Fiori d'arancio marini

di Gogol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Matrimonio Uccide? ***
Capitolo 2: *** Il Sangue Non è Acqua? ***
Capitolo 3: *** Dalla Cina con furore! ***



Capitolo 1
*** Il Matrimonio Uccide? ***


<< No! >>

Il grido è secco, acuto. A quel suono, le lucide bolle d’acqua emesse dalle orchidee marine scoppiano con piccoli e umidi plop.

Negli appartamenti privati del Palazzo reale di Atlantica, l’atmosfera incomincia a farsi frizzante.

Eric la guarda, guarda Ariel. E ovviamente si domanda, come chissà quanti hanno fatto prima di lui, perché la sorte non ha voluto concedergli di essere divorato dalle murene.

I capelli rosso fiamma della giovane sirena sono scompigliati e spettinati, ricadono disordinatamente sulla piccola fronte aggrottata. Da quanto, dopo la notizia, non hanno più visto un pettine? Probabilmente sua moglie troverà il modo di addossargli anche quella colpa, ne è sicuro. Eric, dannazione, perché non hai riflettuto? Ma è inutile piangere sul salemarino versato. La verità è che lui, il principe di terraferma giovane e bello, non ha mai saputo resistere ad un bel faccino. Era sembrato tutto perfetto, all’epoca.

All’epoca, come pensava, doveva amare davvero la figlia del lord dei Mari. Altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi come aveva fatto a sollevare il Tridente, il simbolo stesso della monarchia dei tritonidi, ed a conficcarlo con un lancio da maestro dritto nel cuore di Ursula, dopo che Sora aveva ingaggiato con la Strega una violenta lotta. Un altro dei suoi pensieri ricorrenti, negli ultimi mesi, era che forse avrebbe fatto meglio a lanciarsi dritto fra i tentacoli dell’obesa cecaela.  Eric si sforza di rimanere calmo, di essere per l’ennesima volta ragionevole.

<< Non è colpa di noi due se Myde è diventato quello che è, Ariel. E’ semplicemente …  è semplicemente successo. Lo abbiamo educato come meglio abbiamo potuto. >> L’ho educato. Posso contare sulle dite di una mano tutte le volte che Myde ha visto sua madre! Cosa pensava fosse, un cagnolino?

La sirenetta sibila, inviperita. << Non dire … non dirlo, e addossati le tue responsabilità! >>

Le – tue – responsabilità. Addossarsi le … << Questo NON ha senso! >> esclama il principe consorte passandosi sconvolto le dita fra i capelli bruni. << Ariel, non puoi dirmi questo. Ci siamo sforzati, lo abbiamo cresciuto. Il Regno mi sia testimone, pensi che  potessimo evitare quello che è successo a Myde?

Sta alzando la voce. E’ qualcosa di pericoloso, anche per il principe consorte, alzare la voce con la futura regina destinata a sedere sul Trono del Mare, ma a questo punto Eric sta perdendo il controllo. Lo sta perdendo dopo anni di asservimento, di cerimonie di corte alle quali era puntualmente messo in ridicolo e lo è ancora oggi, dopo vent’anni – vent’anni! – di asservimento totale e completo a quella donna – ragazzina che un vecchio decrepito gli ha fatto sposare sulla tolda di una nave. Adesso è pericolosamente vicino al punto di rottura. Vent’anni buttati al vento, chi avrebbe pensato che fosse così facile rendere la sua vita un inferno?

Era cominciato tutto con capricci di poco conto, tranquillamente ignorabili. Probabilmente è nervosa, ricordava confusamente di aver pensato Eric. Era così che lei lo aveva fregato.

Per piacere, puoi dire al maggiordomo di mettere meno zucchero nel cappuccino? Oh, questa musica è assolutamente orribile, Sebastian sta decisamente perdendo il suo tocco. Eric caro, mi compreresti quella nuova perla? Da abbinare alla collana di granato rosso, s’intende! Che cosa pensavi, si può sapere! Ah, e voglio anche …

Era diventata imperativa in poco tempo, ma lui aveva subodorato la fregatura troppo tardi. C’erano state le lamentele sul cane, sul maggiordomo, sui fiori marini e terrestri che le regalava in segno di riappacificazione. Il loro rapporto andava disgregandosi, se non velocemente, a ritmo sostenuto.

Affrontando attentamente la questione, Ariel doveva aver preso lezioni contrattuali dalla Strega del Mare prima che lui la infilzasse con il tridente. Quale moglie avrebbe stilato un contratto matrimoniale in cui le righe piccole lo legavano a lei a vita?

C’ è stata la cacciata di Max. Come aveva potuto lasciare che Max venisse spedito lontano dal palazzo, in un qualche lurido canile? Lo stesso cane che aveva salvato dall’incendio della nave e che lo aveva sempre accompagnato. Poi anche James, l’anziano capo dei servitori. Troppo anziano, a sentire Ariel.

Eric adesso è davvero arrabbiato. E ha deciso di ribellarsi.

Ariel non ha ancora finito di parlare. Gli sta riversando addosso insulti su insulti, grida isteriche, recriminazioni.

<< Non  ce la faccio più, ti ho dato Atlantica, ti … >>

<< Ariel, basta. >>

<< … tutto e tu niente, non hai neanche saputo e … >>

<< Basta. >>

<< … are Myde co … >>

<< Basta! >>

<< … si deve, brutto st … >>

<< BASTA !!!!! >>

Ariel arretra sconvolta. << E- Eric, io … >> Ma lui non si ferma ha sopportato troppo. Come lei ha detto più di una volta, per rimprovero, con quel suo tono irritante, ha decisamente sopportato troppo.  << Tu NON hai educato Myde. L’unico che ci ha provato sono stato io, mentre tu te la spassavi con i tuoi amanti sia in terra che in mare. Per te Myde  era solo uno svago. E adesso che va in giro a rubare cuori, adesso che è diventato tutto quello che abbiamo sempre detestato, tu non piangi per lui. Tu sei soltanto preoccupata della tua **** di REPUTAZIONE!!! >>

Silenzio. Eric ansima, sbuffa, riprende fiato. Ariel lo sta fissando con i suoi occhi blu mare, con uno sguardo talmente glaciale che potrebbe sigillare Atlantica sotto un pack.

Si è spinto troppo oltre e lo sa. Ma sa anche che questo momento doveva, prima o poi, arrivare. Lo aveva saputo da quando aveva scoperto che Ariel aveva più di una dozzina di amanti. Eppure aveva voluto pensare che qualcosa fosse ancora a posto. Che si potesse ricominciare. Che concetto stupido.

Ariel lancia un piccolo strillo spezzato e guizza via dalla stanza, infilando la porta aperta con un colpo di pinna. In questo momento, tanto Eric è furiosotristedeluso, le sottili tessiture magiche che gli permettono di respirare sott’acqua potrebbero esplodergli in faccia.

<< Ariel! Fermati! >> La sua voce rimbomba per i corridoi e per i colonnati del palazzo. Eric arresta la sua corsa e si appoggia ad una colonna, ansimando. La sirenetta volteggia sopra di lui, con un cipiglio bizzoso.

Myde era nato dall’unione di un umano e di una sirena. Da Eric aveva ereditato l’aspetto, da Ariel l’eredità della magia innata di manipolazione. Il principe ricorda. Myde sapeva controllare l’acqua con una potenza ed una precisione del tutto fuori dal comune. Era in grado di plasmarla in qualsiasi foggia, di concentrarla così tanto da renderla solida. Forse anche i geni di Re Tritone avevano  fatto la loro parte, trasmettendo al nascituro una parte della magia del Tridente che il sommo lord di Atlantica controllava. Eric non si intende di magia, non è uno dei Signori del mare, il titolo attribuito al popolo che da sempre domina sulle specie marine inferiori, ma sa che il potere di Myde sarebbe dovuto essere controllato in modo corretto. Non con campi di contenimento e limitatori, come aveva voluto, fuori di sé, Ariel. Se Myde fosse cresciuto bene, un giorno avrebbe potuto diventare qualcuno di importante. Un lord, un potente … ma era umano. Myde aveva aspirato da sempre al possesso del Tridente. Aveva un regno e non poteva ottenerlo tutto per sé. Il Trono del mare spettava solo al Popolo del mare, non a un ibrido fra due razze. Ad un umano con la scintilla innata che sarebbe dovuta appartenere unicamente a sirene e tritoni. Forse se n’era andato per quello.

Anche Ariel, come tutte le sirene, possedeva la capacità di usare quel tipo di magia. Gran parte di essa si era manifestata retroattivamente, confluendo nella sua splendida voce. La principessa era in grado di tessere veri e propri universi con le sue meravigliose melodie, o meglio lo sarebbe stata se avesse deciso di applicarsi seriamente almeno al canto. Non lo aveva, ovviamente, fatto. Buffo, o forse non poi tanto, che Myde potesse controllare le sue creazioni tramite il suono emesso da un citar. Aveva tutto della madre, Myde. Quel che aveva avuto dal padre, era stata la sua maledizione.

