Espiazione

di BaschVR
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Passi sulla neve ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V: La Verità che rende liberi ***



Capitolo 1
*** Prologo: Passi sulla neve ***


Espiazione

 

Prologo: Passi sulla neve

 

La città, quella mattina, appariva vuota, silente, libera. Aveva nevicato per tutta la notte, e il bianco aveva ricoperto ogni cosa.
Il pallido sole invernale era sorto, eppure Midgar era rimasta dormiente. Tutto appariva ovattato in quell’onirica visione, quasi irreale.
L’unico rumore che Tseng sentiva era il tonfo dei suoi passi sulla neve. Era un rumore leggero, quasi impercettibile, eppure era l’unico che probabilmente la città stesse udendo. Un rumore ritmico e costante.
Il Turk rabbrividì, mentre una gelida folata di vento lo trapassava da parte a parte. Istintivamente, si strinse nella giacca nera che aveva indosso e ricontrollò, per l’ennesima volta, le direttive della missione.
Era a causa di quell’orribile tempaccio che adesso si trovava lì, ad arrancare per le strade deserte di una fredda e solitaria Midgar. Quando il Presidente ShinRa aveva visto le prime avvisaglie di una tempesta di neve nell’aria, l’aveva mandato a chiamare, insistendo perché agisse all’alba, quando la neve sarebbe stata ancora alta e nessuno lo avrebbe disturbato nel compiere il suo dovere.
In verità, la missione non era nulla di eccessivamente complesso: doveva solo fermare un traffico di Materie illegali che aveva luogo nei più oscuri vicoli della città. Spiare, uccidere, occultare. Sempre la solita storia.
Nonostante le sue resistenze, il Presidente ShinRa aveva insistito affinché lavorasse in coppia con un altro Turk. Reno, per la precisione.
Inutile dire quanto quella scelta fosse stata gradita da Tseng. Il solo pensiero del continuo ciarlare del ragazzo aveva riacceso la sua emicrania, ma si era limitato ad annuire, preferendo non discutere gli ordini che gli venivano assegnati.
Tuttavia, l’unico suono che sentiva erano, ancora una volta, i suoi passi sulla neve. I due avevano preferito dividersi, per poi incontrarsi appena qualche isolato prima della zona malfamata della città.
A Tseng quel tempo piaceva. La neve copriva ogni cosa, ogni dolore, ogni emozione. Restava solo la tranquillità, la quiete dopo la tempesta che aveva infuriato la notte. Era bello poter guardare la città e vederla senza pensieri, libera dalla schiavitù del dolore e della sofferenza. Faceva bene all’anima.
Stava ancora contemplando l’assoluto silenzio che regnava nel viale in cui si era appena immesso, quando, dietro di sé, un altro leggero tonfo si unì al rumore dei suoi passi. Tseng si fermò, ascoltando quel suono che si univa all’ululare del vento.
“Non dovevamo dividerci, Reno?” chiese, e si stupì di come la sua voce rimbombasse tra le strade vuote, fino a raggiungere ogni angolo del viale.
I passi continuarono, finché una mano non gli si posò sulle spalle. Qualche fiocco di neve cadde dal cielo, preannunciando una nuova nevicata.
“Ho trovato il furfante, sono in una strada secondaria non molto lontano da qui” esclamò Reno con la sua solita giovalità, indicandogli una stradina laterale a qualche decina di metri da loro. “Ti dirò la verità, mi è solo sembrato un grosso bestione senza cer…”
“Reno!” lo ammonì Tseng.
“Va bene, va bene, un po’ più di serietà nelle missioni” sospirò esasperato il rosso, anticipando i moniti dell’altro.
“Fa silenzio, dobbiamo agire in fretta” rispose Tseng “Portami dai due”.
Reno si zittì e fece strada attraverso un buio e maleodorante vicolo.
Il Turk moro ascoltò il lieve calpestio dei passi dell’altro confondersi con il silenzio della città. Istintivamente infilò una mano sotto la giacca invernale e strinse forte il calcio della pistola, pronto ad estrarla in caso di necessità. Sarebbe stato un lavoro veloce, rapido e indolore. Beh, indolore per lui e per Reno.
Non si avvertiva nessun rumore provenire dal fondo del vicolo.
“Sei sicuro che questa sia la strada giusta?” chiese Tseng, dubitando della memoria di Reno.
“Fidati, non avrei alcun interesse a perdere tempo!” gli bisbigliò l’altro di rimando. “Anch’io non vedo l’ora che questa missione finisca, mi si è ghiacciato anche il…”
“Si, ho capito” lo interruppe Tseng, impedendogli di continuare l’imbarazzante frase.
“Sei perspicace, eh?” chiese Reno, lanciandogli un’occhiata di complicità.
“Sssh, non senti nulla?” sussurrò l’altro, prendendo la pistola in mano e guardandosi in giro, circospetto.
“Oh, andiamo, non evitare le mie domande! Tutti sanno della tua infatuazione per Elena! Quand’è che ti deciderai a chiederle di uscire?”
“Vuoi stare zit…? Ehi, un momento! Io non ho nessuna infatuazione per Elena!” esclamò Tseng contrariato.
“Tanto meglio, così posso provarci io!” rispose Reno con un’alzata di spalle.
“Fai pure” sussurrò il Turk, senza nemmeno prestargli attenzione. Aveva questioni più importanti a cui pensare. Aveva sentito uno scricchiolio, seguito da un tonfo sordo, provenire dalla fine del vicolo, ancora immerso nell’oscurità.
“Eddai, amico, non c’è gusto così!” esclamò Reno, cingendogli le spalle con un braccio. “Voglio qualcuno con cui battermi per il cuore di una ragazza!”
“E io voglio qualcuno che non rompa continuamente durante le missioni” commentò ironicamente Tseng, senza perdere la concentrazione. “Ma come vedi, nessuno ha mai quello che vuole!”
Un altro scricchiolio, vicino a loro. Tseng volse di scatto la testa alle loro spalle, ma non c’era nulla, ad eccezione della pallida neve che copriva la città.
“Vuoi farmi credere che non c’è nessuna che ti faccia battere forte il cuore? Neanche Cissnei?” chiese ancora Reno, riprendendo a camminare verso la fine del vicolo.
“Cissnei è poco più che una bambina, potrebbe andare bene per te!” sbottò Tseng, togliendo la sicura dall’arma che teneva tra le mani.
“Ma no, ho appena detto che devo provarci con Elen…”      
“Attento!” esclamò l’altro Turk improvvisamente, spingendolo verso il freddo asfalto coperto di neve del vicolo. Aveva avvertito un movimento, con la coda dell’occhio, lieve, quasi impercettibile, nell’oscurità davanti a loro; poi un leggero sibilo, che alle sue orecchie era apparso amplificato dal silenzio della città. Senza neanche pensare, aveva spinto Reno a terra con sé. Un attimo dopo, un proiettile era passato appena sopra le loro teste.
“Merda!” esclamò Reno, estraendo la sua pistola dalla cinghia che teneva in vita, sotto la giacca.
Tseng sentiva il suo viso avvampare per il freddo contatto con la neve. Aveva gli occhi chiusi, ed era disteso a terra, inerme, facile bersaglio per chiunque se ne stesse nell’ombra del vicolo ad osservarli.
Poi sentì uno sparo risuonare nell’aria, e si rese conto che Reno aveva cercato di colpire l’aggressore. E poi ancora passi sulla neve.
“Stai bene?” chiese poi una voce vicino a lui.
“Si” rispose Tseng, alzandosi e prendendo la mano che Reno gli stava porgendo. “Dove è andato?”
“Da quella parte” indicò Reno con il dito. Tseng guardò la direzione che gli indicava il Turk dai capelli vermigli, e si sollevò quando vide che il malvivente aveva lasciato le proprie impronte sulle neve, troppo distratto dalla fuga.
“Seguiamole, e in fretta” esclamò indicandole. Reno annuì ed insieme si precipitarono verso la fine del vicolo.
Le impronte andavano verso l’entrata dei Bassifondi; i due Turk intensificarono il passo, pronti a finire il lavoro per cui erano stati convocati in quella fredda mattina invernale.
Camminarono per un po’, oltrepassando lo spoglio Viale Loveless ed avvicinandosi sempre più alla zona più umile della città.
“Che stavo dicendo prima?” chiese d’un tratto Reno, incuriosito.
“Non saprei, fai silenzio e segui le impronte!” esclamò Tseng, ancora una volta senza nemmeno ascoltarlo. Ma perché li avevano accoppiati come partner per le missioni? Che aveva fatto di male?
“No, era qualcosa di importante, ne sono sicuro!” esclamò Reno, con la fronte corrucciata nello sforzo di ricordare.
Tseng sospirò. La prossima volta doveva ricordarsi di portarsi qualcosa contro il mal di testa.
“Ah, ecco! Ti stavo dicendo che volevo provare con Elena, non con Cissnei” esclamò Reno, felice di essersi ricordato di cosa stesse parlando in precedenza. “E mettiamo di lasciare Cissnei per Rude, allora tu potresti uscire con…? Scarlet?”
“Non se ne parla proprio!” gli sbraitò contro Tseng.
“Ok, ok! Calmati però!” si scusò Reno, abbassando lo sguardo alle impronte che seguivano.
“Le orme finiscono qui” constatò Tseng dopo qualche minuto, davanti ad un vicolo maleodorante. Il vicolo appariva completamente sgombro da qualsiasi fiocco di neve: evidentemente i fumi caldi provenienti dalle caldaie delle fabbriche li vicino avevano già sciolto la magia di quel freddo giorno.
“Secondo la nostra planimetria, questo vicolo è una delle strade che conduce ai bassifondi. Tuttavia non sembra essere molto utilizzato…” constatò Reno.
“Meglio, avremo meno possibilità di essere notati” osservò Tseng, immergendosi nella densa oscurità del vicolo. Sembrava di avere oltrepassato la soglia di un altro mondo: da una parte, vi era la Midgar luminosa, splendente, sopita da una lunga e meravigliosa nevicata; dall’altra vi era quel vicolo, e i bassifondi, e qualunque altro luogo che, come quello, era stato abbandonato alla fredda oscurità della Midgar crudele, oscura, simile ad un immenso baratro di disperazione. Tseng capì di aver abbandonato il mondo rassicurante della Midgar innevata già solamente mettendo un piede all’interno del vicolo.
Reno lo seguì, ed insieme si addentrarono per le oscure vie che portavano ai Bassifondi. Il vicolo era umido, sporco, troppo caldo rispetto all’ambiente circostante. I vapori che avevano sciolto la neve adesso invadevano l’aria e le loro menti.
“Vedi nessuno?” chiese il Turk più giovane, scrutando nell’oscurità nebbiosa davanti a loro.
“No” rispose Tseng, aggrottando la fronte. Ma dov’era finito?
Poi sentirono una voce. Una voce roca, forte, simile ad un grugnito, sita pochi metri davanti a loro. Istintivamente, Tseng si strinse ancora più forte alla sua arma, facendo aderire la forma della mano al suo calcio.
“Fermi!” aveva detto quella. Un momento dopo, una figura emerse dall’oscurità: era lo stesso uomo che poco prima era fuggito dal loro agguato: basso, dai capelli corvini, con una cicatrice che gli solcava la guancia destra, a ricordo di una grave ferita. Con l’ausilio del braccio sinistro teneva una donna stretta sé, a cui puntava una pistola alla tempia.
“Lasciala stare!” esclamò Reno, osservando la donna che si dibatteva tra le braccia del suo assalitore, alla ricerca di una via di fuga.
“Reno!” esclamò Tseng osservandolo severamente. Più si sarebbero dimostrati interessati alla salute della donna, più l’assalitore l’avrebbe utilizzata come scudo.
“Sai bene che non puoi farcela contro di noi” esclamò Tseng, con la pistola puntata verso l’uomo. Quest’ultimo mise la donna davanti a sé, impedendo al Turk di poterlo colpire.
“Dici?” domandò quello, con il sudore che gli imperlava la fronte, a causa dei fumi della caldaie.
Poi sentirono un urlo provenire da dietro il trafficante. Un attimo dopo, videro una ragazzina che cercava di liberare la madre dalla sua stretta potente. Era una ragazzina esile, sulle soglie dell’adolescenza; i suoi luminosi occhi verdi erano due specchi colmi di determinazione. Tuttavia il suo tentativo non servì a nulla.
“Vattene a casa, ragazzina!” la derise l’uomo, scrollandosela di dosso e facendola cadere sul duro selciato del vicolo.
“Mamma!” urlò quella, guardandola con gli occhi colmi di lacrime.
“Scappa, mettiti al sicuro!” urlò la donna, fuori di sé, cercando di salvarla.
“Hai sentito?” sussurrò Reno, serio, alla bambina. Tseng notò che quest’ultima non doveva essere molto più piccola del Turk, al massimo di uno o due anni. “Penseremo noi a tua madre, tu riparati da qualche parte”.
La ragazzina abbozzò un lieve sorriso fiducioso sul volto, e poi li oltrepassò, per nascondersi dietro un bidone dei rifiuti a pochi metri da loro.
Tseng sentì il bisogno impellente di declassare Reno, ma si limitò a lanciargli una fugace occhiataccia. Lui e la sua stupida bontà d’animo!
“Ehi, sta scappando!” esclamò Reno, cominciando a correre per il vicolo, inseguendo il malvivente che cercava una via di fuga tenendosi ancorato alla donna stretta che aveva preso in ostaggio.
“Mamma!” urlava la bambina dal vicolo.
Il ragazzo sentiva un gran mal di testa, mentre un caos di voci urlavano nella sua mente. Non sapeva cosa fare con quella confusione nella mente…
“Tseng, inseguiamolo!”
“Mamma, mamma!”
“Fatemi ragionare, ve ne prego… aspettatemi…”
“Tseng, sbrigati! “
“MAMMA!”
Poi, la decisione.
 “Reno, spostati da lì!” urlò all’altro.
Prese la pistola in mano.
“Mamma, mamma!”
La puntò.
“Tseng, cosa vuoi fare?!”
Prese la mira, attento a non sbagliare. Ma in cuor suo sapeva già che probabilmente non ce l’avrebbe fatta.
“No, Tseng! E’ troppo pericoloso!”
La mano gli tremava…
“Fermo!”
L’uomo aveva già raggiunto la fine del vicolo. Poteva sentire di nuovo il rumore dei passi sulla neve…
“Mamma!”
Poi, un colpo. Gelido, penetrante. Gli echi dello sparo si addentrarono in lui.
Niente più rumore di passi sulla neve.
Solo un urlo, e tanto, tanto sangue sulla luminosa e silente Midgar.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I

 

