L'oggettivo e il soggettivo di Glenda (/viewuser.php?uid=27907)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'unità culti e crimini rituali ***
Capitolo 2: *** Il male della vittima ***
Capitolo 3: *** L'esoterismo della debolezza ***
Capitolo 4: *** Strizzacervelli e spazzatura ***
Capitolo 5: *** Impersonare ***
Capitolo 6: *** Questione di tempo ***
Capitolo 7: *** Per un fatto di fiducia ***
Capitolo 1 *** L'unità culti e crimini rituali ***
Capitolo 1
L’unità culti e crimini
rituali
"Questo è ciò che abbiamo" disse l’agente Darren Johnson
con una sufficienza spiazzante, subito rivolto a fare qualcosa che era,
evidentemente, molto più importante che ragguagliarlo sul caso a cui avrebbe
dovuto lavorare "Fatti un’idea e dicci che ci
vedi"
“Dicci che ci vedi” pensò Spencer, sfogliando, una dietro l’altra, le
foto del cadavere di un poveretto che certamente non era morto sognando farfalle
“Come se bastasse guardare...”
Chissà se la persona di cui aveva preso il posto lavorava
effettivamente così: se gli bastavano due foto scattate sulla scena per farsi
un’idea della persona con cui avevano a che fare.
Di
lui non sapeva molto, né poteva pretendere di sapere tanto di più: nell’ordine
funzionava così. Martin, però, gli aveva fornito qualche istruzione non compresa
nel pacchetto, ad esempio il fatto che Truman Connely fosse nell’Ordo Veritatis
da vent’anni, che fosse un criminologo specializzato in psicopatici con
desiderio di onnipotenza, e che avesse all’attivo l’eliminazione di otto
importanti cellule di esoterroristi sul territorio statunitense, nonché una
decina di casi isolati risolti, e consulenze in mezzo globo.
Ma
questo non gli importava poi troppo.
Che
la sua non fosse un’eredità facile da raccogliere, lo aveva già calcolato, e non
era il rischio peggiore. Più d’uno - Martin
compreso - gli aveva fatto presente che voler lavorare sul campo non era una
buona idea, e che, con la sua predisposizione e il suo curriculum, avrebbe reso
meglio come terapeuta nelle strutture di cure dell’ordine, ad occuparsi di chi
aveva avuto la sfortuna di guardare al di là della membrana, anziché rischiare
di trovarsi a vivere la stessa esperienza in prima persona.
Ma Spencer era veramente convinto che quella
strada fosse la migliore per lui.
Per lo meno, sperava che la tensione del
trovarsi in prima linea lo facesse ricominciare a dormire. L’idea di stendersi
con l’intento di addormentarsi, dopo aver ascoltato i deliri altrui per un
giorno intero, lo paralizzava: era decisamente meglio crollare sfiniti per aver
passato notti insonni dietro ad un caso. E poi, doveva davvero darci un taglio
con tutto: con le sue ossessioni, con la sua dipendenza da Martin, con le
terapie di Lois Darmh e anche col suo letto, che aveva finito per diventare
l‘ennesima relazione distorta della sua
vita.
Voleva solo fare qualcosa di concreto:
essere utile per l’Ordine così come l’Ordine lo era stato per lui, difendere il
confine che rendeva la realtà quella che era, fare sì che le figure che
popolavano i suoi incubi potessero restare sempre, soltanto lì: nella sua
testa.
Così, aveva richiesto di essere spostato in
una cellula operativa, senza preferenze di incarico o di sede: all’inizio
c’erano state delle perplessità, dovute al fatto che, data la sua posizione
nell’Ordo Veritatis, si trovava a conoscenza di volti e nomi di cui un’agente
sul campo avrebbe dovuto essere all’oscuro. Ma fortunatamente, le alte sfere
dovevano aver pensato che 15 anni di permanenza affidabile costituissero una
buona garanzia.
Del resto, i membri operativi avevano
aspettative di vita spesso tristemente brevi, e dovevano essere costantemente
rimpiazzati: Truman Connely era morto pochi mesi prima che lui presentasse la
sua domanda, e, con i suoi studi di analisi comportamentale svolti a Quantico e
la specializzazione in riabilitazione psicologica all’interno dell’Ordine, era
la persona più quotata per sostituirlo.
Così, quando era stato aperto il primo nuovo
caso in sospetto di esoterrorismo, era stato inserito senza troppi convenevoli
nell’Unità Culti e Crimini rituali dell’FBI di Washington D.C, orfana del suo
criminologo.
E adesso era
lì.
Il supervisore Johnson non era tagliato per
le formalità: appena si era presentato, gli aveva sbattutto in mano le foto
della scena del crimine. Spencer aveva avvertito subito una diffidenza che si
tagliava a fette, ma non se la sentiva di biasimare; lui piombava lì dal nulla,
senza tanti preavvisi e con un fascicolo pieno di omissioni, e a Darren non era
stato concesso nemmeno il lusso di valutarlo. Qualunque capo si sarebbe sentito
scavalcato, specie quando si è perso da pochi mesi il compagno con cui si
lavorava da anni. Tuttavia, a Spencer parve di cogliere anche un tipo di
distacco diverso, una sorta di sottinteso: “non mi sembri all’altezza” che lo
infastidì.
Le foto, alla prima occhiata, gli dicevano
una sola cosa: che chi aveva ridotto così quell’uomo, aveva tempo da perdere e
tranquillità. Non c’erano simboli occulti o segni di pratiche rituali sul
cadavere, c’era solo la presenza di un evidente e prolungato sadismo: lo aveva
torturato, probabilmente con diversi strumenti, e la vittima era stata per lo
più cosciente, con nello sguardo lo stesso terrore che vi era rimasto impresso
da morto.
Quando si trovò tra le mani l’inquadratura
del volto del cadavere, con gli occhi vitrei sbarrati e le pupille dilatate,
deglutì visibilmente.
"Bella foto, eh?" fece una voce alle sue
spalle "La luce dell’alba ha fatto effetto filtro; sembra quasi ritoccata in
studio, invece è tutto naturale. E’ un peccato che faccia parte delle prove, ha
un che di...artistico!"
Spencer voltò la testa e si trovò di fronte
un uomo alto, spalle larghe il doppio delle sue, capelli biondi raccolti in una
coda e uno stile che gli fece pensare ad un avventuriero di Jules Verne, o ad un
tuttofare dal sapore stempunk. Al collo portava la macchina fotografica e il
taschino della sua camicia era pieno di oggettistica tecnologica di cui non
avrebbe saputo stabilire la funzione.
" Ti manca l’abitudine ai cadaveri? "
chiese, con un sorriso irriverente.
Spencer appoggiò la foto sul tavolo e si
alzò in piedi.
" Mi manca l’abitudine al primo piano dello
sguardo di un cadavere, per esser precisi " rispose, con
distacco " Ai cadaveri che ho visto, qualcuno aveva già pensato di chiudere gli
occhi "
" Beh, l’ultimo che abbiamo trovato noi,
invece, non li aveva proprio. Bruciati dentro ad un pentacolo insieme alle
budella. Sgradevole " gli tese la mano " agente John Doe"
Spencer alzò il
sopracciglio.
" Mi manca l’abitudine anche allo spirito
macabro, se le interessa " sentenziò con un certo fastidio nella
voce.
“John Doe. Ma per chi mi ha
preso?”
L’uomo frugò nella tasca dei
Jeans.
" Sì, sì...reagiscono tutti così " e gli
sventolò davanti il distintivo.
Agente Jhon Doe: unità Culti e Crimini
Rituali.
Spencer si sentì
arrossire.
“Cristo! Ma che cattivo
gusto!”
" Emh...Non trova di portare un nome un
po‘...malaugurante? "
L’uomo gli battè una pacca sulla
spalla.
" Non se lavori nell’Ordo Veritatis,
novellino! Quante probabilità ci sono di rintracciare un Jhon Doe? Sicuramente
meno che rintracciare uno..."
Puntò l’indice al centro del suo petto, in
un gesto eloquente.
" Spencer
Dwight"
" Ecco. Uno Spencer Dwight. Meglio avere
volti e nomi chi si dimenticano, qui, ragazzo. Bisogna imparare presto a passare
inosservati, e tu, con l’aria che hai, oggi non ci passi affatto. Non si fa
quella faccia davanti ad un morto. Non sei un agente dell‘FBI. Far trasparire le
emozioni è il modo migliore per rimanere impresso a qualcuno. Che farai quando
incontrerai il primo mostro?"
Spencer si sentiva innervosito. Darren lo
aveva accolto con una gelida sufficienza, e adesso questo tizio dallo spirito
fuori luogo lo trattava come uno scolaretto e gli diceva apertamente quel che
l’altro aveva solo lasciato intuire: che era nel posto sbagliato al momento
sbagliato.
" I mostri, li incontro tutte le notti nei
miei sogni" sentenziò "e li conosco
bene quanto lei. Con la differenza che io so anche dirle in che modo sono stati
evocati, quanto è alta la predisposizione di un individuo a cimentarsi con un
tipo o un altro di creatura, e so risalire da un rituale ad un potenziale
profilo e viceversa. Vuole che le dica per che genere di culti è predisposto
lei, signor Doe? "
"Noi non siamo predisposti per nessun culto"
La voce decisa di Darren interruppe quella
conversazione
"Noi siamo predisposti per la realtà. Punto
e basta" fissò Spencer con lo sguardo di chi non ammetteva repliche "Allora"
prese di nuovo in mano le foto e le sventolò sotto il suo naso "Che idea ti sei
fatto, Dwight?"
Il ragazzo fece un profondo respiro, e
ringraziò di essere stato dotato di un buon autocontrollo. L’atteggiamento di
quei due gli ricordava certi professori ai tempi dell’università che non
aspettavano altro che lo studente sbagliasse per dimostrare che l’umanità è
fatta di una massa di ignoranti.
"Se mi si richiede un parere di analista
comportamentale, l’impressione che ho avuto è che l’assassino sia un sadico,
forse a sfondo sessuale, che si eccita nell’atto della tortura. Non
è la morte della vittima che gli interessa,
quanto il tempo della sofferenza. A dargli piacere probabilmente è la reazione
della vittima: la paura, forse, più che il dolore...Credo che desiderasse essere
guardato " mostrò loro di nuovo il primo piano del volto "L’autopsia forse ci
darà dati più precisi, ma vedete questi segni?" indicò delle piccole lesioni
sulla fronte e le tempie "mi fanno pensare che l’assassino gli abbia
immobilizzato la testa, per costringerlo a guardarlo mentre lo
uccideva..."
Ripose la foto nel mazzo, e le fece scorrere
di nuovo tra le dita una dietro l’altra.
"Ma se quello che volete sentire è un parere
da studioso di occulto, beh, non ci vedo niente. Nulla che possa far pensare a
un rituale esoterrorista: nemmeno ad un gesto isolato di un fanatico. Sempre che
non ci sia qualcosa che non mi avete
mostrato"
Darren sorrise con un solo lato della
bocca.
"Infatti c‘è qualcosa" disse, e gli mostrò
un sacchetto trasparente sigillato e repertato "Infila un paio di guanti e dagli
un’occhiata"
Prontamente John tirò fuori un kit della
scientifica, e porse a Spencer guanti e lenti di vario tipo. Lui estrasse con
cautela l’oggetto dalla busta e se lo rigirò tra le
dita.
" Il materiale sembra rame..." commentò a
voce alta " Lo si usa come catalizzatore energetico in diverse pratiche...dalla
medicina olistica all‘esoterrorismo. Forse è mescolato con qualcos’altro. Due
spirali intrecciate..." avvicinò la lente alla superficie " ...e inciso nel
mezzo un simbolo...Non so...mi sembra un vevè, uno dei simboli voodo per evocare
i Loa. A occhio direi che è un amuleto rituale che serve a catturare energia.
"
Darren
annuì.
"E’ la stessa idea che mi sono fatto io"
disse "Lo abbiamo trovato nel corpo della vittima, infilato sotto la carne, in
una ferita all’altezza del cuore. Appena l’ho visto, ho subito pensato a
questo..."
Prese un libro dalla sua scrivania e glielo
porse: Spencer si sorprese. Era un testo che veniva usato per gli studi occulti
dell’Ordo Veritatis, ma era una pubblicazione rara, non alla portata di tutti.
Martin aveva fatto qualche ricerca e gli aveva rivelato che, per quanto fosse un
agente dell‘FBI da molto tempo, e con un turbolento passato di uomo
d’azione, Johnson era anche uno
studioso di un buon livello, con svariate pubblicazioni all’attivo, ed era un
esperto dei culti e delle credenze più disparate che l’umanità avesse
abbracciato nel corso della storia.
" Si chiama Talisha, o Taliska..." gli
mostrò la foto di un’incisione su pietra che riproduceva un’immagine piuttosto
simile " Veniva usato presso alcune tribù precolombiane misconosciute per
incanalare l’energia vitale della vittima durante un sacrificio, umano o
animale, agli dei. Pare che lo si incidesse sul corpo del sacrificato, e sul
luogo o sulla pelle dell’individuo che, attraverso il sacrificio, si intendeva
rafforzare, o proteggere. La doppia spirale costituirebbe un legame tra chi
perde e chi riceve. Ma eccoci al particolare che ci interessa: la massima
funzionalità del rito si ottiene quando vittima e beneficiario sono
consenzienti...e non credo siamo nel nostro
caso..."
" Già. Non con uno sguardo simile..."
rifletté Spencer, gettando un ennesima occhiata alla foto del
morto.
"Dunque..." fece Jhon "Tu pensi che chi ha
compiuto il rituale sia andato incontro ad un
fallimento?"
"Almeno ad un fallimento parziale" confermò
il capo "il che equivale a dire che per il momento non dovrebbe esserci una
creatura soprannaturale pronta ad essere sguinzagliata per la città. Questo ci
garantisce un certo vantaggio"
Riprese il suo libro e lo ripose
accuratamente in un cassetto dal doppio
fondo.
"Vado in sala autopsie. Spero che Jeanine
sia riuscita a trovare qualcosa che ci faccia risalire all’identità del nostro
cadavere... " e sparì a passo veloce dietro la
porta.
Jhon andò a sedersi alla sua scrivania, ed
accese il computer.
"Bene bene, novellino... " disse "ora ti
faccio vedere come, in quattro e quattr’otto, ti trovo dove potrebbe essere
stato fabbricato un oggetto del genere!"
Inforcò gli occhiali e si perse
completamente nella schermata.
Spencer lo osservò per qualche attimo,
incuriosito: lui doveva essere l’hacker della squadra...ce ne era sempre uno.
Ormai non si poteva sperare di venire a capo di un’indagine senza sapersi
muovere bene nel mondo parallelo della rete.
"Passato lo shock da occhi-di-morto?" lo
prese in giro, riemergendo un attimo dalla trance in cui sembrava essere
sprofondato, e agitando con la mano un pacchetto di sigarette in segno di
offerta.
"Sì" fece Spencer "e, a proposito...quello
era un PreMorte..."
"Cosa...?" girò appena la testa
Jhon
"La creatura evocata con occhi e viscere
bruciati in un pentacolo. Lo chiamano PreMorte, ovvero la “materializzazione” di
ciò che l’occhio vede prima di morire. Beh, così credono loro. Ma voi non lo avete mai incontrato, perché questo rituale ha una
probabilità talmente alta di fallimento, che, a quel che ne so, non ne è mai
stato evocato uno completo "
Jhon sbattè le ciglia, in un attimo di
esitazione: poi, d’un tratto, diede in una fragorosa
risata.
"Ok, Dottore, ok! Sai il
fatto tuo. Va bene? Ora però, fine della
dimostrazione"
A giudicare dalla prossemica, la dottoressa
Sigrist aveva un temperamento meno prevenuto dei due colleghi. Il suo modo di
tenere le distanze era professionale ma non diffidente: a un primo tentativo di
profiling, l’avrebbe detta una persona bendisposta verso la diversità, ma solo
più tardi avrebbe saputo che, con i suoi studi di antropologia, aveva girato
praticamente il mondo intero, dagli igloo eschimesi alle tribù della foresta
equatoriale.
"La vittima si chiamava Osvald Samerson.
Sono riuscita a identificarlo grazie ad una protesi dentaria installata l’anno
scorso. Aveva 54 anni, scapolo, impiegato in un ufficio vendite di una ditta di
pneumatici. Ho già chiamato chi di dovere: mancava dal lavoro da 5 giorni, ma
nessuno si era domandato niente, perché aveva chiesto una settimana di ferie"
Jeanine si spinse su gli occhiali, dando
un’occhiata in tralice a Spencer, che Darren non aveva ancora avuto il buon
gusto di presentare.
"La morte risale a ieri pomeriggio, tra le
quattro e le sei. E’ stato lungamente torturato, per un arco di tempo che può
variare dalle 24 alle 36 ore. Sono stati utilizzati diversi strumenti per
infliggere le torture: armi da taglio e oggetti contundenti di diverse
dimensioni. Con più calma saprò effettuare dei riscontri e elencarvi una lista
di oggetti compatibili. Sono presenti segni di bruciature e di scosse
elettriche. Le unghie sono state asportate, e le dita delle mani sono
fratturate. Tuttavia, non sono state le ferite la causa del decesso...
"
Porse a Darren i risultati
dell’autopsia.
" ...bensì un attacco cardiaco
"
"E’ morto di infarto?" Jhon si grattò la
testa "questo non fa molto esoterrorista!"
"Detto così, no. Ma una serie di fattori,
come il ph del sangue, la forte presenza di adrenalina, la disidratazione, mi
fanno pensare che la vittima sia
stata colpita un attacco di panico. O più di uno. Il cuore potrebbe non aver
retto... "
"Morto di paura... " mormorò Spencer,
ripensando agli occhi del poveretto "la peggior morte che ci si possa augurare.
Ma la domanda a questo punto è: volevano
ucciderlo?"
Darren lo guardò di
sbieco.
"Se un esoterrorista ti tortura, stai certo
che non andrai in giro a raccontarlo"
"Non intendevo questo. Mi chiedevo...se ad
essere funzionale al rituale fosse la morte o la tortura...
"
"...o entrambe!" intervenne
Jhon.
"Per il momento, non abbiamo nemmeno la
certezza che si tratti di un rituale, e che l’eventuale rituale ci riguardi.
Innanzi tutto, è necessario accertarsi della presenza di un’attività
esoterrorista. Jeanine, che ci dici del
“ritrovamento”?"
La donna fece scorrere rapidamente le dita
fra le sue carte, ed estrasse una fotografia che mostrava l’oggetto di rame
ancora all’interno della carne.
" Si tratta di una delle ferite più antiche:
è stato impiantato nel corpo della vittima prima dell’inizio delle torture...o
comunque, è stata la prima forma di tortura che gli hanno inflitto. L’incisione
non è profonda, ed è fatta da mani inesperte. Tuttavia, deve essere stato usato
un bisturi, o comunque un coltello molto piccolo e
tagliente"
Lo sguardo di Darren passò rapidamente da
lei e Jhon
"E la tua
ricerca?"
"Allora" Jhon voltò verso di loro la
schermata del suo portatile "Quello che vi posso dire è che non è stato
fabbricato negli stati uniti. Esistono due luoghi in Messico che hanno prodotto
qualcosa di simile: uno è un negozio gestito da nativi che ha un giro solo tra
appassionati di antiche tradizioni, l’altro è addirittura un artigiano che non
vende al pubblico, ma crea monili per privati a cifre astronomiche: è una specie
di santone, di guaritore...insomma, un tizio così...! Niente, però, che richiami
palesemente il nostro amuleto: solo scelta degli stessi materiali e una certa
somiglianza nella lavorazione, non sufficiente a dire che si tratti della
medesima mano"
Spencer sollevò entrambe le
sopracciglia.
"Wow... " commentò,
ammirato.
"Non hai visto niente, ragazzo" si vantò lui
"Entro un’oretta ti servo vita morte e miracoli di Osvald Samerson, così puoi
fargli un bel profilo psicologico,
contento?"
Spencer abbozzò un
sorriso.
"Penso che per un profilo mi sarebbe molto
più utile vedere la sua casa e il suo
ufficio"
Darren colse quella frase al
volo.
"Ottimo. Scegli da quale vuoi cominciare"
disse.
"Ufficio" rispose prontamente Spencer
"Voglio parlare con i colleghi. Gli attacchi di panico non nascono da niente,
nemmeno se sei sotto tortura. E il fatto che nessuno sapesse dov’era andato in
ferie mi incuriosisce. Agente Doe, se lei potesse farmi sapere da quanto
lavorava lì, il suo titolo di studio e se ha svolto altri lavori prima, questo
potrebbe essermi utile"
"Chiedi e ti sarà dato,
“dottore“!"
"Allora" riprese Darren "Domattina, Dwhigt
ed io alla “Mundial Preumatici“. Doe e Sigrist all‘appartamento. Per stasera,
Jhon lavora sulla vita della vittima, io e la dottoressa facciamo un sopralluogo
nella zona circostante la scena del crimine: sotto le scarpe di Samerson è stato
trovato della ghiaia che non corrisponde al tipo di terreno del luogo del
ritrovamento. Probabilmente il posto in cui è stato torturato e ucciso non è
negli immediati dintorni, dobbiamo farci
un’idea..."
Spencer non capiva se il capo si fosse
dimenticato di lui o non lo avesse nominato
volutamente.
"Ed io...?"
azzardò.
"Tu sei libero" fece Darren "Sei stanco e
disorientato, e domani mi servi lucido"
"Io...emh...cosa...?"
Ci era rimasto male: non pensava che fosse
così facile leggergli in viso condizioni fisiche e
mentali.
"Non ci hanno avvistato fino all’alba
dell’inserimento di un nuovo agente, quindi deduco che la anche tua convocazione
sia stata improvvisa. Suppongo dopo l’assegnazione del caso alla mia unità: tra
le 23 e le 24. Viaggio in notturna, volo di linea. Non hai la faccia di chi
dorme in aereo. Anzi, hai la faccia di chi dorme poco e non ama perdere lucidità
quando si trova in un ambiente che non tiene sotto controllo..." per la prima
volta fece un mezzo sorriso "li faccio anche io i profili, Dwight. Domani alle
otto. Cerca di avere una faccia che non attiri
l‘attenzione"
A quella frase, Jhon diede in una risatina
sardonica.
Spencer non osò
replicare.
Quando il telefono squillò, era perso in uno
zapping insensato tra i canali, giusto per il gusto di perdere tempo e ritardare
l’ora di addormentarsi.
"Spencer, ti ho cercato molte
volte..."
La voce di Lois era la cosa che amava di più
in lei: a volte aveva fatto sedute intere tenendo gli occhi chiusi, concentrato
su quella voce che lo rasserenava, che gli sgombrava la mente. E tante volte si
era chiesto se non avesse finito per andare a letto con la sua
voce.