Comunque, anche la sirenetta poteva usare qualche banale trucco con la magia. Volteggiava beffarda attorno ad Eric, il visetto lacrimoso trasformato in una maschera di disappunto vivente.

<< Ariel … >>

Non lo ascoltò. Non l’aveva mai fatto. Una bolla, che Eric seppe in anticipo essere dura come il granito, slittò verso di lui.

Eric era steso a terra. Percepiva confusamente la presenza di molti tritoni attorno a lui, e la voce di Ariel che strillava. Adesso era acuta e dissonante.

Non seppe mai dove lo portarono; da quel momento la sua vita divenne una nebulosa indefinita.

*

Ebbe solo un unico sprazzo di lucidità. Si trovava in un piccolo spazio chiuso, assieme a sua moglie. Si sentiva la lingua impastata. Cercò di parlare, ma solo quando la sirena gli rispose capì di essere riuscito a parlare davvero.

<< Il contratto a vita? Fossi in te, caro, non mi preoccuperei di questo. >>

Scivolò con grazia impareggiabile fuori dalla cella, e chiuse la porta dietro di sé.

**

Il Keyblade intercettò in volo il primo Heartless, disgregandolo in una manciata di pulviscolo. Sora balzò in avanti, la Catena regale in pugno, e gli Shadow si lanciarono in massa verso di lui.

Il Custode si mosse fluido, intercettando le goffe zampate degli esserini neri con l’elsa della sua arma. Le ombre indietreggiarono frenetiche mentre i loro cuori luminosi, liberati dall’involucro di tenebra, si levavano verso il cielo. Sora mulinò il Keyblade e portò una spazzata verso terra come diretta prosecuzione del gesto, slittando verso l’ultimo Heartless rimasto. Questi emise un gridolino, sollevando le antenne, poi il Keyblade lo falciò con metodica precisione, dissolvendolo.

Era finita. Sora sbuffò, lasciando scomparire la sua arma con uno sprazzo di luce. <>

 << Ahyuck! >> La voce profonda e familiare del Capitano dei Cavalieri reali lo raggiunse da dietro le spalle. << Quello era l’ultimo sopravvissuto. >>

Sora, a quel punto, potè tirare il fiato mentre si voltava verso il compagno. Pippo, allampanato ed esageratamente alto come sempre, contrasse i suoi buffi lineamenti da cane antropomorfo in un sorriso di comprensione mentre legava il suo scudo dietro le spalle. L’uniforme verde, strapiena di tasche dell’amico era spiegazzata, e capello ed occhialoni da pilota ricadevano di sghembo sul lungo naso. Poco più in là, Paperino stava caracollando sulle sue zampe palmate arancioni verso di loro; ovviamente, stava sbraitando d’ irritazione. Il Mago di corte li raggiunse, incurante delle piume biancastre talmente arruffate da far sembrare il suo piccolo corpo tondeggiante un quadrato. L’abito azzurro era strappato in più punti, e lo scettro che il pennuto brandiva era in più parti scalfito e pieno di tacche; anche il becco era cosparso di piccole bruciature.

Osservando i suoi due compagni di viaggio, Sora dovette ammettere che erano davvero malridotti. Da più di sette anni erravano insieme per i mondi, combattendo gli Heartless e portando soccorso a chi era afflitto dalla piaga dell’ombra. Adesso il Custode del Keyblade aveva diciotto anni; gli anni di combattimenti lo avevano reso temprato e irrobustito. I suoi lineamenti si erano induriti, ed avevano da perso da tempo i tratti giovanili.

Lo Shadow che Sora aveva appena ucciso era l’ultimo esponente di una fastidiosa infiltrazione nei pressi della Terra dei Dragoni. In realtà erano poco più che una banda disorganizzata, tuttavia, complice il terreno accidentato ed ideale per gli attacchi improvvisi, erano riusciti a spazzare via due campi dei soldati di frontiera e a minacciare da vicino la Città Imperiale. Sora aveva perso il conto di quante schermaglie simili si erano consumate da quando aveva ottenuto il Keyblade.

<< … dovremmo rimetterci in sesto! >> Paperino terminò la frase, sbuffando rumorosamente.  Il Custode si riscosse dai suoi pensieri. Anche lui aveva riportato delle ferite non gravi, che tuttavia gli dolevano.

<< Il Palazzo reale non ci negherà ospitalità, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro >> Aggiunse pensieroso Pippo. << Che ne dici, Sora, è una buona idea? >>

Il Custode rifletté. Non potevano continuare a combattere ed a lottare in eterno. Potevano prendersi uno o due giorni di riposo. Curarsi le ferite, trovare un Moguri che riparasse le armi e poi ripartire. Di certo, non si sarebbero fermati poi così tanto, no?

Sospirò. << E sia. Cerchiamo di raggiungere per tempo la capitale. >>

Paperino e Pippo esultarono gioiosi.

***

Mal di testa. Stanchezza. Mal di testa.

Sora aveva affondato la faccia in uno dei cuscini, la mente ancora rimbombante del suono dei tamburi e delle trombe. Stava disteso su di un grande letto a baldacchino con cortine di seta, il materasso talmente morbido che era pressoché certo che ci sarebbe annegato.

La Città imperiale, se ne era ricordato troppo tardi, non era il luogo perfetto per ottenere un accoglienza rapida e discreta. L’arrivo del Custode del Keyblade, salvatore dei Mondi, e dei suoi fidi amici, gli Onorevolissimi Pippo e Paperino, aveva richiesto oltre due ore di cerimonie, presentazioni, interminabili protocolli. Adesso che finalmente Sora era disteso sul letto, dovette costringersi a tirarsi su. Prima di dormire doveva curarsi le ferite, e lo imbarazzava lasciare che a farlo fosse una delle cortigiane che l’Imperatore gli aveva messo a completa disposizione. Aveva sempre fatto da solo. Questa volta sarebbe stato uguale.

Scese dal letto a piedi nudi e sobbalzò quando udì bussare alla porta. Dio, chi sarebbe arrivato quella volta?

<< Lord Sora, chiedo umilmente il Vostro munifico perdono! E’ giunta una missiva indirizzata esplicitamente a Voi con grande urgenza, il cui contenuto non mi è dato sapere … >>

Sora aprì la porta bruscamente. Desiderava solo prepararsi un impacco di foglie di Paopu e bambù, e poi dormire. Davanti a lui, quello che sembrava una sorta di scoiattolo troppo cresciuto dai lineamenti orientali si inchinò – almeno la coda gli mancava, notò Sora – e gli porse la lettera. Il Custode ringraziò ed arginò con un cenno della mano gli innumerevoli ossequi che il tizio stava riversandogli addosso. Quando venne bruscamente congedato, troppo per le intenzioni di Sora, il paggio sembrò più che felice. Schizzò via nel corridoio, ciabattando con un’agitazione che Sora trovò amaramente comica.

Gettò un’occhiata alla lettera mentre applicava il suo unguento curativo sulle gambe e sulle braccia.

Ma che … ?

Sora, ti prego. E’ successa una cosa terribile. Ti prego, vieni subito ad Atlantica.

Se non lo farai, non so cosa mi accadrà.

Era firmata semplicemente “Ariel”.

Oh, mer …

****

I turboreattori della gummiship, la tozza navetta di trasporto per i viaggi intergalattici di Sora, ruggirono un’ultima volta prima di spegnersi. La navicella planò lentamente sulla spiaggia, i supporti metallici d’atterraggio sbriciolarono i sassi piegandosi su sé stessi per favorire l’atterraggio.

Sora staccò le mani dai comandi, sforzandosi di non vomitare. Paperino era il dannatissimo pilota, non lui. Ma i suoi due compagni di viaggio avevano avuto la brillantissima idea di avere … una reazione allergica alle fragole? Tutti e due? Probabilmente, considerò scendendo la scaletta della gummiship verso terra, i suoi grandi amici lo avevano fregato. Sora era dolorosamente consapevole di non essere quel che si dice una mente brillante; loro due di certo ne avevano, per una volta, approfittato. D’altro canto, chi avrebbe potuto biasimarli? Loro non erano obbligati a seguirlo se non dal giuramento di Re Topolino, ed il Re era morto molto tempo prima. Sora li aveva trascinati in due settimane di battaglie e scontri all’ultimo sangue contro Heartless e cattivoni locali vari. Forse era giusto che, a questo punto, che la loro lealtà si prendesse una vacanza.

Questo pensiero non gli impedì di imprecare ad alta voce quando, arrivato a terra, la testa iniziò a girargli. Maledizione. Sforzandosi di non vomitare, diede il segnale vocale di stop alla gummiship ed iniziò a risalire l’erta davanti a lui.

Ariel lo aspettava nella grande casa colonica che si ergeva sulla collinetta della spiaggia, un maniero terrazzato ed arredato riccamente che un tempo era stata la dimora di suo marito, Eric. Sora si domandò cosa fosse successo. Ariel era stata esiliata dal mondo marino? Gli Heartless avevano sterminato il popolo marino e lei era l’unica sopravvissuta? Una morsa d’angoscia gli strinse il cuore. Non essere ridicolo, si impose mentalmente. Respirò. Perché diamine era così nervoso?