Un raggio di sole le illuminava il viso. Scosse lievemente la testa, gli occhi ancora socchiusi nell’ombra di quel pomeriggio di Primavera.  Si era addormentata con la testa sulle braccia, poggiata al freddo marmo di una delle colonne della sua chiesa.
Lentamente si stropicciò gli occhi, aprendoli, dopo la breve pennichella che si era concessa. Il sole arrivava ancora quasi perpendicolarmente, passando per le fenditure lasciate dalle tegole rotte. Doveva essere passato da poco mezzogiorno.
Si alzò, poggiando una mano contro il levigato legno di una delle panche della chiesa, che, sotto il suo peso, scricchiolò sonoramente. L’usura stava lentamente consumando quel luogo, giorno dopo giorno.
La ragazza emerse dalla penombra nella quale finora, ad eccezione del viso, era stata immersa, in una delle nicchie più lontane dall’abside. Portava un limpido vestito azzurro, che metteva in evidenza la sua esile figura e il seno, non ancora del tutto sviluppato; i grandi occhi verdi erano simili a due specchi luminosi, che risplendevano nella luce bianca del meriggio assolato; era un po’ goffa nei movimenti, ma aveva un portamento aggraziato, eretto e composto, che traspariva dalle sue movenze. Sul viso si intravedeva un timido e sempiterno sorriso, di quelli naturali, che la vita concedeva solo dopo lunghe sofferenze. La giovane si mosse,  producendo piccoli tonfi sul parquet della chiesa. Si avvicinò ad un punto dell’edificio dove il parquet si era rotto, e dove ora crescevano moltissime specie diverse di fiori.
Si avvicinò alle rose rosse e sentì il loro profumo, delicato ed intenso come non mai. Sua madre, una volta, le aveva detto che nessun odore era simile a quello delle rose di Maggio; ed aveva ragione, quell’odore era inebriante, ammaliatore, sensuale ed appagante. Aerith aveva sempre amato quel particolare profumo.
Colse una rosa scarlatta, stando ben attenta a non pungersi. Le sue dita affusolate si strinsero intorno allo stelo ben spesso del fiore. Si sedette sul polveroso parquet della chiesa, sollevando una nuvola di pulviscolo ben visibile alla luce del sole. Stette ad osservare l’aura di purezza di quella rosa, come intarsiata in un groviglio di petali da un esperto artigiano. Quel rosso acceso le ricordava tante cose, tanti avvenimenti diversi tra loro, ma uniti dal sottile filo del destino. Le ricordavano le fragole che aveva mangiato tanti anni prima, all’ombra di un Salice verdeggiante; il vestito che sua madre le aveva regalato, di un cremisi acceso, in un giorno di pioggia che ricordava vagamente come il suo compleanno; il volto paonazzo di un ragazzo che aveva visto morire in un vicolo, e che non aveva potuto aiutare in alcun modo; il rossore negli occhi stanchi di sua madre, mentre le rimboccava le coperte la sera, dopo una lunga giornata di lavoro per cercare di guadagnare qualcosa; il colore del fuoco dei capelli di un ragazzo, poco più grande di lei, che le diceva di nascondersi e mettersi al riparo, nel vicolo di una fredda Midgar di tempo prima; le macchie di colore rosso che insozzavano la neve, e una voce, così simile alla sua, una voce che era lei ma che al tempo stesso non lo era, che urlava; “Mamma!”.
Scosse la testa, per dimenticare quell’orribile giorno passato nella maleodorante oscurità di quel vicolo umido, in cui una persona a lei cara aveva trovato la morte.
Aveva provato a dimenticare, aveva provato a cancellare dalla sua memoria quella mattina d’Inverno in cui sua madre aveva perso la vita, ma era stato impossibile. La scena era stata registrata dai suoi occhi da bambina, a quel tempo lontani dalle ingiustizie del mondo. Le urla, il sangue, la neve rossa, il corpo di sua madre semicoperto dalla neve appena pochi minuti dopo lo sparo, la puzza del vicolo, il volto del Turk dai capelli rosso fuoco, il suo grido di disperazione, la voglia di voler ridurre a brandelli quel signore dai capelli neri che l’aveva uccisa. L’unica cosa che il tempo aveva lasciato scorrere nel flusso dell’oblio era il volto di quell’uomo. Non ricordava nulla di lui, se non i capelli neri. Nient’altro. A volte il fato era crudele.
Scosse la testa, per allontanare quelle reminescenze lontane. Lasciò cadere la rosa per terra, sul parquet, ed osservò alcuni petali scarlatti allontanarsi dalla corolla, ormai irrimediabilmente rovinata.
Si alzò da terra e si allontanò dai fiori, che splendevano, rigogliosi, colpiti dalla luce solare. Attraversò la navata, verso la grande porta di quercia. Sfiorò le venature del legno, lentamente, fino ad arrivare alla fredda maniglia. Fece cigolare la porta e, per un momento, irradiò di luce il corridoio alle sue spalle; mosse qualche passo e si ritrovò fuori, a respirare la libertà di quella giornata così luminosa e tranquilla.
In verità, lì nei bassifondi tutte le stagioni erano molto simili. Non arrivava la neve dell’Inverno, lì sotto, né il caldo afoso dell’Estate; la pioggia giungeva solo attraverso i canali di scolo della città che si articolava sopra il piatto, se non da qualche sporadico buco come quello che la ragazza aveva nella propria chiesa.
Quello che, nei bassifondi, rendeva le stagioni così diverse tra loro, erano le persone che li abitavano. Nella stagione estiva, tutto si animava di una nuova vita, come lo scoiattolo si anima dopo il letargo invernale: i bambini giocavano per le affollate vie del mercato, le voci della gente erano allegre, spensierate, nonostante la povertà in cui trascorrevano le proprie vite.
Adesso, per quei vicoli si respirava già l’aria dell’Estate alle porte.
Camminò lentamente per i vicoli della città, salutando conoscenti e godendo della brezza fresca di Primavera che caratterizzava quelle tiepide giornate. I pensieri che, fino a poco tempo prima, l’avevano rattristata, adesso apparivano lontani, come portati via da quel vento che le solleticava il volto.
“Che ci fai qui da sola, Aerith?” domandò una voce, in tono severo, alle sue spalle. Voltandosi, riconobbe Tseng, in uniforme, che la guardava come se fosse diventata matta.
“In che senso?” chiese la ragazza di nome Aerith, sorridendogli. Tra gli agenti che la ShinRa le aveva mandato, Tseng era senza dubbio quello che preferiva. L’aveva preferito a pelle, già il primo giorno in cui lui era venuto a visitarla, in una fredda giornata di Febbraio, a pochi mesi da quella fatidica mattinata in cui tutto era andato per il verso sbagliato. L’aveva visto subito impacciato, timido, taciturno, quasi fuori luogo in quell’incarico, come se non avesse mai parlato con una ragazzina. E da quando lei gli aveva sorriso, e lui l’aveva guardata, strano, come se non avesse mai visto qualcuno ridere, Aerith aveva deciso che, per lui, avrebbe riso più spesso, tutte le volte che lo avrebbe visto.
“Nel senso” rispose Tseng, un po’ scocciato dal tono canzonatorio di Aerith “che dovresti essere in un luogo più sicuro, no di certo qui, in mezzo a questa folla, piena di… delinquenti, o assassini, scippatori…”
“Naah, tranquillo” fece Aerith, guardandosi intorno “Chi sarebbe il matto che avrebbe voglia di attaccarmi con questa folla?”
“Non si può mai sapere!” esclamò Tseng, guardandosi intorno. “Non sai mai con chi hai a che fare in questo mondo!”
“Mmm…” si mise a riflettere Aerith, osservando gli uomini che le passavano davanti “Nessuno di questi ha l’aria del maniaco assassino, però!”
“E che ne sai tu?” chiese Tseng, diffidente.
“Beh, ma allora fughiamo ogni dubbio e chiediamo a qualcuno!” esclamò Aerith, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Ehi, ma che…?”
“Sssh” lo zittì Aerith voltandosi per un momento verso di lui. “Sta’ a guardare!”
La ragazza si avvicinò ad un vecchino che sembrava reggersi a malapena in piedi, appoggiato ad un bastone da passeggio e con la schiena ricurva. L’uomo la guardò sbieco, come se non volesse essere disturbato.
“Mi scusi!” chiese Aerith, rivolgendosi all’anziano. “Per caso lei è un assassino?”
Tseng si coprì il volto con una mano, per non guardare.
Ci furono parecchi secondi, in cui il vecchio guardò Aerith come se fosse pazza. Le piantò addosso gli occhi, e, lentamente, si fece paonazzo in volto, pronto alla sfuriata.
“Ma come ti permetti, piccola ragazzina insolente?!” urlò l’uomo con quanto fiato aveva in gola, facendola rabbrividire. “Sono forse domande da fare, queste?!”
“Me vede” cercò di spiegarsi Aerith, senza perdere il tono pratico e diretto con cui gli si era rivolta in precedenza “Io e il mio amico pensavamo...”
“Non coinvolgere anche me!” gli sussurrò in risposta Tseng, dandole una gomitata.
“Tu e il tuo amico pensavate che io fossi un assassino?!” chiese il vecchio, spostando lo sguardo da Aerith a Tseng.
“No, mi scusi, è solo un’idea un po’ strana che è venuta ad Ae…” cominciò Tseng, cercando di scusarsi prima che quell’uomo li cacciasse dal mercato.
“L’assassino sarai tu, semmai! Hai l’aria del tipo losco!” gli urlò contro il vecchio, prima che Tseng potesse finire la frase. “Ora andatevene e lasciatemi in pace!”.
“D’accordo, buona giornata!” esclamò Aerith sorridendo, salutandolo calorosamente prima di allontanarsi.
Tseng la seguì, mentre udiva l’uomo che, alle sue, spalle, inveiva contro i ragazzini perdigiorno di quei tempi. Aspettò che fossero abbastanza lontani da quest’ultimo, prima di cominciare a biasimarla.
“Ma che ti è passato per la testa?” le domandò, confuso dal suo gesto.
“A dir la verità, mi aspettavo un altro tipo di reazione” sussurrò Aerith, più a sé stessa che a Tseng, con lo sguardo chino verso il basso. Poi lo rialzò, guardandolo negli occhi scuri. “Ma non puoi negare che sia stato divertente!”
“Beh, a me è sembrato imbarazzante” rispose Tseng, pensieroso.
“Dici?” chiese Aerith, poco convinta.
“Si, insomma, non si può andare dal primo uomo che vedi e chiedere una cosa del genere… non sta bene!”
Aerith rifletté un po’, mentre camminava a passo svelto accanto al ragazzo.
“Già, non sta proprio bene” disse dopo un po’ “Ma dopotutto, che ti importa?”
“Come?” chiese Tseng, non capendo dove la ragazza volesse arrivare.
“Non abbiamo fatto nulla di male, era solo una domanda innocente” spiegò Aerith, guardandolo negli occhi. “è così importante l’imbarazzo, o il pudore?”
“No, ma...”
“Allora converrai con me sul fatto che non deve importarti di ciò che la gente pensa di te!” esclamò Aerith, non lasciandogli il tempo di rispondere.
Tseng sospirò, capitolando. “Forse hai ragione… ma rimane il fatto che non saresti dovuta uscire da sola. Il pericolo è sempre in agguato!”
La ragazza posò il suo luminoso e limpido sguardo su di lui. “Si, ma adesso ci sei tu con me, no? Non sono al sicuro?”
Tseng chiuse per un attimo gli occhi, non sapendo cosa rispondere. Si, voleva dirle che era al sicuro, che in quegli anni l’aveva sempre protetta, e che avrebbe continuato a farlo per sempre. Di sua spontanea volontà, senza volere nulla in cambio. Avrebbe potuto dirglielo, e lei gli avrebbe sorriso, rassicurata.
Ma avrebbe mentito a sé stesso. Certo, Aerith non lo sapeva, ma era stata lui la principale causa dei mali che l’avevano afflitta in tutti quegli anni. E la protezione che le stava dando, l’apprensione che aveva per lei, il sentimento che provava nei suoi confronti… forse era solo senso di colpa.
Lo stava facendo per essere perdonato?
Ma chi avrebbe mai potuto perdonare il suo gesto? Non certo lei. Non lei, che aveva sofferto per le sue azioni e che ora, ignara, passeggiava tranquillamente con il carnefice di sua madre.
“Che hai?” chiese Aerith, guardandolo attentamente, con curiosità.
Tseng si ridestò di colpo dai suoi pensieri. “Non è niente, tranquilla!”
La ragazza continuò ancora ad osservarlo, non del tutto convinta. “Sembri... pensieroso!”
“Forse sono solo un po’ stanco...” rispose lui, evitando di guardarla negli occhi.
Aerith annuì, distogliendo lo sguardo. Si avvicinarono al parco giochi del Settore 5, a quell’ora pieno di bambini che giocavano tra di loro, spensierati.
Si sedettero entrambi su una panchina, lì vicino, alla portata delle grida vivaci dei fanciulli. Qualche romito raggio di sole filtrava da sopra il piatto, e faceva splendere di un nuovo colore la sabbia dove i bambini giocavano, che si tingeva di un dorato acceso. L’aria era frizzante, si respirava la libertà dell’estate imminente persino in quei vicoli angusti e sporchi, dove regnava la povertà.
“Come va?” chiese Tseng, pensando che, fino a quel momento, non avevano ancora avuto una normale conversazione.
“Va… bene, credo! I fiori stanno venendo su ottimamente, questa stagione è magnifica!” esclamò Aerith, lo sguardo fisso verso i ragazzini che giocavano.
“E... tu? Come stai?” chiese ancora, volgendo anche lui lo sguardo verso i bambini.
Aerith ci mise un po’ prima di rispondere. Avrebbe potuto raccontargli tutto, su come si sentiva, su quello che provava, su come la notte singhiozzava sommessamente, tra le coperte, perché quello era il solo posto dove poteva ostentare le sua debolezza, lì, lontana da tutto, sola. Sul tremendo senso di solitudine che le attanagliava il cuore. Sull’incrinato muro di bugie che aveva eretto intorno a sé, e che si crepava sempre di più, ogni giorno che passava, verso un crudele baratro di disperazione.
“Sto meglio” mentì Aerith, con una sottile sfumatura della voce che sembrava voler dire il contrario, e che Tseng riuscì a cogliere. “Si, direi che sto… piuttosto bene. E… tu? Tutto bene alla ShinRa?”
Tseng ebbe l’impressione che Aerith volesse solo cambiare discorso.
“Si, tutto… tutto bene” concluse Tseng, anche se non era vero. In effetti, nulla di quello che le stava dicendo riguardo la ShinRa era vero.
“Perfetto!” rispose Aerith, imbarazzata, non sapendo come continuare il discorso.
Trascorse qualche minuto, in cui entrambi i ragazzi non proferirono parola. Ogni tanto, Aerith gettava una curiosa occhiata a Tseng, che sembrava immerso in chissà quali pensieri. Lo vedeva pensieroso, con la testa leggermente inclinata, a fissare l’infantile gioco dei bambini senza in realtà vederlo. Cos’è che lo spingeva tanto a riflettere? Cosa si nascondeva dietro ad una mente così calcolatrice e riflessiva? C’era sicuramente qualcosa di cui non era a conoscenza. Qualcosa sul suo passato, magari, qualcosa che Tseng aveva ritenuto opportuno nascondere a tutti. Ma che nella sua mente riaffiorava, e che puntualmente lo tormentava.
Lo osservò ancora, mentre sentiva sulla sua pelle il tiepido calore della Primavera inoltrata. Si stava bene lì, in quel parco. Il sole non arrivava direttamente nei bassifondi, se non per qualche sporadico e solitario caso, ma il suo tepore inondava comunque tutti i viali, i vicoli e i lo squallore delle vite. Quel calore infondeva speranza alla gente.
“Allora, perché eri uscita?” chiese d’un tratto Tseng, risvegliandosi dai propri pensieri.
“Non c’è un vero e proprio motivo... diciamo che amo questa stagione, e mi piace viverla al meglio!” esclamò Aerith con un sorriso. Un tempo aveva amato anche l’Inverno, seppur in una strana maniera. Adesso, il rapporto che aveva con quella stagione si era inasprito, ma non interrotto del tutto; per quanto potesse odiarlo, Aerith non smetteva mai di esserne in qualche modo ammaliata.
“Si, la Primavera piace a molta gente!” rispose l’uomo, alzandosi dalla panchina come se nulla fosse. “Chissà perché, poi...”
“Libertà” rispose Aerith, alzandosi a sua volta e muovendo qualche passo verso l’uscita del Parco giochi.
“Come?” chiese Tseng, seguendola.
“Hai chiesto il perché la gente ama la Primavera, e io ho risposto!” esclamò Aerith, voltandosi verso di lui.
“Libertà?” chiese il ragazzo, non capendo dove l’altra volesse arrivare.
“Si!” esclamò lei, sorridendo.
Tseng non capiva dove Aerith volesse arrivare con quell’affermazione. Le lanciò un’occhiata interrogativa, che trovò risposta in un ghigno divertito della ragazza.
“Chiudi gli occhi.” disse Aerith, guardandolo in volto.
“Perché?” si stupì Tseng, con uno sguardo un po’ incerto.
“Fidati.”
Tseng non sapeva se assecondare o meno le parole di Aerith. Un po’ incerto, sbatte un paio di volte le palpebre, prima di decidere di chiuderle del tutto.
“Bene!” esclamò la ragazza, entusiasta. “Adesso... mi rendo conto che, per una persona abituata a vivere al di sopra del piatto può risultare difficile, ma... che cosa senti?”
“In che senso?” chiese Tseng, ancora ad occhi chiusi.
“Beh... lascia andare i pensieri che hai in testa. Falli defluire. Concentrati sul calore del Sole indiretto e sulla brezza che viene dalla colline qui vicino. Poi ascolta le risate dei bambini del parco giochi, le voci allegre che gridano al mercato, i migliaia di passi che fanno vibrare la terra sotto di noi. Tieni in mente tutte queste cose, delicatamente, senza forzarne alcuna. Se senti una di esse lasciare i tuoi pensieri, falla allontanare per poi riprenderla nuovamente, con la stessa sensibilità con cui l’hai portata nella tua mente. Capisci fin qui?”
“Si” rispose lui, ancora un po’ riluttante, ma cercando comunque di mettere in pratica le parole della ragazza.
“Pensa all’allegria della gente, che può di nuovo uscire di casa, parlare, vivere dopo i freddi mesi invernali, passati rintanati in casa a desiderare tutto quello che adesso possono avere. Pensa al sentimento che provano adesso. Qual è?” chiese Aerith, divertita.
“Libertà” sussurrò Tseng, a bassa voce, lasciando che quella parola riecheggiasse dentro di lui.
“Visto?” esclamò Aerith, soddisfatta, mentre riprendevano il cammino. “Sapevo ci saresti arrivato. Di solito gli abitanti che vivono sopra il piatto non pensano a come, nel loro piccolo, anche gli abitanti dei Bassifondi possano essere felici.”
Tseng non rispose. Era sempre stato un tipo taciturno, un po’ timido e a volte scontroso. Ma perché con Aerith tutto era differente? Ogni emozione che credeva di aver provato nella sua vita, con Aerith era diversa e totalmente nuova.
Quando era con lei, tutto era diverso. Bisognava avere una dose assurda di follia, masochismo e sadismo per ammetterlo, ma con lei tutto era diverso.
Sarebbe stato inutile negarlo.
Nonostante Tseng sapesse che se Aerith fosse venuta a conoscenza di ciò che aveva fatto, e di come le aveva rovinato la vita, non lo avrebbe più nemmeno considerato come umano,  non riusciva a separarsi da lei, adesso che questo nuovo sentimento era emerso. Non dopo tutti quegli anni trascorsi al suo fianco, passati a capirla, consolarla, proteggerla.
Certo. Proteggerla. Proteggerla dall’assassino di sua madre, forse?
“Di nuovo perso tra i tuoi pensieri…” disse Aerith ad alta voce, riuscendo a stento a trattenere un sorriso. “Tranquillo, non mi da fastidio!” continuò lei, impedendogli di scusarsi “E’ solo che… è curioso, ecco. Non ho mai conosciuto un pensatore come te!”
“Un… pensatore?” chiese Tseng, non capendo cosa volesse dirgli.
“Si! Si vede dalla tua espressione che non pensi a stupidaggini, o frivolezze…”  cominciò Aerith, incerta su ciò che volesse davvero dire. “Diciamo che… hai l’espressione corrucciata quando pensi, e così sembra che tu stia riflettendo su qualcosa di serio!”
Tseng abbassò lo sguardo, senza avere il coraggio di rispondere a quell’affermazione.
“Scusa” si affrettò ad aggiungere Aerith, mortificata dalla sua reazione. “Non pensavo che...”
 “E’ tutto a posto, tranquilla!” la rassicurò Tseng, in tono calmo.
La ragazza continuò a camminare, silenziosa. “Si sta facendo tardi” disse poi, dando un’occhiata al cielo che, oltre il piatto, si tingeva del rame del tramonto. 
“Ti accompagno a casa” rispose Tseng, forse un po’ più freddo di quanto avesse voluto, in un tono che non ammetteva repliche.
Aerith non disse nulla, quindi probabilmente non aveva niente in contrario.
Non parlarono molto nel percorso verso la casa della ragazza. Aerith non osava proferire parola davanti a Tseng, per paura che si fosse infuriato. Quest’ultimo, d’altra parte, ne approfittò per chiudersi nella sua mente e riflettere, senza neanche prestare occhio a dove mettesse i piedi.
Poteva vedersi, in quel momento, come se si stesse guardando dall’esterno: con lo sguardo fisso davanti a sé e quell’aria infuriata dipinta in volto, accanto a quella ragazza minuta, fragile e spaventata. No, non era stata una buona idea farla sentire in colpa. Doveva cercare di scusarsi, di farla sorridere. Aveva già troppi debiti nei confronti di Aerith Gainsborough, senza dover aggiungere anche quello sgradevole episodio.
“Io…” cominciò a dire, senza avere idea di come avrebbe finito il discorso.
“No.” esclamò Aerith, interrompendolo, a sguardo chino. “Non scusarti… Non devi…”
Tseng restò in silenzio, per un momento. Poi un sorriso sarcastico gli affiorò sulle labbra. “Vorrà dire che non mi scuserò, allora!” concluse, osservandola con la coda dell’occhio.
“Non è una cattiva idea!” esclamò Aerith ricambiando il sorriso.
Le case ai lati del sentiero che stavano seguendo, brillavano ormai della calda luce del tramonto, che tingeva d’arancio le colline appena visibili oltre la fitta rete di vicoli e capanne dei bassifondi. L’energia benevola e positiva che i vicoli avevano raccolto, durante quella giornata di allegria e spensieratezza, si diradava già nella soffusa luce del crepuscolo nascente.
Aerith Gainsborough, durante il viaggio di ritorno verso casa, ripensò più volte agli eventi accaduti in quel pomeriggio luminoso. Ripensò alla tristezza dei suoi pensieri, quando, con la rosa in mano, si era abbandonata ai ricordi di un passato ormai lontano; ripensò al misto di pace, felicità ed inquietudine che aveva provato, nell’arco di quel pomeriggio, accanto a quello strano Turk, così timido, introverso, a volte anche cinico, ma al tempo stesso protettivo, leale, onesto nei suoi confronti. Ripensò ad ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo che lui le aveva rivolto. C’era qualcosa, nel modo in cui la proteggeva dal mondo esterno, che andava ben oltre il semplice rapporto lavorativo.
Raggiunsero la casa di Aerith dopo qualche minuto. La ragazza osservò da fuori il buio che regnava, ormai da tanti anni, in quell’abitazione, così vuota, solitaria, situata nel centro dei bassifondi ma pur sempre attorniata dal nulla.
Si diresse verso la porta di casa, immersa nei suoi pensieri. Poggiò una mano sullo stipite e con l’altra spinse la maniglia, pronta ad entrare. Si voltò per salutare Tseng, ma lui se n’era già andato, svanito nell’aria fresca della sera.
Sospirando, richiuse la porta alle sue spalle, rimanendo prigioniera di quella casa e della sua mente.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II