“Spencer, ti ho cercato molte volte”: nella
sua voce non c‘era una richiesta, una nota di biasimo, un sottinteso. Lei sapeva
dire le cose senza inviare nessun messaggio secondario.
Lei, semplicemente, affermava.
"Sono a Washingotn. Sono partito stanotte.
Lavoro a un caso nell’unità Culti e Crimini Rituali
dell’FBI."
Dall’altro lato della cornetta ci fu un
momento di silenzio.
"Non pensavo che avresti deciso così in
fretta"
"Nemmeno io. Ma va bene così. Ho bisogno di
questo"
"Non hai bisogno di questo. Hai bisogno di
convincerti che è così. Non è dando la caccia a creature
soprannaturali che farai tabula rasa di qualcosa che la tua mente ha rimosso. Né
lo farai riemergere. Il percorso che dovresti...
"
"Non c’è un percorso, Lois" la interruppe
"sai come la penso. Il lavoro fatto con te mi ha aiutato...tu mi hai aiutato: ma
non è facendo psicoterapia per una vita che arriverò da qualche parte: anche io
curo la gente...ho visto come funziona. Quando incontri certe cose, non puoi
pensare di farne “tabula rasa“. Non me lo sogno nemmeno, e
non sono qui per questo. Voglio soltanto...impedire che ad altre persone capiti
la stessa cosa. Non voglio essere più lì per mettere toppe, per cercare di
salvare il salvabile. Voglio esserci
prima..."
"Sei consapevole di non essere
psicologicamente pronto per questo"
Ecco, “affermava” di nuovo, senza aspettarsi
una risposta, senza rimproverargli nulla. Gli sarebbe mancata quella limpida
capacità di dare alle parole una loro saldezza, una loro lucida essenza.
"Ti mancherò?"
chiese
"Certo. E ho paura per te. Ho paura che tu
abbia bisogno del mio aiuto, e che io non possa essere lì...
"
"Però non mi
ami..."
Lasciò cadere quella frase fatta così, e poi
la immaginò sorridere e scuotere lentamente la
testa.
"Nemmeno tu mi ami, Spencer. Tu ami il fatto
che so tutto di te, e che con me non devi svelare o nascondere niente, non devi
metterti in gioco..."
"Non ti illudi di conoscermi troppo
bene?"
"Andiamo, piccolo. Sono la tua terapeuta da
quasi dieci anni"
Spencer affondò la testa sul cuscino, e
pensò che dopo quella frase gli sarebbe piaciuto essere
accarezzato.
"Ho paura di dormire, stanotte..." disse,
con un candore disarmante.
"Ti ho insegnato tante strategie...è il
momento di metterle in pratica: non puoi sbadigliare mentre lavori sul campo. E
per cominciare, smetti di fare zapping
compulsivo..."
Il ragazzo sbattè le ciglia, rigirandosi il
telecomando tra le mani
"Non
stavo..."
Menzogna
inutile.
"Buonanotte,
Spencer..."
Buonanotte. Una parola che si diceva con
tanta naturalezza, una di quelle parole che si sprecano senza conoscerne il
significato.
Spencer Dwight dall’età di 15 anni avrebbe
pagato per trascorrere, per una volta almeno, una vera “buona notte”. I suoi
sonni erano solo un’interruzione della fatica fisica, ma se voleva spegnere
qualche volta la mente e permetterle di avere pace, lo doveva fare da sveglio,
guidato da un terapista dei disturbi del sonno, sottoponendosi a sedute di
ipnosi o con sessioni di meditazione e training autogeno. Nessuna di esse
funziona a lungo, ma almeno permettevano al suo mondo interiore di prendere
respiro.
La notte, invece, era un momento di lotta e
di sforzo: a meno di non piombare sfinito o ubriaco in un sonno buio, di quelli
da cui ci si sveglia storditi, con la testa pesante, tutti i suoi riposi erano
accompagnati dai “mostri”. Mostri che conosceva, o che non aveva mai visto, e
voci, e suoni, e simboli...insomma, immagini...flashes distorti e confusi di un
mondo che per l’Ordo Veritatis aveva una definizione e un nome: realtà
soggettiva.
Gli esoterroristi si adoperavano per
spezzare quella membrana che separava tale realtà da quella quotidiana,
palpabile, visibile ogni giorno, e miravano all’irrompere dei fantasmi
dell’inconscio sul mondo reale.
Loro erano lì per impedirlo.
Ma quanto e come - prima di essere salvato e
“adottato” dall’Ordine - Spencer avesse visto di quella realtà soprannaturale,
lui stesso non lo ricordava...
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Capitolo 2 *** Il male della vittima ***
Capitolo 2
Il male della
vittima
Spencer non aveva mai avuto problemi di
puntualità: di solito era già sveglio prima dell’alba, e questo almeno gli aveva
permesso di vedere albe meravigliose. Ma da quella camera d’albergo non c’era
una gran vista, e i grigi grattacieli di Washington non erano il migliore degli
sfondi, quindi per quel mattino preferì consolarsi con una ricca colazione al
bar.
Aveva dormito da schifo - niente di nuovo -
e non si sentiva in condizioni di essere messo sotto esame dai nuovi colleghi,
ma una cosa lo tranquillizzava: quando la notte lo aveva scombussolato
emotivamente, sul lavoro dava il meglio di
sé.
Fu alla sede della “Mundial Pneumatici”
prima dell’ora dell’appuntamento, eppure Darren Jonhson era già
lì.
"Anche lei ha problemi col sonno, capo?"
buttò là con ironia.
"Affatto" disse Darren "piuttosto ho
perlustrato i dintorni" gli mise in mano dei fogli "questa è la planimetria
dell’edificio, le possibili vie di fuga sono segnate in
rosso"
Spencer sollevò entrambe le
sopracciglia.
"Scherza? E’ solo un
ufficio!"
"Sì. E la ditta sembra pulita, John ha fatto
le sue indagini. Ma nella nostra posizione non si sa mai. Una volta siamo stati
costretti a tentare una fuga da una linda villetta a schiera. E a volte le
imprese sono ottime coperture. E‘ questo il guaio di avere come avversari
persone capaci di passare completamente
inosservate"
Quel “passare inosservati” doveva essere uno
dei refrain dell’agente Johnson e del suo collega: ma come dargli torto? Niente
poteva escludere, di fatto, che una ditta di pneumatici potesse essere un covo
di esoterroristi.
"Però la stessa cosa vale al contrario"
azzardò.
"Ti sbagli. Già il fatto di indagare sul
crimine ci rende sospetti. E’ successo altre volte che gli esoterroristi abbiano
fatto piazza pulita di agenti che nulla avevano a che fare con l’ordo veritatis.
Semplicemente, avevano ficcato il naso dove non
dovevano..."
Entrarono nell’edificio all’orario di
apertura, e furono subito introdotti al dirigente. La prima impressione che
Spencer ne ricevette, fu di un povero diavolo che nella vita ha visto poco più
in là della sua azienda, e che dei suoi dipendenti sa meno di quanto sapeva
della tenuta su strada di un pneumatico. Confermò loro che Samerson aveva
effettivamente preso ferie, e non aveva detto dove andava: ma non ci trovava
nulla di strano...lì nessuno raccontava i fatti propri ai colleghi, e Osvald era
un uomo di poche parole e molto riservato. Non c’era nemmeno una persona con cui
avesse intrattenuto rapporti più confidenziali, al massimo andava a prendere il
caffé al bar col vicino di scrivania, e quest’ultimo fu la seconda persona che
Spencer volle interrogare.
Si chiamava Rod Madison, divideva l’ufficio
con Samerson, e teneva la contabilità
dell’azienda.
Ma, quando fu dentro la piccola stanza,
anziché parlare con lui, si mise a studiare la scrivania della vittima: frugare
nei cassetti, sfogliare la sua rubrica, osservare come teneva le sue
cose.
"Lei e il signor Samerson eravate amici?"
chiese Darren a Madison, che osservava stupito la strana indagine di
Spencer.
" Mmm...no, guardi...amici non potremmo
definirci..." (con un occhio perplesso scrutò l’altro agente che sembrava
trovare molto interessante la disposizione delle penne di Osvald) "Non avevo nemmeno il suo numero di
telefono. Però, miseria...mi dispiace che sia morto! Era una brava persona: era
sempre gentile e corretto con tutti! Quando prendevamo il caffé insieme voleva
sempre offrire lui...quasi si risentiva se non accettavo. Era molto educato, uno
di quegli uomini che aprono ancora le portiere alle donne, ha
presente...?"
La voce di Spencer, curvo su un foglio di
appunti sgangherati, lo interruppe.
"Ovvio. Ha una mania di controllo che si
vede lontano miglia..."
"Come, scusi...?" fece Rod Madison,
aggrottando la fronte.
"Ha manie di controllo" ripeté Spencer
"insomma...aveva bisogno di sentirsi sicuro di poter gestire la realtà intorno a
sé, compresi i suoi rapporti con gli altri. Si vede da come tiene le cose, dalla
sua calligrafia. E anche dal fatto che non le abbia dato il suo numero di
telefono. Stabilire rapporti profondi probabilmente gli era difficile, perché in
genere chi desidera controllare con tanta forza la realtà, ha serie difficoltà
nel chiedere aiuto, per quando non ne abbia nel concederlo. Il fatto che pagasse
il caffè mi conferma che preferiva sentirsi in credito che non in debito. Sa se
aveva avuto traumi nella vita? Che so...assistito ad un uragano, a un
terremoto...vissuto uno sfratto..."
"Come le ho detto, non lo conoscevo
abbastanza..."
"Ma aveva stima di lui. Si capisce da come
si è infastidito quando mi sono permesso di dare il mio giudizio, che, per
altro, lei reputa affrettato e indelicato"
Stavolta lo sguardo di Rod fu di
stupore.
"Senta...quel che so di lui, lo so perché lo
osservavo. Gli piaceva ascoltare musica classica, la metteva, ogni tanto...Aveva
un debole per i film di Chaplin, e gli piacevano gli orologi. Ma di viaggi non
abbiamo mai parlato..."
"...perché non viaggiava..." commentò
Spencer, quasi tra sé "un tipo così...non penso che viaggiasse. Non in treno o
in aereo, di sicuro. Probabilmente si spostava in macchina, su percorsi
abituali. Quindi, se è partito ed è andato in un luogo a lui consono, lo ha
fatto per una ragione veramente
importante..."
"Ricorda qualche episodio recente, qualcosa
che lo facesse apparire strano o diverso?" intervenne
Darren.
"Diverso no" spiegò l’uomo "Ma c’è stato un
episodio, effettivamente...anche se non è niente che abbia a che fare con le sue
ferie..."
"Ciò che non è pertinente per lei, potrebbe
esserlo per noi" insistette l‘interlocutore.
"Beh, guardi, è una sciocchezza. Sì è ferito
con un taglierino e appena ha visto il sangue ha avuto un abbassamento di
pressione. Ci è toccato portarlo in infermeria. Ma un paio d’ore dopo era di
nuovo in perfetta forma"
“Paura del sangue e manie di controllo.
Forse è ipocondriaco” pensò Spencer.
"Niente
altro?"
"Niente
altro"
Quando tornarono alla loro sede, verso
mezzogiorno, furono accolti da un Jhon molto
allegro.
"Bene signori!" li informò "abbiamo un pollo
da spennare!"
Quello era il suo modo per dire che avevano
un sospettato in sala interrogatori. Spencer trovò l’espressione sgradevole per
i suoi standard, mentre Darren, con il solito fare impassibile,
chiese
"Cultista o
imbecille?"
L’amico si strinse nelle
spalle.
"A pelle, imbecille. Ma non si sa
mai"
"Dove lo avete
preso?"
"Senti un
po’..."
John iniziò il suo
racconto.
Il mattino presto, con regolare mandato,
erano entrati in casa Samerson. Casa piccola, estremamente ordinata per essere
quella di un uomo, sembrava quasi esserci un tocco femminile, ma dopo una lunga
ricerca tra armadi e cassetti, lo avevano escluso. Nella libreria, avevano
trovato un’enormità di libri guida alla salute del corpo e della mente, di tutti
i generi immaginabili, dallo zen, alla macrobiotica, alla medicina alternativa,
ai consigli di dietisti e dottori, oltre a guide al primo soccorso ed
enciclopedie mediche. Tutto sembrava confermare la diagnosi di ipocondria
buttata là da Spencer. Tuttavia, Jhon aveva subito notato che mancavano alcuni
oggetti che, anche nella casa del più impersonale e noioso impiegato, era quasi
impensabile non trovare: un computer, una rubrica, una macchina fotografica.
Inoltre, non c’era il nastro nella segreteria telefonica. Insomma, la
conclusione era stata rapida: qualcuno aveva “ripulito” la casa, e gli
esoterroristi lo facevano spesso. Nessuno dei vicini, però, aveva notato niente
di insolito.
Fortunatamente, il palazzo si affacciava su
una via commerciale, e dirimpetto c’era una gioielleria munita di telecamere;
osservando le registrazioni, avevano notato che nel condominio erano entrati
solo due estranei: uno era il postino, l’altro portava volantini pubblicitari,
ma quest’ultimo era stato decisamente troppo tempo all’interno dell’androne per
essersi limitato a imbucare cartaccia nelle cassette.
"grazie al mio nuovo programma, sono
riuscito a elaborare un’immagine quasi perfetta" concluse John, mostrando a
Darren una fotografia " ho fatto una ricerca veloce e sono riuscito ad avere
nome e indirizzo del signor Mark Haddon, lo sfigato del quartiere, schedato per
piccoli furti...siamo andati a prenderlo e, guarda un po’? Abbiamo trovato in
casa sua il computer della vittima. Lui continua a blaterare che lo ha
semplicemente rubato...ma io scommetto che non si tratta di un furto qualsiasi:
qualcuno glielo ha commissionato, e a noi spetta farlo
cantare..."
"E facciamolo cantare, allora" esclamò
Darren, precedendolo in sala interrogatori.
Spencer fece per chiedere cosa doveva fare,
ma John lo anticipò.
"Tu stai a guardare e impara come si fa"
Spencer pensava che certe scene si vedessero
solo nei peggiori film di azione, ma dovette ricredersi: dopo un tempo di
pazienza durato si e no cinque minuti, Darren aveva afferrato il malcapitato per
le spalle, e, senza mezzi termini, gli aveva elencato tutti i crimini
(prontamente recuperati tra rete e informatori da Jhon) di cui lo avrebbe fatto
accusare se non avesse rivelato il nome di chi gli aveva ordinato il
furto.
"E’ inutile che ci racconti puttanate!
Abbiamo trovato i soldi: uno sfigato come te non può avere tanti contanti tutti
insieme!"
"Li ho rubati in casa di quell’uomo!"
piagnucolò lui "sono suoi, li ho trovati e li ho
presi!"
"CREDI DI PARLARE CON UN FESSO? Samerson era
un maniaco dell’ordine: non avrebbe mai lasciato dei contanti in giro per
farseli rubare dall’ultimo degli stronzi! Raccontami un’altra balla e ti spacco
la mascella!" e, giusto per dimostrazione, Darren gli lasciò una bella impronta
da cinque dita sulla guancia.
Spencer sobbalzò sulla
sedia.
"Ma...ma...questo non è legale!" esclamò,
rivolto a nessuno.
Una delle regole imparate nell’Ordo
Veritatis era che gli agenti dovevano rimanere entro i limiti della legalità:
come se la sarebbero sbrigata quando quel tizio avrebbe cominciato a raccontare
in giro che due dell’FBI lo avevano preso a mazzate? I suoi colleghi non
sembravano porsi il problema: proprio loro che parlavano dell’importanza di
passare inosservati!
"Li ho rubati, li ho rubati!" strillava
intanto Haddon, persistendo nella sua versione "che cosa volete che ne sappia
del perché li ha lasciati in giro?
Chissenefrega!"
"Che peccato, non ti crediamo " inclazò Jhon
"E sai invece cosa crediamo?" gli stette
dietro Darren "che quei soldi te li abbia dati qualcuno di cui hai una paura
fottuta..."
"E fai bene ad aver paura,
sai?"
Si guardarono negli occhi, e si intesero al
primo sguardo.
"Già: perchè noi ti lasceremo andare e
dichiareremo in conferenza stampa che ci hai rivelato il nome del vero autore
del furto..."
A quelle parole, il poveretto sbiancò al
punto che l’impronta lasciata dalla mano di Darren sul suo viso divenne ancora
più visibile. Era il momento di farlo
crollare.
"E tu non lo vuoi, giusto?" insinuò John,
rendendo il suo tono di voce meno aggressivo "perché sai benissimo che quello
per cui lavori non ha scrupoli, ti troverà a ti farà la
pelle..."
"Mentre se parli, noi potremmo metterti in
un luogo sicuro"
"E poi, una volta che lo avremo beccato, ti
faremo avere uno sconticino di pena e sarai fuori in un paio di
mesi..."
Mark Haddon rimase zitto, distogliendo lo
sguardo dai due agenti.
"Scommetto un’altra cosa" riprese Darren
"Scommetto che nel computer di Samerson troveremo qualcosa che ci aiuterà ad
arrivare all’assassino, e il tuo mandante te lo aveva fatto portare via proprio
per questo. Anzi...forse ti aveva ordinato di distruggerlo...ma tu hai fatto il
furbo, volevi rivendertelo e fregarlo. Bel coraggio...se lui lo venisse a
sapere..."
"No, no!" proruppe allora l’interrogato "Non
volevo rivenderlo! Lui doveva passare a prenderlo, e mi avrebbe dato il resto
del denaro!"
Jhon e Darren si scambiarono un sorriso
sinistro
"Finalmente qualcosa di interessante. Che ne
dici di dirci anche il suo nome?"
"Non lo so!"
"Ah...non lo
sai?"
Darren gli allungò un altro
schiaffone
"MA CON CHI CAZZO CREDI DI
PARLARE?"
"Non lo so, lo giuro! Avevo bisogno di
soldi, mi ha dato un bell’anticipo: chi se ne frega del suo nome! Se anche non
fosse tornato a saldare, quelli che avevo preso mi toglievano da un po’ di
guai!!"
"Beh, ora di guai ne hai il doppio..."
sbuffò Jhon.
Mentre Darren lavorava all’Identikit, Jhon
era sprofondato nel suo mondo: aveva tra le mani il computer della vittima e lo
stava rigirando come un calzino. Spencer lo guardava lavorare con curiosità:
avrebbe voluto azzardare una timida protesta sui loro metodi di interrogatorio,
ma non voleva violare quell’atmosfera di profonda concentrazione. A John,
invece, non pareva dispiacere che il collega lo osservasse: aveva una sorta di
vanità per il suo estro di hacker.
"Abracadabra" esclamò ad un tratto, muovendo
velocemente le dita sulla tastiera "eccoci rivelata l’identità virtuale di
Osvald Samerson!"
Spencer sporse il
naso da dietro la sua spalla: sullo schermo era apparsa una pagina di MySpace,
dai colori terrestri e caldi, ed il profilo di “AnimaMundi”, 54 anni, di
Washington. Una musica new age faceva da sottofondo, e sotto i dati personali si
poteva leggere una citazione: “Solo per oggi: Non ti arrabbiare non ti
preoccupare, Sii umile, Sii onesto nel tuo lavoro, Sii compassionevole verso te
stesso e gli altri”.
"Il
mantra di Rikao Usui, il fondatore del Reiki" commentò
Spencer.
"Che
roba è?"
"Un
metodo di guarigione naturale attraverso il passaggio dell’energia vitale
dell’universo. E’ evidente che Osvald avesse qualcosa da cui voleva “curarsi”, e
non sapesse più a cosa appigliarsi. Stava intraprendendo tutte le vie
praticabili...probabilmente, oltre ad essere ipocondriaco, era deluso dalla
medicina tradizionale..." emise un debole sospiro: odiava sentirsi personalmente
coinvolto in un lavoro, ma quella disperata ricerca di pace interiore toccava un
tasto che non gli era indifferente "quest’uomo desiderava solo un po’ di
serenità. Serenità dalle sue paure, prima di tutto. Dobbiamo capire chi è
riuscito a proporgli una via abbastanza allettante da farlo finire coinvolto in
un rituale esoterrorista..."
Jhon
stava spulciando la lista dei contatti.
"Per
esempio una donna coi suoi stessi interessi?" disse, cliccando su uno dei link
presenti nello spazio amici "“Aura_Bianca” ha 45 anni, fra loro c’era una fitta
corrispondenza, e, indovina un po’? E’ Messicana! Non ha forse la stessa origine
il nostro simbolo?"
Ma
sulla pagina web della donna non c’era un simbolo solo: ce ne erano decine. E
un’infinità di link a tradizioni Messicane, medicina dei nativi d’america e
strani testi scritti in lingue
incomprensibili.
"Miseria!" esclamò Spencer "Vista così sembrerebbe una
persona sospetta anche se non conoscesse la
vittima!"
"Già.
Ma dobbiamo stare attenti a distinguere il desiderio del soprannaturale e del
mistico dal cultismo e ancor più
dall’esoterrorismo"
A
parlare era stato Darren, comparso come al solito quasi senza farsi sentire alle
loro spalle.
"Jhon, stampa tutto. Manda Dwhigt dall’esperto..." e se
ne andò di nuovo senza addurre precisazioni.
"Esperto?"
Jhon
sollevò le sopracciglia
"Un
nostro consulente" gli spiegò "un professore tuttologo che lavora qui
all’università. Darren lo chiama
una volta sì e l’altra anche: ma preferisce non andare da lui di persona.
Tipi troppo diversi..."
Spencer si stropicciò la testa. “Troppo diversi” pensò
“Sarà un bene o un male?”
Joseph ‘O Malley aveva un curriculum lungo
come una lista della spesa: insegnava “Storia delle Religioni” alla facoltà di
Storia di Washington, ma aveva anche la cattedra di “Influenze dell’occultismo
nelle correnti filosofiche occidentali” a filosofia, e teneva dei corsi
d’aggiornamento di “Psicopatia e misticismo” per i laureandi in
criminologia. Infine, era direttore
del Centro di Ricerche “Riti e culti dei nativi d‘america“. Ma Spencer lo aveva
sentito nominare per altre ragioni: aveva scritto alcuni testi di Simbologia
rituale per l’Ordo veritatis, che gli erano serviti per i suoi studi, e svolto
una ricerca, sempre ad uso e consumo esclusivo dell‘ordine, sulle tecniche di
disattivazione dei feticci. Tutto sommato incontrarlo di persona poteva essere
era una piacevole occasione di
arricchimento.
Avvisato telefonicamente, il professore gli
aveva dato appuntamento nel suo ufficio, ma la porta era chiusa.
Bussò.