Prese coraggio e, raggiunto il portone della villa, bussò.

*****

Toc. Toc.

Appena i battenti del portone ebbero risuonato, il cuore balzò in gola a Sora. Ariel. Che cosa poteva esserle successo? Si sentiva nervoso, e per qualche ragione desiderò che non fosse Eric ad aprire. Ma … stupido, stupido, dannato stupido, esplose fra sé e sé. Che cosa stava pensando di …

La porta si spalancò, e Sora dovette richiudere la bocca.

Ariel era bellissima, ancora più bella di come la ricordava quando era poco più di una bambina. Avanzò composta verso di lui, il viso serio, come a lutto. Era nella sua forma umana, rilevò Sora, ma questo non la rendeva meno meravigliosa. Un ampio vestito le copriva il corpo, insolitamente sobrio. Ariel era sempre stata una donna appariscente. Piccoli orli azzurri si intravedevano fra le maniche a sbuffo, simili a tante piccole lacrime. I capelli rossi erano lucenti, pettinati in una coda di cavallo che le ricadeva fin sulle spalle nude.

E, d’un tratto, Sora credette di sapere cosa fare. La raggiunse, e le prese le mani.

<< Ariel, che cosa è successo. Sono … sono venuto appena ho potuto. Come stai? >>

I grandi occhi azzurri della principessa si spalancarono e Sora vi colse contentezza, ma anche mestizia. << Ariel >> Ripeté, più deciso << che cosa è successo? >>

La sirena in forma umana si avvicinò ancora. Sora poteva sentire il suo profumo sulla pelle.

<< E- Eric se n’è andato. Qualche giorno fa. Mi ha- mi ha lasciato, ed io … >> La sua voce si fece tremante, e lacrime simili a zaffiri spuntarono nei suoi occhi che avrebbero potuto annegare anime.

In quel momento, Sora non pensò che nessun pericolo imminente minacciava Atlantica, che nessun Heartless era spuntato nemmeno a pagarlo, che aveva lasciato il suo breve e meritatissimo periodo di riposo per quello che molti avrebbero giudicato un falso allarme.

Non pensò nulla di tutto questo. Invece, la abbracciò stretta e si fece condurre, in silenzio, nella casa.

******

Erano seduti su un divano, sulla terrazza più grande della villa intera. Un divano in una terrazza? Sora non ebbe tempo per simili interrogativi. Portò un po’ del vino alle labbra, mentre ascoltava la voce spezzata della sirena raccontare quello che era successo.

Aveva già dimenticato la chiamata fin tropo brusca. Ora, era capace solo di ascoltare.

Ascoltò e sentì tutto. Sentì del suo rapporto con Eric, di come lui bevesse fin troppo. Incredulo e scandalizzato la ascoltò parlargli delle sue amanti, dei suoi affari sottobanco con alcuni tritoni infidi, delle sue giornate intere passate in bettole e bordelli. Quando arrivò a Myde, raccontandogli con voce incrinata come Eric avesse lasciato che fuggisse dal palazzo reale e lo avesse incitato a non dire nulla a sua madre, Sora spezzò il bicchiere in due.

<< Bastardo >> Mormorò, prima di rendersene conto. Ariel lo osservò con espressione spaesata, e Sora si rese conto con orrore di aver distrutto uno dei bicchieri del servizio buono. <> Idiota! Idiota! Idiota!

<< Non preoccuparti >> sussurrò la sirena, avvicinandosi a lui e premendosi contro il suo fianco. << Lui … mi ha lasciata, per fortuna. >>

Sora non sapeva cosa fosse più forte, se le emozioni contrastanti che Ariel gli provocava o la furia ed il ribrezzo che provava nei confronti di Eric, quel giovane gentiluomo che si era dimostrato un ubriacone irresponsabile e malvagio. Prima che se ne rendesse conto, aprì la bocca e gli diede fiato.

<< Eric ha perso un tesoro, Ariel. >> Inorridì. Lo aveva detto davvero? La vista cominciava ad annebbiarglisi. Aveva bevuto pochissimo vino, smettendo non appena Ariel gli aveva parlato dell’alcolismo di Eric. Le palpebre diventarono pesanti. Mentre la sua mente cosciente sprofondava chissà dove, senti Ariel dirgli che andava … tutto … bene ….

*******

La prima cosa che emerse dal bianco fu altro bianco, quello delle lenzuola. Un piccolo, minuscolo frammento di coscienza ritornò alla sua mente.

Che … cosa …

Passarono diversi minuti prima che il suo cervello riuscisse ad elaborare un pensiero coerente, e con esso l’ordine di muoversi. Sora stiracchiò le gambe. Il battito ritmico del suo cuore gli rimbombava nelle orecchie. Si sentiva intorpidito, i piedi gli formicolavano. Era come se non avesse più del tutto il controllo di sé.

Soffocando uno sbadiglio si girò, confusamente.

Oh mio – !!!!

Ariel era distesa accanto a lui, coperta da niente altro che le lenzuola bianche.

Il cuore di Sora perse un battito. Con orrore, senza neanche respirare, il Custode si ritrasse come se avesse visto un serpente a sonagli. NO! NO, NO, NO!

Idiota, stava sussurrandogli una vocina insistente in testa. Freneticamente Sora spalancò gli archivi della sua memoria. Non poteva essere! Che cosa avevano …

Insomma, la risposta era ovvia.

Ma nella sua mente c’era solo il bianco, quello dell’incoscienza. Troppo idiota per ricordare qualcosa . Troppo idiota e troppo ubriaco. La vocina continuava a martellargli in testa.

Impietosa.

Assillante.

<> Ululò Sora, e si precipitò fuori dalla stanza.

Si fiondò giù dalle scale con il rischio di spezzarsi il collo, scansando sedie e vasi ingombranti. Un rumore di cocci risuonò alle sue spalle. Sora si ficcò le mani fra i capelli, e fuggì verso la gummiship.

********

Il volto di Riku, sgranato dal megaschermo ovale della sala video della gummiship, si spalancò in un’espressione di sorpresa. Sora riprese fiato, esausto. La porta d’ingresso della gummiship era sbarrata da un lucchetto e da una grossa spranga di ferro. Sembrava appena uscito da un incubo il Custode, i capelli sporchi e spettinati, la faccia stravolta in una smorfia di orroredisgustospaventoterrore. Sul megaschermo, il viso di Riku sembrava un identica copia di quello di Sora.

<< Ti sei risvegliato. >> Riku sembrava star saggiando le parole. << Nel suo letto. >> << E … >>

<< SI! >> Esplose Sora, allargando le braccia. << Lo abbiamo fatto, ti rendi conto? Lo abbiamo … >>

Sora si sarebbe aspettato quasi tutte le reazioni possibili. Stupore, spavento, freddezza, irritazione, terrore. Ma non fu assolutamente preparato quando Riku scoppiò in una risata clamorosa.

<< Senza Paperino e Pippo a farti da balia ti cacci in guai grossi, eh? >> Sora boccheggiò. Bastardo! << Ti ho chiesto di darmi un consiglio, **** ! Che devo fare?!? >>

Era esausto. Lui, il Custode del Keyblade, il salvatore dei mondi, era in crisi a causa di una notte con una sirenetta. << Riku … ti prego. >> Era incredulo. Era … era sull’ orlo del pianto, dio! Come poteva lui, Sora, sentirsi così?

Anche Riku, a giudicare dalla faccia sgranata che lo osservava dallo schermo, sembrava piuttosto sorpreso.

<< OK Sora, OK. >> Quelle parole furono come nettare per lui. Riku aveva di sicuro avuto a che fare con le donne in quella maniera, prima di quel momento! Lui lo avrebbe potuto aiutare …

<< Resta calmo, Sora. Resta – calmo. >> Quasi come se l’amico fosse un esperto psicoterapeuta, Sora prese un gran respiro tendendo le braccia in basso.

<< Ariel era sconvolta, a quanto mi dici. Tu, Sora, hai fatto la cosa peggiore che potessi fare. Insomma, sapevo che eri ottuso, ma non TALMENTE TANTO! >> Sora era come inchiodato sulla poltrona da cui osservava lo schermo.

<< Tu gli hai dato una speranza, e poi l’hai abbandonata. Aveva bisogno di conforto, tu le hai offerto una nottata e … sarai stato come Eric, ai suoi occhi. L’hai abbandonata. Ancora. >>

Schiacciò il tasto destro del telecomando prima di rendersene conto. Riku aprì la bocca, e lo schermo divenne nero.

Sei come Eric. L’hai illusa. L’hai ingannata.

Doveva tornare da lei.

Ariel!

Non pensò a quello che faceva. Squarciò la porta e i suoi cardini con un lampo, evocando il Keyblade con intensità quasi dolorosa. Si fece strada tra i frammenti di lucchetti, catene e sbarre; balzò sulla sabbia della terraferma, perse l’equilibrio, cadde.