 

Tseng sospirò sonoramente, mentre ripercorreva le ormai buie strade dei bassifondi di Midgar. Diede un calcio ad un ciottolo, lì vicino,  e lo osservò sparire tra l’oscurità di un vicolo che puzzava di letame. Qualcuno grugnì alle sue spalle, ma lui non diede peso alla cosa; probabilmente era un senzatetto che si aggirava tra le spire nere della notte appena sorta.
Un lampione, in lontananza, si spense per un momento; poi si riaccese, subito dopo, per poi rispegnersi nell’attimo immediatamente successivo. La luce soffusa illuminava il volto di una ragazza, forse una prostituta, con la schiena poggiata sul palo e che lanciava sguardi ammiccanti ai passanti. Tseng la superò, sdegnato, con il volto chino e la mente protesa verso arcani pensieri.
I bassifondi la notte erano irriconoscibili. Le strade si riempivano di criminali, di tipi poco raccomandabili, di ubriaconi in cerca di ragazze da importunare. Sembrava che la serenità e la voglia di vivere che accompagnava le giornate illuminate dalla calda luce solare, la notte sparisse. Ed era allora, al chiaro della pallida luna, che emergeva il lato più oscuro di ogni uomo che viveva in quella città, corrotta dall’odio e dalla povertà.
A Tseng pareva quasi di sentirla, quella corruzione che aleggiava per i vicoli malfamati: gli sembrò di udire i sospiri licenziosi di una coppia di amanti, immersi nell’oscurità di un vicolo, o di sentire alcuni spari non lontani dal luogo dove si trovava.
Quei rumori secchi, così familiari ma al tempo estranei, lo riportarono con la mente a quella gelida mattina di ormai quasi quattro anni prima. A differenza della versione confusa che ricordava Aerith, a lui non era sfuggito nulla: i suoi ricordi si basavano più sulle sensazioni, sui ricordi dei pensieri, sugli attimi infiniti che cambiavano definitivamente lo scorrere degli eventi. Quella giornata era stata marchiata nei suoi ricordi, guadagnandosi un posto d’onore; e non passava giorno senza che il suo sonno, o i suoi pensieri, non venissero disturbati dal sangue sulla gelida e candida neve, o dalle grida disperate di Aerith, che urlava sconvolta. Probabilmente quest’ultima non ricordava molto a causa del forte shock che l’avvenimento le aveva causato.
Non ricordava il motivo che l’aveva spinto a sparare; in seguito aveva pensato che sarebbe stato meglio limitarsi ad inseguire il malvivente, e solo in seguito provare a liberare la donna. Tuttavia aveva agito impulsivamente; la sua mente, così fredda, calcolatrice, riflessiva, aveva reagito d’istinto, senza riflettere. E quella volta, seguire l’istinto gli era costato molto caro.
Gli omicidi erano ormai una consuetudine, a Midgar, una cruda realtà con cui persino i bambini entravano in contatto in età precoce. Ma non ci si abituava mai, ed ogni volta era più dolorosa della precedente.
In verità, Tseng non aveva mai avuto una netta distinzione tra bene e male. La linea labile che sanciva quella profonda differenza era per lui invisibile, come se non esistesse. I due diversi pensieri si fondevano nella sua mente, ed agivano in base al suo buonsenso. Fin dalla più tenera età Tseng non si era mai fatto problemi su ciò che era giusto e ciò che non lo era; tutto è più facile se distingui il mondo in persone che ti sono ostili e in alleati. Uccideva coloro il cui nome figurava tra i nemici della ShinRa e non si creava nessun problema, dimenticando in fretta i volti delle sue vittime. Talvolta nemmeno li osservava in viso. Ma quella volta... l’ultimo suo omicidio era stata il più gravoso. Non che non fosse mai successo che qualche innocente rimanesse ucciso durante una missione, ma quella volta era stato differente. A volte pensava di aver sparato con l’intenzione di uccidere quella donna. Di colpire lei, anziché quell’uomo – quel nemico – che doveva essere punito.
Erano stati quei pensieri che l’avevano spinto a difficili scelte. Senso di colpa. Espiazione. Perdono. Rinascita. Un ciclo che sperava di poter percorrere per fare ammenda dei propri errori. Eppure, sbagliava ancora nel tenere Aerith all’oscuro della verità. Ma in quegli anni, le si era tanto affezionato dal non poter sopportare l’idea di perderla.
 

 

Flashback

 

