotto le abbia ricordato il padre?
-Se anche fosse, l'ha nascosto bene. Sembrava che la cosa la divertisse. Le parlerò, promesso.
-Ok. Ma adesso vieni qui.
Camilla sorrise, ed Emanuele le sorrise di rimando. Le si sedette accanto, e lei si alzò e si accomodò a cavalcioni sopra di lui. Le prese il viso tra le mani e stava per baciarla, quando all'improvviso un ricordo lo fulminò.
-Che c'è? - chiese lei, e lo guardò un po' preoccupata.
Bianca che gli si strusciava contro, la sua erezione, le labbra vicine.
No, non era successo, non era successo. Non era successo niente. Doveva dimenticarselo.
-Niente – mormorò; sorrise, e la baciò, ma lo fece senza trasporto. Il buio dietro le palpebre abbassate lo distraeva costantemente.


Il giorno dopo aveva un'ora con la terza A; di storia. Mantenere l'attenzione della classe era ancora più difficile che nelle ore di lettere. Ma puntava sull'assenza di Monica, che probabilmente era sotto i ferri, e di Cappelletto, che probabilmente stava passando un brutto quarto d'ora.
Il problema era che Bianca era ancora lì; decise dunque di usare il metodo più perfido che avesse a disposizione per mantenere la sua attenzione focalizzata sul Rinascimento.
-Bianca, devo interrogarti. Bisogna recuperare i voti scritti dello scorso trimestre.
Bianca sospirò, ma non obiettò. Per una buona mezz'ora, Bianca aprì bocca solo per parlare di battaglie, dinastie e annessioni; la tranquillità della classe ne trasse grande beneficio e, quando l'interrogazione finì – con il massimo del punteggio – la lasciò concentrarsi sulla sua PSP, in modo da poter continuare con le spiegazioni. Dopo un po', Bianca iniziò a seguire la lezione; durante i punti morti si mise a disegnare fiori prima sul quaderno e poi sul banco, col risultato che alla fine dell'ora toccò chiamare il bidello e farsi dare straccio e detersivo.
L'insegnante dell'ora successiva fu ben felice di trovare Bianca occupata con quella faccenda; ma non passò molto tempo prima che Bianca fosse spedita fuori dalla classe, colpevole di aver riempito di fiorellini anche i vetri della finestra con l'indelebile nero.
La trovò seduta sulle poltrone in atrio intenta a stendersi lo smalto rosso sulle unghie.
-Beh? - la chiamò, quando le fu davanti.
-Ah, salve, prof. Mi hanno sbattuta fuori.
-Grande. Hai contato quante volte è successo da quando l'anno è iniziato?
-Una, prof. L'anno è appena iniziato.
-L'anno scolastico.
-Beh, sempre una, prof. Siamo tornati a scuola ieri.
-Come amo ripetere, anzi ripeterti, non testare i limiti della mia pazienza.
-Faccio più – pigolò.
-E allora? Come stai?
-Come sto? Benissimo. Finalmente sono uscita da quel mortorio. Il banco inizia a starmi stretto, sa, prof?
-Eh, lo so eccome. Sembra che un po' tutto ti stia stretto. Senti un attimo, come l'hai presa la storia di ieri?
-Cosa, che la Miotto a momenti fa marmellata col mio cervello?
-Esatto.
-Mah, non è che mi abbia fatto tutto 'sto male. È una ragazzina, quanta forza può avere?
-E la storia di tuo padre?
-Mio padre?
-Beh, non vorrei che ti avesse ricordato quello che è successo quella volta.
-Prof, succede praticamente ogni giorno. Non mi spaventa un soldino come la Miotto; ormai potrei combattere a mani nude contro John Rambo e farlo pentire di essersi messo contro di me.
-Non è quello, Bianca. Voglio dire; è brutto quando qualcuno si sente in diritto di metterci le mani addosso, indipendentemente da quanto male ci fa. Vuoi dirmi che non sei stata segnata almeno un po' da quelle cose?
-Non saprei. Può essere, ma ormai fa parte della mia quotidianità. C'è un limite oltre al quale non puoi più fare male a qualcuno.
-Intendi, fisicamente?
-No, quelle purtroppo le sento ancora – lei sorrise, ed Emanuele si rabbuiò per via di quel sorriso amaro, pieno di rassegnazione – io parlo delle ferite emotive di cui parlava lei. Sì, può anche dispiacermi che un tot di persone si sentano in diritto di prendermi a schiaffi, ma se ci stessi male ogni volta, addio. A un certo punto uno non ci fa più caso, stringe i denti e lascia perdere; tanto capiterà di nuovo. Inutile che me la prenda.
-E invece sei stupida, perché dovresti arrabbiarti.
-Ma poi la preside mi butta fuori dalla scuola una volta per tutte. Prof, nonostante ciò che pensate, non sono idiota, e conosco la mia posizione.
-Non parlavo della Miotto.
-La mia risposta non varia di molto. Gliel'ho spiegato, cosa accadrebbe se alzassi la testa. E poi non pensiamo a queste cose brutte, avanti! - Bianca sembrò tornare la solita ragazzina allegra e spensierata che era stata fino a un mese prima. Fino a quel momento, gli era quasi parso di parlarle da pari a pari. - Sa che questa sera io e i miei amici facciamo la gara di chupiti? Chi ne beve di più, vince un premio.
-Sarebbe?
-La mia patata per una notte – sorrise trionfante, ed Emanuele non seppe capire se scherzasse o meno.
-Cioè il più alcolizzato di voi viene a letto con te?
-La più alcolizzata sono indiscutibilmente io. Per questo mi hanno messo fuori gara. Ma chi vince questa gara, cioè chi è alcolizzato quasi quanto me, mi può portare a letto.
-Bello. E se vince uno che non ti piace?
-Mi piacciono tutti. Ognuno ha qualcosa di bello, qualcosa che lo fa valere la pena di mostrargliela.
Emanuele d'improvviso sorrise.
-Anche Cappelletto? - le chiese.
Bianca lo guardò, sorpresa.
-Cappellotto? Perché mi parla di Cappellotto?
-Perché sta passando dei guai abbastanza seri per te. Invece che darla al più coglione della tua compagnia, che se tutto va bene ti sbocca sulle tette perché ha bevuto un litro di rhum e uno di pera, perché non vai a trovarlo e a sentire come sta? Non tutti avrebbero spaccato il naso alla Miotto per difenderti.
-Forse non per difendermi, ma credo che più di qualcuno avrebbe volentieri spaccato il naso alla Miotto. Anche il suo ragazzo, glielo garantisco, solo che non ha mai avuto le palle per dirglielo.
-Lascia stare il naso della Miotto. Cappelletto si merita almeno una visita di cortesia, non trovi?
-Gliela dovrei dare, secondo lei?
-Beh, non era proprio quello che intendevo, ma se per te non ci esistono discriminanti, perché no?
-Cappellotto – scandì Bianca, meditabonda – ma sì, dai. Oggi pomeriggio vado a dirgli grazie. È stato carino a spaccare il naso alla Miotto.
-Per te – precisò Emanuele.
-Per me o per qualsiasi altro, chiunque spacchi il naso alla Miotto è degno della mia riconoscenza. E anche di quella unanime. Lo dica, avanti, lo sputi finalmente. È d'accordo con me, vero? Guardi che glielo leggo negli occhi – lo ammonì.
Emanuele ridacchiò sotto i baffi e scosse la testa.
-Alle volte sei impossibile – asserì – giuro, mi metti in difficoltà. Altre mi fai stringere il cuore. Altre ancora, la maggior parte, sei la solita pagliaccia. Qualche volta sembra quasi di parlare a una persona al mio livello, ma poi mi fai cambiare idea un'altra volta.
-Anch'io mi vivo un po' così.
-Ce l'avevo a morte con te – ammise – per... per quello che sai. La verità è che mi piaci, Bianca. Una parte di me stima una parte di te. Se tu fossi più grande e se queste due parti di noi fossero più grandi... in quel caso forse avrei scelto te.
-Al posto di Camilla?
-Non so se in questo caso l'avrei conosciuta. Ma so che vali, Bianca, solo che non te ne sei ancora accorta.
Le diede un buffetto sulla testa; le sorrise, lanciò un'ultima occhiata al suo faccino confuso e poi si allontanò, alzando una mano in segno di saluto.
Divertito, uscì dal portone pensando alle guance di Bianca che diventavano rosse, alla faccia delle sue ambiguità e promiscuità e sessualità precoce.

Il giorno dopo non aveva la terza A, ma aveva l'ora di ricevimento. Per la prima volta dopo tanto tempo, l'ammasso di capelli rossi tornò a fare capolino sullo stipite.
-Prof, posso? - fece Bianca, seminascosta dietro la posta; di lei vedeva solo gli occhioni vivaci e le dita aggrappate all'uscio.
-Ma sì che puoi, entra – sorrise.
Stavolta gli faceva piacere vederla. L'ultimo dialogo tra loro era stato piuttosto adulto, e l'aveva vista piuttosto cresciuta, anche se 'cresciuta' significava 'rassegnata e disillusa'. Ma almeno aveva mantenuto la calma e formulato un discorso di senso compiuto; si era preoccupato, il giorno prima, quando aveva iniziato a infervorarsi dalla preside.
-Dimmi. Cosa c'è stavolta?
Ma lo disse bonariamente. Lei infatti sorrise.
-Beh, prof, ieri sono andata a trovare Cappellotto – esordì, con l'aria di chi teneva sulla punta della lingua una notizia bomba, pronta a rotolare fuori.
-Ah, questa è una novità interessante. Come si è svolto l'incontro?
-Ma niente, sono andata a casa sua, mi ha aperto sua mamma, tra parentesi a momenti le viene uno scompenso quando mi ha vista... il suo sguardo diceva “ma è per questa sgualdrina che hai messo in gioco il tuo futuro?! Ma sei davvero il figlio che io ho partorito?”.
Emanuele rise. Bianca s'imbronciò.
-Non c'è niente da ridere, prof! Sarò un po' quello che sono, ma non sono mica tutto questo schifo. Sotto tutte queste tette batte un cuoricino tenero tenero, sa? Tra l'altro, ho ricominciato a mangiare, ha visto che mi sono ricresciute?
-No, Bianca.
-Non importa, l'hanno visto tutti gli altri, è lei che non guarda bene – e non sa cosa si perde. Vabé. Comunque entro, vado in camera sua, con sua mamma che mi segue per le scale con l'ascia in mano pronta a colpirmi alla prima mossa sbagliata, e lui era lì, povero cristo, con gli occhi lucidi che cercava di non piangere. Hanno deciso di denunciarlo, sa? Sono proprio i genitori della Miotto, non c'è che dire.
-Mi sembra normale che gli girino un po' le palle se uno spacca il naso alla loro unica e preziosa creatura.
-Sì, sono d'accordo, ma loro volevano dargli l'ergastolo.
-Beh, l'ergastolo mi sembra un po' eccessivo.
-Infatti non è vero, non vogliono dargli l'ergastolo. Però è vero che vogliono spedirlo in riformatorio.
-Credo se la caverà con una sanzione pecuniaria e qualcosa tipo servizio civile. È anche minorenne, magari non gli succederà nemmeno questo.
-Non so, però, povero Cappellotto, era proprio giù di morale. E così mi ha fatto pena e gli ho aperto i jeans, e insomma, alla fine l'ho visto, questo famoso Cappellotto.
-Ok.
-Non è esattamente un cappellotto. Niente di che, sa, prof.
-Sì, ok.
-No, davvero. Era anche storto.
-Bianca, non mi interessa molto...
-Come no? Pensavo che gli uomini stessero sempre a fare a gara a chi ce l'ha più lungo.
-Sì, ma non mi metto in competizione con un sedicenne, avanti.
-Ma con un trentenne sì?
-No, neanche con un trentenne, quindi figurati con un sedicenne.
-Beh, io comparo le mie tette con tutte quelle che vedo.
-A sedici anni è normale.
-Oh-oh-oh, non facciamo gli adulti e consapevoli, prof.
-Ho il doppio dei tuoi anni, non ho il diritto, ma il dovere di fare l'adulto e consapevole.
-Laaa preeegooo! - si lamentò, poi cambiò posizione. - E così, abbiamo aggiunto anche Cappellotto alla lista. Che figata.
-Cosa, Cappelletto?
-No, no. Cappelletto non è stato una figata, gliel'assicuro. No, dico, tutte queste persone. Mi sento potente, per essermele fatte tutte. Non la fa sentire... non so...
-Cosa...?
-Il fatto di piacere a così tante persone. A lei non dà una sensazione di potere?
-A me no, perché vivo la sessualità in modo diverso da te. Ma da parte tua non mi stupisce un ragionamento simile.
-Eh? Perché?
-Perché ognuna di quelle persone è un piccolo, piccolissimo gradino verso la cima di quell'enorme piramide inespugnabile che è la tua autostima.
-La mia... cosa? Non è questione di autostima. È questione di potere.
-Cosa cambia? Ti fanno sentire importante. O bella. O capace di rubare i ragazzi alle altre. Per questo lo fai. Non sei capace di sentirti importante e bella da sola, quindi chiedi agli altri di darti conferma. A costo di ferire un'altra persona.
Bianca lo fissò.
-Prof – mormorò, atterrita – non è molto lusinghiero quello che lei mi sta dicendo.
-Non è un'accusa, Bianca. Ti sto solo dicendo che sei insicura, e che da tale ti comporti.
-No – sbuffò lei, incrociando le braccia. Emanuele la guardò con eloquenza. - No eh? No.
-Va bene, no. Parliamo d'altro, vuoi?
-Come no.
Ma era cambiata, in effetti. Tempo fa avrebbe squittito qualcosa come “ma certo prof, io con lei parlerei sempre e in qualunque momento, lo sa che adoro parlare con lei, è sempre così interessante”; in qualche modo, la delusione sembrava averla fatta crescere.
-Allora raccontami cos'è successo in queste vacanze di Natale.
-Durante le vacanze? Perché me lo chiede?
-Perché l'ultima volta che ti ho vista sembravi un morto che cammina, e invece adesso sei vivace esattamente come ti ricordavo.
-Prof, da come parla sembra che io sia morta veramente – lo guardò inorridita – mettiamola così: vado a periodi. Ok? Adesso è un periodo buono. Anzi, buonissimo: il peggio è passato, il meglio deve ancora venire ma siccome non è davvero il meglio diciamo che il meglio è adesso.
-... ti offendi se ti dico che non ho capito niente?
-Si figuri, no. L'ho detto apposta, in modo che lei non ci capisse niente. Prof, si limiti a prendere le cose così come vengono; alla fine, è l'unica cosa davvero sensata da fare, in qualsiasi situazione. Non trova?
-Trovo – mormorò.
-Ho paura che peggiorerà – disse Bianca, a bassa voce – e peggiorerà. Andrà male, lo so. È per questo che...
Parve esitare, e guardò per terra come alla ricerca di una risposta.
-Che...?
Bianca scosse la testa, poi sembrò prendere una risoluzione e la rialzò.
-Lasci stare. È già fin troppo complicato.
-C'entra con tuo padre?
-Prof, davvero. Lasci stare.
-D'accordo, lascio cadere anche questo discorso. Comunque torna a trovare Cappelletto, anche se a letto non è un granché.

-Di nuovo? E perché? Ormai l'ho testato.
-Bianca, sei scema o mangi sassi? Cappelletto è innamorato di te.
D'un tratto Bianca sembrò illuminarsi. Anche Emanuele s'illuminò. Era nato l'amore...?
-Oh, wow! - esultò la ragazza – Questi sono centomila punti! Non capita mica tutti i giorni di far innamorare qualcuno, lo sa? Cento gradini per la mia piramide!
Cos'aveva appena finito di pensare? Che era maturata, cresciuta, adulta?
Centomila punti per il cuore del povero Cappellotto.
E dopo essere stato messo alla gogna proprio a causa del suo celebre glande, per di più.


-E così si è ripresa?
Camilla lo guardava con occhi spalancati. Ormai era un'abitudine: ogni sera Emanuele, come se le raccontasse il riassunto della puntata di una soap opera che si era persa, informava Camilla sugli eventi riguardanti Bianca. Un po' come raccontare le favole prima di andare a letto, solo che questi racconti di solito costituivano il sottofondo delle loro cene.
-Pare di sì – Emanuele si ficcò in bocca una forchettata di frittata – solo che è un po' cambiata. Un po' meno vivace. Credo che qualche batosta l'abbia un po' ridimensionata.
-Meno male. Spero che trovi un po' di pace, quella ragazza. Comunque si comporti, sembra che qualcosa la tormenti. No?
-Scusa...?
-Ma sì. L'abbiamo vista depressa e l'abbiamo vista esagitata, ma poche volte l'abbiamo vista tranquilla. Sembra che ci sia qualcosa che, costantemente, la scuote da cima a fondo. Non so, sembra... che abbia perso il controllo su se stessa.
Emanuele ci rifletté un attimo; non giunse ad alcuna conclusione, ma prese nota mentalmente di quell'osservazione.
-Per ora è calma – fu tutto ciò che riuscì a dire, meditabondo, gli occhi fissi sul vuoto e la forchetta e mezz'aria – ora è calma. Però... - Si guardarono negli occhi. Ma nessuno riuscì a dire nulla. - Non so. Ma ti ringrazio di avermici fatto pensare.
-Ormai sta a cuore anche a me – ammise Camilla, tornando alla sua frittata.
Quella sera riguardarono 300, che entrava nel novero della sua top 5, ma non riuscì a concentrarvisi. Il suo pensiero continuava a tornare a Bianca, e a ciò che si nascondeva dietro di lei.

Il giorno seguente, aveva ricevimento. Non sapeva cosa aspettarsi da Bianca, questa volta, ma quasi sperava che venisse, perché non si era presentato nessun genitore.
Non fu deluso: Bianca si presentò con un sorriso.
-Buongiorno – esordì.
-Buongiorno – rispose, con un sorriso.
-Mi annoiavo e così sono venuta qui.
-Cosa stavate facendo?
-Roba noiosa che per di più avevo già capito. Inizia ad essere un problema ricorrente.
-Ma perché non riesci a stare in classe tranquilla a farti i cazzi tuoi, invece che combinare casini e poi venire da me?
-Ma no, prof. Guardi che ho solo detto alla Lombardi: io la declinazione dell'aggettivo l'ho capita. Non ho voglia di aspettare che la capiscano anche gli altri. Le alternative sono due; o mi lascia uscire a prendere aria, con la promessa che non combinerò nessun tipo di casino, oppure rimango qui e trasformo la lezione in un inferno. E lei ha detto che posso andare.
-Bianca, sei diventata stronzetta, ultimamente.
-Beh, è stata la delusione amorosa. Non sono più molto allegra da quando l'ho avuta.
-Anche con me sei più distaccata.
-Perché, ora le dispiace? - sogghignò – Non sono mica così inelegante da essere gentile con un uomo che mi ha rifiutata.*
-Al contrario, sei molto più inelegante ad essere scortese. Testa alta, Bianca, altrimenti io capirò che ti ho ferita.
-Mi sta suggerendo di fingere?
-Beh, mi sembrava che questo fosse il tuo intento, no?
-No. Non voglio dimostrarle niente. È che con lei non riesco più a essere come prima. Vuole sentire una citazione che casca a pennello?
-Sentiamola.
-Dunque – si schiarì la voce – è in inglese, eh? Non ho una gran pronuncia, ma dovrebbe essere comprensibile. Senta qua. Do you know what hurts the most about a broken heart?
La guardò.
-Lo sa? - insistette lei.
-No, non lo so. Dimmelo.
-Not remembering how you felt before. Try and keep that feeling because, if it goes... you'll never get it back.
-Ovvero, ogni lasciata è persa?
-Non sia scontato, prof. No, dice che quando tutto va bene è facile essere sorridenti, perché hai il cuore pieno di gioia. Ma quando te lo spaccano in ventimila pezzettini, impossibili da ricomporre, poi ti dimentichi com'era prima. Ti sembra quasi di aver sempre sofferto, no? E più passa il tempo, meno riesci a ricordarti com'era essere felici.
-La tua era solo una cotta.
-Non era solo una cotta. Anzi; non è solo una cotta, perché, per quanto io mi ostini a dimenticarla, non ne sono proprio capace. Ma a parte questo, il fatto è che dopo non riesci più ad essere fiducioso nel futuro come lo eri prima. Ti aspetti altre ferite. E finisce che, se anche tornano gli attimi di gioia, tu non riesci a goderteli e a volte nemmeno a riconoscerli, perché vedi segnali della catastrofe da tutte le parti. Così stai sempre lì in guardia, troppo occupato a parare i colpi per riuscire a vivere il presente con serenità.
-Senti, questo significa che ricomincerai a piangere tutto il giorno e ci toccherà mandarti a casa perché vuoi chiuderti in un letto e non vedere più nessuno?
Lei scosse la testa.
-No, prof. Non credo proprio. Credo di starlo superando, sto sempre meglio. Ma non credo sia giusto stare meglio. Io credo che se mi sento meglio non sia perché l'ho davvero superata, ma perché... come posso spiegarglielo...
-Provaci soltanto.
-Io provo a spiegarglielo senza dirglielo, ma non è tutto 'sto facile.
-Allora non me lo puoi spiegare.
-Ho idea di no, prof – sorrise tristemente.
-Quindi tu sei convinta che la tua per me non fosse... non sia solo una cotta?
-Perché me lo chiede?
-Perché vorrei vederci chiaro anch'io.
-D'accordo. Sì, ne sono convinta, prof. Non lo so, mettiamola così: lei cosa prova per Camilla?
-Per Camilla? Beh, ho sempre voglia di vederla. Mi attrae fisicamente, nel senso che mi scatena delle reazioni. La stimo profondamente. Con lei sto meglio che con chiunque altro. Non potrei sopravviverle. Più o meno credo sia questo.
-Benissimo. Mettiamola così: se lo prova lei che ha trent'anni è amore, ma se lo provo io, che ne ho sedici, è una cotta passeggera?
-Tu conoscerai ancora molte persone.
-Anche lei.
-Sì, ma io ormai quelle che dovevo conoscere le ho conosciute.
-Anch'io.
-Ma se devi ancora entrare all'università.
-Senta, prof, potenzialmente uno può anche non finire mai di conoscere persone. Dipende solo se lo vuole.
-E con ciò?
-E con ciò, se lei ha già scelto e io ho già scelto, dov'è la differenza tra noi due?
-Tu hai tredici anni meno di me, tutti pieni di gente che potrebbe starti vicino per più o meno tempo. Devi ancora vivere.
-Ma lei pensa di avere cent'anni? Anche lei ha una vita intera davanti, una vita in cui le capiterà di incontrare moltissime altre persone, dopo Camilla. Ma a lei cosa interessa, se Camilla continuerà a piacerle più di tutti? Io l'ho incontrata prima, la persona che giudico adatta a me, lei magari l'avrà incontrata dopo, ma rimane che tutti e due l'abbiamo incontrata, e chiunque ci capiterà di conoscere non reggerà il confronto, a sedici anni come a trenta come a cinquanta.
-Con la differenza che tu non sei in grado di provare certi sentimenti forti, maturi, che resistano anche alle avversità del mondo degli adulti.
-Ah, mi sta dicendo che, dato che non abbiamo un mutuo da pagare assieme, dato che non litighiamo per chi porta giù l'immondizia, dato che non dobbiamo stringere la cinghia ed accusarci a vicenda per chi ha prosciugato il Bancomat questo mese, allora non so cos'è l'amore, perché non conosco il compromesso e il sacrificio? È questo, che mi sta dicendo?
-Precisamente. È facile, quando sei studente e hai zero preoccupazioni, dare il massimo a un'altra persona. Ma provaci quando hai il bucato da fare e sei appena tornato esausto dal lavoro, prova a fare l'amore quando sai che il giorno dopo devi alzarti alle sei per tornare in un posto dove magari c'è un nido di vipere che ti rovinano la giornata quando deve ancora iniziare. L'amore duraturo richiede sforzi. E pazienza.
-In pratica, con l'amore duraturo, tutto si spegne e devi prosciugare le tue ultime energie e per fare qualcosa che comunque non hai le forze di fare. Questo per me non è amore; somiglia di più a un castigo.
-Ma lo vedi che non hai capito? L'amore è quando, nonostante tutte queste cose, cos'avevamo detto prima? Hai sempre voglia di vedere quella persona, ti attrae fisicamente, la stimi profondamente, con lei stai meglio che con chiunque altro e non potresti sopravviverle. Non è che si spegne. È che resiste, il che è tutta un'altra cosa.
-Capisco – fece Bianca, delusa – va bene. Be', allora non ho speranze, giusto? Sono troppo piccola. Per me va bene un cretino come Cappellotto, uno che a momenti inciampa sui suoi stessi piedi, uno che capisce solo le parole “pompino” e “infilarlo” e “tettone”.
-Ci sono sicuramente altri sedicenni al tuo livello.
-O forse io non sono al livello dei sedicenni, solo che lei non me lo vuole riconoscere.
-Bianca, in realtà non esiste un “livello”. Esiste il grado in cui una persona sviluppa una sua cultura e una capacità di elaborare ciò che le viene inculcato. Ma ti manca l'esperienza, Bianca, ci sono molte cose che devi ancora capire, e questo fattore può cambiarlo solo il tempo.
-Lei è convinto che io non abbia vissuto nulla, solo perché ho sedici anni.
-Hai vissuto molto, invece, Bianca. Solo, non hai vissuto le esperienze giuste, quelle positive, o anche quelle negative che però ti insegnano qualcosa; e anche ponendo che tu ne abbia vissute, sicuramente non sono state abbastanza. Questo è.
-Mi sta dando dell'immatura?
-Sei un'adolescente, Bianca, e te lo devi mettere in testa. Non lo sarai per sempre, perché non provi un po' a godertelo? Io pagherei, per avere ancora la tua età.
-Si vede che non ricorda com'era – osservò, amaramente.
-Me lo ricordo eccome. Provavo emozioni tanto intense che pensavo mi avrebbero ucciso. Poi cresci e vai avanti sempre di più con la filosofia del lasciar perdere, del tenere a distanza per prevenire, dell'essere educati e corretti e irreprensibili e falsi. Arrivi a reprimerti così tanto che, sì, soffri di meno, ma sei diventato insensibile. Mille cose che a sedici anni ti avrebbero steso per terra ora ti sembrano cazzate, in confronto ad altre cose che hai vissuto crescendo. E ti rendi conto che sei più forte, ma poi pensi che forse sei solo così debole che ti corazzi contro tutto, anche contro le semplici emozioni.
-Questa è una confessione a cuore aperto?
-Te lo sto solo spiegando. Non ho bisogno di confessare nulla; io ho già passivamente accettato.
-Bella merda, glielo posso dire? Scusi il termine.
-Già, bella merda. Non è così eccitante stare con un trentenne, dai retta a me. Siamo appena usciti dalle prime delusioni forti, siamo a terra più di qualunque altro. Non ti farei del bene. Ti farei stare peggio.
-Mentre a Camilla lei fa un effetto benefico...?
Emanuele sorrise.
-Camilla è come me – rispose – lei sa perché a volte torno a casa stravolto, perché a volte non ho voglia di chiacchierare, perché non sono sempre pronto a sbatterla sul letto e dedicare tutta la notte a noi due. Sa che se potessi sarei diverso, e sa come sono quando non ho il lavoro a cui badare. Tu, invece, di me hai visto solo la facciata che sono costretto a portare qui a scuola. Tu non potresti mai capirmi.
Bianca alzò un sopracciglio.
-Beh, a voler essere precisi, l'ho conosciuta un po' più a fondo, in qualche occasione.
-Ah sì? Mi hai fatto tu la limonata quando avevo lo scagotto, Bianca? Mi hai mai tenuto la fronte mentre vomitavo dopo una serata alcolica? Mi sopporteresti la mattina presto, quando potrei mangiare una persona viva?
-... no. Ma potrei esserne capace.
-Forse, ma non capiresti mai perché non sono come te. E alla lunga, diventeresti come me. Non è il caso che una sedicenne si comporti come una trentenne.
-Non starò mai con Cappellotto.
-Ma lo spero bene.
Bianca lo guardò negli occhi, scrutandolo come se volesse dirgli qualcosa. Era capace di essere indecifrabile, quella ragazza.
-Non ho proprio speranze? - gli chiese alla fine.
-Mettiamola così. Qualcun altro, eccetto me, ha speranze, con te?
-No.
-Ecco. Stesso provo io per Camilla. Come la mettiamo?
-La mettiamo che Bianca se la mette via.
-Cosa dovrei fare, secondo te? Lasciare la donna che amo per mettermi con una donna che non amo, che per di più è una ragazzina, e in quanto tale mi farebbe finire dritto al fresco?
-No, non dovrebbe. Ma sarebbe bello se lei lo volesse.
Emanuele non rispose, le fece un sorriso di circostanza. Bianca si alzò.
-Be', ci ho riprovato. Ma mi sa che è ora di andare, prof.
-Monica avrà le mani nei capelli.
-Già. Allora ci si vede, prof. Grazie della chiacchierata.
-Ma dai. Ciao, ci vediamo.
-Arrivederci.

Emanuele era stato colpito da tanta posatezza. Forse Bianca, pensava, era cambiata, forse si era data una calmata dopo la delusione amorosa.
Si era consolato con quel tipo di pensieri fino a che, il giorno dopo, non l'aveva trovata davanti al portone della scuola, intenta a baciare appassionatamente un tipo più grande di lei. Solitamente la gente la teneva a distanza, soprattutto i ragazzi carini, perché girava voce che Bianca avesse contratto l'AIDS a forza di andare con chiunque. Questo tizio in questione aveva capelli ossigenati e piastrati, occhiali a specchio, jeans con vita bassa che scoprivano dei boxer fuxia, cintura rosa e un paio di scarpe con sopra più colori dell'arcobaleno.
-Buongiorno – le disse, passandole accanto. Lei aprì un occhio; lo vide e si staccò dal tamarro in fuxia.
-Buongiorno, prof! Ha visto? Ho trovato un nuovo amico!
-'Giorno – fece il suo nuovo amico con un sorriso, alzando con due dita la visiera del cappellino.
-Buongiorno, Trolese – replicò educatamente Emanuele.
Bianca gli rivolse un sorriso allegro, poi si lanciò di nuovo in un attorcigliamento di lingue con Trolese, che la palpava tranquillamente in presenza di un pubblico scandalizzato.
-Attento, che ti passa la sifilide – gridò infatti qualcuno.
Quelle storie su Bianca, sulle malattie veneree, avevano iniziato a girare da un po' di giorni. Erano nate con una battuta, che Emanuele si era limitato a riprendere, ma si erano espanse a macchia d'olio, e ormai Bianca era stata decretata ufficialmente affetta dall'HIV.
Ormai, solo i peggiori si degnavano di andare con lei. I ragazzi a posto, e quelli popolari, la evitavano come la peste. Quasi tutti si guardavano bene dal parlarle, spaventati all'idea che la sua reputazione li contagiasse, come un virus invisibile.
Ma Bianca non se ne curava. Quel giorno fu incontrollabile. Continuava a disturbare i compagni, tentando di parlarci, ma perfino quelli che si era portata a letto si rifiutavano di rivolgerle la parola.
-Crivellaro! Ma insomma! - esclamò lei a un certo punto, come se non fossero stati nel bel mezzo di una lezione – Dopo tutto quello che c'è stato tra noi, ti rifiuti di parlarmi?
-Dai, per favore, lasciami stare. Hai interrotto la lezione – replicò Crivellaro senza guardarla; il che aveva dell'incredibile, perché Crivellaro era uno dei maggiori elementi di disturbo della terza A.
-Guarda che non te le faccio più toccare – Bianca sorrise maliziosa, si abbassò la scollatura e si accarezzò un seno. Tutti gli uomini della classe, Crivellaro compreso, trasalirono, ma nessuno di loro parlò; fu Giulia a intervenire.
-Senti, Bianca – disse il suo nome come se fosse stato un insulto – l'hai finita di rompere i coglioni? Perché non fai a meno di venire a scuola, dato che fai tutto fuorché studiare?
-Mmmh – replicò Bianca, reclinando il capo – guarda quanti esemplari ci sono in quest'istituto. È un'occasione irrinunciabile di ampliare le proprie conoscenze.
-No, a scuola si viene per studiare, non per mostrare le tette!
-Su, non fare così. È vero, Dio con me è stato generoso e mi ha dato le tette, mentre a te no, ma non è il caso di arrabbiarsi a questo modo.
-No, il fatto è che Dio a te ti ha fatta troia e a me mi ha fatta normale, e sinceramente non ho che da ringraziarlo per questo!
-Troia solo perché pretendo che Crivellaro, dopo che ha fatto i suoi comodi, mi rivolga la parola?
-Ma parlagli a ricreazione! Lasciaci far lezione!
-Il tuo ragionamento non fa una piega, ma non mi va. Non so perché. Non mi va. Non ho la minima intenzione di far proseguire questa lezione. Non mi va di ascoltarla. Non mi va di stare con voi. Voglio che Crivellaro mi parli. Finché Crivellaro non mi parla, io non la smetto. Sì, questa è una minaccia. E no, non la finisco, continuerò a parlare finché non mi parla anche lui. Avanti Crivellaro, questa è una sfida. Fuori le pistole. Gatti di polvere che rotolano. Insegne di vecchie taverne. Strade semideserte e gatti neri che rizzano il pelo. Qualche cactus...
-Bianca – Emanuele intervenne – ehi. Fermati.
Lei si voltò nella sua direzione.
-Oh, professore! Mi scusi se l'ho interrotta. Non volevo certo danneggiare lei, mi scuso profondamente per il mio comportamento. Ma non riesco a scusare Crivellaro per il suo abominevole voltafaccia. Finché Crivellaro non mi parlerà, io impedirò in ogni modo che la lezione segua il suo normale svolgimento. Ricordi il piano dell'offerta formativa o incorrerà in una spiacevole autogestione; il che poterà a ulteriori consigli degli insegnanti. Perché la classe è troppo vivace con alcuni elementi di disturbo che spiccano tra gli altri. Impediscono ai docenti di proseguire normalmente con la spiegazione. Vanno isolati oppure integrati, ma non siamo ben certi di come svolgere un programma d'integrazione per gli studenti con evidenti problematiche.
-Bianca – la interruppe – cosa stai dicendo?
-Sto facendo un excursus delle cose che ripetete più spesso. A volte sapete essere noiosi. Non fate altro che...
-Bianca, adesso stai zitta – decretò.
-Ci provo, prof. Ci provo, ci provo, ma ho così tanta voglia di parlare, di dire un casino di cose, di fare cose, di comunicare con i miei coetanei. Ho una gran voglia di uscire da qui, posso? Posso? Così non disturbo più nessuno e mi lancio in attività che io ritengo più interessanti. Col massimo rispetto per la sua eloquenza. Posso uscire, prof? Allora? Me lo permette per favore?
-Per favore, la faccia uscire – lo supplicò un ragazzo – non ne posso più di sentirla blaterare.
-Solo alle elementari i bambini non riescono a stare seduti tranquilli sui banchi – brontolò una ragazza.
-Bianca, per favore vai dalla preside e aspettami lì. Ti raggiungo al cambio dell'ora.
-Yes! - esclamò Bianca, poi uscì dalla classe galoppando. In corridoio, la vide fare una ruota. La controllò mentre saltava i gradini due a due, poi uscì dal suo campo visivo. Sembrava stesse andando davvero dalla preside.
Fece una gran fatica a proseguire la lezione, ma in qualche modo arrivò alla fine dell'ora.
Si precipitò nell'ufficio della preside, trovò Bianca intenta a mangiarsi le unghie con grande concentrazione, mentre la preside scriveva su qualche registro.
-Buongiorno, Emanuele – lo accolse placidamente – eccola qui. Abbiamo fatto due chiacchiere.
-Ottimo – commentò – allora ci siamo calmati?
-Circa – fu la risposta di Bianca, che sorrideva con l'aria di chi ne stava progettando una di nuova.
-Avanti, ti accompagno in aula. Adesso c'è Rossella, vedi di stare calma.
-Sissì.
Bianca lo seguì, saltellando e lanciandosi in ardimentose giravolte, su per le scale e nel corridoio. Non le chiese né disse nulla, la portò solo in aula. Sentì che l'accolsero con qualche insulto, ma decise di lasciare che se la sbrigasse da sola.
Tempo dieci minuti, e vide, dalla quarta A, che Bianca era stata spedita fuori in corridoio. Passò fuori tutta l'ora; la sesta ora, invece, sentì diverse grida provenire dalla sua classe, e udì distintamente il nome 'Bianca'.
Il giorno dopo si svolse allo stesso modo. Fu portata dalla preside, sgridata, punita, sbattuta in corridoio, ma Bianca non dava segno di volersi calmare. Dalle altre classi, attraverso le porte a vetri, la guardò mentre approcciava altri studenti che si trovavano ad andare in bagno o in segreteria, poi la vide mentre chiacchierava col bidello, senza mai stare fissa in una posizione, poi la osservò, sbigottito, mentre comunicava a versi con qualcuno in quinta B, attenta a non farsi vedere dalla prof. Poco dopo, un ragazzo di quella classe – che non era Trolese – la raggiunse con un sorriso, la portò vicino alle scale, la sbatté contro un muro ed iniziò a metterle le mani sotto i vestiti.
Emanuele uscì dalla classe con una scusa. Avvicinatosi senza far rumore, notò che il tizio aveva una mano sotto la gonna di Bianca, e che lei ansimava, e che il tipo stava slacciandosi i pantaloni e tirando giù le mutandine di lei. A quel punto si avvicinò, facendo più rumore possibile.
-Ehi – esclamò – Chi c'è là dietro?
Finse di non averli visti bene, perché, se li avesse colti nel fatto, avrebbe dovuto farli sospendere tutti e due, e non voleva mettere nei guai Bianca, nonostante tutto. Aspettò il tempo necessario perché si ricomponessero; li ritrovò rossi e col fiato corto, ma vestiti.
-Cosa stavate facendo? - domandò, severo.
-Niente – rispose prontamente il tizio – stavo andando in bagno, ho trovato Bianca e abbiamo fatto due parole.
-Non vi ho sentiti parlare.
-Parlavamo piano... di cose nostre.
-Vai in bagno e fai quello che devi fare. E tu, Bianca, cosa stai facendo qui fuori?
-Mi ci hanno buttata – sorrise lei, furba – non è colpa mia.
-Ti ci hanno buttata perché stessi da sola, Bianca. È lo scopo di una punizione: che tu stia isolata. Quindi isolati, per cortesia, prima che parli con l'insegnante della tua ora.

-Oki.
Emanuele aspettò che il tizio si fosse allontanato; poi si avvicinò a Bianca.
-Pensavo fossi cambiata – le sussurrò, arrabbiato – che fossi diventata adulta, non che fossi regredita.
-E chi ha voglia di essere adulti, se è come dice lei? - replicò Bianca allegramente, attaccandosi alla ringhiera e dondolandosi sulla rampa di scale, con una gamba alzata a novanta gradi.
-Non per questo devi comportarti da bambina di sette anni – la riprese.
-A sette anni non le facevo queste cose, prof.
-Quindi sai che ti ho parato il culo. Bene. Sappi che è l'ultima volta. Mi hai deluso parecchio, Bianca.
Lei sorrise e si allontanò strascicando i piedi.
Quasi se lo sentiva, ma il giorno dopo passò alla stessa maniera. Grida, Bianca per i corridoi, gente che la insultava. Ragazze che la accerchiavano perché era stata coi loro fidanzatini. Ragazzi che la evitavano quando lei cercava di approcciarli. I peggiori stupidi della scuola che si appartavano con lei da qualche parte.
I giorni che seguirono la trovò sempre sul portone della scuola, alle otto di mattina, avvinghiata a qualche cretino. Ogni suo momento libero era dedicato al sesso e ai suoi derivati. Una ricreazione, davanti a tutti, baciò una ragazza dichiaratamente lesbica, e il bacio fu tanto duraturo che qualcuno iniziò a filmarlo. Quel filmato iniziò a girare, e, assieme ad esso, le voci che Bianca recitasse nei film porno. Bianca fu fotografata ed Emanuele trovò facilmente in internet dei fotomontaggi del suo volto con il corpo nudo di qualche attrice del settore. Bianca le aveva stampate e attaccate con lo scotch al suo banco.
Quanto agli insegnanti, avevano le mani nei capelli. Nessuno era più in grado di tenerla in classe per più di un quarto d'ora, a parte Antonella ed Emanuele. Fu richiamata spesso per il suo abbigliamento, ma questo non fece che peggiorare. I suoi capelli erano sempre più rossi, così come il rossetto e lo smalto; iniziò a portare sempre i tacchi alti, e le scollature a volte erano così profonde che si vedeva una porzione di reggiseno.
Un giorno, addirittura, più di qualcuno giurò di averle intravisto un capezzolo.
Emanuele durante le sue lezioni lasciava che facesse qualunque cosa le andasse di fare; tutti fingevano di non vedere la PSP, ormai tutti la ignoravano quando iniziava a lanciare occhiate in giro. A volte chiamava la gente, la invitava a parlare, ma nessuno le rispondeva. Lei allora lasciava perdere e iniziava a fare a pezzi la gomma da cancellare, per poi ricomporla in svariate forme. Durante le lezioni dipinse qualche acquerello. Infestò con un terribile odore di acetone tutta l'aula, perché si faceva lo smalto nelle ore di spiegazione. Il rumore del suo iPod era spesso fastidioso. Qualche insegnante provò a darle degli esercizi extra da fare durante la lezione, e lei li fece, ma era piuttosto veloce e spesso si era daccapo.
-Ohi, Rossetti – si rivolgeva ai compagni, reggendosi la testa con la mano e mostrando bene il seno in angolazione – ti va di replicare l'altra notte? Adesso, in bagno?
Lo mormorava, ma lo mormorava forte.
Rossetti guardò la lavagna con determinazione, lei gli lanciò una penna, gliene lanciò due, qualcuno gliene lanciò una in faccia.
-Ahia – disse con una smorfia, e poi iniziò a lanciare matite a caso. - Guerra delle matite! - esclamò, ma nessuno le diede retta, se non per lanciarle severe occhiatacce.
I professori facevano finta che non avesse parlato, e così iniziarono a fare tutti. Ogni tanto parlava da sola.
-Sono tutti antipatici – diceva a un pettirosso sul davanzale, sorridendo – vedi? Non mi danno retta. Come dici? No, no, non gli ho fatto niente, io. Gli ho solo dato quello che volevano. Beh, sì, ad alcune ho tolto quello che volevano, ma la gente non lo fa in continuazione?
-Sssh – facevano i compagni, in coro, infastiditi.
-Vedi? Mi trattano così. Beato te che sei così carino. Tutti ti vogliono bene. Tutti ti vorrebbero in casa loro. Però poi ti mettono in gabbia, non so chi sta meglio tra me e te. Dicono che l'uccellino a cui venga aperta la gabbia non voli via per paura del grande mondo. La paura. Hai...
-STAI ZITTA – urlavano, e lei sospirava e stava zitta.
Non per molto, però. Faceva ai professori domande su domande, inerenti al programma, ma domande in continuazione. Finivano di risponderle, e lei chiedeva ancora. Proseguire era impossibile. Richiamarla all'attenzione portava ad assaggiare un'arma a doppio taglio.
Il lunedì, quando tornarono a scuola, Bianca arrivò accompagnata da un quarantenne. Lo salutò con un bacio appassionato, esattamente di fronte all'entrata. Lui la salutò con una pacca sul sedere.
Tutti mormoravano talmente forte che gli insegnanti si precipitarono fuori, a vedere cosa fosse successo; e videro solo Bianca, con un enorme succhiotto viola sul collo, che si sistemava i capelli e si avviava verso il portone, senza neanche lo zaino o un quaderno.
-Guarda col compagno – le dissero quando lei, richiamata all'ordine, protestava di non avere i libri, ma i compagni non volevano.
-Ma guarda che maleducati – commentò lei, parlando a nessuno in particolare – solo perché io ho una vita e loro no. Io ieri sono andata a letto alle cinque, mi sono fatta una nottata che se la sognano, ho bevuto perfino il Dom Pérignon... quanta disdicevole invidia c'è nel mondo.
I colleghi, a ogni cambio dell'ora, riportavano notizie di questo genere.
Un giorno la vide in un parcheggio poco lontano dalla scuola; all'inizio aveva visto solo un ragazzo fermo sul sedile della guida, e poi aveva visto la testa di Bianca emergere dal cruscotto, e la sua mano esile che si asciugava la bocca. Lei si limitò a salutarlo con la mano.
Attese che arrivasse il mercoledì, e, quando arrivò, la afferrò per un braccio e la trascinò per il corridoio, staccandola dal tizio contro il quale si stava strusciando.
-Cosa c'è, prof? - biascicò lei; notò che teneva in mano una bottiglietta. Ricordò quello che gli aveva raccontato tempo prima. Probabilmente era vodka.
-Quanto male intendi farti ancora, prima di piantarla una volta per tutte? - sibilò tra i denti – Adesso andiamo nell'ufficio della preside. Intendo parlarti seriamente.
-Ah, voilà! - replicò allegramente lei, ma lo seguì docilmente.
Arrivati in ufficio, diede precisi ordini alla segretaria; non voleva essere disturbato. Adagiò Bianca sul sedile e, per una volta, decise di mettersi dall'altra parte della cattedra.
-Mi dica, prof – fece lei; aveva gli occhi semichiusi e la testa che ciondolava.
-Sei ubriaca?
-Ah, è molto probabile, prof. Ma mi sento così tranquilla. Era da un po' che non mi sentivo così.
-Che cos'hai, Bianca? Cosa ti è successo?
-Cosa mi è successo?
-Mi prendi in giro? Stai tornando esattamente come prima.
-Mais oui?
-Oui, Bianca, senza dubbio. Dammi quella bottiglia. Come ti viene in mente di ubriacarti a scuola?!
-Ma se non bevo mi agito, e se mi agito tutti se la prendono con me; così bevo e me ne sto tranquilla, no?
-Cos'è che ti agita? Cos'hai? Perché non me lo vuoi dire?
-Le ho scritto una poesia, prof! A momenti la dimentico. Tenga.
Bianca gli porse un foglio a righe strappato da un quaderno. A penna blu era tracciata una poesia quasi illeggibile.
-Galoppare sulla polvere di stelle... arcobaleni... fate... cavalli morti...? Cos'hai scritto qui? Budella?
-Già – proclamò fiera.
-Non riesco a leggere nulla.
-Avevo la vista un po' appannata. Mi sa che non si legge tanto bene, eh?
-Cosa stai cercando di dirmi?
-Nulla. Non cerco di dirle nulla. Credo di invidiarla molto. Lei e Camilla.
-E per questo vai con chiunque ti capiti?
-Oh, no, prof. No. È perché altrimenti il tempo mi divora. Se non lo divoro io, sarà lui a mangiare me. Poi c'è l'ottovolante. I cavalli, appunto. Galoppo, e la polvere di stelle, sa. Ma poi muoiono. Come le ho detto nella poesia.
-Bianca – Emanuele scandì molto lentamente le parole successive – quello che stai dicendo non ha senso.
-Mi sento un po' confusa – fece lei – sarà l'alcool.
-Aspetto qui finché non ti è passata. Ti porto un caffè. Te lo faccio bere col sale, se non ci sono altre soluzioni. Ma tu mi parlerai seriamente, come hai fatto qualche settimana fa.
-Non mi passa subito. Dovrei dormirci sopra.
-Sei in grado di rispondere alle mie domande?
-Suppose so.
-Perché non riesci a startene calma due minuti?
-Sono nata così, prof. Con una peculiare tendenza all'esuberanza.
-Ma un mese fa stavi calma. Fin troppo calma. Continuavi a piangere.
-Be', capita a tutti un momento di sconforto.
-Fai la cretina per non pensare a quello che succede in casa tua?
-Ma si figuri, prof.
-E allora?
-Insomma, ho mal di testa – protestò – voglio solo starmene in pace. Non ho più disturbato, proprio come mi avevate chiesto. Non le ho neanche più proposto di stare con me, invece che con Camilla, perché il vostro è un Autentico Grande Amore. Ho ubbidito a tutti quanti. Che c'è ancora? Mi lasci tornare in classe.
-Non finché non avrò una parvenza di dialogo serio con te.
-Non ne ho voglia – sbuffò; dopo averlo detto scattò in piedi, si voltò e si avviò verso la porta.
Emanuele si alzò velocemente.
-Tu rimani qui – decretò.
-Sarebbe delizioso, ma ho un'ora di filosofia che mi aspetta. La prego di scusarmi. In presenza del re tutti i cortigiani stanno in piedi e si levano il cappello.
-Ferma – le ordinò, e, dato che si affrettava, l'afferrò per un braccio e le tirò su la manica quasi fino al gomito.
Fu nel fare questo che avvertì una superficie soffice fare attrito contro la manica.