Ariel!

Si rialzò, inzaccherato fino al midollo. Barcollò e si lanciò verso la villa, con la velocità massima che poteva sostenere.

Oh Dio, Ariel, aspettami!

*********

<< SORA !!!! >>

La voce lacera l’aria. IL Custode si arresta, mentre il Keyblade si smaterializza dal suo palmo.

Ariel.

Adesso il profumo di lei, la sua voce, il suo corpo, invade tutti i pensieri di Sora. La vede precipitarsi giù verso di lui. Sorride di speranza, l’abito strappato in più punti.

Si raggiungono e si abbracciano al centro esatto della spiaggia, e Sora non ha il tempo di pensare all’assurdità dell’intera situazione, dalla nottata di sesso a questo. Gli sembra di trovarsi dentro un telefilm di seconda mano, eppure si ritrova a stringere Ariel con tutta la sua forza, premendo la bocca contro la sua.

Quando si staccano, lei lo guarda intensamente.

<< Ho avuto paura che tu avessi fatto come lui. >>

Lo guarda. Lo guarda, e non c’è nessun bisogno di specificare chi sia questo lui.

<< Non lo avrei mai fatto >> sussurra Sora, con voce roca. E’ completamente sedotto, incantato. << Io ti amo, Ariel. >> Ecco. L’ha detto. Non si rende conto che forse quella è solo attrazione fisica, che una notte di sesso (lo avranno davvero fatto, poi?) non basta per legarsi ad una persona.

Tristemente, se ne rende conto quando è troppo tardi.

<< Sora … vuoi sposarmi? >>

Oh, ca …

Non è stata una reazione volontaria, spingerla via da sé.  Ora è Sora a fissare sconvolto la sirena. Finalmente, l’inverosimiglianza della situazione gli entrata in testa, a suon di martellate parrebbe.

Ariel indietreggia oltraggiata. << Sora. >> Il tono è più freddo, duro. Il giovane aggrotta la fronte. << Vuoi – sposarmi? >>

Ora sì che, Sora è certo, la sua voce ha assunto un tono pericolosamente minaccioso e metallico.

Rifletti, dannazione. Rifletti, rifletti, rifletti …

Nella mente del Custode, un lampo squarcia le tenebre. C’ è una possibilità! Assume quella che dovrebbe sembrare un’aria piuttosto adulta, e superiore a tutto.

<< Ariel, >> incomincia, misurando bene le parole << una notte di sesso non basta per decidere di andare all’altare. So che sei ancora sconvolta per quello che ti ha fatto Eric, ma … >>

Esasperata, la sirena scuote la testa. Incredulo, Sora la sente imprecare oscenamente, come probabilmente nemmeno quell’Eric avrebbe mai fatto.

<< Pensavo che sarebbe bastato chiamarti per farti cadere fra le mie braccia. >> Mormora con tono leggermente isterico. Respira troppo velocemente. << Ma tu dovevi fare il pesce lesso, vero? >> Scuote la chioma rossa. << Ho drogato il tuo vino, mi sono spogliata e mi sono messa a letto accanto a te. Ma questo NON poteva ancora bastarti, vero? TU, SORA, mi sposerai e rimpiazzerai ERIC!!!! >>

Sora è sconvolto, ma almeno ha recuperato un pizzico di lucidità. <>

Sul bel visetto della sirena si fa strada un sorriso molto simile ad un sogghigno. Le onde del mare lambiscono la spiaggia e si increspano; spruzzi di spuma schizzano in alto nel cielo.

Sora vede avanzare quello che inequivocabilmente è un tritone in forma umana in mezzo alle onde. Poi ne sorgono altri due dalle acque. Tre. Quattro. Una moltitudine di tritoni che avanzano sulla spiaggia, lance, spade e gladi in mano.

<< Allora, Sora? Ci hai ripensato? >>

Sora guarda Ariel, e capisce che l’addio al celibato non sarà proprio come se lo è immaginato.

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Capitolo 2
*** Il Sangue Non è Acqua? ***


II.

Un’altra nota e l’acqua si levò, catturando i raggi del sole e rifrangendoli sulla spiaggia, mentre i tratti liquidi si modellavano fino a formare la sagoma appena abbozzata di un volto umano. La melodia si articolò sui vari livelli, trillando armoniosa, facendo fremere l’atmosfera stessa d’aspettativa.

Le dita di Myde danzavano come un’entità viva sul citar, pizzicando con infallibile delicatezza le corde, sfiorandole quasi alla maniera di un amante. Attorno a lui, mentre i flussi di magia manipolatrice si espandevano e si intrecciavano condotte dalla musica, altre figure traslucide sorsero sulla battigia. Il mare cantava assieme al giovane e le loro voci si unirono, l’una leggera e fresca, l’altra profonda ed ancestrale come il tempo stesso. Myde eseguì una scala con velocità inconcepibile, eppure note ed acqua si levarono cristalline e chiaramente percepibili all’udito umano, trillando con energia. Il giovane elevò la sua musica con un virtuosismo incredibile, portandola a sfiorare i cieli, le nubi, il Sole ardente ed i pianeti scintillanti, ruggendo la sua superiorità su tutti loro. Myde raffinò ancora i flussi che si diramavano da lui, manipolando l’acqua con una facilità impressionante mentre questa lo avvolgeva in un involucro scintillante, rilucente fino a sembrare un enorme sfera di luce.

A quel punto, sulla spiaggia non c’era più nessun essere umano vivo.

I flussi così finemente modellati si afflosciarono su sé stessi, crollando l’uno sull’altro come un gigantesco castello di carte, sfasciando il finissimo intrico della manipolazione elementare, facendo rifluire l’acqua sulla sabbia bagnata. Myde ansimò in cerca d’aria, i polmoni in fiamme, il citar già evanescente nelle sue mani. E il cuore che faceva male. Molto male.

Si alzò soffocando un grido di dolore. Alberi abbattuti dalla pura forza delle onde languivano squarciati e strappati dalle loro radici secolari, semi affondati nei crateri che avevano sconvolto l’intero panorama.

Poco lontano la spiaggia distrutta, là dove la foresta tropicale un tempo sbarrava l’accesso al piccolo villaggio di palafitte, piccole pozze d’acqua si scorgono a malapena attraverso l’intrico di rovi e piante carbonizzate, violentate dalla pura rabbia del fuoco. I polmoni di Myde erano trafitti da mille spilli di ghiaccio acuminati. Quella non era stata la parte più faticosa. Quando era al pieno delle sue forze, era facile per lui manipolare i corpi stessi, aumentando il livello di acqua nel corpo fino a farlo sciogliere in minuscole goccioline.

I piedi del giovane affondavano nella sabbia bagnata. Myde procedeva curvo e faticava a reggersi in piedi, ma sarebbe passata. La vista gli si sarebbe snebbiata dopo poco, bastava non farsi vedere in quello stato da Axel. Avanzò lentamente verso il varco aperto fra gli alberi, in mezzo al fumo che si espandeva in larghe volute. Merda, imprecò fra sé. Quella sensazione stava tornando di nuovo a strisciare in lui, piccola e subdola come una delle murene di Ursula. Myde sperava che, una volta pronto, il senso di colpa sarebbe sparito del tutto.

Anche senza saper percepire le aure, tecnica basilare che Myde non aveva ancora imparato, era facile accorgersi che Axel si trovava a poca distanza. L’odore acre del fumo fece lacrimare gli occhi al suonatore; per uno come lui, abituato alla frescura e al refrigerio del mare sterminato, il caldo poteva diventare anche un’arma mortale. Calpestò alcune foglie secche e bruciacchiate, che si sbriciolarono non appena il piede, coperto dalla lunga veste di stoffa nera, le calpestò.

<< Axel? >> Chiamò, esitante. Il fumo stava cominciando a fargli perdere l’orientamento. << Axel! >> Myde si porto una mano coperta dal guanto sulla fronte imperlata di sudore. I capelli biondo rame si erano incollati alla nuca, ed il solito ciuffo ribelle penzolava moscio sulla fronte, coprendogli la visuale. Diede un colpo di tosse, poi un altro.

<< Axel! >>

Quasi impercettibilmente, il fumo cominciò a diradarsi. La gola di Myde bruciava.

<< Axel! >>

Questa volta non fu lui a parlare. Il pirocinetico fendette il fumo verso di lui. Corpo magro, atletico e scattante, Axel reclinò indietro la testa e rise sonoramente in un lampo di denti bianchi. Fiammelle evanescenti guizzavano attorno al suo viso, schizzando tanto rapidamente che a Myde sarebbe venuta la nausea, se li avesse guardati a lungo. Il Numero VIII lo chiamò ancora in falsetto, gli occhi verdi che brillavano divertiti. No, si rese disperatamente conto Myde, questa volta la debolezza non sarebbe passata tanto in fretta. Sentiva l’enorme sforzo occorsogli inaridirlo dentro, prosciugarlo, anche se in teoria il suo elemento avrebbe dovuto essere l’acqua. Il dolore acuto continuava, ma questa volta stava espandendosi. Myde strinse disperatamente i denti, tremando. La voce beffarda di Axel risuonò lontana.