Tutto gli appariva confuso, più sfocato del normale. La testa stava per scoppiargli, ogni rumore sembrava amplificato fino all’inverosimile. Era seduto sul pavimento di un gelido corridoio della ShinRa, con la schiena poggiata al muro, anche se non ricordava con esattezza come fosse arrivato lì. Nella sua testa, un’entropia di parole, immagini e suoni si fondeva ininterrottamente e senza sosta. Il sangue, la neve, e lo sguardo dell’assassino – lui, era lui l’assassino! –, e il malvivente che fuggiva, indisturbato, tra il bianco di Midgar, e le urla di una marmocchia che gli trapanavano il cervello…
Accanto a lui Reno non smetteva di parlare, velocemente, come se non riuscisse a fare altro. Era da quando Scarlet li aveva chiamati nei suoi uffici che non faceva altro che blaterare, nervoso.
“Lo so già, ci butteranno fuori entrambi!” esclamò il Turk più giovane, alzandosi da terra e comminando avanti e indietro, torcendosi le mani. “Abbiamo combinato un casino! Adesso finirò come mio zio Al, a spalare cacche di Chocobo dalle piste del Gold Saucer, e quando morirò verrò utilizzato come concime per i Chocobo, e poi…”
“Basta!” esclamò Tseng, forse più forte di quanto avrebbe voluto. “Reno, tu non c’entri nulla con quello che è successo, non possono punirti, stai tranquillo…”
“No! So già che verrò licenziato! Tanto vale chiamare lo zio Al e dirgli che da domani avrà due nuovi operai!” esclamò Reno, prendendo dalla tasca il proprio cellulare e cominciando a battere i tasti con furia.
Tseng gli prese il telefono di mano e lo scagliò sul pavimento, stizzito. Ma perché non la piantava quell’idiota? Sapeva benissimo a cosa stava andando incontro, non c’era alcun bisogno che Reno glielo ricordasse insistentemente.
Il ragazzo accanto a lui alzò le spalle. “Fa nulla…” disse, mentre raccoglieva il cellulare ormai inutilizzabile. “Tanto da spalatore di cacche di Chocobo non me ne farei nulla!”
“Vuoi stare un po’ zitto, dannazione?!” sibilò stizzito Tseng, mentre Reno, mortificato, si sedeva accanto a lui in silenzio. Gli dispiaceva averlo trattato così, dopotutto il ragazzo non aveva fatto niente di male. Reno aveva avuto il buon senso di non compiere un gesto che l’avrebbe segnato per tutta la vita.
Molti lo credevano come freddo, vuoto, privo di emozioni. Lo era, certo. Ma solo in parte. Credevano forse che non avrebbe più pensato alla morte di quella donna? Che sarebbe passato avanti, come aveva sempre fatto? No, non era possibile. Non esternare i sentimenti non vuol dire automaticamente non provarne, ma solo avere una buona capacità di autocontrollo. Che spesso poteva diventare una maschera.
Adesso, alla luce di ciò che era accaduto, non si poteva più tornare indietro. Alea iacta est* (Il dado è tratto).
Il cigolio di una porta che scorreva sui propri cardini lo riscosse dal torpore nel quale era caduto. Si alzò di scatto, osservando il fante della ShinRa che lo squadrava da capo a piedi, sotto l’elmo che gli copriva in gran parte il volto.
“Seguitemi!” disse, voltandosi e riattraversando la porta dal quale era venuto. “Scarlet vi sta aspettando.”
“Dobbiamo proprio?” chiese Reno, abbozzando un sorriso. Il fante ricambiò con un’occhiata glaciale che lo zittì. A Tseng quel ragazzo così gelido stava già simpatico.
Li condusse attraverso dei corridoi grigi e spogli, intervallati da qualche finestra dalla quale si poteva osservare la tempesta di neve abbattersi su Midgar. Ogni tanto, il ragazzo si voltava verso di loro, senza parlare, con l’abbozzo di un sorriso malvagio sul volto.
“Posso spaccargli la testa?” chiese Reno, sottovoce. “Siamo già nei guai, tanto vale che…”
“Eccoci, siamo arrivati!” esclamò il soldato, interrompendolo e gettandogli un’occhiata di puro disgusto. “Scarlet vi aspetta qui dentro.”
“Grazie.” gli rispose Tseng. “Puoi andare.”
Il Fante si allontanò a grandi passi, sparendo oltre l’angolo del corridoio.
“Entriamo?” chiese Reno, guardandosi intorno.
Tseng non rispose, allungando una mano verso la maniglia in ottone della porta.
“Sai che si dice che Scarlet abbia mozzato la testa a tredici dipendenti con una mannaia tutti in una volta?” disse Reno, da una parte intimorito e dall’altra ammirato dalle gesta della donna.
“Sai che ne dubito molto?” rispose Tseng, ancora sulla soglia dell’ufficio.
“Beh, in verità non sarebbe così difficile, basterebbe mettere una materia All sulla mannaia e cominciare la strage!”
“Certo…” rispose Tseng per farlo tacere, abbassando la maniglia e aprendo la porta.
Titubanti, entrarono nell’ufficio di colei che, secondo la leggenda, passava il suo tempo a decapitare dipendenti e ad infierire sui loro cadaveri.
La prima cosa che li colpì fu la luce abbagliante. Dalle alte vetrate dell’ufficio, la città di Midgar non era più visibile, ricoperta da un manto bianco ed abbagliante. Il cielo era opaco, perlaceo, plumbeo; le alte nuvole da lì sembravano più vicine, quasi raggiungibili.
La figura di Scarlet si stagliava davanti ad una della alte vetrate della stanza, proiettando un’appena visibile ombra alle sue spalle. Li accolse con un sorriso mellifluo, falso, che sembrava farsi beffe della loro condizione. Quando parlò, il tono della voce era canzonatorio, come se si stesse divertendo a vederli trepidanti e in attesa di conoscere il proprio destino.
“Guardate chi ci onora della nostra presenza, quest’oggi...” disse Scarlet, camminando verso di loro con le braccia incrociate al petto. “Tseng e il suo fido assistente-Turk Reno!”
I due non risposero, in attesa che la donna cominciasse a sputare veleno su di loro. E in effetti, non tardò molto prima che la donna riprendesse il suo discorso, assumendo il cipiglio di un’aquila che plana sulla propria preda.
“Sapete, stamattina, quando mi sono svegliata nel mio letto, era tranquilla come non mai. La neve, il silenzio… a dire la verità, mi sentivo in sintonia con l’intero universo…” cominciò a narrare Scarlet, lentamente, facendo in modo che né Tseng né Reno potessero perdersi una parola. “Felice come non mai, arrivo nei miei uffici e scopro che, all’alba è accaduto qualcosa di veramente strano. Non siete curiosi di sapere cosa?”
“C-credo di saperlo…” sussurrò Reno, a testa china.
“Scopro che due Turk, mentre erano in missione, hanno combinato un disastro, e che uno dei due, un Turk di cui mi fidavo, uno tra i nostri migliori dipendenti, che era candidato per il controllo della divisione Turk, ha commesso un errore. Badate bene, non un piccolo errore. Non una quisquilia, niente di risolvibile con un paio di pratiche e qualche insabbiamento. Questo Turk ha ucciso una donna, in piena luce del giorno, ed ha lasciato andare un malvivente che trafficava Materie illegali, che potrebbero dare non pochi grattacapi alla ShinRa. Così mi sono vista affidata il caso, come se fosse piovuto dal cielo insieme alla neve.”
“Ma... sarebbe dovuta essere l’area di competenza di Reev…” cominciò Reno, ma non fece in tempo a finire la frase perché la donna lo zittì di nuovo.
“Senza offesa, ma Reeve Tuesti è solo uno stronzo senza cervello che ha saputo mandare Midgar allo scatafascio, finora!” rispose Scarlet, seccamente. Il Turk più giovane si pentì di averla interrotta. “Lo stesso Presidente ShinRa ha deliberato che fossi io a comunicare la punizione che i piani alti hanno decretato per voi. Cosa potevo fare se non accettare?” Scarlet rise, una risata fredda, acuta, fastidiosa.
Tseng sentì una nuova fitta alla testa. Non si sentiva per niente bene.
“Reno,” continuò Scarlet, voltandosi verso la maestosa Midgar ricoperta dalla neve. “l’assemblea ha valutato le tue doti, durante quest’ultima missione. A differenza di altri, hai mantenuto la lucidità e hai cercato di fare la cosa giusta per la ShinRa. Congratulazioni, sei stato promosso da Assistente-Turk a Turk. Entro un paio di ore ti verrà assegnato un partner che ti accompagnerà nelle tue missioni”.
Il ragazzo alzò gli occhi e guardò Scarlet, meravigliato. Tseng ebbe l’impressione che lo scopo di tutto ciò fosse stato umiliare ulteriormente lui, ed ebbe l’insano desiderio di spingere la donna dalla finestra del proprio ufficio. Strinse i pugni, il volto impassibile, mentre osservava Scarlet congratularsi con Reno e spiegargli i suoi nuovi incarichi.
Quell’orrenda donna aveva preparato le cose per bene, quella volta.
Tseng si sentì uno schifo. E Scarlet era una maestra per far sentire così le persone che le stavano accanto. Un paio di volte, mentre la donna parlava, gli aveva lanciato un’occhiata sfuggente, con il suo solito ghigno sul volto, cercando di intravedere una reazione sul suo volto impassibile. Probabilmente si aspettava di vederlo abbassare gli occhi, ma non gli avrebbe dato quest’ulteriore soddisfazione. L’avrebbe licenziato, ma di certo non l’avrebbe umiliato.
“Puoi andare, Reno” disse alla fine Scarlet, stringendogli la mano.
Mentre usciva, Reno gli lanciò un’occhiata furtiva e preoccupata.
“Veniamo a noi, Tseng.” Scarlet lo guardò, non riuscendo nemmeno a trattenere il proprio ghigno. “Potrei parlare per ore del danno causato alla ShinRa, di come sbagliando hai derubato tutti i dipendenti della Corporazione eccetera eccetera. Potrei. Forse dovrei. Non credi anche tu?”
Tseng non rispose, limitandosi a fissarla nei suoi glaciali occhi azzurri.
“Si,” riprese Scarlet, mettendosi a camminare su e giù per l’ufficio. “dovrei. Ma non lo farò. Sarebbe un tale spreco di tempo, visto la sorte che ti aspetta!” la donna rise di nuovo, e Tseng strinse i pugni così forte da farsi male. “Anzi, ti dirò una cosa. Sai perché quest’uccisione ha causato così tanto scalpore? Non è la prima volta che qualche passante ci rimette la vita durante una missione. In un altro caso, ci saremmo limitati ad occultare il cadavere. Ma stavolta, non andrà così. Il problema non è stato aver ucciso la donna, ma l’aver messo in pericolo quella bambina. Probabilmente non lo sai ancora, ma quella ragazzina è molto importante per la ShinRa. Un giorno capirai cosa intendo.
Ora, l’aver ucciso la madre comporta l’averla resa diffidente nei confronti della ShinRa. Avremmo voluto che lavorasse in squadra con noi, quando sarebbe giunto il momento. Ma ora… tutto sarà più complicato. Non mi stupirei, Tseng, di sapere che hai compromesso l’equilibrio del pianeta. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di allontanarti a tempo indeterminato dalla Sezione Turk.”
Il ragazzo non si mosse ancora, né parlò. Non voleva che Scarlet considerasse il suo congedo come una vittoria personale. Maledetta Arpia…
“Verrai dimesso dal servizio oggi stesso. Ritorni un civile, e, come tale, le questioni private della ShinRa non saranno più tuo interesse. Se parli con qualcuno di quello che sai sui nostri progetti Top Secret, sapremo dove trovarti.” Concluse Scarlet, gettandosi una ciocca di capelli biondi oltre l’orecchio.
Scese il silenzio tra i due.
“Allora? Non hai nulla da dirmi?” chiese Scarlet, sperando in una sua reazione di qualche tipo.
Tseng non rispose. Si alzò in piedi e, con la mente rivolta ad altri pensieri, camminò verso la porta che dava sul corridoio grigio dal quale erano venuti, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
“Te ne vai così?” domandò Scarlet dalla sua scrivania. “Senza nemmeno dire una parola?”
Tseng si fermò, senza voltarsi verso la sua interlocutrice. “Quello che non ho detto è stato più eloquente di qualunque discorso carico di sentimento che avrei potuto fare” disse poi, con la solita voce calma e priva di emozione.
Avvertendo il gelido metallo sotto le dita, aprì la porta e uscì dalla luminosa stanza, sotto gli occhi di una donna che non avrebbe mai più rivisto, almeno fisicamente, per il resto della sua vita.
A quel tempo, Tseng era completamente all’oscuro di ciò che sarebbe accaduto in seguito; non immaginava che avrebbe vagato per tutta la notte per le strade di una gelida Midgar, cercando rifugio dal gelo che non concedeva scampo ai viandanti notturni; non sapeva che avrebbe trovato rifugio nei Bassifondi della città, e che, da quel momento, la sua esistenza sarebbe stata segnata, ogni notte, dai sogni, o forse erano incubi, su quella donna e sulle urla di una bambina che chiamava la sua mamma. Non era nemmeno a conoscenza di quando, per vincere il senso di colpa, avrebbe cercato la bambina, e di come l’avrebbe trovata, dopo giorni di ricerche, in un rudere abbandonato che un tempo era stato una chiesa.
Lei non l’avrebbe riconosciuto, Tseng avrebbe pensato che forse lo shock aveva cancellato il volto del killer dalla sua giovane mente. E lui le avrebbe mentito. Le avrebbe detto che era uno dei Turk che vigilavano su di lei, e da allora, ogni giorno, ogni momento che passava con lei, sarebbe stato un tentativo di espiazione.
Strano destino, il suo, da quel giorno; eppure sentiva di meritarselo.

 

FINE FLASHBACK

 

Si ridestò dai suoi pensieri quando riconobbe un insegna familiare posta sul lato di un vicolo. Smarrito nelle reminescenze di quel particolare giorno innevato, non aveva notato di essere ormai giunto in prossimità della sua casa. Oltrepassò i rifiuti che ingombravano gran parte dell’asfalto e scavalcò il corpo di un senzatetto che dormiva profondamente, russando. Superò un locale dall’aria discutibile ed un paio di ragazzi che lo osservarono malevoli, fino a giungere davanti ad una porta corrosa dalla ruggine.
Aprendola, si ritrovò davanti ad una stanza spoglia, quasi del tutto vuota se non per un letto, un piccolo armadio ed uno scrittoio all’angolo. Non poteva permettersi altro, con la miseria che riceveva dai suoi clienti. Ma non li biasimava, dopotutto lì nei bassifondi il denaro era una merce rara. Nessuno poteva permettersi spese inutili, neanche per assoldare una spia del suo calibro.
Si sedette su un letto, ad osservare il soffitto basso da cui penzolava un lampadario squallido.
Era strano pensare come quella bambina avesse cambiato la sua vita in ogni suo singolo aspetto, anche se non sapeva dire se in meglio o in peggio. Vivere nei bassifondi era… strano. I primi tempi era stato come se fosse invisibile. Tutti erano presi dalle proprie preoccupazioni, e raramente notavano quel ragazzo in giacca e cravatta, spaesato in quel devastato mondo di povertà. Successivamente, aveva imparato che lì nei bassifondi si entrava gradualmente, giorno dopo giorno: uno sguardo, un sorriso, l’offrirsi di aiutare qualcuno a portare i sacchi di cianfrusaglie dopo una giornata al mercato; e in breve si imparava a riconoscere un volto amico, e a scambiare qualche parola con lui, e magari anche a stringere amicizia. A quattro anni dal suo trasferimento, poteva ben dire di non ricordare quasi nulla della sua vita precedente. A pensarci era incredibile, ma non ricordava un tempo in cui non era solito svegliarsi con il rumore del rubinetto che perdeva o con i tubi di scarico che puntualmente gettavano il loro contenuto sul tetto della sua abitazione. I ricordi che precedevano il suo arrivo nei bassifondi erano ormai avvolti da una fitta nebbia, come se fossero stati solo una lunga digressione narrativa della sua vita ormai conclusa da parecchio tempo. Da parecchio sentiva che quello era ormai il suo posto, la sua casa.
La sua casa era vicino a lei.
Odiava ammetterlo, ma una delle cose che più amava dei bassifondi era lei. La sua presenza. Si, il giorno in cui Aerith Gainsborough per la prima volta gli aveva sorriso era entrato a far parte definitivamente dei bassifondi. Quando era con lei tutto era diverso, da parecchio tempo.
Aveva sempre pensato che non si sarebbe mai innamorato di nessuno. L’amore era una debolezza dell’uomo, il preludio della sconfitta. In guerra è così: non bisogna provare nessuna emozione verso il nemico; se provi compassione, o pena, o altro, presto perirai sotto le armi di un nemico che non si cura di te e che è stato più furbo, perché ha capito il vero gioco nella vita.
Eppure, con lei tutto era diverso. Quando stava con lei, era debole, lo sentiva, perché provava delle emozioni. Quasi mai nella sua vita, si era lasciato ferire dagli altri: non all’orfanotrofio, sopportando le crudeltà degli altri bambini senza batter ciglio, né durante il lungo periodo in cui aveva servito la ShinRa come Turk. Ma adesso, sentiva quella debolezza invadergli la mente, insinuarsi nei suoi più profondi pensieri, e non poteva fare nulla per fermarla. Qualcuno una volta gli aveva detto che quelle emozioni facevano parte dell’essere umano, e che non poteva privarsene. Tseng aveva sempre compatito coloro che ne erano schiavi. Ma adesso... non sapeva più cosa pensare.
Sospirò mentre si distendeva sul suo giaciglio, con lo sguardo rivolto verso il soffitto da cui, ogni tanto, cadevano pezzi di intonaco. Chiuse gli occhi e, lentamente, scivolò in un sonno profondo, in cui forza e debolezza si mischiavano con il rosso del sangue sulla neve bianca di un vicolo di periferia.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III
 