Guardò il braccio di Bianca.
Assicurato con lo scotch medico, sul suo polso c'era un grosso cerotto bianco, che la copriva esattamente in corrispondenza delle vene.

-Bianca – mormorò, senza fiato – Bianca...
-Ora mi lascia andare?
-Bianca – mormorò ancora, mentre le mani iniziavano a tremargli – che cosa... che cos'hai fatto...?














* Questa è una citazione che non ho potuto esimermi dal fare :°D dubito riuscirete a coglierla, ma chissà, forse qualche appassionato... *-*

(Nda: scusate i lunghi tempi d'attesa... è stato un capitolo molto difficile da scrivere, e, per dirla tutta, non ne sono soddisfatta, ma le cose sono due: o lo scrivi come viene o non lo scrivi, altrimenti lo perdi e basta. Mi rimetto al vostro parere :O.
Siccome ora sono un po' ammalata, non ho proprio le forze per rispondere singolarmente alle vostre recensioni T___T ma sappiate che le leggo tutte attentamente e che mi fanno un enorme piacere, per cui vi ringrazio tutte di cuore per le vostre parole gentili. Sono una grande fonte di sostegno per me :).
Noto che qualcuno di voi, nelle sue elucubrazioni XD, sta dirigendosi più o meno sulla giusta strada per quanto riguarda Bianca. Non intendo farvi spoiler, però credo di poter dire tranquillamente, specie alla fine di questo capitolo, che, sì, dei problemi ci sono. Penso che entro il capitolo 10 la storia sarà conclusa, per cui i chiarimenti non tarderanno ad arrivare.
Con ciò chiudo e torno alle mie copertine e all'aspirina ç_ç'' spero di guarire presto, così scrivo qualcos'altro XO!
Al prossimo capitolo e grazie ancora delle recensioni :*!)

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Lei continuava a fissare la porta, tanto che non poteva vederla in viso.
Da una parte, voleva pensare di essersi sbagliato. Voleva pensare che si fosse ustionata con la piastra, o che il gatto l'avesse graffiata, o qualche altra sciocchezza simile. Non era poi così improbabile. Quante possibilità c'erano che quel cerotto stesse nascondendo ciò che lui pensava?
Ma, sforzandosi di rimanere lucido, si rese conto che non poteva essere nient'altro.
Un cerotto sulle vene del polso non dava adito a molte interpretazioni.
-Bianca, voltati e guardami – le ordinò, ma la sua voce non era poi così ferma, e lei rimase dov'era, rigida, con il braccio immobile nella mano di Emanuele. - Bianca – la chiamò ancora – guardami.
Stavolta doveva essere stato più convincente, perché lei si girò. Guardava in basso, con aria vagamente colpevole.
-Cos'hai fatto...? - le chiese di nuovo, anche se non era necessario.
-Credo lei sappia cos'ho fatto – sospirò lei, quasi la stesse seccando.
-Perché?
Sapeva di aver posto una domanda difficile, e non s'irritò quando ricevette una risposta poco esauriente.
-Ah, non mi ricordo. Mi sentivo triste, credo.
-Ti sentivi triste? Tutte le volte che ti senti triste, tu...
-Ma no, no – scosse la testa – mi sentivo particolarmente triste.
-Capita a tutti – Emanuele cercò di contenere il tremore delle mani e della voce – di sentirsi particolarmente tristi, almeno una volta l'anno. Ma non tentiamo tutti il suicidio.
-Ah-ha! Vorrebbe dire che le mie motivazioni erano labili? Eh? Eh?
Nel parlare gli venne sempre più vicino, spingendo la testa sulla sua spalla. Lo diceva ridendo.
-No – fece Emanuele, serio, spostandola – voglio dire che erano fin troppo profonde. La gente non arriva a questo solo perché è triste, lo fa perché è disperata, di solito.
-Non ero disperata – precisò Bianca – ero... beh, sì, anche disperata, mi sa, sennò non l'avrei fatto. Credo di aver pensato che non ce la facevo più. Ma non era solo questo, perché capita spesso di pensare di non farcela ma nel profondo sai già che, invece, in qualche modo ce la farai, giusto?
-Beh... sì, giusto.
-Ecco. Solo che ho pensato una cosa, senta la mia teoria. Ho pensato che, anche se per quella volta mi fosse passata, era comunque inutile continuare, perché il mondo faceva schifo in ogni caso, avrebbe continuato a fare schifo anche se avessi continuato a vivere. Così pensavo. Quanto pessimismo!
-Se non ho capito male... l'hai fatto per sfiducia...?
-Bravissimo! - le si illuminarono gli occhi – Ha detto proprio la parola giusta. Sfiducia. Pensavo che anche se avessi superato quel periodo, poi comunque sarebbe successo qualcos'altro. Se non ricordo male, pensavo che le persone non mi piacessero, che nessuna fosse animata da amore e buoni sentimenti, perché in fondo siamo tutti egoisticamente e schifosamente umani. E perciò ho ragionato: chi vuole vivere in un mondo in cui non c'è niente di vero, in tutto quello che ci hanno raccontato...?
Emanuele realizzò che doveva pensarlo veramente.
In tanti sostenevano che il mondo facesse schifo e che le persone fossero cattive, ma, se il livello di disgusto e sfiducia avevano raggiunto quel livello, significava che Bianca lo sentiva davvero. Nel profondo, da dove era molto difficile risalire.
Le profondità sono luoghi attraenti, ma estremamente pericolosi.
-Insomma, ho fatto due più due – continuò Bianca – potevo anche superare quella giornata, ma sarei andata ancora incontro a un'infinità di giornate uguali a quella. Il mondo e le persone sono fatte così, lo sa anche lei. E allora ho pensato: dato che non mi piacciono, perché continuare ad affrontarle ogni giorno, se tanto so che non cambieranno mai?
-Vuoi dire che non era una crisi, ma... una scelta?
-Precisamente – confermò Bianca, sedendosi sulla scrivania e dondolando le gambe – una scelta, proprio così. Le crisi sono quelle cose che superi, e poi tutto torna più o meno a posto; tu cambi, oppure è quello che ti circonda a cambiare, ma in qualche modo recuperi l'ottimismo. Il mio era un caso diverso. Non era quella tristezza da ululati nel cuscino, capelli strappati, una corsa verso la terrazza dell'ultimo piano... è solo che ho fatto due conti e ho capito che il mondo non era il posto per me. Tutto qua.
-E tu eri ubriaca...? - fece Emanuele.
-Ubriaca? No, no, non avevo bevuto. È stato un ragionamento lucido.
-No, non intendo allora. Intendo adesso. Poco fa sostenevi di aver bevuto troppo, ma questi non sono i discorsi che fa un'ubriaca. Tu sei perfettamente sobria, altrimenti non potresti spiegare con tanta chiarezza i motivi per cui hai cercato di toglierti la vita.
-Forse sono tanto chiara proprio perché sono ubriaca. Mi sento sempre meglio, sa, quando bevo un goccetto – sorrise e gli porse la bottiglietta. Emanuele declinò scuotendo il capo.
-Intendi rifarlo? - le domandò.
-Cosa, bere vodka? Beh, non vorrei deluderla, ma ho proprio paura che...
-No, Bianca, non la vodka. Intendi provare ancora a...
Indicò il suo polso con un cenno del capo.
-Macché, prof! - ridacchiò – Mannò. Chissà cos'avevo per la testa. Poi si è sistemato tutto, si sistema sempre tutto, posso resistere. Ora mi sento molto in forma. Mi sento piena di vita, posso affrontare tutti.
-Già, parliamone– osservò Emanuele – piena di vita. Sì, decisamente direi che ne hai da vendere, di vitalità. Un po' troppa, non trovi?, per poterti definire serena.
-Come, scusi?
-La vodka, e quelle pastiglie. Non penserai che abbia creduto alla storia della pillola anticoncezionale, vero?
-E perché non dovrebbe?
-Perché, e voglio parlarti chiaro, sembri perennemente fatta di ecstasy. Voglio sottolineare che non è un'idea solo mia. La condividiamo in tanti.
-Ah, questa mania di pararsi il culo con lo scudo dell'opinione comune... non può dirmi che questa è la sua idea, punto e basta? Se lei ne è convinto mi è sufficiente come credenziale, mi creda.
Possibile che dovesse sempre farsi sconfiggere verbalmente da una sedicenne tossicodipendente?
-Che lo pensi io o che lo pensi un intero istituto, voglio comunque un chiarimento da parte tua. Dimmi la verità. Prendi ecstasy, o cocaina, o amfetamine di qualsiasi genere?
-Gliel'ho già detto molte volte, prof. No. Non sono una drogata.
-E che mi dici dell'alcool?
-Quello lo uso per darmi una calmata, non certo per agitarmi ulteriormente.
-E cos'è che ti agita, allora, se non è la vodka e neanche la droga?
-Santo Dio, LA PIANTI – gridò Bianca, e nei suoi occhi furiosi rivide un istante di qualche tempo prima; in automobile, quando lui aveva insinuato per la prima volta che lei potesse essere tossicodipendente.
-Va bene, d'accordo. Basta domande.
-BASTA CON LE DOMANDE! - strillò lei, improvvisamente fuori di sé – BASTA! Lei deve lasciarmi in pace! Ha capito? MI LASCI STARE! La mia vita non la riguarda! Si preoccupi della sua vita e di Camilla e del suo stupido cane e di qualsiasi altra cosa sia più importante di me!
-Bianca, stai calma, per favore – provò a prenderla per le spalle, ma lei si scrollò con rabbia.
-NON MI TOCCHI! - urlò, pulendosi le spalle con tanta foga che sembrava si stesse schiaffeggiando – MI LASCI STARE! SE NON GLIENE FREGA NIENTE DI ME, SE NE VADA! NON VOGLIO AVERLA ATTORNO, NON LA VOGLIO VEDERE!
-Per favore, siediti. Non urlare. Ti sento.
-NO! - urlò lei, con forza.
Ansimò per un po', guardandolo con rabbia, poi, all'improvviso, sembrò ridestarsi. Spalancò gli occhi, abbassò la testa, si posò una mano sulla fronte e si abbandonò sulla sedia.
Emanuele la guardò, in attesa.
-Non posso andare avanti così – mormorò lei, fissando il pavimento ad occhi sbarrati. Afferrò disperatamente la bottiglietta, la stappò e, prima che Emanuele potesse fare qualsiasi cosa, diede qualche lunga sorsata. - Mi scusi. Devo andare.
-A fare cosa...?
-Devo andare. Davvero. Mi lasci andare – supplicò, stringendo la bottiglietta come se fosse un'ancora di salvezza.
-Bianca, cosa stai facendo a te stessa? - le chiese disperato, mentre si allontanava.
-Mi lasci stare – lo implorò lei, prossima alle lacrime – io stavo bene prima di parlarle. Dio – si diresse frettolosamente verso la porta; ma la voce rotta e le mani tremanti sembravano chiedere esattamente il contrario delle sue parole.
Emanuele provò a rincorrerla, ma le ginocchia per un istante gli cedettero. Si sentiva sfinito.
In fondo, nonostante fosse lei a chiedergli di lasciarla andare, in realtà era lui quello che voleva allontanarsi. Il più distante possibile, dove lei non avesse più il potere di toccargli il cuore.


Quel giorno andò a casa prima. Si giustificò con un malessere improvviso e se ne tornò a casa; aveva voglia di vedere Camilla, le telenovele stupide del dopopranzo, i suoi genitori, Gengis, le action figures, di leggere un nuovo numero di Rat Man anche se ormai gli faceva schifo.
Aveva voglia della sua vita.
Aveva un bisogno disperato della sua vita, aveva bisogno di parlare con qualcuno che volesse viverla, e che non gli ripetesse in continuazione che il mondo era un cumulo schifoso di vipere in agguato, perché stava iniziando a crederci.
Voleva qualcuno che gli dicesse 'andrà tutto bene'.
Una parte di lui voleva che qualcuno lo dicesse anche a Bianca, ma non aveva voglia di pensare a lei. Non era riuscito a convincerla di niente. Era lei che convinceva lui delle sue idee, lei che continuava a ripetergli, finché non gliel'aveva inculcato, che era impossibile continuare a vivere.

In fondo era riuscita nel suo intento.
L'aveva fatto scendere dal cavallo bianco.

-Ema? - fece Camilla, sorpresa; probabilmente aveva visto il suo cappotto gettato disordinatamente sul divano. - Sei qui? - fece, entrando in cucina.
Era lì, certo. Aveva frugato tra gli intrugli di Camilla finché non aveva trovato una tisana rilassante, ma non doveva aver funzionato, perché continuava a stringere i denti e non era capace di rilasciarli.

-Cosa fai qui? Non sei a scuola, a quest'ora?
-Teoricamente sì – rispose, sorseggiando la terza tisana.
-Cos'è successo? Stai male?
-Abbastanza. Sì, sto parecchio male.
-C'entra Bianca...?
-Certo, c'entra Bianca. E chi sennò? Io non andrò avanti ancora a lungo se quella ragazzina continua a... Cristo. Non ce la faccio più.
-Calmati – fece Camilla, sicura, facendoglisi vicino – non pensarci. Ok? Svuota la testa.
-È quello che cerco di fare da un'ora – si lamentò – niente, non ce la faccio. Devo starle lontano. Altrimenti perdo la testa. Io non ce la faccio più, Camilla, davvero, non ce la faccio più.
-Ok, ho capito. Invece ce la farai. Bianca la pianterà di riversare su di te i suoi problemi e tu ce la farai.
-Ma chi la aiuterà, se non io?! - esclamò, disperato – Chi si occuperà di quella ragazza?
-Ema...
-Bianca ha tentato il suicidio. Ha cercato di tagliarsi le vene. Lo capisci, io cercavo di aiutarla, e invece lei durante le vacanze si è tagliata le vene. Come cazzo bisogna stare per cercare di morire a Natale?

Camilla impallidì; abbassò gli occhi. Emanuele si sentì sprofondare, perché stavolta non sapeva nemmeno lei cosa dire, cosa fare per sistemare tutto.
-Ha sedici anni – proseguì, stravolto – anch'io a sedici anni pensavo 'la faccio finita', ma poi non lo facevo davvero. A sedici anni ha vissuto così poco, ma già ha voglia di morire. Com'è possibile? Cosa le hanno fatto, per farle decidere che aveva visto tutto, e che non le piaceva per niente...?
Si nascose il viso tra le mani. Si sentiva senza speranze anche lui.
Bianca era contagiosa. Quand'era allegra, gli veniva da sorridere, quand'era triste, gli veniva da piangere. E ora che scopriva che aveva voluto morire, non riusciva a guardare al futuro nemmeno lui.
-Dove abita? - chiese improvvisamente Camilla.
-Eh? Perché...?
-Dimmi dove abita – fece lei, marziale. Quel tono lo stupì.
-Altichiero – mormorò, incerto. Lei annuì. - Perché?
-Dammi l'indirizzo preciso, se ce l'hai. Vado a parlarci.
-A parlarci?
Emanuele si drizzò all'improvviso, sbalordito. Camilla annuì di nuovo, e si riallacciò le scarpe.
-Sì, ci voglio parlare. Mi dispiace per questa ragazzina. Ma, vuoi la verità? Il fatto è che non ce la faccio più a vederti così. Se te la prendi per qualche colpo basso dei colleghi, beh, ci sta, è normale. Se i ragazzini ti rendono la vita impossibile e non ti lasciano far lezione, è normale anche quello; io ho i contribuenti e tu gli studenti, e so che entrambi sanno essere insopportabili. Ma non è giusto... - gli occhi di Camilla si inumidirono – non è giusto che lei rovini la cosa più bella che ho. Io voglio vederti sorridente, non distrutto a causa sua. Ha dei problemi? Ne parleremo, l'aiuteremo, farò qualcosa. Ma io voglio indietro quello che ho costruito con te. Non posso permetterle di rubarmelo.
Si asciugò una lacrima, e a quel punto Emanuele si alzò e si precipitò di fronte a lei. L'abbracciò e le baciò la fronte.
-Amore mio, perdonami – bisbigliò – è anche colpa mia. Non è giusto che sia tu a farne le spese. Ti prometto che sarò più forte, che non mi farò influenzare da lei.
-E se invece lo farai? - singhiozzò lei – Io voglio... io voglio almeno andare da lei e dirle la mia. Voglio dirle che non deve avere l'esclusiva sui tuoi cambiamenti d'umore, che... non deve essere più importante di me.
-Ma non è...
-Ma lei – lo interruppe Camilla, tirando su col naso – lei riesce a toccarti dove io non posso. Lei è capace di farti disperare, ma io non sono capace di farti sorridere. E... e io voglio... voglio che la smetta!
Camilla scoppiò in un pianto a dirotto, che Emanuele cercò di calmare stringendola al petto e accarezzandole i capelli. Respirò profondamente.
No, pensò. Non gliel'avrebbe permesso. Lui e Camilla erano felici, erano sempre stati felici. E avrebbero continuato a esserlo.
E se salire sul cavallo bianco fosse servito semplicemente a difendere quel poco che avevano, una casa e dei libri e un cane mezzo stupido, avrebbe impugnato la spada e combattuto anche contro una ragazzina.
Non le avrebbe permesso di distruggerli.


Fu Bianca stessa ad aprirgli la porta, quando suonò al campanello di casa sua.
-Ma buongiorno, prof! - esclamò felice quando lo vide – Entri, la prego. Che bella sorpresa!
L'accoglienza calorosa quasi gli fece dimenticare il motivo per cui era lì. Ma poi ripensò alle lacrime di Camilla, e alle sue, di lacrime, quando lei l'aveva portato dove lui non voleva arrivare, e si impose di tenere bene a mente che quella ragazzina non era innocente per nulla. Era, a ben vedere, la causa di tutti i suoi recenti malesseri.
-Sei sola? - si limitò a chiederle. Lei gli indirizzò un finto sguardo torvo e arricciò le labbra a cuore.
-Prof, insomma. Ho anche altro da fare nella vita che fornicare.
-Del tipo? - non riuscì a trattenersi dal chiederle.
-Ah, sto scrivendo un libro di poesie. Stavolta a computer, così poi riesco a rileggerle anch'io. Una è quella che le avevo dato, anche se non riesco a ricordare cos'avessi scritto. E poi sto pulendo camera mia, ho disposto tutti i libri sugli scaffali in classificazione Dewey. Ho fatto anche le etichette come in biblioteca. Poi mi sono fatta le unghie per bene, così non me le mangio più; sa, me le rosico in continuazione, è più forte di me. Mi mordo anche sempre le labbra, vede? - le indicò, sporgendole – Sono screpolate e un po' rotte. Dovrei mettermi il burrocacao, ma è così fastidioso, poi quando uno ti bacia ed è pieno di robaccia cremosa è fastidioso da morire, lo so perché una volta uno mi ha baciata dopo essersi messo il Labello, quello per uomini, ovviamente, perché per voi uomini è una vergogna se vi...
-Ehi, stoppa un attimo – intervenne, con calma. Aveva deciso di prendere in mano la situazione, una volta per tutte, senza disperarsi con Camilla o infuriarsi con Bianca. – Senti. Credo che tu ti sia un po' persa nel discorso.
-Credo anch'io – Bianca sorrise, ed era un sorriso bellissimo; sapeva fare dei sorrisi buffi, di cuore, che le illuminavano il viso. Era impossibile resistere al suo sorriso. Ma non lo rivolgeva mai ai compagni di classe; soltanto a lui, e solo qualche rara volta.
-Ti ho disturbato, venendo qui? - le chiese, mentre lei gli sfilava il cappotto.
-Si figuri – replicò allegramente, galoppando fino all'attaccapanni – non sapevo cosa fare. Più tardi vado in palestra e poi mi vedo con una tipa, ma ho giusto quest'oretta che proprio non sapevo come riempire, ed è una strana coincidenza che lei capiti qui proprio adesso; vogliamo utilizzarla come Dio comanda, quest'oretta libera prima che vada in palestra?
Lo disse sorridendo; Emanuele non ci fece caso.
-Volevo parlarti – esordì – se la cosa non ti manda in bestia.
Bianca salì sulla cyclette e iniziò a pedalare con foga. Sollevò le sopracciglia, per invitarlo a parlare; iniziò a mordersi l'interno della bocca.
-Non puoi stare ferma un secondo e venire qui?
-Le spiace? Mi sento veramente piena di energie – replicò gioiosamente – lo vede? Mi sono ripresa. E scriverò questo libro, è un giuramento con me stessa. M'impegnerò in tutto. E quest'anno uscirò con la media del dieci, vedrà se non ce la faccio. E poi andrò in Erasmus all'estero. E lì conoscerò una sbrega di gente interessante, intellettuale, un po' indie e un po' fattona, che cita Kierkegaard e Schopenhauer e ha un Mac Book nonostante il look finto-povero, e tornerò qui e gliela farò vedere a tutti, e quando il libro sarà pubblicato sarò famosa ed elegante e vestita tutta firmata perché dopo il diploma a pieni voti troverò un lavoro straordinario.
Più parlava, e più velocizzava le pedalate. Sembrava davvero instancabile. Ancora, il sospetto che da qualche parte ci fossero delle pastiglie o della polvere Bianca sfiorò il pensiero di Emanuele.
-Non sembri la stessa persona che neanche un mese fa ha tentato...
-Ancora con questa storia, bastaaa – sorrise Bianca – è venuto qua per chiedermi altri dettagli? Vuole vedere la cicatrice?
-Ti supplico di no, sono emofobico. Svengo, se vedo sangue. Non scherzo.
-Anche Benetazzo e i suoi amici metallari dicono sempre di essere emofobici.* Tra tutti, poi, non me lo facevo impressionabile, Benetazzo. Sa che uno dei suoi cantanti preferiti ha ammazzato a coltellate un tizio di un altro gruppo? E i membri del gruppo di questo poveretto hanno fotografato il cadavere e l'hanno schiaffato in copertina del nuovo album? Sa che gira anche voce che denti e pezzi di cervello di quel povero Cristo...
-Bianca, torniamo a bomba per favore?
-Ah, sì, volentieri, prof. Anche a me ha dato un pochino allo stomaco questa storia. E non volevo neanche menzionarle Ozzy Osbourne, che ha mangiato...
-Bianca.
-Scusi. Comunque, mi hanno dato i punti in ospedale, di sangue non ce n'è neanche una goccia. Vuole vedere?
-Sembra che ci tenga più tu di me, al fatto che io veda questa cicatrice.
-Sì, ci tengo, anche se non so perché. Guardi.
Bianca balzò giù dalla cyclette e in due falcate fu da lui. Gli si parò davanti ed entrambi concentrarono la loro attenzione sul grosso cerotto, che lei alzava delicatamente stando attenda a non staccare del tutto lo scotch.
-In realtà potrei anche toglierlo – lo informò – ma la cicatrice fa un po' impressione, e ho paura che si riapra.
-Bianca, ti prego, se continui con questi discorsi finisco per terra. Non sto scherzando.
Ma rischiò di finire per terra anche quando la vide. I punti erano stati tolti, ma erano parecchi. La ferita era larga un centimetro e lunga circa cinque. Pensando alla lama che andava così in profondità, Emanuele ebbe un capogiro e afferrò la spalla di Bianca.
-Prof! - esclamò lei, sorpresa – Mi finisce a terra veramente? Su, si sieda sul divano, che le porto un bicchiere d'acqua. Ma guarda te, grande e grosso com'è... - sorrise ancora, poi sparì in cucina.
Tornò con il bicchiere pieno, ed Emanuele lo bevve avidamente. Rimase seduto.
-Fammi un favore, coprila – mormorò – è un po' troppo per me.
-Sa che ho sempre un formicolio alla mano? Pensi che potevo paralizzarmela.
-Non sapevi di incorrere in questo rischio?
-Beh, non pensavo che avrei dovuto farci fronte, non so se mi spiego – rise, ma, vedendo che Emanuele non rideva, sospirò. - Su, su, un po' allegria. Sono ancora qui a rompere le palle, no? E allora è tutto a posto – sorrise, e gli sembrò davvero rassicurante. In fondo, sembrava piuttosto vivace, anche se spesso lo era fin troppo. Tutto sommato era positivo.
-Ti vedrò ancora in... certi stati?
-No, no, prof. Farò quanto in mio potere affinché non accada. Le prometto che non la farò preoccupare.
-Dov'è la mia garanzia?
-Mmmh... beh. Le spiego; durante le vacanze, mi sembrava tipo tutto vuoto, nel senso che mi chiedevo come avrei fatto ad arrivare all'ora successiva, perché mi sentivo come se non ci fosse niente che valesse la pena di essere vissuto. Sa, la delusione amorosa. Ma adesso mi sento molto meglio! Ho tantissime cose da fare e libri da pubblicare, e medie da tenere alte, e gente da conoscere, e corsi a cui iscrivermi – avevo in mente degustazione, grafologia e yoga – e adesso il tempo mi sembra perfino poco per tutte le cose che voglio fare, se ne rende conto? Infatti ho comprato una bella agendina Moleskine per tenere gli appuntamenti, non per annotarmi pensieri profondi ispirati dal mondo circostante come fanno certi atteggiati pseudo poeti, perché io le poesie le scrivo sul computer, tanto poi le stampano sul computer, e insomma vede? Ho così tante cose da fare che non riesco neanche ad elencargliele! Sono soddisfatta, e imparerò a fare un casino di cose, ed è sempre giusto imparare cose nuove, vero?
-E non potevi fare tutte queste cose un mese fa, quando volevi farla finita?
-Non m'interessavano – spiegò Bianca, quasi dispiaciuta di non poterlo accontentare – mi sembrava che tutto fosse inutile e stupido. Pensavo tipo: ma che me ne faccio del corso di yoga, se tanto sto una merda e il mondo è una merda e non cambierà per me? Ma poi sa, dicono che dal fondo si può solo risalire, e sono risalita, perché se guardi nell'abisso l'abisso guarderà te, ma se guardi un bel culo allora sarà un bel culo a guardare te, e da lì in poi inizia ad essere divertente! - Sorrise allegramente – Capisce? Vede che me li godo, i sedici anni? Lei non può più guardarli, i bei culi, sennò la Camilla la manda a spigolare.
Emanuele si rasserenò. Bianca sembrava ragionare. Quel che diceva, per lo più, aveva un senso.
-D'accordo – fece Emanuele – va bene. Mi ritengo soddisfatto.
-Eh; ma poi, alla fine, perché era venuto?
-Perché mi stavi facendo un po' uscire dal seminario – ammise – mi preoccupo, e poi ci sto male. E se io sto male, anche Camilla sta male. E così volevo sincerarmi che non sarebbero più successe cose spiacevoli... anche e soprattutto nel tuo interesse.
-Mh – Bianca sorrise – be', allora credo che lei possa tranquillizzarsi, e tranquillizzare anche Camilla.
-D'accordo – anche Emanuele sorrise – allora grazie della chiacchierata.
-Oh, grazie a lei, almeno ho passato il tempo in modo utile. Posso offrirle qualcos'altro prima che vada?
-No, no, ti ringrazio, sicuramente Camilla ha preparato il the. Sarà per un'altra volta.
-Sarebbe magnifico – replicò gioiosamente Bianca, andando a prendergli il cappotto. - Allora ci conto, eh? - fece speranzosa, porgendoglielo – Un giorno la prendiamo una cioccolata assieme, con la panna, in un bar carino del centro?
-Ti renderebbe felice?
-Sì, molto. Sarebbe inusuale, per me, di solito lo scenario delle mie malefatte è un campo, o un argine, o una zona industriale, o un sedile scomodo. Mentre il bar carino è molto più chic e romantico. E poi non potrei farle le mie malefatte, in un bar, così evito che lei si arrabbi con me.
-Bar carino sia – decretò Emanuele, afferrando la maniglia – beh, allora stammi bene, Bianca. Se hai qualche problema, ricordati che c'è l'aula ricevimento, col sottoscritto dentro, pronto ad aiutarti.
-Ma certo, prof! - gli regalò un altro dei suoi bellissimi sorrisi, e agitò la mano nel chiudere la porta. Anche Emanuele la salutò con un sorriso e un cenno della mano.
Arrivò a casa sorridente e sereno, e Camilla tornò sorridente e serena com'era sempre stata, e quel pomeriggio lo dedicarono al the bollente, al Twister e a una lunghissima sessione di coccole.
Come se fossero stati sedicenni per un pomeriggio, la parte dolce e innocente dei sedici anni che loro ricordavano di aver vissuto.

Per i tre giorni successivi, Bianca continuò a comportarsi come al solito; con la differenza che, verso la quarta o quinta ora, per tre volte consecutive portò dei permessi di uscita. Probabilmente, pensò Emanuele, doveva vedersi con qualcuno, oppure era semplicemente stanca di stare a lezione. Per fortuna, il giovedì e il sabato avevano educazione fisica, materia in cui Bianca eccelleva e che le diede occasione di sfogarsi un po'. Furono giornate abbastanza tranquille. A ricreazione Bianca se ne stava avvinghiata a qualcuno, durante le lezioni trafficava con l'iPhone, scriveva furiosamente poesie, disegnava bellissime donne in bianco e nero. Durante quelle ore si dedicò alla cura delle unghie rovinate, e ogni giorno le colorò in modo diverso (nere coronate di rosa, rosse con una stellina bianca, mezze viola e mezze blu). Lesse una gran quantità di libri e si esercitò con costanza nelle posizioni yoga appena imparate. Emanuele si felicitò tra sé e sé che non si fosse data alla degustazione in ambito scolastico.


Passò un weekend sereno. Sabato sera, con Camilla e gli amici, andò a cena fuori e poi in discoteca, del tutto libero dai pensieri negativi.
Dormì sereno, sentendosi fiducioso verso il mondo. Il fine settimana era stato divertente, Camilla sorrideva, Bianca era tornata normale e tutto andava finalmente nel verso giusto.
Domenica sera si addormentò con l'abbandono di chi non aveva nulla di male da aspettarsi dal futuro.

Il lunedì aveva la terza A, ed entrò in classe tranquillo e sicuro, a grandi passi vittoriosi. Tra l'altro, quel giorno Cappelletto sarebbe ritornato a scuola dopo la sospensione, e, anche se la sua bocciatura era sicura, lui aveva deciso di voler rimanere in quella scuola; il motivo, non si sapeva bene.
Ma Emanuele ne ebbe un assaggio quando lo vide tirare la manica di Bianca, che guardava inespressiva fuori dalla finestra.
-Ohi. Mi dai retta sì o no? Ti vuoi girare? Ohi!
Ma Bianca non si girava.
Emanuele sudò freddo. Aveva già visto una scena simile.
-Guarda che ho spaccato il naso a una, per te. Sei proprio stronza. Potresti almeno parlarmi.
-Non ho niente da dirti – la sentì mormorare, sprecando appena un filo di voce.
-Beh, magari io ce l'ho, qualcosa da dirti, no? Mi ascolti?
-Lasciami stare... - sbuffò, liberando la manica dalla presa del suo compagno. Il quale, attonito, si rivolse verso Emanuele, che li guardava entrambi con la mascella a caduta libera.
-Ma vede com'è? Vede? Poi sbaglio a pensare che dovevo spaccarglielo a lei, il naso, invece che alla Miotto?
-Per favore, non voglio più sentir parlare di nasi spaccati – Emanuele agitò le mani davanti a sé, come a voler scongiurare il pericolo – fatemi un favore. Oggi voglio fare lezione in santa pace.
-Manterrò io l'ordine, prof! - promise Benetazzo – In the name of true norwegian metal of doom of steel of the defender of the Lord!
-Cos'è che ha detto PeneCazzo...?
-Boh, è convinto di essere un templare.
-Infernal Hail! I AM THE CHOSEN ONE! - quando Benetazzo, detto PeneCazzo, alzò un pugno verso il cielo e si batté drammaticamente l'altro pugno sul petto, Emanuele ebbe la sensazione di non essere esattamente in buone mani.
Ma in quel momento era più interessato al silenzio di Bianca che alle manie di grandezza di Benetazzo. Non sapeva come interpretarla. Cappelletto s'immusonì e decise di non parlarle; Emanuele scelse la tattica del far finta di niente.
Per tutta l'ora, Bianca fu tranquilla. Non pianse, questa volta, non diede segno di avere problemi che la tormentassero; semplicemente stette in silenzio, ascoltò con aria seria e prese molti appunti. Emanuele le lanciò un'occhiata prima di uscire, ma lei stava mettendo i libri in zaino e non se ne accorse. Decise di non farci caso.
Martedì passò allo stesso modo; Bianca prese appunti, non badò a Cappelletto – Emanuele sospettava che non l'avrebbe fatto in ogni caso, di qualsiasi umore fosse – e sostanzialmente non disturbò la lezione.
Mercoledì non andò in aula ricevimento. Nessuno si lamentò di lei in aula insegnanti.
Giovedì e venerdì gli sembrò un po' più cupa; non prese appunti, non parlò, si limitò a guardare fuori dalla finestra e a scrivere frasi apparentemente sconnesse tra loro sugli orli delle pagine. Notò che, durante le lunghe ore che passava a guardare il cortile della casa accanto, non faceva assolutamente nulla.
Non aveva detto di avere milioni di cose da fare?
Era preoccupato, ma non voleva preoccupare Camilla, per cui si tenne i suoi pensieri per sé e si convinse che tutto era normale.
Ma il sabato gli dimostrò che non era tutto normale. A educazione fisica, Bianca si rifiutò di cambiarsi. Stando a quanto gli riportarono, era rimasta all'angolo della palestra con la sua minigonna e i suoi stivali, fissando un punto nel vuoto in mezzo al campo di pallavolo. Cappelletto, che l'aveva fermato nel corridoio espressamente per riferirgli l'accaduto, aveva tentato di convincerla a infilarsi la tuta, ché altrimenti si sarebbe presa una nota; ma lei sembrava non averlo nemmeno registrato.
-Fa la cagona – si lamentò Cappelletto – eppure tutti sanno che la dà a chiunque. Cos'ha quindi da tirarsela...?
-Non credo che se la stia tirando – spiegò Emanuele – forse è solo triste.
-Triste – ripeté sbuffando il ragazzo – per cosa, poi? E comunque potrebbe anche dirmelo. A me, di lei, me ne frega qualcosa. Perché non mi parla?
Non poteva dirgli la verità, ovvero in quale infima considerazione Bianca lo tenesse. Tentò la via diplomatica.
-Beh, avrà le sue cose a cui pensare – affermò – non puoi non esserti accorto che ha dei problemi personali.
Cappelletto lo guardò, nervoso.
-Prof – borbottò – non sono stupido. Ho visto che ha le fasce sul polso. Non l'ho neanche detto a nessuno.
-Ti piace proprio, Bianca, eh?
Gli sorrise, tutto sommato intenerito. Cappelletto non godeva della sua ammirazione, ma era sicuramente più simpatico in versione 'innamorato'.
-Bah – fece il ragazzo, con una smorfia – beh, comunque, le stavo dicendo. Non ha voluto mettersi 'sta tuta. Il prof l'ha convinta con le buone, e così se l'è messa, ma, oh, prof, sembrava che dormisse in piedi. Continuava a guardare per terra. E lei è brava, eh, a pallavolo? È sempre stata la migliore. Eppure mancava tutte le palle. È finita che il prof le ha detto di uscire dal campo. E così lei è uscita dal campo, ma stava piangendo, solo che stava in silenzio, me ne sono accorto giusto perché la stavo guardando. - Cappelletto arrossì; poi continuò. - Cioè, la guardavo... la stavano guardando tutti. Non solo io. E solo perché si era messa in mostra come al solito.
-Va bene, Cappelletto, l'ho capito che ti piace, non infognarti con le tue stesse mani.
-Pensi quello che vuole – sbottò l'altro, sempre più rosso – comunque, torniamo alle cose serie. È rimasta per metà lezione in spogliatoio, da sola, e quando l'ora è finita lei ci è uscita con gli occhi rossi. E gonfi. Il prof ha provato a parlarci, ma lei è andata via di fretta, non so cosa gli abbia detto, parlava talmente piano che non ho capito un cazzo. E poi fino ad adesso ha continuato a stare in silenzio e ogni tanto mi voltavo e vedevo che singhiozzava, che si asciugava le lacrime.
D'accordo, questo era troppo. Non aveva voglia di lasciar passare una settimana, o di passare un weekend tormentato dai pensieri.
-Grazie, Cappelletto. Senti, fammi un favore: quando Bianca piange, tu vieni da me e me lo dici. Ok?
-Sì, prof, io glielo dico. Ma se mi ascoltasse, quella testa da... vabè; se mi ascoltasse, dico, proverei ad aiutarla anch'io.
Come lo capiva. Ma, dato che era lui l'adulto, lui quello che aveva il compito di rassicurare un sedicenne confuso, non glielo disse.
-Non preoccuparti – gli disse invece – non è compito tuo. Il fatto che tu non riesca a salvare una persona, che tra l'altro non vuole essere salvata, non significa che tu non ci tenga più di chiunque altro.
-Eeh, adesso! Più di chiunque altro. Piano. Mi interessa che stia bene, ma da qua a tenerci più di chiunque altro...
Ma era fiero di averglielo detto. Fiero di aver detto a un altro le parole che avrebbe voluto che qualcuno dicesse a lui.

-Bianca – la fermò, all'uscita, toccandole una spalla. Lei si girò; aveva la stessa espressione amareggiata che le aveva visto un mese prima. - Bianca...?
-Sì, prof?
-Te lo ricordi che volevi andare in un bar carino a bere la cioccolata con panna?
-... sì.
-Ecco. Ti va di andarci?
-Non so. È ora di pranzo.
-D'accordo, allora andiamo a pranzo. Dove preferisci mangiare?
-Non ho tutta 'sta fame.
L'aveva già sentita, quella frase. Con la stessa voce atona.
-Quindi una cioccolata va bene? - ritentò.
-Sì – fece Bianca – d'accordo. Ma perché?
-Voglio parlarti.
-Oh. Ok.
Perché non aveva detto qualcosa come 'aaancoooraaaa?', o non aveva chiesto il motivo di un bisogno tanto urgente di parlare?
-Stai bene, Bianca? - esordì, senza giri di parole, mentre s'incamminavano.
-Scusi?
-Stai bene? Non mi sembri in forma come mi avevi detto.
-Già. Ho ricevuto un'altra delusione amorosa, credo.
-In che senso?
-Ho ricevuto un brutto colpo. Ci sono rimasta molto male.
-A causa di chi?
-Quando parlo d'amore, vuol dire che parlo di lei.
Nonostante tutto, quella frase, contro la sua volontà, gli fece battere il cuore.
Doveva ammetterlo: poche persone erano riuscite a dimostrare tanta devozione nei suoi confronti.
-Cos'ho fatto, questa volta, per deludere le tue aspettative?
-Pensi che non avevo nemmeno aspettative da deludere. Ma mi ha ferita lo stesso.
-Come?
-Mah, non so, tipo, io tento di suicidarmi, tra l'altro per lei, e lei viene a casa mia; ma non per sentire come sto o perché l'ho fatto, bensì per assicurarsi che io non faccia più tiri del genere, sennò lei si agita, povero bimbo, e se si agita lei si agita anche Camilla, povera piccina. Mi raccomando, veda di mantenersi sempre perfettamente al centro del suo piccolo insulso mondo, che importa se ho tentato di ammazzarmi, l'importante è che lei e la sua deliziosa fidanzatina stiate tranquilli, no?
Nel parlare si era agitata. Ora era arrabbiata.
-M... mi dispiace – balbettò Emanuele – io... non volevo darti questa impressione. Io...
-Ancora con le sue impressioni, eh? E ancora con l'abuso del pronome IO, IO, IO e ancora IO. Ma qua stiamo parlando di Bianca, permette? C'è uno spazietto nella sua proposizione per il nome proprio di persona Bianca?
-Ce n'è sempre stato fin troppo – sbottò Emanuele, seccato – mi sono sempre preoccupato per te. A volte non dormivo la notte, pensando a come stavi.
-Ma poi mi è caduta sull'uccello, signora Longari.* Non ha pensato a me proprio nel momento in cui avrebbe dovuto farlo. Di più: in quel momento, ha pensato a se stesso. Di più: è venuto da me a dirmi di non tentare il suicidio perché altrimenti avrei rovinato la giornata alla sua fidanzatina! Un vero esempio di sensibilità e savoir faire, mh? Lei sì che si preoccupa per me. Uh. Perfino Cappelletto ha dimostrato un interesse più sincero verso la mia persona.
Sapeva che in quel momento avrebbe dovuto negare, dirle che non era vero niente, dimostrarle in qualche modo che si stava sbagliando. Sarebbe bastata anche una frase di circostanza, o un 'no', o un abbraccio; ma pur sapendolo rimase immobile e zitto.
La realtà era che Bianca aveva centrato il bersaglio, che Emanuele non ce la faceva più a preoccuparsi di lei rovinando la propria vita e quella di Camilla, che non aveva più voglia di rincorrerla nella sua folle corsa verso una destinazione ignota quanto minacciosa.
Voleva solo tenere al sicuro la sua famiglia e non saperne più niente dei suoi problemi.
-Avevo ragione, vero? - lo sfidò Bianca, con un sorriso di scherno, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime – Tuttavia non posso darle torto, è giusto che lei pensi prima di tutto a se stesso. Ma vede, speravo comunque che lei me lo chiedesse. Perché, Bianca, perché volevi morire? Smaniavo dalla voglia di dirglielo. Volevo dirle che tutti mi facevano schifo, ma lei no. E che a un certo punto avevo capito che dovevo rinunciare a lei, perché lei non mi voleva, al che mi sono detta, ma cosa vivo a fare? Perché l'unica cosa per cui vivevo non si rendeva nemmeno conto di avermi aggrappata alla caviglia, a penzoloni sul precipizio. È stato facile, vero? – assottigliò gli occhi carichi di lacrime, fissandolo intensamente – È stato facile scrollare la gamba e liberarsi di quel peso, no? Perché tanto lei non ha visto, non si è mai accorto di quello che c'era sotto di me. Diciamo le cose come stanno: lei non vuole guardarlo, o sbaglio? Lei soffre di vertigini, lei ha paura delle altezze, lei è spaventato dai baratri. Bene, lasci che le dica una cosa: anch'io, porca puttana, avevo paura. Anch'io ero spaventata, e non sapevo cosa mi sarebbe successo, ed è per questo che non facevo che chiederle aiuto. E lei cos'ha fatto? È venuto a raccomandarmi di fare la brava, ché sennò Camilla non trovava il fidanzatino gioioso e sorridente pronto a portare giù la spazzatura al posto suo. Beh, grazie mille, complimenti. Mi scusi se protraggo a lungo il discorso, ma, dato che sono ancora qui, ne approfitto per dirle ciò che speravo di seppellire assieme a me.
Emanuele ebbe un brivido. Sentì l'aria di gennaio farsi ancora più gelida.
Perché era stato davvero soltanto un caso se adesso Bianca non era sepolta tre metri sotto terra, assieme alle parole che non gli aveva mai detto.
Morire con quei pensieri, pensò Emanuele. A sedici anni. Doveva sforzarsi moltissimo per provare a sentire, con l'anima, cosa potesse significare.
-Io - incominciò lentamente – io non penso sia giusto rivolgere tutte le accuse su di me. Credo che il problema sia un altro. Non sono stato io a spingerti fino a lì.
-No – replicò immediatamente Bianca, convinta – non ho mai detto questo. Mille altre cose mi spingevano da quella parte, ma io guardavo verso di lei. E pensavo che se c'era lei allora volevo rimanere dov'ero. Ho provato a parlarle. Ci ho provato, ad uscirne. Sapevo che era assurdo aggrapparmi a un uomo che non mi amava, ma ci ho provato lo stesso.
-Tu non mi hai mai amato – si esasperò Emanuele – l'hai detto tu stessa: ti sei aggrappata a me. Ti sembravo a posto e hai deciso che io sarei stata la tua boa in mezzo all'alto mare. Ma questo non è amore! È un grido d'aiuto per essere salvati. Ero il tuo pretesto per convincerti che volevi continuare a vivere, e te la sei presa con me quando hai realizzato che oltre a un pretesto non avevi nient'altro!
-Beh, la ringrazio! - gridò Bianca in lacrime – Grazie mille! Quindi mi conferma che non ho mai avuto niente! Mai, non ho avuto niente! Che tutto quello su cui facevo affidamento era il nulla più assoluto!
-Hai sempre saputo che non provavo nulla per te!
-Ma grazie, me lo ripeta! Già che c'è, perché non prende anche un coltello e me le taglia lei stesso, le vene?
Fortunatamente si trovavano in una via poco frequentata, ma non gli sembravano comunque discorsi da affrontare in pieno centro città, tantomeno in un bar affollato.
-Prendiamo il tredici – decretò Emanuele – parliamone a casa tua. È più vicina al centro della mia.
-E che c'è ancora da dirsi? Non le pare abbastanza? - singhiozzò rabbiosa, asciugandosi le lacrime.
-No, non è ancora abbastanza. Avanti.