<< Non dovresti sforzarti così, piccolo mezzosangue. >>

L’appellativo lo ferì ancora di più del dolore sordo ed ottundente. La magia di manipolazione lo seccava dentro ogni volta di più. Myde sentiva con devastante i chiarezza i suoi geni umani cercare di ribellarsi, contaminati da una magia incompatibile con loro. E il risultato era sempre dolore.

<< Dà - … >> Stava per chiederglielo. La sua mente era annebbiata, lo sentiva benissimo.

No.

Non lo avrebbe fatto.

Qualsiasi cosa succeda, non avrebbe accettato la pietà di Axel. Si sarebbe rialzato  da solo.

<< Che cosa, bambolo? Non ce la fai più? >> Frustrazione. Crepa, Axel.

E ’stata colpa di quegli idioti dei suoi genitori. No – delle persone che lo hanno fatto nascere. Ariel ed Eric non sarebbero stati mai i suoi veri genitori.

Era nato così, Myde lo sapeva. Mezzosangue. Tritonide ed umano al tempo stesso. Dio, ci aveva provato. Lui, da solo, sarebbe stato in grado di controllare e centuplicare la potenza del Tridente. Avrebbe potuto regnare su terra e mare insieme, ed era più potente di quanto lo stesso Tritone non avrebbe mai potuto sognare. Lo era stato, e lo era diventato ancora di più. Ci aveva provato, ma era difficile farsi accettare come sé stesso – vale a dire come un ibrido – se ti trovi in una società rigida, classista e purista, che spesso e volentieri organizza sposalizi fra cugini per mantenere puro il sangue. Ovviamente è ancora più difficile se sei rinchiuso per metà del giorno in un campo di contenzione, come una bestia pericolosa, e con delle limitazioni magiche programmate per forze molto inferiori – cosa che, lui lo sa, può provocarti un male cane.

Sfortunatamente, questa banale associazione di idee non è mai stata del tutto chiara a sua madre, che comunque avrà visto si è no una manciata di volte in tutto l’arco della sua vita. Logicamente, non poteva importargli che un potere così avrebbe potuto ucciderlo. A chi mai sarebbe importato?

<< Vattene, Axel. >> Myde tentò di rialzarsi. Il dolore andava poco a poco scemando, ma lui era ancora troppo debole. << Vattene! >>

Rialzò lo sguardo. Pian piano sentiva il dolore scemare, ma la debolezza lo invadeva ancora. Si accorse di avere la mascella serrata per la rabbia, rabbia che lo travolgeva.

In più, Axel doveva essersene già andato da un pezzo.

Come la stanchezza ed il dolore, anche il fumo si stava diradando. Appoggiato ad uno dei tronchi, mentre i rumori degli altri membri che ingaggiavano battaglia sul mondo da conquistare arrivavano attutiti, Myde si rimise in piedi. Compì tutto il tragitto inverso, superando di nuovo i crateri, le pozze d’acqua, la spiaggia distrutta e la battigia. Proseguì, immergendo i piedi nel mare, poi il torso. La veste dei neofiti era pesante e bagnata.

Myde tuffò la testa sott’acqua e subito dopo prese un gran respiro. I fondali marini si spalancavano vividamente davanti a lui. Soffocò la rabbia. Come ogni altra cosa, ogni altra dannata battaglia, sarebbe passata. Si strinse il petto con amarezza, più forte, sempre più forte. Come se potesse togliersi il cuore e gettarlo in acqua.

*

Aveva chiuso gli occhi. Come sempre, da quando era bambino, tentava istintivamente di resistere al sonno, di opporsi alla disperata pesantezza delle palpebre. Alla fine però si era rassegnato; come per magia, aveva cominciato a respirare nel tipico modo dei dormienti, e la sua mente fu avvolta nell’incoscienza dopo un ultimo pensiero.

Forse stavolta non verrà.

Ovviamente, venne.

* Come ogni volta, era inconsapevole che si trattasse di un sogno. Sentiva la vaga sensazione di immaterialità, di indefinito propria dei sogni, aleggiare attorno a lui, ma la sua mente semicosciente si rifiutava di fare il collegamento.

Come in molti dei sogni, era piccolo. Quella volta stava seduto a gambe incrociate sull’ampio letto a baldacchino degli appartamenti reali, le gambette che affondavano nel morbido materasso. Indossava un piccolo farsetto verde brillante, riadattato appositamente per le sue forme di bambino florido; dal colletto, che quasi gli sfiorava le guance paffute, un gigantesco foulard dorato erompeva come un fiume in piena che avesse rotto gli argini. Il ragazzino era fastidiosamente consapevole dei bottoni pericolosamente tesi a tenere insieme il voluminoso panciotto che portava al di sopra del farsetto.

Si stava annoiando. Myde sbuffò e si afferrò le ginocchia con le mani, dondolandosi simile ad una palla per qualche minuto. Intanto, la porta verde continuava a rimanere chiusa: nessuno che la aprisse o che entrasse anche solo a dare un’occhiata. Lena, magari, ma non Greta, no ( vecchia arpia pelosa ), Lena era giovane e simpatica e gentile, con un sorriso che illuminava Myde da cima a fondo. Greta invece era adunca, magra come uno stecco, e spesso lo guardava con manifesto disprezzo. La sera prima Myde gli aveva rovesciato addosso la zuppa, dopo che lei aveva ridacchiato ed aveva detto non ricordava più cosa fra sé e sé.  Lei lo aveva fulminato con uno sguardo che avrebbe fatto intimidire suo nonno e aveva borbottato qualcosa sui ragazzini viziati e ibridi, qualsiasi cosa volesse dire. Per un po’ il bambino aveva temuto che lei lo andasse a raccontare a qualcuno, poi si era ricordato di essere un nobiluomo. Come si diceva nel suo caso, nobilbimbo? Aggrottò le sopracciglia perplesso e i suoi occhietti verde mare sembrarono affondare nelle guance. Non lo sapeva.

Dopo un po’ di tempo Myde avrebbe visto volentieri anche Greta, se non altro per rovesciargli addosso altra zuppa ( Andava tutta giù per i capelli!). La camera era silenziosa, come se fosse stata in un altro mondo. Sopra il tripudio di pizzi e coperte del letto a baldacchino, gli arazzi verdi intarsiati d’oro, con il Tridente e le Sirene Gemelle simbolo della Monarchia del mare, frusciavano agitati da una lieve brezza. Una grande finestra di corallo trasparente, che occupava quasi tutta una parete, mostrava l’oceano.

Myde ci andò davanti e vi appiccicò il viso grassoccio, ammirato come sempre. Davanti a lui, centinaia di pesci, granchi, carpe di ogni forma e colore formavano un enorme serpente colorato, prima rosso poi blu poi ( E’ bellissimo! Wow! ) giallo poi verde …

Piccole macchioline stavano ballando negli occhi di Myde. Il ragazzino distolse lo sguardo, leggermente stordito. Quello era solo il traffico minore, quello dei piani più bassi delle altissime torri affusolate. Guardando sotto il davanzale Myde vedeva, attraverso la finestra ed il blu scuro del mare, le pietre lucide della base della costruzione affondare con decisione nella sabbia molle, già assediata dalle alghe. In alto, invece,  la luce cominciava a filtrare maggiormente. Lunghi ponti di cristallo, alti ed affusolati, si inarcavano innumerevoli attraverso le torri sottili, intersecandosi in tutti modi possibili ( Bellissimo!!!! ) ed immaginabili attraverso quella perfetta città, in quelle architetture ardite edificate contro le leggi della fisica e dei Mondi dai Nuovi Tritonidi.

Questa è Atlantica. Bellezza. Purezza. E torri.

Non sembrava un pensiero suo e Myde si chiese da dove fosse uscito, ma era vero. Le torri, oh, le torri! Prive di merli, lisce, affusolate, così sottili che di profilo sarebbero potute scomparire, cilindri con aree quasi inesistenti, protese come dita di una bellissima creatura verso la superficie! Le torri così pure, così belle, spaventosamente prive di imperfezioni, monumento al potere del Popolo del mare!

In realtà, tutti questi pensieri avrebbero potuto essere riassunti, nella testolina di Myde, come un puro e semplice Wow! . Ma il significato era lo stesso. Myde amava – no, adorava – Atlantica, la più bella città del mondo, il fulcro della potenza degli abitatori del mare. Nessuna città sulla terraferma, Myde ne era convinto, la eguagliava.

Ovviamente, erano ancora i primissimi tempi.

Qualcuno bussò alla porta.

**

Si rizzò a sedere sul letto, la camicia appiccicata al petto, la bocca spalancata. Piccoli rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, brividi di freddo lo scuotevano. Myde afferrò l’orlo delle lenzuola scomposte, tremando come una foglia.