Quando Aerith si svegliò, la mattina dopo, provava ancora quel misto di tranquillità ed inquietudine che la pervadeva dall’incontro con Tseng. Parlare con lui era sempre stato strano. Lo sentiva scostante, a volte vicino, altre volte distante. Non era un tipo molto loquace, teneva tutto dentro di sé.
In effetti, Aerith non sapeva quasi nulla del ragazzo che da ormai quattro anni circa la visitava quasi giornalmente, se non il minimo indispensabile che lui stesso le aveva rivelato nel corso di quel tempo, in alcune sporadiche occasioni. Sapeva che era un Turk di professione, e che i suoi superiori l’avevano mandato a vigilare su di lei. Nient’altro. Che strano, però. Tseng stava sempre ad ascoltare ciò che lei gli narrava, anche per ore intere, senza mai annoiarsi, ma non parlava mai di sé. Ad Aerith non sarebbe dispiaciuto sapere qualcosa in più sul suo conto.
Fu questo desiderio che la spinse, durante la mattinata di quella splendente giornata di sole, a prendere parola su un discorso che ben presto avrebbe preso una piega inusuale.
Tseng era arrivato da poco, ed entrambi riposavano con la schiena poggiata sul polveroso parquet della chiesa.
Aerith si mise seduta e lo osservò, mentre quest’ultimo volgeva il proprio sguardo al cielo che si intravedeva da un buco sul tetto dell’edificio.
“Così ti impolvererai tutta la giacca!” rise Aerith, additandolo. “Sai, spazzare il pavimento non è il mio passatempo preferito!”
Tseng ricambiò il suo sguardo, alzando il busto e sedendosi a sua volta davanti a lei. “Fa niente, posso sempre lavarla!”
Aerith continuò a sorridere, mentre osservava i rigogliosi fiori, ormai sbocciati in tutto il loro splendore. “Giusto” assentì poi, avvicinandosi ad un paio di margherite gialle e carezzandone gli steli e la delicata corolla.
“Come mai così di buon umore?” chiese Tseng, mentre la osservava dare un po’ d’acqua alle margherite e ad un gruppo di tulipani lì vicino.
“E’ una bella giornata” esclamò Aerith voltandosi verso di lui. “L’estate è ormai alle porte… chissà che questa non sia la volta buona per lasciare definitivamente Midgar! Quanto mi piacerebbe viaggiare per il mondo, vedere nuovi luoghi…”
“Sai che io ti seguirei comunque” rispose Tseng.
“Si, immagino che la ShinRa ti ordinerebbe di non perdermi di vista nemmeno per un momento…” rifletté Aerith, facendosi seria. “Ma sai una cosa? Non me ne importerebbe nulla, purché sia tu ad accompagnarmi!”
La ragazza abbassò gli occhi, imbarazzata da ciò che le era sfuggito dalla bocca. Tseng si ridistese sul pavimento, osservando qualche frammento isolato di cielo azzurro che si intravedeva oltre le travi in legno della chiesa.
“Tseng, posso chiederti una cosa?” sussurrò dopo un po’ la ragazza, distendendosi di fianco a lui.
Lui annuì, senza staccare gli occhi dal tetto della chiesa. Aerith si fece coraggio.
“Ti andrebbe di raccontarmi qualcosa su di te?” chiese, tutto d’un fiato, aspettando una qualunque reazione.
Tseng si voltò a fissarla, con un’espressione interrogativa negli occhi. “Perché?” domandò.
Aerith ci mise un po’ per rispondere, come se stesse scegliendo le parole più adatte per addentrarsi in quell’ispido discorso. “Non c’è un perché…” cominciò, esitante. “E’ solo che… ti conosco ormai da tanto tempo, ed ho notato di sapere poco sul tuo conto… ma se non vuoi, io non…” si affrettò ad aggiungere poi, non volendolo forzare a rivelare cose che non voleva.
“No” rispose Tseng, interrompendola. “Tranquilla! E’ vero, in effetti non parlo molto di me…”
le sue labbra si incresparono in un sorriso. “Però è giusto che tu sappia almeno qualcosa! Cosa vorresti sapere?”
Aerith si alzò in piedi, e percorse a grandi passi la navata della chiesa. “Dimmelo tu” rispose con un sorriso.
“Beh…” cominciò lui, indeciso. Non poteva dire ad Aerith nulla di davvero importante sul suo passato, non avrebbe potuto svelarle la verità. Sarebbe stata la cosa giusta da fare, forse, ma non avrebbe potuto sopportare di perderla. Scosse la testa, per allontanare quelle sdolcinatezze. Quattro anni prima si sarebbe odiato per aver anche solo considerato di pensare qualcosa del genere. Com’era cambiato…
Alla fine, decise di raccontare una parte della verità, gettando in ombra quello che non voleva farle sapere. Cominciò dal principio, narrando della sua infanzia in quell’orfanotrofio squallido e cupo dagli alti cancelli invalicabili, e di come gli altri bambini lo ignorassero. Parlò di come la sua vita fosse cambiata il giorno in cui un uomo avvolto in un mantello nero lo aveva portato via da quella prigione e in cui aveva capito qual era il suo destino. Diventare un Turk. Narrò del duro addestramento della ShinRa, e di come alla fine era diventato uno dei migliori agenti della Corporazione in appena pochi anni.
“Caspita!” esclamò Aerith, non appena Tseng ebbe terminato la sua lunga storia. “Ed io, mentre tu viaggiavi per il mondo risolvendo conflitti internazionali, sono rimasta sempre qui, a Midgar!”
“Beh, ormai è da tempo che non mi viene più affidata nessuna missione in giro per il mondo” rispose Tseng. Non stava mentendo, perché essendo stato licenziato, ovviamente non poteva certo avere nuove missioni di nessun genere, né tantomeno che richiedessero un intervento all’estero. “Però credo di aver imparato a conoscere il nostro pianeta quanto basta, in questi anni!”
I grandi occhi di Aerith si illuminarono. “Davvero?” chiese, immaginando terre lontane da Midgar, deserti solitari, grandi foreste e sperduti villaggi posti in cima a montagne scoscese. Come sarebbe stato bello poter visitare tutti quei luoghi!
“Davvero” rispose Tseng, accennando appena un sorriso davanti alla sua meraviglia.
“E quindi sai tutto su ogni luogo di questo pianeta?”
“Beh, tutto è una parola grossa! Ci sono molti luoghi che non ho mai visto, ma in generale so abbastanza sui posti che ho visitato” rispose Tseng con semplicità, alzandosi da terra e osservando i gargoyle in pietra che adornavano i capitelli delle colonne poste agli angoli dell’edificio.
“E dimmi, è vero che c’è un serpentone gigante nelle paludi vicino Kalm Town?” chiese Aerith sempre più affascinata e curiosa.
Tseng si voltò ad osservarla, con un espressione interrogativa dipinta sul volto. Aerith era davvero una strana ragazza, a volte. Per la prima volta da tanto tempo un vero sorriso gli attraversò il volto. Il suono della sua risata appariva simile ad colpo di tosse, roco, come se si fosse arrugginito con il passare del tempo. In effetti, erano passati anni dall’ultima volta che aveva riso.
“Sono così stupida?” domandò Aerith, fingendosi offesa dal suo comportamento.
“No, non è colpa tua!” rispose Tseng, ancora con quel sorriso nostalgico stampato sul volto. “E’ solo che quella domanda mi ha fatto ricordare una persona che non vedo da tanto tempo…”
“Un vecchio amico?” chiese Aerith, avvicinandosi.
“Beh, si” rispose Tseng, “Un ragazzotto curioso, di nome Reno. Mi faceva sempre le domande più disparate, e si aspettava che io avessi la risposta a tutto ciò che mi chiedeva! Ricordo che non la smetteva mai di parlare, neanche nei momenti più critici, e che io avevo sempre una gran voglia di tappargli quella bocca! Eppure, adesso non mi dispiacerebbe rivederlo… chissà che cosa starà combinando…”
“Sembra un ragazzo simpatico!” constatò Aerith, mentre lo fissava.
“Già. Ti sarebbe piaciuto”.
Silenzio, forse un velo di imbarazzo appena percettibile attraverso l’atmosfera vibrante che si era creta durante quella conversazione. Un paio di api ronzavano intorno ai variopinti fiori al centro della chiesa. Aerith vi si avvicinò, ed osservò gli operosi insetti posarsi sulla corolla dei fiori per poi sparire all’interno del calice, alla ricerca del nettare.
“Dici che dovrei venderli?” chiese poi, cogliendo una rosa bianca.
“Come?”
“I fiori, intendo” specificò Aerith, indicando la rosa che teneva tra le mani.
“Ah…”
Tseng ci pensò un po’ su. “Perché no? Qui a Midgar non se ne vedono molti, in effetti”.
Aerith scosse la testa. “Neanche uno, qui nei Bassifondi! Da quel che ne so, io sono l’unica a coltivarne... potrei raccogliere abbastanza denaro per andarmene da qui! Non che il denaro sia l’unica motivazione, ovvio!” si affrettò ad aggiungere, per evitare malintesi. “In verità mi piacerebbe vedere questi luoghi un po’ più... variopinti! Il grigio è un colore così squallido!”
“E poi guadagneresti un sacco di soldi!” si affrettò ad aggiungere Tseng con un sorriso sarcastico.
“D’accordo, anche quello è importante!” ribadì Aerith scoppiando a ridere.
Tseng le si avvicinò lentamente, di sua spontanea volontà o forse ammaliato dalla sua splendida risata cristallina, e si inginocchiò anche lui dinanzi al campo di fiori. La sentiva vicina, vicina come non mai, nemmeno il giorno precedente erano arrivati a stabilire quel sottile contatto che in quel momento li stava unendo. Tseng sapeva che questo legame era stato rafforzato dalle sue parole di poco prima, che avevano messo a posto un altro tassello di quel mosaico che era il loro rapporto. Un intreccio di amicizia, velata dal labile confine tra l’inganno e il malinteso, oscurata da ciò che Tseng le nascondeva.
Amicizia. Solo semplice e pura amicizia.
Forse.
Poi, un gioco di sguardi, timidi, pudichi, dapprima insicuri, ma che con il tempo si facevano sempre più languidi, densi di un sentimento nuovo per entrambi, e che Tseng aveva da sempre disprezzato. Le cose stavano cambiando, anzi, erano cambiate ormai da tempo. La cecità è un male che si presenta sotto varie forme e in diversi aspetti, raggirando continuamente l’uomo. Ma prima o poi le nebbie si diradano, e tutto viene compreso per ciò che è realmente.
In quell’illusione generata nel mattino di una giornata come tante, sia Tseng che Aerith capirono qualcosa dell’altro. Nulla di particolarmente rilevante, in verità; tutto quello che compresero era già, in un certo senso, nascosto dentro di loro.
“Grazie” sussurrò Aerith, abbassando lentamente lo sguardo.
“Di cosa?” chiese Tseng, incuriosito dall’affermazione dell’altra.
“Sei l’unico con cui riesco a parlare davvero…” commentò Aerith. “Ti ringrazio”.
Per pochi istanti che durarono quanto una vita, nessuno dei due parlò. Tseng perse il suo sguardo tra le sfumature vermiglie delle rose di Maggio, e allungò una mano, istintivamente, per accarezzarle. Al tatto parevano di velluto, leggere, quasi evanescenti. Lasciò che la mano accarezzasse per intero la corolla della rosa più rigogliosa ma al tempo stesso effimera, che presto sarebbe sfiorita. Anche lei, nella sua condizione d’instabilità, sembrava volerlo spingere a non sprecare quel momento che stava già per seguire il flusso del tempo ed aggiungersi alla catena dei ricordi che formano l’esistenza. Ritirò il braccio da quel giardino variopinto. E mentre il senso di colpa cresceva di pari passo con l’ansia, si ritrovò a sussurrare, con il viso di Aerith a pochi centimetri dal suo, un distratto: “Non c’è di che”.
Dio, il vecchio Tseng sarebbe nauseato da ciò che sto facendo, si ritrovò a pensare, in un momento che sembrò protrarsi all’infinito. Un attimo dopo, si disse che il vecchio Tseng era morto il giorno in cui aveva lasciato la ShinRa. Per la prima volta, percepì sulla sua stessa pelle il cambiamento.
Quando le due labbra si sfiorarono, Tseng seppe con certezza di essersi lasciato un pezzo del suo passato alle spalle. Con un nodo allo stomaco causato dall’agitazione, o dal senso di colpevolezza che lo attanagliava, alimentò il bacio per ancora qualche secondo.
Poi si separarono, lentamente. Tseng riaprì gli occhi, pur non ricordandosi di averli mai chiusi, ed osservò le guance di Aerith tingersi di un lieve colore rosato, simile a quello del cielo all’alba.
La ragazza si distese per terra, con lo sguardo rivolto verso l’alto, verso alcuni raggi solari che si insinuavano perpendicolarmente tra le travi in legno che sostenevano il tetto. Non sembrava avere intenzione di parlare, ma a Tseng non importava. Attraverso quel silenzio sentiva i sentimenti di Aerith permeare nell’aria, come se la sua dolcezza e la sua allegria rifulgessero di luce propria, rischiarando la stanza al pari del più splendente raggio di sole.
Si distese accanto a lei, ad osservare il polveroso e cadente tetto dell’edificio. Dove le travi avevano ceduto, era possibile ammirare il blu profondo del cielo, interrotto saltuariamente da qualche pallida nuvola passeggera.
Tseng si fece serio, mentre un turbine di pensieri contrastanti si facevano strada nella sua mente. Ecco, l’inganno adesso era completo. Sapeva che tutto era cambiato, che gli avvenimenti di quel giorno avevano svegliato qualcosa che attendeva, sopito, di poter emergere a galla: qualcosa di puro, che veniva insozzato dal suo silenzio. Se avesse detto quello che realmente era successo in quella fredda mattina d’Inverno, la cosa che avevano svegliato quel giorno sarebbe morta, paralizzata in un gelo che mai si sarebbe sciolto. Ne era sicuro, ed era impossibile, in effetti, che andasse in un modo diverso rispetto a quello che, tante volte, aveva immaginato nella sua testa. Aerith avrebbe forse detto che non era importante ciò che aveva fatto? Che non aveva intenzione di ucciderla quando aveva sparato? No. Era inutile cullarsi in illusioni del genere.
 Accanto a lei, in quel momento, c’era il mostro che le aveva rubato l’infanzia; e per quanto lui fosse cambiato, forse indebolito, per quanto un omicidio, pochi anni prima, non lo avrebbe minimamente scalfito, per quanto il tempo fosse passato e avesse portato inevitabili mutamenti, nulla le avrebbe impedito di odiarlo, disprezzarlo, allontanarlo. Nessuno l’avrebbe biasimata.
Il silenzio gli sembrò l’unica strada che potesse preservare l’illusione, quell’illusione di cui Aerith era il fulcro, e che lui applicava a forza sulla realtà, distorcendola.
 
 
 
 
 
