Espiazione di BaschVR (/viewuser.php?uid=38414)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Passi sulla neve ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V: La Verità che rende liberi ***
Capitolo 1 *** Prologo: Passi sulla neve ***
Espiazione
Prologo:
Passi sulla neve
La
città, quella mattina, appariva vuota, silente, libera.
Aveva nevicato per
tutta la notte, e il bianco aveva ricoperto ogni cosa.
Il
pallido sole invernale era sorto, eppure Midgar era rimasta dormiente.
Tutto
appariva ovattato in quell’onirica visione, quasi irreale.
L’unico
rumore che Tseng sentiva era il tonfo dei suoi passi sulla neve. Era un
rumore
leggero, quasi impercettibile, eppure era l’unico che
probabilmente la città
stesse udendo. Un rumore ritmico e costante.
Il
Turk rabbrividì, mentre una gelida folata di vento lo
trapassava da parte a
parte. Istintivamente, si strinse nella giacca nera che aveva indosso e
ricontrollò, per l’ennesima volta, le direttive
della missione.
Era
a causa di quell’orribile tempaccio che adesso si trovava
lì, ad arrancare per
le strade deserte di una fredda e solitaria Midgar. Quando il
Presidente ShinRa
aveva visto le prime avvisaglie di una tempesta di neve
nell’aria, l’aveva
mandato a chiamare, insistendo perché agisse
all’alba, quando la neve sarebbe
stata ancora alta e nessuno lo avrebbe disturbato nel compiere il suo
dovere.
In
verità, la missione non era nulla di eccessivamente
complesso: doveva solo
fermare un traffico di Materie illegali che aveva luogo nei
più oscuri vicoli
della città. Spiare, uccidere, occultare. Sempre la solita
storia.
Nonostante
le sue resistenze, il Presidente ShinRa aveva insistito
affinché lavorasse in
coppia con un altro Turk. Reno, per la precisione.
Inutile
dire quanto quella scelta fosse stata gradita da Tseng. Il solo
pensiero del
continuo ciarlare del ragazzo aveva riacceso la sua emicrania, ma si
era
limitato ad annuire, preferendo non discutere gli ordini che gli
venivano
assegnati.
Tuttavia,
l’unico suono che sentiva erano, ancora una volta, i suoi
passi sulla neve. I
due avevano preferito dividersi, per poi incontrarsi appena qualche
isolato
prima della zona malfamata della città.
A
Tseng quel tempo piaceva. La neve copriva ogni cosa, ogni dolore, ogni
emozione. Restava solo la tranquillità, la quiete dopo la
tempesta che aveva
infuriato la notte. Era bello poter guardare la città e
vederla senza pensieri,
libera dalla schiavitù del dolore e della sofferenza. Faceva
bene all’anima.
Stava
ancora contemplando l’assoluto silenzio che regnava nel viale
in cui si era
appena immesso, quando, dietro di sé, un altro leggero tonfo
si unì al rumore
dei suoi passi. Tseng si fermò, ascoltando quel suono che si
univa all’ululare
del vento.
“Non
dovevamo dividerci, Reno?” chiese, e si stupì di
come la sua voce rimbombasse
tra le strade vuote, fino a raggiungere ogni angolo del viale.
I
passi continuarono, finché una mano non gli si
posò sulle spalle. Qualche
fiocco di neve cadde dal cielo, preannunciando una nuova nevicata.
“Ho
trovato il furfante, sono in una strada secondaria non molto lontano da
qui”
esclamò Reno con la sua solita giovalità,
indicandogli una stradina laterale a
qualche decina di metri da loro. “Ti dirò la
verità, mi è solo sembrato un
grosso bestione senza cer…”
“Reno!”
lo ammonì Tseng.
“Va
bene, va bene, un po’ più di serietà
nelle missioni” sospirò esasperato il
rosso, anticipando i moniti dell’altro.
“Fa
silenzio, dobbiamo agire in fretta” rispose Tseng
“Portami dai due”.
Reno
si zittì e fece strada attraverso un buio e maleodorante
vicolo.
Il
Turk moro ascoltò il lieve calpestio dei passi
dell’altro confondersi con il
silenzio della città. Istintivamente infilò una
mano sotto la giacca invernale
e strinse forte il calcio della pistola, pronto ad estrarla in caso di
necessità.
Sarebbe stato un lavoro veloce, rapido e indolore. Beh, indolore per
lui e per
Reno.
Non
si avvertiva nessun rumore provenire dal fondo del vicolo.
“Sei
sicuro che questa sia la strada giusta?” chiese Tseng,
dubitando della memoria
di Reno.
“Fidati,
non avrei alcun interesse a perdere tempo!” gli
bisbigliò l’altro di rimando.
“Anch’io non vedo l’ora che questa
missione finisca, mi si è ghiacciato anche
il…”
“Si,
ho capito” lo interruppe Tseng, impedendogli di continuare
l’imbarazzante
frase.
“Sei
perspicace, eh?” chiese Reno, lanciandogli
un’occhiata di complicità.
“Sssh,
non senti nulla?” sussurrò l’altro,
prendendo la pistola in mano e guardandosi
in giro, circospetto.
“Oh,
andiamo, non evitare le mie domande! Tutti sanno della tua infatuazione
per
Elena! Quand’è che ti deciderai a chiederle di
uscire?”
“Vuoi
stare zit…? Ehi, un momento! Io non ho nessuna infatuazione
per Elena!” esclamò
Tseng contrariato.
“Tanto
meglio, così posso provarci io!” rispose Reno con
un’alzata di spalle.
“Fai
pure” sussurrò il Turk, senza nemmeno prestargli
attenzione. Aveva questioni
più importanti a cui pensare. Aveva sentito uno
scricchiolio, seguito da un
tonfo sordo, provenire dalla fine del vicolo, ancora immerso
nell’oscurità.
“Eddai,
amico, non c’è gusto così!”
esclamò Reno, cingendogli le spalle con un braccio.
“Voglio qualcuno con cui battermi per il cuore di una
ragazza!”
“E
io voglio qualcuno che non rompa continuamente durante le
missioni” commentò
ironicamente Tseng, senza perdere la concentrazione. “Ma come
vedi, nessuno ha
mai quello che vuole!”
Un
altro scricchiolio, vicino a loro. Tseng volse di scatto la testa alle
loro
spalle, ma non c’era nulla, ad eccezione della pallida neve
che copriva la
città.
“Vuoi
farmi credere che non c’è nessuna che ti faccia
battere forte il cuore? Neanche
Cissnei?” chiese ancora Reno, riprendendo a camminare verso
la fine del vicolo.
“Cissnei
è poco più che una bambina, potrebbe andare bene
per te!” sbottò Tseng,
togliendo la sicura dall’arma che teneva tra le mani.
“Ma
no, ho appena detto che devo provarci con Elen…”
“Attento!”
esclamò l’altro Turk improvvisamente, spingendolo
verso il freddo asfalto
coperto di neve del vicolo. Aveva avvertito un movimento, con la coda
dell’occhio, lieve, quasi impercettibile,
nell’oscurità davanti a loro; poi un
leggero sibilo, che alle sue orecchie era apparso amplificato dal
silenzio
della città. Senza neanche pensare, aveva spinto Reno a
terra con sé. Un attimo
dopo, un proiettile era passato appena sopra le loro teste.
“Merda!”
esclamò Reno, estraendo la sua pistola dalla cinghia che
teneva in vita, sotto
la giacca.
Tseng
sentiva il suo viso avvampare per il freddo contatto con la neve. Aveva
gli
occhi chiusi, ed era disteso a terra, inerme, facile bersaglio per
chiunque se
ne stesse nell’ombra del vicolo ad osservarli.
Poi
sentì uno sparo risuonare nell’aria, e si rese
conto che Reno aveva cercato di
colpire l’aggressore. E poi ancora passi sulla neve.
“Stai
bene?” chiese poi una voce vicino a lui.
“Si”
rispose Tseng, alzandosi e prendendo la mano che Reno gli stava
porgendo. “Dove
è andato?”
“Da
quella parte” indicò Reno con il dito. Tseng
guardò la direzione che gli
indicava il Turk dai capelli vermigli, e si sollevò quando
vide che il
malvivente aveva lasciato le proprie impronte sulle neve, troppo
distratto
dalla fuga.
“Seguiamole,
e in fretta” esclamò indicandole. Reno
annuì ed insieme si precipitarono verso
la fine del vicolo.
Le
impronte andavano verso l’entrata dei Bassifondi; i due Turk
intensificarono il
passo, pronti a finire il lavoro per cui erano stati convocati in
quella fredda
mattina invernale.
Camminarono
per un po’, oltrepassando lo spoglio Viale Loveless ed
avvicinandosi sempre più
alla zona più umile della città.
“Che
stavo dicendo prima?” chiese d’un tratto Reno,
incuriosito.
“Non
saprei, fai silenzio e segui le impronte!” esclamò
Tseng, ancora una volta
senza nemmeno ascoltarlo. Ma perché li avevano accoppiati
come partner per le
missioni? Che aveva fatto di male?
“No,
era qualcosa di importante, ne sono sicuro!”
esclamò Reno, con la fronte
corrucciata nello sforzo di ricordare.
Tseng
sospirò. La prossima volta doveva ricordarsi di portarsi
qualcosa contro il mal
di testa.
“Ah,
ecco! Ti stavo dicendo che volevo provare con Elena, non con
Cissnei” esclamò
Reno, felice di essersi ricordato di cosa stesse parlando in
precedenza. “E
mettiamo di lasciare Cissnei per Rude, allora tu potresti uscire
con…?
Scarlet?”
“Non
se ne parla proprio!” gli sbraitò contro Tseng.
“Ok,
ok! Calmati però!” si scusò Reno,
abbassando lo sguardo alle impronte che
seguivano.
“Le
orme finiscono qui” constatò Tseng dopo qualche
minuto, davanti ad un vicolo
maleodorante. Il vicolo appariva completamente sgombro da qualsiasi
fiocco di
neve: evidentemente i fumi caldi provenienti dalle caldaie delle
fabbriche li
vicino avevano già sciolto la magia di quel freddo giorno.
“Secondo
la nostra planimetria, questo vicolo è una delle strade che
conduce ai
bassifondi. Tuttavia non sembra essere molto
utilizzato…” constatò Reno.
“Meglio,
avremo meno possibilità di essere notati”
osservò Tseng, immergendosi nella
densa oscurità del vicolo. Sembrava di avere oltrepassato la
soglia di un altro
mondo: da una parte, vi era la Midgar luminosa, splendente, sopita da
una lunga
e meravigliosa nevicata; dall’altra vi era quel vicolo, e i
bassifondi, e
qualunque altro luogo che, come quello, era stato abbandonato alla
fredda
oscurità della Midgar crudele, oscura, simile ad un immenso
baratro di
disperazione. Tseng capì di aver abbandonato il mondo
rassicurante della Midgar
innevata già solamente mettendo un piede
all’interno del vicolo.
Reno
lo seguì, ed insieme si addentrarono per le oscure vie che
portavano ai
Bassifondi. Il vicolo era umido, sporco, troppo caldo rispetto
all’ambiente
circostante. I vapori che avevano sciolto la neve adesso invadevano
l’aria e le
loro menti.
“Vedi
nessuno?” chiese il Turk più giovane, scrutando
nell’oscurità nebbiosa davanti
a loro.
“No”
rispose Tseng, aggrottando la fronte. Ma dov’era finito?
Poi
sentirono una voce. Una voce roca, forte, simile ad un grugnito, sita
pochi
metri davanti a loro. Istintivamente, Tseng si strinse ancora
più forte alla
sua arma, facendo aderire la forma della mano al suo calcio.
“Fermi!”
aveva detto quella. Un momento dopo, una figura emerse
dall’oscurità: era lo
stesso uomo che poco prima era fuggito dal loro agguato: basso, dai
capelli
corvini, con una cicatrice che gli solcava la guancia destra, a ricordo
di una
grave ferita. Con l’ausilio del braccio sinistro teneva una
donna stretta sé, a
cui puntava una pistola alla tempia.
“Lasciala
stare!” esclamò Reno, osservando la donna che si
dibatteva tra le braccia del
suo assalitore, alla ricerca di una via di fuga.
“Reno!”
esclamò Tseng osservandolo severamente. Più si
sarebbero dimostrati interessati
alla salute della donna, più l’assalitore
l’avrebbe utilizzata come scudo.
“Sai
bene che non puoi farcela contro di noi” esclamò
Tseng, con la pistola puntata
verso l’uomo. Quest’ultimo mise la donna davanti a
sé, impedendo al Turk di
poterlo colpire.
“Dici?”
domandò quello, con il sudore che gli imperlava la fronte, a
causa dei fumi
della caldaie.
Poi
sentirono un urlo provenire da dietro il trafficante. Un attimo dopo,
videro una
ragazzina che cercava di liberare la madre dalla sua stretta potente.
Era una
ragazzina esile, sulle soglie dell’adolescenza; i suoi
luminosi occhi verdi
erano due specchi colmi di determinazione. Tuttavia il suo tentativo
non servì
a nulla.
“Vattene
a casa, ragazzina!” la derise l’uomo,
scrollandosela di dosso e facendola
cadere sul duro selciato del vicolo.
“Mamma!”
urlò quella, guardandola con gli occhi colmi di lacrime.
“Scappa,
mettiti al sicuro!” urlò la donna, fuori di
sé, cercando di salvarla.
“Hai
sentito?” sussurrò Reno, serio, alla bambina.
Tseng notò che quest’ultima non
doveva essere molto più piccola del Turk, al massimo di uno
o due anni.
“Penseremo noi a tua madre, tu riparati da qualche
parte”.
La
ragazzina abbozzò un lieve sorriso fiducioso sul volto, e
poi li oltrepassò,
per nascondersi dietro un bidone dei rifiuti a pochi metri da loro.
Tseng
sentì il bisogno impellente di declassare Reno, ma si
limitò a lanciargli una
fugace occhiataccia. Lui e la sua stupida bontà
d’animo!
“Ehi,
sta scappando!” esclamò Reno, cominciando a
correre per il vicolo, inseguendo
il malvivente che cercava una via di fuga tenendosi ancorato alla donna
stretta
che aveva preso in ostaggio.
“Mamma!”
urlava la bambina dal vicolo.
Il
ragazzo sentiva un gran mal di testa, mentre un caos di voci urlavano
nella sua
mente. Non sapeva cosa fare con quella confusione nella
mente…
“Tseng,
inseguiamolo!”
“Mamma,
mamma!”
“Fatemi
ragionare, ve ne prego…
aspettatemi…”
“Tseng,
sbrigati! “
“MAMMA!”
Poi,
la decisione.
“Reno, spostati da
lì!” urlò all’altro.
Prese
la pistola in mano.
“Mamma,
mamma!”
La
puntò.
“Tseng,
cosa vuoi fare?!”
Prese
la mira, attento a non sbagliare. Ma in cuor suo sapeva già
che probabilmente
non ce l’avrebbe fatta.
“No,
Tseng! E’ troppo pericoloso!”
La
mano gli tremava…
“Fermo!”
L’uomo
aveva già raggiunto la fine del vicolo. Poteva sentire di
nuovo il rumore dei
passi sulla neve…
“Mamma!”
Poi,
un colpo. Gelido, penetrante. Gli echi dello sparo si addentrarono in
lui.
Niente
più rumore di passi sulla neve.
Solo
un urlo, e tanto, tanto sangue sulla luminosa e silente Midgar.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Capitolo
I
Un
raggio di sole le illuminava il viso. Scosse lievemente la testa, gli
occhi
ancora socchiusi nell’ombra di quel pomeriggio di Primavera. Si era addormentata con la
testa sulle
braccia, poggiata al freddo marmo di una delle colonne della sua
chiesa.
Lentamente
si stropicciò gli occhi, aprendoli, dopo la breve
pennichella che si era
concessa. Il sole arrivava ancora quasi perpendicolarmente, passando
per le
fenditure lasciate dalle tegole rotte. Doveva essere passato da poco
mezzogiorno.
Si
alzò, poggiando una mano contro il levigato legno di una
delle panche della
chiesa, che, sotto il suo peso, scricchiolò sonoramente.
L’usura stava
lentamente consumando quel luogo, giorno dopo giorno.
La
ragazza emerse dalla penombra nella quale finora, ad eccezione del
viso, era
stata immersa, in una delle nicchie più lontane
dall’abside. Portava un limpido
vestito azzurro, che metteva in evidenza la sua esile figura e il seno,
non
ancora del tutto sviluppato; i grandi occhi verdi erano simili a due
specchi
luminosi, che risplendevano nella luce bianca del meriggio assolato;
era un po’
goffa nei movimenti, ma aveva un portamento aggraziato, eretto e
composto, che
traspariva dalle sue movenze. Sul viso si intravedeva un timido e
sempiterno
sorriso, di quelli naturali, che la vita concedeva solo dopo lunghe
sofferenze.
La giovane si mosse, producendo
piccoli
tonfi sul parquet della chiesa. Si avvicinò ad un punto
dell’edificio dove il
parquet si era rotto, e dove ora crescevano moltissime specie diverse
di fiori.
Si
avvicinò alle rose rosse e sentì il loro profumo,
delicato ed intenso come non
mai. Sua madre, una volta, le aveva detto che nessun odore era simile a
quello
delle rose di Maggio; ed aveva ragione, quell’odore era
inebriante,
ammaliatore, sensuale ed appagante. Aerith aveva sempre amato quel
particolare
profumo.