Il tragitto in autobus e a piedi passò nel silenzio più assoluto, ed Emanuele sperò che una mezz'ora di calma potesse smorzare la furia di Bianca.
Ma quando arrivarono al suo appartamento lei girò le chiavi nella toppa con una certa violenza, e fu così che capì che non le era passata. Forse era appena iniziata.
-Si sieda – gli mormorò, ma teneva ancora il muso. Si sedette comunque. - Vuole un caffè?
-No.
-Mh. Io lo faccio per me.
-Lascia stare il caffè, Bianca.
-Ho voglia di...
-Per favore; lascia stare quel caffè e vieni qui.
Bianca obbedì e si abbandonò stancamente su una poltrona. L'espressione del suo volto non era delle più concilianti, ma Emanuele stavolta non intendeva fermarsi.
-Dobbiamo parlare di questa storia – esordì. Bianca lo fissò con disprezzo.
-Perché, deve darmi qualche altra bella notizia? - sibilò.
-No. Voglio convincerti una volta per tutte che quello che cerchi in me non è un uomo.
-Oh, la prego – sospirò – la prego, non Freud.
-Non volevo insinuare niente di simile. Volevo soltanto dire che non hai mai ricevuto una delusione d'amore, perché non sei mai stata innamorata di me.
-E va bene, diamo per buona la sua versione. Cercavo soltanto aiuto. Giusto? Però lei mi ha voltato le spalle. The End. Ora tutta la storia le sembra più nobile?
-Non è andata così.
-Oh, sì invece che è andata così. Tentativo di suicidio? Preoccupato per Camilla? Chi se ne frega di Bianca, anyone?
-E tutte le volte che ti ho ascoltata nella mia ora di ricevimento? Quando ti ho seguito in quel maledetto motel? Quando ti ho portata a casa mia, o sono venuto a casa tua a trovarti...?
Bianca esitò per un attimo.
-Ma nel momento in cui avevo più bisogno di lei, lei non c'è stato – gli ricordò.
-Se l'avessi saputo, ci sarei stato. Tu avevi bisogno che io lasciassi Camilla e scappassi in Nuova Zelanda con te per iniziare una nuova vita. Non l'ho fatto. Questa è stata tutta la mia colpa.
-Lei non mi ha neanche chiesto perché.
-Me l'avevi detto, invece. Ne avevi le palle piene di tutto. Questo era il motivo. Se invece c'è dell'altro, io come posso saperlo, se tu non me ne parli?
-E che cosa potevo dirle, che avevo bisogno di lei per non aver più voglia di morire? - iniziò a piangere – Lei non avrebbe mai scelto me. Mai. Me l'ha detto!
-Anche sapendolo, cosa potevo farci? Lasciare Bianca, innamorarmi di te? Non lo posso fare!
-Ma allora vede – scoppiò in singhiozzi – che è il suo amore quello che io le sto chiedendo? Lo vede che non dico bugie? Lo vede, adesso?!
Piangeva tanto disperatamente che Emanuele andò ad abbracciarla. Le accarezzò la schiena più volte, ma quella continuava a sussultare sempre più forte. Presto si rese conto che Bianca stava avendo una crisi di pianto; quando lei si artigliò il petto e gettò la testa contro lo schienale del divano, scossa dalle convulsioni, in preda ad urla strazianti e ai tremori, iniziò a pensare che stesse avendo un attacco di panico.

Bianca continuava a gemere, così forte e disperatamente che Emanuele si chiese da dove potesse provenire un simile accumulo di tristezza. Per una ventina di minuti, continuò a gridare, mentre le lacrime si affollavano sui suoi occhi e scendevano senza sosta. Divenne rossa, iniziò a sudare, spalancò gli occhi, terrorizzata.
-Su, basta piangere, basta – la implorava Emanuele, ma lei non smetteva; sembrava non fosse nemmeno in grado di smettere di urlare per rispondergli. Non aveva mai visto qualcuno stravolgersi a quel modo. Era decisamente un attacco di panico.
-Non piangere più, ci sono io. Va tutto bene – le mormorò – è tutto a posto. Adesso ti passa. Cerca di smettere di piangere. Pensa a qualcosa di bello...
Ma quando le disse di pensare a qualcosa di bello, riprese a piangere con una forza incredibile per qualcuno che si era sgolato fino a pochi attimi prima. Aveva gli occhi tanto gonfi che non riusciva a tenerli aperti; il suo viso era rosso e sfigurato. Ansimava, nel tentativo di respirare; sembrava le costasse uno sforzo immenso. Chiuse gli occhi e si aggrappò a lui, probabilmente le girava la testa. Poi si artigliò le tempie e le premette forte, corrugando le sopracciglia.
Dopo mezz'ora, non piangeva più, ma era sconvolta. Non aveva quasi più voce per parlare.
-Mi dispiace – riuscì a sussurrare – mi capita spesso. Di solito, quando inizia a succedere, sto a casa da scuola.
-E stai così tutto il tempo...? - esclamò Emanuele, sbalordito. Lei scosse la testa.
-No, solo all'inizio. Poi mi sento così stanca che non ho nemmeno voglia di piangere. Le lacrime vengono, ma io chiudo gli occhi e cerco di dormire...
-Era un attacco di panico...?
Lei annuì, con l'aria di chi ci era già passato infinite volte.
-Il fatto è che ti sembra di stare morendo. Che non smetterai mai di piangere a quel modo. Non ce la fai a frenarti, senti solo una cosa orribile dentro al petto che ti riempie di tristezza, e urli perché... urli perché sei triste. Pensi: dopo di questo, c'è solo la morte. Morirò qui e adesso, perché non ce la faccio. - Sospirò. - Ma non muori mai. Rimani lì, pensando che sta per accadere qualcosa di terribile, qualcosa che non puoi affrontare. Poi smetti. Finisce sempre.
-E poi...?
-E poi non hai più la forza di stare in piedi, ti domandi cosa ci stai a fare, in piedi, cosa devi fare di così importante. Perché tutto è inutile e senza significato. Ti senti male perché c'è un'ora intera davanti a te da affrontare. E poi giorni, e settimane, e tu odi essere viva, ma ci sei costretta. Di solito cerco di dormire... per fortuna ho sempre sonno in questi periodi.
-È per questo che a volte stai assente un mese...?
Lei annuì, intrecciando le mani in grembo.
-Sì, è per questo. Non sono in grado di capire cosa la gente mi dice, perché qualcosa mi fa sprofondare dentro. Mi sento a terra, non mi interessa più nulla. Ho solo voglia di buttarmi sul pavimento e dormire. E sento qualcosa nel petto che mi fa male e ogni volta penso che stavolta sto abbandonando tutti, ma, anche quelle volte, non succede mai.
-E passi così... tutto il mese...?
-Non me ne rendo molto conto. Non riesco mai ad avere reazioni. Guardo le cose e penso. Ma quel che penso mi fa male, quindi a volte penso la stessa frase tutto il giorno. Mi concentro su quella. Chiudo gli occhi, mi infilo a letto, chiudo le porte... tutto scompare. Il mondo, e i miei pensieri. So che sembra noioso, ma così il tempo va avanti e non mi fa male.
Emanuele si tolse gli occhiali e si massaggiò lentamente le palpebre.
-Cos'è che ti porta a questo punto? - mormorò, senza smettere di premersi le dita sugli occhi.
-Una serie di cose... tutto. Forse, niente di particolare. Non lo so. La mia famiglia non mi ama. I miei coetanei di certo non mi amano. E lei, anche se lo vorrei, allo stesso modo non mi ama. A volte mi sento molto sola. Mi ricordo che lo sono, anche se bevo o vado con dei tipi o faccio delle cose.
-E il resto del tempo...?
-Il resto del tempo, non so perché, mi basta. Forse me lo faccio bastare. Forse voglio pensare che basti, ma in realtà non è così, e ciclicamente me ne accorgo.
-Hai detto la parola giusta – notò Emanuele – ciclicamente. È proprio così. Un attimo stai fin troppo bene, quello dopo stai fin troppo male. Quello dopo sei di nuovo alle stelle, e quello dopo ancora hai voglia di morire.
Bianca tacque, guardando in basso.
-E così viene da pensare – continuò – che il tuo atteggiamento forzatamente allegro sia solo una maschera, e che tu, in certi periodi, arrivi a drogarti per tirarti su di morale. Ottenendo di sembrare semplicemente schizzata.
Tacque ancora, voltandosi da un'altra parte.
-Cos'erano quelle pastiglie, Bianca...?
Lei ebbe un piccolo tremito, ma non rispose.
-Perché non vuoi essere aiutata?
-Lei non può aiutarti – disse una vocina tremula.
-Non è detto. Perché non hai fiducia in me?
-Perché lo so che lei non può.
-Chi te lo assicura?
-Lei non può prendere per il bavero tutti quelli che mi fanno stare male e gridargli di piantarla, costringerli a volermi bene.
-Ma ti posso aiutare a voler bene a te stessa.
-Sì – rise amaramente lei, improvvisamente più vitale – certo, le solite stronzate. Devi fare qualcosa per te stessa. Devi raggiungere qualche soddisfazione personale. Devi imparare a Volerti Bene. Devi fare affidamento su di te e vivere indipendente dagli altri. Dica un po', lei, che fa presto a parlare. Se Camilla l'abbandonasse, i suoi genitori non la sopportassero, al lavoro tutti la evitassero e lei in parte si odiasse profondamente perché pensa, e tutti cercano in ogni modo di convincerla di questo, di avere la colpa di una tale mole di odio; se questi fossero i presupposti, lei si vorrebbe bene? E se così non fosse, com'è altamente probabile, pensa che un'altra persona potrebbe aiutarla a farlo in qualche modo? Lei pensa davvero che si possa amare se stessi, quando il resto del mondo ci odia?
-Sembrava non te ne importasse nulla.
-Beh, a volte non me ne importa niente. O forse penso ad altro e quindi non ci faccio caso. A volte riesco ad allontanare i pensieri, credo, non so come succeda, ma per un po' lo dimentico. È solo che poi... cambia. Mi torna tutto in mente.
-E non puoi continuare a fare le cose che ti distraggono?
-Sì, io posso continuare a farle, ma i pensieri avanzano e io non riesco a fermarli. È come se avessi un esercito di voci che mi ripete che questo mondo non mi vuole, e che nemmeno io, a ben pensarci, voglio questo mondo. Continuano a dirmelo. E io ho solo una risposta.
-Se io ti avessi ricambiata, sarebbe cambiato qualcosa...?
-Sì – rispose subito lei – sì. Qualcosa di positivo ci sarebbe stato. E qualcuno mi avrebbe amata.
-Sicura che nessuno ti voglia bene?
-Cappelletto non conta.
-Io ti voglio bene.
-Sì, ma da lei non mi basta.
-E i tuoi genitori? Sei sicura che ti odino davvero?
Bianca, al solo sentirli nominare, sembrò innervosirsi.
-Mia madre è fuori. È esaurita. Prende il Valium, perché è fuori di testa. Spesso dà di matto, mi fissa con gli occhi spiritati, inizia a mordermi, prendermi a pugni, urla che mi vuole ammazzare; che per colpa mia si è ammalata, che non sono altro che un problema. Niente di quello che faccio è senza conseguenze. Trova sempre un motivo per urlarmi dietro.
-E tuo padre...?
-Mio padre, cosa?
-Com'è?
-Mio padre è normale, di solito. È scherzoso, vivace, con le altre persone è allegro e cordiale. Ma picchia me e mia madre. - Bianca abbassò due occhi desolati, e le parole iniziarono ad uscire a fatica. - A volte sembra che perda la ragione, e... che ci sia un mostro dentro di lui. Una cosa incontrollabile che... lo spinge a colpirci finché non ha più fiato. Ha sempre un'espressione terribile.
Bianca aveva un'espressione sempre più ferita. Le prese la mano.
-Ti ha mai chiesto scusa...? - le chiese dolcemente.
-Mai – rispose piano lei – Mai. Rimane rabbioso e pronto a scattare. Poi, magari, il giorno dopo è di nuovo tranquillo e in vena di scherzi, e... si arrabbia se io invece non gli voglio nemmeno rivolgere la parola.
-Tu sei nel giusto.
-Ma mi fanno sentire come se fossi sbagliata. Mi dicono e fanno di tutto, e poi, quando è passata a loro, pretendono che sia passata anche a me. Perché loro sono nel giusto, sono gli unici ad avere diritto di essere arrabbiati. Io devo solo aspettare inginocchiata sui ceci il loro sacrosanto perdono.
Nei suoi occhi spuntarono due grosse lacrime. Ma nel suo tono c'era rancore.
-E invece – riprese, tirando su col naso – invece io non li perdono. Non li perdonerò mai. Non li perdonerò mai per quello che ha fatto mio padre, non perdonerò mai i silenzi di mia madre. Non li perdonerò mai per avermi convinta per tutta la vita di essere nient'altro che merda – Bianca si stava agitando; stringeva i pugni, tremava, ed Emanuele la cinse con un braccio e la strinse forte – non li perdonerò per non avermi mai fatto sentire cos'era l'affetto che tutti i miei compagni di classe danno per scontati, non li perdonerò per avermi privato di quell'appoggio fondamentale che avrebbero dovuto essere; per avermi lasciata senza basi, da sola contro tutto. Mai – alzò la voce, che tremava, ma iniziava a librarsi forte; Emanuele decise di lasciarla sfogare una volta per tutte – mai dimenticherò il niente che hanno fatto per me. Non intendo dimenticare tutte le volte che mia madre mi ha detto che sono venuta al mondo solo per rovinarle la vita. E soprattutto – Bianca ansimava; sembrava quasi fuori di sé dalla rabbia – non permetterò mai più a quel figlio di puttana di infilarmi una mano nelle mutande o di stendermi su un letto. Mai, non lo farà mai più, non lo farà più! - gridò, e infine scoppiò a piangere incontrollatamente, ed Emanuele impallidì, sentì un'ondata di nausea scuoterlo da capo a piedi, ma limitò il tremore della mani e la strinse al suo petto più forte che poteva, perché si sentisse al sicuro, perché sembrava stesse per esplodere e lui doveva mantenerla tutta intera, in un posto dove potesse aggrapparsi a qualcosa, fosse anche solo alla sua camicia.
-È stato tuo padre...? - mormorò, accarezzandole i capelli - È stato lui a fare quello che hai detto?
-Sì – biascicò Bianca tra i singhiozzi, artigliando i lembi della sua camicia. La strinse ancora più forte.
-L'hai denunciato? - chiese dolcemente. Bianca continuava a piangere, faticava a parlare.

-Io... non posso, per-perché... non mi crede nessuno, lui è amato da tutti, perché con... gli altri è-è gentile, e... non mi credono, e mi odieranno, e non mi resterà nessuno e a quel punto cosa farò – riprese a gemere come poco prima, e ad Emanuele non restò che continuare ad ascoltare quelle grida struggenti e stringersi al petto quella testolina rossa che non gli era mai sembrata così piccola.
La lasciò sfogare per un po' prima di parlarle. Sembrava che avesse molti anni di tristezza da buttare fuori.
-Quando l'ha fatto la prima volta? - le chiese, sempre con molta dolcezza. Farle pressioni sulla denuncia o incalzare con le domande sarebbe stato controproducente. Infatti lei rispose.
-Avevo dodici anni – bisbigliò – mi ha infilato la mano dentro i pantaloni, e poi dentro le mutande.
-E tu cos'hai fatto?
-Mi sono allontanata, ma stava ridendo. Ho pensato che non facesse sul serio. E così non ho detto nulla.
-E tua madre, lo sa?
-Lei era lì, seduta di fianco a lui sul divano.
Bianca continuava a deglutire, e il suo sguardo schizzava da tutte le parti. Sembrava che avesse un peso nel petto che le impediva di prendere ossigeno.
-Ha continuato a farlo?
Lei annuì.
-Non spesso – mormorò – solo... a volte. Non mi ha mai violentata. Ha solo fatto... delle cose. Che potevano avere quel significato, come potevano non averlo. - Assottigliò gli occhi. - È stato furbo. Così non avrebbe mai potuto essere accusato di niente.
-Cos'altro ti ha fatto?
-Mi toccava il seno, il sedere. Ma lo faceva sempre ridendo. Se mi arrabbiavo, mi diceva che ero la solita esagerata, che da quando ero cresciuta ero diventata insopportabile e musona. Lui ama scherzare, lo fa sempre. Per questo, io non posso dire che...
Scosse la testa; si coprì il viso con gli occhi.
-Io non riesco a raccontarglielo, prof. Non ce la faccio. Mi sembrano cose talmente sporche. Non voglio nemmeno tornare a pensarci, perché rivedo la sua faccia che ride, e rivedo quei gesti, e... non voglio avere questi ricordi. Io voglio i ricordi di un papà che mi prende per mano e mi porta a fare un giro in bicicletta... non un papà che non vedo mai, e quando lo vedo mi tratta come... - un piccolo singhiozzo uscì dalla sua corazza di mani – e non so nemmeno se è vero o se mi sto inventando tutto io.
-Riesci a dirmi qualcos'altro? Qualcos'altro, solo per capire fino a che punto si è spinto.
-Mi vergogno da morire – mormorò, emergendo dallo scudo che si era creata attorno al viso – davvero, mi sento sprofondare. E ho paura che lei non mi prenda sul serio e rida di me. E mi vergogno, soprattutto, di avere un padre che fa cose del genere.
-Non è tua responsabilità quello che fa quell'individuo.
-Lo so, ma... alla fine sono io che mi vergogno. Sono io che ho paura a parlare.
Abbassò uno sguardo sconfitto. Emanuele si sentì montare dentro una tale furia che avrebbe voluto andare lì, da quell'uomo, al lavoro, sollevarlo per il bavero e scaraventarlo fuori dalla finestra, sperando che si sfracellasse la testa dal settimo piano di qualche palazzo, e che morendo soffrisse il più possibile.
-Questo è il modo di fare subdolo di chi molesta le bambine – affermò Emanuele – ti fa pensare che sia normale, che sia tutto uno scherzo. E intanto fa i suoi comodi. Se qualcuno ti raccontasse che suo padre gli fa cose simili, penseresti che sta scherzando...?
-Quando non ci sei dentro... e soprattutto quando non si tratta della tua famiglia... è facile puntare il dito. È un molestatore, che vergogna, figlio di puttana. Ma quando si tratta di tuo padre non è così immediato. Ti piacerebbe continuare a credere di avere un padre come tutti gli altri, e così... ridi anche tu con lui e ti domandi se anche i padri delle tue amiche facciano così. - Si intristì. - Solo che non ho amiche a cui chiederlo. Non c'è nessuno che mi rivolga la parola, ormai.
-Ci sono io – affermò Emanuele – ci sono io. Se lo rifarà, devi dirmelo. Capito? Devi dirlo a me. Devi dirmi quello che è successo, Bianca, perché potrebbe essere importante.
-Una volta... - il visino pallido di Bianca si oscurò, rovistando tra i ricordi – mi ha preso i polsi. Mi ha sbattuta sul letto. Ha iniziato ad aprirmi la cerniera dei jeans... - Bianca cercò di prendere un respiro profondo, ma stava ansimando. Ad un tratto chiuse gli occhi. - Per favore, non mi chieda altro.
-Prosegui.
-Prof, per favore...
-Prosegui. Quando mi avrai detto tutto, sarà finita. Non ti chiederò più niente.
-E non è successo niente, è arrivata mia madre e mi ha lasciata. Aveva un'espressione orribile. Era rosso, agitato, aveva quello strano ghigno. Perché mi ha aperto la cerniera dei pantaloni...? Se non voleva fare niente, che scherzo era mai quello...?
Stava decisamente agitandosi. La sua voce oscillava tra acuti e improvvise mancanze. Il suo sguardo ansioso era fisso nel vuoto.
-E una volta mi ha afferrato il viso tra le mani, eravamo soli. Ha iniziato a leccarmi la faccia. Sembrava un animale. Prof, la prego, basta. Non ce la faccio più.
-C'è dell'altro?
-Sì, ma... - aveva un'espressione sofferente che strappava il cuore, ma Emanuele la esortò a continuare con un cenno del capo. - Mi tocca sempre qua e là, apparentemente per sbaglio, o solo per giocare. Forse non ha capito che non ho più otto anni e che certe parti del mio corpo non sono più accessibili, sono intime, ne sono gelosa. Forse è soltanto questo. Ma non può essere così cieco. Certi gesti volgari con il suo pene non possono essere un gioco per bambini. Perché mi guardava mentre lo faceva? Cos'era quell'espressione? Perché guardava me, attento a non farsi vedere, se tutto era soltanto un gioco? Che gioco è, questo? Perché non riesce a essere come gli altri papà...?
Le lacrime tornarono a rotolare giù per le guance di Bianca, ma stavolta non sembrava infuriata. Soltanto piena di tristezza perché avrebbe voluto due genitori come tutti gli altri, che l'amassero e la proteggessero, ma in realtà era da loro che doveva proteggersi, e non era mai riuscita a farsi amare da nessuno.
Ora capiva. Capiva perché avesse voluto morire.
Non c'era ragione al mondo per cui avrebbe dovuto voler vivere.









*La battutona fotonica si riferisce agli emo, perché Benetazzo è metallaro °_°. Ci tengo a precisare che non è farina del mio sacco. **Mi vergogno di averla scritta, ma purtroppo ho creato un personaggio pirla che invece la dice senza vergogna. Mike Bongiorno docet.




(Nda: Questo è un capitolo che ho faticato molto a scrivere, non vi dico poi l'ultima parte. Semplicemente l'ho odiata. Se l'ho portata avanti fino alla fine è stato solo perché credo fermamente nella denuncia sociale, anche se, e me ne rendo conto, l'ho tagliata più corta possibile. Magari un giorno la migliorerò, ma dubito fortemente che riprenderò in mano quel pezzo, per cui, spero che vi sia piaciuta come mi è riuscita - narrativamente parlando, ovviamente.
Mi affretto a cambiare argomento e a rispondere alle vostre recensioni ^^ (grazie :*).
Baby Birba: sono completamente d'accordo: innamorarsi di persone problematiche è quanto mai deleterio -_- innamorarsi di Bianca, poi, è pura follia. C'è anche da dire che Cappelletto è quello che è XD perciò più che d'amore parlerei di 'cotta', anche se è piuttosto affezionato. Quanto al seguito, magari ne riparleremo nel prossimo capitolo ^^ per ora mi limito a concludere la storia :) grazie di avermelo chiesto però, mi fa piacere ^_^.
Piaciuque: spero di non essermi spiegata male nello scorso capitolo :O ma, come credo avrai capito, Bianca aveva tentato il suicidio. Infatti il cerotto è sui polsi ;) una drogata avrebbe segni sugli incavi delle braccia. Grazie dei complimenti X* e degli auguri XD!!
Yuki: Grazie dei complimenti ^_^ ripetili pure quanto vuoi, non mi offendo mica *_*. Comunque se hai un'idea esprimila, sono curiosa *_* c'è il mio ragazzo che sta facendo tremila ipotesi una più assurda dell'altra e ti giuro per me è il massimo sapere cosa ne pensate XD dai pure voce ai tuoi sospetti *O*!
Kristh: wow, grazie ^_^ mi spiace aver deluso le tue aspettative EmanuelexBianca.... XD neanche in questo capitolo credo avrai trovato ciò che cercavi, ma spero continuerai a seguire questa storia lo stesso ^_^.
Dance of Death: le tue recensioni sono fantastiche, davvero XD. Mi illuminano la giornata XD. Grazie davvero, sul serio :* e, qualunque cosa tu voglia dire sulla storia, dilla senza timori XD più scrivete e più io sono contenta, giuro XD. Felice che tu abbia riconosciuto la citazione ;D ho visto che hai anche letto la mia fic su Cassie, grazie del commento anche lì :* sono un'appassionatissima di quel telefilm e in particolare di Cassandra... nel caso non si vedesse *_*;. Comunque mi rende felice sapere che gli sbalzi di Bianca e la forza con cui trascina chi le è vicina siano stati resi, ma non farti troppo trascinare da lei u_u non è davvero un grande esempio a cui ispirarsi °_°'. XD
Briareos: sono curiosa di sapere in cosa questa storia è 'ingenua' ('fino alla morte' addirittura o_o') perché a me è sempre sembrata piuttosto cruda, specie in quest'ultimo capitolo... buh :/ se ne hai voglia fammi sapere. XD
Bueno, e con questo vi lascio è.é ci si vede al prossimo capitolo, che è anche l'ultimo :O. Grazie ancora a chi ha commentato *_*, favvato, seguito, letto. Ma di più a quelli che hanno commentato u_u.
A presto!)

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


L'aveva lasciata a casa, dopo aver bevuto assieme una tazza di the; aveva cercato di parlarle d'altro, per distoglierla da quei pensieri nei quali l'aveva costretta a immergersi, ma aveva l'impressione che in realtà l'accompagnassero tutto il tempo.
Ne parlò a Camilla; doveva farlo. La salutò abbracciandola teneramente, le disse di sedersi, di preparare un the – un altro the, non importava. Si riunirono in cucina davanti a due tazze con dentro gli infusi di frutti di bosco, rinchiusi nei rispettivi cucchiaini, pronti a liberare i propri sapori nell'acqua che stava bollendo.
A casa sua, quando c'era Camilla, sentiva in continuazione il rumore dell'acqua che bolliva.
E poi il fruscio delizioso dell'acqua che scrosciava nella tazza, assorbendo gli aromi.
-Mi ha raccontato delle cose – spiegò, conciliante – Bianca ha dei seri problemi a casa.
-Il padre che la picchia – annuì Camilla – e la madre.
-Già. Sì, beh. Mi ha detto dell'altro. Pare che la madre non sia completamente a posto con la testa. Prende il valium.
-Lo immaginavo. È sempre nevrotica. È sovraccarica di lavoro e quel municipio è un covo di vipere.
-Aggredisce spesso Bianca, con violenza, la copre di accuse. Il padre le picchia entrambe.
Emanuele abbassò gli occhi. Iniziò a giocherellare con il centrotavola.
-C'è dell'altro...? - chiese Camilla, che lo conosceva molto bene.
-Sì, Camilla, c'è dell'altro – rispose, lentamente – c'è dell'altro. Ma faccio fatica a ripeterlo. Hai presente quelle cose che non vorresti mai sentir dire a un tuo studente...?
-Purtroppo no – mormorò lei, sorseggiando il suo the.
-Già. Naturale. In realtà è perché pensi che non esistano davvero. Pensi che non succeda a una tua alunna che vive ad Altichiero con mamma e papà e può permettersi un iPod nuovo e una PSP.
-Che cos'è successo?
Camilla sembrava solo molto stanca. Sembrava che ascoltasse la storia di Bianca perché lui ci teneva a raccontargliela, ma che in realtà avrebbe preferito fare tutt'altro.
-Il padre usa molestie sessuali su di lei – mormorò – e la confonde così tanto che le fa pensare di essersi inventata tutto.
Questa volta Camilla alzò gli occhi. Nonostante sembrasse odiare Bianca e tutto ciò che la riguardava, questa volta non poté non interessarsi al discorso.
-Ha avuto una crisi di panico, quando sono andato lì – raccontò – mi ha detto che le capita spesso. Che passa intere giornate a piangere, e che a volte non ha nemmeno la forza di fare quello; sta a letto immobile senza pensare a niente, in stato catatonico.
Lei lo guardò, in attesa di ulteriori informazioni. Proseguì.
-Dice che per un certo periodo riesce a dimenticare... ad accantonare. Che per un po' riesce a distrarsi con altre cose. Ma che poi, a volte, le torna in mente tutto ciò che c'è di negativo nella sua vita. E in quei momenti io incomincio a vederla piangere in classe, e chiedermi di andare a casa a dormire.
Camilla aspettò che dicesse dell'altro, ma Emanuele tacque e prese a fissare la fruttiera. Lei prese la parola.
-Succede perché il padre la molesta...? - chiese, con voce roca.
-Succede perché dice di non sentirsi amata. Dice che i genitori non la sopportano, che i coetanei la odiano, che tutto ciò che fa è vuoto e senza significato.
-Capisco – mormorò Camilla. Emanuele si accigliò.
-
Capisco? - ripeté, adirato.
-Capisco perché voleva morire – precisò Camilla – so che non si dovrebbe nemmeno pensarlo, ma... si può darle torto? Chi vorrebbe vivere una vita così?
-Alla sua età potrebbe ancora rimediare. Cambiare tutto, andarsene da qui, smetterla di farsi del male da sola. Può fare moltissime cose.
-Non finché ha sedici anni, abita coi genitori ed è iscritta a quella scuola – osservò la sua ragazza, razionale – in questo momento, è bloccata lì dov'è almeno per un altro paio d'anni.
-Devono sembrarle un tempo lunghissimo.
-Perché in effetti lo sono.
Camilla aveva un tono così freddo e distaccato che Emanuele si chiese se stesse davvero parlando con la sua fidanzata; quella dolce, comprensiva, che si preoccupava per lui e per Bianca.
-Ce l'hai con lei? - le chiese all'improvviso – Ce l'hai con lei perché occupa il mio tempo e una parte dei miei pensieri?
Lei abbassò gli occhi.
-Camilla, è così?
-Non posso negarlo – ammise lei, guardandosi le mani.
-Lo sai che ha sedici anni.
-Sì.
-E lo sai che è l'alunna che mi sta più a cuore. Sta a cuore a molti altri, oltre a me. Siamo tutti preoccupati per lei.
-Lo so. Ma oggi era il nostro anniversario. Non dico che non avresti dovuto andare a trovare Bianca, o che avresti dovuto chiedere un permesso e venire a prendermi al lavoro, con un mazzo di rose, per portarmi via in un posto speciale dove saremmo stati soli io e te lontani dal mondo. Mi bastava un bacio questa mattina, e “auguri”. Stasera, magari, un brindisi alla nostra.
Emanuele impallidì. Fece per aprir bocca, ma Camilla continuò.
-Dispiace anche a me per quella ragazzina. Davvero. Mi dispiace. Ma in questo momento non riesco a far altro che pensare alla nostra storia che viene logorata poco alla volta da questa bambina e dai suoi problemi.
-Non sta logorando la nostra storia. Tra di noi va tutto bene. Abbiamo forse mai litigato? Ho avuto delle mancanze nei tuoi confronti?
-No – fece stancamente Camilla – non dico questo. Dico che pensi a lei molto più di quanto pensi a me. Ti sei innamorato di quella ragazzina...?
-Cristo, Camilla,
no – sbottò indignato, scattando in piedi – stai per caso scherzando? Non sono come quel pedofilo di suo padre. Non sono innamorato di una bambina che potrebbe essere mia figlia.
-No, non potrebbe. Al massimo potresti essere suo fratello.
-Ma di cosa mi stai accusando?! Mi credi capace di una cosa simile? E tu saresti quella che mi ama...?
-Lo vedi? Ora stiamo litigando. E tutto a causa di Bianca.
-Camilla, mi ci hai intrappolato tu, in questo giochetto!
-No, ti ci ha intrappolato lei. È questo che tu non hai capito. Lei ha intuito che tu la seguirai ovunque, e quindi ti porta dove vuole. Hai delle prove, che suo padre l'abbia molestata...?
Emanuele spalancò gli occhi.
-Camilla,
stai scherzando? Mi meraviglio che tu, come donna, faccia un'insinuazione del genere.
-Sono solo molto stanca. - Sugli occhi di Camilla spuntarono due grosse lacrime brillanti. - Sono stanca di questa storia. E ora sto anche facendo la parte della cattiva. Tutto quello che voglio è che quella ragazza stia lontana da te e la smetta di tormentarti, vorrei solo la vita tranquilla che avevo prima, e invece... invece finisco col recitare il ruolo della strega. Eppure – si asciugò le lacrime, ma ne nacquero di nuove sugli angoli dei suoi occhi – eppure ho sempre cercato di capirci qualcosa. Di dare una mano. Di starti vicino senza lamentarmi. E ora guarda,
guarda cos'è successo.
Emanuele si alzò e si avvicinò a lei; l'abbracciò, dispiaciuto.
-Non volevo dire che sei cattiva – sussurrò – non lo penso. Ero solo agitato.
-Sono agitata anch'io – gemette Camilla – ho paura. Ho paura che rovini la vita che abbiamo creato assieme, che tu dedichi a lei le tue giornate e i tuoi pensieri, e ti faccia trascinare da tutta quella tristezza. Io rivoglio il mio fidanzato. Rivoglio la mia felicità, rivoglio anche la tua – iniziò a singhiozzare, con la stessa spontaneità di una bambina sperduta. L'abbracciò ancora più forte.
Due donne durante quel pomeriggio aveva abbracciato piangendo. Entrambe lo tiravano dalla propria parte, chiedendogli di rinunciare all'altra, sostenendo che fosse l'unico modo per porre finalmente fine alle loro sofferenze.
Non voleva abbandonare nessuna delle due, ma sapeva che, un giorno o l'altro, si sarebbe trovato di fronte a una scelta, e che tutto il tempo in cui avrebbe temporeggiato sarebbe stato costellato di liti, lacrime e abbracci colmi di struggente disperazione.

Comunque, per quel weekend decise di fare un reset mentale. Bevve un caffè doppio, si rinfrancò con una fetta del dolce che Camilla aveva preparato per l'occasione e decise che, per liberarsi da una corda troppo stretta, era necessario dare uno strattone altrettanto forte.
-Ok; mettiti il cappotto – disse ad un tratto a Camilla.
-Il cappotto? Perché?
-Perché noi usciamo.
-E dove andiamo?
-A Parigi – sbottò, senza sapere bene nemmeno lui cosa stesse dicendo.
-A Parigi? - fece Camilla, sbalordita – Ma... a Parigi?! Perché?
-Perché è la città degli innamorati, dicono. Be', lo è anche Venezia, ma Venezia possiamo vederla quando vogliamo. Parigi no.
-Ma... ma come facciamo? Non abbiamo i biglietti.
-Tu non preoccuparti.
-Ma Ema, sono le quattro del pomeriggio, ormai.
-E quindi? - Le sorrise, accattivante. - Non ti piacerebbe che ti portassi a cena a Parigi, e passeggiare con me lungo la Senna dopo aver gustato
les champignons e il Dom Pérignon in un delizioso ristorantino del centro, e farci una foto sulla terrazza che dà sulla Tour Eiffel?
-Sei impazzito – mormorò Camilla, ma i suoi occhi erano luccicanti e sulle sue labbra iniziava ad incresparsi un luminoso sorriso.
-No – precisò lui –
ero impazzito, ma chérie, ma adesso ho recuperato la raison, e ho voglia di festeggiare l'anniversario assieme a toi.
Allargò il suo sorriso. Camilla fece lo stesso.
-
Alors? - la incitò.
-
Mais oui! - fu la gioiosa risposta, Camilla si gettò tra le sue braccia e si precipitarono in macchina con direzione Marco Polo.

Passò un dolcissimo weekend.
Durante il viaggio d'andata in macchina, Camilla telefonò all'aeroporto, riuscirono a scovare due posti in un last minute e sfrecciarono lungo la A4 ridendo come due ragazzini.
Al Marco Polo acquistarono i biglietti d'andata e quelli di ritorno, e, nell'attesa, collegarono il portatile alla connessione via chiavetta; in un'ora, tempo che arrivasse l'aereo, avevano già scelto e prenotato il loro hotel. Camilla era raggiante.
-Non avrei mai pensato che avresti fatto una cosa del genere – trillava, eccitata – pensavo che... cioè...
-Pensavi che avrei lasciato tutto com'era – sospirò Emanuele, e scosse scherzosamente la testa – quanta, quanta malafede in questa signorina. - Le scompigliò i capelli, lei rise e gli diede un colpetto leggero sulla mano. - Ehi, io, se faccio un errore, vi pongo rimedio. Ho ben salde nelle mani le redini del cavallo bianco,
chérie.
-Avevo paura che ne fossi sceso per sempre – ammise lei. Ma lo disse con quell'aria serena, pacifica di cui lui si era innamorato.
Aveva solo bisogno di essere rassicurata, ma lui non se n'era mai accorto. Non aveva dovuto fare poi molto per farle recuperare la tranquillità, come aveva potuto non pensarci? Certo, con quel weekend si era giocato quasi mezzo stipendio, ma cosa valevano i soldi, quando il sorriso era tornato sulle labbra di Camilla?
-Cami, in questo periodo ho fatto troppo affidamento su di te. Siccome tu sei comprensiva e disponibile e non mi fai pesare i tuoi problemi, allora io ho focalizzato tutta la mia attenzione sui miei. E anche la
tua attenzione. Non mi ero mai reso conto che la situazione ti pesasse così tanto.
-Avrei dovuto dirtelo – confessò lei – la colpa è anche mia. Mi sono tenuta tutto dentro, cercando di fare la fidanzata perfetta, perché non volevo riempirti di lamentele la sera quando tu arrivavi a casa stanco dal lavoro. Cercavo di non essere la solita moglie o fidanzata pedante che dimentica sempre che anche il suo compagno ha dei grattacapi.
-Tu puoi parlarmi quando vuoi – l'assicurò – altrimenti, cosa te l'ho dato a fare, quell'anello che hai al dito? Quell'anello è una promessa. E non è solo la promessa che il 18 aprile andremo in chiesa vestiti come due bamboline a sorridere davanti agli obiettivi e baciare le guance ai parenti. È la promessa di starti vicino qualunque cosa accada, di asciugare le tue lacrime, proteggerti dalle tue paure, dalle ipocondrie... dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via...
Camilla sorrise.
-Dalle giustizie e dagli inganni del tuo tempo – continuò, intonando con voce flebile – dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai...
-
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore – cantò, a voce bassa – dalle ossessioni, dalle tue manie... - Lei si unì alla sua voce – Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare...

E guarirai
Da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io
Avrò cura di te.*

Non conclusero con il ritornello, stavano abbracciati tanto stretti che non sarebbero mai riusciti a parlare.
Quella canzone gli era venuta in mente per caso, tra le tante che conosceva e a cui non aveva mai prestato particolare attenzione. Da quel giorno, ogni volta che la sentirono per radio o in qualche locale, si guardarono quel sorriso appena accennato tipico di chi condivide un ricordo che nessuno può afferrare o anche solo sfiorare.
Il ricordo di una canzone di Battiato illuminata all'improvviso da un caldo raggio d'amore, cantata in aeroporto tra il brusio di migliaia di persone che si affannavano senza riuscire a toccare quel momento, svanendo lentamente in un silenzio astratto.
Il ricordo dell'amore che lasciava fuori tutto il resto.

-E dire che il momento romantico era previsto per la passeggiata lungo la Senna – gemette Emanuele – e adesso come faccio? La proposta di matrimonio te l'ho anche già fatta, e ho esaurito gli assi nella manica.
Camilla rise e afferrò un guscio di lumaca. Lei aveva lo stomaco abbastanza forte da mangiarle, Emanuele invece aveva optato per una zuppa di cipolle. Insieme avevano ordinato la fonduta.
-Ce la tiriamo da degustatori? - aveva proposto Emanuele.
-Ma non è un po' snob intellettual-chic?
-Certo che lo è, ma ricorda che qui siamo in territorio nemico. Loro sono in maggioranza, cerchiamo di mimetizzarci. - Afferrò il suo bicchiere di vino d'annata. - Vedi? Faccio dondolare il vino nel bicchiere con aria scettica e gli occhi socchiusi.
-Ricorda di annusarlo storcendo il naso.
-Mi infilo una baguette sotto l'ascella?
-
Parbleu, non senza un completo a righe verticali.
-Avverto inoltre la tragica mancanza di una tavolozza.
-E di un basco.
-E di un bidet.
-Oh, non fare l'italiano,
je vous en prie.**
Ma gli andava bene, in fondo, parlare di sciocchezze e ridere di Camilla che trangugiava tranquillamente lumache come fossero state caramelle. Gli andava bene, fintanto che poteva vederla allegra e sorridente, felice assieme a lui, come lo erano sempre stati.
-Ti prometto che non servirà più venire a Parigi per essere sereni – asserì all'improvviso, sorprendendo Camilla che fece cadere il pane nel formaggio fuso, annegandolo nella fonduta.
-Cosa? - fece lei, tentanto di recuperare la fetta di baguette perduta con la forchettina.
-Sarà così
ogni giorno, com'è sempre stato. Non avrò più bisogno di portarti lontana da Padova, per vederti felice. Lo sarai anche nella nostra casa, nella nostra vita di tutti i giorni. Senza dover fuggire per un weekend.
Lei sorrise.
-Ema, prima mi dicevi che non avevi più assi nella manica per la passeggiata romantica lungo la Senna – incominciò – beh, volevo dirti una cosa. La Senna è solo un fiume, la torre Eiffel è solo una costruzione di ferro, e le lumache potrei cucinartele anch'io, se non ti venisse uno scompenso solo a guardarle da lontano. Ma il fatto è che tu hai visto che ero triste e hai deciso di rimediare, costi quel che costi, e dal mio punto di vista, ecco, questa è la mia cena francese e la foto davanti alla torre e la passeggiata romantica sul lungofiume. Io sono
già felice. Non ho bisogno che tu faccia altro.
Sorrisero entrambi.
Si sentiva così sereno e appagato che pensò, al di là di questo non c'è nient'altro. Oltre a questa felicità non potrò mai andare.

Ebbero la loro passeggiata lungo la Senna, tenendosi per mano; le luci della città, la notte blu chiara di stelle e le nuvolette soffici dei loro respiri crearono un'atmosfera tale che in realtà parlarono molto poco. Si fermarono spessissimo ad abbracciarsi, a lungo, stringendosi forte e dimenticando che erano a Parigi, che erano nel mondo reale. Per quella sera avevano deciso di essere altrove.

Il giorno dopo si svegliarono quasi all'ora di pranzo; la sera prima avevano fatto l'amore fino a notte fonda. Fecero la doccia assieme, infilarono i vestiti del giorno prima nello zaino ed uscirono, silenziosi ma sorridenti, nel corridoio ricoperto di moquette del piccolo albergo di Montmartre.
Nelle ore che gli rimanevano, salirono sulla collina e passeggiarono tra i ritrattisti; pranzarono con un panino che mangiarono passeggiando, poi presero la metropolitana diretti verso l'aeroporto, con in mano un ritratto.
Un ritratto solo, non due, che li ritraeva entrambi, due volti felici nel sole tiepido e dorato della Francia.


*


-Credi di riuscire ad affrontare la giornata? - gli chiese Camilla, premurosa.
Sembrava che il weekend l'avesse tranquillizzata, che si fosse convinta di essere ancora la priorità di Emanuele. Ora che si era rassicurata, sembrava più disposta ad affrontare l'argomento 'Bianca'.
-Ci provo – fu la pacifica risposta – provarci è l'unica cosa che posso fare.
-Ti sono vicino.
-Anch'io sono vicino a te.
Si salutarono con un bacio, ed Emanuele le accarezzò una guancia. Lei sorrise e per un momento gli sembrò una bambina, più piccola ancora di Bianca.
Mentre s'incamminava verso la stazione, si sentì come se avesse avuto lo scudo in una mano e una lancia nell'altra.
E sotto le gambe un solido e veloce cavallo bianco.