 
Da quel giorno, non passò un momento che Tseng non trascorresse nella chiesa diroccata dei bassifondi di Midgar, insieme ad Aerith. La Primavera, giorno dopo giorno, cedette il posto all’Estate, e al profumo dei fiori della chiesa si sostituì quello della salsedine portato dalla brezza che soffiava sulle coste lì vicino.
La osservava mentre curava i fiori che, dopo la lussureggiante Primavera, adesso avevano bisogno di più attenzioni a causa della siccità della bella stagione. Gettava su di lei il suo sguardo mentre, poggiato con la schiena ad una colonna, i suoi pensieri vagavano indisturbati. Trascorrevano così, a volte, lunghe giornate, senza nemmeno parlare tra di loro, scambiando solamente qualche sguardo d’intesa, ogni tanto.
Altre volte, invece, nelle giornate in cui l’afa era appena sopportabile, si rintanavano entrambi nell’angolo più fresco della chiesa, lontano dalle alte vetrate da cui filtravano raggi di sole, per parlare. In verità, non è che lui parlasse molto. Preferiva ascoltare le parole di Aerith, i suoi racconti, ogni cosa di cui lei lo rendeva partecipe. Ogni tanto Tseng interveniva con qualche commento, o per chiedere un chiarimento su qualcosa. Gli piacevano quelle lunghe chiacchierate nella penombra degli afosi pomeriggi estivi: non era mai stato molto interessato ai contatti umani, prima di conoscerla. Li aveva creduti solo punti di debolezza, come tutte le altre esternazioni di sentimenti. Adesso, invece, aveva notato che era interessante stare ad ascoltare, anche per ore, i discorsi pieni di felicità ed ottimismo di Aerith. A volte quest’ultima gli domandava qualcosa, con gli occhi grandi e curiosi simili a quelli di una bambina che per la prima volta vede il mondo; gli chiedeva di narrargli delle terre inesplorate del Pianeta, se fosse vero che al Nord facesse così freddo o se, invece, ci fossero luoghi dove il sole splendeva per tutto l’anno; e lui sorrideva appena, increspando le labbra, e rispondeva alle domande, osservando divertito il genuino stupore di Aerith nel conoscere nuove cose sul mondo nel quale viveva.
Ogni giorno si affrontavano nuovi discorsi, nuove teorie su argomenti anche astratti che venivano argomentati mediante delle tesi più o meno esatte; ed ogni volta, entrambi imparavano qualcosa di nuovo, che offriva spunti per ciò di cui avrebbero parlato nel giorno successivo.
In verità, l’unico argomento di cui non facevano parola era proprio la loro storia, che andava ormai avanti da parecchie settimane. Forse per un leggero imbarazzo, forse perché non ce n’era bisogno, poiché il rapporto continuava a consolidarsi durante quegli incontri che ormai avvenivano giornalmente.
E così, mentre le giornate divenivano più secche con il passare del tempo, il loro rapporto andava sempre di più evolvendosi. Tseng parlava molto più spesso, e a volte l’aiutava nell’estirpare i fiori che erano ormai stati seccati dalla calura del clima estivo. Entrambi si sentivano coinvolti da quella relazione che si faceva sempre più intima, ad ogni attimo che trascorrevano insieme.
Fu così che, nel tepore estivo di una serata di fine Luglio, si ritrovarono ancora una volta con la schiena poggiata sul freddo e lucido marmo della colonna, alla flebile luce di alcune lampade ad olio che rischiaravano appena i loro visi.
Aerith si cingeva le gambe con le braccia, pensierosa, mentre Tseng, accanto, non parlava, immerso nella sua apatia, osservando alcune zanzare avvicinarsi alla lampada ad olio, attratte dall’aureo pallore di quest’ultima e dal suo calore.
“A cosa pensi?” chiese d’un tratto la ragazza, facendolo trasalire.
“A niente” si affrettò a rispondere lui, scostando lo sguardo dalla lampada assediata dagli insetti.
“Non puoi non pensare a niente!” esclamò Aerith, sorridendo. “E’ un controsenso!”
“Allora stavo riflettendo”
“E su cosa?”
“Niente di rilevante, te l’ho già detto!” rispose Tseng lanciandole un’occhiata divertita.
“Non mi nascondi qualcosa?” gli domandò Aerith, pizzicandolo in un braccio con una smorfia allegra.
Tseng si ritrovò a sorridere e a mentirle nuovamente, mentre il rogo del senso di colpa ardeva in lui. Si, le nascondeva qualcosa; e non poteva fare a meno di tormentarsi con questo pensiero, sapendo che prima o poi la verità sarebbe saltata fuori, e che tutto quello che adesso aveva – Aerith, quella vita nei bassifondi che, inizialmente odiata, in fondo non era male – sarebbe finito. E sapeva anche che Aerith, al di fuori di quella parentesi che andava ormai avanti da parecchi anni, l’avrebbe sicuramente odiato.
Non avrebbe mai finito di ripeterselo.
“No” sorrise il ragazzo. “E’ solo che... sono state giornate pesanti, all’ufficio Turk…”
Aerith non rispose. Si avvicinò ad una delle alte finestre, immersa nella penombra e nell’oscurità della notte. Non era molto tardi, in verità: potevano essere le nove, o forse, volendo esagerare, le dieci, ma il buio, in quella parte di Midgar, era sempre lo stesso, dal crepuscolo fino all’alba: uniforme e continuo, da sembrar quasi infinito, fuori da ogni margine di tempo e spazio.
Poi si voltò, avvicinandosi a lui che aveva chiuso gli occhi, per riflettere o semplicemente a causa della stanchezza.
“Immagino che in notti come questa i Turk siano sempre in agguato, in attesa di eventuali attacchi delle bande terroristiche di Midgar…” disse Aerith, indicando il nero oltre la finestra.
“Già” assentì Tseng, senza aver realmente ascoltato le parole della ragazza.
Aerith gli si avvicinò, lentamente, abbassandosi di fronte a lui, e sorrise. Era un sorriso tenero, di quelli che si fanno ai bambini timidi che, in presenza di estranei, non proferiscono parola, preferendo restare dietro le gonne delle loro madri.
“Sai che dovresti ridere di più?” scherzò, poggiando la propria testa sulla spalla del ragazzo.
Tseng fece una strana smorfia, a metà tra un sorrisetto e un espressione disgustata. “Non sei la prima persona che me lo dice”.
“Non avremo forse ragione a ripetertelo? Un sorriso fa bene all’anima, ricordatelo!”
Tseng strinse forte la ragazza, riflettendo sulle sue parole. Che bene poteva fare all’anima, si disse, un falso sorriso? La risposta la sapeva già, era stato stupido persino a formulare quella domanda.
I sorrisi di solito sono spontanei, contagiosi, e possono nascere da un qualsiasi avvenimento, da una qualunque sensazione: Aerith e Reno erano dei perfetti esempi di come si potesse fare dell’allegria il proprio stile di vita. Lui invece era diverso. Magari avrebbe anche voluto essere come loro, gonfiando il cuore di gioia per ogni piccolezza che la vita gli offriva, ma gli risultava impossibile. Era sempre stato insensibile a questo genere di cose. Ed anche se molte cose erano accadute, ed altrettante erano cambiate, non si può mutare di punto in bianco, non si può semplicemente svegliarsi una mattina e decidere di cambiare.
“Forse hai ragione” rispose lui, atono.
“Già, forse…” gli fece eco Aerith, divertita.
Entrambi rimasero in silenzio per qualche istante. La ragazza era assonnata e decise di chiudere gli occhi, ancora poggiata alla spalla di Tseng. Non dormiva, però; al contrario, sentiva ogni suono, ogni più piccolo rumore attorno a loro, e si aspettava che da un momento all’altro il ragazzo parlasse, e che spezzasse quel mutismo degli ultimi minuti.
“Aerith?” chiese infine, in tono incerto, Tseng, per controllare se dormisse.
“Mm?” rispose lei, rimanendo con gli occhi chiusi.
Tseng deglutì, trovando il coraggio per addentrarsi nel discorso che aveva deciso di intraprendere. “Vedi… io…”
Aerith aprì gli occhi, e lo osservò, curiosa. “Si?”
Non riusciva a trovare le parole giuste. Aprì la bocca e la richiuse, inebetito. Avrebbe voluto cominciare un discorso profondo su quanto lei significasse per lui, su come lo facesse sentire, sui nuovi sentimenti che stava provando, in quelle giornate screziate dai luminosi raggi solari estivi che irradiavano Midgar di luce. Avrebbe voluto parlarle, dirle che l’amava, che l’amava ormai da parecchio tempo, e che probabilmente quelle ultime settimane erano state le migliori della sua vita. Roba che, pochi anni prima, lo avrebbe semplicemente fatto vomitare.
Fu in quel momento che, spinto da un impulso selvaggio, nuovo per lui ma vecchio come il mondo, la attirò a sé e la baciò. Fu un lungo bacio, più sensuale e naturale rispetto ai precedenti; Aerith fu colta di sorpresa, ma capì quello che lui voleva dirle, senza bisogno di una parola. Rispose al bacio, come se stesse dando una risposta alle parole mai dette da Tseng, come se gli stesse dicendo che anche per lei era la stessa cosa, e che lui era speciale, e che era sempre stato il suo miglior amico, e non solo una guardia del corpo. Ringraziò di essere unica al mondo, di avere quei poteri che spingevano la ShinRa, causa di tutti i suoi mali ma, incredibilmente, anche di qualche bene, a proteggerla.
Le labbra erano ormai a stretto contatto; quel sentimento a cui Tseng non era riuscito a dare un nome, quella passione così travolgente, li aveva ormai fatti suoi succubi. Si separarono per un momento, poi riunirono le labbra, con più foga di prima. Tseng scese giù, lungo il collo, arrivando sul morbido incavo sul collo, mentre Aerith chiudeva gli occhi, ansimante. Ormai sapevano entrambi cosa sarebbe successo, e non fecero nulla per impedirlo.
Un altro lungo bacio, intervallato dai sospiri di entrambi. Le mani di Tseng accarezzarono le esili forme della ragazza, dall’addome, sfiorando il seno, fino al fianco e alla natica. Il ragazzo si sfilò la giacca e la cravatta dell’uniforme, gettandole a terra e sollevando uno sbuffo di polvere.
Quello che accadde in seguito, in realtà, non risultò chiaro a nessuno dei due; al mattino dopo, entrambi ricordavano solo un bailamme di sensazioni, di pensieri, sprazzi di memorie e sensazioni che si perdevano nel bianco dell’oblio, che forse era anche purezza.
Tseng ricordava di come fosse entrato in lei, ansante, e i suoi leggeri sospiri di piacere, ma che, forse, erano gemiti di dolore (era sicuro di averle fatto male). Ricordava di aver pensato come quell’atto stavolta fosse così diverso, rispetto alle altre volte in cui l’aveva fatto, forse perché era la prima volta che amava davvero qualcuno.
Stranamente, ricordava anche dettagli inutili, sensazioni del tutto prive di significato ma che gli erano rimaste impresse nella mente, come delle fotografie.  Ricordava di aver udito alcuni volatili sostare tra le travi della chiesa e poi riprendere il volo, non notando il trambusto che avveniva sotto di loro; ricordava di come il marmo della chiesa gli era sembrato lucido, splendente come l’oro alla luce delle lampade ad olio che rischiaravano la stanza; ricordava di aver udito qualche sospiro, o forse qualche parola, provenire da Aerith, e che non gli aveva nemmeno prestato attenzione…
Per il resto della notte era rimasto vincolato ad Aerith, stretto in un abbraccio, aspettando la rosea alba che era infine giunta, e che aveva portato con sé il giorno. Quando sottili raggi di sole filtrarono dalle tegole del tetto, annunciando l’avvento di un nuovo mattino.
“Devo andare” sentenziò infine Tseng, cercando di ritrovare i suoi vestiti, sparsi sul pavimento dalla notte precedente.
Aerith si rizzò in piedi, anche lei alla ricerca del proprio vestito. “Così presto?” chiese poi, delusa.
“Presto?” ripeté Tseng abbottonandosi la camicia e cercando di annodare nuovamente la cravatta. “Sono qui da circa dodici ore!”
La ragazza sorrise. “Va bene, dopotutto avrai da fare!” sussurrò poi, dolcemente.
“Non immagini quanto!” le rispose Tseng, rimettendosi la giacca e rassettandosi i vestiti.
Si diresse verso una delle vetrate e vi si specchiò, per controllare che fosse in ordine.
“Tornerai presto?” chiese Aerith da dietro di lui, con un tono di voce che riusciva a stento a trattenere l’entusiasmo.
Tseng si voltò e la osservò attentamente. Era radiosa, così bella nonostante non avesse dormito, con uno sguardo così limpido, simile a quello del cielo in Estate… pensò che quella fosse stata la più bella notte della sua vita.
“Molto presto” sussurrò, in tono rassicurante, prima di darle un ultimo dolce bacio.
Mentre usciva dalla chiesa, si voltò un ultima volta, per osservarla di nuovo, prima di andar via. Aerith stava guardando verso il cielo, o verso quel poco che se ne vedeva, con uno sguardo felice, immersa nei suoi pensieri.
Tornerò presto…
A dirla tutta, è strano come il destino, a volte, si accanisca contro l’uomo. Loro non lo sapevano, certo, ma quando Tseng osservò, sullo stipite della porta, la sua Aerith, fu l’ultima volta che la vide. Entro poche ore, gli eventi sarebbero precipitati, e il fato avrebbe vinto ancora una volta sull’ignaro uomo.
Al ché sorge spontaneo l’interrogativo: e se l’uomo sapesse? Potrebbe forse cambiare il destino? Probabile. Ma l’ignoranza è forse il peggiore tra i mali di questo mondo, e l’essenza dell’uomo è proprio quella. Ignoranza. Se fosse anche solo un po’ più scaltro, l’uomo riuscirebbe a sfuggire dai propri mali, a volte persino dalla morte.
Certo, dalla vera Morte è impossibile sfuggire; le sue spire ti avvolgono, ti stritolano, ti lasciano ansimante, senza fiato, sulla via per un mondo sconosciuto e del tutto nuovo; ma la cosa più importante da fare, durante il percorso verso quel mondo, è chiudere i conti col passato per evitare i rimpianti del futuro.
Anche Tseng, entro poche ore, avrebbe sperimentato questa strada, spinto dai suoi errori del passato o forse dalla follia; e ne sarebbe uscito vittorioso, ma forse solo in parte.
Per il momento, chiudendo la porta della chiesa alle sue spalle, salutò il mondo, per la prima volto dopo moltissimo tempo, con un sorriso.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