"Un momento!" rispose una voce femminile, il
cui tono fece sospettare per un attimo a Spencer di essersi intromesso in una
qualche situazione imbarazzante.
La porta si
aprì.
"Prego! " lo accolse una radiosa bionda in
tallieur " Il professore è tutto suo, tolgo il disturbo!"
Gli rivolse un grazioso sorriso, ed uno
ancor più vistoso a ‘O Malley.
"Buon lavoro, professore!"
cinguettò.
Spencer diede in un finto colpo di tosse,
giusto per potersi nascondere il naso dietro la mano: temeva infatti di essere
arrossito. Probabilmente l’essere un esperto nello studio del comportamento lo
rendeva fin troppo attento ai particolari, ma ai suoi occhi era stato subito
evidente che il rapporto che c’era tra il professore e quella che, per l’età,
poteva, essere una studentessa, non era esattamente
professionale.
L’uomo seduto dietro alla cattedra, invece,
doveva avere una cinquantina d’anni, forse di meno: la folta barba nera che
portava lunga e un po’ incolta rendeva abbastanza difficile fare una stima, e
probabilmente lo invecchiava, mentre a guardare solo gli occhi gliene avrebbe
dati sui quaranta.
"Venga, venga pure" lo invitò il docente "Io e Margot
stavamo solo facendo della sana e divertente attività sessuale. Ma non si
preoccupi avevamo praticamente finito. Margot è una bravissima ragazza. Sa che
recentemente ha vinto anche un premio con la sua tesi di dottorato in
archeologia? Beh, a essere sinceri qualche anno fa ha anche vinto il premio miss
archeologia organizzato dalle confraternite della
facoltà..."
A quel punto non c’era modo di dissimulare:
la faccia di Spencer aveva visibilmente cambiato colore. Per sua natura era
discreto, e l’uomo che gli aveva fatto da padre era ultra ottantenne:
decisamente non era abituato ad un linguaggio senza veli come quello.
"Emh...io...S-sono l’agente Spencer Dwight,
dell’unità Culti e Crimini rituali" fece, cercando, con gesti impacciati, di
estrarre il tesserino, ma l’interlocutore lo fermò con un gesto lento della
mano.
"So chi è lei. Si accomodi, Spencer.
Qualcosa da bere?"
Sulla cattedra aveva una bottiglia di Irish
wiskey.
"Sono in servizio..." obiettò timidamente
Spencer, mentre ‘O Malley stava già riempiendogli il
bicchiere.
"Il Black Bush è uno dei migliori wiskey irlandesi.
Lo sapeva che il wiskey irlandese si distingue dagli altri perché subisce tre
distillazioni anziché due?"
"No,
non sono un intenditore"
"Non
ha importanza. I vini si intendono con la bocca, non con la conoscenza. Il mio è
solo gusto per le curiosità. Che posso farci? Mi divertono. Ai quiz televisivi
sarei imbattibile"
“Sarà
per questo che lo chiamano il tuttologo” pensò il
ragazzo.
"Ehi"
proseguì, vedendo l’esitazione dell’ospite "quel wiskey è già vecchio di dieci
anni, non ha bisogno di invecchiare ancora" e buttò giù d’un fiato il suo
bicchiere.
Spencer, per non passare male, fece altrettanto, ma non
lo svuotò del tutto. Il vino gli piaceva, ma era troppo ligio al dovere per
trasgredire sul lavoro.
"Stiamo indagando ad un caso e..." cercò di introdurre la
questione che gli premeva.
"Da
quanto tempo lei è dei nostri?" lo interruppe "Non
l’avevo mai vista..."
"Da
quattordici anni" rispose Spencer "ma è ovvio che lei non mi abbia mai
incontrato: a membri di cellule diverse non è consentito di conoscersi e lei
dovrebbe saperlo meglio di me" concluse in tono un po’ saccente. Il parlava
delle regole dell’Ordine lo rendeva fin troppo
tassativo.
"Certo che lo so" commentò ‘O Malley "Ma io ho più
contatti di quel che creda. Del resto lei è ancora un ragazzo: quanti anni ha?
Ventisei? Ventisette?"
"Quasi trenta..."
"Quasi trenta. Bene, bene. Posso darle del
tu?"
Spencer fece un sorriso
impacciato.
"C-certo che sì..."
‘O
Malley battè leggermente la mano sulla
cattedra
"Ottimo! E dunque, il tuo ramo è la psicologia. Psicosi
da contatto col soprannaturale? Rapporto tra psicopatie e
esoterrorismo?"
"Anche. Per lo più mi occupo di analisi comportamentale.
Almeno in questa veste..."
"Oh!
Analisi comportamentale! Sapresti farmi il
profilo?"
Spencer scosse la testa così di fretta che era
impossibile non percepire l’imbarazzo di quel
gesto.
"Coraggio, sono
curioso..."
"Un’altra volta, professore, la prego" si schermì "Mi dia
il tempo di osservarla un po’! Nel mentre...lei potrebbe dare un’occhiata a
questi..." e gli spinse sulla cattedra le stampe dei numerosi simboli trovati
nello spazio web di “Aura_Bianca”.
‘O
Malley li guardò uno ad uno, rapidamente, come se ci fosse poco su cui
soffermarsi. Poi, di fronte ad uno stupito Spencer, fece una palla dei fogli che
gli aveva dato, lasciandone in vita solo
uno.
"E’
roba innocua" decretò "simbolismo da due soldi che veniva e viene usato tuttora
per costruire amuleti il cui scopo varia dal canalizzare l’energia universale o
portare protezione a chi lo indossa. Alcuni di questi venivano tatuati sulle
piante dei piedi dei guerrieri di antiche tribù: si pensava che aumentassero la
forza del combattente pemettendogli di attingere energie dalla terra. Ma nulla
di tutto questo ha un effettivo potere rituale. In sostanza: superstizioni.
L’unica cosa su cui vale la pena di approfondire è
questa..."
Gli
indicò uno dei tre simboli presenti sulla sola pagina rimasta
intatta.
"Ricorda molto un simbolo voodo che viene usato
nell’evocazione del Loa che presiede alla salute...e come lei certamente sa, è
tipicamente esoterrorista la pratica di alterare e contaminare simboli
preesistenti per farne qualcosa d‘altro. Dove lo avete
trovato?"
"Su
una pagina web" spiegò Spencer "si tratta del myspace di uno dei contatti della
vittima"
"Beh,
forse è opportuno che ci scambiamo due parole. Dove
abita?"
‘O
Malley era decisamente sbrigativo: in genere, prima di andare a interrogare un
sospettato, per di più potenziale esoterrorista, occorrevano pratiche un po’ più
lunghe che un semplice piombare a casa sua.
"L’indirizzo non lo abbiamo. Prima di rintracciarlo, il
capo voleva che lei mi dicesse se valeva la
pena"
"E io
gliel’ho appena detto..." commentò il
professore.
"Sì,
ma..."
Senza
permettergli di aggiungere altro, ‘O Malley sollevò il
telefono.
"Samantha, cara, fai un salto nel mio
ufficio?"
Nel
giro di pochi attimi un’altra vamp alta un metro e ottanta, e bionda come l’oro
era comparsa sulla porta.
"Bisogno di qualcosa,
professore?"
Lui
la face accomodare, e le fece cenno di
sedersi.
"Questo giovanotto è dell’FBI, ed ha bisogno che tu
rintracci una persona: abbiamo l’account su myspace e ci serve l’indirizzo. Ce
l’hai un minuto per farmi questo favore?"
"Come
no, professore. Per lei questo e altro!" rispose Samantha con un sorriso
smagliante.
"Non
è un vero tesoro?" fece ‘O Malley "Quando hai fatto, raggiungici al Corsaro di
Dublino, che ti offro da bere. Io sono atteso là, c’è la cena di compleanno
della mia cugina di quarto grado, Melissa, un vero splendore! Non posso
mancare!" si alzò, raccolse le sue cose, e le infilò un po’ alla rinfusa in una
borsa di pelle "Spencer, lei è mio ospite!"
Il
ragazzo sbatté le ciglia, e cercò di schermirsi, ma non fece in tempo ad aprire
bocca.
"Sono
quasi le sette, non faccia storie. Una pausa sul lavoro le farà bene: si vede
che lei è stressato e non dedica tempo a se stesso. Dovrebbe metter su un paio
di chili e un po’ di colore...si vive una volta
sola!"
La
confusione che regnava in quel pub lo costringeva a tenere una mano
sull’orecchio, e l’altro premuto contro il
cellulare.
"Sì,
sono con lui. Mi libero presto e..."
Dall’altro capo sentì, dispersa nel brusio che lo
circondava, la voce di John. Aveva un ché di allegro, o più probabilmente di
derisorio.
"Darren dice che, se sei con ‘O Malley, non ti
aspetta"
"E
quindi..?"
"Quindi fai con comodo. Suppongo che anche se volessi
sganciarti, non ti riuscirebbe"
Spencer si infilò il cellulare in tasca con malcelato
disappunto, proprio nel momento in cui la mano del professore si posava
vigorosamente sulla sua spalla.
"Ah,
ecco dov’eri! Non sparire, o ti perderai delle conoscenze
interessanti!"
Con
una spinta educata ma decisa, lo costrinse ad avanzare nella sala, e gli indicò
una ragazza dai lunghi capelli rossi che stava stappando una bottiglia di
spumante.
"Quella è Melissa, si è appena laureata in Lingue
straniere per il Web...è una gran bella testolina...e non solo!" ammiccò in modo
molto eloquente, e Spencer si accorse di star per arrossire di nuovo: quell’uomo
si prendeva decisamente troppa confidenza, e lui non ci era abituato. Non sul
lavoro, almeno, e men che mai con una persona che era considerata un’autorità
indiscussa in campo accademico.
‘O
Malley sembrò stupirsi del suo silenzio. Che si aspettasse degli apprezzamenti
sulla cugina?
"Vieni, te la
presento"
La
festeggiata aveva riccioli gonfi che sembravano una nuvola al tramonto,
lentiggini, corporatura robusta e una scollatura generosa, che il professore non
mancò di commentare positivamente, senza che la ragazza si scomponesse affatto:
probabilmente era un tratto di famiglia rimanere immuni
all’imbarazzo!
‘O
Malley la abbracciò, apprezzò con disarmante candore la mini gonna della sua
amica e, con altrettanta partecipazione, la marca di wiskey che faceva mostra
sul tavolo.
Poi
si ricordò di Spencer ed esclamò:
"Visto che begli ospiti ti porto? E poi dimmi che non
penso al tuo bene...!"
Melissa sfoggiò un delizioso
sorriso.
"Spencer Dwight " fece lui, porgendogli la mano come se
si trovasse a un colloquio di lavoro "
Congratulazioni..."
"Oh,
grazie!" rispose la ragazza " Bevi
qualcosa?"
"Certo che beve" intervenne ‘O Malley " offrigli un
Jamerson o un bianco con sambuco e mele. Niente balck bush, gliel’ho già offerto
io. Magari un cocktail..."
Spencer rifiutò con un gesto della
mano.
"La
prego, professore" disse "sono in
servizio..."
"Affatto. Lei è in pausa. Ne approfitti. Non ci sono
molti locali come questo, negli Stati Uniti, e stasera, oltretutto, il bancone
del bar è a nostra disposizione. Mi creda, dovrà andare fino a Dublino per bere
come si deve..."
Spencer sorrise con
distacco.
"Davvero, meglio di no. Non ho un buon rapporto con
l’alcol. Di solito bevo quando sono depresso, e fortunatamente non è questo il
caso..."
Se
non lo fosse, in verità non lo sapeva con certezza. Gli era difficile valutare
quanto le sue angosce influenzassero i momenti di vita quotidiana, e di certo
erano rari i giorni in cui potesse dirsi sereno. Tuttavia, lasciarsi andare ora
sarebbe stato pericoloso: ricordava ancora con un certo sgomento la sua ultima
sbornia...Lois lo aveva sostenuto ubriaco per le scale e non ricordava nemmeno
più se dopo avessero o no fatto l’amore.
"Per
carità, la depressione teniamola lontana " esclamò ‘O Malley " ma è un vero
peccato: se mi dice così, non potrò mai aver l’onore di farmi una bevuta con
lei..."
"Brinderemo alla risoluzione del caso" fece Spencer
"Brunello di Toscana e Moscato d’Asti:
dalla mia riserva personale!"
"Apprezza il vino
italiano?"
"Ma
no! Non me ne intendo. Sono stato in Italia anni fa, per imparare la lingua e
per...beh, per “studi”, ovviamente. E ho portato a casa un po’ di
bottiglie"
‘O
Malley annuì: non c’era bisogno di spiegazioni perché capisse di che studi si
trattasse. Torino era una delle tre città “magiche”, e gli studi sul come e
perché quel luogo fosse terreno tanto favorevole ai rituali esoterici erano
ancora aperti.
D’un
tratto, sul palco che si trovava sul fondo del vasto locale, si posizionò un
complesso, che cominciò a suonare musica
irlandese.
"Spencer " disse ‘O Malley "il piacere mi chiama. Ci sono
troppe signore senza cavaliere qua dentro. Perché non fa ballare la
festeggiata?"
Melissa, nel mentre, era tutta presa a chiacchierare
animatamente in mezzo ad un gruppo di amici.
"Non
mi costringerà a tanto, professore " scherzò Spencer " dovrebbe veramente farmi
ubriacare, per riuscirci!"
"Certo che lei dice sempre di no: non beve, non balla,
non mi fa il profilo... " gli diede una pacca sulla spalla " è proprio un tipo
che non si lascia andare..."
Spencer si schermì con un sorriso
formale
"Ora
è lei che tenta di fare il profilo a me. Non ci provi
"
Non
aveva bevuto nient’altro che un leggero bicchiere di vino bianco aromatizzato,
eppure gli girava la testa. Doveva essere per le poche ora di sonno, per
l’avvicinarsi del momento della giornata che odiava di più, o forse per le danze
irlandesi, e ‘O Malley che cambiava dama a ogni giro. Si appoggiò al bancone del
bar coi gomiti, sgranocchiò un paio di salatini e chiuse gli
occhi.
Quando li riaprì, il professore era
sparito.
Si
guardò in giro, cercandolo nella folla, quando gli comparve dal dietro
piazzandogli le mani sulle spalle.
"Indirizzo trovato" gli disse, mostrandogli un pezzo di
carta "Andiamo a interrogare Susy Locarno, alias
Anima_Mundi"
Spencer ritornò lucido di
botto.
"Andiamo? Io e lei?
Ora?"
"Perchè no? Fortuna vuole che la nostra bella messicana
viva qui a Washington, e, come certo saprai " si avvicinò a lui e sussurrò al
suo orecchio "coi sospetti esoterroristi, mai lasciare il tempo di
organizzarsi... "
Senza
aspettare risposta andò verso il guardaroba a riprendersi la giacca, ed estrasse
dalla tasca le chiavi della macchina. Spencer lo seguì disorientato sulla
strada.
"Il
capo non... "
"Darren approverà. Lui è un uomo d’iniziativa. Piuttosto,
sei armato?"
"Ovvio "
"Credo sia solo una precauzione inutile, ma in caso di
necessità, te la cavi decentemente?"
Il
ragazzo annuì.
"Mio
padre è uno dei migliori tiratori scelti dell’FBI" dichiarò "A quindici anni
invece di giocare a football mi allenavo al poligono di
tiro"
Aveva
detto “mio padre”.
Era
strano che gli venisse naturale chiamare Martin così, quando parlava di lui,
mentre in privato non era mai riuscito a considerarlo tale.
Si
domandò perché, e pensò che la risposta era sempre la stessa: anche se Martin lo
aveva cresciuto, lui sentiva di appartenere ad un’altra
realtà...
Una
realtà che gli sfuggiva, ma che era sepolta da qualche parte, nella sua
memoria.
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Capitolo 3 *** L'esoterismo della debolezza ***
Capitolo 3
L’esoterismo della
debolezza
Susy
Locarno non si sorprese quando due sconosciuti le bussarono alla porta alle
undici di sera passate. Aprì con un’aria un po’ trasognata, e, con un largo
sorriso, disse:
"Buonasera, immagino per quale ragione siate qui...
"
Spencer alzò un
sopracciglio
"Ah
sì?"
La
donna era veramente singolare: dai tratti sembrava quasi una nativa americana,
ma la pelle non era abbastanza scura; aveva piercing praticamente ovunque: naso,
sopracciglio, labbro, e l’intero lobo dell’orecchio sinistro; sul collo era
visibile un grosso e variopinto tatuaggio, indossava abiti etnici ed un enorme
medaglione che sembrava dover pesare
parecchio.
"Vieni, vieni pure..." disse, rivolta a Spencer " ...tu
hai chiaramente bisogno di un’armonizzazione dei canali energetici
"
"Gliel’ho detto anche io, in altri termini " ridacchiò ‘O
Malley, che già a prima vista trovava quella donna veramente improbabile " ma
noi non siamo qui per un... " stava per dire “sortilegio”, ma si riprese in
tempo " trattamento"
"No?"
Susy si sorprese, e rivolse la sua attenzione a ‘O Malley " eppure lei...beh,
anche lei avrebbe bisogno di una purificazione dell’aura: ha una bella energia,
ma non si espande correttamente e io avrei proprio ciò che fa per voi...
"
Spencer decise di non farsi sfuggire
l’occasione
"In
verità, io avrei bisogno di un altro tipo di...intervento... " non sapeva bene
come definire l’attività che a
quanto pare svolgeva la loro sospettata " ...sono affetto da una grave forma di
ipocondria...e questo mi rende la vita
impossibile"
"Oh!"
Susy sgranò gli occhi, che sembravano due grosse biglie inespressive " Ragazzo
mio...non si direbbe! Che strano...non sono riuscita a percepirlo...Forse hai
troppo controllo delle tue emozioni..."
"Mm...forse..." fece Spencer, mente ‘O Malley scoteva la
testa.
"E
lui? Perché è con te?"
"Sono
ansioso" rispose il ragazzo prontamente "venire da solo mi metteva in
difficoltà"
La
donna diede in un “ohhh” lungo, quasi che quella frase gli avesse fatto capire
tutto della persona che aveva di fronte. "Ma non è bene, mio caro, non è bene!"
disse languidamente "La fiducia in se stessi è la prima strada per guarire dalle
paure, e la seconda è la fiducia in coloro a cui ci si
rivolge..."
Li
invitò ad entrare in casa: l’ingresso sembrava l’anticamera di un centro
benessere rivisitato in chiave nativa
americana.
"Perché non lasci il tuo amico qui ad attenderci, e
facciamo due chiacchiere di là?"
"No!"
sussultò Spencer, figurandosi all’improvviso una stanza piena di pericolosi
feticci woodo. Ma la mano di ‘O Malley gli diede un colpetto tra le
scapole
"Ma
certo, Spencer! La signora ha ragione: bisogna provare a superare le proprie
paure...tanto io sono qui fuori!" “E posso dare un’occhiata alla casa
indisturbato” - sottintendeva lo sguardo che gli aveva
rivolto.
"Ah...sì...beh..." fece una smorfia il ragazzo "
d’accordo...tanto...parliamo solo, no?"
A
Charles veniva da ridere: Spencer aveva una mimica veramente
teatrale!
Quando i due si chiusero la porta alle spalle, per prima
cosa cominciò a guardarsi in giro. La stanza era innocua: si poteva capire a
prima vista che non c’erano né feticci nascosti, né simboli o oggetti che
facessero pensare ad un’esoterrorista. Di primo acchito, ‘O Malley se la sarebbe
sentito di supporre che quella donna era semplicemente finita nella pagina di
contatti dell’uomo sbagliato, e tutto ciò che aveva di pericoloso era il suo
cervello imbevuto di spiritualismo commerciale, che presto o tardi l’avrebbe
portata a cercare di guarire un tumore con un intruglio di thè verde e fiori di
bach. Ma era meglio prendere le giuste precauzioni, e quindi scivolò
silenziosamente nel corridoio.
Durante gli studi per l’Ordo Veritatis, a Spencer avevano
insegnato prima di tutto una cosa: non doveva illudersi di poter fare un profilo
comportamentale ad un esoterrorista “pazzo“. L’esperienza diceva che, come nel
caso dei peggiori terroristi di Al Quaeda, il suo comportamento gli sarebbe
apparso assolutamente lucido, normale, insospettabile. Ma Spencer aveva un
difetto: era tremendamente fiducioso nelle proprie intuizioni, e l’intuizione
gli faceva pensare che quella donna non avesse niente a che fare con la triste
fine del proprio amico virtuale.
Fu
seguendo questo istinto che interruppe lo strano rituale che la donna stava
compiendo facendo oscillare un pendolo di cristallo sul palmo aperto della sua
mano, e disse:
"Sa...io ho avuto il suo contatto da un amico: Osvald
Samerson "
Al
sentire quel nome, un moto di stupore passò sul volto di
Susy.
"Osvald? E’ stato lui a darti il mio
indirizzo?"
“Quindi si conoscevano anche di
persona”
"Sì "
rispose, affidandosi fiduciosamente al profilo della vittima che aveva elaborato
" anche lui aveva il mio stesso problema...aveva paura di stare male...
"
La
donna gli rivolse un sorriso rassicurante.
"Oh,
no, non focalizzarti su una convinzione sbagliata. Pensare negativo non aiuta
l’energia a fluire, e tu hai una bellissima energia che può aiutarti a superare
il tuo problema, se solo ti concedi il diritto di staccare l’ancora dal
passato... "
Spencer trovò che quella frase, per quanto comica nella
sua ingenua superstiziosità, in qualcosa cogliesse nel segno. Lei
proseguì:
" Il
caso di Osvald era molto diverso...per questo mi sorprendo che ti abbia mandato
proprio da me..."
"In
che cosa era diverso?"
La
donna ebbe un momento di esitazione, come se per un attimo si fosse accorta che
lui e Samerson in realtà non si conoscevano affatto; ma fu solo un istante, poi
riprese a parlare.
"Osvald non si è mai amato, e il poco amore verso se
stesso gli ha fatto del male. Non riusciva ad accettare che il trauma che aveva
subito, era frutto della sua stessa energia negativa, che si era riversata sul
suo corpo..."
Spencer ringranziò che ‘O Malley non fosse lì: con tutto
quel parlare di energie, aure e roba varia probabilmente non avrebbe retto senza
fare dell’ironia. Tuttavia, Susy gli stava offrendo degli indizi su un piatto
d’argento: l’unica difficoltà era chiedergli in modo diretto cosa fosse accaduto
a Osvald di tanto grave, perché avrebbe fatto saltare la sua
copertura.
Provò
per un’altra strada
"E
perché lei pensa che sia strano che mi abbia mandato da
lei?"
"Perché ritiene che io non sia riuscita ad aiutarlo. Ma
non si può aiutare chi non è disposto a guardare in faccia le cause della
propria malattia. Ultimamente non mi chiamava più e non è più venuto da me.