Come si aspettava, Bianca era uguale a come l'aveva lasciata sabato. Era strano rivederla, dopo quel fine settimana di fuga. Gli era sembrato strano anche prendere il solito treno e attraversare la solita città; era stato a Parigi solo per ventiquattr'ore, ma si sentiva come se fosse stata Padova la città straniera.
-Buongiorno – esordì in classe; i suoi alunni lo salutarono con calore.
-Prof, che aria allegra – commentò Francesca. Sapeva che stava cercando di farlo chiacchierare per rimandare la lezione, ma per quella volta poteva anche andargli bene.
-Davvero? - replicò – Beh, ci hai visto giusto. Oggi è una bella giornata.
-Perché, prof? - fece Benetazzo, che, per qualche oscuro motivo, gli si era affezionato.
-Ho passato un bel weekend con la mia fidanzata – confessò – e oggi sono particolarmente felice.
-Woo, il prof ha una fidanzata! - esclamò Francesca – Non lo sapevamo!
-Ebbene sì, con tanto di anello al dito.
-Vi sposate?!
-Ad aprile. Siete tutti invitati – sorrise, poi si accorse che Bianca aveva un'espressione tutt'altro che rassicurante.
Forse avrebbe dovuto evitare quei discorsi, ma non era riuscito a farne a meno; era poi così sbagliato voler gridare al mondo quanto si era felici, specialmente dopo che si avevano passati momenti tanto bui?
-Congratulazioni, prof – esclamò Giulia – raga, dobbiamo organizzarci per fare il regalo al prof.
-Ma no, non ce n'è bisogno.
-Come no – fece Benetazzo – una bella spada medievale intarsiata. Qualsiasi salotto dovrebbe averne una.
-Sì, vabè, PeneCazzo, e dopo? Una cotta di maglia al posto del completo?
-Sarebbe veramente il massimo – mormorò incantato Benetazzo, con gli occhi luccicanti.
-Ragazzi, davvero, non vi preoccupate...
-Ma no, prof, guardi che non diamo mica retta a PeneCazzo – intervenne Crivellaro – oh, ho l'idea! Regaliamo al prof una bella festa d'addio al celibato! Spogliarelliste, alcool, follia...
-
Crivellaro! - lo riprese Giulia – Non approfittare del matrimonio del prof per imbucarti a un locale di strip, testa di cazzo.
-Allora non ho altre idee, mi arrendo.
-Una batteria di pentole in acciaio Inox1810? - fece dubbiosa Valeria – I novelli sposi vogliono sempre cose di questo genere. Cose per la casa.
-Non siamo mica tutti così noiosi – protestò Emanuele – e se invece io vi dicessi che voglio l'Action Figure di Re Leonida...?
-GLIELA REGALEREI IO – gridò Benetazzo – SPARTANI! Qual è il vostro mestiere?! - Al che tutti i maschi della classe urlarono in coro “A-HU! A-HU! A-HU!”, e fu lì che Emanuele decise di chiudere il discorso.
Durante tutto quel tempo, Bianca era rimasta muta e immobile, guardando fuori dalla finestra con aria assente.

Bianca passò così tutta la settimana, ed Emanuele cercò di non farci caso. Mercoledì non venne da lui. Passava le ore di lezione prendendo svogliatamente appunti, e, arrivati verso la fine della settimana, smise di fare anche quello. Guardava il banco e basta. Ogni tanto apriva e chiudeva la bocca, come se volesse mormorare qualcosa.
Sabato osservò una scena piuttosto tenera a ricreazione, ma osservò soltanto, attento a non farsi vedere.
-Cos'è che hai? - continuava a ripeterle Cappelletto, con aria preoccupata – Perché stai così? Sei triste per qualcosa?
Bianca lo lasciò parlare per un po', prima di rispondere un fievole “lasciami stare”.
-No che non ti lascio stare, se prima non mi dici cos'hai.
Lei lo guardò, con aria spenta.
-Non capiresti – si limitò ad apostrofarlo, con tono lugubre.
-Beh, senti, non fare tanto la superiore. Magari invece capisco.
Scosse la testa. Lui si accigliò.
-Ehi – la afferrò per le spalle – senti, tu dimmelo. Anche se poi non posso fare niente, cosa ci perdi?
-Non voglio parlare a te degli affari miei.
-Ma perché? - fece Cappelletto, sinceramente dispiaciuto.
A quel punto, all'improvviso, Bianca iniziò a piangere.
-Ecco, vedi che sei triste? Cos'hai? Cos'è successo?
-Lasciami stare – singhiozzò, sottovoce.
-Ma non voglio lasciarti stare.
-
Per favore – lo implorò lei, e lui, a malincuore, dovette allontanarsi.
Bianca si accorse di Emanuele sulla porta, ma si limitò ad incrociare le braccia sul banco e appoggiarvi la testa, abbandonandosi ai singhiozzi.
Gli metteva addosso un'enorme tristezza, ma sapeva ormai di non poter fare niente.

Con febbraio se ne andò anche Bianca.
I primi di marzo iniziarono le sue assenze. Gli ultimi giorni in cui aveva frequentato erano passati immersi nelle sue lacrime silenziose. Faceva male vederla, perché piangeva senza rumore; si limitava a guardare fuori dalla finestra, o il banco, o un punto nel vuoto di fronte alla lavagna, inespressiva; solo che le lacrime le rigavano il viso, costantemente, lente, ma continue.
Emanuele non ebbe il coraggio di chiedere sue notizie.
Non ebbe nemmeno il coraggio di pensarci.
Si limitò a fare lezione con il solito brio, con la solita passione, e la sera parlava a Camilla dei progressi dei suoi alunni peggiori, delle soddisfazioni che stava avendo con loro, dell'affetto che gli dimostravano.
Avevano recuperato la loro serenità, anche se Emanuele aveva uno spillo appoggiato al cuore che, a ogni minimo movimento, pungeva e spingeva sempre più nel profondo, riaprendo continuamente quella piccola ferita che gli aveva inflitto.
Dopo una settimana di assenza da parte di Bianca, però, Cappelletto e Valeria si presentarono alla sua ora di ricevimento. Emanuele sapeva già perché fossero venuti a cercarlo.
-Vorremmo parlare con lei – esordì imbarazzata Valeria, tormentandosi i guantini di rete.
-Su Bianca – spiegò Cappelletto, con più decisione.
Sospirò e fece loro cenno di accomodarsi.
In quel momento, in aula insegnanti era presente anche Sonia, che lanciò loro uno dei suoi sguardi penetranti. Una sola occhiata, veloce e indecifrabile, e poi tornò ai suoi compiti da correggere.
-Ditemi, ragazzi. Di cosa volevate parlare?
-Delle sue assenze – rispose pronto Cappelletto – volevamo chiederle se lei ne sappia qualcosa.
-Anche se lo sapessi, non sarei autorizzato a comunicarvelo – fu tutto ciò che riuscì a rispondere.
-Ascolti, prof, a me non è di certo simpatica, ma il suo comportamento mi è sempre sembrato strano – intervenne Valeria, un po' nervosa – non è
normale. Tutti noi abbiamo periodi brutti e periodi belli, ma capitano una volta l'anno, tutt'al più. Lei, invece... è sempre estrema.
-Tutti quanti la giudicano male perché si comporta da stupida – riprese concitato Cappelletto – e, ok, è vero, fa la stupida. Però ha fatto comodo a tutti che lei si comportasse così.
-Ma più che altro, anche se spesso le darei una botta in testa perché fa un casino della Madonna, devo ammettere che sono un po' preoccupata. Secondo me, sta male per qualche motivo. Ha reazioni troppo... come posso dire...
-Estreme – ripeté Emanuele, che trovava l'aggettivo perfettamente calzante. Valeria annuì.
-So che lei è preoccupato come noi – insistette Cappelletto – e gli altri non si rendono conto.
-O non vogliono rendersi conto – rincarò Valeria.
-Quindi, se non ci aiuta lei, non sappiamo da dove iniziare.
-Beh – Emanuele ci ragionò un momento – beh, potreste iniziare voi stessi. Perché non andate a trovarla? Sapete dove abita?
-Ho il suo indirizzo – borbottò Valeria – se sta ancora ad Altichiero.
-Credo abiti ancora lì.
-Andiamo? - propose Cappelletto, in direzione della sua compagna. Quella tirò un gran respiro, ma alla fine cedette.
-E andiamoci – decretò; Cappelletto le sorrise.
-Ma allora non sei una strega malefica – la punzecchiò – tutta croci e bare, e poi invece sotto sotto sei una tenerooona!
-Ma chi ha mai detto che sono malefica? Siete voi che mi chiamate Morticia, manica di cretini. Dai, andiamo e lasciamo stare il prof – sbuffò Valeria, afferrando Cappelletto per la manica. Mentre quello lo salutava con una mano, ad Emanuele sfrecciò in testa un pensiero.
-Ehi, voi due – li chiamò. Valeria si fermò e si voltò a guardarlo; Cappelletto rimase in attesa. - Sono orgoglioso di voi. E adesso sparite – li cacciò con un gesto della mano, ma, un attimo prima di abbassare lo sguardo sulle sue cartelle, notò che entrambi sorridevano.
Quando furono usciti, incontrò lo sguardo di Sonia.
-Devo dirti la verità? Anch'io – affermò lei, poi ritornò ai suoi compiti senza più voltarsi verso di lui.
Fu il turno di Emanuele di sorridere.

I due tornarono a scuola il giorno dopo carichi di notizie. Non appena lui entrò in classe presero a gesticolare e a parlargli in labiale; li liquidò con un uno scuotimento di testa, e i due furono irrequieti fino a ricreazione.
Suonata la campanella, la strana coppia – lui con la felpa Hydrogen e le Hogan, lei con la gonna che spazzava terra e il corsetto – si precipitò al piano di sotto, nell'aula professori. Emanuele, nel vederli, si stupì che due individui tanto diversi si fossero presi a cuore la stessa persona.
-Allucinante, prof – esordì Valeria, agitata – no, le giuro, è preoccupante. Bisogna fare qualcosa.
-E pensi che sua mamma non voleva neanche che la vedessimo. Ma noi abbiamo rotto le palle. Sono un
maestro se si tratta di fracassare i coglioni, e ha visto? Stavolta è servito a qualcosa.
-D'accordo. Ok. Calmatevi. Cos'è successo?
-Eh, praticamente...
-Allora, prof, in pratica...
-Uno alla volta. Valeria.
-Perché Valeria?!
-Perché non infila una bestemmia ogni due parole. Dimmi tutto, Valeria.
-Allora – riprese, torcendosi le mani – siamo arrivati lì. Sua mamma ci apre. Mi guarda tipo stramale, ma vabé, guardasse sua figlia come viene vestita a scuola. Ci chiede chi siamo.
-E gli diciamo, siamo compagni di Bianca. E lei non è che dice: oh, entrate, che gentili, siete venuti a trovarla. No. Ci chiede di cos'abbiamo bisogno.
-Con quel
sorrisino falso come una moneta da trecento lire – sbottò Valeria – comunque, le abbiamo detto che eravamo venuti a trovarla, a vedere come stava. E lei fa: è molto malata, non se la sente di alzarsi dal letto. Vabé, le diciamo, solo per farle un saluto. E lei: sta molto male, non vorrei che si stancasse troppo.
-E io le faccio, vabé, signora, andiamo via subito, la salutiamo, le portiamo i compiti e poi andiamo via. Vede, prof? Ci eravamo anche preparati la scusa.
-E insomma, dai e dai, ci ha fatti entrare, continuando a ripeterci che stava molto male, che aveva la febbre alta, che non riusciva ad alzarsi dal letto né a parlare. Va bene, le dicevamo noi ogni volta, ok, nessun problema, tanto restiamo poco. E quella che insisteva, Bianca sta male, sta molto male, è molto debilitata. Alla fine siamo entrati in camera sua; c'era la persiana abbassata, tutto buio, e lei sotto la trapunta, che neanche la vedevi in faccia.
-Siamo andati vicino al letto e lei era sdraiata di fianco e guardava nel vuoto, con la bocca aperta, così – Cappelletto l'imitò: occhi fissi spalancati, bocca socchiusa, sguardo perso. - E non si è accorta di noi. Continuava a guardare chissà cosa.
-Io mi sono preoccupata, così le sono andata davanti, le faccio: Bianca, sono io, Valeria. Stai bene? E lei non rispondeva, non mi ha neanche guardata. Allora è venuto anche Cappelletto, tra l'altro il romanticone le ha fatto una carezza sulla guancia... - Valeria sorrise; l'altro arrossì e le diede una botta sul braccio. - Ahia. Comunque, prof, lei a quel punto ha alzato gli occhi e ci ha visti, ma aveva una faccia...
-Sembrava tristissima – intervenne Cappelletto – non so come spiegarglielo. Era completamente triste.
-Ci ha guardati, ha aperto la bocca... poi ha chiuso gli occhi, le sono scese due lacrime dagli occhi e si è voltata dall'altra parte.
-E allora noi siamo andati dall'altra parte, anche se sua mamma ha allungato un braccio come per fermarci. Ma noi siamo stati più veloci. E così le abbiamo parlato un po'; le abbiamo detto che avevamo i compiti per lei, che lei la salutava, prof, che l'altro ieri Tognon di quarta C ha dato fuoco ai capelli della Miotto... ma niente.
-Noi parlavamo e lei ci guardava e taceva. Sembrava che non capisse neanche una parola. Aveva una faccia confusa, ci guardava con gli occhi spalancati e muoveva le labbra al passo con le nostre, ha presente come fanno gli anziani quando iniziano a non capire più cosa gli dici? Ecco.
-E dopo un po', a discorso finito, ha parlato. Sempre guardandoci con quella faccia.
-Sbalordita, incantata... non saprei come spiegarle.
-E fa...
-Con voce roca, prof, come se non parlasse da giorni. Ha mormorato: “il prof ti saluta...” e poi ha guardato da un'altra parte. Al che le faccio, no, il prof saluta
te. E sua mamma è arrivata d'un tratto e fa, scusate, ragazzi, Bianca non si sente bene, forse è il caso che si riposi un po'. E lei non ha battuto ciglio. Ha continuato a guardare per aria.
-Le giuro, prof, mi sono spaventato. Nel senso che proprio ho preso paura.
-Cioè, sua mamma non ha neanche avuto bisogno di spedirci fuori, siamo proprio scappati via, senza quasi salutarla, le facciamo, torna presto, e poi siamo andati via di fretta. E mentre eravamo sulla soglia l'abbiamo sentita dalla camera che diceva “torna presto” e sua mamma che diceva, sssh, stai calma, dormi.
Emanuele deglutì.
Valeria e Cappelletto lo guardavano in attesa di una risposta:i loro occhi chiedevano di sentirsi dire una bugia rassicurante.
-Probabilmente aveva la febbre molto alta – stabilì Emanuele – in quei casi, non è raro che uno non sia molto presente.
-Può essere – mormorò Valeria, sollevata da quella spiegazione quanto mai pretestuosa.
L'altro non disse nulla, ma s'incupì. Si allontanò senza dire nulla, e, dopo qualche attimo di silenzio imbarazzato, anche Valeria lo salutò ad occhi bassi e se ne andò.

Camilla ascoltò attentamente il suo resoconto, ma anche lei non sapeva bene che dire di fronte a un racconto del genere.
-Sono sempre più sicura che si tratti di depressione – ragionò – una depressione molto grave. Forse suo padre le ha messo le mani addosso un'altra volta.
-Mi aveva promesso che me l'avrebbe detto – ribatté Emanuele – ma forse non ci è riuscita. Non le sono stato molto vicino, in effetti. È che non sapevo come aiutarla – si giustificò.
-Credo sia normale. Non è facile stare accanto a una persona che periodicamente sprofonda in una tristezza così annientante.
-Ho mandato due ragazzini a parlarle, al posto mio – mormorò, deluso – avrei dovuto andarci io.
Ma subito cambiò discorso, perché non voleva riprendere a tormentare Camilla con i problemi di Bianca. E neanche a tormentare se stesso.
-Ad ogni modo, per ora posso solo aspettare – concluse – staremo a vedere. E tu, tesoro? Com'è andata oggi?
-Ti dirò, ora che mi ci fai pensare, la Milanesi ultimamente sembra molto affaticata. Ultimamente ci ha delegato diversi compiti dei quali prima insisteva ad occuparsi personalmente, nonostante fosse sufficiente la sua supervisione.
-Probabilmente sua figlia la sta preoccupando molto.
-Sicuramente è così. Magari, in fondo, ci tiene.
-O forse è troppo occupata a nascondere al mondo che nel suo mondo perfetto ci sono diverse macchioline di sporcizia.
-Non lo escludo. Quella donna vive sempre in alta tensione. Deve sempre essere all'altezza, sempre fare tutto alla perfezione ed entro i tempi, sempre essere inattaccabile. E se per caso ti azzardi a contestarla, lei trova sempre la parola che tu hai detto in mezzo a un discorso e te la contestualizza in modo da dimostrare che
lei ha ragione, e tu invece hai torto. È sempre attenta ad ogni dettaglio, perché non vuole mai essere colta in fallo: vuole coglierci te. E in questo modo diventa ogni giorno più nervosa. E odiata.
-Se accettasse di essere umana e fallibile, forse vivrebbe un po' più tranquillamente. E anche la sua famiglia vivrebbe più tranquillamente.
-Il punto è che lei, per come la vedo, ha fatto voto con se stessa di diventare infallibile.
-Dev'essere uno shock per lei rendersi conto che sua figlia, il suo prolungamento, il suo bambolotto, sta crescendo diversamente da come lei l'aveva progettata. Fuori dal suo controllo, e per di più così
criticabile.
-Lo credo anch'io. Bianca ti aveva detto che il marito la picchia? Credo che in quella famiglia nessuno sia molto stabile emotivamente. Non c'è da sorprendersi che la figlia sia cresciuta così.
-Ma che cos'ha la gente? - sbuffò Emanuele – Perché non riescono a star tranquilli? Perché non si comprano una Playstation con una serie di picchiaduro e non sfogano le loro frustrazioni lavorative?
Camilla rise, e per quella sera decisero di sfogarsi con una sessione di Tekken, per prevenire la possibilità di diventare dei cinquantenni frustrati o di mettersi a insultare Gengis perché quel mese non avevano avuto l'aumento.

Bianca rimase assente un'altra settimana.
I commenti della classe erano ogni giorno più velenosi, ma gli insegnanti avevano deciso di scoraggiare i pettegolezzi. Rimproverarono ad alta voce tutti coloro che si ritennero in dovere di criticare pubblicamente Bianca. Ma questo non fece che inasprire le antipatie nei suoi confronti, e nessuno ne poteva più di sentirsi chiedere perché la Ferreri avesse sempre un trattamento di favore.
-Ma insomma, fatevi gli affari vostri – sbottò un giorno Emanuele – volete spiegarmi perché perdete così tanto tempo a chiedervi perché Bianca riceva un ipotetico trattamento di favore, e non ne perdiate neanche un po' per pensare che magari avete voi per primi delle mancanze scolastiche?
-Alle mie mancanze ci penso separatamente – sibilò Monica Miotto – ma non capisco perché le
mie, di mancanze, non passano, mentre sulle sue si chiude sempre un occhio in qualche modo.
-Ma è un problema tuo, Monica? Ti riguarda in qualche modo?
-Sì che mi riguarda, perché io penso sempre per me prima di tutto, ma pretendo di essere trattata come gli altri. O che gli altri vengano trattati come me, in questo caso.
Il suo discorso in effetti aveva senso, ed Emanuele non sapeva bene come replicare. Fortunatamente, Cappelletto decise di intervenire proprio in quell'istante.
-Senti, Miotto – sbottò, minaccioso – se non chiudi quella bocca ti avverto che ti spacco il naso un'altra volta.
-Lo sente, prof?! - strillò Monica – Vede? Qua ci sono delle
preferenze!
-Che preferenze ci sono?! Non ti ho neanche toccata, cretina. Ma faccio presto a toccarti se continui con i tuoi discorsi del cazzo.
-Uuuh! - fece qualcuno dal fondo della classe; Cappelletto si voltò, con sguardo truce.
-Sia ben chiaro che io, la Miotto, non la toccherei
mai in quel senso. Solo con un pugno o con le tenaglie – precisò, rabbioso.
-Lo sente, prof?!
-Ragazzi, veramente,
piantatela – Emanuele si stava seccando – e va bene, dedichiamo quest'ora alla discussione sul fatto che Bianca secondo voi viene trattata meglio di tutti gli altri. Ci perdo volentieri un'ora di lezione. In cambio, però, voglio sentire da voi argomentazioni sensate. È chiaro? Voglio che mi facciate capire come mai avete così a cuore questa faccenda delle assenze, e in quale modo queste assenze influiscano sulla vostra vita scolastica.
La classe si zittì velocemente. Tutti lo guardarono, ma nessuno aprì bocca.
-Allora? - insistette – Nessuno che mi sappia spiegare quali danni irreparabili sono stati inflitti sulla vostra persona dalle assenze di Bianca?
-Se io stessi assente per tutti questi mesi, mi boccerebbero – grugnì Valentina Tessari, dal fondo della classe. Era una che passava metà della sua vita sui libri, e aveva sempre odiato Bianca perché a lei i buoni risultati uscivano senza sforzo.
-Forse ti boccerebbero perché hai cinque materie sotto e il resto con un sei tirato, Valentina, non tanto per le assenze – specificò Emanuele.
-E allora solo perché quella è brava a scuola può stare a casa tutti i giorni che vuole?!
-Scusa, noi dovremmo bocciare una studentessa valida, che per di più dopo le assenze recupera con le interrogazioni tutto il programma, che di solito si studia da sola, perché ogni tanto si ammala e ha problemi a venire a scuola? Ma che discorsi stai facendo, Valentina? Ragazzi, che ragionamenti fate, voi, nella vostra testa?
-Vede? - esclamò Monica, sbarrando gli occhi e puntando un pugno sul banco – Fate le preferenze perché ha voti alti!
-Non siete altro che un branco di vipere! - si esasperò Cappelletto, scattando in piedi e fissando torvo Monica – Se una è brava a scuola e quando torna dalle assenze dimostra di sapere il programma, che motivo c'è di bocciarla?!
Questo ti sta dicendo il prof, stronza pettegola del cazzo! - guardò Emanuele, nervosamente – Giusto...?
-Giusto – confermò Emanuele – ma vediamo di mantenere un linguaggio decoroso.
-Il mio linguaggio
è decoroso!
-Non parlava con te, serpe. Parlava con me.
-Non ti permettere di chiamarmi “serpe”!
-Beh,
sei una serpe, e serpi siete tutte quante – diede uno sguardo accusatorio in giro – beh, a parte Morticia, lei si salva. Voi non sapete niente, però pretendete di parlare. Giudicate, e criticate, e rompete sempre le palle. Ma una vostra vita di cui occuparvi non ce l'avete mica...? Dovete per forza parlare tutto il tempo di quella di Bianca?
-Non è colpa nostra se lei si mette in mostra!
-Monica, Dio santo, come fa a mettersi in mostra se è assente?! - intervenne finalmente Valeria, sbuffando. Valeria parlava spesso sbuffando e borbottando, ma stavolta sbuffò più forte del solito. - Per favore, facciamoci gli affari nostri. È vero che rompeva le palle quando c'era. Ma adesso che non c'è, non vedo il bisogno di stare qui a farle la festa alle spalle.
-Io le direi le stesse cose esattamente in faccia!
-E allora digliele quando torna, no? Invece che farci perdere ore di lezione per queste stronzate.
-Non sono ore perse. È
giusto discutere di queste cose.
-Ma fammi il piacere. Tu ti sei vista troppo
Gossip Girl.
-Bianca non ha niente a che vedere con Serena Van Der...
-Ragazzi, non vi ho lasciato un'ora di discussione per parlare di Serena Van Der Woodsen.
-Non l'ho tirata fuori io – si inasprì Monica.
-Per favore, piantiamola – borbottò Valeria, con un sospiro, alzando gli occhi al cielo.
-Avete qualcos'altro da dire? - invitò Emanuele – Prego. Ormai l'ora è stata dedicata al dibattito. Proteste? Suggerimenti? Veleno gratuito-ops, scusate, mi è sfuggita?
-Lei sta dalla sua parte come tutti gli altri – sputò Valentina – l'ha data anche a lei, per caso?
La classe ammutolì. Perfino Monica guardò Valentina con stupore. Quella si guardò attorno, nervosa.
-Beh? Cosa c'è? Lo pensate tutti, no?
-Ma solo tu puoi essere così cretina da dirlo – mormorò nella sua direzione Crivellaro, scuotendo la testa.
-Lo sai che potrei prendere seri provvedimenti per questa insinuazione? - le fece notare, con calma, Emanuele – Non puoi muovere simili accuse a un professore. È molto grave. Potrei denunciarti per diffamazione, se non fossi un po' più umano di molti colleghi e non prendessi le tue parole per ciò che sono, ovvero gli sfoghi di una ragazzina di sedici anni infuriata.
-Dica pure
frustrata e imbecille – borbottò Cappelletto, lanciandole un'occhiataccia.
-Vi prego, piantiamola – gemette Valeria, con aria estremamente seccata, reggendosi la tempia con una mano – vi giuro, siete deprimenti.
-Detto dalla regina dei depressi...! - sibilò Valentina, ma Valeria si limitò a sospirare e a scivolare sempre di più verso il banco – E a proposito di depressi, lo so benissimo come fa a ottenere quel che vuole ogni volta. Buu-huu, lacrimucce di coccodrillo. Poverina, quanto mi dispiace per lei, buu-huu-huu.
Cappelletto si alzò e iniziò a marciare verso il banco di Valentina, ma fu prontamente fermato dalla mano di Valeria, che si sporse dal banco ad afferrare il lembo della sua felpa. Questa sospirò ancora, guardando davanti a sé con aria tremendamente annoiata.
-Spero che il resto della classe serbi delle argomentazioni più serie a sostegno delle proprie accuse – riprese Emanuele – ma prima che me le esponiate, lasciatemi dire una cosa. So che è molto facile fermarsi alle apparenze e puntare il dito contro qualcuno, e so anche che creare un capro espiatorio da caricare di tutte le nostre frustrazioni è ancora più semplice. Ma la verità è che non sappiamo niente di quello che provano gli altri. Un vecchio proverbio indiano dice: prima di giudicare un uomo, cammina per tre lune nei suoi mocassini.
Ci fu un attimo di silenzio.
Poi Valentina fece schioccare la lingua con sprezzo.
-Sono tre anni, non tre
lune, che ce l'ho in classe. Giunti a questo punto credo di avere il diritto di giudicarla.
Emanuele si passò una mano sugli occhi.
-Allora io ho diritto, dopo tre anni, a giudicarti una vipera pettegola come la tua amichetta Miotto – insorse Cappelletto, instancabile.
-Io me ne vado – fece Valeria, alzandosi e incamminandosi verso la porta – prof, aspetto qua fuori in corridoio con l'iPod. Mi fa un chiamo quando riprendiamo con la lezione?
-Aspetta – la chiamò Emanuele; lei si fermò sull'uscio. Tornò a rivolgersi alla classe. - Sinceramente, mi aspettavo qualcosa di più da voi – incominciò, con un tono calmo che li fece ammutolire. Continuò. - Quantomeno che aveste la decenza di zittirvi, dopo che vi è stato spiegato che non c'è nessun trattamento di favore. Sto ancora cercando di capire cosa vi sia stato tolto, cos'è che vi rode così profondamente il culo, ma proprio non ci arrivo. - Scosse la testa. - Perdonatemi. Non riesco a mettermi nei vostri panni.

Detto ciò, chiuse la Divina Commedia e si abbandonò beatamente sulla sedia.
-Fate quello che volete, per quest'ora – li esortò – tanto, la lezione era comunque andata persa.
Ma nessuno osò più aprire bocca. Valeria rimase ferma sulla soglia fino alla fine dell'ora, tormentandosi i guantini di pizzo, Cappelletto fissò rabbiosamente quel punto fuori dalla finestra su cui Bianca era solita posare lo sguardo, e il resto della classe rimase solennemente in silenzio finché non suonò la campanella della sesta ora; ma anche in quel momento, fino a che Emanuele non ebbe recuperato la ventiquattrore ed ebbe varcato la porta con un noncurante “a domani”, non volò una mosca in tutto lo spazio dell'aula.
Mariolina, più tardi in corridoio, gli chiese cos'avesse mai fatto per farle trovare la classe muta e perfettamente immobile al temibile cambio della quinta ora.

Camilla fu scandalizzata dal comportamento della classe, e prese apertamente le difese di Bianca.
-Com'è possibile che non si siano accorte dei suoi problemi? - fu il suo commento – C'erano anche loro, quando lei piangeva.
-Ma per loro era buu-huu-huu. Questi sono i livelli della terza A. E io che speravo di avergli insegnato qualcosa; non la
Divina Commedia, per carità... ma un po' di comprensione umana. E anche un po' di sana voglia di farsi gli affari propri.
-Non ho veramente parole – mormorò Camilla, scuotendo la testa – che ragazzini crudeli. Una loro compagna è assente da due settimane, e loro non pensano ad altro che a sparlare di lei quando è assente.
-Per la verità, non ci vanno leggeri nemmeno quando è presente – le rammentò – però è orribile da parte loro fare questi paragoni. Se non fosse evidente che ha dei problemi, potrei forse capirli. Ma è talmente
lampante.
-Questo succede quando uno non vuole vedere – osservò Camilla – se si togliessero le mani dagli occhi, sarebbero costretti a guardare, e a prendere atto di quelle che sono le ragioni di Bianca. È più semplice coprirsi la visuale e sostenere pervicacemente le proprie idee, per miopi che siano.
-Precisamente. So che come insegnante dovrei mantenere la neutralità, ma non riesco a stare calmo e cercare di conciliare. Se mi fanno infuriare, io li tratto da stupidi. Non dovrei, ma non riesco a fare altrimenti.
Camilla sorrise e gli accarezzò dolcemente un braccio.
-Se servisse a qualcosa, poi – continuò, imbronciato – se trattarli da idioti servisse a farli crescere, a farli rendere conto. Ma poi li guardo e mi rendo conto che non è servito a niente, che ci ho solo rimesso un pezzo di fegato per avere come risultato un muro di ottusità che si alza di giorno in giorno. Capisci? Tu pensi di averlo abbattuto, poi alzi gli occhi e vedi che è più alto di prima.
-Capisco molto bene.
-Pensi di aver lasciato il segno, di aver significato qualcosa. Di averli
cambiati, almeno un po', di aver indotto una piccola riflessione, almeno. E invece nulla. E sai qual è la cosa peggiore? Non so nemmeno distinguere se sia io, il fallimento, o se lo siano loro.
-Il tuo solito problema – commentò Camilla, seguendo delicatamente il contorno del suo viso con l'indice.
-Sì, è il mio solito problema. Mi do la responsabilità delle mancanze degli altri, pensando che se io davvero valessi qualcosa, sarei riuscito nel mio intento di migliorarli.
-Mi sembra di averla già sentita, questa – sorrise lei.
-Lo so, è storia vecchia. E so che è sbagliato definirmi in base alla misura in cui riesco a scalfire una parete di pietra con una forchetta di plastica. Ma non riesco a farne a meno, capisci. Forse idealizzo troppo il ruolo dell'insegnante. Magari ho sbagliato mestiere.
-E che mestiere vorresti fare? - Camilla era divertita.
-Non so. Forse lo psicologo della scuola – scherzò – o forse semplicemente il papà.
A quell'affermazione seguì un silenzio stupito da parte di Camilla, che boccheggiò per qualche secondo fissandolo con uno sguardo spaesato.
-Ehi – ridacchiò, dandole un pizzicotto su una guancia – Emanuele chiama base. Sei ancora tra noi?
-Io... - fece lei, confusa – cioè... io... cioè... ma tu... cioè. Tu vorresti... davvero?
-E perché no? Sì, direi che una graziosa piccola Camilla che trotta per la casa non mi dispiacerebbe.
Lei lo guardò, a bocca aperta. Emanuele rise. Per un bel po', rimasero così; lei che alzava gli occhi dal piatto e lo guardava sbalordita, lui che incontrava il suo sguardo e rideva.
Sì, pensò. Una piccola Camilla che zampettava attorno al tavolo non gli sarebbe dispiaciuta affatto.

Bianca non si presentò per un'altra settimana di fila.
Emanuele sapeva cosa stava succedendo: Bianca era immobile nel suo letto a piangere. Sapeva che stava andando avanti da una ventina di giorni. Sapeva; e nonostante questo, pensava disprezzandosi, cercava di allontanare l'immagine di Bianca dalla sua mente, riempiendola con qualsiasi cosa gli capitasse sottomano.
Tornando da scuola, il mercoledì, si era fermato alla Feltrinelli ed era tornato a casa con una quindicina di volumi.
-Così tanti? - si era stupita Camilla.
-Troppo pochi – aveva replicato – insegno pur sempre Lettere; questi dovrebbero essere il
minimo.
Non amava mentirle, ma non voleva, a nessun costo, torturarla di nuovo con la figura di quella ragazzina. Preferiva consumarsi dentro e combattere ogni singolo istante coi suoi sensi di colpa, ma farlo rigorosamente
da solo. Aveva promesso a se stesso e a lei che non l'avrebbe mai più coinvolta. Intendeva mantenere.
E fu così che Emanuele decise che era tempo di farsi la tessera d'abbonamento al cinema, e, quella settimana, ci andarono una sera sì e una no.
Nei giorni che rimanevano, si organizzò come meglio poteva: un giorno osservò che era da tanto che non si vedevano con Simonetta e Nicola, e quindi li invitarono a cena; un altro giorno accettò la proposta di un happy hour da parte degli amici del paese, che poi tirò avanti fino a sera tardi; il giorno rimanente era sabato, e il sabato poteva anche prendere e andare via con Camilla in giornata.
Ma Camilla voleva rimanere a casa.
-Come, a casa? - le chiese; ma si rese conto di suonare piuttosto ansioso – Non ti va di fare una piccola gita assieme? Torniamo stasera. Una cosa tranquilla.
-È una bella idea, amore, ma oggi sono un po' stanca. Stasera usciamo, e andiamo dove vuoi, ma oggi posso rilassarmi un poco a casa mia? Solo per oggi – promise, con il suo sorriso dolce.
Ma Emanuele era nervoso. Quando non aveva nulla con cui occuparsi, i pensieri lo assalivano, come un plotone di soldati che attaccasse un forte medievale.
Pranzarono pigramente – si erano alzati piuttosto tardi – e, dopo il caffè, Camilla prese un libro e si sistemò comodamente sul divano. Emanuele fece un po' di zapping, ma non trovò nulla d'interessante – doveva ricordarsi di andare a informarsi sul digitale terrestre.
Propose una sessione di shopping in centro, ma Camilla rispose che per quel mese, per via del weekend a Parigi, avevano già speso parecchio, quindi non era il caso.
-Un giretto? - implorò Emanuele – Solo per uscire di casa.
Lei sollevò due occhi molto sorpresi dal libro che stava leggendo.
-Ema – incominciò, perplessa – è tutta la settimana che siamo in giro.
-Lo so – fece lui, incapace di replicare.
-Stasera usciamo, te l'ho promesso. Non va nemmeno a me di stare chiusa in casa. Andiamo anche a prendere lo spritz prima di cena, se vuoi. Ma lasciami qualche oretta di pace, sii gentile.
Camilla sfoderò uno dei suoi famosi sorrisi, ed Emanuele non poté rispondere nulla. Si rassegnò ad afferrare un libro e ci mise un'ora solo per leggere una decina di pagine. Continuava a perdere il filo, e a riaggrapparcisi con forza non appena il suo pensiero premeva per raggiungere Bianca.
Ad un certo punto, Camilla chiuse il libro e si voltò verso di lui.
-Che cosa c'è? - chiese, pacata, ma decisa.
-Io? Nulla – Emanuele fece una faccia sorpresa; ma mentire era una cosa che non gli riusciva molto bene, specie con la ragazza con cui conviveva da ormai tre anni.
-Mi sembri irrequieto – osservò quest'ultima – lo sei da tutta la settimana.
-Dici? - temporeggiò; tornò ostentatamente al proprio libro.
-Dico – insistette lei – sembra che tu non riesca a stare fermo e in silenzio due minuti.
-Ma va'.
-Allora mi sono sbagliata?
-Amore, è tutto a posto. Davvero.
Camilla tacque per qualche secondo; Emanuele continuò a fissare le pagine del libro, senza però leggere nemmeno una sillaba. Sentiva che lei lo stava guardando, e aveva la brutta sensazione di stare arrossendo.
-Bianca è stata assente, questa settimana? - chiese lei alla fine.
-Eh? - fece lui, guardandola con aria sorpresa.
-Bianca è ancora assente, vero? Sei preoccupato per lei? È per questo che non riesci a tranquillizzarti?
-Ma no – esclamò, con fin troppa enfasi – non c'entra niente. Sì, è assente, ma non è per lei che... cioè...
-Allora ammetti di essere un po' teso.
-Cami...
-È per lei...?
Abbassò la testa, sconfitto.
-Credo di sì – ammise. - Cioè. È per me, più che per lei.
-In che senso? - chiese Camilla. Non sembrava arrabbiata. Ma non sembrava nemmeno partecipe. Quella neutralità un po' lo spaventava.
-Nel senso che lei è a letto a piangere, e io lo so. Ma benché io lo sappia cerco comunque di dimenticarmelo. Cerco di allontanarla dai miei pensieri, e questo non è giusto. È
egoista.
-È per non pensare a lei che stiamo facendo questo
tour de force?
-Camilla, ti prego, non fraintendere. Ti prego.
-Non c'è molto che io possa fraintendere.
-Sì, ma... non fraintendere.
-Ema... - Camilla sospirò, rassegnata. - Non so cosa pensare. Sembra che, qualunque cosa io faccia, quello che fa lei sia sempre più importante. Il tuo umore cambia in base al suo. E io non riesco nemmeno a far qualcosa per riportarlo alla stabilità.
Emanuele ammutolì.
-Sai – continuò Camilla – se lei non avesse sedici anni, penserei che tu te ne sia innamorato.
-
No – esclamò – no. Nel modo più assoluto, no.
-Già. È per questo che è triste. Non ne sei innamorato, eppure riesce a coinvolgerti più di quanto riesca a fare io. Devo dirti la verità? Mi sento molto triste. E insignificante.
Camilla non pianse, non si arrabbiò, non lo guardò nemmeno. Si limitò a mettere il segno al libro che stava leggendo e ad avviarsi su per le scale, con un'espressione amara che non le aveva mai visto.
Emanuele si sentì sprofondare.
Che cosa doveva fare? Cosa doveva fare? Preoccupandosi per Bianca, feriva Camilla. Preoccupandosi per Camilla, doveva trascurare Bianca. Trascurare Bianca significava ferire anche sé stesso. Ma anche ferire Camilla significava ferire sé stesso.
E d'altronde, cosa poteva fare? Andare da Bianca, dirle: “esci da quella stramaledetta depressione, cazzo, mi stai rovinando la vita”? O andare da Camilla e dirle “è mio pieno diritto rovinare la mia esistenza e la tua perché quella ragazzina mi sta divorando anima e corpo”? E a se stesso, cosa poteva dire? Non era nemmeno in grado di reprimere quello che provava. Ma era poi giusto, reprimersi? Sarebbe cambiato qualcosa, anche se avesse finto indifferenza verso Bianca? Ed era davvero una colpa, se si ritrovava a preoccuparsi così tanto per lei? Non l'aveva certo chiesto lui; fosse stato per lui, avrebbe continuato a vivere sereno nella sua casa con la sua fidanzata e la sua vita tranquilla.
Fermo, si disse a un certo punto. Qui siamo a un punto morto.
Aveva evitato di affrontare il problema per tutta la settimana, e, quando l'aveva affrontato, si era ritrovato davanti a un muro. Ma era tempo di porsi una domanda: possibili soluzioni?
Poteva andare a parlare con Bianca. Ma questo non avrebbe risolto molto. Tanto più che non sembrava fosse in grado di parlare con chicchessia.
Oppure poteva parlare con Camilla, rassicurarla, farle un'altra sorpresa magari, ma sapeva che non avrebbe funzionato. Le sorprese funzionano una volta sola. Ed era certo che ormai lei non credesse più alle sue promesse.
Ma poi un pensiero gli attraversò la mente.

Il problema, in fin dei conti, non era suo.