Colse
una rosa scarlatta, stando ben attenta a non pungersi. Le sue dita
affusolate
si strinsero intorno allo stelo ben spesso del fiore. Si sedette sul
polveroso
parquet della chiesa, sollevando una nuvola di pulviscolo ben visibile
alla
luce del sole. Stette ad osservare l’aura di purezza di
quella rosa, come
intarsiata in un groviglio di petali da un esperto artigiano. Quel
rosso acceso
le ricordava tante cose, tanti avvenimenti diversi tra loro, ma uniti
dal
sottile filo del destino. Le ricordavano le fragole che aveva mangiato
tanti
anni prima, all’ombra di un Salice verdeggiante; il vestito
che sua madre le
aveva regalato, di un cremisi acceso, in un giorno di pioggia che
ricordava
vagamente come il suo compleanno; il volto paonazzo di un ragazzo che
aveva
visto morire in un vicolo, e che non aveva potuto aiutare in alcun
modo; il
rossore negli occhi stanchi di sua madre, mentre le rimboccava le
coperte la
sera, dopo una lunga giornata di lavoro per cercare di guadagnare
qualcosa; il
colore del fuoco dei capelli di un ragazzo, poco più grande
di lei, che le
diceva di nascondersi e mettersi al riparo, nel vicolo di una fredda
Midgar di
tempo prima; le macchie di colore rosso che insozzavano la neve, e una
voce,
così simile alla sua, una voce che era lei ma che al tempo
stesso non lo era,
che urlava; “Mamma!”.
Scosse
la testa, per dimenticare quell’orribile giorno passato nella
maleodorante
oscurità di quel vicolo umido, in cui una persona a lei cara
aveva trovato la
morte.
Aveva
provato a dimenticare, aveva provato a cancellare dalla sua memoria
quella
mattina d’Inverno in cui sua madre aveva perso la vita, ma
era stato
impossibile. La scena era stata registrata dai suoi occhi da bambina, a
quel
tempo lontani dalle ingiustizie del mondo. Le urla, il sangue, la neve
rossa,
il corpo di sua madre semicoperto dalla neve appena pochi minuti dopo
lo sparo,
la puzza del vicolo, il volto del Turk dai capelli rosso fuoco, il suo
grido di
disperazione, la voglia di voler ridurre a brandelli quel signore dai
capelli
neri che l’aveva uccisa. L’unica cosa che il tempo
aveva lasciato scorrere nel
flusso dell’oblio era il volto di quell’uomo. Non
ricordava nulla di lui, se
non i capelli neri. Nient’altro. A volte il fato era crudele.
Scosse
la testa, per allontanare quelle reminescenze lontane.
Lasciò cadere la rosa
per terra, sul parquet, ed osservò alcuni petali scarlatti
allontanarsi dalla
corolla, ormai irrimediabilmente rovinata.
Si
alzò da terra e si allontanò dai fiori, che
splendevano, rigogliosi, colpiti
dalla luce solare. Attraversò la navata, verso la grande
porta di quercia.
Sfiorò le venature del legno, lentamente, fino ad arrivare
alla fredda
maniglia. Fece cigolare la porta e, per un momento, irradiò
di luce il
corridoio alle sue spalle; mosse qualche passo e si ritrovò
fuori, a respirare
la libertà di quella giornata così luminosa e
tranquilla.
In
verità, lì nei bassifondi tutte le stagioni erano
molto simili. Non arrivava la
neve dell’Inverno, lì sotto, né il
caldo afoso dell’Estate; la pioggia giungeva
solo attraverso i canali di scolo della città che si
articolava sopra il
piatto, se non da qualche sporadico buco come quello che la ragazza
aveva nella
propria chiesa.
Quello
che, nei bassifondi, rendeva le stagioni così diverse tra
loro, erano le
persone che li abitavano. Nella stagione estiva, tutto si animava di
una nuova
vita, come lo scoiattolo si anima dopo il letargo invernale: i bambini
giocavano per le affollate vie del mercato, le voci della gente erano
allegre,
spensierate, nonostante la povertà in cui trascorrevano le
proprie vite.
Adesso,
per quei vicoli si respirava già l’aria
dell’Estate alle porte.
Camminò
lentamente per i vicoli della città, salutando conoscenti e
godendo della
brezza fresca di Primavera che caratterizzava quelle tiepide giornate.
I
pensieri che, fino a poco tempo prima, l’avevano rattristata,
adesso apparivano
lontani, come portati via da quel vento che le solleticava il volto.
“Che
ci fai qui da sola, Aerith?” domandò una voce, in
tono severo, alle sue spalle.
Voltandosi, riconobbe Tseng, in uniforme, che la guardava come se fosse
diventata matta.
“In
che senso?” chiese la ragazza di nome Aerith, sorridendogli.
Tra gli agenti che
la ShinRa le aveva mandato, Tseng era senza dubbio quello che
preferiva.
L’aveva preferito a pelle, già il primo giorno in
cui lui era venuto a
visitarla, in una fredda giornata di Febbraio, a pochi mesi da quella
fatidica
mattinata in cui tutto era andato per il verso sbagliato.
L’aveva visto subito
impacciato, timido, taciturno, quasi fuori luogo in
quell’incarico, come se non
avesse mai parlato con una ragazzina. E da quando lei gli aveva
sorriso, e lui
l’aveva guardata, strano, come se non avesse mai visto
qualcuno ridere, Aerith
aveva deciso che, per lui, avrebbe riso più spesso, tutte le
volte che lo
avrebbe visto.
“Nel
senso” rispose Tseng, un po’ scocciato dal tono
canzonatorio di Aerith “che
dovresti essere in un luogo più sicuro, no di certo qui, in
mezzo a questa
folla, piena di… delinquenti, o assassini,
scippatori…”
“Naah,
tranquillo” fece Aerith, guardandosi intorno “Chi
sarebbe il matto che avrebbe
voglia di attaccarmi con questa folla?”
“Non
si può mai sapere!” esclamò Tseng,
guardandosi intorno. “Non sai mai con chi
hai a che fare in questo mondo!”
“Mmm…”
si mise a riflettere Aerith, osservando gli uomini che le passavano
davanti “Nessuno
di questi ha l’aria del maniaco assassino,
però!”
“E
che ne sai tu?” chiese Tseng, diffidente.
“Beh,
ma allora fughiamo ogni dubbio e chiediamo a qualcuno!”
esclamò Aerith, come se
fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Ehi,
ma che…?”
“Sssh”
lo zittì Aerith voltandosi per un momento verso di lui.
“Sta’ a guardare!”
La
ragazza si avvicinò ad un vecchino che sembrava reggersi a
malapena in piedi,
appoggiato ad un bastone da passeggio e con la schiena ricurva.
L’uomo la
guardò sbieco, come se non volesse essere disturbato.
“Mi
scusi!” chiese Aerith, rivolgendosi all’anziano.
“Per caso lei è un assassino?”
Tseng
si coprì il volto con una mano, per non guardare.
Ci
furono parecchi secondi, in cui il vecchio guardò Aerith
come se fosse pazza.
Le piantò addosso gli occhi, e, lentamente, si fece paonazzo
in volto, pronto
alla sfuriata.
“Ma
come ti permetti, piccola ragazzina insolente?!”
urlò l’uomo con quanto fiato
aveva in gola, facendola rabbrividire. “Sono forse domande da
fare, queste?!”
“Me
vede” cercò di spiegarsi Aerith, senza perdere il
tono pratico e diretto con
cui gli si era rivolta in precedenza “Io e il mio amico
pensavamo...”
“Non
coinvolgere anche me!” gli sussurrò in risposta
Tseng, dandole una gomitata.
“Tu
e il tuo amico pensavate che io fossi un assassino?!” chiese
il vecchio,
spostando lo sguardo da Aerith a Tseng.
“No,
mi scusi, è solo un’idea un po’ strana
che è venuta ad Ae…”
cominciò Tseng,
cercando di scusarsi prima che quell’uomo li cacciasse dal
mercato.
“L’assassino
sarai tu, semmai! Hai l’aria del tipo losco!” gli
urlò contro il vecchio, prima
che Tseng potesse finire la frase. “Ora andatevene e
lasciatemi in pace!”.
“D’accordo,
buona giornata!” esclamò Aerith sorridendo,
salutandolo calorosamente prima di
allontanarsi.
Tseng
la seguì, mentre udiva l’uomo che, alle sue,
spalle, inveiva contro i ragazzini
perdigiorno di quei tempi. Aspettò che fossero abbastanza
lontani da
quest’ultimo, prima di cominciare a biasimarla.
“Ma
che ti è passato per la testa?” le
domandò, confuso dal suo gesto.
“A
dir la verità, mi aspettavo un altro tipo di
reazione” sussurrò Aerith, più a
sé stessa che a Tseng, con lo sguardo chino verso il basso.
Poi lo rialzò,
guardandolo negli occhi scuri. “Ma non puoi negare che sia
stato divertente!”
“Beh,
a me è sembrato imbarazzante” rispose Tseng,
pensieroso.
“Dici?”
chiese Aerith, poco convinta.
“Si,
insomma, non si può andare dal primo uomo che vedi e
chiedere una cosa del
genere… non sta bene!”
Aerith
rifletté un po’, mentre camminava a passo svelto
accanto al ragazzo.
“Già,
non sta proprio bene” disse dopo un po’
“Ma dopotutto, che ti importa?”
“Come?”
chiese Tseng, non capendo dove la ragazza volesse arrivare.
“Non
abbiamo fatto nulla di male, era solo una domanda innocente”
spiegò Aerith,
guardandolo negli occhi. “è così
importante l’imbarazzo, o il pudore?”
“No,
ma...”
“Allora
converrai con me sul fatto che non deve importarti di ciò
che la gente pensa di
te!” esclamò Aerith, non lasciandogli il tempo di
rispondere.
Tseng
sospirò, capitolando. “Forse hai
ragione… ma rimane il fatto che non saresti
dovuta uscire da sola. Il pericolo è sempre in
agguato!”
La
ragazza posò il suo luminoso e limpido sguardo su di lui.
“Si, ma adesso ci sei
tu con me, no? Non sono al sicuro?”
Tseng
chiuse per un attimo gli occhi, non sapendo cosa rispondere. Si, voleva
dirle
che era al sicuro, che in quegli anni l’aveva sempre
protetta, e che avrebbe
continuato a farlo per sempre. Di sua spontanea volontà,
senza volere nulla in
cambio. Avrebbe potuto dirglielo, e lei gli avrebbe sorriso,
rassicurata.
Ma
avrebbe mentito a sé stesso. Certo, Aerith non lo sapeva, ma
era stata lui la
principale causa dei mali che l’avevano afflitta in tutti
quegli anni. E la
protezione che le stava dando, l’apprensione che aveva per
lei, il sentimento
che provava nei suoi confronti… forse era solo senso di
colpa.
Lo
stava facendo per essere perdonato?
Ma
chi avrebbe mai potuto perdonare il suo gesto? Non certo lei.
Non lei, che aveva sofferto per le sue azioni e che ora,
ignara, passeggiava tranquillamente con il carnefice di sua madre.
“Che
hai?” chiese Aerith, guardandolo attentamente, con
curiosità.
Tseng
si ridestò di colpo dai suoi pensieri. “Non
è niente, tranquilla!”
La
ragazza continuò ancora ad osservarlo, non del tutto
convinta. “Sembri...
pensieroso!”
“Forse
sono solo un po’ stanco...” rispose lui, evitando
di guardarla negli occhi.
Aerith
annuì, distogliendo lo sguardo. Si avvicinarono al parco
giochi del Settore 5,
a quell’ora pieno di bambini che giocavano tra di loro,
spensierati.
Si
sedettero entrambi su una panchina, lì vicino, alla portata
delle grida vivaci
dei fanciulli. Qualche romito raggio di sole filtrava da sopra il
piatto, e
faceva splendere di un nuovo colore la sabbia dove i bambini giocavano,
che si
tingeva di un dorato acceso. L’aria era frizzante, si
respirava la libertà
dell’estate imminente persino in quei vicoli angusti e
sporchi, dove regnava la
povertà.
“Come
va?” chiese Tseng, pensando che, fino a quel momento, non
avevano ancora avuto
una normale conversazione.
“Va…
bene, credo! I fiori stanno venendo su ottimamente, questa stagione
è
magnifica!” esclamò Aerith, lo sguardo fisso verso
i ragazzini che giocavano.
“E...
tu? Come stai?” chiese ancora, volgendo anche lui lo sguardo
verso i bambini.
Aerith
ci mise un po’ prima di rispondere. Avrebbe potuto
raccontargli tutto, su come
si sentiva, su quello che provava, su come la notte singhiozzava
sommessamente,
tra le coperte, perché quello era il solo posto dove poteva
ostentare le sua
debolezza, lì, lontana da tutto, sola. Sul tremendo senso di
solitudine che le
attanagliava il cuore. Sull’incrinato muro di bugie che aveva
eretto intorno a
sé, e che si crepava sempre di più, ogni giorno
che passava, verso un crudele
baratro di disperazione.
“Sto
meglio” mentì Aerith, con una sottile sfumatura
della voce che sembrava voler
dire il contrario, e che Tseng riuscì a cogliere.
“Si, direi che sto… piuttosto
bene. E… tu? Tutto bene alla ShinRa?”
Tseng
ebbe l’impressione che Aerith volesse solo cambiare discorso.
“Si,
tutto… tutto bene” concluse Tseng, anche se non
era vero. In effetti, nulla di
quello che le stava dicendo riguardo la ShinRa era vero.
“Perfetto!”
rispose Aerith, imbarazzata, non sapendo come continuare il discorso.
Trascorse
qualche minuto, in cui entrambi i ragazzi non proferirono parola. Ogni
tanto,
Aerith gettava una curiosa occhiata a Tseng, che sembrava immerso in
chissà
quali pensieri. Lo vedeva pensieroso, con la testa leggermente
inclinata, a
fissare l’infantile gioco dei bambini senza in
realtà vederlo. Cos’è che lo
spingeva tanto a riflettere? Cosa si nascondeva dietro ad una mente
così
calcolatrice e riflessiva? C’era sicuramente qualcosa di cui
non era a
conoscenza. Qualcosa sul suo passato, magari, qualcosa che Tseng aveva
ritenuto
opportuno nascondere a tutti. Ma che nella sua mente riaffiorava, e che
puntualmente lo tormentava.
Lo
osservò ancora, mentre sentiva sulla sua pelle il tiepido
calore della
Primavera inoltrata. Si stava bene lì, in quel parco. Il
sole non arrivava
direttamente nei bassifondi, se non per qualche sporadico e solitario
caso, ma
il suo tepore inondava comunque tutti i viali, i vicoli e i lo
squallore delle
vite. Quel calore infondeva speranza alla gente.
“Allora,
perché eri uscita?” chiese d’un tratto
Tseng, risvegliandosi dai propri
pensieri.
“Non
c’è un vero e proprio motivo... diciamo che amo
questa stagione, e mi piace
viverla al meglio!” esclamò Aerith con un sorriso.
Un tempo aveva amato anche
l’Inverno, seppur in una strana maniera. Adesso, il rapporto
che aveva con
quella stagione si era inasprito, ma non interrotto del tutto; per
quanto
potesse odiarlo, Aerith non smetteva mai di esserne in qualche modo
ammaliata.
“Si,
la Primavera piace a molta gente!” rispose l’uomo,
alzandosi dalla panchina
come se nulla fosse. “Chissà perché,
poi...”
“Libertà”
rispose Aerith, alzandosi a sua volta e muovendo qualche passo verso
l’uscita
del Parco giochi.
“Come?”
chiese Tseng, seguendola.
“Hai
chiesto il perché la gente ama la Primavera, e io ho
risposto!” esclamò Aerith,
voltandosi verso di lui.
“Libertà?”
chiese il ragazzo, non capendo dove l’altra volesse arrivare.
“Si!”
esclamò lei, sorridendo.
Tseng
non capiva dove Aerith volesse arrivare con
quell’affermazione. Le lanciò
un’occhiata interrogativa, che trovò risposta in
un ghigno divertito della
ragazza.
“Chiudi
gli occhi.” disse Aerith, guardandolo in volto.
“Perché?”
si stupì Tseng, con uno sguardo un po’ incerto.
“Fidati.”
Tseng
non sapeva se assecondare o meno le parole di Aerith. Un po’
incerto, sbatte un
paio di volte le palpebre, prima di decidere di chiuderle del tutto.
“Bene!”
esclamò la ragazza, entusiasta. “Adesso... mi
rendo conto che, per una persona
abituata a vivere al di sopra del piatto può risultare
difficile, ma... che
cosa senti?”
“In
che senso?” chiese Tseng, ancora ad occhi chiusi.
“Beh...
lascia andare i pensieri che hai in testa. Falli defluire. Concentrati
sul
calore del Sole indiretto e sulla brezza che viene dalla colline qui
vicino.
Poi ascolta le risate dei bambini del parco giochi, le voci allegre che
gridano
al mercato, i migliaia di passi che fanno vibrare la terra sotto di
noi. Tieni
in mente tutte queste cose, delicatamente, senza forzarne alcuna. Se
senti una
di esse lasciare i tuoi pensieri, falla allontanare per poi riprenderla
nuovamente, con la stessa sensibilità con cui
l’hai portata nella tua mente.