Frequentava un altro gruppo: ma è inutile, loro non possono fare nulla per
lui... "
“Ok.
Ha avuto una malattia. Ha sviluppato un’ipocondria post-traumatica e questa
specie di sciamana gli ha rifilato la teoria per cui siamo noi stessi a produrre
le malattie del nostro corpo. Lui si è offeso ed ha cercato un’altra strada”. Le
cose tutto sommato avevano logica.
"E a
chi si era rivolto?"
Brutta domanda, molto sospetta. Ma assolutamente
necessaria.
"Perché me lo
chiede?"
Spencer esitò, messo in
difficoltà.
"Osvald è una persona molto...diffidente. Mi sembra
strano che d’improvviso si metta a frequentare tanta gente diversa...tutto
qui..."
“Risposta orrenda. Speriamo che la
beva”
"Lei
è amico di Osvald?"
"Collega. Solo collega. Lui non stringe molte relazioni
fuori dal lavoro"
"Dottor Keller, psichiatra: guida sedute di terapia di
gruppo per sopravvissuti a traumi. Osvald deve avere avuto una grave malattia in
passato, e adesso cerca di curare il disturbo d’ansia che ne è seguito. Chiederò
a Doe di recuperare le sue cartelle cliniche. In ogni caso, è questo medico
quello che dobbiamo contattare..."
"E di
lei che mi dici?"
"Innocua. Non ha nulla a che vedere con questa
storia"
"Lo
penso anche io. Benché anche da gente così bisognerebbe guardarsi. Un giorno
terrò un corso su come stare alla larga dai ciarlatani che spacciano misticismo
curativo. A loro modo, sono pericolosi"
"Addirittura?"
"Non
tutti hanno la giusta dose di intelligenza per capire la differenza tra una cura
scientificamente sperimentata e trattamenti di dubbio gusto che si basano
sull’autosuggestione. La mente ha una forza notevole e dobbiamo servircene bene:
ma di qui a pensare di curare tumori con un massaggio agli olii orientali ce ne
passa..."
Spencer riflettè
"Io
non sono così prevenuto, invece. Proprio perchè la nostra mente è potente, penso
sia capace di generare energie grandi, e che questo ci permetta di risvegliare,
in qualche forma, anche quelle energie che giacciono nelle cose. A volte può
essere uno sbaglio, ma altre volte una
risorsa..."
Il
viso di ‘O Malley si adombrò per un attimo
"L’ultima volta che ho sentito fare un discorso simile, è
stato da parte di un giovane studioso che ho cercato di tirare fuori prima che
finisse col compromettersi con gli
esoterroristi"
Ci fu
un attimo di silenzio.
"E...come è andata?"
"Nella versione ufficiale è misteriosamente scomparso
"
Spencer non aggiunse
altro.
La
macchina procedette in silenzio per qualche minuto, poi ‘O Malley ruppe di nuovo
il ghiaccio: non era da lui rimanere tanto a lungo in
silenzio.
"Allora, Spencer!" proruppe, nuovamente ciarliero "me lo
hai fatto o no questo profilo?"
"Ci
tiene davvero a sentirlo?"
"Ovvio"
Spencer guardò fuori dal finestrino: le luci della strada
sparivano risucchiate dietro di loro.
"Lei
è un uomo con uno spirito “gaudente“" disse "Nel senso più positivo e ancestrale
del termine. Apprezza i piaceri primitivi, immediati della vita: quelli che
affascinavano l’uomo prima della costruzione di tutti i piaceri fittizi che la
società, evolvendosi, ha creato. La sua esuberanza è senz’altro una conseguenza
di questo spontaneo e sincero attaccamento alla vita, tuttavia c’è in sottofondo
un desiderio - non saprei dirle quanto consapevole - di attirare l’attenzione,
quasi che lo stare sotto i riflettori potesse essere la cosa più vicina al
guadagnarsi l’affetto degli altri. Forse è un atteggiamento sviluppato
nell’infanzia, direi per richiamare l’attenzione di genitori non troppo
presenti. Qualcosa di simile si può dire per la sua passione per le donne: un
misto di ricerca di calore umano e di pura e semplice espressione della sua
vitalità. Tuttavia se una donna cercasse una relazione seria con lei,
probabilmente scapperebbe, e non per il fatto che “non le basta una donna sola”,
bensì perché conosce la sua posizione e preferisce evitare di accollarsi un vero
legame"
Stavolta, in silenzio ci rimase ‘O
Malley
"Perbacco" si riprese poco dopo " Non male. Darren ha
fatto un buon acquisto! Ma sull‘ultimo aspetto hai sbagliato: non credo che non
dobbiamo concederci legami, ed io, infatti, me ne sono concessi. Ci sono persone
per le quali vale la pena assumersi una responsabilità: nella vita, si corrono
rischi per cose ben meno importanti"
Diede
in una mezza risata, dopodiché si mise a parlare d’altro: della cugina, della
sorella di un suo parente alla lontana che doveva venire in visita a Washington,
delle laureande, del wiskey e del cielo d’Irlanda. Non smise finché non lo
scaricò sotto il quartier generale.
"Per
come la vedo io, il rapporto puoi farlo domattina "disse, guardando l’orologio "
O hai anche tu un ego gigantesco e aspiri ad essere lodato? Occhio, con Darren
non attacca... "
Spencer sorrise
debolmente
"Non
è una questione di valutazione. Semplicemente, io non sono bravo a
dormire..."
"Detto così, sembra quasi che dormire dipenda dalla tua
volontà..."
"E
magari è così" si strinse nella spalle “La Locarno lo
direbbe"
Aprì
la portiera: la notte era fresca, e lui inspirò profondamente l’aria fino a
riempirsene i polmoni.
Poi,
si chinò, appoggiando il braccio sullo sportello e guardando il professore
nell’abitacolo.
"Vuole sapere perché ho deciso di lavorare sul campo?"
Una
breve pausa. ‘O Malley aspettò, in silenzio.
"Perché io comprendo il fascino del soggettivo. Lo
comprendo profondamente e questo mi permette di essere in grado di entrare nella
testa anche di un esoterrorista, di capirlo, di prevederlo. Perché la realtà
oggettiva, professore, quella che studiamo con il metodo scientifico, quella che
tutti possono vedere, è, di fatto, profondamente frustrante per una mente non
perfettamente ancorata a terra da una serie di sicurezze e di valori. Dalla
realtà oggettiva nessuno ti può salvare: ciò che è al di là delle tue forze è
destinato ad accadere e tu non puoi farci niente. Al di là della
membrana...esistono forze incontrollate, che tuttavia aprono uno squarcio
sull’illusione di poter veramente modificare l’ineluttabile. E questa attrattiva
è capace di esercitare un fascino tale da farti uscire di senno, e farti fare
cose che non avresti mai nemmeno immaginato di osar fare. Non sono solo dei
pazzi fanatici quelli che combattiamo, professor ‘O Malley: sono anche i nuovi
illusi che, persa la speranza nell’aiuto del dio, provano a fare da soli quello
che dio non fa..."
"Confidare nell’aiuto di dio è un pessimo investimento"
commentò il professore.
Spencer si lasciò sfuggire un
sorriso.
"Ma
lei non insegna storia delle religioni?"
"O
Storia delle favole, come la chiamo io" e rise debolmente sotto la barba "In
ogni caso" continuò "non è che dio ci sia o non ci sia il problema. Il vero
problema sta nel fatto che gli uomini sono vulnerabili,
lunatici, confusi: non sono maturi abbastanza per accettare l’esistenza della
realtà che esiste al di là della membrana. Quindi, l’incapacità di concepire e
realizzare un equilibrio tra ciò che è oggettivo e visibile a tutti e ciò che
invece nasce dalle nostre coscienze - individuali o collettive che siano - porta
a far sì che il mondo “soggettivo” si materializzi sotto forma di incubi. Ma al
di là della membrana non ci sono solo incubi, e per far emergere questi ultimi,
il mezzo privilegiato degli esoterroristi è spingere l’umanità sempre più verso
l’alienazione, l’assenza di valori, il vuoto cosmico e la mancanza di passione
per la vita, e tutto non per “modificare l’ineluttabile”, come ritieni tu, ma
solo per acquisire potere personale, per creare mosti e servirsene per
terrorizzare il prossimo. Dovremmo auspicare ad una mescolanza sana e
equilibrata del soggettivo nell’oggettivo: ma non è questa l’epoca giusta. Per
ora, penso che dobbiamo accontentarci della realtà così com’è, dove, se si
cerca, c’è anche molto di bello e gradevole" sorrise "In soldoni: non cadere
nell’errore di giustificare un esoterrorista,
Spencer"
Il
ragazzo annuì quasi impercettibilmente.
"Non
giustifico gli esoterroristi" disse "Giustifico la debolezza
umana"
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Capitolo 4 *** Strizzacervelli e spazzatura ***
Capitolo 4
Strizzacervelli e
spazzatura
Lo studio del dottor Keller - psichiatra e
psicoterapeuta, come recitava la targhetta d’ottone - si trovava in un palazzo
lindo e elegante, coi divanetti in stile floreale e qualche vezzo liberty nella
carta da parati. Il tutto in tinte pastello rassicuranti, che a Jhon facevano
venire il voltastomaco.
Non era molto contento che quella parte del
lavoro fosse toccata a lui: c’era il tizio nuovo che faceva lo strizzacervelli,
perché non poteva andarci lui? A tal proposito Darren era stato abbastanza
elusivo, come faceva sempre quando non voleva che le sue decisioni fossero
discusse.
L’unica fortuna era fare da partner a
Janine: troppo intellettuale per i suoi gusti, ma con tutti gli attributi al
posto giusto. Per lo meno si rifaceva gli
occhi.
"Sai che
penso?" le disse, mentre si
lasciava andare sul divanetto con tutto il suo peso "che pagare 100 dollari a
seduta uno che ti ascolta e poi dice “ce la puoi fare” è una gran stronzata. Una
bottiglia di wiskey costa di meno e conforta di
più"
"L’alcol contiene sostanze psicoattive, non è troppo
diverso da assumere psicofarmaci ed espone a rischi di dipendenza molto simili.
Inoltre ha un effetto solo momentaneo e nuoce al fegato: non so quanto, a conti
fatti, convenga di più. Forse è meglio affrontare il problema alla
radice"
La
dottoressa Sigrist si sedette vicino a lui ed accavallò le gambe con
grazia.
"Inolte, esistono diversi tipi di psicoterapia, e posso
garantirti che il “ce la puoi fare” non è una frase così
ricorrente"
"Mi
vuoi dire che ci sono strizzacervelli che nonostante i 100 dollari a seduta
hanno anche il coraggio di dirti: “Sei spacciato, non c'è più niente da
fare“?"
"No"
e lo guardò da sotto i piccoli occhiali
squadrati "Ma ai tipi come te di solito si dice: “mio caro, finché
continuerai a pensare di venire qui per dimostrarmi che non posso aiutarti,
scordati di guarire” "
"Premettiamo che i tipi come me non vanno
dagli strizzacervelli... e in ogni caso se mi devono guarire è un po' troppo
facile uscirsene con questa scusa. Cavolo! Quando mi capitano i casi come
l'ultima volta che il cadavere era caduto dall'aereo ed era sparso per diverse
miglia io mi sono messo di impegno, non ho mica detto al morto: “Se insisti a
morire in questa maniera non posso aiutarti”. girando le spalle e lasciandolo
lì!"
Alla donna sfuggì un breve
sorriso
"Invece tu dovresti proprio andarci, da uno
strizzacervelli. Da uno bravo! Chiediamo al nuovo acquisto di metterti in cura?
"
"No, no... grazie. Ho modi migliori di
sprecare il mio tempo"
La porta dello studio si aprì: ne uscì una
ragazza giovane, minuta, dall’aria un po’
smunta.
"Avevate un appuntamento?" chiese il medico,
affacciato sulla soglia.
John storse il
naso.
"Sorriso da squalo, giacca sobria e cravatta
mono colore. Ho visto un venditore d'auto così, l'altro giorno tornando a casa.
Mi sta già antipatico."
Janine si alzò, mostrando il
tesserino.
"FBI "
disse.
Darren Jonhson se ne stava seduto un po’
curvo sulla sua tazza di thé. Conosceva ‘O Malley da anni e non gli aveva mai
offerto un caffé: thè al mattino, wiskey la sera, piccole norme di casa
sua.
Nel salotto, quel giorno, facevano mostra di
sé due maschere africane alte almeno un metro: certamente gliele avere regalate
qualcuno dei suoi parenti, esperto in una delle tante improbabili branche di
studi a cui si dedicavano gli svariati O’Malley sparsi per il mondo.
Si era fermato altre volte a riflettere su
come le loro rispettive case sembrassero essere lo specchio dei loro così
diversi modi di essere: quella di Charles vittoriana, dal sapore antico,
sovrabbondante, con un oggetto in ogni angolo, libri che non si contavano,
multietnica, tenuta in un ordine sospeso, che forse non era effettivo ordine ma
che non si poteva dire nemmeno disordine; la sua minimalista, dove gli oggetti,
invece di aggiungersi, venivano buttati progressivamente via. Per far spazio a
chissà che cosa, poi!
Erano due persone opposte, in tutto: nei
gusti, nel carattere, nella visione del mondo, nello stile di vita. Parlavano, e
litigavano. Ovvero, lui litigava, e O’ Malley si appassionava, perché il
discutere di ‘O Malley non si poteva definire altrimenti. Questo non voleva dire
che non fossero molto legati. A volte, lui stesso si accorgeva di avere bisogno
dell’entusiasmo di Charles, per evitare di vedere nero anche l’immediato futuro
e non perdere la forza di lavorare per quella che era la loro causa
comune.
“Allora?” chiese, dopo che ‘O Malley ebbe
finito il suo thè (non avrebbe accettato di parlare di lavoro, prima, e non
sopportava che gli si mettesse fretta).
“Rilassati, Darren. A parer mio puoi dormire
su due guanciali”
“A parer tuo, si potrebbe dormire su due
guanciali anche con un esoterrorista come vicino di
casa”
“Questo mi offende. E poi, ho ottimi vicini
di casa. La signora Swiss, proprio
stamattina...”
“Non mi interessano i tuoi vicini di casa:
mi interessa cosa sei riuscito a sapere!” tagliò corto Darren. Trovava ‘O Malley
logorroico: ecco un altro elemento che li rendeva l’uno l’opposto dell’altro. A
volte si domandava come facesse a starlo a sentire per ore, eppure accadeva.
Charles riusciva a far tessere chiacchiere sul nulla a
chiunque.
“Nervi a fior di pelle?” disse il professore
“Tu sei sempre troppo sotto pressione, Darren. E temi cose che non dovresti
temere. Non far sì che quel povero ragazzo ne faccia le spese: è a posto, non è
qui per mettere i bastoni tra le ruote a te”
“E’ quello che ti ho chiesto di farmi
sapere”
“Quello che vorrei sapere io, invece, è
perché continui a fare di testa tua, e poi ne temi le
conseguenze”
Darren sbuffò: desiderava accendersi una
sigaretta, ma in casa di Charles non si fumava, e questo lo rendeva più
insofferente.
“Stammi bene a sentire. Tu non lavori
direttamente sul campo, non sai cosa significa. Certo, i miei sistemi saranno
discutibili, ammettiamo pure che a volte possa essermela presa con le persone
sbagliate, ammettiamo che abbia creato qualche situazione che l’ordine ha fatto
fatica ad aggiustare perché ho voluto uscire dai binari: ma ho sventato molti
attentati da quando lavoro qui, e distrutto ben sei cellule di esoterroristi...
“
“Uccidendoli tutti...” precisò ‘O Malley
“quando all’Ordine sarebbe stato necessario averli sotto custodia, per risalire
a chi li manovrava”
“Avrei voluto vedere te, in una situazione
simile! Cosa avresti scelto: fare piazza pulita o correre il rischio che uno dei
tuoi uomini ci lasciasse la pelle?”
“Sono rischi
calcolati...”
Darren si rabbuiò, e strinse i
pugni.
“Il giorno che l’ho calcolato, Truman E’
MORTO”
Tra loro scese per un attimo il gelo.
Charles non conosceva i particolari della morte dell’agente Connely, ma sapeva
che Darren se ne riteneva responsabile. E adesso temeva che Spencer Dwhigt,
spedito lì dall’alto senza l’ombra di un fascicolo né un colloquio preliminare,
fosse stato mandato per tenerlo d’occhio.
“Ascolta, Darren” disse “Ho fatto quel che
mi hai chiesto, ho smosso qualche contatto più in alto di me e mi sono
informato. Fidati se ti dico che puoi stare tranquillo. Spencer non c’entra con
te né con un presunto sistema di ‘pulizia’ dell’Ordo Veritatis. Se non ti hanno
mandato nulla di lui, non è per le ragioni che
pensi...”
“E per quali ragioni,
allora?”
‘O Malley affondò la schiena nella
poltrona.
“Non sono tenuto a darti queste
informazioni. Per il suo bene, e per il tuo”
“E come pretendi che io mi fidi di te, se tu
non ti fidi di me?” sbottò Darren, visibilmente
alterato.
“Sbagli a pensare questo. Io mi fido di te.
Ma è la struttura stessa dell’ordine che mi impedisce di parlare. Spencer
Dwight, semplicemente, è cresciuto all’interno dell’ordine, a contatto con persone che stanno molto
più in alto di noi. Conosce nomi che un agente operativo non dovrebbe conoscere
per nessuna ragione, alcuni dei quali non ho avuto nemmeno possibilità di venire
a sapere. Non so come mai lo abbiano trasferito sul campo: è stata una mossa che
io reputo avventata, ma chi lo ha deciso avrà avuto le sue ragioni e avrà
valutato i rischi. Per questo non ti danno il suo fascicolo: perché chi lo ha
mandato qui, ha già concesso a lui - e anche a te -
una notevole fiducia. Cerca di fare in modo che non venga
delusa”
Il dottor Keller osservò la fotografia di
Osvald Samerson fin troppo rapidamente, almeno per i gusti di
John.
"No. Mai visto, mi dispiace
"
"Eppure ci risulta che fosse in cura da lei
" insistette Janine "una sua amica ci ha fatto il suo
nome"
Jhon prese dalla sua cartellina un’altra
foto, e la mostrò al medico
"è
proprio sicuro di non conoscerlo? Lo guardi
meglio"
Era
sicuramente l’immagine più cruenta tra quelle della scena del delitto: Jeanine
storse la bocca, non trovava che quella fosse una buona strategia, ma quando
lavorava con Doe e Darren sapeva di doversi adattare a scadere sempre nel
pesante.
"Magari era in cura sotto un altro nome " concluse John,
compiaciuto dell'espressione disgustata
dell’interlocutore.
Ci fu
un attimo di silenzio, nel quale lo sguardo del dottor Keller si perse dietro le
loro spalle. Gli rese la foto con un gesto
deciso.
"No,
impossibile...Non ho pazienti sotto falso
nome"
"Perché? " inclazò John "Ha anche studiato divinazione?
Come fa a sapere se hanno usato effettivamente un nome vero o
meno?"
"Sono
uno psichiatra: prescrivo cure farmacologiche. I miei pazienti sono tenuti ad
avere una tessera sanitaria"
"Falsificabile"
Keller adagiò le spalle sullo schienale della poltrona,
le braccia distese sui braccioli
"lei
è prevenuto. Perché mai un uomo che desidera essere curato dovrebbe falsificare
il suo nome? Significherebbe che non ha realmente intenzione di guarire. Un
rapporto psichiatra-paziente si deve basare sulla fiducia. Lei è capace di
concedere fiducia, agente...?"
Lo
disse con voce soft, candidamente.
Voce
schifosamente adatta ad uno strizzacervelli, pensò
John
"Non
a tutti" rispose "Solo alle persone che so che non possono tradirla: come quelle
a cui punto la pistola"
La
Sigrist gli diede una gomitata, e lui si voltò stupito, con l’aria di chi si
chiede cosa abbia mai detto di sbagliato.
"Non
siamo qui per parlare dei nostri rapporti di fiducia con chicchessia, dottore"
intervenne "ma per trovare un assassino"
Il
medico non si scompose: il suo viso sembrava di una serenità imperturbabile,
anche se ogni tanto si perdeva in impercepibili attimi di
assenza.
"Invece di fiducia dovremmo parlarne, anche solo per il
fatto che nulla mi obbligherebbe a rispondervi neppure se l'uomo che mi avete
mostrato fosse un mio paziente. C'è un segreto professionale che implica proprio
la fiducia, e che io non potrei violare. Ammesso e non concesso che io lo
conoscessi..."
"il
segreto professionale le impone solo di non parlare dei suoi problemi, non del
fatto che è in cura da lei" contravvenne
Janine.
"In ogni caso se proprio non vuole"
incalzò John "possiamo sempre tornare con un mandato. Ma siccome noi le abbiamo
dato fiducia" e sottolineò quella parola mentre
accarezzava la sua pistola "siamo venuti a chiederglielo
gentilmente".
Nemmeno allora l’uomo si
turbò.
"...Portatemi il mandato, ed allora io vi permetterò di
leggere i miei fascicoli...nei quali non troverete l'uomo che
cercate..."
Non
aveva molto senso insistere.
I due
uscirono dallo studio, facendo presente che si sarebbero fatti nuovamente vivi,
e lui li congedò con il solito sorriso indulgente e
accattivante.
A
John dava sui nervi.
"Che
te ne sembra?" chiese la Sigrist, appena furono a bordo
dell’auto.
"Un
idiota col sorriso da rappresentante. Ma vorrei dare un’occhiata al suo computer
"
"Non
credo che avremo problemi a farci dare il
mandato"
"Mandato? Ma va’! Ci penso stanotte. Roba di
un’oretta"
Jeanine non si
scompose
"A
volte dimentico i metodi di voi due" commentò, riferendosi a Darren " Dio li fa
e poi li accoppia"
Lungo
la strada per il quartier generale, la macchina si trovò imbottigliata in un
ingorgo stradale. I vigili deviavano il traffico a causa di un camion finito
fuori strada: numerose casse di birra, trasportate nel container, si erano
riversate sulla carreggiata.
“Che
spreco” commentò John “Queste sì che sono disgrazie per
l’umanità”
Janine tirò giù il finestrino, gettando un’occhiata alla
lunga coda di veicoli che si snodava davanti a loro.
“Tra
l’altro guarda che idioti: hanno deviato il traffico su una sola corsia, quando
potevano farci svoltare sulla
Ventissettesima...”
La
collega non rispose: sembrava incantata a guardare la fila di macchine. Hobbie
poco interessante, pensò John...
“Senti...” prese la parola ad un tratto “e se l’assassino non avesse
voluto scaricare il corpo di Samerson in quel
luogo?”