Certo, era anche suo, dato che sia Bianca che Camilla facevano il possibile perché lui avesse ben chiari i loro tormenti e se ne preoccupasse. Ma il vero problema, in fin dei conti, era tra quelle due. Non suo.
Perché doveva perderci
lui il sonno, solo perché Bianca non era in grado di accettare che lui amasse un'altra, e Camilla non era in grado di accettare che lui avesse un legame profondo con un'altra persona?
A quel pensiero si risentì parecchio contro le due, e improvvisamente si sentì di nuovo forte.
Salì le scale a passo di marcia e scovò Camilla seduta sul letto, che leggeva il suo libro con aria profondamente contrariata. Spalancò la porta e la guardò, determinato.
-Vestiti – le disse – per favore. Vorrei portarti in un posto.
-Quale posto? - chiese lei, con distacco. Non si fece scoraggiare.
-Ti porto dalla fonte di tutti i tuoi malesseri.
-Cioè...?
-Ti porto da Bianca – replicò tranquillamente, e, quando lei aprì bocca per protestare, riprese immediatamente. - Ti porto a vedere lo stato in cui versa, e, se siamo fortunati, forse ci potrai anche scambiare due parole. Purtroppo devi arrenderti davanti a un fatto: non intendo smettere di preoccuparmi per lei. Finché lei si rivolgerà a me, io continuerò a risponderle. Per cui, se vuoi che io smetta di pensare a una ragazzina di sedici anni che due mesi fa ha tentato il suicidio e ora sta in un letto a piangere in stato catatonico, dovrai andare lì personalmente e dirle di uscire dalla mia vita. Perché io non ce la butterò
mai fuori di mia volontà, mettitelo bene in testa.
Camilla lo guardò, e nel frattempo iniziò a piangere in silenzio. Ma Emanuele era deciso a proseguire.
-Mi dispiace, Camilla. Mi dispiace davvero per quello che sta succedendo. Ma tu stai comportandoti decisamente da bambina, scusa la franchezza. Tu sei meravigliosa, e dolce, e intelligente, e io ti amo da morire. Ma non puoi pretendere che tutte le mie attenzioni siano per te, in un momento come questo. Sembra che tu non voglia capire una cosa: io
non sto pensando a lei come fa un innamorato. Sto pensando a lei come faresti tu stessa se una tua nipotina di sedici anni si ammalasse di depressione. Tu hai una cuginetta che ha più o meno la sua età, vero? Vittoria. Giusto?
Camilla annuì tra le lacrime.
-Ecco. So che le vuoi molto bene. E so che se tentasse il suicidio ti preoccuperesti molto, sbaglio? Se non la vedessi per quasi un mese, e sapessi che in tutto quel tempo è chiusa in casa a pensare che la vita è una merda e che quindi non vuole più viverla, tu non saresti preoccupata? Cazzo, non ti tormenteresti giorno e notte...?
Annuì ancora, singhiozzando ed asciugandosi il viso.
-Ecco. E allora perché mi costringi a dover far finta di niente? Se una persona a cui tieni versasse in questo stato, non verrei mai da te a pestare i piedi perché non sei perfettamente concentrata su di me e sul nostro rapporto. Penserei che passi un periodo di merda e che sei preoccupata per quella persona. E allora perché tu non puoi fare lo stesso con me?!
Camilla scoppiò a piangere rumorosamente, ed Emanuele le si avvicinò. Si sedette su una sponda del letto.
-Io non ti ho mai trascurata per lei, in fondo – continuò, a bassa voce – non ho mai rifiutato di uscire, o di fare l'amore, o ti ho risposto male. Eppure tu te la prendevi con me, perché spesso ero triste. Avrei preferito che tu mi stessi vicino, anziché... accusarmi.
L'aveva detto.
Quella sensazione che aveva sempre avuto, ma che non era mai riuscito a distinguere chiaramente, ora era uscita a parole senza che lui dovesse cercarla. Era venuta così, naturale.
Era la verità.
-Non volevo fare i capricci – singhiozzò Camilla – io volevo... volevo essere una brava fidanzata, che non ti dà problemi. Però... tu mi dici che devo parlarti, quando qualcosa non va. E allora io ho parlato. Ma tu ti sei arrabbiato. E allora vedi? Dovevo stare zitta – singhiozzò ancora più forte, nascondendo il viso tra le ginocchia. Le accarezzò dolcemente la schiena.
-Hai fatto bene a parlare – le sussurrò – perché, se non avessi parlato, io non avrei potuto dirti che ti preoccupi inutilmente. Non ti sto dicendo che non esprimere le tue sensazioni, né ti sto accusando per il fatto di provarle: se ti sei sentita messa da parte, probabilmente hai avuto le tue ragioni. Ma ci tenevo a spiegarti quel è il mio atteggiamento nei confronti di Bianca, perché tu la stai mettendo sul tuo stesso piano, mentre lei non è affatto sul tuo stesso piano, e non lo sarà mai. - Sospirò. - Io non ti permetterei mai di ucciderti. Non cercherei di dimenticarti solo perché lei me lo chiede. E se tu passassi le giornate a piangere, lo farei anch'io.
Camilla sembrò calmarsi. Lo guardò, sperduta, in attesa che continuasse.
-Però, adesso a trovarsi in difficoltà è lei – spiegò – e quindi devo dedicarle le mie attenzioni, il mio aiuto. Io le voglio bene, Camilla. Mi spezza il cuore vedere come si è ridotta quella ragazzina così giovane, dato che, per quanto tu lo odi, mi ci sono affezionato. Non puoi chiedermi di non essere in pensiero per lei, perché mi ha detto delle cose che mi hanno paralizzato. Cerca di capirmi, ti prego. Cerca di starmi accanto. Perché se ti ho scelto è perché non ritenevo che nessuna ne fosse in grado... a parte te.
Tacque. Posò lo sguardo da qualche parte sulla trapunta colorata, come se le chiedesse cosa fosse più giusto fare. Poi lo spostò sulla finestra, e infine tornò negli occhi di Emanuele.
-Io – iniziò con voce roca – posso accettarlo. Ma lo faccio fidandomi ciecamente di te. È l'unico modo in cui riesco a scendere a patti con una cosa del genere.
-Tu puoi fidarti – esclamò – qualsiasi cosa accada, tu devi sapere che io non me ne andrò mai. Non ti sei fidata di me, fino ad oggi?
-Sì – mormorò lei, abbassando gli occhi.
-Ehi – la chiamò – ti sei sempre fidata di me?
Ma lei non rispondeva.
-Camilla.
Lei sollevò il viso e gli rivolse un'occhiata molto triste. Aprì la bocca, poi la richiuse. Poi sembrò ancora più triste.
-Non ti fidi...?
-N... non è che non mi fidi – incominciò, incerta – è che tu hai sempre avuto decine di ragazze. In paese ti avevano anche chiamato...
-Ok, tralasciamo come mi hanno chiamato.
L'avevano rinominato il maiale del paese, per dirla in termini diplomatici. Una fama che si era decisamente guadagnato.
-Perché ne conquistavi una dietro l'altra. E non sono mai riuscita a capacitarmi che tu avessi scelto proprio me. E
solo me.
-Ma, scusa, Camilla, perché avrei dovuto chiederti di sposarmi, se avessi avuto ancora voglia di fare il coglione?
-Non lo so. In tanti lo fanno perché
a trent'anni è ora di sistemarsi, e poi magari tradiscono la loro compagna, o...
-Senti, ma è questo che pensi di me? No, perché, se questa è l'opinione che ti sei fatta sul sottoscritto, c'è da domandarsi perché tu abbia risposto 'sì'.
-Perché io ti amo.
-Lo dici come se intendessi 'a differenza tua,
io ti amo'.
-Non intendevo questo.
-Davvero...?
-Per favore, basta – gli occhi di Camilla si bagnarono di lacrime – non voglio litigare con te. Voglio solo stare tranquilla. Voglio solo... voglio solo...
Incapace di esprimersi, scoppiò nuovamente in lacrime. Emanuele rimase vicino a lei, guardando la trapunta, inespressivo. Alla fine, molto lentamente, parlò.
-Mi sembra di capire – le disse – che il problema non sia Bianca.
-No – ammise Camilla, tra i singhiozzi.
-Il problema è che tu non ti senti sicura di me.
Lei non rispose, ma pianse più forte. Lo prese come un 'sì'.
-Non che non ce l'abbia con te, ma dev'essere in parte colpa mia, se lo pensi. Ho fatto qualcosa perché tu lo pensassi?
-No – sussurrò lei – mai.
-Ma neanche niente perché tu non lo pensassi, giusto?
-Io ho sempre cercato di fare del mio meglio – fece lei, con voce tremante – perché tu rimanessi vicino a me. Di essere sempre calma e gentile, di non darti pensieri. Perché ho paura che tu te ne vada.
-E da chi dovrei andare...?
-Da... da quelle che ci provano. Da quando ti conosco ce n'è sempre state, in continuazione.
-Ah, beh, sì. Io vado con chiunque me lo chieda. Sicuro.
-Non volevo dire questo!
-Però purtroppo l'hai detto, si vede che ti è sfuggito. Mi spiace che tu lo pensi, ma, no, non sono assetato di sesso al punto di andare con tutte quelle che ci provano. A questo punto, dovrai pensare che la proposta di matrimonio sia stato qualcosa come un pesce d'aprile, dato che comunque io sto con te per finta, vado con le altre e non me ne frega niente di te.
-No! - gridò Camilla, e scoppiò in singhiozzi disperati.
Fantastico, pensò Emanuele. Dovunque si girasse, c'erano donne che piangevano perché l'amavano.
Era un po' arrabbiato, perché anche lui avrebbe voluto urlare che rivoleva la sua vita di prima, quella senza dubbi e problemi e lacrime.
Ma non poteva più accusare Bianca di avergliela rubata.
Bianca non aveva fatto altro che risvegliare delle vocine addormentate sepolte nella parte più profonda di loro stessi; quella parte in cui finora, nonostante dormissero fianco a fianco e respirassero in coro, non avevano ancora avuto modo di scavare.
Modo, oppure volontà. Oppure coraggio.
Perché era pur vero che, in fondo, i timori di Camilla non erano per nulla infondati, e di questo non poteva accusare altri che se stesso.

Quel giorno non andarono da Bianca. Nemmeno Emanuele ci andò, non ce la faceva.
C'era troppa tristezza dentro di lui per riuscire a sostenere anche quella di Bianca. Quelli per ritornare in sella del suo candido destriero non erano stati altro che vani tentativi.
In realtà, quel giorno avrebbe voluto dormire da un'altra parte, lontano da Camilla. Aveva voglia di starle lontano, e ne soffriva enormemente, perché non aveva mai voluto starle lontano nemmeno per un secondo.
Capì che si può perdere l'amore anche quando non sono gli altri a negarcelo: può anche sfuggirci scivolando attraverso le nostre stesse dita, e noi possiamo solo guardarlo andarsene, volando lontano come granelli di sabbia cullati dolcemente dalla brezza che, alla fine del loro viaggio, si disperdono nel mare per sempre.

Quella settimana si parlarono poco, sempre cortesemente, fingendo che qualcosa non si fosse rotto tra di loro; ma era nell'aria, l'avvelenava e la rendeva irrespirabile. Quella gentilezza formale non era ciò a cui erano abituati. Non fecero mai l'amore, quella settimana, e dormirono senza abbracciarsi per qualche giorno. Alla fine si riavvicinarono, ma quando si toccavano sembrava toccassero una superficie rovente. Nessuno disse nulla al riguardo.
Stiamo per sposarsi, pensava Emanuele, ed ecco come siamo ridotti.
E ciò che più gli faceva male era che Camilla aveva un grande peso nel cuore, ma non ne parlava, e probabilmente non ne avrebbe parlato mai più, né di questo né di altro, per paura di causare una nuova rottura.

Un giorno, quando il pensiero di Camilla che soffriva dentro di se in silenzio gli divenne insopportabile, l'abbracciò forte sotto il piumone e versò qualche lacrima tra i suoi capelli.
Lei gli strinse forte le mani e lui circondò la sua schiena tremante.
Entrambi cercarono di mantenere il silenzio, perché sentivano che, se avessero parlato, il momento si sarebbe spezzato. Era un momento così fragile che sembrava ammonirli di non perderlo, poiché poteva essere l'ultimo.


*


Bianca tornò con aprile, con i venti più tiepidi e i primi timidi boccioli.
Emanuele ora riusciva a guardarla con reale distacco. Aveva realizzato che non era lei a costituire la barriera innalzatasi tra lui e Camilla, quindi si sentiva pronto a guardare la situazione non come a un problema che lo affliggeva, ma come a un problema che affliggeva Bianca stessa.
Il due di aprile Emanuele varcò la soglia della terza A e vide Cappelletto e Valeria attorno al banco di Bianca; le parlavano. Sorrise. Quando entrò, Cappelletto lo guardò, e vide negli occhi di quel ragazzino un sincero sollievo. Nel mentre, sembrava che Valeria faticasse molto a parlarle – d'altronde provenivano da due universi totalmente differenti – ma gli sembrò un buon segno che ci stesse provando. Del resto, Valeria era una che parlava poco e aveva un carattere abbastanza scontroso; naturale che si trovasse a disagio con una come Bianca.
Quanto a Bianca, lei era come al solito; i capelli rossi sembravano una vampata di fuoco, l'ombretto nero e l'eyeliner le davano un'aria quasi maledetta che Valeria, nonostante la sua cipria e il suo trucco da dark lady, non riusciva in nessun modo ad emanare. Non si era risparmiata né sulla scollatura, né sulla porzione di gambe scoperte; i primi venticelli caldi l'avevano portata ad eliminare le calze pesanti e a sfoggiarne un paio di quasi trasparenti, tanto che sembrava avesse le gambe nude. Portava un paio di ballerine, questa volta, ma l'effetto totale non ne risultava diminuito di carica sessuale. Benché la disprezzassero, parecchi dei suoi compagni non riuscirono a non guardarle le cosce.
-Buongiorno – esordì sorridendo. I ragazzi lo salutarono, tranquilli. - Come va?
La faceva spesso, questa cosa del chiedere come andasse. Ci teneva a sapere se i suoi alunni fossero scontenti o tristi per qualcosa. E sapeva che questo li faceva sentire considerati anche come esseri umani; bastava così poco per andare incontro ai ragazzi, eppure tanti non se lo sognavano neppure, di domandare loro se andasse tutto bene.
A ben pensarci, era davvero brutto: se avessero incontrato un conoscente per strada, sicuramente come prima cosa gli avrebbero detto 'come stai?'. I suoi colleghi vedevano quei ragazzini ogni giorno, e mai che trovassero la voglia di chiedere se fosse tutto a posto.
-Male, prof – bofonchiò Monica, guardando di sottecchi Bianca. Valeria l'apostrofò con un:
-Chiudi quella fogna, ogni tanto – mentre Cappelletto le mostrava il pugno, alzando un sopracciglio con un'occhiata eloquente.
Bianca aveva trovato due angeli custodi. Gli sembrò di vedere le sue labbra incresparsi in un accenno di sorriso.
Fu nel notare questo che si accorse che, sul suo labbro inferiore, troneggiava un piercing nuovo fiammante a forma di spirale.
E Cappelletto lo fissava con un'aria decisamente più che incuriosita.
Notò anche alcuni segni sotto l'occhio destro, e dalla sciarpina di seta che portava attorno al collo facevano capolino delle macchie bluastre che Emanuele aveva già visto in passato.
Prese un respiro profondo, appoggiò la ventiquattrore e si disse, resisti.
Cedere non avrebbe mai risolto nulla.
Bisognava combattere.

-E con questa direi che posso lasciarvi in pace – asserì, alla fine della spiegazione – siete stati proprio bravi, oggi.
Si trattenne dall'aggiungere 'se solo foste
sempre così', cosa che, sapeva, avrebbe avuto il potere di irritarli enormemente. Tenne per sé questa considerazione, e vide dei sorrisi sulle labbra di alcuni alunni, orgogliosi di sé stessi. Tentavano di trattenerli, ma non erano molto astuti. Se ne rendeva conto ogni volta.
-Questi ultimi cinque minuti sono tutti vostri, fate quel che volete: colazione, iPod, PSP, disegnare draghi e cavalieri... basta che non alziate la voce, io intanto mi leggo il mio libro, ok?
La classe accolse la notizia con entusiasmo e tutti fecero per lanciarsi sulle loro attività di preferenza; chi aprì il libro dell'ora successiva, chi azzannò una merendina, chi, come Valeria e Benetazzo, disegnava furiosamente sulle copertine dei quaderni.
Ad un tratto, però, una ragazza che si chiamava Francesca ebbe un'illuminazione.
-Prof – esordì – ma lei tra due settimane si sposa!
Emanuele alzò gli occhi dal suo
Diario di un vecchio sporcaccione. Non fece in tempo ad aprire la bocca, che un coro di voci iniziò a spargersi nell'aria:
-Ma dai! È vero!
-Il prof si sposa!
-Il nostro scapolo d'oro!
-Ha per caso cambiato idea, su quel discorso della spada...?
Sorrise e lanciò loro un'occhiata, senza però aggiungere altro. Non era certo che a Bianca quel discorso facesse piacere.
-Allora siamo invitati alla cerimonia? - insistette Francesca – Possiamo, prof? Non facciamo casino.
-Posso entrare un attimo prima del bacio urlando 'questo matrimonio non s'ha da fare'? - lo implorò Cappelletto – Posso, posso, prof? È il mio sogno da una vita!
-Semplicemente
ti ammazzerei – replicò tranquillamente, e Cappelletto sospirò, scuotendo la testa – ma se volete venire, prego. Dovete solo prendere un autobus o due e farvi un'oretta di treno. Di domenica. E la cerimonia inizia sul presto. Ricordatevi che la sera precedente è un sabato – ghignò.
I ragazzi si guardarono in giro per un attimo, incerti, e un mormorio percorse l'aula. Ma, alla fine, fu Giulia a prendere una decisione per prima.
-Io vengo – dichiarò decisa – ci sono cinquantadue sabati sera in un anno, ma il prof si sposa una volta sola nella vita. Almeno questo gli si augura – precisò.
-Grazie, eh, Giulia?
-Comunque vengo anch'io – asserì Cappelletto – sicuro. E viene anche Bianca, vero? E anche Morticia.
Valeria alzò un dito verso Cappelletto ma poi guardò Emanuele, scocciata, e annuì.
Bianca, invece, guardava il davanzale e ridacchiava. Accortasi che Emanuele e Cappelletto la guardavano, si affrettò a tornare seria e fece:
-Cosa? Io? Quel giorno temo di avere un impegno. Mi dispiace.
Altra ondata di mormorii, questa volta perfidi. Valeria lanciò in giro delle tali occhiatacce che smisero quasi subito, ma la voce che Bianca, oltre che facile, fosse anche cattiva e maleducata, ormai era partita e difficilmente si sarebbe fermata.
Tuttavia, ora in classe c'era qualcuno che la difendeva; a ricreazione notò che i due le stavano vicini, rinunciando lui alla compagnia dei suoi amici ricchi e griffati, lei ai suoi amici di nero vestiti delle altre sezioni. Probabilmente i tempi non erano ancora maturi per amalgamarla ad altri gruppi, ma il fatto di vederla in compagnia di quei due le giovò molto: Cappelletto, nonostante non fosse granché sveglio, era piuttosto popolare, mentre Valeria non era popolare, ma era rispettata, e, laddove non lo fosse, suscitava comunque una certa inquietudine in coloro che non la conoscevano bene.
Erano davvero uno strano trio, così diversi, ed Emanuele si domandò di che accidenti parlassero, perché erano davvero il gruppetto peggio assortito di tutta la scuola. Eppure forse proprio per quello chiacchierarono fitto fitto per tutta la ricreazione, e vide Cappelletto passarle un braccio attorno alle spalle, e Valeria, che non era altrettanto propensa alle smancerie, le offrì un the alla macchinetta e lanciò insulti e occhiatacce a chiunque facesse battute inopportune, che era il suo modo di dimostrare affetto.
Emanuele decise di azzardarsi a parlarne con Camilla.
-Sai, oggi è tornata Bianca – esordì, timidamente.
Lei annuì, e lo guardò in attesa.
-Ha trovato degli amici – proseguì, con un sorriso incerto – Cappelletto e Valeria. Te ne ho mai parlato?
-Mmh, sì.
-Ecco. Ora girano con lei a ricreazione, la difendono. La situazione è migliorata.
Inaspettatamente, Camilla sorrise.
-Mi fa piacere – disse – davvero. Sono felice per lei.
Allungò una mano verso di lui, e suonò come l'alzata della bandiera bianca.
Emanuele la strinse e chiuse gli occhi, sentendosi un peso scivolare giù dalle spalle come una colata di cemento.

Il giorno dopo, al gruppetto si unì Benetazzo. Si era avvicinato principalmente per parlare a Valeria di un concerto, ma poi rimase a chiacchierare anche con gli altri due. Ad un certo punto, lo sentì esclamare:
-Ferreri, ma tu non sei stupida, cazzo. Fai di tutto per sembrarlo, ma non lo
sei – decretò, mani sui fianchi. Cappelletto gli mise una mano sulla spalla.
-Mi dispiace dirlo, ma PeneCazzo ha ragione – affermò – non dovresti far finta di avere il cervello vuoto, o che dentro ci siano solo enormi cappellotti.
-Così come questa qui non dovrebbe far finta di essere una strega cattiva – soggiunse Benetazzo, guardando Valeria con una certa dolcezza. Lei lanciò un'occhiata eloquente alle borchie e alle catene, sollevò un sopracciglio e lui alzò le mani in segno di resa.
Forse non sarebbero mai stati amici per la pelle, ma non aveva mai visto Cappelletto o uno dei suoi amici rivolgere la parola a Benetazzo o a uno dei suoi amici.
Notò con stupore come Bianca fosse stata capace non solo di separare, ma anche di unire.

I giorni passarono e sempre più spesso, in classe, si parlava del suo matrimonio. Curioso, perché in casa sua non se ne parlava mai, anche se i parenti chiamavano in continuazione per confermare gli inviti all'ultimo minuto, chiedere delucidazioni su una lista nozze che non esisteva nemmeno, parlare delle decorazioni in chiesa e al ristorante. I vestiti erano già stati acquistati, li avevano già provati. Le fedi erano nella loro scatolina, chiuse a chiave in un cassetto.
Con Camilla si era a una specie di armistizio. Non avevano ancora riparlato della questione 'fedeltà', ma sapeva che avrebbero dovuto farlo, prima del venti aprile. E mancavano meno di quindici giorni.
Nel frattempo, a scuola, Bianca era strana.
Come al solito, era irrequieta, non stava mai ferma, faceva la stupida – anche se ora aveva due poliziotti che vigilavano sul suo comportamento. Ma sembrava molto più interessata a quanto accadeva nella sua mente, piuttosto che a ciò che succedeva in classe.
-Bianca? Ci sei? - le chiese un giorno Cappelletto. Lei stava mormorando qualcosa in direzione della finestra.
-Eh? - si risvegliò – Sì, ci sono.
Quella volta andò così, ma la volta successiva Bianca continuò a mormorare a un destinatario sconosciuto.
Un giorno arrivò con due scarpe diverse a scuola. Guardò spaesata coloro che ridevano davanti al tronchetto e alla décolleté mischiati assieme.
Il giorno successivo, alla sesta ora, si mise a piangere e, quando Cappelletto le chiese cosa fosse successo, spiegò che non si ricordava dove fosse casa sua. Lui la rassicurò dicendole che l'avrebbe accompagnata; la prese per mano e la portò fino alla fermata dell'autobus, e poi ci salì sopra con lei e le accarezzò i capelli mentre lei singhiozzava in un modo che stringeva il cuore.
Valeria guardò Emanuele, e in quella ragazzina sempre sicura di sé vide qualcosa che assomigliava molto alla paura, e alla sensazione di non sapere cosa fare.
Lui era molto preoccupato, ma non ne parlò a nessuno, nemmeno a Camilla. Soprattutto, non a Camilla.
E il giorno dopo ancora lui non aveva Bianca, ma lei andò nel suo studio, disperata, chiuse la porta di scatto e lo guardò angosciata, dicendo che tutti la odiavano.
-Ma no che non ti odiano – le disse; ormai sentiva di aver perso la confidenza con lei, ma la sua richiesta d'aiuto la ripristinò immediatamente – hai anche trovato degli amici, hai visto?
Lei scosse la testa.
-A loro faccio pena – spiegò – perché mi hanno vista quand'ero a letto. Ma mi odiano tutti, prof.
Fu mentre parlava che notò una brutta ferita sul punto dove pochi giorni prima c'era il suo piercing. Deglutì.
-Non ti odiano – ripeté – davvero. E a loro non fai pena.
Bianca scosse ancora la testa. Emanuele sapeva che lei aveva ragione, per questo non riusciva a convincerla delle sue parole.
-E lei... - incominciò Bianca; poi s'interruppe – comunque non importa! - continuò, improvvisamente gioviale, asciugandosi le lacrime – Scusi il disturbo! Ora vado!
Scappò fuori dalla porta prima che potesse dirle alcunché.
Antonella più tardi gli raccontò di averla sentita raccontare a Cappelletto che il padre era un membro dell'ISO*** negli Stati Uniti, anche se tutti sapevano benissimo che il padre era un piccolo imprenditore nel settore calzaturiero. Poi gli aveva raccontato di quella volta che era andata in Erasmus per un anno a New York, cosa che non poteva essere successa, perché aveva frequentato quell'istituto da quando era uscita dalle medie e non era mai stata lontana da scuola per più di un mese o due. Infine aveva asserito con molta convinzione di avere un posto già riservato come commessa nell'atelier di Vivienne Westwood a Milano, tutto grazie alle conoscenze del padre.
-Dubito molto che siano cose vere – gli confessò Antonella – e se il padre è come me l'hai descritto, ho ancora più ragione di dubitarne.
Emanuele non disse nulla, tornò a casa e non ne parlò a Camilla. Lei rimase fuori quasi tutto il giorno per i preparativi. A cena chiacchierarono dei loro amici, che si sposavano, che avevano figli, dei libri che avevano letto, e anche quella sera si addormentò con Camilla appoggiata al suo petto, ma ancora le cose non davano l'idea di essersi sistemate.

Mancavano dieci giorni al suo matrimonio, all'incirca, e lui avrebbe voluto pensare solo a quello. La classe non faceva che ricordarglielo, esprimendo felicitazioni, appendendo fiorellini in giro per la classe. Anche i più antipatici dimostrarono autentico affetto nei suoi confronti; gli chiesero di portare una foto di Camilla, lui acconsentì. Quel giorno gliene chiese il permesso, così si portò dietro il portatile e, di nascosto, con la Wireless dell'istituto, si collegò a Facebook e mostrò loro qualche foto.
-Ma allora lei ha facebook, prof! - esclamò Francesca – La aggiungo subito!
-Ma allora anch'io!
-Anch'io!
-Mi accetta prof, vero?
Sospirò; se l'era cercata. Dopotutto, nell'era del digitale, sarebbe stato assai difficile trovare una foto in vera e propria carta fotografica, quindi non aveva visto molte alternative.
Guardarono le foto di loro due nelle vacanze di Natale, quando avevano fatto il Capodanno da amici. Si mostrarono molto sorpresi.
-Ma prof... quella è vodka!
-E quella è Anima Nera!
-Ma prof, qua fa finta di baciarsi con un tipo!
-Ehi – protestò Emanuele – ero coi miei amici a festeggiare. Scommetto che anche voi avete foto del genere.
-Sì, ma... - iniziò Crivellaro; cercava di spiegarsi, ma non ci riusciva.
-Fammi indovinare – l'aiutò – pensavi che siccome ho un lavoro e un mutuo allora non ho più voglia di farmi una bevuta coi miei amici.
-Be'... più o meno – ammise quello, imbarazzato.
-E se ti dicessi che il fatto di avere un lavoro e un mutuo mi mettono ancora più voglia di ubriacarmi?
-Quindi – s'illuminò l'altro – l'addio al celibato...
-Non lo farò – chiarì – lo trovo molto irrispettoso nei confronti di Camilla. Non ne sarebbe affatto felice.
-Ma la sua fidanzata lo fa un addio al nubilato? Ché al limite mi faccio trovare da quelle parti. Si immagini, trenta donne ubriache che hanno voglia di fare le ultime stronzate! E magari ci scappa anche la scena lesbo...!
-Fai schifo – dichiarò Giulia.
-Se vuoi la scena lesbo, non c'è bisogno che tu vada all'addio al nubilato – intervenne una voce, e, quando si girarono, videro il viso sorridente di Bianca. Fece un occhiolino a Crivellaro.
-Ma le amiche di Camilla hanno figli...? - domandò Cappelletto, con una certa agitazione.
-Eh? Beh, alcune sì. Perché?
-LEEE MIIIILF****! - gridò Cappelletto, al settimo cielo; si gettò addosso a Benetazzo ed insieme sprofondarono in quegli irrealizzabili sogni di gloria.
Be', avevano trovato qualcosa in comune. Anche lui, a tempo debito, era rimasto piuttosto affascinato dalla categoria, e non aveva esitato a togliersi la voglia appena gli era stato possibile.
Ci ragionò su un attimo. Si era davvero portato a letto un discreto numero di donne.
Forse Camilla non aveva tutti i torti a sentirsi insicura.
Alla fine, tornarono tutti al proprio posto, ed Emanuele iniziò la lezione.
Mentre spiegava qualcosa a proposito delle simbologie in ambito dantesco, e la classe era piuttosto tranquilla, iniziò a sentire qualcuno che mormorava. All'inizio non ci fece caso: di solito non li rimproverava se avevano qualcosa da dirsi; lasciava che finissero e nel frattempo continuava a parlare. Molto spesso era questione di pochi secondi: avevano abbastanza rispetto di lui da concludere in fretta il discorso e tornare alla spiegazione. Ma questo mormorio non accennava a spegnersi; Emanuele non smise di parlare, ma lanciò una breve occhiata in giro per la classe, e si accorse che a mormorare era Bianca.
Dopo un po' – e dopo che anche gli altri se ne furono accorti, e dopo che Cappelletto l'ebbe tirata per una manica – non poté più ignorarla, anche perché lei aveva alzato la voce, e ora sentiva distintamente cosa stesse dicendo.
-Volete starvene zitti? - sbottò a un certo punto, scocciata, voltandosi verso la classe.
Gli altri si guardarono l'uno con l'altro, sconcertati: nessuno aveva aperto bocca.
-Cazzo stai dicendo? - fece Fiorenzato, che sedeva dietro di lei.
-Smettetela. Fatevi gli affari vostri. Non dite sempre che bisogna seguire la lezione? Beh, fatelo!
Si voltò verso la finestra e mise su il broncio. Emanuele era allibito, ma decise di non prestare attenzione a quell'episodio, e riprese a spiegare.
Per un minuto o due ci fu silenzio, ma notò che Bianca era agitata, nervosa, che continuava a contorcersi sulla sedia e ogni tanto lanciava occhiatacce in giro. Poi sbuffò. Si morse le labbra. Si torse le mani. Si mise le mani nei capelli e iniziò a tirarli.
Poi ricominciò a parlare, in direzione dei suoi compagni.
-Vi avevo detto di smetterla – li implorò – basta, state zitti. Seguite la lezione, per favore.
-Ferreri, ti sei rincoglionita? - parlò di nuovo Fiorenzato – Nessuno ha aperto bocca.
-Non è vero – protestò lei – vi ho sentiti. State parlando di me.
-Nessuno ha aperto bocca! - ripeté seccato l'altro.
Gli occhi di Bianca si riempirono di lacrime. Guardò Emanuele, disperata.
-Non è vero, prof – gli disse – li sento benissimo. Stanno parlando di me. Non li sente? Non tacciono un secondo.
-Bianca – fece Emanuele, con calma – non devi disturbare la lezione con questi scherzi.
-Ma prof, non sto scherzando! Continuano a dire che sono una troia. Dicono sempre che non mi sopportano, che ho l'AIDS, che piango lacrime di sperma...
-Nessuno sta parlando – replicò tranquillo; in realtà, stava sudando freddo – ora ascolta la lezione e non interrompere, ok?
Lei tacque, ma le lacrime le rotolarono giù dagli occhi, e la sua espressione era inondata di pura angoscia. Cappelletto si alzò, la prese per mano e chiese il permesso di portarla fuori a passeggiare per l'atrio.
-Forse è solo stanca – dichiarò – le farà bene.
Emanuele annuì ed aprì loro la porta.
Quando i due furono fuori, Fiorenzato lo guardò, perplesso, e gli chiese:
-Ma è diventata matta, quella là?
Sospirò.
-Non lanciamoci in dichiarazioni insensate. E per questa volta, fatemi un favore personale: non mettetevi a spargere in giro la voce che è matta, d'accordo?
Tacquero tutti. Ma Emanuele sapeva che stavolta perfino loro non sarebbero stati in grado di gettare benzina sul fuoco.
Spiegò fino al suono della campanella, che gli sembrò enormemente lontano per tutto quel tempo; quando finalmente arrivò la ricreazione, si precipitò fuori e raggiunse Bianca e Cappelletto che erano seduti sulle scale. Stavano chiacchierando; lei sembrava stare meglio, lui la guardava incuriosito e le accarezzava i capelli con una dolcezza che ad Emanuele scaldò il cuore.
-Tutto a posto? - chiese a Cappelletto. Lo considerava un po' responsabile per lei.
-Boh, mi pare di sì. Si è calmata – replicò quello; la guardò in cerca di conferma – vero, Bianca? Adesso è a posto.
Ma lei, quando vide Emanuele, si nascose sulla spalla di Cappelletto. Quello arrossì, ma la circondò con le braccia e la strinse a sé. Guardò Emanuele, sperduto.
-Rimanete qui un altro po' – suggerì – parlo io con l'insegnante dell'ora successiva. Chi avete?
-Francese – rispose il ragazzo, guardando ora Bianca, ora il suo interlocutore.
-Benissimo. Voi state qui tranquilli, ok?
Cappelletto annuì e, mentre si allontanava, Emanuele vide che, timidamente, azzardò un piccolo bacio sulla testa fiammeggiante di Bianca. Sorrise e si allontanò, un po' sollevato.
Il giorno dopo, contrariamente alle aspettative, Bianca fu spumeggiante. Era sempre sorridente. Chiacchierò anche con i suoi compagni.
-Ma buongiorno, Chappy! – apostrofò Cappelletto, allegramente, non appena entrò in classe.
-Come, scusa...? - fece quello, alzando un sopracciglio.
-Chappy! - ripeté lei, gioiosa, un attimo prima di abbracciarlo affettuosamente. Poi identificò Benetazzo; gli mandò un bacio con la mano, e infine fece un occhiolino e la linguetta a Valeria. La qual ultima reagì con una smorfia inorridita.
L'intera classe la osservò sbalordita mentre, canticchiando, metteva giù lo zaino semivuoto e incrociava con
nonchalance le gambe sul tavolo, incurante del fatto che, da quella posizione, chiunque potesse vederle la biancheria senza affatto faticare.
-Ti sei ripresa, Bianca? - le chiese Benetazzo, con un sorriso.
-Sto da Dio, Penecazzo, sto davvero una meraviglia. Ah, che giornata meravigliosa! - inspirò a fondo l'aria fresca che proveniva dalla finestra aperta; allargò le braccia, chiuse gli occhi, scosse teatralmente la testa e si abbandonò contro lo schienale. Poi si alzò di scatto e saltellò verso il compagno, che la guardava stranito. - E tu, Penny? Che è il diminutivo di Penecazzo? Come va? Hai combattuto con qualche drago, oggi? Salvato qualche principessa in pericolo?
-Io... no – fece quello, allibito, mentre Bianca raggiungeva Valeria a giravolte. Lei la guardava con tanto d'occhi.
-Eccola qui, la mia donna. Vieni qua e dammi un bacino – la chiamò; ma prima ancora che quella potesse reagire le afferrò il volto tra le mani e la travolse in un bacio mozzafiato che lasciò senza respiro la porzione maschile degli astanti.
-Ma... sei SCEMA? - strillò Valeria, pulendosi la bocca affannosamente – Io ti ammazzo! - aggiunse, stridula. Era diventata rossa come una fragola.
-Grande! - affermò Cappelletto estasiato, e gli altri uomini presenti non parlarono, ma nemmeno protestarono. Ovviamente tra le ragazze ci fu un coro di “che schifo!” “lesbica di merda” e “ew”, ma Bianca tornò tranquillamente al suo banco e vi si sedette soddisfatta; poi guardò Emanuele e gli disse:
-Oh, mi scusi, prof, ho solo salutato i miei amici.
-Non voglio saperne nulla – lui alzò le mani a scudo – a me basta poter fare la mia lezione senza intoppi, poi per il resto fai quello che ti pare.
Bianca mandò qualche bigliettino di scuse a Valeria, che era arrabbiata e quindi la ignorò; Cappelletto continuava a supplicare entrambe di ripetere la scena, e a un certo punto vide che Bianca aveva gattonato fino alla sedia di Valeria e le si stava strusciando contro facendo le fusa. Le ordinò di tornare al suo posto e lei ci tornò, ma poi si accorse che, quando lui si girava verso la lavagna, lei e Cappelletto si scambiavano intense effusioni sporgendosi oltre il banco. Finse di non vedere e ignorò i commenti scandalizzati dei suoi compagni, esclusivamente per amore del quieto vivere. Non aveva voglia di riprenderla.
Alla fine dell'ora, però, le ordinò di raggiungerlo a ricreazione nella sala professori, e lei acconsentì con un sorriso. L'ora dopo aveva un'altra classe, ed era così agitato che decise di dedicare l'ora alla discussione sull'aborto, di modo che si accapigliassero tra di loro senza che lui dovesse dire una sola parola per portare avanti la conversazione. Si godette gli scontri verbali e si limitò a riportarli alla discussione civile quando gli scontri verbali diventarono veri e propri scambi d'insulti.
La ricreazione arrivò e Bianca lo raggiunse in sala professori. C'erano altre persone, per cui spostarono la sede della loro chiacchierata in palestra, che in quel momento era deserta.
-Se ci fossi io in giro, stia sicuro che non la troverebbe vuota – commentò Bianca – vengo spesso qui a fare le mie cose. E glielo dico in via del tutto confidenziale, la prego di mantenere il riserbo.
-Mi limiterò ad evitarla attentamente – rispose Emanuele, poi indicò una pila di materassini – prego. Questo sarà il nostro salotto.
Bianca rise e si avviò verso la pila. Con la minigonna stretta, ci mise un po' a salirci sopra, ma alla fine si sedette, e iniziò a far dondolare le gambe sottili. Emanuele le si accomodò di fianco.
-Allora? - introdusse lei – Voleva parlarmi? Ah, già, voleva darmi carne perché ho fatto la stupida durante la lezione. Ha ragione, prof. Mi dispiace.
-Beh, sì, in effetti anche – realizzò Emanuele – e se pregata di tenere un contegno mentre sei in classe, grazie. Lo dico per te, eh? A momenti Valeria ti sgozzava.
-Ah, ma can che abbaia non morde, prof. È solo che è timida e si spaventa di fronte alle effusioni, ma è dolce dolce dolce.
-Dici?
-Beh, no, ok, non è dolce, ma non mi odia, credo. È solo che è fatta così. Ma so che non è davvero arrabbiata.
-Eppure, ieri sostenevi che tutti ti odiavano. Dicevi che parlavano di te.
-Uh, non ci faccia caso.
-Beh, Bianca, non posso non farci caso, era abbastanza preoccupante. Vorresti spiegarmi che è successo?
-Ma nieeente, prof. Non crucciatevi invano, mio signore. Bianca Ferreri è in super forma. È come se avessi mangiato un fagiolo magico!*****
-Mi sembra quanto mai appropriato, come paragone: una pillolina magica che immediatamente ti rimette in sesto e ti riempie d'energia come non mai.
-Prof, basta con questa storia – lo ammonì bonariamente.
-E va bene, basta. Non è questo. E allora cos'è?
-Oh, ero un po' agitata. Ero nervosa. Forse ero un po' preoccupata. Sa, lei che si sposa. Mi ha spezzato il cuoricino! - pigolò, scherzosa – E poi mi sentivo sola e messa in disparte e blaa bla bla. Il solito. Ah, e mio padre mi ha quasi strappato via il piercing a schiaffi. Forse è per quello che ero un po' così. Ma ora va bene.
-Non capisco se sei seria o se mi prendi per il culo.
-No no, prof, serissima! È che adesso è passata, perché piangersi addosso? La vita è una sola!
-Giusto – mormorò, incapace di replicare.
-Vede? Ecco, ultimamente questa cosa che lei si sposa mi aveva un po' sponata, ecco. Più delle altre cose, in effetti. O forse è la classica goccia che. O forse ho ragione io e sono veramente innamorata di lei, dal profondo del cuore. E insomma ecco, lei comunque si sposa. E io devo reagire ed essere felice anche senza di lei! Quindi ecco. Per questo l'ho un po' evitata. Io devo andare avanti senza il suo aiuto, e le confesso che se non le parlo, per un pochino, poco poco poco, mi dimentico quanto lei sia importante. È che ci sono giorni in cui è peggio e ieri era uno di quei giorni. Ma oggi no. Oggi ho preso un bel voto in fisica, materia che odio!, e mia mamma non mi romperà più le palle perché ho la media dell'otto e mi abbassa gli altri voti, perché io ho la media del nove e dovrei mantenerla, eppure ho anche yoga e degustazione e quell'altra cosa, e palestra, tra l'altro non sono ancora riuscita a dimagrire quanto volevo, sa? Però adesso mangio bene. Mi hanno detto che per l'alimentazione quotidiana bisogna ingerire...
-Bianca, aaalt – la interruppe, mettendole una mano davanti alla bocca. Lei sbarrò gli occhi e si azzittì. - Una cosa alla volta, ok? - Lei annuì; agitava freneticamente le gambe e faceva schioccare le dita di entrambe le mani. - Quindi sostieni che adesso stai bene, giusto?
-Mh-hm.
-Ma non è la prima volta che mi dici che stai bene e poi ti ritrovo il giorno dopo che stai di merda.
-Eh, ma non posso prevederlo, prof! In quel momento magari le dico che sto bene perché sto bene, e poi il giorno dopo sto male e non immaginavo di stare così male, e così lei pensa che io le dica bugie, ma non è così. Se lo potessi sapere in anticipo, sarebbe meraviglioso! No?
-Certo, ma...
-E comunque prof, si è accorto che Cappelletto è innamorato cotto? - Le brillarono gli occhi. - Ha visto come mi sta sempre attorno? Lo sa che è la prima persona che s'innamora di me?
-Gli altri volevano solo l'avventura?
-Beh, sì, penso si possa dire di sì. Alcuni credevano di amarmi, e me lo dicevano, e poi si stancavano di me e del mio modo di fare... beh, li capisco. Anche lei li capisce, vero? - rise, e poi riprese – E comunque è una figata, quando qualcuno s'innamora di te. Ti senti come se da una parte avessi un materasso ad acqua, no? Nel senso: sai che da quel lato lì non puoi cadere e farti male. È rassicurante! Credo che sia così quando ti sposi, no? A parte che se ti sposi in teoria vuoi fare da materasso anche tu alla persona che lo fa a te, solo che io non voglio fare da materasso a Cappelletto, a meno che non significhi stare sotto di lui, e a dire la verità neanche in quel caso; cioè, in realtà gli farei da materasso perché gli voglio bene, ma non
quel tipo di materasso, y' know what I mean? Sa che in inglese mean significa sia un verbo, 'significare', che l'aggettivo 'perfido, cattivo'?
-Sì, lo sapevo.
-L'inglese è una lingua molto più bella della nostra. Pensi a una cosa: noi diciamo 'mi piaci', loro dicono '
i like you'. Il che significa che loro fanno dell'altra persona un oggetto, e di sé stessi un soggetto, in quest'azione di esprimere una predilezione verso qualcuno. E noi, invece? Pensi un po': facciamo dell'altro il soggetto dimenticandoci di noi stessi, e finisce che ci releghiamo al rango di semplici complementi di termine, che se ci pensa bene sono un gradino più in basso dei complementi oggetto. È o no un ragionamento sensato?
-Beh, diciamo che sussiste.
-Siamo un popolo di personalità dipendenti, prof – rise – dovevo andare a fare la psicologa, altro che l'interprete. Sarebbe decisamente il mio momento d'oro.
-Pensa a te stessa, Bianca – la rimproverò con dolcezza – prima che degli altri, occupati di te.
-Ma lo sto facendo, sto pensando al mio futuro. Non fanno che dirci che la mia generazione è destinata a non avere lavoro, pensione, una famiglia, dei figli, l'amore... quindi almeno mi preoccupo di trovarmi uno stipendio – replicò allegramente. Emanuele sorrise.
-Vorrei rassicurarti, ma con quello che mi danno temo che potrei soltanto preoccuparti ulteriormente. Faresti più soldi tu dando ripetizioni a un ragazzino delle medie.
-Ah-ha, quanto le danno al mese?
-Bianca, senza offesa, sarebbero anche un po' cazzi miei...
-Su, su, se vuole io le dico quanto mi danno i miei di paghetta. Mi danno quindici euro. Una miseria, vero? Non mi bastano mai, non posso quasi mai fare niente.
-Come ti capisco – sospirò.
-Su, me lo dica! Prometto che non lo dico a nessuno. Oh, voglio saperlo! Sono terribilmente curiosa, e odio che lancino il sasso e poi nascondano la mano.
-So che sei curiosa come un gattino, ma non saprai mai qual è il contenuto della mia busta paga.
-Guardi che dico in giro il suo soprannome.
Emanuele impallidì.
-... cosa sai?
-Oh, quello che posso arrivare a sapere googlando il suo nome – sorrise maleficamente – caro il nostro Por...
-Millecentocinquanta – esclamò di scatto, saltando giù dal materassino.
Bianca scoppiò a ridere, ma subito dopo, davanti agli occhi attoniti di Emanuele, scoppiò a piangere senza nessun apparente motivo.
-Ehi – la chiamò, preoccupato – che c'è?
-Niente – pigolò lei, poi si asciugò le lacrime e sorrise – adesso sto bene. Tutto a posto!
-Sicura?
-Sicurissima! Si figuri. Con una giornata così bella. Ha visto i ciliegi in fiore della casa qui accanto? Sono di una bellezza stupefacente. A volte ti scordi che le cose più belle sono lì davanti a te ogni giorno, vero? Se posso guardare fuori dalla finestra e vedere quel bell'albero fiorito, che importa il resto? L'albero è sempre lì per allietare la mia vista, e non se ne andrà mai. - Ci rifletté un attimo. - Ah, beh, sì, a meno che non lo taglino i suoi proprietari, ok. Ma quello non c'entra. È che lui ha le sue radici lì e se fosse per lui non si sposterebbe mai. Continuerebbe a darmi quei bei boccioli ogni primavera.
Bianca al pensiero saltellò e gli occhi si accesero di una bellissima luce.
Emanuele, in seguito, ricordò molte volte il momento in cui vide quella luce, che si era accesa in mezzo ad un'immensità immersa nel buio, aggrappata a qualcosa di così semplice e fragile ed eterno come un albero in fiore.
Ma al cambio dell'ora successiva la trovò che piangeva in atrio sulla spalla di Cappelletto, poi Valeria arrivò chiamata da qualcuno, le due si parlarono, e alla fine della quinta ora Bianca stava saltellando in giro per il corridoio e abbracciando un tizio di un'altra classe, che non perdeva occasione per metterle le mani addosso.
Il giorno dopo, Emanuele si spaventò quando Monica gli raccontò che Bianca era scoppiata a piangere e si era aggrappata a Cappelletto perché secondo lei stavano scoppiando le bombe fuori dalla finestra, era scoppiata la terza guerra mondiale, i boati dei missili si stavano avvicinando e che sarebbero morti tutti.
-Sembrava così angosciata che ha messo il dubbio perfino a me – disse Monica – quella ragazzina si droga. È chiaro. Esiste una droga che dà le allucinazioni?
-LSD o funghi – le rispose – ma quand'è che ha il tempo di assumerli? E poi – si interruppe in tempo prima di dire che una volta l'aveva vista prendere delle pastiglie – e poi non possiamo certo perquisirla quando arriva in classe.
-Possiamo, se abbiamo buoni motivi di ritenerla un elemento di disturbo! Io sono sinceramente stanca delle bravate di questa ragazzina. Essere comprensivi con lei non è servito che a farla sentire in potere di fare qualsiasi cosa.
-Prof – in quel momento irruppe Francesca, una compagna di classe di Bianca – scusate, ma dobbiamo parlare con il professore da solo. Per favore, può venire con noi?
-Sì, certo – fece Emanuele, che era pronto al peggio. Le seguì in palestra, dove sperò di non trovare Bianca.
-Abbiamo visto una cosa – intervenne Giulia – e ritengo giusto che lei lo sappia, e che parli lei con gli altri insegnanti, perché è lei il coordinatore, no? E non trovavo corretto sputtanarla così di fronte a tutti.
-Cosa succede? - chiese Emanuele, che già aveva capito di chi si stesse parlando.
-Abbiamo visto Bianca che prendeva delle pastiglie in bagno – fece Francesca, agitata, e queste parole ebbero lo stesso sapore del taglio definitivo della ghigliottina.

Aveva detto alle ragazze di aspettare dalla preside, di spiegarle la situazione, di non parlarne con altri. Salì le scale con passo marziale. Arrivò in corridoio, localizzò con lo sguardo Bianca che gesticolava animatamente con dei ragazzi. Ma stavolta non intendeva passare attraverso di lei per le informazioni; non era affidabile, punto e basta. Era una drogata e come tutti i drogati era una bugiarda, e aveva mentito anche a lui.
Si sentiva ferito e pieno di una rabbia cocente che gli arrossava le orecchie. Entrò in classe incurante dell'eventuale presenza di ragazzi, anche se non c'era nessuno. Afferrò lo zaino di Bianca; aprì la tasca anteriore, trovò soltanto una merendina e le sue chiavi di casa. Rovesciò allora lo scarso contenuto della tasca più grande, e, tra un paio di quaderni e un libro scarabocchiato, tra un pacchetto di caramelle e un paio di pupazzetti sporchi, trovò una bottiglietta marrone.
Era piena di pillole.