Capisci fin qui?”
“Si”
rispose lui, ancora un po’ riluttante, ma cercando comunque
di mettere in
pratica le parole della ragazza.
“Pensa
all’allegria della gente, che può di nuovo uscire
di casa, parlare, vivere dopo i
freddi mesi invernali,
passati rintanati in casa a desiderare tutto quello che adesso possono
avere.
Pensa al sentimento che provano adesso. Qual è?”
chiese Aerith, divertita.
“Libertà”
sussurrò Tseng, a bassa voce, lasciando che quella parola
riecheggiasse dentro
di lui.
“Visto?”
esclamò Aerith, soddisfatta, mentre riprendevano il cammino.
“Sapevo ci saresti
arrivato. Di solito gli abitanti che vivono sopra il piatto non pensano
a come,
nel loro piccolo, anche gli abitanti dei Bassifondi possano essere
felici.”
Tseng
non rispose. Era sempre stato un tipo taciturno, un po’
timido e a volte
scontroso. Ma perché con Aerith tutto era differente? Ogni
emozione che credeva
di aver provato nella sua vita, con Aerith era diversa e totalmente
nuova.
Quando
era con lei, tutto era diverso. Bisognava avere una dose assurda di
follia,
masochismo e sadismo per ammetterlo, ma con lei tutto era diverso.
Sarebbe
stato inutile negarlo.
Nonostante
Tseng sapesse che se Aerith fosse venuta a conoscenza di ciò
che aveva fatto, e
di come le aveva rovinato la vita, non lo avrebbe più
nemmeno considerato come
umano, non riusciva
a separarsi da lei,
adesso che questo nuovo sentimento era emerso. Non dopo tutti quegli
anni
trascorsi al suo fianco, passati a capirla, consolarla, proteggerla.
Certo.
Proteggerla. Proteggerla
dall’assassino di sua madre, forse?
“Di
nuovo perso tra i tuoi pensieri…” disse Aerith ad
alta voce, riuscendo a stento
a trattenere un sorriso. “Tranquillo, non mi da
fastidio!” continuò lei,
impedendogli di scusarsi “E’ solo che…
è curioso, ecco. Non ho mai conosciuto
un pensatore come te!”
“Un…
pensatore?” chiese Tseng, non capendo cosa volesse dirgli.
“Si!
Si vede dalla tua espressione che non pensi a stupidaggini, o
frivolezze…”
cominciò Aerith, incerta su ciò che
volesse
davvero dire. “Diciamo che… hai
l’espressione corrucciata quando pensi, e così
sembra che tu stia riflettendo su qualcosa di serio!”
Tseng
abbassò lo sguardo, senza avere il coraggio di rispondere a
quell’affermazione.
“Scusa”
si affrettò ad aggiungere Aerith, mortificata dalla sua
reazione. “Non pensavo
che...”
“E’
tutto a posto, tranquilla!” la rassicurò
Tseng, in tono calmo.
La
ragazza continuò a camminare, silenziosa. “Si sta
facendo tardi” disse poi,
dando un’occhiata al cielo che, oltre il piatto, si tingeva
del rame del
tramonto.
“Ti
accompagno a casa” rispose Tseng, forse un po’
più freddo di quanto avesse
voluto, in un tono che non ammetteva repliche.
Aerith
non disse nulla, quindi probabilmente non aveva niente in contrario.
Non
parlarono molto nel percorso verso la casa della ragazza. Aerith non
osava
proferire parola davanti a Tseng, per paura che si fosse infuriato.
Quest’ultimo, d’altra parte, ne
approfittò per chiudersi nella sua mente e
riflettere, senza neanche prestare occhio a dove mettesse i piedi.
Poteva
vedersi, in quel momento, come se si stesse guardando
dall’esterno: con lo
sguardo fisso davanti a sé e quell’aria infuriata
dipinta in volto, accanto a
quella ragazza minuta, fragile e spaventata. No, non era stata una
buona idea
farla sentire in colpa. Doveva cercare di scusarsi, di farla sorridere.
Aveva
già troppi debiti nei confronti di Aerith Gainsborough,
senza dover aggiungere
anche quello sgradevole episodio.
“Io…”
cominciò a dire, senza avere idea di come avrebbe finito il
discorso.
“No.”
esclamò Aerith, interrompendolo, a sguardo chino.
“Non scusarti… Non devi…”
Tseng
restò in silenzio, per un momento. Poi un sorriso sarcastico
gli affiorò sulle
labbra. “Vorrà dire che non mi scuserò,
allora!” concluse, osservandola con la
coda dell’occhio.
“Non
è una cattiva idea!” esclamò Aerith
ricambiando il sorriso.
Le
case ai lati del sentiero che stavano seguendo, brillavano ormai della
calda
luce del tramonto, che tingeva d’arancio le colline appena
visibili oltre la
fitta rete di vicoli e capanne dei bassifondi. L’energia
benevola e positiva
che i vicoli avevano raccolto, durante quella giornata di allegria e
spensieratezza, si diradava già nella soffusa luce del
crepuscolo nascente.
Aerith
Gainsborough, durante il viaggio di ritorno verso casa,
ripensò più volte agli
eventi accaduti in quel pomeriggio luminoso. Ripensò alla
tristezza dei suoi
pensieri, quando, con la rosa in mano, si era abbandonata ai ricordi di
un
passato ormai lontano; ripensò al misto di pace,
felicità ed inquietudine che
aveva provato, nell’arco di quel pomeriggio, accanto a quello
strano Turk, così
timido, introverso, a volte anche cinico, ma al tempo stesso
protettivo, leale,
onesto nei suoi confronti. Ripensò ad ogni gesto, ogni
parola, ogni sguardo che
lui le aveva rivolto. C’era qualcosa, nel modo in cui la
proteggeva dal mondo
esterno, che andava ben oltre il semplice rapporto lavorativo.
Raggiunsero
la casa di Aerith dopo qualche minuto. La ragazza osservò da
fuori il buio che
regnava, ormai da tanti anni, in quell’abitazione,
così vuota, solitaria,
situata nel centro dei bassifondi ma pur sempre attorniata dal nulla.
Si
diresse verso la porta di casa, immersa nei suoi pensieri.
Poggiò una mano
sullo stipite e con l’altra spinse la maniglia, pronta ad
entrare. Si voltò per
salutare Tseng, ma lui se n’era già andato,
svanito nell’aria fresca della
sera.
Sospirando,
richiuse la porta alle sue spalle, rimanendo prigioniera di quella casa
e della
sua mente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo II ***
Capitolo
II
Tseng
sospirò sonoramente, mentre ripercorreva le ormai buie
strade dei bassifondi di
Midgar. Diede un calcio ad un ciottolo, lì vicino, e lo osservò
sparire tra l’oscurità di un
vicolo che puzzava di letame. Qualcuno grugnì alle sue
spalle, ma lui non diede
peso alla cosa; probabilmente era un senzatetto che si aggirava tra le
spire
nere della notte appena sorta.
Un
lampione, in lontananza, si spense per un momento; poi si riaccese,
subito
dopo, per poi rispegnersi nell’attimo immediatamente
successivo. La luce
soffusa illuminava il volto di una ragazza, forse una prostituta, con
la
schiena poggiata sul palo e che lanciava sguardi ammiccanti ai
passanti. Tseng
la superò, sdegnato, con il volto chino e la mente protesa
verso arcani
pensieri.
I
bassifondi la notte erano irriconoscibili. Le strade si riempivano di
criminali, di tipi poco raccomandabili, di ubriaconi in cerca di
ragazze da
importunare. Sembrava che la serenità e la voglia di vivere
che accompagnava le
giornate illuminate dalla calda luce solare, la notte sparisse. Ed era
allora,
al chiaro della pallida luna, che emergeva il lato più
oscuro di ogni uomo che
viveva in quella città, corrotta dall’odio e dalla
povertà.
A
Tseng pareva quasi di sentirla, quella corruzione che aleggiava per i
vicoli
malfamati: gli sembrò di udire i sospiri licenziosi di una
coppia di amanti,
immersi nell’oscurità di un vicolo, o di sentire
alcuni spari non lontani dal
luogo dove si trovava.
Quei
rumori secchi, così familiari ma al tempo estranei, lo
riportarono con la mente
a quella gelida mattina di ormai quasi quattro anni prima. A differenza
della
versione confusa che ricordava Aerith, a lui non era sfuggito nulla: i
suoi
ricordi si basavano più sulle sensazioni, sui ricordi dei
pensieri, sugli
attimi infiniti che cambiavano definitivamente lo scorrere degli
eventi. Quella
giornata era stata marchiata nei suoi ricordi, guadagnandosi un posto
d’onore;
e non passava giorno senza che il suo sonno, o i suoi pensieri, non
venissero
disturbati dal sangue sulla gelida e candida neve, o dalle grida
disperate di
Aerith, che urlava sconvolta. Probabilmente quest’ultima non
ricordava molto a
causa del forte shock che l’avvenimento le aveva causato.
Non
ricordava il motivo che l’aveva spinto a sparare; in seguito
aveva pensato che
sarebbe stato meglio limitarsi ad inseguire il malvivente, e solo in
seguito
provare a liberare la donna. Tuttavia aveva agito impulsivamente; la
sua mente,
così fredda, calcolatrice, riflessiva, aveva reagito
d’istinto, senza
riflettere. E quella volta, seguire l’istinto gli era costato
molto caro.
Gli
omicidi erano ormai una consuetudine, a Midgar, una cruda
realtà con cui
persino i bambini entravano in contatto in età precoce. Ma
non ci si abituava
mai, ed ogni volta era più dolorosa della precedente.
In
verità, Tseng non aveva mai avuto una netta distinzione tra
bene e male. La
linea labile che sanciva quella profonda differenza era per lui
invisibile,
come se non esistesse. I due diversi pensieri si fondevano nella sua
mente, ed
agivano in base al suo buonsenso. Fin dalla più tenera
età Tseng non si era mai
fatto problemi su ciò che era giusto e ciò che
non lo era; tutto è più facile
se distingui il mondo in persone che ti sono ostili e in alleati.
Uccideva
coloro il cui nome figurava tra i nemici della ShinRa e non si creava
nessun
problema, dimenticando in fretta i volti delle sue vittime. Talvolta
nemmeno li
osservava in viso. Ma quella volta... l’ultimo suo omicidio
era stata il più
gravoso. Non che non fosse mai successo che qualche innocente rimanesse
ucciso
durante una missione, ma quella volta era stato differente. A volte
pensava di
aver sparato con l’intenzione di uccidere quella donna. Di
colpire lei, anziché
quell’uomo – quel nemico – che doveva
essere punito.
Erano
stati quei pensieri che l’avevano spinto a difficili scelte.
Senso di colpa.
Espiazione. Perdono. Rinascita. Un ciclo che sperava di poter
percorrere per
fare ammenda dei propri errori. Eppure, sbagliava ancora nel tenere
Aerith
all’oscuro della verità. Ma in quegli anni, le si
era tanto affezionato dal non
poter sopportare l’idea di perderla.
Flashback
Tutto
gli appariva confuso, più sfocato del normale. La testa
stava per scoppiargli,
ogni rumore sembrava amplificato fino all’inverosimile. Era
seduto sul
pavimento di un gelido corridoio della ShinRa, con la schiena poggiata
al muro,
anche se non ricordava con esattezza come fosse arrivato lì.
Nella sua testa,
un’entropia di parole, immagini e suoni si fondeva
ininterrottamente e senza
sosta. Il sangue, la neve, e lo sguardo dell’assassino
– lui, era lui
l’assassino! –, e il malvivente che fuggiva,
indisturbato, tra il bianco di
Midgar, e le urla di una marmocchia che gli trapanavano il
cervello…
Accanto
a lui Reno non smetteva di parlare, velocemente, come se non riuscisse
a fare
altro. Era da quando Scarlet li aveva chiamati nei suoi uffici che non
faceva
altro che blaterare, nervoso.
“Lo
so già, ci butteranno fuori entrambi!”
esclamò il Turk più giovane, alzandosi
da terra e comminando avanti e indietro, torcendosi le mani.
“Abbiamo combinato
un casino! Adesso finirò come mio zio Al, a spalare cacche
di Chocobo dalle
piste del Gold Saucer, e quando morirò verrò
utilizzato come concime per i
Chocobo, e poi…”
“Basta!”
esclamò Tseng, forse più forte di quanto avrebbe
voluto. “Reno, tu non c’entri
nulla con quello che è successo, non possono punirti, stai
tranquillo…”
“No!
So già che verrò licenziato! Tanto vale chiamare
lo zio Al e dirgli che da
domani avrà due nuovi operai!” esclamò
Reno, prendendo dalla tasca il proprio
cellulare e cominciando a battere i tasti con furia.
Tseng
gli prese il telefono di mano e lo scagliò sul pavimento,
stizzito. Ma perché
non la piantava quell’idiota? Sapeva benissimo a cosa stava
andando incontro,
non c’era alcun bisogno che Reno glielo ricordasse
insistentemente.
Il
ragazzo accanto a lui alzò le spalle. “Fa
nulla…” disse, mentre raccoglieva il
cellulare ormai inutilizzabile. “Tanto da spalatore di cacche
di Chocobo non me
ne farei nulla!”
“Vuoi
stare un po’ zitto, dannazione?!” sibilò
stizzito Tseng, mentre Reno,
mortificato, si sedeva accanto a lui in silenzio. Gli dispiaceva averlo
trattato così, dopotutto il ragazzo non aveva fatto niente
di male. Reno aveva
avuto il buon senso di non compiere un gesto che l’avrebbe
segnato per tutta la
vita.
Molti
lo credevano come freddo, vuoto, privo di emozioni. Lo era, certo. Ma
solo in
parte. Credevano forse che non avrebbe più pensato alla
morte di quella donna?
Che sarebbe passato avanti, come aveva sempre fatto? No, non era
possibile. Non
esternare i sentimenti non vuol dire automaticamente non provarne, ma
solo
avere una buona capacità di autocontrollo. Che spesso poteva
diventare una
maschera.
Adesso,
alla luce di ciò che era accaduto, non si poteva
più tornare indietro. Alea iacta
est* (Il dado è tratto).
Il
cigolio di una porta che scorreva sui propri cardini lo riscosse dal
torpore
nel quale era caduto. Si alzò di scatto, osservando il fante
della ShinRa che
lo squadrava da capo a piedi, sotto l’elmo che gli copriva in
gran parte il
volto.
“Seguitemi!”
disse, voltandosi e riattraversando la porta dal quale era venuto.
“Scarlet vi
sta aspettando.”
“Dobbiamo
proprio?” chiese Reno, abbozzando un sorriso. Il fante
ricambiò con un’occhiata
glaciale che lo zittì. A Tseng quel ragazzo così
gelido stava già simpatico.
Li
condusse attraverso dei corridoi grigi e spogli, intervallati da
qualche
finestra dalla quale si poteva osservare la tempesta di neve abbattersi
su
Midgar. Ogni tanto, il ragazzo si voltava verso di loro, senza parlare,
con
l’abbozzo di un sorriso malvagio sul volto.
“Posso
spaccargli la testa?” chiese Reno, sottovoce.
“Siamo già nei guai, tanto vale
che…”
“Eccoci,
siamo arrivati!” esclamò il soldato,
interrompendolo e gettandogli un’occhiata
di puro disgusto. “Scarlet vi aspetta qui dentro.”
“Grazie.”
gli rispose Tseng. “Puoi andare.”
Il
Fante si allontanò a grandi passi, sparendo oltre
l’angolo del corridoio.
“Entriamo?”
chiese Reno, guardandosi intorno.
Tseng
non rispose, allungando una mano verso la maniglia in ottone della
porta.
“Sai
che si dice che Scarlet abbia mozzato la testa a tredici dipendenti con
una
mannaia tutti in una volta?” disse Reno, da una parte
intimorito e dall’altra
ammirato dalle gesta della donna.
“Sai
che ne dubito molto?” rispose Tseng, ancora sulla soglia
dell’ufficio.
“Beh,
in verità non sarebbe così difficile, basterebbe
mettere una materia All sulla
mannaia e cominciare la
strage!”
“Certo…”
rispose Tseng per farlo tacere, abbassando la maniglia e aprendo la
porta.
Titubanti,
entrarono nell’ufficio di colei che, secondo la leggenda,
passava il suo tempo
a decapitare dipendenti e ad infierire sui loro cadaveri.
La
prima cosa che li colpì fu la luce abbagliante. Dalle alte
vetrate
dell’ufficio, la città di Midgar non era
più visibile, ricoperta da un manto
bianco ed abbagliante. Il cielo era opaco, perlaceo, plumbeo; le alte
nuvole da
lì sembravano più vicine, quasi raggiungibili.
La
figura di Scarlet si stagliava davanti ad una della alte vetrate della
stanza,
proiettando un’appena visibile ombra alle sue spalle. Li
accolse con un sorriso
mellifluo, falso, che sembrava farsi beffe della loro condizione.
Quando parlò,
il tono della voce era canzonatorio, come se si stesse divertendo a
vederli
trepidanti e in attesa di conoscere il proprio destino.