Continuò a osservare i vigili muovere freneticamente le
loro palette.
“Voglio dire...perché farci ritrovare un cadavere con
conficcato dentro un simbolo rituale che noi avremmo facilmente identificato?
Perché non rimuovere l’amuleto?”
“Forse lo richiede il rito: forse l’amuleto deve restare
nel corpo per qualche tempo...io non me ne intendo, ma Darren ha fatto questa
ipotesi”
“Sì,
ma allora perché lasciarlo in bella vista? Perché non liberarsi del corpo in un
luogo dove nessuno sarebbe andato a guardare? Di acque dove gettarlo, volendo,
ce ne erano a sufficienza...”
“Magari hanno pagato uno sfigato per sbarazzarsi del
cadavere; lui avrà avuto paura e se ne sarà liberato appena ha
potuto...”
“Io
ho un’altra idea. Se si fosse verificata una circostanza per cui, quella notte,
il nostro killer abbia rischiato di essere scoperto?” con la testa accennò
all’incidente “ipotizziamo un controllo di polizia, un blocco stradale...roba
così. La necessità di liberarsi del corpo in fretta lo avrà spinto a commettere
un errore”
John
si stropicciò il mento.
“Mpf...” bofonchiò “verifichiamo
subito”
Estrasse il suo palmare ed aggeggiò per pochi
secondi.
“Bingo Sigrist!” esclamò “hai la simpatia di una
graffetta ma il tuo intuito mi sorprende. Potremmo uscire insieme qualche
giorno...”
“Il
giorno che smetterai di bere e di fumare. Dai,
dimmi...”
“La
notte prima del ritrovamento del cadavere c’è stata una rapina alla Innest Bank,
sulla Winsconsin Ave. Sono stati piazzati posti di blocco in tutta la zona,
dalla mezzanotte fino alle quattro del mattino. E indovina un po’? La strada
dove è stata abbandonata la vittima è una traversa della Winsconsin, a un paio
di chilometri dalla banca in questione”
“Dunque...in quale luogo si stava dirigendo il nostro
assassino per liberarsi del corpo?”
John
riflettè.
“Procedendo lungo la Winsconsin le ipotesi sono due. O
voleva gettarlo nel fiume, oppure è andato all’impianto di smaltimento rifiuti,
quello chiuso...hai presente?”
Jeanine annuì.
“Quello che dovevano ristrutturare e che invece è ancora
lì da anni?”
“Esatto”
“Bhe,
non potendo dragare il fiume alla ricerca di eventuali altri cadaveri, direi che
dobbiamo provare a giocarci almeno la carta
dell‘immondizia”
La
discarica era stata chiusa due anni prima perché vi erano stati trovati rifiuti
tossici smaltiti abusivamente. Lo stato aveva preso la faccenda in carico
promettendo un’indagine e una successiva ristrutturazione dell’impianto, invece
poi non era stato fatto più niente. Giri di interessi poco chiari. Dunque, era
rimasta lì, come era stata lasciata: cintata con filo spinato e un bel divieto
d’accesso con avviso di pericolo. Ogni tanto era stata il pretesto per
manifestazioni da parte di attivisti verdi: ma alla fine nessuno si era fatto
troppi problemi, perché non c’erano palazzi abitati nei dintorni, tranne una
vecchia casa popolare occupata da un gruppo di
immigrati.
Spencer osservava la dottoressa Sigrist, che si muoveva
in quell’ambiente sgradevole con la disinvoltura dell‘abitudine: lavorare nella
scientifica non doveva essere divertente, non capiva cosa si potesse trovare di
affascinante nel repertare campioni di materiale spesso poco piacevole alla
vista e anche al resto dei sensi. Era tentato di porre quella domanda a Jeanine,
ma forse non era né il momento né il luogo, e non voleva fare la parte di quello
che cerca di fare il profilo ai colleghi.
Era
buio e il posto aveva un aspetto lunare, salvo per il pessimo odore. Ma la
Sigrist sembrava seguire proprio il suo olfatto nello scegliere le direzioni da
prendere e dove puntare la propria torcia.
“Interessante...” fece ad un tratto, indicando qualcosa
compreso nell’area rischiarata dal cono di luce “Avvicinati,
Dwhigt”.
Per
terra c’era qualcosa che brillava.
“Oh
miseria!“ esclamò Spencer, non appena lei lo ebbe raccolto.
L’amuleto era pressoché identico a quello trovato nel
corpo di Samerson.
“Poiché non credo nelle coincidenze, immagino che
dobbiamo cercare un cadavere” disse la donna “Dividiamoci e setacciamo la
zona”
Imbustò in un piccolo sacchetto di plastica il reperto e
lo ripose nella sua valigetta, poi, tenendo alta la torcia elettrica con la
mano, con l’altra cominciò a frugare tra i
rifiuti.
Spencer benedisse i lunghi guanti compresi nel kit scientifico, e
maledisse invece di non avere una mano libera per tapparsi il naso: si mise al
lavoro con attenzione, tuttavia avvertiva dentro di sé il desiderio di non
essere lui a trovare per primo il corpo. Doe aveva ragione: non era abituato
allo sguardo dei morti...non era abituato nemmeno all’idea dello sguardo dei morti, e, benché mostri e creature dell’occulto
abitassero quotidianamente i suoi incubi, trovava la vicinanza della morte più
dolorosa di quella del soprannaturale.
Avrebbe dovuto farci il callo. Il lavoro sul campo degli agenti dell’Ordo
Veritatis presupponeva quasi sempre un cadavere: loro arrivavano sempre
dopo. Ma esisteva un modo per arrivare prima? Probabilmente no, ed
era questo che faceva più paura, negli esoterroristi: che non fossero
prevedibili, nè, men che meno, prevenibili, in
quanto, se c’erano sistemi per fare sì che uno psicopatico non diventasse
pericoloso, non si poteva dire lo stesso per loro. Spesso erano persone come
tutti gli altri, che per qualche ragione, la vita aveva reso freddi,
disincantati...persone per cui nella realtà così com’era non c’erano più carte
da giocare, e a cui qualcuno offriva opportunità di giocare la partita su un
altro terreno. Per prevenirli avrebbero dovuto cambiare la società, e
ricostruirla da capo, su basi diverse. La loro epoca era vacua e
malata.
“Mio
dio...” Spencer vide qualcosa di bianco emergere da sotto la coltre di
rifiuti.
Nello
stesso momento, udì la voce di Jeanine, a qualche decina di metri di
distanza.
“L’ho
trovato Dwhigt!”
Guardò a terra, spostò con delicatezza un sacco
sfilacciato e vide quella mano cerea, orribile nella sua rigidità, emergere come
dal terreno, col palmo rivolto a quel cielo troppo chiaro di
luna.
“Qua
ce n’è un altro...” disse, a mezza voce “e forse dobbiamo cercarne
ancora...”
Arrivati al lato del palazzo dove si trovava
la clinica di Keller, e assicuratisi che nessuno li avesse visti, John e Darren
gettarono tutto l'equipaggiamento dall'angusta finestra che, raso-terra, portava
alle cantine dell'edificio.
Darren era particolarmente nervoso: non che
questo non accadesse spesso, ma quella sera sembrava troppo teso, e quando c’era
da fare un lavoro come quello, la calma invece era
necessaria.
“Per quale diamine di motivo siamo nelle
cantine quando lo studio medico sta sopra?”
John gli rispose senza volarsi, mentre
cercava i contatori dell'elettricità.
“Semplice. Il sistema d'allarme che ho visto
stamattina ha un problema, ovvero che quando se ne va la corrente e usa le
batterie interne alcuni componenti si spengono come in una specie di risparmio
energetico. In questo modo una volta sopra mi verrà più semplice
disattivarlo.”
Si fece strada oltre la caldaia e vide dei
led in lontananza che potevano essere i
contatori.
“Perché non abbiamo chiesto un mandato?”
chiese Darren.
John lo guardò
storto
“Darren... ti sei drogato? Non ha confessato
nulla, non abbiamo prove...e mentre noi perdevamo tempo a cercare un giudice di
larga mano, lui poteva ripulire tutto...”
“E non potevi rubare le informazioni dalla
centrale come fai spesso? Insomma c'era proprio
bisogno
di venire qua?”
“Darren senti, se non volevi venire potevi
dirlo. Avrei preferito portare Jeanine invece di portare uno scimmione come
te.”
“Ehi! Scimmione a chi?” sbottò lui
minacciandolo a pungo chiuso.
Ma John era sgattaiolato avanti e aveva
raggiunto i contatori.
“Ecco fatto.” sentenziò dopo un breve lavoro
“Sembrerà un fault della centrale, un lavoro pulito ed
efficace.”
Si avviò verso le scale e Darren lo seguì.
Sembrava andare tutto liscio quando videro il loro primo
ostacolo.
Un cancello con lucchetto chiudeva le
cantine. Forse era stato messo dal custode per evitare
ai
ragazzini di combinare danno o chissà per
cos'altro, in ogni caso John non l'aveva
previsto.
Darren si mise a lanciare maledizioni e a
sbuffare cose senza senso.
John lo ignorò, aveva capito che quella sera
era intrattabile perciò si limitò a lavorare sul
lucchetto.
Si rese conto che non era poi tanto semplice
da aprire come credeva.
“Accidenti, un modello SM-3! Non so se il
custode ne è cosciente ma questo è un signor
lucchetto.
Non sarà facile....”
Non fece in tempo a finire di parlare che
Darren sferrò al cancello un calcio colossale. Fu talmente carico di forza e
rabbia che ruppe la catena arrugginita, lasciando il lucchetto, ancora intatto,
in mano a John.
“Come facevano gli antichi.”
disse.
Il cancello ora era aperto, ma avevano fatto
un fracasso tale da svegliare tutto il palazzo. John trascinò il suo compagno
portandolo in un angolo buio, e gli tappò la bocca maledicendolo, mentre si preparava a inventare qualcosa per il
custode che di lì a poco sarebbe venuto a controllare.
Me non venne
nessuno.
Insicuri, uscirono dall'anfratto che avevano
presidiato ed avanzarono verso le scale.
Per loro fortuna il custode stava
sonoramente russando davanti al televisore acceso con un
lungo
filo di bava alla bocca. Gli era andata
bene, questa volta.
Arrivarono senza contrattempi davanti la
porta dello studio.
“Per favore non sfondare altro se prima non
ho tolto gli allarmi ok?” sbuffò John mentre
lavorava
sulla centralina della serratura
elettronica.
“Piantala di lamentarti” sentenziò Darren.
“O la prossima cosa che sfonderò a calci qualcosa, quello sarai
tu.”
John si interruppe un attimo, si rese conto
che Darren era serio quindi continuò a lavorare, spostando ogni tanto lo sguardo
su di lui, finché non entrarono.
Conosceva abbastanza bene l'ufficio ma non
poteva accendere la luce, per non farsi notare dall’esterno. Inoltre dovevano
muoversi con cautela per non lasciare nulla fuori
posto.
John si mise a lavoro nell‘ufficio, mentre
Darren rimase per sicurezza a sorvegliare
l’ingresso.
Tolto di mezzo il troppo rumoroso collega,
mise finalmente le mani sul PC del dottore.
Si assicurò, anzitutto, che non ci fossero
strani congegni o apparecchiature estranee all'interno
o
all'esterno del case del PC. Il dottore non
gli sembrava il tipo ma la sua esperienza gli
aveva
insegnato a non fidarsi delle apparenze.
Aprì il PC, staccò i cavi dell'hard disk e li attaccò al suo copiatore hardware
e al suo hard disk. Non c'era spazio dove mettere l'hard disk perciò dovette
tenerlo in mano.
“Come va?” chiese Darren, affacciatosi a
controllare.
John lesse i numeri sul suo
copiatore.
“Bene. L'hard disk non è molto grande,
dovrei finire fra pochi minuti.”
A quelle parole, l’amico sembrò
rilassarsi.
“Senti Darren, cosa c'è che non va?” chiese
John. “Anche a te manca un hamburger doppio
con
cipolle e
pancetta?”
“No. Razza di maiale che non sei altro.”
“Oh si certo, come se le schifezze che mangi
facessero meno danno dell'hamburger alla
Doe!”
Darren non
rispose.
“Dai, Darren. Cosa diamine hai? Notte in
bianco? Hai smesso o cominciato a
fumare? Andropausa? Tendenze omosessuali?
Nausea? Vomito? Diarrea? Scientology?”
John evitò di aggiungere “morte” alla lista:
non era il momento di fare humor nero.
“No, no, no. Piantala Doe”
John lo guardò in
tralice.
“Ah! Ho capito.” esclamò con un sorrisetto
“È quel fattorino di colore con cui parli ogni tanto vero? Dimmi la verità: ti
piace.”
Questa volta aveva passato il limite, ma
prima che potesse rendersene conto, il sonoro pugno del collega lo aveva colpito
sulla testa. John non si aspettava una reazione tanto dura e si trovò
impreparato. Cominciò a farfugliare qualcosa, quando udirono una serie di beep a
cadenza regolare.
I due agenti si guardarono fra
loro.
“L'allarme!”.
John prese la borsa e cercò di muoversi più
velocemente che poteva ma dovette evitare di
far
rumore perciò non gli risultò
facile.
Si mise a maneggiare come un disperato nella
centralina lì accanto sperando di far
presto.
I beep continuavano a suonare,
inesorabili.
Decimo beep, undicesimo beep... al ventesimo
l'allarme sarebbe ritornato in funzione.
A John cadde il giravite, non ebbe tempo per
riprenderlo perciò stacco il chip a forza rompendo
le
guardie di
plastica.
Darren e John trattennero il respiro.
Guardarono verso il sensore cercando di rimanere
immobili.
Divenne rosso. Aveva rilevato un
movimento.
Ma l'allarme non
scattò.
Poterono respirare
normalmente.
“Santo dio... ci siamo andati vicino.” disse
Darren mentre lui e il suo compagno si accasciavano
a
terra.
John non rispose, non ci riusciva perché il
suo cuore batteva all'impazzata.
Si prese qualche secondo per riprendersi,
poi si fece forza e sistemò la centralina dell'allarme per nascondere la
manomissione. Infine si diresse di nuovo verso il
computer.
Oramai il copiatore avrebbe dovuto aver
terminato il suo lavoro.
“Porca vacca!” esclamò
John.
Darren lo guardò ma non ebbe la forza di
alzarsi.
“Che è successo?”
chiese.
John maneggiava i suoi strumenti e il PC del
dottore.
“Si è rotto il copiatore hardware e il mio
hard disk. E che diamine... forse aveva anche
finito...”
rispose.
Darren si alzò di nuovo, con
calma.
“Che vuoi dire? Che siamo venuti qui per
nulla?”
“Calmati, non è grave.”
Darren lo
fissava.
“Beh... non molto.”
Lo sguardo di Darren non ammetteva
menzogne.
“Ok. È grave! Parecchio! Contento adesso?“
.
Il suo compagno cominciò a girare per la
stanza nervosamente. Stava per dare un cazzotto
a
qualcosa che non vedeva bene a causa del
buio, forse un quadro o una foto, ma si trattenne
perché
sapeva che non dovevano lasciare
tracce.
“Ho un hard disk di riserva.” disse John. “È
piccolino e non ci entrano tutti i dati perciò
dovrò
inserirci solo quelli interessanti e dovrò
farlo manualmente.”
Darren si fermò.
Capì.
“Quanto tempo ti ci vuole?”
“Beh,” cominciò John “dipende da quanti dati
ci sono. Temo qualche ora.”
Darren riprese a girare in tondo. Non era un
buon segno.
John si mise a lavoro senza dire nulla. Per
fortuna teneva con se un computerino per le emergenze
e
cominciò a rastrellare il PC del dottore.
Non era il modo corretto di operare ma non aveva
scelta:
non poteva portare via l'intero hard
disk.
Rimasero in silenzio per un
po’.
“Darren senti... io scherzavo.”
“Taci e lavora.”
“No dai, ascolta. Lo sai che scherzo
continuamente. E non sempre riesco a trattenermi. Scusami. Volevo solo sapere
cosa non va.”
Darren
sospirò
“Ok John, sei scusato. Ma non voglio
parlarne ok?” disse. Poi abbozzò un sorriso “E comunque col fattorino parliamo
solo di sport.”
John ricambiò. Darren era un amico, e il
solo della squadra con cui riusciva a
parlare.
“Comunque,” continuò “lo sai che io non
giudico. Se è davvero il fattorino che ti
interessa...”
“Taci.”
“Ok.” disse John. “Però in fondo è un bravo
ragazzo e...”
“John?”
“Si?”
“La prossima volta uso la pistola.”
In quel momento, sentì qualcosa vibrare
nella sua tasca. Estrasse il cellulare.
“Cazzo” fece Darren, tra i
denti
“Che
succede?”
“Jeanine e Dwight. Hanno trovato tre
cadaveri”
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Capitolo 5 *** Impersonare ***
Capitolo 5
Impersonare
“Tre cadaveri, tutti con lo stesso amuleto
incastonato nel petto” illustrò Jeanine, che aveva la faccia di chi ha fatto
tutta la notte in bianco “E non è finita qui. Il problema è che uno di loro lo
conosciamo. Non me ne sono accorta subito, perché deve essere stato brutalmente
picchiato ed il volto era tumefatto, ma guardate
qua...”
Fece scivolare sul tavolo l’identikit che,
due giorni prima, gli era stato fornito dal loro primo, innocuo
sospettato.
“E’ l’uomo che ha pagato Haddon per ripulire
la casa di Samerson”
“Già, così
sembra...”
“Hanno ucciso un loro complice...” mormorò
Spencer, come stordito.
“Succede sempre, ragazzo” fece John
stringendosi nelle spalle “Non ti stupire. Chi sbaglia,
paga...”
“E lui
ha...”
“Lui ha contattato Haddon, Haddon viene
beccato, dunque, lui ha sbagliato” fece seccamente
Darren “Ed è stato punito diventando oggetto a sua volta del rituale. Non è
escluso che fosse anche consenziente: spesso esistono patti di sangue tra gli
esoterroristi: colui che commette un errore diventa un sacrificio
umano...”
Spencer rimase un attimo assorto, con lo
sguardo offuscato.
“No...” mormorò quasi tra sé “non credo
fosse consenziente. Pensateci: cosa sappiamo di questo rituale? Quasi nulla
tranne che la sola vittima di cui abbiamo elementi era ipocondriaco e con un
trauma di qualche tipo alle spalle, che viene fatto uso di un amuleto
catalizzatore, e che quell’amuleto somiglia al taliska, un oggetto che veniva
usato per favorire un passaggio consenziente di
energia. Dunque, noi abbiamo 4 morti in tutto...e nessuna manifestazione
soprannaturale fino ad adesso. Perché?”
“Perché gli servono numerosi sacrifici?”
ipotizzò John
“Già. Oppure perché hanno bisogno di una
vittima consenziente, e, per qualche ragione, queste
vittime non lo sono. Anzi, probabilmente lo erano e hanno cambiato
idea...”
Darren annuì stropicciandosi il
mento.
“E’ possibile” convenne “Spencer, chiama O’
Malley, forniscigli tutti i dati che abbiamo e sottoponigli questa ipotesi. Non
sia mai che il tuttologo riesca a risalire a qualche rituale già visto o
sentito. Jeanine” si rivolse alla dottoressa “dobbiamo scoprire l’identità delle
tre vittime. Cominciamo dall’uomo dell’identikit: è quello che ha più
possibilità di avere legami con gli assassini. John, tu hai qualcosa da fare, o
sbaglio?”
John si fregò le
mani
“Pensavo ti fossi già dimenticato la parte
divertente”
“Divertente?” fece
Spencer.
“Oh sì, un vero spasso!” esclamò Doe “Lo
sapete che il nostro dottore gioca ‘a fare il dottore’ con il suo
segretario?”
Jeanine alzò le
sopracciglia
“Ma non ha una
segretaria?”
John
ridacchiò
“Appunto. Vedi perché mi piace frugare nei
pc della gente? Si scoprono notizie inaspettate anche su quelli che sembrano più
puliti...anzi, soprattutto su quelli!”
Spencer non sembrava particolarmente
colpito.
“Beh, e a noi che ce ne viene? La sua
sessualità sono affari suoi...”
John scrollò la testa in segno di
disappunto.
“Ragazzo mio, mi deludi! Un analista
comportamentale che fa discorsi così!“ rise, stavolta più apertamente “Sentimi
bene: uno come quello campa della sua immagine! Ti pare? I pazienti vanno
nella sua bella, linda clinica perché lui dà loro ciò che vogliono: la
rassicurazione borghese che anche le devianze del cervello possono essere
correte e gli si può mettere addosso un bel vestito. Se crolla questa facciata,
e metto in piazza le sue perversioni, il dottore finisce sul lastrico! Vedrai
quanta fiducia in più mi darà oggi!” e strizzò
l’occhio a Jeanine, che stavolta non riuscì a non concedergli un
sorriso.
Quando Keller aprì la porta, John entrò
spensierato andando a sbracarsi sulla
poltrona.
“Ehi, che razza di
modi...”
"Allora Dottore” lo interruppe “Parliamo di fiducia? Che
ne dice?"
Estrasse tre foto dalla cartelletta e le dispose in
ordine sulla scrivania del medico.
Per
un attimo nella stanza scese il gelo.
John
storse la bocca in un sorriso sadico.
"Non
mi pare che sottrarre dati dal pc degli altri abbia a che fare con la parola
fiducia" si riprese Keller
“Sottrarre? E chi le dice che le abbia sottratte da
qualche PC? E se invece me le avesse consegnate il suo..emh...la sua... bhe la
sua segretaria?"
“lei
non è un agente!” scattò il medico rosso di rabbia e vergogna “Lei è un
voayeur!”
"Oh
grazie!“ sorrise John “Ma non mi faccia dei complimenti solo per cambiare
discorso!Piuttosto, tornando in tema di fiducia, io sono molto fiducioso che
oggi lei risponderà correttamente alle domande che le
farò"
"Di
cosa mi sta minacciando?"
"Vede
dottore...la gente non è mai quello che sembra, per quanto provi a mostrare agli
altri una facciata della propria persona. Nessuno lo sa meglio di uno
strizzacervelli come lei. E io sono dell'idea che se qualcuno è così bravo ad
apparire come un distinto dottore mentre nella vita privata ha rapporti con...
hum...beh... con un certo genere di persone, allora ha da nascondere
qualcosa..." il suo sguardo si fece più serio "E se nasconde qualcosa, spesso
nasconde anche qualcos'altro...”
Il
dottore lo interruppe.
"Si
chiama Sabine” sbottò, in visibile imbarazzo “e io sono innamorato di lei"
Bene
- pensò John - La facciata era collata: ora bisognava solo andare fino in
fondo.