  • Non credo davvero ci sia bisogno di dirvelo, ma la canzone è La Cura di Franco Battiato. Se non la conoscete, ascoltatela ;) è un pezzo dolcissimo.
    ** “Ve ne prego”, letteralmente.
    *** International Standardization Organization. Praticamente è un organo che si occupa di riconoscere e rendere pubblici gli 'standard'. È un po' difficile spiegarlo, googlatelo XD.
    **** MILF: Mother I'd Like to Fuck. Guardatevi
    American Pie :°D altrimenti, in breve, si tratta di madri tra la trentina e la quarantina ancora avvenenti e disposte ad una focosa avventura con ragazzi adolescenti.
    ***** Se avete visto
    Dragon Ball, capirete. Altrimenti... cacchio, che razza di infanzia avete vissuto ò_o?


(Nda: Lo so, ci ho messo una vita e faccio schifo ò_o ma non è stato per pigrizia, giuro ;_; innanzitutto è stato un capitolo difficile da scrivere, ma, soprattutto, come avrete notato :°D, era piuttosto lungo ^^;. Se pensate che avrei dovuto renderlo ancora più lungo, capirete perché ho splittato in due questo capitolo che doveva essere il finale.
C'è anche da dire che avevo già messo decisamente troppa carne al fuoco e ce n'era di ancora più succulenta che aspettava di essere messa sulla griglia *_*' siccome non voglio scrivere un capitolo confusionario, mal scritto e poco esauriente, ho voluto chiudere qui.
In risposta alle vostre recensioni... ^^ brevemente perché non ho molto tempo e voi sarete stufi dopo trenta pagine di storia XD

Yuki: a dire la verità, io penso che non esista una persona che si droga 'per fare l'alternativa', ma che tutti, come Bianca, lo facciano perché hanno i loro motivi, le loro sofferenze. Quanto ai problemi di salute, anche il mio ragazzo aveva la tua stessa idea della malattia terminale ^^ purtroppo saprete se è così solo nel prossimo capitolo ;) *me è malefica e vi fa penare :P*
Baby Birba: dunque, diciamo che gli spunti ci sono, ma sono appunto soltanto spunti. Emanuele ha il nome e l'aspetto fisico di un mio prof del biennio, ma non so nulla dei suoi interessi e della sua vita privata, per cui quelli sono totalmente inventati (mentre la questione del soprannome è vera XD); così come lo è la relazione con una studentessa come Bianca. Lei è proprio interamente frutto della mia fantasia. Le figure dei suoi genitori hanno in effetti un riscontro nella realtà, ma non interamente. Camilla e i compagni di classe sono del tutto inventati.
Uh, e grazie per il commento a Follow ^.^ è una storiella un po' scema, ma sono contenta che ti piaccia ^_^!

Dance of Death: mi fa davvero piacere sentire che il tutto è realistico. Sono cose piuttosto difficili da mettere su carta ò_ò e non sei mai sicuro se tu sia riuscito a comunicare o no certe sensazioni. Mi dispiace molto che tu abbia questo problema, spero vivamente che si risolva perché so che razza di rottura di coglioni possa essere. Comunque, grazie davvero delle tue belle recensioni ç.ç wow ç_ç se vorrai leggere qualcos'altro di mio ne sarò felicissima ;_;!
Hellfire: INFERNAL HAIL!!!! (Volevo dire solo questo è_é.) (No, scherzo, anche ringraziarti del commento XD che ha doppio valore considerato che non segui la sezione, wow, grazieee T.T!)
Khristh, Veive, Piaciuque: se solo sapeste che soddisfazione mi danno i vostri commenti T^T grazie per il vostro irrinunciabile sostegno ç.ç


Prometto a tutti che per il prossimo muovo il culo e lo pubblico presto!
Ancora grazie per i fav e le recensioni! I love you all ;_;!)

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Mentre stringeva la bottiglietta tra le mani, si accorse che stava stringendo i denti al punto di farsi male alle gengive. Il cuore gli batteva furiosamente. Ma era spaventato come sempre accade quando arriva il momento della verità.
E quindi, gli aveva sempre mentito. Nonostante proclamasse di amarlo, nonostante professasse sincerità, nonostante quella sua aria da innocente, aveva mentito.
Ma era anche colpa sua, avrebbe dovuto saperlo. I drogati erano capaci di tutto, le menzogne erano soltanto l'inizio. Ovvio che non confessassero. Ovvio che facessero di tutto per proteggere il loro sacrosanto diritto di ingoiare pastiglie da una bottiglietta marrone.
Stava giusto aprendola con foga quando con la coda dell'occhio intravide una confezione azzurra.
Stranito, la prese in mano: aveva tutta l'aria di un medicinale. Probabilmente era la pillola: la prendeva davvero, dopotutto. L'unica cosa vera che gli avesse detto.
 Andò avanti a tormentare la bottiglietta fino a quando si accorse che recava una scritta, e poi nella sua testa si formò un pensiero nuovo, inquietante, un pensiero che gli aprì davanti un mondo come uno squarcio netto sul ventre.
Un drogato non avrebbe mai messo delle pastiglie, e in una simile quantità per giunta, in una bottiglietta che era alla portata di tutti e che poteva essere rubata o scoperta in qualsiasi momento, figurarsi addirittura a scuola.
E fu un attimo dopo che si accorse, iniziando a sudare freddo e avvertendo un brivido quasi doloroso sul torso, che la confezione azzurra non parlava di prevenzione anticoncezionale.
La confezione recava la scritta Lamictal.
E la bottiglietta marrone invece era piena di qualche cosa che si chiamava Zyprexa.
Le guardò attentamente, con il cuore a mille, sentendo un calore affannoso salirgli al collo, sperando di trovare qualche indicazione; ma le etichette non dicevano nulla al riguardo del disturbo che curavano; elencavano gli ingredienti, ma lui non era in grado di riconoscerli.
Sentì che qualcuno si stava avvicinando e, con le mani che tremavano e il cuore che gli batteva furiosamente fin dentro alle orecchie, gettò tutti gli oggetti alla rinfusa nello zaino di Bianca.

Si precipitò nell'aula computer. Ne accese uno nervosamente, dondolando le gambe in modo frenetico per l'agitazione, gli sussurrò di sbrigarsi, sbrigarsi, sbrigarsi, si morse l'interno delle guance, si mordicchiò le dita, ma alla fine riuscì ad aprire Google.
Digitò “Zyprexa”.
Mentre si aprivano i link, gli sembrò di impazzire, sebbene si fosse trattato di una frazione di secondo. Quando finalmente si aprì la pagina, lo stomaco gli si attorcigliò.

    1.    Olanzapina - Wikipedia 
    1.    Olanzapina (in commercio in Italia come Zyprexa e nella forma ... Detailed Zyprexa Consumer Information: Uses, Precautions, Side Effects - da medlibrary.org ...
    2.    Farmacologia - Farmacocinetica - Metabolismo - Effetti collaterali
    3.    it.wikipedia.org/wiki/Olanzapina - Copia cache - Simili
    1.    ZYPREXA 5 mg 
    4.    Lattosio: le compresse di Zyprexa contengono lattosio.Frequentemente sono stati osservati aumenti transitori ed asintomatici delle transaminasi epatiche, ...
www.torrinomedica.it/.../ZYPREXA_5_mg.asp - Copia cache - Simili
    1.    È Scoppiato il Caso «Zyprexa Uccide» - La Leva di Archimede (IT) 
    5.    Il caso Zyprexa è scoppiato grazie a Jim Gottstein: un avvocato, sopravvissuto alla psichiatria, nonchè fondatore del sito PsychRights. ...
www.laleva.org/.../e_scoppiato_il_caso_zyprexa_uccide.html - Copia cache - Simili
    1.    Il caso Zyprexa - La Leva di Archimede (IT) 
    6.    Questa volta è il turno dello Zyprexa, uno psicofarmaco neurolettico molto utilizzato in psichiatria, spesso spacciato per un farmaco «miracoloso» con pochi ...
www.laleva.org/it/2007/06/il_caso_zyprexa.html - Copia cache
    1.    Zyprexa : Forum alFemminile 
    7.    30 mag 2007 ... Zyprexa. Volevo sapere se voi o qualcuno che conoscete lo usa e come si trova con questo farmaco. Grazie -Io l\'ho preso per poco.. -Prendo zyprexa ma non è ...
forum.alfemminile.com/.../__f10_f485-Zyprexa.html - Copia cache - Simili
    8.    Zyprexa noooooooooo‎ - 15 giu 2009
Zyprexa aiuto‎ - 18 gen 2009
    9.    Altri risultati in forum.alfemminile.com »
Ma alla fine, quando ormai si stava rassegnando a cercare 'olanzapina', vide un link che conteneva una parola che gli stritolò lo stomaco in una morsa che gli si sciolse solo parecchie ore dopo.

    1.    Zyprexa, INN-olanzapine 
    1.    Formato file: PDF/Adobe Acrobat - Visualizzazione rapida
Zyprexa è un farmaco contenente il principio attivo olanzapina. ... Zyprexa è indicato per il trattamento degli adulti affetti da schizofrenia. ...
Gli mancò il respiro. Cercò di calmarsi, passò al link successivo.

    1.    Zyprexa - Farmaci - Salute - Attualità 
    1.    Questi fantomatici farmaci, droghe in tutto e per tutto, che arrivano a sedare per anche 42 ore di file (zyprexa 10 mg) sono il miglior ritrovato in fatto ...
www.wikio.it/salute/farmaci/zyprexa - Copia cache - Simili
La confusione gli invase la mente. Adesso si parlava di droga. Quindi Bianca usava questo farmaco come un eccitante? Allora era davvero una tossicodipendente? Non sarebbe stata certo la prima ragazza a farsi di Prozac o di Valium in alternativa alle amfetamine o all'eroina.
Ma poi la ragione urlò: come avrebbe potuto procurarsi farmaci tanto pesanti senza ricetta? Le compresse erano nella loro scatola, acquistata in farmacia. Non le erano state vendute sfuse da un pusher.
Andò avanti, disperato, alla ricerca di qualche informazione in più.

    1.    The Official ZYPREXA® (Olanzapine) Site 
    1.     - [ Traduci questa pagina ]
    2.    Includes information for patients with schizophrenia.
www.zyprexa.com/ - Simili
Saltò alcuni post nei forum di utenti che parlavano della loro esperienza e alcuni link di conferenze che non gli servivano. Andò avanti, in cerca di chiarimenti.
Prevalentemente, trovava la parola 'schizofrenia' associata a quel farmaco.
Ma poi gli si presentò davanti un link in inglese che introduceva una parola nuova.

    1.    Zyprexa Information from Drugs.com 
    1.     - [ Traduci questa pagina ]
    2.    3 Sep 2009 ... Zyprexa (olanzapine) is used to treat the symptoms of psychotic conditions such as schizophrenia and bipolar disorder. Includes Zyprexa side ...
Disturbo bipolare.
Quella parola iniziò a comparire più spesso nei link forniti da google.

    1.    [PDF]
    1.    See full prescribing information for complete boxed warning. 
    2.     - [ Traduci questa pagina ]
    3.    Formato file: PDF/Adobe Acrobat - Visualizzazione rapida
ZYPREXA IntraMuscular is indicated for the treatment of acute agitation associated with Schizophrenia and Bipolar I Mania. ...

    1.    Zyprexa Reduces Symptoms Of Mania, Severe Depression In Bipolar ... 
    1.     - [ Traduci questa pagina ]
    2.    s antipsychotic medication Zyprexa(R) (olanzapine) improved the symptoms of mania in patients with bipolar disorder. Moreover, these benefits were seen ...

    1.    Zyprexa Medication Profile - Olanzapine - atypical antipsychotic drug 
    1.     - [ Traduci questa pagina ]
    2.    Zyprexa - generic Olanzapine - is an atypical antipsychotic medication used to treat schizophrenia - bipolar disorder - also Alzheimer's.
Andò avanti ancora per un po', ma le parole che ricorrevano più frequentemente erano 'schizofrenia' e 'disturbo bipolare'.
Non potendo crederci, decise di non dare adito a simili teorie, non subito, non prima di essere assolutamente certo che si trattasse di quello. Decise di cercare l'altro farmaco, cercando assurdamente di convincersi che il Lamictal avrebbe sfatato quelle teorie, avrebbe dimostrato che il problema era tutto un altro.
Ma sapeva d'illudersi.

    1.    LAMICTAL - LAMICTAL ODT - Medicine for Certain Types of Seizures 
    1.     - [ Traduci questa pagina ]
    2.    LAMICTAL is a prescription medication for epilepsy and for maintenance treatment of bipolar I disorder. Visit LAMICTAL.com for more information.
Questo fu il primo link sufficientemente esauriente che trovò. La parola 'bipolare' ricorreva. Ma decise di proseguire, sperando di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che gli confermasse che non era così, che era solo droga, che si poteva risolvere.

    1.    Lamictal patient advice including side effects 
    1.     - [ Traduci questa pagina ]
    2.    Lamictal information from Drugs.com. Lamictal is prescribed to control seizures in people with epilepsy. It is also used to control a serious form of ...
www.drugs.com/pdr/lamictal.html - Copia cache - Simili
L'epilessia era un po' meglio. L'epilessia poteva starci. Ma quella frase abbozzata lo chiamava come il canto delle sirene, e, sebbene sentisse l'ansia divorarlo da dentro al pensiero di ritrovare quella parola maledetta, aprì quel link e lesse la pagina.
“It is also used to control a serious form of epilepsy known as Lennox-Gastaut syndrome. Lamictal is used in combination with other antiepileptic medications or as a replacement for a medication such as carbamazepine, phenytoin, phenobarbital, primidone, or valproate.”
Questo era già meglio. Non sapeva cosa fosse la sindrome di Lennox-Gastaut, ma almeno era qualcos'altro. Andò avanti con la lettura, vorace, per saperne di più, di questa sindrome che, aveva deciso, aveva affetto Bianca e che sicuramente era qualcosa di gestibile.
“In addition, Lamictal is used to help prevent the manic and/or depressive phases of bipolar disorder.”
Si sentì il cuore scendere nell'intestino con un tonfo sordo, stridendogli contro le viscere.
Tornò indietro, mente sentiva le dita diventare gelide. Fece per cliccare sulla seconda pagina dei risultati, ma Google gli mostrò le parole con cui più spesso il Lamictal veniva associato.
“lamictal bipolar” era il primo nell'ordine.
Andò avanti; tutto ciò che trovò, per la seconda pagina, fu qualche informazione sul fatto che, come l'altro farmaco, era una droga usata come stabilizzatore dell'umore in persone affette da disturbi di ordine psichiatrico.
Principalmente, notò Emanuele, tentando di ignorare i crampi allo stomaco, ci si riferiva a pazienti che soffrivano di bipolare o di epilessia; in particolare, veniva combinato ad altri farmaci per combattere il primo. A volte veniva indicato come trattamento per entrambi i disturbi, a volte invece si menzionava solo il disturbo bipolare.
Emanuele chiuse la finestra, si coprì il volto con le mani, si abbandonò sulla sedia.
Tentò di ragionare lucidamente.
Le possibilità erano tre: schizofrenia, disturbo bipolare ed epilessia.
Ma Bianca non sembrava epilettica. Non aveva mai avuto crisi epilettiche. Quanto alla schizofrenia, era un po' più probabile, ma c'era da considerare una cosa: questi due disturbi non venivano mai associati da soli ai farmaci che aveva trovato nel suo zaino.
Il bipolare veniva associato anche da solo allo Zyprexa e al Lamictal, ma la schizofrenia e l'epilessia, per quanto riguardava quei due farmaci, venivano menzionate solo in coppia con il bipolare.
Inoltre, il bipolare era una costante di entrambe le ricerche; lo Zyprexa non includeva il trattamento dell'epilessia, e il Lamictal non prevedeva la cura della schizofrenia.
Chiuse gli occhi, prese un respiro e ritornò a Internet. Stavolta non sentiva più alcuna fretta di avere i risultati, mentre Google elaborava una ricerca per “disturbo bipolare”. *

Quel giorno non aveva altre ore. Lo considerò una fortuna, perché non ce l'avrebbe fatta a mettere in piedi una qualsivoglia spiegazione.
Era quindi corso verso l'uscita senza guardare in faccia nessuno, senza salutare, per paura di vederla; per paura che vedessero lui. Una nausea insistente lo tormentava. Inspirò a fondo l'aria di aprile, ma non gli servì; la nausea gli era penetrata dentro fino in fondo, gli si era attaccata addosso, non intendeva lasciarlo. E mentre tentava di calmare il pulsare della testa e il battito furioso del cuore, pensò che Bianca gli aveva lanciato un sortilegio, che l'aveva maledetto, perché anche quando non c'era gli entrava dentro a viva forza impedendogli di camminare, respirare, guardare dritto davanti a sé.
Salì sul treno sentendosi addosso centinaia di chili, sentendosi come se fosse stato fatto di gesso; fastidiosamente rigido e al contempo terribilmente fragile. Non era quello il modo di lavorare, considerò. Non poteva farcela, non andando avanti così.
Nonostante tutto, in treno si addormentò pesantemente; le emozioni di quella giornata l'avevano stravolto, e, momentaneamente, liberò la mente dalla preoccupazione. Si svegliò poco prima della sua fermata. Si svegliava sempre poco prima della sua fermata: per lui quel tragitto in treno era un'abitudine tanto consolidata che il suo orologio biologico aveva finito per adattarcisi. Lo trovava atroce. Gli permetteva di scendere sempre alla sua fermata senza rischiare di ritrovarsi a Rovigo, certo; ma lo trovava lo stesso una cosa atroce.
Quando fu a casa, si tolse con calma la giacca e la sciarpa, sfilò le scarpe, le mise nella scarpiera e infine si gettò pesantemente sul divano. Non pensò a nulla. Guardò le foto di lui e Camilla sparse per la casa, guardò i loro libri, i loro fumetti. Gengis lo raggiunse scodinzolando e gli zampettò pietosamente sulla pancia. Gli diede una carezza lenta, distratta; era immerso nel vuoto della sua mente e non intendeva uscirne.
Rimase a lungo così, sfiorando il cane senza davvero registrare la sua presenza, fissando insistentemente il volto di Camilla nella carta stampata. Guardò la loro casa così bella, progettata proprio come l'avevano voluta loro – anche se era lontana dal centro, anche se a entrambi toccava prendere il treno per andare al lavoro.
Camilla tornò poco più di un'ora dopo, intorno alle due e mezza. Sapeva che lui era già a casa, ma non suonò il campanello; non lo suonava mai, per non disturbarlo, perché non dovesse alzarsi per aprirle la porta. Entrò silenziosamente, si pulì le scarpe sullo zerbino, abbandonò la borsetta di fianco all'uscio. Emanuele udì un sospiro fatto a bassa voce. Si alzò sui gomiti e la guardò.
-Ciao – disse lei, con un sorriso.
-Ciao – rispose, tentando anche lui di accennarne uno.
-Tutto bene?
-Più o meno. Tu?
-Più o meno.
I loro dialoghi, ultimamente, si svolgevano più o meno così. E la cosa più brutta era che non si chiamavano. Né “Ema”, né “Lele”, né “amore”. Si parlavano e basta, nel limite degli argomenti sicuri.
-Hai sospirato – precisò Emanuele, seguendola con lo sguardo mentre portava scarpe e giubbotto al loro posto.
-Sono solo un po' stanca – disse dolcemente Camilla, poi si diresse verso la cucina. - Hai già mangiato?
-No, non ancora. Scusa, non ho preparato nulla.
-Nessun problema – fece lei, ma la sua voce era così stanca che non poté non raggiungerla in cucina. Incrociò le braccia sullo stipite.
-Parlamene, se c'è un problema – la incitò.
Lei continuò a concentrare la sua attenzione sulla pentola piena d'acqua e sul fornello.
-Vuoi parlarmene...? - ritentò.
Camilla prese un lungo respiro, poi si voltò verso di lui.
-La Milanesi oggi era un po' di cattivo umore, e si è rivolta a me in modo molto poco gentile. Tutto qui. Niente di inusuale, è solo che non pensavo che potesse essere così sgradevole.
Annuì e guardò verso il pavimento. Lasciò che fosse Camilla a riprendere la conversazione.
-E tu, invece? Anche tu mi sembri piuttosto provato.
-Sì. Credo che Bianca sia bipolare – snocciolò con voce ferma; non era più disposto a lasciarsi intimidire dalle pretese e dai capricci della sua fidanzata. Ne conseguiva che non aveva più paura di parlare di Bianca e degli sconvolgimenti che gli causava, se ne sentiva il bisogno.
Camilla, comunque, tacque. Si mise a lavare i piatti della sera prima e non alzò nemmeno gli occhi verso di lui. Emanuele lo prese come un atteggiamento di rifiuto.
-Mi sembra costruttivo, questo tuo fare – sibilò; all'improvviso sentì montargli dentro una rabbia e un nervoso che sembravano portarsi dietro tutte le preoccupazioni e le tensioni provate negli ultimi mesi – davvero da persona matura, complimenti. Una ragazzina viene picchiata e molestata dai suoi genitori, non riesce ad avere relazioni che non siano sessuali, ha un disturbo mentale debilitante che potrebbe compromettere la sua vita per sempre, ma non parliamone, non menzioniamola, è infinitamente più importante che conserviamo questa finta cortesia da salotto settecentesco! Grande. È proprio così che mi immaginavo il mio matrimonio, grazie, Camilla!
Fu soltanto dopo averlo detto, dopo aver sfogato quella che ora riconosceva come l'agitazione data dalle scoperte di quel giorno, che scoprì che non ce l'aveva con Camilla. Non ce l'aveva con nessuno. Ce l'aveva soltanto con la vita che gli aveva rovinato tutti i piani, la sua opinione di se stesso, la sua relazione più importante e in generale la tranquillità che si era costruito faticosamente negli anni.
-Scusa – sussurrò subito dopo, inorridito, portandosi una mano davanti alla bocca come per impedire che ne uscissero altre nefandezze – mi dispiace.
Ma Camilla taceva. Non osò sollevare lo sguardo su di lei finché non si accorse che, nonostante trafficasse animatamente con le pentole, nonostante strofinasse la spugna con l'energia di un'indemoniata, nonostante non si voltasse nemmeno verso di lui, era perché stava piangendo. Da dietro le spalle, in silenzio, cercando di non farsi vedere.
-Mi dispiace – ripeté, con voce tremula, ma un muro si era creato e non bastava scusarsi per abbatterlo. E non sarebbero nemmeno bastate le chiacchierate, e gli abbracci affettuosi, e il sesso, e le cose fatte assieme.
Niente avrebbe cancellato la macchia tra loro due, soltanto il tempo avrebbe potuto appena farla sbiadire.
Si sentì schiacciato dalla sua stessa impotenza.
-Io – mormorò lei, tra le lacrime – non volevo dire niente del genere. È solo che... non sapevo... cosa dire. - Singhiozzò. - Sembrava volessi sfidarmi. Io non ce l'ho con Bianca, lo sai, Ema, e odio queste buone maniere che non mi vogliono dire niente, così come le odi tu. Il fatto è che mi sento sempre in colpa verso di te.
-Cristo, non devi – esclamò tristemente, correndo ad abbracciarla. - Non volevo farti sentire in colpa. Volevo solo spiegarmi, volevo solo poter parlare liberamente. Sono io che mi sento in colpa per non aver saputo farti sentire amata. Per favore, smettiamola qui – la implorò. Lei si nascose sul suo petto.
-Lo sai che non sarà uguale – sentì la sua voce attutita arrivargli dalle pieghe della camicia. Le accarezzò i capelli, come aveva fatto Cappelletto con Bianca.
-Non sarà uguale subito – affermò, deciso – ma lo sarà presto. Chiaro che non possiamo far finta di niente. Ma proprio per questo non possiamo continuare a fare dei sorrisini ipocriti. D'ora in poi, promettiamo di parlarci qualunque cosa accada.
-Te lo prometto – Camilla scoppiò in lacrime di sollievo, e si strinse forte a lui.
Non era la prima volta che si riproponevano qualcosa del genere, ma era la prima volta che sentiva che avrebbero dovuto farlo, se non volevano perdere tutto.
Ora che il segreto di Bianca era stato svelato, Emanuele aveva addosso una curiosa sensazione di fine. Sentiva che da adesso potevano davvero ricominciare.

Il giorno dopo, andrò subito a parlare con la preside, prima ancora di entrare in aula.
Lei lo accolse con un sorriso; stava rigirandosi tra le mani una collana che costava come un anno degli stipendi di Emanuele. Molti colleghi parlavano male di lei, definendola una 'borghese piena di soldi e di boria'. Ma non era vero. Per quanto lo riguardava, aveva tanto denaro quanta intelligenza.
-Buongiorno – lo salutò gentilmente, indicandogli la sedia. Lui si affrettò ad accomodarsi. - Così mattiniero. È successo qualcosa?
-Non è propriamente successo – incominciò – ma volevo chiederle una cosa. Ho bisogno di saperlo.
-D'accordo – fece lei, calma – riguarda Bianca, vero?
-Già – ammise – riguarda lei. Mi dica la verità, la prego. Bianca è bipolare?
Giovanna prese un bel respiro, fece un sorriso amaro. Infine lo guardò negli occhi.
-Te l'ha detto lei? - gli chiese. Emanuele arrossì.
-No, non me l'ha detto lei. Ma un giorno ho visto delle medicine che sporgevano dal suo zaino, e mi sono preoccupato. Non sono riuscito a non curiosare. Ho cercato su Google cosa fossero; mi ha dato vari risultati, ma quella del bipolare era l'ipotesi più probabile. Risponde perfettamente a tutti i criteri, preside.
La guardò supplichevole. Lei si sistemò la collana attorno al collo, sospirò ancora e abbassò lo sguardo.
-Sì, è bipolare – confermò infine.
A Emanuele parve di sentir scoppiare una bomba in lontananza. E una dentro di sé, così vicino che per un attimo ci vide buio.
Cercarla in Internet era un conto. Era una scommessa.
Sentirselo dire da qualcuno che sapeva, però, metteva fine ad ogni speranza. Era davvero così.
-Quindi... - riprese, con voce e mani tremanti – quindi è per questo che è assente così spesso?
-Proprio così. È stata anche ricoverata in ospedale. Stando a quanto mi raccontano i tuoi colleghi, non manca molto prima che ce la riportino di nuovo.
-Ma perché non ci avete mai detto niente?!
-Una richiesta esplicita della famiglia – mormorò Giovanna, con evidente perplessità – non chiedermi il perché. Forse si vergognavano a farlo sapere al corpo docenti, forse volevano negare il problema anche davanti a se stessi; come saprai, finché non dici una cosa chiaramente puoi sempre far finta che non sia vera.
-Lo so bene – disse piano, e lo sapeva davvero.
-Questo è quanto. Mi hanno chiesto di promuoverla comunque nonostante le assenze, e io ho replicato che Bianca recuperava sempre alla perfezione la parte di programma a cui non aveva assistito, quindi non c'era problema. Ho promesso loro di mantenere il riserbo, nonostante a volte mi risultasse impossibile e assurdo. Mi creda; avrei voluto informarvene. Ma loro insistevano col dire che doveva essere trattata come tutti gli altri, e io, un po' per giustificarli e giustificare me stessa, mi sono aggrappata a questa teoria. Ma mi rendo conto che non si può andare avanti così. - Si tolse lentamente gli occhiali, li osservò come se contenessero delle risposte. - Ultimamente è molto peggiorata. Ha allucinazioni, vuoti di memoria, sbalzi d'umore a ciclo ultrarapido. Prima queste cose non succedevano. Non capisco cosa l'abbia sconvolta fino a questo punto.
-Crede che ci sia qualcosa, dietro ai suoi cambi d'umore?
-Sicuramente sì. Ma il bipolare si autoalimenta. Alcune teorie sostengono che il periodo maniacale sia una sorta di ripresa di potere da parte dell'io, che recupera le energie e l'allegria perdute. È anche vero che alle fasi maniacali seguono quelle depressive, poiché l'eccessivo dispendio di forze porta alla prostrazione del fisico e della mente. Ciò che le accade ha sicuramente un'influenza sulle fluttuazioni del suo umore, ma spesso è totalmente ininfluente.
-Si è informata molto.
-Ho dovuto.
-Ma è possibile che... qualcosa aiuti l'insorgere di una fase?
-Certo, è possibile. Benché sia la pazzia a dettar legge, incurante dello stato d'animo della persona, l'ambiente esterno contribuisce senza dubbio ad alimentare le oscillazioni. Senza dubbio, se Bianca ha pensieri negativi la fase depressiva sarà decisamente più pesante.
-Quindi... i pensieri negativi potrebbero averla portata a ciò che è adesso...?
-A sentire gli psichiatri che la seguono, a contribuire molto sono l'abuso di alcool da parte di Bianca e una certa refrattarietà alle cure. Quand'è nel periodo maniacale, com'è tipico, pensa di non aver bisogno di nulla, di stare a meraviglia. Credo l'abbia notato anche lei, no? A volte sembra che sia estasiata di fronte al mondo, è vivace, scherzosa, ottimista, non sta calma un momento... e magari qualche giorno dopo si rifiuta di alzarsi dal letto.
-Ma adesso non ci sono più distanze di mesi, preside. Adesso succede da un momento all'altro.
-Ed è esattamente questo a preoccuparci; una volta era sotto controllo, ma il fatto che abbia dato segni di psicosi è assolutamente allarmante, significa che sta avvicinandosi alla perdita delle proprie facoltà mentali.
Emanuele rabbrividì.
-Ma da quando? - esclamò, agitato - Da quando ha questa malattia?
-La madre dice, da quando ha dodici anni. Non si sa cos'abbia scatenato il disturbo.
-Ho letto che esiste in effetti un evento scatenante – osservò Emanuele – qualcosa che l'ha, come posso dire... acceso.
-Hai usato un vocabolo appropriato. Il disturbo c'era, ma dormiva, non l'aveva ancora afferrata. Qualcosa l'ha acceso, ma noi non sappiamo che cosa. Nemmeno i genitori. Non l'ha mai confidato a nessuno degli specialisti che l'hanno seguita.
-Dodici anni...? - sussurrò Emanuele.
-Sì. Perché, le dice qualcosa?
In quel momento, mentre lui si sentiva una colata di lava riversarglisi nelle viscere, ricordò alcune parole, sentite in un colloquio tanti mesi prima.
Beh, Bianca ha iniziato a fare un po' la stupidina quando aveva dodici anni. Magliettine scollate, poi voleva tenere i capelli lunghi e stava sempre lì a spazzolarseli, poi le è venuta la mania di truccarsi... sa, è l'età.
Dodici anni. Sbarrò gli occhi, la preside lo guardò confusa, ma lui riuscì solo a boccheggiare. I ricordi riaffiorarono.
E lo fecero graffiando come artigli d'acciaio.

Avevo dodici anni. Mi ha infilato la mano dentro i pantaloni, e poi dentro le mutande.

Iniziò a battere i denti, pietrificato. Il suo sguardo fisso nel vuoto preoccupò Giovanna, che gli toccò la mano delicatamente.
-Emanuele? Tutto a posto?
-No – mormorò – no. Io... no.
Quindi era stato quello. Era stato quello a svegliare la pazzia addormentata profondamente dentro Bianca, ed era stato da quel momento che lei aveva intrapreso quel cammino che l'aveva poi portata ad essere la ragazza più scandalosa ed isolata della scuola.
-Che cosa succede, Emanuele?
Quindi era stato suo padre a renderla quello che era. A farla impazzire, e a farla diventare la puttanella dell'istituto. Era stato lui a dare il via a tutto, e non aveva mai fatto altro che alimentare quel fuoco che stava bruciando Bianca da dentro, lasciando sempre più cenere sotto di lei, finché non sarebbe sparita definitivamente sotto strati e strati di incoscienza.
-Io credo... credo di aver... - “credo di aver capito tutto”, avrebbe voluto dire. Ma non poteva. Se Bianca non voleva parlarne, non l'avrebbe fatto nemmeno lui. - Io credo di aver bisogno di un po' d'acqua. Mi permetta.
-Certo.
Tirò fuori una bottiglietta dalla ventiquattrore. Bevve diverse sorsate. Si mise una mano sulla fronte accaldata.
-Immagino che sia shockante – commentò Giovanna – scoprire che una ragazza così giovane sia passata attraverso sofferenze che noi non potremo mai nemmeno immaginare. È stato un brutto colpo anche per me, mi creda.
-Non è giusto – sussurrò.
-No, non è giusto. Il suo modo di fare, oltretutto, la distanzia dai suoi compagni. Ma io non posso dire loro: ragazzi, non ha potere su questo, non ha il controllo di sé stessa. Non lo posso fare.
Notò negli occhi della preside una tristezza che lo scosse molto. Lei, sempre così posata, così lucida di fronte ad ogni evenienza. Non l'aveva mai vista tanto toccata da qualcuno o qualcosa.
-Guarirà? - le chiese, con una voce incerta e sperduta che non riuscì in nessun modo ad impostare come quella di un adulto.
-No, non guarirà – asserì Giovanna, amareggiata – qualunque cosa l'abbia portata a questo, lei non potrà tornare indietro. Può fermarsi qui, al massimo; può tenere sotto controllo la sua malattia, può attutirne gli effetti, se prende i farmaci, ma non guarirà. Se devo dirle la verità, non credo nemmeno che migliorerà. È troppo tardi e il bipolare invade la mente come un esercito armato. Puoi solo cercare di sopravvivere vagando tra le rovine.
Emanuele sentì diversi impulsi prendere possesso di lui tutti insieme. L'impulso di piangere, quello di spaccare a pugni la faccia di quell'uomo, quello di strapparsi i capelli e urlare, quello di abbracciare Bianca.
Forse era così che lei si sentiva tutto il tempo.
Strinse i denti.
-La ringrazio – disse alla preside – mi scusi il disturbo. Non ne parlerò con i miei colleghi.
-Grazie, Emanuele. Cerchi soltanto di vederla come una ragazza normale. Ne ha bisogno.
Le sorrise tristemente; ma le sorrise, perché lo meritava, perché aveva capito senza nemmeno dirglielo che lui aveva bisogno di sentirsi dire cosa fare.
Lei lo salutò con lo stesso sorriso appannato.

Ormai mancava meno di una settimana al suo matrimonio, e in classe qualcuno aveva disegnato i due sposini alla lavagna, premurandosi di colorare i suoi capelli interamente di bianco. Non riuscì a risalire all'autore dell'opera.
Notò che Bianca si stava trattenendo in corridoio, vicino all'ascensore, con un tizio. Uno nuovo. Le andò vicino.
-Ehi, è ora di entrare – le disse; lei lo guardò, le si illuminò lo sguardo e smise di ascoltare il suo interlocutore.
-Certo! Arrivo subito, prof. Ci vediamo, Zampi.
Gli si fece di fianco; sembrava felice. Lo guardò, con quell'espressione gioiosa che la caratterizzava nei suoi momenti buoni, e che, ora lo sapeva, probabilmente non corrispondeva a reale allegria. Forse era finta. Forse non era Bianca a sorridere.
Chissà quando era lei ad avere il controllo sul suo sorriso, chissà quanto tempo le lasciava la malattia per esprimere sé stessa, e non quella versione esagerata di Bianca in cui il bipolare la trasformava.
-Come sta, prof? Manca poco al gran giorno, eh?
-Già. Ma non vorrei parlarne, se non ti spiace.
-Che c'è? Si preoccupa per me? Stia tranquillo, se non l'avessi accettato non gliel'accennerei. Non deve trattenersi in classe per paura che io ci stia male.
-Io non mi...
-Sì, prof, lo fa. Mi lancia delle occhiate ansiose talmente poco sottili che mi sorprende come mai nessuno si sia ancora accorto che lei scruta la mia espressione ogni volta che parla della sua ragazza.
-Non hanno motivo di farci caso.
-O forse non sono abbastanza acuti, prof. Anche se in effetti, senza offesa, ma lei proprio non ha il dono dell'imperscrutabilità... le sconsiglio fortemente una carriera da ninja.
-Non credo comunque che avrei deviato tanto dalla carriera che ho già, comunque grazie del consiglio, Bianca. Su, vai in classe.
-E lei?
-E io arrivo tra due minuti, ho bisogno di un caffè. A proposito, più tardi vorrei parlarti.
-Volentieri, prof. Quando?
-Alla fine della sesta ora, se hai tempo. Ti offro una pastasciutta riscaldata al Fly.
-Wow, prof, grazie. Se voleva un appuntamento galante, però, poteva almeno portarmi in un ristorantino carino dall'atmosfera intima, suvvia...
-Sparisci – la ammonì; e quello pose la parola 'fine' alla conversazione. Lei si allontanò sorridendo e salutandolo con la mano.
E mentre inseriva i trentacinque centesimi nella macchinetta e pigiava “espresso lungo”, si chiese se durante quel tempo avesse parlato con Bianca, la vera Bianca che aveva iniziato ad andarsene quattro anni prima, o con la pazzia che si stava lentamente impadronendo di lei.
Il pensiero lo inquietava così tanto che decise di lasciar perdere il caffè. I suoi muscoli e i nervi erano già fin troppo tesi.

La lezione passò tranquillamente; Bianca non seguì una sola parola, era troppo impegnata a disegnare un ritratto a penna di Valeria che, Emanuele notò di sfuggita, era anche piuttosto ben fatto. A fine lezione glielo consegnò raggiante, le diede un bacio sulla guancia e le disse di non buttarlo via. Valeria, spiazzata, lo prese in mano e guardò prima lei, poi il disegno, poi di nuovo lei, poi di nuovo il disegno, infine arrossì e lo mise in una busta che aveva nel raccoglitore.
-Cosa si dice? - la riprese bonariamente Benetazzo.
-Fatti gli affari tuoi – fu la dolce risposta; ma Benetazzo sorrise pacificamente e le arruffò i capelli con la sua enorme mano. - Dai, smettila, coglione, che mi tiri i capelli con quelle cazzo di borchie.
-Si dice grazie, signorina. E se vuoi che smetta, si dice...?
-”Guarda che ti spacco la faccia”.
-Ma no, scemotta, si dice per favore.
-Che bella coppietta che siete – squittì Bianca – così... neri.
-Non ripeterlo se ci tieni alla vita.
-E invece ripetilo, che suono delizioso!
-Guarda che ti strozzo con quella catena che porti attaccata alla cintura.
-Wow, Valeria, ti piace il sadomaso? Non ti facevo così porcellina – cinguettò Bianca.
Valeria sbatté la testa sul banco, Benetazzo, che ormai aveva fatto l'abitudine a certe battute, rispose con un “magari!” estasiato.
Sembrava tutto ok.
Sì, sembrava che tutto andasse bene, ogni volta... fino a che, ogni volta, andava puntualmente a finire male.