 
Aerith Gainsborough chiuse la porta della chiesa alle sue spalle. Sfiorò per un momento il legno, avvertendone la superficie ruvida, poi lasciò la maniglia in ottone e volse lo sguardo verso l’appena sveglia Midgar dei bassifondi. Il sole non era ancora alto nel cielo; l’aria era fresca, come quella della notte appena trascorsa. Inspirò profondamente, cominciando a camminare senza però avere una meta precisa: non aveva programmi per quella giornata che si preannunciava già soleggiata ed afosa come le altre, non finché Tseng non sarebbe nuovamente venuto a visitarla, nella sua chiesa.
Sapeva che sarebbero passate parecchie ore. Il ragazzo se n’era andato appena pochi minuti prima e, se aveva un lavoro da fare per conto dei Turk, non sarebbe tornato prima di mezzogiorno, per essere sicuro che tutto fosse andato liscio. Di conseguenza Aerith, dato che in quella stagione non poteva più far  nulla per accudire i fiori, aveva deciso di uscire per un po’, e di respirare l’aria fresca del primo mattino.
Non  c’era ancora molta gente, in giro: incontrò prevalentemente uomini, contadini che si dirigevano ai margini di Midgar con grandi cesti di vimini per il raccolto. Le matrone con in braccio i figli sarebbero venute più tardi, quando il sole avrebbe raggiunto lo zenit, affollando le vie contigue al mercato. 
Camminò per qualche minuto, affondando i piedi nel terriccio che ricopriva le strade e i vicoli; ad ogni passo produceva un lieve tonfo, sollevando una piccola nube di terra che si perdeva nell’azzurro limpido del cielo all’orizzonte.
Giunse infine al vecchio parco giochi del Settore 5, solitamente teatro delle gesta di numerosi bambini ma a quell’ora così quieto, deserto, quasi innaturale. Il vento faceva cigolare le altalene arrugginite, ora piano, ora forte; Aerith vi si avvicinò, ne bloccò una con il palmo della mano e vi si sedette sopra, appoggiando la testa su una delle due catene. Al tatto, il metallo che serviva a mantenere in equilibrio l’altalena era gelido, come indifferente all’afa del mese di Luglio.
La ragazza pensò a lungo, mentre era con il capo poggiato sulla fredda catena; era così assorta nelle sue riflessioni che non si accorse di quando un paio di bambini entrarono oltrepassando i cancelli in ferro del parco giochi, né di come il sole, in poco tempo, si fece alto nel cielo, illuminando perpendicolarmente tutta la città che viveva sopra il piatto. Si limitava a pensare, con lo sguardo perso nel vuoto: pensava alla precedente notte, quella notte in cui qualcosa di nuovo era cominciato, qualcosa di vivo, e guizzante, che si era inserito nel suo rapporto con Tseng. Lo sentiva vicino, vicino a lei come non lo era mai stato; era da quella sera di ormai parecchie settimane prima che il loro rapporto progrediva, a volte lentamente, altre volte a grandi passi, come ad esempio nella notte scorsa. Ogni giorno sentiva sempre qualcosa di nuovo, che cresceva, dentro di lei, e che quella notte, per la prima volta, aveva sentito come parte di sé, come qualcosa da proteggere e che richiedesse costantemente cure e attenzioni. Era amore? Probabilmente si. Non ne era però così sicura, era una sensazione che non aveva mai provato prima.
Il rumore di una risata, particolarmente fragorosa, arrivò alle sue orecchie; si riscosse dal torpore nel quale era caduta e vide un gruppo di bambini che ridevano, giocando a pochi metri da lei. Sorrise, non riuscendo più a trovare il filo conduttore che fino ad allora l’aveva guidata per i suoi pensieri, e si alzò dall’altalena, con un altro cigolio. Oltrepassò il cancello del parco giochi e si incamminò nuovamente per la via principale, verso il mercato, a quell’ora parecchio affollato. Molta più gente, adesso, passeggiava per le vie, come lei; ai contadini e i braccianti agricoli si erano sostituite donne di tutte le età, che sbrigavano commissioni o altro e che erano seguite da bambini, più o meno trasandati e dall’aria annoiata. Tenne gli occhi bene aperti, adesso, per evitare di pestare i piedi a qualche donna o di urtare qualche bambino distratto.
In quel  bailamme di gente, parole, opinioni, di migliaia di passi che si susseguivano ininterrottamente, un uomo, poco più che un ragazzo, attirò la sua attenzione. Era molto giovane, ma non quanto lei; potevano avere due, al massimo tre anni di differenza.
La prima cosa che notò, guardando i suoi occhi limpidi e glaucopidi, fu che aveva lo sguardo di un bambino, innocente ma con una sorta di guizzo dispettoso che s’intravedeva velatamente nei suoi occhi. Aveva capelli rossi che sfumavano nel cremisi, disordinati davanti e raccolti in una coda che scendeva fin in mezzo alle scapole.
Lo osservò attentamente: era a pochi metri di distanza da lei, e sembrava interessato a qualcosa che un venditore ambulante aveva esposto su un tavolo; osservava con attenzione, diceva qualcosa, e poi tornava a guardare la mercanzia, ridendo sotto i baffi. L’uomo aldilà del bancone lo osservava come se fosse del tutto fuori di testa.
Inizialmente, non seppe dire perché quel bambino troppo cresciuto avesse attratto così tanto la sua attenzione; tutto ciò che sapeva di quel tipo, in fondo, e che non sembrava essere dei bassifondi, data la sua allegria e la sua apparente giovalità.
Lo osservò più da vicino; ora che ci pensava, in effetti, gli sembrava di aver già visto quel giovane, di riconoscere i suoi lineamenti, di aver già sentito la sua voce da qualche parte, prima di quel giorno. Vide il suo abbigliamento: giacca, cravatta, un distintivo ed una fondina attaccata alla cintura. Roteò gli occhi: avrebbe dovuto immaginarselo.
Quell’uomo era un Turk.
Tuttavia, non le sembrava che fosse mai venuto a farle da guardia nella chiesa, e in altri modi non avrebbe potuto conoscerlo. Non incontrava mica Turk tutti i giorni. Si avvicinò ancora alla bancarella. Adesso riusciva a sentire anche le parole e il tono di voce allegro del ragazzo.
“Mmm… mi dica, a cosa serve questo?” chiese il Turk, adocchiando un contenitore dalla forma bizzarra.
“Ci puoi conservare la carne di Chocobo in sottaceto” sbuffò il venditore, sperando che quel giovane se ne tornasse da qualunque luogo fosse venuto.
“E basta?” esclamò deluso l’altro. “Non potrei utilizzarlo, ad esempio, per conservare sottaceto il fegato delle mie vittime? Sa, io sono un assassino, agisco di notte, incuto terrore!”
“Puoi utilizzarlo anche come tagliacarte, se ci riesci!” sbottò l’uomo sospirando.
“E questo cos’è?”
“Uno schiaccianoci”
“E come funziona?” chiese il ragazzo dai capelli cremisi, affascinato.
“Prendi le noci, le metti qui sotto e poi le schiacci!” rispose il negoziante, esasperato.
“Interessante, ma perché vorrei voler schiacciare delle noci?”
“Non devo mica saperlo io, se hai voglia di noci puoi schiacciarne quante ne vuoi!” rispose l’altro, spazientito.
Il giovane lo fissò, sbigottito. “Ma io non ho mai detto di avere voglia di noci!”
“Allora schiaccia le pietre!” urlò quello gettandogli lo schiaccianoci tra le mani. “Vedi? Te lo regalo, facci quello che ti piace, basta che te ne vai!”
“Eh, ma che modi!” esclamò il ragazzo, allontanandosi e scoccando un’occhiataccia all’uomo.
Aerith aveva assistito divertita al siparietto, con un timido sorriso che le increspava le labbra. Quando il ragazzo la notò, diresse su di lei il suo sguardo da ragazzino indomabile e si avvicinò.
Quando i due sguardi si incontrarono, Aerith, d’un tratto, si ricordò dove aveva incontrato quel ragazzino: i ricordi che la legavano a quel volto sorridente erano intrisi di sangue, e mettevano le loro radici in una giornata d’Inverno di parecchi anni fa, quando aveva perso sua madre nell’oscurità di quel vicolo, tra le sue lacrime ed i vapori delle caldaie, tra quell’assassino senza volto che odiava e quel ragazzo, allora più giovane, che aveva cercato di fermarlo.
“Salve!” esclamò il ragazzo non appena fu a qualche metro da lei.
Aerith non rispose al saluto. Le era venuto un cerchio alla testa, come se avesse l’influenza, si sentiva debole, non riusciva a ragionare con lucidità…
“Si sente bene?” chiese il ragazzo, guardandola preoccupato. “Non ha mica una bella cera!”
Non  rispose. Le girava la testa…
“Venga, si sieda un momento!” esclamò quello, prendendola per un braccio e cercando di accompagnarla verso una panchina lì vicino.
“N-no, grazie” sussurrò lei, con una voce tremante che non riconobbe come sua. “Mi lasci andare…” cercò di sottrarsi alla presa del ragazzo.
“Ma non sembra stare molto bene! Se solo mi lasciasse chiamare un…”
“Ho detto di no!” rispose lei, forse un po’ più forte di quanto avrebbe voluto. Un paio di curiosi si voltarono verso di loro, prima di ritornare alle loro occupazioni abituali.
Il ragazzo sembrava mortificato. “Mi scusi… volevo solo aiutare…” bofonchiò, a testa bassa. Quando rialzò il capo, incontrò nuovamente il volto della donna, ed i suoi luminosi occhi verdi, in quel momento così spaventati e pieni di incertezza… li aveva già visti?
“Ci conosciamo?” chiese, con un po’ d’incertezza nella voce, scrutandola inclinando la testa, come fanno i bambini quando osservano qualcosa di strano con attenzione.
Aerith abbassò gli occhi, biascicando qualcosa sul fatto che non si conoscessero e che doveva andare subito. “Mi dispiace di averla fatta preoccupare” aggiunse, prima di voltarsi e scappare via.
Il ragazzo la osservò allontanarsi. Ne era sicuro, conosceva già quello sguardo spaventato nei suoi occhi.
Poi un nome risuonò nella sua mente, ma era un’idea così assurda e così improbabile che la accantonò subito. Eppure… quel nome, così improbabile ma al tempo stesso così ovvio, gli risuonò di nuovo in mente, così spontaneo che non si accorse nemmeno di averlo lasciato sfuggire tra le labbra…
“Aerith Gainsborough”.
La ragazza si voltò, con il terrore misto a rabbia negli occhi. Sembrava sul punto di piangere.
“Tu sei Aerith Gainsborough!” ripeté il ragazzo, con stupore.
Lentamente, lei annuì, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche.
“Mi chiamo Reno. Sai… sai chi sono io?” chiese il Turk, serio.
Aerith annuì di nuovo, mentre una prima lacrima solcava il suo volto.
“Sediamoci qui” disse lui, indicando la panchina che le aveva già precedentemente consigliato.
Questa volta, Aerith non oppose nessuna resistenza. Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e attese che Reno parlasse, i pugni ancora serrati.
“C-come stai?” chiese Reno, incerto su che cosa dirle, con lo sguardo chino.
“Non mi lamento” rispose lei, con un tono di gelo nella voce.
“Si… mi fa piacere… davvero…”
Entrambi rimasero in silenzio, chi per rabbia e chi per imbarazzo. Passò qualche minuto nel quale nessuno dei due parlò, poi Reno si fece coraggio.
“Tua madre era una gran donna” disse, attirando su di sé lo sguardo sia furente che attonito di Aerith. “Quando è successo… ho letto il dossier che abbiamo alla ShinRa su di lei. Era una brava persona, sempre pronta ad aiutare il prossimo, e…”
“Tu  non sai niente di mia madre!” lo interruppe la ragazza, furente.
“Vero” ammise Reno. “Non so niente di davvero importante su di lei. Non conosco i sentimenti che provava, né le sue emozioni, né le sue speranze, ma so che era una brava donna, che ti ha preso con sé e che ti amava più di ogni altra cosa al mondo! Non credi?”
Aerith abbassò nuovamente lo sguardo, e, quando rispose, il suo tono di voce era calmo e controllato, velato dalla tristezza e dalla malinconia. “Si. Lei… lei era davvero eccezionale…”
Reno cercò per un momento le parole più adatte per introdurre un discorso delicato come quello. Alla fine sospirò e si preparò ad affrontare una tra le conversazioni più impegnative della sua vita.
“Sai cosa stavamo facendo, io e il mio partner per le missioni di quel tempo?” disse, guardando in basso per non incrociare il suo sguardo. “Davamo la caccia ad un malvivente che spacciava materie illegali nei piani alti di Midgar, con gente potente… era un pericolo per la comunità, ed allora ci avevano dato l’ordine di fermarlo. Di ucciderlo, anzi.” Si interruppe un momento, guardando Aerith che era rimasta impassibile.
“Lo trovammo ed iniziò un inseguimento, che si concluse in quel vicolo dove vi trovavate anche voi… avremmo soltanto dovuto ucciderlo, e sarebbe finita lì. Ma il nostro nemico non era così stupido come pensavamo… prese tua madre in ostaggio, e quando il mio partner, per cercare di fermarlo, sparò a vista…” non concluse la frase, sapendo benissimo quante volte Aerith, dentro di sé, aveva rivissuto quella scena.
E così, si disse la ragazza, quella era stata la dinamica dei fatti che il destino aveva messo in moto quando lo spacciatore di materie aveva cominciato il suo sporco lavoro. Era già stato tutto previsto quando quel delinquente aveva venduto per la prima volta una materia e la sua anima? Non era stato possibile far nulla perché il partner dell’uomo che adesso le stava accanto centrasse l’obiettivo o non sparasse affatto? Che sarebbe successo se un solo evento di quella catena fosse stato diverso? Sua madre sarebbe stata ancora viva, insieme a lei, e avrebbe abitato in quella casa che, senza la sua presenza, era così vuota da far quasi male?
“Ti senti bene?” chiese per la seconda volta il Turk, comprensivo.
“Si...” rispose Aerith, senza pensarci troppo, perché era la verità. Poi una domanda le attraversò la mente. “Che ne è stato del tuo partner?” chiese, osservandolo.
Reno sospirò. “Venne allontanato dai Turk in quello stesso giorno, poche ore più tardi. Per aver messo in pericolo la vita di un’Antica, sai” e la squadrò da capo a piedi. “Di lui non so più nulla da quel giorno. Alcuni miei amici dicono di averlo visto di sfuggita qui, nei bassifondi…” si guardò un attimo intorno, nella speranza di intravederlo tra la folla. “Io, comunque, non ne ho più saputo nulla”.
Calò nuovamente il silenzio tra i due, coperto dal brusio della folla che passava di lì. Entrambi erano immersi nei propri pensieri.
“Grazie” sussurrò poi Aerith, guardando fisso davanti a sé.
“Per cosa?” chiese il Turk, guardandola inclinando il capo.
“Per avermi detto la verità” rispose Aerith, spostando lo sguardo verso di lui.
Reno abbozzò un sorriso paterno. Le sue mani si strinsero sullo schiaccianoci che quel negoziante, poco prima, gli aveva dato, e, improvvisamente, ebbe un’idea.
“Tieni!” disse, porgendoglielo con un sorriso.
“Uno schiaccianoci?” chiese Aerith, inarcando un sopracciglio.
“Si!” esclamò Reno, come se il suo fosse stato il gesto più ovvio al mondo.
“Scusami, ma non riesco a capire!” esclamò Aerith, poco convinta.
“Beh, non ci riesci perché non c’è nulla da capire!” rispose Reno, facendole l’occhiolino.
La ragazza lo guardò, per un momento, come se fosse un fenomeno da baraccone. Poi, lentamente, le sue labbra si incresparono in un lieve sorriso, che si allargò sempre di più.
“Vedi, ci sono riuscito!” urlò Reno, ridendo.
Aerith dovette ammettere che Reno, con quel gesto apparentemente senza senso, era riuscito a spazzare tutta la malinconia e la rabbia che aveva provato vedendoselo davanti. D’altra parte, Reno non aveva nessuna colpa, se non quella di risvegliare in lei ricordi dolorosi. Ma anche in questo caso, non era davvero lui il responsabile, ma lei stessa.
“Sono contento di averti fatto ridere” disse Reno, in tono mite.
Ed a quel punto successe l’irreparabile. Il destino aveva attuato la sua trappola, tessendo una tela che li comprendeva entrambi: e l’aveva elaborata per giungere, finalmente, all’agognata verità. Non ci fu nulla che poté impedire a Reno di continuare quella frase e di decretare la fine di un’illusione durata fin troppo tempo. Mentre il sole cominciava il suo declino verso le ore pomeridiane, Reno aprì nuovamente la bocca, e pronunciò la prima frase di un discorso che non avrebbe mai terminato.
“Sai” disse. “Sono sicuro che anche Tseng avrebbe…”
A quel nome, istintivamente, Aerith si voltò verso di lui, guardandolo con attenzione.
“Tseng?”
“Si” rispose Reno, guardandola sospettoso. “Era il nome del mio partner di quel giorno”.
Fu come se avessero disattivato l’audio improvvisamente. Aerith non fece più caso alla folla, al sole che riscaldava quella giornata, al freddo della panchina metallica su cui s’erano seduti. Non ebbe più consapevolezza di cosa stesse accadendo attorno a lei, ma non le importava. Nella sua mente, ancora la stessa scena di quella mattina d’Inverno di 4 anni prima: ma stavolta, l’assassino aveva un volto, una voce, delle mani con cui commettere un delitto, quelle stesse mani che la notte prima l’avevano accarezzata.
Stavolta, anziché di sedersi, ebbe il bisogno di alzarsi. Il sangue gli ribolliva nelle vene, provava l’impulso di farla pagare a Tseng, che aveva distrutto la sua famiglia, aveva ucciso sua madre… e che le aveva mentito. Anni di bugie, un continuo mentire per chissà quale motivo. Gli aveva detto di lavorare nei Turk, quando in realtà era stato licenziato. Perché, perché lo aveva fatto? E perché non gli aveva detto la verità sulla morte della madre, perché non aveva mai trovato il coraggio di fare la cosa giusta?
Si sentì una stupida, per aver creduto che il loro fosse un rapporto vero. Era evidente che là dove aveva creduto ci fosse l’amore c’era invece il nulla, e mentre elaborava questi pensieri, un’idea, semplice come il peccato, si faceva strada nella sua mente.
Vendetta.
Per un attimo, fu davvero tentata dal sottile brivido che quel particolare sentimento portava con sé. Subito dopo, si sentì solamente un’idiota. Lasciò perdere i suoi propositi.
Si alzò in piedi, e mentre Reno gli urlava: “Ehi! Ma dove vai?”, lei scappò via. Lacrime silenziose solcarono le sue guance.
Era tutto finito, ancor prima che qualcosa di reale fosse davvero iniziato.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo V: La Verità che rende liberi ***