Calma, adesso. Calma.

Scostò i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese. Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene.

Scostò i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese. Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene. A tentoni cercò il lucciglobo vicino alla sponda del letto, lo trovò e vi poggiò sopra una mano. Dopo qualche secondo, la piccola sfera cominciò ad emettere una lieve luce soffusa, che a poco a poco rischiarò la stanza. Il giovane si liberò delle lenzuolo con un gesto infastidito, scuotendo la testa per abituarsi alla luce. Il lucciglobo era quasi giunto alla fine del suo ciclo vitale, si rese conto Myde guardando la sfera le cui onde luminose si facevano più flebili di minuto in minuto. Le pulsazioni vitali che l’oggetto emetteva rischiaravano una stanza in penombra, che aveva come unica mobilia il letto ed un tavolino con qualche sedia. Magliette e pantaloni erano sparsi spiegazzati o appallottolati nel poco spazio rimanente, formando una pila di vestiti pericolosamente in bilico. Avrebbe dovuto decidersi a mettere tutto a posto ( dove, poi? ) ma non sarebbe poi cambiato molto. I vestiti sporchi si sarebbero accumulati nuovamente prima o poi, no? Sbadigliando ancora, Myde aprì gli scuri malandati e lasciò che la luce del giorno filtrasse attraverso la camera.

 Come sempre un’onda di suoni, odori e voci si riversò dalla finestra assieme alla luce; una profusione mescolata di profumo di torte di mele, richiami, suoni fruscii incredibilmente rimbombanti, sprazzi di luce che non provenivano dal sole o dai lucciglobi scassati ai lati delle strade. Nel suo solito modo chiassoso e rimbombante, la Città di Mezzo salutava gioiosamente il risveglio di Myde. Il sole investiva la piazza al di sotto dell’albergo scacciando le poche nubi in cielo, posando i suoi raggi sulla moltitudine di persone di ogni razza, etnia e colore che brulicava per le vie. Bancarelle sgangherate proliferavano come funghi in ogni spazio disponibile, a ridosso delle costruzioni, l’una addossata all’altra, persino in prossimità dei canali di scolo; sostenute con assi di legno, casse, o persino con la merce particolarmente resistente. Da un piccolo gazebo fiori di ogni sorta si avviluppavano indolenti sulla tenda e sui negozi degli altri commercianti, sfiorando le gabbiette appese a travi di legno in cui esserini simili a canarini e topi cinguettavano e squittivano, o trespoli dove grandi uccelli dai becchi adunche e le piume blu rosate scrutavano i passanti con sguardo arcigno. Decine di Moguri strillavano petulanti sopra le loro mercanzie ammassate in ogni pertugio disponibile, piccoli batuffoli rosati che parevano in preda ad un ictus per quanto si agitavano. Una insettoide dal corpo sottile e le ali trasparenti si fece largo fra le bancarelle di legno scostando bruscamente un uomo malmesso, che le imprecò dietro. La sua voce si perse nella cacofonia della piazza, il suono delle campane della torre, gli strilli isterici dei Moguri. A Myde venne in mente il sogno che aveva fatto; se Atlantica era il trionfo della bellezza razionale e cristallina, la Città di Mezzo era dominata dai vicoli, i mercati, il disordine che celava segreti.

Inizialmente, la futura città era composta da non più di quattro case in croce, e neanche si sarebbe potuta chiamare villaggio di frontiera. Per quasi cinquant’anni della sua fondazione era vissuta nel suo polveroso isolamento, rinchiusa dalle barriere dei Mondi. Quei pochi che la abitavano erano ignoranti, rozzi, senza alcuna capacità degna di nota. Il villaggio aveva continuato ad esistere senza fare rumore, e non ne aveva in effetti fatto.

 

Poi era arrivata la rottura delle barriere. Di colpo le Vie delle Stelle si erano riaperte, tracciando nuove rotte di collegamento fra i Mondi; le navi a reattore avevano pian piano tracciato una mappa dei collegamenti fra gli Universi, e come risultato quelle quattro casupole si erano venute a trovare in un crocevia di collegamenti galattici.

Cosa può succedere ad un villaggio che d’improvviso si trova in uno dei punti più importanti delle intere galassie? Potrebbe venire soppiantato rapidamente dalla miscela di usi, etnie e culture diverse che inevitabilmente convergeranno lì nei loro viaggi nel cosmo, alla ricerca di commerci e ricchezze. Oppure, come era successo a quel particolare insediamento, avrebbe potuto trarre vantaggio dalla situazione. Assorbire le caratteristiche di un grande e brutto fungo creato mescolando senza ritegno i costumi più diversi in un calderone in procinto di esplodere da un momento all’altro. Così adesso la Città di Mezzo era diventata potente, e ricca; una disordinata metropoli variopinta di ogni colore ed abitata da ogni razza. La sua apertura quasi totale ai nuovi venuti che potessero permettersi anche solo un soldo di rame aveva fatto sì che centinaia – migliaia – di persone di ogni razza e colore si riversassero là, edificando capanne e case di mattoni con i materiali che trovavano, pronte in tutto e per tutto a ricominciare una nuova vita. Nella città si nascondevano reietti, ribelli, agitatori sociali e qualsiasi ogni altra classe scomoda nelle strutture politiche dei loro mondi. Si nascondevano negli alberghetti sgangherati, per le strade ed i vicoli illuminati fiocamente da lucciglobi, dormivano nelle casse o sulle stesse bancarelle che riuscivano a mettere su. In pochi anni la Città di Mezzo aveva decuplicato le sue dimensioni, e cresceva. Cresceva ancora, inglobando villaggi vicini, occupando terre. E ancora non si era fermata.

Con un sospiro, Myde aprì la porta della pensione stretta fra due grossi edifici di malta e mattoni immergendosi nella folla a spintoni. Spesso, nella Città di Mezzo, era l’unico modo per crearsi una via da percorrere nella calca. Un essere simile ad un rettile lo fissò sospettosamente torcendosi le dita artigliate ed unte, quindi tornò alla sua bancarella con un passo goffo ed ingobbito. Il giovane scostò uno degli invadenti germogli rosa che stringevano l’assedio attorno all’esercizio del loro coltivatore e si diresse a passo veloce verso uno dei vicoli che si irradiavano dalla piazza principale come vene sottili. Una vera e propria cascata di lucciglobi legati fra loro e in quantità tale da coprire quasi tutto lo spazio aereo fra i due marciapiedi della stradina ronzavano intermittenti, a tratti spegnendosi come quello della sua camera. Verso la fine del vicoletto alcuni palazzi fatiscenti proiettavano ombre sinistre sul selciato sterrato. Myde imboccò con sicurezza una svolta dietro l’altra, fino a compiere un largo giro. Molte delle botteghe erano ancora aperte anche quella sera, ma alcune avevano già chiuso i battenti. Un’insegna monca penzolava tristemente da una porta di legno scheggiata.

Si rese conto, d’improvviso, di essere solo nella via. Il buio stava già iniziando a calare, a strisciare lungo i sentieri sterrati o ricoperti di selciato che fossero. Perché era rimasto chiuso in casa? E perché aveva dormito così tanto?

Interrogativi a cui Myde non avrebbe saputo dare una risposta. Continuò a camminare, accelerando il passo. La bottega Struggle non si trovava da nessuna parte. Iniziò ad innervosirsi.

Fortunatamente per lui conosceva abbastanza bene quella parte della città. Presto le squallide bottegucce lasciarono il posto ai lucciglobi ben funzionanti della piazza del mercato, ancora ammassata su sé stessa come un enorme animale. Il negoziante rettile stava cercando di convincere l’essere farfalla di poco prima ed un batuffolo di pelo con grandi orecchie rosate a comprare una sorta di germoglio avvizzito dal quale si sprigionavano esalazioni verdastre. Alcuni Moguri si stavano apprestando a disfare la merce ancora invenduta, stipando cristalli e fialette apparentemente fragili in sacchi di juta più grossi di loro. Vicino le fondamenta della grande torre campanaria di pietra, un orologiaio umano dai capelli paglierini e lo sguardo intristito stava rimettendo, con cura, i suoi strumenti in piccole fodere malmesse. Myde si avvicinò distrattamente. La pensione era proprio là vicino. Alzò una mano per salutare l’uomo e

Un ronzio.

Era un suono appena percettibile, eppure gli esplose in testa con la violenza di un allarme antincendio. Frenetico, si guardò intorno. La donna farfalla emise un gridolino civettuolo e si avviò a grandi passi verso un viottolo laterale, mentre il rettile batteva le zampe squamate sul legno della sua bancarella e le vomitava addosso insulti.

Ed eccolo di nuovo, quel ronzio, appena più persistente di prima. Si modulò attraverso i tetti, i comignoli, le strade. Myde, piano piano …

Lo identificò. Lo fece nello stesso momento in cui la donna farfalla si irrigidiva ed emetteva un gridolino strozzato, nello stesso istante in cui il rettile, spalancando gli occhietti neri per la sorpresa, lasciava cadere la sua pianta e freneticamente si lanciava oltre il bancone, sibilando.