Ma Emanuele si sbagliava, perché quel giorno Bianca non si perse mai d'animo. Fu quasi impossibile tenerla a bada, anche se ora, quantomeno, concentrava le avances sessuali solo su Cappelletto e Valeria; ma preferiva vederla così piuttosto che catatonica. Anche se, e lo sapeva, le due situazioni erano da considerarsi pari.
La recuperò al portone ed assieme attraversarono la strada, dirigendosi verso la tavola calda nella galleria di fronte alla scuola. Si sedettero in un angolo un po' appartato; Emanuele voleva assicurarsi di poterle parlare con calma.
-Che bello, a pranzo col prof – cantilenò Bianca; sembrava che la cosa la rendesse davvero felice. Probabilmente quella gioia era vera. La pazzia non era in grado di crearla.
Emanuele le sorrise, ma non disse nulla, perché non sapeva come introdurre il discorso. Lasciò che fosse lei a condurre la conversazione.
-Quindi, prof? Ho come idea che lei voglia tirare in ballo qualcosa di serio, ma stavolta sono pulita, ne sono sicura. Non mi sono più fatta trovare in bagno con nessuno e ho tenuto rigorosamente bocca e gambe chiuse. Stavolta non mi può rimproverare – dichiarò orgogliosa. Emanuele la guardò divertito. - Che c'è, prof? Cos'è quella faccia? Mi sta prendendo in giro?
Lo guardò con aria ammonitrice.
-No, non ti prendo in giro. Volevo solo chiederti una cosa.
-Mi dica.
-Stai bene?
Bianca sembrò spiazzata. Spalancò gli occhi, batté più volte le ciglia, aprì e richiuse la bocca, e infine rispose, confusa:
-Beh... direi di sì. Sono piuttosto in forma. Come mai?
-Sei sicura di stare bene? Nel senso, è tutto ok? Non c'è niente di strano?
Ricordò le volte in cui lei aveva detto che se le cose andavano troppo bene, significava che in realtà non andavano bene per niente. Quando gli diceva che presto, sicuramente, sarebbero andate male.
Non era pessimismo. Era solo consapevolezza di quello che la sua malattia comportava.
Così tanti tasselli che andavano al proprio posto.
-Di strano? Del tipo?
Si rese conto che Bianca aveva sempre evitato accuratamente di rispondergli. E che gliel'aveva suggerito più volte, accennandolo appena, ma non gliel'aveva mai detto.
I tasselli che si riunivano stavano formando un'immagine cupa e densa di tristezza.
-Tu non ti droghi – affermò, di punto in bianco.
-Eh, no che non mi drogo. Si è convinto, prof, finalmente?
-Sì, ne ho la certezza. Quelle pastiglie non erano ecstasy o roba del genere, e tu non vedevi gli scoppi delle bombe per via degli allucinogeni. Tu non ti droghi.
-No – mormorò Bianca, che però era impallidita, e sembrava piuttosto agitata. Continuava a far dondolare la gamba accavallata a ritmi velocissimi, e si morse le labbra.
-No – ripeté Emanuele – tu mi hai detto la verità, da un lato, ma hai omesso diverse cose.
-Io non...
-Non serve che tu me lo dica, Bianca. Lo so. Ma voglio sapere perché me l'hai tenuto nascosto.
Lei prese un respiro tremolante, a bocca aperta. Guardava il tavolino.
-Non volevo tenerglielo nascosto – disse, a voce bassissima – io credo... di aver voluto che lei lo capisse. Solo, non volevo dirglielo.
-Non potevo, Bianca. Non ne avevo gli strumenti. Non so niente di psichiatria.
-Non volevo dirle che... sono pazza – la voce le si spense nell'ultima parola, e il suo viso si fece tanto triste e vergognoso che Emanuele allungò una mano verso di lei. Bianca posò la sua, piccola ed esile, nel suo palmo infinitamente più grande. La strinse con delicatezza.
Dentro di lui stava pensando: non ci sono più scappatoie. Me l'ha detto lei. È tutto vero.
Quella che gli si prospettava di fronte aveva tutta l'aria di un'altra battaglia da combattere; non contro qualcuno, ma contro una terra impervia per la mera sopravvivenza.
Doveva essere forte anche per chi non lo era.
-Non lo sei, infatti. Non lo sei per niente. Hai risultati formidabili, Bianca, hai capacità incredibili. Non puoi essere pazza.
Lei lo guardò, sconsolata.
-Spesso è la mania a darmi le energie per fare e memorizzare tutte quelle cose. Me l'hanno detto i dottori. Quando sto dietro a troppe cose, a un livello in cui una persona normale inizierebbe a dar segni di stress, allora vuol dire che c'è sotto la pazzia. Niente di quello che faccio è vero.
-No – protestò Emanuele, che pure avrebbe avuto bisogno che fosse Bianca a gridare quel “no” – la mania forse ti dà l'energia. Ma il cervello è il tuo, e su questo non c'è dubbio. Tutte quelle cose intelligenti che scrivi nei temi, le tue conoscenze su così tante materie. I pazzi di solito sono soltanto pazzi. Ma tu hai qualcosa dentro che non può essere soffocato. E forse le fasi maniacali l'amplificano, ma se l'amplificano è soltanto perché c'è una base, ed è una base brillante, Bianca, cazzo, lo so meglio di chiunque altro.
-Prof – lei scosse la testa, con amarezza – sa quanti bipolari sono stati considerati dei geni? Dante, Pirandello, Virginia Woolf, Kurt Cobain, Hesse, Andersen, Napoleone, Hemingway, Van Gogh... non ha idea di quante personalità di rilievo potrebbe trovare in questa lista. Le possibilità sono due: o il bipolare colpisce solo i geni, oppure quel presunto 'genio' è soltanto frutto di una capacità che non proviene da noi. Una sorta di patto col diavolo. Siamo tutti dei Faust bugiardi, professore.
-No – ripeté, ostinatamente. Bianca lo guardò, in attesa di una risposta, ma senza convinzione. - Esistono moltissimi cosiddetti 'geni' che il bipolare non l'hanno avuto. Perché Virginia Woolf non poteva essere un genio e una persona ammalata?
-Non saprei darle una risposta immediata. So solo che, quando arriva la mania, io non sono propriamente io. Non credo che normalmente avrei voglia di fare tutte quelle cose.
-Credi che non andresti con tutti quei ragazzi, se non fosse per la mania...?
Lei lo guardò fisso negli occhi.
-Oh, no – affermò convinta – quello lo farei comunque. Non dico che a volte non mi aiuti a distaccarmi dai pensieri, ma... lo farei comunque.
-Lo credi davvero?
-Sì, lo credo davvero. Quell'uomo pensa di avermi tutta per sé, e invece... invece la do esattamente a chi voglio io. Anche a tutti, se mi gira di darla a tutti. Non sarà mai lui ad avere il controllo su quello che faccio a letto, mai.
-Mi sembra che non ce l'abbia nemmeno tu, Bianca.
-D'accordo, forse la cosa mi è un po' sfuggita di mano. Ma l'importante è che sia io a decidere. E che siano altri a toccarmi, e non lui. Io voglio...
-Tu vuoi riappropriarti di te stessa. L'ho capito. Ma con la tattica che hai scelto non ottieni altro che farti del male.
-Siete tutti assurdamente convinti che fare tanto sesso sia sinonimo di autodistruzione. Sa che durante l'atto sessuale il corpo rilascia delle sostanze chiamate endorfine, che producono una sensazione di benessere prolungato e generalizzato? E poi fa dimagrire. Non può certo fare del male.
-Ma tu non la vorresti, una persona che ti ama...? Farlo con qualcuno che vuole soltanto te, che vorrà farlo soltanto con te per tutto il resto della sua vita?
-Sì – si limitò a dire lei, puntando i due grandi occhi castani fin nel profondo dei suoi.
In quel momento dovettero ordinare, e il discorso si interruppe. Dopo che ebbero chiesto le loro pizze, ci fu un attimo di silenzio, che fu interrotto da Bianca.
-A proposito del resto della vita – un sorriso birichino le nacque sulle labbra – fra poco qualcuno sottoscriverà una promessa d'amore eterna.
-Dai, non serve tirare fuori il discorso se non vuoi.
-Ma scherza?, avanti, non sono così infantile. Certo: non dico che verrò, perché, sì, insomma, mi sembrerebbe irrispettoso verso Camilla, dopo quello che le ho combinato quella volta in hotel. E poi diciamolo: se entrassi in chiesa l'acqua santa evaporerebbe e Cristo si schioderebbe dalla croce, se la metterebbe sotto braccio tipo baguette e scapperebbe dall'entrata sul retro.
-Cretina – ridacchiò – se solo ti infilassi una camicetta chiusa fino al colletto e un bel pantalone classico, e magari ti sistemassi un po' quei capelli, nemmeno Don Giuseppe avrebbe da ridire su di te.
-Scherza? Lui e quelli come lui hanno sempre avuto il fastidioso hobby di perseguitare noi rosse dicendo che eravamo delle streghe mandate dall'inferno.
-Ma è passato un po' di tempo – sottolineò – ah, voi anticattolici ad oltranza. Vi attaccate a certe cose...
-Sì, sì, vabé, lei ha sempre vissuto nel suo paesetto con Don Giuseppe che conosce tutti, il lattaio che le fa lo sconto e i vicini di casa che le tengono il cane quando va in vacanza. Non pretendo che capisca.
-D'accordo, Bianca, hai ragione, scusami se alla mia bigotta e limitata mentalità da paesino sfugge il momento in cui Don Giuseppe ha afferrato una rossa per i capelli, l'ha legata a un palo e le ha dato fuoco, incitando la folla al linciaggio.
-Le concedo che non intenda bruciarle, ma non che non gli piacerebbe portarsele a letto.
-Tu hai davvero una peculiare idea del mondo.
-Anche il signor Freud pensava che tutto girasse attorno al fiki fiki, ma perché lui è un genio e sta nei libri di storia, mentre io invece sono solo un'assatanata?
-Beh, credo che sia perché lui da questa idea ha ricavato delle teorie, mentre tu ne hai ricavato soltanto un codice comportamentale quantomeno opinabile, volendo essere diplomatici.
-Ma quel codice è mio – osservò Bianca – mio e di nessun altro. Né di mio padre, né di quel cane poliziotto di mia madre, e neanche della pazzia. È solo mio. E se agli altri dà fastidio non importa, perché è una parte di me, e io... io ci tengo a conservare un pezzo reale e sincero di me stessa, capisce?
-Credo di sì – fece Emanuele – è un po' confuso, come concetto, ma credo di esserci arrivato.
-Bene – Bianca sorrise – e adesso per favore parliamo di cose belle. Mi racconti del suo matrimonio.
-Cosa vuoi sapere?
-Mmmh... Camilla avrà l'abito bianco?
-Beh, sì. Perché?
-Così, curiosità. E chi avete invitato?
-I nostri genitori, fratelli, cognati, zii, cugini, amici stretti, relativi consorti.
-E come decorerete la chiesa?
-Non me ne sono occupato io, ma credo ci saranno dei bouquet di rose bianche e lilium.
-Che meraviglia, prof. Me ne porterà uno?
-Vuoi un bouquet del mio matrimonio...? Ne sei sicura?
-Certo, ne sono sicura. Devono essere bellissimi. Allora, mi promette che me li porterà, lunedì? Il giorno dopo dovrebbero ancora essere belli. Me lo promette? Che mi porterà i fiori?
-D'accordo, Bianca. Te ne porterò un mazzolino.
-Promesso?
-Promesso.
-Grazie – sorrise felice – e allora... dov'è che andrà, in viaggio di nozze?
-Ci hanno regalato un coast to coast negli Stati Uniti – sorrise, non potendo nascondere la soddisfazione – New York, San Francisco, Hollywood, Chicago, Los Angeles, Las Vegas.
-Peeerò – commentò Bianca, spalancando gli occhi – che bellissimo regalo. Ma sarà costato un occhio della testa.
-In effetti se lo sono diviso tra tutti gli invitati, più o meno – ammise – ma in fondo abbiamo già una casa, dei mobili e dei corredi, e abbiamo specificato che non avevamo bisogno di soprammobili o cazzate varie. Certo, un assegno per pagarci il mutuo di quest'anno sarebbe stato il massimo, ma non mi lamento.
-Ma non può lamentarsi – esclamò Bianca, stupita – che bel regalo, davvero. Devono volerle molto bene.
-Spero quanto io ne voglio a loro.
Lei sorrise.
-Mi piace questo suo lato genuino e tenero, prof. Davvero.
Non poté fare altro che restituirle il sorriso, un po' imbarazzato. Ma lei riprese con le domande.
-E quindi, quanto starà via? Suppongo un bel po', vero? Non verrà neanche a salutarci, prima di partire? - Bianca sporse il labbro inferiore e lo fece tremolare, scherzosamente.
-Beh, il progetto era quello di partire mercoledì. Dato che ci prenderemo un paio di settimane, abbiamo dovuto organizzarci al lavoro, e non è stato possibile partire subito. Pazienza; ora come ora siamo troppo occupati con i preparativi, quantomeno avremo il tempo di fare i bagagli.
-Certo, capisco. E così mentre noi siamo qui chiusi in una stanza tutti assieme lei se ne va a prendere il sole e a far shopping! Quanto la invidio. Non sarebbe male andare a New York.
-Un giorno, magari, quando ti sposerai, potrai chiedere come regalo di nozze un viaggio nella Grande Mela.
Bianca rise e non aggiunse altro, quindi si concentrarono finalmente sulle pizze ormai fredde.
Finirono di mangiare velocemente e poi si diressero verso la fermata; lei salì sul 13, la salutò con la mano, lei lo salutò allo stesso modo, con un gran sorriso sulle labbra. Poi dopo qualche minuto passò un 8 che lo portò in stazione, e lui inspiegabilmente si sentiva il cuore leggero.

-Oggi l'ha ammesso – disse a Camilla, entrando a casa – di avere il bipolare. Ma sembrava tranquilla, al riguardo. Forse ha accettato di doverci convivere.
-Mi dispiace così tanto – mormorò Camilla, che stava versando il purè sui piatti – davvero. Se solo fossi stata più informata, se solo ne avessi saputo qualcosa... è un caso talmente eclatante.
-Lascia stare, non hai idea di quanto mi sono sentito stupido e ignorante. Certo, non è il mio campo, ma è un disturbo così diffuso, e così pericoloso! Eppure non se ne sa nulla.
-Te ne ha parlato?
-No, in realtà poi il discorso è caduto sul nostro matrimonio. Mi ha detto che non vuole venirci, ma ha insistito perché le portassi uno dei bouquet che ci sono in chiesa. Ti dà fastidio?
Camilla tacque per un attimo. Emanuele si sentiva un po' teso, forse aveva chiesto troppo, pensò. Ma poi lei, timidamente, con voce incerta, suggerì:
-Stavo pensando che, anche se non posso lanciarglielo... forse potremmo portarlo a lei, il mio bouquet. Che ne dici? Come buon auspicio per il suo futuro.
Quello era un gesto di pace, ed era un gesto di fiducia, ed Emanuele sentì che finalmente aveva una tregua. Baciò Camilla e l'abbracciò forte. Lei aveva un sorriso timido e felice che non le vedeva addosso da tanto tempo.

Nei quattro giorni rimanenti, la casa fu tutto un viavai di genitori, fratelli e cognati, telefonate, prenotazioni, conferme, ulteriori conferme, conferme definitive.
-Ma guarda Alberto se proprio adesso doveva prendersi l'influenza. Poi dico, almeno dammi la certezza che non ci sei, come fai a dirmi 'boh, forse ci sono, tienimi il posto'?
-Emanuele, dove ze che te ghe messo i anei? [ Dove hai messo gli anelli? ] - sbuffò in dialetto sua madre, che girava per la casa senza scopo da mezz'ora – No te poi assarli in giro dove che capita, ostia! [ Non puoi lasciarli in giro dove capita, accidenti! ]
-Non sono in giro, mamma – davanti a Camilla le parlava in italiano; a casa, invece, le rispondeva in dialetto, perché così era stato cresciuto – li ho messi in cassaforte, al sicuro.
-E ora cossa 'spetavito a dirmeo? Go da portarli via! Possibie che te sipi sempre el soito savaton... [ E allora cosa aspettavi a dirmelo? Devo portarli via! Possibile che tu sia sempre il solito ciabattone... ]
-Dai, mamma, sta' calma due minuti, ché c'è già abbastanza casino.
-Te digo mi beo, tuto el casin nasse parché ti no te si bon de fare e robe come che ga da 'ndare [ Ti dirò, bello, tutto il casino nasce perché non sai fare le cose come si deve ] - chiocciò sua madre – 'Scoltime qua Camilla, sarà ben che te me parli co mi, assa stare 'sto pandoeo che no 'l se ga gnancora incorto de esare al mondo [ Senti, Camilla, sarà meglio che tu parli con me, lascia stare questo tanghero che non sa neanche di stare al mondo ].
Camilla rise, Emanuele scosse la testa e decise di lasciar perdere. Per fortuna, pensò, se n'era trovata una diversa da sua madre.
-Cami, me lo lanci il bouquet? - chiese Vittoria, che quel pomeriggio era venuta a provarsi ancora una volta il vestito da damigella. - Così magari poi mi sposo con Davide!
-Tesoro, mi dispiace, ma pensavo di tenerlo io per ricordo, il bouquet – mentì Camilla, con un dolce sorriso. Si scambiarono un'occhiata complice –  però, se vuoi te ne do uno di quelli in chiesa.
-Non è la stessa cosa – Vittoria fece una smorfia, ma si dimenticò presto il bouquet quando poté provarsi il vestito; era la prima volta che ne metteva uno vero, elegante, e sua madre non faceva che ripetere loro quanto fosse irrequieta in quei giorni.
-Più ci avviciniamo alla cerimonia, e più si agita – sospirava – neanche l'avessero allestita per lei. Che incubo. Continua a dirmi di portarla dal parrucchiere e che vuole farsi i boccoli, ma lei ce li ha già i capelli ricci, non c'è bisogno di andare dalla parrucchiera, ma lei no!, vuole i boccoli fatti col ferro dalla parrucchiera, e poi mi chiede di truccarla, ma figuratevi se trucco una ragazzina di sedici anni; l'acqua e sapone è sempre il trucco più bello, no? Vero, patatina?
-Non chiamarmi patatina!
-Guardatela, come si vergogna. E invece sei ancora una patatina, la patatina della mamma, vero, tesoro?
-Daaii!
Camilla ed Emanuele sorridevano, annuivano e intanto pensavano a come defilarsi, e ogni tanto si lanciavano qualche occhiata ad occhi rovesciati.
-Non trovi assurdo che il giorno del nostro matrimonio – le sussurrò Emanuele quando furono soli in cucina a preparare il caffè per gli ospiti – saremo costretti a sorbirci queste chiacchiere per l'intera giornata, mentre invece teoricamente dovrebbe essere il nostro giorno, dedicato solo a noi?
-Poi abbiamo due settimane di pace in solitudine – sussurrò Camilla di rimando – cerchiamo di resistere.
-Insoma, quanto te voe par pareciare un caffé? El giorno che ea Camilla se stufa de ti, come pensito de fare, indormesà come che te si? [ Insomma, quanto ti ci vuole per preparare un caffé? Il giorno in cui Camilla si stuferà di te come pensi di cavartela, tonto come sei? ]
Emanuele sospirò. Sua madre faceva così perché era nervosa, lo sapeva, e non ci diede molto peso; ma ricordava che, quando abitava con lei, i suoi attimi di nervosismo erano molto frequenti, perché lui aveva studiato una cosa inutile, perché non trovava lavoro, perché perdeva troppo tempo con le ragazze e perché tornava tardi.
Guardò Camilla e pensò che era felice che la sua nuova vita iniziasse con lei, che la sua famiglia d'ora in poi e per sempre fosse quel visino dolce e sorridente.

-Prof, mi sono provata un vestito per la cerimonia – esordì Francesca – vedrà come saremo eleganti.
-Ma in quanti intendete partecipare? Anche tutte le altre classi che seguo hanno detto che vogliono intervenire. Guardate che al ristorante ci sono solo parenti e amici stretti, è già prenotato, potreste solo assistere alla cerimonia in chiesa e probabilmente stareste in piedi.
-No problem! - gli assicurò Crivellaro – E prometto che non aprirò bocca se non per recitare l'Ave Maria e il Padre Nostro. Anzi no: neanche quelli, dato che non me li ricordo. Starò muto e immobile per tutta la cerimonia.
-Anche se è un luogo di ritrovo per il culto cristiano, io ci sarò – promise Benetazzo – e... e per lei, io... io mi metterò in giacca e cravatta!
-Sono sinceramente commosso – si stupì Emanuele – e, giuro, non ti sto prendendo per il culo.
-Non bestemmierò neanche una volta – giurò Cappelletto.
-Sarà bello per una volta vedervi senza jeans e Converse – sorrise – ad ogni modo, vi ringrazio davvero per la vostra partecipazione. È un gesto molto bello da parte vostra.
Bianca lo guardava sorridendo e col labiale gli ricordò 'fiori'. Emanuele annuì impercettibilmente ed iniziò la lezione, durante la quale Bianca, che aveva fatto in modo di sedersi di fianco a Valeria, parlottò per tutto il tempo, ridacchiando e tentando di palparla.
L'ora dopo gli chiese di uscire perché era troppo irrequieta; acconsentì e ogni tanto la videro passare mentre faceva le ruote per tutto il primo piano. Poi iniziò a correre da un capo all'altro del corridoio, e la sentirono che spiegava al bidello, affannata, che si era data al jogging. Iniziò a chiacchierare col vecchio Gigi e nel frattempo Emanuele notò, con la coda dell'occhio, che si stava esercitando con le verticali contro il muro. Non ci fece caso.
Si era a inizio trimestre e le lezioni erano costellate di spiegazioni; Bianca gli comunicò che per un paio di giorni avrebbe saltato scuola, ma che sabato sarebbe venuta a salutarlo, per fargli le congratulazioni. Un giorno a ricreazione le chiese cos'avrebbe fatto, e lei, con un sorriso furbo, gli rivelò:
-Dico a mia mamma che vado a dormire da una mia amica. In realtà vado a un rave, e poi resto al chill-out. Ho bisogno di movimento.
-Ne hai un po' troppo bisogno – osservò Emanuele – non è che...
-No no no – lo rassicurò lei, agitando le mani – si figuri. Sto prendendo il litio regolarmente; è tutto a posto, sono stabile. È solo che ho deciso di non pensare a lei e di dedicarmi a me stessa, alle mie passioni, ai miei interessi...
-I tuoi interessi sono il cinema e la letteratura, Bianca. Me ne hai sempre parlato.
-Beh, io non sono un'intellettuale che non pensa al divertimento. Mi piace anche ballare, fare tardi, fare sesso e poter raccontare storie allucinanti. Se non lo faccio ora, quando?
-Mi sembra di averla già sentita, questa.
-Ma su, prof, guardi che ho anche periodi di calma – protestò – non sono sempre esagitata o superdepressa. Le mattane mi lasciano anche dei momenti di normalità – rise.
Era pur vero che la normalità di Bianca erano le feste, il sesso e l'alcool. Dimenticava sempre che, per quanto fosse intelligente, le piacevano cose anche molto banali e stupide.
-Promesso che non fai cazzate?
-Promesso, prof. Non mi drogherò, mi metterò il preservativo e cercherò di tornare a un'ora decente del pomeriggio.
-Il pomeriggio – mormorò Emanuele – non ci sono più i giovani di una volta. E pensare che ai miei tempi la trasgressione era fare mattina.
-Perché lei non ha mai vissuto appieno la sua vita – gli fece l'occhiolino – ma se lei è contento così, con la casa e il cane e la fidanzata fissa, allora sono felice per lei. Non sono nessuno per criticare.
La guardò attentamente. Riconobbe la trappola dietro il sorriso innocente; aveva già sentito una volta questa storia, e un bravo combattente non si fa colpire due volte dallo stesso attacco. Fu così che decise di passare al contrattacco.
-Non me ne farai pentire – asserì – nossignora. E so che tu la vorresti, una casa con dentro un cane e un fidanzato fisso come la mia: ma non riesci a trovarla e sai che se non cambierai sistema non la troverai mai, inoltre sai altrettanto bene che non cambierai, quindi per consolare te stessa vieni a dire a me che mi prendo dalla vita quello che lei si degna di darmi e che non auspico a niente di meglio di quello che mi è caduto tra le mani. Ti dirò: puoi anche considerare il mio stile di vita poco avventuroso, all'insegna dell'accontentarsi, delle regole da bigotti per bene... ma io sono davvero felice di quello che ho, e credo che essere felici con quello che si ha venga prima di tutto. Anche di quel qualcosa che tu cerchi e che forse non ti servirà a niente.
-Lo so, ha ragione lei – ammise, con un sorriso timido – gliel'ho sempre detto che a me sarebbe piaciuto molto, se solo... - si interruppe. Emanuele pensò che forse volesse dire che le sarebbe piaciuto, se avesse potuto stare con lui; ma non seppe mai cosa Bianca avesse inteso dire quella volta. - Beh, comunque sì, ha ragione, sono un po' invidiosa! Ecco perché devo andare a quel rave e darmi una bella botta di vita.
-Se lo dici tu.
-Non si preoccupi – gli ripeté – faccio la brava.
Con questo lo salutò perché doveva scappare a prendere l'autobus. Forse l'aveva accettato davvero. Forse questa volta, forse, avrebbe potuto avere il suo lieto fine.

I due giorni che seguirono furono frenetici. Tutto il loro tempo libero era dedicato ai parenti che invadevano la casa portando regali e un fastidioso chiacchiericcio. Venerdì avevano a cena i testimoni di nozze da parte di lei; si trattava della migliore amica di Camilla, Elena, e del suo fidanzato giapponese incontrato in Erasmus, Soichiro, il che rubò una discreta quantità di tempo ai preparativi, ma portò loro in cambio i cinnamon rolls preparati appositamente da Soichiro, e naturalmente una serata piacevole, libera dal parentame.
-Quindi sono questi gli ospiti? - ripeté per l'ennesima volta il proprietario del ristorante – E mi conferma anche la disposizione dei posti?
-Sì, sì, tutto perfetto. In giornata ripassa mia mamma a controllare chi si siede dove e tutte quelle robe là.
Fu il turno del prete.
-Mi raccomando, ricordatevi sabato di venire a confessarvi, ché poi vi devo comunicare. Questione di cinque minuti. Se spera.
Poi di sua mamma.
-Sempre a mi me toca fare e robe al posto tuo [ Tocca sempre a me fare le cose al posto tuo ] - si esasperò – ah, Dio, quando ze che te metarè giudisio, mi no so pì che santi ciamare [ ah, Dio, quand'è che metterai giudizio, io non so più a che santo votarmi ]!
In effetti, pur di non averla attorno l'avevano spedita a fare commissioni e controlli; così, almeno, era lei stessa a fare le cose e non poteva criticare gli altri. Criticava comunque, ma in misura molto limitata.
-Camilla, sei sicura che ci siano tutti i documenti per il viaggio? - si preoccupava il padre di lei, che non contava molto sulla sua capacità di cavarsela al di fuori del loro controllo genitoriale – Non per dire che tu non sia capace, per carità, ma controlla una volta in più se c'è tutto.
-Ho i biglietti, papà, per tutte le destinazioni e per il ritorno; ho la prenotazione degli aerei, ho la carta di credito internazionale carica, le valige le faccio la settimana prossima. È tutto pronto.
-Ma hai ricontrollato un'altra volta se c'è proprio tutto...? Hai telefonato agli hotel per avere conferma...?
-Due volte ciascuno questa settimana.
-Ecco, richiamali anche la settimana prossima. Il giorno in cui parti. Mi raccomando.
-Sì, papà.
La sera di giovedì si gettarono a letto esausti, sospirando in coro. Presero un bel respiro.
-Più che un giorno di gaudio, è una gran rottura di maroni – commentò Emanuele.
-Non dire così, dai. Necessita organizzazione. Magari se mi avessi sposata in una chiesetta alla periferia di Parigi, quella domenica mattina, solo io e te e i prati innevati e le campane... - sorrise – ma hai voluto fare le cose in grande, visto? Ed ecco cosa ci è capitato.
Emanuele rise.
-Ma sì, chi se ne frega. In fondo, ti sposi un po' il giorno in cui lo chiedi, no? È lì che davvero nasce la promessa. Domenica ci limiteremo a confermarla davanti a tutti quelli che conosciamo.
-E anche a noi stessi.
-Già. Che dici – la scrutò, un po' indeciso se chiederglielo o meno, ma poi prese coraggio – tu confermi...?
-Confermo – sorrise lei, e poi gli accarezzò il viso – e tu...? - aggiunse, con malcelata tensione.
-Confermo – mormorò, prendendole la mano e baciandola; si addormentarono tenendosi per mano.

Il venerdì passò all'insegna dei lavori di casa: occuparono il pomeriggio sistemando la casa per il rinfresco. Il giardino era troppo piccolo perché potessero starci tutti quegli invitati, per cui furono costretti ad adattare il salotto; spostarono mobili, sprimacciarono cuscini, spolverarono i soprammobili.
Si divisero i compiti: Camilla lavò i pavimenti, sua madre spolverò i mobili, Emanuele pulì i vetri delle finestre e diede una riordinata generale a tutte le stanze della casa. Si accertarono che ci fossero asciugamani puliti in bagno in tinta con la tappezzeria; i libri ebbero la loro passata di straccio e poi furono chiusi nelle loro librerie con vetrina; tutti gli oggetti lasciati in disordine in garage furono ammassati sugli scaffali o nella casetta per gli attrezzi. Appesero alcuni festoni, prepararono il tavolo in salotto, chiamarono la pasticceria per assicurarsi che domani alle nove potessero passare a ritirare ciò che avevano ordinato.
Cenarono con i loro genitori, che se ne andarono comunque abbastanza presto; la casa era più bella che mai, ne erano soddisfatti.
-Almeno, domani possiamo concederci una giornata di relax. In teoria.
-Tranquillo Ema, salterà fuori qualche inconveniente, me lo sento.
-No, basta – gemette, afflosciandosi sul tavolo.
Ma non era davvero esausto. Dovevano fargli fare ben altro, prima di fargli cambiare idea su lui e Camilla.

In quei due giorni di fatica aveva quasi dimenticato Bianca e il suo rave. Anzi; poteva tranquillamente affermare di averla accantonata per tutto quel tempo. Ma aveva promesso di comportarsi bene, per cui non si era preoccupato e aveva dormito tranquillo.
Arrivò a scuola sabato mattina e fu accolto da un boato e da un applauso, che lo imbarazzarono un po', ma gli fecero anche piacere. Bianca, assieme ad alcuni altri, era ancora in spogliatoio dopo educazione fisica; non ci fece caso finché non la vide arrivare in classe, scarmigliata e affannata, per ultima assieme a Cappelletto.
-Sì, è come pensate – dichiarò lui entrando in classe, poi si sedette tranquillo al suo posto. Lei rise e fece lo stesso.
-Beh, con comodo – disse loro – dai ragazzi, oggi ho voglia di fare presto. State buoni per quaranta minuti e gli ultimi quindici sono tutti vostri.
-Ma prof, domani si sposa! Non è necessario che anche oggi si affatichi per fare lezione!
-Grazie della preoccupazione, Francesca, ma se arriva qua il direttore dopo il viaggio di nozze non torno più a scuola. Dai, prometto che saprò rendervi interessante l'Italia prerinascimentale.
-Non credo – gemette Francesca – comunque, prof, abbiamo qui una cosa per lei...
-Una cosa per me?
-Le dico già che non è una spada intarsiata – sospirò Benetazzo, scuotendo la testa con amarezza.
-No, ragazzi, sul serio...
-Prof, è il minimo, ci mancherebbe altro – intervenne Giulia con fermezza – lei è sempre stato il migliore. Se non facciamo il regalo a lei, allora possiamo anche spararci.
Rise ed accettò il regalo di buon grado. Li ringraziò uno per uno, stretta di mano ai ragazzi e bacio sulle guance alle ragazze; tutti erano emozionati, fu difficile tenerli calmi quel giorno.
Bianca in particolare fu più irrequieta del solito; con la scusa di non avere il libro, si avvicinò a Cappelletto e non fece che provocarlo per tutto il tempo. Rise ad alta voce per chissà cosa lui le aveva detto, incurante della spiegazione in corso, ad un tratto lanciò un urlo e scattò in piedi, poi si risedette come nulla fosse. Era strana, ma non disse mai di sentir parlare le voci, o di sentire i boati delle bombe.
Chiese ad altri insegnanti delle ore successive e gli confermarono che era stata piuttosto agitata; ma poi, a un certo punto, durante l'ora di religione, aveva urlato “ma sì! Tanto si risolverà tutto!” e poi si era calmata; Emanuele la incontrò alla fine della sesta ora, alla fermata, e la trovò effettivamente serena.
-Prof! - lo salutò, allegramente – Salve. Allora, è agitato? Quando ci rivedremo lei sarà un uomo sposato, wow!
-Già, avrò una fede al dito – ammise – sarò ufficialmente il Signor Emanuele Vettorel.
Lei sembrava felice per lui. Gli diede una piccola gomitata.
-Dica la verità, lei è contentissimo.
-Ti dirò che sono emozionato, sì. Non pensavo che avrei sentito le farfalline nello stomaco, eppure eccomi qui. Stanotte mi sa che non chiudo occhio.
-Vuole che le presti uno dei miei sonniferi? Volentieri, prof.
-No, grazie, Bianca, abbiamo così tante cose da fare che arriverò a stasera stanco morto. Grazie del pensiero, comunque – le sorrise.
-Per così poco. Comunque... oh, no – sugli occhi di Bianca spuntò uno spesso velo di lacrime. Lei si toccò le guance dove quelle scivolavano giù una dopo l'altra, sorpresa. - Oh... questo non era previsto. Mi scusi. - Si asciugò il viso alla bell'e meglio. Si sporcò con il trucco nero, ed Emanuele cercò un fazzoletto nella ventiquattrore; trovatolo, le pulì velocemente il viso.
Lei rimase immobile mentre lui passava il kleenex sul suo volto bagnato di lacrime.
-Mi scusi. Non è per il matrimonio, glielo giuro.
-E per che cos'è, allora...?
-Niente. Non ho davvero motivi per piangere. Adesso non più – affermò, con un tono tanto deciso che Emanuele si sentì subito rassicurato.
Forse quello era il regalo di nozze di Bianca, pensò.
Assicurargli che non l'avrebbe fatto sentire in colpa per amare Camilla, mai più.
-Devo prendere il treno – le disse – sono sicuro che è tutto ok?
-Sì, prof – gli sorrise – ogni tanto succede, sa. Non dipende dai miei stati d'animo reali. Succede e basta.
-D'accordo – annuì – ricordati le medicine.
-Certo, prof, grazie. Senta...
-Sì?
-Posso chiederle una cosa?
-Certo, dimmi.
-Prima che lei vada, le posso dare un abbraccio? Tra poco devo andare, e mi farebbe piacere andarmene con il ricordo del suo profumo. Dato che tra poco potrebbe essere un atto di adulterio – gli fece l'occhiolino.
Emanuele le sorrise.
-Ma sì, perché no. Avanti, vieni qui.
Bianca in un saltello gli fu davanti, e lo guardò fiduciosa, in attesa. Lo intenerì. Si appoggiò la testolina rossa sul petto e con l'altra mano le circondò la schiena. Sentì il piccolo peso di Bianca appoggiarsi a lui, e il suo petto gonfiarsi nell'inspirare il suo profumo; infine abbandonò la fronte contro il suo petto. Appoggiò la testa sulla spalla di lei.
Si separarono dopo pochi secondi. Bianca guardava il marciapiede, con le guance lievemente arrossate. In quel momento il 13 si avvicinò alla fermata.
-Grazie, prof – mormorò, e, prima di voltarsi e salire sull'autobus, gli regalò uno dei suoi bellissimi sorrisi pieni di luce, che gli occhi lucidi e le guance rosate riuscirono a rendere soltanto più luminoso e dolce.
La salutò con la mano, ma lei questa volta non lo stava seguendo con gli occhi dal finestrino; stava districando i nodi degli auricolari, ed Emanuele fu felice che fosse così.

Quella notte non dormì, come aveva previsto. Era stanchissimo – i preparativi non finivano mai, e per di più quel giorno aveva avuto sua madre per casa – ma non riuscì a dormire; sembrava che quella notte, tutta in un colpo, gli fosse scesa addosso la consapevolezza di stare per compiere un atto definitivo, di stare per dire 'sì' a una promessa che non avrebbe mai potuto infrangere. Mai, era la parola chiave. E sempre. Due parole che davano il capogiro.
Stettero immobili e in silenzio, ma entrambi sapevano che l'altro non stava dormendo. Dopo anni in cui avevano condiviso ogni singola notte, ormai avevano imparato a distinguere se la persona accanto a loro fosse immersa nel sonno o soltanto nei suoi pensieri. Emanuele trovava che quella capacità acquisita con la vicinanza fosse una cosa bellissima.
Restarono svegli molto a lungo, ma non parlarono. Rimasero ognuno alle prese con le proprie emozioni, ma saldamente abbracciati.

E finalmente arrivò il mattino, e dovettero alzarsi presto; i genitori di Camilla e quelli di Emanuele arrivarono carichi di tramezzini, pizzette, pasticcini e ogni genere di stuzzichino. Si affrettarono a disporli sul tavolo già preparato e munito di salviette, stuzzicadenti, bicchieri e bevande. Vassoi di confetti alle mandorle coronavano il tavolo. Gli invitati non tardarono a raggiungerli, alla spicciolata.
Sì, l'atmosfera era di festa, e la giornata splendeva di un sole bellissimo, galleggiante in un cielo di un azzurro da fotografia. La giornata si prospettava allegra.
Salutarono gli amici, conversarono amabilmente con i più anziani, scherzarono con i bambini; le Action Figures erano state tutte riposte dove i più piccoli non potessero raggiungerle.
In chiesa trovarono gli alunni di Emanuele, molti dei suoi colleghi, e diversi colleghi di Patrizia.
-Prof! - gridò un coro – Congratulazioni!
-Ehilà – li salutò, raggiante – peccato che non possa presentarvi la mia fidanzata. Adesso è da un'altra parte, sapete, la tradizione...
-Adesso è sua moglie, prof – gli ricordò Francesca.
-Ehi, manca ancora un'oretta – protestò scherzosamente – ragazzi, siete veramente belli, ve lo devo proprio dire. Fatti vedere, Benetazzo? Vediamoti?
Quello si fece strada timidamente tra i suoi compagni. Coi capelli raccolti in una coda, giacca e cravatta e un paio di scarpe classiche, sembrava un'altra persona.
-Sì, ma non guardate tutti me – si affrettò ad esclamare.
-Sì, infatti – ghignò Cappelletto – guardi come si è tappata Morticia. Vista così è quasi pisellabile, vero?
-Siamo davanti a una chiesa, imbecille – grugnì una voce, ed Emanuele si stupì di scoprire che quella voce proveniva da Valeria, la quale, fasciata da un vestito di lana bianca e munita di décolletés, anche se forse non era il momento più opportuno per una simile considerazione, era decisamente più pisellabile del solito.
-Complimenti, ragazzi. Veramente. Non vedo l'ora di farvi una foto.
-No – lo implorò Valeria.
-Oh, sì, anche tu, regina delle tenebre – Cappelletto le mise un braccio attorno al collo; Valeria e Benetazzo si affrettarono a rimuovere quel braccio – lo sapranno tutti. La notizia raggiungerà ogni angolo della provincia, che dico: dell'Italia! Che dico: dell'Europa! Che dico...
-Annichilisciti – sibilò lei, poi si diresse verso l'entrata – beh, io vado a sedermi, voi fate quello che volete. Prof, viene?
-Devo salutare qualcun altro, ma dopo la cerimonia torno da voi – le assicurò – ci vediamo più tardi.
Allontanandosi, sentì che parlavano di Bianca.
-Ma non viene davvero?
-Non l'ho più sentita.
-Hai provato a scriverle un sms e chiederglielo?
-Sì, ma mi ha risposto 'grazie'. Non credo abbia afferrato il punto.
-Mi spiace che proprio oggi non ci sia – commentò Benetazzo; fu l'ultima frase che udì distintamente prima di essere risucchiato da un'orda di parenti.

La cerimonia fu all'insegna della tradizione, non molto briosa, come c'era da aspettarsi da Don Giuseppe; questo smorzò un po' il fermento degli invitati e degli stessi sposi, ma il momento del 'sì' fu ugualmente memorabile.
Camilla era bellissima nel suo abito di seta; tutto quel bianco attorno a loro, le rose, i gigli, il vestito, la coroncina; tutto era candido e brillante come la luce della luna in un cielo pulito. Quando le infilò l'anello al dito, la mano gli tremava, e lei gli rivolse un sorriso così tenero che per un momento si fermò per guardarla negli occhi e sorriderle.
Il gesto non sfuggì agli astanti e scoppiò un applauso fragoroso. Camilla rise e si gettò tra le due braccia, e lui la strinse forte e la baciò tanto a lungo che scoppiò un secondo applauso, ancora più forte del primo. Tutti sorridevano, tutti erano felici; quel giorno fu speciale non perché disse un 'sì', ma perché, per un'ora in tutta la sua vita, seppe che negli occhi di tutti c'era gioia e che quella gioia era dedicata a loro due.

-Dai, mamma, non piangere – le mise un braccio attorno al collo; a fine cerimonia, ancora si stava asciugando gli occhi con il fazzoletto. Lei lo scrollò scocciata.
-No pianxo mìa par ti seto [ Non piango mica per te, sai ] - rimbeccò, con voce tremolante -  pianxo par 'sta poareta che desso ghe toca tendarte par tuta ea vita.  [ Piango per questa poveretta a cui toccherà tenerti d'occhio per tutta la vita. ]
Suo padre scosse la testa, sospirò e poi li abbracciò entrambi. Notò che anche lui aveva gli occhi un po' lucidi.
-Papà, non mi dire che ti sei commosso! - esclamò, anche se era sull'orlo delle lacrime anche lui. Si sentiva il cuore gonfio di qualcosa di inesprimibile.
I genitori di Camilla l'avevano presa più tranquillamente; dopo averla abbracciata, sorridenti e commossi, avevano lasciato spazio agli altri invitati ed erano usciti portandosi dietro alcuni parenti, iniziando già a dare indicazioni per il ristorante.
La preside fu la prima a raggiungerlo, quando gli amici iniziarono a seguire i parenti fuori sulla scalinata.
-Tanti, tanti auguri – esordì, prendendogli una mano tra le sue – non sai quanto solo felice per voi. Permettimi di presentarmi – sorrise a Camilla, le porse la mano – Giovanna, molto piacere. Siete davvero bellissimi, ragazzi. Congratulazioni.
-La ringrazio, preside.
-Camilla, sappi che questo è un bravissimo ragazzo, uno dei migliori che abbia avuto nella scuola; e lo dico nel senso umano, non professionale.
-Senza dubbio – confermò Sonia – vi faccio i miei più sinceri auguri.
-Che meraviglia – commentò Antonella – date un senso di gioia soltanto a guardarvi. Vi auguro davvero un futuro sempre migliore.
-E questo da parte di tutti – soggiunse Mariolina con un sorriso; poi fu il turno di Rossella di felicitarsi. Gli altri non avevano potuto venire, ma ad Emanuele andava bene così; c'erano esattamente quelli che voleva che ci fossero.
Poi arrivarono gli studenti, e finalmente riuscì a presentarli a Camilla.
-Allora – incominciò – questo qui è Benetazzo. Guardalo bene, perché è la prima e l'ultima volta che lo vedrai così.
-Così come?
-Senza una ferramenta attaccata ai vestiti – commentò Monica Miotto, scuotendo la testa. Ma era un giorno di gioia, per cui ridacchiarono senza badare alla critica.
-Anche lei – Cappelletto sospinse Valeria davanti a Camilla – normalmente sembra la Morte, le manca solo la falce.
-Ringrazia che non possa usarla contro di te – lo apostrofò quella – scusami, Camilla. Congratulazioni di cuore.
Le strinse la mano; a lei seguirono Giulia, Francesca, Crivellaro, Benetazzo, Cappelletto, Monica e altri due o tre che erano intervenuti; portarono anche i saluti e le felicitazioni degli altri compagni che, per un motivo o per un altro, non avevano potuto venire.
Emanuele non lo disse, ma in fondo era contento: anche in quel caso, quelli a cui era più affezionato erano lì.
Tranne una, diceva una vocina nella sua testa. Ma la ignorò pensando che Bianca ora aveva altro per la testa, che sabato aveva gridato 'si risolverà', e aveva fiducia nelle sue possibilità. Sapeva che avrebbe sconfitto la pazzia, che se ne sarebbe liberata prima o poi.

Il pranzo si risolse in un viavai infinito tra i tavoli; dovevano chiacchierare con tutti perché nessuno si sentisse escluso, ascoltare un'infinità di insegnamenti sul valore di quel sacramento e sui sacrifici che esso comportava ( “pensavo che dopo la messa questi discorsi fossero finiti” sussurrò Emanuele tra i denti a Camilla) e consegnare le bomboniere; il pranzo tirò per le lunghe e ne uscirono a pomeriggio inoltrato, esausti e con l'unico desiderio di togliersi gli abiti da festa e stare finalmente da soli, con il fermo proposito di non riunire mai più tutti i loro parenti nella stessa stanza fino almeno alle nozze d'oro, quando, auspicavano, almeno la metà di loro non sarebbe più stata in circolazione.
-E mi raccomando, e guardate che, e non sarà sempre facile – li scimmiottò Emanuele – ma ci siamo appena sposati, non puoi lasciarmi nel mio stato di eccitazione estatica e rimandare le prediche a un altro giorno?
-Dimenticano che viviamo assieme da tre anni e che siamo fidanzati da parecchio. Pensano che non abbiamo idea di cosa voglia dire condividere il proprio quotidiano con una persona – sospirò lei, togliendosi le scarpe con la punta dei piedi e lasciandole cadere per terra.
-Ma sì, lasciamoli perdere... Dio, sono esausto. Andrei a dormire subito, se non avessi una quindicina di portate nello stomaco.
-Non dirmelo. Andrei a fare una passeggiata, ma non ho nemmeno la forza per alzarmi dal letto.
-Ci facciamo un the?
Lei sorrise.
-Finocchio e liquirizia. Il digestivo ideale – lo informò – faccio una caraffa?
-No, riempi direttamente il pentolone per il minestrone con tutta l'acqua che riesci a farci stare, e poi falla bollire. Dovrebbe essere sufficiente, ma non ne sono sicuro.
Camilla rise e, con uno slancio, si tirò su e andò al piano di sotto. La raggiunse quasi subito; prima tirò fuori il regalo dei suoi alunni dallo scaffale su cui l'aveva lasciato, e lo portò di sotto.
-Lo apriamo? - disse a Camilla, che stava scegliendo le foglie di the – Questo è il regalo dei miei studenti.
-Ma certo, apriamolo! Sono curiosa.
-Tieni, scartalo tu – glielo porse. Lei l'afferrò con un sorriso e lo scartò velocemente.
Era una grande cornice d'argento, molto elegante; ci avevano inserito una specie di collage, fatto con un programma di grafica, dove avevano inserito tutte le loro facce.
-Ma dai, che carini! - rise Camilla – C'è anche un biglietto... leggilo, dai!
-Vediamo... dunque, dice: “Tanti auguri di cuore dalla terza A! Ovviamente la cornice è destinata a ospitare una foto sua e della sua bellissima moglie, non le nostre brutte facce! Grazie per tutto quello che ha fatto per noi... le vogliamo bene. Terza A”, e poi ci sono le firme.
Tacque, inebetito.
Camilla lo guardò.
-Ti vogliono molto bene – disse. Lui annuì.
-Alla fine, forse, un piccolo segno gliel'ho lasciato.
Dopo il the, iniziarono a spreparare il tavolo del soggiorno, a buttare gli avanzi che non era possibile conservare, a pulire il pavimento e a rimettere i mobili al loro posto. Quella sera non cenarono; guardarono assieme Balle Spaziali e, sebbene fosse divertente, si addormentarono entrambi a metà film. Dato che la sveglia era puntata piuttosto presto per entrambi, Emanuele spense tutto e si addormentarono abbracciati, dopo un lungo bacio caldissimo.

E la mattina dopo si alzò con la sveglia, era un'altra bella giornata di sole, l'aria fresca del mattino penetrava dolcemente attraverso la finestra socchiusa. Erano felici; altri due giorni e poi finalmente sarebbero partiti, i preparativi erano terminati, erano marito e moglie e finalmente tutto era finito, le nubi si erano dissolte.
Dopo aver infilato i jeans, la camicia e la giacca, dopo aver dato un lungo bacio a Camilla e averla abbracciata forte, dopo averle mormorato “non vedo l'ora di riabbracciarti quanto torno a casa”, uscì in giardino e ammirando il cielo turchino aprì il cancello.
Fu nel richiuderlo che si accorse di una lettera che sporgeva dalla cassetta della posta.
-Ma dai? - mormorò tra sé e sé, poi chiamò Camilla che stava richiudendo la porta – Cami, ma il postino a che ora passa?
-Intorno a mezzogiorno – gli disse lei, guardandolo con aria interrogativa – ci è arrivata posta?
-Pare di sì – rispose, infilando la mano nella fessura della cassetta – che sia arrivata ieri, e non ce ne siamo accorti?
-Non credo, il postino non passa di domenica.
-Aspetta un attimo.
Camilla rimase sulla porta in attesa. Riuscì a recuperare la busta; non indicava un mittente né un destinatario. Era bianca e asettica, come la parete di una casa.
La aprì incerto.
Poi riconobbe quella calligrafia che aveva visto così tante volte nei temi, e pensò, ha voluto farmi gli auguri. Un po' sorpreso, iniziò a leggere.

“Caro Emanuele,
è strano, vero? È la prima volta che ti chiamo così. Forse, se ti avessi chiamato così fin dall'inizio, se non ti avessi chiamato 'prof', 'professore', non ti saresti sentito come il mio insegnante, ma soltanto come un uomo posto di fronte a una donna, e le cose tra noi magari sarebbero state diverse. O magari no, ma mi piace pensarlo. Stavolta, però, volevo proprio chiamarti così, come fanno tutti i tuoi amici e i tuoi genitori e Camilla, perché avrei voluto farlo tante volte, davvero, ma la convenzione imponeva che io rispettassi il tuo stato di docente, e così non l'ho mai fatto, nonostante mi sembrasse di allontanarmi da te. Sebbene ti amassi, non ho mai potuto chiamarti per nome.
So che adesso starai sorridendo e pensando che esagero, come al solito. L'hai sempre pensato. Non ho mai saputo farti cambiare idea, e anche adesso, nonostante tutto, la cosa più importante mi sembra ancora cercare di dimostrartelo; almeno dimostrartelo. Vorrei farti capire che forse era infantile, forse era ossessivo, forse era mal espresso, ma non ho dubbi che il mio verso di te fosse amore.
Non fraintendermi: lo è ancora. Non sono mai riuscita a cancellarti dal mio cuore, nonostante ci abbia provato mille volte. La mia mente viene sempre trascinata qua e là, in mille direzioni, e a volte non riesco a tenere stretta la sua mano e quella scivola giù per il precipizio, ma c'è sempre stata una costante nei miei pensieri, sempre, ogni volta che schizzavo in alto o sprofondavo in basso. Sei sempre stato dentro di me, al centro di ogni mio istante.
Se non vuoi chiamarlo amore, allora non chiamarlo in nessun altro modo.”

-Ema? Tutto bene?
-Aspetta... aspetta un attimo – esalò.