Capitolo V: La verità che rende liberi
 
Quella giornata, così piena di sorprese, così tentatrice e al tempo stesso rivoluzionaria, non era ancora giunta al termine. Il sole sarebbe tramontato a breve; già i primi riflessi color arancio si riversavano sulla terra, illuminandola e allungando le ombre dei passanti che si dirigevano verso le proprie case.
Tseng osservò la sua ombra distendersi sulle mura di una delle baracche dei Bassifondi di Midgar, lo sguardo serio, la bocca serrata in una smorfia di disgusto.
Come si poteva essere arrivati a quel punto? In poche ore, tutto ciò che aveva costruito in quei mesi, in quegli anni, era stato irrimediabilmente distrutto.
Merda, quanto si stava odiando…
La colpa era sua, solo sua, che aveva taciuto per così tanto tempo la verità, celandola dietro le pagine di un rapporto basato su fondamenta minate dal silenzio. Adesso stava vivendo sulla propria pelle la conseguenza delle menzogne che aveva alimentato per anni.
A quanto pare, il castello di carte era crollato quando Aerith aveva incontrato quell’idiota di Reno: o almeno, così quest’ultimo gli aveva riferito, quando gli aveva parlato pochi minuti prima. A quanto pare, quel cretino aveva spifferato tutto su quel che davvero era successo quel giorno di parecchi anni fa in cui la neve cadeva fitta, concludendo raccontando anche del suo licenziamento. Ed Aerith aveva creduto a tutto ciò che lui le aveva detto. Forse si era ricordata del volto del carnefice di sua madre, o probabilmente si era solamente lasciata abbindolare dalle parole del Turk. Quel che davvero importava, in quel momento, era che lei stava contro di lui, dalla parte opposta alla sua. Era diventata irraggiungibile, e, ad ogni minuto che trascorreva, il crepaccio tra loro si allargava, e rendeva polvere tutto ciò che in passato c’era stato tra di loro. Allungava una mano, cercando di raggiungerla, ma lei appariva sempre più lontana, di spalle, mentre lui affondava nel baratro…
Si fermò, respirando a fondo. Doveva trovare Aerith il prima possibile, e parlarle. Probabilmente si sentiva delusa, sola, confusa, abbandonata dall’ultima persona di cui si era fidata. Sconvolta per quella rivelazione, che a lui era sempre apparsa così ovvia...
La verità è che la conoscenza rende pienamente padroni degli eventi. La conoscenza che Aerith aveva acquisito in quella calda giornata di sole le aveva cambiato la vita per sempre. Spettava a lei, adesso, capire cosa fare: e, in quanto a Tseng, poteva solo sperare nel suo perdono. Che, effettivamente, appariva parecchio improbabile.
Immaginava che ormai fosse tutto irrecuperabile. E come dar torto ad Aerith? Come poteva amare colui che ti ha impedito di essere amata, come poteva pensare di provare affetto per la causa delle tue più grandi sofferenze?
Non poteva, semplice. Era del tutto impossibile pensare al perdono.
Precipitava ancora nel baratro, cercando di risalire, annaspando per respirare l’aria a cui non poteva anelare… Inspirò ed espirò profondamente, di nuovo. Doveva calmarsi. Eppure non ci riusciva, sentiva il disprezzo e l’ira di Aerith sulla sua pelle, vedeva il suo sguardo pieno di risentimento, e le sue lacrime di rabbia…
No, non sarebbe nemmeno riuscito a parlarle, non con quel senso di colpa che lo dilaniava dall’interno. Non sapendo che lei sapeva. Ma doveva farlo, doveva provare, non poteva buttare la sua ultima speranza al vento e lasciarla scivolare tra le sue dite, per vederla sparire per sempre.
Non poteva.
Continuò a camminare, a testa alta, abbagliato dalla luce del tramonto che aveva davanti agli occhi, verso la chiesa. Sperava di trovarla lì, accanto ai suoi fiori ormai quasi del tutto avvizziti, con lo sguardo perso nel vuoto dei suoi pensieri.
Appena sarebbe entrato nel polveroso atrio della chiesa, lei forse l’avrebbe guardato, per un attimo, senza proferir parola; poi sarebbe tornata con lo sguardo fisso verso i fiori, come se nessuno fosse entrato. E allora lui si sarebbe avvicinato, ed il rumore dei suoi passi sarebbe echeggiato per la chiesa buia, e le avrebbe parlato, con un tono di voce pacato, raccontandole tutta la verità. Tutto ciò che lei aveva già appreso da Reno, ed anche altro, tutto ciò che non le aveva mai detto in quegli anni; e poi avrebbe terminato con i sentimenti che provava per lei, e con la speranza che lei capisse, che lo perdonasse. E poi, non riusciva più ad immaginare cosa sarebbe successo, se Aerith lo avesse perdonato o se, al contrario, gli avesse intimato di sparire, e di non farsi mai più vedere tra quelle mura, che erano state testimoni di un sentimento che in realtà nemmeno esisteva…
Si fece coraggio, fece ancora un altro passo,  e un altro, oltrepassando l’ormai sgombra piazza del mercato. Come era solito per quell’ora, le strade stavano cominciando a riempirsi di tipi poco raccomandabili che Tseng non degnò nemmeno del suo disprezzo: aveva questioni più urgenti da risolvere.
Il crepuscolo aveva dato una leggera tinta violacea al cielo, che ben presto sarebbe stata sostituita dalla notte perenne, la notte senza stelle dei bassifondi. Doveva sbrigarsi.
Eppure, più si avvicinava, più l’ansia si impadroniva di lui, allungando le sue malefiche spire nella mente di Tseng: perché doveva finire così? Non era mai stato orgoglioso dell’omicidio di quella donna, né di aver messo in pericolo Aerith. Perché allora Aerith avrebbe dovuto disprezzarlo? Non sapeva di come il senso di colpa l’avesse quasi ucciso, in quegli anni, e di come l’avesse spinto a prendersi cura di lei, fingendosi ancora un Turk, per tenerla d’occhio? E di come si era odiato quando si era accorto di provare qualcosa per lei, perché sapeva che, quando tutto sarebbe finito, non ci sarebbe più stato posto per l’amore, ma soltanto per l’odio e per la disperazione?
No, non poteva farlo, non poteva presentarsi così come se nulla fosse. Si fermò un momento, sedendosi su una panchina.
Un gruppo di uomini loschi vestiti di nero lo fissarono, sospettosi a causa della sua uniforme, e lui rispose allo sguardo, in modo glaciale. Quelli si allontanarono subito, scoccandogli ancora qualche occhiataccia in lontananza.
Riprese a combattere tra la tempesta di pensieri che gli offuscavano la mente. Doveva solamente fermarsi un attimo, e cercare di riflettere con lucidità. Niente di più semplice, no? Solamente riflettere…
Cercò di concentrarsi, ma voci di un passato lontano si insinuavano nella sua mente, confondendolo.
Dannazione, se solo fosse stato capace di riflettere per un singolo momento in pace!
Si rialzò in piedi, mentre le voci nella sua mente si facevano più insistenti, sempre più vive, come se appartenessero alla realtà. Urlavano, gridavano, lo asfissiavano con le loro voci... non erano veri eppure gli sembrava quasi di vedere le figure a cui appartenevano quei timbri vocali, davanti a lui…
Scosse la testa, chiudendo gli occhi, la testa tra le mani. Ma che gli stava succedendo?!
“Basta!” esclamò ad alta voce, ed il caos nella sua testa si fermò bruscamente, quasi in modo innaturale.
Poi, una mano si insinuò sulla sua spalla. Era una mano ben curata, con le unghie smaltate di rosso e le dita affusolate, che sicuramente apparteneva ad una donna. E Tseng credeva anche di sapere a chi.
“Sai, ti dirò una cosa” cominciò la donna dietro di lui, in tono saccente “ho sempre pensato che tu fossi solamente un grandissimo idiota, ed adesso ne ho pure la conferma!”
Una risata stridula attraversò l’aria fresca dell’imminente sera.
Tseng si ritrovò a sorridere sarcasticamente, insieme a quella donna che aveva ormai riconosciuto. “Grazie… Scarlet” sussurrò, a denti stretti.
“No, dico sul serio!” ribadì la donna, con la solita arroganza che la contraddistingueva “sei così codardo da non riuscire nemmeno a chiarire con Aerith per una colpa che tu hai commesso!” “Tu non sai nulla di questa storia, sta’ zitta!” esclamò Tseng voltandosi verso di lei. Era uguale all’ultima volta che lui l’aveva vista, con i capelli biondi raccolti in uno stretto chignon e con il suo solito vestito rosso, così poco consono ad un ambiente come quello…
“Lo credi davvero?” chiese lei, avvicinandosi fino a sfiorargli la guancia con una mano. “vorresti farmi credere che c’è forse qualcuno che ti conosce meglio di te stesso?” la donna scoppiò in un’altra acuta risata, che interruppe il gelido silenzio di quella strada. Stranamente, nessuno si voltò verso di loro.
Tseng riprese a camminare. “Che intendi dire?” le chiese, certo che l’avrebbe seguito.
“Intendo dire che ogni cosa esiste ed esisterà in base alle scelte che tutti noi abbiamo compiuto nel corso della nostra vita!” rispose Scarlet, in tono più mite, volgendo lo sguardo agli ultimi raggi color rubino che sparivano dietro ad una verde collina fuori città.
“E questo che vuol dire?!” chiese Tseng, spazientendosi.
“Ottima domanda!” esclamò la donna, sfoderando un sorrisetto sardonico. “Sai che me lo sto  chiedendo anch’io?”
Tseng sospirò. Ma che stava succedendo? Cosa voleva quell’orribile donna da lui?
“Si, lo so che cosa pensi, ma te l’ho già detto: nessuno ti conosce meglio di te stesso!” ribadì nuovamente Scarlet, accelerando il passo.
“Vuoi parlare chiaro, per una volta?!”
“Risparmia il fiato per la chiacchierata con Aerith, piuttosto!” rispose la donna, non lasciandosi sfuggire l’occasione per sputare un po’ di veleno sulla faccenda.
Tseng provò l’impulso di uccidere anche lei, così come aveva fatto con Elmyra. Si voltò verso la donna, pronto a scoccarle un’occhiata carica di odio, ma lei era sparita, dissolta come se fosse stata portata via da una folata di vento. Si guardò intorno, ma non la vide da nessuna parte. Forse se l’era soltanto immaginata.
Probabilmente stava solo impazzendo.
I suoi passi producevano lievi tonfi, e nella sua testa le voci si susseguivano, in un entropia di suoni di cui non riusciva a comprendere quasi nulla. Proseguiva, senza ormai avere nulla che potesse dissuaderlo dai suoi propositi. In lontananza, vedeva già le guglie della chiesa nella quale, ne era certo, avrebbe trovato Aeirth.
Poi un’altra mano lo afferrò per il braccio, bloccandolo. Voltandosi, riconobbe Reno, con lo sguardo carico di determinazione e che sembrava non voler mollare la presa.
Tseng si ritrovò a sbuffare. Adesso si ci metteva pure lui?
“Lasciami andare!” esclamò, cercando di divincolarsi dalla stretta dell’altro.
“Mi vuoi spiegare che diamine stai facendo?!” urlò Reno di rimando, senza prestare attenzione alle parole di Tseng.
“Vado da Aerith, per cercare di rimediare al casino che hai combinato!” sibilò lui di rimando.
“Che tu hai combinato, vorrai dire!” rispose Reno, seguendolo. “Io non ho colpa! Ricordi che ho cercato di fermarti, quattro anni fa?”
“Senti…” Tseng si coprì gli occhi con una mano, abbassando il capo. Perché Reno non capiva? E perché, in fondo, lui sapeva che il Turk aveva ragione?
“E’ ovvio che Aerith sarà furiosa con te! Che senso avrebbe andare alla chiesa, adesso?” domandò Reno, interrompendolo.
Tseng non rispose. Continuò a camminare, ignorando il ragazzo che stava alle sue spalle. Lui gridò, per un’ultima volta: “Fermati!”, poi non parlò più, forse sparì, come Scarlet aveva fatto prima di lui.
Il suo mal di testa era aumentato di molto… non era certo di sentirsi molto bene. La testa gli girava, come se avesse la febbre. Si tastò la fronte, distrattamente, ma non notò nulla di anormale nella sua temperatura.
Era a pochi metri dalla chiesa, ormai, riusciva ad intravederla attraverso la fievole luce dei lampioni che costeggiavano il vicolo. Il suo cuore batteva forte, così forte da fargli quasi male. Non sentiva più nessuna voce, o alcun rumore, che turbasse la quiete dei Bassifondi. Respirò a fondo, arrivò davanti alla porta di legno che tante volte, con leggerezza, aveva già oltrepassato. Perché quella volta sembrava così difficile?
Allungò una mano e toccò la fredda maniglia della porta. Sembrava così difficile da aprire…
“Aspetta” sussurrò una voce alle sue spalle. Una voce ben calibrata, dolce, una voce calda e piena di sentimento, con una sfumatura di maturità nella voce che si acquisisce solo con l’età. Tseng aveva già sentito quella voce, in verità: una volta soltanto, in una particolare occasione; ma gli era rimasta impressa, e, da allora, aveva sentito ogni notte, nei suoi incubi, quella donna gridare a sua figlia di mettersi al sicuro...
Lentamente, Elmyra emerse dall’oscurità, con un sorriso dolce sul viso, osservandolo. Aveva i vestiti del giorno della morte, ancora macchiati del suo stesso sangue, forse perché quella era stata l’unica occasione in cui Tseng aveva potuto conoscerla. Il suo sguardo era fiero, pieno di una determinazione che il ragazzo non le aveva mai notato, in quel fatidico giorno.
Si avvicinò, e non seppe nemmeno cosa dire. Voleva dirle qualcosa, però; che gli dispiaceva di averla uccisa e che quel gesto gli era costato un permanente senso di colpa che lo dilaniava ogni giorno. Ne avrebbe avute di cose da dire, eppure restava in silenzio, incapace di articolare qualunque suono. Il mal di testa era ancora aumentato, e faceva fatica anche a respirare…
“Non trovi che sia una splendida notte?” chiese la donna, osservando gli sprazzi di cielo che si intravedevano da sotto il piatto. Sembrava tranquilla, serena, incurante della ferita che le attraversava il torace e da cui sgorgava sangue scarlatto.
“Lei... lei è…?” chiese Tseng, balbettando, anche se sapeva già la risposta.
“Si, Tseng” la donna si voltò verso di lui, seria. “Io sono la donna che hai ucciso 4 anni fa”.
Tseng aspettò che Elmyra parlasse ancora, ma lei non sembrava intenzionata a farlo. Capì che  stava aspettando. Stava aspettando che Tseng si decidesse a declamare tutto ciò che, in quegli anni, aveva pensato su quella mattinata d’Inverno di ormai parecchio tempo prima.
Aprì la bocca, ancora incerto su cosa dire.
“M-mi dispiace” biascicò, con un sussurro appena udibile e che subito si perse in quella nera notte.
“E per quale motivo?” chiese la donna, sorridendo. Come aveva fatto prima Scarlet, anche lei portò una mano sulla sua spalla. Ma a differenza di quello di Scarlet, quel tocco infondeva coraggio, decisione, determinazione.
“Per… per averla uccisa!” esclamò Tseng, a testa bassa, non avendo il coraggio di guardarla.
Un attimo dopo, sentì Elmyra ridere. Istintivamente alzò lo sguardo, e vide il viso della donna invaso dall’allegria e dalla vitalità.
“Ma andiamo, credi che un paio di scuse possano cambiare ciò che è accaduto?” chiese la donna. Osservò per un momento la sua ferita, poi riprese, come se nulla fosse: “Le scuse non servono a nulla, Tseng. Quello che davvero è servito a farti meritare il perdono è stato il senso di colpa che hai provato durante l’arco di questi quattro anni! E’ stato un cammino duro, guidato dalla redenzione, dal riscatto verso gli errori del passato, verso un’espiazione lontana, quasi un’inafferrabile chimera che tu hai continuato a perseguire, anche quando tutto sembrava perduto! Nessuno può biasimarti per aver taciuto la verità ad Aerith, così come nessuno potrà avere nulla da ridire sul coraggio che hai dimostrato venendo qui, a discapito di tutto ciò che potevi provare. Tutti questi gesti ti hanno portato a ciò che più anelavi. La completa espiazione dalle tue colpe! Fidati, so di te più di quanto non ne sappia tu stesso!”.
Tseng sorrise. Eppure era un sorriso forzato: quel mal di testa non lo abbandonava, e tutto appariva sempre più sfocato… eppure si sentiva allo stesso tempo bene davvero per la prima volta, bene con sé stesso, anche se…
“E’ normale sentirsi così?” chiese Tseng dopo qualche minuto di silenzio, cercando di osservare il cielo, come prima aveva fatto Elmyra.
“Così come?” chiese lei, guardandolo curiosa.
“Come se avessi ancora qualcosa da fare prima dell’espiazione assoluta” sussurrò Tseng, tutto d’un fiato. Guardò la porta di legno che aveva davanti: pochi metri lo separavano da lei… “Devo farmi perdonare da Aerith?” chiese, senza neanche pensarci su, in attesa di avere una risposta.
La voce della donna si fece grave. Quando rispose, una nota dolente si percepì nella sua voce, che suonò triste, simile ad un rimpianto. “Non ne avresti nemmeno il tempo” sussurrò, chinando la testa, affranta.
E Tseng capì a cosa stava andando incontro, e che non c’era nessuna via che potesse impedire quello che stava per accadere.
“C’è qualcosa che posso fare per rimediare del tutto, prima di…?” chiese, senza aspettarsi nessuna risposta in particolare.
Elmyra gli si avvicinò e gli accarezzò il volto, lentamente.
“Chiudi gli occhi” sussurrò poi, mentre la voce si faceva rotta dal pianto.
Tseng sbatté le palpebre un’ultima volta, dando un’occhiata di sfuggita al mondo. Il suo sguardo si chiuse sulla chiesa che era stata protagonista della sua storia, e che gli sorrideva amorevolmente, come per indicargli che stava facendo la cosa giusta. Sorrise, senza neanche avere un buon motivo, anche se non era riuscito a rivedere Aerith, per un’ultima volta. Sorrise e, per la prima volto dopo tanti anni, pianse. Soltanto poche lacrime, ma che valsero come quelle di un’intera vita.
Si sentì meglio, come liberato da un ulteriore peso. Si sedette con la schiena poggiata alla porta della chiesa, con gli occhi serrati. Riuscì a sentire il profumo di uno dei fiori che non erano ancora morti. C’era ancora speranza per Aerith, ne era sicuro.
“Grazie” sussurrò ad Elmyra, o forse a sé stesso. Un momento dopo, senza una ragione ben precisa, si sentì abbandonare e, al chiaro della luce spettrale di un lampione lì vicino, morì.
Tseng non seppe mai cosa successe in seguito a quella notte: non seppe mai del pianto disperato di Aerith, alla vista del suo corpo immobile e privo di vita, la mattina seguente,  e non seppe di come lei, in seguito, fu l’unica persona ad andare a trovarlo, ogni giorno, nella sua eterna dimora. Non seppe nemmeno di come la ragazza si pentì, e di come capì che in tutto quel tempo Tseng era cambiato, e che aveva ormai raggiunto l’espiazione che tanto aveva desiderato mentre stava con lei. Sì, Tseng rimase all’oscuro dei fatti posteriori alla sua morte, per l’eternità; ma morì con il sorriso tra le labbra, con uno dei pochi sorrisi che avessero mai attraversato quel volto tanto imperturbabile.
Morì con il sorriso della verità che rende liberi, e con la certezza che, in un altro luogo diverso da lì, un luogo che forse nemmeno esisteva, un giovane e inesperto Tseng aveva evitato, per una volta, di premere il grilletto che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Era quasi riuscito a vederlo, quel giovane ragazzino pallido, mentre catturava il trafficante di Materie e salvava la donna. Ed era quasi riuscito ad udire, mentre i sensi lo abbandonavano, la voce di una bambina, una bambina che era Aerith Gainsborough, e che sussurrava, in maniera appena udibile: Grazie.
 

FINE

 
Azz, mi dispiace che sia finita qui! xD Questo contest è stato una così bella esperienza! Ho incontrato persone simpaticissime e, tutto sommato, mi sono divertito un mondo a scrivere questa fan fic, che spero vi piaccia! (ogni riferimento a  fatti, persone o a Zio Al è PURAMENTE casuale xD).
Volevo spendere un minuto del mio tempo a ringraziare Valy, la mitica organizzatrice del contest, che ha saputo creare questa sfida magnificamente e che ha diffuso, in questo modo, l’amore per una coppia così bella all’interno del fandom di FFVII. Grazie davvero, Zia Perifrastica! xD
Perdonate la banalità, è l’una di notte e non so cos’altro aggiungere! Anzi, in verità qualcosa da aggiungere ci sarebbe…
Zia Polly, we love you! XD

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