"Non
pensi che la stia giudicando” cambiò tono “non è affatto mia intenzione.Però
questo dimostra che lei sa mentire bene, e che può aver mentito anche a me.
Dunque, tornando a noi, il paziente di cui abbiamo parlato l'altro giorno, lei è
sicuro di non conoscerlo?”
Il
dottore tacque.
Troppo a lungo per i tempi di pazienza di
John.
“Mettiamo in chiaro un'altra cosa. Io non ho tempo da
perdere: o lei mi racconta la verità o io faccio sapere al mondo di lei e
Sabine”
Il
dottore deglutì vistosamente e lui incalzò
“Allora?”
"Non
vi ho mentito“ crollò “Quell'uomo non era mio paziente. Ma sì...lo conoscevo” si
interruppe "se parlo, che garanzie ho che lei non rovinerà ugualmente la mia
vita e la mia carriera?"
"Non
ne ha: ho io il coltello dalla parte del
manico."
"Se
lei non mi dà alcuna garanzia, che vantaggio ne ho a parlare? Mi assicuri che
terrà fuori il mio nome dalla faccenda, e le dirò tutto ciò che desidera
sapere..."
"Per
chi mi ha preso? Non sono uno sfruttatore, sono un agente. Quello che mi
intaressa è scoprire cosa è successo a quest‘uomo. Se lei mi aiuta posso darle
la mia parola che distruggerò ogni copia in mio possesso di foto, filmati e
quant'altro."
Il
dottore abbassò la testa.
"Si
chiama 'il giardino del cuore'...“ iniziò “è un gruppo di auto-aiuto per persone
che hanno subito traumi dovuti a problemi di salute...interventi, malattie,
incidenti. Ma non sono io a dirigerlo. Io presto il mio nome e la mia autorità
in campo psichiatrico per indirizzare pazienti a questo gruppo. So che non è
legale...ma non creda che essere uno psicoterapeuta ti faccia vivere
nell'oro"
"Mmm.
Interessante” John si stropicciò il mento “Cos'è? Una specie di comune o un
culto come di quelli che oramai spuntano come
funghi?"
"nè
l'una né l'altra...si fa semplicemente terapia di gruppo con un metodo
sperimentale. Solo che l'uomo che la dirige non ha mai preso la laurea in
psichiatria, tutto qui...e questo gli causava dei problemi nel trovare
pazienti...Se sono io che li indirizzo da lui, la gente si fida. Del resto”
aggiunse, come a volersi giustificare “lavorare sulle proprie turbe emotive non
può fare che bene, anche se il metodo non è ufficiale...Confrontarsi con se
stessi, anche solo parlandone con altri, è positivo per persone che rifiutano
una psicoterapia comune..."
"Dottore, lei ha almeno idea di chi sia colui a cui manda
queste persone? Sa che terapia seguono e che fine fanno? Si è mai posto queste
domande?"
Keller abbassò lo sguardo, in visibile
disagio
“Beh,
ne ho incontrato qualcuno...pare che stiano bene. Ma non so che terapia abbiano
seguito...non si sono dilungati”
"E
non le è mai sorto il dubbio di dove sono tutti gli altri?" si fermò, si alzò in
piedi "Non perda tempo a rispondere. Non
importa."
Estrasse dalla tasca il blocco note e una
penna
"Facciamo un accordo: lei ora mi scrive tutto quello che
sa su questa persona e come posso fare a contattarlo. Inoltre interromperà
immediatamente i rapporti con lui e si cercherà un altro modo per sbarcare il
lunario."
Il
medico prese il blocchetto, la sua mano ebbe un tremito. Poi, lentamente, in una
calligrafia pulita, scrisse un nome e un numero di telefono.
John
sorrise, riprese le sue cose, e raggiunse la
porta.
"Arrivederci dottore “ sorrise “E buona fortuna
con Sabine. Come le ho detto io non giudico. Non dovrebbe farlo neanche
lei."
A Spencer, Darren suscitava uno strano
disagio: eppure lui era abituato a trattare con le persone più varie, ed i
rapporti di lavoro di solito non lo mettevano in difficoltà. C’era qualcosa in
lui che non riusciva a percepire, era come se quell’uomo possedesse l’abilità di
schermare ogni suo pensiero, perché nessuno potesse provare ad avventurarsi
nella sua mente, o peggio, nei suoi sentimenti. All’inizio gli era sembrato solo
senso di superiorità: adesso, invece, gli era chiaro che ogni suo atteggiamento
non nasceva dall’istinto, bensì da un lungo, apposito studio. Anche quei gesti
che dovrebbero essere involontari, gli sguardi, i movimenti, in lui erano
perfettamente calcolati: una barriera invalicabile alle proprie emozioni più
profonde, e che lasciava trasparire solo quelle
superficiali.
“Come te la cavi con la recitazione,
Dwight?” esordì, prima che lui avesse avuto il tempo di
sedersi.
Spencer rimase in piedi e sbatté le
ciglia.
“Intendo se sapresti fingerti quello che non
sei” precisò il capo.
Fingermi
quello che non sono - si
disse, ripetendosi quella frase in testa con una lieve amarezza - come se non
avessi fatto altro nella vita. Chissà cosa avrebbe detto
l’agente Johnson, se solo gli avesse detto che aveva dovuto fare l’abitudine a
raccontare allo psicologo della scuola quanto era difficile accettare
l’affidamento e la scomparsa dei propri genitori in quel terribile incendio,
stando attento a non far intuire niente di ciò che passava davvero nella sua
mente. Senza poter rivelare di dormire si e no un paio di ore per notte, e di
essere già in cura presso gli strizzacervelli dell’Ordo Veritatis, che cercavano
di strappargli i mostri dal cervello...
Chissà se Darren avrebbe avuto una
reazione.
Chissà se quella corazza invalicabile si
sarebbe incrinata per un attimo.
“Ho vinto diversi match di improvvisazione
teatrale al liceo” disse.
“Bene. Del resto sei la persona più adatta a
farlo. Questo era il ruolo di Truman, prima che arrivassi qui” era la prima
volta che faceva il nome dell’agente scomparso, ma dal suo volto non trasparvero
emozioni evidenti “Studiando il comportamento umano, saprai gestire bene
un’indagine sotto copertura” gli mostrò alcuni appunti “Il dottor Keller ha
cantato, e ci ha rivelato di essere solo una specie di prestanome per una
clinica di cui sa poco o niente, dove si svolgono terapie di gruppo per persone
che hanno subito traumi di salute. Come la nostra vittima, stando agli indizi e
al tuo profilo. Ma del responsabile di questa clinica, tal Jaspar Varga, non
abbiamo niente, salvo il recapito telefonico. Voglio che tu lo contatti, ti
finga indirizzato dal dottor Keller, e fissi con lui un appuntamento, con lo
scopo di essere inserito in questo fantomatico centro di recupero ‘Il giardino
del cuore’. Ovviamente avrai vissuto un evento traumatico, come Samerson.
Inventa ciò che vuoi, e l’ordine ti farà avere tutti i documenti falsi
necessari. Ritagliati un ruolo credibile. Abbiamo bisogno che qualcuno si
infiltri lì, per capire se la clinica è effettivamente il luogo dove vengono
reclutate le possibili vittime. Nel frattempo, io cercherò informazioni su di
lui, e John Doe si occuperà di svelare l’identità degli altri ‘John
Doe‘...”
Spencer pensò che quella fosse una battuta
infelice.
E pensò anche che da quel momento sarebbe
stato solo.
C’era qualcosa che non andava in Jaspar
Varga, ma Spencer non avrebbe saputo dire
cosa.
Nel modo di accoglierlo, di ascoltare la sua
storia, di metterlo a suo agio, gli aveva trasmesso un calore ed un senso di
piacevolezza che stonavano con le parole che uscivano dalle sue labbra.
Parole che avevano qualcosa di
inquietante.
Inquietante, poi, era forse una parola
eccessiva: semplicemente, parlava del dolore con profonda confidenza, quasi
parlasse di un sentimento banale, incapace di portare turbamento. La confidenza
col dolore era ciò che voleva restituire ai suoi pazienti, perché - diceva - il
dolore si supera col dolore, fino a giungere ad un momento in cui si è capaci di
riconoscere il dolore come l’elemento senza cui non esiste nemmeno il
piacere.
Non era uno psichiatra né uno psicoterapeuta
- questo lo avrebbe capito anche se non glielo avessero detto - e probabilmente
non aveva le capacità di analizzare e comprendere i malesseri del piccolo gruppo
di persone che sedeva attorno a lui: eppure i visi dei presenti pendevano dalle
sue labbra e sembravano rasserenarsi nella sua
vicinanza.
Probabilmente non era tanto ciò che diceva
quanto come lo diceva: lui stesso non riusciva a
sottrarsi a quella sensazione di rilassatezza che gli infondeva il trovarsi lì.
Gli venne da pensare al Conte Dracula, e a tutta la mitologia che attribuiva ai
vampiri capacità ammaliatrici. Poi si sentì un
idiota.
“E tu, Spencer, perché non ci parli un po’
di te?”
Lui deglutì vistosamente, e si mosse per
aggiustarsi sulla sedia, simulando il nervosismo di qualcuno che non si trova a
suo agio nello spazio occupato dal proprio
corpo.
Varga sorrise, rilassante, e gli rivolse uno
sguardo che sembrava passargli attraverso.
“Non importa che ci racconti cosa ti porta
qui: noi tutti lo sappiamo. Sento invece che in questo momento qualcosa ti
infastidisce...se avverti rigidità nel tuo corpo, fastidio, disagio, non cercare
di scaricarlo in qualche modo: cerca invece di tenerlo qui...solo così potrai
lavorarci sopra...”
Era bravo a leggere i messaggi. Per fortuna,
lui lo era altrettanto nel mandarli, si
disse.
“L-lei...” domandò, con fare volutamente
impacciato e diffidente “v-vuole insegnarmi l’arte di stare male? Io sono venuto
qui sperando di apprendere quella di stare bene...” e si grattò convulsamente le
braccia, fingendo un’agitazione ostentata.
L’uomo non perse il suo sorriso da
incantatore, e lo guardò, scandagliando i suoi
occhi.
Per fortuna non vi trovò niente. O almeno
così gli sembrò.
“Lo so...e vedrai che infatti starai
benissimo, Spencer...”
Il Conte Dracula. O qualcosa del genere. Non
riusciva a scacciare dalla mente quel paragone.
Eppure, gli sembrava realmente di sentirsi
“bene”: si sentiva rilassato, calmo, quasi vagamente insensibile. Una donna del
gruppo cominciò a parlare, rivolgendosi a lui. Cominciò a raccontargli la sua
storia, di aver avuto un tumore al seno, di essere stata operata più volte e di
non riuscire più a convivere col proprio corpo per la paura della
sofferenza...
Spencer la guardava con occhi sfocati, come
se quella sensazione di benessere gli stesse dando alla testa. Come se le cose
che diceva quella donna fossero veramente una soluzione.
Poi
comprese.
C’era qualcosa in quella
stanza.
Forse era l’incenso che bruciava in un
angolo, su un piccolo diffusore...
Forse era il tremolio della strana lampada
orientale che pendeva dal soffitto...
Ma stavano annebbiando la sua lucidità,
perché non ebbe reazione quando vide la sua interlocutrice estrarre dalla tasca
un ago e trapassarsi il palmo della mano dicendo: “Vedi? Ora sono capace di fare
questo...”
Era quasi mezzanotte quando Darren sentì
squillare il telefono.
Rispose senza guardare il display, convinto
che fosse Spencer per fare rapporto del suo incontro con il direttore del
“Giardino del cuore”.
Invece all’altro capo sentì la voce di
Janine.
“Che c’è a quest’ora?” sbottò, col suo
solito tono brusco.
“Ho scoperto qualcosa” disse lei “dovresti
venire”
Beh, non era poi un problema, tanto non
avrebbe dormito. Aspettava la chiamata di Dwight, e troppi pensieri gli
frullavano per la testa. Si alzò dal divano dove si era steso per riposare le
gambe, infilò la giacca al volo e scese in strada. Ebbe la tentazione di
chiamare John, e fermarsi a prendere uno dei suoi famosi hamburgher cipolla e
pancetta: forse avrebbe smorzato per un attimo quella sensazione di
ineluttabilità e di battaglia persa che lo prendeva certe notti.
Più spesso di prima, da quando Connely era
morto.
Se solo avessero fatto come diceva lui, se
non avesse accettato di seguire la strategia del collega, adesso ci sarebbe
stato Truman a fare il finto ipocondriaco in un dubbio centro di recupero, e a
bere una bottiglia di ruhm al “Docks” a caso risolto. Ma Truman era un “bravo
scolaro“, uno di quelli corretti che non mettono in discussione niente, proprio
come Spencer Dwhigt: Truman seguiva le direttive dell’Ordo Veritatis alla cieca,
e che lui fosse il suo capo in quel momento era servito a poco. In
quell’incalcolabile momento che avrebbe potuto salvargli la vita.
Darren, invece, aveva cominciato ad odiarlo,
l’Ordo Veritatis. Un odio ancestrale, che alla fine costituisce il più forte dei
legami. Era entrato nell’ordine quando era molto più giovane, più idealista, più
avventato. Adesso, dopo vent’anni, credeva seriamente di aver sbagliato strada,
che sarebbe stato più sano e più gratificante pattugliare le strade per
“prendere i cattivi“. Ma l’Ordo Veritatis non era un’azienda da cui ci si poteva
licenziare: quando si conoscono certe cose, non si può più fare finta di non
saperle, e tornare a vivere la vita di prima. Nessuno ci poteva
riuscire.
“Darren, hai la faccia di un drogato” disse
Janine, con una sollecitudine da medico e la dolcezza amichevole che riservava
solo a lui “Dovresti avere più cura del tuo benessere, o un giorno finirai su
quel tavolo” ed indicò il bianco ripiano della sala
autopsie.
“Se è per questo, sono dieci anni che lo
dici e non sono ancora morto”
“Devo dirlo ugualmente: sono un
medico”
“Se morirò sotto i ferri di un medico, dovrò
solo ringraziare” commentò lui con amarezza “Che hai
scoperto?”
Jeanine dispose sul tavolo tre
cartellette.
“Le nostre vittime, eccettuato il complice,
hanno entrambi affrontato degli intereventi importanti, in tempi relativamente
recenti. Il primo ha subito un trapianto cardiaco, l’altro ha le ossa di
entrambe le gambe ricostruite con l’impianto di protesi in metallo: deve essere
stato vittima di un serio incidente, dati i segni di frattura anche su altre
parti dello scheletro. Comincerei col setacciare gli ospedali della zona, per
risalire alla loro identità”
“Non credo ci sarà bisogno di lavorare
molto. E’ ipotizzabile che siano stati tutti pazienti, in un modo o nell’altro,
del nostro psicoterapeuta bisessuale. Basterà fargli qualche altra pressione. E‘
piuttosto il complice che ci interessa. Attraverso di lui possiamo riuscire a
risalire all‘identità dei suoi compagni”
“Anche a proposito di lui ho qualcosa che
può esserti utile. Ho analizzato il contenuto del suo stomaco, ed il suo ultimo
pasto è stato quanto mai ‘esotico’...”
“Esotico?”
“Carne di Ippopotamo, contorno di alghe,
rari tipi di funghi...è abbastanza esotico,
no?”
Darren si stropicciò il
mento
“Proprio come se fosse la sua ’ultima
cena’...” commentò “Quest’uomo sapeva di dover
morire”
“E qualcuno gli ha lasciato il tempo di
andarsene dopo essersi tolto le ultime soddisfazioni...” continuò Janine
“...dunque chi lo ha ucciso, sapeva che non avrebbe tentato di fuggire: si
fidava di lui”
“Una vittima
consensiente...che forse, per nostra fortuna, non lo è
rimasta fino in fondo. E che condivideva la causa dei suoi
assassini”
“Domani farò qualche telefonata. Non credo
esistano molti ristornati che servono carne di ippopotamo: forse riusciamo a
risalire alla sua identità!”
“Ottimo” convenne Darren, e fece per
andarsene dal laboratorio.
“Aspetta” lo fermò Jeanine, prima che si
dirigesse alla porta “C’è un altro elemento di cui devo mettersi al corrente.
Anche sotto le scarpe dei tre morti è stato ritrovato lo stesso tipo di ghiaia
che è era presente sotto quelle di Osvald Samerson. Le vittime sono state tutte
uccise nello stesso luogo: il posto da cui proviene questa ghiaia è quello ove
si effettuano i rituali”
In quel momento il cellulare di Darren si
mise a squillare...
Ringraziò che fosse
finita.
Come quando a scuola finisce una lezione in
cui per tutto il tempo hai temuto di venire
interrogato.
Nah, pessimo paragone. Non ricordava i suoi
anni di scuola. Ce ne erano stati, prima di essere affidato a Martin? E,
comunque, non era il tipo da soffrire ansia da
prestazione...
Quella similitudine idiota gli era venuta in
mente perché aveva bisogno di concretezze a cui sentirsi ancorato, perché aveva
la testa confusa, non sapeva se per le droghe che aleggiavano in quel posto o
per il potere sinistro di Jaspar Varga.
Se fosse o meno un esoterrorista non avrebbe
saputo dirlo, ma di una cosa era certo: quell’uomo aveva una devianza di tipo
masochista e sadomasochista che era bene non sottovalutare, anche se il suo
gruppo si fosse poi rivelato non avere nulla a che fare con
l’occulto.
Voleva chiamare Darren, ma lo avrebbe fatto
quando si fosse trovato a casa sua, abbastanza lontano da qualsiasi potenziale
orecchio indiscreto.
Stava cercando le chiavi della macchina,
quando si sentì chiamare.
Riconobbe la donna che aveva parlato nel
gruppo: doveva avere più o meno la sua stessa età, aveva il viso scavato, le
spalle larghe e ossute, ed un’altezza eccessiva, che la faceva assomigliare ad
un lungo albero rinsecchito. Tuttavia, i suoi occhi erano intensi e vitali e i
tratti del suo volto eleganti. Forse, prima che la sofferenza passasse con tanta
violenza sul suo corpo, poteva essere stata bella; e la sua voce era intensa,
affascinante.
“Ti ho
spaventato?”
Sorrise cordialmente: quell’espressione rese
il suo viso più grazioso.
“No. Figurati...Ti ho sentita
arrivare”
Lei scosse appena il
capo.
“No...intendevo...” e gli mostrò il palmo
della mano, segnato dalla perforazione dell’ago “...se ti ha spaventato questo.
Forse sono stata troppo diretta...del resto tu sei appena
arrivato...”
Spencer avrebbe voluto dirle che non era in
quel modo che sarebbe riuscita a tornare a fare una vita normale, che forse
sarebbe stato meglio parlare con un vero terapeuta, ma questo avrebbe
significato uscire dal suo ruolo. E poi, dopotutto, lo credeva davvero, o era
convinto che per superare certi traumi non esistesse
cura?
“Sì...beh...” mormorò “un po’ mi ha
turbato...Vedi, io...mi ha mandato qui il dottor Keller
perché...”
“Sst...” fece lei, portandosi un dito
davanti alle labbra “Non mi importa che mi racconti la tua storia. Non se non ti
va, intendo. Tutte le cose hanno i loro tempi, ma sono sicura che tu sia nel
posto giusto, anche il Maestro lo pensa...”
“Il...Maestro? Intendi il signor
Varga?”
“Sì.
Jaspar. E’ veramente un maestro per noi. Insegnandoci a non temere il dolore, ci
fa tornare a vivere...”
“Vi insegna a non temere il dolore, o a
provarne piacere?” chiese, d’impulso, e poi si maledisse per la domanda
estremamente fuori dal personaggio. Per fortuna la ragazza non sembrava troppo
sveglia.
“Ci insegna ad apprezzarlo come una parte di
noi. Dopotutto, ci sono molte forme di piacere che devono passare attraverso il
dolore. Pensa al sesso, al parto, o semplicemente a quando decidi di farti un
tatuaggio. Anche la bellezza passa dal
dolore...”
“Ah. E’ questo che vi
dice...”
La ragazza sorrise di nuovo, lievemente, e
con un gesto timido appoggiò la mano su quella di lui che reggeva le chiavi
della macchina.
“Tu soffri molto, vero...? Jaspar me lo ha
detto...”
‘E’ per caso anche un veggente?’ - Gli venne
da dire. Ma si frenò e annuì lievemente, per vedere dove lo avrebbe portato quel
discorso.
“Lui sa capire chi ha veramente bisogno, per
questo mi ha detto che potevo invitarti...”
“Invitarmi...?”
La situazione si stava facendo interessante.
Per rimanere nel ruolo, sbattè le ciglia e ritrasse la mano da lei,
massaggiandola con l’altra in modo ossessivo, e addossandosi alla fiancata della
vettura.
“Non sentirti in difficoltà, non voglio
metterti a disagio...” proseguì lei “...solo che penso...che noi potremmo
veramente aiutarti, devi solo riuscire a assumere un altro punto di
vista...”
Spencer rimase immobile qualche attimo,
deglutendo visibilmente. Accettare subito sarebbe stato estremamente
sospetto.
“S-scusa...” balbettò “E’ che io...s-soffro
di ansia e...t-tu sei una sconosciuta...”
“Mi chiamo Diane” sussurrò lei,
carezzandogli una spalla “e tra di noi non ci sono sconosciuti. La sofferenza è
il più forte dei legami: tutti coloro che hanno sofferto un grande dolore, è
come se si conoscessero da sempre. E poi, del dottor Keller ti fidi, no? Anche
io ero una sua paziente: mi ha mandato lui dal Maestro. Il dottor Keller è un
uomo meraviglioso, mi ha molto aiutata. Ma proprio perché è onesto ha compreso
che a me serviva un percorso diverso...”
Spencer si morse un labbro, e in quel gesto
ritrovò sia la finzione che un disagio reale. Anche Lois era una psicoterapeuta,
ma non lo avrebbe mai spedito tra le mani di uno sconosciuto a farsi drogare e
farsi fare il lavaggio del cervello, solo perché non riusciva a curarlo. Il
dottor Keller gli faceva veramente rabbia e si disse che - nonostante Doe gli
avesse assicurato il contrario - non gliela avrebbe fatta passare liscia:
tradire la fiducia di una persona che ti affida la sua vulnerabilità era la cosa
più meschina che un medico potesse fare. Che un essere umano potesse
fare.
“D-dove...vuoi invitarmi?”
chiese
“In un luogo speciale” disse “il posto dove
il maestro invita chi è più vicino alla guarigione, per uno stage di
consolidamento della terapia. E’ una cosa impegnativa...ma io ho fiducia in lui.
E tu dovrai solo assistere...non ti sarà chiesto
niente...”
“Perché proprio
io?”