“Forse, come dici tu, non sono mai riuscita a trovare un appiglio, e mi sono aggrappata a te con le mie ultime forze. Ci ho riflettuto molto, Emanuele. Qualcosa non mi tornava, stonava, non mi convinceva. E mi sono chiesta: non lo facciamo forse tutti? Quando ci innamoriamo, non ci sentiamo forse come se avessimo trovato un'ancora di salvezza in mezzo a tutta la cattiveria che c'è nel mondo? Camilla non è forse per te una scintilla luminosa che illumina le tue notti?
E così mi sono chiesta se non potesse essere così anche per me, verso di te. Tu protesteresti che io sono sempre stata sola, che sei stato l'unica persona che mi abbia mai teso la mano. Può darsi. Ma il fatto che tu sia stato l'unico a guardare oltre non ti rende degno d'amore? E questo non perché hai guardato in me, in particolare; ma semplicemente perché hai teso la mano a qualcuno che ormai era solo in mezzo al palco, immerso nel cono luminoso dell'occhio di bue.
Non so se ora tu mi creda. Non so se mi crederai mai. Forse continuerai ad aggrapparti alla tua teoria per non pensare che una sedicenne sia capace d'amore, e che in un modo o nell'altro tu sia stato coinvolto in una storia che ti stava logorando.
E a proposito: perdonami. Perdonatemi, tu e Camilla, per tutti i disagi che vi ho causato. So di aver invaso la tua vita e il tuo tempo più di quanto sarebbe stato lecito fare, e so di averti dato troppi pensieri che tu non meritavi di portarti sulle spalle. Vi chiedo scusa dal profondo del cuore. Perdonatemi, se potete, e cercate di essere felici, perché ve lo siete meritati, e perché quello che avete è molto più di quanto io e miliardi di altre persone avremo mai in tutta la vita. Vi è stato elargito un dono raro. Figurati che io non ci credevo nemmeno più, finché non ho visto voi. Quindi, anche per me, prendetevene cura. Ve lo chiedo come favore.
Ma torniamo a noi.”

-Ema, di chi è quella lettera...?
-Aspetta solo un secondo, ti prego. Un secondo solo.
-Tutto a posto?
-Un attimo. U... un attimo.

“Ti ho scritto perché volevo che almeno tu capissi. E, se puoi, che lo spiegassi agli altri.
Vedi, ho scritto miliardi di volte questa lettera, in momenti di lucidità, perché so che se l'avessi scritta poco prima di imbucarla in questa cassetta, mentre tu eri al matrimonio, avrei scritto soltanto una sfilza di frasi senza senso, e non avresti capito niente, perché non avrei capito molto neanch'io. Quindi non so cos'avrò avuto esattamente per la testa nel momento in cui sono venuta qui, davanti al tuo cancello. Probabilmente, se l'ho fatto, è stato perché mi sentivo sola. Perché tu e lei vi stavate unendo per tutta la vita, perché ti ho definitivamente perso. Perché in fondo non sono mai riuscita ad accettarlo. Perché oltre a te non avevo nessuno, e non sono mai stata davvero disposta a condividerti. Perché il mio amore è destinato a non essere ricambiato... ma, soprattutto, perché ho preso una decisione cosciente.
Una mia amica, un po' di tempo fa, mi aveva fatto ascoltare una canzone. Non ricordo chi fossero gli autori, ma mi è piaciuta subito. Mi ha ricordato me stessa.
Mi dispiace di aver delirato sulle bombe, sulla guerra, davvero, non avrei voluto dare scena a quel modo. Le vedevo davvero, questo è il fatto. E sentivo i boati degli scoppi, a volte sentivo addirittura delle urla di agonia. Mi succede sempre più spesso, e io sono stanca.
Come ti ho già detto, sono stanca di tante cose, e queste cose non cambieranno mai.
E c'è un altro aspetto da tenere in considerazione: io la pazzia non la voglio più nella mia vita.
Il punto è che lei non se ne andrà, continua a farmi visita e lo fa sempre più frequentemente. Tenerla sotto controllo è così difficile, Emanuele, e quando arriva mi sconvolge così tanto che ho paura del momento in cui perderò definitivamente me stessa, il momento in cui non sarò io a parlarti ma un pagliaccio caricato a molla che scatta a sorpresa fuori da una scatola, e poi, dopo qualche rimbalzo, si affloscia pesantemente sul tavolo.
Ho paura, ho sempre avuto paura. E quando arriva la tristezza, mi schiaccia a terra in un modo che non puoi immaginare. Qualunque cosa io faccia, non mi lascia finché non è lei a decidere di farlo.
Non è questo che volevo.
Non volevo questa madre, non volevo di certo quel padre che ho. Non volevo essere messa in disparte da tutti, ma non ho potuto evitarlo. Mi sono sempre sembrati tutti così bambini. Così felici, e io così sola.
E quando ho visto l'unica persona che mi abbia mai ascoltata, l'unica che abbia mai amato davvero, quando l'ho vista allontanarsi per mano con qualcuno, ho capito che c'era un modo per uscire da tutto questo, perché era evidente che questa realtà non facesse per me; cercava di dirmelo in ogni modo, continuava a suggerirmi di lasciar perdere, era quasi buffo il modo in cui cercava di farmelo entrare in testa, il modo in cui io fingevo di non capire.
Ero così stanca di sentire le bombe, Emanuele.
E quella canzone mi ha fatto capire alcune cose; mi ha detto che potevo non sentirle più, se era questo che desideravo. Prima ero disperata, ma dopo questa scoperta ho recuperato la speranza. Come ti avevo detto, era tutto a posto; alla fine sono riuscita a risolvere tutto.
Davvero non ricordo l'autore, ricordo solo alcuni versi. Te li riporto, forse tu potrai capire. E se così fosse, spiegalo anche agli altri, ti prego. Vorrei che almeno questa volta capissero quello che ho fatto.
Oh, e per favore, non dimenticarti di portarmi i fiori come mi avevi promesso.

“Vivere non è possibile”
Lasciò un biglietto inutile
Prima di respirare il gas
Prima di perdersi nel caos
Era una mia amica
Era una stronza
Aveva sedici anni appena

[…]

E nonostante le bombe vicine e la fame
Malgrado le mine
Sul foglio lasciò parole nere di vita
“La guerra è finita
Per sempre finita
Almeno per me.”

Emotivamente instabile
Viziata ed insensibile
Il professore la bollò

[…]

E nonostante la madre impazzita e suo padre
Malgrado Belgrado, America e Bush
Con una bic profumata
Da attrice bruciata
“La guerra è finita”
Scrisse così.

Con vero amore, e grazie di tutto.

Bianca.”











*Nel caso non conosciate questo disturbo, vi consiglio fortemente di leggere la breve spiegazione che vi ho fornito qui sotto. Penso di poterla ritenere abbastanza esauriente, e, soprattutto, se non sapete nulla del bipolare non capirete granché di quello che verrà detto d'ora in avanti su Bianca ^^;.

Il disturbo bipolare è una psicosi (per questo viene anche chiamato psicosi maniaco-depressiva) contraddistinta dall'alternarsi di fasi di mania e fasi di depressione, intervallate da periodi di normalità.
Lo stato maniacale consiste in un periodo di grande energia e vitalità da parte della persona malata: in questo periodo è sempre allegro, ottimista, scherzoso, pronto a tutto; non avverte la fatica, la fame e il sonno, tende a parlare esageratamente ed a velocità eccessiva, a volte perdendo il filo dei suoi stessi discorsi (fuga d'idee). Lo stato depressivo invece è un periodo in cui la persona ha pensieri negativi, perde la vitalità e la voglia di vivere. Questi due periodi non hanno una durata precisa poiché questa dipende dalla rapidità del 'ciclo' delle oscillazioni: possono durare mesi come pochi minuti, a seconda della persona.
Questo disturbo viene suddiviso in due assi:
-bipolare II: considerato meno grave del bipolare I, è caratterizzato dall'alternarsi di fasi depressive (in cui comunque devono essere diagnosticati i sintomi di depressione maggiore) a fasi di normalità o di ipomania, ovvero una forma meno estrema dello stato maniacale.
-bipolare I: viene riconosciuto allorquando compaia un'alternarsi di fasi depressive a fasi maniacali; inoltre è necessario che sia avvenuto un episodio maniacale, come ad esempio un tentativo di suicidio.
Esiste anche il disturbo ciclotimico, che prevede l'interscambiarsi di episodi depressivi (quindi la diagnosi non è quella di depressione maggiore) ad episodi ipomaniacali.
Questi stati d'animo sfuggono dal controllo della persona bipolare, che avverte il proprio stato mentale come in balia della pazzia e nutre il timore di perdere il contatto con la propria personalità e con la realtà stessa. Spesso i bipolari tendono ad abusare di alcool, convinti che possa avere un effetto lenitivo sui sintomi della mania - che è caratterizzata da un treno velocissimo di pensieri incoerenti; spesso la persona affetta da questo disturbo ricorre al suicidio solo per fermare quel fiume in piena di pensieri inafferrabili - dove in realtà l'alcool peggiora soltanto i sintomi del loro disturbo; per di più agisce danneggiando il fegato, solitamente piuttosto provato dagli stabilizzatori dell'umore.
I medicinali possono tenere sotto controllo il disturbo e garantire una vita pressoché normale, ma devono essere assunti regolarmente e venire associati a una vita regolata e sana.
Nel momento in cui gli effetti del bipolare rendessero impossibile il condurre una vita normale, si ricorre all'ospedalizzazione e in casi estremi all'elettroshock. Durante le fasi di mania acuta, la psicosi porta alla perdita della memoria, ad avere manie di grandezza, ad ingigantire fatti ed eventi, a inventare storie sulla propria vita e su quella dei propri conoscenti, fino ad arrivare alle allucinazioni visive ed uditive. In questi casi si manifesta una perdita di controllo sulla propria mente e la persona viene ritenuta incapace di intendere e di volere. Se riconosciuto ai suoi inizi e se curato regolarmente, il disturbo bipolare non raggiunge questi picchi di psicosi. Se trascurato, invece, tende a peggiorare: più episodi maniacali avvengono, più è certo che ne avverranno in futuro.
Il disturbo bipolare presenta un'altissima percentuale di suicidi. Questo perché le fasi depressive sono tanto profonde e le fasi maniacali tanto estreme che la persona arriva a desiderare di porre una fine a quell'alternarsi di sensazioni tanto intense. Esistono anche episodi misti in cui, ai pensieri negativi tipici delle fasi depressive, si unisce il flusso incessante di pensieri tipico della mania: in momenti come questi è altamente probabile che la persona tenti il suicidio. E' importante sottolineare che la psicosi può portare a una morte accidentale poiché spinge ad azioni potenzialmente pericolose e rischiose: guida spericolata, abuso di alcool e droghe.
Non è raro che chi soffre di questa malattia tenda ad avere una vita sessuale, sociale e lavorativa molto intense; l'energia portata dalla mania porta a pensarsi capaci di sostenere ritmi impensabili e, da una parte, una vita piena può costituire una valvola di sfogo; la persona maniacale tende a non stare mai ferma, mai zitta, ad essere sempre in movimento. In realtà un simile modus vivendi è altamente sconsigliabile, poiché debilita il fisico mostrando, però, gli effetti di tale sfinimento soltanto una volta conclusosi il periodo maniacale. Al periodo maniacale segue sempre un periodo depressivo, tanto più grave quanto più intensa è stata la mania. Tuttavia, alcune teorie sostengono che la mania sia un modo utilizzato dalla psiche per riprendersi la spinta vitale sottrattale dalla fase depressiva.
Il disturbo bipolare è genetico e può anche rimanere latente; di solito a risvegliarlo è un trauma psicologico.
E' stato spesso riscontrato in persone universalmente riconosciute come 'geniali'; se può interessarvi, vi fornisco una lista di bipolari celebri: http://www.bipolarsupport.org/famous.html.










(Nda: e quindi siamo arrivati alla fine. L'epilogo vi racconterà quanto succede dopo la lettera, ma la fine vera e propria è questa.
Alla luce dei fatti che sono emersi, volevo fare un paio di considerazioni sui personaggi.
Camilla e Bianca hanno suscitato reazioni opposte in chi ha letto la storia e l'ha seguita fino a qui, soprattutto negli ultimi capitoli. Credo che in Bianca la spiegazione sia stata fornita: è eccessiva perché è bipolare. Oscilla da uno stato all'altro perché è un caso da manuale di quella che è la sua malattia. E può risultare affascinante perché, come moltissimi bipolari, ha un'intelligenza spiccata, interessi culturali, un carattere vivace e un modo di fare particolare, capace di sorprendere - almeno così mi dite ^^ io spero di averla resa così. Il fatto che susciti opinioni contrastanti non mi sorprende; come ripeto, è un caso tipico.
Quanto a Camilla, c'è chi la voleva combattiva e chi invece la voleva dolce e riservata fino alla fine. C'è da dire che Camilla è soltanto un essere umano. Una persona mite e gentile di carattere, che ha provato a farla funzionare finché ha potuto, ma che poi non ce l'ha fatta più e ha confessato i suoi disagi. Spero che non sia stata interpretata da tutti come una che ha recitato una commedia. Le relazioni umane sono molto più complicate di 'essere' o 'non essere' (senza alcun rimando shakespeariano); ci sono molte zone grige, molte debolezze e molti tentativi. Questa è la storia normale e senza gloria di un cavaliere e una principessa che hanno scoperto che nella vita non può sempre andar bene, e che quindi hanno smesso i loro panni per vivere qualcosa di più reale. Di meno edulcorato, ma reale. Spero che questo messaggio fosse passato anche senza la mia spiegazione :).
Quasi dimenticavo: la canzone, se vi interessa, è La guerra è finita dei Baustelle. Non amo il gruppo e non ho mai ascoltato questa canzone, ne conosco solo il testo, ma non ha potuto non farmi pensare a Bianca.
Per rispondervi ^_^:
-complimenti a Dance of Death per aver intuito che il disagio di Bianca era di tipo psichiatrico ^^! Non si trattava appunto di schizofrenia, ma sono contenta di vedere che gli hint sono stati colti :*.
-Khristh: ehm... ^^; non so se scriverò una nuova storia tanto presto, non credo in ogni caso; non ho idee ora come ora e l'idea di un'altra long fiction mi uccide *_*''. Ma se ti è piaciuta questa, tra le mie storie prova a leggere No Hope, No Love, No Glory: è un'angst come questa, anzi, forse lo è di più XD con la differenza che è più lunga e quindi il tormento non finirà facilmente :P.
-Rebellion: no, io e Bianca non abbiamo niente a che vedere ^^, a parte cose molto generiche che però non fanno testo. E' un personaggio che ho completamente inventato. I riferimenti ovviamente sono pescati dalle mie conoscenze personali, ma questo credo sia normale ^^.
E ovviamente un GRAZIE enorme a tutti voi che avete recensito, davvero. Siete stati carinissimi, un pubblico obiettivo e capace di spunti di discussione. Vi ringrazio infinitamente per avermi regalato una porzione del vostro tempo commentando la mia storia e i miei personaggi. Grazie davvero. (E un chu ;* a CTA.)
Il ringraziamento finale va al mio ragazzo :* che ha seguito fino a qui commentandomi pezzo per pezzo, e gettando lui stesso luce su alcuni aspetti dei personaggi e della narrazione che non avevo considerato. Grazie, di questo e di tutto il resto naturalmente.
Spero davvero di avervi dato qualcosa con questa storia, un pizzico d'informazione o una prospettiva diversa su certi modi di vivere, magari.
Ancora grazie per il vostro prezioso sostegno. Vi lascio all'epilogo ;) e buon fine settimana!

Arianna aka The Corpse Bride)

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Quel giorno, quella mattina soleggiata d'aprile, cadde in ginocchio con quella lettera in mano. Cercò di respirare, ma l'ossigeno sembrava essere scomparso tutto d'un tratto; sentì che il cuore faticava a pompare sangue nelle vene.
-Ema - esclamò Camilla, poi corse in pigiama verso di lui. Gli toccò la schiena. - Cos'è successo? Ema?!
Lui non rispose; non riusciva a fare altro che tremare e cercare affannosamente di prendere respiro. Lei gli tolse la lettera di mano, la lesse velocemente, e anche le sue mani iniziarono a tremare. Arrivata alla fine, lo guardò, stravolta dall'angoscia.
-Non è quello che penso, vero? - riuscì a mormorare – Non l'ha fatto, vero?
-L'ha fatto – rantolò Emanuele – ci è riuscita. Questa volta ci è riuscita.
Tacquero per un po', terrorizzati, con gli occhi fissi sul vuoto. La lettera era per terra, la calligrafia tondeggiante e ordinata di Bianca la decorava con l'inchiostro blu.
Ad un tratto Emanuele scoppiò a piangere tanto disperatamente che i vicini accorsero ai suoi gemiti, ma lui non li vide, non se ne accorse. Si nascose sul seno di Camilla e ne riemerse solo quando non ebbe più la forza per urlare.

La scuola era in subbuglio.
I genitori avevano avvertito la mattina stessa; tutte le classi furono convocate in aula magna per una riunione straordinaria, e la preside li informò dell'evento con una voce flebile che non le avevano mai udito. Lei, che era sempre stata così forte ed elegante, non era nemmeno in grado di guardare verso il pubblico. Guardava il pavimento, tormentandosi la collana costosa tra le dita.
-Non sono... non sono davvero in grado, in questo momento, di fare discorsi commemorativi – esordì, a voce bassa – vogliate comprendere il mio stato d'animo. Volevo soltanto informarvi del fatto che il funerale, come ci hanno comunicato i genitori, si terrà domani mattina alle dieci, nella chiesa di Altichiero. Non chiederò alcuna giustificazione a chi sarà assente per partecipare al rito funebre; non controllerò chi c'era o non c'era, per cui, se volete, siete liberi di fingere di esserci stati e di non giustificare la vostra assenza. Io spero solo... - Ma a quel punto Giovanna s'interruppe. Chiuse gli occhi, scosse la testa. - Ma cosa ve lo dico a fare. Siete grandi, ormai. Potete fare quello che volete, se solo lo volete.
Nelle ultime parole, la voce le si incrinò.
Sonia non aveva voluto assistere alla riunione; Antonella ascoltò senza mai alzare gli occhi dal pavimento. Sara si asciugava le lacrime, Rossella e Mariolina sembravano pietrificate. Gli altri tenevano una mano davanti alla bocca, si torcevano le mani, battevano le palpebre per non piangere.
-Se qualcuno vuole aggiungere qualcosa – mormorò la preside, al microfono – io ho finito.
Incrociò lo sguardo di Emanuele. Lui aveva ascoltato, cercando di contenere i singhiozzi, passandosi continuamente una mano sul viso che non smetteva mai di bagnarsi di lacrime.
Si alzò e camminò verso il microfono, cercando di focalizzare gli studenti davanti a lui attraverso il velo di lacrime, tentando d'ignorare il bruciore agli occhi. La voce gli uscì strozzata, ma in qualche modo gli uscì.
-Ragazzi... - esordì, cercando di rassicurarli. Ma adesso non ce la faceva ad essere adulto. Un singhiozzo lo costrinse a voltarsi, nuove lacrime gli scesero sulle guance. - Scusatemi. - Il suo pubblico mostrò espressioni comprensive. Molti iniziarono a piangere nel vedere le sue lacrime. - Adesso dovrei fare l'uomo ed essere forte, ma... perdonatemi. Non ce la faccio. Non riuscirò mai a consolare nessuno, nemmeno me stesso, quindi volevo dirvi solo un paio di cose, brevemente. La prima: non siate ipocriti, non piangete per una persona che disprezzavate. Non l'avevate capita prima, non la capirete nemmeno adesso. Ma, dato che lei me l'ha chiesto, voglio provare a farvela capire. Cercate di seguirmi.
Tutti tacquero. Cercò con lo sguardo Cappelletto, che teneva i gomiti sulle ginocchia e il volto fermamente coperto dalle mani. Valeria aveva il trucco nero completamente sciolto sul volto. Continuava a singhiozzare, e, nonostante Benetazzo la tenesse per mano e cercasse di calmarla, non smise per un momento di piangere, come se non riuscisse più a smettere.
-Lei – s'impose di mantenere ferma la voce – si sentiva sola. E vorrei dire che era solo una sua sensazione, ma il punto è che lo era davvero, e non posso negarlo, anche perché significherebbe discolparvi ed è l'ultima cosa che voglio fare. Ci sono moltissime cose che non sapete, e che non posso rivelarvi, ma Bianca aveva mille motivi per voler morire, e praticamente nessuno per aver voglia di vivere. Quello che vedevate di lei non era che un superficie sulla quale lei non aveva il controllo. La vita le ha fatto incontrare talmente tante persone orribili che alla fine ha deciso scientemente di lasciarla. E sebbene adesso io abbia il cuore in pezzi, e la netta sensazione che rimarrà in pezzi per tutta la mia vita, non riesco a considerarla una codarda: perché, se continuano a tormentarti e non c'è modo di porre fine al tormento, non è poi così da deboli  prendere e andarsene da un'altra parte, dove si possa stare più tranquilli. - Prese un respiro. - So che non è giusto dirlo, che non è corretto, specie davanti agli adolescenti. Ma le ho promesso di spiegarvi tutto, ed è quello che farò: quindi, vi dirò in sincerità che Bianca ha preso una decisione per sé stessa. L'ha fatto per liberarsi di tutto ciò che la stava distruggendo, e l'ha fatto dopo averci pensato infinite volte. Cercate solo, con la prossima persona strana e diversa che vi si presenta davanti, e che non riuscite a capire... - si morse le labbra; i singhiozzi ripresero a battergli in gola per uscire – cercate di non farvi un'idea senza sapere un cazzo. Non aumentate il numero degli stronzi che popolano il mondo, ve ne prego – la voce gli si ruppe clamorosamente, le lacrime ripresero a scendere – cercate di essere persone migliori di quelle che lei ha incontrato. Tutto qui. Ora scusatemi, ma ho bisogno di stare tranquillo per un attimo.
Si allontanò velocemente, sotto lo sguardo preoccupato degli studenti, e raggiunse Sonia in atrio. Anche lei aveva gli occhi rossi e gonfi; guardava fisso davanti a sé, con la sua solita espressione ferma, decisa, con i suoi occhi grandi così simili a quelli di Bianca; ma le lacrime le bruciavano gli occhi e continuavano a rotolare giù per il suo volto magro, senza che lei nemmeno si premurasse di asciugarle.
Sedettero vicini, in silenzio; quel giorno i professori della terza A si rifiutarono di tenere lezione, e gli insegnanti di altre sezioni si offrirono di accogliere gli studenti nelle loro aule. Lentamente, tutti si avviarono verso le loro aule, mormorando come se avessero paura di infrangere il silenzio, come se avessero avuto paura che lei li sentisse.
Mentre sedeva senza parlare accanto a Sonia, Cappelletto e Valeria, accompagnata da Benetazzo, gli si avvicinarono. Soprattutto i primi due, avevano due facce sconvolte, annientate. Lo raggiunsero senza dirgli nulla, e lo guardarono, sperando forse che gli dicesse qualcosa.
Ma non aveva niente da dire.
-Venite qui, per favore – riuscì a sussurrare tra le lacrime, e loro si gettarono su di lui e non poté fare altro che stringerli tra le braccia.
Cappelletto che era sempre pronto a fare lo stupido, che non aveva paura di dire scemenze davanti a tutti. Valeria, che lanciava fendenti sul mondo intero, che era sempre al di sopra di tutto. Benetazzo guardava da tutte le parti con un'espressione nervosa, angosciata.
-Prof, se n'è andata – sentì la voce soffocata di Cappelletto – non c'è più.
-Lo so – soffiò, sentendo qualcosa di simile a un braccio che gli attraversava il petto.
-Come si può essere così stupidi?! - gridò Valeria, e poi prese a piangere con una violenza tale che Benetazzo dovette aiutare Emanuele a sorreggerla.
-Prof, è morta – singhiozzò Cappelletto – morta, come tutte quelle altre persone che muoiono.
Capiva cosa intendesse dire. Bianca non aveva solo compiuto un atto di estremo rifiuto verso la realtà che la circondava; adesso non c'era più, proprio come tutte quelle altre persone che morivano di cancro o di AIDS o di vecchiaia. Esattamente come loro, era scomparsa dalla faccia della Terra. Dire che si era 'suicidata' rimandava troppo al concetto del suo estremo addio a quel mondo che odiava e che sembrava odiarla. 'Morta' era più crudo, meno romantico, ma alla fine era la verità; ricordava che ciò che aveva fatto era togliersi la vita, sparire da ogni luogo tangibile.
Bianca era morta. Morta, come tutti gli altri cadaveri che riempivano i cimiteri.

Non seppe mai con che forza riuscì a rimanere lì sei ore; in classe non spiegò nulla, dichiarò che non se ne sentiva in grado e continuò a guardare fuori dalla finestra, cercando quel punto invisibile che Bianca guardava ogni volta. Non fu mai in grado di capire su cosa si posasse il suo sguardo, in quei giorni. Forse sulle case, forse su quell'albero fiorito che le piaceva. Emanuele si chiese come avesse potuto andarsene, se era vero che amava tanto quell'albero.
Ma poiché sapeva meglio di ogni altro perché l'avesse fatto, non poté nemmeno porsi delle domande. Fu semplicemente posto davanti alla rassegnazione.

Camilla venne a prenderlo all'uscita e, a casa, gli diede un calmante. Lo abbracciò e gli accarezzò la schiena per tutto il tempo in cui Emanuele rimase immobile e muto a fissare il soffitto. Lui, nel frattempo, si chiedeva se era così che Bianca si sentisse; senza forze, senza speranze, monca di qualcosa. Si rispose che probabilmente era così. E subito dopo pensò con chiarezza che lui non sarebbe riuscito a sopportarlo, non più di una volta nella vita, mai; non certo per un mese intero, più volte all'anno, per tutto il resto della sua esistenza.
Non parlarono, non si dissero nulla, perché non esistevano parole di consolazione, non esisteva niente che potesse ridurre quel dolore. Niente avrebbe mai potuto porre rimedio alla morte. Era l'unico posto da cui non si poteva tornare indietro.
Le ore colavano lentissime, ma un sonnifero gli regalò il sollievo del sonno; fu una notte ovattata, priva di sogni, che lo fece svegliare vuoto di sensazioni.
Poi la morte di Bianca gli precipitò addosso come una grandinata e si sentì schiacciare a terra, con una forza tale che si aggrappò alla mano di Camilla. Il panico lo invase. Bianca era morta, e non l'avrebbe mai più rivista per tutta la durata della sua vita.
-Dobbiamo andare al funerale – gli ricordò Camilla, con grande delicatezza – dobbiamo lavarci e vestirci. Te la senti?
-Sì – bisbigliò. Deglutì faticosamente. Durante la notte aveva sudato; sentiva un fastidioso senso di nausea. Non si sentiva affatto bene.
-Ti aiuto?
-No, grazie, Cami, ce la faccio – mormorò.
Ma la realtà fu che ebbe un capogiro e dovette sedersi, e Camilla corse in cucina a prendergli del succo di frutta. Lo bevve controvoglia; era solo un peso nello stomaco, ed era freddo, freddissimo. Quella mattina, tutto gli sembrava brutto, tutto contribuiva ad aumentare quel senso di nausea. Non gli passò per tutto il giorno.

In macchina, la radio trasmetteva piano qualche canzone rock. L'ultima volta stavano ascoltando Virgin Radio, quindi la stazione era rimasta impostata su quelle frequenze. Il cielo era sorprendentemente bello, i raggi di sole erano dorati e scaldavano. L'erba splendeva lucente. Le canzoni rock erano nell'aria, e, nonostante questo, Bianca aveva scelto di morire.
Le ascoltava mai, quelle canzoni? Vedeva mai il cielo e il sole e l'erba? E se li aveva visti, forse non erano stati abbastanza per convincerla che il mondo era un posto dove si poteva vivere?
Ma ci aveva già provato, considerò Emanuele. Non era la prima volta che cercava di andarsene. E da quel giorno a ben vedere non aveva trovato alcun motivo per cambiare idea; era logico, pensò, avrebbe dovuto aspettarselo. Avrebbe dovuto capire.
Ma erano quelle cose che si pensavano sempre, in casi del genere. “Come ho potuto non capirlo?”. Non l'aveva capito perché Bianca gliel'aveva tenuto nascosto, perché aveva sorriso e fatto sesso e gridato finché non si erano tutti convinti che stesse pensando a qualcos'altro.
Eppure qualche indizio gliel'aveva dato.
Gli aveva chiesto se sarebbe rimasto ancora qualche giorno, prima di partire. Era perché intendeva consegnargli la lettera, sperando che la trovasse prima del viaggio. E quando gli aveva chiesto di abbracciarla, perché lei tra poco avrebbe dovuto andarsene, gli aveva sussurrato in mezzo alle parole che quello sarebbe stato il loro addio.
Non gli aveva mai parlato chiaramente, non gli aveva mai mentito, ma non gli aveva mai detto davvero la verità. Nonostante dicesse di amarlo, gli era sfuggita dalle dita fino all'ultimo, concedendogli di sapere solo ciò che lei voleva che sapesse.
Era tanto immerso nei suoi pensieri che arrivarono all'obitorio senza aver mai parlato; d'altronde, Camilla sembrava tranquilla. Gli toccò dolcemente il braccio e aspettò che scendesse dalla macchina; poi gli prese la mano e la strinse forte, e non la lasciò più finché non fu lui a lasciare la sua.

Attraversarono capannelli di parenti sconvolti. C'era qualche insegnante; oltre a lui, solo Antonella e Sonia si erano sentite abbastanza legate a Bianca da presentarsi all'obitorio. Di fianco a loro c'erano Valeria e Cappelletto.
Si diresse verso di loro, aggrappandosi alla mano di Camilla come se, lasciandola, avesse potuto franare a terra.
-Ciao – disse, cercando di accennare un sorriso. Antonella tentò con scarso successo di ricambiarlo; Sonia lo salutò cortesemente, ma il suo volto era spento. Per molto tempo non lo vide più riaccendersi.
I ragazzi non parlarono. Cappelletto aveva l'espressione più triste e confusa che avesse mai visto; Valeria si mordeva le labbra per non far rumore, ma i suoi occhi continuavano a far scendere lacrime. Sonia le passò un braccio attorno alle spalle.
-Siete già entrati? - chiese.
-Noi e Valeria sì – rispose Antonella – Federico ancora no.
Lo guardò.
-Ci andiamo assieme?
Cappelletto alzò lo sguardo su di lui. Lo fissò per un attimo, poi annuì.
-Ti aspetto qui, se vuoi – mormorò Camilla. Ma le strinse ancora di più la mano.
-No, per favore. Vieni con me.
Si avviarono assieme verso l'entrata. Pensare che Bianca era chiusa in una camera mortuaria, senza vita, sembrava completamente assurdo. Bianca, che era stata così vivace, che rideva sempre, quando poteva.
La stanza era asettica, ma l'odore di fiori rendeva tutto tremendamente lugubre. C'erano gigli e parenti in lacrime vestiti di nero. E proprio al centro della stanza c'era una bara di legno scuro troppo grande, aperta, tanto grande che non si vedevano nemmeno i suoi capelli.
Tuttavia, quando la vide sentì le ginocchia cederli. Ma c'era Federico di fianco a lui, quindi proseguì.
Per tutta la vita si portò nel cuore l'immagine di Bianca, pallida, con i capelli lisci e pettinati, vestita con un semplice abito blu e grigio. Il suo sorriso era scomparso. I suoi grandi occhi erano pesantemente chiusi. Le sue piccole mani esili, incrociate sul suo petto.
-Prof – soffiò Federico, aggrappandosi al suo braccio. Non seppe che cosa rispondergli. Continuò a camminare verso la bara.
Sua madre era di fianco alla testa, ritirata in sé stessa. Era chiusa in una rigida posizione fetale e non parlava con nessuno; continuava a fissare un punto nel vuoto sopra il corpo della figlia morta. C'era anche suo padre; con un fazzoletto ormai inservibile, continuava ad asciugarsi lacrime da un volto innaturalmente rosso.
Non rivolse la parola a nessuno dei due.
Sapeva che era inutile fissare Bianca, ma non riusciva a togliersi dalla testa che quella era la sua ultima occasione di guardare il suo viso.
Camilla piangeva in silenzio; vide la sua mano allungarsi a sfiorare quella di Bianca. Ma lei rimaneva immobile. L'assenza del respiro era così pesante da rendere ancora più immoto e cupo il silenzio che regnava attorno alla bara.
I fiori erano così lugubri, pensò. Senza i fiori, non sarebbe stato così orribile.
Cercò di memorizzare il suo viso, la sua bocca piccola e morbida. C'era una piccola cicatrice sotto il labbro. Due fila di ciglia lunghe e folte spiccavano da sopra gli zigomi. I capelli, benché fossero stati ben lisciati e pettinati con una sobria riga in centro, avevano ancora quel colore rosso fuoco che li contraddistingueva. Probabilmente sua madre non aveva avuto tempo o voglia di decolorarli; fu felice di vedere che erano rimasti almeno quelli, ma la felicità durò poco, perché non gli avrebbero mai più ridato Bianca e non avrebbe mai più visto i suoi capelli.
Era inutile guardarla, lo pensò ancora. Tanto, non si muoveva, non poteva far nulla. Non sarebbero stati quei pochi minuti accanto a lei a consolarlo della sua perdita. Non gli avrebbe fatto alcun bene. Forse era il caso di uscire, altra gente stava entrando nella stanza per vederla.
Era così buia, quella stanza. Anche se fuori c'era il sole, era così grigia, in quella triste penombra. Forse era per dare il giusto riposo ai morti.
Allungò una mano, lasciando quella di Camilla, e toccò una mano di Bianca. Era gelida. Si sentì ghiacciare il sangue nelle vene, si ritrasse. Ma poi si diede dello stupido e la sfiorò ancora; si avvicinò al bordo della bara rivestita di seta, prese coraggio, riuscì quasi a chiudere quella piccola mano esanime nella sua. La strinse, ma non riuscì a scaldarla. Sentì che le lacrime tornavano. Appoggiò la mano sulla guancia di Bianca e le diede un'ultima, tenera carezza, che aveva nel suo tocco tutto il dolore dell'addio.
Incapace di sopportarlo, fece per avviarsi verso l'uscita; poi vide Federico, aggrappato al bordo della bara con entrambe le mani, le nocche bianche per lo sforzo. Guardava Bianca con una tale tristezza, come se le stesse chiedendo ripetutamente “perché?”, che Emanuele si fermò ad aspettarlo. La guardava, confuso, imbronciato, quasi fosse in attesa che lei si risvegliasse e gli dicesse che era stato solo uno scherzo, che non l'aveva abbandonato davvero.
Ma Bianca rimaneva lì, e le persone continuavano a piangere attorno a lei. Non era uno scherzo.
Lentamente, tremando, con le lacrime che scendevano sul viso del suo primo amore, strinse piano la sua mano destra, poi si chinò verso di lei e baciò una delle sue guance morbide, che ora erano pallide e fredde. Il suo bacio fu di una tale delicatezza, di una tale dolcezza, che Emanuele non seppe più trattenere le lacrime. Circondò Federico con un braccio e camminò velocemente assieme a lui verso l'uscita, tentando di non ascoltare il suo pianto sempre più forte, sempre più terribile.
Si sentiva come se gli avessero fatto il cuore in pezzi. La gente non avrebbe dovuto dire 'ho il cuore in pezzi' con tanta leggerezza; prima di poterlo dire, avrebbe dovuto sperimentare questo. Altrimenti non era davvero a pezzi, era soltanto un po' soffocato.
Raggiunsero assieme Sonia, Antonella, Valeria e Benetazzo. Nessuno parlò per un po'; parlare di Bianca era inconcepibile, e parlare d'altro era fuori luogo. Nessuno di loro aveva la forza di cercare un altro argomento di conversazione; si limitarono ad osservare le altre persone intervenute, probabilmente parenti. Di tutte le persone che Bianca aveva conosciuto, a parte i suoi tre compagni di classe, non ce n'era nessuna. C'erano soltanto adulti, zii, nonni, cognati. Attesero insieme di venir chiamati per la chiusura della bara.
Quando arrivò, fu un momento terribile. Quando il coperchio si chiuse su di lei, seppero con lacerante chiarezza che non avrebbero mai più, per tutta la loro vita, rivisto il suo viso. Non ci avrebbero mai più parlato. Non l'avrebbero più abbracciata. Non l'avrebbero più vista in classe, voltando lo sguardo.
Avrebbero potuto cercarla ovunque, in ogni angolo della terra, ma non l'avrebbero trovata; l'unico modo per rivederla la carta stampata delle fotografie, i ricordi così fragili nelle loro memorie. La sua voce non li avrebbe mai più chiamati. Bianca, la ragazza che conoscevano, non sarebbe mai più riapparsa nelle loro vite.
Avrebbero conosciuto qualcun altro, insegnato a qualcun altro, amato qualcun altro, ma non Bianca. Mai più.
-Eterno riposo dona loro, o Signore; risplenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen.
Tutti quei gigli sopra il legno della bara. Il suo corpo era chiuso lì; non l'avrebbero mai più riaperta. Quella che le avevano dato era stata l'ultima carezza, per sempre.

Il funerale fu insignificante, nemmeno una singola parola gli sembrò adatta a Bianca, a quello che era stata. Quello avrebbe potuto essere stato il rito funebre di chiunque, e non ascoltò prestò la minima attenzione.
La sepoltura invece era intima, veniva gestita da chi era rimasto, con i propri sguardi, con le proprie lacrime. Di fatto quell'ufficio, nonostante fosse il momento peggiore, sembrò quasi una presa in giro, a causa di tutto quel sole e di quel cielo terso. Alcune rondini passarono sopra di loro, cinguettando e rincorrendosi allegre. Avrebbero sicuramente avvertito in modo più chiaro la perdita definitiva, pensò Emanuele, se avesse piovuto o ci fosse stata la nebbia.
Ma poi, quando la bara fu alzata barcollando e fu infilata nel loculo, con il cupo stridore del legno contro il cemento, il sole e il cielo e le rondini sparirono d'un colpo. I pianti si alzarono in coro e Federico e Valeria si aggrapparono tra di loro, così disperati, tanto che sembrava che gli stessero strappando il cuore dal petto.
Svuotato di tutte le sue lacrime, prese delicatamente il bouquet che gli porgeva Camilla, di lilium e rose bianche, e lo posò piano sulla tomba.
Aveva mantenuto la sua promessa.
Mai, in seguito, ricordò di aver fatto qualcosa di più straziante. Si sentì come se tra i fiori bianchi e rosa avesse lasciato il suo cuore bagnato di sangue, ancora pulsante.

*

Emanuele si licenziò poco dopo essere tornato dalle ferie.
Diede il minimo del preavviso alla preside, quel giorno, e le disse che non sarebbe tornato, che non ne aveva le forze.
-Hanno bisogno di te - osservò lei, indicando i ragazzini che piangevano sperduti.
-Hanno l'un l'altro - replicò - è esattamente quanto di cui hanno bisogno.
-Tu sei sempre stato il loro modello.
-Ma adesso non potrei esserlo. Non saprei davvero aiutarli, Giovanna, sono sincero. Saprei soltanto farglielo pesare ulteriormente.
-Ne sei sicuro?
-Non tornerò dove Bianca non ha voluto tornare. Mi scusi.
-Non scusarti.
Partì per il suo viaggio. Si ripropose di dimenticare tutto, di ricordarlo solo quando fosse tornato. Salì quindi sul Rockefeller, guardò il Grand Canyon dall'alto, si godette le spiagge assolate, andò per negozi e attraversò il deserto in macchina, con una bandana in testa. Vinse anche qualche cosa, a Las Vegas. Fece l'amore, molto. Rise come aveva riso al matrimonio. Abbracciava Camilla, l'abbracciava spesso, e le fece dei regali. Scattarono moltissime foto.
E quando furono nell'hotel dell'ultima notte, una frase gli si stampò in testa all'improvviso e non vide altra alternativa che dirla, subito, immediatamente.
-Ha fatto in modo che mi ricordassi di lei per sempre - osservò, stupito della sua scoperta, guardando il soffitto.
Camilla, che ancora non dormiva, mormorò:
-Bianca?
-Sì. L'ha fatto il giorno del mio matrimonio. Non mi ha mai perdonato, in realtà, per averti scelta.
Da quel momento fu consapevole che quell'ultimo atto era stato un modo per entrargli per sempre nel cuore; un modo perché, a ogni anniversario del matrimonio, a ogni giorno di felicità e celebrazione con sua moglie, lui ricordasse che qualcun altro l'aveva amato, e che per averlo amato aveva dovuto d'andarsene, in preda al dolore dell'amore che non veniva corrisposto.
Gli aveva insomma lanciato una maledizione: non avrebbe mai più potuto essere felice. Non senza pensare a lei, che per lui aveva deciso di morire.
-In realtà - riprese Camilla, con sua grande sorpresa dato che lei dopo il funerale non l'aveva più nominata - penso che lei ci abbia insegnato qualcosa.
-Insegnato….? Che cosa?
la guardò con curiosità. Lei prese un respiro, cercando di scacciare il sonno.
-Ci ha detto la verità al riguardo di noi stessi. E poi ha fatto in modo che ce la dicessimo a vicenda. Se non ci fosse stata lei, ci saremmo mai parlati con tanta sincerità?
-No - ammise, sbalordito dalla rivelazione.
-Già. Ci ha fatto capire che possono esistere momenti di rabbia, o di tristezza. E che ne possono arrivare ancora, ma che questo non significa che non ci amiamo più. Soltanto che ce ne sono, e che dobbiamo saperlo.
-Non credo intendesse darci un messaggio di pace universale.
-Ho detto il contrario, infatti. Ho detto che ci ha insegnato che combattere è giusto. Emanuele. Dovresti perdonarla.
Emanuele scoppiò a piangere disperatamente, e Camilla lo strinse forte finché, dopo un'ora o due, non sentì di avere più un briciolo d'energia in corpo.
-Ti amo - le disse.
-Ti amerò per sempre - gli rispose lei - forse non è vero, ma ora voglio promettertelo.
Nonostante le lacrime versate, Camilla era ancora viva accanto a lui.
Ora sapeva che la vita di una persona ferita non era scontata, ma Camilla era ancora lì, al suo fianco.

Tornò ancora a portarle dei fiori. Mazzi di lilium e rose bianche, che alla visita successiva non ritrovava mai. Probabilmente i genitori non li ritenevano adatti, non a una persona morta. I bouquet da sposa erano per le persone vive. In fondo non li biasimava.
Ma un po' gli davano l'impressione di un augurio. L'augurio che potesse trovare anche lei qualcuno che l'amasse, qualcuno da amare. Anche se non c'era più, anche se non era possibile. Emanuele continuava a pensare che lei ci fosse, da qualche parte, che fosse partita verso un paese lontano dove cercare quello che lì le era stato negato, per avere una nuova vita dove non sentirsi soltanto un'asettica parete bianca.
Un giorno trovò Federico e Valeria, in visita, senza fiori.
-Non credo che le interessino - spiegò Valeria, atona - non credo che nessuna di quelle robe la 'rappresenti'. Credo le interessi di più quello che abbiamo da raccontarle.
-Ne sono sicuro - rispose, deciso.
A scuola non ne avevano più parlato, non nelle sue ore. Comunque, ci era rimasto solo poche settimane.
-Mi manca troppo - disse Federico, all'improvviso - più di quanto riesco a sopportare.
-Non so come aiutarti, Federico - mormorò Emanuele, che non sapeva, non sapeva assolutamente, come si potesse restituire la vita a un ragazzino di sedici anni che vedeva morire la ragazza che amava.
Ma quello stesso ragazzino, cresciuto di dieci anni in pochi giorni, scosse la testa con quell'aria matura, amareggiata, rassegnata che avevano i vecchi.
-Lei non potrebbe fare niente - gli disse, saggiamente - a meno che non la riporti qui, che cosa può dirmi di così importante da farmi passare la tristezza?
-Ti capisco.
-Mi dicono di parlarne - proseguì il ragazzo, seccato - di sfogarmi. Oppure mi dicono di non pensarci, di distrarmi. Grazie, lo so anch'io che dovrei fare una di queste cose, o tutte e due. Le sto anche facendo, per la verità. Ma perché me lo dicono come se questo risolvesse la situazione? Non capiscono che sono solo un modo per attutire, che non mi passa anche se vado in discoteca o parlo di lei fino a che non arriva il mattino?
Emanuele e Valeria tacquero. Alla fine, lasciarono giù i fiori di Emanuele ed andarono a fare colazione assieme, parlando d'altro, del nuovo lavoro di Emanuele, di quello che succedeva a scuola.
Si salutarono come se si fossero rivisti il giorno dopo, come se non fosse cambiato niente. La verità fu che dopo quel giorno non li rivide mai, e nemmeno li cercò. Qualche collega lo contattò, gli disse che chiedevano di lui, ma lui sorrideva sempre e replicava cortesemente che, appena ne avesse avuto il tempo, si sarebbe fatto vivo.
Non lo fece mai. Non ritornò più in quell'istituto.

Ma ogni sabato mattina prendeva il treno e poi correva sul tredici, con grande energia.
Arrivato al Altichiero, si precipitava dal fioraio, che ormai lo riconosceva, e chiedeva un bouquet di lilion e rose bianche, avvolte in un velo rosa acceso.
-Deve essere proprio innamorato di questa donna - scherzò un giorno quel buon signore, a cui non aveva mai detto nulla - ancora non ha ceduto?
Rise e gli rispose che era una ragazza difficile.
Hai visto?, disse più tardi a Bianca, senza parlare, guardando la tomba. Un uomo che ti porta le rose fresche ogni settimana. L'avresti mai immaginato?
-Guarda un po' - mormorò tra sé e sé - dev'essere proprio innamorato, quell'uomo.
Sistemò delicatamente i fiori sul vaso; accarezzò dolcemente la foto e poi se ne andò, mentre il sole e il cielo e le rondini l'accoglievano vivaci.

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