“Guardate
chi ci onora della nostra presenza, quest’oggi...”
disse Scarlet, camminando
verso di loro con le braccia incrociate al petto. “Tseng e il
suo fido
assistente-Turk Reno!”
I
due non risposero, in attesa che la donna cominciasse a sputare veleno
su di
loro. E in effetti, non tardò molto prima che la donna
riprendesse il suo
discorso, assumendo il cipiglio di un’aquila che plana sulla
propria preda.
“Sapete,
stamattina, quando mi sono svegliata nel mio letto, era tranquilla come
non
mai. La neve, il silenzio… a dire la verità, mi
sentivo in sintonia con
l’intero universo…” cominciò
a narrare Scarlet, lentamente, facendo in modo che
né Tseng né Reno potessero perdersi una parola.
“Felice come non mai, arrivo
nei miei uffici e scopro che, all’alba è accaduto
qualcosa di veramente strano.
Non siete curiosi di sapere cosa?”
“C-credo
di saperlo…” sussurrò Reno, a testa
china.
“Scopro
che due Turk, mentre erano in missione, hanno combinato un disastro, e
che uno
dei due, un Turk di cui mi fidavo, uno tra i nostri migliori
dipendenti, che
era candidato per il controllo della divisione Turk, ha commesso un errore. Badate bene, non un piccolo
errore. Non una quisquilia, niente di risolvibile con un paio di
pratiche e
qualche insabbiamento. Questo Turk ha ucciso una donna, in piena luce
del
giorno, ed ha lasciato andare un malvivente che trafficava Materie
illegali,
che potrebbero dare non pochi grattacapi alla ShinRa. Così
mi sono vista
affidata il caso, come se fosse piovuto dal cielo insieme alla
neve.”
“Ma...
sarebbe dovuta essere l’area di competenza di
Reev…” cominciò Reno, ma non fece
in tempo a finire la frase perché la donna lo
zittì di nuovo.
“Senza
offesa, ma Reeve Tuesti è solo uno stronzo senza cervello
che ha saputo mandare
Midgar allo scatafascio, finora!” rispose Scarlet,
seccamente. Il Turk più
giovane si pentì di averla interrotta. “Lo stesso
Presidente ShinRa ha deliberato
che fossi io a comunicare la punizione che i piani alti hanno decretato
per
voi. Cosa potevo fare se non accettare?” Scarlet rise, una
risata fredda,
acuta, fastidiosa.
Tseng
sentì una nuova fitta alla testa. Non si sentiva per niente
bene.
“Reno,”
continuò Scarlet, voltandosi verso la maestosa Midgar
ricoperta dalla neve.
“l’assemblea ha valutato le tue doti, durante
quest’ultima missione. A
differenza di altri, hai mantenuto la lucidità e hai cercato
di fare la cosa
giusta per la ShinRa. Congratulazioni, sei stato promosso da
Assistente-Turk a
Turk. Entro un paio di ore ti verrà assegnato un partner che
ti accompagnerà
nelle tue missioni”.
Il
ragazzo alzò gli occhi e guardò Scarlet,
meravigliato. Tseng ebbe l’impressione
che lo scopo di tutto ciò fosse stato umiliare ulteriormente
lui, ed ebbe
l’insano desiderio di spingere la donna dalla finestra del
proprio ufficio.
Strinse i pugni, il volto impassibile, mentre osservava Scarlet
congratularsi
con Reno e spiegargli i suoi nuovi incarichi.
Quell’orrenda
donna aveva preparato le cose per bene, quella volta.
Tseng
si sentì uno schifo. E Scarlet era una maestra per far
sentire così le persone
che le stavano accanto. Un paio di volte, mentre la donna parlava, gli
aveva
lanciato un’occhiata sfuggente, con il suo solito ghigno sul
volto, cercando di
intravedere una reazione sul suo volto impassibile. Probabilmente si
aspettava
di vederlo abbassare gli occhi, ma non gli avrebbe dato
quest’ulteriore
soddisfazione. L’avrebbe licenziato, ma di certo non
l’avrebbe umiliato.
“Puoi
andare, Reno” disse alla fine Scarlet, stringendogli la mano.
Mentre
usciva, Reno gli lanciò un’occhiata furtiva e
preoccupata.
“Veniamo
a noi, Tseng.” Scarlet lo guardò, non riuscendo
nemmeno a trattenere il proprio
ghigno. “Potrei parlare per ore del danno causato alla
ShinRa, di come
sbagliando hai derubato tutti i dipendenti della Corporazione eccetera
eccetera. Potrei. Forse dovrei. Non credi anche tu?”
Tseng
non rispose, limitandosi a fissarla nei suoi glaciali occhi azzurri.
“Si,”
riprese Scarlet, mettendosi a camminare su e giù per
l’ufficio. “dovrei. Ma non
lo farò. Sarebbe un tale spreco di tempo, visto la sorte che
ti aspetta!” la
donna rise di nuovo, e Tseng strinse i pugni così forte da
farsi male. “Anzi,
ti dirò una cosa. Sai perché
quest’uccisione ha causato così tanto scalpore?
Non è la prima volta che qualche passante ci rimette la vita
durante una
missione. In un altro caso, ci saremmo limitati ad occultare il
cadavere. Ma
stavolta, non andrà così. Il problema non
è stato aver ucciso la donna, ma
l’aver messo in pericolo quella
bambina.
Probabilmente non lo sai ancora, ma quella ragazzina è molto
importante per la
ShinRa. Un giorno capirai cosa intendo.
Ora,
l’aver ucciso la madre comporta l’averla resa
diffidente nei confronti della
ShinRa. Avremmo voluto che lavorasse in squadra con noi, quando sarebbe
giunto
il momento. Ma ora… tutto sarà più
complicato. Non mi stupirei, Tseng, di
sapere che hai compromesso l’equilibrio del pianeta. Questo è il motivo per cui
abbiamo deciso di allontanarti a tempo
indeterminato dalla Sezione Turk.”
Il
ragazzo non si mosse ancora, né parlò. Non voleva
che Scarlet considerasse il
suo congedo come una vittoria personale. Maledetta Arpia…
“Verrai
dimesso dal servizio oggi stesso. Ritorni un civile, e, come tale, le
questioni
private della ShinRa non saranno più tuo interesse. Se parli
con qualcuno di
quello che sai sui nostri progetti Top Secret, sapremo dove
trovarti.” Concluse
Scarlet, gettandosi una ciocca di capelli biondi oltre
l’orecchio.
Scese
il silenzio tra i due.
“Allora?
Non hai nulla da dirmi?” chiese Scarlet, sperando in una sua
reazione di
qualche tipo.
Tseng
non rispose. Si alzò in piedi e, con la mente rivolta ad
altri pensieri,
camminò verso la porta che dava sul corridoio grigio dal
quale erano venuti,
senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
“Te
ne vai così?” domandò Scarlet dalla sua
scrivania. “Senza nemmeno dire una
parola?”
Tseng
si fermò, senza voltarsi verso la sua interlocutrice.
“Quello che non ho detto
è stato più eloquente di qualunque discorso
carico di sentimento che avrei
potuto fare” disse poi, con la solita voce calma e priva di
emozione.
Avvertendo
il gelido metallo sotto le dita, aprì la porta e
uscì dalla luminosa stanza,
sotto gli occhi di una donna che non avrebbe mai più
rivisto, almeno
fisicamente, per il resto della sua vita.
A
quel tempo, Tseng era completamente all’oscuro di
ciò che sarebbe accaduto in
seguito; non immaginava che avrebbe vagato per tutta la notte per le
strade di
una gelida Midgar, cercando rifugio dal gelo che non concedeva scampo
ai
viandanti notturni; non sapeva che avrebbe trovato rifugio nei
Bassifondi della
città, e che, da quel momento, la sua esistenza sarebbe
stata segnata, ogni
notte, dai sogni, o forse erano incubi, su quella donna e sulle urla di
una
bambina che chiamava la sua mamma. Non era nemmeno a conoscenza di
quando, per
vincere il senso di colpa, avrebbe cercato la bambina, e di come
l’avrebbe
trovata, dopo giorni di ricerche, in un rudere abbandonato che un tempo
era
stato una chiesa.
Lei
non l’avrebbe riconosciuto, Tseng avrebbe pensato che forse
lo shock aveva
cancellato il volto del killer dalla sua giovane mente. E lui le
avrebbe
mentito. Le avrebbe detto che era uno dei Turk che vigilavano su di
lei, e da
allora, ogni giorno, ogni momento che passava con lei, sarebbe stato un
tentativo di espiazione.
Strano
destino, il suo, da quel giorno; eppure sentiva di meritarselo.
FINE
FLASHBACK
Si
ridestò dai suoi pensieri quando riconobbe un insegna
familiare posta sul lato
di un vicolo. Smarrito nelle reminescenze di quel particolare giorno
innevato,
non aveva notato di essere ormai giunto in prossimità della
sua casa.
Oltrepassò i rifiuti che ingombravano gran parte
dell’asfalto e scavalcò il
corpo di un senzatetto che dormiva profondamente, russando.
Superò un locale
dall’aria discutibile ed un paio di ragazzi che lo
osservarono malevoli, fino a
giungere davanti ad una porta corrosa dalla ruggine.
Aprendola,
si ritrovò davanti ad una stanza spoglia, quasi del tutto
vuota se non per un
letto, un piccolo armadio ed uno scrittoio all’angolo. Non
poteva permettersi
altro, con la miseria che riceveva dai suoi clienti. Ma non li
biasimava,
dopotutto lì nei bassifondi il denaro era una merce rara.
Nessuno poteva permettersi
spese inutili, neanche per assoldare una spia del suo calibro.
Si
sedette su un letto, ad osservare il soffitto basso da cui penzolava un
lampadario squallido.
Era
strano pensare come quella bambina avesse cambiato la sua vita in ogni
suo
singolo aspetto, anche se non sapeva dire se in meglio o in peggio.
Vivere nei
bassifondi era… strano. I primi tempi era stato come se
fosse invisibile. Tutti
erano presi dalle proprie preoccupazioni, e raramente notavano quel
ragazzo in
giacca e cravatta, spaesato in quel devastato mondo di
povertà.
Successivamente, aveva imparato che lì nei bassifondi si
entrava gradualmente,
giorno dopo giorno: uno sguardo, un sorriso, l’offrirsi di
aiutare qualcuno a
portare i sacchi di cianfrusaglie dopo una giornata al mercato; e in
breve si
imparava a riconoscere un volto amico, e a scambiare qualche parola con
lui, e
magari anche a stringere amicizia. A quattro anni dal suo
trasferimento, poteva
ben dire di non ricordare quasi nulla della sua vita precedente. A
pensarci era
incredibile, ma non ricordava un tempo in cui non era solito svegliarsi
con il
rumore del rubinetto che perdeva o con i tubi di scarico che
puntualmente
gettavano il loro contenuto sul tetto della sua abitazione. I ricordi
che
precedevano il suo arrivo nei bassifondi erano ormai avvolti da una
fitta
nebbia, come se fossero stati solo una lunga digressione narrativa
della sua
vita ormai conclusa da parecchio tempo. Da parecchio sentiva che quello
era
ormai il suo posto, la sua casa.
La
sua casa era vicino a lei.
Odiava
ammetterlo, ma una delle cose che più amava dei bassifondi
era lei. La sua
presenza. Si, il giorno in cui Aerith Gainsborough per la prima volta
gli aveva
sorriso era entrato a far parte definitivamente dei bassifondi. Quando
era con
lei tutto era diverso, da parecchio tempo.
Aveva
sempre pensato che non si sarebbe mai innamorato di nessuno.
L’amore era una
debolezza dell’uomo, il preludio della sconfitta. In guerra
è così: non bisogna
provare nessuna emozione verso il nemico; se provi compassione, o pena,
o
altro, presto perirai sotto le armi di un nemico che non si cura di te
e che è
stato più furbo, perché ha capito il vero gioco
nella vita.
Eppure,
con lei tutto era diverso. Quando stava con lei, era debole, lo
sentiva, perché
provava delle emozioni. Quasi mai nella sua vita, si era lasciato
ferire dagli
altri: non all’orfanotrofio, sopportando le
crudeltà degli altri bambini senza
batter ciglio, né durante il lungo periodo in cui aveva
servito la ShinRa come
Turk. Ma adesso, sentiva quella debolezza invadergli la mente,
insinuarsi nei
suoi più profondi pensieri, e non poteva fare nulla per
fermarla. Qualcuno una
volta gli aveva detto che quelle emozioni facevano parte
dell’essere umano, e
che non poteva privarsene. Tseng aveva sempre compatito coloro che ne
erano
schiavi. Ma adesso... non sapeva più cosa pensare.
Sospirò
mentre si distendeva sul suo giaciglio, con lo sguardo rivolto verso il
soffitto da cui, ogni tanto, cadevano pezzi di intonaco. Chiuse gli
occhi e,
lentamente, scivolò in un sonno profondo, in cui forza e
debolezza si
mischiavano con il rosso del sangue sulla neve bianca di un vicolo di
periferia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Capitolo
III
Quando
Aerith si svegliò, la mattina dopo, provava ancora quel
misto di tranquillità
ed inquietudine che la pervadeva dall’incontro con Tseng.
Parlare con lui era
sempre stato strano. Lo sentiva scostante, a volte vicino, altre volte
distante. Non era un tipo molto loquace, teneva tutto dentro di
sé.
In
effetti, Aerith non sapeva quasi nulla del ragazzo che da ormai quattro
anni
circa la visitava quasi giornalmente, se non il minimo indispensabile
che lui
stesso le aveva rivelato nel corso di quel tempo, in alcune sporadiche
occasioni. Sapeva che era un Turk di professione, e che i suoi
superiori
l’avevano mandato a vigilare su di lei.
Nient’altro. Che strano, però. Tseng
stava sempre ad ascoltare ciò che lei gli narrava, anche per
ore intere, senza
mai annoiarsi, ma non parlava mai di sé. Ad Aerith non
sarebbe dispiaciuto sapere
qualcosa in più sul suo conto.
Fu
questo desiderio che la spinse, durante la mattinata di quella
splendente
giornata di sole, a prendere parola su un discorso che ben presto
avrebbe preso
una piega inusuale.
Tseng
era arrivato da poco, ed entrambi riposavano con la schiena poggiata
sul
polveroso parquet della chiesa.
Aerith
si mise seduta e lo osservò, mentre quest’ultimo
volgeva il proprio sguardo al
cielo che si intravedeva da un buco sul tetto dell’edificio.
“Così
ti impolvererai tutta la giacca!” rise Aerith, additandolo.
“Sai, spazzare il
pavimento non è il mio passatempo preferito!”
Tseng
ricambiò il suo sguardo, alzando il busto e sedendosi a sua
volta davanti a
lei. “Fa niente, posso sempre lavarla!”
Aerith
continuò a sorridere, mentre osservava i rigogliosi fiori,
ormai sbocciati in
tutto il loro splendore. “Giusto”
assentì poi, avvicinandosi ad un paio di
margherite gialle e carezzandone gli steli e la delicata corolla.
“Come
mai così di buon umore?” chiese Tseng, mentre la
osservava dare un po’ d’acqua
alle margherite e ad un gruppo di tulipani lì vicino.
“E’
una bella giornata” esclamò Aerith voltandosi
verso di lui. “L’estate è ormai
alle porte… chissà che questa non sia la volta
buona per lasciare
definitivamente Midgar! Quanto mi piacerebbe viaggiare per il mondo,
vedere
nuovi luoghi…”
“Sai
che io ti seguirei comunque” rispose Tseng.
“Si,
immagino che la ShinRa ti ordinerebbe di non perdermi di vista nemmeno
per un
momento…” rifletté Aerith, facendosi
seria. “Ma sai una cosa? Non me ne importerebbe
nulla, purché sia tu ad accompagnarmi!”
La
ragazza abbassò gli occhi, imbarazzata da ciò che
le era sfuggito dalla bocca.
Tseng si ridistese sul pavimento, osservando qualche frammento isolato
di cielo
azzurro che si intravedeva oltre le travi in legno della chiesa.
“Tseng,
posso chiederti una cosa?” sussurrò dopo un
po’ la ragazza, distendendosi di
fianco a lui.
Lui
annuì, senza staccare gli occhi dal tetto della chiesa.
Aerith si fece
coraggio.
“Ti
andrebbe di raccontarmi qualcosa su di te?” chiese, tutto
d’un fiato,
aspettando una qualunque reazione.
Tseng
si voltò a fissarla, con un’espressione
interrogativa negli occhi. “Perché?”
domandò.
Aerith
ci mise un po’ per rispondere, come se stesse scegliendo le
parole più adatte
per addentrarsi in quell’ispido discorso. “Non
c’è un perché…”
cominciò,
esitante. “E’ solo che… ti conosco ormai
da tanto tempo, ed ho notato di sapere
poco sul tuo conto… ma se non vuoi, io
non…” si affrettò ad aggiungere poi,
non
volendolo forzare a rivelare cose che non voleva.
“No”
rispose Tseng, interrompendola. “Tranquilla! E’
vero, in effetti non parlo
molto di me…”
le
sue labbra si incresparono in un sorriso. “Però
è giusto che tu sappia almeno
qualcosa! Cosa vorresti sapere?”
Aerith
si alzò in piedi, e percorse a grandi passi la navata della
chiesa. “Dimmelo
tu” rispose con un sorriso.