Voleva vederci chiaro: che potesse essere
una trappola era evidente, tuttavia, poteva anche sperare che Varga avesse
creduto alla sua interpretazione, o che quella fosse solo una setta di
sadomasochisti fanatici.
“Perché il maestro ha detto che tu hai
bisogno di aiuto, ma che sei rigido e diffidente, e non vuoi farti veramente
aiutare”
Notevole.
Jaspar Varga - doveva riconoscerlo - come
osservatore aveva qualità eccellenti. Era credibile che fosse riuscito ad
affascinare e portare con sé tante persone. Ma era anche una ragione di più per
stare in guardia da lui.
“Il signor Varga ha ragione...” ammise “Lo
diceva anche Keller. Sono troppo razionale...non riesco a liberarmi dei vincoli
che mi sono costruito”
Quella risposta parve colpire Diane, che si
illuminò in volto.
“E allora vieni con me...Provaci. Che ti
costa?”
Non era più il momento di temporeggiare. Non
avrebbe ottenuto altre informazioni così. Adesso doveva semplicemente dire sì o
no.
Fece due conti.
Se
Varga era l’esoterrorista - come iniziava a temere - si sarebbe trovato a
giocare nel suo territorio da solo, e disarmato. Se però rifiutava, avrebbe
perso l’unica occasione di scoprire quale fosse il loro covo, perché era certo
che fosse quello, il posto in cui la donna l’avrebbe portato. Doveva avvertire
Darren: era la cosa più saggia da fare...ma doveva farlo senza destare
sospetti.
“Devo
chiamare a casa...” disse “...se non lo faccio, i miei staranno in
pensiero...”
Estrasse il cellulare e fece il numero del
capo.
Darren rispose al secondo
squillo.
“Dwight, aspettavo la tua
chiamata...”
Spencer non lo lasciò
parlare.
“Ciao
papà” disse “Alcuni amici mi hanno invitato a trattenermi con loro. Penso che
non rientrerò stanotte. Andremo in un posto interessante....”
“CAZZO!”
Darren sabttè un pugno sullo stipite della
porta.
“CAZZO! DEFICIENTE!”
Jeanine lo guardò interrogativa, con un velo di
apprensione sul volto.
Lui
non rispose: era di nuovo al telefono.
“Doe,
vieni qui subito. Devi rintracciare il segnale del cellulare di Dwight!
Quell‘idiota si sta cacciando in un guaio!”
Lanciò un paio di imprecazioni, poi si rivolse alla
collega.
“E tu
scopri l’identità di quel fottuto mangiatore di ippopotami!” gridò “Sveglia pure
il mondo intero, ma sbrigati: ci sono già anche troppi
morti!”
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Capitolo 6 *** Questione di tempo ***
Capitolo 6
Questione di
tempo
La
guida di Diane era prudente e incerta, piena di scatti e ripensamenti:
rifletteva il profilo di una donna ansiosa molto più del modo in cui gli aveva
parlato prima. Spencer si disse che forse era dovuto all’effetto allucinogeno
che stava svanendo, ma in realtà sapeva di star cercando di spiegare con altre
motivazioni qualcosa che non gli piaceva ammettere: che in un certo modo quel
folle faceva qualcosa di buono per gente come lei. Chissà se Osvald
Samerson aveva goduto della sensazione di star risalendo dal baratro in cui era
caduto, prima di morire. Tra sé glielo augurava. Eppure, il terrore nei suoi
occhi, che erano rimasti fissi nella sua testa, sembrava dirgli che era stata
proprio la paura da cui stava scappando ad
ucciderlo.
“Tu sai in cosa consiste ciò che stai
andando a fare...?” provò a chiedere, pur immaginando la
risposta.
“No” rispose Diane “Il maestro non lo dice a
nessuno, perché il fatto di avere il coraggio di andare incontro a un evento non
programmato è già una prova per quelli come
noi...”
Questo era vero: anche Samerson aveva manie
di controllo evidenti, eppure era partito per una vacanza dall’oggi al domani,
senza lasciare detto niente.
“...Jaspar non lo chiede a tutti, ma solo a
quelli che considera più avanti nel percorso, e non siamo certo obbligati ad
accettare: sono molti coloro che hanno detto di no. Non c’è nulla di
male...”
Spencer cominciava a sospettare con sempre
maggior fondamento che lo sfortunato Osvald avesse accolto lo stesso invito
della donna che sedeva accanto a lui, e questa consapevolezza lo turbava. Sperò
che Darren avesse recepito il suo messaggio e fosse già sulle loro
tracce.
“...però, se ti senti pronto, devi essere
disposto a metterti in gioco. So bene che ciò che troverò non mi piacerà, che
forse dovrò sottopormi a una prova che mi metterà paura...ma credo di esserne
all’altezza: mi fido del Maestro...”
Spencer guardò il cellulare, e nel leggere
il display, per un attimo fu sul momento di venir meno alla propria
interpretazione. Deglutì e recuperò la
calma.
“Non c’è campo, qui...”
disse
“Oh, può darsi...” commentò la ragazza con
poco interesse “Jaspar disprezza i cellulari. Dice sempre che la tecnologia ha
lo scopo di ‘controllarci‘. Ognuno di noi dovrebbe avere dei momenti in cui non
poter essere trovato. Lui non ha nemmeno il telefono a
casa...”
“sai dove
abita?”
“Certo che no. Nessuno di noi sa dove vivano
gli altri...Il giardino del Cuore è un gruppo
anonimo”
Pure questa ci mancava! - Pensò Spencer, che
cominciava a pentirsi della malsana idea di accettare quell’invito. Non aveva
modo di contattare i suoi colleghi, e loro non potevano servirsi del suo
cellulare per rintracciare la sua posizione. In sostanza, era completamente
isolato.
Attraversarono una zona boscosa, salendo
lungo una strada stretta con curve a gomito, fino a giungere nei pressi di un
vecchio cascinale, cadente ma dal fascino
rustico.
Era buio pesto, e non c’era una sola luce
eccetto quella dei fari della vettura: quando Diane spense il motore, il mondo
piombò in una densa oscurità, attenuata solo dal pallore della
luna.
Mettendo i piedi a terra con cautela,
Spencer notò lo scricchiolio provocato dalle sue scarpe sullo sterrato coperto
di ghiaia. Una delle finestre del piano terra s’accese dall’interno, e la porta
principale si aprì: sulla soglia comparve Jaspar, che li invitò ad
entrare.
“Vedo che sei riuscita a portare il nostro
nuovo compagno con te” disse, con la sua voce ammaliante, rivolto a Diane “Non
ne dubitavo”
Li lasciò avanzare nella casa, chiuse il
portone.
“Non ne dubitavo affatto” ripeté, mellifluo “Anzi, sono certo che tu sia venuto proprio per
questo: non è così, Spencer Dwight?”
Un lungo brivido passò lungo la schiena di
Spencer, e non fu solo per quelle parole, non solo per la consapevolezza di
essere stato appena smascherato o per gli occhi di Varga che ora si erano fatti
arguti e minacciosi. A terrorizzarlo, era la persona che era comparsa alle sue
spalle e che non poteva vedere in viso, ma di cui aveva riconosciuto l’odore
d’incenso e il passo lento e misurato. La donna gli puntò una pistola alla
schiena, ed estrasse il cellulare dalla sua tasca, gettandolo in terra e
mandandolo in pezzi.
“Avevo pensato che saresti stato un ottimo
soggetto con cui lavorare, caro ragazzo. Ci avevo quasi creduto” disse “peccato
che il giorno dopo qualcuno sia stato a fare strane domande al dottor Keller. Il
collegamento era troppo facile, non ti
pare?”
Lo costrinse a sedersi e Varga gli legò mani
e piedi ai braccioli e alle gambe della sedia.
Ora, Susy Locarno stava in piedi davanti a
lui.
“Avremmo potuto aiutare anche te, lo sai?”
disse, con un sorriso folle sulle labbra “So che non hai del tutto mentito,
so che cosa senti. Ma non si può salvare chi non
vuole essere salvato...e una missione richiede delle vittime...”
Si chinò sulle ginocchia, alla sua altezza,
e affondò le mani nei suoi capelli in una sinistra
carezza.
“Ora dovremo ucciderti, Spencer...” sussurrò
al suo orecchio.
Poi si alzò, e baciò la bocca di Jaspar con
passione.
Spencer si sentì
soffocare.
Che
stupidi.
Si erano fatti prendere in
giro.
Lui e ‘O Malley ci avevano parlato, erano
stati in casa sua, e non avevano capito. Varga e la Locarno erano complici.
Erano amanti.
Ed era lei l’esoterrorista
pazza.
“Maledizione, maledizione, maledizione!!!”
ad ogni imprecazione, John Doe batteva un pugno sulla scrivania “Ho perso
completamente il segnale: non c’è verso di
rintracciarlo!”
Jeanine nel frattempo stava telefonando a
tutti i potenziali proprietari di ristorante che vendesse carne di ippopotamo,
nel cuore della notte, mentre Darren si muoveva su e giù per l’ufficio, come un
animale in gabbia.
Il cellulare suonò ancora: era il numero ‘O
Malley.
“Darren, devo parlarti. Credo di aver
scoperto qualcosa”
Diavolo, tutto quella notte?
“Il rituale che i nostri esoterroristi
stanno cercando di officiare non ha riscontri né nella letteratura esoterica né
nella nostra casistica: probabilmente attingono a fonti che non conosciamo o si
stanno cimentando in qualcosa di nuovo, il che potrebbe essere la ragione dei
reiterati fallimenti che abbiamo ipotizzato. Ma ho trovato ugualmente qualcosa
di interessante: negli archivi dell’ordine esiste un documento risalente all’età
della prima colonizzazione in cui viene descritto un rituale che può
riguardarci. Sembra che venisse usato per evocare una sorta di demone, che viene
semplicemente nominato come ‘oscuro’, fatto per incutere il terrore nell’animo
di chi lo vede. Ma qua viene il bello: il rituale prevede, come ‘materia prima’,
non un sacrificio umano o animale, bensì la paura. La persona designata
come vittima sacrificale, in sostanza, veniva messa a confronto con i suoi
peggiori timori e - ed ecco la cosa più significativa - si trattava quasi sempre
di un giovane ragazzo in età adolescente che si offriva
volontariamente di affrontare questa prova come rito
di passaggio” fece una pausa “Resta il Taliska, che è un manufatto
canalizzatore, e che viene posto all’altezza del cuore, l’organo che più di
tutti ‘sente’ la paura, accelerando i suoi battiti. Ciò che ne deduco, è che gli
esoterroristi stiamo cercando di utilizzare la paura delle loro vittime come
energia per evocare chissà che razza di creatura, e che cerchino vittime tra gli
ipocondriaci o i sopravvissuti ad un trauma perché in loro lo spavento è più
vivo e palpabile. Poiché la cosa che li terrorizza è il dolore fisico,
probabilmente li torturano, e questo spiegherebbe le condizioni in cui abbiamo
trovato i corpi. Ma prima di farlo devono renderli consenzienti in qualche modo.
Ora, chi potrebbero essere i folli che sono disposti a farsi
torturare...?”
Darren non ebbe bisogno di pensarci
troppo.
“Dei disturbati mentali che sono nelle mani
di un finto psichiatra pazzo, per esempio!” rispose, sbattendo anche lui un
vigoroso pugno sulla parete “Bene, Charles. Devo
andare”
“Che succede, Darren?” chiese il
professore.
“Succede che la tua ipotesi ha senso, e che
Dwight è nella merda fino al collo”
“Spencer...?
Perché?”
Darren aveva già chiuso la
chiamata.
“Ho una pista, capo!” esclamò Jeanine “Ho
l’identità del nostro cadavere. John sta rintracciando
l’indirizzo”
Diane osservava la scena spaventata. Era
evidente che non capiva, e questo era bene: almeno lei era estranea a quella
storia. Non che facesse quella gran differenza: legato e disarmato, non poteva
fare nulla contro nessuno; che gli esoterroristi fossero due o tre non cambiava
affatto la sua condizione.
Tuttavia cercava di ragionare: se Diane era
la vittima consenziente, che si era spontaneamente offerta di sottoporsi al
rituale nella fiducia che si trattasse di chissà che rito salvifico per
liberarla dalle sue paure, lui aveva ancora una possibilità almeno di impedire
che il rituale avesse effetto. Instillando la diffidenza nella mente di Diane.
“Che succede?” domandò la ragazza, turbata
“che cosa ha fatto, Maestro?”
Jaspar si voltò verso di lei con
un’espressione seria ma dolce.
“Perdonami, Diane. Ho dovuto servirmi di te
per portare quest’uomo qua da noi. Se non lo avessimo fermato avrebbe distrutto
tutto ciò che avevamo costruito. E’ della polizia, capisci? La polizia pensa che
noi facciamo qualcosa di male...”
Diane si rivolse a lui, e dal suo sguardo
Spencer comprese quanto i suoi appigli fossero limitati: la ragazza era
completamente succube di Varga, completamente persuasa di star facendo la cosa
più giusta.
“Come hai potuto?” gli disse “Io...volevo
veramente aiutarti...”
“Ti faranno del male, Diane!” esclamò allora
lui, parlando veloce, perché sapeva di avere pochi attimi a disposizione prima
che lo mettessero a tacere “Ti tortureranno e ti uccideranno, col pretesto di
liberarti del dolore! Non devi, non devi desiderare
questo!”
Pensava che lo avrebbero colpito, o
imbavagliato, invece quello che si aspettava non accadde: con gentilezza, Jaspar
si rivolse a lui.
“Uccidere? Sbagli. Noi non uccidiamo i
nostri compagni: è vero, chiediamo loro di accettare un momento di profonda
sofferenza, ma questo in cambio di un appagamento molto più
grande...”
“Avete detto così anche ad Osvald
Samerson?!?” esclamò “Lo avere torturato fino alla
morte!”
“Osvald non era pronto...” intervenne Susy
Locarno alle sue spalle “Si è tirato indietro...non ha saputo affrontare le sue
paure...Ma non è stato forse meglio morire che tornare a condurre una vita che
non era vita?”
Il viso di Diane si era fatto più pallido:
eppure nei suoi occhi c’era ancora quella luce di follia che la rendeva la
vittima perfetta di quei due visionari deliranti. Jaspar e Susy non erano solo
esoterroristi pazzi, intenti a fare a pezzi la membrana per liberare il potere
della realtà soggettiva...erano anche due fanatici convinti di fare davvero il
bene delle proprie vittime, e questo li rendeva doppiamente pericolosi!
“Andiamo, Diane” disse Jaspar, ponendole la
mano sulla spalla “Non badare a ciò che dice. Tu sei pronta. Sei pronta per
affrontare questa prova e pronta per guarire. Vedrai, non sarà così spaventoso:
tu hai già imparato ad accogliere il dolore”
La ragazza annuì, a lasciò che lui la
guidasse verso la stanza accanto.
Lo doveva impedire. Lo doveva impedire!
Quella volta avrebbe funzionato, era evidente. Se era
la partecipazione della vittima ciò di cui avevano bisogno, quella volta non
avrebbero fallito.
“Non si cura il dolore con altro dolore,
Diane!” gridò, in un ultimo tentativo “E non ci sono rituali magici che ti
faranno guarire! L’unica cosa che si può fare, è riuscire ad accettare che
quella cosa è accaduta, e che ci sono infinite possibilità che non accada
ancora! Quell’uomo non si interessa a te, non gli importa che ti succederà: ha
solo bisogno di te per fare del male a
qualcun’altro!”
Diane si fermò: un lieve turbamento passò
sul suo volto.
Susy Locarno lo guardò con
durezza.
“Hai parlato abbastanza” disse “A te
penseremo dopo”
Lo doveva impedire - si ripeté ancora. E non
aveva un solo strumento per farlo.
Però...se Darren lo avesse trovato...se i
suoi colleghi fossero riusciti...forse lui aveva almeno la possibilità di fargli
guadagnare tempo.
Poteva trattenerli almeno un po’,
offrendogli qualcosa di più urgente del loro rituale, qualcosa per cui valesse
la pena aspettare.
Qualcosa che rendesse la sua presenza più
importante di quella di Diane.
“Non sono un poliziotto!” gridò con
decisione “Sono un agente dell’Ordo Veritatis!”
Jaspar e Susy si volarono all’unisono.
Inespressivi.
“Conosciamo il vostro rituale, e soprattutto
conosciamo voi!” la paura per ciò che stava facendo gli chiudeva la gola, ma
cercò di mantenere la voce chiara e sicura di sé “Anche se mi uccidete, i miei
colleghi risaliranno ai vostri
contatti e li prenderanno!”
L’espressione dei loro occhi
cambiò.
Aveva attirato la loro l’attenzione.
L’edificio era un palazzo anonimo, senza
lode e senza infamia, dove avrebbero potuto vivere famiglie piccole o scapoli
incalliti. Data la struttura, gli appartamenti potevano misurare al massimo una
cinquantina di metri quadrati. La zona non era tra le peggiori né tra le
migliori della città. Un luogo mediocre, insomma.
John aveva portato il suo kit da
scassinatore: aprì il portone principale, e fece entrare Darren nell’androne.
Tra le cassette delle lettere, ne trovarono una senza targhetta: era
probabilmente quella del loro indiziato, dato che sulle altre comparivano nomi
che non conoscevano. Era piena di pubblicità non ritirata, e nient’altro.
Salirono silenziosamente la scalinata: la
tromba delle scale era occupata da un ascensore vecchio di secoli, di quelli a
vista, dal sapore antico. A John sarebbe piaciuto provarlo, ma l’ora della notte
non lo consentiva.
Perlustrarono i pianerottoli: il nome del
morto non compariva da nessuna parte.
Darren stringeva i pugni, non riuscendo a
mascherare la sua tensione. Nulla garantiva loro che il loro uomo vivesse ancora
lì: le ricerche di Jeanine e di John erano riuscite a risalire solo ad un
recapito risalente a otto anni prima, poi di lui scompariva ogni traccia, e non
era certo, in fondo, neppure che il nome che aveva fornito al ristoratore fosse
la sua vera identità.
Dovevano solo sperare che fosse lo
sprovveduto del gruppo, il che era possibile dato che aveva commesso una serie
di errori che lo avevano portato a farsi ammazzare. Ma i suoi compagni erano
altrettanto superficiali?
Si fermarono davanti ad una porta, anch’essa
senza targhetta.
“Aprila” ordinò
Darren.
John si mise subito al lavoro, mentre il
collega gli reggeva una piccola torcia elettrica. Il silenzio era opprimente e
Darren se lo sentiva martellare nelle orecchie. Viveva da anni in quella
tensione, viveva sul filo del rasoio da tutta una vita. E allora, perché
ultimamente aveva cominciato a pesargli? Era stata la morte di Truman? Oppure
stava invecchiando, lentamente, logorato da quella lotta che sembrava non
portare mai da nessuna parte?
Si udì un breve cilc, e John spinse
lentamente la porta, lasciando uscire uno strano odore dolciastro. Poi scomparve
nel rettangolo buio.
Darren udì i suoi passi, poi il
silenzio.
Fece per avanzare, ma dal buio arrivò un
colpo: il sangue cominciò a colargli da una ferita sulla fronte e scese sugli
occhi. Barcollò all’indietro, verso la tromba delle scale, mentre qualcosa o
qualcuno gli rovinava addosso.
Sapeva cosa doveva aspettarsi
adesso.
Glielo avevano detto centinaia di
volte.
Sapeva cosa capitava ad un agente dell’ordo
veritatis che finiva nelle mani degli
esoterroristi.
Non lo avrebbero ucciso subito, lo avrebbero
torturato fino ad essere certi di aver saputo da lui tutto ciò che si poteva
sapere. Poi lo avrebbero ammazzato in qualche modo terribile perché questo
servisse da avvertimento alle alte sfere dell’ordine.
Aveva
paura.
Non tanto del dolore fisico, anche se
l’immagine del corpo martoriato di Osvald gli si ripresentava nella mente come
un flash ad intervalli sempre più frequenti. Ciò che sopra ogni cosa lo
terrorizzava era l’idea di vivere una situazione già vissuta, l’idea che
quell’esperienza risvegliasse nel suo cervello quelle immagini che in qualche
modo erano state rimosse per proteggerlo.
L’idea di diventare l’oggetto di un rituale
lui stesso...l’idea di essere il veicolo per liberare i mostri che lo
svegliavano la notte.
Forse non sarebbe morto
subito.
Forse sarebbe impazzito
prima.
Susy Locarno si avvicinò a lui e lo afferrò
per i capelli, rovesciando la sua testa all’indietro e parlandogli vicinissima,
con una voce agghiacciante.
“Non è la prima volta che mi capita tra le
mani un membro dell’Ordo Veritatis, lo sai? Ma il primo che ho incontrato ho
dovuto ucciderlo senza poterlo interrogare! Era stato più prudente di te,
ragazzo: per lo meno era stato attento a non farsi scoprire da
vivo!”
Lasciò la sua testa e si mise a passeggiare
lentamente attorno a lui, come un avvoltoio.
Il suo compagno aveva portato Diane in
un’altra stanza, e forse stava cercando di rassicurarla, e di persuaderla,
affinché la loro preziosa vittima non diventasse meno consenziente del
previsto.
“Sarò buona con te” continuò, puntandogli
l’arma alla fronte “Se mi racconti un po’ di cose interessanti senza fare troppe
storie, ti uccido con un colpo alla testa senza farti soffrire. Se invece vuoi
farti pregare, beh...”
Spencer rimase zitto, e la donna lo colpì
col calcio della pistola facendogli sanguinare il labbro. Detestava il sapore
del sangue, smuoveva in qualche modo sensazioni angoscianti dentro di
lui.
“N-non mi conviene parlare troppo” disse,
illudendosi che lei non si accorgesse di quanto si sentisse vulnerabile in quel
momento “perché almeno so che rimarrò in vita finché non avrete la certezza che
non ho più nulla da rivelarvi”
“Se credi che la morte sia il male peggiore,
allora sei veramente più stupido di quel che
credessi”
Sentì aprire una porta e dei passi
avvicinarsi. Varga apparve dietro la sua compagna, che gli lasciò spazio: teneva
in mano dei lunghi aghi di metallo, che gli ricordarono l’uso che se ne faceva
nei riti woodo. Cercò di scacciare il pensiero di cosa ne avrebbe fatto: del
resto, Diane si era trapassata la mano con un ago senza emettere un solo
lamento, del resto non gli conveniva ucciderlo...poteva resistere...poteva
farcela anche lui...