Varchi oscuri aperti nella città.

***

I bicchieri tintinnarono sonoramente, accompagnati da una risata nasale e sguaiata.

Paperino si abbandonò scompostamente sull’ampio divano laccato, affondato letteralmente fra i cuscini e le decorazioni eccessive dei vestiti donatigli. Gli abiti sontuosi ed eleganti costituivano un bizzarro contrappunto alla corporatura tozza e tondeggiante del piccolo palmipede, ma era evidente che lui non se ne preoccupava troppo, inebriato com’era dall’improvvisa fusione delle sue penne e piume con il lusso di cui i signori del palazzo gli avevano fatto dono. Sembrava leggermente avvinazzato.

Pippo brindò con una certa perplessità. A differenza del suo compagno, l’allampanato Capitano dei Cavalieri aveva scelto per la serata la sua solita uniforme verde ricolma di tasche, stirata e pulita quanto bastava. Il suo lungo muso pieghettato si agitò esprimendo buffamente il suo disagio. Non doveva essere del semplice succo di fragole quello che stavano bevendo? Per sicurezza, non toccò il bicchiere. Paperino lo scrutò perplesso per un attimo da dietro il piumaggio arruffato, alzandosi per osservare il volto di Pippo che lo superava di quasi tutto il busto. Con una scrollata di spalle mandò giù l’intero contenuto del bicchiere, il pomo d’Adamo che si alzava e si abbassava.

<< Paperino … >> tentò Pippo con poca convinzione. L’ex- Mago di Corte appoggiò il bicchiere sul tavolino della Sala degli Ospiti e sorrise. << Goditi la vita una volta tanto! Quando ci ricapiterà un’occasione del genere? Una mano si agitò eloquentemente nell’aria sbucando dalle maniche larghe a sbuffo. Vedendo che il compagno non smetteva di fissarlo serio, aggrottò la fronte.

<< E’ solo per due giorni, no? Due giorni e poi ce ne ritorniamo alle battaglie ed ai combattimenti. Tu con il tuo scudo, io con il mio scettro. E Sora con il suo Keyblade. Atlantica è un mondo isolato dal resto delle connessioni spaziotemporali, no? Di cosa ti preoccupi! Un qualche Heartless di frontiera ed avrà risolto tutto. >>

Pippo annuì, di nuovo. Non l’avrebbe ammesso neppure con sé stesso, ma era preoccupato. Erano arrivati al punto di abbandonare Sora per due bicchieri dal dubbio contenuto? Preoccupato, e in colpa.

La promessa che li legava a doppio vincolo al Custode, però non c’era più. Era svanita assieme con Re Topolino, l’ultimo sovrano del Trono Bianco, Sua Maestà. Vincolati dal giuramento, i due più fedeli servitori della Monarchia Augusta avevano combattuto Heartless e Nessuno, salvato la vita a Sora innumerevoli volte … almeno quanto lui l’aveva salvata a loro. Ricordò Larxene che troneggiava su Sora, un sorriso crudele sul volto perfetto, i pugnali che le danzavano fra le dita affusolate. Si era lanciato all’attacco, lo scudo alzato, contro la malvagia figlia del fulmine pur di salvare il Custode, mentre la luce verde dell’incantesimo curante di Paperino lampeggiava su di lui steso a terra.

Marluxia. Ricordò la sua falce arcuata sibilare verso Sora e la Copia di Riku, ed il suo scudo segnato dalle tacche che la intercettava con le forze rimaste.

Poi si era anche preso quella brutta botta in testa, alla battaglia per la Fortezza Oscura che in seguito sarebbe stata chiamata col nome di Giardino Radioso, l’antico paradiso decaduto che Ansem il Saggio aveva costruito e che era stato distrutto e profanato dai suoi sei allievi traditori che avevano poi fondato l’Organizzazione XIII. Pippo aveva affrontato quello e molto di più.

La verità era che si sentiva stanco. L’età per certe cose non l’aveva quasi più, e la mancanza della promessa svanita assieme al Castello Reale rendeva la tentazione di riposarsi ogni giorno più forte. Quando l’occasione si era presentata, Paperino non aveva esitato, e lui lo aveva seguito. C’era solo un piccolissimo difetto.

Sora aveva due giorni di ritardo.

<< Non è nulla >> aveva minimizzato Paperino all’inizio. Sora era sopravvissuto a centinaia di combattimenti, uno o due giorni non facevano la differenza. Ora che, all’imbrunire, non si era ancora ripresentato, Pippo cominciava a nutrire seri dubbi sulla sua incolumità.

<< Oh, e va bene! >> Esplose Paperino, innervosito. Sbatté il bicchiere sul tavolino corrugando la fronte e balzò a terra sulle zampe palmate arancioni. << Vuoi cercare quel marmocchio? >>

Il Capitano annuì serio.

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Capitolo 3
*** Dalla Cina con furore! ***


KH2

 Cavalcarono furiosamente per tutto il giorno, dall’alba al tramonto, come falchi che si tuffino sulla loro preda incuranti della lontananza.

Solo che, forse, i falchi non avevano piaghe sul sedere.

Due creature galoppavano sulla strada sterrata tra sobbalzi e scossoni, schiumanti per lo sforzo e il caldo appena attenuato dal calare della sera. Quello a destra sembrava – e in effetti era – un cavallo sauro dal pelame scuro lanciato in corsa; a sinistra, invece, saltava e zampettava un grosso essere simile ad uno struzzo ma ricoperto di piume dal lungo becco ricurvo alle zampe unghiute da uccello. Sulla groppa di quest’ultimo era seduto un altro volatile, dalle fattezze antropomorfe che ricordavano quelle di un’oca. Tuttavia, così come i falchi non soffrono di emorroidi, le oche probabilmente non imprecano a tutto spiano.

Paperino finì di tirar giù dalle dimore celesti l’altra metà del pantheon proprio quando Pippo aveva deciso di essere sul punto di ammazzarlo con un colpo di scudo. Almeno il mago pennuto era appoggiato su di un soffice cuscino di piume viola bluastre e le ali da pollo del Chocobo lo proteggevano ai fianchi come in un’alcova; il Capitano doveva accontentarsi di una sella di cuoio consunta per il cavallo. << Ahyuck.  Non è preoccupante che nella capitale di un impero non dispongano di navi funzionanti? >> Commentò tanto per dire qualcosa.

Paperino rispose con un grugnito intellegibile. Pippo ripeté a beneficio del compagno, il quale si mostrò un po’ più reattivo rivolgendogli un gesto volgare col braccio.

<< Sei di buonumore, vedo. >> A quasi mille chilometri dal posto di guardia più vicino, senza un letto e con gallette indurite come unico cibo, anche il Capitano cominciava ad avere dubbi sulla sensatezza della loro fuga dal Palazzo dei draghi. Aveva svegliato l’amico in piena notte, lo aveva fatto vestire e sellare uno degli animali nei box delle scuderie. Paperino non aveva protestato, ancora stordito dall’alcool e dal sonno; la sera prima era parso convinto delle ragioni del Capitano, ma Pippo sapeva che anche soltanto dieci minuti di ritardo avrebbero significato altri protocolli, ore e ore di cerimonie d’addio e parate militari indette dal vecchio imperatore. Così avevano cavalcato e cavalcavano, diretti verso l’unico punto d’approdo del pianeta.

L’alba del giorno successivo apparve grigia e smorta sulle colline. La sagoma nera della torre di guardia era un punto lontano incassato fra due pareti di roccia scistosa.

Il Capitano non aveva dormito quasi per nulla nelle ore che lo separavano dal suo turno di guardia al bivacco. Sentiva le palpebre pesanti e più di una volta si era sorpreso a scivolare nel sonno, col pericolo di un ruzzolone ben più concreto dalla groppa del cavallo. Paperino era più in forma, complice il fatto che aveva dormito per buona parte del suo turno. Eppure… Pippo corrugò la fronte. Un tempo non molto lontano avrebbe potuto reggere quei ritmi per tre giorni consecutivi; adesso …

Adesso non è qualche anno fa. La semplice verità contenuta in quel pensiero lo intristì. Pochi anni, così tante cose cambiate …

Qualche – anno – fa.

Qualche anno fa il Re era morto. A scoprirlo, che sembrava addormentato sul trono, era stata una delle domestiche. Avrebbe dovuto essere Pippo; ma il Capitano non era nella Sala della Prima pietra. Quella mattina Jeromhe, una recluta fra le più giovani dei Cavalieri, si era presentato chiedendo il parere di Pippo riguardo a un crollo nell’Ala Est. Crollo…. In realtà si trattava semplicemente di un cedimento nel colonnato a causa di una rastrematura male eseguita, e la squadra di carpentieri e architetti di stanza al Castello era subito accorsa armata di cazzuole e scalpelli. Forse la colonna era stata danneggiata durante l’incursione degli Heartless di sei anni prima, oppure era stata l’imperizia degli architetti. La cosa in sé non costituiva comunque una fonte di pericolo, ma col passare del tempo la stabilità del pilone avrebbe potuto risentirne. Jeromhe, ricordava Pippo con un misto di orgoglio e amarezza, sarebbe stato al centro dell’attenzione fra i suoi compagni se la morte del Re non avesse spazzato via tutto come un castello di carte …

Sentì di nuovo le palpebre chiudersi. Poco avanti a lui Paperino era una sagoma indistinta e persino la creatura artigliata ballonzolante al suo fianco aveva i contorni

( sfocati )

Creatura artigliata!