“Beh…”
cominciò lui, indeciso. Non poteva dire ad Aerith nulla di
davvero importante
sul suo passato, non avrebbe potuto svelarle la verità.
Sarebbe stata la cosa
giusta da fare, forse, ma non avrebbe potuto sopportare di perderla.
Scosse la
testa, per allontanare quelle sdolcinatezze. Quattro anni prima si
sarebbe
odiato per aver anche solo considerato di pensare qualcosa del genere.
Com’era
cambiato…
Alla
fine, decise di raccontare una parte della verità, gettando
in ombra quello che
non voleva farle sapere. Cominciò dal principio, narrando
della sua infanzia in
quell’orfanotrofio squallido e cupo dagli alti cancelli
invalicabili, e di come
gli altri bambini lo ignorassero. Parlò di come la sua vita
fosse cambiata il
giorno in cui un uomo avvolto in un mantello nero lo aveva portato via
da
quella prigione e in cui aveva capito qual era il suo destino.
Diventare un
Turk. Narrò del duro addestramento della ShinRa, e di come
alla fine era
diventato uno dei migliori agenti della Corporazione in appena pochi
anni.
“Caspita!”
esclamò Aerith, non appena Tseng ebbe terminato la sua lunga
storia. “Ed io,
mentre tu viaggiavi per il mondo risolvendo conflitti internazionali,
sono
rimasta sempre qui, a Midgar!”
“Beh,
ormai è da tempo che non mi viene più affidata
nessuna missione in giro per il
mondo” rispose Tseng. Non stava mentendo, perché
essendo stato licenziato,
ovviamente non poteva certo avere nuove missioni di nessun genere,
né tantomeno
che richiedessero un intervento all’estero.
“Però credo di aver imparato a
conoscere il nostro pianeta quanto basta, in questi anni!”
I
grandi occhi di Aerith si illuminarono. “Davvero?”
chiese, immaginando terre
lontane da Midgar, deserti solitari, grandi foreste e sperduti villaggi
posti
in cima a montagne scoscese. Come sarebbe stato bello poter visitare
tutti quei
luoghi!
“Davvero”
rispose Tseng, accennando appena un sorriso davanti alla sua meraviglia.
“E
quindi sai tutto su ogni luogo di questo pianeta?”
“Beh,
tutto è una parola grossa! Ci sono molti luoghi che non ho
mai visto, ma in
generale so abbastanza sui posti che ho visitato” rispose
Tseng con semplicità,
alzandosi da terra e osservando i gargoyle in pietra che adornavano i
capitelli
delle colonne poste agli angoli dell’edificio.
“E
dimmi, è vero che c’è un serpentone
gigante nelle paludi vicino Kalm Town?”
chiese Aerith sempre più affascinata e curiosa.
Tseng
si voltò ad osservarla, con un espressione interrogativa
dipinta sul volto.
Aerith era davvero una strana ragazza, a volte. Per la prima volta da
tanto
tempo un vero sorriso gli attraversò il volto. Il suono
della sua risata
appariva simile ad colpo di tosse, roco, come se si fosse arrugginito
con il
passare del tempo. In effetti, erano passati anni dall’ultima
volta che aveva
riso.
“Sono
così stupida?” domandò Aerith,
fingendosi offesa dal suo comportamento.
“No,
non è colpa tua!” rispose Tseng, ancora con quel
sorriso nostalgico stampato
sul volto. “E’ solo che quella domanda mi ha fatto
ricordare una persona che
non vedo da tanto tempo…”
“Un
vecchio amico?” chiese Aerith, avvicinandosi.
“Beh,
si” rispose Tseng, “Un ragazzotto curioso, di nome
Reno. Mi faceva sempre le
domande più disparate, e si aspettava che io avessi la
risposta a tutto ciò che
mi chiedeva! Ricordo che non la smetteva mai di parlare, neanche nei
momenti
più critici, e che io avevo sempre una gran voglia di
tappargli quella bocca!
Eppure, adesso non mi dispiacerebbe rivederlo…
chissà che cosa starà
combinando…”
“Sembra
un ragazzo simpatico!” constatò Aerith, mentre lo
fissava.
“Già.
Ti sarebbe piaciuto”.
Silenzio,
forse un velo di imbarazzo appena percettibile attraverso
l’atmosfera vibrante
che si era creta durante quella conversazione. Un paio di api ronzavano
intorno
ai variopinti fiori al centro della chiesa. Aerith vi si
avvicinò, ed osservò
gli operosi insetti posarsi sulla corolla dei fiori per poi sparire
all’interno
del calice, alla ricerca del nettare.
“Dici
che dovrei venderli?” chiese poi, cogliendo una rosa bianca.
“Come?”
“I
fiori, intendo” specificò Aerith, indicando la
rosa che teneva tra le mani.
“Ah…”
Tseng
ci pensò un po’ su. “Perché
no? Qui a Midgar non se ne vedono molti, in
effetti”.
Aerith
scosse la testa. “Neanche uno, qui nei Bassifondi! Da quel
che ne so, io sono
l’unica a coltivarne... potrei raccogliere abbastanza denaro
per andarmene da
qui! Non che il denaro sia l’unica motivazione,
ovvio!” si affrettò ad
aggiungere, per evitare malintesi. “In verità mi
piacerebbe vedere questi
luoghi un po’ più... variopinti! Il grigio
è un colore così squallido!”
“E
poi guadagneresti un sacco di soldi!” si affrettò
ad aggiungere Tseng con un
sorriso sarcastico.
“D’accordo,
anche quello è importante!” ribadì
Aerith scoppiando a ridere.
Tseng
le si avvicinò lentamente, di sua spontanea
volontà o forse ammaliato dalla sua
splendida risata cristallina, e si inginocchiò anche lui
dinanzi al campo di
fiori. La sentiva vicina, vicina come non mai, nemmeno il giorno
precedente
erano arrivati a stabilire quel sottile contatto che in quel momento li
stava
unendo. Tseng sapeva che questo legame era stato rafforzato dalle sue
parole di
poco prima, che avevano messo a posto un altro tassello di quel mosaico
che era
il loro rapporto. Un intreccio di amicizia, velata dal labile confine
tra
l’inganno e il malinteso, oscurata da ciò che
Tseng le nascondeva.
Amicizia.
Solo semplice e pura amicizia.
Forse.
Poi,
un gioco di sguardi, timidi, pudichi, dapprima insicuri, ma che con il
tempo si
facevano sempre più languidi, densi di un sentimento nuovo
per entrambi, e che
Tseng aveva da sempre disprezzato. Le cose stavano cambiando, anzi,
erano
cambiate ormai da tempo. La cecità è un male che
si presenta sotto varie forme
e in diversi aspetti, raggirando continuamente l’uomo. Ma
prima o poi le nebbie
si diradano, e tutto viene compreso per ciò che è
realmente.
In
quell’illusione generata nel mattino di una giornata come
tante, sia Tseng che
Aerith capirono qualcosa dell’altro. Nulla di particolarmente
rilevante, in
verità; tutto quello che compresero era già, in
un certo senso, nascosto dentro
di loro.
“Grazie”
sussurrò Aerith, abbassando lentamente lo sguardo.
“Di
cosa?” chiese Tseng, incuriosito dall’affermazione
dell’altra.
“Sei
l’unico con cui riesco a parlare
davvero…” commentò Aerith.
“Ti ringrazio”.
Per
pochi istanti che durarono quanto una vita, nessuno dei due
parlò. Tseng perse
il suo sguardo tra le sfumature vermiglie delle rose di Maggio, e
allungò una
mano, istintivamente, per accarezzarle. Al tatto parevano di velluto,
leggere,
quasi evanescenti. Lasciò che la mano accarezzasse per
intero la corolla della
rosa più rigogliosa ma al tempo stesso effimera, che presto
sarebbe sfiorita.
Anche lei, nella sua condizione d’instabilità,
sembrava volerlo spingere a non
sprecare quel momento che stava già per seguire il flusso
del tempo ed
aggiungersi alla catena dei ricordi che formano l’esistenza.
Ritirò il braccio
da quel giardino variopinto. E mentre il senso di colpa cresceva di
pari passo
con l’ansia, si ritrovò a sussurrare, con il viso
di Aerith a pochi centimetri
dal suo, un distratto: “Non c’è di
che”.
Dio,
il vecchio Tseng sarebbe nauseato
da ciò che sto facendo, si
ritrovò a pensare, in un momento
che sembrò protrarsi all’infinito. Un attimo dopo,
si disse che il vecchio
Tseng era morto il giorno in cui aveva lasciato la ShinRa. Per la prima
volta,
percepì sulla sua stessa pelle il cambiamento.
Quando
le due labbra si sfiorarono, Tseng seppe con certezza di essersi
lasciato un
pezzo del suo passato alle spalle. Con un nodo allo stomaco causato
dall’agitazione, o dal senso di colpevolezza che lo
attanagliava, alimentò il
bacio per ancora qualche secondo.
Poi
si separarono, lentamente. Tseng riaprì gli occhi, pur non
ricordandosi di
averli mai chiusi, ed osservò le guance di Aerith tingersi
di un lieve colore
rosato, simile a quello del cielo all’alba.
La
ragazza si distese per terra, con lo sguardo rivolto verso
l’alto, verso alcuni
raggi solari che si insinuavano perpendicolarmente tra le travi in
legno che
sostenevano il tetto. Non sembrava avere intenzione di parlare, ma a
Tseng non
importava. Attraverso quel silenzio sentiva i sentimenti di Aerith
permeare
nell’aria, come se la sua dolcezza e la sua allegria
rifulgessero di luce
propria, rischiarando la stanza al pari del più splendente
raggio di sole.
Si
distese accanto a lei, ad osservare il polveroso e cadente tetto
dell’edificio.
Dove le travi avevano ceduto, era possibile ammirare il blu profondo
del cielo,
interrotto saltuariamente da qualche pallida nuvola passeggera.
Tseng
si fece serio, mentre un turbine di pensieri contrastanti si facevano
strada
nella sua mente. Ecco, l’inganno adesso era completo. Sapeva
che tutto era
cambiato, che gli avvenimenti di quel giorno avevano svegliato qualcosa
che
attendeva, sopito, di poter emergere a galla: qualcosa di puro, che
veniva
insozzato dal suo silenzio. Se avesse detto quello che realmente era
successo
in quella fredda mattina d’Inverno, la cosa che avevano
svegliato quel giorno
sarebbe morta, paralizzata in un gelo che mai si sarebbe sciolto. Ne
era
sicuro, ed era impossibile, in effetti, che andasse in un modo diverso
rispetto
a quello che, tante volte, aveva immaginato nella sua testa. Aerith
avrebbe
forse detto che non era importante ciò che aveva fatto? Che
non aveva
intenzione di ucciderla quando aveva sparato? No. Era inutile cullarsi
in
illusioni del genere.
Accanto a lei, in quel
momento, c’era il
mostro che le aveva rubato l’infanzia; e per quanto lui fosse
cambiato, forse
indebolito, per quanto un omicidio, pochi anni prima, non lo avrebbe
minimamente scalfito, per quanto il tempo fosse passato e avesse
portato
inevitabili mutamenti, nulla le avrebbe impedito di odiarlo,
disprezzarlo,
allontanarlo. Nessuno l’avrebbe biasimata.
Il
silenzio gli sembrò l’unica strada che potesse
preservare l’illusione,
quell’illusione di cui Aerith era il fulcro, e che lui
applicava a forza sulla
realtà, distorcendola.
Da
quel giorno, non passò un momento che Tseng non trascorresse
nella chiesa
diroccata dei bassifondi di Midgar, insieme ad Aerith. La Primavera,
giorno
dopo giorno, cedette il posto all’Estate, e al profumo dei
fiori della chiesa
si sostituì quello della salsedine portato dalla brezza che
soffiava sulle
coste lì vicino.
La
osservava mentre curava i fiori che, dopo la lussureggiante Primavera,
adesso
avevano bisogno di più attenzioni a causa della
siccità della bella stagione.
Gettava su di lei il suo sguardo mentre, poggiato con la schiena ad una
colonna, i suoi pensieri vagavano indisturbati. Trascorrevano
così, a volte,
lunghe giornate, senza nemmeno parlare tra di loro, scambiando
solamente
qualche sguardo d’intesa, ogni tanto.
Altre
volte, invece, nelle giornate in cui l’afa era appena
sopportabile, si
rintanavano entrambi nell’angolo più fresco della
chiesa, lontano dalle alte
vetrate da cui filtravano raggi di sole, per parlare. In
verità, non è che lui
parlasse molto. Preferiva ascoltare le parole di Aerith, i suoi
racconti, ogni
cosa di cui lei lo rendeva partecipe. Ogni tanto Tseng interveniva con
qualche
commento, o per chiedere un chiarimento su qualcosa. Gli piacevano
quelle
lunghe chiacchierate nella penombra degli afosi pomeriggi estivi: non
era mai
stato molto interessato ai contatti umani, prima di conoscerla. Li
aveva
creduti solo punti di debolezza, come tutte le altre esternazioni di
sentimenti. Adesso, invece, aveva notato che era interessante stare ad
ascoltare, anche per ore, i discorsi pieni di felicità ed
ottimismo di Aerith.
A volte quest’ultima gli domandava qualcosa, con gli occhi
grandi e curiosi
simili a quelli di una bambina che per la prima volta vede il mondo;
gli
chiedeva di narrargli delle terre inesplorate del Pianeta, se fosse
vero che al
Nord facesse così freddo o se, invece, ci fossero luoghi
dove il sole splendeva
per tutto l’anno; e lui sorrideva appena, increspando le
labbra, e rispondeva
alle domande, osservando divertito il genuino stupore di Aerith nel
conoscere
nuove cose sul mondo nel quale viveva.
Ogni
giorno si affrontavano nuovi discorsi, nuove teorie su argomenti anche
astratti
che venivano argomentati mediante delle tesi più o meno
esatte; ed ogni volta,
entrambi imparavano qualcosa di nuovo, che offriva spunti per
ciò di cui
avrebbero parlato nel giorno successivo.
In
verità, l’unico argomento di cui non facevano
parola era proprio la loro
storia, che andava ormai avanti da parecchie settimane. Forse per un
leggero
imbarazzo, forse perché non ce n’era bisogno,
poiché il rapporto continuava a
consolidarsi durante quegli incontri che ormai avvenivano giornalmente.
E
così, mentre le giornate divenivano più secche
con il passare del tempo, il
loro rapporto andava sempre di più evolvendosi. Tseng
parlava molto più spesso,
e a volte l’aiutava nell’estirpare i fiori che
erano ormai stati seccati dalla
calura del clima estivo. Entrambi si sentivano coinvolti da quella
relazione
che si faceva sempre più intima, ad ogni attimo che
trascorrevano insieme.
Fu
così che, nel tepore estivo di una serata di fine Luglio, si
ritrovarono ancora
una volta con la schiena poggiata sul freddo e lucido marmo della
colonna, alla
flebile luce di alcune lampade ad olio che rischiaravano appena i loro
visi.
Aerith
si cingeva le gambe con le braccia, pensierosa, mentre Tseng, accanto,
non
parlava, immerso nella sua apatia, osservando alcune zanzare
avvicinarsi alla
lampada ad olio, attratte dall’aureo pallore di
quest’ultima e dal suo calore.
“A
cosa pensi?” chiese d’un tratto la ragazza,
facendolo trasalire.
“A
niente” si affrettò a rispondere lui, scostando lo
sguardo dalla lampada assediata
dagli insetti.
“Non
puoi non pensare a niente!” esclamò Aerith,
sorridendo. “E’ un controsenso!”
“Allora
stavo riflettendo”
“E
su cosa?”
“Niente
di rilevante, te l’ho già detto!”
rispose Tseng lanciandole un’occhiata
divertita.
“Non
mi nascondi qualcosa?” gli domandò Aerith,
pizzicandolo in un braccio con una
smorfia allegra.
Tseng
si ritrovò a sorridere e a mentirle nuovamente, mentre il
rogo del senso di
colpa ardeva in lui. Si, le nascondeva qualcosa; e non poteva fare a
meno di
tormentarsi con questo pensiero, sapendo che prima o poi la
verità sarebbe
saltata fuori, e che tutto quello che adesso aveva – Aerith,
quella vita nei
bassifondi che, inizialmente odiata, in fondo non era male –
sarebbe finito. E
sapeva anche che Aerith, al di fuori di quella parentesi che andava
ormai
avanti da parecchi anni, l’avrebbe sicuramente odiato.
Non
avrebbe mai finito di ripeterselo.
“No”
sorrise il ragazzo. “E’ solo che... sono state
giornate pesanti, all’ufficio
Turk…”
Aerith
non rispose. Si avvicinò ad una delle alte finestre, immersa
nella penombra e
nell’oscurità della notte. Non era molto tardi, in
verità: potevano essere le
nove, o forse, volendo esagerare, le dieci, ma il buio, in quella parte
di
Midgar, era sempre lo stesso, dal crepuscolo fino all’alba:
uniforme e
continuo, da sembrar quasi infinito, fuori da ogni margine di tempo e
spazio.
Poi
si voltò, avvicinandosi a lui che aveva chiuso gli occhi,
per riflettere o
semplicemente a causa della stanchezza.