“Cominciamo con una domandina facile: dicci
il nome di chi sta sopra di te”
La fronte gli pulsava al ritmo dei battiti
cardiaci e il sangue gli offuscava la vista, ma non abbastanza da non rendersi
conto di cosa stava accadendo. John gli si era scagliato addosso, dopo averlo
colpito con uno dei suoi strumenti, e adesso lo stava picchiando con una furia
delirante, addossandolo al parapetto e cercando di spingerlo nel vuoto. I suoi
occhi erano completamente persi e guardavano fisso qualcosa che allo sguardo di
Darren era invisibile.
“John!” gridò, mente si divincolava da lui
“JOHN, CAZZO! SONO IO!”
Dalla posizione in cui si trovava poteva
provare a sparare, forse poteva colpirlo alla gamba...ma se il colpo fosse
arrivato più in alto? Non voleva nemmeno pensare di uccidere un suo compagno con
le proprie mani.
L’amico era completamente assente, sordo
alle sue parole, anche inconsapevole dei suoi stessi gesti, come una marionetta
impazzita: Darren lo colpì con un pungo allo stomaco, di cui lui sembrò quasi
non accorgersi, come se quello stato di follia lo rendesse insensibile anche al
dolore.
“JOHN, MALEDIZIONE, TORNA IN TE!”
Lo sentì spingere verso il parapetto con
tutto il suo peso, come se volesse gettarsi nel vuoto, trascindolo giù con sé.
Darren si resse alla ringhiera, con l’altra mano si avvinghiò al collega...non
poteva cadere...e non poteva lasciarlo
cadere...
Poi lo sentì gridare. Un grido breve,
strozzato.
Il corpo di John afflosciò e lui se lo sentì
cadere addosso, lasciandosi andare a sedere sul pavimento, con le spalle al
parapetto.
Davanti a lui, in piedi, c’era ‘O Malley con
in mano il bastone da passeggio.
“E adesso non dire che non hanno ragione,
all’ordine, quando sostengono che perdi troppo spesso il controllo delle
situazioni” lo rimproverò con voce ferma, mentre si chinava e cercava di
sollevare lo svenuto “Fai irruzione nella casa di un presunto esoterrorista come
se fosse quella di un comune spacciatore di droga, e non valuti cosa puoi
trovarci dentro!”.
Darren non rispose: quella volta Charles
aveva tutte le ragioni; era stata tanta la fretta di scoprire dove fosse finito
Dwight che non aveva preso una precauzione necessaria. Doveva pensarci.
“E‘ stato un feticcio a fare questo a John,
vero?”
“Certamente. E a giudicare dall’odore lo hanno
riempito con marjuana e altre sostanze da festa hippie. Sapevi che hanno più
effetto se sono costruiti con materiali legati alla vita di chi li fabbrica?“
aggiunse, con fare documentario, per allentare un po’ la tensione “Però in
questo caso, più che di feste hippie, parliamo di gente che si droga per perdere
il senso del pericolo e la cognizione del dolore. Brutta cosa. Erano
meglio le feste, beati anni sessanta!”
“Se
adesso entrassimo lì, ci toccherebbe la stessa
sorte?”
“Improbabile. La maggior parte dei feticci funziona una
volta sola, e non si riattivano quando hanno adempiuto lo scopo. Lo scopo di
questo immagino fosse indurre la vittima a aggredire indiscriminatamente chi si
fosse trovato accanto. E’ stato pensato ipotizzando che ad aprire sarebbero
state più persone, quindi suppongo sia stato messo lì pensando ad una possibile
indagine di polizia...” fece una pausa “O magari pensando proprio a
voi...”
Darren aveva messo John a sedere per terra, con le spalle
alla parete.
“Che
facciamo con lui?”
“Gli
ho dato una bella botta” fece Charles lisciando il bastone “Non avevo molte
scelte. Quando si riprenderà cercherò di ‘disintossicarlo’ da questo contatto
con il sovrannaturale, anche se è un lavoro che non rientra nelle mie competenze
ma...”
“...in quelle di
Dwight”
“Già.
In quelle di Dwight. Che è in pericolo e che noi dobbiamo trovare. Quindi,
Darren, adesso io entro in quella casa, trovo quel feticcio e cerco di
neutralizzarlo. Ma tu...” estrasse dalla tasca dell’impermeabile una pistola a
dardi e gliela mise in mano “...tienimi sotto mira, e se impazzisco, sparami.
E’ solo sonnifero,
non ti preoccupare”
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Capitolo 7 *** Per un fatto di fiducia ***
Capitolo 7
Per un fatto di
fiducia
Lo
aveva già vissuto, tutto questo.
Lo
aveva già vissuto, anche se il ricordo era lontano, sfocato, come se non
appartenesse nemmeno veramente a lui.
Gridò
forte, non solo per il dolore. Gridò perché Diane potesse sentire, perché
capisse, perché si facesse prendere dal panico e abbandonasse la sua folle idea.
Non
ne sarebbe uscita viva comunque, ma il rituale sarebbe fallito e loro avrebbero
dovuto ricominciare da capo. I suoi compagni avrebbero avuto ancora tempo e alla
fine li avrebbero fermati...
“Non
ti ho sentito rispondere” sibilò Susy vicino al suo
orecchio.
“Ho
detto che NON LO SO! Siamo un’organizzazione a cellule, non conosciamo i nomi di
chi ci dà gli ordini! E se anche lo conoscessi, non ve lo
direi!!!”
Vero.
Ma nel suo caso era una menzogna. Conosceva bene chi stava sopra di lui,
conosceva nomi, vite private, tante, troppe cose che in una situazione come
quella sarebbe stato molto meglio non sapere.
“Non
me lo diresti...” fece eco Varga, atono “sono curioso di sapere cosa mi
risponderai tra qualche ora...Siamo solo all’inizio. Non ti ho ancora fatto
niente...”
Niente.
Ma il
sangue continuava a cadere sul pavimento in piccole gocce con un ritmico e
snervante rumore. Non si sentiva più tutto il braccio. Meglio. Così avrebbe
sentito meno dolore.
Dove
avrebbero conficcato il prossimo ago?
Quanti ce ne sarebbero voluti perché riuscisse almeno a
perdere i sensi e spegnere la mente?
Non
avrebbe mai parlato.
Mai,
di questo era sicuro. Una sicurezza così forte che gli faceva paura, perché
sentiva che per salvaguardarla si sarebbe lasciato
uccidere.
Ma
non voleva morire.
Non
così.
Che
avrebbe pensato Martin? Come si sarebbe sentito? E
Lois...?
Aveva
i brividi, stava tremando: avrebbe voluto evitarlo, ma non poteva impedire al
suo corpo quella reazione completamente involontaria. Non aveva mai avuto tanta
paura. Nemmeno nei suoi incubi. O forse solo in quel ricordo sfocato, quel
ricordo che magari non era suo.
“Via
libera!” risuonò forte la voce di Charles.
Ormai
gli importava poco o niente di svegliare il
palazzo.
Darren entrò portandosi John in spalla: il professore
aveva tra le mani un pupazzo di stoffa grande poco più di un pugno, con la testa
quasi staccata dal corpo e una polvere grigiastra che usciva dalla spaccatura.
“E’
stato quel cosino lì a far dare di matto a
Doe?”
‘O
Malley girò il feticcio a testa in giù: il contenuto si riversò per terra in un
mucchietto grigio e in mano gli restò solo il floscio involucro di
pezza.
“Non
è la grandezza che conta, dovresti saperlo. L’efficacia di un feticcio dipende
dal rito che ci hanno fatto sopra. Questo era così piccolo apposta perché non lo
vedeste...probabilmente si attivava a contatto, infatti era appeso sopra
l’interruttore della luce. Entrando al buio, sarebbe stato istintivo premerlo, e
il malcapitato avrebbe sfiorato il feticcio...” osservò John, ancora svenuto
sulle spalle dell’amico “...come infatti è avvenuto. Del resto, in questo
corridoio non c’è una sola finestra: era un gesto quasi
ovvio...”
“E
questa robaccia...“ Darren pesticciò la polvere con la punta della scarpa “ha
uno strano odore...”
“In
verità credo si tratti di residui d‘incenso. Perché un feticcio funzioni deve
avere un legame con chi ha effettuato il rito di costruzione. Guarda qua cosa
c’è dentro...”
Frugò
con le dita tra la stoffa ed estrasse un oggetto di rame chiaramente
familiare.
“Almeno siamo certi di trovarci nel posto giusto!”
Darren avanzò nel corridoio, passò in salotto e depositò
John sul divano.
“OH
CRISTO!” gridò Charles all’improvviso.
Il
professore corse verso la parete opposta, e sradicò letteralmente dal muro un
portafoto, quasi portandosi via anche il
chiodo.
“E’
LEI! E’ la matta!”
“Ehi?
Che ti prende?”
‘O
Malley imprecò a denti stretti, poi mostrò l’immagine al collega: ritraeva la
vittima insieme a Susy Locarno e ad un altro uomo, ripresi sullo sfondo di un
vasto selciato che spiccava per la fitta ghiaia
bianca.
“CAZZO!” escalmò Darren, strappandogli l’oggetto di mano,
colpito da bel altra cosa rispetto a quella che aveva attratto il professore “E‘
qui che li portano!...I residui sotto le scarpe delle vittime, Charles! Li hanno
uccisi qui!”
Gettò
il portafoto per terra, mandando il vetro in pezzi. Dietro la fotografia c’erano
il nome di un luogo, tre firme ed una data.
Susy
Locarno rideva. Nella sua risata c’era quella follia delirante che Spencer aveva
già visto una volta, la sola in cui gli era capitato di assistere
all’interrogatorio di un esoterrorista catturato dall’ordine. Non era mai
riuscito a dimenticare quell’espressione, perché era diversa da quella della
semplice pazzia: era come se nel suo sguardo ci fosse la certezza di vedere più
lontano degli altri.
Quel
giorno, ne era rimasto quasi affascinato, ma adesso era lui l’interrogato, era
lui che doveva rendere conto di qualcosa a quegli occhi folli, e in quegli occhi
vedeva benissimo fino a dove lei sarebbe stata capace di
spingersi.
“Non
farci perdere tutto questo tempo. Stai facendo aspettare una
ragazza...”
Varga
giocherellava con il secondo dei suoi lunghi aghi da
tortura.
Poi
ci fu un rumore come di vetri infranti proveniente dalla stanza
vicina.
Spencer tirò su la testa e cercò di recuperare la propria
lucidità.
“Vado
a vedere” dichiarò la donna, stringendo la pistola “Non vorrei che alla
signorina fossero venute strane idee...“.
Fu
allora che la porta principale venne sfondata: Varga si voltò di scatto e
estrasse un’arma, ma Darren fu più veloce. Il proiettile lo colpì al petto e
l’agente gli saltò addosso atterrandolo.
“Capo!” esclamò Spencer “non sono mai stato tanto felice
di vedere qualcuno!”
John,
nel frattempo, era corso verso la stanza in cui si era diretta la Locarno. La
donna si trovò circondata: da un lato ‘O Malley e Jeanine, entrati dalla
finestra, dall’altro Doe. Presa dal panico si mise a sparare all‘impazzata.
Confinata in un angolo, sconvolta da tutto quel baccano, Diane gridava come una
matta, e Charles dovette spingerla a terra con malagrazia per evitare che si
beccasse un proiettile. Doe, invece, si riparò tra la porta e una cassapanca, e
fu da lì che fece fuoco. Colpita alla testa, Susy Locarno si accasciò al
suolo.
“Un
morto, un prigioniero, una potenziale esoterrorista da sottoporre a valutazione.
Siamo stati bravi, no?” John ridacchiava col suo solito fare da bontempone, ma
aveva ancora l’aria un po’ sbattuta “Ehi, aspetto delle congratulazioni, capo!
Un tiro perfetto nonostante tu mi avessi appena dato in pasto ad un
feticcio!”
Darren non lo considerò: era impegnato ad ammanettare
Varga, che continuava a imprecare e a
maledirli.
‘O
Malley, invece, stava liberando Spencer.
“...F-faccia piano, professore...Fa un male
infernale!”
La
mano del ragazzo era letteralmente inchiodata al bracciolo della
sedia.
“Ci
penso io” intervenne provvidenzialmente Jeanine, con una cassetta del pronto
soccorso a portata di mano. Charles abbozzò un sorriso, ed estrasse dal taschino
della giacca una bottiglietta di Wiskey in
miniatura.
“To’,
butta giù” disse, stappandola “E’ meglio di un
antidolorifico”
Pochi
minuti dopo, una squadra dell’Ordo Veritatis li raggiunse sul posto: fecero
salire in macchina separate Jaspar Varga e Diane, e ripulirono la zona da ogni
indizio.
“Qual
è la copertura?” chiese Darren
“La
donna era un medico ciarlatano. Praticava la professione abusivamente proponendo
ai suoi pazienti terapie alternative pericolose. Osvald Samerson voleva
denunciarla e lei l’ha ucciso. Fate sparire l’amuleto dalle prove repertate.
Quanto alla clinica di Varga, si trattava del suo complice ed amante, che gli
procurava pazienti con la scusa del gruppo di aiuto. Lui è ancora latitante. Per
la ragazza, ci penseremo noi, se qualcuno dovesse cercarla. Auguriamoci che non
abbia capito abbastanza, e dopo qualche condizionamento psicologico potremo
rimetterla in libertà”
“Ricevuto. Il rapporto arriverà in giornata”
Era
quasi l’alba, e la ghiaia bianca luccicava in modo innaturale al primo
chiarore.
‘O
Malley prese Spencer sottobraccio e lo aiutò a raggiungere la
macchina.
“Questo posto...è oggettivamente bello” disse lui “e
soggettivamente sarà un altro dei miei
incubi”
“Già.
Ma è soggettivamente che puoi combattere gli incubi.
C’è del bene e del male nella realtà da qualsiasi lato tu la guardi. Bisogna
solo imparare a spostarci, e guardare il lato giusto nel momento giusto. In
questo momento della storia, io credo che sia il nostro, il lato
giusto”
Era
mattino inoltrato quando i membri dell’Unità Culti e Crimini rituali ebbero
finalmente il permesso di tornarsene a casa. La prima ad andarsene fu Jeanine,
reduce ormai da due notti quasi in bianco. ‘O Malley, che non riusciva a
rinunciare all’occasione della compagnia femminile nemmeno in un frangente come
quello, la seguì a ruota pur di accompagnarla fino alla
macchina.
Seduto su una sedia, Spencer si guardava la mano bendata
con aria incredula, quasi sorpreso di essere vivo, e di essersela cavata solo
con quella ferita da poco. L’effetto del liquore gli dava un po’ alla testa, ma
andava bene così: troppa consapevolezza in quel momento gli avrebbe fatto male.
Per una volta, desiderava stendersi e chiudere gli
occhi.
“Dwight” lo richiamò la voce di Darren, brusca “Vieni
qui”
Spencer si alzò stancamente e si avvicinò al capo; ma
prima che potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo, il destro del
collega lo colpì in pieno viso e gli fece perdere l’equilibrio, mandandolo lungo
disteso per terra.
“E-ehi!” esclamò, incredulo, con gli occhi spalancati
“Sei impazzito?!”
Darren non rispose. Lo afferrò per il bavero della
camicia, lo tirò su e lo appese al muro.
“La
prossima volta che ti azzardi a agire di testa tua, disobbedendo ad un mio
ordine preciso, ti mando all’ospedale” disse, fissandolo negli occhi con
un’espressione che non ammetteva repliche “Hai capito,
idiota?”
Spencer cercò lo sguardo di John, in cerca di supporto, e
lo vide beatamente svaccato alla sua scrivania, che ridacchiava divertito, come
se in quella situazione assurda non ci fosse nulla di cui discutere. Erano matti
entrambi?
“Ehi!” azzardò il ragazzo, afferrando con entrambe le
mani il polso di Darren che stringeva la sua camicia “non è legale che tu mi
prenda a pugni per...”
Non
lo fece finire di parlare: prima che potesse concludere la frase, si era beccato
un cazzotto sull’altra guancia.
“DARREN...TU...TU SEI UN GRANDISSIMO
BASTAR...”
Stavolta il pugno gli arrivò nello stomaco.
John
Doe scoppiò a ridere.
“Non
si disobbedisce ai miei ordini” scandì di nuovo il capo, impassibile “Hai
capito?”
Spencer deglutì. Ne aveva prese abbastanza, e la mano gli
faceva ancora molto male.
“S-si
signore” mormorò, rassegnato.
Darren parve soddisfatto. Raccolse le sue cose e lasciò
l’ufficio senza aggiungere altro.
Appena la porta si fu chiusa, Spencer si voltò a fissare
John, con uno sguardo letteralmente
atterrito.
“Mi
ha preso a pugni!” esclamò, spalancando le braccia in un gesto teatrale “e tu
non hai fatto che ridere! Qui dentro siete tutti matti!! Mi hanno quasi ucciso,
e lui non trova niente di meglio da fare che picchiarmi?”
John
si alzò in piedi, svagato, e prese a rassettare la sua
scrivania.
“E tu
perché non ti sei difeso?”
“D-difeso...?”
“Difeso. Darren era arrabbiato con te e ti ha tirato un
pugno: perché non glielo hai reso? Non ti ha mica ordinato di lasciarti
picchiare...Io e lui abbiamo fatto a botte per ragioni simili tante di quelle
volte che ho smesso di contarle!”
Spencer era
esterrefatto.
“Cioè...voi risolvete i problemi prendendovi a
cazzotti?”
John
si strinse nelle spalle.
“Non
sempre. Diciamo che a Darren non piacciono le chiacchiere. Come lo chiamate voi
psicologi? Linguaggio corporeo: è chiaro ed universale! Ma stai tranquillo, se
avesse avuto seriamente qualcosa da ridire su di te,
non ti avrebbe picchiato: ti avrebbe rispedito da dove sei venuto e festa
finita”
Spencer era senza parole.
“Ti
va un hamburgher? Di solito dopo un caso vado a festeggiare con Darren, ma come
vedi, oggi ci ha piantati...”
Un
hamburgher a quell’ora del mattino non era una buona idea. Ma tutto sommato non
gli dispiaceva l’idea che uno dei suoi nuovi colleghi lo stesse
invitando.
“Preferirei qualcosa di dolce!” sorrise “di molto dolce!”
Tra
un bicchiere di Wiskey e l’altro, ‘O Malley lesse il rapporto che Darren aveva
inviato all’Ordo Veritatis. L’amico stava seduto su uno sgabello con aria
svagata, fumando una sigaretta.
“Non
hai nemmeno accennato al fatto che Dwigth abbia violato una delle principali
regole dell’ordine...” commentò Charles, inespressivo, restituendogli il
foglio.
“Non
ne vedo il motivo. Tra tutte le cazzate che ha fatto, questa è stata forse la
mossa più intelligente che gli sia venuta in
mente”
Il
professore scosse la testa: c’erano alcune posizioni di Darren che proprio non
riusciva a capire.
“Ha
rivelato a due esoterroristi la sua identità” disse, parlando a mezza voce,
benché il locale fosse completamente vuoto “lo stavano torturando, e avrebbero
continuato a farlo. Chi ci dice che non avrebbe parlato? Che non avrebbe fatto i
nostri nomi, o peggio...? Nessun essere umano può essere veramente consapevole
di quale livello di sofferenza la sua mente può essere in grado di tollerare,
prima di cedere. E‘ stato stupido...”
“Al
contrario. E’ stato furbo. Se in quel momento non avesse attratto l’attenzione
di quei pazzi, loro non si sarebbero presi la briga di perdere tempo dietro ad
un inutile agente di polizia. Avrebbero pensato al loro rituale, prima. E noi
non avremmo affrontato un uomo e una donna in delirio, ma un... - come hai detto
che lo chiamavano? - ...beh, una creatura dell’occulto che non sarebbe stato
altrettanto facile nascondere agli occhi del mondo, ammesso e non concesso che
fossimo riusciti a distruggerla. Dwight ha preso tempo. Ha investito sul fatto
che lo avremmo trovato prima che fosse troppo
tardi...”
“In
sostanza, stai chiudendo un occhio perché ha contato su di te: per un semplice
fatto di fiducia?”
Darren fece un mezzo
sorriso
“Non
solo per fiducia: apprezzo chi sa trasgredire nel
momento giusto...”
‘O
Malley bevve un sorso e rimase in silenzio qualche
attimo.
“Dovrei denunciarvi...” disse poi, serio “...e se a
sbagliare fossi stato solo tu, lo farei”
Altro breve
silenzio.
“Sai che lo farei, Darren. Ti prendi troppe
libertà, e troppo spesso. Ma Spencer si è trovato sul campo per la prima volta,
e mi auguro che non commetterà errori la
seconda...”
L’amico spense la sigaretta, di versò un bicchiere e lo
bevve d’un fiato.
“Se
lo farà, vorrà dire che non te lo dirò” una pausa, un altro sorriso “Dwight non
è male”
‘O
Malley scrollò il capo, rassegnato.
“Già.
Non è male.”
<
mi
piacerebbe poterti raccontare come sono andate le cose da quando sono partito,
ma sai bene che non lo posso fare. Tra noi, non sarà mai concesso scriverci
delle normali lettere, come se fossimo due persone qualunque, che per una
qualsiasi ragione la vita ha allontanato. Sai, ho conosciuto una persona con cui
mi sono trovato a parlare di oggettivo e di soggettivo, e mi sono trovato a
difendere ragioni che non desidero difendere, perché credo di essere vivo per
combatterle. Tuttavia, a volte temo che il nostro ruolo, le cose che sappiamo,
ci portino a guardare con diffidenza tutto ciò che è inconscio, che è
irrazionale, che sfugge al nostro controllo. Sebbene sappiamo che anche i
sentimenti fanno in fondo parte di quella sfera che compete alla ‘realtà
soggettiva’. A volte...vorrei credere che nel subconscio umano non ci sono solo
mostri...che si può addormentarci senza avere paura...che la prossima volta che
dormirò, potrei semplicemente sognare te. Tu sostieni che io non ti ami. Può
darsi che sia vero, la psicologa, dopotutto, sei tu. Eppure, quello che io
oggettivamente vedo, è che in questo momento mi sto
rivolgendo a te, è che è te che ho pensato nel momento in cui ho avuto paura di
morire.
Sai,
penso che rimarrò qui a lungo. Penso che mi troverò una casa, che imparerò a
conoscere questa città, che imparerò a fare bene questo lavoro.
E
ogni tanto ti scriverò lettere che non ti potrò mai spedire, perché noi
apparteniamo ad un sistema di cose dove anche solo il tenerci in contatto
significa mettere in pericolo le persone a cui si vuole
bene>>
...
Spencer piegò in quattro il foglio, lo chiuse in una
busta, poi gli diede fuoco sotto la fiamma dell’accendino. La carta si
attorcigliò sfrigolando e sul pavimento rimasero solo piccoli frammenti
inceneriti.
Ci
soffiò sopra e li guardò spargersi per la stanza, come se fossero un mucchietto
di coriandoli.
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