Il terreno esplose con un boato che assordò Pippo e il mondo. Il baio s’impennò nitrendo e scalciando e il Capitano fu scaraventato giù dalla sella assieme a staffe e briglie e finimenti in un intrico di cuoio, polvere e sassi. Pap … Gridò o almeno credette di gridare mentre nuvole di terra gli vorticavano attorno, penetrandogli negli occhi e nel naso. Vide confusamente ombre zannute, cornute, dagli occhi gialli. Lo scudo giaceva abbandonato a terra, appena fuori dalla sua portata. Il primo Heartless si protese verso di lui e Pippo chiuse gli occhi, preparandosi a sentire le zanne nella pelle della gola.

Ciò che senti fu i peli delle braccia che si rizzavano.

La testa dell’Heartless scoppiò e fu letteralmente sradicata dal resto del corpo, che scattò all’indietro affondando nella luce del fulmine. Scomparve in brandelli di nembi neri.

<< Indietro! >>

Paperino era piazzato a zampe larghe al centro del sentiero devastato, ginocchia piegate e braccia tese coi palmi rivolti al cielo. Sembrava un’apparizione sputata fuori dall’inferno dei paperi, se ne esisteva uno. L’Heartless più vicino, un omuncolo disossato e molle come muco scuro, tentò senza troppa convinzione una finta e artigliò l’aria. Paperino arretrò saltellando e strillando fiumi di insulti mentre l’ombra avanzava di un passo prima che una tagliola invisibile lo inchiodasse a terra con uno scatto. Dai cespugli intricati ai lati della strada balzarono fuori altri due mozziconi di candela ad artigli snudati, costringendo il mago a compiere una giravolta su se stesso, destra, sinistra, danzando goffo per riparare il fianco scoperto dagli attacchi. Puntò l’indice contro uno degli assalitori e rilasciò una stilettata di energia pura che lo scagliò inerte a qualche metro di distanza. L’Heartless rimanente gnaulò di rabbia e s’avventò; ma il mago reagì troppo tardi. Si voltò tentando di parlare, il becco si mosse su e giù: un lampo nero e un pezzo della giubba azzurra di Paperino volteggiò nell’aria, con l’artiglio del mostro che mancava di un pelo la carne. Paperino crollò in ginocchio, l’Heartless sembrò farsi più grande e tentacoli violacei e guizzanti gli spuntarono dalla schiena curva. Non avrebbe avuto una seconda possibilità.

Pippo dispiegò il braccio destro in un movimento fluido, rilasciando lo scudo tondo che fischiò nell’aria e nella polvere come un disco olimpionico e centrò l’ombra fra collo e clavicole – o meglio, nel punto in cui sarebbero state le clavicole di un essere umano o almeno un tantino antropomorfo – ma la mossa fu efficace lo stesso. La testa dell’Heartless schizzò via dal resto del corpo e lo scudo roteante passò in volo un centimetro sopra la testa del papero in ginocchio, brillando contro il sole di mezzogiorno.

<< Paperino … Andiamo! Andiamo… >>

Ora il mago si era rialzato, sostenendosi con la destra stretta all’impugnatura dello scettro di legno-ferro. Dietro di lui, lo scudo compì un semicerchio nell’aria come un uccello in vena di esibizioni e ridiscese a tutta birra verso il Capitano, le cui mani guantate di bianco si serrarono sul bordo zigrinato. Più avanti i due Heartless sopravvissuti stavano fuggendo, uno saltando su lunghi trampoli, l’altro strisciando come un razzo fra i sassi. Pippo si guardò intorno, frenetico

( oh, grazie )

E vide cavallo e Chocobo che nitrivano e starnazzavano poco più in là, privi di sella e bruciacchiati ma vivi.

Poi un viluppo di tenebre sorse da terra contraendosi e ribollendo come un calderone, sputando fuori altre forme nere e ringhianti; sembrava le espellesse da se stessa. Il Capitano ed il Mago di corte si scambiarono un’occhiata rassegnata e carica di significato.

L’istante dopo filavano tutti e due verso le rispettive montature.

Pippo saltò sopra un Heartless semiliquido, ne dribblò un altro fintando a sinistra e in quattro rapide falcate ondeggianti fu davanti al baio. Una decina di guizzi e un manipolo di Heartless circondò Paperino, che con le sue tozze zampette da palmipede era riuscito a coprire solo la metà della distanza. Il mago urlicchiò e rilasciò dallo scettro tenuto in orizzontale uno strale di bianco accecante che si disintegrò in migliaia di piccole fiammate azzurrine, avvolgendo e consumando le ombre che gli sbarravano la strada.

Con uno strappo liquido, l’Heartless candela era riuscito a liberarsi dalla tagliola d’Aria: ringhiava e sbavava, trascinandosi dietro il moncone di gamba che terminava in un ammasso informe di brandelli neri fluttuanti. Paperino balzò davanti al Chocobo, ma il grido del Capitano fu superfluo; il papero afferrò lo scettro con entrambe le mani e l’Heartless aprì la cavità che aveva per bocca in un ghigno storto, di trionfo.

Paperino calò il bastone sul cranio bulboso della creatura e glielo divise in due, sollevando spruzzi violacei e corrosivi che piovvero come una fontana attorno ai combattenti. Il mago si disimpegnò mentre ancora l’Heartless stava svanendo e agguantò un fianco del Chocobo ignorando i suoi strilli indignati nel cacciargli i talloni nella carne.

<< Iiiiiiiiiiiiii-yaahh! >>

Pippo era chinato sulla groppa del cavallo e galoppava a pelo, tenendosi basso per schivare piccoli globi neri che gli schizzavano tutto attorno. Aveva perduto il cappello giallo e l’uniforme era attraversata da vistosi squarci. Paperino si azzardò a girarsi; le due cavalcature stavano distanziando gli Heartless, ma quelli non mollavano. Chocobo e cavallo piombarono in mezzo alle sterpaglie dei cambi incolti; un nitrito trafisse l’aria mentre il baio scivolava affondando gli zoccoli nel terreno umido in una corona di schizzi fangosi. Trascinata dal peso di Pippo la bestia ricadde di fianco fino a sfiorare l’erba coi quarti posteriori, poi incredibilmente riuscì a trovare la forza di scattare in avanti, attingendo a chissà quale ultima risorsa. Galoppò  in maniera scoordinata dietro al Chocobo in corsa con dietro cinque pantere dai tratti appena abbozzati che lo puntavano, schiumante di saliva e sudore, gemendo quando uno degli animali ombra lo colpì di striscio lasciandogli una striatura rossa sul fianco destro.

Anche Paperino sentiva che non sarebbe durata a lungo. Il Chocobo cominciava a dare segni di sfinimento, ma gli Heartless non sentivano fatica e …

L’urlo fu tanto improvviso quanto lacerante. Le pantere ombra si fermarono di botto, inciamparono, si azzannarono tra di loro. Ma cosa …

In mezzo alle macerie della strada maestra, su di una collina poco lontana dal luogo dell’agguato, brulicanti forme nere ricoprivano qualcosa

( Qualcuno! Qual )

Qualcosa che gridava e si dibatteva, indistinguibile da quella distanza. Eppure Paperino aveva già vissuto questa situazione. Era stato tempo prima, ma lo ricordava bene, oh…

Vide tutta la scena con gli occhi della mente. Lo stregone che urlava di rabbia, gli Heartless che gli si ammassavano attorno. I suoi comandi. Il suo terrore. Il dolore.

Le pantere ombra parevano aver perso ogni interesse per le loro prede. Gironzolavano svagate in mezzo all’erba incolta, ogni tanto barcollavano come stordite.

Pippo cercò di dire qualcosa, ma richiuse la bocca. Paperino respirò, un respiro lungo, sibilante.

<< Avanti! >> Pippo lo guardò come se fosse impazzito. Il mago assunse un’aria esasperata. Come si poteva essere così … così …

<< Avanti! Pensi che rimarranno così in eterno! Dobbiamo andarcene di qui! Avanti, pezzo d’idiota! >>

Questo sembrò sortire qualche effetto. Il Capitano socchiuse un occhio pesto e finalmente annuì. La sua espressione era un punto interrogativo vivente … e nonostante la situazione, Paperino sentì il bisogno assurdo e incontenibile di ridere.

<< Per gli dei, grosso scemo >> Ansimò << Togliamoci da questo posto! >>

E lo fecero.

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