“Immagino
che in notti come questa i Turk siano sempre in agguato, in attesa di
eventuali
attacchi delle bande terroristiche di Midgar…”
disse Aerith, indicando il nero
oltre la finestra.
“Già”
assentì Tseng, senza aver realmente ascoltato le parole
della ragazza.
Aerith
gli si avvicinò, lentamente, abbassandosi di fronte a lui, e
sorrise. Era un
sorriso tenero, di quelli che si fanno ai bambini timidi che, in
presenza di
estranei, non proferiscono parola, preferendo restare dietro le gonne
delle
loro madri.
“Sai
che dovresti ridere di più?” scherzò,
poggiando la propria testa sulla spalla
del ragazzo.
Tseng
fece una strana smorfia, a metà tra un sorrisetto e un
espressione disgustata.
“Non sei la prima persona che me lo dice”.
“Non
avremo forse ragione a ripetertelo? Un sorriso fa bene
all’anima, ricordatelo!”
Tseng
strinse forte la ragazza, riflettendo sulle sue parole. Che
bene poteva fare all’anima, si disse, un falso sorriso? La risposta la sapeva
già, era stato stupido
persino a formulare quella domanda.
I
sorrisi di solito sono spontanei, contagiosi, e possono nascere da un
qualsiasi
avvenimento, da una qualunque sensazione: Aerith e Reno erano dei
perfetti
esempi di come si potesse fare dell’allegria il proprio stile
di vita. Lui
invece era diverso. Magari avrebbe anche voluto essere come loro,
gonfiando il
cuore di gioia per ogni piccolezza che la vita gli offriva, ma gli
risultava
impossibile. Era sempre stato insensibile a questo genere di cose. Ed
anche se
molte cose erano accadute, ed altrettante erano cambiate, non si
può mutare di punto
in bianco, non si può semplicemente svegliarsi una mattina e
decidere di
cambiare.
“Forse
hai ragione” rispose lui, atono.
“Già,
forse…” gli fece eco Aerith, divertita.
Entrambi
rimasero in silenzio per qualche istante. La ragazza era assonnata e
decise di
chiudere gli occhi, ancora poggiata alla spalla di Tseng. Non dormiva,
però; al
contrario, sentiva ogni suono, ogni più piccolo rumore
attorno a loro, e si
aspettava che da un momento all’altro il ragazzo parlasse, e
che spezzasse quel
mutismo degli ultimi minuti.
“Aerith?”
chiese infine, in tono incerto, Tseng, per controllare se dormisse.
“Mm?”
rispose lei, rimanendo con gli occhi chiusi.
Tseng
deglutì, trovando il coraggio per addentrarsi nel discorso
che aveva deciso di
intraprendere. “Vedi… io…”
Aerith
aprì gli occhi, e lo osservò, curiosa.
“Si?”
Non
riusciva a trovare le parole giuste. Aprì la bocca e la
richiuse, inebetito.
Avrebbe voluto cominciare un discorso profondo su quanto lei
significasse per
lui, su come lo facesse sentire, sui nuovi sentimenti che stava
provando, in
quelle giornate screziate dai luminosi raggi solari estivi che
irradiavano
Midgar di luce. Avrebbe voluto parlarle, dirle che l’amava,
che l’amava ormai
da parecchio tempo, e che probabilmente quelle ultime settimane erano
state le
migliori della sua vita. Roba che, pochi anni prima, lo avrebbe
semplicemente
fatto vomitare.
Fu
in quel momento che, spinto da un impulso selvaggio, nuovo per lui ma
vecchio
come il mondo, la attirò a sé e la
baciò. Fu un lungo bacio, più sensuale e
naturale rispetto ai precedenti; Aerith fu colta di sorpresa, ma
capì quello
che lui voleva dirle, senza bisogno di una parola. Rispose al bacio,
come se
stesse dando una risposta alle parole mai dette da Tseng, come se gli
stesse
dicendo che anche per lei era la stessa cosa, e che lui era speciale, e
che era
sempre stato il suo miglior amico, e non solo una guardia del corpo.
Ringraziò
di essere unica al mondo, di avere quei poteri che spingevano la
ShinRa, causa
di tutti i suoi mali ma, incredibilmente, anche di qualche bene, a
proteggerla.
Le
labbra erano ormai a stretto contatto; quel sentimento a cui Tseng non
era
riuscito a dare un nome, quella passione così travolgente,
li aveva ormai fatti
suoi succubi. Si separarono per un momento, poi riunirono le labbra,
con più
foga di prima. Tseng scese giù, lungo il collo, arrivando
sul morbido incavo
sul collo, mentre Aerith chiudeva gli occhi, ansimante. Ormai sapevano
entrambi
cosa sarebbe successo, e non fecero nulla per impedirlo.
Un
altro lungo bacio, intervallato dai sospiri di entrambi. Le mani di
Tseng
accarezzarono le esili forme della ragazza, dall’addome,
sfiorando il seno,
fino al fianco e alla natica. Il ragazzo si sfilò la giacca
e la cravatta
dell’uniforme, gettandole a terra e sollevando uno sbuffo di
polvere.
Quello
che accadde in seguito, in realtà, non risultò
chiaro a nessuno dei due; al
mattino dopo, entrambi ricordavano solo un bailamme di sensazioni, di
pensieri,
sprazzi di memorie e sensazioni che si perdevano nel bianco
dell’oblio, che
forse era anche purezza.
Tseng
ricordava di come fosse entrato in lei, ansante, e i suoi leggeri
sospiri di
piacere, ma che, forse, erano gemiti di dolore (era sicuro di averle
fatto
male). Ricordava di aver pensato come quell’atto stavolta
fosse così diverso,
rispetto alle altre volte in cui l’aveva fatto, forse
perché era la prima volta
che amava davvero qualcuno.
Stranamente,
ricordava anche dettagli inutili, sensazioni del tutto prive di
significato ma
che gli erano rimaste impresse nella mente, come delle fotografie. Ricordava di aver udito
alcuni volatili
sostare tra le travi della chiesa e poi riprendere il volo, non notando
il
trambusto che avveniva sotto di loro; ricordava di come il marmo della
chiesa
gli era sembrato lucido, splendente come l’oro alla luce
delle lampade ad olio
che rischiaravano la stanza; ricordava di aver udito qualche sospiro, o
forse
qualche parola, provenire da Aerith, e che non gli aveva nemmeno
prestato
attenzione…
Per
il resto della notte era rimasto vincolato ad Aerith, stretto in un
abbraccio,
aspettando la rosea alba che era infine giunta, e che aveva portato con
sé il
giorno. Quando sottili raggi di sole filtrarono dalle tegole del tetto,
annunciando l’avvento di un nuovo mattino.
“Devo
andare” sentenziò infine Tseng, cercando di
ritrovare i suoi vestiti, sparsi
sul pavimento dalla notte precedente.
Aerith
si rizzò in piedi, anche lei alla ricerca del proprio
vestito. “Così presto?”
chiese poi, delusa.
“Presto?”
ripeté Tseng abbottonandosi la camicia e cercando di
annodare nuovamente la
cravatta. “Sono qui da circa dodici ore!”
La
ragazza sorrise. “Va bene, dopotutto avrai da
fare!” sussurrò poi, dolcemente.
“Non
immagini quanto!” le rispose Tseng, rimettendosi la giacca e
rassettandosi i
vestiti.
Si
diresse verso una delle vetrate e vi si specchiò, per
controllare che fosse in
ordine.
“Tornerai
presto?” chiese Aerith da dietro di lui, con un tono di voce
che riusciva a
stento a trattenere l’entusiasmo.
Tseng
si voltò e la osservò attentamente. Era radiosa,
così bella nonostante non
avesse dormito, con uno sguardo così limpido, simile a
quello del cielo in
Estate… pensò che quella fosse stata la
più bella notte della sua vita.
“Molto
presto” sussurrò, in tono rassicurante, prima di
darle un ultimo dolce bacio.
Mentre
usciva dalla chiesa, si voltò un ultima volta, per
osservarla di nuovo, prima
di andar via. Aerith stava guardando verso il cielo, o verso quel poco
che se
ne vedeva, con uno sguardo felice, immersa nei suoi pensieri.
Tornerò
presto…
A
dirla tutta, è strano come il destino, a volte, si accanisca
contro l’uomo.
Loro non lo sapevano, certo, ma quando Tseng osservò, sullo
stipite della
porta, la sua Aerith, fu l’ultima volta che la vide. Entro
poche ore, gli
eventi sarebbero precipitati, e il fato avrebbe vinto ancora una volta
sull’ignaro uomo.
Al
ché sorge spontaneo l’interrogativo: e se
l’uomo sapesse? Potrebbe forse
cambiare il destino? Probabile. Ma l’ignoranza è
forse il peggiore tra i mali
di questo mondo, e l’essenza dell’uomo è
proprio quella. Ignoranza. Se fosse
anche solo un po’ più scaltro, l’uomo
riuscirebbe a sfuggire dai propri mali, a
volte persino dalla morte.
Certo,
dalla vera Morte è impossibile sfuggire; le sue spire ti
avvolgono, ti
stritolano, ti lasciano ansimante, senza fiato, sulla via per un mondo
sconosciuto e del tutto nuovo; ma la cosa più importante da
fare, durante il
percorso verso quel mondo, è chiudere i conti col passato
per evitare i
rimpianti del futuro.
Anche
Tseng, entro poche ore, avrebbe sperimentato questa strada, spinto dai
suoi
errori del passato o forse dalla follia; e ne sarebbe uscito
vittorioso, ma
forse solo in parte.
Per
il momento, chiudendo la porta della chiesa alle sue spalle,
salutò il mondo,
per la prima volto dopo moltissimo tempo, con un sorriso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Capitolo
IV
Aerith
Gainsborough chiuse la porta della chiesa alle sue spalle.
Sfiorò per un
momento il legno, avvertendone la superficie ruvida, poi
lasciò la maniglia in
ottone e volse lo sguardo verso l’appena sveglia Midgar dei
bassifondi. Il sole
non era ancora alto nel cielo; l’aria era fresca, come quella
della notte
appena trascorsa. Inspirò profondamente, cominciando a
camminare senza però
avere una meta precisa: non aveva programmi per quella giornata che si
preannunciava già soleggiata ed afosa come le altre, non
finché Tseng non
sarebbe nuovamente venuto a visitarla, nella sua chiesa.
Sapeva
che sarebbero passate parecchie ore. Il ragazzo se n’era
andato appena pochi
minuti prima e, se aveva un lavoro da fare per conto dei Turk, non
sarebbe
tornato prima di mezzogiorno, per essere sicuro che tutto fosse andato
liscio.
Di conseguenza Aerith, dato che in quella stagione non poteva
più far nulla
per accudire i fiori, aveva deciso di
uscire per un po’, e di respirare l’aria fresca del
primo mattino.
Non c’era ancora
molta gente, in giro: incontrò
prevalentemente uomini, contadini che si dirigevano ai margini di
Midgar con
grandi cesti di vimini per il raccolto. Le matrone con in braccio i
figli
sarebbero venute più tardi, quando il sole avrebbe raggiunto
lo zenit,
affollando le vie contigue al mercato.
Camminò
per qualche minuto, affondando i piedi nel terriccio che ricopriva le
strade e
i vicoli; ad ogni passo produceva un lieve tonfo, sollevando una
piccola nube
di terra che si perdeva nell’azzurro limpido del cielo
all’orizzonte.
Giunse
infine al vecchio parco giochi del Settore 5, solitamente teatro delle
gesta di
numerosi bambini ma a quell’ora così quieto,
deserto, quasi innaturale. Il
vento faceva cigolare le altalene arrugginite, ora piano, ora forte;
Aerith vi
si avvicinò, ne bloccò una con il palmo della
mano e vi si sedette sopra,
appoggiando la testa su una delle due catene. Al tatto, il metallo che
serviva
a mantenere in equilibrio l’altalena era gelido, come
indifferente all’afa del
mese di Luglio.
La
ragazza pensò a lungo, mentre era con il capo poggiato sulla
fredda catena; era
così assorta nelle sue riflessioni che non si accorse di
quando un paio di
bambini entrarono oltrepassando i cancelli in ferro del parco giochi,
né di
come il sole, in poco tempo, si fece alto nel cielo, illuminando
perpendicolarmente tutta la città che viveva sopra il
piatto. Si limitava a
pensare, con lo sguardo perso nel vuoto: pensava alla precedente notte,
quella
notte in cui qualcosa di nuovo era cominciato, qualcosa di vivo, e
guizzante,
che si era inserito nel suo rapporto con Tseng. Lo sentiva vicino,
vicino a lei
come non lo era mai stato; era da quella sera di ormai parecchie
settimane
prima che il loro rapporto progrediva, a volte lentamente, altre volte
a grandi
passi, come ad esempio nella notte scorsa. Ogni giorno sentiva sempre
qualcosa
di nuovo, che cresceva, dentro di lei, e che quella notte, per la prima
volta,
aveva sentito come parte di sé, come qualcosa da proteggere
e che richiedesse
costantemente cure e attenzioni. Era amore? Probabilmente si. Non ne
era però
così sicura, era una sensazione che non aveva mai provato
prima.
Il
rumore di una risata, particolarmente fragorosa, arrivò alle
sue orecchie; si
riscosse dal torpore nel quale era caduta e vide un gruppo di bambini
che
ridevano, giocando a pochi metri da lei. Sorrise, non riuscendo
più a trovare
il filo conduttore che fino ad allora l’aveva guidata per i
suoi pensieri, e si
alzò dall’altalena, con un altro cigolio.
Oltrepassò il cancello del parco
giochi e si incamminò nuovamente per la via principale,
verso il mercato, a
quell’ora parecchio affollato. Molta più gente,
adesso, passeggiava per le vie,
come lei; ai contadini e i braccianti agricoli si erano sostituite
donne di
tutte le età, che sbrigavano commissioni o altro e che erano
seguite da
bambini, più o meno trasandati e dall’aria
annoiata. Tenne gli occhi bene
aperti, adesso, per evitare di pestare i piedi a qualche donna o di
urtare
qualche bambino distratto.
In
quel bailamme di
gente, parole,
opinioni, di migliaia di passi che si susseguivano ininterrottamente,
un uomo,
poco più che un ragazzo, attirò la sua
attenzione. Era molto giovane, ma non
quanto lei; potevano avere due, al massimo tre anni di differenza.
La
prima cosa che notò, guardando i suoi occhi limpidi e
glaucopidi, fu che aveva
lo sguardo di un bambino, innocente ma con una sorta di guizzo
dispettoso che
s’intravedeva velatamente nei suoi occhi. Aveva capelli rossi
che sfumavano nel
cremisi, disordinati davanti e raccolti in una coda che scendeva fin in
mezzo
alle scapole.
Lo
osservò attentamente: era a pochi metri di distanza da lei,
e sembrava
interessato a qualcosa che un venditore ambulante aveva esposto su un
tavolo;
osservava con attenzione, diceva qualcosa, e poi tornava a guardare la
mercanzia, ridendo sotto i baffi. L’uomo aldilà
del bancone lo osservava come
se fosse del tutto fuori di testa.
Inizialmente,
non seppe dire perché quel bambino troppo cresciuto avesse
attratto così tanto
la sua attenzione; tutto ciò che sapeva di quel tipo, in
fondo, e che non
sembrava essere dei bassifondi, data la sua allegria e la sua apparente
giovalità.
Lo
osservò più da vicino; ora che ci pensava, in
effetti, gli sembrava di aver già
visto quel giovane, di riconoscere i suoi lineamenti, di aver
già sentito la
sua voce da qualche parte, prima di quel giorno. Vide il suo
abbigliamento:
giacca, cravatta, un distintivo ed una fondina attaccata alla cintura.
Roteò
gli occhi: avrebbe dovuto immaginarselo.
Quell’uomo
era un Turk.
Tuttavia,
non le sembrava che fosse mai venuto a farle da guardia nella chiesa, e
in
altri modi non avrebbe potuto conoscerlo. Non incontrava mica Turk
tutti i
giorni. Si avvicinò ancora alla bancarella. Adesso riusciva
a sentire anche le
parole e il tono di voce allegro del ragazzo.
“Mmm…
mi dica, a cosa serve questo?” chiese il Turk, adocchiando un
contenitore dalla
forma bizzarra.
“Ci
puoi conservare la carne di Chocobo in sottaceto”
sbuffò il venditore, sperando
che quel giovane se ne tornasse da qualunque luogo fosse venuto.
“E
basta?” esclamò deluso l’altro.
“Non potrei utilizzarlo, ad esempio, per
conservare sottaceto il fegato delle mie vittime? Sa, io sono un
assassino,
agisco di notte, incuto terrore!”
“Puoi
utilizzarlo anche come tagliacarte, se ci riesci!”
sbottò l’uomo sospirando.
“E
questo cos’è?”
“Uno
schiaccianoci”
“E
come funziona?” chiese il ragazzo dai capelli cremisi,
affascinato.
“Prendi
le noci, le metti qui sotto e poi le schiacci!” rispose il
negoziante,
esasperato.
“Interessante,
ma perché vorrei voler schiacciare delle noci?”
“Non
devo mica saperlo io, se hai voglia di noci puoi schiacciarne quante ne
vuoi!”
rispose l’altro, spazientito.
Il
giovane lo fissò, sbigottito. “Ma io non ho mai
detto di avere voglia di noci!”
“Allora
schiaccia le pietre!” urlò quello gettandogli lo
schiaccianoci tra le mani.
“Vedi? Te lo regalo, facci quello che ti piace, basta che te
ne vai!”
“Eh,
ma che modi!” esclamò il ragazzo, allontanandosi e
scoccando un’occhiataccia
all’uomo.
Aerith
aveva assistito divertita al siparietto, con un timido sorriso che le
increspava le labbra. Quando il ragazzo la notò, diresse su
di lei il suo
sguardo da ragazzino indomabile e si avvicinò.
Quando
i due sguardi si incontrarono, Aerith, d’un tratto, si
ricordò dove aveva
incontrato quel ragazzino: i ricordi che la legavano a quel volto
sorridente
erano intrisi di sangue, e mettevano le loro radici in una giornata
d’Inverno
di parecchi anni fa, quando aveva perso sua madre
nell’oscurità di quel vicolo,
tra le sue lacrime ed i vapori delle caldaie, tra
quell’assassino senza volto
che odiava e quel ragazzo, allora più giovane, che aveva
cercato di fermarlo.
“Salve!”
esclamò il ragazzo non appena fu a qualche metro da lei.
Aerith
non rispose al saluto. Le era venuto un cerchio alla testa, come se
avesse
l’influenza, si sentiva debole, non riusciva a ragionare con
lucidità…
“Si
sente bene?” chiese il ragazzo, guardandola preoccupato.
“Non ha mica una bella
cera!”
Non rispose. Le girava la
testa…
“Venga,
si sieda un momento!” esclamò quello, prendendola
per un braccio e cercando di
accompagnarla verso una panchina lì vicino.
“N-no,
grazie” sussurrò lei, con una voce tremante che
non riconobbe come sua. “Mi
lasci andare…” cercò di sottrarsi alla
presa del ragazzo.
“Ma
non sembra stare molto bene! Se solo mi lasciasse chiamare
un…”
“Ho
detto di no!” rispose lei, forse un po’
più forte di quanto avrebbe voluto. Un
paio di curiosi si voltarono verso di loro, prima di ritornare alle
loro
occupazioni abituali.
Il
ragazzo sembrava mortificato. “Mi scusi… volevo
solo aiutare…” bofonchiò, a
testa bassa. Quando rialzò il capo, incontrò
nuovamente il volto della donna,
ed i suoi luminosi occhi verdi, in quel momento così
spaventati e pieni di
incertezza… li aveva già visti?
“Ci
conosciamo?” chiese, con un po’
d’incertezza nella voce, scrutandola inclinando
la testa, come fanno i bambini quando osservano qualcosa di strano con
attenzione.
Aerith
abbassò gli occhi, biascicando qualcosa sul fatto che non si
conoscessero e che
doveva andare subito. “Mi dispiace di averla fatta
preoccupare” aggiunse, prima
di voltarsi e scappare via.
Il
ragazzo la osservò allontanarsi. Ne era sicuro, conosceva
già quello sguardo
spaventato nei suoi occhi.
Poi
un nome risuonò nella sua mente, ma era un’idea
così assurda e così improbabile
che la accantonò subito. Eppure… quel nome,
così improbabile ma al tempo stesso
così ovvio, gli risuonò di nuovo in mente,
così spontaneo che non si accorse
nemmeno di averlo lasciato sfuggire tra le labbra…
“Aerith
Gainsborough”.
La
ragazza si voltò, con il terrore misto a rabbia negli occhi.
Sembrava sul punto
di piangere.
“Tu
sei Aerith Gainsborough!” ripeté il ragazzo, con
stupore.
Lentamente,
lei annuì, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche.
“Mi
chiamo Reno. Sai… sai chi sono io?” chiese il
Turk, serio.
Aerith
annuì di nuovo, mentre una prima lacrima solcava il suo
volto.
“Sediamoci
qui” disse lui, indicando la panchina che le aveva
già precedentemente consigliato.
Questa
volta, Aerith non oppose nessuna resistenza. Si asciugò le
lacrime con il dorso
della mano e attese che Reno parlasse, i pugni ancora serrati.
“C-come
stai?” chiese Reno, incerto su che cosa dirle, con lo sguardo
chino.
“Non
mi lamento” rispose lei, con un tono di gelo nella voce.
“Si…
mi fa piacere… davvero…”
Entrambi
rimasero in silenzio, chi per rabbia e chi per imbarazzo.
Passò qualche minuto
nel quale nessuno dei due parlò, poi Reno si fece coraggio.
“Tua
madre era una gran donna” disse, attirando su di
sé lo sguardo sia furente che
attonito di Aerith. “Quando è successo…
ho letto il dossier che abbiamo alla
ShinRa su di lei. Era una brava persona, sempre pronta ad aiutare il
prossimo,
e…”
“Tu non sai niente
di mia madre!” lo interruppe la ragazza, furente.
“Vero”
ammise Reno. “Non so niente di davvero importante su di lei.
Non conosco i
sentimenti che provava, né le sue emozioni, né le
sue speranze, ma so che era
una brava donna, che ti ha preso con sé e che ti amava
più di ogni altra cosa
al mondo! Non credi?”
Aerith
abbassò nuovamente lo sguardo, e, quando rispose, il suo
tono di voce era calmo
e controllato, velato dalla tristezza e dalla malinconia.
“Si. Lei… lei era
davvero eccezionale…”
Reno
cercò per un momento le parole più adatte per
introdurre un discorso delicato
come quello. Alla fine sospirò e si preparò ad
affrontare una tra le
conversazioni più impegnative della sua vita.
“Sai
cosa stavamo facendo, io e il mio partner per le missioni di quel
tempo?”
disse, guardando in basso per non incrociare il suo sguardo.
“Davamo la caccia
ad un malvivente che spacciava materie illegali nei piani alti di
Midgar, con
gente potente… era un pericolo per la comunità,
ed allora ci avevano dato
l’ordine di fermarlo. Di ucciderlo, anzi.” Si
interruppe un momento, guardando
Aerith che era rimasta impassibile.
“Lo
trovammo ed iniziò un inseguimento, che si concluse in quel
vicolo dove vi
trovavate anche voi… avremmo soltanto dovuto ucciderlo, e
sarebbe finita lì. Ma
il nostro nemico non era così stupido come
pensavamo… prese tua madre in
ostaggio, e quando il mio partner, per cercare di fermarlo,
sparò a vista…” non
concluse la frase, sapendo benissimo quante volte Aerith, dentro di
sé, aveva
rivissuto quella scena.
E
così, si disse la ragazza, quella era stata la dinamica dei
fatti che il
destino aveva messo in moto quando lo spacciatore di materie aveva
cominciato
il suo sporco lavoro. Era già stato tutto previsto quando
quel delinquente
aveva venduto per la prima volta una materia e la sua anima? Non era
stato
possibile far nulla perché il partner dell’uomo
che adesso le stava accanto
centrasse l’obiettivo o non sparasse affatto? Che sarebbe
successo se un solo
evento di quella catena fosse stato diverso? Sua madre sarebbe stata
ancora
viva, insieme a lei, e avrebbe abitato in quella casa che, senza la sua
presenza, era così vuota da far quasi male?
“Ti
senti bene?” chiese per la seconda volta il Turk, comprensivo.
“Si...”
rispose Aerith, senza pensarci troppo, perché era la
verità. Poi una domanda le
attraversò la mente. “Che ne è stato
del tuo partner?” chiese, osservandolo.
Reno
sospirò. “Venne allontanato dai Turk in quello
stesso giorno, poche ore più
tardi. Per aver messo in pericolo la vita di un’Antica,
sai” e la squadrò da
capo a piedi. “Di lui non so più nulla da quel
giorno. Alcuni miei amici dicono
di averlo visto di sfuggita qui, nei bassifondi…”
si guardò un attimo intorno,
nella speranza di intravederlo tra la folla. “Io, comunque,
non ne ho più
saputo nulla”.
Calò
nuovamente il silenzio tra i due, coperto dal brusio della folla che
passava di
lì. Entrambi erano immersi nei propri pensieri.
“Grazie”
sussurrò poi Aerith, guardando fisso davanti a sé.
“Per
cosa?” chiese il Turk, guardandola inclinando il capo.
“Per
avermi detto la verità” rispose Aerith, spostando
lo sguardo verso di lui.
Reno
abbozzò un sorriso paterno. Le sue mani si strinsero sullo
schiaccianoci che
quel negoziante, poco prima, gli aveva dato, e, improvvisamente, ebbe
un’idea.
“Tieni!”
disse, porgendoglielo con un sorriso.
“Uno
schiaccianoci?” chiese Aerith, inarcando un sopracciglio.
“Si!”
esclamò Reno, come se il suo fosse stato il gesto
più ovvio al mondo.
“Scusami,
ma non riesco a capire!” esclamò Aerith, poco
convinta.
“Beh,
non ci riesci perché non c’è nulla da
capire!” rispose Reno, facendole
l’occhiolino.
La
ragazza lo guardò, per un momento, come se fosse un fenomeno
da baraccone. Poi,
lentamente, le sue labbra si incresparono in un lieve sorriso, che si
allargò
sempre di più.
“Vedi,
ci sono riuscito!” urlò Reno, ridendo.
Aerith
dovette ammettere che Reno, con quel gesto apparentemente senza senso,
era
riuscito a spazzare tutta la malinconia e la rabbia che aveva provato
vedendoselo davanti. D’altra parte, Reno non aveva nessuna
colpa, se non quella
di risvegliare in lei ricordi dolorosi. Ma anche in questo caso, non
era
davvero lui il responsabile, ma lei stessa.
“Sono
contento di averti fatto ridere” disse Reno, in tono mite.
Ed
a quel punto successe l’irreparabile. Il destino aveva
attuato la sua trappola,
tessendo una tela che li comprendeva entrambi: e l’aveva
elaborata per
giungere, finalmente, all’agognata verità. Non ci
fu nulla che poté impedire a
Reno di continuare quella frase e di decretare la fine di
un’illusione durata
fin troppo tempo. Mentre il sole cominciava il suo declino verso le ore
pomeridiane, Reno aprì nuovamente la bocca, e
pronunciò la prima frase di un
discorso che non avrebbe mai terminato.
“Sai”
disse. “Sono sicuro che anche Tseng
avrebbe…”
A
quel nome, istintivamente, Aerith si voltò verso di lui,
guardandolo con
attenzione.
“Tseng?”
“Si”
rispose Reno, guardandola sospettoso. “Era il nome del mio
partner di quel
giorno”.
Fu
come se avessero disattivato l’audio improvvisamente. Aerith
non fece più caso
alla folla, al sole che riscaldava quella giornata, al freddo della
panchina
metallica su cui s’erano seduti. Non ebbe più
consapevolezza di cosa stesse
accadendo attorno a lei, ma non le importava. Nella sua mente, ancora
la stessa
scena di quella mattina d’Inverno di 4 anni prima: ma
stavolta, l’assassino
aveva un volto, una voce, delle mani con cui commettere un delitto,
quelle
stesse mani che la notte prima l’avevano accarezzata.
Stavolta,
anziché di sedersi, ebbe il bisogno di alzarsi. Il sangue
gli ribolliva nelle
vene, provava l’impulso di farla pagare a Tseng, che aveva
distrutto la sua
famiglia, aveva ucciso sua madre… e che le aveva mentito.
Anni di bugie, un
continuo mentire per chissà quale motivo. Gli aveva detto di
lavorare nei Turk,
quando in realtà era stato licenziato. Perché,
perché lo aveva fatto? E perché
non gli aveva detto la verità sulla morte della madre,
perché non aveva mai
trovato il coraggio di fare la cosa giusta?
Si
sentì una stupida, per aver creduto che il loro fosse un
rapporto vero. Era
evidente che là dove aveva creduto ci fosse
l’amore c’era invece il nulla, e
mentre elaborava questi pensieri, un’idea, semplice come il
peccato, si faceva
strada nella sua mente.
Vendetta.
Per
un attimo, fu davvero tentata dal sottile brivido che quel particolare
sentimento
portava con sé. Subito dopo, si sentì solamente
un’idiota. Lasciò perdere i
suoi propositi.
Si
alzò in piedi, e mentre Reno gli urlava: “Ehi! Ma
dove vai?”, lei scappò via.
Lacrime silenziose solcarono le sue guance.
Era
tutto finito, ancor prima che qualcosa di reale fosse davvero iniziato.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo V: La Verità che rende liberi ***
Capitolo
V: La verità che rende liberi
Quella
giornata, così piena di sorprese, così tentatrice
e al tempo stesso
rivoluzionaria, non era ancora giunta al termine. Il sole sarebbe
tramontato a
breve; già i primi riflessi color arancio si riversavano
sulla terra,
illuminandola e allungando le ombre dei passanti che si dirigevano
verso le
proprie case.
Tseng
osservò la sua ombra distendersi sulle mura di una delle
baracche dei
Bassifondi di Midgar, lo sguardo serio, la bocca serrata in una smorfia
di
disgusto.
Come
si poteva essere arrivati a quel punto? In poche ore, tutto
ciò che aveva
costruito in quei mesi, in quegli anni, era stato irrimediabilmente
distrutto.
Merda,
quanto si stava odiando…
La
colpa era sua, solo sua, che aveva taciuto per così tanto
tempo la verità,
celandola dietro le pagine di un rapporto basato su fondamenta minate
dal
silenzio. Adesso stava vivendo sulla propria pelle la conseguenza delle
menzogne che aveva alimentato per anni.
A
quanto pare, il castello di carte era crollato quando Aerith aveva
incontrato
quell’idiota di Reno: o almeno, così
quest’ultimo gli aveva riferito, quando
gli aveva parlato pochi minuti prima. A quanto pare, quel cretino aveva
spifferato
tutto su quel che davvero era successo quel giorno di parecchi anni fa
in cui
la neve cadeva fitta, concludendo raccontando anche del suo
licenziamento. Ed
Aerith aveva creduto a tutto ciò che lui le aveva detto.
Forse si era ricordata
del volto del carnefice di sua madre, o probabilmente si era solamente
lasciata
abbindolare dalle parole del Turk. Quel che davvero importava, in quel
momento,
era che lei stava contro di lui, dalla parte opposta alla sua. Era
diventata
irraggiungibile, e, ad ogni minuto che trascorreva, il crepaccio tra
loro si
allargava, e rendeva polvere tutto ciò che in passato
c’era stato tra di loro.
Allungava una mano, cercando di raggiungerla, ma lei appariva sempre
più
lontana, di spalle, mentre lui affondava nel baratro…
Si
fermò, respirando a fondo. Doveva trovare Aerith il prima
possibile, e
parlarle. Probabilmente si sentiva delusa, sola, confusa, abbandonata
dall’ultima persona di cui si era fidata. Sconvolta per
quella rivelazione, che
a lui era sempre apparsa così ovvia...
La
verità è che la conoscenza rende pienamente
padroni degli eventi. La conoscenza
che Aerith aveva acquisito in quella calda giornata di sole le aveva
cambiato
la vita per sempre. Spettava a lei, adesso, capire cosa fare: e, in
quanto a
Tseng, poteva solo sperare nel suo perdono. Che, effettivamente,
appariva
parecchio improbabile.
Immaginava
che ormai fosse tutto irrecuperabile. E come dar torto ad Aerith? Come
poteva
amare colui che ti ha impedito di essere amata, come poteva pensare di
provare
affetto per la causa delle tue più grandi sofferenze?
Non
poteva, semplice. Era del tutto impossibile pensare al perdono.
Precipitava
ancora nel baratro, cercando di risalire, annaspando per respirare
l’aria a cui
non poteva anelare… Inspirò ed espirò
profondamente, di nuovo. Doveva calmarsi.
Eppure non ci riusciva, sentiva il disprezzo e l’ira di
Aerith sulla sua pelle,
vedeva il suo sguardo pieno di risentimento, e le sue lacrime di
rabbia…
No,
non sarebbe nemmeno riuscito a parlarle, non con quel senso di colpa
che lo
dilaniava dall’interno. Non sapendo che lei sapeva.
Ma doveva farlo, doveva provare, non poteva buttare la sua ultima
speranza al
vento e lasciarla scivolare tra le sue dite, per vederla sparire per
sempre.
Non
poteva.
Continuò
a camminare, a testa alta, abbagliato dalla luce del tramonto che aveva
davanti
agli occhi, verso la chiesa. Sperava di trovarla lì, accanto
ai suoi fiori
ormai quasi del tutto avvizziti, con lo sguardo perso nel vuoto dei
suoi
pensieri.
Appena
sarebbe entrato nel polveroso atrio della chiesa, lei forse
l’avrebbe guardato,
per un attimo, senza proferir parola; poi sarebbe tornata con lo
sguardo fisso
verso i fiori, come se nessuno fosse entrato. E allora lui si sarebbe
avvicinato, ed il rumore dei suoi passi sarebbe echeggiato per la
chiesa buia,
e le avrebbe parlato, con un tono di voce pacato, raccontandole tutta
la
verità. Tutto ciò che lei aveva già
appreso da Reno, ed anche altro, tutto ciò
che non le aveva mai detto in quegli anni; e poi avrebbe terminato con
i
sentimenti che provava per lei, e con la speranza che lei capisse, che
lo
perdonasse. E poi, non riusciva più ad immaginare cosa
sarebbe successo, se
Aerith lo avesse perdonato o se, al contrario, gli avesse intimato di
sparire,
e di non farsi mai più vedere tra quelle mura, che erano
state testimoni di un
sentimento che in realtà nemmeno esisteva…
Si
fece coraggio, fece ancora un altro passo,
e un altro, oltrepassando l’ormai sgombra piazza
del mercato. Come era
solito per quell’ora, le strade stavano cominciando a
riempirsi di tipi poco
raccomandabili che Tseng non degnò nemmeno del suo
disprezzo: aveva questioni
più urgenti da risolvere.
Il
crepuscolo aveva dato una leggera tinta violacea al cielo, che ben
presto
sarebbe stata sostituita dalla notte perenne, la notte senza stelle dei
bassifondi. Doveva sbrigarsi.
Eppure,
più si avvicinava, più l’ansia si
impadroniva di lui, allungando le sue
malefiche spire nella mente di Tseng: perché doveva finire
così? Non era mai
stato orgoglioso dell’omicidio di quella donna, né
di aver messo in pericolo
Aerith. Perché allora Aerith avrebbe dovuto disprezzarlo?
Non sapeva di come il
senso di colpa l’avesse quasi ucciso, in quegli anni, e di
come l’avesse spinto
a prendersi cura di lei, fingendosi ancora un Turk, per tenerla
d’occhio? E di
come si era odiato quando si era accorto di provare qualcosa per lei,
perché
sapeva che, quando tutto sarebbe finito, non ci sarebbe più
stato posto per
l’amore, ma soltanto per l’odio e per la
disperazione?
No,
non poteva farlo, non poteva presentarsi così come se nulla
fosse. Si fermò un
momento, sedendosi su una panchina.
Un
gruppo di uomini loschi vestiti di nero lo fissarono, sospettosi a
causa della
sua uniforme, e lui rispose allo sguardo, in modo glaciale. Quelli si
allontanarono subito, scoccandogli ancora qualche occhiataccia in
lontananza.
Riprese
a combattere tra la tempesta di pensieri che gli offuscavano la mente.
Doveva
solamente fermarsi un attimo, e cercare di riflettere con
lucidità. Niente di
più semplice, no? Solamente riflettere…
Cercò
di concentrarsi, ma voci di un passato lontano si insinuavano nella sua
mente,
confondendolo.
Dannazione,
se solo fosse stato capace di riflettere per un singolo momento in pace!
Si
rialzò in piedi, mentre le voci nella sua mente si facevano
più insistenti,
sempre più vive, come se appartenessero alla
realtà. Urlavano, gridavano, lo
asfissiavano con le loro voci... non erano veri eppure gli sembrava
quasi di
vedere le figure a cui appartenevano quei timbri vocali, davanti a
lui…
Scosse
la testa, chiudendo gli occhi, la testa tra le mani. Ma che gli stava
succedendo?!
“Basta!”
esclamò ad alta voce, ed il caos nella sua testa si
fermò bruscamente, quasi in
modo innaturale.
Poi,
una mano si insinuò sulla sua spalla. Era una mano ben
curata, con le unghie
smaltate di rosso e le dita affusolate, che sicuramente apparteneva ad
una
donna. E Tseng credeva anche di sapere a chi.
“Sai,
ti dirò una cosa” cominciò la donna
dietro di lui, in tono saccente “ho sempre
pensato che tu fossi solamente un grandissimo idiota, ed adesso ne ho
pure la
conferma!”
Una
risata stridula attraversò l’aria fresca
dell’imminente sera.
Tseng
si ritrovò a sorridere sarcasticamente, insieme a quella
donna che aveva ormai
riconosciuto. “Grazie… Scarlet”
sussurrò, a denti stretti.
“No,
dico sul serio!” ribadì la donna, con la solita
arroganza che la
contraddistingueva “sei così codardo da non
riuscire nemmeno a chiarire con
Aerith per una colpa che tu hai commesso!” “Tu non
sai nulla di questa storia,
sta’ zitta!” esclamò Tseng voltandosi
verso di lei. Era uguale all’ultima volta
che lui l’aveva vista, con i capelli biondi raccolti in uno
stretto chignon e
con il suo solito vestito rosso, così poco consono ad un
ambiente come quello…
“Lo
credi davvero?” chiese lei, avvicinandosi fino a sfiorargli
la guancia con una
mano. “vorresti farmi credere che c’è
forse qualcuno che ti conosce meglio di
te stesso?” la donna scoppiò in un’altra
acuta risata, che interruppe il gelido
silenzio di quella strada. Stranamente, nessuno si voltò
verso di loro.
Tseng
riprese a camminare. “Che intendi dire?” le chiese,
certo che l’avrebbe
seguito.
“Intendo
dire che ogni cosa esiste ed esisterà in base alle scelte
che tutti noi abbiamo
compiuto nel corso della nostra vita!” rispose Scarlet, in
tono più mite,
volgendo lo sguardo agli ultimi raggi color rubino che sparivano dietro
ad una
verde collina fuori città.
“E
questo che vuol dire?!” chiese Tseng, spazientendosi.
“Ottima
domanda!” esclamò la donna, sfoderando un
sorrisetto sardonico. “Sai che me lo
sto chiedendo
anch’io?”
Tseng
sospirò. Ma che stava succedendo? Cosa voleva
quell’orribile donna da lui?
“Si,
lo so che cosa pensi, ma te l’ho già detto:
nessuno ti conosce meglio di te
stesso!” ribadì nuovamente Scarlet, accelerando il
passo.
“Vuoi
parlare chiaro, per una volta?!”
“Risparmia
il fiato per la chiacchierata con Aerith, piuttosto!” rispose
la donna, non
lasciandosi sfuggire l’occasione per sputare un po’
di veleno sulla faccenda.
Tseng
provò l’impulso di uccidere anche lei,
così come aveva fatto con Elmyra. Si
voltò verso la donna, pronto a scoccarle
un’occhiata carica di odio, ma lei era
sparita, dissolta come se fosse stata portata via da una folata di
vento. Si
guardò intorno, ma non la vide da nessuna parte. Forse se
l’era soltanto immaginata.
Probabilmente
stava solo impazzendo.
I
suoi passi producevano lievi tonfi, e nella sua testa le voci si
susseguivano,
in un entropia di suoni di cui non riusciva a comprendere quasi nulla.
Proseguiva, senza ormai avere nulla che potesse dissuaderlo dai suoi
propositi.
In lontananza, vedeva già le guglie della chiesa nella
quale, ne era certo,
avrebbe trovato Aeirth.
Poi
un’altra mano lo afferrò per il braccio,
bloccandolo. Voltandosi, riconobbe
Reno, con lo sguardo carico di determinazione e che sembrava non voler
mollare
la presa.
Tseng
si ritrovò a sbuffare. Adesso si ci metteva pure lui?
“Lasciami
andare!” esclamò, cercando di divincolarsi dalla
stretta dell’altro.
“Mi
vuoi spiegare che diamine stai facendo?!” urlò
Reno di rimando, senza prestare
attenzione alle parole di Tseng.
“Vado
da Aerith, per cercare di rimediare al casino che hai
combinato!” sibilò lui di
rimando.
“Che
tu hai combinato, vorrai
dire!”
rispose Reno, seguendolo. “Io non ho colpa! Ricordi che ho
cercato di fermarti,
quattro anni fa?”
“Senti…”
Tseng si coprì gli occhi con una mano, abbassando il capo.
Perché Reno non
capiva? E perché, in fondo, lui sapeva che il Turk aveva
ragione?
“E’
ovvio che Aerith sarà furiosa con te! Che senso avrebbe
andare alla chiesa,
adesso?” domandò Reno, interrompendolo.
Tseng
non rispose. Continuò a camminare, ignorando il ragazzo che
stava alle sue
spalle. Lui gridò, per un’ultima volta:
“Fermati!”, poi non parlò
più, forse
sparì, come Scarlet aveva fatto prima di lui.
Il
suo mal di testa era aumentato di molto… non era certo di
sentirsi molto bene.
La testa gli girava, come se avesse la febbre. Si tastò la
fronte,
distrattamente, ma non notò nulla di anormale nella sua
temperatura.
Era
a pochi metri dalla chiesa, ormai, riusciva ad intravederla attraverso
la
fievole luce dei lampioni che costeggiavano il vicolo. Il suo cuore
batteva
forte, così forte da fargli quasi male. Non sentiva
più nessuna voce, o alcun
rumore, che turbasse la quiete dei Bassifondi. Respirò a
fondo, arrivò davanti
alla porta di legno che tante volte, con leggerezza, aveva
già oltrepassato.
Perché quella volta sembrava così difficile?
Allungò
una mano e toccò la fredda maniglia della porta. Sembrava
così difficile da
aprire…
“Aspetta”
sussurrò una voce alle sue spalle. Una voce ben calibrata,
dolce, una voce
calda e piena di sentimento, con una sfumatura di maturità
nella voce che si
acquisisce solo con l’età. Tseng aveva
già sentito quella voce, in verità: una
volta soltanto, in una particolare occasione; ma gli era rimasta
impressa, e,
da allora, aveva sentito ogni notte, nei suoi incubi, quella donna
gridare a
sua figlia di mettersi al sicuro...
Lentamente,
Elmyra emerse dall’oscurità, con un sorriso dolce
sul viso, osservandolo. Aveva
i vestiti del giorno della morte, ancora macchiati del suo stesso
sangue, forse
perché quella era stata l’unica occasione in cui
Tseng aveva potuto conoscerla.
Il suo sguardo era fiero, pieno di una determinazione che il ragazzo
non le
aveva mai notato, in quel fatidico giorno.
Si
avvicinò, e non seppe nemmeno cosa dire. Voleva dirle
qualcosa, però; che gli
dispiaceva di averla uccisa e che quel gesto gli era costato un
permanente
senso di colpa che lo dilaniava ogni giorno. Ne avrebbe avute di cose
da dire,
eppure restava in silenzio, incapace di articolare qualunque suono. Il
mal di
testa era ancora aumentato, e faceva fatica anche a
respirare…
“Non
trovi che sia una splendida notte?” chiese la donna,
osservando gli sprazzi di
cielo che si intravedevano da sotto il piatto. Sembrava tranquilla,
serena,
incurante della ferita che le attraversava il torace e da cui sgorgava
sangue
scarlatto.
“Lei...
lei è…?” chiese Tseng, balbettando,
anche se sapeva già la risposta.
“Si,
Tseng” la donna si voltò verso di lui, seria.
“Io sono la donna che hai ucciso
4 anni fa”.
Tseng
aspettò che Elmyra parlasse ancora, ma lei non sembrava
intenzionata a farlo.
Capì che stava
aspettando. Stava
aspettando che Tseng si decidesse a declamare tutto ciò che,
in quegli anni,
aveva pensato su quella mattinata d’Inverno di ormai
parecchio tempo prima.
Aprì
la bocca, ancora incerto su cosa dire.
“M-mi
dispiace” biascicò, con un sussurro appena udibile
e che subito si perse in
quella nera notte.
“E
per quale motivo?” chiese la donna, sorridendo. Come aveva
fatto prima Scarlet,
anche lei portò una mano sulla sua spalla. Ma a differenza
di quello di
Scarlet, quel tocco infondeva coraggio, decisione, determinazione.
“Per…
per averla uccisa!” esclamò Tseng, a testa bassa,
non avendo il coraggio di
guardarla.
Un
attimo dopo, sentì Elmyra ridere. Istintivamente
alzò lo sguardo, e vide il
viso della donna invaso dall’allegria e dalla
vitalità.
“Ma
andiamo, credi che un paio di scuse possano cambiare ciò che
è accaduto?”
chiese la donna. Osservò per un momento la sua ferita, poi
riprese, come se
nulla fosse: “Le scuse non servono a nulla, Tseng. Quello che
davvero è servito
a farti meritare il perdono è stato il senso di colpa che
hai provato durante
l’arco di questi quattro anni! E’ stato un cammino
duro, guidato dalla redenzione,
dal riscatto verso gli errori del passato, verso
un’espiazione lontana, quasi
un’inafferrabile chimera che tu hai continuato a perseguire,
anche quando tutto
sembrava perduto! Nessuno può biasimarti per aver taciuto la
verità ad Aerith,
così come nessuno potrà avere nulla da ridire sul
coraggio che hai dimostrato
venendo qui, a discapito di tutto ciò che potevi provare.
Tutti questi gesti ti
hanno portato a ciò che più anelavi. La completa
espiazione dalle tue colpe!
Fidati, so di te più di quanto non ne sappia tu
stesso!”.
Tseng
sorrise. Eppure era un sorriso forzato: quel mal di testa non lo
abbandonava, e
tutto appariva sempre più sfocato… eppure si
sentiva allo stesso tempo bene
davvero per la prima volta, bene con sé stesso, anche
se…
“E’
normale sentirsi così?” chiese Tseng dopo qualche
minuto di silenzio, cercando
di osservare il cielo, come prima aveva fatto Elmyra.
“Così
come?” chiese lei, guardandolo curiosa.
“Come
se avessi ancora qualcosa da fare prima dell’espiazione
assoluta” sussurrò
Tseng, tutto d’un fiato. Guardò la porta di legno
che aveva davanti: pochi
metri lo separavano da lei… “Devo
farmi perdonare da Aerith?” chiese, senza neanche pensarci
su, in attesa di
avere una risposta.
La
voce della donna si fece grave. Quando rispose, una nota dolente si
percepì
nella sua voce, che suonò triste, simile ad un rimpianto.
“Non ne avresti
nemmeno il tempo” sussurrò, chinando la testa,
affranta.
E
Tseng capì a cosa stava andando incontro, e che non
c’era nessuna via che
potesse impedire quello che stava per accadere.
“C’è
qualcosa che posso fare per rimediare del tutto, prima
di…?” chiese, senza
aspettarsi nessuna risposta in particolare.
Elmyra
gli si avvicinò e gli accarezzò il volto,
lentamente.
“Chiudi
gli occhi” sussurrò poi, mentre la voce si faceva
rotta dal pianto.
Tseng
sbatté le palpebre un’ultima volta, dando
un’occhiata di sfuggita al mondo. Il
suo sguardo si chiuse sulla chiesa che era stata protagonista della sua
storia,
e che gli sorrideva amorevolmente, come per indicargli che stava
facendo la
cosa giusta. Sorrise, senza neanche avere un buon motivo, anche se non
era
riuscito a rivedere Aerith, per un’ultima volta. Sorrise e,
per la prima volto
dopo tanti anni, pianse. Soltanto poche lacrime, ma che valsero come
quelle di
un’intera vita.
Si
sentì meglio, come liberato da un ulteriore peso. Si sedette
con la schiena
poggiata alla porta della chiesa, con gli occhi serrati.
Riuscì a sentire il
profumo di uno dei fiori che non erano ancora morti. C’era
ancora speranza per
Aerith, ne era sicuro.
“Grazie”
sussurrò ad Elmyra, o forse a sé stesso. Un
momento dopo, senza una ragione ben
precisa, si sentì abbandonare e, al chiaro della luce
spettrale di un lampione
lì vicino, morì.
Tseng
non seppe mai cosa successe in seguito a quella notte: non seppe mai
del pianto
disperato di Aerith, alla vista del suo corpo immobile e privo di vita,
la
mattina seguente, e
non seppe di come
lei, in seguito, fu l’unica persona ad andare a trovarlo,
ogni giorno, nella
sua eterna dimora. Non seppe nemmeno di come la ragazza si
pentì, e di come
capì che in tutto quel tempo Tseng era cambiato, e che aveva
ormai raggiunto
l’espiazione che tanto aveva desiderato mentre stava con lei.
Sì, Tseng rimase
all’oscuro dei fatti posteriori alla sua morte, per
l’eternità; ma morì con il
sorriso tra le labbra, con uno dei pochi sorrisi che avessero mai
attraversato
quel volto tanto imperturbabile.
Morì
con il sorriso della verità che rende liberi, e con la
certezza che, in un
altro luogo diverso da lì, un luogo che forse nemmeno
esisteva, un giovane e
inesperto Tseng aveva evitato, per una volta, di premere il grilletto
che
avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Era quasi riuscito a vederlo,
quel
giovane ragazzino pallido, mentre catturava il trafficante di Materie e
salvava
la donna. Ed era quasi riuscito ad udire, mentre i sensi lo
abbandonavano, la
voce di una bambina, una bambina che era Aerith Gainsborough, e che
sussurrava,
in maniera appena udibile: Grazie.
Azz,
mi dispiace che sia finita qui! xD Questo contest è stato
una così bella
esperienza! Ho incontrato persone simpaticissime e, tutto sommato, mi
sono
divertito un mondo a scrivere questa fan fic, che spero vi piaccia!
(ogni
riferimento a fatti,
persone o a Zio Al
è PURAMENTE casuale
xD).
Volevo
spendere un minuto del mio tempo a ringraziare Valy, la mitica
organizzatrice
del contest, che ha saputo creare questa sfida magnificamente e che ha
diffuso,
in questo modo, l’amore per una coppia così bella
all’interno del fandom di
FFVII. Grazie davvero, Zia Perifrastica! xD
Perdonate
la banalità, è l’una di notte e non so
cos’altro aggiungere! Anzi, in verità
qualcosa da aggiungere ci sarebbe…
Zia
Polly, we love you! XD
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=414362
|